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Heilà ragazzi! E’ Deirbhile che
vi parla. Prima di lasciarvi alla lettura del prologo, volevo darvi giusto un
paio di informazioni sulla storia. Innanzi tutto ci tengo a precisare che, essendo una storia a molti capitoli,
mi impegno a pubblicare minimo una volta ogni due settimane (purtroppo lo
studio prende molto tempo!) e mi farebbe molto piacere se voi lasciaste una
recensione :) Detto questo, spero che apprezziate i personaggi, in quanto sono del tutto originali.
Un bacio!
Capitolo uno: Caffè latte e post-it
L'alba di un nuovo
giorno si infranse sulle vetrine scintillanti della
libreria del Corso, mentre i primi rumori mattutini si diffondevano per la
strada. Chiara sorseggiò ciò che rimaneva del suo caffé latte e controllò
l'orologio, gettando un'occhiata anche alla pila di libri appena arrivati che
avrebbe dovuto sistemare prima dell'arrivo di qualche cliente. Sei e trenta, chi poteva andare in cerca
di un libro a quell'ora? Probabilmente
solo Chiara, se quello non fosse stato il suo posto di lavoro. Ma lei era come un discorso a parte, un tassello irregolare
nel mosaico grigio di quella città. Scosse la testa, decidendosi sul da farsi.
Si portò una ciocca rossiccia dietro l'orecchio e osservò il primo pacco, c'era
un'etichetta con su scritto "La Camera dei Segreti".
Gliel'aveva richiesto una bambinetta con le
lentiggini , di circa otto anni. Ma poi se n'era
andata delusa quando Chiara non l'aveva trovato in
magazzino.
Le persone se ne vanno sempre quando
qualcosa non va, pensò.
Non
molti anni prima anche lei aveva cercato avidamente
quei libri, correndo ogni volta fuori dalla biblioteca di paese con un cipiglio
infastidito, sussurrando qualcosa a suo padre riguardo l'arretratezza in cui vivevano.
Aveva cominciato a lavorare lì non perché avesse un effettivo bisogno
economico, con il lavoro dei suoi poteva permettersi di tutto anche senza
quel piccolo stipendio. Ad appena sedici anni Chiara, con una media perfetta al
suo liceo classico di provincia, aveva scelto quel piccolo negozio come
lavoretto estivo, ma poi i mesi erano passati e aveva insistito con il suo capo
per andare lì ogni mattina prima di scuola. Lei non lo considerava un lavoro,
stare a contatto con i libri la rilassava e la faceva
sentire a casa ovunque lei fosse. Anche il signor Lovati, titolare della libreria, la considerava oramai più
che una dipendente. Chiara trattava bene i clienti, anche quando pativa il
caldo d'agosto e non c'era l'aria condizionata, gli consigliava libri che
l'avevano affascinata e non si limitava a porgere loro lo scontrino. Poteva
dire di averne letti molti, lei, nonostante non avesse vissuto nemmeno la metà
della sua vita. Ogni tanto, quando i compiti a casa glielo permettevano,
correva lì con la sua bicicletta per prendersi un nuovo romanzo o una raccolta
di poesie da leggere. La sua migliore amica, Carmen, si lamentava spesso del
fatto che preferisse i libri a lei. Ma poi Chiara le
sorrideva in modo enigmatico e le dava una pacca sulla spalla, come a smentire quell'affermazione. Quando non
indossava la piccola targhetta col suo nome (Chiara Torri, scritto ben chiaro
sul metallo) o non leggeva, ascoltava la musica nella sua piccola cameretta e
il sabato sera usciva con gli amici. Come una normale
adolescente, cosa che non era considerata. Prese delicatamente una copia
dallo scatolone e vi attaccò sopra un post-it verde,
con scritto "Alla piccola Rossella". Poi
l'appoggiò soddisfatta sul bancone e finì di sistemare il resto della merce.
Accartocciò il bicchiere del suo caffé latte e uscì con lo zaino in spalla,
farfugliando alla collega più anziana che quella mattina avrebbe avuto
un'interrogazione di greco.
"Su,
Chiara. Hai studiato, no? Ma tanto anche se non studi in greco prendi sempre
voti alti."gridò
Giovanna da dietro uno scaffale. L'altra annuì e poi si avviò nella nebbiolina
mattutina, con lo sguardo stanco e buio di chi viaggia
senza meta.
Il liceo classico “Giulio Cesare” aveva un aspetto mesto e grigio a
quell’ora del mattino, nonostante le sue pareti esterne fossero state colorate
da vari graffiti geometrici
Il liceo classico
“Giulio Cesare” aveva un aspetto mesto e grigio a quell’ora
del mattino, nonostante le sue pareti esterne fossero state colorate da vari
graffiti geometrici.
-Torri,
sei fregata, la
Manzi oggi ti interroga sulla Medea.-
sghignazzò malignamente Michele, il so-tutto-io
della classe.
-Tranquillo,
tanto il titolo “Secchione e cocco della prof Manzi” sarà tuo a
vita.- rispose a tono Chiara, scocciata e sotto pressione per l’imminente
interrogazione.
Entrò
nel grande portone verde, dove a lato c’erano scritte
poco carine dirette al povero Giulio Cesare. La
classe era deserta, a parte quell’essere
turpe di Michele, che gongolava della preoccupazione della
compagna.
La rossa lo ignorò, si infilò distrattamente le
cuffiette del vecchio e fedele i-podgrigio e si decise a rileggere qualche
nozione al volo. “Okay, la Medea l’ha scritta Euripide… su
questo non c’è dubbio.” Ridacchiò
fa se, sentendo la tensione sparire all’istante. Sarebbe andato tutto
bene, aveva studiato e il tanto agognato sette di
sicuro se lo meritava. Sentì improvvisamente una mano toccargli la spalla e si
girò di scatto.
-
Cavoli Ivan, mi hai spaventato!- gridò, mimando un attacco cardiaco in quel
modo teatrale che tanto le apparteneva. Ivano, detto Ivan il Terribile,
confidente e amico fidato di Chiara dal primo giorno del liceo, aveva un paio di occhiali squadrati che gli davano un’aria professionale e
miriadi di ricci castani che gli ricadevano sul viso.
-
Come sta l’agnello sacrificale del giorno?-
domandò l’amico distrattamente, riponendo con
violenza la borsa sul banco adiacente. Chiara sbuffò.
-
C’è nessuno con un po’ di sensibilità in questa classe!?-
parlò fra se, fissando il soffitto scrostato.
L’aria gelida di Marzo le lambiva il cardigan verde che portava stretto al
corpo.
-
Io, cara. Ma devo farti notare che con quelcosoverde
sembri un folletto
irlandese.-
Chiara
riconobbe con sollievo la voce della sua migliore amica Carmen levarsi
dall’altra parte della stanza,
mentre Ivan imitava con estrema goffaggine quella
che doveva essere una danza
folkloristica.
-
Da oggi in poi ti chiamerò Elfo.- Ivan era piegato in due dalle risate, mentre
la
figura alta di Carmen li raggiungeva con il suo
zaino glitterato, passandosi una mano fra i capelli
castani.
-
Andrà tutto bene, su!- cercò di tranquillizzare Chiara, mentre quella era
immersa fra gli assoli di
chitarra di Slash.
L’abbracciò per un attimo e la rossa si sentì finalmente
calma e pronta ad affrontare quell’arpia
della Manzi. Poi si staccò, tornando
ai suoi appunti, sentendo Carmen borbottare qualcosa
riguardo al volume della
musica e ad una sua prossima sordità.
Mano a mano la classe si riempì e anche il posto vicino
a Chiara fu occupato da una ragazza dai capelli disordinati.
-Heilà,Sabri.- mormorò distrattamente l’Elfo, come oramai era già
tristemente nota grazie a quell’idiota di Ivan.
-Heilà,
ragazza irlandese.- Sabrina le diede allegramente il cinque, scostandosi una
ciocca tinta di viola dagli occhi. Con quella frase a Chiara vennero in mente
gli immensi prati della casa di campagna di sua nonna, quella
irlandese.
Era
conosciuta anche per questo, per metà irlandese per metà
italiana.
Il
mormorio allegro degli studenti cessò nel preciso istante in cui una figura
avvolta in un cappotto
scuro con tanto di occhiali da sole varcò la
classe.
Commenti
esilaranti come “Chi è morto?” o “Dissennatore,Dissennatore!”* si levarono ovattati dal banco di Chiara e
Sabrina. Ivan ridacchiò, ma poi soffocò tutto in un colpo di tosse. La Manzi
posò la borsa di pelle sulla cattedra e si sedette. Solo dopo averli scrutati a
lungo si decise a rivolgere loro un saluto. Finitoappello, Chiara si sentì morire. Era
il suo momento, ma il nervosismo non le faceva sentire nemmeno la voce della
professoressa. Quandocredette
di sentire il suo nome, pronunciato col tono perentorio di chi non vuole
aspettare, si alzò di scatto e si portò il libro al petto in modo quasi eroico.
-
Torri, cosa sta facendo?-
La
faccia della professoressa fu spiegazzata da una smorfia di evidente
dubbio.
-
Vengo all’interrogazione…- farfugliò l’altra confusa, grattandosi un orecchio. La Manzi
fece un sorrisetto di scherno e tutta la classe
scoppiò in una fragorosa risata.
-
Stavo solo richiamando la sua attenzione, perché evidentemente non ha ascoltato
la parte in cui vi parlavo della prossima gita scolastica… Non la sto interrogando, non ancora.- Il sorrisetto
della donna si allargò, quasi come un segno di sfida. Chiara, più rossa dei
suoi capelli, si sedette nel suo banco.
-
Come stavo dicendo prima che la vostra compagna ci interrompesse,
la gita a Vienna è stata spostata per motivi di organizzazione alla… settimana
prossima. – spiegò la Manzi, contando i giorni sulle dita.
-
Cosa!? Professoressa, non vorrei sembrare inopportuno ma… Il clima austriaco in questo periodo non è
certo dei migliori!- replicò Michele, come se stesse parlando ad un bambino.
-
Grazie per l’ovvia informazioni davvero,Senesini, ma
la preside ci ha informato che i biglietti aerei in questo periodo sono molto
più economici… per cui, armatevi di stivali e cappotti, la partenza è prevista
per Lunedì prossimo, ecco le autorizzazioni e le varie somme da pagare.-
continuò la professoressa, passando fra i banchi con una risma di fogli pieni
di cifre. Dopo che ebbe finito, alzò un sopracciglio e si sedette alla
cattedra.
-
Torri, interrogata.- disse con un’espressione così maligna da far
concorrenza al Diavolo in persona. Chiara sbuffò sonoramente
e si preparò a prendere il suo ennesimo sette e mezzo.
-Chiara, so che sei lì
in camera tua!Come here and clean up thismess!-
urlò Margaret dalla cucina, ammiccando ai rimasugli
del frullato al cioccolato della figlia sparsi sul bancone in
marmo. Sorrise impercettibilmente, parlare inglese a casa le veniva quasi
spontaneo.
-Che palle, mamma!- La voce di Chiara rimbombò
dalla sua piccola stanza al piano di sopra.
Ora
che sua sorella Benedetta si era trasferita a Perugia
per gli studi universitari, poteva godere a pieno delle sue potenzialità.
Ascoltare le canzoni di CatStevens,dei Guns n’Roses
e altri cantanti che adorava ad alto volumetuttoil
pomeriggio era la cosa che più le piaceva. Oltre al fatto che poteva mandare sms ai suoi amici fino a notte fonda, e non era costretta a
suonare la chitarra nei limiti imposti da sua sorella. Un po’ però le mancava, almeno quando i suoi genitori erano fuori per riunioni
impreviste c’era lei a cucinare qualcosa e ad accoglierla a casa dopo una
burrascosa giornata al liceo.
Poco
dopo Margaret intravide una massa rossa di capelli
scendere le scale e fiondarsi in cucina, con
l’orecchio ermeticamente attaccato al cellulare.
-Pulisci
questa roba e non usare quel tono con me - sentenziò
lanciandole uno scialbo sguardo di rimprovero.
-Come
vuoi… Allora che mi stavi dicendo, Riky?-
domandò la figlia alla voce maschile che proveniva dal suo cellulare, ignorando
volutamente la madre lamentosa. Afferrò uno straccio e ascoltò interessata.
Riccardo
e Chiara erano amici da un po’, anche se lui frequentava l’ultimo anno di
liceo. Era molto affezionato alla ragazza, come ad una sorella minore ed era
sempre stato del parere che fosse adorabile con quei capelli scarlatti e le
lentiggini. Non era una sua amica, era la suamiglioreamica.
-Ti
va di venire al parco? Così parliamo un po’ prima che tu parta… Domani sono
impegnato tutto il giorno con gli allenamenti di pallavolo- propose
la voce metallica del ragazzo dall’altra parte dell’apparecchio.
-Da
soli?- domandò divertita l’altra, assorta nell’osservare il liquido marrone
impregnare la stoffa sporca dello strofinaccio. L’amico esitò per qualche
secondo.
-No…
Posso chiamare anche Sabrina se ti va, giusto oggi mi aveva chiesto se ci andava di uscire tutti insieme.- rispose debolmente. A
Chiara non andava che lui chiamasse anche Sabrina,
però. Non che avesse nulla contro la suaamabilecompagna di banco, semplicemente le
piaceva passare del tempo col suo migliore amico. Da soli. Riccardo era così:
riflessivo, sensibile proprio come lei. Solo che a differenza di Chiara era
molto più espansivo e spesso le rimproverava il fatto
che fosse troppoimpulsiva e acida. “Ma
se io sono così, come pretendi di cambiarmi?” le aveva risposto sagacemente la
rossa.
-Perfetto,
al parco fra cinque minuti.-
Chiara
si riprese dalla piega inaspettata che avevano preso i
suoi pensieri. Se fossero stati soli, magari Riky avrebbe ripreso quel discorso
in sospeso sull’amore che avevano intrapreso la sera prima al telefono. Era
stato mollato dalla sua ex da più di due settimane e solo allora aveva ammesso
di non esserne più innamorato. “Sai… con Monica non andava perché lei non mi
ascoltava. Tu invece mi ascolti ”aveva tossicchiato
imbarazzato. La rossa ci aveva pensato tutta la notte, ma era arrivata alla
conclusione che quella frase non significasse
realmente qualcosa.
Chiuse
velocemente la chiamata e si fiondò di sopra a
prendere il suo pesante giubbotto blu. Nonostante
fosse Marzo, la settimana prima aveva nevicato per un giorno intero e la neve
era ancora ammucchiata ai lati delle strade. Intravide sua madre, bisbigliò
qualcosa che suonava tanto come “vado al parco con Sabri,
ci vediamo stasera”e
uscì dal tiepido salotto di casa sua.
-Non
dimenticarti che stasera c’è la cena con quel collega
di papà- le urlò dietro Margaret.
A
Chiara non fregava nulla dei colleghi noiosi di suo padre. Li odiava, a dirla
tutta. Lidefiniva poveri single
disperati che a quarant’anni e passa non hanno
nient’altro che la carriera e vivono ancora con la madre. Erano tremendamente seri,
come se fra tutti i calcoli aziendali ci vivessero e il realedoverefosse la vita al di fuori
dell’ufficio.
Suo padre prima non era così, prima sorrideva più spesso ed
era più giocoso. Ora il suo nuovo incarico come direttore dell’azienda di
famiglia lo aveva reso un grigio burattino in balia della smania di avere successo.
-E
tu ricordati di firmare le autorizzazioni per la gita a Vienna, domani scade la
consegna!-
Poi
sparì nel vento umido che attanagliava le vie.
Anche il parco era ancora coperto dalla neve
annerita dallo smog. I pochi fili d’erba giallognoli che erano sopravvissuti
all’inverno spuntavano come macabri ciuffi di capelli dal terreno. La figura
infreddolita di Chiara fu subito raggiunta da un’altra più alta e robusta, con
la pelle stranamente abbronzata e un buffo cappellino di lana azzurro in testa.
-Guarda
un po’ chi si vede in giro!- esclamò Riccardo
gioviale, abbracciando l’amica.
-Riky! Così mi soffochi!- l’altra quasi non riuscì a parlare, soffocata dal pesante giubbotto del
ragazzo.
-Oh
scusa… Sabrina ci aspetta vicino al chiosco- riprese,
mentre cercava di lisciare l’unica ciocca di capelli biondicci che fuoriusciva
dal cappello.
-
Conosci oramai la sua strana concezione di puntualità, non arriverà prima di
mezz’ora- constatò Chiara, sbuffando mentre guardava
l’orologio argentato che le fasciava il sottile polso sinistro.
-
Bene, così possiamo parlare un po’ da soli- sorrise l’amico, incamminandosi
verso la panchina più vicina. La rossa lo seguì e si sedettero.
-
E così parti per Vienna fra due giorni, eh?-
La
nota di malinconia nella voce di Riccardo era evidente. Che
davvero si dispiacesse del fatto di non poter vedere la suamigliore
amicaper una
settimana?
-
Già, sono così eccitata!- esclamò la ragazza battendo le mani, riscaldate
dal un paio di guanti rossi e logori.
-
Lo immagino… spero tu ti diverta, davvero-
Questa volta la voce baritonale del ragazzo era sinceramente felice, con
le labbra sottili incurvate in un sorriso incerto.
-
Tanto so che non vedi l’ora di liberarti di me per una settimana, così il
sabato sera potrai uscire con quelli della squadra invece che con me e gli
altri- scherzò Chiara, soffiando via dal viso una
ciocca ramata. L’amico scoppiò a ridere, disarmato da tanta buffonaggine.
-
No sul serio, mi mancherai-
Chiara
portò una mano infreddolita a stringergli la spalla. Si sentì calma e
rilassata, mentre cercava di rispondergli.
-
Mi mancherai anche tu-
Riccardo
sorrise di nuovo e l’abbracciò forte, stringendo le mani dietro alla sua
schiena. Si separò bruscamente quando sentì un tonfo
alla sua sinistra, voltandosi.
-
Ragazzi, è mezz’ora che vi cerco! Per una volta che sono
in orario- brontolò Sabrina, inarcando un sopracciglio nel vedere i due ragazzi
così avvinghiati. Poi sparò la frase più detta in ogni telefilm americano che
si rispetti.
-
Ho interrotto qualcosa?- Con quell’aria vagamente
angelica e innocente sembrava quasi comica.
Chiara
si scostò leggermente e increspò le labbra in un sorriso ammiccante.
-
A dire il vero si, ci stavamo abbracciando-
La
sua sincerità era davvero sconcertante a volte. Riccardo divenne rosso in viso
e cercò di balbettare una frase che avesse un vago
senso logico.
-
Ma fa niente… Ti stavamo aspettando- esclamò poi la
rossa in tono mieloso, avvolgendo anche l’amica nell’abbraccio.
Dopo
che ebbero trangugiato una cioccolata calda al bar nell’angolo fra il parco e
il corso principale della città, Riccardo scappò dicendo di essersi
appena ricordato di un appuntamento dal dentista.
-
Scusa Chiara, sarei voluto rimanere per un altro po’, ma devo davvero scappare-
esordì con aria preoccupata. L’altra gli disse che non importava, si sarebbero rivisti comunque fra
una settimana.
-
Buon viaggio allora, ti mando un messaggio appena possibile- il biondo le
sorrise e l’abbracciò di nuovo, con la stessa intensità che a Chiara parve di
non essersi mai separati.
Mentre vedevano la sua imponente figura
allontanarsi con una lunga ombra per il vialetto di fronte, Sabrina prese la
parola.
-
E’ carino Riky, non ci avevo mai fatto
caso. Ha due occhi molto profondi- ammiccò
all’amica, facendole l’occhiolino.
-
Si è carino…- pigolò l’altra imbarazzata, tirandosi il
viso nel collo del giaccone.
-
Davvero, ma non è il mio tipo… Starebbe molto meglio
con te- ridacchiò Sabrina e le prese un braccio.
La
rossa ammutolì, interessandosi al motivo floreale dipinto su una delle vetrine
dall’altra parte della strada.
-
Andiamo non dirmi che non ti piace- Ancora quello
sguardo malizioso negli occhi verdi della ragazza.
-
Non ho detto questo… E poi non capisco davvero dove tu voglia
andare a parare- sentenziò risoluta Chiara, tirando fuori i soldi per la
cioccolata calda e dirigendosi verso il bancone.
-
Colpita e affondata ,Torri!- ridacchiò la ragazza
dalla ciocca viola, mimando il segno nella vittoria con due dita.
-Su ragazzi, tenete il
passo o rischieremo di perdere il volo per Vienna!- urlò
disperata la professoressa Manzi che, fra bagagli e turisti imbizzarriti
dal caos, arrancava verso l'aeroporto di Fiumicino.
-Come
vuole prof, ma stia attenta a non investire
qualche ignaro ed innocente turista giapponese!- scherzò Flavio, il
buffone della classe, ammiccando alla grande valigia che quella si tirava
dietro. Chiara, stretta fra la borsa rosa fluorescente di Carmen e il
grosso zaino da trekking di Michele “so-tutto-io”, scoppiò in una fragorosa risata.
-Altro
che impedimentamilitum,quella
di greco li batte i soldati romani!- esclamò, osservando con occhi
sgranati dalla sorpresa l'enorme calca che si apprestava ad entrare in
aeroporto. Carmen borbottò qualcosa riguardo all'ipocrisia di quella donna
e tutto d'un tratto sembrò illuminarsi.
-Hei, Chià,
ci mettiamo in camera insieme, no?- domandò la bruna,
strattonando l'amica e fermandola in quella che sembrava una fuga
disperata al primo caffè aperto. Quando Chiara
Torri non faceva colazione erano guai per lei e
per chi le stava intorno. Cominciava a lamentarsi e diventava nervosa, il
suo viso raggiungeva le stesse tonalità rossicce dei suoi capelli .
-Come vuoi,
basta che mi lasci andare a prendere un caffè al
volo- mugugnò imbronciata.
-Il
caffè fa male all'ultimo neurone che ti è
rimasto, tesoro... Ti consiglio un tè al
bergamotto.-
Chiara
e Carmen si girarono nello stesso momento verso
la fonte di quella vocetta fastidiosa. Vanessa
Monteverde e tre delle solite ochette che la
veneravano come una dea stava in piedi di fronte a loro, fresca come
appena uscita dalla doccia. “Insomma, sono l'unica a cui si scioglie la
matita dopo tre ore di pullman?” si chiese mentalmente Chiara, ponderando
sul fatto che una volta cresciuta e assunta come spia per la C.I.A., le avrebbe estorto il
segreto che la rendeva sempre così perfetta. Peccato per la sua altezza.
-Esperienza personale
eh, piccolo Hobbit? A proposito...sicura che il tuo
cognome non siaBaggins?*-
ridacchiò poi,
beandosi del dubbio sconcertante che deturpò il bel
faccino della bionda. Le si leggeva in fronte
la frase “ Hobbit?Baggins?
E' un complimento vero?”. Chiara rise di nuovo, nemmeno le altre avevano capito ciò che aveva detto. Carmen bisbigliò un insulti velato indirizzato a Vanessa e si allontanò
con Flavio. Qualcosa si unì al suono prorompente della risata di Chiara,
una voce molto più sottile e vellutata,
distorta da un evidente situazione ilare. Davvero qualcuna di loro
stava ridendo alla sua battuta? La rossa spostò violentemente lo
sguardo sulla proprietaria di quella vocina, aggrottando le
sopracciglia. Roberta Della Corte aveva davvero riso alla sua battuta? E lo stava ancora facendo. Vanessa mosse i capelli in
modo teatrale e Roberta si spense in un sussurro imbarazzato.
-Gollum.- la salutò piccata,
quando lei e la sua comitiva strapiena di bagagli ingombranti, passarono
accanto a Chiara.
Un
conto è che qualcuna delle amiche di Vanessa ridesse
ad un'affermazione tanto per dar l'impressione di capirci qualcosa, un
altro è che capisse davvero. Roberta Della Corte, con le sue ciocche ricce
color cenere e il visino pallido, aveva davvero letto il capolavoro di Tolkien o visto un suo film.
Questo diede
tanti spunti di pensiero a Chiara, mentre esibiva la sua carta d'imbarco e
prendeva posto sulle poltroncine consunte della
classe economydiretta in Austria.
“
Magari è vero che le persone non sono mai come sembrano, Pirandelloaveva perfettamente
ragione. Ognuno di noi indossa una maschera. Solo che fino ad ora ero
convinta che l'unica che usasse Della Corte fosse una maschera esfoliante per liberare i pori.”
constatò.
-
-L'atterraggio all'aeroporto di Vienna è previsto fra due minuti, si pregano i gentili
passeggeri di spegnere ogni apparecchiatura elettronica al fine di non
disturbare gli strumenti di comando. Speriamo sia stato un volo gradevole
e ci auguriamo di rivedervi presto. Arrivederci daAustrianAirlines.- gracchiò il pilota in un marcato
accento tedesco, dopo averlo ripetuto in più lingue di quante Chiara e
gli altri della II°E messi insieme conoscessero. Tirò un sospiro di sollievo realizzando che non l'avrebbe risentito anche in latino e
greco antico, stringendosi forte la cintura.
- Ma ci pensi, fra poco saremo in Austria!- urlò eccitata
Sabrina dalla fila dietro la sua, scalpitando.
-Frena l'entusiasmo
Sabri, piuttosto prega per farmi scendere viva da questo stupido aggeggio volante!- rispose
Chiara, stringendo i denti appena sentì che stavano perdendo quota.
Evidentemente
le preghiere dell'amica avevano funzionato poiché la rossa e
tutta la sua classe, compresa una Manzi in preda
alla nausea da aereo, uscirono dall'aeroporto di Vienna, diretti alla
fermata degli autobus. Non fu facile staccare Vanessa e le sue amiche
dalle vetrine del centro, che in quel periodo primaverile esponevano
le nuove collezioni di grandi marche, ma alla fine riuscirono a
raggiungere l'hotel prima che la Monteverde
mandasse in bancarotta suo padre e tutta la banca che dirigeva.
-
-Ora, cari ragazzi, consegnerò a ciascuna coppia chiamata
la chiave della propria camera. L'improvviso cambio di programma ha reso
disponibili solo le camere doppie. Vi informo che
gli abbinamenti sono stati sorteggiati da me e la professoressa Morra in persona
e che, per ragioni di organizzazione, non tutti starete sullo stesso
piano.- annunciò cautamente la professoressa Manzi, elevandosi al di
sopra della massa di adolescenti salendo su una borsa
particolarmente resistente. Inevitabilmente, partirono sbuffi e
imprecazioni più o meno velate da parte di tutti, lasciando scandalizzato
il direttore.
-Ma che
ca...- cominciò Sandro, prima
di essere zittito violentemente dall'insegnante di letteratura.
-Allora, cominciamo con Monteverde e
Rinaldi, camera n°24 al primo piano.- sentenziò la Morra, allungandosi verso le
due ragazze. Chiara alzò gli occhi al soffitto prima di venir
strattonata da Carmen.
-Ptss, Chiara! E se dovessi capitare con Lisandri?-
mormorò preoccupata la mora, indicando una spilungona con atteggiamenti
vagamente violenti in fondo alla sala. L'altra scosse la testa, mordendosi
il labbro inferiore.
-Andrà tutto bene, ci metteranno insieme... Come
l'anno scorso.- rispose subito, ricordandosi della gita a Firenze.
-Torri e
SantaCroce!- esclamò a gran voce la Manzi
e subito Chiara e Carmen tirarono un sospiro di sollievo, afferrando le
valigie. La Morra
si accostò alla collega con aria di disappunto, bisbigliandole qualcosa
all'orecchio.
-Oh scusate,
dev'esserci stato un errore... Torri
e Della Corte, camera n°47 al terzo piano.- riprese l'insegnante, cercando
di lasciare due chiavi con i rispettivi cerchi in ottone nelle mani
tremanti di Roberta. Per un attimo gli sguardi delle sue ragazze si incrociarono, in un misto fra odio, sconcerto e
sorpresa.
-
-Camera 45,
camera 46... Ecco la 47.- mormorò fra sé Chiara,
trascinando per il lungo corridoio tappezzato il suo trolley verde.
Durante tutto il tragitto e il viaggio in ascensore nessuna delle due aveva aperto bocca, se non per borbottare a bassa voce.
In una settimana a Vienna, lontano dalle proprie
famiglie e dai propri genitori, un adolescente medio desidererebbe
divertirsi e fare le ore piccole con gli amici. Ma quali amici se la
propria compagna di stanza ti aveva rivolto parola si
e no tre volte in quattro anni di liceo? Certo, era solo per la notte ma... la notte era la parte migliore della giornata
per spassarsela al riparo dalle insegnanti! Senza contare
che sarebbero dovute stare a stretto contatto e nel momento in cui
erano più vulnerabili. Riflettendo su questi cupi
pensieri, Chiara abbandonò con malagrazia la valigia all'ingresso. La
stanza non era niente male in compenso, le
quattro stelle erano completamente meritate.
-Non penserai
di lasciarla lì come un sacco di patate, spero.-
L'amica dell'Hobbit aveva parlato davvero o era solo un'illusione
causata dal suo mal d'aereo e dall'improvviso calo di temperatura?
La rossa
alzò lo sguardo dalla moquette per puntarlo direttamente in quello di
disapprovazione di Roberta.
-Che c'è? Voi amiche della Monteverdeavete la sua stessa
mania dell'ordine?- domandò Chiara, con uno sguardo misto fra
scherno e compassione.
Della Corte
abbassò gli occhi, dirigendosi in silenzio a scostare le pesanti tende in
velluto che coprivano il sole.
“ Avrò esagerato?”
pensò l'altra, vedendo che la ragazza non accennava a voltarsi verso di
lei.
-No, è che soffro di claustrofobia e quel corridoio è già
troppo stretto.- ribattè. Aveva una voce
tremolante e con un retrogusto di acido, ma dopo un attimo di esitazione si girò per sedersi su uno dei due letti.
-Scusa non
ne avevo idea, anche mia cugina ha lo stesso problema...-
mormorò imbarazzata Chiara guardandola negli occhi. Poi si alzò di scatto, a disagio, mormorando qualcosa su come i bagni
degli aerei fossero piccoli rispetto a quello della camera.
Dopo che
si furono sistemate, scesero alla reception, dove le
due prof li attendevano per andare a pranzo e fare un piccolo tour del centro di Vienna, sempre in religioso
silenzio.
Non si
rivolsero la parola per tutta la giornata, né durante la gita al castello
di Schonbrunn né quando si intravidero
in un negozio di souvenir.
-Allora... ti
è andata bene dopotutto, non stiamo insieme ma almeno
sei capitata con Sabri.- esclamò abbattuta
Chiara a Carmen, stanca morta e affamata mentre prendeva posto con lei
sulla metropolitana.
-Non posso lamentarmi, hai ragione. HeiSabri, stasera si fa
casino!- ridacchiò l'amica rivolta alla ragazza con la ciocca viola
dietro di loro. - Mi dispiace per te, più che altro... Della
Corte...- Carmen riprese il suo tono serio.
-Sai che
da piccole andavamo a ripetizioni dalla stessa insegnante, fino alla
seconda media?- domandò poi a Chiara, arricciando le
labbra. L'altra annuì distratta.
-Era una stramba...non parlava quasi mai. Di certo
se l'avessi vista allora non avresti mai detto che
sarebbe diventata un'amica di Vanessa - continuò la mora, assorta. La
rossa diede un'occhiata alla ragazza longilinea
e sorridente che parlottava con la Monteverde e si chiese
se fosse davvero la stessa persona strana di cui parlava Carmen.
Le due professoresse avevano dato
il permesso agli studenti di uscire dall'albergo verso l'ora di cena per
andare a mangiare qualcosa in uno dei ristorantini tipici viennesi della zona,così
Chiara,Carmen e Sabrina avevano deciso di accompagnare Ivan, Luca e Flavio
nella loro disperata ricerca di uno schnitzelcaldo.
Con lo stomaco
pieno e sopraffatti dal freddo che attanagliava la periferia, tornarono
in albergo ignari di essere quasi al limite del coprifuoco.
Chiara salutò
a malincuore le due amiche che, ne era sicura, si sarebbero divertite come
matte quella notte e salì fino al terzo piano. Girò la sua copia della
chiave nella toppa e accese la luce.
Nello stesso
istante Roberta uscì dal bagno con un colorito più bianco del solito,
quasi fosse un fantasma materializzatosi lì per rimproverare Chiara del
suo ritardo.
-Oh mio
Dio, mi hai spaventata!- quasi urlò la rossa, portandosi una mano al petto
pulsante. L'altra tirò su col naso e si aggiustò una ciocca di capelli
dietro l'orecchio. Gli occhi, che di solito avevano un'acquosa sfumatura
azzurra, ora si erano improvvisamente incupiti.
-Scusa, non
volevo.-
Roberta Della
Corte le aveva chiesto scusa solo una volta, ma con un tono finto e
maligno, quando aveva “accidentalmente” buttato il suo libro di Freud nel
bidone della spazzatura della scuola. Non era esattamente il tipo di
ragazza popolare, la rossa, e le amiche di Vanessa si divertivano a torturarla
costantemente nei modi più creativi.
Ma Chiara
in quel momento non stava pensando al libro e ai venti euro persi, ma a
quanto il tono di voce della ragazza risultasse vero e privo di doppi
fini.
-Va tutto
bene?- Si sentì in dovere di chiederglielo, anche se non le doveva nulla.
-Si grazie,
vorrei andare a dormire ora... Buonanotte.- rispose solo.
Chiara si
infilò il pantalone del pigiama a fiorellini bianchi e blu, la canotta
azzurra e si decise a dormire. Anche se fuori nevicava da un po' e si gelava a
lei piaceva dormire con le braccia scoperte. Evidentemente piaceva anche a
Roberta, aveva intravisto l'orlo di una t-shirt sotto le sue coperte. Non
riuscì a prendere sonno e verso le tre le fu definitivamente estirpata la
possibilità di riposarsi. Il suo cellulare vibrò per alcuni secondi
mostrano un messaggio da parte di qualcuno di troppo familiare. Riccardo
non mancava mai di mandarle la buona notte e il buon giorno, anche se
spendeva molto di più per i messaggi all'estero.
“ Buona notte, spero non ti sia persa nella
metro oggi. Scusami se ti ho svegliato, ma fino a cinque minuti fa ero
convinto che lì a Vienna ci fosse il fuso orario"
Lesse e
compose rapida una risposta. Era davvero dolce, ma dalla
scorsa chiacchierata al bar con Sabrina si chiedeva se fossero solo
amici. Il display si illuminò quando bastava per inondare di luce anche
il letto di fianco al suo.
Chiara allungò
una mano e aguzzò la vista.
-Roberta, stai
bene?- domandò per la seconda volta quella sera, seriamente preoccupata.
L'altra non
rispose, si limitò a singhiozzare nel tentativo di annuire. La rossa
infilò maldestramente i suoi infradito con la bandiera dell'Inghilterra e
cercò l'interruttore della luce a tentoni.
Era impossibile,
Roberta Della Corte non aveva mai pianto davanti a nessuno fino ad allora,
nemmeno quando al terzo era arrivata una chiamata dall'ospedale dicendo
che sua nonna materna era morta.
-Era il
tuo ragazzo, quello alto e biondo che ti aspetta sempre il martedì e il
sabato fuori scuola?-
Una voce
gracile si levò da quel groviglio di lenzuola di cotone e capelli scuri,
cercando vanamente di risultare scontrosa. Senza motivo, all'altra venne
da sorridere.
-Non stiamo
insieme è... complicato.- concluse, rivolgendo di nuovo l'attenzione allo
stato della compagna .- Hai pianto?- continuò, schietta. “So che non mi
risponderà,ma a questo punto... O la va o la spacca.” pensò.
-Si ho
pianto.- sussurrò Roberta, sfregandosi le braccia e alzando il busto fino
ad appoggiarlo sulla testiera del letto. Il suo tono sfrontato non l'aveva
ancora completamente abbandonata, anche se i suoi occhi si erano
rassegnati a lasciar uscire fuori le lacrime.
-Perché?-
Era così
banale chiederlo che a Chiara sembrò la cosa più stupida del mondo. Più
stupida addirittura dei due maturandi che ogni venerdì giocavano con le
carte platinate dei Pokèmon in palestra.
-Perché me
lo chiedi?- domandò a sua volta Roberta.
"
Se la mia domanda era stupida, questa lo è ancora di più. Ma oramai
è fatta... tanto vale preoccuparsi fino in fondo” pensò
sconsolata l'altra.
-Evidentemente perché
voglio saperlo.- Chiara assunse un tono spazientito ma deciso, non
ammetteva repliche.
-Non hai
abbastanza grane a cui pensare?-
-Senti Della
Corte, fa poco la difficile. Volevo solo aiutarti, nonostante siano le tre
di notte.-
Roberta si
morse un labbro a quelle parole e tirò per un braccio l'altra, che già
sperava di trovare rifugio fra le lenzuola.
-No
aspetta... non lasciarmi così da sola.- quasi la supplicò in un mormorio
isterico, poi si passò una mano sul viso stanco e accese la lampada sul
comodino che le divideva. Nel tentativo di ascoltare la voce sottile dei
Roberta, l'altra si era dimenticata di accendere la luce.
Chiara ebbe
la conferma dei suoi sospetti. Si, la compagna aveva pianto e anche molto,
come dimostravano le sue occhiaie e i residui di mascara sulle guance
seriche.
-Che succede?-
mormorò, sentendo la pelle del braccio scottare pericolosamente visto che
l'altra ancora lo stringeva. Soffiò via dal viso una ciocca rossa in modo
buffo e la fece ridere sommessamente.
-Ti sei
mai sentita a disagio?- Quella domanda spiazzò Chiara del tutto, facendola
arrovellare sulla complicata risposta da dare.
-Si, ai pranzi
di Natale, quando i parenti di mia madre vengono a trovarci. Le mie cugine
si presentano sempre in abiti eccessivamente formali, io una volta scesi a
tavola con indosso solo un jeans e una t-shirt rossa. Da allora mi assillano
dicendomi che sarebbe più adeguato un costume da Babbo Natale visto che ci
sono, almenodiverto i cugini più piccoli.- ridacchiò la
rossa, guardando di sbieco la ragazza di fronte a lei. Perché le
stava raccontando della sua vita privata? Non era lei quella che piangeva disperatamente
nel cuore della notte.
-Tua madre è
irlandese, vero? Così si dice.- la ragazza riuscì solo a domandare.
-Già, ma mia
nonno è scozzese... Dicono che gli assomigli molto, sono l'unica ad aver
ereditato i suoi occhi castani. Il resto della famiglia li ha tutti dal
grigio al verde.- continuò concitata l'altra.
-L'Irlanda
deve essere un bel posto dove vivere-
Chiara rimase
sorpresa dal tono più amichevole con cui era stata pronunciata l'ultima
frase, poi puntò di nuovo al nocciolo della questione.
-Ora mi
dici perché piangevi?-
-Mi sono
sentita a disagio e questo è un buon motivo per piangere.-
La rossa
incrociò le gambe sul suo letto e assottigliò lo sguardo.
-A disagio?
- La conversazione aveva raggiunto un livello di non ritorno, o sarebbero
venute alla luce confidenze o niente.
-Si, ma
ora mi sento un po' meglio,grazie. - Roberta le rivolse un
sorriso sincero.
-Figurati.- mormorò
quella in risposta. Poi, guardandola attentamente, notò un livido violaceo
alla base del suo gomito.
-Come te
lo sei procurato?- La sua voce cominciava ad essere sospettosa e timorosa
allo stesso tempo.
-Domani sarà
una giornata faticosa, ho spiato il programma della Morra, andiamo a
Hofburg e al Leopold Museum... ci conviene dormire.- disse Roberta, in
tono pratico. A Chiara sarebbe interessato andare oltre, ma si augurarono
una fredda buonanotte e ognuna si coricò nel proprio letto. L'ultima
immagine che la rossa riuscì a formulare prima di cadere in un sonno profondo
fu la strana forma di quell'ematoma. Tre piccoli lividi vicini fra loro.
La metropolitana era molto affollata,
decine di teste bionde e chiare si riversavano in quella lucida gabbia di
metallo con in mano ventiquattrore o consunti zaini da
scuola. Chiara fissava in trance quel via vai di anime
frenetiche e ancora una volta le passò per la mente l'immagine di quel brutale
livido sul braccio diafano di Roberta. Come se lo era procurato? Di certo non sbattendo sulla maniglia del bagno o cadendo dal letto.
Quella forma violacea aveva contorni ben definiti, come se ci fossero tre
piccoli ematomi vicini fra loro. Ma a lei che
importava? Le rotaie sferragliarono ancora una volta e Chiara fu risvegliata da
uno scossone.
- Chiara,
siamo arrivati! E' da stamattina che sembri uno zombie-
sibilò Carmen, bloccando repentinamente la portiera che stava per chiudersi e
trascinandosi dietro la figura traballante dell'amica.
- Sono solo... stanca- farfugliò quella, stropicciandosi gli
occhi. Non era riuscita più a riprendere sonno quella notte, nonostante il
caldo delle coperte fosse rassicurante e accogliente. Di solito quando era a
casa e non riusciva a
dormire, abbracciava il suo vecchio ranocchio
di peluche,Freddie. Ma dopo che era stata presa in giro per averci dormito
insieme a Firenze, Chiara aveva deciso che a quasi diciassette anni era
inopportuno portarselo dietro.
- E' Della Corte che non ti fa dormire?- domandò allora
l'altra, con un mormorio rabbioso.
- Lascia
stare, ti prego… ora muoviti, sembra proprio che la Manzi
abbia fretta di arrivare a Hofburg.- riprese
seccamente la rossa, sistemandosi la sciarpa.
Le stanze
della residenza invernale di Francesco Giuseppe e dell'imperatrice Sissi erano un invitante sollievo al freddo viennese, tanto
che a tutta la classe sarebbe piaciuto restare lì a
riposarsi. Chiara se ne stava seduta sulle
sedie alla fine del piccolo tour,
bighellonando con Ivan e Andrea, un ragazzo alto e scuro della II°A.
- Ma insomma... L'avete visto quell'imperatore?
I suoi baffi erano più lunghi di quelli del professore di matematica
quando si scorda di comprare le lamette!- rise Andrea, dando una pacca
sulla spalla all'amico.
- Già, per non
parlare del fatto che dormisse separato dalla moglie... Insomma, se fossi stato
al posto suo non mi sarei lasciato scappare neanche
una notte con quella meraviglia di Sissi- sospirò
sognante il ragazzo con gli occhiali. -
Tu che ne
pensi, Chiara? Non hai fiatato oggi- continuò,
indirizzato all'amica. Quella sussultò e mormorò qualcosa sul fatto che lei non
se ne intendesse di ragazze.
Quando Andrea
li lasciò soli, dicendo che voleva raggiungere la sua
ragazza, Ivan si girò verso il viso di Chiara e le fece un sorriso sghembo.
- Tutto bene?-
domandò cautamente, passandole un braccio intorno alle spalle. Quegli
atteggiamenti così intimi erano tipici del loro rapporto, malgrado Chiara non
sopportasse gli eccessivi contatti fisici. Non era un tipo
distante lei, no. Era solo parecchio riservata
su certe cose.
- Si-
La
risposta secca della ragazza non scoraggiò l’amico, che prese fiato e si
preparò ad una sua sfuriata. La conosceva da abbastanza tempo per sapere che quando era nervosa prima o poi scoppiava.
-A me non sembra- osservò ridacchiando. Ma
l’altra non si mosse dal suo braccio, né gli urlò contro cose poco carine come
suo solito.
- No, infatti.
– sussurrò, fissando un quadro settecentesco affisso alla parete di fronte.
Ivan la
fissò ancora per un momento, dubbioso.
-Che
succede?-
- Non lo so… Forse è solo lo stress del viaggio-
- Allora sii stressata più spesso, ti rende meno aggressiva- annuì
concitato il ragazzo con gli occhiali. Chiara emise un sibilo e poi chiuse gli
occhi, massaggiandosi le tempie.
- Torniamo
dagli altri?- azzardò poi, ritraendosi debolmente dall’abbraccio dell’amico.
- Dipende da
te, finché non mi dici la verità posso anche tenerti
in ostaggio- Ivan assunse un’aria fintamente minacciosa e Chiara gli tirò una
gomitata nelle costole, tutt’altro che finta.
- Allora
preparati a passare la tua vecchiaia qui, la verità non la conosco
nemmeno io- sospirò la ragazza.
- Cavoli, non
ti ricordavo così forte- tossicchiò il ragazzo, per
poi essere trascinato nella folla verso Sabrina, Carmen e le due professoresse.
-
Quel
pomeriggio Vienna era stranamente grigia, le nuvole coprivano la poca luce
scialba che arrivava dal sole. I turisti
camminavano come a rallentatore fra la neve che
copriva il centro, mentre da qualche parte risuonava un pezzo di Mozart. La melodia era sottile, leggera e si insinuava fra i pensieri di Chiara con facilità
impressionante. Per tutta la
giornata non aveva parlato granché, nonostante
anche Sabrina e Flavio le avessero chiesto cosa c’era che non andava.
“Ma davvero, Chiara, cosa c’è che non va?” si chiese lei
stessa, sorpresa di come avesse cambiato repentinamente umore dopo la
precedentechiacchieratacon Roberta, mentre camminava
verso l’albergo. Salì silenziosamente le scale, fino al terzo piano,
trascinandosi dietro la sacca colorata che portava sempre con se. Aprì la porta
con calma snervante, varcò la soglia e lanciò le chiavi sul letto. Roberta non
c’era, se lo aspettava. L’aveva vista sull’autobus mentre
chiacchierava con una delle oche, nemmeno lei aveva un bell’aspetto.
Magari era giù nella hall a
strapazzare qualche poveretta con la sua
comitiva. Si lanciò sotto la doccia e si decise a sorridere. In fondo proprio
non capiva perché fosse stata a pensare tutta la mattina a quel livido. Era
solo un livido e lei era solo Della Corte. Scese
all’ingresso dell’hotel e uscì nella neve,
diretta ad un fast-food.
-
Quando rientrò in camera, riuscì a godersi pochi minuti di
solitudine. Il rientro della compagna di stanza fu annunciato da uno sbattere
di porta e dei passi trascinati. Chiara guardò l’orologio,
quella non sera era lei quella in ritardo. La ragazza entrò senza
voltarsi verso il suo letto, muovendo i capelli in modo che non le ricadessero
sul viso.
-Torri, sei
qui?- domandò, quasi annoiata. La rossa sbuffò, schiarendosi la voce. L’altra
si tolse la giacca pesante per rimanere in t-shirt, col livido ben visibile. Se lo coprì subito, appena si accorse che Chiara lo stava
fissando.
- Perché mi stai fissando?-
- Non ti sto fissando- rispose Chiara in tono angelico, sorridendole
strafottente.
- Qualunque
cosa tu stia facendo, smettila subito. Vado a cambiarmi- disse secca la ragazza dai capelli neri.
Poi sparì in bagno, lasciando la rossa interdetta. Quando
tornò, anche Chiara si era infilata il suo pigiama e brandiva in mano un libro.
Mentre quella leggeva, qualcosa in Roberta si mosse,
facendole assumere un tono stranamente amichevole.
- Baudelaire?- domandò, quasi sognante. Si accosto di poco al
letto di Chiara, quasi timorosa di avvicinarsi troppo.
- Già, l’ho
trovato in una libreria d’antiquariato qui a Vienna… Guarda che non mangio
mica- esclamò indignata, vedendola così riluttante a
sedersi sul suo letto. Quella esitò per un istante, ma poi sembrò riprendersi e
si sedette sul bordo più vicino dell’altro letto.
- Una volta l’ho letto, credo a tredici anni- mormorò assorta Roberta,
marcando con enfasi le ultime parole.
Chiara restò
in silenzio, a cercare di comprendere le parole di una poesia. Qualcosa le ronzava in testa, cominciò a ticchettare con l’indice sulla
copertina.
-Come ti sei fatta quel livido sul braccio?- proruppe, in un
tono misto fra il casuale e il diffidente. La compagna si irrigidì
tutto d’un tratto, scuotendo leggermente la coda di cavallo che si era fatta.
- Non hai
sbattuto, vero?- Improvvisamente il tono di Chiara era diventato carezzevole,
quasi confortante. La fugace ombra di terrore che percosse
gli occhi chiari di Roberta le diede la conferma di aver fatto centro. – Chi è stato?-
- Non ti interessa, Torri. Lasciami in pace-
ringhiò l’altra, voltandosi violentemente verso la finestra. Ancora una
volta, Chiara si chiese perché le interessasse tanto quella storia. Avrebbe potuto tornarsene a leggere e lasciarla in pace sul
serio, ma poi pensò a Vanessa. Chissà se lei ne sapeva qualcosa, chissà se
l’aveva consolata.
- Non mi interessa, hai ragione. Volevo solo aiutarti, non so se è
comune anche fravoialtri - si infervorò
la
rossa, perforandole con lo sguardo la
schiena.
- E’ stato Massimo- buttò fuori l’altra, toccandosi con una
mano la frangia laterale. Massimo, il suo ragazzo.
A Chiara venne in mente il suo viso spigoloso e i setosi
capelli castani, era sicura fosse in classe con Andrea. Non era male come
ragazzo, ma aveva la fama di il prepotente ed un
atteggiamento vanitoso. E, in quel mondo dove le etichette
erano tutto, importava.
- Perché l’ha fatto?-
- Basta con le
domande, ti prego. Se avessi voluto essere attaccata
l’avrei detto a Vanessa, ti pare?- ribattè debolmente
quella. Poi si girò e Chiara fu sorpresa di non vedere lacrime sul suo viso,
solo un’espressione
amara.
- Si, hai
ragione, scusami. Meglio che io vada a dormire…- disse
frettolosamente, abbassando lo sguardo. All’improvviso si sentiva strana, come
se un virus le avesse appena infettato il cervello. Avrebbe voluto non essersi mai immischiata, ora voleva solo
dormire senza che altre immagini le vorticassero per il cervello.
La strana sensazione di inadeguatezza
che aveva colto impreparata Chiara la sera prima non l’aveva abbandonata per
tutta la giornata seguente. Aveva cercato di non fissare Roberta durante la
colazione, ma il suo sguardo di curiositàinnocenteoramai era stato sostituito da uno
pieno di disappunto e… pena. Non aveva mai provato pena per qualcuno, lo
considerava un sentimento negativo. Perché provare pena per qualcuno e dargli
un’ulteriore batosta all’autostima? Non che Della Corte soffrisse di bassa
autostima, certo. Eppure in quei tre giorni aveva scoperto così tanto su di lei
che nemmeno quell’ipotesi le sembrò improbabile. Così
si era limitata ad abbassare lo sguardo sul latte macchiato e a ridere a
qualche stupida battuta di Sabrina. Quella mattina si era ripromessa di tornare
la stessa e ci riuscì a pieno, accompagnò persino per negozi Carmen. Erano
andati a visitare il Belvedere di Vienna, un museo fornito delle più famose
opere d'arte moderna, e la rossa aveva fissato assorta ognuno di quelli,
cercando di imprimerseli nella memoria. Le piaceva l'arte e quei colori le
accecavano la vista tanto da non permetterle di rivedere l'immagine di quel
livido.
Che senso
aveva in fondo essere preoccupata? Erano problemi di Della Corte, non suoi. E
poi aveva ancora tutta la sera per cavarle di bocca qualche altro
dettaglio.
Roberta invece
aveva continuato a camminare, sciatta, alla fine del gruppo con il cellulare
sempre in mano.
- Ragazzi! Ho
una notizia incredibile!- esclamò Flavio col fiatone, mentre correva verso Ivan
e le ragazze.
- Spara!-
urlarono in coro il moro e Sabrina, alzando i pugni in aria. La loro allegria
era contagiosa, tanto che anche Chiara scoppiò a ridere.
- Conoscete
tutti la mia abilità di oratore e rappresentante di classe- cominciò l'amico,
beccandosi quattro paia di sopracciglia alzati - Sono riuscito a convincere la
Manzi a lasciarci andare in discoteca l'ultima sera! Dobbiamo solo scegliere il
locale e, dopo averlo sottoposto al suobuon senso, ci lascerà liberi -
La rossa emise
un gridolino eccitato. No, non le erano mai piaciute
molto le discoteche. Ma non le dispiaceva certo avere l'occasione di mettere
quel bel vestitino che aveva comprato qualche tempo prima con sua madre. Aveva
già un fisico abbastanza asciutto e tonico, merito dei suoi costanti
allenamenti in palestra, e quello ne risaltava ancora di più le forme.
Senza contare
che l'ultima sera voleva ardentemente passarla con isuoi
amici, non con Roberta.
Le gettò
un'ultima occhiata, prima che Sabrina la rapisse per discutere della discoteca.
Era pallida, come sempre. E i suoi occhi erano sempre più pesanti. Azzurri come
zaffiri su quel viso vagamente ovale, erano ora coperti da ciocche nere.
Quel
pomeriggio Flavio e la Manzi si accordarono per divere
la classe in due gruppi, così da poter muoversi più velocemente per la capitale
e scovare qualche bel locale. Chiara, con sommo disappunto, si rese conto che
anche Vanessa e tutta la marmaglia che si portava dietro doveva andare con
loro. Si limitò a sbuffare e a immergere la testa in una guida turistica.
Carmen gli si avvicinò poco dopo, sbirciando il piccolo libro.
- Trovato
qualcosa?- domandò con fare sospettoso. Chiara non era l'unica ad essersi
rabbuiata di colpo, persino Flavio sapeva che alla fine il locale lo avrebbe
scelto Vanessa. Sospettavano che suo padre avesse fatto qualchefavorein banca alla Manzi.
- Si, c'è un
locale molto carino sulla sponda destra del Danubio... Qui dice che è possibile
anche prenotare una saletta. E poi... E' su una nave!- spiegò presa la rossa,
sorridendo compiaciuta.
Alla fine,
optarono per andare a vedere l'unico locale che aveva passato il giudizio
selettivo di Chiara (a volte era peggio della Manzi) e arrivarono sul Danubio
giusto in tempo per il tramonto. Il locale era già pieno e Flavio si offrì di
andare a parlare con il proprietario, anche se il suo inglese lasciava molto a
desiderare.
Carmen e
Sabrina erano troppo prese dal via vai di gente ben vestita per vedere l'amica
allontanarsi e avvicinarsi alle lievi onde del fiume nero.
Chiara si
voltò e decise di scendere giù per gli scalini che portavano alla riva,
mantenendo con una mano il berretto di lana azzuro
pallido che aveva in testa. L'acqua era piatta, una tela cupa sciupata solo da
piccole increspature e ombre di pesciolini rossastri. La rossa si sedette, non
vedeva più niente ora se non l'acqua. Le era sempre piaciuta, cristallina e
fresca a contatto con la sua pelle. Tutto intorno a lei era un turbino di visi,
persone allegre, turisti vaganti, ma quel fiume sembrava immune al loro rumore.
Da piccola suo padre la portava ogni estate nella piscina comunale con
Benedetta, ma lei si era sempre lamentata che non fosse tanto blu e profonda
come quella del mare. Di corsi d'acqua ne aveva visti pochi, il Tevere e il Pò solo da lontano. Allungò una mano tremante dal freddo
oltre l'erbetta bagnata da chissà quale nevicata. Tracciò per qualche minuto
piccoli cerchietti concentrici con l'indice e le venne in mente sua sorella. Si
chiese come procedevano gli studi universitari,com'era il tempo lì a Perugia. Ritrasse improvvisamente la mano e corse oltre il
piccolo spiazzo che la separava dal locale, non voleva che gli altri venissero
a cercarla.
-
- Molto bene
ragazzi, visto che anche Vanessa è d'accordo, do il permesso a tutta la II E di
andare al "Laderaum"
sabato sera, per quanto riguarda le altre classi ne dovrò parlare con la
professoressa Morra- sentenziò la professoressa di latino, con aria quasi
sconfitta. Flavio tirò un pugno in aria e sparì in una delle piccole salette al
piano terra dell'hotel con Ivan. Chiara sorrise sorniona nella direzione della Monteverde e si avviò allegra verso il giardino d'ingresso
con Carmen.
- Allora, cosa
indosserai?- domandò subito la mora, ammiccando. L'altra scrollò le spalle e
alzò la zip del giubbotto verso il collo.
- Un
vestito...- rispose vaga, cominciando a fischiettare sommessamente.
- Un
vestito... come?- insistette Carmen.
- Vedrai...
piuttosto dov'è che ceniamo stasera?-
La domanda
sembrò indirizzata più a se stessa che all'amica e Chiara riflettè
su quanto il suo timbro di voce fosse petulante a volte, mentre sceglieva il
ristorante.
-
I suoi capelli
rossi svolazzarono per un istante, mentre apriva la cigolante finestra che dava
sul centro di Vienna. L'unico vantaggio del terzo piano era la vista mozzafiato
che offriva ogni notte. Scostò le tende, ma quelle le ricaddero addosso,
lasciandola sola con la luna e il cielo. Chiara sospirò, passandosi una mano
fra i capelli. Si sfregò le guance per non congelarsi, ostinandosi a indossare
la solita canottiera blu, e si passo un pollice sulle lentiggini. Chiuse per un
secondo gli occhi, era così bello stare lì a guardare la notte che avanzava e
divorava tutto, da lì quasi si sentiva unastella. Dopo qualche minuto di pensieri
vuoti, sentì una mano toccarle irruente la schiena. Si voltò di scatto e alzò
un sopracciglio.
- Diamine,
Torri, perché ti sei nascosta dietro le tende?- domandò Roberta, con voce più
alta di quanto l'orario consentisse.
- Volevo
vedere se le stelle sono come quelle che vedo a casa- le uscì spontaneamente,
pensando che quella era la prima volta che le diceva una mezza verità.
- Sei proprio
una strana...- continuò la riccia, allontanandosi repentinamente dal quel
corpo.
In un
improvviso moto di rabbia, Chiara scattò.
- Almeno io
non mi faccio mettere le mani addosso dal mio ragazzo!- Fece risuonare la sua
voce più tagliente di quanto non fosse mai stata, riducendo gli occhi castani a
due fessure.
Roberta
abbassò la testa, come se in un lampo si fosse ricordata che anchelei sapeva.Strinse
visibilmente i denti e si gettò sul corpo sottile della rossa.
Forse stava
per darle uno schiaffo, o forse un pugno. Ma rimase con la mano a mezz'aria e
gli occhi le si riempirono ancora una volta di lacrime.
-Non
volevo...- balbettò Chiara, ancora scossa dal colpo che in realtà non era
arrivato. Le sue labbra pallide erano contratte.
- Tu non sai
niente della mia vita!- quasi gridò Roberta, con tutto il fiato che aveva in
gola e i ricci neri sparsi sulle spalle.
L'altra, inspiegabilemente, le prese il polso e le abbassò la
mano.
- Perché ti
stai facendo questo?- mormorò, fissandola negli occhi cerulei e arrossati.
Erano grandi e quasi vi si poteva specchiare.
- Che cosa
vuoi ancora da me?- Non riuscì a reprimere un singhiozzo e si portò
l'altra mano alla bocca. La rossa si accorse che ancora le teneva il polso e la
lasciò, come se si fosse scottata a quel contatto.
- Voglio che
la smetti di farti del male... E ti capisco se non vuoi parlarne con me, sono
poco più di un'estranea. Ma dovresti parlarne con un'amica, una confidente, un'insegnante-
Roberta piegò
il capo da un lato, come se Chiara avesse appena detto una grossa sciocchezza.
Un po' incredula, si schiarì la voce.
- Non voglio
parlarne con Vanessa né con Angela o Monica, a volte penso che anche loro siano
poco più di tre estranee-
A Chiara fece
pena, un'altra volta, nonostante non volesse. Le fece stringere il cuore, aveva
uno così sguardo rassegnato.
La trascinò
debolmente a sedersi accanto a lei sul letto, con le ginocchia che si
sfioravano sotto la stoffa.
- Parlane con
me- replicò seria e notò che la riccia degludiva in
continuazione. "Magari è segno che
sta cedendo" pensò.
- No, tu non
capiresti...- si decise quella alla fine, voltandosi debolmente.
- Non hai nessun'altro a quanto mi dici- insistette Chiara,
sporgendosi verso di lei. Il suo sguardo vacuo sembrava perso in luoghi e
immagini lontane.
- Massimo mi
ha fatto questo livido, mi ha stretto troppo il braccio perché... era
arrabbiato- cominciò, esitando. Le lacrime scendevano più rade. I secondi per
Chiara passavano più lenti di quelle gocce traslucide. Anche con quel viso
straziato dal dolore, Roberta era innegabilmente bella.
- Perché?-
- Perché non
volevo... concedermi a lui. Ero terrorizzata- mugolò, stringendo un
pungo.
- L'hai
lasciato?-Che le importava?
I capelli
scuri di Roberta ondeggiarono mentre quella faceva segno di no.
La rossa spalancò gli occhi.
- Dopo quello
che ti ha fatto!?- esclamò indignata, aggrottando le sopracciglia. L'altra
annuì.
- Ne sei
innamorata?- domandò poi.
- Non lo so...
Ma non voglio lasciarlo-
- Non
capisco...-
- Non è il
momento... Se lo lascio... Vanessa e le altre...- farfugliò confusa, mordendosi
un labbro. Da lì sembrava proprio indifesa, come se tutta l'indifferenza che
aveva ostentato in quegli anni fosse evaporata con le lacrime.
- Lascia stare
Vanessa e le altre! Ne sei innamorata?-
Roberta non
rispose, abbracciò silenziosamente Chiara e affondò il viso stanco nei suoi
capelli vermigli. Quella le diede un colpetto leggero sulla testa e vi posò per
un attimo il mento. Non pensò quella che teneva fra le braccia era Della Corte,
l'altezzosa ragazzina immatura che tutti vedevano.ErasoloRoberta,
con un enorme livido sul braccio e il viso coperto di lacrime.
Le venne in
mente una canzone di CatStevens
e la sua voce profonda che cantava"The
first cut is the deepest,
baby I know!" mentre sentiva i
sospiri della compagna placarsi.
Poi si
separarono, sul quel viso serico le prime lacrime come cristalli, su quel
gomito sottile ancora il marchio del dolore più profondo.
La prima cosa che Chiara riuscì a
focalizzare furono capelli color pece di Della Corte sul cuscino del letto vicino al suo. Aveva il capo leggermente orientato
verso di lei, col viso rivolto verso la luce che proveniva dalla finestra. Una
mattinata decisamente luminosa per essere alla fine
dell’inverno austriaco. Stiracchiò lentamente il braccio, arricciando il naso.
Aveva dormito per tutta la notte con quell’odore di acqua marina che emanavano i ricci di Roberta. Non era affatto spiacevole, anzi. Qualcos’altro che le ricordasse il suo amato mare era più che gradita. La sera
prima, quando aveva accolto la compagna per consolarla, il suo profumo era
rimasto intrappolato fra il cotone della sua canottiera, mischiandosi all’aroma
di cedro dei suoi capelli scarlatti. Si tirò su da quel groviglio di coperte
con uno scatto secco e , sentendo un dolore al ventre,
raggiunse in poche falcate la finestra. Scostò ancora di più le tende
fermandosi ad osservare il riflesso dorato che produceva un fascio di luce
sulla pelle serica dell’altra ragazza, evidentemente ancora persa nei meandri
del sogno. Sospirò e sentì il cuore contrarsi per un attimo in qualcosa di
simile alla comprensione. Stava davvero cercando di aiutare colei che un tempo
era stata una delle sue aguzzine? Stava davvero
offrendo una mano al nemico sconfitto che cade nel
baratro? Scosse la testa e sentì i suoi pensieri spirare ovattati fra le pareti
della sua mente. Un dolore fitto e penetrante le scosse i sensi, mentre si
portava una mano alle meningi. Cercò di aggrapparsi alla scrivania in legno massello e arrivò a sedersi sul suo letto,
sentendosi mancare per un attimo. Poi una nausea improvvisa la colse e la
costrinse ad abbassare la testa. Corse in bagno e, chinandosi sul gabinetto,
rigettò la cena della sera prima. Cercò di darsi una sciacquata al viso,
notando che gli occhi erano cerchiati da leggeri aloni scuri e la sua pelle era
più pallida del solito. Un viso, stanco almeno quanto il suo, fece capolino oltre
lo stipite della porta. Probabilmente aveva svegliato Roberta con il rumore
dello scarico. Sospirò affranta.
- Torri, non hai un bell’aspetto stamattina- obiettò
quella, sbadigliando. Gettò un’occhiata al viso quasi esangue dell’altra e le si accostò lentamente. Chiara gemette frustrata e si
massaggiò la testa, che continuava a rimbombare facendo eco a tutto.
- Sto bene- minimizzò subito, afferrando lo spazzolino e
cercando il dentifricio. Della Corte lo afferrò per prima e glielo lanciò. Ridacchio quando vide che l’altra non era riuscita ad
afferrarlo prontamente.
- Si certo, hai i riflessi di un dinosauro con l’artrosi- Era
quasi piegata in due dalle risate.
- Ti rende
felice il fatto che io stia male?-
Quella domanda
uscì dalle labbra della rossa senza che potesse
accorgersene, facendole assumere una smorfia fra il rabbioso e il deluso. Aveva
consolato Della Corte, ma ciò non voleva dire che
Della Corte avrebbe consolato lei. Quella sembrò pensarci e alla fine smise di
ridere. Le posò una mano sulla fronte, in attesa.
- Hai la febbre- disse soltanto, seccamente. Poi uscì dal
bagno prendendo la sua spazzola e legandosi i capelli in una treccia.
Chiara si guardò allo specchio un’altra volta poi, stancamente, si avviò
a prendere i suoi vestiti. Sarebbe scesa con Roberta e i suoi amici a fare
colazione. Non aveva la febbre, ne era sicura, era
soltanto colpa di quella temperatura insolitamente calda.
-
Sbatté ancora
una volta la sua palla rimbalzante arancione contro la moquette che
tappezzava le pareti della stanza d’albergo.
“Torri, lei ha evidentemente l’influenza, non può
venire con noi oggi sul Prater” le aveva
detto la Manzi
con quel tono perentorio, accompagnandola di persona sulla soglia della sua
camera. Era riuscita a reperire fra i tanti ospiti
italiani dell’hotel un medico che l’aveva visitata e aveva tratto la
conclusione: una semplice influenza da freddo, complicata dal fatto che Chiara
spesso soffrisse d’indigestione. Guardò l’aspirina che le aveva lasciato la professoressa sul comodino e il termometro
digitale che ancora segnava un trentotto
e mezzo. Quella mattina non era riuscita nemmeno a fare colazione
che subito la sua insegnante l’aveva notata, ripetendole che non aveva un bell’aspetto.
“ Della
Corte mi ha riferito che stamattina ha rimesso…” aveva cominciato, ma Chiara
aveva smesso di ragionare al solo sentir pronunciare il nome della sua compagna
di stanza. Aveva digrignato i denti e fissato insistentemente il tavolo dove si
trovava quella, circondata da quell’alone di esclusività proprio solo della sua
compagnia.
E ora, mentre
lei se ne stava placidamente stesa fra le coperte sfatte,quella guardava Vienna da una delle
ruote panoramiche più alte d'Europa. Un improvviso moto di rabbia
ingiustificata la pervase e le vennero in mente tanti epiteti poco carini nei
confronti della compagna. L'aveva fatto apposta, questo era
stato il suo primo pensiero. Si stava davvero divertendo, Roberta, nonostante
ciò che le aveva raccontato? Ovvio.
Carmen aveva
chiamato un paio di volte, giusto per accertarsi che non fosse
in pericolo di vita; Sabrina le mandava messaggi continuamente.
"Vista mozzafiato, riesco quasi a vedere la tua
stanza d'albergo!" recitava l'ultimo, risalente a qualche ora
prima. Come se non fosse già abbastanza deprimente essere
chiusa in camera con la professoressa Morra che di tanto in tanto le
bussava alla porta.
Lanciò di
nuovo la pallina contro il muro e si decise a fare qualcosa di costruttivo.
Prese il libro di poesie che aveva acquistato poco
tempo prima e cominciò a leggere, attendendo che qualche parola, qualche verso
attirasse la sua attenzione vagante. Niente, nemmeno la poesia riusciva a farla
sentire meglio. Scagliò violentemente il libro sul letto di
fianco, provocando un tonfo sordo sulle coperte ben sistemate. Sbuffò,
aveva sgualcito il letto di Della Corte, così si alzò e vi si accostò per
riparare alle pieghe formatesi sul tessuto scuro. Lasciò che una mano scorresse
veloce fra quel cotone, perdendosi nell'osservare i ghirigori di velluto che la
ornavano. Rimase a fissare il letto per qualche minuto, senza riuscire a
pensare ad altro che a quelle forme sinuose. L'occhio le cadde più in là del dovuto,
andandosi a posare sulla grande valigia di pelle scura
di Roberta, accuratamente sistemata contro il muro. Spiccava, da una tasca
laterale, una piccola forma rettangolare rivestita di cartone scuro.
Sembrava un
libro, o un piccolo blocco per appunti da lì. Chiara si fermò interdetta,
mentre stava per avvicinarsi alla valigia.
“Non è roba
mia… Ma che mi prende?” si rimproverò. Solo le sembrò strano che Roberta avesse
con se un libro o qualcosa che implicassesforzi intellettuali superiori al suo quoziente e di
quello di tutte le sue amiche messe insieme.
Trascorse il
resto del pomeriggio facendo zapping alla grande tivù
della stanza, ascoltando per un po’ le voci incomprensibili dei telefilm
tedeschi.
“Chissà che
sta facendo Della Corte” si chiese per l’ennesima volta quella giornata,
poggiando la testa alla testiera del letto e fissando il soffitto. No così non andava, conosceva già la risposta. Si stava
divertendo, tutti si stavano divertendo. E lei
era sola, Roberta l’aveva lasciata sola. Si ricordò di come l’aveva consolata
la notte precedente e per un momento pensò addirittura di non averla mai
odiata, ma stava solo delirando per la febbre.
Aveva una tale
confusione in testa che non sapeva più se a pensare fosse
lei o l’influenza che l’aveva contagiata.
I
pensieri le facevano male alle meningi, non riusciva a
liberarsene. Così gettò la testa oltre il bordo delle coperte, rimanendo a
guardare il mondo sottosopra. Magari in quel modo la sua mente avrebbe trovato
uno sbocco dove sfociare e l’avrebbe lasciata in
pace.
-
Il cellulare
di Chiara segnava appena le sette e un quarto quando sentì dei passi
attraversare l’ingresso. Stava stesa supina fra le lenzuola sfatte, con la
fronte imperlata di sudore e gli occhi scuri vaganti per la stanza. Ci mise
qualche secondo a focalizzare il viso ovale di Roberta che si dirigeva a grandi
passi verso il suo letto. Il termometro ancora stava sul comodino e il
suo libro di poesie giaceva aperto sul pavimento. Era calato un silenzio
irreale da quando la rossa aveva spento il televisore
e questo l’aveva fatta sentire ancora più sola. Alla vista dell’altra, Chiara
cercò di sistemarsi i lunghi capelli rossi in modo che non si notasse il
pallore del viso.
-Stai bene?-
domandò la riccia, mentre si toglieva la pesante sciarpa e poggiava la sua costosissima
borsa sulla scrivania. L’altraci pensò su, poi
decise di dire la verità. Non aveva senso dirle che stava bene e che non doveva preoccuparsi, che
poteva uscire e andare a divertirsi con quelle
, che voleva restare sola. Carmen, Sabrina e Ivan le
avevano promesso di tornare dopo cena con un mega
frullato alla fragola, ma nel frattempo la sconfortava il fatto di rimanere
ancora chiusa lì, a fissare punti indefiniti della moquette.
- No, scotto e
ho freddo… Senza contare il mal di testa- biascicò,
stringendosi con due dita una tempia. Vide con la coda dell’occhio che Roberta
stava tirando fuori qualcosa dalla tasca della giacca blu, ma i suoi occhi
erano coperti da una ciocca di capelli neri.
-Dev’essere
stato il freddo che abbiamo preso sul Danubio-
cominciò con il suo solito tono distaccato, voltandosi a guardare il paesaggio
fuori dalla finestra. – Ha nevicato-
Chiara
strabuzzò gli occhi. Era rimasta così tanto tempo a autocommiserarsi che non si era nemmeno accorte che il
clima si era irrigidito. Cercò di alzarsi, stringendosi nella felpa, e di
raggiungere un buon punto da dove godere del panorama.
- Aspetta, ti aiuto…- mormorò Roberta, vedendo che la compagna
non si era ripresa abbastanza da stare in piedi senza difficoltà. Le si accostò e notò la sua faccia stanca illuminarsi e
sporgersi più in avanti per guardare la neve sui tetti. Prese quel gesto come
un assenso e le afferrò il braccio, in modo che potesse appoggiarsi sulla sua
spalla.La mora sorrise lievemente a quel contatto e
si accostarono insieme al davanzale.
- Che
vista mozzafiato- esclamò con voce estatica Chiara, voltandosi a
guardare i lineamenti dolci e delicati
che formavano il viso della compagna.
Quella alzò di poco un sopracciglio e sorrise di nuovo, guardando oltre i
tetti.
- Chissà che
c’è oltre- si limitò a sospirare, aguzzando gli occhi azzurri il
più lontano possibile.
- Vienna- ridacchiò la rossa, muovendo lievemente la testa.
Roberta scoppiò a ridere, probabilmente perché quei capelli le solleticavano il
collo. Chiara si accorse che riusciva a reggersi in piedi senza fatica se
aggrappata al davanzale.
Si staccò
dolcemente da quel corpo con un espressione stranita,
sentendo per un attimo girarle la testa.
- Grazie,
riesco a stare in piedi anche da sola- bisbigliò,
imbarazzata. Non sapeva che dire, forse doveva limitarsi a
guardare il paesaggio e stare zitta. Forse era
questo che si aspettava Roberta. La vide mentre
annuiva e faceva vagare di nuovo lo sguardo oltre i tetti. La sua testa riccia
rimase per qualche minuto ferma, i capelli che le
ricadevano ai lati del viso, le labbra
corrucciate in un espressione vagamente pensosa.
- Pensi?-
chiese improvvisamente Chiara, sentendo quella domanda salirle in gola come
bile e farsi strada fra i suoi
denti,
silenziosa. Roberta
stette in silenzio per un'altra manciata di secondi,
poi si girò in modo che potesse fissare direttamente gli occhi castani della
compagna di stanza. Fece un’espressione a metà fra il rassegnato e il
diffidente. Si limitò ad annuire, con calma.
-A Massimo?-
azzardò la rossa, pentendosene. Vide una vena gonfiarsi sull’ossuta mano della
ragazza, mentre quella cercava di dissimulare il tormento.
- No,
pensavo a quanto sia bella Vienna, con questa neve… si
vede meglio da questa stanza che dal Prater- proferì
con
autocontrollo, esalando piccoli sbuffi di fiato
contro la finestra. A Chiara venne di nuovo da ridere.
- Non diresti
così se avessi passato in questa stanza metà della tua giornata-
La rossa
cominciò a disegnare piccole forme astratte lì dove il respiro dell’altra era
stato ghiacciato e fissato su quella superficie liscia.
- Non
diresti così se avessi passato metà della tua giornata con persone che... ah,
lascia stare- sbuffò Roberta stizzita, prestando
attenzione ai disegni contorti impressi sul vetro. Allungò un indice e traccio unaR tremolante.
L’altra continuò la sua piccola opera d’arte, stringendo la lingua fra i denti.
Improvvisamente starnutì e dovette poggiarsi al muro per non cadere.
- Dovresti
tornare sotto le coperte-
- Non sei mia
madre, Della Corte. Non devi far finta che ti importi
qualcosa di me- sibilò debolmente, senza una reale rabbia ad animare quelle
parole. Aveva solo bisogno di sfogarsi, non importava
il come o il perché. Roberta la fissò per un momento, incredula.
- Non voglio
fare finta anche qui- si limitò a dire. Chiara non si chiese nemmeno il motivo di quell’affermazione,
cercò di non sembrare isterica. Le faceva male stare sola per troppo
tempo. Si passò una mano sulla fronte e, sentendola scottare, decise di
seguire il consiglio della compagna. Si accoccolò sotto le coperte,
chiudendo gli occhi. Fuori nevicava e lei era lì con la febbre, non riusciva a
capacitarsene.
Poco dopo fu
risvegliata da uno scossone alquanto rude.
-Che cavolo vuoi, Della Corte? Mi stavo giusto autocommiserando- gracchiò Chiara con voce
roca, scostandosi un po’ dal cuscino. Roberta fece per sedersi sul suo letto,
ma alla fine optò per accomodarsi sulle sue coperte
ben fatte.
- Nulla… mi annoiavo- ammise, guardandosi le unghie smaltate di rosso.
- Devo
ripeterti che non mordo? Al massimo ti attacco l’influenza-
Con un leggero
tonfo Roberta si lasciò cadere a qualche centimetro di distanza dalle sue
ginocchia, piegate di lato in modo da farle spazio.
-
Guarda qui… Così potrai dire comunque di aver visto il
Prater- iniziò la riccia, porgendole una costosissima
macchina fotografica.
Chiara
riconobbe nella foto una gigantesca ruota panoramica, gremita di turisti. Fissò
l’immagine digitale per un po’, sorridendo. Sarebbe stato bello esserci.
Stava per
dirle un grazie sincero, perché sapeva che Roberta non
stava fingendo, quando bussarono alla porta.
La compagna di
stanza si allontanò per qualche minuto. Sentì voci familiari provenire dal
corridoio d’ingresso.
-
Spostati, Della Corte. E non fare quella faccia…
non siamo qui per te- iniziò Sabrina, senza che quella avesse detto nulla. La
testa scura di Carmen fece capolino all’improvviso, con in
mano un grande frullato alla fragola.
Le sue amiche
erano state davvero gentili, ma Chiara non si era
sentita completamente a suo agio con loro come lo era stata qualche minuto
prima. Roberta era sparita improvvisamente chissà dove, riprendendosi la
macchina fotografica. Chiara aveva notato quel suo sguardo stranamente
nostalgico.
- Quella
è davvero antipatica- disse sprezzante Sabrina,
imitandone i modi altezzosi e mettendosi a ridere. La rossa ebbe un fremito.
- Se magari imparaste a conoscerla!- esclamò indignata,
stringendo i denti.
Le due ragazze
attribuirono quell’affermazione al deliro
della febbre, ma Chiara davvero si chiese perché Roberta fosse stata condannata
a vivere fingendo.
Capitolo nove: Stramba, esaltata e irritabile rossa mezza irlandese
- Smettila
di tossire, Chiara- esclamò con voce roca Roberta, con le orecchie
nascoste sotto il suo morbido cuscino. La rossa, sentendosi chiamare in causa,
si risvegliò dallo stato di torpore in cui era intrappolata e assottigliò la
vista verso la sveglia digitale posta sul comodino.
-
Quattro del mattino- continuò a tossire, dandosi
un colpo sulla fronte. Era tutta la notte che andava avanti così, nonostante in mattinata la febbre fosse diminuita.
Frustrata, e anche un po’ dispiaciuta per Roberta, si tirò a sedere e sospirò.
Sentì la compagna di stanza gemere disperata nel dormiveglia.
-
Mi dici come facciamo... fra meno di tre ore ci ritroveremo a scorrazzare per
le campagne viennesi senza aver chiuso occhio per un’intera notte! Senza
contare che stasera c’è la festa in discoteca…-
piagnucolò quella, affondando ancora di più la testa bruna fra le coperte.
Chiara si alzò, versandosi dell’acqua e ingoiando la pasticca che le aveva prescritto il medico dell’albergo. Tossì di nuovo, sentendo
però diminuire il bruciore alla gola.
-
Scusa se non ti ho fatto dormire- gracchiò, allentando
la sciarpa pesante che le fasciava il collo. Roberta scosse la testa,
bisbigliando qualcosa di incomprensibile. La rossa
aggrottò le sopracciglia.
-
Puoi ripetere? Non ti ho sentito-
-
Ho detto che non devi scusarti… non è colpa tua-
pigolò quella, quasi imbarazzata. – Ti senti meglio?-
Chiara
annuì, un po’ perché sentiva quel groppo in gola disciogliersi e un po’ perché
non le andava di lamentarsi ancora con Roberta. In quegli ultimi due giorni non
aveva fatto che tossire, starnutire e inveire contro tutto
e tutti. Avanzò verso il letto a tentoni, andando a
sbattere contro l’enorme valigia di Della Corte. Soffocò un
imprecazione poco consona alla sua persona e cadde lungo distesa sulla
moquette.
-
Aspetta, faccio io- esclamò secca la riccia, mentre
scendeva dal suo letto e porgeva una mano alla ragazza. Quella l’afferrò con
difficoltà, non vedendo molto nel buio, e si appoggiò alla sua spalla esile.
Camminarono così avvinghiate finché Chiara non si lasciò cadere con un tonfo
fra le sue lenzuola.
-
Allora buona notte-
Anche nelle tenebre riusciva a distinguere
perfettamente il sorriso di Roberta stagliarsi luminoso nella stanza. Non l’aveva mai vista sorridere, almeno credeva di non averla mai
vista farloin quel modo.
Chiara
aveva sempre pensato che non ci fosse un modo preciso di sorridere, per questo si innervosiva quando sua madre le diceva di farlo bene
nelle fotografie di famiglia. Però doveva ammettere
che se fosse esistita una maniera giusta di sorridere, Della Corte la conosceva
bene.
-
Notte- mormorò assorta, mentre osservava la compagna infilarsi nel suo letto.
Chiuse gli occhi e cercò di dormire.
-
Qualche
ora più tardi la camera 47 del terzo piano era già animata da passi inquieti e
voci assonnate.
-
Stanotte ho dormito si e no tre ore- disse stancamente
Roberta dal bagno, passandosi il fondotinta sulle pesanti occhiaie. Proprio in
quel momento Chiara andava avanti indietro per il corridoio, con
in mano il termometro.
-
Fa che io non abbia la febbre, fa che io non abbia la febbre- sussurrava febbrilmente, tenendo il display ben visibile
alla luce.
La
riccia sospirò, vedendo che l’altra non le prestava minimamente attenzione, e
continuò a truccarsi accuratamente. Qualche secondo dopo sentì un urletto acuto provenire dalla stanza da letto e si
affacciò.
-
Niente febbre?- domandò stancamente.
-
Niente febbre! Niente febbre!- canticchiò la rossa, muovendo il bacino a ritmo
di conga. Era così buffa, mentre ballava ancora in pigiama.
-
Vestiti che fra poco andiamo a dare la buona notizia
alla Manzi- sentenziò in tono neutro, dandole un leggero colpetto sulla
testa. Quella protestò con uno sbuffo e cacciò dalla valigia verde una pesante
felpa viola e un paio di leggins neri.
Evidentemente
quello doveva essere il suo giorno fortunato perché il dottore le aveva consigliato di restare ancora un po’ in albergo, ma le aveva
assicurato che quella sera sarebbe potuta andare tranquillamente in discoteca.
A patto che prendesse una di quelle pasticche amare e vomitevoli, ma
questo a Chiara sembrava un giusto compromesso.
Sistemò
accuratamente i vestiti che aveva accumulato in quei sei giorni sulla sedia di
fronte alla scrivania. Piegò le maniche della sua t-shirt con la mela e la
ripose nella valigia, frugandoci dentro alla ricerca
di qualcosa. Chiara tirò fuori con uno scatto secco il vestito che avrebbe
indossato quella sera alla festa. La stanza era silenziosa, di tanto in tanto
qualche starnuto riempiva l’aria e lo sciabordare dell’acqua che cadeva dal
cielo rendeva l’atmosfera più pesante. Il freddo della stanza e il suo
precedente malessere non toccò con un solo brivido la
pelle di Chiara, mentre questa si sfilava velocemente i vestiti e si osservava
in biancheria intima allo specchio del bagno. Si mise di profilo, allungando le
punte dei piedi nudi per sembrare più alta e tirando in dentro la pancia
pressoché inesistente. Sorrise soddisfatta quando vide che i
capelli rossi le arrivavano fino al seno e quel giorno erano particolarmente
ondulati. Spostò lo sguardo verso i suoi stessi occhi riflessi. Le
piaceva osservarsi, non per narcisismo, semplicemente era un modo per capire
meglio se stessa e il corpo in cui si trovava. Era cambiata così
tanto e così velocemente in quegli ultimi anni che si era alzata spesso
la mattina con la paura di essere in un corpo del tutto nuovo. Non
aveva più nulla della piccola ragazzina indifesa che aveva attraversato, forse
un po’ prematuramente, le porte del liceo e lei non poteva che esserne felice.
I capelli, che allora le arrivavano miseramente sotto le orecchie in un caschetto ordinario, ora ricadevano selvaggi
e sciolti e tutte quelle lentiggini avevano finito per confondersi con
la pelle chiara.
“
Sei di una bellezza particolare, che non colpisce subito… ma la seconda volta
che ti si guarda camminare per una strana non si può far a meno di toglierti
gli occhi di dosso” le aveva detto sua sorella
Benedetta, quando aveva cominciato a vedere nella sorella quattordicenne
cambiamenti evidenti. Aveva sorriso, con un modo di fare molto più caloroso di
Chiara, e le aveva dato una pacca sulla spalla.
Restò
a scrutarsi attentamente, facendo scivolare gli occhi su ogni piccolo difetto
del viso ovale, quasi dimentica di essere reduce
dall’influenza e per lo più scalza. Non sapeva nemmeno dove s’era andata a
cacciare Roberta, era da quella mattina che non la vedeva. Erano andati a fare
una gita fuori città, perché la
Morra e la Manzi erano convinte che sarebbe stato
formativo per gli alunni osservare il lavoro dei pochi contadini austriaci
nelle fattorie. Lei ovviamente era dovuta rimanere in albergo, ma siccome il
medico non aveva specificato di dover restare in camera, era scesa a far
colazione verso le undici ed era rimasta a leggere su uno dei divanetti
all’ingresso. Erano quasi le sette ed era strano che non fossero ancora
tornati, avevano appuntamento con gli insegnati giù nella hall
alle otto e mezzo per andare al Laderaum.
Sentì
scattare improvvisamente la serratura, mentre si tirava indietro i capelli e
cercava di entrare nel suo abito nero.
Si
coprì il reggiseno giallo alla meglio, mentre Della Corte entrava imperterrita
nella stanza.
-
Sono mezza nuda, ti dispiacerebbe lasciare almeno che
mi vesta?- domandò istericamente Chiara. Il suo volto assunse una smorfia infastidita mentre la compagna scoppiava a ridere.
-
Non ce n’è bisogno, non sono mica un ragazzo- buttò lì
sprezzante Roberta, avanzando sicura verso la sua valigia. Quel ragionamento
non faceva una piega, così la rossa si chiuse
frettolosamente la zip dietro la schiena. Era un vestito molto semplice, un
corpetto faceva leggera pressione sul suo busto e ricadeva fino al ginocchio
con una gonna attillata. Tirò fuori dalle coperte
eternamente sfatte una grande cintura squadrata, dello stesso colore, e se la
infilò.
-
Carino…- mormorò dall’altra parte la riccia, voltandosi per vedere meglio il
corpo della compagna. Chiara si sentì lievemente a disagio in balia del
suo sguardo indagatore, ma poi vide che quella abbassò lentamente il capo senza
dire nulla. Si diresse in bagno, decisa a truccarsi e
a sottrarsi al giudizio accurato di quegli occhi azzurri.
-
Il
Laderaum era molto spazioso, un grande
locale posto su una nave, proprio come diceva la guida turistica di Chiara. Era
completamente in legno e prima della vera e propria sala adibita a discoteca,
c’era un pub strapieno di ragazzi e turisti, dove il
tedesco si mischiava con miriadi di lingue diverse. Le professoresse avevano
storto il naso nel sentire il volume della musica così alto, decidendo che
sarebbe stato meglio per loro aspettare la mezzanotte nel piccolo bar di
fronte. Dopo aver raccomandato a tutti di non bere e di non parlare con gli
sconosciuti, erano scomparse con grande sollievo di
Flavio. Il ragazzo quella sera indossava dei jeans
neri molto attillati, con una camicia chiara sbottonata fino alla terza asola e
i capelli scuri lisciati da una parte, e con atteggiamento da seduttore cercava
di attirare l’attenzione di alcune ragazze dell’altra sezione. Chiara camminava
con al fianco Sabrina e Carmen, evidentemente
indaffarate a controllare il loro aspetto a vicenda, mentre Ivan si apriva un
varco fra la folla. Per un momento, oltre gli strass dell’ abito
della sua migliore amica, alla rossa sembrò di scorgere i bagliore degli occhi
di Roberta, al di là di un gruppo di turisti. Non la rivide, però, nemmeno
nella grande sala da ballo dove un giovane DJ dai
capelli colorati faceva partire musica a tutto volume. Si sentì stordita da
quelle luci multicolori che deformavano i volti dei suoi amici e li facevano
sembrare pagliacci mostruosi appena sbucati dall’incubo di un bambino. Erano
ipnotiche, psichedeliche, e Chiara dovette sforzarsi di non perdere
l’equilibrio sui suoi tacchi, mentre ballava con Ivan e Sabrina agitava a ritmo
il braccio sfiorandole ripetutamente i capelli. Tutto attorno a lei era un caos
di visi, persone, voci e corpi che si scuotevano come animati dalle vibrazioni
della musica stessa. Ballò per un po’ con i suoi amici e salutò allegramente
Andrea e la sua ragazza, che subito si unì a loro.
-
Ti diverti?- Flavio aveva fatto irruzione fra di
loro all’improvviso, passandosi una mano fra il gel dei capelli e sorridendo
ammiccante alla rossa. Chiara era scoppiata a ridere, guadagnandosi uno sguardo
interdetto da parte dell’amico.
-
Hai bevuto per caso?- la voce roca del ragazzo si alzò, cercando di farsi
sentire meglio. Chiara scosse la testa, ancora in preda a risolini.
-
No, è solo che con me non attaccano i trucchetti da
quattro soldi che utilizzi per rimorchiare-
Flavio
mutò letteralmente espressione, abbassò gli occhi e smise di dimenarsi in modo
arrogante. Sembrò per un attimo un ragazzino colto a fare qualcosa di proibito.
-
Sei sempre stata una tipa strana tu, eh?- domandò, riacquistando in un attimo
la sua caratteristica giovialità. Chiara per tutta risposta continuò a ballare,
muovendo freneticamente le gambe, lasciando che i capelli le ricadessero
lentamente sulle spalle nude.
-
Guarda, lì c’è una ragazza carina… magari è anche straniera, potresti
avere una chance in più- urlò, mostrando una fila di denti regolari nel
sorridere. Il ragazzo, scrollando le spalle, si allontanò
nella direzione indicata dalla rossa e per un attimo esitò.
-
Mi piacciono le strane- ci provò per un’ultima volta,
ma quando vide Chiara ricominciare a ridere fece lo stesso e si allontanò.
Probabilmente
era la quarta o quinta canzone che ballava di seguito e una sete lancinante le
prese la gola. Si staccò da quella massa di gente scatenata e cercò di farsi strada fino al pub adiacente, in cerca magari di una
coca cola.
Sentì
il cellulare vibrarle nella sua pochette e lasciò perdere
per un attimo la sua sete.
“Ti diverti, piccola rossa? E’ l’ultimo giorno, finalmente
domani torni!”
Lesse
e non ebbe bisogno di chiedersi chi era il mittente: Riccardo. Le venne in
mente quel pomeriggio al parco, le sembrava passato un secolo eppure era appena
una settimana. Sentì qualcosa di simile alla nostalgia bloccarle lo stomaco e
si rese conto che in quel momento l’unica cosa che l’avrebbe potuta
rilassare era uno degli abbracci di Richi.
Uscì
dal locale nella fredda brezza notturna decisa a rispondergli, quando sentì una
voce familiare provenire dall’ingresso dei bagni.
-
Lasciamo stare, Massimo! Non voglio ballare, non mi va….
E non toccarmi!- esclamò stizzita Roberta, senza che
però Chiara riuscisse a vederla.
-
Andiamo… fa vedere a tutti che splendida ragazza che ho- quella sentì la
voce untuosa del ragazzo avvolgerla come le spire di un serpente. Poi uno
scatto secco, come un colpo e imprecò qualcosa.
-
Che palle, non ti va di fare mai nulla… chiamami quando
la smetti di fare la suora-
La
rossa si allontanò velocemente da quel corridoio esterno e si allungò sul
parapetto, perdendo i pensieri fra le onde calme del fiume. Sentì un corpo
sfiorarla in una fuga rabbiosa e quando si voltò, vide Massimo sparire fra la
folla. Di Roberta nessuna traccia. Avrebbe dovuto
andare a cercarla? Perché dovevano sempre parlarsi quando
una delle due stava male? Inviò una risposta a Riccardo e, dopo aver reperito un bicchiere di coca cola, tornò lì dove aveva
sentito quelle voci. Aspettò alcuni secondi, poi la vide.
Roberta stava sporta a guardare l’acqua incresparsi, in una posa simile a
quella che aveva assunto lei prima. Aveva una sigaretta in mano e, di tanto in
tanto, ne aspirava il fumo grigiastro tossendo.
-
Non dovresti fumare- disse decisa Chiara, camminando
con calma alle sue spalle.
-
E tu non dovresti comparire sempre all’improvviso-
Sembrava leggermente scossa. La rossa le si accostò,
guardando anche lei il Danubio.
-
Coca cola?- Le allungò il bicchiere, nella speranza che servisse a staccarla da
quella maledetta sigaretta.
-
Ho già bevuto della vodka, lascia stare- biascicò,
chiudendo gli occhi. Aveva un viso stanco, i ricci neri sempre impeccabili e un
vestitino color prugna che le fasciava il corpo.
-
Non dovresti nemmeno bere-
-
Chi sei, la mia coscienza?- domandò quella irritata,
tossendo ad una boccata di fumo.
-
Peggio, sono una tua amica-
Quella
frase le era uscita dalle labbra senza che Chiara se ne fosse
davvero resa conto. Poteva considerarsi una sua amica o almeno qualcuno
autorizzato a far parte della sua vita? Roberta a quelle parole si girò verso
il suo viso, sorridendo per un secondo.
-
Io non ho amiche- mormorò poi fredda, portando gli
occhi azzurri lontano dai suoi castani.
-
Che è successo con Massimo?- la rossa la ignorò,
andando dritta al punto.
-
Forse ha bevuto troppo-
-
Devi lasciarlo, sennò continuerai a star male-
Questa
volta Chiara pronunciò con veemenza ciò che pensava,
soffermandosi su ogni parola. Vanessa non si era fatta scorgere quella sera,
era scomparsa non appena avevano messo piede in quel locale. Forse era
l’assenza delle amiche di Della Corte ad infonderle
tanto coraggio.
-
Lo so- si rassegnò Roberta, rigirandosi fra le piccole
mani il mozzicone di sigaretta. Chiuse di nuovo gli occhi e si massaggiò le
tempie, storcendo la bocca.
-
Stai bene?- chiese preoccupata l’altra, sorreggendola
con una mano.
-
Ho sonno, in effetti- ridacchiò quella, poi spensa la risata in un sospiro stanco.
Chiara
scosse la testa e, vedendo una panchina, la fece sedere vicino a lei. Stettero
in silenzio per alcuni minuti, guardando le nubi che macchiavano a sprazzi la
notte.
Ripensò
a sua madre, a suo padre che non vedeva quasi mai, ai
Natali in cui le sue cugine irlandesi solevano criticare la sua scompostezza e
alla sua chitarra che probabilmente giaceva abbandonata sul suo letto in paese.
-
Pensi mai che se avessi fatto altre scelte,
probabilmente saresti diversa da come sei ora?-
La
rossa modulò la sua voce in modo che i suoi timori
fossero accuratamente nascosti. A Roberta occorse un po’ per rispondere, dopo
di che scrollò le spalle e si girò verso Chiara.
-
Può darsi, ma tutti quando scegliamo qualcosa escludiamo
tutte le altre. E' così che decidiamo chi essere. Io ho deciso di essere una stronza, acida, avvenente ragazza di provincia. Tu hai
scelto di essere una stramba, esaltata e irritabile rossa mezza
irlandese…-
Parlava
alla notte, come un sussurro flebile rivolto più a se stessa che all’altra.
-Non
ho scelto mica io di essere rossa- scherzò Chiara,
rimirandosi una ciocca ramata che le cadeva sulle spalle.
-…
Ma va bene così. In fondo non avrei comunque
potuto essere diversamente. Immagini una Della Corte buona e amichevole con
tutti?- Roberta stessa scoppiò a ridere, quasi amaramente, come se la negata
possibilità di cambiare la opprimesse.
-Immagini
una Torri ordinata e altezzosa?-
-Comunque
è vero quel che si dice…- ricominciò la riccia, con
aria maliziosa.
-Che si dice?-
-Che
Flavio sia cotto di te, ha detto praticamente a mezza
scuola che tu hai delle gambe da urlo-
La
rossa assunse un’espressione fintamente scandalizzata.
-Non
è il mio tipo-
-In effetti non ha tutti i torti…- Roberta continuò a
parlare, senza ascoltare le ultime parole dell’amica.
-Hai davvero delle gambe da urlo- sentenziò poi.
-Mi
sa che anche tu hai bevuto un po’ troppo-
Le
loro risate si persero nel buio, mentre da qualche parte una coppia si baciava
appassionatamente e la musica scuoteva ancora l’aria.
Era tutto così grigio, così spento
mentre l’aereo decollava e toglieva la possibilità a Chiara di toccare ancora
con i piedi l’Austria. Guardò fuori dal finestrino, con lo sguardo appannato e
lento, mentre vedeva ogni lembo di terra sottrarsi con un movimento fluido alla
sua vista, ogni particella d’aria lottare contro il vetro dell’oblò per
scompigliarle i capelli rossi. Sentì la cintura che la agganciava al sedile,
senza la quale le sarebbe davvero parso di poter volare come un uccello a
primavera, arpionarle fastidiosamente lo stomaco, mentre con la mente divagava
oltre i limiti del consentito. Non era mai stata una grande sognatrice, Chiara.
Immaginava, questo si, ma senza mai illudersi o avere la forza di credere che
ciò che voleva si sarebbe avverato sul serio. Come quella volta, quando a dieci
anni il suo criceto, Mr. Hyde, era morto e lei aveva
spesso immaginato di poterlo accarezzare di nuovo, ma il suo animaletto non era
mai ritornato.
“I sogni sono solo sogni e l’immaginazione spesso ci
inganna, altrimenti Mr. Hyde sarebbe tornato da me”
aveva detto a
sua nonna Agnes in una lettera. Ma l’essere così
lontani dalla terra, dal dolore umano, dalle lacrime le davano la spinta per
rivalutare i suoi sogni, i pochi che le erano rimasti. Guardò oltre il vetro
per scorgere meglio il paesaggio. Ce li aveva dei sogni? A parte il forte
desiderio di essere qualcuno nella vita? Subito sotto di lei cominciarono ad
alternarsi pianure verdi, giallognole e via via più
scure come i capelli di Roberta, la quale osservava con medesimo sguardo
assorto il paesaggio che offriva la fila adiacente. Chiara non vedeva più nulla
se non ciò che stava lasciando, seppur a malincuore, senza che riuscisse a
imprimersi quegli ultimi dettagli del suo viaggio nei ricordi. Sogni:
come fidarsi di una parola così ingannevole?
E che cosa
doveva sognare poi? Di sposarsi con l’uomo dei suoi sogni, di avere tanti bei
bambini e un lavoro fisso? Troppo banale.
Storse
il labbro inferiore, tornando a fissare il tessuto spugnoso che ricopriva il
sedile di fronte a lei.
Sentiva il suo
cuore rallentare i battiti mano a mano che l’aereo prendeva quota, mentre
vicino a lei Carmen parlottava con Ivan sulla serata precedente. Il flusso
indefinito di pensieri di Chiara venne improvvisamente interrotto, la spirale
acquea attraverso cui vorticavano nella sua testa fu brutalmente dissolta.
- E tu? Che
fine hai fatto ieri? Dopo Party rock non
ti abbiamo più vista…- chiese curiosa l’amica, sporgendosi verso il suo
viso per sentire meglio. Le arrivò un sospiro secco, spezzato, e una voce
flebile e taciuta.
- Sono uscita
a prendermi una coca cola-
- Non me
la conta giusta, non è che centra Flavio?- proruppe Ivan, stringendosi fra gli
occhi le lenti spesse. Sembrò dare un’occhiata fulminea alla testa castana
dell’amico, seduto qualche posto più avanti. Chiara scoppiò a ridere,
sentendo la sua gabbia toracica sbattere quasi violentemente contro la cintura
di sicurezza.
- Certo che
no…da quando avete tutti questi
sospetti su di me?-domandò, reprimendo
un risolino nervoso. Carmen si scambiò uno sguardo d’intesa con il ragazzo, poi
partì in quarta.
- Oh andiamo,
non fare la finta tonta, ieri sera eri uno schianto e vuoi farmi credere che
nessun ragazzo ci ha provato con te?-
Quella scosse
la testa, con aria di sufficienza. Alzò un sopracciglio, perplessa, poi tornò a
tormentare la stoffa del sedile.
- Ma se
persino Monteverde e company non la smettevano di
guardarti! Avresti dovuto vedere le loro facce…quella di Della Corte, poi!- rise Ivan, dando un colpetto al braccio
della mora. Chiara smise simultaneamente di maciullare la tappezzeria e puntò
gli occhi in quelli dell’amico. Le sembrava proprio un gufo, visto da quell’ angolazione, con i capelli ricci afflosciati sulla
fronte e gli occhi spalancati. Con che faccia l’aveva guardata, Della Corte?
Sembrò
pensarci su per un po’, poi si convinse che di certo non era una cosa di cui
curarsi. Sarebbe parso troppo sospetto agli occhi di due pettegoli come loro.
-… un misto di
disprezzo, invidia e… non lo so, qualcosa come l’ammirazione. - continuò
Carmen, fissando il vuoto.
- Confermo. Sembrava avesse visto un
fantasma. Il fantasma più bello di tutti, però- asserì Ivan. La rossa perse un
battito, abbassando lo sguardo sulle scarpe. Colpa della turbolenza. O forse no.
- Non c’è nessun ragazzo nella tua
vita? Insomma, dopo Alessio…- domandò di nuovo l’amico, critico. Lei rispose
seccamente di no, mentre guardava per un ultimo istante Roberta poggiare la
testa al sedile e chiudere gli occhi, poi tornò a guardare il finestrino.
In effetti ora
che Chiara ci pensava, non aveva mai sperimentato l’amore, o almeno ne aveva
provato solo un surrogato. Qualche mese prima, mentre ancora Riccardo si
crucciava per la storia con Monica, aveva preso ad uscire con un ragazzo,
Alessio, il cugino diciassettenne di Carmen. Niente da dire su di lui, davvero.
Piuttosto carino, alto e moro come la cugina, forse non dotato scolasticamente
quanto lei,spiritoso e leggermente gonfiato, ma tutto sommato niente male.
Peccato che Chiara non avesse provato assolutamente nulla al di là del piacere
per la novità, era stato il suo primo ragazzo fisso. Le vennero in mente i suoi
occhi verdognoli e giocosi, ma li scacciò subito dalla sua mente, provando
fastidio.
Quanto l’
aveva irritava l’atteggiamento da cascamorto di Alessio, il suo essere così
sicuro e auto compiacente, il suo atteggiamento soffocante di gelosia. Così,
senza pensarci due volte, capendo che non era necessario avere un ragazzo per
essere felice, l’aveva mollato dopo quasi due mesi di relazione.
L’amore
non poteva provocare fastidio, no?
Pensò a
Roberta, prima di addormentarsi per la stanchezza del viaggio. Anche il suo
amore non doveva essere un gran che.
-
- Svegliati,
rossa-
Chiara
ricevette uno scossone e si destò subito quando capì che quella non era la voce
di Carmen. Una voce dura e melliflua allo stesso tempo. Aprì gli occhi e si ritrovò
di fronte Della Corte, che si sporgeva verso di lei per osservarla con i suoi
pungenti occhi azzurri.
- Che c’è?-
gracchiò, strofinandosi le palpebre. L’altra aggrottò le sopracciglia e si
allontanò di colpo.
- Siamo
arrivati-
- Dove sono
Carmen e Ivan?-
- La Morra li ha chiamati, hanno
avuto… dei problemi con i loro bagagli a mano- la freddò, con una voce neutra e
a tratti spezzata da una lieve incertezza. La rossa annuì e, ancora intontita
dal sonno, si sganciò la cintura.
- Aspetta…
siamo in Italia?- domandò poi curiosa e anche un po’ delusa. Roberta roteò gli
occhi, con fare spazientito.
- A Roma.
Muoviti o perderemo il pullman – sentenziò, lasciandosi cadere sul sedile di
fianco a quello di Chiara. Si guardò intorno, quasi tutta la classe era scesa
verso l’aeroporto, fra i corridoi della terza classe si vedevano solo pochi
turisti e hostess vestite di rosso. La riccia stette in silenzio mentre la
compagna tirava giù dagli scompartimenti la sua sacca di stoffa consunta, torturandosi
le labbra pallide con i denti. A vederla così pensierosa, Chiara pensò bene di
spronarla a parlare, sebbene sapesse fosse una cosa inutile.
- Va tutto
bene? Jet lag?-
Il suo tono
era quasi premuroso. Roberta sembrò sorprendersi del fatto che si stesse
riferendo proprio a lei.
- Pensavo che
è stata proprio una bella settimana- disse solo, sorridendo in modo
enigmatico, per poi avviarsi verso il portellone di uscita dell’aereo.
Sbucarono nell’aria di una tarda serata italiana, con la luna che campeggiava
bianca nel cielo azzurro e le prime luci della lontana città che si
proiettavano come un miraggio favoloso ai loro occhi sfiniti.
Il pullman che
li avrebbe riportati a casa li aspettava proprio fuori l’aeroporto, dove un via
vai di gente con le valigie riempiva di scalpiccii l’atmosfera. Chiara vi salì
sopra e si accasciò su primo sedile libero, mentre una strana malinconia
cominciò a gravarle sul cuore. A fianco a lei, Sabrina muoveva la testa a ritmo
di musica, con le cuffie nelle orecchie , e dal finestrino Roma agitava i suoi
paesaggi contro il vetro.
“E’ stata
proprio una bella settimana” si ripeté la rossa, adattando quella frase al suo timbro di
voce, così diverso da quello di Della Corte. Peccato che con Vienna lei
avesse dovuto lasciare anche lavera Roberta.
-
Qualche ora
dopo il loro pullman aveva imboccato l’uscita dell’autostrada che portava
direttamente al centro del loro paesino. Erano saliti di quota, lo si poteva
intuire dell’aria fredda che sferzava il loro volti dal finestrino del
conducente. Ai bordi dei campi ancora c’era la neve di qualche settimana prima
e dal cielo scendeva una leggera pioggerella. Fu al tramonto che finalmente
la II E scese
stremata sulla via del Corso e recuperò i suoi bagagli, mentre all’angolo si
intravedeva già una piccola folla di parenti. Spinse sulle ruote la sua valigia
verde mela e, con i capelli rossi stretti in una treccia, Chiara intravide sua
madre mentre parlava con la zia di Carmen. Roberta, casualmente, le passò
accanto e nella foga di andarsene la spintonò. Le sorrise frettolosamente, per
poi sparire fra le braccia di suo padre, un uomo grassoccio e con la faccia da
bonaccione.
Si sentiva
disorientata e accelerò il passo per raggiungere Margaret,
ma qualcosa la indusse a fermarsi di botto. Ivan, che era proprio dietro di
lei, la guardò perplesso. Poi capì.
- Lo dicevo
io, che c’era qualche ragazzo- brontolò compiaciuto, accennando alla figura
bionda di Riccardo, appoggiata poco distante ad un muro. Chiara si sentì ancora
più debole e spossata, realizzando che lui era proprio lì. Lo vide avvicinarsi,
piano e sicuro, con il suo solito cappello di lana azzurro e i lineamenti
irrigiditi dal freddo. Quando le fu abbastanza vicino non disse nulla, si
limitò a guardarla con quegli disarmanti occhi chiari. Si osservarono per una
frazione di secondo, come a tastare se davvero le cose fossero cambiate. Erano
cambiate? Riccardo l’aveva mai guardata con tanta intensità?
- Ciao-
cominciò quello, esitante. Ma poi si gettò completamente fra le braccia della
ragazza, stringendola così forte da farle dimenticare dove si trovava.
- Riky- mugolò Chiara, strofinando il naso infreddolito sul
collo di pelliccia della sua giacca. Le era mancato, cavolo se il suo migliore
amico le era mancato. Riccardo le passo una mano fra la
frangia scarlatta, andandole a posare un bacio proprio dove la pelle era
coperta da quel ciuffo. Non faceva più poi così tanto freddo.
- Finalmente…-
sospirò il ragazzo, staccandosi per un attimo da lei. Avevano bisogno di
respirare per rimanere lucidi.
- Mi sei
mancato- bisbigliò la rossa, arricciando in modo adorabile le labbra. L’altro
scoppiò a ridere sommessamente, un po’ per dissimulare l’imbarazzo e un po’
perché aveva bisogno di dare sfogo alla sua improvvisa felicità. Le posò una
mano sul braccio, stringendolo piano.
- Tu non sai
quanto- continuò, mentre distrattamente passava le dita fra le ciocche della
scompigliata treccia dell’amica.
Quella sorrise
di nuovo, sentendo qualcosa muoversi nel profondo del suo stomaco.
Una
parvenza di pace mista a torpore, simile solo alla sensazione di caldo
confortevole che emanavano le coperte verso le sei e mezzo del mattino.
- Allora come
stai? Devi raccontarmi tutto!- Riccardo l’agguantò delicatamente per un
braccio e le prese la sacca, per poi caricarsela in spalla con nonchalance. Chiara sussurrò un grazie, con un sorriso che di
sicuro doveva essere sproporzionato al suo viso. Quando arrivarono all’angolo,
chiacchierando, Margaret si fece avanti, smettendo di
parlare con una donna corpulenta.
- Chiara! Oh, dear!- esclamò, con fare leggermente teatrale. Che fosse
davvero così felice di rivederla? L’abbracciò frettolosamente, si sentiva un
po’ a disagio fra le braccia di sua madre, dopo essere stata cinta con tanta
irruenza da Riccardo. La donna dai capelli ramati sembrò accorgersi solo in
quel momento della presenza del ragazzo.
- Ah,
Riccardo… Vedo che hai già preso i bagagli. Che gentiluomo-mormorò concitata, stringendosi nel cappotto,
e fissando il biondo negli occhi. Quello abbassò di poco lo sguardo, con fare
remissivo e imbarazzato. Era incredibile come lo sguardo di Margaret
gli ricordasse quello acuto e indagatore della sua migliore amica. La ragazza
sentì sua madre darle una pacca amichevole sulla schiena e suggerirle di
tornare a piedi con il suo amico, visto
che doveva andare a prendere suo padre in ufficio per un imprevisto. Non le
sfuggì il singolare tono con cui pronunciò la parola amico. Come a dirle “so
tutto, tesoro”.
Si sentì
colta nel sacco e per di più dalla persona più distratta della sua vita.
Arrossì vistosamente e seguì lungo il corso l’ombra che proiettava la figura
prominente di Riccardo. Casa sua era una delle villette che si trovavano
subito dopo il parco con il chiosco che di solito frequentavano, costruzioni
tutte uguali con un piccolo giardinetto prima dell’ingresso. Passarono vicino
alla libreria dove Chiara lavorava in estate e dalla piccola vetrina appannata
vide Giovanna farle un saluto frettoloso, mentre cercava di sistemare i libri
sui diversi scaffali.
- Con chi hai
dormito in stanza?- le domandò curioso l’amico. Cercò di rispondergli, ma i
suoi occhi erano irrimediabilmente attirati dai libri. Scosse la testa con aria
di insofferenza.
- Ho
convissuto con Della Corte per tutta la settimana- disse in risposta,
assorta. Pensò a Roberta, senza ragione, e si chiese dove mai potesse
essere in quel momento. Probabilmente nella sua casa perfetta, con i suoi amici
perfetti, i capelli perfetti e un livido sul braccio a ricordarle che qualcosa
nella vita deve pur andare storto. La fioca sensazione di pace che le aveva
infuso la presenza di Riccardo era improvvisamente sfumata in qualcosa di più
deciso, uno spiraglio irruente di natura poco identificabile.
- Roberta
Della Corte? Chi, una di quelle ochette di cui di tanto in tanto mi parli!?-
- Esatto, è
stato strano…- continuò la rossa, marcando bene l’ultima parola. Strano.
Un’altra contrazione delle viscere.
- Davvero?
Beh, immagino…-
- … non
ci siamo nemmeno uccise a vicenda dopo un quarto d’ora da sole nella stessa
stanza, pensa-
- Si e magari
diventare anche amiche!-
Riccardo
scoppiò a ridere, una risata prorompente, quasi violenta. A Chiara però parve
più vera di ciò aveva vissuto fino a quel momento. Rideva perché era
impossibile, perché Roberta era una stronza senza
cuore e lei soltanto una rossa mezza cotta del suo migliore amico. Rabbrividì,
forse per il freddo o forse per l’ineluttabilità di quel pensiero. Riky le
passò un braccio intorno alle spalle e la strinse forte, con decisione.
Camminarono verso casa sua, senza dirsi niente, col rumore dei passi sull’asfalto
che gli ricordava di tanto in tanto la realtà delle cose. Curioso come invece
nelle loro teste infuriasse il caos più rumoroso.
Capitolo undici: Il confine della solitudine è un tè caldo
Quella mattina, mentre Chiara usciva
dalla libreria del Corso, era particolarmente uggiosa. Il cielo, tanto plumbeo
da far accapponare la pelle, si ergeva come una distesa greve e polverosa,
macchiata di tanto in tanto da guizzi folgoranti. Faceva freddo, così si
strinse di più nel giaccone e affondò le mani nelle tasche, camminando con la
testa leggermente china sotto il peso dello zaino. Decise di fare
un’altra strada per arrivare al liceo, quella che usciva dal centro e passava
per il condominio dove abitava Carmen. Minacciava pioggia e Chiara
camminava spedita, con un cipiglio infastidito. Quella mattina si sentiva
stranamente inquieta. Forse perché doveva rientrare a scuola
dopo il week-end passato a casa a riposarsi, per riprendersi dal quasi
inesistente sbalzo di temperatura e riacquistare familiarità con la sua vita
quotidiana. Non certo perché era curiosa di rivedere Roberta Della
Corte, no. Suonò frettolosamente al citofono e si
appoggiò al muretto vicino, aspettando di vedersi comparire davanti Carmen.
- Hai una faccia pallida- così la salutò quella, sorridendo
mestamente. Evidentemente nemmeno a lei andava di tornare a stare dietro al
banco con gli occhi della Manzi che la fissavano
malignamente, come una civetta.
- La mia
faccia è sempre la stessa- mugugnò la rossa,
calpestando un mucchietto di fango che si era depositato ai bordi del
marciapiede. La neve era quasi scomparsa, ma il suo gelo aleggiava come un
fantasma fra le loro ossa. Carmen non demorse, era
abbastanza usuale trovarla in quello stato, scontrosa, acida e
misantropica.
- Che vitalità… ieri ho visto che tornavi a casa con
Riccardo…-
Tentò un
approccio amichevole, vedendola così restia a parlare. Non c’era malizia nella
sua voce, solo l’invadente curiosità che caratterizzava ogni migliore amica.
- Si infatti, mi ha aiutato a portare le valigie…-
Chiara
cominciò a pentirsi di averla chiamata per fare la
strada insieme. Non voleva parlare con nessuno, senza un motivo preciso. Voleva
solo stare in silenzio e sentire che c’era qualcuno vicino a lei.
- Va tutto
bene?-
Non rispose,
disse solo che aveva bisogno di un abbraccio. Carmen sembrò sorprendersi, erano
così rari i momenti in cui l’amica si lasciava andare a manifestazioni
d’affetto con qualcuno che non fosse Riccardo. L’abbracciò e sentì i suoi
capelli mossi sfiorarle il collo, mentre la città ancora taceva, nonostante
fossero già le sette e mezzo del mattino.
Quando entrò
in classe Chiara notò che tutti avevano la stessa espressione di insofferenza stampata sui visi assonnati. Si accasciò sul
banco, togliendosi il cappello di lana e gettandosi lo zaino ai piedi. Sabrina
la raggiunse poco dopo, silenziosa e abbacchiata, e la salutò sommessamente,
mentre anche Vanessa e Roberta prendevano posto più in
là. Non degnò la rossa di uno sguardo, si aggiustò i capelli ricci e
cominciò a chiacchierare rumorosamente con la compagna di banco.
Chiara si
trovò a fissare stizzita il loro banco, infastidita dal sorriso di Della Corte,
dalla sua allegria e dalla sua risata cristallina.
“Sta bene”
pensò amaramente. Qualcosa le si mosse nello stomaco,
forse invidia, forse rabbia ingiustificata. Forse
perché si era aspettata di vederla con la stessa espressione vuota di quella
sera in albergo. Il fatto che non fosse così sembrò sorprenderla ed
inquietarla al tempo stesso. Era come se avesse bisogno di vederla star male,
sentire che Roberta aveva bisogno di qualcuno. Di lei.
Persino gli
insegnanti sembravano ancora rinchiusi nella bolla di tepore e divertimento che
li aveva accolti a Vienna. Sabrina era impaziente, chiedeva l’ora a Michele
ogni dieci minuti e ticchettava con la penna sul bordo del banco. Chiara poteva
sentire i secondi passare sulla sua pelle e lasciare una tenue scia di attesa.
-Non voglio
vedervi così rilassati! Oggi è ancora il quindici marzo, manca molto alla fine
dell’anno perché voi vi lasciate andare. Certi poi non dovrebbero nemmeno
pensarci, vista la loro disastrosa media- strepitò la Morra, battendo un colpetto sulla
cattedra, in attesa che finisse l’ultima ora. Roberta
non si liberò del suo ghigno altezzoso nemmeno quando
la professoressa ammiccò a lei, con un tono a metà fra il penoso e
l’irato. Probabilmente era conscia del suo povero rendimento scolastico,
ma questo, da fuori, non sembrava importarle più di tanto.
All’uscita la
pioggia ancora batteva sui vetri sporchi delle auto del parcheggio di fronte, scrostava la ruggine dei cancelli e inumidiva i
passanti fino al midollo. Carmen e Chiara uscirono per ultime,
lentamente, rintanate nei loro ombrelli monocromatici.
-Perché?- domandò improvvisamente la più
alta, parlando fra se, mentre attraversavano la strada trafficata per dirigersi
a casa.
- Perché cosa?-
La rossa era seccata, si passava continuamente una mano fra le
ciocche della frangia laterale.
-Perché
oggi sei così silenziosa?-
- Io sono
sempre silenziosa.- La premura del tono della sua amica la urtò ancora di più,
senza motivo.
- Ma oggi è diverso. Quando stai in silenzio di solito sorridi…- continuò Carmen, visibilmente scossa. –
Voglio sapere che ti succede.-
L’altra
sospirò, silenziosamente, perdendo la sua voce nel tramestio delle foglie che
stava calpestando.
-Non lo so,
semplicemente il mondo oggi mi da più fastidio del solito-
La mora annuì,
aggrottando le sopracciglia. Non aveva afferrato il concetto, Chiara era troppo
complicata nel suoi giorni no per essere capita al
volo.
Arrivarono al
cancello verde che delimitava il giardinetto di casa Torri, animato solo dallo
sgorgare di rigagnoli d’acqua fra le pieghe del terriccio. La ragazza
lentigginosa fece per entrare, quando dal marciapiede sentì la voce di Carmen
chiamarla.
-Tua madre è
di turno in ospedale oggi, no? Sei sola…-
-Sono sempre sola-
La verità di quelle parole le piombò
addosso come una cappa di ferro. I suoi genitori lavoravano
tutto il giorno, con il loro ritmo di vita frenetico la tagliavano fuori
come un pezzo di carta spiegazzato. Suo padre se ne stava rintanato
nell’ufficio della loro azienda vinicola, sua madre invece correva da qualche
parte in ospedale, nelle sue mani fasciate di lattice la vita di un bambino, di
un anziano, di un uomo.
Stare
da sola era la cosa che forse sapeva fare meglio. Studiava, certo, ma studiava sempre da sola. Leggeva, ma senza mai qualcuno che osservasse l’adorabile piega che prendevano le sue labbra
quando erano immerse fra le pagine. Nessuno aveva mai valicato il confine fra
lei e la sua solitudine.
-Posso entrare
dentro a prendere un tè?-
Chiara acconsentì,
con un cenno debole del capo. Si adagiarono mollemente sulla panca di legno che
costeggiava il tavolo della cucina, mentre l’aroma di bergamotto riscaldava
l’aria e alleggeriva l’anima. Il pranzo che sua madre le aveva lasciato giaceva nel forno, dimenticato.
Carmen e
Chiara erano amiche dalle elementari e stare ad osservarsi per loro era molto
più intimo del chiacchierare come futili conoscenti. Si erano incontrate in un
giorno di pioggia, come quello. Chiara se ne stava seduta sui gradini della
scuola, con lo zaino rosa adagiato fra le ginocchia infreddolite, nell’attesa
che qualcuno venisse a prenderla. Carmen l’aveva
osservata per un po’ da lontano, senza motivo. Poi, non avendo altro da fare, le si era avvicinata. Nemmeno i suoi c’erano. In quel
momento, mentre bevevano il tè bollente in silenzio,
guardando il pavimento, capirono che non c’è miglior
amico al mondo di chi accetta di far parte della nostra vita da lontano, in un
giorno di pioggia in cui tutti corrono per mettersi al riparo dal destino.
Roberta non le
aveva rivolto la parola nemmeno nella settimana successiva,
tutto era tornato alla piatta routine. I libri di Chiara finivano
ammucchiati lungo le pareti della sua stanza, senza che lei avesse il tempo di
leggerli, immersa fino alle orecchie di compiti. Casa sua era sempre vuota,
fredda fino alle sei del pomeriggio, quando una parvenza di normalità in quella
famiglia entrava dalla porta e poggiava la sua ventiquattrore sul pavimento
dell’ingresso.
- Com’è
andata a scuola oggi, piccola?- le chiese suo padre, una
venerdì sera.
Chiara gracchiò qualcosa riguardo al
voto della sua ultima versione di greco, mentre addentava un broccolo.
L’uomo brontolò compiaciuto, quando la figlia le comunicò un altro otto.
- Siamo molto
contenti del tuo profitto scolastico- le sorrise sua madre – brava proprio come Benedetta-
Quel paragone
le fece salire in gola uno strano nervosismo. Sua sorella era sempre stata la
migliore a scuola, ma a differenza di Chiara era molto più abile nel gestire la
sua vita privata. Era solare, giocosa, socievole e per questo al liceo era
stata molto apprezzata e conosciuta.
Avevano caratteri molto diversi, con in comune solo la passione per la lettura e per il
freddo.
- Quindi
stavamo riprendendo in considerazione l’idea di farti iscrivere a quello sport
che ti piace tanto…- ricominciò esitante Matteo,
rimestando il contenuto del suo piatto rumorosamente.
- Mi date il permesso di iscrivermi al corso di kickboxing!?- urlò raggiante la
ragazza, lasciando immediatamente cadere le posate sul tavolo. I suoi genitori
fecero una smorfia d’insofferenza. Nonostante non approvassero uno sport tantotostoper una deboluccia come la loro
bambina, erano concordi nel dire che se lo meritasse.
Quella sera,
prima di addormentarsi, sorrise nel buio, pensando a quella volta in cui aveva
guardato il cielo grigiastro e minaccioso che piombava su di loro il giorno in
cui Benedetta doveva partire per Perugia.
- Ma c’è nebbia, sicura di poter guidare?- le aveva chiesto,
premurosa come lo era stata con pochi.
Sua sorella di certo non si era
accorta di quanto affetto silenzioso aveva messo in quelle parole. Le piaceva
amare le persone da lontano, senza sconvolgere la loro vita, senza pretendere
nemmeno lo spazio fra un caffè e un capitolo da
studiare.
Guardarle
mentre camminavano per la strada o mentre ridevano e trasmettere amore solo con
un’occhiata di sfuggita. Aspettando nella terra di nessuno, in
attesa che avessero bisogno di lei, in attesa di ascoltare le loro paturnie, di
concedere qualche abbraccio magari. Le piaceva l’idea di dare alle persone una
forma di affetto tutta sua, fissa e immutabile.
- Ci sono le luci in autostrada,
Chiara… E poi Perugia non è lontana-
Benedetta le aveva sorriso,
disarmata dal viso da ragazzina di sua sorella. Si abbracciarono, piano. Durò
poco, ma era come una promessa. Non c’era bisogno di
stringersi forte, sarebbe tornata il prima possibile. Come accade spesso prima di addormentarsi, a Chiara venne da
pensare alla sua vita. Al suo passato, al suo
presente, al suo futuro. C’erano persone che avevano fatto parte del suo
passato, alcune che facevano parte del suo presente, ma del futuro Chiara non
conosceva nulla. Se lo figurava come una nebulosa violacea irraggiungibile,
sapeva solo che, anche se avesse voluto, non c’era spazio per una come Roberta. Non voleva che il proprio piccolo
universo, fatto di cose stabili e tangibili, venisse
sconvolto dalla sua nervosa, affascinante incostanza.
Chiara si guardò velocemente allo
specchio attaccato sul retro della porta della sua stanza. Osservò con
disappunto che quella tuta le andava leggermente stretta e che la canottiera gialla
stonava terribilmente con i suoi capelli. L’orologio a muro della cucina
segnava le sei e mezzo quando uscì di casa con la
borsa della palestra in spalla, camminando velocemente per paura di arrivare in
ritardo alla sua prima lezione di kick-boxing. Era
stranamente eccitata, con tutto lo studio che prevedeva il liceo classico aveva
abbandonato ormai da anni l’idea di poter fare sport e l’improvviso cambiamento
d’idea dei suoi genitori l’aveva piacevolmente sorpresa. Faceva freddo quella sera e il cielo era blu polvere già da un
pezzo. La palestra si trovava qualche isolato più a nord di casa sua, distava
circa cinque minuti a piedi, ma a Chiara sembrò passare un’eternità. Sentiva
già il tessuto spugnoso dei guantoni avvolgerle le dita ,
quando, prima di entrare nel piccolo edificio, notò una figura femminile che
aspettava appoggiata al cancello d’ingresso. Roberta Della Corte stava
addossata all’inferriata, con una sigaretta in mano ed un borsone blu ai suoi
piedi. La rossa sentì la rabbia ribollirle dentro silenziosamente, era come se
l’unico momento perfetto della sua vita le fosse appena stato tolto
bruscamente. Quasi ringhiò, mentre abbassava il viso per entrare nell’edificio
senza incrociare i suoi occhi azzurri, intenzionata ad ignorarla.
- Anche tu qui?-
La voce di
Roberta sembrava terribilmente vicina, come se si fosse annidata nelle sue
orecchie. Aveva un tono pacato, impastato dal fumo.
-
Evidentemente.-
Chiara si girò
e allargò le braccia con fare ironico, gettandosi la borsa ai piedi. Faceva
dannatamente freddo e lei se ne stava lì a chiacchierare con
quella, perfetto! Vide un ghigno farsi strada
fra le labbra perfettamente rosse di Della Corte, deformandole grottescamente
il viso delicato.
- Fammi
indovinare… Danza?- ridacchiò l’altra amaramente, passandosi un dito sulle
sopracciglia sottili. Il cielo era scuro sopra di loro, le nubi grigie
vorticavano sopra le loro teste, minacciose. Non si
poteva dire quale spettacolo fosse più inquietante.
- Kickboxing- la corresse scocciata Chiara, sposandosi una ciocca rossa che
le era finita sugli occhi. Roberta allargò le pupille per un impercettibile
secondo. La sua bocca si aprì leggermente, mentre il mozzicone fumava fra le
sue dita. Poi scoppiò a ridere sommessamente, una piccola risatina spontanea
che contrastava nettamente con la sua apparenza scontrosa.
- Io ho appena
finito di prendere a pugni il sacco… Immagino tu sia
nuova, non ti ho mai vista qui-
Pronunciando
quella frase la guardò per un attimo negli occhi scuri, cercando una conferma. Quando Chiara annuì, piegò un angolo della bocca in qualcosa di simile ad un sorriso. Aprì la porta che
le separava dal torpore della palestra e le intimò di seguirla per mostrarle
gli spogliatoi.
La rossa
camminò stizzita nell’ingresso, salutando appena la donna di mezza età che se
ne stava placidamente seduta dietro ad un bancone, troppo occupata a
focalizzare la situazione.
“Perché ora ci parliamo?” Quella domanda le venne così
naturale che per poco non se la fece scappare dalle labbra. Si limitò a sedersi
su una delle panche di legno dello spogliatoio
femminile e ad appendere ad un gancio di ferro il suo cappotto bluastro. Con la
coda dell’occhio vide Roberta aggiustarsi i capelli e controllare il trucco in
un piccolo specchio adiacente al bagno, assorta.
-
Che ci facevi là fuori?-
Probabilmente
fu il fatto di essersi parlate in modo quasi civile che la fece sentire
autorizzata a riattaccare conversazione.
- Aspettavo mia madre, non mi andava di tornarmene con questo
freddo- mormorò atona, andandosi a sedere su una panca di fronte a lei e
portandosi il borsone fra le ginocchia. La tensione era percepibile in ogni
centimetro cubo di aria, soffocava le narici di Chiara
lasciandola quasi frastornata. Come era finita nello
stesso posto di Della Corte? Come aveva fatto a scegliere proprio la palestra
in cui si allenava nel turno precedente al suo? Aggrottò le sopracciglia,
quando riuscì ad immaginarsi Roberta con i guantoni che picchiava
un sacco di sabbia. Decisamente non era uno sport che
si addiceva ad una come lei. Vedendola lì fuori, avrebbe scommesso qualunque
cosa sul fatto che fosse lì per caso o al massimo per il corso di danza. Ancora
sotto shock, si accorse che le loro parole erano morte nell’esatto istante in
lei cui aveva sottratto i suoi occhi allo sguardo della riccia.
-
Perché fai così?-
I capelli di
Roberta ondeggiarono, mentre cercava le parole per rispondere. Alzò le
spalle, noncurante, come a dire “io faccio
tutto ciò che voglio”.
- Così come?-
Poi corrugò la fronte diafana, cominciando a torturarsi una ciocca di capelli
scuri.
- Non mi parli
per tutta la settimana e poi appari all’improvviso,
quando meno me lo aspetto…- Chiara aveva un tono assorto. Le aveva dato un enorme fastidio, quella settimana. Di certo non si
era aspettata che dopo la gita a Vienna sarebbero
diventate amiche, ma nemmeno che l’avrebbe ignorata così spudoratamente.
- Nemmeno tu
mi hai parlato per tutta la settimana- sviò l’altra,
con una scrollata di spalle. La sua faccia tosta era
davvero irritante.
La rossa abbassò
di colpo un sopracciglio, pensierosa. In effetti
nemmeno lei aveva fatto particolari sforzi per preservare quell’abbozzo
di rapporto che era nato in quella settimana.
- Beh...
Tu parlottavi sempre con loro, ridacchiavi! Non
volevo… Oh cielo, non so come dirtelo… Non volevo disturbarti- mormorò
sconnessamente, facendosi leggermente rossa sulla punta delle orecchie.
Roberta sembrò illuminarsi, in una risatina divertita. La sua risata
divenne mano a mano più forte, fino a coinvolgere
involontariamente anche l’altra. Si guardarono per un attimo negli occhi,
sorprese di come si fossero trovate in quella
situazione. Chiara sospirò, chiudendo gli occhi. Quando
li riaprì la riccia era ancora seduta di fronte a lei, immobile, a fissare un
punto indefinito oltre la sua testa.
- Credo
che… sia meglio che io vada, la lezione comincia fra cinque minuti- disse esitante, sfilandosi anche la felpa e rimanendo a
braccia scoperte. Roberta annuì, fece per alzarsi, ma poi ricadde debolmente
sulla panca, come un burattino a cui sono stati
improvvisamente tagliati i fili.
- Allora… ci
si vede in giro- sogghignò, piegando un angolo
della bocca in un piccolo sorriso.
- Ciao-
Chiara uscì fuori dallo spogliatoio e si accostò a degli attrezzi dalla
forma strana, fa cui si intravedeva anche un grande sacco da boxe. Sentì già la
dura sabbia spaccarle le nocche, ma questo pensiero
non la spaventò minimamente.
Si sentì come
l’assassino di fronte alla vittima disarmata, colto da un’improvvisa ondata di eccitazione malsana. Non ricordava precisamente che forma
avesse un cuore umano, mentre sentiva il suo battere.
In quel momento lo immaginò solo come un sacco rosso pieno di sabbia, con
qualcuno che lo colpiva ripetutamente. In fondo era così che funzionava ,no? Il cuore batte per qualcuno e poco importa se quel
qualcuno lo picchia brutalmente.
Ghignò a sua
volta, come aveva fatto Roberta. Ora era pronta a prendere a pugni qualcosa.
Due giorni
dopo la festa di San Patrizio, prima che Chiara andasse a dormire, sua madre
irruppe in camera sua con in mano il cordless rosso, mentre quella cercava di fare centro con
una lattina nel cestino vicino alla scrivania.
-
Che vuoi, ma’?- borbottò sgarbatamente, accigliata
nel vedere che non aveva la stessa mira di MichaelJordan. Margaretle passo
silenziosamente il telefono e fece per andarsene, leggermente infastidita dalla
concezione di ordine di Chiara. Il libro di chimica giaceva abbandonato sul
pavimento, mentre la scrivania era totalmente coperta di carta straccia.
- C’è
Benedetta al telefono- le disse, mentre usciva per
dirigersi al piano inferiore. La rossa scese repentinamente dal letto e
recuperò il cordless. Poi si lasciò di nuovo cadere
fra i cuscini colorati e accostò l’apparecchio all’orecchio, respirando
affannosamente per lo sforzo.
- Piccola…
come va?- proruppe la voce acuta di sua sorella, incrinata dal disturbo della
linea telefonica. Erano quasi cinque giorni che non chiamava, per Chiara fu un
sollievo risentirla parlare allegramente.
- Mah, ho
ancora chimica da studiare, sono la peggiore del corso di kickboxing e Sabrina è arrabbiata con me perché hoaccidentalmentemacchiato la sua sciarpa con i teschi…
Non potrebbe andare meglio- mugugnò rassegnata,
torturandosi una ciocca di capelli. Sentì Benedetta ridere allegramente. Se fosse stata lì vicino a lei, avrebbe di sicuro
riconosciuto le due fossette agli angoli delle labbra che si formavano ogni
qualvolta sorrideva.
- Mi fa
piacere che va tutto bene… Non essere sempre così ottimista, eh!- la prese in
giro. Chiara ghignò, cercando una risposta adeguatamente sarcastica.
- Come te la
passi?- si limitò poi a domandare, fissando distrattamente il soffitto.
- Come al solito, Chià. Sicura che il
problema sia solo la chimica? Non è che c’entra… com’è che si chiamava!? Riccardo?-
La rossa
sbuffò sonoramente, la situazione con Riccardo era stazionaria, ma non sembrava
influire più di tanto sul suo umore mutevole. Almeno non quanto la misteriosa Della
Corte. Imprecò mentalmente rendendosi conto di aver appena ammesso che quella era spesso-
troppo spesso!- nei suoi pensieri.
Era forse
quello a darle fastidio?
- No è che… c’è una mia compagna di classe…- sbuffò, per poi
raccontarle tutta la vicenda: le notti in albergo, il livido, la discoteca, le
lacrime e ,mano a mano andava che avanti, rivedeva quelle scene vivere nei suoi
occhi.
-E’ strana questa Roberta, non credi?- buttò lì Benedetta che, evidentemente stanca del suo
soliloquio contorto, decise di intervenire prima che esplodesse.
- Già…-
- Piuttosto come mai hai così tanto interesse nel diventare sua amica quando ricordo
che fino a qualche mese fa la includevi fra le “ochette senza cervello”?-
Chiara quasi si
strozzò con la sua stessa saliva. Interesse? Assolutamente no!
-Interesse? Assolutamente no!- si fece
eco, con la voce stridula di quando diceva una mezza
bugia.
- Ti conosco, Chiaretta, quando dici che una persona è “strambae bipolare da far paura , insomma perché
si comporta in questo modo!?” vuol dire che non ti è indifferente. Qualcuno
per attirare la tua attenzione deve essere criptico e lei lo è! Le persone
banali e costanti non ti piacciono, non contraddire tua sorella, lo sia che ho ragione! Evidentemente Roberta ha più cervello di
quello che pensavi- rise la più grande.
- Tu dici?- disse
con filo di voce la rossa, raggomitolandosi sul letto.
- Si, quindi vedi di diventarle amica…
che ti importa di ciò che pensano Vanessa e le altre
piccole vipere? Sei quasi alla fine del quarto anno, fra poco non le vedrai
nemmeno più!- la esortò calorosamente Benedetta. –Se
io avessi l’opportunità di tornare almeno per un giorno al liceo
cercherei di recuperare l’amicizia di qualche compagno con cui non ho mai avuto
il coraggio di avere rapporti per paura del giudizio degli altri…- continuò.
-Tu? Paura del giudizio degli altri? Ma se eri una delle più benvolute sia dai prof sia da
compagni!- esclamò sorpresa l’altra.
- Si, io. Ricordi Giovanna Fabbrizzi, la biondina che tutti credevano essere matta da
legare per la sua ossessione di dipingere gatti? Beh, ora ha aperto uno studio
a Firenze e sembra sia anche parecchio apprezzata, ma ai miei tempi non ebbi
mai il coraggio di farmi vedere a parlare con lei
nonostante sia una delle persone più incomprese e geniali che abbia mai
conosciuto- spiegò Benedetta, in tono malinconico.
- Okay, okay, niente malinconia… ci proverò- sospirò Chiara. Poi il discorso sviò sui risultati
degli ultimi esami di diritto romano di Benedetta e le
chiacchiere diventarono più futili e leggere.
Quando chiuse la chiamata era oramai quasi
notte e il cielo di marzo oscurava tetramente la finestra che dava sulla
strada.
Maledicendo
il professore di chimica e la sua inattitudine a quella materia, Chiara si
rimise a studiare, finché non cadde in un sonno profondo e senza sogni.
Chiara spinse insistentemente il dito
sul pulsante della macchinetta del caffè. Sbuffò
irritata, maledicendo quell’inutile aggeggio e,
vedendo che la tazza tardava a riempirsi, tirò fuori da
frigorifero una bottiglia di latte.
-Chiara! Che maniere!- urlò Margaret dall’altra
parte del bancone, mentre osservava sua figlia che trangugiava stizzita la
colazione. Quella borbottò qualcosa che si perse fra i pezzetti di
biscotti che stava masticando, senza prestarle davvero attenzione. Cominciò a
girare nervosamente per tutto il perimetro della cucina, torturandosi con la
mano libera il bordo del maglioncino. Quella non era una mattina come le altre, il pensiero del compito di
matematica la spaventava a morte. Tutti quei numeri, quei
segni e simboli le creavano una tale confusione in testa da farle dimenticare
le nozioni teoriche che aveva prontamente studiato. Sentiva i suoi passi
rimbombare sul marmo, con un tocco sordo.
- Andrà tutto bene, mi meraviglio di come una materia riesca a
farti quest’effetto- mormorò sua madre, dandole in
contro con il suo zainetto. Chiara lo afferrò, si lasciò baciare e la seguì con
lo sguardo mentre spariva oltre i finestrini della sua
auto scura.
Lasciò cadere
la tazza nel lavello e si diresse nel giardino, camminando lentamente. Il
cellulare le squillò in tasca e, quando lesse il nome del mittente, sentì un
leggero brivido di freddo correrle su per la colonna vertebrale. “Oggi compito di mate?” recitava il
messaggio di Riccardo. “Ergo, suicidio
assicurato” rispose, mordendosi le labbra e chiudendosi dietro il
cancello mentre usciva in strada. “Esagerati
voi del classico! Se sei a casa aspettami, sto passando!”
Leggendo
l’ultimo sms, la rossa sentì una stretta lancinante
allo stomaco. Roteò gli occhi, ora ci si metteva anche
il suo corpo!
Si accorse di tremare, brividi sempre più
lunghi e penetranti. Non c’era da preoccuparsi, di certo quel nervosismo era dovuto al fatto che quella mattina non aveva bevuto caffè. Una persona in media è nervosa per un eccesso di
caffeina, ma,come a Chiara piaceva definirsi, lei era
l’eccezione che confermava la regola. Si appoggiò al muretto di casa sua,
sentendo il caldo dileguarsi dalle sue membra e il
respiro farsi più corto. Riccardo arrivò dopo pochi
minuti, camminando tranquillamente lungo il marciapiede, con lo sguardo che
mirava oltre la schiera di villette.
La stradina era pressoché deserta, un anziano vicino stava annaffiando
le piante del suo giardinetto inglese.
- Hai il viso gelato- disse apprensivo, passandole le nocche
sulle guance. Chiara non poté fare a meno di sorridere imbarazzata,
stringendo con una mano la spallina dello zaino. Quelle attenzioni da parte del
suo migliore amico stavano facendo nascere in lei il sospetto che lui si fosse preso una bella cotta per lei. Forse Sabrina aveva
ragione.
- Fa proprio
freddo…- brontolò, abbassando lo sguardo. Si abbracciarono lentamente, senza
fretta e senza dir nulla. Poi si avviarono verso il corso principale della
città e Chiara ebbe la crescente impressione che Riccardo la stesse
fissando.
- Allora? A
cosa pensi?- gli chiese la rossa, sospettosa.
Lui smise di
fissarsi le converse nere e puntò gli occhi nocciola nei suoi. Sempre
attraversati da quel velo di imbarazzo. Chiara lo
trovò molto dolce e, segretamente, sorrise.
- Nah, a
nulla. Sai che Monica ha trovato un altro ragazzo? E’ stata
veloce- tirò su col naso e scalciò via un sassolino dal viottolo.
- Dici sul serio? Andiamo…
pensavo l’avessi dimenticata oramai- sbuffò Chiara. Era quello il
difetto di Riccardo. Quando le cose cominciavano a farsi un po’ più chiare per
lei, convincendola che fra di loro ci fosse qualcosa,
ecco che lui se ne usciva con quelle frasi malinconiche sulla sua ultima
fidanzata.
- Ma si che
l’ho dimenticata, è che ci sono rimasto male, tutto qui. Lo sai che l’ho amata
davvero- mormorò il ragazzo, mesto.
- Lei non si è fatta scrupoli a
lasciarti da un giorno all’altro, sei patetico, smettila di
rimuginare- disse duramente, girando il viso per nascondere la
delusione. Riccardo alzò gli occhi e li assottigliò, ferito.
- Ma che cos’hai?-
esclamò, accelerando il passo.
Chiara sospirò e si sforzò di essere gentile.
- Parli sempre di Monica
quando… oh, lascia stare- sospirò, stringendosi nel giubbotto. Riccardo le
bloccò il mento fra le dita e la fisso dubbioso.
- C’è qualche problema?- domandò
cauto. Chiara si allontanò, in un improvviso scatto di stizza. I ragazzi non
avevano un minimo di intuito.
- Nulla, scusa Riky,
lo sai che i compiti di matematica mi mandano sempre in bestia…- mentì e cambiò
discorso, cominciando il suo soliloquio su quanto la matematica fosse la
materia più ostica della terra.
Quando arrivarono al parcheggio che
precedeva la strada del liceo, l’atmosfera fra di loro
era già un po’ meno tesa, ma si sentiva nell’aria che qualcosa si era rotto. Riccardo
lo capiva dal tono piatto e distante dell’amica, tono che assumeva solo quando si sentiva umiliata o aveva qualcosa di grosso
per la testa.
-Ah, che pena quest’amore, eh?- sorrise amaramente la rossa, per poi
ammiccare alla sagoma grigia del Giulio
Cesare.
- Buona fortuna con la matematica, ci
vediamo all’uscita come sempre, vero?- chiese Riccardo, voltandosi già verso la
strada laterale dove si trovava la succursale del suo liceo scientifico.
- Ehm… Penso che oggi venga a
prendermi mio padre, sai… ho un appuntamento dal dentista subito dopo scuola e…-
arrancò, in cerca di una valida scusa per evitare di tornare a piedi col
ragazzo. Odiava mentire alle persone in questo modo, anche perché non era
nemmeno così brava a inventare palle, ma le era venuto
spontaneo. Il pensiero di passare un altro quarto d’ora a parlare dell’ex di
Riccardo, cercando di nascondere la sua irritazione, non la allettava per
nulla.
- Tranquilla, ho capito… Ci becchiamo-
mormorò Riccardo e, mentre stava per allontanarsi,
Chiara pensò bene di farsi perdonare schioccandogli un sonoro bacio sulla
guancia.
Il biondo sorrise e lei
sentì che le tremavano le gambe, forse per lo sguardo del ragazzo. O forse per lo sguardo affilato di Roberta Della Corte dall’altro
lato della strada.
Riccardo si allontanò e in due minuti
fu fuori dalla sua portata visiva. Ma
Chiara era distratta da qualcos’altro.
Sentiva la schiena come perforata,
attraversata da qualcosa di caldo e fastidiosamente intenso. Strinse i denti e,
cercando di reprimere l’impulso di alzare il viso e incontrare quello della
riccia, arrivò all’ingresso del liceo. Vide la macchina del padre di Sabrina
avvicinarsi nella direzione opposta e l’amica dai capelli tinti avvicinarsi con
il viso di chi stava per essere condotto al patibolo. Il compito di matematica
mieteva parecchie vittime, evidentemente.
- Non entri?- domandò
dubbiosa a Chiara, vedendola indugiare appena fuori la porta. La rossa si morse
il labbro, indecisa. Voleva un po’ aria prima di entrare e stare da sola l’avrebbe aiutata a concentrarsi meglio.
Quella mattina tirava
un leggero vento, se ne sarebbe restata un altro po’ a sentire la brezza
montana accarezzarle le labbra.
- Dammi
dieci minuti…- borbottò.
Si appoggiò
scompostamente alla facciata graffitata e, volgendo lo sguardo verso il cielo
grigiastro, si sentì svuotata di tutto. Dell’ansia, della paura, dell'amore. Era
piacevole, starsene lì senza aver il tempo di pensare. Smettere
di dar voce ai suoi problemi, spegnere del tutto i rumori caotici del mondo
circostante.
- Non c'è
molto sole da prendere... E anche se ci fosse, tu rimarresti comunque
una mezza irlandese con la pelle evanescente-
Una voce ruvida al suo fianco si erse
dal nulla, accompagnata da una folata di fumo agrodolce.
Chiara aprì
gli occhi di colpo, spaventata. Roberta se ne stava tranquillamente accostata
al muro, a qualche metro di distanza. Aveva imparato, oramai, la chiamava distanza di sicurezza, distanza di chi ha sofferto troppo per lasciarsi colpire di
nuovo. La prudenza di un'anima incustodita.
- Anche tu hai
la pelle chiara, solo che non sei mezza irlandese... Direi
che è uno a zero per me- ghignò la rossa. Aveva imparato anche a fare il suo
gioco.
- Ho visto quel flirt da quattro
soldi, col quel biondino niente male…
Direi che siamo pari-
Chiara sentì
il diaframma contrarsi e spezzare la risata che le stava per salire in gola.
Arrossì, sentendo la punta delle orecchie arroventarsi, come accadeva di solito quando era in situazioni simili. La riccia tirò una
boccata di fumo, puntando verso di lei i pallidi occhi azzurri truccati di
nero. Sbatté le palpebre pesantemente, quasi abbandonandole,
poi smise di ridere.
- Certo che
sei proprio un’idiota-
Il tono in cui
lo disse era un sibilo, acidità allo stato puro. Stridente
eppure dannatamente attraente come una scheggia che graffia il vetro.
Chiara cercò di tenere a freno le parole, lasciando uscire solo un sospiro dal
suo sterno sconquassato.
- Probabile-
“Che fai
ora, le dai anche ragione?” si disse, allibita. Il problema è che
quella era la verità di cui aveva sempre segretamente sospettato. Anche Roberta doveva essersi sorpresa per quella reazione,
la vide sgranare leggermente gli occhi.
- Si vede
lontano un miglio che vi piacete-
Ancora quel
tono mordace. Aveva attaccato discorso solo per farle la predica? I suoi occhi
però comunicavano esattamente il contrario.
- Posso tranquillamente farne a meno- rispose la rossa con
orgoglio. Non voleva apparire come la classica ragazzina innamorata cotta, perché
non lo era. La prima campanella suonò,facendole
trasalire. Chiara fu scossa da un brivido improvviso e si morse le labbra con
veemenza. Per un momento il mondo tornò ad essere reale.
- Abbiamo mate
alla prima ora?- sbuffò la riccia, calpestando il mozzicone fumante. L’altra
annuì, sentendo di nuovo una spiacevole sensazione di nausea alla bocca dello
stomaco. Roberta la osservò, mentre si portava lentamente una mano al ventre,
stringendo gli occhi.
- Hai paura?-
Quella fece di
si con la testa, mentre il respiro accelerava. Le mani
cominciarono a tremare, come foglie secche mosse dal
vento autunnale. Le chiuse a pugno, convulsamente, per trattenere il tremito,mentre si staccava dalla parete e cercava di dirigersi
verso l’atrio. Senza preavviso, senza nemmeno potersi appoggiare al cancello,
vide farsi tutto confuso e il petto si alzò fino a
gonfiarsi per il suo respiro affannato. Riuscì, nonostante il rumore che faceva
il suo cuore, a sentire la voce della compagna.
-Chiara! Che
ti prende?- imprecò, prendendola per le spalle prima
che si accasciasse al suolo. Respirava a fatica, sentiva
l’aria entrarle prepotentemente nei polmoni, a boccate taglienti. Tremava
spasmodicamente, sentendo il tessuto del cappotto di Roberta sulla pelle.
- Mi senti?-
Annuì,
stancamente. Era tutto così ovattato, le fischiavano
le orecchie. Non aveva la forza di parlare. La riccia la strinse di più, per
non lasciarla al suolo. Chiara si premise di ascoltare il suo respiro per non perdere
i sensi. Il nodo allo stomaco sembrò sciogliersi, lasciandole dentro solo una grande nausea. Si fece forza, stringendo i denti fino a far
stridere fra loro i molari.
- Ce la… Ce la
faccio- gracchiò, tastandosi le tempie. Si
sorprese di averle ancora, di avere ancora un cranio,
doleva così tanto. Della Corte le passò un braccio attorno ai fianchi e la fece
appoggiare a se. Chiara notò che era più alta di lei di qualche centimetro,
guardandola dal basso. Il viso ovale, le sopracciglia finemente definite, la pelle uniforme e il piccolo naso, i capelli
neri ben domati in una treccia, il colore del suo eye-liner. Cercò di fissare
tutto intensamente, per non perdersi di nuovo in quel buio.
- Ma che ti
prende!?- esordì la riccia, con un misto di
preoccupazione e sollievo.
- Non lo so,però non è la prima
volta che mi succede-
La sua voce
flebile stentava a farsi sentire nel rumore del traffico, nel vociare degli
studenti che poco distante stavano per entrare a scuola. Le toccò
la fronte, sentì la sua mano fresca contro la pelle.
- Non hai la
febbre, il cuore batte, respiri regolarmente… Sei viva- la tranquillizzò,
prendendole le mani. Chiara annuì, con gli occhi vuoti. Non era la prima volta
che le succedeva. Una sera, quando i suoi genitori avevano tardato il ritorno
dal lavoro, da sola nel buio della casa, si era sentita allo stesso modo. Si
era presa un bello spavento, così aveva chiamato Carmen e non appena l’aveva
vista sulla porta il respiro si era fatto più regolare.
Roberta, vedendola ancora così persa,
attiro la sua attenzione.
-Sei gelata- mormorò. Il suo respiro, greve per la
sigaretta appena fumata, si infranse contro le
lentiggini di Chiara. La rossa, non rendendosi ancora conto di quanto fossero
vicine, si ritrovò a contare le pagliuzze azzurrine degli occhi della riccia fin quando questa non le prese le mani per riscaldarla.
- Non è necessario…- si lamentò quasi,
sentendo le orecchie bruciare ancora di più per l’imbarazzo. Se
con Riccardo aveva provato una fitta allo stomaco, ora era come se lì dentro
infuriasse una battaglia.
- Dammi retta per
una volta- sbuffò Roberta, continuando a sfregare le mani dell’altra fra
le sue, calde e morbide di crema idratante.
- Non devi scherzare
con queste cose, gli attacchi di panico sono una cosa seria- mormorò poi
dopo qualche secondo. Il suo tono sembrava quasi preoccupato. Chiara annuì,
ancora un po’ confusa. Roberta era bellissima.
- Chiara, che ci fai
ancora qui?-
La rossa si svegliò improvvisamente,
cercando di assumere l’espressione più naturale del mondo. Roberta,
accorgendosi anch’ella della venuta Carmen, lasciò
andare le sue mani quasi violentemente.
- Oh, ecco miss Lustrini! E tu vedi di non inciamparmi più fra i piedi, piccola
squilibrata- sibilò con cattiveria, per poi dirigersi imperterrita verso il
liceo.
Carmen, vedendo che Chiara ancora la
fissava da lontano, le sventolò una mano davanti agli occhi.
- Sicura di stare bene?-
- Scurissima-
Il compito di matematica, per quando
difficile, non rappresentò per Chiara un’enorme difficoltà. Consegnò il foglio subito
dopo Michele so-tutto e rimase a fissare il resto
della classe affaticarsi per risolvere gli ultimi radicali assegnati.
Vide Roberta piegare il foglio, segno
che aveva finito, e scrivere aggraziatamente il suo nome sul fronte.
- Com’è andata?- le mimò quella con le
labbra, cercando di non farsi vedere dall’insegnante.
Chiara sentì le sue labbra incurvarsi
in un sorriso enorme.
Lanciò con stizza il foglio
spiegazzato dove stava scrivendo gli ultimi righi del suo tema di italiano. Vita e poetica di Italo
Calvino, si leggeva in cima alla pagina. Chiara si alzò sciattamente dal letto e
andò a raccogliere quel pezzo di carta, per poi buttarlo nella catasta di fogli
che riempiva il piccolo cestino sotto la scrivania.
Respirò a fondo, cercando di concentrarsi e non farsi prendere dallo sconforto.
Erano due ore che cercava di finire i compiti, ma sentiva di non essere nelle
condizioni psicologiche giuste per ultimare al meglio quel tema. Intestardita
fino al midollo, aveva scartato circa dieci temi giudicati chi troppo lunghi e
pensanti, chi superficiali e sgrammaticati. “Voglio un tema perfetto, fosse
l’ultima cosa che faccio oggi” si impuntò, mentre
volgeva il viso verso la cameretta e
osserva una fitta pioggia cadere a scrosci
sui tetti vicini. Da quando aveva avuto quella specie di attacco
di panico davanti a Roberta e lei aveva cercato di calmarla, da quando aveva sentito
quello strano brontolio alla pancia nel vedere le loro mani accostate
non riusciva a pensare lucidamente né ad
avere una precisione analitica come suo solito. La stanza rimbombava dello
scorrere dell’acqua, mentre al piano di sotto il silenzio divorava il legno dei
mobili e impregnava il tessuto delle pesanti tende con
cui Chiara soleva chiudersi dal resto del mondo. Non era l’idea di essere di nuovo sola a turbarla, no. Le
era successo tante volte, praticamente da quando sua sorella se ne era andata.
Qualcos’altro si agitava nel suo animo ,forse la
consapevolezza che qualcuno avesse scoperto quel suo piccolo segreto, il
tremito che la scuoteva sempre più frequentemente. O forse il
fatto che quel qualcuno fosse semplicemente Della Corte. Si era sentita praticamente messa a nudo, quando aveva sentito il sospiro acre
di fumo di Roberta sulle sue lentiggini, mentre cercava di non cadere in un
qualcosa di troppo profondo per essere identificato.
Qualche volta si consolava, leggendo i
suoi libri di poesie, leggendo di poeti così soli
eppure così completi. Poeti che i veneravano il silenzio, l’armonia, la calma.
E lei che poteva viverci praticamente metà della sua
vita, chiusa inconsapevolmente in una casa troppo grande e colorata per non
risultare abitata da una famiglia unita, lo rifiutava. Sentì qualcosa
pizzicarle l’occhio, mentre ripensava al viso di Roberta, alla sua espressione
quella mattina prima del compito di algebra. Come a
dire “so come ti senti”. No, non lo sapeva. Per non crogiolarsi ulteriormente
in quei pensieri insidiosi, strappò un altro foglio dal suo blocco per appunti
e ricominciò da capo. Niente lacrime per Chiara Torri: solo
solitudine, capelli rossi e voti perfetti. Miss “va tutto bene, solo
lasciami studiare”.
Quella sera di inizio
primavera, finito il tanto sofferto tema di italiano, decise di uscire in
giardino, portandosi dietro il primo libro che aveva trovato nel caos della sua
camera. Una copertina sbiadita, dove era quasi impossibile
leggere il titolo. A Chiara non importava se quello fosse il libro di
poesie di Baudelaire, o il saggio sul mondo onirico
di Freud o il “De bello
Gallico” risalente ai tempi del liceo di suo padre. Voleva solo perdersi in
parole che non fossero le sue. Il giardino di casa era
un fazzoletto di terra che circondava l’ingresso della villetta, con un piccolo
sentiero di sassolini lucidi di pioggia, riparato per un pezzo dalla grondaia
di bronzo che si sporgeva dal tetto. La ragazza osservò la piccola riproduzione
di una statua greco romana starsene inerme sotto la
pioggia, con le gocce che quasi sembravano lacrime sulle sue guance
pietrificate. La donna raffigurata se ne stava nuda, accovacciata, ma con una
tensione dei muscoli che suggeriva l’intenzione di un improvviso movimento. Era
stupido, ma Chiara si chiese perché quel gesso fosse
ancora in mezzo al suo giardino, senza muoversi. Le avevano tolto la vita
intrappolandola in quella pietra
Bianca, ruvida e stretta.
Si chiese perché quella statua avesse
sembianze così simili alle sue.
“E sono stanca dell'angoscia
che un inverno e un altro mi reca;
stanca dello spirito che languisce
lungo anni di morta disperazione.”
Lesse
quei versi, senza
nemmeno curarsi dell’autore, senza rabbrividire al contatto umido del gradino
con i suoi jeans, senza ritirare una gamba che, sporgendo oltre la grondaia,
stava lentamente bagnandosi. La pioggia la faceva sentire
così libera, parte di qualcosa di crudo e reale. Accarezzò con una mano
il granito rugoso del gradino, chiudendo gli occhi e respirando quell’aria che sapeva di terra e pneumatici fradici.
Il cellulare,
che aveva sapientemente messo al riparo sotto la sua giacca blu, prese a
squillare. Sbuffando si convinse a dare almeno un’occhiata al display e la sua mano si strinse di più in torno alle pagine
di quel libro.
-
Che c’è, mamma?- domandò seccata, appena ebbe accettato la chiamata. La linea era disturbata, c’erano dei
rumori di sottofondo che rendevano la sottile voce di Margaret
poco comprensibile.
- Tesoro, c’è stata un’emergenza… un
incidente stradale, devo rimanere, c’è poco personale…
Mi dispiace, stasera non torno a cena!- la sentì parlare tutto d’un fiato, come
a non ammette obbiezioni. E se lei ne avesse avute, di
obbiezioni?
- Okay, ci si vede stasera…- rispose come un automa, tanto era
abituata. Non protestò, perché sua madre avrebbe tirato fuori la solita scusa
“sto salvando delle vite”.E chi la salva, la mia?Avrebbe voluto chiederle.
- Scusami…
Prometto che questa è l’ultima volta.. Se potessi
tornerei subito a casa, lo sai-
La pioggia si
fece più forte, lasciando le Converse grigie di Chiara diventare quasi nere.
- E... papà?-
Non poté
trattenersi dal chiederlo, bloccandosi proprio quando
ce l’aveva sulla punta della lingua. Sentì un vuoto lancinante all’altezza
dello stomaco, un conato di vomito farsi strada nel
suo petto. La donna dall’altra parte della linea non rispose per qualche
secondo, un’esitazione fin troppo eloquente.
- Tornerà
domani da quel convegno sulla produttività aziendale…- parlò come se lo stesse
dicendo a se stessa e non ad una figlia che invano la aspettava a casa. I
rumori di sottofondo si fecero più violenti, insinuandosi nel
pensieri della ragazza come un virus.
- Mi dispiace,
non aspettarmi alzata… Non aprire agli sconosciuti e non dare
fuoco a nulla mentre riscaldi la cena… Scusami, piccola-
Chiara chiuse
mollemente la chiamata, restando a fissare il vuoto di fronte a sé. Era sicura
che se qualcuno da fuori avesse visto la sua faccia, l’avrebbe
trovata identica a quella della piccola statua che le offuscava la visuale.
Proprio mentre stava per correre via, il gesso l’aveva intrappolata lasciandola
sola in quel giardino che sembrava una palude.
Sola,
con le scarpe bagnate e un libro di poesie in mano. Inerme come un bambino in mezzo alle
granate. Quando percepì un primo tremolio invaderle le
mani sottili, si morse le labbra, spaventata e rassegnata. Se
non piangeva, il suo corpo si sfogava così. Tremava, mozzava il respiro,
annebbiava la mente. Non aveva mai parlato a nessuno di quel suo problema,
forse perché non lo aveva mai davvero considerato tale. Era cominciato tutto una sera, qualche settimana dopo che Benedetta era
partita per Perugia, suo padre era a Milano, e sua
madre irreperibile da qualche parte dell’ospedale con la targhetta “Dott.ressaLinch" attaccata
sopra il cuore. Da allora il respiro le si bloccava in
gola ogni volta che aveva paura, che era sola, che sentiva il mondo troppo
pesante, ogni volta che tutto appariva così lontano da non essere raggiungibile
nemmeno con le urla. Di solito chiamava Carmen o Riccardo, perché se fossero
stati davvero attacchi di panico lei avrebbe dovuto parlare con qualcuno,
distrarsi. O almeno così aveva letto da qualche parte,
in preda al terrore. Scagliò con rabbia il telefonino contro il tronco mozzo
che le si parava davanti, a un centimetro dal gradino.
Lo vide spegnersi di botto, bagnarsi e sprofondare nell’erba giallognola come
un cadavere risucchiato. Non avrebbe chiamato nessuno, non ne
aveva bisogno. Tornò velocemente dentro casa, salì in camera sua e,
essendosi prima premurata di controllare i compiti, ficcò un ricambio nel borsone
da palestra e si infilò il giubbotto. Niente più
solitudine, solo pugni.
Quando Giò,
il giovane istruttore alto e moro, vide Chiara precipitarsi negli spogliatoi assunse un’espressione sorpresa. Le aveva detto che poteva passare quando voleva e tirare due colpi al
sacco, ma non gli era sembrata molto interessata. La rossa uscì
frettolosamente, dopo essersi sfilata la felpa pesante, e con i capelli stretti
in una coda, si infilò i guantoni blu della palestra.
Non aveva molta tecnica, maGiò
diceva che era una furia con i pugni.
“La tecnica
non serve nella violenza” gli aveva prontamente ricordato lei. Le costava
ammetterlo, ma un po’ si vergognava a tirare colpi così forti. Aveva visto le facce delle compagne di corso, sbigottite e
leggermente timorose. Erano una banda di ragazzette troppo truccate e vestite in modo volgare, che frequentavano quel corso solo per poter
sbavare dietro ai muscoli dell’istruttore. Una volta si era chiesta se anche
Roberta lo facesse per quel motivo. Stava per sferrare il primo pugno, quando
vide Giò avvicinarsi divertito.
- Adrenalina
da scaricare?- domandò, passandosi una mano fra i capelli corti e ricci. Poteva
avere al massimo ventitre anni, con quel viso da
bambino. Chiara roteò gli occhi, sganciando il primo colpo. Era
forse l’unica in quella palestra immune al suo fascino da cattivo ragazzo, lo
trovava così ridicolo e irritante. Nonostante i
suoi pensieri fossero poco carini, cercò di essere il più cordiale possibile.
- Suppongo di si- Le venne da pensare alla biologia, quando al secondo
anno avevano studiato la composizione degli ormoni. “C9H13NO3” pensò con
soddisfazione. L’istruttore si fece più vicino, con gesti di calcolata
lentezza. Lei lo guardò, come si guarda uno scimpanzé allo zoo. Probabilmente quel troglodita non
sapeva nemmeno la formula grezza dell’adrenalina.
- So che è una
cosa privata ma… Sei impegnata, per caso?-
Chiara scoppiò
a ridere di gusto. Ci stava forse provando con lei? Non credeva che una
ragazzina rossa, lentigginosa e saccente fosse il suo tipo.
- So che è una
cosa cruda ma… Probabilmente se ci provi con le altre rimedi
più appuntamenti, senza contare che la tua autostima molto bassa ne
guadagnerebbe- sentenziò arrogante, con una punta di malizia. Giòstorse la bocca, si riuscivano
a notare due vene più grosse pulsargli su un bicipite.
- Non sai che
ti perdi, ragazza- ridacchiò superbo, spalancando il
petto per mostrare i pettorali. Quando fece per andarsene
però, la rossa lo fermò, prendendolo per un braccio.
- Che c’è, hai cambiato idea, tesoro?-
A quella
domanda quasi disperata Chiara ricominciò a irritarsi.
- No, voglio
solo sapere quand’è che Roberta Della Corte ha il turno in palestra- scandì bene le parole, in modo da non creare equivoci. Si
sorprese nel dar voce ad una sua curiosità, forse non tanto innocente. “E’ solo
per evitarla" si disse "nulla di più”.
Giò
rilassò i muscoli e roteò gli occhi.
- Chi, quella
che l’altra volta stava per sfasciarmi il sacco? Oggi alle otto e venerdì alle
sei-
Se ne andò, insoddisfatto, in un turbino di sbuffi. La rossa mosse le labbra impercettibilmente a quella notizia, poi ricominciò
a picchiare la sabbia. Dopo una buona oretta passata a
sfogarsi, tornò nello spogliatoio e si levò di getto la canottiera sudata,
credendolo deserto. Stava per slacciarsi anche il pantalone della tuta e fiondarsi in una delle docce, quando qualcuno tossì
imbarazzato da un angolino lontano. Chiara trasalì,
cominciando a sentire i brividi di freddo attorno alla spina dorsale, mentre
metteva a fuoco la ragazza dai capelli ricci.
- Puntuale-
commentò, guardando prima l’orologio che le fasciava il polso e poi Roberta.
Quella aggrottò le sopracciglia sottili, ma non chiese spiegazioni.
- Ci incontriamo sempre in situazioni strane- disse solo,
abbassando lo sguardo e girandosi dall’altra parte. Chiara assunse
un'aria interrogativa.
-
Perché non ti giri?-
- Perché sei mezza nuda e l’ultima volta che ti ho trovata così stavi
per uccidermi- biascicò l’altra in risposta, facendo finta di controllare
qualcosa nel borsone. La rossa si guardò il petto ed arrossì violentemente.
- Oh mio Dio…
Sarà meglio che vada, mi farò una doccia a casa- riuscì
a dire, seppur rabbrividendo al pensiero di tornare nella sua villetta vuota.
Quando si infilò di nuovo la maglietta, Roberta si
girò a guardarla in viso. Aveva gocce di pioggia fra i ricci, uno sguardo vacuo
e le gote leggermente arrossate. Che fosse a disagio?
Fece per
uscire dalla stanza, ma poi fece retromarcia.
- Torni a
piedi a casa?-
Chiara annuì,
sorpresa della domanda. Fuori era ormai buio e diluviava, era comprensibile che
desiderasse un po’ di compagnia.
- Il mio turno
dura solo mezz’ora- esclamò, lasciando definitivamente
lo spogliatoio. La rossa rimase interdetta. L’aveva forse invitata a fare la strada insieme?
Scivolò sotto
la doccia velocemente, beandosi dalla frescura dell’acqua sulla sua pelle
salata. Dopo un tempo che le sembrò infinito, si avvolse nell’accappatoio e si infilò i vestiti puliti, per poi uscire dalla palestra.
Roberta la stava aspettando vicino al cancello, fumando una sigaretta, persa a
fissare una pozzanghera. La pioggia aveva ricoperto quasi tutta la strada, ma
ora il cielo era schiarito da nuvole biancastre. Quando
la vide arrivare con il borsone in spalla, le sorrise in modo enigmatico.
-
Dov’è che abiti?- chiese, cominciando a camminare lungo il marciapiede. Chiara le descrisse la strada di
ritorno e quella annuì.
- Io abito
proprio due strade dopo-
Aveva un viso
tirato, la fronte imperlata dai residui di sudore, ma gli occhi sempre perfettamente
truccati. La rossa si sfregò le mani, rimuginando. In che razza di situazione
si era andata a cacciare! Dalla gita a Vienna non considerava più trovarsi
nello stesso posto di Della Corte come un pericolo di
morte, ma non poteva negare di sentirsi strana.
-Belle le
scarpe- sussurrò, senza sapere cosa dire. Roberta scoppiò brevemente a ridere, poi riprese il suo contegno.
- Che ci
facevi in palestra a quest’ora?- domandò perplessa, rallentando il passo.
- Ero a casa da sola, volevo prendere a pugni qualcosa- Ammise
la verità senza difficoltà, sorprendendosi della sua schiettezza. La riccia
annuì, arricciando le labbra in modo meditabondo.
- I tuoi sanno
che fai kickboxing?-
Questa volta
fu il turno di Chiara di mettersi a ridere.
- Ovvio,
perché i tuoi no?-
Roberta scosse
la testa, divertita.
- Pensano io
faccia ancora danza, non crederebbero mai che la loro
adorabile figlia possa essere tanto tosta da infilarsi i guantoni-
Rise poi, amara. Calpestò una
pozzanghera, bagnandosi l’orlo della tuta grigia. Il tempo sembrava essere
rimasto incastrato fra i rami degli oleandri che dalle strade si innalzavano al
cielo della notte. Chiara sorrise mestamente, chiedendosi quante cose gli altri
non sapevano di Roberta. Era una sensazione flebile,
quella che la portava a pensare che si stessero perdendo la parte migliore.
Sviò il discorso sul tema d’italiano,
per alleggerirle l’animo. La bruna soffocò un’imprecazione alquanto volgare.
- Quale tema?
Cavoli, se non glielo consegno la
Morra mi mette un altro impreparato
e mi porta al debito!- constatò terrorizzata, toccandosi le guance. – Faccio
schifo in italiano!-
Sembrò pensare
a qualcosa di interessante, mentre voltavano nella
stradina dove già s’intravedeva la villetta. Arrivate al cancelletto, la riccia mostrò lo stesso interesse di
Chiara verso la piccola statua del giardino.
- Bene… sono arrivata, ci si vede domani- sospirò la rossa, aprendo
il cancello. L’altra aggrottò le sopracciglia, ancora pensierosa.
- Pensavo…
visto che sei sola a casa e io ho un disperato bisogno di qualcuno che mi aiuti con il tema… Posso restare?-
La richiesta
arrivò timorosa, mentre Roberta si torturava le maniche della giacca. Chiara
non si ricordava di averla vista mai così nervosa. A
dire il vero non si ricordava nemmeno di aver mai passato così
tanto tempo con lei senza pronunciare una parolaccia. A quel pensiero le
venne da ridere e, altrettanto tesa, mormorò una
risposta.
- Okay, ma lo faccio perché non voglio stare da sola… Il
giorno in cui Chiara Torri aiuterà qualcuno con i compiti non è ancora
arrivato- disse in tono autoritario, trascinandosela dentro il giardino. Ringraziò mentalmente il cielo, quella sera non avrebbe
avuto altri attacchi se non di finta ira.
Capitolo quindici: E’ difficile chiederti scusa mentre dormi
La casa non sembrava già più tetra e
silenziosa, mentre Roberta ne varcava la soglia insieme a Chiara. La riccia
sembrava muoversi a fatica, timidamente, guardandosi attorno con un’attenzione quasi
maniacale. Chiara vide il suo sguardo posarsi sulla porta scorrevole della
cucina, sul bancone di marmo dove erano ancora poggiati gli avanzi della sua
merenda. Chiusa la porta d’ingresso, si affrettò a gettare nel lavello il
bicchiere mezzo pieno di tè freddo e a spazzare via le briciole di biscotti al
cioccolato, per non dare la giusta impressione di vivere nel più totale
disordine. Roberta fece per poggiare il borsone su una delle sedie di legno, ma
la lasciò a dondolare fra le sue mani infreddolite, attonita. Il rumore del
vetro contro l’acciaio del lavandino scosse l’aria,
ricordando ad entrambe di non aver ancora aperto bocca. Non poteva esserci
situazione più assurda. Roberta Della Corte, nella sua
cucina, con lo sguardo smarrito di un cucciolo e la borsa a penzoloni.
- Da’ a me- proruppe
la rossa, con la voce roca. Assolutamente assurdo. Prese il borsone e lo poggiò
con delicatezza su una delle sedie, poi rivolse uno sguardo dubbioso a Roberta.
- Ti va di
cominciare?- domandò. Quella annuì, socchiudendo gli occhi. Chiara si accostò
al frigo e, aprendolo, si versò un bicchiere di succo d’arancia. – Vuoi?- Fece il gesto di porgerle il cartone, ma lei scosse la testa
debolmente. Così, vedendola immobile al centro della stanza, Chiara si appoggiò
con nonchalance al bancone e cominciò a ridere. C’era
un qualcosa di terribilmente ilare in quella situazione. Sarà stata la felicità
di non essere sola, almeno per qualche ora.
- Dì qualcosa,
sembri in trance-
Solo a quelle
parole provocatorie l’animo tumultuoso della riccia
sembrò ridestarsi, facendosi sentire attraverso la voce incrinata.
- Stavo solo
osservando la cucina…- disse scocciata, roteando i grandi occhi azzurri. C’era
qualcosa in quelle iridi che inquietavano leggermente Chiara. Qualcosa di
maledettamente ostile e magnetico. Le osservò per un secondo,
poi tornò a sorseggiare il suo succo.
- Beh,
siediti… Vado a prendere il libro di italiano- la
redarguì di conseguenza. Era sempre stato così: quando le cose si facevano più
minacciose, o semplicemente diverse, Chiara alzava la
voce e la modulava facendola sembrare più ruvida e rozza. Era il suo modo per proteggersi.
La riccia rimase in piedi, fissandola
intensamente. – Mi dici che ti prende? La cucina non
ti mangia mica! Vieni, su- fece un gesto scocciato col
braccio e aspettò che Roberta la precedesse sulle scale per salire. La guidò
alla porta della sua stanza, laccata di rosso come tutte le porte della casa.
Chiara trattenne il respiro, mentre abbassava lentamente la maniglia. Aprire
quella porta avrebbe portato inconsapevolmente Roberta a venire a contatto con la
parte più profonda di lei, quella che spesso nascondeva a tutti.
La luce lattea della luna illuminava
di poco le sagome dei due letti posti al centro della stanza, lasciando nel
buio più totale la scrivania e la massa di libri che vi troneggiava. La rossa
accese stizzosamente l’interruttore, per poi dirigersi sicura verso il volume
d’italiano. Roberta rimase nuovamente immobile sulla soglia, gettando sguardi
enigmatici al bizzarro ambiente in cui si trovava. In particolare, sembrava
osservare con interesse una cornice piena di piccole foto che ritraevano Chiara
e Benedetta in diversi periodi della loro infanzia. Si avvicinò con passo
incerto alla scrivania, cercando di non badare al caos di vestiti sulla sedia
girevole. Quando, però, scorse un reggiseno blu ai
piedi del letto, scoppiò a ridere di gusto. Attirata da quel frastuono, Chiara
si girò in un turbine di capelli rossi.
- C-che c’è?- domandò, visibilmente agitata da quel suo tono.
Spostò lo sguardo nello stesso punto che tanto attirava la sua compagna.
Impallidì, maledicendo qualunque entità le capitò a tiro.
- Oh mio… Devo
averlo lasciato lì dopo essermi cambiata-si affrettò a raccoglierlo e a
sbatterlo in un cassetto del mobile in noce. Quel ghigno malizioso non aveva
ancora abbandonato il viso di Roberta.
- Anziché mettermi in imbarazzo, gradiresti cominciare a
studiare?- chiese la rossa sarcasticamente, assottigliando gli occhi. Quando
Roberta continuò a ridacchiare, però, perse le staffe e sentì le guance
arrossarsi sia per la vergogna che per la rabbia.
–Magari in
un’altra stanza…- bofonchiò, cercando di trascinare la sua figura flessuosa fuori dalla sua tana.
- No, scusa…
Restiamo qui, se ti va- mormorò la riccia, mortificata. Chiara annuì
soddisfatta e la fece sedere alla scrivania, mentre lei si
sedeva sul parqué.Si
osservarono perplesse per un minuto buono.
- Almeno l’hai mai studiato, Calvino?-
chiese in modo retorico la più bassa, sbuffando. Della Corte scosse la
testa, visibilmente imbarazzata.
-Allora mi sa
che dobbiamo cominciare dalle basi… - disse avvilita
la rossa, scendendo dal letto e aprendo il testo al capitolo giusto.
Studiarono
prima la vita dell’autore, poi la sua poetica e infine, per riuscire a spiegare
meglio queste ultime nozioni a Roberta, Chiara le lesse ad alta voce un passo di uno dei suoi libri preferiti, “Se una notte
d’inverno un viaggiatore”.
Ovviamente,
la sua biblioteca ben fornita non passò inosservata a Roberta, la quale attirò
la sua attenzione con un sussurro.
- Hai davvero tanti libri!- disse, con
un gran sorriso in volto. Chiara si chiese il perché di quella sua felicità.
-Si, e allora? Sai che mi piace
leggere- mormorò in risposta, scettica.
-No, invece…Io non so quasi nulla di
te-Roberta
puntò gli occhi cerulei e ipnotizzanti nei suoi, fissandola intensamente.
Chiara fu tentata di replicare,
rispondendo di nuovo “e allora?”, e buttarla sul ridere. Ma
quello sguardo, così penetrante, così intenso sembrò ghiacciarla sul posto. Era
sicura che il suo viso non trasmettesse nessuna emozione.
Doveva apparire davvero stupida.
-Neanche io so nulla di te, in
effetti- Alla fine optò per la via più diplomatica,
continuandola a fissare.
- Facciamo così… Chiediamoci a turno
qualcosa che vorremmo sapere l’una dell’altra -
propose Roberta, facendo girare la sedia girevole come una bambina. Chiara
rimase letteralmente incantata.
- Tu vuoi sapere qualcosa di me?-
domandò ingenuamente sorpresa che a qualcuno come Roberta, ragazza popolare
invidiata per bellezza, cattiveria e invitata a tutte le feste, ma sempre
sottostante all’ombra di Vanessa Monteverde, potesse
interessare una come lei, piccola e oscura, proprio come i personaggi dei libri
in cui tanto si immedesimava. Si aspettava una
risatina sprezzante e un commento ironico, perché per quanto la riccia si fosse
mostrata alquanto cordiale nei suoi confronti, aveva una tremenda paura che
dalle sue labbra perfette uscisse un’altra orribile frecciatina.
Invece Roberta piegò la testa di lato, in un modo che
Chiara definì immediatamente adorabile, e spiegò le labbra in un piccolo sorrisino.
- Certo che voglio, sei
così indecifrabile ai miei occhi-
Chiara si diede dell’idiota circa una
ventina di volte prima di annuire. “Sei un’emerita scema! Smettila di guardarla
così o penserai che hai qualche problema!” pensò fra
se, nervosa.
- Prima tu allora- borbottò.
- Perché hai così
tanta paura di me?-
- I-Io cosa!?
Io paura di te… Cioè, di te… cioè no!- balbettò
incoerentemente la rossa, diventando paonazza dall’imbarazzo.
- Certe volte, quando mi guardi… Ho come l’impressione che tu mi odi, ma certe altre
volte sembra che tu abbia paura di avermi fra i piedi-
Chiara si prese qualche secondo per
riflettere, scoprendosi totalmente spaurita.
- Io non ho paura di averti fra i
piedi- mormorò quasi fra se, sconcertata nel constatare quanto
Roberta fosse una buona osservatrice. Aveva ricominciato a piovere e il
ticchettio delle goccioline sul vetro della finestra le distrasse
per qualche secondo.
- Tocca a te- alzò poi le spalle la
riccia, capendo che più di quel pigolio soffuso non avrebbe ottenuto.
- Potrei farti la stessa domanda-
sorrise sadica Chiara, ricordandosi di come l’altra era
fuggita, quella mattina fuori scuola, non appena aveva intravisto
Carmen. Ora fu il turno di Roberta di restare senza parole.
- Touché-farfugliò, arrossendo. Chiara rise e posò il librò
sul pavimento, chiudendolo.
- Tocca di nuovo a te- passò la parola
all’altra, ormai presa da quel giochetto.
- Come fai ad essere così? Sei gentile ,diversa… come ci riesci?-
- Io, gentile? Sicura di parlare di
Chiara Torri?- gonfiò il petto goliardica Chiara, indicandosi con l’indice. Roberta
ridacchio. Quanto era bella la sua risata. Chiara si impose di smetterla di pensarci.
- Si, tu sei gentile, sotto quella
corazza da acida saccente… sei davvero gentile-sussurrò la riccia, fissandola negli
occhi.
- Sisi, certo, come no… e comunque non lo so come ci riesco,
sono sempre stata così- arrossendo a sua volta e abbassando lo sguardo.
- Tocca a te- le ricordò Roberta dopo
qualche minuto.
- Perché sei così
solo con me? Intendo, guardati… non hai ancora imprecato né detto qualcosa di cattivo,
non mi hai nemmeno insultata per l’orribile giallo della
maglietta che indosso! Perché?-la rossa assottigliò gli occhi e si lasciò
cadere con la testa indietro, poggiandosi stanca sulla testiera del letto. Roberta
cambiò improvvisamente espressione, come se qualcosa le si fosse
rotto davanti agli occhi e lei ne fosse stata spaventata. Chiara vide le sue dita
tremare leggermente mentre si rigirava fra le mani la penna
mangiucchiata. Il suo sguardo
si era fatto fosco e le
sopracciglia le si erano inarcate pericolosamente sulla fronte. Era come se un uragano
le avesse appena investito il volto, lasciandolo goffamente
distorto. Vide che aprì le labbra nel tentativo di dire qualcosa, ma finì per emettere
solo un misero sospiro.
- Io… non lo so-gorgogliò con esitazione.
- Forse… forse è meglio ricominciare a
studiare-propose
cautamente Chiara, vedendola in difficoltà. Quella asserì e lei attaccò a rileggere
il passo di Calvino.
Roberta, dopo quell’attimo
di perplessità sembrava ascoltarla pietrificata, totalmente in balia della sua
voce a tratti naturalmente apra e arrochita dal raffreddore.
Finalmente, dovevano essere passate le
nove di sera, Della Corte riuscì a finire il suo tema
senza problemi, aiutata di tanto in tanto dalla rossa, che cercava di seguirla
nel migliore dei modi, distesa a pancia in sul parqué.
***
-Perché ti metti
la sciarpa?- domandò all’improvviso Chiara, sbadigliando rumorosamente, mentre
Roberta cercava di non strozzarsi
nell’intento di infilarsi subito il capo.
Ci mise un po’ a rispondere,
osservandola attentamente con uno sguardo alquanto confuso.
- Beh perché… immagino
di dovermene andare- disse infine, con un tono quasi dispiaciuto. I suoi occhi
azzurri non erano caratterizzati dal solito cipiglio nervoso e violento, erano
semmai placati da quell’atmosfera di velata
malinconia.
Chiara rimase
per un po’ in silenzio, a fissare la trama delle sue coperte. Quando prese parola, Roberta sussultò, evidentemente
soprappensiero. C’era qualcosa di diverso dal solito in quelle labbra
leggermente curvate all’ingiù, in quegli occhi ora così trasparenti, in quelle gote sempre lievemente arrossate.
Vergogna?
Timore? Timidezza? O semplicemente lo stesso desiderio di Chiara,la stessa brama di non restare di nuovo sola contro il
mondo? Un tuono squarciò improvvisamente il cielo plumbeo, dando il segnale di
un nuovo temporale. Presagiva una notte buia e polverosa, ma l’aria sembrava
essersi fermata nella piccola stanza dalle pareti colorate.
Roberta tremò leggermente a quel
rumore, strizzando gli occhi.
- Non devi
andartene… Puoi rimanere a cena qui, se ti va- le sorrise la
rossa con fare cordiale. Stava decisamente superando
se stessa, si stupì delle sue parole. Stava davvero dando un’occasione a Della
Corte? Le stava proponendo di sotterrare l’ascia di guerra e di provare ad essere amiche?
Roberta sorrise e per un momento a
Chiara tornò in mente la nitida immagine di lei che sorrideva nel buio, nella
stanza d’albergo a Vienna. Un sorriso in piena regola, senza cattiveria, né
malizia, né scherno.
-Mi farebbe molto piacere, Chiara- rispose in fine schietta, posando
di nuovo la sciarpa sulla scrivania di legno.
L’altra alzò un sopracciglio, macchinando.
- C’è solo un
problema… Non so cucinare e gli avanzi del pranzo bastano solo per una- disse corrucciata. Si alzò con decisione, afferrò il
cellulare e compose un numero. Roberta ora la osservava divertita e leggermente
inquietata. Non lo dava a vedere, e probabilmente non l’avrebbe
ammesso nemmeno sotto tortura, ma trovava Chiara una creatura davvero
spassosa. Con quei suoi capelli rossi, i grandi occhi scuri e la pelle diafana,
con quella sua voce a tratti acuta, le ricordava un buffo folletto. Ma non lo diceva per prenderla in giro, non questa volta. Lo
diceva perché lo pensava davvero e forse era il suo modo per dimostrarle quanto
fosse stata stupida ad accanirsi su di lei negli anni passati
solo per fare piacere a Vanessa.
La vide con un
orecchio accostato al cellulare, concentrata.
- Ti piace il
messicano?- si sentì domandare la riccia, sentendo l’altra
evidentemente indaffarata a parlare con una voce maschile dall’altra parte
della linea. Per un attimo temette fosse quell’imbecille
bellimbusto che Torri si ostinava a chiamare “migliore amico”. L’innocenza con cui
parlava di lui sembrava quasi comica. Il suo migliore amico, ma a chi voleva
darla a bere?
- Mi piace di tutto-
mugugnò, improvvisamente spenta. Sentire quella voce baritonale parlare
con Chiara l’aveva svuotata di tutti i buoni propositi. Improvvisamente voleva
andarsene da quella stanza asfissiante. La rossa doveva essersene accorta e la
guardò timorosa.
- Sto ordinando la cena- disse debolmente, guardandola dritta
negli occhi. Roberta si rilassò e, cercando il permesso della padrona di casa,
si sedette sul bordo di quelle coperte verde mela.
Chiara chiuse
la chiamata e le si sedette di fronte, sorridendo.
Cercò di imitare il bel sorriso che aveva Della Corte, così sicuro, luminoso e
che, nonostante nella maggior parte dei casi fosse
impregnato di malignità, infondeva calore a tutti. Sospirò sconfitta, quando si
accorse dello sguardo stranito della riccia e il sospetto di non essere
riuscita nel suo intento le invase la mente.
- Non è colpa
mia se non so sorridere come te…- sbuffò infastidita, girandosi dall’altra
parte. Roberta in tutta risposta accennò uno dei suoi sorrisi.
- Ecco vedi?
Come ci riesci? Io ho quasi paura a farmi fotografare…- la rossa le indicò
alcune sue foto da bambina appese alla parete – ecco
perché oggi tutti credono che fossi una bambina arrabbiata-
L’altra aggrottò le sopracciglia, poi alzò le spalle.
- Secondo me eri adorabile con le treccine…-
scherzò. Era una bella sensazione chiacchierare con lei come se fosse Carmen, o
sua sorella, o la vicina di casa. Parlare con lei senza
ricordarsi il suo cognome, le sue battute perfide, la sua strafottenza.
- Ero una
bimba niente male, ma allora si che somigliavo ad un
folletto!- le confessò imbarazzata, ricordandosi delle sue orecchie leggermente
a punta che prontamente da piccola nascondeva con la sua cascata di capelli
vermigli. Stettero in silenzio per alcuni minuti, respirando in sincrono.
Chiara si
stese sul suo letto, come faceva di solito quando
c’era Carmen. Le piaceva starsene distesa lì, con l’amica che parlava e la
cullava con le sue parole. Di solito non la stava a sentire
realmente, ma le piaceva sentirla vicino. Un giorno le sarebbe piaciuto provare
con la
sua persona, come a
lei piaceva definire il vero amore che era sicura sarebbe arrivato a suo tempo,stendersi
a guardare il soffitto di stucco bianco immaginando che fosse un cielo
stellato, mentre le parlava in tono carezzevole. Afferrò il suo piccolo
ranocchio di peluche e lo strinse, sentendo un po’ di stanchezza intorpidirle i
sensi. Vide il corpo di Roberta irrigidirsi, evidentemente a disagio per quella
situazione un po’ troppo confidenziale.
- Ti dispiace se me ne sto distesa qui
finché non arriva la cena?- domandò, soffocando uno sbadiglio. Fra lo studio, la palestra e le ripetizioni a Roberta, aveva
passato la giornata praticamente senza stare un attimo ferma. Meglio di come si
aspettava.
- Sei stanca?- le domandò l’altra, con una vocina leggermente
apprensiva. Chiara annuì, chiudendo gli occhi per un attimo.
- Vuoi che me
ne vada così puoi riposare?- domandò dopo un po’, vedendo che la rossa non
accennava ad aprire gli occhi. Quella però li spalancò all’istante, lasciando
che la luce della lampada vicina li inondasse di riflessi dorati.
- Vuoi
smetterla di comportarti come se stessi per cacciarti
di casa da un momento all’altro? E’ irritante- ridacchiò,
lanciandole addosso Freddie. Roberta, malgrado fosse
ancora a disagio, scoppiò a ridere.
- Già, ti immagino a buttarmi fuori al freddo vista la tua glaciale
insensibilità- la stuzzicò.
Continuarono a
ridere finché la riccia non cadde lungo distesa sul letto, a qualche centimetro
di distanza da Chiara. Fece per alzarsi, ma poi si lasciò ricadere con un’ultima
risata sul cuscino.
- Ecco, così va meglio… non devi
sempre aver paura di stare nella stessa stanza con me. Dovrei essere io ad aver
paura di te, visto che ti atteggi da bulletta di periferia- le sorrise la rossa, sbadigliando ancora.
Roberta fece
scemare il suo sorrisino in una smorfia di risentimento. Si mise a fissare il
soffitto, mentre il respiro di Chiara si faceva cadenzato.
- A proposito…
Non credo di averti mai chiesto scusa per quello che ti ho fatto in questi
anni. Sono un’emerita stronza-
Chiara non riuscì
a sentirla però, presa com’era dal sonno che le riscaldava le membra. Roberta
si girò per capire come mai non era ancora stata interrotta, ma si ritrovò faccia a faccia con il ritratto della dolcezza. Sospirò e,
volendola ringraziare in qualche modo, le sistemò Freddie
sul petto. Quella sera, mentre i tuoni di nuovo scombussolavano la notte,
Roberta decise di non continuare a comportarsi da stronza.
Aspettò il fattorino del ristorante e pagò il conto, lasciò la porzione di nachos di Chiara sul bancone della
cucina, dopo averle sorriso per un’ultima volta dal corridoio.
Prima di
andarsene, strappò un pezzo di carta dal suo quaderno e scrisse:
“ Ti sei addormentata come una bimba, la tua cena è in cucina.
Grazie per il tema, non so se avrei fatto lo stesso.
Dietro c’è il mio numero. Ti sono debitrice”
Lo lasciò sul
suo comodino, sperando che almeno quelle poche righe bastassero per cancellare
quattro anni di ingiustificate torture.
-Ma che…- Chiara soffocò un’imprecazione quando Margaret aprì
improvvisamente le imposte e la luce pallida di un mattino di primavera invase
la stanza
-Ma che…- Chiara soffocò
un’imprecazione quando Margaret aprì improvvisamente le imposte e la luce
pallida di un mattino di primavera invase la stanza.
-Ma sei matta? Saranno le sei! E poi
chi ti ha dato il permesso di entrare!?-
Notò che la donna che osava
definirsi sua madre indossava
ancora il camice operatorio blu. Non che l’avesse mai vista mentre apriva in
due le persone, si ricordava solo che, più o meno ad undici anni, l’aveva vista
uscire con lo stesso camice da una sala operatoria. Era andata con suo padre a
farle una sorpresa per il suo quarantatreesimo compleanno, ma lei aveva
interrotto l’intervento solo quanto bastava per ringraziarli del regalo. Poi
era tornata dentro e, imperterrita, aveva continuato a ricucire qualche
intestino o a rimuovere una cistifellea. Margaret fece uno dei suoi
caratteristici sorrisetti sarcastici, intimando alla figlia di sistemarsi in
fretta.
- Si può sapere che cosa vuoi?- La
voce della rossa arrivò ovattata, sepolta da qualche parte sotto le coperte
invitanti. Sentì l’aria fredda attraversarle la spina dorsale e sibilò una
parolaccia poco consona alla sua immagine imperturbabile.
- Solo perché io impreco in
questo modo quando sono arrabbiata, non vuol dire che anche tu debba farlo…-
borbottò sua madre – E poi sono le otto meno un quarto, tesoro… Ho visto che
non arrivavi e non è da te scendere in ritardo- concluse, leggermente scettica.
Si girò intorno, con sguardo accusatorio. Chiara non si svegliava mai in
ritardo, scattava in piedi alle sei e mezza, si infilava la prima sciarpa che
le capitava a tiro e scappava a scuola.
- Porca…- cominciò quella, per poi
essere brutalmente interrotta da sua madre.
- Ho detto di smetterla di dire
parolacce, Chiara! Sei diventata volgare e pigra in una sola notte?-
Quella si alzò di scatto a quelle
parole e si fiondò in bagno. Si spazzolò violentemente i denti, dopo essersi
infilata la felpa blu che Benedetta le aveva portato da Perugia.
“Ma perché diamine mi sono alzata così
tardi? Ora farò tardi e la professoressa … Oh, al diavolo la Manzi, tanto sarà comunque
di pessimo umore!” pensò, mentre cercava fra le cartacce della scrivania la
copia giusta del suo tema. Si guardò allo specchio della sua stanza per
l’ultima volta e si passò una mano fra i capelli vermigli. C’erano giorni in
cui proprio non le andavano a genio. Vivendo in un paese così piccolo, era
sicura di essere l’unica a parte sua madre ad avere quella tonalità di colore.
A Benedetta era andata meglio, aveva ereditato i capelli biondi di Matteo, ma
nemmeno a lei piacevano così tanto. Aveva combattuto al liceo contro lo
stereotipo delle bionde stupide e aveva raccontato a Chiara di averlo dovuto
fare anche all’Università. Se solo fosse rimasta a vivere con loro le
avrebbe fatto quella treccia ordinata che le piaceva tanto, come quando erano
piccole. Aveva provato ad imparare, ma per ora quella rimaneva un’abilità di
sua sorella. Non trovando il foglio giusto, Chiara camminò nervosamente verso
il comodino e spazzò via tutte le cianfrusaglie che c’erano sopra. Mentre il
suo tema giaceva per terra, la grafia sottile e appuntita di un foglietto che
non ricordava di aver scritto lei attirò la sua attenzione. Prese fra le mani
il bigliettino che probabilmente le aveva lasciato Roberta e lesse il numero
scritto sul retro.
“Ovvio, l’ha fatto per non sembrare
un’ingrata… Ma non credo che la chiamerò mai” pensò subito “non vorrebbe che io
la chiamassi”
Con questi pensieri stranamente malinconici
scese in cucina, infilando il biglietto in una delle tasche della sua felpa.
Trovò sua madre seduta al tavolo, con una tazza di caffè lungo fra le mani. Matteo
era un fanatico dell’espresso, ma lei proprio non voleva abbandonare le
sue abitudini, nemmeno dopo più di vent’anni passati in Italia.
- Non ce la faccio ad andare a scuola
a piedi…- cominciò la ragazza, guardando l’orologio alla parete che segnava le
otto e un quarto. Questa volta si guardò bene dall’inveire, volendo ottenere la
grazia di un passaggio di sua madre. – Per favore, mi accompagni?- domandò,
dopo averla guardata speranzosa con quei suoi occhi scuri da cucciolo indifeso.
***
La macchina correva senza difficoltà
per le stradine secondarie, visto che a quell’ora il traffico rendeva tutta il
centro della cittadina impraticabile persino per le biciclette.
- Mi spieghi perché stamattina ti sei
alzata così tardi?- le chiese improvvisamente Margaret, con il cipiglio
sospettoso di una madre troppo assente che pretende di saper tutto senza essere
mai presente sul luogo. Chiara ci pensò su, cercando un motivo convincente,
visto che nemmeno lei lo sapeva, e cercando di tener Roberta fuori da quella
storia. Non ne era sicura, ma non credeva che a sua madre avrebbe fatto piacere
sapere che la figlia dell’avvocato Della Corte era stata a casa loro. Non che
avesse qualcosa contro la ragazza, solo si guardava bene da quella famiglia da
quando suo marito era finito in guai legali con i conti dell’azienda e
l’avvocato Della Corte aveva fatto di tutto per far vincere il suo cliente. Gli
aveva reso la vita impossibile, ma questo era accaduto anni prima, quando
Benedetta frequentava la stessa scuola del primogenito Della Corte, Amedeo. Dai
racconti di sua sorella, le era parso che lui fosse la versione maschile di
Roberta, solo probabilmente meno fissato per le borse marcate e isterico.
Comunque sia, non le pareva una buona idea quella di dirle che aveva passato la
serata con lei.
- Allora?- insistette Margaret,
evidentemente irritata dalla distrazione di Chiara. Quella alzò le spalle e
lasciò fare alla sua lingua maledettamente convincente. Se aveva una qualità
era quella di saper mettere insieme le parole in qualunque situazione. Non si
trattava di mentire, a suo parere, solo di esercitarsi nel botta e risposta.
Probabilmente era la velocità che le mancava.
- Sono stata a guardare fino a tardi Mean Girls- sbuffò scocciata, tirandosi
la sciarpa gialla fin sulle guance per il freddo che aleggiava nell’abitacolo.
La donna annuì soddisfatta, tornando a fissare la strada umida della pioggia
della notte prima.
- Come mai non hai mangiato i nachos che c’erano in cucina? Hai smesso
con quella storia di dimagrire, vero? – Margaret tornò all’attacco, questa
volta seriamente preoccupata. Chiara aggrottò le sopracciglia e sospirò
sonoramente, battendo un piede come faceva di solito in situazioni scomode. Poi
però si calmò improvvisamente, al pensiero che Roberta aveva avuto la premura
di aspettare il fattorino. Si sentì improvvisamente imbarazzata e si ripromise
che, semmai quella mattina le avrebbe parlato, le avrebbe chiesto scusa per
quel suo comportamento totalmente privo di rispetto. Pensare che Roberta era
stata così affabile e dolce le fece stringere lo stomaco in quella ormai
familiare sensazione di assenza di gravità.
- No, mi sono fatta un panino- snocciolò stancamente, desiderando di arrivare
il prima possibile a destinazione. Quando Margaret inchiodò davanti al liceo,
fece per scendere, ma poi si sporse verso il finestrino.
- Come sono andati gli interventi,
mamma?- chiese, seria. La donna abbassò il capo, stringendo le mani sul
volante.
- Ne ho salvato solo uno- biascicò, evidentemente abbattuta. Si riprese
immediatamente e le sorrise, nel modo più sincero possibile. Di certo Chiara
non aveva preso da lei la rigidità dei suoi sorrisi. – Ma il bambino è stabile-
si affrettò a precisare, palesemente in lotta contro le sue emozioni. Chiara
annuì e per un attimo sentì l’impulso di andare ad abbracciare sua madre. Ma la
campanella suonò e la costrinse a correre senza nemmeno salutarla.
***
Un boato di voci si alzò dalla classe
quando, nell’ora in cui avrebbero dovuto fare chimica, entrò la professoressa
Morra annunciando che il professor Abbatelli era assente per influenza e che
avrebbero dovuto passare l’ora nel totale silenzio poiché nessuno era
disponibile per una sostituzione. Chiara non ci fece molto caso, come da routine
sfilò dallo zaino il libro che quella mattinasi era distrattamente portata dietro e ne lesse il titolo. “La fattoria degli animali” di G. Orwell,
si sorprese di averlo ancora. L’aveva letto in seconda media, probabilmente uno
dei primi classici che le aveva regalato suo padre. Leggermente infastidita di
non aver preso un libro più interessante, lo aprì a caso e cominciò a leggere a
frammenti. Non riuscì ad arrivare a metà pagina che Sabrina la spintonò.
- Su, posa quel libro, non ti
smentisci mai… Andiamo in corridoio?- domandò, ridacchiando. Chiara scosse la
testa e tornò alla sua lettura, ignara del fatto che sarebbe stata nuovamente
interrotta di lì a poco. Sentì Carmen cingerle delicatamente il collo in un
abbraccio scherzoso e piegò la testa fino a poggiarla sulla sua spalla. Era
normale per loro abbracciarsi nei momenti più impensabili per poi ritornare
alle proprie faccende facendo finta di nulla, era così che trovavano il tempo
di dimostrarsi l’affetto che le legava. La mora si sedette sulla sedia di
Sabrina, mentre quella era fuori con quasi metà della classe.
- Come mai ieri sera non mi hai
chiamata? Guarda che lo so che tua madre aveva degli interventi- l’ammonì,
volgendole uno sguardo eloquente. Chiara sbuffò e chiuse il libro di scatto.
Non voleva sentirsi vulnerabile, di certo non aveva bisogno che Carmen le
tenesse compagnia, sapeva cavarsela benissimo da sola.
- Perché avrei dovuto chiamarti? So
cavarmela, non sei la mia balia…- disse, un po’ risentita. Sapeva che lei lo
faceva per il suo bene, ma proprio non le andava giù il fatto di mostrarsi
debole. Vide la fronte dell’amica contrarsi ancora di più, dubbiosa. Poi si
rilassò e sembrò riacquistare un cipiglio dolce.
- Perché l’ultima volta che sei
rimasta sola a casa mi hai chiamata in preda al…- cominciò, ma fu veementemente
interrotta dalla rossa.
- Shh, abbassa la voce! Già sono mira
di parecchi scherzi in questo manicomio… non voglio che si sappia in giro-
ammiccò alla testa bionda di Vanessa che cercava di specchiarsi del vetro della
finestra. Carmen si morse un labbro, ma continuò.
- Non voglio che ti ricapiti, stavi
male… Non voglio che tu ti senta sola- mormorò turbata, stringendole un polso –
Soprattutto perché non lo sei-
Chiara le sorrise, piegando gli angoli
della bocca.
- E comunque ieri sera non ero sola…-
si lasciò sfuggire. Si bloccò subito senza motivo. Perché non voleva dirle di
aver passato la serata con Roberta? Inspirò violentemente.
- Ero con Roberta… L’ho incontrata in
palestra e aveva bisogno di una mano con il tema così… l’ho aiutata- si
giustificò velocemente. Carmen sembrò cambiare almeno una decina di espressioni
nei cinque minuti a venire. Prima scoppiò a ridere, credendolo uno scherzo. Poi
impallidì e aggrottò le sopracciglia, nemmeno le avesse detto di aver passato
la sera in un cimitero a compiere riti satanici.
- Stai dicendo sul serio?- domandò
infine a Chiara, palesemente sotto shock.
- Abbiamo fatto i compiti e poi se n’è
andata…- concluse la rossa, omettendo volutamente la parte in cui lei si era
addormentata come un ghiro e Roberta le aveva lasciato il suo numero di
telefono. Aveva solo quattro parole per quello, imbarazzante fino all’inverosimile.
La relativa tranquillità della classe
fu turbata quando il vicepreside entrò in classe e chiese di poter parlare con
Carmen in privato.
- Che cosa dovrà dirti?-
- Sono pur sempre l’ex rappresentante
di classe- Carmen accompagnò quella frase con un fruscio di capelli degno di
una diva del cinema. Rise, ma poi tornò subito seria.
- Attenta a quella Della Corte, non
voglio che… insomma lo sai- sussurrò a Chiara, per poi uscire dall’aula.
Certo che lo sapeva. Carmen aveva
paura che quello fosse l’ennesimo modo per prenderla in giro, ma chissà come
mai, questo pensiero non aveva mai nemmeno sfiorato Chiara.
***
Due giorni dopo, Chiara scattò in
piedi non appena la sveglia emise il primo trillo. Sorrise, estremamente
soddisfatta della sua precisione e si concesse qualche minuto per guardare il
soffitto bianco. Si ritrovò a pensare alla scuola, al greco e alla faccia che
la professoressa Morra aveva fatto leggendo il tema di Roberta. Si era sentita
orgogliosa, come se quello fosse tutto merito suo. In verità un po’ si sentiva
l’artefice di quel piccolo successo, ma era sicura che se Roberta non avesse
insistito non l’avrebbe mai aiutata. Non era proprio il genere di persona
che si definiva altruista e, d’altronde, non avrebbe avuto alcun motivo di
aiutare una quasi sconosciuta. Proprio non riusciva a spiegarsi perché tutta
quell’avversione nei confronti di Roberta. Qual era il problema? La odiava,
forse? Era lecito odiare così qualcuno senza motivo? Di motivi potevano esserci
a bizzeffe, però. Il problema è che sembrava averli dimenticati tutti da
qualche giorno a questa parte. Cercò di distrarsi e si diresse in bagno,
passandosi una mano sugli occhi stanchi.
Si guardò allo specchio e
improvvisamente chiuse gli occhi, come se si fosse appena ricordata di qualcosa
di importante. Cosa avrebbe fatto con Riccardo? Erano un po’ di giorni che non
rispondeva ai suoi messaggi, riconoscendo ogni volta il solito brontolio fastidioso
che le assaliva la bocca dello stomaco. “Diamine!
Ha palesemente una cotta per me! Non riuscirei nemmeno a guardarlo in faccia!
Ma che cosa mi sta succedendo? Sono una codarda” piagnucolò
fra se, mentre si passava la crema idratante sulle lentiggini. Da quella volta,
la mattina del compito di algebra, aveva declinato tutte gli inviti di Riccardo,
senza nemmeno fermarsi a riflettere sul perché. Non aveva mai pensato
effettivamente a cosa sarebbe successo se avessero affrontato quell’argomento. Insomma, erano migliori
amici, magari provare ad essere qualcosa di più sarebbe stato dannoso per
entrambi. Eppure lui era così dolce con lei, così gentile, come pochi ragazzi
nella sua vita. La disavventura con Alessio gravava ancora sul suo orgoglio. Baciarlo
e non provare assolutamente nulla era stato quanto di più frustrante nella sua
giovane vita. E se con Riccardo fosse stato diverso? Soffocò questi pensieri,
conscia di star ormai vaneggiando.
Gettò la spazzola sul letto, una volta
tornata in camera.
Afferrò il cellulare, stizzita. Notò
l’ultimo di una serie di messaggio dell’ormai non più innocente migliore amico. Sibilò una parolaccia e
si convinse ad affrontarlo.
“Sono ancora viva, ti aspetto fuori
scuola all’una e un quarto” gli scrisse, per poi scendere giù a far colazione,
con la brutta sensazione di non aver avuto esattamente una buona idea.
A scuola apparve stranamente
silenziosa, si limitò a fissare il banco con occhi sbarrati per la maggior
parte delle lezioni. Non voleva ammettere che ogni campanella le provocava un
terremoto allo stomaco.
- Di questo passo ci rimarrò secca…-
mormorò disperata,passandosi una mano fra i capelli. Quando vide che la
professoressa di filosofia era uscita dalla classe, abbandonò la testa sul
banco con un brontolio. Ivan, al suo fianco, sembrò particolarmente interessato
ai pensieri che la tormentavano, ma prima che potesse anche solo ridestarla dal
suo angoscioso torpore, il vicepreside piombò in classe.
- Il professor Abbatelli è ancora
ammalato, farete meglio a non fare caos perché la vicepresidenza è proprio
sotto di voi- li minacciò, ma nessuno sembrò dargli ascolto. L’uomo uscì dalla
classe con aria offesa, mentre qualcuno gli ridacchiava dietro. Chiara si
ricordò improvvisamente che quella mattina, nel suo stato post dormita, si era
ripromessa di parlare con Roberta. Sbuffò e girò la testa per cercarla fra la
calca vicino alla finestra. La vide invece seduta al suo banco, mentre
rileggeva degli appunti. Si alzò, senza pensare, e le si parò davanti.
Roberta alzò gli occhi, palesemente
perplessa.
- Ciao- cominciò, gettando prima
un’occhiata a Vanessa, che nel frattempo stava spettegolando sull’ultima fiamma
di Ivan al centro della classe.
- Anche a te- rispose Chiara, brusca.
Fece un respiro e continuò. – Sono contenta che il tema sia andato bene-
Della Corte si aprì in uno dei suoi
sorrisi enigmatici.
- E’ tutto merito tuo, no?- le
domandò. Era una specie di ringraziamento?
- Già… Senti mi dispiace di essermi
addormentata, quella sera. Non so cosa mi passasse per la testa. Non hai
mandato fotografie di me che dormo con Freddie a tutta la scuola, vero?- chiese
timorosa, abbassando lo sguardo e avvampando. Roberta si alzò, scosse la testa
e si diresse verso la porta.
- Dove vai?-
- C’è troppo caos qui e vorrei
ripetere…- le rispose debolmente, spostandosi una ciocca color ebano dagli
occhi.
- Oh, io ti ho disturbato…- Chiara
strinse le labbra e si preparò a tornarsene nell’ombra. E l’avrebbe fatto il
più velocemente possibile se Roberta non le avesse per riflesso involontario afferrato
un braccio.
- No, per carità… I-io… Cosa mi stavi
dicendo? Possiamo continuare fuori- le disse, trascinando le parole
nervosamente una dopo l’altra, come se volesse farle sfuggire dal suo stesso
controllo.
Camminarono per i corridoi deserti,
per poi attraversare la porta bianca che si scorgeva alla fine del primo piano.
Quando uscirono sulle scale antincendio, Chiara sentì una raffica di vento
colpirle il collo scoperto, mentre i capelli ondulati erano raccolti in una
treccia aggrovigliata sul lato sinistro. Roberta sembrò incuriosirsi a quella
vista e le si avvicinò subito.
- Posso rifarti la treccia?- chiese,
con un espressione troppo innocente per appartenere ad un’adolescente. Chiara
non aveva mai visto lo stupore genuino dei bambini, o la loro eterna
eccitazione, stampati sui grugni tesi degli adolescenti. Era come se certe
capacità si perdessero alla soglia dei tredici anni, irrimediabilmente. Eppure,
Roberta ancora la guardava con quella strana luce negli occhi, come se fosse
una bambinetta che gioca con le bambole. Annuì, non senza aprirsi in
un’espressione alquanto scettica. Si sedettero sulle scale metalliche con la
distanza di un gradino, in modo che la riccia le potesse legare meglio i
capelli rossi. Mentre le sue dita sottili vagavano fra quei fili incandescenti,
Chiara rimase immobile a pensare, sentendosi terribilmente rilassata. Chiudendo
gli occhi, sentì la brezza di metà mattinata accarezzarle, a tratti
violentemente, il viso. L’ansia di vedere Riccardo e chiarire se ne andò così
com’era giunta. Si ricordò di quando era piccola e si sedeva ai piedi
dell’albero di mele piantato in mezzo all’orto di sua nonna Agnes, in
Irlanda. Nei giorni di sole, se ne stava lì per ore nella stessa posizione, e
ogni volta godeva di quella sensazione di totale annientamento. Dopo qualche
minuto infatti, smetteva di sentire l’impulso di muovere le braccia o di
contorcere le labbra, e rimaneva immobile mentre si sentiva svanire a poco a
poco.
- Ti sei addormentata di nuovo?-
La domanda di Roberta le arrivò
improvvisa come uno schiocco di frusta. Aprì gli occhi di botto e li
assottigliò.
- No, stavo solo pensando- mormorò
imbarazzata. Si era ripromessa di non sembrare rigida, ma proprio non ce la
faceva. Era colpa sua, non di Roberta. Non riusciva a dare un tono alla sua
voce che non fosse tirato.
- A che pensavi?-
Quella smise di trafficare con i suoi
capelli e le porse uno specchietto. Chiara si guardò e con sollievo constatò
che la situazione era davvero migliorata.
- Pensavo che se provi a stare ferma
per più di un secondo, contro il vento, ti senti svanire. - mormorò,
calma. Poi, vedendo che l’altra non capiva, aggiunse -Come sabbia-
- Pensi che funzioni anche con i
problemi? Insomma… Perché non possiamo semplicemente lasciarli contro il vento
a dissolversi?- le chiese, sedendosi accanto a lei, dall’altro lato del gradino
di metallo.
- Tu hai problemi?-
Le parole di Chiara si persero in una
raffica di aria più forte delle precedenti.
- Perché non dovrei averne?-
- Perché hai praticamente tutto! Sei
bella, hai tutta la scuola ai tuoi piedi, sei popolare e nessuno ti ha mai
chiusa nei bagni- borbottò la rossa, tastandosi la treccia.
Roberta Della Corte sorrise e abbassò
lo sguardo. Quando si decise a parlare, il vento si era calmato.
- Mi dispiace per quella volta,
Vanessa è stata davvero crudele- si limitò a dire. – E tu hai problemi,
Chiara?-
Forse nessuna delle due se ne accorse,
ma sul gradino sopra di loro giaceva ancora il libro di matematica di Roberta.
- Perché dovrei averne? –
La sua ultima domanda lasciò entrambe
interdette. Rimasero in silenzio finché Roberta non si ricordò di avere delle
definizioni da ripassare, dopo di che l’unica cosa di cui parlarono furono i
risultati degli ultimo compiti di greco.
-E so a cosa stai pensando, non vuol
dire nulla il fatto che praticamente nessuno in questoposto
vorrebbe essere te. Non sei così debole come vogliono farti
credere. A dirla tutta, tu mi sembri persino più forte di Vanessa. Sei solo
fatta a modo tuo-
All’improvviso, mentre si stavano alzando,
Roberta parlò. I suoi occhi si puntarono decisi in quelli di Chiara e lei
sembrò voler riprendere un vecchio discorso. Il vento tornò ad alzarsi e
Vanessa si sporse dalla porta per richiamare l’attenzione dell’amica. Quando
Roberta se ne andò, lasciando Chiara seduta sulle scale, tutto apparve più
chiaro. Non era lei che odiava, era il fatto che non riuscisse mai a capire
quali parole usare per depistarla dalle sue giuste supposizioni, il fatto che
Roberta spuntasse all’improvviso fra le pieghe della sua vita come una
personaggio senza ruolo. Cos’era Roberta per lei? Non sapeva cosa pensare. La metteva
totalmente in crisi, con queste sue piccole comparse di per sé insignificanti. Forse
era questo il motivo per cui l’aveva mal sopportata fino a quel momento. Scosse
la testa, troppi pensieri. Si alzò dalle scale e si diresse di nuovo in classe.
Si sedette con calma dietro il suo banchetto e vide Roberta ammiccarle dall’altra
parte della classe, fra una chiacchiera e l’altra con Angela. La rossa abbassò la
testa, sentendosi arrossire per la milionesima volta quella mattina.
Abbassò il finestrino, facendo una smorfia infastidita allo stridio di
una foglia che si era incastrata nella fessura fra il vetro e la gomma dello
sportello
Abbassò il
finestrino, facendo una smorfia infastidita allo stridio di una foglia che si
era incastrata nella fessura fra il vetro e la gomma dello sportello. Sbatté i
piedi indispettita, irritata, come faceva sempre quando suo padre parlava al
cellulare in macchina e alzava eccessivamente la voce. Succedeva, di solito,
negli unici momenti che Chiara passava con Matteo e questo lo rendeva ancora
più tedioso. Era venerdì e, come da rituale, era suo padre ad accompagnarla a
scuola.
- Potresti smetterla di
sbattere le scarpe sul cruscotto, Chiara?- le domandò l’uomo, sforzandosi di
non apparire troppo nervoso. In realtà, era ben evidente dalla ruga che gli
attraversava la fronte che ci fosse qualcosa che gli era scomoda.
- E tu potresti
smetterla di parlare con quell’idiota del tuo collega, Matteo?- lo rimbeccò
sagacemente, con uno di quei sorrisetti strafottenti che riservava solo a suo
padre. Non era mai stata una ragazza particolarmente irrispettosa, se non con
suo padre. Probabilmente il fatto che non ci fosse mai l’aveva portata a non
considerarlo più un’autorità a cui dare ascolto, ma sono un bellimbusto sui
cinquant’anni che in estate ancora indossava i bermuda da ragazzino. Vide
la maschera di suo padre piegarsi su se stessa, in un’espressione di puro
disappunto. Era disappunto quello? O forse qualcosa di più? Chiuse la chiamata
con un saluto freddo e si rivolse alla figlia, girandosi verso il posto del
passeggero.
- Signorina, smettila
di essere così scontrosa… Ultimamente stai diventando un po’ troppo
irrispettosa-
Chiara rise
spudoratamente. Quando sua padre la chiamavasignorinasignificava solo che era
arrivato al limite della sopportazione. Smise di picchiettare la punta delle sue
converse contro il cruscotto e prese a guardare fuori dal finestrino.
Il cielo
era latteo, le nuvole si distinguevano solo per le loro sfumature violacee che
presagivano una buia giornata di pioggia. Appoggiò la fronte contro il vetro
freddo e chiuse per un attimo gli occhi. Si sentiva terribilmente stanca e
debole, come se la notte precedente non avesse chiuso occhio. Faticava persino
a mantenersi dritta sul sedile e accoccolarsi contro lo sportello le sembrò
l’opzione più confortevole. Forse era il vortice dei suoi pensieri, tanti piccoli pezzi
di vita che orbitavano intorno al suo cervello come piccoli satelliti,il motivo per cui Chiara non riusciva più ad analizzare le cose
oggettivamente come aveva sempre fatto.
“Perché
non cambia mai nulla?” si ritrovò a pensare, mentre l’auto costeggiava la
periferia del paese, occupata in gran parte da sterpaglie secche accatastate in
mucchi ai lati dei campi coltivati e da arbusti appena fioriti. La situazione
con Riccardo non si decideva a passare al livello successivo e Chiara aveva
paura che, se non avesse subito fatto qualcosa, lui avrebbe trovato
qualcun’altra. Magari qualcuna più carina, intelligente e brillante di lei.
Persino la sua forte autostima, temprata a furia di sfrecciatine e dispetti dei
compagni di classe, si stava indebolendo. Semplicemente, si sentiva tristemente
apatica e questo la faceva arrabbiare più di ogni altra cosa.
Era sempre
stata il tipo di ragazza attiva, frenetica, sempre occupata a far qualcosa,
senza il tempo di fermarsi a pensare al futuro, mai si era lasciata andare su
se stessa in questo modo.
Il giorno
prima, quando aveva incontrato Riccardo all’uscita della scuola, non si erano
praticamente detti nulla. Si erano limitati a guardarsi, sorridersi di
sottecchi, camminare con le mani che si sfioravano e fissarsi le scarpe.
Chiara, segretamente, si era aspettata che lui passasse all’azione e quando ciò non era successo, il nervosismo
che l’aveva accompagnata per tutta la mattinata le era sembrato pateticamente
ridicolo.
Non era
certo una di quelle che credeva alle fiabe sul principe azzurro che faceva la
prima mossa e conquistava il cuore della bella ed ingenua principessa. Anzi,
non ci aveva mai proprio creduto nell’amore di quel genere. I ragazzi l’avevano
sempre delusa, additandola come strana e bizzarra, e aveva capito che era
meglio non lasciarsi andare troppo coi sentimenti se si voleva mantener salda
la propria salute mentale.
Roberta
non sembrava pensarla allo stesso modo però. Aveva sentito dire in giro che
stava ancora con quel Massimo, nonostante la sofferenza di cui solo lei era
stata testimone. Le piaceva pensare che, se fosse stata al posto suo, avrebbe
mollato un bel ceffone a quello spaccone pubblicamente e l’avrebbe lasciato
procurandogli tutta l’umiliazione possibile.
Riaprì gli
occhi, proprio mentre nella sua mente si era formata l’immagine di Massimo con
naso rotto e sanguinante che piagnucolava nel mezzo dell’assemblea d’istituto,
sentendo suo padre tossicchiare.
- Va tutto
bene?- le domandò, lanciandole un’occhiata preoccupata, fermandosi ad un
incrocio.
- Certo,
perché non dovrebbe?- chiese di rimando Chiara, sbadigliando, irritata. Certe
volte suo padre le dava davvero sui nervi.
- Mi
sembri strana ultimamente…-
Lei
scoppiò di nuovo a ridere, come per prenderlo in giro.
-
Ultimamente? Come fai a saperlo se parliamo si e no ventiquattro ore a
settimana?-
Si accorse
di aver fatto centro nella sua coscienza quando lo vide stringere le labbra e
fissare la strada con occhi sbarrati.
- Cosa
c’entra questo?-
- C’entra,
papà. Sono solo stanca di tutto questo-sbuffò platealmente, allargando le braccia. Come faceva a non rendersene
conto?
- Tutto
questo cosa?-
- Tutto questo cosa!? E’ questo quello che
mi sai dire? Come fai a non accorgertene? Vivo da sola in quella casa, cresco
da sola, studio da sola, ceno da sola! Io sono sempre strana solo che tu non
hai il tempo di rifletterci! Ma d’altronde l’ho sempre fatto, no? D’altronde ho
su per giù diciassette anni ed è normale, sono grande, posso stare da
sola-per poco non urlò, stringendo i
pugni. Aveva paura di essersi resa ridicola, ma aveva bisogno di sfogarsi con
qualcuno che non fosse un sacco da boxe. Matteo rimase in silenzio a fissare la
prima pioggerella cadere sulla strana polverosa di campagna.
-So che i
nostri lavori sono spesso molto impegnativi, ma non credevo che la nostra
assenza potesse farti così male- si limitò ad ammettere, mentre svoltava nella
strada del liceo.
-
Svegliatevi, anche io sono un essere umano!- borbottò, mordendosi le labbra.
-
Cercheremo di essere più presenti, ma anche noi abbiamo i nostri doveri, lo
sai… Lo facciamo per te, per tua sorella… Per…-
- Per il
mio futuro… Lo so, l’ho imparato a furia di sentirmelo dire! Senti, devo
andare, ci vediamo-mormorò, delusa.
Forse il primo uomo che l’avesse mai delusa era proprio lui.
Mentre
Matteo spegneva il motore, fermandosi davanti al liceo basito, Chiara vide
Roberta sul muretto che fumava una sigaretta, con i suoi soliti ricci neri e
perfetti e gli occhi contornati di matita. Mentre una sottile pioggerella
batteva sui tetti, di nuovo non poté fare a meno di domandarsi perché non
cambiava mai nulla.
***
Proprio
mentre stava per varcare la soglia dell’istituto si sentì chiamare e non le
riuscì difficile immaginare a chi apparteneva quella voce roca e strascicata.
-‘Giorno-
biascicò in risposta Chiara, facendo dietro front e trovandosi davanti il viso
di Roberta Della Corte piegato nel suo solito broncio da dura.
- Ciao- la
riccia le fece un piccolo sorriso, stranamente troppo timido perché passasse inosservato ad
un’acuta osservatrice come Chiara. Questa strinse nervosamente le spalline
dello zaino, cercando di guardare dovunque tranne che dritto verso il viso
pallido e statuario di Roberta. Non doveva guardarlo, aveva paura che senza
volerlo l’avrebbe fissato per minuti interi, persa e confusa com’era.
- Allora,
non entri?- le domandò dopo due minuti buoni, vedendo che se ne stava ancora lì
di fronte a lei, palesemente in attesa di qualcosa.
- Ma non
abbiamo Abbatelli alla prima ora? Non abbiamo mica fretta- si giustificò
Roberta, fissandosi le scarpe con un’espressione colpevole. A Chiara non sfuggì
nemmeno la venatura di imbarazzo che attraversò per un secondo gli occhi
cerulei dell’altra. Che cosa le stava succedendo? Vedere Roberta Della Corte
con la cresta abbassata era più raro di sentire una parolaccia dalla bocca di
Michele “so-tutto”.
- In
effetti… Meglio restarsene sulla soglia dove chiunque può vederti e andare a
dire al vicepreside che hai allegramente marinato la prima ora- la rossa alzò
un sopracciglio, scettica, con un ironico sorrisetto sulle labbra. Roberta
arrossì sulle gote, per poi scuotere il capo e dirigersi di nuovo verso la
strada trafficata.
- E ora
dov’è che vai? Anzi, lascia stare… nemmeno m’importa- disse, sussurrando appena
l’ultima frase, senza nemmeno aspettarsi che l’altra si voltasse. Invece
Roberta si voltò, alzando le sopracciglia.
- Oh, si
che t’importa… Altrimenti non mi staresti ancora fissando- la provocò la
riccia, ritornando per un attimo l’irraggiungibile e intoccabile amica di
Vanessa.
- Al
diavolo, ci mancavi solo tu- imprecò sottovoce Chiara,voltandosi e cominciando a
camminare verso il portone verde, sentendo la fastidiosa pioggerella bagnarle
le scarpe.
-
Scherzavo!- le urlò dietro Roberta. La rossa ghignò a sua volta, con l’iniziale
intenzione di non girarsi, ma fu presto agguantata dalla timorosa stretta della
compagna e trascinata di nuovo in strada.
- Si può
sapere cosa c’è ancora?- quasi ringhiò.
- Perché
sei così tesa? Sembra che tu voglia fare a pugni-
- Che te
ne importa…-Chiara colpì con la punta
delle scarpe un sassolino, mandandolo in una pozzanghera.
- Ti ho
visto litigare con tuo padre. Quello era tuo padre, vero?-
- Si, era
mio padre… questo è tutto ciò che saprai da me sull’argomento-
- Ti
andrebbe di prenderti un caffé con me? Tanto sicuramente Abbatelli è di nuovo
assente-
Chiara
alzò la testa, sorpresa. Era tutto così strano. Davvero stavano diventando
amiche?
Ci pensò
su. Poteva accettare e godersi un caffé caldo al bar del parco e calmare quella
rabbia cieca che la stava divorando, correndo anche il rischio di essere
beccata, oppure entrare in classe, al sicuro, ad annegare la sua amarezza in
uno stupido libro di poesie.
-E’ strano
che tu me lo chieda…- mormorò poi fintamente pensosa, con un indice sul mento,
sfidandola con uno sguardo ammiccante.
- Sentiti
onorata, piuttosto! Allora ci vieni o no?- sbuffò brusca, roteando gli occhi e
assottigliando le labbra.
- Calma,
tigre. Ci sto. Solo, muoviamoci, sto congelando- acconsentì, coprendosi la
testa col cappuccio della sua giacca blu, scorgendo la macchina di Carmen
avvicinarsi pericolosamente al marciapiede.
Roberta
sorrise, calandosi anch’ella il cappuccio della sua felpa grigia sul capo e
cominciando a correre.
Dopo
cinquecento metri, le ginocchia di Chiara cominciarono a dolere e lo zaino
pieno di libri a pesare, senza contare che il suo stomaco brontolava senza
sosta perché si era rifiutata di fare colazione.
- Andiamo
al bar del parco?- domandò a Roberta, mentre si allontanavano dalla macchia
incolore dell’istituto “Giulio Cesare” fianco a fianco e zigzagavano sotto la pioggia
fra decine di auto impazzite. L’altra si voltò verso di lei, scrutandola con
discrezione come se stesse per rivelarle un importantissimo segreto.
-
Veramente pensavo di andare in un altro posto, ecco… Non è molto lontano, però.
Vedrai-
- Tutto questo
è decisamente surreale!- ridacchiò la rossa, sorridendole per la prima volta
spontaneamente. La brutta sensazione di oppressione che aveva provato stando
seduta in macchina con suo padre, l’inerzia che le appesantiva le gambe, la
nebbia che sembrava offuscarle la mente, tutto sembrava essere sparito e
Chiara, correndo a perdifiato sotto la pioggia con la sua una volta peggior
nemica, poteva dirsi quasi felice.
- Ti sei
addormentata mentre aspettavamo la cena a casa tua. Quello si che era
surreale!- esclamò la riccia con espressione di superiorità.
- Hey, ti
ho già chiesto scusa per quello!- arrossì Chiara, meritandosi una risatina da
parte di Roberta. Era curioso come persino le sue risate stessero cambiando,
come stessero diventando più rilassate e senza pretese, come se finalmente non
avesse paura di esprimersi per davvero.
Camminarono
punzecchiandosi ancora per dieci minuti, e, svoltate in una piccola stradina
secondaria del corso principale, Roberta si fermò davanti alla facciata
grondante d’acqua di una piccola tea room dall’insegna di legno scrostato.
- Siamo
arrivate- sorrise a Chiara, scoprendosi il volto bagnato e trascinandola dentro
il locale.
Subito un
caldo tepore e un aroma di tè verde e caffé bollente le pizzicò le narici e,
animata da una nuova ondata di energia, puntò gli occhi ovunque le fosse
possibile. Inquadrò il bancone lungo e di legno scuro, le pareti di color pesca
con alcune stampe di foggia novecentesca, i tavoli della stessa consistenza
degli sgabelli e del bancone, disposti abbastanza lontani gli uni dagli altri e
qualche anziana signora che sedeva in fondo al locale con un quotidiano e una
tazza di tè. Chiara rimase leggermente a bocca aperta, guardandosi
ulteriormente attorno.
- Molto
carino- esalò sorpresa, girandosi verso Roberta e vedendola parlare con una
donnina dai capelli grigi e cotonati.
- Su,
vieni- la incitò a sedersi e Chiara prese posto ad un tavolino vicino alla
grande vetrina dove erano esposti dei dolciumi artigianali.
- Conosco
la proprietaria, era amica di mia nonna… Come mai quella faccia?-
- Io? Beh,
è proprio un bel posto e io…-
- Non ti
aspettavi che Roberta Della Corte frequentasse certi posti, eh?- ridacchiò
ironica, sporgendosi verso di lei per agguantare il menù.
- Non
esattamente, ma il succo della cosa è quello, si. Più che altro non so come
diavolo ho fatto a non scoprire questo posto prima- farfugliò confusa la rossa,
afferrando l’altro menù.
Ordinarono
un tè al bergamotto e un caffé americano con panna e per un momento stettero a
fissarsi senza sapere cosa dire.
- Posso
farti una domanda?- esordì nervosa Chiara, fra gli sbuffi della sua bevanda
bollente.
- Quello
che vuoi- acconsentì Roberta, distratta dalla pioggia che scrosciava sempre più
violentemente oltre la vetrina.
- Perché
ho come l’impressione di… star diventando tua amica?-
La riccia
alzò gli occhi cerulei verso di lei e arcuò le sopracciglia.
- In
effetti me lo sono chiesta anche io. Ma in fondo non potevamo mica odiarci per sempre,
no?-
- No,
sarebbe stato poco maturo-
- Già… Hai
un po’ di panna qui- indicò il suo labbro inferiore, per poi sporgersi verso di
lei e ripulirla lei stessa. Chiara sentì le sue povere guance bruciare come una
foresta in fiamme e si impose di non chiedersi il perché.
- E ora
posso farti io una domanda?-
- Quello
che vuoi-
- Sabato
prossimo compio diciotto anni e papà mi ha finanziato una festa megagalattica a
casa. Tu saresti disposta a venire, in quanto mia nuova “amica”?- le sorrise
ammiccando, mimando le virgolette con le dita. Chiara si prese un momento per
pensarci.
- Beata te
che già li compi diciott’anni! Io devo aspettare luglio per farne diciassette,
pensa! Comunque ci sto…- rispose vaga, continuandola a fissare come se ci fosse
qualcos’altro da verificare in lei.
-… ma
prima vorrei sapere un’altra cosa- continuò, cauta. Roberta fece un cenno con
la testa per poi prendere un altro fumante sorso di tè.
-
Massimo?-
Quel nome
era sufficiente a sintetizzare tutto ciò che le serviva sapere. Stai ancora con quel rozzo? Ti ha più dato
fastidio? Lo ami a tal punto? E’ solo la tua sciocca copertura con Vanessa?
Cosa hai bisogno di coprire?
La ragazza
abbassò immediatamente lo sguardo, rabbrividendo. Chiara poté percepire anche
dall’altro capo del tavolino il brivido che la colse. Era sufficiente.
- Fermami
subito se credi che io stia infierendo, ma personalmente non credo che sia una
buona idea restare con lui per te se: primo, non lo ami, cosa che sembra abbastanza
palese; secondo, serve solo a fare scena, e oltretutto una scena pietosa,
credimi; terzo, continua a farti del male- snocciolò concisa Chiara, facendo
tintinnare la tazza contro il piattino in ceramica per la stizza.
Roberta
continuava a starsene in silenzio.
- Stai
infierendo, ma credo tu abbia ragione- sbuffò esasperata, tirando fuori i soldi
per il conto.
- Ma che
fai? Non se ne parla, non mi pagherai la colazione- la sgridò Chiara,
segretamente sorpresa dal gesto galante dell’altra. Arrossì scoprendosi
addirittura lusingata.
- Tu
dici?- la sfidò Roberta, sgusciando via dalle sue braccia che già stavano per
afferrarle, dirigendosi in fretta verso la donnina del bancone.
- Sei la
persona più idiota che conosca- ridacchiò la rossa, mentre uscivano dal locale,
seguita a ruota dalla compagna.La
pioggia era lievemente diminuita, ora solo poche gocce sottili cadevano sui
loro cappucci quindi fu molto più semplice tornare indietro verso il liceo.
Mancavano ancora dieci minuti al suono della seconda campanella così Chiara
decise di ripararsi sotto i portici di un palazzo adiacente, sedendosi sui
gradini umidi e tossendo infastidita dal momento che Roberta si era accesa
un’altra sigaretta.
- Sto
continuando ad infierire, ma secondo me fumi un po’ troppo- gracchiò, quasi
soffocata dal fumo che l’altra aspirava senza battere ciglio.
- Vuoi
provare?-
- Stai
scherzando spero- rise nervosamente la rossa, guardandola come se la pioggia le
avesse annacquato il cervello.
- No, era
una domanda come un’altra… vuoi provare?-
- Da’ qua-
sentenziò Chiara, afferrandole la sigaretta e provando a fare un paio di tiri.
Il tentativo fallì miseramente e si concluse con un violento attacco di tosse,
tanto che Roberta dovette darle un paio di colpetti sulla schiena.
- No,
decisamente non fa per te- scherzò, gettando la cicca sul marciapiede bagnato e
calpestandola.
- La
prossima volta che ti vedo con una di queste in mano giuro che te le butto nel
primo cestino che mi trovo davanti- borbottò Chiara, scuotendo la testa.
- La
prossima volta…Si, certo, come no!- scimmiottò Roberta, sventolandole davanti
l’intero pacchetto di sigarette, invitandola a strapparlo dalle sue mani. La
rossa scoppiò a ridere e cercò di afferrarlo, bloccandole le braccia e cercando
di distrarla. Quella familiarità e quel contatto fisico non sembrò dispiacere a
Roberta. Tutt’altro.
- Che c’è,
non ci credi? Guarda che sono una tosta io!- esclamò fintamente minacciosa
Chiara, abbandonando però il tentativo di sottrarle il pacchetto, con il suo
caratteristico sopracciglio alzato.
- Non ne
dubito- ribatté serafica Roberta, per poi guardarla direttamente negli occhi.
Chiara sentì il suo stomaco restringersi e dilatarsi insieme e la gola seccarsi.
Di nuovo, si impose di non domandarsi il perché. Sfilò le sue mani da quelle
calde della compagna, visto che senza volerlo erano ancora a contatto, e le si
mise al fianco.
-Mai
sfidare Chiara Torri- esalò con uno sbuffo, abbassando lo sguardo sul
marciapiede bagnato e mettendosi le mani in tasca. Caspita quanto le pulsava il
cuore!“Smettila, smettila, smettila. Ma
che ti prende!?” si intimò, ricomponendosi.
- A
proposito… Qualche volta potresti anche usarlo il mio numero- ammiccò Roberta,
sorridendole genuinamente per poi farle un occhiolino giocoso. Chiara era
sicura che le sue orecchie stessero andando a fuoco, più calde di un incendio
in pieno agosto.
E così
ridendo, la riccia si allontanò per poi sparire nella macchia grigia
dell’istituto Cesare.
Carmen le sventolò una mano davanti agli occhi e la guardò
pensierosa. Chiara scosse la testa in un gesto nervoso, puntando gli occhi sul
libro di filosofia e passandosi una mano sul viso, stanca. Carmen l’aveva
invitata a casa sua quel giovedì pomeriggio con la scusa di ripassare gli
ultimi paragrafi in vista dell’imminente interrogazione di metà aprile e lei
non aveva fatto altro che annuire distratta ad ogni nozione, giusta o sbagliata
che fosse, che le esponeva l’amica.
-Nulla, scusa… Sono solo stanca-farfugliò, sfogliando le pagine con noia,
fissando per un attimo il ritratto di San Tommaso e sospirando pesantemente.
- Ti ho appena detto che Campanella ha scritto “Orgoglio e
Pregiudizio”, non puoi essere semplicemente stanca- mormorò preoccupata la
mora, per poi aprirsi in una sincera risata.No, non era solo stanca.
- Non è nulla…Allora
dicevamo? Campanella?-
Chiara fissò intensamente le pagine del libro, cercando di
essere il più naturale possibile. Cosa estremamente impossibile quando nella
sua testa infuriava il caos più totale.
Appena un giorno prima si sentiva bene, leggera, addirittura
quasi dimentica delle sue pene con Riccardo, ma da quando, riflettendoci, aveva
capito che la causa scatenante di quel benessere era stata la breve parentesi
in quella tea room deserta con Roberta, aveva ricominciato ad agitarsi in una
sorta di muta inquietudine. Come mai si era sentita così bene e aveva voglia di
rivederla ancora e ancora? Di parlare con lei e camminarle al fianco, facendo
magari una delle sue figuracce e sentirla ridere di gusto.
Lì, in quella stanza con Carmen, amica di vecchia data, si
sentiva a disagio e la sensazione mai provata prima le causava un nervosismo
che le faceva tremare le dita fra le pagine.
- In realtà ti stavo esponendo una roba tipo la sessualità secondo
Foucault- replicò scettica Carmen, guardandola come se fosse uscita dai
gangheri.
A quelle parole Chiara scattò seduta, rapida e rigida come
una corda di violino.
Sessualità. No, decisamente non era il caso di parlarne. Non
che avesse dei dubbi sulla sua, ovvio. A lei piaceva Riccardo, le era sempre
piaciuto e le sarebbe continuato a piacere. Nulla era cambiato. Ma allora
perché sentiva quel grillo nella sua testa che le diceva che, in realtà, le
cose si stavano evolvendo? E perché aveva pensato automaticamente a Roberta?
Strinse i pugni e chiuse gli occhi, avrebbe giurato di aver
sentito la punta di una lacrima scivolarle nell’occhio.
- Hei…- Carmen si avvicinò a lei, posando il libro sulla
scrivania e togliendosi gli occhiali da vista.
Cercò di abbracciarla, ma Chiara si divincolò.
- Nardoni non lo chiede mai Foucault, non è necessario-
deglutì, continuando a fissare il libro.
- E chi se ne frega! Stai per piangere- sentenziò l’altra,
cercando di avvicinarsi a lei. - Ti conosco bene, lo sai-
- No, non è vero… se nemmeno io mi conosco!-quasi urlò la rossa, alzandosi dalla sedia e
cominciando a camminare da un lato all’altro della stanza, tremante. Doveva
lavorarci ancora, sul nascondere le emozioni e essere discreta.
Carmen la guardò fissa, ora seriamente preoccupata.
- Sei magari ti degni di dirmi cosa ti succede!-
- Francamente? Non lo so proprio…-sbuffò Chiara, risiedendosi e rigirandosi fra
le dita la copertina mangiucchiata del libro.
"Smettila di pensarci. Smettila di pensarci. Smettila
di pensarci. Te lo leggerà in faccia." pensò.
- Hai problemi con Riccardo, eh?-
La rossa tirò un sospiro di sollievo nel constatare che
Carmen non riusciva davvero, e per fortuna, a leggerle nel pensiero.
- Credo di si- mentì spudoratamente, mettendosi a contare le
venature del pavimento in marmo bianco. Anche se avesse voluto essere sincera
non avrebbe saputo cosa dirle.
Ho delle strane sensazioni con… No, non riusciva neanche a
pensarci, figuriamoci dirlo ad alta voce! E poi il problema con Riccardo non
era ancora stato risolto, quindi le aveva detto una mezza verità.
- La situazione è sempre la stessa immagino… Lui non si è
ancora fatto avanti, vero?-
- E non ho intenzione di farlo io-
- E perché mai? Te l’ha detto persino Sabrina che secondo noi
a lui piaci…-
In effetti persino a Chiara era ormai palese che Riccardo
avesse una cotta per lei. Allora perché non sentiva più lo spasmodico bisogno
che lui le confessasse i suoi sentimenti? Il solo pensiero di una sua eventuale
dichiarazione oramai le faceva solo attorcigliare l’intestino per il
nervosismo, non per il piacere. Magari era solo confusa, aveva letto su una
rivista dall’estetista che spesso con l’arrivo della primavera capitava di
avere sbalzi di umore per il cambiamento improvviso di clima. Forse era solo
colpa del caldo della nuova stagione che si divertiva a metterle sotto sopra
i pochi neuroni che non bruciava con lo studio ossessivo del greco e della
filosofia e a mischiarli con i suoi già impazziti ormoni da sedicenne.
- Lo so, ma non so comunque cosa fare…- mormorò fra sé,
senza guardare Carmen negli occhi, sentendo la testa sul punto di bruciare per
autocombustione.
- Parla con lui, ma parlaci stavolta! Non limitarti a stare
in silenzio come ogni volta che stai con lui… punzecchialo, cerca di fargli
capire che anche a te piace! E’ un timidone, lo sai, non si butterà mai- spiegò
con pazienza la mora, cercando di tastare la sua reazione.
- Perché i maschi sono così stupidi?-si lamentò Chiara, piagnucolando. “Ma
soprattutto perché non riescono a capirmi e a farmi innamorare?” aggiunse fra
se “sarebbe tutto più semplice.”
- Il problema è solo Riccardo?- insisté Carmen, abbandonando
oramai il pensiero di ripetere filosofia senza nemmeno tanti scrupoli di
coscienza. Chiara sospettava che quel venerdì pomeriggio fosse stato
organizzato non tanto per il ripasso quando perché a Carmen piaceva
scandagliarle la mente di tanto in tanto.
- Non lo so, ti ripeto! Cos’è tutta questa curiosità?-
Chiara alzò di poco il suo tono di voce, trasformandolo da timoroso ad
inquisitore.
- Sono o non sono la tua migliore amica?- domandò
retoricamente l’altra, evidentemente scocciata.
- Si, ma allora?-
-Allora ho il diritto di sorbirmi le tue paturnie!-
-Senti, non mi va…- sussurrò Chiara, giocherellando ora con
il bordo della sua polo rosa.
Carmen le alzò il mento con due dita e le rivolse uno
sguardo scettico.
- A te va sempre di parlare, non prendermi in giro-
-Si, ma ora non mi va! Quindi per favore… lasciami in pace e
torniamo a studiare filosofia- si stizzì la rossa, sentendosi segretamente in
colpa per comportarsi in questo modo con la sua migliore amica, la quale era
del tutto innocente in quell’assurda situazione.
Nella sua testa vagavano impazzite un’infinità di cose e
Chiara le sentiva sbatacchiare violentemente contro le tempie come pentole di
ottone. Trattene a stento l’impulso di coprirsi le orecchie e chiudere gli
occhi e riaprì il libro.
- Almeno sabato ti va ancora di accompagnarmi al centro
commerciale? Me l’avevi promesso…-
Chiara si gelò sul posto. Sabato. Sabato c’era la festa di
Roberta. Lo stomaco fece un rumore sordo e il suo viso sbiancò di colpo. Nella
sua testa volavano le peggiori parolacce.
- Sabato? Questo sabato?- balbettò, sentendosi in trappola.
Cosa le avrebbe detto?
-Si, perché, hai impegni?- domandò scettica Carmen.
-Io.. ehm.. no, figurati. Solo che non mi sento tanto bene
in questo periodo, sai… il ciclo…- mormorò sconnessamente Chiara in risposta.
Come avrebbe fatto ad andare alla festa di Roberta di nascosto ai suoi genitori
e Carmen? Si sentì soffocare.
-Sei proprio strana oggi… chissà che ti passa per la testa-
sbuffò sconfitta l’amica, fissandola
-Su, dimmi quello che sai su Campanella…- bofonchiò la
rossa, lasciandosi di nuovo cadere sulla sedia. Aveva bisogno di pace.
-Me ne parlerai prima o poi, non mi arrendo- sussurrò delusa
Carmen, cominciando a brontolare nozioni frammentarie sulla vita e filosofia di
Tommaso Campanella.
Dopo aver ripetuto inaspettatamente tutto il programma di
filosofia, senza essersi nemmeno scambiate più una parola sull’argomento
“malumore di Chiara”, si separarono sul far della sera e la rossa tornò mogia a
casa, attraversando la città a piedi e zigzagando fra le persone che ancora si
aggiravano fra i negozi del Corso, ormai già senza sciarpe e cappotti,
guardando abbattuta lo scintillio delle insegne nelle pozzanghere. Giunta al
suo vialetto, gettò un’occhiata scocciata alla finestra del suo vicino, Marco,
dalla quale proveniva musica haevy metal ad alto volume, e sibilò a vuoto
un’imprecazione. Quello stato di pessimismo nero le sembrava quasi comico. Aprì
il cancelletto con la sua copia personale di chiavi, altra piccola conquista, e
lo sbatté premurandosi di far più rumore possibile, in modo da manifestare al
mondo il suo profondo stato di isteria, senza accorgersi di una familiare Ford
Fiesta magenta parcheggiata di fronte.
Una volta in casa, gettò sul divano di pelle lo zainetto e
la giacca di jeans senza tanti complimenti e, accorgendosi che suo padre e sua
madre erano già stranamente tornati a casa, li avvisò della sua presenza
urlandogli dalle scale uno stridulo saluto.
- Chiara, piccola, va tutto bene?- le sorrise raggiante la
madre, facendo capolino dalla cucina con le mani sporche di farina.
Probabilmente stava facendo una torta. La giornata non poteva andare peggio!
Quando Margaret cucinava dolci c’era di sicuro qualcosa di losco sotto. O
voleva darle una brutta notizia, sperando di addolcirgliela con un pezzo di
torta bruciacchiato, oppure una notizia fantastica. Chiara sperò con tutto il
cuore che fosse per il secondo motivo, non aveva proprio voglia di sentire altri
problemi quella sera.
-Hai fatto una torta? Che è successo ancora?- sbuffò
esasperata, allargando le braccia. Margaret mutò il suo sorriso in
un’espressione di disappunto.
-Ti sembra questo il modo di salutare la tua sorellina?- le
domandò, scettica, indicando con una mano imbiancata la porta della cucina.
Chiara strabuzzò gli occhi, non riuscendo a contenere un sorrisone spontaneo e
una risata cristallina.
-Ben, sei qui?! Mamma, dici sul serio?- chiese incredula,
strillando come una bambina che il giorno di Natale trova sotto l’albero il suo
giocattolo preferito. Si diresse in cucina senza aspettare una risposta e corse ad
abbracciare sua sorella, placidamente seduta su uno sgabello del bancone
intenta a bere un succo d’arancia e a chiacchierare con Matteo.
- Calma, calma, mi sei mancata anche tu- rise Benedetta,
stringendo anch’ella emozionata sua sorella minore.
-Cosa diavolo ci fai qui? Potevi avvisarmi, avrei sistemato
la camera, è…-
-E’ in uno stato pietoso, lo so, ho già sistemato i bagagli…
Non sei cambiata per nulla da quando non vivo più qui, sei sempre la solita
casinista- completò per lei Benedetta, rimproverandola bonariamente e dandole
un buffetto sul naso. Chiara l’abbracciò di nuovo, felice, e poi si sporse per
dare un bacio sulla guancia anche a suo padre, gesto più unico che raro.
L’arrivo di sua sorella le aveva davvero risollevato il morale e si vedeva. I
suoi occhi scintillavano di euforia e saltellava per la cucina chiedendo ogni
dieci minuti quando la torta sarebbe stata pronta. Non vedeva sua sorella dalle
vacanze di Natale e, col buio periodo delle interrogazioni del secondo
quadrimestre e soprattutto con lo sviluppo dello strano rapporto fra lei e
Roberta, le erano mancati particolarmentei suoi consigli e la sua presenza rassicurante.
-Sembri allegra- le fece notare Benedetta, quando si
sedettero in salotto dopo aver mangiato torta a sazietà, stiracchiandosi sul
divano e passandosi una mano fra i fluenti capelli biondi.
-Beh, mi fa molto piacere rivederti- le sorrise Chiara,
giocherellando con il telecomando della televisione.
-Lo vedo… Non è che c’entra qualcosa Riccardo?- insinuò
maliziosamente la sorella maggiore, sfidandola a confessare con il suo
caratteristico sguardo “so tutto, è inutile che continui a negare”. Chiara
continuò imperterrita a rigirarsi l’apparecchio fra le mani, ignorando
spudoratamente la provocazione. Riccardo, ecco un altro dei problemi che doveva
assolutamente risolvere.
-No- rispose piatta, cambiando di colpo umore. C’erano
troppe cose nella sua testa e, se la sorpresa di Benedetta l’aveva aiutata ad
allentare notevolmente la tensione, ora tornavano nuovamentea sfilarle una per una davanti agli occhi.
C’era la situazione con Roberta, quegli occhi che l’ultima volta l’avevano
trafitta lasciandole una sensazione di insoddisfatto languore, la festa della
sera successiva con tutti i problemi annessi e connessi e poi c’era Riccardo,
con quel suo timido corteggiamento, che per quanto timoroso, testimoniava
apertamente l’interesse del migliore amico verso di lei.
Benedetta allungò il collo per guardarla meglio in volto. Il
viso di Chiara era corrucciato e si torturava le labbra senza sosta.
-E’ successo qualcosa di cui non mi hai informata?- si sentì
in dovere di chiedere l’altra a quel punto, cercando una spiegazione
all’improvviso mutamento della sorellina.
-No, tutto come prima. Penso che Riccardo abbia una cotta
per me- confessò sconfitta, pensando che se si fosse confidata con sua sorella
qualcosa sarebbe pur riuscita a risolvere.
-E…?-
-E nulla, te l’ho detto… Sai qual è il problema? Che
probabilmente ho confuso l'amicizia con qualcos'altro... Cioè, all'inizio ero
convita che lui mi piacesse, sul serio! In gita a Vienna non ho fatto altro che
pensarci, ma... Vedi, una volta tornata è successo che... anzi, meglio dire che
non è successo assolutamente nulla. Siamo stati soli in un sacco di occasioni e
anche se lui è palesemente attratto da me e penso mi veda come più di un'amica,
io mi sentivo a disagio. Cos'ho di sbagliato?- farfugliò confusamente la rossa,
rannicchiandosi e portandosi le gambe al petto. Si sentiva davvero nervosa e
fece di tutto pur di non lasciarsi scivolare nemmeno una lacrima.
-Hey, Chiara, non fare così... non c'è assolutamente nulla
di sbagliato in te. Semplicemente Riccardo è il tuo migliore amico e tu vuoi
che resti tale. Non c'è nulla di sbagliato in questo, sai?- la confortò
Benedetta, con la sua voce carezzevole.
-Si, ma... Ho passato praticamente tutta la mia adolescenza
a cercare un ragazzo come Riccardo, qualcuno che mi capisse e che mi accettasse
in tutte le mie stranezze, proprio come fa lui, eppure ora che ce l'ho non
riesco a provare assolutamente nulla! Dicono tutti che saremmo una coppia
perfetta, che fra di noi c'è un'armonia pazzesca e che inevitabilmente finiremo
insieme, questo lo pensavo anche io, ne ero convinta, ma... La verità è che non
è Riccardo quello che voglio!-
Chiara poggiò il
mento sulle ginocchia e si lasciò andare ad un paio di lacrime, le prime in
tutti quei mesi. Tirò violentemente su col naso e chiuse gli occhi, cercando di
ricomporsi. No, questa volta non voleva ricomporsi. Questa volta voleva
assecondare il suo corpo e la sua mente. Così a quelle due lacrime iniziali se
ne aggiunsero altre, gocce copiose e piene di tutta la rabbia e l'incertezza di
quegli ultimi mesi. Benedetta rimase lì di fianco a lei finché, esausta, non si
addormentò.
Non appena ebbe chiuso gli occhi gonfi e arrossati nella sua
mente si formò, con precisione quasi analitica, la proiezione onirica del volto
di Roberta. Per Chiara era sempre stato difficile descrivere un sogno e
l'argomento l'aveva così affascinata da portarla a leggere a lungo le opere di
psicanalisti come Freud a riguardo. Eppure, mentre dormiva serena, non poteva
sapere che sognare Roberta, in tutto lo splendore angelico caratteristico dei
sogni, e bearsi di quella visione era una cosa sbagliata. La sognò mentre erano
per strada e il cielo era di un azzurro così intenso da accecarle la vista, con
le mani intrecciate e una lieve brezza che se fosse stata sveglia le avrebbe di
sicuro ricordato le giornate di vacanza passate a casa dei suoi nonni
irlandesi. Nessuna delle due parlava, solo si guardavano certe volte, con uno
sguardo così intenso da farla rabbrividire nel sonno, tanto che Benedetta pensò
fosse il freddo e salì al piano di sopra per prenderle una coperta. Era tutto
così pacifico e ovattato finché Chiara, nel sogno, non si sporse a dare un
bacio all'altra e allora il cielo diventò più scuro e un fulmine squarciò il
cielo e un vento impetuoso le separò, fra le urla di entrambe.
Chiara si svegliò improvvisamente dopo quelli che le parvero
giorni, ma che in realtà erano solo poche ore, visto l'orologio da polso
segnava appena la mezzanotte. Sentì uno scalpiccio provenire dalla cucina e si
girò spaventata alla luce di un lampo che penetrava dalla finestra il buio del
salotto. Spuntò Benedetta, in vestaglia primaverile e ciabatte, con l'aria
frustrata di chi non riesce a prendere sonno e una tazza di té caldo. Si
accorse di strar tremando e nascose la mani gelate sotto il plaid giallo,
rannicchiandosi contro lo schienale del divano e poggiandoci la testa che
rimbombava di immagini, residui del sogno. Il viso spaventato di Roberta ancora
l'angosciava. Benedetta le si sedette al fianco e, sorseggiando il suo té,
sembrò scrutarla intensamente, come a capire il motivo di tanta agitazione.
-Neanche tu riesci a dormire?-
Fu Chiara a rompere il silezio, con voce tremula e roca dal
sonno. La sorella scosse la testa sconfitta e si appoggiò allo schienale, con
un sospiro.
-Stai bene?- le chiese e Chiara alzò le spalle.
-Io? Certo...- asserì debolmente, sfregandosi le mani che
non volevano smetterla di agitarsi impazzite, così come i battiti del suo
cuore.
-Ti ho sentito urlare dalla cucina, hai avuto un incubo?-
-Un sogno orribile-
-Ti va di parlarne?-
-No, perferisco andare a dormire, scusa-
-Ne sei sicura? Sembra che tu stia per scoppiare di nuovo a
piangere... E' successo qualcosa, per caso? Mamma e papà hanno ripreso a
discutere?- chiese di nuovo Benedetta, apprensiva. La rossa si alzò,
agguantando il plaid e dirigendosi verso le scale.
-No- tuonò di nuovo, secca.
-Aspetta... Un'ultima cosa. Chi è la Roberta di cui parlavi
nel sonno? Della Corte?-
Chiara si gelò sul posto, sentendo una lacrima premerle per
uscire. Ingoiò a vuoto, sentendo una nausea prenderle la bocca dello stomaco.
-Lasciami stare, ti prego, non mi va di parlarne-
singhiozzo, scappando su per le scale e fiondandosi nella sua camera.
Quella notte nessuna delle due riuscì a prendere sonno.
***
La mattina successiva
Chiara e Benedetta scesero a colazione più tardi del solito, una con gli occhi
arrossati dal pianto e l'altra con il viso cereo di chi non trova pace, tanto
che Margaret dovette chiamarle tre volte, ricordando alla figlia minore che
quella mattina aveva la scuola.
-Ben, mi accompagni
tu, vero?- chiese la rossa alla sorella maggiore mentre addentava una toast con
la marmellata. L'altra annuì complice, probabilmente con l'intenzione di
strapparle qualche informazione su ciò che era successo la notte precedente in
cambio.
Dopo essersi coperte a dovere le occhiaie con una quantità
industriale di fondotinta, uscirono di casa salutando la madre e rivolgendosi
occhiate preoccupate.
-Ora mi dici ieri sera che ti è successo?- domandò per
l'ennesima volta Benedetta, voltando a sinistra e imboccando la strada che
portava direttamente al centro del paese.
-Ho sognato Roberta... stasera c'è la sua festa di
compleanno e lei mi ha invitata. Insomma, ho passato tutto il giorno a pensare
a che scusa inventare per sgattaiolare fuori casa alle nove di stasera ed
evitare Carmen, visto che sia mamma sia lei non vogliono assolutamente che io abbia
a che fare con Della Corte, forse è per questo che ho fatto quell'incubo-
spiegò velocemente Chiara, raccontandole una mezza verità e tralasciando
l'ambigua parte in cui la baciava. Lo stomaco si contorse di piacere a quel
pensiero. Baciare le sue labbra, almeno in sogno, le aveva dato una scarica di
adrenalina pazzesca. Ma ancora non era il momento di fare quella chiacchierata
con sè stessa riguardo al loro rapporto e ai suoi nuovi sentimenti. Un problema
alla volta.
-Quindi siete diventate amiche- le sorrise Benedetta,
tirando un sospiro di sollievo. Lei annuì e continuò a parlare.
-E se tu mi coprissi? Tanto lo sai che sono una ragazza
responsabile e bla bla bla. Puoi dire a mamma che andiamo a farci un giro al
cinema o dove vuoi, poi mi lasci a casa sua e alle undici e mezzo giuro che
torniamo a casa sane e salve- si illuminò Chiara, sentendole il cuore
scoppiarle in petto al solo pensiero di dover vedere Roberta a scuola.
Benedetta scoppiò a ridere.
-Sei proprio una piccola peste, io a sedici anni non ero
così diabolica! Giuro, non ho mai fatto nulla di nascosto, raccontavo alla mamma
ogni cosa... Ma va bene, ci sto. Solo promettimi di stare attenta, okay?-
-Promesso. Grazie, Ben, sei la migliore- si allungò per dare
un bacio sulla guancia alla sorella e, una volta che ebbero sostato davanti al
liceo, scendere e dirigersi a passo frenetico verso l'entrata.
Appena entrata in classe, fu fulminata dalla visione di
Roberta che, evidentemente, si era resa ancora più bella per l'occasione e
rimase imbambolata a fissarla. Era bastata una sola sera, anzi, solo tre o
quattro ore, per farle schiarire le idee. Non era Riccardo che voleva.
Decisamente.
***
Nel pieno della sua
riflessione, stesa a pancia in su sul letto e con la testa lievemente sotto
sopra, Chiara cercava di reprimere l’istinto ti mandare un messaggio a Roberta,
stropicciandosi fra le mani il biglietto col suo numero che aveva lasciato
qualche sera prima. Sentiva in sangue formicolarle nelle orecchie da almeno due
minuti, ma non era decisa ad raddrizzarsi da quella posizione decisamente poco
salutare. Starsene così, come fluttuando, la aiutava a svuotare la testa di
pensieri. E di immagini. Soprattutto di immagini. Immagini di Roberta che le
sorrideva dall’altro lato della classe, con quel suo sorriso bianco e naturale
e perfet- “Basta!” si intimò, digrignando i denti per la frustrazione e
stringendo i pugni dal nervosismo. Era circa mezz’ora che si crogiolava in
quello stato semi-comatoso, nella sua mente si alternavano ora la chioma color
ebano e la roca voce strascicata di Roberta, ora il ciuffo di capelli biondi e
la voce morbida e scherzosa di Riccardo. Le domande le affollavano la testa e
reclamavano attenzione come tanti piccoli picchi che le battevano le tempie
esauste col loro becco aguzzo.
"Benedetta ha ragione, Riccardo è il tuo migliore
amico. Punto! Devi solo dirglielo chiaramente e... concentrarti su altri
fronti" pensò fra sè, massaggiandosi le tempie una volta tornata in
posizione eretta. Guardò l'orologio e si accorse che erano già le otto. Sarebbe
stato meglio muoversi se non voleva fare tardi alla festa. Nascose ben bene il
libro che aveva regalato a Roberta nella borsa, un'edizione illustrata di
"Lo Hobbit" che aveva trovato nella libreria del Signor Lovati, fece
per dirigersi in bagno per spazzolarsi i capelli e indossare il delizioso
abitino blu notte che Benedetta le aveva prestato, ma a metà strada tornò
indietro e afferrò il cellulare.
Si fece coraggio e compose il messaggio.
"Non vedo l'ora di essere lì" inviò e, col cuore
in gola dall'emozione, cominciò a prepararsi.
Chiara salì in macchina con Benedetta, quasi inciampando nelle scarpe
coi tacchi che le aveva prestato, e strinse fra le mani la borsa blu di sua
madre, formicolante dall'emozione
Chiara salì in macchina con Benedetta, quasi inciampando
nelle scarpe coi tacchi che le aveva prestato, e
strinse fra le mani la borsa blu di sua madre, formicolante dall'emozione.
-Che c'è? Mi sembri inquieta-
osservò cauta Benedetta, sorridendo quando Chiara
cominciò a torturare con le dita la cerniera della giacca.
-Ah, ma davvero? Che perspicacia- bofonchiò la rossa, prendendola sul ridere.
La verità era che se pensava che quella sera sarebbe andata
ad una festa vera, con tutti i pezzi grossi del liceo, completamente sola e per
di più avrebbe incontrato Roberta e quello
schifosissimo verme del suo ragazzo, un insieme di emozioni contrastanti le
facevano girare la testa dal nervosismo. Era felicissima di poter vedere
l'amica, soprattutto dopo l'ultima rivelazione riguardo ai suoi sentimenti, ma
contemporaneamente, essendo venuto alla luce il suo
genuino interesse sentimentale, aveva paura di palesarlo comportandosi da
gelosa con Massimo e facendo commenti inopportuni su Roberta. Chissà quanto
sarebbe stata bella, quella sera!
- L'indirizzo dovrebbe essere questo-
mormorò, facendo segno alla sorella di fermare la macchina. Alla fine
della strada, in verità molto poco distante dalla
villetta dei Torre, si intravedeva una bella villa dalla facciata bianca e dal
design moderno. Fuori erano parcheggiate diverse macchine, alcune delle quali
Chiara ricordò di avere già visto nei pressi del
liceo, e c'era una piccola folla di gente ben vestita fuori il cancello in
ferro battuto. Fra loro riconobbe Roberta che, evidentemente per accogliere gli
ospiti, era uscita nella fresca brezza primaverile e sorrideva a tutti con gran
naturalezza. Il suo fascino quella sera, almeno per Chiara, sembrava essersi
triplicato. Si impose di non fare commenti a riguardo
una volta entrata e tirò fuoricon
decisione il pacchetto dalla borsa, in una scarica di adrenalina.
- Aspetta, vieni qui- la richiamò
Benedetta, probabilmente per le sue ultime raccomandazioni. A volte sapeva
essere più protettiva della mamma.
-E' una festa di diciott’anni,
quindi presumo ci sarà dell'alcol, a maggior ragione se i suoi genitori non
sono in casa. E' inutile dirti di non bere, lo faresti comunque,
ma cerca di tornare a casa in... condizioni presentabili, se sai cos'intendo-
cominciò severa la sorella maggiore, per poi continuare.
- Ma soprattutto questa volta sei da sola,
quindi non dare confidenza a ragazzi strani e non metterti nei guai. Mi
trovi qui alle undici e mezzo, non sono riuscita a convincere la mamma di più,
non potevo certo dirle che il film finiva a
mezzanotte! Comunque sia, sta attenta e divertiti- le
sorrise, dandole un bacio sulla guancia. Chiara la salutò e scese dalla
macchina, avviandosi con il cuore impazzito verso Villa Della Corte.
I suoi passi sul marciapiede erano incerti e per un momento
avvertì il disperato bisogno di correre indietro da sua sorella e tornare a
casa. Ma subito dopo vide che Roberta si era sporta, facendosi largo fra il
gruppo di amici, per venirle in contro.
"Ti prego, non dire cose strane e non fissarla troppo a
lungo" si intimò, tremante. Anche il gruppetto di amici si voltò verso di lei e, sentendosi osservata, alzò
il mento e assunse la sua tipica espressione impassibile.
-Buona sera- la salutò Roberta, sorridendole radiosa. Chiara
non aveva sbagliato ad immaginare che quella sera fosse più bella del solito.
Aveva dei ciuffi di capelli neri legati in due sottili trecce che si univano
dietro la nuca, fermate da un fermaglio argentato, e il resto delle ciocche erano meno ricce del solito, più modellate, e scendevano
morbidamente sul petto con piccole onde. Aveva gli occhi azzurri contornati da
un trucco leggero e le labbra messe in risalto da un forte rossetto color
amaranto, in modo da sembrare ancora più invitati. Osservandola così da vicino,mentre si sporgeva per darle due baci sulla guancia per
farle gli auguri, Chiara si accorse anche che sulle gote aveva delle lentiggini
chiarissime che, alla luce argentata della sera, risaltavano come piccoli
brillantini. Indossava un vestitino corto fino a metà coscia, color acqua
marina, che tanto si abbinava con la tonalità lievemente più scura dei suoi
occhi e ai piedi portava un paio di decolletè color argento.
-B-buona sera- rispose dopo
qualche secondo la rossa, chiudendo la bocca che ,fino
ad allora, era stata spalancata per lo stupore. Di colpo, il suo vestitino blu
e le scarpe che non riusciva proprio a sopportare le
parvero di poco conto in confronto a quella bellezza eterea.
-Stai benissimo, il blu ti sta di incanto-
le fece notare Roberta, sorridendole in modo caloroso. Chiara arrossì e abbassò
lo sguardo.
-Grazie, anche tu stai bene... anzi...
sei...- cominciò a balbettare, ma fu subito interrotta dall'avvicinarsi, ai
suoi occhi minaccioso, di Massimo che, per l'occasione, aveva riempito di gel i
capelli biondi pettinandoseli all'indietro e indossato un'elegante giacca
grigia su una camicia azzurra.
-Ciao, tu sei?- quasi tuonò, rivolgendosi a Chiara e
passando un braccio intorno alle spalle di Roberta, possessivo.
-Chiara Torri, della stessa classe
di Roberta, molto piacere-
Questa volta il suo tono timoroso era stato opportunamente
trasformato in uno più sfrontato, tanto che Massimo storse
in naso impercettibilmente, vedendo Chiara così sicura e gongolante.
-Massimo, ma probabilmente lo sai già- ammiccò
con un sorrisetto lascivo. Chiara giurò che avesse gettato un'occhiata alla sua scollatura e sentì la
rabbia montarle alla testa. Roberta doveva essersene accorta e, umiliata,
intervenne.
-Senti, tu va di là e comincia a far entrare tutti, io
arrivo subito- mormorò timorosa, indicando la folla
che nel frattempo si era raddoppiata e bramava di entrare.
-Vieni subito, non vorrai farli
aspettare- disse con tono scocciato, allungandosi a dare un bacio piuttosto
intimo a Roberta e sparendo fra la folla, lanciando un'ultima occhiataccia a
Chiara.
La rossa, fulminata dalla visione del loro bacio, era
ammutolita e aveva cominciato a sfregarsi le mani, come di solito faceva quando si sentiva a disagio.
-Hai freddo? Su, entriamo, non voglio farti prendere un raffreddore- disse premurosa la
riccia, sfregandole un braccio nel tentativo di riscaldarla. Chiara si
ritrasse, quasi per riflesso involontario, e si allontanò. Vedendo
l'espressione confusa di Roberta, le allungò il pacchetto che fino ad allora aveva nascosto dietro la schiena.
-Il tuo regalo-
Il viso di Roberta di illuminò di
un sorriso sincero e cercò di agguantarlo. Lo scartò e, quando capì di cosa si
trattava, cominciò a ridere.
-Che c'è non ti piace? E' che non
sapevo cosa potesse piacerti... sapevo che ti mancava
per la collezione di Tolkien, così te l'ho comprato,
ma se non ti piace posso anche portarlo indietro e prenderti qualche altra
cosa... sul serio- mormorò sconnessamente la rossa, sentendosi terribilmente in
imbarazzo.
-Ferma, ferma, ferma... Sto ridendo perché sei fantastica, praticamente mi hai letto nel pensiero! Come sei riuscita a
trovare quest’edizione illustrata? Erano secoli che
la cercavo! Ti sarà costata un
occhio!- esclamò allegra Roberta, rigirandosi fra le mani in volume
finemente rilegato. Chiara trasse un sospiro di sollievo.
-Ti piace davvero?- domandò,
grattandosi la nuca.
-Ovvio che mi piace! Ti dirò di più...- cominciò
cospiratrice, abbassando lievemente la voce e gettando un'occhiata alla gente
che ancora entrava in casa, - è il primo regalo che mi sia
davvero piaciuto-
Chiara ridacchiò e la guardò sorridere ancora di più.
- Shh, abbassa la voce... o
Massimo potrebbe arrabbiarsi-
Pronunciò quella frase quasi senza accorgersene, con un tono
che, seppur non volendo, era quasi maligno. Roberta
sospirò, cambiando di colpo espressione. Il suo sorriso sembrava essersi
dissolto in una smorfia risentita.
-Io non l'ho ancora lasciato perché... vedi... è
complicato.-
-Mi spieghi cosa c'è di complicato?- le chiese sinceramente,
anch'ella con un espressione afflitta. Ma Roberta non poté risponderle perché furono raggiunte da
Vanessa e Angela, solo le rivolse uno sguardo eloquente che sembrava voler dire
"ne parliamo dopo".
***
La casa dell'avvocato Della Corte era immensa e delle pareti
bianche coperte di quadri d'arte moderna segnavano a chi entrava la via
d'ingresso verso il corridoio. Chiara si mosse timorosa sui suoi tacchi troppo
alti e seguì la sagoma di Roberta che, sicura, si dirigeva verso la folla degli
invitati con al seguito Vanessa e Angela. Le due
"ochette", come ancora Chiara le definiva, però si fermarono di botto
e presero in disparte la riccia, accostandosi al suo orecchio per mormorarle
qualcosa.
La rossa, che non aveva proprio voglia di cominciare la
serata ascoltando un pettegolezzo tipico di quelle due, fece per dirigersi nel
salotto, una stanza ampia e dotata di porte scorrevoli che davano sul giardino,
opportunamente decorato con file di palloncini color argento, ma passandole
accanto
non poté fare a meno di prestare
attenzione a quello che dicevano.
-Allora, con Massimo lo fai stasera?-
ridacchiò Angela, con quella sua aria da svampita. A Chiara salì la
nausea e continuò a camminare, sbattendo i tacchi sul pavimento in marmo, per non ascoltare nemmeno più una parola di quella
squallida conversazione, col magone che le era salito in gola.
-Cazzo,
Robè, haidiciott'anni e goditela la vita... con un ragazzo come
quello poi! Che aspetti ancora? Pensavo l'avessi già
fatto- squittì maligna Vanessa, con una mano sulla spalla di Roberta, come a
dire "segui il mio consiglio e vedrai che ti sentirai meglio". Chiara
non si girò per vedere cosa replicò Roberta, si diresse senza indugio nel
salotto e, facendosi largo in mezzo alla folla sconosciuta, si sentì assalire
da un violento senso di tristezza. Avrebbe voluto
tornare indietro e agguantare Roberta, abbracciarla e dirle che, no, non doveva
per forza "godersi la vita" con quel rude di Massimo,che per quelle
cose se non si è pronti è inutile tentare, soprattutto se non ci sono
sentimenti alla base. Avrebbe voluto stringerla fra le sue braccia e cullarla, dirle che sarebbe andato tutto bene, che se Massimo non le
piaceva c'erano miliardi di ragazzi che l'avrebbero fatta innamorare e che
l'avrebbero trattata come una principessa, perché lei era bella ed era dolce e
qualunque cosa ci fosse di buono su quella Terra. Eppure non aveva la forza di
farlo, ancora una volta si sentiva fuori posto e si chiese per la milionesima
volta che cosa diavolo ci facesse nel mezzo del salotto di Roberta Della Corte, di
fronte ad un bancone con degli alcolici e perché diavolo stesse allungando la mano per servirsi un bicchiere di
vodka liscia mentre la ragazza di cui era quasi cotta progettava di unirsi a quell'infimo dongiovanni del suo ragazzo. Tutt'attorno a lei c'era un via vai
di volti completamente ignoti, alcuni mai visti nemmeno in paese, e l'aria era
satura di fumo di tabacco e risate prorompenti, intrisa del selvaggio desiderio
di libertà che sfiorava tutti, tranne Chiara. La musica nel frattempo si era
alzata e Roberta, come da copione, ballava al centro della pista da ballo , improvvisata spostando i due divani di pelle marrone,
attaccata a Massimo, con un'espressione tirata e, Chiara ci avrebbe giurato,
malinconica. Le sembrò che la stesse guardando,ma non
si voltò a controllare e uscì direttamente in giardino, con il viso inumidito
dalla lieve brezza di fine aprile e da una piccola lacrima cristallina.
Adocchiò un’ altalena da giardino, di quelle a
dondolo, di plastica verde e vi si sedette sopra, vuotando di colpo il suo
bicchiere di vodka. O almeno credeva fosse vodka, non
l'aveva mai provata prima. Attorno a lei, più o meno
nascosti dai cespugli di violette ben potati, c'erano un paio di coppiette che
amoreggiavano. Chiara sentì che stava per vomitare, così si alzò e, dirigendosi
di nuovo al bancone degli alcolici, si versò un bicchiere di un liquido dorato,
che molto probabilmente era whisky o qualche altro super alcolico. Fece da
spola dall'altalena al salotto per circa quattro volte, finché l'alcol ingerito
non le permise nemmeno più di camminare senza inciampare nelle proprie scarpe.
-Perché ci sei venuta- biascicò a
sé stessa al quinto bicchiere, fissando intensamente Roberta che rideva e
scherzava con alcuni suoi amici al centro della pista. La testa le girava e si
sentiva come se fluttuasse, le gambe molli e il viso leggermente in fiamme.
-Perché ci sei venuta, perché diavolo ci sei
venuta... lei finirà con quello lì e tu rimarrai sola,come sempre- mormorò
sconnessamente, alzando lo sguardo al cielo stellato. -Ci sei
venuta solo perché lei è dannatamente bella- continuò. Dopo qualche
minuto, o qualche ora, non avrebbe saputo dirlo vista la sbronza, le venne in
mente che forse Benedetta la stava aspettando all'angolo della strada come da
patti, perché probabilmente erano quasi le undici e mezzo.
Si alzò barcollando, pensando che decisamente non era
fatta per le feste, e si diresse verso il salotto ancora pieno di gente che
ballava, sul tavolo ora spiccava una torta dalle dimensioni colossali, tutta
coperta di glassa rosa, ma a Chiara non importava. Vomitava al solo pensiero di
ingerire qualcosa. Curioso, quand'era bambina, non tornava mai a casa da una
festa senza aver mangiato almeno due fette abbondanti di torta. In quel
momento, però, mangiare era l'ultima cosa che voleva. Si fece largo goffamente,
rischiando più volte di rovinare a terra, e cercò il corridoio che portava
all'ingresso. Si perse un attimo a fissare i quadri appesi ai muri, dipinti a
tinte fosche e in uno stile simile a quello di Picasso,
e si ricordò che forse aveva lasciato la giacca da qualche parte. A dire il
vero non era nemmeno più sicura di averla portata con
sé quella sera, ma presentarsi a sua sorella in quello stato, che era sicura
fosse pietoso, non era il caso. Rimase così a fissare le pareti, per poi
dirigersi su per una larga scala che portava al piano di sopra. Forse l'aveva
lasciata all'ingresso e Roberta l'aveva portata su, per non lasciarla lì
incustodita. La motivazione non era poi così plausibile, ma
Chiara, in quella trance, la trovava un'ipotesi più che certa e,senza pensarci
due volte, salì di fretta le scale. Il piano superiore era illuminato da un vistoso lampadario a plafoniera che irradiava una calda luce
biancastra, illuminando un piccolo pianerottolo con due corridoi che portavano
probabilmente alle stanze da letto e ai bagni. Il pavimento di marmo era così
liscio che Chiara si divertì a scivolarci sopra, fino ad andare quasi a
sbattere contro una porta laccata di nero, come tutte le altre, con su attaccato un foglio, scritto a mano e ben decorato,
recante il nome di Roberta.
-Ah ah! L'avrà messo qui- bisbigliò,
aprendo piano la porta già socchiusa. Entrò cauta, arrancando nel buio e
sperando di non colpire accidentalmente qualcosa.
Trovò a tentoni l'interruttore e,
girandosi intorno, restò a bocca aperta. Le pareti, di un azzurro pallido e
delicato, erano occupate in gran parte da fogli di bozzetti, schizzi di
paesaggi, fiori e anche qualche volto. Si avvicinò, ammirando senza fiato il
realismo di quei disegni e passandovi le dita sopra con delicatezza. Al centro
della stanza c'era un letto dalle coperte rosa e verde pallido, ai suoi piedi
un tappeto dall'aspetto morbido del medesimo colore e, qua e là disseminati un
po' sulla scrivania in legno chiaro un po' su un comò
della stessa fattura, c'erano almeno una decina di libri assortiti. Per non parlare delle matite e dei pennelli sparsi sul resto del
piano. Ma Chiara non fece molto caso
all'arredamento. Fu fulminata da uno schizzo in particolare, dipinto
probabilmente con gli acquerelli. Si spose,
incuriosita, e notò che era un volto femminile: lineamenti sottili, appena
abbozzati, riproducevano fedelmente il viso delicato di una ragazza dai capelli
legati in una treccia, di una tonalità fra il rosso e il castano scuro. I suoi
occhi erano grandi, di un colore leggermente più chiaro di quello dei capelli,
e malinconici. Chiara rimase a fissarli, mezza ubriaca com'era, per un minuto
buono, dimenticandosi della giacca. Si era accorta che anche la sua borsa mancava
momentaneamente all'appello, ma non si scompose e, in un momento di pura
follia, pensò che lo schizzo aveva una somiglianza
impressionante con lei. Era così bello che dubitò
addirittura essere opera di Roberta.
-Che brava- mormorò, dopo un'ulteriore
contemplazione. Il silenzio della stanza fu però bruscamente interrotto dal
rumore di passi provenienti dal corridoio. Chiunque fosse,
Chiara pensò meglio di uscire. Lì la giacca e la borsa non c'erano
e non voleva farsi beccare in camera dalla padrona di casa senza permesso.
Nemmeno la sbronza l'aveva privata del suo senso di decoro. Si diresse così verso la porta, cercando nuovamente l'interruttore e
andandosi a scontrare violentemente con una sagoma che entrava.
-Si può sapere chi cazzosi è
permesso di entrare in camera mia?- gridò Roberta,
paonazza in volto e con gli occhi stravolti. Chiara, afferrandosi allo stipite
per non cadere a terra, borbottò delle scuse.
-Mi dispiace, non trovavo la mia roba, pensavo
l'avessi portata di sopra... non volevo essere scortese, scusa- biascicò, con
lo sguardo fisso sul pavimento. Roberta le si avvicinò,
tirando un sospiro di sollievo.
- No, scusami tu, Chiara. Non volevo rivolgermi a te in quel
modo... è solo che la festa mi sta sfuggendo di mano,
troppi ubriachi- mormorò la riccia, evidentemente dispiaciuta di aver usato un
tono troppo duro. -Hey, attenta, così cadi- ridacchiò, afferrando appena in tempo Chiara per
l'avambraccio.
-Scusa, è che mi gira la testa-
-Okay, basta con le scuse... sei
sicura di stare bene? Sembri un po' brilla- affermò,
piegando la testa di lato, con un'espressione incredula così adorabile che la
rossa dovette allontanarsi per non commettere una sciocchezza.
-Ho bevuto un po', lo ammetto. Ma anche tu traballi, eh- puntualizzò la rossa, piccata.
-Vieni, sediamoci-
Roberta le indicò il letto, sedendosi esausta e gettando la
testa all'indietro.
-Ma giù c'è la tua festa, non ti
stanno aspettando?- domandò Chiara, prendendo posto al suo fianco. I suoi
capelli avevano un profumo inebriante di frutti di bosco.
-Ma che, sono tutti così fatti che non si accorgeranno della
mia assenza... e comunque ero venuta di sopra per
starmene un po' tranquilla- spiegò, con un piccolo sospiro. La rossa la scrutò.
Sembrava delusa e aveva in volto un espressione sconfitta.
Evidentemente la festa non stava procedendo come previsto.
- Tutto bene?-
-Si, è il mio diciottesimo compleanno, va
tutto bene- sussurrò, poco convinta.
- Davvero? Guarda che con me puoi essere sincera, è tutta la
sera che ti vedo strana-
Roberta si prese un secondo per guardarla, immobilizzandola
con uno dei suoi sguardi magnetici. Si fissarono per qualche secondo, in
silenzio, poi la più grande riprese la parola.
- Mi sento come quella sera a Vienna, ricordi? Totalmente
fuori luogo. Il punto è che ora si tratta della mia festa, dovrei
sentirmi felice. Eppure....non faccio altro che
pensare che... che non è questo che voglio. Non so come spiegartelo- disse, con
la voce leggermente impastata per l'alcol.
-Ti capisco- affermò solenne
Chiara, poggiandole una mano sulla spalla.
- Davvero? Perché qui invece
nessuno sembra capirmi! Vanessa e Angela mi hanno
fatto quell'orribile discorso su Massimo e... per un
momento... ho pensato che sarei scoppiata a piangere. Loro non mi capiscono,
Chiara. Nemmeno Massimo mi capisce e io non lo
sopporto più. L'ho mandato via, sai? Gli ho detto che
ero stufa, che se da me voleva solo che recitassi la parte della fidanzata passiva
poteva anche andarsene. E lui sai che ha risposto? Che visto che non gliela davo era lui a volermi piantare. Ti
giuro Chiara, mi sembra di essere circondata da sconosciuti che vogliono dirmi
come vivere la mia vita. S-sono... sono
s-stufa- singhiozzò Roberta, poggiando una mano su quella di Chiara,
stringendola forte. La rossa si sentì pervadere da un immensa
tristezza alla visione dei meravigliosi occhi di Roberta offuscati dalle
lacrime. Si allungò per asciugargliele.
-Hei, hei...
ferma, non piangere. Sono troppo ubriaca per consolarti
come meriti-
La ricca rise fra le lacrime, continuando a stringere la sua
mano.
- E' stata una fortuna averti incontrata. E
non intendo ora, mentre salivo, intendo in generale. E' stata una fortuna,
Chiara- mormorò, con un tono dolce che Chiara non gli aveva mai sentito.
Trattenne il fiato per alcuni secondi, nel tentativo di riacquistare lucidità.
La verità era che gli effetti dell'alcol erano cessati nel momento in cui aveva
visto Roberta entrare, come con una doccia fredda.
-Non devi sentirti fuori luogo, tu sei perfetta- disse, diretta e coincisa come non lo era mai stata. La
timidezza sembrava essere sparita, l'unico effetto positivo
della sbronza.
- Sono solo una povera illusa che si nasconde, che vive una
vita doppia solo per paura di essere derisa... no, Chiara, sono patetica- continuò, intrecciando le sue dita con quelle della rossa. A
Chiara mancò un battito nel vedere le loro mani così strette.
- E io sono ubriaca. In vino veritas, Roberta, ricorda- le sorrise
sorniona. L'atmosfera della stanza era silenziosa e si riuscivano a
sentire gli schiamazzi della gente al piano di sotto e la musica che proveniva
dall'impianto stereo. Chiara ci avrebbe giurato, quella canzone era di Bruno Mars.
-Adoro questa canzone-rise, cominciando a canticchiare le
parole di "Locked out heaven",
guardando negli occhi Roberta. Quella si unì a lei in un
duetto e, senza neanche essersene accorte, si ritrovarono in piedi,
l'una di fronte all'altra ad ondeggiare al ritmo della musica.
- Sarai anche ubriaca, ma balli
bene- le sussurrò Roberta in un orecchio, nell'intermezzo strumentale. La rossa
ridacchiò, con un'aria di finta superiorità.
- Sono pur sempre Chiara Torri- la rimbeccò,
spostando le sue mani suoi fianchi. All'ultima strofa, il silenzio della strada
su cui dava l'unica finestra della stanza fu
interrotto dal suono ripetuto di un clacson, probabilmente dell'auto di
Benedetta. Chiara imprecò sottovoce. Proprio ora che
le cose si stavano facendo interessanti.
- Mi sa che devo andare, mia sorella è di sotto- sibilò. Ma Roberta la zittì.
-No, aspetta... solo l'ultima strofa-la pregò, avvicinandola di nuovo e
sorridendole, per poi tornare a ballare.
-No, davvero… quella mi uccide-
- Youmake me feellikeI've
beenlockedoutheavenfortoo long- canticchiò l'altra ignorandola,
fissandola con uno sguardo indecifrabile. E mentre Benedetta suonava il clacson
come una forsennata e la canzone sfumava in una
decisamente più caotica, avvenne. Chiara si alzò in punta di piedi per
raggiungere il viso dell'altra, fissandole rapita le labbra. In un batter
d'occhio si ritrovarono con le punte dei loro nasi che si sfioravano e il resto
del corpo totalmente appiccicato, senza neanche sapere come. Roberta, con un
ghigno improvvisamente malizioso, spostò una ciocca di capelli rossi dietro orecchio
di Chiara, e vi si avvicinò con le labbra.
-Che stiamo facendo- sussurrò,
trattenendo una risatina.
- Dimmelo tu-replicò la rossa per poi, con uno
scatto quasi felino, baciarla violentemente sulle labbra. Quello che sentì, a
partire già dal primo istante, non riuscì bene nemmeno ad elaborarlo, perché il
suo cervello, annebbiato dai fumi della vodka, ora era nuovamente ubriacato
dalle labbra di Roberta che, sicure ed esperte, baciavano le sue con un impeto
che quasi fece scioglierle le ginocchia. Portò una mano dietro la sua nuca e le
afferrò i capelli, tirandoli leggermene. Le mani formicolavano dall’emozione e
non riusciva a stare ferma. Roberta, in risposta, le
bloccò i fianchi contro il muro, con un solo scatto, facendo staccare dalla
parete un paio di disegni ad acquerello.
- Oh mio dio- quasi rantolò Chiara, prendendo fiato per poi
tornare a baciarla. Le loro mani vagavano senza sosta, ora stringendosi ora
brandendo il viso l’una dell’altra. Roberta sapeva di fumo di sigaretta e di
vodka alla fragola, un mix che mandò le papille gustative di Chiara
completamente in tilt. Era pure ubriaca, ma non
ricordava di aver mai provato tutte quelle emozioni con un solo bacio. Quando aveva baciato Alessio per la prima volta, ma anche
nelle volte successive, non aveva sentito le gambe così deboli e le mani così
elettriche, né aveva desiderato che il bacio si prolungasse per diventare più
profondo. Ora invece non riusciva nemmeno a riconoscersi. Le riuscì difficile
persino controllare dove vagavano le sue mani, che ora accarezzavano lascive il
collo di Roberta ora si intrecciavano nei suoi
capelli, ed era praticamente impossibile capire dove finisse l’una e
cominciasse l’altra.
Il clacson sembrò farsi più insistente e, per la mancanza di ossigeno, si separarono di malavoglia.
- Caspiterina- biascicò Chiara,
con il cuore che pompava sangue così velocemente da farle sentire il viso in
fiamme.
- Già- sospirò Roberta, passandosi una mano fra i capelli.
La rossa tossicchiò, portandosi una mano alle labbra e sperando che il rossetto
non si fosse sbavato.
- Io allora vado-
- La tua roba è nel guardaroba, vicino al salotto… vuoi che
ti accompagni?- domandò Roberta, con un tono che Chiara trovò maliziosamente
provocante.
-No, io… vorrei, ma c’è Benedetta e siamo ubriache marce,
abbiamo già combinato abbastanza casini-
- Allora ci si vede in giro, Torri- le rivolse
un sorrisino che fece quasi pentire Chiara della sua saggia decisione.
-Si, ci si vede in giro, bella festa- disse, ancora sotto
shock. Poi uscì velocemente dalla stanza, corse a rotta di collo al piano di
sotto e, individuato il guardaroba, afferrò la sua borsa, sperando che nessuno
degli invitati, che ora facevano baldoria in salotto come scimmie, la notasse. Non riuscì a trovare la giacca, ancora tremante e
confusa, ma non ci fece caso e uscì il più in fretta
possibile dalla villa. Le sembrò di vedere Massimo appoggiato alla sua
macchina, all’angolo della strada, e si trascinò di corsa fino all’auto di
Benedetta, che la aspettava con un’espressione arrabbiata.
-Si può sapere che fine hai fatto?-
la sgridò, fissando il suo volto arrossato e le labbra gonfie. Chiara alzò le
spalle.
-Non ho visto le chiamate, scusa-
Adocchiò l’orologio digitale della macchina, che segnava ormai
quasi la mezzanotte.
-Sarà meglio che inventiamo una buona scusa con la mamma,
altrimenti puoi scordarti che la prossima volta ti aiuto
in una delle tue bravate- borbottò la sorella maggiore, dirigendosi verso il
vialetto di casa Torri.
Benedetta, dopo pochi minuti,fermò la macchina proprio di fronte il
cancello di casa loro.
- Aspetta, hai del rossetto qui- la chiamò
prima che scendesse dall’auto, indicandole l’angolo delle labbra.
-Io, si… me l’ha prestato Roberta-rispose scocciata, passandosi rudemente
una mano sulla bocca e fondandosi fuori, sbattendo la porta.
- Io non ero così alla tua età, voi sedicenni di oggi siete proprio strani- sentenziò la bionda, ma
vedendo che sua sorella era evidentemente persa in altri pensieri, alzò le
spalle e aprì il cancello.
La mattina dopo Chiara si alzò con un emicrania così forte da farle
sembrare di avere la testa piena di massi rotolanti e ringraziò mentalmente che
quel giorno fosse domenica e non ci fosse scuola
La mattina dopo Chiara si alzò con un
emicrania così forte da farle sembrare di avere la testa piena di massi rotolanti
e ringraziò mentalmente che quel giorno fosse domenica e non ci fosse scuola.
Si mise a sedere, sentendo la schiena scricchiolare, segno che aveva dormito
tutta la notte su un fianco in posizione fetale (cosa che avveniva solo quando si sentiva particolarmente vulnerabile), e vide
che l’orologio segnava appena le otto e trenta. Sibilò una parolaccia, da quando frequentava Roberta era diventata notevolmente più
sboccata, vedendo che Benedetta stava rumorosamente sistemando la sua valigia
sul letto di fianco al suo. Quando la sorella maggiore aveva
deciso di trasferirsi in un appartamento a Perugia
con due care amiche del liceo per studiare lì e lasciare la casa familiare,
Chiara aveva insistito perché il suo letto fosse spostato nella stanza degli
ospiti, con la scusa di volere più spazio per sé nella camera. Ma in
verità, la visione del letto vuoto a fianco al suo era troppo triste per essere sopportata ogni mattina. Così, di comune accordo,
il letto tornava alla sua locazione originaria solo quando
Benedetta si concedeva quelle brevi parentesi nel paesino di nascita.
- Si può sapere che diavolo stai
facendo? Sono le otto del mattino-mugugnò, non senza il suo
caratteristico grugnito di disapprovazione.Benedetta, tutta sorridente e radiosa, Chiara ancora non si spiegava la
sua energia mattutina, si girò e notò che la sorellina era già sveglia.
- Sistemavo le mie cose. Senza offesa,ma
hai lo stesso colorito di uno zombie- ridacchiò, sistemando accuratamente il
pigiama nella valigia.
- Lo so, grazie a dio è domenica-
sbuffò la rossa, lasciandosi di nuovo cadere all’indietro, con la testa
pulsante e gli arti anchilosati.
- Duro il post-sbornia, eh?- chiese ironicamente Benedetta,
voltandosi verso di lei con un’espressione tutt’altro
che rassicurante. Cavolo, come faceva ad essere così perspicace? Non che il viso cereo di Chiara e i suoi occhi vacui fossero poco
eloquenti. Negare l’evidenza era fuori discussione, almeno Benedetta l’avrebbe coperta in caso sua madre avesse messo il naso da
quelle parti, e Chiara decise di sputare il rospo.
- È così evidente?- borbottò, con il viso schiacciato contro
Freddie, il ranocchio di peluche.
- Direi di si. Oh, Chiara, perché
non ascolti chi ci è passato prima di te, una buona
volta? Poteva essere pericoloso-disse apprensiva la sorella maggiore,
avvicinandosi al letto.
- Tranquilla, nessun ragazzo ha
approfittato di me. Non erocosì ubriaca-
In verità, Chiara non poteva dire di ricordare esattamente
ciò che era successo dopo il quinto bicchiere di vodka alla pesca. Ricordava il
motivetto di quella canzone di Bruno Mars, che
proprio non voleva uscirle dalla testa, e di essere salita al piano di sopra e
aver incontrato Roberta, ma il resto per ora le era totalmente ignoto.
Proprio mentre Benedetta stava per ribattere che poteva
essere comunque pericoloso, Chiara avvertì una forte
nausea prenderle la bocca dello stomaco e si fiondò
in bagno, inciampando nelle coperte e rischiando di cadere.
- Ecco, appunto- mormorò sconfitta la bionda, scuotendo la
testa, per poi seguire l’altra in bagno e verificare le sue condizioni.
Qualche minuto, e conato di vomito, dopo le due sorelle
erano sedute al bancone della cucina, ciascuna con davanti una tazza fumante, a
scrutarsi in silenzio. Chiara, con una mano sullo stomaco brontolante,
sorseggiava mesta il suo caffé americano, lamentandosi di tanto in tanto del
fatto che l’aspirina aveva sempre avuto poco effetto su di lei. Benedetta, ora di umore decisamente più nero, si limitava ad alzare le
spalle, rimestando senza espressione il suo latte bollente coi cereali.
- Mamma e papà?- domandò cauta Chiara che, dopo aver quasi
vomitato l’anima, aveva poca voglia di parlare e soprattutto aveva paura di un’altra
strigliata. La bionda fece le spallucce e, continuando imperterrita a
giocherellare con la colazione, bofonchiò che forse erano andati in chiesa.
- Sei arrabbiata, vero?- chiese in fine, dopo aver tentato
circa cinque argomenti di conversazione diversi senza aver ricevuto in risposta nient’altro che borbottii di dissenso e
monosillabi.
- Sei la mia sorellina e ti conosco, mi fido di te… ma questa volta hai esagerato- concesse Benedetta,
alzandosi per riporre la tazza nel lavello e versarsi un bicchiere di succo di
pompelmo, come sua abitudine. Da quando se n’era andata, Margaret
continuava a comprarlo, pur sapendo che né a Chiara né a Matteo piaceva, forse
nella speranza che la figlia maggiore tornasse più spesso a casa. Benedetta era
sempre stata il collante della famiglia, col suo carattere gioviale e
pacificatore aveva sempre mantenuto in equilibrio le sorti di tutti e quattro i Torri e, Chiara pensava, ora che non abitava più con loro
i suoi stessi genitori sembravano persi e le dinamiche fra di loro erano molto
più tese.
- Lo so-sospirò afflitta, ingollando l’ultimo
sorso di caffé e stropicciandosi gli occhi arrossati dal sonno.
- Oramai la sbronza te la sei presa, quindi non posso farci
più di tanto… tu però promettimi che non succederà di nuovo- disse
Benedetta, fissandola con un’espressione seria e preoccupata.
- I-io… te lo prometto,
tranquilla-
La sorella maggiore fece per uscire dalla cucina e dare un’occhiata ai suoi appunti sull’ultima lezione alla
facoltà di Giurisprudenza, ma si fermò di scatto, come se si fosse appena
ricordata di qualcosa di importantissimo.
- Volevo chiedertelo ieri sera, mentre stavamo per
addormentarci, ma tu eri così fusa che sapevo non mi avresti risposto… dove hai
lasciato la giacca con le cerniere che mi piace
tanto?-
Chiara si lasciò sfuggire un
sospiro liberatorio, visto che, appena Benedetta le si era rivolta in quel tono
tanto sospettoso, aveva trattenuto il respiro nel timore di un’ulteriore
ramanzina.
-Oddio, la giacca… non ricordo, dovrebbe essere in macchina però, tranquilla- mentì, ricordandosi
improvvisamente che la suddetta giacca probabilmente era stata lasciata a villa
Della Corte.
- Dopo vado a controllare-replicò scettica la sorella, per poi
sparire nel salotto a studiare per chissà quale esame universitario.
Chiara, ancora molto disorientata, decise
di salire su in camera e mettere qualche cd allo stereo, magari dei PinkFloyd, visto che aveva
notevolmente bisogno di rilassarsi, e di starsene per conto suo almeno finché
non le fossero passati completamente i sintomi del dopo- sbornia.
Pensò bene di andare prima a darsi una ripulita in bagno, poiché
era sicura di avere gli occhi ancora completamente ricoperti del trucco della
sera precedente, e, mentre si sciacquava via il fondotinta col latte
detergente, si rese conto di avere ancora residui di un rossetto rosso agli
angoli delle labbra.
Lanciò un gridolino allarmato,
pulendosi via subito quella macchiolina scarlatta dal volto, e passandosi le mani
sulle labbra diverse volte, fino a farle diventare quasi bianche. Ora ricordava
cos’era successo dopo aver incontrato Roberta e, guardandosi allo specchio, si
coprì la bocca con una mano, con in volto
un’espressione di puro terrore.
-O mio dio, ti prego. Oddio, oddio,
non è possibile, dimmi che non è vero- cominciò a
mormorare sconnessamente, con le mani così tremanti da far cadere quasi tutti i
prodotti che c’erano sulla specchiera nel lavandino.
- Oh, cazzo-imprecò poi,
rendendosi conto che, effettivamente, quel bacio non doveva esserselo solo
immaginato, era avvenuto davvero. Aveva davvero baciato Roberta Della Corte,
dopo essersi scolata cinque bicchieri di vodka, nella sua camera, con tanto di
flirt spudorato da parte di quella.
E Roberta aveva davvero risposto
con impeto, quasi scaraventandola contro la parete, come se quel bacio fosse
esattamente ciò che si aspettava. Con le mani tremanti, finì velocemente di
lavarsi i denti e sistemarsi i capelli e, indossata una felpa larga del TrinityCollegedi
Dublino, si lasciò cadere pesantemente sul suo letto. Non riusciva a muovere
nemmeno un muscolo e abbandonò in partenza l’idea di sentire un po’ di musica,
visto che a malapena riusciva a percepire i suoi pensieri, tanto erano
confusionari.
“Mi sono ubriacata e ho baciato Roberta” pensò per la
milionesima volta, senza sapere se ridere dall’euforia o piangere per tutto ciò
che quel gesto avventato avrebbe potuto comportare. Anche Roberta la sera prima
si era ubriacata e, anche se oramai la sua storia con Massimo era capitolata,
questo non voleva dire che tutt’ad
un tratto avesse cambiato orientamento sessuale, prendendosi una sbandata per
lei. Probabilmente era così ubriaca da non rendersi conto di ciò che faceva e
ora, dopo essersi liberata dall’influsso dell’alcol, stava già progettando di
tagliare i ponti con lei. Chiara sentì le lacrime bruciarle gli occhi stanchi a
quel pensiero. Si, probabilmente sarebbe andata così. Roberta si sarebbe
ricordata con disgusto di quel bacio, sarebbe tornata da Massimo per paura di
essere guardata male da Vanessa e l’avrebbe archiviata, tornando ad essere
quella di sempre, cattiva e vuota ragazzina figlia di
papà.
- Ti prego, no- sussurrò Chiara,
abbracciando il cuscino e cominciando a piangere. Sentì la gola bruciarle dai
singhiozzi e, per la prima volta, capì cosa intendevano le sue amiche quando dicevano che si, la perdita della persona di
cui si era innamorati era davvero la cosa più dura da superare.
***
Dopo aver passato quasi tutta la mattinata a letto ad
auto-commiserarsi nell’apatia più totale, cosa decisamente
non da lei, Chiara fu chiamata per il pranzo da sua madre, che le intimò di
darsi un contegno, visto che quel giorno avrebbero avuto come ospiti un
importante cliente di suo padre e la moglie.
- Su, alzati… non so proprio cosa ti succeda ultimamente- borbottòMargaret contrariata,
alla vista di sua figlia rannicchiata sul suo letto, con l’aria di chi ha visto
giorni migliori.
- Nemmeno io, credimi- grugnì
Chiara, asciugandosi frettolosamente gli occhi. Non voleva altre domande. Si
diresse così verso l’armadio, tirò fuori un jeans
scuro, una t-shirt con una stampa e una giacca grigia abbastanza casual e
cominciò a vestirsi, chiedendosi come mai si sentisse così uno schifo anche
dopo che il mal di testa e la nausea le erano passati.
Dopo aver finito di spazzolarsi i capelli e
essersi passata un velo di trucco, scese al piano di sotto, incrociando sua
sorella sulle scale.
- Va meglio?- le chiese a bassa voce Benedetta, ora di nuovo
sorridente come suo solito.
- Si, abbastanza-rispose, anche se sapeva che la sua
espressione spenta non sarebbe passata inosservata a pranzo.
- Caspita, sei proprio bella-le fece notare la sorella, aggiungendo
scherzosamente che lei non aveva avuto tanti spasimanti al liceo quanto Chiara.
- Ma scherzi? Ricordo ancora quanto
quel tipo, com’è che si chiamava, ah si, Giovanni, come dimenticarlo! Si
presentò sotto casa nostra il giorno del tuo compleanno con un mazzo di rose
bianche. Sono rimasta traumatizzata a vita, credimi.
Gli undicenni non dovrebbero assistere a dichiarazioni così
melense- borbottò Chiara, facendo imporporare le guance della sorella dall’imbarazzo.
-Oh, si, darling, me lo ricordo anche io- si aggiunse sua madre ridacchiando e l’atmosfera, tesa a causa
del nervosismo di Matteo che in un angolo di lisciava nervosamente la cravatta
verde, per un attimo fu alleggerita dalle loro risate cristalline. Poi la donna
le rimproverò bonariamente di finire di sistemare bene la tavola, per non fare
brutta figura con gli ospiti. Chiara eseguì gli ordini con lo sguardo basso,
per paura che Benedetta, empatica com’era, potesse leggerle nel pensiero.
Dispose in maniera maniacale le posate, stese la tovaglia
color panna in modo da farla aderire tutta al tavolo e lucidò perfino i
bicchieri per il vino con lo zelo tipico del suo carattere. Non appena ebbe
finito, si sedette con uno sbuffo su una sedia, preparandosi ad entrare nella
parte della figlia perfetta ed educata, ad accogliere
gli ospiti in maniera impeccabile e ad intrattenerli con la sua fluida
parlantina. A volte quella situazione, il fatto di dover sempre recitare una
parte, la metteva parecchio a disagio. Soprattutto perché
prima di parlare doveva pensare a come pesare le sue parole,
uniformarle alla sua facciata di
ragazzina perfettina e contenere quell’ironia
e quella sagacità che la caratterizzavano. Forse entrare in una maschera non
sua l’avrebbe aiutata a dimenticare per qualche ora i casini combinati la sera
prima e a starsene un po’ in pace, ma il caos nella sua testa minacciava di farla impazzire. Il ricordo delle labbra di
Roberta l’avrebbe tormentata per tutto il pranzo, ne era
sicura.
Quel flusso indefinito di pensieri fu fortunatamente
interrotto dal suono del campanello che, insistente, ruppe l’atmosfera di
tranquillità della cucina.
- Vado ad aprire- si alzò subito
Matteo, ritto come un fusto e altrettanto teso nel tono di voce. Chiara si alzò
per prendere posizione vicino alla porta e salutare
gli ospiti, ma quando sentì suo padre conversare dubbioso con chi aveva suonato
al campanello, le si gelò il sangue nelle vene. No, non poteva essere. Era sicura
di aver sentito la voce melliflua di Roberta.
- Chiara, tesoro, credo sia per te- sbuffò Matteo, una volta entrato in cucina con un’espressione
contrita.
- Chi è?-gracchiò Chiara, con le mani che tremavano e il viso pallido.
- Non lo so, credo una tua compagna di classe… dice che deve darti una cosa, fa’ subito- disse spazientito
l’uomo, rifugiandosi di nuovo in un angolino della cucina e lasciandosi
tranquillizzare da sua moglie.
- Chiara, heilà, ci sei?-
Benedetta le sventolò una mano davanti agli occhi,
divertita, vedendo che non si era ancora mossa dalla cucina. Chiara deglutì tre
volte e poi si decise ad andare alla porta.
- Che ha stamattina? Sembra totalmente
addormentata- mormoròMargaret
a sua sorella, mentre a passi incerti si dirigeva attraverso il salotto.
Scostò di poco la porta, giusto il minimo per vedere la
chioma color ebano di Roberta, ancora bene acconciata come la sera precedente,e il suo viso, lievemente stranito. La aprì del tutto,
sentendo le gambe molli. Probabilmente era venuta per darle la giacca, che
teneva dietro la schiena, e dirle di dimenticare quello che era successo la
sera precedente perché per lei non aveva significato assolutamente nulla.
- Ciao- pigolò Chiara,
appoggiandosi alla porta d’ingresso per non inciampare nei suoi stessi piedi.
- Ciao… ti… ho portato al giacca…
eccola, l’hai dimenticata- sussurrò Roberta, con lo sguardo basso, allungandole
la giacca bianca con le cerniere di Benedetta. La rossa la
prese lentamente, stando attenta a non sfiorare la sua mano.
- Grazie, sei stata molto gentile-disse, facendo per rientrare in casa.
Tremava tutta e aveva paura che Roberta se ne fosse accorta, perché ora la
guardava vacua, quasi come se si stesse concentrando per leggerle nel pensiero.
- No, di nulla, immagino che ieri sera con tutto quel caos
tu non sia riuscita a trovarla- le sorrise, radiosa e tranquilla come Chiara non
l’aveva mai vista.
- Si, immagino di si-
- Beh, com’è andata col dopo sbornia? Perché io ho dovuto
prendere qualcosa come tre aspirine e cinque caffé prima di venire qui-rise la riccia, non
senza un velo di rossore ad imporporarle le gote.
- Per me era la prima volta, puoi immaginare…- rise anch’ella. Roberta le si avvicinò cauta,
guardandola dritta negli occhi.
-Quindi… insomma… ricordi cos’è successo?- le domandò e a
Chiara sembrò che nel suo tono di voce ci fosse una sorta di incontenibile
impazienza. Sentì il cuore accelerare il battito e la testa girare impazzita.
Poi l’istinto di sopravvivenza prese il sopravvento e, senza che nemmeno
riuscisse ad impedirlo, scosse la testa in senso di diniego. L’espressione di
Roberta, ora leggermente delusa, come se fosse stata presa in contropiede, la
trapassò, con quei due occhi magnetici. Scosse anch’ella
la testa, come a dirle di stare tranquilla, che nemmeno lei ricordava. O che non voleva ricordare.
Rimasero a fissarsi, forse con la consapevolezza di star
entrambe mentendo, ma nessuna delle due riprese il discorso, le parole che le si congelavano sulla lingua e pesavano come piombo.
- Allora ci vediamo, scusa se ti ho
disturbato- mormorò infine Roberta e, senza aspettare una risposta, attraversò
quasi di corsa il giardinetto di casa Torri.
Chiara rimase fissa a guardarla andare via e si maledì,
perché voleva correrle dietro e urlarle che si, lei ricordava tutto. Ma rimase inchiodata,
con gli occhi annebbiati dalle lacrime a chiedersi come mai non avesse sputato
quel rospo che la tormentava da giorni, come mai non le avesse detto che si era innamorata di lei. Perché
ormai era chiaro, l’aveva capito nel vederla così insicura sulla soglia di casa
sua, si era innamorata di Roberta. Tornò di corsa in casa, salendo le scale a
due gradini alla volta, sentendo le lacrime bruciarle le guance come lava
incandescente. Benedetta, avendola sentita sbattere la porta, si era avvicinata
per controllare cosa fosse successo, ma Chiara
singhiozzò che non voleva parlarne, che non era il caso. Si sarebbe data una
sistemata in bagno e sarebbe scesa giusto in tempo per quando
fossero arrivati gli ospiti. Benedetta non doveva essersi convinta molto,
perché l’aveva seguita senza esitare sulle scale.
- No, Chiara, non chiudere la porta, fammi entrare- disse,
bloccando la sorellina appena in tempo prima che si rifugiasse
in bagno.
- No, Ben, non voglio parlarne… sono
una stupida- singhiozzò, accasciandosi sul pavimento vicino al lavandino.
-Abbiamo dieci minuti prima che
vengano quel cliente di papà e famiglia, quindi vedi di riassumere- le intimò
affettuosamente Benedetta, sedendosi accanto a lei. Chiara ingoiò un paio
di singhiozzi e poggiò la testa sulla spalla di sua sorella.
- Non posso, ho paura- mormorò,
tirando su col naso. La bionda le circondò le spalle con un braccio.
- Tranquilla, non piangere. Se non
vuoi dirmelo è okay, solo calmati. Qualunque cosa sia
ne usciremo insieme, come abbiamo sempre fatto- le sussurrò con quel suo tono
calmo e armonioso che faceva sempre tranquillizzare Chiara.
- Ho fatto una stupidaggine-ammise fra le lacrime.
- A tutto c’è rimedio- la rincuorò
Benedetta.
- A tutto, Ben, meno che all’amore-disse. Poi si asciugò le lacrime e si
alzò, con l’orgoglio ad impedirle di mostrarsi ancora vulnerabile.
Di Chiara Torri la gente aveva sempre detto molte cose, ma lei delle
opinioni degli altri poco si interessava e la sua indole solitaria la portava a
trascurare o evitare anche i consigli delle persone a lei care
Di Chiara Torri la gente aveva sempre detto molte cose, ma
lei delle opinioni degli altri poco si interessava e
la sua indole solitaria la portava a trascurare o evitare anche i consigli
delle persone a lei care. Una cosa però le era sempre
rimasta impressa, detta da chissà chi chissà quanti anni prima. I libri che
leggeva, spasmodicamente, come se fossero l’ossigeno vero che permetteva la sua
sopravvivenza, non erano altro che pallidi spettri dei
suoi più intimi desideri. Chiara ricordava con disprezzo quella giornata
disastrosa nella quale la psicologa del liceo l’aveva ricevuta, quando sua
madre l’aveva costretta con le sue solite maniere persuasive a recarsi da lei
per superare gli ultimi avvenimenti, la solitudine a cui non trovava cura e la
rabbia che inevitabilmente reprimeva ed esplodeva attraverso reazioni nervose,
ma di quel giorno non aveva mai raccontato a nessuno. Ora, mentre se ne stava in camera sua, con in mano la sua copia di “Cime
Tempestose”, suo libro preferito dai tempi delle medie, pensò che, in fin dei
conti, quella stramba psicologa avesse ragione. I suoi libri, quelle pagine che
spesso trattava con più riverenza e rispetto degli esseri umani, non erano altro che la proiezione materiale di ciò di cui aveva
bisogno. Cercava, quasi per impulso naturale, avventure mai vissute fra le
pagine dei libri, nei personaggi compagni di gioco, amici, l’amore. Maledisse il suo carattere così chiuso e gettò il libro sul
letto, in una scarica di rabbia improvvisa. Ultimamente le succedeva di essere più nevrotica del solito, più silenziosa, più
malinconica, ma di una malinconia violenta, un sentimento che le opprimeva la
gola e le impediva di agire come suo solito. Benedetta, che oramai era a casa
da circa una settimana e mezzo, sarebbe partita quella sera stessa, con la
scusa di un esame da preparare e di non potersi permettere troppi giorni
lontano dall’università. Ci aveva provato a tirare su Chiara che, a parer suo
stranamente, era apatica e scontrosa come non lo era
mai stata, ma a nulla erano valsi i suoi tentativi di trascinarla fuori casa,
un po’ perché la sorellina tirava sempre in ballo la scusa dello studio, un po’
perché per cercare di scoprire cosa le stesse succedendo non voleva
inimicarsela. Anche Riccardo l’aveva chiamata, le
aveva mandato una marea di messaggini invitandola a
farsi una passeggiata con lui, ma Chiara aveva sistematicamente rifiutato tutte
le mani tese, orgogliosa come sempre.La mattina si
alzava, andava a scuola a piedi, qualche volta incontrava Carmen e si
comportava come se nulla fosse successo, e una volta in classe faceva di tutto
per non ricambiare i continui sguardi di Roberta che, sebbene la fissasse, non
appena suonava la campanella fuggiva in fretta verso l’uscita, quasi senza
parlare con Angela o con Vanessa. Senza dubbio se avesse dovuto descrivere il
suo umore con una canzone avrebbe scelto,
vergognandosi, “ Hoplesslydevotedtoyou” del suo musical
preferito, Grease,
che tanto si accordava con quell’atmosfera
melanconica.
Chiara si sedette a gambe incrociate sul pavimento, finendo
di ripassare l’ultimo paragrafo di letteratura latina, in cui era sicura
sarebbe stata interrogata il giorno seguente, e strinse i pugni
quando, al vibrare del suo telefonino, senza volerlo sperò che fosse
Roberta.
- Devi smetterla- si intimò a bassa
voce, afferrandoil cellulare e
appurando che il mittente era solo Sabrina.
“Ti vedo strana in
questi giorni, Chià. Non è che c’è qualcosa di cui
vuoi parlare a me o a Carmen?” recitava l’sms, ma Chiara replicò in una risposta secca e veloce che
no, non c’era nulla che non andava.
Doveva continuare la recita. Il fatto che si fosse
innamorata di una ragazza, per giunta la più stronza
del liceo, a detta loro, e che l’avesse anche baciata da ubriaca per poi negare
tutto come una vigliacca ,non era assolutamente nulla.
Più tardi, verso le sette e mezzo, quando già si stava
avviando per andare in palestra, ricevette un’altra delle chiamate di Carmen.
- Pronto- sbuffò, afferrando la cornetta. Sapeva che l’amica
voleva solo aiutarla, come sempre, ma proprio non ce la faceva a sopportare
tutte quelle attenzioni, come se lei fosse quella da tener d’occhio, da
aiutare.
- Sono io, come stai?- chiese la voce dall’altro capo del
telefono.
- Sto bene-
- L’hai già detto a Sabri,
io non ci casco-
- Non ho niente da dirvi-mormorò sconfitta. Ci aveva pensato a
confessare tutto,a togliersi il peso. Poi però si era detta che non era assolutamente il caso, che se già Roberta
aveva sospettato qualcosa era già troppo per lei. Non sapeva esattamente come
avrebbero potuto reagire le sue amiche.
- E’ che davvero ti vedo strana, Chiara. Sabato e domenica
non sei voluta uscire con noi e martedì non hai nemmeno voluto fare un giro al
parco. Tu adori il parco. E poi a scuola hai un’aria così
triste- spiegò preoccupata Carmen, sperando che Chiara si decidesse a
sputare il rospo.
- Sono solo stanca, troppe interrogazioni-
- Non ci credo, te l’ho detto, ma non voglio forzarti. Ti va
di cenare da me stasera? Ci guardiamo un film- tentò.
Chiara fece un verso di dissenso, mormorando che doveva
andare agli allenamenti di kickboxing
e che voleva salutare Benedetta.
- Capisco… batti un colpo se ti va di parlarne- disse infine, in tono afflitto. Si salutarono velocemente e
Chiara staccò, fiondandosi giù per le scale e uscendo
di casa.
L’aria di quel pomeriggio di inizio
maggio era fresca e profumata di fiori di pesco e altri frutti, che nei
giardini vicini a casa Torri cominciavano a lussureggiare. Il sole, luminoso e
tondo come una palla di fuoco, si apprestava a compiere il suo circolo dietro
gli Appennini, brune sagome terrose che sfidavanoil cielo con le loro
vette arrotondate.
Chiara, camminando sul marciapiede, scalciava di tanto in
tanto qualche pigna caduta in strada, con un sonoro fragore, mogia e passiva. Sperava
che almeno quella sera sarebbe riuscita a sfogarsi con qualche pugno, perché Giò aveva detto che finalmente
avrebbero provato il combattimento corpo a corpo, dopo essersi allenate tutti
quei mesi. La sua adrenalina scalpitava a quel pensiero. Già leggermente più allegra, corse dritta negli spogliatoi, sperando di non
incrociare nemmeno di striscio Roberta, che a dire il vero in quel periodo
stava saltando tutti i turni che avevano in comune.
Si sfilò velocemente la felpa e la appese ai ganci delle panche,
per poi trascinarsi fuori lo spogliatoio, vicino al gruppetto di compagne di
corso che si era formato attorno a Giò. Tra di loro, notò la coda di cavallo lunga e scura di
Roberta e il suo viso sempre perfetto, accigliato in una smorfia di lieve disappunto.
- Su ragazze, cominciamo col riscaldamento e dopo vi
dividerò in coppie per il corpo a corpo- esclamò
l’istruttore, con quel suo tono gioviale da poco più che ventenne. Poi si
diresse verso Chiara e Roberta che, cercando di ignorarsi a vicenda, furono
costrette a girarsi nella sua direzione.
- Voi due, vi metto in coppia… siete le più forti e non
voglio rischiare che mandiate in ospedale una di quelle ragazzine- le ammonì, ammiccando a tre ragazzette, probabilmente delle
medie, che nell’angolo si rimiravano le unghie smaltate.
- Che palle- borbottò sotto voce Chiara, posizionandosi
per il riscaldamento e cominciando a piegarsi sulle gambe. Roberta, in
silenzio, l’affiancò, eseguendo, senza degnarla di uno sguardo, tutti gli
esercizi preparatori. Quando ebbero finito, senza che
si fossero guardate nemmeno per sbaglio, Giò cominciò
a disporre le coppie al centro del ring. Chiara e Roberta, con
in volto la migliore espressione di sfida, si misero l’una di fronte
all’altra, infilandosi provocatoriamente i guantoni.
- Ci andrò piano con te-la sbeffeggiò la riccia, allacciandosi
un guantone rosso. Chiara, che di fronte alle sfide perdeva ogni insicurezza,
le rivolse un sorrisetto sornione.
- Tranquilla, non ce ne sarà bisogno-
Quel piccolo teatrino fu interrotto dal vocione
dell’istruttore che richiamava il silenzio e mostrava, in coppia con una di
quelle ragazzine pateticamente innamorate di lui, che per la troppa vicinanza sembrava stesse per svenire, un paio di mosse da ripetere
dopo di lui.
- Ricapitoliamo quello che abbiamo imparato in questi mesi e
poi verificheremo con un piccolo incontro… che ovviamente sarà puramente
dimostrativo, non voglio che vi picchiate come è
successo al gruppo del sabato- le avvisò, per poi sfiorare la guancia della compagna
con un gancio destro solo accennato. Chiara fece lo stesso con Roberta,
portando una mano ai lati della sua testa, a sfiorarle quasi la coda di
cavallo. La riccia la guardava con un’aria totalmente assente. Quando Giò mostrò una mossa analoga, questa volta con la gamba
destra, Roberta lo imitò, ma a metà del calcio, nei quali in
effetti non era proprio ferrata, si sbilanciò all’indietro e, per
evitare che cadesse, Chiara le afferrò la caviglia, facendosela cadere addosso.
Finirono lungo distese sulla superficie morbida del ring, con le guance
accaldate che si sfioravano e le gambe intrecciate. Chiara fece appena in tempo
a sentire il delicato respiro di Roberta sul collo esposto e rabbrividire, che
quella si era già alzata con uno scatto agile per tornare ai posti di partenza.
- Ti conviene davvero andarci piano-le mormorò la rossa con voce roca,
lanciandole uno sguardo deliberatamente malizioso. Più che un combattimento corpo a corpo la loro sembrava una vera e propria danza di
corteggiamento.
Roberta replicò con uno sbuffo irritato, scostandosi i
capelli dal collo, ora decisamente arrossato,e riprendendo ad imitare le mosse
dell’istruttore.
- Perfetto, siete state brave! Ora chi vuole
cominciare col primo incontro?- domandò allegro e, senza esitare nemmeno un
secondo, Roberta e Chiara si fecero avanti, guardandosi agguerrite e battendosi
i guantoni, come se non avessero aspettato altro che affrontarsi in modo
diretto.
- Oh, accidenti… voi due, dovevo immaginarlo. Andateci piano, vi prego. Ricordate che dovete indossare il
paradenti e parastinchi anche se si tratta di poinfightinge che non dovete per nessun
motivo al mondo mettere K.O. l’altra - esalò
preoccupato Giò, passandosi una mano sul viso e
sperando che nessuna delle due uccidesse l’altra. La tensione nell’aria era palpabile e tutte le allieve erano scese dal ring, per
aspettare il loro turno e nel frattempo godersi lo spettacolo di quelle due
leonesse nell’arena. L’istruttore fischiò e diede inizio al match.
Subito Chiara si fece avanti, sfiorando il viso
dell’avversaria con un pugno in volo,
che le fece aggiudicare il primo punto. Roberta, coi guantoni a difenderle il viso, deviò per un soffio un calcio al corpo di Chiara e, scansandosi
con una grande leggiadria, le assestò, sempre imprimendo poca forza come da
regolamento, un montante, prontamente
incassato dall’altra e anzi replicato con un ben meno leggero diretto. La riccia gemette per il
dolore, ma, vedendo che Giò non si era accorto della
mossa evidentemente contro regolamento, sogghignò, preparandosi a rispondere.
Le due, sempre guardandosi come se volessero distruggersi ( o sedursi?) a
vicenda,cercarono dicolpirsi con una serie di ganci di
gran intensità, mancandosi per poco e, dopo che Chiara ebbe guadagnato altri
due punti con un calcio semi circolare, Roberta la colpì a viso scoperto con
uno dei suoi temibili diretti.
Senza che potesse accorgersene,
Chiara era già caduta distesa sul ring con uno zigomo tumefatto, mentre Giò segnava con un sonoro fischio la fine dell’incontro.
- Ma si può sapere che vi prende!?
Non è un full contact!-
sbraitò, correndo subito in soccorso della rossa che, rantolando, si tolse il
paradenti e abbandonò la testa dolorante all’indietro. Roberta, che si era
tolta i guantoni non appena si era accorta di aver fatto male
all’avversaria, abbandonò la sua tipica espressione di sfida per una
sinceramente dispiaciuta, inginocchiandosi al suo capezzale.
- Scusa, scusa, scusa, non volevo
farti male- mormorò, atterrita dal viso cereo di Chiara. Giò
le intimò arrabbiato di scortarla all’infermeria della palestra e disinfettarle
il taglio, così Roberta, circondandosi le spalle con un braccio di Chiara,
scese dal ring.
La rossa, che nel frattempo aveva seguito intontita gli
avvenimenti, poco conscia di quello che stava accadendo, si abbandonò
totalmente sul busto di Roberta, che doveva essere parecchio forte perché la
trascinò fino al lettino della piccola stanza dell’infermeria senza battere
ciglio. La adagiò con delicatezza, togliendole i parastinchi e controllando il
suo battito cardiaco.
- Ma non dovrebbero avere un medico
o un infermiere in questo posto?- domandò Chiara, con la sua solita ironia. La
riccia scosse la testa scocciata, mormorandole che lei aveva
passato così tempo in quella palestra da essere quasi un’esperta. Le
passò una mano sulla fronte e le scostò un ciuffo di capelli fulvi fuggito alla
coda di cavallo.
- E’ solo un’escoriazione, te la disinfetto… non volevo
colpirti così forte, non so cosa mi sia preso- le disse, ora con più imbarazzo,
poiché evidentemente si era accorta di essere sola con
lei, per la prima volta dopo ciò che era successo alla sua festa.Anche Chiara era
terribilmente imbarazzata ora che Roberta le tamponava la gota con delicatezza,
seduta proprio vicino a lei e con metà corpo che la sfiorava. Chiuse per un
attimo gli occhi e, nonostante il taglio bruciasse ancora un po’, si lasciò
andare alla tranquillità che le trasmettevano i tocchi
della riccia, che sembrava armeggiare con la garza come se il suo viso fosse
fatto di cristallo.
- Fa male?- le domandò, quando Chiara si lasciò sfuggire un piccolo sospiro ad una fitta più intensa delle altre.
Quella scosse la testa, abbandonando la testa sul
lettino. Non appena ebbe finito di disinfettarle la ferita, Roberta le spalmò
una pomata lenente, quasi accarezzandola.
-E’ solo un graffietto- sminuì la
rossa, sentendo che se non avesse parlato, il cuore le si
sarebbe fermato in gola. Roberta la guardò scettica.
- Ma se è uscito persino un po’ di sangue-
osservò, dispiaciuta.
- Ci vuole ben altro per piegare Chiara Torri. Te l’ho già
detto, no? Sono una tipa tosta, io- ridacchiò, alzando
lievemente il collo, senza accorgersi che l’altra si era fatta più vicina per
applicarle un cerotto. Tossicchiò, constatando che i loro nasi quasi si
sfioravano.
- Va tutto bene, posso alzarmi-
dichiarò, per uscire al più presto da quella situazione ambigua. Ma Roberta fece di no con la mano, impedendole di spostarsi.
- No, ferma, non ti muovere- le intimò, con una voce
tremante.
- Che c’è?-
- Scusami- sussurrò a bassa voce e,
senza darle il tempo di replicare, poggiò le labbra sulla sua guancia, proprio
sul cerotto, strofinando il naso contro la sua fronte con una dolcezza
disarmante. Chiara sentì il cuore partirle impazzito a quel gesto e rischiò di
strozzarsi con la sua stessa saliva per la sorpresa. Roberta le scostò di nuovo
quel ciuffo ribelle dietro le orecchie e,con un ultimo
sguardo, che a chiunque fosse passato di lì sarebbe sembrato totalmente
estatico, le sfiorò la mano e uscì dall’infermeria.
Dopo due minuti buoni passati a fissare il vuoto con un
sorriso ebete in volto, Chiara scese con un balzo dal lettino, sentendosi
improvvisamente più viva e piena di energia dei giorni
precedenti. Dopo che le altre tre coppie ebbero completato il loro match, tutti
alquanto ridicoli e poco avvincenti a confronto di quello di Chiara e Roberta a
dir il vero, Giò le salutò e le lasciò tornare agli
spogliatoi, non senza lanciare prima uno sguardo di disapprovazione nei
confronti della riccia. Infilatasi allegramente la felpa e scioltasi i capelli
rossi, Chiara non ebbe il tempo di allacciarsi bene le scarpe da ginnastica che
Roberta era già scappata in un turbine di ricci scuri. Si chiese come mai la
evitasse per poi avere quei contatti ravvicinati con lei, ma questo non la
turbò più di tanto, in fondo anche lei aveva paura a parlarle e,scappando in quel
modo, Roberta non faceva altro che evitare imbarazzanti conversazioni anche a
lei. Uscì fischiettando dalla palestra e notò con un sorrisone
che Benedetta era venuta a prenderla con la sua Fiesta
color magenta.
- Hey- la salutò con allegria,
salendo in macchina e allacciandosi la cintura.
- Hey- replicò Benedetta, mettendo
in moto l’auto, non senza notare l’umore decisamente
più sollevato della sorellina.
Chiara prese a canticchiare una canzone che stava ascoltando
con le auricolari.
- Come mai così di buon umore?- le chiese la bionda,
guidando verso casa.
- Non lo so- bofonchiò Chiara,
senza riuscire a trattenere un sorriso.
- Indovina chi ho visto uscire
dalla palestra… quella tua amica, Roberta- insinuò Benedetta e Chiara per un
attimo pensò che sua sorella avesse capito tutto.
- Assomiglia molto al fratello… è
identica. Tutti e due bellissimi-
- Pff, si
bellissimi- tossicchiò la rossa, con le guance rosse come mele mature. Decise
di cambiare argomento prima che il terreno diventasse
troppo rischioso.
- Allora, parti stasera?- le chiese.
- Si, dopo cena, non ci vuole molto per arrivare a Perugia quando
non c’è traffico, lo sai- rispose Benedetta, parcheggiando la macchina di
fronte alla loro villetta. Scesero e la sorella maggiore sembrò accorgersi del
cerottino che copriva la guancia destra di Chiara.
- Ti sei fatta male in palestra? Fa’ vedere-
- No tranquilla, mi hanno medicato bene- sorrise di
sottecchi, entrando in casa.
Quella sera, dopo che ebbero cenato tutti e quattro insieme, evento eccezionale che accadeva solo nei
brevi soggiorni di Benedetta, Chiara aiutò la sorella a caricare i bagagli in
macchina, chiacchierando del più e del meno, con la stradina dolcemente cullata
da una profumata brezza di metà primavera.
- Allora ci sentiamo, ti chiamo domani, sorellina-le disse,
scompigliandole i capelli rossi e dandole un veloce bacio sulla guancia non
ferita. Margaret le raggiunse, stringendo la figlia
maggiore e dandole un affettuoso bacio sui capelli, mormorandole di guidare
piano e fermarsi almeno una volta in una stazione di servizio per un caffé.
Matteo, che fino ad allora aveva osservato la moglie e
le figlie scambiarsi sguardi e parole gentili, si unì anch’egli al quadretto,
stringendo Benedetta fra le sue braccia.
- Mi raccomando, sta’ attenta in autostrada e chiamaci
quando arrivi, piccola- le raccomandò, per poi tornare
dall’altro lato della strada.
- Vi chiamo appena sono lì, buonanotte mamma, vi voglio
bene- sussurrò Benedetta a sua madre, che quasi
piangeva dalla commozione. Separarsi per loro era sempre difficile. Chiara le si avvicinò di nuovo timidamente, reclamando un altro
abbraccio, che Benedetta concesse con un sorriso dei suoi.
- Mantieni la promessa che mi hai fatto e non metterti nei
guai, capito? Chiamami quando vuoi e se hai qualcosa di cui parlare,parlamene senza alcuna riserva. Lo sai che ti voglio bene -
le disse, dandole una piccola pacca sulla schiena.
- Si, lo so, ti voglio bene anche
io, Ben. Buon viaggio- le disse e, quasi con le lacrime agli occhi, raggiunse i
suoi sul marciapiede opposto. Benedetta salì in macchina e partì, segnando con
un colpo di clacson la sua partenza.
La luna, pallida e fioca quella sera, come unica testimone
dell’accaduto, accompagnò la famigliola in casa e cullò coi
suoi raggi lattei i loro pensieri malinconici.
***
Il mattino seguente, dopo una notte passata a fissare il
soffitto, Chiara si alzò, avvertendo un grande senso
di vuoto nel vedere che il letto di fianco al suo era tornato nella stanza
degli ospiti e che Benedetta non era lì ad augurarle una buona giornata col suo
sorriso contagioso. Nonostante questo, mentre si pettinava i capelli e li
arricciava, compiaciuta di aver imparato bene dalla sorella, si disse che quella giornata in fondo non poteva essere peggio
delle altre, avrebbe perso un bel voto in letteratura latina, visto che aveva
studiato Cicerone con un’accortezza più maniacale del solito, nella speranza di
buttar fuori dalla sua mente tutti i pensieri riguardanti Roberta, e sarebbe
tornata a casa un po’ più sollevata.
Una volta in cucina, vedendo che sua madre era già in
ospedale, si fece una spremuta d’arancia e afferrò uno dei muffin
che aveva cucinato insieme a lei la sera prima. Consumò la colazione velocemente e corse in strada, ansiosa
di sentire fra i suoi capelli la delicata aria di maggio.
Non incontrò Carmen quella mattina, ma vide Riccardo che,
evidentemente aspettando lei, se ne stava seduto su un muretto poco più in là, coi suoi occhiali da sole che Chiara aveva sempre definito troppo vintage.
Prese un bel respiro, preparandosi ad affrontarlo, e si avvicinò.
- Ciao- la salutò lui, in tono neutro.
- Ciao, Riky- rispose Chiara, con
gli occhi bassi. Aveva l’impressione che lui fosse arrabbiato
per il modo in cui era sparita.
- Allora, va tutto bene o vuoi continuare ad ignorarmi?-
- Io, scusa… sono successe troppe cose tutte insieme e sai
che io non sono brava a gestire i rapporti e… non sapevo come dirtelo, come…-
farfugliò Chiara, nel tentativo di scusarsi.
- A cosa ti riferisci, scusa?-
- Al fatto che i rapporti fra di
noi, beh… devi ammettere che si erano fatti strani, ambigui-
Riccardo la squadrò con sospetto da dietro gli occhiali.
Sembrava avesse perduto quella giovialità che tanto piaceva a Chiara.
- Te ne sei accorta allora-
- Già-
- Eppure sei sparita-
- Senti, io… voglio che noi rimaniamo amici. Mi dispiace, ma
fra di noi non può esserci nulla di più e non voglio
rovinare il bel rapporto che abbiamo sempre avuto in questi anni-
- Bel rapporto? Chiara io sono sempre stato innamorato di
te! E tu cieca, non te ne sei mai accorta! Sei sparita
in quel modo e io ho cercato di farmene una ragione… ma
sai una cosa? Non posso. Da quando Monica mi ha mollato tu sei la mia sola e
unica speranza, non te ne rendi conto? Non posso lasciarti
andare così facilmente- disse tutto d’un fiato, facendosi rosso per lo
sforzo. In quello, lui e Chiara erano molto simili.
Tendevano a nascondere troppo a lungo cose troppo grandi,
per poi scoppiare come bombe ad orologeria.
- Mi dispiace-
Ed era vero. Chiara soffriva quanto
luiin quel
momento, vedendolo così sconsolato e disorientato, mentre si dirigevano
lentamente verso i rispettivi licei.
- Io non mi aspettavo sarebbe
finita in questo modo- mormorò, in un ringhio. Erano arrivati sul piazzale al
bivio in cui si sarebbero separati e a Chiara sembrava che quel crocevia non fosse altro che la proiezione fisica di ciò che
stava accadendo nelle loro teste.
- Nemmeno io- ammise lei, rimirandosi le scarpe. Tutt’attorno gli studenti
sciamavano come api sui fiori, con magliette colorate e berretti, voci allegre
che si disperdevano nell’aria in attesa delle tanto agognate vacanze estive.
Rimasero a guardarsi, con un intensità tale da
dimenticare cosa ci fosse attorno a loro. Non erano dei semplici amici, loro
due. Erano due anime affini che si erano trovate e avevano condiviso
esperienze, si erano sostenute, avevano sconfitto ogn’una i propri demoni personali insieme. Era come se due
compagni d’armi stessero per terminare il loro mandato. Nello sguardo di
Riccardo c’era tutto: il desiderio di starle accanto, di proteggerla e la
sofferenza di non poterlo fare se non da amico. Chiara, con un’ultima occhiata
triste, mormorò di nuovo scusa, lo abbracciò
velocemente e si diresse senza guardarsi indietro all’ingresso dell’istituto.
Per tutta la mattinata il pensiero di ciò che era appena
accaduto gravò sull’umore di Chiara, ma un barlume di speranza le si era acceso in petto, quando aveva notato che lo
sguardo dell’amico, deciso e arrendevole allo stesso tempo, era esattamente
uguale a quelli che Roberta le lanciava durante l’arco delle lezioni.
Finalmente, dopo aver preso un meritato otto in latino, con tanto di pacca
sulla spalla da Ivan, la rossa si unì alla carovana di compagni che spingevano
per uscire in corridoio e da lì verso la libertà del cielo di maggio, ma,
notando che Roberta stava finendo di sistemare la sua roba in un mormorio
rabbioso, in uno dei suoi soliti scatti di adrenalina
salutò gli amici, con la scusa di aver scordato un libro, e la raggiunse.
- Non devi andare dal tuo ragazzo, uh?-
Roberta, piegata sulle ginocchia per raccogliere le penne
che erano cadute dal suo astuccio, le parlò con un tono acido e graffiante. Chiara non era più abituata a sentirla parlare
così.
- Io non ce l’ho il ragazzo-
rispose, chinandosi anche lei per aiutarla. La riccia la guardò, come a dire “è
inutile che continui a mentire”.
- Eravate proprio un quadretto adorabile stamattina-
Chiara notò che le era caduto anche un blocchetto per
appunti, lo stesso che aveva notato in gita a Vienna, e si allungò per afferrarlo.
- Cos’è?- domandò, ma senza aspettare risposta, lo aprì,
trovandoci fogli pieni degli stessi schizzi che aveva notato nella sua camera.
Roberta ringhiò, cercando di prenderlo, ma Chiara fu più veloce e si allontanò,
con ancora i disegni in pugno.
- Dammeli subito- abbaiò Roberta, con gli occhi quasi fuori dalle orbite. Chiara notò che erano lievemente
arrossati, come se avesse pianto.
-Sono molto belli-
- Non importa, a nessuno importa-
replicò l’altra, ficcando il blocchetto nello zaino e tirando su col naso.
- Stai piangendo?- chiese, ma era palese che gli occhi di
Roberta fossero pieni di lacrime, cristalline e pure come gocce di rugiada.
- LASCIAMI STARE!- urlò, cercando di divincolarsi alla sua
presa e scappare fuori dalla classe.
- No, aspetta, tu ora mi dici cosa c’è. Ti ho fatto
qualcosa? Ieri sembrava andare… tutto bene-
- C’è che sono stufa di essere la seconda scelta di tutti-
Chiara la guardò senza capire, poi si avvicinò che darle un
bacio sulla guancia, proprio lì dove era caduta la prima lacrima. L’altra la
guardò, insicura e quasi tremante. Non l’aveva mai vista così esposta, nemmeno
quella volta a Vienna o alla sua festa. Aveva pianto si, ma si era sempre
nascosta dietro la sua maschera spavalda e sicura, quella di Roberta Della
Corte, ricca figlia dell’avvocato più pagato del paese, perfetta e piena di se.
Ora invece, rifletté Chiara, sembrava spaurita, come quei leoni in cattività,
nei cui ruggiti feroci si potevano scorgere pianti di disperazione.
- Tu non sei la mia seconda scelta, Roberta-disse la rossa,
seria in volto. Quella le si avvicinò con uno scatto.
- Ah, no? Ci siamo baciate alla mia festa e mi hai
deliberatamente ignorata tutto questo tempo. Mi hai
lasciato lì, ubriaca e sola, dopo aver praticamente
abbattuto ogni mio schermo di protezione, indifesa- ruggì quasi, premendole
addosso col suo corpo e spingendola ad indietreggiare fino ad un banco.
- I-io non avevo idea che tu te lo
ricordassi-
- Come potevo dimenticarlo?- domando Roberta retoricamente, afferrandole il polso.
- Nemmeno io l’ho fatto-
- E poi mi alzo una mattina e ti vedo lì a flirtare con quel biondino, quell’idiota
che ti sta appiccicato addosso da anni… dimmi, tu come ti sentiresti?-
- N-non bene- balbettò Chiara,
vedendola di nuovo così sicura e agguerrita, con
quegli occhi che sembravano volerla divorare viva.
- Non bene, esatto. E aggiungici il fatto
che quel bacio lo aspettavo da anni e avrai capito perché sto piangendo-
questa volta parlò più con un tono di voce più basso, quasi roco per lo sforzo.
- Oh-
- Te lo leggo in faccia, sai che lo farò…
quindi questa volta vedi di non dimenticarlo- sussurrò Roberta al suo orecchio,
calmando la sua furia, per poi baciarglielo delicatamente e spostarsi
lentamente verso le sue labbra. Chiara trattenne il respiro, sentendo il sangue
scorrerle veloce ovunque Roberta la baciasse sul viso e le mani tremare come se
fosse in preda al delirio. E in effetti, in preda al delirio lo era, perché non
appena le loro labbra si toccarono sentì un rombo al petto, come se si
squarciasse e ne uscisse tutta la sua essenza, come se quelle labbra altro non fossero che le chiavi per liberarla dalla sua prigione. Si
muovevano piano, e a discapito dell’intensità delle loro parole, quello fu un
bacio molto più dolce e pieno di sentimenti che non
quello che si erano scambiate da ubriache. Chiara le portò le mani ai lati del
suo viso, stringendole, per poi allungare le sue sul suo collo. Ora che le loro menti erano libere dall’effetto nebuloso dell’alcol,
tutto sembrava amplificato e più reale, il profumo di pesca di Roberta e le sue
mani lisce e piccole, i capelli di Chiara, morbidi e setosi
al tocco, il rumore degli insetti che ronzavano attorno agli alberi di fronte
all’istituto, il fresco della bella stagione.
Quando si staccarono, delicatamente
, come se con uno schiocco avessero potuto rovinare l’atmosfera, erano passati
più di cinque minuti.
- Quindi sei gelosa- ridacchiò
Chiara, quasi con il fiatone per l’emozione. Roberta fece le spallucce,
intrecciando una mano con la sua.
- Io, gelosa? Ma che…- dichiarò, ma
un sorrisetto la tradì. Si abbracciarono e quel
momento fu anche più intenso del loro bacio, perché stava a
significare protezione, rifugio, compagnia per chi, fino ad allora, era
sempre stata solo.
Quella sera, dopo aver finito di studiare e saltellare per la casa in
preda ad un’incontenibile frenesia, Chiara si era piazzata sul suo letto a
fissare il soffitto, spegnendo la luce e mettendo la sua stazione radio
preferita in sottofondo, come faceva
Quella sera, dopo aver finito di studiare e saltellare per
la casa in preda ad un’incontenibile frenesia, Chiara si era piazzata sul suo
letto a fissare il soffitto, spegnendo la luce e mettendo la sua stazione radio
preferita in sottofondo, come faceva sempre ,quando era felice. Sentiva il
cuore in gola ogni volta che pensava a cos’era successo quella mattina e la
strana sensazione di stretta allo stomaco l’aveva accompagnata per tutta la
giornata, mentre studiava letteratura inglese e si lavava i denti dopo cena,
persino mentre sua madre le intimava per la terza volta di sistemare la camera.
Era come se qualcosa nella sua testa, qualcosa di terribilmente opprimente,
l’avesse appena abbandonata e le emozioni che in quegli anni aveva gelosamente
tenuto per sé fossero esplose tutte nell’istante di quel bacio. Prese una
boccata d’aria fresca,accostandosi alla finestra aperta, e represse a stento un
sorriso, mordendosi le labbra per non scoppiare in una di quelle risatine
tremendamente melense. Credeva che tutto quello che le sue amiche dicessero
sull’amore, quelle belle sensazioni che tutte le adolescenti tanto agognavano,
non fossero altro che stupidi clichè triti e ritriti in tutti i romanzetti rosa
che si rispettino. Ma no, mentre si portava le mani dietro la nuca e assumeva
una delle espressioni più beate in volto, stendendosi sul letto, pensò che
forse qualcosa di vero c’era. Gettò un’occhiata al cielo stellato che si
intravedeva per un pezzo dalla finestra, limpido e rassicurante come a
promettere una bella stagione, e si rilassò al suono di una canzone d’amore degli
anni sessanta. L’atmosfera era perfetta, così rarefatta e irreale che a Chiara
sembrò di non essere più la stessa persona di quella mattina. Come se quella
parte di se stessa, quella ansiosa e calcolata, quella maniaca del controllo e
stacanovista, sempre segretamente triste e sola, fosse solo un ricordo. Si
sentiva incredibilmente viva, con la pelle delle gambe e braccia lasciata
scoperta dai pantaloncini lievemente carezzata dal vento e le dita che ancora
le formicolavano per l’elettricità trasmessale dalle labbra di Roberta. Dopo il
bacio, si erano guardate e la riccia l’aveva salutata con un sorriso così
luminoso e dolce in volto, che se mai aveva avuto dei dubbi sulla moralità o
meno della cosa, Chiara li aveva totalmente rimossi.
-Spegni lo stereo, darlin’,
è tardi-
Margaret aprì delicatamente la porta della sua stanza, per
poi sederle accanto. Chiara le rivolse un sorrisino e, senza protestare, si
alzò per spegnere l’impianto stereo.
-Caspita, devo essere particolarmente convincente oggi per
farti andare a dormire prima dell’una di notte- ridacchiò la madre, fissandola con uno
scintillio consapevole negli occhi. Chiara sperò che non avesse notato il suo
improvviso cambiamento d’umore.
-… oppure devi essere tu particolarmente malleabile. Ti vedo
bene- continuò la donna, battendo una mano sul suo letto, invitandola a sedersi
vicino a lei.
- Sto bene, si-ammise Chiara con una smorfia adorabile, arricciando il naso per non
scoppiare in una risatina isterica. Margaret le rivolse uno sguardo
interrogativo.
- Qualche novità?-
- Come al solito, mamma, solo… adoro la primavera, è una
bellissima stagione. E’ la rinascita della natura, persino le stelle sembrano
più luminose- sospirò quasi estatica, fissando assorta le stelle fuori dalla
finestra.
- Lo so, lo dici ogni anno. E poi di solito mi racconti quel
mito, quello di Proserpina- le fece notare Margaret, fissando anch’ella il
cielo blu notte.
- Ma quel mito è molto triste, mamma. Quest’anno voglio
raccontartene un altro- mormorò Chiara, ricordando che ogni volta che aveva
narrato con passione il mito di Proserpina a sua madre non aveva potuto fare a
meno di pensare di assomigliarle. Presa prigioniera e trascinata nella parte
sua più buia e fredda, rapitrice di sé stessa, lontana dal calore degli altri,
come la figlia di Demetra presa prigioniera da Ade.
- E quale vuoi raccontarmi?-
- Il mito di Andromeda- sorrise Chiara.
- Andromeda? Quella salvata da Perseo?-
- Si, mamma, proprio lei-
- Su, vai allora, ti ascolto- la esortò sua madre,
accomodandosi meglio sul letto. Chiara prese un po’ di fiato, per poi
cominciare col suo racconto, con voce fluida e melodiosa.
- Andromeda era una principessa, figlia dei sovrani
dell’Etiopia. Sua madre, per aver osato dire che lei era più seducente persino
delle Nereidi, incappò nell’ira di Poseidone, che mandò sulle coste
dell’Etiopia un terribile mostro per vendicare l’onore delle sue figlie. Il re
consultò l’oracolo di Ammone, in cerca di un modo per sconfiggere la terribile
creatura marina, ma il dio gli disse che l’unica via era quella di sacrificare
la sua bella figlia vergine, Andromeda. Rassegnata, la triste principessa fu
incatenata su uno scoglio in attesa di essere divorata, ma proprio quando stava
per perdere tutte le speranze e gettarsi nella più nera disperazione, arrivò
Perseo- quasi sospirò l’ultima parte, sorridendo impercettibilmente.
- E cosa successe? Su, non fermarti sul più bello, sembri
incantata- la prese in giro sua madre, punzecchiandola. Era bello stare così,
insieme con sua madre, senza tensioni, come quando era bambina e invece di
farsi raccontare le fiabe, preferiva leggerle lei a Margaret.
- Perseo aveva capito che c’era un altro modo per
sconfiggere il mostro, la testa della Gorgone Medusa. Si dice addirittura che in un primo momento scambiò Andromeda
per una statua di marmo, tanto era inerme. Ma il vento che le scompigliava i
capelli e le calde lacrime che le scorrevano sulle guance gli rivelarono la sua
natura umana. Perseo le chiese come si chiamasse, perché fosse lì incatenata.
Andromeda, completamente diversa dalla sua vanitosa madre, neanche gli rispose
e anche se l'attendeva una morte orribile fra le fauci bavose del mostro,
avrebbe preferito nascondere il viso tra le mani,se non le avesse avute
incatenate a quella roccia. Ma Perseo uccise la creatura senza remore,
pietrificandola, salvò la fanciulla e la portò via al sicuro, fra le sue
braccia- concluse con un’alzata di spalle, come se il finale fosse scontato. Margaret
fece una risatina.
- E’ un bel mito,
come mai lo hai scelto?-
-Perché ha un
lieto fine e al contrario di quello che può sembrare è molto attuale-
- Attuale? Vuoi
dirmi che tuo padre potrebbe incatenarti ad uno scoglio pur di non vedere il
paese in balia di orribili mostri marini, darlin’?-
sghignazzò la donna, riprendendo un po’ di quello spirito giovanile che le
arrossò le gote, facendola assomigliare ancora di più alla figlia.
- Beh, gli scogli
possono essere metafore, così come le catene. E anche il mostro potrebbe
esserlo. Siamo incatenati, soli, nelle nostre paure e all’improvviso ci accorgiamo
che c’è qualcuno a cui importiamo- spiegò Chiara, non senza arrossire allo
sguardo indagatore della madre.
- Indagherò, dear, non temere… verrò a sapere
perché stasera hai un’aria così trasognata- dichiarò Margaret, alzandosi dal
letto e raggiungendo la porta. L’orologio portava quasi mezzanotte e mezza.
- Buonanotte
mamma- la salutò Chiara.
-Good night, love- si sentì rispondere
dal corridoio.
Si rigettò a peso
morto sul letto, ma sentendo qualcosa di spigoloso sotto la schiena si alzò
infastidita, individuando il suo cellulare. Fece per poggiarlo sul comodino,
quando si accorse di aver ricevuto un messaggio. Guardò il nome del mittente
col cuore in gola e lo visualizzò, con le dita tremanti. “E’ stata una giornata fantastica. Non importa se ho dovuto studiare
fino ad ora per recuperare quel po’ di biologia che dirò domani al prof. Ho
pensato a questa mattina continuamente.” lesse una, due, tre volte, finché
non imparò quasi a memoria ciascuna parola. Pensò che doveva rispondere, ma le
dita le tremavano troppo anche per premere i tasti del touch screen. Deglutì,
con la voce di Roberta che ripeteva quelle frasi a ripetizione nel cervello.
“Ci ho pensato continuamente anche io. Mia
madre non la smetteva di prendermi in giro per la mia faccia, devo avere avuto
quel sorrisetto scemo tutto il tempo” digitò. La risposta arrivò dopo
nemmeno cinque minuti.
“Adoro quel sorrisetto” recitava l’ultimo
sms di Roberta e Chiara pensò che in quel momento sarebbe anche potuta morire
per autocombustione. Almeno sarebbe morta felice.
“Smettila di farmi arrossire, lo sai quanto
lo odio” inviò il secondo messaggio. Posò il cellulare fra le coperte,
tirando un sospiro. L’avrebbe fatta impazzire da come le batteva il cuore.
“Adoro anche quando arrossisci. A domattina,
sogni d’oro” le scrisse Roberta, con una piccola faccina sorridente. Chiara
rispose e, quasi crollando dal sonno, immerse il viso fra le lenzuola, con
l’incontenibile desiderio che fosse già mattina.
***
- Su, Chiara,
alzati, sono le otto- urlò Margaret dal piano di sotto, sospettando che la
figlia fosse in ritardo perché la sera prima aveva fatto decisamente tardi.
L’aveva sentita ticchettare sul suo cellulare fino a quasi l’una, ma non aveva
voluto infierire. C’era qualcosa di particolarmente losco sotto e, ne era
convinta, pensava si trattasse di Riccardo. Quel ragazzo era sempre piaciuto a
sua figlia. Chiara si trascinò borbottando in inglese qualcosa giù per le
scale, quando era nervosa o arrabbiata le capitava spesso di imprecare nell’altra
lingua madre. Quando entrò in cucina, sistemandosi la t-shirt a maniche corte
che si era infilata nel tragitto, sua madre la rimbeccò per l’ennesimo ritardo.
Sbuffò forte e si sedette al tavolo, afferrando in malo modo la caraffa del
caffé.
-Qualche
interrogazione?- le domandò Margaret, mentre cercava le chiavi della macchina
per poter andare al lavoro. La rossa alzò le spalle.
- Solo fisica, ma
tanto lo sai che la Gaiardi
è tutta fuori… non c’è bisogno di affannarsi tanto per le sue interrogazioni-
spiegò fra un morso e un altro al suo cornetto ai cereali. Il sole che entrava
dalla porta-finestra le illuminava gli occhi, tanto da farli sembrare color
nocciola e, Margaret pensò, più vivi di quanto non li avesse mai visti.
- Allora in bocca
al lupo- le sorrise, dandole un bacio sulla guancia e uscendo di casa.
Chiara raccattò
assonnata le sue cose, la notte prima era rimasta sveglia a pensare fino a
quasi le due, e poi si diresse verso il giardino, masticando ancora gli ultimi
bocconi della colazione. Uscì canticchiando sottovoce alcune parole di “She loves you” dei Beatles.
Era leggermente
in ritardo e pensò bene di cominciare a correre, anche perché l’irrefrenabile
frenesia di arrivare a scuola per vedere Roberta vinceva di molto la sua
stanchezza fisica. Mentre zigzagava confusamente nel traffico del Corso,
saltellando quasi da un lato all’altro della strada per non essere investita
dalle macchine ed evitando con una graziosa giravolta di sbattere contro il
tronco di un albero ai lati del marciapiede, si sentiva come in un film.
Continuò a canticchiare sotto voce fino a scuola, stringendosi le cinghie dello
zaino con le mani formicolanti, sensazione a cui negli ultimi giorni aveva
fatto abitudine. Salì in fretta le scale dell’istituto, sperando che la classe
fosse vuota e che Roberta avesse avuto la sua stessa idea di arrivare prima.
Aveva un disperato bisogno di stare con lei. Da sole. O non avrebbe saputo come
fare a sopravvivere per le cinque ore successive, accontentandosi di fissarla
dall’altro capo della classe, attenta a non farsi notare da nessuno. Aveva tante
cose da dirle, anche se in realtà si erano viste solo la mattina prima! Ma era
questo il bello con Roberta, Chiara aveva l’impressione di avere sempre qualcosa
da dirle e per una spesso silenziosa come lei, era tutto dire. Aprì la porta
della II E, tirando un sospiro di sollievo quando constatò di essere la prima
quella mattina. Si sedette, irrequieta, sperando che non entrasse prima Carmen.
Aveva paura che in quella sorta di frenesia amorosa le avrebbe confessato tutto
e non poteva assolutamente permetterselo. Così prese un libro dalla borsa,
questa volta aveva portato con sé “Il
giovane Holden” di J. D. Salinger, e cominciò a sfogliarlo distrattamente.
Al quarto rigo che leggeva, sentì la porta scricchiolare, doveva ricordare al
bidello di oliare i cardini perché era davvero un rumore fastidioso, e alzò
improvvisamente la testa. A quanto pareva, Roberta aveva davvero avuto la sua
stessa idea.
- Ciao- mormorò
sorpresa, arrossendo sotto lo sguardo liquido della riccia. Quella le si
avvicinò, poggiando frettolosamente lo zaino sul suo banco dall’altro lato
dell’aula. Si sedette sul bordo del banco di Chiara, facendole segno di
spostarsi per farle spazio.
- Ciao a te- le
sussurrò, facendo per poggiare la fronte contro la sua, ma si bloccò di colpo,
rivolgendo un paio di occhiate preoccupate dalla porta.
- Tranquilla, non
c’è nessuno- la tranquillizzò Chiara, prendendole una mano. Incredibile come la
sua timidezza fosse svanita. Non era mai stata tipo da manifestazioni d’
affetto, eppure, con Roberta lì di fronte, la necessità di sentirla vicina era
tale da vincere anche questo suo limite. Aveva le mani fredde, nonostante fosse
metà maggio, così le sfregò fra le sue. Rassicurata, Roberta le diede un veloce
bacio sulla guancia. Arrossirono entrambe come due ragazzine delle elementari.
- Sei nervosa per
biologia?- le domandò Chiara, vedendola un po’ tesa. O forse era perché aveva
paura che qualcuno avrebbe potuto vederle?
Roberta fece di
si con la testa, brontolando sconfitta che la sera prima aveva studiato fino
quasi all’una. Poggiò la testa sulla sua spalla, sfregando il suo naso contro
il collo di Chiara.
-Così mi fai il
solletico-ridacchiò la rossa, dandole
uno schiaffetto sul braccio.
-Dimenticavo che
sei la solita manesca- borbottò fintamente offesa Roberta, intrecciando una
mano nei suoi capelli rossi. Chiara avrebbe voluto baciarla, ma aveva il vago
presentimento che non le avrebbe fatto piacere, non in un luogo così esposto,
dove tutti gli studenti del classico potevano osservarle e trarre la giusta
conclusione che fra loro c’era qualcosa. Cosa ci fosse esattamente fra di loro
non sapeva dirlo nemmeno Chiara, se doveva essere sincera. E quel margine di
indeterminatezza, quella sensazione di fluttuare al di sopra di qualunque
etichetta faceva sentire Chiara così libera, come i boccioli appena spuntatati
sui rami dei peschi, finalmente aperti ad un mondo del tutto nuovo.
- Che c’è?-le sussurrò Roberta, accennandole una carezza
su una guancia. Era incredibile persino come si accorgesse di ogni suo più
piccolo cambiamento d’umore.
- Nulla, è che…
sai, è strano perché ci siamo viste solo ieri mattina, ma… mi sei mancata-
rispose imbarazzata la rossa, sentendo le punte delle orecchie arroventarsi. Roberta
le rivolse un sorrisino.
- Anche a me. Lo
trovo strano, ma credo dovremmo farci l’abitudine- sospirò. La porta della
classe cigolò di nuovo, annunciando l’arrivo di qualcuno. Roberta scese
immediatamente dal banco e si fiondò il più lontano possibile da Chiara, senza
voltarsi.
- ‘Giorno-
biascicò Ivan, letteralmente trascinandosi al suo banchetto e mollando lì sopra
lo zaino coi suoi soliti modi. Non sembrava averle notate, nero com’era nella
sua disperazione per la sua imminente interrogazione in filosofia.
-Buon giorno!-
esclamò euforica Chiara, intavolando con lui una fitta conversazione su quanto
fosse stata difficile l’ultima versione di latino, nella speranza che il suo
amico più perspicace non notasse il rossore che ancora le bruciava il viso.
Quando suonò la
campanella delle otto e mezza, tutta la classe era già al completo e dai banchi
si levava un mormorio eccitato. C’era chi era felice perché quel giorno avrebbe
sostenuto la sua ultima interrogazione, chi invece era disperato perché aveva
paura di prendere per il quarto anno consecutivo il debito in greco e persino
chi, come Sabrina, canticchiava allegramente un motivetto di chissà quale
canzone rock. In quel baccano Chiara gettò lo sguardo oltre la spalla di
Carmen, verso la parte più lontana dell’aula, sorridendo a Roberta. La scuola
stava per finire. L’atmosfera era davvero delle migliori.
***
- Della Corte,
su, tocca a te, facciamocela quest’interrogazione e togliamoci il pensiero-
sbuffò il vecchio professore Abbatelli, sudante nella sua polo marrone, con la
fronte calva imperlata di goccioline e gli occhialoni appannati. Chiara vide
Roberta alzarsi con decisione e avanzare a testa alza verso la lavagna.
-Io dico che
anche questa volta fa scena muta- ridacchiò Sabrina al suo orecchio,
giocherellando con uno dei suoi numerosi piercing alle orecchie. Chiara si
stizzò, sentendosi profondamente offesa, come se il commento maligno le fosse
stato rivolto direttamente.
- Ma per favore-
disse, zittendola. Sabrina la guardò stranita, ma poi alzò le spalle,
probabilmente pensando che Chiara era nervosa per chissà quale oscuro motivo.
- Cominciamo con
la respirazione cellulare?- chiese Abbatelli, con un sorrisino degno del più
incallito dei sadici. Chiara sbiancò.
-Che stronzo, lo sa benissimo che la
respirazione cellulare è programma di primo quadrimestre- sibilò, attenta a non
farsi sentire. Al contrario di quello che poteva sembrare, Abbatelli non era
per niente sordo, anzi. Roberta però non sembrò scomporsi, si limitò a
guardarsi annoiata le unghie, prendere fiato e cominciare ad esporre le tre
fasi principali del processo di respirazione cellulare. Abbatelli, dopo lo
shock di aver sentito tutti quei paroloni uscire dalla bocca della stupida Della Corte, si riprese,
passando senza remore direttamente alla struttura ossea del cranio umano.
- Ma è pazzo? Le
sta chiedendo tutto il programma!-protestò ancora indignata Chiara, contorcendosi le mani sotto al banco. Roberta
riprese ad esporre ciò che le era stato richiesto, con
qualche piccola esitazione, ma senza mai sbagliare.
- Caspiterina,
questa ha studiato sul serio- borbottò contrariato Ivan al suo fianco, ora
letteralmente incazzato nero perché
la sua interrogazione di filosofia gli aveva fruttato solo un misero sei e
insofferente del fatto che a qualcun altro la buona sorte stesse sorridendo.
-
Evidentemente-sorrise di sottecchi
Chiara, fissando intensamente il profilo delle labbra di Roberta, che si
muovevano ritmicamente. Non sapeva assolutamente cosa stesse esponendo ora,
anche se in biologia era una delle più brave, il suo lucidalabbra color
ciliegia la distraeva troppo.
Sentì qualcuno
colpirla con una penna alla schiena e a malincuore fu costretta a staccarsi da
quella visione per voltarsi verso Carmen.
- Che vuoi?-
- Non è che le
dai ripetizioni? Da quando siamo tornate a Vienna ha raggiunto quasi ovunque la
sufficienza e ora si sta decisamente superando- ridacchiò Carmen, sottolineando
di nuovo quando fosse inetta Roberta a scuola.
-No, ha
semplicemente studiato e non dovreste tutti trattarla come se fosse l’ultima
stupida di questo pianeta- esclamò, sentendo di nuovo la rabbia montarle al
petto. Si girò senza nemmeno replicare alla sua risatina, stringendo i pugni.
Abbatelli aveva tentato un’ultima volta di far cadere Roberta in una delle sue
domande a trabocchetto, ma quando quella gli aveva elencato correttamente tutte
le varie malattie genetiche legate alla sovrabbondanza o meno di cromosomi,
aveva lasciato andare con uno sbuffo l’idea di metterle un altro quattro e
l’aveva mandata a posto con sette meno.
- Si meritava di
più, gli ha detto praticamente mezzo programma!- questa volta Chiara borbottò
con troppo impeto, così che l’Abbatelli la sentì e la minacciò di abbassarle il
nove in biologia se solo si azzardava a fare un altro commento.
Roberta nel
frattempo era tornata al suo banco trionfante, con mezza classe che la fissava
in preda al dubbio che avesse fatto uso di sostanze dopanti. La campanella
suonò dopo pochi minuti, giusto in tempo perché quell’acido del professore
assegnasse l’ultimo capitolo sulla clonazione e si lamentasse di quanto fossero
più fastidiosi del solito e non riuscissero a stare fermi nemmeno con quel
caldo torrido. Chiara, bofonchiando qualche altra osservazione poco carina sul
suo conto, uscì dalla classe con lo zaino in spalla, raggiungendo Ivan.
- Che fissi?- le
domandò il ragazzo dai capelli cespugliosi, fissando anche lui attonito la
porta dell’aula come se potesse uscirne chissà quale mostro mitologico. Chiara
abbassò immediatamente lo sguardo sulle sue scarpe, arrossendo per la
milionesima volta quella mattina.
- Io…
mmh...nulla- alzò le spalle.
- Sei
particolarmente strana, Chiara Torri, in questo periodo. E con strana intendo
particolarmente felice, perennemente rossa come un peperone e decisamente
troppo sorridente rispetto alla media- dichiarò solenne Ivan, giocherellando
con le frange della sua fedele sciarpa di cotone multicolore. Chiara gli diede
una gomitata sulle costole, per poi abbracciarlo ridendo.
- E tu, Ivan
Vaiani, decisamente troppo ficcanaso-
- Sarà, ma
continuo a dire che secondo me c’è qualcosa sotto. Andiamo, pensavo che fra noi
due ci fosse una bella amicizia, perché non mi dici nulla?- piagnucolò per
finta Ivan, mentre si dirigevano a passo lento verso le scale.
- Lo sai che sei
uno dei miei migliori amici-
- Ecco, vedi?
Intendo questo. Sei troppo più affettuosa del solito- sogghignò il ragazzo.
- Forse c’è
qualcosa sotto, o forse no… ti lascio il beneficio del dubbio- proclamò Chiara,
fermandosi sulla soglia dell’entrata del “Giulio
Cesare”.
- Sei proprio
crudele! Questa me la segno, continuerò a romperti finché non ti caverò di
bocca qualcosa, giuro!-e con queste
parole Ivan si avviò a piedi verso la fermata del pullman, con le cuffiette
ermeticamente attaccate al condotto auricolare.
Carmen e Sabrina
erano uscite in tutta fretta dall’aula, salutandoli senza nemmeno essersi
fermate a chiacchierare, una con la scusa di aver ancora metà programma di
matematica da recuperare e di non poter perdere nemmeno un minuto della
giornata, l’altra con quella che facesse troppo caldo per starsene lì a
bighellonare.
Chiara si
appoggiò al solito muretto che dava nel cortile interno dell’istituto e passò
in rassegna a tutti gli studenti che si riversavano confusamente in strada.
Riuscì a scorgere Roberta solo dopo qualche minuto, che chiacchierava, sembrava
non proprio serenamente, con Vanessa e Angela dall’altra parte del marciapiede.
La vide gesticolare nervosamente e asciugarsi con sdegno il sudore dalla
fronte, poi le altre due le lanciarono un’occhiata poco amichevole e si
diressero nella direzione opposta. Incontrò quasi subito il suo sguardo, come
se fossero sincronizzate e, accertatasi che la Monteverde e il suo braccio
destro fossero lontane e che a nessuno studente importava davvero se parlava
con una come Roberta, Chiara la raggiunse.
- Eccoti- le
mormorò subito Roberta, con aria mesta.
- E’ successo
qualcosa?- le domandò, affiancandola mentre raggiungevano il parcheggio
adiacente.
- Io… in realtà
si. Sai, Vanessa e Angela non hanno preso bene la rottura con Massimo e
cominciano a sospettare qualcosa della nostra… amicizia- pronunciò quell’ultima parola fissando Chiara dritta
negli occhi.
“Ecco, ora mi
dice di dimenticare tutto. Era troppo bello per essere vero” pensò sconsolata
la rossa. E invece Roberta le indicò un’auto nera, modello Mini Cooper,
leggermente fuori mano, ma nel complesso molto più lucente e lustra di tutte le
altre.
- Su, sali, ti
porto a fare un giro-
Chiara tossì
forte, quasi stava per strozzarsi.
- Un giro…
aspetta,quella è la tua macchina?-
- Esattamente,
quindi ora… vuoi concedermi l’onore di essere la mia prima passeggera? A parte
l’istruttore di guida e mia madre, ovvio- ridacchiò la riccia, col viso
illuminato dal forte sole di maggio, che metteva in evidenza le piccole
lentiggini sul suo naso.
- Se proprio
insiste-concesse con finta sufficienza
Chiara, lasciandosi aprire lo sportello.
- Insisto,
insisto. Dove la porto, signorina?- le chiese una volta in macchina, lanciando
lo zaino sui sedili posteriori. Si rivolsero un sorriso e poi Chiara le fece un
gesto con la mano, invitandola a non mettere ancora in moto.
- Che c’è? Giuro
che guido bene, faccio attraversare le vecchiette ai semafori e non oltrepasso
i quaranta chilometri orari- alzò le mani Roberta. Chiara scoppiò in una
fragorosa risata.
- Posso
immaginarlo ma, vedi… mi sei mancata davvero tanto- si giustificò con
un’espressione sorniona, per poi accarezzarle una guancia con la mano e
allungare il collo per raggiungere le sue labbra. Si baciarono lentamente,
incoraggiate dal fatto che i finestrini dell’auto fossero oscurati, e Chiara
ebbe la conferma che baciare Roberta era la cosa più elettrizzante e al
contempo naturale del mondo. Approfondì quel contatto, senza neanche
rifletterci, cominciando a tracciare cerchi invisibili sul suo collo niveo con
le dita. Roberta rispose con un mugolio.
- Ora sai che
anche io soffro il solletico- esalò staccandosi, ancora affannata per il bacio.
Chiara affermò che da quel momento in poi sarebbe stata ricattabile e, mentre
la riccia metteva in moto, accese la radio, aumentando il volume quando sentì
che la canzone era proprio “It’s time”
dei Imagine Dragons, che adorava.
- Ti accompagno a
casa?-
- Mamma è di
turno oggi a pranzo e papà non tornerà prima delle sei…- cominciò Chiara, per
poi essere incitata dal sorrisino che si era fatto strada sul volto di Roberta.
-… quindi
possiamo pranzare insieme e magari festeggiare per il mio primo sette meno in
biologia?- domandò speranzosa l’altra. La rossa annuì calorosamente, affermando
che non poteva avere idea migliore.
- Potremmo andare
a prenderci una pizza al chiosco del parco e farci una passeggiata…- propose
Chiara.
-E chiosco sia-
acconsentì Roberta, guidando fino al parco e gettando, di tanto in tanto,
occhiatine divertite alla rossa, che canticchiava frasi sconnesse come “Now don’t you understand?”, battendo i
piedi a ritmo. Aprirono i finestrini e si lasciarono scompigliare i capelli
dalla piacevole brezza, con l’odore di fiori di campo ad avvolgere l’abitacolo.
Quando si accomodarono su una delle panchine del parco, una delle più nascoste
dalle fronde, dopo aver mangiato in tutta fretta la loro pizza per paura di
essere viste, si abbandonarono ad una risata liberatoria.
- Stendiamoci sul
prato!- urlò eccitata Chiara, trascinandosi dietro una Roberta oramai stanca e
appesantita dalla stressante giornata scolastica.
- Come vuoi, ma
smettila di utilizzare il tuo ascendente su di me a tuo vantaggio- borbottò
sfinita Roberta, abbandonandosi sull’erba fresca con lei.
- Ho un
ascendente su di te?- domandò divertita la rossa, invitandola a poggiare la
testa contro il suo grembo.
- Decisamente-
sospirò Roberta, rilassata dalle mani di Chiara che accarezzavano serenamente i
suoi capelli.
Dopo un paio di
minuti in silenzio, Chiara si decise a tirare fuori quel rospo che la
tormentava dalla sera precedente.
- Posso farti una
domanda?-
- Quello che
vuoi- sussurrò Roberta. Aveva chiuso gli occhi e arricciato le labbra in modo
adorabile a tutte quelle attenzioni.
-Noi, insomma…
cosa siamo?-
A quella domanda
Chiara la sentì irrigidirsi e tirarsi su con la schiena, per poterla guardare
negli occhi. Temette di aver detto qualcosa di sbagliato.
- Tu mi piaci… e
tanto anche. Hai fatto bene a farmi questa domanda, perché io sono così
vigliacca che non avrei saputo dirti queste cose altrimenti. Mi piaci. Non
ricordo esattamente da quando, se devo essere sincera…- cominciò esitante
Roberta, toccandosi i capelli e tirandosi le ginocchia al petto. La camicetta
bianca che indossava e i jeans chiari, uniti alla sua pelle diafana e ai fili
di erba intrecciati ai suoi capelli, la facevano assomigliare ad una di quelle
ninfe dei laghi di cui tanto Chiara aveva letto nei miti greco romani.
-… Il fatto che
tu sia una ragazza, ecco… per me è stato destabilizzante all’inizio. Ho avuto
una paura matta per gli ultimi nove mesi, ti evitavo e ti deridevo per
dimenticarmi che effetto piacevole tu mi facessi- raccontò con voce amara, come
se fosse persa in chissà quale passato remoto, buio e poco piacevole al
ricordo. Le fece cenno di continuare.
- Quando mi
guardavi, con gli occhi pieni di disappunto, quando ti offendevo o ti mettevo
in ridicolo davanti a Vanessa, il cuore mi si riempiva di odio verso me stessa.
“Sei una vigliacca” mi dicevo, “non hai né la forza di negare né di combattere
per quello che vuoi”. So solo uniformarmi, è questa la dura verità. Ho così
paura di loro che faccio di tutto per compiacerli. Mi hanno in pugno, Chiara.
Se avessero cominciato a sospettare di me sarebbe stata la mia fine. Sono
debole. Per questo ho colto al volo l’occasione che mi ha offerto Massimo, per
far credere a tutti che stessi bene. Ma non era così. Più lo baciavo, più
nasceva in me il dubbio di come sarebbe stato baciare te. E mi odiavo-
confessò, puntando lo sguardo ora spento sulle sue ballerine, strappando con
nervosismo dei fili d’erba dal terreno. Chiara rimase in silenzio, capì che si
trattava di una confessione molto importante. Si sentì lusingata che Roberta
riponesse tanta fiducia in lei. Le accarezzò lievemente il braccio, spronandola
a continuare.
-Io… non riesco
ancora a crederci che… insomma, che tu mi ricambi. Non sai quante volte ti ho
osservato, di nascosto, dal mio banco. Forse mi piaci dal quinto ginnasio, ma
non ne sono sicura. Quell’anno ti eri schiarita i capelli, ricordi? Li avevi quasi
color sabbia. Quando tornammo dalle vacanze estive, forse fu allora che ti
notai davvero. Ma avevo quindici anni e molta paura. Cominciai a pensare che tu
fossi incredibilmente carina e poi, non so… una volta ,durante l’ora di
inglese, cominciasti a discutere con la prof di “Cime Tempestose”. Avevi un’espressione così appassionata, così viva
che mi colpì il contrasto con la mia sensazione di essere amorfa. Mi hai
affascinata- alzò le spalle Roberta, riprendendo fiato per continuare quel
racconto.
- Ma è inutile
negare che il mio comportamento in questi anni è stato controproducente. Ho cominciato
a bere, a fumare, a uscire con un ragazzo dopo un altro, perché mi sentivo
sola, usata e… sola. Vanessa… beh, c’è stato un periodo in cui forse siamo
state davvero amiche, ma una volta in quel giro, Chiara, non puoi più uscirne.
E’ un circolo vizioso. Vedi che a qualcuno interessi e fai di tutto per
rimanere sulla cresta dell’onda. Mentre l’unica opinione che mi interessava era
la tua. Poi hai cominciato a frequentare quel ragazzo, Alessio, e allora ho
capito che era meglio dimenticarmi di qualunque cosa avessi mai provato per te.
Non sono mai riuscita a dargli un nome, ma qualunque cosa fosse quest’anno, in
gita, è tornata- concluse, questa volta guardandola con un’intensità quasi
magnetica.
- Perché non me
ne hai mai parlato?- domandò attonita Chiara, cercando la sua mano per
stringerla. Era diventato un gesto indispensabile.
Roberta fece una
smorfia rassegnata, sbattendo furiosamente le palpebre.
- Avevo paura che
fosse sbagliato. Non eravamo nemmeno amiche, ti umiliavo davanti a tutti… che
diritto avevo di dirti che mi piacevi così tanto da ossessionarmi!?- chiese
retoricamente, con gli occhi quasi lucidi. Chiara le si avvicinò e le strinse
le braccia attorno al busto, poggiando con un sospiro la guancia sulla sua
spalla.
- Non importa,
ora lo so. E posso dirti che per me è lo stesso. Non so come diavolo sia
successo, perché sul serio… è avvenuto tutto troppo in fretta. Un giorno la Manzi ci mette in camera
insieme a Vienna, il giorno dopo mi scopro a provare… un sentimento mai provato
prima. E’ una cosa nuova per me, quindi perdonami se rovino tutto col mio
caratteraccio, come faccio di solito… ma sta certa che ora non sei sola-
mormorò la rossa, quasi commossa. Si strinsero, stendendosi sul prato e
scrutandosi alla luce accecante delle tre e mezza di pomeriggio. Si baciarono
ancora, con le gambe che si intrecciavano e i nasi che si sfioravano,
fermandosi di tanto in tanto solo per necessità di ossigeno. Quel pomeriggio,
quando Margaret trovò Chiara a ripassare matematica in cucina, con ancora fra i
capelli dei fili d’erba, si chiese se sua figlia, così chiusa e solitaria per
natura, avesse finalmente concesso a se stessa di provare delle vere emozioni.
- Hey, Chiara, passami il menù delle pizze che ho fame
Prima di lasciarvi alla lettura del nuovo capitolo,
volevo ringraziare pubblicamente tutti quelli che recensiscono e\oseguono la mia storia, o che
addirittura l’hanno fra i preferiti. Un grazie di cuore davvero, sono le vostre
recensioni che mi danno la spinta a scrivere sempre di
più, quindi sarei davvero estasiata se ne ricevessi ancora :3
Detto questo, prevedo che il prossimo capitolo
arriverà a breve, come al solito fra al massimo due
settimane.
Buona lettura!
- Hey, Chiara, passami il menù delle pizze che ho fame!-
brontolò rumorosamente Flavio dall’altro capo del tavolo, intimandole con un
gesto sbrigativo di far presto a scegliere.
- Vorrà dire che me la prenderò con
calma- rispose a tono Chiara, tirando fuori la lingua e sfidando l’amico ad
alzarsi e strapparle il menù di mano. Quel sabato venti di maggio avevano
deciso di uscire tutti insieme come ai vecchi tempi e
mangiare al piccolo pub del Corso, il “Black
Devil”, che frequentavano fin dal primo anno di
liceo. Carmen e Sabrina se ne stavano sedute accanto a lei, parlottando di un
ragazzo appena entrato nel locale- decisamente carino, ma
guardalo!- e Ivan alla sua sinistra ticchettava allegramente sui tasti del
suo cellulare vecchio modello.
- Con chi messaggi, eh?- gli chiese la rossa, con una
risatina maliziosa. Si sentiva così allegra e piena di vita da fare persino
insinuazioni sulla misteriosissima vita amorosa di Ivan,
cosa che normalmente si teneva ben lungi dal fare. Sapeva quanto Ivan diventasse bisbetico e irritabile quando glielo domandava,
chissà per quale ragione poi. Il ragazzo dai capelli ricci alzò le spalle, con in viso un’espressione neutra.
- Un mio amico- biascicò, atono.
- Si, certo, un amico… tanto lo sappiamo che hai tante
spasimanti, Iv!- lo prese in giro Andrea, amico di Ivan dai tempi delle medie che frequentava un’altra
sezione. Quello sbuffò dal naso, quasi soffiando come un gatto infastidito.
- Sei più acido di una zitella, mi
chiedo se abbia il ciclo- sghignazzò Sabrina rivolgendosi a Chiara, lasciando
per un attimo perdere l’adorabile visione del biondino del tavolo accanto.
Michela, ragazza di Andrea, assisteva alla scena
nascondendo la sua risata dietro al menù delle bibite.
- Siete proprio insopportabili-
Ivan spense
immediatamente il cellulare, abbandonandolo sulla tavola. –Contenti?- domandò
fintamente offeso, gonfiando il petto, ma una risata contagiosa lo tradì e
abbandonò l’idea di far il prezioso.
- Piuttosto, non vi sembra che stasera Miss Acida sia un po’
troppo felice?- insinuò Flavio, una volta che Chiara gli ebbe passato non
troppo gentilmente il menù. Quella diventò paonazza e nascose il viso dietro al
bicchierone di coca cola.
- No, non è vero- bofonchiò fra un
sorso e l’altro, col rossore delle gote a tradirla. Carmen le gettò un’occhiata
bieca. Da quella mattina in cui era andata al parco con Roberta, Carmen quasi
non le aveva rivolto la parola e, se lo aveva fatto,
era stata particolarmente distaccata e fredda. Chiara non ci fece molto caso,
però, presa com’era dai messaggi di Roberta che le facevano vibrare il
cellulare in tasca ogni dieci minuti. Si sentiva scoppiare come un fuoco
d’artificio e non poté fare a meno di ridere ad una squallidissima battuta di Andrea sulle capacità di seduzione di Flavio che,
adocchiata una bella ragazza al bancone, le lanciava sguardi che volevano
sembrare infuocati, ma che accentuavano solo la pateticità della situazione.
- Flavio ha ragione, sei particolarmente
felice stasera- le disse Carmen, guardandola ancora con quello sguardo
strano, come se volesse trapassarle la mente e capire cosa mai stesse frullando
nella sua testa.
- Ma no, è colpa della birra, l’ho detto a
Ivan che non doveva farmene bere così tanta- alzò le spalle la rossa, con un
sorriso spensierato. Carmen sembrò non gradirlo e voltò la testa per continuare
a chiacchierare con Sabrina. C’era qualcosa che non andava, ma Chiara proprio
non aveva voglia di rovinarsi la serata per una stupida presa di posizione di
Carmen. Era la sua migliore amica, ma certe volte si comportava in modo davvero
infantile. Quando c’era qualche problema preferiva tenerselo per sé, con la
presunzione che gli altri capissero esattamente cosa
stava andando storto e provvedessero.
- Io continuo a dire che c’è
qualcuno- le sussurrò Ivan all’orecchio, ora quasi serio. Chiara guardò l’amico
trattenendo un sorrisetto, sentendo il cellulare in
tasca vibrarle ancora, come a confermargli che, si, c’era qualcuno. Ivan le
fece un occhiolino, ammiccando al suo cellulare, ma non commentò né chiese ulteriori spiegazioni e Chiara gliene fu grata. Per qualche
strana ragione, sapeva che di Ivan poteva fidarsi. Non
che non riponesse la stessa fiducia in Carmen o in
Sabrina, erano pur sempre le sue migliori amiche, ma sapeva cosa ne pensavano
di Roberta o in generale di quel tipo di
relazioni. Ivan invece le sembrava quello dei tre con meno pregiudizi, ma
forse era una sua impressione.
- Scusate, ho una chiamata- si alzò dal tavolo, chiedendo a
Flavio di ordinare per lei un hamburger con bacon nel caso non fosse tornata a capo di cinque minuti. Mentre spingeva la pesante
porta del Blacknotò con la coda dell’occhio che Carmen
la stava osservando con sospetto. La ignorò, rimbeccandola con uno sguardo
interrogativo, per poi chiudersi dietro la porta del locale e uscire in strada.
La serata era fresca e ancora giovane, col sole che da poco era
tramontato dietro le montagne e il cielo quasi di quel blu estivo che
tanto amava Chiara. Si appoggiò al lato dell’ingresso, accettando la chiamata
di Roberta.
- Hey-
mormorò quella dall’altra parte del telefono, con un tono così morbido che
nemmeno la linea disturbata poté rovinarne la dolcezza.
-Ciao a te- rispose ,
giocherellando coi suoi stessi capelli.
- Come procede la serata?-
le domandò. Dalla strada non provenivano altri rumori se non i chiacchiericci
allegri di chi prendeva un aperitivo al bar di fronte
e la musica soffusa. Da quel vicolo del Corso, Chiara poteva scorgere una
piccola folla di ragazzi che attraversavano la strada principale, ridendo e
spintonandosi a vicenda. Tutto quella sera sembrava
suggerirle serenità, buonumore e spensieratezza.
- Bene, far innervosire Ivan è più
divertente del solito- ridacchiò.
-Si, ho presente,
diventa proprio una checca isterica-rise con lei Roberta, poi smisero
entrambe di colpo, tirando un sospiro.
- Avrei tanto voluto che tu venissi- ammise
Chiara, scalciando un sassolino dal marciapiede.
- E anche io sarei voluta venire, ma… lo sai, è
complicato-
- Lo so, è complicato anche per me. I tuoi messaggi non mi
bastano-
- Pensavo…
domani, ti va di uscire con
me? Cioè, lo so che è stupido, ma ci ho pensato e,
tecnicamente, non ti ho mai invitata ad uscire- ora Roberta si era fatta
seria e il suo tono era molto più basso, roco. Chiara pensò che era dannatamente intrigante e si maledì, perché ogni cosa
che riguardava Roberta la coinvolgeva così tanto da ridurle al minimo i freni
inibitori. Non ci pensò due volte e, con una risatina che lei stessa giudicò
eccessivamente giuliva, acconsentì.
- Dove mi porti?- le domandò, con lo stomaco che le si contorceva ad ogni parola.
- Mmh… è una sorpresa-
- Oddio, da quando abbiamo cominciato coni clichè?- domandò scherzosamente
Chiara. Roberta rispose con un grugnito contrariato, affermando che non sapeva
come comportarsi e i telefilm americani erano il solo parametro di riferimento
che avesse.
- Sei dolcissima- si lasciò
scappare la rossa. Con Roberta era diventato tutto più familiare da quando avevano chiacchierato quella volta al parco, ma
era la prima volta che alludeva a quanta tenerezza le facesse. Quello che aveva intravisto della vera Roberta la portava a pensare che
si sarebbe chiusa a riccio, da quant’era riservata e
timorosa di apparire vulnerabile. Sotto quell’aspetto
erano parecchio simili.
- Nah, che dici- sminuì quella e, Chiara ne era sicura, se fosse stata lì avrebbe alzato le spalle e
arricciato il naso, come faceva sempre quando era presa in contropiede. Sentì
qualcuno aprire la porta del pub e, in un moto di panico, salutò velocemente
Roberta, intravedendo la sagoma di Ivan che usciva in
strada.
- Buonasera- lo sentì sussurrare a bassa voce,
ma Chiara si accorse che non era a lei che si stava rivolgendo, bensì
alla voce metallica che proveniva dall’altro capo del suo cellulare. Gli sorrise beffarda, infilandosi il suo di cellulare in
tasca e, notò, quando Ivan si accorse di non essere solo impallidì come un
fantasma. No, decisamente non era l’unica ad avere un
segreto da nascondere. Decise di non infierire ulteriormente, se Ivan voleva
parlare in privacy con qualcuno di certo non gli avrebbe dato fastidio, così
torno dentro più euforica di come era uscita.
- Ecco il suo hamburger al bacon, milady- la apostrofò Flavio, alzandosi
per farla passare dall’altra parte del tavolo e indicandole la sedia con un
gesto fintamente galante.
- Grazie mille, milord-
lo prese in girò, lasciandosi cadere sulla sedia con
poca grazia.
- Dov’è il Terribile?- domandò Sabrina, mentre tutti già stavano
addentando avidamente i loro hamburger e pizze e poco si curavano se Ivan ci
fosse o meno. Chiara tossicchiò.
- Dev’essere al telefono con sua
madre, l’ho sentito fuori che parlava- inventò, per
coprire le spalle all’amico.
-Con chi eri al cellulare?- buttò poi lì Carmen, afferrando
la bottiglietta del ketchup. Chiara ebbe l’impressione
che quella non fosse una domanda come un’altra, il
tono di voce dell’amica era eccessivamente calcolato e teso. Alzò le spalle,
ingollando un sorso di birra dal bicchiere di Ivan.
Aveva bisogno di distrarsi e di apparire sciolta. La tensione fra lei e Carmen era così palpabile che per un attimo Sabrina e Michela
smisero di parlare e le fissarono, in attesa di una risposta da Chiara.
-Mia sorella- biascicò la rossa, cominciando a trafficare
nervosamente con le posate nel piatto. Carmen la fissò attonita per un minuto
buono, indecisa se crederle o meno, poi abbassò la
testa e giunse Ivan, tutto su di giri, a rompere l’atmosfera di agitazione che
si era venuta a creare.
- E tu con chi eri al telefono?- domandò scherzosamente
Sabrinarivolgendosi
al ragazzo dai capelli ricci e scimmiottando la voce di Carmen, in modo da
farla apparire sospettosa e diffidente almeno quanto lo era stata lei. Ivan
alzò le spalle e biascicò che si trattava solo di sua madre, in una perfetta
copia dell’atteggiamento fintamente tranquillo di Chiara.
-Voi due siete proprio strani in questo periodo- fece notare
Flavio dall’altro capo del tavolo, tornando subito dopo a
ingurgitare patatine fritte condite con una quantità industriale di ketchup.
Poi si tornò alle solite chiacchiere di routine, su come la Manzi
sembrava essersi notevolmente ammorbidita nelle valutazioni e quest’anno Sabrina non rischiasse il debito in greco, su
come l’anno scolastico era passato velocemente e su ciò che avrebbero fatto quell’estate. Rimasero a bighellonare in strada fino a
mezzanotte, poi Sabrina dichiarò che si sarebbe fatta venire a prendere dai
genitori in auto, perché anche se abitava poco distante dal centro era davvero
sfinita e, quando offrì anche a Chiara un passaggio, Ivan intervenne dicendo
che non ce n’era bisogno, perché sul suo scooter c’era spazio per due.
- Pensavo dessi a me il passaggio stasera, che stronzetto- esclamò indignato Flavio,
che ancora si trascinava dietro l’ultimo bicchiere di birra e che,
evidentemente un po’ brillo, non era assolutamente in grado di tornare a casa a
piedi, soprattutto visto che a quell’ora di sabato le
macchine sfrecciavano impazzite.
-Su, vieni, te lo diamo noi un passaggio, idiota-
Sabrina lo agguantò e, quando i suoi genitori li raggiunsero
nella traversa del Black Davil, salì in macchina con
lui, salutando Chiara debolmente per poi sparire in fondo ai sedili posteriori
dell’enorme auto sportiva.
- Ti chiamo domani- le disse Carmen in un orecchio, per poi
salire anche lei.
Quando anche Andrea e Michela si furono incamminati verso
casa di lei, che distava solo pochi minuti a piedi,Ivan e Chiara si diressero in silenzio verso
il parcheggio antistante, fissandosi le scarpe e con le stelle nel cielo a fare
da cornice perfetta alla strada deserta.
- Su, monta- Ivan le allungò il casco, borbottando
mestamente. Fra lui e Chiara c’era sempre stata un’amicizia molto particolare,
quasi simbiotica. Accadeva spesso che quando Chiara era triste lo fosse anche
Ivan e viceversa, così avevano sviluppato una sorta di sesto senso che
permetteva ad entrambi di sondare lo stato d’animo dell’altro e comportarsi di
conseguenza. La rossa si appoggiò con un sospiro alla moto che Ivan aveva
comprato non appena aveva compiuto diciotto anni, qualche mese prima, e alzò la
testa per osservare meglio le stelle che quella notte sembravano più luminose
del solito.
- Belle, vero?- chiese l’amico, appoggiandosi vicino a lei e
alzando il volto al cielo.
- Molto- sospirò Chiara. Ivan sembrò trattenere il fiato di
fianco a lei, come se si stesse apprestando a confessare un grande segreto.
- Le stelle sono belle, l’anno scolastico è finito, Sabrina
non prende il debito in greco per il primo anno dal quarto ginnasio… e io sono
gay. Direi che la vita è bella- rise nervosamente, allargando le braccia e
rivolgendo il corpo al cielo stellato. Chiara rimase interdetta e per i minuti
seguenti non seppe cosa dire. Ivan probabilmente interpretò quel suo silenzio
come un segno di dissenso e lasciò cadere le sue braccia lungo i fianchi, come
se fosse appena stato colpito in petto da una pallottola.
- Sei… cosa?-
- Gay, hai capito bene-
La voce del ragazzo tremolò leggermente.
- Sei forse ubriaco?-
- Io? No, direi di no, la mia birra l’hai bevuta
praticamente tutta tu- grugnì, tornando al fianco di Chiara. Si guardarono per
un momento, poi la rossa prese parola.
- Okay, allora visto che la mettiamo in questo modo… io tipo
sto con una ragazza, siamo pari- mormorò, sentendo una voragine aprirsi nel suo
stomaco al realizzare che quella era la prima volta che lo ammetteva ad alta
voce e davanti a qualcuno che non fosse Roberta.
-Lo so, cioè… lo immaginavo- ammise Ivan, cacciandosi le
mani in tasta visto che una lieve brezza si era alzata e lambiva il parcheggio
deserto facendo ondeggiare le fronde degli alberi vicini.
- Insomma, quindi sei… gay-
Chiara parlò lentamente, non riuscendo ancora ad assimilare
la notizia. Ivan, suo compagno e amico dai tempi del primo anno di liceo era
omosessuale e… lei non se ne era mai accorta? Non riusciva a capacitarsi di
essere stata così poco perspicace, lei che di solito aveva bisogno di una sola
occhiata per capire anche i sentimenti più nascosti delle persone! Era più interdetta
per il fatto di non essersene accorta da sola che per la confessione in sé.
- Direi di si-
- Insomma, quando… quando è successo esattamente? Stai con
qualcuno? Su, su, andiamo, dimmelo, ora sono curiosa!- saltò su la rossa,
riacquistando per un attimo tutto lo spirito allegro ed effervescente.
Ivan rimase un po’ intimorito da quel cambiamento d’umore,
probabilmente perché all’inizio si aspettava una sfilza di ragioni per cui
poteva, per cui doveva, sbagliarsi.
- Io… diciamo che mi sto sentendo con qualcuno, ma non è
nulla di serio… lui però è molto carino- arrossì sulle gote ricoperte da una
lieve peluria scura come un bambino troppo cresciuto e a Chiara fece una
tenerezza immensa. Gli si aggrappò al braccio e poi gli circondò le spalle
larghe con le sue braccia sottili, in una muta richiesta di affetto. Quando si
staccarono, Chiara vide che dietro gli occhiali dell’amico luccicava il residuo
di una lacrima.
- Che fai, piangi? E non ti ho ancora nemmeno detto chi è la
mia ragazza, figuriamoci- ridacchiò, sorridendo quando citò Roberta come la sua
ragazza. Le faceva ancora uno strano
effetto.
- Ma che dici, idiota, era un polline- Ivan la spintonò via,
fingendosi stizzito, ma le rivolse subito dopo un sorrisino riconoscente.
- Allora, lo vuoi sapere o no chi è?-
- Descrivimela, vai-
- Prima però dimmi una cosa… come facevi a saperlo?- domandò
sinceramente curiosa, appoggiando il capo sulla spalla del ragazzo.
- Mmh, non so come facevo a
saperlo esattamente, ma vedi… sei una ragazza così carina e sei single da
troppo tempo- ridacchiò Ivan, rifilandole una giustificazione tipica del suo
carattere ficcanaso.
-Non ti smentisci
mai… gay o no, sei sempre il solito- lo riprese bonariamente Chiara,
punzecchiandogli un fianco.
- E’ per questa ragazza che hai lasciato perdere Ricky? No, perché anche lui era proprio carino…- rise sotto
i baffi. Continuarono a provocarsi a vicenda come sempre, finché Chiara con un
sospiro decise di raccontargli di Roberta. Ora che sapeva come stavano le cose,
svelargli la sua identità non sarebbe stato un problema, soprattutto perché
sapeva che Ivan era una tomba quando si parlava di segreti pesanti.
- Su, racconta, dimmi chi è questa fantomatica fanciulla che
ti ha fatto andare in pappa il cervello-
- Da dove comincio? Beh, ha un sorriso che mi fa sciogliere-
sospirò persa. Ivan fece una faccia schifata, fingendosi inorridito per tanta
dolcezza, ma la esortò a proseguire.
- E poi è bella, insomma… non è solo bella, lei è
soprattutto intelligente, creativa, dolce, sensibile e disegna benissimo. E
bacia benissimo. Okay, forse quest’ultima cosa è
imbarazzante da dire, scusa- ridacchiò Chiara, nascondendosi il viso arrossato
dietro le mani.
- E poi? Insomma, come vi siete conosciute, da quanto tempo
vi sentite… come si chiama-
- La conosci anche tu- ammise, dopo qualche minuto di
silenzio.
- O mio dio- boccheggiò Ivan, sgranando gli occhi.
- Sicuro di voler sapere chi è? E’ abbastanza
scioccante-lo mise in guardia Chiara,
non volevo tornare a casa su una moto guidata da Ivan in stato di shock.
-Davvero? Okay, aspetta, forse ho capito. E’ …Roberta Della
Corte- mormorò quasi fra sé il ragazzo, con il viso contratto per lo sforzo di
non urlare di sorpresa.
- Come diavolo hai fatto a capirlo?- ora fu il turno di
Chiara di urlare, allargando gli occhi e portandosi le mani al viso in
un’espressione di puro stupore.
- Ora che ci penso mi torna tutto… vi guardavate in modo
troppo strano! Più che ucciderti, sembrava volesse mangiarti con gli occhi ogni
volta ti lanciava quelle occhiatacce a scuola- ricordò Ivan, facendo arrossire
ancora di più l’amica. Le cicale frinivano sulle fronte vicine e i due stettero
in silenzio per qualche minuto, cercando di digerire le novità.
- Allora? Non dici nulla…? Che ne pensi?- chiese nervosa
Chiara, guardando il volto serio dell’amico.
- Non lo so… lei indubbiamente ti idolatra, lo si capisce
dagli sguardi adoranti, ma sappiamo entrambi la cerchia che le gira attorno.
Vanessa non deve saperlo o potrebbe andare a finire male. E io non voglio che
tornino a farti del male, Chiara-
Il viso di Ivan aveva ripreso tutta la serietà e la luce del
lampione vicino si rifletteva sulle sue lenti, dando ai suoi riccioli e al suo
naso aquilino un’aria saggia e severa.
- Non succederà. So che non significa nulla, ma io mi fido
di lei…- affermò sicura, alzando il volto al cielo.
- Lo spero- sospirò Ivan. Poi le passò il casco, salirono in
sella e, zigzagando pigramente per le strade deserte fischiettando un
motivetto, l’accompagnò a casa, entrambi con gli animi più leggeri per essersi
liberati di un peso così grosso.
***
Il mattino seguente, carica di aspettative per quella
giornata che già si preannunciava ricca di eventi, Chiara si alzò e scese a far
colazione, dispensando ai suoi genitori sorrisi luminosi e cortesie
inaspettate, tanto era di buon umore.
- La consegna delle pagelle?- chiese suo padre, addentando
una fetta di pane e marmellata.
- Dieci giugno, prevedo una media del nove punto tre-
cinguettò la rossa, afferrando la sua tazza di caffé bollente e sedendosi di
fronte a lui.
Margaret le passò vicino e le
scompigliò i capelli.
- Sempre brava la nostra Abigail-
le disse allegra, dandole un buffetto sul mento.
- Mamma ti prego! Lo sai che odio quando mi chiami così!-
- Ma è il tuo secondo nome, per quanto tu possa odiarlo
all’anagrafe sei Chiara virgola AbigailTorri… non
si scelgono le origini- la ribeccò suo padre, che si divertiva particolarmente
a stuzzicarla in quel modo per vederla innervosita.
- Si, ma voi non ditelo a nessuno, vi prego- borbottò
funerea la rossa, finendo di ingollare il caffé e dirigendosi al piano superiore
per darsi una sistemata.
- A proposito, stasera esco con Ivan e Sabrina!- gridò dalle
scale, sorridendo al pensiero che invece sarebbe uscita con Roberta. Dio,
quanto la mandava in tilt quella ragazza! Con quelle labbra così rosa e sempre
lucide, le guance morbide e gli occhi che sembravano due cristalli appena
lucidati. E i suoi capelli! Quanto amava attorcigliarsi attorno alla dita i
suoi boccoli neri! Pensò che fosse diventata davvero demente con tutta quella
faccenda dell’amore, ma si disse che andava bene così e, ancora tutta
sorridente, prese a spazzolarsi i capelli.
***
- Chiara, amore, sono le otto, non sei in ritardo?- la
chiamò Margaret dal piano inferiore, mentre la figlia
si rimirava per la quinta volta di fronte allo specchio, in dubbio se cambiarsi
di nuovo o scendere e farla finita con quel patetico teatrino. Aveva passato
metà pomeriggio a pensare a cosa mettere, dandosi della stupida per perdersi in
cose così superficiali, tirando fuori dall’armadio vecchi jeans di Benedetta e
golfini primaverili multicolori. Alla fine, stremata da tutta quella pressione
psicologica, aveva optato per un semplice jeans scuro e una camicetta verde
militare con bottoncini dorati che le ricadeva sui
fianchi con morbidi sbuffi di tessuto. Afferrò il suo paio di ballerine dello
stesso colore e, dando un’ultima occhiata al suo viso truccato con un velo
leggero di matita e fard, corse a rotta di collo giù per le scale,
scarmigliandosi involontariamente i capelli.
- Sei proprio carina, non è che devi vederti con qualcuno?-
grugnì sul padre dal divano, dietro le pagine di un quotidiano.
- Ma che dici, sono solo Sabrina e Iv-
scattò Chiara, ringhiando quasi come un mastino, nel timore che suo padre
potesse leggerle negli occhi quel po’ di esitazione che le sarebbe stata
fatale.
- Su, calmati, sembra che tu stia andando al patibolo tanto
sei pallida- la tranquillizzò sua madre, accarezzandole le spalle con un
sorriso rassicurante.
- Chi passa a prenderti?-
- Ivan, sai… con la sua moto- mentì Chiara. Si era messa
d’accordo con l’amico, lui sarebbe passato a prenderla e l’avrebbe lasciata
proprio alla traversa successiva, dove l’aspettava Roberta con la sua macchina.
Il pensiero di passare la serata interamente con lei le faceva sudare le mani
dall’eccitazione.
- Da quando ti passa anche a prendere?- domandò burbero
Matteo, forse sospettando che fra sua figlia e l’amico strano ci fosse qualcosa.
- Sabrina ci aspetta al parco, come al solito, lui mi ha
solo chiesto se volevo un passaggio… smettila di fare quella faccia, lo sai
benissimo che non c’è… nulla. Non è come pensi- arrossì sulle orecchie e,
all’ennesima occhiata scettica del padre, decise di andare in cucina a prendere
un bicchier d’acqua. L’atmosfera in quel salotto era soffocante e aveva bisogno
di smaltire la tensione. Si versò un po’ d’acqua fresca e, specchiandosi nella
superficie lucida del frigorifero, si aggiustò nervosamente i capelli che ancora
erano impigliati nel bordo della camicetta.
- Andrà tutto bene- disse fra sé, poi, sentendo il rumore
della moto di Ivan fuori alla stradina, si diresse in salotto e salutò
frettolosamente i suoi genitori.
- Pronta, principessa?- domandò fintamente cortese l’amico,
tutto felice nella sua polo verde mela e immancabile sciarpa hippie. Chiara replicò con un borbottio inacidito.
- Sei nervosa?- tentò di nuovo, mentre l’aiutava ad
agganciare il casco, visto che le sue mani tremavano così tanto da renderle
impossibile l’operazione più semplice. Chiara grugnì di si.
- Sta calma, la principessa Della Corte saprà come tenere a
bada la tua furia assassina, io ho solo il compito di scortarti al castello-
scherzò il ragazzo, mettendo in moto e rombando baldanzoso alla vista del viso
cereo di Matteo, che li osservava dalla finestra del salotto.
- Smettila, così lo farai spaventare e al ritorno ti
staccherà la testa, non importa che tu abbia altri gusti- lo rimbrottò Chiara,
aggrappandosi alla sua schiena e voltandosi per vedere la sua villetta sparire
dietro l’angolo.
- Mi stai arpionando i fianchi, dio, smettila tu o mi farai
distrarre- si lamentò con una risata sguaiata Ivan, urlando contro il vento e
serpeggiando per la strada adiacente.
- Sono nervosissima, mi si sta contorcendo tutto, hai
presente?- mormorò irrequieta, seriamente preoccupata che quel giretto in moto
potesse peggiorare le sue condizioni e farle vomitare tutto il pranzo
domenicale lì in strada.
- Certo che per essere una che studia, va in palestra,
suona, legge e trova anche il tempo di dare ripetizione a quelli di prima hai
proprio i nervi fiacchi!- la schernì lui, girando finalmente nella strada dove
Roberta la stava già aspettando. Sgommò, con un sorrisetto
sfrontato tipico di un bad boy anni ottanta, per poi saltar giù e porgere
galantemente la mano a Chiara. Roberta li stava già aspettando poco più in là
e, non appena li vide, scese dalla macchina, calma e rilassata nella sua mise
primaverile.
- ‘Sera- gli disse, avvicinandosi, sorridendo a Chiara con
in volto l’espressione più sicura di sé del mondo. I suoi occhi azzurri
risplendevano agli ultimi raggi del sole che moriva ad ovest e la sua pelle,
così bianca e uniforme, al tramonto assumeva una sfumatura lievemente dorata.
- Hey- esalò la rossa,
completamente presa dal luccichio del suo ombretto che donava riflessi
iridescenti ai suoi occhi limpidi. Ivan le diede una gomitata, come ad
intimarle di darsi un contegno.
- Grazie per averla accompagnata- disse Roberta,
rivolgendosi direttamente al ragazzo in tono riconoscente.
- Vedi solo di farla tornare a casa in tempo, suo padre
c’ammazza entrambi anche solo per un minuto di ritardo… e fammela rilassare,
sembra un pezzo di legno stasera- la punzecchiò Ivan e, dopo aver salutato
Chiara con un abbraccio forse troppo caloroso,tanto che si beccò
un’occhiataccia dalla riccia, rimontò in sella e sparì oltre gli alberi del
vialetto successivo.
- Pronta? Lo so che odi i clichè, quindi in effetti anche quest’appuntamento ti sarà sembrato banale visto che le
cose tra noi sembrano già belle che fatte, o almeno spero sia così, ma…
rimandiamo i giudizi a fine serata- le mormorò seducente Roberta ad un
orecchio, per poi precederla e scortarla in macchina. Le aspettative di Chiara
crebbero ancora di più a quelle parole e si lasciò aprire la portiera, non
senza rivolgerle una smorfia fintamente disgustata.
- Ora però dimmi dove mi porti- la pregò, dopo qualche
minuto di macchina. Roberta alzò le spalle fasciate da un’adorabile camicetta bianca
e sbuffò, facendosi sobbalzare sul petto la collana di perle rosse coordinate
col suo rossetto.
- Ti piacerà, posso assicurartelo- si limitò a rispondere,
prendendo poi con la mano libera quella di Chiara e stringendola.
Pochi isolati dopo, arrivate nel vicolo che Chiara riconobbe
come lo stesso della tea room dove erano state l’ultima volta, lanciò un gridolino eccitato.
- Prendiamo il tè?- domandò, quasi saltando sul sedile.
Sapeva che Roberta avrebbe pensato a qualcosa di originale, ma non credeva si
avvicinasse così tanto al suo ideale di serata perfetta.
- In realtà, stasera c’è il club letterario che si riunisce…
recitano delle poesie, sai, roba così. Pensavo che ti sarebbe piaciuto- replicò
imbarazzata quella, arrossendo sulle guance ma mantenendo lo sguardo fisso su
di lei. – Recitano Keats, Byron
e… com’è che si chiamava l’altro? Ah, si Shelley…
scusa, lo dimentico sempre-
Chiara la fissò con gli occhi quasi luccicanti dalla gioia.
Come faceva a capirla così bene? Proprio non riusciva a capacitarsene. Nella
sua vita molti avevano additato la sua passione per la letteratura e i libri
come strana ed eccessivamente anacronistica, quasi tutti i ragazzi a cui si era
anche minimamente interessata la pensavano così. Eppure Roberta era riuscita a sorprenderla.
- Hai avuto un’idea fantastica, tu sei fantastica- esclamò,
gettandosi addosso a lei e schioccandole un bacio sulla guancia.
- Ma smettila, quasi ti preferisco quando fai l’acida-
ridacchiò Roberta. Poi spense il motore e scesero dall’auto, dirigendosi
all’entrata del locale, con le vetrine vecchio stile illuminate dalla calda
luce gialla degli interni e le poltroncine di velluto verde che facevano bella
mostra di sé, stagliandosi contro la carta da parati a strisce.
- Su, entriamo- la chiamò Roberta, vedendola imbambolata a
fissare la solita vetrina con i dolci, prendendole la mano e trascinandola
dolcemente dentro.
***
- Che stanno recitando?- domandò Roberta a Chiara che,
assorta com’era a sentire una poesia di Keats di cui
però le era sfuggito il titolo, si voltò verso di lei solo dopo che quella
l’ebbe toccato un braccio.
- Non lo so, ma… ascolta- mormorò, accoccolandosi di più a
lei e poggiando la testa sulla sua spalla. Si erano sedute nell’angolo più
lontano della sala, dietro una pianta finta che faceva da separè, con loro
tazze fumanti di tè alla vaniglia e un piatto di pasticcini guarniti di crema.
Chiara aveva riso quando si era ritrovata ad ordinare un tè alla vecchia
signora che le serviva, ma Roberta aveva detto che se le andava non aveva
importanza il fatto che fosse ora di cena e praticamente nessuno lì lo stesse
facendo. Così, dopo aver finito la loro teiera, Chiara era passata a sedersi
sul piccolo divanetto dove stava l’altra, chiedendole di farle spazio e
cingendole la vita. La voce del narratore, che leggeva su un piccolo volume
dall’alto di uno sgabello, su un modesto palchetto posto dall’altra parte del bar,
arrivò languida e ovattata alle loro orecchie.
“Mi hai assorbito. In
questo momento ho la sensazione come di dissolvermi: sarei estremamente triste
senza la speranza di rivederti presto. Avrei paura a staccarmi da te.Mi hai rapito via l’anima con un potere cui non posso
resistere; eppure potei resistere finché non ti vidi; e anche dopo averti
veduta mi sforzai spesso di ragionare contro le ragioni del mio amore. Ora non
ne sono più capace. Sarebbe una pena troppo grande. Il mio amore è egoista”
recitava la poesia e i successivi applausi degli ascoltatori più appassionati
coprirono gli schiocchi causati dai loro baci, caldi e delicati, dall’aroma di
vaniglia e zucchero a velo. Si staccarono frettolosamente, per paura che
qualcuno potesse vederle, poi Chiara represse un sorriso rifugiandosi nel collo
di Roberta. Quella cominciò ad accarezzarle i capelli, rilassandola e godendo
dei suoi mormorii soddisfatti.
- Hai smesso di fumare o sbaglio?- mugolò Chiara,
giocherellando con le sue dita e poggiando le gambe sulle sue. Roberta alzò le
spalle, disegnando cerchi astratti fra i suoi capelli vermigli.
-Diciamo che ho ridotto il numero di sigarette, va’…
ultimamente sono molto meno nervosa del solito-
- Peccato, quell’aroma di tabacco
mi piaceva, ti rendeva… sexy- ridacchiò morbidamente. Si scambiarono
un’occhiata divertita e scoppiarono in una risatina bassa, per non farsi notare
dalla coppia seduta al tavolo più vicino al loro.
- Te l’ho mai detto che sei bellissima?-
Gli occhi di Roberta sembravano vacui e persi nei suoi,
totalmente isolati dal resto del mondo. Un brivido attraversò la schiena della
rossa, che si sforzò di ricambiare con tutta l’intensità che sentiva dentro di
sé.
- Direi di no, stasera no…- sorrise melliflua Chiara.
- Allora lasciati dire che sei bellissima-
- E tu lo sei ancora di più quando arrossisci così… sembri
una bambina- la prese in giro, passando una mano sulle sue lentiggini chiare
che le davano un’aria ancora vagamente infantile. Come se l’ingenuità
dell’infanzia ancora albergasse in quegli occhi e ancora illuminasse quel
sorriso, ora così sereno e appagato.
- Pff, smettila, sei incredibile…
riesci a farmi dimenticare persino quello che mi passa per la testa- sbottò
stizzita, ma si sciolse quando Chiara le schioccò un bacetto
sul mento.
- A che pensavi,su… rendimi partecipe-
- Pensavo che voglio ritrarti meglio, qualche volta-
- Quindi avevo ragione… quel disegno in camera tuo
rappresenta… me?-
Gli occhi di Chiara quasi sfavillarono per l’emozione.
Roberta fece un gesto con la mano, come a sminuirsi.
- Si, eri tu. Sei così curiosa che non posso tenerti
nascosto nulla, diamine! Voglio ritrarti meglio però-
- Vorrei tanto che non fossimo in un posto così affollato… -
sussurrò malinconica la rossa, notando come tutte le altre coppie si
scambiassero effusioni in bella vista e loro dovessero accontentarsi di
nascondersi dietro una pianta, come se quello che facevano fosse sbagliato.
- Forse è meglio se…-
- Si, lo so. Potrebbero vederci- mormorò, per poi alzarsi e
sedersi dall’altra parte del tavolino. Roberta le prese la mano, rivolgendole
un sorriso d’intesa e a Chiara andò bene così.
Uscirono che erano le unici in punto, il club letterario si
era disperso già da qualche ora e avevano dovuto ordinare altri pasticcini fino
a scoppiare per restare lì a chiacchierare in santa pace.
- Piaciuta la serata?- le domandò Roberta una volta in
macchina. Chiara si allungò per darle un bacio, sta volta piuttosto lungo e più
bisognoso, poi tornò al suo posto e sussurrò che, si, ora la serata le era
decisamente piaciuta.
Prima di lasciarvi alla lettura, vorrei
pubblicamente scusarmi per aver “abbandonato” la storia per quasi due mesi. Mi
rincresce davvero avervi lasciato tutti all’improvviso, ma fra gite
scolastiche, interrogazioni e settimane bianche proprio non ho avuto tempo.
Mettiamoci anche che mi sono iscritta ad un paio di concorsi (uno fra l’altro
vinto, con la storia “Le tre sorelle” pubblicata su EFP, ma ora la smetto di
divagare >.<”) e il ritardo è bello che fatto! Mi scuso ancora e vi
ringrazio di nuovo per tutte le recensioni che mi lasciate! Spero che anche
questo capitolo vi lasci soddisfatti.
Buona lettura!
-Ragazzi,
allora sabato festeggiamo la fine della scuola al solito, no?- domandò fra una
boccata di fumo e l’altra Flavio, mentre erano tutti riuniti sul piazzale di
fronte al liceo appena prima delle lezioni, con Chiara pigramente mezza distesa
su di Ivan, che cercava di inviare un messaggio col cellulare in quella scomoda
posizione, e Sabrina e Carmen che calcolavano con dita la loro media scolastica
di quell’anno. Michela e Andrea erano appena arrivati e, mano nella mano,
stavano attraversando lo spiazzo soleggiato.
-Ma si,
tutti al mare, come l’anno scorso- confermò Ivan, riponendo con un sorrisino il
cellulare in tasca. Era da quando avevano quindici anni che ogni tre di giugno,
data di fine ufficiosa della scuola, prendevano il treno delle nove che partiva
dalla stazione del paesino per poi arrivare, dopo tre ore, alla località più
vicina al mare, una cittadina affacciata sul mar Adriatico. Organizzavano
sempre un picnic sulla spiaggia, semi deserta anche in quel periodo di calura,
e l’anno precedente erano rimasti fino a sera, per accontentare Chiara che
aveva tanto insistito per guardare le stelle.
-Ah, non
sapete da quanto aspettavo questo momento!- esclamò Sabrina, tirando un sospiro
e facendosi passare il mozzicone di sigaretta da Flavio. Carmen le diede una
pacca sulla spalla come per confermare, per poi accostarsi a Chiara e parlarle
nell’orecchio.
-Oggi a
casa mia. Alle quattro, okay?- mormorò. Chiara annuì, leggermente preoccupata
da quell’atteggiamento circospetto, ma entrambe tornarono a conversare
tranquillamente su come organizzarsi per il sabato successivo, senza destare
sospetti. Chiara sapeva che a Carmen non piaceva mostrarsi tesa con lei, ma
glielo leggeva negli occhi che voleva parlarle di qualcosa e, tremando al solo
pensiero, sperò che non avesse capito qualcosa circa lei e Roberta.
-Nemmeno
quest’anno porti nessuno, eh, Chiara?- le chiese Flavio con uno sguardo
sfacciato, come a sottolineare il fatto che non ci credesse.
-Nemmeno
quest’anno, no- rise, arrossendo. In effetti, avrebbe tanto voluto che Roberta
venisse con lei, ma proprio non se la sentiva di rivelare la loro quasi relazione ai suoi amici, anche
perché erano quasi tutti molto legati anche a Riccardo e avevano appreso a
malincuore la notizia della loro litigata.
-Riccardo non lo chiami?- ecco che chiese
Sabrina, cercando di sembrare il più indifferente e naturale possibile. Chiara
arricciò le labbra infastidita a quell’ennesimo accenno, affermando che no, non
lo avrebbe chiamato e che quelli erano affari privati fra lei e il ragazzo.
- Dai raga’, c’aspetta la Manzi alla prima ora, forza e coraggio-
li esortò Flavio quando, in lontananza, echeggiò il suono metallico e penetrante
della campanella che segnava l’inizio delle lezioni. Si avviarono con calma,
con gli zaini mezzi vuoi che ciondolavano dalle loro spalle e le scarpette da
ginnastica che scalciavano rumorosamente i sassolini ai lati della strada.
Quando
Chiara entrò in classe, tenendosi dietro al resto del gruppo, rivolse un
sorriso a Roberta, che già aveva preso posto nel suo banco, e le soffiò un
bacio con un gesto della mano, ridacchiando. Si chiese di nuovo quando fosse
diventata così stupida e melensa e, scuotendo la testa, si abbandonò con un
sospiro felice sulla sua sedia. Le cinque ore di lezione passarono subito,
alleviate dal pensiero del sole di maggio che la aspettava lì fuori e scandite
dalle continue occhiate, ora maliziose ora piene di silenzioso affetto, che
Roberta le lanciava di tanto in tanto.
-Ci
vediamo fuori?- chiese a Chiara, mimando con le labbra per non farsi sentire da
Angela che le stava seduta accanto. La rossa annuì, facendole un occhiolino.
-Ma che
fai? Hai qualcosa nell’occhio? Sono dieci minuti che lo strizzi- borbottò
Sabrina interdetta, toccandole un braccio con la punta della penna.
-Ma no,
va tutto bene- rispose Chiara, tornando a copiare l’esercizio di algebra sul
quaderno, con la sua solita calligrafia appuntita. All’angolo della pagina, non
poté impedirselo, disegnò un piccolo cuoricino rosso. Ivan, dall’altro lato,
ridacchiò sommessamente.
-Voi
tre! Finitela di far baccano!- li riprese la prof di
matematica e, contemporaneamente, tutti e tre abbassarono la testa sul banco
con un broncio. L’ultima campanella suonò dopo un quarto d’ora e, raccattando
in fretta le sue cose, Chiara si catapultò giù dalle scale, quasi scivolando
sui gradini di marmo rovinato e investendo un paio di ragazzini di prima.
-Ma è
impazzita?- rise Sabrina, dando una gomitata a Flavio. Quello alzò le spalle,
tirando fuori dalla tasca l’accendino e ficcandosi una sigaretta fra le labbra.
-Te l’ho
detto io che ha qualcuno- mormorò, non senza una punta di gelosia.
-Andiamo,
non dirmi che ti piace davvero- lo prese in giro la ragazza dai capelli
colorati. Quando quello non parlò, anzi continuò imperterrito a camminare verso
l’uscita, Sabrina continuò con un sospiro.
-Chiara
non è una persona di cui innamorarsi, lo sai. Troppo complicata per voi
maschietti pieni di ormoni- disse, a metà fra lo scherzo e la serietà. Intanto
Chiara, che aveva rischiato per giunta di essere investita dalla macchina della
professoressa di filosofia nell’intento di evitare Carmen, era riuscita a
sgattaiolare fino al parcheggio indisturbata. Roberta, appoggiata alla sua
macchina, si beava del calore del sole sulla pelle chiara, ma di sigarette
nemmeno l’ombra. Aveva provato a chiederglielo di nuovo, perché avesse
improvvisamente deciso di far a meno del fumo, ma Roberta le aveva risposto
solo che faceva parte della vecchia sé, di una fase della sua vita che non
voleva assolutamente ricordare.
-Madame,
posso scortarla a casa?- le chiese la riccia, con un sorriso sereno e
seducente.
-Lo
vorrei tanto, ma ci sono i miei e… non so se gli farebbe piacere. Vedermi con
te, intendo- disse mogia, schioccandole un bacio sulla guancia.
-Hai
ragione, scusa- mormorò Roberta, tirandosi indietro i ricci neri e fermandoli
sulla testa col suo paio di occhiali da sole griffati. I suoi occhi, azzurri e
vivi, trafissero ancora una volta Chiara con la loro intensità, costringendola
ad abbassare lo sguardo.
-Che
c’è?-
-Nulla,
solo quando mi guardi con quegli occhi… giuro, mi sento tutta molle- rise la
rossa, poggiando il capo sulla sua spalla. Roberta la guardò divertita, passandole
una mano dietro la schiena.
- Rob, da quant’è che ci frequentiamo?- chiese, stringendole
una mano. La riccia aggrottò le sopracciglia a quella domanda.
-Circa
due settimane. Due settimane fantastiche, devo dire- affermò, poggiando a sua
volta la sua testa vicino a quella di Chiara. Gli studenti erano tutti sciamati
in mezzo alla strada e nessuno si curava di loro due, ben nascoste dietro un
paio di altre auto.
-Io…
pensavo di dirlo a Carmen. Non so quando, ma prima o poi dovrò dirglielo- disse
Chiara, mostrandosi il più tranquilla possibile, nonostante nella sua testa
infuriasse una marea di immagini di Carmen che la fissava disgustata, che la
additava come anormale e che la scherniva, dicendole di aver sempre saputo che
qualcosa in lei non andava.
-
Sicura? Nel senso… lo so che siete amiche da tanto tempo, ma… ci hai pensato
bene?- domandò Roberta, carezzandole i capelli con calma, come se avesse
intuito che la sua risolutezza era solo apparente.
- Dici
che è presto?-
-No,
dico solo che… Chiara, insomma. Le persone possono reagire male, lo sai. Carmen
è molto importante per te, per questo non voglio che tu soffra. Non per colpa
mia- le spiegò, con un velo di amarezza. Chiara la guardò, sorridendole e
dandole un altro bacio sulla guancia.
- Ma in
qualunque caso, io sono qui, ricordatelo- continuò poco dopo Roberta,
affondando poi il viso nel suo collo e avvolgendola fra le sue braccia.
-Lo so,
ci ho fatto l’abitudine ad averti sempre intorno- ridacchiò, lasciandosi
cullare alla luce accecante del sole. Il parcheggio oramai si era svuotato, gli
ultimi professori ritardatari rombavano via con le loro piccole utilitarie e
scorsero il professore di chimica, il vecchio
pazzo, come amava definirlo Sabrina, sgommare via con la sua Ford dai
paraurti semi staccati. Chiara lo mandò a quel paese a bassa voce e tutt’e due
si aprirono in una risata liberatoria.
-Ora che
finisce la scuola voglio portarti al mare, un giorno- disse Roberta, in preda
ad un’euforia inspiegabile, abbassandosi gli occhiali da sole e fissando dritta
il sole, come a sfidarlo. Allargò le braccia e fece un giro su se stessa.
Chiara si rabbuiò di colpo, pensando a quanto l’avrebbe resa felice portarla
con sé al mare il sabato successivo, ma cercò di non sembrare in alcun modo
delusa. In fondo, quella che si sarebbe dovuta sentire messa da parte era
Roberta, ma sapeva che quella non l’avrebbe costretta a nulla, nessuna delle
due era pronta ad un passo del genere, non dopo due settimane.
-Non ti
sembra che anche il clima si sia fatto più sereno da quando ti ho incontrato?
Prima pioveva sempre ed era sempre tutto così triste! Poi mi hai baciata e,
guarda un po’, il sole ha deciso che era ora di riscaldare anche me- spiegò,
volgendo il viso al cielo con un enorme sorriso.
-Ma sei
impazzita?- rise Chiara, seguendola e fissando anche lei le nuvole bianche ce
fluttuavano come batuffoli di cotone e attorniavano il sole come i petali di un
bellissimo fiore.
-Probabile,
ma anche in quel caso sarebbe colpa tua. Colpa tua e dei tuoi baci- scherzò la
riccia, traendola a sé mettendole un braccio attorno alle spalle. Piaceva ad
entrambe tenersi strette, ancora di più che tenersi per mano. Nascondersi l’una
nella piega del collo dell’altra e camminare addossate, coi visi a sfiorarsi e
le gambe così vicine che quasi sempre rischiavano di inciampare e cadere in
terra.
-Allora
dovrò astenermi, per il tuo bene. Non voglio che tu impazzisca, ti voglio
vigile e concentrata- sogghignò, passandole le dita fra i capelli per
provocarla.
-Te l’ho
detto che ti odio, si?- mugugnò,dandole uno spintone. Si scambiarono un ultimo
bacio, con le mani dell’una incrociate dietro la schiena dell’altra, poi Chiara
si incamminò verso la strada, visto che i suoi avrebbero fatto storie se fosse
tornata a casa tardi per il pranzo.
-Ti
chiamo!- urlò Roberta, quando l’altra fu già al limitare del marciapiede
opposto.
-Ti
aspetto- sussurrò la rossa, salutandola con la mano. E l’avrebbe aspettata,
davvero, a costo di vedersi di nascosto per tutta l’estate nel parcheggio del
liceo.
***
L’orologio
da polso che le aveva regalato nonna Agnes segnava le quattro in punto e
Chiara, in piedi di fronte alla porta d’ingresso di casa Santacroce, sentiva lo
stomaco attorcigliarsi per la tensione. Qualcosa negli occhi di Carmen l’aveva
messa in guardia, quella mattina. Che avesse capito qualcosa? Scosse la testa,
cercando di scacciare quel terribile pensiero. Carmen le voleva bene, loro due
erano come due sorelle. Probabilmente le era sembrata tesa perché era un po’ di
tempo che non si vedevano più come una volta e l’allontanamento da lei e da
Riccardo l’aveva dovuta insospettire non poco. Suonò al campanello,
accarezzando con una mano il coniglietto da giardino dell’amica, Roger, che le
era saltellato curioso alle ginocchia non appena aveva varcato il cancello.
-Chiara!
Entra, Carmen è di sopra, ti sta aspettando- sorrise calorosamente sua madre,
una donna sulla cinquantina dai capelli ricci tinti di biondo e la battuta
sempre pronta. Quella frase a Chiara suonò quasi come un ulteriore avvertimento
e salì le scale a passo lento, quasi trascinando le scarpe da ginnastica sulla
moquette morbida. Prese un profondo respiro prima di bussare alla porta della
cameretta di Carmen, che si distingueva da quella del fratello minore per una
placca argentea con su inciso il suo nome. Chiara aveva spesso riso di quelle
piccole manie da diva dell’amica, ma ora come mai quella porta le incuteva terrore,
come se stesse per inghiottirla.
“Non
essere ridicola, su” si intimò, per poi entrare senza nemmeno bussare. Carmen
l’aspettava distesa a pancia in giù sul suo letto pieno di cuscini rosa e
bianchi, pelosi e dall’aspetto soffice. Stava leggendo una rivista di quelle
che Chiara vedeva sempre ammucchiate sui tavolini nei saloni di bellezza,
quelli con gli oroscopi e tutti quegli articoli di gossip che lei tanto odiava.
-Chiara,
su, siediti- la salutò quella, indicandole con la mano la parte del letto libera.
-Ciao-
quasi gracchiò Chiara, tanto era nervosa. Si sedette, col busto rigido e le
mani giunte in grembo.
- Tutto
bene? Sembri così tesa, anche stamattina mi sei sembrata un po’ strana- disse
Carmen, con un sorriso che poco rassicurò Chiara, ammiccante e malizioso.
-Io? Si,
sto bene. Benissimo- le tenne testa, sfidandola quasi con lo sguardo.
-Riccardo?-
-Spero
stia meglio, in fondo non ne vale la pena avere il cuore spezzato per una come
me- sospirò, giocherellando con le dita sul tessuto morbido dei cuscini.
-Roberta Della Corte?-
Chiara
quasi si strozzò con la sua stessa saliva, tossì più volte e dopo due colpetti
sulla schiena riacquistò la capacità di parlare, rossa come un peperone e con
le mani che le tremavano. Carmen era davvero troppo, troppo perspicace.
-Roberta Della Corte cosa?- chiese,
fingendo innocenza. Peccato che le sue guancie fossero in combustione e non
riuscisse a guardare l’amica negli occhi.
-Nulla,
vi ho viste parlare oggi nel parcheggio, mi chiedevo solo se foste diventate
amiche. Non mi piace che la gente prenda il mio posto, sono gelosa, lo sai-
mormorò, facendo sospirare di sollievo Chiara.
-Credi
davvero che potrebbe prendere il tuo posto?- domandò, oramai decisamente più
rilassata. Carmen annuì, sempre con lo sguardo fisso sulla copertina della
rivista.
-Non lo
so, è che ultimamente non ci vediamo più come prima, dici sempre che sei
impegnata. E poi la guardi in un modo che… oddio Chiara, sembra che tu le penda
dalle labbra- mise il broncio, ora guardandola negli occhi e allungandosi per
poggiare la testa sulle sue gambe.
-Piccola,
lo sai che io e te siamo inseparabili- le diede un colpetto sulla fronte per
farla alzare, così da abbracciarla meglio.
-Eppure,
non so, quando ti ho vista con Roberta… c’era qualcosa nei tuoi occhi, qualcosa
che non ho mai visto- continuò quella, quasi preoccupata. Chiara sapeva che non
avrebbe demorso.
-Qualcosa
tipo?-
Carmen
sembrò rifletterci un po’, stretta com’era fra le braccia di Chiara.
-Non so
spiegarti. Era come se tutta la tua frenesia, la tua ansia, fosse sparita. Eri
serena, come se tutti i problemi che ti fai in quella testolina si fossero
dissolti- spiegò con difficoltà. Chiara annuì, affermando che capiva
perfettamente, non senza arrossire sulle orecchie.
-Roberta mi sta molto simpatica, si. Con
lei mi trovo bene- cominciò, decidendo che quello era il momento giusto per
confessarle il suo grande segreto.
- Lo
vedo-
-Ma non
siamo amiche- concluse, prendendo un respiro profondo.
-Ah, no?
Ma se vi siete avvicinate così tanto-
-Io e
Roberta usciamo insieme. Intendo, non come amiche. Come ragazze che si
piacciono. Lei mi piace… in quel senso-
-Ah…- si
lasciò scappare Carmen, leggermente interdetta. Poi saltò su all’improvviso,
dopo un minuto buono di riflessioni, con una grande risata.
-Io lo
sapevo! Ancora una volta sono riuscita a leggerti nella mente! Chiara Torri,
per me sei carta conosciuta- rise prorompente, abbracciandola di nuovo. Ora fu
il turno di Chiara di rimanere sorpresa.
-Tu lo
sapevi?- domandò, con gli occhi sgranati.
-Non
esattamente, ma lo intuivo. Otto anni passati a stretto contatto con te mi sono
stati utili per capire che la guardavi in modo troppo… interessato- ridacchiò,
facendola arrossire di nuovo per l’imbarazzo.
-Oddio,
come la guardo?-
-Come se
volessi saltarle addosso. Ed io non ho problemi a riguardo, davvero. Certo, lei
è un po’ stronza e le persone che le ronzano attorno proprio non mi convincono,
ma se a te piace- alzò le spalle Carmen, dando un buffetto sul naso di Chiara
quando vide che si era irrigidita impercettibilmente, timorosa di un suo
giudizio negativo.
- Se mi
piace? Mi fa impazzire!- finalmente anche Chiara si lasciò andare ad una
risata.
-Quindi
il fatto che sia una ragazza non è un problema?- chiese di nuovo, per essere
sicura di aver capito bene. Carmen scosse la testa, rivolgendole un sorriso
materno.
-Sei la
mia migliore amica, la mia piccola sorella tutta lentiggini. Posso sembrare un
po’ snob e magari lo sono, ma non posso disapprovare qualcosa che ti rende
felice. All’inizio ero un po’ arrabbiata solo per il fatto che non volessi
parlarne… puoi fidarti di me, lo sai. Per qualunque cosa- la rassicurò. Chiara
annuì grata, poggiando il capo sulla sua spalla. Passò qualche minuto senza che
nessuna delle due proferisse parola, cullate dalla reciproca vicinanza nel
corpo e nello spirito.
-Ma ora
dimmi… come bacia?- domandò maliziosa Carmen. Chiara fece un verso strozzato,
dandole uno spintone.
-Ma ti
sembra il caso?- urlò rossa in viso, nascondendosi dietro la sua schiena per il
disagio.
Si
punzecchiarono ancora per un po’ e alla fine Chiara dovette cedere e raccontare
nei minimi dettagli tutti gli incontri con Roberta,con Carmen che di tanto in
tanto sospirava intenerita o faceva battutine provocanti riguardo un certo
potere che aveva Roberta su di lei. Poi, col sole ancora alto, decisero di
cenare con una pizza davanti all’onnipresente “Across the universe”, come ai vecchi tempi,
addormentandosi l’una sull’altra verso la fine, col cellulare di Chiara che di
tanto in tanto ancora vibrava per i messaggi di Roberta e le note di “Allyouneedis love” che echeggiavano nella stanza.
-Sicura che posso?- domandò per l’ennesima volta,
passeggiando avanti e indietro per la sua stanzetta dalle pareti verde mela.
Roberta le assicurò che aveva la casa libera quel pomeriggio e che un tè caldo
assieme (Chiara era famosa per le sue strane abitudini, come bere tè caldo a
fine maggio) sarebbe stato tutto ciò che desiderava.
-Ma la smetti di essere così melensa? Giuro che a volte non
ti riconosco- ridacchiò la rossa, riprendendola bonariamente.
-Scusatemi, milady. Dimenticavo che siete volubile, un
giorno volete che vi si corteggi alla vecchia maniera, l’altro siete acida come
un limone- la prese in giro Roberta, imitando l’accento inglese.
-Sei un’idiota. Ci vediamo fra poco- le disse Chiara,
mandandole un bacio attraverso il cellulare. Chiuse la chiamata e si sedette,
passandosi una mano fra i capelli sciolti.
“E ora cosa dico a mamma?” si domandò, in preda al panico.
Pensò alla scusa dei compiti scolastici, magari dicendole che aveva promesso a
Roberta di darle una mano in fisica, siccome lei era una vera schiappa,
l’avrebbe lasciata andare senza particolari problemi. Magari Margaret non
ricordava nemmeno che era la figlia dell’avvocato Della Corte, che era agli
occhi di tutti una cattiva compagnia. Scese al piano di sotto ed entrò di
sottecchi in cucina, dove sua madre stava leggendo una rivista medica di fronte
ad un caffè lungo.
-Mamma…- la chiamò, tirando fuori dal frigo il cartone del
succo di frutta alla pesca e versandone un po’ in un bicchiere. Margaret alzò
la testa e si tolse gli occhiali, rivolgendole un’occhiata interrogativa.
-Qualcosa che non va?-
-No, va… tutto bene. Solo oggi pomeriggio dovrei dare delle
ripetizioni di fisica a…- quasi balbettò nel dirlo, ma strinse di più il
bicchiere per non sembrare nervosa. Sarebbe andato tutto liscio, si disse. In
fondo, lei e Roberta non potevano comportarsi da semplici compagne di classe?
Deglutì prima di continuare, Margaret la guardava ancora stranita.
-A Roberta, Roberta Della Corte. Te la ricordi?- chiese, con
gli occhi che fuggivano in tutte le direzioni tranne che verso il volto serio
della madre.
-Ah, si. La figlia dell’avvocato. E come mai le dai
ripetizioni?- chiese, con un tono fra il sorpreso e il sospettoso.
-Non è molto brava in fisica e mi ha chiesto una mano, così
pensavo che sarei potuta andare oggi da lei- spiegò, piano. Margaret le rivolse
un’altra occhiata sinceramente stupita. Poi posò la rivista sul tavolo e
cominciò a sorseggiare con calma il suo caffè, senza dir nulla. Quando ebbe
finito, si alzò e si diresse in silenzio verso il salotto, dicendo solo:
-Va bene, puoi andare. Solo limitati alle ripetizioni, sai
che quella Roberta non mi piace proprio. Né lei né le sue amiche, non voglio
che le frequenti, non c’è niente che le possa legare a te-
Il gelo con cui Margaret aveva parlato spaventò a tal punto
Chiara che dovette limitarsi ad annuire con la testa, perché era sicura che se
avesse aperto bocca per parlare ne sarebbe uscito solo un sospiro tremulo e
soffocato. Deglutì di nuovo e si disse che non avrebbe potuto aspettarsi
nient’altro, poi prese la giacca e uscì di casa sbattendo la porta, sentendosi
improvvisamente triste e sola, come se l’idillio in cui aveva vissuto fino a
quel momento fosse stato improvvisamente rovinato. Arrivò a casa di Roberta
tutta trafelata, con gli occhi inspiegabilmente lucidi e le mani che tremavano
nonostante il sole fosse lì a riscaldare tutta la strada. Suonò al campanello,
con lo sguardo fisso sullo zerbino verde all’entrata. L’ultima volta che ci era
venuta, alla sua festa, era troppo buio per scorgere nei dettagli la facciata della
bella villa, coi balconi decorati da vasi di gerani colorati e il piccolo
giardino curato pieno di piante rampicanti. Roberta le venne ad aprire subito,
con il visoe le mani sporche di colori
acrilici.
-Buon pomeriggio- le sorrise, col naso macchiato di colore
blu. Chiara si sentì meglio a quella vista e si lasciò scappare un sorrisetto
divertito.
-Che stai combinando? Hai la faccia tutta sporca- le chiese,
passandole una mano su una macchia gialla che aveva su una gota. Roberta alzò
le spalle e indicò il piano di sopra, invitandola ad entrare.
-Sto dipingendo, posso farlo solo quando sono sola, i miei
odiano avere la puzza di colori in casa- disse, dirigendosi su per le scale e
trascinandosi dietro Chiara per mano. Aprì la porta della sua stanza e le fece
segno di sedersi sul suo letto. Tutt’attorno a loro la camera di Roberta faceva
sfoggio dei suoi colori vivaci,che erano sembrati così cupi e spenti la notte
del loro primo bacio.
-E cos’è che dipingi?-
-Ho visto un albero stamattina, mentre arrivavo a scuola. Un
albero di pesche, bellissimo. Ho deciso di dipingerlo- indicò la piccola tela
con su già abbozzato il tronco e i rami di un bell’albero fiorito. Chiararimase a bocca aperta di fronte a quelle
linee sottili e aggraziate, all’ombra che già si intravedeva sulle poche
foglioline verdi e ai fili d’erba sottili che spuntavano dal bordo inferiore
della tela. Si avvicinò di più a Roberta, poggiandole la testa sulla spalla e
strofinando impercettibilmente i naso contro il suo collo.
-C’è qualcosa che non va?- chiese quella, girandosi a
guardarla in volto. Chiara fissava un punto imprecisato del dipinto incompleto,
assorta e in silenzio, con un’espressione lontana e assente. A quelle parole
scosse la testa, come a dire che non c’era nulla che non andava.
-Andiamo, oramai ti conosco. Ti ho osservata in questi anni
dal mio banco, sai? Quando sei triste o pensierosa tendi a fissarti su un punto
e non sbattere le palpebre, come se andassi in catalessi- la richiamò Roberta,
sfiorandole una guancia con le labbra. Chiara mugugnò contrariata.
-Mi sento solo un po’ strana- mormorò, cingendole i fianchi.
-Posso esserti d’aiuto?- le chiese gentilmente la riccia,
abbandonando il pennello e cominciando ad accarezzare i capelli.
-A mia madre non piaci e credo che vederci sarà un problema,
d’ ora in poi- ammise rassegnata, con un sospiro che finì dritto sul collo
esposto di Roberta, che ridacchiò per il solletico. Poi tornò seria e annuì,
sedendosi sul letto e trascinandosi dietro Chiara.
- E’ comprensibile, Chiara. Non ho una bella fama- disse
abbattuta, intrecciando una mano con la sua. Chiara la strinse e si accoccolò
su di lei.
-Ma tu sei migliore di quello che dicono, guardati- sospirò
esasperata. Roberta alzò le spalle, guardando gli alberi del suo giardinetto
che ondeggiavano ad un leggero vento dalla finestra.
-Questo lo sai tu e forse lo sa mio fratello. La fama che mi
sono procurata è solo colpa mia, Chiara. Cosa non si fa per nascondersi…- disse
amara e, quando la rossa la esortò a spiegarsi meglio, cominciò un altro dei
suoi racconti circa la sua seconda
identità, come la chiamava Chiara.
-Vanessa e le altre non mi avrebbero mai frequentato se non
avessi avuto così tanti ragazzi, se non avessi avuto la sfacciataggine di
ubriacarmi tutti i sabati da quando avevo quattordici anni, se non avessi
cominciato a fumare. Guardami, è questo che sono, esattamente come mi vedi. Ma
vallo a dire ad una quattordicenne che essere omosessuale, con la passione per
il disegno e la testa perennemente fra le nuvole è la cosa più normale del
mondo. Così ho fatto quello che mi riesce meglio nella vita, nascondermi. E
Vanessa mi ha fornito la maschera perfetta, l’alibi incrollabile per
proteggermi dal giudizio degli altri e da me stessa- raccontò, in tono
tagliente e quasi arrabbiato. Chiara le strinse di più la mano, cercando di
calmarla.
-Ho baciato dieci ragazzi, Chiara, prima di te. Li ho
baciati nei posti più squallidi, da ubriaca, dopo aver fumato chissà cosa. Qualcuno
ha anche cercato, senza successo, di portarmi al letto. Eppure non ho mai
provato nulla, zero. Mi odiavo per questo, così ne cambiavo uno ogni mese. Con
Massimo è durata di più solo perché ci facevamo comodo a vicenda, lui con la
ragazza copertina sempre a lodarlo, io col mio cagnolino al guinzaglio. Non è certo
colpa di tua madre sembro una… poco di buono-
-Ferma, non dirlo neanche per scherzo. Tu- disse Chiara,
alzandole il mento e guardandola dritta negli occhi – sei la persona più
sensibile e fragile e bizzarra che io abbia mai conosciuto, ma non per questo
devi nasconderti. Io voglio te e ti voglio per come sei- continuò, tenendo le
mani strette attorno alle sue guance, che quasi già tremavano per le lacrime
che le avrebbero bagnate.
- Ho passato giorni, mesi a dannarmi per il fatto che sono particolare, certe notti non chiudevo
occhio, piangevo solo fino a che non suonava la sveglia, sperando che qualcuno
prima o poi si accorgesse che fingevo. I ragazzi mi trattavano male, mi davano
della troietta, mi usavano come se
fossi un oggetto e Vanessa mi prendeva in giro, continuava a dirmi che ero solo
una sua brutta copia. Io mi ubriacavo solo per dimenticarmi di tutto- quasi singhiozzò
Roberta, accucciandosi fra le braccia di Chiara.
-Ora è tutto finito, ci sono io e non devi preoccuparti più
di niente- affermò sicura, accarezzandole la testa. Curioso come i ruoli si
fossero subitaneamente invertiti, ora era Roberta a cercare conforto e
quell’alternarsi, quel rincorrersi in cerca di una tregua l’una negli occhi
dell’altra, era la cosa che più affascinava Chiara.
-Ti ho aspettata per così tanto tempo- pianse finalmente la
riccia, aggrappandosi alla sua camicetta con tutte le sue forze. Chiara si
distese completamente sul letto e la fece sistemare fra le sue braccia.
-Possiamo restare così per un po’? Per favore- mormorò
Roberta, nascondendo il viso sul suo petto.
-Si, per un po’- la rassicurò la rossa, stringendola più
forte che poteva. Dopo quelle che parvero ore, Roberta lasciò un bacio al
centro del suo sterno e diede segno di essersi calmata, per poi alzare la testa
e rivolgerle un sorriso più sereno.
-Io sono qui per te e anche se mia madre non vorrà,
troveremo il modo di vederci- le assicurò.
-Ora però torna a dipingere, non voglio più vederti
piangere, intesi?- le asciugò le lacrime e la esortò a continuare col suo
lavoro. In realtà né Roberta riuscì a continuare indisturbata il quadro, né
Chiara poté impedirsi di tanto in tanto di abbracciarla e rubarle un pennello
da sotto al naso o macchiarle la guancia col verde delle foglie.
-Sei terribile! Questo è l’ultimo tubetto di verde
smeraldo!- si lamentò fra le risate Roberta, cercando di pulirsi come poteva la
guancia.
-Il verde ti sta bene- affermò seria Chiara, annuendo di
fronte all’ennesima macchia sulla sua fronte come se avesse appena compiuto un
capolavoro.
Roberta la mandò a quel paese cercando di sembrare seria, ma
si lasciò sfuggire una risatina di troppo, così fu costretta a gettare di peso Chiara
sul letto per rubarle il tubetto in questione, col quale stava combinando più
guai che altro.
-Mmh, aggressiva.
Mi piace- mormorò in tono volutamente provocante, gettando i capelli rossi
all’indietro e assumendo un’espressione fintamente maliziosa, mordendosi un
labbro. Vide Roberta arrossire sulle orecchie e abbassare lo sguardo su un paio
di pennelli sparsi sul pavimento.
- Ma non mi dire, l’avvenente e affascinante Roberta Della
Corte che abbassa lo sguardo di fronte ad un misero e goffo tentativo di
seduzione- ridacchiò leggera Chiara, lasciandosi cadere all’indietro.
-Guarda che ci sai fare sul serio- si giustificò la riccia,
tornando a dipingere. La rossa rise ancora più forte, quasi lusingata.
-Dici sul serio?-
-Si, dico sul serio. Per questo Flavio ti guarda il sedere
ogni volta che ti giri e, a proposito, questo mi fa proprio incazzare-
borbottò, dando una pennellata lieve per delineare una nuvola.
-Gelosa, eh?-
-La mia rossa non si tocca- ringhiò quasi, mescolando il
grigio e l’azzurro per ottenere la tonalità giusta per il cielo. Chiara le si
avvicinò, senza farsi sentire, e le arpionò i fianchi in una stretta
possessiva, sorridendo quando sentì che Roberta stava trattenendo il respiro.
Le soffiò sul collo e, sinuosa, le arrivò all’orecchio.
-Tanto lo sai che nessun ragazzo potrà essere alla tua
altezza- scandì bene le parole, con voce roca. La riccia si girò e la guardò
fissa, con quei suoi occhi cerulei che inspiegabilmente si erano fatti più
scuri. A Chiara sembrò che volesse dirle qualcosa, ma poi si limitò a baciarla
sulle labbra, prima piano, poi sempre più affannata, infilando le dita nei
passanti dei suoi jeans. Sentì i suoi denti morderle per un attimo il labbro
superiore e provò una stretta allo stomaco più piacevole del solito, col cuore
che pompava sangue sempre più convulsamente. Si avvolse i suoi ricci neri
attorno alle dita e prese a giocarci, sapendo quando a Roberta piacesse essere
accarezzata sui capelli. Si spostarono quasi in sincrono verso il letto,
cadendoci di nuovo sopra a peso morto e attorcigliando le gambe scoperte dai
pantaloncini estivi. Fu Roberta la prima a staccarsi, per poi lasciare piccoli
baci su tutto il volto di Chiara.
-Non ti conviene provocarmi, elfo- la avvertì, ridendo.
-Ma sta’ zitta, se quando ti ho preso i fianchi hai smesso
persino di respirare- la punzecchiò Chiara.
-Mi mandi al manicomio, giuro- sospirò Roberta, facendosi
aria con una mano sulle guance accaldate. La rossa le schioccò ancora un bacio,
giusto per il gusto di toglierle definitivamente il fiato. Adorava vederla così
presa e si vergognava non poco nel constatare che anche lei non era rimasta
indifferente a quelle provocazioni.
-Forse è meglio se comincio a scaldare l’acqua per il tè-
mormorò concitata Roberta fra un bacio e l’altro, facendo su e giù con la mano
sul collo di Chiara.
-Si, okay, basta, la smetto- disse trafelata quella,
staccandosi e dando un’ultima carezza alle gote arrossate dell’altra.
Roberta corse in fretta giù in cucina, nel timore che se si
fosse voltata di nuovo verso il letto non sarebbe più riuscita a staccarsene, lasciando
Chiara a fissare il soffitto bianco con un sorriso ebete in volto. Il suo
stomaco si contraeva ogni minuto sempre più velocemente, lasciandola con la
curiosa sensazione di quando si cade nel vuoto, e si sentiva così leggera, le
mani e i piedi le formicolavano dall’emozione che la sua testa non fu capace di
formulare nemmeno un pensiero di senso compiuto. Meglio persino delle poesie di
Keats, riuscì a constatare in un attimo di lucidità. Roberta tornò dopo dieci
minuti con due tazze fumanti, accomodandosi ai piedi del letto, con la testa
poggiata sulle sue ginocchia, e porgendogliene una con cortesia. Chiara prese a
bere, dando un piccolo sorso, constatando sorpresa che si trattava proprio di
tè alla pesca gialla con un goccio di limone, come piaceva a lei.
-Come fai a saperlo?- domandò, nascondendo un sorriso dietro
la tazza. Roberta diede un altro sorso, prendendosi tempo prima di rispondere.
-L’avrai detto mille volte, in classe. Anche se ti piace il
tè alla vaniglia, so che preferisci quello alla pesca- disse lentamente, come
se fosse ovvio.
-Caspita, dovevo piacerti proprio molto. Conosci a memoria
ogni parola che sia mai uscita dalla mia bocca, in classe- ironizzò l’altra,
non senza sentirsi profondamente lusingata. Adorava sentire Roberta che parlava
di lei, sia perché in fondo era parecchio narcisista, sia perché rimaneva ogni
volta estasiata dalla luce che emanavano i suoi occhi quando le ricordava una
sua abitudine o affermava di conoscere un determinato dettaglio della sua vita.
-Oh, si. Proprio molto- confermò la riccia, puntando il
mento sul suo ginocchio sinistro.
-Ti va di raccontarmelo? Non è che io sia egocentrica o
cosa…- arrossì Chiara, ma poi continuò, presa dalla curiosità. -… ma voglio
sapere davvero cos’è che è successo, quando è successo. Quand’è che hai capito
di… me-
Roberta sospirò, finendo di bere il tè caldo e prendendo a
giocare distrattamente con i bordi dei pantaloncini di jeans che arrivavano
appena sopra il ginocchio di Chiara. Passò con i polpastrelli sulle due
cicatrici che le solcavano quello sinistro, due tagli rosei e leggermente
rigonfi che lo attraversavano sul lato, prodotto di una gita in collina finita
male. Le esaminò per un’altra manciata di secondi, con quello sguardo riverente
che Chiara già amava vedere nei suoi occhi.
-Te l’ho detto, non so cos’è che mi passò per la testa. Ma
quando tornammo dalle vacanze estive e cominciò il secondo anno, non so… mi
rapisti totalmente- raccontò assorta, ancora intenta a fissare le cicatrici.
Chiara ridacchiò morbidamente, passandole una mano fra i capelli per riportarla
alla realtà.
-Si, lo so. Ma dimmi qualcos’altro-
-Eri così bella… e lo sei ancora. Con questi occhi così
scuri rispetto ai miei, eppure sempre così limpidi. Non mi ero mai lasciata
andare così tanto. La vita mi ha sempre deluso, sai? Come quella volta che mi
presi una cotta per la mia insegnante di francese, alle scuole medie. Strano a
dirsi, ma ero la migliore in classe nelle sue ore. Le feci un ritratto, forse
una delle prime volte che io abbia mai disegnato. Poi la mia compagna di banco
lo trovò, nascosto in fondo al mio zaino, spiegazzato e rovinato da un mio
improvviso attacco di rabbia. Incredibile quanta rabbia ci sia in chi non si
accetta, anche se ha tredici anni. Non ne parlò mai chiaramente con me, ma
sapevo dal suo sguardo disgustato e freddo che sapeva. Non volevo fare la
stessa fine anche al liceo- spiegò, guardandola fissa negli occhi. Chiara non
seppe cosa dire, così continuò ad accarezzarle i capelli.
- Non eri solo bella, eri brillante. Così intelligente, così
determinata. Cocciuta, forse anche questo. Coraggiosa, indifferente agli
insulti. Ma poi c’erano i momenti in cui crollavi, ti chiudevi in bagno nelle
ore buche e restavi lì a singhiozzare, ti sentivo. E io avrei voluto solo avere
un po’ del tuo coraggio per entrare e prenderti fra le braccia, dirti che
andava tutto bene come tu ora fai con me. Credo sia questo il bello, abbiamo le
stesse cicatrici- sospirò, passando per un’ultima volta un dito sui suoi tagli.
Chiara le prese il mento e le fece alzare il viso, per poterla guardare in
tutta la sua fragilità, in quegli occhi da cervo ferito che solo a lei
mostrava.
-Sei davvero piena di dolore come me. Di dolore e di
amore-disse, sicura. Roberta le rivolse un sorriso sghembo.
-Quando sono con te il dolore non c’è più-
Fuori gli uccellini cinguettavano e il sole dorava le foglie
delle siepi del giardino di una patina luminescente, di tanto in tanto il gatto
della vicina miagolava acutamente e tutt’attorno a loro aleggiava l’odore
pungente dei colori acrilici. Chiara non disse nulla, commossa com’era. Si limitò
a sorriderle di rimando e trascinarla con sé a stendersi, stringendo le braccia
attorno ai suoi fianchi e affondando il volto nei suoi ricci scuri che, come
quella notte a Vienna, avevano sempre l’inconfondibile aroma di acqua marina. Giocò
ancora un po’ con i suoi capelli, carezzo lievemente le sue lentiggini chiare
coperte dal fondotinta e si mise a contare le pagliuzze grigie di cui i suoi
occhi erano disseminati attorno all’iride finché non si addormentarono, placidamente
cullate dal vento di maggio, che dava loro più sicurezza e serenità di quanta
non ne avessero mai ricevuta fino ad allora.
Angolo
dell’autrice: Innanzitutto vorrei
scusarmi con tutti coloro che, seguendo la mia storia, hanno dovuto aspettare
mesi e mesi perché io mi facessi viva. Mi dispiace non aver potuto mantenere la
mia promessa di pubblicare una volta ogni due settimane ( per motivi come viaggi,
computer formattati improvvisamente, salute un po’ deboluccia). Ecco il
venticinquesimo capitolo, scritto in nemmeno ventiquattro ore…
finalmente l’”ispirazione” è tornata. Quindi ringrazio in anticipo ed ancora una
volta i lettori e i recensori che mi
sono rimasti fedeli, senza di voi non ce l’avrei mai fatta,davvero! Ora vi
lascio alla lettura.
Deirbhile
I pomeriggi di inizio giugno passati a
casa di Roberta per Chiara furono i più dolci e i più intensi che avesse mai
vissuto, come se l’essenza stessa dell’estate le fosse stata iniettata nelle
vene e ora le arrossisse le guance, le inturgidisse le labbra coi suoi baci che
sapevano di frutti maturi, le riscaldasse la pelle e la carezzasse con la sua
brezza carica di aromi lontani. La scuola era finita da appena due giorni e il
primo fine settimana libero da ogni impegno si ergeva davanti ai loro occhi
come un miraggio finalmente divenuto realtà, carico di promesse di divertimento
sfrenato e relax senza fine. Dopo il pomeriggio delle ripetizioni di fisica , come Chiara aveva mascherato a sua madre
quei loro incontri clandestini, le scuse erano diventate sempre più fantasiose
e Margaret aveva accolto le proposte ogni volta con un cipiglio più dubbioso.
“Ma’, vado a correre” (l’unico circuito dove farlo era alla fine del parco, che
confinava con casa Della Corte), “Stasera sono a cena da Carmen, non aspettarmi
alzata” (ed intanto l’amica faceva il suo dovere, coprendola come meglio
poteva), “Papà, mi accompagni in centro? Devo vedere i miei amici, quelli del
corso di chimica che ho fatto quest’autunno, ricordi? Per un caffè” mormorava,
piena di imbarazzo nel mentire così spudoratamente, ma animata da
un’incontenibile voglia di vedere di nuovo Roberta e camminare, parlare,
sfogliare i libri della libreria all’angolo, correre al parco per potersi
stendere al sole, mangiare un gelato o bere una bibita ai tavolini di un bar
nascosto su per dei vicoli semideserti. Carmen la prendeva sempre in giro
dicendole che ,da quando c’era Roberta, tutta l’energia che Chiara aveva
solitamente impiegato nello studio, nelle sue letture o nello sport si erano
finalmente riversate in tutta la loro potenza nella sua vita, rendendola
attiva, più creativa del solito, positiva come non lo era mai stata. Gli altri
amici ancora si domandavano a cosa poteva esser dovuto quel cambiamento così
repentino e inaspettato: Sabrina lo attribuiva alla fine delle fatiche
scolastiche, che di solito la rendevano più acida di una spremuta di limone,
Flavio insinuava maliziosamente che ora Chiara si sfogava in chissà quale altro modo; Ivan guardava tutti con
superiorità, sostenendo di essere l’unico a conoscere l’arcana causa, ma
rimanendo con le labbra sigillate sulla questione Roberta. Come da tradizione
ormai, quel sabato tutta la compagnia di Chiara avrebbe passato una giornata in
spiaggia, visto che il loro paesino di montagna distava poche ore di treno
dalla prima località balneare. In una sera calda e serena, di quelle passate in
giro con la macchina di Roberta per le vie deserte del paese dopo essere
sgattaiolata via dagli amici, Chiara rifletté se non fosse una buona idea
portare anche lei. Carmen e gli altri erano rimasti fuori al BlackDavil, tutti
troppo intontiti dopo innumerevoli brindisi con la birra scura alla fine della
scuola, e Roberta l’aveva raggiunta con la macchina al parcheggio attiguo. Solo
Ivan e Carmen si erano accorti della sua piccola fuga, ma l’avevano prontamente
taciuta. Così, ora si trovavano tutte e due nella sua elegante Mini Cooper
nera, con Roberta che gettava occhiate sempre più ansiose alla strada, mano a
mano che si avvicinavano alla zona più abitata, e Chiara che cercava di
calmarla, accarezzandole il braccio in quel modo che, sapeva, l’avrebbe fatta
impazzire. La verità era che, per quanto loro due vivessero ancora
nell’idillio, la paura di essere scoperte continuava, e se per Roberta andava
bene che Ivan e Carmen sapessero di loro due, di certo non voleva che le sue
“amiche” sospettassero la loro relazione. Così continuava a passare il sabato
sera con loro nelle discoteche della zona, rifiutando però qualsiasi tipo di
avance da parte dei ragazzetti vestiti di tutto punto che affollavano in quei postacci e cercando di essere convincente nella parte della
ragazza appena scaricata e col cuore spezzato. Spesso però un sorriso la
tradiva, pensando che un messaggio di Chiara, velato di gelosia, l’avrebbe
aspettata una volta a casa. Non ne parlavano spesso nei momenti in cui erano
insieme, ma lo spettro di Vanessa o di Angela o addirittura di Massimo sembrava
aleggiare a qualsiasi semaforo desolato si fermassero.
-Chiara, ti prego, smettila di
accarezzarmi così, mi distrai- ridacchiò Roberta, sospirando di sollievo quando
vide che l’ennesima strada si allungava di fronte a loro, senza nemmeno un
passante. La rossa rise a sua volta, continuando però imperterrita e anzi
aggiungendo anche qualche bacio sulle spalle scoperte, slacciandosi la cintura
con uno scatto. Roberta sembrò sbiancare, ma stavolta Chiara sapeva che non era
per paura di incrociare qualcuno, ma semplicemente perché ogni qual volta le
cose fra di loro prendevano una piega troppo troppo, Roberta arrossiva fino all’inverosimile o diventava bianca come
un lenzuolo ad intermittenza.
-Se ci beccano senza cintura a
quest’ora, allora altro che Vanessa- borbottò la riccia, rauca, spostando
subito lo sguardo sulla strada, senza più distoglierlo. Chiara alzò le mani,
tornando al suo posto, non prima di averle mollato un piccolo schiaffetto.
-Scusa, mamma- la rimbrottò,
allacciandosi la cintura. Alla radio passò Arms di Christina Perri, addolcendo gli animi di entrambe.
-Questa mi fa venire sempre te in
mente- sorrise Roberta, svoltando per riavvicinarsi al pub, dove ancora gli
amici ignari le aspettavano, credendo forse che Chiara fosse al bagno.
-Si, anche a me. Sai che è quasi un
mese che…insomma… hai
capito- gesticolò la rossa, indicando prima lei e poi Roberta.
-E’ quasi un mese che stiamo insieme,
si- affermò Roberta, completando la frase per lei, senza esitazione.
Incredibile come fosse diventata più coraggiosa, più volenterosa nel far
entrare Chiara nel suo mondo, lasciando crollare tutte le sue barriere.
Piangendo qualche volta in più, mostrandole tutti i demoni del suo passato
nella speranza di trovare difesa fra le sue braccia, come un qualunque essere
umano spaventato da troppi anni di repressione, di finzioni, con un peso sulle
spalle troppo gravoso per essere lasciato lì. Roberta diceva sempre che
desiderava che le cose fra di loro andassero bene, per questo non voleva avere
segreti. E parlava a Chiaradelle sue
paure, di ciò che provava anche nelle piccole cose, dei suoi desideri, dei suoi
sogni. Chiara si sentiva al persona più fortunata del mondo quando, con la
riccia mezza distesa su di lei in un altro dei loro pomeriggi passati a fissare
il cielo azzurro del parco, la sentiva parlare e parlare di quando aveva dodici
o tredici anni, di quando era andata in vacanza in Sardegna e aveva conosciuto
una ragazzina che era stata la sua prima cotta, persino di quando Massimo
l’aveva rudemente persuasa a fare l’amore, che tanto amore non era. E capiva perfettamente
quale era stato il suo timore, quale peso aveva gettato fuori quella sera a
Vienna raccontandole di quella situazione, rifiutando di andare avanti con la
sua patetica recita. Per questo, quando si parlava di sentimenti, Chiara
metteva da parte il suo animo un po’ freddo e incline al silenzio per diventare
affettuosa, disponibile all’ascolto, partecipe di qualunque emozione solcasse
quegli occhi azzurri che tanto venerava. A quel pensiero, Chiara trattenne un
sorriso. Roberta la spronò a parlare, abbassando il volume della radio.
-Io… nulla. Pensavo a quanto è cresciutoil nostro rapporto in così poco. A come ci
siamo fatte bene, l’una all’altra-
La riccia, che nel frattempo aveva
guidato con calma fino al BlackDavil, spense il motore e si rivolse completamente a
lei.
-Tu a me hai fatto più che bene,
Chiara. E lo vedo dal mattino, quando mi alzo e penso che sarà un’altra
giornata bellissima. Mi hai fatto tornare la voglia di dipingere, di leggere,
di guardare il tramonto. Anche se non ci vediamo, io ti sento. Sento che ci
sei, che sei tu che mi porti a fermarmi e ammirare il panorama dalla mia
terrazza, tu che mi ricordi che non importa quello che dicono Vanessa o
Massimo. Che io sono migliore di quello che sembro- mormorò, prendendola
delicatamente per mano. Chiara fece per parlare, ma l’altra fece segno di voler
continuare.
-Eppure, non so io quanto bene sto
facendo a te. Quando ti guardo, mentre siamo a casa mia, da sole, e ascolto il
tuo silenzio, mi chiedo cosa passi per la tua testa. Problemi? Non lo so, ma a
volte mi sembri così irraggiungibile da farmi paura. Per me ci sei sempre, non
mi lasci più cadere, ma io per te sembra non possa far nulla. Mi prometti che,
se mai avrai bisogno, ti lascerai proteggere? Che ti fiderai di me, che ti ho
come cosa più cara?-
Chiara rimase leggermente spiazzata,
era la prima volta che Roberta affrontava un discorso del genere e, dalla piega
che aveva assunto la sua fronte nivea, dedusse che per lei fosse davvero
importante. Cercò di parlare, ma sentì un groppo in gola e passarono alcuni
minuti prima che pronunciasse parola.
-Io sono particolare, Roberta. Se ho
qualcosa da dire, purtroppo, sono abituata a seppellirla dentro finché diventa
inevitabile per me liberarmene. E anche in quel caso, lo faccio da sola. Avere
qualcuno accanto, sai, a volte mi destabilizza. E’ una cosa così bella, così nuova… ho la mia famiglia a sostenermi, certo, mia sorella,
i miei amici… ma mi è sempre mancato qualcuno che
capisse- disse, con calma, sforzandosi di vincere quel muro che troppo spesso
la portava ad isolarsi, chiudersi e lasciare tutto il mondo fuori.
-E ora, proprio in questo momento,
leggo nei tuoi occhi che… tu mi hai capito- concluse,
dopo averle gettato un’occhiata profonda e significativa. Roberta annuì, sospirando
dal naso, per poi avvicinarsi con calma e baciarla, facendole percepire
fisicamente tutto ciò che le aveva detto prima, accarezzandole le labbra come
se volesse proteggerla dal mondo intero. E Chiara, per la prima volta, si sentì
davvero al sicuro, a casa, come se lì ci fossero tutti i suoi libri preferiti,
il camino acceso delle serate irlandesi passate dalla nonna Agnes, come se
Roberta fosse il suo gusto di tè preferito e quella macchina la poltrona che
dava alla finestra della casa in campagna. Chiara sentì qualche lacrima premere
per uscire e un singhiozzo silenzioso fece per spezzare il loro bacio, ma loro
continuarono a volersi e a cercarsi, piano, ormai nel loro piccolo rifugio.
***
-Ragazzi, ragazzi, fermi tutti- rise
sguaiatamente Sabrina, portandosi una mano al petto per le troppe risate.
Tutt’attorno a lei , i ragazzi erano collassati sul muretto affianco al pub e
l’orologio di un palazzo vicino, di quelli vecchi che riempivano il centro
storico, rintoccò la mezzanotte. Carmen la guardò, liquida, ridendo ancora
senza freno, ma facendo segno agli altri di non far casino per ascoltarla. Ivan
gettava occhiate nervose alla strada, aspettando con ansia che Chiara tornasse,
mentre Flavio e Isabella, la ragazza che aveva cominciato a frequentare da
poco, si scambiavano paroline melense sotto voce e Michela parlava al telefono
con Andrea, che era partito per il fine settimana con i suoi cugini.
-Dov’è quella matta di Chiara?- chiese, ora
leggermente più seria, la ragazza dalle ciocche colorate. Carmen tossicchiò,
affiancandosi ad Ivan e cominciandosi a innervosire.
-E’… Riccardo è venuta a prenderla e sono… a fare un giro?- si inventò di sana pianta, chiedendo
conferma al riccio con gli occhi. Quello scosse la testa, Riccardo era fuori
città. Sabrina alzò le spalle, inacidendosi, talmente brilla da non ricordarsi
quel piccolo dettaglio. Il giorno dopo sarebbe stato facile raggirarla.
-Quei due, sempre assieme. Mi sta sul
cazzo che si sentano ancora nonostante Chiara gli abbia spezzato il cuore. Lui
è scemo o cosa?- brontolò, allontanandosi dalla baraonda. Ivan alzò le
sopracciglia, fiutando qualcosa che non andava.
-Che c’è di male? Sono amici- affermò,
sospettoso. Sabrina fece un gesto con la mano, sbrigativa.
-Riccardo è un coglione a starle ancora dietro-
I ragazzi si guardarono, straniti, ma
lasciarono correre. Quando poi Carmen notò che Sabrina si stava dirigendo verso
il parcheggio, provando a bloccarla, le corse dietro.
-Dove vanno?- domandò Flavio,
allungando il collo verso la strada deserta.
-Nulla, lascia stare- risolse Ivan,
avviandosi dietro di loro.
Intanto, sempre più vicine al
parcheggio, Carmen cercava di attirare Sabrina dalla parte opposta della
strada, chiacchierando a vanvera e tenendola per il braccio.
-Ma si può sapere che hai? Voglio fare
un giro- si lamentò lei, liberandosi il braccio dalla sua morsa con un solo
scatto. E, continuando a camminare, era quasi già arrivata dov’è che Chiara e
Roberta ancora placidamente si parlavano nel buio.
-Sabrina, torniamo indietro, su- disse risoluta
Carmen, parandosi davanti a lei.
-Non preoccuparti, non faccio scenate
se li vedo assieme… ammetto di essere un po’ gelosa,
sai che lui sta cominciando a piacermi. Ma prima mi sono fatta prendere troppo,
Chiara è mia amica e so che per me non c’è speranza- mormorò Sabrina,
sconfitta. Ivan, da dietro, le osservava preoccupato.
-No, dai, torniamo indietro, davvero-
insistette la mora, quasi digrignando i denti. Sabrina la guardò bieca, come se
non stesse capendo a cosa fosse dovuto il suo comportamento.
-Voglio solo salutare Ricky- disse ovvia.
Sabrina evidentemente non aveva capito
che quella non era l’auto di Riccardo, brilla com’era, e ora, di nuovo libera
dalla morsa di Carmen e dallo sguardo perentorio di Ivan, correva verso la fine
del parcheggio vuoto, dove solo qualche gatto randagio di tanto in tanto faceva
rumore.
-Porca troia- imprecò Carmen, cercando
senza successo di tirarsela di nuovo indietro. Intanto Ivan, con dita tremanti,
provò a chiamare Chiara.
-Cazzo, non risponde- ringhiò,
chiamando di nuovo Sabrina a gran voce, nella speranza che le due in macchina
si accorgessero di non essere sole.
-Dio mio, se Sabrina le scopre, Chiara
ci ammazza- piagnucolò la mora, mandandole un messaggio, dopo aver provato
anche lei a chiamare.
-Sabrina, torna qui!- urlò, per un’ultima volta, per
poi prendere fiato e correrle di nuovo dietro.
***
-Mmh, cosa avevi detto sull’andarci piano?-
scherzò Chiara, baciandole lievemente le sopracciglia, mentre Roberta,
sventolandosi il volto accaldato con una mano, le rivolgeva un sorriso
provocante. Si sistemò meglio sulle sue gambe, gettando un’occhiata fuori dal
finestrino per assicurarsi che non ci fosse nessuno ad osservarle.
-Guarda che non stiamo facendo nulla
di male- sussurrò lasciva, allungandosi per baciarle le labbra già schiuse e
accarezzandole la schiena da sotto la t-shirt.
-Si… hai ragione- sospirò pesantemente la rossa,
schiacciandosi su di lei. Roberta strofinò il naso contro il suo collo,
facendola ridere per il solletico. La guardò dal basso, lasciandole un bacio
delicato proprio a lato e abbracciandola affettuosamente. Chiara si chiedeva
sempre come facesse a passare da predatrice assetata di baci alla persona più
dolce e innocente di questo mondo. In realtà, si chiedeva come lei stessa potesse
diventare in certi momenti così… accesa. Da quel
pomeriggio di qualche settimana prima, avevano scoperto quanto fosse bello
baciarsi e sfiorarsi in modo accennato, fuggevole, perché un contatto troppo
prolungato sarebbe stato difficile da reggere. “Dio, è così eccitante!” le era
capitato di ammettere, stesa al buio in camera sua, ma subito dopo arrossiva
come una dannata tanto era l’imbarazzo. Rimase delusa quando, con
un’espressione degli occhi, Roberta le fece capire che era finito il momento
delle coccole particolari,come le
chiamava Chiara nella sua testa. Avrebbe voluto continuare fino a perdersi in
quello che provava, andare alla deriva come una misera barchetta di carta nelle
onde dell’oceano. Si accorse però che Roberta, intimandole di fare silenzio,
indicava il parcheggio vuoto. Si zittì immediatamente, tornando al suo posto e
sistemandosi la gonna. Sentiva il loro respiro affrettarsi e bloccarsi a
seconda dei rumori di passi che provenivano da fuori. Rimasero così a contarli,
finché non si fermarono del tutto e Chiara vide la sagoma di Sabrina,
smerigliata dal vetro leggermente sporco dell’auto, attonita a fissarle.
-Oh, porca puttana-
Il cellulare di Chiara squillò, sui
sedili posteriori. Chiara, nasconditi.
Chiara non riuscì a dormire quella notte, si rigirò
nervosamente fra le coperte come se delle spine le pungolassero la schiena e le
braccia scoperte, fissando il soffitto in preda ad un’ansia subdola,
un’inquietudine che sembrava non volerla lasciare facilmente. Sabrina era
brilla quando si era accostata alla loro auto, per fortuna, quindi per Carmen e
Ivan non era stato difficile dirottarla di nuovo verso il pub e rifilarle la
scusa che quella Mini Cooper nera, era
evidente!, non era la macchina di Riccardo. Dico, ma ti sembra Riccardo quello? Chiara aveva sentito la voce
affannata dei suoi amici che si precipitavano verso di loro, Roberta che,
rigida come un tocco, teneva gli occhi bassi cercando di confondersi
nell’ombra. Sabrina le aveva fissate per qualche secondo, attonita, col volto
malaticcio di chi ha bevuto un po’ troppo e le braccia molli, inerti ai lati
del corpo. Poi si era lasciata docilmente guidare dagli altri due e tutti erano
spariti dalla loro visuale. Chiara aveva ripreso a respirare solo quando in
strada non fu visibile che la sagoma di un gatto randagio. Roberta, più pallida
di un lenzuolo, l’aveva riaccompagnata come da protocollo in una stradina
laterale, dove dopo una mezz’oretta Ivan aspettava in sella alla sua moto. Sua
madre se l’era presa per l’ora tarda, aveva squadrato i capelli scarmigliati di
Chiara ed aveva insinuato che ogni qual volta andavano al pub, Chiara sembrava
sempre tornare a casa come se avesse bevuto d’un colpo una pinta di birra.
L’aveva mandata a letto con la raccomandazione di essere sempre cauta e
responsabile in quelle occasioni, poi se ne era tornata a dormire. L’orologio
sul comodino della sua stanza contava l’una e dieci. Da allora, Chiara aveva
perso il conto di tutto il tempo speso a cercare invano di addormentarsi. Non
voleva voltarsi, aveva paura di scoprire ch’era già mattino. Di doversi alzare
e magari trovarsi un messaggio di Sabrina o una sua chiamata, di dover
rispondere alle sue domande, di doverle dare chiarimenti. Sperava che in virtù
della sbornia non si ricordasse nulla. Ma Sabrina era una che ci andava pesante
con l’alcol, di solito, ed era alquanto improbabile che per delle semplici
birre andasse nel pallone. Roberta era stata silenziosa durante il viaggio di
ritorno. Forse era maggiormente questo pensiero a tenerla sveglia. Le aveva mandato
il messaggio della buona notte senza fare nessun accenno all’accaduto, forse
perché non la voleva turbare. Era sempre così protettiva con lei, Chiara si
sentiva stringere il cuore. Quando si erano salutate le aveva dato una carezza
sulla guancia, come a dire “sta’ tranquilla, sei al sicuro finché ci sono io”.
Adesso però Roberta non c’era e Chiara, stizzita e poco conscia, decise di
alzarsi per fare quattro passi nella stanza. Cosa poteva succedere di così
terribile? Al massimo avrebbero mentito, lei, Carmen e Ivan, e Sabrina avrebbe
dovuto accettare passivamente, semmai si fosse ricordata qualcosa, che ciò che
aveva visto era solo frutto della sua immaginazione. Non erano lei e Roberta
quelle che si baciavano, l’una sull’altra, in quell’auto nel piazzale vicino al
BlackDevil.
Proprio no.
“Sei una sciocca, Chiara” si disse di fronte allo
specchio “sei proprio stupida. Pensi davvero che Sabrina potrebbe fare qualcosa
di spropositato?”
L’ipotesi più temibile era quella di una semplice sfuriata
sul perché l’aveva detto a Carmen e non a lei. Insomma, Sabrina era sua amica.
Perché temeva così tanto il suo giudizio? Prima o poi, forse non quella volta,
ma un’altra di sicuro, sarebbe venuto fuori che fra lei e Roberta non c’era
esattamente l’inimicizia che tutti si aspettavano. L’avrebbe saputo comunque. Tornò a letto,
notando che il cellulare le si era illuminato per un messaggio. Leggendo che
era di Roberta (e rendendosi conto che, cavolo, erano le tre e mezza), si
precipitò a rispondere.
“Non
riesco a dormire, ho paura che possiamo esserci cacciate nei guai. Non volevo
dirtelo, ma se proprio dobbiamo condividere ogni cosa, tanto vale …”
Chiara, nonostante tutto, sorrise di tenerezza.
Quanto voleva fare la forte, Roberta. E quanto poco le riusciva. Tutto questo
solo per lei. Digitò velocemente, con l’ansia di farle sapere quanto si sentiva
sollevata a quell’ammissione, desiderando di poterla avere accanto a lei e
soffocare nei suoi capelli quelle ansie.
“Nemmeno io. Speravo di poterlo dire a
qualcuno, ma non volevo metterti pressione. Ci stiamo facendo troppe paranoie.
Ci ha rovinato bel momento, comunque”
Ed era vero! Roberta era stata così dolce, Chiara si
compiacque di essere ancora in grado di sentire i suoi tocchi sulla sua pelle.
Nell’attesa di una risposta, si appoggiò alla testiera del letto e gettò la
testa all’indietro, liberando un sospiro. Dalle tendine scostate, la sua
finestra lasciava filtrare due grossi raggi lunari che illuminavano di bianco
gli oggetti sulla scrivania. Chiara vi scorse, con un’occhiata stanca, i libri di
scuola ormai abbandonati al loro destino di oblio estivo, la borsa della
palestra, penne sparse qua e là e le sue cuffiette. Iniziava davvero l’estate!
La sensazione prepotente che le faceva tremare la spina dorsale glielo
confermava. L’aspettavano intere giornate di sole, a partire da quella in
spiaggia del prossimo sabato, tanti libri da leggere, pomeriggi passati in
compagnia coi suoi amici e serate barbecue, gelati e bibite fresche, corse al
parco con Roberta e intere ore a suonare la chitarra giù nel suo giardino
ombreggiato. Sarebbe tornata in Irlanda, dai suoi nonni, quell’agosto, ma non
prima di aver passato due settimane al mare. Quell’anno forse sarebbero scesi
in Puglia. Si sarebbe abbronzata, dimentica degli stress che quell’anno
scolastico l’avevano resa nient’altro che una macchina dai voti eccellenti, e
si sarebbe divertita a fare nuove conoscenze con sua sorella. Ma ciò che più
l’allettava, e doveva essere sincera con se stessa, era il fine settimana di
libertà che i suoi genitori le avrebbero concesso a fine mese. Erano soliti,
infatti, festeggiare il loro anniversario con un breve viaggio ogni anno e da
quanto aveva compiuto l’età adatta non si facevano problemi a lasciarla sola in
casa, previe interminabili raccomandazioni. Aveva già una mezza idea di
invitare Roberta a stare da lei, ma al solo pensiero sentì la pelle
accapponarsi dal nervosismo. Forse non era proprio una buona idea. Non sapeva
cosa sarebbe potuto succedere e, anche se eventuali risvolti le erano ben
chiari nella mente (forse fin troppo, per la sua salute mentale), si vergognava
troppo per rimuginarci su con cognizione. Solo che la sua mente non la stava a sentire e
vagava, girava sempre in tondo a quegli argomenti che non aveva il coraggio di
affrontare, preoccupandosi ora di sciocchezze come gli avvenimenti di quella
sera, ora di ciò che da un po’ di tempo a questa parte la agitava: Roberta e
lei, assieme, da sole. L’attrazione indicibile e bruciante che la portava a
volere sempre di più. Quello era di certo un problema più urgente. Chiara constatò
che, con quel calore, anche il suo cervello stesse cedendo ai colpi dei suoi
ormoni. Il fatto di avere quasi diciassette anni e una ragazza incredibilmente
bella non aiutava per nulla. “Ci risiamo, Chiara. Resetta. Pensa a qualcos’altro!”
si disse, disperata. Lo schermo del cellulare si illuminò di nuovo.
“Forse è stato
meglio così” le scriveva Roberta, con una faccina ammiccante. Arrossì fin
sopra le orecchie e dovette soffocare un
sospiro che, spontaneamente, le era sibilato dal naso. Forse era stato meglio
così. Non era sicura di essere dello stesso parere. Quando se la sentì, quando
il suo cervello fu in grado di formulare altro che immagini vivide di ipotetici
finali diversi, provò a risponderle a tono, per mascherare quel caos che
sentiva salirle dallo stomaco ed annebbiarle la vista. Roberta si divertiva a
provocarla, questo era certo, ma lei non gliela dava mai vinta, un po’ per
orgoglio, un po’ per pudore. O forse, perché sapeva che Roberta, in fondo, era
più spaventata di lei da quella roba lì.
“Smettila!”
Roberta rispose dopo nemmeno cinquanta secondi.
“Chiara fa la
reticente, eh?” con una faccina sorridente che Chiara trovò altamente
irritante. Decise di fare ammutolire anche lei.
“Forse è stato
davvero meglio così, miss. E forse è meglio che io non parli”
Con quel misterioso sottinteso, chiuse gli occhi e
lasciò il cellulare fra le lenzuola. Immaginò che Roberta fosse lì con lei,
come se fossero ancora in macchina e Sabrina non le avesse mai interrotte. Cosa
sarebbe successo? Chiara era sicura che si sarebbe ritratta, facendosi violenza
da sola, e si sarebbero guardate come ogni volta che si avvicinavano troppo al
limite. Roberta era sempre così premurosa con lei e Chiara non avrebbe potuto
far nulla che potesse ferirla. Dopo la faccenda di Massimo, quella cosa del contatto fisico eccessivo (Chiara non
riusciva a chiamarlo in nessun altro modo, tanto era impacciata su certi
fronti) era da prendere con le pinze e con i guanti. Immaginò che fosse lì, fra
le sue stesse lenzuola, e che avesse il capo poggiato sul suo grembo e che le
stesse accarezzando quei meravigliosi, lunghi capelli neri. L’avrebbe fatto
fino a che non si fosse addormentata, se fosse stato necessario. Ad un certo
punto la sua fantasia si era fatta così fitta che non notò nemmeno la risposta
di Roberta. Riuscì solo a vederla, dietro le sue palpebre arrossate, chinarsi
su di lei e baciarla piano, con delicatezza, come aveva fatto quella e tutte le
altre volte. Le sue mani fra i capelli e poi a cingerle la vita … “BASTA!”
“Forse è
meglio che andiamo a dormire”
Scherzarono per un altro po’, l’argomento fu
accantonato con imbarazzo da parte di entrambe e Chiara se ne andò davvero a dormire. Ci aveva ormai fatto l’abitudine a quella strana, vertiginosa sensazione che
non riusciva né voleva identificare.
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Il mattino seguente fu svegliata dall’odore del
caffè appena fatto e, stiracchiandosi, lasciò andare un profondo sbadiglio. Aveva
preso l’abitudine di andare a correre, di domenica mattina, soprattutto
nell’ultimo periodo, con tutti gli impegni ad esigere la sua massima
concentrazione. Era un eccellente antidoto contro lo stress e decise che quella
mattina, col sole alto e il clima mite, sarebbe stata perfetta per i suoi sei
chilometri. Scese a fare colazione a passo leggero, quasi volando sulle scale. Si
ricordò vagamente di un sogno fatto quasi all’alba, di lei e Roberta
abbracciate, avvinghiate alla luce del sole in un’ampia stanza magnificamente
arredata. L’ultima parte ora le sfuggiva, ma non ci fece caso. Sogni del genere
erano quanto mai ricorrenti. Quando entrò in cucina, salutò con allegria sua
madre, che già le aveva messo in tavola la colazione, e si accorse che erano
ancora le otto e dieci. Adorava svegliarsi di mattina presto, nonostante quella
notte avesse dormito sì e no quattro ore, e non perdeva quell’abitudine nemmeno
in estate. Suo padre era in salotto a leggere il giornale, di fronte alla sua
tazzina di orzo e il ronzio del telegiornale, a basso volume, riempiva timidamente
quell’intimità domestica.
-Buongiorno cara- la salutò Margaret, indicandole la
brocca del latte e la scatola di latta dove tenevano i biscotti. Chiara ne
addentò uno e constatò con piacere che erano fatti in casa. Guardò sua madre
con sorpresa, gustandone le gocce di cioccolato.
-Li hai fatti tu? Sono buoni- si complimentò, con
sorpresa. Era raro che sua madre avesse il tempo di dedicarsi a cose di quel
genere.
-Ho deciso di prendermi un po’ di giorni liberi
dall’ospedale- alzò le spalle quella, tornando ad armeggiare con le arance, da
cui stava cercando (piuttosto impacciatamente, segno
che di solito era Matteo a stare ai fornelli) di ricavare una spremuta.
-Stamattina vieni con me a correre?- chiese allora
Chiara, ingollando quasi di un colpo il suo bicchiere di latte. Margaret la
rimproverò di fare piano.
-Verrei con piacere, devo rimettermi in forma, ma a
pranzo abbiamo i tuoi nonni e sono indietro con il polpettone- continuò a
spostarsi, mentre parlava, da una parte all’altra del bancone con aria velatamente
disperata. Chiamò suo marito, intimandogli di darle una mano. Matteo salutò sua
figlia con un affettuoso bacio sui capelli, poi, con l’aria di un esperto,
passò in rassegna alle pentole che bollivano e ai vari ingredienti sparsi
tutt’attorno.
-Lascia fare a me- batté le mani l’una contro
l’altra come per cominciare quell’impresa; prima che entrambi fossero troppo
assorbiti da quella ricetta, Margeret si ricordò di
informare Chiara che qualcuno aveva chiamato, quella mattina, cercando lei.
Chiara saltò quasi dalla sedia.
-Chi?- chiese cautamente. Sua madre alzò le spalle,
non se lo ricordava.
-Era una voce abbastanza confusa. Forse era Sabrina
o Carmen, ha staccato subito-
Chiara si rifugiò nella sua stanza con il cordless e
compose il numero velocemente. Carmen rispose dopo venti secondi buoni,
probabilmente stava ancora dormendo.
-Ti pare che io ti abbia mai chiamato a quest’ora
balorda del mattino?- sbadigliò pesantemente e Chiara sentì il fruscio delle
lenzuola che venivano buttate giù dal letto.
-Scusa … allora è Sabrina che mi sta cercando.
Negare e basta riuscirà a convincerla, sì? Ammesso che si ricordi- cominciava a
farsi prendere dal panico, parlava velocmente. Carmen
fece un verso contrariato, intimandole di smetterla.
-Tu non devi far menzione di nulla. Se lei ti dice qualcosa
di sospetto, allora tronca tutto sul nascere. Sii coincisa e non tentennare, se
tu neghi chiederà di certo a noi e io ed Ivan siamo di certo molto meglio di te
a mentire- le disse sbrigativa, mentre in sottofondo si sentiva il gorgoglio
del caffè che usciva dalla macchinetta. Chiara sospirò, preoccupata, ma non
volle andare avanti con le sue paturnie.
-Mento, va bene. Non è difficile … non è difficile-
Volle farle accenno alla strana situazione con
Roberta, per avere un parere, ma il timore di esporsi troppo, sebbene fosse la
sua migliore amica, la trattenne dal farlo.
-Oggi a casa mia, no?- Carmen chiese conferma. Chiara,
dopo un distratto cenno d’assenso, chiuse la chiamata e, dopo essersi
sciacquata la faccia e spazzolato i denti forse con troppa foga, si decise a
richiamare Sabrina. Fece due squilli e, all’improvviso, la linea cadde. Provò
altre tre volte, ma c’era sempre al segreteria a risponderle. “Tanto meglio” si
disse e corse a prepararsi per il footing mattutino.
#################
“Oggi
pomeriggio passeggiata al parco?”
Fermandosi un momento per rispondere al messaggio di
Roberta, Chiara approfittò anche per prendere un po’ di fiato. Il suo
contapassi segnava già quattro chilometri, ma si sentiva così nel pieno delle
forze che avrebbe potuto andare avanti per ore. Fece un po’ di stretching e
guardò l’orologio. Le undici meno un quarto. Per quanto l’allettasse un
pomeriggio distesa fra le fronde con Roberta, magari a leggere qualche libro di
poesie (visto che Roberta sembrava interessarsi sempre di più a quella che era
la sua passione più grande), lei e Carmen si sarebbero dovute vedere per una
maschera esfoliante all’argilla e proprio non se la sentiva di trascurarla. E poi,
starsene distesa al sole con Roberta e le sue meravigliose labbra a vagheggiarle
avrebbe potuto crearle qualche problema. Si riservò altri dieci minuti di corsa
per pensarci e, aumentando il ritmo, notò che anche quella specie di tensioni sembravano attenuarsi, in
qualche modo quelle energie impetuose doveva bruciarle. Stava appunto per
girare all’angolo della strada principale, quella che portava direttamente al
retro di casa sua, ed entrare nel quartiere residenziale, che si vide davanti,
al bar di fronte, Sabrina ed Ivan che prendevano un caffè. Li salutò da
lontano, rigida e completamente sudata, notando che l’amica aveva di poco
alzato la testa dal suo cellulare e le aveva fatto un cenno del capo abbastanza
indifferente. Ivan, coi suoi capelli arruffati, quella mattina sembrava più
isterico del solito.
-Chi si allena duramente e chi si rilassa coi
cornetti, altro che giustizia divina!- esclamò, continuando a correre sul
posto. Ivan rise, Sabrina distese le labbra in un sorriso distante. Chiara
sentì lo stomaco contrarsi come se le avessero appena dato un pugno,ma sperò che nessuno dei due se ne fosse
accorto.
-Non è che vuoi un po’ del mio succo d’arancia?-
l’amico ammiccò scherzando ad un enorme bicchiere dall’aria dissetante. Chiara
rifiutò stoicamente, attenta a decifrare ogni espressione facciale dei due
amici. Sabrina fissava la bustina vuota dello zucchero, il volto era mezzo
nascosto da una ciocca di capelli. Ivan non sembrava nervoso, ma qualcosa nei
suoi occhi le trasmetteva incertezza.
-Allora … io andrei- fece Chiara, indicando la
strada. Poi si ricordò di quella mattina.
-Ah, Sabri, mi hai chiamata
tu stamattina?- chiese, sperando di suonare disinvolta. L’amica si girò verso
di lei con calma, come se non avesse molta voglia di risponderle. Non aveva una
bella cera, ora che ci faceva caso.
-Si, ma non dovevo dirti nulla d’importante,
comunque-
Il suo tono non le piaceva, Chiara percepiva una
sorta di diffidenza. “Non dare a vedere di essere nervosa, capirebbe” si
intimò. Poi si allontanò con uno scatto di reni e in due minuti si trovò di
fronte casa sua, col fiato corto e le gambe che le dolevano dallo sforzo.
“Hoincontrato Sabrina, ma lasciamo stare le mie
paranoie, ce ne occuperemo a tempo debito. Oggi pomeriggio fra amiche, comunque”
scrisse a Roberta, un po’ dispiaciuta di utilizzare quel contesto per evitare
di stare da sola con lei. Stava per ripensarci, d’altronde era solo un
pomeriggio al parco. Si vide già distesa all’ombra di uno dei faggi, col capo
sulle sue gambe, ad intrecciare le dita con lei e a leggerle qualcosa di
Virgilio. Scosse la testa, aveva preso un impegno, e ricominciò a correre, non
volendo ammettere che si trattava di una scusa bell’e buona.
Quel pomeriggio, mentre la maschera all’argilla le
si essiccava sul naso e le rendeva difficile perfino fare una smorfia con la
bocca, Carmen , distesa sul suo letto, cominciò a testa in giù a elencare con
perizia gli ultimi pettegolezzi della compagnia. Il sole era ancora alto,
bruciava già come se fossero in estate, e a Chiara venne da sospirare.
-Sai che oggi Roberta mi aveva chiesto di andare al
parco?- tirò fuori, improvvisamente. Carmen alzò le spalle.
-E perché non ci sei andata?-
-A parte che avevo un impegno con te … vuoi che ti
dica la verità?-
Carmen alzò di poco il busto, per guardarla meglio
in volto.
-Stai arrossendo, attenta- ridacchiò.
-Ti prego, non rendere le cose più difficili di
quanto non siano già- grugnì, coprendosi il volto con le mani. L’amica le si
accostò, sedendosi anche lei sul tappeto, a gambe incrociate.
-Allora?-
-E’ che mi mette terribilmente in imbarazzo parlare
di certe cose … -
Carmen fece segno di non capire dove voleva andare a
parare.
-Di certe cose, hai capito, insomma-
-Ah, di sesso- specificò schietta Carmen.
-TI PREGO! Non riesco nemmeno a dirlo!-
L’amica le si fece più vicina, costringendola ad
alzare la testa e a smettere di fissarsi le scarpe.
-Mi stai dicendo che ti fai paranoie anche in
questo? Cavolo, siamo proprio rovinate- allargò le braccia e guardò
pateticamente al cielo. Chiara le diede una leggera gomitata fra le costole.
-Lo sai che sono … - cominciò, ma non riuscì a
finire la frase.
- … particolarmente pudica?- Carmen completò la
frase per lei. Chiara annuì come se stesse ammettendo una gravissima colpa, ma
non accennò a parlare.
-Quindi ti sei
rintanata a casa mia, nascondendoti quasi sotto il mio letto, perché la tua
ragazza ti attrae in quel senso, com’è
giusto che sia, e non sai come affrontare la cosa? Particolarmente pudica mi sembra un tantino
poco, eh! - rise di cuore. Vedendo che però Chiara non rideva, abbassò i toni.
-Tu e Roberta siete così carine insieme e lei mi
sembra veramente molto dolce con te, anche se sai che ci ho messo un po’ a
convincermene. Non dovresti farti di questi problemi proprio adesso … sai che
lei non permetterebbe mai che tu soffra, o almeno spero. In quel caso si
ritroverebbe con un sopracciglio spaccato, sappilo.- risero entrambe, poi
continuò:
-Ma soprattutto sai anche che tu non saresti capace
di far soffrire lei. Perché ti è venuto in mente di evitarla?- le chiese, con
delicatezza.
-L’ho fatto senza pensarci. Il punto è … se fossi io
a farle del male? Insomma, se per una sciocchezza del genere, solo perché non
riesco letteralmente a staccarmi da
lei, le ferissi? In fondo era quello che anche Massimo faceva. Metterle
pressione- la sua voce si incrinò sensibilmente. Carmen le diede una carezza
sui capelli, addolcita.
-Non ti facevo così premurosa-
-Lei lo è sempre molto con me- mugugnò.
-Né in effetti così focosa- proruppe in una risata,
dichiarando con le lacrime agli occhi che non poteva fare a meno di prenderla
in giro. Chiara si rilassò e chiuse gli occhi, sentendo la pelle delle guance
irrigidirsi sempre di più. Carmen si aggrappò al suo braccio e stettero per un
po’ così, appoggiate l’una all’altra.
-Sono cose che succedono con calma, senza fretta. Roberta
pende dalle tue labbra, è stracotta di te. Ti guarda come se fossi l’unica cosa
la mondo. Magari non vuole che succeda adesso, anche se conoscendoti non ne
avrete nemmeno parlato e questo non è bene, ma non dovresti sentirti così male
se la desideri. E poi credo che tu non possa nemmeno lontanamente paragonarti a
Massimo, tu stravedi per lei. Faresti qualunque cosa per farla stare serena. Smettila
di preoccuparti e chiamala, ti
accompagno al parco- concluse, spiccia. Chiara prese con mani tremanti il
cellulare, lodando la praticità della sua migliore amica nel risolvere i suoi
inesistenti problemi.
-Oddio non la troveremo mai, potremmo
andare più veloce!?
Chiara, aggrappata a
Carmen, pericolosamente traballante seduta com’era sul porta pacchi della sua
bicicletta rosa brillantinata, la incitò ad
accelerare il passo, tamburellando a ritmo le dita sulle sue spalle. Carmen
grugnì, fermandosi per riprendere l’equilibrio, gettando un’occhiata in basso
per verificare se non si fosse macchiata i jeans nuovi.
-Ma lo vedi che non riesco neanche a stare
in equilibrio? Oh Signore, mi sono macchiata! – urlò non appena se ne
accorse, con quel suo tono alto e drammatico che fece girare gli occhi a
Chiara.
Aveva bisogno di arrivare
al parco il prima possibile, e da casa di Carmen distava circa una mezz’ora a
piedi, così avevano pensato bene di andare in bici, tutt’e due. Chiara era un
po’ nervosa di affrontare Roberta, aveva paura che se la fosse presa visto il
suo rifiuto secco di raggiungerla e passare il pomeriggio insieme,
ma soprattutto era nervosa per tutto quello che aveva raccontato a Carmen poco
prima. Avrebbe dovuto parlare con lei, come si erano accordate (Carmen, uscendo
di casa- letteralmente trascinandola- le aveva fatto promettere solennemente di
spiegare a Roberta cos’è che la turbasse, per smetterla una volta per tutte con
quei teatrini imbarazzanti), e questo di certo non la aiutava.
Era una giornata mite,
c’era un bel sole di tarda primavera, e il paese era placido, si respirava
un’aria rilassata, quasi tutti stavano uscendo dagli uffici e i bar erano pieni
di persone che bevevano bibite fresche accomodate ai tavolini esterni. Chiara
si sentì euforica e terrorizzata e avrebbe voluto urlare, ma si limitò a
piantare le unghie nelle spalle di Carmen, guadagnandosi una sua scrollata di
spalle e un grugnito di dolore.
-Senti forse è meglio che te la lascio e vai sola, che ne dici? -le disse ad un certo punto, svoltando non
senza difficoltà in una stradina, - Così posso evitare di finire piena di fango
e scorticata… se questa è la tua delicatezza, non oso immaginare quella povera
della tua fidanzata…-
-NO! Ti prego, accompagnami almeno fino ai
cancelli, ti prego, ti prego, ti prego! Mi sento come se stessi per
esplodere e non mi fido di me stessa- sibilò di rimando Chiara, vedendo che
mancava ancora qualche minuto e sarebbero arrivate al primo spiazzo del parco.
Carmen si voltò per un
momento a guardarla, sorridendole di sottecchi.
-Sei proprio carina da quando sei
innamorata, è un peccato non poterti prendere in giro con gli altri!
Chiara le diede un
colpetto al braccio, aggiungendo: - Per essere un’amica sei proprio stronza!
Ma ti adoro, sei la migliore… ora svolta a sinistra e ci siamo quasi!
C’era un motivetto
musicale che le ronzava in testa da quella mattina, una canzone allegra,
estiva, pop, e ripeteva lo stesso giro di note per tranquillizzarsi, pensando
che era meraviglioso essere così nervosa per qualcuno, piuttosto che per un compito
di matematica. Che sarebbe arrivata a minuti e si sarebbe gettata fra le
braccia di Roberta e si sarebbe aperta con lei, le avrebbe parlato, e tutto
sarebbe andato bene. Che euforia e che spavento!
-Eccoci, signorina. Fra me e Ivan non so
chi dei due sia più prossimo a diventare il tuo autista personale… lascia una
recensione alla fine della corsa e vedremo.
-Che scema… grazie, Carmen, per tutto. Se
mai le cose dovessero andare bene, ricordatelo, è praticamente quasi tutto
merito tuo!
Carmen si buttò indietro
i capelli, alzando le spalle come una vecchia diva cinematografica.
-Fiera di essere l’artefice della prima
volta della mia più cara amica al mondo.
-CARMEN!
Le fece un ultimo
occhiolino e proseguì per tornare al centro del paese. Chiara si voltò, ancora
rossa in viso, e decise di respirare un momento prima di avviarsi verso il
chiosco, dove era abbastanza sicura Roberta stesse disegnando o leggendo (ormai
libera dalle interrogazioni, aveva finalmente iniziato il libro che le aveva
regalato per il suo compleanno).
***
Roberta, invece, non era
al chiosco, ma seduta poco distante sotto un albero col suo blocco da disegno,
con lo sguardo fisso fra le pagine. Per tutti i cinque minuti in cui Chiara
rimase, da lontano, ad osservarla, non aveva mai alzato la testa: aveva tutta
l’aria di chi è così assorto nel proprio lavoro da non aver bisogno di rendersi
conto di ciò che lo circonda. Quello era il suo piccolo mondo e a Chiara sembrò
così bello poterla guardare che quasi si ricredette sull’idea di andare lì a
parlarle.
Ma poi- probabilmente per
verificare di star riproducendo fedelmente il suo modello, un grosso albero in
fiore qualche metro accanto a Chiara- Roberta alzò la testa, trovandosi di
fronte proprio Chiara, che sentendosi i suoi occhi azzurri addosso non poté far
a meno di sentirsi in colpa per averla distratta, ma allo stesso tempo felice,
così felice che la stesse guardando.
-Hey,
che ci fai qui?-
La voce di Roberta suonò
limpida e squillante alle sue orecchie, stava sorridendo e sembrava felice che
invece dell’albero di pesche ci fosse lei. Erano a qualche metro di distanza,
ma Chiara riusciva a scorgere l’espressione dei suoi occhi, e il modo in cui
stava cercando di non sorridere troppo, così presa alla sprovvista, contraendo
i muscoli ai lati della bocca, rendendo le due fossette delle guance più
visibili. Cercò di schiarirsi la voce e di risponderle, ma non riusciva a
capire dove fosse finita. La gola pulsava come se il cuore ci si stesse
aggrappando, cercando di uscirle di bocca. Le dita le formicolavano, quella
sensazione del fluire del sangue avanti e indietro sotto la pelle, un caos
pulsante, troppo intenso per non lasciarla ogni volta trafelata. Così rimase in
silenzio e le si avvicinò.
-Ciao…
Si sedette accanto a lei,
sorridendole timidamente. Roberta le fece spazio, spostando i fogli e le
matite.
-Passavo di qui con Carmen, e ho pensato di
cercarti. Ti ho trovata qualche minuto fa, ma non volevo disturbarti.
Roberta piegò la testa
verso di lei, guardandola ridendo.
-Ma non mi disturbi, ero solo qui a
disegnare un po’. Pensavo foste in giro per il pomeriggio fra amiche.
Chiara notò che attorno a
loro c’era solo gente venuta a fare jogging, e che a tratti era deserto. La
luce era ancora forte, erano le sei e mezza, e si abbandonò completamente sulle
gambe della sua ragazza.
-In realtà volevo vederti.
Con la guancia poggiata
sul tessuto dei suoi jeans chiari, guardava assorta lontano, mentre Roberta le
passava una mano fra i capelli. Chiuse gli occhi, sospirò piano. Era tutto così
calmo, fluiva lento eppure veloce, aveva voglia di aggrapparsi a Roberta per
fare in modo che non scivolasse via.
-C’è qualcosa che non va?
Chiara si voltò,
guardandola direttamente in viso per rassicurarla. Le sorrise, senza perdere la
sua iniziale timidezza, godendosi quelle carezze morbide sulla fronte, le
guance, le labbra, la punta del naso.
-No, ma volevo stare con te, da sole.
Roberta si chinò- non
prima di aver appurato che nei dintorni non ci fosse nessuno- e le lasciò un
bacio veloce sulle labbra.
-Ti va di ascoltare un po’ di musica?
-Sì, ma prima volevo dirti una cosa.
Chiara si beccò un altro
sguardo interrogativo. Non voleva farla preoccupare, per cui sospirando pensò
bene di iniziare col soliloquio che aveva ripassato tante volte in quei giorni,
ma tutto ciò che uscì dalla sua bocca furono poche parole.
-Sono proprio innamorata di te.
Roberta per tutta
risposta la baciò di nuovo, e Chiara si sentì spaccare in due dall’emozione che
aveva dentro, lo stomaco sotto sopra a cui non aveva ancora fatto l’abitudine,
le guance ardenti, le dita incapaci di metabolizzare tutti quegli impulsi
nervosi e indecise se aggrapparsi ai suoi capelli o cingerle delicatamente il collo.
Fu un bacio molto lento, ma profondo. Chiara si ricordò che era di questo di
cui voleva parlarle, questa forza di cui si sentiva in balia ogni volta che la
baciava, che le diceva “abbandonati, abbandonati”, come una ninnananna, un
incantesimo sempre più profondo, che la lasciava intorpidita, elettrica, fuori
da se stessa.
-Anche io sono innamorata di te- sorrise
Roberta, e lasciò andare indietro la testa, poggiandosi al tronco dell’albero,
come cercando un sostegno.
Chiara le prese una mano,
per attirare la sua attenzione. Poi le chiese: - La senti anche tu questa cosa?
-Cosa?
-Questa forza che mi attrae a te e mi fa
impazzire, come se mi partisse dallo stomaco- se lo indicò, come a volersi
sviscerare- a volte fa quasi male da quanto è intenso, non riesco a
controllarlo.
-Vuoi sapere se ti desidero?
A Chiara mancò un
battito, tutto attorno a lei aveva perso definitivamente consistenza. Fluiva e
correva e allo stesso tempo la lasciava pietrificata e immobile. Si sentiva
scoppiare ma allo stesso tempo stretta in catene invisibili. Senza sapere come,
un sì tremolante fece in tempo ad uscire dalla sua bocca prima che la
chiudesse, mordendosi le labbra, in uno spasmo di nervosismo.
Roberta, vista da dove la
osservava Chiara, dal basso verso l’alto, sembrava troneggiare su di lei,
invadendola con una sensazione di completa e incredibile impotenza. Chiara si
sorprese al desiderare non solo che fosse lei a prendere in mano la situazione,
ma che addirittura le chiudesse la bocca costringendola a stare zitta e a
smetterla con tutte quelle sue chiacchiere, quel suo nervosismo, perché non
c’era bisogno, stava accadendo esattamente quello che doveva accadere e non
c’era via d’uscita se non lasciarvisi completamente andare.
-Io ti desidero- rispose infine, fissandola
negli occhi, spostando una mano dalla sua guancia al collo.
-Perfetto, perché ti desidero anche io e in
questi giorni mi stavo torturando nel tentativo di capire se fossi l’unica.
Roberta rise, e il modo
in cui rise sembrò- alle orecchie di Chiara- l’eco del modo ilare con cui aveva
riso Carmen qualche ora prima. Era stata davvero lei quella assurda, a farsi
tutti questi problemi?
-Come potresti essere l’unica?
Chiara alzò le spalle.
-Ti ricordi quando ci siamo conosciute? A
Vienna, quella sera che mi parlasti di Massimo e di come ti eri sentita male
perché lui voleva, insomma…
-Sì, mi ricordo. Ma questo che c’entra?- Roberta rise di nuovo.
-Non lo so, pensavo che avresti pensato lo
stesso di me… che ti avrei messo pressione, ti giuro, non ne ho la più pallida
idea. Io non ho mai provato una cosa del genere, non so neanche come si
gestisce, cosa devo fare… non so assolutamente nulla.
Roberta con la mano le
fece gesto di spostarsi più in là, in modo da potersi stendere anche lei
sull’erba. Ora erano l’una di fronte all’altra, e si guardavano senza quasi
sbattere le palpebre.
-Io non ho idea di che cosa si debba fare,
ma lo voglio- disse, dopo un po’ di silenzio – con te. Tu lo vuoi?-
Chiara mosse la testa,
assentendo.
-Quando mi baci o mi tocchi non c’è niente
che voglia di più che tu non ti stacchi. Capisci cosa intendo? Con Massimo, con
chiunque altro era un’agonia anche solo pensarci. Ma come puoi solo pensare di
essere simile a loro? Io ti adoro, sei meravigliosa e quello che mi fai provare
io cerco di esprimerlo ma a volte non ci riesco. Mi fai sentire al sicuro e
sempre protetta, mi sento come dentro una piccola tenda nel mezzo del bosco.
-È un’immagine carina.
-Già, forse un giorno dovremmo andare in
campeggio insieme.
-Sì, ma solo se mi proteggi dagli insetti!
-Affare fatto.
***
-Sabri,
tu sei sicura di aver visto bene?
Sabrina guardò Riccardo
dall’altro lato del tavolino del bar. Sorseggiò per un po’ la sua coca-cola,
poi tornò a guardarlo. Pensò che fosse molto carino, nella sua maglietta bianca
e pantaloncini da allenamento, con i capelli biondi un po’ sparati e gli occhi
castani confusi, e che di sicuro ora aveva più possibilità con lui che non
Chiara. Chiara, la sua compagna di scherzi, ormai così misteriosa per lei, come
se vivesse anni luce dal suo pianeta. Perché, se ci aveva visto bene, Chiara
non le aveva parlato? Era sinceramente arrabbiata con lei, ma non si seppe
spiegare il perché. D’altronde, capiva che fosse una faccenda delicata e che
magari non se la fosse sentita di dirglielo. Ma la convinzione che Carmen e
Ivan sapessero (se ne era accorta quando era uscita con
Ivan e lui aveva accuratamente evitato di portare avanti l’argomento) le diede
molta amarezza, come se lei fosse sempre l’ultima ruota del carro, e non solo
Chiara non si fidasse di lei, ma nemmeno ne avesse un’opinione tale dal
giudicarla meritevole di un tale segreto. Che poi in ballo ci fosse la sua
omosessualità o meno, a Sabrina non poteva importare di meno. Per come la
vedeva lei, non c’era neanche da discuterne. Certo, forse si sarebbe potuto
parlare di come si fosse scelta proprio Della Corte- colei che le aveva vessate
per anni, non solo Chiara, ma anche lei stessa, Sabrina dai capelli colorati e
i voti sempre più bassi, lei e le sue insicurezze sempre prese di mira, lei che
non era niente di che a confronto con i suoi amici-, ma per il resto, beh, che
facesse pure quello che le pareva. Quello che però non le andava a genio era il
fatto che, ancora una volta, lei fosse giudicata a priori di poca importanza.
-Ti dico di sì, pensavo fosse te che stesse
baciando, ma tu non hai i capelli neri, Ricky, e decisamente non ti metti la
matita e il mascara.
Riccardo, d’altronde, era
abbastanza sotto shock. Chiara, il suo
amore impossibile… insomma, era lesbica? No, non voleva crederci. Sabrina, ne
era sicuro, se lo stava inventando per farlo desistere dal riprovarci con lei.
Non era impossibile, dopo tutto. Era convinto che avesse una cotta segreta per
lui.
-Okay ma quindi che succede, stanno
insieme? Magari erano ubriache e, non so, volevano esercitarsi. Voi ragazze lo
fate, vero?- chiese ormai senza alcuna speranza,
suonando ridicolo perfino a se stesso.
-No Ricky, noi ragazze non lo facciamo. O
almeno, non nel modo in cui lo stavano facendo loro…
-Oh
mio dio. Sono sconvolto.
-Già, non dirlo a me. Io sono solo la
stupida che fa ridere tutti, ma nessuno si degna mai di darmi una spiegazione.
Riccardo aveva ancora la
testa fra le mani e lo sguardo vacuo perso a fissare il marmo del tavolino,
quando Sabrina aggiunse, con finta nonchalance:
-Allora, ti va di andare al cinema sabato
sera?
**
-Darling! Ma
dove sei stata tutto il giorno? Ho chiamato la madre di Carmen e mi ha detto
che siete uscite. Si può sapere perché non rispondi mai ai messaggi?
Chiara entrò in cucina
come un fulmine, aprendo il frigo e cercando dell’acqua. Il sole stava
tramontando, e si sentiva così piena di energia che dubitava avrebbe avuto la
pazienza di sedersi a tavola a mangiare la cena. Margaret triturava il
prezzemolo e di tanto in tanto lo aggiungeva ad un filetto di trota che bolliva
in padella.
-Eravamo al parco, abbiamo perso la
concezione del tempo.
-Siete incredibili, neanche il tempo di
finire la scuola che già siete in giro a bighellonare a tutte le ore.
Chiara le si avvicinò per
darle un abbraccio.
-Ma ce lo siamo meritate, vero? Abbiamo
lavorato sodo quest’anno.
Margaret sospirò, sapeva
che sua figlia aveva ragione.
-Sì, ma questo non impedisce a voi
signorine di rispondere alle chiamate!
-Non devi sempre preoccuparti per me! Ho
quasi diciassette anni mamma!
-Già, una vera donna vissuta… ne riparliamo
dopo questo weekend che passerai sola a casa, piccola, voglio vedere come te la
cavi senza chiamarmi nemmeno una volta! Te l’ho detto, vero, che io e tuo padre
abbiamo anticipato la nostra piccola vacanza? È incredibile quell’uomo, non
riesce a trovare un momento libero neanche d’estate! Bisogna approfittare del
periodo poco impegnato. Ma tranquilla… saremo di ritorno per lunedì, in tempo
per vedere la tua pagella di quest’anno.
-Vedrai che non vi deluderò, sono una
figlia modello, io!
Chiara cercò di non farsi
notare mentre sorrideva sorniona. Oh, aveva già piani per quel fine settimana.
E di sicuro non avrebbe sentito alcun bisogno di chiamare sua madre.
Salve ragazzi! Qualche
nota prima di continuare la lettura del capitolo. Intanto, grazie a tutti
quelli che stanno continuando a leggermi. Grazie a chi lascia recensioni e chi
semplicemente visualizza, mi fa molto piacere avere pareri e più ne ho più sono
motivata a continuare la storia. Grazie ancora! In secondo luogo, vi consiglio
di ascoltare (magari proprio mentre state leggendo) le canzoni citate in questo
capitolo, per darvi un’idea di quale sia l’atmosfera in cui sono immersi i
personaggi.
Ci vediamo molto
presto con il prossimo capitolo!
Deirbhile
***
-Ma che significa che non verrai in
spiaggia?
Flavio si sporse
attraverso il tavolo del Black Devil, facendo
quasi rovesciare la birra scura che aveva ordinato. Ivan, dall’altra parte,
alzava le mani con fare pacifico.
-Hey,
calma amico, ho solo suggerito di spostare la data, questo fine settimana non
ci sono.
-E sentiamo, cos’è che avresti da fare da
non poter rimandare per lo storico fine settimana con i tuoi storici
amici? – domandò sarcastico, ingollando un sorso di birra e pulendosi la bocca
col dorso della mano.
Lì accanto, Carmen
parlottava con Sabrina e Michela e Andrea sembravano assorti in uno dei loro
melensi momenti di coppia.
-Ho… un impegno in famiglia- mormorò infine
Ivan, palesemente non convinto della scusa che gli era uscita.
-Ma si può sapere cosa prende a tutti, eh?
Sono settimane che programmiamo questa gita, quest’anno possiamo anche dormire
in spiaggia, e voi ve ne state lì come pesci lessi senza dire una parola!
Chiara, dammi una mano tu!
Chiara fu riportata alla
realtà da un colpo sotto al tavolo. Carmen le fece segno che Flavio stava
parlando proprio con lei e che doveva rispondere. Si schiarì la gola, cercando
di non sembrare imbambolata. La verità è che non aveva seguito nemmeno una
parola di quello di cui stavano discutendo i suoi amici.
-Cosa posso fare per te? - gli chiese
infine, con un sorrisetto accondiscendente. Flavio alzò le mani al cielo.
-Dammi una mano a convincere questa massa
di zombie a venire con noi in spiaggia! - esclamò allo stremo.
Chiara lo guardò con le
sopracciglia alzate, in un’espressione lievemente colpevole.
-È che… anche io sono impegnata questo fine
settimana.
-AH! Tradimento!
Basta, io me ne vado!
A quel punto intervenne
Carmen che, dando le spalle a Sabrina, si rivolse direttamente all’amico.
-Vieni, tesoro, andiamoci a prendere
un’altra birretta, che dici? Così calmiamo questo tuo animo tempestoso.
-Ma… la spiaggia!
-Ci andremo, tranquillo, possiamo
semplicemente rinviare al weekend dopo le pagelle. Così sì che avremo qualcosa
da festeggiare.
-Siete incredibili! Gli amici prima di
tutto e poi abbandonate le tradizioni! Spero solo che non ci sia di mezzo
qualche donna…
Ma ormai Carmen lo aveva
trascinato di peso al bancone e nessuno si accorse della risata che Chiara e
Ivan stavano cercando di trattenere.
Nel frattempo, invece,
Sabrina continuava a fissare di sottecchi Chiara, cercando di capire se fosse
il caso o meno di dirle quello che aveva visto. Era passata esattamente una
settimana, e la rabbia le era sbollita, senza contare che il giorno dopo
sarebbe finalmente uscita con Riccardo e questo la metteva in uno stato d’animo
decisamente positivo. Forse doveva solo fare la mossa più matura, parlare con
Chiara senza metterle pressione, e comportarsi da buona amica. Ma l’argomento
era ormai stato dimenticato e a nulla erano valsi i suoi tentativi di
riportarvi l’attenzione di Carmen ed Ivan. Chiara, neanche a dirlo, anche
quella sera era su un altro pianeta. Che la stesse evitando? Questo pensiero la
innervosì di nuovo.
-Chiara, hey, ti
va di uscire a fumare?
Chiara alzò le spalle.
Non era una grande fan della nuova abitudine di Sabrina, ma si era ormai
dimenticata della serata nella Mini- era evidentemente presa da altri pensieri,
molto più impellenti- e nella generale distrazione non le venne in mente che
forse l’amica cercava di stare sole per chiacchierare un po’. Uscirono nella
serata quasi estiva, mite, con un venticello dolce e fruttato. Sabrina tirò
fuori il suo accendino fluorescente e si accese un drum.
-Sai che domani vado al cinema con
Riccardo? Volevo avvisarti, sai, per sapere se per te va bene.
Chiara la guardò con un
po’ di sorpresa. Aveva capito già da qualche tempo che Sabrina provasse
qualcosa per lui, per cui le sembrava più che logico che dopo la sua uscita di
scena avesse tentato di giocarsi le sue carte. Ciò nonostante, era ancora amareggiata
per aver perso i rapporti con Riccardo e la ferita rimaneva aperta. Si sentì
triste al pensiero che Sabrina ora per lui contasse di più di lei, Chiara, semplicemente
per il fatto che da Sabrina non era (e non sarebbe) stato rifiutato, ma in cuor
suo capiva che era più che normale, e quanto più velocemente lui fosse riuscito
a superarla, maggiori erano le speranze di ricucire la loro amicizia. Senza contare che anche lei ormai covava un po’
di risentimento e non era di certo molto flessibile in alcuni ragionamenti: buono
ed innocente com’era, aveva comunque preferito mentirle facendole credere di voler
solo la sua amicizia e- una volta non ottenuto più di questo- si era dileguato
nel silenzio generale. Perché non aveva combattuto almeno un po’ per salvare il
loro bel rapporto? Da quanto tempo covava i suoi sentimenti? Chiara
aveva smesso di pensarci da un po’, ma gli occhi felici di Sabrina le avevano
fatto tornare tutto a galla per qualche minuto.
-Mah, figurati. Anzi mi fa molto piacere…a
te lui piace, non è vero?
Sabrina cercò di non
sorridere mentre aspirava un tiro, ma annuì. Quello che in realtà si stava
chiedendo, dietro la sua coltre di tabacco Virginia, era come fosse possibile che
le cose fra Chiara e Riccardo fossero finite così male. Più ci pensava e più
capiva che l’ipotesi di una sua relazione con Della Corte non solo fosse più
che plausibile, ma anzi fosse l’unica spiegazione per la piega improvvisamente
inaspettata che aveva preso la faccenda. D’altronde, non c’erano già forse
stati i segnali? Più indietro andava e più le pareva che non ci fosse alcun
dubbio. Allora perché Chiara, maledizione, non la degnava di una sola parola?
-Alla fine, sono felice che voi due non vi
siate messi insieme. A proposito di questo, ecco…- stava per chiederle qualcosa
riguardo alla sua vita sentimentale (nella speranza di preparare un terreno
propizio alla confessione), quando a Chiara squillò il cellulare e con un gesto
frettoloso si allontanò di qualche metro, lasciandola lì da sola, senza molte
cerimonie, a finire la sigaretta.
-Come non detto- sospirò, e se ne tornò dentro,
funerea.
**
-Ciao, come sta andando la serata? È
tutto okay per domani, vero?
-Sì, i miei dovrebbero partire nel
pomeriggio. Puoi venire da me verso le sei. Poi ordiniamo da mangiare.
-Messicano?
-Sì, e stavolta prometto di non
addormentarmi.
-Lo spero…
**
-Chiara! Scendi, noi stiamo per andare!
La voce di Matteo risuonò
per le scale arrivando fino alla camera di Chiara, che nel frattempo stava
cercando di sistemare il caos lasciato in giro in quegli ultimi giorni. La scuola
era praticamente finita con le ultime interrogazioni, e si era lasciata un po’
andare, per cui non voleva che Roberta vedesse tutto quel disordine. E poi,
sistemare era sempre stato un modo per calmare i nervi e lei ne aveva
decisamente bisogno. Aveva messo in sottofondo Bruno Mars, e in quel momento
suonava Locked out of Heaven. Era
giusto persa a pensare a come quella canzone le ricordasse (vagamente, era pur
sempre ubriaca) il suo primo bacio con Roberta, quando fu interrotta dagli
schiamazzi dei suoi genitori. Margaret stava controllando ossessivamente tutte
le porte per verificare che si chiudessero e l’allarme funzionasse
correttamente, mentre suo marito aveva trascinato i bagagli in cucina ed era
pateticamente seduto sul divano con una faccia sconsolata.
Chiara, entrando in
salotto, rise della sua espressione.
-Sembra che tu stia andando al patibolo,
papà.
Margaret le si avvicinò,
poggiandole un braccio sulle spalle, e aggiungendo: - Ormai le vacanze gli
fanno questo effetto, love. Ma non temere, ci divertiremo!
Avrebbero passato quei
due giorni in montagna, sull’Appennino, immersi nella natura e con poca linea
telefonica. Sua madre l’aveva avvisata della difficoltà nelle comunicazioni,
dicendole di non preoccuparsi se non avrebbero risposto al primo squillo. Di
nuovo, Chiara pensò che l’idea di chiamarli non le avrebbe sfiorato nemmeno
l’anticamera del cervello. Cosa sarebbe successo, invece, non osava
immaginarlo, ma in ogni caso aveva fatto pace con l’idea che sarebbe potuto
succedere di tutto come niente. Aveva cercato di concentrarsi, pensarci
seriamente… stava davvero per perdere la sua verginità? E cos’era, in realtà,
questa fantomatica verginità? Per quanto fosse ignorante in materia, non
pensava fosse chissà che cosa. Per come la vedeva lei, sarebbe potuto succedere
anche fra cinque anni. A lei non importava di perdere proprio niente, se non di
guadagnare tempo insieme a Roberta che, lo sapeva, era la persona con cui
avrebbe voluto condividere quel momento.
La verità- pensò dopo
aver salutato affettuosamente i suoi genitori- era che lei non aveva mai
davvero pensato al sesso. Prima di conoscere Roberta, non sapeva neanche che
certe sensazioni potessero essere provate in una maniera così intensa. Certo,
era un’adolescente, e l’idea del sesso si era in qualche modo fatta spazio nel
suo piccolo universo almeno dai tredici, quattordici anni. Ma era qualcosa di
lontano, qualcosa che riguardava gli altri, attorniato da un misto di terrore e
fascinazione che forse tutti, in quei primi momenti di consapevolezza, sentiamo.
Fra le sue amiche, in ogni caso, nessuna era mai arrivata a quel punto: c’era
stata Carmen e il suo primo fidanzato, di cui lei si era prontamente scocciata
dopo un mese- e Sabrina e le sue innumerevoli cotte. Con Riccardo non ne
parlava mai, anche se sapeva che probabilmente era l’unico ad aver già vissuto
quell’esperienza, data la sua lunga storia con quella sciroccata di Monica.
Insomma, gira e rigira di questo non se n’era mai parlato se non in sussurri
divertiti e a proposito di altre persone. Chiara non si sentiva mai
completamente a proprio agio, ed era grata quando l’argomento veniva
accantonato per uno più pacifico, ma quello che rimaneva era una sorta di curiosità
sotterranea e astratta, come a dire: chissà cosa succederà a me.
Sedendosi sul divano,
fissando la porta d’ingresso e l’orologio ad intermittenza, continuò a
rimuginare. Che cosa significa davvero condividere una cosa del genere con una
persona? Io sono pronta?Farò qualcosa di sbagliato, sarò ridicola?
Ma di nuovo, pensò di essere così fortunata ad avere Roberta. Lei non avrebbe
mai riso, né l’avrebbe mai giudicata. E, soprattutto, se lei non si fosse
rivelata pronta- alla fine- l’avrebbe tranquillizzata e tutto sarebbe finito
lì. Roberta la capiva, ci era passata. Pensò a quanto dovesse essere stato
doloroso per lei essere sul punto di vivere quell’esperienza con Massimo, o con
chissà quanti altri ragazzi prima, persone che non le suscitavano nulla, ma che
da lei volevano solo accondiscendenza, senza un minimo di empatia.
Non era così ingenua da
pensare che la verginità si dovesse per forza perdere con qualcuno di
sentimentalmente importante. O meglio, di fisso. Era plausibile per lei volere
Roberta in quel senso anche se non fosse stata la sua ragazza. Quello che non
capiva però era perché le persone- ragazze e ragazzi- si affrettassero tanto in
quella corsa a chi arrivasse prima, accontentandosi così di vivere situazioni
senza il minimo di interesse o consapevolezza.
Aggiungendo il fatto che
Chiara non aveva mai nemmeno sperimentato da sola che cosa significasse il
piacere- tranne fugaci sogni notturni o episodi così sporadici quanto imbarazzanti
per lei da ricordare- si trovava in una situazione incredibilmente nuova. Era
come se di colpo le si fosse rivelato di fronte un burrone profondissimo e ne
fosse senza remore attratta, senza neanche sapere che cosa avrebbe trovato alla
fine. Certo doveva ammettere (anche se difficilmente lo avrebbe fatto) che, da
quando aveva capito di preferire le ragazze (Roberta) al resto, un paio di
tasselli le si erano aggiustati e aveva capito molte cose. In più, di notte,
aveva più volte sognato con una nitidezza imbarazzante che cosa le sarebbe
piaciuto succedesse con lei. Ma a parte questo, rimaneva ermeticamente chiusa
persino a se stessa e aveva tanta paura- e voglia- di scoppiare senza preavviso.
Mentre rimuginava su
questi e altri pensieri qualcuno suonò al campanello e, attraverso il vetro
traslucido della porta, scorse la sagoma di Roberta.
**
-Che ne dici di Monster&Co.?
Roberta alzò la testa
dalla spalliera del divano, su cui si era buttata ciondoloni dopo aver finito
di mangiare i suoi tacos- sembrava stesse fissando il
soffitto assorta, preoccupata o semplicemente rilassata, questo Chiara non
riusciva a dirlo- e si girò verso il televisore in fondo alla stanza.
Chiara, in piedi fra una
marea di vecchi dvd, cercava di capire che cosa farne del resto della serata.
Un film era la cosa migliore. Si sentiva stanca, ma di una stanchezza più
simile al torpore, alla calma placida e calorosa che assale durante le giornate
di vacanza. Fuori si era alzato un bel venticello fresco, avevano deciso di
lasciare le porte aperte per far entrare un po’ d’aria. Roberta, coi capelli
legati in una crocchia e il viso bianco, senza trucco, le sembrava più bella
del solito.
Si perse per un po’ a
pensare alle sue labbra rosa, alle ginocchia scoperte dai pantaloncini, ai suoi
polsi sottili, e presa com’era dal decidere che film mettere su (l’avrebbero
poi visto? Questo non voleva chiederselo, era già abbastanza in panico), non si
accorse che Roberta si era avvicinata a lei. Urlò quando la sentì abbracciarla
da dietro e poggiarle la testa sulla spalla.
-Dio, mi hai spaventata!
Roberta, per tutta
risposta, si mise a massaggiarle le spalle, trascinandola a sedersi sul
tappeto.
-Sei molto tesa, c’è qualcosa che non va?
Il suo tono era
innocente, come se davvero non sapesse che cosa stesse passando per la testa di
Chiara, a cosa fosse dovuta quell’elettricità che era anche più percepibile del
solito. Chiara iniziò a pensare che fosse tutto nella sua testa, che forse
Roberta non stava pensando alla stessa cosa. Insomma, avere sedici anni e mezzo
e la casa libera non doveva significare per forza qualcosa.O no?
Oddio, finirò per
impazzire, sono già completamente impazzita. Chiara ragiona, su!
-Hey,
Chiara, parlo con te.
Si vide sventolare una
mano davanti agli occhi e solo a quel punto tirò un profondo sospiro, girandosi
per poter guardare Roberta negli occhi. Erano blu, rilassati, sorridenti.
-Scusa, è che pensavo che dopo quello di
cui avevamo parlato l’altro giorno, insomma…
-Ti ha messo pressione?
-Cosa!? Oddio, no…
Roberta alzò un
sopracciglio, trattenendosi per non ridere alla goffaggine della sua ragazza.
-Ti ha messo decisamente pressione.
-Ma se ho iniziato io l’argomento!
Si sentì trascinare a
sedere sul divano, poi che Roberta le prendeva le mani fra le sue e si adagiava
mollemente allo schienale, cercando di mantenere un contatto visivo. Nessuna
traccia del nervosismo che Chiara sapeva di star trasmettendo in quel momento. Perché?
-Lo so, e hai fatto bene, ma questo non
significa che non possa farti paura. Mi capisci?
La rossa alzò le spalle,
colta un po’ in contropiede. Roberta aveva ragione, odiava quando era così
matura. Si sentiva una bambina capricciosa, ma allo stesso tempo le era
profondamente grata. Tutto, tutto le faceva pensare che Roberta fosse la
persona giusta al momento giusto. Non aveva ormai più alcun dubbio.
-Sì, dio, sei così ragionevole.
-E questo è un male?
Risero tutt’e due, poi
Chiara si accoccolò più vicina a Roberta e chiuse gli occhi.
-Quant’è bello poter stare così insieme,
tranquille, senza la paura che qualcuno ci stia guardando.
Si guardarono e si
strinsero più vicine. Chiara sentì la pelle del braccio arrossarsi a contatto
con quello di Roberta, e il suo petto alzarsi e abbassarsi sotto la camicetta
rosa che indossava. Tutto scorreva lento, e i battiti del suo cuore risuonavano
sempre di più come rintocchi violenti, decisi, di un calore indescrivibile.
Rimasero così una decina di minuti, senza parlare, poi Roberta si alzò per
andare a frugare dietro ai cavi del televisore.
-Ma che fai? - rise Chiara, un po’
intontita.
Si sarebbe potuta addormentare in quel
momento, stesa addosso a Roberta, sentendo il suo cuore che le batteva. Era una
delle cose più belle che avesse mai vissuto. Ma si ricordò della sua promessa
(ridicola) di non addormentarsi: la sola idea che quella notte sarebbero state
insieme, nello stesso letto, bastava a tenerla più che sveglia.
-Sto cercando il cavo giallo, quello per collegare
il cellulare, così metto un po’ di musica. Ti va?
Una delle ultime
ossessioni di Roberta era proprio quella di fare playlist di canzoni preferite,
ne mandava una a Chiara quasi ogni settimana, ed era innegabile che aveste un
gusto musicale decisamente originale e per niente scontato. Aveva fatto
scoprire a Chiara molta musica nuova, dal folk inglese al vecchio rock n’ roll, ma soprattutto sembrava avere una predilezione
speciale per tutto ciò che creasse una bella atmosfera. Diceva che la aiutava a
dipingere, che ad ogni suono associava un colore- e che in base a quello, e al
suo umore, decideva di che cosa avesse bisogno quel determinato giorno. Quando
ebbero sistemato tutto, a Chiara venne un’altra idea.
-Vieni, usciamo in giardino. La musica si
sente anche da lì, e il filo è abbastanza lungo.
Roberta la prese per mano
e si stesero sull’erbetta appena tagliata dell’aiuola di fronte al salotto. La
prima canzone, una cover di ElecticFeeldegli MGMT di Henry Green, sembrò così perfetta
fin dalle prime note che entrambe ne rimasero incantate. Le luci delle case dei
dirimpettai, la frescura notturna, il tocco della terra e dei fili d’erba sotto
le mani, tutto converse in un’unica sensazione di morbidezza, calma e intimità
che sia Chiara sia Roberta non osarono aprire bocca per paura di rovinare
qualcosa.
Rimasero stese, l’una di
fronte all’altra, finché Chiara- avvicinandosi, non dopo aver sussurrato un
timido Posso? – non lasciò un bacio lievissimo e fugace sulle labbra
dischiuse di Roberta. La musica era lenta, soffice, e lei sembrò modulare il
suo tocco su quelle note, mentre Roberta le passava una mano dietro la nuca e approfondiva
il contatto.
C’era una cosa curiosa
che Chiara non avrebbe mai voluto ammettere. Quando Roberta la baciava così
(senza paura che qualcuno le stesse guardando, senza paura di doversi fermare-
cosa che era successa forse due o tre volte in tutto, incluso il loro primo
bacio) lei sentiva qualcosa di ancora più forte che le farfalle nello stomaco.
Sentiva come una sensazione di calore che si espandeva fino a farle girare così
tanto lo stomaco che finiva per sentirsi come su una montagna russa. Il suo
primo impulso era sempre quello di scendere, di staccarsi per tornare
all’equilibro (una volta aveva avuto paura di sentirsi così perché aveva
mangiato qualcosa di strano, ma no… era quel piacere così sottile eppure
violento che a stento lo distingueva da un dolcissimo dolore), ma questa volta
non voleva.
-Ascolta, voglio raccontarti una cosa
divertente.
Roberta, aprendo gli
occhi, le sembrò essere arrossita. Aveva gli occhi liquidi, Chiara non riusciva
a spiegarsi che cos’è che fosse cambiato ma non c’era più traccia né di calma
né di timore. Solo una pervasiva sensazione di non volersi più fermare. Quando
aprì bocca sembrò stesse facendo uno sforzo per dire qualcosa di coerente, la
voce roca e bassa.
-Che cosa?
-Quanto mi baci così a volte penso di star
per vomitare… no aspetta, non pensare male.
Roberta rise, Chiara poggiò
la fronte contro la sua.
-Ho lo stomaco così sotto sopra che mi
sento su una macchina a trecento chilometri all’ora. Non riesco a controllarlo,
è come una vertigine.
-È una cosa molto originale essere nauseate
dalla propria ragazza!
-Smettila, come se a te non capitasse.
Di nuovo, si fecero più
vicine. La musica continuava, con toni mellow
e psichedelici, in un’atmosfera onirica.
-A me succede questa cosa, mi sento il
sangue alle dita e tutto fluisce dentro di me. A volte penso di scoppiare- si
indicò le dita, - come se tutto si concentrasse qui e mi facesse sentire nello
spazio.
-Ci pensi che tutto questo è a causa degli
ormoni che abbiamo studiato con Abbatelli…
-Chiara!
-Cosa?
-Stai blaterando. Vieni qui.
Chiara non ebbe il tempo
di chiudere gli occhi che già Roberta era tornata a baciarla, questa volta, sembrava,
con nessuna intenzione di lasciarla parlare di nuovo, men che meno di chimica,
nausea o professori vecchi e scorbutici. Suonava A shitty
love songdi Jye e
Chiara si sentì così emozionata che era sicura avrebbe pianto, se non avesse
sentito le braccia di Roberta così calorosamente attorcigliate dietro la sua
schiena, e le loro gambe intrecciate, a sfregarsi.
**
Benedetta, uscendo al
casello autostradale, gettò un’occhiata all’orologio digitale della sua Fiesta.
Si chiese se Chiara stesse già dormendo, loro che non si vedevano ormai da
quando l’aveva accompagnata a quella festa di diciotto anni. Si chiamavano
spesso, certo, ma aveva paura che la sua sorellina stesse attraversando un
periodo strano e non ne volesse parlare per telefono. L’ultima volta che
l’aveva vista c’era qualcosa che la turbava, e per quanto sua madre pensasse
fosse a causa di una storia con Riccardo, a lei non l’aveva mai contata giusta.
Riccardo era un ragazzo tanto carino, ma col tempo si era resa conto- senza
farne ovviamente parola, visto che sua sorella sembrava essere così riservata-
che a Chiara il suo amico non piacesse sul serio. La conferma era arrivata
direttamente da Chiara che, probabilmente al culmine della disperazione, aveva
deciso di confidarsi con lei in quella notte insonne di qualche mese prima. Da
quel momento in poi, nessuna parola. Durante le loro chiamate, l’argomento non
era stato più toccato e Benedetta aveva semplicemente presunto che tutto fosse
finito. Chiara era una ragazza così ermetica, così chiusa su certe cose-
soprattutto quando si parlava di affetti o di dolori- che Benedetta si trovava
a volte in seria difficoltà su come affrontarla. Come sorella maggiore, sentiva
forte il peso di esserle in qualche modo d’aiuto, di guidarla magari in esperienze
che lei aveva già fatto. Ma Chiara era un paradigma diverso e non l’avrebbe mai
forzata a parlare o a confidarsi, come avrebbe insistito con un’amica, perché
sapeva che questo avrebbe potuto produrre un effetto contrario.
Provò a chiamarla al
cellulare, per non spaventarla- sapeva quanto Chiara fosse fifona, aveva paura
del buio e di stare troppo a lungo sola in casa- ma alla terza chiamata a vuoto
decise che non c’era altro modo che farle una sorpresa in piena regola. Dopo
tutto, Chiara stava sicuramente leggendo o chiacchierando con Carmen e Sabrina,
erano solo le undici- magari avevano fatto un po’ di caos cucinando uno dei
loro esperimenti, ma sapeva che di sicuro non avrebbe interrotto nessun festino
stile telefilm americano.
-Bentornata, Ben- si disse, quando arrivò a
svoltare nel vialetto di casa.
**
-Aspetta, aspetta…
-Cosa? Sto sbagliando qualcosa?
-No… è perfetto, è che… ho sentito
il rumore… di una macchina.
-Sei sicura? Io non ho sentito niente.
-Chiara! Oddio… smettila! Qualcuno sta entrando… dal cancello…
-Merda!
Hai ragione.
Roberta fece appena in
tempo a tirarsi su e a sistemarsi i vestiti, mentre Chiara cercava di rimettersi
le scarpe e darsi un’aria di serietà e contegno (cosa impossibile, visti i suoi
capelli rossi scarmigliati, segni sospetti alla base del collo e macchie d’erba
sui pantaloncini), quando la testa bionda di Benedetta attraversò il vialetto
buio accanto a loro.
-Chiara, ci sei? Sei dentro? Sono io, Ben,
tranquilla… nessun ladro!
Roberta sospirò,
passandosi una mano sul viso.
-Sarebbero stati meglio i ladri, almeno
avremmo potuto finire di nascosto…
Chiara non poté far a
meno di ridacchiare e, cercando di baciarla un’ultima volta- fra le risate di
tutt’e due- rispose: - Sì, Ben! Sono qui, c’è Roberta con me!
In sottofondo ancora
andava Teen sex degli infinitebisous.
Roberta fissava il
soffitto di camera di Chiara, stretta com’era accanto a lei, con Benedetta
qualche metro più in là, nella stanza di fronte al corridoio. Non si capacitava
ancora della sfiga immensa che avevano avuto, ma cercava di respirare
piano per non attirare l’attenzione: erano le due del mattino. Quanto era
strana quella situazione? Solo qualche ora prima, la rossa accanto a lei- sì,
proprio lei, la candida piccola della famiglia- era devotamente intenta a
provocarle brividi con vent’otto gradi, mentre ora se ne stava con la schiena
voltata dall’altra parte- facendo finta di dormire o che, Roberta questo non lo
sapeva.
Come poteva descrivere
quello che provava in quel momento? Frustrazione, ma anche sorpresa,
elettricità, voglia che fosse subito mattina e Benedetta se ne andasse alla
stramaledetta biblioteca di paese a ripassare qualche nozione di diritto
pubblico, lasciandole sole in pace. Ricordava, dalle poche parole che suo
fratello sporadicamente le rivolgeva, che era stata la geniale compagna di
classe di Amedeo e che lui stesso ne era rimasto alquanto impressionato quanto
a carisma, gentilezza e simpatia. Di sicuro, non aveva niente a che fare con la
scorbutica fretta mattutina di Chiara, ma neanche- a suo parere- con il suo
meraviglioso fascino da “scrigno chiuso”. Chiara, che probabilmente si era davvero
addormentata, era proprio uno scrigno per Roberta: quanto più era chiusa, tanto
più per lei era di una bellezza mortale vederla aprirsi, parlare a cuore
aperto, senza timidezza né fronzoli, lasciar fluire fuori di sé, via dalla
morsa dei pensieri, parole, gesti e occhiate che di solito non si sarebbe mai
permessa. Le girava la testa al pensiero che fosse per lei, per Roberta, che
questi sprazzi di colore fuoriuscissero senza preavviso, per la sorpresa di
entrambe.
Per Roberta, che amava i
colori- l’essenza
dei suoi disegni un po’ impressionisti- Chiara era il rosso amaranto con cui
disegnava i contorni delle foglie in autunno, il verde brillante degli steli
dei campi, il giallo ocra delle pagliuzze nei suoi occhi. Era una serie di
colori esplosivi chiusi dentro un tubetto di metallo arrugginito. Un tocco, e
il tappo saltava sotto la pressione delle sue dita, macchiandole le mani. Accarezzandole
lievemente la pelle, quella sera, ne aveva avuto la prova. Chiara nascondeva
dentro di sé una forza contagiosa: lei stessa se n’era sentita avvolta, come un
colpo che l’aveva stesa a terra, facendole infilare le mani fra l’erba, nei
passanti dei suoi pantaloncini, per aggrapparsi e non sprofondare.
Chiuse gli occhi,
rassegnandosi, sentendo il respiro morbido di Chiara alla sua sinistra. Era un
lettino singolo, ci stavano strette, ma nessuna delle sue sembrava volersi
nemmeno sfiorare.
Chiara, qualche ora
prima, aveva fatto frettolosamente le presentazioni e Benedetta (che,
probabilmente, la conosceva già attraverso i racconti) stanca per il viaggio si
era intrattenuta un po’ in salotto, per poi discutere sulla disposizione dei
letti per quella notte.
-Mi dispiace aver interrotto il vostro
pigiama party- aveva detto.
Pigiama party!
Roberta aveva cercato di reprimere il rossore e un ringhio un po’ feroce. Tua
sorella dieci minuti fa era intenta a macchiarmi la camicetta di terra e di
certo non era un gioco! Ma era stata zitta, perché voleva fare una buona
impressione su di lei. Il pensiero che un giorno Chiara le avrebbe potuto
rivelare la natura della loro relazione la teneva a bada.
-Dunque, io potrei dormire nel letto di
mamma e papà visto che non ci sono.
Chiara aveva dovuto
probabilmente reprimere una risata alla vista della sua faccia di nuovo illuminata,
come a gridare al miracolo. Ebbene, avrebbero comunque potuto dormire insieme!
Eppure, con Benedetta a letto, Chiara si era infilata il pigiama e, schioccandole
un bacio frettoloso e pieno di vergogna, tutt’e due si erano messe a dormire. O
almeno, ci avevano provato.
Io non capisco, perché non possiamo
riprendere? Magari… Non aveva avuto il coraggio di replicare, anche perché
non sapeva quanto fosse auspicabile continuare a galleggiare nell’atmosfera di
prima, con una sorella a portata d’orecchio e a meno di tre metri di distanza.
Allo scoccare delle due e
un quarto, però, Roberta si alzò agitata. Al diavolo, vado a prendermi
dell’acqua, impazzisco. L’idea di Chiara vicino, delle sue gambe bianche
fra le lenzuola, il modo in cui il cotone della sua maglietta le sfiorava
leggermente il braccio, tutto la faceva letteralmente soffocare. Non pensava
che potesse essere così bello e così dannatamente fastidioso allo stesso tempo.
Dio, è come un prurito che non se ne va. Il sangue le solleticava la
punta delle dita non appena chiudeva gli occhi, o si passava la lingua sulle
labbra. Chiara, Chiara, Chiara.
-Sei sveglia?
Proprio mentre stava per
sgattaiolare via dalla stanza, le mancò un battito. Si sentì risucchiare, come
se qualcuno avesse tolto il tappo della vasca che in quel momento era il suo
stomaco. Gorgogliava, si ritirava dentro se stessa,
sempre più giù.
-Sì, avevo sete.
-Va bene, prendi dell’acqua anche a me.
Saltellò fino al letto,
prese il viso assonnato di Chiara fra le mani e, con un tono di voce acuto che
sembrò ridicolo anche a se stessa- da quanto era
felice, euforico e spontaneo- la minacciò: - Non ti azzardare a
riaddormentarti.
Camminando verso la porta
la sentì ridacchiare sul cuscino e corse a rotta di collo giù per le scale, per
non perdere nemmeno un minuto.
**
Vedendosi davanti
Benedetta, qualche ora prima, ignara nel bel mezzo del loro giardino, Chiara
aveva dovuto reprimere più di qualche parolaccia. Non aveva idea di come avesse
fatto a modulare il suo tono di voce in modo che ne trasparisse solo la sincera
sorpresa, e non il profondo disappunto. Sì, Ben! Sono qui, c’è Roberta con me! Che idiota che si era sentita!
Tutti i suoi sforzi si erano concentrati nel rendere il meno possibile
sospettosa la presenza di Roberta in casa, a partire dal loro aspetto
decisamente sconvolto, i capelli all’aria e i fili d’erba sulla
schiena, la musica, i dischi per terra. Roberta era rimasta zitta finché non le
aveva presentate lei, e avrebbe giurato che la sua mano- nello stringere quella
di Benedetta- tremasse letteralmente dall’imbarazzo. La situazione era
decisamente tragicomica. La prima cosa che le era venuta in mente, camminando verso
la cucina per versare un po’ d’acqua a sua sorella, fu che avrebbe fatto
divertire Carmen e Ivan per almeno una settimana.
-Quanto rimani
qui, Ben?- le aveva chiesto, che tradotto sarebbe
stato quando mi lasci casa libera per fare cose che di sicuro non vorresti
sapere?
Si era seduta accanto a lei al bancone della cucina, e poggiando con
nonchalance il braccio in modo da coprirsi la macchia che aveva sul collo.
Roberta, a quel gesto, le sembrò stesse per soffocarsi con succo d’arancia.
-Tutto okay,
Roberta? Ti serve qualcosa?-
Benedetta le si era avvicinata come per paura che si stesse strozzando
davvero, e Chiara tirò un sospiro di sollievo quando vide che sembrò non
accorgersi che alla base della gola aveva una macchia simile alla sua.
Che Cicerone mi fulmini! Non posso sopportare quest’imbarazzo.
Poi tutto si era risolto quando sua sorella- stanca e con l’unico desiderio
di riposarsi- aveva pacificamente optato per dormire nel lettone dei suoi
genitori e, notando il ghigno di Roberta, Chiara si era morsa il labbro per non
ridere, soprattutto quando l’aveva sentita replicare:
-Sì, e io
dormirò con Chiara, dobbiamo pur farlo questo pigiama party!
Si sentiva fuori di testa, come annebbiata, ubriaca. Ma ciò nonostante,
entrando nella sua stanza e indicando a Roberta il letto, il pensiero che
Benedetta- sua sorella!- fosse dall’altra parte del
corridoio, le mise così tanto panico che si rintanò in bagno a lavarsi i denti
e, al ritorno, spense la luce e senza troppe cerimonie bisbigliò: Buonanotte!
Decisamente, Carmen e Ivan avrebbero avuto di che ridere.
**
Ora, vedendo la testa di Roberta sporgere dallo stipite della porta, e
poi camminare in punta di piedi verso il letto- con in mano due grossi
bicchieri d’acqua- a Chiara venne in mente che i suoi stupidi sforzi di
addormentarsi sarebbero andati bellamente alla malora.
-Chiudi la
porta dietro di te- disse. Roberta le sorrise come una bambina felice davanti
ad un gelato e non contò fino a tre che la porta era già chiusa a chiave (per
sicurezza, avrebbe sempre potuto giustificarsi dicendo che Roberta era sonnambula,
quella sì che era un’idea geniale!) ed era già accanto a lei, invadendo il suo
spazio vitale.
-E ora?
-Beh, non lo
so.
Roberta rise e Chiara pensò di non averla mai vista così spensierata.
-Perché ridi?- e rise anche lei, di riflesso.
-Perché sei bella
e mi fai ridere.
-Vuoi dire che
sono ridicola?- aggrottò teatralmente le sopracciglia.
Roberta le passò un dito sulla fronte, scendendo fino alla punta del naso.
-No, voglio
dire che sei bella.
-Sei di poche
parole stasera.
Chiara la vide mordersi le guance, per non scoppiare di nuovo in una
risata, e poi aggiungere: - Tu me le hai tolte tutte.
-Ugh! Che schifo, quanto sei
melensa!
-L’ho fatto a
posta, scema!
Cercò di darle un colpetto alla testa, ma prima che riuscisse anche solo
ad allungare il braccio- stretta com’era fra il cuscino e il corpo di Roberta-
si sentì prendere il viso dalle sue mani e chiudere la bocca senza grandi preamboli.
Oh bene, questo va molto bene.
-Sei sicura di
continuare con mia sorella accanto?- si concesse il
lusso di domandare, ma ormai la risposta non importava neanche a lei.
Prima o poi avrebbe parlato con Benedetta, era sicura che sua sorella sarebbe
stata comprensiva e l’avrebbe appoggiata in qualunque caso, forse si sarebbe
solo sentita un po’ in imbarazzo ripensando all’episodio di quella sera. Ma per
il resto, forse per la notte ormai profonda e irreale, forse per la porta
chiusa, o forse perché la pelle di Roberta era così calda e rassicurante,
Chiara si sentì solo una normale adolescente innamorata della sua ragazza,
senza grosse questioni come il coming out, il segreto e l’ansia di essere
scoperta. Sarebbe andato tutto bene, in qualche modo ne era sicura.
-Solo se tu
sei sicura.
Roberta sembrò aspettare che lei annuisse, per poi abbracciarla e
aggiungere: - Sei proprio stupenda.
-Anche tu.
-Sono felice di
averti trovato, non condividerei questo con nessun altro al mondo. Grazie.
**
Il giorno dopo, a colazione, Chiara e Roberta sorseggiavano in silenzio
ognuna il proprio tè. I tentativi di Benedetta di fare conversazione erano
stati da lei subito abbandonati quando aveva visto che entrambe, decisamente
assonnate, non avevano la benché minima voglia di aprire bocca. Seduta sul suo
sgabello, le osservava incuriosita. Si era chiesta più volte, da quando Chiara
gliene aveva parlato, come mai fosse nato quell’improvviso e stretto legame fra
le due. Non conosceva bene Roberta- l’impressione che ne aveva ricavato la sera
precedente era breve, seppure positiva- ma conosceva abbastanza sua sorella per
trovarla una cosa curiosa, quel suo modo improvviso di attaccarsi, l’interesse,
il segreto. Non ricordava di averla mai vista comportarsi in questo modo, e se
a questo aggiungeva i sospetti riguardo i suoi ultimi malumori sentimentali, ne
ricavava un quadro piuttosto confuso e del tutto improbabile. Vedendole lì, sedute
l’una accanto all’altra, pacificamente sorseggiando dalla propria tazza, Benedetta
fu pervasa da un improvviso e inaspettato senso di tranquillità, di casa. Finendo
il suo espresso, chiuse gli occhi per un istante e pensò: che bello essere
tornata.
Dall’altro lato del tavolo, Roberta faceva di tutto per tenere gli occhi
aperti. Doveva ammettere che l’idea di non dormire tutta la notte ora le si
presentava in tutte le sue conseguenze, ma l’avrebbe rifatto dieci e cento
volte. Si sentiva la testa leggera, come in un calo di zuccheri, e addentò una
brioche per non stramazzare completamente a terra. Sbirciò Chiara, che teneva gli
occhi sul tavolo e di tanto in tanto mormorava risposte sconnesse a sua
sorella, e non poté fare a meno di soffermarsi brevemente sul suo viso, sulle
sue labbra, sulla pelle d’oca che le si era formata sulle braccia, nell’aria
fresca del mattino. Era in assoluta adorazione. Si impose, però, di non
chiudere gli occhi: si sentiva ancora attraversare dai brevi flash della notte
precedente, come se fosse ancora lì, nel letto in cui Chiara aveva dormito per
tutta la sua vita fino a quel momento, fra le sue lenzuola, il suo odore, la
sua storia che le si svelava piano piano sempre di più. Avrebbe voluto immergersi
dentro di lei, sondarla, conoscere ogni spazio che le fosse stato concesso. Questa
sua fame di informazioni, di contatto, era una cosa più forte di lei. Più conosceva
Chiara, più stava con lei, e più se ne sentiva completamente inondata. È la
stessa curiosa sensazione che viviamo tutti, quando ci innamoriamo. Il mondo si
riduce ad una piccolissima finestra attraverso cui vogliamo vedere solo l’altro.
Le sue labbra rosse, i suoi sospiri, le sue risatine prontamente soffocate per
non destare sospetti, la pelle del suo collo, delle sue orecchie. Roberta avrebbe
voluto dipingere tutto, ma quello che ne sarebbe uscito sarebbe stata solo una
grossa nube bianca, densa, penetrante come la nebbia. Come il primo orgasmo che
aveva mai davvero provato in vita sua.
Chiara, pochi centimetri più in là, non andava troppo per il sottile nei
suoi pensieri. Ora che abbiamo aperto il vaso di Pandora- e rise dentro
di sé a questa curiosa metafora- non ho idea di come riusciremo a gestirlo. Per
fortuna, la scuola è finita e abbiamo tempo. Aveva l’impressione di aver
scoperto qualcosa di molto importante, quella notte, qualcosa che andava al di
là di ciò che era successo: si era scoperta sicura, forte, in grado di affrontare
una situazione completamente nuova con coraggio e dedizione. Era felice oltre
ogni misura che Roberta la stesse aiutando a conoscersi tanto, e sapeva che lei
stava facendo lo stesso per la sua ragazza. Non aveva nessuna idea di come ci
era riuscita, ma qualcosa aveva fatto click nella sua testa e l’ultima cosa
che ricordava di aver pensato era se Roberta stesse reprimendo dolore o
piacere. Quanto a lei, non aveva alcun dubbio, era stato come esplodere.
-Chiara, ci
sei?
Benedetta le schioccò le dita davanti agli occhi e lei tornò in sé.
-Sì, sono solo
stanca.
-Ah, i pigiama
party liceali, sapeste quante volte mi sono ritrovata così. Sappiate solo che
all’università va sempre peggio…
Chiara alzò un sopracciglio e Roberta rise e tutt’e tre si alzarono per
sistemare la cucina. Quando Benedetta effettivamente uscì con le sue vecchie
amiche per un caffè, né Chiara né Roberta ebbero alcun dubbio. Si guardarono e,
ridendo, dissero all’unisono:
Chiara, roteando gli occhi,
nascose il viso nella sua immancabile tazza di tè. C’erano trenta gradi, e lei,
Ivan e Carmen erano seduti ai tavolini del bar più frequentato del centro storico.
Quel giorno sarebbero
uscite le pagelle di fine anno, Benedetta era a casa a ripassare per un esame
(alla fine aveva ammesso di non voler tornare a Perugia perché quell’esame la stava
facendo impazzire, e quella che doveva essere solo una brevissima visita per
non lasciare sola la sorella si era trasformata nella settimana di terapia
familiare). I suoi genitori erano tornati in men che non si dica al lavoro, e
nel turbinio generale non avevano neanche raccontato alle ragazze come se la
fossero passata in montagna. Roberta, infine, il giorno dopo (cioè la domenica,
solo ventiquattro ore prima) il suddetto avvenimento secolare, se l’era filata
a casa dall’imbarazzo, non prima però di aver approfittato delle poche ore di solitudine
concesse a Chiara dal ritmo di studio di Benedetta.
Alle tre del pomeriggio
della domenica, infatti, era tornata a casa sbattendo la porta, facendo
ricordare immediatamente ad entrambe una cosa importante: non avevano toccato
cibo da ore.
Chiara ci ripensò,
prendendo un altro sorso di tè alla pesca, per non rispondere. Gli sguardi di Ivan
e Carmen erano morbosamente complici, e lei si sentiva felice ma un po’ sotto
osservazione.
-Cosa volete che vi dica?
-Tutto!
Per fortuna Ivan fulminò
Carmen con uno sguardo, aggiungendo: - Beh, non proprio tutto. Abbi pietà di
me.
-Che scemo. Non ho molto da dire. È stato
bello.
Carmen si allungò sul
tavolo, abbassando la voce. Girandosi intorno, aveva visto un paio di volti
familiari. Il liceo era a qualche isolato, non sarebbe stato strano incrociare
qualche compagno di classe, o gente di altri anni e sezioni. Tutti passavano di
lì per un caffè veloce, una bibita per festeggiare o una birra per brindare
alla propria bocciatura. La paura di farsi sentire da orecchie indiscrete,
però, non le impedì di insistere:
-Cioè?
Chiara alzò le spalle,
sbuffando, in una piccola risata.
-Cioè bello.
-Certo che per essere una tanto brava ai
temi di italiano, sei proprio di poche parole!
A quel punto intervenne Ivan
in sua difesa.
-Andiamo Carmen, magari è in imbarazzo. Vero,
Chiara?- ma non le diede neanche il tempo di rispondere
che già, rincarando la dose, si lasciò scappare sotto voce Ti è piaciuto?
-RAGAZZI! Mio dio, mi sento così in
imbarazzo!
-È a questo che servono gli amici, vero?
Chiara finì il tè e
chiamò uno dei camerieri per pagare. Aveva preso appuntamento con Sabrina quella
mattina, ma incalzata da quella coppia di demoni assetati di gossip, aveva la
sensazione di essere innetto ritardo. E lei, da brava Torri, non era mai in ritardo.
-Oddio, sono già le undici e mezza! Ragazzi,
devo andare.
-Ma no, rimani ancora qui! Non ci hai
ancora detto di che colore porta le mutande Della Corte!
Chiara, voltandosi con il
suo solito sopracciglio ben alzato, sentenziò: - Nere.
E se ne andò, salutando
velocemente dei ragazzi di prima a cui dava ripetizioni di chimica. Aveva detto
a Sabrina che si sarebbe fatta trovare nel parcheggio della scuola alle undici
meno un quarto, questa non gliel’avrebbe perdonata.
**
Roberta, dall’altro lato
della città, si era alzata molte ore prima quella mattina. Da quando era tornataa casa il
giorno prima, non riusciva a stare ferma. Fiondandosi in camera sua, senza
neanche salutare suo padre che- per puro caso- era in casa, aveva iniziato a
scarabocchiare disegnini stilizzati sul suo album. Avrebbe voluto avercelo
dietro quella notte, per poter ritrarre Chiara. O era una richiesta troppo
imbarazzante? Insomma, non è che la volesse ritrarre nuda. Ma- pensava- non
ho mai fatto un ritratto di nudo, e sarebbe interessante. Per fini accademici,
ovvio.
Aveva messo a ripetizione
la canzone ascoltata quel sabato, nella versione originale, e ora se ne stava a
pancia in su sul letto, ora si alzava per mettersi a sistemare vestiti, libri, senza
riuscire a smettere di muoversi al ritmo della musica. Baby girl, shock me
like electricfeel.
Fu solo quando suo fratello-
anche lui stranamente in casa- le bussò alla porta per chiederle di abbassare
il volume, che si rese conto di indossare ancora i vestiti del sabato e, sotto
il suo strano sguardo accusatore, se l’era filata in bagno a farsi una doccia.
Ora, alle undici del
lunedì, continuava a sentirsi euforica.
-Roberta! C’è qualcuno al telefono per te.
Scese velocemente le
scale, saltando i gradini, a piedi scalzi. Entrò nell’enorme cucina bianca e
immacolata, trovando sua madre in tutto il suo splendore (probabilmente in
procinto di raggiungere suo padre nel suo ufficio legale) in piedi con la
cornetta in mano.
-Chi è?
Senza sapere perché,
rallentò il passo e corrugò la fronte. Aveva in programma di andare al liceo più
tardi, magari vedere Chiara (magari farsi un giro in macchina…), ma aveva la
testa ancora così annebbiata che le sembrava di essersi appena svegliata da
giorni. Spalancò leggermente gli occhi quando sua madre, muovendo le labbra,
sussurrò: Vanessa.
-Passamela.
C’erano stati pochi momenti
in cui Roberta si era sentita tanto irrazionalmente spaventata come nell’istante
in cui si accostò il cordless all’orecchio.
C’era qualcosa che
continuava a trascinarla giù, mentre tutto ciò che voleva era continuare a nuotare
verso la superficie, arrivare all’aria, godersi il vento, libera, sola. Erano passati
mesi da quando aveva sentito per la prima volta una folata di quell’aria fresca
(non da quando aveva conosciuto Chiara- non era riuscita a capirlo da subito-
ma un po’ più in là, forse dal suo compleanno), che non era solo il suo nuovo
sentimento d’amore- qualcosa di mai provato prima, ora poteva dirlo con
certezza- ma anche un sentimento di pace con se stessa.
Nell’ultimo periodo, svegliandosi,
si guardava allo specchio e sorrideva. Pensava di essere bella senza trucco,
che dipingesse bene e valesse la pena darsi una chance per fare di quella
passione un piccolo lavoro (mostrare i suoi schizzi sarebbe stato impensabile
solo un anno prima), pensava di essere fortunata ad essere Roberta Della Corte
e non qualcun altro. Certo, la sua famiglia non era mai stata particolarmente
affettuosa, con tutto quel lavoro e quei soldi che giravano a nessuno davvero
importava se si facesse colazione soli o in compagnia. Ognuno aveva la sua
vita: suo padre era talmente immerso in sé stesso che si era portato via anche
sua madre, suo fratello non poteva biasimarlo. Aveva cercato la felicità altrove
e a volte aveva l’impressione che i suoi amici fossero la sua vera famiglia. Amedeo,
al contrario di lei, era stato fortunato: in mezzo alla marea di superficialità
che lei sentiva nel suo mondo- tutti quei figli di papà, vestiti di marca e con
l’ultimo modello di scarpe- aveva trovato chi condividesse le sue passioni, chi
lo ascoltava. Lui e il suo miglior amico Marco erano praticamente fratelli dall’asilo.
E lei, invece? Chi aveva?
Erano domande che fino a
qualche tempo prima non si sarebbe mai posta. Quanto più facile era omologarsi,
sorridere, fare esattamente ciò che gli altri si aspettavano da lei? Aveva scelto
la strada più semplice, per poi accorgersi che di semplice non c’era niente. Che
anzi, più andava avanti e più la domanda tornava prepotente. Lei chi era? Che cosa
aveva? Qual era la prova da mostrare al mondo per rassicurarlo del fatto che
lei fosse Roberta Della Corte?
Era curioso come solo
conoscendo Chiara queste domande avessero assunto un’urgenza tale da non poter
più essere ignorate. A volte aveva pensato che, anche se non si fosse
innamorata di lei in quel modo così semplice e genuino, Chiara sarebbe comunque
stata importante per quello che le aveva fatto capire: che ad essere chi si è
non c’è niente di male. E poi Chiara viveva con una tale intensità e non si preoccupava
di contenersi. Aveva i suoi conflitti personali come tutti, ma sapeva che non
avrebbe mai rinnegato i suoi libri- per quanto Vanessa avesse continuato a
nasconderglieli o a buttarglieli nel cestino. C’era qualcosa di lei che arrivava
in profondità, un piccolo seme che sarebbe cresciuto. Nessuno glielo avrebbe tolto.
La scoperta meravigliosa
era stata proprio questa: scoprire che aveva un seme anche lei, che sarebbe
cresciuta, che avrebbe dovuto prendersene cura. Annaffiarlo, proteggerlo,
ascoltarlo. Roberta si era messa a piangere la prima volta che aveva capito di
non essere felice con la sua vita, ma si era messa a piangere anche quando
aveva capito di poterla cambiare. Crescere significava dolore, ma un dolore
buono, come quando cadono i denti da latte e spuntano quelli forti. Avrebbe dovuto
farsi strada da sola, e iniziava a pensare che ce l’avrebbe fatta.
In quel momento, però,
tutto ciò che aveva segretamente allontanato (Vanessa, Angela, il loro giro, le
feste, i vestiti glamour, le chiacchiere cattive) sembrò minacciare di
risucchiarla. Era un presentimento sotterraneo, forse immotivato (Vanessa le
chiedeva solo perché non fosse già al liceo per le pagelle), ma persistente.
-Beh, mi sono alzata tardi. Sarò lì fra una
mezz’ora.
Sua madre non notò il suo
sguardo preoccupato, né la fretta con cui ci richiuse in camera.
Roberta aveva un cattivo presentimento
e non sapeva spiegarsi il perché.
**
Alle dieci e mezza di
quella stessa mattina, Sabrina era in piedi in mezzo al parcheggio del liceo
(vuoto, a parte qualche insegnante pieno di scartoffie). Era un po’ in
anticipo, si era data appuntamento con Chiara dopo un quarto d’ora, ma era
decisa ad essere ben disposta e ad utilizzare quell’insperata occasione- Chiara
non si era fatta sentire tutto il weekend- per
rimediare ai loro ultimi silenzi.
Le avrebbe chiesto come le
andava la vita, quanti dieci aveva preso. Avrebbero anche potuto andare al bar
e vedere Ivan e Carmen dopo (che, stranamente, erano irreperibili da quella
mattina, ci aveva provato a chiedergli di unirsi), prendersi una coca-cola,
organizzare la gita in spiaggia o la prossima festa a casa. Voleva dire a tutti
che i suoi andavano via un fine settimana e potevano fare un barbecue, ma ultimamente
aveva l’impressione che ognuno avesse qualcosa per la testa e non volesse essere
disturbato. Non voleva pensare male, ma si sentiva un po’ sola.
In più, il suo appuntamento
al cinema con Riccardo era stato un mezzo fiasco: lui era chiaramente ancora
innamorato di Chiara e non aveva fatto altro che parlare di lei. Si era sforzata
di non esserne gelosa, si era detta che forse era normale, che col tempo se la
sarebbe dimenticata- soprattutto se la loro teoria era giusta- e magari le
avrebbe dato una chance sul serio. Eppure, qualcosa le diceva che queste erano
solo fantasie e che, ancora una volta, non c’era da sperarci troppo. A volte, avere
diciassette anni faceva proprio schifo.
Immersa in queste
riflessioni, guardava di tanto in tanto l’orologio e aspettava. Undici meno
venti. Undici meno dieci. Si sedette sui gradini dell’ingresso. Certo, Chiara
non aveva mai fatto ritardo da quando si conoscevano, ma c’era una prima volta
per tutto. Tic, tac. Si prese la testa fra le mani, sbuffando.
Stava giusto per alzarsi
e andare a prendersi una bibita ai distributori, quando alzando lo sguardo si
vide di fronte Vanessa e Angela tutte imbellettate come al solito.
-Ci fai passare?
Sabrina alzò un
sopracciglio, indicando lo spazio che aveva accanto.
-Ma se c’è spazio per dieci.
Sentì Angela ridacchiare
malignamente.
-È che da quanto sei grossa non ti rendi
conto delle proporzioni. Stai bloccando il passaggio a tutti.
Sabrina aggrottò la fronte.
-Scusa come hai detto?
-Ha detto che stai bloccando il passaggio,
e ha ragione- intervenne Vanessa, guardandosi le unghie.
-No, no. Prima. Cosa hai detto prima.
La sua voce tremava, chiuse
le mani a pugno, sentendo il tessuto spugnoso dei guanti senza dita che metteva
quasi tutti i giorni dell’anno.
-Ho detto che sei grossa. Ma non ti vedi?
Sabrina sentì un colpo al
cuore. Per un attimo perse il respiro, si sentì la testa girare. Lei, era grossa?
Ma se tutti in famiglia erano così! Lei era alta, maestosa, con due spalle da
giocatrice di pallavolo, fianchi larghi, cosce lunghe e generose. Lei era lei!
-Ma come diavolo vi permettete, streghe?
Si alzò e si rese conto che
le superava, entrambe, di dieci centimetri buoni.
-La strega sei tu che continui ad andare in
giro vestita in quel modo. A che ti servono i guanti? A nascondere le tue
manone da uomo?
Vanessa e Angela
ridacchiarono di nuovo, e quella risata risuonò alle orecchie di Sabrina come distorta,
come le risate elettroniche delle zucche di Halloween che si illuminano al
passaggio del malcapitato di turno.
-Ma siete impazzite, volete entrare o
attaccare briga?
-Oh, attaccare briga con te mai eh, poi ci mandi
all’ospedale con quelle braccia che ti ritrovi.
Fu proprio quando si
stavano allontanando- quando Sabrina, tornando a respirare come dopo una lunga
corsa, pensava che quel teatrino imbarazzante e doloroso fosse finito- che
sentì una cosa che le fece perdere completamente le staffe.
Angela, ridacchiando in
quel suo modo cretino sulla spalla di Vanessa, aveva aggiunto con un’ultima
occhiata: - Secondo me è pure lesbica.
A quel punto, non ci
aveva visto più. Senza pensare a nulla- nemmeno al fatto che lesbica non fosse
davvero un insulto- con la mente completamente bianca (o nera, di rabbia), con
in testa il solo pensiero di ferire a caso per non sentirsi così impotente,
disse:
-Lesbica proprio no, mi sa che quella ce l’avete
voi.
Quello che stava per succedere,
Chiara venne a saperlo solo mezz’ora dopo.
**
Avvicinandosi a grandi passi
all’ingresso del liceo, Chiara pregava mentalmente che Sabrina non se ne fosse
già andata. Avrebbe dovuto davvero farsi perdonare, e sapeva già come. Le avrebbe
detto perché era in ritardo, perché si era vista con Carmen e Ivan, quali erano
le sue paure, i suoi timori. Si sarebbe aperta con lei, come non faceva da
tempo. In fondo sapeva che Sabrina le voleva un bene enorme, ne avevano passate
tante insieme, per lei si era presa belle batoste (di cui Riccardo era solo l’ultimo
della lista), e sapeva di essere una codarda. Le avrebbe detto tutto, avrebbero
chiarito e si sarebbero prese una coca-cola al bar per festeggiare la mancata
bocciatura di Sabrina.
Quello che si vide
davanti, però, fu tutt’altra scena.
Un’ ambulanza era appena
arrivata, c’era una macchina ferma col conducente con le mani fra i capelli. Un
gruppetto di persone si era già avvicinato per capire cosa fosse successo. Scorse,
per puro caso, Sabrina seduta col volto fra le braccia, sui gradini del liceo. Quando
la vide alzare la testa, notò che aveva gli occhi rossi.
-Ma che è successo?
-È stata tutta colpa mia, non avrei dovuto
dirlo… ero arrabbiata e… non ci ho visto più e gliel’ho detto e… quando lei è
arrivata hanno iniziato a discutere e… non lo so, è stato tutto molto veloce, forse
qualcuno l’ha spinta, forse si è allontanata lei…
-Ma lei
chi? - Chiara quasi urlò per attirare la sua
attenzione in quel delirio.
L’ambulanza aveva parcheggiato nella stradina
laterale, gli infermieri si stavano avvicinando ad un punto alle spalle di
Chiara, ma lei non ci fece caso.
-Roberta.
Chiara spalancò gli occhi
e si voltò. Iniziò a correre, avvicinandosi al gruppo di adulti che formava un
cerchio attorno ad un punto nascosto.
In mezzo, c’era Roberta.
Aveva gli occhi chiusi e un rivolo di sangue dal naso.
Quando
Margaret sentì che dal pronto soccorso la chiamavano per “un intervento al liceo
classico” si spaventò parecchio. Non che fosse una donna spaurita o poco
lucida, in situazioni di ansia e pressione, ma al sentir nominare il liceo di
sua figlia (da dove, negli ultimi anni, per fortuna non le era arrivato nessun
paziente) non poté fare a meno di pensare che Chiara avesse l’esposizione delle
pagelle quel giorno.
A
dir la verità, dopo averla salutata quella mattina, non aveva la più pallida idea
di dove potesse essere. Era sempre stata piuttosto riservata, Chiara, e
Margaret si era sempre detta che fosse normale, con l’adolescenza si tendeva a
non confidare più nei genitori, a cercare il conflitto, e a nascondere sempre
più di sé. Chiara non aveva fatto eccezione. Eppure, almeno fino a qualche mese
prima, lei e suo marito riuscivano per lo meno ad indovinare che cosa le stesse
passando per la testa, se fosse nervosa per un compito in classe o perché avesse
litigato con uno dei suoi amici. A partire da febbraio, invece – o forse, più
precisamente, da quando era tornata dalla gita a Vienna – Chiara aveva iniziato
ad omettere sempre più dettagli della sua vita fuori casa, e di nuovo Margaret
si era detta, di comune accordo con Matteo, finché non combina guai non sarà
un problema qualche segreto.
Ora,
di corsa per mettersi il camice asettico e raggiungere le porte del pronto soccorso,
si disse che forse quella non era stata delle migliori strategie. Rendersi conto,
in momenti del genere, di non sapere quasi nulla di sua figlia, mentre una
ragazza della sua età veniva portata fuori dall’ambulanza (per fortuna notò subito
che non aveva i capelli rossi e tirò un sospiro di sollievo), poteva dare ad un
genitore parecchia angoscia. E se fosse successo qualcosa a Chiara, senza che
lei se ne accorgesse? E se dietro quella smania di tenersi tutto per sé ci
fosse di più che semplice reticenza da teenager, se avesse qualche
problema anche grave che non riusciva a condividere con la sua famiglia? Il suo
ruolo, da madre, era stato guidare le proprie figlie ed evitare che prendessero
strade accidentate quando ancora non avevano imparato le regole fondamentali
del mondo degli adulti. Regole che, ne era sicura, non solo Chiara conosceva
già (era sempre stata una ragazzina precoce), ma su cui aveva già
abbondantemente riflettuto. Allora perché iniziava a pensare di aver lasciato
quella parte al caso, negli ultimi anni, dedicandosi alla carriera, all’ospedale,
alla sua scalata da capo reparto di medicina d’urgenza? In fondo, avrebbe compiuto
diciassette anni a luglio, era ancora una ragazzina.
Si
fece avanti, sbracciandosi dalle porte del blocco di primo soccorso, per attirare
l’attenzione degli infermieri di turno.
-Che
cosa abbiamo?- disse neutra, cercando di mettere da
parte per il momento le ansie su Chiara, Benedetta e la sua famiglia.
-Trauma
cranico e frattura del setto nasale. L’abbiamo stabilizzata, ma è svenuta in
ambulanza-
La
dottoressa Linch annuì, lanciando un’occhiata agli occhi chiusi della giovane
paziente. Curioso, pensò, mi sembra di averla già vista. Solo mentre
si allontanavano nei meandri dell’ospedale per una tac le venne in mente che,
probabilmente, si trattava della figlia dell’avvocato Della Corte.
**
Chiara
rimase attonita mentre l’ambulanza di allontanava, senza aver ancora capito che
cosa fosse successo. Sabrina, al lato, cercava di tenerla buona e di allungare
di tanto in tanto il collo verso la fila di automobili che nel frattempo si era
formata dietro la macchina incidentata, in attesa della polizia. Alla visione
di Roberta a terra, con gli occhi chiusi e il sangue dal naso, era rimasta gelata.
La riccia aveva aperto gli occhi, sbattuto le palpebre fissando lo guardo sui
volti sconosciuti che le si erano parati davanti, ma Chiara aveva l’impressione
che non l’avesse vista. Poi, debolmente, si era lasciata sistemare da uno degli
infermieri dell’ambulanza prontamente chiamata, ed era sparita in uno stridore
di sirene.
-Andiamo,
Chiara, prendiamo qualcosa da bere prima che ci chiamino- disse dopo un po’
Sabrina, come a scuoterla dal torpore. Chiara ancora fissava senza parlare la
strada, come se Roberta dovesse sbucare fuori da un momento all’altro.
-Non
mi va nulla. Voglio che mi racconti, lentamente, che cosa diamine è successo-
disse fredda.
Sabrina
sospirò, adocchiando in lontananza Vanessa e Angela in lacrime. L’avevano
spinta, lei lo aveva visto. C’era stato un alterco, una discussione che dall’ingresso
del liceo si era spostata sul marciapiede, poi in strada. Non aveva mai visto
Roberta Della Corte tanto spaventata e tanto agguerrita insieme. Avevano iniziato
ad insultarsi. E Sabrina, senza sapere cosa fare, era rimasta a guardare, in
fondo forse contenta che quelle due avessero trovato un’altra vittima su cui
accanirsi. In men che non si dica, però, la situazione era sfuggita di mano. Vanessa
aveva urlato che Roberta le faceva schifo, che aveva approfittato dell’intimità
della loro amicizia per farsi chissà quali fantasie, che Massimo aveva fatto
bene a scaricarla, perché era – Sabrina lo ricordò con un brivido – anormale.
-Sei
sempre stata anormale, fin dalle scuole medie. O pensi che io non me lo ricordi?
Quel disegno per la prof di francese, quelle tue paroline melense. Credevamo
tutti ti fosse passata, Rob, ma evidentemente sei una recidiva, neanche Massimo
ti ha curata.
-Non
ci rivolgere più la parola- aveva aggiunto Angela, - o giuro che te ne pentirai.
Quello
che più aveva sorpreso Sabrina, in ogni caso, e ci rifletteva mentre andava a
prendere due bicchieri d’acqua e Chiara parlottava con uno dei signori che
aveva assistito alla scena, era che Roberta non aveva subito passivamente gli
attacchi delle sue amiche, ma aveva iniziato a rispondere subito, non appena si
era resa conto di essere in pericolo. E senza negare nulla.
-Mi
fate schifo voi- aveva replicato lei, freddamente – non ho idea del perché abbia
perso del tempo a correre dietro a delle oche senza cervello come te e la tua
amichetta, Vanessa. Non avete un briciolo di personalità, e anzi… - aveva aggiunto
ridendo- perché tu lo sappia, il tuo ragazzo, in terza media, ti tradì con me. Diceva
che tu non ci sapevi fare, che eri finta e lo baciavi come una ventosa.
A
quel punto, Vanessa le aveva dato uno schiaffo così forte che a Sabrina era
sembrato opportuno intervenire per separarle, ma nella baruffa anche Angela
aveva iniziato ad infierire e, spingendo Roberta (forse accidentalmente, forse
con cognizione) in strada, aveva mandato la riccia contro un’auto che in quel
momento girava l’angolo. Roberta era caduta, in avanti, di testa, mentre l’autista
frenava di botto con un grido di orrore. Poi, un nugolo di persone si era raccolto
attorno a Della Corte, sciamando fuori dalla scuola, fuori dai palazzi
adiacenti, attirati dalle grida e dai rumori dei clacson.
Sabrina
tornò da Chiara e le porse uno dei bicchieri di plastica. Notò che aveva gli
occhi rossi, che aveva pianto e stava cercando di respirare più regolarmente.
-Perché
Vanessa e Roberta hanno litigato?- chiese di nuovo brusca,
tirando su con il naso.
Dall’altra
parte della strada, Vanessa piangeva ancora e Angela urlava di tanto in tanto,
fra le lacrime, che non si erano rese conto di nulla, che non era colpa loro. Era
arrivata la polizia, chiamata dal proprietario della macchina e dal bidello di
turno il pomeriggio, e gli agenti le avevano agguantate subito per capire cosa
fosse successo. Sabrina non rispose alla domanda di Chiara, ma si avvicinò rigida
ad uno dei poliziotti.
-Vanessa
e Angela hanno spinto Roberta in strada – spiegò, indicandole, per non lasciare
dubbi, - io le ho viste da lontano. Stavano discutendo, non si sono accorte dell’auto,
ma l’hanno spinta deliberatamente.
Chiara,
con il volto tirato, si girò in un angolo. Sabrina pensava si stesse per
rimettere a di nuovo piangere, ma all’improvviso, per
la seconda volta quel giorno senza che si accorgesse di nulla, la rossa si
voltò e in due falcate fu vicino a Vanessa, per darle un sonoro schiaffo in
faccia.
**
Mentre
Margaret ordinava al collega di turno una tac per Roberta Della Corte, comunicandogli
tutti i dettagli del caso, gettò un’occhiata preoccupata alla ragazzina che giaceva
sul lettino del pronto soccorso, con gli occhi aperti e vigili e le braccia
rigide, mentre un infermiere le misurava la pressione.
-È
regolare- gli comunicò quello, avvicinandosi alla dottoressa. Lei annuì, senza
lasciar trasparire nessun’emozione.
Non conosceva bene Roberta, a dir
la verità gli unici ricordi che aveva di lei risalivano a parecchio tempo
prima, a quando suo marito era rimasto invischiato in quella brutta faccenda
dei conti aziendali, e un concorrente gli aveva fatto causa, nella speranza di
farlo fuori, facendogli prendere un bello spavento. Il peggio era stato evitato,
ma la cattiva pubblicità all’azienda di famiglia ne aveva intaccato la
credibilità per un bel po’. Suo marito, uomo determinato e orgoglioso del lavoro
di suo padre e di suo nonno prima di lui, aveva ripreso in mano le redini della
situazione con dignità ed energia, ma non si era dimenticato del tiro
decisamente basso giocato dall’avvocato Della Corte, spietato e senza valori. Aveva
tirato fuori in tribunale vicende familiari di anni ed anni prima, esponendole
al pubblico ludibrio, facendo fare a Matteo una gran brutta figura. Aveva visto
Roberta proprio in una di quelle occasioni, alla fine di una seduta che si era
conclusa particolarmente male per l’azienda vinicola, mentre si avvicinava a
suo padre e gli porgeva quella che sembrava essere una cartella di documenti. Non
avrebbe potuto avere più di tredici anni, probabilmente non era ancora in classe
con Chiara.
Se la ricordava diversa, in ogni
caso. Margaret, uscendo a fumarsi l’occasionale sigaretta di nascosto dai
colleghi, pensò che non ci fossero danni cerebrali evidenti, ma che fosse
meglio aspettare la tac e tenere la ragazza sotto osservazione. Si era presa,
infatti, una bella botta, e non poteva escludere con certezza un ematoma. In più,
andando a sbattere contro il cemento della strada, sbalzata via dall’automobile
in curva, si era fratturata il naso. Scorse, dal suo angolo segreto, uno degli
specializzandi che la medicava con cura.
-Allora,
Roberta, come ti senti?- le chiese, quando tornò con i
risultati della tac qualche ora dopo. Dai suoi occhi vacui, intuì che si era
presa un grande spavento.
-Sto
meglio, grazie. Solo che non mi sento il naso- rispose quella, un po’ timida.
Margaret
si lasciò scappare una risatina.
-È
normale, hai preso un bel colpo al setto nasale, rimarrà gonfio almeno per una
settimana. Per fortuna l’abbiamo sistemato subito- affermò, mentre le puntava
una luce negli occhi per verificare, di nuovo, se le pupille si contraessero regolarmente.
-E
la testa?- si sentì chiedere.
Guardò
Roberta con tenerezza materna, dimenticandosi di chi fosse, delle voci su di
lei, dei suoi divieti un po’ burberi nei confronti di Chiara e delle
ripetizioni di fisica. Avrebbe potuto essere sua figlia. Chiara era forse solo
meno appariscente, più timida e a tratti scontrosa, per certi versi più acerba.
Roberta dava invece a Margaret l’impressione di una donna in miniatura, di una
ragazza cresciuta troppo in fretta.
Tirò
fuori la tac dalla busta e le indicò alcune aree del suo cervello. Cercò di
semplificare il più possibile.
-La
tua testa sta bene. La botta è stata forte, ma non ci sono sintomi
preoccupanti. Dalla tac non è emerso niente di sospetto, per ora, ma è più prudente
tenerti in ospedale, almeno per una notte-
Margaret
notò il suo sguardo preoccupato. Le venne in mente che, probabilmente, non
aveva ancora avvisato i suoi genitori (forse ci avrebbe pensato la scuola), e
si chiese che reazione avrebbe avuto se avesse ricevuto una chiamata dal pronto
soccorso per sua figlia. Le venne un leggero brivido su per la schiena.
-Hai
perso i sensi, in ambulanza, ma ora dovrebbe andare meglio. Potrebbe venirti
mal di testa, nausea. Comunica subito qualunque sintomo al collega di turno. Domattina
ti rivisiteremo e decideremo il da farsi- continuò, cercando di tranquillizzarla,
- So che sei maggiorenne, ma c’è qualcuno che possiamo chiamare? I tuoi
genitori?
Roberta
sembrò apprezzare la premura, perché sorrise imbarazzata, dicendo che avrebbe
provveduto lei ad avvisare sua madre per farsi portare il necessario.
-Dottoressa,
posso farle una domanda?
Margaret
si voltò, curiosa, annuendo.
-Lei
è irlandese?
Margaret
sorrise, rispondendo di sì.
-Sono
la madre di Chiara, la tua compagna di classe. Te la
ricordi?
**
Chiara,
seduta con un’espressione funerea su uno degli scomodi sedili del commissariato
di polizia, sbuffava guardando l’orologio di fronte a lei. Sabrina, di fianco,
cercava di tenerle compagnia come poteva. Erano state portate alla centrale per
la deposizione sull’incidente (Chiara, in realtà, non c’entrava nulla, ma lo
schiaffo a Vanessa le aveva fatto guadagnare una bella gita in macchina con l’agente
De Tullio), e da venti minuti sedevano fuori dalla saletta in cui Vanessa e Angela
erano state chiamate a deporre.
-Io
non c’entro nulla, perché non mi lasciando andare via?-
mugugnò Chiara, dopo che altri dieci minuti erano passati senza che nulla
accadesse.
Sabrina
smise di ticchettare sul cellulare e le lanciò uno sguardo a metà fra l’incredulo
e il divertito. L’aria fra di loro, stranamente, era più leggera. L’ospedale
aveva chiamato la direzione scolastica per dire che Roberta stava bene e il traffico in strada era stato disperso già da qualche
ora. Chiara aveva insistito per correre in ospedale, in bicicletta, dopo che
anche Carmen ed Ivan le avevano raggiunte, ma era stata agguantata con sguardo
torvo dall’agente.
-Perché
hai dato un ceffone alla Monteverde di fronte all’amico di suo padre, Chià.
Chiara
fece le spallucce, borbottando se l’è meritato.
Sabrina
annuì, reprimendo un sorriso e sospirando di sollievo. Chiara, evidentemente,
si era ripresa.
-Hai
ragione. Però mi dispiace, perché è tutta colpa mia…- iniziò, cercando di farsi
coraggio e confessare a Chiara il vero motivo della lite.
-Cosa
vuoi dire?
-Sono
stata io a lasciarmi scappare, con Vanessa, che Roberta fosse lesbica- disse, tutto
d’un fiato.
Chiara
la guardò incredula. Sabrina si chiese se fosse per la rabbia, la sorpresa, l’audacia
o semplicemente lo shock di sentir accostato il nome di Roberta alla parola lesbica.
-Tu
hai fatto cosa!?
-Aspetta,
lasciami spiegare. Sono stata provocata, hanno insinuato che fossi io quella a
cui piacevano le ragazze… non che ci fosse niente di male, ovvio… ma mi hanno fatto
vedere rosso, non sono riuscita a trattenermi e… un minuto dopo Roberta era a
scuola e hanno iniziato ad urlarle contro, quelle due matte. Ti giuro che non immaginavo
che sarebbe andata così, io… scusami, Chiara, ti giuro che ho reagito male, tu
eri in ritardo, ero stanca, mi sembra che tu non sia nemmeno più mia amica da quanto
mi ignori e…-
In
quel momento, Vanessa e Angela furono accompagnate fuori dall’ufficio dell’ispettore.
Sabrina e Chiara capirono subito che se la sarebbero cavata con un’ammonizione
e che tutto, in virtù dei famosi “favori in banca” del signor Monteverde,
sarebbe stato dimenticato nel corso di qualche settimana.
Chiara
lanciò uno sguardo furente a tutte, soffermandosi su Sabrina, e forse avrebbe
mollato uno schiaffo anche a lei, se l’agente De Tullio non l'avesse trattenuta per
una spalla con cipiglio severo.
-Non
azzardatevi a toccare mai più la mia ragazza, intese?
Sabrina
fece di sì mollemente con la testa, sperando in cuor suo che le acque si
sarebbero calmate presto.
Benedetta,
parcheggiando fuori dal commissariato, pensò che quella fosse proprio una
svolta inaspettata al suo pacifico pomeriggio di studio. Si era alzata di
buon’ora, ringraziando la provvidenza di quel ritorno a casa, durante una
sessione particolarmente difficile. Svegliarsi con il profumo del caffè,
lasciato da sua madre prima del turno del mattino, con il disordine di Chiara,
con gli schiamazzi di Matteo che cercava il caricabatterie del suo cellulare
prima di andare in ufficio: tutto ciò le mancava terribilmente nelle sue
giornate da studentessa fuori sede. Si era data appuntamento con
alcune compagne di liceo in biblioteca, per provare a studiare qualcosa
insieme, anche se la calura improvvisa rendeva particolarmente difficile
concentrarsi su altro che non fosse una bella giornata all’aria aperta.
Quello
che però non si sarebbe aspettata, da quella lunga parentesi nella casa familiare,
era di ricevere una chiamata dalla centrale di polizia proprio mentre stava per
uscire. Aveva riconosciuto subito la voce, era il padre di una delle sue amiche
di lunga data.
-Salve,
signor De Tullio, è successo qualcosa? – aveva chiesto, stupita, infilando la
chiave nella toppa per chiudere il portone d’ingresso. Guardando l’orologio, aveva notato di essere abbastanza in ritardo.
-È
agente De Tullio, signorina Torri, sono in servizio- aveva risposto quello,
imbarazzato, per poi concludere duramente - deve venire a riprendersi sua
sorella in commissariato. Non sapevamo fosse minorenne, e non possiamo
lasciarla andare se un membro della famiglia non viene a prelevarla.
Benedetta
era partita alla volta della centrale senza averci capito nulla, avvisando
frettolosamente le sue amiche che avrebbero dovuto rimandare la sessione di
studio. Sua sorella, in commissariato? La sua Chiara? Che fosse
arrivato, finalmente, dopo tutti quei mesi, il momento della verità su quei
suoi strani comportamenti, sui suoi umori bizzarri e sulle curiose richieste
d’aiuto?
Firmando
dei documenti come parente maggiorenne di Chiara Torri (dopo aver insinuato che
portare sua sorella in questura senza neanche controllare la sua età fosse
stato sostanzialmente illegale) e allontanandosi con lei in silenzio alla volta
della Ford magenta, cercò di non suonare arrabbiata. Pretendeva delle
spiegazioni, come sorella maggiore si sentiva parzialmente responsabile di
quello che accadeva a Chiara, soprattutto perché aveva contribuito, negli
ultimi tempi, a nascondere delle cose ai suoi genitori, per cui si sentiva
scioccamente ancora in colpa. Oltre alla festa a casa Della Corte di qualche
tempo prima, Benedetta aveva taciuto anche sul pigiama party, quando era
arrivata a casa e aveva trovato Chiara e Roberta a sghignazzare nel giardino.
Che si trattasse di… droga? Forse quella Della Corte non aveva davvero
un buon ascendente su sua sorella, forse l’aveva avvicinata a cattive
compagnie, cattive abitudini.
L’agente
De Tullio non le aveva spiegato granché sul perché sua sorella e la sua amica
Sabrina si trovassero in commissariato, si era limitato a dire che quelle due fossero
delle piccole teppistelle. Aveva visto, dall’altro lato del parcheggio, due
eleganti macchine con i vetri oscurati, su cui erano salite due ragazze
piuttosto ben vestite. Il quadro si faceva sempre più confuso, Benedetta si
chiese se le fosse davvero sfuggito qualcosa di grosso. Lanciò un’occhiata
interrogativa a Sabrina, che se ne stava mesta all’ingresso scrutando la
strada.
-Vuoi
un passaggio, Sabrina?
Chiara
abbaiò subito che no, non voleva un passaggio, poteva anche tornare a casa
da sola. Sabrina annuì, con aria stranamente colpevole, aggiungendo che sua
madre stava passando a prenderla. Benedetta assentì, ma le parve strano tutto
quell’astio, da quando Chiara trattava così male le sue amiche? Salirono in
macchina in silenzio, mentre Benedetta cercava il tono giusto per chiedere a
sua sorella cosa diavolo fosse successo, e Chiara si torturava il bordo dei
pantaloncini di jeans, come se ci fosse qualcosa che morisse dalla voglia di
confessarle. La sorella maggiore pensò bene di spianare il terreno.
-Che
ci facevi in commissariato, Chiara? – chiese, cercando di suonare calma. Mise
in moto, guardando l’orologio digitale della macchina. Avrebbe potuto raggiungere le sue amiche per un aperitivo, ma
doveva prima occuparsi di questa strana vicenda.
Chiara
non sembrò dar segno di vita, fissa com’era con lo sguardo sulla strada.
Benedetta accese la radio, per distendere un po’ l’atmosfera. Suonavano i One
Republic, un gruppo che a Chiara piaceva molto, se non ricordava male. Prese
una strada di campagna, per fare il giro più largo verso casa e non rischiare
di beccare Matteo di ritorno dal lavoro. Il sole iniziava a calare con grazia,
iniziava un’altra sera di primavera inoltrata. Si ricordò che mancava quasi un
mese al compleanno di Chiara, che avrebbe compiuto diciassette anni, e per un
attimo si intristì al cliché del sta
crescendo, stiamo tutti crescendo.
Tornò
a guardare Chiara, qualcosa le diceva che, di nuovo, avrebbe dovuto tenere la
bocca chiusa. Gettò uno sguardo a sua sorella, e la vide insofferente. Aveva
pianto?
-Allora,
mi ascolti? Cos’è successo a scuola? Non c’erano le consegne delle pagelle?
A
quell’insinuazione Chiara sembrò rianimarsi. Forse, si disse Benedetta, in
tutto quel caos se n’era dimenticata.
-Cavolo,
non ho nemmeno letto i risultati di quest’anno.
Benedetta,
ora seriamente preoccupata (in quale universo distorto Chiara Torri si
dimenticava di correre a vedere la sua pagella di fine anno?), fece una
deviazione verso il limitare del centro storico del paese e decise di fermare
la macchina.
-Adesso
ci prendiamo una coca-cola, e vedi di raccontarmi tutto. Altrimenti paghi tu-
sentenziò, avviandosi a grandi passi verso i tavolini di un pub.
**
Qualche
minuto e qualche silenzio dopo, Chiara e Benedetta videro un cameriere
avvicinarsi al loro tavolo con due pinte di birra.
-Forse
questo ti farà bene- aveva scherzato Benedetta, indicandole il menù degli
alcolici. Chiara aveva annuito gravemente, felice che per una volta sua sorella
non stesse insistendo, né la stesse rimproverando. Aveva bisogno di coraggio. Così,
sbigottita, Benedetta aveva ordinato due birre per entrambe. Torneremo a
piedi.
Dopo
una lunga sorsata, Chiara si decise a parlare.
-Devo
chiederti scusa per quello che è successo, mi dispiace che tu sia dovuta venire
in commissariato- iniziò, abbassando lo guardo sul sottobicchiere della sua
birra bionda.
Benedetta,
prendendo un piccolo sorso della sua birra scura, la esortò ad andare avanti.
Chiara, in un attimo di straniamento, si rese conto che non aveva mai visto sua
sorella bere alcolici di fronte a lei. Avevano avvisato i genitori che
sarebbero rimaste a cena fuori, per festeggiare i buoni risultati di Chiara, e
che non avrebbero fatto tardi. Chiara aveva ringraziato mentalmente per quel
diversivo, non si sentiva ancora pronta ad affrontare i suoi genitori, non
sapeva ancora che cosa dirgli, e se raccontargli della giornata: una parte di
lei era ormai convinta che non si potesse più nascondere nulla, che fosse
meglio vuotare il sacco, almeno sulla faccenda della polizia. Quello su cui aveva
ancora dei dubbi, però, era quanto essere sincera con loro: poteva raccontargli
di essere rimasta invischiata in una rissa al liceo, ma non gli avrebbero mai
creduto, non senza chiederle il motivo per cui fosse intervenuta.
Da
lì al confessargli della sua storia con Roberta sarebbe stato un passo breve,
ma pesante come un macigno. Non si sentiva ancora pronta, questa era la verità.
Tutto stava andando tanto, troppo velocemente, e non le era stato lasciato il
tempo di riflettere su nulla se non sulla bellezza di stare accanto a Roberta,
di potersi scoprire insieme a lei. Le cose avevano appena iniziato a
sbloccarsi, aveva appena iniziato a sentire tutte le potenzialità di quel
sentimento, tutta l’intensità genuina che le era mancata nella vita fino a quel
momento…
Pensare
che qualcuno si sarebbe potuto mettere fra di loro, entrando in quel loro mondo
segreto, entrando in lei mentre ancora cercava di scoprirsi e rispondersi, le
metteva un’indicibile ansia. Voleva proteggersi, o nascondersi? Pensò che, in
fondo, non faceva tanta differenza.
Con
un moto di orrore, si rese poi conto che prima di lasciare la centrale aveva
praticamente ammesso ad alta voce di avere una relazione con Roberta. Non
riuscì a pentirsene, ma si chiese se qualcuno avesse sentito (a parte
l’intontito agente De Tullio, Sabrina e le due odiate compagne di classe), quanto tempo ci avrebbe messo la voce a
spargersi, se ci fosse ancora la possibilità che tutti se lo dimenticassero,
pensando ad un malinteso, ad uno sbaglio.
-Sono
intervenuta in una specie di rissa, a scuola. Per questo l’agente De Tullio mi
ha trascinato in centrale. Ma ti assicuro che non c’entro nulla- continuò,
alzando prontamente le mani.
Benedetta
aveva un sopracciglio alzato, dubbiosa. La esortò silenziosamente a continuare,
mentre prendeva un altro sorso.
-Avevo
appuntamento con Sabrina per parlare, prima di passare a vedere i risultati del
quadrimestre. Ero in ritardo, e quando sono arrivata l’ho trovata insieme a
Vanessa e Angela mentre si aggirava preoccupata in strada, con una macchina
ferma e una coda di auto dietro… Roberta era a terra- farfugliò.
-Roberta,
la tua amica Roberta? – chiese incredula Benedetta, sporgendosi in avanti.
-Sì,
proprio lei. C’era stata una discussione fra le tre, Sabrina è intervenuta
troppo tardi, non so bene chi abbia fatto cosa, ma fra gli spintoni Roberta si
è sbilanciata ed è finita fuori dal marciapiede. La macchina che girava in
curva è riuscita a fermarsi proprio in tempo, ma lei è stata presa-
Benedetta
era senza parole, la sua bocca era un ovale di sorpresa. Chiara si rese conto
di doverle spiegare che tutto era finito, miracolosamente, bene e che Roberta
era stata portata al pronto soccorso con diagnosi di trauma cranico. Si rese però
conto, con estrema sorpresa, che non aveva nemmeno provato a chiamarla, né le
aveva lasciato un messaggio. Si diede della sciocca, portandosi una mano alla
fronte, e agguantando il cellulare.
-Giuro
che ti racconto tutto, ma devo prima fare una chiamata- disse distrattamente,
allontanandosi dal tavolo.
Roberta
rispose dopo qualche secondo, con grande sollievo di Chiara.
-Chiara,
sei tu?
-Sì sono io, come stai, stai bene? Sei
in ospedale?
-Mi
trattengono per un po’, ma sto bene sì, per fortuna è stato solo uno spavento.
-Oddio,
che sollievo!- Chiara quasi pianse, -Scusami se non ti
ho chiamato prima, sono finita in centrale di polizia… io…-
-Sei
finita in centrale di polizia!?
La
rossa aggrottò le sopracciglia, mugugnando ora contrariata: - Tu sei stata
picchiata da quella matta di Vanessa e investita da un’auto e ti sorprendi che
io sia finita in commissariato?
Roberta
sembrò cogliere solo in quel momento le implicazioni di quella frase.
-Chiara,
che cosa hai fatto?
-Le
ho dato un bello ceffone, ecco cosa ho fatto! E le ho detto se, se si azzarda
ad avvicinarsi a te con quella sciroccata della sua amica, la concio per le
feste!
Sentì
Roberta, nonostante tutto, ridere di gusto.
-Ah e, a proposito, mi sono lasciata
sfuggire che sei la mia ragazza…
La
riccia, apparentemente divertita, soffocò un’altra risata, per poi aggiungere:
- Bene, perché credo che nel giro di qualche giorno lo saprà tutto il liceo. Chiara
Torri si porta sempre avanti con il lavoro.
**
Benedetta,
che seguiva le giravolte al telefono di sua sorella da lontano, sorseggiando la
sua birra scura e sentendosi già un po’ brilla (com’era arrivata a metà senza
accorgersene?), aspettava impaziente la fine della storia. Ormai era tardi per
la biblioteca, e in tutta onesta non aveva la benché minima voglia di studiare
diritto privato. Iniziava a trarne qualche conclusione, ma non era sicura di
averci visto giusto. Forse Chiara le avrebbe confermato la sua versione dei
fatti, che filava liscia come l’olio nella sua testa ovattata dall’alcol, e si
sbracciò un paio di volte per ricordarle che lei fosse ancora lì ad aspettarla.
Quando sua sorella torno al tavolo e bevve un altro lungo sorso di birra, con
l’aria di chi ha bisogno di dimenticare, Benedetta non le lasciò nemmeno il
tempo di respirare che attaccò subito:
-Tu
e Sabrina avete litigato per Riccardo vero? A te non piace, ma a lei sì… ed è
arrabbiata con te perché l’hai lasciato senza tante cerimonie a Roberta. Che
coppia strana, però- vaneggiò Benedetta, per poi continuare- E probabilmente le
amiche di Roberta non sapevano della storia, così se la saranno presa… ma
perché un caos così grande solo per un ragazzo?
Chiara, con la fronte aggrottata, cercò di
non interrompere Benedetta, per capire dove andasse a parare.
-Cioè,
voglio dire, Riccardo è carino, ma una rissa per lui? E tu, che finisci in
commissariato per difenderlo… sei una buona amica, ma perché?
Benedetta
la guardò, smettendo di parlare, con aria sinceramente dubbiosa. Chiara si
disse, cercando di non ridere, che sua sorella maggiore reggeva davvero male
l’alcol per essere irlandese.
Mentre passeggiavano
placidamente per le vie del centro storico del paese, Chiara e Benedetta
incrociarono più di una volta volti conosciuti, salutando di tanto in tanto la
vicina di casa, un lontano cugino, un insegnante delle scuole medie. Benedetta
(che per fortuna non aveva avuto occasione di finire la sua birra, trascinata
via dalla sorella) sorrideva a tutti con garbo, per poi tornare ad interessarsi
con espressione concentrata al racconto di Chiara. Aveva notato che, ogni qual
volta venivano interrotte, sua sorella si girava attorno con ansia, come ad
evitare che qualcuno la ascoltasse. Si chiese come mai tutto quel mistero.
La più piccola, infatti, guardava nervosamente
a terra, ad intermittenza, come a non voler incrociare lo sguardo della sorella
maggiore, mentre le raccontava ancora della lite (a Benedetta non era sfuggito
il fatto che non avesse nominato di nuovo Roberta apertamente, come se ne fosse
imbarazzata), e tornava indietro a quando, al ginnasio, anche lei era stata al
centro di discussioni accese con i proprio compagni di scuola.
Chiara, d’altro lato,
sapeva di essere notevolmente arrossita, ma si sentiva pronta, improvvisamente,
a spiegare a Benedetta tutti quei comportamenti apparentemente strani, a
confidarle un po’ delle sue paure (ora che, ne era sicura, l’intero liceo
sarebbe venuto a conoscenza dell’accaduto, aveva un segreto terrore che le cose
potessero mettersi più male del previsto). Non le fu difficile riconoscere,
mentre camminava accanto a Benedetta e lei le chiedeva, educatamente e senza
interromperla, chiarimenti o le faceva domande, che la sorella più grande
sarebbe stata un alleato fondamentale, da non perdere, ora che le si
prospettavano davanti tempi probabilmente difficili. Benedetta aveva sempre
avuto quel tocco delicato, deciso ma mai invadente, che la faceva sentire
protetta e al sicuro, senza darle l’ansia di essere fraintesa come le accadeva
con i suoi genitori. Chiara, guardandola, pensò che in fondo anche lei non era
che una ragazza appena cresciuta, alta nei suoi vent’anni, che però dimostrava grande
maturità ad ogni passo che faceva e, in qualche modo, si sentì incredibilmente
fiera di lei.
Avevano appena svoltato
un angolo, mentre il sole tramontava lentamente, che Chiara si decise a passare
alla parte più difficile. Le aveva raccontato della gita a Vienna,
dell’improvviso avvicinamento fra lei e Roberta, del segreto che aveva tenuto a
Carmen e al resto degli amici, arrivando perfino a raccontarle della notte dei
tacos, in cui si era addormentata e Roberta le aveva lasciato il numero su un
bigliettino.
Benedetta, dall’altro
lato del marciapiede, iniziava forse a capire qualcosa. Osservando il profilo
di sua sorella, netto contro la luce obliqua del sole, capì che c’era qualcosa
che, nel suo ragionamento, non aveva considerato: l’amore c’entrava, ma forse
non come lo aveva considerato lei. Chiara aveva infatti uno strano sorriso
segreto, quando parlava di quella sua nuova amica, qualcosa di spontaneo ed
incontenibile che sembrava animarla da dentro, facendole assumere un’aria
pacifica ma elettrizzata. Iniziava a capirci qualcosa.
-Dal momento in cui abbiamo studiato
insieme, non so, ma qualcosa è scattato dentro di me- iniziò cautamente Chiara.
Aveva istintivamente
accelerato il passo, continuando a guardare le sue scarpe infangate.
-Non so come spiegarlo, Ben, non ancora… è
successo tutto molto in fretta, ma mi sono resa conto di provare qualcosa per
Roberta-
Benedetta chiese, con
grande delicatezza, se con quel qualcosa intendesse dei sentimenti. Vide
Chiara annuire brevemente, per poi prendere un grosso sospiro.
-Sì, proprio così. È come se dentro di me
fossero esplose una miriade di sensazioni allo stesso tempo. Come dei fuochi
d’artificio. Ora che ci penso, forse era già tutto dentro di me prima di quel
momento, forse addormentato. Ma col passare dei giorni mi sono resa conto che
volevo stare tutto il tempo con lei…- sorrise, istintivamente- e quando non ero
con lei pensavo a quando l’avrei rivista. D’un colpo tutte le poesie che avevo
letto avevano un senso. Capisci cosa intendo?
Benedetta, sorridendo a
sua volta, annuì. Erano arrivate al limitare del parco, la gente faceva
placidamente jogging, i negozi chiudevano e i bar sistemavano i tavolini
esterni per attirare clienti.
-Sì, capisco cosa vuoi dire. Ti sei
innamorata.
Chiara a quell’affermazione
sentì il cuore mancare un battito. La realtà dei suoi sentimenti non smetteva
mai di sorprenderla. Quante volte aveva effettivamente affermato, ad alta voce
e con cognizione, di essere innamorata di Roberta? Forse lo aveva detto
brevemente a Ivan, complice in quel segreto comune, e a Carmen, in una delle
interminabili chiacchierate-interrogatorio in cui impegnavano i loro pomeriggi
ormai liberi. Sola con sé stessa, però, non aveva ancora formulato così
chiaramente, in modo tanto semplice da non lasciare spazio a dubbi, il pensiero
di essersi innamorata. Lei che, in fondo, l’amore non l’aveva mai conosciuto,
lei che filosofava spesso e faceva teorie, con Roberta non si era soffermata
nemmeno un attimo a dare un nome a quelle sensazioni. Né, d’altronde, si era
posta il problema di che cosa significasse, per la propria identità, essere
innamorata di una ragazza. Iniziava solo ora, timidamente, ad affacciarsi al
mondo. Fino a quel momento, in quei mesi, nelle ultime settimane, era stata
confortevolmente rinchiusa da una bolla di tranquillità e pace tutte le volte
che era sola con Roberta.
-Sì, mi sono innamorata- concluse dopo
qualche minuto, a bassa voce, come metabolizzando lei stessa la notizia.
Ora non erano più solo
lei e Roberta, ora tutt’attorno c’era il mondo. Un mondo che le faceva paura,
ma che le dava anche brividi di eccitazione, che voleva esplorare, conoscere,
da cui non voleva nascondersi, non per sempre. Si sentì molto piccola, in balia
di quel sentimento. Cercò istintivamente Benedetta per scrutarla in volto, per
capire a che cosa stesse pensando. La vide sorridere in modo tenero, con un
sorriso appena accennato.
-È una cosa molto bella, Chiara. Sono
felice che ti sia successa. Grazie di esserti confidata con me- le disse,
voltandosi a guardarla apertamente.
Le fece cenno di
avvicinarsi a lei e le diede un lungo abbraccio affettuoso. Chiara sentì come
un peso che le volava via dallo stomaco. Si disse, senza pensarci due volte,
che sarebbe voluta correre in ospedale a raccontare tutto a Roberta.
-Quindi non credi che sia strano?- si sincerò la più piccola, non appena si furono
separate.
Benedetta scosse ridendo
la testa, incamminandosi verso l’altro lato del parco, dirigendosi verso il
tramonto (e, probabilmente, verso un posto dove mangiare un panino).
-Perché mai dovrebbe essere strano? Hai
trovato qualcuno che ti fa battere il cuore, per cui vale la pena uscire allo
scoperto, e provare sentimenti che non avevi mai provato prima. È una cosa
meravigliosa-
Chiara sentì che si
sarebbe potuta commuovere, ma per fortuna Benedetta se ne accorse e continuò in
tono più scherzoso.
-Ma ora passiamo al gossip.
Tu e Roberta state insieme ufficialmente? Com’è successo? Raccontami
assolutamente tutto!
La più piccola represse
una risatina, raccontandole del loro primo bacio, degli strombazzamenti di
clacson di Benedetta che avevano fatto da romantico contorno alla canzone di
Bruno Mars (che, ancora dopo settimane, non riusciva ad ascoltare senza sentire
una piacevole fitta allo stomaco), del rossetto sbiadito e della corsa in
strada senza giacca per non farla insospettire.
-Non ci credo!-
rise quella, dandosi della sciocca – Mi hai letteralmente detto che quel
rossetto era di Roberta! In un certo senso non mentivi…
Benedetta notò
l’espressione colpevolmente divertita di sua sorella, mentre si apriva in un
sorrisetto teso.
-Beh, meglio non sapere cos’altro ti ho
nascosto, credimi…
Chiara si beccò una pacca
sul braccio e un’espressione fintamente disgustata di Benedetta (non tornerò
mai più a casa senza avvisare!) e, mentre si avvicinavano ad una pizzeria, si
sentì serena come non le accadeva da mesi.
**
Quando Benedetta e Chiara
furono di ritorno a casa, felici e complici come non capitava da tempo,
trovarono i genitori rigidamente seduti sul divano di casa. Posando le chiavi
sul mobile dell’ingresso, Benedetta intuì subito che avrebbero fatto una
bella sfuriata a tutt’e due, anche se non sapeva se per l’ora tarda, per aver
lasciato l’auto parcheggiata in centro o se per le malefatte di sua sorella.
-Chiara, tesoro – chiamò infatti Margaret,
rivolgendosi alla figlia che già cercava di sgattaiolare su per le scale senza
farsi sentire – vieni un momento qui.
Chiara fece retro-front
con un’espressione funerea.
-Sì, mamma?
Margaret e Matteo si
aprirono in uno strano sorriso.
-Volevamo congratularci con te per la media
di quest’anno, ci ha chiamato oggi pomeriggio la scuola, sei fra le cinque
medie più alte dell’istituto, vorrebbero premiarti insieme agli altri alla cerimonia di fine anno-
Chiara, che si era completamente
dimenticata delle pagelle, cercò di non assumere un’aria troppo sorpresa. Cavoli,
che notizia! Doveva assolutamente dire Roberta anche questo. Sperò che nessuno le
chiedesse a quanto effettivamente ammontasse la sua media (nove punto due, nove
punto quattro? Non riusciva proprio a ricordarselo), quando intervenne senza mezzi
termini suo padre:
-E sai chi altro ha chiamato? Il commissariato.
Chiara si gelò sul posto.
Benedetta si passò una mano sugli occhi, sperando a sua volta di poter sgattaiolare
al piano di sopra senza attirare l’attenzione, ma Margaret sentenziò senza
indugi: ferma, Ben, parlo anche con te.
Chiara fece rimbalzare,
per l’ennesima volta quel pomeriggio, una pallina di gomma contro la parete
della sua stanza, fissando il soffitto bianco e il sole che entrava dalla
finestra, con le sue ombre pallide riflesse sul pavimento e sui libri
abbandonati a sé stessi. Le sembrò ingiusto, mentre fuori c’era un così bel
tempo e i suoi amici erano in giro a godersi la tanto agognata libertà, che lei
fosse costretta a restare a casa, almeno fino al ritorno dei suoi genitori,
come prevedeva la punizione che aveva ricevuto il giorno prima. Certo, dare uno
schiaffo in pieno volto a Vanessa Monteverde di fronte alla polizia - poco dopo
un incidente d’auto le cui dinamiche non erano state ancora chiarite, mentre
Roberta veniva portata nel silenzio generale in ospedale e Sabrina si
contorceva le mani come se il tutto fosse colpa sua - non era stata l’idea più
geniale che le fosse venuta nella sua breve vita.
Finire in centrale di
polizia lo stesso giorno in cui si viene nominate fra le cinque migliori della
scuola non poteva succedere che a me, pensò.
Non era stata una buona
idea, se per questo, nemmeno ignorare Sabrina per tutto quel tempo, trattandola
come un’amica di serie B ed escludendola dal circolo delle confidenze con Carmen
e Ivan. Per la prima volta da quando aveva iniziato la sua storia con Roberta,
Chiara pensò che avesse sbagliato con lei, e la sua mente tornò indietro ai
tempi in cui tutto era ancora normale (chissà perché, da quando stava
con Roberta percepiva la sua vita come totalmente diversa, come nel capitolo
successivo di un romanzo): si chiese che fine avesse fatto Riccardo, se Sabrina
avesse davvero una cotta per lui. L’amica aveva accennato a qualcosa a quel
proposito, Chiara era abbastanza sicura che avesse provato ad avvicinarsi a lui
e a dare una chance ai suoi sentimenti, ma anche in quel caso non le aveva
davvero chiesto come si sentisse, quali fossero le sue sensazioni a riguardo,
se avesse bisogno di consigli. Si sentì improvvisamente colpevole, come se
avesse dato per scontato troppe cose: l’amicizia, il sostegno di sua sorella…
Si chiese se crescere non significasse essere naturalmente più egoisti, se non
comportasse scelte difficili. Non riuscì a darsi una risposta, a parte la
consapevolezza di non voler perdere nessuno.
Facendo rimbalzare la
pallina per la milionesima volta contro il muro, e girandosi a testa in giù sul
bordo del letto – una scena che quasi le ricordò i pomeriggi di febbre chiusa
in albergo a Vienna - si disse che prima o poi avrebbe dovuto chiamare
entrambi. A Riccardo avrebbe dovuto comunicare (prima che venisse a saperlo a
scuola) della storia con Roberta, giustificando così il fallimento della loro
amicizia, nella speranza forse di ravvivarla: al solo pensiero si sentiva però
tanto a disagio che avrebbe preferito evitarlo per il resto dei suoi giorni. Non
era sicura, infatti, che avrebbe funzionato. Sapeva solo che non era maturo,
oltre ad essere estremamente scortese, continuare ad evitarlo nei corridoi,
scappare dopo due battute dette di fretta di fronte alla macchinetta del caffè.
Avevano condiviso tanto, erano stati tanto amici, e ora non si parlavano (se
non nei brevi intervalli di scuola, fra una lezione e l’altra, scambiandosi
qualche mera cordialità) da più di un mese.
A Sabrina invece avrebbe
dovuto porgere le proprie scuse, per come l’aveva trattata il giorno prima e in
generale. La doccia gelida dell’incidente l’aveva come risvegliata dal torpore
d’amore in cui aveva fluttuato negli ultimi tempi e pensò che sarebbe stato più
facile partire da questo: salvare un’amicizia. Senza pensarci troppo, compose
il numero di cellulare di Sabrina sul cordless rosso. Rispose dopo quattro
squilli buoni.
-Ciao, come va?
Dal tono Chiara intuì che
non aveva voglia di parlare, ma si sforzò per una volta di non prendersela
troppo. Entrambe avevano motivi ben validi per essere arrabbiate, ma un
confronto era oramai necessario.
-In punizione, e tu?
-Sono in punizione anch’io. Mia madre non
ha smesso di urlare da quando è venuta a prendermi alla centrale, ieri. Non
riesco a convincerla di non aver assolutamente nessun ruolo in quello che è
successo… certo, tranne per quello che ho detto su Roberta- rispose, in tono
più incerto.
-A proposito di questo… mi dispiace per
come ti ho trattata ieri – Chiara si alzò dal letto e prese a camminare in
tondo, osservando fuori dalla finestra, - ero molto arrabbiata. Ma soprattutto
impaurita, sai, per quello che è successo a Roberta.
Sabrina sospirò
pesantemente dall’altro lato del telefono.
-Sì, immagino. Sono stata una stupida. Ho
letto su internet e quello che ho fatto è outing bello e buono. Dovrebbe
essere illegale.
Chiara riuscì a sorridere
sommessamente. Outing. Stava imparando sempre più termini.
-Roberta non ha negato, per cui forse in
fondo non voleva più nascondersi. Quanto a me, credo sia solo una questione di
tempo, dopo ieri. È per questo che avevo bisogno di parlare con te. Non voglio
perderti, sei un’amica, sei sempre stata al mio fianco. Mi dispiace se ti ho
trascurato.
-Hai paura, vero? Per come andrà.
-Onestamente? Un po’. Non ho idea di come
possano reagire i miei. Non mi sento neanche pronta, a dirti la verità. Forse
dopo la chiamata della polizia penseranno che non sia poi così tanto grave
stare con una ragazza.
Fu il turno di Sabrina di
ridere. Poi le chiese da quanto tempo lei e Roberta stessero insieme, per un
po’ si concentrarono sui dettagli positivi di quella storia.
-Pensi che debba dirlo a Riccardo? – la
interruppe improvvisamente Chiara, con tono sinceramente contrito.
Sabrina rimase in
silenzio per qualche secondo, forse pensandoci.
-Direi che per ora hai problemi più grossi
a cui pensare. Lascia che le cose facciano il loro corso. Pantarhei.
-Lo farò. Comunque, non ti ho ancora fatto
gli auguri per le pagelle, so che quest’anno non hai preso debiti, nemmeno in
greco. Sei stata brava.
Dalla voce, sembrò che
Sabrina stesse sorridendo, quando le disse: - Grazie Chiara, grazie di tutto.
**
Margaret, a fine turno,
fu chiamata da uno dei suoi specializzandi per firmare le dimissioni della
signorina Roberta Della Corte. Leggendo quel nome sulla cartella, non poté fare
a meno di scuotere la testa sconsolata. Nell’arco di un giorno aveva visto una liceale
arrivare in pronto soccorso con il naso spaccato, assistito a un litigio fra
lei e i suoi genitori (lo aveva raccontato la sera prima a Matteo, in quella
cena in solitaria, ancora turbata dai toni dell’avvocato contro sua figlia) e
ricevuto una chiamata dalla polizia.
Mai avrebbe immaginato
che Chiara potesse essere coinvolta in una rissa, lei che era sempre stata
tanto tranquilla e silenziosa. La sera precedente era stata, in più, tanto
avara di dettagli quando reticente sull’intera faccenda, tanto che a Margaret
tutt’ora non era chiaro che cosa fosse successo. Chi erano le persone
coinvolte? Perché mai picchiarsi durante il giorno di esposizione delle
pagelle? Il giorno prima si era accontentata di lasciar andare a dormire Chiara
senza commenti, senza insistere perché ne dicesse di più. Matteo non era stato
d’accordo, secondo lui c’era bisogno di usare un polso duro in quelle
situazioni, ma Chiara era sull’orlo delle lacrime e Margaret, senza dubbio, si
fidava sempre molto di lei. Le sembrava che avesse passato una giornata
sufficientemente pesante per infierire. Continuò però a chiedersi, nei dieci
minuti successivi, se non avesse sbagliato qualcosa in quel rapporto, se avesse
lasciato sua figlia minore troppo sola, troppo esposta. La soddisfazione di vederla
in cima ai migliori della scuola, decisamente, non valeva quanto saperla al
sicuro, serena e senza grilli per la testa.
-Ieri apparentemente mia figlia ha fatto a
botte con delle compagne di classe- disse, in un estemporaneo moto di
confidenza, ad una delle colleghe in pausa con lei. Fumava silenziosamente una
sigaretta sul piazzale dell’ospedale.
-Ma non mi dire, la piccola Chiara…
-Come si fa ad essere una brava madre? Me
lo chiedo sempre.
Tornata in reparto,
decise di andare a parlare lei stessa con Della Corte, forse per avvicinarsi
inconsciamente all’universo di sua figlia, per non sentirsi completamente
inutile. Fu questo lo stato d’animo in cui accolse Roberta, che stava
sistemando le sue cose in una borsa, in attesa di ricevere il permesso di andar
via. Margaret si rese conto che anche lei era stata ferita, anche se non aveva
ben afferrato le circostanze dell’avvenimento, apparentemente un’auto le era
venuta in contro in curva senza accorgersene. Anche lei aveva la stessa aria
stanca ed abbattuta di Chiara la sera precedente.
-Come stai, Roberta, gli antidolorifici
fanno effetto? – esordì, prima di porgerle i documenti firmati.
Roberta ringraziò
sommessamente, con un sorriso timido.
-Va molto meglio, la ringrazio. Credo che
andrò a scuola, non ho ancora visto i voti di fine anno.
Margaret non poté
trattenere un sorriso spontaneo.
-Sì, anche Chiara ieri ha ricevuto i suoi
voti. Spero sia andata bene.
Roberta fece un cenno
gentile col capo, ringraziandola, e fece per uscire dalla stanza, quando
Margaret la richiamò indietro, come se si fosse dimenticata un dettaglio
importante.
-Hai fatto la denuncia alla polizia, vero?
Per l’incidente.
La riccia rispose di no,
stringendo con una mano il manico della sua borsa.
-Il conducente non mi ha visto arrivare.
Qualcosa nei suoi occhi
non dovette sembrare giusto, perché la dottoressa Linch insistette.
-Ne sei sicura? Probabilmente ti
chiameranno comunque per sentire la tua versione.
In quel momento, forse
per la gravità delle parole pronunciate, o per effetto della pressione delle
ultime ventiquattro ore, Margaret vide Roberta Della Corte scoppiare in
lacrime. Cercò di avvicinarsi a lei cautamente, indicandole in posto a sedere
per calmarsi. Pensò che dovesse essere stato davvero un brutto trauma per la
ragazza quello che era successo, e si sentì inspiegabilmente triste. Le
sembrava una brava persona, una persona genuina, contrariamente a tutte le idee
che si era fatta su di lei e sulla sua famiglia. Di nuovo il lato materno che
era in lei sembrò riaffiorare senza preavviso.
-Andrà tutto bene, stai tranquilla. Vedrai
che non rimetterai più piede qui- cercò di scherzare, ma vide che la riccia
continuava a singhiozzare, così le porse un fazzoletto.
-Dottoressa, io… credo che non si sia
trattato di un incidente.
Margaret, improvvisamente
di sasso sulla sedia accanto alla sua, ascoltò finalmente Roberta raccontare ad
alta voce delle aggressioni verbali, delle pressioni, delle intimidazioni
costanti da parte di quelle che non era mai riuscita a definire amiche, senza
risparmiare nessun dettaglio, fino al momento in cui era finita in strada ed
era stata investita per errore.
-Ho paura di quello che potrebbe succedere,
ora. So perché l’hanno fatto- continuò Roberta, quando riuscì a riacquistare un
po’ di calma.
-Perché l’hanno fatto, Roberta? – chiese
Margaret, ora sinceramente inquieta.
-Perché hanno scoperto che sono
omosessuale.
A Margaret pianse il
cuore, mentre abbracciava quella ragazza indifesa.
**
-Ben, mi annoio.
Chiara lanciò mollemente
la pallina rimbalzante con cui aveva giocato per l’ultima ora fra i pesanti
tomi di sua sorella. Benedetta, che non era stata messa in punizione ma si era
beccata lo stesso una sonora strigliata per aver coperto Chiara, se ne stava rintanata
in salotto da quella mattina, cercando di studiare qualcosa per i suoi esami.
Quando alzò la testa, sconsolata, da un quaderno di appunti tutto
scarabocchiato, Chiara ebbe la certezza che non fosse riuscita a fare
praticamente nulla.
-Beh, se ti può consolare, io sono in
doppia punizione, chiamata sessione estiva- si lamentò, lasciandosi cadere
teatralmente fra i fogli sparsi sul divano.
Chiara le si avvicinò con
fare cospiratorio.
-Potremmo uscire, no? Potremmo andare a
trovare mamma in ospedale. Tecnicamente non sarebbe violare la punizione, visto
che ci sarebbe lei.
Benedetta scosse la testa
divertita.
-Sei diventata una piccola fuori legge.
-Oh, andiamo! Ho bisogno di vedere
Roberta, voglio vedere come sta, se ha bisogno d’aiuto.
La più grande si spostò
in cucina, versandosi da bere. Chiara cercò di essere più convincente,
mettendoglisi alle calcagna come faceva quando era piccola e voleva ottenere un
favore particolarmente importante da lei.
-Posso chiedere a papà di accompagnarci
appena arriva, così non ci sarebbe nessun’ambiguità legislativa, per
rimanere in tema.
-Quando fai così sei davvero impossibile! –
esclamò l’altra, chiudendo di scatto il frigorifero, - In quest’ennesima ribellione
adolescenziale gradirei perlomeno non essere io quella al volante.
**
Quando Margaret vide
Chiara e Benedetta entrare dalle porte del pronto soccorso, mentre stava per
togliersi il camice e tornare a casa, sulle prime pensò si trattasse di altre
cattive notizie. Era stata accanto a Roberta Della Corte per gli ultimi venti
minuti, cercando di consolarla in quella che sembrava essere una faccenda molto
più grave del previsto, consigliandole uno psicologo con cui parlare e con cui
dividere il fardello di ciò che sarebbe venuto poi, sentendosi comunque
impotente. Si era ripromessa di parlare con sua figlia, una volta a casa, quasi
spaventata che ci fosse qualcosa di altrettanto segreto a tormentarla, e ci
aveva pensato così tanto durante la giornata che vedersi di fronte i suoi
capelli rossi le fece un effetto bizzarro, come se si fosse materializzata dai
suoi pensieri più cupi.
-Ragazze, che cosa ci fate qui? - chiese
allarmata, avvicinandosi a Chiara e Benedetta. La più grande fece segno di non
voler parlare, alzando le mani sconsolata, lasciando la scena a sua sorella.
-Papà è in macchina, non ho violato la
punizione- si limitò a dire quella.
Margaret la prese da
parte, cercando di capirci qualcosa.
-Perché non mi avete aspettato a casa, è
successo qualcosa? – sussurrò, quasi irritata. In tanti anni di servizio, non
ricordava che le sue figlie fossero mai venute a cercarla in ospedale, se non
per gravi emergenze.
Chiara scosse debolmente
la testa, rispondendo: - Non è successo nulla, ma volevo vedere una persona.
In quel momento Margaret
vide con la coda dell’occhio Roberta, che era in attesa dei suoi genitori nella
grande hall del padiglione del pronto soccorso, seduta con un viso sciupato
sulla serie di sedie imbottite, con un’aria sperduta. La sua mente fece due più
due molto rapidamente, più di quanto si aspettasse. In una specie di
cortocircuito, ebbe l’impressione di aver capito che cosa avesse tormentato ed
esagitato sua figlia negli ultimi tempi.
-Chiara, ieri non si è trattato di una
semplice rissa, vero?
La rossa scosse la testa,
con espressione triste e imbarazzata. A Margaret sembrò che stesse cercando di
combattere contro l’impulso di nascondersi dietro qualunque superficie a disposizione,
in uno dei suoi proverbiali moti d’orgoglio. Non le sfuggì nemmeno come il
volto di sua figlia cambiasse improvvisamente d’espressione, quando si accorse
che Roberta Della Corte era seduta a pochi metri da loro. Si sentì d’un colpo
molto disorientata, ma cercò di non darlo a vedere.
Riuscì solo a farsi da
parte, debolmente, mentre vedeva Chiara correre incontro a Roberta, e abbracciarla
stretta.
Era passata quasi una
settimana dal giorno dell’incidente e, a parte il rigonfiamento violaceo all’altezza
del setto nasale, a Roberta sembrava di stare bene, di sentirsi stranamente più
serena. Dal giorno delle pagelle, aveva vissuto nel segreto terrore non solo di
Vanessa e Angela, ma anche di suo padre, della sua famiglia e perfino di
Massimo, che aveva sognato per più di una notte in preda all’agitazione, come
se potesse tornare nella sua vita e rigettarla indietro alla loro disastrosa
relazione da un momento all’altro. Quel giorno però, si sentiva come se
qualcosa dentro di lei si fosse mosso, come se si fosse appena resa conto di
essere stata chiusa per anni in una stanza la cui serratura non era davvero
bloccata. C’era solo da attraversare la porta.
Il giorno in cui era
stata dimessa, era corsa a scuola a leggere la sua media di fine anno, accompagnata
in religioso silenzio dai suoi genitori, ma la notizia di aver passato tutte le
materie più che discretamente non era bastata a ridarle quel minimo di serenità
con cui si augurava di iniziare la sua ultima estate da liceale, né a
distendere il clima familiare. Mentre sua madre aveva più volte dato segno di
volerne parlare con Roberta (prontamente respinta, non per scortesia, ma per
puro imbarazzo), suo padre non aveva più fatto riferimento all’incidente, né
alla breve e secca conversazione che avevano avuto in pronto soccorso la sera del
ricovero: Roberta non sapeva se questo fosse un bene o un male. Aveva paura che
stesse covando dentro di sé un rancore silenzioso, come un orologio che
ticchetta in attesa di far scoppiare una bomba, ma non aveva il coraggio di
riprendere l’argomento. Il solo ricordo di quella discussione bastava a gelarla
di uno sconosciuto disagio.
-Che cos’è questa storia della rissa con la
figlia di Bernardo? Da quando ti fai coinvolgere in queste cose? – aveva
abbaiato severo, mentre lei giaceva ancora malandata sul lettino
dell’accettazione, - ma soprattutto cos’è questa storia che sei lesbica?
Roberta non si spiegava
ancora come suo padre lo fosse venuto a sapere in così poco tempo. Pensò che di
sicuro, a mo’ di giustificazione, Vanessa avesse raccontato tutto alla polizia
e ai suoi genitori, amici di famiglia dei suoi, cercando di far passare
quell’assurda reazione violenta come qualcosa di plausibile, visto lo shock
della notizia. Notizia che, Roberta si diceva quasi con orgoglio, lei non aveva
smentito, né occultato, ma che aveva confermato con decisione, come se stesse
aspettando il momento per liberarsene da anni. Certo, lo aveva fatto sull’onda
dell’adrenalina che si era sentita montare dentro d’un colpo, senza pensarci.
Ma non se ne era pentita, né aveva cercato di ritrattare in un secondo momento.
E di occasioni ne aveva avute. Ma che senso avrebbe avuto continuare ad evitare
la verità, che le era chiara ormai da tempo, e da cui si sentiva sempre più
attratta, come da un miraggio sempre più vicino? Si sentì stranamente fiera di
essersi presa spintoni e insulti senza scappare, perché finalmente, dopo una
vita passata a nascondersi e a dannarsi, sentiva di essere uscita allo
scoperto: una sensazione inebriante e spaventosa, come una voragine che le si
apriva al fondo dello stomaco. Finalmente poteva arrabbiarsi con qualcun altro
oltre che se stessa.
Ed in effetti era così, a
pensarci, si era davvero liberata. La sfortunata coincidenza degli eventi non
aveva fatto altro che accelerare un processo che era in atto dentro di lei
ormai da anni, che premeva per uscire dal suo corpo con sempre più violenza,
senza poter essere contenuta. Non poteva lasciarsi andare ancora in balia degli
eventi, non poteva continuare a fingere che la storia con Chiara non le avesse
rivelato, definitivamente, quello che già sapeva: le piaceva disegnare, le
piaceva dipingere, le piaceva correre all’aria aperta e prendere a pugni un
mastodontico sacco di sabbia, le piacevano le ragazze, e i colori decisi e il
mare e la primavera e non avrebbe passato più un solo giorno senza godersi
tutto questo. Le piaceva Chiara e aveva voglia di prendere la sua Mini
scalcagnata e scappare al mare con lei.
Mentre vagava sola per la
casa vuota (ringraziò che i suoi genitori continuassero la loro intensa vita
sociale in ogni caso, senza badare ad una figlia in convalescenza), si sentì
come una persona nuova. Dentro di lei qualcosa si era rotto, e aveva fatto
fuoriuscire un filamento sottile, luminoso, come d’acciaio: eccola, la sua vera
essenza, l’inizio della sua vera vita. Decise che avrebbe denunciato Vanessa e
Angela, che avrebbe parlato, che non sarebbe stata mai più zitta in vita sua.
Che suo padre si arrabbiasse, che le togliesse tutto. Si sentiva sola e
potente, tesa in un’elettricità costante.
Quello che piuttosto la
preoccupava, prendendo posto sull’altalena del suo grazioso giardino, fu che
cosa pensasse Chiara dell’accaduto. Lei che, in fondo, non aveva chiesto nulla
di tutto ciò che era successo, che avrebbe potuto restarne fuori, se avesse
voluto, godersi i suoi meritati risultati scolastici, prendersi un po’ più di
tempo per riflettere su cosa fare, su chi rendere partecipe del segreto della
loro relazione. Una parte di Roberta, quella più protettiva e altruista, non
avrebbe mai voluto essere causa del grande scombussolamento degli ultimi
giorni, che di sicuro – anche se Chiara non dava a vederlo, anche se era chiaro
cercasse come sempre di sembrare la più forte delle due – aveva toccato la sua
ragazza profondamente. Era sicura, da quello che aveva colto di Margaret Linch,
che Chiara non avrebbe avuto grossi problemi a confessare tutto ai suoi
genitori, che sembravano a Roberta una coppia gentile e affabile di brave
persone. Ma spettava a lei decidere quando e se dirlo, e aveva l’impressione
che con quel coming out forzato le avesse rubato del tempo prezioso per vivere
l’inizio della loro storia con debita serenità, per viversi senza ansie. Temeva
che Chiara si sarebbe ritratta di nuovo in sé stessa, chiudendosi a riccio come
faceva ogni volta che si sentiva minacciata.
Si ripromise di parlarle,
quando quel pomeriggio sarebbe passata a casa sua. Non si vedevano da una
settimana e le mancava, non passava ora senza che pensasse a lei e che si
scrivessero messaggi, si scambiassero brevi chiamate di nascosto. Avevano
pensato bene di aspettare che le luci della ribalta le lasciassero un po’ in
pace, prima di provare a stare da sole, e che Chiara scontasse la sua punizione.
D’ora in poi, in ogni caso, sarebbe stata una battaglia continua vedersi: era
sicura che suo padre si sarebbe messo in ogni occasione possibile fra lei e
Chiara, e sarebbe stato necessario approfittare di ogni momento propizio. Quanto
ai genitori di Chiara, si augurava che non prendessero misure troppo drastiche.
Cercò di non pensarci,
chiudendo gli occhi contro il piacevole solo di quel pomeriggio di giugno,
lasciandosi cullare dalla brezza: le giornate di sole e i fiori colorati del
suo giardino contribuirono ad intensificare quell’improvvisa sensazione di
benessere, lasciandola quasi commossa. Pensò invece all’ultima volta che lei e
Chiara si erano viste, a come avevano dormito insieme, a come si erano baciate
in salotto dopo che Benedetta era uscita di casa il giorno dopo che avevano
fatto l’amore per la prima volta. A quello che aveva sentito nelle profondità
del suo corpo, impresso in ogni nervo, in ogni muscolo: la necessità di Chiara.
Pensò allo sguardo della dottoressa Linch quando le viste abbracciarsi in
lacrime al pronto soccorso, mentre aveva cercato di tenere a freno l’istinto di
baciarla.
Rientrando in casa con
un’improvvisa voglia di dipingere, Roberta si guardò brevemente allo specchio
del corridoio, fra gli appariscenti quadri di arte contemporanea che tanto
piacevano all’avvocato Della Corte, ma che lei detestava.
Sorrise, e si trovò
bella, più di bella di quanto non fosse mai stata.
**
-Mamma, te l’ho detto, non ne voglio
parlare- sentenziò arrossendo Chiara, seduta con una copia di Ritratto di
signora su uno sgabello al bancone della cucina, mentre Margaret tagliava a
pezzi della frutta per il suo ennesimo esperimento in cucina.
Era un pomeriggio
sonnolento, Matteo era come al solito in ufficio e le tre donne di famiglia di
erano raccolte in cucina per un caffè e qualche pettegolezzo. Margaret sembrava
voler passare sempre più tempo in famiglia, e a nessuno era sfuggito quanto si
stesse impegnando ultimamente per passare del tempo lontana dal lavoro. Peccato
che si stesse impegnando anche nel farsi gli affari di tutti, da Matteo a
Benedetta e, soprattutto, gli affari di Chiara, su cui sembrava a tratti
accanirsi con domande al limite dello sconcertante. Arrivava di sorpresa e nei
momenti meno opportuni faceva domande, scrutando tutti con sguardo curiosamente
indagatore, come se stesse cercando di recuperare pezzi che credeva di essersi
persa. Aveva perfino chiamato nonna Agnes tre volte quell’ultima settimana,
rimanendo a chiacchierare con lei per delle ore, chiedendo notizie dell’intera
famiglia allargata con un’energia ed un interesse mai visti prima. Chiara
giudicò alquanto bizzarro quel comportamento, ma diede la colpa alla nota crisi
di mezz’età, che colpiva i genitori di tutti senza differenze di sorta.
Margaret, lanciando
un’occhiataccia all’impasto informe che stava lavorando, lasciò andare un
sonoro sbuffo, per poi prendere una manciata di farina da un barattolo di
terracotta e lanciarglielo su a mo’ di riparazione.
-Andiamo, Chiara, sono tua madre. Possiamo
smetterla con questa guerra fredda? Ti ho solo chiesto una cosa: i genitori di
Roberta saranno in casa oggi?
Benedetta ridacchiò
dietro i suoi libri, stipata nel suo angolino della vergogna, come lo
aveva soprannominato Chiara: un tavolo in fondo all’isola della cucina, accanto
alla porta finestra che dava sul giardino, sufficientemente soleggiato per
studiare senza deprimersi. Nel corso di quelle insolite chiacchiere familiari,
aveva anche lei fatto una confessione: era un po’ indietro con gli esami del
semestre, si era fatta prendere da uno strano panico negli ultimi mesi - lei
che aveva sempre brillato senza particolari difficoltà- complici la lontananza
da casa, un ambiente universitario più ostile delle previsioni e qualche
problema di gestione domestica con le coinquiline. Così tutti in famiglia si
erano impegnati a tenerla d’occhio e ad aiutarla a concentrarsi, se necessario
anche nascondendole il cellulare e le chiavi della macchina.
-Andiamo, mamma, ti ha già detto che non lo
sa- intervenne, dando una mano come poteva alla sorella minore.
Margaret grugnì, dando
una pesante manata alla pasta frolla per la crostata. Ci vorrebbero più uova,
disse fra sé e sé, prima di voltarsi a guardare le due figlie e dire,
lapidaria:
-No, Ben, ha detto che non ne vuole
parlare. E conoscendo questa piccola peste, sta per nascondermi qualcos’altro.
Chiara alzò gli occhi
esasperata, rinunciando a continuare il suo capitolo.
-Ma mamma, cosa cambierebbe se non ci
fossero i genitori di Roberta? Cosa che, fra parentesi, non so - si arrese
Chiara, alzando le mani, sperando che sua madre non si accorgesse della palese
bugia.
Pregò mentalmente che
quella breve concessione prevenisse Margaret dallo scendere in ulteriori dettagli,
con quel suo modo impacciato ma sfacciatamente invadente, come aveva fatto la
sera della sua incauta visita in ospedale, quando Chiara aveva detto – tremante
durante il viaggio di ritorno in macchina- che lei e Roberta erano più che
amiche. Matteo aveva quasi sterzato di botto, alla notizia, mentre Margaret era
rimasta pacificamente in silenzio, intimando a suo marito di restare calmo.
Peccato che quel silenzio non fosse durato che un’ora, passata la quale aveva
fatto irruzione in camera di Chiara e Benedetta con una raffica confusa di
domande, come se avesse realizzato solo allora il significato delle sue parole:
Quindi Chiara, darling, tu e Roberta avete una relazione? Da quanto tempo va
avanti? Benedetta, tu lo sapevi? Ovvio che lo sapevi! E non ci hai detto nulla!
Matteo, d’altra parte,
aveva accolto la confessione con una strana sufficienza, forse a causa del
cognome di Roberta e di tutto ciò che gli riportava alla memoria, forse perché
si era appena reso conto, per la prima volta, che anche la sua figlia minore
era cresciuta abbastanza da avere dei segreti di questo genere. Chiara sperava
che, passato l’iniziale straniamento, potessero parlarne con calma, anche se
non aveva, in ogni caso, nessuna fretta. Più tempo avesse avuto per abituarsi
alla nuova realtà delle cose (lei e Roberta stavano insieme e il mondo lo
sapeva!), meglio sarebbe stato. Era comunque sicura che confidarsi con i suoi
genitori fosse stata la decisione più saggia, perché ora si sentiva meno sola,
meno vulnerabile, con accanto dei validi alleati in caso si fossero verificati
altri spiacevoli episodi a scuola.
Peccato che sua madre non
avesse il benché minimo tatto.
Margaret, pulendosi le
mani sul grembiule, si aprì infatti in un sorrisino, apparentemente soddisfatta
di averla fatta capitolare. Lavorò per un po’ l’impasto informe e decisamente
troppo appiccicoso per essere pasta frolla, per poi rimescolare i cubetti di frutta
in un pentolone con acqua bollente.
-Cambierebbe, love. Abbiamo già
fatto una chiacchierata sulla prevenzione delle malattie sessualmente
trasmissibili? – riprese, dopo qualche minuto.
Chiara lasciò sonoramente
cadere il suo romanzo sul tavolo e implorò Benedetta con uno sguardo disperato,
mentre quella roteava gli occhi con l’aria di chi ci era già passata.
-Mamma, ti prego!
Rimestando una
sottospecie di marmellata, Margaret si limitò a dire: - Chiara, tesoro, non
fare la pudica. E stasera a casa per le nove.
**
Chiara varcò il cancello
di Villa Della Corte con il cuore che le rimbombava nelle orecchie. Ad ogni
passo, sentiva lo stomaco contorcersi come la prima volta che ne aveva scorto
l’elegante giardino, alla festa di diciotto anni di Roberta, persa fra le file
di auto costose dei suoi invitati. Quella era stata la sera del loro primo
bacio, la sera in cui si era ubriacata e aveva quasi pianto vedendo lei e il
suo ragazzo fantoccio ballare avvinghiati sulla pista da ballo, la sera in cui
si era persa nei meandri di quella casa enorme e vuota cercando inconsciamente
di incontrarla. La stessa sera in cui si era resa conto che qualunque cosa
provasse per Roberta non poteva più essere ignorata. Le sembrava fossero
passati solo pochi, intensi giorni, e non quasi due mesi.
Roberta l’aspettava sulla
soglia: con quel sorriso timido, la pelle fresca, bianca, e il naso ancora un
po’ gonfio, a Chiara fece un’enorme tenerezza. Distinse qualche macchia di
colore sui pantaloncini, segno che aveva passato il pomeriggio a dipingere. Per
un attimo non riuscì a muoversi da dove si trovava, a metà del vialetto
d’ingresso, a fissare da lontano la sua ragazza, con il fiato corto, le
guance arrossate, come se fosse arrivata di corsa. Quanto sei bella, Roberta,
pensò, guardando le sue braccia nude e pallide, il colore pastello della sua
canottiera, la delicatezza della sua treccia scura e dei suoi occhi sereni.
-Torri– si sentì chiamare dopo qualche
minuto, in tono divertito ma perentorio di chi ha una certa fretta, - che ci
fai lì imbambolata? Vieni qui e baciami.
L’estate del suo quarto
anno di liceo fu la più bella di cui Chiara avesse avuto memoria fino a quel
momento: quasi tre mesi interamente liberi, passati a lavorare nella libreria
del signor Lovato tre volte a settimana, mentre divorava tomi su tomi di letteratura,
saggistica, poesia e tutto ciò che le veniva curiosità di approfondire nel
resto del tempo, mentre la città si svuotava e poteva godersi la frescura delle
sere in montagna in santa pace, oziare e ascoltare musica stesa nel suo
giardino. E le giornate di mare con i suoi amici (alla prima sortita in
spiaggia ne erano seguite, per l’immensa gioia di Flavio, una decina d’altre),
i giri in centro con sua sorella per delle lunghe e meritate pause dal suo
studio universitario, la prospettiva di un viaggio in agosto con la sua
famiglia in Irlanda, a casa di sua nonna Agnes: tutto questo rendeva Chiara
piena di una felicità quasi stucchevole, elettrizzante, facendola svegliare
ogni mattina con un’energia incontenibile. Cantava sotto la doccia ridicole
canzoni degli One Direction sperando di essere
sola in casa, per poi uscire di casa di corsa in bicicletta, alla volta di casa
di Carmen, Sabrina o Ivan (che aveva finalmente presentato il suo ragazzo, Niccolò,
al resto del gruppo).
E poi, ovviamente, c’era
Roberta.
La loro relazione andava,
contro ogni previsione funesta, a gonfie vele, senza incontrare particolari
intoppi se non i soliti problemi che tutti i loro amici avevano: Chiara aveva
un coprifuoco piuttosto rigido (Margaret, nel suo nuovo spirito domestico, era
diventata ancora più attenta a controllarla), Roberta non poteva passare notti
fuori casa senza che i suoi genitori le facessero storie per i giorni
successivi; quando le due famiglie si incrociavano, per sbaglio, in centro,
regnava ancora un clima di omertà generale. Roberta, in più, era stata
piuttosto presa dalla denuncia sporta contro Vanessa e Angela per l’incidente
– fatto che aveva le ulteriormente inimicato suo padre, che le si rivolgeva ora
in modo sempre più freddo, ignorandola quasi per la maggior parte del tempo – e
dal gestire una situazione familiare piuttosto tesa fra i suoi genitori. Ma, a
parte compagne di liceo arpie, genitori iperprotettivi e problemi logistici di
vario tipo, Chiara non riusciva ad immaginarsi una storia più bella di quella. Non
avrebbe cambiato per nulla al mondo i lunghi pomeriggi distese in giardino, ad
ascoltare musica, a guardare Roberta disegnare o leggere, addirittura provare a
strimpellare la sua chitarra (le aveva chiesto di insegnarle, e lei la trovava
sempre più adorabile). Non avrebbe fatto a cambio con nessuno, ora che le
sembrava che la sua vita fosse così piena, così luminosa, ora che godeva dei
lunghi baci di Roberta, delle sue infinite attenzioni, ed anche se dovevano
sempre stare attente al minimo rumore, non poteva fare a meno di pensare che
non si fosse mai sentita così libera.
In più, con il tempo, le
loro tecniche di occultamento e bugie ai genitori erano notevolmente
migliorate, tanto che riuscivano a dormire almeno una volta a settimana
insieme, calcolando accuratamente i tempi in cui Margaret avrebbe avuto dei
turni di notte, in cui l’avvocato Della Corte sarebbe stato in trasferta con
sua moglie, in cui Matteo sarebbe partito alla volta della sua casa familiare
per far visita alla sua anziana madre. Benedetta, come sempre, si era rivelata
un’alleata fondamentale, e Chiara aveva notato con piacere l’avvicinamento fra
la sua ragazza e sua sorella, mentre diventavano sempre più frequenti le cene
in tre, a base di uno dei tanti piatti congelati lasciati in freezer da sua
madre, che oramai aveva il pallino fisso della cucina gourmet.
Quel giorno, dieci di
luglio, era proprio uno di quei giorni particolarmente fortunati, in cui Chiara
avrebbe avuto la casa tutta per sé (Matteo e Margaret erano andati a passare un
fine settimana con la suocera in uno degli agriturismi vicini e Benedetta aveva
pensato bene di togliersi dai piedi, sparendo nel caos di una delle proverbiali
feste degli ex compagni di liceo): da quella mattina non riusciva a smettere di
pensare a come rendere quella serata particolarmente speciale, aveva voglia di
fare una sorpresa a Roberta. Pensò che avrebbe potuto cucinarle qualcosa di
esotico, o scovare qualche film che le fosse piaciuto (aveva scoperto che la
sua ragazza andava matta per i film indipendenti dai finali trascinati e
nebulosi, con quelle colonne sonore vagamente britpop), o magari semplicemente prenderle
un piccolo mazzo di fiori.
Mentre ci pensava,
finendo di prepararsi prima di passare dal signor Lovato a dargli una mano con
gli arrivi della giornata, canticchiando Whatdoesnt’ killyou make youstronger,
sentì il cellulare vibrare e rispose alla chiamata.
-Carmen?
-Bene, ecco la mia cara amica desaparecida!
Ma dove sei finita!? Ti aspettiamo oggi per un giro al parco. Ci sarà anche
Riccardo, vedi di non mancare.
Chiara si irrigidì
leggermente a quella frase, gironzolando per casa in cerca delle sue converse
estive.
-Carmen, sei sicura sia una buona idea? Non
so se abbia voglia di vedermi.
Sentì l’amica sbuffare
sonoramente, forse perfino lei che adorava stare in mezzo ai drammi amorosi
percepiva la necessità di voltare capitolo e di calmare finalmente le acque.
-Chiara, ora che lui e Sabrina escono
insieme è inevitabile che vi vedrete. Non credi sia ora di andare avanti?
Chiara odiava quando
Carmen faceva tanto la voce della verità, soprattutto perché sapeva che aveva
ragione. Dopo l’incidente, Sabrina e Riccardo si erano avvicinati notevolmente
– Chiara ne aveva ignorato inizialmente il motivo, supponendo solo una grande
presa di coraggio da parte dell’amica, che le sembrava aver acquistato una
maggiore stima di sé dopo la buona fine dell’anno scolastico - e la settimana
precedente, durante un pomeriggio di bellezza di sole ragazze (più Ivan) a casa
di Carmen, Sabrina aveva ammesso con un risolino che era successo qualcosa fra
di loro: avevano deciso di vedere come sarebbe andato il resto dell’estate,
senza impegno. Avevano sgranato gli occhi dall’incredulità, solo Ivan aveva
affermato, con aria di chi la sa lunga, che grazie ai consigli che aveva dato a
Sabrina era solo una questione di tempo.
-No…- sbuffò Chiara, allacciandosi le
scarpe, - cioè, sì, ma non ora. Mi vergogno ancora troppo. Forse possiamo
rimandare alla prossima occasione?
Dal tono di voce con cui
esordì l’amica (Chiara, non essere ridicola) era sicura che Carmen
stesse per iniziare una delle sue famose orazioni ciceroniane con cui avrebbe
potuto convincere anche un sordo (tutti sospettavano che, dopo il liceo,
avrebbe intrapreso una carriera da avvocato), per cui dopo qualche secondo
ritrattò, roteando gli occhi:
-Va bene, non iniziare nemmeno. Vengo.
L’ultima cosa che sentì
dopo aver chiuso la chiamata fu il ghigno soddisfatto dell’amica che, come
sempre, portava a casa il risultato sperato.
**
Il signor Lovato era un
ometto gentile e affabile, che le lasciava prendere tutti i libri che voleva
fra quelli destinati al macero o troppo malandati per essere esposti (cosa che
aveva fatto raddoppiare la biblioteca di Chiara nel giro di un anno), ed anche
quel giorno riuscì a portarsi a casa una copia sgualcita delle Argonautiche di
Apollonio Rodio, che aveva preso a sfogliare in attesa dei suoi amici al parco.
Ne lesse placidamente l’introduzione, maledicendo l’insistenza di Carmen e il
caldo di quel pomeriggio, e trovando posto sotto la chioma di un albero, fino a
che non fu interrotta da una voce maschile piuttosto familiare.
Alzò di scatto la testa
dal libro, scorgendo la sagoma di Riccardo, in pantaloncini estivi e capelli
biondi scarmigliati, dall’altro lato dell’aiuola. Non era cambiato molto
dall’ultima volta in cui si erano visti, alla cerimonia di premiazione delle
migliori medie della scuola, in cui Chiara l’aveva scorto farsi timidamente
spazio fra il pubblico e salutarla da lontano. Sembrava solo più alto, più
abbronzato e più robusto, come se si fosse allenato duramente tutto quel tempo,
o fosse cresciuto d’un colpo durante la notte.
-Ti disturbo? Avevi l’aria piuttosto
assorta- gli sorrise il ragazzo, esitando ad avvicinarsi, come ad aspettare un
suo esplicito permesso.
-Riccardo! Ma no, siediti pure- lo salutò
la rossa, cercando di non farsi prendere troppo dall’imbarazzo e spostando la
sacca di tela al lato per fargli spazio.
Si ritrovarono seduti
l’uno accanto all’altra, in una strana situazione di intimità che ora le stava
stretta, mentre ricordava il calore del pomeriggio in cui si erano salutati
prima della gita a Vienna, in quello stesso parco, fra la neve e il freddo di
marzo. Riccardo iniziò a strappare ciuffi d’erba, evidentemente a disagio.
-Sei da sola? Sabrina non è ancora
arrivata?
Chiara fece segno di no
con la testa, continuando a piegare nervosamente le pagine del suo libro,
gettando occhiate attorno per vedere se qualcuno dei loro amici fosse in
arrivo. Maledisse ancora una volta Carmen e quella sua parlantina, raccogliendosi
le gambe al petto.
-È un po’ di tempo che non ci vediamo, non
è vero? - fece Riccardo, con un tono di voce casuale ed innocente che però a
Chiara parve carico di uno strano risentimento, - Dal giorno della cerimonia. A
proposito, complimenti.
La rossa ringraziò
brevemente, prendendo un po’ di coraggio per dire quello che sentiva di voler
dire.
-Mi dispiace per quello che è successo fra
di noi- riuscì a far uscir fuori, dopo qualche minuto, - mi sono comportata in
modo immaturo.
Sentì Riccardo muoversi
leggermente sull’erba, incrociando le gambe per poi rimettersi a sedere contro
il tronco dell’albero, come se fosse inquieto.
-Non devi scusarti, Chiara. È stata anche
colpa mia. Ho interpretato male molte cose- sospirò, con lo sguardo oltre il
cancello del parco, forse deciso a non guardarla in volto.
-Lo so, ma se può consolarti, anche io per
un momento ho creduto potesse esserci qualcosa. Ti ho illuso, mi dispiace-
disse, per la prima volta forse ammettendolo anche a sé stessa.
Quella cotta acerba,
quell’amore tenero e fraterno per il suo migliore amico, ora le si rivelava in
tutta la sua infondatezza: aveva cercato di trovare un naturale sbocco ai suoi
sentimenti ambivalenti verso i ragazzi in lui, alla sua inadeguatezza nei
confronti delle amiche sempre perse per qualcuno, forse investendolo già dall’inizio
del ruolo di ragazzo perfetto per lei, colui che l’avrebbe tirata fuori alla
palude sentimentale in cui si sentiva bloccata. Un ruolo che ora le sembrava
così vuoto, così artificiale. Aveva cercato di convincersi che le cose
avrebbero potuto funzionare, che con lui le sarebbe potuto battere il cuore,
che avrebbe potuto desiderare ardentemente le sue attenzioni, andare oltre agli
abbracci sicuri e confortevoli, cercando i suoi baci, le sue carezze, la sua
pelle. Al solo pensiero si sentì sciocca, come se si vedesse di fronte una
Chiara ragazzina in tutte le sue fantasie illusorie. Lei e Riccardo sarebbero
stati perfetti. Perfetti, sì, ma per chi?
Si voltò a guardare
Riccardo, mentre ne ascoltava il respiro in quel silenzio assordante. Aveva
l’impressione che, come diceva Carmen, si stesse chiudendo un cerchio, stessero
entrambi voltando pagina. Non avrebbe immaginato però di provare tanta
tristezza, tanta pena verso sé stessa per essersi illusa così a lungo, per
essersi gettata alla cieca sul cammino che tutti le indicavano senza ascoltare
il tumulto di sentimenti che aveva dentro di lei, e che nascondeva sempre più
violentemente. Ferendo, così, qualcuno che l’aveva a cuore, che aveva cercato
di essere onesto con lei.
-Sai, mi sono resa conto che mi sono sempre
piaciute le ragazze- disse, quasi come se parlasse a sé stessa, in tono
assorto, - Non me n’ero mai resa conto ma c’era sempre qualcosa che mi premeva
dentro, quando ascoltavo amiche, compagne di classe parlare di ragazzi, mentre
mi chiedevo che cosa c’era che non andasse in me. Le invidiavo perché io non
provavo niente.
Chiara prese a strappare
fili d’erba e a lanciarli alla rinfusa attorno a lei. I grilli frinivano fra le
siepi, il pomeriggio rovente si stava mutando in una fresca serata estiva,
mentre le nuvole spiravano verso colori sempre più scuri. Riccardo stava in
silenzio, forse aspettando un seguito a quella confessione.
-Io, non so, credevo che con te sarebbe
stato diverso- sorrise amaramente la rossa, - che con te avrei provato
qualcosa, perché ti volevo così tanto bene, adoravo passare del tempo con te.
A nessuno dei due sfuggì
il fatto che stesse parlando all’imperfetto.
L’atmosfera era irreale, ma pesante, come se una cappa si fosse formata su di
loro, come se fossero l’occhio di un ciclone.
-Ma non è stato così- concluse brevemente
Riccardo, tirando su col naso.
Chiara scosse la testa,
ora aprendosi in un sorriso più dolce.
-No, perché poi ho incontrato Rob.
Si guardarono per un
istante, con la vecchia complicità di amici, come se stessero per scoppiare in
una risata ma non ne avessero la forza.
-Sono contenta che tu stia uscendo con
Sabrina- disse alla fine gentilmente Chiara, vedendo che lui annuiva con gli
occhi stranamente offuscati.
Riccardo riuscì appena ad
asciugarsi una lacrima, mentre Carmen, Sabrina e Ivan avanzavano a grandi
falcate verso di loro, salutandoli con allegria, girando per loro la pagina più
difficile della loro amicizia.
**
-E così- disse Roberta, accarezzando
delicatamente la schiena di Chiara, lungo distesa accanto a lei sul suo letto,
- avete finalmente parlato?
La stanza era illuminata
solo dalle luci soffuse di alcune candele, che Chiara aveva deciso bene di
comprare come piccola sorpresa per la sua ragazza, sistemando il tutto per
creare un’atmosfera morbida e rilassata.
Dopo il pomeriggio al
parco con gli amici, era tornata lentamente a casa attraversando il centro,
fluttuando come in un sogno, assorta ancora nei pensieri che le aveva suscitato
il laconico incontro con Riccardo. Era entrata quasi senza accorgersene in un
negozietto pieno di oggetti scintillanti e chincaglierie per la casa, girando
attorno a statuette e stecche d’incenso senza fiatare, per poi prendere un
pacco di candele lunghe e bianche, al profumo di vaniglia. Prima di svoltare verso
la strada di casa, poi, aveva comprato gli ingredienti per una cena semplice ed
estiva, pensando che sarebbe stato bello cenare con Roberta in giardino. E così
avevano trascorso quell’inaspettata notte in intimità, con la solita musica
indie di Roberta, i rumori pigri della strada e le risate dei vicini impegnati
in un barbecue. Si erano baciate dolcemente sul divano, lasciando perdere
definitivamente l’idea di guardare un film, per approfittare di quel momento da
sole.
Ora, distesa sotto le
lenzuola, Chiara fece un cenno affermativo per rispondere a Roberta, con gli
occhi chiusi, beandosi di quelle attenzioni di cui poteva godere solo
raramente, quando erano da sole e sapevano che non sarebbero state interrotte,
che non c’era niente da cui proteggersi o nascondersi. Momenti in cui potevano
cullarsi a vicenda in un confortevole silenzio, mentre nella casa vuota
echeggiavano i rumori degli elettrodomestici in funzione, e una canzone ronzava
nelle casse dello stereo del salotto.
-Sai una cosa? – continuò la riccia,
sistemandosi meglio con la testa sulla sua spalla e lasciandole un breve bacio
sulla clavicola scoperta.
-Cosa? – chiese Chiara, aprendo un occhio
per scrutarla il volto, per capire da dove venisse quel tono improvvisamente
più serio.
Roberta la rassicurò
accarezzandola ancora, con un piccolo sorriso.
-Credo di essere ancora gelosa di lui-
arricciò il naso, come al pensiero che Riccardo potesse portarle via la sua
ragazza, che potessero ancora esserci dubbi su chi avesse scelto fra i due.
Chiara non poté fare a
meno di ridere, guardandola fintamente esasperata. Era così bella,
stretta a lei, e le sembrò che fosse cresciuta d’un colpo, che fosse diventata
una donna, una meravigliosa donna dagli occhi azzurri e il sorriso sagace.
-Sei sempre stata gelosa di lui. Biondo
bellimbusto, lo hai chiamato una volta a scuola, o sbaglio? – riuscì a
rispondere dopo un po’, distogliendo lo sguardo dalle sue labbra.
Roberta alzò le spalle,
come a giustificarsi, facendosi scivolare le lenzuola sulle spalle: - Come
potevo sapere che ti piacessi io, e non lui? Ti ronzava attorno tutto il tempo,
mentre io ti potevo guardare solo da lontano.
La rossa l’attirò a sé
con aria cospiratoria, avvicinandosi al suo orecchio.
-Già, come potevi immaginare che mi fossi
presa una cotta per l’incredibile, bella, talentuosa e affascinante Roberta
Della Corte? – alzò un sopracciglio, come a prenderla in giro, attorcigliandosi
una ciocca di capelli neri attorno al dito.
Roberta alzò gli occhi
divertita (Sei unaruffiana, le disse) lasciandosi baciare dalla
sua fidanzata.
-Non potevo immaginarlo davvero, Chiara-
rispose, non appena quella la lasciò libera di parlare. Fece un sorriso timido,
piegando la testa, come se non ci credesse ancora che davvero stessero insieme.
– Non avrei mai immaginato che pensassi a me come io pensavo a te.
Chiara assottigliò gli
occhi, incuriosita.
-Come pensavi a me, sentiamo?
La riccia non poté fare a
meno di arrossire, anche alla luce delle candele il colorito della sua
carnagione apparve lievemente più roseo. Si sistemò meglio nel letto,
passandosi le mani dietro la testa, stirandosi. Chiara rimase incantata da quel
suo gesto.
-Pensavo che avrei tanto voluto poterti
baciare. Certo, eri una tale saccente... Mi sarebbe piaciuto chiuderti la bocca
tutte le volte in cui blateravi senza sosta su quanto la Manzi fosse stata
ingiusta nella valutazione dell’ultima versione- rise, guardando il soffitto.
Poi si girò verso Chiara,
guardandola dritta negli occhi, come ipnotizzata. – E tu, - chiese – che cosa
pensavi?
Quella fece finta di
pensarci su qualche minuto, prendendole ad accarezzare le braccia, fino ad
intrecciare le dita con le sue. Roberta aveva le mani morbide, le venne
l’impulso di lasciarvi un bacio. Si rese conto che, fino a quel momento, non
era mai riuscita a vivere la vicinanza corporea con qualcuno in modo tanto
sereno, tanto naturale. Si sentì anche lei cresciuta, come se avesse lasciato
una vecchia pelle per uscirne alleggerita, più a suo agio con ciò che la
circondava. Anche la timidezza, quanto al contatto fisico, stava lentamente
scemando, lasciando posto ad impulsi che non aveva mai sentito prima, a cui
cercava di lasciarsi andare con più autenticità possibile.
-Io pensavo che tu mi mettessi troppa ansia
per sopportare anche solo di avvicinarmi. Tutta quella scena da bad girl, e invece guardati.
Roberta grugnì
contrariata. – Dimenticavo che parlo con una gangster di prima categoria,
signorina risolvo tutto con un paio di schiaffi.
Chiara le diede una
leggera spinta, ridendo e aggiungendo: -Non sono io quella che ti ha mandato in
infermeria con un bel colpo in faccia.
La riccia scosse la testa sorridendo,
ricordando quel momento.
-Credo proprio che da settembre non potremo
più frequentare lo stesso corso di kickboxing allora, siamo diventate troppo
pericolose.
La rossa non poté
impedirsi di pensareBeh, in realtà abbiamo trovato
un altro modo per scaricare la tensione, e Roberta dovette leggerle nel
pensiero, perché le mollò uno schiaffetto sul braccio sibilando qualcosa che
suonava tanto come sei irrecuperabile, per poi trascinarla in un altro
lungo bacio.
Per la lettura di questo
capitolo, consiglio l’ascolto di Welcome home, Son dei Radical Face,
nella versione orchestra.
Ci vediamo all’epilogo,
Deirbhile
Il paesaggio frecciava
dal finestrino in un turbinio di colori, mentre alla radio davano una vecchia
canzone (Born too late delle Poni-Tails), facendo sentire Chiara come in
un vecchio film anni Cinquanta, mentre sorrideva fra le raffiche di vento che
le arrivavano in volto. Si sistemò meglio sul sedile della Mini Cooper di
Roberta, sporgendo fuori il gomito destro e facendo per stendere le gambe
scoperte sul cruscotto, desiderosa di godere ancora del sole in procinto di
tramontare. Era stata una lunga giornata di mare, sia lei che Roberta avevano
ancora addosso l’odore del sale marino, della crema solare e di qualche
scottatura (un’altra delle scomode eredità della stirpe irlandese di Chiara), e
si sentiva leggera, come se il suo corpo fosse illuminato da dentro, attraversata
da un benessere profondo. Aveva voglia di stringersi a Roberta, di tornare
avvinghiate come lo erano state nel loro angolino di spiaggia quando avevano
visto andar via l’ultimo degli avventori.
-Non ci provare nemmeno, signorina- la
richiamò prontamente la riccia, mentre con un sorriso malefico le mollava un
pizzicotto sulla pelle lasciata scoperta dai pantaloncini, - sarà anche da
rottamare, questa macchina, ma vediamo di farla durare almeno fino alle fine
dell’università.
Chiara sbuffò contrariata,
mentre la canzone sfumava in Penny Lane dei Beatles e sentiva la sua
ragazza mormorare qualche vago apprezzamento sulle scelte di qualità del canale
radiofonico. Fuori, uno spettacolare tramonto di fine estate si estendeva sul
Mare Adriatico, mentre loro due sfrecciavano in superstrada con la vaga
sensazione che avrebbero dovuto inventare una buona scusa per tutto quel
ritardo. Chiara aveva detto ai suoi genitori che sarebbe andata in spiaggia con
i suoi amici, mentre Roberta aveva solo informato sua madre del fatto che
avrebbe dovuto usare la macchina per tutta la giornata, e che sarebbe tornata
per ora di cena. Sono maggiorenne, aveva sentenziato, quando quella le
aveva rivolto un’occhiata sospettosa.
-Va bene, ma sappi che sono frustrata- fece
sapere Chiara con tono lamentoso, spostando lo sguardo verso le altre auto che
le sfrecciavano accanto.
Roberta le prese
velocemente la mano per lasciarle un leggero bacio, come a scusarsi.
-Arriveremo tardi, lo so, ma abbiamo fatto
troppe soste- disse, alzando poi ironicamente un allusivo sopracciglio.
L’estate procedeva sempre
più veloce, Chiara era tornata dall’Irlanda ricca di storie da raccontare sulla
sua famiglia, sui posti che aveva visitato e sulle sue avventure con Benedetta
e i cugini d’oltre Manica. Si erano viste a casa di Chiara quella mattina con
l’idea di approfittare dei rinnovati turni in ospedale di Margaret e del
ritorno in ufficio di Matteo, prendendo poi alla rinfusa tutto ciò che sarebbe
potuto servire per un’improvvisata gita al mare, colte da un improvviso
entusiasmo e dalla consapevolezza che sarebbero tornate al liceo solo dopo due
settimane. Cavolo, il tempo vola, aveva detto Roberta, accarezzando i
capelli rossi della sua ragazza in estasi, stese sul divano, ringraziando
mentalmente il fatto che Chiara aveva una sorella così cool dal capire
immediatamente quando fosse il caso di ritirarsi in camera a studiare e lasciar
loro un po’ di privacy.
Così avevano deciso di
fare proprio, alla lettera, il motto carpe diem e correre al mare con dei
sandwich, asciugamani, crema solare e qualche romanzetto estivo. Chiara si era
portata dietro Anna Karenina, con somma ilarità della sua ragazza, che
era poi stata costretta a farsi carico della borsa per l’intera escursione alla
ricerca di un posto libero e riparato sulla spiaggia pubblica. La
letteratura non va in vacanza, aveva alzato le spalle Chiara, per poi
baciarla ed intimarle di cederle il carico.
Ora entrambe guardavano
assorte la distesa grigia della strada di fronte a sé, mentre il canale radio
retrò era passato a trasmettere hit degli anni Ottanta, con Funky Town,e Roberta cercava di recuperare il tempo perduto nel tragitto di ritorno,
sorpassando di tanto in tanto qualche auto fra le urla di Chiara. La rossa aveva
preso a muovere la testa a ritmo, per calmare la tensione, e a fare mossette di
ballo che Roberta trovava alquanto divertenti. Glielo fece notare con una
risata, mentre girava a destra per immettersi in autostrada e lasciarsi il
panorama marino alle spalle.
-Non prendermi in giro, Rob. Altrimenti la
smetto di leggere le indicazioni del navigatore- Chiara le fece uno sguardo
bieco da dietro agli occhiali da sole gialli, accennando a spegnere il
cellulare che teneva sulle gambe.
Fra le ragioni del loro
ritardo c’era, oltre ad una prolungata permanenza al mare e una sosta
improvvisata ad una stazione di servizio perché Chiara aveva fame (più un lungo
bacio nei bagni dell’autogrill), la loro assoluta incapacità in due di
orientarsi fra le strade indicate dal navigatore, cosa che aveva costretto la
rossa a prendersi l’onere di ripetere, scandendo bene le istruzioni, le
indicazioni della voce elettronica alla sua ragazza, che cercava di capirci
qualcosa nel caos del traffico. Roberta scosse la testa ridendo, intimandole di
dirle quanti chilometri mancavano alla prossima uscita, che le avrebbe
riportate verso le montagne del loro paese.
-Ne abbiamo per un po’, tranquilla. A
proposito, tieniti a destra- aggiunse quella, chiudendo il finestrino ora che
l’aria dell’autostrada entrava più forte- mi sa che dovremmo inventarci una
delle nostre scuse.
Chiara faceva riferimento
a tutto un repertorio di storie che si erano prontamente inventate, con l’aiuto
e il sostegno pratico di Carmen, Sabrina e Ivan (e, ovviamente, Benedetta, in
uno dei momento in cui non si sentiva in colpa verso i loro genitori), da usare
ogni qual volta fossero insieme, per poter stare indisturbate a casa l’una
dell’altra o in qualche altro posto della città dove i loro genitori non
avrebbero dovuto vederle insieme.
Una volta, per esempio,
avevano deciso di provare a passare una notte insieme in campeggio, e Roberta
aveva detto ai suoi genitori che sarebbe andata alla casa al mare di un’amica
di classe (detta Sabrina, che loro non conoscevano, ma che gli era sembrata sufficientemente
lontana da Chiara per non insospettirsi), mentre Chiara aveva tirato in ballo
una serata da Carmen. Nel silenzio generale, si erano poi dileguate in treno
verso uno dei campeggi vicini, affittando tenda e attrezzatura necessaria a
passare una notte fuori, per poi essere raggiunte da Ivan e Niccolò con una
griglia e cibo a volontà. Quella sera avevano festeggiato per la seconda volta
il compleanno di Chiara (la prima festa, diceva lei, era stata troppo
tranquilla per i suoi gusti) facendosi il bagno al lago vicino a mezzanotte,
per poi ritirarsi nella loro tenda, cercando di non fare troppo rumore mentre
si baciavano, lasciandosi scivolare via i vestiti di dosso con la fretta di chi
era stato troppo a lungo lontano.
-Questa volta mi sa che Sabrina è off
limits, mia madre ha capito che è un’amica tua- roteò gli occhi Roberta,
cambiando marcia ed assestandosi su una velocità più regolare.
A Chiara venne da ridere
ripensando al campeggio e alle battutine maliziose di Ivan, mentre i lampioni
al lato della strada si accendevano e la sera scendeva lentamente su di loro. Pensò
anche a come Roberta l’aveva baciata, quella notte, e a come era stata
elettrizzata dall’idea di dormire con lei in mezzo al silenzio del campeggio.
Erano già da un bel po’
in autostrada- ognuna immersa nei propri pensieri, facendosi di tanto in tanto
cenno di essere ancora lì con un gesto gentile- su corsie quasi deserte, quando
alla radio passò una canzone che Chiara riconobbe subito, perché le ricordava
sempre casa sua in Irlanda, il giardino di meli, le fronde verdi e rigogliose
nel pieno dell’estate. Era Welcome home, Son dei Radical Face.
-Adoro questa canzone- disse, assorta,
accarezzando placidamente il braccio di Roberta e chiudendo leggermente gli
occhi.
Roberta alzò il volume,
tornando a guardare la strada con uno sguardo stranamente pensieroso. Aveva
riconosciuto anche lei la canzone.
-Heal
the scars from off my back, I don't need them anymore, you can throw them out
or keep them in your mason jars, I've come home – cantò, mentre un sorriso le spuntava sulle labbra, -
la conosco, Chiara. È davvero molto bella.
Quando, un’ora dopo,
ebbero imboccato l’uscita dall’autostrada, Roberta fermò la Mini Cooper in una
macchia in mezzo alla campagna brulicante dei rumori di fine estate, per poi prendere
fra le mani il volto della sua ragazza e baciarlo profondamente.
Al diavolo i nostri genitori
disse, per poi continuare a baciarla ancora e ancora, mentre a Chiara
rimbombava in testa quella canzone, cantata dalla voce morbida e melodiosa di
Roberta, e le veniva quasi da piangere perché, sì, erano arrivate a casa.
Erano a casa, mentre
Roberta le infilava delicatamente le mani sotto la maglietta bianca, sulla
pelle scottata dal sole, mentre i loro respiri si intrecciavano senza nessuna
parola, senza nessun discorso, senza nemmeno più la musica a fare da
sottofondo. Mentre lei si aggrappava ai suoi capelli ricci, tirandola su di sé,
cercando di annullare qualunque distanza separasse i loro corpi: anche un
centimetro lontana da lei sarebbe stato insopportabile. Mentre il corpo di
Roberta, bianco di fronte ai suoi occhi, ora nudo e lucente alla luce della
luna, la lasciava senza fiato come tutte le volte, mentre si chiedeva come
fosse stato possibile, in quell’universo tanto strambo, innamorarsi
perdutamente di una delle sue più acerrime nemiche, come fosse possibile
passare dagli sguardi di sottecchi al baciarsi la pelle senza riuscire a starne
lontana nemmeno un secondo, mentre le loro bocche si scontravano e si
riappacificavano, e tutto attorno a loro sembrava aver smesso di muoversi, come
a lasciar loro lo spazio per essere le uniche protagoniste della notte. Mentre
Roberta sospirava rumorosamente, mentre Chiara sentiva le sue guance diventare
sempre più calde, sempre più rosse, e l’intero corpo scuotersi come se stesse
per essere per essere spazzato via da un potentissimo terremoto.
Erano a casa. Non avevano
più bisogno di nascondersi alcuna cicatrice.
**
Il quindici settembre,
alle otto e dieci, suonò la campanella dell’ultimo primo giorno di scuola per
una cinquantina di ragazzi del liceo Giulio Cesare, fra cui Chiara, Carmen, Ivan
e Sabrina, che se ne stavano insieme, in attesa di entrare in classe,
ciondolando nell’androne del liceo. Iniziava l’anno della maturità, l’anno
della resa dei conti, l’anno in cui la Manzi avrebbe smesso di essere il loro
più grande problema, per lasciar spazio ad una vita misteriosa, fatta di
decisioni importanti, di volti sconosciuti, di materie complicate e
preoccupazioni sempre più impellenti per il loro futuro.
-Ci siamo- disse Flavio, sbucando alle
spalle del gruppetto e dando una pesante pacca sulla spalla ad Ivan, con la
solennità di un oplita, per poi rivolgere un sorrisino a Carmen- siamo all’ultima
fatica, compagni.
Chiara ridacchiò quando
vide l’amica roteare gli occhi teatralmente. Sapeva che lei e Flavio avevano
preso a vedersi, di tanto in tanto, dalla fine dell’estate – aggiungendosi alla
lista delle coppie esilaranti ed improbabili di quella stagione - e che a
quanto pare alla sua migliore amica lui iniziava a piacere parecchio, anche se
continuava a considerarlo un pesce lesso.
-Su, Leonida, andiamo incontro alle nostre
Termopili- gli disse infatti, prendendolo sottobraccio e avviandosi verso la
porta della loro classe.
Ivan e Chiara si
scambiarono un’occhiata improvvisamente triste, quando videro scritto sulla
porta della loro aula “Classe III”. Era davvero arrivata la fine del liceo, e
dopo un’estate piena di eventi, novità e piccoli problemi quotidiani, ed
iniziavano a realizzarlo solo in quel momento. Il ragazzo riccio le si
avvicinò, facendole segno di accostarsi.
-Roberta dov’è? - le chiese, aggrottando le
sopracciglia.
Avevano tutti convenuto
che, una volta tornati a scuola, non avrebbe avuto più senso ignorare che la
relazione fra Chiara e Roberta fosse ormai di dominio pubblico, e avevano elaborato
insieme una serie di strategie nel caso in cui si fossero ripresentate strane
situazioni come quella del giorno delle pagelle. Chiara, in realtà, non era
riuscita a pensarci fino a quel momento, forse cercando di ritardare il più
possibile il momento della realizzazione (quell’estate, persa com’era a godersi
le giornate con Roberta, l’idea di dover tornare fra i banchi non l’aveva
nemmeno sfiorata), ma Ivan si rese conto dal suo sguardo vacuo che iniziava a
rendersene conto.
-Non lo so, mi ha detto che mi avrebbe
raggiunto a scuola- rispose quella, guardandosi attorno un po’ preoccupata.
Non che temesse di essere
di nuovo invischiata in una rissa, ma qualcosa le diceva che ancora per qualche
mese avrebbero dovuto guardarsi le spalle, perché i liceali sapevano essere
particolarmente cattivi, quando in gruppo, e Chiara non voleva che ne andasse
della loro serenità, in un anno tanto importante. Per il resto, rendersi conto
che la gente la guardava, che a volte ridacchiava alle sue spalle, non le aveva
fatto l’effetto destabilizzante che aveva creduto. Aveva semplicemente tirato
avanti, senza degnare nessuno di uno sguardo, anzi spesso rispondendo con
occhiatacce minacciose. Perché hanno tanto da guardare? aveva chiesto a
Sabrina arrivando di fronte all’istituto, non hanno mai visto Glee? Beh, i
gay esistono anche nella vita reale. Sabrina aveva riso, e tutto il gruppo
si era tranquillizzato sul fatto che, nonostante tutto, Chiara Torri era sempre
la solita.
Quando presero tutti
posti in aula, e la testa della Manzi fece malignamente capolino dalla porta
(con un sorriso, in realtà, ugualmente malinconico che suoi studenti), Chiara
iniziò seriamente a preoccuparsi. Dov’è Roberta? pensò.
-Buongiorno, miei cari- esordì la
professoressa di latino, entrando trionfalmente in classe con la sua solita
pila di libri sotto al braccio, - siamo pronti per iniziare l’anno?
Fra gli sbuffi generali e
qualche battutina, finalmente Roberta fece il suo ingresso un po’ trafelata,
mormorando mi scusi professoressa, la macchina si è fermata improvvisamente,
è da riparare. A Chiara mancò un battito: alta, nella sua maglietta bianca macchiata
d’olio di motore e jeans chiari, con i capelli neri tirati indietro e la fronte
imperlata di sudore, le sembrò un’eroina greca alla fine di una grande prova.
Mimò un buongiorno con le labbra, mentre l’altra le sorrideva di sbieco,
prendendo posto in fondo all’aula. A nessuno sfuggì che, invece di sedersi
accanto ad Angela, aveva preso posto vicino a Flavio, che si era galantemente offerto
di prenderla sotto la sua protezione, in quanto affermava di godere, come
rappresentate di classe, di immunità diplomatica. Vanessa e Angela erano
invece sedute dal capo opposto dell’aula, e non avevano rivolto la parola a
nessuno, da quella mattina, oltre che per i loro aggiornamenti di inizio
settimana. Quando si era sparsa la voce della denuncia, sorprendentemente anche
la loro reputazione intoccabile ne aveva risentito, con sommo sollievo di
Roberta, che iniziava a vedere una fine a quel calvario.
-Ora che ci siamo tutti, direi di sì. Siamo
proprio pronti per iniziare l’anno- sorrise l’insegnante.
Alla fine delle lezioni,
mentre gli studenti di prima sciamavano confusi fuori dalle aule e i ragazzi di
quinto li guardavano sghignazzando, mettendo loro qualche sgambetto o
inventandosi fantomatiche assemblee a cui avrebbero dovuto obbligatoriamente
partecipare, Roberta e Chiara si ritrovarono al parcheggio del Giulio Cesare,
valutando i danni della Mini Cooper che quella mattina aveva lasciato la riccia
a piedi. Da lontano, scorsero Vanessa fumare sulle scale antincendio e, mentre
il sole riscaldava i loro volti ancora abbronzati dall’estate, Chiara tirò a sé
Roberta per un bacio, come ad avvertire il mondo che, no, non si sarebbe
nascosta.
Roberta non poté fare a
meno di ridere sonoramente per quella possessività, mentre un paio di ragazzi
si erano fermati come in shock di fronte a loro, dandosi un paio di gomitate,
mormorando ma quella non è Roberta Della Corte? Non ci credo! E chi è la
rossa?
-Lasciali parlare- disse le disse rossa,
staccandosi dal bacio e infilandosi lo zaino in spalla, - vedrai che gli faremo
il culo quest’anno alla maturità.
E comunque,
aggiunse rivolgendosi ai due bellimbusti che ancora le fissavano con un
sorrisino ebete, io sono Chiara Torri.
**
-Allora, hai già pensato a che cosa farai
dopo? – chiese distrattamente Chiara, riversa sul letto di Roberta mentre lei
sistemava i libri di scuola sulla scrivania.
Il sole di settembre
illuminava la stessa stanza in cui, nel buio, si erano trovate vicine per la
prima volta, dandole un aspetto nuovo, come se fossero passate ad una fase
successiva. Quel giorno, in effetti, a Chiara e Roberta era parso di essere entrate
davvero in un altro capitolo della loro storia: baciarsi all’uscita da scuola,
sotto gli occhi di tutti, aveva sancito il punto di non ritorno. La rossa gettò
uno sguardo alla sua ragazza, che silenziosamente spostava blocchi per appunti
usati in fondo ai cassetti, per tirare fuori materiale intonso.
-Chiara, siamo solo al primo giorno di
scuola- mormorò divertita, scuotendo la testa.
Continuò per un po’ a
mettere a posto le sue cose in silenzio, passando in rassegna agli ultimi
disegni che aveva realizzato, per poi riporli accuratamente in una cartellina
gialla. Prese un sorso del suo tè freddo, per poi raggiungere Chiara sul letto.
Su, alzati, le disse con una risatina, così ti farai andare il sangue
al cervello.
-In realtà, ho già una mezza idea. Farò le
selezioni per l’accademia di belle arti- continuò dopo un po’, facendo girare
Chiara di scatto verso di lei.
-L’accademia delle belle arti? Sarebbe
incredibile! Tu sei un’artista pazzesca.
Roberta si strinse nelle
spalle, ritirandosi nella timidezza che la coglieva sempre quando si parlava
della sua arte, dei suoi interessi.
-Sì, ma non credo che i miei saranno
d’accordo. Dovrò capire come fare. In alternativa, mi piacerebbe studiare
storia dell’arte. Sai, potrei fare l’insegnante.
Chiara ridacchiò,
avvicinandosi alle sue gambe per poggiarle la testa in grembo.
-Professoressa Della Corte…
sì, suona bene. Oddio, mi innamorerei perdutamente di te, se fossi una tua
studentessa! Dovrò fare i conti con torme di ragazzini infatuati.
La riccia prese ad accarezzarle
i capelli, in silenzio, per poi rivolgerle la stessa domanda.
-E tu, cosa pensi di fare dopo? Hai
talmente tanta scelta, sei brava praticamente in tutto.
-Tranne in chimica- intervenne puntualmente
la rossa, con un grugno frustrato.
-Beh, sei comunque una delle migliori della
scuola. Immagino che tutti si stiano chiedendo che cosa farai dopo il liceo.
Chiara si alzò a sedere,
sistemandosi i capelli dietro le orecchie con aria nervosa. Non ne avevano mai
parlato, ed in effetti con il bel daffare che c’era stato quell’estate nemmeno
lei si era soffermata troppo a pensarci, ma si rendeva conto ora di aver covato
un proposito segreto per gli ultimi mesi, indecisa se condividerlo o meno,
forse per indecisione, forse per scaramanzia.
-Pensavo che… sai, forse potrei provare il
test di medicina.
Roberta sgranò gli occhi,
con un sorriso che si faceva lentamente strada sulle sue labbra.
-Come tua madre?
Chiara annuì, abbassando
lo sguardo un po’ imbarazzata.
-Non so, ci ho pensato quest’estate, e non
sono ancora sicura- iniziò, un po’ titubante, - ma mi affascina tanto la mente
umana, le sue connessioni col corpo. Vorrei capire come funziona, che cosa ci
porta a comportarci in un modo o in un altro, che cosa dipende da noi e che
cosa no. Forse ho letto troppo Freud quando ero piccola, ma è bastato a
incuriosirmi. E poi mi piacerebbe aiutare le persone.
La riccia le si avvicinò
e con un sorrisino aggiunse Dottoressa Torri, suona davvero bene. Si
guardarono per un po’in silenzio, come se stessero cercando una risposta alla
domanda che davvero, più di tutto, interessava entrambe (che cosa faremo,
noi, l’anno prossimo?), e l’aria per un po’ si fece tesa, carica di non
detti. Da fuori arrivavano i rumori di poche macchine in circolazione, in un
pigro pomeriggio di metà settembre, e qualche uccellino che pigolava dalla
grondaia. Rimasero in silenzio, tenendosi per mano, per quella che sembrò
un’eternità. Poi Chiara si divincolò dalla stretta di Roberta e, poggiandole
una mano sul viso, la guidò dolcemente a stendersi con lei.
-Sai che sei la ragazza più bella che io
abbia mai visto? – le disse, assorta, - e spero che l’anno prossimo, con me, ci
sia anche tu.
Roberta, a quelle parole,
si strinse forte a lei, come presa da un’improvvisa felicità, e dalle pieghe
della sua maglietta mormorò anche io voglio che tu ci sia, sempre.
Ci
siamo, cari lettori. Eccoci arrivati alla fine della lunga storia di Chiara e
Roberta, che mi hanno accompagnato in questi anni di transizione, con cui sono cresciuta,
e che lascio ora come mie coetanee, come amiche con cui mi sono confrontata,
formata e scontrata. Ho amato scrivere ogni capitolo di questa storia, ed ho
amato ricevere recensioni da ognuno di voi. Vi ringrazio per essere rimasti con
me tanto tempo. A presto, forse, con altre storie, con altri nomi. Mi farebbe
immensamente piacere.
Con
amore,
Deirbhile
**
Chiara era uscita
dall’ospedale con largo anticipo quel pomeriggio, dopo aver strappato al suo
capo reparto il permesso di andar via ad un orario decente, adducendo la
scusa piuttosto banale di una tubatura rotta e della necessità di gestire il
traffico degli operai nella nuova casa in ristrutturazione.
Il dottor Gelli,
dall’alto del suo compassato metro e ottanta, aveva accordato quel permesso con
silenziosa disapprovazione, mentre già Chiara faceva retro-front verso il
locale degli armadietti in cui gli specializzandi tenevano camici e cambi di
vestiti, con un sorriso trionfante in volto. L’afa di luglio riempiva le sale,
dava a tutti un’aria più fiacca, ma lei si sentiva elettrica, non riusciva a
stare ferma. Afferrando un paio di cartelle cliniche, fu più che felice di
avere davanti una sfilza di pazienti da controllare per quella mattina.
-Allora, è oggi il giorno? – aveva chiesto Alice,
sua collega e compagna delle disavventure in reparto dall’inizio degli studi in
medicina.
Chiara aveva annuito,
sbattendo forte la porta del suo armadietto arrugginito, ed aggiustandosi i
capelli corti ad uno specchio antistante. Li aveva tagliati da poco, ma non ne
era convinta: le arrivavano sotto le orecchie, in una massa fulva di onde
spesso disordinate, che si passava da un lato all’altro del volto a seconda del
suo umore.
-Fammi gli auguri, ti prego- aveva
sospirato, passando in rassegna alla pelle bianca delle sue guance, alle
occhiaie da sonno e alle ciocche scarmigliate da giornate di intenso lavoro –
vado via alle quattro, il generale mi ha accordato il permesso.
Alice aveva represso una
risatina, guardandosi intorno divertita.
-Shh,
potrebbe sentirti! E poi che fine farebbe la tua futura carriera da primaria?
Chiara aveva alzato le
spalle, dirigendosi a grandi passi verso il corridoio, infilandosi il suo
candido camice da lavoro.
-Ci sto quasi ripensando- aveva grugnito,
appuntandosi al petto un cartellino con su scritto Dott.ssa Chiara Torri,
specializzanda in psichiatria.
Ora, alle quattro e
dieci, lasciandosi alle spalle l’ospedale, non poté fare a meno di lasciarsi
andare a quel senso di piacevole panico che l’aveva pungolata durante tutto il
giorno. Nel piazzale antistante al policlinico, individuò la sua ammaccata Ford
magenta (eredità e regalo di Benedetta, che aveva dovuto separarsene per
ragioni pratiche ma era incline al sentimentalismo più conservatore), e fece
scattare le porte.
Si guardò ancora una volta
allo specchietto retrovisore. Il profilo asciutto, vagamente teso, gli occhi
lucenti contornati da un lievissimo strato di trucco. Avrebbe voluto tornare a
casa per cambiarsi, farsi una doccia e darsi una sistemata ai capelli, ma non
poteva rischiare di incontrare Roberta, di ritorno da lavoro. Avrebbe voluto
dirle tutto, prima ancora che vedesse la sorpresa, perché non ce la faceva più
a tenerle nascoste le continue incursioni nel suo laboratorio (col beneplacito
del socio di Roberta), le strane manovre ordinate agli operai che si stavano
occupando della loro nuova casa. Aveva in mente un grande piano per lasciarla
senza parole, e per rimediare agli ultimi mesi di assenze, ritardi, permanenze
ad oltranza in ospedale ed impegni mancati.
Per la buona riuscita del
tutto, però, c’era bisogno di discrezione e fuggevolezza. Aspetta ancora un po’,
pensò Chiara, non sapendo se si stesse rivolgendo a sé stessa o a Roberta, ne
varrà la pena. Discrezione e fuggevolezza. Cose in cui, pensò con uno
sbuffo, non era forse mai stata brava.
-Pronto- disse ad una voce maschile al
cellulare, prima di mettere in moto - ci sono, sto passando ora. Avete liberato
tutto?
**
-Allora, signor… Manzi- lesse
Roberta da dietro le sue lenti tonde, alzando un sopracciglio a quel cognome
familiare- che cosa ha scelto di approfondire in storia dell’arte?
Il
volto cereo di uno studente di quinta liceo le si parò davanti in una strana
inversione del tempo, come se d’un colpo anche lei avesse di nuovo diciotto
anni e si trovasse di fronte alla commissione del suo esame di maturità. Sperò
che quel pensiero non trapelasse, e cercò di rimanere impettita nel suo ruolo
di commissaria esterna, mentre pensava che con ironia in dieci anni era passata
dalla parte degli aguzzini senza nemmeno rendersene conto.
-Ho scelto Picasso- balbettò lui, per poi
iniziare a sciorinare una serie di informazioni biografiche, in modo pedante e
quasi lamentoso.
Roberta alzò leggermente
gli occhi, preparandosi all’ennesima sfilza di domande che aveva già fatto quella
settimana. Cos’hanno tutti con Picasso? si chiese e, annoiandosi un po’,
fece finta di sbarrare meticolosamente i parametri di giudizio su un foglio
stampato.
Quando anche l’ultimo
candidato fu esaminato e la commissione fu prosciolta, uscì insieme ai suoi
colleghi per prendere un caffè e fare un giro nelle classi dei suoi alunni,
dell’istituto comprensivo dell’edificio accanto. Era sicura che stessero
facendo un buon lavoro, ma non poteva esimersi dal sentirsi un po’ tesa: era il
primo anno che una sua classe affrontava l’esame finale, ed in più senza lei
come commissaria interna, il che segretamente la preoccupava.
-So che i tuoi ragazzi stanno facendo un
ottimo lavoro-
A quelle parole, quasi
evocate dai suoi stessi pensieri, Roberta si voltò e afferrò velocemente il
caffè pronto dal distributore automatico. Arrossì quando vide che si trattava
della professoressa Neri, Claudia, la collega di letteratura dell’altra
sezione. Quella donna aveva un che di magnetico, l’aveva sentita più volte
declamare insieme alle sue classi battute per il laboratorio di teatro antico,
e tutti a scuola – lei compresa – ne erano in qualche modo affascinati.
-Beh, mi solleva sentirtelo dire. A dirti
la verità sono più in ansia io di loro- rispose, spostandosi di lato per lasciar
spazio alla collega.
Due monetine tintinnarono
nel distributore, un rumore meccanico e stridente annunciò l’arrivo di un altro
espresso decaffeinato.
-Vedrai che andrà tutto bene. Sei stata
un’ottima insegnante per loro, lo sai. Mi hanno parlato molto della tua ultima
mostra. Li hai ispirati- disse casualmente la professoressa Neri, allungando
una mano inanellata ad afferrare il suo bicchiere.
La mostra che Chiara non
ha ancora visto, pensò con amarezza Roberta. Si avviò in
silenzio verso il cortile, mentre la collega la seguiva.
-E hai ispirato anche me- continuò quella,
lanciandole un’occhiata piuttosto eloquente.
Roberta ingurgitò
imbarazzata il suo caffè. Nel silenzio del cortile rimbombavano le voci delle
ultime commissioni riunite in scrutinio, e sporadiche urla di esultanza da
parte di studenti che avevano concluso i loro colloqui.
-Davvero?
Claudia strinse gli occhi
in un modo a metà fra il divertito e il sorpreso. Roberta fissò per un momento
i suoi bracciali tintinnanti, i suoi capelli bruni racconti in una crocchia, il
suo leggero vestito a fiori. Si sentì pervadere da un improvviso senso di
malinconia, prese un altro sorso fissando oltre i cancelli, dove le macchine
procedevano sonnolente.
-Non dovresti dubitare del tuo talento-
Roberta pensò che avrebbe
dovuto sentirsi felice, perfino lusingata di quella avance non richiesta.
Eppure, sentiva qualcosa stridere nelle sue giornate, il meccanismo perfetto
della sua vita incepparsi di tanto in tanto, lasciandola sola, impantanata di
una palude di apatia per giorni interi.
Era un’insegnante
stimata, di tanto in tanto esponeva con vecchi amici di università nelle
gallerie dei centri vicini, aveva un minuscolo laboratorio che condivideva con
un collega artista, pagato con faticose ore extra dando lezione di disegno a
ragazzi delle medie. Negli ultimi mesi, però, si sentiva sempre più stanca,
sempre più irascibile: aveva l’impressione che Chiara le stesse sfuggendo, che
dietro i suoi folli orari di lavoro ci fosse qualcosa che non andasse nella
loro relazione, che si stessero perdendo. Si era gettata a capofitto nei suoi
progetti senza pensarci, ma le litigate gelide e le notti passate senza dormire
non erano diminuite, togliendole la poca energia che non impiegava nel suo
lavoro.
Non sei mai a casa, non
ti riconosco più, mi sembra di essere sola in questa relazione.
E le lacrime di Chiara, il suo stress, le sue levatacce la mattina, la sua inavvicinabilità
nei giorni con pazienti difficili. Tutto era diventato all’improvviso
insopportabile, sotto il peso dei ricordi malinconici di tempi migliori, di
quando si divertivano senza pensieri negli anni dell’università, nell’estate
dopo la loro laurea. Non è colpa mia se devo lavorare tanto, non puoi
capire, non sei tu che ci lavori in quell’ospedale. Nell’ultimo anno, le
cose erano andate gradatamente peggiorando: Chiara era sempre stata una ragazza
ambiziosa, ma ora sembrava totalmente fagocitata da un proposito di successo
quasi distruttivo. Roberta non riusciva bene a vedere a fondo nei suoi desideri,
ultimamente, ma qualcosa le diceva che quella frenesia e quell’ansia di
riuscire nascondessero in fondo un insistente senso di inadeguatezza. Il
circolo vizioso però non si spezzava, e loro due si allontanavano lentamente
ciascuna sulla propria orbita.
Dopo qualche convenevole
chiacchiera, Roberta salutò con un sorriso timido la collega e si allontanò,
lasciandola forse interdetta (aveva la netta impressione che Claudia ci
provasse con lei, di tanto in tanto), mentre si incamminava verso casa. Avrebbe
parlato ai suoi studenti un altro giorno. Si sentiva improvvisamente senza
energie, e non voleva farsi vedere così dai suoi amati alunni.
Pensava ai viaggi che
aveva condiviso con Chiara, alle avventure in vacanza in posti sperduti, di cui
non parlavano la lingua, alle cene che erano seguite quando aveva fatto coming
out con la sua famiglia, prima freddamente cordiali, poi gradualmente più
piacevoli. Ci erano voluti anni per costruire il futuro che volevano, anni di
duro lavoro, di solitudine, di distanza. Quando Chiara aveva superato il test
di medicina si era dovuta trasferire a cinque ore da casa, e Roberta aveva
deciso di affittare con altri due studenti di storia dell’arte un minuscolo
appartamento vicino alla migliore accademia delle belle arti nel paese, che da
lei ne distava tre in macchina. Avevano deciso senza difficoltà di separarsi,
in virtù di opportunità migliori, ma c’erano stati momenti difficili, in cui il
futuro della loro relazione era stato in bilico. Avevano sempre tenuto duro,
erano sempre riuscite ad andare avanti.
Adesso, però, da giovani
donne, si presentavano di fronte altre difficoltà: la convivenza, la monotonia,
le piccole scaramucce da coppia sposata, lati del loro carattere che venivano
fuori quasi per la prima volta, dettagli che prima erano sembrati
insignificanti e che ora assumevano una rilevanza quasi spaventosa. Le gelosie
insensate di Chiara (che serbava particolare rancore verso Claudia, a cui
Roberta sospettava si sentisse inferiore per chissà quale astrusa ragione), i
silenzi di Roberta, che non era capace di litigare ma solo scappar via per
restare finalmente in pace con sé stessa, le conseguenti prese di posizione di
Chiara, che non sopportava di lasciare una discussione a metà. E la casa nuova,
in cui avrebbero dovuto trasferirsi di lì a qualche mese, che aveva sempre
problemi e ritardi, le litigate per le sporadiche (ma ancora presenti)
ingerenze della famiglia di Roberta, per dove trascorrere le ferie, per chi
dovesse portare dal veterinario il gatto.
Roberta ripensò a tutte
queste cose, e, mentre girava le chiavi nella toppa di casa, le venne in mente
che era passato quasi un mese da quando lei e Chiara avevano fatto l’amore
l’ultima volta, e una morsa le prese lo stomaco, mentre desiderava che Claudia
fosse Chiara e Chiara Claudia, e che potessero tornare, almeno per un momento,
all’intensità dei loro primi corteggiamenti. Che potessero lasciarsi tutto alle
spalle, lavoro, responsabilità, ansie, e solo tornare- solo per un giorno- a
quando si vedevano di nascosto nelle roventi estati liceali. A quando si
scoprivano per la prima volta, a quando si volevano senza vedere nient’altro. Momenti
di stanchezza si alternavano a momenti di urgente bisogno che Chiara fosse con
lei, che non la lasciasse mai, che le promettesse che sarebbero state sempre
insieme.
-Chiara, sei a casa?
L’ingresso era vuoto,
animato solo dal passo felpato del loro gatto grigio, un micione di otto chili,
che venne a salutarla strusciandosi contro le sue gambe.
-Già- gli disse, - è a lavoro.
Attraversò a piedi scalzi
il salotto, sfiorando il parquet bucherellato e il tappeto persiano, mettendo a
posto qualche libro che il gatto aveva tirato giù dalla loro enorme libreria. Da
quanto tempo lei e Chiara non leggevano un po’ insieme?
Stava per prendere un
bicchiere d’acqua in cucina, ancora assorta in questi pensieri, quando un
foglio vergato a mano attirò la sua attenzione.
Quest’invito per
richiedere la sua partecipazione alla prima retrospettiva dell’artista Roberta
Della Corte, in data odierna, alle ore 18.00. E’
gradita conferma.
L’indirizzo indicato,
pensò aggrottando la fronte Roberta, era l’indirizzo della nuova casa.
-Che strano- disse, -Qualcuno è in vena di
scherzi.
**
Chiara aveva appena
finito di sistemare l’ultima tela contro il muro immacolato, quando sentirono
dei rumori d’auto provenire dal cortile antistante. Gettò un’occhiata di panico
a Benedetta, che per l’occasione era tornata in città dalla provincia vicina –
dove lavorava come avvocato tributario in uno studio piuttosto conosciuto- e
pregò con gli occhi che, in caso di emergenza, sapesse come aiutarla a salvare
la situazione. Benedetta, d’altro lato, aveva sempre un asso nella manica.
-Siamo pronte? - chiese alla sorella,
avvicinandosi con fare circospetto.
Tutt’attorno a loro, gli
operai che avevano duramente lavorato durante il giorno alla nuova casa si
stavano lentamente disperdendo, lasciando spazio a quella bizzarra mostra
d’arte improvvisata.
Alle parteti, prima
completamente spoglie, ora c’erano affissi disegni, quadri, schizzi di volti-
tutti inconfondibilmente recanti il marchio e la firma di Roberta.
-Direi che qualche minuto e ci siamo. Come
vanno le luci? - domandò di rimando Chiara.
Benedetta fissò per un
momento Guido, il collega con cui Roberta divideva il laboratorio, che le diede
un’okay silenzioso. I primi faretti illuminarono la stanza vuota,
gettando fasci morbidi di luce sui disegni alle pareti.
-Ci siamo. Vado a controllare che sia tutto
a posto fuori-
Chiara ringraziò mentalmente
la calma e l’efficienza di sua sorella maggiore e, dopo aver sistemato l’ultima
opera, si allontanò per fissarla per bene.
Era la raffigurazione,
con colori pastello tenui e delicati, di un paesaggio campestre stilizzato, con
alberi da frutto e un cielo azzurro puntellato di nuvole. Aveva sempre pensato
che Roberta avesse talento, ma evidentemente non si era mai resa conto di quanto
i suoi lavori avessero assunto un tono serio, professionale, un marchio
inconfondibile e riconoscibile dal tratto, dalle forme delicate, dai temi
ricorrenti. Guardandosi attorno, sorrise nel vedere come alcune cose- in
Roberta- non fossero mai cambiate: i primi disegni liceali, fra cui quelli che
lei stessa aveva scorto per la prima volta in gita a Vienna, avevano già il
segno di una mano precisa, consapevole, con un messaggio ben chiaro da
esprimere. C’era il pesco che aveva dipinto durante uno dei loro primi
pomeriggi insieme, mentre Chiara l’aveva osservata con il desiderio di
avvicinarsi e baciarla, quando avevano finito per cospargersi di colore con
sommo divertimento di entrambe. C’era persino il suo ritratto, quello che aveva
scorto nel buio la notte del loro primo bacio, quello contro cui Roberta
l’aveva spinta per avventarsi sulle sue labbra, durante la canzone di Bruno
Mars.
Roberta è un’artista,
pensò, e si rese conto di quanto ultimamente si fosse persa tanto di lei: le
sue lezioni, i suoi progetti sempre più estesi, con sempre più persone al
seguito, le sue idee improvvise nei fine settimana liberi. Da quando aveva
smesso di dipingere in casa ed aveva affittato uno studio tutto suo, si era
quasi sentita privata di quell’armonia che Roberta dava agli spazi, quella
calma profonda che infondeva all’ambiente ogni qual volta stesse lavorando ad una
nuova tela.
Finalmente, quando tutto
fu pronto, tirò un sospiro di sollievo, e vide Benedetta invitare le prime
persone arrivate ad entrare, indicando loro un piccolo rinfresco, muovendosi
con eleganza nella stanza vuota adibita a mostra. Tutt’attorno, i lavori di
Roberta brillavano, facevano da veri protagonisti. Guido aveva fatto un ottimo
lavoro come allestitore.
I colleghi di scuola e di
lavoro di Roberta iniziavano a disporsi con curiosità attorno ai quadri,
commentando le luci soffuse, la bellezza del tramonto che entrava dalle
finestre senza vetri, che dava a tutto un’aura più essenziale, più austera.
Chiara notò che c’era anche Claudia Neri, la professoressa di lettere, e cercò
di non storcere la bocca quando quella iniziò a girare attorno ai disegni della
sua compagna come se ne fosse ipnotizzata. In fondo, si disse, non
posso biasimarla.
E poi, dopo qualche
minuto, eccola.
Roberta arrivò trafelata,
con le chiavi della macchina ancora in mano e la camicia con cui era uscita
quella mattina, i capelli neri tenuti da un lato, un lieve strato di sudore
sulla fronte bianca. A Chiara venne in mente quando, il primo giorno di scuola
del loro quinto anno, era entrata con la stessa impacciata foga in classe: la
sua aria da eroina greca, quei magnetici occhi blu, non l’aveva mai
abbandonata.
Quando la vide, al centro
della stanza, Roberta sembrò bloccarsi e realizzare, improvvisamente, quello
che stava succedendo.
Fu allora che Chiara
parlò, sentendo il cuore che le batteva furiosamente in petto.
-Benvenuti alla prima retrospettiva di
Roberta Della Corte, - esordì, richiamando l’attenzione del pubblico con voce
squillante, - artista di cui ho avuto la fortuna di scoprire i primi lavori
dieci anni fa, quando eravamo compagne di liceo. Da allora, non ha mai smesso
di stupirci. Grazie, Roberta, per essere una persona meravigliosa e d’ispirazione
continua.
Le andò vicino, vedendo
che aveva gli occhi evidentemente lucidi, mentre tutti applaudivano.
-Ti amo - aggiunse. E la baciò
delicatamente su una guancia, indicandole timida, con una mano tremante, la
sala allestita.
**
-Ma ti ricordi quando ci siamo baciate per
la prima volta? –
La voce molle di Chiara
risuonò nella loro stanza da letto come un’eco morbida, come se fossero sul
fondo di un lago. Dalla finestra, entravano i pigri rumori della notte
d’estate, il frinire dei grilli del giardino comunale e, di tanto in tanto, il
verso dei cani dei vicini, che facevano tremare di paura il loro grosso gatto
fifone. Roberta se ne stava distesa sul fianco, in silenzio, accarezzando
lievemente la schiena nuda della sua compagna.
-Certo che me lo ricordo. Ti ho sempre
mentito, quando ti dicevo di non ricordarmi nulla di
quella notte.
Chiara rise divertita,
fissando su di lei un paio di occhi irriverenti, di finto biasimo.
-Quando hai bussato alla mia porta, la
mattina successiva, ero terrorizzata. Mi sono detta Oddio, che succede se si
ricorda tutto? Mi batteva così tanto il cuore che stavo per svenire dal
panico.
Roberta roteò gli occhi,
dandone della drammatica. Poi prese ad accarezzarla con più delicatezza
il collo, la radice dei corti capelli rossi, le clavicole.
-Avevamo diciotto anni- sospirò, rapita,
fissandola negli occhi senza nessun’altra emozione nella voce se non una
placida, soddisfatta calma.
-Diciassette.
Risero e si avvicinarono,
facendo frusciare le lenzuola.
-Mi dispiace tanto, per tutto quello che è
successo fra di noi negli ultimi tempi. Quando ho visto Claudia mi sono detta
che sono tanto fortunata ad averti, è evidente quanto quella donna ti voglia-
disse Chiara, non senza una nota di fastidio.
-È un peccato allora che io voglia solo te.
Chiara la guardò, con
un’improvvisa tenerezza, e le sorrise abbassando gli occhi.
-Non litighiamo mai più, per favore-
mormorò, stringendosi a lei, nascondendo la testa fra i suoi capelli.
Roberta
le diede un lieve bacio sulla fronte.
-Te lo prometto, almeno fino a domani.
Chiara le diede uno
schiaffetto e rise. Poi, dopo un attimo di silenzio, si avvicinò per baciarla
delicatamente sul collo, risalendo la linea della sua mascella, avvicinandosi
lentamente alle sue labbra rosse. Con uno scatto, si portò su di lei e, facendo
scivolare via le lenzuola, si avvicinò al suo visò finché i suoi capelli non
sfiorarono le sue spalle nude. Roberta sospirò e Chiara riprese a baciarla più
avidamente, cercando le sue mani per stringerle, scoprendo leggermente i denti
sulla sua pelle delicata e lasciandole una scia di segni.
-E questo?
-Sono una donna gelosa, lo sai- si alzò,
con un’espressione maliziosa, per poi essere ritrascinata giù fra le braccia di
Roberta.