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Autore: Clira    17/04/2014    17 recensioni
Una mattina che comincia come tante altre, anzi... peggio.
A chi non è mai capitato di svegliarsi in ritardo per andare a lavoro? Peccato che sia uno dei tuoi primi giorni da tirocinante in ospedale e arrivare in ritardo proprio all'inizio, soprattutto se sei un'allieva, non è proprio il massimo.
Poi una fitta improvvisa ti costringe a recarti al pronto soccorso... e non per lavorarci, ma come paziente.
Da quel momento, una serie di incontri casuali, cambia completamente la carte in tavola, trasformando un posto che prima ritenevi ostile, in uno che difficilmente riuscirai a dimenticare.
DAL TESTO:
"«Allora dilla la verità: non riesci a stare lontana da qui, vero?».
«Veramente ero venuta a trovare una persona... ».
«Certo! Me».
«No! Una paziente che avete qui ricoverata!».
«Così mi ferisci».
«La sua sensibilità non è un mio problema, dottore»".
Ringrazio in anticipo le fantastiche ragazze che mi hanno spinta a trasformare le "Cronache" da semplici appuntamenti su Facebook ad una vera e propria FF.
Aspetto con ansia tutti i vostri commenti!
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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CAPITOLO 1

IL CAMBIO AUTOMATICO È UNA FREGATURA




*«Capo! Ma ti muovi?!»
«Stai zitto, tu. E rispetta il tuo capo, dato che ha ancora la pancia aperta dall’ultimo intervento».
«Adesso ti rivolgi a te stessa in terza persona? Andiamo sempre meglio».
«Ribadisco: stai zitto».
Lui ride, mentre io arranco per raggiungere la sua macchina, una mano posata sull’addome.
«Parti adesso, altrimenti arriviamo in ritardo».
«Ah, certo… e tu non vuoi arrivare in ritardo dal tuo DocHot, non è vero?».
Gli lancio un’occhiata che sarebbe degna di un serial killer e lui mette in moto la sua auto.
«Ok, ho capito: con il capo non si discute».
«Ecco, questa è la prima cosa sensata che ti sento dire da quando sei arrivato».
«Sei un amore».
«Certo, lo so».
Lui mette in moto e partiamo*.

Due mesi prima…
“Cazzo”.
Ok, magari è un po’ volgare, ma questa è la prima cosa che penso non appena vedo l’ora sul mio orologio. Sono le 5.30 del mattino. Capisco di essermi riaddormentata e, probabilmente, arriverò in ritardo già il quarto giorno di tirocinio in ospedale.
Bene.
Splendido.
Prima ancora di rendermene conto sono in piedi con una gamba infilata dentro ai pantaloni e l’altra che lotta cercando di fare la stessa cosa.
Non mi pettino: cercare di domare i miei ricci sarebbe impossibile. Di solito cerco di dar loro un contegno, ma questa mattina, a quanto pare, non è fattibile.
Corro, raccolgo le mie cose, prendo le chiavi della macchina e poi schizzo nel cortiletto, dove l’ho lasciata. Infilo le chiavi nel quadro e metto la retro di fretta, ma quando faccio per partire… niente.
Poi, una scritta sul computer di bordo richiama la mia attenzione: “MARCIA NON DISPONIBILE”.
“Aspetta… che cosa?! Che diavolo vuol dire marcia non disponibile?!”
Ingrano più e più volte la prima, ma niente. Questa mattina la macchina ha deciso di andare solo in retro.
Presa dal nervosismo e dall’ansia di arrivare in ritardo, lascio la Lancia in mezzo al cortile e, a piedi, parto a rotta di collo in direzione dell’ospedale, il cuore a mille.
“Quando qualcosa potrebbe andare storto, sicuramente lo farà”. È una delle leggi di Murphy, vero? Ovviamente sì. Era logico che mi sarei trovata in questa situazione, visto che sono l’incarnazione umana della Sfiga.
Sono le cinque passate di mattina di un sedici maggio e ci sono sì e no quattordici gradi fuori. Sono in mezze maniche e sto correndo come una disperata. Mi metto il cuore in pace; come minimo mi verrà un mal di gola insopportabile.
Ignoro la nausea e i lievi dolori alla pancia che ho dalla sera precedente e che speravo sarebbero passati durante la notte. Ma a quanto pare, non è stato così. Questo sempre perché ho tanta fortuna e, tanto per rimanere in tema, adesso mi aspettano otto ore di lavoro senza interruzioni.
Manca ancora un po’ per arrivare in ospedale: altri cinquanta metri, poi a destra alla rotatoria, davanti il supermercato e sarò arrivata, quando mi piego in due, una mano sul fianco destro e l’altra appoggiata al muro, mentre una fitta lancinante sembra aprirmi l’addome.
«Ah!».
Dall’altra parte della strada noto un tizio rasato, sui trentacinque anni che mi guarda un po’ allucinato.
«Ehi, stai male?» mi domanda.
Wow, che genio. “Ti serve fare anche una domanda per capirlo? Non so… non ti basta il fatto che sono quasi stecchita sul ciglio della strada?”.
«Ora passa… » gli rispondo cercando di rimettermi dritta.
«Vieni di qua, così ti porto in ospedale» continua lui, ma proprio nel momento in cui sto per attraversare la strada, una macchina accosta vicino a me e si abbassa il finestrino. È una Panda verde acqua.
“Ma chi diavolo va in giro con una macchina del genere?” penso.
In quel momento avrei trovato il modo per criticare il mondo intero e, quindi, anche il conducente dell’auto, perfino se fosse stato alla guida di una Ferrari.
Dal mio lato si sporge un uomo e apre lo sportello. È un signore sui cinquanta: capelli, barba e baffi grigi. Indossa una divisa del pronto soccorso.
«Ehi, stella… vieni con me che ti porto in ospedale».
Allora… c’è da dire che in circostanze normali, non lo avrei mai fatto… tuttavia il dolore è così forte che se solo facessi un altro passo, credo che potrei davvero cadere a terra. Così, salgo in auto e lui mi porta fino al pronto soccorso, mentre io rimango a occhi chiusi sperando che tutto improvvisamente passi.
Cerco di respirare con calma mentre l’uomo guida. Mi scappa una lacrima a causa del dolore, ma mi affretto ad asciugarla. Maledizione, ho sempre sopportato il dolore decisamente bene, fin da piccola, non mi sono mai lamentata, ma ora sembra veramente… troppo.
Arriviamo in ospedale in un minuto e lui si dirige verso il pronto soccorso.
«Riesci ad arrivare da sola fino all’accettazione? Altrimenti aspettami qua e ti vengo a prendere con una sedia a rotelle».
“Non esiste” penso.
«No, grazie… ce la faccio… ».
Un passo alla volta, arrivo fino all’accettazione e, a quel punto, un’infermiera con un paio di pantaloni arancioni e una maglia a mezze maniche biancami fa entrare in corsia. Ora sì che mi mettono sulla sedia a rotelle.
“Vi odio tutti”
Mi chiedo se, quando entrano in ospedale, tutti i pazienti la pensino così.
Io di solito mi trovo dall’altra parte. Sono quella che si occupa delle persone che stanno male. Non quella che sta male.
Quando l’infermiera mi fa entrare in uno degli ambulatori del pronto soccorso sono abbastanza sull’incazzato andante, tuttavia mi sforzo di sorridere.
Il medico mi ricorda vagamente il mio professore di fisiologia, che odio, quindi, di riflesso, mi sta antipatico anche lui.
L’uomo mi saluta. L’apparente stanchezza non nasconde l’età: non penso arrivi ai quarant’anni.
L’infermiera che mi ha portata fin lì va via e un uomo, mi aiuta a mettermi distesa sul lettino per farmi un prelievo.
Che meraviglia: con le vene che mi ritrovo so già che mi farà almeno due o tre buchi prima di prendere una vena decente.
Il medico mi fa delle domande,: chiede come sto, dov’è localizzato il dolore, quando è cominciato e io
sento l’ago che intanto mi buca la pelle e… l’infermiere ha preso la vena.
Oh beh… lo avevo sottovalutato. È stato bravo.
Continuo a osservare il dottore mentre l’infermiere mi prende i parametri vitali: saturazione, frequenza e pressione. Come prevedevo, ho tutto basso, ma dopotutto… per me è anche normale.
Qualche minuto dopo un ragazzo fa il suo ingresso.
È giovane, molto giovane e ha un’aria familiare. Credo di averlo già visto da qualche parte, anche se non ricordo dove.
Lui mi sorride.
«Tirocinante del primo anno, eh?».
Per adesso lui è l’unico a essermi simpatico.
Ha gli occhi castani, così come anche i capelli, piuttosto lunghi per un ragazzo, che tiene indietro con una fascetta nera.
Leggo sulla targhetta che porta alla maglia: “Giovanni Carraro” e sotto “Studente Infermiere”.
Ecco qua svelato il mistero: tirocinante anche lui. Devo averlo visto qualche volta in sede, all’università, durante le lezioni.
Lui deve essere al terzo anno: solo il loro tirocinio può svolgersi in pronto soccorso.
Ha un sorriso gentile e comincia a parlarmi del coordinatore dell’università, che, personalmente, non mi sta molto simpatico e anche lui la pensa come me.
A un tratto, mi volto verso l’infermiere che mi ha fatto il prelievo e gli chiedo se può telefonare lui al reparto di medicina in cui adesso avrei dovuto iniziare il turno. Mi accontenta, spiegando la situazione.
«Un saluto dalla medicina» dice quando riaggancia.
Sfodero un sorriso di circostanza, poi il medico che prima mi ha visitata, si rivolge al tirocinante del terzo anno: «La porti tu in radiologia? La mandiamo a fare un’eco e vediamo se salta fuori qualcosa».
Giovanni annuisce, mi aiuta a rimettermi sulla sedia a rotelle, e poi mi porta in radiologia, al primo piano, lo stesso del il pronto soccorso.
Per fortuna a quell’ora l’ospedale non è molto popolato, quindi non incontriamo nessuno.
La stanza in cui vengono fatte le ecografie è la numero 11. Il ragazzo mi prepara mentre il medico fa le domande di routine.
A contatto con la pelle scoperta, il gel è freddo e fastidioso e sarà ancor più fastidioso cercare di toglierlo dopo, anche perché non si riesce mai a toglierlo tutto.
“Farò una doccia quando torno a casa”, penso rassegnata.
Sì… come no.
«Allora… » prende parola il medico.
Ahi, comincia male. Se ha quel tono vuol dire che c’è qualcosa.
«L’ecografia ha mostrato un versamento in peritoneo, ma non cominciare a preoccuparti: non è sangue e non sembra ci sia pericolo di peritonite, anche perché altrimenti il dolore sarebbe molto più forte».
«Allora cos’è? Appendicite?».
«Non sembra. Ora stampo il referto, poi lo portate al pronto soccorso e il collega deciderà cosa fare».
Sia Giovanni che io annuiamo, poi lui mi riporta al pronto soccorso e consegna la relazione al medico.
«Va bene, per adesso portala di là, nell’altra stanza, intanto decidiamo cosa fare».
Il tirocinante mi conduce in una stanzetta piccola e piuttosto buia e mi aiuta a sedermi su una poltrona decisamente più comoda di quella sedia a rotelle.
«Ti attacco un Perfalgan, quando finisce chiamami pure, qui c’è il campanello. Hai fatto farmacologia?».
«No, farmacologia è una materia del secondo anno».
Lui ci pensa su un attimo, poi scuote la testa.
«Scusa, è vero. Sono le sei e mezza di mattina anche per me».
Rido, posso capirlo benissimo. Non si è sempre attivi e reattivi quando si comincia il turno.
Lui collega la flebo all’accesso preso poco prima dall’infermiere e regola la velocità di flusso; parliamo per qualche altro minuto e poi va via, dicendomi di riposare se ci riesco e che, probabilmente, dovrò aspettare un po’.
Quell’ultimo “un po’ ”, con cui mi ha lasciata, non mi fa sperare in nulla di buono e infatti passa come minimo un’ora e mezza prima che si faccia vedere qualcuno.
«Allora, adesso ti portiamo in chirurgia, ok? Facciamo un consulto e vediamo cosa dice il chirurgo», dice l’infermiera. Non c’era fino a prima;: deve essere arrivata al cambio turno.
“Chirurgia?! E questi cosa cavolo vogliono da me?! Chirurgia, ma ti pare? Ci manca solo che perda giorni di tirocinio e che quattro medici assetati di sangue comincino a tagliuzzarmi”.
No, no, no, assolutamente no. Ma d’altra parte che cosa posso fare? Scappare via dall’ospedale non mi sembra il caso. Magari l’antidolorifico che mi hanno iniettato in vena ha un po’ calmato le fitte, ma comunque non sarei in grado di alzarmi in piedi e restare dritta.
Annuisco, mentre ritorno sulla sedia a rotelle e l’infermiera mi guida attraverso corridoi e su un ascensore.
Poi schiaccia il numero tre e noi cominciamo a salire.
Sospiro e mi metto una mano sul fianco. Fa male.
Le porte dell’ascensore si aprono, lei attraversa un’altra porta ed io vedo due cartelli. Uno dice: “UNITÀ OPERATIVA DI CHIRURGIA. DIRETTORE: DOTT. FRANCESCO FERRI”. Il cartello sotto invece recita: “UNITÀ OPERATIVA DI GASTROENTEROLOGIA. DIRETTORE: MARCO NARDI”.
Ci dirigiamo verso la chirurgia e a quel punto, mi ritrovo davanti ad altri due cartelli. Sulla sinistra: “AMBULATORI”; sulla destra: “REPARTO”.
Le porte a vetri del reparto sono chiuse, ma l’infermiera gira a sinistra, per andare agli ambulatori e “parcheggia” la mia sedia a rotelle tra l’ambulatorio uno e due. Quelli più distanti dal reparto.
Bussa all’ambulatorio due con le mie carte in mano, entra e sparisce per diversi minuti. Quando torna fuori, i miei documenti sono scomparsi e lei mi saluta con un sorriso e un “Auguri!” molto affabile.
Ricambio il sorriso, anche se vorrei solo farle sparire il suo e aspetto che qualcuno si degni di venire a prendermi.
Ormai sono le otto e mezza di mattina e, non sapendo cosa fare nell’attesa, cerco il cellulare nella borsa. Appunto. Lo cerco, ma non trovo assolutamente nulla. Solo poi mi ricordo di averlo lasciato sotto carica a casa.
Maledizione, ma è mai possibile? Tutto sta andando dannatamente storto.
Mi rassegno all’idea e a quel punto comincio a pensare come diavolo fare per avvertire, in primis, i miei genitori, in secondo luogo, la tutor.
Sto ancora pensando a quel piccolo dettaglio, quando, dietro le porte a vetri del reparto di chirurgia, passa una sagoma familiare.
“Daniele!”, penso tra me.
Daniele Vagliani: mio compagno di corso e caro amico. Solo che adesso devo trovare un modo per fare in modo che mi veda, dato che ci troviamo a trenta metri di distanza, separati da una parete di vetro e sicuramente lui, avendo attaccato il turno di mattina, sarà abbastanza rincretinito.
La mia attenzione viene distratta dall’aprirsi della porta dell’ambulatorio due. Ne esce una signora piuttosto corpulenta con la divisa da operatrice.
«Ciao, cara! Allora… tu sei Ginevra?».
«Sì… ».
«Bene. Il dottore arriva subito, abbi ancora un po’ di pazienza».
Detto questo torna nell’ambulatorio. Proprio in quel momento, esce dal reparto un’ausiliaria che porta fuori i contenitori del materiale infetto e si dirige verso il magazzino dello smaltimento.
«Scusi!» attiro la sua attenzione.
«Dimmi, cara».
Sarò anche piccola e bassa, ma perché diavolo tutti continuano a chiamarmi “cara”? È una cosa alquanto snervante.
«C’è Daniele in reparto? Il tirocinante… ».
«Daniele… oh, sì, l’ho visto prima».
«È un problema chiamarlo fuori un momento? Sono una sua compagna di corso e non so come avvertire la tutor; ho lasciato il cellulare a casa stamattina».
«Oh, accidenti! Vado a cercarlo subito!», così torna verso le porte a vetri ed entra in reparto. Per lo meno, è stata gentile.
Aspetto qualche minuto, finché non vedo Daniele venire fuori tutto preoccupato e dirigersi nella mia direzione.
«Gin! Ma che cazzo è successo?».
Buongiorno, insomma. Sorrido, ed è la prima volta che lo faccio sinceramente, da quando mi sono svegliata quella mattina.
«Onestamente non lo so. Ho avuto una fitta mentre venivo, al pronto soccorso mi hanno fatto degli esami e un’eco e ora mi hanno mandata qui a fare un consulto in chirurgia. Senti, Dan… non è che potresti cercare di avvisare Maria, in qualche modo? Io ho dimenticato il cellulare a casa. Lei dovrebbe arrivare alle nove».
Lui mi fa cenno di sì con la testa, poi prende parola.
«Va bene, più tardi chiedo alla caposala se posso andare su nello studio della tutor e ci parlo io. Ma adesso come stai? Ti fa male?».
«Eh, un po’».
«Cazzo, Gin… che brutta storia».
«Lo dici a me? Senti, adesso torna in reparto, prima che ti prendi anche giudizi negativi per colpa mia. Al massimo ci vediamo più tardi».
«Certo, devi farmi sapere tutto».
«Sarà fatto».
Mi stringe lievemente la spalla e si allontana.
In quel momento passa un’infermiera e mi rivolge un sorriso, che io ricambio.
Devo andare in bagno e non ho la minima idea di dove cavolo sia.
Comincio a girare lungo il corridoio degli ambulatori muovendo la sedia con i piedi e finalmente arrivo ad uno spazio rientrato nel muro. Sulla destra c’è una porta con di fianco una targa con scritto “SERVIZI IGIENICI”.
Bene, ora tutto sta nell’arrivarci senza spiaccicarmi per terra.
Alla fine ce la faccio e, dopo cinque minuti, sono di nuovo sulla mia sedia a rotelle.
Ormai sono quasi le nove e a quel punto esce di nuovo l’operatrice di poco prima che, sorridendo, mi porta all’interno dell’ambulatorio. Sia lodato il cielo.
Anche se, con la fortuna che ho, è meglio non cantare vittoria troppo presto.
Punto numero uno: probabilmente adesso ci sarà un dottore vecchio e scorbutico che mi visiterà senza neanche preoccuparsi di essere tanto delicato.
Punto numero due: di certo mi imbottiranno di farmaci che mi distruggeranno il fegato.
L’operatrice e un’infermiera dell’ambulatorio mi aiutano a distendermi sul lettino e poi l’infermiera passa nell’ambulatorio comunicante.
Poco dopo, la porta si apre ed entra un medico.
Alto, fisico asciutto, occhi e capelli castani e un paio di occhiali che gli donano quel classico tocco da dottore.
“Beh, quasi quasi potrei abituarmici”.
L’uomo si avvicina e mi saluta gentilmente.
“Dottor S. Costa” leggo sulla targhetta del suo camice.
Dottor Costa. Suona bene, sì.
Lui mi fa qualche domanda su come mi siano iniziati i dolori e il resto. Io ricostruisco tutto un’altra volta e poi attendo in silenzio.
«Scusa… come hai detto?», mi chiede dopo qualche secondo.
“Tesoro, sarai anche carino, ma mi sembri un po’ rincoglionito”, penso tra me.
«Scusa, sai… ho fatto il turno di notte, non afferro molto».
Il turno di notte ed è ancora qui alle nove di mattina? Ma che razza di orari hanno i medici? Un po’ più indulgente, gli rispiego l’ultima parte e poi lui mi si avvicina di nuovo.
Mi scopre la pancia e comincia a fare una leggera pressione sulla zona dolorante.
Beh… magari non esattamente leggera, infatti mi trattengo a stento dall’insultarlo, ma mi rendo perfettamente conto che sarebbe potuta andarmi anche molto peggio di così.
«Ti faccio più male quando premo o quando lascio?».
«Quando lascia».
Lui si scambia uno sguardo d’intesa con l’infermiera; uno sguardo che non mi piace per niente e poi mi fa una leggera carezza sulla pancia.
«Meno male che hanno inventato i pantaloni a vita bassa;: ci rendono il lavoro più facile».
Ma è idiota?!
Mi limito ad osservarlo con sguardo truce e lui si mette a ridere. Ha un bel sorriso. E una bella risata. Ok, ma che diavolo sto dicendo? Questo tizio ha appena inneggiato ai pantaloni a vita bassa. Ma dove diavolo sono finita?
«Tranquilla, non sono un maniaco. Ho sentito che sei una studentessa infermiera, no? Non vi hanno mai detto che, quando devi lavorare su una determinata zona, devi avere un’ampia superficie disponibile su cui poterti muovere? Più spazio hai a disposizione, meglio è, no?».
Questo è vero e comunque… si vede proprio che è un chirurgo.
Lui scrive velocemente qualcosa a computer e poi esce dall’ambulatorio. Devo dire che il tizio è un po’ strano.
Intanto l’operatrice rientra nella stanza e chiede all’infermiera:
«Dov’è Costa?».
«È andato a vedere se c’è un letto disponibile per la ragazza».
«Un letto?!».
«Sì», è proprio lui a rispondermi in quel momento, che si chiude nuovamente la porta alle spalle. «Ti
ricoveriamo».
Un momento… che cosa?!

Note dell’Autrice:

Ebbene, ecco a voi il primo tanto atteso capitolo delle “Cronache”.
Questo e il prossimo diciamo che sono abbastanza introduttivi, dal terzo cominceranno le vere e proprie Cronache e le apparizioni del nostro famoso e amato DocHot
Ringrazio tutte le fantastiche ragazze che mi hanno spronata a scrivere questa FF (Doc vi manda tanti saluti *^*) e inoltre, ringrazio chi prima non conosceva questa storia e ha comunque deciso di dedicarci qualche minuto.
Inoltre, un enorme grazie a Yuko majo per il fantastico banner e Bertu per aver accettato di betare questa assoluta follia.
Siete fantastiche, davvero.
Vi lascio qui sotto il link del mio Profilo Facebook, per chi fosse interessato a sapere come in realtà è nata l’idea della fanfiction XD
Profilo Facebook
Un saluto a tutte e un abbraccio da parte di Doc.
Clira
  
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