Capitolo 3
Parcheggiò la
macchina proprio davanti al cancello. La casa in cui era
cresciuta le mancava moltissimo, ma non ci poteva fare nulla.
Stava per scendere,
ma il mal di testa che l'aveva accompagnata per tutto
il viaggio, era diventato insopportabile. Inclinò lo schienale alla
ricerca di
una posizione più comoda. Appena chiuse gli occhi, un ricordo
indesiderato
bussò alla sua mente. Era passato già qualche tempo da quel litigio, ma
non era
riuscita a dimenticare. Le parole di suo padre le rimbombavano ancora
nelle orecchie.
«Devi abortire. Adesso.»
Come allora, una
sensazione di nausea le salì in gola. Anche solo
immaginarlo le faceva venire i brividi. Come avrebbe potuto farlo? Era
il suo
bambino, una parte di lei della quale non sarebbe stata in grado di
sbarazzarsi
come un sacco della spazzatura.
Scosse la testa per
spazzare via quelle immagini, ma non servì a nulla. La
voce di sua madre non le abbandonava la mente.
«Non accetterò mai
questo bambino. Mai. Se non te ne liberi, non sarai più
nostra figlia.»
«No, mamma, siete voi
a non essere più i miei genitori. Né ora, né mai.» Detto
quello, se n’era andata sbattendo la porta e ora… Ora era qui, con il
cuore in
gola e la testa che non aveva ancora smesso di pulsarle.
Non voleva
abbandonare quell’ambiente poco ostile, ma doveva sapere ciò che
era successo a sua sorella. Rosaleen era la persona che più la capiva e
che le
voleva bene al mondo. La sua perdita l’aveva segnata molto. I suoi
genitori
erano riusciti a darle la colpa pure di quello.
Aprì la portiera,
decisa a entrare a testa alta, senza rimpianti. Si
sistemò il vestito e s’incamminò verso il portone. Era morbido, ma un
po’
attillato per sottolineare la pancia che cominciava a farsi vedere.
L’aveva
fatto apposta. Era fiera della sua condizione e non voleva farne un
segreto.
Suonò il campanello e
prese un respiro profondo. Quando la porta si aprì,
il viso tirato di sua madre le spazzò via tutta la sicurezza di prima.
Ora che
era davanti ai suoi occhi, non riusciva a essere fredda e distaccata.
Si
sentiva in colpa per quello che aveva detto l’ultima volta, ma non era
stata
l’unica a dimenticare cosa fosse la gentilezza. Anche i suoi genitori
l’avevano
fatta grossa.
«Ciao, mamma.» Non
aspettò l’invito a entrare. Varcò la porta e si diresse
verso il salotto. Lanciò un’occhiata a suo padre e si accomodò sul
divano di
fronte a lui, un sorriso zoppicante in viso.
Impassibile come
sempre, la guardava con fare curioso e l'occhio gli cadde
sulla mano appoggiata sul ventre. Accennò un sorriso veloce, ma che fu
percepito lo stesso dalla figlia. Si stupì di quel gesto, ma non ci
fece troppo
caso perché era troppo presa dalla casa. Rosaleen era dappertutto, le
sue foto
avevano invaso quasi tutte le superfici. Quello che la sorprese davvero
erano
le sue foto insieme a lei, quelle che dopo la litigata aveva buttato.
Era come
se... No non capiva più niente.
«Reeya, come
stai? Sono felice di vederti e di sapere
che stai bene...»
La ragazza si girò di
soprassalto colta di sorpresa.
«Mmh… Grazie…» Si
sistemò i capelli, un po’ imbarazzata. «Anche voi non
sembrate stare male.»
Non l’avrebbe dovuto
dire. Sua madre si sedette vicino a lei e cominciò a
piangere in silenzio, lo sguardo basso. Da quando era entrata non
l’aveva
guardata in faccia neanche una volta.
«Mamma…»
«Sareeya.» Suo padre
si alzò e si perse a guardare una delle tante foto.
«Sì, papà?» La sua
voce cominciò a tremare. Si sentiva come sull’orlo di un
precipizio, sul punto di cadere e sparire per sempre.
«Mi dispiace.»
La giovane lo guardò
meravigliata. Era la prima volta che sentiva quelle
due parole uscire dalla sua bocca. Cercò di dire qualcosa, ma non
sapeva cosa.
Rimase quindi in attesa.
«Ti ho incolpato
ingiustamente.» Si girò e la fissò negli occhi. «Rosaleen
aveva un cancro al cervello.»
«Cosa?» Come poteva
essere possibile? Non ne sapeva nulla.
«Volevamo dirti
tutto, ma lei aveva preferito non rivelarti niente. L’aveva
scoperto durante la gravidanza e l’aveva tenuto nascosto a tutti. Poi…»
Prese
un respiro profondo. «… quando aveva perso il bambino, si era arresa e
non
aveva voluto fare quella dannata operazione.»
Sua madre singhiozzò.
«Ci dispiace tanto, Reeya. Avevamo paura che la
stessa cosa potesse succedere anche a te. Non vogliamo perderti.»
Sareeya chiuse gli
occhi. Ora cominciava a capire. La testa le scoppiava
ancora, ma il cuore si sentiva un po’ più leggero. Asciugò una lacrima
che era
sfuggita al suo controllo e sorrise.
«Dopo il rifiuto e la
litigata con te ha cominciato a peggiorare a vista
d'occhio e non c'era nulla che la facesse stare meglio, così abbiamo
finito per
addossarti la colpa, nonostante lei ci dicesse sempre che tu non avevi
fatto
niente. Noi sappiamo che non è colpa tua e te lo avremmo voluto dire un
secondo
dopo le brutte parole che ti abbiamo urlato contro quella sera.»
«Perché mi volevate
far abortire?»
Sua madre a quella
domanda non riuscì più a dire nulla perché iniziò a
piangere.
«Vedi, la paura
inconscia che ti potesse succedere la stessa cosa ci aveva
talmente spaventati che pensavamo solo a quanto quel bambino le avesse
fatto
male e non volevamo che riaccadesse tutto di nuovo.»
«Reeya,
non per cambiare discorso ma
per cosa avete litigato?»
«...
Beh... di una cosa stupida. Il
giorno prima Andrew e io avevamo litigato e lei mi ha spronato a non
abbattermi
in modo quasi aggressivo, talmente aggressivo che io me la sono presa e
ho
cominciato a urlarle contro.»
I suoi genitori si
zittirono. Non sapevano cos’altro dire. Guardarono la
giovane, in attesa di un qualcosa che neanche loro sapevano definire.
Sareeya sospirò
piano, cercando di mandare via dalla mente quello che aveva
detto sua sorella. Si pentiva ancora, soprattutto perché erano state le
sue
ultime parole.
Si morse un labbro e
si arrese al ricordo. Era una lontana giornata di
inizio inverno ed era passata a trovare Rosaleen per un saluto e per
sfogare la
rabbia che provava verso Andrew. L’aveva vista così bella e in salute.
Non
poteva assolutamente immaginare quello che sarebbe successo dopo.
Voleva
fermarsi qualche minuto, ma si era trattenuta più del necessario. Se
solo non
l’avesse fatto.
«Non piangere, Reeya.
Non se lo merita, non credi?» La sua voce era stata
così dolce e gentile.
«È più forte di me,
Rosie. Questa volta l’ha fatta grossa. Sto così male.» le
aveva risposto tra un singhiozzo e l’altro.
Sua sorella si era
alzata dal divano e l’aveva abbracciata. Amava stare tra
le sue braccia, riuscivano a calmarla e a farle dimenticare ogni
problema. «Oh,
Reeya, Reeya.» Le diede una pacca sulla spalla. «Perché ti lasci ferire
così da
un semplice ragazzo? Perché non lo lasci?»
La giovane l’aveva
guardata meravigliata. «E perché dovrei? Senza di lui
non sono nessuno.»
«Da quando in qua la
mia sorellina si lascia mettere i piedi in testa? Non
ti merita, Sareeya. È inutile continuare a soffrire così.»
«Non mi lascio
mettere i piedi in testa.»
«No?» Il tono
sarcastico della sua voce le aveva fatto saltare i nervi.
«No.»
«Strano.» Rosie si
staccò da lei e ritornò sul divano. «A me non sembra. Ha
mai sofferto? Ti ha mai chiesto scusa? Ti ha mai cercata dopo ogni
litigata? Ti
ha mai…» Si bloccò con le lacrime agli occhi.
Reeya la guardò. «Sai
cosa? Non riesco a capire se stai parlando di me o di
te.» Si alzò, decisa ad andarsene.
«Sto solo dicendo di
non lasciarti distruggere da uno che non sa cosa sia
l’amore.»
«Stai tranquilla,
sorellina. Non tutti sono come Jake. E io non finirò mai
come te: sola e in attesa di un bambino che non è desiderato da
nessuno.» Era
arrabbiata. Tanto arrabbiata. Così tanto da dire una cosa che non era
assolutamente
vera. Ma allora era troppo accecata dalla rabbia per far funzionare il
filtro
del cervello. Le aveva lanciato un’ultima occhiata e le aveva voltato
le
spalle, diretta verso la porta. Poco prima di uscire, le ultime parole
di sua
dorella l’avevano fatta sentire terribilmente in colpa.
«Non dimenticare di
amare te stessa, sorellina.»
Aveva cacciato
indietro le lacrime e se n’era andata via, ignara che quella
sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe vista in vita.
«Reeya.» La voce di
sua madre la riportò alla realtà.
«Sì?»
«Cosa farai con il
bambino?»
«Lo terremo e
cresceremo.»
«Cresceremo? Tu e
chi?»
Sareeya sorrise
dolcemente. «Andrew e io.»
«Chi? Quel
disgraziato? Può scordarsi di prendere la mia bambina!» Suo
padre si era alzato in piedi, rosso in viso.
«Caro…»
«No, Helene… Non ci
penso nemmeno per sogno. È tutta colpa sua, l’hai già
dimenticato?»
«Papà…»
«Non lo accetterò
mai!»
«Papà…»
«È davvero un…»
«Papà!» Si alzò e lo
guardò negli occhi. «Ora basta. Ti ricordo che sono
adulta e vaccinata e decido io della mia vita. No, ora vorrei essere
ascoltata
io. Quello che è successo con Andrew è stato tutto un malinteso.
L’unica
colpevole è sua madre. Lui non ne può nulla, più o meno. E comunque,
sì, lo
cresceremo io e lui insieme. Punto.»
L’aveva detto tutto
d’un fiato e ora si sentiva meglio. L’uomo che l’aveva
cresciuta era rimasto senza parole. Si grattò il naso e si lasciò
ricadere sul
divano a fiori.
«Sono felice che
abbiate fatto pace.» Sua madre le prese la mano. «L’unica
cosa importante è che tu sia felice, Sareeya. »
La giovane sorrise.
«Grazie.» Qualcosa sfiorò l’altra mano. Era suo padre.
«Tua madre ha
ragione. Soprattutto, siamo felici che tu non sia sola e in
attesa di un bambino che non è desiderato da nessuno.»
A quelle parole,
sbarrò gli occhi, sorpresa. Di fronte ai visi sorridenti
dei suoi, scosse la testa e ricambiò, abbracciandoli. «Mi dispiace per
tutto. Siete
dei genitori fantastici.»
«Neanche tu sei male.»
Le due ore successive
passarono tra chiacchiere e allegria. Giunta l’ora di
tornare a casa, Sareeya si alzò e salutò i suoi genitori. «Grazie. Mi
siete
mancati tantissimo, soprattutto quando ho rischiato di perdere il
bambino.»
I visi dei due sbiancarono
all’istante. «Cosa?»
q
«Mi dica, dottore,
farà male?»
«No.» L’uomo le
sorrise enigmatico. «Non quanto quando metterà al mondo il
suo bambino.»
«I miei bambini. Sono
due, maschio e femmina.»
Il sorriso del
dottore si allargò e si preparò a metterle la flebo. Alla
vista dell’ago, Sareeya sgranò gli occhi. Istintivamente allontanò il
braccio.
«Ha paura di una
punturina?»
«No.»
«A me non s…»
L’ambulanza frenò all’improvviso, facendo sbilanciare l’uomo.
«Non mi abituerò mai a ‘sto coso.»
Le porte della
vettura si aprirono e un’equipe di infermieri la
trasportarono al pronto soccorso.
«Reeya!» Un Andrew
trafelato la raggiunse. «Tutto bene?»
«Sono ancora viva,
non preoccuparti. Non capisco perché hai insistito a
chiamare un’ambulanza.»
«Così saresti
arrivata prima all’ospedale, no?» Si chinò su lei e le stampò
un bacio sulla fronte. In quel momento, un infermiere gli indicò di
spostarsi.
«La preghiamo di
aspettare qui, signore.»
Rew lanciò un’ultima
occhiata a Reeya, prima che sparisse dietro le porte
d’acciaio dell’ascensore, con una strana sensazione nel cuore.
Un’ora dopo erano di
nuovo insieme, molto più tranquilli di prima.
«Mi raccomando,
riposo assoluto.»
«Certo, dottore.»
«Inoltre, stia
attenta allo stress. Uno dei due feti è più basso del
normale e se non presta particolare attenzione, potrebbe rischiare di
perdere
la gravidanza.»
Andrew divenne ancora
più bianco di quello che già era. «E tutto quel
sangue? È preoccupante?»
«Per ora no. È
causato dalla posizione del feto. È normale.»
«Normale… Non è stata
la caduta?»
«No, l’incidente non
ha provocato danni, ma anzi è stato d’aiuto per
scoprire questa situazione. Non preoccupatevi e stia a riposo. Contatti
anche
il suo dottore di fiducia.»
«Ok. Grazie mille. È
stato gentilissimo.»
Una volta rimasti
soli, Andrew la guardò preoccupato.
Sareeya sospirò. «Non
guardarmi così. Non è come la scorsa volta. Stai
tranquillo.»
«Lo spero. Sei stata
un’avventata ad andare a lavorare e non mangiare per
tutto il giorno.»
«Lo so, lo so. Questa
volta starò a letto tutto il giorno tutti i giorni.»
«Promesso?» Lui
sorrise.
«Promesso.» Lo prese
per la maglia e lo baciò con passione. Andrew rispose
e posò una mano sulla pancia.
«Ah, a proposito. C’è
ancora una cosa che non mi hai detto.»
«Quale?»
«Cosa intendeva
l’infermiera di oggi?»
Sarreya nascose un
sorriso. «Semplicemente le ho raccontato quello che è
successo con mia sorella e lei mi ha incoraggiata.»
«Capito.» Le carezzò
una guancia e la baciò.
«Ehm, ehm.»
Un colpo di tosse li
fece sobbalzare. Si staccarono e si voltarono verso la
porta.
«Mamma! Papà! Che ci fate qui?»
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