Daisuki

di MaryAlice94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Solo. ***
Capitolo 2: *** Una vita normale ***
Capitolo 3: *** Assumersi le proprie responsabilità ***
Capitolo 4: *** Parlare. ***
Capitolo 5: *** Sorridere. ***
Capitolo 6: *** Come quella volta... ***



Capitolo 1
*** Solo. ***


Capitolo 1
Capitolo 1

Solo.

Salivo con foga le scale. Ero stremato. Dopo aver corso per cinque kilometri sotto la pioggia, sentivo i muscoli bruciare. Ero bagnato fradicio. La maglia e i jeans si erano incollati al corpo. Non m’importava. Dovevo raggiungerla. Tutto era sfocato. Luci indistinte. Macchie scure all’orizzonte e sagome di chissà cosa. Non avevo tempo. Quando ero arrivato davanti a quell’edificio abbandonato e decadente, mi ero fiondato all’interno e avevo iniziato a salire le scale pur non sapendo dove fosse. Continuavo a salire. Sempre più in alto. A lei piaceva l’altezza. Il brivido che il vento ti procurava quando ti sferzava il viso con violenza ma anche la dolcezza che trasmetteva quando era solo un dolce e candido soffio. Voleva toccare il cielo,ma non doveva farlo. Glielo avrei impedito.
Arrivai spedito sul tetto,qualcosa mi diceva che era lì. Spalancai la porta metallica e mi ritrovai sotto la luna accecante. Aveva smesso di piovere e il cielo era stranamente limpido,ogni segno della tempesta era sparito. Troppa calma. Troppo silenzio. La quiete prima della tempesta.
E poi i miei occhi si posarono su una figura. Eccola. Sul cornicione. Rivolta verso la luna,la stava contemplando e la luce emanata ne evidenziava i sottili e dolci lineamenti del viso e la faceva sembrare una fata. Una creatura immortale. La ammiravo e mi godevo ogni singolo lineamento della sua figura sinuosa ma i demoni iniziavano a rincorrermi. Il passato era lì come un punto di riferimento non richiesto e sembrava stesse per ripetersi. Tutte. Una alla volta le persone che amavo mi stavano abbandonando e non c’era nulla che potessi fare. Subire e cadere. Sprofondare sempre di più in quel buco nero che proprio lei stava richiudendo. E ora come una grande palla demolitrice lo stava ingigantendo. Sentivo le lacrime affiorare al ricordo. Non sarebbe successo,non di nuovo. Non l’avrei permesso. Non avrei più permesso che mi annientassero.
«Cosa stai facendo?» Dissi con voce tremante avvicinandomi di qualche passo,molto lentamente per paura che da un momento all’altro sarebbe scivolata via,lontana da me. Come se nulla fosse,come se sapesse da sempre che ero lì,non si scompose,inclinò la testa verso di me e sorrise. Un sorriso sereno. Sembrava. . .Felice?Ma come?
«Ah!Daniel,non è bella la luna?» Allungò le mani al cielo nel tentativo di raggiungerla. Più sembrava vicina più era lontana.
«Già.» Fu la mia sola risposta,avevo la gola secca e non sapevo cosa dire. Mi avvicinai ancora. Mi tremavano le gambe.
«Daniel,ti prego resta lì.» I suoi occhi così simili ai miei,luminosi e brillanti,s’incupirono. «Ti prego.» Il suo tono era supplichevole e con lo stesso tono dissi: «Allora vieni giù da lì.»
«Non posso. . .» Sospirò. «Ormai ho deciso.»
«E a me non pensi?» Urlai. A quel punto ero furioso. Tutti. Tutti pensavano a se stessi,mi usavano quando ne avevano bisogno e poi mi gettavano via come una pezza vecchia. Ero stanco.
«Lo sto facendo per te. . .» Sussurrò. Gli occhi velati di lacrime.
«Non ti credo!Tutti non fate che pensare a voi stessi. Dici che lo fai per me?Sei solo una bugiarda e lo sai.» Risi amaramente.
«Daniel. . .» Prese un sospiro e poi continuò «Se io resterò ancora nella tua vita non potrai essere felice. Sono un peso per la tua libertà.»
«E la soluzione sarebbe morire?» Gridai con la voce strozzata. «Puf un bel salto e finiscono tutti i problemi. E le persone che ti amano,non pensi a loro?»
«Non ho più nessuno. . .Nessuno soffrirà.»
«Ucciderai me!Io. Daniel Harrison. O ti sei dimenticata di me?» Ero affranto,non ero neanche stato considerato tra le persone che la amavano. Che senso aveva preoccuparsi tanto. Che cosa avevo concluso negli ultimi mesi?Nulla. Solo menzogne. Una mera illusione della vita.
«Tu sarai felice Daniel e questo mi rassicura.» Disse sicura come potesse davvero accadere.
«Charlotte ti prego. . .Vieni giù da lì. . .Sei anche tutta bagnata. Ti ammalerai. Poi come potremo fare quel viaggio a New York?!» Sorrisi al ricordo di quella stupida promessa di qualche mese prima fatta sotto il chiaro di luna,la stessa di quella sera.
«Mi fai una promessa?»
«Solo se scendi di lì.»
Scese finalmente dal cornicione e puntò i suoi occhi azzurri nei miei. Forse ero riuscito a convincerla.
«Mi prometti che andrai da uno psicologo?»
«Come?» Quella strana richiesta mi sorprese ma annuii. Se era per farla ritornare tra le mie braccia avrei acconsentito a tutto.
«Sono seria. Promettimelo.»
«Si anch’io. Te lo prometto.»
«Un’altra cosa.»
«Vai spara.» Stavamo parlando ed era un buon segno. Un altro passo. Poi un altro ancora. Un altro po’ e sarei riuscito a raggiungerla.
«Qualsiasi cosa accada,bella o brutta che sia non smetterai di credere nell’amore e nella vita. T’innamorerai,soffrirai e poi sarai felice. Te lo meriti.»
M’irrigidii a quelle parole,non era per niente un buon segno. Avevo i muscoli tesi e per quanto volessi correre e imprigionarla tra le mie braccia ero immobile come un pezzo di ghiaccio. Ero inchiodato a terra da una forza misteriosa. Gocce di pioggia iniziarono a scendere giù dal cielo. La limpida serata si stava incupendo e la tempesta che era in agguato stava facendo la sua apparizione. Non prometteva nulla di buono.
«Promettimelo. Ora Daniel!»
«Non voglio.»
«Daniel. . .» Sospirò.
«Se te lo prometto tu. . .» Non finii in tempo la frase che come un automa corsi da lei. Successe tutto molto velocemente e il mio corpo si mosse da solo.
Aveva indietreggiato con gli occhi rivolti verso la luna, era salita sul cornicione e. . . Si era gettata. Da quell’altezza nessuno sarebbe sopravvissuto. Quaranta metri. Quei maledetti quaranta meri. Sotto solo terra arida.
«Te lo prometto!» Urlai come se sarebbe stato possibile riportarla indietro. Allungai perfino il braccio. Ormai la forza di gravità l’aveva portata via.
Il vuoto. Qualcosa mi scaraventò all’inferno perché mi sentivo bruciare l’anima. La pioggia non riusciva a spegnere quell’incendio che era esploso dentro di me. Silenzio. Troppo silenzio. Perfino il mio cuore era muto come se avesse smesso di battere. Solo lo scroscio della pioggia lenta e silenziosa,ma violenta. Non sentivo nulla. Gettai un urlo. Tutta la voce che fino a quel momento si era nascosta, affiorò sulle labbra e uscì con violenza. Mi accasciai al suolo,chiusi gli occhi e deglutii. Mi lasciai avvolgere dall’acqua. Non sapevo se stavo piangendo, o no,sentivo soltanto il viso bagnato dalla pioggia. Acqua molta acqua. Pioggia impura. Nient’altro. Ero di nuovo solo.

«Bene Daniel.Molto bene. Sono davvero soddisfatta.» La dottoressa mi guardava soddisfatta ed io sorrisi, anche se non sapevo bene per quale motivo lo era. Avevo semplicemente esposto ricordi molto dolorosi. Non ero andato lì per parlarne ma quella telefonata mi aveva scosso parecchio e alla fine parlai dell’ultima cosa che avevo in mente. Qualcosa che avevo cercato di seppellire. Non c’era modo però di fuggire da quei ricordi che si accavallavano e s’infrangevano sulla mia anima come onde su uno scoglio.
«Non guardarmi così Daniel,mi deludi. Sei un ragazzo intelligente.»
«Come la starei guardando?» Quella donna riusciva a leggermi come un libro aperto e ciò mi metteva a disagio.
«Come se non sapessi per quale ragione sono contenta di te oggi.»
«Ah. . .»In realtà,si,lo immaginavo. Anzi lo sapevo e come ma nel profondo non volevo ammetterlo. Temevo le sue successive parole. «Non lo dica. Lo so.»
«Lo immaginavo. Daniel invece mi tocca dirtelo. Hai fatto un grandissimo passo avanti. Nessuno ci riesce in così poco tempo. Certe volte l’accettazione arriva dopo un anno in casi normali. Tu invece. Sono passati solo due mesi da quando vieni qua.»
«Beh sono passati cinque mesi dalla sua. . .beh insomma ha capito. . . Dalla sua morte.» Mi era ancora difficile pronunciare quella parola. Era come se fosse incatenata da qualche parte nella mia testa e faticasse a liberarsi e quando riusciva a intravedere uno spiraglio di luce, usciva strozzata come se l’aria la soffocasse.
«Daniel però tu in quei tre mesi da quel che mi hai raccontato non eri tu. Daniel hai tentato il suicidio. E ora sei qui,che dopo un solo mese hai ammesso di non aver desiderato altro che la morte e che la desideri tutt’ora. E dopo due sei riuscito a parlarmi di quella sera. Per me è come se avessi superato indenne una maratona di dieci kilometri.»
«Solo 10?» Sorrisi.
«Non sto scherzando.» Sorrise anche lei. «Sono davvero contenta. Questo vuol dire che il tuo spirito è forte,più di quel che credi e sono certa che supererai anche questa prova.»
«Ma se ancora dovessi superare quelle precedenti?» In effetti, le avevo raccontato solo una piccola parte della mia vita. C’era ancora un libro da leggere.
«Ci arriveremo. Pazienza ci vuole pazienza. Stiamo mettendo insieme ancora una piccola parte del puzzle,presto arriveremo alla fine.»
“Fine” quella parola non aveva significato per me eppure influiva molto sulla mia vita. Pesava come una montagna e non riuscivo a spostarla di un solo millimetro.
«Non vedo la fine.» Dissi più a me stesso che a lei.
«Beh siamo qui proprio per questo,no?»
Sospirai e guardai in un punto non precisato,la mente era ritornata a quella notte e poi alla notte del mio tentato suicidio;ero ubriaco ma abbastanza lucido da intendere e volere. Avevo deciso di suicidarmi. Ero su quello stesso tetto pochi mesi prima,la luna era lì nello stesso punto e brillava con la stessa intensità. Era ironico come una così meravigliosa serata fosse testimone di morte. Sembrava non desiderare altro. Come se lo spegnersi di una vita alimentasse la sua fiamma e lei fosse lì in attesa per cogliere al volo la luce di una nuova anima che si spegne.
«Per oggi basta così.» Mi annunciò la dottoressa Meyer,mi sorprese e la guardai rilassarsi sulla poltrona dietro la scrivania chiudendo il mio fascicolo.
«Come?Di già?»
«Si è stato molto intenso per te. Ti si legge negli occhi. Oggi terminiamo prima.» Mi fece un sorriso dolce e mi fece cenno con la mano di andare.
«Okay.» Mi alzai e mi avviai alla porta;sulla soglia mi ricordai una cosa e mi voltai per dirgliela : «Senta la prossima seduta devo annullarla.»
«Come prego?» Non sembrava molto entusiasta per cui le spiegai bene il motivo.
«Vede inizierò a lavorare anche il pomeriggio,per cui. . .»
«Mmmm. . . .E’ necessario Daniel?» Non mi credeva e potevo capirla,non si può far affidamento su una persona che ha tentato di uccidersi. Cercai di rimediare. In fondo non era una scusa, era la verità.
«Devo pur pagare le sue sedute.» Dissi ironicamente ma serio.
«Quindi ti andrebbe bene se le spostiamo di mattina. Daniel devo ripeterti che sono addirittura poche due sedute a settimana?»
«Beh. . .Se è libera, va bene. Non ci sono problemi.»
«Va bene vedo cosa posso fare e ti chiamo,ok?»
«Certo. La ringrazio. Allora alla prossima.»
I suoi muscoli facciali che in precedenza si erano irrigiditi sul viso al sentir il mio cambio di programma si erano sciolti in un sorriso amorevole e confortevole. Doveva essere una madre molto affettuosa. Una volta mi disse che aveva una figlia e la invidiai. Mi mancava mia madre. Anche lei aveva un sorriso che scioglieva i ghiacciai.
«Ah Daniel? »
«Si?» Mi voltai.
«Mi fai entrare la ragazza che è in sala d’attesa?»
«Beh se me la descrive magari.»
«No. Ci sarà solo lei. Non ho altri appuntamenti per oggi.»
«Va bene.»
«Grazie.»
Come disse lei nella sala d’attesa c’era solo una ragazza seduta sul divanetto di pelle rossa. La stanza non era grande ma nemmeno piccola. Ci entrava la scrivania della segretaria che probabilmente era già andata via,una libreria piena fino all’orlo di romanzi di ogni genere e saggi,e quel divanetto con un tavolino in vetro rettangolare di fronte. Quel colore così acceso mi ricordava le fiamme dell’inferno per cui evitavo di accomodarmi sopra per paura di essere trascinato negli abissi dell’oltretomba. Era una sciocchezza ma la mia mente viaggiava per luoghi sconosciuti in quei mesi e non avevo controllo sulle mie emozioni. Per questo andavo da uno psicologo due volte a settimana.
«Hey,la dottoressa vuole che entri.» Nessuna risposta o cenno di avermi almeno sentito. Poi notai che aveva le cuffie e com’era poi impegnata a giocare alla sua console era ovvio che non avesse avvertito la mia presenza. Mi avvicinai facendole ombra e solo allora alzò lo sguardo su di me. Ecco. Quelli si che erano gli occhi dell’inferno. Troppo profondi e caldi. Infuocati. Contornati da una leggera linea di trucco. Mi guardò da parte a parte e mi accigliai. Tipico atteggiamento di superiorità di chi ha vissuto nella bambagia sin dalla nascita e ovviamente il mio abbigliamento casual,troppo sportivo,lasciava a desiderare. Si tolse una cuffia e disse: «Si?»
Presi un profondo respiro mentale per evitare di dire qualcosa d’inappropriato,in fondo non sapevo neanche chi fosse, e le dissi: «La dottoressa ha detto che puoi entrare.»
«Ah grazie.» e sorrise. Un sorriso sincero e timido allo stesso tempo. Forse mi sbagliavo. Le apparenze ingannano. Quanto era vero quel detto.
Annuii e me ne andai dallo studio chiudendomi la porta alle spalle e finalmente un’altra giornata faticosa stava per terminare. Era stata più stressante del previsto ma era andata bene. A detta del medico almeno era così. Io mi sentivo strano e inquieto e tutto a causa di quella telefonata.

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Capitolo 2
*** Una vita normale ***


Capitolo 2
Capitolo 2
Una vita normale.
Dopo quel giorno non parlammo più di quella sera. La dottoressa Meyer non ritornò sull’argomento ed io non lo avrei tirato in ballo di nuovo. Non ero certo di averlo accettato. Sentivo ancora i sensi di colpa pugnalarmi alle spalle. Non avevo fatto nulla per impedirlo. Era colpa mia. E non riuscivo a smettere di pensarci. Cercavo di impegnare ogni singolo minuto per tenere la mente occupata ed ero disposto a fare anche i doppi turni a lavoro. Poi in fondo qualche soldo extra non faceva mai male. Anche oggi ero a lavoro e ci sarei restato fino la sera, avrei occupato il posto di un ragazzo che di solito faceva il turno di mattina.
«Grazie. Grazie Daniel ti sono debitore.» Non la smetteva più di ringraziarmi.
«Ma di che,non avevo nulla da fare.»
«La mia ragazza voleva per forza festeggiare l’anniversario al mare e non sono riuscito a farle cambiare idea. Grazie.»
«Ho capito. Ho capito. Ora va. Non vorrai farla aspettare.» Non amavo parlare di quel genere di cose ma dovevo fingere. Sorridere e annuire. Una fidanzata eh?Non credevo si potesse diventare così idioti. Chissà se anch’io ero. . . Eccolo quel nodo allo stomaco. Dovevo mettermi al lavoro e subito. Non volevo che si spegnesse la luce. Nell’ultima settimana era rimasta accesa e dovevo continuare così se non volevo cadere in balia delle ombre.
«Bene allora ci vediamo. E grazie.»
Il posto dove lavoravo era un luogo accogliente e caldo,un toccasana per la mia anima a pezzi;erano tutte persone oneste e questo mi piaceva. Il proprietario era una mia vecchia conoscenza ed era stato lui a rimettermi in sesto e a offrirmi un posto in questo locale. Per lui era stato un modo per prendere in mano la sua vita. La vita non era stata clemente neanche con lui e questa nuova avventura gli aveva salvato la vita. Qui aveva conosciuto molte persone, ognuna con storie diverse,ma con una cosa che gli univa: il non aver mollato.
Era stato lui a salvarmi da morte certa. Non so come aveva fatto. Non abbiamo mai parlato di quella sera. Era arrivato giusto in tempo per tirarmi giù e assestarmi due bei ceffoni. Solo allora mi svegliai. Da quel momento non bevvi più e smisi di fumare, anche se ogni tanto facevo un tiro,ma era solo per abitudine.
«Sicuro di voler lavorare per tutto il giorno?» Mi chiese Eithan,il proprietario.
«Certo nessun problema.» Tirai fuori uno dei miei vecchi sorrisi incantatori e con la cassa di birre sulle spalle entrai nel bar.
Il locale era rustico,ben tenuto e caldo. Molto spazioso in confronto a molti locali della zona che erano piccoli e freddi. Probabilmente il Moonlight era il locale più famoso della città proprio per questo. Oltre all’impeccabile qualità dei drink e degli snack e alla tenuta del posto sempre pulito -dato che Eithan ci teneva molto- era famoso per l’eccellente musica di qualità. Oltre alla pista da ballo in fondo alla sala c’era lo spazio necessario per una band. Ciò voleva dire musica dal vivo e più clienti. Ci sapeva davvero fare. Due volte a settimana ospitava band emergenti e anche cantanti solisti.
La mattina non era molto frequentato ma avevamo il nostro bel da fare. Il motto di Eithan era: Educazione e Sorriso. In effetti, era davvero strano. Sosteneva che uno sguardo gentile diceva tutto e invitava i clienti a ripresentarsi. E stranamente aveva ragione. La gente si ripresentava molto soddisfatta del servizio e dell’educazione dei camerieri e dei baristi.
Erano solo le nove del mattino e i clienti erano già lì seduti ai tavolini di legno che leggevano il menù per la colazione. Sospirai. Forse stavo pentendomi di aver accettato il doppio turno. Eithan mi seguiva dietro e quando vide la mia espressione rassegnata, mi diede una pacca sulla spalla e disse: «Forza ragazzo mio sorridi che la giornata è lunga.»
«Non sei tanto più vecchio di me da chiamarmi “ragazzo mio”,ma quanti anni hai,cinquanta?» Mi era facile scherzare con lui,potevo considerarlo come un fratello. Sapeva tutto di me e non faceva domande riguardo alcune mie strane reazioni a determinate cose.
«Zitto ragazzino e muovi quel culo dietro al bancone.»
«Si signore.» Stranamente mi sentivo sereno quando ero lì. Non c’era niente che potesse contaminare quella serenità. I pensieri negativi rimanevano fuori dalla porta e fino a quando non varcavo quella soglia, potevo considerarmi al sicuro. Potevo considerarlo come la casa che avevo sempre desiderato.
Carlie,una cameriera molto estroversa e abbastanza sfrontata arrivò subito con un’ordinazione:
«Allora Denny: un caffè,un cappuccino e un cornetto alla nutella per il tavolo tre.» Sorrise mostrando i suoi denti perfettamente bianchi e mi fece un occhiolino. Sospirai. Non perdeva mai occasione per “provarci” con me.
«Ti ho detto mille volte di non chiamarmi Denny. Daniel. Il mio nome è Daniel.»
«Uhm. No.» Ridacchiò e si avviò a un altro tavolo.
Era una ragazza abbastanza carina con un bel portamento e nonostante quella faccia da barbie era dotata di un’intelligenza incredibile. Si era laureata in qualcosa,non ricordavo bene in cosa; e non riuscivo proprio a capire perché lavorasse qui. Se glielo chiedevi, rispondeva sempre: “Perché mi piace stare in mezzo alla gente”. Io non ci credevo molto,ma come il resto degli altri non facevo domande.
Preparato ciò che era scritto sull’ordinazione la chiamai ma stava facendo la civetta con dei ragazzi e lasciai correre. Mai disturbare una ragazza mentre sta pescando. Me lo ripeteva sempre Eithan. Decisi di servire io l’ordinazione al tavolo tre. Preparai uno dei miei sorrisi ammaliatori -che molto spesso mia sorella mi diceva di non saper resistere- e mi avviai al tavolo. C’erano due ragazze che discutevano. O meglio una che parlava animatamente all’altra mentre quest’ultima sembrava non darle proprio retta.
«Ecco a voi la vostra ordinazione. Scusate l’attesa.» Dissi interrompendole. Mi sentii squadrare da capo a piedi da quella troppo chiassosa. L’altra mi diede solo un’occhiata fugace.
«Non ricordavo che questo locale avesse camerieri così carini.» Cinguettò
«Manchi molto da casa Carol.» Rispose l’altra.
«Credo che tornerò più spesso qui allora.» Disse facendomi l'occhiolino.
«Sarei lieto di rivedervi.» E ritornai dietro al bancone. Eithan sarebbe stato felice se ci fossimo aggiudicati altri clienti e che magari avesse sparso la voce lì dove abitava. Magari quando si sarebbe aperta la stagione estiva, il locale avrebbe avuto un afflusso maggiore rispetto agli altri anni.
Dopo una mezzoretta, le ragazze del tavolo tre vennero alla cassa per pagare il conto.
«Offro io Angy.» Disse la ragazza che doveva chiamarsi Carol;l’altra annuì.
«Oh. Organizzate musica dal vivo la sera?» Mi chiese.
«Si.» Dissi digitando sulla cassa il conto.
«E da quando?» Era davvero una ragazza troppo chiacchierona.
«Da sempre Carol. Da sempre.» Sbuffò l’altra. «C’era anche quando venivamo prima.»
Carol le diede una gomitata. Ah. Ora capivo, voleva attaccare bottone. Con me poi. Che bella fortuna.
Dal nulla comparve Carlie: «V’interessa la musica dal vivo?La prima serata è stata lunedì,ma la prossima è questo giovedì. Non dovete perdervela. Il gruppo è fantastico. E ci sarà anche questo bel fanciullino.» Disse facendo segno nella mia direzione.
Poteva evitare l’ultima frase,anche se dovevo ammettere che anche con poche semplici parole sapeva come trascinare una folla al suo seguito. Non per niente era l’addetta alla pubblicità del bar.
Alla ragazza s’illuminarono gli occhi alla frase “E ci sarà anche questo bel fanciullino.” Tant’è che si era voltata verso l’amica e le disse che sarebbero dovute venire a tutti i costi. Poi pagarono il conto, mi sorrise un’ultima volta e se ne andarono. Quando fui certo che nessuno mi stava guardando,mi girai verso Carlie e riversai il mio disappunto su di lei.
«Ma che cavolo ti dice la testa?»
«Perché?» “Perché?”
«Far illudere le clienti,che bel modo di fare pubblicità. Ti ho detto un casino di volte di non mettermi in mezzo e tu cosa fai?»
«Sei proprio noioso,sai?Hai quegli occhi stupendi. Quell’azzurro in cui sprofonderei. E tu non mi permetti di usarli a favore della nostra piccola casa.»
«Ovvio che no!Non sono interessato a quel genere di ragazze e non ho voglia di fare il babysitter tutta la sera. Vedi di smetterla o non. . .»
«O non?Tu non sei interessato a nessun genere di ragazza,non solo a quelle come lei. Ti sei chiuso in te stesso e non permetti a nessuno di entrare. Che razza di vita è mai questa?Non hai amici,non degni di uno sguardo le ragazze,non vivi. Ti stai solo lasciando morire. Questa è la verità.»
Non avrebbe potuto dire di peggio, anche se lo avesse preparato in precedenza. E la cosa che mi faceva davvero rabbia era che aveva ragione. Stavo uccidendo la mia anima. Non riuscivo a ricostruire le fondamenta della mia vita. Tutto era crollato e più passavano i giorni più la voragine aumentava. Tutto era a pezzi. Non riuscivo nemmeno a concepire una nuova vita. Non era sbagliato quando la dottoressa diceva che desideravo ancora la morte. Non potevo negarlo.
«Puttana.» E mi voltai. Non potevo tenere a bada l’orgoglio ferito e me ne uscii con l’insulto più ignobile che si potesse fare a una donna.
«Come mi hai chiamato?» La situazione si stava surriscaldando e non potevo fermarla,le parole mi uscivano prima che potessi fermarle.
«Mi hai sentito. Sei anche sorda?»
«Tu!Stupido idiota di un. . .»
«Hey,hey che succede?Cos’è questa tensione?»Eithan era comparso alle mie spalle giusto in tempo prima che la situazione degenerasse.
«Io mi prendo una pausa.» Dissi e uscii.
Mi sedetti su una panca accasciando le spalle al muro. Mi accesi una sigaretta e guardai il sole comparire da dietro le nuvole. Per il resto del mondo si prevedeva una giornata serena,per il mio era invece uno dei più cupi,dopo settimane “tranquille”.

Giovedì sera.
Anche oggi il tempo sembrava essere trascorso in un baleno ed era meglio così almeno non avevo il tempo per uccidermi con i miei pensieri. Quando ero da solo a tu per tu con la mia testa,a farci i conti,non ci mettevo molto a ritornare a quella sera e a quella prima ancora e a quella dove è iniziato tutto. Perciò qualsiasi tipo di cosa mi teneva impegnato andava bene. Anche fare i doppi turni al locale. Di solito li facevo solo due volte a settimana ma ieri avevo sostituito un collega e ora eccomi di nuovo qui,in piedi dalla mattina a servire gente di ogni genere. Non era così semplice come credevo anzi, era massacrante. Sarei solo voluto sprofondare in un letto. Per di più era la serata dedicata alla band e ciò voleva dire più gente e maggior lavoro. Dopo la discussione di ieri con Carlie,poi,non avevo smesso di pensare a Charlotte a com’ero cinque mesi prima. Eccoli i sensi di colpa. Eccoli lì scavalcare le macerie della mia anima e smembrare ciò che restava del mio spirito. Sospirai. Prevedevo una pessima serata. Rispondevo come un automa alle ordinazioni,non sapevo quanta gente fosse entrata o uscita;vedevo solo un ammasso di macchie scure scorrermi davanti agli occhi. Era così che procedeva la mia vita?Sbiadita?Senza nessun colore a definirla. La mia psicologa diceva che avevo fatto molti passi avanti,ma io non ne vedevo,al contrario mi sentivo catapultato sempre più indietro e più in profondità.
«Ma ciaaaao!!» Una voce squillante mi catapultò nel mondo vero,quello, dove la sofferenza ti pugnalava alle spalle senza farsi sentire. Una ragazza dal viso vispo ed esuberante mi fissava;gli occhi di un verde brillante,pieno di vita. E la chioma bionda ben arricciata le incorniciava il viso. Al suo fianco una ragazza dall’aria cupa guardava in direzione del palco,verso la band che faceva il soundcheck. Capelli di un castano ramato e occhi scuri come la notte. Quella strana combinazione mi era familiare. Due ragazze opposte tra loro. La luce e il buio. Il giorno e la notte. Non ricordavo però, dove l’avessi viste.
«Non di ricordi di noi?» Disse imbronciata quella piena di luce. Sbatté gli occhi in modo civettuolo e allora mi ricordai. Erano le ragazze del giorno prima. Quella ragazza troppo vivace per i miei gusti.
«Ma certo.» Dissi sorridendo.
«Bene, mi stavo offendendo. Comunque non ci siamo presentati. Io sono Carol e tu?»
«Ehm. . Daniel. Piacere.» Che strazio.
«Oh ma il piacere è tutto mio. Che bel nome Daniel.»
«Io prendo posto.» S’intromise l’amica. «Vedi di sbrigarti.»
«Certo certo Angioletto mio.» Poi si rivoltò verso di me «Allora. . .»
Ma prima che potesse dire altro, la interruppi «Scusa ma devo servire dei clienti.» Dissi e mi volatilizzai. Avevo intenzione di non finire più sotto il suo radar. Avevo la netta sensazione che se mi avesse preso tra le sue grinfie, non avrei avuto una serata tranquilla.

La serata procedeva e arrivava sempre più gente,specialmente ragazze. A quanto pare si era sparsa la voce che il cantante della band era un gran figo. Non avevo più visto quelle due ragazze anche perché avevano occupato posto a un tavolo vicino al palco per ascoltare meglio la musica,almeno credevo. E quella non era la mia zona,fortunatamente. Il mio posto era al bar. In questo preciso momento amavo Eithan più di qualsiasi altra persona al mondo. Forse non sarebbe stata una brutta serata come presumevo. I miei sensi di colpa e il resto del mondo erano fuori dalla porta e non mi avrebbero fatto un’improvvisata.
«Ehy ma hai visto quella?»
«Chi?»
«Oh. . .Ma che gran gnocca.»
Dei ragazzi seduti al bancone di fronte a me, stavano facendo commenti poco decenti su una ragazza che avevano appena visto. Mi disgustavano. Non mi piaceva che si parlasse di una donna come se fosse un oggetto.
«Ma non lavora qui?»
«No ma dai!Dici sul serio?»
«Si ti dico. Capelli biondi,occhi azzurri. Ha la faccia da bambolina.»
«Mah!Non l’ho mai vista.»
«Ma perché tu non vieni mai di mattina. Ah ecco. Si chiama Carlie.»
A quel nome sussultai. Carlie. Non avrei mai immaginato che sarebbe venuta. Di solito non lo fa. Ed ero abbastanza tranquillo. Dalla mezza discussione di ieri tra noi i rapporti erano ancora tesi. Da parte mia maggiormente. Il mio orgoglio non voleva cedere e per quanto ci provassi, vinceva sul buon senso. Mi girai nella direzione in cui stavano guardando quei ragazzi e la vidi lì a un angolo parlare con delle ragazze. I capelli erano sciolti e li cadevano sulle spalle morbidi. Indossava una minigonna e tacchi alti. Sembrava davvero una barbie. Come si poteva essere così perfetti?
Si avvicinò al bancone ancheggiando,sorrise dolcemente ai ragazzi che stavano appunto parlando di lei e mi salutò con un cenno della testa.
«Una birra Daniel. Grazie.» Il suo tono era come il solito,ma notavo una punta di acidità nella sua voce e la sua occhiata sprezzante mi fece capire che non mi sbagliavo. Gliela versai in un bicchiere e mi allontanai per servire altri clienti.
«Daniel,che fai?Scappi?»
«Cosa?» Mi voltai verso di lei e mi sorrideva malignamente.
«Sto lavorando adesso.»
«Due chiacchiere con un’amica,dai. Ah. . .giusto tu non hai amici.»
I ragazzi al suo fianco mi guardarono e sogghignarono a quel commento pesante. Presi un respiro profondo e la ignorai allontanandomi il più possibile. Un’altra cosa che la psicologa mi aveva detto era quella di non cedere alle provocazioni,di contare fino a dieci prima di aprire bocca e dire qualcosa di sgradevole. E ne avevo di cose da dire sul suo conto.
La serata tranquilla si era trasformata in un incubo,non riuscivo a non pensare alla lingua tagliente di Carlie,sapeva sempre quale tasti premere. Una ragazza dall’apparenza dolce aveva in profondità un’anima scura,capace di ferire gli altri con una sola parola. E io non ero altro che un’altra delle sue vittime. L’avevo vista spezzare anime ben più solide della mia senza un minimo rimorso e solo perché per lei era la cosa giusta da dire.
Come si concluse tutto ciò?Avevo iniziato a bere e a fregarmene dei clienti. Bel modo per offuscare i pensieri. Dovevo smettere ma ormai avevo iniziato quella corsa che come una calamita mi attirava verso un traguardo dove non vi era una luce,una fine,ma solo una strada sterrata,buia e deserta.
Non poteva andare peggio.

Stavo fumando la terza sigaretta o la quarta,avevo perso il conto. Certo era che ne avevo fumate più di quanto ne fumavo normalmente. L’alcol aveva i suoi difetti. Ti faceva perdere i sensi: la ragione,la morale e la razionalità non esistevano più,erano sbiaditi nella più totale irrazionalità e incoscienza. Sapevo che mi sarei pentito amaramente di qualsiasi cosa avessi combinato o che avrei fatto da lì ai prossimi minuti salvo che qualche anima pia non venisse in mio soccorso. Un altro “pregio” dell’essere ubriaco è che non t’importa, anzi era come se ti spingesse verso tutte quelle idiozie che la ragione nega e nega e che influenzati dalla coscienza non facciamo. Ed ecco un altro sorso di vodka. Avevo sottratto una bottiglia intera dal bar e ora ero qui a finirla un sorso alla volta. Un altro pregio?Non si pensa. Niente. Vuoto. Il bianco. Colore neutro che non ti faceva deprimere ma nemmeno gioire. La sensazione d’ilarità era solo una mera illusione che dopo una sana dormita sarebbe sparita via. Non sapevo perché proprio in quel momento stessi pensando ai pregi e ai difetti del bere,ma almeno non pensavo ad altro.
«Cosa fai qui?» Mi sorprese una voce alle spalle. Non riuscivo a identificarla. Mi voltai a guardarla ma avevo la vista annebbiata, vedevo solo qualcosa di chiaro intorno al viso,una luce. Inquadrai meglio la figura,ma nonostante cercassi di mettere a fuoco, riuscii a capire che quella luce non era altro che il biondo dei capelli. Era una ragazza ne ero certo.
«Daniel?» un altro dettaglio: mi conosceva.
Spostò lo sguardo da me alle mie mani e poi mi riprese: «Non dovresti bere lo sai. Stai lavorando.»
«Che t’importa.» Mi voltai verso la luna nascosta in parte dalle nuvole.
«Mi preoccupo per te lo sai.» Disse con uno strano tono dolce come se mi conoscesse da tanto. E nonostante quel tono mi sembrasse sempre più familiare non riuscivo a riconoscerlo. Si avvicinò e si sedette accanto a me.
«Cos’è successo?» Mi chiese.
«Non sono affari tuoi.» Risposi seccato.
«Che tristezza.» Fu il suo commento.
Certo ero ubriaco ma potevo ancora capire che quello era un tono compassionevole. Provava pietà per me e non potevo accettarlo chiunque fosse.
«Mi dici che cazzo vuoi?» Dissi voltandomi di scatto verso di lei gettando a terra la bottiglia di vodka. Ormai avevo finito di fumare e avevo le mani libere e quasi non le saltai addosso.
La ragazza a quanto pare si era spaventata perché incominciò ad allontanarsi.
«S-scusami. . .Daniel,ti lascio solo.» Ormai era quasi vicino alla porta sul retro del locale quando si fermò.
«Daniel forse non sembra ma mi stai a cuore,forse a te non importa ma a me sì. Ero solo preoccupata tutto qui.» rimase ferma in quella posizione ancora un po’ in attesa di una qualche mia reazione.
«Cosa ho fatto per meritare tanta premura da parte tua?» Mi ero alzato anch’io pur barcollando ero arrivato alle sue spalle. Ancora non riuscivo a capire chi fosse,ma qualcosa mi diceva che ci conoscevamo da abbastanza tempo da permetterci questa confidenza. Si girò e mi fissò negli occhi. Sembrava preoccupata davvero. Alternando momenti lucidità e non,il viso mi era sempre più chiaro,ma avevo come chiusa a chiave la porta con i nomi e i volti di tutte le persone che conoscevo perché il suo volto non mi diceva nulla. Solo la sensazione di familiarità mi permise di capire che la conoscevo.
Mi avvicinavo sempre di più. Il volto a pochi centimetri dal suo. Che stavo facendo?Non avevo nessun controllo di me.
«D-Daniel c-che fai?» Disse tremante allontanandosi da me,ma io la afferrai portandola di spalle al muro.
Ed ecco la causa di ciò che mi aveva portato a bere quasi un litro di vodka in poco tempo. Come un sussurro, le parole di Carlie del giorno prima affioravano nella mia mente.
“. . .Tu non sei interessato a nessun genere di ragazza,non solo a quelle come lei. Ti sei chiuso in te stesso e non permetti a nessuno di entrare. Che razza di vita è mai questa?Non hai amici,non degni di uno sguardo le ragazze,non vivi. Ti stai solo lasciando morire. Questa è la verità.”
Quelle parole mi fecero più male del previsto. Aveva ragione. Non riuscivo a scrollarmi di dosso quella sensazione di nausea. Cazzo. Sì che aveva ragione. Ma allora perché non riuscivo ad accettarlo?Perché sentivo la necessità di dimostrarle che si sbagliava?Alcol?Orgoglio?Non capivo più niente.
Stavo per fare qualcosa per cui i miei bisogni di maschio mi avrebbero ringraziato. Prima che la mia mente offuscata dall’alcol ragionasse e prendesse atto delle mie azioni avevo già infilato la lingua nella bocca della ragazza. Non rifiutava,anzi,sembrava non aspettasse altro. Quando mi staccai, lei respirava a fatica e tra un sospiro e l’altro mi disse: «Non è ciò che vuoi. . .»
«Ma a quanto pare lo vuoi tu.» Sorrisi e ripresi a baciarla.
Le sfiorai la spalla fino a scendere sempre più giù fino al suo fondoschiena. Le mani non indugiavano su quel corpo sconosciuto,erano attirati da tutte quelle forme poste al punto giusto. Anche lei non si tratteneva e questo mi spinse a continuare anche perché preso com’ero dal momento, non avevo la volontà di fermarmi. Le infilai le mani sotto la gonna e la tirai su. Avvinghiò le gambe ai miei fianchi ed emise un gemito. Tirò la testa all’indietro e inarcò il corpo permettendo alle mie labbra di percorrere il suo petto con passione. I nostri corpi emanavano calore. Sentivo qualcosa agitarsi sotto di me e capii che non potevo più aspettare. E feci qualcosa che non mi avrebbe dato pace per molto, molto tempo.

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Capitolo 3
*** Assumersi le proprie responsabilità ***


Capitolo 3

Capitolo 3

Assumersi le proprie responsabilità


«Ho fatto un’enorme cazzata.» Dissi entrando nello studio della dottoressa Meyer,mi accasciai sulla poltrona buttando la testa all’indietro e massaggiandomi le tempie. La testa mi scoppiava e niente sembrava voler calmare quel dolore.
«Cos’è successo Daniel?» Mi chiese tranquilla la dottoressa.
«Cosa non è successo!» Borbottai. «Se solo riuscissi a ricordare cosa diavolo ho fatto ieri sera.» Ricordavo poco e niente,solo che dalla comparsa di Carlie tutto era degenerato e mi ero svegliato con un insopportabile mal di testa a casa di Eithan. Non lo avevo trovato in casa,c’era solo un biglietto con scritto che mi avrebbe dimezzato la paga se avessi ripetuto ciò che avevo fatto ieri. Fare arrabbiare Eithan era un evento raro. Per di più non riuscivo a ricordare cosa avessi fatto. Solo la sensazione di aver fatto un’enorme cazzata era persistente e il senso di colpa non mi dava tregua.
«Allora,cerca di calmarti e riordina le idee. Partiamo dall’inizio. Fai un respiro profondo e racconta.»
«Sa,le ho già detto come il bar in cui lavoro riesca a distogliermi dai brutti pensieri.» Iniziai a raccontare e lei ascoltava con calma. «Solo che qualche mattina fa,Carlie,una ragazza che fa la cameriera. . .»
«Una ragazza?Daniel non mi avevi detto che c’era una ragazza!»
«No non è come crede. Non la considero neanche un’amica.» Continuai a raccontarle di quella mattina e anche della serata appena trascorsa,almeno fin dove ricordavo.
Dopo aver terminato il mio monologo aspettavo una sua risposta che tardò ad arrivare rendendomi ancora più inquieto. Tamburellavo con le dita sul bracciolo della poltrona incapace di restare del tutto fermo.
«Daniel.» Esordì incrociando le mani davanti a sé. «Ciò che è successo ieri non ha niente di positivo,lo sai questo,vero?» Annuii. Certo che lo sapevo.
«Credo che sia ora di smetterla di giocare e dovremmo scavare più in profondità,che ne dici?»
Non riuscivo a capire dove volesse andare a parare così non dissi nulla.
«In questo periodo non abbiamo fatto altro che girarci intorno,eccetto alcune volte non abbiamo mai parlato di “quello”. Pensavo che alla fine avresti introdotto tu l’argomento,però mi sbagliavo.»
“Giocare”? E chi stava giocando? Come osava insinuare che io per tutto quel tempo avrei giocato? Non sarei qui se non la prendessi sul serio. La rabbia iniziava a montare. Dovevo calmarmi. Inspirai ed espirai. Mi tenevo saldo alla poltrona come se fosse la mia ancora di salvezza.
«So a cosa stai pensando. . .Forse ti sembro troppo severa,ma è arrivato il momento di incamminarci verso l’origine del problema. Non dico che dobbiamo arrivarci subito,però è ora che smetti di aggirare gli ostacoli e inizi a scavalcarli.»
«Vuol dire che le cose che mi ha detto l’ultima volta erano solo menzogne? Che non ho fatto progressi?» Non so da dove provenisse tutta quella calma ma. . .pensandoci,facendo sbollire la rabbia iniziavo a capire cosa volesse dire.
«No. Non ho detto questo. È che quando fai un passo avanti ne fai cento indietro.»
Dopo avermi guardato come a cercare di decifrare le emozioni che esplodevano come atomi in collisione dentro di me,ma che non dimostravo all’esterno,proseguì: «Allora,ti va?»
La consapevolezza di quelle parole mi faceva stare male,lei non aveva mai insistito,aveva ascoltato con calma e pazienza i miei racconti e io mi ero innervosito non perché mi sentivo preso in giro ma perché era la verità e seppur faceva male era la verità. Non credevo di essere pronto,perché ciò voleva dire che dovevo scavare nei recessi della mia anima,ripescare dall’oceano di ricordi,quelli più dolorosi. Mia madre. Mia sorella. E poi Lei. Aveva ragione la dottoressa. . .Non avevo fatto altro che girarci intorno. Pensavo,anzi,speravo che sarei riuscito ad evitare quei discorsi,che la causa dei miei problemi non fosse legata alla mia famiglia,ma a un mio problema psicologico,però. . .Non era così.
«Non credo di essere pronto.»
«Daniel,un passo alla volta. Non dobbiamo arrivarci subito. Con calma. Continuiamo così come stavamo procedendo. Ok?»
Annuii. Feci un respiro profondo. Le mai mi tremavano e iniziavo a sudare. Il solo pensiero mi metteva in agitazione. Mi congedò dicendomi che aveva un altro impegno,pregandomi di richiamarla non appena mi fossi ricordato cosa fosse successo la sera prima.
Stavo uscendo dalla sala d’attesa dello studio ed ero troppo pensieroso per accorgermi della presenza che avevo di fronte finché non ci sbattei contro.
«Ahi!» Esclamò la piccola figura davanti a me.
Una ragazzina dallo sguardo impertinente particolarmente familiare mi guardava con disappunto. I capelli del colore delle foglie in autunno,la pelle un po’ pallida e occhi che bruciavano segreti che nessuno avrebbe mai scoperto. Lo capivo perché era la stessa cosa che tentavo di fare pur io. Solo che i suoi erano occhi che sapevano mentire;era un ottima attrice. La guardai con attenzione ed ebbi un flashback;ricordai dove l’avessi vista. Riuscii a capire perché mi provocava un senso di familiarità la sua presenza. La prima volta l’avevo vista qui allo studio qualche tempo prima;era la stessa ragazza che la dottoressa Meyer mi chiese di far entrare dopo di me e poi l’ultima volta ieri sera al locale. La stessa persona che stava nell’ombra di quella che ci aveva provato con me. La biondina vispa e sfacciata il cui nome mi sfuggiva. Ecco un altro flashback. L’ultima cosa che ricordavo della sera prima era la figura di una ragazza snella dalla chioma bionda e poi. . .No. No. No. Non era possibile. Non con una sconosciuta. L’alcol ti faceva fare cose che da sobrio non faresti mai e ti fa provare sentimenti contrastanti ma non avrei mai fatto una cosa del genere. Però. . .era l’unica spiegazione possibile al senso di nausea e disgusto che provavo nei mie confronti. Dovevo averne la conferma. Mi faceva rabbia perché non ero così. Non bevevo più. Non fumavo più. E non facevo sesso con la prima che capitava. Volevo davvero rimettere tutto in ordine.
«Noi ci siamo già visti,vero?» Chiesi cautamente.
«Dici?» Fece una smorfia.
«Ieri tu e la tua amica siete venute al bar,no?»
Lei annuì. Bene dovevo procedere con calma. Solo che non riuscivo più a parlare,ero come paralizzato. Lei mi guardava incerta. «Tutto bene?» Mi chiese. Annuii. Non andava,però,per niente bene. Stavo facendo la figura del perfetto idiota.
«Ma poi. . .Alla tua amica è piaciuto lo spettacolo. . .?» Non avevo intenzione di chiederle quello,però girarci intorno era l’unico modo per scoprire cosa avessi fatto. Se avevo fatto qualcosa con la sua amica, lei doveva saperlo.
«Mmmh. . .Si,direi. Ma non siamo rimaste fino alla fine. Avevamo altri impegni.» Disse con uno strano tono evasivo. Ritornai a respirare. Okay, non avevo fatto nulla con una sconosciuta.
«Posso andare?»
Solo allora mi accorsi che la bloccavo per le spalle,prigioniera tra le mie braccia e la porta. Mi guardava imbarazzata,spostando lo sguardo da me a ciò che le stava intorno non trovando qualcosa a cui agganciarsi e rimanere ben salda. Sembrava una bambina piccola piccola. Ciò che vedevo era una ragazza timida e insicura ed io non la stavo per niente aiutando a sentirsi a suo agio. Mi scansai per farle prendere aria.
«E che non ricordo cosa ho fatto ieri.» Provai a giustificarmi, anche se non era necessario.
«Beh. . .Potresti chiedere alla tua ragazza. . .»
“La mia ragazza?” Io non avevo una ragazza. Di chi stava parlando?
«Di chi parli?» Ero alquanto perplesso e immaginavo che mi si leggesse in faccia perché poi aggiunse: «Ehm no forse mi sono sbagliata. . .»
«No!Mi hai visto con qualcuna?»
«Beh,si. . .Con quella ragazza che lavora con te. Bionda,alta,occhi azzurri. Sembra faccia la modella.»
Quasi non mi venne da vomitare. Non era possibile e tanto meno volevo accettarlo,però i fatti erano quelli e avevo la testimonianza di questa ragazza. Mi allontanai da lei. «Ah. . .Ok,grazie.» Dissi quasi in un sussurro. Lei disse qualcosa che non capii perché ero troppo sconvolto,vidi solo la sua figura sparire dietro la porta,lasciandomi solo. Scesi le scale barcollando. Se non ci fosse stata la ringhiera a sostenermi sarei probabilmente caduto. Ero davvero un’idiota e adesso lo sapeva anche Carlie. Come avrei mai potuto rimediare?Mi sentivo in colpa,dovevo far qualcosa.

A casa cercai di pranzare,però mi si era chiuso lo stomaco. Ero rimasto con la forchetta sospesa a fissare un punto imprecisato. I pensieri vorticavano come un ciclone che non era intenzionato a calmarsi,sbattendomi da una parte all’altra. Da un pensiero all’altro,senza sosta.

«Tu sei un bravo ragazzo Daniel.» Mi disse dolcemente accarezzandomi la testa. Stavo piangendo. Erano settimane che non facevo altro. Mi rifugiavo sempre da lei. Poggiavo la testa sul suo grembo a mi lasciavo avvolgere dalle sue carezze. Era l’unico modo per calmarmi. Quel giorno ,però,non ero l’unico a soffrire;silenziosamente calde lacrime mi colpivano il viso come gocce di pioggia che preannunciano un temporale. Solo che quel temporale non sarebbe arrivato,non quel giorno. Anche lei soffriva e piangeva,lo sentivo dalla mia camera. Non voleva che la vedessi e quindi non si faceva mai vedere da me. Diceva che doveva essere forte per aiutarmi,lo faceva per me. Avevo 15 anni e dovevo essere io quello più forte, me lo ripetevo sempre, ma le lacrime avevano una loro forza e riuscivano sempre a vincere.
«Sssh!Non è colpa tua,lo sai. Non ascoltarlo. Devi fidarti di me.»
Erano passate tre settimane. Tre settimane di tormento e il senso di colpa non si era mai dileguato.
«Cosa state facendo?» Irruppe nella stanza una voce rude. Jey coprì il mio volto con le sue candide mani. Il suo dolce profumo alla vaniglia. Lo adoravo,era il mio preferito. Non lo avrei mai dimenticato.
«Nulla,Daniel non sta tanto bene.» Disse mentendo. Lui non voleva vedermi piangere. Diceva che dovevo assumermi le mie responsabilità e piangere non sarebbe servito a niente. Non sarebbe tornata indietro.

Quel ricordo sfumò riportandomi alla realtà. Al presente. A come avevo perso il controllo per una piccola critica al mio stile di vita solitario. Presi il piatto,ancora mezzo pieno della pasta che avevo cucinato molto velocemente, e lo misi nel lavandino. Presi il telefono e chiamai Eithan.
«Oh salve!» Esordì lui con un tono non tanto amichevole. Forse era ancora incazzato.
«Ciao,lei è lì?» Chiesi senza tanti giri di parole.
«No,non è venuta. . .Alla fine ti sei ricordato?»
«Credo di si. . .» Dissi esitante.
«Dovresti chiamare lei. Non ti farò da intermediario.»
«Lo so,hai ragione.»
Chiuse la chiamata senza darmi il tempo di spiegare. Era ovvio che già sapesse tutto. Avevo notato una certa confidenza tra quei due. Decisi di fare un’altra telefonata prima di chiamare Carlie. Chiamai la mia psicologa e rispose più dolcemente del precedente interlocutore e ascoltò le mie novità. Gliel’avevo promesso e cercavo sempre di mantenere la parola data. Mi consigliò solo di parlare con Carlie e spiegarle il perché del mio comportamento. Mi presi una serata libera per pensare ed Eithan non obbiettò. La mattina dopo avrei dovuto fare una bella chiacchierata con la causa del mio mal umore.

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Capitolo 4
*** Parlare. ***


capitolo 4

Capitolo 4

Parlare.


Ero fermo da quasi un’ora ad osservare il display del mio cellulare. Su quel numero. Su quel nome. Dovevo far qualcosa. Dovevo dirle qualcosa. Scusarmi forse?Come minimo. Come cominciare?Dio che cosa imbarazzante. Non riuscivo a smettere di sentirmi come quel ragazzino un pò timido quel ero al liceo. Non ero mai stato capace di parlare con le ragazze senza sentirmi un pò a disagio e anche tuttora parlare di certe cose con le ragazze mi metteva alquanto in imbarazzo. Per questo motivo cercavo di avere meno contatti possibili con l’altro sesso,non contando il fatto che prima dovevo superare il mio crollo psicologico e poi, solo allora avrei potuto affrontare un qualche tipo di relazione. Nonostante tutti i casini che dovevo affrontare ogni giorno nella mia testa,ci mancava pure questo.
Le donne erano davvero la rovina degli uomini. In qualsiasi caso,in qualsiasi situazione ne cercavamo l’esistenza. Per quanto potevamo odiarle,tradirle,trattarle male,alla fine avevamo sempre bisogno del calore che solo loro potrebbero darci.
Finalmente riuscii a poggiare il dito sul suo nome facendo partire la chiamata. Rispose dopo un paio di squilli.
«Daniel?» Rispose sorpresa.
«Hei,ciao. . .Senti credo che dovremmo parlare.» Non sapevo dove avessi trovato tanta calma e sicurezza,sapevo solo che dovevo risolvere la questione al più presto.
«Mmmmh. . .Ora avrei un pò da fare.»
«Dai ti rubo solo cinque minuti,dove ci vediamo?»
«Daniel sto andando al bar. . .Melissa non c’è e Eithan ha bisogno di me.»
“Eithan ha bisogno di me.” Non so perchè ma quell’ultima frase mi innervosì.
«Ah.»
«Magari faccio un salto al locale stasera,ok?» Propose.
«Va bene.»
«Ok,scusa ma ora devo andare. Ciao!» E chiuse la chiamata senza aspettare un mio saluto.
Ero un fascio di nervi. Non riuscivo a ricordare perfettamente gli avvenimenti di quella sera e non ero per niente tranquillo,poi quella frase : “Eithan ha bisogno di me.” mi aveva reso un pò. . .Non sapevo nemmeno io che mi stava prendendo. Che mi stava succedendo?Per cinque mesi avevo represso ogni tipo di emozione che non fosse dolore. Rabbia,gelosia,felicità. Le avevo sepolte tutte. Non sentivo più nulla. Era da quando avevo iniziato la terapia che tutto stava cambiando e non ero certo di volerlo. Quelle emozioni facevano più male del dolore perchè ciò voleva dire che ero ancora vivo e lei no. No. Loro non  c’erano più.
Decisi di uscire per ingannare il tempo. L’aria era fresca e pungente nonostante ci fosse il sole. L’inverno non era ancora andato del tutto via. Camminando,senza che me ne accorgessi arrivai al campus dell’università. Lì c’era una quiete che mi faceva riflettere senza oppressione. La città sembrava così lontana,anche se era proprio lì,in agguato; con il suo traffico,la sua frenesia e la sua ansia.
Mi sedetti su una panchina sotto un albero e buttai indietro la testa in modo da trovarmi faccia a faccia con il cielo. Gli uccelli svolazzavano intorno a un ramo cinguettando allegramente,probabilmente avevano il nido su quel ramo. Mi piaceva quel posto ed ero solito andarci quando avevo bisogno di pensare traquillamente. Non c’erano brutti ricordi legati qui.
«Merda!» Sentii esclamare da qualcuno di fronte a me. Una voce femminile.
Alzai la testa e guardai accigliato la figura che si guardava intorno come in cerca di qualcosa. Una figura non esile ma nemmeno troppo robusta,normale forse era il termine appropriato. Jeans neri aderenti,converse e un maglioncino blu elettrico. Poteva pure essere carina, ma quando arrivai a guardarle il volto ritirai ciò che avevo pensato. Quella folta chioma marrone che dava sul rossiccio come il colore delle foglie in autunno e quel viso piccolo con occhi che ti bruciavano al solo contatto. I nostri sguardi s’incontrarono per un secondo; io dovevo sembrare un idiota con la bocca spalancata. Non che fosse brutta,anzi,era solo che io avevo troppa paura di avvicinarmi a quelle fiamme. Quella timidezza che avevo notato in lei era mascherata da una sincera determinazione. Distolse per prima lo sguardo continuando la sua caccia al tesoro. Che non mi avesse riconosciuto?No,non poteva essere. Ci eravamo incontrati più volte nell’ultimo periodo. Perchè speravo che si ricordasse di me?Che m’importava?
All’improvviso si sedette sull’erba come se si fosse arresa,tirò su le ginocchia al petto e ci appoggiò il viso mormorando qualcosa.
Qualcosa mi spinse ad andare da lei,non capivo cosa fosse. Il cervello mi diceva di starmene lì a fare gli affari miei ma le gambe si muovevano da sole.
«Cosa vuoi?» Disse quando la mia ombra la coprì.
«Ciao,innanzitutto.» Mi stavo già pentendo,non mi aspettavo una simile reazione.
«Ciao.»
«Stai bene?» Wow,io che mi interessavo agli altri. Fantastico,stavo impazzendo.
«Ti importa qualcosa?» Al contrario lei non sembrava molto intenta a conversare. Fece un respiro profondo e quando stavo per alzare i tacchi,maledicendomi per il mio colpo di genio mi disse: «Ho perso un anello.»
Alzò la testa e mi guardò dritto negli occhi,i suoi erano lucidi;mi fecero tenerezza. Tolta quella finta arroganza, che usava come maschera per chissà quale motivo,dietro c’era una ragazza semplice con degli occhi che mi spezzavano il cuore tanta era la tristezza che trasmettevano. Non poteva essere a causa di un solo anello.
«Era importante?» Non riuscivo a capire perchè mi stessi interessando a lei.
«Vuoi che ti aiuti a cercarlo?» Le chiesi visto che non rispondeva. Annuì con la testa. Non so cosa mi spinse a cercare l’anello di un’estranea,ma sentivo di doverla aiutare.

La mattinata passò così,senza neanche accorgermene arrivò l’ora di pranzo. Eravamo seduti su quella panchina entrambi esausti. Ripensando a qualche istante prima,a due estranei che cercano un anello in enorme prato coperto di fiori e cespugli,un pò come due ragazzini che fanno una caccia al tesoro. Scoppiai a ridere. La ragazza mi guardò perplessa. Erano secoli che non ridevo così di gusto e avevo quasi le lacrime agli occhi. La scena era troppo comica.
«Cosa ti fa ridere così?» Mi chiese quasi infastidità.
Mi calmai e asciugai le lacrime. «Beh. . .Sembravamo due ragazzini,se penso a prima non riesco a smettere di ridere. Sarebbe stato impossibile trovarlo vista la grandezza del parco e nessuno di noi ci ha pensato. Niente tutto qui. Mi ha fatto ridere.» Facendoglielo notare sorrise pure lei,ma guardava con malinconia il mare d’erba.
«Era importante?» Le provai a chiedere di nuovo.
«Si.» Sospirò.
«Mi dispiace.» Non sapevo che altro dire.
Feci per alzarmi quando vidi qualcosa brillare tra le radici dell’albero;il sole era ormai alto e luminoso,creava fasci di luce calda. Mi avvicinai e raccolsi il piccolo oggetto circolare. Era di oro bianco,semplice,dalla superficie liscia.
«Credo che la caccia al tesoro termini qui.» Annunciai.
«Già,scusa se ti ho fatto perdere tempo.»
Spalancai il palmo della mano con l’oggetto che luccicava. Fu divertente vedere la sua faccia quando vide l’anello brillare e lo prese rigirandoselo tra le mani quasi fosse un tesoro inestimabile-che magari per lei lo era.
«Era questo immagino.»
«Si,dove lo hai trovato?»
«Qui sotto.» E le feci cenno dove poco prima mi ero accovacciato.
«Ah!»
Seguì un momento di silenzio decisamente imbarazzante. Cercavo qualcosa da dire,ma proprio in quel momento non avevo nessun idea.
«Allora. . .» Ruppe il silenzio lei. «. . .Facciamo finta che oggi non sia successo niente,ok?»
«Come?» Ero letteralmente sorpreso,non mi aspettavo una simile risposta.
«Beh,si hai capito. . .Oggi non ci siamo mai incontrati.» Mi guardava seria,gli occhi non facevano trasparire nulla.
«Ok!» Dissi scrollando le spalle.
La sconosciuta,ecco cos’era per me,un’estranea. Non sapevo neanche il suo nome. Se ne andò senza salutare lasciandomi in balia del vento e con uno strano sapore amaro in prossimità della bocca dello stomaco.
Non sapevo cosa mi aspettassi,ma quel breve momento di pura ironia mi aveva fatto dimenticare tutto,compreso me stesso;il Daniel di pochi mesi prima era scomparso per un momento.
Il cellulare iniziò a vibrare nella tasca dei jeans riportandomi alla realtà,risposi istintivamente senza neanche guardare chi fosse : «Pronto?»
«Daniel?Sei tu?» Mi pietrificai al suono di quella voce femminile troppo familiare. Aprii la bocca per dire qualcosa ma non riuscii a dire nulla.
«Daniel?Sei lì vero?Ti prego dobbiamo parlare!»
Con la mano tremante chiusi la chiamata. Avevo già parlato con quella persona e non avevo più intenzione di risentirla. Avevo chiuso da tempo con quella parte della mia vita e un’altra porta aperta voleva dire un’altra cicatrice che si riapriva e non credevo di riuscire a sopportare di nuovo quel dolore. Eccomi di nuovo ricatapultato nella cruda realtà. Sentivo lo spazio richiudersi attorno a me e diventava tutto buio,stavo soffocando. Mi accovacciai e presi la testa fra le mani. Mi dicevo di star calmo,ma l’ansia non faceva che aumentare. Ogni volta che quella cicatrice si riapriva un fiume di dolore mi scorreva nelle vene al posto del sangue. Iniziai a fare respiri profondi come mi aveva insegnato a fare la dottoressa Meyer quando avevo un attacco di panico. Lunghi respiri. Cercai di rilassare i muscoli e a liberare la mente da ogni tenebra. Piano piano il respiro tornò regolare e dopo aver acceso una sigaretta m’incamminai verso il locale per iniziare il mio turno e tenere così per mezza giornata la mente occupata.

Ormai la serata stava terminando e non avevo visto per niente Carlie. Il pensiero di parlarle mi aveva tormentato per tutta la sera e non ero stato abbastanza concentrato da dare l’attenzione che i clienti meritavano;più volte Eithan mi aveva fulminato con lo sguardo,ma non mi importava. Volevo tenere la mente occupata ma non in questo modo e non pensando ad una ragazza. Mi sentivo vuoto. Il pensiero di un mio miglioramento mi aveva fatto sperare,ma in un solo giorno era andato tutto in frantumi. Le tre persone più importanti della mia vita erano tornate come fantasmi a perseguitarmi. Il loro ricordo era sempre vivo,ma questa volta faceva ancora più male,come se rigirassero il coltello nella ferita del mio cuore che non aveva mai smesso di sanguinare da quell’inverno di quasi dieci anni prima. Senso di colpa,ecco cos’era.
Il bar era quasi vuoto e non desideravo che andar via.
«Vorrei una birra,grazie.»
Mi voltai e vidi Carlie. Rimasi con gli occhi sgranati per qualche momento non sapendo che fare. Non pensavo sarebbe venuta e invece. Poi mi sorrise dolcemente e mi rilassai un pò
«Ciao,pensavo non saresti venuta.»
Giocherellava nervosamente con l’anello che portava sempre al pollice e non mi guardava negli occhi. Era come se fosse imbarazzata.
«Possiamo parlare fuori?» Mi chiese quasi bisbigliando.
Presi due birre e andammo fuori sul retro.
Non sapevo da dove cominciare.
«S-senti. . .»
«Non mi devi alcuna spiegazione.» Mi sorrise. «Ho esagerato,me lo ha anche detto Eithan,ma. . .»
«Ma?»
«Ero preoccupata sul serio per te.» Disse in un soffio come se si fosse tolta un grande peso. D’altro canto ero alquanto perplesso. Non avevo fatto nulla per meritarmi tutta quella preoccupazione,anzi, al contrario avevo cercato di non stringere legami.
«Non fare quella faccia. Io vi considero tutti come la mia famiglia ed ero stanca di vederti sempre più scostante.»
«Tu non mi conosci,se sapessi. . .»
«Io non voglio saperlo. Tutti abbiamo qualcosa di oscuro che vogliamo tenere segreto. Ricordi,persone,perfino il proprio carattere. Non devi chiedere scusa per quello che è successo l’altra sera. In fondo non è stato male.» Rise tra se. «Spero solo che potremo diventare amici un giorno.» Mi allungò la mano. «D’ora in avanti cerchiamo di non litigare. Okay?»
«Okay!» E le strinsi la mano.
Potevo considerarlo un passo avanti. Oh si che lo era! Mi sentivo un pò più libero. Forse uno dei nodi che tenevano imprigionata la mia anima si era sciolto. Avevo affrontato una situazione scomoda senza scappare e per il me di oggi era una grande novità.
Gli scheletri e i fantasmi erano sempre lì e uno alla volta avrei provato ad affrontarli. O almeno ci avrei provato.

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Capitolo 5
*** Sorridere. ***


Capitolo 5

Capitolo 5

Sorridere.


Era ormai una settimana che la pioggia non cessava di cadere ed io ero uscito solo per necessità. Mi sedevo alla scrivania sotto la finestra e guardavo quei fili sottili scendere dalla loro casa quel erano le nuvole. Ero come incantato. Demons degli Imagine Dragons faceva da sottofondo. Ogni tanto schizzavo qualcosa su quel foglio bianco ma niente prendeva forma. L’arte era sempre stata una valvola di sfogo. Jey mi ripeteva spesso che dovevo coltivare questa mia dote,ma non c’è n’era mai stata occasione. Jey mi spronava sempre. Jey. Anche in quel periodo il cielo piangeva senza sosta e non potei far niente per impedirlo. Mi asciugai una lacrima cl dorso della mano. Mi ritrovai a pensare a quel giorno di sole al campus dell’università quando per la prima volta dopo tanto tempo sono stato sereno;avevo riso e scherzato con un’altra persona senza sentirmi in colpa. Quel raggio di luce era scomparso così com’era apparso,lasciandomi con più amarezza di quanto credessi possibile.
Fissavo il mondo al di fuori della finestra. Abitavo in un quartiere tranquillo,in un condominio per famiglie che dava su un parco deserto a causa del tempo. Il campetto da calcio era diventato ormai una piccola piscina pubblica. All’orizzonte oltre i grattacieli della città -se così si potevano definire- non s’intravedeva neanche uno spiraglio di luce. Prevedevo una giornata interminabile e per di più non avevo nulla da fare per tutto il giorno. Sarei stato io e i miei pensieri. Dovevo trovarmi qualcosa da fare o sarei ritornato negli abissi della mia anima in decadimento.
Presi l’ombrello,indossai una felpa sopra una t-shirt e uscii.
Pioveva. Pioveva. Pioveva. Ma quanto pioveva! Arrivato in centro vedevo macchine che correvano senza fermarsi,gente impegnata,negozi pieni di gente. Sembravo tutti così impegnati.
Inconsciamente i piedi mi portarono di nuovo al campus dell’università. Non sapevo cosa ci andassi a fare lì. Lasciai cadere l’ombrello e come un’automa vedevo senza guardare,il sole coperto e scavalcato dalle nuvole. Cosa stavo cercando?
La pioggia mi bagnava,cadeva incessante come lunghi fili sottili;mi sarei ammalato sicuramente ma non mi importava. Desideravo che la pioggia lavasse via e cancellasse la mia vita. Non dovevo pensare alla morte,ma. . .
Gli occhi mi caddero su una figura sdraiata sull’erba a braccia spalancate. Aveva gli occhi chiusi,ma avrei riconosciuto quel piccolo volto coronato da una chioma di capelli ramati ovunque. Perchè me la ritrovavo sempre davanti agli occhi? Che frequentasse l’università? Era domenica,però.
I capelli bagnati le circondavano gli occhi e le guance. Sembrava stesse invitando la pioggia a colpirla. Poi aprì dolcemente gli occhi ed ecco di nuovo quello sguardo triste. Ero come incantato. Non riuscivo a levarle gli occhi di dosso.
Mi stesi al suo fianco. Nella sua stessa posizione e guardavo anch’io il cielo. Che strana cosa,era una cosa piuttosto stupida,ma era piacevole. Voltammo entrambi la testa l’uno verso l’altro come ipnotizzati dalla pioggia,come se non esistesse altro che noi,la tristezza e la pioggia. Come se capissimo perfettamente il tormento dell’altro senza fare domande. Non c’era bisogno delle parole. I nostri occhi dicevano tutto. E questo bastava.
Ci osservammo per qualche minuto in silenzio. Fu lei a rompere per prima il silenzio.
«Perchè ci incontriamo sempre?
«Potrei chiedermi la stessa cosa.»
«Diciamo che ho degli impegni qui.» Puntualizzò.
«Diciamo che è domenica.» Sorrisi.
Sorrise anche lei di rimando sapendo benissimo che quella balla non reggeva ne in cielo ne in terra.
«Perchè sei sempre solo?» Mi chiese subito dopo.
«Perchè sei sempre triste?» Ribattei. Ero curioso di sapere qual’era il suo problema. In fondo l’avevo vista più volte dallo psicologo,doveva avere qualche problema. Perchè ci sperassi non lo sapevo. Volevo solo conoscerla. Non stavo pensando a cosa stessi facendo se no,non mi sarei mai avvicinato a quella donna pericolosa. «Cerchi di nasconderlo,ma si vede che nascondi qualcosa.» Ma che stavo dicendo?Dovevo farmi gli affari miei se non volevo che qualcun altro si facesse i miei di problemi.
Non rispose. Mi guardava in silenzio. Poi sorrise debolmente.
«A quanto pare i miei occhi non sanno più mentire. . .»
«A quanto pare. . .» Mi misi a sedere a gambe incrociate. Mi lasciavo bruciare da quegli occhi di fuoco. Provavo calore ed era una bella sensazione,impediva alla pioggia di raggelarmi il sangue.
«Si dice che dagli occhi si capisca cosa provi davvero una persona,non per questo si usa la frase: “Gli occhi sono lo specchio dell’anima”.»
«E cosa ci vedi te?» Ribattè prontamente come se aspettasse quell’affermazione così scontata e usata.
«Beh,mi sembri una persona alla ricerca di qualcosa. E. . .»
«E. . .?»
«. . .Triste perchè non trova quel qualcosa per cui valga la pena di sorridere.»
«Ma io sorrido.» Borbottò.
«Davvero?Sorridi perchè lo senti davvero o perchè devi?»
Come se le avessi letto nel pensiero si alzò improvvisamente,si sistemò come ad “asciugarsi” e fece qualche passo in avanti,poi si voltò verso di me. La guardavo perplesso. Non capivo quanto fossi andato oltre nella conversazione. Non la conoscevo,non avrei dovuto azzaddarmi a dire quelle cose.
«Ehm,dovrei andare adesso. É stato un piacere,Daniel.» Sorrise di nuovo e corse via sotto la pioggia.
Daniel? Sapeva il mio nome?

«Scusa per l’attesa Daniel.»
«No,non si preoccupi.» Mi sedetti alla solita poltroncina. Notai l’aspetto famigliare che ormai aveva quel posto. La scrivania in mogano. La finistra alle spalle della scrivania. I numerosi libri sparsi un pò dappertutto e varie cornici fotografiche di persone che non conoscevo -ovviamente- e di cui non m’importava. Non c’erano molti quadri a decorare le pareti,solo una copia numerata de “Campo di grano con volo di corvi” di van Gogh. Era ironico trovare una tela realizzata da un’artista morto suicida. Davvero ironico. Ha sempre colto il mio sguardo come se mi stesse invitando a entrare nel dipinto.
«Scusa il caos,non ho tempo di mettere in ordine.» Si continuava a scusare,ma non l’ascoltavo più. Mi trovavo lì,in quel campo di grano,ad osservare quella tempesta che stava per abbattersi sulla terra. La tempesta era arrivata e aveva messo radici nel mio cuore.
«Ti piace van Gogh?» Quella domanda mi arrivò senza voce,come trasportata da uno dei corvi neri presenti nel dipinto. Troppo lontana per raggiungere il cervello. Quasi scappò via insieme al corvo. Mi girai lentamente con lo sguardo rivolto sempre alla tela finchè non mi decisi a riprendere il controllo.
«No,non mi piace. Però trovo ironico trovare un quadro del genere nello studio di uno psicologo.»
«In effetti.»
«Come mai questa scelta?Se posso chiedere.»
«Un regalo.» Sorrise guardandolo. «Non ho saputo rifiutare.»
«Beh. . .Non è male.» Scherzai.
«Stiamo parlando sempre di van Gogh. Tu dipingi,se non ricordo male,vero Daniel?»
«Si,ma. . .Non sono poi così bravo.» Feci una smorfia.
«Un giorno spero mi mostrerai qualcosa.»
«Certo doc.» Sorrisi. Nell’ultime due settimane non avevo difficoltà a sorridere,lo trovavo quasi piacevole.
«Da dove viene quel sorriso?» Mi guardò incuriosita.
«Che sorriso?»
«Daniel!» Mi riprese.
«Si?» Continuavo a sorridere senza motivo.
«Daniel,c’è forse qualcosa che dovrei sapere?»
«Del tipo?»
«Del tipo. . .La causa di quel sorriso così tenero. Non fraintendere ne sono felice,mi piacerebbe solo conoscerne l’origine.»
Tenero? «Ma no si sbaglia,è il mio solito sorriso.» Pensai a quella ragazza. Quando per la prima volta mi sono dimenticato di tutto. Quando da quel giorno sentivo l’esigenza di cercare quel raggio di sole. Ma quel raggio era andato via così com’era venuto.
«Sai,l’unica cosa che riesce a mettere ordine al caos è quel sentimento che genere il caos.» Aggiunse.
«Come?» Domandai perplesso.
«Parlo dell’amore,Daniel.»
«E che centra adesso??» Chiesi quasi alterato. Per me ormai quella parola non aveva più significato. Non potevo neanche immaginare di innamorarmi di qualcun altro. Era impossibile.
«Ciò che ti fa sorridere così,dico. . .Il merito deve essere di una ragazza.»
Il cuore accellerò e ebbi l’istinto di guardare altrove come imbarazzato.
«N-No.» Dissi timidamente,neanche fossi un ragazzino alle prese con la sua prima cotta
«Quell’emozione così forte da non lasciare spazio ad altre emozioni. Il senso di confusione che si prova all’inizio,quando quei sentimenti ti sono così estranei. La sensazione di vuoto e felicità quando capisci cos’è e l’accetti. Sarebbe inutile ignorarlo,perchè alla fine ti prenderà sempre con le sue dolci braccia. L’amore,Daniel,ti può salvare,ma ti può portare anche alla rovina. E dovresti saperlo meglio di chiunque altro.» Concluse lasciandomi senza fiato.
«Ma figuriamoci!» Esclamai inorridito all’idea. «E di chi poi?»
Non poteva dire sul serio. Sapeva bene quanto amassi ancora Charlotte e nulla sarebbe cambiato.
«Questo non lo so,solo tu devi ancora capirlo. Però attento Daniel.»
Ma di cosa si preoccupava,non mi sarei innamorato di nessuno. Lei mi guardava in modo severo ma allo stesso tempo  era evidentemente preoccupata. Non capivo perchè gli altri si preoccupassero per me,certo lei era dovuta a farlo essendo la mia psicologa,però quello sguardo così pieno di amorevole preoccupazione mi ricordava tanto un’altra persona. Aveva i capelli lunghi sempre raccolti in una coda. Quando mi riprendeva sorrideva e le si formavano delle piccole rughe agli angoli degli occhi.
Dovevo scacciare quell’immagine dalla testa,non era il momento di pensare a lei. Non ero solo e non potevo abbandonarmi ai ricordi proprio in quel momento.
«Lei sa bene cosa si prova,a quanto pare. . .»
«Sono stata anch’io ragazza,mio caro.» Sorrise. «Ti sembro così vecchia?»
«No,no,no certo che no,non intendevo quello,anzi.»
Tornò all’improvviso seria. «Daniel,tu sai che se vieni qui è per una ragione ben precisa. Se vuoi parlarne io sono qui per questo.»
«Si certo,ma non ho nulla da dire riguardo a quella cosa. Non c’è pericolo che mi accada una cosa del genere.» Stavo provando a rassicurarla anche se avevo la netta sensazione che avevo più bisogno io di sentirmelo dire che lei di ascoltarlo.
Sorridere. Come stavo sorridendo?

Per tutto il tragitto verso casa,mentre la città iniziava ad animarsi e ad accendersi le sue parole mi risuonavano in testa come un eco : “L’amore,Daniel,ti può salvare,ma ti può portare anche alla rovina.”
Dovevo preoccuparmi?

note dall'autore: saaaalve come va?Sono Alice M. (la M sta per Mari ^-^ ) spero che questa storia vi piaccia. Sono una persona insicura e be fa piacere sapere che piace ma anche le critiche sono ben accette (quasi più dei giudizi positivi)
Volevo dire che in questo capitolo cito una canzone degli Imagine Dragons:Demons. Questa canzone è davvero ipnotica e la amo alla follia!!Da quando ho scoperto quel gruppo ascolto solo quello.
Poi ho accennato pure ad un'opera di van Gogh,mi sembrava molto adatta.
Beh è tutto. Alla prossima ^-^
Alice M.

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Capitolo 6
*** Come quella volta... ***


Capitolo 6

Capitolo 6

Come quella volta...


Era presto. Decisamente troppo preso,ma dovevo far qualcosa. Sentivo la necessità di disegnare qualcosa e quando l’arte chiamava non bisognava farla aspettare. Erano all’incirca le otto quando giunto lì,al belvedere,mi ero seduto su una panchina e con il profumo di una primavera che tardava ad arrivare avevo iniziato a ritrarre il paesaggio che avevo di fronte. Sotto consiglio della mia psicologa avevo deciso di riprendere a disegnare. Non era stata una cattiva idea. L’arte era sempre stata una valvola di sfogo per me. Come quella volta. . .

«Chi è stato?» Sentivo urlare dal piano di sotto. «Daniel,non è vero?»
«Su tesoro,è stato un incidente.» Sentivo la voce dolce e comprensiva di mia madre calmare mio padre.
Mi coprivo fortemente le orecchie con le mani per non sentire le grida di mio padre. Avevo fatto cadere i colori acrilici sul tappeto buono e le macchie non sarebbero andate via. Mia madre cercava di calmare le acque,anche se,pure lei era abbastanza arrabbiata. Mi ero accovacciato e nascosto dentro la cabina armadio. Ero dispiaciuto. Me lo avevano detto un sacco di volte di star attento. Ma cosa potevo fare ora?
Sentii una porta che si apriva e poi si chiudeva e una voce squillante si avvicinava sempre più canticchiando una melodia che non conoscevo. Era così dolce,volevo quella voce solo per me.
«Daniel!» Esclamò Jey. «Che fai nascosto qua dentro?» Disse spalancando le ante del piccolo spazio angusto dove mi ero nascosto. Mi tirò fuori e mi abbracciò. La tempesta all’esterno si era calmata;in quel piccolo cerchio c’eravamo solo io e lei,la mia ancora di salvezza. I miei genitori non litigavano più e mi ero tranquillizzato abbastanza da scendere con lei a far merenda.
La cucina era peggio di un campo da battaglia,era sempre così quando la mamma era a casa. Mio padre probabilmente era uscito per far sbollire l’irritazione.
Dall’esterno,la nostra,poteva sembrare una famiglia normale,con i suoi alti e bassi,e così era.
Ci sedemmo sul divano,la macchia era ancora lì,sul tappeto. Jey la fissò per un minuto,poi mi guardò,sorrise e si stiracchiò sul divano stendendo le gambe sul tavolino di vetro di fronte a lei. Sgranocchiava pop corn facendo zapping alla tv. La quotidianità. Ecco cosa amavo. Anche se a volte fuori con gli altri potevo sembrare introverso,qui con lei potevo essere me stesso.
Dal bagno sbucò mia madre che vedendo Jey si affrettò e si avvicinò a noi.
«Allora?Come è andata?»
«Mmmm bene,credo.» Rispose Jey indifferente.
Era andata a un colloquio di lavoro.
«Credi?Jennifer Harrison da dove viene questo atteggiamento?» La riprese mia madre.
Intanto avevo iniziato a messaggiare con Eithan,che mi chiedeva di lei. La mamma continuava a riprenderla. All’epoca non mi resi conto che qualcosa non andava. Era già da un pò che era diversa,anche se con me non era cambiata. Oppure era quello che volevo credere a tutti i costi.
Ero una persona egoista non che ora mi prodighi nell’aiutare gli altri. Ma era mia sorella. Ed io pensavo solo alla mia felicità. Non mi sembrava sbagliato afferrare tutto ciò che poteva farmi star bene. Che gli altri fossero infelici non m’importava,erano come nuvole grigie in un giorno sereno,poco importanti se il sole era lì per fare il suo lavoro.
Ridacchiai tra me allo scambio di battute tra me e Eithan,lui mi trattava come se fossi il suo fratellino. Stavo bene. Avevo i miei soli a contrastare le nuvole di tempesta.
Stavamo prendendo in giro Jey,mia sorella nonchè la sua fidanzata dai tempi del liceo. Ero certo che un giorno mia sorella sarebbe arrivata come una tempesta dicendo che si sarebbe sposata. E sarei stato sinceramente felice per lei.
Mia madre era tornata alle sue occupazioni quotidiane.
Mi sentii spingere e caddi come un sacco di patate dal divano facendomi un gran male alla spalla sinistra;il cellulare era volato via e poco mancava perchè sbattessi la testa sul tavolino. Mi voltai scioccato verso l’autrice di quell’azione. Mia sorella mi guardava dritto negli occhi e sembrava furibonda. Prese il cellulare e lesse i messaggi.
«Che c’è?» Chiesi infastidito rimettendomi in piedi e massaggiandomi la spalla.
«Per te è divertente scherzare dell’infelicità altrui?Eh,Daniel?!»
«Eh?»
«Non fare il finto tonto!Sei un ragazzino viziato. É meschino da parte tua ridere di tua sorella!»
«S-stavo scherzando. . .» Mi sentivo male,lei non si era mai arrabbiata con me.
«Io non ci sarò per sempre,Daniel. Devi farti degli amici.» E uscì sbattendo la porta.
Cosa diavolo era successo?
Io avevo degli amici,ma con nessuno potevo essere realmente me stesso. Si che avevo degli amici Jey. . .Ma a nessuno importava davvero di me. . .Sarei potuto sparire che non avrebbero sentito la mia mancanza,per questo mi piaceva stare con te. . .Jey.
Avrei voluto dirle. Ma non lo feci.
Dalla cucina sbucò mia madre che sentendo chiasso si era preoccupata : «Cos’è successo,Dany?Dov’è andata tua sorella?»
Con gli occhi lucidi le passai davanti non rispondendole.
«Daniel!Allora?»
«Ma che ne so. Quella non sta bene.» Borbottai salendo le scale.
Oh,non avevo nemeno la minima idea di quanto quella frase ci andasse vicino.
Invece di andare in camera mia presi al volo l’album e una matita e salii sul terrazzo. Mi distesi e guardai il cielo che iniziava ad oscurarsi. La sera era alle porte. Il sole si preparava per far posto alla luna. Però era ancora presto. C’era ancora abbastanza luce da poter vedere e disegnare. Mentre disegnavo ogni tanto una lacrima scivolava via e cadeva rumorosamente sul foglio con un tonfo. Non capivo perchè si fosse arrabbiata tanto. Io e Eithan la prendavamo spesso in giro e  non si era mai offesa,o al massimo,faceva finta di prendersela.
Cosa voleva dire che non sarebbe stata sempre?Era mia sorella!
“Devi farti degli amici.” Che senso aveva farsi degli amici se poi ti tradivano e ti usavano a loro piacimento?!
Senza che me ne accorgessi avevo ritratto il paesaggio che avevo di fronte. Mi ero liberato della tristezza,sfogando la mia frustrazione su quel foglio bianco. Per la prima volta vedevo nuvole oscurare il sole. Erano nere e insidiose come il caos. Mi inquietavano. Il cielo,quello vero,quello del mondo in cui vivevo era sereno. Confuso. Ecco come mi sentivo. Era il presagio che qualcosa di non molto piacevole stava per accadere e io a quel tempo nemmeno me lo potevo immaginare.

Ecco lo stesso tipo di cielo. Come quella volta il cielo era scuro e impenetrabile. Cambiava il paesaggio ma ciò che lo sovrastava era sempre lo stesso identico caos di confusione e inquietudine.
«Salve.»
Mi girai e la vidi. Non mi sorprendeva più incontrarla casualmente nei posti più impensabili. Tant’è che la salutai quasi aspettassi il suo arrivo. : «Ciao.» Dovevo stare attento,però. Mi ritrovavo sempre di più a desiderare di nuovo la luce ogni volta che trascorrevo pochi minuti con lei. E non era ciò che mi meritavo.
«Posso sedermi?» Mi domandò.
«Certo.»
«Dipingi?» mi chiese incuriosita sbirciando il disegno. Le nostre spalle si sfioravano e una fitta al petto proprio lì dove dovrebbe essere il cuore mi percosse. Mi allontanai istintivamente di qualche centimetro.
«Si,di tanto in tanto.» Risposi. «Sei mattiniera?» Le chiesi subito dopo.
Mi guardò con occhi perplessi. «Sono quasi le undici.» Mi disse sorridendo tornando a guardare il paesaggio di colline. Cautamente mise fra noi altra distanza,come se si fosse accorta di essere vicina a una mina inesplosa che da un momento all’altro si sarebbe innescata.
«Ah. . .Davvero?Come passa il tempo.» Dissi più a me stesso che a lei. Immerso nelle profondità dei ricordi mi ero perso nel tempo. Ogni tanto mi capitava ed era un modo come un altro -anche se sbagliato- di farmi passare le giornate in cui non sapevo che fare.
«Comunque è bello. Il tu disegno,intendo.»
«Ah. . .Grazie.» Non rispecchiava ciò che stava all’esterno,ma ciò che c’era all’interno,chissà se riusciva a percepirlo.
Passarono alcuni minuti e nessuno di noi parlò. Un silenzio decisamente imbarazzante. Stanco di quella paralisi,azzardai : «Sai come mi chiamo,però io non so il tuo di nome.» Ricordai l’ultima volta che mi aveva salutato chiamandomi per nome.
Si guardava intorno timidamente. Era davvero dolce la sua timidezza,che appariva nei momenti meno adatti,per lei.
«Mi chiamo Charlotte.» Disse infine.
Il mondo si fece buio. Le fondamenta che con tanta fatica avevo costruito cedettero. Tutto crollò. Quel nome era la mia rovina,lo sapevo. Volevo andare via,ma ero incatenato lì,senza via di scampo.
«Ma sbaglio o quella tua amica ti chiamava Angy?» Chiesi quasi tremante.
«Angela è il mio secondo nome,mi chiama così perchè sa che non mi piace.» Sospirò.
«Ah. . .» Volevo scomparire. Possibile che il destino fosse tanto crudele?
«C-ci vieni spesso qui?» Ma cosa stavo facendo?Invece di andar via facevo conversazione. . .
«Diciamo. . .mi piace venire qui.»
«Capisco.» Coincidenza?Destino? No. La vita era crudele. Ecco cos’era.

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