Cronache Ospedaliere

di Clira
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il cambio automatico è una fregatura ***
Capitolo 2: *** Vita di reparto ***



Capitolo 1
*** Il cambio automatico è una fregatura ***



CAPITOLO 1

IL CAMBIO AUTOMATICO È UNA FREGATURA




*«Capo! Ma ti muovi?!»
«Stai zitto, tu. E rispetta il tuo capo, dato che ha ancora la pancia aperta dall’ultimo intervento».
«Adesso ti rivolgi a te stessa in terza persona? Andiamo sempre meglio».
«Ribadisco: stai zitto».
Lui ride, mentre io arranco per raggiungere la sua macchina, una mano posata sull’addome.
«Parti adesso, altrimenti arriviamo in ritardo».
«Ah, certo… e tu non vuoi arrivare in ritardo dal tuo DocHot, non è vero?».
Gli lancio un’occhiata che sarebbe degna di un serial killer e lui mette in moto la sua auto.
«Ok, ho capito: con il capo non si discute».
«Ecco, questa è la prima cosa sensata che ti sento dire da quando sei arrivato».
«Sei un amore».
«Certo, lo so».
Lui mette in moto e partiamo*.

Due mesi prima…
“Cazzo”.
Ok, magari è un po’ volgare, ma questa è la prima cosa che penso non appena vedo l’ora sul mio orologio. Sono le 5.30 del mattino. Capisco di essermi riaddormentata e, probabilmente, arriverò in ritardo già il quarto giorno di tirocinio in ospedale.
Bene.
Splendido.
Prima ancora di rendermene conto sono in piedi con una gamba infilata dentro ai pantaloni e l’altra che lotta cercando di fare la stessa cosa.
Non mi pettino: cercare di domare i miei ricci sarebbe impossibile. Di solito cerco di dar loro un contegno, ma questa mattina, a quanto pare, non è fattibile.
Corro, raccolgo le mie cose, prendo le chiavi della macchina e poi schizzo nel cortiletto, dove l’ho lasciata. Infilo le chiavi nel quadro e metto la retro di fretta, ma quando faccio per partire… niente.
Poi, una scritta sul computer di bordo richiama la mia attenzione: “MARCIA NON DISPONIBILE”.
“Aspetta… che cosa?! Che diavolo vuol dire marcia non disponibile?!”
Ingrano più e più volte la prima, ma niente. Questa mattina la macchina ha deciso di andare solo in retro.
Presa dal nervosismo e dall’ansia di arrivare in ritardo, lascio la Lancia in mezzo al cortile e, a piedi, parto a rotta di collo in direzione dell’ospedale, il cuore a mille.
“Quando qualcosa potrebbe andare storto, sicuramente lo farà”. È una delle leggi di Murphy, vero? Ovviamente sì. Era logico che mi sarei trovata in questa situazione, visto che sono l’incarnazione umana della Sfiga.
Sono le cinque passate di mattina di un sedici maggio e ci sono sì e no quattordici gradi fuori. Sono in mezze maniche e sto correndo come una disperata. Mi metto il cuore in pace; come minimo mi verrà un mal di gola insopportabile.
Ignoro la nausea e i lievi dolori alla pancia che ho dalla sera precedente e che speravo sarebbero passati durante la notte. Ma a quanto pare, non è stato così. Questo sempre perché ho tanta fortuna e, tanto per rimanere in tema, adesso mi aspettano otto ore di lavoro senza interruzioni.
Manca ancora un po’ per arrivare in ospedale: altri cinquanta metri, poi a destra alla rotatoria, davanti il supermercato e sarò arrivata, quando mi piego in due, una mano sul fianco destro e l’altra appoggiata al muro, mentre una fitta lancinante sembra aprirmi l’addome.
«Ah!».
Dall’altra parte della strada noto un tizio rasato, sui trentacinque anni che mi guarda un po’ allucinato.
«Ehi, stai male?» mi domanda.
Wow, che genio. “Ti serve fare anche una domanda per capirlo? Non so… non ti basta il fatto che sono quasi stecchita sul ciglio della strada?”.
«Ora passa… » gli rispondo cercando di rimettermi dritta.
«Vieni di qua, così ti porto in ospedale» continua lui, ma proprio nel momento in cui sto per attraversare la strada, una macchina accosta vicino a me e si abbassa il finestrino. È una Panda verde acqua.
“Ma chi diavolo va in giro con una macchina del genere?” penso.
In quel momento avrei trovato il modo per criticare il mondo intero e, quindi, anche il conducente dell’auto, perfino se fosse stato alla guida di una Ferrari.
Dal mio lato si sporge un uomo e apre lo sportello. È un signore sui cinquanta: capelli, barba e baffi grigi. Indossa una divisa del pronto soccorso.
«Ehi, stella… vieni con me che ti porto in ospedale».
Allora… c’è da dire che in circostanze normali, non lo avrei mai fatto… tuttavia il dolore è così forte che se solo facessi un altro passo, credo che potrei davvero cadere a terra. Così, salgo in auto e lui mi porta fino al pronto soccorso, mentre io rimango a occhi chiusi sperando che tutto improvvisamente passi.
Cerco di respirare con calma mentre l’uomo guida. Mi scappa una lacrima a causa del dolore, ma mi affretto ad asciugarla. Maledizione, ho sempre sopportato il dolore decisamente bene, fin da piccola, non mi sono mai lamentata, ma ora sembra veramente… troppo.
Arriviamo in ospedale in un minuto e lui si dirige verso il pronto soccorso.
«Riesci ad arrivare da sola fino all’accettazione? Altrimenti aspettami qua e ti vengo a prendere con una sedia a rotelle».
“Non esiste” penso.
«No, grazie… ce la faccio… ».
Un passo alla volta, arrivo fino all’accettazione e, a quel punto, un’infermiera con un paio di pantaloni arancioni e una maglia a mezze maniche biancami fa entrare in corsia. Ora sì che mi mettono sulla sedia a rotelle.
“Vi odio tutti”
Mi chiedo se, quando entrano in ospedale, tutti i pazienti la pensino così.
Io di solito mi trovo dall’altra parte. Sono quella che si occupa delle persone che stanno male. Non quella che sta male.
Quando l’infermiera mi fa entrare in uno degli ambulatori del pronto soccorso sono abbastanza sull’incazzato andante, tuttavia mi sforzo di sorridere.
Il medico mi ricorda vagamente il mio professore di fisiologia, che odio, quindi, di riflesso, mi sta antipatico anche lui.
L’uomo mi saluta. L’apparente stanchezza non nasconde l’età: non penso arrivi ai quarant’anni.
L’infermiera che mi ha portata fin lì va via e un uomo, mi aiuta a mettermi distesa sul lettino per farmi un prelievo.
Che meraviglia: con le vene che mi ritrovo so già che mi farà almeno due o tre buchi prima di prendere una vena decente.
Il medico mi fa delle domande,: chiede come sto, dov’è localizzato il dolore, quando è cominciato e io
sento l’ago che intanto mi buca la pelle e… l’infermiere ha preso la vena.
Oh beh… lo avevo sottovalutato. È stato bravo.
Continuo a osservare il dottore mentre l’infermiere mi prende i parametri vitali: saturazione, frequenza e pressione. Come prevedevo, ho tutto basso, ma dopotutto… per me è anche normale.
Qualche minuto dopo un ragazzo fa il suo ingresso.
È giovane, molto giovane e ha un’aria familiare. Credo di averlo già visto da qualche parte, anche se non ricordo dove.
Lui mi sorride.
«Tirocinante del primo anno, eh?».
Per adesso lui è l’unico a essermi simpatico.
Ha gli occhi castani, così come anche i capelli, piuttosto lunghi per un ragazzo, che tiene indietro con una fascetta nera.
Leggo sulla targhetta che porta alla maglia: “Giovanni Carraro” e sotto “Studente Infermiere”.
Ecco qua svelato il mistero: tirocinante anche lui. Devo averlo visto qualche volta in sede, all’università, durante le lezioni.
Lui deve essere al terzo anno: solo il loro tirocinio può svolgersi in pronto soccorso.
Ha un sorriso gentile e comincia a parlarmi del coordinatore dell’università, che, personalmente, non mi sta molto simpatico e anche lui la pensa come me.
A un tratto, mi volto verso l’infermiere che mi ha fatto il prelievo e gli chiedo se può telefonare lui al reparto di medicina in cui adesso avrei dovuto iniziare il turno. Mi accontenta, spiegando la situazione.
«Un saluto dalla medicina» dice quando riaggancia.
Sfodero un sorriso di circostanza, poi il medico che prima mi ha visitata, si rivolge al tirocinante del terzo anno: «La porti tu in radiologia? La mandiamo a fare un’eco e vediamo se salta fuori qualcosa».
Giovanni annuisce, mi aiuta a rimettermi sulla sedia a rotelle, e poi mi porta in radiologia, al primo piano, lo stesso del il pronto soccorso.
Per fortuna a quell’ora l’ospedale non è molto popolato, quindi non incontriamo nessuno.
La stanza in cui vengono fatte le ecografie è la numero 11. Il ragazzo mi prepara mentre il medico fa le domande di routine.
A contatto con la pelle scoperta, il gel è freddo e fastidioso e sarà ancor più fastidioso cercare di toglierlo dopo, anche perché non si riesce mai a toglierlo tutto.
“Farò una doccia quando torno a casa”, penso rassegnata.
Sì… come no.
«Allora… » prende parola il medico.
Ahi, comincia male. Se ha quel tono vuol dire che c’è qualcosa.
«L’ecografia ha mostrato un versamento in peritoneo, ma non cominciare a preoccuparti: non è sangue e non sembra ci sia pericolo di peritonite, anche perché altrimenti il dolore sarebbe molto più forte».
«Allora cos’è? Appendicite?».
«Non sembra. Ora stampo il referto, poi lo portate al pronto soccorso e il collega deciderà cosa fare».
Sia Giovanni che io annuiamo, poi lui mi riporta al pronto soccorso e consegna la relazione al medico.
«Va bene, per adesso portala di là, nell’altra stanza, intanto decidiamo cosa fare».
Il tirocinante mi conduce in una stanzetta piccola e piuttosto buia e mi aiuta a sedermi su una poltrona decisamente più comoda di quella sedia a rotelle.
«Ti attacco un Perfalgan, quando finisce chiamami pure, qui c’è il campanello. Hai fatto farmacologia?».
«No, farmacologia è una materia del secondo anno».
Lui ci pensa su un attimo, poi scuote la testa.
«Scusa, è vero. Sono le sei e mezza di mattina anche per me».
Rido, posso capirlo benissimo. Non si è sempre attivi e reattivi quando si comincia il turno.
Lui collega la flebo all’accesso preso poco prima dall’infermiere e regola la velocità di flusso; parliamo per qualche altro minuto e poi va via, dicendomi di riposare se ci riesco e che, probabilmente, dovrò aspettare un po’.
Quell’ultimo “un po’ ”, con cui mi ha lasciata, non mi fa sperare in nulla di buono e infatti passa come minimo un’ora e mezza prima che si faccia vedere qualcuno.
«Allora, adesso ti portiamo in chirurgia, ok? Facciamo un consulto e vediamo cosa dice il chirurgo», dice l’infermiera. Non c’era fino a prima;: deve essere arrivata al cambio turno.
“Chirurgia?! E questi cosa cavolo vogliono da me?! Chirurgia, ma ti pare? Ci manca solo che perda giorni di tirocinio e che quattro medici assetati di sangue comincino a tagliuzzarmi”.
No, no, no, assolutamente no. Ma d’altra parte che cosa posso fare? Scappare via dall’ospedale non mi sembra il caso. Magari l’antidolorifico che mi hanno iniettato in vena ha un po’ calmato le fitte, ma comunque non sarei in grado di alzarmi in piedi e restare dritta.
Annuisco, mentre ritorno sulla sedia a rotelle e l’infermiera mi guida attraverso corridoi e su un ascensore.
Poi schiaccia il numero tre e noi cominciamo a salire.
Sospiro e mi metto una mano sul fianco. Fa male.
Le porte dell’ascensore si aprono, lei attraversa un’altra porta ed io vedo due cartelli. Uno dice: “UNITÀ OPERATIVA DI CHIRURGIA. DIRETTORE: DOTT. FRANCESCO FERRI”. Il cartello sotto invece recita: “UNITÀ OPERATIVA DI GASTROENTEROLOGIA. DIRETTORE: MARCO NARDI”.
Ci dirigiamo verso la chirurgia e a quel punto, mi ritrovo davanti ad altri due cartelli. Sulla sinistra: “AMBULATORI”; sulla destra: “REPARTO”.
Le porte a vetri del reparto sono chiuse, ma l’infermiera gira a sinistra, per andare agli ambulatori e “parcheggia” la mia sedia a rotelle tra l’ambulatorio uno e due. Quelli più distanti dal reparto.
Bussa all’ambulatorio due con le mie carte in mano, entra e sparisce per diversi minuti. Quando torna fuori, i miei documenti sono scomparsi e lei mi saluta con un sorriso e un “Auguri!” molto affabile.
Ricambio il sorriso, anche se vorrei solo farle sparire il suo e aspetto che qualcuno si degni di venire a prendermi.
Ormai sono le otto e mezza di mattina e, non sapendo cosa fare nell’attesa, cerco il cellulare nella borsa. Appunto. Lo cerco, ma non trovo assolutamente nulla. Solo poi mi ricordo di averlo lasciato sotto carica a casa.
Maledizione, ma è mai possibile? Tutto sta andando dannatamente storto.
Mi rassegno all’idea e a quel punto comincio a pensare come diavolo fare per avvertire, in primis, i miei genitori, in secondo luogo, la tutor.
Sto ancora pensando a quel piccolo dettaglio, quando, dietro le porte a vetri del reparto di chirurgia, passa una sagoma familiare.
“Daniele!”, penso tra me.
Daniele Vagliani: mio compagno di corso e caro amico. Solo che adesso devo trovare un modo per fare in modo che mi veda, dato che ci troviamo a trenta metri di distanza, separati da una parete di vetro e sicuramente lui, avendo attaccato il turno di mattina, sarà abbastanza rincretinito.
La mia attenzione viene distratta dall’aprirsi della porta dell’ambulatorio due. Ne esce una signora piuttosto corpulenta con la divisa da operatrice.
«Ciao, cara! Allora… tu sei Ginevra?».
«Sì… ».
«Bene. Il dottore arriva subito, abbi ancora un po’ di pazienza».
Detto questo torna nell’ambulatorio. Proprio in quel momento, esce dal reparto un’ausiliaria che porta fuori i contenitori del materiale infetto e si dirige verso il magazzino dello smaltimento.
«Scusi!» attiro la sua attenzione.
«Dimmi, cara».
Sarò anche piccola e bassa, ma perché diavolo tutti continuano a chiamarmi “cara”? È una cosa alquanto snervante.
«C’è Daniele in reparto? Il tirocinante… ».
«Daniele… oh, sì, l’ho visto prima».
«È un problema chiamarlo fuori un momento? Sono una sua compagna di corso e non so come avvertire la tutor; ho lasciato il cellulare a casa stamattina».
«Oh, accidenti! Vado a cercarlo subito!», così torna verso le porte a vetri ed entra in reparto. Per lo meno, è stata gentile.
Aspetto qualche minuto, finché non vedo Daniele venire fuori tutto preoccupato e dirigersi nella mia direzione.
«Gin! Ma che cazzo è successo?».
Buongiorno, insomma. Sorrido, ed è la prima volta che lo faccio sinceramente, da quando mi sono svegliata quella mattina.
«Onestamente non lo so. Ho avuto una fitta mentre venivo, al pronto soccorso mi hanno fatto degli esami e un’eco e ora mi hanno mandata qui a fare un consulto in chirurgia. Senti, Dan… non è che potresti cercare di avvisare Maria, in qualche modo? Io ho dimenticato il cellulare a casa. Lei dovrebbe arrivare alle nove».
Lui mi fa cenno di sì con la testa, poi prende parola.
«Va bene, più tardi chiedo alla caposala se posso andare su nello studio della tutor e ci parlo io. Ma adesso come stai? Ti fa male?».
«Eh, un po’».
«Cazzo, Gin… che brutta storia».
«Lo dici a me? Senti, adesso torna in reparto, prima che ti prendi anche giudizi negativi per colpa mia. Al massimo ci vediamo più tardi».
«Certo, devi farmi sapere tutto».
«Sarà fatto».
Mi stringe lievemente la spalla e si allontana.
In quel momento passa un’infermiera e mi rivolge un sorriso, che io ricambio.
Devo andare in bagno e non ho la minima idea di dove cavolo sia.
Comincio a girare lungo il corridoio degli ambulatori muovendo la sedia con i piedi e finalmente arrivo ad uno spazio rientrato nel muro. Sulla destra c’è una porta con di fianco una targa con scritto “SERVIZI IGIENICI”.
Bene, ora tutto sta nell’arrivarci senza spiaccicarmi per terra.
Alla fine ce la faccio e, dopo cinque minuti, sono di nuovo sulla mia sedia a rotelle.
Ormai sono quasi le nove e a quel punto esce di nuovo l’operatrice di poco prima che, sorridendo, mi porta all’interno dell’ambulatorio. Sia lodato il cielo.
Anche se, con la fortuna che ho, è meglio non cantare vittoria troppo presto.
Punto numero uno: probabilmente adesso ci sarà un dottore vecchio e scorbutico che mi visiterà senza neanche preoccuparsi di essere tanto delicato.
Punto numero due: di certo mi imbottiranno di farmaci che mi distruggeranno il fegato.
L’operatrice e un’infermiera dell’ambulatorio mi aiutano a distendermi sul lettino e poi l’infermiera passa nell’ambulatorio comunicante.
Poco dopo, la porta si apre ed entra un medico.
Alto, fisico asciutto, occhi e capelli castani e un paio di occhiali che gli donano quel classico tocco da dottore.
“Beh, quasi quasi potrei abituarmici”.
L’uomo si avvicina e mi saluta gentilmente.
“Dottor S. Costa” leggo sulla targhetta del suo camice.
Dottor Costa. Suona bene, sì.
Lui mi fa qualche domanda su come mi siano iniziati i dolori e il resto. Io ricostruisco tutto un’altra volta e poi attendo in silenzio.
«Scusa… come hai detto?», mi chiede dopo qualche secondo.
“Tesoro, sarai anche carino, ma mi sembri un po’ rincoglionito”, penso tra me.
«Scusa, sai… ho fatto il turno di notte, non afferro molto».
Il turno di notte ed è ancora qui alle nove di mattina? Ma che razza di orari hanno i medici? Un po’ più indulgente, gli rispiego l’ultima parte e poi lui mi si avvicina di nuovo.
Mi scopre la pancia e comincia a fare una leggera pressione sulla zona dolorante.
Beh… magari non esattamente leggera, infatti mi trattengo a stento dall’insultarlo, ma mi rendo perfettamente conto che sarebbe potuta andarmi anche molto peggio di così.
«Ti faccio più male quando premo o quando lascio?».
«Quando lascia».
Lui si scambia uno sguardo d’intesa con l’infermiera; uno sguardo che non mi piace per niente e poi mi fa una leggera carezza sulla pancia.
«Meno male che hanno inventato i pantaloni a vita bassa;: ci rendono il lavoro più facile».
Ma è idiota?!
Mi limito ad osservarlo con sguardo truce e lui si mette a ridere. Ha un bel sorriso. E una bella risata. Ok, ma che diavolo sto dicendo? Questo tizio ha appena inneggiato ai pantaloni a vita bassa. Ma dove diavolo sono finita?
«Tranquilla, non sono un maniaco. Ho sentito che sei una studentessa infermiera, no? Non vi hanno mai detto che, quando devi lavorare su una determinata zona, devi avere un’ampia superficie disponibile su cui poterti muovere? Più spazio hai a disposizione, meglio è, no?».
Questo è vero e comunque… si vede proprio che è un chirurgo.
Lui scrive velocemente qualcosa a computer e poi esce dall’ambulatorio. Devo dire che il tizio è un po’ strano.
Intanto l’operatrice rientra nella stanza e chiede all’infermiera:
«Dov’è Costa?».
«È andato a vedere se c’è un letto disponibile per la ragazza».
«Un letto?!».
«Sì», è proprio lui a rispondermi in quel momento, che si chiude nuovamente la porta alle spalle. «Ti
ricoveriamo».
Un momento… che cosa?!

Note dell’Autrice:

Ebbene, ecco a voi il primo tanto atteso capitolo delle “Cronache”.
Questo e il prossimo diciamo che sono abbastanza introduttivi, dal terzo cominceranno le vere e proprie Cronache e le apparizioni del nostro famoso e amato DocHot
Ringrazio tutte le fantastiche ragazze che mi hanno spronata a scrivere questa FF (Doc vi manda tanti saluti *^*) e inoltre, ringrazio chi prima non conosceva questa storia e ha comunque deciso di dedicarci qualche minuto.
Inoltre, un enorme grazie a Yuko majo per il fantastico banner e Bertu per aver accettato di betare questa assoluta follia.
Siete fantastiche, davvero.
Vi lascio qui sotto il link del mio Profilo Facebook, per chi fosse interessato a sapere come in realtà è nata l’idea della fanfiction XD
Profilo Facebook
Un saluto a tutte e un abbraccio da parte di Doc.
Clira

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Capitolo 2
*** Vita di reparto ***



CAPITOLO 2

”VITA DI REPARTO”







«No, aspetti! Perché stiamo parlando di ricovero?» chiedo tirandomi su di colpo e facendomi male da sola.
Il dottor Costa mi viene subito vicino, mi mette una mano sulla schiena e l’altra sul braccio.
«Attenta, ragazza. Ci manca solo ti faccia altri danni»
«Altri danni? Magari nel frattempo può parlarmi di quelli che avete già trovato… »
Lui ride.
«Lo sai che hai proprio un bel caratterino?»
«Sì, sa com’è. Dipende dalla giornata e questa è cominciata molto male»
Il chirurgo sorride di nuovo.
«Beh, l’ipotesi più probabile è che tu abbia un attacco di appendicite, anche se sarebbe un po’ strano»
«Perché?»
«Studi infermieristica. Dimmelo tu»
“Ma guarda questo” penso irritata. Sono qui agonizzante e lui si mette pure a giocare a “indovina la diagnosi”.
«Cos’è l’appendicite?» mi chiede, per indirizzarmi nella giusta via.
«Beh, tutto ciò che finisce per “ite”, è un’infiammazione»
«Esatto. E quali sono segni e sintomi di un’infiammazione?»
«Dolore, gonfiore, calore. Ho avuto un attacco di appendicite anni fa, ricordo di aver vomitato sette volte in tipo… dieci minuti».
«Le hai anche contate? Poetico… » commenta con il chiaro intento di prendermi in giro.
Gli lancio un’occhiata assassina e “Il Dottor-Segni-E-Sintomi” ridacchia, aiutandomi poi a sistemarmi nuovamente sulla sedia a rotelle.
«Ti rimandiamo giù in pronto soccorso, ok? Appena si libera unletto, torni qui»
«Va bene»
«A più tardi, allora»
Così, aiutata dall’operatrice, esco dall’ambulatorio. Le chiedo se posso avere un telefono per avvertire la tutor, dato che Daniele non mi ha fatto sapere nulla e, quando compare poco dopo, dice di non averla trovata nel suo studio, al sesto piano.
«Va bene, Dan, grazie lo stesso»
«Di nulla, Gin. Sei stata visitata da Costa? Che cosa ha detto?»
«Probabilmente si tratta di appendicite. Anche se ha detto che è strano perché non ho febbre e ho avuto solo un po’ di nausea»
«Cavolo… ma quindi ti operano?»
«Non lo so. Mi ricoverano oggi appena si libera un letto e poi mi faranno altri esami per capire se si tratta davvero d’appendicite»
«Che sfiga, però. Proprio durante il tirocinio»
«Tesoro… noi ci siamo incontrati solo a ottobre, ma, se ci conoscessimo da più tempo, sapresti che io e la sfiga andiamo a braccetto. Ormai mi sono messa il cuore in pace»
Daniele si mette a ridere, poi mi abbraccia piano.
«Mi raccomando, eh»
«Certo»
Non appena Daniele mi lascia sola, provo a chiamare la tutor, ma il telefono squilla a vuoto e quando provo a chiamare il centralino mi mettono in contatto con la tutor del secondo anno.
Che palle.
Alla fine ci rinuncio: restituisco il telefono all’operatrice e vengo portata al primo piano da un’ausiliaria.
Ed eccomi di nuovo in pronto soccorso.
Consegno il referto scritto dal chirurgo carino al medico che mi aveva vista quella mattina e lui dice ad un’infermiera di portarmi in astanteria, una stanza in cui solitamente sistemano i pazienti in attesa di essere trasferiti nei vari reparti, finché non sarò ricoverata.
Lì trovo ancora Giovanni: il tirocinante del terzo anno conosciuto questa mattina.
«Ehi, allora! Che ti hanno detto in chirurgia? Se sei qui ti ricovereranno, immagino»
«Sì»
Il mio tono è tetro.
«Mi dispiace. Va beh dai, in chirurgia sono bravi»
“E fighi”, aggiungo mentalmente.
«Grazie per il supporto morale»
«È il nostro lavoro, no?»
Sospiro in segno di assenso.
«Hai bisogno di qualcosa? Come va il dolore? Ti faccio un altro Perfalgan?»
«Sì, credo sia meglio» dice l’infermiera che mi ha portata lì.
Giovanni apre l’armadio dei farmaci iniettabili, prende un comune flacone di soluzione fisiologica da 500cc e un flaconcino più piccolo con l’antidolorifico. La fisiologica è usata praticamente per ogni cosa, consiste semplicemente in acqua purificata con all’interno cloruro di sodio. In altre parole… sale. Dopodiché collega il tubicino della flebo (deflussore), all’accesso venoso che mi hanno preso quella mattina. Prima mi mette in circolo il farmaco e, quando quello finisce, la fisiologica.
Telefono di nuovo, ma mi mettono un’altra volta in contatto con la tutor del secondo anno.
A questo punto, dato che non riesco a contattare la mia, suppongo sia in giro per i vari reparti, racconto a lei che cosa è successo e le chiedo di riferirlo a Maria non appena possibile.
Intanto ho un altro problema: il mio cellulare. dato che non posso continuare a usare quello del pronto soccorso, devo trovare un modo per riaverlo.
Allora, c’è da premettere che, durante il periodo di tirocinio, alloggio da un’infermiera e so per certo che adesso è a casa. La fregatura? Ha smontato notte, quindi spero solo di non svegliarla.
Come previsto infatti, risponde la madre ottantenne, che abita nell’appartamento sotto di noi. Le spiego con calma la situazione, chiedendole se può dire a sua figlia di portarmi il telefono non appena si sarà svegliata. Per fortuna in macchina ci si impiega appena un minuto per arrivare all’ospedale.
“E anche questa è fatta”.
A questo punto non mi resta che attendere e vedere come andranno le cose.
Le ore passano lentamente. Non ho un libro da leggere, non ho il cellulare e non ho nemmeno il lettore mp3. Potrei quasi mettermi a contare tutte le gocce che cadono dal flacone della fisiologica nel deflussore.
Grazie al cielo, a un certo punto la porta della stanzetta in cui mi hanno sistemato si apre ed entra Maria: la mia tutor.
Come sempre quando è in ospedale, indossa un camice bianco, uguale a quello dei medici.
«Ginevra! Ma che cosa mi combini?»
«Eh, lo vorrei sapere anch’io»
Si avvicina al letto e mi accarezza la testa.
E pensare che quel giorno sarei dovuta tornare a casa. Abito ad un’ora di strada dall’ospedale dove svolgo il tirocinio e, nel fine settimana, torno a casa. Oggi è giovedì e sarei dovuta partire. E invece mi ricoverano, che meraviglia.
Non oso immaginare cosa diranno mia madre e il mio ragazzo quando li avvertirò.
«Hai bisogno di qualcosa?»
«No, grazie. Ho già tutto quello che mi serve e ho chiamato l’infermiera da cui sono in affitto chiedendole se può portarmi il telefono. Cioè… mi ha risposto sua madre, quindi me lo porterà quando Antonella si sveglia».
«Tu stai qui vicino, giusto?».
«Sì, dopo il ponte. Entrambe le figlie vivono all’estero, quindi mi ha affittato una delle stanze durante il periodo del tirocinio»
«Ho capito. E sei da sola?»
«Adesso sì. Le prime tre settimane abitavo con Miriam, poi però nel secondo periodo di tirocinio si è trasferita. A inizio giugno però, dovrebbe arrivare Beatrice»
«Ah, ho capito. Allora… raccontami che cosa è successo oggi» Mi trovo a spiegare nuovamente tutti i fatti di quella mattina. «Oh, caspita… allora dai, vediamo cosa ti dicono»
Il tono di Maria è sempre pacato. Secondo me è più una mamma che una vera professoressa. Ma d’altra parte ha prestato servizio per vent’anni in pediatria quindi, da una parte, capisco il perché.
«Senti, io devo andare a parlare con una caposala, ma più tardi torno, va bene?»
«D’accordo, grazie»
E così sono di nuovo sola. E il tempo passa in modo snervosamente lento. Si fa l’una, e io comincio ad avvertire la fame dato che non ho nemmeno fatto colazione perché ero in ritardo.
Quando ormai sono mortalmente annoiata e vicina alla disperazione, la porta si apre ed entra Antonella.
«Ma Ginevra! Che cos’è successo?»
E avanti con la solita nenia.
Le racconto tutto, poi mi porge il mio cellulare.
Finalmente. Ormai cominciavo seriamente a perdere le speranze. Adesso potrò chiamare mia madre.
Antonella mi tiene compagnia per un po’, finché non entra in stanza una mia compagna di corso e io mi chiedo quanto accidenti corrano velocemente le notizie in quell’ospedale.
Tuttavia le sorrido. È una di quelle con cui ho stretto un legame più forte e sono contenta che ora sia qui.
«Ciao Angie… »
Saluto Angela e allungo una mano in modo che lei possa prendere la mia.
«Io vado un po’ fuori, ripasso dopo» mi dice Antonella.
Così, mi posa un bacio sulla fronte ed esce dalla stanza.
Angela e io cominciamo a parlare di tutto ciò che è accaduto, poi lei cambia argomento e io le sono estremamente grata.
«Maria mi ha detto che eri qui e di passare a trovarti»
«Maria? Davvero?»
Proprio in quel momento si apre la porta ed entra la tutor.
«Ginevra, lo so che c’è il segreto professionale di cui vi abbiamo tanto parlato, ma ho informato Angela perché ho visto che andate molto d’accordo e insomma… per non lasciarti sola»
«Ha fatto bene, prof. Grazie»
Lei sorride.
«Ti hanno detto qualcos’altro?»
«Mmm, no. Non ho più saputo nulla»
«E i tuoi genitori? Li hai avvertiti?»
«Non ancora. Antonella mi ha portato il cellulare giusto adesso, quindi appena posso telefono a mia mamma»
«Ah, allora noi usciamo un momento, così puoi chiamarla»
Detto questo, le due escono, lasciando invece entrare un gruppo di infermieri che trasportano su una barella una signora sui quarant’anni.
Ha avuto un incidente stradale dopo un malore, ma non mi sembra particolarmente ferita, anzi, non ha neanche un graffio. Pare che le debbano fare qualche esame al cuore.
A ogni modo non mi interesso molto; apro la rubrica e cerco il numero di mia madre, anche se potrei digitarlo a memoria.
«Pronto?» la sua voce familiare, mi risponde al terzo squillo.
«Ciao mamma… »
Non so come cavolo dirglielo.
«Ginni, che è successo? Hai una voce… »
«Sono in ospedale»
«Sì, lo so»
«No, mamma… non hai capito. Sono in ospedale, ricoverata»
Momento di silenzio generale.
«CHE COSA?!»
Ecco, appunto.
Faccio un breve riassunto anche a lei e, al termine del mio racconto, lei sembra avere un tono abbastanza tranquillo.
«Ma adesso come stai? Papà è al lavoro, lo chiamo io quando è in pausa e ora guardo con tua sorella gli orari dei treni per venire lì in ospedale»
«Mamma, non c’è bisogno. Davvero»
«Non c’è bisogno?! Io credo di sì. Cosa hanno detto i medici?»
«Appendicite, probabilmente. Oggi pomeriggio mi ricoverano»
«Non puoi farti trasferire qui vicino casa?»
«Non lo so chiederò al chirurgo gnocco quando lo rivedo»
«Ah, hai anche già inquadrato il chirurgo gnocco?»
«Certo! Altrimenti il tempo come lo passo?»
«Sei senza speranze»
«Grazie mammina, ti voglio tanto bene anch’io»
«Certo. D’accordo, dai, ora guardo gli orari dei treni con Paola e poi ti faccio sapere».
«Va bene, salutami mia sorella»
«Sì, a più tardi»
A casa abbiamo due macchine: una di mamma e una di papà. Ovviamente, papà usa la sua per lavoro. Oggi, fortunatamente, lavora a dieci minuti di macchina da qui, perciò stasera, quando finisce, forse passerà a trovarmi.
Mamma invece è casalinga, perciò mi presta la sua macchina. Ѐ vero che con un mezzo di trasporto ci si impiega massimo due minuti a percorrere il percorso casa-ospedale, ma a piedi si metterebbe venti minuti. E farsi venti minuti a piedi di strada alle cinque di mattina o alle dieci di sera non è esattamente il massimo.
Dopo un po’ rientra Antonella e parliamo ancora per qualche minuto: mi dice di dover andare deve sbrigare delle commissioni varie e poi tra due giorni partirà per la Sardegna. Ha una settimana di ferie e la sfrutterà per andare a trovare suo cugino.
«Mi dispiace che sia successo proprio adesso che non ci sono»
«Tranquilla, non ti preoccupare. Immagino sarò occupata, in questi giorni»
Lei sorride e mi abbraccia piano.
«Comunque ripasso a trovarti, oggi pomeriggio»
«Grazie mille. A dopo, allora»
Quando se ne va, rientrano Angela e Maria.
«Allora… com’è andata con tua mamma?»
«Era un po’ stralunata»
«Eh, posso immaginare»
«Comunque arriva con il treno, anche se non so bene a che ora. Doveva ancora controllare gli orari dei treni»
Maria sorride.
«Va bene, ragazze. Allora io vado. Ginevra, se hai bisogno di qualcosa… non esitare a farmelo sapere»
«Grazie»
Detto questo, la tutor lascia la stanza.
Con Angela parliamo di tutto e di niente, poi mi chiede come stia andando il dolore.
«Diciamo che rompe. Ormai l’effetto dell’antidolorifico è finito, quindi adesso si sente di più»
Angie mi accarezza una mano e sorride. Anche lei è una persona molto dolce e altruista. Forse perché ha due fratelli molto più piccoli di lei.
Continuiamo a chiacchierare, finché la porta non si apre un’altra volta ed entra il chirurgo carino.
«Ciao!» mi saluta lui allegramente.
«Salve… » il mio tono è leggermente diverso dal suo.
«Allora, il letto si è liberato, ma devi firmare le carte del ricovero» dice porgendomi un paio di documenti.
«Non posso proprio essere trasferita nell’ospedale vicino casa mia?»
Per un momento, il dottore si fa pensieroso.
«Beh, tecnicamente potresti, ma dovresti rifare tutta la trafila burocratica e poi non è detto che lì abbiano un letto disponibile. Io ormai resterei qui, se fossi in te».
Sospiro, mi sa che devo rassegnarmi.
«D’accordo, allora firmo»
Lui mi porge i documenti e io scarabocchio il mio nome nello spazio apposito.
Possibile che, quando devo fare una firma seria, mi vengano fuori solo sgorbi incomprensibili?
Va beh, amen. Il medico resta per qualche altro minuto e poi esce (nuovamente).
«Dai, Gin. Hai fatto bene a restare qui, così tutti noi possiamo passare a trovarti. Penso avrai una folla di tirocinanti che faranno su e giù per la tua stanza. Ho incrociato Daniele, prima di venire da te: era tutto preoccupato».
«Sì, lui si preoccupa sempre. Poi, prima di venire a fare il tirocinio qui in ospedale, eravamo nella stessa casa di riposo, quindi abbiamo legato tanto»
«Eh, infatti lo vedevo un po’ agitato»
«Angie dai, adesso vai a casa. Se hai fatto la mattina ormai sarai stanca morta, tanto da chirurgia non scapperò molto facilmente»
Lei ride, mi dà un bacio sulla guancia e poi esce dalla stanza, salutandomi.
Nel frattempo è arrivato il marito della donna dell’incidente stradale che hanno sistemato sul letto accanto al mio. Parlano e io ho il tempo di chiudere gli occhi e rilassarmi un po’.
Passa un’altra ora prima che la porta si apra nuovamente ed entrino mia madre e mia sorella che mi guardano rassegnate.
«Sei un caso disperato. Com’è che, ovunque tu vada, se non finisci in ospedale non sei contenta?»
«Wow… e io che credevo vi sareste buttate disperate al mio capezzale… »
Loro ridacchiano e io le guardo male. Racconto anche a loro che cosa è successo poi arriva un’infermiera che dice [ci comunica] che possiamo finalmente andare in chirurgia.
Rifacciamo la stessa strada di quella mattina, ma questa volta, la donna volta a destra, verso il reparto.
Non c’è nessuna traccia di Daniele: è comprensibile. Ormai sono le tre passate, quindi il suo turno è finito più di un’ora fa.
Mi portano in una stanzetta con fuori una targa con i numeri 309-310, ed io mi siedo sul letto contrassegnato 310.
Mia mamma sistema le mie poche cose in un armadietto con lo stesso numero e poi mi chiede se ho bisogno di qualcosa.
«Sì, mi servono spazzolino e dentifricio. Non so se Antonella sia a casa, al massimo qui di fronte c’è il supermercato, forse puoi provare anche al bar»
Mamma annuisce, poi parliamo per un altro po’.
«Ma allora… questo chirurgo carino?» dice mia sorella ad un certo punto.
«Sì che figo, altroché! Adesso aspetta, magari arriva».
Proprio in quel momento si apre la porta, ma… non è lui, sfortunatamente.
Comunque, è un medico piuttosto giovane, che non ho mai visto. Forse è perfino più giovane del mio fantomatico dottore.
Ha un’espressione gentile e mi saluta subito, non appena mi vede.
«Ciao! Sei Ginevra, vero?»
«Sì»
«Allora… come ti senti?»
«Insomma… sono stata meglio»
In realtà il dolore è fortissimo, ma non voglio darlo troppo a vedere.
«Mmm… parlando con il collega che ti ha visitata stamattina, dall’esame obiettivo, direi che è un’appendicite, ma adesso dovrebbe venire a vederti il primario»
Sospiro. Dopo una giornata buttata tra il pronto soccorso e i vari reparti in cui mi hanno mandata a fare i consulti, sono davvero stanca.
«Se hai bisogno di qualcosa, quello è il campanello. Non esitare a chiamare»
Gli sorrido, lui è gentile.
«Grazie, dottore»
Poco dopo, l’uomo lascia la stanza.
Si fanno le sette di sera. Mamma e Paola sono ancora con me, il primario è passato e ha detto che nei prossimi giorni faranno una serie di esami per capire di cosa si tratta e, finalmente, arriva anche mio padre.
Racconto per l’ennesima volta cos’è successo e lui, più o meno, ha la stessa reazione di mia mamma e mia sorella.
Poco dopo, mia sorella e i miei genitori tornano a casa ed io rimango a osservarmi intorno. Sono in stanza con un’anziana signora dall’aria arcigna che non sembra molto in vena di chiacchiere.
A un tratto, nella stanza entra un infermiere che ho già visto prima: si chiama Alessandro e all’università ha tenuto un laboratorio riguardo l’esecuzione delle iniezioni intramuscolari e sottocutanee.
Resta fermo un momento e mi osserva.
«Aspetta… ma noi ci siamo già visti?»
«Eh sì. Sono Ginevra, ci siamo visti in università. Laboratorio delle iniezioni. Faccio parte del gruppo 8»
L’infermiere sgrana gli occhi.
«Cazzo ti è successo?»
Mi metto a ridere per la sua buffa espressione, poi racconto anche a lui cosa è accaduto quella mattina.
«Oh, madre santa… » dice alzando gli occhi al cielo e facendo finta di pregare.
«Finisci alle dieci?»
«Sì, esatto. Hai bisogno di qualcosa?»
«No, grazie»
«D’accordo. Se hai bisogno chiama, comunque più tardi torno a salutarti. Ciao, Bionda!»
E detto questo se ne va.
Allora… partendo dal presupposto che io non sono assolutamente bionda… devo ammettere che quel tizio è un po’ strano.
Le ore passano piuttosto lentamente, la mia compagna di stanza non è loquace e, a parte il telefono, non ho nulla che possa distrarmi.
Un infermiere di nome Giacomo, che somiglia fastidiosamente a un mio ex ragazzo, mi porta una scodella di thé con due fette biscottate: la prima cosa che mangio quel giorno. E sono sette passate di sera.
Ovviamente ho ancora fame quando finisco, ma pare che non avrò nient’altro fino al giorno dopo.
L’infermiere mi attacca una flebo con dell’antidolorifico e allora sto un po’ meglio, ma solo un po’.
Alle nove e mezza la mia compagna di stanza sta già dormendo e anch’io provo ad addormentarmi, ma non ci riesco.
Continuo così fino a mezzanotte passata quando, dolorante e innervosita, mi alzo dal letto per andare in bagno. In chirurgia ci sono i bagni comuni, devo uscire dalla camera.
Dopo due minuti sto lentamente tornando nella mia stanza, quando a un tratto sento una voce alle mie spalle che quasi non mi fa collassare.
«E tu che ci fai in giro a quest’ora?»
Mi volto con il cuore che ancora batte forte per lo spavento.
Splendido.
È il chirurgo figo.


Note dell’Autrice:

Ecco a voi il secondo capitolo delle Cronache! Spero tanto che vi sia piaciuto e… beh, cosa dire? Le vostre recensioni nel primo capitolo mi hanno fatto tanto tanto piacere, spero di ricevere qualche giudizio anche per il secondo. Come avrete visto, questo è stato abbastanza introduttivo, ci sono stati tanti personaggi anche se Doc si è visto pochino, ma… il terzo capitolo inizierà con lui! XD
Ringrazio come sempre Bertu, la mia beta che mi dà veramente dei consigli preziosi e mi aiuta tantissimo! Buona serata a tutti!

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