Dedo
Diluvio
Parigi,
Marzo 1917
In quella stanza, la
quiete era dettata dal suo respiro.
Leggero, profondo, di
sonno tranquillo. Dalle tende color avorio, la luce del sole filtrava
come fili
di lino, così sottile da sembrare il prodotto di un bel
sogno. Quello che,
molto probabilmente, lei stava facendo. Le guance tonde le si
sollevarono
colorandosi di rosa, con quell’espressione beata che solo i
bambini riescono ad
avere.
Perché, in fondo, era
solo una bambina.
Sotto le coperte, si
mosse piano, lasciandosi sfuggire un sospiro di disapprovazione non
appena i
suoi sensi tornarono a percepire il mondo reale, ormai svegli.
Così, per paura
di cambiare idea, rigirarsi nel letto e saltare un giorno di scuola, si
sollevò
di scatto e una ciocca dei suoi lunghissimi e incontrollabili capelli
andò a
finire sul naso pronunciato. Non se ne curò, mentre
sbadigliava e si
stiracchiava; spostò quei capelli solo quando si
trovò di fronte allo specchio
posto di fianco allo scrittoio, osservando la sua figura scura,
poco esile e chiara
per essere francese, ma si piaceva.
- Jeanne, svegliati!
- Sto scendendo! – urlò
lei solo per farsi sentire, senza
l’ombra di disapprovazione al richiamo della madre. Non sia
mai.
- Onora il padre e la
madre. – ripeté sottovoce –
Come se fosse facile.
– sospirò, per poi volgere lo sguardo alla
finestra e andando a scostarne le
tende. Fuori, Parigi esplodeva di colori. Sembrava che tutte le
meraviglie del
mondo si fossero catapultate nella capitale, come se avessero trovato,
sotto
quei tetti, il posto ideale in cui esprimersi, attraverso mani
consumate
dall’arte e sporche di vernice, proprietà assoluta
di menti offuscate da vino,
incubi e speranze.
C’est Paris,
mon cher!
Tornò allo specchio,
sistemando alla meno peggio quel groviglio assurdo di capelli che ormai
arrivava ai fianchi e indossando qualcosa per tentare
di essere presentabile, come avrebbe detto suo padre.
Scese giù, arrivando in
cucina, situata in quello che era il quarto piano di un enorme palazzo
abitato
da famiglie alto-borghesi. Rispettabili,
dignitose, ma soprattutto cattoliche! Suo padre si riservava
la premura di
ricordarglielo quasi ogni giorno, quando lei si presentava
all’ora di pranzo
col volto macchiato da una serie infinita di macchie di vernice,
prodotto dei
suoi studi all’Accademia Colarossi e merito di suo fratello (quello svitato, sempre suo padre) che la
iscrisse lì dopo un breve periodo passato sotto
gli occhi e le fantasie strambe di quel giapponese non tanto affidabile*.
Fare la modella non le dispiaceva, le permetteva di entrare davvero in
contatto
con quell’arte che ora studiava seduta su sgabelli sui quali
erano passati
altri giovani come lei, convinti che l’arte si potesse
studiare su un manuale e
riportare sulla tela come una specie di schema, vuoto e privo
d’emozioni. A
lungo andare, però, restare immobile per ore di fronte a un
uomo che tenta
mille angolazioni, cambia i colori e cerca la luce perfetta, era
diventato
straziante. Così, ora si ritrovava nuovamente studentessa,
ma lontana dal mondo
da fiaba di Montparnasse. Lontana dall’arte.
- Mademoiselle Hébuterne!
– la salutò la madre, non appena i suoi piedi superarono la
soglia. Di fronte a
lei, seduti al tavolo posto al centro della cucina tirata a lucido, i
suoi
genitori l’attendevano, la colazione ancora intatta. Niente di
preoccupante, era
una scena che si ripeteva ogni mattina più o meno da cinque
anni, da quando il
carattere di Jeanne iniziò a farsi sentire, come i tuoni in
lontananza che
annunciano un temporale. Eppure, quella pioggia liberatoria, tardava ad
arrivare
e non sarebbe mai scesa se prima non si fosse liberata di quella
gabbia,
formata più dai pregiudizi e dalle imposizioni genitoriali
che dalle mura
perfettamente bianche della sua casa.
- Mi domando quando
inizierai a svegliarti ad un orario decente, figliola.
Figliola. Quel termine dolce suonava come uno sputo in
bocca a suo padre.
- Papà. – sorrise lei,
sedendosi a tavola e afferrando una fetta di baguette – Sai
che a me basta
essere in orario alle lezioni. – aggiunse addentandola
– E comunque, bonjour!
- E vorrei sapere anche
quando darai un taglio a quei dannati capelli. –
continuò lui, iniziando ad
infervorarsi, gli occhi della madre che saettavano dal marito alla
figlia –
Sembri una di quelle che scorrazzano per la Pigalle!
- Achille! – lo richiamò
la moglie a denti stretti – Starai scherzando! –
disse, come a voler prendere
le difese della figlia che, invece, guardava il padre con occhi di
sfida,
portando un piede nudo sulla sedia e poggiando una guancia sul
ginocchio,
mostrando una gamba tonica che spostava la camicia da notte fino al
grembo.
- E siediti composta! –
esclamò lui, battendo un pugno sul legno del tavolo, gli
occhi pronti a
schizzare fuori dalle orbite, folli.
- È solo una bambina, mon
cher!
- E smettila di
difenderla, Eudoxie! – sputò fuori lui, lo sguardo
di rimproverò che zittì la
moglie, facendole abbassare la testa, gli occhi puntati sulla tazza
colma di
latte, ormai freddo.
- Padre. – sussurrò
Jeanne sorridente, riportando entrambe le gambe sotto il tavolo
– Dovresti
sapere che arrabbiarsi di prima mattina fa male. – disse,
allungando una mano
sul tavolo per afferrare un uovo sodo e mordendolo senza un briciolo di
grazia
– E fa passare la fame! – aggiunse a bocca piena,
prima di alzarsi da tavola e
andare a stampare un bacio sulla guancia del padre, rimasto impietrito,
incredulo di fronte alla solare insolenza della figlia che (e forse
Eudoxie non
aveva tutti i torti) in fin dei conti era davvero ancora una bambina.
La guardò
a bocca aperta, mentre spariva sulle scale, i capelli che ondeggiavano
da una
parte all’altra della schiena. Poi lei si chiuse dentro la
sua stanza e
velocemente iniziò a vestirsi. Non sarebbe rimasta un minuto
di più in quella
dannata prigione quella mattina. Avrebbe voluto urlare, piangere, far
capire a
suo padre che non si è una poco di buono solo
perché si dipinge una tela, ma
non le avrebbe creduto, nemmeno giurando davanti a Dio che nessun uomo
aveva
scostato l’orlo della sua gonna. Nemmeno quel depravato
giapponese, col quale
spesso era rimasta da sola, o il focoso spagnolo, o
quell’altro italiano di cui
non ricordava il nome, ma di cui aveva sentito solo parlare. Per suo
padre,
invece, la “sua” Jeanne non esisteva più
e in casa sopportava quella che,
secondo lui, era solo una sgualdrina, da maritare al più
presto a qualche uomo col
polso di ferro, ricco e cattolico.
- Dio, chiunque tu sia,
liberami al più presto da tutto ciò! –
sussurrò lei, volgendo per abitudine lo
sguardo al crocefisso sopra il letto e, indossando la tracolla di cuoio
e un
cappello consumato, uscì per la seconda volta da quella
stanza, assicurandosi
di passare il più velocemente possibile di fronte
all’uscio della cucina ormai
vuota ma, appena arrivata alla porta d’ingresso,
sentì una mano attorno al
gomito. Sua madre.
- Jeanne.
- Mamma! – fece lei,
raddrizzando il cappello.
- Mi chiedo quando
imparerai … - esordì, ma la figlia le
poggiò un indice sulle labbra. Sapeva
cosa stava per dirle e non aveva intenzione di sentirselo ripetere.
- Papà deve farsene una
ragione. Crescere non significa essere una poco di buono! –
disse con
tenerezza. Non le piaceva alzare i toni con la madre, poiché
era stata sempre
comprensiva con lei.
- Lo so, figliola, ma sai
com’è fatto. – provò a dire,
ma Jeanne la interruppe nuovamente.
- Lo so! – disse decisa –
Ma ha già cambiato un Dio. Non vedo come non possa cambiare
opinione su sua
figlia!
- Non parlare così,
Jeanne! – esclamò la madre sbalordita, ma senza
l’ombra di rimprovero.
- Ci vediamo a pranzo,
mamma! – sorrise la giovane, lasciandole un bacio sulla
guancia – Sono in
catastrofico ritardo!
- Come sempre. –
sottolineò la madre, lasciandole un bacio sulla fronte,
sotto il cappello. Poi
guardò la figlia aprire la porta e che la salutava facendo
muovere le dita,
prima di vederla sparire con il più raggiante dei sorrisi
illuminarle gli
occhi.
In lontananza, sentì il
rimbombare cupo di un tuono.
- Si bagnerà come un
pulcino, disgraziata!
*
Un lieve grattare,
fragile come la tela di un ragno. Nell’aria l’odore
di vernice e pioggia,
quella che batteva sui vetri delle finestre e quella che gocciolava dai
capelli
di Jeanne, seduta nell’ultima fila, posto riservato a chi
arrivava in ritardo.
Da lì era complesso disegnare il soggetto del giorno, posto
al centro
dell’aula, e solo i fortunati (o meglio, i meritevoli)
arrivati in orario
potevano permettersi il posto in prima fila.
A Jeanne, però, poco
importava. Non per presunzione, ma aspirava a soggetti un po’
più interessanti
della mela rossa lasciata sulla cattedra vuota. Così
lasciò che il suo sguardo
si perdesse tra i rami degli alberi del cortile
dell’Accademia, osservando la
rete fitta composta dalla pioggia, come la trama di una tela ruvida e
ingrigita, che invece di risaltare i colori, li fa sbiadire.
- Mademoiselle Hébuterne!
È
già la seconda volta, oggi! pensò.
- Sì Monsieur? – disse
lei, voltandosi a guardare il suo insegnante, Monsieur
Girard.
- Il soggetto è da questa
parte! – esclamò, indicando la mela sul tavolo e
facendo sogghignare i
presenti.
- Lo so perf … - iniziò a
dire, preparando una delle sue solite risposte velenose, ma venne
interrotta
bruscamente, così repentinamente che le sembrò di
aver avuto una mano sulle
labbra che le impedì di parlare. La porta
dell’aula si era spalancata
d’improvviso e ne era entrato un uomo completamente fradicio,
affannato e, a
quanto sembrava, non esattamente lucido.
Si fermò un istante, stringendo gli occhi per guardare
meglio dove fosse
finito, e togliendosi il cappello dalla testa, si passò una
mano tra i capelli
bagnati.
- Bonjour! –
disse, sfoderando un pesantissimo accento italiano e
sollevando le ciglia con un’espressione buffa. A Jeanne
ricordò un bambino, uno
di quei mocciosetti che incontravi per le strade, tra le mani un
sacchetto di
monete e alle calcagna qualche oleoso e obeso banchiere, troppo lento e
troppo
idiota per stare dietro alla faccia furba del ladruncolo.
Jeanne non capì perché le
diede l’impressione di un ladro. Non allora. Per il momento,
le strappò solo un
sorriso.
- Buongiorno a lei, Monsieur
Modiglianì! – disse Girard,
sconvolto.
- No, no, no! – disse
lui, facendo oscillare un dito davanti alla faccia mentre si avvicinava
all’insegnante – Si dice Modigliani! –
fece, scandendo bene le parole e
prolungando ironicamente le vocali – Non
Modiglianì! – lo corresse, con un
sorriso, prima di sfoderare una sigaretta, apparsa da chissà
dove – Imparate a
pronunciare bene il mio nome, monsieur, non sono tutti francesi sulla
faccia
della terra. – lo rimproverò infine, denti stretti
attorno alla sigaretta e
mani nelle tasche.
Jeanne lo fissava rapita,
come se stesse assistendo ad uno spettacolo insolito ed irripetibile.
Ecco come
si chiamava. Modigliani! Il Maestro esiliato. L’italiano
ubriacone e fuoco di
molti letti francesi. Questo era tutto quello che sapeva di lui.
Eppure,
vedendolo così, le sembrò semplicemente geniale.
Gliela leggeva nel sorriso l’arte, la
scintilla. Le sembrò ancora più curioso
quando, con occhi stretti, iniziò a
muoversi per la stanza, il suo sguardo che si posava su ogni alunno in
prima
fila. Poi, prestò attenzione alla mela sul tavolo;
così si sedette su di esso,
afferrò il frutto e, dopo averlo fatto saltare nel suo
palmo, lo portò alla
bocca, addentandolo sotto lo sguardo scandalizzato
dell’insegnante.
- Una mela! – disse,
masticando a bocca aperta mentre le risate iniziavano a salire
– Ai vostri
alunni date da disegnare … una
mela!
– ma, a quel punto, la risata che superò le altre
fu proprio quella di Jeanne,
la quale rideva con una mano premuta sulle labbra e aspirando forte dal
naso,
gli occhi in lacrime mentre quelli dei suoi compagni si posavano su di
lei,
increduli.
Modigliani sorrise sotto
i baffi e la guardò ridere, fino a quando non ebbe smesso,
mordendosi le
labbra.
- Ti faccio ridere? – le
chiese.
Jeanne si sentì
avvampare, nonostante nella voce dell’uomo non ci fosse ombra
di rimprovero, ma
semplice curiosità. E lei, che dell’infanzia
conservava ancora la timidezza,
annuì piano, portandosi le mani in grembo.
- Ho mangiato il vostro
soggetto, che ci trovate di divertente? – disse lui,
abbozzando però una risata
di scherno che non piacque a Girard, che storse la bocca, offeso.
- Non era il mio
soggetto. – rispose Jeanne, con un ghigno impertinente
– Era solo una mela.
- E qual è il vostro
soggetto, Mademoiselle? – chiese
poi con voce profonda e roca, prima che questa fosse rotta da un colpo
di
tosse.
Jeanne non rispose,
semplicemente mantenne quel suo ghigno, afferrando la tela che aveva di
fronte
con delicatezza e voltandola verso quella specie di pubblico
improvvisato.
Quando videro di cosa si trattava, le risate furono impossibili da
trattenere
per i presenti, tranne che per lo sconvolto Girard, il quale
iniziò a
balbettare parole di rimprovero alla vista del proprio
“ritratto”.
- Mademoiselle Hébuterne!
Come vi permettete! – gridò, puntando con un dito
la propria testa pelata
tramutata in una mela con le sembianze di un volto, con tanto di
occhiali sul
naso ed espressione arcigna.
- Suvvia, non
prendetevela così tanto. – lo interruppe
Modigliani – La signorina ha dato
un’espressione diversa al
soggetto! –
disse, sventolando il torsolo della mela e lanciandolo alle proprie
spalle,
mentre non staccava per un secondo i propri occhi neri da quelli di
Jeanne, la
quale continuava a tenere il suo sguardo di sfida e un ghigno malefico.
Poi, la campanella
annunciò la fine delle lezioni e Modigliani fu il primo ad
abbandonare la
stanza.
*
- Ottimo lavoro!
Jeanne sobbalzò,
inchiodando.
- Maestro! – disse,
spaventata, trovando dietro le proprie spalle Modigliani, sigaretta tra
le
labbra e capelli neri ormai asciutti.
- Oddio, no! Chiamami
Modì! – disse, portandosi le mani sui fianchi con
fare plateale – Tu sei testa di
cocco**, vero? – domandò, stringendo
gli occhi.
- Come fate a saperlo? –
chiese lei sconcertata, ma la risposta gliela lesse negli occhi
– Foujita!
- Sì, Nippo! –
sussurrò
facendo oscillare la sigaretta stretta tra i denti e roteando gli occhi
– Dio
solo sa se quell’uomo sa tenere a freno la lingua.
– disse lui con tono
provocante, ma quando guardò negli occhi di Jeanne
trovò solo un profondo
disorientamento. In altre donne avrebbe trovato malizia, sporcizia. Gli
occhi
di Jeanne, invece, erano campi di grano spazzati dal vento –
Ti trovi bene qui?
– le chiese poi, portando la sigaretta tra le dita.
- Voi che ne dite? –
chiese lei, sollevata di potergli finalmente rispondere.
Non rispose. Anzi,
sollevò le spalle – E chi lo sa cosa passa per la
testa di una ragazza! – le
sorrise, con tenerezza. La disarmò. Poi lui piegò
la testa da un lato, il
cappello tremò per un secondo ma non cadde. Osservandola,
sembrava riflettere,
quasi come se stesse cercando l’angolazione giusta che gli
avrebbe dato
l’esatta visuale sui suoi pensieri, fino a fargli dire: - Ma
nessuna rosa
starebbe al suo agio sotto una campana di vetro.
*
Corse, il fiato che
abbandonava i suoi polmoni ad ogni metro, tornando poi come una
tempesta una
volta arrivata sotto casa. I pantaloni erano ormai una poltiglia di
fango e
acqua, i capelli arruffati e i piedi bagnati dentro gli stivali, ma
sulle sue
labbra splendeva il più raggiante dei sorrisi.
Venite a trovarmi,
Mademoiselle Hébuterne! Il mio
atelier è a Le Bateau-Lavoir.
Se non doveste vedermi, cercate tra le tele!
Rimase a bocca
aperta mentre lo
guardava allontanarsi, cappello in bilico e giacca sgualcita, ma anche
il
quelle condizioni, le sembrò di avere davanti il
più carismatico degli uomini.
Non che ne avesse conosciuti molti, eppure in quel momento le
sembrò che non
avesse bisogno di incontrarli per dire che Modigliani, Amedeo,
era una qualche creatura divina persasi per caso nel mondo.
Ah, portate anche il
vostro cappello. Se ce ne
sarà bisogno, voglio essere io a toglierlo. Ho come
l’impressione che ci
nascondiate l’anima lì dentro, Mademoiselle.
Sentì il brivido di
quella frase anche sotto quel portone, mentre la pioggia continuava a
scendere.
Come aveva fatto a leggerle dentro?
È per questo
che ne portate uno anche voi?
Si fermò, dandole le
spalle. Poi ruotò leggermente la testa, sulla guancia
sinistra si rifletté la
luce grigiastra che varcava la finestra facendo della sua pelle,
coperta da una
sottile peluria, un foglio sul quale le piccole e fitte ombre delle
gocce di
pioggia sembravano schizzi di vernice. Sorrise lieve, guardandola con
quegli
occhi scuri come perle nere. Poi girò la testa, prese a
fischiettare qualcosa e
se ne andò, perdendosi nel corridoio, con una camminata
insolita. Sembrava
camminasse sulle punte dei piedi.
Jeanne chiuse gli occhi,
si portò le mani al petto. Appena sotto la pelle, era
esploso un diluvio.
Note:
* Tsuguharu
Foujita, pittore giapponese
trapiantato in Francia; quella con lui, fu per Jeanne
Hébuterne la prima
esperienza da modella.
** testa
di cocco è il soprannome che fu affibbiato a
Jeanne per la sua bellezza e
suoi stupendi e lunghissimi capelli.
Angolo
dell’autrice:
Salve!
Premetto col
dire che sono nuova in
questa sezione e, dopo molte fan fiction e una sola poesia, questa
è la mia
prima vera storia originale. Inutile dire quanto la storia di Amedeo e
Jeanne
mi abbia appassionato, specialmente dopo aver visto I
Colori Dell’Anima e aver ascoltato Modì
di Vinicio Capossela.
Questo
è il risultato, una long “in
quattro atti”, se così si può dire.
Spero non
risulti banale e che magari vi
invogli a lasciarmi una recensione, anche breve, per farmi sapere cosa
ne
pensate!
Un abbraccio,
Franny