Your eyes, they shine so bright.

di Silver Shadow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***



Capitolo 1
*** I ***


I
La scuola iniziava seriamente a disturbarmi, giunti ad aprile. Cioè, più degli altri anni. Il nervosismo per la vicinanza dell’estate mi provocava continuamente fitte allo stomaco. Mi prenderete per pazzo ad avere così paura dell’estate, ma dell’ultima che avevo passato non avevo bei ricordi.
 Sognavo il viso di Bianca ogni notte. I suoi capelli e il colore dei suoi occhi, e quello stupido momento in cui ho accettato di lasciarla andare. Il momento in cui, inconsciamente, l’ho condannata a morte. In tutti gli incubi in cui lei non c’era –pochissimi quindi – c’era suo fratello Nico. L’espressione straziata mista a un odio che non avrebbe dovuto mai conoscere. Che io avevo provocato.
“Avevi promesso che l’avresti protetta”, continuava a ripetermi. E lo ripeteva due volte, tre volte,cento volte.. E mi svegliavo urlando da sogni che sapevo non essere solo sogni, sperando che da un momento all’altro mia madre sarebbe piombata nella mia stanza e mi avrebbe stretto forte finché tutto non sarebbe finito.
E invece l’unica persona che travolse la mia porta fu il responsabile del piano del dormitorio maschile – nonché bidello – della mia nuova, stupida e pidocchiosa scuola, con le ciabatte a coniglietto, un pantalone del pigiama scolorito e stropicciato e una sudicia canotta bianca che lasciava in mostra le sue braccia pelose e muscolose. Mi squadrò con quel suo fare altezzoso e mi scoccò un’occhiataccia di disprezzo con i suoi occhietti piccoli cattivi, storse la bocca in una smorfia che lo fece sembrare ancora più brutto, e dopo qualche secondo sbuffò.
- Non capisco perché ogni volta che succede qualcosa di insolito devo venire a controllare. E ancora di più, non capisco perché le cose insolite succedono sempre nella tua stanza, Jackson. –
Non aveva tutti i torti. Non era la prima volta che mi svegliavo urlando in piena notte, anzi.  Ma erano successe cose anche più strane. Una volta mi aveva trovato a combattere contro uno scorpione che aveva tranquillamente fatto casa sulla mia scrivania. Stavo per affettarlo con il righello non potendo estrarre Vortice, quando Bott (il bidello, appunto) è entrato in camera e ha aspirato lo scorpione. Probabilmente avrebbe aspirato anche me, se non fosse stato irregolare. O illegale.
- Mi scusi Bott, ho avuto un incubo. -
- Beh dì ai tuoi incubi di calmarsi, perché non ne posso più di svegliarmi ogni notte per accertarmi che tu sia vivo. D’altra parte, neppure me ne importa se sei vivo. -
Uscì dalla stanza sbattendo la porta, senza aggiungere altro.
Bott mi ricordava il mio vecchio patrigno Gabe. Sicuramente lo detestavo allo stesso modo. O quasi. Beh, comunque lo odiavo abbastanza da portarmi tre dita ad artiglio al petto e poi spingerle verso l’esterno in un antico verso di scongiuro che mi avevano insegnato.
Dopodiché provai a dormire, ma ovviamente dopo il mio incubo non riuscii, così mi alzai e, dopo che il rumoroso russare di Bott mi ebbe confermato che stava dormendo, scesi al piano di sotto.
L’idea iniziale era di prendere un bicchiere d’acqua in cucina e restarmene un po’ calmo e in silenzio finché non mi fosse tornato il sonno, ma capii che avrei passato una notte in bianco quando vidi Annabeth affacciata alla finestra del corridoio. La luce della luna e dei lampioni che percorrevano il perimetro del cortile esterno della scuola illuminavano il suo visto, stagliato dalle strette strisce di legno che percorrevano la finestra in orizzontale e in verticale. Sembrava non essersi accorta di me, così ne approfittai per guardarla meglio. Era visibilmente stanca e doveva essere lì già da un po’ di tempo. Mi chiesi a cosa stesse pensando.
- Notte insonne? – domandai.
Lei sobbalzò e si voltò verso di me,ma non mi mise a fuoco immediatamente, sia perché era buio, sia perché non era ancora abituata a vedermi in un periodo dell’anno che non fosse l’estate.
Il padre di Annabeth aveva acconsentito a farla studiare nella mia stessa scuola, così se c’era qualche pericolo avrebbe colpito un solo posto e non due, e poi insieme ce la saremmo cavata meglio. E beh, anche perché vederla ogni giorno non mi dispiaceva affatto. Sorrisi divertito quando la vidi accigliarsi e gonfiare le guance, proprio come faceva prima di darmi una strigliata.
- Ti sarei grata se la prossima volta non mi arrivassi alle spalle in piena notte, Testa d’Alghe – replicò, infastidita.
- E poi il divertimento di stare nella nuova scuola insieme dov’è? – mi appoggiai alla finestra dove stava lei, guardando fuori, in silenzio. Non disse nulla ma si appoggiò accanto a me allo stesso modo, e restammo così per un po’. Sapevo benissimo che stavamo fingendo. E lo sapeva anche lei. Sapeva perfettamente che avevamo bisogno di nasconderci dietro un sorriso per non parlare di ciò che era successo a Bianca. Anche se non capivo benissimo questo nostro evitare di parlarne, perché pensavo che se fossimo stati in due ad affrontare il problema sarebbe stato più facile, avremmo potuto aiutarci. Ma lei sembrava fuggire con ogni scusa tutte le volte che mi avvicinavo, anche per errore, all’argomento. Ma in quel posto, in quel momento,sapevo che non poteva scappare.
- Annabeth, perché fingiamo? – domandai, alla fine.
Lei drizzò la schiena accigliandosi nuovamente, ma stavolta un’espressione di dolore percorse il suo viso.
- Fingiamo cosa? – mi rispose, facendo la finta tonta.
- Dai Annabeth, lo sai. Evitare di parlare di quello che è successo a Bianca non servirà a portarla indietro. O a cancellare ciò che è stato – le dissi, in tono quasi implorante.
- E a cosa servirebbe parlarne? A cosa servirebbe dirti quanto mi sento colpevole di tutto ciò che è accaduto? – la voce le tremava. Temevo che si sarebbe messa a piangere da un momento all’altro.
Ma cominciavo a non capire.
Perché avrebbe dovuto sentirsi in colpa, se l’unica persona a cui una colpa avrebbe potuto attribuirsi ero io? La voltai in fretta verso di me e l’abbracciai senza darle tempo di protestare o di spingermi via. E mi sorpresi molto quando non tentò di spintonarmi nemmeno una volta. Anzi, mi avvolse i fianchi in una stretta leggera, con le sue braccia piccole e ossute. Sentivo le orecchie andarmi in fiamme e il viso completamente scottante. Mi staccai imbarazzato, sperando che il buio nascondesse il rossore.
- Ehm – riuscii a dire. Annabeth non si era allontanata del tutto dai raggi di luna che filtravano dalla finestra, così notai che anche lei era rossa. Mi forzai di non sorridere.
- Forse hai ragione, Percy – mi fece, d’un tratto seria, tornando a guardare fuori. – Forse nascondersi non servirà.. Non per molto, almeno. Alla fine è proprio questo che tutti loro vogliono. Crono, Luke. Che ci indeboliamo. Perché se succede sarà più facile per loro velocizzare la realizzazione del piano. -
Pensavo avrebbe detto qualcos’altro, ma in silenziò tornò a farsi strada tra noi. Notai che la sua voce si incrinò quasi impercettibilmente quando pronunciò il nome di Luke, e sentii un po’ di rabbia in un angolo del mio cervello. Sapevo che infondo teneva ancora a lui nonostante tutto quello che aveva fatto e nonostante tutto quello che era successo per colpa sua. E non riuscivo proprio ad accettarlo.
Stavo pensando a cosa poter dire per spezzare il silenzio o comunque per sollevarla un po’ su di morale, quando la sentii riprendere a parlare.
- Quando siamo partiti per l’impresa, sapevo che qualcosa sarebbe andato storto. Non so dirti perché, ma me lo sentivo. Avevo questa sensazione appiccicata addosso come l’aria umida d’agosto che ti si incolla alla pelle durante le lezioni di tiro con l’arco su al Campo. La morte di Bianca mi ha traumatizzata, ma la reazione di Nico mi ha lasciato una specie di vuoto. E’ come se avessi assorbito i suoi sentimenti, come se quella che ha perso una sorella fossi io e non lui. E da allora ho continuato a sentirmi così. – scosse la testa come se volesse convincersi che quella cosa non era vera, e io ascoltavo in silenzio. La realtà era che anche io avevo provato la stessa cosa e non riuscivo a liberarmene. Perciò feci l’unica cosa intelligente (intelligente nel mio linguaggio, stupida in quella di qualsiasi altro essere umano sano di mente e non) che mi venne in mente in quel momento. La presi per mano e la tirai via con me, trascinandola nel piano del dormitorio dei ragazzi.
Lei mi seguiva affannando e camminando a grandi passi, senza capire.
- Percy, che diamine stai facendo? Lo sai che è proibito venire qui per le ragazze! – mi disse sussurrando,  spazientita, per non farsi sentire. Ma la ignorai.
Continuai a camminare lungo il corridoio, poi mi fermai davanti alla mia camera e aprii la porta, continuando a trascinarmi dietro Annabeth. Quando chiusi la porta, la lasciai.
- Stanotte dormi qui – annunciai.
- Che cosa hai detto? – il rossore colorì di nuovo le sue guance e la sua espressione era un misto tra imbarazzo, incredulità e stupore. Ma non le diedi tempo di contraddirmi, anche perché le palpebre avevano cominciato ad essere pesanti e io volevo solo dormire. Forse era il sonno a farmi agire in quel modo, ma non avevo voglia di rifletterci in quel momento. La feci accomodare nel letto, accanto al muro, e mi sdraiai dall’altro lato, coprendo entrambi con le coperte. La sentii borbottare per un po’ alle mie spalle, qualcosa tipo “chi me l’ha fatta fare” o roba così, e mi addormentai poco dopo, col sorriso a fior di labbra. Quella notte non ebbi incubi.

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Capitolo 2
*** II ***


Grazie agli dei, il giorno dopo era domenica. Ero felice sia perché avremmo potuto dormire di più e sia perché sarebbe stato davvero imbarazzante, oltre che contro le regole, farmi trovare lì con Annabeth quando Bott sarebbe venuto a svegliarmi.
Mancavano pochi minuti alle 10 del mattino quando riuscii ad aprire gli occhi. Dovetti sforzarmi un po’ per ricordare dov’ero e cosa ci facevo lì. Dopo un po’ realizzai anche quello che era successo la sera prima, così tastai con cautela il lato del letto dove avrebbe dovuto esserci Annabeth, almeno finché non mi accorsi che era vuoto e freddo, ciò significava che era andata via già da un bel po’.
Rimasi un po’ deluso ma mi forzai di comprimere quella sensazione, presi i vestiti e mi diressi al bagno, mettendomi in coda per le docce.
Speravo di fare in fretta, ma naturalmente la fila era infinita e naturalmente dietro di me si infilarono proprio i tre bulli per eccellenza della scuola. Naturalmente.
- Ehi, Jackson – mi disse Jeff, quello più grosso e insopportabile – ti spiacerebbe farci passare? -
Lo disse col suo solito tono di “Certo che non ti dispiace, perché se non lo fai ti riduciamo in polpette”, che mi mandò abbastanza fuori di testa.
Jeff era un idiota. Il solito bullo muscoloso sempre vestito con dei jeans blu scuro sporchi,una maglietta nera con un teschio disegnato sopra e una giacca di pelle nera con le borchie sulle spalle. I capelli unti erano sempre tirati indietro e arrivavano quasi alle spalle. Aveva gli occhi piccoli come quelli di Bott - più di una volta mi chiesi se fossero parenti – e un ghigno degno dei figli di Ares costantemente stampato in faccia.
- In effetti mi dispiace, Jeff – risposi seccato.
Il mio tono non dovette piacergli perché socchiuse gli occhi e mi scrutò come faceva sempre, con un’aria di superiorità altamente irritante.
- Come hai detto, scusa? – ringhiò.
Ma non avevo intenzione di rimangiarmi ciò che avevo detto. Le persone come lui mi facevano saltare i nervi e non doveva pensare di poter continuare a fare lo sbruffone con tutti e a comportarsi come se fosse il capo supremo della scuola.
Mi infilai la mano in tasca e le mie dita si richiusero attorno alla mia penna, Anaklusmos, che stavo per tirare fuori, almeno finché una mano piccola ma forte mi trascinò con decisione verso di sé.
- Scusalo Jeff, Percy è un po’ nervoso per colpa dei suoi continui incubi. Credo che tu l’abbia sentito urlare stanotte. – affermò Annabeth, che sapeva sempre e comunque come salvare la situazione.
Jeff si addolcì.
- Ah, immaginavo che avesse qualche problema. Nessun ragazzo sano di mente verrebbe a mettersi contro di me. – a questo punto sollevò il braccio e mise in mostra i suoi muscoli, soddisfatto, come faceva sempre per fare colpo su una ragazza. Lo odiavo.
Sapevo benissimo che Jeff aveva un debole per Annabeth così come sapevo che a lei non importava un fico secco, e sul mio volto si disegnò un’espressione fiera quando gli feci notare che lei stava tenendo il mio braccio e non il suo. Fra noi c’era una tacita guerra in atto. Beh, quasi tacita.
- Ehm, già – si affrettò a rispondere Annabeth, che cominciava a sentirsi a disagio. – Adesso scusaci, ma noi dovremmo proprio andare. Ci vediamo! – e mi trascinò via con sé lungo il corridoio, senza guardarmi o parlarmi neppure una volta.
Quando si decise a rivolgermi la parola, fu solo per dirmi: - Non ne hai ancora abbastanza di guai? -
Ci rimasi male. Non fece parola di quello che era successo la sera prima e non mi disse perché se n’era andata prima che mi svegliassi. Mi chiesi se l’avesse già dimenticato.
- Quel bestione mi irrita. – mi difesi.
- Irrita tutti, Percy – mi sgridò lei – Ma a nessuno di noi viene mai la malsana idea di attaccarlo con una spada fatta di bronzo celeste che neppure lo ferirebbe. -
- Beh infatti uno sgorbio come lui non è degno di essere ferito da Vortice – replicai, iniziando ad innervosirmi. Annabeth si fermò di scatto.
- Per gli dei, Percy, ti rendi conto o no di quanto sia importante mantenere una buona condotta? Possiamo permetterci che uno di noi venga espulso e separarci proprio ora che abbiamo trovato un modo per cooperare? – il suo tono era arrabbiato, ma un po’ deluso. Sapevo che aveva ragione, ma anche io ero nervoso. Cooperare. Non stare insieme. Cooperare.
- E’ tutto quello che ti importa, non è così? – mi scansai, liberandomi dalla sua stretta. – Cooperare. Ti importa solo della guerra, di uscire viva da un combattimento se mai dovessero aggredirti. -
- Percy, ma cosa stai.. – Ma ormai era tardi. Ero arrabbiato, triste e frustrato e un milione di emozioni mi ribollivano dentro come se stessero per esplodere. Non riuscii a fermarmi.
- A te interessa solo di sopravvivere. E di salvare Luke. Non conta che io sia qui per.. – non finii la frase, non sapevo cosa dire. E comunque non sarebbe servito, perché Annabeth stava già correndo lungo il corridoio per allontanarsi da me.
“Complimenti Percy”, pensai, “complimenti vivissimi”.

Passai i successivi 4 giorni da solo, con Jeff che mi tirava frecciatine e mi prendeva in giro con i suoi scagnozzi di giorno e gli incubi che mi svegliavano di notte.
Il venerdì, durante il cambio tra la seconda e la terza ora, mentre studiavo con attenzione le incisioni sul mio banco a testa bassa, Talia mi prese dal colletto della maglia e mi trascinò in un angolo, con la faccia scura di rabbia. In quel momento mi resi conto che invitare anche lei nella nuova scuola era stata una pessima,pessima idea. Le Cacciatrici le avevano concesso di restare con noi giusto per controllare che Annabeth stesse bene e si riprendesse a dovere, dopo tutto quello che era successo. Sapevo che Artemide la teneva ancora d’occhio e la cosa mi turbava.
- Hai intenzione di continuare ancora per molto? – mi disse, seccata. Non ero sicuro di sapere di cosa stesse parlando,ma sembrò leggermi nel pensiero perché aggiunse – Sai, con Annabeth, idiota. Sono 4 giorni che la ignori e 4 giorni che la costringo a dormire nella mia stanza, perché se sta da sola ti pensa e sta male. – Sentii una stretta allo stomaco. Guardai Annabeth, china sul suo banco, con le braccia incrociate su di esso e la testa appoggiata sul gomito del braccio destro. Ma che stavo facendo?
Ignorai Talia anche se sapevo che la cosa mi sarebbe costata cara e mi misi in ginocchio accanto alla sedia di Annabeth, guardando il modo in cui i ricci biondi scendevano sulle sue spalle per un po’. Rimasi totalmente incantato, e senza neppure accorgermene iniziai a carezzarli. Uscii dalla trance solo quando mi accorsi che aveva sollevato la testa mi guardava con aria interrogativa.
Aveva gli occhi gonfi e delle occhiaie profondissime, come se non dormisse da molto.
- Che cosa vuoi? – la sua voce era gelida tanto che un brivido mi percorse tutta la schiena.
- Io.. E-ero venuto a.. – non trovavo le parole. Balbettavo. Iniziarono a sudarmi le mani.
- A rinfacciarmi ancora le tue stupide idee secondo cui sarei qui per sopravvivere? – una spada nel petto. Mi faceva male che mi trattasse così, ma sapevo di meritarle. Feci un respiro profondo e continuai la mia frase.
- … Chiederti scusa – sussurrai, abbassando il capo. Per qualche secondo non successe nulla, ed ebbi paura che non volesse perdonarmi. Il suo sguardo si fissò su di me, ne ero certo, anche se non la stavo guardando.
- Perché hai detto quelle stupidaggini, Percy? Sai meglio di me che nessuna di quelle parole è vera. – Il suo tono era duro e freddo, ma sentivo la tristezza nelle sue parole, se pur ben nascosta.
- Perché io non voglio solo “cooperare”, come hai detto tu – confessai, guadagnandomi uno sguardo curioso di Annabeth. – Abbiamo una mezza occasione, io tu e Talia, anche se per poco, di vivere una vita normale,di stare insieme come.. Come degli amici normali. Non mi va di pensare continuamente a battaglie e a come siamo stati costretti ad allenarci per difenderci e salvarci la pelle e non voglio che la presenza di uno di noi provochi all’altro solo ricordi di sangue e pericoli. – non sapevo se quello che avevo detto era all’altezza delle sue aspettative, dato il silenzio che seguì alle mie parole.
- Percy.. Non avevo idea che ti sentissi così.. – la sua voce ora era cambiata, era più da Annabeth, più dolce, così riuscii a guardarla negli occhi. – Vorrei che me ne avessi parlato. – proseguì, un po’ più duramente.
- Lo so. Ma forse questo attiene proprio al fatto che noi, al di fuori del campo, non siamo mai stati amici e.. non so come comportarmi. Non so bene come sia un’amicizia normale e come funziona vedere ogni giorno le persone che rendono la tua vita migliore e non so cosa devo dire e cosa è meglio tenere per me.. Ma ti giuro che quello che ho detto non lo pensavo davvero, Annabeth. Per favore. – la mia voce suonava distante, come se fosse un altro a pronunciarle, e il mio tono supplicante mi fece, per un attimo, immaginare che non fossi nemmeno io a parlare.
D’improvviso, le labbra di Annabeth si aprirono in un sorriso raggiante.
– E’ un po’ difficile essere persone o amici normali se ci sei tu. Non sei proprio la cosa più vicina al “normale” che io conosca. Non credo nemmeno che tu e “normale” possiate stare insieme nella stessa frase –commentò lei sarcastica, facendo aprire anche me in un grande sorriso e scaldandomi il cuore, fino a quel momento troppo teso.
-Allora.. è tutto okay? – le chiesi, speranzoso.
- Tutto apposto. Ma.. – mi irrigidii di nuovo, temendo che cosa potesse esserci dopo quel “ma”, e mi resi conto che avevo ragione a spaventarmi viste le parole che seguirono. – Ti ho rubato tutte le mutande dal cassetto mentre dormivi. Sai, per vendicarmi. –
Sgranai gli occhi e stavolta ero certo di essere un peperone. Non solo perché sapevo che in questo modo Annabeth aveva trovato i miei boxer rosa – in origine erano bianchi ma mamma li aveva messi in lavatrice con un asciugamano rossa … - ma anche perché lo aveva urlato abbastanza da farlo sentire a tutta la classe, che stava ridendo convulsamente senza riuscire a fermarsi.
- Questa me la paghi, Sapientona. – aggiunsi, anche se ero sicuro di non essere molto credibile date le circostanze.
- Vedremo – rispose lei, in tono di sfida.

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Capitolo 3
*** III ***


Le settimane successive furono piuttosto tranquille e senza che riuscissi a rendermene conto aprile passò. Nel frattempo io, Annabeth e Talia avevamo preso l’abitudine di riunirci nel giardino ogni pomeriggio, quando il tempo ce lo consentiva.
- OOOkay uhm.. cos’hai pensato la prima volta che hai visto tua madre? – chiese Talia rivolgendosi ad Annabeth.
Lei ci pensò su, e per un attimo sembrò accigliarsi. Non aveva molti ricordi di lei proprio come me con mio padre, e sicuramente sentiva lo stesso rancore che sentivamo tutti noi semidei.
- Che era troppo alta – ammise lei. Scoppiammo tutti e tre in una risata fragorosa, divertiti.
- Bene Percy, tocca a te.. Obbligo o verità? – Talia mi fissò con quel suo sguardo come per dire “adesso ti faccio fuori”. Sapevo che mi sarebbe andata male in entrambi i casi,così cercai di limitare i danni.
- Verità – le risposi, attenendo la mia fine imminente.
- Ti piace qualcuno? –
Lo sapevo.
Immagino che in quel momento arrossii, perché l’espressione di soddisfazione di Talia me lo confermava chiaramente.
- Ehm.. non lo so. – probabilmente era la risposta più stupida che potessi dare e sicuramente non quella che si aspettava,ma era vero. Era tutto molto confuso, e poi non mi ero mai fermato a pensarci troppo a lungo. Annabeth sembrava improvvisamente molto interessata all’erba che carezzava con cura, tenendo lo sguardo basso probabilmente per non far notare il rossore del suo viso, che tuttavia traspariva benissimo. Perché era rossa?
- Okay okay – Talia alzò le mani e si sollevò da terra con un solo gesto. – Dobbiamo andare in piscina. Ma non credere che l’argomento sia chiuso, Jackson. – Mi sorrise con quel fare malizioso e si voltò per andare verso la piscina. Talia era la persona che più mi spaventava al mondo dopo le Furie di Ade.
Ci incamminammo anche io e Annabeth, dividendoci solo per cambiarci nello spogliatoio una volta arrivati.
La piscina era interna visto che la usavamo tutto l’anno ed era più simile ad una sauna per la temperatura. Era olimpionica, di circa 50 metri, con due trampolini e 4 spogliatoi – due per i ragazzi e due per le ragazze – e due bagni.
Uscii dopo pochi minuti e quasi mi prese un colpo.
Era la prima volta che vedevo Annabeth in costume, e dovetti costringermi ad abbassare lo sguardo prima di mettermi a sbavare sul serio.
Okay, a questo punto penso che certe cose fossero abbastanza normali. Immagino fosse opera degli ormoni o che so io. Ma non avrei retto molto con lei in quel modo senza saltarle addosso. L’ho detto.
Era magrissima. Le linee degli addominali sporgevano un po’, ma senza alcuna esagerazione che la facesse sembrare troppo mascolina. Le sue gambe e le sue braccia erano sottili e la sua pelle era così chiara.. Mi accorsi di essermi incantato a fissarla solo quando Talia mi scosse la spalla da dietro e mi sussurrò – Non sai chi ti piace, eh? – e ridacchiò soddisfatta prima di allontanarsi. Le misi il broncio.
Il professore di educazione fisica ci radunò vicino alla scaletta d’ingresso della piscina e ci invitò a scendere lentamente. Mi sentii subito meglio. Ero nel mio elemento, e ogni volta che mi immergevo nell’acqua mi sentivo come se una strana e invisibile forza si inoltrasse fra le mie membra caricandomi di energia.
Proprio come tutte le cose belle, quell’ora passò in fretta. Dopo piacevoli nuotate e piacevoli visioni – ehm – ci rivestimmo e ci avviammo verso la mensa.
Quando eravamo quasi arrivati al refettorio, giurai di aver visto con la coda dell’occhio un’ombra che si era mossa da qualche parte nel buio. Guardai di nuovo ma sembrava non esserci nulla.
- Tutto bene? – chiese Annabeth. Si era accorta della mia espressione preoccupata, ma la rassicurai, sorridendole.
- Tutto bene – le risposi, forzandomi a non pensarci.
Cenammo nel solito fracasso al quale ormai eravamo tutti abituati, tanto da non farci nemmeno più caso. Purea e pezzi di carne che volavano da una parte all’altra della mensa ormai era pane quotidiano per noi.
- Spero che gli esplodano le mani mentre lanciano quella roba – ringhiò Talia. Annabeth rise divertita, mentre finiva il suo budino.
Scappammo da quel manicomio più in fretta possibile, addentrandoci nel freddo della sera e dirigendoci verso i nostri dormitori.
Fu allora che lo vidi.
Era cambiato. Era passato solo un mese, ma i suoi capelli erano visibilmente più lunghi e la sua espressione da bambino stava cambiando in un’espressione più adulta, forse per la rabbia che gli si leggeva negli occhi. Sentii qualcosa che mi si spezzava dentro sapendo che era colpa mia se era ridotto in quel modo.
- Nico… - provai a dire, ma tutto ciò che uscì dalla mia bocca fu un sussurro spezzato. Vidi che Annabeth aveva gli occhi pieni di lacrime, e Talia era semplicemente incredula.
Non rispose. La sua figura sembrava emanare un’aura  fredda, proprio il suo sguardo tagliente. Non so se per il freddo o per qualcos’altro, ma rabbrividii.
- Abbiamo un conto in sospeso noi due, Jackson. – esordì all’improvviso, facendomi trasalire per quanto era diversa la sua voce, i suoi lineamenti, le vene gonfie che pulsavano sul suo collo, di un blu terribilmente in contrasto con la sua carnagione chiara come il latte. Ero talmente assorto a guardare Nico e quello che era diventato in quell’unico mese, che non mi accorsi che aveva tirato fuori una strana.. cosa dalla cintura. Era una spada. No. Un pugnale. Totalmente nero. Mi chiesi per un attimo dov’era stata foggiata un’arma del genere, perché sembrava essere stata concepita per scopi non molto puri. Poi capii che non volevo davvero saperlo.
Indietreggiai. – Nico, ti prego, dobbiamo parlar… -
Non mi diede il tempo di continuare. La sua velocità in così poco tempo era aumentata in maniera vertiginosa; si muoveva lento e silenzioso come un ghepardo, lo sguardo acceso d’ira, il pugnale sollevato che puntava dritto alla mia testa.. All’improvviso sentii una pressione nella tasca dove tenevo Anaklusmos e come per magia qualcosa deviò il colpo di Nico prima che riuscisse a toccarmi, disarmandolo e facendolo cadere. Mi guardai intorno per capire cos’era successo e vidi Talia, il volto un misto di tristezza, incredulità, rabbia e sensi all’erta tipici dei semidei. Tenni gli occhi sbarrati e le labbra schiuse senza riuscire a muovere un muscolo. Avevo Vortice nella tasca e non avevo fatto nulla per difendermi. Mi sentii all’improvviso debole e impotente. Non riuscivo a credere che quello ora steso a terra su un fianco, sanguinante da un labbro, era lo stesso ragazzino che poco tempo prima giocava alle carte di Mitomagia e aveva uno sguardo così innocente. Non riuscivo a credere di aver infranto la mia promessa e di aver lasciato morire sua sorella, l’unica cosa che gli restava al mondo. A parte il suo adorabile paparino del piano di sotto.
Il rumore dei miei pensieri fu interrotto dalla voce, calma ma visibilmente spaventata, di Talia.
- Ascolta, Nico – iniziò lei – noi non vogliamo farti del male. Quello che è successo a tua sorella è stato terribile.. Non doveva finire così. Ma è morta da eroina, e dovresti esserne fiero. Ma soprattutto, la colpa non è stata di Percy. E’ stata lei a voler prendere il controllo del gigante, ad offrirsi al posto suo … - per una manciata di secondi, mi sembrò smarrita, come se stesse ripercorrendo quella scena nella sua mente. Poi continuò – Ma … Forse doveva finire così. Smettila di farci una colpa di tutto e inizia a farti una ragione di ciò che è successo. Parlarne non porterà Bianca indietro, è vero, ma neppure ucciderci lo farà. – Nico sembrava di nuovo molto spaesato, e dal suo volto intuii che mille immagini gli stavano scorrendo davanti agli occhi, mille ricordi vorticavano nella sua mente. Quando scosse la testa per riprendersi dal suo momentaneo stato di trance, mentre tutti eravamo distratti – Talia compresa – si riprese il pugnale dalla che era caduto a terra, poco vicino, e poi ci guardò. Ma non come se stesse per attaccarci. Il suo sguardo era carico di disperazione, e pensai che non aveva tutti i torti ad odiarmi così tanto. Quello che Talia aveva detto era bello, ed era anche la verità, ma io continuavo a sentirmi responsabile anche senza le pressioni di Nico. Mentre pensavo a queste cose, all’improvviso, senza dire nulla, scomparve. Come inghiottito dalla terra, o dalle ombre. Io e Talia ci guardammo con tristezza, Annabeth che teneva le labbra serrate e si abbandonava a un pianto silenzioso, senza singhiozzi, stringendo i pugni lungo i fianchi.

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Capitolo 4
*** IV ***


Il giorno dopo io, Talia ed Annabeth ci ritrovammo a colazione, ma nessuno di noi ebbe il coraggio di pronunciare una sola parola. Eravamo tutti terrorizzati e adesso non sapevamo se parlare di quello che era successo o se fingere che non fosse mai accaduto, proprio come con la morte di Bianca. Quella notte avevo avuto un incubo ancora più spaventoso degli altri, e mi ero ricordato che non avevamo mai cercato il corpo di Bianca. Era ancora lì, da qualche parte, all’interno della cabina di controllo di Talo. E ogni volta che ci pensavo un brivido mi saliva lungo la schiena.
Annabeth era la più scossa. Sembrava non aver dormito tutta la notte, e quel giorno partivamo per una breve gita nell’Ohio. Non era esattamente il giorno perfetto.
Dopo esserci avviati silenziosamente nei dormitori per preparare le valige – che io avevo già preparato visto che non sapevo che fare durante la mia ennesima notte insonne dopo il mio ennesimo terrificante incubo – decisi di chiamare Tyson, che era ancora nel palazzo di nostro padre a fabbricare armi.
Mi nascosi in un angolo dietro la scuola e versai del caffè bollente appena preso dalla macchinetta sugli ultimi residui di neve che il sole avrebbe cancellato entro la giornata. Si sollevò un sottile vapore che, incontrandosi con i deboli raggi del sole, creò un piccolo arcobaleno. Cercai una dracma dalla mia tasca e la lasciai cadere nel vapore.
- Oh, dea Iride – sussurrai, per non farmi sentire – Accetti la mia offerta. –
L’arcobaleno scintillò e la dracma scomparve nel vapore.
- Mostrami Tyson – dissi, ancora sottovoce – Castello di Poseidone. -
Mi sentivo ancora un po’ geloso –e offeso – dal fatto che papà avesse invitato lui e non me, ma d’altronde non era certo una visita di piacere e sapevo che aveva bisogno di Tyson nelle fucine.
Dopo qualche secondo, il vapore si diradò un po’ e mi mostrò l’immagine del mio fratellastro al lavoro. Stava affilando la lama, ancora incandescente (si capiva dal fatto che era ancora un po’ rossa) di una bellissima spada con l’elsa rivestita di perle marine, esattamente uguali a quelle che rivestivano il pavimento della stanza dove Tyson lavorava. Sorrisi.
- Tyson! – chiamai – Fratello! -
Tyson si girò verso l’immagine, confuso. Quando mi mise finalmente a fuoco, mollò la sua spada e mi corse incontro, raggiante.
- Percy! – esclamò. – Come stai, fratello? Tutto a posto nella tua nuova scuola? Nessuna esplosione? -
- No, Tyson – sospirai – Nessuna esplosione. -
Gli raccontai della scuola, di Annabeth e Talia che erano riuscite a venire con me e della spiacevole visita della sera prima. Tyson mi guardò, serio.
- Percy sta bene? Nico ti ha fatto male? – piegò la testa con aria preoccupata.
- No, campione,sto bene. – mi forzai di regalargli un sorriso sincero, e quando lo vidi sorridere – ma lui per davvero – ebbi una stretta al cuore perché mi sentivo come se gli stessi mentendo. Non avemmo tempo di dire nient’altro, perché una voce tuonò nella stanza facendo tremare le pareti che davano sulle profondità più oscure dell’oceano, e io capii che Tyson doveva tornare al lavoro. Sospirai mentre vedevo la sua immagine dissolversi, e per un attimo dopo tanto tempo, mi sentii veramente solo.

Tutta la mia classe si trovò davanti al refettorio, con borse e bagagli, pronta per la partenza. Individuai Talia e Annabeth poco lontane,ma Talia mi fece cenno di restare dov’ero perché Annabeth era ancora troppo scossa per sostenere il dialogo o anche solo la vicinanza con qualcun altro.
In autobus mi sedetti da solo. Era davvero tutto molto deprimente e lo sarebbe stato ancora per un po’ considerando che il viaggio non era proprio breve. Alcuni ragazzi avevano addirittura preferito rimanere in piedi piuttosto che sedersi vicino a me. Appoggiai la testa al vetro e mi addormentai.
Stavolta il mio incubo fu su Nico.
Mi trovavo in una grande stanza buia e scura, che sembrava emanare gelo nonostante il caldo che sentivo. In fondo c’era una grande trono fatto di ossa, sopra il quale sedeva uno degli dei che mi stava meno simpatico in assoluto: Ade.
- Non puoi pensare di andare in giro ad uccidere le persone così – tuonò la sua voce, rivolta perso un ragazzino inginocchiato ai suoi piedi, con la testa bassa. Era piuttosto malandato e la sua faccia diceva chiaramente che non dormiva da un po’. Nico.
- Lo so padre.. Non volevo ucciderli, volevo solo spaventarli. Non è giusto quello che hanno fatto.. E’ solo colpa loro se.. Se lei.. – balbettò, nervoso.
Ade lo fissava duramente, ma sotto quell’espressione truce si nascondeva un profondo dispiacere per suo figlio, affranto per la morte della sorella. Immaginai che neppure per il Signore dei Morti dovesse essere piacevole vedere la morte della propria figlia e non poter fare nulla.
- Io la rivorrei solo indietro. Per favore padre,lasci che.. – provò a dire Nico, con la voce tremante.
- Non ci pensare nemmeno! – Ade urlò così forte che le parenti della stanza tremarono. Poi sembrò accorgersi dell’esagerazione del suo tono, si schiarì la voce e continuò.
- Ascolta, Nico. Le persone muoiono in tutte le circostanze e nella maggior parte dei casi ingiustamente, fidati, ho esperienza. Ma se qualcuno muore, non puoi pensare di riportarlo in vita. Sarebbe egoista da parte tua, e poi tutti i miei spiriti mi assillerebbero con storie tipo “Hai fatto favoritismi perché quella era tua figlia” e bla bla bla. Se i vivi sapessero che è possibile riportare in vita i morti,cercherebbero in ogni modo di resuscitare i loro cari. E questo sarebbe un grosso problema, lo capisci vero? – dichiarò con voce ferma ma calma.
Nico abbassò la testa, e la sua espressione in quel momento mi fece capire quanto era distrutto.
- Si, padre. – disse con un filo di voce.
- Bene – si rilassò Ade, sistemandosi sul suo trono – Adesso va’, e non agire più d’impulso o sarai severamente punito. – detto questo, la stanza si oscurò e io mi svegliai.
- Percy.. Percy? Svegliati.. Siamo arrivati! – qualcuno mi stava strattonando per il braccio e mi stava intimando di aprire gli occhi. Fui sorpreso quando vidi che quello di fronte a me era il viso di Annabeth, ancora profondamente segnato dalle occhiaie.
- Io.. Nico.. Il sogno.. – balbettai in modo confuso. Annabeth inarcò un sopracciglio e quando sentì il nome di Nico mi strinse di più il braccio e trasalì. Dopodiché si guardò intorno.
- Non qui. Sistemiamoci nelle camere e poi mi racconti. – era incredibile perché in un attimo sembrava essere la ragazza di sempre. Sapevo quanto il nome di Nico la rendesse nervosa ma sapevo che si sforzava di comportarsi come prima per non farmi preoccupare. Le fui improvvisamente molto grato.
Una volta entrati nell’albergo, ci divisero nelle camere. Io ero nella stanza da solo, come tutti gli altri ragazzi perché, essendo solo 14 in classe, erano riusciti a darci una stanza a testa. Così, dopo aver sistemato tutte le mie cose, corsi nella stanza di Annabeth .
- Allora? – mi fece lei, guardandomi, seduta con le gambe incrociate sul letto di fronte a me. Okay, ammetto che quella situazione mi imbarazzava, soprattutto perché era sera e io ero nella stanza di Annabeth seduto sul suo letto. E lei era in pigiama.
Mi sforzai di rimanere serio e concentrato e le raccontai del mio sogno. Lei restò immobile a guardarmi mentre parlavo, e si mosse solo il tempo di risistemarsi dietro l’orecchio una ciocca di capelli che le era finita davanti al viso. Alla fine del mio racconto, chiuse gli occhi e sospirò.
- Dovevamo aspettarcelo – disse solamente, lasciandomi col dubbio che lei lo sospettasse – o, in qualche modo, lo sapesse – già.
- Ad ogni modo, non credo che possiamo fare molto. Anche se provassimo ad avvicinarci.. Bhe.. Hai visto no? – la sua espressione era afflitta e io decisi di non continuare oltre la conversazione. Cercai di calmarla posando una mano sulla sua e le sorrisi.
- Andrà tutto bene, vedrai – le dissi, anche se non ci credevo molto neppure io.
Lei distolse immediatamente lo sguardo, senza però lasciare la mia mano, e annuì piano. D’un tratto mi sentii terribilmente in imbarazzo, così cercai di levarmi di torno il prima possibile.
- Allora, ehm – provai a dire, sfilando a malincuore la mano dalla sua – ci vediamo domani. -
- Buonanotte, Testa D’Alghe – mi sussurrò lei, con lo sguardo basso sul piumino dell’albergo. Mi sentivo un idiota e un insensibile e mollarla lì in quel modo,ma avevo già sforato il coprifuoco di molto e non potevo di certo restare a dormire con lei. Mi costrinsi a chiudere la porta alle mie spalle e, dopo aver controllato che non ci fosse nessuno in corridoio, mi infilai nella mia stanza che, per fortuna, era proprio di fronte a quella di Annabeth.
Mi infilai in fretta nel letto, aspettando di addormentarmi con una fitta al cuore che non sembrava volermi abbandonare.
 

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Capitolo 5
*** V ***


La mattina dopo mi sentivo distrutto, il che era abbastanza strano visto che non avevo sognato assolutamente nulla. Mi sembrava di aver dormito solo 10 minuti e invece erano già le 8:30 quando sentii i pugni di Talia battere sulla mia porta e urlarmi contro che era tardissimo e dovevo sbrigarmi. Mi rifiutai di andarle ad aprire e mi lavai e cambiai più in fretta che potevo, ma sfortunatamente quando aprii la porta la sua faccia rossa e imbestialita era ancora lì, un’Annabeth piccola e spaventata al suo fianco che cercava di placare la sua ira.
- MI AUGURO CHE TU ABBIA UNA SPIEGAZIONE VALIDA PER QUESTO ASSURDO RITARDO, JACKSON! -
Non mi sentii i timpani per qualche secondo, e quando mi ripresi riuscii a dire solo qualcosa di assolutamente idiota.
- Avevo sonno -
Giurai che stesse per esplodere, ma quando Annabeth le sussurrò qualcosa all’orecchio si rilassò improvvisamente sospirando nervosamente.
- Che non succeda mai più! – e si allontanò a grandi passi lungo il corridoio, lasciandomi confuso.
- Che cosa le hai detto per farla calmare così? – Chiesi ad Annabeth, sconvolto. Lei mi sorrise con una dolcezza spaventosa, come se tutto quello che era successo da due giorni a questa parte.. Bhe, non fosse mai successo.
- Voi uomini non potete capire – mi rispose semplicemente, afferrandomi per un braccio e trascinandomi giù per le scale.
Giunti nell’atrio principale dove si era riunita tutta la mia classe, ci incamminammo per visitare i soliti posti noiosi delle gite dei quali non importa niente a nessuno. Talia si tenne a mia debita distanza e per mia fortuna e sfortuna dovetti stare tutto il tempo con Annabeth.
- L’hai fatta arrabbiare parecchio – esordì improvvisamente lei dopo un lungo silenzio, mentre entravamo in un museo.
- Talia è l’ultimo dei miei problemi per ora – risposi, freddamente. Non era mio intento ferirla, ma notai che Annabeth ci rimase piuttosto male, forse molto più di quello che una risposta come la mia avrebbe richiesto.
Il resto del giorno ci tenemmo a debita distanza e le nostre conversazioni si limitarono a “Mi passi il sale?” a pranzo. La situazione mi disturbava ed ero assolutamente sicuro che quel silenzio non fosse dovuto solo alla rabbia di Talia quella mattina, c’era qualcosa di più profondo e oscuro che temevo di conoscere sotto quelle parole non dette. Mi chiesi se quelle ferite si sarebbero mai rimarginate.
La sera, una volta tornati in albergo, mi chiusi nella mia camera e sbattei la porta alle mie spalle,lasciando malamente cadere lo zaino per terra senza curarmi di dove l’avevo lanciato. Mi piegai in ginocchio sulla valigia e cominciai a frugare per trovare il pigiama, quando notai un oggetto rettangolare decorato con motivi colorati. Sgranai gli occhi. Non ricordavo di averlo messo in valigia, ma a quanto pare..
Eccolo lì. Il mazzo di carte di Mitomagia che avevo trovato nel Campo dopo la sparizione di Nico. L’unico pezzo del vecchio Nico che mi era rimasto. Lo strinsi forte nel pugno tenendo la testa bassa, restando in quel modo per un tempo indeterminato, e avrei continuato se non avessi sentito una mano piccola e calda posarsi sulla mia spalla. Mi girai e la vidi, stretta nel suo pigiama grigio di una taglia decisamente più grande che richiamava i suoi grandi occhi color tempesta, i lunghi capelli biondi e ricci legati in una coda improvvisata e i piedi nudi che aderivano al pavimento. Sembrava esausta, e non solo per la lunga camminata di quella giornata.
- Annabeth – mormorai, senza riuscire ad aggiungere altro. Lei scrutò oltre la mia spalla, distogliendo il suo sguardo dal mio, e vide cosa tenevo in mano. Sgranò gli occhi e la sua presa sulla mia spalla aumentò, mentre lentamente si metteva a sedere in ginocchio appena dietro di me, come se la vista di quell’oggetto l’avesse destabilizzata tanto da non riuscire a farla stare in piedi. Mi girai verso di lei e le lessi negli occhi lo stesso dolore che provavo io, allora mi resi conto che ero stato tanto egoista da non prendermi cura di lei..
L’abbracciai, tenendo le mani ben salde dietro la sua schiena e affondando il viso nella morbida coda che le cadeva sulla spalla, inspirando l’inebriante profumo dei suoi capelli. La sentii trasalire poco prima di avvertire la sua stretta sulla mia felpa, come se stesse provando ad aggrapparsi a me, e sentii le sue lacrime calde e silenziose sulla mia spalla. Era possibile che quello era tutto ciò che ci rimaneva? Dolore e disperazione? E la pretesa da parte di forze superiori di continuare a combattere ignorando i nostri cuori feriti? La rabbia che mi montò dentro non era paragonabile a nessun altra emozione che avessi mai provato in vita mia.
- I suoi occhi, Percy.. – la rabbia un po’ si sciolse, sentendo la voce rotta dai singhiozzi di Annabeth, e rilassai i muscoli senza essermi prima davvero reso conto di quanto fossi teso. – I suoi occhi erano così neri.. Vi si leggeva dentro una lotta che minacciava di non finire tanto presto.. Le stesse fiamme negli occhi di Ares.. Lo stesso strazio dei volti che ondeggiano sulla veste di Ade.. – se voleva dire qualcos’altro, un ennesimo spasmo di pianto le impedì di continuare, e il mio cuore si frantumò definitivamente. La allontanai quel poco che bastava per guardarla negli occhi, quegli occhi gonfi e rossi ancora lucidi e pieni di lacrime, e le presi il viso tra le mani tenendola più vicina possibile.
- Il dolore plasma le persone, Annabeth. E’ possibile che sia solo questo periodo iniziale.. Che poi magari le cose vadano meglio. Devi dargli il tempo di assimilare, e un giorno questa sofferenza darà i suoi frutti, lo aiuterà, forse gli insegnerà a perdonare invece che a condannare, ma.. Nel frattempo noi non possiamo fare nulla. Possiamo solo aspettare. Aspettare che le cose migliorino perché lo faranno.. Annabeth, guardami. Andrà tutto bene. Finché siamo insieme, va tutto bene. Okay? – puntai il mio sguardo nel suo, anche se non ero proprio  sicuro che quelle parole l’avrebbero aiutata. Con mio sommo stupore, la vidi asciugarsi le lacrime con la manica del pigiama e assumere la sua solita espressione fiera e forte, e le avrei anche creduto se non fosse stato per gli occhi e le guance ancora gonfi per il pianto.
- Lo so, hai ragione. Piangere non serve a nulla. Dobbiamo continuare a combattere perché solo così.. La morte di Bianca avrà un senso. – La sua voce s’incrinò quando pronunciò il nome della sorella di Nico, ma la sua espressione non cambiò e nessuna lacrima minacciò di voler sgorgare ancora dai suoi occhi che, ancora un po’ lucidi, sembravano ancora più grandi. Fu allora che mi accorsi di quanto eravamo vicini. Eravamo in ginocchio, uno accanto all’altra, le ginocchia che si toccavano. Le tenevo ancora saldamente le mani sulle guance quasi temendo che se le avessi lasciate il suo viso si sarebbe sgretolato fra le mie mani.. Era talmente, pericolosamente vicina al mio viso che sentivo il suo respiro solleticarmi le labbra, e probabilmente anche il mio stava facendo lo stesso sulle sue, semichiuse, che mi scoprii a guardare fissamente. Non avevo il coraggio di muovere un muscolo, non ci riuscivo, e mi tenni a bada perché sapevo che se mi fossi mosso sarebbe stato per baciarla..
- Ma che bel quadretto – affermò allegra una voce proveniente dall’ingresso della mia stanza. Sussultai e Annabeth fece lo stesso, allontanandosi di scatto da me e toccandosi i capelli biondi nonostante fossero perfettamente fuori posto. Portai le mani lungo i fianchi e girai la testa per capire chi era stato a meritarsi la più profonda occhiata fulminante della storia.
Appoggiata allo stipite della porta, con un pigiama nero a strisce bianche (o bianco a strisce nere? Bah) con un sorriso divertito sulle labbra e gli occhi vispi, c’era Talia.
- Oh andiamo, non fare quella faccia Jackson, non puoi fulminarmi con lo sguardo! Sono la figlia di Zeus, è più probabile che sia io a lanciarti un fulmine in testa! – esordì, entrando nella stanza e facendo ridere Annabeth, che intanto si era alzata e si era avvicinata a lei.
- I barbagianni hanno un senso dell’umorismo migliore del tuo, Talia – ribattei scocciato, issandomi sulle braccia per alzarmi e cercando di ripulirmi i pantaloni dalla polvere.
- Sei solo invidioso – concluse, alzando le spalle –ma noi ti perdoniamo. – mi sorrise con fare sarcastico, prendendo Annabeth per un braccio e portandola via. – Buonanotte! – la sentii dire dal corridoio, con un tono di voce ancora visibilmente divertito. Io avevo il fumo che mi usciva dalle orecchie e chiusi la porta con un calcio talmente forte da far tremare lo specchio del bagno.
Quando mi misi a letto dopo essermi infilato il pigiama con una tale violenza da strappare il tessuto del pantalone appena sotto il ginocchio, imprecai e mi addormentai più nervoso che mai.
 

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Capitolo 6
*** VI ***


La mattina dopo a colazione ignorai Talia il più possibile, nonostante Annabeth stesse con lei e questo significava evitarla anche se non aveva fatto nulla. Mi sentivo stordito e confuso, e mi resi conto che la sera prima ero a un passo dal fare qualcosa che quella mattina mi sembrava assolutamente assurdo. Non poi così assurdo, pensai, cosciente del fatto che era una cosa che volevo da molto più tempo di quanto mi piacesse ammettere.
Quando mi sedetti a un tavolo a caso, da solo, tenni lo sguardo basso anche quando vidi Talia strisciare col vassoio vicino a me e fissarmi insistentemente.
- Scusami per ieri, amico – mi disse, ma non la presi sul serio perché si vedeva che si stava sforzando per non ridere.
- Non capisco per cosa dovrei scusarti. Non hai fatto nulla – le risposi, cercando di mantenere la voce piatta.
Lei alzò un sopracciglio e incrociò le braccia sul petto, scettica.
- Ah. Allora vuoi dirmi che non hai sognato di uccidermi in 82 e mezzo modi diversi perché ti ho interrotto quando stavi per baciare Annabeth? –
Sgranai gli occhi e mi girai verso di lei, di scatto. Le comparve nuovamente quell’espressione divertita in viso, che mi fece scattare la rabbia alle stelle.
- Io non stavo per.. Annabeth è solo.. – incespicai nelle parole, cercando di trovare quelle giuste. – Oh, va’ al Tartaro – conclusi scocciato, affondando nella sedia e afferrando la mia brioche.
Lei alzò le mani in segno di resa, ma senza cancellare il suo sorrisino irritante dal volto.
- Come vuoi, Percy. Ma sta’ attento, perché se non la baci tu prima o poi lo farà qualcun altro – mi disse, lasciandomi sorpreso, per poi indicarmi col mento Annabeth che faceva la fila per prendere un succo alla macchinetta, affiancata da un ragazzo più alto di lei, coi capelli biondi e ricci e gli occhi nerissimi, il fisico palestrato e dei denti perfetti. E loro due stavano parlando. E Annabeth stava ridendo sguaiatamente a quelle che probabilmente erano battute fatte solo per parlarle.
Strinsi i pugni tenendo gli occhi fissi su quel tipo che stava decisamente troppo vicino ad Annabeth, irrigidendomi.
- Chi è quello? – domandai, con la voce carica di rabbia, più di quanto non avrei immaginato.
- Si chiama Alexander – mi rispose Talia, posando la sua tazza di caffè sul tavolo – Sembra decisamente interessato a lei. Lo becco a guardarla ogni volta che è in giro. Il che è tutto dire, visto che è un gran figo. -
La guardai indignato, quasi schifato, ma lei aveva di nuovo affondato la faccia nella sua tazza e non mi notò, o fece finta di farlo, o stava nascondendo quanto si divertiva dietro il caffè.
- Ad Annabeth non piacciono i tipi di quel genere – affermai, più per convincere me stesso che Talia. Lei fece una smorfia.
- Perché non dovrebbe piacerle? – mi inchiodò. Mi presi del tempo prima di rispondere. Era un bel tipo, anche se essendo un ragazzo non capivo quando un altro del mio stesso sesso era bello e sembrava sinceramente simpatico. Forse avremmo potuto essere amici se non avessi avuto tutta quella voglia di tirargli un pugno sul naso.
Ero ancora assorto nei miei pensieri quando Annabeth si sedette al tavolo di fronte a noi, con uno smagliante sorriso stampato sul volto, un po’ nascosto dai lunghi capelli biondi che aveva lasciato sciolti.
- Buongiorno! – esclamò un po’ troppo allegra, cominciando a bere il succo d’arancia.
- Che ci facevi con quel tipo? - le chiesi, infastidito, senza inutili giri di parole. Lei staccò lo sguardo dalla colazione e inchiodò i suoi occhi grigi nei miei, allontanando lentamente il bicchiere dalle sue labbra.
- Stavamo solo parlando – fece lei, come a volersi difendere, anche se non aveva alcun dovere, né tantomeno io avevo diritti a chiederle che cosa faceva nella sua vita. Mi sentii stupido e abbassai lo sguardo. Probabilmente lei se ne accorse.
- Tutto bene, Percy? – si rivolse a me con un tono un po’ troppo dolce, come ci si rivolge a un bambino o a un cucciolo ferito, e mi infastidii di nuovo. Non sapevo perché ero arrabbiato con lei, ma lo ero davvero tanto, e non sopportavo la sua vista o la sua vicinanza. Mi alzai.
- Tutto okay. Vado in camera a sistemarmi prima di uscire. – e mi allontanai con passo deciso, un’Annabeth semisconvolta e una Talia terribilmente divertita a osservarmi fino all’uscita.
Quando entrai in camera, mi chiusi violentemente la porta alle spalle, arrivando sul letto più confuso di quando mi ero alzato da quel tavolo. Perché sentivo quella rabbia scorrermi sotto le vene al posto del sangue? Perché la testa mi pulsava per le immagini di Annabeth e quella faccia da broccolo che ridevano insieme? Perché le dita mi formicolavano dalla voglia di rifilargli un paio di pugni e un calcio dove nessuno di noi ragazzi avrebbe voluto riceverlo?
Per sfogarmi, mollai una gomitata all’armadio così forte che non sentii la porta aprirsi. Quando mi voltai, davanti a me c’era una sorpresa quanto spaventata Annabeth.
- Percy.. E’ tutto okay? Sei scappato via come una furia prima a colazione e.. – provò a parlarmi, ma non le permisi di finire la frase.
- Si può sapere che cavolo credi di fare? Siamo in questa scuola per controllare che non ci sia nessuna attività o segnale a confermare l’arrivo di un’imminente e ormai certa guerra dalle forze più oscure che questo mondo abbia mai visto, non a spassarcela col primo tipo tutto muscoli e niente cervello che ci capita davanti! – sbottai, incapace di trattenermi o di fermarmi una volta aver iniziato a parlare, i pugni stretti talmente tanto che le unghie iniziavano a tagliarmi i palmi, la faccia rossa.
Annabeth restò di sasso, con la bocca schiusa, apparentemente incapace di parlare, ma quando si ricordò di esserne di nuovo capace, la sua furia esplose come schegge di vetro sul pavimento dopo una pallonata troppo forte ad una finestra.
- Il fatto che dobbiamo tenere d’occhio la situazione non significa che non possiamo provare ad avere una vita più o meno normale. Mi sembra che fosse quello che volevi, no? E poi qual è il problema a cercare di farsi degli amici? – la sua voce era fredda e tagliente, tanto che quasi rabbrividii.
- Esattamente, farsi degli amici, e mi sembra proprio che quell’Alexander voglia farsi un’amica, se capisci cosa intendo – esordii, incapace di trattenermi e dipingendomi un sorriso di scherno sul viso.
L’espressione di Annabeth era incredulità pura. Aveva lo stesso sguardo che si ha quando si vede un fantasma, il viso pallido, prosciugato da ogni traccia di colore.
- Vaffanculo – mi ringhiò, senza troppi giri di parole, uscendo dalla stanza e sbattendosi la porta alle spalle.

La voglia che avevo quella giornata di visitare quegli insulsi e noiosi musei era pari alla voglia che avrebbe avuto Ares in qualsiasi momento di vestirsi da hippie e incoraggiare la gente alla pace. L’espressione ferita e insieme arrabbiata di Annabeth continuava a tornarmi della mente, ma lei non sembrava accorgersene visto che,dopo il nostro litigio, era andata a rifugiarsi fra le braccia di Alexander, con cui continuava a stare fianco a fianco ridendo e scherzando, sfiorandosi un po’ troppo spesso la mano perché fossero solo coincidenze.
- Hai l’aria di uno che vuole spaccare un bel po’ di muri – disse Talia, affiancandomi. – So che cosa è successo con Annabeth. -
- La cosa dovrebbe farmi sentire meglio? – ruggii, incapace di contenere il nervosismo che scattava per ogni parola.
- Certamente no. Ma lasciami dire che ti sei comportato assolutamente da stupido – annuì, come volendo confermare con assoluta certezza ciò che aveva detto.
- Oh a me sembra che stia così bene con quel pallone gonfiato. Magari ha litigato con me apposta per andare a piangere da lui – le risposi con un sorriso sarcastico sulle labbra, guadagnandomi un’occhiata incredula da lei.
- Questa era cattiva, Percy. –si limitò a dire, con voce ferma. Non avevo voglia né intenzione di litigare anche con lei, quindi infilai le mani nella mia felpa e mi limitai a continuare a camminare in silenzio.
La giornata continuò in questo modo e non migliorò di una virgola, neppure quando servirono pizza a cena, in albergo. Tutte le voci, le risate e i sorrisi attorno a me sembravano così lontani da quella che era la mia realtà in quel momento, o forse ero io ad essere lontano da loro.. O magari ero semplicemente troppo lontano da Annabeth, seduta qualche tavolo più in là accanto alla faccia da broccolo che le cingeva le spalle con un braccio.
La situazione raggiunse l’apice quando, dopo aver finito di mangiare, Alexander la prese per mano e la portò via. Li seguii con lo sguardo temendo che la mia allusione al farsi un’amica, fatta più per rabbia che per altro, fosse vera. Ma prima che riuscissi ad alzarmi per seguirmi, i prof ci intimarono di tornare immediatamente nelle camere dal momento che il giorno prima, per l’ultima giornata di visite, avremmo dovuto svegliarci molto presto. Pensai che questo bastasse per distogliere quel tipo dalle sue malate intenzioni, ma non ci credevo davvero.
All’improvviso mi sentii pervadere da una strana emozione. Era come se il piombo mi stesse scorrendo nelle vene, come se qualcosa mi inchiodasse a terra. Rassegnazione, pensai. Annabeth non aveva bisogno di me. Lei poteva ridere e divertirsi anche con qualcun altro che non fossi io. Poteva amare qualcuno e stare con lui e baciarlo.. La verità mi colpì in pieno come uno schiaffo, risvegliandomi da una specie di sogno che mi ero costruito. Non avevo mai messo in conto che Annabeth avrebbe potuto conoscere qualche altro ragazzo e interessarsi a lui e.. Ma lei era libera di fare ciò che voleva. Ero stato così egoista da voler decidere cosa lei voleva fare della sua vita e mi maledii per questo. Per quanto mi facesse male l’idea, cercai di adattarmi a quel pensiero, col risultato che la sensazione di sprofondare aumentò, e quando, senza neppure rendermene conto, mi addormentai, feci sogni agitati tanto quanto lo ero io.

Pensai di stare ancora dormendo quando una mano piccola ma forte mi scosse per la spalla. Purtroppo la luce che entrava dalla finestra mi confermò che era giorno, e la voce di Talia che, accanto a me, mi chiamava, mise definitivamente fine alla mia possibilità di dormire ancora.
Mi strofinai gli occhi tentando di allontanare il sonno, sbadigliai e mi alzai sui gomiti per guardare in faccia Talia. Era pallida e aveva un’espressione carica d’ansia che mi fece preoccupare abbastanza da eliminare tutti i residui di sonno.
- Che cosa è successo, Talia? – le domandai senza girarci troppo intorno, il cuore che iniziava a battermi forte per la paura.
- Percy – mi rispose lei con un filo di voce tremante, e dal suo viso capii che stava lottando per non piangere.
- Percy, Annabeth è sparita. –

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Capitolo 7
*** VII ***


Sentii il sangue gelarsi nelle mie vene, ghiaccio che si spezzava a contatto con ogni emozione.
- No, aspetta. Che cosa intendi quando dici che è sparita? – domandai tutto d’un fiato per timore di dimenticare come si fa a respirare da un momento all’altro.
- Che cavolo di domande fai, Percy? Cosa vuole intendere uno quando dice che una persona è sparita? Sparita, andata, volatilizzata! Non si trova più! – la sua voce era un misto di rabbia e ansia che rese il peso che avevo sul cuore ancora più pressante.
Non ricordo come o quando mi alzai dal letto e mi vestii, ma due minuti dopo ero in strada, fuori dall’albergo, con Talia alle calcagna che tentava di trattenermi strattonandomi per un braccio.
- Percy.. Percy, dove cavolo vai? Percy! Oh, lo sapevo che non dovevo dirtelo – le sue parole erano un suono ovattato, lontano, il ronzio di uno sciame di api, il mondo attorno a me era vuoto e incolore, non percepivo nulla che non fosse la morsa allo stomaco per la paura. Mai in vita mia ne avevo provata tanta.
I miei piedi continuavano a muoversi automaticamente mentre dietro di me Talia continuava a imprecarmi contro senza che io davvero la sentissi. Mi risvegliai dal mio stato di semisonnambulismo quando le unghie affilate di Talia mi affondarono nel polso.
- Ahia! – esclamai, ritraendo il braccio.
- Adesso mi ascolti – ringhiò lei, un’espressione dura sul volto.
- Percy, potrebbe non essere stata una coincidenza. Potrebbe non trattarsi di una fuga o di un semplice rapimento. Ricordati con chi abbiamo a che fare, qual è il nostro mondo.. Ho paura che sia stato qualcuno dell’esercito di Crono. Che vogliano spaventarci, ricattarci. E io farei qualsiasi cosa per salvare Annabeth, e tu anche,e loro sono totalmente capaci di puntare su questo. – il suo tono si era gradualmente abbassato e addolcito dal dolore man mano che parlava, e quando finalmente le sue parole mi riportarono alla realtà mi maledii per non averci pensato prima.
- Chi pensi sia stato? – le chiesi inciampando nelle parole, le gambe che fremevano dalla voglia di mettermi a correre perché, se davvero Talia aveva ragione, ogni secondo era prezioso.
- Non ne ho idea, potrebbe essere stato chiunque.. – scosse la testa, affranta e rassegnata.
- Ma siamo vicini alla costa, e se la mia ipotesi è corretta i rapitori avrebbero potuto raggiungerci solo via mare.. Se ci sbrighiamo forse possiamo ancora raggiungere la Principessa Andromeda. –quando alzò lo sguardo, dopo aver proferito queste parole, le lessi la determinazione negli occhi, tutto lo spavento spazzato via da una folata di coraggio che era proprio, in queste situazioni, solo di Talia.
- Che stiamo aspettando? – esordii a voce forse un po’ troppo acuta, seguendo finalmente il mio istinto di correre all’impazzata per trovare Annabeth, giù verso la spiaggia. I pensieri che nel contempo mi turbinavano in testa non erano dei migliori. Stava bene? Le avevano fatto del male? Che cosa volevano da lei? Le domande che continuavano a scorrermi nel cervello si spensero solo quando mi resi conto di aver raggiunto la distesa sabbiosa che dava sul mare. Rabbrividii per il vento freddo mattutino che mi entrava sotto i vestiti e che prima, con i sensi intorpiditi, non avevo neppure sentito. Strinsi gli occhi a fessura per migliorare la vista, Talia al mio fianco che ansimava per la corsa.
E la vidi.
Una montagna bianca che si espandeva sul mare proiettandovi sopra ombre scure, che procedeva verso l’orizzonte, illuminata dal sole che iniziava a sorgere formando un semicerchio sulla superficie dell’acqua cristallina che si tingeva di rosa, arancione e oro.
- Fantastico, mi ricordi come ci arriviamo? – mi chiese Talia, ancora ansante.
Mi girai verso di lei con’espressione incredula e scherzosa nonostante la situazione pericolosa.
- Scherzi, Grace? Sono il figlio di Poseidone! – esclamai facendola sorridere, sentendo un’ondata di energia e serenità che mi avvolgeva solo quando ero tanto vicino all’acqua. Chiusi gli occhi e mi concentrai sul rumore delle onde che si infrangevano sulla spiaggia, sul colore verdeazzurro del mare.. Poi sentii un’esplosione, come se qualcosa dalle grandi dimensioni sorgesse dall’acqua all’improvviso, e in effetti fu proprio così. Non seppi dire se era lo stesso che ci aveva aiutato la scorsa volta, ma l’ippocampo color arcobaleno ci si avvicinò velocemente, affiancandosi alla riva in modo da farci salire in groppa.
Schizzammo veloci come su una moto d’acqua, il vento che sferzava in faccia e l’acqua che schizzava attorno a noi. Passò meno di un minuto prima di raggiungere la nave.
- Grazie mille, bello – mormorai all’ippocampo, facendogli una carezza sulla testa. Quello emise un verso di approvazione e si rituffò, sparendo nell’acqua.
- Okay, diamoci da fare – sussurrò Talia, i muscoli tesi e quell’espressione determinata che non sembrava volerla abbandonare, mentre cominciò ad incamminarsi all’interno della nave.
Muovendoci più silenziosamente possibile ci addentrammo guardandoci intorno; era tutto esattamente come lo ricordavo, il che mi fece distorcere la bocca in una smorfia di disapprovazione mista a disgusto, visto che “come lo ricordavo” comprendeva anche una miriade di creature mitologiche che di certo non profumavano come fiori.
Quando, dopo aver attraversato il ponte, ci trovammo di fronte a un arco che si estendeva al di sopra di una scalinata di ferro, sentimmo delle voci attutite dalla distanza provenienti da qualunquecosacifosseinfondoaquellescale. Talia mi strattonò per un braccio e mi nascose,assieme a lei, dietro l’arco, il respiro affannoso ma silenzioso, controllato per non farsi sentire.
- Eh si, l’ha proprio messa al tappeto! Com’è facile ingannare i semidei.. – una voce simile a un ringhio proveniva dal lato opposto all’arco rispetto a dove eravamo noi, sempre più vicina.
- Ancora non capisco che cosa voglia il Padrone da lei.. – domandò perplessa, una voce dal timbro differente ma dal ringhio uguale a quella di prima. Mi premetti di più contro l’arco sperando che quelle creature non sentissero il battito del mio cuore che correva troppo veloce per gli standard di un essere umano.
- Non fare il tonto! E’ chiaro che vuole attirare qui Percy Jackson per farlo fuori prima che il suo piano venga portato a termine, così non avrà alcun intralcio! – ringhiò nuovamente la voce che aveva parlato per prima.
Sentii il cuore, da che batteva così forte, fermarsi. Stavano parlando di Annabeth. E di me. E del fatto che volevano farmi fuori. Oh,ma a chi importa. Stavano parlando di Annabeth.
Talia mi prese per un braccio e lo strinse forte, come volendo comunicare con me in un linguaggio muto. La guardai e i suoi occhi blu inchiodati nei miei dicevano una sola cosa. Dobbiamo andare.
Aspettammo che i telchini, ringhiando e sbavando, si allontanassero, per poi fiondarci con un unico movimento dalla parte dell’arco da dove erano usciti, scendendo le scale 3 gradini per volta.
Un po’ più giù, almeno 40 gradini dopo, c’era una porta di ferro come le scale, un po’ arrugginita ai cardini. Sembrava pesante, ma per la figlia di Zeus, che si stava concentrando per evocare un fulmine, non sembrava un problema. Quando quello, con un lampo accecante, bruciò la serratura, insieme io e Talia cercammo di spostare la porta senza toccare i punti in cui il fulmine aveva colpito,ancora incandescenti e fumanti, per evitare di scottarci, strisciando silenziosamente nella stanza.
Era uno sgabuzzino buio, pieno di armadi e scaffali colmi di aggeggi dalla sospetta provenienza, massimo 3 metri di larghezza e due di lunghezza, un piccolo oblò nella parte alta del muro appena di fronte a noi. Appena accanto all’oblò, una trave di legno che partiva dal pavimento e arrivava al soffitto, consumata e vecchia, che minacciava di crollare al primo soffio. E, legata a quella trave con una corda, le spalle e il collo ornate di lividi e un rivolo di sangue che sgorgava dal labbro fino al mento per poi cadere in gocce scarlatte sul pavimento, i capelli una massa scomposta e sporca di sangue, Annabeth.

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Capitolo 8
*** VIII ***


Il mio cuore perse almeno 52 battiti, recuperando quelli troppo accelerati fatti fino a prima, mentre i miei occhi incontravano i suoi, di un grigio spento, colmi di dolore ma asciutti, non un solo residuo di lacrime.
Talia, vicino a me e al contrario di me, era riuscita a muoversi e, con voce rotta, chiamava in nome di Annabeth e la rassicurava dicendo che sarebbe andato tutto bene, tentando nel frattempo di slegarla. Guardandola, mi resi conto che sotto la corda che la teneva inchiodata a quel legno scuro, aveva dei segni rossi, come se avesse provato a liberarsi senza risultato.
Quando finalmente riuscii a muovere i muscoli, scattai verso di lei e, ricordandomi solo in quel momento – tanto ero intontito – di avere Vortice in tasca, sfilai il cappuccio e tagliai le corde con un unico movimento. Ansimavo e il respiro mi bruciava i polmoni, un sentore come di lava raffreddata nei muscoli, ma il sollievo di rivedere Annabeth, seppur conciata male in quel modo, mi diede la forza di slanciarmi avanti e abbracciarla, senza curarmi del sangue che mi macchiava i vestiti.
- Percy.. Percy, mi dispiace.. – la sua voce era bassa e spezzata dalle lacrime che minacciavano di uscire, mentre mi stringeva come se potessi scivolarle dalle mani.
- Percy.. E’ una trappola, loro vogliono te.. Ti prego.. – ma era troppo tardi. Una mano viscida mi afferrò dalla felpa e mi scagliò indietro, facendomi finire conto il muro con una forza tale da mozzarmi il fiato.
Quando i miei occhi misero di nuovo a fuoco la scena, vidi di fronte a me un telchino, mezzo foca e mezzo cane, con un ghigno spaventoso quanto disgustoso stampato sul volto. Notai, con orrore, che dietro di lui ce n’erano almeno altri 10 che stavano attaccando Talia e la già esausta Annabeth.
Avevo lasciato cadere Vortice vicino al palo dopo aver liberato Annabeth e ora era troppo lontana per prenderla ma troppo vicina a me perché potessi sperare che mi riapparisse in tasca. In fondo, non l’avevo persa.
Mi scagliai in avanti con tutta la forza che avevo, travolgendo il telchino che mi aveva attaccato poco prima e facendolo finire con la schiena a terra, il ghigno divertito rimpiazzato da un’espressione di stupore. Talia, che aveva notato la cosa, lanciò uno sguardo a terra e capì. Si chinò per prendere Vortice subito dopo aver ucciso un telchino e me la lanciò dritta nella mano che tenevo aperta per afferrarla. Non appena impugnai la mia spada,l’adrenalina tornò a scorrermi nelle vene e senza pensarci troppo affondai la lama nel collo del mostro, che prima rantolò, iniziando a coprirsi di sangue nero, e poi non si mosse più.
Corsi immediatamente ad aiutare Talia, posizionandomi di fronte ad Annabeth che cercava di nascondersi dietro la trave, totalmente incapace di combattere vista la condizione in cui si trovava. Colpii uno dei mostri che si avventò verso di me con l’elsa della spada in mezzo agli occhi per destabilizzarlo. Quello barcollò indietro e si distrasse il tempo necessario da consentirmi di infilargli Anaklusmos nello stomaco fino all’impugnatura. La estrassi soddisfatto dopo aver visto la vita abbandonare i suoi occhi e continuai a combattere finché tutti i telchini che si erano riversati nella stanza vennero uccisi.
- Bella battaglia – concluse Talia, mettendo da parte l’Egida e avvicinandosi ad Annabeth per aiutarla ad alzarsi.
Il ritorno al mare non fu, come pensavo, tranquillo. Altri mostri si erano riversati sul ponte, probabilmente sentendo i rumori della battaglia, ma io ero troppo deciso ad aprirmi un varco e saltare in acqua. E se c’è una cosa al mondo che si deve temere, è un semidio troppo deciso.
Mi fiondai urlando verso i mostri, tenendo Anaklusmos in mano, abbattendo qualsiasi cosa mi capitasse a tiro o entrasse nel mio campo visivo, quando una figura decisamente troppo umana mi si parò davanti arrivando dall’alto, come se fosse saltata giù dal cielo. E io non ci credetti, semplicemente.
Era esattamente come l’avevo visto l’ultima volta. Jeans e maglietta bianca a maniche corte che gli mettevano in mostra i bicipiti, occhi talmente scuri che le iridi inghiottivano la pupilla, fondendosi, i capelli biondi a contrasto con quell’oscurità, e un mezzo sorriso odioso stampato in faccia.
- Alexander?! – la mia voce rimbombò sul ponte, dal momento che, al suo arrivo, tutti i mostri si erano zittiti e fermati. Il suo sorriso trapelava scherno e divertimento, ma la spada che aveva in mano, l’elsa rossa e ruvida come squame di drago e la lama lunga che curvava verso sinistra in punta, non divertiva altrettanto me.
- Incredibile come siano ovunque i figli di Ares, vero, Percy? – mi sputò quelle parole in faccia non senza un secondo fine, dal momento che, sfruttando il fattore sorpresa, mi si scagliò contro con rabbia e velocità, la spada che mirava al mio cuore.
Ebbi meno di mezzo secondo per rendermi conto di quanto stava succedendo, ed ebbi lo stesso tempo per spostarmi prima che quella lama mi trafiggesse, non prima, però, che mi tagliasse la maglietta e mi lasciasse un graffio superficiale sul petto.
- Che c’è, il tuo paparino non è abbastanza dio per curarti quella ferita? – mi schernì indicando col mento il taglio che mi aveva fatto, per poi assumere un’espressione corrugata e arrabbiata.
- Gli dei non hanno mai fatto nulla per noi, Percy. Non te ne rendi conto? Sei così cieco o così bambino da credere ancora che un giorno godrai della presenza di un vero padre nella tua vita? – quelle parole mi colpirono come veleno che mi corrose il sangue facendolo sfrigolare contro le vene. Alzai Vortice.
- Sei tu quello cieco, Alexander, perché non vedi la presenza di tuo padre nella tua vita nelle piccole cose di tutti i giorni – gli risposi ringhiando, per poi avventarmi contro di lui, che non si lasciò prendere alla sprovvista. Si lanciò contemporaneamente verso di me e ci scontrammo a mezz’aria, le lame tintinnarono toccandosi l’una con l’altra. Tentai di rifilargli un calcio nello stomaco,ma lui fu più veloce e saltò, atterrando dietro di me e spingendomi con abbastanza forza da farmi finire con la faccia a terra. Mi rialzai più velocemente possibile, ma non abbastanza, permettendogli così di tirarmi una gomitata in faccia che mi fece sanguinare il naso. Quando mi rialzai, incurante del sapore del sangue che scendeva nella bocca, mi resi conto che non era più vicino a me, ma poco più in là, dove Talia e Annabeth guardavano la scena inorridite. Anzi, dove Annabeth guardava Alexander inorridita, quando lui le toccò i capelli sporchi.
- Mi dispiace tanto Annie, ma era per una causa maggiore.. Ti prometto che se accetterai di restare qui con noi potremmo restare insieme. – le sorrise languidamente, un sorriso che mi fece salire un conato di vomito accompagnato da una rabbia indicibile che saliva dallo stomaco e mi bruciava la trachea fino a esplodere nella bocca.
- STA’ LONTANO DA LEI ! – gli urlai, quando lo vidi alzarle la testa facendo leva con due dita sotto il suo mento, vicino, troppo vicino al suo viso.
In quel momento esplose.
Un’onda alta almeno 50 metri comparve con un boato dietro al punto della nave dove si trovata Alexander, che alzò lo sguardo sbigottito, allontanando le mani da Annabeth. Quando si girò per guardarmi, il suo viso era divertito.
- Beh, un bel lavoro Jackson, non c’è che dire. Ma non lo farai. – mi sorrise amichevolmente e a quel punto non resistetti più. Corsi avanti così velocemente da non capire neppure io come, troppo poco tempo dopo mi ritrovai di fronte al suo viso. Caricai il braccio destro e gli mollai un pugno sul naso talmente forte da farlo cadere con la schiena a terra, il naso sanguinante e gonfio più del mio, probabilmente rotto.
- Penso che ti sbagli, amico – gli dissi solamente, avvicinandomi al bordo della nave e portando le ragazze con me, facendo alzare un’altra onda più bassa dove poter viaggiare per tornare alla riva.
Quando saltammo su, la morsa che avevo allo stomaco si sciolse nel momento esatto in cui l’onda gigantesca si abbatteva sulla nave, inondandola, ma nel frattempo noi eravamo abbastanza lontani da bagnarci soltanto i vestiti senza essere sommersi. Non mi voltai a guardare.
 Quando arrivammo tutti e tre, esausti e feriti, sulla spiaggia, cercai di regolarizzare il respiro e di non pensare alla fastidiosa sensazione dei vestiti appiccicati alla pelle – non avevo avuto abbastanza tempo per chiedere all’acqua di evitare di bagnarmi – e il naso pulsante e dolorante. Quando alzai lo sguardo, involontariamente questo si posò su Annabeth. Era ridotta abbastanza male. Il sangue incrostato era stato lavato via dal mare, ma gli ematomi erano evidenti e il combattimento, sebbene non partecipato, aveva lasciato i segni su di lei – graffi, lividi –, e quando notai le sue occhiaie, semicerchi profondi e bluastri sotto i suoi occhi, capii che era stata in quella nave per troppo tempo. Sentii una sensazione sgradevole e amara in fondo alla bocca, un senso di colpa per non essermene accorto prima e non essere andata a salvarla in tempo. Potevo evitare tutte quelle ferite, quelle botte, quel sangue, quegli occhi colmi di lacrime e quel tremore che aveva poco a che fare con il freddo dell’acqua. Pensai a come ero stato ingiustamente arrabbiato con lei per tutto quel tempo e mi resi conto di come non avessimo tempo per  essere gelosi perché ogni giorno e ogni ora rischiamo di perdere le persone che amiamo per un motivo o per un altro. Pensai agli occhi luminosi di Annabeth quando le tenevo il viso vicino al mio, quella sera in albergo, e al rossore che si era allargato sulle sue guance quando Talia era entrata in camera. Pensai alle sue labbra, rosee e carnose, ora gonfie e rosse di sangue. Poi crollai.

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Capitolo 9
*** IX ***


Quando mi risvegliai, non misi subito a fuoco ciò che avevo davanti. Tutte le pareti attorno a me erano bianche, persone vestite di bianco e arancione entravano ed uscivano dalla stanza che, quando mi guardai intorno, mi resi conto essere più grande di quello che pensavo. C’erano due file di letti addossati alle due pareti, e io ero steso su uno di quelli, con addosso solo dei pantaloni verdi e larghi e un lenzuolo bianco che mi arrivava sopra la vita. Accanto a me c’era un comodino e, dall’altro lato, uno strano aggeggio con una busta contenente del liquido trasparente appeso sopra. Dalla busta spuntava un tubo, anche questo trasparente, che finiva in un ago, ed era infilato nell’incavo del mio gomito. Ero nell’infermeria del Campo.
Cercai di sedermi, i muscoli che bruciavano, la testa che cominciava a girare, ma prima di poterci riuscire una mano mi riportò dolcemente steso sul letto.
- Non ci provare nemmeno – mi canzonò Talia, con un finto tono di rimprovero. Il suo sguardo esprimeva troppo sollievo e tradiva la sua voce ferma. Le sorrisi.
- Cosa è successo? – la mia voce suonò spaventosamente roca, tanto che trasalii al solo sentirla. Talia ridacchiò piano, come se la sua risata potesse svegliare un qualche mostro malvagio.
- Sei svenuto sulla spiaggia. Io e Annabeth (più io in realtà, viste le tue condizioni) siamo riuscite a riportarti in albergo e la visita dell’ultimo giorno è stata annullata. Quando siamo tornati in città ho avvisato tua madre e le ho detto che ti avrei portato al Campo. Appena ci ha visti, Chirone ci ha spediti in infermeria, ed eccoci qua. Resteremo per un po’. – mi spiegò con calma. La studiai. I capelli erano sciolti e lisci sulle spalle, aveva due cerotti incrociati su una tempia e una fasciatura al braccio, qualche livido qua e là, ma niente di serio. All’improvviso mi ricordai di Annabeth e del suo terribile aspetto e, leggendomi l’ansia in faccia, Talia mi sorrise.
- E’ qualche letto più in là. Sta riposando. Dopo qualche cubetto di ambrosia si è sentita meglio e ha deciso di dormire un po’. – il suo sguardo si spostò a destra, più lontano, e io lo seguii. Quando la vidi, sorrisi.
Aveva avuto la forza di darsi una sciacquata –o forse l’aveva fatto qualcun altro – e ora i suoi capelli biondi risplendevano al sole. Aveva gli occhi chiusi e i cerchi appena sotto erano spariti. L’espressione era tranquilla, il petto si alzava e abbassava regolarmente. Aveva diverse fasciature, cerotti e lividi blu in evidente contrasto con la sua pelle chiara,ma sembrava stare bene. Il peso sul cuore che non mi resi conto di avere fino a quel momento si alleggerì un po’.
- Percy – Talia richiamò la mia attenzione facendomi voltare verso di lei. - Come stai? – mi chiese, abbassando il tono di voce, un’espressione un po’ affranta sul viso.
Mi toccai il naso che non sembrava essere gonfio e scesi giù sulle labbra un po’ tagliate ma non più sanguinanti. Avevo una specie di cerotto gigante bianco sul punto dove la spada di Alexander mi aveva ferito e avevo i muscoli indolenziti, lividi un po’ dappertutto.
- Bene. Cioè, sono stato meglio, ma per come è andata, è andata bene – le sorrisi, cercando di rassicurarla. Notai in quel momento che, nonostante gli innumerevoli letti presenti nella stanza, solo il mio e quello di Annabeth erano occupati.
- Okay –mi rispose lei, alzandosi. – Adesso vado, devo fare rapporto a Chirone che si aspetterà una spiegazione per quanto successo.. – scosse la testa. – Forse se avessi lasciato che vi baciaste quel giorno tutto questo non sarebbe successo – la vidi sollevare un angolo delle labbra, ma la sua espressione ancora un po’ triste rendeva evidente la falsità di quel sorriso. Si allontanò ed uscì prima che io potessi risponderle.
Ripensai a tutto quello che era successo, chiudendo gli occhi, e mi sembrava che fossero passati anni da quella sera in albergo con Annabeth. Forse però l’accaduto mi aveva fatto capire che non posso più esitare, non posso più aspettare. Non posso mai.
- Percy – una vocina sottile e roca mi chiamò dal fondo della stanza. Quando mi girai, vidi il viso di Annabeth rivolto verso di me, un’espressione tranquilla e riposata sul viso, un sorriso che metteva in risalto i tagli sulle labbra. E’ colpa mia, pensai. È colpa mia e della mia gelosia e della mia stupidità e di tutte le cose di me che mi hanno impedito di vedere come stavano veramente le cose, di farmi capire chi era veramente Alexander e perché si stava avvicinando così tanto ad Annabeth.
Probabilmente avevo un’espressione che rispecchiava ciò che stavo pensando, perché aggrottò la fronte sollevandosi su un gomito per guardarmi meglio.
- Stai bene? – mi chiese, la voce stavolta chiara, nessuna traccia della debolezza e della paura provata fino a poche ore prima. Le sorrisi e mi sfilai lentamente l’ago dal braccio, il liquido bianco ormai svuotato dalla sacca. Lentamente, mi alzai tenendo gli occhi chiusi per frenare il leggero capogiro che mi aveva travolto e, con le uniche forze che mi rimanevano, mi alzai.
Mi diressi lentamente verso il letto di Annabeth, ogni passo come un ago conficcato nel fianco, ma deglutii e strinsi gli occhi facendomi forza fino ad arrivare sul suo letto e sedermi per recuperare un po’ di stabilità. Una volta calmo, aprii gli occhi e la guardai. I suoi occhi grigi erano di nuovo luminosi, le labbra schiuse in un’espressione di incredulità e forse imbarazzo che non riusciva a nascondere a causa delle guance che si stavano lentamente dipingendo di rosso, il corpo conservato sotto le lenzuola, il busto piegato e il peso sorretto solo dalle braccia che la aiutavano a restare seduta. Mi avvicinai a lei passando una mano fra i suoi ricci biondi, lisciando qualche ciocca e facendogliela ricadere sul viso. Il suo sguardo vagava ovunque ma non su di me, o sui miei occhi. Non mi rendevo molto conto di quello che stavo facendo, e forse era la stanchezza o lo shock o tutto quello che mi era successo in quegli anni, ma la avvicinai delicatamente a me e la strinsi. La strinsi con cautela ma con forza, aspettando che le sue mani piccole e calde si posassero sui miei fianchi. Quando appoggiò la fronte sulla mia spalla, io affondai il viso tra i suoi capelli che profumavano di camomilla, accarezzandole meccanicamente la schiena e cercando, nella mia testa, le parole giuste da dire.
- Mi dispiace, Annabeth – mormorai. – Avrei dovuto stare più attento, starti più vicino, accorgermi prima, e invece.. Posso solo immaginare quanto ti sia sentita abbandonata e frustrata e arrabbiata e disperata e tutte le cose che avevi il diritto di provare durante tutto il tempo che sei rimasta legata a quella trave mezza rotta.. – le parole mi morirono in gola ma non ebbi bisogno di continuare perché la stretta di Annabeth, un po’ più forte, mi faceva capire che andava tutto bene, e che l’importante fosse che lei era lì e che io ero lì e che noi eravamo lì. Insieme.
Non credo che sarei comunque stato capace di resistere molto a lungo. Mi allontanai da lei quanto bastava per guardarla negli occhi, continuando a tenerle le mani sulle spalle e sentendo le sue mani che stringevano forte la mia maglia, sui lati. Avrei voluto mordermi un labbro ma era già abbastanza spaccato e non volevo peggiorare la situazione. Tutto ciò di cui avevo bisogno era curare le ferite di Annabeth, farle capire che il suo dolore poteva essere condiviso con me e che per nulla al mondo l’avrei abbandonata. Mai più.
Non mi resi conto che mi avvicinai al suo viso e posai le labbra sulle sue, quando lo feci. Sentii i muscoli delle sue spalle irrigidirsi di colpo e poi rilassarsi gradualmente sotto le mie mani. Abbassò le palpebre e chiuse le labbra sulle mie, lasciando che i graffi di entrambi si toccassero e venissero curati dalle labbra dell’altro. Il suo tocco era insieme leggero e forte, una pressione delicata ma pur sempre una pressione. Lentamente, la spinsi con le spalle verso il basso in modo da farla sdraiare, e la seguii sdraiandomi accanto a lei. Mi allacciò le braccia al collo e piegò la testa schiudendo le labbra nello stesso istante in cui io, un po’ titubante, facevo scorrere la lingua sulle sue ferite e la insinuavo nella sua bocca in modo da toccare la sua. Un brivido mi percorse tutta la schiena a quella vicinanza con lei, al suo corpo piccolo ma forte che si agitava sotto le mie mani, al contatto con sua pelle morbida quando feci scivolare le dita sotto l’orlo della sua maglietta, e capii, dal gemito che emise dal fondo della gola, che anche lei aveva voluto quel contatto con me da quanto lo desideravo io..
Le mie labbra si staccarono dalle sue e vagarono lungo tutto il suo viso, scendendo dalla mascella verso il collo dove indugiai, afferrando il più delicatamente possibile la sua pelle fra i denti e tirandola appena, sentendo i suoi mugolii che aveva inutilmente tentato di soffocare, abbracciandole la vita e tentando di restare in silenzio quando le sue unghie iniziarono a perforarmi la pelle nuda della schiena. Non sapevo quanto potevo spingermi in là ma sapevo quanto volevo.. Così, quando afferrai l’orlo della sua maglietta per sollevarla, la guardai come a chiederle il permesso, e lei mi guardò con i suoi occhi che si erano all’improvviso scuriti, come se il desiderio ne cambiasse il colore. Le sfilai la maglietta verde dell’infermeria lasciandola cadere a caso vicino a letto, avvinghiandomi a lei in modo che i nostri corpi aderissero perfettamente. La sentii trattenere il fiato quando le mie mani raggiunsero il gancio del suo reggiseno, giocandoci un po’.
- Posso? – le chiesi, con una sicurezza nella voce che stupì anche me. Il cuore mi batteva forte contro il suo petto ed ero sicuro che lei riuscisse a sentirlo. Annuì appena, e cominciai ad armeggiare con il gancio, litigandoci, senza riuscire a smuoverlo. Annabeth soffocò una risata e, senza riuscire a trattenersi, buttò la testa all’indietro prendendo a ridere convulsamente, un suono limpido e chiaro che mi scaldava il cuore. Allontanai le mani da quel maledetto gancio e finsi un’espressione offesa che non durò molto, finché anche io scoppiai a ridere assieme a lei. Quando, con le lacrime agli occhi, riuscimmo a fermarci, eravamo entrambi seduti sul letto. Non m’importava di non andare oltre, non m’importava di aver rovinato un momento di quel tipo con la mia idiozia, perché il calore che mi si stava espandendo dentro offuscava tutti gli altri pensieri, e il solo fatto di essere arrivato fino a quel punto con lei mi fece sentire vivo come non mai. Le presi le mani, guardandola negli occhi. Lei mi guardò di rimando, ancora col sorriso a fior di labbra e i capelli un po’ arruffati.
- Okay, davvero ci voleva tanto? – mi chiese lei alzando un sopracciglio, ma senza cancellare il sorriso dal suo volto.
- No, sul serio, ma mi ha visto? Riesco a fare a botte con un gancio! Figurarsi se non ci mettevo tanto a darti un bacio – le misi il broncio. Lei rise di nuovo, scuotendo la testa.
- Io ho visto che riesci a fare a botte con mostri, esseri umani e dei, ma che ci metti anni per riuscire a baciare una ragazza. Non è che sei un po’ gay? – mi chiese con la testa piegata di lato, un’espressione curiosa sul volto.
- Ma vaffanculo, Annabeth! – risi, stringendola a me e baciandola di nuovo, sentendo il suo sorriso sulle labbra.

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Capitolo 10
*** X ***


Dopo una rapida doccia, una sostanziosa cena in infermeria in compagnia di Annabeth e Talia e un sonno di 10 ore mi sentii assolutamente meglio.
- Fai veramente schifo – mi canzonò Annabeth il mattino dopo, guardandomi ingozzare la colazione con disgusto.
- Sono un uomo! Ho bisogno di più proteine! – protestai ingollando un cornetto.
 - Scusa hai anche intenzione di pranzare? – mi domandò inorridita.
- Naturalmente! Ho anche bisogno di carboidrati! – esclamai, raggiante.
- Non vorrei essere ripetitiva, ma fai schifo – ripeté lei, strappandomi un sorriso (che non credo fosse venuto molto bene visto la quantità di cibo che avevo in bocca).
- Mi sento un po’ il colpa – mi disse, all’improvviso. La guardai senza capire, pensando stesse ancora scherzando su quanto mangiavo, ma il suo sguardo era serio, anzi, triste, e puntato verso il basso. I suoi capelli biondi ricadevano davanti al viso catturando i raggi del sole che filtravano dalle finestre.
- Cioè, per Talia. È l’amica femmina più vicina che ho.. oltre che l’unica – specificò – e non le ho detto niente di noi due ieri sera nonostante ne avessi avuto tutto il tempo. Anche se glielo dicessi oggi, si arrabbierebbe perché avrei potuto farlo prima. Non vorrei pensasse che non mi fido di lei… - sospirò, scuotendo leggermente la testa.
Posai la mia tazza di latte e mi voltai verso di lei, serio.
- Glielo diciamo insieme. Oggi. – esordii, suscitando in lei sorpresa. Mi guardò con i suoi grandi occhi grigi spalancati come se non potesse credere che avrei voluto far sapere a qualcuno di quello che era successo fra me e lei.
- Tu vuoi.. Vuoi davvero.. – balbettò, incapace di mettere insieme una frase, e io sorrisi perché era la prima volta che le succedeva una cosa simile.
- Certo. Anche perché così gli altri sapranno che non dovranno provarci con te, no? Anche se probabilmente deluderò le mie fan.. – sospirai in maniera teatrale, e riuscii a farla ridere. Quel suono mi scaldava il cuore.
Annabeth aprì la bocca per rispondere ma non seppi cosa voleva dirmi perché Talia (credo che lo faccia apposta) entrò nella stanza in quel preciso istante, un sorriso raggiante a incoronarle il volto e i capelli tirati all’indietro che mettevano in risalto i suoi occhi blu.
- Buongiorno malati. Porto buone nuove! – esclamò attraversando la stanza a grandi passi, brandendo un paio di fogli in mano. No, non fogli. Lettere. Lettere?
- Leggete questi e vedete di guarire in fretta, non  potete assolutamente mancare!  - quasi urlò dall’eccitazione, sedendosi sul letto di Annabeth che stava già strappando la lettera.
- Gentili mezzosangue/satiri/creature non citate stabilite al Campo Mezzosangue – cominciò Annabeth – siamo felici di informarvi di un evento inedito che vedrà quest’anno solo la sua prima edizione, nella speranza che l’iniziativa venga portata avanti nell’anno. Il giorno 20 di questo mese si terrà nella zona della mensa (appositamente allestita per l’evento) un grandioso banchetto seguito da un ballo, cui signore e signori potranno avere accesso solo se abbigliati adeguatamente e accompagnati da un partner. Vi esortiamo a partecipare numerosi all’iniziativa. Con sincero orgoglio, Amministrazione del Campo Mezzo sangue. – Quando terminò di leggere la sua fronte era aggrottata e io ero effettivamente molto confuso, ma Talia era raggiante.
- Non è fantastico? Un ballo per soli semidei! Una possibilità di svago tra tanta fatica e innumerevoli allenamenti! – disse con voce acuta e sognante.
- Ehm.. Che significa “abbigliati adeguatamente”? – domandai, ancora incerto su come prendere la notizia.
Talia alzò gli occhi al cielo, improvvisamente disperata.
- Significa in maniera elegante, testone. – mi canzonò accigliata, facendo ridere Annabeth.
- Percy con lo smoking! – stentò, ridendo fino a tossire e trascinando Talia con sé.
- Non voglio sembrare un pinguino! – protestai, gonfiando le guance e stringendo i pugni, anche se non potevo essere preso sul serio con quella faccia.
- Okay, okay.. Ma nessuno di noi ha un vestito elegante, come si fa? – intervenne Annabeth dopo il suo accesso di risatine che le aveva fatto arrossare le guance.
- Quel problema è già stato risolto – ci rivelò Talia sorridendo – Percy, Tyson tornerà per l’occasione e ti porterà il tuo abito.. Per quanto riguarda te Annabeth, il tuo è già nella mia stanza! -
L’organizzazione di Talia era quasi spaventosa, ma all’improvviso l’idea mi travolse e mi entusiasmò.
- Perfetto! Il 20 io e Annabeth ci saremo! – esclamai sorridente, contagiato da Talia.
- Ehm.. C’è un unico problema.. – sussurrò Talia grattandosi la nuca. – Oggi è il 20.
Sgranai gli occhi. Avevo ancora cerotti e fasciature dappertutto e non ero sicuro di reggermi in piedi per un’intera serata.. Per non parlare di Annabeth che era coperta di lividi e aveva ancora le labbra gonfie e visibilmente graffiate.
- Io non vengo al ballo in questo stato! – strillò Annabeth con quella voce acuta che le veniva solo quando era nervosa.
- Oh, figuriamoci. Ci penso io a sistemarti, voi pensate a riposare e prendere un po’ di nettare per riprendervi! Non accetto repliche. – Talia sfoggiò il suo tono anti-repliche, poi si rivolse ad Annabeth - Ti vengo a prendere verso le 6 di oggi pomeriggio – per poi spostare lo sguardo su di me – alle 8 in mensa. Puntuale! – scandì ogni sillaba come se volesse imprimerla a fuoco nella mia mente.
- Sissignore – dissi automaticamente.
- Ehm.. Talia.. – stavolta fu Annabeth a parlare. Il suo tono era incerto e la sua voce era scesa di diverse ottave, quasi un sussurro. Il colorito delle gote era ancora più acceso e lo sguardo vagava ovunque tranne che sul viso della figlia di Zeus.
- Io e Percy.. – e qui mi rivolse uno sguardo intimorito – dovremmo.. dovremmo dirti una cosa. -
All’inizio mi sentii di nuovo confuso come i minuti successivi alla lettura della lettera d’invito, ma poi ricordai, e l’espressione di Talia si fece cauta all’improvviso, come se non sapesse se insospettirsi o essere comprensiva. Probabilmente scorse del rossore anche sul mio viso, perché si accigliò.
- Che avete combinato? – ci chiese con tono grave, come se avesse deciso che dovevamo dirle qualcosa che l’avrebbe fatta arrabbiare.
Mi avvicinai tremante ad Annabeth e le presi la mano, intrecciando le dita alle sue per infonderle conforto e sicurezza. L’espressione guardinga di Talia vacillò per qualche secondo, per poi spegnersi definitivamente e lasciare spazio a un sorriso largo da un orecchio all’altro.
- Incredibile! Percy Jackson, tre volte eroe e protagonista di un’antichissima profezia riesce finalmente a baciare una ragazza. Dovrebbero renderlo pubblico! – sollevò le braccia al cielo nel pronunciare le parole e nonostante l’impulso di risponderle per le rime mi limitai ad esserle silenziosamente grato per averci evitato l’imbarazzo di dirle tutto.
- E’ quello che dico anche io! – esclamò Annabeth guardandomi euforica per poi rivolgersi all’amica – Percy Jackson sconfigge l’ennesimo nemico: il primo bacio! -
Talia scoppiò a ridere, assencondandola.
- Percy Jackson e Le labbra maledette – inveì ancora.
- Percy Jackson 2: L’impresa del ballo – disse a stento Annabeth, voltandosi dall’altro lato per non farmi notare che stava ridendo.
Talia ormai era piegata in due dalle risate (nemmeno si preoccupava di nascondersi) ma riuscì a continuare a infierire.
- Percy il Pinguino -
Beh ne avevo abbastanza.
- La volete smettere? – urlai, lanciando un cuscino in testa a entrambe per zittirle. Annabeth mi lanciò un’occhiata di traverso nemmeno troppo convincente, ma lo sguardo di Talia mi fece immediatamente pentire di ciò che avevo appena fatto
- Oh.. Oh Jackson, sei fottuto. – ruggì e, dopo aver afferrato un altro cuscino, mi colpì in faccia talmente forte da tirarmi la testa indietro.
- Vuoi la guerra, Grace? – proposi in tono di sfida, afferrando il cuscino di un letto vuoto. – E guerra sia.

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Capitolo 11
*** XI ***


L’intensissima guerra di cuscini durò decisamente più del dovuto dato che, quando eravamo finalmente esausti, ci rendemmo conto che erano le 6 passate. Talia diede di matto perché continuava a urlare che non ce l’avrebbe fatta a prepararsi e a preparare anche Annabeth e fuggì e più non posso – portandosi dietro anche la mia ragazza.
Dopo aver fatto una doccia per levarmi di dosso il sudore causato dalla battaglia appena finita, misi la classica tenuta del campo Mezzosangue e uscii a fare una passeggiata. Il sole cominciava a toccare le morbide colline che delimitavano il campo, tingendo il cielo di rosa, arancio e oro. Attraversai tutto il cortile principale e diedi uno sguardo alla mensa, notando alcune ninfe che addobbavano il posto per la sera. Mentre passeggiavo, assorto nei miei pensieri, sentii un grido provenire da qualche parte, ma un grido ovattato, come se provenisse da molto lontano. Mi fermai ad ascoltare ancora, ma non sentii nulla, così sollevai le spalle credendo di essermelo immaginato. Mi ricredetti nell’istante stesso in cui venni travolto da qualcosa di indistinto ma enorme. E molto, molto pesante.
Rotolai (anzi, rotolammo) lungo tutto il fianco della collina che stavo risalendo, sbattendo sui sassi e spargendo le foglie cadute dappertutto. Quando arrivammo a valle, mi mancava il fiato.
- Fratello!! – esclamò una voce gioiosa e profonda proprio sopra di me.
Quando riuscii ad aprire gli occhi, una sagoma dai lineamenti confusi si presentò al mio campo visivo. Lentamente, man mano che mi riprendevo dalla caduta, distinsi un corpo massiccio ed enorme, una faccia tonda e rossa, capelli castani arruffati e due occhi.. No, un occhio. Un enorme occhi completamente castano senza la pupilla. Accanto a lui, un’enorme macchia nera punteggiata di rosso che si rivelò essere la signora O’Leary, che sbavava su una pallina rosa shocking che faceva uno sgradevolissimo rumore ogni volta che veniva toccata. Non so se ero troppo ammaccato per farlo, ma sorrisi, o comunque pensai di farlo.
L’espressione di incontenibile felicità di Tyson si trasformò in un’espressione di orrore e preoccupazione quando finalmente si rese conto di avermi investito in pieno e che avevamo appena rotolato per mezza collina (proprio quando mi stavo per riprendere dalla battaglia sulla Principessa Andromeda).
- Fratello! Stai bene? Ti sei fatto male? Tyson non voleva fare male! – esclamò disperato,mentre il suo occhio si riempiva di lacrime. Fantastico. Mi sollevai, mettendomi seduto e controllando di non aver riportato altre ferite o botte, poi gli diedi una pacca sulla spalla.
- Ehi, è tutto ok Tyson. Sono felice di vederti. Ma come sei arrivato fin qui? – gli chiesi, visto che non l’avevo visto arrivare dall’ingresso sulla collina dell’albero di Talia. Il suo sorriso a 47 denti gialli e scheggiati si riaprì in un’espressione nuovamente contenta.
- Tyson ha viaggiato nell’ombra con la signora O’Leary. Ci siamo divertiti! – battè le mani e io scossi la testa divertito, sinceramente contento di averlo di nuovo lì con me. Guardai con affetto il segugio infernale che in tutta risposta scodinzolò, e notai un pacco legato alla sua schiena.
- Tyson, cos’è quel pacco appeso alla schiena della signora O’Leary? – domandai di nuovo, incuriosito, mentre lui mi aiutava a rimettermi in piedi.
- Oooh! Quelli sono i vestiti di Percy e Tyson per la grande festa di stasera! – mi rivelò lui con tono fiero, come se gli fosse stata affidata la missione di riportare la folgore a Zeus o qualcosa del genere. Non ebbi tempo di aggiungere nulla, perché subito mio fratello mi agguantò per il braccio e mi tirò, dirigendosi, seguito dal segugio,verso la mia – la nostra – cabina.
- E ora andiamo a prepararci! Tyson vuole essere bellissimo! – cantilenò trotterellando, mentre il mio stomaco cambiava completamente direzione per gli strattoni di Tyson.

- Le ragazze non scherzavano quando mi chiamavano pinguino – gemetti, guardandomi di spalle allo specchio e cercando di sistemare la giacca in modo che non sembrasse il manto di un qualche animale artico. La camicia bianca era troppo grande sul collo e sistemare la cravatta blu scuro (lo stesso colore del resto del vestito) era stata un’impresa.
- Tyson dice che Percy sta bene! – esclamò col suo vocione mio fratello, dandomi una pacca sulla schiena talmente forte da farmi quasi sbattere contro lo specchio.
- Ooooff.. Grazie amico – borbottai tentando di non ingoiarmi i polmoni e riprendere fiato. Quando ripresi il controllo del mio respiro, controllai anche l’ora: le 7:45.
- Penso che dobbiamo andare, Tyson. Se non arrivo in tempo Talia mi scanna, e lo fa. – osservai, dirigendomi verso l’uscita della cabina, seguito da Tyson.
Quando uscimmo, trovammo diversi semidei vestiti elegantemente come noi davanti alle loro cabine, intenti ad uscire o ad aspettare altri loro fratelli o sorelle. Il caos maggiore era davanti alla cabina di quelli di Afrodite che quasi si prendevano per i capelli perché una aveva rubato il vestito all’altra o si era sistemata meglio dell’altra. Fuggimmo più velocemente possibile da quelle assurdità.
Arrivammo poco dopo nel luogo della mensa, allestito squisitamente: tavoli coperti da eleganti tovaglie dorate, con nervature che rappresentavano gli dei, imbanditi di ogni tipo di cibo disposto a formare i simboli degli dei stessi – ciliegie disposte a forma di civetta per Atena, prosciutto a forma di cinghiale per Ares e così via. Alle colonne erano appesi festoni e per aria fluttuavano lumini che diffondevano una soffusa luce bianca nel crepuscolo che precedeva il buio della notte. Già diversi semidei erano raccolti lì, parlottando del più e del meno. Vicino a una delle colonne, Chirone sfoggiava il suo miglior gilet.
Vagando con lo sguardo per la sala, cercavo Annabeth e Talia, ma non sembravano essere ancora arrivati, così io e Tyson ci sedemmo su uno dei tanti divanetti rossi disposti a quadrato con un delizioso tavolino di legno al centro, prendendo a chiacchierare con alcuni di Ermes.
Tempo 10 minuti di pace e relax, e poi mi sentii tirare da una mano ossuta ma forte, che mi fece quasi scivolare dall’altro lato del divano. Talia, appena dietro di me, mi guardava male. Mi rimisi in piedi facendo il giro del divano e mi posizionai davanti a lei, incrociando le braccia al petto, e guardandola. Indossava un abito bianco a tubino a giro, le spalle coperte da uno scialle sottile e dei sandali gioiello aperti col tacco. Una collana a girocollo di oro bianco spiccava per la pietra incastonatavi al centro, che sembrava catturare tutta la luce circostante. Gli orecchini, dello stesso materiale, mandavano un bagliore argenteo e oscillavano ogni volta che la sua testa si muoveva. I bracciali che aveva al polso – migliaia, probabilmente – scintillavano e tintinnavano in continuazione, i suoi capelli neri erano legati in una treccia che scendeva sulla spalla, ornati da strane forcine luminose, il trucco molto scuro.
- Sono arrivato anche in anticipo! Perché mi hai strattonato in malo modo? – le chiesi infastidito.
- Percy, io ti strattonerò sempre in malo modo, non importa come ti comporti – mi rispose lei, evasiva e piuttosto indifferente. Sospirai, cercando di mantenere la calma, o piuttosto di ritrovarla, mentre lei e abbracciava Tyson. Ero talmente nervoso che neppure notai Annabeth che mi salutava, appena di fronte a me. Quando alzai lo sguardo su di lei, tutta la mia rabbia si dissolse. In compenso, credo che ingoiai il cuore.
Indossava un meraviglioso vestito color indaco lungo fino ai piedi senza spalline, che le fasciava alla perfezione il corpo fino alla vita per poi scendere morbido dalle gambe in giù. Aveva uno spacco sul davanti della gonna, coperto da un sottile strato di stoffa più leggera, blu-trasparente con alcuni luccichini incastonati. La stessa stoffa formava una sorta di maglioncino sopra le sue spalle, lungo fino alle cosce, con le maniche terminanti a metà del bicipite e tenuto da una cintura a fasce oro e blu che le stringeva la vita; le scarpe erano dei tacchi classici, non troppo alti, dello stesso blu. Portava un bracciale spesso al polso sinistro e una sottile collana d’oro e degli orecchini uguali. I suoi capelli erano raccolti in un’elegante acconciatura alta che lasciava qualche ciocca ad incorniciarle il viso. Il suo trucco era leggero e piacevole e risaltava i suoi grandi occhi grigi, che sembravano risplendere in quella flebile luce.
Annabeth mi guardò preoccupata e divertita allo stesso tempo, sventolandomi una mano dalle dita sottili davanti al viso per farmi riprendere. Non mi ero nemmeno accorto che avevo spalancato la bocca e irrigidito tutti i muscoli.
- Sei bellissima – mormorai con voce soffocata, deglutendo a vuoto.
Lei rise, divertita dalla mia reazione, e mi prese delicatamente per mano come per farmi calmare.
- Okay Testa d’Alghe, ora richiudi quella bocca e recupera un’espressione umana – mi rimproverò sorridendo e trascinandomi sul divano accanto a Tyson e Talia.

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Capitolo 12
*** XII ***


La serata fu molto piacevole, tra scherzi e risa con Annabeth, Talia e Tyson e tra un’abbuffata di quelle meraviglie esposte sui tavoli  la cena passò molto in fretta. Troppo in fretta, continuavo a ripetermi, mentre sgombravano il terreno da tavoli e divani per fare spazio per il ballo. Cominciai a pensare che avrei dovuto pensare prima al fatto che non so..
- Ti va di ballare? – mi domandò timidamente Annabeth, stringendo la mia mano nella sua, calda e piccola, guardandomi con un’espressione imbarazzata e implorante. Ecco fatto. Temevo proprio che me lo chiedesse.
- Ehm, Annabeth.. Dovrei dirti una cosa.. – cominciai, pieno di vergogna, sentendo il sangue defluire alle mie guance e dipingerle di rosso, mentre mi grattavo la nuca cercando le parole. Lei, per tutta risposta, mi guardò con un’espressione dolce.
- Lo so che non sai ballare – mi disse solamente, lasciandomi di sasso. Sono inutile.
-
Però a chi importa? Mica è un Gran Ballo di Gala. E’ per divertirci! – cercò di tirarmi su, e ci riuscì. D’altra parte dovevamo inaugurare bene la prima edizione del ballo del campo, no?
Ci trascinammo in pista assieme a Talia e a Tyson, scatenandoci su pezzi dei Green Day o dei 3STM, ballando a caso e ridendo ogni volta che ci muovevamo. Dopo una buona mezz’ora, quando eravamo stanchi e accaldati e i capelli di Talia e Annabeth iniziavano a sciogliersi dalla loro acconciatura, misero un lento. Talia abbandonò definitivamente la pista e Tyson non si sentì bene per il troppo cibo ingerito. Io e Annabeth restammo soli.
- Beh.. Ultimo ballo? – mi chiese lei, sorridendo da un angolo delle labbra.
- Ultimo ballo – le risposi, sorridendo di rimando.
Allacciò le braccia al mio collo e io le avvolsi la vita con le mie. Cominciammo a muoverci lentamente da un lato all’altro, mentre io la guardavo affascinato e lei evitava il più possibile il mio sguardo, visibilmente imbarazzata.
- E’ stata una bella serata – esordii, più per rompere il silenzio. Riuscii a ottenere la sua attenzione e a far si che portasse il suo sguardo nel mio, poco prima di allungarsi e protendersi verso di me, per lasciarmi un bacio a fior di labbra. La mia mente tornò a quel giorno in infermeria, sul letto di Annabeth, e sentii le mie guance diventare ancora più rosse, anche per la rabbia di aver rovinato un momento di quel genere perché non riuscivo ad aprire un gancio. Ammetto che pensare a queste cose mentre avevo Annabeth, splendidamente vestita, proprio fra le mie  braccia, non faceva un gran bene al mio intelletto.
- Vorrei che fossimo soli – sussurrai, con lo sguardo basso, un po’ sperando di non essere sentito, pronunciando quelle parole prima di pentirmene. Vidi con la coda dell’occhio Annabeth sgranare gli occhi e schiudere la bocca in un’espressione di sorpresa e incredulità. Fece per dire qualcosa, ma la canzone finì e il signor D annunciò al microfono che il ballo era finito e potevamo, anzi, dovevamo tornarcene a dormire prima che lui potesse lanciarci non so quale maledizione.
Mi staccai da lei, ancora più in imbarazzo, e fui grato a Tyson quando si proiettò davanti a me, evitandomi di continuare ad ascoltare quel silenzio. Mi stritolò in un abbraccio mozzafiato per poi posarmi le mani sulle spalle con gli occhi lucidi.
- Tyson va, fratello. Papà ha bisogno di Tyson nel palazzo. – mi disse, con la voce rotta da un imminente pianto. Rimasi sorpreso. Non credevo se ne sarebbe andato così presto.
- Okay Tyson, tranquillo. Ci rivediamo presto, e salutami papà – gli sorrisi, posandogli una mano sulla spalla. Ci abbracciammo un’ultima volta, poi lo guardai sparire tra le ombre con la signora O’Leary.
- Torniamo insieme? – mi chiese all’improvviso Annabeth,come se non fosse successo nulla. Annuii, e ci incamminammo.
La passeggiata di ritorno fu molto silenziosa (e buia, dato che erano passate le 11 di sera), e quando arrivammo davanti alla cabina di Atena, Annabeth sembrò esitare.
- Qualcosa non va? – le domandai, un po’ preoccupato, sporgendomi verso di lei che mi dava le spalle, fissando la porta della cabina.
- Non avevi detto che volevi che fossimo soli? – mi rispose lei con un’altra domanda, con un filo di voce. Mi si mozzò il respiro e la mia mano cercò subito la sua, come fosse un riflesso incondizionato. La voltai verso di me e la baciai a lungo, pressando le mie labbra sulle sue. Lei rispose al bacio stringendomi in un abbraccio talmente forte che mi permise di sentire il battito del suo cuore. Quando mi allontanai, le sue guance erano rosse.
- Non mi va di dormire qui stanotte – mi disse solo, accigliata. Io non potevo credere a quello che stava succedendo, ma le presi delicatamente il braccio, portandola con me verso la mia cabina. Il mio cuore batteva all’impazzata e non ero sicuro di cosa stavo facendo. Tutti i miei sensi erano offuscati. Ma perché mi sentivo così? Si trattava solo di dormire insieme per una notte. Lo avevamo fatto tutte le volte che eravamo insieme in un’impresa. Cosa c’era di diverso? Stavo pensando troppo in grande?
Il resto delle domande mi morì in testa quando chiusi la porta della cabina e accesi la luce per vedere meglio. Annabeth si guardò intorno e si sedette sul mio letto, cominciando a frugare nella sua pochette blu. Cercò un po’, infilando il braccio nella borsa fino a metà (un’altra borsa magica, immaginai) e tirò fuori un semplice pigiama grigio che faceva pandan con suoi occhi. Si tolse il maglioncino leggero e lo appoggiò su una sedia, poi mi guardò. Ero rimasto immobile da quando eravamo entrati in cabina, così scrollai la testa e mi avvicinai a lei, un po’ titubante, sedendomi al suo fianco sul letto. La sua mano sfiorò la mia e io intrecciai le mie dita alle sue, riuscendo finalmente a trovare il coraggio di guardarla negli occhi. Lei mi sorrise e, in contemporanea, io mi sporsi verso di lei e lei mi avvicinò a sé tenendomi per la nuca. Fu un bacio lento e languido, durante il quale istintivamente avvicinai il corpo al suo, facendo scorrere le mani lungo la sua schiena. Le sue mani si ancorarono ai miei capelli e sentii il mio autocontrollo abbandonarmi. Le mie dita, intorpidite, raggiunsero la zip del suo vestito e l’abbassarono lentamente, mentre Annabeth rabbrividiva contro il mio corpo. Il vestito scivolò sulla sua pelle fino alla vita, ma io la distesi con cautela sul letto in modo da sfilarlo per intero, lasciandola in intimo. Le sue mani scesero dai capelli al collo alle spalle per poi togliermi la giacca e la cravatta, cominciando a sbottonarmi la camicia mentre io ricominciavo a baciarla. Sentivo il suo respiro sulle labbra gonfie e i suoi gemiti repressi in fondo alla gola mentre mi sfilava finalmente la camicia e mi sbottonava i pantaloni. Giuro che non capivo più nulla. Le mie mani, gentili, continuavano ad esplorare il suo corpo e a tastare la pelle morbida della sua schiena fino ad arrivare al gancio del reggiseno. Ero piuttosto deciso a non litigarci ancora. Cercai di individuare il punto d’attacco e (conquista!) riuscii a sganciarlo. Annabeth si premette contro di me e stavolta,per chiederle il permesso, la guardai. I suoi occhi grigi mi scrutarono per un tempo decisamente troppo lungo e, quando annuì, lasciai uscire il fiato che non mi ero accorto di trattenere. Il suo corpo si scostò dal mio solamente il necessario per sfilarle il reggiseno mentre sentivo la pelle d’oca sulle braccia. Ci liberammo piuttosto in fretta anche del resto e senza prevederlo ci trovammo stesi sul mio letto, ansanti e senza vestiti, desiderosi l’uno dell’altra. Le mie labbra vagarono lungo il suo viso e scesero suo collo dove lasciarono diversi marchi, per fermarsi fra le clavicole, che carezzai lentamente con la lingua. Quando Annabeth affondò le unghie nella mia schiena strappandomi un gemito di dolore non ci vidi assolutamente più. Mi feci strada in lei lentamente, attento a non farle male mentre i suoi mugolii riempivano la stanza crescendo gradualmente d’intensità. Ricoprii il suo corpo col mio e ci abbandonammo totalmente l’uno all’altra, dimenticando il resto del mondo, dimenticando la guerra, le minacce, i pericoli che ancora dovevamo affrontare. Dimenticammo i nemici, i dolori, le lacrime che avrebbero avuto una spalla su cui adagiarsi, finché c’eravamo l’uno per l’altra. Dimenticammo la vita prima di incontrarci e gli ostacoli che avrebbero potuto farci tornare a quella vita grama e triste. C’eravamo solo noi due, e questo bastava. In quel momento, ho sperato con tutto me stesso che sarebbe bastato sempre.
Quando, stanchi e ancora ansimanti, avvinghiati sotto le lenzuola nel buio della notte, i miei occhi incontrarono i suoi, vidi in essi accesa una luce di cui prima di allora erano sempre stati privi. E mi resi conto che non volevo che quel luccichio l’abbandonasse.
- I tuoi occhi.. – sussurrai, sfiorando le mie labbra con le sue.
- Cosa? – mi chiese con voce roca, aggrottando le sopracciglia in un’espressione squisita.
- Brillano. Voglio salvare la loro luce. – le dissi solamente, e dopo un ultimo bacio, Morfeo ci accolse fra le sue braccia.

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