Dedo

di DK in a Madow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Diluvio. ***
Capitolo 2: *** Emozione ***



Capitolo 1
*** Diluvio. ***


Dedo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Diluvio

Parigi, Marzo 1917

In quella stanza, la quiete era dettata dal suo respiro.

Leggero, profondo, di sonno tranquillo. Dalle tende color avorio, la luce del sole filtrava come fili di lino, così sottile da sembrare il prodotto di un bel sogno. Quello che, molto probabilmente, lei stava facendo. Le guance tonde le si sollevarono colorandosi di rosa, con quell’espressione beata che solo i bambini riescono ad avere.

Perché, in fondo, era solo una bambina.

Sotto le coperte, si mosse piano, lasciandosi sfuggire un sospiro di disapprovazione non appena i suoi sensi tornarono a percepire il mondo reale, ormai svegli. Così, per paura di cambiare idea, rigirarsi nel letto e saltare un giorno di scuola, si sollevò di scatto e una ciocca dei suoi lunghissimi e incontrollabili capelli andò a finire sul naso pronunciato. Non se ne curò, mentre sbadigliava e si stiracchiava; spostò quei capelli solo quando si trovò di fronte allo specchio posto di fianco allo scrittoio, osservando la sua figura scura, poco esile e chiara per essere francese, ma si piaceva.

- Jeanne, svegliati!

- Sto scendendo! – urlò lei solo per farsi sentire, senza l’ombra di disapprovazione al richiamo della madre. Non sia mai.

- Onora il padre e la madre. – ripeté sottovoce – Come se fosse facile. – sospirò, per poi volgere lo sguardo alla finestra e andando a scostarne le tende. Fuori, Parigi esplodeva di colori. Sembrava che tutte le meraviglie del mondo si fossero catapultate nella capitale, come se avessero trovato, sotto quei tetti, il posto ideale in cui esprimersi, attraverso mani consumate dall’arte e sporche di vernice, proprietà assoluta di menti offuscate da vino, incubi e speranze.

C’est Paris, mon cher!

Tornò allo specchio, sistemando alla meno peggio quel groviglio assurdo di capelli che ormai arrivava ai fianchi e indossando qualcosa per tentare di essere presentabile, come avrebbe detto suo padre.

Scese giù, arrivando in cucina, situata in quello che era il quarto piano di un enorme palazzo abitato da famiglie alto-borghesi. Rispettabili, dignitose, ma soprattutto cattoliche! Suo padre si riservava la premura di ricordarglielo quasi ogni giorno, quando lei si presentava all’ora di pranzo col volto macchiato da una serie infinita di macchie di vernice, prodotto dei suoi studi all’Accademia Colarossi e merito di suo fratello (quello svitato, sempre suo padre) che la iscrisse lì dopo un breve periodo passato sotto gli occhi e le fantasie strambe di quel giapponese non tanto affidabile*. Fare la modella non le dispiaceva, le permetteva di entrare davvero in contatto con quell’arte che ora studiava seduta su sgabelli sui quali erano passati altri giovani come lei, convinti che l’arte si potesse studiare su un manuale e riportare sulla tela come una specie di schema, vuoto e privo d’emozioni. A lungo andare, però, restare immobile per ore di fronte a un uomo che tenta mille angolazioni, cambia i colori e cerca la luce perfetta, era diventato straziante. Così, ora si ritrovava nuovamente studentessa, ma lontana dal mondo da fiaba di Montparnasse. Lontana dall’arte.

- Mademoiselle Hébuterne! – la salutò la madre, non appena i suoi piedi superarono la soglia. Di fronte a lei, seduti al tavolo posto al centro della cucina tirata a lucido, i suoi genitori l’attendevano, la colazione ancora intatta. Niente di preoccupante, era una scena che si ripeteva ogni mattina più o meno da cinque anni, da quando il carattere di Jeanne iniziò a farsi sentire, come i tuoni in lontananza che annunciano un temporale. Eppure, quella pioggia liberatoria, tardava ad arrivare e non sarebbe mai scesa se prima non si fosse liberata di quella gabbia, formata più dai pregiudizi e dalle imposizioni genitoriali che dalle mura perfettamente bianche della sua casa.

- Mi domando quando inizierai a svegliarti ad un orario decente, figliola.

Figliola. Quel termine dolce suonava come uno sputo in bocca a suo padre.

- Papà. – sorrise lei, sedendosi a tavola e afferrando una fetta di baguette – Sai che a me basta essere in orario alle lezioni. – aggiunse addentandola – E comunque, bonjour!

- E vorrei sapere anche quando darai un taglio a quei dannati capelli. – continuò lui, iniziando ad infervorarsi, gli occhi della madre che saettavano dal marito alla figlia – Sembri una di quelle che scorrazzano per la Pigalle!

- Achille! – lo richiamò la moglie a denti stretti – Starai scherzando! – disse, come a voler prendere le difese della figlia che, invece, guardava il padre con occhi di sfida, portando un piede nudo sulla sedia e poggiando una guancia sul ginocchio, mostrando una gamba tonica che spostava la camicia da notte fino al grembo.

- E siediti composta! – esclamò lui, battendo un pugno sul legno del tavolo, gli occhi pronti a schizzare fuori dalle orbite, folli.

- È solo una bambina, mon cher!

- E smettila di difenderla, Eudoxie! – sputò fuori lui, lo sguardo di rimproverò che zittì la moglie, facendole abbassare la testa, gli occhi puntati sulla tazza colma di latte, ormai freddo.

- Padre. – sussurrò Jeanne sorridente, riportando entrambe le gambe sotto il tavolo – Dovresti sapere che arrabbiarsi di prima mattina fa male. – disse, allungando una mano sul tavolo per afferrare un uovo sodo e mordendolo senza un briciolo di grazia – E fa passare la fame! – aggiunse a bocca piena, prima di alzarsi da tavola e andare a stampare un bacio sulla guancia del padre, rimasto impietrito, incredulo di fronte alla solare insolenza della figlia che (e forse Eudoxie non aveva tutti i torti) in fin dei conti era davvero ancora una bambina. La guardò a bocca aperta, mentre spariva sulle scale, i capelli che ondeggiavano da una parte all’altra della schiena. Poi lei si chiuse dentro la sua stanza e velocemente iniziò a vestirsi. Non sarebbe rimasta un minuto di più in quella dannata prigione quella mattina. Avrebbe voluto urlare, piangere, far capire a suo padre che non si è una poco di buono solo perché si dipinge una tela, ma non le avrebbe creduto, nemmeno giurando davanti a Dio che nessun uomo aveva scostato l’orlo della sua gonna. Nemmeno quel depravato giapponese, col quale spesso era rimasta da sola, o il focoso spagnolo, o quell’altro italiano di cui non ricordava il nome, ma di cui aveva sentito solo parlare. Per suo padre, invece, la “sua” Jeanne non esisteva più e in casa sopportava quella che, secondo lui, era solo una sgualdrina, da maritare al più presto a qualche uomo col polso di ferro, ricco e cattolico.

- Dio, chiunque tu sia, liberami al più presto da tutto ciò! – sussurrò lei, volgendo per abitudine lo sguardo al crocefisso sopra il letto e, indossando la tracolla di cuoio e un cappello consumato, uscì per la seconda volta da quella stanza, assicurandosi di passare il più velocemente possibile di fronte all’uscio della cucina ormai vuota ma, appena arrivata alla porta d’ingresso, sentì una mano attorno al gomito. Sua madre.

- Jeanne.

- Mamma! – fece lei, raddrizzando il cappello.

- Mi chiedo quando imparerai … - esordì, ma la figlia le poggiò un indice sulle labbra. Sapeva cosa stava per dirle e non aveva intenzione di sentirselo ripetere.

- Papà deve farsene una ragione. Crescere non significa essere una poco di buono! – disse con tenerezza. Non le piaceva alzare i toni con la madre, poiché era stata sempre comprensiva con lei.

- Lo so, figliola, ma sai com’è fatto. – provò a dire, ma Jeanne la interruppe nuovamente.

- Lo so! – disse decisa – Ma ha già cambiato un Dio. Non vedo come non possa cambiare opinione su sua figlia!

- Non parlare così, Jeanne! – esclamò la madre sbalordita, ma senza l’ombra di rimprovero.

- Ci vediamo a pranzo, mamma! – sorrise la giovane, lasciandole un bacio sulla guancia – Sono in catastrofico ritardo!

- Come sempre. – sottolineò la madre, lasciandole un bacio sulla fronte, sotto il cappello. Poi guardò la figlia aprire la porta e che la salutava facendo muovere le dita, prima di vederla sparire con il più raggiante dei sorrisi illuminarle gli occhi.

In lontananza, sentì il rimbombare cupo di un tuono.

- Si bagnerà come un pulcino, disgraziata!

 

 

*

 

 

Un lieve grattare, fragile come la tela di un ragno. Nell’aria l’odore di vernice e pioggia, quella che batteva sui vetri delle finestre e quella che gocciolava dai capelli di Jeanne, seduta nell’ultima fila, posto riservato a chi arrivava in ritardo. Da lì era complesso disegnare il soggetto del giorno, posto al centro dell’aula, e solo i fortunati (o meglio, i meritevoli) arrivati in orario potevano permettersi il posto in prima fila.

A Jeanne, però, poco importava. Non per presunzione, ma aspirava a soggetti un po’ più interessanti della mela rossa lasciata sulla cattedra vuota. Così lasciò che il suo sguardo si perdesse tra i rami degli alberi del cortile dell’Accademia, osservando la rete fitta composta dalla pioggia, come la trama di una tela ruvida e ingrigita, che invece di risaltare i colori, li fa sbiadire.

- Mademoiselle Hébuterne!

È già la seconda volta, oggi! pensò.

- Sì Monsieur? – disse lei, voltandosi a guardare il suo insegnante, Monsieur Girard.

- Il soggetto è da questa parte! – esclamò, indicando la mela sul tavolo e facendo sogghignare i presenti.

- Lo so perf … - iniziò a dire, preparando una delle sue solite risposte velenose, ma venne interrotta bruscamente, così repentinamente che le sembrò di aver avuto una mano sulle labbra che le impedì di parlare. La porta dell’aula si era spalancata d’improvviso e ne era entrato un uomo completamente fradicio, affannato e, a quanto sembrava, non esattamente lucido. Si fermò un istante, stringendo gli occhi per guardare meglio dove fosse finito, e togliendosi il cappello dalla testa, si passò una mano tra i capelli bagnati.

- Bonjour! – disse, sfoderando un pesantissimo accento italiano e sollevando le ciglia con un’espressione buffa. A Jeanne ricordò un bambino, uno di quei mocciosetti che incontravi per le strade, tra le mani un sacchetto di monete e alle calcagna qualche oleoso e obeso banchiere, troppo lento e troppo idiota per stare dietro alla faccia furba del ladruncolo.

Jeanne non capì perché le diede l’impressione di un ladro. Non allora. Per il momento, le strappò solo un sorriso.

- Buongiorno a lei, Monsieur Modiglianì! – disse Girard, sconvolto.

- No, no, no! – disse lui, facendo oscillare un dito davanti alla faccia mentre si avvicinava all’insegnante – Si dice Modigliani! – fece, scandendo bene le parole e prolungando ironicamente le vocali – Non Modiglianì! – lo corresse, con un sorriso, prima di sfoderare una sigaretta, apparsa da chissà dove – Imparate a pronunciare bene il mio nome, monsieur, non sono tutti francesi sulla faccia della terra. – lo rimproverò infine, denti stretti attorno alla sigaretta e mani nelle tasche.

Jeanne lo fissava rapita, come se stesse assistendo ad uno spettacolo insolito ed irripetibile. Ecco come si chiamava. Modigliani! Il Maestro esiliato. L’italiano ubriacone e fuoco di molti letti francesi. Questo era tutto quello che sapeva di lui. Eppure, vedendolo così, le sembrò semplicemente geniale. Gliela leggeva nel sorriso l’arte, la scintilla. Le sembrò ancora più curioso quando, con occhi stretti, iniziò a muoversi per la stanza, il suo sguardo che si posava su ogni alunno in prima fila. Poi, prestò attenzione alla mela sul tavolo; così si sedette su di esso, afferrò il frutto e, dopo averlo fatto saltare nel suo palmo, lo portò alla bocca, addentandolo sotto lo sguardo scandalizzato dell’insegnante.

- Una mela! – disse, masticando a bocca aperta mentre le risate iniziavano a salire – Ai vostri alunni date da disegnare … una mela! – ma, a quel punto, la risata che superò le altre fu proprio quella di Jeanne, la quale rideva con una mano premuta sulle labbra e aspirando forte dal naso, gli occhi in lacrime mentre quelli dei suoi compagni si posavano su di lei, increduli.

Modigliani sorrise sotto i baffi e la guardò ridere, fino a quando non ebbe smesso, mordendosi le labbra.

- Ti faccio ridere? – le chiese.

Jeanne si sentì avvampare, nonostante nella voce dell’uomo non ci fosse ombra di rimprovero, ma semplice curiosità. E lei, che dell’infanzia conservava ancora la timidezza, annuì piano, portandosi le mani in grembo.

- Ho mangiato il vostro soggetto, che ci trovate di divertente? – disse lui, abbozzando però una risata di scherno che non piacque a Girard, che storse la bocca, offeso.

- Non era il mio soggetto. – rispose Jeanne, con un ghigno impertinente – Era solo una mela.

- E qual è il vostro soggetto, Mademoiselle? – chiese poi con voce profonda e roca, prima che questa fosse rotta da un colpo di tosse.

Jeanne non rispose, semplicemente mantenne quel suo ghigno, afferrando la tela che aveva di fronte con delicatezza e voltandola verso quella specie di pubblico improvvisato. Quando videro di cosa si trattava, le risate furono impossibili da trattenere per i presenti, tranne che per lo sconvolto Girard, il quale iniziò a balbettare parole di rimprovero alla vista del proprio “ritratto”.

- Mademoiselle Hébuterne! Come vi permettete! – gridò, puntando con un dito la propria testa pelata tramutata in una mela con le sembianze di un volto, con tanto di occhiali sul naso ed espressione arcigna.

- Suvvia, non prendetevela così tanto. – lo interruppe Modigliani – La signorina ha dato un’espressione diversa al soggetto! – disse, sventolando il torsolo della mela e lanciandolo alle proprie spalle, mentre non staccava per un secondo i propri occhi neri da quelli di Jeanne, la quale continuava a tenere il suo sguardo di sfida e un ghigno malefico.

Poi, la campanella annunciò la fine delle lezioni e Modigliani fu il primo ad abbandonare la stanza.

 

 

*

 

 

- Ottimo lavoro!

Jeanne sobbalzò, inchiodando.

- Maestro! – disse, spaventata, trovando dietro le proprie spalle Modigliani, sigaretta tra le labbra e capelli neri ormai asciutti.

- Oddio, no! Chiamami Modì! – disse, portandosi le mani sui fianchi con fare plateale – Tu sei testa di cocco**, vero? – domandò, stringendo gli occhi.

- Come fate a saperlo? – chiese lei sconcertata, ma la risposta gliela lesse negli occhi – Foujita!

- Sì, Nippo! – sussurrò facendo oscillare la sigaretta stretta tra i denti e roteando gli occhi – Dio solo sa se quell’uomo sa tenere a freno la lingua. – disse lui con tono provocante, ma quando guardò negli occhi di Jeanne trovò solo un profondo disorientamento. In altre donne avrebbe trovato malizia, sporcizia. Gli occhi di Jeanne, invece, erano campi di grano spazzati dal vento – Ti trovi bene qui? – le chiese poi, portando la sigaretta tra le dita.

- Voi che ne dite? – chiese lei, sollevata di potergli finalmente rispondere.

Non rispose. Anzi, sollevò le spalle – E chi lo sa cosa passa per la testa di una ragazza! – le sorrise, con tenerezza. La disarmò. Poi lui piegò la testa da un lato, il cappello tremò per un secondo ma non cadde. Osservandola, sembrava riflettere, quasi come se stesse cercando l’angolazione giusta che gli avrebbe dato l’esatta visuale sui suoi pensieri, fino a fargli dire: - Ma nessuna rosa starebbe al suo agio sotto una campana di vetro.

 

 

*

 

Corse, il fiato che abbandonava i suoi polmoni ad ogni metro, tornando poi come una tempesta una volta arrivata sotto casa. I pantaloni erano ormai una poltiglia di fango e acqua, i capelli arruffati e i piedi bagnati dentro gli stivali, ma sulle sue labbra splendeva il più raggiante dei sorrisi.

Venite a trovarmi, Mademoiselle Hébuterne! Il mio atelier è a Le Bateau-Lavoir.
Se non doveste vedermi, cercate tra le tele!

Rimase a bocca aperta mentre lo guardava allontanarsi, cappello in bilico e giacca sgualcita, ma anche il quelle condizioni, le sembrò di avere davanti il più carismatico degli uomini. Non che ne avesse conosciuti molti, eppure in quel momento le sembrò che non avesse bisogno di incontrarli per dire che Modigliani, Amedeo, era una qualche creatura divina persasi per caso nel mondo.

Ah, portate anche il vostro cappello. Se ce ne sarà bisogno, voglio essere io a toglierlo. Ho come l’impressione che ci nascondiate l’anima lì dentro, Mademoiselle.

Sentì il brivido di quella frase anche sotto quel portone, mentre la pioggia continuava a scendere. Come aveva fatto a leggerle dentro?

È per questo che ne portate uno anche voi?

Si fermò, dandole le spalle. Poi ruotò leggermente la testa, sulla guancia sinistra si rifletté la luce grigiastra che varcava la finestra facendo della sua pelle, coperta da una sottile peluria, un foglio sul quale le piccole e fitte ombre delle gocce di pioggia sembravano schizzi di vernice. Sorrise lieve, guardandola con quegli occhi scuri come perle nere. Poi girò la testa, prese a fischiettare qualcosa e se ne andò, perdendosi nel corridoio, con una camminata insolita. Sembrava camminasse sulle punte dei piedi.

Jeanne chiuse gli occhi, si portò le mani al petto. Appena sotto la pelle, era esploso un diluvio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Note:

* Tsuguharu Foujita, pittore giapponese trapiantato in Francia; quella con lui, fu per Jeanne Hébuterne la prima esperienza da modella.

** testa di cocco è il soprannome che fu affibbiato a Jeanne per la sua bellezza e suoi stupendi e lunghissimi capelli.

 

Angolo dell’autrice:

Salve!

Premetto col dire che sono nuova in questa sezione e, dopo molte fan fiction e una sola poesia, questa è la mia prima vera storia originale. Inutile dire quanto la storia di Amedeo e Jeanne mi abbia appassionato, specialmente dopo aver visto I Colori Dell’Anima e aver ascoltato Modì di Vinicio Capossela.

Questo è il risultato, una long “in quattro atti”, se così si può dire.

Spero non risulti banale e che magari vi invogli a lasciarmi una recensione, anche breve, per farmi sapere cosa ne pensate!

Un abbraccio,

Franny

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Capitolo 2
*** Emozione ***


EMOZIONE

 

Quel giorno, un tiepido e timido sole primaverile carezzava i tetti di Montparnasse con raggi simili a lunghe dita, rosse di tramonto. Di calore non ve n’era traccia, piuttosto un’umidità appiccicosa e fresca, che faceva rizzare i peli della nuca e dolere le ossa. Sotto di loro, per la strada, uomini con la bombetta perfettamente abbandonata sulla testa e barboni accantonati agli angoli delle strade, le mani mangiate dal tempo e la miseria, i denti ingialliti come le loro facce. Poi donne e scriccioli che per diventarlo avrebbero dovuto aspettare ancora qualche lustro, ma tutte abbondantemente truccate e poco vestite, tacchi vertiginosi, bocche succulente. Infine, loro. Quelli che preferiscono non parlare, ma dipingere. I più miserabili sistemati alla meno peggio su un marciapiede, sigaretta tra i denti e bottiglia ai piedi, gli altri, i maestri, riparati nel privè di qualche Cafè, a bere vino francese con a fianco le loro stupende mogli, ingioiellate di bijou e tradimenti.

Loro no. Avevano preferito ripararsi dal mondo, scappargli come se fossero stati nudi di fronte al gelo delle notti di Dicembre.

Così, mentre Achille Hébuterne contava sul suo orologio da taschino i minuti che mancavano al rientro della figlia, questa sedeva, perfettamente immobile, nell’atelier di Amedeo Modigliani. Al riparo dal mondo, nella culla dell’arte che a momenti profumava di vernice, altri puzzava di muffa. L’atelier, in realtà, era una catapecchia, una soffitta mangiata dall’umidità, ma con una favolosa balconata che si apriva nel salotto. Quello in cui si trovavano, silenziosi. Una tenda lercia pendeva pigra da un bastone di legno mangiato dalle tarme, scossa da una brezza lieve, che gentile sfiorava le guance di Jeanne, seduta come in attesa di qualcosa, paziente, senza un filo di noia, gli occhi color ambra fissi nel vuoto, segno che la sua mente stava viaggiando per chissà quali fantasie.

Amedeo la guardava, la osservava e poi sorrideva. Le sigarette passavano tra i suoi denti come se fossero state i respiri che attraversavano il suo naso, sul quale una ciocca corvina continuava a cascare, la pelle madida, non di sudore, ma di febbre e concentrazione. Grattava sulla tela come se il volto di Jeanne non lo stesse disegnando, ma accarezzando. Si fermava solo per portare la mano alla bocca, per buttare un filtro bruciato o attutire un colpo di tosse. Quella dannata bronchite lo scuoteva come se ci fosse stato qualcuno dentro di lui che lo prendeva a pugni, facendogli tremare le spalle e le mani.

Non si erano detti niente, nemmeno una parola. Lui aveva accolto Jeanne alla porta come se non avesse fatto altro che aspettarla lì dietro per una vita intera. L’aveva fatta accomodare, con un sorriso e il cenno della mano, e lei aveva obbedito, si è lasciata andare su quella sedia, in attesa di capire che intenzioni avesse il maestro. Aveva portato il cappello con sé, esattamente come le aveva chiesto e ancora lo teneva perfettamente sistemato sulla testa a mo di corona, i capelli sciolti, che cadevano sulle spalle minute.

Erano passate più di quattro ore in quella stanza, ma Jeanne aveva perso la cognizione del tempo, troppo presa ad elaborare la sua idea di Modì, o capire se già ne aveva una, se fosse bastata la prima impressione, o se pur facendosi milioni di domande, avrebbe mai conosciuto quell’uomo. Arrivò solo a una piccola conclusione, la più spaventosa di tutte: voleva conoscerlo. Fino in fondo, capire che cosa si nascondesse dietro quegli occhi neri, usarli come un buco della serratura dalla quale spiare la sua anima. Non le importava se ci sarebbe riuscita, avrebbe tentato comunque. Più volte aveva preso fiato e la sua bocca si era socchiusa, pronta a fare una domanda, qualsiasi, ma all’ultimo istante le sembrava sempre troppo banale e così prendeva a formularne un’altra, e poi un’altra ancora, fino a moltiplicarsi all’infinito e non sapere più quale scegliere. Era così impegnata a trovare l’interrogativo giusto, che non si era nemmeno accorta dei sorrisetti soffocati di Modì, che la guardava mangiarsi il cervello senza saziarsi, e le aveva fatto una tenerezza tremenda quando aveva preso a mangiarsi la pelle delle labbra, come se fosse stata una bambina incapace di esprimere il desiderio giusto davanti a una torta di compleanno. Fu un sollievo quando la vide finalmente aspirare forte dal naso, la domanda che uscì traballando dalle sue labbra come un acrobata incerto.

- Perché l’hanno esiliata, monsieur?

Quella?

Tra tutte le domande che poteva fargli, proprio quella?

Non gli importò di sembrarle sgarbato, così scoppiò in una risata rauca, da fumatore incallito, tant’è che s’interruppe più volte per tossire, e si fermò solo quando si sentì diventare paonazzo per la mancanza d’ossigeno e per gli occhi che schizzavano fuori dalle orbite lacrimando.

- Scusatemi Jeanne! – esclamò tentando di riprendere fiato – Ma, sapete … - di nuovo una breve risata, il volto di Jeanne che si stava infiammando poco a poco per via dell’imbarazzo – Sapete, vi osservo da ore e ho perso il conto delle volte in cui avete aperto bocca per dirmi qualcosa. – riuscì a dirle, mentre la povera giovane iniziava a valutare l’idea di fuggire via da quella stanza e andare a nascondersi dalla vergogna – Ma non credevo sareste mai arrivata al punto di farmi questa domanda. – concluse, passandosi una mano sulla bocca, per poi poggiarla su un fianco, prendendo a guardare Jeanne di traverso.

- Io … - prese a balbettare lei – Tentavo solo di fare un po’ di conversazione, monsieur! – disse, sperando di risultare convincente, ma Modigliani riprese a ridere, meno sguaiatamente, ma sentì che era ugualmente imbarazzante.

- Jeanne! – disse lui, poggiando le braccia sulla cima della tela e poggiandoci sopra il mento – Piccola Jeanne, siete così giovane. Cosa v’importa dell’esilio di un italiano ubriacone e imbrattatele?

Alla domanda, Jeanne sollevò fieramente la testa, come a controbattere, ma poi abbassò lo sguardo, accorgendosi di non avere una risposta. Una che non la mettesse ancora più in imbarazzo, almeno. Voleva sapere così tante cose di quell’uomo che ormai, da ragazza sveglia e intelligente qual’era, non voleva nascondere a se stessa l’interesse che provava per Modì, il fascino che esercitava su di lei, quel lieve accelerare del cuore e quella strana sensazione allo stomaco, come quando si scende uno scalino a vuoto.

Lui la stava ancora osservando, bocca e naso nascosti dietro le proprie braccia, lo sguardo indagatore, in attesa di una risposta che non arrivò, ma che poteva anche immaginare. Jeanne era nel fiore dei suoi anni e, come ogni fiore, non poteva riparare la parte più intima di se stessa al calore di un sole primaverile, ma piuttosto aprirsi, mostrare la sua bellezza e fragilità, rendere limpidi i suoi pensieri.

- Ebreo. – sussurrò lui.

- Cosa? – chiese lei, disorientata.

- Ebreo. – ripeté lui, abbandonando la tela e avvicinandosi alla portafinestra aperta sul balcone – Coperto dai debiti, ma soprattutto ebreo. - ribadì lui, come se fosse una cosa ovvia - Non che mi ci abbiano cacciato a calci e se sei povero, ubriaco e pittore possono tollerarti. Ma se poi sei anche ebreo, beh, non avrai vita facile.

Riprese fiato. Fare un discorso lungo lo affaticava.

- E poi, Livorno da gloria all’esilio … e ai morti la celebrità.*

- Come può un uomo essere additato per la propria fede? – disse lei, sentendo in sé il dovere di difenderlo. Anzi, consolarlo.

- Jeanne, come siete ingenua. – disse lui, poggiando la schiena e un piede contro il muro – Siamo un popolo perseguitato dalla notte dei tempi, conoscete la Bibbia, Jeanne, vostro padre deve avervela inculcata da quando ha rinnegato le proprie credenze!

- Come fate a saperlo? – chiese lei sconvolta.

Già. Ma soprattutto, come fare a spiegarglielo. Lui sarà stato anche ubriaco e zuppo come una spugna quel giorno, ma nella luce grigia e opaca di quell’istituto, gli occhi color ambra di Jeanne erano sembrati due raggi di sole. Per questo l’aveva voluta, per poi esercitare il suo solito charme che altre volte aveva avuto effetto su donne molto meno scaltre e intelligenti di Jeanne. In lei, Amedeo vedeva ciò che avrebbe voluto essere. Spensierato, in ottima salute, ma con quell’entusiasmo e fantasia che li accomunavano. Così, quel giorno stesso, aveva girato tutti i bar di Montmatre e Montparnasse fino a trovare Foujita e chiedergli che cosa sapeva di Jeanne Hébuterne.

È troppo per te, sentenziò senza tanti preamboli. Poi si offrì di pagargli il suo vino preferito, e così il giapponese vuotò sacco e bottiglia.

- L’ho sentito dire da qualche parte, non ricordo nemmeno dove. – disse, tirando fuori dalla tasca dei pantaloni l’ennesima sigaretta, portandola alla bocca con fare distratto, per non far avvertire la menzogna alla giovane Jeanne. Ormai aveva la bellezza di trent’anni, di certo sapeva come ingannare una donna. Così lasciò scattare lo zippo, soffiando una nuvola di fumo tra le parole: - Non fateci caso.

Jeanne si morse le labbra. Nonostante tutte le sottovesti che la coprivano, al cospetto di quell’uomo si sentiva nuda, come se chiuderle la bocca non le bastasse per non dire nulla. Quell’uomo leggeva il suo corpo, sentiva i suoi pensieri. La stava dipingendo, ecco perché. Catturando i suoi tratti, Modì aveva iniziato anche ad interpretarli, leggerli, capire cosa si nasconda tra le linee perfette del volto di Jeanne.

Si guardarono a lungo. A vederli, sembrava che non stessero respirando, lo scandire del tempo delineato solo dalla sigaretta di Amedeo che continuava a bruciare, senza essere aspirata, diventando pian piano cenere che rimaneva perfettamente in equilibrio sopra il filtro. Un pensiero attraversò la mente del pittore e, se solo Jeanne l’avesse conosciuto abbastanza per capire quegli occhi, sarebbe scattata in piedi come una molla, correndo fuori da quell’atelier a gambe levate. Invece restò immobile, ricambiandolo con uno sguardo dolce e confuso. Innocente.

- Si è fatto tardi, Jeanne. – disse lui all’improvviso, buttando via la sigaretta e andando a ricoprire la tela con un lenzuolo – Passate quando volete. Sono qui. Tutti i giorni. – continuò a dire frettolosamente, quasi la stesse temendo, armeggiando con pennelli e colori, tentando inutilmente di metterli in ordine.

Jeanne lo guardò sbalordita, chiedendosi il motivo di quell’improvviso cambio d’umore. Come se non avesse già abbastanza domande ad affollarle la mente. Tentò di fermarle risistemando il cappello sulla testa e alzandosi in piedi, raccogliendo la borsa lasciata a terra.

- Verrò domani. – tentò di dire, ma Modì aveva già voltato le spalle – Arrivederci. – balbettò, ma fu del tutto inutile. Non le restò che abbandonare la stanza, sospirando pesantemente, tormentandosi le mani, tanta era la voglia di capire. Così si chiuse la porta alle spalle, presa dai suoi pensieri e avviandosi verso casa.

Non si accorse nemmeno che, scattata la serratura, i rumori nella stanza di Modì erano finiti.

 

 

*

 

 

La fantasia la portò lontano. Seduta su quella sedia, fissata nella sua perfetta immobilità, la sua mente aveva come la sicurezza della terra ferma dopo un lungo volo. Così i suoi pensieri spiegarono le ali, tornando al giorno in cui un uomo zuppo di pioggia fino al midollo, era entrato nella sua aula. Nella sua vita. Erano già passati tre giorni dall’inizio della posa per il ritratto, ma Jeanne continuava a richiamare alla mente quel momento, il primo, perché l’unico in cui aveva avuto Modì vicino, senza una tela a dividerli. Prendeva quel primo incontro e lo prolungava all’infinito, lo rallentava, fino a notare ogni singolo particolare del volto dell’italiano, o forse solo a immaginarlo.

- Jeanne.

Sobbalzò, sorpresa che questa volta fosse stato Modì a parlare.

- Sì? – balbettò sognante.

- A cosa pensate? – chiese, con naturalezza, l’accenno di un sorriso sul volto, la mano che lavorava frenetica sulla tela.

Jeanne non rispose. Non voleva essere bugiarda con quell’uomo e dire che stava pensando a qualsiasi cosa al mondo che non fosse lui. Così si limitò a sorridergli, con una complicità della quale non si credeva capace e un moto di felicità le riempì il cuore quando Amedeo la ricambiò con lo stesso sguardo.

- Parlatemi di voi, Jeanne!

- E cosa volete sapere? – chiese lei, abbassando lievemente la fronte, gli occhi che sbucavano da sotto il cappello con fare felino.

Che diamine le prendeva?

- Oh, non lo so. – disse lui, serrando per un attimo il pennello tra i denti e analizzando il quadro di fronte a sé – Qualsiasi cosa. – aggiunse a denti stretti per poi riprendere a dipingere.

Jeanne sorrise tra sé e sé. Si guardò intorno, pensando a cosa raccontargli.

- Avete mai avuto l’impressione … - iniziò a dire - … come se il posto a cui appartenete sia quello in cui soffocate e di sentirvi, invece, libero in quello che in teoria dovrebbe essere il posto sbagliato?

Modì annuì sotto i capelli umidi incollati alla fronte: - E chi meglio di me? – chiese sarcastico.

- Io, Modì. – sussurrò lei – Vorrei viaggiare, vedere il mondo, lontano da Parigi. – disse, guardando dei punti nel vuoto con occhi sognanti – Lontana da casa, se così si può chiamare. Piuttosto sembra una prigione.

Modì sospirò, abbandonando mano e pennello lungo il fianco. La guardò con tenerezza, forse un briciolo di compassione. Per quanto la bellezza di Jeanne risultasse ai suoi occhi disarmante e gigantesca, nel parlare, nei suoi pensieri e nei desideri manifestava i suoi diciannove anni. Aveva avvertito nella sua voce il forte desiderio di fuggire via, ma la paura di farlo si era fatta sentire come un urlo in una notte silenziosa.

- Vorrei viaggiare, vedere il mondo che mi circonda. – continuò con occhi sognanti, le mani che le si erano chiuse a pugno – Anche se in fin dei conti mi basterebbe assaggiare la libertà di un giorno passato in campagna, a qualche miglio da qui. O al mare. – aggiunse, illuminandosi – Non l’ho mai visto. – disse, rabbuiandosi all’improvviso.

Non seppe perché, ma abbandonò tavolozza e pennello. Percorse i pochi passi che lo dividevano dalla giovane e la raggiunse, fermandosi a un soffio da lei. Lentamente s’inginocchiò di fronte a Jeanne, guardandola negli occhi, spalancati di sorpresa. Era così vicino che poté avvertire l’essenza floreale che aveva addosso, quella che indossava anche il primo giorno in cui la vide. Con quel profumo l’avrebbe riconosciuta anche in mezzo a un immenso campo di fiori. Mentre la contemplava come un fedele di fronte alla sua Madonna, non si accorse che aveva avvicinato il viso, reclinato la testa, respirato il respiro che lei aveva abbandonato. Trattenne a stento la voglia di sfiorarle il viso e poi, con calma, disse solo: - Lo vedrete, non avete motivo di rattristarvi.

Quelle parole non attraversarono nemmeno l’orecchio di Jeanne, troppo impegnata a perdersi negli occhi di Modigliani; averli così vicini era come avvicinare il ferro alla calamita e staccarsene fu quasi violento quando lui si alzò di scatto, andandosi a rifugiare dietro la tela.

- Anche per oggi abbiamo finito, Jeanne. – disse, dandole le spalle e pulendosi le mani su un canovaccio sporco – La prossima seduta sarà l’ultima, il quadro è quasi pronto. Tornate domani, puntuale alle cinque.

A quel punto si sentì sbattuta in strada. Anche senza aver mosso un dito.

 

 

*

 

 

Era delusa. Forse arrabbiata.

Più tentava di capirlo e più si allontanava dalla soluzione. Chi diavolo credeva di essere quell’imbrattatele sudaticcio e malato? Renoir? Monet? O forse il grande Picasso che, a quell’ora, era di certo disteso tra le braccia di Olga, a immaginarla sulla tela, in tutte le angolazioni e luci. Lo guardava accigliata, ma nemmeno se ne accorse. Mentre continuava a farsi mille domande, sperava di potersi alzare al più presto, far finta di ringraziarlo e andare via.

- Jeanne?

Si accorse che lo stava guardando e distese il volto, sorpresa.

- Il ritrattista, lo vedete? – disse, indicandosi – Sono io! Sono io che devo guardarvi. – sussurrò, reclinando la testa da un lato come ogni volta che voleva gustarsi quelle guance da bambina colorarsi.

Jeanne non rispose, ma socchiuse lievemente la bocca.

Quell’uomo stava iniziando a diventare insopportabilmente acuto, fino a riuscire a leggerle i pensieri. Non lo sopportava. Poi, senza dire altro, lo vide afferrare la tela e, piano, la voltò, facendola girare tra i raggi di luce rossastri che entravano dalla finestra, mostrando controluce la polvere che si sollevava creando vortici.

- Finito. – dichiarò, ficcandosi una sigaretta tra i denti.

Jeanne si sentì … vuota.

Sentì come se l’anima le fosse stata tirata via dal petto, attirata da quegli occhi che la fissavano dalla tela. Ambra pura. Catturati come se glieli avesse strappati dalle orbite. Poi, il suo collo. Infinitamente lungo e sottile sotto il mento lievemente appuntito. Era lei, così come probabilmente credeva di essere.

- Vi piace? – chiese lui con naturalezza.

Jeanne non rispose, continuò ad osservarsi, a perdersi sulle proprie guance lievemente rosee sulla tela.

- Ti ho chiesto se ti piace. ** – ripeté lui, quasi spazientito, appoggiando a terra il quadro e mettendosi le mani sui fianchi.

- Non lo so. – sussurrò lei, mentre lui si avvicinava in maniera impercettibile – Non ho parole. – riuscì a dire, mentre Modì andava a posizionarsi dietro di lei, le mani poggiate sullo schienale della sedia, il naso a un passo dai suoi capelli, già pieno del loro profumo. Lo inspirò ad occhi chiusi, senza avvicinarsi, resistendo alla voglia, stringendo il legno consumato sotto le sue dita, fermandosi con la punta del naso a un respiro dal suo cappello.

Jeanne trattenne il respiro, spalancò gli occhi. Sentiva il fiato di Modì pesarle sul collo, nonostante a proteggerlo ci fosse la sua fidata coltre di capelli. Da sempre ci si era nascosta, come se nessuno potesse passare attraverso quella foresta castana andandole a legger i pensieri. Modigliani, invece, era andato oltre; senza nemmeno intrecciarci un dito, aveva affondato nei suoi pensieri con l’impetuosità di un temporale. Quello che aspettava da tempo, quello che adesso sentiva scrosciare nel suo stomaco come una benedizione.

- Modì, io …

Non concluse, glielo impedì.

Con un gesto fluido, le tolse il cappello dalla testa, facendolo roteare nell’aria prima che arrivasse a terra. Poi, fece scivolare lentamente una mano sul suo collo, sfiorandolo come se fosse il gambo di un’orchidea, piegandolo lievemente all’indietro, facendo scivolare quella distesa di capelli lungo lo schienale. La osservò, da vicino le sembrò più donna, proprio come l’aveva disegnata. Fissandola negli occhi trovò un fuoco che cancellò la prima immagine che ne aveva acquisito; in quel giorno piovoso, gli erano sembrati innocenti, persi, cristallini. Ora, invece, lo guardavano supplichevoli, di una preghiera che lei non avrebbe mai avuto il coraggio di pronunciare ad alta voce.

- Jeanne … Jeanne … - sussurrò, risalendo con la mano fino alla guancia, il capo che ormai gli sfiorava il ventre, il collo diventato corallo nella luce rossastra del tramonto – Cosa siete Jeanne?

La vide deglutire, vedendo la pelle che ricopriva la gola sollevarsi come un’onda.

- Se non lo sapete voi. – disse lei, chiudendo per un secondo gli occhi – Non lo saprò nemmeno io.

Riaprì le palpebre, le ciglia brillarono incastrando qualche raggio di sole.

Scoprì che si era chinato in avanti e che ormai i capelli che gli coprivano la fronte, ora sfioravano il collo di Jeanne con le punte. Strinse i denti, poi si rilassò. Si lasciò andare, in avanti e in basso, fino a trovarle le labbra con le proprie, con una dolcezza che gli ricordò la prima impronta lasciata sulla tela. Sapeva di leggerezza, di libertà, ma Jeanne aveva un sapore in più, che superava anche l’ispirazione. Non riuscì a coglierlo, quel breve contatto non bastava, così premette con più decisione le labbra contro le sue, schiudendole. Mescolò i loro sapori e seppe da subito che se fossero stati colori avrebbero composto un rosso fuoco, acceso, caldo come i tetti di Livorno ad agosto.

Jeanne, il colore perfetto.

Lui, la mano che lo avrebbe modellato per farne arte.

Musa e poeta non erano mai stati così vicini e, quando ciò accadde, fermarono il tempo in un appartamento lercio nel cuore di Parigi.














*verso tratto dalla bellissima Modì di Vinicio Capossela.
** sì, parole copiate pari pari da Ultimo Tango A Parigi, chiedo umilmente perdono.

Note dell'autrice:
Eccomi! ^^
Non che ci fosse la fila ad aspettarmi, ma qualche anima buona sono sicura che c'è.
Il capitolo è stato un parto e non mi convince ancora fino in fondo, ma non ho saputo fare di meglio.
A presto (spero),
Franny

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