The Girl On Fire - La Pietra dei Sogni

di ValeryJackson
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 35 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 36 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 37 ***
Capitolo 39: *** Capitolo 38 ***
Capitolo 40: *** Capitolo 39 ***
Capitolo 41: *** Capitolo 40 ***
Capitolo 42: *** Capitolo 41 ***
Capitolo 43: *** Capitolo 42 ***
Capitolo 44: *** Capitolo 43 ***
Capitolo 45: *** Epilogo ***
Capitolo 46: *** ~ Ringraziamenti. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



 

Qualcuno, una volta, ha detto che l’estate è come una favola, che ognuno di noi conserva e custodisce come un magico segreto; e che tutti i nostri cuori, nella profondità dell’inverno, si riscaldano con il ricordo di questo calore invincibile, che accompagna i nostri pensieri anche quando non vogliamo.
Skyler lo sapeva bene.
Finalmente, dopo uno degli inverni più lunghi che erano mai esistiti, quel fresco vento che amava scompigliarle i capelli era tornato a danzare fra le verdi foglie degli alberi, ricordandole che era arrivato il momento.
Stentava ancora a crederci, ma era così.
Più volte ci aveva riflettuto, al punto di porsi la domanda “È tutto vero, o è stato solo frutto della mia immaginazione?”
La risposta era sempre: sì, è tutto vero. E sì, tutto questo é ancora parecchio strano.
Aveva scoperto di essere una mezzosangue esattamente un anno fa, quando quel ragazzo dagli occhi verdi si era catapultato in casa sua tagliando a metà il ventre di un’Arpia e poi facendola svenire con un colpo in testa.
Non che ce l’avesse ancora con lui per quello, no. Infondo, poi, era stata colpa di un satiro. Ma il ricordarlo le mandava ancora delle fitte alla nuca.
Comunque sia, quel ragazzo si chiamava Percy Jackson. E le aveva letteralmente salvato la vita.
Non soltanto per via dell’Arpia.
I primi tempi al Campo Mezzosangue erano stati bestiali. Esercitazioni impossibili. Figli di Ares che si dilettavano “bulli” armati di lance e male parole. Tante, forse troppe cose nuove. Più volte si era riscoperta a piangere per scaricare la tensione che soffocava il suo cuore in una morsa d’acciaio.
Ma poi erano arrivati loro. I suoi migliori amici.
John, il figlio di Apollo più gentile che fosse mai esistito. Il consigliere ideale, ma che non esita a trapassarti con una freccia in caso di necessità.
Emma, l’unica persona con la quale Skyler abbia riso veramente di gusto. Era la figlia di Ermes più solare e pragmatica del Campo, e per lei, ormai, era come una sorella.
Ed infine Michael.
La storia con lui è un po’ complicata. Erano partiti come amici, confidandosi anche i segreti più intimi e salvandosi la pelle a vicenda, almeno fino a quando lui non si era innamorato di lei. Skyler ci aveva messo un po’ per tradurre l’intensità dei propri sentimenti; ma alla fine, esattamente il 5 Luglio dell’estate prima, si erano baciati.
Solo quando era stata costretta a tornare a casa per l’inverno Skyler si era resa conto di quanto in realtà avesse bisogno di lui. Per questo non vedeva l’ora di riabbracciarlo, di guardarlo in quei suoi occhi caleidoscopici e di passeggiare con lui al chiaro di luna.
Ma non era così facile. Suo zio, dopo sei mesi in Afghanistan, era tornato sano e salvo dalla nipote, pronto a passare tutto il tempo che lo separava dalla prossima missione con lei. Per questo, Skyler era stata costretta a parlargli del Campo. Certo, aveva omesso il fatto che si trattasse di un posto semidivino, facendolo passare come un Campo Estivo per ragazzi iperattivi come lei, dove la signora Petunia aveva deciso di portarla dopo che Skyler le aveva distrutto casa.
Lo zio sembrò abbozzare un sorriso a quell’affermazione, e, dopo averle fatto una ramanzina, le aveva chiesto di raccontargli di questo campo. E così, Skyler gli aveva spiegato le varie attività, trasformando le sfide con le spade in allenamenti di lotta libera e le missioni suicide in gite escursionistiche per stare ‘a contatto con a natura’. Ed, infine, gli aveva rivelato dei suoi amici.
In quel momento lo zio sembrava aver capito, e Skyler si era ritrovata a pregarlo dai piedi del divano giurando di essere disposta a tutto pur di tornarci per l’intera estate.
Non immaginava di doversi aspettare questo.
E così eccoli lì, sul loro pick-up di seconda mano, mentre si dirigevano verso il posto che Skyler odiava più della prigione della nave del Capitano.
Casa della nonna.
Lo zio era stato molto chiaro a riguardo.
«Non vedi la nonna da più di otto anni, e a lei manchi molto.»
Questo Skyler stentava a crederlo. Certo, la nonna doveva volerle bene. Ma, nonostante all’epoca avesse solo sette anni, ricordava perfettamente l’acceso dibattito che c’era stato fra lei e lo zio riguardo il suo affidamento.
Lei definiva il figlio non idoneo a badare ad una bambina così piccola, nonostante il volere espresso dal testamento della madre. Ovviamente, alla fine aveva vinto lui, ma dopo quell’episodio fra loro si era interrotto qualunque tipo di contatto. Mai una telefonata. Mai un messaggio. Mai una visita. Mai un regalo di Natale.
Mai un “Ehi, come stai?”. Mai un “La nonna ti vuole bene”.
Mai una paghetta. Mai un complimento. Mai un sorriso. Mai niente di niente.
Quindi, come mai ora quest’improvvisa voglia di rivederla?
Skyler lo sapeva bene.
Per dimostrare ancora un volta, dopo più di otto anni, quanto la scelta dei giudici fosse sbagliata, e quanto la ragazza avrebbe avuto un destino diverso e migliore se fosse rimasta con lei.
Era un ennesimo esame.
Probabilmente lo sapeva anche lo zio.
Eppure sembrava felice, quasi sereno, mentre guidava la sua vecchia auto verso un paesino nei pressi di San Diego. Avrebbe ingannato chiunque, anche la nonna. Ma non Skyler.
Anche di sottecchi riusciva a vedere le sue nocche sbiancare alla stretta del volante.
Skyler amava suo zio, davvero. Ma alle volte proprio non lo capiva.
Perché accettare quell’invito proprio ora, che sembrava andare tutto bene? Perché rovinarsi l’inizio dell’estate?
Era come tuffarsi di pancia nella fossa dei leoni. Pericoloso e senza senso.
Sapeva che alla nonna sarebbe bastato anche un piccolo sbaglio per trascinarlo di nuovo in tribunale. Quindi, perché rischiare?
Okay amare le sfide, ma era davvero disposto a perdere sua nipote così, per un nonnulla?
Skyler sospirò, voltando il capo e assottigliando lo sguardo per scorgere l’orizzonte.
Se la proposta fosse stata fatta a lei, non avrebbe mai accettato.
Ma lo zio era stato chiaro anche su questo.
«O vieni con me dalla nonna, oppure niente Campo.»
Sbam! Colpita e affondata.
Quell’uomo sapeva esattamente come ottenere ciò che voleva.
Skyler giocherellò con il suo orecchino a forma di teschio, delimitandone il contorno con il polpastrello. Era dall’inizio del viaggio che non ripeteva altro che quello, ricevendo solo affermazioni negative in risposta, eppure ci riprovò lo stesso.
«Non capisco perché tu abbia accettato di partecipare ad una pagliacciata del genere» cominciò, quasi infastidita.
Lo zio scrollò la testa, sospirando sconsolato. Buttò indietro il capo, quasi fosse stanco di rispondere a quelle provocazioni. «Skyler, non discutiamo.»
«No, discutiamo, invece!» sbottò allora la ragazza, guardandolo furiosa. «Sai benissimo qual è il suo intento, no? Vuole farmi trasferire a San Diego. Vuole farmi passare il resto dei miei giorni mentre lei manipola ogni istante della mia vita!»
Lo zio le lanciò un’occhiata ammonitrice. «Skyler, è di tua nonna che stai parlando.»
«Beh, s’è per questo è anche tua madre. Ma ciò non ti ha impedito di non parlarci per più di otto anni!»
Ben corrucciò le sopracciglia, come ferito da quell’affermazione. Skyler capì di aver esagerato.
Digrignò i denti, riassestandosi sul posto e abbassando lo sguardo sulle proprie gambe accavallate. «Scusa, non volevo» borbottò.
L’uomo scosse la testa, facendole capire che aveva ragione, e che non doveva scusarsi.
Ci fu qualche secondo di imbarazzante silenzio, nel quale nessuno dei due sapeva esattamente cosa dire. Finché lui non abbozzò un sorriso sghembo. «Ehi» sussurrò, picchiettandole due dita sul fianco della gamba. «Sono solo cinque giorni. La nonna è maniacale, certo, ma in cinque giorni non ha mai ucciso nessuno.» Questo strappò a Skyler un sorriso.
«Fidati di me, okay?» continuò. «Non permetterò che ti portino via da me.»
Skyler fece spallucce, rifiutandosi ancora di alzare lo sguardo. «Se lo dici tu» mormorò, con poca convinzione.
Lo zio fece un gran respiro, soppesando le parole che voleva dirle. «Ricordi cosa ti dicevo quand’eri piccola?»
Skyler inarcò un sopracciglia, sarcastica. «Mi dicevi tante cose.»
Ben rise, divertito. «Si, questo è vero» acconsentì. «Ma cosa ti dicevo quando avevi paura che il mostro nell’armadio ti portasse via?»
Skyler capì subito. Abbozzò un lieve sorriso, ricordando con dolcezza quel momento in cui lo zio si infilava nel suo letto per proteggerla dai sogni cattivi. «Mi dicevi di non preoccuparmi, e che mi avresti protetta» ricordò. «Io e te contro il mondo.»
Lo zio annuì, guardandola fiero. «Io e te contro il mondo, mi hija.»
Skyler alzò lo sguardo, incrociando i suoi occhi. Molto probabilmente, lo zio era l’unica persona in grado di darle qualche consiglio di vita anche quando si trattava di cose stupide come un mostro immaginario nell’armadio.
Skyler sapeva che era vero. Per anni l’unico che riusciva a darle conforto, donandole la sicurezza di essere protetta, era stato lo zio.
E lo sarebbe stato per molto tempo.
«Tu reggimi il gioco» le intimò dopo un po’ l’uomo, tornando a guardare la strada. «E se te lo chiedono, io non ti ho mai fatto stare sveglia tutta la notte per guardare i film di Hannibal Lecter.»
Skyler rise, ricordando l’insonnia che l’aveva accompagnata per mesi. «Okay» acconsentì.
Spostò lo sguardo sul ciglio della strada.
Forse lo zio aveva ragione. Forse cinque giorni dalla nonna non erano poi questo gran problema.
L’estate scorsa aveva affrontato un Minotauro, dei Leoni indemoniati, una Chimera, Pitone, un grifone, un Generale maligno, un Capitano psicotico, una malattia centenaria ed Anteo.
Quanto poteva essere pericolosa un’anziana donna di settant’anni?
 
Ω Ω Ω
 
Il tipico clima californiano le invase subito afoso i polmoni, rendendole difficile fare dei gran respiri.
Skyler corrucciò le sopracciglia, mentre osservava gli alti palazzi di San Diego scomparire per lasciare posto a sempre più vegetazione e a sempre meno villette a schiera.
Non ricordava esattamente dove la nonna abitasse. L’ultima volta che era andata a trovarla, aveva circa cinque anni, e chissà quanto nel corso di questo tempo le cose erano cambiate.
Chissà se era cambiata anche lei.
Arrivati alla fine della strada, lo zio girò a destra. Si guardava intorno sovrappensiero, come se fissando il ciglio del marciapiede potesse scorgere delle immagini proiettate del suo passato.
Quel posto riportava a galla troppi ricordi.
Lì c’era stata la sua infanzia, lì lui e la sorella avevano scelto e lavorato il loro destino.
Questo a Skyler dava i nervi. Perché restare così tanto tempo in un posto che non dona altro che una nostalgica malinconia?
Non vedeva l’ora di andar via. Non vedeva l’ora di abbandonare quel posto possibilmente per i prossimi otto anni.
Era così impegnata ad inventare il modo migliore per scappare da accorgersi appena che lo zio aveva rallentato.
La macchina frenò con un ronzio metallico.
Skyler alzò lo sguardo su di lui, e notò che stava fissando qualcosa alla loro destra, mentre uno strano sorriso si faceva largo sul suo volto.
Guardò Skyler negli occhi. «Andiamo?» La ragazza annuì.
Lui scese rapidamente dal pick-up, per dirigersi sul retro e prendere i borsoni. Skyler nel suo aveva messo poco e niente. Non aveva alcuna intenzione di trattenersi lì più del dovuto.
Scese dalla macchina con aria annoiata e sollevò lo sguardo. Rimase senza fiato.
Un’enorme casa si stagliava solitaria davanti a lei.
Era completamente bianca, così grande che Skyler giurò potesse viverci un’intera comunità senza problemi.
Il patio era abbellito grazie alla presenza di un curatissimo giardino, pieno di erba smeraldo e fitte piante di fiori. Dei piccoli muri di pietra fungevano da scale, conducendoli ad una grande veranda che nascondeva la porta principale.
Non ricordava che i nonni fossero ricchi, ma dovevano passarsela piuttosto bene.
Skyler doveva essersi lasciata sfuggire un “Wow”, perché lo zio, accanto a lei, sorrise.
«Bella, vero?» Domanda retorica. Le passò il borsone, coricandosi il suo in spalla. Poi le indicò la casa con un cenno del capo. «Andiamo.»
Mentre attraversava quello stupendo giardino, Skyler non poté non meravigliarsi per la cura dei particolari che notava in ogni singola cosa. Anche mentre salivano le scale, continuava a guardarsi intorno a bocca aperta.
Si rese conto di essere arrivata davanti la porta solo quando lo zio si fermò. Skyler incrociò un attimo il suo sguardo. Sembrava molto più nervoso di lei.
«Pronta?» domandò, anche se sembrava lo stesse chiedendo più a se stesso.
Skyler annuì, stranamente calma. Ben premette tre volte il campanello.
Dall’interno arrivarono dei rumori strani. Qualcosa che cadeva a terra e si rompeva. Delle imprecazioni in spagnolo. Dei tacchetti che battevano veloci su un pavimento probabilmente di legno.
Poi, la porta si aprì.
Il primo impulso che ebbe Skyler fu quello di scappare.
Ma ormai era troppo tardi.
Un’anziana signora li osservava dall’uscio della porta, con un sorriso smagliante stampato in faccia.
Era piccola, poco più bassa di Skyler. E minuta, soprattutto. Ma riusciva lo stesso ad incutere una certa soggezione. I folti capelli scuri erano raccolti in una crocchia, dalla quale però sfuggiva qualche ciocca, che le ricadeva dolcemente sul viso. I grandi occhi scuri sembravano famelici, illuminati da uno scintillio di giubilo, e la pelle color ambra sembrava risplendere sotto i penetranti raggi del sole.
Indossava una tailleur giallo canarino, con delle scarpe color carne ed una vistosa collana di perle.
Dopo alcuni secondi di imbarazzante silenzio, si portò le mani curate a coprire la bocca.
«Il mio bambino» sussurrò, con le lacrime agli occhi. Fece un passo avanti e buttò le braccia al collo del figlio.
Lo zio Ben sorrise. «Hola, mamà.»
Lei si staccò da lui, posandogli le mani sulle spalle e scrutandogli il volto con commozione. «Mi sei mancato così tanto» mormorò.
Le labbra dell’uomo si arricciarono per un secondo, ma riuscì comunque a mantenere saldo il suo sorriso. «Anche tu.»
Dopo essersi asciugata con il palmo delle lacrime immaginarie, la donna si voltò a guardarla.
Skyler sentì le ginocchia tremare. Era come guardare sé stessa allo specchio. Una versione un po’ più vecchia, certo, ma la somiglianza era disarmante.
La donna fece un passo verso di lei, guardandola con dolcezza. «Eccola» sorrise. Le accarezzò una guancia, per poi spostarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «La mia piccola Skipi» sussurrò, ricordando il soprannome con il quale la chiamava quand’era piccola. Poi l’abbracciò di slancio. «Otto anni sono troppi» affermò, stringendola forte a sé. Skyler non poté giurarci, ma dal tono della sua voce sembrava fosse sul punto di piangere. «Troppi, troppi, troppi.»
Per un attimo, Skyler si fece cullare da quell’abbraccio. Era piacevole sentire il calore del suo corpo accanto, e il profumo di petunia dei suoi capelli, e l’odore di olio alla mandorla della sua pelle.
Ma la magia si interruppe non appena la donna si staccò da lei e le scrutò il volto con un cipiglio di rimprovero. «Da quando hai i tinto i capelli di rosso, tesoro?»
«Non c’è nulla di male a voler cambiare un po’» la giustificò prontamente lo zio, quasi si aspettasse una domanda del genere.
«E non sono rossi» ci tenne a precisare Skyler. La nonna inarcò un sopracciglio, e lei abbassò lo sguardo. «Solo alcune ciocche» borbottò.
La donna fece roteare gli occhi, sospirando teatralmente. «Io non gliel’avrei mai permesso, Ben. Le tinture per capelli sono pericolose! Sai che c’è il rischio di un cancro?»
«Mamma…» si lamentò lui, portandosi una mano a coprire gli occhi esausti.
«È vero! Per non parlare di tutte le allergie e le irritazioni che portano.»
«Skyler non ha mai avuto alcun tipo di problema con quei capelli, okay?»
«Dico solo che avresti potuto impedirglielo.» Lo guardò con una smorfia, quasi volesse rimproverare un bambino di cinque anni. «Ha solo quindici anni.»
«Sedici» la corresse Skyler.
«Lei è perfettamente in grado di decidere che cosa è giusto e sbagliato» affermò lo zio.
La nonna buttò una mano in aria, con un’espressione disgustata sul volto. «Cosa vuoi che ne sappia, lei, di come va il mondo!»
Sicuramente ne so più di te, pensò Skyler, ma si trattenne dal dirlo.
Ed eccola lì. Ecco la nonna che ricordava. Ecco quella pronta a trovare ogni minimo difetto, quella pronta a rinfacciarti ogni minimo errore.
Eccola lì la nonna che non aveva alcuna voglia di rivedere.
«Sarete stanchi» dedusse la donna dopo un po’, lanciando un’occhiata ai borsoni. Il sorriso accogliente di prima tornò ad occupare gran parte del suo volto. «Venite, vi mostro le vostre camere.»
Skyler e Ben si scambiarono un’occhiata, prima di seguirla all’interno.
Se da fuori la casa sembrava maestosa, dentro era addirittura meglio. Tutto rigorosamente in pietra e mogano, le pareti dorate si stagliavano verso un alto soffitto al quale era appeso il lampadario di cristallo più grande che Skyler avesse mai visto.
Giusto di fronte a loro un’enorme scalinata occupava tutto lo spazio a disposizione, conducendoli ad un secondo piano pieno di bagni e stanze. Alla sua destra, Skyler poteva distinguere i mobili tipici di un salone, mentre a sinistra c’era riconoscibile il varco che portava alla cucina e alla sala da pranzo.
La ragazza si guardò intorno, aprendo la bocca meravigliata. La nonna sembrò compiaciuta da quel suo atteggiamento, perché gonfiò il petto.
«Venite, da questa parte» disse, facendo strada.
Skyler e lo zio Ben la seguirono su per la lunga scalinata, e solo quando erano arrivati a metà Skyler si voltò per osservare tutto da una prospettiva diversa.
Si rese conto che la nonna l’aveva raggiunta solo quando sentì la spalla sfregare contro la sua.
«Bella, vero?»
Skyler annuì, senza distogliere lo sguardo.
La donna sospirò, giungendo le mani in grembo e corrucciando leggermente le sopracciglia. «Sarebbe un bel posto, dove vivere.»
Skyler afferrò la frecciatina. Strinse di più la presa sul borsone, rifiutandosi però di guardarla. «Non ne dubito» commentò secca, per poi voltarsi e riprendere a salire le scale.
Quel posto era spettacolare. Era come trovarsi in una casa delle bambole dove tutti gli oggetti di plastica avevano cambiato consistenza e dimensione.
Stentava a credere che lo zio avesse vissuto lì. Stentava a pensare che avesse voluto lasciarla per sempre.
Ma poi le giungeva la voce squillante della nonna che dettava ordini e smetteva di meravigliarsi.
La donna gli stava facendo fare un giro della casa, prima di condurli nelle loro stanze, ma Skyler ascoltava ben poco della sua spiegazione, persa com’era nei suoi pensieri.
«E lì c’è l’aula musica, dove teniamo il piano» disse orgogliosa la nonna, mentre la nipote annuiva distrattamente. «Ricordi, Ben? Tu e Maria passavate interi pomeriggi in quella sala.»
Il solo sentire il nome della madre fece venire a Skyler la pelle d’oca. A volte dimenticava che quella era stata anche casa sua. Che era lì che la sua mamma aveva passato l’infanzia. Questo rendeva tutto molto più affascinante e triste allo stesso tempo.
Lo zio Ben abbozzò un sorriso amaro, annuendo con lo sguardo perso nel vuoto. «Lei di solito suonava il piano, ed io la chitarra» ricordò. «Ma poi la maggior parte delle volte ci annoiavamo ed iniziavamo a premere note senza senso.»
Skyler lo guardò, aggrottando leggermente la fronte. «Non me l’hai mai detto.»
«Perché avrei dovuto? Era solo lo stupido passatempo di due bambini.»
La ragazza aprì la bocca per replicare, ma non ne uscì alcun suono. La nonna posò una mano sul braccio del figlio, sospirando nostalgica. «Avevate talento» ammise, con un sorriso. Ci fu qualche secondo di imbarazzante silenzio, poi lei batté le mani. «Su, vi porto in biblioteca. L’ho ristrutturata, sai?» E senza attendere risposta si avviò lungo lo stretto corridoio, seguita a ruota dal figlio.
Skyler restò un attimo lì a fissare la porta chiusa dell’aula musica. C’era qualcosa di eccitante, nel sapere che quello era il posto preferito di sua madre. Nel sapere che anche lei aveva percorso migliaia di volte quel corridoio, e che aveva aperto quella porta.
Si accorse di essersi diretta verso la stanza solo quando vi si ritrovò davanti.
Doveva vedere quel pianoforte. Doveva sapere cosa la mamma provava quando lo suonava.
Non sapeva di questa sua passione. Lo zio Ben non gliel’aveva mai raccontato. Non sapeva neanche che sapesse suonare uno strumento.
Forse perché per lui quel ricordo era ancora troppo doloroso. Quella era una cosa che condivideva con la sorella. Ora che lei non c’era più, non aveva più lo stesso sapore.
Posò una mano tremante sulla maniglia, pronta ad aprirla.
Ma poi, un lieve suono trapassò il legno della porta. Un suono dolce, appena accennato, attutito da quel pesante mogano.
Skyler corrucciò le sopracciglia, tendendo l’orecchio.
Sembrava musica. Possibile che qualcuno stesse suonando?
Con un po’ d’esitazione, aprì la porta, sbirciando all’interno. La stanza era buia, se non per quella luce fioca che emanava il camino acceso.
Entrò, guardandosi intorno. Il piano era vuoto.
La musica che invadeva la stanza non era composta semplicemente dalle note di un piano, ma era un insieme di più strumenti.
Se avesse avuto una conoscenza musicale più classica, avrebbe riconosciuto l’Inverno di Vivaldi.
Nell’aria c’era odore di sigaro. E solo seguendo la scia di quel fumo si accorse della persona seduta su una poltrona accanto al fuoco.
Era un uomo anziano, sull’ottantina. Aveva gli occhi chiusi, ed un sorriso beato stampato in faccia. Con una mano reggeva un sigaro ormai a metà, mentre le dita libere disegnavano strani disegni in aria.
Aveva qualcosa di familiare.
Skyler dovette assottigliare lo sguardo, per scorgerlo attraverso quella flebile luce, ma quando lo riconobbe ebbe un sussulto. Fece un passo avanti, esitante.
«Nonno?» chiamò.
L’uomo si voltò. Non appena incrociò i suoi occhi scuri come la pece, capì di non essersi sbagliata.
«Skyler?» La sua voce era roca, ma anche molto profonda. Dal tono sembrava incredulo.
La ragazza sorrise, avvicinandosi al fuoco per far sì che lui la vedesse. «Ciao, nonno» sussurrò.
Sul volto rugoso dell’uomo si dipinse un sorriso incerto, quasi stupito. Fece due passi barcollanti verso di lei, e quando fu abbastanza vicino le posò una mano tremante sulla guancia. Skyler gli accarezzò il dorso, ruvido come cartavetra, e premette la gota contro il suo palmo.
Un singhiozzo sfuggì dalle labbra del vecchio. Aveva gli occhi lucidi per l’emozione, la vista appannata per le imminenti lacrime.
«Mi nieta» sussurrò, commosso. Sorrise, posandole le mani sulle spalle e attirandola a sé in un abbraccio. «Mi nieta. Mi sobrinita.»
Pianse.
Skyler non sapeva esattamente come comportarsi. Non vedeva il nonno da così tanto tempo che aveva quasi dimenticato i lineamenti del suo volto.
Eppure nel suo abbraccio c’era qualcosa di confortante. Qualcosa che le faceva capire che quell’uomo le voleva davvero bene.
Il suo maglione profumava di sigaro e bucato. Era rasserenante, e le confuse emozioni che la travolsero in quel momento furono così forti che la vista si appannò anche a lei.
L’uomo si staccò da lei, prendendole il volto fra le mani e squadrandolo. «Sei cresciuta così tanto» disse, con voce strozzata. «Mi sembra di rivedere tua madre.»
Skyler sorrise, grata per quel paragone.
Non ricordava il nonno come un tipo emotivo.
Era sempre stato silenzioso, taciturno, pronto a frenare l’esuberanza della moglie quando ce n’era bisogno. Dolce. Schivo. Riservato. Forse a volte anche molto introspettivo.
Per questo vederlo piangere faceva uno strano effetto.
In quel momento, il cardine della porta cigolò, e la nonna si precipitò nella stanza.
«Skyler!» esclamò sorpresa, con una punta di rimprovero. Poi, notando il marito, capì. «Ah, siete qui.»
«Mira, Rosa!» esultò l’uomo, emozionato. «Es nuestra nieta! Es nuestra sobrinita!»
«Questo dimostra che non mi ascolti mai quando ti parlo, José» si lamentò lei. «Ti avevo detto che sarebbero arrivati oggi.»
Lui la ignorò, e solo in quel momento sembrò accorgersi del figlio sull’uscio della porta.
«Benjamin!» gioì, buttando le braccia in aria e ridendo felice.
Lo zio fece un passo avanti. «Hola, papà.» Si abbracciarono, mentre il vecchio continuava a ridere come un bambino.
La nonna si avvicinò a Skyler. «Scusa il nonno Pepe» disse, posandole una mano sulla schiena. «A volte fa così. Credo che sia colpa di tutto quello che fuma. Restare chiuso qui dentro gli fa male.»
«Non ha nulla di cui scusarsi» ribatté prontamente Skyler, scrollando leggermente il capo. Poi la guardò negli occhi. «Anche per me è bello rivedervi dopo tutto questo tempo.»
La nonna sorrise, dandole una leggera pacca sulla spalla. «Vedrai, ben presto più nulla ci separerà.»
Skyler non seppe come interpretare quella frase. Ma non ce ne fu bisogno, perché la nonna cambiò subito argomento, attirando l’attenzione di tutti battendo le mani. «Adesso, però, vi porto in camera.»
Li condusse tutti fuori dal corridoio, mentre spiegava le sistemazioni. Ben avrebbe occupato la camera che era rimasta sua da quando se n’era andato. Skyler, invece, la vecchia stanza della madre.
«Ti piacerà, vedrai» aveva trillato la nonna, emozionata. Poco prima che potesse mostrargliela, però, si fermò di colpo.
«Dammi il giacchetto, cara. Vado ad appenderlo» disse, tendendo una mano.
«No!» scattò subito Skyler, pentendosene subito dopo. Non restava mai a maniche corte in presenza dello zio. Non dopo l’estate scorsa. Non dopo che suo padre l’aveva riconosciuta.
«Non essere sciocca» la riprese la donna, insistente.
Se lo zio avesse visto il tatuaggio, non avrebbe saputo come spiegarglielo. Ma soprattutto, non avrebbe saputo come spiegarlo alla nonna.
«Preferisco tenerlo, grazie» rispose, sforzandosi di essere il più cordiale possibile.
Rosa le agitò un dito davanti al volto. «Non sono ammessi cappotti in camera, e tuo zio Ben lo sa» disse, al ché lui fece roteare gli occhi.
Skyler si tirò giù le maniche, nascondendovici le mani. «Ma io ho un po’ freddo.»
«Suvvia! Ci sono più di trenta gradi fuori!» ribatté la nonna. Allungò di nuovo una mano verso di lei, ma Skyler non si mosse. «Skyler» cantilenò allora, spazientita. Poi sbottò. «Dammi il giacchetto!»
Lo disse con un tono così irritato che la ragazza sobbalzò. Lanciò un’occhiata allo zio Ben, che le fece cenno di ubbidire.
Qualcosa, del suo istinto, le disse che le cose stavano per mettersi molto male.
Se lo sfilò lentamente, quasi fosse una mina attiva e lei avesse paura di farla esplodere. Nascose velocemente il braccio dietro la schiena e passò il giacchetto alla nonna.
Ma ormai era troppo tardi.
Sul volto della donna cominciò a dipingersi un’espressione indignata, mentre le afferrava il polso e lo strattonava per vedere il braccio.
«Questo è un tatuaggio?» esclamò, inorridita.
«Un tatuaggio?» chiese lo zio, confuso.
«Un tatuaggio!» esultò Skyler, fingendo entusiasmo. Ma il suo sorriso si spense subito.
«La mia bambina ha… un tatuaggio!» urlò a quel punto la nonna.
«Un tatuaggio» ripeté Ben, ancora sconvolto.
«Ben! Cos’è questa storia?»
«Oh, beh…» Lo zio guardò Skyler. Dal suo volto capì che era arrabbiato, anzi, furioso! «Skyler se lo è fatto quest’estate» spiegò.
«E tu lo sapevi?»
La ragazza si mordicchiò un labbro, abbassando lo sguardo e preparandosi al peggio.
Perciò rimase colpita dalla sua risposta.
«Certo. Lei mi ha chiesto il permesso ed io ho approvato. Non l’avrebbe mai fatto senza il mio consenso.»
«Mio dio, Ben!» esclamò la donna, furiosa. «Un tatuaggio, dico io. Un tatuaggio! Sai i rischi che comporta?»
«Si tratta di uno all’henné. Non è pericoloso.»
«E la prossima quale sarà? Eh? Quale! Vedrò mia nipote piena di piercing e con qualche droga in mano?»
«Mamma, non esagerare.»
«Oh, sì che esagero, invece!» sbraitò lei. «Lo dicevo io che non eri in grado di occuparti di una ragazzina!»
Lo zio serrò la mascella, mentre Skyler accusava il colpo. Si aspettò una sfuriata in piena regola, piena di insulti e accuse.
Invece, lo zio fece un bel respiro e mantenne la calma. «Questo non sei tu a deciderlo.»
La donna aprì la bocca per replicare, ma non ne uscì alcun suono. Pestò un piede a terra, frustrata, e si diresse a grandi passi lungo il corridoio.
Non appena se ne andò, lo zio sembrò rilassarsi. Si stropicciò gli occhi con una mano, sfinito, per poi passarsela davanti la bocca.
Guardò Skyler, allargando le braccia senza parole. «Davvero?» domandò, quasi incredulo. Skyler però avvertiva la tensione tipica di un rimprovero. «Davvero, Skyler? Un tatuaggio? Fra tante cose proprio un tatuaggio?»
«Mi dispiace, non volevo» si scusò lei, abbassando lo sguardo imbarazzata. Se lo accarezzò, sovrappensiero.
«E che cosa significa, poi? Un’incudine ed un martello! Sul serio, Skyler, è così che speri di restare con me?»
«Ti ho detto che mi dispiace.» Skyler era sull’orlo delle lacrime. Non era colpa sua, non era una cosa che aveva deciso lei.
Lo zio sembrò accorgersi della sua voce tremante, perché fece un sospiro e chiuse gli occhi. Ci fu un minuto di silenzio carico di tensione. Poi, lui la guardò, scrollando leggermente il capo. «Mi dici almeno perché un’incudine?»
Perché mio padre è Efesto, avrebbe voluto rispondere lei. Ma in quel momento era troppo impegnata a sorridere.
Suo zio era dalla sua parte, e lo sarebbe stato sempre.
Qualsiasi stupidaggine avesse fatto, qualsiasi errore.
Lui e lei contro il mondo.
«Te lo spiego dopo» bisbigliò, strappandogli un sorriso sghembo.
«Okay» acconsentì, con un sospiro. Poi le indicò con un cenno della mano il luogo nel quale era sparita la nonna. «Non credo che tornerà» disse. «Vieni, ti accompagno io.»
 
Ω Ω Ω
 
Skyler doveva ammetterlo: aveva paura.
Ma non di quella paura che ti paralizza e che ti impedisce di pensare.
No, la sua era una di quelle paure che ti accende di curiosità, una di quelle che ti spinge a fare domande ma che allo stesso tempo ti fa temere le risposte.
Strinse ancora di più la cinghia del borsone, maledicendo le sue mani sudate.
Avete presente la sensazione che si prova quando coroni il tuo sogno di scalare una montagna ma poi scopri di soffrire di vertigini?
Ecco, entrare nella stanza della madre fu lo stesso.
Era semplice, proprio come la immaginava. I mobili erano interamente in mogano, compreso il letto a baldacchino. C’era una scrivania, un comò, ed una finestra che dava sul retro della casa. A terra c’era un tappeto rosso fuoco, e al muro alcuni poster. Skyler riconobbe gruppi come gli U2 e gli A-Ah, molto probabilmente gli idoli della teenager che era sua madre negli anni ’80.
Sul comò, invece, c’erano alcuni oggetti. Skyler vi si avvicinò, circospetta.
Un portagioie chiuso attirò immediatamente la sua attenzione. Era di legno scuro, ricamato con delle incisioni verdi, rosse e gialle molto sinuose ed elaborate. Moriva dalla voglia di sapere cosa c’era dentro.
Ma la voce di suo zio le impedì di scoprirlo. «È bella, non è vero?»
Skyler annuì distrattamente, mentre il suo sguardo si spostava su una foto della sua famiglia quando i figli ancora andavano al liceo.
«Tua madre amava la semplicità» disse lo zio, sovrappensiero.
Skyler lo guardò. Sembrava triste, mentre si guardava intorno con uno scintillio di malinconia negli occhi. Tutto quello non doveva essere facile neanche per lui. A volte Skyler dimenticava che mentre lei aveva perso una madre, lui aveva perso una sorella. 
Lo zio sembrò accorgersi del suo sguardo fisso, perché le sorrise. «Lì c’è il bagno, se ti va.» E le indicò con un cenno una porta che prima non aveva notato. «Tua zia e tua madre pretendevano i loro bagni personali. Fatti una doccia e rilassati un po’. Verrò a chiamarti quando sarà ora di cena.»
Skyler annuì, con un sospiro. Osservò Ben mentre si grattava la nuca sfinito e si avviava verso la porta, e fu a quel punto che sentì i sensi di colpa corroderle la bocca dello stomaco.
«Ben!» lo chiamò, al ché lui si voltò a guardarla. Inarcò un sopracciglio, curioso.
Skyler si mordicchiò il labbro, ed esitò. Avrebbe voluto dirgli tante cose. Avrebbe voluto dirgli che gli voleva bene, e che avrebbe fatto del suo meglio affinché la nonna capisse che separarla da lui sarebbe stato un errore. Avrebbe voluto promettergli che ce l’avrebbero fatta, e rassicurarlo che era il tutore migliore del mondo.
Ma non riusciva a trovare le parole. Aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì alcun suono. Sospirò. «Mi dispiace» sussurrò, abbassando lo sguardo.
Lo zio capì al volo, e abbozzò un sorriso dolce. «Non devi scusarti.»
«Si, invece. Non voglio che per colpa di quello stupido tatuaggio la nonna pensi che non vivo bene con te. Voglio tornare a casa, Ben.»
Il volto dello zio si fece cupo. Si morse l’interno della guancia, prima di prendere un bel respiro ed annuire. «E ci tornerai» affermò, deciso. «Ci torneremo insieme. Non permetterò che ti portino via da me, mi hija. Lotterò, se sarà necessario.» La guardò negli occhi e le fece l’occhiolino. «Sono stato addestrato per questo, giusto?»
Skyler accennò un sorriso, accarezzandosi distrattamente le braccia. «Giusto.»
«Bene.» Lo zio annuì. «Passo più tardi, allora. E non scusarti. Non ce n’è bisogno.»
«Sappi solo che non l’ho voluto io» si giustificò Skyler, con un fil di voce. Ed era vero. Non aveva scelto lei di essere una mezzosangue. Non aveva scelto lei che quel simbolo si imprimesse sul suo avambraccio e che non la lasciasse andare. Non l’aveva scelto lei.
Lo zio inclinò la testa di lato, non sapendo bene come interpretare quella frase. Poi le rivolse un sorriso un po’ confuso ed uscì dalla stanza.
Skyler rimase sola.
Le piaceva il silenzio, ma quello lì era devastante.
Si guardò intorno, spaesata. Ogni cosa, lì dentro, le parlava di lei. Ogni cosa. E stavolta non c’era modo di ignorare i ricordi come aveva sempre fatto.
Forse, era quello il vero motivo per cui non voleva andare dalla nonna. Per non ritrovarsi in quella casa. Per non dover dormire giorni in un posto che continuava a mostrarle la sua vita, la sua infanzia, il suo sorriso.
Nonostante fossero passati otto anni, il ricordo faceva ancora troppo male. E forse avrebbe continuato a farlo per sempre.
Skyler si accorse della lacrima solitaria che le stava solcando la guancia solo quando sentì un sapore salato all’angolo della bocca. Se l’asciugò con il dorso della mano, tirando su col naso.
Aveva bisogno di conforto. Aveva bisogno di qualcuno con cui potersi sfogare, qualcuno che l’ascoltasse senza fare domande e che poi le sussurrasse che andava tutto bene, facendola sentire al sicuro, facendola sentire protetta.
Aveva bisogno di sentire la sua voce.
Aveva bisogno di lui.
Raccolse il suo borsone da terra e lo gettò sul letto. Lo aprì, e cominciò a frugare nelle varie tasche. Quando la trovò, la estrasse con un moto di soddisfazione. La dracma d’oro sembrò risplendere nella sua mano.
Se n’era portata qualcuna, nel caso avesse avuto bisogno d’aiuto o semplicemente di un po’ di compagnia. Non si poteva mai sapere.
Corse in bagno, aprì l’acqua della vasca e aspettò che si riempisse. Poi guardò la sua mano.
Non lo faceva mai. Non fuori dal Campo, almeno. Il fuoco le metteva ancora un po’ di soggezione. Non era ancora riuscita ad entrare perfettamente in sintonia con quel suo sinistro potere.
Ma quella era un’emergenza.
Lentamente, fra le sue dita iniziarono a danzare delle piccole lingue di fuoco, che poi si spostarono sul suo palmo, incendiandolo. Faceva ancora uno strano effetto.
Prese un gran respiro ed immerse la mano in acqua. Una leggera nebbiolina si separò da quella limpida massa liquida, sollevandosi poi verso il soffitto.
Skyler vi lanciò dentro la moneta.
«Campo Mezzosangue» disse, senza alcuna esitazione. «Michael Smith.»
La dracma scomparve con uno scintillio dorato. Skyler fece un passo indietro e aspettò.
Per un attimo, non successe niente. Poi, attraverso quella lieve nebbia, comparve un’immagine.
All’inizio era sfocata, ma dopo divenne più distinta. Era una camera. Skyler riconobbe le lenzuola blu della Cabina Tre, sgargianti in contrasto con il legno scuro del pavimento e dei mobili.
Era vuota, eccetto per un ragazzo. Le dava le spalle, ma Skyler avrebbe riconosciuto la sua figura fra mille. Involontariamente, un sorriso le si formò sulle labbra.
«Ehi» sussurrò, con un filo di voce. Ma abbastanza alto perché lui potesse sentirla.
Il ragazzo si voltò.
Indossava dei semplici jeans, ed una maglietta arancione del Campo, ma bastavano per far risaltare il suo fisico allenato. I capelli corvini gli incorniciavano disordinati il bellissimo viso, mentre i suoi grandi occhi, che in quel momento erano di un’elegante verde acqua, si incastravano nei suoi.
Michael sorrise non appena la vide. «Ehi!» la salutò, felice di vederla. «Come stai?»
Skyler si strinse nelle spalle. «Bene» mentì. Non aveva voglia di condividere con lui la sua malinconia. Voleva solo sentire la sua voce.
«È da un po’ che non ci sentiamo» disse lui, e lei annuì. Quell’inverno, gli aveva mandato dei messaggi Iride più volte, per poi chiacchierare con lui per ore. Ma, ormai, era da circa un mese che non lo chiamava, stravolta com’era dalla notizia della visita dalla nonna. «Quando torni?»
«Presto» promise, più per convincere sé stessa che il ragazzo.
Michael inclinò leggermente la testa di lato, guardandola con un sorriso triste. «Mi manchi tanto.»
«Anche tu mi manchi tanto.»
«Non vedo l’ora di riabbracciarti!» ammise allora lui, felice. «Nove mesi sono troppi.»
«Davvero troppi» annuì Skyler. Fece un gran respiro, nella speranza di sciogliere il nodo che le si era formato allo stomaco. Corrucciò le sopracciglia. «Dove sono John ed Emma?»
La porta si aprì, e Michael si voltò. «Oh, guarda, sono proprio...»
Un’enorme chioma bionda si posizionò davanti al messaggio Iride, occupando tutta la visuale. Le labbra di Emma si incresparono in un sorriso malandrino, mentre i suoi grandi occhi grigi come un cielo in tempesta la squadravano gioiosi.
«Ciao!» esclamò, con entusiasmo. «Che fai, chiami lui e ignori noi? Non mi sembra corretto, cara.»
Skyler non riuscì a trattenere un sorriso. «Ciao, Emma.»
«Come stai? Ti trovo dimagrita» si complimentò. Ma poi assottigliò gli occhi a due fessure. «Ah, no. Sei sempre uguale.»
«Emma, levati da davanti al messaggio Iride!» la rimproverò la voce di John, mentre Skyler rideva sommessamente. Il biondo la prese per i fianchi e la scansò di peso, occupando il suo posto davanti alla nebbiolina.
«Ehilà!» salutò, sfoggiando un gran sorriso. Poi guardò la stanza nella quale si trovava la ragazza. «Bel bagno.»
Skyler soffocò una risata, divertita. «Grazie, ma non è mio.»
John venne afferrato per una spalla e strattonato all’indietro. Al posto del suo viso apparve quello di Michael, che aveva le sopracciglia corrucciate in un cipiglio interrogativo. «Perché, dove sei?»
«Ehi, tu ci hai già parlato. Lascia spazio agli amici!» esclamò Emma, afferrandolo per la maglietta e tirandolo indietro.
Finalmente, ora Skyler poteva vederli tutti e tre, mentre bisticciavano su chi avesse la precedenza di parlare con lei e perché.
Era proprio questo quello di cui aveva bisogno. Di un po’ di risate, di un po’ di spensieratezza.
Aveva bisogno dei suoi amici.
Si sgranchì rumorosamente la voce, in modo da attirare la loro attenzione. I tre ragazzi si voltarono a guardarla. «Se non vi dispiace, non vorrei sprecare una dracma per vedervi bisticciare.»
«Si, scusa» rispose John, dando voce anche ai pensieri degli altri due.
Skyler sospirò, incrociando le braccia al petto e spostando il peso da un piede all’altro. «Allora, novità?»
«Dunque, vediamo» mormorò Emma, accarezzandosi il mento e facendo finta di pensarci.
«Michael ha infilato una freccia nel braccio di un figlio di Ecate, oggi a lezione» la precedette John, sorridendo come se fosse una cosa normale. Il che lo era, considerando le pessime doti da arciere del figlio di Poseidone.
«John ha fatto cadere Emily Bons da cavallo durante una passeggiata» aggiunse Emma, con un sorrisetto malandrino.
«Ed Emma ha incendiato metà dei campi di fragole del signor D» concluse Michael, guadagnandosi un’occhiataccia dalla bionda.
«Ehi, è stato un incidente!» si giustificò poi quest’ultima.
Il moro sbuffò. «Chiamalo incidente.» Si sporse verso Skyler, bisbigliando abbastanza forte, però, perché Emma potesse sentirlo. «Stava cercando di far funzionare uno degli arnesi che aveva rubato ai tuoi fratelli, ma non aveva capito si trattasse di una fiamma ossidrica.»
La figlia di Ermes gli lasciò un gomito nel fianco, mentre lui sghignazzava divertito.
«Smettila» lo ammonì lei, puntandogli un dito contro.
Michael si strinse nelle spalle. «Ma è la verità. E poi dovresti ringraziarmi. Se non fossi venuto io a spegnare tutto quel fuoco non saresti mai riuscita a scappare prima che il signor D capisse chi era stato.»
John lanciò un’occhiata a Skyler, alla quale mancavano solo i popcorn per godersi al meglio la scena.
«E tu, invece?» le chiese, distogliendola dai suoi pensieri. Le sorrise. «Che ci racconti?»
Skyler si strinse nelle spalle, esitante. Prese fiato per parlare, ma inizialmente non riuscì a proferire parola. Scrollò leggermente la testa. «Niente di che» sminuì, con poca convinzione. «Sono solo venuta a trovare mia nonna.»
Non aveva voglia di parlarne. Il solo pensare al luogo nel quale si trovava faceva sparire il buonumore come un castello di sabbia in mezzo ad una tempesta.
«Beh, è una bella cosa, no?» disse John con un’alzata di spalle, cercando il consenso degli amici.
Skyler sorrise, ironica. «Sì. A parte il fatto che non la vedo da otto anni e che vuole portarmi via da mio zio.»
Nella stanza calò un silenzio irreale. Skyler temette di aver appena detto la cosa sbagliata, e aprì la bocca per scusarsi, anche se non sapeva esattamente per cosa. Ma Michael la precedette, aggrottando la fronte.
«E dove vive tua nonna?»
«A San Diego» rispose la figlia di Efesto, con poco entusiasmo.
Il ragazzo arricciò il naso, fissandola con uno sguardo indecifrabile.
Skyler non capì esattamente cosa volesse, così la buttò sul logico. «Non mi ha ancora attaccato nessun mostro, se è questo che stai pensando.»
«Sta attenta» la ammonì lui, e dal tono della voce sembrava un po’ preoccupato.
Skyler sospirò, facendo roteare gli occhi. «Sta tranquillo» lo rassicurò, con tono dolce. «So badare a me stessa.» Lui non sembrò convinto, ed un sorriso malizioso le si dipinse sulle labbra. «Che c’è?» gli chiese. «Hai paura che io non possa tornare al Campo?»
Michael incrociò le braccia al petto, inarcando le sopracciglia con aria di sfida. «Perchè, che cosa faresti, se tornassi al Campo?»
Emma, accanto a lui, sbuffò, alzando gli occhi al cielo. «Potreste smetterla di flirtare, per favore?» supplicò. «Siete disgustosi.»
«Tornerò presto, comunque» aggiunse Skyler, stavolta rivolgendosi anche agli altri due.
Il messaggio Iride sfrigolò. Il tempo era scaduto. Era il momento di salutarsi.
«Ti aspettiamo» assicurò John, facendole un occhiolino complice.
«Tanti auguri con la nonnina» scherzò Emma, che conosceva così bene l’amica da far sembrare che avesse già compreso la situazione.
Michael fece un passo avanti, chinandosi e occupando di nuovo lo spazio del messaggio Iride con il suo dolce viso. Skyler si perse in quegli occhi verde acqua, che le sorridevano innamorati, e sentì il suo cuore sfarfallare.
«Mi manchi tanto» sussurrò il ragazzo, facendole sentire le gambe di gelatina.
«Andiamo, Don Giovanni!» esclamò Emma, afferrandolo per la collottola e trascinandolo indietro. «Abbiamo gli allenamenti fra pochi minuti.»
«Fa attenzione» si raccomandò un’ultima volta il figlio di Poseidone.
Poi, l’immagine cominciò a sfocarsi. E la connessione Iride di spense.
Skyler rimase un attimo lì, ad osservare il punto in cui poco prima c’erano i volti dei suoi amici.
In cui un poco prima aveva visto casa.
Si accasciò su una sedia di legno accanto alla vasca, buttando fuori il fiato che non si era accorta di trattenere.
Presto sarebbe tornata da loro. Presto avrebbe abbandonato quel posto nel quale non voleva stare.
Presto avrebbe preso lezioni di tiro con l’arco da John, e avrebbe riso di cuore con Emma.
Presto avrebbe costruito qualcosa con i suoi fratelli, e avrebbe fatto un pic-nic al chiaro di luna con Michael.
Presto.
Molto presto.
Ne era sicura.
Ma ora, doveva prepararsi. Prima che lo zio bussasse alla sua porta ordinandole di scendere per una cena che non avrebbe voluto fare mai.
 
Ω Ω Ω
 
La sala da pranzo della nonna sembrava essere uscita direttamente dal diciannovesimo secolo.
Pareti scure, ricami in oro, mobili in mogano e sedie con spalliere in stoffa, l’unica cosa che mancava in quella stanza era il lampadario di cristallo che Skyler aveva visto all’ingresso.
Allora sì che avrebbe cominciato a credere nei viaggi nel tempo.
Dalla cucina proveniva un odore di pollo arrosto e verdure fritte. Non che fossero i suoi piatti preferiti, ma infondo la nonna non poteva saperlo; e poi, affamata com’era, avrebbe divorato qualsiasi cosa, purché fosse commestibile.
Non si era accorta, infatti, di quanto il suo stomaco fosse vuoto finché lo zio non aveva bussato alla sua porta e non aveva avvertito quella fragranza per le scale.
Mentre aspettavano l’anziana donna arrivare con la cena, Skyler dava un’occhiata intorno. Padre e figlio erano seduti in un angolo a parlare. Il vecchio aveva un luccichio fiero e commosso negli occhi, e la ragazza immaginò che molto probabilmente lo zio gli stesse raccontando tutti gli avvenimenti che si era perso negli ultimi otto anni.
Skyler si avvicinò ad una libreria di legno accanto al muro, piena di pochi libri e tante cornici.
La ragazza incrociò le braccia al petto e fece scorrere lo sguardo sui volti impressi in quelle foto.
Una raffigurava i suoi nonni alla tenera età di vent’anni, molto probabilmente il giorno del loro matrimonio, considerando il vestito di lei.
Un’altra i tre fratelli Garcia. Lo zio, la madre e la loro sorella maggiore, Carmen. Quest’ultima sembrava avere sì e no otto anni, e apparivano tutti e tre felici mentre i loro faccioni sorridevano alla fotocamera.
Altre foto simili si alternavano negli scaffali. Il primo Natale dello zio Ben. Carmen che mostrava fiera il suo primo dentino caduto. I nonni in spiaggia alle Bahamas. Sua madre Maria il girono del diploma.
Era impressionante quanto, nonostante tutto ciò che aveva passato, la nonna amasse ricordare. Quelle foto erano come un’arma a doppio taglio. Da un lato sorridevi nel guardarle, perdendoti nei ricordi di una vita felice e spensierata passata in famiglia. Dall’altro, farlo era doloroso, perché finiva sempre per ricordarti che quei tempi di gioia molto probabilmente non sarebbero tornati mai.
Skyler continuò ad osservarle sovrappensiero, facendosi scappare una risata o un sorriso triste ogni tanto. Stava quasi per voltarsi e raggiungere il nonno e lo zio per partecipare alla loro conversazione, quando qualcosa attirò la sua attenzione. In un semplicissimo portafoto di palissandro che non sarà stato grande neanche 15x20 c’era una foto poco nitida, il primo piano di una persona.
Era sua madre. Lo sapeva perché, nonostante i suoi lineamenti fossero sfocati dalla luce che penetrava alle sue spalle, li avrebbe riconosciuti tra mille. Aveva osservato il suo volto così tante volte. Lo zio non teneva foto in casa, fatta eccezione per un piccolo album che nascondeva sotto il materasso del suo letto. Per cui ogni tanto, quando aveva bisogno di non dimenticare o quando temeva di non ricordare il volto della madre, Skyler si intrufolava in camera sua, e di nascosto sfogliava quelle pagine piene di ricordi.
Alcune volte era rilassante.
Quella foto, però, non l’aveva mai vista.
La madre aveva un aspetto semplice, senza trucco e con i capelli raccolti in una disordinata coda di cavallo. Ma non aveva bisogno d’altro, perché era felice. Il suo volto era illuminato da un bellissimo sorriso, ed osservava estasiata qualcosa che stringeva fra le braccia. I suoi occhi scuri luccicavano d’amore.
Solo spostando di poco lo sguardo, Skyler si rese conto che ciò che stava abbracciando era il fagotto di un bambino.
Non ci mise molto a riconoscersi.
Quella sua versione del passato non aveva neanche due mesi, e dormiva beata, cullata dal dolce profumo della mamma.
Il modo in cui lei la guardava… Skyler sentì una fitta al cuore.
Quanto avrebbe voluto ricordare con nitidezza i suoi occhi. Quanto avrebbe voluto ricordare con facilità i suoi abbracci. Quanto avrebbe voluto ricordare senza sforzo il suo sorriso.
Quanto avrebbe voluto che lei fosse lì in quel momento.
«Forza, pigroni. La cena è pronta!» trillò felice la nonna, facendo il suo ingresso in sala con un grande vassoio fra le mani.
Skyler si asciugò con il dorso della mano una lacrima solitaria che senza volerlo le aveva solcato il volto, e, dopo aver tirato su col naso, raggiunse gli altri a tavola.
Suo nonno era seduto a capotavola, con la nonna accanto. Ben aveva preso posto vicino alla madre.
Gli dei solo sanno il perché, ma Skyler si sedette di fronte allo zio senza neanche pensarci, guadagnandosi una smorfia di disapprovazione dalla nonna e uno sguardo triste dal nonno. Quando si era resa conto dell’importanza del suo gesto, però, la donna stava già riempiendo i piatti.
«Questa è una delle mie specialità» diceva a Skyler, con un sorriso orgoglioso.
«Nessuno cucina il pollo meglio di lei» confermò lo zio, ingoiando il primo boccone. La donna gli accarezzò il braccio, riconoscente.
Skyler sapeva che non avrebbe dovuto avercela con lei, per questo, eppure quel gesto le diede fastidio. Non riusciva a vedere della verità, nei suoi atti d’amore. Era triste da dire, eppure Skyler considerava ogni suo atteggiamento gentile come una messa in scena, nella consapevolezza che, prima o poi, lei avrebbe vinto la sua battaglia.
Ma non la vincerai, pensò fra sé e sé, buttando giù una forchettata di patate al forno.
«Allora, Skyler» le disse la nonna, dopo qualche minuto di silenzio. «Come ti sembra la casa?»
Skyler avrebbe voluto esporle mille aggettivi per lodare la magnificenza di quel posto, ma aveva deciso di non volerle dare alcuna soddisfazione, né alcun pretesto per portarla via dallo zio, così tutto ciò che uscì dalla sua bocca fu un: «Spaziosa», accompagnato da un’alzata di spalle.
La nonna annuì, quasi fosse d’accordo. «Sì, in effetti è un po’ grande. E quando si è solo in due lo è ancora di più.» Rise, ma nessuno l’accompagnò. Solo lo zio, che si sforzava di reggerle il gioco ignorando la tensione che aleggiava visibilmente nella stanza.
«Immagino allora che abbia sempre quest’aria vuota» commentò la ragazza, acida.
«Skyler» la zittì lo zio, lanciandole uno sguardo ammonitore.
Per tutta risposta, lei fece spallucce.
La nonna fece un sorriso tirato, tentando di apparire meno irritata da quel commento di quanto non fosse in realtà. «Non preoccuparti, cara. Se ora ti sembra vuota, quando arriveranno anche loro non lo sarà più.»
Skyler e Ben si scambiarono un’occhiata confusa, non capendo.
«Chi deve arrivare, mamma?» domandò con circospezione lui, mentre la nipote si inumidiva le labbra bevendo un sorso d’acqua.
«Come, non ve l’ho detto?» rispose la donna, corrucciando le sopracciglia, e per un attimo sembrò davvero interdetta. Ma poi si riprese, esibendo un gran sorriso. «Carmen verrà qui per i prossimi cinque giorni. E con lei, anche Madison e Jacob.»
E, mentre lo zio sgranava gli occhi in un misto di sorpresa e preoccupazione, Skyler sputò fuori tutta l’acqua che aveva ingerito.
 
Angolo Scrittrice.
Ed eccoci qua! Iniziamo la diretta fra tre... due... uno...
...
Holaa!
Sì, sono ancora io. E sì, sono ancora qui a rompervi le balle. Contenti, eh? *silenzio imbarazzante*
Ehm ehm...
Dopo circa un mese e qualche giorno di assenza nel corso del quale sono successe tante, troppe cose, finalmente ho riletto i miei appunti e ho pensato fosse arrivato il momento giusto di pubblicare.
Devo ammettere di aver esitato un bel po' (la pubblicazione del prologo era prevista la scorsa settimana), perché avevo il timore che arrivate le vancanze questo sequel de 'Il Morbo di Atlantide' (dei, ancora non posso credere di aver detto sequel!) non l'avvrebbe letto nessuno, e che quasi tutti avessero dimenticato questa pazza screlotica che aggiungeva un capitolo ogni martedì. Ma alla fine ho pensato che più aspettavo, peggio era.
E così eccomi qua, nel martedì di ValeryJackson, a pubblicare per voi quello che forse è il prologo più lungo che sia mai stato scritto. Yes, I know. Ma ormai conoscete il mio "piccolo problema con le sintesi", quindi penserò che non ve la siate presa, e che questo capitolo non vi abbia annoiato.
Ma prima di parlarne, vi va di riepilogare un po' insieme ciò che succedeva ne 'Il Morbo di Atlantide'? (così, giusto per ricordare).
Dunquo:

 
Skyler, una ragazza da i capelli striati di rosso e dai particolari occhi scuri, vive in un quartiere "degenerato" di Baltimora insieme allo zio, marines americano. Riservata, dura, imperturbabile ed irrascibile, Skyler é cresciuta nella convinzione di essere la causa della morte della madre, che ha perso la vita in un tragico incidente nell'officina dove lavorava. Questo incidente riguarda principalmente un incendio, ed è per questo che Skyler, da allora, ha da sempre una paura sproporzionata per il fuoco. In compenso, però, sa benissimo come difendersi, date tutte le tecniche e lezioni che lo zio militare le ha impartito.
Quando lui deve partire per l'ennesima missione che durerà più di sei mesi, Skyler rimane da sola in casa, soffocata dall'abbandono.
Una sera, mentre guardava spenierata la tv, una vecchietta bussa alla sua porta, pregandola di darle dell'acqua. Solo dopo si scopre essere un'Arpia, che l'avrebbe uccisa, se non fosse stata salvata da uno strano ragazzo.
Dopo che lui l'ha addormantata (o per meglio dire, dopo che lei è svenuta), Skyler viene portata via da casa sua, e si risveglia in un posto che solo dopo il ragazzo (che si presenta con il nome di Percy Jackson) le rivela essere il Campo Mezzosangue.
Skyler viene portata nella Cabina Undici, e lì conosce Emma, esuberante figlia di Ermes, che la accoglie e finisce per diventare la sua migliore amica. In seguito, poi, si scontra con altri due ragazzi: John, bellissimo figlio di Apollo nel quale regnano fascino e mistero, e Michael, fratello minore di Percy, che stanco di vivere alla sua ombra fa di tutto pur di far capire che lui non è suo fratello.
Dopo poche sere, e dopo essersi fatta nemica Janice, una figlia di Ares, Skyler viene riconosciuta. Suo padre è Efesto, dio dei fabbri e del fuoco.
Lei non ci pu credere. Sembra essere tutto uno stupido scherzo del destino. Ma quando incontra i suoi fratelli, in particolare Leo, capisce che forse quella novità non è così male. C'è solo un problema, però. Lei ha paura del fuoco. E il fuoco è il suo elemento.
Questo però non sembra darle grosse difficoltà, non fino a che, per colpa di Janice, tutti vengono a sapere della sua anomalia. E' a quel punto che trova conforto in Emma, John e Michael, che per consolarla le rivelano le loro rispettive paure: Emma ha paura delle altezza, John dei cavalli (lunga storia!) e Michael dell'acqua.
Dopo quella sera, i quattro instaurano un rapporto quasi fraterno. Ma mentre Michael scopre di essere innamorato di Skyler, lei si fidanza con John, rendendo la vita non poco complicata all'amico.
Comunque, alcune sere dopo, durante il falò avviene una cosa strana: molti semidei (fra cui Percy) cominciano a sentirsi male, e vengono portati di corsa in ospedale. E' lì che Michale scopre che il fratello, proprio come tutti gli altri, è affetto da una centenaria malattia, Il Morbo di Atlantide, che ti porta lentamente alla morte, e alla quale non esiste cura, dato che gli ingredienti sono sparsi in tutta l'America in un intreccio mortale.
Michael, distrutto dal dolore, decide di partire di nascosto per tentare l'impossibile, e cioè salvare il fratello dalla sua congiura. Nell'immpresa lo accompagnano John, Emma e Skyler, che non sono disposti a lasciare il loro migliore amico da solo.
E così, armati di una profezia agghiacciante e poche armi, partono per quella che è forse l'impresa più incosciente della storia.
E mentre recuperaano pian piano ognuno dei sette ingredienti, non solo rischiano più di una volta la vita, ma si scontrano con un gruppo di uomini (guidanti da un tipo con una sinistra cicatrice sul volto che si fa chiamare Generale) che vogliono rapire Skyler a tutti i costi.
Così, mentre si trovano sull'Isola di Niihau, loro ultima meta, si ritrovano nel bel mezzo di una battaglia che non avevano neanche immaginato, ma che si rivela tutt'altro che disastrosa. Ognuno di loro, infatti, supera in modi diversi la propria paura, annientandola. Persino Skyler, che per far avverare l'ultimo verso della profezia e salvare i suoi amici, rischia la vita per uccidere Anteo, vincendo la sua lunga battaglia contro il fuoco.
Alla fine, tutto sembra risolversi per il meglio. La cura viene portata al Campo, i ragazzi guariscono, e John (dopo aver confessato a SKyler di non essere innamorato di lei quanto Michael) fa sì che i due amici si mettano insieme.
Sembra tutto perfetto.
Ma il male è sempre dietro l'angolo. E Skyler non sa che il peggio deve ancora venire...


 
Ecco. Questo, in sintesi, è più o meno ciò che racchiudono i 34 capitolo della storia precedente. Spero di non aver dimenticato niente, e se l'ho fatto, aggiungerò altri dettagli mano a mano che me li ricordo ^^
Okay! Detto questo, credo che siamo arrivati alla parte più importante di questo prologo strampalato: Vi è piaciuto? Continuo con il secondo capitolo di The Girl On Fire, o è meglio se mi ritiro? Fatemi sapere, vi prego, per me è importante.
Valery's Angels, mi siete mancati! ** Spero che questa nuova storia vi piaccia, e che questo inizio non vi abbia annoiato o non abbia deluso le vostre aspettative.
Parlandone:  ho deciso di cominciare in un posto totalmente diverso dal Campo Mezzosangue. La casa della nonna di Skyler. Quanti di voi se l'aspettavano? Prima di capire come la nostra figlia di Efesto interagisce ora con la sua parte divina, soffermiamoci prima sulla sua parte mortale. Dimenticatevi la dolce vecchietta che vi da la paghetta dicendovi "Con questi ti ci compri il gelato". La nonna di Skyler è esattamente il contrario, è ordinata e perfezionista, e lei la odia.
Ma qual'è davvero il problema? La nonna, o tutto ciò che la circonda? Skyler non riesce a far convivere la sua parte divina con quella normale. Ma perchè? E come risolvere questo problema?
E come se non bastasse, ora sta per arrivare questa zia Carmen. Chi è, e perché Skyler ha avuto quella reazione?
Ne vedrete delle belle, ve lo assicuro. Ho tante sorprese in questa mente tarata.
Spero di potervele svelare, ma se non ho la certezza di non fare un errore pubblicando i capitoli successivi allora non lo farò. Quindi, vi prego, fatemi sapere. Mi basta una parolina, o un "che bello", o un "bleah, che è sto schifo?!". Qualsiasi cosa, davvero.
Ringrazio in anticipo tutti coloro che hanno avuto il coraggio di leggere fino a qui, e tutti coloro che hanno cliccato sul titolo di questa storia. Siete fantastici, davvero, e non so come ringraziarvi.
E ne approfitto anche per ringraziare tutte quelle persone che, durante questo mese, mi hanno chiesto di pubblicare la storia, impazienti di sapere che fine avesse fatto Skyler. Sono stati i messaggi più belli che io abbia mai ricevuto, davvero. Sono senza parole ed esterrefatta da tutto l'appoggio che mi dimostrate. Speciali, ecco come definiscono quelli come voi.
Okay, credi di aver detto tutto. Ah, no! Volevo sapere: che ve ne pare della nuova locandina? L'idea originale era quella di fare una grafica con foto e tutto il resto, ma non sono molto pratica con quel tipo di programmi. Per cui, dopo una serie di tentativi falliti, ho deciso di disegnarne una di mio pugno, aggiungendoci poi il titolo al pc. Il disegno a destra, quindi, è mio, e spero vivamente che non sia uscito una schifezza. (Mi dispiace,
FoxFace00, ma quello è il massimo che sono riuscita a fare xD) Fatemi sapere che ne pensate, perchè se vi piace, diventerà la 'copertina' fissa di questa storia che spero vivamente vi appassioni almeno la metà della prima. Io ci provo, poi sta a voi giudicare.
Grazie ancora, e tanti cuori blu a tutti coloro che decideranno di darmi una possibilità.
Vi prometto che mi impegnerò a fondo per far sì che questa storia non sia banale o noiosa. Ci tengo troppo per lasciare che questo accada.
Okay, ora me ne vado, prima che mi mandiate a quel paese :')
In teoria non dovrei dirlo, perchè è scontato, ma è più forte di me!
Al prossimo martedì! *^* (si spera)
Di nuovo, e sempre vostra,

ValeryJackson
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***



 


«La zia Carmen?» sbottò per l’ennesima volta Skyler, in un misto di fastidio e disperazione.
Subito dopo la notizia dell’arrivo della donna, sul tavolo da pranzo era calato il silenzio. La reazione di Skyler non era per niente andata a genio alla nonna, che aveva passato dieci minuti buoni a lamentarsi di quanto i ragazzi di oggi fossero irrispettosi e di come questo non sarebbe successo se Skyler avesse ricevuto lezioni di educazione da lei.
Lo zio non aveva controbattuto, e dalle rughe che gli increspavano visibilmente la fronte Skyler capì stesse pensando al modo migliore per uscire da quella situazione.
Ma un modo non c’era.
La zia sarebbe arrivata la mattina seguente, e loro non potevano fermare il corso degli eventi.
Ora, chiusi in camera della ragazza, lo zio continuava a fare avanti e dietro per la stanza, passando dalla porta al comò con grandi falcate.
«E anche Madison e Jacob, poi!» continuò a lamentarsi Skyler, buttando le braccia in aria incredula. Era seduta sul letto a gambe incrociate, mentre stentava ancora a credere alle proprie orecchie. «Non posso neanche immaginare di avere lo stesso sangue di quei ragazzi senza sentirmi disgustata!»
«Madison ha la tua stessa età» provò Ben, con poca convinzione. «Magari andrete d’accordo.»
«Hai dimenticato tutti i dispetti che mi faceva quando eravamo bambine?» chiese Skyler, indignata. «Lei mi odia!»
«Avevate solo sette anni» rispose prontamente lo zio, sulla difensiva. «Sono sicuro che adesso è molto più matura.»
«Non credo che la parola ‘matura’ rientri nel suo vocabolario. Sempre che lei sappia cosa sia, un vocabolario.»
«Magari potresti provare ad andare d’accordo con lei» azzardò l’uomo, speranzoso.
«Piuttosto preferisco buttarmi fra le braccia di Anteo» borbottò Skyler, con tono acido.
Lui corrucciò le sopracciglia. «Come?»
«Niente» si affrettò a rispondere la ragazza.
Lo zio fece scrocchiare le dita, mentre si sforzava di sembrare meno nervoso di quanto in realtà non fosse. «Beh, infondo non è così grave» tentò di minimizzare.
«Non è così grave?» ripeté Skyler, allibita. «Non è così grave? La zia Carmen è la reincarnazione dell’insopportabilità. È come avere una squadra di calcio composta da dieci ‘nonna Rosa’ in un unico corpo!»
Lo zio si fermò in mezzo alla stanza, mentre una smorfia contrariata gli si dipingeva sul volto. «Non così tanto, dai. La zia va solo… trattata nel modo giusto.»
«E cioè bisogna assecondare ogni suo ordine senza permettersi il minimo errore?» domandò retorica Skyler, anche se dal tono la sua sembrava più un’affermazione. «Perché altrimenti si finisce in galera, giusto?»
L’uomo le lanciò un’occhiata ammonitrice, posando le mani sui fianchi. «Adesso non esagerare» le disse, per poi riprendere a camminare.
Skyler sbuffò, stizzita. «Giusto, dimenticavo che ci sono anche gli arresti domiciliari.»
Ben corrucciò le sopracciglia, non sapendo bene come rispondere alla nipote. «La zia Carmen è un avvocato molto rispettabile» affermò deciso, nonostante sembrava stesse parlando più a sé stesso. «La sua è solo una tendenza alla perfezione assoluta. Non c’è niente di cui preoccuparsi. Conosco mia sorella…»
«Proprio perché la conosci sai che ho ragione» lo interruppe Skyler, con fare ovvio.
La sicurezza dello zio vacillò. L’uomo si passò una mano sulla bocca, sospirando pensieroso, mentre continuava a raggiungere ora la porta, ora il comò.
Skyler prese un bel respiro. «Ben…» lo chiamò, ma lui sembrò ignorarla mentre continuava la sua folle passeggiata. La ragazza fece roteare gli occhi. «Puoi smetterla di camminare, per favore?» sbottò, con una punta di irritazione.
Stavolta lo zio l’ascoltò, ed arrestò la sua corsa mentre le rivolgeva uno sguardo carico di preoccupazione e aspettative.
«Non c’è motivo di preoccuparsi» disse, interrompendo la nipote proprio nel momento in cui aveva preso fiato per parlare.
Skyler assottigliò lo sguardo a due fessure, incrociando le braccia al petto. Si sentiva amareggiata. Amareggiata e sconfitta. Ma soprattutto, si sentiva furiosa, perché l’ultima cosa che avrebbe voluto era ritrovarsi in una situazione del genere a causa di uno stupido capriccio.
«Quante volte dovrai trovarti sull’orlo del baratro prima di renderti conto che alla fine cadrai?» sbottò.
La sua era una metafora strana, ma lo zio sembrò capire. Skyler si pentì subito di quella domanda. Abbassò lo sguardo, trovando improvvisamente interessante il tappeto rosso sul pavimento. Si accorse che l’uomo le si stava avvicinando solo quando avvertì la sua possente stazza troneggiare accanto a lei.
Ci fu qualche secondo di silenzio imbarazzante, poi lui le si inginocchiò davanti.
«Ehi» sussurrò dolcemente, cercando invano il suo sguardo. Quando si rese conto che la nipote non aveva intenzione di guardarlo, sospirò. Le posò una mano sulla gamba, inclinando di poco il capo per far sì che lei potesse vederlo anche con la coda dell’occhio.
«Ti ho promesso che saremmo tornati a casa insieme, ricordi? Ed io mantengo sempre le mie promesse. Hai la parola di un marines.» Scimmiottò velocemente un saluto militare, ma sul volto di Skyler non ci fu neanche l’ombra di un sorriso.
A quel punto ci riprovò. «Nessuno riuscirà a portarti via da me, chiaro?» affermò, con un’insolita decisione nella voce. «Né tua nonna, né tua zia, né tantomeno il giudice o i federali. Ti proteggerò da tutti loro, capito mi hija? E continuerò a farlo finché non raggiungerò il Signore. Io e te contro il mondo.»
Solo allora Skyler lo guardò. Nei suoi occhi riusciva a leggere la determinazione che per anni lo aveva accompagnato nelle sue missioni suicide. La determinazione che lo spingeva a dare il tutto per tutto. La determinazione che gli faceva credere che alla fine ogni cosa sarebbe andata per il meglio.
Le sue labbra si incresparono in un sorriso, mentre rifletteva sulle parole dello zio.
Io e te contro il mondo, pensò, mentre nuova fiducia le irradiava un piacevole calore nel petto.
«Io e te contro il mondo» annuì in un soffio, dando voce ai suoi pensieri.
Lo zio sembrò sollevato, mentre si accorgeva solo in quel momento di aver trattenuto il respiro.
«Te quiero, mi hija» le sussurrò, accarezzandole dolcemente i capelli.
Skyler sospirò. «Te quiero, tìo.»
Ben le posò una mano dietro la nuca, per poi attirarla a sé e baciarle la fronte. Lasciò lì le sue labbra un secondo più del dovuto, mentre la ragazza chiudeva gli occhi e cercava di plasmare i suoi pensieri a seconda di ciò che le aveva detto lo zio.
Non c’è motivo di preoccuparsi, continuava a ripetersi, con insistenza. Andrà tutto bene.
Il problema era che più se lo diceva, meno ci credeva.
La zia sarebbe stata soltanto la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso.
E Skyler temeva sarebbe stata solo questione di tempo prima che lei e lo zio perdessero la loro battaglia.
 
Ω Ω Ω
 
La nonna era agitata.
Avere dopo più di otto anni tutti i componenti della propria famiglia nella stessa stanza, evidentemente, la rendeva nervosa.
Quello che Skyler non capiva era perché stesse togliendo la polvere dai mobili per l’ennesima volta.
Che bisogno c’era? La zia Carmen andava spesso a trovarla, no?
Lo zio aveva bussato alla sua porta circa dieci minuti prima del previsto.
«Molto probabilmente sarà in anticipo» aveva detto, con una scrollata di spalle. «Conosco mia sorella.»
E infatti la conosceva bene.
Quando Skyler era ancora a metà delle scale, il rumoroso campanello della porta principale trillò.
«Vado io!» esclamò la nonna dalla cucina, raggiungendo l’entrata di corsa mentre i suoi tacchetti sembravano scoppiettare a contatto con il pavimento.
Skyler si bloccò di colpo, ed una strana sensazione cominciò a danzarle nel petto. Panico? O forse paura? O meglio ancora, agitazione? Infondo, sapeva benissimo a cosa andava incontro, e sapeva anche molto bene che doveva impegnarsi con tutta sé stessa, se voleva evitarlo. Ma non era mai stata troppo brava a rigare dritto. Da quando erano arrivati a casa della nonna ci aveva provato, e ci aveva provato davvero. Ma, in un modo o nell’altro, l’altra sua faccia, la sua mezza natura da semidea era arrivata a rovinare tutto.
Nascondere la sua vera identità diventava sempre più difficile. Come poteva stare in una stanza piena di persone convinte di conoscerla con la consapevolezza che in realtà non la conoscevano affatto?
Era snervante. E lei odiava quei continui sensi di colpa.
Doveva essersi fermata sulla rampa delle scale più del dovuto, persa com’era nei suoi pensieri, perché quando lo zio la raggiunse, sul volto aveva dipinto un sorrisetto piantagrane.
«Paura?» la stuzzicò, ricordandole il perché si trovava lì.
Skyler lo guardò, inarcando un sopracciglio ed incrociando le braccia al petto con aria di sfida. «Credi davvero che io possa averne?» domandò.
L’uomo si strinse nelle spalle. «Beh, la zia Carmen può essere davvero inquietante» giustificò, facendo spallucce.
Skyler soffocò una risata sarcastica. Fece per dire qualcosa, ma poi ci ripensò e mascherò la sua esitazione con un sorriso scaltro. «Ho visto di peggio.»
Finalmente, la nonna, a pochi metri da loro, aprì l’enorme porta di mogano. Il nonno era accanto a lei. Sembrava felice, ma se Skyler aveva imparato qualcosa da quando era lì è che nessuno avrebbe visto mai, mai quell’uomo con un’espressione triste in volto. A volte la ragazza si domandava se fosse davvero così ottimista nei confronti della vita, o se cercava di mascherare tutti i suoi demoni dietro un sorriso. Ma ogni volta, non riusciva mai a darsi una risposta.
Mentre il cardine della porta di legno cigolava, Skyler sentì lo zio metterle una mano sulla schiena.
«Diamo inizio allo spettacolo» le sussurrò all’orecchio.
La ragazza trattenne il fiato. Diamo inizio allo spettacolo.
La porta si aprì, e non appena lo fece, la nonna allargò le braccia raggiante, come se stesse aspettando che qualcuno ci si tuffasse dentro per stritolarlo in un abbraccio.
E infatti così fu.
Una donna che raggiungeva la soglia dei cinquanta l’abbracciò di slancio, lasciando cadere la valigia a terra.
«Hijita!» esultò nonno Pepe, esplodendo in una sonora risata. La donna lo raggiunse.
Skyler l’osservò. Aveva lisci capelli neri, che sarebbero stati lunghi fino alle costole se non fossero stati raccolti in uno chignon. Indossava un tailleur, molto probabilmente uno di quelli che utilizzava al lavoro. Gli occhi neri come la pece, il sorriso smagliante e sorprendentemente bianco contrastava con la pelle caffellatte. Era snella e slanciata, più alta del solito, considerando i dieci centimetri di tacco sui quali camminava.
A vederla così, sembrava una donna in carriera come tutte le altre.
Ma Skyler sapeva la verità. Riusciva a percepire anche da quella distanza l’enorme soggezione che disperdeva nell’aria.
Anche da lì, senza guardarla negli occhi, riusciva a sentirsi inadeguata, come se fosse sbagliato anche il solo restare immobile a fissarla. E forse per lei era davvero così.
Dopo aver abbracciato l’anziano padre, la donna si voltò verso di loro. A differenza di quanto si era immaginata, il suo sguardo indagatore non si posò su di lei, bensì sullo zio.
I due fratelli si fissarono, incapaci di proferire parola. Carmen fece qualche passo verso di lui, senza mai distogliere lo sguardo. Nell’aria calò il silenzio. Skyler faceva vibrare lo sguardo dall’uno all’altro, chiedendosi chi avrebbe fatto la prima mossa.
Ma mai si sarebbe aspettata quello che vide.
Perché, non appena fu abbastanza vicino, la donna esitò un attimo e poi lo abbracciò.
Lo zio sembrò stupito da quell’inaspettato abbraccio, ma superato lo sconcerto iniziale ricambiò la stretta, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo.
«Otto anni sono troppi anche per noi, Ben» gli sussurrò lei, per poi allontanarsi da lui quel tanto che bastava per prendergli il volto fra le mani e scrutarglielo.
Lui sorrise. Sembrava davvero felice di vedere la sorella, nonostante i rapporti fra loro non fossero sempre stati dei migliori.
Nel vedere quella scena, Skyler sentì una fitta di nostalgia per Leo, e anche per Microft. Aveva voglia di rivederli, e si consolò con l’idea che l’avrebbe fatto presto, quando tutto questo sarebbe finito.
Cogliendola un po’ alla sprovvista, lo zia spostò rapida lo sguardo su di lei, e la ragazza fu sorpresa nello scoprire la facilità con la quale riassumeva la sua solida compostezza.
La scrutò per alcuni secondi, nei quali Skyler si sentì come uno di quei sospettati che nei film polizieschi vengono accecati dalla luce dell’interrogatorio.
La zia fece un passo deciso verso di lei, senza smettere di fissarla. Skyler decise di non esitare. Neanche quando la donna allungò una mano e lei pensò stesse per tirarle uno schiaffo si mosse.
Anche se non riuscì a nascondere una certa sorpresa quando quella le accarezzò i capelli.
«Come sei cresciuta» si complimentò la donna, con un sorriso. «Sembri proprio Maria.»
Skyler abbozzò un sorriso incerto, ringraziandola con lo sguardo per quel complimento. Non sapeva cosa dire, per cui aspettò che la zia aggiungesse qualcos’altro.
Questa, infatti, lanciò un’occhiata al fratello, per poi spostare lo sguardo sui genitori. «Se non mi aveste detto che era lei, non l’avrei mai riconosciuta» scherzò.
I nonni risero sommessamente, mentre le labbra dello zio si stendevano in un sorriso forzato.
Solo in quel momento Carmen sembrò accorgersi che all’appello mancava qualcuno. Si voltò verso la porta, rimproverando con lo sguardo qualcuno aldilà della soglia.
«Madison! Jacob!» sbottò, con tono calmo ma anche deciso. «Venite a salutare vostra cugina, forza!»
Skyler sentì il cuore mancare un battito, mentre distrattamente si accarezzava il tatuaggio sul braccio.
Il primo a fare il suo ingresso fu un bambino grassottello sugli undici anni. Era bassino, con le guance paffute ed una zazzera di capelli neri ad incorniciagli il volto. Skyler avrebbe saputo anche di che colore erano gli occhi, se non fossero stati incollati ad un videogame, che il ragazzino teneva a pochi centimetri dal viso.
«Ciao, tesoro» lo salutò la nonna, schioccandogli un sonoro bacio sulla guancia.
Lui alzò appena lo sguardo. «Uhm? Oh, ciao» borbottò, con noncuranza. Il nonno gli scompigliò i capelli, ma lui non si scompose, come se fosse ormai abituato a quel gesto e oramai non se ne accorgesse proprio più.
Skyler capì subito che non avrebbe ricevuto nessun trattamento speciale, né tantomeno un “bentornata, cugina!” o un “da quanto tempo!”.
Emise un sospiro tremante, cercando di decidere se quello fosse un bene o un male.
«Jacob!» esclamò lo zio, andando verso di lui. «Cavolo, quanto sei cresciuto!» si complimentò, menandogli una pacca sulla spalla. «L’ultima volta che ci siamo visti avevi, quanto, tre anni? Ora sei un giovanotto, figliolo!»
«Uhm? Oh, sì» fu il suo unico commento, prima che ritornasse con gli occhi sullo schermo.
Se lo zio era deluso dal suo atteggiamento, non lo diede a vedere.
Skyler aveva appena deciso che la parte peggiore era passata, quando una voce attirò l’attenzione di tutti.
«Non staccherà gli occhi da quel gioco neanche se lo paghi!»
Skyler seguì la direzione degli sguardi di tutti.
Sulla soglia, con le braccia incrociate al petto ed un’aria spavalda, c’era una ragazza. Aveva circa la sua età, ma di simile a Skyler, lei, non aveva nulla se non l’altezza.
Con un fisico slanciato ed una pelle molto più abbronzata di quanto il sole estivo permettesse, i capelli biondi le ricadevano lisci sulla schiena, ordinati da un piccolo cerchietto verde.
Il suo sguardo era uno di quelli che la sapevano lunga. O che almeno credevano di saperla lunga. Due grandi occhi azzurri, infatti, scrutavano i presenti come se la situazione li divertisse, contornati da delle ciglia nere grondanti di mascara.
Indossava un semplicissimo jeans ed una camicetta, e sarebbe sembrata a tutti una ragazza come tante se i suoi vestiti non fossero stati firmati e se non avesse avuto quell’aria da figlia di papà.
A tracolla, aveva una borsa. Le arrivava fino al ginocchio, ma Skyler avrebbe giurato che non c’era niente, lì dentro, che potesse rivelarsi relativamente utile ad una visita dalla nonna.
Masticando rumorosamente una gomma alla fragola, la ragazza esibì un sorriso smagliante, allargando le braccia verso lo zio e stringendolo forte. «Ciao, zio» trillò, con un po’ troppo entusiasmo.
Lui ricambiò la sua stretta, contento. «Tu, invece, eri solo una bambina. Cavolo, Madison! Sei una donna, ormai.» La prese per le spalle e le sorrise.
Lei abbassò lo sguardo, imbarazzata. «Ti ringrazio.»
Poi spostò lo sguardo su Skyler.
Il suo sesto senso da mezzosangue si mischiò alla sua iperattività, facendole tendere i muscoli e mettendola in allerta.
La ragazza si avvicinò, con passo leggiadro.
Quando fu a circa mezzo metro di distanza, si fermò.
Le due si soppesarono con lo sguardo. Skyler aveva visto cose peggiori di una semplice ragazzina viziata e impomatata, eppure quegli occhi azzurri riuscivano comunque a metterla in soggezione.
Inaspettatamente, Madison sorrise, cogliendola alla sprovvista. «Però, cugina, siamo cresciute parecchio!» Rise alla sua stessa battuta.
Notando lo sgomento di Skyler, corrucciò le sopracciglia divertita, attirandola in un abbraccio. «Che fai lì impalata? Abbracciami, no?»
Skyler era sbigottita. Forse ricordava male. Forse Madison non la odiava così tanto.
Eppure, nonostante il suo abbraccio fosse sincero, avvertiva che c’era qualcosa che non andava. Che c’era qualcosa che non la convinceva.
La bionda si staccò dalla cugina, facendole un occhiolino complice mentre la nonna le raggiungeva.
«Forza, cari. Vi mostro le vostre stanze!» esclamò. E, come suo solito, iniziò a dettare ordini, mentre tutti la seguivano per le scale.
Prima di imitarli, Skyler vide lo zio andare verso di lei, un sorriso compiaciuto stampato in faccia.
«Visto?» fece, allargando le braccia. «Non sono così male come credevi.»
Sono peggio, pensò Skyler, ma si mantenne bene dal dirlo.
Poteva anche essere vero, e loro potevano anche non essere come li ricordava.
Ma il suo istinto da mezzosangue le suggeriva che non erano persone di cui fidarsi.
E l’istinto di un mezzosangue non sbaglia mai.
 
Ω Ω Ω
 
Ascoltare per l’ennesima volta la nonna che spiegava il perché di ogni singola stanza della casa era uno spettacolo che Skyler aveva deliberatamente scelto di evitare.
Per questo era salita in camera sua, si era fatta una doccia e aveva deciso di rilassarsi un po’ prima che lo zio salisse a chiamarla per la cena.
Mentre si trovava lì, stesa sul suo letto a fissare un punto indefinito nel soffitto, non poteva fare a meno di pensare che molto probabilmente da giovane anche sua madre faceva lo stesso.
Ogni cosa, in quella stanza, le ricordava lei. Forse era normale, dato che quella era stata effettivamente la sua stanza, eppure Skyler odiava non riuscire ad impedire ai ricordi di tornare a galla.
A remarle contro, poi ci pensava soprattutto quel maledetto portagioie di legno.
Skyler moriva dalla voglia di sapere cosa c’era dentro, ma aveva anche paura di aprirlo, per dei motivi che neanche lei riusciva bene a spiegarsi.
Con i capelli ancora bagnati sparsi su tutto il cuscino, Skyler tentò di portare i pensieri da qualche altra parte.
Quasi fosse stata spinta di un riflesso incontrollato, la sua mano volò sul suo fianco, e i suoi polpastrelli sfiorarono la sua ormai non più fresca cicatrice. La pelle si increspava rosea e irregolare, e a volte le sembrava ancora di avvertire quel leggero prurito che l'aveva formata quando Michael aveva versato sulla sua ferita la lacrima della Fenice.
Quello era il segno che tutto ciò che era successo l'estate scorsa era reale. Quando Skyler dubitava di aver immaginato tutto, le bastava toccarla, sentirla ancorata al suo fianco, per ricordarsi che neanche la sua mente iperattiva avrebbe potuto inventare qualcosa di tanto bello.
Si accarezzò il tatuaggio, distrattamente.
Pensò al Campo Mezzosangue.
Pensò a Leo, e alla loro stanza segreta nel quale avrebbero progettato la prossima cosa da costruire.
Pensò a John, e alle numerose lezioni di tiro con l’arco nelle quali, alla fine, non avrebbero fatto altro che scherzare.
Pensò ad Emma, e alle notti passate di nascosto sotto le coperte a mangiare schifezze e a parlare di ragazzi.
Pensò a Michael, e alla sensazione di ritrovarsi di nuovo fra le sue braccia; e di appoggiare il capo sul suo petto, ed ascoltare il battito del suo cuore; e sentire quel dolce profumo di salsedine della sua pelle, e il calore del suo corpo, mentre lui le spostava una ciocca di capelli dietro l’orecchio, accarezzando delicatamente i lineamenti del suo volto quando pensava che stesse dormendo.
Qualcuno bussò alla porta. Skyler non si era resa conto dell’orario. Si tirò su a sedere con un po’ di fatica. Mentre stiracchiandosi urlava sommessamente un: «Arrivo!»
Scese dal letto, corse in bagno e si diede un’ultima occhiata allo specchio. Fece una smorfia. Aveva dimenticato di avere ancora i capelli bagnati.
Si concentrò un attimo. Sentì il suo corpo riscaldarsi, ed ogni poro della sua pelle allargarsi mentre raggiungeva una temperatura elevata.
Poi, il calore cominciò a spostarsi, concentrandosi nelle sue mani. Skyler se le posò sul capo. All’inizio non successe niente. Ma poi, lentamente, l’acqua che li impregnava cominciò ad evaporare, e in men che non si dica erano asciutti e un po’ crespi.
Si li pettinò velocemente con le dita, per poi passarci con foga la spazzola.
Fece un sospiro, si spostò una ciocca scura dietro l’orecchio ed andò verso la porta.
Quando la aprì, sobbalzò per lo stupore.
Davanti a lei non c’era lo zio, bensì sua cugina Madison.
Skyler sentì il nervosismo attanagliarle lo stomaco.
La bionda le sorrise, e lei cercò inutilmente di ricambiare.
«Madison» disse, ancora un po’ confusa. «Che ci fai qui?»
La ragazza fece spallucce, fingendosi noncurante. «Niente. Non ci vediamo da un sacco di tempo, e ho pensato che forse ci avrebbe fatto bene parlare un po’.»
Skyler corrucciò le sopracciglia, interdetta. «Certo» asserì, poco convinta. «Di cosa, per esempio?»
Madison fece finta di pensarci. «Mh… non lo so. Andiamo per gradi, che ne dici? Per esempio… parlami di te.»
Skyler digrignò i denti, ma non rispose. Non aveva nessuna intenzione di parlarle di lei. Non aveva nessuna intenzione di parlarle e basta.
Madison sembrò notare la sua esitazione, perché fece un sorriso sghembo. «Okay, ho capito. Comincio io.» Incrociò le braccia al petto. «Dunque, vediamo. Mi chiamo Madison, ho sedici anni e vivo a Phoenix. Il mio colore preferito è il rosa, e amo i tacchi alti.» La guardò con un sorriso, piena di aspettativa. «Coraggio, adesso tocca a te.»
Skyler spostò il peso da un piede all’altro. Valutò l’opzione di sbatterle la porta in faccia e fare finta di niente, ma poi si strinse nelle spalle. «Mi chiamo Skyler, ho anch’io sedici anni, e con zio Ben viviamo a Baltimora.» Pensò a qualcos’altro da dire. «Io non ho… niente di straordinario» mentì.
Madison fece schioccare la lingua, con disappunto. «Non dire così» la rimproverò giocosamente. «Tutti abbiamo qualcosa da raccontare. Per esempio» Spostò lo sguardo su qualcosa, e solo quando lo indicò Skyler si rese conto che osservava le sue collane. «Potresti dirmi il perché di queste. Un cavallo alato che salta in un cerchio?» Madison sembrava divertita, mentre lo diceva. «Che diavolo significa?»
Skyler contrasse i muscoli, mentre conteneva l’irritazione che spingeva le sue mani a tirarle un pungo sul naso.
«Serve a stare bene con sé stessi» mormorò, a denti stretti.
La bionda annuì, fingendosi colpita. «Oh, capisco. E anche questa ha una qualche utilità spiritica?» disse, per poi soffocare una risata. Arricciò il naso. «Dio, Skyler, sembra l’abbia fatta un bambino di cinque anni.»
Skyler abbassò lo sguardo per capire a cosa si riferisse, e quando ci arrivò, il suo commento la fece imbestialire.
Quella era la collana del Campo. Un semplice spago di cuoio, al quale era infilata una sfera di cera, rappresentante la sua estate passata al Campo.
Per ora lei ne aveva solo una, a differenza dei suoi amici, e aveva inciso sopra un incudine con un martello, simbolo di Efesto.
Madison non aveva tutti i torti, perché effettivamente sembrava davvero una di quelle che i bambini costruivano a scuola. Ma nessuno doveva osare dirlo in sua presenza.
«Vedo che hai un’innata passione per questo strano simbolo» continuò la cugina con un ghigno, alludendo al tatuaggio che Skyler aveva sul braccio. Poi qualcosa attirò la sua attenzione.
«Oh, e questa?» chiese, indicando il suo ultimo ciondolo. La spada di Leo. «È una pietra preziosa?»
Fece per sfiorarla, ma Skyler si scansò prima che ci riuscisse. «Non toccarla» sibilò a denti stretti.
Madison parve un attimo stupita. Inarco le sopracciglia, squadrandola da capo a piedi. Poi le sue labbra si incresparono in un sorrisetto divertito.
«Okay» mormorò, annuendo sarcastica. «Passiamo a qualcos’altro, allora. Ti va? Parliamo delle regole di questa casa.»
Skyler aggrottò la fronte. Quali regole?
La ragazza fece un passo in avanti, fino a trovarsi ad un palmo dal suo viso. I suoi occhi azzurri si puntarono autoritari nei suoi, costringendola ad indietreggiare leggermente, interdetta.
Madison dovette interpretare quel gesto come un segno di debolezza, perché sorrise.
«Qui comando io» affermò, strafottente. «Questa è casa mia, e tu dovrai fare quello che ti dico. Non credere che solo perché i nonni non ti vedono da otto anni avranno un occhio di riguardo per te. Io ero, sono e sarò sempre la loro nipotina preferita.» Le lanciò un’occhiata minacciosa. «Prova a fare qualcosa di testa tua e ti renderò la vita impossibile.»
Skyler ebbe il serio impulso di afferrare la sua spada. Insomma, non se ne sarebbe accorto nessuno se l’avesse sguainata e avesse tranciato la cugina in due, no?
Capì di non aver sbagliato affatto sul suo conto. Lei era meschina. Meschina, e falsa proprio come una figlia di Afrodite che non si preoccupa di un’unghia rotta.
Quella della ragazza dolce e perfetta era solo una maschera per nascondere il marcio che c’era in lei.
Skyler digrignò i denti, stringendo i pugni così forte da crearsi dei piccoli segni a forma di mezzaluna nei palmi.
Aprì la bocca, pronta a risponderle per le rime, quando dei passi attirarono la sua attenzione.
Lo zio salì le scale. Non appena le vide lì, insieme davanti la camera della nipote, non poté fare a meno di aggrottare la fronte.
«Madison?» chiese, quasi fosse stupito. «Che ci fai tu qui?»
Skyler lanciò un’occhiata alla cugina, e si sorprese nel vedere quel finto sorriso raggiante farsi strada sul suo volto.
La bionda fece spallucce. «Non vedo la mia adorata cugina da così tanto tempo!» esclamò, con un po’ troppa enfasi per i gusti di Skyler. «Avevo voglia di parlare un po’ con lei.»
Lo zio sorrise, quasi fosse contento di quell’iniziativa. «Mi fa piacere» disse infatti. «E avete scoperto di avere qualcosa in comune?»
«Molte cose, direi» trillò Madison, felice. «Non è vero, Skyler?»
Le lanciò un’occhiata ammonitrice, ma Skyler non ci badò. Per un attimo, pensò di smascherarla lì, dicendo allo zio tutta la verità.
Ma poi lo guardò negli occhi.
Sembrava davvero orgoglioso di lei.
Orgoglioso del fatto che avesse accettato di parlare con la cugina. Orgoglioso che avesse messo da parte i pregiudizi e che le avesse dato una chance. Orgoglioso che si stesse impegnando perché tutto andasse per il verso giusto.
Trattenne un sospiro, mentre le sue labbra si stiravano in un sorriso forzato. «Sì. Sì, è vero» rispose in un mormorio.
Madison l’abbracciò, sotto lo sguardo commosso dello zio.
E mentre Skyler era sicura l’uomo pensasse che quell’abbraccio fosse pieno di affetto e nostalgia per tutti gli anni passati divise, nell’orecchio si sentiva sussurrare: «Benvenuta all’Inferno.»

Angolo Scrittrice
Bounjour! Oggi è martedì, ed io sono sempre qui! (ho fatto la rima? O.o)
Bien bien, tralasciando i miei momenti di ordinaria follia, ecco a voi il primo vero capitolo di questa storia.
Dei, come sono emozionata *^* Allora, vi è piaciuto? Spero di sì. Altrimenti mi ritiro :') Fatemi sapere cosa ne pensate! Per me conta molto, davvero, so che sono parole trite e ritrite ma è così.
Finalmente conosciamo più a fondo la famiglia della nostra Skyler! Ma andiamo per gradi.
Dunquo, c'è Carmen: perfezionista, autoritaria, è un avvocato di successo e (da come spero si sia capito) non solo non ha un bon rapporto con il fratello, dato che non lo vede da molto tempo, ma, a differenza sua, ha passato molto più tempo con i suoi genitori, e la disinvoltura con la quale si agira per la casa ne è la dimostrazione. Per chi l'avesse già intuito nel prologo, sì, lei è molto simile alla madre. E, citando Skyler: "
 È come avere una squadra di calcio composta da dieci ‘nonna Rosa’ in un unico corpo!".
Poi c'è Jacob: beh, su lui non ho molto da dire. E' il classico bambino grassottello e menefreghista che non apprazza l'affetto dei failiari, e che preferisce molto di più i suoi videogame alle persone. Non credo ce parlarà motlo. Anche perchè penso che uno così non abbia niente da dire. Ma mai dire mai, no? ;)
E, infine, c'è Madison: Oh sì, non sarà facile liberarsi di lei. E se all'inizio pensavate che fosse una ragazzina dolce e solare credo che dobbiate ricredervi, perchè (come si capisce dall'ultimo "bentornata" che rivolge a Skyler) darà del filo da torcere alla nostra semidea. Abituata ad essere sempre la numero uno, la cocca di casa che tutti credono perfetta e ineguagliabile, non apprezza molto la presenza di Skyler, nè tantomeno il fatto che lei e lo zio siano tornati lì per riallacciare i rapporti. Paura che la cugina possa prendere il suo posto? Risentimento perchè Skyler ha qualcosa che lei non avrà mai? Non lo so. O meglio, non ve lo dico. Lo scoprirete leggendo (y)
Credo che sia importante, per conoscere meglio un personaggio, conoscere anche la sua famiglia. E io spero che analizzando  insieme il comportamento dei suoi familiari potrete capire di più i sentimenti di Skyler, cosa prova, perchè agisce in un certo modo, e così anche quelli di Ben. Spero che possiate avvicinarvi di più a loro, ecco. Sentirvi più parte della storia. Incrociamo le dita, e spero vivamente di riuscire nel mio intento.
Oookaay... sto divagando. Passiamo ad altro, che è meglio.
Sì, sapete già di cosa parlo. E' il momento di ringraziare i miei Valery's Angels! Dei, come mi siete mancati! Credo che tutte le parole di questo mondo non siano sufficienti per dirvi quanto vi sono grata. Le vostre recensioni sono una più bella dell'altra, e io sono davvero fortunata, perchè avere delle persone che ti scaldano il cuore come voi lo scaldate a me è una cosa molto rara. Grazie di cuore a:
Cristy98fantasy, FoxFace00Flowers of Death, Francesca lol, Kalyma P Jackson, Ema_Joey, _angiu_, stydiaisreal, carrots_98, kiara00 e saaaraneedsoreo. Grazie, grazie, grazie! Grazie davvero.
Ora. Prima di andarmene e di lasciarvi in pace (lo so che non aspettate altro u.u) devo mostrarvi due punti:
1) Come
kiara00 mi ha gentilmente fatto notare (grazie, a proposito) ho dimenticato di ricordarvi una cosa importante. In questa storia, così come Skyler, ad ogni semidio, quando viene riconosciuto, spunta un marchio sul braccio, raffigurante il simbolo del loro genitore divino. E' nero e stilizzato, e può benissimo essere confuso con un tatuaggio.
Per chi avesse volesse avere un'idea precisa di come li immagino (e nel caso io, descrivendoli, faccia un disastro), vi posto qui sotto un disegno con il marchio/tatuaggio di tutti gli dei che mi sono venuti in mente fin'ora.

 
 Vi piacciono? ahah ^^ Ditemi se ho dimenticato qualche dio, così provvedo ad aggiungere ;)
2)
FoxFace00? Ci sei?
ahaha, sì, il secondo punto è per te. Dovete sapere che questa cara e dolce ragazza ha una passione per il disegno (o ho capito male?), e sa farlo anche molto bene! Al contrario di me, ovviamente. Nella sua fanfiction lei pubblica spesso i ritratti dei suoi personaggi, e ha chiesto a me di fare altrettanto, almeno con Skyler. Lo ammetto, all'inizio avevo rifiutato categoricamente. Ma poi lei mi ha pregato, e così ho ceduto (contenta? xD). Okay, in quest'ultima settimana ho fatto un bel po' di disegni, ma non li pubblicherò tutti, perchè davvero non si possono guardare. Ne ho scelti due, e diciamo che questi sono i meno peggio.
Okay, sono orribili. Ma una promessa è una promessa, e poi ormai è tardi per tirarmi indietro. D:


 


 
Sì, lo so. Fanno schifo. Nel primo ho disegnato solo alcuni tratti del viso, e ho colorato solo gli occhi perchè... perchè era l'unica cosa che sapevo colorare :'). Nel secondo, invece, inizialmente volevo disegnarla con una spada, ma poi ho pensato che Skyler non è famosa per le sue abilità con la spada, ma per le sue tecniche di autodifesa, dato che è da quando aveva sette anni che lo zio la allena nel corpo a corpo. E quindi, eccola lì, pronta per un combattimento. Qui mi sono impegnata di più con i colori e con i dettagli. Ha le ciocche rosse tra i capelli, ha la cicatrice sul fianco (a proposito, ve la ricordavate?), ha la sua immancabile coda, ovviamente, e poi ha quel bracciale, del quale poi scoprirete il segnificato. Le collane, poi, quelle non ci entravano xD
Ecco, questo è il meglio che sono riuscita a fare.
FoxFace00, piaciuta la sorpresa? ;P  ahahah! So che non sono bellissimi, ma mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensate, dato che mi sono impegnata nel farli :D Potete anche dirmi che non vi piacciono e che fanno schifo, don't worry. So già che sono bruttini, quindi non mi offendo ahahah :')
Okay, e ora... ehm. Oh, cavolo! Ho dimenticato cosa volevo dire! Ed Sheeran mi distrae D:
Va beh, pazienza. Mi verrà in mente la prossima volta.
Spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto, e che non abbia deluso le vostre aspettative.
Ci vediamo martedì prossimo! Un bacione enorme
Sempre vostra,

ValeryJackson

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***



 

Più passavano i giorni, e più Skyler odiava quella casa.
Quella mattina la nonna aveva bussato alla sua porta ordinandole di alzarsi presto. Dopo che l’aveva ignorata la prima volta, la seconda la ragazza era stata costretta ad obbedire, togliendosi controvoglia le coperte e trascinando i piedi verso la doccia.
Poi, era scesa a fare colazione, e non aveva potuto evitare di mangiare le sue uova strapazzate senza sentire la nonna che discuteva con la zia Carmen e con Madison su cose che lei trovava assolutamente frivole e senza senso.
Quest’ultima le aveva anche versato addosso il caffè bollente, ma dopo aver imprecato sotto voce Skyler aveva deciso si fosse trattato di un’incidente.
Subito dopo essersi ripulita, Carmen aveva proposto alle due cugine di andare in centro a fare shopping. Madison aveva subito trillato un “” su di giri, battendo le mani euforica. Skyler avrebbe rifiutato, se non si fosse accorta dello sguardo eloquente dello zio, cha la pregava di assecondare la sua irriverente sorella.
E così, aveva dovuto sopportare due ore di totale mal di testa, durante le quali non aveva potuto fare altro se non guardare Madison entrare ed uscire dal camerino, per poi comprare gran parte di quello che provava.
Anche lei era riuscita a comprare una cosa. Di nascosto dalle due, ovvio. Un bracciale. Era molto sobrio, con fili di cuoio bianco intrecciati, ma a lei piaceva. E non aveva saputo resistere alla tentazione di fare qualcosa alle spalle della cugina.
Quando erano rientrate in casa, Madison si era precipitata su per le scale con una marea di buste fra le mani.
Skyler l’aveva seguita, e mentre saliva, a metà strada, aveva incrociato lo zio.
«Allora, come è andato lo shopping?» le aveva chiesto, entusiasta e sorridente.
«Alla grande» aveva borbottato Skyler, superandolo con sguardo cupo.
«Ho visto Madison salire con una valanga di buste. Tu che cos’hai comprato?»
Senza neanche voltarsi a guardarlo, Skyler aveva alzato il braccio, mostrando il braccialetto che aveva legato al polso. Poi era salita in camera sua.
Era sicura che la giornata non potesse andare peggio di così.
Si buttò sul letto con un sospiro, stropicciandosi gli occhi per scacciare la rabbia.
Lo zio credeva ancora che quella fosse la cosa giusta da fare. Ma Skyler cominciava a dubitare che avrebbe resistito un giorno di più. Aveva anche pensato di dirgli la verità su Madison, e ci aveva provato addirittura più volte. Ma quando stava per farlo, poi notava l’espressione sul suo volto, e faceva un passo indietro.
Sembrava felice. Felice e soddisfatto di aver ritrovato finalmente la sua famiglia. Skyler non voleva far scomparire quel sorriso dalla sua faccia. Non ne valeva la pena. Soprattutto perché la loro permanenza lì sarebbe durata ancora per poco.
Skyler non vedeva l’ora di tornare al Campo. A volte si ritrovava a pensarci senza neanche rendersene conto.
Aveva nostalgia di tutte quelle che ormai erano diventate abitudini per lei. Aveva nostalgia dei suoi amici.
Si mise a sedere con uno scatto, guardandosi intorno. Non appena adocchiò il borsone, andò a raccoglierlo e lo buttò sul letto. Vi frugò dentro, finché non lo trovò e lo tirò fuori con aria soddisfatta.
Era un piccolo libricino, di circa cento pagine, de Il Ritratto di Dorian Gray, tradotto in greco per i mezzosangue. Glielo aveva regalato l’estate scorsa Percy, che glielo aveva regalato Annabeth. Il ragazzo le aveva chiesto di leggerlo e raccontargli la trama, ma Skyler dubitava che la figlia di Atena non si accorgesse dell’inganno.
Skyler lo aprì con un sorriso che non era riuscita a trattenere.
All’interno vi trovò la sua pagella estiva, che Chirone le aveva consegnato poco prima che tornasse a casa. Le davano voti a cose come Difesa, Spada, Spirito di Gruppo, Tiro con l’Arco e Mutilazione Mostri e le assicuravano che per il momento non l’avrebbero data in pasto alle arpie.
Continuando a sfogliare le pagine, trovò quello che cercava. Le sue foto.
Le avevano scattate l’ultima sera che avevano passato tutti insieme al Campo, il giorno prima che Skyler ripartisse.
La ragazza si mosse senza pensarci verso la scrivania, sedendovisi.
Le osservò.
Una raffigurava lei e Leo, che sorridevano alla fotocamera. Il ragazzo le teneva un braccio intorno alle spalle, e faceva l’occhiolino, mentre con il suo solito sorriso smagliante alzava un pollice in su. Anche Skyler sorrideva. Aveva gli occhi un po’ lucidi per la commozione, ma dalla sua espressione si capiva che era felice.
In un’altra c’erano sempre lei e Leo, che però infastidivano Microft. Il ragazzo gli scompigliava, infatti, i capelli, con molto più vigore del necessario. Skyler lo teneva stretto in un abbraccio, bloccandogli le braccia lungo i fianchi per far sì che non scappasse mentre gli schioccava un bacio sulla guancia.
Sulla faccia del ragazzino c’era una smorfia disgustata, e Skyler non poté fare a meno di ridacchiare.
Adorava i suoi fratelli, e il rapporto che aveva instaurato con loro. In un certo senso, era come se si completassero a vicenda. Per lei la Casa Nove erano loro. Loro e le loro stupide battute, che però riuscivano sempre a strapparle un sorriso.
Nonostante l’apparenza iniziale, il piccolo Micky si era rivelato un ottimo compagno. Era sveglio per un ragazzino della sua età, e sapeva essere un ottimo ascoltatore senza però far dimenticare agli altri la sua vera dote, e cioè aggiustare le cose.
E Leo, invece… beh, Leo era Leo. Skyler aveva legato con lui dal primo giorno che si erano incontrati. Lui sapeva come consolarla, sapeva come farla ridere. Ormai, fra loro, bastava solo uno sguardo perché lui capisse che lei aveva bisogno di un abbraccio, o perché scoprissero di avere lo stesso pensiero.
Skyler passò ad un’altra foto.
Lì, con lei c’erano John ed Emma. I tre amici sorridevano, abbracciandosi. Skyler aveva un braccio attorno alle spalle di ognuno, e si stringeva a loro come se non avesse più voluto lasciarli.
Non appena vide la foto seguente, Skyler non riuscì a trattenere una risata. C’erano sempre lei, John ed Emma, solo che stavolta facevano delle smorfie. Emma gonfiava le guance e univa gli occhi al centro. Skyler arricciava il naso e faceva una linguaccia. E John storceva la bocca in un’angolatura impossibile.
È anche per questo che li adorava. Perché erano stupidi.
E finalmente eccola lì. Skyler l’osservò, mordicchiandosi il labbro inferiore per trattenere un sorriso.
Quella foto raffigurava lei e Michael. Il ragazzo le stringeva la vita con un braccio, mentre lei gli cingeva il collo con le braccia e lo attirava a sé, stampandogli un dolce bacio sulla guancia.
Michael sorrideva, e i suoi occhi, in quel momento, erano di un blu cobalto.
Skyler avrebbe potuto annegare in quegli occhi. Ma più di tutto, avrebbe potuto osservare quella foto all’infinito senza stancarsi mai.
Le mancavano tutti. Lui le mancava. E non vedeva l’ora di risentire il rassicurante profumo di salsedine della sua pelle.
Qualcuno bussò alla porta, distogliendola dai suoi pensieri.
Skyler abbandonò le foto sulla scrivania, alzandosi per andare ad aprire.
«Ma ciao, cugina!» trillò la voce di Madison, facendola sobbalzare. La ragazza entrò nella stanza, senza neanche chiedere il permesso.
«Che cosa ci fai qui, Madison?» ringhiò Skyler, visibilmente infastidita.
La bionda fece spallucce, facendo un palloncino con la gomma che chissà da quanto tempo stava masticando. «Mi annoiavo, di sotto. E così ho pensato di venire a vedere che facevi.» Fece vagare il suo sguardo critico per la stanza, finché non notò le foto sparse sul tavolo. «Oh!» esclamò, afferrandole prima che Skyler potesse impedirglielo. «E queste?»
«Non sono affari che ti riguardano» sibilò la mora, e Madison fece una smorfia, come se quella risposta non le piacesse per niente. Cominciò a sfogliarle.
«Sono i tuoi amici?» chiese, ruminando fastidiosamente la sua gomma. «È incredibile quanto somigli a questi due ragazzi.»
«Ridammele» ordinò Skyler, stringendo i pugni per controllare la rabbia.
La ragazza però la ignorò e continuò ad osservare le foto. «Perché indossate tutti quest’orrenda maglietta?» chiese, con una smorfia disgustata. Skyler non rispose. «E poi cosa c’è scritto sopra? Non si capisce niente? Cos’è, latino?»
«Greco» la corresse la mora, stizzita. Cercò di afferrarle, ma Madison glielo impedì, scansandosi senza alcun problema. Attraversò a grandi falcate la stanza, allontanandosi il più possibile da Skyler.
«Carino!» esclamò ad un certo punto, sgranando gli occhi. Skyler non capì a chi si riferisse finché lei non le mostrò la sua foto con Michael. «Non dirmi che è il tuo ragazzo.»
«Questo non è un problema tuo» mormorò Skyler, a denti stretti.
Madison sembrò sorpresa. «Non ci credo!» gridò, allibita. «Cioè tu vorresti farmi credere che questo figo di ragazzo è fidanzato con te?» La guardò con una smorfia di disgusto. «Con te?»
Skyler non rispose, troppo impegnata a contare fino a sessanta prima di tirarle i capelli.
Uno, due…
«Insomma, uno come lui potrebbe avere una miriade di ragazze. Perché accontentarsi proprio della più insulsa?»
Otto, nove…
«Se è riuscito a farsi piacere una come te, figuriamoci cosa direbbe se vedesse me!»
Quattordici, quindici…
«Dovresti presentarmelo. Sono sicura che cadrebbe ai miei piedi in un batter d’occhio.»
Ventisette, ventotto…
«Non capisco cosa debba farsene di una come te. Se fosse il mio ragazzo, so io cosa gli farei…»
Quarantaquattro. Quarantacinque.
«Che c’è? Non hai il coraggio di rispondere perché sai che è la verità?»
Skyler si rese conto di aver chiuso gli occhi solo quando li riaprì. Stringeva i pugni talmente forte da avere le nocche bianche, le unghie conficcate nei palmi.
Madison esibì teatralmente un sospiro melodrammatico, scuotendo la testa. «È proprio vero che le fortune migliori vanno a quelli che non se le meritano» mormorò sconsolata. 
Poi buttò le foto sul letto ed uscì dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle.
Sessanta.
Skyler lasciò andare il fiato che aveva trattenuto. C’era mancato poco, prima che le saltasse addosso.
Quella ragazza riusciva a mettere a dura prova la sua pazienza come mai neanche Janice aveva fatto.
La sua era una dote naturale.
Una dote che Skyler non sopportava.
Si lasciò cadere sulla sedia, posando i gomiti sulle ginocchia e prendendosi la testa fra le mani.
Doveva resistere solo per altri due giorni, si ricordò, mentre prendeva due grandi respiri.
Solo altri due giorni, e la faccia di Madison sarebbe stata solo un ricordo.
 

 
Ω Ω Ω
 
Solo altri due giorni, e la faccia di Madison sarebbe stata solo un ricordo.
Era questo che si sforzava di pensare per frenare le manie omicide che le istigava quella ragazza.
Affogò per l’ennesima volta la maglietta nello smacchiante, continuandola a sfregare con furia sotto l’acqua ghiacciata.
«Tamponare, non sfregare!», l’avrebbe rimproverata la nonna, se solo l’avesse vista.
Ma a Skyler non importava.
Solo altri due giorni…
Quella sera, a cena, Madison le aveva versato il piatto di pasta al sugo addosso. Aveva continuato a scusarsi ripetutamente, senza però neanche alzarsi dalla sedia per porgerle qualche fazzoletto.
Skyler era quasi sicura che l’avesse fatto apposta.
Era convinta che l’odiasse, ma non sapeva il perché.
O meglio, sapeva il perché, ma non capiva perché facesse di tutto per renderle le cose impossibili.
Skyler faceva la sua vita, lei la sua. Non era più semplice in questo modo?
Così, invece, metteva a dura prova la sua pazienza. E diventava sempre più difficile controllarsi.
Dopo che aveva finito di pulire la maglia alla meno peggio e ne aveva indossata una pulita, lo zio era salito in camera sua per controllare.
Skyler non aveva voglia di tornare da loro, neanche se in tavola c’era il famoso tiramisù della nonna. Così, dopo che lo zio aveva cercato di convincerla, aveva improvvisato un mal di pancia.
A quel punto, Ben l’aveva lasciata riposare, promettendole che le avrebbe portato una tisana più tardi.
Solo quando aveva visto la porta chiudersi dietro di lui, Skyler si era abbandonata sul letto.
Ed aveva continuato a fissare il soffitto, concentrandosi per impedire ai pensieri di fluire.
Sarebbe stato solo peggio, e Skyler non aveva voglia di rigirarsi il dito nella piaga da sola.
Quando lanciò un’occhiata all’orologio sulla parete e si rese conto che era notte fonda, si tirò su a sedere.
Non aveva nemmeno provato a chiudere occhio, e di certo l’idea di farlo in quella casa non l’aiutava.
A quell’ora, di sicuro stavano già dormendo tutti.
Skyler scese dal letto, attraversando la stanza in punta di piedi. Non aveva idea del perché lo facesse, ma sapeva che non voleva svegliare nessuno, quindi era decisa a fare il minor rumore possibile.
Mordicchiandosi il labbro nella concentrazione di non fare troppo baccano, Skyler si avvicinò al comò.
Non l’aveva ancora osservato bene. Era stata così presa dal ‘tormento Madison’ negli ultimi giorni, da non aver trovato il tempo necessario per osservare attentamente ciò che c’era sopra.
Fissò la foto di famiglia, accarezzandola piano. Sua madre era bellissima, anche se molto giovane, e tutti avevano sul viso un sorriso raggiante, sorriso che Skyler non pensava fossero più capaci di fare.
Accanto, alcuni oggetti inutili, come ad esempio diverse candele profumate, tutte sui toni del rosso, che non erano mai state accese. Oppure un piccolo portacenere, nonostante, Skyler lo sapeva bene, la madre non fumasse. Però era molto elaborato, con il dipinto di un paesaggio fatto a mano che sembrava uscire direttamente dal vetro. Lettere, cartoline, francobolli, tutti raccolti ordinatamente da uno spago.
E poi quello. Il portagioie.
Skyler non poté fare a meno di fermare lo sguardo su di lui. Dal primo momento in cui l’aveva visto, era come se la stesse chiamando. Di legno scuro, con le sue incisioni verdi, rosse e gialle sinuose ed elaborate, emanava un’energia indescrivibile.
Era come se Skyler fosse attratta da una calamita. Qualcosa la spingeva verso quel portagioie come le mani di una mamma che ti spingono verso il tuo primo giorno di scuola.
Lo sfiorò con mano incerta, e fu come se quelle piccole incisioni pulsassero sotto i suoi polpastrelli.
Skyler esitò un attimo, prima di afferrarlo.
Voleva aprirlo. Un angolino della sua mente le suggeriva che farlo era sbagliato, perché non avrebbe fatto altro che far riaffiorare ricordi e aprire vecchie ferite. Ma Skyler doveva farlo. Ne aveva bisogno. Doveva sapere che cosa c’era dentro, ma soprattutto doveva capire perché si sentiva così attratta da quel singolare oggetto.
Si sedette alla scrivania, mentre sentiva l’adrenalina farle tremare le mani. Si inumidì le labbra secche, e provò anche invano a deglutire. Una solitaria goccia di sudore le colò alla base del collo.
Di cosa aveva paura? Nel peggiore dei casi, sarebbe stato vuoto, no?
Skyler cercò di non esitare, mentre faceva scattare la serratura.
Lentamente, il cofanetto si aprì.
La delusione la colpì come un pugno nello stomaco.
C’erano solo gioielli. Collane, orecchini, qualche bracciale. Niente di speciale, né tantomeno straordinario.
Skyler si accasciò sulla sedia, accorgendosi solo in quel momento di aver irrigidito i muscoli. Abbassò lo sguardo, triste e anche un po’ imbarazzata.
Che idiota, si rimproverò, scuotendo leggermente la testa per scacciar via lo sconforto.
Allungò una mano per chiuderlo, quando qualcosa all’interno scattò .
Skyler sussultò, riconoscendo l’inconfondibile rumore di un meccanismo che si attivava. Il suo sesto senso da figlia di Efesto le suggerì che qualcosa stava per attivarsi.
Trattenne il fiato.
Una musica si disperse nell’aria, dapprima lieve e appena accennata, poi più dolce e soave.
All’inizio, Skyler non la riconobbe. Poi, delle parole affiorarono in un sussurro sulle sue labbra.
Riconobbe quella melodia. Erano le note di una ninnananna. Una ninnananna che lei conosceva bene.
Davanti ai suoi occhi si figurò un ricordo, un'immagine.
 
Si trovava in un modesto salotto, in una calda sera d’estate.
La luce del tramonto passava attraverso i vetri delle grandi finestre, illuminando tutto con il suo tenue arancione.
Ma soprattutto illuminando lei.
Skyler vide sua madre. Era seduta accanto alla finestra, e stringeva qualcosa fra le braccia.
Era bellissima. Aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo, alla quale, però, erano sfuggite alcune ciocche, che le incorniciavano lo splendido viso.
Sorrideva, ed aveva gli occhi lucidi mentre cullava quel fagotto in grembo.
Skyler non ci mise molto a riconoscere la sé di neanche un anno.
La bambina allungo le dita paffutelle per accarezzare il volto della madre, mugugnando un verso divertito.
La donna rise sommessamente. «È ora di dormire, non trovi?» bisbigliò, sfiorandole delicatamente la punta del naso e permettendole di stringerle il dito nella sua piccola manina.
Quasi impercettibilmente, iniziò a cantare, sussurrando abbastanza forte, però, perché la piccola potesse sentirla.
«Ricordo le lacrime che rigavano il tuo viso
Quando ho detto che non ti avrei mai lasciato
Quando tutte quelle ombre avevano quasi ucciso la tua luce»
Skyler sentì le lacrime sfiorarle gli occhi, mentre osservava la madre accarezzare delicatamente una guancia alla bambina.
La sua voce era dolce, gentile. Ed intorno a lei c’era così tanto silenzio che sembrava che non solo la bambina, ma anche gli uccelli fuori si fossero fermati per ascoltarla.
«Ricordo il giorno in cui mi hai detto “Non lasciarmi qui da solo”
Ma amore mio, io non ti lascerò mai
Non guardare fuori dalla finestra, perché tutto è in fiamme
Ma tu aggrappati a questa ninnananna, anche quando la musica è finita»
La donna le accarezzò con il dito il profilo del piccolo nasino, sfiorandola appena. La bambina cominciò a cedere al sonno.
«Ora chiudi gli occhi
Il sole sta calando
Ti prometto che starai bene
Nessuno può farti del male ora
Perché io ti proteggerò
Resterò vicino a te
Con l’anima…»
 
«… E il cuore» terminò Skyler con voce tremante.
Aveva le guance bagnate, ma se ne rese conto solo nel momento in cui sentì un sapore salmastro in bocca.
Ricordava quella ninnananna. Sua madre gliela cantava quasi tutte le sere.
Era da tempo che non la sentiva più. Non aveva idea che i piccoli meccanismi di quel carillon potessero riprodurne la melodia.
Tirò su col naso, accarezzandone il bordo intagliato.
Ci fu uno scatto, e gli ingranaggi smisero di funzionare.
La stanza fu avvolta dal silenzio.
Skyler riusciva a sentire i battiti del suo cuore coprire ogni centimetro quadro del suo cervello. Tentò di riafferrare l’immagine della mamma, ma ormai diventava sempre più sfocata. Le forti emozioni che non sapeva di provare in quel momento le impedivano di pensare con lucidità.
Il cuore le bruciava. Ma non di sentimenti tristi, come la rabbia, o la frustrazione. No, bruciava d’amore. D’amore, e di tenerezza, perché nonostante non riuscisse a far tornare nitido quel ricordo, il suono della voce di sua madre era ancora lì, nella sua testa. E se chiudeva gli occhi, poteva sentirla mentre la cullava intonando quella dolce melodia.
Qualcuno bussò alla porta.
Skyler chiuse il portagioie di scatto, riassestandosi sulla sedia. Si asciugò con foga le guance con i palmi delle mani, e si sgranchì la voce, per far sì che non uscisse smorzata.
«Avanti!» esclamò, facendo un gran respiro.
Solo quando riconobbe in controluce la figura dello zio, si rilassò.
«Sei sveglia?» bisbigliò lui.
Skyler annuì, ma poi ricordò che lui non poteva vederla. «Sì» rispose.
Lo zio aprì la porta del tutto, permettendo alla fioca luce del corridoio di entrare nella stanza. Quando la vide seduta alla scrivania, non sembrò tanto sorpreso. «Perché non dormi?»
«Potrei farti la stessa domanda» rispose Skyler, con un sorriso amaro.
Lo zio ridacchiò. «Touché. Non riuscivo a prendere sonno.»
«Neanch’io» ammise la ragazza.
Lo zio fece un passo avanti, varcando la soglia della porta. «Come va il mal di pancia?»
Skyler fece una smorfia. Non le piaceva mentire. Non a lui, almeno. «Bene. È passato.»
Lo zio cercò tastoni lungo la parete, finché non trovò l’interruttore di un abat-jour. La accese, voltandosi verso la nipote.
Poi corrucciò le sopracciglia, notando i suoi occhi rossi. «È successo qualcosa?»
«No, no» rispose prontamente lei, ravvivandosi i capelli e abbassando lo sguardo. Sperò che lui non le facesse domande, e grazie agli dei lui non lo fece.
Al contrario, si sgranchì la voce, per attirare la sua attenzione. «Non hai mangiato il dolce, stasera» le disse, ma non c’era accusa o rimprovero nella sua voce.
Skyler fece spallucce. «Colpa del mal di pancia» mentì.
«Hai fame?» le chiese allora Ben. «Perché, insomma, io non dormo, tu non dormi. In frigo dovrebbe essercene rimasto un pezzo.»
Skyler arricciò il naso. «Non lo so…» mormorò. Non aveva voglia di assaggiare il dolce della nonna. Non voleva niente che fosse della nonna.
Lo zio sembrò capire, perché abbozzò un sorriso.  «E se invece ti proponessi le nostre fragole con la panna?»
A quel punto, Skyler non riuscì a trattenere un sorriso. «Allora credo che mi si sia appena aperto lo stomaco.»
 

 
Ω Ω Ω
 
Le fragole con la panna erano una tradizione.
Spesso Skyler e lo zio si alzavano nel cuore della notte, scendevano in cucina e ne mangiavano a grandi quantità.
Il fatto di non essere in casa loro non cambiava le cose.
Lo zio sapeva esattamente come muoversi in quella cucina, e Skyler era riuscita a trovare due coppe abbastanza grandi perché potessero metterci dentro il loro dolce speciale, che alla fine si riduceva a poche fragole e molta panna.
Si sedettero all’alta postazione da lavoro che fungeva anche da tavolo, e cominciarono a mangiare soddisfatti, dapprima in silenzio, poi iniziando a chiacchierare.
A Skyler sembrò di essere tornata in casa loro, a Baltimora, dove tutto era più tranquillo, dove tutto era giusto.
Lo zio rideva e scherzava, non era più irrigidito dalla presenza dei familiari e dall’idea di fare una buona impressione, tant’è che le aveva sporcato il viso di panna più volte, ignorando le minacce di Skyler e del suo cucchiaio.
Dopo che ebbero finito tutte le fragole a disposizione, si accorsero di avere ancora fame.
Skyler avrebbe volentieri desistito, ma lo zio tirò fuori dal frigo quel che restava del tiramisù della nonna. Si sedette accanto a lei, le porse una forchetta, e Skyler non riuscì a dir di no.
Iniziarono a mangiare quello, avvolti da un magico silenzio.
«Ti odio» sbottò Skyler ad un certo punto, con un sorrisetto sulle labbra.
Lo zio inarcò un sopracciglio, sembrava divertito. «Perché?»
«Perché mi fai mangiare il cibo del nemico. Chi ti dice che non ci abbia messo dentro del veleno, eh?»
Ben non riuscì a trattenere una risata. «Lo abbiamo mangiato tutti, prima, e non credo che nessuno abbia rischiato di morire.»
«Magari ce l’ha messo dopo che l’avete mangiato» ipotizzò lei. «Forse sapeva che saremmo scesi qui e che l’avremmo assaggiato!»
Lo zio scrollò leggermente la testa, buttando giù un’altra forchettata. 
«È bello sapere che ti interessa la mia opinione» scherzò lei, fingendosi indignata.
Per tutta risposta, lui ne ingoiò un altro po’.
Skyler abbozzò un sorriso, che però, ben presto, diventò malinconico. «Altri due giorni e non dovremmo più preoccuparci del veleno nei dolci» disse con un fil di voce, quasi sovrappensiero.
Lo zio si incupì. Corrucciò le sopracciglia, e fece per prendere un’altra forchettata, ma la sua posata esitò, e lui iniziò a schiacciare con il pollice le briciole sul tavolo. «Odi così tanto stare qui?»
Skyler lo guardò. «Se lo odio, Ben? Io lo detesto. Ancora non riesco a capire che cosa ci facciamo qui!»
Il volto dello zio non avrebbe potuto essere più scuro di così. «Siamo qui per far visita ai tuoi nonni. E per riallacciare i rapporti con la famiglia.»
Skyler sbuffò, sarcastica. «Non ci credi nemmeno tu mentre lo dici.» La ragazza si aspettò di sentirgli dire qualcosa, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. «Ti sei mai chiesto il vero motivo per cui siamo qui?» gli chiese, forse un po’ più duramente di quanto avrebbe voluto. «Non perché ci siamo venuti noi, quello già lo so. Ma perché lei ci ha chiamato. Mi sono fatta questa domanda anch’io, e alla fine, credo di aver trovato la risposta...»
«Lei ci ha chiamato perché dopo otto anni aveva voglia di rivederci» la interruppe lo zio, con voce atona.
Skyler sembrò allibita. Squadrò il volto dell’uomo, in cerca di un segno che stesse scherzando. Ma quando capì che non era così, rise amaramente. «Dopo otto anni… lei voleva rivederci? E perché ha aspettato tutto questo tempo per farlo, eh? Perché non prima?»
«I rapporti fra noi non sono mai stati dei migliori.»
«Che gliene importava, a lei, di te? Io parlo di me. Perché se aveva tutta questa voglia di vedere la nipote non l’ha fatto? Perché ha aspettato otto anni
«Tua nonna ti vuole bene» sussurrò semplicemente lo zio.
«No, non è vero» lo zittì lei, con un sorriso amaro sulle labbra. «Mi vuole bene, dici? E allora perché è sparita? Mai una telefonata. Mai un augurio di compleanno. Mai una lettera. Mai un bigliettino di Natale. Mai un regalo. Mai una visita. Perché non è mai venuta da noi, se sentiva tanto la mia mancanza? A quanto pare, aveva anche il nostro numero di telefono.»
«Skyler…» tentò di dire lo zio.
«Te lo dico io perché» lo interruppe invece lei, mentre sentiva la rabbia corroderle la bocca dello stomaco. «Perché io non le mancavo per niente. Perché lei non aveva bisogno di me.»
«Tua nonna ti vuole bene» ripeté un’altra volta lui, perentorio.
«Dei, come sei ingenuo, Ben» scosse la testa lei, sorpresa. «Non ti rendi conto che è tutta una messa in scena?»
«Perché credi che ti abbia voluto qui, altrimenti. Lei non mi può soffrire. L’ho sempre saputo, e onestamente non mi interessa. Ma lei ti ha voluto qui. A tutti i costi! Lo sta facendo per te, Skyler.»
«Lei non lo sta facendo per me» sibilò lei, come se fosse evidente. «Lei lo sta facendo per
Lo zio aggrottò la fronte, e sembrò non capire. Skyler sospirò, furiosa. «Andiamo, pensaci. Lei vuole portarmi via da te, ma perché? Ormai ho sedici anni, e mi hai cresciuta benissimo. Quindi perché?»
Ben non rispose.
«Il nonno sta invecchiando. E lei insieme a lui. Ben presto raggiungeranno tutti e due i Campi Eli… il Paradiso. E poi? A chi lasciano tutto? Questo» Indicò con un segno circolare del dito la casa che li circondava. «A chi va? C’è bisogno di un’erede, qualcuno a cui affidare tutto il patrimonio. I figli no, perché ormai hanno già le loro vite, le loro case e i loro lavori. Restano solo i nipoti.»
«Stai dicendo che i nonni ti hanno venuto qui solo per assegnarti il loro patrimonio?» chiese lo zio, indignato.
«Il nonno no. Lui è troppo buono, e ci vuole bene davvero. Ma lei sì. Lei non si fa scrupoli.»
«Questa cosa non ha senso!» scosse la testa lui, contrariato. «Se fosse davvero questo il motivo, ci sono anche Madison e Jacob.»
«Appunto, è qui che sorge il problema» continuò decisa lei. «Loro sono in due. Ma dividere un patrimonio è come far mangiare una bistecca a due cani. A chi dai la parte più grossa? Come decidi chi merita di più? Non puoi, è questo il punto. Come spiegherebbe a Madison che ha voluto dare la casa a Jacob o viceversa?» Skyler scrollò il capo. «Non può farlo, a meno che non ci sia un terzo in comodo. Qualcuno a cui lei è più legata che agli altri due. Qualcuno che lei ha cresciuto, che ha vissuto in casa sua, che ha seguito le sue regole…» Era orribile quello che stava per dire, ma in cuor suo era convinta che fosse anche vero. Per cui non si fece scrupoli, mentre guardava lo zio negli occhi. «Per questo vuole farmi venire a vivere qui. Lei ha solo bisogno di un’erede, Ben. Non vuole anche una nipote.»
Intorno a loro, silenzio, impregnato della tensione che ormai rendeva l’aria della cucina opprimente. Nessuno dei due aveva più toccato il dolce, che ora giaceva dimenticato sul tavolo.
Quando lo zio si passò una mano davanti alla bocca e prese un gran sospiro, Skyler capì che si stesse sforzando per non esplodere. Inarcò le sopracciglia, quasi fosse stupito.
«Ben…» provò lei, ma lui la zittì con un’occhiata ammonitrice.
«No, Skyler. Non ho voglia di parlarne.» Si riassestò sulla sedia, quasi volesse fingere che non fosse successo niente.
«Che significa?» chiese Skyler, che non riusciva a capire la sua reazione. «Ti ho appena fatto capire che…»
«Mi hai appena fatto capire che la tua voglia di andartene da qui è così forte da spingerti ad inventare cattiverie su tutti.»
Skyler sembrò confusa. «Come?»
«Mancano solo due giorni, prima di tornare a casa. Quindi non preoccuparti.»
La sua voce era fredda, tagliente. Il panico iniziò a farsi strada nel cuore di Skyler, mentre temeva che lui avesse frainteso. «No, Ben. Io non cercavo di convincerti a tornare a casa. Volevo solo…»
«Non importa, ho capito.»
«No, non hai capito…»
«Resisterai altri due giorni, vero?»
«Ma non è quello…»
«Skyler.»
«Volevo solo farti aprire gli occhi…»
«Skyler.»
«Se tu provassi ad ascoltarmi…»
«Skyler
«Ti renderesti conto che…»
«Gli altri stanno dormendo.»
«Se tu mi lasciassi parlare…»
«Skyler, per favore. Non è né il momento né il luogo adatto per parlarne. Quindi ora basta.»
Per Skyler fu come uno schiaffo in faccia. Lo zio non le credeva. L’unica persona che pensava sarebbe sempre stata dalla sua parte, ora le chiedeva di non parlare.
Che cosa stava succedendo? Era tutto maledettamente sbagliato. Lui era lo zio Ben. Lui l’avrebbe riportata a casa.
Lui l’ascoltava, sempre.
Ma ora no.
Ora l’aveva combinata grossa.
Molto probabilmente sapeva che la ragazza non aveva tutti i torti, ed era per questo che non voleva ascoltarla.
Skyler annuì, visibilmente delusa. «Okay» acconsentì, anche se dalla sua voce traspariva una certa amarezza. Si alzò da tavola, trattenendo a stento le lacrime. «Torno in camera mia.»
Uscì dalla cucina, senza neanche un ultimo “Buonanotte”.
Era distrutta, e voleva solo dormire.
Ma quando si nascose sotto le coperte capì che non c’era riposo che potesse rigenerarla.
Perché quella non era una sensazione dovuta alla stanchezza.
Lei era distrutta dentro. Nel cuore.

Angolo Scrittrice.
Holaa!! Eccomi qui! ahaha
Oggi è martedì, giusto? Eheh, come vedete non è così facile liberarsi di me ;)
Bien bien, ecco a voi il nuovo capitolo. Spero vi sia piaciuto.
Dunquo, vediamo... Madison che rende la vita impossibile a Skyler; Skyler che si sforza per non tirarle un pugno; Skyler che cerca di ragionare con Ben esponendogli la sua teoria; Ben che si arrabbia; Skyler che si sente peggio di prima perchè sente di non avere più neanche la fiducia della persona più importante per lei, e cioè lo zio. Un bel mix, eh? ahaha
Per chi come
Flowers of Death avesse voglia di vedere più momenti fra Skyler e lo zio, beh, ecco un capitolo quasi interamente dedicato a loro! (anche se so che non erano esattamente questi momenti che volevate vedere).
Wow. Sembra impossibile, ma per la prima volta in vita mia non so che dire. In realtà, questo capitolo è tanto semplice quanto importante, per tre motivi:
1) Si comincia a capire (o almeno Skyler crede di cominciare a capire) il perchè di questa improvvisa chiamata della nonna, e quindi ad intendere le sue vere intenzioni. Secondo voi è vero quello che dice Skyler? O ha ragione lo zio, e la nonna le vuole bene? Ben giustifica troppo i comportamenti irriverenti della medre perchè, beh, è sua madre, o è Skyler fa condizionare il suo giudizio dalla voglia di andarsene? 
2) Come già detto su, Madison rende a Skyler la vita impossibile. Le versa addosso le cose, la trascina in situazioni che non vuole, mette a dura prova la sua pazienza e fa commenti non esattamente appropriati sul suo ragazzo. (andiamo, chi vorrebbe sentirsi dire una cosa del genere? xD)
3) La canzone. Sì, esatto, la ninnananna del carillon. Magari vista così può sembrare di poca importanza, ma vi assicuro che invece quello è il particolare più essenziale di tutto il capitolo. La risentiremo spesso, questo è sicuro, ma non vi dico nè il modo nè il luogo in cui aiuterà Skyler (niente Spoiler, eheh). Voi però tenetela a mente, mi raccomando ;) Il testo, ovviamente, l'ho inventato io, ma non ha una melodia ben precisa, quindi potete cantarla come vi pare :')
Oookaay, dopo quest'ultima uscita che centrava poco e niente, devo fare un annuncio.
Purtoppo, non pubblicherò per due settimane. Parto per il mare, e lì non avrò internet se non sul telefono (dove unfortunately non posso aggiornare).
Quindi, ci rivedremo tra due martedì. Vi prego, non ucciddetemi >.<
Spero comunque che questo capitolo vi sia piaciuto, e che non abbia deluso le aspettative. Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi è piaciuto o non vi è piaciuto. Sono una ragazza aperta, accetto tutte le critiche, purchè costruttive ;)
Bien bien bien, e ora, è arrivato il momento dei miei Valery's Angels, che come sempre sono in tantissimi e che (come sempre) non la smettono di farmi sciogliere con le loro dolcissime recensioni **. Un grazie grande quanto tutto questo mondo a:
Kalyma P Jackson, pindow_wane_17, Cristy98fantsy, FoxFace00, saaaraneedsoreo, heartbeat_F_, _angiu_, Floewrs of Death, Ciacinski, carrots_98 e kiara00.
Dei, quanto vi adoro! Siete i migliori, davvero ** Grazie, grazie, grazie, grazie, grazie!
E ne approfitto anche per ringraziare le 16 persone che hanno inserito la storia tra le seguite e le 18 che l'hanno inserita tra le preferite *^* Miei dei, non ci sono parole per dirvi quanto vi sia grata!
Oookay! Ora vi lascio in pace! ^^
Buon martedì... anzi, no, buona settimana... anzi, no... argh! Lasciamo stare -.-
Buon quellochevipareepiacepurchècomprendadolciblu a tutti!
Ci vediamo fra due martedì ;)
Sempre vostra,

ValeryJackson
 P.s. Ho scritto lo stesso un poema, vero? ahaha ho paura che non cambierò mai >.<
P.p.s. C'è qualche fan dei The Script? Perché io sto impazzendo per la nuova canzone e ho bisogno di sclerare con qualcuno *^*
 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***



 

Skyler non aveva chiuso occhio quella notte.
O meglio, non aveva voluto farlo.
Perché ogni volta che ci provava, le parole di quella canzone le riaffioravano nella mente, e quando si risvegliava di soprassalto aveva sempre le guance bagnate.
Non sapeva perché le facesse così male.
Aveva riacquistato qualcosa della madre. Aveva ricordato ciò che ormai aveva quasi abbandonato la sua mente.
Non aveva più sentito quella canzone, per ben otto anni.
Avrebbe dovuto essere felice. Finalmente qualcosa che nessuno potrà mai cancellare, qualcosa di irremovibile che porta il segno inequivocabile di sua madre.
Eppure, Skyler era indecisa.
Indecisa perché non sapeva se raccontare allo zio del carillon o tenere il segreto per sé. Indecisa perché non aveva voglia di cantare quella ninnananna, ma aveva paura che se non l'avesse fatto l’avrebbe dimenticata un’altra volta. Ed indecisa perché doveva ancora decidere se averla ritrovata fosse un bene o un male.
A colazione, non aveva rivolto la parola a nessuno, né tantomeno allo zio.
Aveva finito i suoi cereali in silenzio, e poi era tornata in camera, sotto gli sguardi perplessi di tutti.
Dopo circa una decina di minuti, Ben aveva bussato. Skyler non aveva fatto in tempo a dire niente, che lui aveva aperto la porta ed aveva varcato la soglia.
«Posso entrare?» aveva chiesto, e Skyler aveva alzato le spalle, perché tanto l’aveva già fatto.
C’era stato qualche secondo di silenzio imbarazzante, poi lui aveva ridacchiato e le aveva detto che la nonna aveva scoperto la mancanza delle fragole in frigo, ma che, quando gli aveva chiesto se sapesse chi le avesse mangiate, lui aveva fatto finta di niente. Skyler non aveva riso.
Lo zio se n’era accorto, e aveva sospirato. Poi si era scusato. Per non averla ascoltata ieri sera, e perché forse non avrebbe dovuto trascinarla in un posto nel quale non voleva stare.
Anche Skyler si era scusata. Per avergli fatto pesare la sua decisione di andare lì, e per quello che aveva detto la sera prima, affermando (anche se non era vero) che neanche lei credeva alle sue parole.
Poi si erano abbracciati. Lo zio le aveva baciato dolcemente la fronte come faceva sempre. E Skyler aveva affondato il viso nel suo petto, come faceva sempre.
Sembrava tornato tutto normale.
Altri due giorni, e quella normalità sarebbe finalmente rientrata a far parte della loro quotidianità.
Lo zio aveva cercato di stemperare la tensione che c’era fra loro con qualche domanda. Le aveva chiesto anche il significato del tatuaggio. Ma lei, ancora una volta, aveva sviato il discorso.
Non aveva ancora inventato una scusa abbastanza plausibile da raccontare, e non aveva voglia di dire allo zio la verità.
Non in quel contesto, almeno.
Ora era tardo pomeriggio, e, dopo una lunga chiacchierata con lo zio di più di un’ora, Skyler non aveva fatto altro che star chiusa in camera sua ad ascoltare musica. Solo quando si era accorta che le canzoni stavano ricominciando daccapo aveva deciso di togliersi le cuffie e esplorare la casa.
Non aveva idea di che cosa stesse cercando, esattamente. Finché non si era ritrovata lì.
Perlustrò con sguardo ambiguo il corridoio, assicurandosi che non ci fosse nessuno. Sembrava vuoto. Molto probabilmente tutti erano impegnati ad annoiarsi in altri modi.
Con mano esitante, afferrò la maniglia e aprì la porta. Il cardine di legno cigolò, ma lei non ci diede peso.
Entrò nella stanza e si guardò intorno. La sala musica era ancora più bella di quanto non ricordasse. E soprattutto più grande.
Le tende erano semiaperte, e permettevano alla lieve luce giallastra del tramonto di illuminarla.
La prima volta che ci era entrata, non era riuscita a scorgerne ogni particolare. Ora, invece, si accorse addirittura della piccola libreria accantonata in un muro, o di tutti gli strumenti poggiati in un angolo. C’erano un violino, delle percussioni, una chitarra e un contrabbasso. E poi c’era lui, il pianoforte.
Skyler vi si avvicinò, titubante. Ne accarezzò la superficie liscia con una mano.
Sospirò, rapita da quello strumento. Nell’aria c’era odore di sigaro.
Non riuscì a ricollegare velocemente quell’odore ad una persona, che si sentì chiamare.
«Sobrinita!»
Skyler si voltò. Accanto al fuoco, proprio come la prima volta che l’aveva visto, c’era il nonno. Le sorrideva, raggiante.
Skyler non poté fare a meno di ricambiare quel sorriso. «Nonno!» esclamò, un po’ sorpresa. «Che ci fai qui?»
«Potrei farti la stessa domanda» ribatté il vecchio.
Touché.
«Volevo vedere il pianoforte» ammise lei, con tono colpevole. «La nonna ha detto che mia madre lo suonava spesso, per cui…»
«Era la più brava» la interruppe lui, con sguardo triste. Skyler lo guardò, rapita dal suo tono di voce. «Sapeva suonare qualunque cosa le chiedessi.»
«Davvero?» domandò lei, rapita.
«Oh, sì!» L’uomo ridacchiò. «Per me eseguiva spesso l’Inverno di Vivaldi.»
Skyler ebbe un tuffo al cuore. Ricordò la musica che il nonno ascoltava il giorno in cui l’aveva incontrato. Dopo averla sentita, aveva chiesto in disparte allo zio di che canzone si trattasse.
Sorrise, malinconica. «Ascolti spesso quella canzone?»
«Abbastanza» ammise lui, dolcemente. Il suo sguardo era perso nel vuoto, come se stesse cercando di afferrare un ricordo. «Mi fa pensare a lei.»
Skyler si strinse nelle spalle, accarezzandosi distrattamente le braccia. «Lo fai per ricordare?» chiese lei ingenuamente, avvicinandosi un po’ di più a lui.
«No, bambina mia» rispose prontamente lui, stavolta guardandola negli occhi. Sorrise. «Lo faccio per non dimenticare. C’è una grande differenza.»
Skyler sembrò colpita da quelle parole, perché non replicò. Nel silenzio che ne seguì, l’uomo tirò un’altra boccata dal suo sigaro. Forse inspirò troppo fumo, però, perché una tosse graffiante lo fece sobbalzare dalla poltrona.
La ragazza voleva aiutarlo, ma da come si comportava sembrava fosse abituato.
«Fumi spesso?» gli chiese lei, quando si fu calmano.
Le sue labbra si incresparono per trattenere una risata. «Solo quando la nonna non mi vede.» Provò a ridere, ma quella si trasformò subito in altra tosse.
Skyler arricciò il naso. «Posso chiederti perché lo fai?»
Lui sospirò. «Per colorare il mio respiro» ammise, di colpo serio in viso. Notando però che la nipote sembrava non capire, fece quello che per lui somigliava ad un occhiolino. «Così riesco a vederlo» spiegò. «E so che sono ancora vivo.»
Un angolo della bocca di Skyler si sollevò in un sorriso. Le piaceva il nonno con le sue strane teorie. Ma soprattutto, le piaceva ascoltarlo mentre si rivelava l’unica persona, lì dentro, disposto a capirla.
«Ti va una partita a Battaglia Navale?» esplose all’improvviso lui, cogliendola alla sprovvista.
Skyler inarcò le sopracciglia, ma annuì.
«Su quel tavolo dovrebbero esserci dei fogli.»
Skyler andò a prenderli e glieli porse. Prese dall’angolo un’altra poltrona e un tavolino da caffè e gli si sedette di fronte.
«Sai giocarci, vero?»
Skyler rise, afferrando foglio e penna. «Io sono la campionessa!»
Disegnarono gli schemi e cominciarono il gioco. Skyler ebbe molta fortuna e riuscì ad affondargliene tre. Il nonno, invece, solo due.
«A7» disse Skyler. Il nonno scosse la testa.
«C3.»
Skyler fece una smorfia. «Colpita.» Lui sembrò soddisfatto.
«H5.»
Lui scosse la testa di nuovo. «È molto carino il tuo tatuaggio» sbottò ad un certo punto, per poi dire un “C6”.
Skyler avvampò. «Ehm… grazie» balbettò, per poi scuotere la testa. Fece finta di pensare al prossimo numero da dire. Non le piaceva quando le parlavano del tatuaggio. Non sapeva mai cosa rispondere.
«F… 3?» chiese, titubante.
Il nonno annuì con un sorriso sghembo. «Colpito.»
Seguì con la penna i numeri rimasti, mentre si mordicchiava il labbro pensieroso. «Che cosa hai detto che significa?» chiese, con fare indifferente.
«Non ha un significato preciso» sviò subito Skyler, sperando che se la bevesse.
Speranza vana.
«Tutti i tatuaggi hanno un significato, tesoro. Il tuo qual'è?»
Skyler si morse l’interno della guancia. Le sudavano le mani, per cui asciugò i palmi sui pantaloni. «È… complicato.»
Il nonno annuì. Diede un ultimo sguardo alla sua tabella, poi la guardo e le disse deciso. «G10.»
Skyler accennò un sorriso, annuendo. «Affondata.»
Il nonno alzò un pugno in aria, esultando. Skyler tornò a guardare la sua tabella.
«Sai, la prima volta che l’ho visto, mi ha ricordato qualcosa» aggiunse perentorio lui, dopo qualche minuto di silenzio.
Skyler si sforzò di accennare un sorriso. «Davvero?» chiese, fingendosi sorpresa.
«Sì. È strano. Io… non ero sicuro di ricordare bene. Avevo questo simbolo in mente, ma pensavo fosse quello sbagliato. Così ho cercato su qualche libro…»
Si bloccò, osservando la reazione della nipote. Skyler sudava freddo. Il suo istinto da mezzosangue le gridava di alzarsi da quella sedia ed uscire, ma il suo istinto di ragazza normale le suggeriva che, se il nonno aveva dei dubbi, così facendo non avrebbe fatto altro che aumentarglieli.
Ma il silenzio che seguì le sue parole la gelò. Lo guardò negli occhi. Che stava cercando di dirle?
Il nonno era stranamente serio in volto, ma mai Skyler si sarebbe aspettata un’affermazione del genere.
«È il simbolo di Efesto, vero? Il dio greco del fuoco e dei fabbri.»
Skyler sgranò gli occhi, mentre sentiva il cuore stringersi in una morsa d’acciaio.
Il nonno l’aveva scoperta? Ma come aveva fatto? Aveva cercato di stare attenta, non aveva fatto niente che potesse far anche solo pensare ad una cosa del genere.
Sapeva la verità? Conosceva la sua natura da mezzosangue?
Aveva capito tutto?
Rendendosi conto del suo enorme silenzio, Skyler deglutì. «I-Io…» la sua voce tremò.
Quell’esitazione non fu altro che una conferma per il vecchio che la guardava in attesa. «Lo sapevo!» esultò infatti quello, sorridendo soddisfatto.
Skyler tentò di riprendere in mano la situazione. «N-n… no, nonno. Ti sbagli. Questo… questo non è il simbolo di Efesto…»
«Tua madre era fissata con la Mitologia, Skyler. So di cosa parlo.»
Skyler corrucciò le sopracciglia, confusa. «Eh?»
Il nonno sorrise e annuì. Si riassestò sulla poltrona, quasi fosse emozionato, e dalla luce famelica nei suoi occhi la ragazza capì che non vedeva l’ora di parlare di quell’argomento con qualcuno.
«È una passione che le ho tramandato io. Della Mitologia, intendo. Lei amava soprattutto quella greca. Comprava decine su decine di libri sull’argomento. E li studiava tutti! Quando scopriva qualcosa di nuovo, veniva sempre a farmela vedere. Per questo ho riconosciuto subito quel simbolo. È una passione che si è portata dietro fin da adulta. E a quanto pare l’ha trasmessa anche a te.»
Skyler non si accorse di aver trattenuto il fiato finché non metabolizzò ciò che le aveva appena detto il nonno.
Ma allora…
Si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, mentre chiudeva gli occhi e ridacchiava, felice.
Il nonno sembrò perplesso, non riuscendo a comprendere la sua reazione.
Così Skyler pensò alla svelta.
«Pensavo di essere l’unica, qui, a cui piaceva la Mitologia» disse, fingendo alla perfezione. «Credevo che se l’avessi detto a qualcuno mi aveste creduto strana.»
A quel punto, il nonno rise, contagiando anche lei. «Qui siamo tutti strani, ¿no?»
Fu come se qualcuno le avesse appena tolto un grosso peso dalle spalle, permettendole di respirare. Per un attimo, aveva davvero temuto il peggio. Non sapeva perché l’idea che il nonno sapesse la verità la spaventasse tanto. Forse perché il fatto che lui sapesse di dei e mostri non avrebbe avuto altro riscontro se non quello di allettare quest’ultimi con il suo odore. O forse perché aveva già troppi problemi per la testa.
Il suo sguardo si perse fra le fiamme del fuoco che brulicava accanto a loro. Il suo crepitio era accogliente, ma Skyler faceva ancora un po’ fatica ad avvicinarsi.
«Non ricordavo che la mamma amasse la Mitologia» sussurrò, più a sé stessa che al nonno.
Quest’ultimo la guardò. Restarono per qualche secondo così, in silenzio. Poi lui si alzò deciso.
Forte un po’ troppo deciso, perché le sue gambe addormentate non ressero l’improvviso peso e barcollarono.
Skyler fece per alzarsi, pronta ad aiutarlo, ma lui la ignorò, e zoppicò fino alla piccola libreria appoggiata al muro.
Skyler non capì che cosa stesse cercando, finché lui non tornò a sedersi di fronte a lei.
«Questo era di tua madre» le disse dolcemente, allungandole un libro.
La ragazza lo guardò. Era alto circa tre centimetri, rilegato in pelle. Sulla copertina, ricami rossi e dorati contornavano una scritta a caratteri cubitali: “MITOLOGIA GRECA”.
Skyler accarezzò quelle lettere, notando che erano in rilievo.
«Era il suo preferito» stava dicendo il nonno, che lei, ormai, ascoltava distrattamente. «Diceva che quel libro riusciva a farle capire le cose senza annoiarla. Sui bordi delle pagine ci sono anche tutti i suoi appunti. Puoi prenderlo, se vuoi.»
Skyler alzò di scatto lo sguardo, stupita. «Posso davvero?»
«¡Claro que sì!» Il nonno sembrava entusiasta. «Non ha senso lasciarlo marcire lì dentro.»
Skyler gli sorrise, infinitamente grata. Guardò di nuovo il libro che aveva in grembo, che ora sembrava pulsare fra le sue mani. Fu tentata di aprirlo lì, in quel preciso istante.
Ma la voce del vecchio la riportò alla realtà.
«Allora, continuiamo la nostra partita?»
La ragazza annuì, con un sorriso. Ripresero entrambi i loro fogli, lanciando un’occhiata alle loro tabelle. Era il turno di Skyler.
«H6?»  
 
Ω Ω Ω
 
Alla fine, contro il nonno, aveva vinto lei.
Lui non sembrava molto contento quando era riuscita ad affondargli anche l’ultima nave, e il broncio che aveva messo su era così comico che alla fine erano scoppiati a ridere tutti e due.
Avevano chiacchierato un altro po’, principalmente del più e del meno. Poi Skyler aveva finto di avere il mal di testa, dicendo che si sarebbe preparata una camomilla.
La verità era che non vedeva l’ora di uscire da quella stanza. Non perché non gradiva la compagnia del nonno, per carità. Ma da quando lui le aveva dato il libro della madre, non era riuscita a pensare ad altro.
Sembrava brillare, mentre bruciava sulle sue gambe, quasi volesse attirare la sua attenzione.
Non vedeva l’ora di leggerlo. Sapeva che avrebbe avuto qualche difficoltà, data la sua dislessia, ma non le importava. Il solo pensiero di poter rivedere la scrittura della mamma l’emozionava.
Scese in cucina, e si preparò una cioccolata calda. Poi andò in soggiorno e prese posto su una grossa poltrona, accanto al camino. Non aveva idea del perché fossero stati accesi, dato che era piena estate. Ma poi Skyler ricordò di non trovarsi più a Baltimora, bensì a San Diego, dove il clima era più mite. E poi, date tutte le cose strane che caratterizzavano la nonna, la cosa non la sorprese più di tanto.
O almeno, non si diede il permesso di darci peso. Era troppo impegnata ad osservare il libro fra le sue mani. Ne accarezzò la copertina rilegata, con mano esitante. Ma, non appena le sue dita sfiorarono le lettere cubitali, ritrasse il braccio, quasi si fosse appena scottata.
Il cuore cominciò a batterle all’impazzata. Cosa si doveva aspettare? O meglio, cosa si poteva aspettare?
Un libro vecchio, ammuffito e decrepito. Le avrebbe davvero ricordato il sorriso della madre? Le sue pagine portavano davvero il profumo delle sue mani forti e delicate?
Skyler non poteva saperlo. E questo la spaventava.
Odiava non sapere le cose. Ma soprattutto, odiava non sapere come affrontarle.
Non voleva essere debole. Non voleva privarsi di ciò che poteva essere un bene per lei solo per paura che non lo fosse.
Da un po’ di tempo era cambiata, e lei lo sapeva. Era più incline al pianto, più incapace di allontanare le emozioni. Si faceva sopraffare dai sentimenti, belli e brutti, senza però riuscire a controllarli.
E se da un lato questo suo lato sensibile e fragile le piaceva, dall’altro lo odiava, perché nonostante ci avesse provato più volte, non era mai riuscita a ricostruirsi la corazza che per tanti anni l’aveva salvata dal mondo che la circondava. Che l’aveva salvata da sé stessa.
Skyler si morse un labbro, pensando a cosa fare. Avrebbe voluto ripercorrere i propri passi e dire al nonno che non riusciva a leggere quel libro, e che non le interessava farlo. Ma la tentazione era troppo forte, e Skyler si rese conto da aver aperto la prima pagina solo quando vide quelle lettere vorticarle davanti agli occhi.
Li chiuse a due fessure e si concentrò. All’inizio fu difficile, e le venne un gran mal di testa. Ma poi pian piano le parole cominciarono a formarsi da sole.
Lesse di Zeus, che fu sottratto dalla madre a Crono e che fu allevato nell’isola di Creta, accudito da Adrastea e allattato da una capra.
Di Artemide, che fece sbranare dai suoi cani Atteone perché l’aveva contemplata mentre faceva il bagno, per poi trasformarlo nella costellazione di Orione.
Di Apollo, considerato il dio greco per eccellenza, che concerneva la divinazione e gli oracoli, tanto da concedere anche agli uomini di conoscere il futuro. Questo la fece pensare a John, e a quanto fosse strano che ogni volta che vedeva Rachel, l’Oracolo del Campo, facesse una smorfia, perché sapeva che la ragazza era devota a suo padre, ma odiava ogni singola profezia uscisse dalla sua bocca.
Sfogliando le pagine, Skyler capì perché la madre amava tanto quel libro. Era pieno di colori, e di illustrazioni. La migliore era sicuramente quella raffigurante Ercole e Deianira che attraversavano il fiume.
L’acqua era dipinta in modo sopraffino, e Skyler era sicura di riuscire a scorgerne ogni guizzo, ogni onda, ogni bruma.
Le espressioni sui volti dei due amanti tradivano una certa preoccupazione. Lei non sapeva nuotare, e lui aveva paura di perderla. Stavano cercando qualcuno che la traghettasse.
L’impresa era solo di lui, e lei ci si era ritrovata in mezzo, non si sa neanche per quale motivo.
Dal modo in cui l’autore aveva dipinto le loro mani unite, Skyler capì che lui l’avrebbe protetta a qualunque costo, non permettendo a nessuno di farle del male. E che lei l’avrebbe seguito anche in capo al mondo.
La scrittura tondeggiante della madre ricopriva i bordi di quasi ogni pagina. In alcuni punti era svelta e disordinata, come se mentre lo scriveva avesse fretta, e non avesse tempo per preoccuparsi della forma. In altri, invece, era più precisa, come se si fosse seduta lì apposta per scrivere quelle note, impegnandosi perché fossero chiare e leggibili.
Principalmente, si trattava di riflessioni personali, come commenti o deduzioni, talvolta annotazioni e curiosità.
Il suo racconto preferito era quello di Ermafrodito. Skyler lo rilesse tre volte, quasi fosse un modo per assorbirne ogni dettaglio.
Ermafrodito era figlio di Ermes e Afrodite. Era bellissimo, e venne allevato dalle ninfe di Frigia. A quindici anni, nel corso della sua esplorazione del mondo, giunse in Caria, sulle rive di un grande lago. Qui lo vide la ninfa Salmace, e i due si innamorarono perdutamente. Ma la ragione di lei era così annebbiata dall’amore, da non permetterle di pensare con lucidità. Così, mentre lui si bagnava nel lago, ella chiese agli dei di potersi unire per sempre a lui.
Gli dei l’accontentarono, ma non nel modo in cui voleva lei. I due, infatti, diventarono un essere solo, metà donna e metà uomo.
Secondo la madre era una cosa molto dolce. Per lei era come se, in questo modo, le anime dei due innamorati potessero essere più vicine, arrivando a toccarsi, ad abbracciarsi, e ad amarsi senza alcuna barriera.
Era una cosa molto romantica, in effetti, nonostante alla fine Ermafrodito avesse perso le staffe per il suo gesto e avesse chiesto a Zeus che chiunque si bagnasse in quel lago perdesse la virilità.
Ma se si ometteva quel dettaglio, era dolce davvero. Non erano due corpi in un anima, ma due anime in un corpo. Non era la sensazione che si prova quando trovi la tua anima gemella, quella che ti rende completa. Era la sensazione che si prova quando trovi la persona che prima di insegnarti ad amare lei, ti insegna ad amare te stessa. Che ti fa sentire speciale, che ti fa capire che non esiste al mondo persona più importante di te. Che ti fa sentire bella, e che ti fa capire che, se non sei tu la prima a piacerti, non riuscirai mai a piacere agli altri.
Sul lato sinistro della pagina, proprio nello spazio in alto, la mamma scriveva: “Spero, un giorno, di poter trovare una persona che mi ami così.”
E poi ancora sotto: “Spero che mia figlia trovi la sua.”
Skyler ebbe un tuffo al cuore. Le rilesse una, due, tre volte, quasi avesse paura di essersi sbagliata. Ma non aveva letto male.
La mamma parlava di lei. Molto probabilmente aveva scritto la seconda nota in un altro momento, dato che le grafie erano un po’ diverse.
Ma la madre parlava di lei. La pensava, mentre leggeva, e le augurava di trovare una persona che l’amasse più di quanto lei ama sé stessa, al punto da farle capire che non è importante come si appare agli altri, ma come si appare a sé stessi.
Skyler ebbe la sensazione che qualcuno le avesse appena riempito il cuore con la sua cioccolata calda.
Quello era un augurio per lei.
Credo di averla trovata, mamma, pensò, con un sorriso commosso sulle labbra. Credo di averla trovata.
In quel momento sentì dei passi ticchettare sul pavimento del soggiorno.
Skyler si asciugò gli occhi con la collotta della maglietta, per evitare di dover dare spiegazione delle sue lacrime. Chiuse il libro, tirando su col naso e cercando di darsi un tono. Pensava fosse lo zio che andava a chiamarla per la cena. Ma quando si voltò, restò di sasso.
Madison si aggirava per la stanza, facendo finta di ignorarla. Skyler sapeva che era lì per lei. Di certo la sua massima aspirazione non era quella di perlustrare le pareti di una stanza che aveva già visto migliaia di volte.
Quando posò lo sguardo su Skyler, si accorse che lei la stava fissando e ghignò.
«Che fai, cuginetta?» le chiese, con tono spensierato.
Skyler strinse i denti. Odiava il fatto che fingesse di chiamarla cuginetta. Poteva anche accettarlo davanti ai parenti, ma lì erano sole. Non ce n’era alcun bisogno.
«Non sono affari che ti riguardano» mormorò, a denti stretti.
Madison sembrò soddisfatta di averla infastidita, e si avvicinò a lei con passo saltellante. «Che leggi?» domandò ancora, allungando il collo per vedere oltre la sua spalla.
Skyler tentò di coprire il libro con le mani, ma invano. «Niente» borbottò.
«Mitologia Greca» lesse Madison, scandendo attentamente ogni lettera. Ridacchiò. «Ma tu non eri dislessica?»
«Che cosa ci fai qui?» tentò di cambiare discorso lei, soffocando una certa irritazione. «Non dovrebbe essere pronta la cena?»
«Non ancora» rispose la bionda non curante, voltandosi per osservare le foto nella libreria. «Quel libro era di tua madre?» chiese, dopo qualche secondo di silenzio.
«Sì» rispose Skyler, per poi mordersi la lingua subito dopo. Madison non era la persona adatta per parlare di cose del genere.
La ragazza sembrò non dare peso alle sue parole. «Carina questa foto» disse, indicando una cornice con un cenno.
Seguendo la direzione del suo sguardo, Skyler si rese conto che parlava della foto dove la madre la teneva in braccio. Madison la prese in mano, esaminandola. Skyler si alzò in piedi, sentendo il mostro della rabbia graffiarle la bocca dello stomaco. E quando lei fece cadere la cornice a terra, quel mostro esplose.
«Attenta!» la sgridò, lasciando il libro sulla poltrona e correndo a raccogliere la foto.
Madison la lasciò fare, incurante.
Skyler rimise la foto al suo posto, passando delicatamente le dita sul volto della madre. Si voltò, pronta a dirne quattro a quella cugina rompiscatole, ma non appena lo fece, il cuore le si fermò in gola.
Madison stringeva il libro di sua madre fra le mani, sfogliandolo con sufficienza.
Vedere quel libro in mano a lei provocò in Skyler una reazione tanto tempestiva quanto furiosa. Tentò di placarla, facendo dei grandi respiri e sforzandosi di concentrarsi sulle unghie che si conficcavano nei suoi palmi.
Vide rosso, ma cercò di calmarsi.
«Lascia. Subito. Quel. Libro» sibilò, i denti digrignati, scandendo minacciosamente ogni parola.
Madison alzò appena gli occhi per vederla. Per tornò a sfogliare il libro, e le sue labbra si incurvarono nel suo solito sorrisetto piantagrane.
«Sai che tua madre aveva proprio una bella scrittura?» commentò, fingendo di non averla sentita.
Skyler si avvicinò a lei, sentendo le guance in fiamme. «Forse non mi hai sentito.» Ripeté: «Lascia. Subito. Quel. Libro.»
«Non capisco perché ti scaldi tanto» fece lei, strafottente. «È solo un libro.»
«Ti ho detto di lasciarlo!» sbottò Skyler, e tese una mano per afferrarlo.
Ma Madison lo ritrasse prontamente, guardandola in cagnesco. «Solo perché era di tua madre, questo non significa che sia tuo.»
«Dammelo!» esclamò allora lei. Lo strinsero entrambe. Skyler lo tirava da un lato, Madison dall’altro. Nessuna delle due sembrava intenzionata a lasciarlo, forse anche per non darla vinta all’altra.
Skyler sentiva le mani sudate. Molto probabilmente era per via della furia e dell’agitazione, e con orrore si rese conto che le sue dita stavano scivolando sulla copertina rilegata in pelle, perdendo la presa.
Se ne accorse anche Madison, e con un ghigno fece uno strattone, vincendo quel tira e molla. Uno strattone un po’ troppo forte, però, perché, non appena la bionda ebbe di nuovo il libro fra le mani, l’urto fu così violento da farle perdere l’equilibrio.
Madison barcollò all’indietro, sforzandosi per non cadere, e fu a quel punto che il libro le scivolò dalle mani. Cadendo nel fuoco.
«No!» L’urlo di Skyler sembrò riecheggiare fra le piene pareti della stanza.
La mora si precipitò verso il camino, scansando con una spinta Madison, che attonita la guardava.
Skyler si inginocchiò accanto al fuoco, con lo sguardo spiritato. Sperava di esserselo solo immaginato. Sperava che non fosse successo davvero.
Eppure quando vide la copertina rilegata giacere fra le fiamme, sentì qualcosa spezzarsi esattamente all’altezza del cuore.
«No, no, no, no, no» continuava a mormorare, mentre sentiva gli occhi bruciare. Infilò le mani nel fuoco, senza badare al fatto che Madison l’avrebbe guardata incuriosita, dopo che si sarebbe accorta che non aveva neanche un'stione.
Ma a lei non importava. Non le importava di dover dare spiegazioni. Non le importava di far saltare la sua copertura. Le importava solo del libro di sua madre.
E se non l’avesse tirato fuori da lì al più presto l’avrebbe perso per sempre.
Nonostante fosse ormai fuori dal camino, fra le pagine continuavano a danzare piccole lingue di fuoco.
Skyler vi diede qualche schiaffo con la mano, soffiandoci sopra nel tentativo di spegnerle.
Ma anche quando queste furono sparite, l’inevitabile la colpì con un pungo nello stomaco.
La copertina era bruciacchiata, e così anche le pagine all’interno. Tutti i disegni. E tutti gli appunti della madre.
Tutto ciò che ancora si leggeva attraverso tutto quel nero era: M   OL G A  RE A.
Skyler accarezzò con dita tremanti quel che restava di quelle lettere. Sentiva le lacrime salirle agli occhi, e bruciavano. Bruciavano perché sapevano di vuoto e di perdita.
Tirò su col naso, sforzandosi di fermarle. E fu a quel punto che sentì Madison cantilenare un: «Ops!»
Skyler alzò gli occhi verso di lei, osservando con astio i suoi contorni sfocati per via del panno di lacrime.
Lei mise il broncio. «Mi dispiace tanto.» Ma dal suo tono si capiva che non era vero.
Qualcosa in Skyler cambiò. La morsa allo stomaco che fino a poco prima aveva attribuito alla tristezza, ora si era fatta più intensa, più dolorosa. Più rabbiosa.
«Come hai potuto!» ringhiò, stringendo ulteriormente il libro fra le mani. Un po’ di cenere si staccò dalla copertina, sporcandole i palmi.
Come se non bastasse a farla infuriare, Madison fece spallucce. «Era solo uno stupido libro.»
Quella fu decisamente la goccia che fece traboccare il vaso. Skyler sentì la gola bruciare, le dita formicolare per via del fuoco che le scorreva nelle vene.
«Ti odio» sussurrò, più a sé stessa che a lei.
Madison inarcò un sopracciglio, sporgendosi leggermente verso la cugina e porgendole l’orecchio. «Come hai detto, scusa?»
Skyler le lanciò un’occhiata che in altre circostanze avrebbe potuto tagliarle la testa. «Ti odio!» urlò, con tutto il fiato che aveva in gola.
Una morsa familiare le colpì la bocca dello stomaco.
E Skyler si accorse troppo tardi che i capelli biondi di Madison stavano andando in fiamme.
La ragazza gridò. Skyler sapeva che avrebbe dovuto spegnere quel fuoco, sapeva che avrebbe dovuto fermarlo. Eppure la rabbia che le ribolliva dentro era così forte che quello non faceva altro che divampare.
Tutti i parenti si precipitarono nella stanza.
«Ma che cosa sta…?» cominciò la nonna, ma non appena vide la testa della nipote andare in fiamme, si unì alle sue grida.
Skyler vedeva tutto confuso.
Osservò la zia Carmen correre fuori e tornare con un estintore in mano, spengendo i capelli della figlia.
Sentì lo zio Ben, che mentre le urlava di allontanarsi dal quel fuoco l’afferrava da dietro e la sollevava di peso, trascinandola indietro.
Udì Madison, che mentre continuava a sputacchiare schiuma ripeteva: «Strega! È stata lei! Sei una strega!»
Percepì gli occhi di tutti i presenti puntarsi addosso a lei, trafiggendola.
Poi, una macchia indistinta.
 
Ω Ω Ω
 
Skyler era in camera sua.
Superato lo sconcerto generale, gli adulti avevano chiesto alle due ragazze cosa fosse successo esattamente.
Madison non l’aveva fatta parlare, dicendo a tutti che era stata lei ad appiccare il fuoco, e continuando a chiamarla strega. In un certo senso era vero.
Nonostante quella della strega fosse un’idiozia, Skyler era consapevole di non essere riuscita a fermarsi mentre mandava i capelli della cugina in fiamme.
Che cosa le era successo? Aveva sentito una familiare morsa allo stomaco, e non aveva potuto ignorarla. Non era stata capace di soffocare quel calore intenso che dal cuore si propagava lungo tutto il suo corpo, fino a raggiungere la testa per offuscarle la ragione.
Non aveva impedito al fuoco di vincere.
Si è trattato di un caso, continuava a ripetersi mentre, seduta sul brodo del letto, si torturava le mani. Sei sempre riuscita a domarlo.
Eppure, più se lo ripeteva, meno ci credeva. Fino ad allora aveva dato fuoco sempre e solo alle sue dita, talvolta alla sua mano, e quasi unicamente per creare la nebbiolina necessaria al messaggio Iride.
Non aveva ancora piena dimestichezza con quel potere. E ora dei terribili dubbi le bloccavano il fiato in gola.
E se non sarebbe mai riuscita a domarlo? Se non ne fosse stata capace?
Dopo che l’adrenalina era scemata e il fuoco spento, Skyler si era sentita terribilmente stanca, al punto da non riuscire neanche a controbattere alle accuse della cugina.
La testa aveva cominciato a girarle, e faceva fatica a respirare. Sarebbe svenuta, se le braccia possenti dello zio non l’avessero sorretta.
E se il suo corpo non fosse stato adatto ad accogliere un potere del genere?
Quando la situazione aveva cominciato ad essere ancora più strana, Ben l’aveva spedita il camera, e tutti si erano riuniti per ascoltare la versione di Madison.
Mentre Skyler continuava ad innervosirsi ponendosi tutte quelle domande, la porta si aprì con uno scatto.
Skyler sussultò, distogliendo l’attenzione dai suoi pensieri.
Non appena vide lo zio varcare la soglia furioso, si alzò in piedi, pronta a difendersi. L’uomo sbatté la porta con un tonfo.
«Ma dico, ti ha dato di volta il cervello?» sbottò lui, con un tono di voce molto più alto del necessario.
Skyler aveva la gola secca, ma si sforzò comunque di parlare. «Posso spiegare…»
«Non c’è niente da spiegare, Skyler. Come diavolo ti è venuto in mente di dare fuoco ai capelli di tua cugina?»
«Non è stata colpa mia…» tentò di giustificarsi.
«Oh, davvero? Perché a sentire lei non si direbbe!» Lo zio la guardò, furioso. Skyler fece un passo indietro, a disagio. Aprì la bocca per parlare, ma tentennò. Boccheggiò un attimo, prima di sussurrare un flebile: «Ha cominciato lei.»
«Non mi interessa chi ha cominciato!» urlò lui, nonostante lei avesse sperato che non la sentisse. «Ma, dannazione, Skyler, darle fuoco ai capelli! Neanch’io credevo ti saresti spinta fino a questo punto!» Lei provò a replicare, ma lui la zittì con lo sguardo. «Come pensi che la nonna ti permetterà ancora di stare con me, dopo quello che è successo, eh? Spiegami come!»
Skyler sentì le lacrime salirle agli occhi. «Ben…» provò, ma lui la interruppe con un gesto della mano.
«Io non ti riconosco più. Parli male dei tuoi nonni, vedi il marcio dove non c’è, dai fuoco ai capelli di tua cugina. Sei spenta, acida, taciturna. Dici di voler andare a questo Campo senza neanche dirmi dov’è. Hai un ragazzo e degli amici di cui non so niente. Ti sei fatta un tatuaggio senza chiedermi il permesso, e io non ne conosco neanche il significato! Dov’è finita mia nipote? Dov’è finita la mia hija?»
«È qui davanti a te, tìo» mormorò lei, con voce spezzata.
«Ah, davvero?» chiese lui, sarcastico. «La Skyler di prima non mi avrebbe mai mentito.»
«Sono sempre la stessa Skyler, Ben. Non ti mentirei mai.»
«Ne sei sicura?» Il suo tono sembrava scettico, e Skyler esitò un attimo prima di annuire. Lo zio incrociò le braccia al petto, scrutandola con lo sguardo. «Allora dimmi il significato di quel tatuaggio.»
Skyler rimase di stucco. Il sangue nelle sue vene si gelò, e il suo cuore accelerò di uno, due, cinque battiti. Aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì alcun suono.
Vide gli occhi dello zio velarsi di tristezza, mentre facevano trasparire tutta la sua delusione.
Sapeva cosa stava pensando. Se non riusciva a confidargli neanche una cosa semplice come il significato di un tatuaggio, come avrebbe mai potuto essere sincera con lui?
Ma come poteva dirglielo, senza trascinarlo in un mondo pericoloso fatto di dei, semidei, ninfe, satiri e mostri?
Non poteva. Semplicemente non poteva.
Questo sembrò ferirlo non poco, e Skyler se ne accorse nonostante lui si stesse irrigidendo come l’acciaio.
«Bene» annuì, con tono neutro e imparziale. La guardò un attimo negli occhi, e Skyler credette di poter morire da un momento all’altro. «Dimenticati il tuo Campo.»
Forse non aveva sentito bene. Doveva essere per forza così.
Un sorrisetto divertito si dipinse sulle sue labbra, incerto. «Come?»
«Hai capito benissimo» la freddò nuovamente lo zio, gelido. «Resteremo qui per il resto dell’estate. Tua nonna crede che io non sia in grado di educarti, e molto probabilmente è così. Ma le cose cambieranno. Dimenticati di andare a quel Campo. Dimenticati i tuoi amici, il tuo ragazzo e tutto quello che ti fa pensare a quel posto. Non ti ci porterò né ora, né mai.»
Skyler si sentì sprofondare. Mentre ascoltava le parole dello zio, lo shock aveva lasciato spazio alla confusione, alla realizzazione e poi alla disperazione. I suoi occhi si sgranarono a tal punto da fermare le lacrime.
«No!» urlò contro lo zio, non appena lo vide uscire dalla porta. Teneva i pugni stretti, le unghie conficcate nei palmi, e la voce era incrinata mentre si sforzava di non piangere. «Tu non puoi farmi questo!»
Lui esitò un attimo sulla soglia, prima di sospirare. «L’ho già fatto.» La porta si chiuse dietro di lui.
La stanza piombò in un silenzio assassino.
Avete presente la sensazione che qualcuno ti stia togliendo la terra da sotto i piedi? Moltiplicatela per tre, poi aggiungeteci shock, dolore e nausea.
Era più o meno il modo in cui si sentiva Skyler mentre metabolizzava le parole dello zio.
Addio Campo.
Addio Emma, addio John, addio Leo, addio Microft.
Addio Michael.
Non li avrebbe più rivisti. Non avrebbe più potuto ridere con la sua migliore amica, confidarsi con il suo migliore amico, scherzare con i suoi fratelli, baciare il suo ragazzo.
Non avrebbe più potuto andare al Campo. Né ora, né molto probabilmente mai.
Calde lacrime cominciarono a bagnarle le guance, ma lei se ne accorse solo quando sentì un sapore salato in bocca.
Tutti i suoi sentimenti la travolsero, annientandola.
Skyler cadde di peso sul letto, sfogandosi in un pianto disperato. Strinse la coperta fra i pugni, nascondendo il volto sul cuscino.
I singhiozzi erano così forti da farla tremare violentemente, sconquassandole le ossa.
I polmoni le bruciavano, la gola era arida, la testa le pulsava.
E avrebbe potuto benissimo sentire i battiti del cuore venir meno, se questo non si fosse già spezzato.
 
Ω Ω Ω
 
Skyler se ne stava stesa sul suo letto da più di tre ore.
Quella sera aveva saltato la cena, e nessuno era salito in camera sua per chiederle il perché.
Le lacrime ormai avevano lasciato il posto solo ad una vuota disperazione, e mentre fissava il soffitto sentiva un macigno pressarle sul petto, soffocandola fino all’inverosimile.
Prese un gran respiro, nel tentativo di mandarlo via, ma questo sembrava intenzionato a non spostarsi.
Era impossibile.
Aveva passato tutto l’inverno a sognare il momento in cui sarebbe tornata al Campo, e ora invece avrebbe passato tutta l’estate con una cugina che odia ed una nonna che l'avrebbe osservata contando ogni suo passo falso.
Avrebbe passato tutta l’estate senza rivedere più i suoi amici, senza riassaporare la magica aria di quel posto brulicante di semidei.
Avrebbe passato tutta l’estate a mentire sulla sua vera natura, a raccontare bugie alla sua famiglia, a suo zio, a se stessa.
E tutto questo per uno stupido errore.
Si girò di fianco, sforzandosi di scacciare le lacrime che minacciavano di farsi strada verso i suoi occhi. Era stanca di piangere. Era stanca di guardare i problemi scorrerle davanti e non poterli fermare. Era stanca di sentirsi sempre così fragile e insicura.
Era stanca della nuova Skyler.
Da un lato le piaceva, perché era più determinata, aveva più amici, sorrideva di più.
Ma dall’altro non la sopportava, perché si faceva annientare facilmente. Perché aveva perso quella crudeltà e quella freddezza che l’avevano sempre caratterizzata, e che l’avevano salvata nel momento in cui aveva bisogno di difendersi dalle proprie emozioni.
Lo zio aveva ragione.
Era cambiata, ma ora cominciava a chiedersi se in meglio o in peggio.
Il tardo orario diede subito il via all’oscurità, con la luna piena che si ergeva in un cielo senza stelle.
Se tratteneva il respiro, Skyler riusciva a sentire il canto dei grilli, ma era troppo stanca per soffermarcisi. Le faceva male la testa. Sentiva le palpebre pesanti e gli dei solo sanno quanto le bruciava la gola.
Era finita. Sotto molti punti di vista.
Poi sentì qualcosa.
Un rumore. Ma non era un rumore qualsiasi.
Era un sasso.
Skyler si tirò su a sedere, corrucciando le sopracciglia e acuendo i sensi.
Erano sassi, ora ne era sicura. Ma battevano contro la sua finestra.
Di notte. Al secondo piano.
Skyler si alzò a fatica, avviandosi verso la finestra. Portò una mano alla collana/spada, nel caso quella fosse un’imboscata e dall’altra parte ci fosse un mostro.
Ma quando l’aprì e guardò giù, la confusione si trasformò ben presto in sorpresa.
Assottigliò lo sguardo, convinta di non aver visto bene. Eppure questo non fece che confermarle ciò che già aveva supposto.
«Travis?» domandò, senza preoccuparsi dello sconcerto che trapelava evidente dalla sua voce.
Accanto alla figura snella del ragazzo ne comparve un’altra identica.
«Connor?» La sorpresa tornò confusione.
I due fratelli le sorrisero. Erano illuminati solo dal placido bagliore della luna, ma Skyler avrebbe riconosciuto i loro lineamenti affilati ovunque.
«Ehi, dolcezza!» la salutò Connor, e a quel punto Skyler fu sicura che erano loro. Nessuno la chiamava ‘dolcezza’. A meno che non voleva un pugno in faccia. O a meno che non fosse uno Stoll.
Ciò che non capiva, però, era se i due ragazzi fossero lì veramente oppure era tutto uno scherzo del suo stomaco vuoto.
«Allora, ci fai salire o no?» bisbigliò Travis, abbastanza forte perché lei potesse sentirlo da quell’altezza.
Skyler tentennò un attimo, interdetta. Poi si voltò per scrutare ogni singolo oggetto che occupava la sua stanza.
«Qui non ho niente per farvi arrampicare» sussurrò di rimando, sporgendosi un po’ di più verso di loro.
«Oh, non ci serve niente» la tranquillizzò Travis, buttando una mano in aria con fare noncurante. Si avvicinò al muro di pietra, tanto che Skyler dovette allungare il collo per continuare a vederlo. Connor lo raggiunse con un sorrisetto scaltro sulle labbra.
«Volevamo solo il tuo permesso» mormorò, prima di trovare un appiglio per i piedi e cominciare ad arrampicarsi, infilando mani e piedi fra le fessure delle pietre. Il fratello lo imitò.
«Ma che fate?» domandò Skyler, sconvolta, ma i due sembrarono ignorarla.
Non appena arrivarono in cima, si aggrapparono entrambi alle ante della finestra, scrutando la camera.
«Bella stanza» si complimentò Connor, sarcastico.
Skyler lo zittì con un’occhiataccia.
I due balzarono dentro con un’abile mossa, per poi prendere a guardarsi intorno come se stessero pensando al modo migliore per svaligiare quel posto in venti minuti.
Travis allungò una mano per sfiorare il portagioie sul comò, ma Skyler gliela schiaffeggiò prima che potesse toccarlo.
«Che diavolo ci fate qui?» bisbigliò, brusca e anche confusa.
«Non c’è bisogno di bisbigliare, dolcezza» la rassicurò Connor, guadagnandosi un’altra occhiataccia. «I tuoi parenti dormono come Minotauri.»
«È vero» annuì Travis. «Non si sono neanche accorti dei due intrusi che scavalcavano il cancello.» Provò ad afferrare un braccialetto abbandonato sulla scrivania. Skyler gli diede un altro schiaffo sulla mano, e lui la ritrasse, facendo una smorfia.
«Che diavolo ci fate qui?» ripeté lei, che ora stava cominciando a spazientirsi. Anche se i ragazzi avevano giurato che non li avesse visti nessuno, Skyler continuava a temere che da un momento all’altro la porta si aprisse ed entrasse lo zio. Aveva già i suoi problemi con lui per quanto riguardava la fiducia, come avrebbe spiegato la presenza di due fratelli cleptomani nella sua stanza a quell’ora tarda?
Connor fece un sorriso sghembo, roteando su se stesso per scrutare il soffitto della stanza. «Siamo venuti a prenderti, che domande.»
Skyler sentì un groppo serrarle la bocca dello stomaco, mentre il fiato le si bloccava in gola. «A prendermi?» chiese, con voce strozzata.
Connor annuì, come se non si fosse accorto di quel suo repentino cambiamento. «Oggi saresti dovuta tornare al Campo, no? Chirone non ti ha visto arrivare e così ci ha mandato a prenderti.»
Ed ecco le lacrime che risalivano. Come faceva a spiegar loro la situazione senza scoppiare a piangere?
«Non posso tornare al Campo» mormorò semplicemente, guadagnando l’attenzione dei due. «Non quest’estate.»
«Ma tu devi tornare» le fece notare Travis, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Poi annusò l’aria, e sul suo volto si dipinse una smorfia disgustata. «Cavolo, Michael aveva proprio ragione.»
«Riguardo a cosa?» chiese Skyler, corrucciando le sopracciglia.
Lui allargò le braccia. «Questo posto brulica di mostri» disse, schifato. «Se ne sente l’odore da tre chilometri.»
Skyler guardò Connor, confusa, e lui fece spallucce. «Sesto senso da figli di Ermes» giustificò, come se quello bastasse a spiegare ogni cosa.
Skyler li fissò un attimo, interdetta, poi scrollò la testa per riprendersi. «Hai detto mostri?»
«Sì» fu la risposta secca di Travis, che aveva assunto una posizione dominante, con le gambe larghe e le mani sui fianchi, come se quello sottolineasse il fatto che ormai quella stanza non aveva più segreti per lui.
«Ci sono delle città che hanno una concentrazione di mostri molto più alta» le spiegò Connor, accorgendosi che ragazza sembrava non capire. «E una di queste è proprio San Diego.»
«E Michael lo sapeva?» domandò lei.
Il ragazzo annuì. «Aveva avuto dei sospetti, quando gliel’hai nominata durante il messaggio Iride. Poi è andato da Chirone e ne ha avuto la conferma. Sei qui da parecchi giorni, e tutti i mostri nel raggio di un chilometro avranno già fiutato le tue tracce. Non puoi restare un secondo di più.»
Skyler soppesò le sue parole, per poi assumere un’espressione sconcertata. «Ma io non posso venire!»
«Tu devi venire, dolcezza» puntualizzò Travis, beccandosi l’ennesima occhiata stizzita di quella serata. «Se rimani qui non solo sei in pericolo tu, ma anche tutti quelli che ti stanno attorno.»
Quelle parole furono come un pugno nello stomaco.
Skyler indietreggiò un attimo, mentre sembrava faticasse a respirare.
«Ascolta» sospirò Connor, posandole le mani sulle spalle con fare rassicurante. La costrinse a guardarlo negli occhi, e Skyler cercò di concentrarsi sul loro marrone intenso mentre tentava di regolarizzare i propri battiti. Troppe informazioni e troppo poco tempo per metabolizzarle.
«Non ho idea del perché continui a dire di non poter venire al Campo» disse il ragazzo, per poi inclinare leggermente la testa di lato. «Ma so che se continuerai a stare qui presto o tardi ti ritroverai sotto attacco da un mostro. Potrebbe trattarsi di un mostro piccolo che sei capace di sconfiggere. Ma potrebbe anche trattarsi di un mostro molto più forte di te. In entrambi i casi non solo metteresti in pericolo la tua famiglia, ma saresti anche costretta a rivelargli la tua natura da mezzosangue, facendoli entrare in un girone dal quale sappiamo entrambi che è impossibile uscire. Vuoi davvero esporli ad un rischio simile?»
Il tempo nella stanza sembrò fermarsi.
Skyler non aveva mai preso in considerazione la possibilità di essere attaccata da un mostro. Non ci aveva neanche pensato.
La sua natura da semidea, a volte, le sembrava così irreale che credeva fosse assurdo il fatto che potesse essere attaccata quando si trovava in casa.
Ma poi ricordò l’Arpia. Ricordò i suoi occhi rossi, e la sua fame, e la paura che le aveva attanagliato lo stomaco.
E si rese conto che se lo zio, in quel momento, fosse stato lì, lei non avrebbe saputo come difenderlo.
Adesso era un po’ più esperta, certo. Ma non era sicura di poter difendere sei persone contemporaneamente senza lasciarci la pelle.
Non era neanche sicura di essere ancora in grado di difendere sé stessa.
Spostò lo sguardo da Connor a Travis, notando che anche lui stava annuendo, improvvisamente serio.
Doveva scappare?
Rischiava già di perdere lo zio così, se fosse scappata, non avrebbe solo fatto traboccare il vaso?
Che cos’era peggio, la consapevolezza che se fosse rimasta lì l’avrebbero uccisa, o quella che al suo ritorno non avrebbe più ritrovato Ben?
Che cosa doveva scegliere?
Una morte al suo fianco, o una vita lontano da lui?
Prese un gran respiro, quasi bastasse quello per far scivolare giù il magone che le attanagliava la gola, e nel frattempo decise.
«D’accordo» annuì, con una decisione nella voce che sorprese anche lei. «Datemi solo il tempo di preparare lei mie cose.»
I due ragazzi le rivolsero un sorriso, e Connor le strinse le spalle prima di raggiungere il fratello.
Skyler raccolse il suo borsone da terra e cominciò a raccattare la sua roba. Aveva portato pochi oggetti, per fortuna, eppure ognuno sembrava pesare come un masso deciso a non voler essere spostato.
Sapeva di star facendo la cosa giusta, eppure non riusciva ai ingoiare quel senso di colpa che le dava nausea.
Poi le venne un’idea.
Forse non poteva spiegare ai familiari perché non poteva restare lì, ma poteva almeno dirgli perché se n’era andata.
Si sedette alla scrivania, prendendo un foglio di carta spiegazzato e una penna.
Scrisse una lettera. La indirizzò allo zio, spiegandogli le sue ragioni, dove sarebbe andata e chiedendogli scusa. Pregandolo di non preoccuparsi e promettendogli che sarebbe tornata da lui una volta finita l’estate. Poi sentì il bisogno di scrivere qualcos’altro. Con mano tremante, si rivolse alla nonna, al nonno, alla zia, ai cugini. Scrisse qualcosa per ognuno di loro. Le parole cadevano sul foglio bianco come gocce di pioggia che infrangono l’asfalto. Delicate, ma con una potenza nell’insieme devastante.
La firmò, per poi ripiegarla quattro volte.
Era pronta ad andare. All’improvviso si sentiva ansiosa ma anche più decisa. Stava facendo la cosa giusta, e ora ne aveva la certezza.
Sperò che quella lettera avesse sui suoi parenti lo stesso effetto che aveva avuto su di lei mentre la scriveva. Che gli aprisse la mente, e che li facesse riflettere come mai avevano pensato di fare.
Mancava solo una cosa.
Skyler andò verso il comò e prese il carillon di sua madre fra le mani.
Avrebbe voluto portarlo con sé, per risentire quella dolce melodia ancora, e ancora, e ancora.
Ma sapeva che in quel momento era più utile lì.
Lo rigirò, scoprendone la base per studiarne gli ingranaggi. Ovviamente sua madre non aveva montato una manopola normale, eppure Skyler era sicura che se avesse girato una di quelle piccole rotelline quello si sarebbe caricato. Prese una matita dalla scrivania e la infilò nel buco fra due ingranaggi, cominciando a girarli in senso orario. Finché non sentì un leggero plin, segno che erano arrivati all’estremo.
Rimise il coperchio e posò il carillon sulla sua lettera ripiegata.
«Andiamo» disse, in un sussurro.
Si mise il borsone in spalla, girandosi verso i ragazzi, che con un gesto galante le indicarono la finestra.
Skyler deglutì a fatica, ma poi le tornarono in mente tutti le lezioni di arrampicata, e si disse che se era riuscita a scalare una pedana di lava bollente poteva benissimo calarsi giù per un muro di mattoni.
Si mise cavalcioni sul telaio della finestra, guardando giù e ignorando quel leggero senso di vertigini.
«Okay» annuì, con scarsa convinzione. I ragazzi fecero un passo avanti, ma lei gli punto un dito contro, con fare minaccioso. «E non portate niente» li avvertì.
Loro fecero una smorfia, sbuffando contrariati, ed iniziarono a svuotare le tasche, liberandole di collane, anelli, bracciali e soprammobili in legno.
Skyler fece roteare gli occhi, prima di portare anche l’altra gamba fuori e cominciare a scendere.
Travis la guardò con la coda dell’occhio. Non appena fu sicuro che lei non lo vedesse, si piegò a raccogliere un anello che aveva lasciato.
«Travis!» lo rimproverò la ragazza sotto di lui, facendolo sobbalzare.
«Okay, okay» assentì, alzando le mani in segno di resa.
Mentre si allontanavano dall’enorme residenza dei nonni, Skyler si voltò ben due volte a guardare indietro.
Era ancora convinta di fare la cosa giusta, ma continuava a mandare pensieri rassicuranti allo zio, pregando che Morfeo glieli recapitasse mentre dormiva.
Non sapeva definire quella sensazione.
Era in uno stato di vuoto, ma anche di pienezza. Sapeva di aver lasciato un posto del suo cuore alle sue spalle eppure sapeva anche che ne stava raggiungendo un altro.
Era consapevole di star varcando quella linea sottile che separa la sua vita mortale da quella divina.
E non era ancora in grado di decidere se quella fosse una cosa bella o brutta.
Travis e Connor avevano detto che c’era molta strada da fare, e in effetti era vero. Avevano lasciato il furgone di Argo a più di due chilometri di distanza, e in quella fredda notte d’estate i tre semidei continuavano a guardarsi intorno, le mani strette a pungo sulle spade già sguainate.
Skyler rabbrividì, anche se non aveva freddo.
Nonostante la presenza dei due ragazzi, non riusciva a sentirsi pienamente protetta.
Così, pensò all’unica persona che in quel momento sarebbe riuscita ad infonderle quel senso di protezione che tanto bramava.
E, per raggiungerla, cominciò a cantare.

Angolo Scrittrice.
*siamo in onda tra tre... due... uno...*

Holaaa! Buongiorno a tutti, guys! (o dovrei dire Buonnasera, dato l'orario?)
Sono davvero felicissima di essere tornata. Vi sono mancata?
Ebbene sì: dopo due settimane di completa vacanza e di totale riposo sono di nuovo qui a rompervi le balls nell'ormai noto martedì di ValeryJackson. So che è tardi, ma non è ancora mezzanotte, quindi è sempre martedì u.u
Allors, allors... Piaciuto il capitolo? Spero che ne sia valsa l'attesa.
Qui succedono un pò di cose interessanti. In primo luogo, c'è l'intervento del nonno che da quel che ho capito vi piace tanto. Eh sì, lo ammetto: lo adoro anch'io. E questa volta ha un ruolo importante perchè rivela a Skyler una notizia davvero significativa su sua madre.
Maria Garcia ama la Mitologia, bitches. O meglio, amava. E questo, in un certo senso, la avvicina ancora di più alla figlia, che nella Mitologia, ormai, ci vive.
Nonostante Skyler detesti stare lì, piano piano sta iniziando a riscoprire sempre di più quella che un tempo era sua madre. Sta iniziando a capirla, a conoscerla.
E poi, arriva Madison. Per tutti quelli che mi avevano chiesto di bruciarle i capelli... beh, eccovi accontentati! Non se se sia giusto biasimare Skyler oppure no. Credete che la sua reazione si stata eccessiva? Oppure la bionnda se lo meritava, dopo l'ultima cosa che ha fatto?
Qualunque sia la risposta, fatto sta che questa volta Ben è davvero arrabbiato. Tanto da impedire a Skyler di andare al Campo.
Credevate che fosse tutto perduto? E invece no! Arrivano gli Stoll B) Dei, quanto amo quei ragazzi. Sono dei cleptomani troppo fighi! **
Ricordate quando, durante il messaggio Iride, Michael non faceva che ripeterle "fai attenzione"? Beh, ora sapete il perchè. Non so se ricordavate questi miei soliti collegamenti; ma sì, io amo collegare. Sono una fissata con i particolari, e mi piace che ogni cosa, anche se sembra insignificante, abbia un senso.
Ma so che questo non vi interessa, quindi passiamo oltre...
In questo capitolo vengono evidenziati molto quelli che sono i sentimenti di Skyler: lei non ha ancora deciso se essere felice di ciò che è diventata o se rimpiangere quello che era. Vive in uno stato di vertigine costante nel quale anche il minimo soffio di vento può farla crollare. E' forte, ma allo stesso tempo fragile. E' sicura, ma allo stesso tempo indecisa. E' una mortale, ma è allo stesso tempo una mezzosangue.
E questo la opprime.
E poi, c'è un altro problema che ora le si presenta. Perchè non è riuscita a controllare quel fuoco? Perchè è stata sopraffatta dal suo elemento? Ma soprattutto, perchè subito dopo si è sentita così stanca? Questo lo scopriremo più in là. O almeno spero.
Dopo due settimane di assenza, non so se siete ancora decisi a seguire la storia.
Quindi fatemi sapere, cosa ne pensate del capitolo e della storia in sé.
E per tutti quelli che attendevano con ansia l'ingresso degli altri personaggi posso farvi un piccolo Spoiler dicendovi che sì, nel prossimo capitolo appariranno ;)
Detto questo, detto tutto, è il momento di ringraziare tutti i miei bellissimi  Valery's Angels, senza i quali, ora, non sarei qui. Un grazie infinito a:
_angiu_, Cristy98fantasy, carrots_98, FoxFace00, Kalyma P Jackson, kiara00, saaaraneedsoreo, stydiaisreal, Ema_Joey, Flowers of Death, Myrenel Bebbe ART5, Asia_Mofos e _Krios Bane_.
Grazie a tutti, davvero.
Credo sia ora di andare a nanna, so... Al prossimo Martedì!
Sempre vostra,

ValeryJackson
P.s. Nel caso io non sia riuscita a spiegarlo come si deve, la persona alla quale si riferisce Skyler alla fine del capitolo è la mamma ;)
P.p.s. Eh no, belli! Non ve ne potete ancora andare! Perchè prima dovete ammirare questi capolavori che la carissima FoxFace00 mi ha dolcemente regalato. Sono bellissimi, davvero, e credo che non riuscirò a ringraziarti mai abbastanza perchè, miei dei, nessuno aveva mai fatto una cosa del genere per me **
Sono dei manga di Skyer, che la piccola Fox ha pubblicato nella sua storia "La Chioma della Regina". Vi consiglio di leggerla, perchè è molto bella. ;)
E... dei, grazie ancora, cara! *^*


                    

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


 


 
 
Voglio dedicare questo capitolo a FoxFace00,
che ha segnalato la mia storia all'amministrazione per l'inserimento tra le Storie Scelte.
Questo è il regalo più bello che mi potessi fare.
Grazie infinite! Non esistono parole sufficienti per esprimerti
tutta la mia gratitudine.
E non mi importa se la storia verrà o non verrà inserita.
Grazie comunque per l'enorme fiducia.
Spero di non deluderti.
Spero di non deludere nessuno di voi.


 
Avevano viaggiato tutta la notte, e l’unica volta in cui Skyler era riuscita a chiudere occhio era stato quando Travis aveva gentilmente ceduto la guida a Connor, che accelerando con un po’ più di prudenza le aveva proposto di sdraiarsi un po’.
Ma tutti i suoi pensieri continuavano ad invaderle la mente molesti, facendola così svegliare ogni volta con un grosso peso sul cuore.
Si sentiva soffocare, sdraiata sui sedili posteriori dell’auto, ma questo non lo disse. Aveva continuato a rigirarsi sul posto, finché non aveva deciso che quelle cinture di sicurezza nel fianco erano troppo scomode, e così aveva passato il resto del viaggio osservando il paesaggio cambiare fuori dal finestrino, aspettando di scorgere le familiari coste di Long Island.
Non appena furono arrivati a destinazione, Skyler allungò il collo, stringendo gli occhi a due fessure per osservare attraverso la foschia. Chirone era lì che li aspettava.
Non era sulla sedia a rotelle, come la prima volta che l’aveva visto, ma esibiva fiero il suo posteriore equino, le braccia conserte e un’espressione corrucciata in volto.
Quando scesero dalla macchina, accolse Skyler con un caloroso ‘bentornata’, e la ragazza giurò di avergli visto fare un sospiro di sollievo.
Aveva poi detto ai due fratelli di andare a riposarsi, e aveva assicurato che da quel momento in poi sarebbe stato lui ad occuparsi della figlia di Efesto, iniziando col farle fare un giro d’orientamento.
Il Campo non era cambiato per niente.
Tutto era esattamente come Skyler lo ricordava. Le stalle piene di pegasi; la mensa e l’armeria; il muro dell’arrampicata e i campi di pallavolo. Persino le capanne erano nella loro esatta posizione, e se voltava di poco il capo riusciva a riconoscere il tetto della Casa Grande svettare sopra l’orizzonte.
Avrebbe voluto dire al centauro che non era necessario che lui la scortasse, ma poi pensò che in un certo senso la sua presenza era rassicurante, e che con tutti i pensieri che le frullavano per la testa non era male distrarsi un po’.
Passarono davanti all’Anfiteatro, dove il più grande dei figli di Ares stava tenendo un corso di lotta libera.
Skyler si fermò un attimo ad osservare, incurante del fatto che Chirone stesse continuando a camminare e parlare senza di lei.
Si alzò leggermente sulle punte ed studiò i ragazzi che lottavano.
Riconobbe quasi subito i boccoli corvini di Rose.
La figlia di Poseidone stava lottando contro un ragazzo, e, con un sorriso, Skyler si rese conto che si trattava di Microft, suo fratello.
A quanto pareva, i due erano diventati molto amici dopo la scorsa estate.
Nel periodo in cui lei e i suoi amici erano partiti alla ricerca degli ingredienti per guarire il Morbo di Atlantide, Rose era rimasta sola con il fratello malato. Passava intere giornate accanto al suo letto, pregando gli dei perché si svegliasse, e nessuno, neppure Annabeth, era in grado di consolarla.
Dopo aver saputo della situazione della ragazza, Microft aveva cominciato a spiarla, osservandola di nascosto dal ciglio della porta e desiderando di fare qualcosa per aiutarla.
Anche se all’apparenza poteva non sembrare, Microft aveva un cuore d’oro, e non amava vedere la gente intorno a lui soffrire.
Michael le aveva raccontato che una sera, mentre Micky si stava dirigendo da Rose, aveva sentito Annabeth parlare con una figlia di Apollo, mentre affermava che ciò di cui Rose aveva davvero bisogno non era qualcuno che provasse compassione per lei, ma un amico che le desse una spalla su cui piangere.
Forse fu proprio quello a convincerlo a fare un passo avanti.
All’inizio non si parlavano. Microft entrava nella stanza di Percy e i due si scambiavano solo qualche occhiata. Lei rimaneva seduta accanto al letto del fratello, e lui si sistemava nell’angolo opposto della stanza.
E restavano così, in silenzio, finché non si faceva troppo tardi e Microft non andava a dormire. E così per uno, due, tre giorni.
Poi, una mattina, mentre si trovavano di nuovo lì, Microft si tagliò accidentalmente un dito con uno dei bulloni con cui stava giocando. Niente di grave, ovviamente, ma Rose insisteva a volerglielo medicare.
E, mentre lo faceva, scoppiò a piangere. Il ragazzino non sapeva esattamente come comportarsi, così alla fine fece la cosa che gli sembrò più sensata. L’abbracciò e la lasciò sfogare.
Il giorno dopo, i due iniziarono a parlare. Lei gli raccontò della sua vita, di come la madre di Percy l’avesse adottata dandole il suo cognome, dei suoi anni passati al Campo.
E lui le raccontò com’era stato il suo primo periodo lì, di come gli dispiacesse essere arrivato in una situazione tanto disastrosa, e di come faticasse ad entrare in confidenza con gli altri semidei.
Diventarono amici. Microft si rivelò un ottimo ascoltatore, e in certi momenti sembrava l’unico capace di consolarla.
E Rose lo lasciava fare. Perché stava cominciando ad abituarsi alla sua presenza. E perché, nonostante avesse tante persone, al Campo, che le volevano bene, nessuno era mai stato così gentile con lei.
Quando tutta quella storia del Morbo di Atlantide era finita, loro continuarono ad incontrarsi e parlare, e verso l’inizio dell’inverno Michael aveva rivelato a Skyler quanto fossero ormai inseparabili.
Lei ne era contenta. Erano un bel duo, nonostante tutto.
Mentre li osservava, Microft provò ad atterrare Rose con un montante destro, ma lei gli bloccò il pugno a mezz’aria, storcendogli il braccio e bloccandogli il polso dietro la schiena, per poi farlo cadere a terra.
Skyler annuì, soddisfatta. Le aveva insegnato lei quella mossa. La figlia di Efesto non aveva un rapporto molto intimo con le sue sorelle, e Rose… beh, Rose non aveva sorelle.
Era piacevole stare insieme.
Non appena Microft finì con il sedere a terra, alzò lo sguardo, con una smorfia dolorante.
Fu in quel momento che la vide, in lontananza.
La sua smorfia si trasformò in un sorriso, e il ragazzino la salutò con un cenno della mano. La figlia di Poseidone seguì la direzione dei suoi occhi, e con un sorriso smagliante agitò il braccio nella sua direzione, a mo’ di saluto.
Un angolo della bocca di Skyler si sollevò, e anche lei alzò il palmo, per poi chiudere esitante il pugno, quasi stesse cercando di prendere qualcosa di inafferrabile.
Il richiamo di Chirone la riportò alla realtà. Skyler lanciò un’ultima occhiata ai due ragazzini, che ora avevano ripreso a lottare dopo che Rose aveva aiutato Microft ad alzarsi.
La mora raggiunse il centauro, ma lui non fece domande, né la rimproverò per essere rimasta indietro. Continuò semplicemente a parlare, scortandola per il Campo e ricordandole l’utilità di ogni luogo.
Quando passarono davanti il poligono di tiro con l’arco, Skyler chiuse gli occhi a due fessure, scrutando gli arcieri nella speranza di intravedere John. Lui però non c’era, e non vide neanche Emma, quando attraversarono le sponde del lago dove dei ragazzi stavano facendo un giro in canoa.
Aveva davvero bisogno dei suoi amici.
Aveva bisogno di riabbracciarli e di parlare con loro. Vedere Rose e Microft, poco prima, non aveva fatto altro che ricordarle quanto in realtà le erano mancati, e quanta voglia avesse di sfogarsi con loro e di sentirsi al sicuro, perché sapeva che loro sarebbero stati dalla sua parte, sempre e comunque.
Aveva bisogno dei suoi amici, e non riuscire a trovarli non aveva altro effetto se non quello di distrarla dalle spiegazioni di Chirone, chiedendosi se stessero bene, perché non fossero lì, e se fossero cambiati tanto quanto lo era lei.
 
Ω Ω Ω
 
Michael provò con un fendente, ma la sua spada cozzò contro Vortice producendo un fruscio metallico.
Percy cercò di colpirgli il fianco con la lama, ma il fratello riuscì a bloccare la sua arma a mezz’aria, prima che questa lo tranciasse in due.
Percy allora attaccò con un fendente, e dopo esser riuscito ad evitare anche quello, Michael girò su se stesso posizionandosi alle spalle del ragazzo. Sollevò la spada, nel tentativo di colpirlo di sorpresa.
Ma ci voleva ben altro per cogliere Percy Jackson di sorpresa.
Il figlio di Poseidone, infatti, schivò abilmente il colpo, flettendo le ginocchia; e quando si rialzò le loro spade cozzarono di nuovo.
Con i volti a pochi centimetri di distanza mentre entrambi esercitavano una leggera pressione sulle rispettive lame, Percy sorrise, piantagrane.
«Ci vuole ben altro per battere il sottoscritto in un combattimento di scherma» gongolò.
Michael ridacchiò, sarcastico. «Io non canterei vittoria troppo presto.»
Si allontanarono di scatto, facendo qualche passo indietro senza smettere di guardarsi negli occhi con tono di sfida.
Percy sollevò le sopracciglia, con l’aria di chi la sa lunga. Poi si rigirò abilmente la spada nella mano, quasi quella situazione lo divertisse.
Fu Michael che attaccò per primo. Menò una serie di fendenti, ma come aveva immaginato, Percy li parò tutti, indietreggiando senza però dare l’idea di essere impressionato. 
Il maggiore fece un passo avanti e provò un affondo, e non si sa come, Michael riuscì a pararlo, per poi far roteare la lama nel vano tentativo di disarmarlo.
Percy indietreggiò e lo squadrò, quasi stesse soppesando con lo sguardo la sua prossima mossa.
E in quel momento Michael pensò a Skyler. O meglio, a ciò che gli diceva Skyler. Una mattina, la scorsa estate, la ragazza si era offerta di dargli lezioni di autodifesa, nel caso si fosse ritrovato disarmato con qualche nemico.
Dopo averlo buttato a terra per l’ennesima volta, gli aveva detto che il modo migliore per avere la meglio sull’avversario è fare ciò che lui non si aspetterebbe mai tu facessi.
E Michael aveva lottato abbastanza con Percy per capire che il fratello sapeva del suo leggero timore reverenziale nei suoi confronti.
Per questo non si sorprese di vedere la confusione sul suo volto quando con una scivolata si avvicinò a lui e gli ferì il braccio. Percy cercò di difendersi, ma l’effetto sorpresa aveva avuto la meglio su di lui. Per cui, quando Michael evitò per un pelo il suo fendente, per il fratello fu facile colpirlo in petto con l’elsa della spada, facendolo barcollare e poi cadere.
Percy lo guardò, ammirato. «Bella mossa» si congratulò.
Michael tentò di colpirlo di nuovo, ma con l’aiuto di un montante il maggiore si era già rialzato, e soppesava il fratello in attesa della sua prossima azione.
Quando capì che lui stava facendo lo stesso, però, decise di attaccare.
Menò una serie di fendenti, che però Michael riuscì a parare, seppur con qualche ferita. Erano entrambi stanchi e sudati, eppure nessuno dei due sembrava aver intenzione di cedere.
Chiamatela tenacia, chiamatela cocciutaggine dei figli di Poseidone, fatto sta che quei due continuavano a lottare senza sosta da almeno due ore.
E fu quando se ne rese conto che Percy decise che era il momento di farla finita.
Fletté le ginocchia, facendogli credere di volergli colpire le gambe, e quando lui andò a pararle Percy sollevò la spada, provando un ultimo, potente fendente.
Michael riuscì a malapena a pararlo, e le loro spade cozzarono un’altra volta, provocando un ruvido suono metallico.
Percy ruotò il polso, e Michael perse la presa sull’arma, restando disarmato.
Percy approfittò del suo momentaneo smarrimento per mettere il tallone contro il suo e sollevarglielo, facendogli perdere l’equilibrio e poi colpendolo in pieno petto con l’elsa della spada.
Michael cadde a terra con un tonfo, battendo con il sedere sul pavimento di marmo dell’Arena.
Quando sollevò lo sguardo, vide Percy sollevare un’ultima volta Vortice, pronto per il colpo di grazia. Il ragazzo si coprì il volto con le braccia, pronto a sopportare il dolore.
E fu a quel punto che lo sentì ridere.
«Te l’ho detto, fratello. Ci vuole ben altro per battere Percy Jackson in un combattimento di scherma.»
«Ah-ah» gli fece il verso lui, mentre la risata fragorosa del maggiore colpiva direttamente il suo orgoglio semidivino più di quanto avrebbe potuto fare Vortice. «È stata solo fortuna» borbottò, stizzito.
«Andiamo, non te la prendere» gongolò Percy, incastrando la spada a terra e appoggiandovi tutto il peso. Sembrava distrutto, ma nonostante questo sorrideva. «È colpa della tua difesa. Devi tenere il tronco dritto, e le spalle rilassate. Le gambe devono essere divaricate e flesse, e devi bilanciare il peso al centro del copro, altrimenti perdi l’equilibrio.»
Michael poggiò i gomiti sulle ginocchia, sfregandosi gli occhi con entrambe le mani mentre si sforzava di memorizzare tutto quello che gli diceva il fratello.
Era un ottimo insegnante di scherma, e lì in mezzo sembrava essere l’unico a sapere come fargli capire le cose. Era migliorato molto, rispetto all’estate precedente, e aveva anche vinto parecchi combattimenti con molti dei ragazzi del Campo.
Ma non riusciva ancora a battere Percy. E cominciava a credere che non ci sarebbe riuscito mai.
«La prossimo volta ti batterò» disse, ignorando la voce dei suoi pensieri.
«Sicuro!» lo prese in giro il fratello, con un sorriso sghembo sul volto. «Sei un valido avversario.»
Ed era sincero. Michael lo capiva anche senza il bisogno di guardarlo in faccia. Fra loro c’era un rapporto speciale. Per tanto tempo Michael gli aveva reso la vita impossibile, combinando una serie di guai ai quali lui, poi, doveva rimediare. Per tanto tempo Percy era stato l’eroe del Campo e lui la pecora nera.
Ma dopo che l’aveva salvato, l’estate scorsa, Percy aveva cominciato a trattare lui come un eroe, facendolo sentire importante come mai nessuno aveva fatto.
Insomma, Percy aveva salvato il mondo da Crono, lui aveva solo trovato la cura ad una malattia.
Eppure il maggiore non faceva che lodarlo, ricordandogli ogni volta quanto quello che aveva fatto gli avesse salvato la vita.
«Sono sicuro che prima o poi ci riuscirai» esclamò qualcuno alle sue spalle, attirando l’attenzione di entrambi.
Un ragazzo con i capelli ricci e neri si era avvicinato a loro, con un sorriso scaltro dipinto sul volto. Il suo tono era ironico, e le sue dita non smisero di giocherellare con due bulloni neanche quando gli occhi ora verde smeraldo dei due figli di Poseidone si posarono su di lui.
«Posso sempre accontentarmi di umiliare te, Leo» ribatté Michael, con lo stesso tono di voce.
Il figlio di Efesto rise, divertito.
Michael sospirò, cercando di allontanare le voci dei due ragazzi il più possibile.
Era da quella mattina che avvertiva qualcosa di strano. Sentiva una leggera morsa alla bocca dello stomaco, che a tratti gli dava la nausea. Ma era una nausea piacevole.
Era come se il suo istinto lo stesse avvisando che stava succedendo qualcosa di bello, ma i suoi occhi non riuscissero a vedere cosa. Chiuse gli occhi a due fessure, scrutando assorto l’orizzonte.
«Ti concedo la rivincita» assentì Percy, raccogliendo la sua spada da terra e porgendogliela.
Michael l’afferrò, quindi Percy gli offrì anche una mano.
Fu a quel punto che il ragazzo, spinto da un'entità maggiore che gli suggerì di farlo, sollevò di poco lo sguardo.
E scorse la più bella figura che lui avesse mai visto.
Il suo cuore cominciò a battere l’impazzata, mentre i suoi occhi ne incontravano un paio scuro come la pece, se non fosse per delle striature dorate che li rendevano irresistibili.
Michael giurò di poter sentire il suo profumo anche da quella distanza, mentre gli angoli delle loro bocche si sollevano contemporaneamente a formare due sorrisi.
«Ehi, ma quella è…» cominciò Leo, ma il ragazzo non ascoltò il resto.
Balzò in piedi, buttando la spada a terra e precipitandosi verso di lei.
Skyler gli corse subito incontro, raggiante.
Come sospinti da due calamite che li attiravano l’uno all’altra, in quel momento il resto del Campo sembrava essersi volatilizzato.
C’erano solo lui e lei. Lui, lei, e i loro cuori che battevano all’unisono.
Quando fu a circa mezzo metro di distanza, Skyler gli saltò addosso, buttandogli le braccia al collo e affondando istantaneamente il viso nell’incavo della sua spalla.
Le braccia di lui andarono immediatamente a stringerle la vita, e lui inclinò la schiena di poco, quanto bastava perché i piedi della ragazza non toccassero terra.
«Sei davvero qui» continuava a sussurrare lui, in un misto di incredula felicità. «Non ci credo, sei davvero qui.»
Skyler ridacchiava contro la sua spalla, inebriandosi del dolce profumo di salsedine della sua pelle.
Le era mancato così tanto quel profumo. Le erano mancati così tanto quegli abbracci disperati.
Le era mancato così tanto lui.
Mentre i due sembravano intenzionati a non volersi lasciare mai più, Percy e Leo osservavano la scena da lontano.
«Io non capisco» stava dicendo il figlio di Efesto, fingendosi offeso. «Con me non avrebbe mai fatto così. Eppure neanche noi ci vediamo da un sacco di tempo.»
«Lei ha tanti fratelli, amico» scrollò le spalle Percy, soppesando con un sorrisetto i due fidanzati. «Ma c’è un solo Michael.»
Quando le suole delle scarpe di Skyler sfregarono contro la smeraldina erba del Campo, Michael si staccò da lei quel tanto che bastava per poterle afferrare il viso fra le mani e guardarla negli occhi.
Il suo volto era raggiante, e i suoi occhi brillavano mentre si incatenavano a quelli lucidi di lei.
«Non ti sto sognando, vero?» chiese, sarcastico. «Sei davvero qui?»
Skyler rise, divertita, e la sua risata si prolungò non appena lui le baciò velocemente la punta del naso, le guance, la fronte e gli zigomi, quasi volesse assicurarsi che lei fosse davvero lì, e che il bellissimo viso che teneva fra le mani non fosse solo frutto di un trauma cranico.
«Un’intera estate per noi, riesci a crederci?» le disse, euforico.
Skyler gli circondò la vita con entrambe le braccia, stringendosi a lui finché i loro nasi non si scontrarono.
«Un’intera estate solo per noi» sussurrò di nuovo lui, le labbra che sfioravano le sue mentre lo faceva.
Skyler si lasciò sfuggire un sorriso, e lui la baciò.
Fu un bacio dolce, carico di aspettative. Un bacio in cui le labbra premevano l’una contro l’altra, quasi volessero fondersi in una cosa sola. Un bacio tenuto in serbo per troppo tempo. Un bacio bramato, sognato, ambito.
Un bacio in cui non esisteva lo ieri e il domani. Esisteva soltanto l’adesso.
Un bacio che ti fa dimenticare che ti trovi nel bel mezzo di un Campo pieno di semidei, e che molto probabilmente ora più della metà di loro ti sta guardando e sta sghignazzando.
Qualcuno alle loro spalle si sgranchì la voce. «Ehm… scusate?» chiamò una voce, al che loro si voltarono.
Leo allargò le braccia, sorridendo malandrino. «Vi dispiace se saluto mia sorella?»
«Leo!» Skyler sorrise a sua volta, andandogli incontro e buttandogli le braccia al collo. Il ragazzo rise, stringendo a sé la sorella e facendola dondolare.
«Mi sei mancata» le sussurrò, nascondendo il viso nei suoi capelli alla lavanda.
Skyler si allontanò da lui quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi. «Mi sei mancato anche tu» mormorò, con dolcezza. Ma poi si ricordò ciò che si era ripromessa di fare non appena l’avesse visto, così gli diede un pugno sul braccio.
«Ahi!» si lamentò lui, massaggiandoselo senza capire. La guardò, confuso. «E adesso che ho fatto?»
«Ho chiesto a Travis e Connor come avevano fatto a trovarmi» lo accusò lei, puntandogli un dito contro. Poi gli fece il verso: «Ho rimosso la ricetrasmittente dalla tua spada, Skyler. Non devi preoccuparti, Skyler!»
Il ragazzo prese fiato per protestare, ma un’occhiata di fuoco della sorella gli fece capire che era meglio non peggiorare ulteriormente la situazione.
«Giuro che se stavolta non la rimuovi davvero…» cominciò a minacciarlo lei, ma fu interrotta dall’udire il suo nome urlato da qualcuno.
Non fece neanche in tempo a girarsi, che un tornado biondo le saltò al collo, stritolandola in un abbraccio soffocante.
«Sono così felice che tu sia qui!» trillò Emma, entusiasta.
«Emma» mugugnò Skyler, mentre si sforzava di non ingerire i suoi ricci biondi. «Non… respiro…»
«Oh, scusa!» esclamò lei, liberandola dalla sua morsa. Skyler si portò una mano sul petto, riprendendo fiato, prima di incontrare gli occhi gioiosi di lei, che la squadravano attenti. «Avevo ragione, sei sempre uguale» la stuzzicò, con un sorriso sghembo.
Skyler annuì e sorrise, ammirandola. «Neanche tu sei cambiata» constatò, e si sorprese nell’avvertire un lieve sollievo nella sua voce.
Fu a quel punto che la mano di qualcuno si posò sulla sua spalla, costringendola a voltarsi di nuovo.
John allargò le braccia, sorridendole raggiante. «Non merito un abbraccio anch’io?»
Skyler rise, posando il capo sotto il suo mento e stringendosi a lui.
Era bello essere lì. In un posto che amava, insieme ai suoi amici. E solo in quel momento sembrò rendersi conto di quanto in realtà le fossero mancati. Di quanto necessitasse di un loro abbraccio e di un loro sorriso. E di quanto tutto questo la facesse sentire… bene. A casa.
Forse davvero il Campo non era cambiato. E forse non era cambiata nemmeno lei.
Doveva solo ritrovare sé stessa. Doveva far riemergere la vecchia Skyler, e forse solo così avrebbe abbandonato quella che tanto detestava.
Ma davvero l’avrebbe aiutata restare nel posto che più di tutti l’aveva cambiata?
 
Ω Ω Ω
 
«Come vedi, non è cambiato niente» esordì Leo, aprendole la porta della Casa Nove per poi farla passare.
Skyler si guardò intorno, ammirata. Riconobbe le cuccette d’acciaio ripiegate contro le pareti, come letti ribaltati ultramoderni, e poi cercò la sua, assicurandosi che nessuno l’avesse toccata. Intravide il palo dei pompieri che collegava il primo al secondo piano, ma che loro utilizzavano principalmente per giocarsi le loro scommesse su chi riuscisse a scivolarci più veloce. E poi scorse la scala a chiocciola che portava nelle fucine. Passò in rassegna le pareti, ammirando gli attrezzi e le armi che vi erano meticolosamente appese.
E le sembrò tutto perfetto.
Andò verso il suo letto, digitando la combinazione sul display e aspettando che si aprisse, per poi buttarci sopra il suo borsone.
Il quel momento entrò Microft, che aveva appena concluso la sua lezione di autodifesa, e nel vederla seduta sul suo letto le rivolse un sorriso.
«È tutto…» cominciò Skyler, scrutando attentamente le mura nella speranza di trovarvi impresse le giuste parole dietro qualche intonaco. «Grandioso» concluse.
I due fratelli si scambiarono un’occhiata. Leo andò a digitare il codice del suo letto, che si trovava esattamente di fronte a quello di Skyler. Poi si sedette ai piedi del materasso, con un sospiro. Posò i gomiti sulle ginocchia e si sporse in avanti, per osservarla.
«Ed è per questo che sei così triste?»
Fu a quel punto che Skyler li guardò. Microft aveva poggiato la schiena contro muro, le braccia incrociate, e la fissava con un’espressione preoccupata.
La ragazza inarcò un sopracciglio, confusa. «E perché mai dovrei essere triste?» chiese, con un sorrisetto divertito. Ma non appena finì di porre quella domanda, capì che la risposta era evidente.
«Skyler» mormorò Leo, con una dolcezza insolita per lui, ma che molto spesso le riservava. «Sai che con noi puoi parlare, vero?»
La figlia di Efesto sentì gli occhi bruciare. Distolse lo sguardo, per evitare che loro notassero il velo che glieli stava rendendo lucidi e pronti alle lacrime. La verità è che la verità non la sapeva nemmeno lei.
Continuava a portarsi dietro quel malumore da quando erano usciti dalla casa della nonna a San Diego, e che per tutta la notte non l’aveva abbandonata neanche un secondo. Ma non sapeva dire esattamente a cos’era dovuto.
Forse alla stanchezza.
Forse alla stranezza della situazione.
Forse alla paura che quella ormai fosse diventata la sua nuova quotidianità, e che ormai non c’era più posto per la Skyler mortale.
O forse il contrario.
Questo lei non lo sapeva. O meglio, non riusciva a spiegarselo. E la cosa diventava ancora più difficile quando doveva spiegarlo agli altri.
Scosse leggermente la testa, fissando lo sguardo sulle sue gambe incrociate. «Credo di essere solo un po’ stanca» sussurrò, ma mentre lo diceva non ci credeva nemmeno lei.
I due fratelli restarono in silenzio, nell’attesa che aggiungesse qualcosa. Così lei alzò gli occhi al cielo e ammise: «E poi, non lo so, mi sento così giù di morale.»
Fu a quel punto che, al contrario di ciò che si sarebbe aspettata, sul volto di Leo comparve un sorrisetto malandrino. «Microft» chiamò senza voltarsi, al che lui drizzò lo schiena. «Credo che qui abbiamo un codice rosso.»
«Un codice rosso?» ripeté il fratello.
Skyler corrucciò le sopracciglia, interdetta. «Che cos’è un codice rosso?»
«Io e Leo abbiamo inventato un sistema di codici colorati per poter parlare senza che gli altri ci capiscano» spiegò il più piccolo dei tre, soddisfatto. «Arancione, giallo, verde, celeste. Poi li insegneremo anche a te.»
«E che cos’è un codice rosso?» domandò di nuovo Skyler, non capendo.
«Sei pronto?» chiese Leo al ragazzino, e lui annuì. «Al mio tre.»
Skyler li osservò, mentre andavano verso di lei e continuavano a scambiarsi occhiate eloquenti.
«Uno.»
«Aspettate, ma che cosa…?»
«Due.»
«Che cos’è un codice rosso?» provò di nuovo.
«Tre!»
I due ragazzi si buttarono sul letto con un balzo, finendole addosso. Il fiato di Skyler si smorzò sotto il loro peso, e non capì che cosa avessero intenzione di fare finché entrambi non la stritolarono in un abbraccio che avrebbe fatto invidia a quello di un orso. Un orso molto pesante.
«Miei dei» si lamentò lei, mentre i due esplodevano in una sonora risata.
«Un abbraccio migliora la vita» le spiegò Leo, scoccandole un sonoro bacio sulla guancia.
«Sì, ma non se soffocate la suddetta persona» borbottò lei, a corto di fiato.
I due fratelli allentarono di poco la presa, e fu a quel punto che, mentre riprendeva fiato stretta fra le loro braccia, Skyler si lasciò sfuggire una cristallina risata.
Li abbracciò a sua volta, accovacciandosi di più fra i loro petti e inebriandosi di quel dolce calore umano.
«Siete i migliori, ragazzi» ammise in un sussurro, quasi lo stesse ricordando a sé stessa. «Grazie.»
«Potrai sempre contare su di noi, Skyler» le assicurò Microft, la guancia premuta contro la sua spalla.
«Ha ragione» assentì Leo, e fu allora che Skyler lo guardò intensamente negli occhi. «Sono felice che tu sia tornata, sorellina» mormorò con dolcezza.
Skyler non riuscì a trattenere un sorriso, mentre nascondeva il viso nell’incavo del suo collo e diceva: «Sono felice anch’io.»
 
Ω Ω Ω
 
Vedere tutti i ragazzi del Campo riuniti attorno al falò le aveva sempre infuso un senso di rilassamento nel cuore.
La cena era stata proprio come tutte le altre alle quali aveva partecipato, intrisa del solito chiacchiericcio che si levava da ogni tavolo. Mentre continuava a guardarsi intorno, Skyler aveva scambiato dei sorrisi incerti sia con Michael che con Emma, mentre quando si era voltata verso il tavolo di Apollo John le aveva fatto un complice occhiolino, divertito.
Sembravano tutti a proprio agio, in quel contesto. Persino Janice, che Skyler aveva beccato più volte a ghignare nella sua direzione.
I figli di Ares non si smentiscono mai, aveva pensato fra sé e sé, concentrandosi per ignorarla.
Non appena avevano finito di mangiare, Chirone si era alzato in piedi, e aveva proposto un brindisi in onore di tutti quei ragazzi che erano tornati al Campo per l’estate.
Involontariamente, Skyler era arrossita, ma quando tutti i calici di più di venti case si erano sollevati al cielo nello stesso istante, non aveva potuto fare a meno di sorridere.
E ora eccoli lì, tutti i ragazzi riuniti insieme, mentre la flebile luce del falò illuminava a malapena i loro volti.
Skyler era stata una degli ultimi ad arrivare, e quando l’aveva fatto aveva subito notato che i suoi tre migliori amici avevano già preso posto. Erano seduti sullo stesso tronco caduto che fungeva loro da panca, e sul quale, l’estate prima, Emma aveva inciso le loro iniziali, per far sì che tutti girassero al largo non appena lo vedessero.
Alcuni figli di Apollo, poco lontano, avevano portato con sé le loro chitarre, e ora stavano intonando I’m Yours di Jason Mraz, mentre gli altri li seguivano in un coro stonato.
Skyler non cantava. Se ne stava solo lì, ad ascoltare, seduta a terra fra le gambe di Michael, che con la schiena poggiata contro il tronco le abbracciava i fianchi da dietro.
Era piacevole, come sensazione. Starsene lì, tutti insieme.
In un certo senso, era confortante.
Michael le lasciò un dolce bacio nell’incavo del collo, per poi sfiorarle il lobo con la punta del naso.
«Sei bellissima» sussurrò, le labbra che accarezzavano il suo orecchio mentre lo faceva.
Skyler abbozzò un sorriso scaltro. «No, non è vero» rispose di rimando, lanciando un’occhiata alla maglietta sgualcita del Campo che indossava e agli shorts scoloriti. Cambiò posizione, voltandosi quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi, la spalla posata contro il suo petto. «Ma apprezzo l’impegno.»
Michael rise sommessamente, e Skyler avrebbe giurato di vederlo arrossire leggermente. Si mordicchiò un labbro, trattenendo un sorriso.
«Ho un regalo per te» bisbigliò lui dopo un po’, le labbra così vicine alle sue che Skyler riusciva a sentirne il sapore anche da lì.
La ragazza corrucciò le sopracciglia, curiosa, mentre con lo sguardo seguiva la sua mano che andava a frugare in tasca.
Michael ne cacciò qualcosa, chiudendola nel pugno, e inizialmente lei non capì di cosa si trattasse.
Lui fece scivolare l'altra mano dalla sua spalla lungo il suo braccio, per poi posare il palmo contro il suo e sollevarglielo leggermente. Le infilò qualcosa al polso, e solo quando la sua mano lo scoprì Skyler riconobbe un meraviglioso braccialetto.
Era di cuoio, intrecciato meticolosamente per ricreare delle bellissime trecce, e in mezzo a loro, di tanto in tanto, si nascondevano delle minuscole conchiglie di mare, di quelle che devi cercare attentamente per riuscire a trovarle, sulle quali si alternavano colori come l’azzurro e il marrone.
«L’ho fatto per te poco prima che arrivassi» le spiegò Michael, mentre lei lo osservava estasiata.
«Michael, è…» cominciò, cercando le parole giuste. Sul suo volto si dipinse un sorriso sorpreso, mentre accarezzava delicatamente le conchiglie con i polpastrelli, quasi avesse paura che se le avesse toccate troppo sarebbero sparite. «È bellissimo.»
Un angolo della bocca di Michael si sollevò, in un’espressione compiaciuta. «Sono contento che ti piaccia.»
«Io…» Skyler avrebbe voluto dire di più. Era sicura che nessuno le avesse mai fatto regalo più bello. O meglio, che nessuno si fosse mai impegnato tanto per lei. «Grazie» sussurrò con un fil di voce. Ed era un grazie sincero.
Michael fece scivolare la mano in quella di lei, intrecciando le dita alle sue e baciandole il dorso. «Così potrò stare sempre con te.»
Skyler rise, divertita. «È una minaccia?» lo provocò.
Rise anche lui. «È una promessa.»
Skyler alzò lo sguardo, incontrando i suoi occhi. Erano di uno straordinario blu elettrico, quasi innaturale.
Erano esattamente identici a quelli che aveva il primo giorno che l’aveva incontrato.
Una morsa le strinse lo stomaco, ma non sapeva se fosse per via delle farfalle che ci ballavano dentro o della consapevolezza di ciò che le passava per la mente.
I loro volti non erano stati così vicini per troppo tempo, e mentre avvertiva il suo respiro caldo sfiorarle la pelle, Skyler si sorprese a desiderare che quel momento durasse per sempre.
«Promettimi una cosa» si ritrovò a chiedere, pentendosene subito dopo al pensiero di una sua reazione.
Ma lui non si scompose, né si allontanò da lei per poterle squadrare meglio il volto. Si limitò a sorridere, mentre con gli occhi si incatenava intensamente ai suoi. «Sì?»
«Promettimi…» La ragazza esitò. «Promettimi che tutto questo non cambierà. Promettimi che nonostante il mondo giri per il verso sbagliato… beh, promettimi che questo» sottolineò, facendo viaggiare il palmo dal proprio petto a quello di lui. «Resterà sempre uguale. Qualunque cosa accada. Ti prego.»
Michael strizzò leggermente gli occhi, quasi fosse incuriosito da ciò che Skyler stava dicendo. Ma poi capì che era sincera. Gli venne voglia di sorridere, ma la sua espressione non cambiò. «Te lo prometto» annuì, facendole capire che ciò che stava dicendo lo pensava davvero. Le sollevò il polso dove le aveva infilato il braccialetto. «Giuro su questo bracciale, simbolo di quello che provo per te, che finché lo avrai indosso, io manterrò la mia promessa. E che finché lo indosserai, questo» sottolineò quella parola. «Resterà esattamente così com’è.»
«Promesso?» sussurrò lei, con una speranzosa voce strozzata.
Michael sorrise, rassicurante. «Promesso.» Allungò una mano per toccare una ciocca di capelli che le copriva gli occhi, e Skyler si ritrovò a sorridere a sua volta. Se l’avvolse attorno al dito, come faceva sempre l’istante prima in cui stava per darle un bacio.
Forse Michael non ci faceva caso, ma Skyler amava quel gesto, e tutto ciò che lo accompagnava. I loro nasi che si sfioravano, l’attesa di sentire quelle labbra premute contro le sue, il profumo di salsedine della sua pelle che le pizzicava le narici, la voglia di sentire il suo sapore e di accorciare le distanze.
«Se state per baciarvi, per favore, avvertitemi, che mi giro dall’altra parte» li prese in giro Emma, con una ostentata smorfia di disgusto.
La figlia di Efesto arrossì leggermente, senza però distogliere lo sguardo da quei profondi mari blu che erano gli occhi di lui.
«Stiamo per baciarci» rispose Michael con un sorriso sghembo. E poi posò le labbra sulle sue.
Fu un bacio tenero, di quelli capaci di riscaldarti il cuore. Di quelli che ti fanno capire di non essere sola.
La mano di Michael si fermò sulla sua guancia, quasi a richiesta che quel momento durasse di più, che non finisse mai.
Mentre John sogghignava, Emma simulò un conato di vomito, e fu allora che Michael mordicchiò dolcemente il labbro inferiore di Skyler, approfondendo quel bacio mentre lei sentiva una risata ribollirle nella pancia.
Quando si staccarono, le loro labbra erano un po’ gonfie, i loro occhi lucidi per l’emozione. Michael assunse un’espressione compiaciuta quando sentì Emma, accanto a lui, fingere di vomitare.
«Sarà un’estate indimenticabile» le assicurò lui, e suonava come un’altra promessa.
E Skyler voleva crederci. Nonostante quel macigno sul petto che le bloccava il respiro, lei voleva crederci con tutta sé stessa.
E si convinse di esserci riuscita mentre, accoccolata contro il suo petto, ascoltava le note delle chitarre dei figli di Apollo raggiungere le stelle.

Angolo Scrittrice.
Holaa!
Eccomi qui, in diretta dalla mia camera tutta viola solo per voi.
Bien bien bien, come avevate tutti ben immaginato, Skyler è tornata al Campo! Ha riabbracciato i suoi amici, ha ritrovato la complicità dei suoi fratelli, è tornata a baciare Michael...
ahaha, preparatevi, ragazzi, perchè ora che non ci sono più fratelli malati e amici importanti di mezzo, i nostri due semidei saranno più dolciosi che mai. (anche se molto probabilmente
_Krios Bane_  mi ucciderà, but whatevah ;D)
Anyway, stavo dicendo? Ah, sì! Insomma, Skyler è tornata al Campo, ha ritrovato tutti, eccetera, eccetera... eppure non è felice. Perchè, secondo voi? Che cos'è che la turba?
Ovviamente, lo scoprirete più in là, ma si accettano scommesse ;)
Ho in mente un po' di sorpresine per voi, ora che finalmente si rientra nei perimetri del Campo, e spero davvero che vi piaceranno. **
By the way... che dite? Vi è piaciuto in capitolo? Vi ha fatto schifo? Vi aspettavate qualcosa di meglio? Vi aspettavate qualcosa di peggio?
Fatemi sapere, mi raccomando. Per me è importante conoscere la vostra opinione.
Okay, credo che ora sia arrivato il momento di ringraziare i miei Valery's Angels, che come sempre mi migliorano la giornata con le loro bellissime recensioni. So, grazie a:
Asia_Mofos, _Krios Bane_, Myrenel Bebbe ART5, Cristy98fantasy, kiara00, _angiu_, FoxFace00, Kalyma P Jackson, martinajsd, carrots_98 saaaraneedsoreo.
Grazie, grazie, grazie. E... niente, grazie. **
E stavolta vorrei ringraziare anche la persona che ha messo la storia tra le ricordate, le 19 persone che l'hanno messa tra le seguite e le 25 che l'hanno messa tra le preferite *^* e anche tutti i 450 lettori silenziosi che continuano a seguirla con frequenza.
Grazie, siete tutti magnifici! 
Bien, credo che ora io posso dileguarmi.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto!
(dei, ormai amo dirlo **) Al prossimo martedì, miei cari!
Sempre vostra,

ValeryJackson
P.s. Ehi, semidei! Ma dico, ci pensate? Ieri il nostro Testa d'Alghe ha compiuto 17 anni! Dei, come sono felice. So che può sembrare stupido, ma ieri ho festeggiato per lui. E voi? Avete fatto qualcosa di particolare per il compleanno del nostro Percy? Dolci blu? Scritte sul braccio? Foto o collage? ahah, fatemi sapere, sono curiosa! Ma soprattutto, ditemi che non sono l'unica pazza che ieri era esaltata per questo evento xD ahahah
P.p.s. C'è qualche lermaniacs qui? Perchè ho bisogno di sclerare con qualcuno per i nuovi scatti di Fault Magazine! **
P.p.p.s. Ehm... no, ora ho davvero finito. Vi lascio in pace! Au revoir! ;P

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


 

 

Come ogni giornata estiva che si rispetti, il sole splendeva alto in un cielo limpido e privo di nuvole.
Non appena varcò la soglia che lo portava fuori dalla Casa Nove, Leo prese un bel respiro, riempendosi i polmoni di quell’aria fresca e pulita.
Oggi era il gran giorno. Oggi era il suo giorno.
Mentre si avviava insieme ai fratelli verso il padiglione per la mensa, nella sua testa continuava a ripetersi che gli dei avevano reso quella mattina bellissima apposta per lui, e che era il momento perfetto per fare ciò che aspettava da più o meno tutto l’inverno.
Un centinaio di semidei presero posto nei rispettivi tavoli da picnic di pietra di ogni cabina, e un brusio confuso di voci inondò quel piccolo spazio contornato dalle candide colonne greche.
Ascoltando distrattamente i discorsi dei suoi fratelli, riguardanti principalmente pinze, bulloni e oggetti da riparare, Leo continuava a guardarsi intorno, nervoso.
Era difficile trovare qualcuno in quell’enorme ammasso di ragazzi, e c’era anche la possibilità che non tutti fossero lì per la colazione, eppure Leo sentiva la sua presenza. La percepiva. Qualcosa, una sensazione strana che gli si agitava nello stomaco come un’anguilla impazzita da quando si era svegliato, gli suggeriva che lei era lì, e che lui doveva solo cercarla.
Si cacciò in bocca un cucchiaio di cereali, mentre, fingendo indifferenza si voltava per scrutare attentamente i tavoli.
Fu a quel punto che la vide. Stava ridendo, mentre, con in mano una fetta di pane e marmellata, schivava un chicco d’uva che le aveva appena lanciato contro Travis.
Non parlava con Emma spesso, e tutte le volte che ci provava c’era sempre qualcuno o qualcosa pronto ad interromperli.
Si poteva dire che avesse cominciato a sognarla l’estate scorsa, quando lei, per evitare che i figli di Afrodite lo prendessero in giro, lo aveva baciato sotto gli occhi di Charlotte.
Sapeva che quel bacio non era significato niente, e quei pochi momenti in cui si scambiavano un saluto lei si comportava come se l’avesse del tutto dimenticato. Molto probabilmente era così, ma lui preferiva pensare che fosse un atteggiamento tipico fra le ragazze, magari per testare fino a che punto sei pronto a spingerti pur di conquistarla.
Non lo sapeva nessuno (eccetto i figli di Afrodite, ovvio), ma la cosa che lo innervosiva di più non era tanto il non poterne parlare, quanto più il non riuscire a parlarne con lei.
Se ci ripensava, riusciva ancora a sentire il sapore delle sue morbide labbra mentre si muovevano con le sue.
«Leo?» lo chiamò Skyler, distogliendolo dalle sue fantasie. Era seduta di fronte a lui, e lo guardava con un’espressione preoccupata. «Va tutto bene?»
«Eh?» Leo sembrò cadere dalle nuvole, e dovette scrollare la testa per riuscire a metabolizzare la sua domanda. «Ehm, sì… sì, sì, benone.»
«Ne sei sicuro?» Skyler sembrava dubbiosa, mentre spalmava della crema al cacao su una fetta biscottata. «Perché hai trattenuto il respiro per più di un minuto.»
Leo arrossì violentemente, e pregò perché lei non se ne accorgesse. Aprì la bocca per replicare, ma Microft, seduto accanto a lui, lo precedette.
«È perché stava fissando il tavolo dei figli di Afrodite» disse, sogghignando. Gli puntellò il braccio con un gomito. «Ne hai trovata qualcuna di tuo gradimento, eh?»
Rise sommessamente della sua battuta, e Leo si sforzò di fare altrettanto. Skyler fece roteare gli occhi, lasciando correre il discorso.
Continuarono a mangiare, e Leo ingurgitò altre cucchiaiate dei suoi cereali senza sentirne davvero il sapore, maledicendosi per essere stato così stupido.
Non si accorse neanche che la sorella aveva continuato ad osservarlo, finché lei, con le sopracciglia corrucciate, non si sporse verso di lui e bisbigliò: «Sei sicuro di stare bene?»
«Certo!» scattò subito lui sulla difensiva, e notando l’espressione sconcertata di lei iniziò a masticare rumorosamente la sua colazione. «Perché me lo chiedi?»
«Non lo so.» Skyler si strinse nelle spalle, sospirando. «È che sei pallido come un lenzuolo. Sembra che tu abbia visto un fantasma.»
Leo la fissò un attimo, frugando nella sua mente alla disperata ricerca di qualcosa di sarcastico da dire, e quando non la trovò, si limitò a fare spallucce, buttando altri cereali nella tazza già strapiena.
Skyler capì che non avrebbe ottenuto altro, e così decise di lasciar perdere, tornando a mangiucchiare qualche biscotto in silenzio mentre chiacchierava con Microft riguardo un braccialetto che avrebbe dovuto trasformarsi in una spada ma che invece continuava a prendere la forma di una lancia.
Leo li ascoltò distrattamente, sforzandosi di avere un atteggiamento normale.
Se per fantasma Skyler intendeva la ragazza più affascinante e solare del Campo allora sì, lui non solo l’aveva vista, ma ne era rimasto folgorato.
Come sempre del resto. Ogni volta che vedeva una bella ragazza, Leo non riusciva a resistere, e il suo cervello andava in panne davanti alla loro bellezza, facendogli dire cose stupide nel vano tentativo di flirtare.
Ma stavolta forse era diverso. Stavolta forse aveva una possibilità in più. Nessuna ragazza carina l’aveva mai baciato se non sotto ricatto, a parte Emma. Questo valeva qualcosa, no?
Forse era solo una sua impressione, e forse Emma era proprio come tutte le altre fanciulle per cui aveva perso la testa.
Ma se c’era una cosa che Leo Valdez sapeva fare, quella era far ridere le ragazze nel tentativo di flirtare con loro. E sarebbe stato così anche stavolta.
D’altronde, Emma non era diversa da tutte le altre.
O no?
 
Ω Ω Ω
 
Aveva calcolato tutto.
Allora, Leo. Tu vai lì, le parli, e non appena la senti ridere per una battuta stupida le chiedi di uscire.
Semplice, no? Continuava a ripassare il suo piano come se fosse la cosa più semplice del mondo. E in effetti lo era. Non ci voleva una laurea per invitare una ragazza ad uscire, giusto?
Subito dopo un’estenuante lezione di scherma dove aveva lasciato vincere Skyler pur di evitare di sudare troppo, Leo era tornato nella sua Cabina, si era dato una ripulita e aveva ripassato un’ultima volta quello che aveva intenzione di dirle.
Oggi è il gran giorno, continuava a ripetersi, mentre in piedi davanti allo specchio si passava una mano fra i ricci ribelli.
Con non calanche, poco prima, aveva chiesto a Skyler cosa stessero facendo i suoi amici, scoprendo così che la figlia di Ermes si trovava nell’Arena per una lezione di Autodifesa.
Man mano che si avvicinava sempre di più a lei, il suo cuore accelerava di uno, due, sette battiti.
Stava minacciando di balzare fuori dal petto quando intravide la sua chioma bionda in lontananza.
Leo andò verso di lei, con una camminata spavalda e sicura, un mezzo sorriso dipinto sulle labbra.
La ragazza stava facendo a pugni con un sacco da boxe, e, beh… vedendo le condizioni di quel sacco, era abbastanza facile capire chi stesse avendo la meglio.
Quando fu circa ad un metro da lei, Leo si fermò ad osservarla, contemplando le sue curve perfette.
Indossava un paio di shorts, e aveva della garza bianca avvolta attorno alle nocche, per evitare di sbucciarsele mentre sfogava la sua forza su quel povero sacco indifeso.
I suoi ricci capelli erano raccolti in una coda di cavallo, dalla quale, però, sfuggivano alcune ciocche ribelli, che le cadevano dolcemente sul viso incorniciandole quei suoi argentati occhi da cerbiatto. Leo ebbe l’impulso di allungare una mano per spostargliele dietro l’orecchio, ma dovette sopprimerlo non appena si rese conto che se l’avesse fatto, il sacco avrebbe avuto un aspetto migliore di lui.
La ragazza non indossava un maglietta del Campo, bensì una canotta bianca, un po’ aderente e parecchio scollata, secondo i gusti di Leo. Non che questo gli dispiacesse, ovvio. Ma è un po’ difficile concentrarsi mentre lo sguardo continua a caderti in basso.
Scrollò la testa, deciso ad allontanare quegli sciocchi pensieri dalla parte razionale del suo cervello. O almeno da ciò che ne restava.
«Ehi!» esclamò, avvicinandosi ancora di più ed esibendo un sorriso smagliante.
Emma tirò un calcio al sacco da boxe, e Leo dovette fare un passo indietro per evitare che quel coso traballante gli finisse addosso.
La ragazza lo guardò appena, per poi sorridere. «Ciao, Leo» salutò, continuando il suo allenamento.
«Che stai facendo?» domandò lui, per poi mordersi l’interno della guancia subito dopo. Domanda stupida!
Doveva essersene accorta anche lei, perché sollevò le sopracciglia e con un pugno ben piazzato chiese a sua volta: «Non si vede?»
Ci fu un minuto di silenzio imbarazzante, interrotto solo dal tonfo delle nocche della ragazza che si infrangevano sulla rilegatura in pelle.
Solo quando Emma gli lanciò un’occhiata di traverso Leo si rese conto di quanto in realtà quel silenzio fosse davvero imbarazzante.
Lei che si allenava e lui che la fissava imbambolato. Se non si conoscessero già, molto probabilmente lei l’avrebbe già messo KO.
«Allora…» cantilenò lui, non sapendo esattamente come continuare.
Emma sollevò le sopracciglia, in attesa. «Allora?» ripeté.
Leo cominciò a grattarsi il braccio. All’improvviso gli pizzicava, così come tutto il resto del corpo. Sembrava quasi un prurito… nervoso. E poi aveva caldo. Stava sudando, e sentiva le guance in fiamme. Insomma, lui non aveva mai caldo!
«Volevo chiederti una cosa» cominciò, al che lei gli fece un cenno con la testa, invitandolo a continuare.
«Volevo sapere se ti andava…» disse, ma poi si interruppe. Sentiva la gola secca, e le parole erano bloccate in fondo alle sue corde vocali da una forza maggiore che impediva loro di uscire. «Insomma, ho pensato che forse volevi…» riprovò, ma ottenne lo stesso risultato.
Ma che diavolo gli stava succedendo? Non gli era mai successa una cosa del genere. Di solito, quando si trovava di fronte a una bella ragazza, iniziava a parlare a vanvera, dicendo cose senza senso. Ma con Emma era diverso; con lei non riusciva proprio a parlare.
Perché con Emma era diverso?
«Sì?» lo incalzò lei, e solo a quel punto il ragazzo si rese conto di non aver più proferito parola.
Sentì montare il panico, ed iniziò a boccheggiare quasi potesse trovare il coraggio che gli mancava nell’aria che stava respirando.
«Ti va di fare una passeggiata con me?» eruppe. Ma quando le parole arrivarono al suo orecchio, suonarono come un mugugno indistinto.
Emma corrucciò le sopracciglia, voltandosi a guardarlo con un’espressione confusa. «Come hai detto?»
Il prurito sulle braccia si fece più intenso, ma Leo non si rese conto di grattarsele convulsamente, troppo impegnato com’era a liberare le parole dalla gabbia che era diventata la sua gola.
«Ti va di fare una passeggiata con me?» ripeté, e stavolta suonò davvero come un borbottio incomprensibile.
L’espressione sul volto di Emma passò dalla confusione all’irritazione. «Senti, se questo è solo un altro dei tuoi stupidi scherzi, credo che questi siano il momento e il luogo sbagliati» sbottò, dandogli le spalle indignata.
«No» si affrettò a dire lui, al che lei tornò a guardarlo. «Io volevo solo sapere…» biascicò. Emma inarcò le sopracciglia, in attesa. «Se ti va di fare una passeggiata.»
Doveva averlo sussurrato. Per forza, altrimenti non si spiega il perché lei abbia frainteso.
La ragazza corrucciò le sopracciglia, interdetta. «Vuoi preparare una limonata?»
«No» scosse la testa Leo, affranto. «Insomma, sarebbe un’idea carina, ma io invece pensavo che…»
Non sapeva se questa volta sarebbe riuscito a finire la frase, o se invece avrebbe farfugliato un’altra volta. E non lo saprà mai.
Perché in quell’istante, mentre lei lo ascoltava curiosa e lui lottava con il suo cervello pregandogli di non cedere, una voce alle loro spalle attirò l’attenzione di entrambi.
«Ehi, ragazzi!» li salutò Piper, sorridendo raggiante.
Emma le lanciò un’occhiata, sforzandosi di ricambiare il suo sorriso. «Ciao, Pip.»
La figlia di Afrodite fece vagare lo sguardo fra i due, scrutandoli per un secondo. «Di che parlavate?» chiese, lentamente.
Emma sbuffò sarcastica, prima di ricominciare a tirare pugni al sacco da boxe. «Leo voleva preparare una limonata» annunciò, con scarso entusiasmo.
Gli occhi cangianti di Piper si illuminarono. «È un’idea fantastica! Adoro la limonata. Ma non metterci troppo zucchero, altrimenti non sa più di limone.»
Leo grugnì, non sapendo se essere più amareggiato dal fatto di non essere riuscito a parlare con Emma o che adesso avrebbe dovuto preparare davvero la limonata.
Piper fece vagare lo sguardo lungo il perimetro dell’Arena, alla ricerca di un sacco libero per allenarsi, fino a che sul suo bel viso non comparve un sorrisetto malizioso.
Si avvicinò ad Emma, pizzicandole un fianco per attirare la sua attenzione. «A quanto pare qualcuno ha fatto colpo» ridacchiò con un bisbiglio, per far sì che Leo non la sentisse. Cosa che ovviamente non fu così.
La bionda sembrava confusa tanto quanto il figlio di Efesto, perché smise di allenarsi e guardò l’amica con la fronte aggrottata. «Eh?»
Piper le indicò con un cenno qualcuno alle sue spalle. Emma aspettò qualche secondo, prima di voltarsi, e Leo seguì la direzione del suo sguardo.
«Andrew Goode non ti ha tolto gli occhi di dosso per tutto il tempo. L’avevo notato anche prima, ma non pensavo ti trovasse così interessante.»
Emma arricciò il naso, in un’espressione indecifrabile. «È figlio di Apollo, giusto?»
«Sì» rispose Piper, per poi guardarlo un’ultima volta. «È carino.»
«Sì» assentì Emma, mentre le sue labbra si increspavano in un sorriso scaltro. «È carino.»
Con orrore, Leo si rese conto che il suo tono era compiaciuto. Una morsa anomala gli strinse la bocca dello stomaco, mentre avvertiva un forte senso di nausea.
«Leo?» lo chiamò la figlia di Afrodite, le sopracciglia corrucciate in una smorfia preoccupata. «Ti senti bene? Sembra che tu stia per vomitare.»
Il ragazzo annuì, un po’ titubante. Piper sembrava volergli chiedere cosa fosse successo, ma poi doveva aver cambiato idea, perché scrollò la testa, salutò entrambi e si diresse verso la postazione più vicina per allenarsi.
Erano soli, di nuovo.
Emma tirò un altro pugno al sacco da boxe. «Allora… che cosa volevi chiedermi?»
Leo aprì la bocca per parlare, ma non appena i bellissimi occhi della ragazza si posarono su di lui non emise alcun suono. Lei inarcò le sopracciglia, nell’attesa che dicesse qualcosa, e non capiva che in questo modo non faceva altro se non bloccargli il respiro.
Leo boccheggiò un attimo, in cerca delle parole che non arrivavano, o di qualche battutina stupida per rendere la situazione meno imbarazzante, ma tutto ciò che uscì dalla sua bocca fu: «Non me lo ricordo.»
Per quella che fu una frazione di secondo, Emma sembrò delusa. Ma poi scrollò le spalle e riprese a dare pugni al suo sacco come se niente fosse.
«Vorrà dire che non era importante» mormorò, menando un calcio più forte del necessario.
Sì, invece era importante, pensò Leo, ma naturalmente non riuscì a dirlo, per cui si allontanò da lei dandosi mentalmente dello stupido.
Quella situazione era assurda. Si preparava per quel momento da settimane. L’aveva già baciata una volta, per la miseria! Certo, quello non era stato un vero e proprio bacio, e tecnicamente era stata lei a baciare lui. Ma in teoria avrebbe dovuto superare quell’imbarazzo, no?
Era stato un fiasco totale. E non di quelli che ti dimentichi dopo una bella dormita, no. Se non era riuscito a parlare adesso con Emma, molto probabilmente non ci sarebbe riuscito mai.
E questo lo faceva sentire uno schifo.
Passò accanto ad Andrew Goode, che ora si era appoggiato ad un tavolino e stava sorseggiando un bicchiere d’acqua. Aveva un sorrisetto stampato sul volto, e continuava a guardare Emma, lo sguardo fisso sulle sue curve perfette. Un po’ troppo in basso!
Leo digrignò i denti, infastidito. Batté con forza un palmo sotto il bicchiere del ragazzo, e questo gli cadde addosso, bagnandogli la maglietta.
Andrew si allontanò dal tavolo e lo guardò, confuso e irritato, non riuscendo a capire perché l’avesse fatto.
Leo si strinse nelle spalle, con aria innocente. «Ops» si scusò, senza troppo entusiasmo, e si allontanò prima che quello potesse replicare qualcosa.
Non aveva idea del perché di quel gesto, ma il modo in cui lui la guardava gli aveva incendiato la bocca dello stomaco.
Era forse geloso?
No.
Emma era soltanto un’amica.
Era questo che aveva deciso, mentre tornava affranto nella Casa Nove. Se non era riuscito a parlare con lei, voleva dire che forse non avrebbe dovuto farlo e basta.
Forse era stata proprio Afrodite in persona ad impedirgli di fare qualcosa per la quale poi si sarebbe pentito.
Emma non avrebbe mai potuto diventare la sua ragazza. Erano troppo diversi. Oppure troppo simili.
Due cicloni che sbattono l’uno contro l’altro non fanno altro che portare distruzione. E lui non voleva distruzione.
Sarebbe stata un’amica e nient’altro.
E poi, c’erano molte altre ragazze al Campo. C’era Charlotte. La figlia di Afrodite era bellissima, e per di più lo odiava.
Era un ottimo modo per cominciare una relazione.
Leo aveva flirtato con lei altre volte, ed era andata alla grande! Beh, per quanto alla grande possano definirsi delle porte sbattute in faccia e delle risposte irritate.
Sì, avrebbe cercato di conquistare lei.
Charlotte: lo schianto da conquistare.
Emma: semplice amica.
Sì. Questo piano avrebbe funzionato. Doveva funzionare.
Insomma, non era poi così difficile smettere di pensare ad Emma in quel modo, no?
 
Ω Ω Ω
 
Michael incoccò un’altra freccia.
Tese l’arco, avvicinandoselo alla guancia e socchiudendo leggermente gli occhi.
Allenarsi nel tiro con l’arco non era esattamente fra la sua lista di cose da fare, ma John gli aveva assicurato che se non voleva lezioni private da Chirone (perché nessuno vuole lezioni private da Chirone) avrebbe dovuto come minimo imparare a tendere la corda.
Per lui era facile, insomma, lui era figlio di Apollo! Ma diciamo semplicemente che i figli del dio del mare non sono, beh… non sono esattamente degli arcieri professionisti.
Michael focalizzò il suo bersaglio, cercando di calcolare quale fosse la giusta traiettoria. Quando lo faceva John, sembrava qualcosa che sarebbe stato in grado di fare chiunque, anche un bambino. Ma Michael non era neanche sicuro di impugnarlo per il verso giusto.
Era per questo che era andato lì da solo, quando era sicuro che tutti gli altri avevano altre cose da fare. Così, nel caso avesse combinato un disastro, nessuno avrebbe potuto prenderlo in giro. O chiamare Chirone.
Si concentrò il più possibile, sicuro che, dopo tanti tentativi andati male, quella fosse la volta buona. Tese un po’ di più l’arco, lasciò andare la freccia e…
E questa si conficcò nella parte bianca del bersaglio.
Il ragazzo rilassò le spalle tese, deluso. No, il tiro con l’arco non era decisamente il suo forte.
«Sei una frana» lo prese in giro qualcuno alle sue spalle.
Senza neanche il bisogno di voltarsi, sorrise. Avrebbe riconosciuto quella voce fra mille.
«Non ti facevo così imbranato, Smith.»
Michael si strinse nelle spalle divertito, voltandosi per guardare il proprietario di quella voce. «Diciamo che ho altre virtù.»
Skyler chiuse gli occhi a due fessure, scrutandolo con le braccia incrociate. «E diciamo anche che la concentrazione non è una di queste.»
Michael rise, avvicinandosi a lei con un sorriso. Skyler si sedette sul bordo del massiccio tavolo di legno dove venivano posate, o per meglio dire buttate la maggior parte delle armi. Vi afferrò una freccia e cominciò a rigirarsela distrattamente fra le mani, premendo delicatamente il polpastrello dell’indice sulla punta del cuspide.
Michael si mise di fronte a lei, posando i palmi sul tavolo, accanto ai suoi fianchi. «Io sono concentrato» affermò, fingendosi offeso.
Skyler esibì un sorrisetto saccente. «Allora vuol dire che la tua concentrazione deve essere più concentrata.»
Michael fece una smorfia, quasi fosse in disaccordo. «Non è colpa mia» si giustificò, mordicchiandosi il labbro inferiore.
«E di chi è, allora?»
Lui fece spallucce. «Tua.»
Skyler sembrò sorpresa. «Mia?»
Michael annuì lentamente. «Tu mi distrai» affermò, deciso. Poi corrucciò le sopracciglia. «Mi sa che lo fai apposta.»
«Io… Io ti distraggo?» Il tono di Skyler avrebbe dovuto sembrare indignato, ma la ragazza era troppo divertita.
L’espressione di Michael restò incredibilmente seria quando disse: «Credo che tu sia troppo bella.»
Skyler abbassò lo sguardo, arrossendo leggermente. Poi sorrise scaltra e gli puntò la freccia che ancora stringeva in mano contro il petto. «E io credo che tu sia uno stupido. Visto? Ci compensiamo a vicenda.»
Michael annuì di nuovo, allungando una mano per afferrarle una ciocca di capelli che le ricadeva sul viso. Se la rigirò attorno al dito, come faceva sempre, e Skyler non poté fare a meno di sorridere.
Michael avvicinò ancora di più il volto al suo, fino a che i loro nasi non si sfiorarono. «È per questo che non riesci a starmi lontana?» la provocò, un angolo della bocca sollevato in un’espressione malandrina.
Skyler sollevò le sopracciglia, stupita. «Credi che io non riesca a starti lontana?»
Il ragazzo fece spallucce, con aria innocente. «Perché saresti qui, se no?»
Skyler inarcò un sopracciglio, inclinando leggermente il capo. «Ma come?» chiese, fingendosi confusa. Si sporse ulteriormente verso lui, le labbra che sfioravano le sue mentre sussurrava. «Non ero qui per distrarti?»
Michael sorrise, accarezzandole i capelli per poi posarle una mano dietro la nuca. Si chinò su di lei e, annullando anche quelle ultime distanze che li separavano, la baciò.
Skyler sentì una dolce sensazione bruciarle all’altezza dello stomaco, mentre nel momento esatto in cui schiudeva le labbra il loro bacio si faceva più intenso.
Le loro lingue si scontrarono con trasporto, e Michael le avvolse i fianchi con entrambe le braccia, accostandola a sé.
Skyler strinse le gambe attorno alla sua vita, mentre le sue mani si spostavano dal suo petto, al suo collo, alla sua nuca. Nascose le dita nei capelli corvini di lui, stringendoli per avvicinare ancora di più il volto al suo.
I loro respiri si fecero affannosi, i loro corpi caldi e bramosi. Le loro labbra si cercavano quasi disperate, e Skyler giurò di non aver mai provato una sensazione del genere con nessuno.
Michael sentì un brivido fargli venire la pelle d’oca non appena lei morse dolcemente il suo labbro inferiore, facendogli sfuggire un sospiro tremante.
Si trovavano nel bel mezzo di un poligono di tiro con l’arco, qualcuno avrebbe potuto arrivare da un momento all’altro e la freccia che poco prima Skyler stringeva in mano era scivolata ai piedi del ragazzo, con una parte dell’impennaggio spezzata. Ma a loro non importava.
Era come se tutto ciò che li circondava fosse sparito, nascondendosi da qualche parte al di fuori della bolla che li incapsulava, estraniandoli da qualunque suono che non fosse il battito dei loro cuori che acceleravano all’unisono.
Quando si staccarono per riprendere fiato avevano entrambi le labbra gonfie e rosee, i respiri irregolari.
Michael le accarezzò uno zigomo con il pollice, guardandola negli occhi con un sorrisetto malizioso. «Dovresti venire a distrarmi più spesso» sussurrò contro le sue labbra.
Skyler rise divertita, abbassando lo sguardo imbarazzata. Lui le portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, contemplando il suo volto con occhi lucidi. E Skyler si perse in quel silenzio che li circondava.
Era sempre così, quando c’era silenzio.
Lei smetteva di concentrarsi su ciò che le accadeva intorno, e lasciava fluire i pensieri che teneva nascosti in un angolo remoto della sua mente pregandoli di non parlare.
La sua fronte si aggrottò leggermente in un’espressione malinconica, il suo sguardo basso diventò di colpo triste. E nonostante si sforzasse di evitarlo non riuscì ad accennare un sorriso.
Michael sembrò accorgersi di quel repentino cambiamento, perché corrucciò le sopracciglia preoccupato. «Ehi» bisbigliò, passandole dolcemente una mano fra i morbidi capelli. «Che succede?»
Skyler scosse leggermente la testa, impegnandosi nell’alzare un angolo della bocca in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso, ma che somigliava più ad una smorfia di dolore. «Niente» lo tranquillizzò, nonostante il suo volto dicesse il contrario.
«Skyler» la rimproverò lui, con sguardo serio. «Ti conosco abbastanza per capire che c’è qualcosa che non va, ti pare?»
La ragazza arricciò il naso. «Sto bene» assicurò.
«No, non è vero.»
Gli occhi della ragazza tornarono di nuovo a scrutare il pavimento, e fu allora che la voce di lui si fece più dolce, mentre posava la fronte contro la sua e le intimava: «Parla con me.»
Skyler esitò. Sapeva che non era giusto farlo, ma fu più forte di lei. In altre circostanze sarebbe stato più facile dire a Michael tutto ciò che la turbava, eppure questa volta dar voce ai suoi pensieri sembrava più difficile del previsto.
Non sapeva esattamente a cosa fosse dovuto il macigno sul petto che diventava ogni giorno più pesante, ma forse parlare a qualcuno dei suoi problemi avrebbe contribuito ad allontanarlo.
Prese un bel respiro, sentendo le lacrime iniziare a bruciarle gli occhi. Sbuffò, alzando lo sguardo al cielo, infastidita. «Ecco, io… ehm…» Cercò le parole giuste da dire, ma poi si rese conto che non c’erano altre parole con cui dirlo. «È per mio zio» ammise, avvertendo le parole che seguivano lasciare la sua mente sempre più velocemente. «Avrei dovuto trovarmi con lui in questo momento, a cercare il modo migliore per evitare che la nonna gli togliesse il mio affidamento, e invece ho rovinato tutto e non riesco a perdonarmelo. Non ero pronta a tenergli nascosta un segreto del genere, e quindi la cosa più difficile non era mentire a mia nonna ma mentire a lui. Pensavo di poterci riuscire, e invece lei ha visto i capelli tinti, e poi ha visto il tatuaggio, e poi ho dato fuoco ai capelli di mia cugina, ma non l’ho fatto apposta, è solo che non riuscivo a controllarmi. Loro hanno di sicuro litigato, e lui mi ha proibito di venire al Campo, e invece io sono scappata, e lui non ha idea di dove sia, ora, e mi sento in colpa, perché sicuramente non sarò più sotto la sua custodia, e continuo a pensare che se non me ne fossi andata via di lì, quella sera, le cose sarebbero state diverse, e che tutto sarebbe andato per il meglio. Pensavo che venire qui mi avrebbe schiarito le idee, e invece non fa altro che ricordarmi quello che ho fatto, ed io mi sento… mi sento…»
La sua voce si incrinò. Fu costretta a bloccarsi, per lottare contro le lacrime che premevano sui suoi occhi, vogliose di uscire.
Michael decise che non c’era bisogno che continuasse. Le accarezzò una guancia, posandovi il palmo, e fu a quel punto che si rese conto che era già bagnata.
«Ehi» le sussurrò con dolcezza, lasciandole un bacio fra i capelli. «Vieni qui.»
L’attirò a sé, e Skyler lo lasciò fare. Trovò riparo fra le sue braccia e affondò il viso nell’incavo del suo collo. L’odore confortante di salsedine della sua pelle le invase le narici, e Skyler ringraziò gli dei, perché in un momento del genere era tutto ciò di cui aveva bisogno. Prese un bel respiro, per far sì che quello fosse l’unico profumo che riuscisse a sentire, e Michael le accarezzò con dolcezza la testa, stringendola a sé con fare rassicurante.
Ma nonostante ciò, Skyler non riuscì ad allontanare quei pensieri. Pensava a quanto fosse stato difficile nascondere la sua natura divina allo zio, e pensò a quanto fosse difficile, adesso, ignorare il suo lato mortale. Mentre nuove domande le affioravano nella mente, temette di essere diventata un vero disastro.
«So di non appartenere al mondo mortale, Michael» disse, la voce soffocata contro la sua maglietta. «Però non riesco a non pensare che questo non sia il luogo giusto per me. Io non sono come voi. Io non ho niente di… divino.»
Represse un singhiozzo, mentre, senza accorgersene, in un sussurro dava voce ai suoi pensieri. «A volte mi sento come se al mondo non ci fosse un posto giusto per me.»
Skyler sentì il corpo di Michael irrigidirsi fra le sue braccia, e il ragazzo si allontanò da lei quel tanto che bastava per guardarla negli occhi. «Questo non devi dirlo neanche per scherzo, okay?» la rimproverò, con tono deciso. Il suo sguardo era intenso, e Skyler si incatenò a quelle iridi che ora erano verde acqua.
«Non esiste un posto giusto o sbagliato. Esiste solo un posto dove vuoi stare o dove non vuoi stare. Tu vuoi stare qui, Skyler?»
La ragazza annuì.
Lui allargò le braccia. «Allora non c’è niente che possa impedirtelo.»
Skyler emise un sospiro tremante. «Ma io non appartengo a questo mondo» disse, con un fil di voce.
Le labbra di Michael si strinsero in una linea sottile. Le scostò una ciocca di capelli davanti agli occhi, per poi attorcigliarsela al dito. Inclinò leggermente il capo, guardandola con tenerezza. «Nessuno vi appartiene veramente.» Detta da lui, sembrava una cosa piuttosto ovvia. «Guardati intorno, Skyler. Il mondo non è perfetto per nessuno di noi. Sta tutto nell’adeguarsi. Adeguarsi, e vivere la vita come se fosse un miracolo. Viverla giorno per giorno, senza scoraggiarsi mai. Io credo che vivere senza tentare significa rimanere con il dubbio che ce l’avresti fatta, per cui se ci provi, alla fine il destino ti ripaga. A me è successo» affermò, seguendo con il pollice la linea delle sue labbra. Sorrise. «Ho avuto te, no?»
Skyler si lasciò sfuggire una sommessa risata. Forse Michael aveva ragione. Forse non si trattava di posto giusto o posto sbagliato. Forse si trattava solo di lei. Di lei, e di come era disposta ad affrontare la vita.
Da tempo aveva capito di doverla vivere come poteva, perché come voleva non poteva. Ma non aveva mai pensato di avere qualche possibilità di decidere con chi viverla. E con chi renderla migliore.
Il ragazzo le posò una mano dietro la nuca, per attirarla a sé e lasciarle un dolce bacio sulla fronte. Poi vi posò contro la sua. «Ti va una passeggiata?» propose.
Skyler sorrise e annuì.
Scese dal tavolo, e non appena lui le passò un braccio attorno alle spalle capì che forse non tutto era perduto, e che tutti i problemi che le avevano otturato la mente fino a quel momento potevano essere aggiustati.
Che forse non c’era davvero bisogno di avere un posto nel mondo.
Perché l’unico posto nel quale voleva stare era lì.
Con lui.

Angolo Scrittrice.
Siamo in diretta tra tre... due... uno...
Holaa! Eccomi qui ragazzi! Vi sono mancata?
*balla di fieno rotola solitaria nel vento*
Come non detto.
Bien bien, oggi è martedì, ed io sono qui con un nuovo capitolo, fresco fresco apposta per voi.
*
_Krios Bane_, non uccidermi :')* Allora, guys? Vi è piaciuto? Spero di sì.
Dunquo, come molti mi avevano chiesto: ecco a voi Leo ed Emma! ahaha, cos'è, li shippate? Perchè come vedete, il loro rapporto è un po' complicato.
Abbiamo un Leo completamente cotto da una parte,  e un'Emma che... beh, fa l'Emma dall'altra.
Ma soprattutto, per la prima volta nella storia dei semidei, Leo Valdez è rimasto.... senza parole!
Lo credevate possibile? Io no.  
Comunque sia (dopo quel fiasco totale) ormai ha deciso che per lui, Emma, resterà solo un'amica. O meglio, la migliore amica di sua sorella. Ma secondo voi sarà veramente così?
Credete che Leo tornerà alla riscossa con Charlotte? Oppure pensate che per il nostro figlio di Efesto non sarà così facile ingorare quello che prova per lei?
Che poi, secondo voi, cosa prova per lei?
Fatemi sapere, sono davvero curiosa **
Anyway... abbiamo scoperto il perchè della tristezza di Skyler. E' amareggiata perchè si sente in colpa per essere scappata dallo zio, ed è soffocata da questa continua sensazione di inadeguatezza. Lei si sente un pesce fuor d'acqua, fuori luogo ovunque si trovi, e non ha ancora deciso se dar retta più alla sua parte mortale o a quella divina.
Voi che ne pensate? Quale lato del suo carattere è quello dominante?
Ma soprattutto, è davvero quello l'unico motivo per cui è demoralizzata? O c'è dell'altro?
Btw, spero che, questa volta, la scena tra Michael e Skyler non sia stata troppo melensa. Non amo molto le sdolcinerie, e preferisco le coppie che mascherano la dolcezza con battutine, sarcasmo e prese in giro. Perchè credo che solo coloro che sono in grado di litigare furiosamente, e che nonostante questo continuano ad appartenere l'uno all'altra, sono davvero innamorati.
Per cui, se nello scorso capitolo vi erano sembrati troppo romantici, mi auguro che ora si siano riscattati :')
Inoltre, ci tenevo a far notare una cosa che ho dimenticato di dire la scorsa volta.
Dunque, dovete sapere che (secondo la mia mente contorta) tutte le coppie (soprattutto quelle più navigate) hanno delle abitudini: un gesto, una frase, un nomignolo, una battuta.
Insomma, pensateci:
Katniss e Peeta? Vero o falso? Vero.
Percy e Annabeth? Testa d'Alghe. Sapientona.
Augustus e Hazel? Okay? Okay.
E potrei continuare all'infinito! Perchè sono questi piccoli dettagli che le rendono speciali. Che le rendono... uniche.
Quindi, a dimostrazione di ciò, ho voluto inserire anch'io delle minuscole abitudini; di quelle che si fanno senza pensare, ma senza le quali, al di là di tutto, non sapresti stare.
E man mano che ne inserirò di nuove, ve le farò notare qui sotto.
A cominciare da Michael e Skyler. Avete riconosciuto la loro?
Se no, ve la dico io.
"Le scostò una ciocca di capelli che le copriva gli occhi, per poi attorcogliarsela attorno al dito."
Ecco, questo piccolo, semplice gesto è in realtà molto importante, perchè è loro, e di nessun altro.
Okay, basta, sto farneticando.
Miei dei, quest'Angolo Scrittrice sta diventando più lungo del capitolo stesso. Dei, mi dispiace! Giuro che nel prossimo capitolo resterò in silenzio, davvero.
Ma prima di andare, devo ancora dire due cose.
Innanzi tutto, devo ringraziare i miei Valery's Angels, che mi supportano, mi divertono e mi appoggiano, regalandomi delle bellissime recensioni. Grazie infinite a coloro che hanno commentato lo scorso capitolo, e cioè:
carrots_98, kiara00, martinajsd, Myrenel Bebbe ART5, Francesca lol, Cristy98fantasy, _Krios Bane_, saaaraneedsoreo, Percabeth7897, FoxFace00 e Semidea 99.
Grazie, grazie, grazie.
Grazie!
E, ultimo (e decisamente meno importante, dato che sono sicura non ve ne freghi 'na mazza), credo di aver trovato il mio Leo. O meglio, quello che è esattamente come io immagino il nostro figlio di Efesto.


 


 
Dei, non è perfetto? *^*
E' l'attore Robert Sheehan, non so se lo conoscete. Ma io credo che lui sia semplicemente... Leo. Quando ho visto questa foto, sono rimasta folgorata. I capelli, gli occhi, le labbra, le sopracciglia, l'espressione, i gesti... tutto!
Andiamo, non sarebbe perfetto come Valdez?
Insomma, lui sarebbe perfetto anche se si sedesse su una sedia e si limitasse a respirare. Ma come Leo sarebbe ancora più perfetto. Voi che ne pensate?
Avete mai provato a dare ai personaggi di "Eroi dell'Olimpo" il volto di attori? E se sì, quali?
Bene, detto questo, detto tutto, ora vi lascio davvero in pace. Non voglio neanche sapere tutte le cavolate che ho scritto!
Sono logorroica, lo so, ma sto cercando di smettere :c
By the way, mi auguro davvero che il capitolo vi sia piaciuto, e don't worry:
tornerò a tormentarvi anche il prossimo martedì! ;D
So... Alla prossima!
Sempre vostra,

Valery Jackson


 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***



Skyler non aveva più pensato allo zio dopo quel giorno.
O meglio, aveva cercato di non pensarci. Ogni diversivo era utile per distrarsi, a partire dalle varie attività del Campo come l’arrampicata, il tiro con l’arco, le partite di pallavolo.
L’estate non aveva ancora raggiunto il suo culmine, per cui il caldo era sopportabile, addirittura piacevole, se avevi voglia di scendere in spiaggia e rilassarti sulla sabbia, la pelle baciata dal sole.
Skyler aveva raggiunto Emma, quella mattina, e insieme erano andate ad allenarsi nell’Arena con le loro spade.
Le due lame continuavano a cozzare, e gli dei solo sanno quanto la figlia di Efesto abbia dovuto faticare per far sì che la sua bionda amica indietreggiasse un po’.
Allenarsi con Emma le piaceva. Si divertivano, insieme, ed erano entrambe così competitive che spesso le loro prove si trasformavano in una gara su chi fosse la prima a cedere. Alla fine, ovviamente, lo facevano sempre nello stesso istante, trovando ogni volta un nuovo compromesso.
Quella mattina non era diverso. Skyler aveva la fronte imperlata di sudore, e le dolevano un po’ le braccia, me non riusciva a far scomparire quel sorriso sghembo che le incurvava le labbra.
Emma non era da meno. Quando lottava, lei sembrava non fare alcuno sforzo. I suoi movimenti erano così fluidi e naturali che a volte Skyler si sorprendeva nel sentire il suo respiro affannarsi.
La bionda menò un fendente, che però fu subito intercettato dalla figlia di Efesto, che ruotando il polso riuscì a farla indietreggiare.
A quel punto cercò di ferirle il braccio, ma la figlia di Ermes era ben nota per la sua furbizia, per cui, un secondo prima che la lama della sua spada le sfiorasse la carne, balzò di lato, cogliendo Skyler di sorpresa.
Le due ragazze si scambiarono un’occhiata, sorridendosi.
«Che ti prende, eh?» la provocò Emma, con un sorrisetto scaltro. «Sembra che tu abbia la testa da un’altra parte.»
Non è del tutto errato, pensò Skyler, ma non lo disse. Ogni volta che interrompeva il suo allenamento, automaticamente i pensieri ricominciavano a fluire. E questa era l’ultima cosa di cui aveva bisogno.
Attaccò di nuovo l’amica, senza badare al fatto che lei deviò il suo colpo con troppa facilità.
Ordinare al corpo di fare qualcosa era molto più facile che ordinarlo alla mente. Skyler avrebbe preferito allenarsi all’infinito, piuttosto che avere la consapevolezza che, una volta fermata, il dolore e la stanchezza sarebbero stati ancora più forti.
Nel momento esatto in cui Emma faceva uno scatto con il polso nel tentativo di disarmarla, una voce le colpì alle spalle.
«Buongiorno, dolcezze!»
Skyler si fermò a guardare Emma, notando che l’amica stava facendo roteare gli occhi. Si lasciò sfuggire un sorriso.
«Come va?» chiese Connor, spuntando con Travis ai due fianchi della bionda.
«Vi dispiace?» domandò invece lei, infastidita. «Ci stavamo allenando.»
«E infatti è stato un onore poter osservare due ragazze belle come voi prendersi a pugni» la prese in giro Travis, guadagnandosi una gomitata nel fianco.
«Siamo qui per chiedervi una cosa» annunciò Connor, con un po’ troppo entusiasmo.
Aspettò una reazione da parte delle due ragazze, per cui Skyler inarcò le sopracciglia. «Cosa?» lo incalzò.
«Stanno arrivando delle nuove reclute» lo precedette Travis, ma nonostante lui avesse già aperto la bocca per parlare non sembrò preoccuparsene.
«E noi cosa centriamo?» chiese Emma, corrugando la fronte.
«Beh, Chirone ci ha chiesto di far loro da guida per il Campo» spiegò Connor. «Volevamo sapere se una di voi due voleva venire.»
«Vengo io!» esclamò Skyler, e forse la proposta fu un po’ troppo istantanea, perché Emma inarcò un sopracciglio.
La mora si strinse nelle spalle. «Non ho mai fatto la guida al Campo» si giustificò, con poca convinzione. «Ho voglia di provare.»
La verità era che sperava che fare amicizia con altri ragazzi la distraesse un po’ di più dell’allenamento. Ma questo, ovviamente, non lo disse.
«Perfetto!» annuì Travis, con un sorriso. «Allora tu vai con Connor. Io resto qui a battere Emma.»
Negli occhi della figlia di Ermes cominciò a brillare quel luccichio di competizione. «Mi stai sfidando, per caso?»
«Mi sembra ovvio!»
Travis estrasse la spada dalla cintura, facendo riaffiorare in Emma la voglia di combattere contro qualcuno.
Non appena Connor le fece un cenno con il capo, Skyler si allontanò con lui verso il tavolo delle armi, dove prese un bicchiere d’acqua e lo sgolò tutto d’un sorso. Si voltò verso i due fratelli che lottavano, osservando con Connor le loro spade che cozzavano.
«Vincerà lei» disse il figlio di Ermes, come se la cosa fosse scontata.
«Oh, questo è sicuro!» ribatté Skyler, con un sorriso. Poi abbassò gli occhi, pizzicando con due dita la sua maglietta madida di sudore. «Prima che andiamo, vorrei rinfrescarmi un po’, se non ti dispiace.»
«Ma certo!» annuì lui, al che lei sorrise. Rifoderò la spada, che tornò ad essere la collana che aveva sempre al collo, e afferrò uno degli asciugamani a disposizione per i ragazzi del Campo.
«Mi accompagni?» chiese, mentre si dirigeva verso la Casa Nove, e il ragazzo assentì.
Si voltò solo una volta a guardare indietro, giusto in tempo per vedere Emma disarmare Travis e poi farlo cadere con il sedere a terra.
Sapeva molto bene come ci si sentiva ad essere ‘i nuovi arrivati’. In fondo, era passato solo un anno da quando lo era stato anche lei. Quello che credeva di non sapere era come esattamente doveva comportarsi nel momento in cui le avrebbero fatto domande alle quali non voleva dare una risposta.


Ω Ω Ω

Dopo essere uscita dalla Casa Nove con degli shorts nuovi e una maglia del Campo pulita, lei e Connor si erano avviati verso la Casa Grande.
Skyler ammise di essere un po’ nervosa all’idea di dover diventare il punto di riferimento di qualcuno, e Connor la consolò, cominciando a parlare con lei del più e del meno nel tentativo di distrarla.
Era una bella giornata di sole, il momento perfetto per accogliere dei nuovi arrivati. Skyler gli aveva anche chiesto come pensava che fossero, e lui aveva iniziato a fare strane congetture disegnando dei ragazzi orribili e ridicoli.
La ragazza stava giusto ridendo ad una sua battuta secondo il quale fra loro ci sarebbe stato un figlio di Ares con un occhio dietro la testa e dei capelli rosa, che qualcosa lo investì.
No, non qualcosa. Qualcuno.
La sorpresa per quello scontro fu così inaspettata che Connor perse l’equilibrio, cadendo supino a terra. Sbatté la nuca contro l’erba, e una fitta di dolore gli si irradiò per tutti i capelli, offuscandogli la vista.
«Ah!» si lamentò, non appena si portò una mano dietro la testa.
«Oh miei dei! Mi dispiace tanto!» esclamò un corpo sopra di lui, preoccupato. Ma forse Connor doveva aver sbattuto la testa molto più forte di quanto pensasse, perché la sua voce arrivava ai suoi timpani alterata. Insomma, doveva essere per forza alterata. Sembrava quella di una ragazza!
Stringendo gli occhi a due fessure nel tentativo di vedere oltre i puntini neri che gli offuscavano la vista, Connor si concentrò sui lineamenti del suo investitore.
«Ti sei fatto male?» chiese di nuovo la voce, apprensiva.
Connor provò a scuotere la testa, ma non appena riuscì a mettere a fuoco il suo viso, gli mancò il fiato.
Era l’essere più bello che avesse mai visto.
Aveva due occhi di ghiaccio, di un azzurro così chiaro da sembrare impossibile; le iridi erano cerchiate di nero, e questo non faceva altro che rendere il suo sguardo più intenso, più penetrante.
La linea delle labbra era perfetta, così come quella del naso, degli zigomi e delle sopracciglia. Le sue guance rosee sembravano essere lisce come due pesche, in contrasto con la pelle candida, e i capelli morbidi come la seta. E poi erano… blu?
Tanta perfezione non poteva essere umana, e Connor arrivò a chiedersi se non fosse morto, mentre si sforzava di ricordare come respirare.
«È un angelo» pensò, estasiato. L’aveva detto ad alta voce? Molto probabilmente sì, perché la ragazza sopra di lui arrossì leggermente e ridacchiò.
«No, non credo che gli angeli siano così maldestri» affermò, alzandosi in piedi.
Connor fissò il suo viso finché non torreggiò sopra di lui, incapace di distogliere lo sguardo. La ragazza lo guardò e gli sorrise, accecandolo con i suoi denti bianchi. Solo quando riuscì ad intravedere la sua mano, il figlio di Ermes capì che gli stava offrendo aiuto per alzarsi.
L’afferrò, e lei lo tirò su.
Connor trattenne il fiato mentre contemplava meglio la sua bellezza.
Non si era sbagliato, i suoi capelli erano davvero blu! O almeno, quelli sulla nuca. Poi cominciavano a schiarirsi, diventando di un celeste acceso, fino ad arrivare alle punte, dove prendevano un tono che sfumava nel verde acqua.
Era più bassa di lui di circa una spanna, per questo con gli occhi gli arrivava a malapena al collo. Il suo fisico era minuto e delicato, e, nonostante fossero in piena estate, aveva un paio di fasce verdi su entrambi i polsi, simili a quelli usati nella pallavolo.
Connor non aveva mai trovato dei polsini tanto belli prima di allora.
«Ehm ehm.» Chirone si sgranchì la voce, e solo in quel momento il ragazzo sembrò ricordarsi della presenza degli amici. Ma questo non gli importava.
«Ragazzi, vi presento due nuove reclute del Campo» annunciò il centauro, posando una mano dietro la schiena dei due nuovi ragazzi. Ed una di loro era l’angelo!
«È un piacere conoscervi» sorrise Skyler, dando un pizzico sul braccio dell’amico, che aveva assunto la tonalità di un pomodoro.
«Euhg» mugugnò Connor, molto probabilmente nel tentativo di salutare.
Chirone trattenne un sorriso. «Bene» mormorò tra sé e sé, prima di presentarli. «Lui è Matthew.» Diede una pacca sulla spalla del nuovo ragazzo, e solo a quel punto Skyler lo osservò per bene.
Era un po’ più alto di lei, e dal suo fisico asciutto sembrava frequentasse una palestra già da un po’.
Aveva i capelli color nocciola, tagliati meticolosamente eccetto un ciuffo ribelle che gli svettava sulla fronte.
E poi aveva gli occhi verdi. Ma non di un verde comune, o naturale. Erano verde acqua, di quel colore assurdo che aveva visto solo una volta sulle iridi dei figli di Poseidone.
Aveva le mani infilate dentro le tasche dei jeans, la postura di chi riusciva a trovarsi a proprio agio anche in un ambiente sconosciuto.
La stava guardando. Skyler doveva essersi soffermata un secondo più del dovuto nei suoi occhi, perché lui le sorrise divertito.
Imbarazzata, distolse lo sguardo, non senza però abbozzare un sorriso e con un cenno del capo mormorare un: «Ciao.»
«E lei, invece, è Iris» continuò Chirone.
La ragazza nuova sorrise, sollevando una mano e salutando timidamente i due semidei.
«Da quanto siete qui?» chiese Skyler, più a Chirone che a loro.
Il centauro aprì la bocca per parlare, ma l’angelo lo precedette. «Io sono arrivata stamattina» rispose, per poi lanciare un’occhiata all’altro nuovo arrivato.
«Anch’io» annuì lui.
Skyler rivolse un sorriso cordiale ad entrambi. «Benvenuti al Campo Mezzosangue, allora. Io sono Skyler, mentre lui è Connor.»
«Eum… mpf… gh…» biascicò Connor, che per tutto il tempo non aveva distolto gli occhi da Iris neanche un secondo.
«Quello che il mio amico sta cercando di dire» intervenne la figlia di Efesto, nel tentativo di distogliere l’attenzione dai suoi versi assurdi. «È che ci farebbe molto piacere mostrarvi le varie attività di questo posto.»
«Quindi vi lascio in buone mani» aggiunse Chirone, dando una pacca di incoraggiamento sulle spalle di entrambi. Skyler sorrise e annuì.
Il direttore delle attività del Campo si allontanò, lasciando soli i quattro semidei.
La figlia di Efesto afferrò Connor per un gomito, stringendo con forza. «Fa un bel respiro» sussurrò a denti stretti, per far sì che solo lui la sentisse. Poi rivolse alla nuova ragazza il suo sorriso migliore. «Allora, Iris, ti va se il nostro Connor ti fa fare il giro del Campo?»
Gli occhi della ragazza si accesero, raggianti. «Ma certo!» trillò, contenta.
Se possibile, Connor arrossì ancora di più.
«Perfetto, allora andate!» esclamò Skyler, spingendo il ragazzo verso di lei.
Lui barcollò in avanti, e riuscì a fermarsi poco prima di cadere a terra un’altra volta. A pochi centimetri da lei.
Con il viso a meno di un palmo dal suo, Connor fece appello a tutta la sua sanità mentale. Si sforzò di abbozzare un sorriso, ma dovette sembrare più una smorfia sofferente. «D-dopo di te» balbettò, indicandole la strada con un cenno della mano.
Lei non sembrò accorgersi di tutto il suo imbarazzo, o perlomeno non ci fece caso, e come se niente fosse si avviò verso quella direzione, con il figlio di Ermes al seguito.
Skyler li osservò andare via, con lei che aveva iniziato a parlare senza sosta di argomenti di ogni tipo e Connor che l’ascoltava fra l’estasiato e l’imbambolato.
Poco prima che potessero essere troppo lontani, però, il figlio di Ermes si girò appena, guardando Skyler.
“Questa me la paghi”, mimò con le labbra, al che lei trattenne una risata.
Incrociò le braccia, con un sospiro di soddisfazione. Poi si voltò verso l’altro ragazzo, che ancora aspettava.
«Allora…» cominciò lui, grattandosi la nuca imbarazzato. «Immagino che tu sarai la mia sola guida, ora.»
Skyler annuì, prima di fare spallucce. «Puoi sempre andare con loro, se vuoi» disse.
Girò sui tacchi, e si avviò nella direzione che portava al poligono di tiro con l’arco. Come aveva immaginato, non dovette aspettare molto prima che il ragazzo le corresse affianco.
«Ti chiami Skyler, giusto?» chiese lui, per vincere un’iniziale impaccio.
«Esatto.»
Lui sembrò pensarci un attimo, inclinando leggermente il capo. «È un bel nome» si complimentò.
La ragazza trattenne un sorriso. «Anche Matthew non è male.»
Continuarono a camminare per un attimo in silenzio, prima che lei decidesse che quello non era il modo migliore per metterlo a suo agio. «Hai qualche idea su chi possa essere il tuo genitore divino?» chiese, una domanda come tante.
Lui arricciò il naso in modo buffo, scuotendo la testa. «Nessuna.»
«Madre o padre?»
Lui esitò. Non avrebbe voluto rispondere, e Skyler lo capì. Fece per dirgli che non le interessava, quando lui abbassò lo sguardo e si passò una mano fra i capelli. «Non lo so» ammise, in un sussurro. «Ho passato l’infanzia in un orfanotrofio.»
Skyler avrebbe voluto nascondere la testa sotto terra. «Mi dispiace» si scusò, arrossendo. «Non volevo…»
«No, non preoccuparti» la rassicurò lui, con un sorriso. «Parlarne per me non è un problema. A sette anni sono stato adottato da due persone fantastiche. Per me sono loro i miei veri genitori.»
La ragazza annuì. «E dove sono adesso?»
Matthew fece una smorfia, come se avesse appena ingoiato uno spicchio di limone. «Sono morti in un incidente l’anno scorso.»
«Oh» fu il suo unico commento. Fu in quel momento che Skyler decise che era meglio se non faceva domande. Finiva solo per combinare guai. «Comunque verrai riconosciuto presto» tentò di rimediare, sentendo una vocina nella sua mente che le suggeriva di stare zitta.
Matthew abbozzò un sorriso, poco convinto. «Lo spero.» Fece vagare lo sguardo intorno a sé, osservando tutti i ragazzi che facevano avanti e indietro fra un’attività e l’altra. Poi tornò a guardare Skyler. «Tu sei figlia di Efesto, giusto?»
Skyler inarcò un sopracciglio, sorpresa. «Come hai…?» cominciò, confusa, lanciando un’occhiata al tatuaggio sul suo braccio.
«Oh, no, non è per via del tatuaggio» la interruppe il ragazzo, scuotendo la testa con un sorriso. «Non ho idea di che cosa significhi, anche se il fatto che hai un simbolo simile anche sulla tua collana mi fa pensare che abbia un significato, per te. I tuoi capelli profumano di lavanda.» Skyler gli lanciò un’occhiata basita, e così lui si affrettò ad aggiungere: «Non che io li abbia annusati, ovvio. Ma la loro fragranza si sente fino a qui. Nonostante questo, però, riesco a sentire anche un leggero odore di olio per macchine. Li hai lavati da poco, giusto? Quindi in teoria non si dovrebbe sentire. E sarebbe così, fidati, se l’odore non venisse dalle tue mani.»
«Le mie mani?» Skyler lo fissava come se stesse parlando un’altra lingua.
«Ma certo! Lavori spesso con i macchinari, no? Le tue mani ne portano l’odore.»
«Come…» La ragazza era senza parole. «Come fai a sentire l’odore delle mie mani?»
«Delle tue mani, come d’altronde anche dei tuoi vestiti.»
Skyler si annusò la maglietta, preoccupata.
«No, tranquilla. Il tuo odore è molto piacevole.»
La figlia di Efesto inarcò le sopracciglia, sconvolta. «Mi stai prendendo in giro, non è vero?»
«Nient’affatto» assicurò lui. «Ho notato, inoltre, che hai un piccolo taglietto sulla mano. Qui, sul palmo. È abbastanza vecchio, e non si vedrebbe quasi per niente. Eppure ne hai uno identico e più nuovo proprio affianco. Questo mi fa dedurre che te lo sei procurato aggiustando qualcosa, e che nonostante siano passati dei giorni tu non abbia ancora capito bene come fare, per questo continui a tagliarti. Ho messo insieme tutti i vari indizi e ho pensato che tu fossi una figlia di Efesto.»
Skyler si fermò sul posto, fissandolo a bocca aperta. Era sorpresa e scioccata, ma anche ammirata. Rise, fra il divertito e l’incredulo. «Ma chi sei, Sherlock Holmes?»
Matthew si strinse nelle spalle. «Mi piace solo osservare. Capisco di più, se mi soffermo sui dettagli.» Le lanciò un’occhiata fugace, prima di chiedere ancora: «Hai una famiglia che ti aspetta fuori dal Campo, vero?»
Quella domanda le fece perdere un battito, gelandole il sangue nelle vene. Sì, aveva una famiglia che l’aspettava a casa. Ma non nel modo in cui pensava lui.
Era andata lì nella speranza di dimenticare quel particolare, eppure non poteva fare a meno di soppesare quelle parole sentendo un macigno sul petto bloccarle il respiro.
Skyler scosse leggermente la testa, non sapendo se crederlo geniale, pazzo o entrambe le cose. Lo squadrò con un’espressione indecifrabile. Quel ragazzo le aveva dissezionato la vita solamente guardandole le mani. E lei odiava il fatto che qualcuno potesse dissezionare la sua vita.
«Forse è meglio se continui il giro da solo» affermò, impassibile, per poi superarlo a passo svelto e deciso.
«Ehi, no. Aspetta!» Matthew le corse incontro, ma lei non si fermò.
Il ragazzo la raggiunse, afferrandola per un polso e costringendola a voltarsi. «Ehi, aspetta, mi dispiace. È la forza dell’abitudine. Io…» Chinò il capo, chiudendo gli occhi affranto. Sembrava indeciso se dire qualcosa o meno, ma poi la consapevolezza che stava rovinando tutto lo colpì come un pugno in faccia, costringendolo a parlare. «Non sono molto bravo con le persone, okay? Io… sono sempre stato un tipo solitario. Non ho molti amici, e di solito preferisco starmene seduto in un angolo ad osservare i dettagli che… socializzare. Mi dispiace se ti ho spaventato, o se ho detto qualcosa che può averti dato fastidio. È solo che…» Sorrise al suo pensiero, grattandosi la nuca imbarazzato prima di guardarla negli occhi con quei suoi pozzi verdi. «Sei la prima bella ragazza che incontro dopo parecchio tempo.»
Skyler non rispose subito. Divincolò dolcemente il polso dalla sua presa e continuò a fissarlo, indecisa.
Non avrebbe mai pensato che dietro un ragazzo così affascinante e dall’aspetto spavaldo potesse nascondersi qualcuno di così timido e impacciato. Matthew sembrava aver detto la verità. Lui non era bravo con le persone. E questa affermazione non faceva che renderlo ancora più… misterioso. E Skyler amava i misteri.
E poi, aveva appena detto che la considerava una bella ragazza. Non poteva essere troppo dura con lui.
«Okay» mormorò, annuendo lentamente. «Ti porto a vedere il poligono di tiro con l’arco.»
Matthew sembrò sollevato, quando sorrise. «Grazie.»
Non sapeva esattamente perché la ringraziasse, ma con un cenno del capo Skyler sussurrò un lieve ‘prego’.
«Potresti essere un figlio di Atena, sai» gli disse dopo un po’, per rompere quello strano silenzio imbarazzato che li aveva avvolti mentre dal poligono si spostavano verso i campi da pallavolo. «Sembri molto intelligente.»
Matthew si strinse nelle spalle, e Skyler giurò di averlo visto arrossire per quel complimento.
Quando aprì la bocca per parlare, la ragazza si aspettò che le facesse un complimento a sua volta, e invece lui affermò: «Mi piace la tua collana.»
Skyler abbassò lo sguardo, leggermente stupita. «Oh, questa? In realtà è una spada. Mio fratello me l’ha costruita quando l’estate scorsa…»
«No, non quella» la interruppe Matthew, facendola fermare. Si mise di fronte a lei, e Skyler non comprese le sue intenzioni finché non picchiettò con un dito su qualcosa alla base del suo collo. «Questa qui.»
La ragazza ne fu sorpresa. La collana dello zio. Nessuno la notava mai. Il cavallo alato che volava dentro un cerchio, spirito indiano per stare bene con sé stessi.
Non aveva mai pensato che a qualcuno potesse piacere nonostante non ne conoscesse il significato.
Non aveva mai pensato che qualcuno potesse notarla e basta.
«G-grazie» balbettò, non sapendo esattamente cosa dire. Poi si lasciò sfuggire un sorriso. «È il regalo di una persona importante.»
Sentì il ragazzo sorridere davanti a lei. Alzò lo sguardo, per poter capire meglio la sua espressione.
Pessima idea.
Non appena lo fece, infatti, i suoi occhi si incatenarono alle iridi verde acqua di lui, così belle e così vicine.
Skyler avvertiva il suo respiro caldo sulla pelle, e non appena sentì il profumo della sua acqua di colonia invaderle le narici si rese conto che il suo volto era più vicino di quanto pensasse. Troppo vicino.
Arrossì violentemente, aprendo la bocca per dire qualcosa, ma lui la precedette.
«Allora, dove sono questi campi di pallavolo?»
Quella domanda la lasciò un attimo spiazzata, ma le permise di ingoiare quella leggera delusione che la colpì non appena lui si allontanò con un sorrisetto sghembo. Sembrava divertito.
«Ehm…» ciangottò lei, riordinando velocemente i pensieri. «Di qua.»
Indicò con un dito la direzione, e vi si avviò prima che lui si rendesse conto delle sue gote arrossate.
Ma che diavolo…?
«Me la cavo bene, a pallavolo» disse distrattamente Matthew, comparendole accanto. «E tu?»
Skyler annuì, ma non aggiunse altro. Continuarono a camminare in silenzio.
Quel ragazzo era strano: prima le appariva tutto spavaldo e rilassato, poi geniale e perentorio; poi imbranato; e invece adesso… adesso cosa? Che diamine era successo poco fa?
Skyler non sapeva (né voleva) dare una risposta, ma Matthew diventava ogni secondo di più un mistero.
Un mistero che lei avrebbe svelato.
Quella era forse una sfida?

Ω Ω Ω

Il resto della giornata era stato comune quanto singolare.
Dopo aver fatto fare tutto il giro del Campo a Matthew, Skyler l’aveva accompagnato nella Casa di Ermes. Lì, alcuni figli del dio dei ladri lo avevano accolto con calore, mostrandogli il suo letto, e spiegandogli tutto ciò che lei aveva omesso durante la mattinata.
Nonostante fossero tutti molto socievoli, e di sicuro il ragazzo avesse già cominciato a sentirsi a casa, Skyler non se l’era sentita di lasciarlo lì.
Chiamatela paranoia, chiamatelo nervosismo, era rimasta con lui per tutto il tempo necessario, offrendosi anche di accompagnarlo all’Arena per la sua prima, vera lezione di combattimento a spade.
Il ragazzo se la cavava, a dispetto di quanto lei immaginasse, così lui le aveva rivelato che, da bambino, aveva seguito dei corsi di scherma.
Matthew cominciava ad aprirsi sempre di più con lei. Le aveva parlato dei suoi genitori, di come sua madre gli preparasse i pancake con la marmellata fatta in casa, e di come suo padre lo portasse ogni domenica alle partite di baseball. Lui odiava il baseball, ma quelli erano gli unici momenti che riusciva a condividere con lui, grande uomo d’affari, così faceva finta di esultare ogni volta che le persone nella sua curva si alzavano e di sbraitare contro i giocatori quando perdevano la palla.
Alla fine, le disse, aveva visto così tante partite che era diventato anche piuttosto bravo.
Skyler dovette ricredersi, sul suo conto. Non era affatto misterioso e complicato come pensava. Era un ragazzo semplice, che aveva vissuto un’infanzia come tutte le altre e che faticava a farsi degli amici. Certo, il fatto che riuscisse a delineare il profilo di una persona solo guardandola la incuriosiva ancora, ma per il resto era… normale.
Come lei.
Come me no, pensò fra sé e sé. Io non sono normale.
Nel tardo pomeriggio, la ragazza era stata costretta a lasciarlo, dato che aveva un appuntamento con Michael.
Il figlio di Poseidone le aveva chiesto che fine avesse fatto, ma lei, per un motivo che ancora non comprende, era rimasta sul vago. Aveva semplicemente accennato al fatto di aver fatto da guida ad una nuova recluta del Campo, omettendo che si trattasse di un appartenente del sesso maschile, che si era divertita con lui e che, per di più, era carino!
Carino è un eufemismo, si disse, per poi mordersi la lingua subito dopo.
La cena era stata esattamente come tutte le altre: caotica e familiare. Aveva scherzato con i suoi fratelli, aveva mangiato fino a sentirsi sazia, e poi si era alzata per portare in sacrificio per suo padre un pezzo di pizza ai funghi, bruciandola nel fuoco sacro.
Poi, dopo che aveva scorto il suo viso fra gli altri, con un sorriso aveva fatto per andare da Michael, ma prima che potesse arrivare da lui, qualcuno le pizzicò da dietro i fianchi.
«Ehi!» esclamò una voce, facendola sobbalzare.
Skyler si voltò, ritrovandosi due occhi verdi che la squadravano quasi volessero leggerle l’anima. «Matthew» salutò, con un sorriso. «Come va?»
Il ragazzo arricciò il naso, inclinando leggermente il capo. «Chiamami Matt, ti prego. Matthew è troppo formale.»
«Okay» annuì piano lei, trattenendo una risata. «Bene, Matt. Come va?»
«Alla grande!» sorrise lui, e sembrava davvero felice. «Nella Cabina Undici sono tutti molto simpatici. E poi ho mangiato da Dio!»
«Da dei» lo corresse lei, con dolcezza.
«Giusto, da dei.» Matthew sospirò. «Devo ancora farci l’abitudine.»
«Ti ci abituerai presto» lo rassicurò lei, dandogli un’amichevole buffetto sul braccio.
Il ragazzo annuì, ringraziandola con lo sguardo. Poi aprì la bocca per parlare, ma una voce lo precedette.
«Ciao» salutò Michael, comparendo alle spalle di Skyler.
Lei si voltò, sorridente. «Ehi, Michael!»
Il figlio di Poseidone aveva le sopracciglia corrucciate, mentre squadrava l’altro ragazzo dall’alto in basso. «Va tutto bene?» chiese, un po’ incerto.
«Benone» annuì Skyler, per poi lanciare un’occhiata al ragazzo accanto a lei. «Michael, lui è Matt, il ragazzo di cui ti ho parlato oggi. È arrivato questa mattina. Matt, lui è Michael…»
«Il suo ragazzo» finì lui la frase per lei, come a voler puntualizzare la cosa. Poi, quasi fosse stato incitato dallo sguardo perforante di Skyler, tese una mano. «Benvenuto al Campo.»
Matthew non sembrava affatto in soggezione, o se lo era non lo diede a vedere. Al contrario, sfoderò il suo miglior sorriso, stringendo con forza la mano del figlio di Poseidone. «Ti ringrazio.»
Ci fu qualche secondo di imbarazzante silenzio, nel quale i due ragazzi si soppesarono con lo sguardo. Michael era teso, lo si capiva dai muscoli delle braccia e dai tendini del collo, rigidi come corde di violino. Matthew, invece, aveva le mani infilate in tasca, un’aria saccente e spavalda, esattamente la stessa che aveva quella mattina al fianco di Chirone.
E poi c’era Skyler, che stava nel mezzo. Forse era quella la parte più imbarazzante. O forse il fatto che sapesse che se non avesse fatto subito qualcosa o il nuovo arrivato avrebbe cominciato a parlare delle mani di Michael o quest’ultimo l’avrebbe infilzato con la sua spada. Che per di più aveva costruito lei!
«Allora» cominciò la ragazza, non sapendo esattamente cosa dire dopo. «Andiamo al falò?»
«Cos’è il falò?» chiese Matt, distogliendo momentaneamente gli occhi da quelli ora azzurri del figlio di Poseidone, per rivolgerle un sorriso innocente.
«Ci andiamo tutte le sere» spiegò Skyler, al ché Michael soggiunse: «Cantiamo, suoniamo…»
«E aspettiamo dei determinati» concluse la ragazza, ma notando che lui non aveva capito, riformulò. «Aspettiamo che i nuovi arrivati vengano riconosciuti.»
«Ah» lui annuì, come se la cosa fosse chiara, ma Skyler non poté fare a meno di notare l’ombra cupa che era calata sul suo volto.
«Beh, allora andiamo» incitò, un po’ a disagio, incamminandosi verso il falò con i due ragazzi al seguito.
Mentre Matthew seguiva la corrente di tutti gli altri semidei, Michael afferrò Skyler per un braccio, tirandola in disparte.
«Non mi avevi detto che era un ragazzo» mormorò, in modo che solo lei potesse sentirlo.
La ragazza scrollò le spalle. «Non vedo perché avrei dovuto.»
«Non mi avevi detto neanche che era…» Cercò la parola giusta, con una smorfia sul volto. «Così.»
Skyler sentì un tuffo al cuore, eppure non fu capace di trattenere un sorrisetto malizioso. «Che c’è, sei geloso, per caso?» lo provocò, divertita.
«Chi? Io? Geloso? Ptf… ma per favore!» scattò subito lui, sulla difensiva. «È solo che non mi piace.»
«Lo conosci da neanche cinque minuti, Michael. Come fai a dire che non ti piace?»
«Sono un ragazzo, okay? Mi fido del mio sesto senso.»
«E cosa ti dice il tuo» mimò con le dita le parole: «‘sesto senso’?»
Il figlio di Poseidone prese fiato per parlare, ma quando aprì la bocca non ne uscì alcun suono. Aveva le sopracciglia aggrottate in un’espressione buffa, e Skyler non poteva fare a meno di trovarlo adorabile anche mentre disse: «Hai visto come ti guardava? Quel ragazzo non mi piace.»
Skyler trattenne a stento un sorriso. «Voglio solo essergli amica, Michael. Non so tu, ma io ricordo esattamente come ci si sente ad essere i nuovi arrivati.»
«Ma…» provò lui, ma lei lo interruppe.
«Sai benissimo che so difendermi da sola» disse, mettendogli una mano sul petto con fare rassicurante. Poi gli fece l’occhiolino, sorridendo. «Se ci prova con me, gli tiro una ginocchiata nelle parti basse.»
Michael esitò. Nonostante fosse a conoscenza delle doti di autodifesa della ragazza, e nonostante fosse pronto a fidarsi della sua parola, c’era comunque qualcosa che non lo convinceva.
«E dai» sussurrò lei, avvicinando le labbra alle sue fino a sfiorarle. Sporse in fuori il labbro inferiore, guardandolo con la sua migliore espressione da cucciolo indifeso. «Non mettermi il broncio.»
Quello era un vero e proprio colpo basso. Lui non riusciva mai a dirle di no, quando faceva così.
«Okay» assentì infatti, facendo roteare gli occhi esasperato.
Lei sorrise, trionfante, per poi lasciargli un veloce bacio sulle labbra, prenderlo per mano e trascinarlo fino al falò.
Lì, Matthew se ne stava in piedi in disparte, guardandosi intorno con la faccia di uno che non sa esattamente cosa fare.
«Ehi, tutto okay?» gli chiese Skyler, stringendo ancora la mano di Michael.
Il ragazzo annuì, pensieroso, prima di rivolgerle un sorriso incerto. «Sì, è solo che non so esattamente dove andare.»
«Puoi venire a sederti con noi» propose subito lei, raggiante. «Vero, Michael?»
Il figlio di Poseidone non rispose. Lei gli lasciò una gomitata nel fianco, al che lui, massaggiandoselo, borbottò riluttante: «Sì, certo.»
Matthew li seguì fino al loro posto.
Si sedette accanto a loro sul tronco caduto, vicino a Skyler, e questo a Michael non dovette piacere per niente, perché lo fulminò con un'occhiata di fuoco.
Mentre aspettavano che i figli di Apollo accordassero le chitarre, cominciarono a parlare del più e del meno, finché una voce non attirò la loro attenzione.
«Ehilà!» salutò una ragazza bionda, in piedi davanti a loro.
«Ciao, Emma» dissero all’unisono Michael e Skyler, con un sorriso.
La riccia si chinò verso Skyler, con un ghigno malizioso. «Mi spieghi chi è quella ragazza con i capelli blu?»
«Si chiama Iris, è arrivata stamattina. Perché?»
Emma soffocò una risata. «Connor non ha fatto altro che fissarla tutto il tempo. Sembra quasi in trance. Potrei giurare di averlo sentito mentre la chiamava ‘angelo’ un paio di volte. Secondo me è completamente andato.»
Skyler rise, buttando la testa all’indietro, mentre Emma sghignazzava.
Lo sguardo scaltro della ragazza si spostò da loro all’intruso, facendole inarcare lentamente un sopracciglio. «Oh, e chi è il nuovo arrivato?» domandò, posando una mano sul fianco.
«Matthew, ti presento Emma, figlia di Ermes. Emma, lui è Matthew, una nuova recluta del Campo.»
Emma inclinò leggermente il capo, inarcando le sopracciglia. «Oh, tu eri al tavolo con noi!» esclamò, portandosi un dito alle labbra pensierosa. «Sì, ti ho visto. Non parli molto.»
«No, in effetti no» ammise il ragazzo con un sorriso, guardandola da sott'in su.
«Matthew, hai detto?»
«Chiamami Matt» propose lui.
«Bene, Matthew-chiamami-Matt. Mi dispiace smontarti, ma quello è il mio posto, quindi dovresti sloggiare.»
Il ragazzo sembrò colto di sorpresa, ma notando che la bionda non scherzava, decise dal suo sguardo che era meglio non contraddirla. Si strinse un po’ di più a Skyler, facendo scalare di conseguenza tutti quanti.
«Michael, ti dispiace?» sussurrò la figlia di Efesto, quando il suo ragazzo era arrivato alla fine del tronco.
Michael sbuffò, stizzito, ma poi scese dalla loro panca e si sedette per terra, con le gambe incrociate.
Dopo qualche minuto, i figli di Apollo cominciarono a cantare. John li raggiunse subito dopo, sedendosi accanto ad Emma e accogliendo (forse il primo dopo Skyler) Matthew con sorrisi e domande, e non con occhiate curiose e irritanti silenzi.
Il nuovo arrivato, comunque, non sembrava essere a disagio, e Skyler si domandò come poteva essere lo stesso ragazzo che quella stessa mattina le aveva rivelato di non essere bravo con le persone.
Subito dopo due canzoni, qualcuno lanciò un trillo di gioia, attirando l’attenzione generale.
Proprio sopra la testa di Iris, seduta fra i due fratelli Stoll, volteggiava un piccolo simbolo, che contemporaneamente le si stava imprimendo sul braccio. Era una dracma avvolta in quello che sembrava un arcobaleno.
Chirone si alzò in piedi, chinando leggermente il capo in una riverenza.
«Ave, Iris McGuire, figlia di Iride, dea dell’arcobaleno.»
Delle esclamazioni di gioia si levarono dai ragazzi della Casa Diciassette, mentre Iris li raggiungeva raggiante, accompagnata da qualche leggero applauso.
La serata si svolse più o meno in quel modo. Vennero riconosciuti due figli di Ares, tre figli di Atena, una figlia di Nike, due figli di Demetra e un figlio di Ecate.
E nessuno di questi includeva Matthew.
Quando ormai il falò stava per terminare, Skyler capì che suo padre (o sua madre) non si sarebbe fatto sentire. Gli lanciò un’occhiata, preoccupata di vedere un’espressione delusa sul suo volto, ma la sua smorfia era indecifrabile. Skyler non riusciva a capire se fosse più amareggiato o arrabbiato.
«Ti riconoscerà, vedrai» gli disse, posandogli in modo rassicurante una mano sul ginocchio. «Anche a me ci è voluto un po’ di tempo.»
Lui le rivolse un sorriso sghembo, un po’ triste, all’apparenza. «Lo so» sussurrò, più a se stesso che a lei. Poi si corresse: «Cioè, lo immagino. Ma non importa.» Scrollò le spalle, fingendo noncuranza. «Non ho bisogno di essere riconosciuto. Sto bene così.»
Ma dal suo sguardo, Skyler lo notò subito, capì che non era vero. Si stava chiedendo perché il suo genitore divino non l’avesse ancora riconosciuto, che cos’avevano gli altri che lui non aveva. Si stava chiedendo perché tutti sì e lui no.
Skyler lo sapeva bene.
Skyler poteva capire come si sentiva.
Ci era passata anche lei.
E comunque sì.
Per chi se lo stesse chiedendo, sì, è così.
Faceva male.


Angolo Scrittrice.
E uno, e due, e un, due, tre, qua...
Bounjour a tout le monde!
E' martedì, ed io sono qui, a rompervi ancora le balls!

Allora, che ve ne pare? Ammetto che non è il mio capitolo migliore, e che forse è un po' statico, ma spero comunque che vi sia piaciuto.
Abbiamo due nuove reclute al Campo!
Iris, ragazza dai capelli blu capace di mandare il cervello di Connor in panne, figlia di Iride, dea dell'arcobaleno.
E Matthew, nuovo 'amico' della nostra Skyler, bello e indecifrabile, indeterminato.
And so? Che ne pensate di loro? Ce ne riserveranno delle belle, questo ve lo assicuro, e spero che pian piano inizierete a conoscerli e ad apprezzarli meglio. Con un solo capitolo, è un po' difficile descrivere alla perfezione un personaggio, ma spero comunque di essere riuscita a darvi un'idea generale.
E comunque, sappiamo chi è il genitore divino di Iris, e che Matthew non è molto apprezzato da Michael. Secondo voi il figlio di Poseidone è geloso? E fa bene ad esserlo, o no?
Fatemi sapere cosa ne pensate! Sono molto curiosa di conoscere la vostra prima impressione su questi nuovi personaggi (oserei dire anche piuttosto importanti) ;D
By the way, nel caso io non sia riuscita a descrivere correttamente i capelli di Iris, che sono alquanto singolari, vi lascio qui una foto di come li immagino.

 
E poi, ho anche una gif di Matthew (o almeno, di come io immagino Matthew). Perchè sì, per la prima volta mi sono ispirata ad una persona reale per il suo aspetto fisico (uno youtubers, per la precisione).
Quindi fatemi sapere se volete vederlo o no. Se sì, la pubblicherò nel prossimo capitolo, se invece preferite non avere vincoli e immaginarlo come volete (cosa che potete fare comunque) me la terrò per me.
Bene, detto questo, credo sia arrivato il momento di ringraziare i miei Valery's Angels, che nello scorso capitolo mi hanno lasciato delle bellissime recensioni. Grazie a:
porporaassenzio, VaneFrancyforever, _angiu_, Myrenel Bebbe ART5, Percabeth7897, Rainbows_Butterflies, Cristy98fantasy, _Krios Bane_, slytherinsprotte, Kalyma P Jackson, carrots_98 e kiara00.
Grazie di cuore, davvero.
Ma soprattutto, un grazie speciale va a
Rainbows_Butterflies, che mi ha fatto un regalo stupendo, mostrandomi un disegno della mia Emma fatto da lei **

 
Non è stupendo?
Dei, io non so ancora come rigraziarti! Sono pensieri come questo che mi fanno piangere, sul serio.
Ricevere i vostri disegni e tutto il vostro appoggio è una gioia indescrivibile, siete davvero gli unici che riescono a lasciarmi senza parole. E sapete quanto sono logorroica :')
Grazie Rainbows! Grazie davvero.
Bene, ora credo sia arrivato il momento per me di andare (anche perchè ho un appuntamento dal dentista, e i miei denti non vogliono aspettare xD)
Grazie ancora a tutti, e tanti biscotti blu to everyone!
Al prossimo martedì!
Sempre vostra,

ValeryJackson
P.s. Semidei, io sono troppo esaltata! Non solo questa settimana ho visto Dragon Trainer 2 (il mio cartone animato preferito. Suvvia, chi non ama Sdentato? **), ma poi ieri ho visto Step Up - all in!
Dei, io amo Muso sempre di più! Quel ragazzo è... troppo! E quando balla mi fa venire i brividi.
E poi, la MusoxCamille è la mia nuova OTP :')
ahahah, okay, scusate questo p.s. insensato, ma sono troppo su di giri *^*
And so, vi lascio con due dei miei tesori!

 
A bientôt!
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***



 

Erano passati ormai tre giorni da quando Matthew era arrivato al Campo.
Durante quel lasso di tempo, circa una decina di nuovi semidei aveva varcato la barriera protettiva del Pino di Talia. Solo due non erano stati ancora riconosciuti.
Ed uno di questi era proprio lui.
Skyler si sentiva in colpa. Sapeva che non ce n’era motivo, perché lei non aveva nulla a che fare con l’indifferenza del suo genitore divino, chiunque esso fosse.
Aveva passato quegli ultimi tre giorni cercando di distogliere l’attenzione di Matthew da quel particolare, insegnandogli tutto ciò che sapeva sul combattimento corpo a corpo, allenandosi con lui a scherma, aiutandolo a perfezionare il suo metodo di arrampicata.
Il ragazzo apprezzava molto tutto ciò che lei stava facendo per lui.
Michael, invece, un po’ meno.
Riusciva a passare sempre meno tempo insieme a lei, ed ogni volta c’erano di mezzo scuse come “Mi dispiace, ma ho promesso a Matt di insegnargli quel poco che so sul tiro con l’arco”, oppure “Scusa, ma Matt mi ha chiesto di fare un giro con i pegasi con lui. Possiamo fare domani?”
Cominciava ad averne abbastanza.
Quel ragazzo non gli piaceva per niente. E non perché quasi metà delle ragazze del Campo, compresa sua sorella, lo trovava attraente (okay, forse anche un po’ per quello), o perché stava sempre appiccicato alla sua ragazza (okay, soprattutto per quello!). Ma perché aveva qualcosa che non quadrava.
C’era qualcosa che non lo convinceva, in lui; qualcosa che gli faceva sospettare che tutto ciò che dicesse o facesse fosse una bugia.
Skyler diceva che era paranoico. Lei era davvero convinta che Matthew fosse un bravo ragazzo, e continuava a ripetergli che doveva essere gentile con lui, che stava passando un momento difficile, e che doveva smetterla di vedere il male dove non c’era.
Ma lui era sicuro di ciò che diceva. Aveva sempre visto giusto, per quanto riguarda i caratteri delle persone. Lui sapeva sempre di chi fidarsi. Il suo istinto glielo suggeriva, e il suo istinto non sbagliava mai.
(Okay, può darsi che forse Skyler avesse ragione, e che lui fosse un pochino paranoico. Ma quel tizio non gli piaceva proprio!)
Era anche per questo che spesso Skyler si arrabbiava. Non lo chiamava mai per nome, sempre ‘tizio’.
Aveva provato a parlarne con Emma, spiegandole ciò che pensava di lui e tutto il resto, ma lei non aveva fatto altro che ripetergli ciò che già sapeva.
«Devi smetterla di farti troppi problemi, Michael. Matt è un bravo ragazzo.»
«No che non lo è! Può anche sembrarlo, Emma, ma io non mi fido di lui.»
A quel punto, la ragazza aveva riso di gusto. «Cavolo, Ragazzo Pesce, non ti facevo così paranoico.»
«La mia si chiama intuizione» aveva replicato lui, stizzito.
«No, la tua si chiama gelosia.»
Michael aveva preso fiato per controbattere, ma dalla sua bocca non era uscito nessun suono.
Geloso? Lui non era affatto geloso!
O forse sì?
No. Non di Matthew. Non di Skyler.
Si fidava di lei. Sapeva che per lei era solo un amico.
Ma forse era proprio quello il problema. Lei sembrava non accorgersi degli sguardi che lui le lanciava, del modo in cui la osservava mentre parlava, dei sorrisi che le rivolgeva.
Ma se un giorno se ne fosse accorta? Se lui una mattina le avesse detto qualcosa, e lei avesse scoperto che tutte quelle attenzioni che lui le rivolgeva non le dispiacevano affatto?
E se le sue attenzioni le fossero piaciute più di quelle di Michael?
Solo a pensarci una disgustosa nausea gli colpiva la bocca dello stomaco, e gli veniva voglia di vomitare.
Sentiva questo bruciore qui, proprio all’altezza del petto; un bruciore violento e fastidioso, che ogni volta che vedeva Matthew lo travolgeva rabbioso. E Michael sapeva, anzi, ne era sicuro, l’avrebbe lasciato in pace solo nel momento in cui avrebbe tirato un pugno su quel suo bel nasino.
Era forse gelosia, quella?
O era più la paura che quel ‘tizio’ sbucato fuori dal nulla potesse rubargli la cosa più bella della sua vita?
Cos’è che glielo faceva odiare tanto? Il timore che potesse nascondere qualcosa di losco e inaffidabile, o che potesse portargli via Skyler?
 
Ω Ω Ω
 
«Sono sicura che si tratta solo di un piccolo ritardo» lo tranquillizzò Skyler, mentre si dirigevano verso il lago sovrappensiero. «Magari ha avuto un contrattempo.»
Matthew scrollò le spalle, fingendo noncuranza. Non gli piaceva parlare del perché il suo genitore divino non l’avesse ancora riconosciuto. E soprattutto, non gli piaceva parlarne con Skyler. Non voleva sprecare il tempo che passavano insieme ad arrovellarsi su cose stupide come quella.
«Per me non è un problema» mormorò il ragazzo, abbozzando poi un lieve sorriso. «Io sto bene anche così.»
Skyler annuì, spostando distrattamente lo sguardo sull’orizzonte che le si parava davanti. Sembrava vittima dei suoi pensieri, e prima che il ragazzo potesse fare qualche battuta per cambiare discorso, lei sbuffò.
«Io non capisco» sbottò, frustrata. «Insomma, perché ci mette tanto? Avrebbe dovuto riconoscerti la prima sera. Neanche mio padre l'ha tirata tanto per le lunghe!»
«Skyler» la riprese lui, parandosi davanti a lei, al che la ragazza si fermò. Matthew le posò le mani sulle spalle, costringendola a guardarlo negli occhi verde acqua. «Tu non devi preoccuparti di questo, okay?» intimò, in un sussurro. Poi fece spallucce. «A me non dà fastidio.»
La ragazza esitò un secondo, ma poi scrollò il capo in quello che sembrava un cenno d’assenso. Ripresero a camminare, avvolti da uno strano silenzio, almeno finché lei non sospirò e ammise: «È che mi dispiace.»
Matthew inarcò un sopracciglio, beffardo. «E di cosa?»
Skyler si strinse nelle spalle, accarezzandosi distrattamente le braccia. «So quanto può essere difficile osservare tutti gli altri mentre raggiungono i loro fratelli e sapere di non poter fare lo stesso.» Lo guardò, inclinando leggermente il capo. «Non voglio che tu ti senta inutile, o messo da parte. Perché ti assicuro che non lo sei.»
«Io non mi sento inutile» ridacchiò lui, facendo apparire sul viso di lei un’espressione interdetta. Sospirò teatralmente, trattenendo a stento un sorriso. «Senti, se mio padre, o mia madre… o chiunque dei due sia, ha deciso che non è ancora arrivato il momento di riconoscermi, ci sarà un motivo più che valido, no? Aspetterò, per me non ci sono problemi. Per il momento sono qui. E considerando la vita che facevo circa una settimana fa, è già un bel passo avanti.»
Skyler cercò di evitarlo, ma alla fine rilassò i muscoli e sorrise. Era sorprendente il modo in cui Matthew affrontava la situazione. Si godeva la vita giorno per giorno, fregandosene di quello che pensavano gli altri ragazzi del Campo, o di quello che pensavano gli dei. Lui sapeva chi era e quel che valeva, e questa convinzione nessuno poteva portargliela via.
A volte Skyler lo invidiava, per questo. Lei non aveva ancora la benché minima idea di chi fosse, figuriamoci quale fosse il suo valore. A volte si sentiva così spaesata, in un posto nel quale avrebbe dovuto sentirsi a casa. C’erano momenti nei quali Matthew sembrava il semidio navigato che le faceva fare il giro del Campo, e lei la recluta intimorita che non sapeva dove andare, o che fare, o con chi stare, o perché si trovasse lì.
A volte si svegliava di soprassalto e doveva ragionarci cinque minuti, prima di ricordare dove si trovasse e che cosa stesse facendo.   
Era destabilizzante. E la cosa peggiore era che non riusciva a parlarne con nessuno. Non perché non volesse confidarsi, ma non riusciva a capire neanche lei il perché di quelle sensazioni, che la colpivano con forza e senza preavviso.
Si sentiva come uno di quei pupazzi intrappolati nelle palle di vetro. Loro stanno lì, spensierati, e quando meno se l’aspettano una forza maggiore ribalta il loro mondo, facendo abbattere su di loro migliaia di fiocchi di neve. Loro non sanno che cos’è accaduto, né tantomeno come. Sanno solo che è successo. E il senso di disorientamento che ne segue è così frastornante che ci vogliono un paio di minuti prima che la nausea sparisca.
Mentre un gruppetto di figli di Atena li superava per correre alla loro lezione di scherma, un’idea attraversò la mente di Skyler come un lampo. All’inizio indistinta e senza forma, la ragazza si sforzò per delimitarne i contorni, corrucciando le sopracciglia in un’espressione concentrata finché finalmente non apparve nitida e più chiara.
E anche buona.
«Ci sono!» esultò, mentre i suoi occhi si illuminavano di una muta soddisfazione.
Matthew le lanciò un’occhiata, inarcando un sopracciglio confuso.
«E se cercassimo di capire chi è il tuo genitore divino?»
Il ragazzo sospirò, scrollando leggermente il capo. «Skyler, io…»
«No, ascoltami» lo interruppe lei, afferrandolo per un braccio per far sì che arrestasse la sua camminata. Lui fece roteare gli occhi e la guardò, in attesa. «Magari non possiamo sapere con certezza chi sia, però possiamo almeno capire chi potrebbe essere.»
Matthew aggrottò la fronte. «Non ti seguo.»
«Dovrai pur avere una qualche predisposizione, no?» domandò retorica lei, facendo un passo avanti. «Acqua. Fuoco. Terra. Ghiaccio. Guerra. Sogni. Magia. Medicina. Giovinezza. Architettura…» Un sorriso si dipinse sulle sue labbra, tradendo una certa emozione. «Se capiamo per cosa sei portato, forse riusciamo anche a capire il sangue di quale dio ti scorre nelle vene.»
Matthew sembrò pensarci un attimo, soppesando scettico le sue parole. Poi arricciò il naso. «Non credo sia una buona idea.»
«Coraggio! Ti prometto che non farà male.» Rendendosi conto della sua evidente esitazione, Skyler gli posò una mano sulla spalla. Il suo tono divenne dolce, quasi rassicurante. «Matt? So che forse l’idea di scoprire chi sia ti possa spaventare, e che hai paura che una volta che avrai intuito chi è colui che sembra volerti ignorare sarà tutto più doloroso, ma devi comunque tentare.» Sospirò, cercando invano il suo sguardo. «Non ti capita mai di voler dimostrare a tutti che sei tu il padrone del tuo destino?»
Questa domanda sembrò scuoterlo. E parecchio. Perché quando alzò finalmente gli occhi, puntandoli nei suoi, c’era qualcosa di nuovo che luccicava su quelle iridi di un verde impossibile.
Determinazione.
Le sue labbra si incurvarono in un sorriso scaltro, mentre quasi impercettibilmente la sua testa si chinava in un cenno d’assenso.
Skyler sorrise a sua volta.
Non sapeva perché fosse così contenta che lui avesse accettato, né perché, mentre aspettava una sua risposta, avesse trattenuto il fiato. Ma di una cosa era sicura.
Avrebbero trovato il genitore divino di quel ragazzo.
Con, o senza l’aiuto degli dei.
 
Ω Ω Ω
 
«Bocciata anche Demetra» borbottò Skyler, scrollando la testa sconsolata e arricciando leggermente il naso.
Tracciò con la penna una linea sul nome della dea (che aveva accuratamente scritto su un taccuino insieme a quello di tutti gli altri), mentre Matthew calpestava il fiore che aveva involontariamente fatto appassire nutrendolo con un mix di fertilizzante e sapone.
«Non ne rimangono molti» commentò, sbirciando i nomi che non erano ancora stati depennati da sopra la spalla della ragazza.
Skyler inclinò leggermente il capo, pensierosa. Quel pomeriggio le avevano provate veramente tutte, nel tentativo di scoprire chi fosse il genitore divino del ragazzo, ma era stato un fallimento dopo l’altro.
Inizialmente avevano supposto potesse trattarsi Ares, date le sue notevoli abilità con la spada, ma non appena avevano chiesto ad una figlia del dio della guerra di battersi con lui, quella l’aveva buttato a terra in 24 secondi netti, senza neanche battere ciglio e rompendogli pure qualche costola.
Allora avevano optato per Atena, ma nonostante le ottime doti di osservatore, Matthew non era riuscito a vincere neanche una delle diciotto partite a scacchi contro un figlio della dea della saggezza. E quest’ultimo aveva otto anni!
Ed era stata più o meno la stessa cosa quando avevano provato con Ipno, Ebe, Morfeo, Nike, Ermes, Dioniso, Iride e persino Apollo (non poteva essere altrimenti, dopo che aveva infilzato con delle frecce prima uno e poi due figli di Ares – che tra l’altro sono anche stati costretti a seminare, pur di sfuggire alle loro spade-).
E ora anche Demetra era da bocciare. Quello sembrava essere un labirinto senza vie d’uscita.
«Lo troveremo, vedrai» mormorò Skyler, fiduciosa, anche se sembrava stesse cercando di convincere più sé stessa che il ragazzo. «I primi tentativi sono sempre i più difficili.»
Matthew annuì, poco convinto. «Forse potrei provare a far crescere un altro fiore» propose.
«No!» La risposta di Skyler fu così repentina che lui sobbalzò. La ragazza affondò i denti nel suo labbro inferiore, maledicendosi mentalmente per la sua istintività. «Andiamo al lago» sussurrò poi, mentre frugava in ogni cassetto aperto della sua mente nel tentativo di trovare qualcosa da dire che non lo ferisse. «Magari lì ci verrà in mente qualcosa.»
E così fecero, avviandosi titubanti verso le sue sponde bagnate. Camminarono sulla passerella di legno, le assi che scricchiolavano leggermente sotto il loro peso.
Skyler seguì con la penna la lista di nomi sul taccuino, concentrandosi su quelli rimasti. Accanto a lei, Matthew sospirò, riempendosi i polmoni di quell’afa dolciastra in attesa di altre istruzioni o idee.
La ragazza prese fiato per parlare, ma prima che potesse farlo, una voce attirò la sua attenzione.
«Skyler!»
La figlia di Efesto si voltò, scorgendo la figura di Michael che si avvicinava in una leggera corsa.
Sorrise, e fu a quel punto che Matthew seguì la direzione del suo sguardo, corrugando la fronte subito dopo.
«Ciao, Michael!» esclamò la ragazza, scuotendo la mano.
Anche il figlio di Poseidone stava sorridendo, mentre saliva sulla passerella per raggiungerla.
Solo dopo i suoi occhi si posarono su Matthew, e la sua corsa rallentò, fino a farlo fermare a circa due metri da loro. Il suo volto si rabbuiò, mentre lo scrutava indispettito.
«Che state facendo?» chiese lentamente, gli occhi fissi in quelli dell’altro ragazzo. A dispetto di quanto immaginasse, però, quello sostenne il suo sguardo del colore del mare con aria beffarda. E questo non fece che irritarlo ancora di più.
«Sto aiutando Matt a trovare il suo genitore divino» spiegò Skyler, che sembrava non essersi accorta di quello scambio furioso di occhiate. «Magari ci puoi aiutare.»
Michael si avvicinò a loro, titubante, per poi spiare la lista in mano alla ragazza da sopra la sua spalla.
«Quelli con una linea sopra sono quelli che abbiamo già bocciato» chiarì lei, per poi guardare Matthew. Inarcò un sopracciglio, puntandogli contro la penna. «Afrodite?» propose.
Matthew rise, spostando il peso da un piede all’altro. «Ti ringrazio tanto, ma no, non penso possa essere lei» scherzò, passandosi sorridente una mano fra i capelli.
Michael fece roteare gli occhi, dandogli mentalmente del ‘buffone’.
Skyler, invece, fece una smorfia, riprendendo ad osservare la lista mentre distrattamente rosicchiava il tappo della stilo.
«Potrebbe essere figlio di Poseidone» ipotizzò dopo un po’, guardando Michael quasi fosse in cerca di conferme. «Fisicamente possiede le vostre stesse caratteristiche. E poi i requisiti li ha.»
«Oh, davvero?» chiese allora lui, affiancandosi al ragazzo e soppesandolo dall’alto in basso. Poi fece spallucce. «Beh, vediamo.»
E, premendogli con forza una mano sulla spalla, gli diede una spinta, facendolo cadere nel lago.
«Michael!» lo rimproverò Skyler, correndo verso il bordo della passerella scioccata, mentre osservava Matthew riemergere affannato e sforzarsi di restare a galla.
Il ragazzo fece finta di non sentirla, infilando le mani nelle tasche e sporgendosi verso l’acqua, gli occhi chiusi a due fessure. «Mh… no, direi proprio di no.»
«Fallo tornare su» ordinò Skyler, furiosa.
Michael si strinse nelle spalle, noncurante. «Ma così non sapremo mai se è un figlio di Poseidone oppure no.»
«Michael, ho detto fallo tornare su!» ripeté lei, alzando di parecchio il tono di voce.
Il ragazzo sbuffò, irritato. Riluttante, fece un rapido cenno con il capo, ed un’onda alta due metri svettò verso il cielo, travolgendo Matthew per poi trascinarlo di nuovo accanto a loro.
Steso prono sulla passerella, quest’ultimo tossì, mentre con i vestiti bagnati fradici cercava disperatamente di riprendere fiato.
«Si può sapere cosa diavolo ti è venuto in mente?» Skyler aveva dato un pugno sul petto del suo ragazzo, le iridi scure grondanti di rimprovero. «Avrebbe potuto morire!»
Michael fece spallucce, con aria innocente. «Potevamo correre il rischio» sentenziò, beccandosi un altro pugno sul petto. Il ragazzo si massaggiò il punto in cui era stato colpito, con una smorfia. «Mi hai chiesto tu di aiutarvi.»
«Sì, ma non così!» sbottò lei, allargando esasperata le mani ad indicare il corpo steso a terra di Matthew, che ora ansimava rumorosamente. Skyler si inginocchiò accanto a lui, aiutandolo a mettersi seduto. «Non può rischiare la vita ogni volta per trovare il suo genitore divino. Per scoprire se è figlio di Efesto che dovrei fare, allora? Dargli fuoco?»
Michael inarcò le sopracciglia, sollevando il dito in aria come se stesse valutando la cosa. «Non sarebbe una cattiva idea» annuì.
«Michael» lo redarguì lei, lanciandogli un’occhiataccia. Il ragazzo chiuse gli occhi a due fessure, facendo fatica a sostenere il suo sguardo infuriato. Poi cedette e sospirò, facendo roteare gli occhi.
«Credo sia meglio che vada» gracchiò Matthew a quel punto, attirando la loro attenzione.
«Vuoi che ti accompagni?» domandò apprensiva lei, sorreggendolo mentre lui si alzava in piedi.
«No, non preoccuparti» si affrettò a dire lui, lanciando una fugace occhiata a Michael, che lo osservava con la mascella serrata. Poi le rivolse un sorriso incerto. «Vado a cambiarmi. Sono fradicio fin sotto le mutande» celiò, facendole sfuggire una sommessa risata. «Ci vediamo stasera al falò.»
Detto questo se ne andò, non prima però di fulminare con lo sguardo il figlio di Poseidone, che studiava ogni suo movimento quasi fosse pronto a torcergli il collo non appena avesse fatto un passo falso.
Lo osservò allontanarsi verso le Cabine, una sensazione che gli pungolava il petto come un minuscolo spillo. Compiacimento? Soddisfazione?
Qualunque cosa fosse, scemò subito non appena incontrò lo sguardo della sua ragazza, che, braccia incrociate sotto il seno e gambe divaricate in tono autoritario, lo guardava come si guarda un bambino che marina la scuola per andarsi a comprare il gelato.
Sembrava arrabbiata, e… delusa?
«Si può sapere che cosa ti è preso?» inveì, il viso contorto dall’indignazione.
Michael incrociò le braccia a sua volta, con tono di sfida, anche se sembrava stesse cercando più di proteggersi che di contrattaccare. «Volevi sapere se era figlio di Poseidone, no? Beh, ora lo sai.» Fece spallucce, come se la sua fosse l’affermazione più innocua del mondo.
Skyler prese fiato, allibita. Gli puntò un dito contro, e dalla sua espressione sembrò stesse per dirgli qualcosa. Ma poi ci ripensò, e buttando un braccio in aria sbottò: «Mi spieghi che diavolo ti ha fatto quel povero ragazzo?»
Michael barcollò un attimo all’indietro, interdetto. Già, che cosa gli aveva fatto? Non aveva ma detto niente di male, non l’aveva mai minacciato né sfidato. Era sempre stato buono, gentile, timido, sorridente, attento a fare la cosa giusta nel modo giusto al momento giusto, così voglioso di farsi degli amici da essere disposto a tutto.
Quindi, perché lo odiava tanto?
Insomma, no, lui non lo odiava. È solo che non poteva sopportarlo. Non poteva sopportare il suo sorriso, non poteva sopportare il modo in cui camminava, non poteva sopportare la sua simpatia, non poteva sopportare il modo in cui guardava Skyler.
Era la sua gentilezza, che non sopportava. E il modo in cui scrollava le spalle, dicendo che non era un problema se non era stato ancora riconosciuto. E lo stile con cui lottava, che, nonostante avesse una spada da soli pochi giorni, era molto meglio del suo. Ma soprattutto, la velocità con la quale aveva preso il suo posto.
Ecco, era esattamente questo che non sopportava. Che agli occhi dei suoi amici lui fosse più bello, più gentile, più divertente, più solare, più intelligente, più sfacciato.
Non sopportava questo suo essere più. Più tutto.
E nonostante cercasse in tutti i modi di ignorare quella fastidiosa vocina nella sua testa che gli suggeriva che Matthew gli avrebbe presto portato via la terra da sotto i piedi, questa continuava molesta a gridare, facendolo impazzire.
Il suo istinto lo istigava più volte a liberarsi di lui. E la sua ragione, in quei casi, vinceva a fatica le sue battaglie.
«Non mi piace quel tizio, okay?» ingiuriò lui, quando si accorse di essere rimasto senza parole per un po’. «Non mi piace il modo in cui si atteggia e non mi piace il modo in cui ti guarda.»
«Il modo… il modo in cui mi guarda?» balbettò Skyler, confusa.
«Sì, esatto. Non mi fido di lui, Skyler. È troppo furbo.»
Solo a quel punto, la ragazza sembrò afferrare il vero significato delle sue parole. «E troppo bello» mormorò fra sé e sé. Abbastanza forte, però, perché lui la sentisse e corrucciasse le sopracciglia.
Lo sguardo di Skyler lentamente si addolcì, mentre un piccolo sorriso le incurvava le labbra. «Michael, è davvero questo il problema?» domandò, facendo un passo verso di lui e annullando di poco quella distanza che li separava. «Hai paura che io possa innamorarmi di lui?»
Solo a quel punto Michael si rese conto che c’era qualcos’altro sul suo viso. Era… divertita?
«N-no» ciangottò, arrossendo violentemente, indispettito. «Cioè, sì. Insomma, non lo so… Perché, potresti?»
Skyler si lasciò sfuggire una risata, scuotendo leggermente la testa quasi non potesse credere a ciò che aveva sentito.
Fece un altro passo avanti, parandoglisi di fronte, e quando tornò a guardarlo, i suoi occhi splendevano di così tanta tenerezza che Michael si ritrovò a deglutire, faticando a mantenere quell’espressione seria e corrucciata. Per cui abbassò lo sguardo, trovando improvvisamente interessanti le punte delle sue scarpe, e affondò le mani nelle tasche del jeans.
«Michael» sussurrò dolcemente lei, posandogli le mani sui fianchi e stringendo la sua maglietta nei pugni chiusi. I loro volti erano così vicini che il ragazzo poteva sentire il profumo di lavanda dei suoi capelli pizzicargli le narici. «Mi dispiace di averti trascurato in questi ultimi giorni. E di aver pensato che a te non dispiacesse. E che tu sia arrivato a credere che io preferisca la compagnia di Matthew alla tua. Sì, è vero, ho passato molto tempo con lui. Ed intendo passarne ancora. Perché so quanto sia difficile sopportare il soffocante peso di essere ignorati, e perché lui è arrivato qui da poco, e ha bisogno di un amico. Ma non voglio che solo per questo tu creda che sia cambiato qualcosa. I miei sentimenti per te sono gli stessi, quelli non muteranno mai.»
Il ragazzo continuava a tenere la testa bassa, gli occhi fissi sul legno della passerella. Skyler fece un ennesimo passo avanti, accostando il corpo al suo, ma neanche così il ragazzo alzò lo sguardo.
«Sai, dicono che l’amore abbia sempre un nome, un sorriso e un paio di occhi bellissimi» bisbigliò, le labbra che sfioravano il suo orecchio mentre lo faceva. «Per me i suoi occhi saranno sempre del colore del mare.»
Skyler non poté giurarlo, né ne fu completamente sicura, ma avvertì, da sopra la spalla, le labbra di Michael sorridere. Gli squadrò il volto, cercando invano il suo sguardo, e quando notò un piccolo guizzò all’angolo della sua bocca, sorrise anche lei.
«Ehi» lo chiamò, premendo il naso sulle sue labbra, per far sì che la guardasse. Quando lo fece, i suoi occhi erano di un azzurro acceso, vivi e bellissimi.
La ragazza sporse il labbro inferiore in fuori, nella sua migliore espressione da cucciolo bisognoso di affetto. «Mi perdoni?» implorò, al ché lui rise.
Un sorriso sghembo si fece largo sul suo viso, mentre fingeva di pensarci. «Non lo so… Dovresti provare a convincermi.»
Fu a quel punto che lei, ridacchiando, lo baciò. Le loro labbra combaciarono alla perfezione, come avevano fatto altre mille volte, come avrebbero fatto per sempre.
Quando si staccarono, lui arricciò il naso, meditativo. «Ci penserò» annunciò, strappandole una risatina.
Poi, Skyler inclinò leggermente il capo, guardandolo perplessa. «Non abbandonerò Matt proprio ora. Lo sai, questo, vero?»
Il sorriso sul volto di Michael si spense all’istante, sostituito da un’espressione incupita.  «Non mi fido di lui» ripeté, come se bastasse quella semplice frase a dissuaderla.
Ma, ovviamente, non fu così. «Lui ha bisogno di un amico, Michael» spiegò lei, quasi stesse parlando con un ragazzino capriccioso. «E io non ho intenzione di lasciarlo solo in un momento così delicato. Ti fidi di me, no?»
Con un sospiro, Michael annuì.
«Bene. Allora smettila di affliggerti con strani pensieri. Anzi, potresti provare a fare amicizia con lui.»
Michael fece una smorfia, contrito. «Non credo funzionerebbe.»
«Tentar non nuoce» insistette lei. Notando la sua esitazione, sporse di nuovo il labbro in fuori. «Promettimi che ci proverai.»
Il figlio di Poseidone non rispose. Si guardò un attimo intorno, quasi sperasse di trovare negli alberi che li circondavano un’evasione a quella domanda. Ma non c’era. E Skyler continuava ad aspettare.
«Farò del mio meglio» disse, facendo spallucce.
Ma quello sembrò bastarle, perché la ragazza sorrise. «Spero solo che non cercherai di affogarlo di nuovo» lo stuzzicò, le labbra che sfioravano le sue mentre parlava.
Anche Michael fece un sorriso, ma il suo, a differenza di quello di lei, era malandrino. «Non faccio promesse a riguardo.»
La ragazza si finse offesa, ma gli angoli della sua bocca tradivano un certo divertimento. «Beh, in quel caso lo salverò io» lo pungolò, maliziosa.
Michael inarcò un sopracciglio. «Perché, credi che ci riusciresti?»
«So nuotare molto bene» annuì lei, arricciando il naso.
«Davvero?» Il ragazzo si finse sorpreso. «Fammi vedere, allora.»
L’afferrò per le spalle, e Skyler non capì cos’avesse intenzione di fare finché lui non le diede una spinta.
La sorpresa fu tale che la ragazza perse l’equilibrio e scivolò sulle assi di legno, finendo in acqua.
Riemerse quasi subito, bagnata fradicia, e se il suo sguardo fosse stato un’arma ora di Michael ce ne sarebbero due metà.
«Brutto…» cominciò, battendo un palmo sul pelo dell’acqua nel tentativo di schizzarlo. «Vieni qui, se ne hai il coraggio!» lo minacciò, ma le sue labbra, poi, si contorsero in un sorriso trattenuto a fatica.
Michael rise, divertito, e, prendendo una leggera rincorsa, si buttò con un tuffo a bomba nel lago.
Skyler voltò il capo, per impedire che l’acqua alzata dal ragazzo le bagnasse nuovamente gli occhi, impedendole di tenerli aperti.
Ma non appena tornò a guardare nel punto in cui il ragazzo si era lanciato, di lui non c’era altro se non un lago perfettamente liscio e calmo.
«Michael?» chiamò la ragazza, corrucciando le sopracciglia. Ma non ricevette risposta.
Al contrario, qualcosa le afferrò con forza la caviglia, trascinandola giù con un grido di sorpresa.
In altre circostanze Skyler avrebbe subito sguainato la spada, ma le labbra di Michael si posarono sulle sue così repentine che non le diedero neanche il tempo di pensare.
Skyler sorrise, divertita, e gli morse con forza il labbro inferiore, quasi fosse arrabbiata e volesse punirlo.
Michael rise sommessamente, mentre una bolla d’aria si formava intorno a loro, permettendogli di respirare.
Il ragazzo allungò una mano a sfiorare una ciocca bagnata di capelli che le ricopriva gli occhi, per poi avvolgersela dolcemente attorno al dito.
Il loro nasi si sfiorarono, e lui, posandole una mano dietro la nuca, la baciò. Le loro labbra si schiusero contemporaneamente, e fu a quel punto che lui la strinse di più a sé, facendo aderire i loro corpi.
Il loro bacio si fece dapprima più intenso, poi più passionale, mentre le loro lingue si scontravano, bramose.
Con il respiro affannoso, le labbra di Michael cercavano le sue con foga, e quella fu solo l’ennesima dimostrazione, per lui, per capire che ciò che c’era fra loro difficilmente si sarebbe spezzato.
Perché lei era sua. E lui era suo.
E questo non sarebbe mai cambiato.
Lui gliel’aveva giurato. Aveva giurato su quel bracciale che lei non si toglieva mai, neanche per dormire.
Lui aveva fatto una promessa.
E nessuno gli avrebbe impedito di mantenerla.
Neanche uno stupido ragazzo venuto dal nulla che cercava da giorni di portargliela via.
 
Ω Ω Ω
 
La cena era slittata davanti ai suoi occhi fugace.
O almeno, così era sembrato a Skyler mentre, con i suoi amici, si dirigeva verso il falò.
I figli di Apollo avevano intonato qualche canzone con le loro chitarre, ed erano stati riconosciuti altri tre semidei, arrivati freschi quella mattina.
Matthew, però, era ancora lì.
Skyler continuava a guardarlo, mentre osservava le nuove reclute sfilare davanti ai suoi occhi per raggiungere i loro fratelli. Gli dispiaceva per lui, ormai questo era ovvio, eppure quando lui scrollava le spalle in quel suo modo così tipico, affermando che esistevano mali peggiori, non poteva fare a meno di sorridere.
Solo una persona, nella sua vita, aveva incontrato con un tale autocontrollo.
E quella persona era lo zio.
Da quando era scappata di casa, Skyler aveva cominciato ad odiare il silenzio.
Perché certi silenzi, specialmente quelli che la perseguitavano tutti i giorni, entravano in scena per colpire il rumore delle urla che aveva in gola. Urla di parole che non trovava il coraggio di dire.
Aveva provato a confidarsi con Emma, raccontandole esattamente ciò che aveva detto anche a Michael giorni prima. Che le mancava lo zio, e che si sentiva in colpa. Che si sentiva come se fosse nel posto sbagliato e che avrebbe dato qualsiasi cosa, pur di poter tornare indietro e non fare quello che aveva fatto.
L’amica l’aveva ascoltata, senza dire nulla, e poi l’aveva abbracciata, facendole nascondere il viso nell’incavo del suo collo, quasi che con quell’abbraccio potesse farle capire che era giusto che fosse lì, che quella era casa.
Skyler aveva avuto un déjà-vu. Aveva ricordato la prima volta che aveva incontrato Emma, e che lei, per consolarla, l’aveva abbracciata. Lì Skyler aveva capito che ciò che le era sempre mancato era un’amica. E lì si era anche resa conto di averne appena trovata una.
Dicono che i déjà-vu sono il modo che ha il destino per dirti che sei esattamente dove dovresti essere, e che ti sembra che tu ci sia già stato perché sei perfettamente in linea con il tuo destino.
Ma se quello era il posto dove doveva essere, perché Skyler continuava a sentirsi così… inappropriata?
Perché continuava a sentire la mancanza di suo zio, e del nonno, e delle foto della mamma?
Perché sembrava tutto così… estraneo?
Non aveva cantato neanche una canzone, quella sera, ma si era concentrata su ogni singola nota, nella vana speranza che queste la distogliessero dai suoi pensieri.
Aveva anche chiesto a Leo, seduto accanto a loro, qualche filo e un bullone. Quando il fratello era nervoso, maneggiava sempre qualcosa, e questo sembrava distrarlo.
Con Skyler, però, non funzionava.
Glieli avrebbe volentieri ridati, ma il ragazzo sembrava distratto, assente. Le sue mani facevano qualcosa, ma sembrava si muovessero più per un riflesso incontrollato, mentre i suoi occhi continuavano ad esibirsi in timide occhiate rivolte a qualcuno alla destra della sorella. Emma? John? Matthew? Forse Charlotte, qualche posto più in là?
Skyler smise di chiederselo quando capì che intenderlo era impossibile, dato che nessuno sembrava degnarlo di tante attenzioni.
E così, finito il falò, non era riuscita ad impedire che quel molesto senso di solitudine le diramasse nel petto. Prevedeva una lunga notte d’insonnia, a girarsi e rigirarsi fra le fredde coperte.
Fu per questo che, insieme a John e ad altri quattro ragazzi, aveva accettato di fare il turno notturno di guardia presso i confini del Campo.
Il figlio di Apollo aveva incoccato una freccia, e con un sorriso le aveva fatto cenno di andare con lui.
Skyler aveva sguainato la sua spada, e per qualche ragione che non riusciva ancora a spiegare, questa le infuse un senso di sicurezza, di autocontrollo.
I due amici si erano diretti a nord, inoltrandosi nella baia di Zefiro, mentre le altre due coppie andavano ad Est e ad Ovest.
Fra loro era calato un dolce silenzio, i loro sensi acuiti alla ricerca di un qualunque spostamento d’aria sospetto.
Quell’assenza di parole rendeva Skyler nervosa, perché diventava più difficile non pensare allo zio, non pensare a ciò che aveva abbandonato.
Continuava a spostare la spada da una mano all’altra, i palmi sudati, mentre pregava perché John non se ne accorgesse.
Ma il ragazzo, ovviamente, la conosceva troppo bene.
La guardò di sottecchi, entrambe le mani a tendere leggermente l’arco, i muscoli pronti a scagliare una freccia.
Poi spostò lo sguardo altrove, facendolo vagare tra i folti alberi che li ingabbiavano.
«Sai, credo che dovresti dirglielo» proruppe all’improvviso, al ché lei sobbalzò. «A Michael, intendo.»
Skyler inarcò un sopracciglio, mentre lui si portava tre passi avanti a lei. «D-dirgli che cosa?» balbettò, confusa.
John si girò appena. «Perché stai così male. Lui saprebbe come consolarti.»
Quell’affermazione la colpì così alla sprovvista che la ragazza boccheggiò un attimo, prima di ribattere. «Io non sto male.»
«Skyler, ti prego» disse lui, stavolta voltandosi a guardarla con un mezzo sorriso in faccia. «Sono stato abbastanza tempo con te per capire quando c’è qualcosa che non va. E poi sono il tuo migliore amico, quindi non mentirmi.»
La figlia di Efesto arrossì leggermente, abbassando lo sguardo. Continuarono a camminare fianco a fianco, in un leggero silenzio imbarazzato. Che durò finché lei non corrugò la fronte. «Gliel’ho detto, comunque.»
«A chi?»
«A Michael.» Skyler storse la bocca, pensierosa. «Lui sa cos’è che mi turba. Mi ha già consolato.»
«E non è cambiato niente?»
La ragazza fece spallucce. «Mi sono sentita un po’ meglio, sì. Ma continuo comunque a pensarci.»
«Sei sicura di avergli detto la verità?»
La domanda fu talmente inaspettata che Skyler si bloccò di colpo, e John si fermò a guardarla. Dovette aspettare qualche secondo, prima che lei sussurrasse con un filo di voce: «È per mio zio.»
Lui inclinò il capo di lato, soppesandola con i suoi occhi chiari. «E…?»
«È tutto» fu la risposta secca di lei, anche se quando quelle parole uscirono dalle sue labbra anche lei ne dubitò la solidità. «Insomma, non c’è altro. Non credo. È la verità.» Poi guardò John negli occhi, e sembrava fosse un po’ a disagio. «Giusto?»
Il ragazzo fece un passo avanti, afferrandole la mano e stringendola con fare rassicurante. «Skyler, la verità è bella, non importa quale sia. Non importa se fa paura, o se è brutta, o se è strana. È bella perché è vera. La verità è luce. Ti rende più te.»
Io voglio essere me, pensò Skyler, e lo voleva con tutto il cuore. Schiuse la bocca, con un sospiro tremante, ma prima potesse dar voce a quelle parole, un ruggito sferzò l’aria.
I muscoli dei ragazzi guizzarono all’istante, e John incoccò una freccia, mentre Skyler stringeva di più la presa sull’elsa della spada.
Si guardarono intorno, spaventati.
«Che cos’era?» domandò lei, in un lieve bisbiglio, quasi temesse che, qualunque cosa avesse emesso quel verso, potesse sentirla ed attaccare.
«Era un mostro» rispose John, scandendo lentamente le parole.
Un altro ruggito, simile al primo, tagliò di netto l’aria sopra le loro teste. Ma stavolta fu seguito da un suono più acuto. Un urlo. Di puro terrore.
Di una ragazza.
John scattò prima ancora che la mente di Skyler potesse registrare quel rumore.
Corse a perdifiato dietro di lui, facendosi largo fra l’alta sterpaglia. Gli alberi cominciavano lentamente a diradarsi, creando un varco dov’era molto più facile passare.
Sgranando gli occhi, Skyler focalizzò il punto in cui erano arrivati, e aumentò rapidamente il passo, afferrando John per la maglietta poco prima che potesse varcare la barriera creata dal pino di Talia.
«Fermo!» esclamò, tirandolo indietro. «Non puoi uscire dai confini del Campo. I mostri ti attaccheranno!»
Il ragazzo indietreggiò con riluttanza, in volto un’espressione preoccupata. «Ma hai sentito quel grido!» ribatté, continuando a tenere gli occhi fissi oltre la barriera, nella speranza di scorgere qualcosa, qualcuno. «C’è una persona in pericolo là fuori! Noi dobbiamo…»
Ma le parole gli morirono in gola. Qualcosa aveva attirato la sua attenzione. Anzi, qualcuno.
Doveva averlo notato anche Skyler, perché, con il fiato sospeso, gli strinse con forza un braccio.
Una ragazza correva a perdifiato nella loro direzione. Indossava dei vestiti stracciati, e barcollava come se stesse lottando contro le sue stesse gambe, che minacciavano di non reggere più il suo peso.
Era sporca di terra, e coperta di sangue, che le incrostavano il viso e i lunghi capelli biondo miele.
John le corse di nuovo incontro, fermandosi un centimetro prima di superare il confine. «Siamo qui!» urlò, con tutto il fiato che aveva in gola. Sventolò con foga le braccia in aria, pregando gli dei perché lei li notasse. «Svelta, siamo qui!»
Skyler lo imitò, urlando a sua volta. «Vieni da noi!»
Un altro ruggito fece tremare il terreno, e questo sembrò riscuotere la ragazza. Cominciò a salire su per la collina, il fiato corto e il corpo pesante. Corse veloce, fino a ché le gambe non le fecero male. La gola le bruciava, e la testa le girava così tanto da renderle sfocato il mondo intorno.
John protese le mani verso di lei.
La ragazza entrò nei confini del Campo, ma non appena lo fece, rivoltò gli occhi all’indietro, cadendo fra le braccia del figlio di Apollo.
Lui la sorresse, e stringendola saldamente la adagiò sul terreno.
La ragazza tremava senza controllo. Sudava, eppure era scossa da dei brividi, quasi stesse congelando.
«Oh miei dei» sussurrò Skyler sconvolta, premendosi una mano sulla bocca.
La ragazza stava perdendo tanto, troppo sangue. Quando John la squadrò alla ricerca della ferita che la stava dissanguando, l’occhio gli cadde sul suo braccio sinistro. Ma lì, al suo posto, vi trovò solo aria ed una pozza di sangue.
Passò una mano tremante sulla ferita aperta, e questa divenne cremisi all’istante.
«Sta andando in shock» sentenziò, con una fermezza della voce impossibile da avere in un momento del genere. A meno che tu non sia figlio del dio della medicina.
Lanciò un’occhiata a Skyler, che lo guardava con occhi sgranati, gelata dalla paura.
«Va a chiamare aiuto!» le ordinò, alzando il tono di voce perché lei si scuotesse. «Presto!»
La figlia di Efesto corse via all’istante, sparendo nei folti alberi a perdifiato in direzione della Casa Grande.
La ragazza fra le sue braccia aveva cominciato a tremare ancora più violentemente, e il suo corpo si agitava come scosso da degli spasmi.
Doveva bloccarle l’emorragia.
Si sfilò la maglietta, e con uno strappo netto la ruppe in due. Cominciò ad avvolgere quelle due strisce attorno alla spalla sanguinante della ragazza, e le mani cominciarono a tremare anche a lui, mentre mantenere il sangue freddo sembrava un’idea assurda.
Strinse con forza entrambe le estremità della maglietta spezzata, più forte che poteva, ed armeggiò per fare un nodo.
Questo rallentò un po’ il sangue scarlatto che continuava a sgorgare, ma non lo fermò. Continuava ad uscire a fiotti, lasciando sempre più rapidamente il corpo della ragazza.
John la strinse di nuovo fra le braccia, per impedirle di tremare. Respirava appena. I suoi occhi color nocciola erano vitrei e privi di vita. La luna le illuminava placida il viso sporco di terra e sangue, riflettendo i suoi raggi sui suoi capelli biondo miele.
Mentre John continuava a tenerle una mano premuta con forza sulla sua benda improvvisata nel vano tentativo di rallentare il sangue, le palpebre di lei si fecero pesanti, minacciando di chiudersi.
«No, no, ehi! Ehi, non ti addormentare» ordinò deciso John, afferrandole il viso con una mano e costringendola a guardarlo. «Stanno arrivando i rinforzi, okay? Non mollare. Resisti, non mollare.» Il suo tono di voce si addolcì, mentre i suoi occhi verdi si incastravano a quelli nocciola di lei, che stretta fra le sue braccia lottava contro il sonno che premeva soffocante sul suo petto.
«Segui la mia voce» mormorò lui, accarezzandole la testa, per poi posarle una mano sulla guancia. «La senti? Aggrappati a lei. Sono qui, non ti lascerò andare.»
Lei strinse il suo braccio in una morsa d’acciaio, mentre faceva sempre più fatica a respirare. «Aggrappati alla mia voce. Resisti. Non permetterò che tu muoia, okay? Sono qui. Non ti lascerò andare.»
E mentre lei si accasciava contro il suo petto ed ormai priva di forze perdeva i sensi, sentì il profumo di menta della sua pelle cullarle la mente.
E poco prima di chiudere gli occhi, udì di nuovo, ovattata, la sua voce.
«Sono qui. Non ti lascerò andare.»

Angolo Scrittrice.
E siamo in diretta tra tre... due... uno...
Buongiorno a tutti popolo di Efp! O dovrei dire semidei? Se siete qui, avete un genitore divino anche voi, right?
ahahah, a parte gli scherzi, oggi è martedì, no? Ed io sono sempre qui a rompervi l'anima con un altro dei miei capitoli.
Alors alors alors... che dite? Vi è piaciuto?
Se vi ha fatto schifo ditelo pure, non mi offendo (y)
Ho notato che lo scorso capitolo non vi è piaciuto molto, quindi spero che con questo io sia riuscita a riscattarmi.
Sono successe un po' di cose, no?
Abbiamo studiato più a fondo la gelosia di Michael; abbiamo scartato alcuni tra quelli che potevano essere i genitori divini di Matthew; abbiamo visto una ragazza morire tra le braccia di John...
Ma andiamo per gradi.
Michael geloso. Chi l'avrebbe mai detto? In questo capitolo impariamo a conoscere un po' più a fondo il carattere di Matthew. Credete che Michael abbia ragione? O che la sua sia davvero paranoia?
E cosa ne pensate di Matthew? Vi piace, o patteggiate per Michael in questa che sembra una muta guerra senza esclusione di colpi?
Quando due ragazzi si odiano, non si sa mai cosa può succedere. ;)
Per quanto riguarda Skyler, invece, come vedete non è ancora riuscita a superare del tutto la faccenda dello zio. Ma per fortuna c'è Emma. E poi c'è John. Il nostro amico biondo ha un cuore d'oro, ormai questo lo sappiamo, ma non credo di fare Spoiler dicendovi che in questa storia scopriremo ancora di più il suo animo gentile, e il suo essere un amico fantastico che nella scorsa fic non era molto venuto fuori.
Anyway, credo che comunque la parte più importante del capitolo sia la fine. Chi è questa ragazza sanguinante? E da dove viene?
Ma soprattutto, si salverà o morirà davvero tra le braccia di John?
Io questo non ve lo dico, ovviamente. Ma mi piacerebbe sapere che idea vi siete fatti a riguardo. (y)
By the way, nello scorso capitolo, se ricordate, vi avevo annunciato che (per il personaggio di Matthew) mi ero ispirata ad una persona ben precisa. Vi ho poi chiesto se volevate vederla, e voi mi avete detto di sì, perciò...


 


 
E' lo youtuber Weeklychris, e... boh, io lo trovo stupendo. Ha un sorriso bellissimo, miei dei! Per non parlare degli occhi *^* Ma sto divagando...
Comunque, se non vi piace, non siete obbligati ad immaginare Matthew così. Questo è solo il volto che gli ho dato io, ma il bello di leggere una storia è proprio quello di poter dare ad un personaggio il volto che ci pare.
Fatemi sapere cosa ne pensate ;) Ma soprattutto, ho una domanda per voi: Chi pensate che sia il genitore divino di Matthew? Let me know, sono curiosa **
But first, let me take a selfie, e fatemi ringraziare i miei bellissimi Valery's Angels, e cioè coloro che hanno commentato lo scorso capitolo:
carrots_98, porporaassenzio, Myrenel Bebbe ART5, Percabeth7897, _angiu_, Cristy98fantasy, FoxFace00, kiara00 e martinajsd.
Grazie davvero, angeli! Siete i migliori <3
E con questo, potete finalmente tirare un sospiro di sollievo, perchè vi lascio in pace ;)
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto :3
Un bacione enorme, e al prossimo martedì!
Sempre vostra,

ValeryJackson
P.s. Sapete che ho notato? Che quel 'sempre vostra' somiglia molto al 'Love Always' di Charlie. Dei, mi sento una Wallflower! *^*
P.p.s. Ragazzi, qualcuno di voi ha visto il Festival del Cinema di Venezia? No, dico, ma avete visto Alexandra Daddario? Io vi giuro, non ho parole. Quella ragazza è una dea, non c'è altro modo per definirla. Una dolce, semplice e bellissima dea.


 

 
Cavolo, non è perfetta? *0* E quel vestito viola è qualcosa di illegale!
P.p.p.s. Dato che nello scorso capitolo (come mi avete fatto notare) c'erano alcuni errori di battitura, spero davvero che in questo non ce ne siano. Rileggo sempre, ma qualcosa mi sfugge comunque, e spero che a causa di queste piccole distrazioni la lettura non diventi meno scorrevole (y)
P.p.p.p.s. Okay, okay... stavolta vi lascio davvero in pace. Sorry. Ma cercate di capirmi: domani rinizia la scuola, ed io non so se essere contenta o depressa t.t
Au revoir! <3 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***



 


Quindi, era così il famoso Oblio.
Un pozzo senza fondo. Il nulla più totale. Un’onda di oscurità in un mare d’inchiostro.
Aveva freddo, ma sudava.
Aveva caldo, eppure era scossa da dei violenti brividi.
O era la sua anima che tremava?
Non riusciva a sentirsi le dita dei piedi. Per quanto si sforzasse di muoverle, quelle parevano troppo lontane, rese distanti per via di quelle due assi di legno che erano diventate le sue gambe.
Era viva? Era morta? Era qualcosa, almeno?
E dove si trovava?
Perché era tutto buio? Perché nessuno accendeva la luce?
Sono morta, pensò, e a dispetto di quanto sperasse non arrivò niente e nessuno ad affermarle il contrario.
Era l’Inferno, quello? O il Paradiso?
Se era morta, perché riusciva a sentire ancora il rumore raschiante del proprio respiro?
Quando fece per arrendersi finalmente all’evidenza di non avercela fatta, avvertì qualcosa.
Una scossa elettrica le penetrò nella pianta dei piedi, risalendo su per la colonna vertebrale. Si rese conto di aver riacquistato la sensibilità alle gambe solo quando riuscì a piegare il ginocchio. 
Avvertiva i vestiti bagnati di sudore incollati al proprio corpo, i capelli attaccati al viso. Provò a muovere anche un dito, quasi a voler avere la conferma che potesse usare ancora anche quelli. Non tentò con gli altri, però. Un dito bastava e avanzava.
Il suo respiro era corto, ma regolare. Ogni volta che il petto si alzava e si abbassava, una fitta le colpiva i polmoni, quasi fosse troppo faticoso, per lei, ingerire tutta quell’aria tutta in una volta.
Come fossero un sipario che scopriva il palcoscenico, le sue palpebre si sollevarono, e i suoi occhi furono accecati da una forte luce bianca.
Quando quelle moleste macchie scure smisero di danzarle nella retina, lei fu sollevata nel constatare che poteva ancora usufruire dell’uso della vista.
Inclinò di poco il capo, per squadrare l’ambiente che la circondava, ma con una smorfia dolorante si rese conto che quel gesto non faceva altro se non farle scoppiare un mal di testa nella scatola cranica.
Così, fece vagare solo gli occhi intorno a sé, e fu allora che si rese conto di trovarsi in una stanza. Pareti bianche, piccoli mobili di legno bianco. Anche le lenzuola del letto sulla quale (con orrore) si accorse di essere stesa poté giurare fossero dello stesso colore.
Stava per chiedersi dove si trovasse, quando un odore pungente le colpì le narici. Disinfettante.
Era un ospedale? E se sì, come ci era arrivata? Non ricordava di essere mai entrata in un ospedale. Non dopo quello che era successo, almeno.
Il prosi tutte quelle domande era come un ago conficcato nella sua mente, che aumentava il mal di testa.
Voltò il capo dall’altro lato, ignorando il forte dolore alle tempie, e fu a quel punto che la vide.
All’inizio non riuscì a metterla a fuoco bene, ma alla fine vide distintamente la ragazza seduta accanto al suo letto.
Aveva i capelli mogani, striati in alcuni punti di rosso, e li teneva accuratamente raccolti in una coda, nonostante qualche ciocca ribelle sfuggisse al controllo dell’elastico, incorniciandole il viso che a primo acchito sembrava gentile. I suoi grandi occhi scuri erano striati d’oro, e la soppesavano con cura ed attenzione. Dal modo in cui increspava le labbra, lei giurò stesse trattenendo il fiato.
Aprì la bocca per parlare, ma dovette aver notato il suo sussulto, perché poi accennò un lieve sorriso.
«Ciao» sussurrò, con voce pacata e gentile.
Chi era quella lì? E che cosa voleva da lei?
E dove si trovava? E perché le stava parlando?
E chi l’aveva portata lì? E che cosa era successo?
E…? E…? E…?
Troppe domande, troppe poche risposte.
Cominciò ad ansimare, spaventata.
«Ehi, no, non devi aver paura di me» la rassicurò la ragazza, posandole una mano sul braccio.
Lei si irrigidì, e fu solo a quel punto che quella ritirò la mano, quasi avesse paura di scottarsi. O di scottarla.
«Non voglio farti del male» disse, e la sua sembrava più una promessa. «Non devi avere paura, sei al sicuro.»
«Chi sei?» provò a domandare. Ma evidentemente non usava la voce da fin troppo tempo, perché dalla sua bocca uscì un suono rauco e strozzato.
La ragazza sospirò, per poi inclinare il capo di lato. «Mi chiamo Skyler» scandì, lentamente. «E tu sei…?»
Skyler. Bene. Almeno sapeva il suo nome. Era già qualcosa.
Ma poteva davvero fidarsi di lei?
Accorgendosi solo in quel momento del suo enorme silenzio, si trovò di fronte ad un bivio. La sua mente le ordinava di non proferire parola; il suo cuore le suggeriva che quegli occhi color cioccolato non potevano essere cattivi.
Doveva scegliere, e non si rese conto di aver preso fiato per parlare finché le sue labbra non articolarono flebilmente il suo nome.
«Melanie.»
Skyler annuì, sollevata, buttando fuori il respiro che aveva trattenuto.
La ragazza continuava a tenerle gli occhi color nocciola puntati addosso, uno sguardo curioso e inquisitore, ma il fatto che le avesse rivelato il suo nome voleva dire che forse cominciava a fidarsi di lei.
«Bene, Melanie» continuò, parlando molto lentamente. Si sporse verso di lei, posando i gomiti sulle ginocchia, ma prima che potesse aggiungere altro quella chiese: «Dove mi trovo?»
«Al sicuro» fu la risposta pronta di Skyler.
«Al sicuro dove
La figlia di Efesto esitò un secondo, prima ammettere: «Sei al Campo Mezzosangue, Melanie. L’unico posto tranquillo per quelli come me. Per quelli come noi. Tu sai...» Un tentennamento che durò un secondo di troppo, mentre con un po’ di timore faticava ad articolare quella domanda: «Tu sai cosa sei?»
La ragazza non rispose. Un silenzio carico di tensione impregnò la stanza, e Skyler poté giurare che se uno spillo avesse attraversato l’aria sopra la sua testa, in quel momento, lei l’avrebbe avvertito.
Osservò titubante la ragazza, non riuscendo ad interpretare il perché fissasse il soffitto.
In quel momento, con i capelli color miele sparsi sul cuscino bianco e la pelle più pallida del normale, a Skyler ricordò Alice nel Paese delle Meraviglie. E temette che come la bambina delle fiabe, anche lei si fosse trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Ma i confini del Campo non mentono. Non sarebbe riuscita a superarli, se non fosse stata come tutti loro.
Quello era il posto giusto per lei. Doveva solo capirlo.
Quando finalmente aprì la bocca per parlare, Skyler mai si sarebbe aspettata di sentire la risposta che invece la colpì come uno schiaffo in faccia.
«Sì.»
La figlia di Efesto inarcò le sopracciglia, visibilmente stupita. «Davvero?»
«Mezzosangue è sinonimo di semidio, giusto?»
Quindi lei sapeva. Per questo era riuscita a trovare il Campo. Per quanto tempo l’aveva cercato, prima di arrivare lì?
«S-sì.» Skyler annuì, ancora un po’ interdetta. «Quindi tu sai…?»
«Che gli dei greci esistono?» La voce della bionda si ridusse ad un sussurro incerto, quando ammise: «Sì. Sì, lo so.»
Skyler sospirò, indecisa se sentirsi sollevata perché non avrebbe dovuto spiegarle tutta la storia o a disagio perché ora non aveva più il coraggio di porle la domanda successiva.
«Ti ricordi…» chiese cauta, sgranchendosi la voce nonostante non ne avesse bisogno. «Ti ricordi come sei arrivata qui?»
Melanie si irrigidì, ma dopo essersi morsa l’interno della guancia glielo raccontò.
Le raccontò di come avesse vagato per i boschi per settimane, e di come il suo genitore divino (e cioè sua madre) l’avesse riconosciuta senza un’apparente motivo.
Le raccontò di come avesse sognato questo posto che tutti chiamano Campo Mezzosangue, e di quanto avesse camminato per arrivarci.
Le raccontò del mostro che l’aveva attaccata. Lì la sua voce si incrinò, ma si sforzò di concludere il discorso fino alla fine, impegnandosi per ricordare ogni particolare. Grifone, l’aveva chiamato Skyler. Ma non volle dirle altro, né lei volle saperlo.
E finì il tutto spiegandole che dopo il buio più totale si era svegliata lì.
Non le disse di quegli occhi. Non appena aveva incrociato quelli di Skyler, non aveva fatto altro che figurarseli davanti.
Il suo era un ricordo indistinto, eppure così nitido. Non le veniva in mente altro, se non quel paio di occhi che fluttuavano davanti ai suoi.
Erano verdi, ma di un verde così chiaro da sembrare trasparente. E avevano delle piccole striature gialle all’interno.
Melanie fu sicura che quegli occhi fossero stati l’ultima cosa che aveva visto prima di perdere conoscenza.
Ma esistevano davvero, o se li era solo immaginati?
«Come mi avete trovato?» domandò dopo un po’. Il suo tono diventava mano a mano più sicuro, più forte.
«Ecco, noi…» Come dirglielo? «Ti abbiamo trovata sanguinante ai confini del Campo.»
«Tu e chi?» Magari Skyler sapeva. Magari lei conosceva quegli occhi limpidi come uno specchio.
La figlia di Efesto si morse il labbro inferiore, sospirando. «Non è importante» disse, con poca convinzione.
Melanie non insistette. Un po’ perché non voleva fare la figura della stupida, un po’ perché avvertiva che una domanda stava premendo sulle labbra dell'altra, nonostante lei si sforzasse di trattenerla.
«Quindi, non sai chi è il tuo genitore divino?» chiese la mora, accigliata.
Melanie scosse leggermente la testa. «Te l’ho detto, mi è spuntato quel simbolo sulla testa, ma non avevo idea di chi fosse. Non lo ricordo neanche bene. Magari se mi concentro…»
Solo a quel punto, quando seguì distrattamente il movimento della mano di Skyler che si accarezzava il braccio, notò il tatuaggio.
«Ehi, ne avevo uno così anch’io!» esclamò, sgranando gli occhi. «Più o meno. Ma con il simbolo che avevo sulla testa. Però era nello stesso punto.» Provò a sporgersi di più oltre il bordo del letto, ma non appena allungò il collo una fitta le colpì l’incavo della schiena, irradiandosi per tutto il corpo. Era ancora troppo debole. Non poteva muoversi.
Skyler sembrò trattenere il respiro, mentre con un fil di voce sussurrava. «Melanie, devo dirti una cosa…»
Fu a quel punto che lo sentì. Un vuoto. Una mancanza. Quasi che lungo il suo fianco si fosse disteso un fantasma.
Guardò Skyler, preoccupata, ma il suo sguardo triste non fece che farla impallidire ancora di più.
Un formicolio le invase la spalla sinistra, e fu solo in quell’istante che lei si voltò lentamente a guardarla.
Il suo tatuaggio non c’era più. E con lui, era sparito anche il suo braccio.
Melanie sentì il respiro mancare, mentre i suoi occhi brucianti non riuscivano a staccarsi da quell’orrido moncone, che le arrivava appena sotto l’ascella.
E allora ricordò. Il mostro. Il suo ruggito. I suoi denti che si chiudevano sul suo braccio. Tutto quel sangue.
Un singhiozzo le sconquassò rumoroso il petto prima che riuscisse a fermarlo.
«Melanie.» Skyler era ancora lì, riusciva a sentirla. Ma non aveva il coraggio di guardarla.
Strinse con forza le candide lenzuola nella mano. L’unica mano che le restava. «Lasciami sola, per favore» disse, con voce sommessa, di chi sta per crollare.
La figlia di Efesto non accennò a spostarsi, e così con voce tremante la implorò. «Ti prego.»
Skyler sospirò, cupa, ma alla fine si alzò dalla sedia.
Melanie fu sicura che se ne fu andata solo quando un silenzio opprimente occupò ogni centimetro quadro della stanza, soffocandola.
Un altro singhiozzo sfuggì al suo controllo, e lei nascose il viso nella piega del gomito.
Calde lacrime le bagnarono le guance, e prima che se ne rendesse conto stava piangendo. Stava piangendo sommessamente, in silenzio. Stava piangendo fino a farsi venire la nausea.
Stava piangendo con la speranza che, non appena avesse smesso, tutto quell’incubo sarebbe finito.
 
Ω Ω Ω
 
John aspettava con Chirone nel corridoio.
Non gli era mai piaciuto quel posto, ma non l’aveva mai detto a nessuno. Per un figlio di Apollo come lui sarebbe sembrato strano. Lì c’erano perlopiù suoi fratelli e sorelle. In un certo senso era come stare nella Cabina 7. O almeno, avrebbe dovuto essere così.
Ma lui odiava quell’odore di… ospedale. E il sapore pungente del disinfettante, e lo scricchiolio fastidioso di ossa rotte, e la puzza nauseante di qualcosa che stava per perdere la vita. 
E poi, riportava a galla troppi ricordi.
Ogni volta che entrava lì dentro, la cicatrice gli faceva male, e la sua mente volava a cinque anni prima, quando era successo quello che non doveva succedere. Quando aveva perso per sempre la sua famiglia.
Da quando lui e Skyler avevano soccorso quella ragazza ai confini del Campo, era stato tutto una massa indistinta e confusa di immagini. Quasi la sua mente avesse deciso di attutire ogni rumore, si era sentito come se, da dentro una bolla, stesse osservando Chirone e tre dei suoi fratelli precipitarsi con Skyler da loro, e strappargli la ragazza dalle braccia. E poi portarla di corsa in infermeria, e chiamare a raccolta altri due figli di Apollo, mentre lei continuava ancora a perdere sangue.
John li aveva seguiti, questo lo ricordava. Ma non appena aveva fatto per entrare in quella che era per loro la sala operatoria, Chirone gli aveva posato una mano sul petto, bloccandolo.
«Sei troppo sconvolto, ragazzo» aveva affermato con voce risoluta, ma John non era sicuro da aver sentito tutte le sue parole, mentre cercava di sbirciare oltre la sua spalla. «Hai già fatto un ottimo lavoro, ma da qui ci pensiamo noi.»
E poi, gli aveva sbattuto la porta in faccia, lasciandolo lì, solo in mezzo al corridoio, a torso nudo, intontito e sporco del sangue di quella ragazza.
Aveva smesso di fissare quella porta chiara solo quando Skyler l’aveva tirato per un braccio, e al suo orecchio erano arrivate parole come preoccuparti, riposo e maglietta.
L’aveva accompagnato alla sua cabina, dove lui si era fatto una doccia, scrostando con foga il sangue di quella semidea dal suo petto e rischiarendosi finalmente le idee. Aveva poi indossato una maglietta pulita, e senza che né lui né Skyler dicessero niente, erano corsi di nuovo verso l’infermeria.
E avevano aspettato lì, una, due, sei ore, seduti sulle sedie di plastica del corridoio. E mentre Skyler ad un certo punto aveva ceduto al sonno, appisolandosi sul suo grembo, lui non aveva smesso di guardare la porta della sala operatoria, inspiegabilmente ansioso e preoccupato.
Aveva appoggiato la nuca contro il muro solo per un momento, quando finalmente Chirone era uscito dalla stanza.
John era scattato in piedi così velocemente da spaventare Skyler, che stava lentamente cominciando a svegliarsi.
«Allora?» aveva chiesto inquieto il figlio di Apollo, squadrandolo in cerca di risposte.
Il centauro si era sfregato il viso, affranto, e per un attimo John aveva temuto il peggio. Ma poi Chirone aveva annuito.
«Ha perso circa il 60% del suo sangue» aveva detto, con tono grave. «Ma siamo riusciti a salvarla. Ora è indebolita, ma sta bene.»
E mentre John ringraziava gli dei per averla risparmiata, Skyler domandava: «È sveglia?»
«Non ancora. Per adesso è in una sorta di stato comatoso, ma preghiamo gli dei perché si riprenda presto.»
«E il braccio?» John non aveva idea del perché l’avesse chiesto, ma la domanda aveva lasciato le sue labbra prima che potesse serrarle. «È da lì che ha perso tutto quel sangue, giusto?»
Chirone aveva annuito, cupo. «Purtroppo abbiamo dovuto amputarlo.»
Era seguito il silenzio. Nessuno aveva il coraggio di proferire parola. Nessuno sapeva come avrebbero affrontato quella situazione.
«Qualcuno dovrà essere lì con lei, quando si sveglierà» aveva poi detto il centauro.
«Ci penso io» si era offerta Skyler, con tono deciso. «Sono una ragazza. Di me si fiderà più facilmente.»
E così era entrata nella sua stanza, e per più di un’ora e mezza non ne era uscita.
John cominciava a diventare irrequieto. Mentre Chirone era rimasto nella stessa posizione per tutto quel tempo, in piedi accanto a lui con le braccia incrociate, lui si era torto le mani e si era alzato, e riseduto. Poi di nuovo alzato, e poi di nuovo riseduto. Poi di nuovo alzato. E quando Skyler uscì dalla stanza era un’altra volta seduto.
Non appena la vide, balzò per l’ennesima volta in piedi, correndole incontro.
«Allora, come sta?»
Skyler corrucciò le sopracciglia ed esitò, cosa che a lui non piacque per niente. Ma poi annuì leggermente. «Sta bene. È viva, ed è questo che conta. Sapeva già di essere una semidea.»
«Ti ha detto qualcosa del suo genitore divino?» chiese Chirone, con premura.
Skyler scosse il capo. «È stata riconosciuta, ma non sa da chi. E purtroppo non possiamo vedere il suo tatuaggio. Dice che forse può ricordare la forma del simbolo, ma non ho avuto il coraggio di chiederglielo adesso.»
Chirone annuì, quasi fosse d’accordo con la sua decisione. «Lo scopriremo poi con calma.»
«E non ti ha detto altro?» domandò apprensivo John, guardando l’amica. «Da dove viene? Se magari ricorda qualcosa?»
Skyler si strinse nelle spalle, e dal modo in cui i suoi muscoli erano contratti, John capì fosse un po’ a disagio. «Poi ho dovuto dirle del braccio.»
Nessuno fiatò, né fece qualche altra domanda. Solo dopo aver fatto un grande respiro, Chirone disse: «Qualcuno deve occuparsi di lei. È ancora instabile, e nonostante sappia già della sua natura semidivina tutto questo è comunque nuovo, per lei. Aggiungiamoci poi la tragedia che le è capitata, e otteniamo il mix perfetto.»
«Ci penso io» si offrì John, senza nemmeno dargli il tempo di terminare la frase.
Skyler gli posò una mano sul braccio. «Non lo so, John. Forse non è una buona idea.»
«E chi meglio di me, scusa? Sono un figlio di Apollo, so come muovermi in mezzo ai medicinali. E so come ci si sente ad aver perso qualcosa.»
Chirone sembrò non capire, ma Skyler sì. Lo guardò per un secondo negli occhi, prima di accennare un flebile sorriso e voltarsi verso il centauro. «Non affiderei la mia vita nelle mani di nessun’altro» affermò, con tono deciso.
John guardò Chirone, in attesa.
L’uomo studiò per un secondo i due ragazzi con lo sguardo, ma dal suo volto si capiva che era troppo stanco per sollevare delle obbiezioni, per cui annuì. «Allora è deciso.» Diede una pacca sulla spalla del ragazzo. «Sai quello che devi fare. E se non lo sai, non esitare a chiamarmi.»
«Si conceda un po’ di riposo, Chirone» gli disse invece John, con un cenno del capo. «Se lo merita.»
Il centauro gli regalò un sorriso triste, per poi allontanarsi al trotto verso la sua umile dimora.
Quando fu sparito, John tornò a guardare Skyler. «E anche tu» la ammonì dolcemente, posandole le mani sulle spalle. «Va a dormire.»
La ragazza storse il naso, contrariata. «Sei sicuro di volerlo fare?»
«Ehi, sei tu che non affideresti la tua vita nelle mani di nessun’altro, no?» scherzò, nel vano tentativo di strapparle un sorriso. Poi sospirò. «Quella ragazza è in buone mani, te lo assicuro.»
«Di questo non ne ho mai dubitato» sorrise Skyler, per poi scoccargli un bacio sulla guancia e andare via, strascicando i piedi per la stanchezza.
A differenza sua, John era molto più vigile di quanto non si fosse mai sentito.
Si voltò a guardare la porta di quella ragazza che poco prima stava morendo tra le sue braccia, e che adesso era lì, sana e salva.
Forse i miracoli esistono davvero, pensò John. E forse ce n’è proprio uno dietro quella porta.
E, mentre si preparava psicologicamente per quella che sarebbe stata la notte più insonne di tutta la sua vita, con un sorriso capì che sì, quella ragazza era un miracolo.
E sì, lui gliel’avrebbe fatto capire.
 
Ω Ω Ω
 
Dopo che Skyler era uscita dalla sua stanza, Melanie non aveva più sillabato una parola.
Alcune figlie di Apollo erano entrate ed uscite da lì parecchie volte nelle ultime nove ore. Le avevano spalmato dell’unguento sulla sua nuova ferita di guerra e le avevano cacciato in bocca contro la sua volontà una strana poltiglia. Ambrosia, l’avevano chiamata. Ma Melanie non ne sapeva niente a riguardo, se non che sapesse di biscotti al cioccolato.
Come quelli che le preparava suo padre.
Tra uno spostamento e l’altro, quelle ragazze avevano anche provato a farle delle domande, dapprima difficili, poi via via più banali. Ma, ovviamente, non avevano ottenuto alcuna risposta.
Melanie si rifiutava anche di guardarle. Se ne stava lì, lo sguardo fisso sullo spoglio muro, chiusa nella sua teca di silenzio, ad ascoltare gli assordanti rumori che facevano i pensieri nella sua mente.
Prima, le figlie di Apollo arrivavano con intervalli di venti minuti. Ora, invece, era da più di due ore che Melanie aveva finalmente un po’ di tregua.
Tutte quelle novità la stavano soffocando. Sentiva una sorta di strano peso sul petto, che le impediva di respirare se non trattenendo il fiato per un po’ per poi lasciarlo andare.
La testa le faceva ancora male. Non come prima, ovviamente. Adesso quello era diventato più un dolore pulsato, quasi avesse deciso di seguire il ritmo del suo cuore che batte, infrangendosi contro le sue tempie.
Dopo quella prima volta, non aveva più trovato il coraggio di guardare ancora il moncone. Che senso aveva? Era lì, e lei lo sentiva.
Percepiva ancora lo scheletro del suo braccio; il fantasma della pelle che non c’era più avere la pelle d’oca.
In alcuni momenti aveva come la sensazione che le pizzicasse, ma ogni volta che faceva per allungare la mano nell’intento di far sparire quel prurito, le veniva in mente che lì non ci avrebbe trovato più niente, e quindi stringeva nel pugno le lenzuola imponendosi di pensare ad altro.
«Poverina», aveva sentito sussurrare a quelle ragazze ad un certo punto, quando erano già uscite dalla sua stanza. «Per lei deve essere dura.»
Ma si sbagliavano, ovviamente. Non era dura. Non era difficile superarlo.
Era logorante.
Aveva appena perso una parte di sé. Ma non di qualcosa che si rimargina, come il cuore. No, quella parte non sarebbe tornata indietro mai. Era andata via davvero. Per sempre.
Ma infondo, Melanie non le biasimava. Cosa potevano saperne, loro, di come ci si poteva sentire?
Cosa potevano saperne, di cosa significa perdere un braccio?
Niente, era questa la verità. E lei avrebbe dovuto affrontare tutto quel dolore da sola. Di nuovo. E per sempre.
Sentì gli occhi bruciare, e si accorse delle lacrime che le rigavano le guance solo quando sentì un sapore salmastro agli angoli della bocca.
Tirò su col naso, asciugandosele velocemente con il dorso della mano e stringendo i denti. Piangere non sarebbe servito a niente. Le lacrime non avrebbero riportato indietro il suo braccio. Né nessun’altro.
Prese un respiro tremante, facendo vagare gli occhi per la candida stanza.
Cominciava ad odiarla. Voleva andare via di lì. Voleva solo alzarsi da quel letto, e correre fino a sentir cedere le gambe; e salire sulla montagna più alta che esista e gridare fino a che non le sarebbero bruciate le corde vocali.
Voleva lasciarsi morire lì, in quella piccola stanza, nella speranza che forse, così facendo, tutto quel dolore sarebbe evaporato fuori dal suo petto; che l’avrebbe lasciata in pace.
Forse i Campi Elisio non erano così male. Forse era davvero quello l’unico posto in cui si sarebbe sentita di nuovo completa. In cui non sarebbe più stata attaccata dai suoi stessi pensieri.
Senza pensarci, strinse nel pugno il medaglione che portava al collo, strizzando con così tanta forza gli occhi da sentire delle fitte dietro le palpebre. Si rimproverò mentalmente.
Che pensieri erano mai questi? Davvero preferiva morire, invece di continuare a lottare?
Sì, ed era questo il problema.
Preferiva farla finita subito, ma non perché fosse la via più facile per risolvere tutte le sue congiure.
No. Lei voleva solo un po’ di tranquillità. Voleva un cuore meno pesante, dove non ci sarebbero stati rabbia, odio, tristezza, rancore, solitudine, disperazione. Un cuore dove non ci sarebbe stato altro, se non la pace che tanto sognava.
Non voleva essere felice. Voleva essere libera.
Papà sarebbe inorridito, di fronte a questi pensieri, si disse, rigirandosi il medaglione d’oro tra le mani.
Era a forma di cuore, con sopra delle delicate incisioni floreali. Melanie sfiorò con il polpastrello il fiore che troneggiava al centro, malinconica. Poi, premette il piccolo pulsante e il medaglione si aprì. Dentro, c’era un orologio. Suo padre non lo faceva di mestiere, ma nel tempo libero ne aggiustava qualcuno, per passione. La passione che a lei era sempre mancata.
Non capiva cosa ci fosse di tanto interessante nell’osservare i loro ingranaggi, e i loro minuscoli chiodi, e quelle due lancette delle quali ogni movimento era accompagnato da uno snervante ticchettio.
Ora che si trovava lì, in quella stanza, però, rimpiangeva di non aver aggiustato più orologi con lui.
Nel lato sinistro del medaglione, invece, c’era una foto. Era sua e di suo padre, di quando lei aveva solo cinque anni. Le piaceva guardarla, soprattutto quand’era giù di morale.
Come in quel momento. Ma, con triste orrore, si accorse che neanche quella sarebbe bastata a ricucirle l’anima spezzata.
Qualcuno bussò delicatamente alla porta, e Melanie richiuse con uno scatto il ciondolo che stava rimirando, nascondendoselo sotto il colletto della maglietta.
Senza aspettare un suo permesso per entrare, il cardine cigolò, ed un ragazzo varcò la soglia.
A giudicare dall’aspetto, doveva essere imparentato con tutte le altre figlie di Apollo che fino a quel momento l’avevano assistita.
Melanie fece roteare gli occhi, per poi inchiodarli nel muro alla sua destra, decisa a non guardarlo.
Il ragazzo probabilmente non si era accorto della sua presa di posizione, oppure fingeva di non notarla. Quale delle due fosse la verità, comunque John, gentilmente, sorrise.
«Ciao» la salutò, con tono deciso ma pacato. «Come va?»
Proprio come tutte le altre ragazze che le avevano posto quella domanda, non ottenne risposta.
Lui però non sembrò scomporsi, e come se niente fosse accaduto si avvicinò al suo letto, squadrando il vassoio ancora pieno che qualcuno aveva posato sul suo comodino.
«Hai mangiato?» provò di nuovo, prendendo una mela dal vassoio e rigirandosela fra le mani.
Di nuovo nessuna risposta.
Melanie stava cominciando ad infastidirsi. Quel ragazzo ostentava fin troppa disinvoltura, e si aggirava per la stanza come se non ci fosse niente di strano, in tutta quella situazione. La bionda ebbe il forte impulso di voltarsi e fulminarlo con lo sguardo, ma si concentrò per tenere gli occhi fissi sul muro.
John non parve turbato da quell’ostinato silenzio. E, dandole le spalle, prese da un comò lì vicino un po’ di nettare e ambrosia.
«Come ti senti?»
«Come chi ha appena perso un braccio.»
Non sapeva da dove fosse uscita quell’affermazione, né perché, dopo tutte quelle ore di silenzio, l’avesse sputata in faccia proprio a quel ragazzo. Ma, nel momento stesso in cui la diceva, capì che era la triste verità.
Forse però quelle parole avevano lasciato la sua bocca un po’ più acide e fredde del necessario, perché quando lui si avvicinò di nuovo al suo letto, aveva le sopracciglia leggermente corrucciate.
«Sai, non dovresti fare così» le disse, con una leggera punta di rimprovero. «Non fai altro che peggiorarti la situazione.»
Le avvicinò un pezzetto di ambrosia alle labbra, ma Melanie fece una smorfia e voltò ancora di più il capo, intenzionata a non mangiarla.
«È facile parlare, per te» mormorò, e dal suo tono quella sembrava più un’accusa.
A dispetto di quanto immaginasse, sul volto di John comparve un sorriso sghembo. «Sì» annuì, con un po’ d’amarezza. «Sì, lo è.» Dopo l’ennesimo tentativo di farle bere un po’ di nettare, si allontanò di nuovo da lei, tornando a metterli a posto. «Ho visto persone conciate molto peggio di te» disse dopo un po’, con tono neutro e moderato. «Per questo posso dirti con certezza che questo atteggiamento non serve a niente.»
Stavolta, Melanie si voltò a guardarlo, pronta a lanciargli un’occhiataccia; ma quando lo fece, si accorse che lui le dava ancora le spalle. Lo osservò attentamente per la prima volta. Aveva i capelli di un biondo ramato, e un fisico ben piantato, dovuto molto probabilmente ai tanti anni di allenamento al Campo.
A primo impatto, Melanie ebbe l’idea che si trattasse di uno di quei ragazzi che sono belli come il sole, e che sanno di esserlo. Uno di quelli che passa gran parte del giorno attorniato da ragazze. Uno di quelli che ha una fidanzata alla settimana, due se tutto va bene.
E lei avrebbe dovuto affidarsi ad un tipo così? Sarà anche stato un figlio di Apollo, ma se era come lei l’aveva immaginato, preferiva di gran lunga essere sbranata da un cane che averci a che fare.
Che cosa avevano al posto del cervello, lì? Bucce di patate?
Non fece in tempo a rispondersi, che John si voltò di nuovo verso di lei, guardandola con un sopracciglio inarcato.
Melanie arrossì violentemente, distogliendo velocemente lo sguardo. Era rimasta a fissarlo… per quanto? Dieci minuti? O si era trattato solo di pochi secondi? Si sentiva il volto in fiamme.
Che diamine le prendeva, adesso?
«Comodo dirlo, quando non sei tu a trovarti in certe situazioni» cercò di dire, ma la sua voce suonò meno ferma di quanto sperasse.
«Mmh» John storse la bocca, facendo finta di pensarci. «Io non credo.» Sospirò, inclinando leggermente il capo. «Vedi, quando sei tu, ad avere un problema» spiegò, trascinando le parole. «Dopo un po’ lo superi, o te ne fai una ragione. Ma quando invece sono gli altri ad averlo, tu… tu ti senti impotente, perché sai di non poterlo aiutare.»
Melanie sorrise amaramente, e dalle sue labbra sfuggì uno sbuffo ironico. «È un modo carino per dirmi che sono spacciata?»
«È un modo carino per dirti che devi mangiare» ribatté lui, serio. Si avvicinò di nuovo a lei, e fece scivolare il vassoio pieno di cibo sul comodino, di modo da avvicinarglielo un po’ di più.
Melanie fissò il vassoio con un’espressione indecifrabile. Poi alzò brevemente lo sguardo su di lui. «Non ho fame» affermò, con voce atona, per poi tornare a fissare il muro con scarso entusiasmo.
Il ragazzo sospirò, stringendo le labbra in una linea sottile. Poi sollevò le sopracciglia, scrollando leggermente il capo, quasi fosse dell’idea che quella fosse una battaglia persa.
«Sono John, comunque» si presentò, riordinando le cose sul vassoio e prendendolo in mano.
Lei si morse l’interno della guancia, indecisa. Sarebbe rimasta in silenzio, ma che differenza faceva? Se era lì, sicuramente sapeva già il suo nome. «Melanie» borbottò quindi, quasi riluttante.
«Bene, Melanie» disse allora lui, facendole il verso. Posò un unico piatto sul comodino, indicandoglielo con un cenno. «Ti lascio qui un po’ di pasta, nel caso cambi idea.»
Melanie non disse più una parola, e lui parve se lo fosse aspettato, perché sul suo volto c’era una calma rilassante, neanche l’ombra di delusione.
Portandosi dietro tutto l’altro cibo che le avevano proposto, John si avviò verso la porta, e a quel punto lei capì che sarebbe rimasta di nuovo sola.
Il cardine cigolò, ma poco prima che lui potesse varcare la soglia, si voltò a guardarla. «Sai, ti consiglio di guardarti allo specchio al più presto» proruppe, cogliendola un po’ di sorpresa. «Così da vincere lo shock iniziale. Una volta superato il primo ostacolo, la strada è tutta in discesa.»
Non aspettò risposta, né un cenno d’assenso. Uscì dalla stanza e si chiuse dietro la porta, lasciandola di nuovo sola in quel ora surreale silenzio.
 
Ω Ω Ω
 
Ti consiglio di guardarti allo specchio al più presto.
Queste parole non avevano fatto altro che vorticarle nella testa per tutto quel tempo.
Dopo quella visita, John non era più tornato.
Melanie era rimasta sola per altre due ore, prima che un’altra figlia di Apollo entrasse nella sua stanza per spalmarle dell’unguento sul braccio mancante.
Era strano, perché ogni volta che il cardine della porta di legno cigolava, la bionda tratteneva sempre il fiato, in attesa. E non riusciva mai a non soffocare una certa delusione, quando la persona che entrava non era il ragazzo dai capelli baciati dal sole.
John aveva avuto uno strano effetto su di lei. Non tanto per come si era comportato, quanto più per ciò che le aveva detto. Nella sua voce non c’era stata, neanche per un secondo, l’ombra della compassione, o della tristezza, o del dispiacere.
Al contrario, il suo tono era sempre stato fermo e deciso, come se tutta quella situazione non avesse bisogno della carità altrui. Come se lui volesse aiutarla non perché le faceva pena, ma perché voleva aiutarla davvero.
Guardati allo specchio al più presto.
Nonostante nel momento in cui aveva pronunciato quella frase Melanie l’avesse odiato, solo quando le mura della stanza erano di nuovo state impregnate dal silenzio si era resa conto di quanto in realtà quel consiglio fosse utile.
Guardare la sua immagine riflessa dopo alcuni giorni sarebbe stato molto più traumatizzante, o almeno questo era quello che John le aveva fatto capire.
Doveva imparare ad accettare la sua nuova forma al più presto, prima che diventasse impossibile.
Digrignando i denti per lo sforzo, si tirò su a sedere.
Ormai era da più di tre ore che dalla porta non entrava qualcuno, e a giudicare dalla luna alta nel cielo che riusciva a scorgere attraverso i vetri della piccola finestra, doveva essere notte fonda.
John non sarebbe più tornato.
Melanie se lo sentiva, anche se un angolo nascosto della sua mente sperava il contrario.
Per un attimo, lui l’aveva distolta da tutti i suoi problemi. Aveva smesso di pensare a come odiarsi e aveva cominciato a cercare un modo per odiare lui. Magari non era quello il vero motivo per cui sentiva quell’insolita mancanza nel petto, ma le piaceva credere che fosse così.
Guardati allo specchio.
Era davvero la cosa giusta da fare? La strada dopo sarebbe stata davvero tutta in discesa, o da quel momento in poi sarebbe cominciata una terribile salita?
Questo Melanie non poteva saperlo. E forse non lo sapeva con certezza nemmeno John.
Cacciò il medaglione fuori dal colletto della maglietta, e lo strinse con forza nel pugno. Anche se flebilmente, le dava coraggio. La convinceva che forse non era poi così sola.
Ma nel momento stesso in cui pensava a tutto quello che era successo prima che lei arrivasse lì, le sue certezze crollavano, e Melanie si ritrovava di nuovo a combattere contro quella bestia nel suo stomaco che era così difficile da controllare, e che continuava a ripeterle che il modo più rapido e indolore per scappare da tutta quella tristezza era farla finita.
La ragazza strinse ancora di più il medaglione nel pungo, fino a conficcarsi le unghie nei palmi.
Non poteva permettersi simili pensieri. Non era abbastanza forte per poterli combattere.
Non sarebbe mai stata più potente di loro.
Si guardò circospetta intorno, scrutando con sguardo attento la stanza.
Guardati allo specchio.
La voce di John era l’unica cosa che, in quel momento, avrebbe potuto farla pensare ad altro.
Guardati allo specchio.
Non capiva bene il perché, ma c’era qualcosa, in quel dolce suono che emettevano le sue corde vocali, che le infondeva un tenero calore nel petto.
Guardati allo specchio.
Ora sembrava più un ordine che una necessità.
Finalmente lo vide.
In realtà l’aveva già notato quando, nei suoi momenti di silenzio, si sforzava di concentrare l’attenzione su altro.
Ma mai come in quell’istante le era sembrato così minaccioso, eppure così invitante.
Lo specchio era a circa tre metri da lei, fisso e immobile contro il muro.
Come può una cosa essere allo stesso tempo tanto attraente quanto inquietante?
Come puoi pensare che quella sia la cosa giusta da fare e nel frattempo tremare al timore di farla?
Perché mentre si alzava dal letto il suo corpo si avvicinava allo specchio deciso, ma la sua anima paventava al pensiero di ciò che ci avrebbe trovato dentro?
Quando fu a circa un metro di distanza, si arrestò di colpo.
Un groppo grande quanto un pugno le serrò la gola, e Melanie avvertì le sue ossa tremare a tal punto da minacciare di non sorreggere più il suo peso.
Fissò il vetro immacolato con muto terrore, e proprio mentre stava per fare un passo indietro, questo sembrò parlare con la voce di John.
Guardati.
Doveva farlo, ma non voleva farlo.
Voleva farlo, ma non doveva farlo.
E poi, lo fece.
Si avvicinò abbastanza da entrare nei bordi dello specchio e vide la sua immagine riflessa nello specchio.
Nella sua mente sfrecciarono confuse diverse emozioni.
Incredulità, rabbia, dolore, tristezza, rassegnazione.
Non era per niente come se l’era immaginato. Era addirittura peggio.
Il moncone arrivava a malapena sotto l’ascella, e un’orrida cicatrice lo attraversava rosea e increspata.
Il suo braccio, come ormai già sapeva, non c’era più. Eppure non riusciva ancora a capacitarsene.
Sentì gli occhi bruciare, e così distolse lo sguardo.
Piangere non sarebbe servito a niente, di questo ne era consapevole. Non avrebbe riportato indietro il suo arto mancante, né tantomeno avrebbe annullato ciò che era successo.
Impara ad accettarti, si impose.
E con quel pensiero in testa posò di nuovo sul suo riflesso le sue iridi color nocciola.
Ora la sua immagine faceva un po’ meno paura.
Era sempre a metà, ovvio. Le mancava sempre qualcosa. Ma era già come vedersi per la seconda volta. Era già più facile guardarsi, perché sapeva già che cosa aspettarsi.
E fu allora che pianse.
Dapprima fu un pianto silenzioso, perché le lacrime rigarono le sue guance senza fare il minimo rumore. Ma poi fu scossa da dei violenti singhiozzi, e allora il suo divenne uno sfogo più disperato.
Piangere non sarebbe servito a niente, eppure lei lo fece.
Pianse per sé stessa, per ciò che aveva perso, per ciò che avrebbe perso.
Pianse per il suo moncone; per il suo braccio mancante, che non sarebbe più tornato.
Pianse per suo padre, che era ormai troppo lontano, irraggiungibile.
Pianse per ciò che non sarebbe più stata, e per ciò che non sarebbe potuta essere mai.
Ma, in tutto questo, riuscì anche a ringraziare John. A chiedergli scusa per i toni acidi con i quali lo aveva trattato, e a dirgli grazie per essere stato l’unico a non aver avuto pietà di lei.
Perché era stato lui a darle l’ottimo consiglio di guardarsi allo specchio.
E perché era solo merito suo se, piano piano, avrebbe cominciato ad accettarsi.


Angolo Scrittrice.
In diretta tra cinque... quattro... tre... due...
Bounjour a tout le monde!
O dovrei dire Hola? O Hallo?
Ah, facciamo in italiano, che è meglio. Salve a tutti, bella gente!
Oggi è martedì, ed io sono ancora qui, a scassarvi con uno dei miei capitoli.
Ma andiamo per gradi, vi va?
Duqnuo.
Per tutti quelli che mi avevano chiesto informazioni su quella ragazza dico:
Si salverà?
Beh, come vedete sì, si è salvata. Una parte di lei, almeno. Devo dire che la creazione di questo personaggio è stata difficile anche per me. Ma di questo ne parlo dopo.
Chi è?
Si chiama Melanie, e non voglio descrivervela prima del tempo, perchè mi piacerebbe che impariate ad apprezzarla anche senza il mio aiuto. Quello che posso dirvi però è che Melanie è sarcastica, fragile, persa, insicura, decisa, orgogliosa e bisognosa di affetto. Affetto che però non sa dove trovare. Mischiate insieme tutte queste cose, e troverete un mix perfetto per un personaggio che (lo ammetto!) si gestisce da solo. Io faccio solo da 'spalla'.
Non conosciamo ancora il suo genitore divino, ma qualcuno di voi ha qualche idea? Sparate, sono curiosa di sentirle **
Da dove viene?
Questa è una cosa che scoprirete col tempo. Un personaggio va apprezzato passo dopo passo, sono convinta che a svelarne tutto subito perda tutta la sua originalità, nonché il suo mistero.
Ma la domanda che sono sicura tutti vi stiate ponendo è: Perchè le hai fatto questo?
E
la risposta è: Non ne ho idea.
O meglio, non è stato per un impeto di cattiveria.
Ho voulto sfidarmi. Volevo che questa storia fosse speciale, diversa, e che voi non la seguiste solo perchè era "il continuo dell'altra", ma perchè vi piaceva davvero.
Non voglio che questa storia sia "Il seguito de Il Morbo di Atlantide". Voglio che questa storia sia "La Pietra dei Sogni". E' stato questo il mio obbiettivo, fin dall'inizio.
Per questo mi sono rimboccata le maniche e ho cercato di trovare una trama originale, che stupisca. Una trama dove ritrovate tutte le caratteristiche della storia precedente, ma che allo stesso tempo vi sorprenda, vi lasci senza porole.
Non volevo la banalità, ecco. Volevo essere in grado di
farvela ricordare.
E poi, volevo mettermi alla prova. Credo che Melanie sia solo uno dei tanti aspetti di questa storia che allo stesso tempo mi esalta e mi spaventa. Voglio vedere fin dove posso arrivare. Voglio fare questo mestiere, ma prima devo capire se ne sono in grado. Se riesco ad andare oltre ciò che si definisce un semplice autore. Io non voglio scriverle, le storie. Io voglio raccontarle.
Voglio far provare emozioni, voglio trasmettere empatia. Vorrei essere in grado di farvi amare un personaggio, nonostante i suoi difetti. Di farvi preoccupare per lui. Di farvi sperare per lui.
Non ho la presunzione di dire che ci sto riuscendo. Ma spero di essere sulla buona strada.
Quindi, Melanie è anche una sfida. Una sfida a me stessa e alle mie capacità.
Non ho mai scritto di un personaggio che ha vissuto una simile disgrazia, perdendo un braccio. Immedesimarsi in lei (come in tutti coloro che la circondano) non è facile, ma mi auguro di riuscirci al meglio.
Se ce la farò, comunque, dovrete dirmelo voi ;)
And so, dopo questo sproloquio di cui sono sicura non vi importa un fico secco, ditemi: Vi è piaciuto il capitolo? O l'avete trovato orrendo? Che ne pensate del nuovo personaggio? Vi piace, lo odiate o vi è indifferente?
Fatemi sapere tutto, sono super curiosa!
Purtroppo ora devo fiondarmi a studiare ._.
Ma prima, voglio ringraziare i miei bellissimi Valery's Angels, che nello scorso capitolo mi hanno regalato delle recensioni a dir poco stupende ** Grazie a:
Myrenel Bebbe ART5, _angiu_, Kamala_Jackson, carrots_98, martinajsd, Cristy98fantasy, Visyl, kiara00, FoxFace00 e _Krios Bane_
Grazie, siete la mia forza!
E grazie anche alle 23 persone che hanno inerito la storia tra le seguite, a colui/lei che l'ha messa tra le ricordate e alle 33 che l'hanno aggiunta tre le preferite! Un grazie caloroso, davvero.
Bien bien bien, oora... è proprio il momento di andare!
Grazie ancora, e spero proprio che il capitolo vi sia piacuto.
Un bacione enorme! Al prossimo martedì
Sempre vostra,

ValeryJackson










 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***




 
Voglio dedicare questo capitolo a tutti i
miei Valery's Angels.
Ma poi vi spiegherò il perchè.


John entrò nell’infermeria con Siddharta di Hermann Hesse stretto in una mano.
Erano passati circa dieci giorni, da quando Melanie era arrivata al Campo.
Il ragazzo aveva mantenuto fede alla parola data, e, con l’aiuto di due delle sue sorelle, si era preso cura di lei, assicurandosi che affrontasse con ottimismo la tragica situazione nella quale era stata catapultata.
Per i primi tre giorni, John non si era fatto vedere. Entrava sempre nella sua stanza solo quando era sicuro che la ragazza stesse dormendo.
Non perché voleva evitare gli inutili scontri con i quali dovevano fare i conti le sue sorelle ogni volta che cercavano di farla mangiare, ma perché gli piaceva osservarla mentre riposava.
I capelli biondi le incorniciavano il viso dai tratti delicati, e il suo corpo rilassato sembrava finalmente privo di tensione, mentre il suo petto si alzava e si abbassava dolcemente grazie a dei respiri lenti e regolari.
Sembrava in pace, quando dormiva. E nonostante John non avesse voglia di ammetterlo, non vedere più le sue labbra imbronciate (seppur per un brevissimo lasso di tempo) era piacevole anche per lui.
Gli faceva credere che forse c’era davvero speranza. Che forse anche quella povera ragazza avrebbe potuto trovare, anche se con un po’ di difficoltà, la felicità che le spettava.
Per questo, durante quei tre giorni trascorsi in infermeria, ogni volta aspettava in corridoio, seguendo con lo sguardo le sue sorelle che entravano ed uscivano frettolosamente dalla stanza. Poi domandava loro che cosa stesse facendo la sfortunata paziente, e quando la risposta era «Sta dormendo», John lasciava andare il fiato che senza accorgersene aveva trattenuto, cercava velocemente una scusa per poter andare da lei e sgattaiolava all’interno dell’asettica camera, indugiando un secondo più del dovuto sullo stipite della porta prima di richiudersela alle spalle, prendere una sedia e sedersi accanto a lei.
Ed osservarla, e sentire il suo respiro. E studiare ogni sfumatura e imperfezione del suo viso fino ad imparare i suoi tratti a memoria.
Se qualcuno glielo avesse chiesto, sarebbe stato in grado di disegnarlo ad occhi chiusi. E aveva intenzione di farlo, quando, il quarto giorno, entrò di nuovo furtivo nella sua stanza.
Solo che Melanie era sveglia. John non sapeva che la ragazza aveva fatto finta di dormire solo per far sì che quelle due assillanti figlie di Apollo se ne andassero una volta per tutte.
Non appena i suoi occhi color nocciola si erano posati su di lui, Melanie aveva sussultato, quasi fosse stata colta in flagrante mentre rubava qualcosa. La sua espressione, però, era mutata non appena raveva riconosciuto il ragazzo, e John aveva riconosciuto un luccichio di interdizione, nel suo sguardo.
Il figlio di Apollo aveva esitato un attimo, indeciso sul da farsi, per poi sgranchirsi la voce.
«Sono qui per medicarti il braccio» aveva mentito, evitando volontariamente di incrociare il suo sguardo, come se avesse paura che lei potesse riconoscere la menzogna.
Melanie aveva inarcato un sopracciglio, sorpresa. Poi, mestamente, aveva annuito.
A quel punto lui si era diretto verso il mobile dei medicinali, sentendo lo sguardo di lei pungergli la schiena. La ragazza lo osservava, senza proferire parola, e John si era sforzato di sembrare il più naturale possibile mentre, sedendosi sul bordo del letto, le spalmava dell’unguento sul moncone.
Ed erano rimasti così, avvolti da un silenzio religioso. Silenzio che era stata lei a spezzare, quando con voce roca gli aveva domandato: «Tu sai leggere?»
Solo a quel punto John aveva alzato lo sguardo, non trovando il suo, e un sorriso sarcastico si era dipinto sulle sue labbra. «Quanti anni credi che abbia?» aveva ribattuto, con una punta di divertimento nella voce.
Il volto di lei, però, rasentava la perfezione contorto in un’espressione seria e concentrata che fece vacillare il ragazzo. «Io sono dislessica» aveva semplicemente risposto lei, e John aveva annuito.
«Anch’io.»
«Quindi non sai leggere?»
«Non ho detto questo.»
I suoi occhi erano curiosi, John riusciva a capirlo anche se non li aveva ancora incontrati. Curiosi, e anche confusi.
«Non ti seguo.»
E così lui le aveva spiegato la verità. Che tutti i semidei erano dislessici, ed erano in grado di leggere solo il greco antico. E poi aveva accennato ai figli di Atena, e a come loro non si privassero del dolce piacere della lettura, leggendo anche quelli che erano i libri dell’età contemporanea e che venivano spesso tradotti nella vetusta lingua.
Melanie l’aveva ascoltato attenta, aspettando qualche secondo prima di domandare: «Leggeresti qualcosa per me?»
La sua voce era un sussurro, una flebile domanda rivolta al vento. Ma aveva colpito il cuore di John come se qualcuno l’avesse stretto in una morsa d’acciaio per pochi secondi.
Leggerle qualcosa? Perché mai avrebbe dovuto?
Eppure, più ci pensava e più si sentiva in dovere di farlo.
Forse Melanie aveva posto quella domanda così, giusto per allenare le corde vocali. E di certo non si sarebbe mai aspettata che il ragazzo (dopo non averle risposto ed essersene andato in silenzio) avesse preso così seriamente quella proposta.
Fatto sta che il giorno seguente, quando ormai Melanie si era rassegnata all’idea che mancassero pochi minuti prima che una figlia di Apollo fosse andata ad imboccarla, John aveva varcato la soglia della sua stanza, con un piatto di hamburger già tagliato in una mano e Il piccolo principe nell’altra.
Aveva sorriso raggiante, posandole il cibo sul grembo e porgendole una forchetta, mentre sotto il suo sguardo attonito trascinava una sedia accanto al suo letto, per poi accomodarsi.
«Spero ti piaccia» aveva scherzato, indicando con un cenno il piccolo libro che stringeva tra le mani. «Perché personalmente lo adoro.»
E così aveva cominciato a leggere, senza aspettare il suo consenso, e a dispetto di quanto immaginasse lei era rimasta ad ascoltarlo, senza interromperlo neanche una volta. E erano passate due ore, e John non si era fermato, e un angolo della sua bocca si era incurvato in un sorriso quando con la coda dell’occhio aveva visto lei cominciare lentamente a mangiare.
«Se vuoi torno stasera» le aveva proposto, dopo che una volta finito il libro le aveva preso il piatto vuoto dal grembo e si era avviato verso la porta.
Lei aveva esitato un secondo, pensierosa, prima di rispondere, fingendo indifferenza. «Conosci Via col vento
Per cui John era tornato quella sera, e la mattina dopo, e la sera dopo ancora, ogni volta con un libro diverso e un po’ di cibo in un piatto.
John leggeva, Melanie ascoltava.
John si perdeva nel libro, Melanie si perdeva nella sua voce.
Era bello stare insieme, e questo bastava.
«Non ho idea di come fai» si era complimentata Theresa, sua sorella, dopo avergli fatto notare che la ragazza mangiava solo in sua presenza. «Ma il tuo metodo funziona.»
E John ne era consapevole, anche se era convinto di non fare nulla di speciale.
Eppure Melanie, oltre che mangiare, stava cominciando anche ad aprirsi con lui, e il ragazzo se ne era reso conto quando, mentre stava leggendo Il giovane Holden, la ragazza lo aveva interrotto, cosa che non osava fare mai.
«Mi sono guardata allo specchio, comunque» aveva esclamato, evitando, però, di guardarlo in faccia, mentre lo faceva. «Volevo solo che tu lo sapessi.»
John non aveva controbattuto, e dopo pochi secondi di silenzio aveva ripreso la sua lettura, incapace di far sparire quel piccolo sorriso compiaciuto che gli incurvava leggermente le labbra.
Siddharta le piacerà, pensò, accarezzando con muta soddisfazione la copertina verde-acqua del libro che stringeva tra le mani. È il libro che fa per lei.
Attraversò l’impersonale corridoio, salutando con un cenno qualche ragazzo che incrociava sul suo cammino.
Si fermò davanti la porta della stanza di Melanie, e la sua mano esitò un secondo di più sul pomello, mentre, dopo aver preso un bel respiro, con un sorriso varcava la soglia.
«Buongiorno!» salutò, raggiante. «Oggi ti piacerà proprio il lib…» La sua frase rimase sospesa nel vuoto.
Non appena i suoi occhi si posarono sul letto, un’acida consapevolezza gli colpì il petto.
Era vuoto. E così, l’intera stanza.
Sul suo volto si alternarono in rapida sequenza diverse emozioni. Sorpresa. Confusione. Incredulità. Preoccupazione.
C’erano solo due motivi che spiegavano perché Melanie non si trovasse nella sua stanza: o aveva lasciato l’infermeria, o era di nuovo in sala operatoria.
Un peso soffocante gli ostruì i polmoni, mentre la paura che quella notte le fosse successo qualcosa gli fece tremare le gambe.
Il libro gli scivolò di mano, adagiandosi con un tonfo sul pavimento, ma lui non si prese la briga di riprenderlo, precipitandosi fuori dalla stanza per poi scrutare entrambi i lati del corridoio.
«Theresa!» chiamò, non appena scorse la chioma baciata dal sole della sorella.
La ragazza si voltò appena in tempo per vederlo affettarsi verso di lei. «John!» esclamò, turbata nel notare la sua espressione. «Che succede?»
«Dov’è Melanie?» chiese a sua volta lui, senza preoccuparsi di non far trapelare tutta la sua inquietudine. «Perché non è nella sua stanza? Che è successo?»
«John, calmati» lo tranquillizzò lei, posandogli una mano sulla spalla con fare rassicurante. «Melanie sta bene, Chirone è venuto a trovarla stamattina.»
John si lasciò sfuggire un sospiro sollevato, dandosi dello stupido per non aver valutato la possibilità che non le fosse successo niente di grave. Ma subito dopo, una nuova domanda si fece largo nella sua mente. «Chirone?» fece infatti, le sopracciglia corrucciate. «Perché è venuto Chirone?»
«Melanie ci ha chiesto di mandarlo a chiamare, non appena si è svegliata.» Theresa titubò un secondo, prima di continuare. «Ha ricordato il simbolo che le era comparso sul braccio.»
John ci mise un po’ a capire, ma quando gli fu tutto più chiaro sgranò gli occhi, stupito. Boccheggiò un attimo, prima di domandare: «E adesso dov’è?»
«Nella Casa Quattro» fu la risposta pronta della sorella, che poi, con un sorriso, aggiunse: «Melanie è figlia di Demetra.»
Figlia di Demetra.
Come aveva fatto a non capirlo prima? I capelli biondi come il grano, gli occhi chiari come la corteccia di un salice…
Aveva forse una predisposizione per le piante che lui non aveva notato?
Figlia di Demetra.
«Io vado a trovarla» affermò deciso lui, al ché lei scosse con vigore la testa.
«No, John, è meglio se aspetti» lo ammonì. E poi, notando la sua espressione confusa, spiegò. «Melanie ha bisogno di ambientarsi nella sua nuova casa, di abituarsi alla sua nuova vita. So che temi che lei non sia in grado di superare quest’ennesima novità, ma deve imparare a cavarsela da sola. Non ci saremo sempre tu o noi a proteggerla. Devi darle il tempo di trovare il suo spazio. E poi i figli di Demetra sono molto ospitali, lo sai. In questo momento, il suo ingresso in quella casa rappresenta un nuovo inizio, mentre noi raffiguriamo il suo periodo in ospedale. Vuoi davvero ricordarle tutto quello che ha passato dopo che lei ha faticato tanto per dimenticarlo? Lascia che si riposi» sussurrò poi, posandogli teneramente una mano sul braccio teso. «Al limite, puoi andare a trovarla stasera.»
John esitò, riflettendo a lungo sulle sue parole. Poi prese un lungo respiro e annuì.
Theresa aveva ragione. Non c’era motivo di andare da lei e di aiutarla a varcare la soglia di quella sua nuova casa.
Melanie sapeva benissimo badare a sé stessa.
E poi c’erano i suoi fratelli. I figli di Demetra erano sempre dolci e cordiali con tutti. L’avrebbero accolta con calore nonostante la sua iniziale diffidenza.
C’era solo una cosa, nelle parole di Theresa, che l’aveva turbato non poco.
Noi raffiguriamo il suo periodo in ospedale.
Era davvero così? Se Melanie l’avesse visto al di fuori di quelle mura, avrebbe ricordato quel periodo buio che aveva appena superato?
Non voleva farle del male. Voleva che lei andasse avanti, e che superasse tutti i suoi ostacoli.
Ma voleva anche che li superasse con lui.
Voleva starle accanto.
Non sapeva neanche lui qual era il vero motivo, ma sapeva che voleva occuparsi di lei.
Voleva proteggerla. Voleva accudirla.
Voleva amarla.
Amarla in senso metaforico, ovvio.
Voleva far parte della sua vita, e sorreggerla ogni volta che lei inciampava.
Ma avrebbe potuto farlo, sapendo che la sua presenza, per lei, era solo un male?
Avrebbe avuto la possibilità di starle accanto?
O, per il suo bene, avrebbe dovuto rinunciare a lei per sempre?
 
Ω Ω Ω
 
Quando Chirone le aveva chiesto di disegnare su un foglio il simbolo del suo genitore divino, le emozioni di Melanie erano state confuse.
Aveva ricordato già da tempo quello strano ologramma che le era vorticato sulla testa quella notte nel bosco, eppure non si sentiva ancora pronta.
Aveva paura di un’ennesima delusione. Aveva paura di incontrare i suoi fratelli, e di non avere nulla in comune con loro. Aveva paura delle occhiate compassionevoli che la sua nuova ‘famiglia’ le avrebbe lanciato.
Aveva paura di avere troppa paura.
Ma era arrivato il momento di conoscere la verità.
Melanie sapeva che non avrebbe potuto evitare l’argomento a lungo, e la voglia di ricordare chi fosse sua madre incuriosiva anche lei. Ma non voleva venirlo a sapere davanti a tutti. Voleva essere sola, perché non era ben sicura di quale sarebbe stata la sua reazione.
Per questo quella mattina aveva chiesto a due figlie di Apollo di andare a chiamare Chirone, e poi di lasciarli soli.
Ed era per questo che non aveva detto nulla a John.
Molto probabilmente quando lui sarebbe entrato nella sua stanza e l’avrebbe trovata vuota si sarebbe preoccupato, ma l’ultima cosa che Melanie voleva era farsi sopraffare dalle emozioni davanti al ragazzo.
Era sempre stato difficile controllarsi, in sua presenza.
A differenza di tutti gli altri, che le erano indifferenti, con John Melanie si sentiva vulnerabile.
Con lui avrebbe voluto piangere, ridere, sfogarsi. E ogni volta era sempre più difficile sopprimere quei desideri.
La ragazza aveva l’interno della guancia spaccato, a furia di morderselo pur di pensare ad altro.
Mi mancherà la sua voce che legge per me, pensò distrattamente, mentre in piedi fuori dall’infermeria aspettava che Chirone tornasse con il capocabina della Casa Quattro.
Figlia di Demetra.
Quando gliel’aveva detto, lei non riusciva a crederci.
Nulla, in lei, rasentava l’idea che fosse un’amante della natura.
Odiava le rose; il fango e il concime le facevano schifo.
Non si era mai presa cura di una pianta in vita sua, e ogni volta che vedeva un orso scappava.
Che cosa c’era, in lei, da far pensare che potesse essere davvero una figlia della dea della Terra?
Eppure, a differenza sua, Chirone non era sembrato né sorpreso né confuso. Si era limitato a piegare il capo in un piccolo inchino, salutandola così come accoglieva ogni nuovo semidio al Campo.
«Ave Melanie Morgan, figlia di Demetra, dea del grano e dell’agricoltura.»
Quando il centauro rientrò nel suo campo visivo con al seguito una ragazza snella, Melanie assottigliò lo sguardo, scrutandola da lontano. Aveva dei lunghi capelli castani e due grandi occhi simili ai suoi, e si presentò con il nome di Katie Gardner.
Il suo sorriso smagliante e la sua stretta di mano calorosa davano l’idea che fosse una persona simpatica e gentile, ma Melanie decise che avrebbe pensato più tardi a farsi un quadro sulle personalità dei ragazzi, troppo impegnata, ora, a seguire sovrappensiero quella che poi si rese conto fosse effettivamente sua sorella.
Era strano, dirlo.
Era sempre stata figlia unica. L’idea di ritrovarsi all’improvviso con più di un fratello la terrorizzava non poco.
Come avrebbe dovuto comportarsi, con loro? E che cosa avrebbe dovuto dire?
Non era pratica nell’interagire con i familiari.
La sua unica famiglia era sempre stata solo il padre.
Si aspettavano che lei fosse tutti sorrisi e risate, o avrebbero capito che momento difficile stava passando e l’avrebbero aiutata?
Sarebbero stati gentili con lei? Oppure gli avrebbe fatto pena?
Questo Melanie non poteva saperlo, ma il solo porsi quelle domande le dava la nausea. Aveva già notato le occhiate fugaci che Katie lanciava al suo braccio mancante.
Che stesse pensando: ‘Poverina, chissà come dev’essere dura, per lei’?
Melanie pregò che non fosse così. Ne aveva abbastanza di sguardi dispiaciuti e gesti esageratamente altruisti. Lei voleva essere vista come una ragazza normale. Non aveva più un braccio, certo, ma questo non faceva di lei una feccia umana che aveva perso anche il suo ultimo briciolo di dignità.
Orgogliosa, così la chiamava sempre il padre. Ed era proprio il suo orgoglio, in quel momento, ad istigarla a tornare indietro.
«Vedrai, la Cabina Quattro ti piacerà!» trillò Katie con un po’ troppa enfasi, per spezzare quel silenzio che, Melanie se ne rese conto solo dopo, le stava accompagnando mestamente.
«Non ne dubito» mormorò di rimando la bionda, impegnandosi nell’accennare un breve sorriso. In mano stringeva saldamente un borsone che le avevano dato delle figlie di Apollo, nel quale Piper e alcune delle sue sorelle avevano infilato vestiti vecchi o che non usavano più. Quando era arrivata al Campo, Melanie non aveva con sé degli effetti personali, quindi al momento quei pochi indumenti erano tutto ciò che sembrasse appartenerle. E un po’ per nervosismo, un po’ perché aveva il palmo sudato, stringeva la cinghia di quella sacca con così tanta forza da avere la spanna rossa.
Quando arrivarono, la Casa di Demetra era esattamente come l’aveva immaginata. Semplice e… verde.
Era una struttura semplice, senza troppe pretese. La porta era in faggio e, a distanza di due metri l’uno dall’altro, c’erano dei vasi di fiori, che circondavano l’abitazione. Ai lati due colonne ornate di tralci di rose sorreggevano la base di marmo del tetto, nella quale era scolpita la ruota di un carro alata, abbracciata da un serpente.
Avrà qualche significato particolare, pensò Melanie, mentre sollevando lo sguardo restò a bocca aperta. Il tetto era ricoperto da un’enorme manto verde, composto da dell’erba rigogliosa e da qualche tulipano. Se allungava il collo, la ragazza poté giurare di riuscire ad intravedere un piccolo alberello, che svettava florido verso il cielo.
Katie, notando il suo sguardo stupito, le disse qualcosa con tono compiaciuto, ma Melanie non riuscì a chiederle di ripetere, che la sorella si era già avviata verso la porta.
La bionda la seguì, titubante. Lanciando un’ultima occhiata ai vasi di margherite che ornavano le finestre prima di varcare la soglia.
«Melanie, benvenuta nella tua nuova casa!» esclamò Katie, allargando le braccia quasi volesse abbracciare tutto ciò che la circondava. Poi si voltò a guardarla. «Ti troverai bene qui, ne sono certa.»
Melanie fece per dire qualcosa, ma non appena prese fiato per parlare, notò un gruppo di ragazzi avvicinarsi per salutarla. Erano circa una dozzina, o giù di lì, e sembrava si somigliassero molto, nonostante delle notevoli differenze di statura e corporatura.
«Io sono Chuck» si presentò un ragazzone alto e ben piazzato, con i capelli di un castano biondo e gli occhi verdi.
«Ed io sono Colin» disse un altro, che al contrario era esile e con gli occhi scuri come la pece. «Siamo onorati di averti qui.»
Melanie fu convinta che dicessero così a tutti i nuovi arrivati, ma poco prima che potesse dare voce ai suoi pensieri, il suo cuore perse un battito.
Il ragazzo le stava porgendo la mano, ma lei stringeva ancora saldamente il borsone in una, mentre l’altra…
«Oh» fu l’unico commento della ragazza, mentre con imbarazzo e impaccio spostava lo sguardo dalla borsa al ragazzo, dal ragazzo alla borsa.
«Lascia, faccio io» si offrì Chuck, sfilandole delicatamente il bagaglio di mano, quasi avesse paura che un qualsiasi movimento brusco avesse potuto romperle il braccio.
L’ultimo braccio che le rimaneva.
«M-mi dispiace» si scusò Colin, visibilmente rosso in viso, mentre con occhi strabuzzati sentiva lo sguardo di tutti i suoi fratelli posato su di lui a dargli dell’idiota.
«Non importa» lo tranquillizzò Melanie, finalmente libera di potergli stringere la mano, come se nulla fosse successo. «Anche per me è un onore essere qui.»
E così cominciò il giro delle presentazioni, e nonostante la ragazza avesse perso la concentrazione dopo i primi quattro nomi, si sforzò comunque di sorridere, cordiale, e di comportarsi così come avrebbe fatto in qualunque altra normale circostanza.
«Il tuo letto è questo qui» le disse poi Katie, indicandogliene uno vuoto sulla destra. «Vuoi che ti aiuti a disfare i bagagli, o…?»
«No, grazie. Faccio da sola» la interruppe prontamente Melanie, ma non appena fece per aprire il borsone, le fu chiaro che con una mano sola non ci sarebbe mai riuscita.
Per cui Katie e un’altra ragazza di nome Estelle le diedero una mano, posizionando accuratamente tutti gli indumenti negli appositi cassetti e poi rifacendole anche il letto, per rimuovere quelle pieghe di troppo che rovinavano l’ordine e l’armonia dell’intera stanza.
Come me, pensò Melanie, con una punta di amarezza nel cuore. Io rovino tutto il loro equilibrio.
Dopo averla aiutata a sistemarsi, Colin, per rimediare all’errore madornale di poco prima, si offrì di mostrarle il bagno, spiegandole gli orari che avevano prestabilito, ma dicendole anche che, dato che era arrivata da poco, per lei potevano chiudere un occhio, e che sarebbe stata libera di andare quando voleva.
«Voglio anch’io un orario da rispettare» ribatté lei risoluta, per poi stringersi nelle spalle sotto il suo sguardo interdetto.
Non voleva favoritismi o atti di carità. Voleva semplicemente essere come tutti gli altri.
Lei era unicamente, ingenuamente e chiaramente una ragazza.
Una ragazza con un braccio solo, certo. Ma pur sempre una ragazza.
Perché per tutti era così difficile da accettare?
«Noi ora dobbiamo andare agli allenamenti» le disse Katie, a tour della casa finito. «Tu vuoi venire con noi, o…?»
«Resto qui» annuì distrattamente Melanie, per poi lasciarsi sfuggire un breve sospiro. «Credo che mi farò un bagno.»
«Hai bisogno che qualcuno resti qui con te?»
«Andate.» Suonò quasi come un ordine, quando pronunciò quella parola. Katie era una persona dolce, questo non c’era da metterlo in dubbio, ma tutto ciò che voleva, in quel momento, era restare sola. Intenerì un po’ il tono, però, quando con un sorriso tirato aggiunse: «Non preoccupatevi per me. So cavarmela anche da sola.»
Katie annuì, un po’ titubante, ma non appena si riscosse, con un breve cenno del capo uscì dalla Cabina, seguita a ruota da tutti gli altri. 
Melanie trattenne il respiro finché non sentì la porta chiudersi alle loro spalle, e fu sicura finalmente di avere un po’ di tempo per rimettere in ordine le idee.
Si guardò con circospezione intorno, quasi quella fosse la prima vera volta che osservava attentamente quella stanza. Non c’era nulla di pretenzioso o che potesse attirare particolarmente la sua attenzione, eccetto qualche pianta insolita e singolare nascosta in qualche angolo.
La toeletta posata contro il muro, però, la incuriosì. Sembrava molto vecchia, e anche se molto probabilmente doveva appartenere alle ragazze, loro non dovevano usarla spesso, se non per osservare i loro riflessi di tanto in tanto nel grande specchio che troneggiava nella cornice di legno scuro.
Melanie accarezzò con il palmo il ripiano in noce, scrutando ammirata la vasta collezione di fermagli per capelli delle sue sorelle.
Prese con accortezza un elastico nero tra gli altri, incrociando i propri occhi nel vetro.
Aveva un aspetto terribile, nonostante i capelli fossero perfettamente in ordine e i vestiti più che puliti.
Ma era il suo viso, ad essere laido. Aveva due violacee occhiaie sotto gli occhi, dovute alla stanchezza, o forse all’opprimente peso di tutte quelle novità che non l’aveva ancora abbandonata.
Le sue labbra erano secche e screpolate, e nonostante le guance un po’ più rosee per via del caldo estivo, la pelle era pallida e incavata.
Ho proprio bisogno di un po’ di riposo, si disse, allargando con le dita l’elastico, con l’idea di legarsi i capelli.
Fece per afferrare alcune ciocche, ma perse la presa sul nastro, che le scivolò sul polso. Frustrata lo strinse fra i denti, sforzandosi per tirarlo su, ma per quante volte ci provasse, quello continuava sempre a sfuggire al suo controllo, e con rammarico si rese conto di essere incapace di tenerlo saldamente in mano mentre era impegnata a raccogliere i capelli.
Delusa, alzò di nuovo gli occhi sul suo riflesso, e fu a quel punto che lo vide.
Colin era fermo sul ciglio della porta, e la fissava in silenzio attraverso lo specchio. Melanie non l’aveva sentito arrivare, e giurò che la sua faccia dovesse sembrare molto più sbigottita di quanto credesse, perché, all’improvviso, lui arrossì.
«A-avevo dimenticato questa» balbettò, indicando con un cenno la sua spada. Melanie abbassò lo sguardo, imbarazzata, al ché lui si scusò. «Mi dispiace, non volevo disturbarti.»
«Non mi disturbi affatto» disse lei con voce atona, rigirandosi fra le dita l’intricato elastico. «Tanto non ci sarei riuscita comunque.»
Il suo tono era abbattuto, e Colin lo percepì. Il suo sguardo passò dall’impaccio alla dolcezza, mentre con passi lenti e misurati si avvicinava a lei.
«Posso?» le chiese, sfilandole teneramente l’elastico di mano. Melanie lo lasciò fare, e non oppose resistenza neanche quando lui cominciò ad accarezzarle i capelli, tirandoglieli indietro per stringerglieli delicatamente in una perfetta coda di cavallo.
I suoi movimenti erano gentili e precisi, e nonostante Melanie giurò non l’avesse mai fatto prima di allora, si muoveva con tanta naturalezza da convincere anche lei che farsi legare i capelli da qualcun altro fosse una cosa ordinaria.
«È incredibile quanto anche farsi una semplice coda sia diventata in breve tempo una missione su Marte» commentò lei, con amaro sarcasmo.
Lui sospirò, pettinandole piano i capelli raccolti con aria tranquilla. «Io credo sia tutta una questione di abitudine» disse dopo un po’, incrociando i suoi occhi nello specchio. «Vedrai che molto presto tornerai alle tue abitudini e ai tuoi servizi. Devi solo pazientare. E poi non sei sola» aggiunse, rivolgendole un caloroso sorriso. «Noi ti staremo accanto. Non ti lasceremo fare tutto da sola.»
«Ecco, non fatelo» lo interruppe lei, al ché la sua fronte si aggrottò in un’espressione confusa.
«Cosa?»
«Non trattatemi come se non fossi in grado di cavarmela da sola. Magari è così, ma voi non pensateci. Non voglio che facciate dei favoritismi o che abbiate un occhio di riguardo per me solo perché ho un braccio solo. Voglio solo essere trattata come tutti gli altri, tutto qui.»
Colin esitò. Melanie pensò stesse per dirle che era impossibile, che una cosa del genere non la poteva proprio chiedere. Ma poi lui annuì, e lei rilasciò il fiato che non si era resa conto di trattenere.
«Okay» sorrise lui, mostrando tutte le dita separate per farle intendere che non stava mentendo. «Se è questo che vuoi, questo avrai.»
Per la prima volta da quando era entrata lì, Melanie si lasciò sfuggire un sorriso. Un sorriso sincero.
«Ti ringrazio.»
Lui inclinò leggermente il capo, osservando l’immagine della ragazza. «Direi che così va benissimo» sentenziò, soddisfatto.
«Così è perfetto» annuì lei, ringraziandolo con lo sguardo.
Lui lo sostenne un attimo, poi sospirò. «Ora devo proprio andare» disse, indietreggiando lentamente verso la porta senza smettere di guardarla. «Gli altri si staranno chiedendo perché ci metto tanto.»
Melanie assentì. «Divertiti agli allenamenti» gli augurò.
Lui portò due dita alla fronte, nella satira di un cenno militare. «Lo farò.» Aprì la porta, pronto ad uscire, ma poco prima di farlo si voltò un’ultima volta. «Melanie» la chiamò, al ché lei gli rivolse un’occhiata curiosa.
Colin si grattò la nuca, imbarazzato. «Riguardo alla mia figuraccia di prima…»
Melanie gli rivolse un sorriso rassicurante, buttando la mano in aria con non curanza mentre arricciava il naso. «Non importa. Non preoccuparti.»
Lui piegò impercettibilmente la testa in avanti, visibilmente sollevato. Poi sorrise. «Bene» sospirò. «Ci vediamo dopo.»
E detto questo, uscì dalla stanza.
Melanie era di nuovo sola.
Era strano, ma ora quelle pareti vuote non le sembravano più tanto confortanti. Si lasciò cadere su quello che era il suo nuovo letto, ingerendo grazie ad un bel respiro l’aria della sua nuova casa.
Quanto tempo sarebbe dovuta rimanere lì?
Un anno? Due? Per sempre?
Che poi, quanto sarebbe durato, il suo per sempre?
Millenni? O solo qualche attimo?
Perché all’improvviso era diventato così improbabile immaginarsi dieci anni nel futuro?
Tutte quelle domande la travolsero così inaspettate, che Melanie si ritrovò a combattere contro le lacrime che bruciavano sotto i suoi occhi, minacciando di farsi sentire.
Quella non era la sua vita. Quello non era il suo posto.
E nonostante si sforzasse di convincersi del contrario, l’idea di come sarebbe stata la sua vita se solo non fosse arrivata fin lì non riusciva a non corroderle lo stomaco con quel suo molesto senso di rimorso.
Avrebbe avuto ancora il braccio, tanto per cominciare.
E un ragazzo, e una casa, e delle amiche.
Avrebbe finito gli studi e avrebbe trovato un lavoro.
Ora lì, il massimo che poteva fare era crogiolarsi su ciò che ne sarebbe stato della sua vita e su ciò che non avrebbe potuto essere mai.
Fu solo il rumore di qualcosa che cade a farle sollevare lo sguardo sorpresa.
Davanti a lei c’era una bambina. Aveva poco più di sette anni, e dei lunghi e sottili capelli ramati le incorniciavano il volto paffuto. Erano raccolti in due trecce, però, ornate da dei nastri rosa. Aveva gli occhi chiari, e il libro ai suoi piedi e la bambola che stringeva in una mano le fecero intendere che fosse lì per una ragione.
«Ciao» la salutò Melanie, spaesata, mentre continuava a guardarsi intorno cercando qualcuno che l’avesse accompagnata. Quando non lo trovò, posò di nuovo gli occhi su di lei. «Chi sei tu?» chiese, lentamente.
«Io abito qui» fu la risposta pronta della bambina, che adesso stringeva la sua Barbie al petto come se questa potesse darle sicurezza. «Chi sei tu, piuttosto?»
Melanie esitò un secondo, prima di parlare. «Sono arrivata da poco» chiarì, per poi rivolgerle un sorriso appena accennato. «Sei figlia di Demetra anche tu?»
La bambina annuì, prima di domandare: «Sei una mia nuova sorella, vero?»
«Sì. È un piacere conoscerti, il mio nome è Melanie. E tu sei…?»
«Catherine» si presentò la piccola.
«Bene, Catherine» ripeté la ragazza, marcando il suo nome, decisa a non dimenticarlo. «Che ci fai qui? Non dovresti essere con gli altri ad allenarti?»
La bambina scosse il capo. «Io sono ancora troppo piccola. Chirone non vuole che mi alleni prima di aver compiuto dieci anni.»
«Oh. E ora invece ne hai…?»
«Sette.»
«Sette, giusto. Come immaginavo.» Melanie la squadrò un secondo, prima di rivolgerle un cenno del capo. «È un piacere conoscerti, Catherine.»
La piccola non rispose. La studiò attentamente, con aria circospetta, prima di domandarle ciò che mai avrebbe sperato di spiegare ad una bambina. «Che è successo al tuo braccio?»
Il cuore di Melanie si fermò. Come dirglielo, ora?
Ma soprattutto, come dirglielo senza perdersi in lacrime?
«Oh. Ehm, ecco…» La ragazza affondò i denti nel labbro inferiore, trovando improvvisamente molto più interessante il suo grembo che gli attenti occhi della bambina. «Una cosa molto brutta, in realtà» si limitò a dire, sperando che le bastasse.
Non ebbe idea di quale sarebbe stata la reazione di Catherine, finché questa non fece un passo avanti, chinandosi verso di lei con la fiducia di entrare nel suo campo visivo. «Ed è per questo che piangi?» domandò, con la sua dolce innocenza.
A dispetto di quanto si aspettasse di fare, Melanie sorrise, e nonostante gli occhi velati di lacrime si convinse a guardarla. «Anche per questo, sì» ammise, certa che non fosse necessario mentirle. «È un periodo un po’ difficile, per me.»
La ragazza tirò su col naso, e la piccola annuì seria, quasi fosse in grado di comprendere la situazione.
Poi la stupì, porgendole la sua fedele bambola.
«Questa è Polly» spiegò, quando Melanie la prese in mano. «Ti somiglia molto, e con me è sempre stata gentile. Mi ha sempre aiutato, quando avevo bisogno di lei.» Sporse le sue manine verso la sorella, aiutandola a chiudere nel pugno la Barbie. «Puoi tenerla, se vuoi. Sono sicura che sarà gentile anche con te.»
Melanie la guardò, basita, prima di corrucciare le sopracciglia, confusa. «E tu, poi? Non ti mancherà?»
La piccola fece spallucce. «Io ne ho molte altre. Per me non è un problema, se una la prendi tu. Te la regalo volentieri. Basta che la tratti bene» la minacciò infine, puntandole un dito paffutello contro.
Melanie si lasciò sfuggire una risata. «Ti prometto che ne avrò la massima cura» giurò, con tono solenne.
Catherine annuì, soddisfatta. Poi si allontanò da lei di un passo, prima di correre verso il suo letto e nascondervisi sotto, cosa che molto probabilmente aveva fatto da quando Melanie era arrivata lì.
La ragazza osservò la bambola, piacevolmente sorpresa.
«Questa è Polly», aveva detto la bambina. «Sono sicura che sarà gentile anche con te.»
Melanie pregò con tutto il cuore che fosse vero.
 
Ω Ω Ω
 
Voglio solo essere una ragazza normale, pensò Melanie, lasciandosi cadere sul suo nuovo e ancora duro materasso.
Ma chi voleva prendere in giro?
Lei non sarebbe mai stata normale. Non più, almeno.
Nonostante il suo precedente discorso con Colin, e nonostante il ragazzo avesse espresso a tutti i fratelli il suo desiderio, Melanie si rendeva ormai conto che non sarebbe cambiato niente.
Lo aveva capito quando, nell’intenzione di prendere degli asciugamani puliti da sopra l’armadio, aveva fatto per afferrare una sedia, ma una ragazza di nome Beatrice l’aveva preceduta, offrendosi di farlo per lei. O quando, quel pomeriggio, aveva deciso di mangiare una banana, ma era stata costretta a farla sbucciare da Chuck. E quando un ragazzone enorme come lui ti pulisce un frutto, non è mai un bello spettacolo.
O ancora quando, a cena, aveva provato a mangiare la sua carne; ma senza coltello era un po’ difficile, quindi alla fine era stata Katie, a tagliarla.
Questa vita va di male in peggio, pensò tra sé e sé, con una punta d’amarezza. Come poteva sperare di fare progetti per il futuro, quando non era in grado neanche di mangiare?
Come pensava di poter prendersi cura di una famiglia, quando non riusciva a prendersi cura neanche di sé stessa?
«È tutta questione di abitudine» le aveva detto Colin, e lì per lì ci aveva creduto davvero.
Ma quando si sarebbe abituata a tutto questo?
Quando questa situazione sarebbe cambiata?
Domani? Dopodomani? Oppure mai?
Era davvero possibile, vivere bene con un braccio solo? Quali erano gli svantaggi? E quali i vantaggi?
Tutto la prima. Niente la seconda.
Con quale coraggio si sarebbe svegliata domani, con la consapevolezza che se avesse voltato il capo non ci avrebbe trovato… niente?
Finché era rimasta nell’infermeria, era sembrato tutto un brutto sogno. Incredibilmente reale, certo, ma pur sempre un sogno.
Non aveva idea che il peggio dovesse ancora arrivare.
Affrontare la vita vera sembrava impossibile.
Si sentiva inutile. Si sentiva abbattuta. Si sentiva stanca. Si sentiva catatonica. Si sentiva spenta. Si sentiva privata di qualcosa.
Era possibile provare tutte quelle emozioni, e per di più tutte in una volta?
Il tempo continuava a scivolare nel futuro, e lei invece era ferma al passato, a quando aveva ancora una vita, a quando aveva ancora tutta sé stessa.
Ma quei tempi ormai sono finiti, devo farmene una ragione.
Ma come fare, quando la nuova vita che le si prospettava davanti non sembrava solo diversa, ma sembrava anche uno schifo?
Melanie si tirò su a sedere, strofinandosi il volto con la mano nella speranza che quel semplice gesto potesse scacciar via, oltre che la sua espressione, anche i pensieri che ne derivavano.
Aveva bisogno di distrarsi. Circa un anno fa, per farlo le sarebbe bastato prendere in mano un violino e mettersi a suonare.
Ma come fare, adesso, se non era in grado di reggere due cose contemporaneamente?
Basta!, urlò dentro di sé, stringendosi i capelli nel pugno e lasciandosi sfuggire un lamento disperato.
Si stava annientando da sola. E si stava annientando dall’interno.
Una lacrima le rigò la guancia, solitaria, e lei si affrettò ad asciugarsela con il dorso della mano, rabbiosa.
Non piangerò. Non stavolta, si impose, risoluta.
Fece guizzare lo sguardo per la stanza, alla ricerca di qualcos’altro su cui focalizzare l’attenzione, quando i suoi occhi si posarono sul suo comodino.
È lì che aveva posato la bambola che le aveva regalato Catherine.
La prese, un po’ titubante, per poi rigirarsela in mano. Sospirò, posando di nuovo la testa sul cuscino, per poi spingere le ginocchia verso l’alto, di modo che potesse adagiarsela sul grembo.
Catherine aveva ragione, le somigliava davvero. Aveva i capelli biondi come i suoi, e nonostante gli occhi fossero azzurri, la forma del viso era pressoché simile.
Lei però ha qualcosa in più, pensò, facendo scivolare delicatamente il dito dalle sue ciocche finte alla sua spalla.
Un braccio, ecco cosa aveva in più. Anche quell’inanimata Barbie sembrava essere più fortunata di lei.
Le accarezzò piano il braccio di plastica, invidiosa di lei e della sua bellezza. Poi, con un movimento dolce e deciso, glielo staccò, domandandosi se sarebbe apparsa comunque perfetta, con un arto in meno.
«Mi piace molto di più così» affermò a quel punto una voce, distogliendola all’improvviso dai suoi pensieri.
Melanie sussultò, colta alla sprovvista, prima di far volare velocemente lo sguardo verso la porta.
Appoggiato allo stipite, con una postura disinvolta e i capelli illuminati dal chiarore della placida luna, intravide il sorriso più bello che ricordasse di aver visto.
«John» esclamò, visibilmente sorpresa. Arrossì di colpo, tirandosi su a sedere con gli occhi strabuzzati. «C-ciao» balbettò poi, imbarazzata.
Chissà in che stato pietoso sono i miei capelli, si disse, per poi riprendersi mentalmente: Ma che diavolo sto dicendo?
Melanie non ne fu sicura, ma giurò che John fosse riuscito a sentire il suo scambio di battute, perché il ragazzo si lasciò sfuggire una sommessa risata, mentre ricambiava il suo saluto con un cenno. «Scusami, la porta era aperta» si giustificò, lanciandole un’occhiata indecifrabile.
Melanie tossì, nonostante non ne avesse davvero bisogno, e cercando di darsi un tono risoluto, domandò mestamente: «Che cosa ci fai qui?»
Il ragazzo allontanò allora la spalla dal cardine della porta, camminando con passi lenti e misurati verso di lei. «Non ti ho vista al falò con tutti gli altri, e mi sono chiesto che fine avessi fatto» spiegò, per poi avvicinarsi al suo letto e indicare un punto indefinito sul materasso.
«Posso?» chiese educatamente, e lei impiegò qualche secondo prima di comprendere quella domanda.
«Certo» annuì, spostandosi di lato per permettergli di sedersi accanto a lei. Appoggiarono entrambi la schiena contro la testiera del letto, prima che tra loro calasse un imbarazzante silenzio.
«Allora…» mormorò John, deciso a dire qualunque cosa, pur di spezzarlo. Melanie tornò a chiedersi che cosa ci facesse realmente lì, e la paura della risposta a quella domanda la catapultò in un momentaneo senso di nausea.
«Perché te ne stai qui tutta sola?» chiese John, guardandosi distrattamente intorno senza però soffermare l’attenzione su niente in particolare.
Melanie abbassò lo sguardo, trovando improvvisamente interessante la bambola che si accorse solo in quel momento di stringere ancora in mano. «Non avevo voglia di andare al falò» disse, e dal suo tono John capì che non avrebbe aggiunto altro.
Annuì, soppesando attentamente le parole prima di chiederle ancora: «Come ti sembrano i tuoi nuovi fratelli?»
Melanie prese fiato per parlare, ragionandoci su un secondo. «Simpatici» assentì, per poi inclinare il capo e aggiungere. «E sono tutti molto disponibili.»
«Già» confermò John, con un sorriso sghembo appena accennato. «I figli di Demetra sono sempre gentili.»
«Troppo.» E Melanie non si rese conto di averlo sussurrato finché non vide con la coda dell’occhio le sopracciglia di John corrucciarsi, in un’espressione confusa.
«È che» La ragazza cercò le parole, con cura, ma quando non trovò quelle giuste, sospirò, quasi non lo facesse da fin troppo tempo. «Non so, a volte mi sembrano troppo apprensivi» confessò, con una punta di vergogna nella voce. «Mi aiutano in continuazione, e non è che io non gli sia grata, per carità. Ma a volte è… soffocante.» Non aveva idea del perché stesse raccontando tutto quello a John, ma nel momento stesso in cui lo faceva, sapeva che era la cosa giusta. «Io posso cavarmela da sola, John» affermò quindi, con decisione. «Sono in grado di badare a me stessa.»
«Lo so» mormorò lui, e non c’era menzogna nella sua voce.
«Io no» sussurrò lei, e c’era tanta fragilità, nella sua.
Aveva pronunciato quelle due parole con un tono di voce così lieve, che non si sarebbe stupita, se lui non l’avesse sentita.
L’ultima aveva lasciato le sue labbra distorta, incrinata, e solo poi Melanie si rese conto che la causa erano le lacrime che premevano contro i suoi occhi, offuscandole di poco la vista.
«A volte penso che la mia vita non sarà più la stessa» ammise, con voce tremante. «E quando mi rendo conto che è così è ancora peggio. Non riesco a non contare tutte le cose che ho perso e che perderò. È una cosa orribile.»
«Se sai che è una cosa orribile, perché continui a farlo?» domandò a quel punto John, abbassando a sua volta il tono ad un sussurro per non spezzare quel velo di confessioni che li avvolgeva come una calda coperta.
«Perché non posso farne a meno» fu la risposta pronta di Melanie. La ragazza raggiunse il soffitto con lo sguardo, abbozzando un triste sorriso nel vano tentativo di scacciare il dolore. Ma quello continuava a soffocarla, molesto, e così scrollò il capo. «Tu forse non ti rendi conto» sbottò, ormai frustrata e incompresa. La sua voce si alzò di un ottava, mentre sull’orlo delle lacrime le sue parole fluivano molto più velocemente dei suoi pensieri. «Non avrò mai un lavoro. Non avrò mai dei veri amici, che non stanno con me solo perché gli faccio pena, ma perché mi vogliono bene davvero. Non potrò più fare quello che facevo prima, John! Non riesco neanche a legarmi i capelli da sola. O a rifarmi il letto. O a sbucciarmi una stupida banana! Non potrò mai suonare uno strumento, né guidare una macchina, né fare la spesa, né arrampicarmi su una fune. Non potrò mai avere un figlio! Come potrei mai tenerlo in braccio, senza il rischio di farlo cadere, eh? Come dovrebbe crescere, con accanto una mamma monca?! Non potrei mai dargli quello di cui ha bisogno. E poi, cavolo, non avrò mai un ragazzo!» Le lacrime ormai le solcavano il viso ininterrotte, mentre ogni parola sembrava lottare contro la sua gola per uscire. «Non sarò mai più di un peso, John» aggiunse, con voce smorzata. Tirò su col naso, per poi tentare di asciugarsi le guance con il palmo della mano. «Né sarò mai bella come le altre» aggiunse, sottovoce.
«Questo non è vero» ribatté lui, senza nascondere tutto il suo disaccordo per le sue parole.
Melanie abbozzò un sorriso amaro, tirando ancora una volta su col naso. «Chi amerebbe mai una ragazza senza un braccio?»
«Io lo farei.»
Fu solo a quel punto che la ragazza, stupita, lo guardò. E incontrò i suoi occhi, che la fissavano quasi fossero in grado di proteggerla anche a quella distanza.
Quegli occhi…
Un forte senso di déjà-vu la colpì come un pugno nella bocca dello stomaco, mentre la tua testa prendeva a girare colta da improvvise vertigini.
Conosceva quegli occhi. Li aveva sognati per notti, chiedendosi dove fossero.
Li aveva desiderati. Li aveva ringraziati. Si era convinta che non fossero reali.
Ed ora erano lì.
L’ultima cosa che aveva visto prima di perdere i sensi quel maledetto giorno. L’ultima persona che le aveva parlato, pregandola di non mollare.
Era John.
Quasi fosse incapace di distogliere di nuovo lo sguardo, si rese conto che neanche lui aveva intenzione di farlo, e pregò di poter rimanere così per sempre, i loro occhi incatenati, i loro corpi che si sfioravano appena, i loro volti ad un palmo di distanza.
Ma nel momento in cui lo fece, capì che non era giusto. Lei non avrebbe rovinato anche la vita di John; non aveva intenzione di essere un peso, per lui.
Non doveva. Non poteva. Non voleva.
«Voglio solo essere normale, John» sussurrò appena, e il suo tono suonò quasi implorante. «Chiedo troppo, forse?»
«La normalità sta tra ciò che sei e ciò che vorresti essere» le disse lui, quasi fosse una cosa semplice, normale. «Smettila di pensare a tutte le cose che hai perso e ragiona invece su ciò che hai.»
«Cosa, per esempio?» replicò lei, con una punta di sarcasmo.
«Hai me» rispose John, incrociando di nuovo i suoi stupendi occhi color nocciola. Scosse impercettibilmente il capo, serio in viso. «Io non ti lascio.»
Melanie emise un sospiro tremante, prima di stringere le labbra in una linea sottile. «Non riesco a non pensarci quando ogni volta che mi guardo allo specchio lui è lì, a ricordarmi che cosa mi aspetta.»
Il figlio di Apollo aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiuse, con un’espressione affranta sul viso. «So che può sembrarti strano, ma sono convinto che se gli dei ti hanno scelto questo destino, ci dev’essere una ragione.»
«So che c’è un motivo, John. Ma qual è?» quasi urlò lei, con voce strozzata dalle lacrime che erano tornate ad inumidirle gli occhi. «Come possono gli dei avere in serbo questo, per me?»
«Non lo so» ammise lui, senza scomporsi. «Ma so che sei abbastanza forte da superarlo. Tu sei una roccia, Melanie. Puoi farcela. Puoi lottare. E non lo farai da sola.»
Senza pensarci, il ragazzo allungò una mano, per afferrare una ciocca di capelli che le ricopriva il viso e spostargliela dietro l’orecchio. Il cuore di Melanie perse un battito, con la delicatezza di quel contatto, e il fiato le mancò letteralmente quando lui, con un sorriso appena accennato, le posò una mano sulla guancia, accarezzandola quasi fosse fatta di porcellana e non avesse alcuna intenzione di romperla.
«Te l’ho detto, ormai sono qui» le sussurrò, pulendole dolcemente una lacrima dallo zigomo, scansandola via con il pollice. Poi scrollò la testa, deciso. «Io non ti lascio.»
C’era autorità, nella sua voce. C’era sicurezza. C’era verità.
C’era una promessa.
Una promessa che avrebbe mantenuto, e di questo Melanie ne era sicura. Lo ringraziò con lo sguardo, premendo la guancia contro il suo palmo nella speranza di assorbire un po’ del suo calore, di poter percepire ancora quel tocco, una volta che se ne sarebbe andato.
La mano del ragazzo scivolò dal suo volto al suo collo, per poi spostarle di nuovo i capelli dalla spalla.
«Ti va di venire con me al falò?» propose, ma quando lei abbassò lo sguardo un’altra volta, alzando di nuovo quel muro impercettibile che li separava di chilometri, John non riuscì a nascondere la sua delusione.
La ragazza scosse la testa, mordendosi il labbro inferiore, e a lui non restò altro che annuire mestamente e alzarsi dal letto con un sospiro, pronto a lasciarla di nuovo sola, così come voleva.
Ma poco prima che potesse varcare la soglia, si voltò un ultimo attimo, per squadrarla con gli occhi chiusi a due fessure. «Sai, la tua storia mi fa pensare a quella della Venere di Milo» le disse, con tono divertito. «Per millenni è stata considerata la reincarnazione della bellezza. E lei aveva un braccio in meno di te.»
Melanie si lasciò sfuggire un sorriso, inclinando il capo per guardarlo. «È un modo carino per dirmi che avrebbe potuto andarmi peggio?» scherzò.
«È un modo carino per dirti che sei bellissima.» La sicurezza con la quale lo disse la colpì. Melanie si sentì avvampare, mentre sentiva quei due diamanti verdi fissarla quasi volessero scavarle l’anima.
Prese poi fiato per parlare, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono.
John chinò il capo, passandosi una mano tra i capelli a disagio e interrompendo quel contatto visivo che all’improvviso la ragazza si sorprese a bramare.
«Senti, nel caso cambi idea, io sono lì» aggiunse poi John, indicando con un cenno della mano il paesaggio al di fuori della porta aperta, dove molto probabilmente c’era il falò. Dove c’era la vita del Campo.
«Ti aspetterò» continuò lui. «Resterò lì fino all’inizio del coprifuoco, non me ne vado. Così, se poi decidi di venire, sai già dove trovarmi.»
Non aspettò una sua risposta, né una conferma.
Si limitò a sorriderle, così come aveva fatto la prima volta, quando era entrato nella sua stanza in ospedale.
Si limitò a sorriderle così come solo lui sapeva fare, in quel modo che le faceva girare la testa.
Si limitò a sorriderle con i suoi denti bianchi e gli occhi sinceri, per poi salutarla con un cenno, chiudersi alla porta alle spalle e lasciarla inesorabilmente sola.
 
Ω Ω Ω
 
Non poteva credere che lo stesse facendo davvero.
Che cosa era stato a convincerla, esattamente?
Il suo tono? Le sue parole?
Il suo sguardo? Il suo sorriso?
Melanie seguì la musica che proveniva in lontananza quasi si stesse dirigendo volontariamente verso il patibolo, e non avesse idea del perché.
Era chiaro, il motivo per cui non ci voleva andare.
Troppe occhiate, troppi borbottii, troppi sussurri, troppi ‘oh, poverina’.
Si sarebbe sentita inadeguata, ecco. Inadeguata e completamente sbagliata.
La sensazione di disagio le aveva stretto lo stomaco in una morsa d’acciaio nell’esatto momento in cui era uscita dalla Cabina Quattro, decisa ad accettare l’invito di John.
E una volta arrivata lì, che faccio? Come mi devo comportare?
Quello era il suo primo falò, da quando era arrivata al Campo, e non aveva certo idea di passarlo da sola.
Sarebbe potuta andare dai suoi fratelli. Oppure sedersi accanto a John, o a Chirone.
Forse non era ancora pronta, per una simile sfida. Non sapeva se sarebbe stata in grado di ignorare tutte quelle occhiate indiscrete, tutti quegli sguardi di compassione.
E se avessero smesso tutti di cantare solo per fermarsi a guardarla?
No, sarebbe stato troppo. Non avrebbe retto una simile umiliazione.
Eppure non riusciva a fermarsi. I suoi passi erano lenti e titubanti, certo, ma non tornavano mai indietro.
Avevano uno scopo, e quello scopo era quello di avvicinarsi il più possibile al falò, per capire di cosa si trattasse, per avere un’idea di cosa l’aspettava per il resto della sua vita.
Perché era lì che avrebbe passato la vita, no? Al Campo. Con un braccio solo, dove altro avrebbe potuto andare?
E se non si sentiva a casa, come avrebbe affrontato il resto dei suoi giorni?
Finalmente le voci e le canzoni si fecero più distinte, e Melanie capì di essere arrivata quando riconobbe le note di Whatever degli Oasis librarsi nell’aria.
Perlustrò quel luogo con lo sguardo, mentre l’istinto continuava ad imporle di tornare alla tranquillità del suo piccolo letto, alla sicurezza di quelle mura, di quel posto privo di persone.
Ma poi lo vide. Le dava le spalle, quindi non poteva notarla, ma sembrava rilassato, seduto su un tronco con tutti i suoi amici.
Era a circa un metro da lei, eppure Melanie non aveva il coraggio di spingersi oltre. Che cosa avrebbe fatto, poi? Cosa gli avrebbe detto?
Meglio tornare indietro.
Sfortunatamente, non ne ebbe il tempo, perché ad un tratto, mentre si guardava intorno distrattamente, l’amica del ragazzo, Emma, la notò.
Sembrò sorpresa, ed esitò un secondo, prima di abbozzare un sorriso compiaciuto e posare una mano sul braccio del figlio di Apollo.
«John» lo avvertì sottovoce, per poi indicarla con un cenno del capo.
Fu a quel punto che lui si voltò, e, non appena la vide, le sue labbra si stesero in un sorriso smagliante e caloroso.
«Ehi» la salutò, e nella sua voce trasparì un po’ stupore. Melanie si avvicinò a lui, titubante, al ché lui la guardò meravigliato. «Sei venuta.» Non era una domanda.
Ma nonostante questo, lei annuì. Era in imbarazzo, e tanto, ma ormai era tardi per tirarsi indietro. Giocherellò nervosamente con il lembo della sua maglietta, mentre con la voce ad un sussurro domandò: «P-posso sedermi?»
Se possibile, il sorriso del ragazzo si allargò ancora di più. «Ma certo!» esclamò. E poi, rivolto agli amici: «Ragazzi!»
Tutti scalarono prontamente, quasi si fossero organizzati prima del suo arrivo. Ma forse era solo perché riuscivano a capirsi al volo.
Arrivato alla fine del tronco, Michael esitò, ma prima che potesse scendere Skyler lo precedette, sistemandosi davanti a lui.
Il figlio di Poseidone fece per imitarla, ma fu anticipato da Matthew, che poco prima di avergli lanciato un’occhiata beffarda, si era accomodato un po’ troppo vicino alla sua ragazza, guadagnandosi uno sguardo di fuoco.
Melanie si sedette accanto a John, sfregandosi il palmo sul jeans, nervosa.
Avrebbe voluto guardarsi intorno, capire se qualcuno la stesse fissando, ma i suoi occhi non erano che per lui.
Il ragazzo si sporse verso di lei, baciandole delicatamente una tempia. «Sono contento che tu sia qui» le sussurrò, le labbra che le sfioravano l’orecchio mentre lo faceva.
Melanie si lasciò sfuggire un sorriso, il primo felice, da quando era arrivata lì. Si voltò quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi, prima di annuire. «Anch’io.»
John si strinse a lei, per poi porgerle il palmo aperto. Melanie vi fece scivolare dentro la mano, con accortezza, per poi intrecciare le dita alle sue con così tanta facilità che le sembrò di farlo da sempre.
Posò la testa nell’incavo del suo collo, e questo aderì perfettamente, al punto che lei si chiese se quel ragazzo non fosse stato creato per combaciare con lei come due fette della stessa torta. Come due metà dello stesso cuore.
Per cui chiuse gli occhi, e ignorò tutto il resto.
Ignorò le occhiatine complici che si lanciavano Skyler ed Emma.
Ignorò il ghigno divertito di Michael.
Ignorò le occhiate degli altri ragazzi che le pungevano la schiena.
Ignorò tutto quello che aveva passato, che stava passando e che passerà.
Sentì solo John. E il suo profumo di menta, e la sua stretta rassicurante, e i suoi respiri regolari.
Sentì solo la musica e sentì solo le voci stonate, graffianti, nude e felici di tutte quelle persone che da quel giorno in poi sarebbero state per sempre la sua famiglia.
E si sentì bene.
Si sentì bene davvero.

Angolo Scrittrice.
E cinque, e sei... e cinque, sei, sette, otto...
Bounjour! O dovrei dire Bonsoir? O.o
Credevate di esservi liberati di me, eh? E invece no, sono ancora qui. Ho stretto i denti per pubblicare il capitolo in tempo, e alla fine ci sono riuscita.

Alors, che mi dite, vi è piaciuto?
Non è uno dei miei capitoli migliori, lo so, ma gli impegni sono tanti ed io faccio del mio meglio. Mi scuso in anticipo per eventuali errori di battitura, e spero davvero tanto di non aver deluso le aspettative di nessuno.
E così, sappiamo il genitore divino di Melanie.
Chi immaginava fosse Demetra? Nessuno?
Ebbene sì, ragazzi. La nostra amichetta bionda ha i cereali che le scorrono nelle vene (y)
Ma il suo ingresso nella nuova casa non è stato facile, come potete ben vedere. Per quanto ci provino, i suoi fratelli non riescono ancora a vederla come una ragazza normale, autosufficiente. Ma forse perchè non riesce a vedercisi nemmeno lei. 
E per chi abbia cominciato a shippare la coppia MelaniexJohn (qualcuno mi conia il nome? Io sono negata in queste cose), spero che questo capitolo vi abbia soddisfatto. Anche perchè il 60% parla di loro. Okay, il 100%! Ma non fatemi sentire monotona e banale, please, perchè spero davvero che nonostante tutto quello che è successo qui sia stata una sorpresa.
Bien bien, è abbastanza tardi e mia madre mi reclama per la cena, ma io non posso andarmene senza prima ringraziare i miei bellissimi Valery's Angels.
Perchè vi ho dedicato il capitolo, Angeli? Perchè mi avete fatto il regalo più bello di sempre.
101 recensioni! Miei dei, quando ho visto quel numero non volevo crederci. Siamo solo all'inizio, e già mi fate prendere dei piccoli infarti. Dei, come potrò mai ringraziarvi abastanza? Non potrò, è questa la verità. Ma vi prometto che farò del mio meglio per non deludervi.
Ve lo devo, diamine!
Un grazie infinite a tutti quelli che hanno commentato lo scorso capitolo:
_angiu_, carrots_98, Myrenel Bebbe ART5, la ragazza di titanio, Kamala_Jackson, Percabeth7897, VaneFrancyforever, Cristy98fantasy, _Krios Bane_, Visyl e martinajsd.
Grazie, grazie, grazie, grazie, grazie, grazie!
Per tutti i Tartari, grazie!
Siete degli angeli, nel vero senso della parola ;)
E sì, quella che sentite urlare è mia madre.
Mi dispiace, ma ora devo proprio andare. 
Grazie ancora, a tutti quanti!
E al prossimo martedì.
Love Always,

ValeryJackson
P.s. So di non aver risposto a tutte le recensioni dello scorso capitolo, per mancanza di tempo, ma rimedierò al più presto, non preoccupatevi! Non lascerei mai una recensione senza risposta ;) 

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***



 


«Che cosa c’è che non va?»
Fu solo il suono di quella domanda a distogliere Skyler dai suoi pensieri.
Michael la osservava con le sopracciglia inarcate in un’espressione curiosa, piegato sulle ginocchia di fronte a lei perché potesse guardarla più facilmente negli occhi.
Dopo aver terminato gli allenamenti, quella mattina, la ragazza non se l’era sentita di tornare nella propria cabina ad aggiustare armi, e così aveva deciso di concedersi un po’ di risposo, dirigendosi verso i campi da pallavolo.
Ma i pensieri non avevano tardato ad arrivare, e prima che potesse rendersene conto i volti di coloro che la circondavano erano stati sfumati dallo specchio di tutte le sue preoccupazioni, e si era ritrovata seduta su una panchina, le braccia incrociate sotto il seno e le gambe raccolte contro il petto.
Era così che Michael l’aveva trovata.
Skyler ci mise qualche secondo per concentrarsi sulla risposta da dare, mentre si riassestava sul posto.
«Oh, ehm. Niente. Sto bene.»
Il ragazzo inclinò leggermente la testa di lato, inarcando un sopracciglio dubbioso. «E che ci fa questa qui?» chiese, e Skyler non capì a cosa si riferisse finché lui non le accarezzò con il pollice la piccola ruga che le si era formata al centro della fronte, quasi sperasse di poterla cacciare via con quel semplice gesto.
Se possibile, Skyler si accigliò ancora di più. «Stavo solo pensando» si limitò a dire, facendo spallucce, ma quando quelle parole lasciarono la sua bocca non convinsero neanche lei.
Michael sospirò, stringendo le labbra in una linea sottile. «Vieni qui» le intimò, afferrandola dolcemente per un polso e tirandosi in piedi. Skyler non oppose resistenza, e lo lasciò fare mentre lui la faceva alzare a sua volta e prendeva il suo posto sulla panchina, per poi attirarla leggermente a sé facendola sedere sulle proprie ginocchia.
Cercò il suo sguardo, ma quello della ragazza era basso, sfuggente, quasi avesse paura di confrontarsi con occhi altrui.
Il ragazzo le spostò delicatamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio, prima di avvolgerle la vita con le braccia.
«Che cos’è che ti turba?» domandò ancora, sperando stavolta in una risposta vera. Che però non arrivò.
«Niente, davvero» mentì infatti lei, sforzandosi poi di abbozzare un lieve sorriso. «Sono solo un po’ stanca.»
«Ultimamente sei sempre stanca, Skyler» le fece notare allora lui. «Ogni volta che ti chiedo quale sia il vero problema. Non vuoi confidarti con me, e okay, mi va bene anche il fatto che tu voglia un po’ di privacy. Ma io ti vedo triste, e non so il perché.»
La ragazza emise un respiro tremante, per poi lanciargli una fugace occhiata e incurvare le labbra in un sorriso amaro. «Sono un disastro di fidanzata, vero?»
L’espressione di Michael si addolcì. «No. Sei perfetta. È solo che vorrei vederti sorridere, ma non so come fare. Quando la tua è una giornata nera, automaticamente lo diventa anche la mia.» Poi abbozzò un sorriso scaltro, facendole l’occhiolino. «Chi lo sa, magari il nostro è un legame empatico.»
Quello bastò a farle fare quella che non era una risata divertita, ma quasi.
E in quel momento quel quasi sembrava un ottimo risultato.
Skyler scrollò leggermente la testa, come faceva sempre quando il ragazzo diceva qualcosa di stupido. Poi sospirò. «Mi dispiace se sono sempre schiva e taciturna, ultimamente. È che penso molto.»
«A cosa?»
«A tutto.» Solo quando lo disse ad alta voce, Skyler si rese conto di quanto tremendamente fosse vero.
Abbassò di nuovo lo sguardo, trovando improvvisamente interessante le sue mani che giocavano con l’orlo della maglietta, e si sorprese nel ritrovarsi nel pieno di una battaglia contro la voglia di dar voce a tutti i suoi pensieri.
«Non faccio altro che pensare a mio zio, e a chiedermi cosa sta facendo ora, dov’è, con chi è, se sta bene
«Beh, è normale» assentì Michael. «Hai lasciato tuo zio in una situazione complicata. È logico che tu ti senta…»
«Ma non è solo questo» lo interruppe lei, con la voce un po’ incrinata. «Penso anche a Melanie, e a quello che sta passando, e mi chiedo se per lei non ci sarebbe stato un futuro diverso, se solo io avessi corso più veloce, quella notte.»
«Skyler, ma cosa…?»
«E penso anche a Leo, che ultimamente è assente, distratto. Ha la testa tra le nuvole, e sono giorni che non lo sento fare neanche una delle sue stupide battute, e mi domando perché non mi dice cosa c’è che non va.»
«Ma…»
«E poi penso a Microft, che sembra sia cresciuto da un momento all’altro. Che non è più il ragazzino dell’estate scorsa, che ora si interessa alle ragazze, ha degli amici. E io mi chiedo: dov’ero, quando è cambiato? Che sorella del cavolo posso essere, per essermi persa un periodo così importante della sua vita? Quest’inverno non gli ho inviato neanche un messaggio Iride.»
«Sono sicuro che lui…»
«E penso anche a te» continuò imperterrita lei. «E a come ti sto trascurando. E mi sento in colpa, davvero, ma non so che altro fare.»
«Skyler» provò a tranquillizzarla lui, con tonno gentile. Ma prima che potesse aggiungere altro, lei lo interruppe di nuovo.
«E poi penso a Matthew, e a quell’idiota del suo genitore divino che ancora non lo riconosce. E cerco di immaginare come si sente, e mi sento una stupida, perché vorrei essergli amica, ma la maggior parte delle volte è lui che deve consolare me, e non il contrario.»
Al solo sentire il nome del ragazzo, il corpo di Michael si era già irrigidito. Perché la sua ragazza continuava a preoccuparsi per lui era un mistero, ma decise che quello non era il momento giusto per pensarci, con la figlia di Efesto che percepiva l’angoscia premerle sulle spalle.
«Ehi» sussurrò, posando la guancia sulla sua spalla e stringendola un po’ di più a sé. «Devi smetterla di preoccuparti per gli altri, okay? Ognuno di noi è perfettamente in grado di badare a sé stesso.»
«Lo so. Io… io non so perché lo faccio» si giustificò lei, mordendosi il labbro inferiore. «Ma è più forte di me.»
«Perché non ti concedi un po’ di tempo, invece?»
«Perché non ne sono in grado» fu la risposta pronta di Skyler, che poi si strinse distrattamente nelle spalle. «Non in questo momento, almeno.»
Michael sembrava confuso. «E perché?»
Skyler aprì la bocca per parlare, ma le sue corde vocali non emisero alcun suono. Corrucciò leggermente le sopracciglia, con aria abbattuta. «Ti senti mai come se non fossi il protagonista della tua stessa vita, ma solo un semplice spettatore?» domandò, in un sussurro.
Il ragazzo esitò. «Non ti seguo.»
«Non so neanche spiegare come mi sento, Michael. Ma è come se ogni cosa che faccio, che dico o che penso non sia io a farla. Come se questa non fosse la mia vita, ma quella di qualcun altro, ed io la stia solamente guardando da lontano.» Ci pensò un po’ su, prima di ammettere. «Mi sento così inadeguata. Sbagliata. Diversa.» Lo guardò negli occhi, quasi non fosse sicura delle sue parole e cercasse una conferma. «È normale?»
La fronte di Michael si aggrottò, mentre il ragazzo ragionava sulle sue parole. Poi sospirò, e il suo tono arrivò calmo e pacato. «Credo di capire come ti senti» mormorò.
Skyler sembrò sorpresa. «Davvero?»
Michael annuì. «Quando sono entrato per la prima volta nella Cabina Tre, mi sentivo un perfetto estraneo. Io non c’entravo niente con i figli di Poseidone, e lo sapevo fin troppo bene. Non sapevo maneggiare una spada. Non avevo mai preso parte ad un’impresa. Avevo paura dell’acqua.» Il suo volto si rabbuiò, al solo ricordo di quel particolare. Ma dopo un attimo di esitazione, riprese. «Insomma, ero come la pecora nera in un gregge di pecore bianche. E in più, il confronto con Percy era inevitabile. Lui era forte, eroico, gentile. E piaceva alle ragazze.» Entrambi si lasciarono sfuggire un sorriso, a quell’affermazione. Poi Michael scrollò il capo. «Io non ero niente di tutto questo.»
«Tu eri molte altre cose» ribatté Skyler, accigliata.
«Sì, ma erano tutte cose inutili. Ero menefreghista, distratto, combina guai.» Le sue labbra si incurvarono in un sorriso amaro. «Ero così impegnato a sforzarmi di non essere Percy, da non provare neanche a diventare come lui.»
«E poi cos’è successo?» chiese allora Skyler, che sembrava non capire il nocciolo della questione.
«Poi ho conosciuto te» sorrise Michael. «Ed Emma. E John. Voi mi avete fatto capire chi ero e chi volevo essere» annuì. «Voi mi avete dato uno scopo.»
«Io non ho bisogno di uno scopo» mormorò lei, senza impegnarsi nel celare il suo tono affranto.
«No, tu hai bisogno di certezze» la corresse allora lui. «Di un posto dove sentirti te stessa.» Skyler incastrò gli occhi nei suoi, e fu a quel punto che lui sospirò. «Quello che sto cercando di dirti, Skyler, è che le cose belle arrivano quando meno te lo aspetti. So che in questo momento ti sembra tutto nero, ma sono anche sicuro che pian piano comincerai a vedere il mondo grigio, e poi via via sempre più chiaro, fino ad arrivare al bianco. Devi solo pazientare.»
«Non sono sicura di avere tutta questa pazienza» gli fece notare lei.
«Che senso ha isolarsi dal mondo, se poi il mondo continua a girare?»
Quella frase colpì Skyler come un pugno in pieno petto.
Già, che senso aveva?
Quante cose avrebbe continuato a perdere, mentre ripensava a quelle che aveva già perso?
Quanto ancora le persone si sarebbero allontanate da lei, mentre si chiedeva perché l’avessero fatto la prima volta?
Quanto più si sarebbe sentita sola, mentre si isolava cercando un modo per sentirsi meno sola?
Guardò Michael, focalizzando l’attenzione sui suoi occhi ora di un azzurro acceso. Poi sorrise.
«Sai sempre cosa dire, per farmi sentire una completa idiota, vero?»
Lui esibì un sorriso malandrino, per poi nascondere il viso nell’incavo del suo collo e lasciarci un dolce bacio. «Ti adoro quando ti senti un’idiota» le sussurrò, lasciandole una scia di giocosi baci su per il collo, con tanto di schiocco.
«Smettila» lo rimproverò lei, cedendo ad una divertita risata. «Lo sai che soffro il solletico, così!»
Lui sorrise contro la sua pelle, contento nel sentire il dolce suono delle sue risa. Poi lei gli prese il volto tra le mani e gli baciò teneramente le labbra.
«Ehi, piccioncini!» li prese allora in giro qualcuno, lanciandogli contro una palla da basket.
«Ahi!» si lamentò Skyler ad alta voce, mentre Michael sghignazzava contro la sua spalla.
Travis allargò le braccia, inarcando divertito le sopracciglia. «Avete intenzione di venire a giocare con noi, o pensate di limonare tutto il giorno?»
Skyler si alzò furiosa in piedi, raccogliendo da terra il pallone e tirandolo con forza addosso al ragazzo. «Se non capito in squadra con te, Stoll, giuro che ti faccio un occhio nero» lo minacciò, puntandogli un dito contro.
«Ovvio che non sarai in squadra con lui» esclamò Rose, che solo in quel momento Skyler si rese conto li osservava dal campo. «Io ho intenzione di stracciarli, questi qui! Tu vieni con noi!»
«Grazie tante, eh!» ribatté allora Michael, fingendosi indignato.
«Non prendertela, fratellone, ma la tua ragazza è decisamente più forte di te.»
Il figlio di Poseidone guardò Skyler, in cerca di supporto, ma lei si limitò a stringersi nelle spalle, trattenendo una risata, per poi correre alla zona di battuta.
Le squadre erano abbastanza equilibrate.
I fratelli Stoll erano stati divisi. Da un lato c’era Travis, con Katie, Microft, Percy e Piper. Michael li raggiunse controvoglia, facendo una smorfia in direzione di Skyler prima di raggiungere a sua volta la postazione del battitore.
Nell’altra squadra, invece, c’erano Iris e Connor (cosa di cui Travis non era molto felice), insieme ad Annabeth e Rose.
La figlia di Poseidone aveva preso posto sotto rete, proprio come il suo amico figlio di Efesto.
«Io non canterei vittoria così presto, Sirenetta» la canzonò Microft, utilizzando quel soprannome che lei tanto odiava. Da quanto tempo, ormai, la chiamava così? Rose non lo ricordava.
«Abbiamo già vinto» lo provocò invece lei, per poi dargli le spalle prima di poter scorgere il sorriso sghembo che era nato sul volto lui.
Il figlio di Efesto fece un passo avanti, chinandosi leggermente verso l’amica. «Non sfidarmi» le sussurrò, di modo che solo lei potesse sentirlo.
Rose si lasciò sfuggire un sorrisetto divertito, felice del fatto che lui non potesse vederlo.
«Manca ancora un giocatore» fece notare Iris, al ché Connor, quasi incantato da quella voce, annuì.
«Vorrà dire che giocherete in cinque!» ribatté stizzito Travis, forse con un po’ più irritazione del dovuto.
Skyler si guardò lentamente intorno, alla ricerca di qualcuno che fosse disposto a far parte della squadra, finché non riconobbe una figura familiare.
Assottigliò lo sguardo, prima di sorridere.
«Ehi, Matt!» esclamò, sventolando un braccio in aria per far sì che lui la notasse.
Il ragazzo si stava avvicinando a loro con passo annoiato, probabilmente intento a fare una passeggiata per ammazzare il tempo. Non appena la vide, la salutò a sua volta, con quel suo sorriso smagliante.
«Ti va di unirti a noi?» gli chiese la figlia di Efesto, non appena lui fu abbastanza vicino da poterla sentire.
«Ma certo!» annuì lui, e Michael sentì un fastidioso acido corrodergli la bocca dello stomaco.
Per un attimo, aveva sperato dicesse di no, e non appena aveva udito la sua risposta non aveva potuto fare a meno di digrignare i denti, infastidito.
Come facesse quel ragazzo ad innervosirlo solo con due semplici parole, non lo sapeva nessuno.
Il suo era un dono. Un dono che Michael odiava.
«Bene, ora siamo al completo!» esultò Katie, per poi lanciare la palla a Skyler, che la prese al volo, preparandosi a battere.
Poco prima che la voce squillante di Travis annunciasse l’inizio della partita, Matthew e Michael si scambiarono uno sguardo di fuoco, e il figlio di Poseidone giurò che se i suoi occhi avessero avuto la stessa efficacia di una lama affilata, del ragazzo con gli occhi verdi, ora, ce ne sarebbero due metà.
Matthew gli rivolse quel suo solito sorriso beffardo, che ormai lo faceva andare su tutte le furie, e Michael strinse i pugni, adirato.
Poi, Skyler batté la palla.
 
Ω Ω Ω
 
John incoccò un’altra freccia, mirando distrattamente al bersaglio.
In un certo qual modo, lo rilassava tirare d’arco. Soprattutto quando aveva molti pensieri per la testa.
Uno tra tutti, però, dominava perentorio sugli altri.
E quel pensiero era Melanie.
Sentiva uno strano istinto di protezione attanagliargli lo stomaco, quando era con lei. Quasi fosse una bambola di porcellana posata tra le sue mani, e lui dovesse fare di tutto per non farla cadere.
Non riusciva a spiegare neanche a sé stesso, ciò che provava. Sapeva solo che percepiva quella come una ragazza dolce, fragile, indifesa, e che lui non avrebbe permesso a nessuno di farle del male.
«È normale» lo aveva rassicurato Emma, quando aveva provato a dar voce ai suoi pensieri con lei. «Senza rendertene conto, ti senti responsabile per quello che le è successo, perché tu eri lì, quella notte.»
Ma non era solo quello, e John ne era consapevole. Era molto di più.
«È che…» aveva cercato di spiegarsi, faticando a trovare le parole giuste. «Non riesco a non preoccuparmi per lei. Ho paura che possa cedere, Emma. Che possa lasciarsi andare. So che la sua è una situazione difficile, ma so anche che insieme possiamo superarlo. Voglio farle capire che tutto ciò che possiede è un miracolo. Che lei è un miracolo!» Poi aveva corrucciato le sopracciglia, pensieroso. «Sembro pazzo?»
«Sembri dolce» aveva sorriso lei, per poi dargli un’amichevole gomitata nel fianco.
John aveva sospirato, indeciso sul da farsi. Ed era da quel momento che aveva cominciato a porsi mille domande.
Voleva far capire a Melanie che la sua vita era un miracolo. Sì, ma come? E quando, soprattutto?
Avrebbe dovuto aspettare che lei si abituasse a quel suo nuovo status, o avrebbe dovuto agire prima che le convinzioni della ragazza diventassero inequivocabili?
Che cosa temeva, davvero? Che lei non si facesse aiutare?
O che non si facesse aiutare da lui?
Lasciò andare la corda, e la freccia si conficcò nell’esatto centro del bersaglio, come avevano fatto tutte le altre prima di lei.
Dov’era in quel momento, Melanie? E con chi? Che poi, perché gli interessava tanto con chi fosse?
Forse perché non era con lui. Già, ma perché la voleva con lui?
Più volte, negli ultimi giorni, si era sorpreso a sperare di incontrarla dietro l’angolo. Di poter sentire di nuovo il profumo di gelsomino della sua pelle invadergli le narici. Di poter intrecciare di nuovo le dita alle sue.
Che diamine gli stava succedendo?
Un rumore metallico di armi che si infrangono a terra proruppe alle sue spalle, seguito subito dopo da un’imprecazione.
John voltò di scatto il capo, sbigottito, ma quello che vide lo interdisse ancora di più.
Melanie era china a terra, intenta a raccogliere impacciata un paio di spade con l’intenzione di riposarle sul tavolo.
John si lasciò sfuggire un sorriso, intenerito, prima di raggiungerla con una leggera corsetta.
«Aspetta, ti do una mano» le disse, posandole un palmo dietro la schiena e inginocchiandosi accanto a lei.
Melanie sussultò appena, per quell’improvviso contatto, ma si sforzò di non darlo a vedere. «M-mi… mi dispiace» si scusò, mentre lui sollevava uno scudo da terra. «Io… non volevo farle cadere, davvero.»
«Non importa, sono solo armi» la tranquillizzò John, con il suo solito fare gentile. «Sono fatte per essere resistenti, no?»
Melanie annuì distrattamente, mortificata. Poi si coprì il volto con la mano. «Sono una frana» gemette, avvampando per l’evidente imbarazzo.
«Più un ciclone, direi» scherzò John, e fu a quel punto che lei si lasciò sfuggire una risata, divertita.
Il suono più bello che avesse mai sentito.
«Mi dispiace, sul serio» ripeté di nuovo lei, stavolta, però, incapace di trattenere un sorriso.
John si alzò in piedi, per poi porgerle una mano, aiutandola a fare lo stesso. Fece spallucce, con aria non curante. «L’importante è che tu non ti sia fatta male.»
Melanie si morse leggermente il labbro inferiore, scuotendo appena il capo. Solo poi, con impaccio, John si rese conto di stringerle ancora la mano.
La lasciò velocemente andare, quasi si fosse appena scottato, e pregò gli dei perché lei non avvertisse i battiti del suo cuore che correva all’impazzata.
«Allora, ehm…» balbettò lui, arrossendo. Si sgranchì la voce, nonostante non ne avesse davvero bisogno. «Che ci fai qui?»
«Stavo facendo una passeggiata» spiegò lei, stringendosi timidamente nelle spalle. «E mentre passavo di qui ti ho visto tirare d’arco.» Lo guardò brevemente, per poi mormorare: «Scusa, non volevo disturbarti.»
«Non mi disturbi affatto» assicurò lui, scrollando la testa. «Sono contento di vederti.»
L’aveva detto ad alta voce? Molto probabilmente sì, perché vide le guance di lei imporporarsi, mentre abbozzava un sorriso. «Sei davvero molto bravo» si complimentò poi.
«Il tiro con l’arco è una delle poche cose della quale sono sicuro» confessò lui, lanciando uno sguardo ai bersagli che ogni volta sembravano confidargli mille segreti. Poi, d’improvviso, un’idea gli accarezzò la mente.
Si voltò a guardare Melanie, inclinando leggermente il capo di lato. «Vuoi provare?» le domandò.
Per un attimo, pensò che lei non l’avesse sentito. Ma poi sul suo volto si fece largo un’espressione dapprima confusa, e infine ferita.
«Mi prendi in giro?» ribatté, quasi offesa.
«Non sono mai stato più serio in vita mia.»
Melanie titubò, interdetta. Lanciò un’occhiata torva al suo braccio mancante, e John vide la domanda “che cosa ha in mente?” vorticare nei suoi pensieri.
Lui le strinse delicatamente la mano, trascinandosela dietro finché non arrivarono al centro del poligono.
Poi le porse l’arco, indicandole con un dito il bersaglio di fronte a loro. «È semplice. Guarda. Chiudi un occhio, prendi la mira, e il gioco è fatto.»
«John, io non posso farlo» gli ricordò lei, che ora lo guardava come se fosse pazzo.
«Ti aiuto io» ribatté prontamente John, sfilando una freccia dalla faretra che portava sulla schiena. Si mise alle sue spalle, per poi sfiorarle il braccio, spronandola a sollevarlo. «Tu lo impugni» sussurrò, posando il palmo sul suo dorso e aiutandola a serrare bene le dita sul ventre di legno. «E io tendo la corda» continuò, incoccando la freccia con una mossa così repentina che la ragazza sussultò. Poi tirò finché l’impennaggio non sfiorò la guancia della figlia di Demetra.
Melanie sembrava spaesata, quasi non capisse il perché di quel gesto. Ma la voce di John la intimò. «Tu prendi la mira, e quando me lo dici, io lascio andare la freccia.»
La ragazza era pronta a scuotere la testa, per rifiutare. Ma poi sentì il petto del figlio di Apollo premere contro la sua schiena, e tutte le sue capacità di ragionare di sfaldarono come sabbia al vento.
Percepiva il suo respiro caldo accarezzarle la base del collo, e quando la mano di lui si posò sul suo fianco, Melanie si ritrovò a deglutire, la gola improvvisamente secca.
Chiudi un occhio. Prendi la mira.
Sembrava facile. Ma lo sarebbe stato anche per lei che aveva un braccio solo?
La figlia di Demetra divaricò appena le gambe, e prima che potesse rendersi conto della sua lingua ferma ad un angolo della bocca, ci stava provando.
Stava prendendo la mira, il respiro trattenuto per via della concentrazione. Il corpo di John che aderiva perfettamente al suo.
E non si sentì più una ragazza con un braccio solo. Per un attimo, un solo, semplice attimo, si sentì in grado. Si sentì completa.
Quasi le braccia di John fossero un prolungamento delle sue, per un breve secondo si sentì sicura. Seppe di poterci riuscire.
«Vai» sussurrò appena, ma evidentemente il volto del ragazzo era così vicino al suo, che lui riuscì a sentirla.
Lasciò andare la corda dell’arco, che con un fruscio liberò la freccia. Il dardo piroettò in aria, davanti ai loro occhi.
E si conficcò con un tonfo secco nel bersaglio, a pochi centimetri dal centro.
Le labbra di Melanie si allargarono lentamente in un sorriso, mentre i suoi occhi trasudavano incredulità.
«Ce l’ho fatta» mormorò, stupita.
La risata di John coccolò il suo orecchio come una dolce melodia. «A quanto pare…»
«Ce l’ho fatta!» questa volta Melanie lo urlò. Saltò sul posto, portandosi la mano al volto, ancora sorpresa.
«Avevi dubbi?» domandò retorico John a quel punto, al ché le si voltò.
Il ragazzo la stava guardando, orgoglioso, e quando i loro occhi si incontrarono, in una fusione di verde e nocciola, un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso.
«Non c’è niente che tu non possa fare, Melanie» le disse lui, con tono deciso e sicuro. «Basta solo che tu lo voglia.»
Fece un piccolo passo avanti, annullando quelle poche distanze che li separavano a tal punto che la ragazza fu costretta ad inclinare il capo all’indietro, per non perdere il contatto diretto con i suoi occhi. L’odore di menta della sua pelle le accarezzò dolcemente le narici, mentre lui allungava una mano per poterle spostare una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Solo perché le cose sono difficili, non vuol dire che siano impossibili.»
John esitò qualche secondo, prima di smettere definitivamente di pensare e concedersi il lusso di agire d’istinto. Le sue dita scivolarono lungo la mandibola della ragazza, fino ad arrivare al mento. Con il pollice le accarezzò delicatamente la linea delle labbra, e queste si schiusero, emettendo un sospiro tremante quasi avessero voglia di articolare qualche parola, ma non ne fossero in grado.
I loro nasi si sfiorarono appena, ma quando il ragazzo si rese conto di ciò che in realtà stava succedendo, qualcuno li interruppe.
«John!» chiamò una voce, al ché Melanie, spaventata, sussultò.
Il figlio di Apollo chiuse gli occhi, sfregandosi il volto con una mano mentre lei faceva un passo indietro, impacciata.
Pessimo tempismo, lo sapevano entrambi.
«Sì?» esclamò scocciato il biondo, voltandosi appena per poter vedere il suo interlocutore.
Will Solace faceva vagare lo sguardo dal fratello alla ragazza, dalla ragazza al fratello. Dietro di lui, una dozzina di ragazzini dai dieci ai dodici anni li fissava, allucinati.
«Siamo qui per la lezione di tiro con l’arco delle matricole» spiegò Will lentamente, trascinando ogni parola.
John chinò il capo, affranto. Cavoli, se l’aveva dimenticato. «Dannazione» borbottò, celando quell’imprecazione con una mano a coprirgli la bocca.
Will spostò con accortezza gli occhi castani su Melanie, che sembrava aver preso un colorito simile al magenta. Inarcò un sopracciglio, sospettoso. «Interrompiamo qualcosa?»
«No!» fu la risposta pronta di entrambi, che scattarono all’unisono sulla difensiva, provocando gli schiamazzi del gruppo di ragazzini.
John si passò una mano tra i capelli, imbarazzato.
«F-f… forse è meglio che vada» balbettò la figlia di Demetra, al ché lui le rivolse uno sguardo di scuse.
«Vuoi che ti accompagni?» provò, ma lei lo interruppe con un gesto della mano, sforzandosi invano di accennare un sorriso noncurante.
«No, non preoccuparti. Non voglio che siano costretti ad aspettare» disse, riferendosi al gruppo che li osservava impaziente. «Ci vediamo più tardi, magari.»
«Sì, magari» assentì lui, mentre lei salutava Will con un cenno del capo, augurava a tutti buona lezione e correva via, desiderando come non mai di essere invisibile.
Desiderio che John si ritrovò a condividere, non appena il fratello si avvicinò a lui, con sguardo interrogativo. «Sei pronto?» gli domandò bruscamente, quasi volesse rimproverarlo per tutto ciò che era appena successo.
John annuì, titubante. Corrucciò le sopracciglia, ma poco prima che potesse dare ufficialmente inizio alla lezione, sentì gli occhi di Will perforargli le carni, mentre il ragazzo lo squadrava con i pugni chiusi.
«Sta lontano da quella ragazza, John» lo ammonì, facendo apparire un’espressione di sconcerto sul volto del fratello. «Non farà altro che farti soffrire.»
Farlo soffrire? Che cosa diavolo aveva mangiato, Will, a colazione?
Pane e un eccesso di Vin brule’?
John accennò una risatina, prendendo quel suo avvertimento come una battuta, ma non appena riconobbe la serietà, nel suo sguardo, capì che quello non era affatto uno scherzo.
Farlo soffrire? Come avrebbe fatto, Melanie, a farlo soffrire?
Era una ragazza dolce, timida, impacciata, incapace di uccidere anche solo una semplice mosca.
Lei l’avrebbe fatto soffrire?
Come? O meglio, perché?
Perché mai avrebbe dovuto farlo soffrire?
In che modo?
A causa di cosa?
Erano queste le domande che si affollavano nella mente di John, mentre con il fratello distribuiva gli archi tra i ragazzini.
Farlo soffrire.
Avrebbe dovuto lasciarla andare?
Sì, forse sarebbe stato meglio per entrambi.
Forse così avrebbe risolto tanti enigmi, si sarebbe tolto molti dubbi.
Evitarla era la cosa migliore.
La cosa migliore, già.
E allora perché sentiva già la sua mancanza?
Perché era bruciante l’impulso di correrle dietro e abbracciarla, una volta raggiunta?
Perché, nonostante le avvertenze del fratello, non vedeva l’ora di ritrovarsi il cuore spezzato da lei?

Angolo Scrittrice.
And one... and two... and one, two, three, four...
Hola! Comme ça va?
(modalità fondi lingue: mode on.)
Salve a tutti, semidei.
Oggi è martedì, no? Quindi capite perchè sono qui a proporvi un altro nuovo capitolo.
Dei, quanto mi vergogno! Se ero convinta che quello precedente non fosse un granché, non mi prendo neanche la briga di definire questo.
E' orrend, lo so. Orrendo e scritto male. E non avete idea di quanto mi dispiaccia, perchè ciò che succede, comunque, non è poco importante. C'è Skyler, alla quale nonostante tutto sembra ancora mancare qualcosa. Si, ma cosa?
E poi ci sono John e Melanie, che... che cosa? Stanno legando? Vogliamo dirlo così? Chi può aiutarmi a definire il loro rapporto? So che molti di voi già li shippano insieme. Che pensate di ciò che è successo tra loro?
Vi è piaciuto il capitolo? (al di là di come è scritto)
Spero davvero di sì, e di non aver deluso le aspettative di nessuno. E se sì, mi farò perdonare, lo giuro!
Ora scusatemi, ma devo davvero correre a studiare. Domani ho un compito di storia D:
Non posso andarmene, però, senza prima ringraziare i miei stupendi Valery's Angels, che in questi momenti sono davvero la mia forza. Grazie a coloro che hanno commentato lo scorso capitolo, e cioè:
Kamala_Jackson, _Krios Bane_, Vanefrancyforever, Myrenel Bebbe ART5, carrots_98, Krista Kane, Cristy98fantasy, martinajsd, kiara00, Ciacinski e famousdrago.
Grazie, grazie davvero!
E mi scuso di nuovo con gli angeli ai quali non ho potuto rispodere, per questioni di tempo. Sapete che lo farò, e vi prometto che entro questa sera/domani pomeriggio mi dedicherò alle vostre stupende recensioni!
E già che ci siete, perdonatemi anche per eventuali errori di battitura. :s
Grazie ancora, e tanti biscotti blu a tutti quanti!
Al prossimo martedì!
Sempre Vostra,

ValeryJackson

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***




 
ATTENZIONE! Questo capitolo contiene, seppur in forma lieve, accenni ad argomenti molto delicati. Non voglio urtare la suscettibilità di nessuno, per cui, chi vuole, può saltare l'ultima parte. Grazie per la vostra attenzione.
 

Travis odiava Iris McGuire.
Odiava i suoi capelli strani. Odiava la sua risata squillante. Odiava quegli stupidi polsini che indossava sempre.
Odiava il fatto che passasse tanto tempo con Connor.
Il fratello non l’aveva mai ignorato tanto, prima del suo arrivo. Da tutti erano conosciuti come i fratelli Stoll, i re degli scherzi, il duo delle meraviglie.
Okay, forse l’ultimo appellativo se l’erano dati da soli. Ma comunque erano sempre stati insieme. Sempre.
E ora? Cos’era successo? Perché Connor preferiva passare gran parte della giornata con quella figlia di Iride?
Travis non la sopportava, non la sopportava proprio. Da quando era arrivata, non aveva fatto altro che portare scompiglio nella sua disordinata quotidianità.
Ovunque andasse, c’era già lei. Qualunque cosa pensasse, la diceva prima lei. Per ogni proposta che gli veniva in mente, lei ne aveva sempre una migliore.
E Connor sembrava dipendere dalle sue labbra come Winnie the Pooh del suo miele.
Non faceva altro che parlare di lei, tutto il tempo.
«Hai visto com’era bella Iris, stamattina?»
«Non è stata geniale l’idea di Iris di andare a fare un giro in canoa?»
«Non ho mai visto nessuno giocare a pallavolo così bene come Iris.»
Iris. Iris. Iris. Iris.
Possibile che non si accorgesse della smorfia sul volto del fratello, quando pronunciava il suo nome?
Possibile che preferisse lei, che conosceva a malapena da due settimane, a lui, con il quale aveva condiviso il cordone ombelicale?
Se Travis avesse potuto, avrebbe impedito a Connor di incontrarla, quella maledetta mattina. Così ora sarebbero ancora i fratelli Stoll.
Così ora non sarebbero soltanto Connor e Travis.
Bastava davvero una semplice ragazza per mettere in discussione la loro unione?
Cos’aveva, quella tipa dai capelli blu, di tanto speciale?
«Connor è innamorato, Travis» gli aveva spiegato perentoria Emma, quando lui si era lamentato del fatto che il fratello avesse preferito un allenamento con Iris, al posto dell’organizzazione di uno scherzo con lui.
«Gli Stoll non si innamorano» aveva ribattuto lui, disgustato.
«Oh, per favore! L’amore è un sentimento che non si può controllare! E soprattutto arriva quando meno te lo aspetti.»
«Non per me.» Travis aveva un’aria risoluta, mentre lo affermava. «Io non mi sono mai innamorato. Di nessuna.»
A quel punto, Emma si era lasciata sfuggire una sommessa risata, mentre scrollava il capo divertita. «Questo è quello che credi tu» aveva mormorato poi, ma Travis non aveva fatto in tempo a chiederle cosa intendesse dire, che la sorella aveva raggiunto i suoi amici, lasciandolo irrimediabilmente solo.
Era anche questa, una delle tante colpe che affibbiava ad Iris.
Per colpa sua, lui si sentiva solo. Ma solo davvero.
Qualunque cosa accadesse, qualunque sbaglio o qualunque sentimento lo investisse, lui aveva sempre avuto una spalla su cui piangere. Aveva sempre avuto qualcuno che gli strappasse un sorriso, qualcuno che lo distraesse dai suoi pensieri con una semplice battuta. Aveva sempre avuto qualcuno che lo capiva fino in fondo, che lo ascoltava, che lo consolava.
Per colpa sua, invece, ora aveva perso una delle parti più importanti di sé.
O meglio, stava perdendo.
Non è ancora finita, pensò, con tono di sfida, quasi lei fosse di fronte a lui e lui la stesse fronteggiando.
Perché era così, non era ancora finita. La sfida era ancora aperta, e Travis avrebbe combattuto fino alla fine, senza esclusione di colpi.
Uno Stoll non si arrende mai, si disse, e lui non si sarebbe arreso.
Avrebbe fatto capire a quella McGuire chi è che comanda.
Non si fidava di lei. Era sempre felice, aveva sempre una parola buona per tutti, sorrideva in continuazione.
Ma lui l’avrebbe smascherata.
Avrebbe aperto gli occhi di tutti, facendogli capire chi era in realtà.
Facendolo capire al Campo. Facendolo capire a Connor.
Preparati a perdere, la minacciò. Perché lui avrebbe vinto, ne era sicuro.
A qualunque costo.
 
Ω Ω Ω
 
«…E poi si è arrabbiata così tanto che io e Travis abbiamo dovuto evitarla per una settimana. Altrimenti ci avrebbe uccisi davvero!»
Non appena Connor ebbe finito di raccontare, Iris gli regalò una delle sue cristalline risate, una di quelle in cui piegava la testa all’indietro e si reggeva la pancia.
«Povera Katie» disse poi, scansando con l’indice una lacrima che le stava imperlando l’angolo dell’occhio. «Certo che gliene avete fatte passare di tutti i colori!»
«Già» assentì lui, con un sorriso. Poi sospirò, divertito. «È sempre stata la nostra vittima preferita.»
«E perché?»
Connor prese fiato per parlare, ma non appena fece per dire qualcosa, si bloccò. Ci pensò un po’ su, corrucciando le sopracciglia. «Non lo so» ammise, trascinando lentamente le parole. Assottigliò un attimo lo sguardo, poi fece spallucce. «In realtà, è stato Travis il primo a proporre di farle uno scherzo. Quello delle uova nel cuscino. Ricordi? Te ne ho parlato.»
Iris annuì, al ché lui continuò. «Poi, la sua reazione ci ha soddisfatto talmente tanto, che è diventata quasi una regola d’onore, quella di sperimentare i nostri peggiori scherzi su di lei.»
«E Katie non vi ha mai detto niente?»
«Oh, sì!» rise Connor, ripensando alle mille espressioni furiose che avevano contorto il viso della ragazza. «Se avesse avuto il potere di ammazzarci, l’avrebbe già fatto da tempo!» Poi inclinò la testa di lato, pensieroso. «Se l’è sempre presa più con Travis, in realtà. Io stavo lì, ma chi pagava le conseguenze della sua ira era sempre lui.»
Iris fece per dire qualcosa, ma un attimo dopo ci ripensò. Camminarono qualche secondo fianco a fianco, avvolti da un delizioso silenzio, finché lei non chiese all’improvviso: «Vuoi molto bene a tuo fratello, vero?»
Connor si voltò verso di lei, interdetto. Poi, divertito, inarcò un sopracciglio.
«Come?» esclamò, soffocando una sommessa risata.
Iris fece rotare gli occhi, trattenendo a stento un sorriso. «Hai capito benissimo.»
Connor fece per replicare, ma alla fine esitò. Nessuno gli aveva mai posto una domanda del genere, e lui non si era mai preso la briga di pensarci. Corrugò la fronte, soppesando attentamente i propri ragionamenti.
«Beh, è mio fratello» rispose, lentamente. «E non intendo fratello a metà. Insomma, lui è proprio fratello fratello. Abbiamo la stessa madre, portiamo lo stesso cognome…»
«Ti ho chiesto se gli vuoi bene, non i vostri dati anagrafici» lo interruppe lei.
Connor nascose le mani nelle tasche dei propri jeans, abbassando lo sguardo imbarazzato. «Non è scontato che io gliene voglia? Insomma, ho passato più tempo con lui che da solo. Non ho mai mosso un passo, senza assicurarmi che lui fosse al mio fianco. A volte, è come se fossimo ancora legati allo stesso cordone ombelicale.»
Iris si lasciò sfuggire un sorriso, intenerita, e prima che lui potesse sviare l’argomento con un’ironica battuta, lei gli puntello il braccio con il gomito.
«Anche lui te ne vuole» gli assicurò, con decisione. «Di bene, intendo. Ci tiene molto a te, anche se tu non lo vedi.»
Connor sospirò, per poi annuire leggermente. «Sono sicuro che è così» sussurrò appena, più a sé stesso che a lei.
Senza apparente motivo, si chiese dove fosse Travis in quel momento. Con chi fosse, che cosa stesse facendo.
Si rendeva conto di averlo trascurato un po’, negli ultimi giorni. Ma era convinto anche che lui capisse.
Iris era diventato il suo pensiero fisso dalla mattina fino alla sera.
Non sapeva che nome dare al tremitio della sua voce quando le parlava; o ai brividi che gli percorrevano la schiena quando le loro mani, accidentalmente, si sfioravano; oppure alla dolce nausea che gli aveva bloccato il respiro in fondo alla gola quell’unica volta in cui lei gli aveva lasciato un tenero bacio sulla guancia.
Non aveva mai provato niente di simile, prima di allora.
Non era mai rimasto ore disteso sul suo letto a perdersi nel ricordo degli occhi di una ragazza, né aveva mai sentito le gambe cedere, sentendo il profumo dei capelli di qualcuna.
Non aveva mai incontrato un angelo, prima. Né mai avrebbe pensato che uno di loro sarebbe stato in grado di salvarlo.
Anche se non riusciva a vedere le sue ali, percepiva l’aura della ragazza. Candida, perfetta, intensa.
Un’aura così potente da inebetire ogni convinzione nel suo cervello.
Era per questo che non sapeva resisterle, no?
Era per via dei suoi poteri da angelo, che al mondo erano ancora sconosciuti.
Quella poteva essere l’unica spiegazione plausibile.
Altrimenti voleva dire che…
«Ehilà!» trillò una voce di fronte a loro, distogliendolo bruscamente dai suoi pensieri.
«Nessuno dice più ‘ehilà’ da una vita, ormai» rise Microft, mentre Rose incrociava le braccia con aria di sufficienza.
«Beh, io voglio dirlo, invece. Questo ti crea per caso qualche problema?» domandò, al ché lui mostrò i palmi, in segno di resa.
«Ciao, ragazzi» li salutò a sua volta Iris, con un sorriso. «Dove andate?»
Microft fece spallucce. «Abbiamo appena finito gli allenamenti, quindi non c’è ancora niente in programma.»
Rose, invece, si voltò verso il figlio di Ermes. «Connor, credo che Travis ti stia cercando» gli disse, e lui corrucciò le sopracciglia, confuso.
«Davvero? E cosa voleva?»
La figlia di Poseidone si strinse nelle spalle. «Non lo so, non gliel’ho chiesto. Ma mi sembrava fosse urgente, quando ci ha domandato dov’eri.»
In effetti, Travis non aveva la più pallida idea di dove si fosse nascosto il fratello.
Dopo averlo cercato per più di un paio d’ore, si era rassegnato, lasciandosi cadere con un tonfo su una panchina nei pressi dell’arena. Si prese la testa fra le mani, sconsolato, mentre con una punta di irritazione si malediceva per non avergli chiesto che piani avesse dopo la lezione di scherma.
Era così perso nei suoi pensieri, da non notare neanche il gruppetto figli di Demetra che tornava alla propria cabina dai campi del Signor D, con in mano grossi cesti stracolmi di fragole.
Non appena lo notò, Katie Gardner arrestò gradualmente la sua camminata, con un cipiglio interrogativo sul volto.
Melanie si fermò con lei, senza capire dove lo sguardo della sorella fosse diretto, ma poi Katie si voltò verso di lei, rivolgendole un appena accennato sorriso. «Vi raggiungo tra un secondo» le disse, e aspettò che la bionda se ne andasse, prima di potersi dirigere verso il figlio di Ermes.
«Travis?» chiamò, per attirare la sua attenzione. «Va tutto bene?»
Il ragazzo alzò appena lo sguardo, puntando gli occhi mogani su di lei. Poi annuì mestamente. «Sì, alla grande» mentì, e lei se ne accorse.
«E perché sei qui tutto solo?» domandò infatti, con lieve sarcasmo.
«Beh, Connor è…» Travis corrugò la fronte, rabbuiandosi. «Non lo so dov’è Connor. Non lo vedo da questa mattina. Tu per caso l’hai incontrato?»
Quando la ragazza scosse la testa, una nuova ondata di sconforto lo investì, costringendolo a stropicciarsi gli occhi frustrato. «Sarà meglio che mi rilassi un po’» borbottò, con scarso entusiasmo.
«Renditi utile, piuttosto!» replicò lei, non appena il ragazzo si alzò. «E aiutami a portare questi.» E prima che lui potesse controbattere, gli mise in mano una delle due casse di fragole che stringeva fra le braccia, che erano molto più pesanti di quanto potessero sembrare.
«Agli ordini, Kity-Kat» mormorò lui, beccandosi un’occhiataccia dalla figlia di Demetra, che odiava lo stupido nomignolo che ormai da anni le aveva affibbiato.
Era pronta a replicare con una frase pungente, ma non appena prese fiato per parlare, una voce esclamò alle sue spalle.
«Travis!» Il tono di Connor sembrava allarmato, ma il figlio di Ermes non sembrò notarlo, mentre si voltava per vederlo arrivare.
Quando scorse anche Iris con lui, però, il flebile sorriso che si era dipinto sul suo volto sparì in un lampo, lasciando spazio ad un’espressione corrucciata.
I due li raggiunsero, in compagnia di Microft e Rose, e la figlia di Iride si aprì in un sorriso cordiale. «Ciao, ragazzi» salutò, rivolgendosi anche a Katie. «Che stavate facendo?»
«Travis mi stava aiutando a portare questi nella mia Cabina» disse la figlia di Demetra, alludendo alle casse di fragole.
«È successo qualcosa?» domandò Connor al fratello, soppesandolo con uno sguardo indecifrabile.
Travis sembrò confuso. «No» rispose, interdetto. «Perché?»
Connor assottigliò lo sguardo. «Mi hanno detto che mi stavi cercando. Sembrava urgente.»
Travis si sentì come se lo avessero appena colto in flagrante mentre cantava sotto la doccia con la spazzola rosa di una delle sue sorelle. Sentì il nervosismo pizzicargli la gola, cercando di sembrare credibile mentre affermava fingendo noncuranza: «Ah, giusto! No, niente. Volevo… volevo solo chiederti se ti andava di fare uno scherzo con me, più tardi. Ho avuto un’idea geniale!»
«Mettete anche un solo piede in casa mia, e giuro che stavolta vi amputo le mani» li minacciò Katie, ed entrambi fecero contemporaneamente un passo lontano da lei, preoccupati dal suo tono.
Dopo aver stretto le labbra in una linea sottile e aver sospirato brevemente, Connor si grattò la nuca, imbarazzato. «In realtà…» cominciò, non sapendo esattamente come continuare quella frase nel modo più gentile. «Io e Iris avevamo intenzione di fare un pic-nic al lago, oggi.»
Sperava che il fratello avesse capito. Lui doveva capire.
Ma l’unico commento che lasciò le labbra di Travis fu un: «Oh.» Sembrava… deluso?
Il ragazzo spostò lo sguardo inquisitore su Iris. «Quindi avete… un appuntamento?» chiese, con falso interesse.
Connor lo fulminò repentino con lo sguardo, arrossendo visibilmente, ma la ragazza non sembrò scomporsi, quando fece spallucce. «Non è qualcosa di urgente, se è questo che vuoi dire. Se Connor vuole, possiamo benissimo rimandare.»
«Oh, non importa!» la interruppe prontamente Travis, risparmiandosi l’umiliazione di ascoltare il fratello mentre ammetteva davanti a tutti che preferiva andare con lei che con lui. «Faremo un’altra volta» assentì. Poi, senza neanche saperne il vero motivo, si lasciò sfuggire la bugia più grande della sua vita da bugiardo. «E poi, anch’io ho un appuntamento, oggi.»
Come aveva giustamente immaginato, cinque paia di occhi sorpresi si posarono su di lui, mentre Iris dava voce ai pensieri di tutti domandando emozionata: «Davvero? E con chi?»
Travis pensò velocemente, ragionando su quale fosse la risposta giusta da dare. Ma colpito da un anomalo panico, disse il primo nome che gli venne in mente.
«Con Katie» esordì.
«Che cosa?» esclamò Connor, scioccato.
«Che cosa?» ripeté Katie, confusa.
Travis si girò verso quest’ultima, celando l’ansia dietro un sorriso imbarazzato. «Sì, ecco, io… avevo intenzione di chiedertelo.»
«Mi sa che mi sono perso qualcosa» mormorò Connor, grattandosi la testa perplesso.
Qualcuno avrebbe riconosciuto tutte quelle menzogne? Certo che no, lui era un figlio di Ermes, dopotutto. Mentire era il suo mestiere.
E allora perché cavolo gli sudavano le mani?
Strano a dirsi, ma poco prima che qualcuno potesse fargli qualche altra domanda, fu Iris a trarlo in salvo. «Ma questa è una notizia fantastica!» trillò infatti la ragazza, che sembrava davvero felice per loro. Poi i suoi occhi parvero illuminarsi. «Che ne dite se allora usciamo tutti insieme? Sarà divertente.»
Travis colse la palla al balzo. «Mi sembra perfetto!»
Connor arricciò il naso, contrariato. «Io non credo invece che sia una buona idea…»
«Andiamo, fratello! Sarà divertente» lo provocò, facendo il verso alla ragazza dai capelli blu con un sorriso malandrino.
Iris non parve cogliere quella sottigliezza, e al contrario sorrise raggiante, per poi voltarsi verso Microft e Rose. «Ragazzi, volete venire con noi?»
«Oh, no, meglio di no» scosse la testa la figlia di Poseidone. «Noi…» guardò l’amico, in cerca di aiuto.
«Noi abbiamo già un impegno» mentì Microft.
Katie inarcò un sopracciglio, scettica. «Davvero? Che dovete fare?»
«Partita di pallavolo» rispose prontamente il figlio di Efesto, all’unisono con Rose, che però esclamò: «Giro con i pegasi.»
I due ragazzini si scambiarono un’occhiata allarmata, sotto lo sguardo stranito di tutti.
«Giro con i pegasi» ribatté allora Microft, ma la sua voce si sovrappose ancora una volta a quella dell’amica, che invece disse: «Partita di pallavolo.»
Rose si morse l’interno della guancia, sorridendo imbarazzata. «Noi… faremo…» cantilenò, trascinando lentamente le parole. «Una partita di pallavolo con i pegasi» buttò lì, sperando di suonare abbastanza convincente.
Fece finta di guardare l’orologio che al polso non portava, decisa a non aspettare neanche una loro reazione. «Anzi, siamo anche in ritardo!» esclamò, afferrando Microft per un braccio, che nel frattempo annuiva a favore della sua tesi.
«Divertitevi, comunque!» augurò poi ai quattro ragazzi, prima di correre via insieme a lui.
Loro li seguirono con lo sguardo, un po’ confusi. Poi Iris prese un gran respiro, batté le mani e rivolse un’alzata di spalle agli altri. «Beh, vorrà dire che saremo solo noi.»
Travis annuì, e dopo la figlia di Iride sembrava il più entusiasta. «Bene!» esultò. «Allora facciamo alle sette al lago?»
«Io preparo i panini» si offrì Iris, ma la risata di Connor la contraddisse.
«Ti prego! Ai panini ci pensiamo noi.»
Iris ridacchiò, sarcastica. «Prepareranno dei panini?» domandò a Katie, divertita.
«Ruberanno dei panini» la corresse la figlia di Demetra, che sembrava ancora visibilmente sconvolta dalla situazione.
«Kity-Kat ci conosce troppo bene!» si vantò Travis, avvolgendole un braccio intorno al collo nella speranza che quel gesto potesse convincerli che non aveva detto una bugia, che fosse davvero possibile un appuntamento tra lui e Katie.
«Okay» annuì quindi Iris, per poi posare una mano dietro la schiena di Connor. «A più tardi, allora.»
Travis la salutò con un cenno del capo, per poi osservarla andare via nell’intento di prepararsi.
Perché aveva accettato quella pagliacciata?
Semplice. Era l’occasione perfetta per far finalmente capire a Connor chi fosse Iris. Aveva già un piano in mente, ed era pronto a cercare la verità dietro quel sorriso sempre cordiale.
Perché sapeva che c’era qualcosa di losco, sotto. Lo percepiva.
Ed era disposto a fare qualunque cosa, pur di smascherarla.
Era disposto a giocarsi tutto, pur di vincere quella ‘guerra’.
Ma in cosa consisteva, questo ‘tutto’?
Era davvero sicuro di non rischiare di perdere troppo?
 
Ω Ω Ω
 
«Non posso credere che tu mi abbia convinto a farlo!» si lamentò per l’ennesima volta Travis, grattandosi le braccia poco abituate al contatto con quel tessuto.
«Andiamo, Travis» lo canzonò Connor, con un sorrisetto divertito sulle labbra. «È soltanto una camicia!»
Il ragazzo fece una smorfia, allontanando con due dita il bavero dal suo collo. «In altre circostanze l’avresti bruciata, la tua ‘solo camicia’.»
«Okay, senti. Molto probabilmente le ragazze indosseranno dei vestiti carini, ed io non voglio passare per quello a cui non importa niente dell’igiene personale.»
«Ma a noi non importa niente dell’igiene personale!» gli fece notare Travis, esasperato.
Connor gli puntò un dito contro, redarguendolo con lo sguardo. «Beh, questo loro non dovranno mai saperlo, chiaro?»
Travis fece per replicare, ma poi relegò i suoi poco carini commenti in fondo alla gola. Connor sorrise, molto probabilmente convinto che il fratello la pensasse come lui (come succedeva sempre, d’altronde. Eccetto da qualche giorno a quella parte). Poi gli puntellò il fianco con il gomito, con aria maliziosa. «E poi pensa che così farai colpo su Katie.» Sembrò ragionare un attimo sulle sue parole, prima di scrollare la testa sorpreso. «Cavolo, fratello. Tu e Katie? Chi l’avrebbe mai detto?»
«Già.» Anche un procione avrebbe capito che il tono di Travis era tutto fuorché entusiasta.
Si sentiva in colpa per aver coinvolto la figlia di Demetra in quella storia. Lei gli aveva semplicemente chiesto di aiutarla con quelle casse di fragole, e ora si ritrovava costretta a passare l’intero pomeriggio a fare un pic-nic con i due semidei che più odiava al mondo e con una ragazza con cui parlava a malapena.
Non le avrebbe fatto scherzi per una settimana. Era l’unico modo che conoscesse per scusarsi…
«Eccola» sentì sussurrare Connor, al suo fianco. Travis seguì la direzione del suo sguardo sognante, senza capire, e non appena vide Iris il suo stomaco si contorse dall’irritazione.
La ragazza indossava un semplice vestito corto, acquamarina, con la gonna che le arrivava a metà coscia a balze blu scuro. Le Vans che portava ai piedi, poi, erano dello stesso colore del miniabito, e il tutto si intonava perfettamente con i suoi appariscenti capelli.
Connor fu il primo ad incamminarsi, con un sorriso, verso di lei. La ragazza si alzò sulle punte per scoccargli un bacio sulla guancia, e lui sentì le gambe cedere, mentre Travis faceva roteare gli occhi acerbato.
«Spero che ti piacciano prosciutto e formaggio» le disse Connor, indicando con un cenno il cestino da pic-nic ai piedi del fratello.
La ragazza rise sommessamente, prima di annuire. «Mi sembrano perfetti.»
Poi andò da Travis, e a dispetto di quanto lui immaginasse, diede un bacio sulla guancia anche a lui. Non appena gli diede le spalle, però, il ragazzo se la pulì, disgustato.
«Dov’è Katie?» chiese Iris a quel punto, guardandosi intorno.
Travis fece spallucce, nascondendo le mani nelle tasche dei jeans. «Molto probabilmente ha deciso di non…»
Non appena alzò lo sguardo, le parole gli morirono in gola.
Una ragazza si era avvicinata a loro, con passo esitante. Indossava un vestito color panna che le arrivava fin sopra il ginocchio. Le lasciava le braccia scoperte, nonostante un velo partisse dalla scollatura a cuore e le coprisse castamente il petto, mentre a cingerle il collo c’era un bavero molto simile a quello di una camicia.
Una cinta nera con un grande fiocco sul davanti metteva in risalto la sua vita sottile, abbinandosi egregiamente alle ballerine scure.
Portava i capelli castani legati in una coda alta; a valorizzare quei suoi grandi occhi da cerbiatto giusto un filo di trucco.
«Wow», fu l’unica cosa che la mente di Travis riuscì ad articolare, e molto probabilmente doveva averlo detto ad alta voce, perché sentì Connor dargli una complice pacca sulla spalla.
Era bellissima. Era bellissima davvero.
Solo quando Iris le andò incontro per abbracciarla, Travis riconobbe Katie in quello splendore.
«Katie?» domandò, stupito. Piacevolmente stupito. Ma soprattutto incredulo.
«Che c’è?» ribatté lei, guardandolo con un sopracciglio inarcato. «Sei stato tu ad invitarmi, l’hai forse dimenticato?»
In altre circostanze, Travis avrebbe replicato con una battuta sarcastica, invece di restare lì a fissarla a bocca aperta. Ma molto probabilmente quella non era una di quelle circostanze.
A distoglierlo da quel momentaneo stato di trance fu solo Connor, che decise di dare giocosamente inizio al pic-nic, provocando un sorriso generale.
Insieme ad Iris, stese a terra il telo che lui e il fratello avevano accuratamente… “portato”, e i quattro ragazzi vi si sedettero sopra, mentre Katie distribuiva a ciascuno un panino.
Cominciarono a parlare del più del meno, ma, tra un sorriso forzato e l’altro, Travis rimase in silenzio, impegnandosi nel tornare al concentrarsi sul suo vero obiettivo.
Aspettò che Connor finisse di raccontare della volta in cui avevano riempito la boccetta dello shampoo di Katie con della vernice blu, per poi voltarsi verso Iris con un finto sguardo amichevole.
«Allora, Iris» esordì, con forse un po’ troppo ostentato entusiasmo. «Sei l’ultima arrivata, qui, no? Parlaci un po’ di te.»
La ragazza abbassò lo sguardo, sorridendo imbarazzata. «Non c’è molto da dire, in realtà.»
«Suvvia!» la incitò allora Travis, dandole uno scherzoso buffetto sul braccio. «Sono sicuro che la tua vita prima del Campo è stata molto interessante.»
Iris a quella domanda si innervosì, e il figlio di Ermes lo notò. Capì di aver colpito nel segno. «Vivevi con tuo padre, no?» continuò, imperterrito. «Com’era?»
«Normale» si limitò a dire lei, e tutti capirono che non aveva voglia di parlarne.
«Normale in senso buono, o normale in senso cattivo?»
«Travis» lo riprese il fratello, con tono severo. «Non mi sembra il caso.»
«Andiamo, Connor! Sono curioso, voglio sapere» si giustificò, per poi tornare a guardare la figlia di Iride. «Allora, buono o cattivo?»
«Normale» ripeté lei, con voce atona.
Travis schioccò la lingua, con disappunto. «Questa non è una risposta.»
«È solo che preferirei parlare d’altro, se non vi dispiace.»
«Perché?» scattò allora il figlio di Ermes, con aria soddisfatta. «Vivevi con lui, no? Cosa c’è di male a parlare di un genitore?»
«Niente, però…»
«Ti senti forse in colpa per qualcosa che gli hai fatto? Sei scappata di casa senza dirglielo? L’hai lasciato solo e in miseria?»
«Travis.» Stavolta fu Katie a parlare, ma lui la ignorò.
«Lui sa almeno dove ti trovi, o si è svegliato una mattina e ha trovato il letto vuoto? Hai preso tutti i suoi soldi e te ne sei andata? Hai rubato anche la sua macchina, o sei venuta qui con quella di qualcun altro?»
«Travis!» cercò di zittirlo il fratello.
«Perché non rispondi? Scommetto che non hai neanche avuto il coraggio di guardarlo negli occhi e dirgli dov’eri diretta, no? Che razza di figlia sei
L’accusa che avrebbe seguito rimarrà per sempre nascosta in un angolo segreto della sua mente, perché fu a quel punto che, con sua grande sorpresa, la mano di Iris si posò con forza sulla sua guancia, costringendolo a voltare il capo.
Solo quando tornò a guardarla, notò che la ragazza aveva gli occhi lucidi.
La figlia di Iride si alzò, offesa e ferita, e poco prima che qualcuno riuscisse a fermarla corse a nascondersi tra i fitti alberi della Baia di Zefiro.
«Iris, aspetta!» la chiamò Connor, alzandosi in piedi insieme agli altri due. Si voltò verso il fratello, lacerandolo con uno sguardo di fuoco. «Si può sapere che Tartaro ti ha preso?» strepitò, spintonandolo adirato.
«Volevo solo aprirti gli occhi!» tentò di giustificarsi lui, alzando a sua volta il tono di voce. «Lei ti stava mentendo su tutto, e tu come uno stupido ci stavi cascando!»
Lo sguardo di Connor passò velocemente dalla rabbia al disprezzo, e con una smorfia disgustata continuò a fissarlo, scuotendo la testa. «Tu sei proprio un cretino» mormorò, per poi voltarsi e seguire a grandi falcate la ragazza dai capelli blu, nella speranza di raggiungerla.
Travis si prese la testa tra le mani, frustrato. «Maledizione!» imprecò, e fu solo il tono accusatorio della figlia di Demetra a ricordargli della sua presenza lì.
«Ma che avevi intenzione di fare?» domandò infatti lei, sul viso un’espressione indignata.
Il ragazzo si limitò ad arricciare il naso, per cui lei rimarcò: «Ti rendi conto che così hai rovinato tutto l’appuntamento?»
«Non è mai stato un appuntamento, Katie!» sbottò allora lui, stizzito. «Il mio unico scopo è sempre stato quello di far capire a mio fratello di che razza di persona si stava innamorando.» Poi chiuse gli occhi e sospirò, le mani sui fianchi, chinando il capo con aria stanca. «Anzi, scusami se ti ho coinvolto in tutta questa sceneggiata. È che avevo bisogno di una scusa, e quella dell’appuntamento è stata la prima cosa che mi è venuta in mente.»
«Oh.» Il tono di Katie sembrava sorpreso, e anche… deluso?
La ragazza deglutì a fatica, sgranchendosi la voce mentre sentiva gli occhi bruciare. «Capisco» mormorò, con un fil di voce. «Quindi mi hai solo usato per raggiungere il tuo scopo.» Non era una domanda.
Solo quando Travis si voltò a guardarla, notò la sua aria ferita. La ragazza stava annuendo mestamente, quasi per lei fosse difficile credere a quella triste realtà. «Okay. Bene» disse, rivolta più a sé stessa che al ragazzo. «Ora mi è tutto più chiaro.»
Raccolse qualcosa da terra, un cestino di fragole che prima Travis non aveva neanche osservato, troppo impegnato com’era a concentrarsi su come smascherare Iris.
Poi vide Katie allontanarsi, e i sensi di colpa lo soffocarono.
«Ehi, aspetta» provò a fermarla, ma lei non lo ascoltò. Travis fece roteare gli occhi, per poi raggiungerla con una leggera corsetta. «Kity-Kat…» cominciò, afferrandola per una mano.
«Travis, lasciami andare» ribatté fredda lei, divincolandosi dalla sua presa. Tirò su col naso, per poi strofinarselo con il dorso della mano.
«Senti, mi dispiace, okay?» si scusò allora lui, e sembrava quasi esasperato, mentre lo diceva. «Io non volevo ferirla. Non in quel modo, almeno!»
«Tu hai rovinato tutto, Travis!» gridò quindi lei, voltandosi di scatto per fronteggiarlo.
Travis incontrò i suoi occhi, lucidi delle lacrime che stavano per solcarle il viso, e che lui non riusciva a spiegare.
«Hai rovinato tutto» sussurrò ancora Katie, con voce strozzata.
«Rovinato tutto?» Il ragazzo sembrava incredulo, e anche stufo. «Ho già detto che mi dispiace, dannazione! Okay, sei contenta? Mi dispiace. Non volevo dirle quelle cose, sono stato un cretino. Ma non capisco perché tu te la prendi tanto!»
«A me non frega niente di quello che hai detto a lei!» strillò Katie, i pugni serrati e la voce incrinata dal suo pianto trattenuto.
«E allora cosa?» sbottò lui. «Che cosa ho fatto, stavolta?»
La ragazza prese fiato per rispondere, ma dalla sua gola bruciante non uscì alcun suono. Fece un passo indietro, allontanandosi da lui senza però smettere di guardarlo negli occhi.
E fu solo a quel punto che Travis sentì la terra sotto i suoi piedi crollare.
Katie scosse la testa, sconsolata. «Tu non hai capito proprio niente» lo accusò, con voce tagliente. Poi girò sui tacchi, e corse via prima che rischiasse di piangere davanti a lui.
E così Travis si ritrovò solo. Di nuovo.
Ma era una solitudine diversa, questa volta. Perché ora non aveva davvero più una parte di sé.
Era riuscito nel suo intento, aveva fatto capire a tutti che Iris custodiva dei segreti.
Ma aveva anche perso per sempre la fiducia di Connor, la sua stima.
E poi cavoli, perché l’aveva distrutto tanto vedere lo sguardo imperlato di Katie? Che cosa aveva fatto, alla sua Kity-Kat?
Che cos’è, che non aveva capito?
Ma soprattutto, perché al posto dell’orgoglio l’unico sentimento che avvolgeva il suo cuore era il vuoto?
Sì, è vero. Era riuscito nel suo intento.
Ma ne era davvero valsa la pena?
 
Ω Ω Ω
 
Per poter raggiungere Iris, Connor dovette correre con tutta la velocità che gli permettevano le sue gambe.
È veloce, per essere una ragazza, si ritrovò a pensare, mentre preoccupato continuava a guardarsi intorno.
«Iris!» chiamò a squarciagola, portando le mani a coppa alla bocca. Niente, nessuna risposta.
Connor continuò ad avanzare, senza demordere, e stava quasi per temere il peggio, quando sentì qualcuno singhiozzare.
Seguì la direzione di quei singulti, finché non riconobbe la figura della figlia di Iride appollaiata sotto un albero.
«Iris» mormorò, dispiaciuto nel vederla in quello stato.
La ragazza posò repentina gli occhi di ghiaccio su di lui, per poi alzarsi in piedi e dargli le spalle, con vergogna. «Connor, per favore, lasciami sola.»
Il ragazzo però non se ne andò, e al contrario fece un passo verso di lei, con apprensione. «Mi dispiace per quello che ha detto Travis» disse. «Mio fratello è solo un cretino, non ascoltarlo! Non pensa mai, prima di dire le cose, e non si rende conto che così non fa altro che…»
«Però aveva ragione.» La voce di Iris fu un così lieve sussurro, che anche Connor si sorprese di averla sentita. La ragazza si coprì il volto con le mani, soffocando con insuccesso un altro singhiozzo. «Aveva ragione su tutto.»
Per Connor fu come un pieno pugno alla bocca dello stomaco. Aveva ragione su tutto? Che voleva dire? Su cosa aveva ragione Travis?
Che gli stava nascondendo?
«Che vuoi dire?» riuscì con fatica ad articolare, il fiato bloccato in fondo alla gola.
Iris stava per dirgli qualcosa. Sì, l’aveva capito dal modo in cui si era stretta nelle spalle. Ma all’ultimo secondo la figlia di Iride scosse la testa, stringendo le labbra. «Per favore, va via» lo implorò, faticando ad impedire alle lacrime di uscire.
Connor scrollò il capo, anche se sapeva che lei non poteva vederlo. Camminò silenziosamente verso di lei, con passi lenti ma decisi. «Non ti lascio qui da sola» affermò, e non sembrava ammettere obbiezioni.
Iris alzò gli occhi al cielo, pregandolo con la mente di andarsene. «Va via» ripeté, ma neanche stavolta riuscì a convincerlo.
Sentiva la sua presenza alle proprie spalle. Sentiva la sua preoccupazione.
Perché lui era preoccupato, era presente. Lo era per lei.
E se gli avesse detto la verità, gli avrebbe fatto solo del male.
Scosse di nuovo la testa, avvilita. «Connor, per favore, lasciami…» Iris fece per andarsene, per correre di nuovo via, ma lui fu più veloce. La afferrò per un polso, deciso a farla restare, ma purtroppo la sua presa si strinse sul polsino di lei.
Questo scivolò via, restando nel suo palmo, e nulla lo spaventò più della razione della ragazza.
Iris si strinse il braccio ‘denudato’ al petto, ansimando in preda al panico. Poi gli diede le spalle, allontanandosi di qualche passo. Per un polsino? Cosa nascondeva, quel polsino?
«Iris» la chiamò Connor, in un sussurro. «Che succede?»
«Va via» ripeté semplicemente lei, senza voltarsi. «Per favore, va via.»
Ma Connor non si mosse, neanche stavolta. Rimase lì, fermo, impietrito, ad osservare la schiena della ragazza che gli aveva catturato il cuore scossa da dei singhiozzi. Non poteva sopportare di vederla così. Lui doveva capire. Non perché fosse curioso, ma perché voleva aiutarla.
Voleva salvarla, qualunque fosse in mostro che la minacciava.
«Iris» disse stavolta, con più dolcezza. «Per favore, parla con me.»
La ragazza esitò. Era davvero la cosa giusta da fare?
No. No che non lo era.
Era sbagliato, un errore. Era ingiusto. Era cattivo.
Eppure sentiva che se non l’avesse fatto, il suo cuore sarebbe imploso. Un altro rapido singhiozzo le sconquassò il petto, ma lei serrò le labbra per fermarlo.
Cos’aveva da perdere, oltre che la sua fiducia?
«Promettimi di non scappare» gli chiese, con voce tremante. «Promettimi che mi darai la possibilità di spiegare.»
«Sono qui solo per te» le fece notare lui, come se fosse ovvio.
«Promettimelo» ripeté lei.
«Te lo prometto.»
Iris prese un bel respiro, voltandosi a guardarlo. Nei suoi occhi non c’era ombra di incertezza, o di ansia, o di paura.
C’era solo voglia di sapere. Di sapere perché, ma soprattutto cosa.
Quando gli porse il braccio, capì che era troppo tardi per tirarsi indietro.
Connor sentì le sue gambe venir meno, quando vide le cicatrici rosee che increspavano il polso di lei. Il mondo intorno a lui cominciò a girare, mentre la sua mente si riempiva di troppe domande.
Il ragazzo deglutì a fatica, prendendole dolcemente il polso e sfiorandole con il pollice quei segni maligni, con così tanta delicatezza che sembrava avesse quasi paura di toccarli. Perché se il suo tatto li avesse percepiti, se solo la sua pelle sarebbe stata davvero deturpata, allora voleva dire che erano veri.
Che c’erano e ci sarebbero stati.
«Iris, ma cosa…?»
«Posso spiegare» lo interruppe lei, con un filo di voce. «Però devi promettere di non interrompermi.»
Connor annuì appena, troppo scosso per poter dire qualunque cosa.
Iris emise un sospiro tremante chinando il capo per non incontrare il suo sguardo. «Travis aveva ragione» cominciò. «Mio padre non era ‘normale’ in senso buono. Sì, vivevo con lui. E sì, gli volevo bene. Insomma, è mio padre! Come potrei non volergliene? Prima era simpatico, sempre gentile. Ma dopo che la mamma l’ha lasciato è cambiato. Era disperato, si sentiva solo, e così, per affogare i dispiaceri, ha cominciato a bere. Mi ripeteva spesso che io ero stata solo un errore. Come poteva badare ad una bambina lui, che non aveva neanche un lavoro?» Sul volto di Iris si dipinse un sorriso amaro, mentre il suo sguardo si perdeva sempre di più nel passato.
«Non si preoccupava per me, né per la mia istruzione. Mi teneva chiusa in casa, relegata in camera mia, mentre lui si stravaccava sul divano sgolando un bicchiere di whisky ogni minuto.» La sua voce tremò, ma lei non interruppe il suo racconto. «A volte mi picchiava» ammise, gli occhi bagnati di lacrime. «Forse non era sua intenzione, ed era talmente ubbriaco che non lo ricorda neanche. Ma io sì, e faceva male. Non avevo la forza di ribellarmi, e così lo lasciavo fare pregando che finisse presto. Non potevo denunciarlo, capisci? Che fine avrei fatto, poi? Che fine avrebbe fatto lui?» Scrollò il capo, umiliata. «Era questo, che pensavo. E non mi rendevo neanche conto di quanto fossi stupida. ‘Mi vuole bene’, continuavo a ripetermi. ‘Lui non è cattivo’. Non capivo che in realtà io ero solo una piaga della sua maledetta vita. Era così che mi vedeva. Come una piaga. Come qualcosa di inutile, un oggetto di cui sbarazzarsi.» Le lacrime ora le bagnavano rovinose le guance, e sotto lo sguardo apprensivo di Connor, Iris si impose di continuare. «Spesso invitava dei suoi amici a casa. Non sapevo come li conoscesse, ma sapevo che era tutta gente cattiva. Ex carcerati, idioti falliti… Venivano a casa e bevevano, bevevano tanto. E poi salivano in camera mia. Loro…» La sua voce si incrinò, e se prima Connor aveva sentito il mondo girare, ora si era completamente capovolto.
Ciò che le era successo, ciò che quei bastardi le avevano fatto…
Come aveva fatto lei a nascondere tutto quel dolore in un cuore solo?
Come aveva fatto lui a non accorgersi prima dei vetri rotti che erano i suoi occhi?
«A volte mi sembrava l’unica soluzione, capisci?» continuò lei tra le lacrime, indicando con un cenno il suo polso sfregiato. «Mi sentivo così inutile che volevo solo farlo finita.»
Non avrebbe retto un’altra confessione, Connor ne era sicuro. Scoprirla adesso, tutta in una volta. Vedere la sua anima nuda di fronte a lui, e averne paura. Aver paura di parlare. Aver paura di ferirla ancora.
Ma allo stesso tempo voler gridare come se fosse intenzionato a far scoppiare le sue corde vocali.
Sentì gli occhi bruciare, e lo stomaco contorcersi in una morsa così dolorosa da provocargli vertigini. Distolse lo sguardo, sentendosi impotente. Sentendosi incapace. Sentendosi inutile.
Proprio mentre quelle sensazioni lo investivano come fossero un camion, lei gli strinse la mano.
«Ma poi ho compiuto sedici anni, e sono andata via» continuò, tra un singhiozzo e l’altro. «Ho rubato tutti i suoi soldi, ho preso la sua macchina e sono venuta qui. È da quando ho messo piede al Campo che non lo faccio più, sai? Da quando ho incontrato te e tutti gli altri. Ho capito che non era stato mio padre a distruggermi, ma che mi stavo distruggendo da sola. Ho capito di non essere inutile, di non fare schifo.» Fece un passo verso di lui, cercando il suo sguardo finché non lo trovò. «Per la prima volta, mi sono sentita necessaria. Ho capito che la vita è bellissima, e che nessuno, nemmeno io avevo il diritto di portarmela via. Per questo porto i polsini. Non commetterò mai più un atto così stupido, ma finché le cicatrici saranno lì, voglio coprirle. Voglio dimenticarle, e sono sicura che ci riuscirò. Ben presto spariranno, e di tutto quello che mi hanno fatto e che mi sono fatta resterà solo un brutto ricordo.»
Connor continuò a guardarla negli occhi, e lei faticò a sostenere il suo sguardo indecifrabile. Ma poi, fece ciò che mai si sarebbe aspettata.
Non la criticò. Non la giudicò. Non se ne andò. Non la lasciò.
Ma le sollevò con delicatezza la mano, e dopo avergliele accarezzate le baciò dolcemente le cicatrici. «Sono fiero di te» sussurrò, ed era vero. Era fiero di lei, della sua voglia di vivere, della sua dolcezza, della sua volontà di riscattarsi. Riscattarsi senza più ricorrere a sotterfugi così dolorosi.
«Non volevo mentirti, davvero» si scusò lei, tirando su col naso mentre le lacrime continuavano a sgorgare. «Volevo solo aspettare che il mio passato mi lasciasse in pace. Non volevo che nessuno sapesse quello che ho fatto. Volevo solo ricominciare…»
«Ehi, ehi» la riprese lui, prendendole il volto tra le mani e costringendola a guardarlo. «Non hai niente di cui scusarti, okay? Non con me, almeno. Hai la mia parola che nessuno verrà a sapere la verità, se non da te. Io non dirò niente» le assicurò, per poi rivolgerle un appena accennato e sincero sorriso. «Sarà il nostro piccolo segreto.»
Iris tirò di nuovo su col naso, e fu allora che lui arricciò il naso. «Ora però basta piangere» ordinò, accarezzandole gli zigomi con entrambi i pollici, per pulire le lacrime. «Sei così bella, quando ridi.»
Ed Iris lo fece. Rise, seppur sommessamente, accorgendosi solo in quel momento di quanto fosse diventato improvvisamente più leggero il suo cuore.
«Grazie, Connor» sussurrò, grata.
Lui le baciò la fronte, lasciando lì le sue labbra molto più del dovuto. «Vieni qui» sussurrò poi, attirandola a sé. E lei lo lasciò fare. Posò la guancia contro il suo petto, e seguì con attenzione il ritmo del suo cuore, che correva all’impazzata, ma che allo stesso tempo aveva un suono così rassicurante.
Connor le accarezzò i capelli, chiudendo gli occhi e inebriandosi del suo profumo.
E promise che non avrebbe permesso più a nessuno di farle del male.
Lo promise a sé stesso.
Lo promise agli dei.
Lo promise al mondo.
Lo promise al suo angelo.

Angolo Scrittrice.
Se il nuovo capitolo ti piace e tu lo sai, batti le mani!
*silenzio imbarazzante*
Bounjor, semidei delle dieci di sera! E ciao anche a voi, che avete avuto il coraggio di leggere questo capitolo e che ora state leggendo questa parte in grassetto.
Devo ammettere che scrivere questo capitolo, per me, non è stato per niente facile. Un po' perchè l'ho scritto tutto oggi, quindi non ho idea di come sia venuto. Un po' per gli argomenti che tratta.
Per tutti quelli che credevano che Iris fosse un personaggio superfluo, beh... no, non lo è. Iris è un personaggio complicato, piena di difetti, piena di ambizioni, piena di coraggio. Perchè ci vuole forza, per andare avanti. E soprattutto ci vuole coraggio, per ammettere i propri errori.
E' stato difficile descrivere i sentimenti e i racconti di Iris, in parte perchè non condivido la decisione di coloro che scelgono la via più facile (e cioè quella dell'autolesionismo) invece di lottare, di difendersi, di volersi bene.
Ma ancora più complicato (lo ammetto) è stato dar voce alle emozioni di Connor. Perchè capire come reagiscono le persone al di fuori, quelle che ti vogliono bene, ad una tale notizia non è facile. Personalmente non mi sono mai trovata in una situazione del genere, ma spero comunque di essere stata fedele alla realtà, e di aver scritto qualcosa di plausibile, qualcosa di vero.
Come già annunciato ad inizio capitolo, spero di non aver urtato la suscettibilità di nessuno. Non era mia intenzione, in tal caso.
Ma ora, passiamo ad un altro argomento, e parliamo dei da tutti amati fratelli Stoll! Sperano che non siano OOC, e io li abbia descritti bene.
Travis è geloso di Iris. Chi l'aveva immaginato?

Talmente geloso da essere disposto a giocarsi il tutto per tutto, pur di far capire al fratello che non è la ragazza giusta per lei.
E ci è riuscito? Ovviamente no. Ha perso, ha perso alla grande. Perchè Iris e Connor, ora, sono molto più legati ti prima. Lei è il suo angelo, non sarebbe mai in grado di lasciarla andare. 
Ma soprattutto adesso, oltre che con il fratello, ha rovinato tutto con la sua Kity-Kat.
Chi shippa la Tratie? *sventola convulsamente la manina*
Ma forse sarebbe più giusto chiedere: chi non li shippa?
Loro sono nati per stare insieme, il caso è chiuso. Sono così perfetti che neanche zio Rick, che li ha creati, si rende conto della loro perfezione. E neanche i suddetti interessati, se è per questo.
Travis era cossì accecato dall'idea di 'smascherare' Iris da non rendersi neanche conto di star spezzando il cuore della povera figlia di Demetra. Sono innamorati l'uno dell'altra, ma ancora non se ne rendono conto. 
Lo capiranno?
Chi lo sa. Io intanto spero che zio Rick li faccia diventare canon (cosa alquanto improbabile, but whatevah) 
Bien, ora credo sia proprio arrivato il momento di andare. Ma prima, due cose.
Innanzi tutto, devo ringraziare i miei fantastici Valery's Angels, che nonostante gli orrendi capitoli che sto pubblicando ultimamente, mi coonsolano sempre con le loro fantastiche recensioni. Un grazie speciale a coloro che hanno commentato lo scorso capitolo, e cioé:
_Krios Bane_, famousdrago, Myrenel Bebbe ART5, carrots_98, _angiu_, Cristy98fantasy, Kamala_Jackson, ChiaraJacksonStone1606 e martinajsd.
Grazie, grazie, grazie, grazie.
Secondo. Dato che non credo di averli descritti come si deve, vi lascio qui le foto dei vestiti delle ragazze. Quello sopra é di Iris, quello sotto di Katie 


 


 
Bien, ora vado davvero. Scusate per eventuali errori di battitura e perdonatemi l'orario, ma è pur sempre martedì, quindi è okay.
Mi scuso ancora una volta con coloro ai quali non ho risposto. Provvederò al più presto, don't worry.
Detto questo, mi eclisso.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e se no, non esitate a dirmelo.
Un bacione enorme, e al prossimo martedì!
Sempre Vostra,

ValeryJackson
P.s. Per tutti coloro che mi hanno chiesto quando riapparirà il nostro Leo, piccolo Spoiler.
Purtroppo, dovrete aspettare due capitoli. Ho già uno schema ben preciso in mente, e per il momento lui ancora non c'è. Ma riapparirà, it's a promise. Spero che l'attesa valga la pena.
oxoxo

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***



 

Travis non parlava con Connor da quasi due giorni.
Non per sua scelta, ovvio. Era solo che il fratello non faceva altro che evitarlo.
Ogni volta che provava a scusarsi con lui, ogni volta che tentava di avere un dialogo, c’era sempre una scusa.
«Mi dispiace, Travis, ma sono il ritardo per la lezione di tiro con l’arco.»
«Scusa, ma non posso proprio ascoltarti. Devo raggiungere Emma per una cavalcata con i pegasi.»
«Mi dispiace, Travis, ma ora non ho tempo.»
Nessuna di quelle era vera, e il giovane Stoll lo sapeva fin troppo bene.
Aveva fatto un errore, okay. Si era pentito, anche. Possibile che fosse così difficile farsi perdonare?
Possibile che in poco più di qualche minuto avesse commesso qualcosa di irrevocabile, di inammissibile?
Possibile che la gelosia fosse stata talmente tanta da avergli fatto perdere ciò che di più caro aveva al mondo?
Sì, ed era questo il problema.
Lui non riusciva a vivere senza il fratello. Si sentiva vuoto. Si sentiva perso. Si sentiva a metà.
Possibile che queste sensazioni fossero soltanto sue?
Davvero a Connor non importava più niente di lui?
Erano fratelli, maledizione. Bastava così poco a mettere in dubbio il loro rapporto? Sul serio una ragazza era riuscita a separarli? E per sempre?
No, Travis non poteva sopportarlo. Non più almeno.
«Connor!» Quando lo chiamò, lui non si degnò neanche di voltarsi. «Connor, aspetta!»
«Scusa, Travis, ho da fare» gridò di rimando, lanciandosi una fugace occhiata alle spalle.
«No, non è vero» replicò Travis, e il ragazzo si rese conto di essere stato raggiunto solo quando il fratello lo afferrò per una spalla, costringendolo a girarsi.
Connor fece roteare gli occhi, infastidito, ma Travis finse di non notarlo.
«Dobbiamo parlare.»
Le sopracciglia di Connor si sollevarono, in un’espressione che palesava tutto il suo scherno. «E di cosa?»
«Di quello che è successo l’altra sera.»
Non appena quelle parole uscirono dalla sua bocca, il fratello si lasciò sfuggire un’amara risata.
Travis irrigidì la mascella, nervoso. «Connor, ti ho già detto che mi dispiace.»
«Non ho bisogno delle tue scuse.»
«Ma non puoi continuare ad ignorarmi così!»
Sul volto di Connor si alternarono in rapida sequenza rabbia e indignazione. «Ah, no? Tu puoi farlo ed io no?» esclamò, picchiandogli un dito sul petto con più forza del necessario, in modo da marcare ogni parola. «Spiegami questa logica, Travis, perché io non la capisco.»
«Io non ti ho mai ignorato» disse lui, e nonostante la voce incrinata era convinto fosse vero.
Ma dall’occhiata di fuoco che gli lanciò Connor, capì che non la pensavano allo stesso modo. «No, certo. Perché tu pensavi a me, mentre facevi ad Iris il terzo grado. Tu ti sei chiesto quanto ci tenessi a lei, prima di farla scoppiare in lacrime!»
«Ma io l’ho fatto per te!» Travis alzò gli occhi al cielo, esasperato.
«No, tu l’hai fatto per te.»
Quell’accusa lo colpì come un pungo alla bocca dello stomaco, tanto da far barcollare tutte le sue certezze. Perché solo in quel momento si rese conto che il suo sbaglio più grande era stato quello di non pensare a ciò che Connor desiderasse veramente. E perché non aveva capito quanto Iris significasse per lui. Non se ne era preoccupato, non si era proprio posto il problema.
Aveva pensato solo a ciò che Iris gli stava portando via, accecato dall’odio, dall’irritazione, dalla gelosia.
Era stato così cieco da non rendersi neanche conto che quella ragazza rendeva Connor felice come mai era stato? Sì, purtroppo.
E il senso di colpa gli bruciava come acido gettato direttamente sul cuore.
«Ti ho chiesto scusa» sussurrò con voce strozzata.
Connor digrignò i denti, con distacco. «Evidentemente non basta.»
«Beh, che cos’altro vuoi che faccia?» Travis sembrava disperato, mentre gesticolava animatamente. «Non posso cancellare il passato, dannazione!»
«Non ti ho mai chiesto di farlo» mormorò Connor, e quando Travis cercò i suoi occhi trovò uno sguardo fermo, impassibile, glaciale.
«E allora cosa?» chiese, in un sospiro. «Cosa posso fare per farmi perdonare?»
«Niente.» Connor scosse la testa, allontanandosi di qualche passo da lui. «Ormai, non c’è più bisogno che tu faccia niente.»
Fece per andarsene, ma Travis lo afferrò per un braccio. «Connor, aspetta…»
«Non ho più voglia di ascoltarti.»
Il ragazzo riuscì a divincolarsi dalla sua presa, ma nonostante questo Travis non perse il contatto diretto con i suoi occhi. Lo supplicò con lo sguardo, sperando di riuscire a trattenerlo.
«Per favore» pregò un’ultima volta, la voce contorta dall’implorazione, dal dispiacere. «Prova almeno a darmi una seconda possibilità. Sono tuo fratello.»
Connor fece spallucce, mentre un triste e sarcastico sorriso gli sollevava un angolo della bocca.
«Io ho tanti fratelli.»
Solo quando l'altro gli ebbe voltato le spalle e se ne fu andato, il peso di quelle parole soffocò Travis con la sua forza opprimente.
Io ho tanti fratelli.
Tecnicamente era vero. I figli di Ermes, lì al Campo, abbondavano. Ce n’erano sempre di più, tanto che era diventato difficile ricordare ogni nome.
Eppure quella semplice frase aveva sortito un effetto più distruttivo.
Uno dei tanti, ecco cosa era diventato.
Solo un altro solito, comune e poco importante figlio di Ermes.
Niente di più profondo, niente di meno insignificante.
Secondo il dizionario, un fratello è quella persona di sesso maschile legata ad un'altra da vincolo di parentela che deriva dall’essere nata dagli stessi genitori, o con il quale si condivide uno solo dei genitori.
Secondo Travis, invece, un fratello era sempre stato qualcuno su cui contare. Qualcuno con cui ridere, qualcuno con cui piangere. Qualcuno con cui sentirsi apprezzati, qualcuno con cui sentirsi a casa anche in una discarica alla periferia del Bronx.
Un fratello, per lui, era sempre stato qualcuno da cui non era capace di separarsi mai. Qualcuno con cui vivere in simbiosi, qualcuno con cui condividere tutto.
Lui e Connor, da quando erano bambini, si erano sempre supportati l’un l’altro. Bastava uno sguardo per capirsi, un sorriso per consolarsi. Si spalleggiavano giorno per giorno; erano cresciuti fianco a fianco, vivendo d’istanti.
E ora? A quanto pareva, qualcuno aveva rubato loro l’apostrofo.
O era stato proprio Travis, a farla andare via?
Il pensiero di aver appena perso suo fratello gli lacerava l’anima. Come avrebbe fatto, senza di lui?
Che ne sarebbe stato, dei fratelli Stoll?
Si lasciò cadere di peso su una panchina, massaggiandosi le tempie con desolazione.
Era stato un cretino. Egoista. Stupido. Insensibile. Squallido. Idiota. Indigeribile bastardo.
E a malincuore si rendeva conto di non poter più tornare indietro. Era finita, un vicolo cieco in tutte le direzioni.
Cos’altro poteva capitargli, ormai, di più devastante?
Era come aver perso le papille gustative che gli permettevano di assaggiare la vita. Che senso aveva continuare a mangiare senza poter più sentire alcun sapore?
Con la coda dell’occhio vide qualcuno avvicinarsi, e non si domandò chi fosse finché una scatola di biscotti non invase il suo campo visivo.
Travis sollevò lo sguardo, interdetto.
«Non sono avvelenati, se è questo che ti stai chiedendo.» Iris non sembrò per niente turbata dalla sua espressione sconvolta, e al contrario gli agitò la scatola sotto il naso. «Coraggio, prendi» lo incitò, sedendosi accanto a lui sulla panchina, con grande sgomento del ragazzo. «Quando sono triste, i biscotti mi aiutano sempre.»
Travis continuò a fissarla, in un misto di sorpresa e confusione. Che ci faceva lì? Voleva vendicarsi? Voleva delle scuse? Voleva rinfacciargli tutte le cattiverie che le aveva detto?
Solo quando la ragazza gli rivolse quel suo solito sorriso gentile, Travis si rese conto che non aveva cattive intenzioni. Circospetto, inarcò un sopracciglio, e non appena lei fece vibrare un’altra volta i biscotti nella scatola, producendo quel lieve frastuono, lui allungò lentamente la mano a prenderne uno.
Lo addentò, e si concentrò sull’effetto che le gocce di cioccolata avevano sul suo palato. Poi corrucciò le sopracciglia, rabbuiandosi. «Senti, Iris, mi dispiace» sbottò, e dal suo tono si capiva che era sincero. «Non volevo dirti quelle cose. Cioè, sì, volevo dirtele, ma non pensavo di ferirti tanto. È solo che…» Chinò il capo, grattandosi la nuca imbarazzato. «Ero geloso di te. Ero convinto che tu stessi allontanando Connor da me. Non mi rendevo conto di essere io quello che stava rovinando tutto.»
La ragazza gli posò una mano sulla schiena, gesto che lo sorprese non poco. «Gli passerà, vedrai» lo rassicurò, con dolcezza. «Connor è ferito, certo. Ma ti vuole bene. Lo capisco da come ti guarda. E poi l’ha anche ammesso, ma non dirgli che te l’ho detto» aggiunse in una sommessa risata, prima di sospirare e scrollare leggermente il capo. «E comunque non è con me che devi scusarti.»
Travis sembrò confuso. «Ah, no?»
«No!» Iris sollevò gli occhi di ghiaccio al cielo, il volto contrito in un’espressione divertita. «So che può sembrarti strano, e molto probabilmente non ti farà neanche piacere, ma grazie a te io e Connor siamo molto più uniti, ora.» La figlia di Iride attese una smorfia, un arricciare il naso, una faccia indignata, uno sbuffare scocciato.
Ma invece tutto ciò che Travis fece fu annuire mestamente, e Iris capì che il proprio rapporto con Connor era l’ultimo dei suoi problemi.
«Ci parlo io, se vuoi» si offrì, in un’alzata di spalle.
Travis spostò lo sguardo su di lei, scrutandola con gli occhi chiusi a due fessure. Poi le sue labbra accennarono un sorriso. «Perché lo fai?» domandò, stupito. «Dopo tutto quello che ti ho detto…»
«Perché tutte le volte che mi sentivo sola, ho sempre desiderato avere un fratello accanto» lo interruppe prontamente lei, con voce ferma e decisa. «Perché tu hai la fortuna di averne uno come Connor, che darebbe la vita per te. E perché sono sicura che per te sia lo stesso.»
«Lo è» assicurò Travis, e solo quando quelle due sillabe furono soffiate via dalle sue labbra, si rese conto di quanto in realtà fossero intrise di verità. Non c’era niente che non avrebbe fatto per Connor. Niente.
E la ragazza che gli sedeva affianco sembrava averlo capito prima di lui. La guardò negli occhi, riconoscente. «Grazie, Iris.»
«Non ringraziarmi» ridacchiò lei, per poi fargli un complice occhiolino. «Non gli ho ancora parlato.»
Travis si lasciò sfuggire una sommessa risata, per poi rivolgerle un sorriso appena accennato. Annuì tra sé e sé, quasi si stesse dando conferma di un pensiero che gli aveva attraversato fugace la mente. Poi si portò una mano al collo, accarezzandoselo sovrappensiero. «Connor aveva ragione» mormorò, con una punta di incredulità nelle corde vocali. «Sei proprio una ragazza speciale.»
Iris inclinò il capo di lato, trattenendo a stento un sorriso pieno di dolcezza e malizia. «Beh, c’è un’altra ragazza speciale che invece ha davvero bisogno delle tue scuse, ora.»
Travis inarcò un sopracciglio, visibilmente confuso, al ché lei fece roteare gli occhi. «Katie» spiegò.
Il ragazzo parve sorpreso, mentre aggrottava la fronte interdetto. «Katie?»
«Cavolo, Travis!» si indignò allora lei, scioccata. «Possibile che tu non te ne sia accorto? Katie si è sentita usata, umiliata e rifiutata.»
Travis sgranò gli occhi, lo sguardo pregno di quel miscuglio di sensazioni che ti attanaglia lo stomaco nel momento in cui ti tolgono la terra da sotto i piedi. «Ma non era mia intenzione!» si giustificò, non sapendo esattamente come altro discolparsi.
«Io lo so» assentì lei, per poi far schioccare la lingua. «È lei che deve capirlo.»
Iris incontrò il suo sguardo perso ancora una volta, per poi rivolgergli un sorriso calmo, tenero, rassicurante. «Va da lei» gli sussurrò, incitandolo con dei colpetti dietro la schiena. «Stai già perdendo anche troppo tempo.»
Travis ci mise qualche secondo per capire di doversi alzare e per correre a perdifiato verso la Cabina di Demetra.
Kity-Kat, come aveva fatto a non pensarci? Era stato così concentrato a scusarsi con il fratello, da non rendersi neanche conto di aver ferito anche lei con la sua idiozia.
Non poteva permettersi di perdere anche Katie. Non poteva proprio.
Aveva bisogno di lei. Aveva bisogno del suo sorriso, aveva bisogno delle sue grida isteriche. Aveva bisogno delle sue minacce, aveva bisogno dei suoi occhi caramellati.
Aveva bisogno della sua Kity-Kat, aveva bisogno di sapere che non aveva rovinato tutto.
Aveva bisogno di lei.
Punto.
 
Ω Ω Ω
 
«Kity-Kat?» Travis batté più volte il pugno sulla porta, ma non ricevette alcuna risposta. Sospirò, prima di bussare di nuovo. «Kity-Kat?» chiamò. «Sono Travis.»
Altro silenzio.
Travis chiuse gli occhi, posando la fronte contro il legno chiaro con un sospiro. «Per favore, apri la porta» implorò.
Silenzio, un’altra volta. Lo spazio che lo circondava era così privo di rumori che Travis riusciva a sentire il proprio respiro infrangersi contro la porta di rovere.
Scrollò il capo, avvilito, e con delusione si sedette sull’ultimo scalino della Cabina, prendendosi la testa tra le mani.
Da quando era diventato così difficile chiedere scusa? Da bambini era tutto più facile. Lo si chiedeva e basta, senza troppi giri di parole. Lo si faceva quando si spingeva qualcuno, o quando gli rovesciavi addosso i colori. Oppure dopo aver fatto i capricci. Lo si ripeteva come una formula magica in grado di rimettere tutto a posto.
Da grandi non è più così facile, perché le parole non bastano.
Essere grandi fa schifo, pensò affranto l’eterno Peter Pan.
Il cardine, alle sue spalle, cigolò.
Travis si voltò di scatto, e colto da un improvviso sbalzo di adrenalina si alzò in piedi, pronto a tartassare Katie con le sue parole.
Ma quando sulla soglia apparve una ragazza che nulla aveva in comune con Katie eccetto il genitore divino, Travis si lasciò invadere dallo sconforto. Allungò il collo, nella speranza di poter scorgere qualcuno alle sue spalle. Ma la ragazza era sola.
La figlia di Demetra lo scrutò attenta, per qualche secondo, e Travis si sforzò di sostenere il suo sguardo senza permettere alle proprie iridi di soffermarsi sul braccio mancante della ragazza.
Melanie si chiuse la porta alle spalle, continuando a fissarlo. «Sei Travis?» domandò.
«Sì.»
Fu allora che lei lanciò un’occhiata alla sua casa, trattenendo il fiato quasi fosse a disagio. «Katie non c’è.»
Non era vero, e Travis l’aveva capito. Lui e le bugie avevano una certa affinità, nell’ultimo periodo. «Oh, capisco.» Non si impegnò neanche nel mascherare tutta la sua delusione. «Quando la vedi, puoi dirle che sono passato? Ho un urgente bisogno di parlarle.»
«Non credo che la cosa sia reciproca.»
Il ragazzo si stropicciò gli occhi, nel tentativo di scacciar via la frustrazione. «Senti, ho fatto una cavolata, lo ammetto. Ma voglio rimediare.»
Melanie strinse gli occhi a due fessure. «Sembra importante» constatò, con distacco.
«Lo è» affermò lui, senza esitazione.
La ragazza sospirò, e lanciò un’ultima occhiata alla porta chiusa alle sue spalle, prima di avvicinarsi lentamente a lui. «Per qualunque cosa, non sono stata io a dirti che Katie è chiusa in bagno a piangere da qualcosa come due giorni, okay?» mormorò tutto d’un fiato, per poi squadrarlo con un’espressione indecifrabile. «Che cosa le hai fatto?»
«Io…» Travis cercò le parole giuste, trascinandole con fatica. «Io sono stato uno stupido, ecco. L’ho fatta soffrire, ma non era assolutamente mia intenzione!»
«E ora vorresti chiederle scusa?»
«Vorrei solo farle capire che sarei disposto a fare qualunque cosa, pur di poter tornare indietro e cancellare tutte le stupidaggini che ho fatto. Non volevo farle del male, giuro.»
Il suo era risentimento vero, e Melanie lo percepì. Inclinò il capo, soppesandolo con compassione. «Ci tieni molto a lei, vero?»
Sul volto di Travis si dipinse un sorriso triste, mentre stringendosi nelle spalle mormorava in un sussurro: «Lei è la mia Kity-Kat.»
In quel momento, Melanie capì che quello pronunciato dal ragazzo, per lui, era più di un semplice soprannome. Era il modo in cui lo diceva, era la cura con cui lo pronunciava a renderlo speciale.
«Okay, senti» scattò la figlia di Demetra all’improvviso, con tono deciso. «Sono convinta che se dici a lei le stesse cose che stai dicendo ora a me, forse hai qualche possibilità. Ma non puoi presentarti da lei così, di punto in bianco, e pretendere che non ti prenda a schiaffi in faccia.»
Dal luccichio nello sguardo del ragazzo intese tutta la sua attenzione. «E allora che faccio?»
«Regalale dei fiori.» Travis inarcò un sopracciglio, così Melanie spiegò. «Tutte le ragazze amano i fiori, e noi figlie di Demetra ancora di più. Se scegli quelli giusti, forse puoi farle capire che ti dispiace davvero. E magaci ci alleghi anche una lettera. Una di quelle ben scritte, però, dove fai delle scuse sincere.»
«Fiori. Lettera. Ricevuto» annuì Travis, la fronte aggrottata nell’intento di memorizzare tutto ciò che la ragazza gli diceva.
«Potresti farglieli trovare questa sera» continuò Melanie. «Davanti alla porta. Lei verrà a cena con noi, dato che siamo riusciti a convincerla. Ma credo proprio che poi tornerà qui, non verrà al falò. Sarebbe perfetto.» Diede qualche secondo al figlio di Ermes per permettergli di assorbire quei dati. «Ricordati di scriverla di tuo pugno, la lettera, perché solo così avrà l’effetto giusto. E portale quanti più fiori riesci a trovare. Le preferite di Katie sono…»
«Le margherite, lo so» la interruppe lui, sovrappensiero. Poi si rese conto delle sopracciglia inarcate della ragazza, in un’espressione sorpresa. «Che c’è?» scattò allora, sulla difensiva. «Conosco la mia Kity-Kat.»
Melanie si lasciò sfuggire un sorrisetto compiaciuto, prima di fare spallucce. «Beh, allora presumo tu non abbia più bisogno di me» disse, con finta indifferenza. Poi gli rivolse un incoraggiante cenno del capo. «Buona fortuna.»
Travis sospirò, quasi questo potesse aiutarlo a cacciar via quella pietra che gli schiacciava la bocca dello stomaco. Poi guardò la ragazza negli occhi, riconoscente. «Grazie…»
«Melanie» finì lei per lui.
«Melanie, certo.» Il figlio di Ermes annuì lentamente, ma prima che potesse farle qualche altra domanda, lei gli posò una mano sulla spalla.
«Fammi sapere come va a finire» disse a mo’ di saluto, dirigendosi subito dopo verso i suoi veri impegni.
Travis la seguì qualche attimo con lo sguardo, voltandosi poi verso la Cabina Quattro.
Margherite. Lettera. Chiedile scusa.
Aveva lottato contro mostri e titani, eppure niente sembrava più minaccioso di una possibile reazione della ragazza.
Ma il suo sguardo triste era troppo da sopportare.
Travis preferita vederla arrabbiata, furiosa, isterica, sfinita. Ma non triste.
La tristezza no, non poteva sopportarla. Soprattutto se sapeva di esserne lui l’artefice.
Nessuno aveva il diritto di togliere la felicità alla sua piccola Kity-Kat.
Perché quando sorrideva era bellissima.
 
Ω Ω Ω
 
John diede un calcio ad un piccolo sasso, osservando il suo rumoroso ciottolare senza prestarvici troppa attenzione.
Quella mattina, aveva avuto un’accesa discussione con Will.
Il fratello gli si era avvicinato, mentre lui, in piedi accanto al suo letto, stava ripiegando con cura alcune delle sue magliette.
«Che cosa c’è tra te e Melanie?» aveva chiesto, senza mezzi termini, le mani chiuse a pugno.
John aveva sollevato di scatto lo sguardo, interdetto, prima di abbozzare un sorriso divertito. «Niente, siamo soltanto amici» aveva fatto spallucce, fingendo indifferenza.
Ma Will aveva digrignato i denti, per nulla convinto. «Non voglio che frequenti quella ragazza, John» si era imposto, autoritario, e al ragazzo era sfuggita una sommessa risata.
«E da quando devo rendere conto a te di chi frequento?»
«Tu non capisci. Lei ti farà solo soffrire.»
A quelle parole, il corpo di John si era irrigidito, mentre scrutava il fratello con gli occhi chiusi a due fessure, visibilmente infastidito. «Ecco, sarei curioso di scoprire cosa intendi, tu, quando dici che lei mi farà soffrire. Non la conosci, non ci hai neanche mai parlato. Con che coraggio la giudichi?»
«Conosco quelli come lei, ne ho visti a bizzeffe nella mia vita!» aveva allora ribattuto Will, alzando il tono di voce. «Dopo una tragedia del genere, diventano persone egoiste, alle quali non importa niente se non di loro stessi!»
John l’aveva fulminato con lo sguardo, sforzandosi di mantenersi sicuro e glaciale. «Melanie non è così.»
«Sì, invece, e tu sei troppo cieco per accorgertene! A lei non interesserà mai quello che provi tu, John. Penserà sempre e solo a sé stessa.»
Ora era troppo, anche per John. «Tu non sai niente di lei!» gli aveva urlato contro, furioso. Ma Will non sembrava intimorito.
«Non è diversa da tutti gli altri. Ti spezzerà il cuore, e tu non te ne renderai neanche conto. Per quanto ti ostini a negarlo, lei è egoista e irritabile, e cova una tale rabbia dentro che rischia di essere distruttiva per tutti!»
A quel punto, John era avanzato verso di lui, puntandogli un dito contro minaccioso. «Di soltanto un’altra parola su di lei, e io giuro che ti…»
«Ragazzi!» Era stata Theresa ad interromperli, posando entrambe le mani sul petto di John per impedirgli di avventarsi contro il fratello. «Smettetela!»
I due ragazzi si erano scambiati uno sguardo d’acciaio, poco prima che John contraesse la mascella, rabbioso. «Resta fuori dalla mia vita!» aveva abbaiato nella sua direzione, in un moto d’ira, per poi uscire di casa furibondo, sbattendosi con forza la porta alle spalle.
Chi credeva di esser Will, per essere convinto di avere il diritto di dirgli cosa doveva fare?
Lui non conosceva Melanie, non aveva idea di quanto fosse dolce, e gentile, e simpatica, e fragile.
A dispetto di quanto affermasse, lui non aveva idea di cosa quella ragazza aveva passato. Non aveva idea di come poteva sentirsi e non aveva idea di come aveva reagito.
Lui non sapeva niente, di lei.
John sembrava essere l’unico ad averla conosciuta davvero.
Ad aver visto il suo sorriso sincero, ad aver incatenato gli occhi a quelle stupende iridi che ricordano l’autunno.
John era stato l’unico a capire che ciò di cui lei aveva bisogno non era qualcuno che scalasse la salita al posto suo, ma qualcuno che l’accompagnasse, sorreggendola passo dopo passo.
John era stato l’unico che era riuscito a guadagnare la sua totale fiducia.
Eppure, c’era ancora qualcosa che non andava. Melanie a volta era sfuggente, timida, taciturna. C’erano giorni in cui sembrava lo stesse evitando, altri in cui pareva avesse paura di lui.
John non era mai riuscito a chiederle cos’era che la spaventava. Aveva voglia di proteggerla, ma non sapeva esattamente come, e soprattutto da chi.
E se il problema fosse stato lui?
Forse, come aveva detto Theresa, Melanie rivedeva in lui il suo periodo in ospedale, e questo non faceva altro che provocarle sofferenza e dolore.
Che fare se era davvero John, il problema? Come sarebbe riuscito a difenderla da sé stesso?
Un ramo alle sue spalle si spezzò, e John interruppe bruscamente la sua svogliata camminata, bloccando il flusso dei suoi pensieri. Si mise in ascolto, i muscoli tesi mentre si guardava intorno con circospezione.
Si era inoltrato nella Baia di Zefiro, ma non gli sembrava di aver superato i confini del Campo. Possibile che l’avesse fatto senza neanche rendersene conto?
Un ciottolo, alla sua destra, fu calciato distrattamente, e il ragazzo trasformò il suo bracciale in un arco con un gesto repentino, incoccando una freccia di luce così velocemente da risultare, per chiunque lo vedesse, quasi un trucco di magia.
Puntò il dardo contro il suo nemico, e questi urlò spaventato, facendo cadere qualcosa a terra.
Solo osservandolo meglio John vi riconobbe la figlia di Demetra dei suoi pensieri.
Per la sorpresa, Melanie aveva fatto cadere il vaso di terra che stava trasportando sul suolo, ed ora era ridotto in mille pezzi.
«Oh miei dei, scusa!» si affrettò ad esclamare John, riponendo velocemente l’arco e correndo verso di lei. «Mi dispiace, non volevo spaventarti» si scusò poi, chinandosi a raccogliere i cocci rotti.
Melanie si inginocchiò accanto a lui. «No, non preoccuparti, è colpa mia. Ero talmente distratta che non ti ho neanche visto arrivare.»
John sollevò appena lo sguardo su di lei, giusto in tempo per scorgerla mentre si mordicchiava il labbro, osservando il suo vaso rotto.
«Mi dispiace» ripeté, in un sussurro, ma la ragazza gli rivolse un sorriso rassicurante.
«Non fa niente, era solo un vaso.»
John annuì mestamente, prima di scorgere la solitaria piantina che ora giaceva sull'erba. «Dannazione» imprecò sottovoce, tentando di disincastrarla dalla polverosa terra nel modo più delicato possibile.
Melanie si lasciò sfuggire una risata, divertita. «Lascia, faccio io» disse, afferrandogli un polso e allontanandolo dolcemente. Poi posò la mano sul terriccio morbido, accanto all’alberello. Prese un bel respiro e, prima che John potesse rendersene conto, le radici della piccola pianta si inchiodarono al terreno, scendendo così in profondità da far credere di risiedere lì da generazioni.
Il ragazzo sollevò le sopracciglia, stupito.
«È un trucchetto che mi hanno insegnato i miei fratelli» sorrise lei, stringendosi nelle spalle imbarazzata. «Colin dice che tra un po’, se mi impegno, sarò anche in grado di far crescere piante dal nulla.»
Il figlio di Apollo annuì, nonostante non avesse idea di chi fosse Colin, per poi indicare il ‘nuovo’ germoglio con un cenno. «Spero solo che non fosse importante.»
«Oh, no!» rise Melanie, scuotendo la testa. «Portavo questi vasi alla Cabina Quattro giusto per ammazzare un po’ il tempo. E poi perché… beh, sai, così faccio esercizio» concluse timidamente.
John la guardò. «Come va con i tuoi nuovi fratelli?» chiese, una domanda come un’altra.
La ragazza arricciò il naso. «Meglio» concesse. «Insomma, ormai si sono abituati… a me. E non sono più così apprensivi.»
Lui assentì lentamente, esprimendo grazie ad un sorriso quanto fosse felice per lei. «Mi fa piacere.»
Melanie voltò il capo per guardarlo, ricambiando il suo sorriso con uno pieno di gratitudine, ma solo quando incontrò i suoi occhi verdi si rese conto di quanto i loro volti fossero vicini.
Avvertiva il suo respiro caldo carezzarle dolcemente il viso, mentre il profumo mentolato della sua pelle le inebriava le narici.
John si chinò lentamente verso di lei, e poco prima che le loro labbra fossero in grado di sfiorarsi, lei strizzò gli occhi, porgendogli la guancia.
«Devo andare!» esclamò tutto d’un fiato, alzandosi all’improvviso e allontanandosi di qualche passo.
Se non gli avesse dato le spalle, avrebbe visto John assorbire il colpo. Si passò la mano tra i capelli, nervosa. «I-io…» balbettò, con la gola secca. «Credo che Katie mi stia cercando.»
John annuì piano, nonostante lei non potesse vederlo. «Ci penso io, qui, se vuoi» si offrì, riferendosi ai cocci del vaso.
Melanie si sgranchì la voce, per impedirne il tremitio. «Grazie. Ehm, allora… allora ci vediamo al falò, okay?»
«Okay» fu la cupa risposta di John.
La figlia di Demetra strinse le labbra con forza, inclinando leggermente il capo. «A dopo» salutò in un frettoloso sussurro, quasi avesse voglia di scappare via al più presto.
Ed infatti fu quello che fece. Se ne andò, senza neanche voltarsi, lasciando lì John solo con quell’ammasso di cocci rotti.
Il ragazzo ne prese distrattamente uno, battendoselo sul palmo della mano. Poi si lasciò sfuggire un amaro sorriso.
Per quanto si sforzasse di capirli, alcuni atteggiamenti di Melanie rimanevano ancora un mistero. Ogni volta c’era una scusa, un ripiego, una scappatoia. Ogni volta succedeva sempre qualcosa che rovinava il momento perfetto, che fosse per merito suo o di qualcun altro.
Era questo che intendeva Will, quando diceva che lei l’avrebbe fatto soffrire?
Era forse questo suo essere sfuggente e misteriosa la causa di quel suo continuo nodo alla gola?
Che cosa stava succedendo davvero, tra lui e Melanie? Come poteva pensare che lei fosse ancora soltanto un’amica mentre tutto ciò che desiderava, ora come ora, era assaporare le sue labbra?
Che poi, come avrebbe mai fatto una cosa tanto bella essere allo stesso tempo così distruttiva?
 
Ω Ω Ω
 
Se Michael avesse potuto essere un elemento, avrebbe voluto essere fuoco.
Così da poter finalmente dare a Matthew la fine che si meritava.
Quel ragazzo era presuntuoso, saccente, furbo e arrogante; ma nessuno sembrava rendersi conto di quanto fosse meschino.
Michael ne aveva abbastanza di quella sua faccia da schiaffi.
Aveva promesso a Skyler che avrebbe provato ad andare d’accordo con lui, non perché ne avesse davvero voglia, ma perché lei era la sua ragazza, e avrebbe fatto qualunque cosa pur di vederla felice.
Ma non si può chiedere a un delfino di spiccare il volo per più di due secondi.
Michael non aveva mai incontrato persona che lo irritasse di più. E non solo per la sua palese amicizia con la figlia di Efesto. C’era qualcosa che non lo convinceva, in quel tizio. Qualcosa di losco e poco chiaro.
Qualcosa di cattivo.
Per questo quella sera, poco prima di cena, andò da lui. Gli si parò davanti, incrociando le braccia al petto.
«Tu non mi piaci» disse, in tono brusco e tagliente.
Matthew si lasciò sfuggire uno sbuffo di risata, per poi sorridere sarcastico. «Non ci voleva un genio per capirlo, ma grazie comunque per la precisazione.»
Fece per andarsene, ma Michael glielo impedì. «No, non ho finito. Tu non mi piaci, e qualunque cosa tu stia tramando sappi che non ti permetterò di fare del male ai miei amici, chiaro?»
Matthew corrucciò le sopracciglia, in un’espressione indecifrabile. «Io non voglio fare del male a nessuno.»
«Non provare a fare il santarellino con me.»
A quel punto, il ragazzo incrociò le braccia a sua volta, fronteggiando il figlio di Poseidone con aria di sfida. «Non so cosa tu ti sia messo in mente, caro il mio Ragazzo Pesce, ma se la tua intenzione era quella di intimorirmi, sappi che non ci sei riuscito.» Sostenne il suo sguardo, con sicurezza. «Io non ho paura di te.»
Michael digrignò i denti, con così tanta forza da rischiare di romperli. «Ti tengo d’occhio» minacciò, ma a differenza di quanto aveva immaginato, lui sorrise.
«Divertiti ad osservare la noiosissima vita di un normale mezzosangue.»
«Tu non sei un normale mezzosangue.»
A quell’accusa, la sicurezza di Matthew vacillò, mentre rabbuiandosi mormorava mestamente: «Io sono come tutti gli altri.»
«Ah, sì?» Il figlio di Poseidone sembrava divertito, mentre lo scrutava. «E allora perché non sei stato ancora riconosciuto? Nessun dio l’ha mai tirata tanto per le lunghe.»
Come aveva giustamente immaginato, Matthew non rispose. E se aveva intenzione di farlo, non ne ebbe il tempo, perché il corno del padiglione della mensa risuonò per tutto il Campo, avvisando i semidei che era ora di cena.
Il tizio si allontanò da lui, non dimostrando né insicurezza né timore mentre gli lanciava un’ultima fugace occhiata.
Michael non si fidava di lui, non si fidava per niente.
E l’avrebbe tenuto d’occhio davvero.
A qualunque costo.
 
Ω Ω Ω
 
«Ave Amadeus Cook, figlio di Ares, dio della guerra» si inchinò solennemente Chirone, mentre un coro di benvenuto si levava dal lato destro del falò.
Skyler guardò Matthew, seduto accanto a lei. Sembrava tranquillo, e stava applaudendo in onore del nuovo acquisto della Casa Cinque.
Nonostante fosse passato fin troppo tempo, il suo genitore divino non si era ancora fatto sentire, e quell’argomento era diventato così tabù che ormai evitavano anche di parlarne.
«Ave Holly Torres, figlia di Afrodite, dea della bellezza e dell’amore.»
Una ragazza sorrise raggiante, mentre felice raggiungeva i suoi nuovi fratelli.
Davvero era così difficile mandare a Matthew un semplice segno?
«Ave Murphy Sullivan, figlio di Ermes, dio dei ladri.»
«Ehi, che ti succede?» Fu solo la voce del ragazzo a distogliere Skyler dai suoi pensieri.
Matthew la fissava con un sopracciglio inarcato, un sorrisetto goliardico ad incurvargli le labbra.
«N-niente» scosse la testa lei, distogliendo velocemente lo sguardo dai suoi occhi intensi. «È solo che oggi ho dormito poco.»
Il ragazzo annuì lentamente, poco convinto.
Di chi potrà mai essere figlio?, si chiese la mora, corrucciando inconsciamente le sopracciglia. Perché lui non può avere il diritto di abbracciare i suoi fratelli?
Tutta quella situazione era strana, a dir poco. Nonostante Skyler si fosse sforzata di non pensarci, non poteva fare a meno di domandarsi: perché Matthew non veniva ancora riconosciuto? Che cos’aveva, lui, di diverso dagli altri?
Era un ragazzo stupendo, dolcissimo. Meritava davvero tutta quell’umiliazione?
«Ave Ellen Barnes, figlia di Morfeo, dio dei sogni.»
Poteva essere Morfeo? No, improbabile. Quella ragazza era lì da solo poche ore, e Morfeo era sempre stato uno di quegli dei che non hanno paura di chiamare a sé un proprio figlio.
Poseidone? Non nuota bene.
Demetra? Zero pollice verde.
Ares? Sa combattere, ma non è abbastanza crudele.
Ermes? Pessimo bugiardo.
Apollo? Meglio evitare il tiro con l’arco.
Afrodite? Gli manca un po’ di frivolezza.
Dioniso? Per carità!
Skyler quasi non si accorse che tutti gli occhi erano puntati su di loro, finché non sentì Matthew, al suo fianco, sobbalzare.
Spostò lo sguardo su di lui, perplessa. E fu allora che lo vide.
Un piccolo simbolo stava davvero volteggiando sopra la sua testa, ma era diverso da tutti quelli che si erano visti finora al Campo.
Raffigurava un piccolo tornado, con al centro la figura stilizzata di un umano, sul dorso due possenti ali.
«E questo ora di chi è?» chiese Emma con tono confuso, dando così voce ai pensieri di tutti.
Skyler sgranò gli occhi, interdetta, mentre un groppo grande quanto un pugno le serrava la gola.
Aveva già visto quel simbolo, l’aveva già incontrato mentre sfogliava le pagine del libro di sua madre.
Ma non poteva essere lo stesso.
Non quella dea.
Non Matthew.

Sul volto del ragazzo si alternavano sorpresa e preoccupazione, e proprio quando la figlia di Efesto stava per convincersi che fosse tutto uno stupido equivoco, Chirone si alzò in piedi, chinando il capo con aria tesa ma autoritaria.
«Ave Matthew Adams, figlio di Eris. Dea del caos e della discordia.»


Angolo Scrittrice.
E cinque... e sei... E cinque, sei, sette, otto...
Holaa! Oggi è martedì, ed io-la-sottoscritta-me-medesima sono qui con un nuovo capitolo tutto per voi!
Non vi interessa, dite? Oh, beh... io ci ho provato.
Speravo davvero di riscattarmi con questo capitolo. Ho notato che quello precedente non è piaciuto a molti, e la cosa mi ha rattristato non poco. :c
Non so se questo sia all'altezza delle aspettative, ma dovrete dirmelo voi.
Nonostante non sia scritto benissimo (e mi scuso in anticipo per eventuali errori di battitura), succedono molte cose importanti.
Innanzi tutto, Travis dopo la cavolata che ha fatto si è ritrovato respinto da tutti. E in chi ha trovato consiglio e conforto? In Iris. Eh, già. Perchè lei è una di quelle ragazze che non portano rancore, e perchè nonostante tutto non riesce ad odiare il figlio di Ermes. E' troppo dolce, cercate di capirla.
E Katie? Che dite, Travis riuscirà a farsi perdonare? Chissà se Melanie ha ragione, e un bel mazzo di margherite basterà per risollevare l'animo della figlia di Demetra.
Ma parlando dei figli dei cereali (?)
Che sta succedendo tra Melanie e John? Onestamente, non lo capisco nemmeno io. Sono solo amici, o c'è forse qualcosa di più? E se c'è qualcosa di più, perchè non accade ancora niente?
Cavolo, questi due sono proprio indecifrabili! Sono aperte scommesse su eventuali svolgimenti.
E che mi dite di Michael? La gelosia è un brutto ceffo, e quel poverino di Matthew non può nemmeno fare un passo senza sentirsi sotto esame.
Ma ora ha un problema in meno, no?
Perché è stato riconosciuto, gente!
In quanti aspettavano questo momento? Eh sì. Dopo dieci capitoli, tanta attesa e depistaggi di ogni genere, finalmente si scopre il sangue di quale dio corre nelle sue vene. O dovrei dire dea?
Eris, dea del caos e della discordia.

Qualcuno di voi l'aveva immaginato? Onestamente spero di no, perchè vuol dire che sono riuscita a celarlo per bene :')
Ma ce lo vedete, Matthew, come figlio del caos? E soprattutto, che cosa succederà, ora?
Questo non posso dirvelo, mi dispiace. Niente Spoiler, no?
Perciò, smetto di parlare e inizio a ringraziare gli otto Valery's Angels che nonostante tutto hanno comentato lo scorso capitolo, e cioè:
MyrenelBebbe, _Krios Bane_, Kamala_Jackson, carrots_98, Cristy98fantasy, martinajsd, ChiaraJacksonStone1606 e Krista Kane.
Grazie davvero, siete bellissimi **
E grazie anche tutti coloro che (nonostante in questo periodo -me ne rendo conto- sto pubblicando un capitolo peggio di un altro) confidano in me, e continuano a seguire questa storia supportandomi e sopportandomi.
Grazie a tutti, sul serio. Siete speciali.
E ora, credo che sia arrivato il momento per me di andare via.
Un bacione enorme a tutti quanti, e al prossimo martedì!
Sempre Vostra,

ValeryJackson
P.s. Ho dimenticato di chiedervelo, ma... Vi è piaciuto il capitolo? Vi ha fatto schifo? Che ne pensate? Fatemi sapere, sono aperta a qualunque genere di opinione :)
P.p.s. Voi avete mai pensato ad un dreamcast per Connor, Travis e Katie? Io sinceramente no. Per Katie non ho nessunissima idea. Per Travis e Connor forse ci vedo bene Jack e Finn Harries, gli youtubers. Dei, quei ragazzi sono stupendi **

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***




 
Microft si rigirò la piccola pinza tra le mani, incerto.
Era da tutta la mattina che lavorava a quel maledetto progetto, e ancora non riusciva a venirne a capo. Insomma, non avrebbe mai pensato che costruire una cosa così piccola fosse stato così difficile.
Voleva fare qualcosa di carino, voleva che quel regalo fosse speciale. Eppure, a guardarlo, Microft non l’avrebbe raccolto neanche se l’avesse trovato per strada. In una confezione. Con un’enorme freccia rossa che lo indicava.
Cavoli, faceva davvero schifo. Ma sarebbe mai riuscito ad aggiustarlo?
Perché le cose in apparenza più semplici erano sempre le più complicate?
«Ciao, Micky!» trillò una voce alle sue spalle, facendolo sobbalzare. Microft si girò di scatto, ritrovandosi di fronte il sorriso smagliante della piccola di Poseidone.
«E-ehi, Rose» balbettò, forzando un sorriso, per poi appoggiarsi sul bordo della sua postazione di lavoro nel vano tentativo di apparire disinvolto.
La ragazza corrucciò le sopracciglia, sporgendo il collo oltre la sua spalla. «Che stavi facendo?»
«Niente» scattò subito lui, forse con un po’ troppa enfasi, perché lei inarcò un sopracciglio, in un’espressione indecifrabile.
Microft si strinse nelle spalle, arricciando il naso con finta nonchalance. «Non credo ti interessi la ricostruzione di una spilla-spada.»
Rose, però, non se la bevve. Si affacciò a destra, ma il suo campo visivo fu di nuovo occupato dal volto del figlio di Efesto, che seguì i suoi movimenti anche a sinistra. La mora tentò ancora, ottenendo lo stesso risultato, finché lui, sgusciando un’ultima volta di lato con lei fece scivolare il suo ‘capolavoro’ sul piano da lavoro, stringendolo nel pugno e nascondendolo nella tasca posteriore dei jeans.
Rose strinse gli occhi a due fessure, scrutandolo con uno sguardo indecifrabile. «Mi stai nascondendo qualcosa, per caso?»
Il ragazzo prese fiato per replicare, ma inizialmente non ne uscì alcun suono. «Ptf. Certo che no!» esclamò poi, come se fosse qualcosa di scontato. Sarebbe anche suonato credibile, se la sua voce non avesse lasciato la sua bocca incrinata e di un’ottava più alta.
La figlia di Poseidone incrociò le braccia al petto, le iridi in quel momento di un intenso blu cobalto fisse su di lui. «Sappi che se tra noi ci sono segreti, ti odierò per tutta la vita.»
Microft scoppiò in una nervosa e sommessa risata, mentre scrollava leggermente il capo. Poi la guardò, divertito, e notando la sua buffa espressione corrucciata fece un passo verso di lei, prendendole il volto fra le mani e schioccandole un sonoro bacio sul naso.
Rose lo arricciò, fingendo una smorfia.
«Niente segreti» convenne Microft, con un cenno del capo. Poi sorrise. «Posso giurarlo.»
La figlia di Poseidone continuò a scrutarlo, dubbiosa. Ma poi sospirò, facendo roteare gli occhi ormai incapace di non sorridere a sua volta.
La mano di Microft volò distrattamente alla tasca posteriore dei suoi jeans, dov’era custodito il suo… segreto, se così lo si poteva chiamare.
Non gli piaceva mentirle, ma che scelta aveva? Se l’avesse saputo, avrebbe rovinato tutto.
«Oh, ciao, Skyler!» Rose salutò qualcuno, e solo seguendo la direzione del suo sguardo Microft notò la sorella, che stava passando davanti a loro sovrappensiero.
Skyler le lanciò un’occhiata interdetta, per poi abbozzare un lieve sorriso. «Ciao, Rose» ricambiò, con un cenno. «Che ci fai qui?»
La piccola si strinse nelle spalle. «Sono passata solo a salutare» disse, e fu a quel punto che il figlio di Efesto ricordò un piccolo particolare. Rose non era stata l’unica a passare di lì, quella mattina.
«Ehi, Skyler!» chiamò, poco prima che lei potesse voltarsi per tornare alla sua postazione. La sorella lo guardò, curiosa. «È passato Matthew, prima.»
Il volto si Skyler sbiancò, mentre lentamente i suoi occhi si sgranavano. «Matthew?» ripeté, a disagio.
Microft annuì, così lei ciangottò: «Che… che voleva?»
Il fratello fece spallucce. «Non ne ho idea» rispose, sincero. «So solo che ti cercava.»
Skyler assentì leggermente, sorpresa, per poi raggiungere il suo piano da lavoro come un automa. Posò i palmi sul tavolo di cedro, sospirando.
Non parlava con Matthew da tre giorni, da quando… beh, da quando era stato riconosciuto.
Figlio di Eris.
Skyler non riusciva ancora a dare un nome alle disarmanti sensazioni che le avevano attanagliato lo stomaco quando aveva scoperto la sua parentela divina.
Figlio di Eris vuol dire caos. E caos vuol dire problemi.
E problemi vuol dire rompere un equilibrio.
Skyler si era impegnata troppo nel far sì che ogni cosa andasse per il verso giusto per poi rovinare tutto proprio ora.
Doveva cercare di evitare Matthew, il più possibile.
E allora perché il solo pensiero la faceva stare male? Perché le sembrava una cosa cattiva, ingiusta, sbagliata?
Perché Matthew non ha fatto niente, si disse, dandosi mentalmente della stupida.
Non era stato lui a scegliere il suo genitore divino, no? Non era colpa sua, se suo padre aveva deciso di avere un figlio proprio con la dea della discordia. 
Forse Matthew era diverso. Forse non era pericoloso, né distruttivo. Forse il fatto che fosse figlio di Eris non faceva di lui qualcuno da evitare.
Era l’unico, lì al Campo. Non aveva né fratelli né sorelle. E ora non aveva neanche amici.
Non era giusto, non poteva fargli questo. Non dopo tutto quelli che lui aveva fatto per lei.
Non dopo che le aveva donato la sua completa fiducia.
Non dopo che si era aperto come mai con nessun altro.
Non poteva rovinare la loro tenera amicizia per un futile dettaglio che forse non valeva neanche di essere considerato.
Matthew era quello che lei aveva conosciuto. Era bello, era dolce, era gentile, era simpatico.
Lui non era il caos, lui era la calma. La forza. L’autocontrollo. La sicurezza.
Ecco, lui le dava la sicurezza che non le sarebbe mai successo niente di male.
Un po’ come Michael, ma forse in un modo più incosciente.
Perché Matthew non sapeva di essere una persona straordinaria. E Skyler non era nessuno per convincerlo del contrario.
Prima che potesse rendersene conto, era uscita dalla Casa Nove, e stava camminando per le vie trafficate del Campo.
La Casa Ventuno, quella di Eris, era stata costruita poco prima della Baia di Zefiro. Sì, costruita, perché nessuno, neanche Chirone, avrebbe mai pensato che la dea del caos potesse avere figli.
I ragazzi della Casa Diciassette, quella di Ecate, si erano armati, e in meno di due giorni avevano eretto, grazie alla loro magia, un’abitazione accogliente. Certo, era molto, molto piccola. Ma andava più che bene, per una sola persona.
Solo a guardarla da lontano, Skyler sentiva una fitta di solitudine pungerle il petto come uno spillo.
Matthew non è cattivo, continuava a ripetersi, mentre si avvicinava con passo incerto verso la casa.
Matthew non è cattivo.
 
Ω Ω Ω
 
Dopo un attimo di esitazione, Skyler bussò alla porta. Dall’interno di sentì un confuso silenzio, e poco prima che la ragazza potesse convincersi che non ci fosse nessuno, qualcosa di vetro cadde a terra, seguita da un’imprecazione.
La figlia di Efesto aspettò finché il cardine non cigolò.
Non appena la vide, gli occhi di Matthew si strinsero a due fessure, e sul suo viso di dipinse un sorriso piacevolmente sorpreso.
«Ciao» esclamò, senza tentare di nascondere la sua interdizione.
«Ciao» salutò lei, in un sussurro. Poi sospirò, spezzando così il silenzio che stava cominciando ad avvolgerli con il suo fare imbarazzante. «Senti, Matthew, mi dispiace» sbottò, spostando il peso da un piede all’altro. «Non volevo evitarti, in questi ultimi giorni. Solo che ero… confusa. E indecisa. Insomma, è stata una sorpresa un po’ per tutti, ed io… cavolo, non so cosa mi sia preso. È solo che… Pensavo di…»
«Non devi scusarti» la interruppe prontamente lui, sollevando una mano. «Qualunque sia stato il motivo per cui hai deciso di evitarmi, ormai non conta più. Sei qui, e questo è l’importante.» Le rivolse un sorriso sincero, uno di quelli che ti fanno sentire meno stupida.
La ragazza ricambiò, guardandolo negli occhi con un moto di gratitudine, quasi a volerlo ringraziare per non averla odiata.
Passarono alcuni secondi così, l’uno a guardare negli occhi dell’altra. Poi lui fece un cenno del capo.
«Vieni con me» la invitò, prendendola con fare sicuro per mano e trascinandola via prima che lei potesse opporsi.
Attraversarono la Baia di Zefiro, sorpassando cespugli e alberi, e Skyler cominciò a domandarsi seriamente dove la stesse portando solo quando lui le ordinò di chiudere gli occhi.
La ragazza obbedì, ovviamente, e si lasciò guidare con una confusa curiosità che continuava a pizzicarle il petto.
«Ma dove mi stai portando?» tentò di chiedere, incapace di trattenere un sorriso, ma giurò che lui avesse scosse la testa, prima di dirle un: «Tu continua a tenere gli occhi chiusi.»
«Posso sapere almeno che intenzioni hai?»
Lui abbozzò un sorriso malandrino, nonostante lei non potesse vederlo. «Lo vedrai.»
Dopo circa cinque minuti che destabilizzarono l’orientamento di Skyler, Matthew finalmente si fermò.
Una leggera brezza accarezzò il volto della ragazza, che strinse un po’ di più la mano del figlio di Eris, quasi a voler porre una tacita domanda.
«Apri gli occhi» concesse lui, con tono sognante, e Skyler non se lo fece ripetere due volte.
Non appena fu in grado di guardarsi intorno, il suo volto palesò tutta la sua meraviglia.
Matthew l’aveva portata ad un burrone. Ne era sicura, anche se non aveva il coraggio di andare lì ed affacciarsi per constatare quanto fosse profondo.
Ma lo spettacolo più affascinate veniva da ciò che si scorgeva oltre.
Il mare aperto, inverdito dalla bellissima giornata di sole, che rifletteva i suoi raggi sulla limpida distesa d’acqua. Il cielo era azzurro, quasi in netto contrasto con l’aura mistica che li circondava.
Se chiudeva di nuovo gli occhi, Skyler riusciva a sentire da quella distanza il sussurrare del mare.
«Wow» si lasciò sfuggire, in un fil di voce.
Matthew sospirò, annuendo leggermente. «L’ho trovato ieri» spiegò, guardando un punto indefinito nell’orizzonte. «Sai, ultimamente ho molto tempo libero, dato che non sono più costretto a fare la fila per il bagno.» Un amaro sorriso gli increspò le labbra. «Sono venuto a fare una passeggiata e… beh, mi ci sono imbattuto per caso.»
«È bellissimo» convenne lei, ancora incredula.
Il ragazzo le lasciò andare la mano, avanzando lentamente di qualche passo. Arrivò a circa mezzo metro dallo sbocco del burrone, per poi voltarsi a guardarla. «Vieni qui, voglio farti provare una cosa.»
Skyler inarcò un sopracciglio, circospetta. «Che cosa?»
Matthew indicò il burrone con un cenno. «La sensazione di volare» rispose, con un sorriso divertito.
Alla figlia di Efesto bastarono due rapide occhiate, per intendere le sue intenzioni. «Mi stai prendendo in giro, vero?» domandò, con una risatina nervosa.
Ma lui scosse la testa, più serio che mai. «Ti assicuro che non c’è cosa più bella» esclamò, euforico.
A quelle parole lei fece un passo indietro, interdetta. «Ma cosa…»
«Ti reggo io» promise lui, per poi porgerle una mano, incastrando gli occhi verdi nei suoi. «Ti fidi di me?»
Già, bella domanda: lei si fidava di lui?
Era ciò che si era chiesta da quando il ragazzo aveva varcato la soglia della casa di Eris.
Era sincero, o bugiardo?
Era cattivo, o buono?
Era il caos, o era la certezza?
Prima che potesse cambiare idea, Skyler strinse la sua mano, lasciandosi cullare dal suo rassicurante sorriso.
Il ragazzo si posizionò alle sue spalle, tenendola ben salda per entrambe le mani. I piedi di lei sfiorarono il margine del precipizio, ma Skyler si impose di non guardare giù.
«Se mi lasci andare, giuro che ti uccido» scherzò, nel tentativo di nascondere la tensione.
Sentì il corpo di Matthew aderire meglio al suo, mentre le sue labbra le sfioravano l’orecchio. «Non ti farei mai cadere.»
Skyler chiuse gli occhi, cercando di scacciare via ogni pensiero. La sola consapevolezza di avere il vuoto, davanti a sé, le provocò un’anomala stretta allo stomaco, mentre le sue dita si intrecciavano a quelle del ragazzo, serrandole in una morsa d’acciaio.
Ma poi arrivò. La vertigine, con le gambe che tremano. La voglia di sentirsi senza peso, priva di sostanza. Il desiderio di libertà.
Libertà da tutto, da tutti i pensieri. Da tutti i problemi, da tutte le incertezza, da tutte le congiure, da tutte le impossibilità.
Libertà da tutto ciò che la soffocava, da tutto ciò che la opprimeva.
Una folata di vento le scompigliò i capelli, infilandosi nelle sue narici e riempendole i polmoni di quell’aria fresca, pulita.
Skyler rise, lo stomaco che si contorceva per via dell’adrenalina. Poi sentì le braccia di Matthew avvolgerle i fianchi, ed entrambi caddero all’indietro.
Rotolarono nella folta erba, finché non si fermarono, il vento che portava via le loro sonore risa.
Skyler raccolse con il pollice una lacrima che le imperlava l’angolo dell’occhio. Fissò lo sguardo sul cielo, perdendosi nelle sue monotone sfumature. Nonostante fosse spoglio di nubi, la ragazza riusciva comunque a scorgere delle forme nelle poche nuvole che danzavano lentamente.
Un fiore. Una mano. Un alieno con tre braccia e due teste.
Stava giusto misurando con un dito e un occhio chiuso quello che sembrava essere un cane, quando percepì, accanto a sé, il respiro regolare di Matthew.
Il ragazzo se ne stava lì in silenzio, quasi attendesse una sua reazione ma avesse timore di vederla.
Ma a dispetto di quanto tutti affermassero, a Skyler non appariva cattivo, caotico, porta rogne e irruento.
Le sembrava solo… Matthew.
Il Matthew che aveva sempre conosciuto.
«Io non ho paura di te.» E poco prima che potesse rendersene conto, l’aveva detto ad alta voce.
Il figlio di Eris sospirò, spostando un braccio sotto la testa mentre guardava a sua volta il cielo. «Non ti farei mai del male» assicurò.
«Lo so.» Skyler era decisa, mentre annuiva. «Non ho paura di te, perché so che non sei cattivo. O meglio, è ciò che credo. Non so come spiegarlo…» Cercò le parole giuste, trascinandole lentamente. «È come se fossimo destinati ad incontrarci. Come se ci conoscessimo già da tempo. Ho questa strana sensazione, quando sto con te… quasi come se tutto il mondo di fermasse ad annuire, dicendomi che quello è esattamente il posto dove dovrei essere, che sta andando tutto esattamente così come doveva andare. Non so dirti se questo è un bene o un male» aggiunse poi, voltando il capo per poter incontrare il suo sguardo. Le iridi verdi del ragazzo si posarono nelle sue, attente. «Ma continuo a ripetermi che non mi sentirei così felice, se fosse la cosa sbagliata, giusto?»
Sul volto di Matthew comparve incerto un sorriso, mentre lentamente annuiva. Abbassò gli occhi, afferrando con delicatezza la sua mano, per poi portarsela alle labbra e baciarla dolcemente. «Giusto» sussurrò, strappandole un radioso sorriso.
E rimasero lì, a guardare il cielo.
Rimasero lì, a tenersi per mano.
Rimasero lì, perché era giusto così.
 
Ω Ω Ω
 
Leo si mise in bocca tre caramelle gommose, cercando di ignorare il pungente brontolio del suo stomaco che gli ricordava che era quasi ora di cena.
Il cielo era già imbrunito, e la maggior parte dei ragazzi del Campo si era già diretta verso la mensa. Prima di raggiungere i suoi fratelli, però, Leo doveva affrettarsi per andare a recuperare la spada di Janice, che lui aveva promesso di riparare.
Per sbaglio l’aveva lasciata nella Casa Nove, e se la figlia di Ares l’avesse scoperto…
Il ragazzo rabbrividì. Non voleva nemmeno pensarci.
Passò di fretta davanti le stalle, non urtando per poco due figli di Morfeo che tornavano dal loro giro a cavallo. Superò anche l’armeria, con passo svelto, ma non appena lanciò un’occhiata distratta all’Arena i suoi piedi si inchiodarono al suolo.
Assottigliò lo sguardo, squadrando nella penombra.
Rannicchiato non poco lontano, con la schiena posata contro la laterale parete di marmo e le gambe incrociate c’era qualcuno.
Leo si avvicinò, circospetto, chiedendosi chi, a quell’ora, non si fosse ancora affrettato ad andare a cena.
Solo quando fu abbastanza vicino da poter riconoscere quella figura sinuosa il suo cuore saltò un balzo.
«Emma?» chiamò, sperando, inconsciamente, di sbagliarsi.
Ma la ragazza voltò il capo, stringendo gli occhi a due fessure prima di riconoscerlo. «Oh, ciao» salutò, con scarso entusiasmo, sforzandosi di abbozzare un sorriso.
Il figlio di Efesto andò verso di lei, con un sopracciglio inarcato. «Che ci fai qui?»
Quella domanda sembrò prenderla alla sprovvista. «Oh, ecco, io…» cominciò, stringendosi nelle spalle. «Non so, avevo voglia di…» Cercò le parole giuste, poi lo guardò da sott’insù. «Tu che ci fai qui?»
Leo si lasciò sfuggire una sommessa risata. «Non credo che tu abbia risposto alla mia domanda» le fece notare, divertito. «Comunque, una passeggiata» mentì poi, senza apparente motivo.
Emma annuì lentamente, incurvando le labbra in un sorriso amaro. «Una passeggiata anch’io» convenne.
Leo la guardò un attimo, scrutando la dolce linea del suo naso baciata dalla placida luce della luna nascente. E all’improvviso gli mancò qualcosa. E non riuscì a capire di cosa si trattasse finché non si rese conto di quanto poco fosse forte il bagliore che di solito la illuminava. Quel bagliore che aveva solo lei.
Si sedette accanto alla figlia di Ermes, assumendo la sua stessa posizione. «Stai bene?» chiese, preoccupato.
«Io?» scattò subito lei, sulla difensiva. «Sì, certo! Perché?»
«Non lo so…» Leo scosse leggermente la testa. «Ti vedo più… spenta. È successo qualcosa?»
«No» assicurò la ragazza, scrollando il capo. Poi sospirò, abbassando la voce ad un sussurro. «È solo che a volte mi capita.»
Il ragazzo era abbastanza vicino, però, da poterla sentire, e corrucciò le sopracciglia. «Che cosa?»
«Di stare male.» Solo quando quelle parole lasciarono le sue labbra, Emma si rese conto che forse non era il caso parlarne. Ma ormai il danno era fatto, quindi che senso aveva negare? Alzò gli occhi al cielo, sbuffando frustrata. «Sai, tutti credono che io sia sempre felice e positiva, che rida di tutto e che non abbia problemi. Ma anch’io ho dei sentimenti. E a volte è faticoso…»
«Cosa?» domandò ancora lui.
«Sorridere sempre.» Emma si voltò a guardarlo, incrociando i suoi occhi color cioccolato. «Sorridere dei problemi, dei drammi, della tristezza. Tutti si sfogano con me, pensando che io sia superficiale, e che non mi scomponga più di tanto. Ma fa male. Fa male accumulare tutti quei sentimenti tristi e negativi.» Chinò il capo. «Senza volerlo mi carico sulle spalle i problemi di tutti. Skyler che affoga nei sensi di colpa per aver lasciato solo lo zio. Michael che è tremendamente geloso di Matthew, ma non ha il coraggio di ammetterlo. Travis, che aveva paura che Iris gli stesse portando via Connor, e ora non so cosa ha combinato, ma Connor non gli parla più. E ha rovinato tutto anche con Katie, perché cavolo, quei due litigano dalla mattina alla sera, ma si amano, e sono troppo stupidi per capirlo! E poi c’è anche John, che si sta innamorando di Melanie. Ma lei continua ad evitarlo, e anche se non vuole ammetterlo lui si sente uno schifo, per questo. Insomma, io…» La sua voce tremò, e la figlia di Ermes scrollò la testa, nel vano tentativo di sentir gli occhi bruciar meno. «Io non credo di farcela.»
Leo continuò ad osservarla, colpito da quell’improvvisa confessione. E capì che lui e quella ragazza avevano molte più cose in comune di quanto volessero ammettere. Perché vedeva sé stesso, in quegli occhi velati di mute lacrime. Vedeva la propria tristezza, vedeva il proprio smarrimento. Vedeva la propria paura di deludere gli altri, e lo stesso costante desiderio di sfogarsi, il suo continuo tenersi tutto dentro.
«Ti capisco, sai» annuì, spostando lo sguardo di fronte a sé. «L’umorismo è un buon modo per nascondere il dolore. Tutti credono che tu non prenda sul serio le cose, ma non sanno che invece le emozioni, così, sono amplificate. Perché continui a tenertele dentro. E perché continuano a lottare contro il tuo cuore per farsi spazio.»
Emma si asciugò il naso con il dorso della mano, giocherellando distrattamente con un filo d’erba accanto ai suoi piedi. «Tu come fai?» domandò poi, in un sussurro.
Leo aggrottò la fronte, confuso. «A fare cosa?»
«A smettere di pensare.» La ragazza prese un bel respiro tremante, sgranchendosi la voce nonostante non ne avesse poi così bisogno. «Non lo so, a volte ti guardo, e sembra che tu non abbia problemi. Riesci ad impedire alla tua mente di andare in una determinata direzione, e mi sono sempre chiesta come fai ad eluderla dai problemi, dalla stanchezza, dalla sofferenza…»
«Io…» Leo cercò le parole giuste, ma si rese conto di non conoscere la risposta. «Non lo so» ammise, scrollando le spalle. «Lo faccio e basta.» Poi abbozzò un sarcastico sorriso. «La mia è una dote naturale.»
«Credi che si possa imparare?» fece lei, speranzosa. «Questo trucco, intendo.»
«Certo!» rispose lui, annuendo lentamente. «Insomma, credo di sì. Tutti possono spegnere il loro cervello, quando vogliono. Non è affatto difficile.»
«E tu aiuteresti mai qualcuno a riuscirci?»
Leo sembrò interdetto, mentre inarcava un sopracciglio. «Come?»
«Gli spiegheresti mai come fare?» ripeté allora lei, lanciandogli una breve occhiata. «Lo spiegheresti a me?»
Leo non ci stava capendo più niente. «Vuoi che io ti dica come spegnere il tuo cervello?»
«No.» Emma scosse la testa, per poi incastrare i suoi grandi occhi d’argento in quelli di lui. Un contatto tenero, triste ed inaspettato. «Insegnami a scordarmi di pensare.»
Suonava quasi come un’implorazione. E forse lo era davvero.
La ragazza aspettò qualche secondo, prima di abbassare lo sguardo e sorridere, molto probabilmente convincendosi di quanto ciò che aveva appena detto fosse ingenuo e senza senso.
E il figlio di Efesto non poté fare a meno di continuare a fissarla, come rapito dalla sua aura penetrante. Aveva il sorriso contagioso di chi ha sofferto tanto, ed era bellissima, vestita dei suoi sbagli.
Leo sentì un pugno di ferro serrargli la bocca dello stomaco, mentre quelle parole prendevano a vorticargli nella mente.
Insegnami a scordarmi di pensare.
Come si fa a scordarsi di pensare? È possibile? Lui ci era mai riuscito? 
Forse no, e avrebbe schiacciato le speranze di Emma.
O forse sì, e l’aveva fatto senza neanche accorgersene.
Come può, una persona, impedire alla propria mente di torturarsi con stupide convinzioni?
Come può, qualcuno, smettere di pensare?
Beh, un modo c’era.
Forse era il più rudimentale, il più ingenuo, il più antico.
Ma era l’unico che Leo conosceva. E molto probabilmente era anche il migliore.
Si mise in piedi con decisione, attirando non poco la curiosità della ragazza. Poi le porse la mano, in attesa.
Emma inarcò un sopracciglio, perplessa. «Che vuoi fare?»
Il ragazzo si lasciò sfuggire un sorriso scaltro, mentre si inginocchiava di fronte a lei con aria malandrina. «Non ho intenzione di ucciderti!» scherzò, mostrando entrambi i palmi vuoti. Poi ridacchiò sommessamente per la sua espressione confusa, pizzicandole giocosamente un fianco.
La ragazza sobbalzò, presa alla sprovvista, e le sopracciglia di Leo si sollevarono immediatamente, quasi a palesare quella sorpresa che ti travolge quando scopri qualcosa di inaspettato e interessante.
«Oh, quindi soffri il solletico» annuì tra sé e sé, abbastanza forte, però, perché lei potesse sentirlo.
Emma sgranò gli occhi, sollevando un dito con aria autoritaria. «No» lo ammonì, capendo improvvisamente le sue intenzioni. Si alzò di scatto in piedi, un secondo prima che lui potesse avventarsi su di lei. «No, no, no, no, no!»
Troppo tardi. Leo si alzò con lei, bloccandola con la schiena contro il muro prima che riuscisse a correre via, e cominciò a solleticarle la pancia.
Emma si lasciò sfuggire una risata divertita, mentre con le lacrime agli occhi cercava in tutti i modi di sfuggire alla sua presa. E ci riuscì solo dopo qualche tentativo, sgusciando a sinistra con un’agilità sorprendente.
Tentò di scappare, invano, ma lui la raggiunse con facilità, e dopo averla afferrata per un polso le passò un braccio sotto le ginocchia, coricandosela di peso in spalla.
«Mettimi giù!» ordinò lei, ma sembrava molto poco credibile con la voce grondante di risa.
Leo ridacchiò divertito. «Costringimi!» Sentì il palmo di Emma battere ostinato contro la sua schiena, e solo quando fu deciso di essersi rallegrato abbastanza la mise giù, mentre lei si aggrappava alla sua spalla per non cadere.
Emma gli lanciò un goliardico sguardo assassino, pronta a vendicarsi, ma non appena fece un passo indietro per potersi allontanare da lui, inciampò in una radice, perdendo l’equilibrio.
Leo tentò di sorreggerla, ma non era mai stato famoso per la sua possente forza, e ben presto si ritrovarono stesi a terra entrambi. Lei supina sulla rada distesa d’erba, lui in ginocchio carponi su di lei, le mani accanto alle sue spalle.
Risero entrambi di gusto, due suoni che si mescolavano portati via dalla brezza estiva.
Risero divertiti, incuranti di ciò che avrebbero potuto dirgli i loro amici, se solo li avessero visti. Incuranti dei problemi e delle commissioni. Incuranti di cosa fosse giusto o sbagliato.
Risero perché era l’unica cosa sensata da fare. Perché si trovavano lì, a pochi passi dall’Arena, soli e con mille pensieri per la testa, eppure non si erano mai sentiti così bene, non si erano mai sentiti così leggeri.
Non si erano mai sentiti così vivi.
Le risa di Leo furono le prime a scemare, mentre con un sorriso osservava quel volto poco lontano dal suo. Quel volto incorniciato da dei morbidi capelli biondi. Quel volto dai tratti ora distesi, felici. Quel volto dolce, sicuro e indecifrabile. Quel volto troneggiato dagli occhi da cerbiatto più grandi, e lucenti, e belli che Leo avesse mai visto.
Perché sarebbe stato in grado di guardare per ore quelle stupende iridi argentate. E perché solo quando inaspettatamente si incatenarono alle sue, il figlio di Efesto sentì il fiato mancargli come mai neanche Drew Tanaka sarebbe stata in grado di fare con la sua lingua ammaliatrice.
E ora, come distogliere lo sguardo?
Come impedire alle proprie gambe di cedere? Come vietare alla propria gola di seccarsi?
Come ignorare l’impulso di chinarsi su di lei e assaporare quelle perfette labbra?
A rispondere a tutte quelle domande ci pensò il corno del Campo, che annunciava a tutti l’inizio della cena.
Quasi fosse stato appena spezzato uno spesso filo di magia, i ragazzi si guardarono intorno, come svegliandosi da uno stato di trance.
Emma sorrise appena, per poi emettere un sospiro tremante. «Che ne dici se andiamo a cena?» propose con tranquillità, facendo un cenno del capo.
Leo si limitò ad annuire, incapace di pronunciare anche una singola parola. Si tirò su, aiutandola poi ad alzarsi, e non appena lei si avviò sorridente verso la mensa, lui si concesse qualche altro minuto per contemplarla.
Emma: semplice amica. Charlotte: schianto da conquistare, continuava a ripetergli la sua coscienza, ma lui non riusciva a darle retta.
Sono in grado di gestire questa situazione, si disse, incapace, però, di impedire ad un ebete sorriso di dipingersi sul suo volto.
Emma è solo un’amica.
Si stava anche dirigendo verso la mensa a mani vuote, con la consapevolezza di veder riversata tutta l’ira di Janice su di sé. Ma la figlia di Ares in quel momento poteva aspettare.
Emma è solo un’amica.
Si passò una mano tra i capelli, scuotendo il capo.
Emma è solo un’amica.


Angolo Scrittrice.
*musichetta epica stile Indiana Jones. L'autrice entra con aria trionfante*
Buonjour, ma chère!
*schiva un pomodoro*
Okay, no. Scusate tanto per l'immenso ritardo! Ma, ehi, non è ancora mezzanotte, quindi tecnicamente è ancora martedì.
Ed io sono ancora qui a propinarvi un'altro dei mei capitoli.
Ma andiamo per gradi. Innanzi tutto, ditemi, fanciuolli: Vi è piaciuto? Vi ha fatto shcifo? Che ne pansate?
Ultimamente è un periodo un po' di sploff, per me, per una serie di motivi che non sto qui a spiegare. Sono molto abbattuta, stressata e spesso triste, ma spero comqunque che queste mie emozioni non si siano riversate nelle mie parole, e che leggendo questo nuovo capitolo io sia riuscita a strapparvi un sorriso.
Skyler ha deciso di fidarsi di Matthew. Perché non avrebbe dovuto, infondo? Solo perché è figlio di Eris, non significa che debba essere per forza cattivo! Chissà, però, come accoglierà Michael questa sua decisione. Ormai è chiara a tutti la palese antipatia tra i due. Come credete che andrà a finire, questa storia?
E Microft, invece? Secondo voi che sta combinando?
Btw... dopo che lo avete chiesto, reclamato, desiderato e ambito, ecco a voi l'unico ed inimitabile... Leo Valdez!
Contenti? Spero che questo suo ritorno alla ribalta vi sia piaciuto. Non poteva mancare un confronto con Emma, ovviamente, anche se in un modo un po' diverso.
La figlia di Ermes gli ha connfessato ciò che prova, cosa che non aveva mai fatto con nessuno, e l'ha pregato di insegnarle a scordarsi di pensare. E lui ha cercato di farla ridere, riuscendoci, anche.
Chi ha riconosciuto la famosa citazione di Leo di Zio Rick?
Humor is a good way to hide the pain.
L'umorismo è un buon modo per nascondere il dolore.

Cucciolo, lui **
Anyway, credo sia arrivato il momento di ringraziare i miei stupendi Valery's Angels, che continuano a deliziarmi con le loro stupende recensioni:
Darck_Angel, Kamala_Jackson, carrots_98, ChiaraJacksonStone1606, Cristy98fantsy, _Krios Bane_, martinajsd, fireindark e MyrenelBebbe.
Grazie, grazie davvero! E scusate se non sono riuscita a rispondere a tutti, ma provvederò al più presto, come sempre.
Un'ultima cosa, prima di andare davvero. Voglio annunciarvi che, purtroppo, la settimana prossima non potrò aggiornare.
Tra pochi giorni parto per un'intera settimana, e mi sarà impossibile connettermi a internet.
Quindi, se ne riparla tra un martedì.
Mi dispiace tanto, davvero. Spero che sarete ancora qui per leggere le mie storie.
Bien, ora vado davvero.
Un bacione enorme, e grazie ancora a tutti quanti! Al martedì a vederci!
Sempre vostra,

ValeryJackson

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***



 

John era di buon umore, quella mattina.
Non aveva più rivolto la parola a Will, dopo la loro ultima litigata, e tutto ciò che i fratelli avevano condiviso da quel momento erano state delle occhiate di fuoco che avrebbero potuto benissimo incenerire qualcuno, se ne avessero avuto il potere.
Ma il figlio di Apollo aveva deciso che questo non gli importava. Lui sapeva benissimo badare a sé stesso. Sapeva cosa fosse giusto e cosa sbagliato, sapeva distinguere il bene dal male, e il solo rendersi conto che il fratello lo ritenesse incapace sotto questo punto di vista lo mandava su tutte le furie. Per cui allontanò quel pensiero, mentre si dirigeva insieme ad una dozzina di ragazzi verso le lezioni di scherma.
Aveva pianificato tutto, per quella mattina, fin nei minimi dettagli. Era rimasto tutta la notte sveglio a cercare il modo migliore per creare qualcosa di perfetto, e un’idea gli era baluginata nella mente quando, per puro caso, aveva lanciato un’occhiata fugace al fiumiciattolo che si scorgeva dalla finestra della sua Cabina, che il quel momento era illuminato dalla placida luce serale delle stelle.
Un’idea geniale, sì. Aveva un impellente bisogno di staccare la spina. E c’era solo una persona con il quale aveva voglia di farlo.
Allungò il collo, nel tentativo di intravederla tra i numerosi ragazzi che si precipitavano svogliatamente verso le loro lezioni mattutine, e fu solo quando una chioma color grano entrò nel suo campo visivo che si concesse un sorriso raggiante.
Allungò il passo, fingendo indifferenza, e poco prima che potesse rendersene conto, era già ad un metro da lei, abbastanza vicino da poter percepire il suo profumo di mandorle.
«Ehi!» salutò, al ché Melanie sobbalzò, presa alla sprovvista.
«Ciao» sussurrò poi, sconcertata, increspando però le labbra in un sorriso appagato.
John nascose le mani nelle tasche dei jeans, sgranchendosi la voce nonostante non ne avesse realmente bisogno. «Dormito bene, stanotte?»
La ragazza arricciò il naso. «Abbastanza» mormorò, per poi voltarsi a guardarlo. «Tu, invece?» chiese, con discrezione.
Il figlio di Apollo si limitò a fare spallucce, guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno stesse prestando loro attenzione. «Senti» sussurrò, trascinando lentamente le parole con un’espressione malandrina. «Ti andrebbe di saltare le lezioni, oggi?»
Melanie corrugò la fronte, interdetta. «Come?»
«Andiamo al lago.» John indicò la direzione con un cenno del capo. «Non se ne accorgerà nessuno, vedrai.»
La figlia di Demetra inarcò un sopracciglio, stupita. «Mi stai chiedendo di… marinare la lezione di scherma?»
«Ti sto chiedendo di marinare tutte le lezioni» specificò lui, come se fosse scontato. «Potremmo farci un giro in canoa, e magari rilassarci un po’.»
Melanie scosse la testa, ma nonostante i suoi sforzi non riuscì a trattenere un sorriso. «Non sapevo fossi un tipo che fa certe cose» lo rimproverò, divertita.
John sospirò, con un sorriso sghembo. «Ci sono molte cose che non sai di me» disse semplicemente, regalandole un occhiolino che la fece arrossire. Poi le diede leggermente di gomito sul fianco. «Allora, ci stai?»
Melanie esitò un attimo, guardandosi intorno quasi sperasse che ci fosse qualcuno, lì, pronto a suggerirle la risposta. Ma nessuno sembrava degnarli della benché minima attenzione, e così la ragazza annuì, seguendo il suo istinto.
Le labbra di John si stesero in un sorriso raggiante, e prima che lei potesse dire qualunque cosa le afferrò distrattamente la mano, studiando gli altri con fare circospetto.
A quel contatto, Melanie sentì una vampata di calore irradiarsi dal suo palmo e raggiungerle il petto, mentre seguiva come un automa il ragazzo sforzandosi di fingere bene quanto lui nonchalance.
Non aveva idea di dove la stesse portando di preciso, ma poco le importava. Perché tutte le sue facoltà di pensiero erano andate in fumo nel momento in cui lui aveva intrecciato le dita alle sue, facendole credere che, in quel momento, non potesse esserci niente di più bello.
 
Ω Ω Ω
 
Quando arrivarono nei pressi del lago, una canoa era già lì ad aspettarli.
Melanie si chiese se il ragazzo non avesse già organizzato tutto ancor prima di proporglielo, ma non ebbe il coraggio di chiederglielo, per cui rimase in silenzio mentre lui le porgeva galantemente una mano aiutandola a sedersi, e poi remava con gesti ponderati e decisi verso il centro del calmo lago, dove si fermò.
L’acqua era piatta come uno specchio, screziata di quel tenue bagliore azzurro che si intravede solo nei dipinti ad olio lasciati a contatto con l’umido per fin troppo tempo. L’unico rumore che spezzava il dolce silenzio che li aveva avvolti come una coperta, in contrasto con quel tiepido giorno d’estate, erano i loro respiri, che si disperdevano regolari dell’aria; il tenue cinguettio di qualche passerotto solitario che molto probabilmente era riuscito a superare i confini del Campo.
«È proprio bello qui» sussurrò Melanie con un fil di voce, fissando distrattamente un punto indefinito nell’orizzonte.
John annuì, con un sospiro. «Mi piace venirci quando ho voglia di un po’ di tranquillità» confessò, con un mezzo sorriso. «In un certo senso, mi aiuta a pensare.» Poi si voltò guardarla, non incontrando però il suo sguardo. «A te non è mai successo?» domandò.
«Che cosa?»
«Di avere un posto dove potessi stare in santa pace. Un posto tutto tuo, ecco.»
Melanie corrucciò le sopracciglia, pensandoci un po’ su, per poi mordersi l’interno della guancia. «Sì» ammise, riportando lentamente a galla uno sbiadito ricordo. «Quando ero piccola, mi nascondevo sempre nell’armadio di mio padre. Mi piaceva affondare il viso nei suoi cappotti e inspirare il suo odore di sigaro e primule.» Un sorriso triste le incurvò le labbra, mentre chinava il capo imbarazzata. «È stupido, lo so.»
«Niente affatto.» John si sporse in avanti, posando con disinvoltura i gomiti sulle ginocchia. «Quello te l’ha regalato lui?» chiese, dopo un po’.
Melanie inclinò la testa di lato, guardandolo confuso, e fu allora che lui le indicò con un cenno qualcosa alla base del suo collo. «Quando sei sovrappensiero, te lo rigiri sempre tra le dita» disse, intenerito. «Ho pensato che forse aveva qualche significato speciale.»
Il ciondolo del padre.
Dei, com’era stata ingenua. Le veniva così automatico cercare conforto in quella piccola collana che oramai quello di stringerla nel pugno era diventato quasi un gesto involontario. Anche il quel momento, senza che potesse rendersene conto, l’aveva sfilato da sotto la callotta della maglietta e aveva cominciato a farlo scivolare tra le proprie dita, la copertura d’oro quasi completamente consumata fredda al tatto.
Si morse il labbro inferiore, improvvisamente a disagio. «È di mio padre, sì» mormorò, accarezzando delicatamente le intricare incisioni floreali. «Era» si corresse poi.
John si passò una mano fra i capelli, imbarazzato, e nonostante continuasse a cercarlo, non riusciva ancora ad afferrare il suo sguardo sfuggente. «Non ne parli spesso» constatò, con voce pacata.
Melanie si strinse nelle spalle. «Non mi piace molto ricordare.»
«E perché? Ricordare non è una cosa brutta.»
«Lo diventa, però, se lo fai con cose che non potranno tornare più.»
John aprì la bocca per parlare, ma poi la richiuse. Melanie si attorcigliò la catenina attorno al dito, per poi prendere un grande respiro.
«Mio padre non mi ha mai detto la verità su mia madre» cominciò, cogliendo John un po’ di sorpresa. «Ho sempre pensato che lei fosse morta dandomi alla luce, e lui poi non si è mai risposato. Non che avessi bisogno di una mamma, ovvio. Lui valeva benissimo per entrambi.» Spostò gli occhi sulla distesa limpida sotto di loro, mentre la sua mente volava sempre più lontana. «Era un uomo straordinario» confessò. «Uno di quelli che se hai il piacere di conoscerli, non puoi fare altro che amarli. Mi preparava sempre i biscotti al cioccolato, prima di andare a letto. E poi mi permetteva di dormire con lui, quando facevo dei brutti sogni. Adoravo il profumo di sigaro dei suoi maglioni, e anche quello del suo dopobarba, che mi faceva impazzire. Spesso entravo di soppiatto nel suo bagno e me ne spruzzavo qualche goccia. Così, giusto per sentire il suo odore sulla pelle. Lo facevo soprattutto quando lui partiva per i suoi convegni. Era un professore di botanica alla Cornell University, e spesso partiva per delle riunioni di quattro o cinque giorni. Credo sia ad una di quelle che ha conosciuto mia madre. O meglio, questo è ciò che mi ha sempre raccontato. Diceva che il suo era stato un colpo di fulmine. Mi ripeteva sempre che le assomigliavo, anche. “Avete gli stessi occhi”.» Un sorriso nostalgico si dipinse sul suo volto. «Oltre alla passione per la natura, però, aveva anche quella per gli orologi. Nel tempo libero li smontava e rimontava, e poi li smontava e li rimontava di nuovo. A volte mi chiedeva addirittura di aiutarlo, ma io non ne volevo sapere. Insomma, quale normale adolescente vorrebbe passare il pomeriggio chiuso in uno stanzino ad assemblare orologi?»
John la ascoltava, attento. Non aveva né il coraggio né l’intenzione di interromperla, e lei gliene fu immensamente grata. Si rigirò ancora una volta il medaglione a forma di cuore nel palmo, studiandone le delicate rifiniture che ormai conosceva a memoria. Poi premette il piccolo pulsante dorato, e quello con uno scatto si aprì.
«Questo l’ha costruito lui» disse a John, sfilandoselo da collo e porgendoglielo con attenzione. Il figlio di Apollo osservò l’orologio all’interno, ammirato.
«Quest’uomo è lui?» chiese poi, riferendosi alla foto nella parte sinistra di quel cuore.
Melanie annuì. «Era una persona fantastica» affermò, con della tenera malinconia. «Avresti dovuto conoscerlo. Era simpaticissimo, anche se non vedeva mai di buon occhio i ragazzi che frequentavo.»
«Sono sicuro che avremmo trovato il modo di andare d’accordo» sorrise John, poco prima che lei potesse arrossire violentemente rendendosi conto di ciò che aveva appena detto.
La figlia di Demetra si sgranchì la voce, a disagio. «Amava molto Oscar Wilde» aggiunse.
«Oscar Wilde?» Il ragazzo sembrava colpito.
Melanie annuì. «Mi leggeva quasi sempre le sue poesie, e poi avevamo questo librone enorme, in cucina, dove scrivevamo tutte le sue citazioni più belle.»
«Poi cos’è successo?» chiese quindi John, con gentilezza. «Sempre che tu abbia voglia di raccontarmelo, ovvio.»
«Niente di così eccezionale.» Melanie fece spallucce. «Circa un anno fa si è ammalato di cancro. Non so dove, di preciso, ma comunque qualcosa di molto vicino al cervello, se non il cervello stesso. Ha cominciato le chemio, ma purtroppo era già troppo tardi. Ce ne siamo resi conto quando il tumore faceva già parte di lui. E poco prima di morire, sul letto d’ospedale, mi ha dato questo medaglione.» La sua voce si incrinò, e nonostante cercasse in tutti i modi di mostrare disinvoltura, John capì che per lei era un ricordo troppo doloroso perché potesse parlarne tranquillamente.
«Mi ha detto la verità su mia madre» continuò la ragazza, gli occhi inchiodati alle assi di legno. «Mi ha detto di venire qui a Long Island, dove c’era un posto sicuro per quelli come me. E poi mi ha sussurrato per l’ultima volta quanto fosse fiero di me. Non ha smesso di sorridere neanche quando il suo cuore ha smesso di battere, ed è così che voglio ricordarlo. Con il suo splendido sorriso.»
Una lacrima solitaria le solcò la guancia, e poco prima che potesse asciugarsela con il dorso della mano John ebbe l’impulso di allungare la sua, scansandogliela dolcemente via con il pollice.
«Se il suo sorriso era bello anche solo la metà del tuo, allora non ho dubbi che fosse stupendo» le sussurrò, riuscendo a strapparglielo davvero, uno splendido sorriso.
«Ti ringrazio» sussurrò lei, tirando su con naso e pulendo col palmo un’altra lacrima che era sfuggita al suo controllo. «A volte mi chiedo che cosa penserebbe, di me, se mi vedesse così.»
Il figlio di Apollo corrucciò le sopracciglia, confuso. «Così come?»
«Così… diversa.» Melanie abbassò lo sguardo, giocherellando con il lembo della sua maglietta. «Senza un braccio, ad esempio.»
«Credi davvero che il suo amore per te sarebbe stato in grado di cambiare, se ti avesse vista senza un braccio?»
«No, certo che no.» La ragazza sospirò, mordicchiandosi distrattamente il labbro. «Dico solo che non sono più la stessa ragazza di un anno fa. Sono cambiate molte cose. Non sono più in grado di legarmi i capelli da sola, ad esempio. E ho imparato a far crescere delle piantine dal nulla. Sai, mi domando che fine avrei fatto, se non mi fossi trovata lì, quella notte. O se fossi arrivata al Campo un giorno prima. Non lo so…» Si strofinò il volto con la mano, con aria stanca. «È come aver dimenticato come andare in bicicletta.»
«Beh, ma puoi sempre impararlo di nuovo, giusto?»
«Sì, ma non sarò mai più brava come prima.» I due ragazzi si scambiarono uno sguardo, poco prima che Melanie potesse scrollare il capo. «Lascia stare, non voglio amareggiarti con i miei pensieri.»
«Non mi stai amareggiando.»
«Sì, invece.»
«No, non è vero.» La voce di John suonava decisa, mentre lo affermava. «Mi interessa conoscere la tua opinione.»
Melanie ridacchiò, senza entusiasmo. «È un modo carino per dirmi che ti piace farti i fatti miei?»
«È un modo carino per dirti che ho intenzione di farti capire quanto tu stia sbagliando.»
Melanie sollevò lo sguardo, incatenando le sue iridi caramellate a quelle verde speranza di lui. «Tu non sai che cosa significa vedere il mondo mentre continua a girare e avere la consapevolezza di non riuscire a stargli dietro.»
«No, ma so cosa significa aver bisogno di qualcuno» ribatté lui, perentorio. «So cosa significa aver bisogno di un amico che ti stia accanto. So cosa significa avere la necessità di fidarsi del prossimo, e nonostante questo non riuscirci. Ma tu puoi fidarti di me, Melanie. E puoi credermi quando ti dico che non c’è niente che tu non possa fare, se lo vuoi davvero.»
La ragazza scosse la testa, avvilita. «Non basta volerlo.»
«Sì, invece! Hai voluto imparare a curare le piante, e l’hai fatto. Hai voluto aiutare i tuoi fratelli nella raccolta delle fragole, e l’hai fatto. Hai voluto tirare con l’arco, e l’hai fatto.»
«Sì, ma sempre con l’aiuto di qualcuno, John!» sbottò lei, gli occhi imperlati da lacrime di frustrazione. «Sempre con l’aiuto di qualcuno. Non sono mai riuscita a fare qualcosa senza dover dipendere da qualcun’atro. Che siano i miei fratelli, i tuoi amici. Che sia tu. C’è sempre stata un’altra persona a fare gran parte del lavoro al posto mio. Io ho soltanto avuto la futile illusione di essere ancora in grado di avere una vita normale. Ma sai che c’è? Io non potrò mai essere normale, perché per quanto possa ostinarmi a negarlo, mi mancherà sempre un fottutissimo braccio!» Stringeva il pugno con così tanta forza da avere dei piccoli segni a mezzaluna incisi sul palmo. «Credi ancora che io stia sbagliando?»
Il ragazzo non rispose, né diede il minimo accenno a scomporsi. Si limitò a fissarla, con sguardo indecifrabile, mentre lei faceva sempre più fatica a distinguere i suoi lineamenti attraverso il panno che le velava le iridi.
Poi lui si alzò di scatto, e la ragazza sussultò, presa alla sprovvista. John si sfilò prima le scarpe e poi i calzini, sotto lo sguardo attonito della figlia di Demetra. «Che stai facendo?» chiese lei, con un sopracciglio inarcato.
«Voglio farti capire che ti sbagli, e che la tua vita è nelle tue mani, che questo ti piaccia o meno.» Le lanciò un’occhiata intensa, piena di un significato che la ragazza non fece in tempo a cogliere, dato che poco dopo lui si tuffò con grazia in acqua.
Melanie si sporse oltre il bordo della canoa, trattenendo il respiro finché non lo vide riemergere a galla.
«Coraggio, buttati!» la intimò John, al ché lei scosse con veemenza la testa.
«Tu sei completamente fuori di testa.»
«Coraggio!» Il ragazzo sorrise, facendo roteare le braccia sul pelo dell’acqua. «Qui è bellissimo!»
«Annegherò» gli fece notare lei, con una punta di rammarico. «Non sono in grado di nuotare.»
«E chi può dirlo?» John fu costretto a chiudere un occhio per non essere accecato dal sole, mentre solleva lo sguardo per puntarlo sul viso indeciso della ragazza. «Provaci, e vediamo se è vero.»
Melanie esitò. Le stava chiedendo di andare incontro a morte certa, e non se ne stava neanche rendendo conto. Eppure c’era qualcosa, nel suo tono di voce, che le faceva pensare che forse aveva ragione. Che forse doveva davvero provare, per esserne sicura.
Ma non riusciva a trovare il coraggio di raggiungerlo in una tale pazzia.
«Non posso» sussurrò, con voce strozzata. Scrollò leggermente il capo, spostandosi una ciocca di  capelli dietro l'orecchio.
John sospirò, palesando un notevole disappunto. Si avvicinò di nuovo alla canoa, con un’espressione seria dipinta in volto, ma non appena face per arrampicarsi sul bordo di legno, scivolò di nuovo in acqua.
«Aiuto!» esclamò, ingurgitando un po’ d’acqua con fare teatrale. «Non riesco a restare a galla!»
«John!» urlò Melanie, preoccupata. «John, coraggio, prendi la mia mano! Prendi la mia mano!»
Si sporse verso di lui, tendendogli il palmo il più possibile per far sì che lui ci arrivasse. Ma quando il ragazzo l’afferrò, Melanie cacciò un gridolino di sorpresa, perché invece di aver aiutato John a tornare sulla canoa fu lei stessa ad essere strattonata in acqua.
Riemerse a galla bagnata fradicia, il fiato grosso mentre tentava disperatamente di non sprofondare.
«Non aver paura» la tranquillizzò il figlio di Apollo, a circa cinque metri di distanza da lei. «E non agitarti. Sei perfettamente in grado di nuotare da sola. Andiamo, vieni qui da me.»
«Non ci…» ansimò lei, agitando disperatamente sia il braccio che le gambe. «Riesco…»
«Provaci.» John trovò immediatamente le sue iridi color nocciola, che si incatenarono alle sue quasi volessero chiedergli sostegno. «Non hai bisogno del mio aiuto per riuscirci. Forza! Dimostrami che sei capace di badare a te stessa.»
Quell’ultima affermazione suonò come una sfida, che Melanie colse al volo.
Dimostragli che sei in grado di farcela, si disse, con tono autoritario. Dimostralo a te stessa.
«Basta volerlo», le aveva detto John. Beh, lei lo voleva, e avrebbe ottenuto quel risultato a tutti i costi.
Sono in grado di badare a me stessa, pensò, risoluta.
E prima che potesse rendersene conto, stava già nuotando lentamente verso di lui.
«Sì, così!» esclamò John, euforico, quando lei ebbe superato il primo metro verso il traguardo. «Forza, Melanie!»
La ragazza cercò di concentrarsi, impegnando tutta sé stessa in quella che solo pochi secondi prima le era sembrata una missione impossibile, e che ora si era tramutata in realtà.
Con il fiato corto per via dello sforzo e dell’emozione la figlia di Demetra percorse i cinque metri che la separavano dal ragazzo con muta determinazione, e fu solo quando lei fu a circa mezzo metro di distanza che lui le avvolse la vita con un braccio, attirandola a sé e sorreggendola per permetterle di riprendere fiato. Melanie tossì, inspirando a fondo.
«Ce l’hai fatta!» esultò il figlio di Apollo, incapace di impedire ad un radioso sorriso di illuminargli il volto. «Sei stata grande!»
«Ce l’ho fatta» ripeté lei, in un sussurro incredulo. Poi si aggrappò alla sua spalla, concedendosi un attimo di riposo.
«Sapevo che ne saresti stata in grado! E avevo ragione: non hai bisogno dell’aiuto degli altri.»
«Prova a farlo un’altra volta» minacciò invece la ragazza con voce spezzata. «E giuro che ti uccido davvero
John rise, buttando la testa indietro divertito. Poi si concesse qualche secondo per contemplarla, mentre lei si impegnava nel regolarizzare il respiro dopo il grande sforzo che aveva fatto per raggiungerlo.
«Sono fiero di te» pensò, e poco prima che potesse rendersene conto le sue corde vocali soffiarono via quelle parole in un sussurro, che raggiunse la ragazza e la convinse ad alzare lo sguardo.
Pessima idea, si maledisse Melanie, non appena le sue iridi furono catturate da quelle verdi di lui, che limpide e screziate di giallo fecero fare un tuffo repentino al suo cuore.
E si riscoprì improvvisamente lì, il corpo schiacciato contro il suo; e percepiva il suo braccio forte e protettivo stringerle la vita con sicurezza, con decisione. E rimase incantata dal suo volto, e dal suo sorriso gentile. E dai suoi capelli bagnati, che incollati alla fronte catturavano la luce del sole. E dalle sue tenere fossette, che gli incavavano le guance. E dal suo profumo di menta, che le stava inebriando le narici nonostante avesse perso ogni facoltà di respirare.
E le sembrò tutto così giusto, nonostante sapesse quanto fosse completamente sbagliato.
John si chinò lentamente verso di lei, e i loro nasi si scontrarono. E la sola consapevolezza di respirare la sua stessa aria diede le vertigini alla ragazza, che pregò gli dei affinché il suo cuore non balzasse via dal petto.
Le loro labbra si sfiorarono appena, e fu allora che Melanie si rese conto di quanto quel gesto fosse ingiusto.
Ingiusto nei propri confronti. Ingiusto nei confronti di John.
Non posso fargli questo, si disse. Non posso. Non posso. Non posso. Non posso…
«Non posso.» L’ultimo le uscì in un mormorio strozzato, mentre serrava gli occhi e voltava il capo, porgendogli lo zigomo.
John chiuse le palpebre a sua volta, deglutendo a fatica un’immensa delusione. Distolse un secondo lo sguardo, mentre Melanie si mordeva la lingua con disappunto.
«Mi dispiace» si scusò, con un fil di voce. Ma il ragazzo abbozzò un sorriso triste, scuotendo leggermente il capo.
«Non preoccuparti.» Si sgranchì la gola, nonostante non ne avesse realmente bisogno, per poi indicarle con un cenno del capo la canoa. «Andiamo?» propose, e la ragazza si limitò ad annuire, gli occhi grondanti di rammarico.
John l’aiutò a tornare all’imbarcazione, e una volta saliti entrambi prese dall’angolo una coperta che aveva portato per precauzione, posandogliela apprensivo sulle spalle per far sì che non avesse freddo.
Nessuno dei due sillabò più una parola, né durante il tragitto che li riportò a riva, né quando John trascinò la canoa sulla terra ferma.
Una fitta nebbia d’imbarazzo aveva creato una sorta di muro tra i due ragazzi, che non riuscivano neanche a guardarsi negli occhi. Ma nonostante ciò, Melanie percepì una certa comprensione, da parte del figlio di Apollo. Come se lui non la giudicasse, né la condannasse.
Ma capì che non poteva fargli questo. John era una persona troppo buona, per essere trattata così. Non meritava né quell’umiliazione, né un suo rifiuto.
Non meritava accanto una persona così imperfetta.
Poco prima che lui potesse incamminarsi lontano dal lago, pronto a riportarla indietro, Melanie lo afferrò per un braccio, costringendolo a voltarsi.
«John, mi dispiace» ripeté ancora, con della sincera tristezza negli occhi imperlati da un velo di lacrime. «Io non volevo…» tentò, ma le parole le morirono in gola. «È solo che…»
«Ehi, tu non mi devi nessuna spiegazione, okay?» la tranquillizzò il ragazzo, prendendole dolcemente il viso tra le mani e asciugandole una lacrima solitaria sfuggita al suo controllo. «Né tanto meno delle scuse.»
«Il fatto é che…» Melanie sentiva il senso di colpa serrarle la gola. «Io…»
«Melanie, non devi preoccuparti, va bene? Non è successo niente.» John le rivolse un sorriso rassicurante, uno di quelli che non puoi far altro che amare. «Tu stai attraversando un periodo difficile, ed io voglio starti accanto. Non mi interessa come. Tu non ti senti ancora pronta, e lo capisco. Credimi, io voglio solo che tu sia felice. E se riuscirò ad essere artefice di parte di quella felicità, tanto meglio. Io sono qui, e ci sarò sempre, capito? Io non scappo.»
«Non posso chiederti di aspettarmi, John» replicò lei, con tono amareggiato. Strinse le labbra, imponendosi di non crollare lì, di non crollare davanti a lui. Poi scosse la testa con rassegnazione. «Non è giusto» sussurrò.
E poco prima che il ragazzo potesse replicare, lei fece due passi indietro, lanciandogli un’ultima occhiata colma di tristezza prima di reprimere un singhiozzo e correre via.
John la seguì con lo sguardo, incapace di proferire parola.
Perché doveva essere tutto così dannatamente difficile?
Perché lui e Melanie non potevano semplicemente essere due ragazzi comuni che si comportano da ragazzi comuni in un luogo comune?
Che cosa aveva, Afrodite, contro di loro?
Melanie, per lui, era un po’ come il sole: era bellissima, e ogni volta che la guardava aveva una gran voglia di avvicinarsi, di toccarla, di stringerla a sé. Ma quando ci provava, rischiava sempre di ustionarsi. 
Voleva far parte del suo mondo, ma come avrebbe potuto riuscirci, se lei aveva paura di farlo entrare?
Come sarebbe mai riuscito ad aprire la porta del suo cuore, se lei continuava a nascondergli la chiave?
Era difficile. Era tutto schifosamente e miseramente difficile.
Eppure non poteva farne a meno.
Non voleva rinunciare a lei. Non voleva rinunciare a loro.
Non voleva rinunciare a ciò che erano e a ciò che avrebbero potuto essere.
Perché sì, oramai ne era consapevole.
John aveva bisogno di Melanie tanto quanto Melanie aveva bisogno di John.
 
Ω Ω Ω
 
Emma si infilò una canotta pulita, spostandosi distrattamente i ribelli capelli su una spalla per poi lasciare la sua Cabina.
L’aria era tiepida, quel pomeriggio, e lei aveva appena finito di fare una doccia dopo una lunga serie di allenamenti, impiegando non poco tempo ad asciugare quegli indomabili ricci biondi con un phon, per poi perdere la pazienza e strofinarseli con foga con un asciugamano.
Prese un gran respiro, riempendosi i polmoni del profumo del Campo, che si generava da un tenero miscuglio di alberi, cibo e… sudore?
Storse il naso, disgustata. Troppe ore di allenamento e troppi pochi ragazzi puliti, lì in mezzo. Ormai non le bastava più uscire a fare due passi per inalare un po’ d’aria pulita.
Ho bisogno di qualcosa da fare, si disse, rendendosi improvvisamente conto di non avere la benché minima idea di come occupare le due ore che la separavano dalla cena di quella sera.
Potrei andare da Skyler. Oppure cercare John. O magari passo un po’ di tempo con Michael, così gli impedisco di sgozzare Matthew. Chissà poi se Travis e Connor hanno fatto pace. Potrei andare a chiederglielo e poi magari…
Ad interrompere bruscamente il flusso dei suoi pensieri fu il rumore di qualcosa che cade fragorosamente a terra, e solo allora Emma si accorse di aver appena urtato qualcuno.
«Oh, miei dei! Scusa!» esclamò, ancora prima di voltarsi verso il povero malcapitato. Fu solo quando incontrò i vispi occhi di Leo, che sentì le proprie guance imporporarsi.
Il ragazzo le sorrise, chinandosi a raccogliere ciò che gli era sfuggito di mano. «Non preoccuparti. È stata colpa mia» la tranquillizzò. «Ero talmente sovrappensiero che non guardavo neanche dove stavo andando.»
«Idem» mormorò lei imbarazzata, inginocchiandosi al suo fianco per aiutarlo.
Il ragazzo la guardò, cercando invano il suo sguardo tenuto basso. «Dove stavi andando?» chiese, al ché lei fece spallucce.
«In giro» si limitò a dire, con scarso entusiasmo.
«In giro dove?»
Emma inarcò un sopracciglio, osservandolo di traverso. «Che c’è, vuoi pedinarmi, per caso?»
«No, certo che no!» scattò subito lui, scrollando la testa. «Cercavo solo di instaurare una conversazione!»
«Sappi comunque che ho sempre un pugnale, con me. E non ho paura di usarlo.»
«Temo che tu abbia frainteso» ridacchiò Leo, divertito. Poi si alzò in piedi, porgendole una mano che la ragazza non accettò, tirandosi su da sola.
«Uomo avvisato, mezzo salvato» borbottò, al ché lui dovette mordersi il labbro, pur di trattenere una risata.
La soppesò un attimo con lo sguardo, un sorrisetto sghembo dipinto sul volto. Poi prese a giocare distrattamente con un ricciolo del suoi capelli. «Allora» cantilenò, con aria vagamente giocosa. «Abbiamo appurato che non hai voglia di dirmi dove sei diretta. Posso almeno sapere a cosa stavi pensando?»
Emma si strinse nelle spalle. «A nulla in particolare, in realtà. Pensavo e basta.»
«Non eri tu a voler imparare la tecnica dello ‘scordarsi di pensare’?»
«Mi stai prendendo in giro, Valdez?» domandò lei, le braccia conserte e gli occhi grigi stretti a due fessure.
«No, ovvio che no. La mia era solo una domanda.»
«Ultimamente fai molte domande fuori luogo, lo sai?»
«Preferiresti che smettessi per sempre di parlare?»
«Ora che ci penso, non sarebbe una cattiva idea. Anche se io avrei optato per un trattamento più drastico.»
«Ad esempio?»
«Sicuro di volerlo sapere?»
Il ragazzo allargò le braccia, con un sorrisetto di scherno. «Illuminami.»
Emma prese fiato per parlare, ma poi esitò, scrutandolo con aria divertita. «Tu non mi piaci, Valdez» gli disse, puntandogli un dito contro.
Leo rise. «Ti adoro anch’io» scherzò.
Nessuno dei due sembrò rendersi conto di quanto le distanze tra loro si fossero accorciate ad ogni parola, finché Leo non percepì il profumo del suo shampoo al limone pizzicargli le narici.
Il suo cuore sfarfallò un attimo, apparentemente senza motivo, ma non riuscì a formare un pensiero logico che lei si allontanò da lui, soppesandolo per qualche secondo.
Leo inarcò le sopracciglia, inclinando il capo. «Stai pensando» l’accusò poi.
Emma sussultò, confusa. «Come?»
«Stai pensando di nuovo
«È forse illegale?»
«Avevi detto che non l’avresti più fatto.»
«Ho detto che avrei voluto riuscire a non farlo.»
«Sei una pessima allieva.»
«E tu un pessimo insegnante.»
«A te mancano proprio le basi!»
«Beh, se le avessi avute, non ti avrei chiesto aiuto, ti pare?» scattò lei indispettita, prima di poter ragionare sulle proprie parole. Lui sostenne il suo sguardo, con un’espressione indecifrabile, e la ragazza si sentì stranamente in imbarazzo. «Non che io ti abbia chiesto aiuto, ovvio. Insomma, voglio dire, non dicevo sul serio. È una cosa stupida.»
«Non è stupida.»
«Sì, invece.»
«No, non lo è.»
«Io penso di sì.»
«Smettila di farlo!»
«Che cosa…?»
«È snervante!»
«Non ti seguo.»
«Smetti di pensare!»
«E come faccio?»
«Non lo so, ma tu non ci provi nemmeno!»
«È una cosa impossibile, Leo. Nessuno può riuscirci.»
«Io ci riesco.»
«Perché, tu pensi?»
Leo forzò una risata. «Spiritosa.»
«Seriamente, ora sono davvero colpita.»
«Scommetto che ora stai pensando al miglior modo per prendermi in giro, vero?»
«Perché, ci vuole un genio per capirlo?»
«Sei incorreggibile.»
«E tu sei stupido» fece spallucce lei. «Visto? Ci compensiamo a vicenda.»
Leo incrociò le braccia al petto, schiudendo la bocca pronto a ribattere. Ma dopo un attimo di esitazione la richiuse, inclinando la testa di lato quasi fosse appena stato colpito da un’idea. Un sorriso malandrino si dipinse lentamente sul suo volto, incuriosendo la ragazza.
Insegnami a scordarmi di pensare, aveva detto?
Molto bene. Era appena iniziata la primissima lezione.
«Vieni con me» le disse, afferrandole una mano e trascinandosela dietro con aria impaziente.
«Dove andiamo?» chiese lei, ma l’unica risposta che ottenne fu un rimprovero: «Non pensarci.»
«Ma quegli oggetti che stavi portando?»
«Non pensarci.»
«Ma li hai lasciati lì a terra!»
«Non pensarci!» Quell’ennesimo ordine fu accompagnato da un’ilare risata. «Corri!» le intimò poi, e dopo un attimo di esitazione, lei lo seguì interdetta.
Leo la guidò oltre le Capanne, al di là dell’Arena e attraverso la Baia di Zefiro, apparentemente senza una meta.
Emma si stava giusto chiedendo dove avesse intenzione di andare, quando un odore pungente non le invase le narici.
Salsedine.
La ragazza chiuse gli occhi a due fessure, scrutando l’orizzonte finché non intravide il profilo del mare. Avvertì la sabbia battere contro le suole delle proprie scarpe, rendendo la loro corsa più irregolare.
Una fresca e insolita brezza si insinuò tra i suoi ricci biondi, poco prima che Leo si fermasse, a circa due metri dalla riva.
Sembrava euforico, mentre inspirava quell’aria salmastra a pieni polmoni. Poi cominciò a sfilarsi mocassini e calzini, guadagnandosi un’occhiata confusa dalla figlia di Ermes.
«Ma che stai facendo?» domandò, con la fronte aggrottata.
Il ragazzo ripiegò più volte l’orlo dei propri pantaloni, regalandole un sorriso smagliante. «Andiamo!» esclamò, per poi correre a perdifiato verso l’acqua, buttandovisi dentro.
Emma sgranò gli occhi, osservandolo scrollarsi con una mano un po’ d’acqua dai capelli scuri.
Leo si voltò a guardarla, invitandola con un cenno della mano a seguirlo. «Coraggio, Emma! Vieni anche tu!»
«Non ci penso nemmeno!» replicò lei, indignata.
Il figlio di Efesto fece roteare gli occhi, tornando con fatica verso la riva. «Ti do tre secondi di vantaggio!» la informò, al ché lei corrucciò le sopracciglia.
«Eh?»
«Uno» cominciò il ragazzo, avvicinandosi di soppiatto.
«Ma che cosa…?»
«Due.»
«Che vorresti fare?»
«Tre! Io ti avevo avvertito!»
Emma sgranò gli occhi non appena comprese le sue intenzioni. «Non ci provare…» tentò di minacciarlo, ma fu interrotta dal figlio di Efesto, che le passò una mano dietro le ginocchia e la prese in braccio.
La ragazza cacciò un gridolino di sorpresa, mentre lui rimmergeva tranquillamente i piedi in mare.
«Leo, no!» lo redarguì lei, senza, però, alcun risultato. Si aggrappò al suo collo, osservando spaventata l’acqua sotto di sé farsi sempre più vicina. «Leo, non osare…»
«Oh, andiamo!» replicò lui, fermandosi solo quando fu immerso fino alla vita. «Un bel bagnetto non ha mai fatto del male a nessuno.»
«Tu provaci, e io giuro che ti… ti…»
«Mi uccidi? Mi disintegri? Mi anneghi? Mi torturi? Quale delle tante? Sono curioso.»
Emma lo fulminò con lo sguardo. «Tutte quante» sibilò, a denti stretti.
«E in che successione, esattamente?»
«Leo, fammi scendere!» piagnucolò allora lei, tentando la via della supplica.
Il ragazzo fece spallucce, inarcando le sopracciglia. «Okay» assentì, e prima che lei potesse urlare un secco: «No!» la lasciò andare, facendola cadere di peso nel mare.
La ragazza riemerse dall’acqua, bagnata fradicia, e lui ridacchiò non appena sul suo volto si dipinse un’espressione indignata.
«Tu, brutto…»
«Ehi, l’ho fatto per il tuo bene» si giustificò, trattenendo un sorriso.
«Per il mio bene un corno di Minotauro! Me la pagherai molto cara.»
«Oh, andiamo, facciamo la pace?»
«No.»
«Un compromesso?»
«No.»
«Una trattativa?»
«Vieni qui, traditore!» urlò lei, avventandosi su di lui. Ma Leo riuscì a scansarsi appena in tempo.
«Prova a prendermi, se ci riesci!» la provocò, per poi scappare via con una risata divertita.
Emma gli corse dietro, nel vano tentativo di acciuffarlo, e fu solo quando riuscì ad afferrarlo per un braccio e a trascinarlo sott’acqua che il figlio di Efesto la sentì ridere.
Di una gioia tenera, sincera. Di una gioia inaspettata e stranamente piacevole.
E poté ritenersi soddisfatto di sé stesso.
E rimasero lì, a prendersi in giro.
E a giocare come due bambini.
E a ridere e scherzare.
Rimasero lì, a smettere di pensare.
 
Ω Ω Ω
 
Il tramonto stava già cominciando ad imbrunire il cielo, tingendolo di quelle sfumature d'arancio che posseggono solo le pesche un po’ troppo mature.
Leo non aveva idea da quanto tempo lui ed Emma si trovassero lì, e la cosa non gli importava affatto. Subito dopo essere usciti dall’acqua, ormai stanchi e a corto di fiato, avevano deciso in un muto accordo di sguardi di fare una passeggiata, seguendo la scia della riva.
Si erano spalleggiati per qualche minuto, continuando a parlare del più e del meno, finché Emma non era avanzata di qualche passo, cominciando a scrutare attentamente le conchiglie.
Dopo un po’, anche Leo aveva preso ad osservare ciò che si nascondeva tra la sabbia, e aveva anche raccolto una pietra dalla forma alquanto singolare, rigirandosela tra le mani.
Ma poi i suoi occhi si erano posati casualmente su Emma, e si era riscoperto incapace di distogliere lo sguardo. Era bellissima, illuminata da quell’arancia luce, di una di quelle bellezze autentiche, rare.
Aveva intrecciato distrattamente i capelli ricci in una disordinata treccia che le ricadeva sulla spalla, lasciandole scoperta la delicata linea del collo. I vestiti bagnati le si erano incollati al corpo, e la canotta metteva in risalto le sue curve, donandole un’aria ancora più sensuale, più… divina.
Leo stesso si sorprese più volte dei suoi stessi pensieri, che però cessavano di esistere ogni volta che lei si voltava a guardarlo, regalandogli uno sfuggente e stupendo sorriso.
C’era qualcosa, in quella ragazza, che ancora gli sfuggiva. Qualcosa che non riusciva a capire; qualcosa di curioso ed insolito.
Ma qualunque cosa fosse, al contempo la rendeva anche magica, misteriosa. Bellissima. Proprio come Cenerentola che, a dispetto di tutti, nasconde dentro di sé l’innato portamento di una principessa.
C’era un non so che di incompreso, in lei. Di inesplorato.
«Guarda cos’ho trovato!» esclamò ad un tratto la figlia di Ermes, distogliendolo bruscamente dai suoi pensieri. Si avvicinò a lui, con un sorriso. «Con questa riesco a sentire il mare!» esultò, portandosi una conchiglia concava all’orecchio.
Leo abbozzò un lieve sorriso, intenerito dalla meraviglia della ragazza davanti ad un oggetto così semplice.
«Tu invece cos’hai trovato?» gli chiese Emma, al ché lui si strinse nelle spalle.
«Niente di eccezionale, in realtà» ammise, con un sospiro. «Però ho raccolto questa.» Le mostrò la sua pietra, e mentre lei la osservava, lui osservava lei. «Se vuoi te la regalo» mormorò dopo un po’, troppo velocemente, però, perché potesse impedire a quelle parole di lasciare le sue labbra.
Emma sembrò sorpresa. «Davvero?»
«Sicuro!» Gliela posò sul palmo, e lei la studiò con attenzione.
«È a forma di cuore» constatò, con un lieve sorriso sghembo.
«Già» annuì lui, grattandosi la nuca imbarazzato.
«È molto bella.»
«Mi fa piacere che ti piaccia.»
«Ora suppongo di doverti regalare anch’io qualcosa.»
Leo alzò le spalle. «Non è necessario.»
«No, dai, prendi questa!» insisté lei, porgendogli la conchiglia che teneva tra le mani.
Leo batté le palpebre più volte, interdetto. «Pensavo che ti piacesse, questa conchiglia.»
«Infatti mi piace. Per questo voglio regalartela.»
«Non posso accettarla.»
«Ma devi» replicò lei, con aria risoluta. «Non si rifiuta un regalo.»
«Ma tu l’hai cercata con attenzione, ed io non saprei come utilizzarla, una conchiglia.»
«Puoi sempre avvicinarla all’orecchio e sentirci il mare» propose la figlia di Ermes.
«Non credo di sapere come si fa.»
«Cosa?» Emma parve alquanto scioccata.
Leo alzò gli occhi al cielo, sospirando teatralmente. «Non è colpa mia se da bambino preferivo i bulloni, alle conchiglie.»
«Ma questa è una cosa tristissima!»
«E perché mai, scusa?»
«Davvero non hai mai raccolto una conchiglia per sentire il rumore del mare?»
Leo fece schioccare la lingua, con calanche. «Forse» disse, accarezzandosi il collo sovrappensiero. «Non mi ricordo.»
«Beh, ascolta questo, allora» lo incitò, facendo un passo verso di lui così da annullare anche quell’ultimo mezzo metro che li separava.
Leo avvertì il respiro caldo della ragazza accarezzargli il volto, e i suoi capelli ricci pizzicargli il mento, mentre con delicatezza lei avvicinava la conchiglia al suo orecchio.
Emma si sollevò piano sulle punte, accostando leggermente il volto al suo nel tentativo di poter scorgere anche lei il lieve fruscio che il nicchio emetteva.
«Riesci a sentirlo?» chiese in un sussurro, e Leo, con fatica, deglutì.
Cosa, con esattezza? Il rumore del mare, o il mio cuore che sta per esplodermi nel petto?, si chiese, per poi mordersi la lingua subito dopo.
Il suo profumo era inebriante, e il ragazzo fu costretto a trattenere l’impulso di abbracciarle i fianchi e stringerla a sé, nonostante in quel momento fosse il suo desiderio più grande.
Con la coda dell’occhio la vide sorridere, per questo voltò lentamente il capo verso di lei, non accorgendosi, però, che la ragazza stava facendo altrettanto.
I loro nasi si toccarono quasi per caso, e quando i loro occhi si incontrarono Leo provò l’impellente desio di fermare il tempo immediatamente, di bloccare tutto a quel preciso istante.
Come possono due occhi grigi come un cielo d’inverno far scattare in te la sensazione che tutto si sia appena allineato, che il mondo sia in perfetta sincronia?
Come può un cuore umano battere così velocemente al solo percepire il respiro regolare di una persona vibrare accanto al proprio?
Come può, una ragazza, inebriarti la mente fino a quel punto?
Leo non conosceva le risposte, e smise di cercarle non appena le loro labbra si sfiorarono insicure, e i loro corpi si stringevano l’uno all’altro.
Cosa stava succedendo, esattamente?
Perché Leo non era in grado di impedirlo?
Sentì il proprio cervello abbandonarsi all’idea che no, lui non voleva affatto impedire tutto questo. Ma proprio quando fece per annullare anche quelle ultime distanze che gli impedivano di assaporare quelle labbra, sentì qualcosa pungergli con forza la pianta del piede.
«Ahi!» esclamò, allontanandosi con un balzo dal punto in cui si trovava.
Un piccolo granchio color crema sgusciò da sotto una piccola montagna di sabbia, e zampettò velocemente via, mentre il figlio di Efesto si massaggiava il pizzico dolorante.
Emma si lasciò sfuggire una sommessa risata. Poi tossicchiò, nonostante non ne avesse alcun bisogno. «Credo sia meglio andare» disse, con un sorriso divertito ad incurvarle le labbra.
Leo affogò la delusione di quel momento mancato, per poi annuire mestamente.
Fu allora che lei si allontanò di qualche passo, donandogli un ultimo sorriso e stringendo la pietra a forma di cuore nel pugno chiuso. «Grazie per il regalo» ripeté poi un’ultima volta, prima di correre via con passo leggero.
Leo rimase lì, ad osservare i suoi ricci ribelli volteggiare nell’aria finché anche loro non sparirono dal suo campo visivo.
In grado di gestire la situazione?
Sì, come no! E magari il colore preferito di Nico di Angelo era il rosa.
Lui non era per niente in grado di gestire quella situazione. Lui ci stava ricadendo con tutte le scarpe!
Aveva già constatato che con Emma non avrebbe mai potuto funzionare. Lui diventava un idiota, davanti a lei! Non era in grado di articolare neanche due parole, e si sentiva in costante imbarazzo.
Eppure, nonostante cercasse di evitarla in tutti i modi, quella ragazza continuava ad attrarlo come una calamita, e lui non si rendeva conto di quanto stesse superando il limite che egli stesso si era imposto finché non si ritrovava con il volto a neanche un palmo da lei.
Stupido! Stupido! Stupido!
Di questo passo, si sarebbe ritrovato in un vicolo cieco.
La cosa migliore sarebbe stata troncare i rapporti con lei, subito.
Ma sapeva con amara certezza che non sarebbe mai stato in grado di farcela. Perché lui avvertiva il bisogno di starle accanto. Aveva bisogno del suo sorriso e aveva bisogno di lei. In qualunque modo.
E fu con questa consapevolezza che strinse con accortezza la conchiglia tra le dita, sperando che si stesse sbagliando, e che tutti i suoi pensieri non fossero altro che uno stupido errore.
 
Ω Ω Ω
 
Melanie si diresse verso la Cabina Quattro con la testa bassa, senza alcuna voglia di partecipare al falò.
Con i suoi fratelli, a cena, aveva finto i sintomi di un’influenza, e nonostante loro si fossero offerti di accompagnarla, lei era riuscita ad ottenere il ‘permesso’ di tornare a casa da sola.
Non poteva rivedere John. Non dopo quello che era successo quella mattina.
Si sentiva così in colpa, e non solo per aver rifiutato un suo bacio (cosa che, tra l’altro, desiderava non poco).
Ma anche per ciò che gli aveva detto; perché nonostante sapesse che fosse la cosa giusta, ammetterlo ad alta voce le aveva logorato la bocca dello stomaco.
John non meritava un trattamento simile da parte sua.
E lei non meritava uno come John.
Lui era troppo dolce, troppo bello, troppo gentile, troppo sincero. Metà del Campo lo riteneva un tipo attraente, e l’altra metà erano ragazzi.
Avrebbe potuto trovare la sua anima gemella in brevissimo tempo. Era degno di essere amato, di possedere tutta la felicità di questo mondo.
E lei non poteva semplicemente andare lì, e rovinargli la vita.
Perché era questo, ciò che gli avrebbe fatto. Sarebbe stata per lui un peso, un rischio, un errore.
L’avrebbe costretto a prendersi cura di lei, a non abbandonarla neanche contro la sua volontà.
Perché lui sarebbe sempre stato condizionato da ciò che lei era.
E lei avrebbe sempre avuto un braccio in meno.
Il suo destino ormai era quello, e lei non era in grado di cambiarlo.
E non poteva neanche pensare di chiedere a John di fare uno sforzo simile per lei.
Perché come si fa, ad amare una ragazza monca?
Come può essere definita vita quella nella quale ti sono vietate la maggior parte delle cose?
Melanie tirò su col naso, digrignando i denti con forza nella speranza che quel gesto le impedisse di versare lacrime.
John non poteva aspettarla. E lei doveva farsene una ragione.
Salì svogliatamente i gradini di legno della Casa di Demetra, non soffermandosi nemmeno sul loro tenue scricchiolio.
Sbuffò rumorosamente, stropicciandosi un occhio con frustrazione. Posò la mano sul pomello della porta, ma poco prima che potesse aprirla, qualcosa attirò la sua attenzione.
Melanie corrucciò le sopracciglia, confusa.
Sul legno di rovere c’era un biglietto, fissato alla meno peggio con una striscia di scotch. La ragazza si sorprese della facilità con la quale riuscì a leggere le lettere in stampatello scritte sopra con un pennarello nero.
PER MELANIE.
La figlia di Demetra lo staccò con un gesto deciso, per poi aprirlo lentamente, con circospezione.
Dentro, vi era un messaggio. O meglio, una citazione.
 
“SE NON CI METTI TANTO, TI ASPETTERÒ TUTTA LA VITA.”
                                               -J.
 
Melanie ebbe un tuffo al cuore.
Oscar Wilde, pensò.
E non ci voleva un genio per capire a chi quella J si riferisse.
Sentì una lacrima solcarle il volto, e si sorprese nello scoprire che era imperlata di pura gioia. Altre la seguirono, bagnandole le guance, e un sorriso felice si fece strada sulle sue labbra.
Si guardò intorno, forse aspettandosi di trovare qualcuno, ma erano tutti al falò.
Rilesse il biglietto altre tre volte, per assicurarsi di non aver frainteso. Poi emise una sommessa risata.
Ti aspetterò.
Era questo l’importante; quelle due semplici parole.
John l’avrebbe aspettata qualunque cosa fosse accaduta, e questo le bastava.
E non le importava di ciò che sarebbe stato e di ciò che non avrebbe potuto essere mai.
E non le importava com’era andata a finire e come sarebbe finita.
Perché lui c’era, e ci sarebbe stato. Sempre.
All’improvviso sentì il cuore gonfiarsi fino a minacciare di scoppiare. Ma era pregno di sensazioni bellissime.
Era pieno di gioia. Era pieno di gratitudine. Era pieno di commozione.
Era pieno di speranza. Era pieno di felicità. Era pieno d’emozione.
Era pieno d’amore.

Angolo Scrittrice. 
Siamo in onda tra tre... due... uno...

*ON AIR*
Holaa! Salve a tutti, semidei! Vi ricordate di me? Eh, già, sono proprio io. Quella rompiscatole che aggiorna ogni martedì.
Credevate davvero di esservi liberati di ValeryJackson? Muahahaha! Mi dispiace informarvi che purtroppo non è così facile.

Io sono come le allergie: persistente. 
But by the way, dopo una settimana di assenza, eccomi qui a presentarvi un nuovo capitolo totalmente incentrato su due delle coppie presenti in questa fanfic: la JohnxMelanie e la LeoxEmma.
Premetto che scrivere questo capitolo non è stato affatto facile, per due motivi: ho voluto cimentarmi in quello che per me era uno stile totalmente nuovo, e cioè una sorta di 'parallelismo'. Due baci mancati, due coppie totalmente differenti, due storie distinte e separate, due riflessioni diverse da parte dei due ragazzi, due conclusioni pressocché sulla stessa lunghezza d'onda.
Cercate di capirmi, se il capitolo fa schifo non è colpa mia! Spero solo di non essere caduta mai nel banale, e che nonostante tutto vi sia piaciuto, anche se rileggendolo mi ha fatto un po' schifio.
Ma non ho voglia di pensarci, perchè altrimenti mi deprimo e torno in uno dei miei periodi sploff (che sanno davvero di sploff, fidatevi!)
Argh! Mi annoio da sola! Passiamo a ringraziare i miei Valery's Angels, che è meglio. Cavoli, ragazzi, grazie davvero! Leggere le vostre recensioni, durante questa settimana, mi ha davvero scaldato il cuore <3 Un grazie infinitamente infinito a:
Kamala_Jackson, ChiaraJacksonStone1606, Cristy98fantasy, fire_in_dark29, carrots_98, _angiu_, _Krios_, Percabeth7897 e martinajsd.
Grazie, grazie davvero.
Ed ora eccoci arrivati alle domande clou (?):
Che ve ne pare del capitolo? Vi è piaciuto? Vi ha fatto schifo? Come sempre, sono aperta a qualunque tipo di giudizio, purchè costruttivo.
Che mi dite invece di John e Melanie? Il nostro figlio di Apollo sa essere molto romantico, quando vuole, questo dobbiamo riconoscerglielo! Ma credo proprio che quello con Melanie sarà un calvario, perchè Afrodite, a quanto pare, sta remando contro di loro.
Ed Emma e Leo, invece? Non so quanti di voi tifino per loro, ma posso assicurarvi che anche questi due sono dei tipini un po' complicati. Secondo voi, come andrà a finire? Che cosa prova Leo per Emma? E perchè nonostante voglia starle lontano, non ci riesce?
Il nostro figlio di Efesto preferito ha preso molto sul serio la richiesta della ragazza.
Insegnami a scordarmi di pensare. Secondo voi è davvero possibile riuscirci? E perchè Leo ci tiene tanto ad aiutarla, se Emma è solo una semplice amica?
Fatemi sapere cosa ne pensate, sono curiosa!
Un altro grazie enorme a tutti voi, che continuate a seguire la mia storia.
E a tutti coloro che in questo momento stanno leggendo questa parte in grassetto, perché vuol dire che non avete dimenticato questa pazza sclerotica e le sue storie. Che non avete dimenticato Skyler, Michael, John ed Emma. E che siete ancora disposti ad accompagnarli nel loro viaggio, a seguirli nelle loro avventure.
Grazie, davvero. Per me significa molto.
Siete sempre i migliori, sappiatelo.
E al prossimo martedì!
Sempre vostra,

ValeryJackson

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***



 


Katie Gardner odorava di corteccia di ciliegio e mandorle.
Portava lo stesso profumo da quando aveva dieci anni, quindi più o meno da quando aveva messo piede al Campo. Lo portava anche quel pomeriggio al lago, e aveva invaso le narici di Travis quando lei, con gli occhi imperlati di lacrime, lo accusava di non aver capito ciò che c’era da capire.
Le era rimasta una cicatrice sul polso, un graffio che si era fatta arrampicandosi su un albero quando aveva undici anni. Era stata colpa di Travis. A quel tempo era un po’ meno femminile e lui l’aveva convinta (o per la precisione sfidata) a chi arrivava prima in cima ad uno degli alberi della Baia di Zefiro. Aveva vinto lui.
Katie aveva una tremenda paura del buio, era allergica ai molluschi e il suo colore preferito era il giallo.
Amava le margherite, e per quanto si sforzasse, era del tutto incapace di cantare.
Però sapeva ballare. E sarebbe stata in grado di divorare un’intera crostata di fragole, se le si fosse presentata l’occasione.
Come faceva Travis a sapere tutte quelle cose? Semplice.
Katie aveva attratto la sua attenzione dal primo istante. Da quando, in quel pomeriggio d’estate di sei anni prima, aveva fatto il suo ingresso al Campo Mezzosangue, con le sue due trecce color nocciola e la sua camicetta a fiori.
Spesso Travis si chiedeva che fine avesse fatto, quella camicetta. Sperava che non l’avesse buttata, perché lui l’adorava, e in ogni caso a lei stava benissimo.
Il figlio di Ermes ricordava perfettamente l’indifferenza che all’inizio la ragazza aveva nei suoi confronti. E forse era anche per questo motivo che aveva cominciato a farle degli scherzi.
Voleva attirare la sua attenzione, voleva vedere le sue tenere sopracciglia aggrottarsi e i suoi occhi caramellati posarsi su di lui, pronti a fulminarlo con lo sguardo.
Ogni bravo maestro conosce la sua vittima, e lui aveva imparato ogni dettaglio della sua fin da subito.
«Così i nostri scherzi saranno perfetti!» spiegava sempre a Connor, ogni volta che il fratello lo guardava con un sopracciglio inarcato.
Ed era di questo che si era convinto per ben sei anni, ogni volta che si riscopriva a pensare a lei.
Non si rendeva conto, invece, di essersi affezionato alla sua Kity-Kat più di quanto volesse dare a vedere. Non fino a quella sera, perlomeno, quando aveva sentito il suo cuore perdere un battito alla consapevolezza di averla fatta soffrire.
Desiderava il suo perdono più di ogni altra cosa, per questo aveva seguito i consigli di Melanie, e le aveva porto le sue scuse in una lettera, che aveva lasciato accanto ad un mazzo di margherite davanti la porta della Casa Quattro.
Era stato paziente, proprio come la bionda figlia di Demetra gli aveva suggerito. Aveva aspettato ben due giorni, prima di incamminarsi verso la sua Cabina pronto a parlarle.
Ma ora era arrivato il momento.
Travis si sfregò i sudati palmi delle mani contro i jeans, mentre si dirigeva con finto passo sicuro alla Capanna dei figli di Demetra. Aveva preferito non prepararsi un discorso, né tantomeno qualche frase persuasiva da dire.
Sarebbe semplicemente andato lì, e avrebbe detto a Katie tutto ciò che gli avrebbe attraversato la mente, fidandosi del suo istinto.
Forse non era il migliore dei piani, ma era stanco di vedere tutti i suoi progetti andare a rotoli. E poi, ‘la fortuna aiuta gli audaci’, no?
Vide un gruppetto di ragazzi davanti a sé, mentre si dirigevano nella direzione opposta alla sua. Tra loro vi riconobbe Melanie, e non appena la ragazza lo notò lui le si avvicinò, con passo esitante.
«Melanie» la salutò lui, al ché lei l’osservò con fare interrogativo. «Katie è in casa?»
La figlia di Demetra prese fiato per parlare, ma inizialmente non ne uscì alcun suono. Sembrava a disagio, e Travis non riusciva a capirne il motivo. «Sì» mormorò poi, con voce insicura. «Però…»
«Grazie!» la interruppe Travis, raggiante, per poi proseguire con passo sempre più deciso verso la sua meta.
«No, Travis! Aspetta!» tentò di fermarlo la ragazza, ma invano. «Lei è…»
Il figlio di Ermes non seppe mai cosa Melanie stava per dirgli, già troppo lontano perché le sue parole non si perdessero nell’aria.
Arrivò davanti la Cabina Quattro con un po’ di fiatone, non essendosi neanche reso conto di aver accelerato il passo a tal punto da aver iniziato a correre. Prese due grandi respiri, tentando di far tornare di nuovo regolare il battito del proprio cuore.
Poi bussò alla porta.
«Katie, sei in casa?» domandò, ma a dispetto di quanto aveva immaginato non ricevette alcuna risposta.
Posò la mano sul pomello, aggrottando lievemente la fronte, per poi far cigolare il cardine.
Non appena varcò la soglia, due paia di occhi si voltarono a guardarlo, sorpresi.
Due paia di occhi.
Katie non era sola. Accanto a lei c’era Mark Wallace, figlio diciassettenne di Atena. Era poco più alto di Travis, con degli ondulati capelli biondi e degli attenti occhi chiari. Aveva alcuni fogli di un progetto stretti in una mano, e li stava mostrando a Katie, poco prima che il figlio di Ermes li interrompesse.
Travis avvertì una morsa anomala serrargli la bocca dello stomaco, seguito da un lieve e insolito senso di nausea. Guardò prima Katie, poi Mark. Infine si schiarì la gola.
«Disturbo?» chiese, con un tono più tagliente di quanto avrebbe voluto.
La ragazza lanciò una fugace occhiata a Mark, per poi tornare a guardarlo. Fece spallucce, abbozzando un sorriso. «Oh, no, stavamo solo chiacchierando.»
Travis si ritrovò a stringere con forza il pomello della porta, infastidito da ciò che quel ‘chiacchierando’ poteva significare, poco prima che Katie lo soppesasse con lo sguardo.
«Che ci fai qui?» domandò, trascinando lentamente le parole.
«Oh, ehm…» Il figlio di Ermes si grattò la nuca, imbarazzato. «Ho bisogno di parlarti.» Fissò lo sguardo truce sul figlio di Atena. «Da solo» puntualizzò.
La ragazza sembrò sorpresa, ci mise qualche attimo per sforzarsi di metabolizzare la cosa, per poi mormorare un lieve «Okay» visibilmente incerto. Dopo di ché si voltò di nuovo verso Mark, dando a Travis le spalle.
«Ti dispiace lasciarci qualche secondo soli?» chiese, con gentilezza, al ché lui annuì.
«Certo, nessun problema» consentì, per poi afferrarle giocosamente la mano e lasciarle un goliardico bacio sul dorso, strappandole un risolino. «A dopo» le disse, con un occhiolino.
La ragazza si attorcigliò una ciocca di capelli attorno al dito, e Travis sentì un groppo invadergli la gola quando notò il sorriso civettuolo che aveva sul volto. Katie stava… flirtando?
Non lì, non con lui. Non la sua Kity-Kat.
«A dopo.» La figlia di Demetra salutò il figlio di Atena, mentre quest’ultimo si dirigeva riluttante fuori dalla Cabina, non prima di scambiarsi un’occhiataccia con Travis, ancora fermo sulla soglia.
La porta si chiuse alle sue spalle, e la casa piombò nel silenzio.  
Travis si guardò intorno, imbarazzato, percependo perforante lo sguardo inquisitore di Katie sulla pelle, che lo squadrava nel tentativo di capire che cosa ci facesse lì.
Il figlio di Ermes studiò la stanza, facendo vagare velocemente le sue iridi scure da un letto all’altro, finché qualcosa non attirò la sua attenzione.
Sul comodino accanto a quello che era il letto di Katie Gardner c’era un mazzo di fiori. Il suo mazzo di fiori.
Era deposto accuratamente in un vaso d’acqua, i petali di un bianco più candido di quanto Travis ricordasse.
Sul volto del ragazzo si dipinse un sorriso sghembo, mentre indicava il proprio regalo con un cenno.
«Vedo che hai ricevuto i miei fiori.»
Katie seguì la direzione del suo sguardo, per poi arrossire leggermente. «Oh, ah, ehm… sì» balbettò, spostando il peso da un piede all’altro, a disagio. Incrociò le braccia, stringendosi nelle spalle. «Sono molto belli. E poi io amo le margherite.»
Lo so, pensò Travis, ma si trattenne bene dal dirlo ad alta voce. Fece invece un passo verso di lei, cercando, invano, il suo sguardo.
«Voglio scusarmi con te» le disse, e percepì chiaramente la sua irritazione, mentre sospirava rumorosamente e faceva roteare gli occhi con disappunto.
«No, Katie, mi devi ascoltare» la pregò allora lui, andandole incontro. «So di essere stato un cretino, okay? Me ne sono reso conto. Ti ho fatto soffrire, e mi dispiace, ma posso assicurarti che non era mia intenzione. Se solo mi lasciassi spiegare, capiresti che io…»
Le parole gli morirono in gola nel momento esatto in cui la mano di lei si posò sulla sua guancia, in uno schiaffo che lo costrinse a voltare il capo.
«Questo è per come mi hai trattata, per come mi hai umiliata e per come mi hai ingannata» spiegò lei con voce tagliente, puntandogli un dito al petto con fare accusatorio.
Travis sospirò, affranto. «Katie, se provassi anche solo ad ascoltarmi, io…»
Ma la ragazza lo interruppe di nuovo, stavolta però in un modo che lo lasciò decisamente più interdetto. Si alzò sulle punte, per far sì che si ritrovassero alla stessa altezza, e gli posò un dolce bacio sulla guancia, lasciando lì le sue labbra qualche secondo in più del necessario.
Poi lo guardò negli occhi, e Travis sentì il suo stomaco contorcersi, il punto in cui l’aveva baciato scottare.
«E questo» affermò lei, con un tono deciso a poco più di un sussurro. «È per la tua lettera, e per i fiori. E anche per aver trovato il coraggio di chiedermi scusa di persona. Lo apprezzo davvero molto.»
Travis non riuscì a credere alle proprie orecchie. Era stato davvero così facile? Aveva davvero funzionato?
Ebbene sì, e c’era il fantasma delle labbra di lei fermo lì sulla sua guancia a ricordarglielo.
Un sorriso felice e incredulo gli increspò lentamente le labbra, mentre sentiva il sollievo invadergli il petto. «Quindi posso ritenermi perdonato?» domandò con cautela, e si sentì ancora meglio quando lei annuì.
«Sì, puoi ritenerti perdonato.»
Stavolta fu un sorriso malandrino a dipingersi sul suo volto. «E posso anche riprendere a farti degli scherzi, come ad esempio quello delle uova nel cuscino?» la provocò, divertito.
La ragazza strinse gli occhi a due fessure. «Tu provaci» lo minacciò. «E stavolta non mi farò davvero alcuno scrupolo, ad ucciderti.»
Travis ridacchiò, rallegrato. Poi i suoi occhi si incastrarono quasi inaspettatamente a quelli autunnali di lei. Si guardarono per qualche secondo, incerti entrambi sul da farsi, finché lui decise di non nascondere più i suoi pensieri, ricordando ciò che si era imposto prima di giungere da lei.
«Mi sei mancata, Kity-Kat» ammise, e c’era sincerità, nella sua voce. C’era un sentimento vero.
Un angolo della bocca di Katie si sollevò in un sorriso, mentre lentamente annuiva a sua volta. «Mi sei mancato anche tu.»
Travis ci mise qualche secondo prima di decidersi ad avvolgerle i fianchi ed abbracciarla. La strinse a sé, avvertendo le sue braccia che gli cingevano il collo, e si lasciò cullare dal dolce torpore del proprio corpo accanto al suo, inesplorato fino a quel momento.
Era la prima volta che si abbracciavano, da quando si conoscevano. E Travis dovette ammettere che era la sensazione più bella che avesse mai sperimentato. Si sentiva al sicuro, tra le braccia di lei. Si sentiva nel posto giusto.
Nascose il volto nell’incavo del suo collo, inspirando a fondo quel suo odore di corteccia di ciliegio e di mandorle.
Se avesse potuto, sarebbe rimasto così per altri cento anni. Ma poi quasi in un muto accordo i due si separarono, guardandosi nuovamente negli occhi.
E Katie lo sorprese ancora, tirandogli un forte pugno sul braccio.
«Ahi!» si lamentò il figlio di Ermes, fissandola confuso. «E adesso che cosa ho fatto?»
«Oh, niente» minimizzò lei. «Ma finalmente ho l’occasione giusta per poterti prendere a pugni, e non voglio sprecarla senza prima essermi tolta qualche soddisfazione» affermò poi, colpendolo di nuovo sul petto. Faceva davvero male, per essere così mingherlina.
«Ehi!» esclamò allora Travis, indignato. La ragazza tentò di dargli un altro pugno, ma lui riuscì ad intercettarlo, afferrandola per entrambi e polsi e bloccandole le braccia dietro la schiena.
«No» l’ammonì, al ché lei rise, divertita.
Poi i loro nasi si sfiorarono, e Travis si sentì invadere dal panico, rendendosi improvvisamente conto di quanto i loro volti fossero vicini, e di quanto fossero invitanti quelle labbra a pochi centimetri dalle proprie.
«I-io…» balbettò imbarazzato, ma le parole gli morirono in gola, e così le sue capacità di ragionare.
I suoi occhi vagarono rapidamente dalle labbra di lei, al suo naso alle sue iridi caramellate.
Poi il ragazzo fece un passo indietro, visibilmente a disagio.
«M-mi… mi dispiace» ciangottò, avvampando fino a far raggiungere al proprio volto i toni del magenta. «I-io…» Impacciato, urtò accidentalmente il piede di uno dei tanti letti con lo stinco, rischiando per poco di cadere a terra.
Katie si portò una mano alla bocca, a trattenere una risata.
«Scusa!» esclamò allora lui, rimettendo poi il letto alla meno peggio nella sua posizione iniziale e grattandosi la nuca. «Sarà meglio che vada» mormorò poi, dirigendosi verso la porta.
«Ci vediamo stasera al falò» si congedò poi, al ché lei annuì, salutandolo con un cenno della mano. «Noi…» Travis non riuscì a dire altro, perché colpì senza volerlo un vaso di primule con il gomito, riuscendo con grande e maldestra fatica a non farlo cadere.
Katie inarcò le sopracciglia, osservandolo perplessa, finché lui non le rivolse un sorriso di scuse, mentre cercava tastoni il pomello della porta alle sue spalle.
Non appena lo trovò, sentì uno strano sollievo rilassargli il muscoli. «A stasera» disse velocemente, varcando la soglia senza neanche ascoltare una probabile risposta della ragazza.
Inspirò a pieni polmoni l’aria estiva che dominava il Campo, per poi ributtarla fuori con un lungo e rumoroso sbuffo. Si grattò il naso, allontanandosi frastornato dalla Casa Quattro.
Cos’era successo, lì dentro, non riusciva a capirlo nemmeno lui. Ma di una cosa era sicuro.
Aveva ritrovato la sua Kity-Kat. Era riuscito a scusarsi con lei, e lei l’aveva perdonato assicurandogli con un semplice sguardo che il loro rapporto era tornato esattamente com’era prima, e che più nulla avrebbe potuto cambiarlo.
A meno che quel nulla non avesse i capelli biondi e gli occhi chiari.
Quando Mark gli tagliò la strada, diretto nuovamente dalla figlia di Demetra, Travis fu invaso dal forte impulso di prendere a pungi quel bel faccino che si ritrovava.
Non era sicuro del perché lo odiasse, sapeva solo che era così, e che non gli avrebbe mai permesso di avvicinarsi anche solo di un passo alla sua Kity-Kat.
Aveva appena trovato la prossima vittima ai suoi scherzi.
 
Ω Ω Ω
 
Leo sollevò con fatica una scatola piena di arnesi da terra, per poi trasportarla fino ad uno scaffale dall’altro lato della stanza con la fronte madida di sudore.
Si trovava nella fucina da più di due ore, intento a rimettere in ordine il casino che i suoi fratelli avevano lasciato.
Cosa insolita, per un disordinato come lui. Ma ultimamente si era riscoperto più volte a fare che cose che mai nella vita avrebbe immaginato anche solo di pensare.
Come rifarsi il letto, per esempio. Oppure ripensare incessantemente agli occhi di una ragazza.
Non le curve, o il seno, o il profumo, ma gli occhi. L’ultima cosa che credeva in grado di contorcergli la bocca dello stomaco.
Raccolse un’altra serie di armi da terra, riportandole nei loro rispettivi posti.
Gli piaceva stare nella fucina quando tutti gli altri erano via. Era rilassante, e poi si sentiva libero di pensare e fare quello che voleva, senza doversi preoccupare della propria maschera, o di come appariva il proprio sorriso, o del fatto che Skyler e Microft sarebbero stati in grado si scorgere la tempesta nelle sue iridi scure.
Stare da solo gli consentiva di pensare per una volta a sé stesso, senza dare peso agli altri.
Si piegò per prendere da terra un’altra scatola stavolta piena di progetti. Armi da fuoco, spazzole-spada, coltelli reclinabili… erano tutte cose che aveva disegnato lui, o che gli altri semidei gli avevano affidato affinché le realizzasse per loro.
Come l’anello-lancia di Andrew Goode.
O la piuma-spada di Piper.
Ne prese distrattamente uno, osservando le linee storte che sicuro un impaziente figlio di Ares aveva riportato su carta, raffiguranti una lama di circa cinquanta centimetri. Corrucciò le sopracciglia, cestinando quel progetto come ‘stupido ma figo’, finché non si voltò, ritrovandosi davanti due occhi argentei che lo squadravano dal ciglio della porta.
Leo sussultò, preso alla sprovvista, e la scatola di cartone gli scivolò dalle mani, adagiandosi con un tonfo sul pavimento. Centinaia di fogli si riversarono ai piedi del ragazzo, che con un’imprecazione si chinò a raccoglierli.
«Aspetta, ti do una mano» si offrì Emma, allontanando la spalla dal cardine contro il quale l’aveva posata e inginocchiandosi accanto a lui.
Leo sollevò appena lo sguardo, imbarazzato. «Scusa, non ti avevo sentita arrivare» si giustificò, guardandola con la coda dell’occhio prendere in mano una decina di fogli e sbattere i loro bordi contro il piancito, nel tentativo di allinearli.
«Non importa. Anzi, scusami tu se ti ho spaventato.»
«C-che ci fai qui?» domandò lui, maledicendosi per il tremitio della sua voce. Quella ragazza era l’ultima persona che aveva voglia di vedere. L’ultima.
La figlia di Ermes fece spallucce, con un sospiro. «Cercavo Skyler, in realtà» ammise, per poi rivolgergli una fugace occhiata. «Sai per caso dove posso trovarla?»
«È uscita circa un paio d’ore fa» le disse Leo, con una scrollata di spalle. «Molto probabilmente sarà con Michael, in questo momento.»
«Ah, capisco» sorrise lei, con una punta di malizia nelle corde vocali. «Beh, se è così, non li disturbo.»
Leo si lasciò sfuggire un sorriso sghembo, mentre rinfilava alcuni fogli nella scatola, e osservava Emma fare altrettanto.
«Sono un mucchio di disegni» constatò lei, le sopracciglia inarcate dallo stupore. «Disegni di progetti. Sono tutti tuoi?»
«La maggior parte» annuì Leo, alzandosi in piedi e sollevando nuovamente la scatola da terra. Poi si diresse verso la sua postazione da lavoro, e la figlia di Ermes lo seguì subito dopo. «Gli altri sono perlopiù idee degli altri mezzosangue.»
Emma annuì distrattamente, porgendogli un altro paio di fogli che erano rimasti a terra. Leo posò il cartone sul tavolo, e fu a quel punto che l’attenzione della ragazza fu attratta da qualcosa.
«E questo?» domandò, un sopracciglio inarcato dalla curiosità. Il figlio di Efesto non capì a cosa la bionda si stesse riferendo finché lei non raccolse un foglio colorato dal fondo della scatola, con aria divertita.
Era un disegno dai tratti infantili fatto con dei pastelli a cera. Leo sorrise, passandosi una mano tra i capelli. «È un disegno che mi ha portato la piccola Catherine. Sai, la figlia di Demetra.»
Emma annuì, ricordando le trecce ramate della bambina di sette anni. Leo scosse la testa, intenerito. «Mi ha chiesto di costruirle un’altalena, un giorno, ed io, dato che ero impegnato con un altro progetto, le dissi che avevo bisogno di uno schema ben preciso da seguire, con tanto di dettagli e dimensioni. Il giorno dopo è tornata qui con questo disegno tra le mani, affermando che ora non avevo più scuse, e che dovevo costruirgliela per forza.» Si morse l’interno della guancia, seguendo le linee colorate di quell'allegro lavoro. «È successo un po’ di tempo fa, però. Dubito che se ne ricordi ancora. Ormai starà già preparando un altro dipinto per chiedermi di costruirle una rosa casa per le Barbie.»
Emma si lasciò sfuggire una sommessa risata, al ché lui si voltò a guardarla, tra il serio e il divertito. «Tu ridi, ma qui io dovrò costruirla davvero una casa di plastica!»
Questo fece scrollare il capo alla figlia di Ermes, che riuscì a far scemare la propria risata solo dopo qualche secondo. Osservò il disegno della piccola bambina, con un lieve sorriso. «È una bella idea, comunque» convenne.
Leo si strinse nelle spalle. «Chi non vorrebbe un’altalena?»
La ragazza annuì lentamente, per poi inclinare la testa di lato. «Dev’essere bello andarci, vero?»
Il figlio di Efesto sbatté più volte le palpebre, interdetto da quell’insolita domanda. «Beh, sì» rispose. «Quando inizi a dondolare, senti una risata ribollirti nella pancia.» Poi la scrutò, cercando invano il suo sguardo fisso sul foglio. «Perché me lo chiedi?»
Emma fece spallucce, con una mesta naturalezza. «Non sono mai salita su un’altalena» spiegò.
Leo strabuzzò gli occhi, scioccato. «Tu cosa?»
«Non guardarmi così!» l’accusò lei, al ché lui richiuse la bocca, sorpreso. «Non sono mai salita su un’altalena perché non ho mai avuto nessuno che mi ci portasse. Il parco giochi più vicino a casa mia era a circa mezz’ora di macchina, e l’unica persona che si sarebbe mai presa la briga di portarmi lì era mio nonno.» Gli lanciò una rapida occhiata, con il timore di svelare troppi particolari. «Però lui è morto quando avevo solo tre anni, e così non ci sono mai andata.»
«E tua madre?» volle sapere Leo, maledicendosi subito dopo per tanta imprudenza.
«Diciamo semplicemente che non era il genere di mamma che porta i figli a giocare» disse corrucciata lei, facendogli capire dal suo tono che non aveva alcuna voglia di aprire quell’argomento.
«E quando sei cresciuta?» chiese allora il ragazzo, ancora incredulo di quell’assurda confessione. «Non hai mai avuto voglia di salire su un’altalena?»
«Ovvio che sì, ma non ce n’era mai nessuna nei paraggi.» Emma si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, per poi abbassare lo sguardo imbarazzata. «E poi non avevo il tempo materiale, per prendermi la briga di farlo» ammise, con amarezza. «Sono venuta qui quando avevo poco più di dieci anni. Sono stata costretta a crescere in fretta per poter… sai, badare a me stessa.»
Leo prese fiato per dire qualcosa, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono. Immaginò un’Emma di dieci anni, sola, stanca, troppo matura per la sua giovane età, che non è mai salita su un’altalena e che non si concede neanche il lusso di porsi il problema, troppo impegnata a proteggersi dal mondo, per permettersi di esplorarlo.
All’improvviso, provò una strana compassione per lei. Una compassione mista ad un’impellente stima nei suoi confronti.
Anche lui aveva avuto un’infanzia difficile, certo, ma in un modo o nell’altro aveva sempre avuto la possibilità di scegliere il proprio destino.
Era stato lui a decidere di scappare da tutte le case famiglie alle quali veniva assegnato. Era stato lui, a volersi fidare solo di sé stesso; non era stato un qualcosa che gli era stato imposto contro la sua volontà.
Emma sospirò, e il percepire i suoi polmoni che si riempivano e si svuotavano distolse il figlio di Efesto dai suoi pensieri.
«Mi dispiace» si scusò poi lei, cogliendolo alla sprovvista.
«Ti dispiace per cosa?»
«Non volevo metterti di malumore raccontandoti la storia della mia vita» ridacchiò allora lei, con un sorriso triste ad incresparle le labbra. «È solo che… a volte mi manca, la mia infanzia. Anche se presumo che non ti possa mancare qualcosa che non è mai stata tua.» Lo guardò negli occhi, con quei suoi grandi ed intensi occhi argentati. «Vorrei solo provare a non sentirmi obbligata a crescere, sai? Vorrei solo sperimentare la sensazione di avere ancora tutto il mondo da scoprire, e di avere qualcuno con cui farlo.» Fece per dire qualcosa, ma le parole le morirono in gola, per cui sospirò. «Lascia stare, è stupido» disse, scrollando il capo con dolce amarezza. «Vado a cercare Skyler.»
Si diresse verso la porta, lanciando un’ultima fugace occhiata al disegno colorato sul tavolo prima di raddrizzare la schiena. Leo si sorprese nel veder rispuntare sul suo volto il suo solito sorriso. Quello del ‘non ci sono problemi’. Quello del ‘sono la persona più felice che tu abbia mai incontrato’. Quello che non nascondeva altro, se non una grande tenacia, e un forte amore per la vita, simbolo di tutto ciò che Emma aveva dovuto passare per diventare la splendida ragazza che era oggi.
«Ci vediamo, allora» salutò la figlia di Ermes, con un lieve cenno della mano.
Il ragazzo annuì lentamente. «Ci vediamo» disse di rimando, per poi osservarla risalire le scale a chiocciola dalle quali era arrivata e sparire dal suo campo visivo.
Leo si sedette alla sua postazione da lavoro, osservando con occhio critico quel disegno che apparentemente sembrava solo una malforme altalena, ma che in realtà era molto di più.
Era un simbolo di libertà, una portatrice di spensieratezza e risata.
Era tutto ciò che ogni bambino aveva il diritto di avere, e che ad Emma era sempre stato negato.
«Sono stata costretta a crescere in fretta», aveva detto. «Non sono mai salita su un’altalena».
Leo non seppe mai con esattezza in quale preciso istante afferrò la matita e cominciò a disegnare.
 
Ω Ω Ω
 
Quella mattina, Melanie non aveva incontrato John se non per qualche fugace minuto.
Non che si aspettasse di passare ore intere con lui. Dopo l’imbarazzante incidente del lago, Melanie aveva coltivato una sorta di tenero disagio nei confronti del figlio di Apollo, che si confondeva con l’impellente desiderio di scorgere il suo sorriso tra la folla di ragazzi.
Le sue emozioni erano contrastanti. Da un lato, tutto ciò che voleva era riempirsi le narici con il suo dolce profumo di menta; e massaggiarsi le orecchie con la sua splendida risata; e rimpinguarsi gli occhi con il suo sorriso gentile.
Dall’altro, però, c’era sempre il fattore normalità, che la frenava. Per quanto volesse ostinarsi a negarlo, ormai si era rassegnata all’idea che non sarebbe mai stata una ragazza come tutte le altre, ma soprattutto che non avrebbe mai potuto dare a John tutto ciò che si meritava.
Innamorarsi di lui significava rinchiuderlo in una gabbia dorata. E rinchiuderlo in una gabbia dorata significava vederlo soffrire sotto i suoi stessi occhi, e rinunciare pian piano al mondo quando il mondo non era ancora pronto a rinunciare a lui.
E poi cavolo, a lei mancava un braccio!
Come poteva sperare di progettare un futuro normale con lui, eh? Come?
Sarebbe sempre stata un peso morto che il ragazzo avrebbe dovuto coricarsi sulle spalle.
Sempre in difficoltà per fare metà delle cose, e impossibilitata di fare l’altra metà.
John meritava di più, di una ragazza come lei. E nonostante si ostinasse a negarlo, Melanie poteva giurare che anche il ragazzo era consapevole di questo.
Eppure non voleva rinunciare. Non capiva esattamente quali fossero i sentimenti di John per lei, ma sapeva che il figlio di Apollo era disposto a tutto, pur di farle capire che lui la vedeva come una persona.
Perché era questa la particolarità di John, la luce che lo faceva brillare.
Lui era stato il primo (se non l’unico) a vederla come una ragazza.
Quando la guardava, lui non si preoccupava del suo braccio mancante, o dei suoi modi bruschi, e del suo tono acido.
Nei suoi occhi verdi non c’era mai pena, o compassione.
C’era solo vitalità. Una vitalità che sperava di poterle trasmettere, e che la faceva sentire normale, anche se solo per un momento.
Quando lo guardava in quelle sue iridi estive, dimenticava il vuoto accanto a sé. Dimenticava ciò che aveva passato, e ciò che avrebbe passato.
Riusciva solo a contemplare le loro striature molto simili ai raggi del sole, e a perdervisi dentro, mentre il cuore minacciava di balzarle  fuori dal petto.
Ti aspetterò tutta la vita, le aveva scritto John. E nonostante avesse paura che potesse dire sul serio, in cuor suo era lusingata da quelle parole, perché riuscivano ad illuderla, seppur per un breve istante, che forse anche lei meritava un po’ d’amore.
Melanie e il figlio di Apollo non avevano più accennato al biglietto, dopo quella sera.
Lei, per paura di poter dire la cosa sbagliata, e di aver frainteso ciò che il ragazzo aveva intenzione di dire.
Lui, perché non aveva idea di quale fosse stata la reazione della figlia di Demetra, e perché forse, in segreto, temeva un ulteriore rifiuto.
Ciò che più sorprendeva Melanie, però, era la naturalezza con la quale evitava di parlare di quello che era successo al lago.
Come se non fosse mai avvenuto, se non in un passato remoto. Come se nulla fosse cambiato, nonostante la figlia di Demetra temeva di sì.
E dico temeva, perché dopo quella mattina, fu costretta a ricredersi.
Mentre si impegnava per colpire con la spada un malcapitato fantoccio del Campo, infatti, John le si era avvicinato, molto probabilmente consapevole delle sue difficoltà.
Melanie aveva la fronte imperlata di sudore, era stanca, e i suoi capelli erano raccolti in una disordinata coda di cavallo, eppure non si era mai sentita così bella come in quel momento, sotto lo sguardo di lui, tenero e solare.
«Senti» aveva cantilenato il ragazzo, fingendo invano noncuranza. «Ti andrebbe di incontrarci, oggi pomeriggio?» E sotto il suo sguardo basito, si era affrettato ad aggiungere: «Non per… un appuntamento, ovvio. Volevo solo… volevo solo farti fare una cosa.»
Melanie aveva inarcato un sopracciglio, scrutandolo appena. «Che cosa?»
E a quel punto il figlio di Apollo aveva sorriso, chinandosi verso di lei con aria malandrina. «Ti fidi di me?»
La ragazza aveva impiegato qualche secondo, prima di convincersi ad annuire. «Certo, che domande» aveva borbottato.
«Bene, allora ti aspetto davanti l’Arena, subito dopo gli allenamenti.» E detto questo se n’era andato, lasciando la figlia di Demetra sola con la sua coscienza che lottava contro l’indecisione. Doveva andare? O era meglio di no? Cos’aveva da perdere, dopotutto?
E così, al termine delle lezioni, era stata la prima a varcare la soglia di casa, si era precipitata in bagno e si era data una ripulita, tentando in tutti i modi di legarsi i capelli per poi decidere di lasciarli sciolti. Aveva indossato una maglia fresca di bucato, si era guardata per ben tre volte allo specchio prima di uscire (cosa insolita per lei, considerando quanto temesse il suo riflesso) e poi aveva raggiunto John, con passo esitante.
Il ragazzo la stava aspettando esattamente nel posto che le aveva annunciato, e non appena la vide stese le labbra in un radioso sorriso, molto probabilmente rincuorato dall’idea che avesse accettato l’invito.
«Sono felice di vederti» le sussurrò infatti, quando lei fu abbastanza vicina da poterlo sentire.
Melanie fece spallucce, abbassando lo sguardo imbarazzata. «Mi hai chiesto di fidarmi di te, no? Per cui eccomi qui.»
John si sentì lusingato da quelle parole, ma cercò in tutti i modi di non darlo a vedere. Si rese conto solo dopo che la ragazza si era sollevata sulle punte, allungando il collo nel tentativo di scorgere qualcosa al di là della sua spalla.
«Allora? Che cosa volevi farmi fare?» gli domandò, al ché lui sembrò ricordare improvvisamente il vero motivo per il quale erano lì.
«Oh, sì, certo! Seguimi» le disse, incamminandosi verso l’entrata dell’immensa Arena, mentre con tono entusiasta cominciava a spiegare: «Oggi ti ho osservato durante la lezione di scherma» ammise, e la ragazza arrossì. «E ho notato che hai ancora qualche difficoltà con la spada.»
«Ho dei problemi con l’equilibrio» borbottò Melanie, rabbuiandosi.
«Lo so, e questo mi ha dato modo di pensare. Sai, mi domandavo: nel caso qualcuno ti avesse attaccato, o infastidito, o qualunque altra cosa può venirti in mente… saresti stata in grado di difenderti?»
La figlia di Demetra si morse con forza il labbro inferiore, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio con aria triste. «Molto probabilmente no» convenne amaramente.
«Non ancora» la corresse allora John, con un sorriso raggiante. La bionda lo guardò con un sopracciglio inarcato, ma lui sembrò non accorgersene, o forse finse di non notarlo. «Andiamo. Ci sta già aspettando.»
«Chi?» provò a chiedere Melanie, ma il ragazzo non le rispose, continuando a camminare finché non ebbero raggiunto il centro dell’Arena.
Lì, due attenti occhi mogani li attendevano impazienti, e non appena si posarono sulla figlia di Demetra, questa sembrò sorpresa.
«Skyler?»
La figlia di Efesto le sorrise, raggiante.
Melanie spostò lo sguardo dalla mora al ragazzo, poi alla mora, e infine di nuovo al ragazzo.
«Credo di non capire.»
«È semplice» assicurò John, facendo due passi avanti per spalleggiare l’amica. «Hai assolutamente bisogno di qualche lezione di autodifesa, e Skyler è la persona perfetta per questo.»
La ragazza dagli occhi scuri sorrise, imbarazzata. «Diciamo che me la cavo abbastanza bene.»
«È fantastica» la corresse John. «E ti insegnerà tutto ciò che c’è da sapere.»
«Ma…» Melanie fece per dire qualcosa, ma le parole le morirono in gola. Lanciò una fugace occhiata al suo braccio mancante, e a quel punto Skyler sembrò capire.
«Se ti stai preoccupando del fatto che hai un braccio solo» le disse infatti, con tono deciso. «Sappi che non avrai il benché minimo problema. L’autodifesa è tutta una questione di concentrazione e bilanciamento del peso.» Poi sospirò, incrociando le braccia al petto. «Ti faccio un esempio» annunciò, prima di voltarsi verso il figlio di Apollo. «John, quanto sei alto?»
«Un metro e settantacinque» rispose lui lentamente, colto un po’ alla sprovvista.
«Perfetto. E quanto pesi?
«Sessantatré chili, credo.»
«Fantastico!» Skyler fece un incoraggiante cenno del capo in direzione di Melanie, per poi domandare ancora all’amico: «Ti dispiacerebbe attaccarmi alle spalle?»
«Eh?» John sembrava confuso.
«Coraggio! Fa finta di essere un aggressore e attaccami alle spalle!»
Il ragazzo esitò qualche secondo. «Okay» assentì, leggermente interdetto. Non era esattamente questo ciò che pensava avrebbero fatto, ma si fidava di Skyler, per cui le obbedì, cingendole con forza le spalle da dietro per bloccarle le braccia lungo i fianchi.
Melanie li osservava, attenta.
«Quando qualcuno ti attacca all’improvviso» spiegò la figlia di Efesto, con tono autoritario. «Bisogna colpire i quattro punti più delicati dell’uomo. È una rapida sequenza molto facile da ricordare, devi sono prestare attenzione.»
La figlia di Demetra strinse gli occhi a due fessure, e dal suo sguardo John capì che a dispetto di quanto aveva immaginato ci stava davvero prendendo gusto.
«Grazie per aver accettato di aiutarla» sussurrò quindi all’orecchio di Skyler, incapace di trattenere un leggero sorriso.
Le labbra della mora si incurvarono, mentre faceva schioccare la lingua con disappunto. «Aspetta a ringraziarmi» lo ammonì. E poi, rivolta a Melanie: «Pronta?»
La bionda annuì, per cui lei fece un bel respiro. «Bene, allora ricorda: stomaco» affermò, sorprendendo John con una forte gomitata in quel punto. Il ragazzo si piegò in due dal dolore.
«Alluce.» Con il tacco andò a pestargli il piede, e il biondo si afferrò la parte dolorante con una mano, protestando con un lamento.
«Naso.» Con il gomito andò a colpirgli anche il setto nasale, e il figlio di Apollo buttò la testa all’indietro, mentre delle macchie nere gli danzavano vorticose davanti agli occhi.
«Ed inguine.» E poco prima che potesse metabolizzare le parole dell’amica, lei gli sferrò un pugno proprio in quel punto, facendogli strabuzzare gli occhi mentre il fiato gli si smorzava in gola.
Poi, con una mossa repentina, si voltò verso di lui e gli afferrò il polso, storcendogli il braccio con così tanta forza da fargli fare una breve capriola a mezz’aria.
Il ragazzo atterrò di schiena a terra con un tonfo, e un mugugno indistinto sfuggì alle sue labbra mentre dolente stramazzava al suolo.
Skyler guardò Melanie con aria soddisfatta, mentre la ragazza, con gli occhi fuori dalle orbite, li fissava basita.
«Visto?» sorrise la figlia di Efesto, porgendo una mano a John per aiutarlo ad alzarsi. «Niente è impossibile.»
«Non immaginavo che questo ‘possibile’ fosse così doloroso» borbottò allora John, contrariato. Melanie strinse le labbra, faticando a trattenere una risata divertita. Poi la domanda di Skyler la colpì come uno schiaffo in faccia. «Vuoi provare?»
Melanie spostò gli occhi su di lei, a disagio. «Oh, beh, ecco… io…» balbettò, spostando il peso da un piede all’altro. «Non lo so.»
«Non temere!» la rassicurò quindi lei, sorridendole incoraggiante. «John sarà ben felice di farti da cavia. Non è vero, John?»
«Eh?» Il figlio di Apollo era ancora frastornato, dopo che la sua amica aveva deciso di dargliele di santa ragione. Ma bastò una rapida occhiata in direzione di Melanie, che tratteneva il fiato speranzosa, a convincerlo che forse ne valeva la pena.
«Okay» assentì, arricciando leggermente il naso. «Ma sappiate che se alla fine di tutto questo sarò costretto a diventare un eunuco, darò la colpa a voi.»
Skyler si portò il dorso della mano alle labbra, soffocando a stento una risata, mentre Melanie fu incapace di trattenere la sua.
E non appena sentì quel suono melodioso fungergli da balsamo per i suoi timpani, John fu definitivamente sicuro che sì, ne valeva assolutamente la pena.


Angolo Scrittrice.
E siamo di nuovo in diretta tra cinque... quattro... tre... due... uno...
Buon Giorno ascoltatori di tutta Italia, state ascoltando errediess...
No, aspettate... mi sa che ho sbagliato. :s
*mette una mano sul microfono* -Dove cavolo siamo?!-
*voce fuori campo* -Oggi è martedì!-
Oh, giusto!
ahahah, salve a tutti semidei! Ebbene sì, oggi è martedì, e se pensavate che vi avrei lasciato finalmente in pace... beh, vi sbagliate di grosso! Io sono ancora qui, e ci resterò fino alla fine. u.u
Tranquilli, non era una minaccia :')
Ora sono riuscita anche ad aggiornare ad un orario più accettabile, visto? Sono fiera di me u.u
ahahah, okay, scherzi a parte, spero davvero di aver fatto bene a pubblicare. 
Questo capitolo parla di tre coppie molto diverse tra loro, non sono caratterialmente, ma anche per quanto riguarda il modo di approcciarsi.
Da un lato ci sono
Travis e Katie (oh, my Tratie! **) Loro si conoscono... beh, da quando avevano dieci anni, eppure solo in questo momento Travis si sta rendendo conto di quanto in realtà la sua Kity-Kat sia importante per lui. E non riesce proprio ad immaginarla con un altro ragazzo ;) Ma btw, la cosa importante è che ora sono riusciti a chiarirsi, e qualcuno faccia una statua a Melanie, perchè in parte è tutto merito suo.
Come potete ben leggere a inizio capitolo, il nostro figlio di Ermes sa molte cose sulla dolce Katie Gardner. Credete che sia per puro scopo informativo? Let me know.
Then, ci sono
Melanie e John. Cavolo, ragazzi, quei due sono incredibili. E nonostante vivano continuamente nell'imbarazzo e nell'incertezza, non riescono a rinunciare l'uno a l'altro. E' difficile capire come andrà a finire. Non lo so con esattezza nemmeno io, se ve lo stavate chiedendo. Ascolto solo quello che hanno da raccontarmi.
E poi last but not least,
Leo ed Emma, che non si capisce molto bene dove sono diretti né se vi sono diretti insieme. Credo che il loro rapporto sia tra i più complicati da riportare, perchè sono sempre contrastanti le emozioni che li caratterizzano. Vedremo dove vogliono andare a parare (o dove finiranno per sbaglio, questo non lo so). Nel frattempo, si accettano scommesse ed opinioni.
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, e se non è così, non esitate a dirmelo. Non mi dilungherò qui a dirvi cosa ne penso io e quant'altro, perchè vi ruberei solo del tempo prezioso, e perchè forse già lo immaginate.
Sappiate solo che mi auguro di non aver deluso le aspettative di nessuno, e che spero vogliate condividere con me le vostre opinioni, belle o brutte che siano.
Ringrazio infinitamente i miei bellissimi e sempre dolcissimi Valery's Angels, che lo scorso capitolo sono riusciti a strapparmi più di un sorriso con le loro fantastiche recensioni:
Percabeth7897, Kamala_Jackson, carrots_98, Cristy98fantasy, _Krios_, martinajsd, ChiaraJacksonStone1606 e _angiu_. E scusatemi se non sono riuscita a rispondere a tutti, ma provvederò al più presto, come sempre! Parola donore!
Ora credo sia meglio andare, anche perchè ho ancora Storia da studiare D: e poi tra meno di otto giorni esce La Casa di Ade! Devo iniziare a sclerare già da subito, altrimenti quel giorno in libreria farò scappare tutti! :')
ahahah, scherzi a parte, ora vado davvero.
Un bacione enorme, e grazie a tutti anche solo per aver scelto di leggere questa storia.
Al prossimo martedì!
Sempre Vostra,

ValeryJackson

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***



 

Emma diede un altro pugno al sacco con il quale si stava allenando, travolta da un improvviso impeto di frustrazione.
Ultimamente erano molteplici i momenti nei quali la confusione prendeva il sopravvento. Riguardo a cosa, non lo sapeva nemmeno lei.
Allenarsi duramente era sempre stato l’unico modo che le era concesso per sfogare tutti quei sentimenti repressi dal suo cuore. Rabbia, angoscia, tristezza, stanchezza.
Ma negli ultimi giorni non sentiva più il bisogno di farlo, per il semplice motivo che quelle sensazioni l’avevano abbandonata da un attimo all'altro come se avessero il diritto di farlo.
Non che se ne rammaricasse, ovvio. Ma era disorientante, ritrovarsi all’improvviso senza la benché minima idea di come impiegare le giornate.
Senza i suoi momenti di sfogo giornalieri, come ritrovare la voglia di allenarsi ogni mattina?
La verità? Avrebbe preferito di gran lunga ingozzarsi di patatine con Skyler, piuttosto che dare calci ad un sacco da boxe semi ammaccato. Oppure fare una passeggiata in riva al lago, con il vento che ti accarezza i capelli.
Oppure andare al mare. E tuffarsi in acqua. E raccogliere conchiglie. E magari non sentire più il peso ingombrante di quella stupida pietra colorata che si nascondeva nella tasca dei suoi jeans da giorni e che…
«Ehilà!» trillò una voce alle sue spalle.
Emma non ebbe il tempo di riflettere, e prima che potesse evitarlo i suoi riflessi la costrinsero a sferrare un calcio al proprietario di quella voce.
Leo dovette ringraziare la sua iperattività, in quel momento, che lo fece piegare sulle ginocchia un secondo prima che la figlia di Ermes potesse fargli un occhio nero.
«Woah!» esclamò, mentre il piede della ragazza tagliava di netto l’aria sopra la sua testa. Il figlio di Efesto mostrò i palmi, divertito. «Vengo in pace, lo giuro.»
«Leo?» Emma sembrò sorpresa di vederlo lì.
Il ragazzo gonfiò il petto, divaricando le gambe e posando le mani sui fianchi. «In tutta la sua magnificenza» si vantò, facendo roteare gli occhi di lei.
All’improvviso la bionda sentì un’anomala morsa stringerle la bocca dello stomaco, per via della poca distanza tra lei e quel figlio di Efesto, e dovette interpretarla come fastidio, perché arricciò il naso.
«Che ci fai qui?» chiese, con voce atona.
«Sono venuto a prelevarti» annunciò lui.
«Che cosa?»
E prima che la ragazza potesse rendersene conto, Leo le passò un braccio nell’incavo delle ginocchia, coricandosela di peso in spalla.
«Leo!» lo rimproverò lei, battendogli un pugno contro la schiena. «Mettimi giù!»
«Non agitarti tanto, princesa» sorrise malandrino lui, al ché lei sbuffò. «Altrimenti rischiamo di cadere tutti e due.»
«Posso sapere almeno dove mi stai portando?»
«È una sorpresa» rispose il ragazzo, vago.
«Io odio le sorprese.»
«Questa ti piacerà.»
Dopo varie proteste e numerosi tentativi di fuga da parte della figlia di Ermes, alla fine la ragazza si rassegnò all’idea che il riccio non l’avrebbe lasciata andare, e che sarebbe stata costretta a dargli una bella lezione dopo, e non in quel preciso istante.
«Non credo tu abbia il diritto di coricarmi così sgarbatamente e portarmi dove ti pare» si lamentò lei ad un certo punto, mentre cercava di orientarsi riconoscendo alcuni punti di riferimento del Campo.
«Mi avresti seguito, se non l’avessi fatto?» domandò retorico lui.
La ragazza abbozzò un sorriso sghembo. «Probabilmente no.»
«Appunto.»
Il figlio di Efesto si beccò un ennesimo pugno sul dorso, ma non sembrò curarsene, mentre si inoltrava in quella che Emma riconobbe come la Baia di Zefiro.
«Che ci facciamo, qui?» chiese, curiosa. Ma l’unica risposta che ottenne fu un sussurrato: «Lo vedrai.»
Il ragazzo continuò a camminare per quelle che sembrarono ore, ma che forse in realtà erano solo pochi minuti. Poi si arrestò di colpo, facendo sussultare lei.
«Siamo arrivati» annunciò con un sorriso, facendole posare i piedi a terra affinché potesse guardarla in volto.
La ragazza non perse un secondo, tirandogli un pugno sul petto con neanche la metà della forza che avrebbe voluto. A dispetto di quanto pensasse, Leo ridacchiò, divertito.
«Chiudi gli occhi» le ordinò, al ché lei inarcò un sopracciglio.
«Ti ho già detto che non mi piacciono le sorprese. E poi non capisco perché mi hai portato qui!»
«Chiudi gli occhi e lo scoprirai» la incitò allora lui, e lei, dopo qualche secondo di esitazione, obbedì.
«Non sbirciare» la redarguì il ragazzo, mentre la faceva voltare, e per assicurarsi che non lo facesse le coprì gli occhi con entrambe le mani.
«Sei pronta?»
«Spera per te che non sia qualcosa di simile al pessimo trasporto.»
Il figlio di Efesto incurvò le labbra in un lieve sorriso, nonostante lei non potesse vederlo. «Bene» disse, scostandole i palmi dal volto. «Allora apri gli occhi.»
La ragazza titubò un attimo, indecisa su cosa aspettarsi, ma poi, lentamente, lo fece.
Non appena le sue iridi si posarono su ciò che aveva di fronte, le sue labbra si schiusero dallo stupore.
Leo l’aveva portata davanti una secolare quercia della foresta, che si stagliava possente verso il cielo. Ad uno dei massicci rami, erano saldamente legate due funi, che a loro volta si congiungevano in una sorta di sedile di rovere finemente ricamato con dei ghirigori.
«Ma quella è…» balbettò Emma, senza parole. «È…»
«Un’altalena» concluse Leo per lei, e la ragazza poté percepire la sua ovvia soddisfazione.
«Ma come ha…? Come è…?»
«Com’è arrivata fin qui?» suggerì lui, al ché lei annuì. «Beh, ce l’ho portata io, che domande» disse, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Poi le posò una mano alla base della schiena, invitandola ad avvicinarsi. «Coraggio, vieni a vederla.»
La ragazza si mosse con passi esitanti, incapace di distogliere lo sguardo da quel gioco per lei così estraneo. Leo la superò di qualche passo, raggiungendo l’altalena per primo, e lei lo osservò farsi passare delicatamente una delle funi nell’incavo delle dita.
«L’hai costruita tu?» riuscì finalmente a domandare Emma, accostandosi a lui.
Il ragazzo assentì con un breve cenno del capo.
«Perché?»
Leo sospirò, corrucciando lievemente le sopracciglia prima di rispondere. «Ho pensato molto a quello che mi hai detto» ammise. «Al fatto che non sei mai salita su un’altalena perché non hai mai avuto qualcuno che ti ci portasse. E… beh, non trovo che sia giusto. Che tu non debba mai provarci, intendo. E così…»
Il ragazzo lasciò la frase in sospeso, ma Emma comprese dove volesse andare a parare. Spostò lo sguardo sul gioco, squadrandolo dal basso verso l’alto.
«Credi che sia sicura?» si informò, al ché lui si finse offeso.
«Oh, ti prego! Sono un figlio di Efesto, e mi chiedi se l’altalena che ho costruito sia sicura?»
La ragazza tentò invano di trattenere un sorriso, per poi voltarsi a guardarlo, posando su di lui le sue iridi intense.
«Perché?» ripeté, cogliendolo alla sprovvista. Il ragazzo aggrottò la fronte, così lei si corresse. «Perché fai tutto questo per me?»
Quella domanda lo spiazzò.
Già, perché?
Perché era diventato il suo pensiero fisso da qualche giorno a quella parte?
Perché ogni volta che sentiva il suo profumo, avvertiva il respiro mancare e le gambe cedere?
Perché voleva davvero farle dimenticare di pensare, come lei gli aveva chiesto?
«Sai, quasi tutti i bambini, in una notte d’estate in cui non vogliono prendere sonno, si affacciano alla finestra, e sono convinti di vedere in cielo il veliero di Peter Pan.» La guardò negli occhi, incastrando le iridi a quelle argentate di lei. «Voglio insegnarti a vedere quel veliero.»
C’era serietà, nella sua voce, e la ragazza capì dal luccichio del suo sguardo che in quel momento era sincero.
Da quant’era, davvero, che aveva smesso di vedere quel veliero nel cielo?
L’aveva mai visto? O meglio: l’aveva mai cercato?
Molto probabilmente no, e forse era proprio quello il problema.
Si era sempre lamentata con sé stessa di essere stata costretta a crescere più in fretta degli altri bambini, a rinunciare alla sua infanzia.
Ma la verità era che non aveva mai tentato di recuperarla. Di tenersela stretta, di riacquistarla. Ci aveva semplicemente rinunciato, come se fosse un pacco di biscotti che costava molto di più dei pochi spiccioli che aveva in tasca.
Guardò l’altalena al suo fianco, con all’improvviso una gran voglia di salirci, ma una gran paura di farlo.
Leo dovette percepire la sua indecisione, perché le rivolse un incoraggiante cenno del capo. «Forza» la incitò, con un sorriso. «Provala.»
«Io…» Emma si accarezzò un braccio, imbarazzata. «Io non credo di essere in grado di farlo.»
«Ti spingo io» si offrì Leo, posizionandosi dietro l’altalena e facendole un complice occhiolino. «Tu ricordati soltanto di muovere le gambe avanti e indietro, così vai più in alto.»
La ragazza si morse il labbro inferiore, trattenendo appena il fiato mentre lui la osservava in attesa di una risposta.
Lei gli rivolse un ultimo sguardo, incerta. Poi si sedette sul sedile intagliato, stringendo con forza le funi nei pugni.
«Sei pronta?» le chiese Leo, e se lei avesse potuto vederlo avrebbe notato il sorriso compiaciuto che gli increspava le labbra. Emma annuì lentamente, sospirando. A quel punto il ragazzo afferrò entrambe le estremità inferiori delle corde, tirando l’altalena indietro al punto che la bionda riusciva a sfiorare il suolo solo con la punta delle scarpe.
«Tieniti forte.»
Dopo di ché la lasciò.
In un primo momento tutto ciò che Emma percepì fu una sferzata di vento sul viso e l'impressione che il suo cuore si fosse arrampicato fino alla sua gola.
Ma poi quella sensazione diventò piacevole. E mentre Leo continuava a spingerla affinché potesse andare sempre più veloce, lei sentì qualcosa di nuovo ribollirle nella pancia.
Una risata. Una risata che ben presto raggiunse le sue corde vocali, risuonando nell’aria.
Una risata che la colpiva ogni volta che per un breve istante si sollevava dal sellino, avvertendo il vuoto nella bocca dello stomaco, e trovandolo fantastico.
Una risata che sapeva di liberazione, di spensieratezza e di eternità
Una risata incessante, fresca, sincera.
Una risata che non era mai stata sua, e che se non fosse stato per Leo non lo sarebbe stata mai.
Il ragazzo fece qualche passo indietro, osservando la figlia di Ermes chiudere gli occhi e buttare la testa indietro, mentre assaporava fino in fondo quella nuova sensazione.
Poi le girò intorno, posizionandosi di fronte a lei, e solo quando la ragazza lo scorse si rese conto di ciò che stava succedendo.
«Sto andando da sola!» esclamò, incredula ed euforica.
«Lo stai facendo!» le confermò lui con un enorme sorriso, e passò qualche altro secondo, prima che lei domandasse: «E ora come scendo?»
Leo aprì la bocca per parlare, ma inizialmente non ne uscì alcun suono. Ecco, a quello non aveva pensato.
Lei non aveva idea di come fare, e lui non poteva certo tornare dietro l’altalena, dato che la sua coordinazione era tale da fargli guadagnare un trauma cranico, se solo ci avesse provato.
Storse le labbra, pensieroso, mentre lei era in ascolto in attesa di una risposta. Poi sembrò colpito da un lampo di genio.
«Salta!» le intimò, al ché lei gli rivolse uno sguardo scettico.
«Come?»
«Salta, ti prendo io.»
«Ne sei sicuro?»
«Ma certo! Di cosa hai paura?»
«Non ho intenzione di rompermi la testa a causa tua, se è questo che mi stai chiedendo.»
«Non ti farò cadere» assicurò quindi lui, con decisione. «Andiamo, fidati di me!»
Fidarmi di te, ragionò lei, soppesando attentamente quelle parole. Era una richiesta un tantino esagerata, ma d’altronde non voleva di certo restare lì tutta la vita. «Okay» assentì, con riluttanza.
«Bene, allora al mio tre. Sei pronta?»
Emma annuì.
«Uno.»
Il ragazzo puntò i piedi a terra, preparandosi a sorreggerla.
«Due.»
Lei allentò la presa sulle corde, aspettando il momento giusto per saltare.
«Tre!»
Emma lasciò la presa, e prima che potesse rendersene conto la forza centrifuga la scagliò in avanti, rischiando di farla diventare un tutt’uno con il suolo.
Leo riuscì ad afferrarla al volo, certo, ma la potenza dell’attrito sorprese anche lui, che non avendo calcolato un tale e brusco impatto, barcollò all’indietro, per poi cadere supino sull’erba.
Emma, sopra di lui, non ebbe neanche il tempo di frenare la sua risata, che quella divertita stava già risalendo la sua gola fin sulle corde vocali, contagiando anche Leo, che ben presto la imitò sommessamente.
Solo quando i loro sguardi si incrociarono, però, si resero conto di quanto in realtà i loro volti fossero vicini.
Leo sentì un pugno bloccargli il respiro in gola, riscoprendosi improvvisamente incapace di rinunciare alle sfumature d’argento delle iridi di lei.
Emma aveva un angolo della bocca sollevato in un sorriso piantagrane, uno di quelli che non lasciano il tuo volto neanche quando il divertimento è finito, quasi fossero un fantasma d’inchiostro indelebile che vuole ricordarti ciò che stato e ciò che potrà essere.
Il figlio di Efesto avvertiva il respiro caldo della ragazza accarezzargli il viso, i palmi che scottavano nel punto in cui entravano in contatto con i suoi fianchi; la consapevolezza che quello che stava per succedere era ciò che bramava più di ogni altra cosa, ma del quale era al contempo terrorizzato.
Eppure non ebbe il coraggio di fermarsi.
Quasi avesse perso ogni facoltà di ragionare, quando le labbra di lei si schiusero e sfiorarono incerte le sue, l’unica certezza di Leo era l’impellente desiderio di accorciare quelle distanze. Di inebriarsi del loro sapore, della loro pressione, della loro morbidezza; che nonostante fosse passato quasi un anno dalla prima volta, erano ancora impressi a fuoco sul suo palato, sulla punta della sua lingua.
Le mani della ragazza gli accarezzarono delicatamente il petto, risalendo dolcemente fino alle sue spalle. Con un sospiro tremante, i due ragazzi si strinsero piacevolmente l’uno all’altro; un corpo caldo che aderisce ad un altro corpo caldo.
Ma poco prima che le loro labbra potessero andare oltre lo sfiorarsi, una voce invocò il nome della figlia di Ermes, distruggendo bruscamente il velo di magia che li aveva avvolti come una coperta.
«Emma!»
Era Skyler.
La bionda allontanò di poco il volto da quello di lui, in ascolto, quasi temesse di essersi sbagliata.
«Emma! Dove sei?»
La ragazza sospirò, mordendosi distrattamente il labbro inferiore.
Aveva dimenticato di avere un appuntamento con l’amica. Anzi, aveva dimenticato proprio l’amica!
E il Campo, e la Baia di Zefiro, e gli dei, e tutto il resto.
Era come essere stati rinchiusi dentro una bolla di sapone e all’improvviso vederla esplodere intorno a te.
Tornò a concentrare l’attenzione su Leo, non avendo distolto gli occhi dai suoi neanche per un istante. Poi inclinò leggermente la testa di lato.
«Devo andare» disse, con un filo di voce, al ché lui annuì impercettibilmente.
Sperò che la delusione sul suo volto fosse ben mascherata dal sorriso sghembo che lo incorniciava, mentre si chinava su di lui, lasciandogli un tenero bacio all’angolo della bocca. Lasciò lì le sue labbra qualche secondo più del necessario, e questo al ragazzo non dispiacque, nonostante avesse il palato pregno di un sapore amaro dovuto alla consapevolezza di un ennesimo momento d’intimità sfumato.
«Grazie per il bellissimo regalo» sussurrò lei, e c’era gratitudine, nella sua voce.
Poi si alzò, e il figlio di Efesto percepì subito un vuoto incolmabile, sopra di sé. Quasi l’avessero appena privato di qualcosa di inimitabile.
«Emma, sei qui?»
La bionda figlia di Ermes si voltò solo una volta a regalargli un lieve cenno del capo. Poi i suoi lineamenti sparirono tra gli alberi, e così fece il suo profumo, e il suo sorriso, e la sua aura.
Leo chiuse gli occhi, buttando la testa all’indietro e sfregandosi il volto con le mani, frustrato.
Non sapeva con esattezza che cosa provasse, per quella ragazza. Ma ormai era ben chiaro che non poteva assolutamente fare a meno di lei.
Sarà stato il modo in cui lo guardava, saranno state le due sfere d’infinito che aveva al posto delle iridi. Saranno stati i suoi capelli morbidi, sarà stato il bruciore che il suo tatto lasciava a contatto con la sua pelle.
Fatto sta che ogni volta che il ragazzo pensava a lei, si sentiva bene. E anche euforico, e spensierato, e dolce, e bambino.
Ecco, quando stava con lei, gli sembrava che il mondo smettesse per un attimo di chiedergli di essere grande.
Come poteva definirsi, quella sensazione? Attrazione fisica, o qualcosa di più profondo?
Leo non ne aveva idea, e non voleva nemmeno saperlo. Gli bastava averla accanto.
Gli bastava avvertire la sua presenza, ed avere la certezza che lei era lì, anche solo per poco.
Gli bastava lei. Lei e nessun’altro.
Lei con la sua risata, lei con il suo sguardo inquisitore.
Lei con i suoi pregi, lei con i suoi difetti.
Lei con le sue verità, lei con le sue bugie.
Lei con le sue labbra morbide e i suoi occhi argentati.
Perché lei era lì, con il suo cuore indeciso e i suoi respiri tremanti.
E questo gli bastava.
 
Ω Ω Ω
 
Rose si strinse le gambe al petto, avvolgendole con entrambe le braccia.
Posò il mento sulle ginocchia, con un sospiro, e fissò lo sguardo sulla calma distesa del lago davanti a sé, illuminata dalle tante stelle che quella sera costellavano il cielo.
Era stato un giorno difficile, quello. Come d’altronde lo era ogni anno. E nonostante si sforzasse in tutti i modi di non darlo a vedere, faceva male anche il solo pensiero, che come un’ape fastidiosa le ricordava ciò che era successo ben tre anni prima.
Quella mattina le avevano detto che era assente. Che non ascoltava. Che aveva lo sguardo perso. Che era apatica. Addirittura che era strana.
Ma nessuno le aveva chiesto il perché.
E lei non aveva avuto il coraggio di dirlo, troppo timorosa anche di ripeterlo a sé stessa.
Qualcuno si sedette con un tonfo alle sue spalle, abbracciandola da dietro e facendo aderire il proprio petto alla sua schiena.
Rose non ebbe neanche il bisogno di girarsi per capire di chi fossero le braccia che la stavano avvolgendo.
«Ehi» la salutò Microft con un sussurro, scoccandole un veloce bacio sulla spalla. «Che ci fai qui tutta sola?»
Lei fece spallucce, abbozzando un forzato sorriso. «Avevo voglia di rilassarmi un po’.»
Il figlio di Efesto annuì, comprensivo, per poi posare il mento nell’incavo del suo collo, la guancia che sfiorava appena quella di lei. «Come stai?» domandò.
«Bene, grazie» mentì la figlia di Poseidone, e lui corrucciò le sopracciglia.
«No, non è vero.»
Rose trattenne una sommessa risata, scuotendo leggermente il capo. «Se sai già la risposta, perché me lo chiedi?»
«Perché li ho visti, a cena.»
Lei aggrottò la fronte. «Che cosa?»
«Il tuo sorriso spento e gli occhi vuoti.»
«E quindi?»
«E quindi voglio sapere cosa è successo» rispose lui, con tono deciso. «E come posso aiutarti.»
Rose esitò, indecisa su come riempire quel lieve silenzio che li stava avvolgendo. Non l'aveva detto a nessuno, il perché del suo momentaneo malumore. Neanche ai suoi fratelli.
Ma Microft era il suo migliore amico, ed era l’unico in grado di darle la certezza che qualunque cosa gli avesse raccontato, lui ci sarebbe stato, e non l’avrebbe abbandonata.
Sospirò, abbassando lo sguardo sulle proprie mani, che giocavano con l’orlo della maglietta.
«Oggi è l’anniversario della morte di mia madre» ammise, con un’espressione corrucciata.
Per un attimo, lui non rispose. Si limitò a mordersi l’interno della guancia, alla ricerca della cosa giusta da dire in quei casi, anche se forse la cosa giusta da dire non c’era.
Ma poi optò per la via più semplice, e cioè quella della spontaneità, e le chiese ciò che in quel momento attraversava la sua mente. «Ti manca molto, vero?»
«Ogni giorno.» Rose stessa si sorprese della velocità con la quale rispose. «Il fatto è che…» Strinse le labbra in una linea sottile, sentendo gli occhi bruciare. «Ho paura di pensare a lei.»
Microft sembrò confuso. «Perché?»
«Perché temo che se lo faccio, e alla fine non riesco a ricordare lineamenti del suo volto, allora è come se mi avesse abbandonata.»
La piccola figlia di Poseidone si maledisse per il tremitio della sua voce, e anche il ragazzo dovette accorgersene, perché la strinse un po’ di più a sé, confortante. «Lei non ti ha abbandonata. Lei è ancora con te.»
«Ed io come faccio ad esserne sicura?»
Microft sospirò, inclinando il capo si lato. «Solo perché non puoi vedere una persona, non vuol dire che lei non ci sia. E okay, potrai anche non ricordare la forma delle sue labbra o la sfumatura esatta dei suoi occhi, ma questo non la rende meno importante. Né meno presente.»
Rose soppesò le sue parole, con attenzione, poi incurvò le labbra in un lieve sorriso. Gli accarezzò il braccio, quasi bastasse quel gesto a ringraziarlo di essere lì, di essere lì per lei.
«Sai, a volte mi sento fortunata» confessò, al ché lui strinse gli occhi scuri a due fessure, curioso.
«Perché?»
«Perché nonostante tutto ho trovato Sally, che per me è come una seconda madre. E Percy e Michael sono i fratelli migliori che una ragazza possa desiderare.»
Il figlio di Efesto annuì lentamente, comprensivo. Poi sospirò teatralmente, schioccando la lingua. «Speravo dicessi: ‘mi sento fortunata perché ho un amico spettacolare come te’» scherzò, scimmiottando la voce dell’amica.
Lei rise, divertita. «Tu non sei spettacolare» lo prese in giro. «Tu sei un idiota.»
Microft si allontanò da lei quel tanto che bastava per mostrarle la sua espressione indignata. «Cosa?» esclamò, fingendosi offeso. «Rimangiatelo!»
«E perché dovrei? È la verità.»
«Ah, sì?» Il ragazzo le pizzicò un fianco, proprio nel punto che sapeva l’avrebbe fatta sobbalzare. «Rimangiatelo, o patirai le pene dell’Inferno.»
«Non lo faresti» lo redarguì lei, con sufficienza.
«Mi stai sfidando?» domandò allora lui, inarcando le sopracciglia con stupore. «Tu mi stai.» Pizzico. «Davvero.» Pizzico. «Sfidando?» Altro pizzico. 
«Microft, non ci provare» lo minacciò la ragazza, puntandogli un dito contro.
«Allora tu vuoi proprio la guerra!»
E prima che la figlia di Poseidone potesse rendersene conto, si ritrovò con la schiena stesa a terra, l’amico che le solleticava la pancia e le sue risa che si libravano nell’aria.
Con le lacrime agli occhi e dei piacevoli crampi allo stomaco, Rose non riuscì a divincolarsi dalla presa del ragazzo, che subito dopo si mise cavalcioni su di lei, bloccandole i polsi al suolo, ai due lati della testa.
«Chiedimi scusa» le ordinò, divertito.
La figlia di Poseidone scosse veementemente la testa, arricciando il naso. «Mai.»
«Okay, mi costringi ad usare le maniere forti» convenne allora lui, con un cenno sconsolato, per poi emettere uno strano verso con la gola e raccogliere un grumo di saliva in bocca.
«Oh, no, non oseresti!» sgranò gli occhi lei, al ché lui inarcò le sopracciglia, invitandola con lo sguardo a sfidarlo.
«Microft, non lo fare» lo supplicò lei, con il solo risultato di far avvicinare il volto del ragazzo al suo.
«No!» Gli porse la guancia, mentre lui si preparava a sputare. «No, no, no, no. Okay! Okay, okay, hai vinto!» Concesse a quel punto, scorgendo sul volto dell’amico un’espressione compiaciuta. «Hai vinto! Mi dispiace. Contento, adesso? Scusa. Però, ti prego, non farlo.»
Il figlio di Efesto ingoiò la saliva, deglutendo, e fu a quel punto che lei liberò i polsi dalla sua presa, dandogli un leggero spintone che gli provocò una sommessa risata.
«Sei disgustoso» si lamentò, tirandosi su a sedere con una smorfia non appena lui si fu scansato.
«Anche tu sei la mia preferita.»
Rose fece roteare gli occhi, incapace però di trattenere un sorriso. Poi si voltò a guardarlo, e nonostante il dolce silenzio che si stava espandendo nell’aria, la ragazza capì di non essersi mai sentita così non sola. Di non aver mai sperimentato un torpore nel cuore così piacevole prima di allora.
«Grazie, Micky.» E prima che potesse rendersene conto, quelle parole furono soffiate via dalle sue labbra in un sussurro.
Il ragazzo la guardò, inarcando un sopracciglio. «Per cosa?» domandò, al ché lei si strinse nelle spalle.
«Per tutto. Per esserci sempre.»
«Non è così facile liberarsi di me» celiò lui, e la ragazza arricciò il naso, divertita.
«Lo so.»
Il figlio di Efesto esitò qualche secondo, ma poi allargò le braccia, e lei vi si fiondò quasi non aspettasse altro. Si strinse contro il suo petto, nascondendo il viso nell’incavo della sua spalla e inspirando il suo rassicurante profumo di olio per macchine e sapone. E lui la lasciò fare. Perché gli piaceva sentire il cuore di lei battere così vicino al suo.
E perché sapere di essere in grado di proteggerla, lei così piccola e fragile, gli dava sicurezza. Gli dava voglia di diventare un eroe. Il suo eroe.
«Non so che cosa farei senza di te» ammise lei con un filo di voce, le labbra che sfioravano appena il suo collo, mentre lo faceva.
Microft abbozzò un lieve sorriso, stringendola dolcemente a sé per poi lasciarle un tenero bacio sulla fronte.
«Potrai sempre contare su di me, Sirenetta.»
E nel momento stesso in cui lo diceva, capì quanto quelle parole fossero pregne di verità.
E quanto si sentisse pronto ad affrontare il mondo.
A vincerlo. A rispettarlo. A difenderlo. A migliorarlo.
Per Rose.
 
Ω Ω Ω
 
Michael si chiuse con forza la porta della Cabina Tre alle spalle, facendo sobbalzare un Percy che, subito dopo aver lasciato il falò e aver dato un lungo bacio della ‘buonanotte’ alla sua ragazza, se ne stava comodamente sdraiato sul letto con la musica nelle orecchie.
Si sfilò lentamente una cuffia, osservando il minore afferrare silenzioso una busta di patatine dalla dispensa della Capanna e aprirla con foga, per poi buttarsi sul letto con un tonfo e cominciare ad masticarle rumorosamente, lo sguardo furioso fisso sul muro.
Percy inspirò a fondo, spegnendo il proprio mp3 e rassegnandosi all’idea di dover abbandonare la sua comoda posizione per raggiungere il minore.
Si sedette sul bordo del letto di lui, il materasso che cigolò appena sotto il suo peso. Lo osservò, cercando invano il suo sguardo, per poi posare i gomiti sulle ginocchia e passarsi una mano fra i capelli.
«Problemi con Skyler?» chiese, ma l’unica risposta che ottenne fu un mugugnato «Mh-mh», mentre Michael continuava ad ingurgitare pugni di patatine.
Percy gliele strappò bruscamente di mano, baccandosi un’occhiataccia di protesta; ma non appena sfidò con lo sguardo il fratello ad opporsi alla sua volontà, il minore si strinse nelle spalle, rabbuiandosi.
«A che grado siamo?» domandò allora Percy, ricorrendo al loro personale codice segreto.
Michael fece un lungo sospiro, prima di parlare. «Quinto, credo.»
Sul volto del maggiore comparve un sorriso sghembo. «Posso indovinare il suo nome?»
«Meglio di no.»
Quello era stato in assoluto il falò peggiore della sua vita.
Non perché il tempo non fosse dei migliori, o perché le canzoni cantate dai figli di Apollo facessero schifo. Anzi, la scelta era stata ottima.
Ma se Michael avesse potuto scegliere di mangiare un intero dolce al cioccolato o di staccare la testa dal collo di Matthew a morsi, avrebbe scelto sicuramente la seconda opzione. 
Ormai era chiaro a tutti quanto il rapporto tra il figlio di Eris e la sua ragazza fosse diventato intimo. Non che lei gli avesse mai nascosto il suo volere di essergli amica. Ma questa situazione stava cominciando davvero a stancarlo.
Passava sempre meno tempo con lei, erano rari i momenti in cui restavano soli, e come se non bastasse lui era sempre lì, pronto a mettere zizzania quando sembrava andare tutto per il verso giusto.
Proprio come quella sera.
Erano tutti seduti al solito tronco, intenti ad ascoltare le chitarre dei figli del dio del Sole. C’erano Emma, Leo, Melanie e John, Piper (che aveva raggiunto Leo per parlargli un secondo), e poi c’era Skyler, seduta, come quasi ogni sera, tra Michael e Matthew.
Non che ormai questo lo irritasse più di tanto: ovunque lei si posizionasse, quel tizio le era sempre accanto, come se fosse attratto da una calamita.
Ma quella sera aveva superato il limite, e l’aveva fatto davanti a tutti quanti.
Mentre Skyler, infatti, stava intonando sommessamente qualche frase di Let Her Go di Passenger, all’improvviso era sobbalzata, urlando un sorpreso «Ahi!» e attirando così l’attenzione degli amici.
«Che è successo?» le aveva chiesto apprensivo Michael, notando che lei si reggeva dolorante una mano.
«Qualcosa mi ha punto.»
«Un insetto?» aveva suggerito John, al ché Emma si era sporta verso di lei.
«Sembra il pizzico di un’ape.»
«Fa male» si era lamentata allora la figlia di Efesto, con la fronte aggrottata.
Era stato in quel momento che Tizio le aveva delicatamente afferrato la mano, scrutandole la ferita. «Bisogna togliere il pungiglione» aveva annunciato, con sguardo serio.
«Oh, non importa» aveva tentato di sminuire Skyler, ma lui aveva scrollato leggermente il capo.
«Fidati, è l’unica cosa che ho imparato agli scout.» E detto questo aveva posato le labbra sulla puntura di lei, succhiando leggermente sotto lo sguardo silenzioso di tutti.
Skyler era arrossita, evidentemente a disagio, e Michael, accanto a lei, aveva serrato la mascella, infastidito.
Il figlio di Eris aveva estratto il pungiglione con successo, e un coro di applausi si era levato dai ragazzi, che l’avevano osservato attenti, mentre Skyler lo ringraziava con un sorriso.
Solo quando il momento fu passato e tutti avevano ricominciato a concentrarsi sulle canzoni, la figlia di Efesto si era voltata a guardare l’amico.
«Non sapevo fossi stato un boyscout» si era complimentata, ammirata.
E Matthew aveva incurvato le labbra in un sorriso sghembo, sporgendosi verso di lei e sussurrandole all’orecchio: «Infatti non lo ero
Era stato a quelle parole che la vista di Michael era stata velata di rosso. Quel tizio faceva di tutto, pur di farlo uscire dai gangheri.
Avrebbe dovuto togliere lui, il pungiglione alla sua ragazza. Avrebbe dovuto essere lui, quello che la stupiva.
E invece tutto ciò che aveva potuto fare era stato guardarla mentre aveva più intimità con il figlio di Eris che con lui.
La cosa l’aveva innervosito non poco, e non si era neanche reso conto dell’atteggiamento freddo e distaccato che aveva assunto nei confronti di Skyler finché lei non gliel’aveva fatto notare.
Era stato a quel punto che avevano discusso, lui imprecando contro quel tizio e lei accusandolo di tenere più al rapporto tra sé e Matthew che al loro.
E poi si erano diretti ognuno verso la rispettiva Cabina, senza neanche augurarsi la buonanotte.
Michael sbuffò, frustrato, mentre si rendeva conto di quanto il suo comportamento fosse stato ingiusto e idiota.
Se quel ragazzo continuava a ronzarle intorno come un insetto attratto da un fiore, non era certo colpa di Skyler. Giusto?
Per lei lui era soltanto un amico, no?
Ma poteva averne la certezza?
Digrignò i denti, dandosi dello stupido solo per aver avuto dei simili pensieri. Poi sollevò lo sguardo sul fratello, che aveva cominciato lentamente a mangiare le patatine.
«Percy, tu sei mai stato geloso di Annabeth?»
«Ogni giorno.» La velocità con la quale rispose fece inarcare le sopracciglia al minore, che si scoprì sorpreso.
«Davvero?»
«Ma certo!» Percy lo esclamò come se fosse scontato. «Come potrei non esserlo? Lei è così bella, e io sono così… questo.»
Michael corrucciò le sopracciglia, confuso. «Hai appena indicato tutto te» gli fece notare.
«Lo so. Il fatto è che… sono uno stupido -e non provare a ridere!- e lei è troppo intelligente per stare con uno come me. Perciò ho sempre paura che… che qualcuno possa portarmela via.»
«E come fai, quindi?»
«Mi fido di lei.» Percy abbozzò un lieve sorriso, lo sguardo fisso su un punto indefinito. «Vedi, io credo che ogni storia d’amore che si rispetti si basi sul rispetto reciproco. Io non farei mai qualcosa che possa ferirla, e so che per lei è lo stesso. Io mi fido di lei, e lei si fida di me.»
Michael emise uno sbuffo di risata, scrollando leggermente il capo. «Vorrei che fosse così semplice» sussurrò.
«E lo è, infatti!» gli assicurò allora il maggiore. «Per tutti quanti. Quello che provi per Skyler è sincero?»
«Ma sì, certo» rispose lui, senza esitazione.
«E lei ti ama, no?»
«Beh, amore è una parola grossa» fece spallucce Michael, con sarcasmo. «Diciamo che mi stima.» Poi rise sommessamente, mentre il fratello alzava gli occhi ora blu al cielo, fingendosi esasperato. «Ho afferrato il concetto, comunque» gli disse poi il minore, con un cenno del capo. «Grazie, Percy.»
«Quando vuoi» gli fece l’occhiolino lui, mangiando distrattamente un’altra salata patatina.
«Ora però vuoi darmi la mia busta di patatine o no?» si lamentò Michael, incapace di trattenere un sorriso.
«Vieni a prenderla, se ci riesci» lo sfidò allora il maggiore, al ché il ragazzo gli si fiondò addosso, dando così il via ad una giocosa lotta tra fratelli.
Fu solo in quel momento che Rose rientrò nella Cabina, e scorgendo i due ragazzi con i capelli arruffati e le unte patatine sparse su tutto il pavimento fece una smorfia, amareggiata.
«Vi prego, ditemi che Poseidone si è sbagliato e che in realtà sono figlia unica» implorò, al ché i due si scambiarono un complice sguardo.
«Vieni qui, principessa!» esclamò quindi Percy, prendendola in braccio (e cogliendola così alla sprovvista) per poi lanciarla di peso sul letto, dove finì tra le braccia di Michael, che riuscì ad afferrarla poco prima che cadesse a terra.
I tre figli di Poseidone risero, divertiti, con Rose che si vendicava dei fratelli a suon di pugni e i due ragazzi che tentavano di tenerla ferma, con l’intenzione di farle il solletico.
E in quel momento fu sufficiente.
Tutte le preoccupazioni, e i drammi, e la confusione, e la tristezza.
Svanirono tutti, come se non fossero mai esistiti.
E tre fratelli con gli stessi occhi del colore del mare riconfermarono ancora una volta la loro unione, e il loro profondo legame.
Perché loro erano una famiglia.
E lo sarebbero stati nonostante tutto.  
 
Ω Ω Ω
 
John si trovava nella Casa di Demetra.
L’aveva capito non appena aveva scorto i numerosi vasi di fiori negli angoli, quel lieve profumo di terra e concime che la caratterizzava.
Ma nonostante ciò, era vuota. Nel vero senso del termine.
Non era solo priva di persone, ma anche di letti, comodini, sedie e scrivanie.
C’era solo un piccolo sgabello di mogano, sul fondo della stanza.
John fece un passo avanti, guardandosi intorno circospetto.
«Ehilà?» chiamò, sentendo la sua eco infrangersi contro le pareti. «C’è nessuno?»
Non ottenne risposta, ovviamente, ma smise di curarsene non appena un lieve bagliore argenteo attirò la sua attenzione, costringendolo a voltarsi.
Sullo sgabello, che di primo acchito gli era parso vuoto, c’era ora una gabbia.
Il figlio di Apollo corrucciò le sopracciglia, confuso, e con passi misurati vi si avvicinò, studiandola attentamente.
Era di un metallo scuro, e nonostante quello fosse indiscutibilmente argento, ricordava molto di più il ferro, mentre si contorceva leggermente arrugginito in complicate spirali decorative.
Al suo interno, vi era un piccolo uccello.
Era poco più grande della sua mano, e aveva delle splendenti piume color grano, che facevano da contrasto con il delicato becco nero. La coda a riccioli era di un verde splendente, e sul petto aveva alcune macchie tendenti al porpora.
Ora, John non era certo un esperto ornitologo, ma chissà come riuscì ad identificare quell’esemplare come un Paradisaeidae.
Uccello del Paradiso, pensò, estasiato.
Era bellissimo, ma c’era un particolare che l’aveva inspiegabilmente attratto.
Gli occhi.
Erano color nocciola, e ricordavano vagamente l’autunno, con tutte le sue sfumature. Dolci, ed intensi, erano simili a quelli di…
«Melanie» sussurrò, col fiato sospeso.
Il pennuto voltò la testa per guardarlo, quasi fosse attratto da quell’insolito richiamo. Poi emise un verso stridulo, spalancando il becco e allargando le ali.
E cominciò a dibattersi come un forsennato.
John fece un passo indietro, spaventato, e lo osservò sbattere contro le pareti della ferrosa gabbia e lottare per uscire, agitando le piume nel tentativo di prendere il volo.
All’improvviso al ragazzo fu subito chiaro ciò che doveva fare.
«Ssh» mormorò, cominciando a schioccare ritmicamente la lingua per far sì che si tranquillizzasse. Il volatile smise di divincolarsi, continuando però a sbattere freneticamente le ali.
«Non preoccuparti» gli disse dolcemente John, tastando attentamente quella prigione. «Ora ti libero io.»
Ci mise un po’ per identificare la porta in quell’intrico di ferro, e quando la trovò, la aprì con uno scatto metallico, spalancandola lentamente.
Poi infilò una mano dentro la gabbia, e con accurata delicatezza prese dolcemente in mano l’uccello, che dopo un secondo di esitazione si abbandonò sul suo palmo.
«Ehi» lo salutò allora il figlio di Apollo, accarezzandogli teneramente il piumaggio ambrato. «Non devi aver paura. Ci sono io, adesso.» Il volatile lo guardò, inclinando la testa di lato e puntando i grandi occhi nei suoi.
«Sei libero, ora. Ci sono io.»
Il pennuto gonfiò le penne, quasi stesse facendo un profondo sospiro. Ma nel momento in cui John gli passò un dito sulla bionda testolina, questi sgranò le iridi color nocciola, spalancando il becco in un grido acuto.
Gli beccò con forza la mano, e John, colto di sorpresa, lasciò la presa.
Sangue copioso cominciò a colargli incomprensibilmente lungo il braccio, fin sotto al gomito, mentre un dolore pulsante lo faceva gemere di dolore.
L’uccello spiegò le ali, librandosi in volo e continuando a gracchiare senza sosta, con la eco che si propagava nella stanza.
Poi, con una planata, tornò dentro la gabbia, appollaiandosi sul fondo.
John lo guardò, senza capire, finché lui non afferrò con il becco una delle sue piume, e se la staccò via con forza.
«No, fermo! Che fai?» tentò di redarguirlo John, ma egli continuò a staccarsi imperterrito due, tre, sette piume, mentre gocce di sangue cremisi zampillavano fuori dal suo corpo.
«Fermo! Non farlo! Così morirai!»
Ma il volatile non volle ascoltarlo, e il ragazzo sentì montare il panico.
Tentò di fare un passo avanti, ma nel momento stesso in cui fece per impedire al pennuto di infliggersi altre ferite, la porta si spalancò, portando con sé una forte folata di vento.
Stormi di uccelli si riversarono nella stanza, e tra grida stridule e voli frenetici investirono il figlio di Apollo, che cadde al suolo con un tonfo.
Si coprì la testa con entrambe le braccia, nel vano tentativo di difendersi dai rovinosi artigli che continuavano a graffiarlo.
Il sangue continuava a colargli giù dalla ferita, ma attraverso quell’ammasso informe di piume riuscì a scorgere nuovamente la gabbia, con all’interno il giovane Paradisaeidae che continuava a strapparsi pezzi di piumaggio.
«Smettila!» gli urlò contro John, ma le sue parole furono mangiate dalla moltitudine di corpi intorno a sé. «Ti stai uccidendo!»
Ma l’uccello non si fermò, e lui non era in grado di raggiungerlo, con tutti quei volatili che continuavano ad impedirgli anche un solo passo avanti.
Il pennuto aveva già eliminato circa metà delle sue candide piume, che sporche di sangue si erano riversate sul fondo della gabbia, e lui non poteva farci niente.
Poteva solo guardare, mentre avvertiva gli occhi bruciare e la testa minacciare di implodere.
«John!»
Qualcuno lo chiamò, ma la sua voce arrivò ovattata e lontana.
«John!»
Una luce dall’altro lato della stanza sembrò attirarlo a sé, risucchiandolo in un vortice improvviso.
«John, svegliati, dannazione! Svegliati!»
 
«John, svegliati! Svegliati!»
Il figlio di Apollo aprì di scatto gli occhi, rendendosi conto solo in quel momento che qualcuno gli stava scuotendo convulsamente la gamba.
«John, ti devi svegliare.» Era la voce di Skyler. Sembrava disperata, ed incrinata dal pianto, ma con la mente ancora impastata dal sonno, inizialmente il biondo non riuscì a farci caso.
«Sono le due del mattino» si lamentò infatti, con un mugugno strozzato.
«John, svegliati, ti prego. Si tratta di Melanie. È successo un casino.»
Melanie.
Bastò quel nome a fargli drizzare la schiena.
L’impeto con il quale si tirò su a sedere fu talmente improvviso che le vertigini gli offuscarono la vista, facendo vorticare la stanza intorno a sé. Ma non appena riuscì a tornare lucido si voltò a guardare l’amica, scorgendo i suoi occhi imperlati di lacrime.
«Che è successo?» domandò, sentendo montare il panico.
«Melanie è sparita» spiegò Skyler, con un lieve singhiozzo. «Non riusciamo più a trovarla. Katie ha sentito la porta sbattere, stanotte, e quando si è alzata il suo letto era vuoto. Si sono attivati per cercarla, ma è scappata, e non sappiamo in quale direzione.» La figlia di Efesto si morse con forza il labbro, frenando una lacrima. «È sparita, e con lei anche alcune siringhe e un mix micidiale di medicinali dall’infermeria. Le tue sorelle dicono che c’è il rischio che lei…»
Ma John non l’ascoltava già più. Si era precipitato giù dal letto, aveva infilato velocemente le scarpe ed era corso fuori, senza neanche voltarsi indietro per assicurarsi che l’amica lo seguisse.
Diretto verso l’infermeria con tutta la velocità che le sue gambe gli concedevano, riusciva a pensare solo alla figlia di Demetra, ai medicinali rubati, alle siringhe scomparse e a ciò che avrebbe potuto farci lei se solo ne avesse avuto voglia.
Perché?, le chiese col pensiero, e nonostante lei non potesse rispondergli, temeva, infondo, di conoscere già la risposta.
Aveva fallito. Non era riuscita a salvarla.
Ma ora l’avrebbe cercata. L’avrebbe cercata finché non l’avrebbe stretta di nuovo tra le sue braccia.
Il problema era come l’avrebbe ritrovata.
Viva?
O morta?


Angolo Scrittrice.
*in onda tra cinque... quattro... tre... due... uno...*
RADIONORBA!
*voce fuori campo* -Canale sbagliato!-
Oh, giusto.
Ehilà, ragazzuoli! Come va?
Oggi è martedì, no? Credevate davvero di scamparvela senza un mio noiosissimo capitolo?
Muahahah, poveri illusi :')
Capisco la vostra sorpresa, comunque, dato che non è un'ora tarda come al solito, ben sì pieno pomeriggio. La verità? Non ho ancora fatto i compiti. Ma so che questo non vi interessa, quindi passiamo alle cose importanti.
Alors alors... dunquo.
Capitolo complicato, eh? Andiamo per gradi.
Come molti di voi avevano supposto,
Leo ha costruito un'altalena per Emma
.
Ribadisco che il rapporto tra questi due è in assoluto il più complicato da sviluppare, perché non sono ben chiare le loro intenzioni, né dove vogliono andare a parare. Io purtroppo non posso anticiparvi niente, perché ne so quanto voi. Mi limito semplicemente a riportare su 'carta' ciò che mi raccontano, e spero che le loro vicendo vi stiano appassionando.
"Voglio insegnarti a vedere quel veliero". Che ne dite, quella di Leo è una giusta motivazione? Chi di voi ha mai sognato di vedere il Veliero di Peter Pan, da bambino? Chi ci è riuscito? Chi lo vede tutt'ora? 
E poi ci sono
Microft e Rose
, che sinceramente mi hanno stupito. Perchè? Perchè è la prima volta che sono soli. Sì, avete capito bene.
Ogni loro apparizione era sempre sullo sfondo. Non erano mai i personaggi principali della vicenda, e nonostante qualche breve momento fluff, passavano sempre in secondo piano.
Ma stavolta la Microse (come a molti di voi piace chiamarla) ha avuto lo spazio dovuto. Ho voluto approfondire di più il loro rapporto, quello che provano l'uno per l'altro. Volevo spiegarvi su cosa si basa la loro amicizia, e cosa fanno, quando sono insieme. Sono i più piccoli del gruppo, certo. Ma questo fa anche di loro i più sinceri.
Perchè con la loro ingenuità e semplicità, non hanno segreti. E questo è sicuramente il loro punto di forza.
Poi c'è
Melanie
, che ha rubato non sono un mix micidiale di medicinali dall'infermeria, ma anche delle siringhe. Ed è fuggita, chissà dove e chissà per fare cosa. Che le sarà successo? Starà bene, o è in procinto di fare una cavolata?
E infine, c'è
John
. Descrivere il suo sogno non è stato affatto facile, ma spero comunque di essere stata abbastanza chiara, e di essere riuscita a farvi cogliere il senso di ciò che ha sognato. Se così non fosse, non esitate a dirmelo, e mi adopererò per spiegarlo ben bene nell'Angolo Autrice del prossimo capitolo.
Se ci sarà, un prossimo capitolo. Questo, ovviamente, dipende da voi.
Che ne pensate di questo? Vi è piaciuto? Vi ha deluso? E' stato all'altezza delle aspettative? Fatemi sapere, mi raccomando. Accetto qualunque genere di opionione.
E voglio ringraziare proprio per questo i miei bellissimi Valery's Angels, scusandomi ancora una volta con coloro ai quali non ho ancora risposto. Ma rimedierò, come sempre. Un grazie enorme a:
carrots_98, Percabeth7897, MyrenelBebbe, ChiaraJacksonStone1606, Kamala_Jackson, _angiu_ Cristy98fantasy, _Krios_ e martinajsd
.
Grazie, grazie, grazie. Grazie!
Bien, ora credo sia arrivato il momento di andare. Grazie ancora a tutti voi, e un bacione enorme!
Al prossimo martedì
Sempre Vostra,

ValeryJackson

P.s. Ricordate il codice segreto ideato da Percy e Michael? Se no, lo trovate nel Capitolo 14 de 'Il Morbo di Atlantide'. Adieu!

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***




 
John aveva continuato a cercare incessantemente Melanie per tutto il tempo, nonostante i suoi piedi implorassero ormai da circa un’ora la più assoluta pietà.
Della figlia di Demetra, però, ancora nessuna traccia.
Non appena Skyler era entrata nella sua Cabina per avvisarlo, il ragazzo era corso verso l’infermeria, il panico che gli serrava la gola quasi fosse una morsa d’acciaio.
Aveva aperto la porta con impeto, cercando con lo sguardo qualcuno che potesse dirgli come affrontare la situazione.
Non aveva neanche fatto caso a Katie, che, stretta tra le braccia di Travis, piangeva a dirotto, maledicendosi per non essersi svegliata in tempo da fermarla.
La ragazza, subito dopo aver notato l’assenza della sorella, si era precipitata dalla prima persona che aveva attraversato i suoi pensieri e che, era sicura, sarebbe riuscita a darle il giusto conforto.
Solo quando Travis si era ritrovato la sua Kity-Kat singhiozzante tra le braccia, aveva in parte capito la gravità della situazione. Aveva svegliato i suoi fratelli, incaricandoli di avvisare Chirone e di cominciare a cercare la ragazza; e mentre lui tentava di tranquillizzare il corpo tremante della povera Katie, Emma era corsa a chiamare prima Michael, e poi Skyler, che, con le lacrime agli occhi, aveva pensato bene di avvertire anche John.
Non appena lo sguardo del figlio di Apollo si era posato sul fondo dello stretto corridoio dell’infermeria, aveva visto Theresa, che discuteva concitatamente con Chirone.
John non ci aveva pensato due volte. Era corso contro di loro, in un misto di angoscia e adrenalina. Aveva urtato anche due ragazzi e un tavolino, ma in quel momento il suo corpo sembrava sigillato in una teca di vetro, incapace di avvertire qualunque suono al di fuori del battito accelerato del suo cuore.
La figlia di Apollo si era voltata verso di lui, quasi per caso, e, vedendolo arrivare, aveva sgranato gli occhi.
«John» aveva sussurrato, ma prima che potesse aggiungere altro, il fratello aveva sovrastato i suoi pensieri.
«Theresa, che cosa è successo?» aveva chiesto infatti, la voce incrinata per via della tensione.
La ragazza aveva abbassato lo sguardo, cupa, e a quel punto John aveva sentito il sangue ribollirgli nelle vene.
«Dimmi che cosa è successo!» aveva sbraitato, furioso, attirando l’attenzione generale su di sé e non importandosene minimamente.
«Melanie è scappata» si era intromesso quindi Chirone, lo sguardo impassibile in contrasto con gli zoccoli che battevano ansiosi sul pavimento.
John aveva sbuffato, sarcastico, per poi tentare di placare la sua palese irritazione. «Questo l’avevo capito, grazie tante!» aveva ribattuto, scocciato, poco prima di sospirare.
Solo allora Theresa aveva risollevato lo sguardo. «Ha portato con sé delle siringhe e dei medicinali.»
Eccola. Ecco la frase che avrebbe preferito non sentire. Ora che quelle parole avevano lasciato anche la bocca di sua sorella, sembrava tutto dannatamente più reale.
John aveva chiuso gli occhi, sforzandosi di trattenere il proprio autocontrollo. «Che genere di medicinali?» aveva chiesto, piano, e ad ogni nome che Theresa faceva il suo cuore minacciava di implodere sempre di più.
Solo quando la temuta lista era terminata, il figlio di Apollo si era sfregato la faccia, afflitto.
«Dobbiamo trovarla» aveva affermato, deciso.
«Abbiamo già organizzato dei gruppi di ricerca» aveva annuito Chirone, al ché il ragazzo aveva digrignato i denti, al fine di darsi forza.
«Dove sono diretti?» aveva poi domandato.
Il centauro aveva fatto spallucce. «Tre si sono spostati a Nord, mentre quattro sono andati a Sud-Est.»
«E ad Ovest?»
«A meno che non si sia inoltrata nella Baia di Zefiro, trovo improbabile si trovi lì.»
«Non può averne la certezza.»
«Quella non è di sicuro la via più rapida per scappare.»
«Quella è l’unica strada che Melanie conosce!» Anche lo stesso John si era sorpreso del tono della propria voce. Non aveva mai mancato di rispetto a Chirone, prima di allora. Anzi, non aveva mai mancato di rispetto a nessuno. Eppure il centauro sembrò capire la sua ira irrequieta, perché si limitò a chinare il capo.
«Manderemo due gruppi anche lì.»
«Due gruppi non bastano.»
«Neanche tre?»
«È così difficile rendersi conto che c’è in gioco la vita di una ragazza?!»
«John, calmati» l’aveva redarguito Theresa.
«Io sono calmo!» John aveva stretto i pugni, conficcandosi le unghie nei palmi. «Ma non capisco che Tartaro ci facciamo ancora qui. Perché non la stiamo cercando? Perché ci limitiamo ad aspettare con le mani in mano?»
«Ti ho già detto che sono stati organizzati dei gruppi di ricerca» aveva ribattuto Chirone.
«Solo sette! Solo sette, dannatissimi gruppi. Lei crede davvero che bastino?»
«Purtroppo non c’è altro che io possa fare.» Il tono del centauro era freddo, autoritario.
Il figlio di Apollo aveva sostenuto il suo sguardo, in un misto di interdizione e indignazione. Poi aveva contratto la mascella, sfilandosi il braccialetto d’oro dal polso e tramutandolo in un possente arco, e subito dopo aveva dato ad entrambi le spalle, dirigendosi nuovamente verso la porta.
«John, dove vai?» aveva tentato di fermarlo Theresa, seguendolo a ruota con Chirone alle calcagna.
«Vado a cercare Melanie» aveva risposto il biondo, brusco, per poi avvertire l'affusolata mano della sorella afferrare con forza il suo braccio. Il ragazzo aveva fatto roteare gli occhi, voltandosi a guardarla. 
«John, non mi sembra una buona idea» aveva sussurrato lei, al ché lui aveva corrucciato le sopracciglia. «Dovresti restare qui e aspettare sue notizie con noi. Ci sono già altri semidei, lì fuori, a cercarla.»
«Melanie è scomparsa, e tu mi stai davvero chiedendo di restare qui a far niente?» le aveva quindi urlato contro lui, ormai del tutto incapace di controllare la sua ira. «Potrebbe esserle successo qualcosa! Potrebbe essere ferita! Ha bisogno di noi, ha bisogno di me. Credi davvero che sarei in grado di starmene fermo a guardare mentre lei rischia la vita?»
«È proprio questo il punto, John.» Gli occhi di Theresa brillavano di preoccupazione. «Quello che ha fatto Melanie è un gesto affrettato e privo di buon senso. Ha rubato siringhe e medicinali, e sai benissimo quello che sarebbe in grado di farci. Può essere semplicemente scappata, come hai detto tu. Ma devi valutare anche la possibilità che lei sia…»
Le parole le erano morte in gola, o forse era stato John ad impedirle di terminare la frase, divincolandosi dalla sua presa con uno strattone e affrettandosi a grandi falcate verso la porta, il cuore che continuava a martellargli molesto nel petto.
Quello che aveva detto Theresa non era del tutto errato. Eppure lui non aveva alcuna intenzione di pensarci. Aveva chiamato a raccolta dieci ragazzi e gli aveva ordinato di seguirlo alla volta della Baia di Zefiro.
Non aveva neanche perso tempo a spiegare loro la situazione, sicuro che ormai la notizia avesse già fatto il giro del Campo.
E così eccolo lì, dopo circa tre ore passate a camminare senza trovare nulla se non altra ansia da accumulare nelle vene.
Sembrava che ogni cosa, tra quei fitti alberi, si muovesse a rallentatore.
Lui e gli altri semidei chiamavano Melanie a squarciagola, e si fermavano per cercare di cogliere una sua risposta, ritrovandosi ingannati dal minimo rumore o da un semplice soffio di vento.
Alcuni ragazzi, dopo un po’, persero le speranze e tornarono indietro. Altri rallentarono il passo, troppo stanchi per poter anche solo sfidare il sonno impellente che appesantiva le loro palpebre.
Il buio diventava man mano meno fitto con il sorgere placido della luna, e i suoi raggi filtravano tra le fronde del bosco, conferendogli un’atmosfera molto più macabra e misteriosa.
Mentre gli altri procedevano con passo lento, gli sguardi bassi in cerca anche del minimo avvallamento del terreno, John si bloccò, osservando il panorama intorno a sé.
Restò così tanto fermo in quel punto che ben presto anche le ombre dei suoi compagni sparirono dal suo campo visivo, e si ritrovò solo, incapace di scorgere altro oltre la numerosa moltitudine di alberi.
Le emozioni lo sopraffecero. Rabbia. Angoscia. Tristezza. Tensione. Solitudine. Vuoto. Disperazione.
Invasero il suo cuore, infiltrandosi meschine tra le sue arterie per poi diramarsi lungo tutto il corpo, facendolo tremare.
Doveva prepararsi alla possibilità di lasciare quel luogo senza averla trovata. O peggio, di doverlo fare con il suo corpo esanime tra le braccia.
Il solo pensiero lo paralizzava. Per che cosa avrebbe lottato, in quel mondo, se non l’avesse fatto per lei?
Come avrebbe affrontato il resto della vita, sapendo che il suo bellissimo sorriso non sarebbe stato lì a renderla migliore?
Una spiazzante nausea gli colpì la bocca dello stomaco, e John soffocò le lacrime, nel vano tentativo di darsi forza.
Era colpa sua. Non era riuscito a proteggerla come avrebbe dovuto.
Avrebbe dovuto essere in grado di farle capire che dono meraviglioso gli dei le avevano dato. Avrebbe dovuto essere capace di farle amare anche tutte le sue perfette imperfezioni.
E aveva fallito.
E ora lei era fuggita, gli era scivolata tra le mani come sabbia, fragile.
Ma non si sarebbe arreso, non così facilmente.
Melanie era ancora viva.
Era il suo sesto senso, a suggerirglielo. Era come se riuscisse a sentire il suo respiro tremante battere in sincrono con il suo. Doveva solo continuare a cercarla. Doveva solo continuare a cercarla, perché sentiva di poter avere ancora un po’ di speranza.
Quel pensiero gli diede una nuova spinta per portare le mani a coppa accanto alla bocca e urlare. «Melanie!»
Nessuna risposta. Rimase circa un minuto in silenzio, ascoltando la sua eco sfumare tra gli alti rami.
Poi deglutì a fatica, deciso a tentare di nuovo. «Melanie!» gridò.
«Sono qui!»
John voltò di scatto la testa verso la direzione dalla quale proveniva quel flebile grido. Non se l’era solo immaginato, vero? L’aveva sentito davvero.
«Sono qui!»
Il ragazzo aveva troppa paura di credere alle proprie orecchie.
Qualcuno corse zoppicando verso di lui. All’inizio non riuscì a distinguere attentamente quella figura, ma non appena un riflesso color grano si infranse nell’atona oscurità della notte, le sue gambe si mossero per un riflesso incontrollato, costringendolo precipitarsi a perdifiato incontro a quella persona.
A parte qualche graffio, Melanie sembrava integra e più che vegeta.
John lasciò cadere l’arco a terra, allargando le braccia, e lei vi si fiondò, aggrappandosi alle sue spalle quasi fosse incapace di sorreggere da sola il proprio peso.
Il ragazzo la strinse a sé con più forza di quanto avrebbe immaginato, deciso a constatare che lei fosse davvero lì, che non fosse solo un’illusione.
Era viva. Melanie era viva!
«Grazie al cielo» sospirò lui tra i suoi capelli, chiudendo gli occhi quando avvertì il suo petto sgonfiarsi come un palloncino allo stremo. «L’ho trovata!» urlò poi agli altri ragazzi, osservando con la coda dell’occhio alcune sgargianti maglie arancioni correre verso di loro. «L’ho trovata! È viva!»
Le lasciò un tenero bacio sul capo, per poi posarvici il mento e prendere fiato, incredulo e felice. «È viva» ripeté in un sussurro, più a sé stesso che agli altri, mentre un sorriso sollevato si fece lentamente largo sul suo volto.
«È viva.»


 
Ω Ω Ω
 
Solo qualche attimo dopo aver finalmente constatato che Melanie stesse bene, John aveva sentito il corpo della figlia di Demetra tremare febbricitante tra le proprie braccia.
Le aveva passato una mano nell’incavo delle ginocchia, e se l’era stretta al petto, cullandola dolcemente mentre lei nascondeva il viso nell’incavo del suo collo, cingendogli la nuca con entrambe le mani, per sorreggersi.
Poi, l’aveva scortata in infermeria.
Non appena ebbe varcato la porta, circa una dozzina di semidei, tra fratelli suoi e della ragazza, si erano precipitati verso di lui, tirando un sospiro di sollievo non appena si erano resi conto che Melanie respirava ancora.
John l’aveva poi adagiata, sotto ordine di Theresa, su una delle tante brandine bianche, per poi essere spinto fuori dalla candida stanza con la promessa che si sarebbe trattato solo di qualche secondo.
Il figlio di Apollo si era quindi lasciato cadere su una delle sedie dello spoglio corridoio, sfinito, e posando la nuca contro il muro aveva chiuso gli occhi, ringraziando in un mormorio gli dei per aver concesso a Melanie altro tempo, prima di decidere di portarla via da lui.
A dispetto di quanto gli aveva detto Theresa, fu costretto ad aspettare poco meno di un’ora, prima di vedere la sorella uscire dalla camera accompagnata da altri tre figli del dio del Sole.
«Sta bene, e apparentemente non ha niente di rotto» gli disse con fare rassicurante, sul volto la lieve ombra di un sorriso. «Ora, però, ha bisogno di riposare. E anche tu. Perché non provi a stenderti un po’?»
«Non credo che sarei in grado di dormire» ribatté allora John, poco prima di percepire la stanchezza invadergli il petto come un masso deciso a non spostarsi.
Theresa si inginocchiò di fronte a lui, cercando invano il suo sguardo. Poi inclinò il capo di lato. «Va a casa, John. Almeno per un paio d’ore.»
«Non voglio che lei si svegli e che non mi trovi qui ad aspettarla.»
La ragazza sorrise appena, accarezzandogli teneramente il dorso della mano. «Sono sicura che quando tornerai, la troverai ancora lì nel suo letto, intenta a dormire.» E dopo qualche secondo di esitazione, decise che lei non era nessuno per costringerlo a non restare. Si rimise in piedi, chinandosi su di lui per lasciargli un veloce bacio sulla fronte, per poi dirigersi lentamente verso il resto dei suoi fratelli, e lasciandolo quindi lì, solo, seduto su quella traballante sedia di plastica blu in netto contrasto con le pareti eburnee di quell’orrido posto che per tanti anni aveva odiato, e che ultimamente si era ritrovato a frequentare molte più volte di quanto avrebbe voluto.
Restò a fissare la porta di rovere della stanza di Melanie per quella che a lui sembrò un’eternità, ma che in realtà erano solo pochi minuti. Poi si alzò svogliatamente, sfregandosi il viso con i palmi e trattenendo a stento uno sbadiglio, e decise che se mai ci fosse stato bisogno di lui, da stremato non sarebbe stato di alcun aiuto.
Si incamminò con gli occhi gonfi verso la Cabina 7, i piedi che sembravano diventare più pesanti ogni volta che faceva un passo avanti.
Si lasciò cadere sul letto con un tonfo, il materasso che cigolò leggermente sotto il suo peso. Si sfilò le scarpe, e si tirò le coperte fin su le orecchie.
Ma non riuscì a prendere sonno.
Continuava a girarsi e rigirarsi tra le lenzuola, cambiando posizione ogni qualvolta che lo stesso, impellente pensiero si faceva strada nella sua mente.
Melanie ha bisogno di me, non posso lasciarla sola. Melanie ha bisogno di me.
Melanie. Melanie. Melanie. Melanie. Melanie.
Quando con un grido di frustrazione si rese conto di non essere assolutamente in grado di addormentarsi, scacciò con impeto via le coperte, entrando nel bagno e infilandosi sotto un forte getto di acqua calda, per poi passarsi una mano tra i capelli.
Quello era sempre stato il modo migliore che conoscesse per rischiarirsi velocemente le idee. L’acqua scivolava lenta sul suo corpo, e sembrava portare con sé anche tutti i cattivi pensieri. E i problemi. E le preoccupazioni. E i timori.
Quando uscì dalla doccia, John indossò distrattamente un paio pulito di pantaloni, passandosi un asciugamano sulla testa nel tentativo di asciugare i bagnati capelli, mentre si sforzava di osservare il proprio riflesso sull’appannato vetro dello specchio del bagno.
Poi tornò nell’infermeria. Aveva appena svoltato l’angolo, che la sua attenzione fu attratta da sua sorella Theresa, che parlava sommessamente con un Will Solace non poco corrucciato.
John si avvicinò a loro, circospetto.
«Dobbiamo dirglielo, Will» stava dicendo lei, mordicchiandosi una pellicina del pollice. «John ha il diritto di sapere.»
«Dirmi cosa?» si intromise a quel punto il giovane figlio di Apollo, sentendosi chiamato in causa. I due fratelli sussultarono, colti alla sprovvista, e si voltarono a guardarlo.
Rimasero però in silenzio, il nervosismo palpabile nei loro occhi stanchi, al ché John inarcò un sopracciglio, facendo vagare lo sguardo dall’uno all’altra.
«Beh?» li incalzò, e Theresa tossicchiò, nonostante non ne avesse davvero bisogno.
«Stavamo parlando di Melanie» mormorò, con un filo di voce.
«Si è svegliata?» domandò allora John, apprensivo.
«Non ancora.»
Will spostò il peso da un piede all’altro, in attesa di qualche altra parola da parte della sorella, ma percependo la sua muta volontà di restare in silenzio sbuffò, frustrato. «Senti, John, non mi va di prenderti in giro, okay?» sbottò, facendo roteare teatralmente gli occhi. «Sono stato fino ad ora con altri sette ragazzi, lì fuori. Cercavamo i medicinali che Melanie aveva rubato. Ma non ne abbiamo trovata neanche l’ombra.»
John sentì il proprio cuore saltare un battito, mentre il respiro veniva bloccato infondo alla sua gola. «Cercate meglio» replicò, in un sussurro strozzato.
«Abbiamo cercato anche fin troppo bene.» Il maggiore sospirò, estraendo qualcosa dalla tasca posteriore dei jeans. «C’era solo questa.»
Fece cadere nel palmo di John una piccola siringa. Era umida e sporca di terra, e sul vetro c’erano degli incrostati residui di sangue. Il ragazzo se la rigirò tra le mani, quasi bruciasse al tatto. «Non significa niente.»
«Non puoi essere certo che non ci siano dei residui di medicinali, lì dentro, John.»
«Lei non li ha usati» ribatté il biondo, perentorio.
«E tu che ne sai? Potrebbe averli usati, ed essere stata graziata dagli dei. Solo perché è viva, John, non significa che sia per sua volontà.»
«Potrebbe avere ragione John» suggerì allora Theresa, capendo dai toni del fratello quanto la discussione stesse degenerando. «Magari lei li ha semplicemente gettati da qualche parte. Se solo ci dicesse dove possiamo trovarli…»
«Lo farà» la interruppe John, sorprendendo sé stesso con l’autorità della propria voce. «Sono sicuro che quei medicinali sono da qualche parte.»
«Sì, nelle sue vene» borbottò Will, con disappunto.
«Will!» lo rimproverò la ragazza, al ché lui inarcò le sopracciglia.
«Che c’è?» esclamò, allargando le braccia. «Il nostro Johnny non ha il diritto di sapere la verità?» Si voltò verso il biondo, scrutandolo con gli occhi chiusi a due fessure. «Ma quando la smetterai di difenderla sempre, eh? Quando ti renderai conto che quella ragazza non è altro che una mina vagante?»
«Tu non la conosci» sibilò John, a denti stretti.
«E ringrazio gli dei per questo! Dannazione, John, ti credevo ingenuo, ma non stupido! Ma lo capisci o no, che non fai altro che scavarti la fossa da solo? Lei ti farà soffrire! Questa è solo la prima delle tante prese di posizione che prenderà!»
«Will, smettila» lo redarguì Theresa, ma il ragazzo fece un passo verso il fratello, puntandogli un dito accusatorio contro il petto.
«Tu sei liberissimo di fare quello che vuoi, ma io ti ho avvertito» ringhiò. «E quando lei esploderà –perché puoi star pur certo che esploderà- non venire da me a chiedermi di raccogliere i tuoi pezzi da terra, chiaro?»
E detto questo se ne andò, non degnando i due fratelli neanche del minimo cenno del capo. Sparì lungo il corridoio, per poi sbattersi rumorosamente la porta alle spalle.
Fu solo a quel punto che John si rese conto di aver stretto la siringa sporca nel pugno talmente forte da avere le nocche bianche.
Theresa gli accarezzò il braccio teso, i muscoli contratti e la mascella serrata, ma tutto ciò che John si limitò a fare fu posarle il cilindro per le iniezioni nel palmo, allontanandosi da lei e prendendo un profondo respiro, prima di dirigersi verso la stanza della figlia di Demetra.
La sua mano esitò un secondo più del necessario sul pomello, quasi fosse indecisa sul da farsi.
Non gli importava di ciò che diceva Will, lui poteva pensare quel che voleva.
Conosceva Melanie, e sapeva che lei non aveva alcuna intenzione di fargli del male.
Perché era così difficile da accettare? Perché sembravano tutti incapaci di guardare oltre la ragazza senza un braccio che era pronta ad autodistruggersi?
Lui ci era riuscito. Lui aveva visto l’animo che quella corazza di solitudine nascondeva. Lui aveva avuto il privilegio di incontrare la Melanie che scherza, la Melanie che gioca, la Melanie che sorride.
Lui aveva conosciuto la parte migliore di lei.
E lei aveva tirato fuori la parte migliore di lui.
Con uno scatto deciso aprì la porta, varcando sicuro la soglia. Sul suo volto si dipinse un sorriso cordiale, pronto ad accogliere la ragazza nel caso fosse stata sveglia.
Ma la sua espressione mutò non appena i suoi occhi si posarono sulla branda vuota.
John fece vagare velocemente lo sguardo per la stanza, perlustrando nell’immediato ogni singolo metro quadro, finché non notò le ante della finestra spalancate.
Un lieve vento estivo filtrò nell’eburnea camera, infrangendosi contro le bianche pareti.
Oh, no, pensò il figlio di Apollo, precipitandosi a guardare fuori. Non di nuovo.
Si sporse oltre il parapetto, scrutando attentamente nella lieve oscuritàche precedeva l'alba. Fu solo a quel punto che la sinuosa ombra di una figura attirò la sua attenzione, facendolo sussultare.
Melanie stava correndo a perdifiato, lontano dall’infermeria. Era a piedi nudi, e i suoi lunghi capelli color grano riflettevano fulminei i raggi opachi della quasi spenta luna.
John ebbe il forte impulso di gridare il suo nome, di intimarle di fermarsi; ma fu costretto a reprimerlo non appena notò la ragazza rallentare gradualmente, fino a fermarsi del tutto, e poi lasciarsi cadere su una delle tante panchine di legno del Campo.
Il ragazzo chiuse gli occhi, rendendosi conto solo in quel momento di aver trattenuto il fiato. Poi tornò a guardare Melanie, e la trovò ancora lì, le gambe rannicchiate al petto.
Si lanciò una breve e fugace occhiata alle spalle, assicurandosi che non ci fosse nessuno in procinto di entrare. Dopo di ché si arrampicò sul cornicione della finestra, portando fuori prima un piede e poi l’altro, e con un abile balzo atterrò con i piedi al suolo, per poi incamminarsi lentamente verso di lei.
Quando fu a circa un metro di distanza, arrestò quella che si era in breve tempo trasformata in una leggera corsa. Fissò la ragazza per qualche secondo, contemplando il modo in cui i suoi lineamenti risaltassero al chiarore del crepuscolo, per poi fare qualche altro passo in avanti, annullando ulteriormente le distanze che li separavano.
«Ehi» mormorò piano, nel tentativo di attirare la sua attenzione.
Melanie si voltò a guardarlo, quasi fosse sorpresa di trovarlo lì. Poi abbassò lo sguardo, stringendo ancora di più le ginocchia contro il petto. «Ehi» salutò a sua volta, con scarso entusiasmo. «Ciao.»
John sospirò, andando a sedersi al suo fianco sulla vecchia panca. «Che ci fai qui?» le chiese, al ché lei si morse l’interno della guancia, scuotendo leggermente la testa.
«Non ho intenzione di passare un’altra notte in quella stanza asettica» borbottò, e lui annuì, comprensivo.
Poi inclinò leggermente il capo di lato, cercando invano il suo sguardo, e quando non lo trovò si passò una mano sui capelli, amareggiato. «Melanie, i medicinali che avevi rubato non sono stati trovati» disse tutto d’un fiato, la voce a poco più di un sussurro. «Alcuni ragazzi li hanno cercati, ma senza risultato. Ti prego, dimmi che non ci hai fatto niente di male.»
Il silenzio che seguì dopo fu addirittura peggio dell’attesa in sé. E John sentì corrodersi la bocca dello stomaco, quando lei fece spallucce, fingendo noncuranza.
«E se anche fosse?»
«Melanie, so che non li hai utilizzati, okay?» le assicurò lui, sfregandosi il viso afflitto con una mano. «Basta che mi dici dove posso trovarli, e…»
«Cosa ti fa pensare che io non me li sia iniettati, eh? Cosa?» lo interruppe allora lei, un tono furioso che lo fece titubare. «Ci giri tanto intorno, ma sappiamo benissimo entrambi perché li avevo rubati. Vuoi sapere se me li sono sparati nelle vene uno dopo l’altro? È questo che vuoi?»
«Perché avresti dovuto farlo?» chiese interdetto lui, e la ragazza si irrigidì, raddrizzando la schiena.
«E me lo chiedi?» ribatté, sarcastica. «John, ti prego, guardami. Guardami, per tutti gli dei!» gridò. «Guarda questo» disse poi, indicando con un cenno il proprio braccio mancante. «Come pretendi che io possa sentirmi fiera di me stessa? Come puoi anche solo pensare che sarò mai in grado di accettarmi! Mi faccio schifo, okay? Non riesco neanche a fissare il mio riflesso.» La voce le si incrinò, segno che brucianti lacrime erano pronte a solcarle il viso. «Io non la voglio, questa vita» mormorò, scrollando il capo. «Io non voglio affrontare ogni giorno il mondo da sola!»
«Ma tu non sarai mai sola!» esclamò allora lui, alzando a sua volta il tono di un’ottava. «Perché per te è tanto difficile da accettare?»
«Perché non voglio la compassione di nessuno.» Il modo in cui lo disse fece digrignare i denti anche a John. «Non voglio che gli altri mi guardino e provino pena per me. Non voglio che lo faccia neanche tu, perché giuro che mi dà sui nervi.»
«Credi davvero che io stia con te solo perché mi fai pena?» domandò quindi il figlio di Apollo, indignato.
«Che motivo avresti, se no?» Melanie alzò gli occhi al cielo, maledicendosi per il tremitio della propria voce. «Dannazione, John, hai la possibilità di avere una vita perfetta. Perché rovinarsela con una come me?»
«Perché ormai non riesco ad immaginare la mia vita senza di te» ammise lui, troppo velocemente per poter impedire a quelle parole di fuggire dalle proprie labbra.
La ragazza abbozzò un sorriso amaro, sghembo. «Cos’è, un modo carino per convincermi che anch’io servo a qualcosa?»
«No, è un modo carino per farti capire quanto tu sia stupida» la corresse lui. «E quanto sia idiota da parte tua anche solo pensare una cosa del genere.» Puntò gli occhi sul suo viso, ma lo sguardo della figlia di Demetra era cupo, assente. «Sono qui, Melanie» le fece notare, con decisione. «Sono qui per te.»
«Perché ti faccio pena?» chiese retorica lei.
«No, perché sono innamorato di te!» sbottò quindi John, e l’impeto con il quale lo fece fu tale che la ragazza si voltò di scatto, guardandolo stupita.
Solo quando la mente di lui rielaborò velocemente quell’inaspettata ammissione, il ragazzo si rese conto di quanto in realtà fosse tremendamente vera.
Incastrò le proprie iridi verdi in quelle autunnali di lei, mentre la consapevolezza di quanto fosse bella lo colpiva come un pugno di ferro allo stomaco, arrestando il suo respiro. «Sono innamorato di te dal primo momento in cui ti ho vista» sussurrò, trascinando lentamente le parole. «Da quando sono entrato quella sera nella tua stanza e tu mi hai guardato come se avessi voluto incenerirmi con lo sguardo. Sono innamorato di te» ripeté poi, quasi volesse accertarsi che lei avesse compreso appieno il significato di quelle parole. Le spostò dolcemente una ciocca di capelli dietro l’orecchio, accarezzandole delicatamente una guancia senza però interrompere il contatto visivo. «Sono innamorato di te.»
Non aspettò esattamente quella che può definirsi una reazione. Né si prese la briga di chiedersi quali fossero i pensieri della ragazza in quel momento.
Gli bastò avvertire il suo respiro tremante vibrare accanto al proprio, ed osservare il luccichio di desiderio nel suo sguardo, per convincersi che non aveva più alcuna intenzione di aspettare.
Le prese il volto tra le mani, e in un gesto tanto repentino quanto inaspettato posò le labbra sulle sue, baciandola con passione.
In un primo momento Melanie sussultò, sorpresa da quell’unione inattesa. Ma non appena sentì i denti di lui morderle timidamente il labbro inferiore, quasi a voler chiedere il permesso di approfondire quel bacio, tutta l’interdizione fu sostituita solo da un piacevole bruciore all’altezza dello sterno.
Schiuse lentamente la bocca, e le loro lingue si abbracciarono quasi nell’immediato.
Fu un bacio dolce, timido e impacciato. Uno di quelli capaci di scaldarti il cuore anche nella più fredda notte di Dicembre.
Un bacio temuto e bramato, un bacio sognato.  
Un bacio che finì troppo in fretta, non appena lei, posandogli la mano sul petto, allontanò bruscamente il volto dal suo, stringendo gli occhi.
«No» mormorò, con voce grondante di rimpianto. «No, no, no, no, non posso. Non posso farlo.» Si alzò in piedi, allontanandosi di qualche passo sotto lo sguardo atterrito di John. Si coprì il volto con la mano, afflitta. «Non posso farlo, non è giusto.»
«Ehi, che succede?» chiese teneramente lui, raggiungendola con passo esitante.
«Non posso farti questo, John» replicò allora Melanie, passandosi la mano tra i capelli biondi. «Non posso, non è giusto.»
«Farmi cosa? Sono stato io a baciarti.»
«Io…» La ragazza esitò, sentendo gli occhi bruciare mentre si agitava freneticamente sul posto. «Io sono insopportabile, John» singhiozzò. «Sono un disastro. Sono talmente difficile da non capirmi; talmente fragile che neanch’io conosco il miglior modo per distruggermi. Eppure continuo a farlo. Mi distruggo, e poi mi rialzo. Non riesco mai a far entrare facilmente una persona nel mio cuore, e ogni volta che qualcuno lo fa, non ci resta che una frazione di secondo. Tutto ciò che ho amato ha sempre avuto una brutta sorte, e il più della metà delle volte è stato per causa mia. Rompo le cose, e poi non sono in grado di ripararle. Andiamo, John, tu lo faresti?» domandò poi, la vista appannata per via delle lacrime che silenziose le solcavano il viso. «Ameresti un disastro?»
Il figlio di Apollo fece un altro passo verso di lei, afferrandole dolcemente il volto tra le mani. «Melanie, guardami» ordinò, con tono deciso. «Ehi, guardami.» La ragazza obbedì.
«Nell’ultimo periodo ho fatto uno sforzo immane» confessò quindi lui. «Perché volevo a tutti i costi far parte della tua vita, anche se tu non volevi. E sai una cosa? Ho capito che non mi importa. Che non mi è mai importato e mai mi importerà.»
La figlia di Demetra corrucciò leggermente le sopracciglia, non capendo, al ché John sorrise.
«Non mi importa se tu non mi ami, né se non mi vuoi tra i piedi. Non mi importa neanche se hai un braccio solo. Sì, hai capito bene. Me ne frego. Non mi importa se non hai un orecchio, se ti manca una gamba o se la tua corporatura farebbe invidia alla stazza di Polifemo. Non mi importa se mi farai soffrire o se hai intenzione di spezzarmi il cuore, e sai perché?»
Incastrò gli occhi nei suoi, deciso a non lasciarli andare mai più. «Perché sarebbe un privilegio ritrovarmi il cuore spezzato da te. Mi hai sentito, Melanie? A me non importa! Io sono qui. E ti amo. E ti starò sempre accanto. E non c’è niente che tu possa fare per perdere il mio amore. Quindi ricordatelo. Ricorda sempre che ti amo. E ricorda che ci tengo a te. Ricorda che sono qui per te, e che non sarai mai sola. Ricorda che ti amo, e che se mai vorrai ucciderti, automaticamente ucciderai anche una parte essenziale di me. Vorrei tanto lasciarti andare, Melanie, ma non posso. Non posso.» Le asciugò delicatamente uno zigomo con il pollice, avvicinando il volto al suo tanto che i loro nasi si sfiorarono.
«Non posso lasciarti andare» ripeté. «E non riuscirai mai ad impedirmi di stare con te. Ormai è troppo tardi» sussurrò poi. «Sono già tuo.»
C’era sicurezza, nel suo sguardo. C’erano fierezza e decisione.
E poco prima che la ragazza potesse anche solo pensare a qualcosa da dire, le labbra di lui erano nuovamente premute contro le sue.
John sapeva di menta, sapeva di cose buone. Sapeva di protezione e sapeva di semplicità.
Sapeva di tutto ciò di cui Melanie aveva dannatamente bisogno in quel momento.
Sapeva di John, e questo era più che sufficiente.
Per un semplice e breve attimo, il ragazzo si riscoprì a domandarsi quale sarebbe stata la reazione di lei, questa volta; ma quando le labbra della figlia di Demetra si schiusero lentamente, permettendogli di approfondire quel bacio, il biondo capì che ormai, tra loro, non c’era più alcuna barriera.
Erano state distrutte una dopo l’altra, spazzate via dall’impetuosa corrente del vento.
E in quel momento sembrò che il mondo fosse sparito, lasciandoli finalmente soli.
Non erano più un figlio di Apollo e una figlia di Demetra. Non erano più il ragazzo con un cuore troppo ingenuo e la ragazza con un braccio solo.
Erano semplicemente Melanie e John.
Due ragazzi che si amavano. Due ragazzi che si amavano alla follia.
Due ragazzi che avrebbero barattato senza rimpianti le loro stesse vite, pur di poter vivere per sempre in quell’istante.
Melanie sentì una piacevole morsa stringerle la bocca dello stomaco, e mentre le loro lingue si spingevano dolcemente, calde e bramose, le fu inevitabile sorridere contro le labbra di lui.
Si aggrappò con la mano alla sua nuca, avvicinando talmente tanto il volto a suo che si ritrovarono a condividere un sospiro tremante.
E John giurò di non essersi mai sentito così bene.
Di non essersi mai sentito così vivo, di non aver mai provato delle emozioni così intense con nessuno.
E capì di essere davvero innamorato di lei.
Del suo sorriso, dei suoi capelli, dei suoi occhi caramellati, del suo profumo.
Innamorato della sua anima e del battito ritmato del suo cuore.
Innamorato della sua aura e del suo sapore.
Innamorato lei; innamorato di Melanie.
La dolce Melanie.
La fragile Melanie.
La timida Melanie.
La bellissima Melanie.
La sua Melanie.

Angolo Scrittrice.
E siamo in onda tra cinque... quattro... tre... due... uno...
Salve a tutti, popolo di Efp!

*alla voce fuori campo* -Fuck you, stavolta ho indovinato!-

Ohana! Indovinate un po'? Eh, già... oggi è martedì. Ed io, come sempre, sono ancora qui a rompervi le balls con uno dei miei capitoli!
Bien, bien, bien... beh, che dire? Jelanie a tutto spiano.
Ecco a voi un capitolo tutto
dedicato a loro.
Che dite, vi è piaciuto? Non so se a qualcuno è sfuggita l'ultima notizia, ma...

SI SONO BACIATI!
Si. Sono. Baciati!
ahaha, non so voi, ma io non vedevo l'ora. Le mie manine tremavano ansiose nell'attesa di poter scrivere questo capitolo.
Anche se devo ammettere che è stato molto più complicato di quanto mi aspettassi, sotto diversi punti di vista.
Innanzi tutto, le sensazioni di John a inizio capitolo. Anche stavolta ho deciso di sfidare me stessa, cimentandomi in qualcosa per me del tutto inesplorato. Sono sempre più convinta che la cosa più difficile da riportare non siano i sentimenti di chi fa una determinata azione, quanto più di coloro che sono accanto a quella persona, e che di conseguenza non sanno come comportarsi.
Ma spero di aver descritto ciò che prova John al meglio.
E poi hanno ritrovato Melanie. Credevate davvero che 'adesso tutti felici e contenti, andiamo a casa e buonanotte'?
Muahahahah! Ancora non mi conoscete bene. ;)
Melanie è viva e vegeta, certo, ma i medicinali non sono comunque stati ritrovati.
Che lei li abbia usati oppure no per rimarrà un mistero, ma è stato comunque un ottimo pretesto per John per dichiararsi (finalmente). Nonostante fosse stato chiaro fin da subito ciò che lui provava per lei, non aveva mai trovato il coraggio di confessarglielo liberamente, senza troppi preamboli o giri di parole. Quante volte ha ripetuto 'ti amo'? ahaha
E che ne pensate della sua dichiarazione?
Anche questa è stato un punto abbastanza dolente, perchè solitamente non sono la regina delle smancerie, e poi volevo che dicesse qualcosa di romantico, e non melenso. Spero di essere riuscita nel mio intento, e cavolo!, spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Vi ha soddisfatto? Vi ha fatto schifo? Vorreste solo avere la possibilità di attraversare il computer per strozzarmi e inveire contro questo capitolo di sploff?
Fatemi sapere, come sempre sono aperta ad ogni consiglio/critica, purchè siano cose costruttive. :)
Now, prima di ringraziare i miei Valery's Angels, voglio rendere ancora più chilometrico questo Angolo Scrittrice rispondendo a tutti coloro che, nello scorso capitolo, mi hanno chiesto chiarimente riguardo il sogno di John.
In Pratica:
Sì, MOLTI DI VOI AVEVANO VISTO GIUSTO. IL SOGNO E' UNA SORTA DI METAFORA, CHE VA INTERPRETATA, ALTRIMENTI SEMBRA SENZA SENSO. L'UCCELLO DEL PARADISO ERA MELANIE. O MEGLIO, ERA UNA PERSONIFICAZIONE DI MELANIE. QUEL PENNUTO AVEVA I SUOI STESSI OCCHI, E LE PIUME DELLO STESSO COLORE DEI SUOI CAPELLI.

CI SONO MOLTEPLICI SIMILITUDINI: JOHN TROVA QUESTO UCCELLO CHIUSO IN UNA GABBIA FINEMENTE RICAMATA, MA PUR SEMPRE DI FERRO; UN PO' COME MELANIE, CHE NONOSTANTE VOGLIA AUTOCONVINCERSI DEL FATTO CHE LA SUA CORAZZA SIA PER LEI UN BENE, IN REALTA' NON FA ALTRO CHE SOFFOCARLA.
JOHN CERCA DI LIBERARE QUINDI IL VOLATILE, CULLANDOLO E SALVANDOLO, IN UN CERTO SENSO (UN PO' COME HA SALVATO MELANIE), MA ALLA FINE LUI, SENZA UN APPARENTE MOTIVO, GLI FA DEL MALE, FACENDOLO PIEGARE IN DUE DAL DOLORE, E QUESTO RIPORTA A CIO' CHE DICE WILL RIGUARDO AL FATTO CHE MELANIE SIA UNA MINA VAGANTE, E CHE NON FARA' ALTRO CHE FARLO SOFFRIRE.
MA LA VERITA' E' CHE L'UNICO MOTIVO PER CUI L'UCCELLO GLI HA BECCATO LA MANO E' PER POTER TORNARE NELLA SUA PRIGIONE, ISOLANDOSI E COMINCIANDO A FARSI LENTAMENTE DEL MALE, FINO A CONDURSI ALLA MORTE; E JOHN E' COSTRETTO A GUARDARLO, IMPOTENTE (NON CREDO CI SIA IL BISOGNO DI SPIEGARE ANCHE QUESTA PARTE, MA DICO COMUNQUE CHE ERA TUTTO RICONDUCIBILE A QUESTO CAPITOLO, DOVE MELANIE PROVA DAVVERO A FARSI DEL MALE).
Bien bien, ora che lo sproloquio è finito, passo a ringraziare i miei Valery's Angels, e a scusarmi di nuovo con loro per non essere riuscita a rispondere a tutte le recensioni. Rimedierò! Un grazie enorme a:
famousdrago, _angiu_, ChiaraJacksonStone1606, carrots_98, Occhi di Smeraldo, Percabeth7897, fire_in_dark29, _Krios_, Kamala_Jackson e kariwhite003.
Grazie davvero, angeli! Le vostre parole hanno il potere di migliorare le mie giornate!
Oookaaay... ora credo sia arrivaro davvero il momento di andare.
Ancora un grazie a tutti voi che state leggendo questo luuungo Angolo Scrittrice, e che continuate a seguire la storia, rendendomi non felice, di più.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e se no, non esitate a dirmelo.
Al prossimo martedì, cari biscottini blu (?)
Sempre Vostra,

ValeryJackson
P.s. Chi ha riconosciuto la ciazione di TFIOS riguardo il cuore spezzato detta da John? Voglio tranquillizzarvi dicendo che non ho assulatamente intenzione di copiare nessuno (cosa impossibile, tra l'altro). E' solo che quella frase mi fa venire i brividi, perchè cavolo, vale più di mille parole. Quindi non potevo non inserirla.
P.p.s. "Bob says hallo". Oh, my poor heart! t.t 


 

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***




 

Skyler sospirò, totalmente soffocata dai suoi pensieri.
Era il 4 Luglio, e mai come quell’anno avrebbe voluto cercare un posto dove nascondersi.
Odiava quell’aria di festa.
Ricordava ancora nitidamente tutti gli Indipendence Day passati ad arrostire carne di maiale sul barbecue, nel giardino della sua casa a Baltimora.
Lo zio invitava sempre tutte le famiglie del quartiere. C’era la Signora Petunia, una dolce cinquantenne che passava la maggior parte del suo tempo ad ingozzare di cibo suo marito e i loro cinque figli, preparando loro dei manicaretti che non facevano altro se non aumentare ulteriormente la loro stazza.
Poi i Signori Miller, famosi tra i vicini per l’insistenza con la quale vantavano la loro progenie. Avevano un figlio che studiava ad Oxford, ed un’altra che invece lavorava in Francia presso una rinomata casa editrice. Solo il più piccolo, Edward, non aveva ancora l’età giusta per poter andare via di casa. E Skyler poteva giurare che non avrebbe avuto alcuna intenzione di farlo, se questo non fosse significato essere finalmente libero dai genitori.
Andavano spesso anche i Forrest, una coppia gay che aveva adottato due bambini, Samuel e Liam, due pestiferi dodicenni che si divertivano a combinare guai.
E poi ancora il Signor Campbell, la famiglia Phillips, i signori Evans e l’anziana Signora Puff, che Skyler aveva ribattezzato Evie per via della sua eccentricità, che le riportava alla mente Driving Lessons, uno dei film preferiti dello zio.
Si riunivano tutti nel loro disordinato ed ampio giardino. Preparavano torte e crostate, giocavano a baseball, portavano con sé le loro chitarre e suonavano fino a notte fonda, smettendo solo alla vista dei primi fuochi d’artificio.
È un bell’ambiente, dopotutto.
Era questo che continuava a ripetersi Skyler nella speranza di sopprimere la sua volontà di scappare.
Odiava avere tanta gente a casa. O meglio, odiava avere quella gente.
Vicini che non perdevano occasione per sparlare sui due Garcia e sulla loro condizione.
Persone che si ti regalavano sorrisi tirati e frasi cordiali solo per riuscire a guadagnare quella coscia di pollo in più.
«Lo faccio per te, mi hija» le diceva sempre lo zio, poco prima dell’arrivo degli ospiti. «Passi sempre tutto il tuo tempo da sola.»
Ma se c’era una cosa che Skyler non sopportava, era circondarsi di individui falsi e senza buon cuore, che ti avrebbero volentieri accoltellato alle spalle, pur di assicurarsi un posto nei Campi Elisi.
Eppure, nonostante custodisse nel cuore lo scomodo ricordo di tutte quelle giornate passate a controllare l’orologio e a contare i minuti che mancavano alla fine, in quel momento la figlia di Efesto sentiva un’insolita nostalgia nel petto.
Le mancavano quegli scomodi barbecue.
Le mancavano gli stupidi scherzi dei Forrest, e le effusioni fuori luogo dei giovani Evans. Le mancavano i dolci della Signora Petunia e gli inutili tentativi di Edward Miller di attaccare bottone con lei. Le mancavano le lamentele del Signor Campbell e gli strani cappelli della Signora Puff.
Le mancava lo zio, era questa la verità.
Le mancava più dell’acqua per una gola assetata.
Ma soprattutto, le si stringeva il cuore ogni volta che pensava al modo in cui l’aveva lasciato.
Senza salutarlo. Senza neanche sussurrargli un ‘mi dispiace’.
I rimorsi le corrodevano lo stomaco, provocandole sempre un forte senso di nausea.
Credeva che parlandone con i suoi amici, sarebbe riuscita ad alleviare quel persistente peso che si era adagiato sul suo petto, deciso a non spostarsi. Credeva che dando voce ai propri pensieri l’angoscia si sarebbe alleviata.
Ma la verità era che non sapeva neanche lei come guarire la cicatrice che molesta dimorava nel suo sterno.
E questa consapevolezza la faceva impazzire.
Corrucciò le sopracciglia, spostando il peso da un piede all’altro mentre contemplava distrattamente il prosperoso campo di fragole del Signor D. Sperava che concentrandosi sul colore acceso di quei frutti avrebbe distolto la sua attenzione dai mormorii insistenti dei suoi fantasmi, ma la delusione le aveva fatto salire un ingombrante groppo in gola, quando si era resa conto che non era così.
Qualcuno le coprì gli occhi con entrambe le mani, oscurandole la vista.
Skyler sussultò.
Ora, in un’occasione normale si sarebbe limitata a sorridere, tentando di capire chi fosse il proprietario di quelle mani forti.
Ma, presa alla sprovvista nel momento in cui la sua mente vagava sovrappensiero, fece ciò che il suo istinto iperattivo le suggerì: afferrò il polso del suo potenziale aggressore, pestandogli con forza il piede. Quello si piegò in due per via dell’inaspettato dolore, e Skyler ne approfittò per bilanciare il proprio peso e storcergli il braccio proprio come Ben le aveva insegnato, facendogli fare una mezza capriola in aria e cadere supino con un tonfo.
Solo quando la ragazza posò gli occhi su colui che aveva annientato, le morì il fiato in gola.
Matthew si lasciò sfuggire un lamento strozzato, inarcando le spalle.
«Oh miei dei, Matt, scusa!» esclamò repentina la figlia di Efesto, chinandosi velocemente su di lui e accostando il capo al suo petto. Il suo respiro era irregolare, ma il ragazzo sembrava ancora in grado di poter vantare due polmoni integri.
«Mi dispiace tanto» si giustificò lei, così rapidamente che era difficile starle dietro. «Ero così sovrappensiero che la prima cosa a cui ho pensato è stata un’aggressione, ma non ho ragionato sul fatto di trovarmi al Campo, e che quindi qui non è possibile un avvenimento del genere, o meglio, se è possibile, non sempre; insomma, voglio dire, sì, potrebbe capitare, ma non ogni volta, e se capita di certo non si limitano a coprirti gli occhi; che poi tu non mi hai proprio coperto gli occhi; cioè, sì, l’hai fatto, ma non con l’intenzione di…»
«Skyler» la zittì flebilmente lui, la voce a poco più di un sussurro.
«Mi dispiace» ripeté, mordendosi un labbro con rammarico.
«Devi farmi solo un favore» continuò flebilmente il ragazzo, al ché lei annuì.
«Tutto quello che vuoi.»
«Vieni qui» mormorò quindi Matthew, e la figlia di Efesto si chinò su di lui, avvicinando attenta l’orecchio alle sue labbra. Trattenne il fiato, in attesa di una richiesta, e il ragazzo emise un sommesso rantolo, prima di parlare.
«Per favore, non dire a nessuno che sono stato picchiato da una ragazza» la pregò, cogliendola di sorpresa. «Perderei anche quel po’ di reputazione che mi ritrovo.»
Skyler esitò qualche secondo, prima di lasciarsi andare ad una leggera risata.
«Okay, affare fatto» assentì divertita, scrollando il capo con un sorriso. Si alzò in piedi, porgendogli una mano, e lui lentamente la afferrò, tirandosi su con fatica.
«Spero di non averti rotto niente» si augurò lei, non appena il ragazzo si aggrappò alla sua spalla per sorreggersi.
Il figlio di Eris storse il naso. «Sopravvivrò» scherzò, per poi osservare le labbra della mora stirarsi in un sorriso. «Ma ricorda che hai promesso di non dirlo a nessuno.»
«Ehi, sono una ragazza di parola» ribatté lei, cercando invano di fingersi offesa.
Matthew si avviò zoppicante verso una panchina di marmo, sedendovisi sopra e respirando a fondo, nel tentativo di riempire di nuovo i polmoni.
«Ero venuto a chiamarti» spiegò, grattandosi la nuca imbarazzato. «Tutti i ragazzi sono in spiaggia ad arrostire marshmallow, ma tu non c’eri.»
«Non sono in vena di feste, oggi» rispose semplicemente Skyler, scrollando le spalle timidamente. «Riportano a galla troppi ricordi.»
Il ragazzo la osservò per qualche secondo, cercando inutilmente il suo sfuggente sguardo scuro, e non trovandolo batté due dita nel posto vuoto accanto a sé, invitandola a raggiungerlo.
La ragazza esitò, incerta, ma poi obbedì, sedendosi vicino a lui e stringendosi le ginocchia al petto.
«Ti va di parlarne?» chiese teneramente il figlio di Eris, inclinando leggermente il capo di lato.
Skyler scosse la testa, mordicchiandosi il labbro inferiore. «È tutto inutile. Non mi aiuta a stare meglio.»
«Beh, magari questa volta sarà diverso.»
«E perché dovrebbe?»
«Perché ci sono io.»
«Credi di essere in grado di aiutarmi?»
«Vorrei provarci.» Il ragazzo inarcò le sopracciglia, con decisione. «Sai, ho sentito dire che sono un buon ascoltatore.»
Skyler ridacchiò sommessamente, posando la fronte sulle proprie ginocchia congiunte. Si torturò una pellicina del pollice con i denti, sentendo gli occhi intensi del figlio di Eris fissi su di lei. Poi sbuffò.
«È per mio zio» ammise scocciata, rendendosi conto solo in quel momento di aver ripetuto quella frase più volte nell’ultimo periodo che in nove anni di vita. «Io…» Era stanca di quei sensi di colpa, stanca di tutto.
«Io non ce la faccio più» sbottò, sentendo gli occhi bruciare. «Sono qui, con tutti i miei amici e le persone a me più care, e non riesco a non pensare a ciò che mi sono lasciata alle spalle. L’ho abbandonato senza ritegno, capisci? Anche se in quel momento era l’unica cosa da fare, mi sento come se gli avessi fatto un torto imperdonabile. Lui mi aveva portato a San Diego per darmi la possibilità di ricongiungermi con la famiglia. Sperava che se mia nonna avesse visto che genere di ragazza ero diventata e com’era stato bravo lui a regalarmi un futuro, forse avrebbe ceduto all’idea che Ben sia l’unica persona in grado di prendersi cura di me. Dovevamo farlo, dovevamo dare tutti noi stessi, affinché lei ci vedesse come un’accoppiata vincente. Ed io lo volevo, Matthew» annuì, con voce incrinata. «Lo volevo con tutto il cuore. Ma non ce l’ho fatta. E tutto per questa Tartaro di vita semidivina. Non riuscivo a tenerla nascosta, non capivo come fare a sopprimerla per almeno una settimana. Continuava a ritorcermisi contro, non facendo altro che aumentare i problemi. E poi quella maledetta sera non sono riuscita a controllarmi. Ho dato fuoco ai capelli di mia cugina, e mio zio era furioso. Io… non so cosa mi sia preso. Non riesco a capirlo. So solo che poi lui ha minacciato di non farmi venire al Campo, ed io sono stata costretta a fuggire.»
«E poi?» domandò allora lui, al ché la ragazza inarcò un sopracciglio.
«E poi cosa?»
«Cos’è successo, dopo?»
«Sono fuggita» fece spallucce Skyler, come se la cosa fosse scontata.
«E basta?»
«Sì. Perché, cos’altro dovrebbe essere successo?»
«Non lo so, ma sento che c’è qualcos’altro che non vuoi dirmi.»
«Ti ho detto tutto» assicurò lei, stizzita.
«Allora c’è qualcosa che non vuoi dire neanche a te stessa.»
La figlia di Efesto prese fiato per parlare, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Corrugò la fronte, confusa. «Non ti seguo.»
«Cos’è successo, poi? Prima che tu scappassi, intendo.»
«Io…» Skyler tentennò, concentrandosi al fine di ricordare ogni particolare. «Ho pianto per un po’. E poi Travis e Connor sono venuti a prendermi.»
«E…?»
«E basta.»
«Ne sei sicura?»
«Credo di sì. Insomma, ho raccattato tutte le mie cose, e ho scritto una lettera.»
«Una lettera?»
«Sì, una lettera.»
«Una lettera per chi?»
«Una lettera per mio zio.» La ragazza sospirò, stropicciandosi gli occhi. «E per mia nonna, mio nonno, mia zia Carmen, i miei cugini. Spiegavo loro perché me ne sono dovuta andare, e perché avrei voluto non farlo. E poi gli dicevo del carillon di mia madre, dove c’era la ninnananna che lei cantava sempre. Spero che la riconoscano» confessò poi, in un sussurro. «Perché sono passati tanti anni, ma ogni volta che lei cantava tutto il mondo si fermava ad ascoltarla. E infine gli ho chiesto di confrontarsi, di chiarire. Ho pregato mia nonna di soffermarsi su tutte le cose belle che Ben ha fatto per me, e ho scongiurato mia zia Carmen di appoggiarlo. All’inizio ero convinta che lei non fosse altro che una donna saccente e antipatica, ma poi ho capito. Ho capito che gli vuole bene, e che quella dell’avvocato insensibile era solo una copertura. Gli vuole bene davvero, l’ho visto dal modo in cui lo guardava. E da come si sono abbracciati, la prima volta che si sono rincontrati. Perché neanche otto anni possono spezzare il legame profondo che c’è tra due fratelli. E so che detto così sembra stupido e infantile, ma io… io…»
«Hai paura che loro non ti abbiano ascoltato» concluse Matthew per lei, al ché Skyler si voltò a guardarlo.
«Odio non sapere quello che troverò quando tornerò a casa» dichiarò, la vista appannata per via delle lacrime che minacciavano di rigarle il viso. «E odio ancora di più non volerlo sapere.»
«Non sei costretta a tornare a casa» le fece notare allora lui, incastrando le proprie iridi acquamarina a quelle tristi di lei. «Potresti restare qui al Campo.»
«No, non potrei mai.» La figlia di Efesto scrollò il capo, un sorriso amaro ad incurvarle le labbra. «Non finché avrò mio zio ad aspettarmi.»
Matthew le accarezzò delicatamente la nuca, per poi attirarla dolcemente a sé e stringerla fra le proprie braccia.
La ragazza represse un singhiozzo, trovando conforto nel ritmo regolare del cuore di lui; la testa poggiata sul suo petto, le sue dita affusolate che le scostavano teneramente i capelli dal viso.
E poi successe, quasi all’improvviso.
Il tempo si fermò, e per quella che sembrò un’eternità il macigno sul suo cuore prese a spostarsi, leggero.
Skyler corrucciò le sopracciglia, visibilmente interdetta, per poi drizzare lentamente la schiena.
Avvertiva un’insolita padronanza della libertà, quasi fosse di nuovo in grado di respirare dopo essere stata costretta ad un’interminabile apnea.
Si sentiva più rilassata. Si sentiva bene.
«Ha funzionato» sussurrò, più a sé stessa che all’amico. Il ragazzo si sporse verso di lei, un po’ confuso.
«Come?»
«Ha funzionato» ripeté allora lei, sgranando gli occhi.
Era quello il vero problema. Era quella lettera, a tormentarla. Quella, e la consapevolezza di non poter sapere quale fosse stato il suo effetto, chi l’avesse letta, come avevano reagito, che sarebbe successo.
Senza rendersene conto, Skyler non si preoccupava di ciò che era stato, ma di ciò che sarebbe stato.
Temeva il futuro, non il passato. Ma non aveva accennato a nessuno questa sua insofferenza.
«Quando dici che ‘ha funzionato’, intendi dire che ora ti senti meglio?»
La figlia di Efesto ridacchiò, divertita, rendendo Matthew ancora più perplesso. «Sì» annuì poi, inspirando appieno ed inebriandosi di quella nuova sensazione. Poi espirò, soddisfatta.
Il peso dovuto ai sensi di colpa non l’aveva abbandonata, ma era meno opprimente, ora che qualcuno l’aiutava a sostenerlo.
«Grazie» mormorò, ancor prima di rendersi conto che quella semplice parola stava sfuggendo alle sue labbra.
Il figlio di Eris si passò una mano tra i capelli, sorridendo. «Non so per cosa tu mi stia ringraziando, ma non c’è di che» celiò, provocandole una sommessa risata, per poi prendere a cercare il suo sguardo. «Potrai sempre contare su di me.»
«Sì, lo so.»
I loro occhi si incontrarono, e mentre lei gli palesava tutta la sua gratitudine, lui si riscopriva incapace di scostare le iridi da quelle scure di lei.
La ragazza avvertì il suo caldo respiro carezzarle il viso, tanto i loro volti erano vicini. Quelle due immense sfere verdi sembravano fungere da calamite per la sua attenzione, e per un attimo resero tutto ciò che li circondava inconsistente, inutile, quasi non servisse altro. Quasi bastassero loro.
«Sai cosa ci vorrebbe, adesso?» domandò Matthew, al ché lei inarcò un sopracciglio, con fare interrogativo. «Una bella canzone.»
«Una che
«Una canzone. Come nei film.» Il ragazzo si alzò in piedi, sgranchendosi teatralmente la voce per poi intonare a squarciagola: «Looks like a girl, but she’s a flame. So bright, she can burn your eyes, better look the other way!»
Improvvisò qualche passo di danza, muovendosi scoordinato sul posto. Skyler sgranò gli occhi, incredula. «You can try, but you’ll never forget her name! She’s on top of the world, hottest of the hottest girls say.»
La ragazza trattenne invano una divertita risata, buttando la testa all’indietro e asciugandosi con il dito una lacrima che le imperlava l’angolo dell’occhio. «Smettila, ti prego. Sei stonato come una campana» implorò, ma Matthew sembrava deciso a non ascoltarla, perché sorrise, malandrino.
«Oh, we got our feet on the ground, and we’re burning it down. Oh, got our head in the clouds, and we’re not coming down.»
Allargò le braccia in direzione di Skyler, preparandosi ad un acuto diretto al cielo. «This girl is on fire! This girl is on fire!»
La afferrò per un polso, tirandola in piedi nonostante le sue innumerevoli proteste. «She’s walking on fire» continuò, facendole fare una piroetta su sé stessa, con le risa di sottofondo della ragazza. «This girl is on fire!» canticchiò poi, trascinandola con sé in quella che era una disordinata e impacciata danza. Le posò una mano nell’incavo della schiena, la soddisfazione che si irradiava nel suo petto ogni volta che lei ridacchiava felice. Volteggiarono per qualche secondo, i piedi che seguivano una melodia totalmente diversa da quella della canzone che Matt solfeggiava. Poi lui le avvolse saldamente i fianchi con un braccio, facendole fare un teatrale casquè.
Risero entrambi di gusto, incapaci di trattenersi.
«Skyler.»
Fu solo il suono netto e atono di una voce a tagliare il sottile velo di spensieratezza che si era creato.
La ragazza si voltò di scatto, ritrovandosi due occhi del colore del mare a fissarla inespressivi.
«Michael» salutò, sul volto ancora l’ombra di un sorriso divertito.
Il figlio di Poseidone fece vagare lo sguardo da lei al figlio di Eris, poi a lei, e di nuovo al figlio di Eris. Inarcò un sopracciglio, in un’espressione indecifrabile. «Disturbo?» chiese. Domanda retorica.
Non c’era una risposta vera e propria da dare, e Skyler se ne rese conto nel momento in cui ricordò il braccio di Matthew ancora stretta attorno alla sua vita.
«Oh, no» balbettò in fretta, fingendo senza risultato nonchalance. «Noi stavamo solo…» Le parole le morirono in gola, incerte, e questo non fece altro che infittire la tensione che li circondava.
«Ballando» suggerì Matthew, correndo in suo aiuto.
«Ballando, certo.» Il borbottio stizzito di Michael fu così flebile e stretto tra i denti che anche se avesse voluto, la ragazza non sarebbe riuscita a sentirlo.
«Ero venuto a cercarti» continuò gelido il moro figlio di Poseidone, per poi abbozzare un amaro sorriso. «Ma a quanto pare ci ha già pensato qualcun’altro.»
«Volevo avvisare Skyler dell’inizio dei fuochi d’artificio» ribatté sicuro Matt, guadagnandosi un’occhiataccia da parte dell’altro.
«Bel modo di avvisare, il tuo.»
Skyler percepì il divampante tono di sfida dei due ancora prima che iniziassero a provocarsi con lo sguardo. Spostò il peso da un piede all’altro, nervosa, per poi sgranchirsi la voce, nonostante non ne avesse davvero bisogno.
«Matt, che ne dici di avvisare Emma del nostro arrivo? Sono sicura che ci sta cercando» propose con veemenza, le iridi scure che lo supplicavano di andare via.
Ci fu qualche secondo di imbarazzante silenzio, nel quale la figlia di Efesto temette il peggio.
Poi il ragazzo rilassò i muscoli
contratti delle spalle, annuendo leggermente senza però interrompere l’infuocato contatto visivo con Michael.
«Vi aspetto al falò» bofonchiò, salutando Skyler con un cenno del capo. Sorpassò il figlio di Poseidone, e dai suoi occhi sembrarono letteralmente volare delle piccole scintille argentate.
Poi se ne andò, portando via con sé anche tutta la palpabile elettricità nell’aria.
Rimase solo il disagio, impacciato, che regnava tra i due ragazzi costringendoli ad un muto scambio di sguardi.
Skyler sospirò, avvicinandosi a Michael quel tanto che bastava per sentire il suo profumo di salsedine invaderle le narici. Gli poggiò le mani sui fianchi, stringendo nei pungi la stoffa della sua felpa blu scuro e cercando invano di incastrare le iridi a quelle ora azzurre di lui.
«Ehi» sussurrò.
Fece scontrare dolcemente i loro nasi, regalandogli un tenero sorriso; ma nel momento in cui si sollevò sulle punte per baciarlo il ragazzo voltò il capo, e le sue labbra si posarono sulla sua guancia.
«Sarà meglio andare» mormorò freddamente lui, al ché lei corrucciò le sopracciglia, interdetta.
Il figlio di Poseidone arricciò leggermente il naso, allontanandosi da lei di qualche passo per poi dirigersi con lo sguardo basso verso la spiaggia.
Skyler l’osservò andare via, le mani ancora ferme nel punto in cui poco prima toccavano la maglia di lui. Sentì una nuova e molesta sensazione serrarle la bocca dello stomaco, al punto da darle un lieve senso di nausea.
Che cosa aveva sbagliato, stavolta?
Che aveva fatto di male?
Michael non si era mai comportato così. Non con lei, almeno.
Ormai Skyler sapeva fin troppo bene quanto poco sopportasse Matthew. Ma lei cosa c’entrava?
Il figlio di Poseidone era consapevole della sua volontà di essergli amica, no? Possibile che ancora non riuscisse ad accettarlo?
Le aveva detto che avrebbe provato ad andare d’accordo con lui. Gliel’aveva promesso, maledizione!
Affermava che l’avrebbe fatto per lei.
Dov’era finito, quel ragazzo? Dov’era finita quella persona che credeva fermamente nel loro amore, senza mai neanche osare di metterlo in discussione?
Dov’era finito il figlio di Poseidone che le ripeteva ogni volta quanto fosse bella, e quanto fosse profondo il sentimento che provava per lei?
Dov’era finito, il suo Michael?
 
Ω Ω Ω
 
Se c’era qualcosa che Microft adorava, erano le feste in spiaggia.
La sabbia tra i piedi, le risa della gente, il lieve venticello che caratterizza l’estate.
Gli sgualciti teli mare stesi alla meno peggio, lo scoppiettare incessante del fuoco, il puzzo dei marshmallow totalmente carbonizzati a causa della distrazione di qualcuno, che magari è troppo preso ad assaporare ciò che ha intorno per poter pensare alla sua candida caramella ormai bruciata.
E poi, Microft amava l’odore di salsedine. Gli ricordava le vacanze al mare che spesso trascorreva con la sua numerosa e imperfetta famiglia. Gli ricordava la sua infanzia.
Gli ricordava Rose.
Lei profumava di salsedine. Ogni volta, giorno e notte.
Microft adorava nascondere il viso tra i suoi mossi capelli e inspirare a fondo quella sua essenza rilassante.
Si tastò la tasca posteriore dei jeans, nervoso.
Sin dalla mattina del 3 Luglio, i due ragazzini non avevano fatto altro che parlare dell’imminente falò per l’Indipendence Day. Il figlio di Efesto aveva aiutato i suoi fratelli a costruire i pirotecnici fuochi d’artificio, dando del suo meglio, affinché fossero stupendi.
Ma dopo un po’ aveva preso a dedicarsi ad altro, troppo distratto, per concentrarsi sulla giusta dose di polvere da sparo da immettere.
Aveva aperto la sua cassetta degli attrezzi, e si era messo all’opera. Era da più di una settimana che lavorava a quel suo insolito progetto, e più di ogni altra cosa si augurava di riuscire a terminarlo in tempo per quella sera. Richiedeva movimenti attenti e delicati, altrimenti avrebbe rischiato di romperlo già al primo tentativo.
Con un po’ di fortuna, ce l’aveva fatta. Ma subito dopo, rigirandoselo tra le callose mani, si era convinto che molto probabilmente era una pessima idea.
Ma ormai era fatta. Che se ne faceva, lui, di un oggetto così?
Nel peggiore dei casi, si sarebbe infranto contro la sua faccia, seguito da insulti e prese in giro. Ma aveva passato di peggio, per preoccuparsi di un banalissimo occhio nero.
Fece vagare lo sguardo tra i presenti, salutando con un cenno svelto del capo tutti coloro che conosceva, finché non la vide lì, seduta in disparte sulla sabbia.
Rose indossava una semplice canotta celeste e degli shorts molto corti. Aveva gli scuri capelli raccolti in una disordinata coda di cavallo, e se la osservava bene, Microft poteva notare un leggero strato di trucco.
Quel pensiero lo divertì, mentre con un sorriso sghembo la raggiungeva con l’intenzione di sedersi accanto a lei.
La figlia di Poseidone aveva le gambe incrociate, il mento posato sul palmo e gli occhi ora azzurri fissi in un punto indefinito.
Microft seguì curioso la direzione delle sue iridi chiare, cercando di capire chi fosse il destinatario di tanto interesse.
Non c’era nessuno che potesse essere degno di attenzione, eccetto John, che con un braccio stretto attorno alla vita di Melanie le dava un sonoro bacio sulla guancia, facendola ridacchiare.
E poi Luis Hall. Quindici anni. Figlio di Ares. Capelli spettinati e aria da impertinente, mentre faceva guizzare i tonici muscoli dovuti alla sua indole da guerriero davanti a due figlie di Afrodite.
Microft corrucciò le sopracciglia, continuando ad avanzare lentamente verso Rose, per poi accomodarsi silenzioso accanto a lei.
«Ciao» esclamò, facendola sussultare.
La ragazza lo guardò, quasi si fosse appena svegliata da un assoluto stato di trance. Poi stirò le labbra in un sorriso.
«Microft» trillò, come se il solo ripetere quel nome l’aiutasse a tornare con i piedi a terra. «Ciao.»
«Che stavi guardando?» chiese repentino il figlio di Efesto, evitando i superflui giri di parole che ormai tra loro erano del tutto scomparsi.
La figlia di Poseidone arrossì, ma lui non poté esserne sicuro, dato che aveva già le gote rosate per via del blush. «N-niente» ciangottò, senza riuscire a mascherare il proprio imbarazzo.
Microft inarcò un sopracciglio, squadrandola con circospezione. «Niente?» ripeté, e c’era sarcasmo, nella sua voce. «E da quando Luis Hall è stato soprannominato Niente?»
Rose fece roteare gli occhi, scrollando il capo. «Micky, ti prego» si lamentò.
«Tra tutti i ragazzi del Campo, deve piacerti proprio il più idiota?»
«Non è un’idiota» sbottò lei, per poi abbassare il tono subito dopo. «E poi non ho detto che mi piace.»
«E allora perché lo stavi fissando?»
«Non stavo fissando lui.»
«E allora cosa guardavi?»
«Niente!» L’impeto con il quale lo disse soprese anche lei, e il figlio di Efesto fece una smorfia, contrariato.
«Non mi fido di quel tipo» borbottò infatti lui, stizzito. «Per lui contano solo i suoi muscoli.»
«Beh, devi ammettere che non sono niente male» convenne lei.
«Rose!»
«Scusa!» La ragazza alzò le mani, in segno di resa, per poi ridere divertita. «Dovresti vedere la tua faccia!» lo prese in giro, facendolo imbronciare ancora di più.
Poi gli passò delicatamente una mano sulla fronte, quasi bastasse quel semplice gesto a mandare via le rughe che la frastagliavano. «Perché te la prendi tanto, comunque?» gli domandò, incapace di trattenere un intenerito sorriso.
«Perché…» Poco prima che potesse terminare la frase, il figlio di Efesto si fermò a pensare.
Già, perché se la prendeva tanto?
Rose era la sua migliore amica, certo, ma era pur sempre libera di stare con chi voleva.
Solo che lui voleva proteggerla. Voleva proteggerla da tutto e tutti.
Non avrebbe permesso a nessuno di farla soffrire. Neanche a sé stesso.
«Perché non voglio che ti innamori di uno stronzo come lui» affermò quindi, deciso. «Tu meriti molto di più.»
La figlia di Poseidone chinò il capo, imbarazzata, ma sembrò rincuorata da quelle parole, tant’è che poco dopo risollevò lo sguardo, guardandolo con gratitudine.
«Grazie» mormorò, accarezzandogli affettuosa una guancia.
Il ragazzo inclinò la testa di lato, per far sì che la propria guancia premesse contro il suo palmo. Poi sospirò.
«Ad ogni modo, non ero venuto qui per questo» le comunicò, alzandosi con un po’ di fatica in piedi. Rose lo seguì con le sue iridi ora azzurre, un sopracciglio inarcato in un’espressione interrogativa.
Microft le offrì una mano, e lei l’accettò, titubante.
«Ho un regalo per te» le disse quindi lui, al ché gli occhi della ragazza lo fissarono curiosi. «L’altro giorno, in fucina, è venuta una figlia di Afrodite. Mi ha chiesto di ripararle un bracciale, e non appena l’ho visto, non potevo credere ai miei occhi» spiegò, con un leggero nervosismo nella voce. «Era interamente fatto di perle, ma di perle vere. Avevano un colore molto simile ai tuoi occhi in questo momento, ed io… beh, ho pensato che forse addosso a te sarebbero state benissimo.» Si grattò la nuca. «Non potevo rubare il gioiello, ovviamente, ma se c’è una cosa che ho imparato dai miei fratelli è che ‘da tutto si può ricavare tutto’. Per cui ne ho presa una, e…»
Infilò una mano nella tasca posteriore dei pantaloni, per poi mostrare a Rose ciò che stringeva nel palmo. Una perla azzurra, grande poco più di una nocca della figlia di Poseidone. Era incastrata in un delicato spago bianco, e sembrava catturare alla perfezione i riflessi arancioni del tramonto che imbruniva il cielo.
«Volevo dartelo per il tuo compleanno» aggiunse lui, con un filo di voce. «Ma poi ho deciso che non avevo alcuna voglia di aspettare, perciò…» Si strinse nelle spalle. «Buon non compleanno!»
Le labbra della ragazza erano socchiuse, a formare una ‘o’ perfetta dovuta allo stupore. Sfiorò esitante la perla con un polpastrello, quasi temesse che fosse tutto frutto della sua immaginazione. Poi un sorriso si dipinse sul suo volto, incredulo.
«Microft, ma è… è…» Cercò la parola giusta, con accortezza, ma il suo vocabolario sembrava essersi limitato. «È bellissima.»
Il ragazzo parve sollevato da quella reazione, perché sorrise a sua volta. «Ti piace?»
«Scherzi? Non ho mai visto niente di più bello.»
«Mi fa piacere.»
«E il bracciale della figlia di Afrodite?» chiese giustamente lei, al ché il figlio di Efesto inarcò le sopracciglia. Non aveva pensato a quel piccolo particolare. Non si era proprio posto il problema. «Diciamo semplicemente che sarà un po' più stretto del solito.»
Rose ridacchiò, scrollando il capo divertita. Poi con un cenno del capo lui la invitò a voltarsi, e non appena lei lo fece le mise al collo la collana, con una delicatezza insolita anche per lui.
Rose la accarezzò, senza smettere di sorridere neanche per un secondo. Si voltò verso l'amico, guardandolo raggiante. «È perfetta» confermò, gli occhi fissi in quelli scuri del figlio di Efesto.
«Sì, lo è.»
La ragazza non comprese mai il pieno significato di quelle parole, troppo emozionata per poter anche solo frenare l’impulso di buttargli le braccia al collo e stringerlo in un caloroso abbraccio.
«Ti voglio bene, Micky» mormorò, le labbra che gli sfioravano l’orecchio, mentre lo faceva.
Microft nascose il viso nell’incavo del suo collo, inebriandosi le narici di quel profumo di pulito e di mare.
Di quel profumo di Rose.
«Ti voglio bene anch’io, Sirenetta
E mai come in quel momento fu sicuro dell’autenticità di quella frase, sussurrata quasi fosse un segreto che entrambi erano disposti a custodire per l’eternità.
 
Ω Ω Ω
 
Emma si passò distrattamente una mano tra i capelli, inspirando a fondo la pungente salsedine che aleggiava nell’aria.
Non vedeva né Michael né Skyler da quella mattina, e trovava il rapporto tra Melanie e John troppo intimo per poter anche solo chiedere all’amico di passare un po’ di tempo con loro.
Tutti sembravano essersi innamorati, in quell’insolito periodo dell’anno.
Tutti, eccetto lei.
Emma non era smielata e frivola come il resto delle sue coetanee. Non cedeva alle avance dei ragazzi, né tanto meno aveva bisogno di qualcuno accanto, per sentirsi completa.
Eppure, avvertiva questo strano malessere, all’altezza del petto, che la poneva in una situazione di disagio ogni qualvolta si riscopriva l’unica a non intrecciare le dita con quelle di qualcun altro.
Non che desiderasse farlo, sia chiaro; ma c’erano momenti in cui non poteva fare a meno di sentirsi sbagliata. Quasi fosse lei, quella strana, e non tutti coloro che si scambiano effusioni in pubblico senza ritegno.
Quasi fosse lei, quella di troppo.
Il sentimento che legava Skyler e Michael era stato palese fin da subito, e nonostante i due ragazzi non avevano in alcun modo modificato il loro essere al fine della coppia, ogni tanto Emma si rendeva conto che avevano bisogno dei loro momenti di privacy, e che per quanto potessero indiscutibilmente essere i suoi migliori amici, erano prima di tutto fidanzati.
Per fortuna, al suo fianco c’era sempre stato John, che titubando nella sua stessa situazione, sgranocchiava patatine con lei tutte le sere in cui Skyler e Michael erano intenti a baciarsi.
Le piacevano, le loro nottate insonni passate ad ingurgitare una schifezza dopo l’altra. 
Ma ormai poteva dire addio anche a quelle, dato che lui passava la maggior parte del suo tempo insieme a Melanie.
Non che questo le dispiacesse, ovvio. Anzi, era più che felice per lui.
Ma ingozzarsi da sole non è esattamente la stessa cosa.
La ragazza riempì i polmoni di aria nuova, per poi espirarla solo dopo alcuni secondi.
Sperava che almeno quella sera l’avrebbero passata tutti insieme, proprio come quando erano ancora in quattro.
Ma le bastò osservare i passi frustrati di Skyler creare dei piccoli avvallamenti nella sabbia, per comprendere che non sarebbe stato così.
«Ehi» la salutò, scrutandola con un cipiglio interrogativo. «Tutto okay?»
La sua migliore amica chiuse gli occhi, sfregandosi il volto quasi fosse troppo stanca per parlare. «Non riesco a trovare Michael» mugugnò, amareggiata.
Emma inarcò un sopracciglio, confusa. «Credevo fosse venuto a cercarti.»
«Sì, lo ha fatto, infatti. Solo che in quel momento ero con Matt.»
«Ahia.»
«Io non capisco che cosa abbia contro quel ragazzo!» sbottò quindi la figlia di Efesto, stizzita. «Insomma, è simpatico e sempre gentile. Qual è il suo problema?»
«È proprio questo il suo problema, Skyler. Lui è simpatico e sempre gentile.»
«Ho paura che non si fidi di me.» La mora guardò l’amica, con gli occhi velati di lacrime. «Ho paura che possa mettere in dubbio ciò che provo per lui.»
«Ehi, ehi, ehi, frena, Giulietta» la bloccò quindi Emma, posandole le mani sulle spalle. «Se lui ha questo atteggiamento scontroso nei tuoi confronti, è proprio perché ci tiene troppo a te, e ha paura di perderti.»
«Ma lui non mi perderà mai» ribatté Skyler, come se fosse scontato.
«Questo io lo so. È lui che deve capirlo.» La figlia di Ermes le rivolse un confortante sorriso, poco prima di attirarla a sé in un tenero abbraccio. «È solo geloso» le assicurò, accarezzandole la schiena. «Vedrai che gli passerà.»
Skyler sorrise a sua volta, il viso nascosto tra i suoi ricci biondi. Poi si allontanò da lei quel tanto che bastava per ringraziarla con lo sguardo.
Emma le rivolse un complice occhiolino, poco prima di sospirare teatralmente. «Torna a cercarlo, su.»
«Cosa? E perché?»
«Perché se conosco bene Michael, in questo momento è seduto da solo e in silenzio aspettando che tu corra da lui.»
«Ma credevo che avremmo visto i fuochi d’artificio tutti insieme.»
«Li vedremo un’altra volta, ma ora tu devi andare da lui.»
«E tu?» La domanda sorse spontanea alla figlia di Efesto, che squadrò l’amica apprensiva. «Non dirmi che resterai sola con John e Melanie.»
«Non reggerò le candele, se è questo che mi stai chiedendo» scherzò la bionda, per poi fare spallucce. «Me li vedrò per conto mio.»
Skyler fece un passo indietro, osservandola quasi si aspettasse di scorgere sul suo volto un’ombra di scherzo. Posò le mani sui fianchi, perentoria. «Non ho la benché minima intenzione di farti passare la sera dell’Indipendence Day da sola» affermò, al ché Emma fece roteare gli occhi, leggermente divertita.
La mora arricciò il naso, pensierosa, per poi volgere lo sguardo verso l’angolo in cui alcuni dei suoi fratelli si erano nascosti per poter curare gli ultimi dettagli pirotecnici dei fuochi.
«Vieni con me» le ordinò, e senza attendere alcuna risposta la afferrò per un polso, trascinandosela dietro nonostante le sue innumerevoli proteste.
Circa una decina di figli di Efesto invertivano freneticamente le loro posizioni, controllando contemporaneamente più di tre razzi a testa.
Skyler evitò per poco di scontrarsi contro Nyssa, che trasportava ansiosa una scatola di petardi colorati, ed Emma ridacchiò, nel vedere la rude sorella dell’amica saltellare sul posto quasi fosse una bambina in prossimità della sua prima recita scolastica. Poi però guardò la mora, inarcando un sopracciglio.
«Che ci facciamo, qui?» domandò, al ché lei fece schioccare la lingua.
«Ti lascio in buone mani» si limitò a mormorare, per poi spostare le sue iridi scure su una delle tante postazioni di lancio, gli occhi stretti a due fessure mentre scrutava qualcuno.
«Ehi, Leo!» chiamò.
Emma sussultò, e non appena il ragazzo riccio si voltò nella loro direzione, sentì il proprio corpo irrigidirsi.
In quanto capocabina, Leo aveva il compito di supervisionare ogni singolo razzo prima del colorato spettacolo. All’inizio rivolse un sorriso alla sorella, che gli si stava avvicinando lentamente, ma non appena scorse anche Emma, le sue sopracciglia si corrucciarono, e sul suo viso comparve un’espressione indecifrabile.
«Ciao» salutò, trascinando incuriosito quella semplice parola.
«Posso chiederti un favore?»
Al sentir quella richiesta, la figlia di Ermes strattonò con forza l’amica, che ancora stringeva nel pugno il suo polso. «Che hai intenzione di fare?» sibilò a denti stretti, ma la ragazza sembrò far finta di non averla sentita, perché continuò a fissare il fratello, in attesa.
«Dipende» rispose quindi lui, infilando i due pollici nelle bretelle e stringendosi nelle spalle.
«Beh, ecco, io ho bisogno di trovare Michael» spiegò rapidamente Skyler, mordicchiandosi distrattamente il labbro inferiore. «E non voglio che Emma resti sola. Perciò mi stavo chiedendo se per caso non potessi farle un po’ di compagnia.»
«Sì!» fu la risposta repentina del figlio di Efesto.
«No!» L’esclamazione della bionda si sovrappose a quella di lui quasi nell’immediato.
I due ragazzi si guardarono, entrambi sorpresi dall’affermazione dell’altro.
«Insomma, per me non ci sono problemi» si affrettò ad aggiungere Leo, spostando imbarazzato il peso da un piede all’altro. «Dipende da lei.»
Skyler guardò l’amica, incitandola con lo sguardo a dire qualcosa, ma tutto ciò che la figlia di Ermes si limitò a fare fu soppesare il ragazzo con le sue intense iridi argentate.
La mora fece roteare gli occhi, sbuffando teatralmente. «Sentite, lo so che i rapporti tra voi non sono dei migliori» sbottò, con una leggera punta di esasperazione. «Ma vi chiedo solo di andare d’accordo per dieci minuti. Credete di farcela?»
Non sono dei migliori. Quante cose Skyler ancora non sapeva.
Non che avesse avuto modo di scoprirle, ovvio. Emma non le aveva mai raccontato delle sue chiacchierate con Leo, né delle loro passeggiate in spiaggia; né tantomeno dell’altalena che lui aveva costruito per lei, per non parlare poi di tutte quelle volte in cui avevano rischiato di…
«Allora?»
Emma posò gli occhi in quelli vispi del ragazzo, sospirando brevemente. «Okay» convenne in un flebile sussurro, al ché lui chinò il capo, in un cenno d’assenso.
«Okay» ripeté sua volta, e Skyler abbozzò un sorriso, rincuorata.
Perché non le aveva detto di ciò che era successo con Leo?
Che poi, cos’era successo, con Leo?
La figlia di Ermes rimpianse tutte le occasioni nelle quali avrebbe potuto parlarle del rapporto complicato che aveva con suo fratello, e aveva preferito non farlo.
La loro sembrava non essere solo una semplice attrazione fisica. Per quanto potessero desiderarsi, ciò che li legava era qualcosa di molto più profondo, qualcosa al quale neanche lei sapeva dare un nome.
La mora le schioccò un sonoro bacio sulla guancia, distogliendola bruscamente dai suoi divaganti pensieri.
«Ti prometto che tornerò a salvarti» bisbigliò, per poi rivolgerle un complice occhiolino. Salutò brevemente il fratello, allontanandosi di corsa in direzione della metà affollata di spiaggia.
Ci fu un breve secondo, imbarazzante, nel quale i due ragazzi, ormai soli, si soppesarono con lo sguardo, incerti sul da farsi. Li avvolse subito dopo un silenzio carico di disagio, ed Emma si sgranchì la voce, nonostante non ne avesse davvero bisogno.
«Beh, è stato un piacere» annunciò, girando sui tacchi e facendo per andar via.
«Ehi, e adesso che fai?» le gridò dietro Leo, allargando le braccia visibilmente confuso. «Credevo che restassi con me finché Skyler non tornava.»
«Nessuno ti obbliga a farmi compagnia, Valdez.»
«E infatti nessuno mi ha obbligato!»
Emma si voltò a guardarlo, un sopracciglio inarcato in un’espressione scettica.
Leo fece spallucce, inclinando il capo quasi fosse scontato, che fosse così.
La ragazza incrociò le braccia al petto, gli occhi stretti a due fessure. «Vado a cercare un buon posto per osservare» ribatté, con decisione. «Non voglio perdermi i fuochi d’artificio.»
«Oh, se vuoi goderti al meglio lo spettacolo, so io qual è il posto giusto!»
Leo sorrise compiaciuto nello scorgere l’interdizione sul volto della figlia di Ermes. Si chinò a raccogliere uno straccio distrattamente abbandonato a terra, per poi pulirvisi attentamente le mani dai residui di polvere da sparo.
«Ehi, Mason!» esclamò, al ché un ragazzo di nome Jake spostò lo sguardo nella loro direzione. Leo indicò Emma con un cenno del capo. «Noi andiamo a farci un giro. Ti dispiace supervisionare tu i lavori?»
Il robusto figlio di Efesto si portò due dita alla fronte, in un goliardico saluto militare. «Nessun problema» annuì.
Leo lo ringraziò con un pollice verso, per poi rivolgere nuovamente la sua attenzione alla figlia di Ermes e posarle una mano dietro la schiena.
«Coraggio, vieni con me» la incitò, e lei, dopo un attimo di palese esitazione, lo seguì sull’irregolare tappeto di sabbia, non rendendosi conto di allontanarsi lentamente dal mare finché il profumo di salsedine non smise di pizzicarle le narici.
 
Ω Ω Ω
 
Emma non ebbe idea di dove Leo la stesse portando fino a che non scorse, in lontananza, il primo sinuoso albero svettare ripido verso il cielo.
Si stavano avvicinando alla Baia di Zefiro, eppure il figlio di Efesto sembrava non avere la minima intenzione di inoltrarvisi. Anzi, continuava a passeggiare sicuro lungo il suo perimetro, buttando alla sua folta vegetazione solo un'occhiata ogni tanto, al fine di orientarsi. Camminava tre passi avanti a lei, con un’andatura decisa e spavalda.
Dopo un po’, Emma sentì un brivido di freddo correrle lungo la schiena, ma si sforzò di non darlo a vedere, limitandosi a stringersi nelle spalle e sfregarsi le braccia con i palmi, lo sguardo he continuava a vagare spaesato sul paesaggio.
«Si può sapere dove mi stai portando?» domandò, con una punta di irritazione nella voce.
Sul volto di Leo si dipinse un malandrino sorriso sghembo. «In un posto segreto» si limitò a dire, entusiasta. «Tu seguimi e basta.»
La figlia di Ermes sbuffò. «Perché accetto sempre di fare questo genere di cose?» sbottò, rivolta più a sé stessa che a lui.
«Perché ti fidi di me.» La tranquillità con la quale lo disse per una frazione di secondo la sorprese. Aprì repentina la bocca, pronta a controbattere, ma a dispetto di quanto aveva immaginato, non ne uscì alcun suono, e così la richiuse, infastidita.
Procedettero per quella che sembrò un’eternità, ma che in realtà erano solo pochi minuti.
Poi, in un gesto tanto inaspettato quanto repentino, Leo prese Emma per mano, intrecciando velocemente le dita alle sue, e la condusse su per un sentiero leggermente in salita.
La ragazza si sentì avvampare, e dovette dar la colpa al palmo del ragazzo che premeva contro il suo, sprigionando calore per via del suo focoso potere.
«Eccoci qui» esultò ad un tratto lui, sorridendo raggiante.
Emma si guardò intorno, leggermente confusa. «Qui?»
Quel posto non aveva assolutamente niente di speciale. Non che si aspettasse chissà che, sia chiaro. Ma di certo non immaginava che il ragazzo l’avesse condotta verso quello che aveva solo l’aria di essere una semplicissima collinetta in mezzo alla Baia.
Leo si allontanò da lei di qualche passo, per poi sdraiarsi supino sull’erba smeraldina e osservare il cielo.
«Questo è in assoluto il posto migliore per godersi lo spettacolo» le confermò, posandosi un braccio dietro la testa con aria soddisfatta.
Emma seguì la direzione del suo sguardo, fisso in un punto indefinito della volta celeste. Considerata la moltitudine di alberi, aveva dato per scontato che le loro chiome impedissero la visione dell’empireo.
Ma lì, gli alberi sembravano essere radi, e con la sera ormai calata e la piena luna alta in cielo, guardare in su dava allo stesso tempo una sensazione di pienezza e immensità.
La ragazza sospirò, avvicinandosi lentamente al figlio di Efesto. Poi si sdraiò accanto a lui, facendo vagare le sue iridi argentate da una stella all’altra nel tentativo di identificare le costellazioni.
«Sei sicuro di poter restare qui?» gli chiese dopo un po’, la voce a poco più di un sussurro, quasi avesse paura di distruggere la quiete che li circondava. «Insomma, non dovresti restare con i tuoi fratelli a coordinare il tutto o che so io?»
«Nah!» Leo buttò una mano in aria, con noncuranza. «Se la caveranno anche senza di me.»
Emma si morse l’interno della guancia, nella vana speranza di trattenere un sorriso. «Sei un pessimo capocabina» lo accusò, divertita.
«Lo so.»
Risero entrambi, sommessamente, per poi volgere nuovamente la loro attenzione ai brillanti astri che puntellavano l’oscurità della sera.
«Sai, mi sono sempre piaciuti i fuochi d’artificio» ammise Emma ad un cert punto, per ingannare l’attesa e rompere quel sottile strato di silenzio che li avvolgeva. «Mi fanno pensare alla grande tela di un pittore. Immagino lui, stanco e frustrato, che dopo aver lavorato su ogni minimo dettaglio, tra stelle e nuvole, manda a quel paese tutti, prende i suoi pennelli e imbratta di vernice dei punti a caso, a mo’ di sfogo.»
Leo sorrise, rallegrato. «Magari questo pittore è francese» propose, al ché lei prese a gesticolare con una mano, brandendo imbronciata un pennello immaginario verso il cielo.
«Va en enfer, stupide peinture de chou!»
Ridacchiarono, incapaci di trattenere le risa che ribollivano sul fondo della loro pancia.
Poi lui chiuse gli occhi a due fessure, incrociando le mani sullo sterno e posando il capo contro l’erba.
«A me invece ricordano mia madre» pensò, e poco prima che potesse rendersene conto quelle parole stavano già fluttuando nell’aria. Si morse distrattamente il labbro inferiore, un nodo che sembrava essersi stretto attorno alla sua gola. «Vedi, ogni anno, il 4 di Luglio, lei mi portava in questo enorme campo di grano dietro casa nostra. Ci stendevamo a terra, osservavamo il cielo, e nessuno veniva lì a disturbarci con sciocche bandierine o parole biascicate. C’eravamo solo noi.»
Emma esitò qualche secondo, prima di girarsi su un fianco. Mise un braccio sotto la testa, l’altra mano posata accanto al viso, e osservò il figlio di Efesto con lo sguardo grondante di partecipe attenzione.
«Com’era?» chiese, cauta, e rendendosi conto che il ragazzo non aveva capito, aggiunse: «Tua madre, intendo.»
«In che senso?»
«Parlami di lei» lo incitò quindi, con un lieve sorriso. Cercò invano il suo sguardo, ma quello era rivolto verso l’alto, fisso sul chiarore delle stelle. «Doveva essere una persona speciale.»
«Oh, lei era… fantastica.» Leo titubò, timoroso di perdersi nei meandri dei propri ricordi. Ma per quanto potesse sforzarsi, le parole continuavano a fluire leggiadre lungo le sue corde vocali, dando voce ai suoi pensieri. «Aveva un bellissimo viso, e degli occhi gentili. I suoi capelli erano scuri e ricci, e a volte sembrava più vecchia, per via del lavoro che faceva: le rughe attorno agli occhi erano molto pronunciate, e aveva dei calli alle mani.» Il ragazzo osservò le proprie dita, in un certo senso simili a quelle di Esperanza Valdez. «È stata la prima persona della mia famiglia ad andare all’università» continuò. «Sai, si era laureata in ingegneria meccanica, e sapeva progettare di tutto, aggiustare di tutto e costruire di tutto. Nessuno però voleva assumerla. Le aziende non la prendevano sul serio, perciò è stata costretta ad accontentarsi di un misero lavoro in officina. Odorava sempre di vaniglia e olio per macchine, e nessuno sapeva preparare i burritos come lei. Per non parlare dei tacos, poi! Oh!»
Si coprì il viso con entrambe le mani, i lineamenti rilassati in un’espressione beata quasi fosse ancora in grado di sentire il sapore di quei piatti sul palato. Emma, al suo fianco, si lasciò sfuggire un risolino.
«È stata lei a dirmi tutto ciò che so sulla meccanica» le disse poi Leo, con orgoglio. «E quando parlava con me passava in continuazione dall’inglese allo spagnolo. Ci ho messo un po’ a capire che gli altri non parlavano esattamente così.» Sorrise del suo stesso pensiero, contagiando anche un’Emma che, interessata, sembrava pendere dalle sue labbra, intenta ad afferrare ogni singola parola.
«E poi» aggiunse Leo. «Mi ha anche insegnato il codice Morse
La ragazza sembrò colpita, perché trattenne brevemente il fiato. «Davvero?»
«Sicuro.»
Emma sbatté le palpebre, entusiasta. «Tamburella qualcosa» lo invitò.
«Che cosa?»
«Qualunque cosa.»
Il ragazzo esitò. «Okay.» Portò la mano sinistra accanto all’orecchio destro, e la figlia di Ermes si sporse verso di lui, per poter sentire. Leo immaginò la sua espressione concentrata, un occhio chiuso mentre una ciocca dei suoi ribelli capelli cadeva sull’altro, e non poté fare a meno di sorridere.
Sei bellissima, tamburellò sul terreno, e dopo qualche secondo di tenero silenzio, lei inarcò un sopracciglio, divertita.
«Che voleva dire?» domandò.
Il figlio di Efesto prese fiato per parlare, ma prima che potesse rivelarle il vero significato di quel messaggio, strinse le labbra in una linea sottile. «I tacos sono il nettare degli dei» mentì, ma lei sembrò non accorgersene.
Al contrario, sorrise, colpita. «Non ho mai assaggiato un tacos» rivelò, al ché lui sgranò gli occhi.
«Cosa?» esclamò, indignato. «Tu non hai mai vissuto!»
Emma rise, incapace di trattenersi, e ben presto Leo la imitò, rendendosi conto di quanto fosse goliardica la sua affermazione.
Attesero che le loro risa scemassero, sulle labbra ancora il fantasma di un rallegrato sorriso. Poi il ragazzo si grattò distrattamente il naso. «La tua, invece?» chiese, una domanda apparentemente come un’altra.
Ma non appena avvertì il corpo di Emma irrigidirsi al suo fianco, comprese di aver appena premuto un tasto dolente.
«Sempre se ti va di raccontarmelo, ovvio» si affrettò quindi ad aggiungere, per poi mordersi la lingua subito dopo.
Ci fu circa un minuto di imbarazzante silenzio, nel quale Leo si maledisse per la sua stupidità.
Fece per scusarsi, ma la ragazza lo zittì, prendendo un lungo respiro e poi svuotando lentamente i polmoni. «Mia madre…» cominciò, e solo quando quelle due per lei sconosciute parole lasciarono le sue labbra, si rese conto di non avere idea di come continuare. Corrugò la fronte, rabbuiandosi. «Beh, ecco, lei non era propriamente quella che può definirsi una ‘mamma modello’. Io… sono cresciuta da sola, in pratica. A lei non è mai importato niente di me. Vedi, non posso negare che fosse una donna determinata: faceva la ballerina, se ballerine si possono chiamare quelle che si spogliano per soldi.»
Leo si agitò un po’ sul posto, a disagio, ma non si permise di interromperla.
«E poi, lavorava a Las Vegas. Credo che fosse la migliore, nel suo campo. Ma quando nacqui io, la sua carriera andò in fumo. Era troppo vecchia, ormai. E doveva badare ad una bambina. Per cui la rispedirono a casa, e lei cominciò a bere.» Emma emise un sospirò tremante, sentendo gli occhi bruciare. «Ogni maledetta sera tornava da me con una bottiglia semivuota di vodka tra le mani. Non perché ne avesse bisogno, ma perché fare la madre era qualcosa che non aveva neanche mai preso in considerazione. A lei importava solo di sé stessa. Di sé e di nessun’altro. Sai, il primo furto l’ho fatto proprio per attirare la sua attenzione, e così anche il secondo, e il terzo, e il quarto. Poi mi sono resa conto di essere brava, e così passavo due notti su tre a dormire in cella, nell’attesa di una madre che non arrivava mai.»
Sorrise amaramente, quasi bastasse quello a soffocare il suo doloroso risentimento. «Dopo l’ennesimo furto, mi ha spedito in riformatorio. Non voglio suscitare la pietà di nessuno, rivelando che lì mi picchiavano, però era così.»
Leo sentì il suo cuore perdere rapidamente una serie di battiti, ma lei non parve accorgersene.
«Lo facevano anche per la più inutile cosa, e così un giorno, dopo un’ulteriore ingiusta punizione, sono fuggita. Per un attimo ho anche pensato di tornare a casa, ma poi ho capito che quella non era la mia casa. E che non è madre, una che ti tratta così.»
Tirò su col naso, ma a dispetto di ciò che le sue emozioni contrastanti e gli occhi lucidi suggerissero, il suo sguardo era impassibile, il tono indifferente.
«Non la vedo da allora, sai?» disse poi, scrollando amaramente il capo. «Da quando venne a farmi visita per la Vigilia di Natale. Mi regalò un apribottiglie.»
Il suo triste risolino fu come uno schiaffo sulla faccia di Leo, per il quale era all’improvviso tutto più chiaro.
Emma non era la ragazza forte e decisa che voleva far credere.
Emma era fragile. Era stanca, era triste, e aveva rimesso in ordine i propri pezzi così tante volte che ormai il risultato non era più perfettamente lineare. Perché quando le cose si rompono, non è la rottura in sé che impedisce loro di tornare com’erano prima. In realtà si perde sempre un pezzettino, e tutte le parti che restano non si potrebbero incastrare neanche se lo volessero. È la forma nel suo insieme, ad essere cambiata.
E quella di Emma era diventata debole come un deforme castello di carte già da molto tempo.
«Non ti capita mai di sognarla?» si azzardò a chiedere Leo, e lei tentennò qualche secondo, prima di rispondere.
«È successo solo una volta» ammise, lo sguardo perso in un punto indefinito. «Ma avrei preferito non fosse così.»
«Perché?»
A quella domanda la ragazza non riuscì a replicare subito, troppo concentrata sullo sforzo di governare i propri sentimenti.
Il ricordo di quel sogno la tormentava. Non tanto per il fatto di aver rivisto la madre dopo tanto tempo, tanto più per ciò che aveva visto.
Che avrebbero pensato, gli altri, se avesse rivelato a qualcuno una cosa del genere? Che avrebbe pensato Leo?
Ma forse si sarebbe insospettito maggiormente se non ne avesse fatto parola. E poi aveva bisogno di parlarne.
Non ce la faceva più a tenersi tutto dentro. Non era più in grado di sostenere quell’ingombrante peso sulle spalle da sola.
«Io…» balbettò, ma la sua voce si incrinò quasi nell’immediato. Se la sgranchì, chiudendo gli occhi ed impegnandosi affinché non accadesse di nuovo. «Lei era in un camerino, e si stava preparando con poca attenzione. Ha trovato un nuovo lavoro» annuì, con scarso entusiasmo. «Credo che faccia la Escort, se non proprio la prostituta.» Deglutì a fatica. «Sì, insomma, lei… indossava abiti succinti, ed era coperta da quintali di trucco. E poi aveva una parrucca viola sul capo che…»
«Emma, non sei costretta a raccontarmi queste cose» la interruppe prontamente Leo, incapace di sopportare ulteriormente quel suo stato d’animo.
«No, io voglio dirtelo» ribatté lei, con voce tremante. «Devo dirlo a qualcuno.» Si morse con forza l’interno della guancia, supplicandolo con lo sguardo. «Ti prego» mormorò.
Il ragazzo non poté fare a meno di rivolerle un incoraggiante cenno del capo, il cuore stretto in una morsa d’acciaio dalla consapevolezza che la figlia di Ermes gli stava chiedendo aiuto, e che lui non aveva idea di come darglielo.
La bionda mordicchiò distrattamente l’interno del proprio pollice, prima di continuare. «Mia madre ha fatto delle scelte sbagliate» convenne. «Ma per quanto io possa vergognarmi di avere il suo stesso sangue, non sono comunque in grado di non soffrire per lei. Fa male, rendersi conto di quanto in realtà mi manchi una figura materna. E mi sono sentita crollare il mondo addosso quando l’ho vista piangere su una mia vecchia foto. I-io non so che fare, capisci? Non so se odiarla, o tentare di perdonarla. Io non voglio essere come lei, Leo.» Scosse lentamente il capo, con fermezza. «Io non sarò mai come lei.»
E nonostante la ragazza, in quel momento, non lo stesse guardando, lui si spostò di fianco, assumendo la sua stessa posizione per far sì che avesse la completa visione del suo viso. Le afferrò delicatamente una mano, disegnandole sul dorso dei piccoli cerchi con il pollice. Poi se la portò alle labbra, lasciandovici un dolce bacio.
La figlia di Ermes sorrise solo nel momento in cui lui le spostò una temeraria ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Mi dispiace» si scusò, al ché Leo scrollò la testa intenerito.
«È colpa mia» pattuì, arricciando il naso. «Ultimamente faccio un po’ di domande scomode.»
Emma ridacchiò, divertita. «Mi piacciono le tue domande scomode.» Poi sollevò finalmente lo sguardo, squadrandogli i lineamenti rilassati. «Ti sei mai sentito…» Cercò la parola giusta per formulare quella richiesta. «Invisibile?»
Un angolo della bocca di Leo si sollevò in un sorriso sghembo. «Qualche volta» convenne, anche se in cuor suo sapeva di non dire la giusta verità. «Perché?»
«Non lo so.» Emma fece spallucce, con un sospiro. «A volte mi sento come se per gli altri la mia presenza fosse inutile. Come se le persone si dimenticassero della mia esistenza, e del fatto che anch’io ho dei sentimenti.» Corrucciò leggermente le sopracciglia, assottigliando lo sguardo pensierosa. «Secondo te sono invisibile?»
Leo inarcò le sopracciglia, interdetto. «Beh, io ti vedo benissimo» esclamò, come se fosse scontato.
La ragazza scosse il capo, con un sorriso. «No! Non invisibile in quel senso. Intendo invisibile nel senso di… inadatta. Di superflua. Invisibile nel senso di poco importante.»
«Sì, l’avevo capito.»
«E allora?»
«Te l’ho già detto» insistette lui, poco prima di incastrare le proprie iridi scure in quelle argentate di lei. «Io ti vedo benissimo.»
Emma batté più volte le palpebre, e subito dopo aver compreso il pieno significato di quelle parole, si riscoprì incapace di distogliere la propria attenzione da quello sguardo intenso.
Leo sentì un tuffo al cuore, contemplandola con desiderio. Era perfetta, illuminata dal latteo chiarore della luna. I capelli biondi sciolti e liberi, e gli occhi grandi e luminosi, simili a quelli di un cerbiatto, ma capaci fargli perdere la cognizione del tempo e dello spazio.
Com’è l’attimo in cui ci si innamora? Come può una frazione di secondo così infinitesimale racchiudere una tale immensità?
Emma era lì, davanti a lui, e per la prima volta da quando aveva memoria si sentì nel posto giusto, al momento giusto. Si sentì bene, e si sentì vivo. Quasi quel momento fosse stato programmato dalle Parche più di un millennio prima.
Si chinò lentamente su di lei, accarezzandole una guancia con più delicatezza di quanto fosse consapevole di possedere. Il suo tenue ed incisivo profumo gli invase le narici, e un tiepido torpore gli strinse la bocca dello stomaco.
I loro nasi si incontrarono, costringendoli a respirare la stessa aria.
Emma sollevò di poco il mento, schiudendo le labbra ed emettendo un sospiro tremante, e Leo sentì una scarica di adrenalina invadergli il corpo nel momento in cui sfiorarono le sue, morbide e delicate.
Lo sguardo del ragazzo volò rapidamente dalla sua bocca, ai suoi occhi, al suo naso.
Di tutti i momenti che avevano avuto a disposizione, quello era in assoluto il migliore. Perché finalmente ciò che spingeva Leo ad accorciare quelle distanze non era più una forte attrazione fisica per quella ragazza.
Era molto di più, un calore trepidante che bruciava accanto al cuore.
Esitò per un momento, quasi intimorito da ciò che sarebbe successo di lì a poco.
E fu proprio quell’esitazione che lo tradì, perché a tagliare di netto la coltre di desiderio che li aveva avvolti arrivò uno sparo. E poi un altro. E poi un altro.
Il figlio di Efesto chiuse gli occhi, sul volto una smorfia quasi di dolore.
Guardò Emma, ma la ragazza tentava di soffocare una leggera delusione volgendo gli occhi al cielo.
«Avete fatto un lavoro straordinario» si complimentò, mentre spettacolari fuochi d’artificio illuminavano il cielo di mille colori.
Il ragazzo si stese di nuovo con la schiena a terra, con un tonfo, avvertendo un forte senso di nausea minacciare di farlo vomitare. «Già» si limitò a sussurrare, afflitto.
Sarebbe stato il momento perfetto. Come nei film, quando lui bacia lei e sullo sfondo compaiono dei fantastici fuochi pirotecnici, come a voler esclamare: ‘finalmente ce l’hai fatta! L’hai baciata!’
Un secondo, pensò Leo, con rancore. Vi costava tanto attendere un secondo?
Si sentiva uno stupido. Si sentiva un totale e colossale stupido.
Per questo si sorprese non poco quando Emma, quasi l’avesse fatto un milione di volte, posò il capo sul suo sterno, la nuca premuta contro la bocca del suo stomaco e gli occhi illuminati dai colori che brillavano nel cielo.
Leo la squadrò per qualche secondo, interdetto, ma lei sembrò non notarlo, e fu solo a quel punto che lui si lasciò sfuggire un sorriso, felice. Prese una ciocca dei suoi ricci capelli, e se l’avvolse distrattamente attorno al dito, portando anch’egli l’attenzione sui razzi.
E per quanto potessero essere forti i boati di quei fuochi, Leo poté giurare sul ricordo di sua madre che nulla sarebbe mai riuscito a sconquassare la sua gabbia toracica più del ritmo accelerato del suo cuore, che galoppava senza sosta proprio in quel preciso istante.

Angolo Scrittrice.
Bonjour! Bonjour! Bonjour, Bonjour, Boujour! *parte la musichetta de 'La bella e la Bestia'*
Salve a tutti, miei prodi semidei!
Sì, è ancora martedì, e sì, io sto scrivendo dal minuscolo computer di mio padre perchè il mio oggi ha deciso di rompere le balls. Se troverete degli errori ortografici, sappiate che è per via di questi tasti da pollicino.
Bien bien, eccoci qui con un nuovo capitolo. Che dite, vi è piaciuto? O vi ha fatto schifo? Pensate che sia sploff?
Personalmente, preferire non dire la mia, dato che sono indecisa tra l'essere soddisfatta per ciò che ho scritto (o per la precisione per come l'ho scritto) o se prendermi a padellate in testa.
Quindi a voi l'ardua sentenza! Come sempre, accetto ogni genere di critica.
Duqnuo, vediamo un po'...
Skyler triste, Matthew superfigo, Michael geloso... questi tre quando troveranno un compromesso?
Però finalmente adesso sappiamo che cos'era che tormantava la nostra povera Ragazza in Fiamme! Quanti di voi ricrdavano la lettera che aveva scritto poco prima di andar via?
E quanti hanno riconosciuto Girl On Fire di Alicia Keys cantata da Matt? ahahah, ditemi quello che volete, ma è pur sempre un mio pargoletto, per cui io lo adoro u.u
Poi ci sono
Microft e Rose, e qui lascio i commenti a voi, dato che da quanto ho capito li amate un po' all'unanimità.
E infine
Leo ed Emma. Beh, che dire. Questa volta ho maledetto anch'io quei dannati fuochi d'artificio che li hanno interrotti, perchè cavolo se sarebbe stato un bel bacio!
Ma fatto sta che, comunque vada, il rapporto che li lega matura di volta in volta. E per incrementarlo, ovviamente, come evitare il confronto netto tra i due?
Ammetto che scrivere delle due mamme non è stato facile: sia perchè per Esperanza ho dovuto fare ricerche su ricerche, decisa a non sbagliare (ci ho messo anche del mio, tra l'altro, dato che le informazioni erano molto poche), sia perchè comunque ho dovuto rinventare un personaggio (la madre di Emma) che nella prima fanfic era solamente di rado accennato. Anyway, spero di aver fatto un buon lavoro, e di non aver deluso le vostre aspettative con un capitolo così.
Adesso, prima di ringraziare i miei Valery's Angels, vorrei rispondere ad alcuni di loro, dato che in molti mi hanno chiesto chiarimenti riguardo questo punto: l'azione ci sarà. Non fatevi ingannare dai capitoli dove viene evidenziato solo il lato umano dei personaggi. Sono pur sempre semidei, e se avessi voluto eliminare questa loro parte divina avrei messo tra gli avvertimenti 'What if?', e avrei eliminato la nota 'Avventura'. Quindi, non posso dirvi altro se non di pazientare ancora per poco. Non volevo dirlo, per avere comunque un minimo di effetto sorpresa, ma posso annunciare che mancano davvero pochissimi capitoli prima dell'inizio dell'avventura. Io in primis amo descrivere quel genere di scene, e spero solo che questa mia scelta di dedicarmi anche all'aspetto umano dei ragazzi non vi annoi, né vi faccia abbandonare la storia.
Detto questo, ora ringrazio i miei Valery's Angels, e cioè:
Percabeth7897, carrots_98, Occhi di Smeraldo, _angiu_, Kamala_Jackson, _Krios_, ChiaraJacksonStone1606, martinajsd, fire_in_dark19.
Grazie grazie grazie grazie.
Grazie.
Oookaay... adesso vado, altrimenti si fa tardi. Nel caso abbia dimenticato qualcosa, non esitate a chiedere chiarimenti. E per chi non ricordasse il sogno di cui parla Emma, lo trovate nel capitolo 24 de 'Il Morbo di Atlantide' (y)
Al prossimo martedì, ragazzuoli!
Sempre vostra,

ValeryJackson


 

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


 

Subito dopo la spettacolare esibizione dei fuochi d’artificio, Emma e Leo erano tornati sui loro passi, diretti alla spiaggia.
Oramai era quasi giunta l’ora del coprifuoco, ed era decisamente meglio raggiungere gli altri, prima che il buio si fosse fatto troppo fitto e la notte avesse portato via con sé il ricordo di quella magica serata.
La ragazza non sapeva con precisione quale fosse stato il momento esatto in cui si erano presi per mano, né tanto meno di chi dei due fosse la colpa. Ma poteva esser certa che né lui né lei avrebbero voluto interrompere mai quel tenero contatto, perlomeno fino a quando la figlia di Ermes non aveva fatto scivolare velocemente le dita via dalle sue, subito dopo aver scorto la sinuosa figura di Skyler dar loro le spalle.
Quasi fosse stato il suo istinto a suggerirglielo, la figlia di Efesto si girò una frazione di secondo dopo che i due ragazzi avevano assunto un’espressione tranquilla e diffidente. Aveva le braccia incrociate sotto il seno, e li guardò con un sopracciglio inarcato, spostando lo sguardo grondante di sconcerto dall’uno all’altro.
«Ciao» la salutò Emma con nonchalance, tentando di forzare un sorriso mentre pregava gli dei affinché il battito del suo cuore tornasse regolare, quasi avesse paura che l’amica potesse sentirlo.
Skyler allargò le braccia, confusa. «Si può sapere dove vi eravate cacciati? È più di mezz’ora che vi cerco.»
«Oh, ecco, noi…» iniziò a balbettare Emma, per poi lanciare a Leo una muta richiesta di soccorso con gli occhi.
«Noi eravamo… cioè stavamo…» prese quindi a ciangottare lui, non sapendo esattamente come terminare la frase.
Fu solo quando la mora corrucciò le sopracciglia, che la figlia di Ermes si affrettò a concludere: «Stavamo vedendo i fuochi d’artificio.» Guardò Leo, che annuì con veemenza.
Skyler li squadrò con un’espressione indecifrabile per quella che sembrò un’eternità. Poi sospirò, scrollando leggermente il capo, e solo allora Emma si rese conto di aver inconsciamente trattenuto il fiato.
Si avvicinò all’amica, posandole una mano sulla spalla. «Sei riuscita a parlare con Michael?» le chiese, un po’ perché voleva saperlo, un po’ perché aveva un impellente voglia di cambiare discorso.
«Sì» mormorò la figlia di Efesto, con scarso entusiasmo.
«E…?»
«E siamo riusciti a chiarire, ma nonostante questo continuava ad avere un atteggiamento freddo e distaccato.» Skyler si premette i palmi contro le palpebre, stropicciandosi gli occhi. «Poi gli ho chiesto se voleva fare il turno di guardia con me, stasera. Ma appena ha saputo che ci sarebbe stato anche Matthew è andato su tutte le furie.» La ragazza giocò distrattamente con il braccialetto che teneva al polso, seguendo con il polpastrello l’elaborato intreccio di cuoio e conchiglie. «Io non so più come comportarmi, con lui» sussurrò, sovrappensiero.
Emma le spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, con dolcezza fraterna. «Te l’ho detto, Michael è solo geloso» le assicurò. «Aspetta solo che stanotte si riposi, e vedrai che domani mattina tornerà tutto come sempre.»
E a quel punto la figlia di Efesto la guardò, negli occhi un luccichio di amara tristezza. «Mi io non voglio che torni tutto come sempre» disse, scuotendo impercettibilmente la testa. «Io rivoglio il mio Michael.»
La sua voce si incrinò leggermente, e la ragazza tirò su con naso, per poi pulirsi con rabbia una lacrima solitaria che le stava solcando una guancia. Sbuffando, alzò le iridi scure al cielo, per impedirne la caduta di altre. E subito dopo essersi sgranchita la voce, spostò lo sguardo su Emma.
«Tu fai il turno con me, giusto?» le domandò, sforzandosi di concentrare la propria attenzione su altro.
La figlia di Ermes annuì, passandosi una mano su collo. «Sì, certo» confermò.
Skyler sembrò sollevata da quella risposta, perché abbozzò un sorriso. «Bene» assentì. «Allora ci conviene andare da Chirone.» Senza aspettare un cenno d’assenso da parte dell’amica, si avviò con passo deciso verso il falò che si stava svolgendo circa un paio di metri più in là.
Emma si morse il labbro inferiore, pensierosa, seguendola con lo sguardo. Poi si voltò distrattamente verso Leo.
Il ragazzo era ancora lì, e la osservava con un cipiglio interrogativo, negli occhi una timida confusione. «Va tutto bene?» domandò cauto, al ché la bionda sospirò, stringendosi nelle spalle.
«Spero di sì.»
Non fu consapevole di mordicchiarsi nervosa una pellicina del pollice finché non sentì quest’ultimo pulsare dolorante. Rivolse un cenno del capo al figlio di Efesto, per far sì che la seguisse mentre si avviava nella stessa direzione dell’amica.
Quando la raggiunsero, la ragazza aveva già comunicato il proprio nome a Chirone, che li segnava su una piccola cartella mentre tutti gli altri mezzosangue del Campo tornavano sbadigliando alle rispettive Cabine.
Intorno a lui, altri cinque semidei, tra cui Matthew, due figli di Ares, un figlio di Afrodite e un’esile figlia di Demetra. Emma immaginò fossero tutti coloro che si erano offerti volontari.
«Dunque, Emily e Simon, voi andrete ad ovest» stava annunciando il centauro, e il figlio della dea dell’amore lanciò un’occhiata alla sua compagna, rivolgendole un amichevole cenno del capo.
«Duck e Stacy, voi a nord.» I due figli di Ares si diedero un cinque, ghignando soddisfatti.
«Skyler e Matthew, voi a sud.» Il figlio di Eris si avvicinò di un passo alla ragazza, regalandole un sorriso che lei si sforzò di ricambiare.
«Ed Emma…» Chirone fece scorrere lo sguardo sulla lista di nomi che aveva appena depennato. «Tu andrai ad Est con Andrew Goode.»
La bionda si guardò intorno, sconcertata. «E dov’è?»
«Credo stia per arrivare» le sorrise Emily, per poi lanciarle un occhiolino palesemente malizioso. Emma corrucciò le sopracciglia, ma si limitò a spostare il peso da un piede all’altro, incrociando le braccia al petto a disagio.
«Bene ragazzi, potete andare» li delegò Chirone, battendo le mani per attirare l’attenzione generale. «Fate attenzione, e non superate per nessun motivo i confini del Campo. Il vostro compito è semplicemente quello di assicurarsi che non ci siano intrusi e di scortare direttamente alla Casa Grande eventuali semidei che sono riusciti ad arrivare fin qui. Credete di farcela?»
«Lei ci sottovaluta sempre, Chirone» borbottò Duck, con tono indignato.
Il centauro fu incapace di trattenere un sorriso, mentre chinava il capo imbarazzato. «Sì» ammise. «Purtroppo è più forte di me.» Chiedeva sempre il meglio, per i suoi ragazzi, e ogni volta continuava a ripetersi che semmai fosse successo loro qualcosa, lui non se lo sarebbe mai perdonato. Ma questo, ovviamente, si tenne bene dal dirlo ad alta voce, e subito dopo lasciò soli i sette semidei, mentre ognuno di loro sguainava prontamente la propria arma e si dirigeva nella direzione assegnatagli da Chirone.
«Se vuoi aspettiamo con te l’arrivo di Andrew» propose Skyler all’amica, ma la figlia di Ermes scosse il capo, passando sovrappensiero le dita sulla lama del proprio coltello di bronzo.
«Andate, sono sicura che non ci metterà molto» li tranquillizzò, e solo quando le figure dei due furono sparite verso sud, Emma si passò una mano tra i capelli, sospirando rumorosamente. Si voltò, intenta a cercare un posto dove sedersi ad aspettare, ma con un sussultò trovò un paio di occhi scuri lì, a fissarla a circa un metro di distanza.
Leo era rimasto lì con loro ad ascoltare le direttive di Chirone, e aveva percepito i propri muscoli irrigidirsi non appena aveva sentito i nomi delle coppie formate.
«Non vai a dormire?» gli chiese la ragazza, inarcando un sopracciglio con circospezione.
Ma invece di risponderle, il figlio di Efesto digrignò i denti, assottigliando lo sguardo. «Andrew Goode?» domandò a sua volta, quasi temesse di aver mal compreso e volesse una conferma.
«Sì, Andrew Goode» ratificò Emma, con un lieve cenno. «Alto, biondo, figlio di Apollo.» La ragazza lo squadrò un secondo, interdetta. «Lo conosci?»
No, Leo non lo conosceva. Ma lo ricordava fin troppo bene.
Se si concentrava, riusciva ancora a vedere lo sguardo languido di quel ragazzo fisso su di lei, quel pomeriggio in cui aveva cercato di parlare e si era ritrovato a preparare della limonata.
Quando gli era passato accanto, Leo aveva sentito una morsa anomala stringergli la bocca dello stomaco, attribuendole prima un’insignificante avversione nei suoi confronti, e poi indecifrabile gelosia.
Non gli piaceva il modo in cui quell’Andrew contemplava le curve di lei. Non gli piaceva il sorrisetto compiaciuto che aveva stampato sul volto.
E ancor meno gli piaceva l’idea che la figlia di Ermes passasse l’intera serata con lui. Da soli. Al chiaro di luna. Nel bosco.
«Leo?» lo chiamò Emma, distogliendolo bruscamente dai suoi pensieri. Aggrottò la fronte, con apprensione. «Ti senti bene?»
Il ragazzo prese un profondo respiro, riempendo i propri polmoni dell’aria grondante di salsedine della spiaggia. «Alla grande» mentì, senza impegnarsi troppo nel mascherare il suo disappunto.
La ragazza sembrò riconoscere la bugia, ma lui non ci badò molto. Passò un dito nello spazio tra il colletto della camicia bianca che indossava e il proprio collo, per poi accennare un tirato sorriso. «Fa attenzione, lì fuori» si raccomandò, poco prima di darle le spalle e allontanarsi in direzione della Cabina Nove.
Emma lo osservò andar via, sul viso un’espressione interdetta e sospettosa. Poi si morse l’interno della guancia, sedendosi sulla fredda sabbia e stringendosi le gambe al petto.
Posò il mento sulle proprie ginocchia, e con sguardo assente seguì il lento disperdersi della schiuma del mare sulla battigia.
Una leggera umidità stava rinfrescando l’aria della sera, e le stelle che puntellavano il cielo andavano man mano brillando meno, offuscate dall’accecante bagliore della luna piena.
Per un attimo, Emma si domandò quanto tempo sarebbe stata costretta lì, ad aspettare.
Ma poi emise un breve respiro, e con la pelle d’oca che si arrampicava su per le sue braccia chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal mormorio del mare.
 
Ω Ω Ω
 
Dopo aver aspettato Andrew per più di mezz’ora, Emma aveva sbuffato, irritata, e stringendo nel pugno il suo fedele coltello si era diretta ad est, da sola.
Era convinta che quando il ragazzo si sarebbe deciso a farsi vivo, l’avrebbe raggiunta nella radura.
Avanzando con passi lenti e misurati, Emma procedeva con calma, stringendosi nelle spalle e reprimendo brividi di freddo. Le temperature erano calate rapidamente, tanto da far credere che l’estata fosse ben più che lontana.
Se espirava dalla bocca, la ragazza riusciva a vedere l’aria condensarsi quasi impercettibilmente davanti al suo volto.
Sembro un drago, ridacchiò tra sé e sé, per ammazzare il tempo.
Con l’avanzare della luna nel cielo, il bosco assumeva lentamente un’atmosfera sempre più tetra e cupa. Lattei raggi di luce filtravano apatici tra le fronde, e regnava un tale silenzio che, Emma lo poté giurare, le permetteva di sentire anche il minimo vibrare di una foglia.
La figlia di Ermes gonfiò le guance, per poi emettere un sospiro tremante. Stava per convincersi che la cosa più emozionante che le sarebbe successa avrebbe potuto essere solo il vedere uno scoiattolo zampettare notturno tra gli alberi, quando la sua attenzione fu attratta da qualcosa.
Un rumore. Lo schiocco di un ramo che si spezza.
La ragazza si bloccò sul posto, irrigidendosi quasi nell’immediato. Voltò esitante il capo, facendo vagare lo sguardo su ciò che la circondava.
Nulla, neanche il minimo soffio di vento osarono emettere un fruscio, e quel silenzio, invece di tranquillizzarla, tese soltanto il suo corpo come la corda di un violino.
Non c’era nessuno, eppure, dopo circa un minuto, si ripeté lo stesso identico suono.
Al solo udirlo Emma strinse con forza l’elsa del coltello, protendendolo in avanti mentre l’altra mano stendeva il palmo, pronta a colpire.
«Chi c’è?» si azzardò a chiedere, maledicendosi subito dopo per il tremitio della propria voce. Si inumidì le labbra, lo sguardo attento e l’orecchio in assetto a captare ogni rumore.
«Andrew?» tentò di nuovo, nella vana speranza che qualcuno le rispondesse.
Un sibilo avvolse l’aria come un guanto. Emma fece un breve giro su sé stessa, cercando di capire la direzione di quel suono agghiacciante e prolungato, ma questo sembrava mescolarsi alle urla del vento.
La figlia di Ermes corrucciò le sopracciglia, facendo un passo indietro.
Più che un sibilo, quello sembrava il mormorio concitato di una flebile voce. Quasi stesse ripetendo velocemente una serie di parole, che però la eco sovrapponeva tra loro rendendole incomprensibili.
Fino a che non si tramutarono in due uniche, semplici sillabe.
Emma.
Un brivido si arrampicò lungo la schiena della ragazza, mentre quella sgranava gli occhi, terrorizzata.
Emma.
La bionda fece appello a tutta la sua destrezza mentale. Il vento non poteva davvero sussurrare il suo nome. Molto probabilmente lo stava solo immaginando.
Emma.
Con la coda dell’occhio, scorse un chiaro bagliore, e subito vi puntò contro la lama del coltello, sforzandosi affinché le sue dita smettessero di tremare.
All’inizio non riuscì a vederlo. Si confondeva tra le ombre degli alberi, quasi fosse intento ad osservarla senza però la benché minima intenzione di essere scorto. Ma poi avanzò verso di lei, con passo sinuoso ed elegante.
Era un cervo, ma assolutamente diverso da tutti gli altri.
Perché era fatto di luce.
Quasi la luna si fosse plasmata assumendo la sua forma, il suo manto brillava di un bagliore argentato. Tutto, persino gli zoccoli apparivano eburnei, e gli occhi sembravano privi di orbita, mentre fissavano Emma con attenzione.
La ragazza sbatté le palpebre più volte, dando per cieche le proprie cornee. Poi, intorno a quel fiero animale, si levò un gelido soffio di vento, che scompigliò anche i suoi biondi capelli, ghiacciando l’aria che li circondava e condensandola in minuscoli fiocchi di neve.
La figlia di Ermes batté i denti, infreddolita e spaventata.
Emma.
Di nuovo quel tremendo richiamo.
In frequenze metalliche, riusciva comunque a sembrare la voce di una ragazzina.
E stavolta proveniva direttamente dal cervo.
Emma.
Un dolore lancinante le colpì il cervello, facendola piegare in due con agonia. Un urlo straziato sfuggì dalle sue tremanti labbra, e la ragazza si prese la testa tra le mani, stringendo con forza i propri capelli nei pugni.
Emma.
Di nuovo quella fitta, che sembrava rimbalzare direttamente sulla sua scatola cranica, per poi tornare ad infrangersi sul suo encefalo con la frequenza petulante di un martello.
Emma.
Calde lacrime le bagnarono il viso, gli occhi che bruciavano mentre in fondo alla gola le ribollivano grida agonizzanti.
Non era mai stata colpita da un simile dolore, prima; e quest’ultimo era tale da rischiare di farle perdere i sensi, nonostante la ragazza di sforzasse di lottare.
Emma.
La figlia di Ermes sollevò lo sguardo, ma il mondo apparve sfocato attraverso la sua vista appannata dalla sofferenza. Nonostante ciò, però, riuscì a distinguere i lineamenti indefiniti del cervo, che la fissava a circa due metri di distanza, come fosse in attesa.
«C-C… Che c-cosa vuoi d-da me?» riuscì a domandare Emma, ma fu in grado di emettere quelle parole a poco più di un sussurro, mentre febbricitante era scossa da violenti brividi.
Voglio solo salvarti.
Per una frazione di secondo, la ragazza riuscì a chiedersi come potesse, qualcuno, salvarla infliggendole un tale dolore. Ma i suoi pensieri furono repentinamente spazzati via da un’altra fitta, che stavolta le fece cacciare un lamento strozzato.
Emma barcollò all’indietro, incapace di sorreggersi sulle proprie gambe mentre avvertiva il cervello pulsarle nella scatola cranica, minacciando di implodere. Strizzò gli occhi, ma poco prima che potesse anche solo digrignare i denti un’ulteriore doglia la colpì con violenza, smorzandole brutalmente il respiro il gola.
La radura, intorno a lei, prese a girare vorticosamente. Le ginocchia cedettero, il cielo si confuse con le fronde degli alberi e la terra; il suo corpo divenne di piombo, e una luminosa luce bianca l’accecò, facendole rivoltare le iridi all’indietro.
Si accasciò pesantemente al suolo, e nel farlo la sua nuca batté contro il freddo terreno, annullando improvvisamente ogni dolore.
«Emma!» stavolta non era più quell’agghiacciante voce a gridare il suo nome, ma nonostante questa consapevolezza la ragazza non riuscì a distinguerla, percependola ovattata al proprio timpano.
Qualcuno le sollevò il busto da terra, e due braccia forti la strinsero, nel tentativo di sorreggerla.
Però per quanto si sforzasse di non cedere, la sua mente stava vorticosamente scivolando via, e lei era incapace di opporsi allo spegnersi inesorabile del proprio corpo.
E poco prima che il mondo sparisse in un guizzo d’inchiostro, un pungente odore di olio per macchine riuscì ad insinuarsi nelle sue narici.
Poi sprofondò nel limbo più tetro, e lì vi trovò solo oscurità.
 
Ω Ω Ω
 
Per un breve attimo, Emma era stata convinta di annegare.
Si trovava in luogo buio, tonnellate d’acqua che la sovrastavano spingendola lentamente verso il basso.
Nonostante avesse tentato di opporsi, scalciando ed emettendo sorde grida che si arrestavano in fondo alla gola, dopo un po’ il suo corpo si era lentamente rilassato, mentre il battito del suo cuore rallentava fino a farle perdere i sensi.
Continuava a sprofondare, e dopo un po’ i suoi polmoni non resistettero più alla troppo prolungata apnea.
Nel momento stesso in cui smise di lottare, la sua fame di ossigeno la costrinse ad ispirare voracemente, e nelle sue vie respiratorie filtrò una sostanza densa, appiccicosa, che si arrampicò fin su il suo cervello e lo avvolse come una macabra coperta.
Voleva uscire da quell’orribile stato catatonico, eppure era consapevole che tutto ciò che sarebbe stata in grado di fare era aspettare.
Aspettare una luce che illuminasse quella prigione, permettendole anche solo di scorgere di nuovo la sagoma dei propri piedi.
Si sentiva inghiottita, persa, inglobata.
In qualunque direzione i suoi occhi si spostassero trovavano solo il nulla. Il nulla più totale.
Per cui chiuse le palpebre, mentre le sue narici continuavano ad ingerire violentemente quel fluido corposo, amaro come l’inchiostro.
È la fine?, si chiese la ragazza, le labbra che si schiudevano ad emettere un ultimo sospiro tremante.
Ma nel momento esatto in cui abbandonò la testa all’indietro, ormai priva anche della forza di non cedere, sentì una forte nausea avvinghiarsi tempestiva alla sua bocca dello stomaco.
Qualcosa la strattonò con decisione, i suoi capelli biondi che le fluttuavano scomposti davanti al viso. E un bruciore intenso la costrinse a riaprire gli occhi, irrigidendo i muscoli e boccheggiando alla disperata ricerca d’aria.
La melma meschina se n’era andata, era scivolata fuori dai suoi polmoni come fosse sporco grattato via sotto la doccia.
Un fioco bagliore brillava qualche metro di distanza sopra di lei, ed Emma si rese conto che un’anomala forza la stava attraendo verso la luce solo quando vi si trovò talmente vicina da esserne accecata.
Ormai incapace di governare i propri tendini, si lasciò trasportare, adagiata nel vuoto a peso morto, quasi fosse priva di consistenza.
Man mano che risaliva verso l’alto sentiva una nuova parte di sé tornare al proprio posto, come in un puzzle.
Una scarica elettrica partì dalla pianta dei suoi piedi, correndo repentina lungo la sua colonna vertebrale e raggiungendo i peduncoli cerebrali.
La ragazza tossì flebilmente, avvertendo la propria gabbia toracica bruciare.
Il suo corpo formicolò, come se fosse stato appena investito da un’ondata di gelido alcool. I suoi occhi si schiusero lentamente, per poi serrarsi subito dopo alla vista orbante di una luce bianca.
Sul suo volto si dipinse una smorfia, e dalle sue labbra uscì un lamento strozzato.
«Sei sveglia!» trillò una voce accanto a lei.
Emma si rese conto solo in quel momento di essere avvolta da candide coperte. Si guardò circospetta intorno, la testa che pulsava ad ogni scatto che le sue iridi argentate facevano.
Si trovava in una stanza dell’infermeria, e a dargliene conferma ci fu una tredicenne figlia di Apollo, che la fissava con uno smagliante sorriso dipinto sul volto.
«Come ti senti?» le domandò quella, apprensiva, ed Emma strinse le lenzuola nei pugni, facendo perno sui gomiti nel tentativo di alzarsi.
«Che ci faccio qui?» chiese a sua volta, in un gracchiante mormorio, poco prima che una nuova fitta le colpisse inaspettata le tempie.
«Ehi, no, sta giù!» le ordinò la figlia di Apollo, premendole le mani sulle spalle e spingendola di nuovo con la testa sul cuscino. «Sei ancora troppo debole.»
La ragazza arricciò il naso, contrariata, ma non obbiettò, decisamente stanca e prive di forze.
«Mentre facevi il turno di guardia, hai avuto un mancamento» le spiegò la piccola, scostandole con un gesto sicuro una ciocca di capelli dal viso. «Poi sei svenuta e hai battuto la testa. Hai avuto un trauma cranico.»
«Quanto ho dormito?» si informò quindi Emma, con disappunto.
«Circa sette ore.» La figlia di Apollo le posò un palmo sulla fronte, controllandole la temperatura. «Sono le sei del mattino.»
Emma si portò entrambe le mani a stropicciarsi gli occhi, nel tentativo di scacciare il mal di testa, ma non appena fece per ritirare le ginocchia al petto, qualcosa le punse il piede come un pugno di spilli.
«Ahi!» si lamentò, con sconcerto.
«Oh, sì» annuì la ragazzina, con scarso interesse. «Hai anche una caviglia slogata.»
«Fantastico» borbottò la figlia di Ermes, a denti stretti. Fece un respiro profondo, grattandosi il naso e strizzando gli occhi.
Ricordava fin troppo bene quello che era successo quella sera, e di certo non si era trattato di un mancamento.
Quel cervo era andato lì per lei. L’aveva chiamata, offrendole ciò che, almeno una volta nella vita, ogni ragazza cadeva in tentazione di accettare.
Ma lei aveva rifiutato la sua proposta senza pensarci due volte. Non aveva bisogno del suo aiuto, né tantomeno voleva abbandonare tutto ciò che aveva per seguirlo.
Solo che non riusciva a capire: perché proprio lei?
Perché proprio in quel momento?
Il suo era forse un avvertimento?
Da cosa voleva salvarla, in maniera così urgente, addirittura da causarle un trauma cranico?
«Vado ad avvisare Chirone del tuo risveglio» le annunciò la figlia di Apollo, distogliendola momentaneamente dai propri pensieri.
Emma mugugnò qualcosa di incomprensibile, in segno d’assenso, al ché lei le posò dell’ambrosia sul comodino.
«Puoi star tranquilla, comunque» aggiunse, poco prima di aprire la porta. «Sono sicura di lasciarti in buone mani.»
«Di chi?» si azzardò a chiedere distrattamente la bionda.
«Del tuo ragazzo.»
Gli occhi di Emma si sgranarono, puntandosi confusi sulla ragazzina. «Di chi?»
La figlia di Apollo le indicò qualcosa con un cenno del capo, e solo dopo aver seguito la direzione del suo sguardo, la bocca di Emma si spalancò dallo stupore.
Accanto al suo letto, seduto su una sedia a circa un metro di distanza, c’era un ragazzo, e la figlia di Ermes non ci mise molto a riconoscere i tratti elfici di Leo.
Dormiva, la guancia premuta contro la propria spalla e il petto che si alzava e si abbassava in sincrono con il suo respiro regolare.
«È rimasto qui tutta la notte» la informò la figlia di Apollo, con un sorriso sornione. «Giuro, non si è mosso da quella sedia neanche per un secondo. È stato lui a trovarti nel bosco e a portarti qui. Davvero dolcissimo.»
«Non è il mio ragazzo» si limitò a mormorare Emma, troppo interdetta per aggiungere altro.
«Però deve tenerci molto a te.»
La ragazzina inclinò il capo con sguardo sognante, per poi sospirare teatralmente e uscire dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
La figlia di Ermes continuò a fissare Leo, piacevolmente sorpresa, e mentre ripercorreva con le proprie iridi grigie i lineamenti del suo volto non si rese neanche conto del sorriso che lentamente si faceva largo sul suo volto.
Si morse il labbro inferiore, quasi a volergli impedire di palesare tutto il suo compiacimento. Poi si girò su un fianco, contemplando il ragazzo ancora qualche secondo prima di accarezzargli delicatamente un ginocchio.
Quel semplice contatto sembrò sufficiente, però, affinché lui si svegliasse. Prendendo un gran respiro, il suo corpo si irrigidì, tornando in funzione.
Le sue palpebre si strinsero leggermente, prima di schiudersi, e solo dopo essersi stiracchiato e aver soffocato uno sbadiglio in fondo alla propria gola, Leo incontrò gli occhi di Emma intenti a fissarlo, radiosi.
«Ehi» sobbalzò contento, riassestandosi sulla sedia e sorridendo raggiante. «Ti sei svegliata!»
La ragazza annuì flebilmente, al ché lui trascinò la scranna più vicina al suo letto, squadrandola attentamente. «Come ti senti?» le domandò, preoccupato.
«Meglio» lo tranquillizzò lei, con un fil di voce. Poi si spostò un boccolo biondo dietro l’orecchio. «Mi hanno detto che sei stato tu a trovarmi.»
«Sì, beh, io…» Il ragazzo si passò le dita tra i capelli corvini, abbassando lo sguardo imbarazzato. Ma poco prima che potesse ciangottare altre parole senza senso, Emma allungò una mano verso di lui, afferrando la sua e stringendola con dolcezza.
Leo alzò nuovamente gli occhi su di lei, e la ragazza gli rivolse un sorriso, che fu subito ricambiato.
Il figlio di Efesto le accarezzò teneramente il dorso con il pollice, ma nel momento stesso in cui prese fiato per parlare, la porta si spalancò.
I due ragazzi fecero appena in tempo ad interrompere quel piacevole contatto, che Skyler irruppe con foga nella stanza, per poi precipitarsi verso l’amica.
Le buttò le braccia al collo ancor prima che lei si rendesse conto di ciò che stava succedendo, stringendola in un abbraccio più forte del necessario.
«Miei dei, sono così felice che tu stia bene!» le sussurrò all’orecchio, le corde vocali trasudanti ansia e adrenalina. «Mi hai fatto prendere un colpo!» la rimproverò poi, allontanandosi da lei quel tanto che bastava per prenderle il volto tra le mani e fissarla con rabbia. «Non farlo mai più, capito?»
Le due amiche ridacchiarono divertite, per poi tornare ad abbracciarsi con affetto.
Leo, nel frattempo, si era allontanato con nonchalance dalla branda, tossicchiando nonostante non ne avesse davvero bisogno, a disagio.
Solo dopo aver sciolto l’abbraccio con Skyler, Emma notò John e Michael ai piedi del suo letto, con un Chirone alle spalle che sorrideva rincuorato.
«Ciao» li salutò la figlia di Ermes, felice che fossero accorsi tutti lì per lei.
«Come stai?» le chiese Michael, al ché lei assentì con fare rassicurante.
«I postumi del trauma cranico sembrano essere spariti» si intromise quindi la figlia di Apollo, rivolta più al fratello, che agli altri. «Tutto ciò che potrà avere ora sarà solo un po' mal di testa.»
«Mi spieghi cosa diamine è successo?» volle sapere Skyler, squadrandola con apprensione.
«Io…» cominciò la bionda, ma nel momento esatto in cui lo fece, si rese conto di non sapere affatto come continuare. Si morse l’interno della guancia, esitante.
«Credo sia meglio lasciarla riposare» accorse in suo aiuto Chirone, facendosi avanti e posando una mano sulla spalla di John. «Le domande le lasciamo a quando si sarà ripresa.»
«Voglio andare a casa» annunciò quindi Emma, con ferma decisione. «Non ho intenzione di restare qui.»
«Non credo tu sia in grado di arrivarci da sola.»
«L’accompagno io.»
Sei paia di occhi si voltarono a guardare Leo, che sentendosi improvvisamente in soggezione arrossì, stringendosi nelle spalle. «Sì, insomma, per me non ci sono problemi» si affrettò ad aggiungere, maledicendosi per il tremitio della propria voce.
Fu il centauro il primo a distruggere la coltre di silenzio che si andava creando, battendo le mani con vigore e annuendo. «Molto bene» disse, sfregandosi i palmi e rivolgendo un cordiale sorriso alla figlia di Ermes. «Allora inizia a prepararti. Leo ti riaccompagna alla tua Cabina.»
La ragazza spostò lo sguardo prima sul figlio di Efesto, poi sul bianco pavimento. Avvertì le proprie guance imporporarsi, ma si impegnò nel non darci peso, mentre, tirandosi su dal letto con fatica, rispondeva alle preoccupate domande degli amici.
Leo non ebbe neanche il tempo di tirarsi indietro, che fu costretto a cingere la vita di Emma, affinché lei si aggrappasse alla sua spalla e riuscisse ad avanzare nonostante la caviglia steccata. Ma cercò di dissuadere la propria attenzione dal profumo dei suoi biondi capelli, mentre la ragazza rendeva il mantenere l’autocontrollo più arduo, regalandogli dei muti e splendenti sorrisi.
 
Ω Ω Ω
 
Al fine di facilitare il ritorno di Emma alla Cabina Undici, le figlie di Apollo dell’infermeria l’avevano fornita di una stampella.
La notte stava lentamente lasciando spazio al giorno, e il cielo andava pian piano schiarendosi nell’alba di quel 5 Luglio.
La ragazza respirò a fondo, i polmoni che sembravano sfregati da cartavetro ogni volta che ingerivano troppo aria.
Accanto a lei, Leo la sorreggeva avvolgendole i fianchi con una mano, l’altra a stringerle il polso, mentre lei gli circondava il collo con un braccio.
Nonostante facesse fatica a bilanciare il proprio peso senza impedire ad una fitta di dolore di irradiarsi su per la sua caviglia, la figlia di Ermes aveva tentato più volte di declinare il suo aiuto, invano. Leo continuava a ripeterle che non aveva alcuna intenzione di lasciarla da sola, e lei tratteneva a stento un sorriso, compiaciuta.
«Spiegami una cosa» gli disse, non appena ebbero salito i tre gradini di marmo della Casa di Ermes. Emma si voltò a guardarlo, inclinando la testa di lato. «Cosa ci facevi tu nella foresta, a quell’ora?»
Leo deglutì a fatica, il volto che minacciava di prendere fuoco, letteralmente. «I-io» balbettò, trovando improvvisamente interessante le punte delle proprie scarpe. «Sapevo che Andrew Goode aveva una fama da… poco rispettabile. E, non lo so, volevo assicurarmi che con te…»
Lasciò la frase in sospeso, mentre Emma stringeva le labbra in una linea sottile, impedendo ad un sorriso di incresparle. «Avevi paura che io non sapessi difendermi?» domandò, divertita.
«No! Cioè, sì… cioè, no…»
La ragazza inarcò le sopracciglia, in attesa.
«Io… non volevo che lui ci provasse con te, ecco» ammise quindi Leo, tutto d’un fiato.
La figlia di Ermes lo scrutò, gli occhi chiusi a due fessure. «Sei geloso?» chiese, malandrina.
«Io? Ma ti pare?» Il ragazzo arricciò il naso, fingendo nonchalance con scarsi risultati. «Perché mai dovrei essere geloso?»
Emma fece spallucce. «Non lo so. Dimmelo tu.»
«Beh, io non lo so, quindi dimmelo tu.»
«Non lo so.»
I due ragazzi si soppesarono con lo sguardo, poco prima che lei si spostasse i capelli su una spalla con un gesto distratto della mano. «Comunque, credo di doverti ringraziare» sorrise, le iridi luccicanti di gratitudine. «Se non fosse stato per te, in questo momento sarei ancora distesa in quella foresta.»
«Non c’è di che» ribatté Leo, con un timido cenno del capo. Poi si asciugò i palmi sudati contro la ruvida stoffa dei pantaloni, volgendo imbarazzato lo sguardo al cielo. «Senti, allora io vado» si dileguò, grattandosi la nuca e ridiscendendo al contrario i freddi gradini. «Riposati, mi raccomando.»
Solo quando le diede le spalle, Emma sentì un guizzo nel petto, che la fece sussultare. Non voleva che lui se ne andasse. Non così.
«Leo, aspetta!»
Il ragazzo si voltò a guardarla, incuriosito.
«Ecco, io…» E in quel momento Emma si rese conto che in realtà non aveva nulla da dire. Si mordicchiò il labbro inferiore, spostando tutto il peso sul piede sano. «Io volevo chiederti una cosa» mentì.
«Certo, dimmi.»
«Secondo te…» Che cosa fare, ora? Se avesse fatto scena muta, il figlio di Efesto si sarebbe insospettito. Quindi disse la prima cosa che, senza apparente motivo, le venne in mente. «Secondo te i dinosauri erano in grado di abbracciarsi?»
Gliel’aveva chiesto qualche giorno prima il piccolo Samuel, il figlio di Ermes più giovane dell’intera Cabina. Lì per lì, lei aveva ridacchiato, divertita, ed era convinta che il ragazzo facesse lo stesso, in quel momento.
Invece Leo aggrottò le sopracciglia, avvicinandosi a lei con aria preoccupata. «I dinosauri?»
«Sì» annuì lei.
Il figlio di Efesto posò tre dita contro la sua fronte, confuso. «Sei sicura di non avere la febbre?» chiese. «Forse è qualche effetto collaterale del trauma cranico.» La afferrò per un polso, il volto corrucciato. «Vieni, ti riporto in infermeria.»
«Leo, io sto benissimo» replicò la ragazza, divincolandosi dalla sua presa con una scrollata del capo.
Lui la guardò, quasi fosse uno strano essere mitologico. «I dinosauri?» ripeté, scioccato.
«Volevo solo sapere» scattò allora lei, sulla difensiva. Dopo di ché incrociò le braccia al petto, risoluta. «Ma se non hai voglia di rispondermi, non fa niente.»
«No!» la fermò Leo, un momento prima che lei potesse far cigolare il cardine ed andarsene. «Insomma, io… non lo so, non ci avevo mai pensato.» Si grattò la testa, disorientato. «Gli abbracci esistono da sempre, no?» disse, poi, con fare ovvio.
Emma annuì, guardandolo con interesse. «Come i baci» aggiunse.
«O come i broccoli.» Il ragazzo sembrò fiero della sua stessa osservazione. «Insomma, chi ti dice che anche i baby-tirannosauro non odiassero i broccoli?»
«Beh, ma chi può dirti che i tirannosauri, con quelle loro zampe cortissime, fossero in grado di abbracciarsi?» ribatté quindi Emma, avvicinandosi di un passo a lui.
«Forse avevano altri modi per dimostrarsi il loro amore.»
«Come i baci.»
«O come i regali!»
La ragazza corrucciò le sopracciglia, interdetta. «Regali?»
«Sì!» Leo sorrise. «Piccole carcasse, hai presente?»
«Idiota» lo rimproverò lei, scrollando il capo, incapace di trattenere una sommessa risata. Poi assottigliò lo sguardo, divertita. «Baciami se sbaglio, ma la carcassa di un animale non è esattamente il dono più romantico del mondo.»
Leo strabuzzò gli occhi, sorpreso. «Come, scusa?»
«Mh?»
«Puoi ripetere?»
«Ho detto: ‘la carcassa di un animale non è esattamente…’»
«No, no» la interruppe lui. «Prima.»
Emma inarcò un sopracciglio. «Prima cosa?»
«Hai detto qualcosa?»
La figlia di Ermes si strinse nelle spalle. «Non mi pare.» Poi appoggiò la propria stampella al muro, con aria assorta. «Comunque, non è incredibile quanto le cose apparentemente inutili siano le più sorprendenti?» domandò. «I dinosauri si regalavano carcasse. Tutti i bambini odiano i broccoli. Io ho delle labbra. Tu hai delle labbra…»
«Hai d-detto ‘labbra’?» balbettò il ragazzo, con la gola secca.
«Ho detto ‘libri’» rispose lei, inarcando un sopracciglio stranita.
Il ragazzo si premette i palmi contro gli occhi, stropicciandoseli. Che diavolo gli stava succedendo?
Forse era la vicinanza con Emma, il problema. Non riusciva a concentrarsi, con quei due diamanti argentati che lo fissavano. Doveva andarsene di lì. E alla svelta.
«Senti, credo di essere un po’ stanco» mormorò, il viso contorto in una smorfia. «Forse è meglio che…» Continuando a parlare, fece un passo avanti, forse per salutarla, o forse semplicemente perché il suo corpo, in quel momento, sembrava non rispondere alle sinapsi del cervello. Le pestò accidentalmente un piede -quello sano-, e la ragazza sobbalzò con un gridolino.
«Oh miei dei, scusa!» si affrettò a dire Leo, sorreggendola poco prima che lei perdesse l’equilibrio.
«Non preoccuparti» lo consolò Emma, sforzandosi di abbozzare quello che doveva sembrare un sorriso, ma che invece apparve più come un lazzo di sofferenza.
Il ragazzo la aiutò a raddrizzare la schiena, e mentre lei decideva su quale gamba spostare definitivamente il peso, lui si affrettò a raccogliere la sua stampella, nella speranza che potesse esserle d’ausilio.
«Scusa» ripeté, mortificato. «Ti giuro che non l’ho fatto appos….» Ma poco prima che potesse terminare anche quella frase, si rese conto di aver calcolato male la propria traiettoria. Un po’ troppo tardi, dato che non riuscì ad impedire al bracciolo dell’arnese di sbattere contro la fronte della ragazza a causa sua.
«Ah!» scattò subito Emma, portandosi una mano alla tempia dolorante.
«Scusa!» Leo buttò a terra la stampella, precipitandosi accanto a lei.
«Tranquillo, non fa niente.» Il cuore della figlia di Ermes era diviso tra le risa e il lamento. Nonostante molto probabilmente avesse appena guadagnato due piedi gonfi e un livido sulla fronte, quella situazione la divertiva.
Il ragazzo la scrutò in viso, per poi sfiorarle delicatamente la fronte con i polpastrelli, nel punto in cui l’aveva colpita. «Sono un disastro, scusa» sussurrò, afflitto.
La bionda lo osservò per qualche secondo, cercando invano il suo sguardo, per poi inclinare il capo di lato. «Dici scusa un sacco di volte» constatò.
«Sì» assentì lui, con un sospiro. «Scusa.»
«Smettila di dire ‘scusa’» lo rimproverò quindi lei, con finto tono accusatorio.
«Scusa. Cioè, volevo dire…» Leo si morse con forza il labbro inferiore, quasi a volersi impedire la figura dell’idiota. Represse un sorriso imbarazzato, prendendo fiato poco prima di implorare: «Perdonami.»
Emma abbassò gli occhi, intenerita, per poi arricciare teatralmente il naso. «Non so se sarò in grado di farlo» lo provocò, con aria risoluta.
Il ragazzo si grattò la nuca, a disagio. «Potresti provarci» convenne.
«Potresti provare a convincermi.» Emma avanzò di un passo verso di lui, tanto da poter distinguere senza problemi le minuscole chiazze d’olio che macchiavano la sua camicia chiara.
«Credi che ci riuscirei?» domandò Leo, dubbioso.
La ragazza fece spallucce, con aria innocente. «Dipende da cosa ti inventi.»
Il figlio di Efesto si accarezzò il mento, pensieroso. «Che ne pensi di un deltaplano?»
«Veramente» ribatté lei, trascinando lentamente le parole. «Io pensavo a qualcosa di un po’» Annullò con un piccolo passo le ultime distanze che li separavano, cercando la parola giusta. «Diverso.»
Sperava che il ragazzo avesse capito. Insomma, con i loro volti ad un palmo, i nasi che minacciavano di sfiorarsi, era l’unica a volerlo davvero?
Leo assottigliò lo sguardo, al ché lei trattenne il fiato, sulle spine.
«Una nuova spada?»
La figlia di Ermes sbuffò, facendo roteare gli occhi. «No.»
«Un’armatura di bronzo?» riprovò allora lui, speranzoso. «Ah, ci sono!» Inarcò le sopracciglia, sorridendo sornione. «Un mantello dell’invisibilità. Sai, credo che forse sarei in grado di costruirlo. Avrei solo bisogno di tanto bronzo celeste, due o tre delle pozioni dei figli di Ecate e poi quel tessuto particolare che fanno solo in…»
«Sta zitto e baciami, stupido!»
E prima che Leo potesse metabolizzare quelle quattro, semplici parole, Emma gli prese il volto tra le mani, e con un impeto che sorprese anche lei lo baciò.
In un primo momento, l’impulso del ragazzo fu quello di sgranare gli occhi, sorpreso. Di tutte le volte in cui aveva sognato quell’istante, mai si sarebbe aspettato che fosse proprio la ragazza, colei che faceva il primo passo. Si era svogliatamente convinto che lei non lo volesse, che quello fosse un desiderio suo, e di nessun’altro.
Ma ora era lì, con le labbra di Emma premute contro le proprie, e la loro consistenza, il loro sapore, la loro morbidezza e il loro calore erano esattamente come li ricordava.
Le loro bocche si schiusero quasi contemporaneamente, e il loro bacio acquistò un’intensità e una passione reduce da troppo tempo passato ad aspettare.
Leo le cinse i fianchi con un braccio, attirandola a sé e facendo aderire i loro corpi trepidanti. Le posò una mano dietro la nuca, e strinse i suoi ricci biondi nel pugno, al fine di avvicinare ancora di più il volto al suo.
Si ritrovarono a condividere un sospiro tremante, mentre le dita di lei si intrecciavano nei capelli corvini del figlio di Efesto.
Le loro lingue lottavano voraci, assaporandosi con desiderio, mentre si spingevano bramose secondo quella che era una danza perfezionata nel corso dei millenni.
Quasi fossero diventati una cosa sola. Quasi i loro corpi si fossero fusi insieme, e così anche le loro menti, le loro labbra, i loro cuori, che battevano ad un ritmo accelerato.
Quando Emma si staccò da lui quel tanto che bastava per poter incastrare le proprie iridi argentate alle sue, la ragazza percepì una sorta di elettricità statica vibrare intorno a loro, mentre entrambi lottavano contro la pelle d’oca dovuta all’adrenalina, i nasi che ancora si sfioravano.
Leo boccheggiò per qualche secondo, nel tentativo disperato di afferrare le parole che indomabili turbinavano nella sua mente. Ma prima che potesse dire qualcosa di stupido, la figlia di Ermes si sporse di nuovo verso di lui, soffiandogli un ultimo delicato bacio a fior di labbra.
«Ci vediamo questa sera al falò» bisbigliò poi, e non era una domanda.
Il ragazzo deglutì con evidente fatica, riuscendo appena ad annuire. Lei gli rivolse un radioso sorriso, per poi sciogliere dolcemente l’abbraccio nel quale ancora erano stretti.
Senza interrompere l’intenso contatto visivo, fece qualche passo indietro, afferrando il pomello della grigia porta e facendolo scattare. «Ciao» salutò infine con un fil di voce, entrando definitivamente in casa e facendo cigolare il cardine alle proprie spalle.
Tutti i suoi fratelli dormivano ancora, e questo poteva significare solo due cose: 1) non avevano sentito/visto/capito ciò che era successo qualche attimo prima; 2) se solo avesse provato a svegliarli, Emma si sarebbe ritrovata contro l’intera furiosa e indispettita Casa Undici.
Posò la schiena contro l’entrata di legno battuto, concedendosi il lusso di un sospiro. Poi si mordicchiò distrattamente il labbro inferiore, e si riscoprì incapace di trattenere un sorriso.
Riusciva ancora a percepire il sapore della bocca di Leo impresso a fuoco sulla propria; il palato pizzicare, le labbra formicolare.
Respirò a fondo, coprendosi subito dopo il volto con le mani al fine di frenare una risatina isterica. Si chiese cosa stesse facendo lui, in quel momento, per questo volse curiosa lo sguardo alla porta.
Travis e Connor, qualche anno prima, vi avevano inserito un piccolo spioncino. L’Occhio Magico, l’avevano denominato, e la maggior parte delle volte lo utilizzavano per spiare coloro che avevano la sventura di passeggiare davanti la loro Cabina.
Emma vi guardò attraverso, trattenendo inconsciamente il fiato.
Leo era ancora lì. Fissava il legno attraverso il quale era scomparsa la ragazza, sul volto un’espressione allibita, incredula e sconvolta.
La figlia di Ermes temette che sarebbe rimasto così fino a tempo immemore, quando lui le fece corrucciare le sopracciglia, portandosi le dita tra i capelli.
Sul suo volto comparve un sorriso euforico, e, senza emettere il benché minimo rumore, prese ad esultare con foga, ringraziando gli dei, sventolando i pungi in aria e saltellando sul posto quasi avesse tanta di quella carica elettrica nelle vene da non riuscire a stare fermo.
Emma soffocò a stento una risata, divertita. Anche lei avrebbe voluto esultare.
Anche lei sentiva il proprio cuore galoppare ad un ritmo esagerato nel petto, un groppo in gola, le guance in fiamme.
Non aveva idea di cosa avesse, quel ragazzo, di tanto speciale. O meglio, lo sapeva, ma non era ancora in grado di capire perché avesse un tale effetto su di lei.
Prima di allora, mai le era capitato di combattere contemporaneamente con simili emozioni.
Come si poteva chiamare, quello?
La ragazza era sicura che non si trattasse solo di una banale cotta. Ne aveva avute altre, per la miseria! Eppure era la prima volta che si sentiva così.
Così viva. Così bella. Così felice.
Così Emma.
Era la prima volta che non pensava al passato, né si interrogava sul domani.
Era la prima volta che si sentiva leggera, dello stesso peso di una piuma. E fu proprio quello che sognò, quando cadde con un sorriso tra le braccia di Morfeo.
Sognò di volare, trasportata dal vento, priva di pensieri e consistenza. E a sorreggerla in quello che era un cielo stellato, per impedirle di cadere, c’erano due braccia calde e sicure.
C’era fuoco e c’erano risate.
C'era dolcezza e c'era passione.
C’era profumo di olio per macchine e c’era felicità.
 


Angolo Scrittrice. 
-Stiamo per andare in onda!-
*e in diretta tra cinque... quattro... tre... due... uno...*

ON AIR.

Salve a tutti, semidei!
Oggi è martedì, e come sempre ValeryJackson è qui!
(woo, ho fatto la rima u.u)
Bien bien bien, prima di iniziare a parlare del capitolo, partiamo dal presupposto che non vedevo l'ora di scriverlo.  Ma cavolo, ragazzi, è stato peggio di un travaglio! D: 
Però sapevo con quanta ansia la maggior parte di voi lo attendesse, per cui mi sono rimboccata le maniche, e questo è il risultato.
Spero che vi sia piaciuto, e soprattutto di non aver deluso le aspettative di nessuno. 
E poi, parliamoci chiaro, guys,
 Leo ed Emma si sono baciati!
waah! ** Alla faccia di tutti coloro che credevano che sarebbe successo tra più di venti capitoli! ahaha, contenti? No? Sì? 
Sto migliorando, non è vero? Due baci nell'arco di due sole settimane (y) I feel like a boss u.u
So che molto probabilmente la stragrande maggioranza si aspettasse qualcosa di mooolto più... romantico. Ma, ehi, loro sono Leo ed Emma, sono imprevedibili!
Ma andiamo per gradi: ho voluto ambientare questo capitolo nello stesso arco di tempo del precedente perchè avevo ancora molto da raccontare riguardo a quella sera, ma non ho potuto per ragioni di eccessiva lunghezza che ho preferito evitare. 
Mi sono concentrata principalmente su questi due perchè dopo tutte le 'peripezie' che hanno passato si meritavano un capitolo tutto per loro. 
All'inzio, non appena sentito il nome di Andrew Goode (personaggio che appare nel Capitolo 5, per chi non lo ricordasse), il nostro piccolo Valdez ha tremato di gelosia. E forse è stata proprio questa a spingerlo a seguire Emma nella radura. 
Se non fosse stato per lui, la ragazza avrebbe dovuto combattere contro molto più che un trauma cranico. 
Che poi, secondo voi, che le è successo? 
Che cosa rappresentava quel cervo bianco? Com'era arrivato lì? Cosa voleva da lei? 
Ma soprattutto, perchè la figlia di Ermes ha sofferto così tanto?
Si accettano scommesse, ovviamente. Io, nel frattempo, non faccio Spoiler. 
Ma mi auguro di aver descritto al meglio ciò che provava Emma in quel momento, e anche il sogno, subito dopo. 
E poi, beh, c'è stato il bacio. 
Mi sono impegnata molto nel descrivere quella scena, davvero, e spero di aver fatto un buon lavoro! 
La nostra figlia di Ermes non sapeva come convincere Leo a baciarla, così alla fine, dopo una serie di tentativi falliti, ha optato per il metodo più drastico (e anche il più passionale, oserei dire).
Fatemi sapere cosa ne pensate. Vi è piaciuto? Vi ha fatto schifo? Siete soddisfatti? Volete linciarmi? 
Non abbiate paura di dirmi ciò che realmente pensate, perchè sono davvero aperta ad ogni tipo di opinione/critica (purchè costruttiva)
Oookaaay, credo che adesso è meglio che vada. Ma non lo farò, se non dopo aver ringraziato i miei deliziosi Valery's Angels! Leggere le vostre recensioni è sempre un balsamo per gli occhi, davvero, e forse alla fine di tutto questo riuscirò davvero a trovare le parole giuste per esprimervi tutta la mia gratitudine. Un grazie infinito a:
stydiaisreal, Occhi di Smeraldo, ChairaJacksonStone1606, Kamala_Jackson, Percabeth7897, carrots_98, fire_in_dark29, _Krios_ e martinajsd.
Grazie davvero tante, angeli. Siete stupendi **
Bien, ora vi lascio in pace davvero :') 
Aggiungo solo che (per me) il coprifuoco del Campo inizia verso le 22:30... ahahah non so perché ve lo dico, dato che credo non vi interessi :') Grazie anche a tutti coloro che seguono e supportano la storia, e a voi che state scorrendo questo Angolo Scrittrice, perchè significa che avete avuto il coraggio di leggere fino alla fine. 
Al prossimo martedì, ragazzuoli!
Sempre Vostra, 

ValeryJackson

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***





Skyler si sentiva come un palloncino troppo gonfio.
Aveva quest’esagerata pressione qui, al centro del petto, che le impediva di respirare con facilità. Che rendeva anche l’abbozzare un semplice sorriso una missione su Marte.
Che la faceva sentire stanca, vuota, insicura.
Non sapeva con certezza quale fosse stato il momento esatto in cui si era formato.
Sapeva solo che faceva male, e che per quanto si sforzasse di negarlo, influiva sul suo comportamento molto più di quanto avrebbe dovuto.
Se Leo faceva una delle sue stupide battute, non riusciva più a prenderlo in giro.
Se perdeva una battaglia di scherma, non aveva più la forza di chiedere la rivincita.
Se litigava con Michael, non aveva più la voglia di chiedergli scusa.
Che poi non sapeva neanche perché avrebbe dovuto farlo. Lei non aveva fatto niente di male.
Gli era sempre stata fedele. Non l’aveva mai neanche sfiorata l’idea di sostituirlo con qualcun altro. Era stata paziente, aveva assecondato e sconfitto i suoi timori.
E allora perché lui si ostinava ad avere quell’atteggiamento rude, freddo e distaccato?
Come mai Skyler si sentiva a disagio anche solo ad abbracciarlo?
C’era sempre stato qualcosa di speciale, a legarli. Qualcosa di profondo e sincero, una scintilla che si era accesa nel momento esatto in cui le loro iridi si erano incatenate, la sera in cui la figlia di Efesto era arrivata al Campo.
Ma ora quel fuoco che dolce rendeva vivo il loro rapporto sembrava minacciare di spegnarsi, sfinito dalle continue ondate di salata gelosia che il figlio di Poseidone provocava.
La ragazza sospirò, prendendosi frustrata il volto tra le mani. 
Aveva bisogno di distrarsi. Aveva bisogno di sentirsi amata, aveva bisogno di quel calore che da troppo tempo le era diventato estraneo.
Aveva bisogno dell’illusione che tutto si potesse aggiustare. Aveva bisogno di una confidente.
Aveva bisogno di un’amica.
Per questo, con circospezione, si diresse silenziosa verso la Cabina Undici.
Tutti i figli di Ermes erano già svegli da un bel po’, completamente immersi nei loro impegni mattutini, che fossero lezioni di tiro con l’arco, gite in canoa o scherzi di qualche genere.
Solo una di loro era ancora avvolta dalle proprie calde coperte, le lenzuola tirate fin su il naso e l’aria di chi ha intenzione di continuare a riposare.
Skyler si avvicinò al suo letto, spostandosi in punta di piedi nel tentativo di emettere il minor rumore possibile. Poi le posò una mano sul braccio, scuotendola leggermente.
«Emma?» chiamò, con dolcezza.
La bionda fece una smorfia, emettendo un sommesso grugnito.
«Emma?» ripeté quindi la figlia di Efesto, inclinando la testa di lato.
La figlia di Ermes mugugnò qualcosa di incomprensibile, per poi rigirarsi tra le coperte e darle le spalle. «Ancora cinque minuti» pregò, supplicante.
«Emma?» riprovò quindi Skyler, dandole dei petulanti colpetti sulla schiena. «Sei sveglia?»
La ragazza sospirò teatralmente, le palpebre ancora chiuse. «Se per sveglia intendi che sono abbastanza lucida da poterti mandare al Tartaro, allora sì, sono sveglia.»
La mora ridacchiò sommessamente, scrollando il capo con un sorriso. «Scusa, mi dispiace.»
La figlia di Ermes arricciò il naso, sdraiandosi supina e stropicciandosi gli occhi. «Che ore sono?» si lamentò, la voce ancora impastata dal sonno.
«Quasi mezzogiorno» rispose Skyler, al ché lei si stiracchiò, con disappunto.
«Il fatto è che avevo bisogno di un abbraccio» continuò la figlia di Efesto, spostando il peso da un piede all’altro, imbarazzata. «Ma non sapevo da chi altro andare.»
Emma schiuse lentamente un occhio, squadrandola attentamente. Poi le fece un po’ di spazio nel letto, battendo un paio di volte il palmo sul materasso. «Vieni qui» la invitò, con finta rassegnazione.
Skyler inarcò un sopracciglio, stupida. «Posso?»
«Muoviti, prima che cambi idea!»
Le due amiche risero, divertite. Dopo di ché, la figlia di Efesto si infilò sotto le coperte insieme alla bionda, avvicinandosi a lei quel tanto che bastava perché la ragazza potesse avvolgerla con le sue resistenti braccia e stringerla affettuosamente a sé.
Skyler si lasciò cullare da quella sensazione di pace che solo il bene fraterno dell’amica riusciva a donarle, mentre una di fronte all’altra portavano il lenzuolo fin sopra le loro spalle.
Poi la figlia di Ermes soppesò la mora con lo sguardo, preoccupata.
«Michael?» domandò, con attenzione. E capì di aver premuto un tasto dolente non appena Skyler fece una smorfia, quasi le avessero appena tirato un pugno nello stomaco.
«Non ho voglia di parlare di lui» mormorò, lasciando intendere all’amica che non aveva alcuna intenzione di aggiungere altro.
Emma le spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, con tenerezza. «Dovreste chiarirvi, però.»
«Il fatto è che non riusciamo neanche a parlarci» le fece notare quindi Skyler, per poi mordersi il labbro inferiore con amara tristezza. «Insomma, prima… prima ci bastava uno sguardo, per capire i pensieri dell’altro.» Si spostò a pancia in su, fissando il soffitto con sguardo vacuo. «Ora invece lo sto perdendo, e non ne capisco neanche il motivo.»
Emma prese fiato per parlare, ma le sue corde vocali non emisero nessun suono. Richiuse la bocca, pensierosa, per poi arricciare le labbra. «Matthew cosa ne pensa?» le chiese, al ché la ragazza corrucciò le sopracciglia.
«Perché dovrebbe avere un’opinione a riguardo, scusa?»
«Perché fondamentalmente è lui la principale causa della rottura tra te e Michael» le fece notare allora lei, con ovvietà. «E penso che lui ne sia consapevole.»
La figlia di Efesto sembrò valutare le sue parole, con il lazzo di chi ha appena ingoiato a forza un limone. «Io e Michael non ci stiamo rompendo» si limitò però a sussurrare, se parve sforzarsi di convincere più sé stessa, che l’amica.
Emma non osò controbattere. Quella era una questione troppo delicata, perché lei potesse prendersi il lusso di dare giudizi. Anche se si trattava dei suoi migliori amici, il suo compito non poteva essere altro se non quello dello spettatore. Poteva provare a dar loro dei consigli, certo, ma il verdetto finale spettava soltanto ai due ragazzi.
«Sei fortunata, sai?» sbottò all’improvviso Skyler, facendola sussultare leggermente. Sul volto aveva un sorriso sghembo, ironico.
Emma aggrottò la fronte, interdetta. «Perché?»
«Perché non sei innamorata.» La figlia di Efesto si passò le dita tra i capelli, con un sospiro. «Fidati, ti eviti un sacco di problemi.»
Il fiato della bionda si smorzò in fondo sua gola, e nonostante il leggero senso di nausea che la pervadeva, tentò in tutti i modi di mantenere un’espressione neutra.
«Ah, sì, certo» mormorò, con tono atono.
Lei non era innamorata?
Ovvio che no! Niente affatto.
Giusto?
Insomma, parlare d’amore era come parlare di un frutto tropicale, no? E lei non sapeva neanche come fosse fatto, un frutto tropicale.
Non aveva idea di cosa si provasse, ad essere innamorati.
E allora perché il suo primo pensiero era stato per Leo? Perché, per quanto lottasse, non riusciva a scacciar via dalla propria mente il ricordo delle sue labbra?
«Perché tu me lo diresti, se fossi innamorata, giusto?» le domandò circospetta Skyler, distogliendola bruscamente dai suoi pensieri.
Emma cercò invano di fingere nonchalance, mentre, sempre più a disagio, cambiava posizione sul materasso, dandole le spalle. «Ma che domande sono?» esclamò, ostentando indignazione. «Ovvio che te lo direi!»
Da parte della figlia di Efesto non ci furono parole, e per un attimo la bionda temette che fosse in grado di percepire il rimbombo del battito accelerato che le rimbalzava nella gabbia toracica.
Ripensò alla pietra a forma di cuore che il fratello dell’amica le aveva regalato quel pomeriggio in spiaggia, nascosta con accortezza nel primo cassetto del suo comodino, e le sembrò che il piccolo mobiletto stesse per incendiarsi. Riusciva a sentire quel ricordo bruciare, mentre la consapevolezza di aver tenuto nascosti quei sentimenti non solo a sé stessa, ma anche a Skyler, dopo tutto quel tempo non le avevano causato altro che problemi.
Dire troppe menzogne, a lungo andare, può ritorcertisi contro. E questo Emma lo sapeva fin troppo bene.
La mora prese un profondo respiro, riempendo appieno i polmoni. «La vuoi sapere una cosa?» chiese, al ché la figlia di Ermes strinse le labbra in una linea sottile.
«Dimmi» la incalzò, i sensi di colpa simile ad acido che fluttuava nel suo petto.
«In questo momento tu sei la mia unica certezza.» Skyler aveva le iridi scure fisse sul soffitto chiaro della stanza. «Sei la mia migliore amica, e so che di te mi posso fidare.» Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso appena accennato. «E poi, sei l’unica che non mi mentirebbe mai.»
Emma deglutì con fatica, per poi inumidirsi le labbra, in un gesto nervoso.
La figlia di Efesto le accarezzò giocosa la testa, scompigliandole i capelli con le dita. «Sei la miglior sorella che io abbia mai avuto.»
«E tu la mia.»
E solo quando la figlia di Ermes riuscì a sillabare quelle quattro, semplici parole si rese conto di quanto in realtà fossero vere. Skyler era per lei più di qualunque altra ragazza della Cabina Undici avrebbe mai potuto essere. Ciò che le legava era una coltre vibrante di energia pura, genuina.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei. E sapeva che per lei era lo stesso.
Emma si girò appena, per guardarla, e dopo essersi scambiate un breve sorriso le due amiche si abbracciarono, stringendosi forte.
La bionda affondò il viso nell’incavo del collo della figlia di Efesto, ma nonostante quell’amplesso fosse pregno di affetto e di muti accordi, il macigno che le premeva sul petto sembrava diventare via via più pesante, minacciando di soffocarla sotto il suo gravame.
La ragazza trattenne il fiato alcuni secondi, per poi dipingersi sul volto una disinvolta espressione malandrina. «Bene!» affermò, allontanandosi da Skyler e facendo roteare gli occhi. «Dopo tutte queste smancerie –che per la cronaca mi hanno fatto venire il diabete- se non ti dispiace, io torno a riposare.»
La mora rise, divertita, per poi scoccarle un giocoso bacio sulla guancia, facendo arricciare il suo naso in una smorfia di disappunto. Dopo di che scansò via le coperte con un gesto deciso della mano, alzandosi dal letto e stiracchiandosi leggermente.
«Vengo a chiamarti per il pranzo, se vuoi» propose, quando l’amica riadagiò il capo sul cuscino e chiuse gli occhi, con fare beato.
«Se me lo porti qui, diventerai la mia nuova eroina
«Non contarci!» ribatté Skyler, dirigendosi verso l’entrata di marmo. Ma poco prima di uscire si fermò sulla soglia, tornando ad osservare la figlia di Ermes. «Emma?» chiamò ancora, esitante.
«Mh?»
La figlia di Efesto si strinse nelle spalle, con imbarazzo. «Puoi promettermi una cosa?»
«Tutto quello che vuoi.»
«Non lasciarmi mai.» Sembrava più una supplica, che una richiesta. «E non mentirmi, capito? Non voglio per nessuna ragione al mondo che tra noi ci siano segreti.»
Emma sentì il proprio cuore saltare un battito, mentre stringeva le lenzuola nel pugno con così tanta forza da avere le nocche bianche. «Okay» assentì, con un fil di voce.
«Promesso?» insistette l’amica.
Con un po’ di riluttanza, la bionda annuì. «Promesso.»
Skyler sembrò rincuorata da quella risposta, perché sorrise, raggiante. «Perfetto» convenne, facendo cigolare il cardine della porta. «Dormi bene!» E dopo essersi richiusa l’uscio alle spalle, la Casa Undici piombò in un silenzio infernale.
Emma tirò le coperte fin su la testa, a coprirle il volto. Sperava che così facendo, tutte le opprimenti emozioni che l’avevano invasa svanissero, accompagnate dalla scia dei poteri di Morfeo.
Ma per quanta fosse la veemenza con la quale potesse imporsi, non riuscì comunque a riaddormentarsi.
Non faceva che pensare a Skyler, a Leo, e a tutto il gran casino che aveva creato.
Avrebbe dovuto dire la verità all’amica.
Anzi, non avrebbe dovuto baciare Leo! Se solo avesse continuato ad evitare il figlio di Efesto così come aveva fatto durante tutto l’inverno, ora non si sentirebbe intrappolata in un vicolo cieco.
Non poteva tradire così la fiducia di Skyler. Non dopo averglielo promesso.
Ma non poteva neanche cancellare ciò che era stato.
Non così, non adesso.
Non quando si trattava del ricordo più bello che avesse da molti anni a questa parte.
Non quando si parlava di Leo.
 
Ω Ω Ω
 
Quando si era diretta verso il padiglione della mensa, Melanie non era consapevole del fatto che non avrebbe toccato cibo.
Le cene del Campo, come sempre, erano abbondanti e succulente, ma nonostante i numerosi inviti da parte dei suoi fratelli di assaggiare la deliziosa crostata di fragole, la figlia di Demetra non riusciva neanche a concepire il pensiero di mettere qualcosa tra i denti.
Aveva una forte nausea, che le stringeva la bocca dello stomaco come un petulante pugno di ferro. Si sentiva irascibile, taciturna e costantemente stanca. E nulla, neanche la perfetta vita del Campo riusciva a farle cambiare umore.
Solo una persona sembrava essere in grado, seppur per qualche breve minuto, di rendere le sue giornate meno ributtanti. E quella persona era John.
Il ragazzo, con il suo sorriso gentile, risplendeva come un raggio di Sole negli occhi velati da ombre di Melanie.
Eppure, anche se la ragazza era consapevole che quella relazione fosse la cosa più bella che le fosse successa nell’ultimo periodo, non riusciva a smettere di ripetersi quanto tutto quello fosse sbagliato.
Il mondo era sbagliato. Il destino era sbagliato. Lei era sbagliata.
Lei era un disastro, un kamikaze, una sigaretta accesa lanciata in un campo di grano.
Lei era tutto ciò dal quale un ragazzo avrebbe dovuto stare lontano.
Stava affondando. Lentamente, come il Titanic.
E senza rendersene conto, stava trascinando verso il fondo anche John.
Qualcuno le afferrò la mano all’improvviso, facendola sussultare.
John le rivolse un candido sorriso, avvolgendole i fianchi con un braccio e attirandola a sé, per poi lasciarle un tenero bacio sulle labbra.
«Vieni con me?» le propose d’un fiato subito dopo, al ché la ragazza inarcò un sopracciglio.
«Mh?»
«Vieni con me» ripeté allora lui, e stavolta non si trattava di una domanda.
Melanie lanciò un rapido sguardo alle proprie spalle, osservando l’orda di semidei che spensierati si dirigevano al falò. «Ma non andiamo con gli altri?» chiese, visibilmente disorientata.
Fu allora che il ragazzo intrecciò le dita alle sue, per poi trascinarla delicatamente ed incamminarsi nella direzione opposta. «Stasera no.»
La figlia di Demetra non fece obbiezioni, e si lasciò guidare con curiosità, mentre guardandosi intorno tentava di capire dove John la stesse portando.
Solo quando riconobbe le sponde bagnate del lago, le sue sopracciglia si corrucciarono. Spostò le sue iridi color nocciola sul figlio di Apollo, squadrandolo con interdizione mentre lui inspirava l’aria dolciastra che li circondava a pieni polmoni.
«Perché siamo qui?» si azzardò a chiedere Melanie, inclinando il capo spaesata.
«È una sorpresa» si limitò a risponderle John, per poi lasciarle la mano e proseguire da solo di qualche passo. Si chinò a raccogliere qualcosa, e solo avvicinandosi a lui la bionda si accorse che si trattava di un sottile e quadrato scatolo di cartone.
Il ragazzo lo aprì, mostrandole il contenuto con un sorriso raggiante. All’interno, vi era una pizza già tagliata, a forma di cuore.
Melanie prese a mordicchiarsi l’unghia del pollice, nel vano tentativo di impedire alle proprie labbra di incurvarsi all’insù. «E questa?»
John fece spallucce, per poi porgerle nuovamente la mano, che lei afferrò. «Ho notato che non hai mangiato molto, a cena» disse, sedendosi a terra. «Ho pensato che avessi fame.»
Batté dei colpetti sul terreno davanti a sé, invitando la ragazza ad accomodarsi in mezzo alle proprie gambe.
La figlia di Demetra obbedì, un po’ esitante, e il biondo le offrì un trancio della fumante pizza che aveva posato al proprio fianco, che lei, titubante, accettò.
Solo quando ebbe trangugiato il primo pezzo, Melanie si rese conto di quanto in realtà il suo stomaco vuoto implorasse del cibo. E così mandò giù un altro boccone. E poi un altro, e un altro, e un altro, fino a che non si ritrovò con la pancia piena.
John le cinse la vita con entrambe le braccia, e nel dolce silenzio che li circondava come una calda coperta la ragazza posò la schiena contro il suo petto, la nuca adagiata sulla sua spalla e gli occhi fissi sulla piatta distesa del lago.
Sospirò, svuotando i polmoni. «Non mi hai ancora detto perché siamo qui» mormorò, con un fil di voce, quasi avesse paura di spezzare la quiete che aleggiava nell’aria.
«Volevo che tu lo sentissi» ammise quindi John.
«Che cosa?»
«Il silenzio.» Il ragazzo la strinse un po’ di più a sé, con fare protettivo. «Non è bellissimo?»
Melanie prese fiato per parlare, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. La richiuse, mordendosi inconsciamente l’interno della guancia, e fu allora che John le baciò la testa, lasciando le labbra tra i suoi capelli qualche secondo più del necessario.
«Sai, a volte ho come l’impressione che qui dentro ci siano troppi rumori» continuò, picchiettandole teneramente la tempia con un dito. «Troppi pensieri, troppe domande, troppe preoccupazioni. Ho pensato che forse un po’ di silenzio potesse aiutarti a mandarli via.» Accostò la guancia alla sua, per poi accarezzarle la mascella con la punta del naso. «Non ti senti meglio?» domandò.
Melanie inspirò a fondo, mentre un lieve sorriso si faceva strada sul suo volto. «Adesso sì» sussurrò, e non era affatto merito del silenzio.
Si fermò ad ascoltare, soffermandosi più sui battiti del cuore di John che rimbalzavano ritmicamente contro la sua colonna vertebrale, che su altro.
Poi, il figlio di Apollo le posò un dolce bacio nell’incavo della spalla, e la ragazza sentì un brivido impadronirsi della propria pelle.
Chiuse gli occhi, mentre le labbra di lui lasciavano una sensuale scia lungo la linea del suo collo, imprimendo dei marchi che sembravano scottare anche dopo qualche secondo.
Il ragazzo le afferrò la mano, intrecciando le dita alle sue e facendola voltare lentamente, per far sì che i loro volti fossero uno di fronte all’altro.
Le spostò con accortezza una ciocca color grano dietro l’orecchio, per poi posarle una mano sul collo, poco al di sotto dell’attaccatura del capelli, e baciarla con passione.
Le loro labbra si schiusero nello stesso istante, tremanti di desiderio. Le loro lingue si scontrarono, unendosi e spingendosi febbricitanti, mentre i loro corpi aderirono l'uno all’altro, quasi non fossero stati plasmati per fare altro.
Melanie accarezzò con il palmo il petto scolpito di John, per poi stringere nel pugno la stoffa della sua maglietta, al fine che lui non notasse il tremitio delle sue dita, dovuto all’energia nervosa.
La mano del ragazzo scivolò lungo la sua schiena, percorrendola con il suo tatto forte e sicuro, ma quando l’altra andò accidentalmente a sfiorare la spalla della figlia di Demetra, questa si allontanò di scatto, il viso contorto in una smorfia di dolore.
«No!» esclamò, scansandosi da lui così velocemente che il figlio di Apollo non fu neanche in grado di metabolizzare ciò che era appena successo, che si ritrovò ad abbracciare aria.
La bionda si coprì il volto con la mano, amareggiata. «Oh, miei dei» mormorò tra sé e sé, balzando in piedi e muovendosi di qualche passo. «Io non posso farlo. Non posso.»
Si lasciò cadere a terra con un tonfo, le ginocchia rannicchiate contro il petto e le dita tra i capelli, la testa adagiata sul palmo quasi fosse in procinto di scoppiare.
John la raggiunse con passi misurati, per poi sedersi accanto a lei e accarezzarle la schiena, apprensivo. «Ehi» sussurrò, leggermente preoccupato. «Qual è il problema?»
«Io non ce la faccio, John» sbottò allora lei, con voce strozzata. «Non posso. Io non…»
Il ragazzo allungò una mano ad asciugarle con tenerezza una lacrima che le solcava la guancia. «Non piangere» le intimò, al ché lei tirò su col naso.
«Che cosa, John?» domandò quindi, mentre la sua vista si appannava. «Dimmi che cosa ci trovi in me di tanto speciale. Ogni volta mi guardo allo specchio, e vorrei solo avere il potere di essere qualcun altro.»
«Non devi rinnegare ciò che sei» ribatté lui, con disappunto.
«Beh, ciò che sono fa schifo
«Non sono d’accordo.» Il figlio di Apollo le spostò i capelli su una spalla, lasciando scoperto il suo roseo moncone. Melanie ebbe un fremito, quasi temesse che lui, vedendolo, potesse scappare via.
Ma al contrario il ragazzo si chinò su di lei, posando la fronte contro la sua tempia. «Tutti abbiamo delle cicatrici, Melanie» le spiegò, con tono pacato. «Nessuno escluso. Solo che ad alcuni sono più evidenti che ad altri.»
«La mia è un po’ troppo evidente, non credi?» replicò lei, con un triste verso di scherno.
John arricciò il naso, soppesandola con lo sguardo. Poi sospirò, sfilandosi la maglietta, e la ragazza non capì cosa avesse intenzione di fare finché lui non le diede le spalle, lasciandola sbigottita.
Una spessa e carnicina cicatrice gli attraversava tutto il dorso. Partiva dall’atlante, e scendeva giù, lineare, fin sul coccige.
Compatta. Increspata. Perfetta. Maligna.
Gli spaccava la schiena in due quasi fosse pronta a squarciargliela da un momento all’altro.
«Ce l’ho da quando avevo undici anni» la informò il figlio di Apollo, rendendosi conto del suo imminente silenzio.
«Ma come…?» provò a chiedere Melanie, ma le parole le morirono in gola.
«Un incidente» le rispose prontamente John. «Sono stato attaccato da un mostro, e mi sono rotto la colonna vertebrale.»
La figlia di Demetra trattenne il fiato, spaventata.
Immaginò un più giovane John, che alla sola età di undici anni era costretto a vedersela con un tale nemico, rischiando la vita.
Il suo cuore perse un battito, mentre, esitante, gli sfiorava il dorso con il polpastrelli, seguendo delicatamente il macabro percorso di quella ferita.
Il figlio di Apollo sussultò appena, ma non si scompose, lasciandola fare mentre le sue labbra si increspavano in un amaro sorriso.
«Sei solo la seconda persona alla quale la mostro in tutta la mia vita» le disse, voltando appena il capo per riuscire a guardarla con la coda dell’occhio. «La maggior parte delle volte riesco a coprirla con la maglietta, ma lei resta comunque lì, e sono in grado di sentirla.» Si passò una mano tra i capelli, scombinandoseli leggermente. «Il fatto è che capisco il tuo disagio» affermò. «È ciò che provo ogni volta che distrattamente me la accarezzo. Ma poi mi rendo conto che se non fosse per questa cicatrice, io non sarei la persona che è davanti a te, adesso
Si girò verso di lei, incastrando le proprie limpide iridi verdi a quelle caramellate della ragazza. Il suo sguardo era intenso, il suo tono sicuro. «Le cicatrici non sono delle lesioni» le spiegò, con decisione. «Una cicatrice equivale ad una guarigione. Perché significa che sei stato danneggiato, ma che nonostante tutto sei stato abbastanza forte da riuscire a sopravvivere.» Le accarezzò la testa, con amore. «Le cicatrici hanno lo straordinario potere di ricordarci che il nostro passato è reale. Che noi siamo reali. Che siamo veri, puri, e resistenti.»
Dopo di ché abbozzò un lieve sorriso, lasciandole un tenero bacio sulla fronte. «Tutte le persone migliori hanno un qualche tipo di cicatrice.»
«Le cicatrici sono dei segreti, John» gli fece notare allora lei, la voce tremante a poco più di un sussurro. «Sei davvero disposto a rivelarmi il tuo?»
Il ragazzo inclinò il capo di lato, contemplandola con dolcezza. «Farei qualunque cosa, pur di impedirti di stare male.»
Ed era vero, Melanie l’aveva capito. Lo leggeva nei suoi occhi, che brillavano di sincerità. Lo percepiva nel loro contatto, che seppur lieve, le irradiava lampi d’adrenalina lungo tutte le vene.
Senza pensarci, si chinò su di lui, e posandogli la mano dietro la nuca avvicinò il volto al suo per baciarlo.
John non ci mise molto prima di abbandonare un’iniziale sorpresa e schiudere le labbra, prendendole il viso tra le mani e approfondendo quel bacio.
Le loro lingue cozzarono l’una contro l’altra, mentre trepidanti si assaporavano con passione.
La ragazza sentì la morbida erba che frastagliava le sponde del lago premere contro la propria schiena.
Il figlio di Apollo, sopra di lei, la strinse a sé, e i loro corpi combaciarono come due tasselli dello stesso puzzle; alla perfezione, senza lasciare alcuno spiraglio.
Le mani di John esitarono insicure sul collo di lei, sfiorandolo appena. Ma poi il suo palmo scivolò dolcemente sulla sua spalla, scendendo con tenera accortezza lungo il suo fianco. Le sue dita si chiusero sulla sua coscia nuda per via degli shorts, focose, sicure, protettive.
Melanie strinse i capelli del ragazzo nel pugno, avvicinando ancora di più il volto al suo mentre tra un respiro affannato e l’altro le loro bocche continuavano a danzare. Poi, la sua mano si spostò sulla schiena di lui, e con una delicatezza disarmante la figlia di Demetra gli sfiorò la cicatrice.
John emise un sospiro tremante contro le sue labbra, ma non la fermò, né provò alcun tipo di dolore quando la ragazza gliela accarezzò, risalendo dal coccige fino all’atlante. Perché Melanie aveva questo potere, riusciva a farlo essere una persona migliore.
Lo convinceva a sfidare sé stesso, a sconfiggere le proprie paure, e anche se la sua era una capacità involontaria, John non avrebbe mai ringraziato abbastanza gli dei per avergli regalato una persona con un’anima tanto immensa.
La ragazza sentì, per la prima vera volta in quegli ultimi giorni, che tutto questo non poteva affatto essere sbagliato.
Perché lei era di John. E John era suo. 
E niente, neanche la catastrofe più distruttiva dell’intero universo avrebbe potuto spezzare il legame che c’era tra loro.
E allora capì; capì che non era lei a trascinare John sul fondo.
Era lui che la riportava in superficie.
Era lui che la stava salvando.

Angolo Scrittrice.
*In onda tra dieci… nove… otto… sette… sei…
Cinque… quattro… tre… due… uno…*

ON AIR.
Hola, chicos! ¿Como estàn?
¿Todo bien?
ahahah, scusate la mia vena spagnola, ma ultimamente la scuola mi sta dando un po’ alla testa, sìsì.
Alors alors… oggi è martedì, ed io sono ancora qui per ammorbarvi con uno dei miei noiosi capitoli.
Sì, lo so, è un mondo difficile.
But whatevah: questo capitolo è più corto del solito, I know.
Però nonostante sia scritto un po’ da sploff, resta comunque molto importante.
Ma andiamo per gradi.
Innanzi tutto, c’è una sorta di confronto, tra
Skyler ed Emma. Quelle due, ormai, hanno un rapporto che va ben oltre il semplice bene tra due sorelle. Si fidano l’una dell’altra, e questo ce l’ha dimostrato anche la nostra figlia di Efesto, quando desiderava un abbraccio e il suo primo pensiero è stato per l’amica.
Però c’è una cosa che Skyler ignora, e cioè che anche Emma ha dei segreti con lei.
Solo uno, in realtà, ma bello grosso, se si considera il fatto che il diretto interessato è il fratello della mora.
Ormai conosciamo bene il legame che (seppur contorto e alquanto singolare) si è instaurato tra Leo e la figlia di Ermes. Insomma, si sono baciati! E non è solo l’episodio dello scorso capitolo a renderli più uniti di quanto in realtà dovrebbero.
Secondo voi, come andrà a finire? Emma dovrebbe dire la verità a Skyler? O deve continuare a tacere?
Se non glielo confiderà, ci saranno, poi, delle conseguenze?
Si accettano scommesse, nel caso abbiate delle ipotesi ;)
Ma ora, dulcis in fundo, parliamo di Melanie e John.
La loro relazione è un continuo crescendo, fatto di insicurezze, decisioni e dimostrazioni d’affetto che vanno ben oltre il: “Tu mi ami, Pedro? Io ti amo, Pedro.” [mia nonna è fissata con le telenovela, but btw]
La figlia di Demetra teme ancora di non essere la ragazza giusta per John, e lui, per dimostrarle che non è assolutamente così, le mostra la propria, di cicatrice.
Solo Skyler, fino ad ora, aveva avuto il privilegio di vederla; e come afferma il nostro figlio di Apollo, solo due persone, in tutta la sua vita, sono venute a conoscenza della sua esistenza.
Per chi non ricordasse tutta la storia, la trova nel Capitolo 12 de ‘Il Morbo di Atlantide’.
Mostrare quella cicatrice a qualcuno, per lui, è come mettere a nudo la propria anima, e decide di farlo con Melanie proprio perché si fida a tal punto di lei da essere certo di essere al sicuro tra le sue braccia.
Come la ragazza stessa dice: Le cicatrici sono dei segreti, e John le rivela il suo, dato che sa che lei sarà in grado di custodirlo.
Ora, ho approfittato di questa situazione per darvi il mio personale parere sulle cicatrici. Personalmente, le adoro. Certo, a volte sono il ricordo di tanto dolore, ma come afferma John: Senza di loro, molto probabilmente, non saremmo le persone che siamo.
Insomma, le cicatrici ci ricordano che nonostante ciò che ci accade, noi siamo abbastanza forti da superarlo. Voi che ne pensate? Siete in disaccordo con me? Avete un’opinione diversa? Let me know, mi piace conversare con voi, e soprattutto, mi piace conoscere pareri diversi dal mio.
By the way, spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto. Che ne dite?
¿Vos ha gustado? Do you think it sucks?
No, okay, scherzi a parte: vi è piaciuto? O adesso siete troppo impegnati a vomitare per leggere questo Angolo Scrittrice? Let me know, sono aperta a qualunque tipo di parere (y)
Penso che stavolta però non basterà semplicemente ringraziare i miei stupendi Valery’s Angles.
Perché? Beh, diciamo semplicemente che il mio cuore è esploso.
204, ragazzi.
204 recensioni, e siamo a malapena al Capitolo 20!
Io sono senza parole, davvero. Non c’è modo per descrivervi tutta la mia gioia e la mia gratitudine di fronte a quel numero immenso.
Sono onorata di tutta la fiducia che riponete in me e nella storia, ma soprattutto vi prometto che mi impegnerò al massimo affinché io non vi deluda, e la storia continui a piacervi. 
Un grazie immenso a tutti coloro che hanno commentato il capitolo precedente, e cioè:
carrots_98, Occhi di Smeraldo, Percabeth7897, stydiaisreal, Kamala_Jackson, fire_in-dark29, _angiu_, ChiaraJacksonStone1606, martinajsd, Myrenel_Bea e _Krios_.
Grazie. Grazie davvero.
E ne approfitto anche per benedire la persona che ha messo la storia tra le ricordate, le 30 che l’hanno messa tra le seguite e le 41 (**) che l’hanno aggiunta tra le preferite!
E anche voi, lettori silenziosi. Siete speciali, davvero. Ed io non potrei essere più felice di così.
Concludo dicendo che sì, avevo intenzione di non pubblicare martedì 23 (causa vacanze di Natale), ma dato che (perlomeno qui da me) si va a scuola, mi regolo con lei, quindi ci vediamo il prossimo martedì con l’ultimo capitolo prima delle Christmas Holiday!
Un bacione enorme, e tanti biscotti blu!
Sempre vostra,

ValeryJackson


 

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 ***


 

Voglio dedicare questo capitolo a stydiaisreal,
che se ho capito bene oggi compie gli anni.
Happy Birthday, honey!



Essere una figlia di Efesto significava non avere molto tempo libero.
La tua giornata era strabordante di impegni, che fossero collaudare un’arma o semplicemente riparare qualcosa.
Skyler aveva sempre così tante cose da fare da non riuscire a trovare neanche un momento per parlare con Michael.
La loro relazione si stava rivelando molto più complicata di quanto la ragazza avesse mai potuto immaginare. Ormai le uniche sensazioni che vibravano nell’aria quando si guardavano negli occhi erano disagio, imbarazzo e una freddezza che l’inspiegabile gelosia del figlio di Poseidone aveva solidificato nel corso dei giorni.
Skyler avrebbe voluto chiarire, avrebbe voluto restare da sola con lui e cercare di capire quali fossero i motivi che lo spingevano ad allontanarsi sempre di più da lei. Ma ogni volta le mancava il coraggio.
O meglio, si ripeteva che sarebbe dovuto essere lui a fare il primo passo.
Era proprio questo, il problema di fondo.
Skyler era convinta che fosse colpa di Michael. E Michael non faceva altro che dare la colpa a Skyler.
Due ragazzi egualmente restii, fieri e orgogliosi avevano davvero una qualche possibilità di fare la pace?
Alla mora scivolò la chiave inglese di mano, e imprecò a denti stretti, senza neanche voltarsi per osservare il suo bullone ruzzolare sul pavimento.
Strizzò gli occhi, posando le mani sul suo piano da lavoro e chinando il capo, nel vano tentativo di rischiarirsi le idee.
Era sempre più distratta, ultimamente. Il solo pensiero di tutti i malintesi che si erano creati le dava la nausea. Concentrarsi diventava man mano una missione impossibile, e solo gli dei sapevano quante notti erano che faticava ad adagiarsi tra le braccia di Morfeo.
«Ehi, Skyler.» Fu solo la voce di suo fratello Microft a distoglierla momentaneamente dai suoi pensieri.
Il quattordicenne la fissava con un’espressione indecifrabile, la testa inclinata di lato quasi la stesse scansionando. «Stai bene?» le domandò, apprensivo.
La ragazza si sforzò di abbozzare un sorriso, che però apparve più come una smorfia. «Ma sì, certo» mormorò, con poca convinzione. «Perché me lo chiedi?»
Il figlio di Efesto fece spallucce, spostando il peso da un piede all’altro. «È che mi sembri sempre… assente.»
La mora non rispose. Si limitò a mordersi l’interno della guancia, mentre distrattamente si scioglieva e rifaceva la coda di cavallo, quasi fossero le ciocche ribelli che fuggivano a quel nastro ciò che le impediva di concentrarsi. Corrucciò le sopracciglia, dubbiosa, per poi volgere la propria attenzione al fratello. «Avevi bisogno di qualcosa?» gli chiese, nel vano tentativo di cambiare discorso.
Microft parve cogliere al volo il vero significato di quella domanda, perché sospirò, quasi rassegnato. «Non è che hai qualche chiavarda da prestarmi? Mi servono per riparare lo scudo di un figlio di Ares.»
La figlia di Efesto assottigliò lo sguardo, pensierosa. Si tastò le tasche, con la certezza di averne qualcuna, dato che spesso le portava con sé. Non appena, infatti, le percepì al tatto, infilò soddisfatta una mano nella tasca posteriore della tuta da lavoro di jeans.
Il suo palmo entrò subito in contatto con il metallo freddo di tre bolloni, ma anche con qualcosa di liscio e sottile.
La ragazza lo estrasse, con un sopracciglio inarcato.
Era un piccolo foglietto di carta, ripiegato quattro volte su sé stesso e dello stesso colore azzurro del mare.
Skyler porse le chiavarde a Microft, senza però distogliere l’attenzione dal misterioso biglietto. Non appena il fratello se ne andò, ringraziandola con un sorriso, lei lo aprì, con circospezione.
Dentro c’era un messaggio scritto a penna, con l’ortografia tondeggiante e precisa di chi ha messo tutto il proprio impegno al fine di renderla perfetta.
 
“MI DISPIACE PER TUTTO IL CASINO CHE HO COMBINATO.
È TUTTA COLPA MIA, SONO STATO UNO STUPIDO.
MA PERMETTIMI DI DISCOLPARMI.
TI ASPETTO QUESTA SERA AL LAGO, QUANDO TUTTI GLI ALTRI SARANNO AL FALÒ.
SPERO CHE MI PERDONERAI.”
                                                                                                                                  -M.

Skyler rilesse quelle righe tre volte, prima di permettere alle proprie labbra di distendersi in un radioso sorriso.
M di Michael, pensò. M di Magia.
La stessa magia che era sicura sarebbe tornata ad avvolgerli subito dopo quella sera.
Il ragazzo aveva deciso di chiederle scusa, e la figlia di Efesto non avrebbe potuto essere più felice di così.
C’era ancora la possibilità di tornare quelli di una volta.
C’era ancora la possibilità di essere Skyler e Michael.
Sereni. Uniti. Appassionati.
Innamorati.
 
Ω Ω Ω
 
Emma doveva parlare con Leo.
Non ce la faceva più a tenersi tutto dentro.
Ogni secondo che passava non faceva altro che ricordarle quanto fosse ingombrante il caos nel quale si era inconsciamente tuffata di pancia.
Non dire la verità a Skyler era stato un errore. Non avere neanche idea di quale fosse la verità, era un problema che avrebbe dovuto risolvere al più presto.
Ma non ce l’avrebbe mai fatta da sola. Confrontarsi con il figlio di Efesto era l’unico modo che Emma aveva a disposizione per mettere ordine alle contrastanti sensazioni che le fluttuavano nel petto.
Che cosa c’era, tra lei e Leo? Ma soprattutto, che cos’aveva significato quel bacio?
Emma non aveva mai sentito l’adrenalina stringerle lo stomaco con così tanta forza come quando le sue labbra avevano assaporato quelle del ragazzo.
Era questo che intendeva la gente, quando affermava di avere “le farfalle nello stomaco”?
Aveva baciato altri ragazzi, prima di Leo, eppure ciò che provava era così insolito e sconosciuto, per lei, che non faceva altro che disorientarla.
Era confusa, oltre che sorpresa. Ma soprattutto, spaventata.
Non aveva mai pensato di essere in grado di diventare così vulnerabile a causa di un ragazzo, e la consapevolezza che la persona in questione era Leo la preoccupava ancora di più.
Perché tra i tanti semidei del Campo, doveva legare proprio con il fratello della sua migliore amica?
E inoltre, perché, nonostante sapesse quanto tutto ciò fosse poco giusto, non era capace di rinunciare a lui?
Emma si stropicciò gli occhi, reprimendo un grido di frustrazione.
Osservò l’orda di mezzosangue dirigersi ansiosi verso la mensa, scrutando tra la folla al fine di scorgere i lineamenti elfici di Leo. Ma non appena non li vide, corrucciò le sopracciglia.
Non avrebbe mai saltato la cena, di questo ne era sicura. Però il corno era già suonato, e di lui non c’erano tracce. Possibile che si trovasse ancora nella Cabina Nove, intento a lavorare?
Forse era tanto preso dalla ricostruzione di una spada da non essersi neanche reso conto dell’orario.
La figlia di Ermes fece roteare le proprie iridi argentate, incamminandosi con riluttanza alla volta della Casa di Efesto. Batté più volte il pungo contro l’ingresso di metallo, simile alla porta circolare della cassaforte di una banca, spessa più di mezzo metro.
Però nessuno le rispose.
Riprovò un’altra volta, chiedendosi poi se ci fosse davvero qualcuno, lì dentro.
Stava quasi per rinunciare e tornare sui propri passi, diretta alla mensa, quando udì distintamente un bisbiglio.
Il suo corpo si irrigidì, mentre acuendo i sensi si sforzava di capire da dove arrivasse quel rumore.
Un altro bisbiglio.
Una risatina civettuola.
Un caldo sospiro.
Solo a quel punto Emma fu certa della loro provenienza.
Il suo primo istinto fu quello di andarsene, la coscienza che le ripeteva che non erano fatti suoi. Ma qualcosa le suggeriva che c’era un tassello del puzzle nel posto sbagliato.
Con il passo felpato che solo una figlia di Ermes può possedere, la ragazza si avvicinò circospetta all’angolo della casa, sbirciandovi oltre.
C’erano due ragazzi, abbracciati al buio, e non appena quell’immagine andò completamente a fuoco nell’oscurità della prima sera, Emma fu pervasa dallo shock.
I capelli ricci di Leo erano inconfondibili, date tutte le volte nelle quali la bionda li aveva visti nella penombra della placida luna. Ma ciò che non aveva mai immaginato di poter osservare era l’aspetto che avrebbero potuto avere con le affusolate dita di Charlotte incastrate dentro, le unghie smaltate di rosso.
Il figlio di Efesto era schiacciato al muro dal corpo della bellissima ragazza. Con la mano libera, la figlia di Afrodite gli premeva il petto, mentre faceva sfiorare i loro nasi con cautela, stuzzicandolo.
Gli sussurrò qualcosa a fior di labbra, ma Emma era troppo lontana, per cui non riuscì a sentirla.
Aspettò che Leo la pregasse di lasciarlo stare. Che le dicesse che non era lei che voleva, ma non lo fece.
Al contrario, non oppose resistenza quando le loro bocche si incontrarono, per poi ricambiare il suo bacio.
Lei lo accolse con gusto, accettando quella sua dimostrazione di affetto con una risatina. Si sporse di nuovo verso di lui, bisbigliandogli qualcosa all’orecchio, prima di baciarlo con rinnovata passione.
Emma era paralizzata.
Avrebbe voluto urlare, andare furiosa da loro e sputare in faccia al ragazzo i peggiori insulti. Ma non lo fece.
Percepiva i propri occhi bruciare, le corde vocali incapaci di emettere il benché minimo suono, quasi fossero strette in una morsa d’acciaio che le bloccava il respiro.
Tra tutto ciò che avrebbe mai potuto farle, perché proprio quello?
Perché proprio con lei?
Barcollò all’indietro, interdetta, mentre avvertiva un’assassina fitta all’altezza del petto soffocarla fino ad avere le vertigini.
Prima che potesse rendersene conto, le sue gambe la condussero velocemente via da quella disgustosa scena, e calde lacrime presero a rigarle il volto senza che lei fosse in grado di fermarle.
Era questo, ciò che si provava ad essere delusi, sfruttati e umiliati da qualcuno?
Faceva davvero così schifo, l’amore?
 
Ω Ω Ω
 
Neanche rifugiarsi nella Baia di Zefiro le era bastato per placare l’enorme voragine che lentamente si stava espandendo nel suo petto, minacciando di squarciarglielo.
Emma aveva la sensazione di essere stata appena calpestata dagli enormi piedi di un gigante, infilzata dalle corna di un Minotauro e poi strangolata senza pietà dal corpo sinuoso del serpente Pitone.
Seduta ai piedi di un albero, con le ginocchia strette al petto, non aveva né la forza né la voglia di impedire a brucianti lacrime di solcarle il viso. Si rannicchiò contro il tronco, desiderando come non mai di avere la capacità di scomparire.
Leo era solo un ragazzino, e lei avrebbe dovuto non dimenticarlo.
Era tutta colpa sua. Sua, e dell’eccessiva fiducia che aveva riposto in un ragazzo che invece sembrava non essere mai cresciuto.
Si sorprendeva nello scoprire quanto tutto ciò facesse male, ma ancor di più non si capacitava dell’idea di aver davvero creduto, seppur per un brave istante, che andasse davvero tutto per il verso giusto.
Alzò gli occhi al cielo, nel vano tentativo di frenare il pianto che molesto bolliva in fondo alla sua gola, aspettando solo il momento migliore per poter battere la sua forza di volontà. Emma chiuse le palpebre, emettendo un faticoso sospiro tremante.
Si sentiva come se il mondo stesse cercando di vedere fino a che punto fosse in grado di resistere. Ma non era convinta di essere tanto forte.
Un fruscio alla sua destra attirò la sua attenzione, facendole voltare il capo.
La ragazza ci mise un po’ per riconoscere la figura di John attraverso il panno che le offuscava la vista, e non appena i contorni del figlio di Apollo divennero nitidi, Emma scorse la sua espressione preoccupata.
Chinò velocemente la testa, trovando improvvisamente interessante l’erba accanto ai suoi piedi mentre pregava gli dei affinché lui non notasse i suoi occhi gonfi.
«Che ci fai qui?» gli domandò, brusca, maledicendosi subito dopo per il tremitio della propria voce.
Il ragazzo si avvicinò all’amica con passi lenti e misurati, squadrandola con un’espressione indecifrabile. «Stavo andando alla mensa, quando ti ho vista correre nel bosco. Così ti ho seguita» le spiegò dolcemente, per poi piegarsi sulle ginocchia al fine di avere il volto alla stessa altezza del suo. Cercò il suo sguardo, ma quello della ragazza era perso, sfuggente. Per cui lui le accarezzò teneramente uno zigomo con il dorso delle dita, e solo in quel momento si rese conto che era bagnato.
«Ehi, ma stai piangendo?» chiese interdetto, spostandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio per poterla osservare in viso.
«No» replicò lei, tirando su col naso mentre furiosa si asciugava le guance con il palmo della mano. «Mi è solo entrata una cosa nell’occhio.»
Il figlio di Apollo storse il naso, ed Emma non si sorprese del fatto che non le credesse, dato che a conti fatti non era riuscita a convincere neanche sé stessa.
«Emma» la chiamò quindi John, con tono calmo e rassicurante. «Cos’è successo?»
La ragazza trattenne il fiato. Rivelargli la verità avrebbe significato perdere la flebile presa che le permetteva di far restare a galla il proprio autocontrollo. Ma avvertiva così tante insolenti emozioni straripare nel suo petto come un fiume in piena, che per un attimo Emma temette fosse sul punto di implodere.
«Ti capita mai di credere che sia tutto perfetto, e poi scoprire che invece non lo sarà mai?»
Il ragazzo corrucciò le sopracciglia, interdetto, e le labbra della figlia di Ermes si schiusero, titubando qualche secondo, prima si sussurrare: «Perché devo essere sempre la seconda scelta, John?» La sua voce incrinata tradiva le lacrime che premevano contro la retina dei suoi occhi, vogliose di uscire. «Non è giusto.»
E fu allora che gli raccontò tutto.
Di lei, di Leo, e di ciò che era successo tra loro.
Le parole stridevano contro le corde vocali, lasciando la sua bocca quasi fossero state nascoste in fondo alla sua gola per troppo tempo, e ora desiderassero solo di farsi sentire.
Emma sentiva il proprio corpo meno pesante man mano che riferiva all’amico l’intricato rapporto tra sé e il figlio di Efesto. Tenne per sé alcuni dettagli, ma si sfogò con John come mai aveva neanche sperato di poter fare con sé stessa.
Fu solo, però, quando disse di Charlotte che la sua voce si spezzò, e le sue iridi argentate furono velate da amare lacrime.
Il figlio di Apollo l’attirò a sé, stringendosela tra le braccia, e facendo schioccare ritmicamente la lingua la cullò dolcemente, permettendole di riversare tutta la sua frustrazione in un pianto soffocato contro il proprio petto.
Accarezzandole i ricci capelli con fare rassicurante, continuò a proteggerla con il suo abbraccio anche dopo che lo sfogo di lei si fu ridotto a dei sommessi singhiozzi.
«Mi sento così vuota, John» sussurrò Emma dopo un po’, gli occhi arrossati e il volto nascosto nella maglietta dell’amico.
Il ragazzo le lasciò un tenero bacio tra i capelli, lasciando lì le sue labbra qualche secondo più del dovuto. «Non devi darci peso» le intimò, con cauta sicurezza. «Se Leo non ha capito quanto sei speciale, vuol dire che non era quello giusto.»
«Se non era quello giusto, allora perché fa così male?»
John sospirò. «Perché molto probabilmente prima di spezzarti il cuore è stato l'unico in grado di farlo battere.»
Emma soppesò quelle parole, inspirando a fondo il confortante profumo di menta della pelle del ragazzo. Poi si morse con forza il labbro inferiore, deglutendo piano.
«Non dirlo a Skyler» mormorò con un fil di voce, e dal suo tono quella sembrava più una supplica che un’affermazione.
Il biondo aggrottò la fronte, confuso. «Perché?»
«Lei non lo sa.» Emma si sentì un verme anche solo ad affermare quell’ignobile verità. «Non le ho detto di me e di Leo, e non deve assolutamente scoprirlo. Lui è suo fratello» gli fece notare poi, con rammarico. «Non voglio che sia costretta a scegliere tra noi due.»
La figlia di Ermes avvertì i muscoli di John irrigidirsi, consapevole che il ragazzo odiava mentire, soprattutto quando si trattava dei suoi migliori amici.
Ma se c’era una cosa che non avrebbe mai fatto, era far affrontare a quest’ultimi le loro difficoltà da soli; e diede prova del suo altruismo nel momento stesso in cui annuì, posando il mento sopra la testa della bionda.
«Da me non saprà niente» promise, e nonostante tutto Emma si lasciò sfuggire un’appena accennato sorriso.
«Grazie, John.»
Il ragazzo la strinse un po’ più forte, per poi posarle una mano sulla nuca e baciarle dolcemente la fronte. «Potrai sempre contare su di me» affermò, e suonava come un’ulteriore promessa.
E solo quando Emma si appoggiò, sfinita dal pianto, al suo tonico petto, facendosi cullare dal suo tranquillizzante calore umano, che si rese conto che sì, John avrebbe mantenuto la parola data.
E sì, aveva davvero un amico speciale.
 
Ω Ω Ω
 
Skyler era più che nervosa.
Non sapeva bene il perché, dato che quello non era di certo il suo primo appuntamento con Michael.
Eppure sentiva che l’esito della loro relazione sarebbe dipeso dallo svolgimento di quella serata.
Si era preparata apposta per lui. Aveva sistemato i capelli in modo che si arricciassero in tenere onde mogano e cremisi; si era truccata abbastanza da rendere il proprio sguardo più penetrante, senza però dare nell’occhio; ed infine era andata da Piper (l’unica figlia di Afrodite della quale si fidasse davvero), chiedendole un consiglio su quali fossero le cose più eleganti e casual da indossare ad un incontro.
Alla fine avevano optato per una semplice canotta bianca, con una giacca di pelle nera dalle maniche a tre quarti e un comodo jeans scuro. I suoi anfibi, poi, non potevano mancare. Non li portava più tanto spesso, ma nel momento stesso in cui se li infilò la ragazza capì che, nel groviglio incasinato che era diventata la sua vita, quel paio di scarpe erano l’unica cosa rimasta veramente sua.
Durante la cena, Skyler non toccò cibo.
Non aveva un’idea precisa su cosa aveva escogitato Michael, né aveva voglia di chiederselo, considerato il fatto che voleva fosse una sorpresa. Per questo si preparò ad ogni possibile evenienza.
Mentre mangiucchiava lentamente un piccolo trancio di pizza, osservò gli altri semidei.
Emma e John non erano nei rispettivi tavoli, e Skyler si chiese che fine avessero fatto, per poi domandarsi se stessero bene. Leo, invece, seduto di fronte a lei, sembrava essere più di che di qua; lo sguardo assente, i capelli leggermente arruffati, sul volto un lezzo tra lo sconcertato e il confuso.
La figlia di Efesto cercò conforto negli occhi del suo figlio di Poseidone, che però erano fissi sul piatto, le labbra incurvate all’insù per via di una barzelletta che Percy stava raccontando.
Skyler si chiese di che colore fossero le sue iridi, quel giorno. Ma poi ricordò che l’avrebbe scoperto di lì a breve.
Ingoiò un chicco d’uva senza sentirne davvero il sapore, prima che la sua attenzione fosse attratta da Matthew. Il ragazzo era solo al proprio tavolo, in quanto unico figlio di Eris del Campo. Aveva appena finito di mangiare una fetta di torta, e stava punzecchiando le briciole rimaste nel piatto con le punte della forchetta.
Quasi per un attimo si sentisse osservato, sollevò lo sguardo, e i suoi occhi verdi si incastrarono subito alle iridi scure di Skyler.
Matthew le rivolse un sorriso sghembo, regalandole poi un rapido occhiolino, e la ragazza sorrise a sua volta, per poi chinare il capo imbarazzata e bere un sorso di tequila da uno dei bicchieri magici del Campo.
La cena terminò più in fretta di quanto la figlia di Efesto avesse sperato, e quando tutti i semidei si diressero tra risatine e schiamazzi verso il falò, Skyler si incamminò silenziosa dal lato opposto, alla volta del lago.
Arrivò lì che non c’era ancora nessuno. Si avvicinò alle bagnate sponde quel tanto che bastava per permettere alla dolciastra umidità dell’aria di abbracciarle le narici, le braccia incrociate sotto il seno, lo sguardo fisso sulla piana distesa d’acqua.
Sospirò, attendendo paziente, e poco prima che potesse rendersene conto, una dozzina di rose rosse invasero il suo campo visivo, facendola sussultare.
«Sono felice che tu sia qui» le sussurrò qualcuno alle sue spalle, le labbra che le sfioravano l’orecchio, mentre lo faceva.
La ragazza chiuse le palpebre, mordicchiandosi il labbro inferiore nel vano tentativo di trattenere un sorriso.
«E giuro che questa non è una rapina.»
La figlia di Efesto corrucciò le sopracciglia, confusa. Che significava? Che motivo aveva, Michael, di dire così?
I suoi occhi si sgranarono, e nel momento esatto in cui il suo cuore perse un battito si voltò di scatto, restando senza fiato.
Davanti a lei non c’era affatto il ragazzo che aveva sperato. Non c’era un figlio di Poseidone, non c’era Michael.
C’era Matthew.
Il figlio di Eris indossava una camicia chiara dal colletto sbottonato e dei pantaloni neri, lo sguardo intenso che brillava di giubilo.
Le emozioni di Skyler furono contrastanti: confusione, delusione, interdizione, stupore.
Boccheggiò per qualche secondo, quasi quel gesto bastasse ad afferrare per aria le parole che non riuscivano a raggiungere le sue corde vocali.
«M-Matt?» riuscì a balbettare poi, lasciando trapelare tutto il proprio sconcerto.
Il ragazzo fece un passo verso di lei, annullando anche le ultime distanze che li separavano, tanto che la figlia di Efesto fu costretta ad inclinare il capo, pur di poterlo guardare in volto.
«Sei bellissima» si congratulò lui, contemplandola con un sorriso, al ché la mora arretrò di poco, sorpresa da quel complimento.
«Ma…» tentò di replicare, però le parole le morirono in gola.
M di Michael, era stato il suo primo pensiero. Ma era evidente che aveva sbagliato.
M di Matthew, ragionò, maledicendosi per la propria stupidità. M di Malinteso.
«D-Deve esserci un errore» ciangottò, rivolta più a sé stessa che al ragazzo. «Io non…»
«Che ne dici di sederci sulla passerella?» la interruppe prontamente lui, indicando con un cenno il ponte di legno. «Abbiamo molte cose di cui parlare» convenne poi, posandole dolcemente una mano dietro la schiena per attirarla a sé quel poco che bastava a far aderire i loro corpi.
Skyler deglutì, a disagio.
«Lo sapevo!»
Fu solo il suono il suono di quella raschiante voce, grondante di rabbia e frustrazione, ad attirare repentina l’attenzione dei due.
Non appena la figlia di Efesto vide Michael a pochi metri da loro, il viso una maschera di odio, delusione e rancore, fu come un pugno nello stomaco.
«Michael…» mormorò flebilmente, quasi fosse in procinto di spiegare la verità; ma lo sguardo del figlio di Poseidone era totalmente rivolto a Matthew, trasudando ripugnanza.
«Tu.» Lo indicò con voce tremante, le corde vocali vibranti di tensione. Poi si avventò contro di lui, afferrandolo per la camicia e spintonandolo con forza. «Brutto figlio di puttana!»
«Michael, no!» Skyler riuscì a fermarlo poco prima che il figlio di Poseidone potesse rompergli il naso.
Il figlio di Eris barcollò all’indietro, spaventato, e Michael si liberò dalla presa della ragazza con uno strattone, guardandola con disgusto.
«Mi fate schifo» sibilò, al ché Skyler scosse la testa, con veemenza.
«Michael, ti assicuro che non è come sembra!» tentò, disperata.
«Sì, ha ragione» intervenne Matthew.
«Tu sta zitto!» gridò il figlio di Poseidone, serrando i pungi con così tanta forza da conficcarsi le unghie nei palmi. «Sapevo che eri un sudicio figlio di Era» lo accusò, con disprezzo. «Ma ora hai superato il limite!»
«Basta!» gli tolse la parola Skyler, sovrastando di un’ottava la sua voce. «Dacci almeno la possibilità di spiegare!»
«A me sembra tutto abbastanza chiaro» ribatté quindi Michael, con sarcasmo.
«Ti ho già detto che c’è stato un malinteso.»
«Sono curioso di sapere fino a che punto sareste arrivati, se io non ti avessi seguita!»
«Noi…» cominciò la ragazza, ma le sue parole si arrestarono di colpo sul fondo della sua gola, mentre ciò che aveva appena detto il ragazzo prendeva una nuova forma nella sua mente. «Aspetta» sussurrò, gli occhi stretti a due fessure. Poi sbottò. «Tu hai fatto cosa?»
Michael si irrigidì, i muscoli tesi e la mascella contratta. Non rispose, e quella per la ragazza fu solo una conferma alla propria teoria.
«Michael, tu mi hai seguita?» esclamò, indignata. «Mi hai seguita?»
Il figlio di Poseidone digrignò i denti, per poi forzare un sorriso pieno d’astio. «Divertitevi» augurò loro, ma suonava più come una maledizione.
Gli diede le spalle e se ne andò, ma Skyler avvertì una nuova sensazione vorticarle nel petto, simile ad ira e risentimento.
«Oh, no. Non ci provare!» gli urlò quindi contro, con inaspettata collera nella voce. «Michael!»
Non poteva credere a ciò che il ragazzo aveva appena fatto.
Perché era andato fin lì? Perché l’aveva seguita?
L’aveva vista allontanarsi dal gruppo di mezzosangue, certo, ma perché non chiederle direttamente dove fosse diretta?
Come mai ricorrere a simili sotterfugi?
Temeva davvero che sarebbe mai stata capace di fare qualcosa senza dirglielo, di imbrogliarlo in quel modo?
Possibile che si fidasse così poco di lei?
No, Skyler non poteva accettarlo. Doveva esserci un’altra spiegazione.
Non poteva essere quella la verità.
Seguì il ragazzo fin nei pressi della Cabina Tre, chiamandolo per nome nonostante lui non fosse intenzionato a voltarsi.
Quando Michael entrò furioso nella propria casa, si sbatté con vigore la porta alle spalle, e la figlia di Efesto fece appena in tempo ad infilare un piede sulla soglia, per poi raggiungerlo all’interno.
Il figlio di Poseidone camminava nervosamente per la stanza, mille emozioni color cremisi trasudanti da tutti i pori.
«Dimmi che non l’hai fatto davvero» implorò Skyler, con voce strozzata e tremante.
«Cosa?» ribatté lui, con un verso di scherno. «Interrompere il vostro appuntamento? Oh, scusami!» Mostrò i palmi, in un finto e ostentato segno di resa. «La prossima volta resterò in disparte!»
«Ma che Tartaro stai dicendo, Michael?» domandò quindi lei, allibita.
«Per favore, risparmiami la sceneggiata.»
«Sceneggiata?» ripeté la ragazza, confusa.
«Tu sei liberissima di metterti con quel lurido tizio, Skyler!» strepitò allora Michael, in un impeto di rabbia. «Davvero, fai quello che vuoi. Ma non chiedermi di aspettarti solo perché sai che lo farò!»
«Mi credi davvero capace di una cosa del genere?» Lo sdegno stava prendendo il sopravvento sulla figlia di Efesto, che si rifiutava di credere alle proprie orecchie, le accuse del ragazzo che le smorzavano il fiato in gola, tanto erano taglienti.
«Io non so più che pensare di te!»
«Ma lo vuoi capire che io sono innamorata di te, brutto stupido?»
«Di tutte le bugie che mi hai raccontato, questa è quella che brucia di più» le fece notare lui, con rancore.
Skyler fece roteare gli occhi, esasperata. «Ma quali bugie?»
«Oh, andiamo, smettila! Sei ridicola.»
«Ridicola io?» replicò la ragazza, scioccata. «Ma ti senti? Tu pensi sul serio che io ti tradirei con Matthew?»
«E cosa dovrei pensare, dopo quello che ho visto?» gridò quindi Michael, furioso. «Eh? Sei andata lì per stare con lui, o sbaglio?»
«Sono andata lì per stare con lui» reiterò allora Skyler, scioccata. «Sono andata lì per stare con lui?» eruppe poi, indignata. «Oh, miei dei.» Scosse la testa, incredula, per poi alzare il tono di voce. «Vuoi sapere perché sono andata lì?»
Non attese una risposta. Si tastò le tasche con furia, certa di averlo portato con sé, fino a che non vi estrasse un foglietto azzurro ripiegato quattro volte su sé stesso.
«Eccolo il perché!» si urtò, lanciandolo con furia in faccia al ragazzo.
Michael lo prese al volo, aprendolo interdetto e leggendo il messaggio che vi era scritto all’interno, con la fronte aggrottata.
«Credevo che quella ‘M’ fossi tu, cretino!» continuò lei. «Speravo che avessi deciso di organizzare qualcosa di romantico, di dedicare un po’ di tempo a noi. Sei stato tanto preoccupato di ciò che potesse fare Matthew, Michael, ma hai pensato qualche volta a me?» domandò, con tono accusatorio. «Ti è mai importato, veramente?»
«Metteresti davvero in dubbio ciò che provo per te?»
«Ma che cos’è che provi per me, Michael!» ribatté lei. «Credi sul serio di poter portare avanti una relazione, se alla prima occasione dubiti della mia fedeltà?»
«Quel tizio ha passato più tempo con te da quando è arrivato qui di quanto non ne abbia passato io dall’inizio dell’estate!»
«Qui non stiamo parlando di Matthew!» strepitò a quel punto Skyler, mentre avvertiva il proprio corpo bollire di così tanta collera che per un attimo temette di poter prendere fuoco seduta stante. «Qui stiamo parlando di me e di te.»
Cercò i suoi occhi con trepidazione, e quando le proprie iridi si incastrarono a quelle del figlio di Poseidone, di un affascinante blu cobalto, Skyler trattenne involontariamente il respiro.
C’era qualcosa di diverso, in loro. Quello che aveva di fronte non era più il suo Michael. La fissava come se fosse un’estranea, e nonostante fossero entrambi incapaci di distogliere lo sguardo, l’energia che vibrava tra loro trasudava solo un’ostinata e molesta freddezza.
«Tu ti fidi di me, Michael?» chiese la figlia di Efesto, così preoccupata di ciò che lui avrebbe potuto dire da non maledire il tremitio della propria voce.
Sperava che lui annuisse con fierezza. Si aspettava che le rivolgesse uno di quei suoi siliti sorrisi piantagrane, affermando quanto fosse scontato, che fosse così.
Il ragazzo prese fiato per parlare, ma le sue corde vocali furono incapaci di emettere alcun suono, per cui serrò le labbra.
Quell’esitazione sembrò pesare più di mille altre parole. Skyler barcollò all’indietro, quasi avesse appena ricevuto un pugno allo stomaco talmente forte da non essere stata in grado di assorbirlo.
Il fiato le si smorzò in gola alla sola consapevolezza di quanto ciò poteva significare. Sentì gli occhi bruciare, e prima che potesse rendersene conto una tediosa nausea si insinuò nelle sue narici, attraversando fluida i polmoni e stringendo la bocca del suo stomaco come un cappio della morte.
«No» sussurrò con un fil di voce, quasi si stesse rispondendo da sola. Scrollò amareggiata il capo, ma nel momento stesso in cui tentò di forzare un sorriso, il suo labbro inferiore tremò. «Certo che no.»
Si passò distrattamente le dita tra i capelli, chiamando a raccolta tutta la propria forza di volontà pur di imporre alle proprie gambe di farla restare in piedi. Ad imperlare le sue iridi si alternavano sentimenti spossanti, quali sgomento, delusione, tristezza e dolore.
Si sfregò il volto, quasi bastasse quel semplice gesto, per mandarli via. «Non posso credere di aver davvero sperato il contrario» si rimproverò tra sé e sé. Abbastanza forte, però, perché Michael potesse sentirla.
Il figlio di Poseidone avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa. Non aveva alcuna intenzione di far intendere quello, con il suo silenzio, ma non aveva idea di come spiegarlo alla ragazza.
«Skyler…» provò, afflitto.
«Sta zitto» lo redarguì lei, con un tono tanto tagliente da rimpinguare l’aria della stanza di pura tensione.
«Per tutti gli dei» si lamentò lui, facendo roteare gli occhi esasperato. «Vuoi permettermi almeno di dire la mia?»
«Sta zitto» si limitò a ripetere Skyler, con voce incrinata, mentre si sforzava in tutti i modi di non cedere al pianto.
«Se solo mi lasciassi parlare…»
«Sta zitto!»
E prima che il figlio di Poseidone potesse sussultare a quell’inaspettato urlo di collera, la ragazza si strappò dal polso il braccialetto che lui stesso le aveva regalato, scagliandolo attraverso la stanza con più forza di quanto fosse necessaria.
Evitò di guardarlo in viso, mentre ansimante faceva sempre più fatica a restare in quella stanza. Si sentiva tradita, minacciata e soffocata da quelle mura.
Si avviò verso la porta, le mani che tremavano per via di tutte le sensazioni contrastanti che lottavano nel suo corpo, cercando di prevalere l’una sull’altra.
Michael la raggiunse poco prima che potesse varcare la soglia, afferrandola per un braccio e costringendola a voltarsi. «Skyler, aspetta…» cominciò, ma lei si divincolò furiosa dalla sua presa.
«Non mi toccare!» strepitò, allontanandolo con forza. Poi incastrò finalmente gli occhi nei suoi, e il ragazzo sentì il proprio cuore perdere un battito.
Si rese conto di quanto le sue pupille fossero rosse, a causa delle lacrime che ostinata cercava di trattenere. Non gli disse nulla per qualche secondo, ma lo uccise con un’occhiata, quasi a volergli far capire che era stato lui a ridurla così.
Dopo di ché emise un sospiro tremante, serrando i pungi fino a farsi venire le nocche bianche. Quando parlò, ogni parola sibilata a denti stretti, il suo tono, oltre che ferito, voleva ferire.
«Hai rovinato tutto» lo accusò, con astio e acredine. Poi fece un passo indietro, squadrandolo per un istante quasi lo osservasse per la prima volta, e ciò che vedesse non le piaceva affatto.
Deglutì a fatica, con un’espressione pesta in viso.
«Vorrei non averti mai conosciuto.»
Corse fuori dalla Cabina Tre, ma stavolta Michael non la seguì, scosso a tal punto da quella dichiarazione da non poter far altro se non restare immobile, impietrito e lacerato all’interno.
Skyler non seppe con esattezza dove le sue gambe la stessero portando, e smise di chiederselo non appena il dolore divenne più forte di lei, sovrastandola con la sua mole ed il suo soffocante peso e rendendo tutto ciò che la circondava solo un’enorme massa sfocata e indistinta.
Aveva la sensazione di essere appena stata trafitta da un’orda di frecce appuntite, che le squarciavano la pelle, che le infilzavano il cuore, i polmoni, lo stomaco, la gola.
Ma che non avevano il potere di ucciderla.
Le davano solo l’illusoria sensazione di essere in grado di toglierle la vita, per poi lasciarla lì a soffrire, a sanguinare senza però emettere alcun lamento.
E questo faceva male.
Faceva male perché non poteva in alcun modo passare.
 
Ω Ω Ω
 
In piedi sulle sponde del lago, Skyler si era rinchiusa in quella che era una teca di vetro fatta di rabbia, tristezza e rassegnazione.
Incapace di impedire a roventi lacrime di bagnarle copiose le guance, se ne stava lì, stretta nelle spalle, reggendosi il ventre quasi il dolore lo contorcesse a tal punto da farle rigettare anche il suo stesso fegato.
Si sentiva svuotata di tutto ciò che le permetteva di vedere il mondo a colori, ed ogni volta che un fugace ricordo si alternava ad uno sconquassante singhiozzo, il suo cuore sembrava inchiostrarsi sempre di più, gonfiandosi tanto da minacciare di esplodere da un momento all’altro.
Skyler si pentiva di ciò che aveva detto a Michael. Presa da un incontrollato moto d’ira, gli aveva sputato in faccia cose che non avrebbe mai osato nemmeno pensare.
Ma nulla l’addolorava di più della convinzione che tutto quello che c’era tra loro rischiava di essere solo una sanguinosa bugia.
Poteva davvero finire così?
Bastava così poco, per distruggere senza pietà lo spesso filo che li legava?
Qualcuno la avvolse da dietro in un caldo abbraccio, e nonostante in altre circostanze Skyler avrebbe reagito rompendo il naso del diretto interessato, in quel momento non aveva le forze neanche per metabolizzare il tutto, lo sguardo vacuo perso in un punto indefinito del lago.
Matthew la strinse a sé, con fare rassicurante, e non appena un nuovo singhiozzo sfuggì dalle labbra della ragazza, lei si voltò verso di lui, affondando il viso nel suo petto e lasciandosi andare ad un pianto pregno di rinnovato dolore.
«Ssh» la tranquillizzò lui, accarezzandole dolcemente i capelli e cullandola con accortezza. «È tutto okay.»
E nonostante Skyler avrebbe voluto con tutto il cuore credere a quelle parole, sapeva che non potevano essere vere.
Nulla era okay. Nulla lo sarebbe mai più stato.
Il figlio di Eris si scostò da lei quel tanto che bastava per poterle prendere il volto tra le mani. Le sfiorò uno zigomo con il pollice, pulendolo delle lacrime le lo inumidivano.
Solo in quel momento la ragazza si rese conto del suo sguardo apprensivo, e capì quanto quella situazione fosse difficile e imbarazzante anche per lui.
«Mi dispiace» si scusò infatti, facendo intendere di essere tornato lì da lei unicamente per quello. «Ho fatto un casino.»
«Non è colpa tua» lo rassicurò Skyler, tirando su col naso. «Le cose tra me e Michael andavano male già da un po’, credo. Solo che nessuno dei due aveva il coraggio di ammetterlo.»
«Solo perché era il tuo ragazzo, Skyler, questo non gli dava il diritto di farti soffrire.» Matthew le spostò una ciocca rossa dietro l’orecchio, inclinando il capo. «Solo uno stupido si lascerebbe scappare un essere tanto speciale» sussurrò poi, e fu allora che la ragazza sollevò lo sguardo.
Trovò quasi subito gli occhi verdi di lui, che intensi sembravano in procinto di scrutarle l’anima. Il figlio di Eris accostò la fronte alla sua, seguendo con il dorso della mano la linea della sua mandibola, e poi giù fino all’attaccatura dei capelli dietro il collo.
La figlia di Efesto trattenne il fiato, sorpresa e confusa dall’intimità che si stava creando tra loro, e prima che potesse rendersi conto di ciò che era sul punto di accadere, lui si chinò su di lei, facendo sfiorare i loro nasi.
Skyler si ritrasse con un gesto repentino, sgranando gli occhi mentre lentamente una nuova coscienza si formava nella sua mente. Guardò Matthew, trovando conferma nella sua visibile delusione.
«Oh miei dei» mormorò, interdetta e scioccata. «Io non…»
La frase rimase in sospeso nell’aria, ma il ragazzo capì dove volesse andare a parare. Assorbì il colpo, sul volto una smorfia che palesava lo sforzo di tenere a bada i propri sentimenti. Poi annuì mestamente. «Ovviamente no» disse tra sé e sé, con rammarico.
La ragazza si sentì impotente di fronte allo sconforto dei suoi lineamenti. «Matthew, io…» tentò di giustificarsi, ma lui la zittì con un cenno della mano.
«Ti prego, non aggiungere altro» le intimò, con fatica. «È già abbastanza umiliante così.»
Fece per andarsene, ma lei lo afferrò per un braccio, dispiaciuta. «I-Io non volevo ferirti» balbettò, afflitta.
Il figlio di Eris incurvò le labbra in un sorriso amaro, in netto contrasto con i vetri rotti che erano diventate le sue iridi verdi. «Credo che tu mi abbia già ucciso» le fece notare, per poi divincolarsi delicatamente dalla sua presa ed incamminarsi verso la propria Cabina.
Skyler lo guardò camminare via, incapace di credere ai propri occhi. Insomma, non poteva essere successo davvero, no? Possibile che Afrodite ce l’avesse tanto con lei da rinchiuderla dentro quell’enorme casino?
C’era una via di uscita, in quel labirinto? O era solo uno sconfinato vicolo cieco?
Allo stremo, le sue gambe cedettero, e la ragazza si accasciò a terra, cadendo con un tonfo sulle ginocchia.
Si prese la testa tra le mani, un peso che le gravava soffocante sulle spalle quasi fosse intenzionato a non spostarsi più.
Con le lacrime che riprendevano a sgorgarle dagli occhi, maledisse sé e tutti i suoi problemi.
E, distrutta, desiderò solo di poter cedere la propria vita a qualcun altro.
 

Angolo Scrittrice.
*ON AIR*
"I don’t want a lot for Christmas, there is just one thing I need.
I don’t care about the presents underneath the Christmas tree.
I just want you for my own, more than you could ever know.
Make my wish came true… baby, all I want for Christmas is yoou!"

ahahah, hola, guys!
Oggi è martedì, e come vi avevo già annunciato, sono qui per rompervi ancora una volta con uno dei miei capitoli.
Cavolo, ma ci pensate? È l’ultimo capitolo del 2014!
woo, non posso crederci **
Personalmente, adoro l’aria natalizia e tutto ciò che ne comporta.
Ma scommetto che non avete voglia di parlare di questo.
Beh, che dire? Innanzi tutto, spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Forse non sarà dei migliori, ma mi auguro che non sia tanto tremendo da avervi rovinato il Natale :’)
Btw, qui noi festeggiamo, e al Campo le coppie scoppiano.
Partiamo da
Emma e Leo, vi va?
In realtà, non c’è molto da dire, al riguardo. Emma ha avuto una bella batosta (fortuna che c’era
John, oserei dire).
Ma in un certo senso, era scontato che il figlio di Efesto preferisse Charlotte a lei. Insomma, la figlia di Afrodite era stata fin da subito la sua prima scelta.
Voi che ne pensate?
Per quanto riguarda
Skyler e Michael, invece, penso proprio che si è arrivati ad un definitivo punto di rottura. Questa non è una delle solite litigate tra fidanzati, e Skyler l’ha capito nel momento in cui gli ha chiesto se si fidasse o meno di lei. Lui non ha risposto, confermando la sua teoria, e lei si è sfilata con rabbia il braccialetto che lui le aveva regalato.
Per chi non lo ricordasse, trova la scena nel Capitolo 4 della seguente storia.
Michael aveva promesso su quel bracciale che avrebbe fatto di tutto affinché il loro rapporto non cambiasse, ma a quanto vedete non è stato così, per questo non aveva più senso che Skyler lo portasse al polso.
E come se non bastasse, si è rovinato anche il rapporto che aveva con
Matthew. Il ragazzo aveva frainteso le sue intenzioni, evidentemente, e dopo il brutto due di picche, dubito si riprenderà tanto facilmente.
Onestamente, preferisco non aggiungere altro, anche perché sono curiosa di sentire le vostre, di opinioni.
Vi è piaciuto? Vi ha fatto schifo? È un altro capitolo sploff?
In tal caso, mi scuso se è così.
Anyway, credo sia arrivato il momento di ringraziare i miei bellissimi angeli. E scusate se non sono riuscita a rispondere a tutti, ma come sempre provvederò al più presto!
Un grazie enorme a:
Percabeth7897, ChiaraJacksonStone1606, carrots_98, la ragazza di titanio, stydiaisreal, fire_in_dark29, callie vee, Kamala_Jackson e _Krios_.
Grazie davvero per aver commentato lo scorso capitolo. Siete fantastici!
Ora.
Dovete sapere che l’altro giorno sono andata a vedere Big Hero 6 al cinema, e mi sono letteralmente innamorata di Baymax.
Perciò, ho deciso di farvi gli auguri di Natale con una sua simpatica gif natalizia.
 
 
Auguri a tutti voi lettori silenziosi, ai miei Valery’s Angels e alle vostre famiglie.
Ci vediamo direttamente martedì 6, e mangiate tante schifezze anche per me, mi raccomando.
Chiudo questo ultimo Angolo Scrittrice del 2014 dicendovi che siete speciali, che senza di voi non ce l’avrei mai fatta, e che siete tutti essenziali, nessuno escluso.
Grazie per aver reso quest’anno migliore con la vostra presenza, e grazie per esserci stati sempre, anche quando tutto il resto sembrava essere sul punto di cadere a rotoli.
Spero che non vi dimentichiate di questa scrittrice di sploff durante queste vacanze, e (citando il mio marshmallow gigante preferito) che siate soddisfatti del trattamento.

Buon Natale, semidei.
Sempre vostra,
ValeryJackson

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***




ATTENZIONE: Capitolo eccessivamente lungo. Prepararsi psicologicamente prima della lettura. 

 

Quando aprì gli occhi, la prima cosa che attirò l’attenzione di Skyler fu il soffitto color crema della Cabina di Efesto.
La ragazza fece guizzare gli occhi da un angolo all’atro della casa, perlustrandola con lo sguardo in cerca di un intruso. Avvertiva una strana sensazione, quasi ci fosse qualcosa che non andava, in quel posto che nel corso dei giorni imparava ad apprezzare sempre di più.
Il cigolio di un cardine che si apriva fendette l’aria, e la sua eco stridente sembrò far rabbrividire anche le porte, mentre si infrangeva contro le pareti piene di arnesi.
Solo quando sentì un sordo tonfo di passi infrangersi sul pavimento, Skyler sussultò, tirandosi su a sedere e stringendo nei pugni le proprie lenzuola.
Guardandosi intorno, si rese conto non solo di essere sola, in casa, ma anche che questa sembrava più piccola, quasi le mura si fossero strette intorno al suo letto, decise ad inglobarla con la loro soffocante mole.
«Ciao, piccola Ragazza in Fiamme» riecheggiò allora una voce, beffarda. «Ti sono mancato?»
Skyler avrebbe riconosciuto quell’orrido suono tra mille. Agghiacciante, maligno, metallico, sembrava fosse stato registrato in precedenza, per poi essere trasmesso in bassa frequenza.
Era da più dell’estate scorsa che non si divertiva ad intrufolarsi nei sogni della figlia di Efesto. Ma nonostante fosse passato tanto tempo, aveva ancora lo stesso potere sconquassante.
Skyler scansò via le coperte con un calcio, ruzzolando giù dal letto mentre il cuore le galoppava così vorace nel petto da far credere di essere pronto a balzarle fuori dalla gabbia toracica da un momento all’altro.
Portò d’istinto la mano alla propria collana, cercando conforto nella spada che Leo le aveva forgiato. Ma questa si limitò a restare com’era, il cristallo blu che luccicava alla placida luce che filtrava svogliata tra gli spiragli delle persiane.
«Andiamo» pregò la ragazza, stringendo i denti mentre si sforzava di identificare il mittente di quella voce.
Fu proprio quest’ultima ad inorridirla ancora una volta, raggiungendo i suoi timpani con una diabolica risata divertita.
«Ancora non l’hai capito, sciocca ragazzina?» la prese in giro poi, mentre Skyler indietreggiava, impaurita. «Non puoi sfuggirmi. Non puoi combattermi.» Fu come se l’aria intorno a lei si increspasse, a palesare la gabbia nella quale il proprietario di quella voce aveva intenzione di imprigionarla. «Qui sei nel mio mondo.»
Un’altra risata, che stavolta fece tremare le pareti, le ossa della ragazza che vibravano quasi fossero mosse da un riflesso incontrollato.
Prima che potesse rendersene conto, Skyler prese ad ansimare, pervasa dalla paura, e solo precipitandosi verso la porta si rese conto di come questa fosse chiusa, e di quanto sembrasse allontanarsi sempre di più, man mano che lei le si avvicinava.
Doveva pur esserci un modo per uscire da quella stanza, per sfuggire a quell’agghiacciante presenza.
Combattere era del tutto inutile, con la sua spada fuori uso e gli arnesi che sembravano essersi incastrati nel muro, decisi a non spostarsi.
La porta principale era serrata, e così anche quella che portava alle fucine, giurò Skyler, con amarezza.
Avrebbe potuto svegliarsi, certo, ma sembrava tutto così maledettamente reale che ben presto la ragazza si convinse che non si trattasse solo di un sogno.
Restava solo la finestra. La ribalta era aperta, e questo le lasciava sperare che la voce avesse dimenticato quel piccolo particolare.
Ma quella sembrò capire le sue intenzioni, e non appena la figlia di Efesto corse disperata verso le imposte si limitò a burlarsi di lei con una risata, permettendole di spalancare le ante in cerca di salvezza.
Una folata di vento investi Skyler in pieno volto, costringendola ad arretrare di un passo mentre molesta le scompigliava i capelli.
«Credi davvero che sia così facile scappare?» la beffeggiò quindi la voce, quasi fosse divertita, dalla sua ingenuità. «Io sono ovunque.»
Solo nel momento in cui Skyler risollevò lo sguardo, comprese appieno in significato di quelle parole. Una nube nera come l’ossidiana degli Inferi prese a filtrare attraverso le imposte, condensandosi man mano che scivolava sui muri, per poi librarsi tetra verso il soffitto ed inglobare la stanza.
Prima che potesse fare qualcosa per impedirlo, la ragazza si ritrovò annientata da quella stessa oscurità, che si strinse attorno alla sua esile figura, avvolgendola talmente forte da smorzarle di netto il respiro.
Skyler boccheggiò, alla ricerca disperata di aria, e nonostante volesse gridare terrorizzata fino a sentir bruciare le corde vocali, non ne ebbe la forza, troppo impegnata ad usufruire delle sue ultime energie per combattere quella trappola di pece.
«È buffo, non trovi?» tornò a dire la voce, ma stavolta il suo timbro sembrava quadruplicato, quasi provenisse da parti diverse nello stesso istante. «Basta così poco per uccidere un mezzosangue.»
Skyler strinse i denti, ringhiando in tono di sfida nonostante fosse in netto svantaggio.
«Quanto pensi che ci metterei ad ucciderne due?»
La figlia di Efesto prese fiato, pronta a chiedergli che cosa avesse intenzione di fare, quando un nuovo suono invocò il suo nome.
«Skyler!»
Era difficile capire da dove giungesse, ma la ragazza era più che sicura di chi fosse il proprietario.
«Skyler!»
«M-Michael?» domandò, con flebile timore. Stava tentando di convincersi che fosse tutto frutto di una sua illusione, dovuta probabilmente alla carenza di ossigeno che giungeva al suo cervello. Ma quando udì quel richiamo un’altra volta, non ebbe più alcun dubbio.
«Michael!» urlò, e divincolandosi con tutta la forza che le era concessa si scrollò di dosso quelle catene oscure, sforzandosi di tirarsi in piedi nonostante le ginocchia tremanti.
Fece per correre verso il ragazzo, decisa a scorgerlo attraverso la fitta nebbia e a salvarlo, qualunque cosa gli stessero facendo.
Ma una nuova ondata di forza la investì, stavolta più brutale, e Skyler cadde supina a terra, battendo violentemente la nuca contro il pavimento.
Se avesse avuto la possibilità di vedere qualcosa, la ragazza avrebbe potuto osservare i puntini neri che danzavano nella sua retina, molesti.
Bastò quel suo piccolo momento di distrazione, per permettere a quell’energia oscura di sovrastarla. Due catene spuntarono scintillanti dal suolo, stringendosi attorno ai suoi polsi in una morsa d’acciaio.
Skyler sentì qualcosa schiacciarla contro il terreno, fino a rendere i suoi respiri pesanti e faticosi.
Non poteva vederlo, ma riusciva a percepirlo. Quasi ci fosse un corpo, un’essenza che si stendeva sopra di lei, impedendole di fuggire.
«Molto romantico» si complimentò la voce, con un sibilo; e Skyler rabbrividì non appena l’avvertì a pochi centimetri da proprio volto. «Davvero molto romantico.»
«Lascialo andare» riuscì ad sussurrare la ragazza, con un fil di voce. Tentò di farlo suonare come un ordine, decisa a non palesare tutto il suo terrore. Ma era il suo tremare senza controllo, a tradirla; e come un segugio, la voce sembrava percepire la sua paura.
«Lasciarlo andare?» la schernì infatti, con sadica goliardia. «E perché dovrei? In fondo, non ci guadagno niente, giusto?»
Skyler tentò di ribellarsi, ma le catene premevano talmente forte sui suoi polsi da impedirle qualsiasi movimento. La voce ridacchiò, soddisfatta.
Poi la figlia di Efesto sentì qualcosa di freddo sfiorarle malizioso le labbra, un dito fantasma che in seguito percorse languido la linea del suo collo.
«Tu sei mia, Ragazza in Fiamme» mormorò la voce, mentre quel viscido tocco scendeva lungo l’incavo dei suoi seni; poi sul fianco, e giù fino alla coscia. «Lo sai questo, vero?»
«Io non sono di nessuno» sibilò quindi Skyler, a denti stretti, mentre un brivido di disgusto le faceva venire la pelle d’oca.
La mano invisibile tornò repentina sul suo volto, afferrandole con forza il mento. «Non ancora!» tuonò lo spirito, e, la ragazza poté giurarlo, se in quel momento fosse stato visibile, avrebbe ghignato.
«Ti propongo un accordo» esordì poi, e la figlia di Efesto strinse gli occhi, irrigidendo la mascella e tentando invano di liberarsi.
«Che genere di accordo?»
La voce sembrò contenta che l’avesse chiesto. «Vieni a salvare il tuo ragazzo» la invitò. «Scopri dove mi trovo e dimostra di essere degna delle mie attenzioni. Ti do due settimane. Due settimane per trovarmi, o il tuo amichetto morirà.»
Una risatina appagata giunse alle orecchie di Skyler, che nel frattempo sentì delle dita sottili agguantarle il collo. «Due settimane, Ragazza in Fiamme, e poi ti proporrò uno scambio. La tua vita per la sua.»
Una lingua le leccò vogliosa la guancia, e Skyler singhiozzò, nauseata.
«Diventa mia, Ragazza in Fiamme» la esortò la voce, vibrando accanto al suo timpano. «O prenderò la vita del figlio di Poseidone. A te la scelta.»
E con un’ultima, sommessa risata, la voce si allontanò sempre di più, fino a diventare un’eco che rimbomba tra le pareti della stanza.
La ragazza avvertì la presenza sopra di lei dissolversi, accompagnata dalle urla del vento. Ma proprio mentre questa smetteva di opprimerla con la sua mole, qualcosa di viscido le accarezzò i polsi.
Le catene che la bloccavano si trasformarono ben presto in corvini serpenti, che risalirono melliflui le sue braccia, facendo guizzare la lingua biforcuta tra i denti.
Skyler avrebbe voluto alzarsi, scrollarseli di dosso. Ma sentiva il proprio corpo pesante quasi fosse fatto di piombo, e solo allora capì che era l’oscurità stessa, e non la voce, ad impedirle di scappare.
Il tronco dei due animali si allungava per più di due metri, e quando uno dei due prese a strisciare lungo il suo fianco, verso le gambe, la ragazza serrò gli occhi, stringendo i pungi nella speranza che quel gesto le impedisse di cedere al panico.
Il serpente si arrotolò attorno alla sua vita, per poi scendere a spirale fino alla sua caviglia.
L’altro, invece, girò intorno al suo collo. Sembrava fosse divertito dal tremare spaventato della figlia di Efesto, tanto che la stuzzicava, mordendole i capelli e facendo fischiare la lingua biforcuta accanto al suo orecchio.
Si strinse con talmente tanta robustezza alla gola della ragazza, che a quella si smorzò il respiro, e temette di soffocare, mentre quello lasciava un segno rossastro sulle sua pelle.
Ma non riaprì gli occhi. Si rifiutava di darla vinta al terrore, anche se ormai, era evidente, non aveva alcuna possibilità di fuga.
Il serpente strofinò il capo contro la sua ghiandola tiroidea, per poi fendere ancora l’aria accanto alle sue labbra tremolanti con la sua bifida lingua. Scoprì le zanne, emettendo un sinistro e raschiante sibilo.
Poi affondò i denti aguzzi nella giugulare di Skyler, e fu a quel punto che la ragazza, dolorante, urlò.
 
Skyler si svegliò di soprassalto, tirandosi su a sedere con il respiro ansante.
Aveva la fronte imperlata di sudore, i vestiti incollati al corpo mentre con il cuore che batteva ad un ritmo accelerato nel petto si sfregava il volto con le mani.
Le sembrava di poter sentire ancora quei viscidi serpenti strisciarle sul corpo, la voce che rimbombava nella sua scatola cranica, ordinandole di diventare sua.
«Skyler?»
Solo quando sentì quella flebile voce invocare il suo nome, la ragazza mise a fuoco la figura di Microft ai piedi del letto.
Il ragazzino aveva un cipiglio preoccupato a corrucciargli le sopracciglia, e la fissava, con apprensione.
Per quanto si sforzasse di apparire disinvolta, la figlia di Efesto non riusciva a regolarizzare il respiro, e fu allora che il fratello si sedette sul bordo del suo materasso, per poi accarezzarle un braccio con fare rassicurante.
«Rilassati» le intimò, con dolcezza. «È stato solo un brutto sogno.»
Un brutto sogno, si ripeté Skyler, mentre annuiva flebilmente. «Un brutto sogno» mormorò poi, seppur con scarsa convinzione. Rivolse la propria attenzione a Microft, inumidendosi le labbra in un gesto nervoso.
«D-dove sono gli altri?» ciangottò, stropicciandosi un occhio.
Il figlio di Efesto si strinse nelle spalle. «Giù nelle fucine. E qualcun altro è andato ad allenarsi.»
La ragazza arricciò il naso, con una smorfia. «E tu perché sei ancora qui?»
«Beh, continuavi ad agitarti nel sonno, e a farfugliare cose senza senso. Sembravi spaventata» le spiegò. «Stavo quasi per svegliarti, ma poi tu ci hai pensato da sola.»
Nonostante non si fosse ancora scrollata di dosso l’agghiacciante sensazione che il sogno le aveva infuso, Skyler abbozzò un sorriso, intenerita dalla premura del fratello.
Abbassò lo sguardo, giocherellando distrattamente con uno dei fili ribelli che sfuggiva al ricamo della sua coperta, prima di emettere un sospiro tremante.
«Microft?» chiamò, incerta.
«Mh?»
La ragazza esitò un secondo, prima di continuare. «Avrei bisogno di un codice rosso.»
Il figlio di Efesto sorrise, grattandosi la nuca imbarazzato. «Leo in questo momento non c’è» ammise. «È uscito presto, questa mattina. Diceva di avere una cosa importante da fare. Ma se vuoi, posso provare a fare io la parte di entrambi.»
«Oh, non preoccuparti.» Skyler scosse il capo, divertita. Poi fece spallucce. «Vorrà dire che sarà per la prossima volta.» Dopo di ché lo guardò, inclinando leggermente la testa di lato. «Grazie lo stesso.»
Ed era sincera. Nonostante Microft fosse convinto di non aver fatto chissà che, leggeva nelle sue iridi un’onesta gratitudine.
Il ragazzino si alzò in piedi, per poi posarle una mano dietro la nuca e lasciarle un tenero bacio tra i capelli.
«Dirò agli altri che non ti senti molto bene» annunciò poi, con un complice occhiolino. «Così nel caso vuoi rilassarti un po’, prima di scendere, avrai una scusa per farlo.»
Per la figlia di Efesto fu impossibile trattenere un sorriso, che rimase come un fantasma sulle sue labbra anche dopo che il fratello ebbe raggiunto il resto dei componenti della Casa Nove nelle fucine, e lei si ritrovò di nuovo sola, le brande dei ragazzi illuminate dalla splendente luce del primo mattino.
Quel posto era totalmente diverso da come l’aveva sognato quella notte, e questo le lasciava sperare che molto probabilmente il suo era stato davvero solo un brutto sogno.
Eppure aveva quell’orrida sensazione che non le era estranea, e che da un po’ di tempo a quella parte aveva smesso miracolosamente di importunarla, per poi tornare all’improvviso.
La sensazione che stesse per succedere qualcosa di brutto.
E che sarebbe stato suo, il compito di impedirlo.
 
Ω Ω Ω
 
Leo non si era mai sentito così scombussolato in vita sua come negli ultimi giorni.
Prima l’aveva baciato Emma. Poi era stata la volta di Charlotte.
Per un ragazzo abituato ad avere sempre il due di picche, ritrovarsi due delle ragazze più sexy del Campo a combattere per le tue labbra è parecchio destabilizzante.
La cosa che lo sorprendeva di più, però, era come la figlia di Afrodite, dopo averlo snobbato tredici volte sulle quattordici in cui il ragazzo aveva cercato di flirtare con lei, alla fine fosse andata a cercarlo di sua spontanea volontà.
Non appena l’aveva vista sulla soglia della Cabina Nove, Leo era stato convinto fosse lì per chiedergli di riparare un qualche gioiello. Stava appunto per chiederle se si trattasse di un bracciale o una collana, quando lei si era guardata intorno, lamentandosi di quanto fosse piccolo e buio quel posto.
Il figlio di Efesto l’avrebbe volentieri contraddetta, convinto com’era che le luci a led che lui stesso aveva montato nella stanza fossero abbastanza luminose da poter far risplendere l’intera Baia di Zefiro. Ma prima che potesse farlo, la ragazza l’aveva invitato ad uscire fuori, e lui, incuriosito, l’aveva seguita.
Lì per lì non gli era venuto da domandarsi come mai Charlotte si comportasse in modo tanto misterioso, né perché lo stesse conducendo proprio dietro la casa, se il suo intento era semplicemente quello di fargli riparare un braccialetto.
Ma poi la figlia di Afrodite l’aveva stupito, accarezzandogli maliziosa il petto.
«Questa camicia ti dona molto, lo sai?» aveva sussurrato, con voce melliflua e suadente. «Non te l’aveva mai detto nessuno?»
«Ehm... n-no» aveva balbettato Leo, visibilmente interdetto da tante improvvise attenzioni. «G-grazie, comunque.»
La ragazza aveva incurvato le labbra in un sorriso soddisfatto, per poi avvicinarsi a lui quel tanto che bastava per permettere al proprio profumo di investirgli le narici.
«Posso farti una domanda?» gli aveva chiesto, con finta innocenza nel tono roco e persuasivo.
Leo aveva annuito, faticando a deglutire a causa delle iridi magnetiche della mora.
Charlotte gli aveva aggiustato il colletto della camicia, e sporgendosi verso di lui aveva posato le sue carnose labbra nell’incavo della sua spalla, lasciandole lì molto più del necessario.
«Tu pensi che io sia attraente?»
Anche se aveva tutti i requisiti per poter sembrare una domanda, il figlio di Efesto sapeva che non lo era affatto.
La ragazza sapeva benissimo ciò che lui aveva sempre pensato di lei, e non aveva certo il bisogno di chiederlo, per averne una conferma.
La figlia di Afrodite era senza dubbio una delle semidee più desiderate del Campo, e nel momento stesso in cui Leo aveva deciso che sarebbe diventata il suo nuovo traguardo irraggiungibile, mai avrebbe immaginato di poter avere la possibilità di starle tanto vicino.
«Non rispondi?» l’aveva quindi incalzato lei, notando il suo imminente silenzio.
Leo si era sgranchito la voce, a disagio. «Sai già la risposta, no?»
«Mh-mh» si era limitata a mugugnare la ragazza, per poi percorrere con la punta del naso la linea del suo collo, prima di lasciarvici una sensuale e rovente scia di voluttuosi baci.
Il figlio di Efesto non era in grado di dire, con esattezza, quante volte aveva sognato quel momento, l’estate precedente.
Ma era consapevole che ormai era troppo tardi. Erano cambiate tante cose. I suoi sentimenti erano cambiati. E nonostante fosse piacevole percepire le labbra di Charlotte scivolare languide sulla sua pelle, non poteva fare a meno di sperare che fossero i baci di un’altra ragazza, quelli in procinto di lasciare un segno sul suo collo.
«Aspetta» l’aveva bloccata infatti, vergognandosi dei suoi stessi pensieri.
Non aveva nulla contro Charlotte, affatto. Solo che non era lei.
La figlia di Afrodite aveva inarcato un sopracciglio, con fare interrogativo, al ché lui aveva fatto un passo indietro, arricciando il naso. «I-io non posso farlo.»
La ragazza aveva inclinato il capo di lato, confusa. «E perché?» Poi, notando la sua espressione, aveva ridacchiato, divertita. «Non dirmi che stai pensando a quell’inutile figlia di Ermes?»
«Emma non è inutile» si era limitato a borbottare lui, senza però contraddire ciò che Charlotte aveva appena detto.
La mora aveva messo il broncio, fingendosi dispiaciuta della sua indisponenza. «Però lei non è qui, a differenza di me. O sbaglio?»
Leo aveva preso fiato per parlare, ma le sue corde vocali non avevano emesso alcun suono, per cui aveva richiuso la bocca. «N-non c’entra» aveva ciangottato poi, visibilmente rosso in viso. «Insomma, lei è… starà…»
Le sue parole erano rimaste sospese nell’aria, e Charlotte aveva giudicato quello come un segno di debolezza, perché si era avvicinata di nuovo a lui, con fare malizioso. «Vorresti difenderla, ma non sai cosa dire, eh?» l’aveva preso in giro, con un sorrisetto divertito ad incresparle le labbra. Il figlio di Efesto non aveva risposto, e lei aveva sospirato teatralmente. «Sei innamorato di lei?» gli aveva quindi domandato, al ché lui aveva sgranato gli occhi, interdetto.
«I-io…» Leo sentiva l’imbarazzo corrodergli la bocca dello stomaco. «Non lo so» aveva sussurrato, con un fil di voce.
«Però sei innamorato di me.»
«Eh?»
«Leo» l’aveva redarguito allora lei, con un timbro autoritario e sicuro, mentre scandiva attentamente ogni singola parola. «Tu sei innamorato di me.»
C’era qualcosa di strano, nella sua voce. Come se arrivasse camuffata all’orecchio di Leo, ma fosse comunque in grado di intorpidirgli la mente, quasi si trovasse in uno stato catatonico.
Aveva la sensazione di aver appena assunto una droga e di non essere più padrone del proprio corpo, mentre le parole della ragazza erano l’unica cosa che gli permetteva di restare ancorato al terreno.
«Innamorato… di te» aveva ripetuto il figlio di Efesto, con la stessa energia di un automa. Aveva poi scrollato la testa, disorientato, ma quell’insolito torpore che l’aveva colpito sembrava non volerlo abbandonare.
«Sì» aveva confermato lei, compiaciuta. «E vuoi tanto baciarmi.»
«Baciarti.»
La figlia di Afrodite aveva fatto sfiorare i loro nasi, per poi schiudere le labbra e stuzzicarlo, civettuola. «Vuoi baciarmi?»
«Voglio baciarti.»
«E vuoi baciarmi adesso?»
«Adesso.»
A quel punto Charlotte aveva ghignato, soddisfatta, prima di sporsi nuovamente verso di lui e sussurrare suadente: «Baciami.»
E Leo l’aveva fatto. Le aveva afferrato il bellissimo viso tra le mani e l’aveva baciata. La ragazza aveva incastrato le unghie smaltate nei suoi capelli, e le loro lingue si erano scontrate con violenta passione, lussuriose.
Ad essere sincero, il figlio di Efesto non ricordava molto, di quel rovente bacio. Per quanto si sforzasse, non riusciva a far sua la volontà di impadronirsi di quelle labbra. E sì, forse si era trattato di qualcosa di spettacolare, ma lui non rammentava nulla se non un incisivo profumo di patchouli e un corrosivo senso di colpa. Quasi fosse avvenuto tutto in un sogno, e non fosse lui l’artefice delle cose che aveva fatto.
Doveva parlare con entrambe le ragazze: con Charlotte, al fine di parlare di ciò che era successo tra loro e di chiarire la situazione una volta per tutte; con Emma, perché… beh, perché aveva un impellente bisogno di vederla.
Era da più di tre giorni che non incontrava il suo sguardo, e in un certo senso gli mancavano le sue iridi argentate.
Lo allarmava, però, il modo in cui lei gli stava lontano, quasi facesse di tutto per evitarlo.
Quando Leo era andato a sedersi accanto a lei, al falò, e lei aveva finto un mal di testa ed era corsa nella sua Cabina, gli era sorto il dubbio.
Quando lui aveva cercato il suo sguardo, a colazione, e la ragazza si era tenuta bene dallo spostare gli occhi nella sua direzione, aveva pensato fosse successo qualcosa di strano.
Quando poi lui aveva fatto per andarle incontro, e lei aveva cambiato strada senza neanche rivolgergli un cenno del capo, i suoi timori erano diventati una conferma.
Non capiva cos’era, che la spingeva a comportarsi così. Ma era deciso a scoprirlo, e a parlare con lei qualunque fosse la posta in gioco.
Peccato che la figlia di Ermes non fosse esattamente della stessa opinione.
Si stava dirigendo verso le lezioni di scherma con Melanie e John, e mentre i due fidanzati si tenevano per mano, lei parlava con il ragazzo, poco prima che il suo attento sesto senso captasse la presenza di Leo.
«Oh, no» mormorò, irrigidendosi a tal punto da bloccarsi sul posto.
Il figlio di Apollo si voltò a guardarla, confuso, e seguendo la direzione del suo sguardo notò Valdez, che pochi metri più avanti si accorgeva solo in quel momento del loro arrivo.
«Va» disse all’amica, con fare protettivo e gentile. «Ti copro io.»
«Grazie» mormorò quella, riconoscente, prima di lanciare un’ultima occhiata al figlio di Efesto e correre via.
«Emma!» la chiamò a gran voce il ragazzo messicano, non appena la vide scomparire nella direzione opposta. Ma quella non si voltò, quasi non avesse la benché minima voglia di fronteggiarlo.
«Emma, aspetta!»
Leo provò a raggiungerla, confuso ed irritato, ma la strada gli fu sbarrata da John, che parandoglisi davanti gli fece perdere di vista la più bella chioma bionda che avesse mai avuto il piacere di poter osservare.
«Non credo sia il caso» lo redarguì il figlio di Apollo, ma la sua voce arrivava ovattata, distante, quasi il corpo di Leo fosse l’unico ad essere lì, mentre la sua mente rincorreva la figlia di Ermes in cerca di spiegazioni.
«Ma che succede?» sbottò, le sopracciglia corrucciate a palesare tutta la sua interdizione. «Perché mi evita?»
«E lo chiedi anche?» ribatté allora il biondo, con amaro sarcasmo. Dovette accorgersi solo poi della perplessità sul volto del ragazzo, perché irrigidì la mascella, digrignando i denti.
«Ti ha visto con Charlotte» lo informò, e se avesse avuto il potere di trafiggerlo con un solo sguardo, ora del figlio di Efesto non ci sarebbero che dei minuscoli pezzettini. «Devo aggiungere altro?»
Per Leo fu come aver preso un pugno in piena faccia. Strizzò le palpebre, mortificato, e prendendosi la testa tra le mani cacciò un grido di frustrazione. «No, no, no!» imprecò, maledicendosi mentalmente per la propria stupidità. «C’è stato uno sbaglio. Devo parlare con lei, posso spiegare…»
«Avvicinati a lei anche solo di un passo, e scoprirai cosa si prova, ad essere infilzato da dieci frecce nello stesso istante» lo interruppe quindi John, puntandogli un dito contro con fare tanto minaccioso, che il ragazzo fu costretto ad arretrare.
«Non ti permetterò di farle ancora del male» continuò il figlio di Apollo, e c’era una fiera durezza, nel suo sguardo.
Uno sguardo che sorprese anche Melanie per la sua glaciale autorità. John non era mai stato violento, ma di certo sapeva come farsi rispettare. E nessuno poteva far soffrire i suoi amici e credere di poterla fare franca.
La figlia di Demetra lo tirò dolcemente per un braccio, mentre i due ragazzi continuavano a soppesarsi a vicenda.
Quando il biondo fece un passo indietro, lei si sporse verso di lui quel tanto che bastava per potergli parlare all’orecchio, in modo che solo lui fosse in grado di sentirla.
«Va da lei» gli sussurrò, e suonava più come un ordine, che come un suggerimento.
John chinò il capo in un rapido cenno d’assenso. Fulminò un’ultima volta il figlio di Efesto con un’occhiataccia, poi lasciò un tenero bacio sulla fronte della sua ragazza, prima di correre dietro l’amica e sparire dal campo visivo dei due semidei rimasti.
E mentre Melanie squadrava Leo con muto disappunto, lui non poteva fare a meno di tenere lo sguardo fisso nel punto in cui, poco prima, Emma era scappata via da lui.
E non riuscì a capacitarsi di ciò che in realtà era successo.
Come può una cosa tanto bella avere una così breve durata?
Un minuto prima Emma era il regalo più speciale che gli dei gli avessero mai fatto, e un minuto dopo non aveva più neanche la possibilità di guardarla negli occhi.
Gli dei avevano rovinato tutto. Charlotte aveva rovinato tutto.
Lui aveva rovinato tutto.
Sì, perché per quanto potesse negarlo, era miseramente e dannatamente colpa sua. Sua e di nessun altro.
Era stato in grado di farsi scivolare tra le mani il vaso di cristallo più lucente di tutta la vetreria. Ed ora neanche un figlio di Efesto come lui sarebbe stato in grado di ricostruirlo, di rimettere nell’esatta posizione tutti i pezzi. Perché ormai era la forma nel suo insieme, ad essere cambiata.
E lui si sentiva come se avesse appena perso il bullone più importante per alimentare quella macchina che era il suo cuore.
 
Ω Ω Ω
 
A conti fatti, Skyler non vedeva Michael da ben due giorni.
Dopo ciò che era successo quella sera al lago e la brutale litigata avuta subito dopo, i due ragazzi non si erano più rivolti la parola, né avevano avuto la possibilità di scambiarsi un indifferente saluto (o un’occhiata di fuoco), dato che non gli era capitato neanche di incrociarsi per caso tra una lezione di scherma e l’altra.
Era come se Michael avesse deciso di poltrire tutto il giorno dietro le imposte della Cabina Tre, oppure di capovolgere tutte le proprie abitudini, pur di evitarla.
Non che questo la sorprendesse più di tanto. Lei, di certo, non era da meno.
Conosceva quasi a memoria l’orario delle lezioni del figlio di Poseidone; ciò che amava fare, e tutte le attività che invece odiava. Ed era proprio in base a quelle consapevolezze, che si dirigeva sempre nei luoghi dove era sicura di non trovarlo.
Non voleva prendersi la briga di guardarlo negli occhi, né di fronteggiarlo.
Le parole che lui le aveva strepitato contro l’avevano ferita più di quanto in realtà voleva dare a vedere, e anche se sapeva di essere stata lei, a dargli il colpo di grazia finale, non aveva né il coraggio né la voglia di avvicinarglisi nel tentativo di chiarire la situazione.
Tra loro, ormai, era finita. E questo, purtroppo, era un dato di fatto.
Eppure, non riusciva a non temere ogni secondo di più le parole dell’inquietante voce che dominava i suoi sogni.
Perché nonostante tutto il risentimento e il rancore che avrebbe potuto provare nei suoi confronti, mai sarebbe riuscita a perdonarselo, se gli fosse successo qualcosa. E ancor di più se fosse accaduto a causa sua.
È solo un sogno, aveva continuato a ripetersi per tutta la mattina, nel vano sforzo di autoconvincersi. È stato solo un brutto sogno.
Un brutto sogno, che però appariva maledettamente reale.
Anche quando si era sfilata i vestiti per farsi rischiarire le idee dall’impetuoso getto della doccia, il timbro roco e voluttuoso di quella presenza non faceva che graffiare le pareti della sua scatola cranica.
Per quanto potesse stropicciarsi gli occhi, era ancora vivida nella sua mente l’immagine di quell’oscura nube che penetrava dalla finestra della stanza, e neanche lo scrosciare lento dell’acqua riusciva a scrostare via dalla sua pelle la sensazione che quei serpenti le stessero ancora scivolando lungo il corpo.
Quell’incubo l’aveva scossa emotivamente, non tanto per ciò che le aveva mostrato, quanto più per ciò che le aveva fatto udire.
«Diventa mia, Ragazza in Fiamme. O prenderò la vita del figlio di Poseidone.»
Che cosa potevano significare, quelle parole?
Chi è che voleva farla diventare sua? E in che modo avrebbe torturato Michael, se questo non sarebbe avvenuto?
Non era mai riuscita ad identificare il proprietario di quella radiofonica voce, tant’è che ad un certo punto era arrivata a convincersi del fatto che fosse un semplice frutto della propria fantasia, e che in realtà non appartenesse a nessuno in particolare.
Ma mai come quella notte era stata consapevole del fatto di essersi totalmente sbagliata.
«Tu sei mia, Ragazza in Fiamme» le aveva sussurrato infatti, famelica. E quelle parole non facevano altro che vorticarle turbolente nella mente, a tal punto da darle le vertigini.
Persino Jake Mason (che in assenza di Leo era il vice-capocabina) aveva notato il tremitio delle sue mani, giù alle fucine, e le aveva intimato di lasciare il suo lavoro agli altri e di prendersi l’intera giornata di riposo.
In un primo momento, Skyler aveva accolto con occhi stanchi il suo consiglio, e si era coricata nuovamente sul letto, con un grande e rumoroso sospiro.
Ma non appena aveva lanciato una fugace occhiata al soffitto, si era resa conto di non avere la benché minima intenzione di farsi condizionare così da un insulso incubo.
I sogni sono soltanto delle futili immagini generate dal nostro subconscio, giusto?
Certo, i sogni dei mezzosangue sono un po’ diversi, ma nessuno assicura che loro non possano avere delle semplici allucinazioni, anziché delle visioni vere e proprie.
Per questo, la ragazza si era infilata una delle sue magliette del Campo, e con passo sicuro e deciso era uscita fuori dalla Cabina, respirando a pieni polmoni la fresca aria di quella mattina estiva.
Nel tragitto che la separava dall’Arena, però, non aveva fatto altro che far scattare il cristallo della propria collana ogni dieci secondi, per poi richiuderla subito dopo nel momento in cui si rendeva conto che la sua spada era ancora funzionante.
Si sentiva turbata, in un certo qual modo, e quando passò davanti la Casa dei figli di Eris, i suoi sentimenti non migliorarono.
Proprio come Michael, anche Matthew non faceva altro che evitarla. Non che potesse dargli torto, ovviamente.
Lei l’aveva rifiutato nel peggiore dei modi, e lui si era sentito umiliato da quell’atteggiamento.
Ma Skyler era più che sicura che rinchiudersi nella Cabina ed evitare ogni contatto con il mondo esterno non fosse in migliore dei modi per affrontare una delusione d’amore.
Dovrò parlargli, prima o poi, si disse, ma nel momento esatto in cui fece per andare da lui, qualcosa la bloccò, e con il capo chino si diresse nella direzione opposta, maledicendo gli dei per averle donato una vita così complicata.
Quando giunse nei pressi dell’Armeria, trovò Emma e John lì, intenti a discutere animatamente.
La figlia di Ermes aveva i muscoli tesi, e sembrava fosse in procinto di sforzarsi per tenere a bada le proprie emozioni.
Il biondo, invece, le stava spiegando qualcosa con quello che appariva come un tono calmo e pacato, e dopo essersela stretta al petto in un abbraccio protettivo le prese il volto fra le mani, lasciandole un fraterno bacio sulla fronte.
Skyler si avvicinò a loro, circospetta, e non appena Emma la notò, sul suo volto apparve un radioso sorriso, anche se visibilmente forzato.
«Ehi, ciao!» la salutò poi, e il sorriso che la figlia di Efesto fece molto probabilmente somigliò più ad una smorfia, perché John corrucciò le sopracciglia, preoccupato.
«Ti senti bene?» le domandò infatti, apprensivo. «Sei un po’ pallida.» Dopo di ché le posò un palmo sulla fronte, per controllarle la temperatura, e fu a quel punto che Skyler scrollò il capo, stringendosi nelle spalle.
«Sto bene» assicurò, con scarso entusiasmo. «È solo che non ho dormito molto, stanotte.»
Il figlio di Apollo non sembrò molto convinto, ma dal suo tono capì che non aveva voglia di parlarne, perciò lasciò correre l’argomento.
Continuò però a fissarla, e Skyler comprese che i suoi pensieri erano direttamente volati a Michael.
La ragazza aveva raccontato ai due tutto l’accaduto, e loro l’avevano consolata, nel vano tentativo di frenare le sue lacrime.
Nonostante fossero amici di entrambi, e non avessero preso le parti di nessuno dei due, neanche loro riuscivano a spiegarsi tutta l’ostilità che il figlio di Poseidone stava mostrando negli ultimi giorni, e sapevano quanto la figlia di Efesto soffrisse, nel vedere il modo in cui lui la ignorava.
«Voi, piuttosto?» chiese a quel punto la mora, decisa a cambiare discorso il prima possibile. «Di che stavate parlando?»
I due ragazzi si lanciarono un’occhiata allarmata, trattenendo il fiato per qualche secondo.
«Ehm… niente» azzardò John, dopo un attimo di esitazione.
«Niente di importante» rincarò quindi Emma, annuendo con un po’ più veemenza del necessario.
Skyler inarcò un sopracciglio, dubbiosa.
Il ragazzo non era mai stato tipo da bugie, e per quanto l’amica potesse avere l’innata dote di ogni figlio di Ermes, lei riusciva sempre a capirlo, quando si accingeva a mentire.
O almeno, quasi sempre.
Strinse gli occhi a due fessure, scrutando i due semidei con sguardo critico ed scettico.
Ma nel momento stesso in cui aprì la bocca per replicare, una nuova voce attirò la loro attenzione.
«Ragazzi!»
La figlia di Efesto si voltò, stupita.
Percy ed Annabeth stavano correndo a perdifiato nella loro direzione, e a giudicare dalle loro espressioni, sembrava urgente.
Il figlio del dio del mare fu il primo a raggiungerli, e piegandosi sulle ginocchia cominciò a fare dei faticosi respiri, ansimando mentre una smorfia gli contorceva il viso.
Skyler lo fissò, senza capire, e lanciando un rapido sguardo agli amici si disse che molto probabilmente aveva la loro stessa espressione incuriosita.
Non appena Percy ebbe recuperato abbastanza fiato per parlare, deglutì con vigore, raddrizzando la schiena.
«Avete…» ansò, con la fronte aggrottata. «Avete visto Michael?»
Al solo sentire quel nome, i muscoli della figlia di Efesto si tesero, e la ragazza digrignò i denti talmente tanto che rischiò quasi di scheggiarli.
«No» rispose John, dando voce ai pensieri di tutti. «Non ultimamente.»
«Skyler?» ritentò Percy, guardandola speranzoso, ma la figlia di Efesto scosse il capo, mesta.
«No» mormorò, con la voce a poco più di un sussurro. «Noi…» La voce le si incrinò. «Noi abbiamo litigato, ed io… non ci parlo da più di due giorni.»
Quelle parole furono come uno schiaffo sul volto del figlio di Poseidone, che ringhiò in un grido di frustrazione. «Maledizione!» imprecò furioso, per poi calciare a vuoto l’erba e sfregarsi il viso, con aria stanca.
Quell’atteggiamento sorprese Skyler, che lanciò un’occhiata interrogativa ad Annabeth, la quale si limitò a scrollare il capo.
«È successo qualcosa?» chiese quindi la mora, con un cipiglio confuso.
«Michael è sparito!» sbottò Percy, il tono più alto di un’ottava per via dell’adrenalina. «Non riesco a trovarlo da nessuna parte. Sono due giorni che non dorme nel suo letto, che non mette piede nella Cabina Tre. Pensavo…» Si passò una mano tra i capelli, ansioso. «Pensavo che volesse starsene un po’ da solo. Che magari era andato a nuotare, non lo so. Ma quando ieri sera non si è presentato a cena, ho iniziato a preoccuparmi. Questa mattina il suo letto era intatto, neanche una piega sulle lenzuola, ed io non so più che pensare!»
A quelle parole, Skyler barcollò, minacciando di perdere l’equilibrio da un momento all’altro, al ché John la sorresse.
La sua assenza. Come aveva fatto a non accorgersi che la sera precedente non era presente alla mensa?
Perché non l’aveva cercato, ovvio. Si stava sforzando di giocare la sua stessa moneta, senza prendere in considerazione l’ipotesi che magari fosse successo qualcosa.
«Avete provato a cercare ai confini del Campo?» si informò Emma, con voce allarmata.
Percy mostrò i palmi, con aria stanca e demotivata, e fu Annabeth a parlare, con un sospiro. «È da questa mattina che setacciamo ogni singolo metro quadro di questo posto. Siamo stati all’Arena, al Campo di Fragole, ai Campi di Pallavolo, al Laboratorio, all’Anfiteatro, ai Poligoni di tiro con l’arco, alla Mensa e al Muro dell’Arrampicata. Siamo stati persino nella Baia di Zefiro, correndo come matti fino alla spiaggia, ma niente! Non riusciamo a trovarlo.»
«Non ho idea di dove si possa essere cacciato» intervenne allora Percy, afflitto. «Voi siete i suoi migliori amici, no? Avete qualche idea?»
«È stato rapito» esordì Skyler. Ma sembrò dirlo più a sé stessa, che agli altri, tanto che nessuno dei presenti comprese le sue parole mugugnate tra i denti.
«Come hai detto?» esclamò il figlio di Poseidone, sporgendosi verso di lei con la fronte aggrottata.
Ma la mente della ragazza era troppo impegnata a ripercorrere famelica gli avvertimenti che la voce dei suoi sogni le aveva lanciato, per poter metabolizzare la sua domanda.
Ora tutto stava assumendo un senso ed una nuova forma, e quelle richieste apparentemente insensate diventavano via via più comprensibili.
«Due settimane per trovarmi, o il tuo amichetto morirà.»
È stato rapito, si ripeté Skyler, con il cuore che rallentava a tal punto da smorzarle il respiro.
«È stato rapito» reiterò poi, così che tutti potessero sentirla.
«Che cosa?» fece John, interdetto.
«R-rapito?» balbettò invece Percy, e quando la figlia di Efesto raccontò loro il proprio sogno, lui parve essere l’unico a comprendere appieno il suo racconto, sbiancando sempre di più ogni volta che la ragazza aggiungeva un nuovo dettaglio all’ultimatum della voce.
«Ma è impossibile!» replicò Annabeth, una volta che la storia fu finita. «Come può una voce far sparire una persona?»
«Solo perché Skyler non è riuscita a vedere nessuno, non significa che lì non ci fosse qualcuno» le fece notare Emma, che poi tornò a guardare l’amica, preoccupata. «Hai qualche idea su chi possa essere?»
«I-io…» ciangottò quella, confusa. «Io non ne ho la più pallida idea. Era dall’estate scorsa che non tornava a parlarmi in sogno. Credo di essermi convinta che…» Esitò. «Che non fosse reale.»
«Dobbiamo parlarne con Chirone» intervenne a quel punto John, e come un muto accordo che nessuno in particolare aveva sancito, schizzarono più veloce che poterono verso la Casa Grande, con un Percy ansioso in testa al gruppo.
E una Skyler che si sentiva annegare dai sensi di colpa.
 
Ω Ω Ω
 
Quando si furono precipitati a corto di fiato all’interno della Casa Grande, Chirone aveva sussultato, colto alla sprovvista.
Scorgendo le loro espressioni allarmate li aveva invitati ad entrare, nonostante quelli l’avessero già fatto senza il bisogno del suo permesso.
Dopo di ché, Percy si era assunto la responsabilità di spiegare in breve la situazione al centauro, che lo ascoltava attento, mentre una ruga di preoccupazione gli scavava un fosso sempre più profondo in mezzo alla fronte.
Le gambe di Skyler, ad un certo punto del racconto, non l’avevano sorretta più, e la ragazza si era lasciata cadere con un tonfo su uno dei divanetti della stanza, mentre la sua mente volava altrove, alla ricerca di una risposta che però sembrava non avere alcuna intenzione di arrivare.
Quando Percy poi le puntò un dito contro, la figlia di Efesto capì che era arrivato il suo turno di parlare, e con un po’ di fatica ripeté ancora una volta i dettagli del suo sogno, sforzandosi di ridire le esatte parole della voce.
Si ostinava, però, a tenere per sé alcuni particolari; come ad esempio il fatto che quella presenza l’avesse definita sua, invogliandola a sacrificarsi per il bene del suo ragazzo. Oppure che le avesse dato la possibilità di scegliere le loro sorti.
Quando ebbe pronunciato flebilmente le frasi conclusive della sua storia, Chirone si sfregò il volto con una mano, mentre appariva sempre più indeciso sul da farsi.
«Non abbiamo idea di dove questa voce si possa trovare» disse poi, e nonostante non fosse una domanda, i ragazzi scossero il capo.
«No» gli confermò Emma.
«E non sappiamo neanche di chi sia, questa voce.»
«No.»
Il centauro sospirò. «Quindi in pratica siamo ad un vicolo cieco.»
«Non è detto» lo contraddisse Percy. «Possiamo sempre trovare un modo per rintracciare quella voce, no?»
«Non credo sia così facile, ragazzo» mormorò quindi quello, malinconico. «Potrebbe volerci troppo tempo, e noi abbiamo solo due settimane.»
«Sì, ma la voce ha anche detto a Skyler di trovare un modo per scoprire dove si nasconde, giusto?» ribatté John, con tono deciso. «Questo vuol dire che un modo deve esserci.»
«E se fosse una trappola?» replicò quindi Emma, quasi con sdegno. «Chiunque esso sia, perché vorrebbe che lo troviamo, se il suo obbiettivo è quello di restare nell’anonimato?»
Skyler ebbe un tuffo al cuore, ma non rassicurò l’amica dicendole ciò che sapeva. «È l’unica pista che abbiamo» borbottò invece, con scarsa convinzione.
«Purtroppo, però, non c’è modo di intuire la sua posizione» ricordò nuovamente Chirone, facendo cadere un improvviso velo di tristezza sui semidei.
«In realtà» esordì Annabeth, che fino a quel momento era rimasta in silenzio, in disparte. «Un modo c’è.» Il suo tono era sicuro, come se fosse fiera della sua certezza.
«Davvero?» esultò Emma, dando così voce ai pensieri di tutti. «Quale?»
La figlia di Atena esitò un secondo, prima di rispondere, mentre tutta la sua attenzione si focalizzava sulla figura del centauro, che la squadrava dubbioso. «La pietra dei sogni.»
«Oh, no» fu la reazione istintiva di Chirone, che scosse la testa, quasi fosse vittima di uno scherzo.
«La pietra dei sogni?» ripeté Percy, confuso.
«Non se ne parla» li redarguì il centauro.
«Che cos’è la pietra dei sogni?» gli chiese quindi John, con curiosità.
«Un menzogna.» Quella semplice parola tuonata dall’uomo rimbombò contro le pareti della stanza, sferzando l’aria. «Una leggenda.»
«Sa che potrebbe essere vera» obiettò Annabeth, e lui scrollò il capo.
«Tutti sono convinti si tratti di una bugia.»
La figlia di Atena sbuffò. «E da quando lei crede a tutto ciò che gli altri raccontano?» sbottò. Poi il suo tono si addolcì, diventando quasi implorante. «È la nostra unica possibilità.»
«Qualcuno può spiegarci di che cosa state parlando?» domandò allora Skyler, che nel frattempo si era alzata in piedi, raggiungendo tutti gli altri attorno alla scrivania di rovere che padroneggiava quella sala.
L’addestratore del Campo soppesò i semidei davanti a sé, quasi stesse valutando se fossero abbastanza forti da reggere il peso di un segreto maturato millenni prima. Poi raddrizzò la schiena di scatto.
Raggiunse l’immensa libreria con un piccolo trotto e sfilò un libro sottile da uno degli scaffali. La copertina era rilegata in pelle bronzo e avorio, e quando il centauro lo posò sul tavolo, tra le persiane penetrò il silenzio, come se tutti fossero troppo spaventati da ciò che stavano per scoprire da non permettersi neanche di fiatare.
«Nell’Antichità, i greci erano convinti che i sogni fossero figli della Notte» cominciò quindi Chirone, aprendo la prima pagina e mostrando loro l’immagine di un dio sconosciuto.
«Figlio di Nyx e Ipno, Oniro racchiudeva in sé le caratteristiche di tutte le illusioni generate dalla mente umana. Aveva con sé un corno dal quale versava tutti i sogni, che variavano da persona a persona. Molti gli erano devoti. Altri addirittura lo veneravano quasi fosse una divinità principale. Ma ben presto, per lui il gestire tutte le menti diventò impossibile» continuò l’addestratore, sfogliando il libro.
Una nuova immagine mostrava lo stesso dio, che però chino su sé stesso portava sul viso i tratti della sofferenza.
«Come poteva creare l’incubo di un uomo e nel frattempo far sognare cose belle ad un altro? Per questo sua madre, la Notte, pose fine alle sue indecisioni, disgregandolo in tre divinità.»
Un ulteriore foto, stavolta raffigurante le figure di tre dei a loro ben più noti.
«Morfeo, dio dei sogni popolati da esseri viventi» disse il centauro, indicando l’uomo corpulento e avvolto da una nebbia perlacea, i quali figli vivevano lì al Campo, insieme a loro.
«Fobetore, dio degli incubi.» E stavolta fu la volta di un’effigie con due possenti ali nere del color della pece, che aveva ogni parte del corpo completamente velata dall’oscurità, eccetto per gli occhi, che brillavano di un arancio intenso.
«E Fantaso, dea degli oggetti inanimati che appaiono in sogno e della menzogna.» L’ultimo fu il sinuoso disegno di una donna, anch’essa dotata di ali, che però erano rosee, cangianti. Attorno a lei, volteggiavano sinuose tutte le cose più belle che in questo momento possono venirvi in mente. Ma era un sorriso scaltro che tradiva quella sua aria angelica, quasi fosse appena stata l’artefice di un misfatto e ne andasse fiera.
«Insieme, onoravano i rispettivi compiti, senza intralciarsi l’un l’altro. Finché tutti e tre non vollero di più. Nessuno li venerava neanche la metà di Oniro, e loro desideravano più di ogni altra cosa un posto sull’Olimpo.»
Chirone voltò pagina, mostrando i tre dei riuniti attorno ad un kazàni, che ribolliva di una luce verdastra, opaca.
«Per questo, unirono i rispettivi poteri per forgiare l’arma più potente che sia mai stata creata.» Il centauro titubò, quasi temesse anche solo di pronunciare quel nome. «La pietra dei sogni.»
Tutti sembrarono trattenere il respiro nell’udirla di nuovo.
«E cioè?» domandò Emma, con un fil di voce.
«Un oggetto in grado di esaudire qualunque desiderio» spiegò l’uomo. «Dio, mortale, o chicchessia. Li avrebbe resi speciali, capite? Ma nel momento in cui toccò decidere chi dovesse esprimere la volontà di tutti, nessuno si fidò dell’altro. Fobetore e Fantaso presero a lottare furibondi. Ma nel farlo, le menti di tutti gli uomini furono pervase da incoerenza e oscure fantasie. Perciò, Morfeo decise di porre fine a quell’inutile guerra.»
Chirone sfogliò di nuovo il libro, mostrando loro l’immagine del dio in questione, nella stessa posizione di un battitore di baseball in fase di rilascio della palla. «Rubò la pietra, e la scagliò su un’isola il più lontano possibile dall’Olimpo, nell’Oceano Pacifico, facendosi aiutare da Ecate affinché con la sua magia difendesse quel luogo, rendendolo inaccessibile a chiunque voglia entrarci e impervio per chiunque voglia uscirne. Dopo di ché» continuò. «Fece cancellare la memoria ai suoi fratelli, per far sì che non ricordassero nulla della loro creazione. L’isola fu dimenticata per sempre, abbandonata nel corso dei secoli. E di lei non si seppe più nulla.»
«Ma c’è, giusto?» lo interruppe a quel punto Skyler, azzardandosi a porre una domanda. «Da qualche parte nell’Oceano Pacifico.»
Il centauro sospirò, affranto. «Nessuno lo sa.»
«Non possiamo chiedere a Morfeo di condurci lì?» propose allora Percy.
«Negherebbe» gli fece notare Annabeth. «Per quanto ne sappiamo, questa storia è solo una favola.»
«Una favola un po’ cupa» commentò Emma.
«Sì, ma c’è qualche possibilità che sia vera» ipotizzò John, speranzoso. «Lei che ne pensa, Chirone?»
«Penso che sia una pazzia. Nessuno ha mai avuto il coraggio di andare a cercarla. E se l’ha fatto, non è tornato vivo per poterlo raccontare.»
«Sì, ma è la nostra unica possibilità!» esclamò quindi il figlio di Poseidone, e dal suo tono si capiva che il suo cervello stava già valutando l'idea di un’impresa.
Chirone, quasi l’avesse letto nel pensiero, scosse il capo. «Percy, è troppo pericoloso.»
«Me ne frego del pericolo!» sbraitò il ragazzo, battendo un pugno sul tavolo con così tanta forza che tutti i presenti, sorpresi, sussultarono. «Ha sentito il sogno di Skyler, no? Chiunque sia il proprietario di quella voce ha rapito Michael, e gli ha dato solo due settimane di vita! Non me ne starò qui con le mani in mano aspettando che mio fratello sia salvato da una benedizione divina» si adirò poi, furioso. «Quella pietra è l’unica opportunità che abbiamo per impedire che muoia!»
«Non posso confermare una spedizione così stupida!» urlò allora il centauro, con il suo tipico tono autoritario. «E per di più per una meta inesistente!»
«Preferisce che io parta di nascosto, Chirone?» sibilò Percy, a denti stretti. «Perché sa benissimo che sono in grado di farlo.»
I due si sfidarono per un secondo con lo sguardo, la tensione che turbinava intorno a loro quasi fosse elettricità statica. Poi, l’espressione dell’uomo si addolcì, e sul suo volto comparve una smorfia stanca, afflitta. «Purtroppo non c’è niente che io possa fare, ragazzo» mormorò, impotente. «Niente.»
«Renda ufficiale l’impresa» gli suggerì a quel punto Skyler, con tono deciso. «Questo almeno può farlo, giusto?»
«E lanciarvi tra le braccia di una sorte dolorosa?»
«Siamo mezzosangue, Chirone!» gli ricordò allora lei, esasperata. «Per quanto possa sforzarsi, non potrà mai garantirci la certezza di un futuro roseo. È la nostra vita, e deve darci la possibilità da fare da soli le nostre scelte.» Lo guardò negli occhi, con una punta di malinconia nella voce. «Ci permetta di salvare Michael» lo supplicò.
Per un attimo, nessuno fiatò. Tutti erano sorpresi dalle sue parole, persino la Skyler stessa, che però non mostrò alcun tentennamento, mentre continuava a tenere puntate le proprie iridi in quelle del centauro.
Dopo un tempo che parve infinito, Chirone rilassò i muscoli tenuti tesi, e con un grugnito rassegnato chinò il capo, in un cenno d’assenso. «D’accordo» borbottò, prima che potesse pentirsi della propria decisione. «Che impresa sia.»
In altre circostanze, i ragazzi avrebbero esultato di fronte ad una concessione da parte del centauro. Ma in quel momento, si limitarono a tirare un sospiro di sollievo, felici dell’idea di poter avere una possibilità.
«Parto io» si offrì Percy, senza mostrare la benché minima esitazione mentre faceva un passo avanti.
«E anch’io» annuì Skyler.
«Io vengo con voi» disse Annabeth.
«E anche noi» aggiunse Emma, parlando pure per John.
«Ehi, no, fermatevi» li interruppe Chirone, con un rapido gesto della mano. «Questa è già una missione suicida, e conoscete tutti le regole del Campo. Saranno solo tre, coloro che partiranno.»
Un gelido silenzio calò nella stanza, e prima che potessero rendersene conto, Percy e Skyler si guardarono negli occhi, comprendendo all’istante l’uno i pensieri dell’altra.
«È mio fratello» affermò il figlio di Poseidone.
«È il mio ragazzo» replicò la ragazza.
«Non ti lascerò partire senza di me» lo avvertì Annabeth, con fermezza.
«Non se ne parla!» obiettò John. «Michael è il nostro migliore amico.»
Erano tutti consapevoli che di quel passo non sarebbero arrivati mai ad un accordo.
Skyler rivolse tutta la propria attenzione al moro, implorandolo con lo sguardo. «Percy, per favore» lo pregò. «Fidati di noi. Teniamo a Michael più che alla nostra stessa vita.»
«Ma non siete abbastanza pronti per una missione del genere» le fece notare il ragazzo.
La figlia di Efesto prese un gran respiro, con aria affranta. «No, è vero» ammise, con amarezza. «Ma posso giurarti che faremo qualsiasi cosa, pur di farlo tornare indietro.»
Percy la studiò, con un’espressione indecifrabile.
Sembrava sincera, ma soprattutto pronta a tutto, pur di salvare la vita di Michael. Per una frazione di secondo, il figlio di Poseidone rivide sé stesso, in quello sguardo determinato, e prendendole dolcemente una mano gliela strinse forte, quasi volesse infonderle anche il proprio, di coraggio.
«Lo so» sussurrò, per poi sorridere intenerito e riempire d’aria i polmoni. Tutti lo osservarono, in attesa. «Fate attenzione.»
Skyler ci mise qualche attimo per comprendere il pieno significato di quelle parole, e non appena capì che il ragazzo stava cedendo a lei e suoi amici le redini dell’impresa le sue labbra si stirarono in un sorriso colmo di incredulità e gratitudine.
«Bene!» esclamò Chirone, battendo le mani per attirare l’attenzione generale. «Vediamo di organizzarvi il viaggio, allora.»
Automaticamente, i semidei si riunirono con lui attorno al tavolo, e mentre la figlia di Atena afferrava un mappamondo e lo posizionava al centro del loro cerchio, il centauro vagò con lo sguardo sull’Oceano Pacifico.
«Qui» annunciò poi, indicando una vasta area proprio nel mezzo. «Secondo la leggenda, dovrebbe essere situata da queste parti.»
«Come la troviamo?» domandò Skyler.
«Sarà lei a trovare voi. Se siete fortunati, ve la ritroverete davanti quando meno ve l’aspettate.»
«Sì, ma come ci arriviamo?» si informò Emma.
«Via mare?» propose Percy.
«Troppo rischioso» lo bocciò Chirone. «E ci metterebbero troppo tempo.»
«Allora con i pegasi!» azzardò Annabeth. «Percy potrebbe selezionare quelli migliori, e viaggiando via aerea arriverebbero prima.»
«I pegasi, certo» borbottò allora John, arricciando il naso. Nonostante avesse già superato l’estate scorsa la propria paura, e nonostante avesse capito che non erano tanto quegli animali a spaventarlo, quanto più i ricordi che gli facevano riaffiorare, il ragazzo non nutriva ancora molta simpatia nei confronti dei cavalli.
Non li temeva più, ovviamente. Ma se ne vedeva uno, preferiva sempre tenersi a debita distanza.
«Quando partiremo?» chiese ancora la figlia di Ermes.
«Domani, all’alba» fu la risposta pronta di Chirone. 
«Avrete bisogno di una profezia» gli fece notare poi Percy, guadagnando l’assenso di tutti.
«Andrò io dall’Oracolo, se volete» si profferì la figlia di Efesto, con la fronte corrucciata.
«Andremo insieme» la corresse John, e la ragazza gliene fu grata. Dopo la strana esperienza dell’anno precedente, aveva un po’ di timore a tornare in quella casa da sola.
«Perfetto, allora sbrigatevi» li incitò il centauro. «Mentre voi andrete lì, Annabeth e Percy cureranno con me tutti i dettagli. Non possiamo perdere tempo, ogni secondo potrebbe essere prezioso.»
E con quelle parole, l’uomo li congedò, continuando poi a discutere con i due semidei rimasti su quale fosse la direzione più consigliabile verso la quale dirigersi.
Non appena furono fuori dalla Casa Grande, un violento raggio di sole investì il viso di Skyler, che fu costretta a coprirsi gli occhi con una mano, per non rischiare di essere accecata.
I piedi di John ed Emma si mossero repentini su per la collina, ma invece di seguirli, la ragazza rimase ferma sul posto, mentre avvertiva tutte le emozioni che fino a quel momento aveva represso travolgerla come una soffocante valanga.
Se Michael era stato rapito, era soltanto per colpa sua.
La voce gliel’aveva detto, era lei che voleva. Ed il solo pensiero che l’unica cosa che avrebbe potuto fare per salvare il suo ragazzo sarebbe stata diventare proprietà di qualcun altro le stringeva il cuore in una morsa d’acciaio.
Non appena i due amici si resero conto che la mora non li stava seguendo, si voltarono a guardarla, interdetti.
«Skyler?» la chiamò John, corrucciando le sopracciglia e avvicinandosi a lei quel tanto che bastava per poterle accarezzare un braccio. «Che succede?»
«È colpa mia» singhiozzò quindi quella, mentre sentiva brucianti lacrime lottare contro la propria volontà, minacciando di uscire. «Se Michael muore, sarà soltanto colpa mia.»
«No, ehi, sta calma» la tranquillizzò il figlio di Apollo, attirandola a sé e stringendosela al petto con fare rassicurante. «Non è colpa di nessuno.»
La ragazza strinse la sua maglietta nei pugni, nascondendovici il viso. «Gli ho detto che avrei preferito non averlo mai conosciuto» pianse contro la stoffa arancione. «Gli ho fatto credere che fosse tutta colpa sua, mentre non era vero. E se lui muore, io… io…»
«Ssh» la zittì il biondo, accarezzandole i capelli poco prima di posarvici un bacio. «Lo salveremo, okay? Lo giuro sullo Stige.»
«Lo giuro anch’io» assentì Emma, avvolgendo la vita della figlia di Efesto da dietro e posando la guancia contro la sua spalla. «A qualunque costo.»
A qualunque costo, si ripeté Skyler, mentre stretta tra le braccia degli amici si rendeva conto solo in quel momento che loro non l’avrebbero lasciata mai sola.
Perché loro quattro, tutti insieme, non erano una semplice squadra.
Erano una famiglia.
Ed ora sarebbero stati costretti a lottare, se rivolevano uno dei componenti indietro.
 
Ω Ω Ω
 
La casa dell’Oracolo di Delfi era molto più lontana di quanto Skyler ricordasse.
Situata in cima alla collina, poco distante dal falò, appariva piccola e decrepita, mentre la porta di mogano segnata dagli anni sembrava come sempre intrisa di polvere.
La figlia di Efesto riuscì a decifrare distrattamente la frase incisavi sopra, che citavano il consiglio: “Segui te stesso”.
Ironico, se si pensava a tutto ciò che Skyler aveva emotivamente sopportato, prima di arrivare fin lì.
Seguire sé stessi diventava un po’ difficile se si era un mezzosangue e non ci si era ancora abituati a tutte le stranezze che avrebbero tranquillamente traumatizzato tutta la tua famiglia per metà messicana.
Con un po’ di soggezione ma anche tanta determinazione, la ragazza bussò.
Per qualche secondo, a regnare fu il silenzio. Poi la porta, con un cigolio, si aprì, e tre semidei si ritrovarono ad osservare l’Oracolo più improbabile che la storia avesse mai avuto: Rachel Elizabeth Dare.
Aveva i folti capelli rossi tirati indietro da una bandana colorata, le lentiggini ad incorniciarle i magnetici occhi verdi. Indossava una maglia bianca con un logo della pace sul davanti, macchiata di vernice gialla in più punti, così come i suoi jeans scoloriti e le sue scarpe da ginnastica.
Non appena li vide, la ragazza fece roteare gli occhi, per poi invitarli ad entrare.
Non è cambiata per niente, si disse Skyler, notando con sorpresa che ora superava l’Oracolo di ben tre centimetri.
«Avete bisogno di una profezia?» domandò la rossa, con scarso entusiasmo, tornando subito dopo a sedersi davanti al quadro che aveva lasciato in sospeso. Raffigurava la suntuosa camera da letto di una dorata reggia, ed osservandolo con più attenzione, John riconobbe sullo sfondo una delle lire di suo padre Apollo.
«In effetti, sì» ammise la figlia di Efesto, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Se non ti dispiace…»
«Te l’ho già detto, Skyler: io non sono Houdini» si indignò Rachel, tirando su con il naso in un gesto scocciato. «Chiedilo a John. Lui ne sa qualcosa sul funzionamento dei miei poteri.»
Il ragazzo, chiamato in causa, fece una smorfia, prima di inclinare il capo all’indietro ed osservare l’arredamento. «Hai sistemato bene questo posto» si complimentò, con ostentato sarcasmo, mentre girovagando per la stanza passava un palmo sui mobili, per controllare se ci fosse della polvere. «Davvero niente male.»
«Vi siete già visti?» chiese Emma, spostando il peso da un piede all’altro, incuriosita.
«Qualche volta» fece spallucce John, fingendo noncuranza. «Lei è una servitrice di mio padre, quindi spesso ci capita di incontrarci.»
«Io non servo tuo padre» ci tenne a precisare Rachel, stizzita. «Io accolgo semplicemente i suoi poteri.»
«Vedila un po’ come ti pare» ribatté il ragazzo. «Se questo ti fa sentire speciale…»
«Per lui io sono speciale.»
Il figlio di Apollo ghignò, con amarezza. «Che sarebbe un po’ come dire che non lo è nessuno.»
«Basta così!» sbottò a quel punto la rossa, balzando in piedi con uno scatto così repentino che lo sgabello sul quale era seduta cadde a terra.
Quando Skyler lanciò un’occhiata ad Emma, confusa, la bionda si limitò ad uno sconsolato cenno del capo.
Aveva sentito parlare dell’avversione dei figli del dio del sole nel confronti dell’Oracolo, ma non ci aveva mai davvero creduto fino a quel momento. A quanto pare, loro non trovavano giusto che il padre privasse una ragazza – e per di più mortale- della sua adolescenza solo per renderla custode di un potere troppo grande per lei, e ritenevano lei una sconsiderata, dato che accettava una simile offerta.
Dal suo canto, Rachel vedeva quei commenti come una presa di posizione nei suoi confronti, e non li sopportava, definendoli ottusi e menefreghisti perché si permettevano di giudicare senza sapere come stavano realmente le cose.
«Sapete che c’è? Mi sono stancata!» si stava lamentando animatamente l’Oracolo, arrampicandosi su una scala per afferrare qualche libro dall’imponente scaffale. «Delle vostre teorie, delle vostre chiacchiere, dei vostri borbottii, dei vostri continui giudizi. Non avete idea del perché io abbia deciso di accogliere quei poteri da vostro padre. E se soltanto provaste ad aprire quelle vostre stupide menti per capire che…»
La sua frase rimase sospesa nell’aria, e le parole le morirono in gola nel momento esatto in cui la ragazza cominciò a brillare. Di una luce verde, intensa, che per poco non accecò i tre semidei.
I suoi occhi si illuminarono come due smeraldi, e quando parlò, la sua voce sembrò essersi triplicata, quasi ci fossero altre tre persone, intorno a lei, a farle l’eco.
I ragazzi trattennero il fiato.
 
Sull’isola incantata la sorte sfidare dovrete,
Se il vostro amico scomparso ritrovare vorrete.
Il Drago di pietra guiderà solo colui dal cuore infuocato,
E aiuto arriverà dall'uomo che dal tempo è stato inglobato.
Tra le ombre della foresta un semidio la vita perderà,
E solo uno alla morte nel baratro scampare potrà.
La Pietra porterà alla Grande Tomba Circolare,
E lì il fuoco, con coraggio, il suo destino dovrà affrontare.
 
Pronunciata l’ultima parola, Rachel svenne, a avrebbe rischiato di cadere brutalmente a terra se John non si fosse precipitato ai piedi della scala, prendendola tra le braccia poco prima che potesse farsi male.
Il ragazzo appoggiò le proprie labbra alla sua fronte, rendendosi conto all’improvviso che scottava quasi fosse febbricitante.
«Sto bene» mormorò la rossa, con un fil di voce.
Non appena riaprì gli occhi, però, le sue guance presero lo stesso colorito dei suoi capelli.
John poteva anche essere un insolente figlio di Apollo, e lei poteva anche aver fatto un voto di castità.
Ma lui restava comunque un bellissimo ragazzo, e lei un’adolescente in piena (ed eterna) crisi ormonale.
Avvampò, pervasa dall’imbarazzo nel rendersi conto di trovarsi ancora tra le sue braccia. Ma ogni suo disagio sparì non appena notò l’espressione dei tre ragazzi, più cupa di quanto avrebbe potuto immaginare.
«È tanto brutta?» si informò, spostando velocemente le iridi verdi dall’uno all’altra.
«No» sussurrò Skyler, mentre scrollava il capo, incredula. «È anche peggio.»
 
Ω Ω Ω
 
Decifrare la profezia era stato molto semplice, ed era questa la cosa che li spaventava di più.
Non tanto per l’idea che alla fine la pietra li avrebbe condotti ad una Grande Tomba Circolare (cosa alquanto inquietante, a pensarci bene), quanto più per la consapevolezza che erano state predette ben due morti nel corso di quell’impresa.
Skyler sapeva perfettamente di essere lei il fuoco che Rachel aveva citato, e questo non faceva che accrescere il suo timore.
«E se partissi solo io?» aveva proposto ad un certo punto, mentre seduta in disparte su uno dei divanetti della Casa Grande ripercorreva a mente le parole pronunciate dall’Oracolo.
John ed Emma si era voltati di scatto verso di lei, sul viso un’espressione confusa.
«Che cosa?» aveva poi esclamato il ragazzo, indignato.
«Non se ne parla» aveva replicato la figlia di Ermes.
«Oh, andiamo!» Skyler si era alzata in piedi, buttando le braccia al cielo con aria esasperata. «Sappiamo benissimo tutti e tre a chi si riferisce l’ultimo verso della profezia! Sopravvivrò fino a questa Grande Tomba, giusto? Ma nel frattempo ci saranno altre due morti. Siamo solo in tre, chi credete che saranno i fortunati?»
I due amici si erano scambiati uno sguardo, non sapendo esattamente come contrastare quell’affermazione. Con il loro silenzio, ammisero di aver fatto anche loro lo stesso ragionamento. Due di loro sarebbero morti, durante quell’impresa. E Skyler non era di certo una di questi.
«Andrò da sola» aveva ripetuto la figlia di Efesto, stringendo i pungi con tono deciso.
«Scordatelo! Non te lo permetterò!» Il figlio di Apollo aveva digrignato i denti, stizzito.
«Se vi succedesse qualcosa…»
«Non è detto che quei versi si riferiscano a noi!»
«Se vi succedesse qualcosa» reiterò Skyler, alzando il tono per poter sovrastare la voce dell’amico. «Non me lo perdonerei mai.»
«Non sta a te dirci cosa dobbiamo fare» si era intromessa a quel punto Emma, attirando su di sé l’attenzione generale. «L’hai detto tu, no? È la nostra vita, e saremo noi a decidere. Noi vogliamo venire con te, e non c’è niente che tu possa fare per impedircelo.»
«Emma ha ragione» aveva annuito John, guardandola negli occhi. «Non ti lasceremo affrontare tutto questo da sola.»
La figlia di Efesto aveva preso fiato per replicare, ma le sue corde vocali non avevano emesso alcun suono. Le era bastato incrociare gli sguardi sicuri dei due amici, per capire che nulla avrebbe potuto fargli cambiare idea.
Loro erano con lei. E lo sarebbero stati fino alla fine, nel bene e nel male.
In meno di mezzo pomeriggio, la notizia dell’impresa aveva già fatto il giro del Campo. Era diventata soggetto di discussione generale, e tutti avevano preso a borbottare tra loro, facendo congetture e scommettendo su come sarebbe andata a finire.
Una missione non era certo una novità, lì al Campo, eppure John non ricordava tutto quel trambusto, quando erano gli altri quelli in procinto di partire.
Ma forse l’essersi ritrovato da un giorno all’altro dalla parte opposta della rete l’aveva scosso più di quanto voleva dare a vedere. Non era mai stato così nervoso, prima di allora. Ma soprattutto, non si era mai spaventato tanto di fronte ad una profezia.
Se tutte le supposizioni di Skyler erano vere, lui ed Emma avevano davvero i giorni contati…
Tutti i suoi pensieri cessarono di esistere nel momento in cui le sue iridi si incastrarono a quelle color nocciola di Melanie. La ragazza si trovava a pochi metri di distanza da lui, ma nonostante questo non gli corse incontro per buttargli il braccio attorno al collo.
Al contrario, fuggì nella direzione opposta, quasi il solo vederlo le avesse provocato un dolore acuto all’altezza del petto.
John le corse dietro, interdetto, e quando la raggiunse notò che si era fermata nei pressi di uno degli alberi del Campo, mentre si stringeva nelle spalle, con aria sofferta.
Non appena udì i passi del ragazzo dietro di lei, la figlia di Demetra chiuse le palpebre, facendo appello a tutto il proprio autocontrollo per impedirsi di lasciarsi andare.
«Quand’è che parti?» gli domandò, con voce tremante, e solo a quel punto il figlio di Apollo capì.
Con un sospiro affranto, si passò una mano tra i capelli dorati. «Domani mattina» rispose, e sentire la ragazza tirare su col naso fu più doloroso di quanto si sarebbe immaginato.
«È una missione pericolosa, vero?»
John si stropicciò gli occhi, non avendo né la forza né la voglia di rispondere. Quello avrebbe potuto essere un addio, e lui si odiava anche solo per aver pensato che sarebbe stata una cosa semplice.
«Melanie, Michael è il mio migliore amico» le spiegò, con una punta di amarezza nella voce. Si avvicinò a lei tanto da poter percepire il profumo dei suoi capelli, ma la figlia di Demetra non si voltò a guardarlo, troppo impegnata a lottare contro le lacrime che silenziose le bagnavano il volto. «Lui c’è sempre stato per me, ed ora più che mai ha bisogno del mio aiuto. Non posso abbandonarlo, capisci?»
La ragazza tentò di abbozzare un sorriso, ma le sue labbra fremettero, incapaci di compiere quel gesto. «È un modo carino per dirmi che stai per rischiare la vita?»
«È un modo carino per dirti che non ho scelta» la corresse lui. «Ma tu non devi preoccuparti per me.»
«Promettimi che starai attento» lo supplicò allora lei, lasciandosi sfuggire un singulto. «Giurami che tornerai a casa sano e salvo.»
John aprì la bocca per parlare, ma purtroppo non fu in grado di emettere alcun suono. Fu allora che lei si girò, squadrandolo con due occhi lucidi e arrossati dal pianto. «Perché non giuri?» gli chiese, nonostante conoscesse già la risposta.
«Melanie, io…» cercò quindi di dire lui, ma la sua frase rimase sospesa nell’aria.
Un altro singhiozzo fuggì dalle labbra della ragazza, che chinò il capo e strinse le palpebre, mentre tristi lacrime continuavano a rigarle copiose le guance.
Il ragazzo non poté sopportare quella vista, e le prese deciso il volto tra le mani, asciugandole gli zigomi con i pollici. «Ehi» sussurrò, costringendola dolcemente a guardarlo. «Okay, senti» cominciò. «Io… io non posso assicurarti che tornerò a casa sano e salvo» ammise. «Perché non sono io a decidere che cosa succederà. Ma lotterò con tutte le mie forze per tornare da te? Questo posso giurartelo. Sei l’unica ragione per cui varrebbe la pena restare, in questo momento» aggiunse, posando la fronte contro la sua. «E mi lacera il cuore l’idea di lasciarti. Ma Michael ha bisogno di me, ed io non posso permettere che muoia.»
La ragazza annuì, comprensiva. Ormai conosceva fin troppo bene la lealtà e la fedeltà che dominavano la personalità del figlio di Apollo, ed era consapevole anche del fatto che erano proprio queste sue qualità che l’avevano ammaliata fin dal primo istante.
E si rese conto di non essere più in grado di immaginare sé stessa senza quel ragazzo accanto, perché lui la completava, lui rappresentava la parte più importante di lei.
«Ti amo, John» pensò, e prima che potesse accorgersene quelle parole si formarono sulla sua bocca, più sincere e pure che mai.
Era la prima volta che diceva un ‘ti amo’ ad una persona, ed era orgogliosa che il primo fosse stato per il ragazzo che mai come nessuno aveva fatto battere il suo cuore.
A dispetto delle circostanze, il biondo sorrise. E spostandole teneramente una ciocca color grano dietro l’orecchio, incastrò le proprie iridi smeraldine a quelle caramellate di lei, deciso a non lasciarsi sfuggire neanche un particolare di quei due diamanti che erano i suoi occhi.
«Ti amo anch’io» mormorò con voce roca. E poi, con accortezza, la baciò.
Fu un bacio onesto e sentito, dapprima più dolce e impacciato, e subito dopo più passionale.
Le labbra della ragazza si schiusero lentamente, permettendo alle loro lingue di incontrarsi e di assaporarsi con sicurezza, mentre si spingevano con calma.
John percepì il sapore di lacrime della bocca di lei, ma anche di amore e perfezione.
E ragionò che se quello sarebbe stato davvero il loro ultimo bacio, allora non era sicuro di voler rinunciare così presto a quella sensazione.
Non gli importava cosa diceva la profezia. Non gli interessava se l’Oracolo, o gli dei, o il fato remavano contro di lui.
Lui avrebbe usufruito di ogni sua energia, pur di poter tornare da lei.
Perché sarebbe stato disposto a tutto, pur di avere la possibilità di invecchiare al suo fianco.
 
Ω Ω Ω
 
Skyler si lasciò cadere sul letto con un tonfo, nascondendo il viso nell’incavo del gomito quasi bastasse quel gesto a far scomparire l’universo intorno a sé.
Udire quelle parole mentre venivano soffiate via dalle labbra di Rachel aveva solo confermato tutti i suoi dubbi e le sue incertezze.
Qualunque cosa stesse a significare, alla fine sarebbe stata costretta ad affrontare il suo destino. E chissà perché sospettava che fosse tutto riconducibile alla sconquassante voce del suo sogno.
Quando avevano discusso con Chirone della loro imminente impresa, lui era stato fin troppo chiaro.
«Brancolerete nel buio» li aveva avvertiti. «Non so con esattezza quali siano gli effetti di quell’isola, ma so per certo che non saremo in grado di comunicare. Non abbiamo una mappa, né un’indicazione, né tanto meno delle supposizioni. Sarà come giocare a mosca cieca senza conoscere nulla dell’avversario.»
«Un gioco da ragazzi, insomma» aveva commentato Emma, ma la sua voce era suonata meno sarcastica di quanto in realtà aveva sperato.
«Quando troverete la pietra» li aveva poi ammonito il centauro. «State molto attenti a ciò che desiderate. Dovrete essere precisi, perché avrete un solo ed unico desiderio a vostra disposizione. È questa la regola: un sogno a testa, non di più. Se lo formerete in maniera errata, quindi, potrebbero esserci delle conseguenze molto gravi.»
Skyler, a quelle parole, era rabbrividita, ma aveva sperato che gli altri non se ne rendessero conto.
Un solo desiderio significava un’unica possibilità di salvare Michael. Se avesse pronunciato le parole sbagliate, avrebbe rischiato di compromettere tutto l’esito della missione.
Non poteva permettersi errori. Ma più di tutto, non poteva permettere che a John ed Emma accadesse qualcosa. La profezia poteva ancora essere elusa, se lei riusciva a cambiare le carte in tavola.
Non voleva che i suoi amici rischiassero la vita su quell’isola. E soprattutto, non voleva rischiare di perdere anche loro, in quell’enorme e fetido casino.
Qualcuno si sgranchì la voce accanto a lei, e Skyler spostò il braccio dal proprio volto quel tanto che bastava per poter scorgere Leo in piedi vicino al suo letto.
Il fratello aveva il suo solito sorriso piantagrane ad incurvargli le labbra, ma quello non bastò a non tradire la preoccupazione che si leggeva nei suoi occhi.
«Microft mi ha detto che avevi bisogno di un codice rosso» disse, regalandole un complice e divertito occhiolino.
La ragazza sospirò, tirandosi su a sedere e poggiando la schiena contro la testiera di legno. Batté dei colpetti sul materasso, invitandolo a sedersi accanto a lei, e il figlio di Efesto ubbidì, poco prima di avvolgerle le spalle con un braccio.
«Allora» cantilenò, inclinando leggermente la testa di lato. «Come posso aiutarti?»
La mora scrollò il capo, stanca. «Non c’è niente che tu possa fare, purtroppo.»
«Quando partirete per la missione?»
«Domani, all’alba.»
Il ragazzo esitò. «E sei spaventata?»
«No» rispose Skyler, mordendosi nervosamente il labbro inferiore. «Io sono terrorizzata.»
Il fratello sbuffò una risata ironica. «Beh, questo è normale. Chi non lo sarebbe, sapendo di dover esplorare un’isola come quella?»
«Leo, così non sei di aiuto.»
«Quello che sto cercando di dire» continuò lui, imperterrito. «È sono convinto che ce la farete. Ho fiducia in te, Skyler. E so che se lo vuoi davvero, sei capace di fare qualsiasi cosa.»
La ragazza abbozzò un sorriso, grata. Il figlio di Efesto le lasciò un fraterno bacio sulla tempia, e in quel momento il cardine cigolò, facendo spalancare la porta.
Ne entrò un Microft leggermente scosso, che si sfregò il volto con una mano, prima di accorgersi di loro e raggiungerli.
«Ehi, Micky» lo salutò Skyler, prima di notare l’espressione sul suo viso. «Dove ti eri cacciato?»
«Ero con Rose» rispose quello, grattandosi la nuca imbarazzato. Poi rivolse la propria attenzione alla sorella. «È in ansia per Michael. E se devo essere sincero, anche io sono preoccupato.»
«Non devi temere per lui» lo tranquillizzò quindi lei, con tono deciso. «Lo riporteremo indietro, costi quel che costi.»
«Veramente» la interruppe allora il ragazzino, sedendosi sul bordo del letto e cercando il suo sguardo. «Io sono preoccupato per te.»
A quelle parole la ragazza abbassò gli occhi, improvvisamente a disagio. Il fratello le accarezzò dolcemente un ginocchio, con fare apprensivo. «Come stai?»
La figlia di Efesto corrucciò le sopracciglia, per poi deglutire. «Bene» mentì. «Mi sono offerta volontaria per quest’impresa. Voglio salvare Michael.»
Microft lanciò un’occhiata scettica a Leo, che gli fece un cenno del capo, ordinandogli silenziosamente di mettersi accanto alla sorella.
Il ragazzino obbedì, e assumendo la stessa posizione dei due fratelli circondò con le braccia la vita di Skyler, posando il capo sul suo petto.
La mora abbozzò un sorriso, intenerita, e gli circondò a sua volta le spalle con un braccio, accarezzandogli la testa per poi lasciargli un bacio tra i capelli.
«Che cosa farei senza di voi?» mormorò, commossa, al ché i due fratelli ridacchiarono.
«Vieni qui» le intimò Leo, attirandola a sé e permettendole di nascondere il viso nell’incavo del suo collo.
«Ricorda che io credo in te, sorellina» le sussurrò poi, per far sì che solo lei fosse in grado di sentirlo. «Va lì fuori e dimostra al mondo cosa Skyler Garcia è in grado di fare.»

Angolo Scrittrice. 
-Saremo di nuovo in onda tra poco, preparati!-
*fa i versi alla Sharpay Evans*
*In onda tra dieci, nove, otto, sette, sei...
Cinque, quattro, tre, due, uno...*

*ON AIR*
Eeee... salve a tutti, semidei!
Miei dei, sono così emozionata! Oggi è martedì, ed io sono ancora qui per inculcarvi un altro mio lungo, anzi, lunghissimo capitolo! 
Contenti? ahaha (non rispondete, please)
Bien bien, che dire? Come primo capitolo del 2015, mi sembra abbastanza importante.
Ebbene sì, ragazzuoli miei, non ve lo state soltanto immaginando: finalmente, dopo circa una ventina di capitoli, inizia l'impresa!
Ah, come sono contenta!
Ma andiamo per gradi, vi va?
Innanzi tutto, parliamo del sogno di
Skyler. Non faccio Spoiler, ovviamente, però sono curiosa: quanti di voi ricordavano la strana voce che torturava Skyler nella storia precedente? Nel caso non abbiate idea di cosa stia parlando, la trovate... beh, dal Capitolo 15 in poi, più o meno. 
Beh, fatto sta che questa voce ha davvero un ruolo molto importante, anche perchè da come avrete capito ha rapito
Michael, e ha dato ai nostri eroi due settimane per rintracciarla, prima che lo uccida *cries*
Anyway, subito dopo scopriamo cosa è realmente successo quella sera tra
Leo e Charlotte. Lei l'ha incantato con la lingua ammaliatrice, tanto che lui non ricorda neanche come sia stato averla baciata. 
Ma questo
Emma non lo sa. E non lo saprà mai, dato che non ha alcuna intenzione di parlargli.
Che dire poi di
John, che difende la sua amica con i denti? **
And than, finally, ora sapete cosa sia quella misteriosa pietra che da il titolo alla storia. Che ne dite, vi piace l'idea?
Nel caso ve lo stiate chiedendo, il mito è completamente inventato da me u.u 
Come anche la profezia, che non è esattamente rosea e rassicurante. 
Tra il primo 'ti amo' di
Melanie e la scena cucciolosa tra figli di Efesto, poi, posso affermare con orgoglio di aver messo davvero tanta (forse troppa) roba in questo capitolo. Ma ahimé, ormai è tardi per tirarsi indietro, quindi lascio a voi l'ardua sentenza.
Che dite, vi è piaciuto il capitolo? O è un po' sploff?
Siete rimasti delusi nello scoprire cosa La Pietra dei Sogni fosse? Quali sono le vostre impressioni? 
Vi aspettavate qualcosa di diverso, qualcosa di migliore, magari?
Fatemi conoscere le vostre opinioni, belle o brutte che siano. Sapete che per me sono importanti. Senza di voi, infatti, ora non sarei qui.
E credo che questo sia il momento giusto per ringraziare i miei Valery's Angels, che hanno lasciato ben 10 recensioni nel capitolo scorso:
carrots_98, porporaassenzio, _angiu_, fire_in_dark29, Occhi di Smeraldo, Percabeth7897, martinajsd, stydiaisreal, Kamala_Jackson e _Krios_.
Grazie davvero angeli! Grazie a voi, posso affermare che il mio 2014 è finito davvero nel migliore dei modi.
Ora vi auguro solo dii scrivere un bestseller in questo libro bianco che è l'anno nuovo. 
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, e che non abbia deluso le vostre aspettative, e Buona Epifania a tutti quanti! 
Al prossimo martedì!
Ancora e sempre vostra,

ValeryJackson
P.s. Scusate per l'eccessiva lunghezza del capitolo. Temo di avere un po' esagerato, stavolta :s
P.p.s. Ricordate quando vi ho parlato dei nomignoli/gesti/frasi che caratterizzano ogni coppia che si rispetti? 
Beh, per quanto riguarda
Melanie e John: avete riconosciuto la loro?
Se no, ve la dico io. 
E' quel botta e risposta che inizia con "E' un modo carino per...?"
ahaha, okay, ammetto che questa non era facile. Ma se ci fate caso, lo ripetono spesso, in quasi tutte le loro conversazioni. Okay, in tutte le loro conversazioni. 
But whatevah. ;)  
 

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***




Quando Skyler si era offerta volontaria per compiere quell’impresa, mai si sarebbe immaginata che sarebbe stato così difficile trovare l’isola.
Come promesso, la mattina in cui erano partiti Percy aveva consegnato ai semidei tre dei pegasi più affidabili del Campo. Tra loro, c’era anche Blackjack.
Il figlio di Poseidone aveva assicurato che nessuno come il nero stallone sarebbe stato in grado di portarli alla meta, affermando poi che lui stesso non avrebbe affidato la sua vita nelle mani –o meglio, zoccoli- di qualcun altro.
I ragazzi erano grati di tutto l’appoggio e la fiducia che come lui molti altri gli stavano dando.
Si erano preparati davvero meticolosamente per quella missione.
Oltre alle loro armi, avevano portato con sé anche tre zaini, che avevano riempito con tutto ciò che sarebbe stato necessario.
Con l’aiuto di Chirone, John aveva trasformato il suo in una sorta di kit di pronto soccorso: flaconi di alcool, cerotti, lacci emostatici, garze, abrosia e antidolorifici erano solo alcuni degli oggetti che li avrebbero aiutati a guarire da qualunque ferita avrebbe potuto infiggergli quel posto sconosciuto.
Al contrario, Skyler ed Emma avevano farcito i loro con quante più provviste riuscivano ad ottenere. Fidarsi del luogo in cui stavano andando sarebbe stato un lusso che non avevano intenzione di prendersi, e nonostante fossero molto determinati, non avevano idea di quanto tempo avrebbero impiegato per trovare la pietra che li avrebbe aiutati a salvare Michael.
Meglio essere prudenti, in ogni caso.
In attesa della partenza, la figlia di Efesto non aveva chiuso occhio neanche per un secondo. Continuava a girarsi e rigirarsi tra le coperte, stringendo nei pugni le lenzuola mentre non riusciva a non domandarsi a che cosa esattamente stesse andando incontro.
L’ignoto non era mai stato uno dei suoi compagni preferiti, e con le parole della profezia che graffianti continuavano a vorticarle nella scatola cranica non era certo facile augurarsi il meglio.
E lì il fuoco, con coraggio, il suo destino dovrà affrontare.
Era questo il verso che la spaventava di più. Sapeva benissimo che si riferiva a lei e al fatto che avrebbe dovuto fronteggiare il proprietario di quell’orrida voce. Ciò che non capiva, però, è quale fosse il suo vero destino.
Concedersi a quell’essere, chiunque esso fosse?
Voleva che lei diventasse sua, giusto? Ma Skyler avrebbe dovuto davvero arrendersi senza lottare?
Se avessee provato a contrastarlo, avrebbe messo in pericolo la vita di Michael?
Che ne sarebbe stato di lei?
Che ne sarebbe stato dei suoi amici?
Non poteva fare a meno di ricordare che l’Oracolo aveva previsto ben due morti, su quell’isola. Percy diceva sempre che le profezie hanno spesso una doppia faccia, ma la ragazza non riusciva a capire come le frasi morte nel baratro e la vita perderà potessero essere interpretate diversamente.
Se c’era davvero un modo per eludere quelle parole, allora qual era?
Come poteva pretendere di salvare John ed Emma, se non era neanche in grado di proteggere sé stessa?
Fu quel pensiero a costringerla ad alzarsi dal letto, scansando via le coperte con un grido di frustrazione.
Forse Percy aveva ragione, forse loro tre non erano pronti per una missione del genere. Eppure le bastava pensare a tutte le torture che quella voce stava infliggendo a Michael per sentire una nuova scarica di adrenalina percorrerle come un lampo tutto il corpo.
Lei non si sarebbe arresa così facilmente. Avrebbe trovato quella pietra, e avrebbe salvato il figlio di Poseidone.
Era questo ciò che si ripeteva mentre con tono deciso tirava fuori i suoi anfibi dall’armadio.
Per anni, quel paio di scarpe l’avevano sempre aiutata a sentirsi sé stessa. Aveva bisogno di tutta la forza alla quale poteva attingere per superare quell’ennesima prova, e niente come il suo passato avrebbe potuto ricordarle chi fosse la vera Skyler.
«Dimostra al mondo cosa sei in grado di fare» le aveva intimato Leo. E mai come in quel momento la ragazza era pronta a farsi valere.
Tutta la sua sicurezza, però, l’aveva abbandonata quando con i pegasi avevano raggiunto l’Oceano Pacifico.
In sella a Blackjack, Skyler si sforzava di scorgere qualcosa oltre l’orizzonte, riuscendo ad osservare nient’altro che acqua.
Qualunque forma di vita, lì, sembrava impensabile; e dopo aver cavalcato per quasi quarantotto ore, i ragazzi sembravano esausti.
«È ridicolo» aveva sbottato Emma ad un certo punto, attirando l’attenzione dei due.
«Cosa, esattamente?» aveva chiesto John.
«Tutto questo!» La figlia di Ermes aveva scosso il capo, spazientita. «Vi rendete conto che stiamo inseguendo una leggenda, vero?» Gli amici non avevano risposto, al ché lei aveva sbuffato. «E se avesse ragione Chirone?» aveva domandato poi, corrucciando le sopracciglia. «E se quest’isola non esistesse? Allora staremmo solo perdendo tempo.»
«Siamo molto vicini» aveva quindi ribattuto Skyler, lo sguardo fisso in un punto indefinito dell’orizzonte.
«E tu come fai a saperlo?»
«Riesco a sentirla.»
Ed era vero. La figlia di Efesto percepiva una sorta di elettricità statica vibrare intorno a sé. Quel posto era pregno di un segreto che irradiava energia, e nonostante non fosse in grado di vederlo, la mora sapeva che c’era qualcosa di fronte a loro.
Doveva solo essere abbastanza paziente da sperare che lei si mostrasse. Chirone aveva detto che sarebbe stata l’isola a trovare loro, e anche se Skyler non aveva idea di che cosa questo volesse significare, era convinta che, in un modo o nell’altro, ciò sarebbe successo.
Forse l’isola avrebbe avvertito la sua voglia di salvare Michael, o magari semplicemente si sarebbe trattata di fortuna, e i ragazzi vi si sarebbero imbattuti nel momento esatto in cui avrebbero smesso di cercarla.
A distoglierla bruscamente dai suoi pensieri fu il nitrito sommesso di Blackjack, che sembrava inquieto mentre rallentava la propria cavalcata.
«Ehi» gli sussurrò lei, osservando il pegaso scrollare il muso quasi volesse allontanare un fastidioso insetto. «Che succede?»
In risposta, il cavallo nitrì ancora, stavolta dando sfogo a tutta la potenza delle proprie corde vocali.
Un lampo squarciò il celo, illuminando il tutto per un breve istante. Skyler non ricordava l'arrivo delle nuvole nere che in quel momento annunciavano l’imminente arrivo di un temporale. Era come se fossero apparse dal nulla, ma la ragazza smise di chiedersi se fosse tutta opera di Zeus nell’istante stesso in cui il suo pegaso si impennò, rischiando di disarcionarla.
«Blackjack! Ma che fai?» protestò lei, tentando disperatamente di restare aggrappata alla sua folta criniera. Ma l’animale sembrò non ascoltarla più. Prese ad agitarsi, e mentre le sue grida imbizzarrite fendevano l’aria, per la figlia di Efesto diventava sempre più difficile tenere salda la presa.
Prima che potesse rendersene conto, una fredda pioggia cominciò a scrosciare dal cielo, abbattendosi sui tre semidei con così tanta forza che ogni goccia aveva la stessa efficacia di uno spillo premuto contro la loro pelle.
«Ma che succede?» urlò Emma, ma le sue parole si persero nel vento, che vorticando irruento intorno a loro richiamava a sé ogni trambusto di quell’improvviso uragano.
Sembrava tutto così irreale che Skyler non riusciva a capacitarsi della velocità con il quale il tempo era cambiato. Con gli occhi stretti a due fessure, cercò di vedere al di là della coltre di oscurità che inglobava ogni cosa avesse la sfortuna di trovarsi sul suo cammino.
«Blackjack, calmati!» intimò al proprio destriero, poco prima che lui si impennasse di nuovo, scalciando contro un nemico inesistente. «È solo un temporale!»
Ma nel momento stesso in cui lo disse, non ci credette neanche lei. C’era qualcosa di insolito, in quella pioggia; qualcosa che non si limitava ad infradiciarle i vestiti e a tagliare di netto lo spazio sopra la sua testa con luminose saette.
Tutti e tre i pegasi sembravano essere usciti di senno, quasi non fossero più gli artefici delle loro azioni, o peggio, come se fossero sottoposti ad una tale tortura che annebbiava loro la ragione.
Quando un ennesimo lampo fendette le tenebre, i tre cavalli si inalberarono con uno scatto così brusco che colse di sorpresa i semidei, gettandoli giù d’arcione.
Con un grido, Skyler si ritrovò a precipitare finché il buio non la inghiottì. L’impatto con l’acqua fu talmente cruento che la schiena della ragazza si inarcò in modo innaturale. La pressione sembrò schiacciarla con la sua mole incombente. Non era possibile scorgere nulla, attraverso quella pece che era diventato il mare, e mentre il suo corpo diventava sempre più pesante e raggiungeva il fondo, Skyler si chiese se sarebbe davvero finita così.
Fu solamente la sua fame d’ossigeno a darle la forza di reagire, e con i polmoni che imploravano aria fino a bruciare, la figlia di Efesto nuotò verso la superficie.
Non appena riemerse dal pelo dell’acqua, ispirò voracemente, boccheggiando con fare disperato. Prima che potesse regolarizzare il respiro, una nuova onda la investì, costringendola ad una forzata apnea finché lei non riuscì a tornare a galla.
«Skyler!» gridò qualcuno, e solo quando ebbe smesso di ansimare la ragazza riconobbe la figura sfocata di John nuotare verso di lei. Gli andò incontro, ingurgitando involontariamente quell’acqua salmastra.
Quando fu abbastanza vicino, il ragazzo le prese una mano, attirandola a sé con un gesto repentino. «Dov’è Emma?» le chiese poi, con il fiato grosso, ma Skyler era così impegnata a tossire da non riuscire a trovare la forza per rispondere. Il figlio di Apollo si guardò intorno, disperato.
A circa un metro da loro, una testa bionda affiorò dalle onde. Emma prese fiato così bruscamente che i suoi polmoni lo rigettarono indietro, sconquassandole il petto con una graffiante tosse.
I due amici si precipitarono verso la bionda, e poco prima che lei rischiasse di essere travolta da un impetuoso cavallone, John le strinse i fianchi con un braccio, aiutandola a restare a galla.
«Sono qui» la rassicurò, mentre lei ansava nel disperato tentativo di inghiottire aria. «Sono qui.» La figlia di Ermes si aggrappò alla sua spalla, soffocando un conato di vomito.
«Fate attenzione!» gridò Skyler, e subito dopo un’ulteriore onda li investì, schiaffeggiandoli con la sua aggressività.
«Dobbiamo uscire da questo temporale!» urlò John, faticando a sovrastare il frastuono dei tuoni con la propria voce.
«Guardate lì» intimò allora Emma, indicando con mano tremante qualcosa poco distante. Seguendo con lo sguardo la direzione da lei indicata, in un primo momento i due ragazzi faticarono a scorgere qualcosa oltre la pioggia. «Sono i resti di una barca» gracchiò la figlia di Ermes.
Cosa ci facessero le carcasse di una scialuppa nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, Skyler non riuscì a chiederselo. L’unico pensiero che il suo cervello era in grado di formulare era la necessità di abbandonare le viscere di quella tempesta, mentre continuava ad ingerire sempre più acqua salata che andava a rimpinguarle la trachea.
Si mossero con fatica verso le marce assi di legno che trasportate dal vento vorticavano accanto a loro senza una logica ben precisa, disegnando macabri archi nel cielo d’inchiostro.
La figlia di Efesto, che nuotava a stento dietro i suoi amici, gravava a tenere il passo quando ogni volta che avanzava di un metro il mare la spingeva con violenza indietro di altri due.
E fece appena in tempo ad intravedere un’Emma distrutta arrampicarsi su una tavola di rovere, che qualcosa le agguantò le gambe, trascinandola repentinamente verso il fondo.
Il breve respiro che la ragazza era riuscita a contenere poco prima di riscoprirsi di nuovo sott’acqua non sarebbe mai stato sufficiente a sfamare i suoi polmoni per un periodo di lunga durata.
Sgranando gli occhi con un muto terrore a serrarle la gola, Skyler agitò gli arti, nel disperato tentativo di tornare indietro.
Qualcosa di viscido e squamoso si strinse attorno alle sue braccia, avvinghiandovisi così saldamente da renderle meno fluida la circolazione del sangue. La stessa sorte ebbero il suo busto, i suoi fianchi ed infine le sue gambe, finché la ragazza non si ritrovò l’intero corpo imprigionato da mucillaginosi tentacoli.
Non agitarti troppo, semidea, sussurrò melliflua una voce sopra di lei, anche sé, Skyler avrebbe potuto giurarlo, questa sembrava raschiare direttamente le pareti della sua scatola cranica.
O la tua morte sarà meno indolore.
Un lampo evanescente guizzò attraverso l’oscurità, per poi prendere a lampeggiare, rossastro e luminescente.
La figlia di Efesto chiuse le palpebre a due fessure, avendo difficoltà ad identificare qualsiasi cosa attraverso il panno che l’acqua salmastra bruciava sulla sua retina.
Le sinuose linee di una figura femminile divennero più nitide solo nel momento in cui quello scintillio purpureo brillò senza interruzioni, e per poco la ragazza non rischiò di rigettare tutta l’aria che con fatica tratteneva a causa di un grido.
A stagliarsi sopra di lei, con i suoi lineamenti delicati e la pelle olivastra, vi era la creatura più regale e al contempo terrificante che la figlia di Efesto avesse mai osservato.
Aveva l’aspetto di una donna, con due occhi neri come la pece e i capelli che fluttuando attorno al suo volto risplendevano di luce propria. Ma era guardando in basso che ti rendevi conto di non trovarti affatto di fronte ad un essere umano. All’altezza delle costole, aveva una serie di branchie che si aprivano e chiudevano in sincrono con il suo famelico respiro. Aveva le mani palmate, seppur entrambe con cinque dita. Ma soprattutto, al posto delle gambe, quasi fossero un prolungamento del suo stesso busto, vi erano ben otto crostosi tentacoli, simili in tutto e per tutto a quelli di una piovra.
Identificarla non sarebbe stato facile, se non appena quel mostro le avesse sussurrato un complimento, Skyler non avesse avvertito l’impulso di espirare tutto il fiato che aveva nei polmoni.
Ricordava un vecchio mito che le avevano raccontato al Campo, e che riguardava proprio le Sirene. Certo, a sentirne parlare la figlia di Efesto non si sarebbe mai aspettata un simile aspetto da parte loro.
Con i loro canti e le loro lodi erano da millenni in grado di ammaliare chiunque navigasse al di sopra delle loro acque, eppure la ragazza si chiese come fosse possibile farsi ammaliare da una creatura così… mostruosa.
Resta con noi, piccola semidea, le intimò la sirena, pur non muovendo le labbra stese in un sinistro sorriso. Ti daremo tutto ciò che vuoi.
La mora si domandò perché quel mostro tentacolare parlasse al plurale, finché non percepì ulteriori ventose attaccarsi ai pori della sua pelle quasi fossero intenzionate a non lasciarla andare più. Skyler capì di essere stata raggiunta da altri due esemplari di quella subacquea specie solo quando avvertì i loro piccoli nasi scivolare languidi giù per il suo collo, inspirando a fondo il suo profumo.
Noi ti daremo la pace eterna, continuò la stessa creatura, accarezzandole il viso con un dito rugoso. Non è forse questo che vuoi?
La ragazza strizzò con forza di occhi, scuotendo con veemenza il capo come se bastasse quel gesto a scacciar via il torpore che lentamente stava prevalendo sulla sua lucidità.
Non opporti a noi, mia cara.
La sirena dai capelli rossi fece strisciare uno dei suoi tentacoli lungo il suo corpo, fino ad avvolgerlo con voluta calma attorno alla sua gola.
Non sei in grado di resistere alle nostre parole.
Skyler tentò di divincolarsi, ottenendo come unico risultato una stretta più incisiva da parte dei tre mostri.
Quello sopra di lei ghignò divertita, scoprendo una serie di aguzzi denti giallastri. Le passò l’indice sulle labbra, tentando di aprirgliele nonostante le sue proteste.
Perché opponi tanta resistenza, semidea? Ormai non c’è più niente da fare.
E per quanto la figlia di Efesto potesse stringere la bocca in una linea sottile, non riusciva più a controllare l’inaspettata voglia di ingerire nuovamente aria.
Resta con noi, mia cara, la invitò la sirena, e il suo tono fu così persuasivo che i lineamenti tesi di Skyler all’improvviso di rilassarono, e a sostituire la sua forzata rigidità vi fu soltanto un impellente bisogno di riposare.
Resta per sempre.
Le labbra della ragazza si schiusero piano, la mente ormai troppo offuscata dal potere del mostro, per permettersi di ragionare. Stava per abbandonarsi alla cullante presa di quei numerosi tentacoli, decisa a dare ascolto ai suggerimenti di quella creatura.
Ma nel momento stesso in cui il suo petto ebbe un fremito, vide una scintilla incendiarsi pochi metri sopra di lei.
Un cuspide appuntito si infilò nel petto della rutile sirena, e un grido di dolore riecheggiò tra le pareti della scatola cranica della figlia di Efesto. Il suo corpo si dissolse in una perlacea nebbia schiumosa, e solo quando questa fu evaporata del tutto, Skyler riuscì a distinguere la figura atletica di John correre in suo soccorso.
Bastò una semplice occhiata alle sue iridi chiare per far sì che il desiderio di arrendersi l’abbandonasse.
Il figlio di Apollo incastrò la freccia che stringeva nel pugno nel volto del mostro alla destra della ragazza.
Questa si vaporizzò, e la mora approfittò del momento di distrazione dell’ultima rimasta per poter sguainare la propria spada ed trapassarla da parte a parte.
John le passò rapidamente un braccio sotto i seni, aiutandola a nuotare verso l’alto con tutta la velocità che era loro concessa.
I due ragazzi emersero frenetici dal pelo dell’acqua, e i polmoni di Skyler non inghiottivano aria da così tanto tempo che la voracità con cui lo fecero le costò un notevole bruciore all'altezza dello sterno.
«John!» sentì chiamare poco lontano, non appena i suoi timpani furono di nuovo in grado di riconoscere i suoni. «Prendi la mia mano!»
Il ragazzo la trascinò di peso verso quella che solo dopo la mora capì essere Emma, e la issò su una malconcia asse di legno poco prima che la ragazza ingerisse altro mare nel tentativo di vomitare.
«Skyler, riesci a sentirmi?» le domandò apprensivo, mentre lei, stesa supina, faticava sempre di più a tenere gli occhi aperti.
Le afferrò il volto con una mano, costringendola a guardarlo, e lei, troppo stanca per rispondere, annuì.
«Sono riuscita a recuperare questo dal mio zaino» annunciò quindi la figlia di Ermes, mostrando un intricato marchingegno grande poco più del suo palmo.
Skyler glielo strappò di mano, squadrandola con la fronte aggrottata.
«Che cos’è?» si informò John, che nel frattempo ansimava, alternando grandi respiri al fine di recuperare il fiato perduto.
«Non ne ho idea!» ribatté Emma, con voce incrinata. «L’ho rubato ai tuoi fratelli» aggiunse poi, rivolta all’amica.
Il figlio di Apollo guardò la mora, inarcando le sopracciglia speranzoso. «Pensi che possa aiutarci?»
E, nonostante le circostanze, la figlia di Efesto abbozzò un sorriso sghembo, in un verso di scherno. «Per la prima volta da quando ho memoria, sento di amare le tue manie cleptomani» disse ad Emma, mentre percepiva gli ingranaggi di quel meccanico affare attivarsi al solo contatto con i suoi polpastrelli.
«Tenetevi forte» intimò poi, al ché i due amici si aggrapparono all’asse di legno con quanta più forza riuscirono a racimolare.
Skyler fece alcuni scattanti movimenti con le dita, finché non fu sicura che l’arnese che stringeva tra le mani fosse pronto ad attivarsi.
Poi lo immerse in acqua, un po’ titubante, e la loro scialuppa di fortuna svettò come un lampo sul pelo del mare.
 
Ω Ω Ω
 
Non appena riaprì gli occhi, a Skyler ci volle circa un minuto per capire che la cocente sabbia dorata sulla quale era distesa prona non apparteneva alle viscere degli Inferi.
Con le palpebre semichiuse, tentò di concentrarsi sul ritmo irregolare dei suoi affaticati respiri, ignorando lo sterno che bruciava come sei polmoni fossero appena stati sfregati con la cartavetro.
Sospirò, maledicendosi per la propria stupidità non appena quel semplice gesto le provocò una sconquassante tosse, che raschiava contro le sue corde vocali ormai secche, siccome prive di acqua potabile da fin troppo tempo.
Sfregò la guancia contro la ruvida rena, emettendo uno strozzato grugnito che sarebbe suonato come un lamento, se avesse avuto la forza necessaria per emettere un qualche tipo di suono.
Dopo di ché voltò il capo, chiedendosi che fine avessero fatto i suoi amici.
John era disteso a neanche un metro di distanza da lei, in posizione supina. Aveva gli occhi chiusi, il viso e le braccia con qualche graffio e i capelli biondi incrostati di sabbia.
La figlia di Efesto allungò una mano tremante ad afferrare la sua, quasi desiderasse sapere se respirasse ancora ma non avesse il coraggio di domandarglielo, troppo timorosa della risposta.
Quando, però, le sue dita si intrecciarono a quelle del ragazzo, quest’ultimo ricambiò la sua stretta, esalando un tremulo respiro. Mentre Skyler si lasciava sfuggire un sospiro di sollievo, il figlio di Apollo schiuse le palpebre, per poi richiuderle subito dopo, accecato dalla luce pungente del sole.
«Emma» gracchiò, ma la sua voce fuoriuscì a poco più di un sussurro.
Quasi in replica alla sua richiesta, qualcuno brontolò qualcosa di incomprensibile ai loro piedi, e bastò quel semplice gemito ad identificare un’Emma piuttosto provata.
A dispetto della situazione nella quale si trovavano, sia Skyler che John si concessero una risata rincuorata, e lui si portò la mano della mora accanto al volto, posandole le labbra sul dorso.
«Siamo vivi» mormorò tra sé e sé, e c’era una sorta di incredulità, nel suo tono. «Siamo vivi.»
La figlia di Efesto espirò a fondo, rendendosi conto solo in quel momento di aver trattenuto il fiato. Fece perno sugli avambracci, e racimolando tutta quella poca energia che le era rimasta si sforzò di tirarsi in piedi, mentre ogni tentativo di deglutire per inumidirsi l’arida gola sembrava vano.
Non appena sollevò il capo, fu costretta a stringere gli occhi, al fine di frenare le violente vertigini che le davano la nausea. Ma poco dopo le fu più facile mettere a fuoco tutto ciò che la circondava, che non consisteva in altro che una sorta di oasi tropicale, con una spiaggia dorata, un clima troppo caldo ed una folta vegetazione.
Eppure, percepiva qualcosa di diverso. La sensazione che ogni cosa, in quella baia, stesse lottando contro la sua forza di volontà, irradiandole contro flussi di energia per far sì che la ragazza tornasse indietro.
Magia, pensò affascinata, e solo allora capì quello che poteva significare.
«Ragazzi» disse con un filo di voce, mentre i due amici faticavano ad issarsi in piedi. «Mi sa tanto che siamo arrivati.»
 
Ω Ω Ω
 
Ritrovarsi su un’isola incantata senza avere neanche idea di come vi si è arrivati non è esattamente il modo migliore per iniziare un’impresa.
Da quanto ne sapevano, era passata tutta la notte dall’irruenta tempesta che li aveva travolti e poi scaraventati lì. Quel posto non sembrava avere nulla di magico, se non si considerava il fatto che, chissà per quale assurdo scherzo degli dei, mentre costeggiavano la spiaggia con i vestiti bagnati incollati al corpo e i volti distrutti, i ragazzi si erano imbattuti negli zaini che avevano perso durante l’uragano. Adagiati accanto alla riva del mare, avevano ancora all’interno tutti i loro averi.
La figlia di Ermes pareva essere la più contenta di averli ritrovati, dato che non ricordava neanche come e quando l’aveva smarrito, il suo. Esaltata, aveva anche tirato fuori la sua Mappa dei Sette Mari, affinché desse loro indicazioni su dove si trovassero. Questa, però, non si era rivelata di alcuna utilità, dato che non aveva funzionato neanche una delle venti volte in cui aveva provato ad attivarla.
«Fantastico» aveva borbottato la bionda a denti stretti, per poi sbuffare frustrata ed infilarsela nella tasca posteriore dei jeans.
«Almeno abbiamo ancora le provviste» le aveva fatto notare John, sforzandosi di essere fiducioso. «E anche le medicine.»
Ma questo non era bastato a risollevare il morale nel momento in cui i ragazzi avevano continuato la loro camminata, avanzando finché non avevano avuto la sensazione di aver già fatto il giro dell’isola per ben due volte.
«Quella conchiglia l’ho già vista» diceva ogni tanto Emma, che tra i tre era la più scettica. Non era sicura di poter sperare di aver davvero raggiunto la meta così, per pura fortuna. Continuava a ripetere che quello fosse il luogo sbagliato, e che avrebbero dovuto andarsene al più presto, se non volevano continuare a perdere tempo.
«È stato troppo facile, no?» si esasperava. «Troppo.»
Ma Skyler non le dava ascolto, e imperterrita continuava ad avanzare con l’illusoria certezza che prima o poi si sarebbero imbattuti in un indizio più che utile.
Questo, però, stentava ad arrivare, almeno finché la figlia di Efesto non condusse gli amici lontano dalla riva, verso il cuore della spiaggia.
«Cosa speri di trovare, esattamente?» le chiese la figlia di Ermes ad un certo punto, al ché la mora si strinse nelle spalle.
«Qualcosa» si limitò a mormorare, facendo guizzare le proprie iridi scure da un dettaglio all’altro del paesaggio che li circondava. «Qualsiasi cosa.»
«Sì, ma qualcosa come?» la rimbottò la bionda.
«Qualcosa come quello.» Entrambe le ragazze si sorpresero della risposta che diede John, e non capirono a cosa si stesse riferendo finché non seguirono con lo sguardo la direzione da lui indicata.
Si trattava di un possente masso di granito dello stesso bianco sporco della sabbia ai loro piedi, che non avrebbe avuto niente di particolare, se non fosse stato finemente intagliato.
Perfetti ghirigori si intrecciavano a rappresentare donne con prosperosi cesti di frutta in grembo e uomini con gli strumenti musicali più impensabili, tutti riuniti a circondare la testa in rilievo del drago che troneggiava al centro.
«Ragazzi!» trillò Emma, non appena il suo shock fu sostituito da un’insolita scarica di adrenalina. «Sapete questo che cosa significa?»
«Che quel drago ha un qualche significato particolare?» ipotizzò John, inclinando il capo di lato.
«No!» lo contraddisse la ragazza, facendo spazio ad un sorriso soddisfatto. «Significa che qualcuno ha costruito questa scultura! Ergo, c’è qualcun altro su quest’isola. Ergo, non siamo soli!»
«Ergo, qualunque cosa ti sia appena venuta in mente, vedi di scordartela» le fece il verso il figlio di Apollo, redarguendola con lo sguardo. «Non sappiamo cosa questa statua ci faccia qui.»
«Oh, andiamo!» esclamò quindi Emma, facendo roteare gli occhi. «Che vuoi che sia? Una sorta di templio, o qualcosa del genere.»
«E se siamo davvero sull’isola della leggenda?» ribatté John. «Tutto ciò nel quale ci imbattiamo potrebbe essere pericoloso.»
«Ti prego» si lamentò la figlia di Ermes, ormai stanca di credere in qualcosa che sembrava ben lontano dalla realtà.
Skyler si avvicinò con circospezione alla scultura, posando una mano esitante sul freddo masso. «Non riesco a sentire niente» affermò, corrucciando leggermente le sopracciglia. «Non è meccanica.»
«Ehm… forse perché è un sasso di pietra?» le ricordò la bionda, con evidente sarcasmo nella voce.
«La testa però viene via» notò John, che nel frattempo aveva raggiunto la figlia di Efesto per poter esaminare attentamente i ghirigori. Strinse saldamente la testa del drago tra le braccia, e dopo averla fatta ruotare un po’ la tirò a sé, ritrovandosela in grembo.
«Piuttosto inquietante» commentò Emma, fissando con sospetto gli occhi vacui della statua.
«Controlla se c’è qualcosa, all’interno» le intimò il ragazzo, con un cenno del capo. «Una scritta, un messaggio, qualche altro disegno.»
«Non vedo perché dovrebbe» replicò lei, che però si chinò per osservare il novello foro. «È soltanto una scultura di pietra.»
«Beh, se l’ha davvero costruita qualcuno, come dici tu» si indignò a quel punto il biondo. «Allora forse hanno inserito qualche codice cifrato che ci aiuterà a capire come raggiungere il loro villaggio.»
«Dubito che siano così idioti» lo schernì la figlia di Ermes, con un sorriso sghembo. «Ma il fatto che tu abbia avuto quest’idea mi dà modo di riflettere.»
«Reggi questa, per favore» sussurrò il figlio di Apollo a Skyler, mettendole in mano la testa del drago e piegandosi accanto ad Emma, scrutando il masso con lei. «Si dia il caso che non siamo nella posizione di poterci permettere il lusso di scartare ogni possibilità» la rimbrottò poi, al ché la ragazza alzò le iridi grigie al cielo, sbruffando.
Nel frattempo, Skyler avvertì uno strano flusso colpirle i pori delle braccia, per poi irradiarsi lungo le sue vene.
All’improvviso, il muso del dragone sembrò scottare sul suo grembo, e nel momento stesso in cui avvertì l’impellente impulso di lasciarlo andare, capì che c’era qualcosa che non andava.
Lei non poteva ustionarsi, era una figlia di Efesto. Eppure, il calore che la scultura emanava era così virulento da sovrastare anche le abilità ignifughe di lei.
Per quella che parve una frazione di secondo, la ragazza poté giurare di aver visto le orbite concave della statua illuminarsi. Poi, questa oppose resistenza alla sua presa, e prima che la mora potesse contestare, puntò dritta verso un punto imprecisato alle spalle di lei, come se fosse attratta da una calamita.
Skyler fu costretta a voltarsi, ma non appena aprì la bocca per domandarsi cosa stesse succedendo, notò un movimento tra le palme davanti a sé. Queste presero a vibrare, ondulando quasi fossero colpite da un vento inesistente. Dopo di ché, si allontanarono l’una dall’altra, aprendosi in un varco e mostrando un passaggio in mezzo al verde.
«Ehm, r-ragazzi?» ciangottò la figlia di Efesto, incapace di credere a ciò che le proprie iridi le mostravano. Ma i due semidei non sembravano essersi accorti di nulla.
«Potrebbe essere davvero il posto giusto» stava obiettando John, ma Emma era irremovibile dalla sua presa di posizione.
«Abbiamo fatto un buco nell’acqua, Raggio di Sole. Mi dispiace ammetterlo, ma è così.»
«Ragazzi» reiterò Skyler, essendo però ignorata anche questa volta.
«Chi ti dice che tu non stia sbagliando?» si alterò il figlio di Apollo, esasperato.
«Non ricordi cosa aveva detto Chirone? ‘L’isola è inespugnabile per chiunque voglia entrarci’
«Sì, ma ha detto anche che ‘sarebbe stata lei a trovarci’, e non so te, ma a me non sembra di essere arrivato qui di mia spontanea volontà.»
«Ragazzi!»
Stavolta Skyler lo urlò con talmente tanta fermezza che i due amici furono costretti a voltarsi.
«Che c’è?» sbottarono all’unisono, adirati, prima di poter sgranare gli occhi alla vista del passaggio che la figlia di Efesto stava loro mostrando.
«Non è possibile» mormorò Emma, più a sé stessa che agli altri.
John, invece, abbozzò un sorriso storto, per poi darle di gomito senza distogliere gli occhi da quel portale. «Credi ancora che sia l’isola sbagliata?» la stuzzicò, soddisfatto.
La figlia di Ermes non rispose. E se lo fece, Skyler non fu in grado di udire le sue parole.
C’era un unico pensiero che, molesto, aveva preso a vorticarle nella scatola cranica, punzecchiando il suo cervello quasi volesse attivare un campanello d’allarme.
Il Drago di pietra guiderà solo colui dal cuore infuocato.
Quando l’aveva preso tra le braccia il ragazzo, non era successo niente. La scultura aveva mostrato loro la strada da prendere solo nel momento in cui la ragazza se l’era coricato in grembo.
La figlia di Efesto non sapeva esattamente cosa questo significasse, ma comprese all’istante che ormai sarebbe stata la diretta interessata di qualunque avvertimento riguardante il fuoco l’Oracolo avesse predetto.
E soprattutto, che avrebbe dovuto tenere gli occhi bene aperti, d’ora in avanti.
Perché la profezia aveva già iniziato ad avverarsi.
E questo non era affatto un buon segno. 

Angolo Scrittrice. 
*E cinque. E sei. E cinque, sei, sette, otto...*

All that glitter and all that gold
Won't buy you happy
When you've been bought and sold
Riding white horses, you can't control
With all your glitter
And all of your gold
Take care of your soul
Take care of your soul.

-Stoop!-

Okay, okay, la smetto di cantare. 
Salve a tutti, ragazzuoli. Come potete notare, oggi è martedì, ed io sono ancora qui per propinarvi un altro dei miei capitoli sploff. 
Allora, che ne pensate? Vi è piaciuto? Vi ha fatto schifo? 
Devo ammettere che scriverlo non è stato affatto semplice. Innanzi tutto, perchè ho passato circa metà settimana a letto, malata, a tal punto che non credevo di riuscire a pubblicare, oggi. 
E poi, perchè sono molto demotivata. Un po' per fatti miei, certo. Un po' perchè ho notato il notevole calo di recensioni che ha colpito lo scorso capitolo. Non vi è piaciuto molto, nonostante fosse il più importante di tutta la serie, e non vorrei che questo stesse a significare che la storia ha iniziato ad annoiarvi proprio ora che ha preso una nuova piega. 
Magari non vi è piaciuta l'idea del mito della pietra dei sogni, o semplicemente il capitolo era scritto troppo male, e voi avete preferito non farmelo notare. 
Qualunque sia la ragione, mi auguro vivamente che non abbiate deciso di abbandonare la Ragazza in Fiamme. E mi scuso in anticipo se la causa di questa decisione sia il modo in cui si stanno svolgendo e stanno prendendo forma i fatti, oppure proprio il mio stile nel narrarli. 
Sì, fino all'ultimo era indecisa se pubblicare davvero questo capitolo (visto e considerato il tutto), ma soprattutto mi è dispiaciuta l'idea di essermi impegnata molto nel scrivere qualcosa che non vi è piaciuto. 
Perciò, vi prego di accettare le mie scuse. 
Ma parliamo di questo capitolo, che è meglio. 
L'impresa comincia, e certo non nel migliore dei modi. Innanzi tutto, i pegasi imbizzarriti e il temporale, che come spero si sia capito erano stati entrambi colpa dell'isola. 
Poi,
Skyler viene quasi uccisa dalle Sirene. Non male, eh? :') 
Ho deciso di dare una mia personale interpretazione del loro aspetto (che non me ne vogliate non è esattamente quello della tanto amata Ariel). Al posto della coda di pesce, io le ho immaginate con dei tentacoli. E mi sono anche dilettata a disegnarle, per cui se volete la prossima volta potrei postarvi la mia "opera d'arte" -che opera d'arte non sarà mai-.
Per fortuna che c'era
John. Preparatevi ad un figlio di Apollo molto più protettivo del solito, perchè essendo l'unico maschio sente di avere tutta la responsabilità dell'incolumità delle sue amiche. 
Quando imparerà che sono perfettamente in grado di difendersi da sole? 
Btw, la profezia si sta già avverando, e questo, come potete immaginare, non è un bene. Ho in mente u bel po' di sorprese per voi, ma mi piacerebbe prima sapere che cosa ne pensate. 
Se la storia sta cominciando a stancarmi, ditelo pure. Se non volete che io la continui, fatemelo presente ed io seguirò i vostri consigli. 
Nin voglio lasciare andare i miei piccoli, ma se voi non avete più voglia di seguire le loro avventure, fatemelo sapere, vi prego. 
Spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto, e se così non fosse, mi dispiace. 
E' un po' più corto, però. Per compensare ;)
But now -let me take a selfie- fatemi ringraziare i fantastici Valery's Angels che nonostante tutto hanno commentato lo scorso capitolo, regalandomi delle bellissime recensioni. E vi prego in ginocchio di scusarmi per non aver risposto, ma purtroppo la scuola è riniziata, e ha già deciso di prosciugare ogni sprazzo di tempo libero che mi rimane. :c
So, grazie infinite a:
carrots_98, _angiu_, Percabeth7897, Kamala_Jackson, _Krios_, martinajsd e stydiaisreal.
Grazie davvero, siete degli angeli!  
Bien, ora credo sia meglio andare. 
Al prossimo martedì, se ancora volete che io continui questa storia. 

Biscotti blu to everyone!
Sempre e comunque vostra, 

ValeryJackson

 

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 ***



Essendosi lasciati la spiaggia alle spalle subito dopo essersi inoltrati nella fitta foresta di quell’ambiguo posto, i ragazzi avevano immediatamente sguainato le proprie armi, tenendosi pronti per ogni eventuale scherzo che l’isola avrebbe deciso di giocargli.
Con Skyler in testa al gruppo ed Emma a chiudere la fila, i tre semidei facevano sempre più fatica ad avanzare verso il cuore della selva, mentre per la figlia di Efesto diventava man mano più difficoltoso farsi strada tra la tropicale vegetazione grazie alla sua spada.
Il clima afoso e arido di quel posto sembrava essersi personificato per il solo ed unico piacere di contrastarli, inaridendo le loro gole e facendoli grondare di sudore, aumentando ulteriormente la stanchezza che il temporale e l’interminabile camminata avevano portato.
Skyler non era sicura dove di preciso stesse conducendo i suoi amici, e smise di chiederselo nel momento esatto in cui la disorientante moltitudine di piante le fece perdere la cognizione dello spazio.
«Sembra di girare in tondo» si lamentò Emma ad un certo punto, dando voce ai pensieri di tutti.
Ciò che invece turbava di più John era l’inquietante silenzio che li circondava. Troppo irreale, per poter presagire qualcosa di buono, tanto che i tendini del ragazzo erano tesi come corde di violino mentre lottava contro la molesta sensazione di essere osservato.
«Sta per calare la sera» constatò dopo un po’, osservando con occhio critico l’arancia luce che filtrava tra le fronde degli alberi.
«Potremmo accamparci da qualche parte» convenne quindi Skyler, affettando il busto di una pianta con un movimento deciso del polso. «Dovremmo solo…»
Fu un sibilo a far restare la sua frase sospesa nell’aria.
La figlia di Efesto si irrigidì a tal punto da fermarsi sul posto, al ché i due amici le finirono addosso, sorpresi.
«Skyler, ma cosa…?» fece per chiedere John, ma la ragazza lo zittì con un cenno della mano, intimandogli a fare silenzio.
Si mise poi in ascolto, pregando gli dei affinché ciò che avesse sentito fosse solo frutto della propria stanchezza.
Ma quando un secondo zufolio fendette l’aria, stavolta più acuto e stridente, non ebbe più dubbi che fosse reale.
«Avete sentito?» domandò Emma, in un sussurro, quasi avesse paura di porre quella domanda.
«Veniva da quella parte» affermò cauto il figlio di Apollo, indicando la loro destra con un cenno prima che un ulteriore fischio provenisse raschiante da dietro le loro spalle.
Skyler non riusciva bene a capire da quale direzione provenissero quei petulanti suoni, ma sperò con tutto il cuore che la propria teoria di essere circondati fosse infondata.
In sincrono, i tre ragazzi impugnarono le proprie armi, guardandosi intorno alla ricerca dell’artefice di quei versi.
Fu allora che li videro.
Una dozzina di mostri, che arrivavano a malapena all’altezza dei loro busti. Avevano pelle squamosa color avorio a ricoprire i loro corpi disarticolati; si muovevano su due rampe rettili, talmente snelle e sinuose da sembrare quasi preistoriche. E molto probabilmente sarebbero state la loro caratteristica più strana, se non fossero stati dotati di tue teste ciascuno.
Una esattamente dove avrebbe dovuto essere, l’altra alla base della coda. Gli occhi di entrambe erano puntati sui tre mezzosangue, e ognuna di quelle orripilanti creature zampettò con misurata lentezza nella loro direzione, finché i ragazzi non si ritrovarono accerchiati.
«John» chiamò flebilmente Emma, indietreggiando a tal punto da ritrovarsi schiena contro schiena con i suoi compagni.
«Sono Anfisbene» rispose prontamente il biondo, comprendendo all’istante la richiesta dell’amica. «È come avere di fronte le doppie punte di Medusa. Solo che queste sono in grado di pensare da sole.»
«Fantastico» borbottò Skyler, sforzandosi di non farsi distrarre dall’oscillare mellifluo delle due teste di serpente. «Come le battiamo?»
«Non fatevi mordere» le redarguì il figlio di Apollo, digrignando i denti. «Mirate ad una delle due teste. Una volta sgozzato il collo di una, l’altra perde totalmente l’equilibrio.»
«Che succede se ci mordono?» chiese a quel punto la figlia di Ermes, al ché lui schioccò la lingua, con disapprovazione.
«Verrete pietrificate.»
«Di male in peggio» commentò la mora, incapace di far trapelare anche la minima punta di sarcasmo, nella propria voce.
Avrebbe voluto aggiungere altro, ma le parole le morirono in gola nel momento esatto in cui il primo mostro si scagliò contro di loro.
Skyler lo trasformò subito in cenere, squartandolo in due con un repentino affondo della spada.
Altri due mostri si avventarono contro di lei, tanto che la figlia di Efesto fu costretta a retrocedere, poco prima che un morso inferocito si chiudesse sul suo polpaccio.
La ragazza menò un fendente, ma entrambe le creature riuscirono agilmente a schivarlo.
Una delle due avanzò con un sibilo verso di lei. La testa di destra scoprì le fauci, con un ringhio, mentre la mancina faceva guizzare la lingua biforcuta tra gli aguzzi denti, inclinando il capo di lato nel vano tentativo di ammaliarla con il proprio sguardo.
Skyler provò un montante, poi un altro. L’Anfisbena cercò di addentarle un braccio, e lo scatto che la mora fece per impedirglielo fu tanto brusco da farla barcollare all’indietro. Cacciò un grido di frustrazione, decisa ad uccidere quel mostro che a differenza di molti altri che aveva affrontato era decisamente più innocuo.
Ma prima che potesse trafiggergli il collo con l’elsa della propria spada, il capo mancino entrò nella bocca all’estremità opposta, e, facendosi cerchio, la creatura prese a vorticare attorno alla figlia di Efesto.
La ragazza fu colta dalle vertigini non appena seguì con lo sguardo il suo roteare perentorio. Strinse con forza le palpebre, sforzandosi di tornare in sé, e quando l’Anfisbena fu sicura di averla disorientata abbastanza e tornò all’attacco, furono solo i suoi riflessi semidivini a salvarla.
Skyler colpì il muso sinistro con l’elsa della spada, per poi sfilarsi lo zaino dalla spalla e lanciarlo sul capo destro.
Il mostro emise un sommesso grugnito, e la figlia di Efesto ruzzolò di lato poco prima che potesse procurarsi una ferita al fianco. Con i suoi denti aguzzi, quell’orrida creatura aveva lacerato la stoffa della sua maglietta, ma portando velocemente una mano nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi la ferita, la mora si accorse che fortunatamente quelle zanne non avevano raggiunto la pelle per un soffio.
Lanciò un grido di battaglia, sfidando con lo sguardo l’Anfisbena a farsi avanti, e nel momento in cui quella fu abbastanza vicina da poter facilmente scorgere il famelico veleno zampillare dai suoi canini, Skyler sollevò la propria arma, menando un affondo così ben piazzato che le due teste furono allontanate l’una dall’altra, prima di potersi dissolvere in una nuvola gialla.
La ragazza, però, non fece in tempo a voltarsi che qualcosa le fu addosso, con una ferocia che la spinse supina a terra.
La figlia di Efesto batté la nuca contro il suolo, e l’impatto fu talmente brusco che perse la presa sulla propria spada, facendola accidentalmente rotolare via.
Il mostro si avventò contro il suo volto, e lei si sorprese di quanto in realtà fosse pesante, mentre tentava disperatamente di toglierselo di dosso. Afferrò saldamente ambedue quei colli squamosi, sforzandosi di impedire a quelle putride tenaglie di avvicinarsi ulteriormente al suo collo, ma entrambe le teste sembravano avide di carne divina, e graffiandole con gli artigli sterno e gambe cercavano in tutti i modi di assaporare le sue ossa.
C’era qualcosa di crudele, nei loro occhi. Qualcosa che la ragazza non aveva mai scorto negli occhi di nessuna creatura mitologica. Ma molto probabilmente, si rese conto, non le era ancora mai capitato di ritrovarsi ad una distanza tanto ravvicinata.
Fuoco, pensò, mentre impedire all’Anfisbena di tramutarla in una statua di pietra sembrava una missione sempre più impossibile.
Ho bisogno del fuoco.
Chiuse gli occhi, stringendo i denti talmente tanto da rischiare quasi di scheggiarseli. Aspettò di poter scorgere delle piccole lingue incendiarie danzarle sinuose tra le dita, ma quando riaprì le palpebre, non accadde niente.
Ritentò un’altra volta, ottenendo però lo stesso risultato.
Che stava succedendo?
Che fine aveva fatto il suo potere?
Molteplici volte si era ritrovata a prendere fuoco anche senza volerlo. Perché, invece, adesso che ne aveva bisogno sembrava non esserne in grado?
Dov’era finita la morsa che sempre, perentoria le stringeva lo stomaco?
Dov’erano le fiamme che percepiva ogni giorno ribollirle nelle vene?
Smise di porsi tutte quelle domande nell’istante in cui il muso mancino riuscì a strapparle una ciocca di capelli, richiamando così sull’attenti il suo autocontrollo.
Skyler irrigidì la mascella, stringendo con così tanta forza le gole del mostro nei pugni da sentire una piccola goccia di sudore colarle lungo una tempia.
La sua vista si annebbiò per un secondo, palesando tutta la stanchezza che prima o poi l’avrebbe tradita. E fu solo allora che sentì una voce ovattata invocare il suo nome, poco prima che tre cuspidi ben piazzati infilzassero il petto del mostro, interrompendo la sua esistenza.
La ragazza tossì, ritrovandosi all’improvviso sovrastata da quell’orrida polvere zolfata che erano le carcasse della mitologica creatura.
Poi sollevò lo sguardo, facendo appena in tempo a scorgere l’Anfisbena alle spalle di John tentare di attaccarlo.
«John, attento!» urlò la figlia di Efesto, raccogliendo prontamente la propria arma da terra e scagliandola contro il mostro.
Il figlio di Apollo si piegò sulle ginocchia, e la lama di bronzo celeste tagliò di netto l’aria sopra la sua testa, conficcandosi nel tronco alle sue spalle e riducendo il suo assalitore ad un ammasso di cenere.
Dopo di ché, il ragazzo incoccò un’altra freccia, abbattendo uno dei due musi del mostro che si stava avvicinando ai piedi di Skyler. La mora disintegrò l’altro con un calcio ben piazzato, per poi correre da lui e disincastrare la propria spada dal tronco dell’albero.
«No!»
Fu solo il grido di Emma ad attirare la loro completa attenzione.
La figlia di Ermes stava lottando contro un’Anfisbena a suon di coltellate, mentre un secondo mostro scompariva tra la folta vegetazione con il suo zaino stretto nelle fauci.
La bionda rischiò quasi di essere morsa da una delle due teste del suo avversario, ma poco prima che potesse tentare un ulteriore fendente con il suo coltello, questi cacciò un grido, straziato.
Skyler portò i palmi a coprire le orecchie, e osservò i suoi amici fare lo stesso mentre quel lamento agghiacciante sembrava stridere contro le pareti della loro scatola cranica, quasi fosse cartavetro.
Prima che i tre semidei potessero rendersene conto, le poche Anfisbene rimaste si contorsero sui loro stessi corpi, come sottoposte ad un’atroce tortura.
Poi assunsero rapidamente la loro forma a cerchio, voltolando via con un sommesso sibilo di disprezzo.
«Ma che…?» tentò di domandare la figlia di Efesto, ma si riscoprì incapace di formulare una qualunque frase di senso compiuto, troppo sorpresa dalla rapidità e dalla paura con la quale quei mostri avevano rinunciato a ridurli in macerie di pietra.
«Il mio zaino!» esclamò Emma, facendo per correre nella direzione verso la quale aveva visto scomparire una delle creature. «Hanno rubato il mio zaino!»
«Emma, no!» la fermò John, afferrandola saldamente per i fianchi, al fine di impedirle una stupida azione.
«Ma lì dentro c’erano tutte le nostre provviste!» ribatté lei.
«Non importa!» Il tono di voce del ragazzo suonò talmente autoritario che tutti, persino lui, sobbalzarono. «Dobbiamo andarcene di qui. Non sappiamo perché quei mostri se ne sono andati, ma potrebbero comunque tornare. E poi si sta facendo troppo buio» aggiunse poi, alludendo alla luna che ormai placida aveva già cominciato ad illuminare il cielo.
«Ma le provviste» reiterò la figlia di Ermes, afflitta. «Il cibo, l’acqua, tutte le cose essenziali…»
«John ha ragione» la interruppe quindi Skyler, ritramutando la propria spada ad una collana. «Dobbiamo andar via di qui, e anche alla svelta. E poi, quelle Anfisbene sono andate via per una ragione» le fece notare, spostando il peso da un piede all’altro, visibilmente a disagio. «E qualunque essa sia, non sembra comunque nulla di buono.»
 
Ω Ω Ω
 
Dopo aver continuato ad inoltrarsi nella selva di quell’isola per un’altra lunga mezz’ora, i ragazzi erano rimasti meravigliati dal non aver incontrato più alcun mostro sul loro cammino.
La radura sembrava essersi completamente addormentata, e nonostante non abbassassero neanche per un secondo la guardia, i tre semidei avevano deciso che forse era arrivato il momento di fermarsi a riposare.
Avevano avuto una giornata a dir poco stremante, ed era incredibile la quantità di vicissitudini che avevano sbarrato loro il cammino nell’arco poco più di quarant’otto ore.
Non appena si furono accampati alla meno peggio ai piedi di un’insolita quercia, Skyler aveva attirato su di sé la curiosità degli amici fallendo ogni tentativo di appiccare un confortante fuoco.
«Non ci riesco» aveva sbuffato irritata, al ché i due amici si erano scambiati un’occhiata, poco prima di chiederle quale fosse il problema.
«È come se è fuoco non fosse più sotto il mio controllo. È ancora dentro di me, riesco a sentirlo, eppure non sono più in grado di farlo emergere.» Poi aveva preso un profondo respiro, stropicciandosi gli occhi con aria affranta. «Temo che l’influsso magico di quest’isola blocchi i nostri poteri.»
A quel punto, John si era passato distrattamente una mano tra i capelli, e l’espressione sul suo viso, oltre che stanca, sembrava rassegnata. Solo allora aveva ammesso che neanche lui, durante la battaglia con le Anfisbene, era stato in grado di evocare le proprie frecce di luce, ma che lì per lì aveva pensato si trattasse di un problema solo suo, e non generale.
«Grandioso.» Emma aveva abbozzato un sorriso sghembo, facendo fatica a trovare un’unica nota positiva in tutta quella missione. «Questo vuol dire che potremo contare solo ed unicamente sulle nostre armi.»
E nonostante avesse appena palesato i pensieri di tutti, i due semidei non avevano controbattuto, limitandosi a chinare il capo in un muto cenno d’assenso.
Anche se erano stati addestrati a dovere su come difendersi da qualunque attacco da parte dei mostri, la consapevolezza di non avere nessun altro aiuto se non le loro pure e crude capacità rendeva il tutto molto più difficile.
Oramai si erano abituati a lottare grazie all’utilizzo dei loro stessi poteri semidivini, tanto che ritrovarsi da un momento all’altro ad essere dei comuni mortali che impugnano una spada aveva il solo effetto di innervosirli ancora di più.
E come se non fosse abbastanza, poi, avevano perso anche metà delle loro provviste.
Ciò che conteneva lo zaino di Skyler era sufficiente, certo, ma non per tre persone. E soprattutto, non per un prolungato lasso di tempo.
Ed era proprio per questo motivo che mentre le ragazze mangiucchiavano un po’ di carne essiccata, John aveva affermato di non avere fame, cedendo a loro la sua scarsa porzione.
La figlia di Efesto sapeva che l’intenzione del ragazzo era quella di sacrificarsi per il bene della squadra, e che sarebbe stato disposto a stringere i denti ed ignorare la gorgogliante voragine nel suo stomaco, pur di poter avere la certezza che così facendo avrebbe garantito loro la salvezza.
Emma, però, non sopportava questo suo spirito abnegante, e tentava inutilmente di imboccarlo, quasi si sentisse in colpa che il ragazzo non avesse niente di che cibarsi.
Subito dopo aver speso circa una ventina di minuti per poter accendere un piccolo falò con alcuni legnetti trovati a terra, Skyler si era offerta di fare il primo turno di guardia.
Con un po’ di riluttanza, la figlia di Ermes accettò le sue condizioni, accorgendosi di quanto fosse stanca solo quando, una volta sdraiatasi ai piedi dell’albero, crollò nell’immediato tra le braccia di Morfeo.
La mora si sedette poco distante, trovando in un tronco di palma caduto un comodo posto dove potersi riposare.
E l’avrebbe anche fatto, se i pensieri non l’avessero sopraffatta, come facevano sempre ogni volta che era costretta a combattere contro il silenzio.
Guardava le brucianti scintille scoppiettare tra la legna che aveva appena incendiato, e non poté fare a meno di chiedersi cosa sarebbe successo, se mai le avesse sfiorate.
Con la velocità di un battito di ciglia, il fuoco era tornato ad essere dal suo miglior compagno al suo peggior nemico.
Non ne era più immune, molto probabilmente, e questo non faceva altro che ricordarle tutti i danni che quel semplice ma feroce elemento sarebbe stato in grado di infliggerle.
Superare la propria paura, l’estate precedente, per lei non era stato affatto facile, viste e considerate anche le innumerevoli circostanze. Quindi la sola idea di poter ricadere nuovamente in quell’incendiaria prigione nella quale era stata intrappolata per anni le dava così tante vertigini da farle girare vorticosamente la testa.
E poi, pensava a Michael, e a tutte le congiure che in quel momento stava passando.
Era partita con l’intenzione di scoprire chi fosse il proprietario di quella voce e di ucciderlo con le sue stesse mani, al fine di salvare il suo ragazzo.
Ma più ci ragionava su, e più si rendeva conto che se quell’essere era stato in grado non solo di rapire una persona, ma anche di manipolare lei a suo completo piacimento, allora voleva dire che era molto più astuto (e di conseguenza pericoloso) di quanto Skyler immaginasse.
Cosa avrebbe potuto fare, lei, contro un nemico di tale grandezza?
Che poi, quale accordo sarebbe stata costretta ad accettare, una volta che si sarebbe ritrovata faccia a faccia con il puro ignoto?
E lì il fuoco, con coraggio, il suo destino dovrà affrontare.
Ed ogni volta che si ripeteva quelle dodici, minacciose parole, per lei era inevitabile pensare che qualunque fosse stato, questo destino, non avrebbe comportato nulla di roseo.
Perché avrebbe avuto bisogno di coraggio, altrimenti?
Per affrontare una prova ardua e insuperabile, no?
O per rassegnarsi ad una vita come schiava di proprietà di un qualcuno del quale non conosceva neanche il nome?
«Diventa mia, Ragazza in Fiamme.»
Che cosa avrebbe comportato, esattamente, quel ‘mia’?
Ad interromperla bruscamente dai suoi pensieri fu solo il rumore sordo di passi alle sue spalle.
La ragazza non ebbe neanche il bisogno di voltarsi per capire che accanto a lei stava per sedersi John, e continuò a tenere le proprie iridi scure puntate sul fuoco davanti a sé, lo sguardo vuoto, fugace, assente.
«Ehi» la salutò il figlio di Apollo, al ché lei tentò di forzare un sorriso.
Ma dovette apparire più come una smorfia di dolore, perché lo sguardo del ragazzo si rabbuiò, mentre lui si rigirava tra le mai un rametto raccolto da terra.
«Come stai?» le chiese poi, e la figlia di Efesto si strinse nelle spalle, con un sospiro.
«Bene» mentì, non riuscendo a convincere neanche sé stessa. «Sicuramente meglio di prima.»
«Mh» fu l’unico commento del biondo, che non era andato lì apposta per lei solo per sentirsi raccontare una serie di bugie. «Posso esserti d’aiuto in qualche modo?» si offrì.
«Sì» rispose repentina lei, voltandosi per scrutarlo con un’espressione indecifrabile. «Mangia qualcosa.»
Le labbra del ragazzo si strinsero in una linea sottile, e lui digrignò i denti, a disagio. «Non ho fame» rispose, con scarso entusiasmo.
«John…» lo riprese Skyler.
«È la verità!»
La ragazza si grattò il dorso del naso, contrariata. «Non è colpa di Emma se abbiamo perso parte delle nostre provviste.»
«Ovvio che no!» ribatté lui, indignato. «Non lo penserei mai.»
«Beh, allora non vedo perché debba pensarlo lei.» Cercò le sue iridi smeraldine, ma invano. «John» lo chiamò. «So che vuoi proteggerci, okay? L’ho capito. Ma posso assicurarti che siamo più che in grado di badare a noi stesse.»
«Non è quello» replicò lui, al ché Skyler fece spallucce.
«E allora cosa?»
«Semplicemente non ho fame.»
La figlia di Efesto inarcò un sopracciglio, scettica, e lui sospirò, cominciando a sentirsi leggermente in soggezione con quello sguardo screziato d’oro puntato addosso.
«Ho giurato a me stesso che non avrei permesso che niente vi facesse del male» assentì poco dopo, con un’improvvisa determinazione a far vibrare le sue corde vocali.
La ragazza si lasciò sfuggire un sorriso intenerito, a quelle parole, e allungò una mano per poter intrecciare teneramente le dita alle sue. «Ed è per questo che rimani la persona migliore che io abbia mai conosciuto» gli fece notare, al ché lui sorrise, riconoscente.
«Però devi dare a noi la possibilità di proteggere te tanto quanto tu stai proteggendo noi» aggiunse lei, con fermezza. «Siamo una squadra, John» gli ricordò. «E in una squadra ci si salva a vicenda. Siamo come i Tre Moschettieri.»
Al figlio di Apollo scappò uno sbuffo di risata, mentre le disegnava con il pollice dei piccoli cerchi sul dorso. «Dobbiamo solo riportare indietro D’Artagnan.»
Sul volto di lei calò quasi nell’immediato una cupa espressione, e i pensieri che poco prima le punzecchiavano il cervello come minuscoli spilli tornarono ad invadere molesti la sua mente.
«Già» sussurrò flebilmente, e la sua voce tremò, mentre lo faceva.
John sembrò accorgersi del suo improvviso cambio di morale, perché si voltò a guardarla, le iridi grondanti di apprensione e preoccupazione.
«Ehi» le intimò, ricercando invano il suo sguardo. «Lo troveremo, okay? So che lo faremo. Te l’ho promesso.»
La ragazza annuì, poco convinta, e lui si strinse a lei quel tanto che bastava per poterla costringere a guardarlo negli occhi. «Sono sicuro che sta bene» affermò, con certezza. «Devi solo avere fiducia.»
«È proprio questo il problema, John» replicò lei, percependo i propri occhi inumidirsi. «Io ho fiducia in noi, ma poi…»
«Solo perché siamo stati braccati da qualche mostro, questo non significa che non siamo in grado di portare a termine questa missione» la interruppe allora lui, con tono autoritario. «Insieme ce la faremo, Skyler. Come sempre. Troveremo quella pietra e salveremo Michael prima che tu abbia il tempo di uccidere una Manticora.»
La figlia di Efesto emise un tremulo sospiro, soppesando con attenzione le parole dell’amico. «Come fai?» gli chiese poi, al ché lui corruccio le sopracciglia, confuso. «A vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, intendo» specificò quindi lei. «Perché io ci ho provato, John. Ma giuro che a volte proprio non ci riesco.»
Il ragazzo le spostò teneramente una ciocca di capelli dietro l’orecchio, per poi raccogliere con delicatezza una lacrima che temeraria era sfuggita al suo controllo.
«La felicità è una questione di scelte, Skyler» le disse lui, con gentilezza. «Ognuno di noi è tanto felice quanto decide di essere. Sta tutto nell’accettarsi» continuò, posando la fronte contro la sua. «Se sei tu la prima a dubitare di te stessa, allora il resto sarà ancora più difficile. Sai, ho imparato a mie spese che il male che può farmi la vita non sarà mai più grande del male che potrei fare a me stesso. Lei non vuole distruggerci o rendere la nostra permanenza sulla terra impossibile. Si limita soltanto a porci davanti ad un bivio. Bianco o nero. Bello o brutto. Vecchio o nuovo. Alto o basso. Destra o sinistra. È solo nostro, poi, il compito di scegliere da che parte andare.» Fece scontrare giocosamente i loro nasi, riuscendo soddisfatto a strapparle un lieve sorriso. «L’importante è solo non rinnegare mai le nostre decisioni» aggiunse. «Perché se sarai fiera di ciò che sei diventata grazie a loro, allora comincerai a vedere il mondo intorno a te come una bellissima conquista.»
La ragazza abbassò lo sguardo, comprendendo il pieno significato di quelle parole e sorprendendosi di quanto il figlio di Apollo avesse ragione. Per anni aveva scelto sempre la strada più facile. La via di mezzo; il grigio e il normale. Ma da un po’ di tempo aveva capito che non avrebbe potuto continuare così ancora per molto.
Doveva sbrigarsi, e decidere da che parte stare. Lo doveva ai suoi amici, ai suoi compagni, ai suoi parenti.
Ma lo doveva soprattutto a sé stessa.
John si alzò in piedi, sgranchendosi leggermente le gambe. «Vieni qui» le sussurrò, porgendole una mano; e non appena lei l’afferrò, lui la attirò dolcemente a sé, stringendosela al petto in un caldo abbraccio.
Rimasero così per alcuni minuti, nei quali Skyler nascose il viso nell’incavo del suo collo, inebriandosi del suo tenue profumo di menta fresca che le infondeva un senso di conforto e protezione.
Il ragazzo le posò teneramente una mano dietro la nuca, lasciandole un bacio sul capo e capendo che se mai fosse successo qualcosa a quello scricciolo che stava cullando tra le braccia, lui non se lo sarebbe mai perdonato.
Avrebbe vegliato sulle sue amiche; l’avrebbe fatto fino al suo ultimo respiro.
E quando prese il volto della figlia di Efesto tra le mani e poggiò nuovamente la fronte contro la sua, ne ebbe la certezza assoluta.
«Continuo io il turno di guardia, se vuoi» le propose, al ché lei gli accarezzò i muscoli tesi del petto, scuotendo la testa.
«Guardati, John» protestò. «Sei stanchissimo. Io posso resistere ancora per qualche ora, davvero. Tu va a riposare.»
Il figlio di Apollo arricciò il naso, contrariato, e lei gli rivolse un sorriso gentile. «Prometto che ti sveglierò non appena sentirò di avere troppo sonno» gli assicurò. «Tu nel frattempo mangia qualcosa e dormi un po’. Ti farà bene.»
Il biondo prese un gran respiro, rassegnandosi all’idea che l’amica non avrebbe cambiato idea tanto facilmente. «Okay» assentì, un po’ titubante. «Ma sentiti libera di chiamarmi quando vuoi. E non fare l’eroina» la redarguì poi.
Skyler fece una smorfia ironica. «Chi, io?» replicò, incapace di impedire alle proprie labbra di incurvarsi malandrine.
John scrollò il capo, per poi baciarle velocemente la tempia e raggiungere Emma ai piedi dell’albero.
La mora lo osservò sdraiarsi accanto alla figlia di Ermes e avvolgerle i fianchi con un braccio, per poi chiudere lentamente le palpebre ed abbandonarsi tra le braccia di Morfeo.
La figlia di Efesto si guardò intorno, perlustrando con lo sguardo la foresta intorno a sé, e per una frazione di secondo si sentì al sicuro. E non solo per la presenza degli amici, che in quel momento erano la sua unica vera sicurezza.
Era come se percepisse la pura e vera assenza di mostri.
Sensazione che l’abbandonò subito, non appena uno sprezzante vento fischiò tra le fronde degli alberi, riportandola alla realtà.
Quell’isola custodiva il più grande segreto che l’Antica Grecia avesse mai relegato nei meandri del tempo.
E Skyler era certa che nulla, in quel posto, era ancora pronto a rivelarlo a dei semplici semidei come loro. 

Angolo Scrittrice.
*In onda tra dieci, nove, otto, sette, sei...*

'Cause I-I did it all! 
I owned every second that this world could give,
I saw so many places, the thing that I did...
And with every broken bons, I swear, I lived...

-Basta! Vuoi smetterla di cantare? Qui non siamo ad X Factor!

Ops, scusate :c
-Siamo in onda -.-
Oh, bene!
Salve a tutti, ragazzuoli! Oggi e martedì, e se pensavate di esservi liberati di me... beh, mi dispiace annunciarvi che sono ancora qui. 
Dunquo dunquo dunquo... Che ne pensate di questo capitoletto fresco fresco? 
Vi è piaciuto? Vi ha fatto schifo? Siete troppo impegnati a vomitare per poter rispondere?
Fatemi sapere cosa ne pensate, davvero. Per me è importante conoscere la vostra opinione. 
Forse non sarà uno dei migliori, e forse è un po' più corto rispetto ai miei soliti standard, ma spero comunque che non sia stato un calvario leggerlo. 
Innanzi tutto, i nostri tre ragazzi vengono attaccati da delle Anfisbene, rettili a due teste nati dal sangue di Medusa. E durante quest'attacco... beh, perdono le loro provviste. 
Provvista dimezzata, fame assicurata, come si suol dire. Okay, l'ho appena inventato. Ma la domanda è: cosa succederà adesso che non hanno quasi più nulla di che mangiare? Moriranno di fame? Secondo voi? 
Ma soprattutto: perché quei mostri sono scappati così, all'improvviso e senza apparente spiegazione?
Per quanto riguarda il nostro
John, rettifico che da questo momento in poi vedrete un figlio di Apollo molto più dolce e protettivo del solito. Infatti, rinuncia alla propria razione di cibo per far mangiare le ragazze. E poi cerca di consolare Skyler, il cucciolo. Cosa non facile, dato che la Ragazza in Fiamme non ha esattamente molto di che sorridere. 
E poi c'è
Emma, che si sente in colpa per aver perso parte delle loro provviste. 
Il tutto, condito con la perdita temporanea dei poteri da parte di ognuno.
Un terzetto grandioso, non vi pare? 
Lascio a voi l'ardua sentenza, anche perché non spetta a me giudicare i miei capitoli. 
Spero solo di non aver deluso le aspettative di nessuno, e mi scuso immensamente per non aver risposto alle bellissime recensioni che mi hanno lasciato i miei Valery's Angels. Non me ne sono assolutamente dimenticata (non potrei mai!), ma purtroppo per ragioni di scuola di tempo sono riuscita soltanto a leggerle. E cavolo, non vi ringrazierò mai abbastanza per tutto l'affetto e il rispetto che mi dimostrate. Le vostre parole mi scaldano ogni volta il cuore. Per cui ringrazio gli angeli che hanno commentato lo scorso capitolo, e cioè:
porposaassenzio, carrots_98, stydiaisreal, Percabeth7897, fire_in_dark29, _angiu_, _Krios_ e Kamala_Jackson
Risponderò a tutti voi il prima possibile, promesso <3
Bien bien, credo che sia arrivato il momento di andare. (E non perchè sto ancora festeggiando il compleanno del mio piccolo uomo -Logan-. Noo. Figuriamoci. Sto solo... okay, sono ancora esaltata per ieri **) 
Al prossimo martedì, ragazzuoli! 
Un bacione enorme a tutti quanti!
Sempre vostra, 

ValeryJackson

 

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Capitolo 26
*** Capitolo 25 ***


 
 
 
 

Mezza addormentata, Skyler si dimenò per il lieve solletico alla spalla.
Lo avvertì di nuovo, e istintivamente rotolò su un fianco, mugugnando qualcosa di incomprensibile.
Alla fine, la sera prima, quando aveva sentito la stanchezza travolgerla e le palpebre diventare troppo pesanti, aveva accettato l’offerta di John, cedendo a lui il turno di guardia mentre lei raggiungeva Emma ai piedi della quercia, accoccolandosi accanto a lei e permettendo a Morfeo di avvolgerla tra le sue braccia.
A differenza di quanto si aspettasse, però, non ci fu alcun sogno a tormentare il suo sonno.
Niente, neanche la più pallida immagine di distruzione.
Solo oscurità, che le aveva conciliato la più lunga dormita che avesse avuto il piacere di fare dopo molto tempo.
Un calpestio di foglie secche riecheggiò a circa un metro di distanza dal suo volto, e la ragazza arricciò il naso, contrariata. Portò una mano a stropicciarle svogliatamente un occhio, mentre con uno sbadiglio inarcava la schiena.
Poi schiuse lentamente una palpebra, decisa ad intuire chi fosse colui che l’aveva svegliata, quando il suo cuore perse un battito.
Ogni tendine del suo corpo si irrigidì all’istante, e le sue iridi scure si sgranarono, mettendo in allarme i neuroni del suo semidivino cervello.
Di fronte a lei, con tutta l’aria di non essersi minimamente accorto della sua presenza, c’era l’essere più strano che avesse mai visto; l’esempio vivente di ciò che si potrebbe ottenere incrociando i DNA di un drago e una gallina.
Il muso era in tutto e per tutto quello di un gallo, con tanto di becco, cresta e bargiglio pronunciato. E così anche le zampe, dotate entrambe di artigli affilati. Ma il resto del corpo era coperto di squame, e le sue scure ali da pipistrello entravano in netto contrasto con le rosse placche che gli frastagliavano il dorso, salendo su per il collo eccessivamente bislungo ed interrompendosi solo nel punto in cui iniziava l’estesa e arancia coda rettile.
Skyler trattenne il fiato non appena notò il mostro avvicinarsi circospetto ad uno dei loro zaini, per poi sbirciare dentro. Ne estrasse un rinsavito pezzo di carne secca, e lo ingurgitò in un sol boccone, faticando ad ingoiarlo con facilità dato che non aveva la possibilità di masticarlo.
La ragazza avvicinò con cautela una mano alla propria collana, stringendo nel pugno il cristallo e preparandosi a sguainare repentina la spada. Ma non appena fece perno su un gomito al fine di alzarsi, la creatura tese i muscoli come un segugio, e si voltò verso di lei, individuandola all’istante.
Emise un sommesso ringhio di sfida, puntando il becco contro di lei. Ma poco prima che quello potesse fare qualcosa o che la figlia di Efesto potesse difendersi, un coltello tagliò di netto l’aria sopra la testa della ragazza, conficcandosi nel petto del mostro con una precisione disarmante.
«Skyler!» urlò Emma alle sue spalle, al ché lei si voltò, stupita e confusa. «Non guardarli negli occhi! Sono basilischi!»
Fu solo quel ‘sono’ a darle la consapevolezza che lei e i suoi amici erano sotto attacco. Un intero branco di quei mostruosi esseri zampettava intorno a loro, accerchiandoli famelici.
John e la figlia di Ermes erano schiena contro schiena, incapaci di difendersi da qualcosa che non potevano neanche osservare.
Uno dei mostri si fece avanti, chiocciando in direzione della bionda, che ormai era disarmata, e Skyler non perse tempo. Si alzò di scatto e sollevando con destrezza la propria arma tagliò di netto il suo lungo collo squamoso, trasformandolo in un ammasso di cenere.
«Come facciamo ad ucciderli, se non possiamo guardarli?» domandò poi, indietreggiando, mentre teneva puntata la lama contro i tre basilischi che stavano avanzando verso di lei.
«Non possiamo!» replicò prontamente John, riuscendo miracolosamente ad infilzare una creatura con una delle sue frecce. «Correte!»
Le ragazze non se lo fecero ripetere due volte. Schizzarono via, recuperando velocemente da terra Skyler lo zaino, Emma il suo coltello.
Il figlio di Apollo scagliò contro quei mostri un’ennesima freccia alla cieca, per poi raccogliere anch’egli il proprio zaino e seguire a ruota le amiche.
I basilischi non ci misero molto per superare una frustrazione iniziale e precipitarsi dietro di loro, sferzando l’aria con le loro agghiaccianti grida.
«Svelte!» intimò nuovamente il ragazzo, reprimendo l’istinto di voltarsi indietro e fronteggiare quei mostri che avrebbero potuto ridurlo in polvere.
Skyler non ce la faceva più. Le gambe stavano cominciando a dolerle, il respiro affannoso non era più in grado di riempire sufficientemente i polmoni.
Non avendo il tempo materiale per distruggere le sterpaglie che sbarravano loro la strada, i semidei erano costretti ad ignorare i numerosi graffi e tagli che meschini si andavano formando su braccia e gambe.
John, a chiudere la fila, sentì l’artiglio di un basilisco ghermirgli il polpaccio, e digrignò i denti, ordinando alle ragazze di correre più veloce.
Stavano per essere raggiunti, e la figlia di Efesto lo sapeva. Se non potevano combattere, l’unica soluzione possibile era fuggire. Ma non mancava molto, prima che i loro corpi cedessero sotto l’estremo sforzo.
Per questo avevano un assoluto bisogno di riparo.
«Seguitemi!» esortò, usufruendo delle sue ultime energie per poter aumentare il passo, frapponendo così un po’ più di distanza tra i semidei e i loro assalitori. Dopo di ché, si inoltrò in una fitta coltre di alberi, sparendo momentaneamente dal loro campo visivo.
Sperava che quel temporaneo stato di interdizione da parte dei mostri potesse aiutarli a farsi venire in mente un posto sicuro dove andare. E se non fosse stata così impegnata a lottare contro le vertigini che il suo corpo stremato le causava, avrebbe tirato un sospiro di sollievo allo scorgere lontano di una grotta.
La mora si lanciò ruzzolando al suo interno, imitata subito dopo dai due amici. Aspettarono qualche secondo, trattenendo il fiato mentre la tensione minacciava di soffocarli.
E quando il branco di basilischi superò di corsa l’ingresso della caverna, continuando ad inseguire un bersaglio inesistente fino a che l’eco dei loro chiocci non si dissolse nell’aria, i ragazzi impiegarono qualche attimo, prima di accasciarsi al suolo sfiniti.
Espirarono insieme, increduli e confortati dall’idea che quel tamburellare accelerato che gli sconquassava il petto stesse a significare che erano ancora vivi.
«State bene?» domandò apprensivo John, che steso supino a terra tentava di regolarizzare il proprio battito.
«Sì» rispose Skyler, deglutendo a stento.
«Non vedo nulla» ribatté invece Emma, al ché la figlia di Efesto strinse gli occhi a due fessure, quasi sperasse che così facendo sarebbe riuscita a scorgere qualcosa.
Fece perno sui propri avambracci, faticando a tirarsi in piedi. Ma non appena provò a raddrizzare la schiena, un’anomala ondata d’energia la investì, costringendola a barcollare.
La ragazza scrollò il capo, cercando di mandar via un lieve stordimento.
Un fruscio le suggerì che anche i suoi amici stavano provando ad alzarsi, e nonostante non fosse in grado di vederli, attraverso quelle tenebre, seppe che anche loro faticavano a mantenere l’equilibrio, come se ciò richiedesse uno sforzo immane.
Skyler sguainò la propria spada, nella speranza che il tenue bagliore della lama potesse illuminare di poco quel posto. John ed Emma fecero lo stesso, guardandosi intorno.
«Sembra vuota» constatò il figlio di Apollo, le sopracciglia corrucciate in un cipiglio nervoso.
«Però c’è qualcuno, qui dentro» gli fece notare la figlia di Efesto, stringendo l’elsa della propria arma con così tanta forza da avere le nocche bianche. «Non sentite la sua magia
«Qualcuno» fece quindi la bionda, trascinando lentamente le parole. «O qualcosa?»
I ragazzi si guardarono, e la mora sentì il proprio cuore perdere un altro battito.
Qualunque cosa si trovasse lì dentro, aveva un’aura talmente tenace da contrastare la forza di volontà dei semidei. Per quanto potessero opporsi, quella riusciva comunque a sopraffarli, rendendogli difficoltoso anche il fare un semplice passo.
Che fosse stato davvero così facile trovare la Pietra?
No, Skyler ne dubitava. Anche perché a parte la maligna forza di gravità che sembrava volesse inchiodarla al terreno, si sentiva stranamente a proprio agio, in quel luogo.
Quasi ciò che contenesse fosse qualcosa che la riguardasse personalmente, e al quale lei era abituata.
Fuoco? Metallo? Come scoprirlo, senza alcuno spiraglio di luce?
La ragazza fece un rapido giro su sé stessa, scrutando con occhio critico il buio che la circondava, finché un fugace barbaglio non attirò la sua attenzione.
La figlia di Efesto si allontanò dai propri amici, dirigendosi circospetta in quella direzione. Inarcò un sopracciglio, sollevando la spada accanto al proprio volto. E fu allora che sussultò, sorpresa.
Le pareti di quella grotta risplendevano di un timido blu corallo, e Skyler poté giurare di aver visto quel colore così tante volte, da essere in grado di riconoscerlo ovunque.
Si avvicinò ancora di più, fino a che la lama della propria arma non entrò accidentalmente in contatto con quelle calcaree mura.
E, con suo grande sbigottimento, la reazione delle due estremità fu istantanea. Dalla punta della spada partì un luccichio, che espandendosi come un cerchio nell’acqua investì le pareti dell’intera caverna, illuminandola di una luce tanto azzurra quanto accecante.
La figlia di Efesto seguì a bocca aperta il percorso di quel lampo turchino, fino a che non si ritrovò ad osservare l’impensabile.
«Wow.» Fu solo l’esclamazione stupita di John a farle capire che ciò che aveva davanti non era semplicemente frutto della sua immaginazione.
«È quello che penso che sia?» domandò Emma, meravigliata.
Skyler trattenne il fiato. «Bronzo celeste.»
Puro e semplice bronzo celeste.
Quanto tempo aveva trascorso nelle fucine della Casa Nove al fine di forgiarlo per ricavarne armi, scudi e quant’altro?
Ogni figlio di Efesto era costretto a fabbricarlo da solo. Non esisteva di certo in natura, e produrlo era la prima cosa che ti insegnavano quando mettevi piede nel Bunker.
Ma quello… una caverna piena di bronzo celeste era semplicemente impossibile. Come faceva a trovarsi lì? O meglio: chi ce lo aveva portato?
Perché doveva essere per forza opera di qualcuno, di un umano. Altrimenti come avrebbe fatto quel luogo a strariparne?  
«Le rocce l’hanno prodotto come fosse un minerale?» chiese John, dando voce a tutte le incertezze che avevano colpito la mora in quel momento.
«A quanto pare» mormorò infatti quella, non sapendo esattamente cosa dire, di fronte a quella stranezza.
La figlia di Ermes sbuffò, schioccando la lingua con disappunto. «Quest’isola si rivela ogni secondo più strana.»
E non aveva tutti i torti. Draghi di pietra animati? Sirene assatanate? Mostri famelici? Caverne che producono bronzo celeste?
Cosa avrebbero dovuto aspettarsi, dopo quell’ennesima anomalia?
Sapevano che non sarebbe stato semplice affrontare quell’ignoto arcipelago magico, ma mai avrebbero pensato che sarebbero stati portati ad accingere alla loro più fervida immaginazione.
Skyler inclinò il capo di lato, seguendo il percorso di quello che sembrava uno stretto corridoio magico, lumeggiato solamente dall’aura della moltitudine di bronzo che conteneva.
Insieme agli altri due semidei, avanzò per un po’, non sapendo esattamente cosa aspettarsi, né cosa il fondo di quella grotta potesse racchiudere.
Poi, la pietra cerulea scomparve, lasciando spazio a poco più di tre metri quadri di parete liscia e levigata, poco prima di riprendere il suo corso nella direzione opposta, verso l’entrata dalla quale i ragazzi erano venuti.
La figlia di Efesto aggrottò la fronte, posando a terra la propria spada. Fece attenzione a non allontanare la lama dal muro, per far sì che continuasse ad essere illuminato anche quando lei vi si sarebbe scansata.
«I tuoi fratelli farebbero i salti di gioia, se vedessero questo posto» le disse Emma, le labbra incurvate in un sorrisetto divertito.
«Ragazzi» li chiamò quindi la mora, esterrefatta. I due amici si voltarono a guardarla, curiosi. «Venite a vedere.»
John aggrottò la fronte, lanciando un’occhiata alla figlia di Ermes, poco prima di avvicinarsi a Skyler, al fine di osservare ciò che lei fissava ammaliata.
«Non ci credo» sussurrò la bionda, sgranando gli occhi e dando così voce ai pensieri di tutti.
Incisi sulla limata pietra, con una precisione disarmante dovuta molto probabilmente ad ore su ore di duro lavoro, vi erano dei geroglifici.
Un disegno stilizzato; un cerchio, con il lato sinistro raffigurato da differenti soli ed il lato destro da molteplici lune. Al centro, il capo del drago di pietra che li aveva condotti verso il cuore di quella terra selvaggia, e che –i ragazzi lo capirono solo in quel momento- era il simbolo inconfutabile dell’incantesimo di cui quell’isola era prigioniera.
Il figlio di Apollo sollevò esitante una mano, sfiorando con i polpastrelli i raggi di quei numerosi astri che sembravano risplendere di luce propria.
«Queste sono le fasi solari» constatò, con ammirazione.
Ma la figlia di Efesto lo ascoltò appena, troppo impegnata a scrutare con occhio critico le immagini al di fuori del cerchio, che parevano avere un significato vero e proprio.
«Guardate questi» intimò, indicandoli con interesse.
Emma si sporse in avanti, inclinando il capo di lato. «Sono dei mostri» notò, confusa.
«Sì, ma è il modo in cui sono dipinti, che è strano» insisté Skyler, per poi spiegare ai ragazzi ciò che inizialmente non aveva compreso neanche lei.
Sul lato mancino, accanto ai soli, le orride creature dipinte avevano il loro consueto aspetto, quello che loro avevano imparato a riconoscere, combattere, odiare ed annientare.
Ma non appena le figure si spostavano sulla destra, entrando così in contatto con le fasi lunari riportate, cominciavano a contorcersi su sé stesse, quasi soffrissero al loro scorgere il latteo bagliore della sera.
Il ragazzo inarcò un sopracciglio, scettico. «Sembra quasi che abbiano…» tentennò, alla ricerca della parola giusta da dire. «Paura.»
La mora si rese conto di aver trattenuto il respiro solo nel momento in cui i suoi polmoni reclamarono aria.
Ripensò alle Anfisbene del giorno prima, al modo in cui i loro occhi avevano scintillato famelici grazie al profumo di mezzosangue che giungeva alle loro narici. E poi alla velocità con la quale erano fuggite; alle loro grida straziate, quasi fossero sottoposte ad una tortura che non erano in grado di sopportare.
E al fatto che, dopo il tramonto, non avevano scorto neanche l’ombra di un mostro tra le fronde degli alberi.
«Questo non ha senso» esclamò, scrollando la testa, con i neuroni sempre più incapaci di dare un senso a tutte le stranezze che aveva affrontato negli ultimi giorni.
«Quest’isola non ha senso» la corresse Emma, al ché i due ragazzi non risposero, sapendo che mascherata da quelle parole c’era una spessa rete di verità.
«Se così fosse, vorrebbe dire che non appena cala la sera, tutti i mostri scompaiono» dedusse a quel punto John, con un accenno di speranza nella propria voce.
«Per andare dove?» gli domandò la figlia di Ermes, con ironia. «I mostri sono imprevedibili, e di certo non ne ho mai visto nessuno che avesse paura di un po’ di oscurità.»
«Ma questi non sono mostri normali» rintuzzò allora Skyler, attirando l’attenzione di entrambi. «L’ho visto l’altro giorno, quando ho guardato negli occhi una di quelle Anfisbene che ci avevano attaccato» spiegò poi, prima di concedersi un mesto sospiro. «L’isola le ha cambiate» affermò, flebilmente. «L’isola cambia tutti
E solo nel momento in cui quelle parole furono soffiate via dalle sue labbra, si rese conto di quanto fossero tremendamente vere.
I tre semidei sapevano, certo, la pericolosità di quella missione. Erano consapevoli di inoltrarsi in un luogo del tutto inesplorato e conoscevano i rischi.
Ma mai –neanche lontanamente- avrebbero potuto immaginare che sarebbero stati obbligati a fronteggiare un avversario molto più grande ed imponente di loro.
Il potere di quel posto sembrava trasparire anche dalla singola foglia che vibrava in sincrono col vento. E li inglobava, minacciandoli da ogni parte, senza che i ragazzi potessero anche solo pensare a quale sarebbe stato il pericolo successivo che li avrebbe indotti ad usufruire di tutte le loro forze, fino allo stremo; fino alla rinuncia, perché era questo ciò che li avrebbe condotti a morte certa.
Era come giocare a scacchi con le proprie stesse vite, senza però conoscere l’avversario, né poter prevedere la sua prossima mossa.
«Brancolerete nel buio» li aveva redarguiti Chirone, e solo in quel momento Skyler comprese cosa realmente intendesse. «Sarà come giocare a mosca cieca.»
Una partita che non potevano prendersi il lusso di perdere, né in quel momento, né mai.
«Credo che forse sia meglio restare qui, per ora» propose ad un certo punto John, distruggendo quel drappo di silenzio che li aveva avvolti, aumentando la soffocante tensione che li dominava. «Se davvero la sera è più sicuro, qui, non ci conviene andarcene in giro in pieno giorno.»
«Non ci è consentito perdere altro tempo» gli fece notare quindi la figlia di Efesto, con una punta d’irritazione. «Abbiamo solo due settimane, per trovare quella pietra, e non intendo passarle a nascondermi dentro una grotta fosforescente!»
«Skyler ha ragione» assentì Emma, con un cenno del capo. «Non possiamo indugiare ogni volta che ci si presenta un ostacolo davanti.»
Il figlio di Apollo prese fiato per replicare, prima di stringere le labbra in una linea sottile ed irrigidire la mascella.
Non era d’accordo con le sue amiche, e la mora lo sapeva.
Ma sapeva anche che non si sarebbe fermata finché non avrebbe stretto quella fantomatica Pietra tra le mani.
Perché forse John aveva ragione, e forse restare lì sarebbe stata davvero l’alternativa migliore.
Forse sarebbero stati attaccati da altri mostri, e forse ciò che stavano inseguendo non era altro che una futile speranza.
Ma Michael era lì fuori, prigioniero delle catene che quella voce gli aveva stretto attorno al collo, affinché la conducessero da lei; la conducessero da Skyler.
E la ragazza non si sarebbe data pace, fino a che non avrebbe avuto la certezza che nessuna delle persone che amava sarebbero morte a causa sua.
Lei era giunta fin lì per recuperare la Pietra dei Sogni.
E ci sarebbe riuscita, fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto.
 
Ω Ω Ω
 
Dopo essere stati attaccati da una dozzina di Empuse, tre Lamie ed una sorta di ibrido vegetale che aveva tentato di dividere il petto di Emma in due parti ben distinte, alla fine era calata la sera, e i ragazzi avevano messo su un accampamento di fortuna, riuscendo a malapena ad accendere il fuoco che si era spento dopo la prima folata del vento che aveva portato la temperatura a sotto zero.
Illuminate solo dall’eburneo pallore della mezzaluna, le due semidee di erano strette attorno a John, che avvolgendole entrambe con le proprie braccia si sforzava di impedire ai propri denti di battere freneticamente.
«Come p-può fare così f-freddo su un arc-cipelago a m-meno di un chilometro d-di distanza dall’e-equatore?» si lamentò la figlia di Ermes, mentre le sue mani tremavano incontrollabilmente, quasi non fossero più sotto la sua autorità.
«S-smettila di fare domande» la rimproverò Skyler, stringendo le palpebre con così tanta forza da rischiare di farsi venire le vertigini. «O-ormai abbiamo c-capito che quest’isola n-non è normale.»
Passò qualche secondo di lacerante silenzio, prima che la bionda sbuffasse, contrariata. «Ho fame» affermò, i muscoli del volto contratti in un’effige di tristezza. «Ed è s-soltanto colpa mia.»
«Non dirlo» la zittì il ragazzo, posandole un bacio tra i capelli, quasi quel gesto bastasse a consolarla.
«Ho perso tutte le provviste» gli ricordò quindi lei.
«Sarebbe successo comunque» la contraddisse la figlia di Efesto. Poi le posò due dita sotto il mento, costringendola a sollevare lo sguardo e ad incastrare le sue iridi argentate alle proprie. «Preferisco a-avere qualche p-provvista in meno, piuttosto che il tuo corpo inerme t-tra le braccia.»
La ragazza abbozzò un sorriso tirato, e nonostante fosse convinta che il vuoto che le logorava lo stomaco non fosse neanche lontanamente paragonabile a quello che stava colpendo i suoi amici, riuscì ad allontanare quel pensiero per qualche temporaneo secondo.
Si accoccolò ancora di più contro il corpo del figlio di Apollo, sfregando con forza i palmi contro quelli di Skyler nella vana illusione che questo le aiutasse a riscaldarsi.
Non sarebbe stata una notte facile, e non era sicura che se un mostro gli avesse teso un agguato, loro sarebbero stati in grado di difendersi.
Ma erano insieme, e in quel momento di puro distacco dalla realtà, con le ossa sconquassate da violenti brividi e le bocche dello stomaco contratte in dolorose morse per via dello sforzo di resistere alla tentazione di stramazzare al suolo, quella era l’unica cosa importante.
Perché finché sarebbero stati lì, pronti a sorreggersi l’un l’altra in ogni istante, nulla al mondo avrebbe fatto più paura alla figlia di Ermes come il timore di poterli perdere, con la consapevolezza di non aver fatto nulla per salvarli.


Angolo Scrittrice. 
*In onda tra dieci, nove, otto, sette...
sei, cinque, quattro, tre...
due... uno...*

ON AIR.
Bounjour a tout le monde! 
Oggi è martedì, e se state leggendo questa noiosissima parte in grassetto vuol dire che sono riuscita ad aggiornare, che non potete ancora vantarvi di esservi liberati di me. u.u
Bien bien, ma che abbiamo qui?
Oh, giusto! Il capitolo peggiore che io abbia mai scritto. So che lo dico circa due volte su tre, ma stavolta è la verità :')
Eppure, allo stesso tempo è anche molto importante. Non fatevi ingannarre dalla cortezza, perchè nonostante tutto i nostri tre semidei fanno una scoperta davvero essenziale, in quella grotta. 
E se non è chiaro quale sia, non preoccupatevi. Innanzi tutto, perchè neanche loro hanno ben capito cosa quei geroglifici rappresentino. E secondo, perchè non volevo affatto farvelo capire. 
Volevo solo far sorgere in voi dubbi e domande, also because le verità verrà svelata più in là, ehehe. 
Btw, parliamo di cose più importanti... che ve ne è sembrato?
Vi è piaciuto il capitolo? O vi ha fatto più schifo dello schifo schifettoso? 
Onestamente, in questo periodo solo un po' demoralizzata. 
Sto notando che sempre meno persone hanno voglia di seguire questa storia, e questo mi dispiace, perchè so che in un certo qual modo è colpa mia. 
Forse le mie idee non sono buone, forse dovrei completamente cambiare genere e darmi alla Briscola. 
O magari, semplicemente non sono più in grado di scrivere qualcosa di decente, e questo mi rattrista, perchè tengo a questa storia e a questi personaggi in un modo inspiegabile. Loro sono la mia seconda famiglia, sono i miei piccoli. Le loro avventure, i loro problemi e i loro sentimenti diventicano automaticamente anche i miei ogni volta che li riporto su carta. 
E se in un certo qual modo non sto facendo un buon lavoro, vi prego di dirmelo, perchè non vorrei mai, in alcun modo, rovinare quella che per me, ormai, è molto più di una semplice storia. 
In ogni caso, voglio ringraziare quelle dolcissime anime pie dei Valery's Angels che sono riusciti a strapparmi un sorriso inqquesto periodo un po' così, regalandomi delle bellissime recensioni nello scorso capitolo. So, grazie infinite a:
_Krios_, stydiaisreal, carrots_98, Kamala_Jackson e vessalius
Grazie, davvero. Siete la mia forza **
Anyway, ora è il momento di fare una piccola comunicazione: Purtroppo la prossima settimana non potrò aggiornare. E' tempo di stage linguistici, per me, e dato che starò via fino al prossimo giovedì non riuscirò a portare il pc con me. Ergo, astinenza da scrittura: mode on. 
ahahah, okay, scherzi a parte, spero che sarete disposti a leggere ancora i miei capitoli quando tornerò qui da voi <3
Ma soprattutto, che non vi siate ancora stancati di questa modesta storia. 
Vi prometto che riuscirò a farmi perdonare l'asssenza, perchè ho un paio di sorprese per voi che romperano la semplicità (?) di questi ultimi capitoli. 
Now, credo sia arrivato il momento, per me, di andare (anche perchè domani ho un'interrogazione di filosofia, e Gorgia mi sta facendo impazzire -.-)
Un bacione enorme a tutti quanti, e grazie per aver letto questa piccola parte in viola, perchè significa che avete avuto il coraggio di restare con me fino alla fine dello sproloquio :')
A martedì 10! *controlla il calendario per sicurezza*
Sempre e comunque vostra,

ValeryJackson

 

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Capitolo 27
*** Capitolo 26 ***




Skyler si morse con forza l’interno della guancia, ignorando il sommesso gorgoglio che proveniva dal fondo del proprio stomaco.
Erano passati ormai tre giorni da quando le Anfisbene avevano rubato lo zaino pieno di cibo di Emma, e le loro provviste, ormai, cominciavano a scarseggiare non poco.
La figlia di Efesto sentiva la sacca sopra le sue spalle farsi ogni notte più leggera, e sebbene cercassero di moderare le rispettive porzioni nel vano tentativo di far durare le loro scorte il più a lungo possibile, non potevano negare di avere sempre più fame ogni ora di più.
John, ostinato, era colui che tra i tre mangiava di meno, non rendendosi conto che cedendo ogni volta la propria razione di cibo alle ragazze non faceva altro che privarsi di tutte le poche energie che gli restavano.
Ed Emma lo odiava per questo, perché nonostante tentasse di non darlo a vedere, non poteva fare a meno di sentirsi in colpa; e neanche le continue parole confortanti degli amici erano in grado di distoglierla della convinzione che se fosse stata più attenta, ora stringerebbe ancora il proprio zaino tra le mani.
La mora avvertì un dolore sordo alla bocca dello stomaco, e sussultò, stringendo con così tanta forza l’elsa della spada nel pugno da farsi venire le nocche bianche.
Quella situazione era insostenibile, e non soltanto per le vertigini che imperterrite li costringevano a fermarsi ogni dieci metri per evitare di stramazzare al suolo.
Ad aggravare il tutto c’erano anche un’aria afosa e irrespirabile, continui e sfiancanti attacchi dai mostri più insoliti (che famelici sbucavano fuori da tutte le direzioni), e un sole che picchiava così forte sui loro capi da convincerli che fosse anche quello uno stratagemma dell’isola per impedirgli di arrivare al giorno successivo.
E come se non bastasse, il tutto era condito dall’ossessione di Skyler per quello stilizzato dipinto che avevano trovato in quella grotta, e al quale non era ancora riuscita a dare un senso.
Ciò che John aveva dedotto osservandolo si stava rivelando vero, in un certo qual modo. Non appena calava la sera, l’isola era avvolta dal più totale silenzio; ogni creatura che l’abitava sembrava scomparire nel nulla, spaventata, per poi ricomparire la mattina dopo, più irruenta e assetata di sangue di prima.
Camminare alla cieca in un posto che non sembrava avere altro scopo che annientarli non era esattamente il pretesto grazie al quale la figlia di Efesto aveva deciso di accettare quella missione.
Salvare Michael era ancora la sua priorità assoluta, su questo non c’era nessun dubbio; eppure aveva la costante sensazione di star sbagliando qualcosa. Direzione, obbiettivo, metodi, strategia.
Si sentiva come un cane che rincorreva disperato la propria coda.
All’improvviso, la terra sotto i suoi piedi tremò, destabilizzando il suo senso dell’equilibrio.
I tre ragazzi si bloccarono sul posto, i muscoli tesi a tal punto da farli sembrare statue di marmo.
Skyler si guardò intorno, confusa, quando un ulteriore strabalzo non li costrinse a sorreggersi l’un l’altro.
«Una scossa di terremoto?» ipotizzò Emma, ma nel momento stesso in cui pose quella domanda, non lo ritenne possibile neanche lei.
Gli scossoni diventarono lentamente più ritmati ed intensi, accompagnati da un tonfo sordo che sembrava abbattersi cadenzato sul suolo.
«Sono passi» soffiò John, chiedendosi quale possente mole dovesse possedere il proprietario per arrivare a far vibrare ogni fusto che li circondava. «Dietro quell’albero» ordinò quindi, con cautela, spingendo le due ragazze verso l’unico nascondiglio che era stato in grado di trovare. «Presto.»  
Le semidee non se lo fecero ripetere due volte, e prima che potessero rendersene conto tutti e tre erano accovacciati dietro un tronco, un fiume sconosciuto che scrosciava discreto alle loro spalle.
Skyler si sporse leggermente fuori, trattenendo il fiato.
Il rumore di passi, ora, era diventato più deciso e rimbombante. E quando il possessore entrò finalmente nel suo campo visivo, la pelle della ragazza fu attraversata da un brivido.
Era un essere alto circa tre metri, con un gonnellino di pelle di mostro e il grasso che strabordava da ogni poro della pelle. Aveva un fisionomia umana, seppur raccapricciante, e nonostante fosse dotato di sole due braccia e due gambe, sulle spalle aveva incastrate ben tre, ghignanti teste, rivolte con un’espressione tranquilla verso diverse direzioni, quasi l’una non sapesse dell’esistenza dell’altra.
In mano, teneva saldamente il tronco di un albero caduto, con il quale avrebbe benissimo potuto disintegrare i tre semidei in un colpo solo, se ne avesse avuto voglia.
La figlia di Efesto percepì il capo di John sporgersi oltre la sua spalla, per osservare, ma non ebbe il coraggio di distogliere lo sguardo.
«Che cos’è?» domandò, con un sussurro tanto flebile da fargli intendere di non avere alcuna intenzione di farsi scoprire.
«Non lo so» espirò di rimando lui, impietrito.
Il mostro si fermò a circa un metro di distanza dal loro nascondiglio, e Skyler sentì i battiti del proprio cuore accelerare quando vide i tre volti annusare l’aria, guardinghi.
Il gigante emise un ringhio sommesso, a denti stretti, e il figlio di Apollo tirò rapidamente l’amica per un braccio, riportandola all’ombra dell’albero poco prima che quello voltasse di scatto i tre visi nella loro direzione. I semidei strinsero le rispettive armi nel pugno, in attesa, ma dopo un tempo che parve interminabile il puzzolente uomo-orco sbuffò, con rassegnazione, e riprese la propria svogliata camminata, scuotendo con ogni suo passo le viscere dell’isola.
Solo quando si fu finalmente allontanato abbastanza da loro, i tre ragazzi si resero conto di aver smesso di respirare.
Skyler e John si lanciarono uno sguardo, sospirando sollevati. Dopo di che, il ragazzo aggrottò le sopracciglia, con apprensione.
«Non ci conviene seguirlo» affermò, con decisione. «Dovremmo andare dal lato opposto.»
«E se lui torna indietro?» obbiettò Emma, corrucciata.
«Dobbiamo sforzarci di essere silenziosi.»
Le ragazze annuirono, d’accordo. Fecero contemporaneamente tutti un passo indietro, continuando a tenere gli occhi fissi nel punto in cui il gigante era sparito, quasi temessero che potesse ripercorrere i propri passi.
Poi un crack, seguito dal leggero fruscio di qualcosa che si sgretola, e la figlia di Ermes sgranò gli occhi, abbassando rapidamente lo sguardo.
Il suo piede aveva accidentalmente calpestato qualcosa di tanto solido quanto viscido.
«Bleah» si lamentò, disgustata dalla verdognola melma che le arrivava fin su la caviglia.
«Ma che cos’è?» esclamò la mora, con una smorfia.
«Che schifo» commentò la bionda, reprimendo un conato di vomito.
«Sembrano uova» fece notare allora John, pensieroso.
«Sembrano?» ripeté Emma. Il ragazzo le indicò assorto qualcosa sulle sponde del piccolo fiume, e solo quando la ragazza si voltò capì a cosa si riferisse.
Migliaia di uova bluastre erano disposte con ordine sparso accanto alle rive bagnate di quel corso d’acqua. Parevano brillare di luce propria, quasi all’interno vi fosse nascosto qualcosa di molto più magico di un semplice ed innocuo pulcino.
«Ehm, r-ragazzi?» chiamò ad un tratto Skyler, al ché i due amici seguirono la direzione del suo sguardo, confusi dalla sua espressione impaurita. «Credo che sia arrivata la mamma.»
Una creatura simile ad un gnu stava immobile all’interno del fiume, l'acqua che le arrivava a malapena a metà zampa e il capo voltato verso di loro. Aveva un folto manto grigio, ed un collo lungo circa un metro più del necessario. Due enormi corna ricurve svettavano all’insù, e oltre a dei denti aguzzi dalla sua bocca fuoriuscivano due tozze zanne, che le impedivano di chiuderla completamente.
La figlia di Efesto scorse una pupilla verde e luccicante, sotto la folta criniera, e subito fu investita da un’ondata di nausea, quasi avesse fatto indigestione del cibo che non aveva mangiato.
«John» chiamò Emma, con un fil di voce. Fece un passo indietro, serrando le dita attorno all’elsa del proprio coltello.
«È un Catoblepa» rispose il figlio di Apollo, i palmi aperti, come se bastasse quel gesto per far intendere al mostro che non avevano cattive intenzioni. «Sia il suo sguardo che il suo fiato sono avvelenati, quindi non guardatelo negli occhi, e non avvicinatevi troppo.»
«Credi davvero che io abbia voglia di abbracciare quell’ammasso di peli?» ribatté quindi la figlia di Ermes, ma lui fece finta di non averla sentita.
«Non fate movimenti bruschi» le avvisò, con tono cauto. «Muovetevi lentamente.»
I tre semidei presero ad indietreggiare con accortezza, trattenendo il fiato, quasi quello potesse in qualche modo tradirli.
Skyler notò che nonostante il mostro si fosse reso conto della loro presenza, continuava a tenere lo sguardo basso. Fece l’errore di indugiare qualche secondo di più sui suoi occhi, e bastò un rapido guizzo delle pupille da parte della creatura per darle la sensazione che qualcuno le stesse strappando via le budella.
Barcollò, sopraffatta dalle vertigini, inciampando sui propri passi fino a che non sbatté contro il tronco dell’albero.
Fu a quel punto che il mostro si impennò sulle zampe posteriori, emettendo un ruggito che riecheggiò agghiacciante nell’aria.
Sbuffò, puntando le corna contro di loro come un toro, e quando John vide del vapore verde fuoriuscire dalle sue narici, dimenticò tutti i consigli che aveva dato alle ragazze.
«Scappate!» urlò, incoccando una freccia e colpendo il Catoblepa sul naso, con il solo risultato di farlo infuriare ancora di più.
La figlia di Efesto scrollò la testa, per cacciare via lo stordimento, ma quando fece per seguire gli amici si rese conto che ormai era troppo tardi per scappare.
Quello che inizialmente era sembrato un grido di battaglia da parte del mostro, in realtà era stato un richiamo per gli altri membri del suo branco.
Prima che potessero escogitare un modo efficace per aggirarla, l’intera mandria di quindici bestie li circondò. Uno di loro –forse il più coraggioso, o il più stupido- si fece avanti per primo, ringhiando, ma Emma fu abbastanza veloce da colpirlo con un fendente ben piazzato in mezzo agli occhi, costringendolo ad arretrare.
Le creature reagirono con versi profondi e intermittenti, come delle sirene antinebbia.
«Dannazione» borbottò la mora, dandosi mentalmente della stupida per aver indispettito quel mostro.
A quel punto, sentì il suolo sotto le sue suole vibrare. I viticci di una pianta piena di spine sbucarono da delle crepe che si andavano formando nel terreno.
Skyler fece un passo indietro, e i tralci serpeggiarono verso di lei, quasi volessero seguirla. Diventavano sempre più grossi, trasudando lo stesso vapore verde che caratterizzava l’alito dei Catoblepi.
«Ma che stanno facendo?» domandò confusa la figlia di Efesto, accorgendosi solo in quel momento che la nascita improvvisa di quelle piante era opera del branco.
La figlia di Ermes fece schioccare la lingua, nervosa. «Cercano un pretesto per ucciderci.»
Solo quando vide una di quelle creature ingurgitare un viticcio, la ragazza capì. I mostri stavano facendo crescere i tralci dei quali si cibavano per far sì che i semidei fossero costretti a calpestarli. E nonostante Skyler non fosse un’esperta del linguaggio animale, afferrò appieno il concetto: “Se pesti il nostro pranzo, allora sei un nemico.”
La mandria ormai aveva i musi puntati nella loro direzione, mugghiando e sfregando gli zoccoli a terra. Erano talmente tanti che sarebbe bastato un semplice sbuffo da parte di ognuno, per ridurre i tre ragazzi in una poltiglia verdognola, e la mora era convinta che se per sbaglio avesse incrociato i loro occhi per più di qualche secondo, il tutto non si sarebbe limitato al voltastomaco.
«Io li distraggo» propose John, prendendo un’altra freccia dalla sua faretra. «Voi scappate.»
«Sì, come no» lo schernì Emma, con un sorriso sghembo.
«Scapperemo insieme» assentì Skyler, facendo vagare i propri occhi scuri su ogni membro del branco. «Avete qualche idea per sconfiggerli?»
«Abbiamo solo un’opzione, in realtà» le fece notare la figlia di Ermes.
«E cioè?»
La bionda prese un gran respiro, rigirandosi abilmente la propria arma nel palmo. «Uccidiamoli.»
Quasi in contemporanea con le sue parole, i tre semidei partirono all’attacco, lanciando un urlo di sfida.
La figlia di Efesto colpì il primo Catoblepa sul capo con l’elsa della spada. Sferrò un montante, poi una stoccata, finché con un affondò ben piazzato non lo rispedì nelle profondità del Tartaro.
Con la coda dell’occhio vide John afferrare una pietra da terra e scagliarla contro uno dei mostri, per poi sfruttare il suo disorientamento a proprio vantaggio e ucciderlo con una raffica di frecce.
Con l’aiuto di un ridoppio dritto, la ragazza fece fuori due creature in un colpo solo, ma prima che la fitta nebbia giallognola delle loro ceneri sparisse dal suo campo visivo, tre nuovi Catoblepi avanzarono minacciosi verso di lei, facendola indietreggiare.
Skyler puntò la spada contro di loro, riuscendo ad ucciderne uno poco prima che quello le si scagliasse addosso. Batté il piatto della lama sul collo del secondo con tutta la forza che le era concessa, per poi affondare l’arma nella sua schiena.
Quando si voltò per fronteggiare il terzo, la scena parve svolgersi a rallentatore. Il mostro spalancò le fauci, e sul fondo della sua gola si formò una rivoltante bruma verdastra. La ragazza sollevò la spada, consapevole che, ad ogni modo, non sarebbe stata abbastanza veloce per impedire a quella caligine velenosa di investirla.
Poi un lampo d’argento, un guaito strozzato.
E la testa della creatura rotolò priva di vita accanto ai suoi piedi.
La figlia di Efesto la fissò, sconcertata, ma prima che potesse rendersi conto di ciò che era appena successo, i suoi riflessi da combattimento la salvarono, facendole disintegrare un mostro alla propria destra.
Si voltò a guardare i suoi amici, chiedendosi chi dovesse ringraziare per averle salvato la vita, quando si rese conto che quelli erano a circa tre metri di distanza da lei.
Schiena contro schiena, polverizzarono due Catoblepi nello stesso istante, per poi ucciderne altri tre con la sincronia di un corpo solo.
Ne avevano fatti fuori circa la metà, ma non per questo potevano concedersi il lusso di cantar vittoria. Erano stanchi, privi di forze, e decisamente poco immuni al veleno. 
Skyler assestò un calcio ben piazzato sul muso di un’ennesima creatura, per poi colpirne un’altra con un fendente. Un mostro tentò di attaccarla alle spalle, ma lei riuscì a ruzzolare di lato e a conficcargli la lama del fianco, trasformandolo in cenere.
Mentre con il fiato grosso si rimetteva in piedi, barcollante, vide un Catoblepa puntare le possenti corna nella sua direzione e montare la carica.
La ragazza sgranò gli occhi, sparendo con un balzo di fortuna dalla sua traiettoria; ma non appena quell’essere incastrò le proprie corna in uno dei tanti alberi che li circondavano, un’ulteriore scintilla d’argento si infranse nell’aria, e di lui non rimase altro che polvere.
La figlia di Efesto tossì, faticando a respirare in quella gialla e malsana nebbia che l’aveva investita. Ma non appena questa svanì, la mora batté le palpebre, sforzandosi di mettere a fuoco. E ciò che vide la lasciò senza fiato.
Se prima sul suo viso non c’era altro che impaurita concentrazione, ora a dominare erano incredulità e sgomento.
Non se l’era solo immaginato, era stato davvero qualcuno a salvarle la vita.
Ma quando incrociò le iridi scure del ragazzo che le stava davanti, il suo cuore perse dei battiti per la sorpresa.
I due si soppesarono per qualche attimo con lo sguardo, indecisi sul da farsi. Poi Skyler sentì il mugghio di un mostro provenire dalle spalle di lui, e con un urlo di frustrazione si alzò in piedi, sferrando un affondo che lo spedì nell’Ade in mezzo secondo netto.
Anche il ragazzo sembrò riscuotersi da un iniziale stato di shock, e la aiutò a far fuori tutte quelle creature che invano tentavano di attaccarli.
Quando le ultime due superstiti partirono alla carica con degli sbuffi inferociti, i due agirono in contemporanea, conficcando le rispettive spade nel muso del Catoblepa che era in procinto di attaccare l’altro e rabbrividendo all’ascoltare l’eco agghiacciante delle loro grida rimbombare tra le fronde della foresta.
Dopo di che, entrambi fecero repentini un passo indietro, e Skyler sentì la lama del ragazzo premere contro la propria gola nell’istante in cui gli puntò la propria arma al collo.
Ansante, incontrò gli occhi guardinghi di lui, che con il respiro affannoso la guardava quasi fosse più sconvolto di lei nel vederla lì.
La figlia di Efesto lo studiò con circospezione, lottando contro le sensazioni discordanti che le impazzavano nel petto.
Aveva un fisico asciutto, ed era più alto di lei di circa una spanna; i capelli scuri erano tagliati alla rinfusa, disordinati, e un ciuffo ribelle gli ricadeva sulla fronte, dandogli un’aria trasandata. Con quelle labbra sottili e quegli occhi color nocciola -che nonostante fossero freddi e distaccati tradivano una certa gentilezza-, non sembrava minaccioso. Ma la ragazza aveva imparato che su quell’isola sperduta non poteva fidarsi di nessuno, se non dei suoi amici.
E quel ragazzo spuntato fuori da chissà dove poteva essere tanto pericoloso quanto frutto della sua immaginazione.
Dopo un tempo che parve infinito in cui i loro respiri si regolarizzarono, Skyler notò le folte sopracciglia di lui corrucciarsi, in un’espressione interdetta.
Lentamente, la lama della sua spada si allontanò dal collo di lei, e il ragazzo fece un barcollante passo all’indietro, stupito.
«Skyler!» la chiamò John, ma la figlia di Efesto non distolse lo sguardo dal volto sbalordito di quello sconosciuto.
In men che non si dica, gli altri due semidei le furono accanto, e solo quando si accorsero della presenza del ragazzo i loro visi passarono dal preoccupato all’incredulo.
Il moro fece guizzare velocemente le iridi dall’uno all’altro, meravigliato.
«Voi siete umani?» chiese, al ché Skyler esitò, interdetta.
«Ehm… sì.»
Le labbra del ragazzo si stirarono in un sorriso euforico. «Siete umani!» esultò, per poi prendere a saltellare sul posto. «Oh, non ci credo!»
I tre amici si scambiarono un’occhiata, confusi, e solo quando sentì il freddo bronzo celeste sfregare contro la sua gamba, la figlia di Efesto si rese conto di aver abbassato l’arma.
«Chi sei tu?» volle sapere John, trascinando lentamente le parole, con accortezza.
Ma lo sconosciuto sembrò ignorarlo, o forse il suo entusiasmo l’aveva travolto a tal punto che non riusciva neanche a fare qualcosa di diverso dallo squadrarli ammirato.
«Non vi sto solo immaginando, vero?» si assicurò, ridacchiando nervoso. «Insomma, siete veri. S-s… Siete reali. Voi…» Lanciò un rapido sguardo ad Emma, per poi posarle una mano dietro la nuca e premere rapidamente le labbra sulle sue.
La ragazza gli diede un forte pugno sul petto, divincolandosi infuriata dalla sua presa. «Ehi, ma che Tartaro fai?» urlò, disgustata.
Per tutta risposta, lui sorrise di nuovo, entusiasta, e se possibile i suoi occhi si illuminarono ancora di più. «Siete veri!» gioì, su di giri.
«Provaci un’altra volta e ti farò vedere io quanto sono vera!» lo minacciò a quel punto la figlia di Ermes, e John la afferrò per i fianchi poco prima che potesse avventarglisi contro.
«Scusami, Riccioli d’Oro. È solo che…» Il ragazzo sembrò cercare le parole giuste, ma se ne scoprì incapace. Soffocò una risata, scrollando la testa con gli occhi fissi in un punto indefinito, quasi quello che avesse appena scoperto fosse troppo impossibile, per poter avere una spiegazione razionale.
E Skyler non poteva dargli torto. Anche se, fino a prova contraria, erano loro quelli meno in grado di dare un senso logico a ciò che stava succedendo.
«Chi sei tu?» gli chiese di nuovo, cauta, le palpebre strette a due fessure e le iridi attente, curiose, che lo squadravano con interdizione.
Il ragazzo sollevò lo sguardo, soppesandola per qualche secondo. Poi sospirò, quasi sollevato.
«Mi chiamo Alex» si presentò, spostando il peso da un piede all’altro. «E, cavolo, pensavo di essere l’unico uomo, qui.»
 
Ω Ω Ω
 
Il primo pensiero che aveva attraversato la mente di Emma non appena aveva visto quel forestiero era stato: Pericolo.
Quando lui, poi, l’aveva baciata, la ragazza aveva avuto la conferma che qualunque fossero state le sue intenzioni, sarebbero state dettate da una forte insanità mentale. 
Non si fidava di quel tizio sbucato fuori da chissà dove, ed era ciò che continuava a ripetere ai suoi amici, mentre sotto l’arancia luce del tramonto lo seguivano nei meandri della foresta.
«Chi ci dice che non sia un mostro e che non ci stia portando nella sua tana, eh?» domandava, irrequieta. «Come sapete che possiamo fidarci di lui?»
«Non lo sappiamo» aveva ribattuto ad un certo punto Skyler, con voce atona, assorta. «Ma quale altra scelta abbiamo?»
A quel punto la figlia di Ermes aveva schiuso la bocca per replicare, ma le sue corde vocali non avevano emesso nessun suono.
Era vero, le loro alternative non erano poi molte, e fino a quel momento quell’Alex si era rivelato sì un po’ strano, ma del tutto innocuo.
Solo che ad Emma non piaceva, non piaceva per niente. E dopo tutti i nemici che era stata costretta ad affrontare negli ultimi giorni, non poteva fare a meno di pensare che quel ragazzo era un mostro sotto sembianze umane.
«Se avesse voluto ucciderci, l’avrebbe già fatto, non trovi?» le aveva fatto notare John, al ché lei aveva sbuffato.
«Tengo a portata di mano il coltello, comunque» aveva garantito, poco prima di notare la sua espressione esasperata. «Che c’è?» era scattata, sulla difensiva. Poi si era abilmente rigirata l'elsa nel palmo, con aria scaltra. «Sono previdente.»
Ma forse, e dopo un po’ se ne rese conto anche lei, non ce n’era davvero bisogno. Era calata la sera, e dato che l’isola sembrava essersi ancora una volta addormentata sotto le stelle, il misterioso ragazzo li aveva fatti accampare nei pressi di un albero; e mentre loro si sistemavano a terra -rendendosi improvvisamente conto di quanto in realtà fossero stanchi-, lui aveva raccattato un po’ di legna, accendendo un fuoco. Mossa non molto intelligente, considerato che così facendo avrebbe potuto attirare l’attenzione dei mostri; ma poi Emma si disse che avrebbe preferito ridurre in cenere qualche rozza creatura, piuttosto che morire di freddo come qualche notte prima. Ed osservando la destrezza e la tranquillità con il quale il moro si muoveva, non sembrava molto spaventato dall’idea di appiccare un localizzatore per i nemici.
Seduti in silenzio intorno a quell’improvvisato ma efficace falò, i tre amici si erano tenuti bene dal sistemarsi troppo vicini a quello che per loro era ancora uno sconosciuto.
Passarono circa un’ora nel disagio e nella diffidenza che quell’insolita situazione portava, a squadrarsi a vicenda, senza sapere esattamente né cosa chiedere né cosa pensare.
Poi, Alex sospirò rumorosamente, sgranchendosi la voce. «Okay» esordì, impacciato. «Credo che dovremmo schiarirci tutti un po’ le idee, no? Quindi proporrei un bel gioco.» Abbozzò un sorriso divertito, incrociando le gambe. «Due domande a testa. Ci state?»
I tre semidei si scambiarono un’occhiata indecisa, comunicando silenziosamente con lo sguardo. «Va bene» assentì Skyler, dando voce ai pensieri degli altri.
«Perfetto!» esclamò allora il ragazzo, emozionato. «Tanto per cominciare, voi conoscete già il mio nome, quindi mi sembrerebbe giusto conoscere i vostri.»
«Io sono Skyler» si presentò la figlia di Efesto. «E loro sono John ed Emma.»
«E cosa ci fate qui?»
«Beh, ecco…» La mora esitò, corrugando la fronte in un’espressione cupa. «Un nostro amico è stato rapito.»
Fu solo quando notò le sopracciglia inarcate di lui che capì di dover dire qualcosa di più. «E…» aggiunse. «Abbiamo intenzione di salvarlo.»
«Tocca a noi, ora» si intromise la figlia di Ermes, squadrando l’intruso con sguardo critico. «Che cosa ci fai tu su quest’isola?»
«Io ci vivo» rispose quello. «Credo.»
«Da quanto tempo?» volle sapere John.
«Un po’.»
«Un po’ quanto?» insisté quindi Skyler.
Alex fece un sorriso sghembo, a mascherare un certo imbarazzo. «Un po’ tanto» si limitò a precisare. «Il fatto è che quando sei qui perdi la cognizione del tempo.» Si passò una mano tra i capelli, rassegnato. «È il mio turno, adesso!» affermò poi, riacquistando con la stessa rapidità con la quale l’aveva persa la sua smorfia spensierata. Puntò gli occhi sulla figlia di Efesto, inclinando il capo. «Prima stavi parlando del tuo fidanzato?»
Se gli occhi della ragazza avessero potuto sgranarsi più di quanto fosse possibile, sarebbero letteralmente schizzati fuori dalle orbite. «C-Che cosa?» balbettò, arrossendo.
Il moro mostrò i palmi, con aria innocente. «Da come ne parlavi, sembrava di sì» si giustificò, e quando lei non replicò, capì di aver colto nel segno. «E come pensate di salvarlo?»
«Come sappiamo di poterci fidare di te?» controbatté allora John, con circospezione.
Alex fece spallucce. «Tecnicamente avevo diritto ad un’altra domanda, dato che le vostre erano tre» osservò, con disinvoltura. «E comunque, vi ho salvato la vita, no?»
«Non ha tutti i torti» convenne allora Skyler, con un cenno del capo. Poi abbassò leggermente il tono di voce. «Se non fosse arrivato lui, molto probabilmente quei Catoblepi avrebbero avuto la meglio.»
«Questo non lo rende più affidabile» si impuntò Emma, risoluta.
«Andiamo, Riccioli d’Oro!» si lamentò quindi il ragazzo, non riuscendo a mascherare il proprio divertimento. «Senza di me sareste morti.»
La figlia di Ermes lo fulminò con un’occhiataccia, puntandogli il coltello contro. «Chiamami ancora così, e giuro che ti…»
«Okay, abbiamo ancora un’altra domanda da fare» la interruppe John, zittendola con lo sguardo. «Ragazze?» disse poi, rivolto ad entrambe.
«Io ne ho una» affermò la bionda, ignorando l’occhiata ammonitrice del figlio di Apollo. Si sporse verso il moro, osservandolo curiosa. «Sei un semidio?»
Alex si strinse nelle spalle, annuendo. «Penso di sì.»
«Chi è tuo padre?» chiese a quel punto Skyler.
Il ragazzo ridacchiò, con spasso. «Ma non era solo una?» ribatté, per poi scrollare leggermente la testa. Si accarezzò l’interno dell’avambraccio con nostalgia, sfiorando con i polpastrelli il punto in cui una volta aveva dovuto esserci tatuato un simbolo. «Non me lo ricordo, comunque.»
Emma parve sconcertata. «Come fai a dimenticare il tuo genitore divino?»
«Quando passi tutte le tue giornate su un’isola come questa, il tuo unico pensiero è sopravvivere» rispose allora lui, con calma. Ci fu qualche attimo di imbarazzante silenzio, nel quale i tre amici non seppero esattamente cosa replicare a quell’affermazione. Poi Alex corrucciò le sopracciglia, pensieroso, prima di scrutare i ragazzi con discrezione. «Da quant’è che non mangiate?» volle sapere, al ché la bionda face un verso di scherno.
«Che razza di domanda è?»
«Ehi!» obbiettò lui, indignato. «Io posso chiedervi quello che voglio.»
«Da un po’, in realtà» ammise Skyler, con sincerità. «Non abbiamo molte provviste.»
«E siete arrivati qui con cosa?»
«Con dei pegasi» disse a sua volta John. «Ma diciamo che si è trattata più di fortuna.»
«Tu, invece?» lo sollecitò poi la figlia di Efesto, con un cenno.
«Con una barca, mi pare» annuì il ragazzo, sforzandosi di ricordare. «Quella è affondata, e noi siamo stati trascinati dalla corrente.»
«Noi?» ripeté Emma, ma il moro si limitò ad abbassare lo sguardo, lasciando intendere che non avrebbe aggiunto nulla di più.
Skyler si domandò che cos’avesse di tanto segreto da doverlo nascondere; ma poi, notando il suo improvviso cambiò d’umore, intuì che dopotutto non erano fatti suoi. «Da dove vieni, tu?» gli chiese invece, scandendo lentamente ogni parola.
Alex si carezzò il mento, arricciando il naso. «Da quella parte.» Indicò un punto alla sua destra, per poi guardare a sinistra, indeciso. «O era di là?»
«No» lo interruppe la ragazza, scuotendo il capo. «Intendo la città.» Solo quando notò la sua interdizione, si chiese se avesse compreso la sua domanda. «Londra? Los Angeles?» tentò. «New York?»
«Ah, New York!» Il volto del morò si illuminò, mentre le sue labbra si incurvavano in un sorriso felice. «Sì, me la ricordo! Cavolo, che bella! Credo che quella sia stata una delle mie ultime gite» spiegò, schioccando la lingua nostalgico. «Abbiamo incontrato questo famoso ingegnere giapponese che ci parlava di un progetto che avevano intenzione di realizzare. Due torre enormi, perfettamente identiche.» Ridacchiò tra sé e sé, scrollando il capo divertito. «Era un pazzo…»
La figlia di Efesto sentì il proprio sangue gelarsi nelle vene. Guardò i suoi amici, constatando che con tutta probabilità aveva stampata in viso la loro stessa espressione pietrificata.
«Ha-Hai detto due torri?» ciangottò Emma, augurandosi di non aver capito bene.
«Sì.»
«Gemelle.»
«Mh-mh.»
«In progettazione?»
«Esatto!» confermò Alex, incredulo. «Pazzesco, no?»
Skyler si riassestò sul posto, a disagio. «Ehm, Alex?» chiamò, quasi con timore. «Quanti anni hai?»
«La vostra età» rispose lui, come se fosse scontato. «Anno più, anno meno…» Poi si rese conto di quanto i loro volti fossero sbiancati, mentre tutti e tre lo fissavano quasi si trovassero davanti un essere fuori natura. «Ehi, perché quelle facce?» ridacchiò, nervoso. «Sembra che abbiate visto un fantasma.»
«Sei sicuro di non avere un po’ più di diciassette anni?» constatò John, con cautela.
Il ragazzo fece un sorriso sghembo. «Ti sembro un vecchietto?» ribatté, sarcastico. Buttò la testa all’indietro, ridendo di gusto, e parve non accorgersi delle espressioni sconcertate dei tre semidei, tre paia di occhi puntati su di lui come se fosse un qualche tipo di fenomeno sovrannaturale.
«Basta così, però» esclamò poco dopo il moro, quando le sue risa furono scemate. «Avete deliberatamente infranto le regole del gioco» li accusò. «Quindi adesso ho diritto ad un bonus. Siete anche voi semidei, giusto?»
«Sì» borbottò Skyler, con aria cupa.
«Figli di…?»
«Efesto.»
«Apollo.»
«Ermes.»
Alex annuì, memorizzando quell’informazione. «Riccioli d’Oro è sempre così aggressiva?» esordì poi.
«Riccioli d’Oro ti sgozza nel sonno, se non la smetti di chiamarla così» ringhiò Emma, con il solo risultato di far allargare il suo sorriso.
«Uuh… indisponente!» la prese in giro il ragazzo, facendo finta di essersi appena scottato. «Ho la sensazione che ci divertiremo molto, insieme.»
«Siamo solo stanchi» giustificò la figlia di Efesto, passandosi una mano sulla fronte, sfinita.
«Da quanto siete qui?»
«Qualche giorno, più o meno» calcolò John.
Il moro tornò a guardare Skyler, e sembrò tentennare, prima di porgere la successiva domanda. «Come si chiama il tuo ragazzo?»
La ragazza sussultò, e strinse le labbra in una linea sottile, per poi mormorare con rimpianto: «Michael.»
«E chi l’ha rapito?»
Lei scosse mestamente il capo. «Non lo sappiamo.»
Alex le batté due dita contro il ginocchio, convincendola a sollevare lo sguardo. «Sono sicuro che sta bene» le sussurrò, confortante.
La mora gli rivolse un sorriso timido, riconoscente. «Grazie.»
«Perché siete venuti qui per cercarlo?»
«Non stiamo cercando lui» precisò il figlio di Apollo. «Ma la Pietra.»
«Quale Pietra?»
«La Pietra dei Sogni» disse la bionda.
A quelle parole, sul volto del ragazzo comparve un sentimento di muta ammirazione, mista a preoccupazione e nervosismo.
Skyler dovette interpretare quelle manifestazioni in un solo modo, perché sgranò gli occhi, trattenendo il fiato. «Aspetta, tu la conosci?» domandò, sentendo i battiti del proprio cuore accelerare.
Alex arricciò il naso. «Non l’ho mai vista, in realtà.»
«Ma esiste davvero?»
«Non lo so» fece spallucce lui. «Penso di sì.»
La mora sorrise, euforica. «Sapresti dirci dov’è?»
«Potrei fare di meglio» assentì il ragazzo, con orgoglio. «Potrei portarvici.»
«Quindi conosci la strada?» si intromise la figlia di Ermes, sbalordita.
«Più o meno.»
John lo squadrò, meravigliato. «Come fai ad orientarti in questo posto?»
«Ho disegnato una mappa» rivelò Alex, stringendosi nelle spalle con finta modestia. «E poi, ormai, la conosco come il palmo della mia mano.»
«Abbiamo trovato un disegno, in una grotta, l’altro giorno» gli spiegò a quel punto Skyler, sporgendosi verso di lui con interesse. «Rappresentava le fasi lunari e solari. E accanto vi erano dipinti dei mostri. Tu sai cosa significava?»
Il ragazzo soppesò un attimo i tre semidei con lo sguardo, per poi sospirare, alzandosi in piedi. Raccolse un legnetto spezzato da terra e si mise ad incidere linee circolari nel polveroso terreno.
In una frazione di secondo, i tre amici gli furono accanto, osservando la sua opera da sopra la sua spalla. Si trattava di una singolare ‘u’ rovesciata, che la figlia di Efesto dedusse essere l’isola. Alex indicò l’estremità superiore con il legnetto.
«Quest’isola è divisa in due parti» cominciò. «La Spiaggia Dorata e la Spiaggia Bianca. In ognuna di queste vi sono due foreste, che io chiamo Foresta del Sole e della Luna. Sono perfettamente identiche, o per la maggior parte. L’unico particolare che le distingue è l’effetto che subiscono con lo spostamento degli astri.»
Tracciò un grosso cerchio sulla punta preminente di quella ‘u’.
«Quando sorge il Sole, tutta la sua foresta si sveglia, sguinzagliando i mostri che vi abitano. L’alba li esalta, li irrita, li fa vivere. Ma non appena le ultime luci del tramonto sono sul punto di scomparire, sono tutti costretti a rintanarsi nei meandri del bosco. Il Sole è l’unica cosa che gli permette di uscire allo scoperto. Se provassero ad uscire di notte, morirebbero.»
«E nella Foresta della Luna?» chiese Emma, al ché lui aggrottò la fronte, concentrato.
«Lo stesso principio, solo che all’inverso. Di giorno la quiete, di notte il caos. Solo che le cose, lì, sono cento volte più terrificanti e pericolose.»
«Devo dedurre che ora siamo nella Foresta del Sole, vero?» fece John, retorico.
Alex annuì, cupo. «Vi auguro di non andare mai dall’altra parte» aggiunse poi, con un tono così lieve che parve rivolgersi più a qualcuno nella sua mente, che ai tre ragazzi.
«E la Pietra dov’è?» eruppe allora Skyler, tentando di frenare il proprio impellente bisogno di arrivare al dunque. Era quello il suo unico e principale pensiero. Tutto il resto era solo un di più che poco le importava.
«Non lo so con esattezza» ammise il moro, mordendosi l’interno della guancia. «Però ho un piano.»
«E cioè?»
Il ragazzo incastro le proprie iridi scure nelle sue, inarcando le sopracciglia con fare guardingo. «Ve lo dirò solo se mi porterete con voi» li informò.
«Cosa?» scattò Emma, sdegnata. «Non se ne parla!»
«Voi avete bisogno di qualcuno che conosca questo posto come le proprie tasche» le ricordò lui, sfidandola ad affermare il contrario. «Ed io non ho un po’ di compagnia da un sacco di tempo!»
«Emma» la pregò allora la figlia di Efesto, supplicandola con lo sguardo di accettare l’offerta. La bionda sostenne per un po’ i suoi occhi screziati d’oro, sforzandosi di apparire risoluta. Ma era consapevole che non le ci sarebbe voluto molto, prima di cedere sotto quell’espressione da cucciolo indifeso; per cui fece roteare gli occhi, sbuffando sonoramente. «E va bene!» sbottò, per poi fulminare Alex con lo sguardo. «Ma resta a tre metri di distanza da me. Ho un coltello, in mano, e non ho nessunissima paura di usarlo.»
La cosa che più sorprese Skyler oltre il sorriso piantagrane del ragazzo, era la facilità con la quale restava immune alle numerose minacce di morte da parte della sua amica. Quasi quella situazione lo divertisse; quasi sentisse davvero la mancanza di un po’ di calore umano che non fosse il suo.
Il moro si alzò nuovamente in piedi, stiracchiandosi lentamente. «Bene, ragazzi. Io direi di sdraiarci un po’ e riposare gli occhi» sbadigliò.
«Aspetta» replicò la figlia di Efesto, seguendolo con lo sguardo mentre gettava il legnetto che aveva in mano nel fuoco. «E il piano?»
Alex fece spallucce, con aria innocente. «Sono più lucido di mattina.»
La prima a rendersi conto che quella era una chiara dichiarazione di mutismo -come a voler dire: “Non vi dirò nulla della mia trovata geniale, altrimenti potreste lasciarmi qui e metterla in atto senza di me” – fu Emma, che con uno sguardo torvo si avvicinò a lui, puntandogli un dito contro il petto. «Tre metri, Spillo» puntualizzò, a denti stretti. «E sappi che ti tengo d’occhio.»
Il ragazzo esibì un sorrisetto malandrino, con il solo risultato di indispettirla ancora di più. E mentre la osservava allontanarsi con passo furioso e lasciarsi cadere con un tonfo ai piedi di un albero, Skyler guardò lui, chiedendosi finalmente da dove arrivasse quello che ora sembrava essere la loro prima vera possibilità di riuscita.
«A domani, ragazzi» li salutò lui, portandosi tre dita alla fronte in un goliardico saluto militare.
E fu solo quando lo studiò mentre si sistemava spensierato accanto ad una quercia e chiudeva gli occhi con aria beata, che la ragazza ripercorse mentalmente tutta la loro conversazione.
Ripensò alle due spiagge, e a tutto ciò che Alex gli aveva rivelato riguardo le due foreste; al modo in cui era arrivato lì, al fatto che non ricordasse il proprio genitore divino. E quando ricordò di quella che lui aveva definito ‘una delle sue ultime gite’, ebbe la sensazione che il proprio cuore fosse risucchiato verso la bocca dello stomaco.
Strinse con forza il braccio di John, al suo fianco, ogni tendine del corpo teso come una corda di violino.
«La profezia» sussurrò con voce strozzata, al ché il biondo corrucciò le sopracciglia, non capendo.
«Come hai detto, scusa?»
La figlia di Efesto lo trascinò in disparte, abbassando il tono di voce per evitare che il moro la sentisse. «La profezia, John» insisté. «Si sta avverando.»
Il ragazzo sembrò colpito, prima di agitarsi sul posto, nervoso. «Come lo sai?»
«E aiuto arriverà dall’uomo che dal tempo è stato inglobato» recitò quindi lei, per poi incastrare gli occhi nei suoi. «Alex ci aiuterà a trovare la Pietra, e fin qui non c’è nulla di… strano. Ma hai sentito quello che ha detto prima? Parlava della progettazione delle Torri Gemelle
«E quindi?»
«Le Torri Gemelle sono state costruite nel 1966!»
Il figlio di Apollo aggrottò la fronte, mordendosi il labbro inferiore, pensieroso. «Cosa credi che dovremmo fare?»
Skyler sospirò, con aria afflitta. «So che molto probabilmente seguirlo sarebbe un rischio» ammise, sconsolata. «Ma John, lui è un raggio di speranza arrivato quando meno ce lo aspettavamo. Se sa davvero dov’è la Pietra –e qualcosa mi dice che possiamo fidarci di lui- allora non ci resta che accettare il suo aiuto.» Spostò il peso da un piede all’altro, passandosi una mano tra i capelli. «Dobbiamo salvare Michael» mormorò poi.
Al sentire quelle parole, lo sguardo del biondo si addolcì. Fece un passo verso di lei, posandole una mano dietro la nuca e attirandola a sé per poterle baciare la fronte, lasciando lì le proprie labbra più del necessario. «Ad ogni modo, lo terremo d’occhio» promise, tentando di infonderle un po’ del proprio ottimismo.
Lei cercò invano di abbozzare un sorriso, per poi stringersi timidamente tra le spalle. «Io mi fido di lui» confessò, per poi voltarsi a guardare Alex, che stava già (inspiegabilmente) russando. «Chiamalo sesto senso.»
E non stava mentendo. C’era qualcosa in quegli occhi scuri e quel sorriso sghembo che la spingeva a dargli fiducia. La stessa cosa che l’aveva convinta ad abbassare la spada. La stessa cosa che da lì a poco l’avrebbe portata a farsi guidare da quello sconosciuto.
«Sarà meglio riposare» le intimò John. «Domani ci aspetta una giornata impegnativa.»
E, Skyler poté giurarlo, anche se avesse voluto non sarebbe mai riuscita ad immaginare cosa quell’impegnativa avrebbe potuto interpellare. 


Angolo Scrittrice. 
*In onda tra tre... due... uno...*
Salve a tutti, semidei! 
Vi sono mancata? 
*Rotola balla di fieno*
Sì, lo so, lo so. Starete pensando: E mo questa chi è?
Beh, se vi siete dimenticati di me, allora vi informo che oggi è martedì, and so... ValeryJackson is back!
Yee!
No, okay, scherzi a parte. Vi avevo promesso una bella sopresa in questo capitolo? Ebbene, ecco a voi un nuovo, freschissomo personaggio tutto da scoprire! 
Mi rendo conto che adesso, per voi, è ancora presto per dare un parere. Ma sono curiosa: Che ne pensate di
Alex?
Come avrete ben capito, da questo momento in poi farà ufficialmente parte della missione. 
Beh, che dire di lui? Innanzi tutto, ha qualche rotella fuori posto. Spero che vi farà divertire, ma vi assicuro che non è entrato a far parte della storia per diventare il giullare di corte. 
Lui forse sa dov'è la Pietra, e se prima i ragazzi si limitavano a girare in tondo, ora hanno una meta ben precisa. E poi, grazie a lui ora le particolarità dell'isola sono chiare. Che ne dite? 
Ho qui un disegno per voi, una mappa che io stessa ho disegnato per aiutarvi a comprendere meglio la fisionomia di questo posto. (non si vede molto bene, pardon)

 


I nostri ragazzi, ora, si trovano nella Foresta del Sole. Ma come vedete l'isola è grande, quindi chissà dove il destino li porterà.
Btw, la profezia continua ad avverarsi. E questo non è un bion segno, no no. 
Ma tornando a parlare di Alex: che dite, vi fidate di lui? Come vi sembra? Qual'è stata la sua battuta/azione che vi è piaciuta di più? E quale di meno? 
Che ruolo pensate che avrà, in tutta questa storia? 
Se può interessarvi, vi informo che per il suo aspetto fisico mi sono ispirata ad un attore, che per me... beh, ormai è Alex. Se volete vedere come la mia mente contorta l'ha partorito, nel prossimo capitolo potrei mettere qualche gif. 
E qui sono sicura che mi ucciderete, perchè purtroppo salterà anche il prossimo martedì.
Questo è un periodo impegnativo, per me, e questo sabato partirò per Salamanca. Cercherò comunque di riuscire a pubblicare martedì 24, e spero davvero che sarete ancora disposti a seguire questa storia, soprattutto ora che si entra sempre di più nel vivo.
Bien bien, ora lascio a voi l'ardua sentenza (mentre io vado a vedere Arrow e Flash **)
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, e non esitate a dirmi che fa schifo. 
Prima di andarmene, però, non posso non ringraziare i miei preziosissimi Valery's Angels, che hanno commentato lo scorso capitolo. Mi scuso se non sono riuscita a rispondere, ma in questi giorni provvederò, lo giuro. 
Un grazie immenso a:
Percabeth7897, diabolika14, carrots_98, Chisaki e martinajsd. Siete degli amori, davvero! 
Oookaaay, ora vado davvero. 
Alla prossima, miei cari fanciulloschi. 
Sempre e comunque vostra,

ValeryJackson 

 

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Capitolo 28
*** Capitolo 27 ***




Quando la mattina seguente Skyler aprì gli occhi, la prima cosa che catturò la sua attenzione fu l’invitante profumo di cibo che pungeva perentorio le sue narici.
Si stropicciò le palpebre, aggrottando la fronte e concentrandosi su quell’odore, quasi a voler constatare che non fosse solo frutto della sua immaginazione.
«Ma che…?» fece per domandare, confusa, quando il suo sguardo cadde accidentalmente su Alex, che seduto a gambe incrociate a pochi metri da lei, era intento ad armeggiare con alcuni legnetti sul fuoco.
La figlia di Efesto guardò prima lui, poi il falò. Poi il sole che accecante illuminava il cielo. Poi di nuovo lui.
«Che stai facendo?» lo rimproverò, brusca. Se quello che aveva rivelato loro la sera prima era vero, allora non ci sarebbe voluto molto, prima che i mostri percepissero la loro presenza e li attaccassero. E nonostante ciò, quel tipo si metteva ad accendere un fuoco; i lineamenti tranquilli, le spalle rilassate mentre nuvole di fumo si arrampicavano verso l’alto, segnalando a chiunque la loro presenza.
La mora si alzò, appoggiandosi all’albero per evitare che la velocità con la quale aveva compiuto quel gesto la facesse sopraffare dalle vertigini.
Non appena udì la sua voce, il ragazzo si voltò nella sua direzione, e vedendola in piedi sorrise, con quella solita aria spensierata che lo caratterizzava.
«Ti sei svegliata!» esclamò, piacevolmente sorpreso. «Giusto in tempo. La colazione è quasi pronta.»
Skyler trattenne il respiro, interdetta.
Colazione? Aveva sentito bene?
Solo allora si avvicinò a lui con passo incerto, sbirciando da oltre la sua spalla ciò che realmente stava facendo accanto a quel falò.
Il moro estrasse dalle fiamme uno dei tanti legnetti, e in quel momento la figlia di Efesto si rese conto che vi era infilzato qualcosa, sopra; erano delle palline grandi come sfere, morbide al tatto, che sfumavano dal bianco al verde.
«Spero che vi piacciano le verdure» l’avvertì Alex, rigirandosi lo stecco tra le dita, per far sì che roteasse su sé stesso. «Perché purtroppo non sono riuscito a trovare altro.»
La ragazza, però, non lo ascoltava già più. Quando il moro le passò una delle soffici sfere, lei la analizzò con occhio critico, non riuscendo a capire di cosa fosse fatta. La annusò, circospetta, prima di lanciare al ragazzo uno sguardo indecifrabile.
«Sembrano polpette» constatò, al ché lui fece spallucce, con indifferenza.
«Chiamale un po’ come ti pare.»
La semidea esitò qualche secondo, indecisa sul da farsi; poi addentò quella tenera poltiglia, masticandola con misurata lentezza.
Appena, però, le sue papille gustative furono sfiorate dal suo delicato sapore di erbe e novità, Skyler sgranò gli occhi, meravigliata da tanta bontà. Diede un altro morso, e poi un altro ancora, finché non si rese conto di quanto in realtà avesse appetito, e chiese al ragazzo un’ulteriore porzione.
«Ehi, vacci piano» la prese in giro Alex, ridacchiando quando lei ebbe trangugiato anche la terza dose di cibo. «Devono bastare per tutti.»
Skyler si accorse solo in quel momento che i suoi amici erano ancora intenti a dormire. Andò a svegliargli, annunciandogli ciò che il moro stava cucinando.
Le reazioni dei due, però, furono ben diverse. Mentre John accettò subito con un sorriso la propria razione, ingurgitando quelle sfere così velocemente da non avere neanche il tempo di masticarle a dovere, Emma inarcò un sopracciglio, dubbiosa.
«Quanto cianuro ci hai messo, dentro?» volle sapere, e dal suo tono non trapelava neanche l’ombra d’ironia.
Il ragazzo buttò la testa indietro in una risata, divertito dalla sua indisponenza. «Non lo saprai mai, se non le assaggi, ti pare?»
Quella risposta non piacque affatto alla figlia di Ermes, che dovette aspettare qualche altro minuto, prima che il suo stomaco esigente avesse la meglio, costringendola ad accettare quel singolare pasto.
Anche Alex ne mangiò un po’, insieme a loro, ma si tenne bene dal rendere esagerata la propria porzione. Sapeva che i tre ragazzi erano molto più affamati di lui, e che avevano bisogno di maggiori energie, se non volevano che l’isola li vincesse.
Lui aveva sofferto la fame molte volte, per cui aveva imparato ad accontentarsi di scarse e misere razioni, allenando il proprio sistema nervoso affinché il proprio corpo si sentisse sazio con più facilità, anche se il suo pasto era composto da delle misere foglie di bambù.
Era anche questo il perché della sua corporatura snella e smilza, che in più di un’occasione gli aveva consentito di arrampicarsi agilmente sulle cime degli alberi, così da trovare riparo per più della metà del giorno, tenendolo a debita distanza da mostri famelici e attacchi a sorpresa.
«Credo che adesso sia arrivato il momento di esporvi il mio piano» affermò ad un certo punto il moro, quando fu sicuro che l’attenzione dei ragazzi si fosse allontanata abbastanza dal cibo per potersi soffermare su di lui.
I tre lo guardarono, soppesando le sue parolecome se, in quel momento, fossero del tutto inaspettate. Poi Skyler tornò in sé, deglutendo a fatica con un cenno del capo, prima di riassestarsi sul posto. «Ti ascoltiamo» assentì, al ché lui si alzò in piedi, pronto a parlare.
«Allora: ho due notizie buone e due cattive. Con quale comincio?»
«Con una di quelle cattive» rispose prontamente Emma, con voce atona e diffidente.
«Okay. Quindi comincio col dirvi che non ho idea di dove si trovi la Pietra. Né se esista, tanto meno.»
«Che cosa?» scattò subito la bionda, con aria incredula. «Vuol dire che ci hai solo presi in giro? Io lo sapevo che non dovevamo…»
«Prima di giudicarmi, Riccioli d’Oro» la interruppe subito lui, sollevando un dito per zittirla. «Fammi dire la buona notizia. È vero, non ho idea di dove si trovi la Pietra. Ma forse conosco qualcuno che potrà indicarci la strada.» Esibì un sorriso soddisfatto, e i tre semidei lo fissarono, in attesa.
«E hai intenzione di dirci chi è?» lo incalzò ad un tratto John, ed Alex sussultò, come se fosse appena uscito da uno stato di trance.
«Oh, sì, giusto» borbottò tra sé e sé, imbarazzato. Non ricordava più quale fosse il modo giusto per comunicare con le persone. Ed era rimasto solo per così tanto tempo che ritrovarsi improvvisamente con tre nuovi amici accanto, per lui, era destabilizzante. «Ehm…» ciangottò, spostando il peso da un piede all’altro. «Mi riferivo agli Spiriti del Vento.» Osservò uno ad uno i ragazzi, in attesa di una reazione. «Sapete cos’è uno Spirito?»
«Ne abbiamo incontrato qualcuno, in passato» ammise Skyler, mentre corrucciava la fronte, sovrappensiero. «Ma mai uno del vento, no.»
«Oh, loro sono i peggiori!» esclamò a quel punto il moro, ridendo quasi avesse appena fatto una battuta. «Sono cattivi, menefreghisti, e soprattutto odiano qualunque ente respiri.»
«Grandioso» brontolò Emma, con sarcasmo.
«Ma» ci tenne a precisare lui, senza perdere il proprio sorriso compiaciuto. «Se c’è qualcuno che può conoscere tutta quest’isola a menadito, quelli sono loro» spiegò. «Il vento può essere ovunque e in qualsiasi momento. Non conosce limiti. Loro sono gli unici che possono spostarsi da una parte all’altra di questo posto senza problemi. Se la Pietra esiste e si trova qui, allora loro sapranno dirci dove cercarla.»
«Perfetto, allora!» esultò subito la figlia di Efesto, sfregandosi le mani per alleviare l’adrenalinica scarica di energia che le aveva fatto vibrare la spina dorsale. «Come troviamo questi Spiriti del Vento?»
Fu in quel momento che Alex fece una smorfia, arricciando il naso quasi avesse appena ingerito una scorza di limone. «Ecco, questa è la seconda cattiva notizia» rivelò, trascinandosi dietro con fatica ogni singola parola. «Io non… non so esattamente come fare per rintracciarli.»
Il silenzio che seguì la sua confessione fu snervante anche per lui. Ad interromperlo fu solo la figlia di Ermes, che con un’espressione disgustata in viso prese a scrollare il capo, scettica. «Cioè, fammi capire bene» sbottò, alzandosi a sua volta in piedi per fronteggiarlo. «Tu non sai dov’è la Pietra.»
«No.»
«Non sei sicuro che esista.»
«No.»
«Vuoi portarci da un branco di Spiriti… pazzi, che non sai se ci risparmieranno la vita.»
«Beh, ecco…»
«E non hai neanche la certezza che loro sappiano qualcosa.»
«Se la metti su questo piano, però…»
«Ci stai dicendo che non hai la più pallida idea di dove possiamo trovarli.»
Il ragazzo si grattò la nuca, a disagio, al ché lei si voltò verso i suoi amici, scioccata. «E voi siete ancora dell’idea che seguirlo sia la cosa giusta da fare?» sbraitò, alzando di un’ottava il tono di voce.
«Emma» la redarguì Skyler, ma la bionda le mostrò subito i palmi, facendola tacere.
«No, sentite, ho accettato il fatto che sia uno svitato, indisponente e che puzzi di capra» cominciò.
«Ehi!» si lamentò Alex, fingendosi offeso, ma lei lo ignorò, continuando a rivolgersi ad due ragazzi.
«Mi sono impegnata affinché il mio coltello non infilzasse il suo torace, e continuerò a sforzarmi finché lui resterà a tre metri –tre metri!- di distanza da me. Ho anche cercato di mangiare il suo cibo senza pensare troppo a ciò che ci aveva messo dentro, ma sapete che c’è? Mi rifiuto di fidarmi di lui. Non lo conosciamo neanche, non conosciamo quest’isola! Non possiamo permetterci il lusso di un altro nemico da combattere, qui, mentre c’è in ballo la vita del nostro migliore amico; del tuo fidanzato, Skyler!»
La figlia di Efesto sussultò, sorpresa dalle conclusioni tanto affrettate dell’amica quanto veritiere.
Aveva ragione: c’era la vita di Michael, in gioco. Non potevano permettersi il minimo errore, né tantomeno di perdere tempo. Seguire quel ragazzo sbucato fuori dal nulla era un rischio, oltre che una scommessa.
Eppure le bastò incrociare in una frazione di secondo le sue iridi scure, e soffermarsi a studiarle qualche secondo più del dovuto, per capire che non c’erano dubbi su quale fosse il suo pensiero a riguardo.
«Io mi fido di lui» pensò, e prima che potesse rendersene conto, le sue corde vocali pronunciarono quelle parole con fermezza, con decisione. «E lo seguirò ovunque abbia intenzione di portarmi.»
«Ma…» fece per obbiettare Emma, ma nel momento in cui prese fiato per parlare, dalla sua bocca non uscì alcun suono.
«Dammi una chance, Riccioli d’Oro» la pregò allora il moro, e fece un passo verso di lei, sorprendendosi che la ragazza, squadrandolo risoluta, non ne facesse uno indietro. «Ti chiedo solo questo.»
«Dammi una sola buona ragione per farlo, Spillo» obiettò quindi la bionda, incrociando le braccia sotto il seno, quasi volesse porre una barriera tra loro. «Poi ne riparliamo.»
I due si soppesarono con lo sguardo, delle effigi indecifrabili dipinte sul volto. Ma prima che tra loro calasse il silenzio, isolando il resto del mondo dal loro sfidarsi con gli occhi, John si sgranchì la gola, considerandolo il modo migliore per prendere parola.
«Verremo con te» annunciò, dando così voce ai pensieri che, in quel momento, sembravano essere di tutti. «Ma c’è solo una cosa che non ho capito» aggiunse poi, rivolgendosi ad Alex. «Se non sai dove cercare quasi cosiddetti Spiriti del Vento, come pensi di trovarli?»
«Continueremo a camminare finché non ci imbatteremo in loro» affermò allora quello, guadagnandosi delle occhiate scettiche da parte dei tre ragazzi. «Il vento può essere ovunque e in qualsiasi momento, ricordate? Quindi non possiamo prevedere dove i suoi spiriti stabilizzino la loro casa. Non ci resta che tentare, e sperare di avere fortuna.»
«Sappi che se stai cercando di farci perdere tempo» lo minacciò quindi la figlia di Ermes, puntandogli un dito contro il petto. «Allora io…»
«Lo so, lo so. ‘Mi sgozzerai nel sonno’» replicò lui, scimmiottando la sua voce (cosa che la ragazza, tra l’altro, non gradì per niente). «Non vi sto aiutando solo perché non so come occupare le mie giornate» le fece notare poi, leggermente infastidito. «Ho una condizione.»
«Una condizione?» ripeté il figlio di Apollo, stupito.
«Sì, esatto.»
«Che genere di condizione?» volle sapere a quel punto Skyler, pronta ad accettare tutto, pur di farsi aiutare.
A dispetto di quanto aveva pensato, però, il ragazzo esitò, torturandosi l’interno della guancia, come se quel gesto bastasse per infondergli il coraggio necessario. «Quando troveremo la Pietra…» iniziò, sentendo il tono venir meno man mano che la consapevolezza di poter rovinare tutto iniziava ad invadere la sua mente. «Io… voglio poter esprimere un desiderio.»
«Tu cosa?» esclamò la mora.
«Lo sapevo» borbogliò invece Emma, per niente sorpresa da quell’affermazione.
«Si tratta solo di un desiderio!» si affrettò a dire quindi lui, iniziando a camminare nervosamente avanti e indietro, mentre si contorceva le mani, cercando il modo giusto per spiegare le proprie ragioni. «È così che funziona, no? Un desiderio a testa, e nulla di più. Io… vi scongiuro. Ho passato anni ad essere prigioniero di quest’isola senza riuscire mai a trovare il modo di scappare. Voi… voi non avete idea di cosa significhi vivere qui, lontano da tutti, e non riuscire neanche a ricordare com’era fatta la propria casa! Io… voglio solo avere la possibilità di rifarmi una vita. Voglio tornare ad essere un ragazzo normale. Voglio lasciarmi questo posto alle spalle e scoprire cosa si prova ad essere… felici. Non mi aspetto che voi mi capiate» soggiunse poi, accarezzandosi il collo con aria abbattuta. «Vi prego solo di non togliermi l’occasione di riscattarmi.»
Per qualche attimo, i tre ragazzi non dissero nulla, troppo impegnati a dare un senso alle sue parole per potersi prendere la briga di aggiungere altro. Poi, la figlia di Efesto si alzò in piedi, e andando verso il corvino gli posò una mano sulla spalla, costringendolo a sollevare lo sguardo.
«Te lo prometto» annuì, al ché lui corrucciò le sopracciglia, confuso. «Ti prometto che ti aiuteremo ad andar via di qui. Ormai fai a tutti gli effetti parte della squadra, e noi non lasciamo mai un membro indietro, vero ragazzi?» domandò agli amici, e i due –persino Emma!- annuirono. «Sono sicura che, se vorrai, al nostro Campo ci sarà di sicuro un posto per te. Tu aiutaci a salvare Michael» lo invitò. «E non avrai bisogno di esprimere un desiderio, per poter ritornare a casa.»
Alex le squadrò il volto, in cerca del minimo segno di beffa; e quando non lo trovò, le sue labbra si stirarono in un nuovo sorriso, questa volta riconoscente, grato della promessa e della fiducia.
«Non ti deluderò» le giurò, e lei capì dal luccichio delle sue iridi che ciò che stava affermando non era una menzogna.
«Ora però devi soltanto dirci da che parte andare» gli ricordò poi John, tirandosi su a sua volta e sgranchendosi lievemente le gambe.
«Oh, dove volete!» esclamò il moro, buttando una mano in aria con finta noncuranza. «Non abbiamo una meta precisa, ve l’ho detto. Quindi scegliete una direzione, ed io vi guiderò.»
«Bene, se è così, allora andiamo di là» si impose quindi Emma, indicando un con cenno un punto alla sua destra. «Sembra la via più tranquilla, al momento.»
A quell’asserto, Alex si lasciò sfuggire una raschiante risata, riassumendo il suo atteggiamento spavaldo tanto rapidamente quanto l’aveva abbandonato. «Imparerete presto a capire che nulla, su quest’isola, è mai ciò che sembra.» Poi, un’idea parve improvvisamente rimbalzare contro le pareti della sua scatola cranica, e con un sorriso piantagrane il ragazzo raddrizzò la schiena, respirando a pieni polmoni. «Ragazzi» annunciò, gonfiando il petto. «Preparatevi, perché state per assistere al tour più insolito e straordinario di tutti i tempi.»
 
Ω Ω Ω
 
Quando Alex aveva usato le parole ‘tour’ e ‘straordinario’, Skyler non aveva di certo creduto di doverlo prendere sul serio.
Mentre continuavano a dirigersi nella direzione che la figlia di Ermes aveva autonomamente scelto, il ragazzo aveva pensato bene di raccontar loro qualcosa di più riguardo il posto in cui si trovavano.
E nell’ascoltare i suoi racconti, la figlia di Efesto aveva la sensazione di trovare via via un tassello in più che le permettesse di ricomporre alla perfezione il puzzle.
«La regola principale dell’isola» aveva infatti esordito lui, mentre apriva la fila che, facendosi largo tra la sterpaglia, si incamminava verso una meta sconosciuta. «È che l’isola non ha regole. Ciò che succede o non succede qui è puramente comandato dalla magia che la domina, che la rende speciale. Qualsiasi storia, mito o leggenda vi siate mai sentiti raccontare nell’arco delle vostre brevi vite, qui diventa realtà. E non sto parlando solo di mitologia greca» aveva specificato poi, accogliendo con un sorriso sghembo i loro sguardi attenti e confusi allo stesso tempo. «Questo posto non conosce limiti. Non bisogna mai abbassare la guardia, ma soprattutto non pensate mai che quello che magari avete visto solo qualche attimo prima fosse la cosa più stramba di tutte. L’isola sa sempre come sorprendervi.» E dicendo ciò, aveva accarezzato distrattamente il grezzo tronco di un albero, ammirandolo pensieroso in tutta la sua altura. «Qui l’impossibile diventa realtà» aveva poi sussurrato tra sé e sé, poco prima di voltarsi a guardare gli altri tre semidei, che in attesa aspettavano la sua prossima mossa. «Venite con me» gli aveva quindi detto, conducendoli nella direzione opposta alla quale erano diretti.
Skyler non comprese quali fossero le sue intenzioni, finché non scorse le limpide sponde di un lago infrangersi nel suo campo visivo, risplendendo quasi brillassero di luce propria.
Il moro ordinò loro di nascondersi dietro un masso di granito, e i ragazzi obbedirono, non facendoselo ripetere due volte.
«Che cosa ci facciamo qui?» volle sapere Emma, che dopo qualche minuto di attesa aveva già cominciato a spazientirsi.
«Aspetta e vedrai» si limitò ad intimarle lui, senza distogliere lo sguardo dalle cristalline acque davanti a loro, assorto. Solo quando lo vide sorridere, meravigliato, la figlia di Efesto si decise a seguire la direzione del suo sguardo. E non appena lo fece, le sue iridi screziate d’oro si rimpinguarono di stupore.
Un maestoso equino bianco si stava abbeverando sulla bagnata riva. Aveva un manto candido, una corporatura possente e fiera. Ma ciò che attirò di più l’attenzione della ragazza fu il corno che, di un regale ma timido rosa, si faceva largo tra la sua folta criniera, proprio in mezzo agli occhi.
«Ma quello è…» fece per bisbigliare, incantata.
«Un unicorno» finì Alex per lei, per poi voltarsi a guardarla con aspettativa, nel vano tentativo di decifrare le sue emozioni. «Non è bellissimo?»
La mora riuscì solo annuire, ragionando dentro di sé che bellissimo era un aggettivo troppo misero per descrivere quella creatura.
«Ma è… cattivo?» domandò quindi John, al ché l’altro ragazzo fece spallucce, incerto.
«Non lo so. Forse sì, forse no. Dipende dall’effetto che l’isola ha avuto su di lui.» Incastrò gli occhi in quelli di Skyler, che, in ginocchio al suo fianco, sembrava pendere dalle sue labbra, in un misto di interesse e timore. «Questo posto cambia, distrugge, migliora e trasforma. Esseri che magari nel mondo reale sono i più docili che si possano trovare, qui sono bestie fameliche assetate di sangue, prive di ogni genere di pudore o ragione. Altri mostri che invece prima non avrebbero neanche esitato ad ucciderti, qui… beh, possono sorprenderti.»
La figlia di Efesto spostò nuovamente l’attenzione sul magnifico unicorno, che indisturbato appariva innocuo, innocente. E si chiese cosa invece sarebbe stato in grado di fare, se fosse stato istigato; come avrebbe fatto una creatura tanto pacifica a diventare violenta e irruenta.
Ripensò alle sirene che l’avevano attaccata il primo giorno, e a come fossero sembrate delle spietate assassine, nonostante i miti greci non le descrivessero esattamente così.
Ripensò alle Anfisbene, e agli occhi iniettati di sangue che più di ogni altra cosa l’avevano traumatizzata. La loro voglia di ucciderla, le iridi vitree e vacue, quasi non stessero pensando a ciò che facevano, ma si muovessero più per un riflesso incontrollato che per una necessità.
Ciò che aveva intuito qualche giorno prima in quella grotta era vero: l’isola cambia tutti. Se in meglio o in peggio, poi, nessuno è in grado di deciderlo.
Restare lì, per loro, significava affrontare l’ignoto; quel posto li stava sfidando per vedere fino a che punto fossero disposti a resistere, quale fosse il limite della loro immaginazione.
«Sarà meglio andare» disse Alex ad un certo punto, interrompendo bruscamente il flusso dei suoi pensieri. «Se continuiamo a camminare, riusciremo ad arrivare ad un buon punto, prima di sera. E se magari trovassimo per strada qualcosa di commestibile, potrei provare a prepararvi…»
La figlia di Efesto smise di udire le sue parole nel momento esatto in cui sentì un grido fendere l’aria, con uno stridio tanto agghiacciante da farle accapponare la pelle.
La ragazza si alzò in piedi di scatto, il cuore che prendeva a galopparle ad un ritmo accelerato nel petto.
Un altro grido. Un lamento. Una richiesta di aiuto.
Non appena sentì invocare il proprio nome, la ragazza per poco non svenne dalle vertigini.
«Michael» mormorò, incredula e spaesata. Si guardò intorno, cercando di identificare la provenienza di quel richiamo, le mani che tremavano, le ginocchia incapaci di sorreggere il suo peso.
«Skyler, aspetta» tentò di calmarla Alex, quasi stesse tentando di farla ragionare.
«Salvatemi!» urlò di nuovo quella voce, e stavolta la ragazza non ebbe dubbi su chi fosse il proprietario.
«Michael!» gridò, con tutto il fiato che aveva in gola. Prese a correre a perdifiato verso quello che ormai sapeva essere il suo ragazzo, incurante degli ordini impartitile dal moro, che le intimava disperato di fermarsi.
Per un attimo, fu come se tra lei e tutto ciò che la circondasse fosse stata eretta una bolla di vetro, che le impediva di pensare ad altro, se non al figlio di Poseidone che continuava a chiederle aiuto, ad implorarle di sbrigarsi.
Michael era vivo. Michael era vivo!
Ed era lì, a pochi metri da lei. E la stava aspettando, prigioniero di chissà quale mostro che aveva intenzione di sbranarlo.
Ma lei non gliel’avrebbe permesso. Avrebbe salvato il suo fidanzato, anche a costo di sacrificare la sua stessa vita.
Avrebbe lottato, per lui. Avrebbe stretto i denti e si sarebbe fatta forza, per lui.
Sarebbe stata disposta a qualsiasi cosa, per lui.
E con la ragione totalmente offuscata da quei pensieri, fu afferrata bruscamente per un braccio da Alex, che riuscì a strattonarla all’indietro poco prima che la ragazza si gettasse correndo giù da un burrone.
«Ma che fai!» si ribellò allora lei, divincolandosi nella speranza di sfuggire alla sua presa che, ben salda, le cingeva i fianchi. «Lasciami andare, devo salvare Michael! Devo salvare Michael! Devo…»
«Quello non è Michael, Skyler!» sbraitò quindi lui, afferrandola per le spalle e scrollandola con forza. «È tutta una trappola, lo vuoi capire?»
«No! Lui è lì, riesco a sentirlo. Mi sta chiedendo aiuto. Devo solo…»
«Sono i Leucrotta, Skyler» le spiegò a quel punto il ragazzo, afferrandole il viso tra le mani e costringendola a guardarlo negli occhi. «Imitano la voce umana; ti traggono in inganno per poterti attirare nella loro tana. Michael non è qui.»
«No, i-io… io lo sento. Lui mi sta chiamando» ciangottò la figlia di Efesto, mentre le urla disperate del suo ragazzo continuavano a graffiarle i timpani, intente a prendere il suo cuore a sprangate. «Lasciami andare, Alex! Quelle sono le sue grida. Riesci a sentirle?» La sua voce si incrinò, e il suo tono si ridusse ad una supplica, mentre roventi lacrime presero ad infiammarle le iridi, bagnandole le guance. «Ascoltalo, dannazione! Non senti quella voce?»
Fu allora che il moro serrò le palpebre, deglutendo a fatica mentre sembrava in procinto di combattere anche una sua personale battaglia, oltre che quella della ragazza.
«Sì, la sento» ammise flebilmente, digrignando i denti al fine di farsi forza. «Non quelle di Michael, però sento anch’io delle grida. Ma posso assicurarti che non sono reali. Fidati di me, Skyler, è solo una trappola. Fidati di me» la pregò ancora una volta, asciugandole dolcemente uno zigomo con il pollice. «Fidati di me.»
Il torace della figlia di Efesto fu sconquassato da un singhiozzo, e prima che uno dei due potesse rendersene conto, le gambe di lei cedettero per il troppo sforzo, e il ragazzo la sorresse, stringendosela al petto mentre lei si aggrappava con forza alla sua maglietta e si sfogava in un pianto liberatorio.
Quando Alex se la ritrovò in lacrime tra le braccia, fu incapace di domandarsi quanto tempo fosse passato, dal ché si trovasse in una situazione del genere.
Si limitò ad accarezzarle la nuca, lasciandole dolci baci tra i capelli ed accompagnandola a terra, al ché si ritrovarono entrambi in ginocchio.
«Va tutto bene» le sussurrò teneramente, posando il mento sul suo capo e stringendola sempre più forte ogni volta che un nuovo singulto la faceva vibrare le costole. «Sei al sicuro, adesso. Ci sono qua io, va tutto bene.»
E nonostante il dolore che quelle incessanti grida continuavano ad infonderle nelle sinapsi del cervello, Skyler seppe che diceva la verità.
Tremava, tra le sue braccia, eppure riusciva ugualmente a percepire un forte senso di protezione. Come quando ad abbracciarla era Michael, o suo zio, o Leo, oppure John. 
Si sentiva difesa, tutelata, come se per tutto il tempo che fosse rimasta lì, nessuno avrebbe più potuto farle del male.
E questo l’aiutò, nonostante quei mostri si ostinassero ad imitare la voce del suo fidanzato.
Perché ebbe quasi la consapevolezza che quel ragazzo la stesse aiutando a sorreggere il mondo, impedendole di farlo da sola.
 
Ω Ω Ω
 
Emma si avvolse le gambe con le braccia, stringendosi le ginocchia al petto e posandovici il mento con un sospiro.
Era calata la sera, e a differenza di quanto aveva immaginato, durante l’arco della giornata non erano stati attaccati da una grande quantità di mostri.
Era merito di Alex, probabilmente, e del modo spavaldo in cui si aggirava per la foresta, quasi sapesse esattamente come fosse giusto agire e non avesse il minimo timore di farlo.
Quel ragazzo, la figlia di Ermes era costretta ad ammetterlo a sé stessa, riusciva sempre a sorprenderla.
È vero, non si fidava affatto di lui. Non a causa di un motivo ben preciso, o perché percepisse qualcosa di losco, nei suoi atteggiamenti. Semplicemente, aveva paura che alla fin fine avrebbe potuto rivelarsi un traditore. Che li avrebbe lasciati lì, rubando loro la Pietra e abbandonandoli al loro destino.
Era già stata vittima di troppe delusioni, per potersi concedere il lusso di aprire il proprio cuore.
Eppure, per quanto le costasse ammetterlo, non aveva mai intravisto cattiveria, il quello sguardo nero come la pece. Solo tanta gentilezza, forse un po’ di ingenuità, ed un puro desiderio di scappare, di aiutarli, pensando che alla fine entrambe le parti avrebbero tratto il meglio da quel gesto.
Quando l’aveva visto salvare la vita di Skyler, poi, aveva avuto la certezza che la cosa più giusta da fare, da parte sua, sarebbe stata riporre l’ascia di guerra.
Pochi aveva visto capaci di tanta bontà. Avrebbe potuto far finta di niente; lasciar cadere la figlia di Efesto nel burrone e fingere che fosse stato un incidente.
E invece l’aveva raggiunta, l’aveva bloccata, se l’era stretta al petto e l’aveva aiutata a non crollare.
Non c’era alcuna pretesa, in quel dolce ma semplice gesto. Solo tanta preoccupazione, che si fondeva al sollievo e al dolore, quasi per un attimo avesse temuto il peggio, e il constatare che si era svolto tutto nel migliore dei modi gli avesse impedito di rivivere un incubo che non aveva ancora voglia di raccontare.
Perché Emma l’aveva capito, l’aveva intuito nell’istante in cui lui aveva stretto gli occhi per darsi forza.
Anche la sua mente era stata manipolata dai Leucrotta, e ai suoi timpani giungevano delle grida più che strazianti, che gli riportavano a galla dolorosi ricordi, rendendogli più difficile ragionare con lucidità.
Per un attimo, la ragazza pensò a ciò che lei aveva sentito, a causa di quei mostri, e prese un respiro profondo, ringoiando con fatica la bile.
Erano le urla di Leo, quelle. Sarebbe stata disposta a metterci la mano sul fuoco.
Non quelle dei suoi migliori amici, o della sua famiglia, o di qualcuno che magari ormai non c’era più.
Erano le strilla del ragazzo che l’aveva illusa, che l’aveva umiliata; la voce della persona con il quale sperava di non avere più nulla a che fare.
All’inizio non aveva dato molto peso a ciò che udiva, giudicandolo uno scherzo che l’isola le stava giocando. Quando poi aveva avuto la conferma che era tutta opera di quelle raccapriccianti creature, non aveva potuto fare a meno di chiedersi perché, tra tutte le voci che avrebbero potuto imitare, avevano scelto proprio quella del figlio di Efesto.
A tormentare John era quella di Melanie, ne era più che sicura.
E Skyler aveva sperato davvero di trovare Michael, oltre quel burrone.
Ma lei? Lei perché aveva sentito le urla di Leo?
E soprattutto come mai le aveva smozzato il fiato la sola idea che potessero essere vere?
Temeva la risposta, e non soltanto perché pensava di conoscerla già.
Il suo subconscio le stava giocando una serie di macabre burle, e per quanto l’odio e il rancore la logorassero dall’interno, la verità avrebbe sempre potuto essere una sola.
Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto solo dal tonfo sommesso di passi, e prima che potesse anche solo rendersene conto, Alex le sedette affianco, i tendini del corpo stranamente rilassati, per essere uno che ha trascorso più di metà della sua vita su un’isola come quella.
Skyler e John si erano appisolati ai piedi di un albero, con il volto di lei nascosto nell’incavo del collo di lui e le braccia del figlio di Apollo strette attorno al suo piccolo corpo, con fare protettivo.
Quando il moro inclinò leggermente il capo di lato, dipingendosi sulle labbra un sorriso piantagrane, fu costretto ad impegnarsi con tutto sé stesso, per evitare di alzare troppo la voce.
«Sai che non è necessario che tu faccia la guardia di notte, vero?» la prese ironicamente in giro, spostando tutto il proprio peso sui palmi. «I mostri non ti attaccheranno, a quest’ora.»
Forse fu sorpreso che lei non replicasse, o magari semplicemente percepiva una sorta di malinconia ad invadere la sua aurea. Fatto sta che dopo qualche secondo di triste silenzio, si voltò a guardarla, squadrandole il viso nonostante le sue iridi argentate fossero fisse in un punto indefinito dell’orizzonte.
«Ehi» sussurrò, cercando di attirare la sua attenzione. «Come stai?»
La figlia di Ermes fece roteare gli occhi, sbuffando come se quel quesito la infastidisse. «Sempre la stessa domanda!» si lamentò, irritata. Ma poi aggiustò il tiro, chinando leggermente il capo e annuendo impercettibilmente. «Sto bene.»
Stavolta fu il turno di Alex di sbruffare. «Sempre la stessa bugia» la canzonò, inarcando le sopracciglia in un’espressione indecifrabile. «A me puoi dirlo, sai?»
«Te l’ho detto, sto bene» insistette lei, al ché lui scrollò il capo.
«Più ti guardo, e più noto che non stai affatto ‘bene’.»
«Beh, allora smetti di guardarmi!» sbottò a quel punto la ragazza, con un’ira che lo sorprese, al punto da fargli mostrare i palmi.
«Calma, Riccioli d’Oro» le intimò, con tono pacato. «Volevo soltanto essere gentile.»
«Per l’ennesima volta, Spillo. Smettila di chiamarmi così.»
«Come vuoi» acconsentì, con un sorriso sghembo, per poi aggiungere sottovoce un: «Principessa.»
Emma ringhiò, contrariata. «Non sono la tua principessa.»
Il ragazzo arricciò il naso, fingendosi indignato. «Sei ingiusta, sai?» obbiettò, con l’aria di un cucciolo bastonato. «Sono stato qui da solo per tantissimo tempo. Dov’è la tua compassione?»
A quelle parole, la figlia di Ermes si lasciò sfuggire uno sbuffo di risata, mentre inclinava la testa di lato. «Sto iniziando a credere che tu ti stia un po’ approfittando di questa storia. Insomma, chi mi dice che tu non sei arrivato qui un giorno prima di noi?»
Il moro prese fiato per parlare, ma inizialmente le sue corde vocali non emisero alcun suono. «Ti lascio il beneficio del dubbio» celiò.
La ragazza tentò di fulminarlo con un’occhiataccia, ma non risultò molto credibile, con le labbra strette al fine di frenare un sorriso. I due si soppesarono per un po’ con lo sguardo, nubi temporalesche che sfidavano una calda crema al cioccolato.
Poi Emma sospirò, trovando improvvisamente interessanti i lacci delle proprie scarpe, e rabbuiandosi in volto raccolse un sassolino da terra, cominciando a disegnare dei piccoli cerchietti nella polvere.
«E comunque, non mi vorresti come principessa» esordì, al ché lui parve confuso.
«Perché?»
La bionda fece spallucce, con aria noncurante. «Perché io non sono come le altre. Non perdo la scarpetta e aspetto il principe mentre balla con tutte. Io la scarpetta te la tiro in fronte, se balli con qualcuna.»
Di fronte a quella inaspettata ammissione, Alex si lasciò sfuggire una divertita risata, subito placata da lei, che posandosi un dito sulle labbra gli intimò di non svegliare i suoi amici.
«E in testa a chi l’hai tirata?» le domandò il ragazzo, non appena si fu calmato.
«Eh?»
«La scarpetta, intendo» specificò, interessato. «Perché l’hai già tirata in testa a qualcuno, vero?»
La figlia di Ermes esitò un istante, prima di rispondere. «No» confessò. «Ma avrei dovuto farlo. Ho perso un’occasione.»
Solo notando l’impercettibile amarezza che impregnava quelle parole, il moro si rese conto di aver appena toccato un tasto molto delicato. «Ti va di parlarne?» la invitò, con un’inaspettata dolcezza, nel tono di voce.
Emma scrollò lievemente il capo, per poi stringersi nelle spalle. «Non lo so.»
«Sai, Emma» disse allora lui, marcando con enfasi il suo nome, quasi sperasse che così facendo sarebbe riuscito a strapparle un sorriso. «L’unica voce che ho ascoltato per tutto questo tempo è stata la mia, tanto che sono arrivato a detestarla.» Si sporse cautamente verso di lei, cercando invano il suo sguardo. «Quindi non faccio fatica a restare in silenzio e a sentirne una diversa.» Ci pensò su, prima di annuire compiaciuto. «Credo di essere un perfetto confidente, no?»
E ottenendo l’effetto desiderato, la ragazza si lasciò andare ad una sommessa risata. Si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, valutando se accettare o meno la sua offerta, poco prima di incontrare le sue iridi scure e trovare il coraggio di parlare.
«È un po’ complicato, in realtà» iniziò. «Vedi, Skyler ha un fratello, un altro figlio di Efesto di nome Leo, e noi… beh, non so esattamente come spiegartelo. Stavamo bene, insieme. In un certo senso, ci completavamo a vicenda. Lui mi faceva ridere, ed era impossibile prevedere le sue mosse successive. Sapeva sempre quale fosse la cosa giusta da dire per consolarmi, e… quando mi trovavo con lui, tutto il resto del mondo scompariva. Hai mai provato questa sensazione?»
«Forse» mormorò semplicemente il ragazzo, per poi incalzarla con un breve cenno del capo. «Continua.»
«Ci siamo anche baciati» rivelò, arrossendo al solo ricordo. «O meglio, io l’ho baciato. E in quel momento sembrava tutto… perfetto. Speciale. Ero convinta che lui mi ritenesse speciale. Ma evidentemente non era così. Dopo neanche due giorni, l’ho visto baciare un’altra ragazza. E mi duole ammetterlo, ma ha fatto molto più male di quanto mi aspettassi.»
Il moro esaminò per un attimo le sue parole, nell’attesa che lei aggiungesse qualcosa. Ma quando capì che così non sarebbe stato, si morse l’interno della guancia, pensieroso. «Eri innamorata di lui?» le chiese, tanto alla sprovvista che la figlia di Ermes rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva.
«No!» sbottò, sulla difensiva. «Non lo so. Non credo. Che importanza ha, adesso?»
«Ha importanza, solo se la risposta è sì.»
«Non voglio avere più niente a che fare con lui» affermò quindi la ragazza, categorica. «Per me è finita, sotto tutti i punti di vista.»
«E Skyler che ne pensa?»
«Skyler non lo sa e non lo saprà mai, chiaro? È di suo fratello, che stiamo parlando. E per quanto io possa odiarlo, non posso negare che tra loro ci sia un rapporto stupendo.»
«Però se lo venisse a sapere sarebbe un bel guaio, non trovi?» ragionò allora lui, dando inconsciamente voce alle paure di lei. «Sei la sua migliore amica, non dovresti mentirle.»
«Non le sto mentendo, le sto solo omettendo parte della verità. Ha già troppi pensieri per la testa, per potersi preoccupare anche dei miei. E non ha più senso dirglielo, ormai. Tra me e Leo non potrà più esserci nulla. Mai più.»
In quel momento, Alex schiuse la bocca per replicare; ma poi dovette ripensarci, perché la rischiuse, stringendo le labbra in una linea sottile. «Ti ringrazio per aver parlato con me» disse invece, sorprendendola non poco. «È stato bello, per un attimo, non trovarsi in piede di guerra.»
«Grazie a te per avermi ascoltato» lo corresse lei, abbozzando poi un breve sorriso. «Sei davvero un ottimo confidente, dopotutto.»
Il ragazzo finse di lucidarsi le unghie contro il petto, esibendo un’ostentata aria di sufficienza. «Sono il migliore, lo so» si vantò, al ché lei gli diede un giocoso pugno sul braccio.
«Il migliore degli idioti, sì» lo canzonò, poco prima di mordersi distrattamente il labbro inferiore. «E tu, invece?» si informò, e notando la sua interdizione, aggiunse: «So che c’è qualcos’altro, oltre quello che ci hai raccontato. Un’altra storia che non vuoi far conoscere a nessuno. Però se hai voglia di parlarne… beh, io posso ascoltarti.»
Il moro soppesò attentamente le sue parole, valutando per un secondo la sua proposta. Un sorriso amaro gli incurvò le labbra, e per quanto si sforzasse, Emma non riuscì a capire a cosa quella timida malinconia fosse dovuta; sapeva che c’era dell’altro in quello scrigno che era il suo cuore, solo che non riusciva ancora a trovare la chiave per aprirlo.
«Magari un’altra volta» mormorò infatti lui, grattandosi la nuca imbarazzato. «Ora ci conviene dormire, se domani non vogliamo far compagnia agli zombie.»
«Ci sono degli zombie, qui?» si affrettò a chiedere lei, stupita.
«Forse» fece spallucce il moro, alzandosi in piedi per recuperare il suo solito fare baldanzoso.
La ragazza gli rivolse una smorfia, seccata; ma mentre lo osservò ripercorrere i propri passi per andare alla ricerca di un tronco sotto il quale adagiarsi, la figlia di Ermes si spostò i ricci su una spalla, stringendosi ulteriormente le gambe contro il petto.
«Alex!» lo chiamò, al ché lui si voltò, incuriosito. «Ti avevo giudicato male» si scusò quindi lei, incapace di trattenere un divertito sorriso. «È stato bello parlare con te.»
Per quella che parve una frazione di secondo, il ragazzo sembrò realmente colpito da quelle parole. Dopo di ché, le regalò il suo stesso sorriso, spostando il peso da un piede all’altro.
«Quando vuoi, Riccioli d’Oro» le sussurrò.
E per la prima volta da quando era lì, Emma sentì di non odiare poi così tanto quel soprannome.

Angolo Scrittrice. 
*Saremo di nuovo in onda tra tre... due... uno...*
¡Hola mestizos! ¿Me extrañaste? 
Ebbene sì. Se pensavate che questa fosse davvero la volta buona che vi eravate liberati di me, mi duole darvi una cattiva notizia. 
Oggi è martedì, ed io sono ancora qui per rompervi le balls. 
Bien bien bien... che dire, ragazzi? Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto!
Innanzi tutto, cominciamo a scoprire qualcosa di più riguardo il nostro
Alex: un lato di lui tenero e maturo, che spesso viene celato da quella sua solita aria spensierata, da piantagrane. Che ne pensate, ora, di questo personaggio? Vi piace? 
Nonostante mi sia piaciuto molto descrivere il momento in cui il moro salva
Skyler, non posso non dare libero sfogo alla mia fantasia ideando i battibecchi tra lui ed Emma
Lei non lo sopporta, questo ormai è abbastanza evidente. Ma nonostante ciò, sta iniziando lentamente a rivalutare la propriaa presa di posizione. Resta colpita, infatti, dall'atteggiamento protettivo che ha avuto nei confronti della sua migliore amica, e quando lui le si avvicina per parlarle, la regola dei tre metri sembra non essere mai esistita. 
La figlia di Ermes capisce che dietro quel sorriso sempre svitato e indisponente, si nasconde in realtà un segreto tanto doloroso quanto difficile, per lui, da raccontare. E nonostante non lo ammetta esplicitamente, grazie al semplice fatto che gli ha parlato della sua storia con Leo fa intendere che, in fondo, anche lei si fida di lui. 
In questo capitolo, inoltre, veniamo a conoscenza di altre informazioni riguardo questa misteriosa isola. Ci sono anche gli unicorni. Chi se lo aspettava? 
Questo posto non conosce limiti, quindi non limitate neanche per un secondo la vostra fantasia. Qualunque cosa sarete in grado di pensare, sull'isola lo potrete trovare. (woo, ho fato la rima!) 
Btw, credo sia arrivato il momento di dirvi che ci vedremo il prossimo martedì, ma onestamente non so se sarà così. 
Questa storia è stata abbandonata da molte persone, ed io me ne sto rendendo conto. Non fraintendetemi, tutti questi personaggi sono la mia vita. Ma credo che se a nessuno interessano più le loro avventure, non c'è un motivo perchè io debba continuare a pubblicarle. 
Metto anima e corpo in quello che scrivo, impegnandomi al 110% per avere la certezza di riuscire a pubblicare ogni martedì. Ma se non c'è più nessuno disposto a leggere questa storia, tutti i miei sforzi continueranno a risultare vani. 
Non so se vale la pena continuare, è questa la verità. Per cui vi prego di dirmi che cosa fare. 
Fatemi conoscere la vostra opinione; ditemi se c'è qualcosa nella trama che non funziona e datemi la possibilità di risollevarmi. Deludervi è l'ultima cosa che voglio, e se è questo ciò che sto faccendo, allora vi prego immensamente di scusarmi. 
Ringrazio con l'anima e il cuore i Valery's Angles che hanno commentato lo scorso capitolo, scusandomi ancora una volta con loro per non essere riuscita a rispondere alle loro recensioni. Le vostre parole sono state di enorme conforto, davvero, e mi auguro che questo capitolo sia stato all'altezza delle aspettative. Grazie quindi a:
Percabeth7897, _angiu_, _Krios_ e martinajsd
Non ci sono parole per descrivervi tutta la mia gratitudine. Grazie a voi che avete deciso di restare ancora con me <3 
Spero ancora una volta che la storia non abbia smesso di piacervi, e prego gli dei affinché io non sia costretta a lasciarla in sospeso. 
Prima di andare, però, voglio mostrarvi una cosa. 
Vi avevo annunciato di aver dato il volto di un attore al mio piccolo Alex, e quando vi ho chiesto se avevate voglia di vederlo, le risposte sono state affermative, perciò... eccolo qui! 

 


E' Grant Gustin, ed ha recitato in telefilm come Glee e The Flash. Personalmente, adoro quel sorriso. E le sue espressioni facciali sono perfette per Alex, perchè sono esattamente così che le immagino. 
Quello di Grant, però, è solo il volto che ho pensato di dargli io. Voi, ovviamente, potete immaginarlo come più vi pare. Anzi, se avete dei suggerimenti, sari felicissima di ascoltarli e di confrontarmi con voi.
Oookaaay, ora vado veramente via. Grazie per aver letto anche quest'altro Angolo Scrittrice senza pretese, e vi invito ancora a dirmi se qualcosa (del capitolo così come della storia) non vi piace, perchè provvederò a cambiarlo. 
Al prossimo martedì, se ne varrà la pena. 
Sempre vostra,

ValeryJackson
 
 

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Capitolo 29
*** Capitolo 28 ***




Emma si grattò distrattamente il naso, girandosi su un fianco mentre la sua mente era ancora adagiata tra le braccia di Morfeo.
Dopo essersi confidata con Alex, la sera prima, non ci aveva messo molto ad addormentarsi. La stanchezza accumulata durante tutti quei giorni passati a combattere pur di non farsi uccidere aveva cominciato a farsi sentire, e ben presto stava già fluttuando in un limbo privo di colori, dove i sogni che di solito dominavano le sue dormite non erano abbastanza forti per contrastare la pulsante magia di quell’isola.
Qualcosa le sfiorò fastidiosamente la punta del naso, e lei lo arricciò, contrariata.
Non appena il leggero prurito tornò nuovamente a farle fare una smorfia, la ragazza si mise supina, mugugnando qualcosa di incomprendibile con disappunto.
«Sveglia, Riccioli d’Oro!» esclamò dolcemente una voce, quando la figlia di Ermes si stropicciò gli occhi, nella vana speranza di riuscire ad aprirli. «Il sole splende alto nel cielo, gli uccellini cinguettano, e noi rischiamo di essere sbranati da un mostro se non ce ne andiamo immediatamente da qui.»
La bionda storse il naso, lanciando un’occhiataccia ad un Alex che, con le mani posate accanto alle sue spalle, le sorrideva strafottente dall’alto.
«La regola dei tre metri è ancora valida, Spillo» lo avvertì, posandogli il palmo sul petto, con il fine di spingerlo via. «Quindi se ci tieni alla tua vita, ti conviene spostarti.»
Il ragazzo ridacchiò, divertito, per poi mettersi a sedere con un tonfo e permetterle di stiracchiarsi prima di alzarsi in piedi.
«Buongiorno, dormigliona!» la canzonò subito Skyler, e solo allora Emma si rese conto della presenza dei due amici.
John le si avvicinò con un sorriso, posandole una mano dietro la nuca e lasciandole un tenero bacio sulla fronte. «Dormito bene?» le domandò, al ché lei inarcò un sopracciglio, confusa.
«Come fate ad essere tutti così spensierati?» obbiettò, squadrandoli come se li vedesse per la prima volta.
«Ho dato loro la seconda buona notizia» annunciò quindi Alex, affiancandola con aria compiaciuta.
«Che sarebbe?»
«Vi insegnerò tutto quello che c’è da sapere sul cibo che si può trovare su quest’isola» rispose il moro, posando le mani sui fianchi. «Quindi se ascolterai tutto quello che sto per dirti, non correrete più il rischio di morire di fame.»
 
Ω Ω Ω
 
Skyler era felice di poter finalmente concentrare la propria attenzione su qualcosa che non fosse il logorante vuoto che avvertiva nel petto.
Ogni giorno che passava, ogni secondo che scorreva inesorabilmente sull’orologio, Michael le mancava sempre di più.
Riusciva ad immaginarselo, magari rinchiuso in una gabbia, incatenato, mentre stringeva i denti e si imponeva di resistere al dolore che una serie di torture gli infliggeva; e non poteva fare a meno di sentirsi in colpa, di convincersi che ogni minuto in più che lei spendeva su quell’isola, per lui equivaleva ad un ulteriore passo verso il crollo fisico. Perché Michael era forte, certo, ma non per questo indistruttibile.
A distoglierla repentinamente dai suoi pensieri, in quel momento, fu solo Alex, che avvicinandosi a lei con almeno cinque bacche diverse in equilibrio sul palmo le chiese di dirgli quale fosse quella commestibile.
«Quella rossa» rispose lei, senza soffermarsi troppo ad osservarle.
Il ragazzo emise uno strano verso con la bocca, quasi quello fosse un quiz televisivo. «Ritenta, sarai più fortunata.»
La figlia di Efesto inarcò le sopracciglia, ragionandoci un po’ su. «Quella blu?» ritentò, al ché lui annuì soddisfatto.
«Sapevo che ce l’avresti fatta!» esultò infatti, afferrando agilmente il frutto turchiniccio tra il medio e l’indice, per poi far cadere a terra le altre e calpestarle con il tacco. «Tutto ciò che è blu, qui, sarà sicuramente commestibile, sempre.»
La ragazza abbozzò un sorriso sghembo, inclinando il capo di lato. «Allora a Percy piacerebbe stare qui» pensò, redendosi conto solo dopo di aver fatto quel commento ad alta voce.
«Come?» disse il moro, interdetto.
«Nulla, lascia stare» fece correre lei, scrollando lievemente il capo.
Il ragazzo esitò qualche secondo, incuriosito; dopo di che le diede le spalle, ed osservarò il figlio di Apollo annusare circospetto un melograno giallastro.
«I cibi verdi vi sazieranno con più facilità, ma sono rari, e molto difficili da trovare. Quelli gialli sono insapori, e dovreste mangiarne molti, per riempirvi lo stomaco. Gli arancioni sono apparentemente innocui, ma se ne fate abuso vi lasceranno con il mal di stomaco per due giorni. Quelli rosa, per una settimana. Se vedete qualcosa di viola, è probabile che sia velenoso. Da quelli rossi, invece, fareste meglio a starne alla larga.»
«Perché, sono letali?» volle sapere John, interessato.
«Una volta ho visto un orco assaggiarne uno, e accasciarsi stecchito un minuto dopo. Non so se è morto sul colpo, ma sono sicuro che ora ci sia un’orchessa con un marito in meno.»
Il biondo corrucciò le sopracciglia, meditabondo. «E quanto tempo credi ci voglia, in genere, perché questi frutti ti portino alla morte?»
Alex fece spallucce, sospirando con sarcasmo. «Non ne ho ma assaggiato uno» gli fece notare, come se fosse scontato. «Quindi non penso di essere la persona adatta per rispondere a questa domanda.»
Il figlio di Apollo spostò il peso da un piede all’altro, sforzandosi di non controbattere, davanti a quella risposta. Fu allora che li raggiunse Emma, rigirandosi assorta una mela eburnea tra le mani.
«E con i frutti bianchi che succede?» domandò, mostrando al moro ciò che aveva raccolto.
«Quelle bianche sono commestibili, sì. Un po’ come le gialle, però.»
«Oh, quindi questa posso mangiarla!» esultò la figlia di Ermes, facendo per addentare il proprio bottino.  
«No!» la contraddisse il ragazzo, bloccandole il polso a mezz’aria poco prima che lei potesse dare un morso. La bionda lo guardò, con aria interrogativa.
«Questo non è completamente bianco» le spiegò allora lui, ma la ragazza sembrò non capire. «Osservala bene» continuò quindi, facendo un passo avanti e alzandole il frutto all’altezza del naso. «Non vedi queste sfumature rossastre? Sono piccole, ma ci sono. Ciò significa che ti basterebbe anche solo masticare un pezzo di questa mela, per poter perdere la vita. Dovete fare attenzione a ciò che raccogliete, e soprattutto esaminarlo bene, prima di mangiarlo. Quest’isola non scherza.»
«L’isola non scherza, no, no» ripeté una voce sopra le loro teste, quasi fosse una tiritera.
I quattro semidei sguainarono repentinamente le proprie armi, puntandole verso l’alto. Ma, inizialmente, non videro nessuno.
«Quest’isola è pe-ericolosa» cantilenò un ulteriore voce, più acuta e stridula della precedente. «Non scherza. No, no. Non scherza.»
«Smettila di ripetere quello che dico!» protestò la prima, più vibrante e profonda.
«Smettila di ripetere quello che dico.»
«Lo stai facendo di nuovo.»
«Lo stai facendo di nuovo.»
«Non sei divertente!»
«Non sei di-ivertente.»
«Chi c’è?» sbottò a quel punto John, frustrato dall’idea di dover ascoltare quello sciocco dibattito senza poter guardare in faccia gli interlocutori. «Venite fuori!»
«Ma noi siamo qui.»
«Siamo qui!»
I ragazzi squadrarono attentamente tra le fronde degli alberi, senza sapere esattamente chi o cosa dover cercare.
«Alla vostra sinistra» suggerì allora la voce stridente, al ché loro si voltarono.
E appollaiati sul ramo di una quercia, a circa tre metri di altezza, c’erano due inquietanti… corvi.
Si muovevano a scatti, quasi fossero entrambi meccanici, e battevano distrattamente i becchi, come se quello fosse un riflesso incontrollato.
«Sono uccelli veri?» chiese Emma, incredula.
«Siamo i messaggeri di Odino» obiettò il pennuto dalla voce più profonda, indignato. «Muninn e Huginn. Io sono Muninn.»
«Io sono Muninn» replicò l’altro.
«No, tu sei Huginn.»
«Tu sei Huginn.»
«No, io sono Muninn.»
«Ma non ero io Muninn?»
«No, tu sei Huginn.»
«Ah, okay.»
«Chi dei due è Huginn?» sbuffò Alex, scocciato.
Il corvo dalla voce stridula sollevò un ala, saltellando entusiasta. «Io sono Huginn!» esclamò, contento.
«Odino?» rifletté Skyler, meravigliata. «Questo vuol dire che…»
«Fanno parte della mitologia norrena» finì il figlio di Apollo per lei, arretrando di un passo, in soggezione. «E che con tutta probabilità sono dei mostri.»
«No, mostri, no» ribatté Huginn, agitandosi freneticamente sul posto.
«Pensiero e memoria, questo sì» aggiunse subito dopo l’altro, lasciando i ragazzi un po’ interdetti.
«Come hai detto, scusa?» chiese prontamente Emma, inarcando un sopracciglio confusa.
«Huginn in norreno significa pensiero» spiegò allora quello, quasi fosse una cosa scontata. «E Muninn significa memoria.»
«Quindi io sono la memoria!»
«No. Abbiamo già stabilito che tu sei Huginn.»
«E quindi Muninn chi è?»
«Io sono Muninn!»
«Ah. Non me lo ricordavo.»
«È per questo che non potresti essere la memoria
«Non è giusto, però.»
«Smettetela!» urlò all’improvviso la figlia di Efesto, massaggiandosi le tempie con una smorfia sul viso. «Sta per venirmi un mal di testa.»
«Tu pensi troppo al tuo ragazzo, semidea» le fece notare quindi Huginn, al ché la ragazza alzò il volto repentina, guardandolo con occhi sgranati.
«Come fai a sapere di Michael?» mormorò, stupita.
«Io sono il pensiero» le ricordò allora il corvo. «Perciò sento tutti i vostri pensieri. Lui, ad esempio, sta per scoccare una freccia» disse poi, indicando John con un cenno dell’ala corvina, poco prima di accompagnare la propria affermazione con un gracchio.
Il biondo abbassò l'arco, turbato, rendendosi conto solo in quel momento di avere i muscoli tesi quasi fossero corde di violino; come lo erano sempre, d’altronde, nell’istante precedente a quello in cui stava per colpire il proprio bersaglio.
«Io, invece, vedo i vostri ricordi» si unì poco dopo Muninn, gonfiando il petto con aria trionfante. «Anche quelli che magari state cercando di dimenticare.»
«Che cosa volete da noi?» reiterò Skyler, facendo un passo avanti con aria di sfida, il pugno stretto sull’elsa con così tanta forza da avere le nocche bianche.
«Niente. Niente di niente» assicurò Huginn, esibendosi in un ulteriore verso ributtante.
«Non mangiamo carne umana» confermò dunque l’altro corvo. «Solo bacche. Già, già.»
«Abbiamo solo sentito i vostri pensieri.»
«E i vostri ricordi.»
«Pensieri e ricordi.»
«E abbiamo pensato di fare una chiacchierata.»
«Una c-chia-acchierata. Sì, sì.»
«Beh, noi non abbiamo voglia di chiacchierare con voi» gli palesò quindi Alex, con aria di sufficienza.
«Preferiresti parlare con Caitlin?» lo schernì prontamente Muninn, cogliendolo talmente alla sprovvista che il moro barcollò all’indietro, quasi avesse appena ricevuto un pugno nello stomaco.
«Oh, sì! Lo vorrebbe è come!» confermò Huginn, compiaciuto. «Lo sta pensando. Sì, sì. Lo sta pensando.»
«Fate silenzio!» tuonò il ragazzo, le mani che tremavano leggermente, il volto arrossato dall’ira.
«Perché stare zitti, quando possiamo parlare di Melanie?» continuò invece Muninn, imperterrito.
«Non provate neanche a nominarla» ringhiò John, avanzando minaccioso.
«E perché? È tanto carina.»
«Sì, sì» assentì Huginn. «È tanto carina.»
«Vedo una canoa su un lago, nella tua mente. Non è romantico?»
«Sì, sì. Proprio romantico.»
«Già, già. Proprio romantico.»
«Puoi smetterla di pensare al tuo fidanzato, però?» Il corvo dalla voce stridula si rivolse alla mora, infastidito. «Così occupi tutto lo spazio disponibile!»
«Anche lei ha un fidanzato» soggiunse Muninn, indicando la figlia di Ermes con un cenno della piumata testolina. «Non sta pensando a lui?»
«No, non lo sta pensando.»
«Perché non lo stai pensando?»
«Già, perché non lo stai pensando?»
«Quale fidanzato?» si intromise allora la figlia di Efesto, squadrando l’amica con la fronte aggrottata. La bionda avvampò, arretrando di un passo, a disagio. Prese fiato per parlare, pronta a smentire, ma inizialmente le sue corde vocali non emisero alcun suono.
«I-io non ho…» ciangottò, non sapendo esattamente come continuare.
«Aspetta, aspetta!» esclamò nuovamente il corvo della memoria, battendo le ali entusiasta. «Vedo un nome!»
«Vede un nome!» gioì Huginn, felice.
«Inizia per ‘L’.»
«Uuh... adoro la ‘L’.»
«Mmh… dunque, vediamo. Lucas?»
«No, penso di no.»
«Loris?»
«No, nemmeno.»
«Louis?»
«Basta, smettetela!» protestò Emma, il cuore che le martellava nel petto.
«Luther.»
«No, non ci siamo.»
«Lovis?»
«Riprovaci.»
«Lou?»
«Tenta di nuovo…»
«Okay, okay. Ci sono.» Muninn sembrò concentrarsi, irrigidendo i muscoli del collo e rannicchiandosi sullo spesso ramo, quasi si stesse preparando al decollo. «Eccolo, ce l’ho!» tripudiò poi, trionfante. «È Leo
«Che cosa?» scattò Skyler, in un misto di stupore e scetticismo.
«Sì! È Leo! Si chiama Leo!» confermò Huginn.
«Che cosa?» ripeté quindi la mora, voltandosi verso l’amica, incredula. La soppesò con lo sguardo, in attesa di un cenno di disgusto; aspettando che replicasse, che negasse quell’assurdità, che le facesse notare quando poco fosse plausibile quell’affermazione.
Ma quella, invece, si limitò a fare un passo indietro, incapace di sostenere i suoi occhi scuri, le iridi argentate velate dalla vergogna e dal pentimento.
La figlia di Efesto sentì il proprio cuore perdere un battito. «Emma, che cosa significa?» domandò, con voce tremante.
«Leo ed Emma sono stati insieme» chiarì a quel punto Muninn, con alterigia. «Anche se per poco, in realtà. Vedo una spiaggia, un’altalena, dei fuochi d’artificio e un bel bacio.»
«Un bacio?» reiterò Skyler, corrucciando le sopracciglia inorridita.
«Sì, un bacio.»
«Un be-e-el bacio» cantilenò Huginn.
«Ma… m-ma…» La figlia di Efesto cercò il contatto visivo con la bionda, invano. «M-ma Leo è mio fratello. Voi non avete… Quando hai… Tu non puoi…» Tutte le parole parvero morirle in gola di fronte all’espressione colpevole dell’amica, che ormai non si sforzava più di nascondere i vetri rotti che da un po’ di tempo a quella parte erano diventati i suoi occhi.
«Dimmi che è uno scherzo» la pregò la mora, il tono implorante, la voce spezzata.
«Skyler, io…»
«Dimmi che è uno scherzo!» inveì la ragazza, impedendole di esibirsi in stupide scuse, mentre le sue unghie erano conficcate nel palmi così tanto da lasciarvici dei piccoli segni a forma di mezzaluna.
Emma spostò il pesò da un piede all’altro, affranta. «Posso spiegare» giurò.
«Tu mi hai mentito» la accusò Skyler, puntandole un dito contro il petto. «Hai baciato mio fratello, e non me l’hai detto. Mi avevi promesso che ci saremmo sempre raccontate tutto. Mi avevi promesso che tra noi non ci sarebbero stati segreti!»
«E non ce ne sono mai stati, davvero! Se tu mi dessi la possibilità di raccontarti…»
«Io non ho intenzione di ascoltare le tue giustificazioni!» Il tono della figlia di Efesto si alzò di un’ottava, palesando tutta la sua ira e la sua indignazione. «Come faccio a crederti, dopo tutte le bugie che mi hai raccontato?»
«Ma non è come pensi! Hai soltanto frainteso.»
«Oh, davvero?» ribatté la mora, con sarcasmo. «Perché a me sembra tutto abbastanza chiaro.»
«Non lo è, invece. Le cose stanno in una maniera del tutto diversa. Se solo mi lasciassi…»
«Dimmi che quei due corvi hanno mentito» la incalzò allora Skyler, il tono rotto dalle roventi lacrime che pungevano contro la sua retina, vogliose di solcarle il viso. «Dimmi che non hai baciato Leo. Dimmi che non mi hai mentito. Dimmi che non hai provato qualcosa per lui senza dirmi niente. Dimmi che non mi hai nascosto davvero tutto questo!»
«Io…» La figlia di Ermes esitò, sostenendo con difficoltà il suo sguardo. Sospirò, le iridi imperlate di dispiacere. «Non posso» sussurrò, con un fil di voce.
La mora parve assorbire il colpo, quasi le avessero appena dato uno schiaffo in faccia.
«Skyler, mi dispiace» si affrettò ad aggiungere Emma, come a volerla supplicare di dar peso alle sue parole.
«Le dispiace davvero, sì» assicurò Huginn, intromettendosi ancora una volta nel discorso. «Ti ha mentito, ma le dispiace tanto.»
«Andate via!» sbraitò quindi John, incoccando una freccia e scagliandola furioso contro i due pennuti. I due gracchiarono, riuscendo a schivarla per un soffio, e in un volteggiare di piume corvine e versi striduli sbatterono le ali, alzandosi in volo.
«È stato un piacere!» esclamò Muninn, poco prima di andare via.
«Sì, sì. È stato un piacere!»
«Skyler, ora cerca di calmarti» intimò poi il figlio di Apollo, non appena i due corvi furono spariti dal loro campo visivo. «Emma ha avuto una ragione più che valida per…»
«Aspetta un secondo» lo interruppe l’amica, accigliata. «Tu lo sapevi?»
Il ragazzo si grattò la nuca, imbarazzato. «Ecco, io…»
«Tu lo sapevi!»
«Ragazzi» intervenne Alex, con tono pacato. «C
redo che se provassimo a ragionare con lucidità, allora potremmo…»
«Lo sapevi anche tu, non è vero?» gli domandò invece Skyler, e quando lui strinse le labbra in una linea sottile, evitando di risponderle, non fece altro che confermare tutti i suoi sospetti.
«Oh, grandioso!» esclamò infatti lei, con amaro sarcasmo. «Quindi l’unica che non era degna di saperlo ero io?»
«No, non è quello» replicò prontamente Emma, facendo un passo verso di lei. «È solo che non c’è mai stato il tempo di…»
«Non mi toccare!» ringhiò la figlia di Efesto, ritraendo di scatto il braccio poco prima che la bionda potesse sfiorarglielo. Le rivolse un’occhiata carica di disprezzo, mista a sofferenza e delusione. «Pensavo di essere la tua migliore amica» sibilò. «Pensavo di essere importante per te tanto quanto tu lo eri per me! Ma sai una cosa? Sono felice di aver scoperto che non è così. Non voglio accanto una persona che finge di essermi amica, per poi escludermi bellamente dalla sua vita!»
«Ma io non l’ho mai fatto» scosse il capo la figlia di Ermes, supplicandola con lo sguardo di non avere simili pensieri.
«Io mi fidavo di te.» E detto questo la mora arretrò disgustata, squadrandola quasi la osservasse per la prima volta, e ciò che vedesse le fosse del tutto estraneo. «Ma a quanto pare mi sbagliavo.»
«No» fece un ultimo tentativo la bionda, non ottenendo altro, però, se non lo scontro con una barriera che ormai andava pian piano solidificandosi.
«Va al Tartaro, Emma» le sputò in faccia Skyler, per poi darle le spalle furiosa ed incamminarsi verso una meta imprecisata, tra i sentieri della foresta.
Lontano da quel posto, lontano dalla menzogna; lontano dagli altri, lontano da quella che per tutto questo tempo aveva finto di essere la sua migliore amica.
E solo quando fu sicura che nessuno la stesse guardando, permise a calde lacrime di lambirle roventi le guance; e silenziose di alleviare il suo dolore, nonostante continuassero a non essere in grado di ricucirle lo strappo che le si era formato nel petto.
Perché mai avrebbe pensato di potersi sentire così disorientata, ferita, umiliata.
Ma soprattutto, non avrebbe mai creduto possibile che quelle emozioni devastanti l’affliggessero a causa della ragazza che, per lei, era sempre stata più di una sorella.
 
Ω Ω Ω
 
La sensazione di smarrimento che aveva dominato il cuore di Skyler nel successivo paio d’ore aveva avuto effetti, sia su lei che sugli altri, a dir poco devastanti.
Quando chissà come Alex era riuscito a raggiungerla, trovandola seduta ai piedi di un albero con gli occhi arrossati dal pianto, lei l’aveva guardato appena.
«Non dire una parola» l’aveva redarguito, premendosi le nocche contro le palpebre chiuse ed espirando a pieni polmoni. Poi si era alzata in piedi, con l’aria di chi si stava sforzando con tutta sé stessa di apparire indifferente, risoluta, e dopo aver tirato su col naso era ritornata sui propri passi, senza aggiungere altro.
Il sole era già in procinto di tramontare, per cui il moro aveva proposto di iniziare ad accamparsi per la notte. Ma forse era solo un modo, il suo, per spezzare quella spessa coltre di tensione che si andava infittendo sempre di più, tramutandosi in un insostenibile silenzio.
Quando si ritrovarono l’una di fronte all’altra, la figlia di Efesto non rivolse il minimo sguardo alla bionda, e quest’ultima non obiettò, limitandosi a lasciarla passare.
Neanche Skyler era in grado di spiegarsi come la sua sola presenza riuscisse a farla stare tanto male. Il dolore bruciava ancora sulla sua pelle, come una ferita già aperta; il tradimento e la menzogna stavano che lottavano contro il suo petto, decisi ad entrare, a raggiungere i polmoni, raschiando quasi fossero fatti di cartavetro.
Pensare a ciò che Emma le aveva fatto, poi, non faceva altro che appesantire il macigno sulle sue spalle.
Per questo, senza degnarsi nemmeno di cenare, ad un certo punto la mora si allontanò dal gruppo, convinta che starle lontano fosse il modo migliore per affrontare il dolore.
E nessuno la seguì nell’oscurità della notte, almeno finché un rumore sordo di passi non si infranse dietro di lei.
La ragazza ne aveva riconosciuto il proprietario, ovviamente, ma non per questo si voltò, ostinandosi a porgergli la schiena, le braccia incrociate sotto il seno, a mo’ di protezione.
«Ehi» la chiamò John, avvicinandosi cauto. Esitò qualche secondo, spostando il peso da un piede all’altro. «Come stai?»
La figlia di Efesto fece uno sbuffo di risata, sorridendo amaramente. «Come chi è stato appena pugnalato alle spalle» mormorò.
Il ragazzo sospirò, passandosi a disagio una mano tra i capelli. «Dovreste provare a parlarvi, però.»
Immaginava che fosse andato da lei unicamente per quel motivo. Era sempre John, dopotutto, e per quanto si sforzasse, il suo animo anti-odio non si smentiva mai.
«Credo che non abbiamo nulla da dirci» ribatté la mora, leggermente stizzita.
Il figlio di Apollo fece due passi verso di lei, tanto che la semidea riuscì a sentire il suo respiro caldo infrangersi contro la propria nuca. «Skyler, se Emma ha fatto quello che ha fatto, ha avuto le sue buone ragioni» giustificò lui.
«Che tu già conosci, vero?» lo schernì la figlia di Efesto. «Ma non per questo ti sei degnato di dirmelo.»
«Le avevo promesso che non l’avrei fatto e non l’ho fatto» protestò quindi John, allargando le braccia esasperato. «Non potevo tradire così la sua fiducia.»
«Anche a costo di tradire la mia.»
«Che cos’altro avrei dovuto fare?» replicò ancora lui, indignato. «Lei è la mia migliore amica!»
«Perché, io cosa sono?» inveì a quel punto lei, voltandosi di scatto per fronteggiarlo. Il figlio di Apollo sostenne il suo sguardo, ferito dall’idea che la ragazza gli avesse anche solo posto quella domanda.
Ma dal luccichio di solitudine che brillava nelle sue iridi screziate d’oro, il biondo capì che non voleva altro, se non delle conferme.
«Skyler, guardami» le intimò, con tono gentile. «Guardami, per favore.» La figlia di Efesto obbedì. «Sarebbe stato come essere costretto a scegliere tra te e lei» le spiegò quindi, con rammarico. «Non puoi chiedermi questo.»
«Ma l’hai fatto, John» gli fece notare Skyler, con dispiacere. «Anche se inconsciamente, hai preso la tua decisione. L’avete fatto entrambi. E capisco che magari avete avuto le vostre buone ragioni, per farlo. Ma non biasimatemi se adesso non so più di chi fidarmi.»
«Potrai sempre contare su di me, lo sai» obiettò lui, afflitto.
La ragazza fece un verso di scherno, in viso un ghigno sarcastico. «Ci sono tante cose che non so, purtroppo» disse sommessamente, per poi volgere lo sguardo alle punte delle proprie scarpe.
Il figlio di Apollo digrignò i denti, posandole con decisione due dita sotto il mento e costringendola a guardarlo negli occhi. «Non mi importa quello che pensi, okay?» affermò, con tono sicuro. «Io per te ci sarò sempre, che ti piaccia oppure no.»
«Cos’è, una minaccia?» commentò pungente lei, inarcando le sopracciglia.
«No, è una promessa.»              
«Non…» La voce della mora si incrinò, e lei fu costretta a chiudere le palpebre per poter racimolare la forza di continuare. «Non farlo» implorò. «Ti prego, John. Non fare promesse che non puoi mantenere. Ne ho già sentite fin troppe, e non ho bisogno di un’altra delusione da aggiungere alla mia lista personale.»
Ed era vero: Skyler ne aveva abbastanza.
Lo zio le aveva promesso che sarebbero tornati a casa insieme, e invece così, molto probabilmente, non sarebbe mai stato.
Michael le aveva promesso che nulla, tra loro, sarebbe mai cambiato, ma era bastato l’arrivo di Matthew per far sì che il puzzle che avevano costruito insieme, passo dopo passo, si andasse lentamente sfaldando.
Emma le aveva promesso che tra loro non ci sarebbero mai stati segreti, e invece le aveva mentito sulla cosa più importante, non solo venendo meno alla parola data, ma anche tradendo inesorabilmente la sua fiducia.
Ne aveva abbastanza di pugni invisibili nello stomaco che continuavano a smorzarle il fiato, imperterriti.
Ne aveva abbastanza di sentirsi incompresa, ne aveva abbastanza della profonda voragine che accompagnava sempre ogni delusione.
Ne aveva abbastanza di dover soffrire a causa di altri.
Voleva solo essere lasciata in pace.
«Sai anche tu che con me non sarà così» constatò John, annullando le poche distanze che li separavano e posando la fronte contro la sua, il palmo ad accarezzarle la nuca. «Sono un ragazzo di parola» sorrise poi, e la figlia di Efesto, prendendo un gran respiro, si strinse nelle spalle.
«Vorrei restare un po’ da sola, se non ti dispiace» sussurrò, flebilmente.
Il figlio di Apollo le spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, passandole un pollice sotto l’occhio poco prima che una lacrima potesse rigarle temeraria la guancia.
Di fronte a quel gesto, per la ragazza fu inevitabile appoggiarsi dolcemente al suo palmo, come aveva sempre fatto; come avrebbe continuato a fare.
«E con Emma?» azzardò lui, quasi temesse di porre quella domanda.
«Io ed Emma non abbiamo più nulla da raccontarci» rispose la mora, con tono atono e privo di qualunque sentimento. «Ormai il danno è fatto, John. E noi diventeremo come due estranee. Se non lo siamo già. Fattene una ragione.»
Il ragazzo abbozzò un sorriso triste e divertito allo stesso tempo, arretrando lentamente e facendo per andarsene. Ma poco prima che potesse scomparire nuovamente dalla sua vista per poter tornare dagli altri, si girò a guardarla, grattandosi la nuca imbarazzato, prima di parlare.
«Sai, se adesso ci fosse Alex, al mio posto, ti direbbe che se voi diventaste due estranee, quest’isola sarebbe un’oasi tropicale piena di quadrifogli» celiò, con più serietà di quanto quella battuta permettesse.  Poi sollevò le mani, in segno di resa. «Ma io non sono lui» ammise. «Io sono me. Per cui ti lascio i tuoi spazi» assentì, rivolgendole un mesto cenno del capo. «Buona notte» sussurrò.
La ragazza non disse nulla, interdetta da quelle sue inaspettate parole.
Ma si impose di non pensare a cosa in realtà intendesse, e con un sospiro tremante si strinse nelle spalle, abbracciandosi i fianchi.
Non ho bisogno di un’altra delusione, si disse, premendosi un palmo contro l’occhio quasi bastasse quel gesto, a cacciar via le lacrime che moleste scottavano contro la sua retina.
Non aveva bisogno di un’altra delusione.
Assolutamente no.
Aveva già rinunciato a troppo, per potersi prendere il lusso di perdere anche sé stessa.             

Angolo Scrittrice. 
*di nuovo in onda tra tre. Due. Uno...*
Buonsalve, e benvenuti ad una nuova puntata di...
Oookay, la smetto. Anche perché non sono in vena ahah
Btw, ciao a tutti, semidei! Come potete constatare, oggi è martedì, ed io sono ancora qui, nonostante non sappia quale forza sovrannaturale mi abbia convinto che pubblicare questo capitolo fosse la cosa giusta da fare. 
La storia non vi sta piacendo più molto, e me ne sto rendendo conto, quindi in questi giorni sono stata più volte propensa all'abbandono, e non so dove questa mia demotivazione mi porterà, alla fine. 
In ogni caso, questo capitolo era già scritto, e non potevo non pubblicarlo, anche perchè è uno dei più importanti! 
Vi ricordate quando vi dicevo che se
Emma non avesse raccontato al più presto la verità a Skyler ci sarebbero state delle conseguenze? 
Beh, ecco le conseguenze. 
La nostra figlia di Efesto non l'ha presa per niente bene, non vi pare? Ma come biasimarla, d'altronde? 
Emma le aveva promesso che tra loro non ci sarebbe mai stato alccuun tipo di segreto, ma poi le ha nascosto la sua relazione con Leo, venendo meno ad ogni parola data. 
Anche se non è presente fisicamente, il nostro Bad Boy Supreme continua ad arrecare danni. 
Chi pensate che abbia ragione, ad ogni modo? 
Emma o Skyler? 
Sarebbe stato meglio che la mora fosse venuta a conoscenza di quella notizia dall'amica, o non avrebbe mai dovuto sapere la verità, se non fosse stato per Muninn e Huginn?
Che, tra l'altro, spero di aver reso tanto irritanti quanto li immagino. Perchè, diciamocelo: se un corvo avesse la possibilità di parlare, non farebbe dei discorsi poi così arguti e intelligenti. 
Nonostante questo, però, restano comunque molto più letali di altri mostri sanguinari. Why? Beh, Huginn vede i tuoi pensieri, Muninn la tua memoria. 
Se ve li foste ritrovanti davanti come i nostri giovani semidei, chi avreste temuto di più? 
Di certo
Alex ha avuto più "timore" del secondo, che ha fatto un nome, quello di Caitlin, ed è la prima volta, in tutta la storia, che viene nominata. 
Chi è, secondo voi? E perchè il ragazzo ha reagito a quel modo, quando è stata chiamata in causa?
Bien, dopo questo 'resoconto' di routine, penso sia arrivato il momento di ringraziare i Valery's Angels che nello scorso capitolo, nonostante tutto, mi hanno regalato delle dolcissime recensioni:
porporaassenzio, Ciacinski, Occhi di Smeraldo e Percabeth7897
Scusate se non sono riuscita a rispondervi, ma ormai sapete che lo farò ahaha
Grazie davvero! 
Non so se la prossima settimana aggiornerò, anche perchè dipende dall'esito che questo nuovo capitolo avrà in settimana. 
Mi auguro solo che non abbia deluso le vostre aspettative, e se così fosse, vi invito a farmelo presente. 
Spero solo che abbiate ancora voglia di seguire la storia; e potrò anche sembrare monotona e ripetitiva, ma ci tengo davvero troppo, per poter permettere che finisca nel cestino del mio pc. 
Ma se nonn piace, purtroppo, sarò costretta a non poter fare altrimenti. 
Grazie anche solo per aver letto questo spazio in grassetto, perchè significa che avete avuto il coraggio di arrivare alla fine.
Se mai ci sarà una prossima volta, allora ci vediamo là!
Un bacione enorme, angioletti miei!
Nel bene e nel male, sempre vostra,

ValeryJackson

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Capitolo 30
*** Capitolo 29 ***




«Skyler» sussurrò piano una voce, scrollandole con gentilezza una spalla.
La ragazza mugugnò qualcosa di incomprensibile, riassestandosi sul posto contrariata.
«Skyler, svegliati.»
«Lasciatemi dormire ancora un po’» obbiettò lei, le palpebre ancora chiuse e il naso arricciato in una smorfia infastidita.
«Coraggio, dolcezza, non abbiamo tutto il giorno» replicò allora la voce, scuotendola teneramente per un braccio, per far sì che si alzasse.
La figlia di Efesto si stropicciò gli occhi, sbadigliando, per poi stringerli a due fessure. Si ritrovò accanto un’Alex come sempre spettinato, che, inginocchiato al suo fianco, le spostava una ciocca di capelli dalla fronte, in quello che per lui era il modo più delicato per imporre ad una persona di abbandonare le braccia di Morfeo.
«È già l’alba?» domandò sommessamente Skyler, gola e mente impastate dal sonno.
«Non ancora» bisbigliò lui, al ché la mora corrucciò le sopracciglia.
«E allora perché mi hai svegliato?» si lamentò.
«Perché so come aiutarti a scaricare tutta la tua rabbia. Ma devi seguirmi, prima che gli altri si sveglino.»
Il ragazzo non diede neanche peso allo sguardo interrogativo e confuso di lei, e con passo furtivo ed elegante si allontanò di qualche metro, sparendo dietro l’ombra di due alberi.
La figlia di Efesto si tirò a fatica in piedi, lanciando un’occhiata vaga al cielo che lentamente cominciava ad albeggiare poco prima di andargli dietro, tormentata dalla curiosità.
Quando lo vide fermo lì, nel bel mezzo di uno spazio privo di piante tra le querce della foresta, con la spada alla mano, tutto il suo interesse si tramutò in soggezione.
«Hai intenzione di uccidermi?» celiò, per nulla intimorita da quell’eventualità. Ma nonostante ciò, quando il moro buttò la testa indietro e rise, divertito, la ragazza si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.
«Non credo, no» scrollò il capo lui, per poi rivolgerle un sorriso sghembo. «Non sono il tipo che fa questo genere di cose.»
«E quindi?»
«E quindi cosa?»
«Perché siamo qui?»
«Per lottare.» Alex fece spallucce, disinvolto.
«Come?»
«Hai capito bene» assentì lui. «Un bel duello spada/spada. Così, come farebbero due amici.»
«E perché dovrei voler lottare con te?» eccepì Skyler, non riuscendo a capire dove il ragazzo volesse arrivare.
«Per distrarti.» Il moro incastrò la propria arma nel terreno, appoggiandovici tutto il peso. «Riesco a sentire la tua rabbia, la tua frustrazione. Tutti quei pensieri che ti frullano nella testa… beh, si odono anche da qui. Portarsi dentro tutti quei sentimenti negativi non fa bene» continuò poi, cercando invano il suo sguardo. «Ed il modo migliore per scacciarli via, è concentrare la propria attenzione su qualcos’altro. Non morire, ad esempio.»
Di fronte a quella provocazione la ragazza inarcò un sopracciglio, incastrando le iridi a quelle scure di lui con aria di sfida. «Ti credi davvero un così bravo spadaccino?» lo canzonò, incrociando le braccia sotto i seni.
Il ragazzo si strinse nelle spalle, con finta modestia. «Me la cavo abbastanza bene, sì.»
«Anche io non sono tanto male, sai?»
«Però tu non conosci le regole del perfetto semidio» le fece notare lui, per poi ridacchiare sfacciato davanti alla sua interdizione.
«Beh, se è così, allora illuminami.»
Alex arricciò il naso, compiaciuto. «Devi prima dimostrarmi di esserne all’altezza» le intimò, disincastrando la lama dal suolo. Dopo di ché allargò le braccia, invitandola a farsi avanti. «Che cosa stiamo aspettando?»
La figlia di Efesto esitò qualche istante, indecisa sul da farsi. Ma poi capì che il ragazzo aveva ragione: aveva bisogno di allontanare quel peso che opprimente la soffocava, e molto probabilmente non reprimere ulteriormente l’ira che le corrodeva il petto era il modo migliore per riuscirci.
Portò una mano al fedele cristallo che aveva al collo, e questo prese immediatamente la forma della sua spada. Se la rigirò abilmente nel palmo, regalando al ragazzo un complice occhiolino. «Diamo inizio alle danze» pattuì, poco prima di scagliarsi con decisione contro di lui.
Alex parò il primo fendente, e poi il successivo montante.
Tentò con un affondo ben piazzato, ma dall’agilità con la quale la ragazza si era sempre mossa, non si sorprese di vederla schivare il colpo.
Le due lame cozzarono l’una contro l’altra, e i due semidei si sorrisero, complimentandosi a vicenda con lo sguardo.
Il moro cercò di colpire il fianco di lei, ma Skyler riuscì a bloccare la sua arma a mezz’aria, prima che questa la tranciasse in due.
Girò su sé stessa, posizionandosi alle spalle del ragazzo, e poi sollevò la spada, con l’intenzione di coglierlo di sorpresa.
Ma Alex si rivelò fin troppo intuitivo. Infatti, evitò il colpo senza troppi problemi, flettendo le ginocchia e poi bloccandole il polso prima che un pugno si infrangesse contro la sua mascella.
La figlia di Efesto ringhiò, indispettita, e menò una serie di fendenti, che non si sa come lui riuscì a parare con scioltezza.
La capacità con la quale riusciva a prevedere ogni sua mossa la meravigliava, senza alcun dubbio. Ma ciò che la stupì di più fu il suo incessante difendersi, senza mai attaccare.
Voleva che lei si stancasse, finché non arrivasse a cedere, per poi darle il colpo di grazia.
Ma Skyler non si sarebbe fatta vincere così facilmente.
Dopo una serie di stoccate, rovesci e imbroccate, decise che era arrivato il momento di farla finita.
Sollevò il braccio, facendogli credere di volerlo attaccare dall’alto; ma non appena lui issò la propria arma, pronto a proteggersi, lei fece cozzare le loro due spade, e con uno scatto deciso del polso batté il piatto contro il dorso della sua mano, facendogli perdere la presa sull’elsa.
Alex indietreggiò, meravigliato, e la ragazza approfittò di quel suo breve istante di distrazione per poter fare un nuovo giro su sé stessa.
Quando puntò la lama contro la sua gola i loro volti erano talmente vicini che i loro respiri si scontravano affannati. Si soppesarono qualche secondo con lo sguardo, fino a ché Skyler non esibì un sorrisetto.
«Ho vinto» constatò, leggermente compiaciuta.
Ma a dispetto di quanto aveva immaginato, il ragazzo sorrise a sua volta, piantagrane. «Ne sei proprio sicura?» domandò, e non appena scorse un luccichio disorientato nei suoi occhi, le fece cenno col mento di guardare in basso.
La figlia di Efesto obbedì, confusa.
La punta di un affilato coltello era puntata contro la bocca del suo stomaco. Era Alex a stringere l’elsa, e gli sarebbe bastato un semplice guizzo della mano per poterle provocare una ferita mortale.
«Prima regola del perfetto semidio» recitò quindi lui, sotto lo sguardo atterrito di Skyler. «Avere sempre un’arma di riserva.»
La ragazza prese fiato per parlare, incredula, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Il moro aveva talmente tanti assi nella manica, che tutto ciò che le era permesso di fare era imparare, facendo tesoro di tutti i suoi consigli.
Ma, subito dopo, stirò le proprie labbra in un ghigno soddisfatto. Se il ragazzo le aveva svelato la prima delle sue fantomatiche regole d’oro, allora significava che era riuscita a dimostrare il proprio valore.
Allontanò la spada dalla giugulare di lui con uno scatto fulmineo, facendo un passo indietro e rendendola nuovamente una collana. «Vedrò di tenerlo a mente» promise, riportandosi il ciondolo al collo.
Alex ridacchiò, riponendo a sua volta l’arma. Poi guardò il cielo, pensieroso. «Sarà meglio svegliare gli altri» intimò, corrucciato. «Il sole sta per sorgere, e i mostri ci metteranno poco a fiutare il nostro odore.»
«Prima di andare, però, posso farti una domanda?» azzardò Skyler, al ché lui inarcò un sopracciglio, interdetto.
«Dipende» mormorò, circospetto.
«Non voglio mica ucciderti, sai?» lo derise allora la figlia di Efesto, divertita. «Non è nel mio stile» lo imitò poi, scimmiottando di poco la sua voce.
«No, sì, lo so» balbettò a quel punto lui, grattandosi la nuca imbarazzato. «È solo che… non mi viene proprio in mente cosa tu possa chiedermi» ammise, con un sorriso timido.
La ragazza inclinò il capo di lato, squadrandolo intenerita. «Volevo solo chiederti di Caitlin» rivelò, misurando attentamente ogni parola, quasi temesse di poter dire quella sbagliata. «Si chiamava così, vero?»
Bastò l’udire lo schietto suono di quel semplice nome per far comparire sul viso del ragazzo un’ombra di malinconia. «Non so di cosa tu stia parlando» affermò, con distacco, tanto che la mora temette di essersi confusa.
«Ieri quei due corvi hanno fatto il nome di una ragazza» gli ricordò quindi, con dolcezza. «E sentirlo pronunciare ti ha… sconvolto. Volevo solo sapere chi fosse e se per caso di andava di…»
«Nessuno» la interruppe bruscamente lui, per poi prendere un gran respiro, nel tentativo di calmarsi. «Non era nessuno.»
«Non voglio obbligarti a parlarne» giurò la figlia di Efesto, facendo un passo nella sua direzione. «Però ho pensato che forse avevi voglia di raccontarmi e…»
«Skyler, per favore» la pregò lui, maledicendosi per il tremitio della propria voce. Si premette le nocche contro gli occhi, quasi avesse l’intenzione di mandar via tutti i ricordi che molesti scorrevano dietro le sue palpebre, come in un film.
La mora strinse le labbra in un linea sottile, spostando il peso da un piede all’altro. «Hai ragione, mi dispiace» si scusò, stringendosi nelle spalle. «Non sono fatti che mi riguardano.»
«Non è quello» tentò di giustificarsi lui, amareggiato dal proprio atteggiamento. «È solo che…»
«Tu non devi assolutamente discolparti» lo tranquillizzò lei, rivolgendogli un sorriso gentile. «La mia era solo… curiosità
Alex sospirò, ma non riuscì a trovare le parole giuste per poter aggiungere altro. Per qualche istante regnò un imbarazzante silenzio, durante il quale lui non riuscì a sostenere il suo sguardo.
«Su, andiamo!» esordì poi, porgendole una mano che lei afferrò decisa. «Devo darvi una buona e una cattiva notizia, prima di partire.»
«Qual è quella buona?» volle sapere Skyler.
Il ragazzo si mordicchiò il labbro, assorto. «Stiamo per incontrare gli Spiriti del Vento.»
La figlia di Efesto trattenne il fiato, sorpresa. «Sai dove trovarli?»
«No, ma so che siamo vicini. È come se… come se riuscissi ad avvertire la loro presenza. Non chiedermi il perché, non lo so nemmeno io. Ma sono convinto che siamo piuttosto vicini.»
«E la cattiva notizia?»
«Saremo costretti ad affrontarli» la informò quindi lui, con una serietà che non era solito possedere. «E non sarà per niente una bella esperienza.»
 
Ω Ω Ω
 
«C’è una cosa che non vi ho detto riguardo gli Spiriti del Vento» cominciò Alex, in piedi davanti a i tre ragazzi che, seduti a terra, lo ascoltavano attenti. Esitò, avvertendo tutti gli occhi puntati su di sé. «Non possono essere uccisi.»
Per un attimo, tutto ciò che le sue parole ottennero fu il silenzio. Poi Emma chiuse le palpebre, imponendosi di mantenere la calma. «Spiegati meglio» lo invitò, al ché lui arricciò le labbra, scrocchiandosi le dita a disagio.
«Loro sono… beh, sono fatti di aria. Infilzarli con una spada sarebbe decisamente inutile.»
«E quindi cosa suggerisci di fare?» lo incalzò John, nella vana speranza che il ragazzo avesse un piano.
«Dobbiamo dimostrarci degni della loro attenzione.» Il moro aggrottò la fronte, mentre lo diceva. «Li ho incontrati solo qualche volta, da quando sono qui, ma non sono mai riuscito a trovare il modo di disintegrarli.»
«Ma avranno pure un punto debole, no?» arrischiò Skyler, cercando consenso nello sguardo degli altri.
«Non è così semplice. Ricordate quando vi ho detto che odiano qualunque ente respiri?»
I tre semidei annuirono, meditabondi.
«Lo fanno perché fondamentalmente le loro molecole sono composte da… nulla. Uno dei loro più grandi desideri è impadronirsi di un corpo solido, così da poter fare tutto ciò che le loro membra inesistenti gli impediscono.»
«Spillo, dove vuoi arrivare?» lo incitò Emma, sentendo la propria pazienza venir meno.
Il moro si sgranchì la voce, nonostante non ne avesse davvero bisogno. «La prima cosa che cercheranno di fare sarà impadronirsi dei nostri corpi» sputò fuori, tutto d’un fiato. «E se non saremo in grado di opporci, allora siamo spacciati.»
«E come dovremmo opporci!» replicò a quel punto la figlia di Ermes, fuori di sé. «Sei stato tu a dirci che le nostre armi saranno inutili.»
«Non serviranno a niente, no» confermò lui, con la disinvoltura di colui che non dà davvero importanza alla gravità della situazione. «Ma» ci tenne a puntualizzare, alzando l’indice in aria. «Un modo per batterli c’è.»
«Mh» mugugnò la figlia di Efesto, per nulla convinta. «E sarebbe?»
«Dovrete scacciare ogni pensiero dalla vostra mente. Aggrappatevi al ricordo più bello che avete, e convincetevi che da quello ne vale la vostra stessa vita.» Alex puntò le iridi scure in quelle di Skyler, con apprensione. «Credi di riuscirci?» le domandò, e dopo averci ragionato qualche secondo la ragazza annuì, decisa.
«Ma sì, certo.»
«E poi?» chiese ancora Emma, mostrandosi tutto fuorché rilassata. «Una volta fatto questo, come agiamo?»
«Beh, poi ci toccherà sperare che gli Spiriti vogliano starci a sentire. E se siamo fortunati, ci diranno dov’è la Pietra.»
«È questo il tuo grande piano?» sbottò quindi la bionda, indignata.
«Perché, tu ne hai uno migliore?»
La ragazza prese fiato per ribattere, ma le sue corde vocali non emisero alcun suono. Pestò un piede a terra, ringhiando frustrata, per poi incrociare le braccia al petto con la fronte aggrottata.
Alex non diede peso alle sue occhiatacce, e si sfregò le mani, inarcando le sopracciglia. «Allora, vogliamo andare?» esclamò, invitandoli a mettersi in marcia. «Non abbiamo di certo tutto il tempo del mondo, e se le mie sensazioni sono esatte, non saremo costretti a camminare a lungo.»
 
Ω Ω Ω
 
Come non detto, dovettero camminare a lungo.
Molto a lungo.
Talmente a lungo che, dopo un po’, Skyler aveva perso non solo la cognizione dello spazio, ma anche la sensibilità della pianta dei piedi.
Aver lottato contro Alex, quella mattina, non era stata poi un’idea geniale. Aveva i muscoli tutti indolenziti, ed era più che sicura che parte della colpa fosse proprio di quello scontro improvvisato.
E poi, stava cominciando a perdere le speranze. Si andavano inoltrando sempre di più nella foresta, che mano a mano stava diventando fitta, frondosa e soffocante.
Degli Spiriti del Vento, neanche l’ombra.
E come se non bastasse, gli avvertimenti del semidio l’avevano scossa più di quanto le fosse permesso.
Se uno di quegli esseri l’avesse attaccata, sarebbe davvero riuscita a difendersi? Come avrebbe fatto a svuotare la mente, lei che l’aveva rimpinguata di pensieri?
Ma soprattutto, era in possesso di un ricordo tanto solido da poter sostenere il peso della sua stessa vita?
Non aveva idea di come sarebbe andata a finire, quell’eventuale battaglia. Ma stava cominciando a convincersi che la meglio non l’avrebbe avuta lei.
«Mi sono stancata di camminare» si lamentò Emma ad un certo punto, distraendola momentaneamente dai suoi pensieri. «Torniamo indietro, qui non c’è niente.»
«Mai darsi per vinti, Riccioli d’Oro» la canzonò Alex, senza voltarsi a guardarla. «Se ora torniamo indietro non troveremo nulla di nuovo, non credi?»
«Io vi aspetto qui» si impose allora lei, al ché il ragazzo fece roteare gli occhi, spazientito. «Se voi avete voglia di addentrarvi in questa zona sconosciuta dell’isola, allora fate pure. Ma non aspettatevi che io vi segua.»
«Andiamo, Emma» la redarguì John, con sguardo serio. «Non possiamo separarci. Non a questo punto.»
«Qualunque sia la direzione che prendiamo, non abbiamo comunque nulla da perdere» affermò con tono atono Skyler, evitando bellamente di incrociare lo sguardo la bionda.
La figlia di Ermes sospirò, accarezzandosi la fronte, mortificata da quella sua ostinata freddezza nei suoi confronti.
«Fermiamoci almeno a riposare, allora» suggerì, posando la schiena contro un tronco alla sua destra.
Alex le puntò la spada contro, intimidatorio. «Cinque minuti» ordinò.
«Cinque minuti» convenne lei, facendo scivolare il proprio dorso contro la corteccia, per poi sedersi a terra con un tonfo.
«Bleah!» fu il suo commento immediato, al ché gli altri la guardarono, confusi. «Questo terriccio è bagnato!» protestò quindi lei, disgustata, alzandosi in piedi e pulendosi i palmi sporchi di fango.
«Non è possibile» constatò John, volgendo dubbioso le iridi al cielo. «Vorrebbe dire che ha piovuto da poco.»
«Ma l’aria non è umida» gli fece notare Skyler, scrutando le cime degli alberi. «E non c’è neanche una goccia di rugiada, tra le foglie.»
«Questo vuol dire che è successo qualche giorno fa» dedusse la bionda, in viso ancora una smorfia schifata.
«Se così fosse, il sole avrebbe dovuto asciugare anche il terreno, no?»
«A meno che questa non sia opera di qualcun altro.»
L’affermazione del moro lasciò tutti con il fiato sospeso. Era possibile, una cosa del genere? Qualcuno era davvero capace di farlo?
I semidei squadrarono ciò che li circondava, la tensione che irrigidiva i loro muscoli, acuiva i loro sensi.
Alex percepì un brivido fargli venire la pelle d’oca, e fu come essere vittima di un déjà-vu.
Strinse gli occhi a due fessure, spingendo lo sguardo oltre i rami della foresta; e non appena vide un guizzo infrangersi nel suo campo visivo, le sue iridi si sgranarono, terrorizzate.
«Giù!» esclamò, con tutto il fiato che aveva in gola.
Si gettò prontamente sulla figlia di Efesto, che, in piedi al suo fianco, si ritrovò improvvisamente a ruzzolare di lato, cadendo sotto il peso del ragazzo poco prima che un’ombra fulminea tagliasse di netto l’aria sopra le loro teste.
Il moro le fece scudo con il proprio corpo, mente una sinistra lama invisibile si infrangeva nel tronco alle loro spalle.
Skyler cacciò un grido, spaventata.
«Sono qui!» avvisò autoritario Alex, osservando con la coda dell’occhio Emma e John rialzarsi a fatica. «State attenti!»
Il figlio di Apollo non ebbe neanche il tempo di pensare, che una folata di vento lo investì, scaraventandolo bruscamente di sei metri.
«John!» urlò Skyler, tirando un sospiro di sollievo non appena lo sentì mugugnare, segno che era ancora vivo. «Non riesco a vederli!» disse poi, rivolta al moro. «Dove sono?»
Il ragazzo sfilò la propria spada dalla fodera, stringendo l’elsa con più forza del necessario. «Ovunque» mormorò, a denti stretti.
E in effetti aveva ragione. Nonostante non fosse in grado di scorgerli, la figlia di Efesto riusciva a percepire la loro presenza. Si muovevano con agilità, scattanti, e colpivano i semidei con raffiche di vento più violente del dovuto, vietandogli la possibilità di reagire.
Quando Alex attutì la caduta di Emma afferrandola al volo prima che sbattesse il capo contro il suolo, Skyler portò una mano alla propria collana, stringendo il cristallo tanto da avere le nocche bianche.
Sapeva di non potersi difendere con l’aiuto della spada, ma nel panico più totale non aveva idea di cosa fare. Si sentiva spaesata, e l’idea di non poter vedere il proprio avversario la faceva impazzire.
Si può combattere contro qualcuno senza sapere neanche cosa o dove colpire?
Che speranze avevano loro, contro quei mostri invisibili?
Un ramo venne staccato dall’albero alle sue spalle, e lei riuscì a scansarsi poco prima che le cadesse in testa.
«Skyler, va via di lì!» le intimò John, ma lei riuscì a malapena a sentirlo.
Udì una sommessa risata alle sue spalle, come se qualcuno si stesse prendendo gioco di lei.
Quasi fosse un riflesso incontrollato, la ragazza si voltò, tentando di evocare il fuoco. Ma al posto di avvertire un calore familiare invaderla, fu spinta a terra e schiacciata contro la polvere da una forza ignota.
«No!» gridò Alex, facendo per correre verso di lei.
«Indietro!» tuonarono una decina di voci contemporaneamente, come se venissero da tutti e nessun luogo. Un tronco si abbatté sotto gli occhi dei tre semidei, e questi furono costretti ad indietreggiare, in trappola.
Skyler cercò di contrastare il peso opprimente che la ancorava al suolo, ma riuscì a malapena a sollevare la testa.
E poi, la vide.
Una figura trasparente, di forma vagamente umana. Andava verso di lei, con passo sinuoso, e le sue forme erano talmente eteree che la ragazza dubitò di non essersela immaginata.
«Lasciami stare!» riuscì a ringhiare, a denti stretti, ma quando quelle parole giunsero al suo orecchio non riuscì a convincere neanche sé stessa.
Era da tanto che desideravo un corpo come il tuo.
La voce di quello spirito sembrava non avere alcun suono. Le rimbombava direttamente tra le pareti della scatola cranica.
Bello. Giovane. Forte! Riesco a sentire il tuo fuoco bruciare anche da qui. Sei speciale, aggiunse poi, prima di concedersi qualche secondo per valutare se fosse il caso correggersi.
Eri speciale.
E prima che la figlia di Efesto poté trovare la forza di controbattere, quella la investì, attraversando i pori della sua pelle.
La ragazza sgranò gli occhi, boccheggiando mentre tutto il fiato veniva aspirato via dai suoi polmoni.
Intorno a lei, il mondo prese a sfocarsi, tingendosi di bianco. Aveva la sensazione di essere appena stata rinchiusa in una bolla di sapone. Una di quelle piccole, strette. Che però, questa volta, forse non sarebbe scoppiata mai.
Per quanto tentasse di opporsi, sforzandosi di scacciare quel mostro dal suo corpo, ogni suo tentativo risultava del tutto vano.
Sentì delle grida, che arrivavano ovattate ai suoi timpani, troppo lontane. Urla di protesta, lacrime di disperazione; molto probabilmente i suoi amici che cercavano di salvarla, nonostante fossero consapevoli che ormai fosse troppo tardi.
Non aveva più il controllo dei propri arti. Se il suo cervello mandava un impulso ai muscoli, ai tendini o a qualunque altra cosa in passato avesse avuto la capacità di muoversi, quella semplicemente non rispondeva ai suoi comandi.
Restava ferma, immobile; membra vuote di un corpo morto che presto sarebbe diventato cenere.
L’essenza del mostro scivolò nelle sue vene, impadronendosi lentamente di ogni sua molecola. Sgusciò su per la colonna vertebrale, si intrufolò nella sua gola e poi si diramò nelle arterie.
Solo quando arrivò a sfiorarle il cuore, Skyler sentì un bruciore all’altezza dello sterno.
Come quando prendeva fuoco, e le fiamme sembravano fuoriuscirle direttamente da petto.
Avvertì la stessa sensazione di invincibilità. La stessa che arrivava sempre a colpirla quando ricordava a sé stessa che era lei l’artefice del proprio destino.
«Aggrappatevi al ricordo più bello che avete» gli aveva detto Alex. Ma quando lei digrignò i denti fino a farsi male, cacciando un urlo strozzato in tono di sfida, l’unica immagine che la sua mente poté rievocare fu il viso della mamma.
Era bellissima; i capelli raccolti in una coda di cavallo dalla quale, però, sfuggivano alcune ciocche, incorniciandole il luminoso viso.
Un sorriso smagliante, gli occhi lucidi, scuri, screziati da delle striature dorate.
Era china su di lei, e le sue labbra si muovevano lentamente, come se stessero cantando.
Anzi no, stavano cantando.
Skyler si protese di più nella sua direzione, mettendocela tutta per poter udire la sua melodiosa voce.
All’inizio, il suono fu quasi impercettibile. Ma quando giunse abbastanza forte alla ragazza che lei poté distinguere ogni singola parola, il cuore sembrò imploderle dall’emozione.
«Ricordo le lacrime che rigavano il tuo viso
Quando ho detto che non ti avrei mai lasciato
Quando tutte quelle ombre avevano quasi ucciso la tua luce»
Era la sua ninnananna. Era la loro ninnananna.
La canzone che la madre le cantava sempre, ogni sera, prima di andare a dormire. La canzone che, una volta cresciuta, avevano cominciato a cantare insieme.
Era la sua canzone. Era la loro canzone.
«Ricordo il giorno in cui mi hai detto “Non lasciarmi qui da solo”
Ma amore mio, io non ti lascerò mai
Non guardare fuori dalla finestra, perché è tutto in fiamme
Ma tu aggrappati a questa ninnananna, anche quando la musica è finita»
Il volto della mamma prese ad affievolirsi, e lentamente Skyler si sentì risucchiare nel baratro della morte verso il quale la stava spingendo lo Spirito del Vento.
Stava vincendo. Alla fine, si stava rivelando il più forte.
Ma la figlia di Efesto non si sarebbe arresa. Non senza lottare.
Con la voce a poco più di un sussurro, iniziò ad intonare quella canzone. E mano a mano che le parole si scioglievano dolcemente sulla sua lingua, il ricordo della madre si faceva più vicino, e la presenza del mostro più lontana.
«Ora chiudi gli occhi
Il sole sta calando» cantò, lasciandosi cullare dalle emozioni che quelle strofe le infondevano.
«Ti prometto che starai bene
Nessuno può farti del male, ora
Perché io ti proteggerò
Resterò vicino a te
Con l’anima e il cuore»
In un lampo, Skyler visualizzò mille baci della buonanotte, mille abbracci, mille sorrisi. La torta del suo terzo compleanno. La madre che cucinava i tacos.
Il profumo delle gardenie. L’odore di biscotti bruciati. Serie TV, pizza, patatine, chiavi inglesi.
Un parco giochi, un’altalena, e la donna che le urlava «Pronta a toccare il cielo?»
Sì, era pronta. Era sempre stata pronta.
Un ultimo sorriso, un rapido occhiolino, poi gli occhi gentili della madre che si incastravano ai suoi, guardandola con amore.
Il suo viso venne lentamente assorbito da una nube bianca, e la ragazza intonò la canzone un’ultima volta, pensando che presto l’avrebbe raggiunta.
Poi, l’ultimo fiato che le era rimasto nei polmoni venne aspirato via.
E questi si riempirono nuovamente d’aria con tanta velocità che la figlia di Efesto rischiò di soffocare.
Si portò le mani alla gola, tossendo con il volto paonazzo, ed era talmente stremata dalla devastante esperienza appena vissuta che non si rese neanche conto di essere finalmente in grado di muoversi da sola.
Lo Spirito era sparito. Era uscito dal suo corpo, abbandonandolo tanto rapidamente quanto vi era entrato.
Aveva rinunciato a possederla. Aveva lasciato vincere lei.
«Skyler!»
Prima che la mora potesse riconoscere il proprietario di quella voce, John le fu accanto. La mise delicatamente a sedere, stringendosela tra le braccia; ma la ragazza sembrava incapace anche di sbattere le ciglia senza stancarsi, per cui si appoggiò involontariamente contro il suo petto, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo e lasciandosi cullare dal suo profumo rassicurante.
Un singhiozzo sfuggì dalle sue labbra, e Skyler si maledisse per non essere riuscita a trattenerlo.
«Va tutto bene» la tranquillizzò il figlio di Apollo, tenendola stretta, quasi bastasse quel gesto a rendere ciò che aveva passato solo un brutto sogno. «Sei al sicuro, adesso. Sono qui. Se ne sono andati. Calma, se ne sono andati.»
«Noi non ce ne siamo affatto andati» protestò stizzito qualcuno, attirando l’attenzione dei semidei su di sé.
La figura slanciata di una ragazza si fece altezzosamente largo tra gli alberi, con passo sinuoso. Era difficile identificarne i giusti lineamenti, perché cambiavano in continuazione, rendendosi sfocati, sfuggenti. Trasparenti.
Il suo corpo sembrava fatto di tutto e niente. Ma i suoi occhi, quelli no: bianchi come il ghiaccio, scrutavano attentamente i semidei come se stessero tentando di memorizzare ogni loro minimo dettaglio.
Non aveva ali come tutte le altre che avevano incontrato fino a quel momento; o forse sì, ma erano talmente chiare da sembrare invisibili. Fatto sta che i ragazzi non ci misero molto ad identificarla come Spirito.
Mentre la figlia di Efesto recuperava lentamente le forze, il respiro che tornava regolare, vide Emma ed Alex pararsi davanti a lei e John, le armi sguainate, pronti a proteggerla.
«Oh, ma che bel quartetto!» rise quell’essere, con tono pungente. «Peccato non avervi adocchiato prima.»
«Non avrai mai i nostri corpi» sibilò sprezzante la figlia di Ermes, al ché lo spirito inarcò le sopracciglia, stupito.
«Io non voglio i corpi di tutti voi» puntualizzò, come se fosse evidente. «Io volevo il suo.» Indicò Skyler, poi sospirò teatralmente. «Ma, ahimè, non sono riuscita ad appropriarmene. Il tuo animo è stato troppo forte. Devo ammettere che la tua tenacia, così come i tuoi ricordi, mi hanno davvero commossa.»
La ragazza provò un senso di disgusto al solo pensare che quel mostro era riuscito a vedere le sue memorie, ma si sforzò di reprimerlo, focalizzandosi principalmente sulle sue curve vanescenti.
«Vedo che non scappate» constatò lo spirito, con una punta di ammirazione. «Devo dedurre che non siete sorpresi di vedermi.»
«Abbiamo bisogno del vostro aiuto» spiegò allora Alex, prima di rivolgerle uno sbrigativo cenno del capo. «So che ce ne sono altri che si stanno nascondendo. Falli uscire.»
La creatura lo soppesò un attimo con lo sguardo, senza lasciar trapelare alcuna emozione. Poi batté un paio di volte le mani, e in un battito di ciglia i semidei furono circondati da circa una dozzina di Spiriti del Vento.
«Contento, ora?» domandò a quel punto quella, con ostentato sarcasmo.
«Sì» si limitò a rispondere il moro, rigirandosi l’elsa nel palmo, a disagio.
«E di che aiuto avreste bisogno, esattamente?»
«Di un’informazione» tagliò corto il ragazzo, con tono autoritario. «Vogliamo sapere dove si trova la Pietra dei Sogni.»
«La Pietra dei Sogni?» ripeté lo spirito, scioccato. «Quella Pietra dei Sogni?»
«Esattamente.»
Per poco l’essere non rise loro in faccia. «Oh, Divino Zeus. Questa proprio non me l’aspettavo» li derise. «E sentiamo: cosa dovrebbero farci quattro marmocchi come voi con un oggetto di tale valore?»
«Questo non ha importanza» divagò Alex, chiudendo gli occhi a due fessure, in tono di sfida. «Sapete o no dove si trova?»
Il mostro ghignò, prima di rispondere. «Ovviamente sì» mormorò, melliflua. «Ma informazioni del genere hanno un prezzo, mio caro.»
«Che genere di prezzo?» chiese quindi John, e la creatura ridacchiò, soddisfatta. «Un prezzo molto alto. Ne varrà la vostra vita, naturalmente. Ma se avrete abbastanza fegato da riuscire a pagarlo, beh… la scelta è solo vostra» appurò. «Non ci sono mezze misure: prendere o lasciare.»
«Di che cosa stai parlando?» mormorò Emma, a denti stretti.
Lo spirito volteggiò intorno a lei, scompigliandole fastidiosamente i biondi capelli. «Di uno scambio equo, tesoro. La vostra informazione per la mia ricompensa.»
«E che genere di ricompensa vorresti?» si informò Alex, al ché quella fece spallucce.
«In realtà, rivoglio solo indietro ciò che è già mio.» Fece un passo verso di lui, portando le labbra accanto al suo orecchio. «La Rosa dei Quattro Venti» sussurrò.
«La Rosa dei Quattro Venti!» esclamò uno degli altri spiriti, approvando la decisione.
«Sì, la Rosa dei Quattro Venti!»
«La Rosa dei Quattro Venti?» reiterò la figlia di Ermes, confusa. «Ma... Ma è impossibile. Quello è solo un simbolo, nulla di concreto.»
«Non so neanche cosa sia un simbolo» ribatté l’essere, guardandola indignata. Poi si ricompose. «Io sto parlando della Rosa vera e propria. Ma non mi aspetto che voi capiate. Non si è in grado di coglierne la magnificenza, finché non la si guarda.»
«E dove dovremmo andare, esattamente, per poter trovare questa Rosa?» domandò il moro.
«Non voi» lo corresse immediatamente lo spirito, per poi puntare un dito in direzione della figlia di Efesto. «Lei. Voglio che sia lei a recuperare la mia Rosa. E se non ci riuscirà… oh, beh, sarò costretta ad uccidervi tutti.»
I semidei si voltarono a guardare Skyler, che, nel frattempo, era riuscita a rimettersi in piedi con l’aiuto di John, che ancora la sosteneva per un fianco.
«Io?» fece la ragazza, incredula.
«Lei?» esclamò invece Alex, confuso.
«Non se ne parla» si impose il figlio di Apollo, con fermezza.
La mora spostò le sue iridi scure sulla donna-spirito, incontrando per una frazione di secondo i suoi occhi eburnei, prima che questi diventassero solo un fantasma indistinto.
Perché desiderasse che fosse proprio lei a compiere quell’impresa in suo nome, era un mistero. Ma Skyler aveva ben altro a cui pensare per potersi prendere la briga di rispondere in modo diverso.
«Ci sto» annuì, con convinzione.
«Skyler, no» replicò il biondo.
«John, non abbiamo altra scelta» obbiettò allora lei, con tono autoritario, per poi abbassare la voce ad un sussurro. «Questi Spiriti sanno dov’è la Pietra, ma non ce lo diranno finché non recupererò la loro Rosa dei Quattro Venti.»
«Andrò io al tuo posto» si offrì quindi lui.
«Voglio che sia lei a farlo» ripeté perentoria l’essere, quasi fosse ovvio che non ammettesse ripensamenti.
«Ma…» fece per dire il ragazzo, ma la figlia di Efesto lo interruppe.
«Posso farcela.»
«Non ce la fai neanche a stare in piedi da sola.»
Quando Skyler prese fiato per parlare, inizialmente non emise alcun suono. «Posso farcela» si limitò a mormorare nuovamente, prima di accarezzare un sopracciglio dell’amico con il pollice e rivolgergli un forzato sorriso incoraggiante. «Fidati di me» gli intimò.
Il ragazzo assentì, nonostante quel gesto gli costasse uno sforzo più ampio del dovuto. Non voleva che la mora rischiasse la sua vita per così poco. Avrebbero potuto trovare un’altra strada. Avrebbero potuto chiedere a qualche altro mostro –magari più docile- di dir loro dove si trovasse la Pietra.
Ma ormai era troppo tardi per tirarsi indietro, e se ne rendeva perfettamente conto. Skyler aveva già deciso, e per quanto desiderasse proteggerla dalle controversie di quell’isola non poteva negare a sé stesso che sarebbe stata perfettamente in grado di difendersi da sola.
Lei era una guerriera. Lo era sempre stata.
Stringendo i denti al fine di darsi forza, la ragazza avanzò a testa alta verso lo spirito, sforzandosi di non mostrare il minimo segno di debolezza.
«Sono pronta» annunciò, al ché quella ghignò, elettrizzata.
«Ottima scelta» si complimentò. «Sarà uno dei miei fedeli a portarti nel luogo della tua impresa. In una grotta, per la precisione. Noi ti aspetteremo qui, e tu avrai tempo fino a due ore dal tramonto per potermi consegnare la mia Rosa. Se non farai in tempo, ci occuperemo dei tuoi amici –che ovviamente moriranno, ma questo non serva che sia io a dirtelo, tanto l’avrai già capito-. Dimostrami di essere all’altezza della sfida, ragazzina, e otterrai ciò che vuoi. Oh, e ovviamente attenta al mostro!»
Skyler sgranò gli occhi, facendo un passo indietro, interdetta. «M-Mostro?» balbettò.
«Ops, non te l’avevo detto?» chiese l’essere, per nulla dispiaciuto. «È stato il Simurgh a sottrarci ciò che era nostro. La Rosa si trova nella sua grotta.»
Simurgh. Chissà perché, quel nome non prometteva nulla di buono.
Lo spirito dovette notare il suo momento di interdizione, perché sorrise, maligno. «Hai per caso voglia di tirarti indietro?» la tentò, il tono suadente.
La ragazza prese un gran respiro, stringendo i pugni con così tanta forza da conficcarsi le unghie nei palmi. «A due ore dal tramonto» ricordò, con l’aria di chi non ha altro nel cuore, se non una forte determinazione. «Aspettatemi, non tarderò.»
Quella avvicinò talmente tanto il viso al suo che, per un breve istante, la figlia di Efesto riuscì a distinguerne correttamente ogni lineamento. Erano simili a quelli della regina cattiva delle fiabe: freddi e del tutto privi di compassione.
«Ben detto, semidea» si congratulò, con una punta di ammirazione. «Ben detto.»
 
Ω Ω Ω
 
Skyler si sentiva come un elastico iperteso di energia concentrata, pronto a saltare.
Proprio come quella donna evanescente le aveva annunciato, uno dei tanti spiriti che in quel momento li stavano circondando l’aveva accompagnata, conducendola all’interno di una fitta rete di boschi.
Senza poter lasciare spazio a niente, nella sua mente, se non alla concentrazione, la ragazza aveva tentato di memorizzare ogni dettaglio del tragitto che stavano percorrendo, nella vana speranza che, da lì a poche ore, sarebbe riuscita a tornare indietro.
Un mostro? Che cosa avrebbe dovuto aspettarsi?
Anche gli Spiriti del Vento nutrivano una sorta di timore reverenziale nei suoi confronti, questo l’aveva capito.
Era davvero tanto malvagio? Ma soprattutto, era altrettanto invincibile?
La cosa più frustrante, per lei, era proprio l’incapacità di darsi delle risposte.
Quando la sua guida, poi, l’aveva lasciata nei pressi della fatidica grotta, ridendosela sotto i baffi e scappando via, il cuore della figlia di Efesto aveva perso non uno, non due, ma cinque battiti.
Era rimasta ferma lì, immobile, ad osservare il buio pesto oltre il quale era impossibile scorgere alcunché. A cercare di captare un rumore, un fruscio, un verso, qualcosa.
A sforzarsi di racimolare tutto quel coraggio che improvvisamente pareva averla abbandonata.
Arrivati a quel punto, la vita dei suoi amici dipendeva solo da lei.
Così come quella di Michael, d’altronde.
Tutti loro confidavano nelle sue capacità, nella sua tenacia.
Tutti loro si fidavano del potere della Ragazza in Fiamme.
Lei, ormai, era la loro unica possibilità.
Quindi che diritto aveva di avere paura? 


Angolo Scrittrice. 
*Di nuovo in onda tra tre... due... uno...*

ON AIR.
Buonsalve a tutti, semidei! 
Sorpresi? Beh, anch'io. 
Oggi è martedì, ed io sono ancora qui, che mi ostino ad aggiornare questa storia. 
Ma cercate di capirmi, abbandonarla sarebbe come perdere un pezzo di cuore. 
Però a questo ci arriveremo poi. 
Allora, ditemi: come state? Come vi è sembrato il capitolo? Vi è piaciuto? Vi ha fatto schifo? E' scritto talmente male che preferireste leggere La storia infinita? (fidatevi, è davvero infinita!) 
Come vedete, sono successe un paio di cose molto importanti. 
Partiamo dallo 'scontro' tra
Skyler ed Alex, durante il quale lui cercava di farle sfogare la sua frustrazione. Che dite, ci è riuscito? Ma soprattutto, ha fatto bene?
Quando poi la figlia di Efesto gli ha domandato chi fosse questa fantomatica Caitlin, lui non ha voluto darle una risposta. Quale pensate che sia il motivo? E poi, siete convinti che si tratti di una persona? 
Subito dopo, anyway, i nostri eroi incontrano finalmente gli Spiriti del Vento. E qui, la situazione degenera. 
Skyler ha rischiato di perdere la propria umanità, di essere posseduta dal mostro. Ma grazie all'aiuto della madre, per così dire, riesce a tirar fuori il proprio spirito combattivo. 
Ricordate quando vi dicevo, verso i primi capitoli, che quella ninnananna non era stata inserita lì per caso? 
Ecco, cantarla ha salvato la vita della nostra Ragazza in Fiamme. Se non fosse stato per quello, ora non sarebbe più tra noi. 
Perchè in un momento tanto critico pensare proprio al volto della mamma, vi chiedete?
Beh, lei è senza dubbio uno dei pilastri della vita di Skyler. Nonostante sia morta, questo non le proteggere di stare accanto a sua figlia nei momenti più critici. E' un ricordo concreto, per la ragazza. E' una certezza. E in un modo o nell'altro è sempre la protagonista indiscussa di gran parte dei suoi pensieri. 
A chi affidereste la vostra vita, se non alle vostre mamme? Loro non vi tradirebbero mai, no? Resterebbero sempre con voi, nel bene e nel male. 
By the way, la figlia di Efesto è riuscita, sì, a difendersi dagli Spiriti del Vento, ma pensate che avrà altrettanta fortuna con il Simurgh? 
Che tipo di mostro vi aspettate? Ma soprattutto, sarà Skyler in grado di sconfiggerlo? O si farà sopraffare, troppo debole per affrontare un ulteriore scontro? 
La profezia cita: Tra le ombre della foresta un semidio la vita perderà. Credete che si riferisca a lei, e all'oscura caverna nella quale sarà costretta ad entrare? Fatemi sapere cosa ne pensate, ci tengo molto a conoscere la vostra opinione. 
Come sapete, in questo periodo la mia motivazione a scrivere è pari a meno zero. Ogni martedì la domanda sorge spontanea: Che faccio, pubblico lo stesso? 
E se adesso sono qui, lo devo soltanto ai miei fantastici Valery's Angels, che mi supportano sempre, riempendomi il cuore di gioia con le loro recensioni. Un grazie infinito a:
_angiu_, Percabeth7897, Francesca lol, Ciacinski e _Krios_. Vi risponderò al più presto, you know. 
Grazie per riporre in me tutta questa fiducia. 
Spero davvero che questo capitolo non abbia deluso le aspettative di nessuno, e che io sia riuscita a descrivere al meglio le situazioni e i vari sentimenti di ogni personaggio. 
Mi auguro di riuscire a pubblicare un nuovo capitolo, martedì. Ma questo, ormai lo sapete, dipende solo da voi.
Tutto ciò che io posso fare è giurarvi che continuerò sempre a dare il 110%, perchè questa storia fa parte di me tanto quanto io faccio parte di lei. E vorrei aggrapparmi a qualunque tipo di pretesto, pur di non essere costretta ad abbandonarla. 
Grazie ancora a tutti voi, perchè se state leggendo questo Angolo Scrittrice, allora vuol dire che non avete ancora abbandonato la mia piccola Ragazza in Fiamme.
Nonostante tutto, sempre vostra,

ValeryJackson

 

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Capitolo 31
*** Capitolo 30 ***



Non appena Skyler racimolò il coraggio necessario per poter entrare in quella grotta, il mondo, intorno a lei, cedette i propri colori all’oscurità.
Nell’aria c’era un odore rancido, misto al puzzo di terra bagnata.
Nonostante la figlia di Efesto sbattesse ripetutamente le palpebre, i suoi occhi non riuscivano ad abituarsi a quell’incolmabile assenza di luce. Sguainò la spada, nella vana speranza di abbandonare quel buio che la metteva a disagio. Ma per quanto la lama potesse riflettere un bagliore proprio, non faceva altro se non conferire a quell’angusto e stretto luogo un aspetto ancora più tetro.
L’aura azzurrognola del bronzo celeste si infrangeva contro le pareti rocciose, facendo sentire la ragazza in soggezione, quasi su di lei fosse puntato un occhio di bue che le impediva di scorgere ciò che aveva davanti.
Stringendo l’elsa nel pugno sino a farsi divenire le nocche bianche, deglutì a fatica, avanzando con finta sicurezza.
Le sue iridi saettavano rapidamente da una parte all’altra, e la mora sentiva la frustrazione montare quando si rendeva conto di non avere la più pallida idea di cosa doversi aspettare.
Lo Spirito del Vento aveva parlato di un mostro, il Simurgh, ma non si era preso la briga di darle informazioni sul suo conto.
Era una sorta orco? Un toro? Un lupo? Un incrocio tra un leone e una capra?
Skyler non era sicura di sapere fin dove potesse spingersi con la fantasia, ma aveva la certezza che ciò che stava per affrontare avrebbe superato ogni sua più fervida immaginazione.
Sì, ma dov’era?
Non un sibilo, non un suono che tradisse la sua presenza.
Che fosse uscito dalla grotta, per poi tornarci poco prima del tramonto?
Se era così, la figlia di Efesto aveva i minuti contati. Doveva sbrigarsi a recuperare la Rosa dei Venti. E anche qui, con rammarico, si accorse di non sapere affatto cosa esattamente dovesse cercare.
«Non si è in grado di coglierne la magnificenza, finché non la si guarda» aveva affermato lo spirito. 
Dovrà trattarsi di qualcosa di particolarmente luminoso, presuppose quindi la ragazza, non riuscendo a trovare nulla, però, di particolarmente interessante eccetto qualche ciottolo che rotolava sulla polvere non appena lei lo colpiva accidentalmente con la punta della scarpe.
Più si inoltrava nelle profondità della caverna, più i suoi timpani tendevano ad ovattare i suoni, facendo giungere alla sua mente una sorta di ronzio metallico.
Skyler continuò ad avanzare, l’arma tenuta alta, i nervi tesi dall’adrenalina. Ma non appena un orbante lampo bianco si infranse nel suo campo visivo, fu costretta a portare una mano a coprire gli occhi, accecata.
Sbatté un paio di volte le palpebre, pallini neri che le danzavano molesti nella retina. E solo quando le sue iridi si abituarono a quell’inaspettato abbaglio si concesse il lusso di volgere nuovamente lo sguardo dinnanzi a sé.
Ciò che vide le dimezzò bruscamente il fiato nei polmoni.
Ad emettere quell’ottenebrante ed eburna luce era un oggetto tanto piccolo quanto splendido.
Un cerchio di puro ghiaccio, all’interno del quale vi erano una serie di punte sovrapposte, tutte dirette verso differenti direzioni. Quelle in primo piano erano azzurre, e a vederle da quella distanza parevano del tutto inconsistenti. Giravano in senso orario, con una lentezza disarmante.
In secondo piano, invece, prendevano un colore tendente al rosso, ed avevano una fattezza polverosa, quasi fossero fatte di sabbia. Al contrario delle altre, però, giravano in senso antiorario, muovendosi con la stessa calma.
Sullo sfondo, infine, vi erano le più singolari: smeraldine, dalla forma frastagliata, tanto da sembrare foglie mentre vorticavano nello stesso verso delle prime, ma molto più velocemente.
Nel centro esatto di quelle singolari sedici punte vi era un fiore che aveva tutta l’aria di essere un marchingegno, il cuore di una macchina perfettamente oleata.
La Rosa dei Venti, pensò la figlia di Efesto, comprendendo immediatamente cosa intendesse, lo spirito, con il termine ‘magnifica’.
La sua lucentezza riusciva ad infonderle un obbligo di riverenza anche se tra loro c’erano circa sei metri di distanza.
La ragazza fece un passo in avanti, totalmente ammaliata, e fu a quel punto che arrivò a domandarsi dove fosse il trabocchetto.
Non poteva essere tanto facile, altrimenti quegli esseri non le avrebbero dato un ultimatum tanto duraturo.
C’era qualcosa che continuava a sfuggirle, in quel posto. Qualcosa di terrificante, all’apparenza trascurabile. Un particolare, che nonostante ormai si stesse abituando al fetido odore di quella grotta, ancora non catturava la sua attenzione.
Poi, il ronzio che sfregava contro i suoi timpani si fece più forte, e Skyler si voltò, intuendo troppo tardi il suo errore.
Una nube nera avanzò minacciosa verso di lei, e la mora non fece neanche in tempo a scansarsi che con la rapidità di un fulmine la investì, avvolgendola completamente.
La figlia di Efesto sentì un dolore acutissimo alla spalla sinistra, che la fece cadere in ginocchio.
Menò dei fendenti alla cieca, cercando disperatamente una via di fuga. Aveva come la sensazione di essere stata assalita da un’orda di scarafaggi, che con le loro minuscole e malevole zampette correvano lungo ogni centimetro del suo corpo, bruciando a contatto con la sua pelle.
La ragazza barcollò all’indietro, non avendo idea di come fronteggiare quello che aveva tutta l’aria di essere un mastodontico sciame d’insetti.
Contro la sua volontà, piroettò su sé stessa, per poi essere scaraventata fuori da quel caos frastornante. Perse l’equilibrio, crollando con un tonfo prona al suolo.
Con il respiro affannoso, fece perno sulle proprie mani tremanti, sputacchiando disgustata un po’ della polvere che aveva ingerito e raccogliendo la propria spada che, nella confusione, era scivolata a terra.
Lanciò un rapido sguardo alla propria spalla sinistra, constatando non solo che stava copiosamente sanguinando, ma anche che le doleva molto più di quanto aveva immaginato.
In quell’istante, il ronzio che vibrava tra le pareti si intensificò, minaccioso.
«È già ora di cena, per caso?» domandò una voce, e la sua eco raggiunse ogni angolo nascosto della grotta. «Sembri succulenta, come spuntino.»
Skyler rabbrividì. Quel suono al contempo stridulo e rauco pareva essere più un insieme di voci diverse. Quasi ci fosse più di un mostro, lì con lei. Quasi fosse circondata.
«Sono qui per recuperare la Rosa dei Venti!» urlò contro l’oscurità, ma le sue parole rispecchiarono talmente poco il suo stato attuale che non riuscì a convincere neanche se stessa. «Lasciami in pace, e vedrò di non farti del male!»
Un fischio acuto fendette graffiante l’aria, e la mora dedusse si trattasse di una risata. «Sei divertente, piccola semidea» la prese in giro il mostro, con sufficienza. «Al Simurgh piacerebbe fare due chiacchiere con te. Peccato solo che il Simurgh abbia fame.»
La ragazza arretrò di un passo, domandandosi perché quella creatura parlasse di sé in terza persona. Era più che sicura di star fronteggiando il giusto nemico, eppure aveva la strana sensazione di aver messo un tassello del puzzle nel verso sbagliato.
Sollevò la propria arma, ignorando le ginocchia che imperterrite continuavano a palesare il suo timore.
Come avrebbe fatto a lottare contro di lui, se non riusciva neanche a vederlo?
Il buio sembrava essersi intensificato da quando quell’essere aveva parlato.
Non poteva permettersi di superare il margine d’errore che le era concesso. Perché anche se non era in grado di distinguere le sue fattezze, sapeva di trovarsi di fronte ad una sfida poco piacevole.
Quasi in risposta a tutte le sue incertezze, un lieve bagliore azzurrognolo prese ad avanzare verso di lei. Il mostro stava dando al proprio corpo un colore, molto probabilmente per mostrarsi in tutta la sua imponenza.
Non appena lo scorse, la figlia di Efesto restò interdetta.
Quella creatura sembrava del tutto priva di forma. O meglio, continuava a cambiarla sotto il suo sguardo. Un attimo prima era un ragno gigantesco con zampe lunghissime, occhi fiammeggianti e un grosso corpo pesante, ricoperto di un pelame nero e stopposo; poi si trasformava in un’unica grande mano con enormi artigli che tentavano di protendersi verso di lei ed un minuto più tardi diventava uno scorpione nero che con il suo pungiglione scuro avrebbe potuto benissimo uccidere un Minotauro sul colpo.
Skyler deglutì, indietreggiando così rapidamente che rischiò di inciampare sui suoi stessi passi.
«Dopo tanto tempo a digiuno, finalmente un buon pasto per il Simurgh!» ridacchiò compiaciuta la voce, poco prima che quell’essere amorfo si avventasse contro di lei.
Prese le sembianze di una lancia, puntando dritto contro il suo petto; e fu solo grazie ai suoi riflessi da combattimento e all’adrenalina accumulata che la ragazza riuscì a ruzzolare di lato, sbucciandosi dolorosamente palmi e ginocchia.
Si rialzò in piedi, voltandosi giusto in tempo per vedere il mostro trasformarsi in un temibile drago, spalancando le fauci e ringhiando intimidatorio.
La figlia di Efesto si difese da alcuni dei suoi colpi, azzardando a sua volta dei montanti di fortuna, ma la creatura si muoveva con talmente tanta rapidità che riuscì a graffiarle la coscia, strappandole indispettito la stoffa dei jeans.
Skyler parò un attacco diretto al suo capo, e quando il rettile tentò di artigliarle un fianco, lei si scansò, per poi tagliare di netto una delle sue squamose zampe.
Ma l’arto staccato da quell’avversario malefico non rotolò ai suoi piedi come aveva immaginato. Restò sospeso a mezz’aria, continuando a muoversi freneticamente per poi tornare al suo posto, ricongiungendosi al corpo scuro e nebuloso dal quale era stato separato.
E così accadde anche una seconda volta, quando la semidea staccò la testa a quello che ora era diventato un serpente.
Solo quando il mostro le fu talmente vicino che lei riuscì a percepire il suo fetore invaderle le narici, la ragazza si accorse di qualcosa che fino a quel momento non aveva notato.
Quell’orribile creatura non era un unico corpo compatto, ma un’inimmaginabile quantità di minuscoli insetti di un azzurro acciaio, che ronzavano come calabroni infuriati, raggruppandosi in sciami foltissimi fino ad assumere di volta in volta le forme più disparate.
Con un grido di sorpresa, la mora per poco non rischiò di essere tranciata in due dalle lame affilate di due spade corvine.
«Non puoi battermi, ragazzina» affermò nuovamente quella che Skyler ora comprese essere il ronzio di più esseri che si spandeva nella grotta nello stesso instante. «Nessuno ci è mai riuscito.»
La figlia di Efesto capì di avere davvero i secondi contati solo quando la zampa di un gigantesco leone la urtò con violenza, facendola sbattere contro le pareti rocciose con così tanta forza che sentì le proprie costole sbriciolarsi.
Strizzò gli occhi, soffocando un lamento strozzato tra i denti.
Doveva farsi venire in mente qualcosa. E in fretta, anche!
Ormai le era ben chiaro che non era possibile uccidere il mostro a suon di stoccate. Ogni suo tentativo sarebbe stato vano, ed affrontare singolarmente ogni singolo insetto era un’eventualità alla quale non voleva nemmeno pensare.
Avrebbe potuto provare a distrarlo, ma non era certa che questo le avrebbe permesso di recuperare la Rosa dei Venti e correre via.
Le restava solo l’ingegno, sperando che l’avrebbe portata a partorire un’idea geniale. Che arrivò subito, nel momento stesso in cui Skyler ricordò di non avere più i suoi poteri.
Il fuoco!, esclamò una voce nella suo cervello, quella che di solito l’aiutava ad affrontare ogni genere di situazione. Il fuoco è l’unica via d’uscita.
Sì, ma come fare? Lei non era più in grado di generarlo, e lì dentro non c’era altro che un ammasso di rocce.
E poi, come faceva ad avere la certezza di esserne ancora immune? Non lo sapeva, ed era questo il problema.
Le sembrava di essere tornata all’estate precedente, quando le bastava scorgere una scintilla con la coda dell’occhio per sentir montare il panico. Per anni, il suo nemico più grande era stato il suo elemento. Aveva ucciso sua madre, le aveva portato via ciò che di più caro aveva al mondo.
Era stato difficile accettarlo e accettarsi in quella che era diventata inspiegabilmente la sua nuova realtà.
Il fuoco non poteva farle del male; non poteva scalfirla, né distruggerla.
Ma ora era vulnerabile esattamente come lo era stata durante tutto l’arco della sua infanzia.
Il mostro prese la forma di un orrido Kraken, tentando di avvolgerle il busto con i suoi tentacoli, e la figlia di Efesto strusciò via, mancando per poco di essere intrappolata da quelle ventose.
Per quanto potesse odiare il pensiero di dover fare una cosa simile, non c’era altra soluzione. Le probabilità non giocavano affatto a suo favore, e lei aveva poco tempo per poter raccogliere la Rosa prima che fuori tramontasse il sole.
Con il volto pieno di graffi e il corpo lacerato da ferite, si alzò in piedi, reggendosi un fianco con una smorfia. Agire velocemente sarebbe stata l’unica cosa che l’avrebbe salvata; pregare gli dei, l’unica che l’avrebbe protetta.
Stava per constatare quanto davvero l’isola le aveva rubato. Se la sua intera essenza, o solo la capacità di diventare una Torcia Umana.
Parando con fatica alcuni dei colpi infertile dal mostro, sgusciò rapidamente di lato, raccogliendo una pietra poco levigata da terra e sfregandola contro la lama della sua spada.
Aveva visto Alex farlo molte volte, come se fosse una cosa facile; e al campo era la prima cosa che ti insegnavano, subito dopo la scherma.
Perciò, per quanto non l’avesse mai fatto in vita sua, non si stupì nel momento in cui il bronzo celeste della sua arma presse letteralmente fuoco.
La ragazza la brandì con coraggio, puntandola verso la creatura che, sorpresa, arretrò. Forse ora aveva qualche chance in più, e forse adesso il Simurgh non si sarebbe più avventato contro di lei.
Ma lentamente roventi scintille presero a danzare verso l’elsa, leggiadre, e Skyler capì che se non l’avesse lasciata subito andare, avrebbe rischiato di procurarsi un’ustione di primo grado.
Con un grido di sfida, corse in direzione di quello che ora era un grifone. Lo colpì in petto con un fendente, per poi staccagli di netto un’ala, e un moto di soddisfazione la invase quando vide le parti ferite bruciare, accompagnate da delle grida di dolore.
Aveva ragione, neanche quel mostro era immune al fuoco. Ma di insetti a formarlo ce n’erano troppi, e lei non sarebbe riuscita a disintegrarli tutti con il solo aiuto della sua misera spada.
Cercò di attaccarlo ancora, ma stavolta la creatura fu più furba. La disarmò con l’aiuto del possente becco, scagliando la sua arma a qualche metro di distanza. La figlia di Efesto fece per correre a raccoglierla, quando quello le batté brutalmente la coda sul petto, facendola atterrare a terra tanto crudelmente che lei vi sbatté la nuca, ed il dolore le attraversò la colonna vertebrale come un fulmine maligno.
La ragazza gemette, incapace per qualche attimo di reagire.
Con la coda dell’occhio, vide la sua spada adagiata al suolo venire avvolta dalle fiamme, che, quasi avessero trovato pane per i sui denti, entrarono in contatto con l’infiammabile polvere, investendo la grotta con un’orda di fuoco.
La voce del Simurgh lanciò un urlo, non aspettandosi un simile avvenimento.
Anche Skyler trovò la forza necessaria per indietreggiare, mentre con occhi sgratati osservava le fiamme divampare senza controllo.
Il mostro fu il primo ad essere investito, e il suo corpo amorfo si contorse, in preda ad una serie di spasmi. Le lingue di fuoco avanzarono malevole verso la mora, e lei si coprì il volto con entrambe le braccia, preparandosi al peggio con la consapevolezza di non avere le energie necessarie per scappare.
Per un attimo, non successe nulla. Poi la figlia di Efesto riaprì gli occhi, guardandosi intorno meravigliata.  
Le fiamme le lambivano il corpo, avvolgendola quasi completamente. Eppure non accadeva… nulla.
Era come se non fosse successo niente. Era come se ne fosse ancora immune.
Con un sospiro di sollievo, la ragazza chiuse le palpebre, lasciandosi sfuggire una risatina isterica.
Aveva davvero creduto di esalare i suoi ultimi respiri. Aveva pensato di dover morire lì, da sola. Proprio come era successo a sua madre.
Con un ennesimo sforzo guidato dalla forza di volontà, Skyler si alzò in piedi, dirigendosi tremolante verso il lato opposto della grotta, sforzandosi di aggirare il più possibile il Simurgh.
La Rosa dei Venti era esattamente dove l’aveva vista la prima volta, e non appena protese una mano per afferrarla quella si solidificò nel suo palmo, interrompendo bruscamente i suoi continui e melliflui movimenti.
La ragazza la guardò attentamente, contemplandola in tutto il suo splendore.
Poi il soffitto della caverna vibrò, sbriciandosi in cumuli di ciottoli e polvere.
La semidea si voltò, comprendendo solo in quel momento cosa quello potesse significare.
Il mostro non era ancora morto.
Si stava dibattendo, lottava con tutte le sue forze contro quel fuoco inaspettato, impaziente di potersi vendicare del torto subito.
Doveva andarsene di lì, e alla svelta.
Raccolse la sua spada da terra, incurante delle scintille che le stavano risalendo sul braccio. Perlustrò le pareti rocciose, tentando di capire da che lato andare.
Ma non appena fece per correre verso l’uscita, più rapido di qualsiasi pensiero qualcosa le si serrò attorno ad un polpaccio.
Lei cadde a terra, e il fiato le si smorzò in gola.
Il Simurgh aveva assunto le sembianze di un mastodontico lupo mannaro, e aveva usufruito delle sue ultime forze per poterla azzannare, rabbioso.
Stava per morire, eppure il male che era in lui sembrava non cessare mai di condizionare le sue azioni.
Disperata, Skyler provò in tutti i modi ad aprire quelle zanne, di liberarsi da quella stretta mortale, tirando fino ad avere la sensazione di liquefarsi al suolo. Ma, come chiuse da viti d’acciaio, quelle le sprofondavano nella carne, decise a non mollarla.
Con un singhiozzo, la ragazza si accasciò sulla terra sudicia, gli occhi del mostro che ormai vuoti ed inespressivi apparivano privi di vita.
E si chiese se, dopo tutto ciò che aveva passato, fosse davvero giusto che finisse così.
Con le lì, sola, ad un passo dalla salvezza.
Ad illuminare lo scenario della sua morte, solo ed unicamente rosse fiamme.
 
Ω Ω Ω
 
John si scrocchiò prima le nocche di una mano, poi dell’altra.
Da quando Skyler aveva seguito quello spirito nel bosco, lui non aveva fatto altro che fissare il punto in cui era sparita.
Quando poi quell’essere era tornato indietro senza di lei, le sue iridi verdi non si erano spostate da quegli alberi neanche per un secondo.
Non poteva sopportare l’idea che la ragazza potesse essere in pericolo, e che lui non fosse lì per salvarla. Si era ripromesso di fare qualunque cosa, affinché le sue amiche tornassero a casa sane e salve.
Ma per quanto si sforzasse, neanche lui era abbastanza forte da contrastare le leggi naturali dell’isola.
«Tic tac» continuava a canzonarli lo Spirito del Vento, risultando molto più irritante di quanto avrebbe sperato. «Il tempo scorre, semidei. E se la vostra amichetta non tornerà in tempo con la mia Rosa, credo che stasera organizzeremo una bella festa.»
Sette ore al tramonto. Sei ore al tramonto. Cinque ore al tramonto.
Non appena scattò anche la quarta, il figlio di Apollo sentì il panico prendere il sopravvento.
Alex dovette accorgersene, perché lo affiancò corrucciato, volgendo anche lui lo sguardo verso il punto in cui la figlia di Efesto era sparita dalla loro vista.
Spostò il peso da un piede all’altro, sforzandosi di mascherare la propria apprensione. «Ho fiducia in lei» affermò, più a sé stesso che al biondo. «Ce la farà.»
«Lo so» rispose semplicemente l’altro, per poi passarsi le dita tra i capelli e sbuffare rumorosamente.
Tre ore e quaranta al tramonto. Tre ore e venti.
«Si sta facendo tardi, miei cari» gli ricordò la donna-spirito, con un sorriso compiaciuto sul volto. «Mancano solo dieci minuti.»
John prese a camminare avanti e indietro, faticando a governare le proprie emozioni.
Poi, una figura malmessa si intromise nel suo campo visivo, e con il cuore che perdeva rapidamente quattro battiti avanzò verso di lei, mentre gli altri due ragazzi trattenevano il fiato.
Solo quando fu abbastanza vicino da poter distinguere i suoi lineamenti, il biondo accelerò il passo, facendosi travolgere dall’adrenalina. E prima che qualcuno potesse anche solo metabolizzare l’evento, lui stringeva già il corpo tremante di Skyler tra le braccia, sollevandola da terra euforico.
«Sei viva» sussurrò tra i suoi capelli, incapace di frenare un sorriso.
La ragazza cercò di essere forte; ma dal modo in cui si aggrappò alle sue spalle, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo, il figlio di Apollo intuì subito quanto fosse provata.
«È finita» le assicurò, posandole una mano dietro la nuca e facendo aderire ancora di più i loro corpi, quasi bastasse quel gesto a constatare che il suo cuore battesse ancora. «Ora ci sono io. È finita.»
La figlia di Efesto tirò su col naso, continuando ad essere percossa da violenti brividi, come se fosse febbricitante.
Era viva, sì, ma John non aveva il coraggio di immaginare cosa era stata costretta a passare.
Zoppicava, aveva graffi e ferite dappertutto, la sua spalla sanguinava, e nonostante sul polpaccio avesse stretto una benda di fortuna con un pezzo della sua maglietta bianca, questa era già completamente intrisa di sangue.
«Spero che tu mi abbia riportato ciò che ti avevo chiesto» si intromise ad un tratto l’odioso Spirito del Vento, al ché la mora si voltò per fronteggiarlo.
Avanzò impettita verso di lui, nello sguardo un chiaro tono di sfida, e non facendo caso al tremolio delle proprie mani gli porse con fierezza ciò che stringeva nel pugno, lasciandoglielo cadere nel palmo con una smorfia di disgusto.
«Va al Tartaro» sibilò a denti stretti, ma la creatura, ormai, era troppo impegnata ad ammirare il proprio compenso.
La Rosa dei Venti, tra le sue invisibili dita, riprese immediatamente la sua forma originale, emettendo un intenso bagliore prima di tornare a muoversi leggiadra.
«Finalmente» mormorò l’essere, famelica. «Era passato così tanto tempo.»
Skyler avrebbe voluto togliersi lo sfizio di infilzarla alle spalle con la spada, ma era ancora troppo debole, tant’è che John riuscì a sorreggerla poco prima che svenisse a causa delle vertigini.
«Con questa Rosa potrò governare i venti di tutti e quattro i punti cardinali!» gioì il mostro. «Sarò invincibile!»
«Un patto è un patto» le ricordò allora Alex, facendo risoluto un passo verso di lei. «La tua Rosa in cambio della nostra informazione.»
La donna-spirito lo squadrò, soppesandolo attentamente con lo sguardo. Poi incrociò le braccia al petto, con un sospiro teatrale.
«Siete sicuri di voler sapere dove si trova la Pietra?»
«Non ho lottato contro il Simurgh perché avevo voglia di farti un favore» ribatté la figlia di Efesto, acida.
La creatura inarcò le effimere sopracciglia, ma non replicò. Al contrario, posò per la prima volta i piedi a terra, non costringendo più i ragazzi a dover inclinare il capo per guardarla.
«D’accordo» assentì, condiscendente. «Ma mi esonero da ogni responsabilità.»
«Parla» le intimò la figlia di Ermes, visibilmente spazientita.
L’essere esitò. «Sarete costretti ad inoltrarvi nella più completa oscurità, se volete trovare la Pietra» spiegò. «Da me non saprete altro.»
E con una folata di vento tanto forte che per poco i ragazzi non vennero sollevati in aria, tutti gli Spiriti del Vento scomparvero, allontanandosi velocemente dal gruppo di semidei.
«Ehi, aspettate!» obbiettò Emma, provando inutilmente a trattenerli lì. Batte un piede a terra, frustrata.
«Ma che significa?» domandò John, dando così voce ai pensieri di tutti. «Che razza di indizio era?»
La bionda prese fiato per parlare, decisa ad incolpare Alex a suon di “ve l’avevo detto di diffidare dello Spillo”.
Ma non appena fece per lanciargli un’occhiataccia, notò quanto il suo viso fosse pallido. L’espressione terrorizzata, sul suo volto, sembrava stonare con i suoi lineamenti, e la ragazza fece fatica a rendersi conto quanto quel repentino cambiamento la turbasse.
Ma dal modo in cui le sue iridi scure sembravano essersi posate su un punto indefinito, la figlia di Ermes capì dove la sua mente stesse andando.
«Alex?» lo chiamò, con tono incalzante, incredulo. «Tu hai capito dov’è la Pietra?»
«Sì» annuì il moro, con scarso entusiasmo. «Sì, l’ho capito.»
«E?» lo incitò quindi John, impaziente.
«E recuperarla non sarà facile come avevo sperato.»
Skyler corrucciò le sopracciglia, tentando di decifrare i sentimenti che velavano i suoi occhi. «Perché?» azzardò, esitante.
Il ragazzo si inumidì le labbra, deglutendo a fatica. «Perché dovremmo attraversare la Foresta della Luna.»    

Angolo Scrittrice. 
Bounjour a tout le monde!
Ebbene sì: oggi è martedì, e per quanto ne so ValeryJackson non si è ancora arresa all'idea di continuare a pubblicare. 
Ma andiamo per gradi. 
Come state, ragazzuoli? 
Spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto. E se vi ha fatto schifo... beh, mi scuso in anticipo. 
So che è più corto rispetto agli altri, ma non per questo trascurabile. 

Skyler ha affrontato il Simurgh, che non troverete nei libri di mitologia greca perchè *cof* l'ho inventato io *cof cof*. Vi aspettavate un essere del genere? All'inizio, la figlia di Efesto sembrava non avere molte speranza. 
Ma poi ha deciso di compiere un gesto estremo, pregando affinché andasse tutto bene: si è fidata del fuoco. 
Per lei non è stato facile, soprattutto ora che i suoi poteri l'hanno abbandonata, rendendola una comune mortale.
Però, come vedete, non è la sua essenza stessa ad averla abbandonata. Solo perchè non è più in grado di generare fiamme, questo non significa che queste abbiano smesso di rispettarla. 
Lei resterà sempre figlia del dio del fuoco, con o senza capacità di diventare una Torcia Umana. 
E poi, come può una Ragazza in Fiamme non esserne immune?
Ad ogni modo, è riuscita a recuperare la Rosa dei Venti, ma non è uscita affatto indenne da questo scontro. Vedremo che effetto avranno quelle ferite su di lei, e cosa accadrà, ora che i ragazzi sanno esattamente dove cercare. 
Quanti di voi immaginavano che la Pietra si nascondesse nella Foresta della Luna? 
La storia sta per spostarsi in quello che è il luogo più oscuro e maligno di tutta l'isola. Se pensate che i nostri semidei abbiano già passato il peggio... beh, sappiate che non ho ancora dato del tutto libero sfogo alla mia fantasia. *risata malefica* 
Scherzi a parte, mi auguro davvero di non aver deluso le vostre aspettativo, e che questo capitolo, seppur relativamente breve, vi sia ugualmente piaciuto. 
Se così non fosse, invece, non esitate a farmelo sapere. Ogni critica è sempre bene accetta, purchè sia costruttiva. 
Mi duole anche annunciarvi che, purtroppo, il prossimo martedì non sarò in grado di aggiornare. Sarò impegnata in un progetto extrascolastico, che in pratica mi porterà via anche il week-end .-.
Che crisi. 
Oookaaay. Credo proprio sia arrivato il momento di ringraziare i miei bellissimi Valery's Angels, con i quali mi scuso ancora una volta per non essere riuscita a rispondere alle recensioni. Il vosro supporto e la fiducia che riponete in me sono sempre un toccasana, e con i vostri complimenti mi regalate la determinazione necessaria per continuare ad aggiornare questa sotria che ormai, da un pò di tempo, sta finendo nel dimenticatoio di molti. Grazie quindi a:
Luna_Everlak, Francesca lol, _angiu_, Percabeth7897 e _Krios_
Siete dei piccoli angeli nel vero senso della parola. **
Ora è meglio andare, perchè devo ancora studiare troppe  molte pagine di scienze. 
Spero che, nonostante la pausa della prossima settimana, voi abbiate ancora voglia di seguire le avventure dei miei ragazzi. 
Grazie a voi che non vi siete ancora annoiati dei miei aggiornamenti, e scusatemi se mi ostino ad arrivare fino in fondo a questo obbiettivo. Tengo troppo a Skyler, John, Emma, Michael e tutti gli altri per poter permettere che diventino solo dei visi astratti nella mia mente piena di idee. 
Dopo tutto quello che hanno fatto e significato per me, non se lo meritano, ed io farò di tutto tutelarvi. 
Un bacione enorme a tutti! Ci vediamo tra due martedì <3
Sempre vostra,

ValeryJackson
P.s. Che mi dite del nostro John sempre più apprensivo? ahah, gli amici così sono più unici che rari **

 

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Capitolo 32
*** Capitolo 31 ***



Fin da quando aveva annunciato loro cosa sarebbero stati costretti a fare, Alex non aveva più sillabato una singola parola.
A John questo non sorprese più di tanto. Nonostante conoscesse ben poco quel ragazzo, gli era stato subito chiaro che quell’isola l’avesse cambiato molto più di quanto fosse disposto ad ammettere.
Il solo pensare alla Foresta della Luna l’aveva reso distante, assorto, cupo e taciturno, e il figlio di Apollo non osava neanche immaginare quali orribili pensieri stessero attraversando la sua mente.
Si chiese se il moro avesse mai visitato quel posto che descriveva con tanto disprezzo, ma non ebbe il coraggio di domandarglielo mentre, con la stanchezza a gravare sulle sue spalle, si dirigeva con gli altri verso la spiaggia.
«La ricordavo più vicina» commentò sarcastica Emma, al ché Skyler, reggendosi con fatica al biondo, fece una smorfia.
Zoppicava, e respirare con regolarità, per lei, sembrava diventare più difficile man mano che avanzava di un passo.
Anche se John era stato in grado di curarle alcune delle ferite superficiali, la ragazza aveva insistito affinché non si preoccupassero per lei. Ogni secondo perso su quell’isola equivaleva all’avvicinarsi della data di scadenza che la raccapricciante voce che aveva rapito Michael aveva loro dato, e la figlia di Efesto non aveva la benché minima intenzione di sprecare il proprio tempo.
«Ma quanto manca alla Foresta?» borbottò ad un certo punto, talmente sommessamente che per un attimo credette che l'amico non l’avesse sentita.
«Poco, credo» rispose invece il ragazzo, ma nel momento stesso in cui lo disse Alex si fermò di scatto, interrompendo il procedere degli altri. Prese un profondo respiro, riempendosi i polmoni dell’aria salmastra che segnava l’appressarsi della Spiaggia Dorata, come lui l’aveva denominata.
«Ci toccherà attraversare il fiume» li informò, con scarso entusiasmo.
«Fiume? Quale fiume?» fece la figlia di Ermes, confusa.
«Quello che separa una parte dell’isola dall’altra. Non è molto grande, né profondo, ma ciò non toglie che potrebbero attaccarci dei mostri.»
«E come pensi che dovremmo fare?» domandò allora il figlio di Apollo, cogitabondo. «Non siamo nelle condizioni giuste per valicarlo a nuoto.»
«Ecco perché» cantilenò deciso il moro, riprendendo a camminare con passo sicuro. «Costruiremo una barca.»
«Una cosa?» sbottò Emma, stupita.
«Hai capito bene.»
John sentì Skyler, al suo fianco, emettere un lamento strozzato, e rendendosi conto che non riusciva a tenere il passo la strinse un po’ di più a sé, avvolgendole la vita con un braccio.
«Hai una vaga idea di quanto tempo ci voglia per costruirne una?» lo rimproverò poi, scorgendo con la coda dell’occhio l’aureo bagliore che gli ultimi raggi del sole conferivano alla sabbia. Gli alberi si stavano lentamente diramando, facendo spazio a quella che era una spiaggia molto più vasta di quanto non ricordasse.
«Non se sei un figlio di Efesto.»
Alle parole di Alex, i tre semidei si bloccarono, guardandolo come se fosse uscito di senno. Ma quando lui volse i propri occhi scuri nella loro direzione, il biondo non vi trovò neanche un briciolo d’ironia.
«Toglitelo dalla testa» sibilò, sprezzante, ma il ragazzo non parve minimamente sorpreso dalla sua reazione.
«Non sono io quello che ha fretta di trovare la Pietra» gli fece notare, con glaciale tranquillità. «Se volete arrivare alla Spiaggia Bianca il prima possibile, l’unico modo è costruire velocemente un’imbarcazione.»
«Posso farcela» assentì Skyler, cercando di convincere più sé stessa che gli altri.
«No, non puoi» la contraddisse John, autoritario. «Fai fatica anche a camminare, non ti permetterò di…»
«Fino a prova contraria, non sei tu a prendere decisioni per lei» lo interruppe il moro, spazientito. «Se dice di esserne in grado, vuol dire che può farlo.»
Quello non era decisamente l’Alex che in quei giorni avevano conosciuto, e quel suo atteggiamento acido e diffidente sembrava mandare in confusione l’intero gruppo.
«Io mi preoccupo per la sua salute» gli diede quindi contro il biondo, adirato. «Cosa della quale tu, invece, sembri infischiartene!»
«Non abbiamo tempo per questo! Lo capisci o no che abbiamo i minuti contati?»
«Ragazzi» tentò di farli smettere la figlia di Efesto, ma i due parvero ignorarla.
«Oh! E per questo motivo non importa se moriamo per il troppo sforzo, vero?»
«Fare il vittimista non ti aiuterà a sopravvivere in un posto del genere» lo accusò il ragazzo, puntandogli un dito contro il petto.
«E tu che ne sai? Ci sei mai stato, per caso?»
Alex prese fiato per replicare, ma inizialmente le sue corde vocali non emisero alcun suono. «Forse non è chiaro a nessuno di voi che da questo momento in poi non potremo più permetterci il minimo errore» affermò, tracotante.
«Ragazzi» ritentò invano Skyler, allontanandosi dal figlio di Apollo e posando un palmo contro il tronco di un albero, ansimante; le sue suppliche, però, non scalfirono i due semidei neanche stavolta.
«E a te forse non è chiaro che noi siamo una squadra!» inveì infatti John, facendo una passo avanti per fronteggiare il moro. «Non lascerò indietro le mie migliori amiche solo perché tu hai voglia di fare il capobranco. Qui viaggiamo tutti sulla stessa lunghezza d’onda, chiaro? E invece di pensare ad altro, dovremmo proteggerci a vicenda!»
«Io voglio proteggervi, dannazione!» gridò a quel punto il corvino, prendendosi la testa tra le mani con un grido di frustrazione. «Perché è così difficile da capire?»
«John» chiamò un'ultima volta la mora, con tono tanto urgente che tutti si voltarono a guardarla. Era totalmente madida di sudore, e il suo viso pallido entrava in contrasto con le profonde occhiaie scure che le solcavano gli zigomi.
«Ehi, che ti succede?» esclamò il biondo, rendendosi conto solo in quel momento di quanto il suo respiro fosse irregolare.
«Non credo di sentirmi» ansò lei, trascinando con eccessiva fatica ogni parola. «Tanto bene…»
Non fece neanche in tempo a sillabare correttamente l’ultima frase che i suoi occhi si rovesciarono all’indietro, e le sue ginocchia divennero incapaci di sostenere il suo peso.
«Skyler!» urlò il figlio di Apollo, afferrandola al volo poco prima che il suo corpo si accasciasse a terra. Tremava senza controllo, quasi stesse congelando, nonostante la sua fronte scottasse come se fosse in fiamme.
«Oh miei dei» sussurrò Emma, premendosi una mano sulla bocca. Si inginocchiò accanto a loro, sconvolta. «Che le succede?» singhiozzò.
«Ha perso troppo sangue» sentenziò rapidamente John, scostandole i capelli dal volto con gesti sicuri. Lanciò un’occhiata alla figlia di Ermes, che lo guardava con occhi sgranati, non avendo idea di cosa fare.
«Prendi bende ed ambrosia dal mio zaino» le ordinò, alzando il tono di voce perché lei si scuotesse. «Presto!»
La ragazza agì all’istante, frugando freneticamente tra le medicine dell’amico.
La mora, tra le sue braccia, aveva cominciato a tremare ancora più violentemente, e il suo corpo si agitava come scosso da degli spasmi. I suoi polmoni ingerivano aria in modo lento ed irregolare, e prima che vi si potesse opporre, le sue palpebre si fecero pesanti, minacciando di chiudersi.
«No, no, ehi!» la redarguì John, posandole una mano dietro la nuca e costringendola a guardarlo. «Non ti addormentare, capito? Va tutto bene, guarda me. Tieni lo sguardo fisso su di me, okay? Non mollare.»
La figlia di Efesto annuì appena, ma malgrado ciò non era in grado di controllare il peso opprimente che le schiacciava il petto.
«Ho trovato solo questi!» lo informò Emma, tornando dal figlio di Apollo con in mano quanti più medicinali potesse trasportare.
«Andranno bene. Passami le bende!» rimbottò allora lui, ma prima che la ragazza potesse porgergliele, Alex si inginocchiò accanto a lei, strappandogliele di mano.
«Che stai facendo?» tuonò furioso John, ma non fece in tempo a fulminarlo con lo sguardo che notò che il ragazzo si stava impegnando nel fasciare saldamente il polpaccio della mora.
«Tu occupati della spalla. Io penso alla gamba» si limitò ad imporre quello, con il tono deciso di chi non ammette obbiezioni.
Il biondo esitò un attimo, squadrandolo per qualche interminabile secondo. Ma poi ricordò a sé stesso quali fossero le sue priorità, e prese a curare Skyler, sfilandole la maglietta per poterle guarire la ferita alla clavicola.
E mentre la ragazza tentava di concentrarsi su ciò che la circondava, ben presto il mondo divenne solo un ammasso sfocato di immagini che scorrevano davanti ai suoi occhi troppo velocemente, con lei che, al contrario, avvertiva sempre di più la sensazione di star affogando.
E quando si rese conto di non poter più controllare il proprio corpo, si sottomise alle vertigini; e perse i sensi, cadendo in un baratro di pura oscurità.
 
Ω Ω Ω
 
Buio. Il fruscio di qualcosa che si sgretola.
La terra tremò, e migliaia di anni di guerre, distruzioni, tragedie ed orrori sembrarono urlare nello stesso istante, sfogando la propria disperazione contro i timpani di Skyler, con talmente tanta irruenza da rendere ovattato qualsiasi altro suono.
Poi un grido, che fendette l’aria più forte degli altri.
Un grido di dolore; un grido di opposizione.
Era una persona, ad emetterlo.
E la figlia di Efesto sapeva esattamente di chi si trattasse.
Un lampo di luce le abbagliò gli occhi, e lei portò una mano a difendere il viso.
Fugaci figure si susseguirono in rapida successione intorno a lei, quasi fosse appena stata catapultata in un film che riavvolgeva velocemente sul nastro a causa di una forza maggiore.
Una grotta. Un bagliore roseo.
Un cielo stellato.
Un insieme di rocce. Un déjà-vu.
Un corridoio lungo, tetro, strettissimo.
Un lampo che sembrava indicarle la strada.
Udì nuovamente un lamento, afflitto, strozzato. Il tintinnio di catene che venivano percosse con violenza, come se imprigionassero qualcuno che stesse dando tutto sé stesso pur di scappare.
«Stalle lontano!» minacciò una voce, e la ragazza ebbe un brivido, perché nonostante la eco la contorcesse, la riconobbe all’istante.
Poi vide una lingua di fuoco, che solitaria si scagliò contro di lei.
E il buio tornò a circondarla, mentre la fiamma penetrava nel suo petto, quasi fosse una spada decisa a trapassarla da parte a parte.
 
I suoi occhi si sgranarono, ed annaspando disperata le fu impossibile riempire i polmoni in maniera adeguata.
Boccheggiò, la vista velata e il corpo che sembrava liquefarsi per l’eccessivo calore delle sue vene.
«Ehi, sono qui» mormorò rassicurante una voce sopra di lei, e solo in quel momento si rese conto di essere stesa sul grembo di John, protetta tra le sue braccia. «Sono qui, è tutto okay.»
Il ragazzo era seduto ai piedi di un albero, e la cullava con fare rassicurante; Alex ed Emma che non rientravano nel loro campo visivo.
«M-Michael» gracchiò a corto di fiato la figlia di Efesto, l’agitazione che le imperlava la schiena di sudore. «Dobbiamo…»
«Ssh» la tranquillizzò il figlio di Apollo, accarezzandole un sopracciglio con il pollice. «Va tutto bene. È stato solo un brutto sogno.»
«No» riuscì ad obbiettare lei, la voce a poco più di un sussurro. «Dobbiamo trovare la Pietra. E salvarlo. Non c’è tempo… non c’è…»
Il biondo premette le labbra contro la sua fronte, lasciandole lì molto più del necessario. Fu allora che calde lacrime solcarono le guance della ragazza, silenziose, e lui le permise di nascondere il viso nell’incavo del suo collo, stringendosela ancora di più al petto.
«Non ci muoveremo di qui finché non starai meglio» affermò con decisione, allontanandole dolcemente i capelli dal collo sudato. «Hai la febbre troppo alta, e meriti un po’ di riposo.»
Ma nonostante questo, Skyler non riuscì a calmarsi.
Le era impossibile non pensare a Michael, e alle grida che le erano giunte.
E alle immagini che aveva scorto, e alle quali la sua mente febbricitante non riusciva a dare un significato.
E all’ordine di “starle lontano”, che, ne era più che convinta, fosse diretto al rapitore del figlio di Poseidone, riferendosi chiaramente a lei.
«Diventa mia, Ragazza in Fiamme» rimbombò quell’orrida voce tra le pareti della sua scatola cranica, facendola tremare anche se la sua pelle bolliva a tal punto da rischiare di ustionare qualcuno.
«Diventa mia.»
Sì, ma come?
E perché?
Ma soprattutto, a quale prezzo?
 
Ω Ω Ω
 
Alex buttò a terra la legna che con dedizione aveva raccolto, non badando al modo brusco con il quale si accasciava sulla sabbia.
Spostò le proprie iridi scure sull’orizzonte, lottando contro l’appena sufficiente chiarore della luna. E stringendo gli occhi a due fessure, riuscì a vederla.
L’altra sponda; la tanto temuta Foresta della Luna.
Che, mentre tutto intorno a lui riposava, prendeva vita, animandosi delle più temibili creature assetate di carne.
Un urlo giunse alle sue orecchie, più vivido di quanto non ricordasse.
Premette con forza i palmi contro le palpebre, imponendosi di ignorare gli incubi che per ogni notte l’avevano tormentato.
Ma ora loro erano lì, nella sua mente, e la sola consapevolezza di dover attraversare quella tortuosa parte di isola gli aveva permesso di tornare ad essere ciò che in realtà erano sempre stati.
Ricordi.
E faceva male. Faceva male non riuscire a contrastarli.
Perché le sue grida straziate non l’avrebbero mai abbondonato.
E per quanto potesse sforzarsi, non sarebbe mai riuscito a scrollarsi di dosso il dolore che l’aveva tormentato la notte in cui non era riuscito a salvarla, a difenderla; il senso di colpa che l'aveva logorato dall'istante in cui l’aveva persa per sempre.


Angolo Scrittrice.
*In onda tra tre... due... uno...*
Buonsalve a tutti! ahah
Oookaaay, lo so cosa starete pensando: ma come, ci lascia per un'intera settimana e poi pubblica questo mini capitolo? 
Ma prima che vi venga voglia di sputarmi in faccia, posso spiegare. Anche se può sembrare insignificante, questo 'capitolo di passaggio' racchiude in sé molte informazioni importanti. 
Ma andando con ordine: credevate davvero che
Skyler se la sarebbe cavata così facilmente? Muahah, non stareste leggendo una mia storia, altrimenti :') 
Se l'è cavata con una febbre molto alta, però. Anche se per un attimo se l'è vista brutta...
Ciò che più conta, però, è ciò che vede mentre è il quello stato febbricitante: stralci di immagini che dette così possono apparire insiensate, ma che in realtà con l'avanzare della storia acquisteranno un significato ben preciso. 
Avete già in mente qualche idea? E che ne pensate dell'orrida voce che ancora minaccia gli incubi della povera figlia di Efesto? Siete sicuri che solo perchè ora si trovano sull'isola si siano temporaneamente liberati di lei? 
Che poi, a chi appartiene? Qualche suggerimento? 
Btw,
John non si smetisce mai, vero? Dolciotto fino alla fine ** ahah
Ma parliamo del personaggio che questa volta assume maggiore importanza:
Alex
Che dire? L'idea di andare nella Foresta della Luna non gli piace per niente. 
A cosa è dovuto il suo atteggiamento scontroso, secondo voi? E perchè fa così?
Ovviamente tiene ancora molto a quei ragazzi che ha incontrato da poco (a differenza di quanto possa sembrare) e lo dimostra nel momento in cui aiuta John a curare Skyler. Eppure, c'è qualcosa che lo preoccupa eccessivamente. E spero che parte del suo turbamentto si percepisca in quello che è il suo primissimo punto di vista. 
Fino ad ora avevamo osservato questo personaggio solo attraverso gli occhi degli altri, ma ora eccolo qui che si ritaglia uno spazio tutto suo, in cui, nonostante non venga detto molto, ho pensato di darvi qualche notizia in più sul suo conto. 
Che mi dite, vi è piaciuto? Ne vorreste altri, di suoi points of view? 
Se sì, let me know. Ma soprattutto ditemi: Vi è piaciuto il capitolo? Vi ha fatto schifo? 
Mi auguro di non aver deluso le aspettative di nessuno, e se così fosse mi scuso immensamente. Ma posso assicurarmi che mi impegnerò al massimo per far sì che questa storia non annoi più nessunno di voi, pochi superstiti rimasti. 
E' arrivato il momento, comunque, di ringraziare i miei Valery's Angels, ai quali chiedo nuovamente venia per non aver risposto alle vostre bellissime recensioni. Grazie infinite a:
Just me_Ilaria, Percabeth7897, Francesca lol, Ciacinski e _Krios_
Grazie davvero! In mometi come questi siete la mia forza **
Anyway, ora credo sia meglio che vada, e non solo perchè devo studiare scienze per il compito in classe di domani, ma anche perchè sono reduce dal concerto più bello ed importante di tutta la mia vita, quello dei miei vitali
The Script, e se rimango ancora a lungo davanti la tastiera rischio di iniziare a citarvi ogni loro canzone. And this it's not right for you (ecco, appunto).
Non credo che il prossimo martedì riuscirò ad aggiornare (sono pessima, I know) e spero che vogliate perdonarmi per queste frequenti mancanze dovute ad impegni vari e che non perdiate la voglia di continuare a seguire la storia. Vi prometto che ben presto tornerò più puntuale di prima!
Anyway, grazie ancora una volta a tutti voi, e Buona Pasqua se non riusciremo a sentirci. 
Sempre ed ancora vostra, 

ValeryJackson

 

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Capitolo 33
*** Capitolo 32 ***


       
 

Quando Skyler aprì gli occhi, la mattina seguente, fu sorpresa nel constatare che tutta la febbricitante stanchezza della sera prima aveva lasciato il posto ad un adrenalinico torpore.
Si trovava ancora stretta contro il petto di John, che, con la nuca posata al tronco dell’albero, sonnecchiava rilassato.
La ragazza portò una mano a coprire il volto, accecata per via dell’abbagliante luce del sole, e fu solo a quel punto che il figlio di Apollo corrucciò leggermente le sopracciglia, arricciando il naso poco prima di schiudere le palpebre.
«Ehi» sussurrò dolcemente, non appena notò che la figlia di Efesto si era svegliata. Le portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, squadrandola con apprensione. «Come stai?» chiese repentino.
«Bene» annuì lei, al ché il ragazzo premette le labbra contro la sua fronte, lasciandole lì un po’ più del dovuto.
«La febbre si è abbassata» constatò, sollevato.
«È del tutto sparita» lo corresse Skyler, forzando uno smagliante sorriso. «Dobbiamo muoverci. Alex aveva parlato di una barca…»
«Frena! Dove credi di andare?» la trattenne John quando lei fece per alzarsi. «Sei ancora troppo debole.»
«Non dire sciocchezze» sminuì lei, con uno sbuffo. «Sto benone.» Nel momento in cui si mise in piedi, però, fu colta da nauseanti vertigini, e il biondo riuscì ad afferrarla per i fianchi poco prima che le sue ginocchia cedettero.
Prese un gran respiro, rimproverandola con lo sguardo. Poi si passò il suo braccio attorno al collo, sorreggendola, al ché la ragazza fece una smorfia.
«Ti ho detto che sto bene» insistette, ignorando il leggero pulsare al polpaccio ferito. «Non ho bisogno di aiuto.»
«So che vuoi salvare Michael, Skyler, ma non è morendo che ci riuscirai.»
Di fronte a quelle parole, la figlia di Efesto non prese neanche fiato per replicare. Si appoggiò con la schiena contro il sempreverde, stropicciandosi gli occhi nell’istante in cui li sentì bruciare.
«Vieni qui» le intimò allora l’amico, attirandola a sé e cingendola in un abbraccio. La mora si lasciò cullare dal suo rassicurante profumo di menta, nascondendo il viso nella sua maglietta e tentando di regolarizzare il proprio respiro. Poi si allontanò di un passo da lui, e dopo aver stretto con forza i denti si sfilò un elastico dal polso, iniziando a stringere i capelli in una coda di cavallo.
«Che stai facendo?» domandò brusco John, ma lei lo ignorò, evitando di incrociare il suo sguardo.
«Dove sono gli altri?» disse a sua volta, e non appena lui cercò di bloccarle un polso si divincolò dalla sua presa, fissandolo con tono di sfida.
«Io sto bene, John» affermò autoritaria. «E voglio aiutare. Nessuno è più indicato di me per poter costruire ciò di cui abbiamo bisogno, perciò dimmi cosa posso fare.»
«Skyler…» cominciò lui, portando le iridi al cielo.
«Non c’è nulla che tu possa dire per farmi cambiare idea» lo interruppe la figlia di Efesto, e con un sospiro rassegnato il ragazzo si rese conto di non poter competere contro la cocciutaggine dell’amica.
La verità? Skyler non aveva la benché minima intenzione di sprecare più tempo di quanto già avevano perso.
Non dopo i continui incubi di quella notte.
Non dopo aver sentito le urla di Michael, e la risata sconquassante del suo ignoto nemico.
Non dopo aver visto quelle insensate immagini così tante volte da dubitare che fossero frutto della sua immaginazione.
Non dopo aver udito il ticchettio di un orologio che ingombrante le ricordava che mancava davvero poco alla data di scadenza, e che molto probabilmente avrebbe dovuto iniziare a prepararsi per quella che sarebbe stata la lotta più difficile della sua vita.
Tic toc.
 
Ω Ω Ω
 
Per tutta la notte, Alex ed Emma si erano dati da fare per poter costruire un’imbarcazione con il legno raccolto.
Ogni tanto la figlia di Ermes si fermava a riposare, esausta ed incapace di combattere il volere di Morfeo, ma per il moro era stato impossibile chiudere occhio.
Lavorare senza sosta lo aiutava a non pensare, e anche se gli risultava difficile riusciva a non dar peso ai fantasmi delle urla che per anni non avevano mai abbandonato la sua memoria.
Così, nonostante non dormisse da quasi 24 ore, riuscì a mettere insieme una struttura tanto instabile quanto sgangherata.
«Secondo me reggerà» disse successivamente ad un’Emma che, a quelle parole, inarcò scettica un sopracciglio.
«Stai scherzando?» sbottò lei, quasi indignata. «Quest’affare si sfascerà prima di poterlo trainare verso la riva» aggiunse poi, indicando con un cenno della mano il conglomerato legnoso di fronte a sé.
«È perché non avete tagliato bene i pannelli» s’intromise una voce alle loro spalle, e non appena i due ragazzi si voltarono per osservare Skyler sembrarono piuttosto stupiti. «Devono incastrarsi come i pezzi di puzzle, altrimenti sarà impossibile legarli insieme.»
«Ehi!» esclamò quindi Alex, spostando il peso da un piede all’altro. «Sei sveglia» appurò poi, incredulo nel vederla già in piedi.
«E anche operativa» assentì la figlia di Efesto, superandoli per potersi inginocchiare accanto alla creazione di lui. «Vediamo di costruire questa barca prima del tramonto.»
Per un secondo, i due la squadrarono senza parole, non riuscendo ad immaginare come la ragazza che ora tagliava con la propria spada enormi pezzi di legno fosse la stessa che solo la sera prima era svenuta febbricitante sotto i loro occhi.
«Non date la colpa a me» si giustificò John, affiancandoli per controllare la mora con un cipiglio preoccupato. «È testarda come un mulo.»
Alex si grattò la nuca, improvvisamente conscio del fatto che con l’aiuto di Skyler sarebbero riusciti a raggiungere l’altra sponda prima di sera.
Eppure, questa consapevolezza non fece altro che aumentare la profondità che aveva acquisito una ruga in mezzo alla sua fronte.
Lui non aveva paura di quel posto, assolutamente.
Aveva passato più di gran parte della sua vita ad uccidere come minimo tre mostri al giorno, e combatterli sotto i raggi del sole o della luna non faceva alcuna differenza.
Non aveva paura delle temibili creature che avrebbe potuto incontrare, né di quale sarebbe stato il prezzo che sarebbero stati costretti a pagare per poter prendere la Pietra.
Ma di tutti i ricordi che fino ad allora erano rimasti segregati in un angolo remoto della sua mente e che sarebbero riaffiorati, pronti a dargli il tormento?
Oh, sì. Da quelli era terrorizzato.
 
Ω Ω Ω
 
Per Emma diventava sempre più difficile accettare l’idea che la sua migliore amica non avesse più intenzione di rivolgerle la parola.
Le mancava, e non soltanto perché era quasi da due giorni che non riusciva ad incrociare il suo sguardo.
Quando le persone ti dicono che non sai quanto sia importante ciò che hai finché non lo perdi, non dai peso alle loro parole fino al momento in cui non ti ritrovi con un’amica in meno.
Non volendo ascoltare le sue ragioni, Skyler le aveva impedito di spiegare perché avesse deciso di agire in quel modo.
Era vero, le aveva promesso che tra loro non ci sarebbero mai stati segreti, e invece era stata la prima a mentirle. Ma voleva che lei capisse quanto anche il solo ricordare cos’era successo con Leo le aprisse una voragine nel petto.
Non sapeva con certezza come mai il sorprenderlo quella fatidica sera tra le braccia di Charlotte l’avesse ferita così tanto, ma era consapevole del fatto che mai avrebbe pensato che quel ragazzo avrebbe potuto condizionare le sue scelte fino a quel punto.
Per quanto odiasse ammetterlo, più che disprezzo ed indignazione, provava solo rabbia. Rabbia verso la sua cronica stupidità. Rabbia verso tutto ciò che aveva osato rovinare.
Rabbia verso i sentimenti che nonostante tutto continuava a provare nei suoi confronti, e ai quali non riusciva a dare un nome, perché le erano ignoti, 
inesplorati prima del suo arrivo.
Rabbia verso ciò che l’aveva costretta a fare; e rabbia per averle raccolto delicatamente il cuore, e averlo cullato dolcemente, per poi stringerlo talmente forte nel pugno da farlo implodere in un sordo grido di dolore.
Era questo che Emma aveva voglia di fare: dare sfogo a quell’urlo furioso che aveva continuato a soffocare in fondo alla sua gola, quasi temesse che se avesse raggiunto i timpani di qualcun altro, avrebbe fatto altre vittime.
Strillare, fino a sentir bruciare le corde vocali, nella vana speranza che una volta tornato il silenzio non sarebbe stato inesorabilmente soffocante.
E se prima ad alimentare il suo desiderio c’era solo una profonda ira nel confronti di Leo, ora vi si era aggiunto anche l’astio di Skyler, che prendeva le sembianze di un ago intento a stuzzicare un palloncino sull’orlo di scoppiare.
Quando la figlia di Ermes portò altra legna alla mora -in procinto di creare delle fessure nelle varie tavole per potervici infilare le corde-, quest’ultima la ignorò, non distogliendo lo sguardo dal proprio lavoro.
La bionda la lasciò cadere a terra con un tonfo, la fronte leggermente aggrottata, per poi sporgersi oltre la spalla di lei ed osservare.
«Posso essere d’aiuto?» si offrì.
«No» rispose seccamente la figlia di Efesto, asciugandosi il sudore dalla fronte con il dorso della mano. «Ho quasi finito.»
«Ma hai bisogno di altra legna?»
«No, questa basterà.»
«Sicura che non debba stringere io le corde?»
Alla ragazza scivolò di mano la spada, ma con non calanche fece finta di niente, stringendo le labbra in una linea sottile. «Posso farlo benissimo da sola» affermò, brusca, al ché Emma strinse i pugni fino a provocarsi dei piccoli segni a forma di mezzaluna nei palmi.
«Si può sapere perché ti ostini a comportarti così?» sbraitò, sentendo le dita formicolare.
«Così come?» replicò l’altra, diffidente.
«Come se non esistessi» disse quindi la bionda, stizzita. «Come se preferissi che io non fossi qui.»
«In effetti…»
«Smettila!» la zittì prontamente la figlia di Ermes. «Sono stanca di tutta questa situazione, okay? L’ho capito, va bene: ho sbagliato. Ma questo non ti dà il diritto di escludermi dalla tua vita!»
«Oh, quindi adesso sai cosa si prova, non è vero?» Solo in quel momento la mora si voltò, distogliendo la propria attenzione dalla barca per fronteggiarla. «Complimenti, signorina Walker. Lei fa ufficialmente parte del club.»
«Sai che c’è? Ne ho abbastanza» si lamentò Emma, buttando le braccia al cielo. «Se tu non hai voglia di ascoltare le mie motivazioni, allora io non starò lì a pregarti di farlo!»
«Non ti ho chiesto neanche di parlarmi!» le fece notare Skyler, alzando furiosa il tono di voce. «Né tantomeno di spiegarmi perché hai pensato che nascondendomi la verità non avresti tradito la mia fiducia. Ora la mia unica preoccupazione è solo quella di salvare Michael, chiaro? E lo farò con o senza il tuo aiuto.»
«Non riuscirai mai a sopravvivere in quella foresta senza il supporto di tutti noi, te ne rendi conto?»
«L’unica cosa di cui mi rendo conto» sibilò la mora, puntandole un dito contro. «È che mi stai solo facendo perdere tempo.»
«Avresti potuto pensarci due volte, prima di lanciarti tra le braccia di Matthew» la provocò allora la figlia di Ermes, cercando di ferirla tanto quanto la stava ferendo lei con il suo ignorarla. «Scommetto che adesso non ci troveremmo neanche qui.»
«Non osare» l’avvertì Skyler, la voce che le tremava per l’imminente tensione.
«E perché no? Sappiamo benissimo entrambe che molto probabilmente ho ragione.»
«Sei davvero caduta così in basso?» La figlia di Efesto fece un passo verso di lei, furiosa. «Sul serio vogliamo parlare dei torti che tu hai fatto a me? O di come limonavi con mio fratello mentre tutto ciò di cui io avevo bisogno era un’amica?»
«Skyler, basta!» intervenne a quel punto John, afferrando la mora per i fianchi poco prima che potesse scagliarsi contro Emma. «Che Tartaro vi ha preso? Smettetela!»
La ragazza si divincolò sgarbatamente dalla sua presa, lanciando alla bionda uno sguardo di puro disprezzo. «Se pensi che io non possa vivere senza di te, ti sbagli di grosso» la informò, battendo un piede a terra per poter scaricare tutto il nervosismo accumulato. «Non ho bisogno di una persona falsa e bugiarda, per essere felice.» E con gli occhi stretti a due fessure le diede le spalle, allontanandosi, incurante dei tentativi dell’amico di trattenerla.
«Skyler, aspetta!» la chiamò il figlio di Apollo, per poi voltarsi verso la bionda con aria affranta. «Sono sicuro che lei…» iniziò, pronto a confortarla, ma la ragazza digrignò i denti, incamminandosi dalla parte opposta prima che lui riuscisse a sfiorarla.
Ed eccolo lì: l’ago di una bilancia che sembrava incapace di equilibrio.
Come poteva risolvere i problemi delle sue amiche, se loro erano le prime a non voler chiarire le cose?
Non potevano andare avanti così, o prima o poi ne avrebbero pagato le conseguenze.
Loro erano un gruppo, e come tale dovevano supportarsi a vicenda, soprattutto in una situazione come quella nella quale si trovavano. Prendersi il lusso di rompere la bolla di vetro nella quale erano rinchiusi equivaleva a distruggere la base di quello che era un bellissimo castello.
Ma come ogni costruzione di sabbia che si rispetti, il loro si stava lentamente sfaldando.
E John non era sicuro di avere le forze necessarie per poterlo ricostruire senza di loro.
 
Ω Ω Ω
 
 Quando Skyler ebbe finalmente terminato gli ultimi ritocchi per quella che aveva tutta l’aria di essere un’imbarcazione di fiducia, il sole splendeva alto nel cielo del primo pomeriggio.
Con un po’ di fatica, i ragazzi l’avevano trainata fino alle rive del fiume, ed una volta esser saliti tutti a bordo, avevano abbandonato le sponde della Spiaggia Dorata, diretti verso la Bianca, al lato opposto.
Voltandosi indietro per poter osservare ciò che si stavano lasciando alle spalle, la figlia di Efesto sentì uno nodo stringerle lo stomaco, simile alla nostalgia, e si chiese cosa stesse provando Alex, in quel momento, ad allontanarsi sempre di più da quella che per molto tempo era stata la sua casa.
Ma ormai era tardi per i ripensamenti, e il tempo a loro disposizione era davvero limitato.
Il ragazzo li aveva già avvertiti sui possibili rischi che la Foresta della Luna li avrebbe costretti a fronteggiare, ovviamente, eppure avvertì lo stesso il bisogno di rinfrescare loro la memoria, mentre, ad intervalli irregolari, puntavano le spade contro mostri che fuoriuscivano dalle acque per attaccarli.
«Vi auguro di non andare mai dall’altra parte» gli aveva auspicato il moro la sera in cui lo avevano incontrato, ma nonostante fosse consapevole del pericolo verso il quale stavano andando incontro, Skyler sapeva esserci dell’altro, dietro quel suo sguardo cupo e schivo.
Qualcosa che non aveva voglia di raccontare, e che forse era ricollegato alla misteriosa Caitlin di cui nessuno, ancora, conosceva la storia.
Vederlo senza il suo solito sorriso piantagrane dipinto sul viso le faceva temere ancora di più le sorti sue e dei suoi amici. Ma non si sarebbe tirata indietro; non ora che in gioco c’era la vita di Michael.
Forse Emma aveva ragione, magari era davvero sua la colpa del rapimento.
Non nel modo in cui pensava lei, però.
La figlia di Efesto sapeva con certezza che l’unico motivo per cui il proprietario di quell’orrida voce aveva rapito il figlio di Poseidone era per attirare lei nella sua trappola.
E ci stava riuscendo benissimo, a quanto pareva.
«Diventa mia, Ragazza in Fiamme.»
Era questa la richiesta che più le dava da pensare.
Perché mai –chiunque egli fosse- desiderava di possederla?
Che poi, come faceva ad essere sicura di cosa quel ‘mia’ potesse significare?
Di una cosa, ad ogni modo, era convinta: avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di riportare Michael e tutti gli altri al Campo, sani e salvi.
E non le importava se quelli che esalava fossero i suoi ultimi sospiri.
Lei avrebbe vinto quell’impensabile battaglia. Da viva, o da morta.
 
Ω Ω Ω
 
«È normale che l’aria sia così umida, qui?» si lamentò Emma, scacciando un insetto dalle proprie braccia sudate.
Alex tagliò di netto un ramo troppo basso davanti a sé, facendosi largo tra le fronde a suon di spada. «Penso di sì» si limitò a mugugnare. «La temperatura non è mai stabile, qualunque sia la parte dell’isola in cui ti trovi. Credo che la nostra sia solo sfortuna.»
La figlia di Ermes sbuffò, al fine di spostarsi una ciocca ribelle dal viso. «Stupidi moscerini» borbottò, aiutando il ragazzo a liberare la via dalle sterpaglie.
Camminavano in fila indiana, con Alex in testa e John a coprire le spalle dei suoi compagni.
Non era ancora calato il tramonto, ma non per questo i ragazzi escludevano possibili attacchi da parte di mostri. Se c’era una cosa che l’isola aveva insegnato a tutti loro, era di non abbassare mai la guardia.
«Avete almeno qualche idea di dove andare?» chiese ad un tratto Skyler, aggrottando meditabonda la fronte. «O il vostro piano è semplicemente quello di girare a zonzo?»
Lo sguardo del moro si rabbuiò. «Può darsi» mormorò, ma la ragazza non era sicura a quale delle due domande stesse rispondendo. «Voi tenete semplicemente gli occhi aperti.»
«È ancora giorno, no?» fece notare John, allentando di poco la tensione che esercitava sulla corda del proprio arco. «Potremmo fermarci a riposare, prima di continuare.»
«Non per molto» constatò allora Alex, lanciando una rapida occhiata al cielo che lentamente stava imbrunendo. «Se siete stanchi, potremmo ancora accamparci un attimo, ma non sono sicuro che ci sia il tempo necessario per…»
Prima che potesse anche solo terminare quel pensiero, la terra fu scossa da un violento boato, arrestando bruscamente la loro camminata.
I ragazzi si sorressero l’uno all’altro, sforzandosi di mantenere l’equilibrio.
Intorno a loro, ogni cosa sembrò essere pervasa dai brividi anche quando il tremore cessò. Alberi alti circa sei metri persero le loro foglie, che con un fruscio si riversarono al suolo. 
Subito dopo, regnò uno spettrale silenzio, talmente ingombrante che i semidei si sorpresero a trattenere il respiro.
Si misero in ascolto, cercando di individuare la sorgente di quell’improvviso terremoto; ma non appena ebbero realizzato che non si trattava di un fenomeno naturale, i loro cuori persero un battito.
Skyler si accorse di essersi morsa la lingua solo quando, deglutendo, avvertì un sapore metallico in bocca.
«Che cos’è stato?» si azzardò a domandare Emma, in un sussurro così lieve da far credere di aver timore che qualcuno potesse sentirla.
«Non lo so» ammise Alex, le iridi pietrificate fisse di fronte a sé. «Ma dobbiamo andarcene di qui, prima che…»
Ancora una volta, fu interrotto dal tremebondo muoversi del suolo, stavolta accompagnato da un urlo talmente disumano da far accapponare la pelle.
Via al mio corpo!, strepitò funesta una voce, che sembrava rimbombare direttamente tra le pareti della loro scatola cranica. Via dal mio corpo!
La figlia di Ermes lanciò un grido spaventato nel momento in cui qualcosa le afferrò una caviglia, strattonandola in aria.
«Emma!» esclamò John, tentando invano di trattenerla, ma non appena notò ciò che l’aveva afferrata, fece un passo indietro, interdetto.
Dal tronco di un possente albero sembravano spuntare dei lineamenti, a formare un viso quasi umano. I suoi rami parevano muoversi secondo uno schema preciso, quasi avessero una loro volontà. Ben presto furono attorno al busto della bionda, stringendo talmente forte da minacciare di spezzarle l’osso del collo.
«Lasciala andare!» impose il moro, minaccioso, che tra tutti era l’unico a non essere intimorito dal nemico che aveva davanti.
Via dal mio corpo, ripeté quello, cercando di afferrare anche loro. Via dal mio corpo!
Il corvino sollevò la propria spada, riuscendo a tranciare di netto un braccio legnoso poco prima che si chiudesse attorno alla sua gola; ma nel farlo, non prestò attenzione al successivo, che balzando alle sue spalle si avvolte intorno alla sua vita e lo trascinò a tre metri di altezza.
Via dal mio corpo, insistette il mostro, agitando convulsamente i suoi robusti rami verso il cielo.
Andate via!, convenne a quel punto una voce alle spalle di Skyler, dando il via ad un coro di macabri ringhi provenienti da ogni dove, a circondarli.
La figlia di Efesto si guardò intorno, raggelata, ma ciò che vide non le piacque per niente. Tutti gli alberi che aveva davanti presero lentamente vita, districando le proprie radici dal terreno ed oscillando in una funebre danza.
All’improvviso, si sentì in trappola, inglobata da una rete intricata di ramificazioni che impedivano alla luce della luna di filtrare, conferendo a quella foresta un’aria decisamente più spettrale. A difenderla c’era solo la sua spada, mentre le sue ginocchia tremanti le imponevano di arretrare.
Solo quando avvertì la propria schiena scontrarsi con quella di John si rese conto che se non fossero scappati da quegli esseri alla svelta, molto probabilmente non ci sarebbero riusciti più.
«John?» chiamò, senza distogliere le iridi dal nemico. Il figlio di Apollo contrasse i muscoli, preparandosi ad incoccare una freccia. «Che cosa sono?»
«Non ne ho idea» ammise lui, incapace di riportare alla mente qualunque mito greco fosse stato utile in quel momento. «Ma di sicuro non hanno buone intenzioni.»
Come combattere un albero munito di coscienza più alto di te di parecchi metri?
Tagliare il tronco con a disposizione solo delle misere spade, ovviamente, era impossibile, e se avessero dovuto falciare ognuna di quelle sinistre braccia tigliose non avrebbero avuto le forze, poi, di poter combattere ulteriori mostri.
Se non si fossero trovati sull’isola e Skyler fosse stata ancora in grado di poter usufruire dei propri poteri, avrebbe tranquillamente dato fuoco a tutti loro.
Ma forse avevano un’alternativa.
«Quante frecce esplosive hai?» chiese velocemente la ragazza, e il biondo portò una mano alla propria faretra, accarezzando il piumaggio delle armi che portava con sé.
«Quattro» la informò, afferrandone una subito dopo ed incoccandola con maestria. Aveva già intuito le intenzioni dell’amica, e nonostante non fosse un piano perfetto, al momento era l’unico che avevano. «Pensi che funzionerà?» domandò poi, non sapendo esattamente che genere di risposta aspettarsi.
La mora fece schioccare la lingua, stringendo di più la presa sull’elsa della propria spada. «Ce le faremo bastare.»
E prima che un ramo potesse afferrare un braccio di John, lei lo spezzò con un fendente ben piazzato. Menò un repentino montante, togliendo di mezzo due ramificazioni con un colpo solo. Poi un dardo fischiò accanto al suo orecchio, e la figlia di Efesto si buttò a terra pochi secondi prima che questo si conficcasse nel tronco di un albero, esplodendo.
Una decina di alberi furono avvolti dalle fiamme, ed una serie di grida straziate invase l’aria già raccapricciante, dei lamenti raggiunsero il cielo.
Skyler decise di coprire le spalle di John, distruggendo le braccia legnacee che tentavano di afferrarlo mentre lui cercava il punto migliore verso cui focalizzare l’attenzione.
Un’altra freccia esplose, distruggendo la vegetazione alla loro destra.
Ne restavano solo due.
«Alex!» esclamò ad un tratto la mora, scacciando un ramo con un calcio. «Dovete scendere da lì!»
Il ragazzo annuì, d’accordo, ma faceva davvero fatica a mettere insieme un pensiero logico con il sangue che gli fluiva alla testa, dato che il mostro lo teneva a testa in giù.
Vide Emma, di fronte a sé, dibattersi con tutte le proprie forze ed insultare con aggettivi poco congeniali gli esseri che la imprigionavano.
Fu forse il rendersi conto di non avere alcuna voglia di passare gli ultimi attimi della sua vita lì, sospeso in aria, a fargli tornare il desiderio di opporsi alle ingiuste regole che quella parte di isola aveva sempre dettato.
Lanciando un urlo di sfida, tagliò di netto il ramo che lo sosteneva per la vita. Rischiò di spiaccicarsi al suolo in caduta libera, ma per fortuna riuscì ad aggrapparsi con una mano ad un’altra spessa propaggine.
Impedì ad una diramazione di abbattersi su di lui, e con un agile balzo si mise cavalcioni su quella che legava la figlia di Ermes.
«Emma, dammi la mano!» ordinò.
Una nuova esplosione si innalzò alla loro sinistra, e la bionda, stringendo i denti, si sforzò di ubbidire.
Non appena avvertì la sua stretta solida chiudersi attorno alle proprie dita, Alex menò un fendente, e la presa del ramo sul corpo della ragazza si allentò, prima di cadere a terra, 
spezzato.
Emma si lasciò sfuggire un gridolino, ma con un po’ di fortuna il moro fu in grado di impedirle di spalmarsi contro l’erba, per poi ruzzolare con lei sul terriccio umido.
«Via di lì!» li avvertì Skyler, urlando a gran voce.
I due semidei si rialzarono, allontanandosi brancolanti dal mostro che li aveva ingabbiati. Fu allora che John scoccò deciso la sua ultima freccia, e facendo scudo alla figlia di Ermes con il proprio corpo, il ragazzo sentì gli alberi, alle proprie spalle, prendere fuoco.  
Le sue orecchie fischiarono per l’eccessiva vicinanza con il boato, la terra tremò sotto i suoi piedi. Per un attimo, tutto ciò che percepì furono le eco delle proteste doloranti dei mostri, divorati dall’esplosione.
Poi il silenzio calò incombente, letale, tanto che quando Alex si mosse gli sembrò di farlo a rallentatore, quasi i suoi muscoli temessero inconsciamente di poter produrre un qualsiasi rumore.
Con calma, si alzò da terra, porgendo ad Emma una mano per aiutarla a fare altrettanto.
La bionda tossì per via del fumo che li circondava, prima di voltarsi verso quelli che ormai erano tronchi bruciati e sputarvici contro, con disprezzo.
«E poi i figli di Demetra si sorprendono se non sono ambientalista» sibilò, con una smorfia di disgusto. Con il dorso della mano pulì un rivolo di sangue che le colava dal labbro spaccato. «Stupide piante» borbottò poi.
«State bene?» Nel fare quella domanda, John prese il volto dell’amica tra le mani, scrutandolo apprensivo.
«Sì» mugugnò il moro, con scarsa convinzione. «Più o meno.»
«Era questo che intendevi, quando dicevi che i pericoli, qui, sarebbero raddoppiati?» gli chiese quindi Skyler, facendo pensierosa un passo nella sua direzione. «Che qui sarà la foresta stessa a minacciare di ucciderci?»
«No» mormorò flebilmente lui, lo sguardo perso nel vuoto. La figlia di Efesto avrebbe voluto sapere altro, conoscere ulteriori informazioni, ma quando le sue iridi screziate d’oro s’incatenarono a quelle scure del corvino, ogni possibile protesta le morì in gola. «Questo è solo l’inizio.»

Angolo Scrittrice. 
*In onda tra dieci... nove... otto... sette... sei...*

ON AIR.
Ebbene sì, miei cari semidei. Purtroppo per voi, sono ancora qui. 
Ma oggi è martedì, giusto? Quindi la mia presenza è giustificata. 
Biene biene... che dire di questo nuovo capitolo? 
Come potete intuire, segna l'inizio della parte più... pericolosa di tutta l'avventura. 
Gli alberi 'viventi' potrebbero non essere nulla, in confronto a ciò che molto probabilmente saranno costretti ad affrontare. Ormai, però, è troppo tardi per i ripensamenti: una volta messo piede sulla Spiaggia Bianca, difficilmente si potrà tornare indietro. 
Ma i nostri ragazzi non hanno raggiunto la Foresta della Luna senza qualche intoppo. 
Eh, già, sto parlando proprio di
Emma e Skyler: quelle due continuano a litigare, e John, inevitabilmente, non può prendere le parti di nessuna delle due, perchè significherebbe scegliere tra le sue due migliori amiche. Perciò, si trova a fare l'ago della bilancia, e a separarle quando rischiano di tirarsi per i capelli.
Secondo voi, chi delle due è nel giusto? Io, onestamente, ritengo che entrambe abbiano le loro ragioni e i loro torti; ma sono curiosa di conoscere anche la vostra opinione. 
E qui tocchiamo un tasto dolente. Ho notato che il capitolo precedente non vi è piacuto quasi per nulla, e questo mi dispiace molto. Forse perché non sono riuscita a rispondere alle vecchie recensioni (se è questo il motivo, giuro che rimedierò), o magari il mio stile di scrittura non è più di vostro gradimento. 
Qualunque siano le ragioni, sono sempre più convinta che non valga la pena continuare a scrivere capitoli che non legge più nessuno, quindi sto seriamente prendendo in coonsiderazione l'idea di lasciare in sospeso la storia. 
Continuerò a scriverla, ovviamente, ma con più calma, e tenendo il resto per me, relegato in una cartella. 
La verità è che sarebbe l'ultima cosa che avrei voglia di fare, perchè per me equivale ad una sconfitta immane; per cui ho bisogno di sapere se vale la pena o no continuare, e mantenere l'impegno di scrivere affinché riesca ad aggiornare ogni martedì. 
Mi basta una semplice parola, davvero, ma vi prego di aiutarmi a prendere una decisione. 
Comunque sia, vorrei ugualmente ringraziare le tre Valery's Angels che mi hanno regalato le loro bellissime recensoni, la scorsa settimana:
Percabeth7897, 
Francesca lol e carrots_98
Grazie davvero, siete state dei tesori. <3
Anyway, ora devo proprio andare. Grazie anche a tutti i pochimabuoni lettori silenziosi che mi dedicano una parte del loro tempo ogni settimana. Ci vediamo il prossimo martedì, nel quale vi comunicherò ufficialmente se continuerò o meno la storia. 
Grazie ancora a tutti, guys!
Sempre vostra, 

ValeryJackson

 

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Capitolo 34
*** Capitolo 33 ***



Skyler si svegliò all’improvviso, in uno stato d’intorpidente dolore.
Gli occhi le si aprirono di colpo, e per un lungo istante si ritrovò al Campo, circondata dalle persone che amava. Michael, e Leo, e John, e Microft, ed Emma, ed Alex, e suo zio nella sua bella divisa militare dei Marines. Erano tutti lì, e le sorridevano.
Li vedeva in modo chiarissimo, con le loro forme che si sovrapponevano delicate, quasi stessero aleggiando su una qualche nuvola.
Era tutto perfetto, così come avrebbe dovuto essere.
Per questo la figlia di Efesto non vi credette neanche per un secondo.
Con un mal di testa martellante che batteva contro le pareti della sua scatola cranica, la ragazza fissò quelle immagini con freddezza, finché queste non si staccarono e si dissolsero, e lei fu lasciata sola in un posto diverso e più buio.
Buio, nonostante la luna avesse ceduto il proprio posto nel cielo ad un leggero albeggiare. Le ombre degli alti alberi si stagliavano macabre su di lei, come se volessero impedirle di scorgere la luce del sole.
Intorno, tutto sembrava tranquillo; ma il silenzio era continuamente interrotto dal fastidioso ronzio che le otturava i timpani.
Un ronzio acuto e metallico, come il brusio lamentoso di una zanzara; ma a differenza di quanto pensasse, non appena lo sentì Skyler provò una sorta di sollievo.
Perché voleva dire che le sue orecchie erano indolenzite, il che a sua volta significava che non era morta.
Non ancora, almeno.
Nell’aria c’era un forte odore di polvere, corteccia e terra bagnata. Quando fece schioccare disgustata la lingua, avvertì un sapore chimico in bocca.
Tentò di muoversi, ma una fitta di dolore si irradiò lancinante per tutto il suo corpo, attraversando i suoi muscoli come un lampo. La mora gemette, inarcando la schiena e stringendo con forza i denti. Indolenzita, si concentrò sul proprio respiro, che d’un tratto era diventato corto ed irregolare. E mentre stesa supina percepiva il terriccio umido piegarsi sotto il suo peso ed assumere la forma delle sue curve, il ricordo di com’era arrivata lì, in quel luogo e in quelle condizioni, le attraversò repentino la mente.
 
Il giorno era appena giunto al suo termine, e delle timide stelle avevano dato inizio a quella che, per tutti loro, sarebbe stata l’ennesima lotta per la sopravvivenza.
Skyler lo sapeva; era ben consapevole dei pericoli che stavano correndo. Eppure, in un certo senso, era come se l’avere i suoi amici accanto, pronti a difenderle le spalle, la facesse sentire meno sola. Più al sicuro.
Nonostante oramai si fossero inoltrati in quella orripilante foresta da più di ventiquattr'ore, le sue iridi non si erano ancora del tutto abituate all’aria spettrale che quegli alberi assumevano una volta che le loro folte chiome impedivano al tenue bagliore della sera di illuminare il loro cammino.
Era come ritrovarsi senza preavviso protagonista di quei film dell’orrore nei quali non sei a conoscenza del vero nemico da combattere finché non te lo ritrovi di fronte.
La figlia di Efesto aveva ben presto cominciato a domandarsi se ci fosse anche solo la remota possibilità di poter trascorrere quella notte indenni, senza essere costretti a vagare alla cieca senza poter chiudere occhio, consci che se solo avessero osato farlo, avrebbero esalato i loro ultimi respiri.
Era anche calata la temperatura, come se non bastasse, ma nessuno dei semidei aveva il coraggio di lamentarsi.
Se avessero spezzato la fitta coltre di silenzio che li aveva inglobati, come potevano essere sicuri di non attirare l’attenzione di qualche mostro?
«Tenete gli occhi aperti» erano le uniche parole che Alex si era permesso di espirare, mentre, in testa alla fila, li conduceva verso una direzione che sembrava del tutto indefinita.
Stringendo l’elsa della propria spada nel pugno con così tanta forza da avere le nocche bianche, Skyler si era resa conto di star trattenendo il fiato solo nel momento in cui i suoi polmoni avevano reclamato ossigeno; e quando con accortezza si era concessa un sospiro, aveva visto il proprio fiato condensarsi davanti al suo volto, lasciando le sue labbra come un’eburnea nuvola che poi si era dissolta.
Lei odiava il silenzio.
Ma ancor di più odiava quel silenzio, che era in grado di iniettarti nelle vene tutto il disagio necessario affinché tenere i nervi saldi diventasse una missione su Marte, e il concentrarsi su qualcosa di diverso dal trattenere l’urlo di paura che si nascondeva in fondo alla tua gola pareva davvero un’utopia.
Non devo lasciarmi distrarre, continuava a ripetersi la mora, imperterrita, ma malgrado ciò non riusciva a non tremare dentro lo strappato giubbino di pelle, sapendo che più della metà di quei brividi non era dovuta alla temperatura che sfiorava lo zero.
John dovette essersi accorto di quel suo turbamento, perché ad un certo punto aveva fatto scivolare le dita nelle sue, quasi volesse sostenerla; così, senza emettere il benché minimo suono. E quando la figlia di Efesto aveva ricambiato la sua stretta, digrignando pavida di denti, era come se avesse trasferito un po’ del peso che le opprimeva il petto nelle sue mani, per far sì che potessero sorreggerlo insieme.
Quella situazione non era facile per nessuno di loro, e pian piano stava diventando evidente.
Quell’isola stava prosciugando tutte le loro energie, mettendo a dura prova il loro spirito di sopportazione e sottoponendoli ogni volta a sfide sempre più ardue, sempre più logoranti.
E per quanto John si fosse ripromesso di proteggere le sue amiche a costo della vita, quando pensava di non essere visto si prendeva la testa fra le mani, quasi pesasse troppo per via dei pensieri che vi turbinavano feroci all’interno; e pensava a Melanie, al Campo, e a tutto ciò che si erano lasciati alle spalle, domandandosi –ormai privo di forze- se mai sarebbe riuscito a dir loro addio.
E per quanto Emma si nascondesse dietro quella sua maschera di distacco e temperanza, ogni tanto era incapace di trattenere una lacrima, che solitaria le solcava il viso mettendo in pericolo la sua anima fragile, allo stremo.
Solo Alex, invece, appariva del tutto indecifrabile. Il suo cambiamento era stato evidente dal momento esatto in cui avevano scoperto di doversi trasferire nella Foresta della Luna, ma nonostante Skyler avesse provato più volte a dare a quella sua improvvisa cupezza una spiegazione razionale, il motivo della sua perdita di sorriso le era del tutto ignoto.
Lui si guardava intorno come se fosse solo imprigionato in un incubo dal quale faticava a svegliarsi; come se non fosse pienamente consapevole di ciò che vedeva. Come se quello in cui si stesse muovendo fosse semplicemente lo specchio dei suoi ricordi.
La ragazza avrebbe voluto aiutarlo; ma come avrebbe potuto, se sapeva di non essere in grado neanche di salvare sé stessa?
Prima che potessero fare anche solo un altro passo, un fischio acuto era riecheggiato tra i tronchi degli alberi, e la sua eco si era moltiplicata velocemente fino ad investire tutta la selva.
Gli occhi dei semidei erano saettati repentini tutt’attorno, e solo quando un secondo zufolo si era espanso come una goccia sul pelo dell’acqua vi avevano riconosciuto un ringhio, all’interno.
Indietreggiando fino a ritrovarsi spalla contro spalla, i quattro avevano sollevato le proprie armi, e muscoli tesi che minacciavano si scoppiare.
E tutt’a un tratto, il latrato era diventato due, e quei due si erano trasformati in cinque, fastidiosi versi striduli.
La figlia di Efesto si era rigirata abilmente la spada tra le mani, pronta a difendersi da qualunque cosa l’isola le avesse offerto. Ma quando dalla penombra si erano staccate otto sinuose e snelle figure, la determinazione sul suo viso aveva ceduto il polso all’interdizione.
Somigliavano ad antilopi, con un manto ramato e delle strisce bianche su coda e dorso. I loro occhi non erano visibili per via della notevole oscurità, ma nulla avrebbe impedito alle possenti corna che fiere svettavano verso il cielo di passare inosservate.
«Yales» aveva sussurrato Alex, sprezzante, mentre quelle creature li accerchiavano con passi lenti e misurati.
«Ovvero?» l’aveva incalzato Emma, senza spostare lo sguardo dal proprio nemico.
«Mitologia europea» aveva azzardato John, e con suo grande stupore aveva visto giusto.
«Alex, cosa sappiamo di loro?» gli aveva poi chiesto Skyler, al ché il corvino aveva preso un profondo respiro.
«Non molto, in realtà» aveva ammesso, con voce atona e pacata. «Ne ho incontrati altri, una volta.»
«E?»
«E non ne ho mai ucciso uno.»
La mora aveva esitato, confusa. «E quindi come possiamo…?»
«Non avvicinatevi troppo» li aveva però redarguiti il ragazzo, interrompendola senza neanche ascoltare le sue parole.
Ma poco prima che lei potesse dire o pensare qualcos’altro, aveva scorto un luccichio rossastro con la coda dell’occhio, e i mostri avevano scoperto gli aguzzi denti, balzando verso di loro.
Con un salto repentino, la mora era ruzzolata di lato, per poi rialzarsi incurante di palmi e gomiti sanguinanti.
Uno degli Yale era avanzato nella sua direzione, gli zoccoli che ticchettavano contro l’arido suolo; Skyler aveva fatto un passo indietro, aspettando paziente che fosse lui il primo ad attaccare. Ma quando quello aveva mugghiato, producendo un minaccioso verso con le fauci esposte, i suoi riflessi avevano avuto la meglio.
Aveva menato un fendete, riuscendo però solo a procurargli un piccolo taglio sul muso; che ad ogni modo era bastato per far sì che s’imbestialisse.
Si era infatti impennato sulle zampe posteriori, nitrendo furibondo, per poi chinare il capo e puntarle contro le corna, che, lentamente, avevano preso a girare.
Sì, proprio girare. Vorticavano su sé stesse come le affilate pale di un elicottero, in un diametro di quasi due metri.
La ragazza era arretrata, incespicando spaventata, mentre il mostro aveva emesso un sonoro sbuffo, pronto a partire alla carica.
E lo aveva fatto, subito dopo. Si era avventato su di lei con così tanta irruenza che la figlia di Efesto non aveva neanche fatto in tempo a scansarsi. Si era ferita un braccio, quello che impugnava la spada, e nonostante non avesse perso la presa su quest’ultima si era lasciata sfuggire un grido di dolore, portandosi una mano nel punto dolorante. Non appena lo aveva fatto, questa si era impregnata subito di sangue, e per quanto potesse stringere i denti, Skyler sentiva già un leggero sudore imperlarle la fronte.
Come sarebbe riuscita a sconfiggere un mostro al quale non le era concesso avvicinarsi?
Semplicemente, non poteva. Eppure doveva pur esserci un modo per poter uscire indenne da quella battaglia.
Chirone diceva sempre che ogni creatura ha un suo punto cieco, che non sarebbe stata capace di difendere.
Quindi quale sarebbe potuto essere quello di un’antilope con le corna rotanti?
La ragazza non poteva fare a meno di pensare che se ci fosse stato qualcun altro, nella sua posizione, avrebbe saputo sicuramente cosa fare.
Lei non aveva esperienza, né uno studio dettagliato alle spalle.
Però aveva intuito. L’intuito di una figlia di Efesto; l’intuito della nipote di un militare.
Perciò, aveva notato quasi subito che per permettere alle proprie corna di roteare, il mostro era costretto a tenere il muso puntato verso il basso.
Un punto a suo favore, se si considerava l’idea che era faticoso, per lui, scorgerla con chiarezza.
Doveva solo muoversi rapidamente. Doveva depistarlo, e provare ad essere più furba di lui.
Quando lo Yale aveva tentato di colpirle la vita con i suoi palchi, lei era riuscita ad impedirglielo grazie ad un fendente ben piazzato. Più volte l’elsa le era scivolata di mano nel momento in cui il bronzo celeste cozzava con quelle micidiali corna, ma nonostante ciò la ragazza era riuscita ad evitare quasi tutti i suoi colpi. Si spostava repentina, cambiando continuamente posizione.
Solo quando aveva avvertito la spada, nel suo palmo, diventare troppo pesante per il suo braccio ferito, aveva realizzato che era arrivato il momento di contrattaccare.
Aveva aspettato che il mostro caricasse verso di lei, togliendosi un secondo prima dalla sua traiettoria per poter rotolare su un fianco. Poi aveva fatto un rapido mezzo giro su sé stessa, e prima che quella creatura fosse anche solo in grado di voltarsi a guardarla, aveva sollevato la propria arma, affondandola nel tronco dello Yale con così tanta abilità che il suo corpo snello si era diviso in due parti, dissolvendosi in una macabra polvere gialla senza neanche avere il tempo di toccare terra.
Skyler era indietreggiata di qualche passo, il fiato grosso per via dell’adrenalina che lentamente fluiva nelle sue vene. Aveva spostato le proprie iridi scure sul taglio sul braccio, valutando quanto in realtà fosse grave la ferita. Ma non aveva fatto il tempo ad appurarlo, che un nuovo ringhio era giunto ai suoi timpani; e si era ritrovata spinta a terra, l’alito rancido di uno dei mostri che le pungeva il viso.
Nel cadere, aveva battuto la nuca contro il suolo, e l’impatto e la sorpresa erano stati tali che aveva perso la presa sulla propria spada, facendola ruzzolare via.
La creatura si era avventata contro il suo volto, tentando di morderglielo con i suoi aguzzi denti, e per quanto potesse sforzarsi, la ragazza non riusciva a toglierselo di dosso.
Lo aveva afferrato saldamente per gli zoccoli anteriori, sperando che così facendo gli avrebbe fatto perdere l’equilibrio; ma lo scappare al suo attacco era diventato più complicato nel momento in cui lui aveva fatto ruotare le corna, ferendole una guancia con sadica brutalità.
Successivamente, la figlia di Efesto si sarebbe ritenuta fortunata a non essersi trovata più vicino a quelle affilate lame, ma lì per lì tutto ciò a cui riusciva a pensare era quale fosse il modo migliore per poter sfuggire ad una morte tanto ingiusta.
Però per quanto potesse opporsi, la fatica stava diventando troppo grande; e quando la sua vista si era annebbiata per un secondo, palesando tutta la sua stanchezza, la mora aveva capito che prima o poi i suoi muscoli del tutto indolenziti l’avrebbero tradita.
Era stato solo allora che le corna dello Yale si erano fermate. Così, all’improvviso.
Il mostro aveva fatto uno scatto con il muso, puntando gli occhi piccoli in un punto indefinito davanti a sé, quasi stesse osservando o ascoltando qualcosa.
Le sue orecchie avevano avuto un fremito, le narici del suo bruno naso si erano allargate.
E con la stessa rapidità con la quale aveva sovrastato Skyler, era corso via, seguito a ruota da tutti gli altri Yale che i suoi amici non erano riusciti ad uccidere.
La ragazza l’aveva seguito con lo sguardo, finché non era sparito tra le ombre degli alberi.
Aveva cercato di girarsi su un fianco, ma i tendini di gambe e braccia le dolevano talmente tanto che nel farlo si era lasciata sfuggire un lamento strozzato.
Subito dopo essersi ripreso, John le si era inginocchiato accanto, accarezzandole il taglio sulla guancia con il pollice e ritrovandoselo immediatamente sporco di sangue.
«Come stai?» le aveva domandato, apprensivo, e lei si era imposta di annuire, stringendo i denti, per far sì che gli invisibili aghi che sembravano stuzzicare la ferita sul suo bicipite permettessero alle sue labbra di lasciar scappare un ulteriore gemito.
Il figlio di Apollo aveva poi posto la medesima domanda ad Emma, che reggendosi una coscia aveva raccolto il proprio coltello da terra, fingendo nonchalance fino a ché le vertigini non le avevano fatto perdere l’equilibrio, e il biondo era stato costretto a sorreggerla.
Ad un paio di metri di distanza, Alex si muoveva indenne, a dispetto di quanto si potesse pensare osservando il lungo taglio che aveva su un fianco. Continuava a fare avanti e indietro, tornando ripetute volte sui suoi stessi passi mentre con gli occhi scandagliava ansioso tra gli alberi.
«Alex?» l’aveva chiamato Skyler, ma il corvino non si era bloccato, quasi le voci degli amici gli arrivassero ovattate e distanti.  
«C’è qualcosa che non va» aveva affermato, la voce incrinata da un leggero stato d’ansia. «Quei mostri non se ne sarebbero andati senza prima averci uccisi tutti.»
«Forse avranno avuto paura di una qualche luce?» aveva azzardato la figlia di Efesto, facendo perno sulle braccia per alzarsi in piedi. «Magari noi non riusciamo a vederla, ma la Luna è più luminosa del solito.»
«Impossibile.» Il ragazzo non aveva riflettuto neanche un secondo, prima di scartare la sua proposta. «Dev’esserci qualcos’altro.»
Nei secondi carichi di tensione che ne seguirono, i tre semidei si erano scambiati un’occhiata dubbiosa, chiedendosi silenziosamente se il timore dell’amico fosse dovuto ad un’inaspettata perdita di senno o ad altro.
Ma poi l’avevano avvertito. Lo avevano sentito tutti.
Anche se impercettibilmente, la terra sotto i loro piedi aveva cominciato a tremare, e lo schianto di possenti arbusti che si abbattevano al suolo, seppur lontano, giungeva chiaro alle loro orecchie.
Alex era stato il primo a tradurre ciò che udiva in fatti, e sgranando gli occhi aveva percepito una scarica di adrenalina attraversare la sua colonna vertebrale, rendendo i suoi riflessi consci del pericolo.
«Correte!» aveva ordinato, urlando con tutto il fiato che aveva in gola.
I ragazzi non se l’erano fatto ripetere due volte.
Erano scappati nella direzione opposta agli schianti, procedendo così velocemente che i loro muscoli, in quel momento, sembravano anestetizzati al dolore.
Era la paura, ad alimentarli; ed il terrore che li aveva colti nell’istante in cui si erano resi conto di non essere abbastanza rapidi.
Quando Skyler si era voltata indietro per poter capire quale fosse, stavolta, il nemico che li inseguiva, aveva rischiato di rimanere pietrificata.
Non si trattava di nuovo di un mostro, oppure di qualche orrida creatura.
Ad inseguirli c’era un terrificante tsunami.
Onde alte più di sei metri abbattevano querce, inglobavano esseri deformi, e nonostante non fosse a conoscenza della sua provenienza, la ragazza sapeva che lei e i suoi amici non avrebbero avuto scampo.
L’impeto di quelle acque era troppo forte; e loro, per contro, troppo deboli.
Senza perdere neanche un passo nella sua corsa sfrenata, la figlia di Efesto si era sfilata lo zaino semivuoto che ancora, nonostante tutto, aveva in spalla, e vi aveva tirato fuori una corda, l’ultima che le restava dopo averle impiegate tutte per la barca.
«Legatevi questa in vita!» aveva imposto ai suoi amici, e anche se la sua voce era stata smorzata dal boato incessante dell’anomalo maremoto, quelli erano riusscita ad obbedire.
Se il loro destino era quello di essere sommersi dalle forze della natura, allora vi sarebbero andati incontro senza separarsi; restando uniti.
Ed un attimo dopo che Skyler aveva stretto l’ultimo nodo attorno ai propri fianchi, un’onda li aveva sovrastati, incorporandoli.
E fino a che la mora non aveva perso i sensi per aver trattenuto troppo a lungo il fiato, si era chiesta come sarebbe andata a finire, se Michael fosse stato lì con lei.
 
Ω Ω Ω
 
La figlia di Efesto sentiva un leggero strato di qualcosa di polveroso ed appiccicoso che si andava posando sui suoi capelli e sulla sua pelle mentre rotolava su un fianco e cercava di tirarsi su.
Era accovacciata in un luogo sconosciuto di quella terribile foresta, nel punto in cui l’aveva catapultata la forza dello tsunami.
Aveva il volto appiccicoso di sangue, e i vestiti incollati al corpo, del tutto bagnati.
Era coperta da una crosta di terriccio e dalla cenere degli alberi caduti che ancora si andava depositando dopo quell’interminabile attimo di distruzione.
Skyler tossì, sputando quella roba disgustosa fuori dalla bocca; ma nel farlo, una fitta lancinante le colpì il cervello, e portandosi una mano tra i capelli sentì la testa pulsare, molto probabilmente per aver colpito diverse volte terra, prima che il maremoto terminasse.
Lentamente, si guardò intorno, del tutto spaesata. La corda che aveva ancora legata in vita non aveva retto, e si era spezzata. Ma quando vide tre corpi bagnati e coperti di terra giacere a pochi metri di distanza da lei, in modo sparso, il suo cuore perse un battito.
Nessuno di loro si muoveva, e da quella distanza era difficile intuire se respirassero.
La ragazza si alzò piano, cauta, appoggiandosi ai tronchi di quei pochi superstiti che avevano resistito all’attacco del mare.
Da qualche parte, risuonò il debole eco di un urlo lontano; il fantasma di tutti i mostri che quella notte avevano perso la vita.
Per quanto fosse succube delle vertigini, Skyler riuscì a muovere dei passi. Si sentiva svuotata e scarica, come se fosse stata convalescente per troppo tempo e ora si fosse alzata dal letto per la prima volta.
Il più vicino a lei era Alex. Era riverso sulla schiena, con le braccia e le gambe allargate. Sembrava un ragazzino sorpreso a fare l’angelo della neve, tranne che per il rivolo di sangue che gli colava sulla fronte, sporcandogli un sopracciglio.  
La mora glielo pulì, inginocchiandosi accanto a lui e sospirando sollevata nell’udire il suo respiro pesante, nonostante l’aspetto malandato.
«Alex?»
Un gemito, un soffocato colpo di tosse. «Sto arrivando» delirò sommessamente lui. «Sono qui… Sto…»
«Alex!» esclamò lei. Gli diede uno scrollone, due schiaffi sulla guancia. «Alex, devi svegliarti! Alex, ti prego. Stai bene?»
Con un po’ di difficoltà, lui aprì un occhio, facendo una smorfia di dolore. «Quella guancia era l’unico punto del corpo che ancora non mi faceva male.»
La ragazza sorrise a quella sua battuta, felice che fosse ancora abbastanza in forma da poterne fare una. «Su, ti aiuto ad alzarti» si offrì, porgendogli una mano e sorreggendolo mentre si issava in piedi.
«Emma?» fece poi.
«Non lo so.»
La rinvennero poco distante, stesa prona e con i capelli biondi sparsi sul suolo.
Il corvino si chinò subito su di lei, pregandola di svegliarsi. Quando lei lo fece, la figlia di Efesto chiuse gli occhi, rendendosi conto solo in quel momento di aver trattenuto il fiato.
Non si fece vedere, e nel momento in cui la bionda schiuse le palpebre lei era già intenta a cercare John.
Lo trovò riverso su un fianco, con i vestiti completamente laceri.
Era immobile.
Con il velo di polvere che lo copriva, il suo volto sembrava quello di una statua di alabastro, liscio, bianco e freddo. Gli erano caduti addosso i resti spezzati di un tronco, e aveva del sangue nei flavi capelli.
Skyler gli pulì la fronte dalla cenere, afferrandogli il viso tra le mani.
«John» sussurrò, con tono supplicante.
Il figlio di Apollo ci mise qualche attimo, ma dopo un po’ tornò cosciente. Ciò che dominò le sue iridi chiare, in un primo momento, fu lo spaesamento; poi, una graduale ripresa di coscienza.
«Skyler» mormorò a sua volta, battendo le palpebre. Tossì, cercando di mettersi a sedere. Poi notò gli altri. «Ehi. Per un momento ho creduto che foste… non importa. Come state? Tutto bene?»
La mora annuì leggermente, con l’abbozzo di un sorriso ad incurvarle le labbra. «Sì, stiamo tutti bene.»
«Ho visto tutto» esclamò Alex ad un certo punto, che con sguardo serio li stava osservando.
«Come?» domandò la ragazza, confusa. «Visto cosa? Non è successo niente.»
«Appunto. Dov’era lo schiaffo? Dov’era lo scrollone? Qui si stanno usando due pesi e due misure.»
«Non temere» ridacchiò allora lei, incrociando le braccia al petto. «La prossima volta mi ricorderò di dare uno schiaffo anche a lui.»
Il corvino grugnì. «Fantastico. Anche se questo probabilmente significa che per svegliare me userai i calci.»
«Oh, vi prego» si intromise quindi la figlia di Ermes, congiungendo le mani. «Lasciate a me questa soddisfazione.»
 
Ω Ω Ω
 
Dopo essersi sforzati di allontanarsi dal posto nel quale erano rinvenuti ed aver trovato una serie di querce scampate allo tsunami sotto le quali poter riposare, John si era adoperato per poter curare approssimativamente le ferite di tutti con le poche medicine che gli restavano.
Skyler aveva definitivamente buttato via il suo zaino, ponendo quel poco che vi rimaneva in quello del figlio di Apollo; e mentre quest’ultimo le fasciava il braccio, lei era impegnata ad osservare Alex, che scansando dei detriti dalla sua spada con un panno pulito sembrava essersi perso in una dimensione tutta sua.
Quando si erano risvegliati, per un attimo sembrava aver dimenticato il luogo in cui si trovavano e i pericoli che avevano affrontato. Ma ora quel ricordo, in lui, sembrava più vivido che mai, e quella volta la ragazza era sicura che quegli occhi vacui non erano dovuti al timore di qualche mostro.
Era come se fosse in una continua lotta interiore contro sé stesso; come se fosse talmente impegnato a domare le sue emozioni da non rendersi conto che, così facendo, le rendeva solo più evidenti.
Per questo, quando John ed Emma, esausti, si addormentarono, lei gli andò vicino, sedendosi al suo fianco e squadrandolo attentamente.
Voleva aiutarlo. Voleva che la smettesse di ostinarsi a portare quel suo pesante fardello da solo.
«Come stai?» gli disse, dopo qualche secondo di puro silenzio.
Il ragazzo fece spallucce. «Come sempre. Sono un po’ stanco, ma non voglio darla vinta a Morfeo.»
«Alex, sono più di due giorni che non dormi» lo rimproverò quindi lei. «Prima o poi crollerai.»
Lui esitò, corrucciando le sopracciglia. «Non ho sonno.»
«No, non è vero.»
«Sul serio! Sono solo spossato, ma questo non vuol dire che…»
«So che hai paura di fare degli incubi» lo interruppe allora la mora, e dallo sguardo che lui le rivolse capì di aver colpito nel segno. «Credo di aver avuto la tua stessa espressione, quando l’estate scorsa avevo paura che i miei angoscianti sogni tornassero a farmi visita. Forse ce l'ho tutt’ora. Però possiamo aiutarci a vicenda.»
Alex sembrava interdetto. «Io non…»
«So che non vuoi parlarmene, okay?» lo tranquillizzò lei, inclinando leggermente il capo. «E non ti sto chiedendo di farlo. Ma non ce la faccio a vederti così… avvilito. Non so cosa ti sia successo, in questa foresta, di tanto triste –perché sì, ho capito da come ti muovi senza esitare che tu qui ci sei già stato-, ma so che non puoi lasciarti sopraffare dalla tua malinconia. Perché prima o poi vincerà lei, e a quel punto sarà troppo tardi.»
Il ragazzo la guardò negli occhi, e solo allora la figlia di Efesto notò che le sue iridi scure erano imperlate.
«Lei è lì, Skyler» mormorò lui, con voce strozzata. «Nei miei ricordi. E non posso impedirle di farmi del male.»
«Posso provarci io» affermò prontamente la mora. «O John. O Emma. Oppure possiamo farlo tutti insieme. Siamo tuoi amici, Alex» aggiunse poi, stringendogli rassicurante una mano. «E tu sai che tra noi ci proteggiamo a vicenda. Ti aiuteremo così come tu hai fatto con noi.»
E nel momento stesso in cui udì quelle parole, il corvino capì che non stava mentendo.
Loro lo consideravano davvero come un amico, ormai. E forse prima o poi avrebbe fatto parte anche lui di quella bellissima famiglia.
Ma adesso era presto, per dirlo, e soprattutto quello non era il luogo adatto per poter pensare al futuro.
Però lo sorprendeva il modo in cui Skyler era riuscita a scandagliargli l’anima pur non avendo le chiavi per aprire il suo cuore. Quella ragazza aveva un dono, indipendentemente da quali fossero le sue origini o di chi fosse il suo genitore divino.
E lui era stato il primo a capirlo, scrutando quegli occhi screziati d’oro.
Quel pomeriggio, per la prima volta da quando aveva messo piede sull’isola, Alex si addormentò.
Accanto alla figlia di Efesto, con la sua testa posata sul petto. E sentire il suo respiro regolare muoversi in sincrono col suo lo aiutò a concedersi il suo meritato riposo.
Gli incubi ci furono, ovviamente. E per tutto il tempo lo tormentarono fino a rischiare di farlo crollare.
Ma finalmente, stavolta non era solo.
E a combatterli c’erano due spade, che lottavano fianco a fianco nell'oscurità.

Angolo Scrittrice.
Salve a tutti!
E' un po' tardi, I know, ma oramai credo siate abituaiti ai miei continui ritardi ahah
Alors, alors... che dire di questo capitolo? 
Sicuramente, ho cercato di fare qualcosa di diverso, pur restando nei parametri della storia. Inizia, infatti, quando tutto ciò che è stato raccontato è già successo. 
Spero di aver fatto un buon lavoro con i tempi e l'inventiva, o perlomeno di non aver fatto un disastro. 
Come vedete, a parte mostri di ogni genere (come in questo caso gli Yales, nrd) l'isola può giocare dei brutti scherzi anche per quanto riguarda i fenomeni naturali. 
Questa volta è toccato al freddo e allo tsunami. Il prossimo quale sarà? 
I nostri semidei non possono mai abbassare la guardia, questo è certo. 
Ma per adesso, sono ancora tutti vivi. 
Gestire il personaggio di
Alex, devo ammettere, si sta rivelando non facile. Ho scoperto che è lunatico, vulnerabile, e ha due personalità totalmente spaiate, che spesso entrano in contrasto: una burlona, spensierata e piantagrane; l'altra seria, rigida e vittima di un dolore troppo grande da superare. 
Ma adesso non è più solo; e con degli amici al suo fianco, forse riuscirà a lasciarsi una volta per tutte il passato alle spalle. 
Vi mancava l'Alex ironico e scherzoso?
Per quanto riguarda
Emma e Skyler, invece, anche se in questo capitolo non se ne parla molto quando la figlia di Ermes si sveglia la mora sembra sollevata. Forse non si odiano poi così tanto, voi che dite?
E spero non sia passata inosservata neanche la capacità della figlia di Efesto di capire le persone. Sappiate solo che con me nulla è lasciato al caso, ma non aggiungo altro, per ora ahahah
Oookay, so cosa state aspettando. 
Vi avevo promesso che entro oggi avrei preso una decisione, per questo non mi dilungo ulteriormente a parlare. 
La storia continuerà. 
Perchè? Perchè i miei ragazzi hanno bisogno di me, così come hanno bisogno di voi. E perchè ho deciso di lanciare una sfida a me stessa, per constatare se sono davvero in grado di scrivere la parola 'fine' sotto questa storia. 
Io mi auguro di sì, ovviamente. Ma questo dipenderà anche da voi, e se la storia continuerà a piacervi. 
Io ce la metterò tutta affinchè sia così, e spero davvero di non deludere mai le vostre aspettative. 
Mi scuso infatti in anticipo se alcuni capitoli saranno più noiosi di altri, e se saranno scritti peggio, e se vi sembreranno incosistenti. 
Vi prego solo di avere fiducia in me, e vi prometto che lotterò con tutte le mie forse per far sì che Skyler, Emma, John e tutti gli altri abbiano il loro meritato lieto fine. 
Detto questo, credo sia doveroso dire che il dizionario non contiene abbastanza parole per poter ringraziare a sufficienza i miei fantastici Valery's Angels, che con le loro bellissime parole e i loro rincuoranti complimenti sanno sempre cosa dire per potermi migliorare le giornate. Grazie, Grazie davvero. 
Grazie a:
Occhi di Smeraldo, Just me_Ilaria, Francessca lol, carrots_98, Percabeth7897, Lux_Klara, Ciacinski e _Krios_
Scusate ancora se non sono riuscita a rispondervi, ma vedrò di provvedere il prima possibile. 
Grazie di nuovo, perchè se sono di nuovo qui è soprattutto grazie a voi.
Spero che abbiate sempre voglia di sostenere questi quattro (sfortunati) semidei. 
Sempre vostra,

ValeryJackson
P.s. Volevo solo avvertirvi che la prossima settimana il capitolo verrà pubblicato di mercoledì, e non di martedì. Un bacione enorme! 


 

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Capitolo 35
*** Capitolo 34 ***



Quando allungò il collo oltre la spalla di John per poter osservare il cielo, Skyler si sorprese nel lasciarsi sfuggire un sospiro di sollievo non appena scorse l’ombrato arancio dell’alba tra le fronde degli alberi.
Era stanca di camminare, ma soprattutto era consapevole che tutti loro avevano bisogno di una pausa. Pieni di graffi e nuove poco gravi ferite, quella notte i ragazzi non si erano fermati neanche per un istante.
La figlia di Efesto sapeva bene che se avessero osato farlo, per loro sarebbe stata la fine. Ma era anche sicura di non aver mai visto Alex guidarli con tanta convinzione per quella foresta che sembrava tutta uguale.
Era come se sapesse esattamente dove andare. Oppure, si disse la mora, che non vedesse l’ora di poter abbandonare quel luogo.
Perché l’aveva notato, il suo sguardo stupito.
Dopo aver ucciso un branco di mostri poco paragonabili ai pericoli che avevano affrontato fino ad allora, il ragazzo si era guardato intorno, apparendo così distante che quando Emma gli aveva domandato in quale direzione avesse intenzione di procedere, lui non le aveva risposto.
La figlia di Ermes aveva dovuto ripetere quella frase un paio di volte, invano, per poi corrucciare le sopracciglia e scrollarlo per un braccio.
«Alex?» l’aveva chiamato, distogliendolo bruscamente dai suoi pensieri. «Che ti prende? Che cos’hai visto?»
«Eh? Oh, niente» aveva mormorato prontamente lui, fingendo con scarsi risultati noncuranza. «Stavo solo… hai detto qualcosa, per caso?»
Era già stato in quel posto, Skyler l’aveva intuito. Ma quando aveva fatto per chiederglielo, lui si era limitato a borbottare un «Può darsi», evitando volontariamente di incrociare i suoi occhi quasi temesse che quelle iridi scure fossero in grado di capire a cosa stesse pensando.
Era felice di non essere più solo, questo non poteva negarlo. Eppure, per quanto si sforzasse, trovava ancora impossibile l’idea di aprirsi totalmente con loro.
Di cosa aveva paura?
Beh, di tutto.
Se avessero saputo la verità, se fossero venuti a conoscenza di ciò che era l’unico passato che riuscisse a ricordare, si sarebbero ancora fidati di lui?
Molto probabilmente no, ed era proprio questo quello che voleva evitare.
Non poteva dir loro di Caitlin, e di ciò che aveva perso con lei quella sera.
Non poteva dir loro del panico, del terrore urlante che l’aveva fatto gonfiare come un’onda e sbattere contro le pareti della minuscola cella senz’aria che era diventato il suo cuore.
Non poteva dir loro di aver pianto fino ad avere i conati di vomito, né che si era acquattato in un angolo, tremando per giorni. Un angolo della sua mente, un angolo della macabra foresta. Perché in fondo erano la stessa cosa, e in quel momento erano stati entrambi vuoti.
Una prigione, una cella dalla quale non riusciva a sfuggire.
Non poteva dir loro di essere stato talmente succube dei propri ricordi da permettere che questi lo annegassero, che lo trascinassero sul fondo e lo logorassero dall’interno.
Non poteva dir loro di non essere stato abbastanza forte da poter difendere ciò che amava, né quanto fosse spaventato dal solo pensiero che quell’episodio potesse ripetersi.
Non poteva dir loro di avere paura, e di necessitare lui stesso tutta quella sicurezza che, al contrario, tentava di infondergli.
Perché lui non era un guerriero. Lui non era un capo. 
Era solo un ragazzo che aveva conosciuto così tanto dolore da arrivare a nascondersi dietro un sorriso sghembo ed una zazzera di capelli scuri.
Era solo un ragazzo che spesso si domandava come sarebbe stato morire definitivamente quella sera.
«Il sole sta sorgendo» annunciò ad un tratto, maledicendosi mentalmente per il tremitio della propria voce. Si sgranchì la gola, pregando che non se ne fossero accorti. «E le nostre provviste sono quasi ultimate. Prima di fermarci a riposare, potremmo cercarne qualcuna.»
John ed Emma si scambiarono un’occhiata eloquente. Lei indicò Alex con un cenno del capo, invitando il biondo a farsi avanti. Quando il figlio di Apollo si voltò per chiedere consiglio a Skyler, lei annuì, d’accordo, al ché lui fece roteare gli occhi.
Tossicchiò, nonostante non ne avesse davvero bisogno, per poi raggiungerlo con due grandi falcate, fino a spalleggiarlo. «Amico, va tutto bene?» gli domandò, squadrandogli il volto.
«Sì, certo» mentì il moro, corrucciando leggermente le sopracciglia.
«Sei sicuro? Perché sembri… turbato
Alex arricciò il naso, grattandoselo distrattamente. «Sto alla grande» giurò.
«Okay» mormorò lentamente John, nient’affatto convinto. Però non volle sapere altro, e facendo finta di nulla si grattò la nuca, perlustrano con gli occhi verdi la zona.
Il corvino gli era grato per questo. Non era pronto a confidarsi con loro. Non ancora, almeno.
Forse non lo sarebbe mai stato.
Facendo un mezzo giro su sé stesso, arrestò il passo, guardando le ragazze. «Dividiamoci» propose, dando una pacca sulla schiena dell’amico. «John, tu ed Emma andate a destra, mentre io e Skyler andremo a sinistra. Raccogliete quanti più frutti potete, e non allontanatevi troppo. Ci rincontriamo qui tra un paio d'ore.»
«Come facciamo ad orientarci?» chiese giustamente Emma, al ché lui ci ragionò su, per poi mostrare tutte e cinque le dita.
«Cinquecento passi» appurò, e gli altri approvarono con un sospiro.
«Fate attenzione» si raccomandò John, poco prima di incamminarsi con la figlia di Ermes verso la destinazione prestabilita.
«È già giorno» lo rassicurò Alex, allargando le braccia con fare sornione. «Non dobbiamo più preoccuparci dei mostri ormai.»
 
Ω Ω Ω
 
Mentre spalleggiava Alex tra la vegetazione di quella foresta che ora aveva deciso di dargli tregua, Skyler aveva pensato bene di rifoderare la propria spada.
Il sole era alto nel cielo, ormai, anche se lei non riusciva a vederlo. Ma si fidava delle intuizioni del suo amico, e sicuramente quell’ingombrante lama di bronzo celeste non avrebbe fatto altro che pesarle.
Riappuntandosi la discreta collana al collo, la figlia di Efesto aveva tirato un breve sospiro nel percepire il ceruleo diamante premere freddo contro il suo petto.
Le era tornato in mente il giorno in cui Leo gliel’aveva regalata, la notte in cui aveva deciso di partire per la sua prima, vera missione.
Nonostante fosse arrabbiata anche con lui per averle nascosto la verità su Emma, non riusciva a non desiderare uno dei suoi caldi abbracci, mentre si incamminava verso una meta indefinita.
Sarebbe il momento perfetto per un codice rosso, aveva pensato, chiedendosi cosa stessero facendo i suoi fratelli, al Campo, e soprattutto se stessero bene.
Uno degli aspetti più snervanti di quell’isola era proprio il mancato contatto con il mondo esterno. A causa dell’eccessiva magia che l’inglobava, inviare un messaggio Iride o ricevere un aiuto dagli dei era decisamente fuori da ogni concezione.
Anche i sogni, lì, erano inesistenti. Morfeo stesso non aveva idea di come espugnare il luogo che aveva scelto personalmente come custode della sua Pietra, per cui tutto ciò che poteva dominare le loro menti nelle ore di sonno erano ricordi, o invenzioni del loro subconscio.
Eppure, Skyler non poteva fare a meno di pensare a quanto l’incubo che aveva avuto la notte in cui era stata febbricitante fosse sembrato reale. Troppo reale.
Il proprietario di quella orrida voce aveva davvero tanto potere da riuscire ad infrangere tutte le barriere magiche dell’isola?
Contro che stava combattendo, davvero? E perché?
Perché proprio lei? Perché proprio ora?
Cosa intendeva dire la profezia con: E lì il fuoco, con coraggio, il suo destino dovrà affrontare?
La profezia. A causa di tutti i pericoli che aveva dovuto fronteggiare negli ultimi giorni, l’aveva completamente dimenticata. E il solo rendersi conto di quale fosse il passo successivo le diede per un attimo la pelle d’oca.
Tra le ombre della foresta un semidio la vita perderà.
Come aveva fatto ad essere così stupida?
Senza rendersene conto, lei e i suoi amici si erano inoltrati in quello che sarebbe stato il luogo di morte di uno di loro.
Se le ombre che l’Oracolo di Delfi aveva citato corrispondevano a quelle che dominavano la Foresta della Luna durante le ore buie, quanto ancora avrebbero continuato a sopravvivere, prima che uno di loro perdesse la vita?
Era talmente assorta nei suoi stessi pensieri, da non rendersi conto di essere in procinto di andarsi a scontrare contro un albero.
Alex la afferrò per un braccio appena in tempo, cogliendola così di sorpresa che lei per poco non perse l'equilibrio.
«Attenta» ridacchiò, divertito, mentre la scostava bruscamente per farle cambiare traiettoria.
«Scusa» borbottò lei, abbassando lo sguardo imbarazzata.
Continuarono a camminare per un po’, in silenzio, finché le labbra del ragazzo non si incurvarono in un sorrisetto sghembo.
«Un penny per i tuoi pensieri» celiò, per poi corrucciare leggermente le sopracciglia. «Si diceva così, vero?»
«Sì» convenne lei, sforzandosi invano di abbozzare un sorriso. Si accarezzò distrattamente un braccio, stringendosi nelle spalle. «Ero solo distratta, tutto qui.»
Il moro fece schioccare la lingua, con disappunto. «Un ragazzo durante una lezione di algebra, è distratto. Una donna che guarda fuori dalla finestra, è distratta. John che si ferma ad osservare i fiori come se gli ricordassero qualcuno, è distratto. Con l’espressione che hai, non ti definirei esattamente distratta.»
«È la verità» si limitò a replicare lei, con un tono tanto lieve da non riuscire a convincere neanche sé stessa.
«Abbiamo due concezioni della ‘distrazione’ molto diverse» commentò semplicemente lui, per poi squadrarla in volto, circospetto. «C’è qualcosa che ti turba?»
Skyler si rifiutava di dirglielo. Non era il momento giusto; e soprattutto, odiava fare congetture che poi magari si sarebbero rivelate inutili ed affrettate.
Avrebbe aspettato, e prima di dar voce ai suoi ragionamenti davanti a tutti ne avrebbe parlato con John. Essendo un figlio di Apollo, era abbastanza ferrato in fatto di profezie. Forse avrebbe saputo cosa fare.
«Nulla di importante» mentì quindi, e lui dovette capire che non aveva voglia di parlarne, perché non insistette.
La ragazza fece vagare le iridi scure tra le chiome degli alberi, tutt’intorno a sé, per poi rivolgere la propria attenzione all’amico. «Posso farti una domanda?» esordì.
«Ma certo» fu la repentina risposta di lui, che la meravigliò non poco.
«Non hai mai provato… sì, insomma…» Cercò le parole giuste, arricciando le labbra. «Ad andartene da qui?»
«Stai scherzando?» esclamò lui, sarcastico, e non appena notò il luccichio serio nel suo sguardo, inarcò le sopracciglia. «Ovvio che sì» disse, quasi fosse scontato.
«Davvero?»
«Eccome!» Alex si lasciò sfuggire una sommessa risata. «Voi siete qui da giorni, e non vedete l’ora di andarvene. Puoi immaginare che cosa significhi passarvici anni senza avere contatti con il mondo esterno.»
«E hai sempre fallito?»
«Se non avessi fallito, ora non sarei qui, ti pare?»
«Ma non può essere.» La figlia di Efesto aggrottò la fronte, confusa. «Voglio dire, possibile che in tutto questo tempo non sei mai riuscito a trovare un altro modo per poter scappare?»
«L’ho trovato, infatti» le fece notare lui, con ovvietà. «La Pietra dei Sogni.»
«No, intendo un modo più semplice e meno pericoloso.» La mora sospirò, gonfiando le guance frustrata. «Secondo te come fanno tutti i mostri che vivono qui? Credi davvero che non sarebbero capaci di andarsene, se solo lo volessero?»
«Non è così facile» commentò il corvino.
«Che vuoi dire?»
Il ragazzo esitò, mordendosi il labbro cogitabondo. «In un certo senso, è come se loro fossero ancorati qui» esplicò poi. «Non so come spiegartelo. Te l’ho detto, l’isola può cambiarti. E una volta che lo fa, automaticamente le appartieni. Non sei più quello di prima, quello il cui unico desiderio è quello di tornare a casa. Senza rendertene conto inizi a… ad avere bisogno di lei. È un bisogno quasi viscerale, sai? Ti logora dall’interno.»
«E tu come lo sai?»
Alex fece spallucce. «Ho osservato. Tutti i mostri che non so come erano riusciti ad andare via di qui, poi per una qualche strana ragione sono tornati. Il mondo che era pronto ad accogliergli evidentemente non era adatto a ciò che erano diventati. Penso che… sono convinto che avessero quest’impellente esigenza di stare qui. È come se questo posto fosse un mondo totalmente a parte; pensa se improvvisamente ti trovassi costretta ad andare a vivere su Marte. Come credi che ti sentiresti?»
Le rivolse una rapida occhiata, per poi stropicciarsi un occhio. «Se diventi proprietà dell’isola, lo sei per sempre. È questa la gran fregatura.»
La ragazza rifletté attentamente sulle sue parole, trovando il solo pensiero di appartenere a quel posto raccapricciante. «E come pensi che facciano quei mostri a ritrovarla ogni volta?» domandò. «Le coordinate cambiano di continuo, no?»
«Qualsiasi essere faccia ufficialmente parte dell’isola saprà sempre come ritrovare l’isola.»
Poco prima che potesse porre un altro quesito, incuriosita, la figlia di Efesto cominciò a zoppicare. La gamba che il Simurgh le aveva ferito non era ancora completamente guarita, e quando la sforzava troppo delle fitte di dolore le si irradiavano per tutto il polpaccio.
Alex dovette notare la sua fatica, perché inarcò un sopracciglio, stringendole un polso affinché si fermasse. «Sarà meglio che ti fermi qui» le suggerì, apprensivo.
«Posso camminare» ribatté lei, cocciuta. «Ce la faccio.»
«No, io non credo» la prese in giro lui, per poi addolcire lo sguardo. «Riposa un po’.»
«Non voglio essere soltanto un peso» mise il broncio Skyler. «Voglio rendermi utile.»
«Non sarai utile proprio a nessuno, se sarai costretta ad avanzare con una gamba in meno. Fidati, è la verità.» Le diede un buffetto sulla guancia. «Raccoglierò tutti i frutti che le mie braccia super-muscolose riusciranno a portare e poi diremo ad Emma e John che sei stata tu a trovali» promise con tono solenne, cercando di strapparle un sorriso.
Tentativo riuscito. 
«Okay» assentì la mora, posandosi sfinita contro un tronco. «Ma non metterci troppo.»
Il ragazzo le fece un goliardico occhiolino, per poi incamminarsi nei meandri della foresta, alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Passò mezz’ora. Poi un’ora.
La figlia di Efesto non riusciva ancora a scorgere chiaramente la luce del sole, e si chiese come facessero i suoi amici a poter distinguere le varie tonalità di un frutto se il cielo era ancora ombrato.
Si stava giusto sporgendo di lato nella speranza di vedere un anche minimo albeggiare, quando sentì un guaito.
Si irrigidì di scatto, trattenendo il fiato.
Per qualche interminabile secondo, non successe niente. Poi il lamento si ripeté più acuto.
Skyler balzò sull’attenti, sguainando repentina la spada.
Che cos’era stato? I mostri dovevano essere tornati nei loro nascondigli, ormai.
Possibile che tutte le congetture di Alex fossero sempre state errate?
Ma no, forse un singolo guaito non significava nulla. Forse si era trattato semplicemente del fischio del vento tra le foglie.
Malgrado tutto, quando ne udì un terzo la ragazza decise di constatare. Si avviò lentamente verso la direzione dalla quale parevano provenire, misurando i propri passi con il cuore che si arrampicava su per la gola.
Si ritrovò davanti ad un conglomerato di rocce, e racimolando tutto il coraggio che le era concesso, allungò il collo per potervi guardare oltre.
Per un attimo, non comprese appieno cosa stava osservando.
Era una creatura ricoperta da squame dello stesso colore dell’ossidiana, intrappolata nella rete di ragnatele più fitta che avesse mai visto. Si attorcigliava intorno al suo corpo, impedendogli qualsiasi tipo di movimento.
Quell’essere aveva l’aspetto di uno strano rettile, e solo quando, dopo essersi avvicinata, la ragazza notò le due possenti ali ripiegate controvoglia sul dorso, capì essere un drago.
Sembrava morto.
Non si muoveva, e nonostante si trovasse pericolosamente vicina, non era in grado di vedere se respirasse.
Lo punzecchiò con un piede, chiedendosi chi fosse stato a togliergli la vita.
Poi questo sbuffò, infastidito dal suo tocco, e sobbalzando spaventata Skyler indietreggiò, fino ad andare a sbattere contro il muro di rocce.
Fu allora che il mostro schiuse un occhio, soppesandola con sospetto. Quel gesto, però, dovette costargli innumerevoli forze, perché dopo un po’ prese ad ansimare, lasciando cadere di peso il capo sul suolo.
La figlia di Efesto gli puntò contro la propria spada, il cuore che martellava nel petto.
Doveva andarsene di lì. E se quella creatura fosse riuscita a liberarsi?
Non era sicura di potersi difendere, né tantomeno di poter correre così veloce.
Ma se ormai avesse fiutato il suo odore e successivamente fosse stata in grado di trovarla?
Non poteva permettersi di avere un nemico sulle sue tracce, soprattutto se il nemico in questione era un pericoloso drago.
Lo ucciderò, si disse, e prima che potesse cambiare idea era nuovamente accanto a lui, la lama sollevata sopra il capo.
Il mostro parve cogliere il significato di quel movimento, dato che si agitò sul posto, inquieto.
La mora strinse di più l’elsa nel pugno, fino ad avere le nocche bianche. Sarebbe stato semplice: un affondo netto, e l’essere ai suoi piedi si sarebbe dissolto in un cumulo di polvere gialla.
Non poteva rischiare che ferisse i suoi amici, o che una volta tornato in libertà si ricordasse di lei come “quel perfetto spuntino”.
Fallo, si impose, digrignando i denti decisa.
Ma quando per sbaglio incrociò e le iridi smeraldine del drago, inaspettatamente esitò.
Brillava qualcosa, nei suoi occhi grandi.
Luccicavano di paura.
Paura di lei, paura di quel bronzo celeste puntato dritto contro il suo petto.
Paura di ciò che gli sarebbe potuto succedere di lì a poco; paura della morte, e del modo in cui avrebbe dovuto affrontarla.
E Skyler ebbe pietà di lui; rivide sé stessa in quello sguardo perso ed indifeso.
Rivide i suoi timori, le sue preoccupazioni; il panico che l’assaliva ogni qual volta era in procinto di rischiare la vita.
Non lasciarti abbindolare!, la rimproverò la sua coscienza, ricordandole per un secondo i rischi che avrebbe corso se non avesse ucciso quel mostro all’istante.
Però le bastò una rapida occhiata alla sue tremante figura incastrata in quella trappola mortale per far crollare tutte le sue certezze.
«Ma che sto facendo?» Scosse la testa, sfregandosi il viso con una mano. Poi sospirò, corrucciando le sopracciglia contrariata. «Guarda come ti hanno ridotto» mormorò, poco prima di rigirarsi la spada nel palmo ed iniziare a spezzare quelle ragnatele.
Il drago rimase immobile, quasi non fosse cosciente di ciò che stava succedendo. Si mosse circospetto, e la coltre che prima lo legava scivolò a terra, liberandogli gli arti.
La figlia di Efesto si passò una mano tra i capelli, fiera di aver fatto la scelta giusta.
Ma non fece in tempo ad incitare la creatura a volare via che questa le fu addosso, ancorandola al terreno.
La ragazza si lasciò sfuggire un urlo spaventato, e la forza dell’impatto che ebbe con il suolo fu così irruenta che l’arma le scivolò di mano, rotolando di qualche metro.
E si ritrovò lì, disarmata, con un drago nero come le acque dello Stige che le bloccava le braccia a terra con le sue enormi zampe. Si sentì impotente, mentre avvertiva il suo fiato rancido carezzarle il viso.
Il mostro incrociò le sue iridi scure, perforandole l’anima con uno sguardo intimidatorio. Ma poi non si mosse.
Non la morse, non l’artigliò; non la uccise.
Rimase semplicemente a fissarla, il muso a pochi centimetri da lei; studiandola attentamente, in silenzio, finché una voce non invocò il nome della mora.
«Skyler!»
La creatura sollevò di scatto il capo, appena in tempo per poter scorgere gli amici della ragazza correre verso di loro.
Con un gesto fulmineo, spiegò le proprie ali, levandosi in volo con un acuto sibilo.
John incoccò una freccia, tentando di colpirlo, ma quello fu più veloce, e prima che potessero rendersene conto, era già sparito.
«Skyler! Oh miei dei, stai bene?» esclamò Emma, tutto d’un fiato. «Che cos’era quello? Che cosa ti ha fatto?»
La figlia di Efesto si mise seduta, e stordita portò una mano alla tempia. «Niente» ammise, più interdetta che spaventata. «Non mi ha…»
«Ti ha ferita?» la interruppe prontamente il figlio di Apollo, chinandosi accanto a lei e prendendole il viso tra le mani. «Ti sei fatta male?»
«Sto bene, John» lo rassicurò lei, alzando gli occhi al cielo. «Mi è saltato addosso solo un attimo prima del vostro arrivo.»
«Mi dispiace» si scusò allora Alex, e il rammarico nella sua voce fu così evidente che la ragazza si voltò a guardarlo. «È tutta colpa mia» proseguì lui. «Avrei dovuto capire che non era ancora arrivata l’alba. I mostri non erano ancora spariti, e quando ti ho lasciata sola…»
«Ehi, ma che stai dicendo?»
«Quando io e John abbiamo incontrato una coppia di orchi sul nostro cammino, abbiamo capito che c’era qualcosa che non andava» raccontò quindi Emma. «Poi ci siamo accorti che l’alba stava sorgendo definitivamente solo in quel momento. Siamo tornati indietro per avvertirvi, ma abbiamo trovato solo Alex, che…»
«Non volevo lasciarti» assicurò il moro, prendendosi la testa tra le mani. «Giuro che se avessi saputo che c’erano ancora dei mostri in giro…»
«Alex, io sto bene» lo bloccò Skyler, alzandosi in piedi per poter fare un giro su sé stessa. «Guardami, non mi sono fatta niente.»
«Io non…» balbettò lui, ma le parole parvero morirgli in gola. «Non ho...»
«Ehi» mormorò dolcemente lei, posandogli le mani sulle spalle. «Sto bene» ripeté poi. «Non mi sono rotta nulla, per fortuna. E non è stata affatto colpa tua. Non pensarlo neanche per scherzo, va bene? È tutto okay.»
Ma non c’era proprio nulla di okay, e tutto ciò che il ragazzo avrebbe voluto fare in quel momento era sbattere il pugno contro quell’ammasso di pietre ed imprecare, mentre avvertiva gli occhi bruciare di disprezzo verso sé stesso.
Come aveva potuto pensare che separarsi da lei fosse la cosa giusta?
E se le fosse successo qualcosa? E se quel drago l’avesse uccisa?
Non poteva perdere un’altra persona.
Nessuno sarebbe dovuto, per nessuna ragione, morire a causa sua.
Non su quell'isola. Non per mano di un mostro. Non in quel modo.
Non di nuovo.

Angolo Scrittrice. 
Buonsalve a tutti, semidei. 
Non posso credere di avere avuto davvero il coraggio di pubblicare questo capitolo, perché nonostante fosse di essenziale importanza, sono riuscita a rovinarlo. 
So che non è scritto nel migliore dei modi, me ne sono resa conto rileggendolo; e mi scuso in anticipo se in un certo qual modo vi ha deluso.
Ma, ehi, non pensiamo al modo in cui è scritto! Pensiamo piùttosto a ciò che vi succede. 
Cominciamo con
Alex, vi va? 
Beh, che dire. I suoi PoV, ultimamente, stanno diventando sempre più frequenti, e devo ammettere che questo non mi dispiace affatto, perchè finalmente è possibile conoscerlo un pò meglio. 
Quanto dolore c'è, in un corpo tanto smilzo? 
Troppo, forse. E il fatto che non abbia voglia di condividere le proprie esperienze con nessuno non fa altro che renderlo più ingombrante. Prima o poi esploderà, credo. 
In questo capitolo ci viene fornito qualche indizio in più sul suo passato, ma è ancora tutto molto vago: cos'è successo quella sera, secondo voi? Chi è e cosa è capitato a Caitlin? Cos'ha combinato, Alex, per arrivare a sentirsi in colpa fino a questo punto?
Se mi è concesso dire la mia, sono fiera di lui e del modo in cui si sta evolvendo man mano che la storia va anvanti. Ma forse io sono un po' di parte. Voi che ne pensate? Che opinione avete nei suoi confronti? 
Credete che sia davvero colpa sua se
Skyler è stata attaccata? 
ahahah, non prendiamoci in giro: quella ragazza è un portento nel cacciarsi nei guai. 
Però questo suo incontro ravvicinato avrà un'importanza sostanziale. Non vi anticipo il perchè, nè se il suo ruolo sarà negativo, ma sono comunque curiosa di sapere: secondo voi a fatto bene o male a non uccidere il drago? Voi che avreste fatto al suo posto? 
Ciò che forse può sembrare marginale, ma che invece è anch'esso rilevante, potrebbe essere il dialogo tra Skyler ed Alex: un altro aspetto segreto dell'isola viene fuori, come vedete. Che idea avete al riguardo? 
A penny for your thoughts. ahah 
Scherzi a parte, prima di ringraziare i miei bellissimi Valery's Angels ci tengo a precisare una cosa: tra Alex e Skyler non c'è alcun interesse sentimentale. Non potrebbe mai, dato che lei è in missione per salvare il proprio ragazzo e lui ha... beh, ha la testa da un'altra parte. Il rapporto che la figlia di Efesto ha con lui è esattamente come quello che ha con John, anche se si presenta sotto forme diverse. 
Se volete shipparli, poi, fate pure. Volevo solo dirvi che non credo porpio abbiano una qualche possibilità di diventare una coppia. 
Oookaaay, btw... Come dicevo, il mio enorme, immensso grazie va a:
Just me_Ilaria, Percabeth7897, Lux_Klara, Francesca lol e Ciacinski, che nello scorso capitolo mi hanno regalato delle bellissime recensioni. Prima o poi risponderò a tutte quante, ve lo giuro.
E grazie anche a tutti voi che stato leggendo questo Angolo Scrittrice, perchè significa che avete avuto il coraggio di arrivare fino alla fine. 
Mi auguro davvero che il capitolo non abbia deluso le vostre aspettative, e se così fosse, sono mortificata. 
Vedrò di rifarmi, I swear. 
Anyway, non so se riuscirò a pubblicare il prossimo martedì. Ce la metterò tutta, ma nel caso sappiate che il capitolo arriverà comunque il giorno seguente, ovvero mercoledì.
Un bacione a tutti voi, che siete la mia forza!
Sempre vostra,

ValeryJackson

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Capitolo 36
*** Capitolo 35 ***



Dopo essersi resa conto che le temperature, quella mattina, si erano visibilmente alzate, Skyler non era più riuscita a chiudere occhio.
Un leggero strato di sudore le imperlava la fronte, segno evidente che ben presto il caldo le avrebbe incollato i vestiti al corpo.
Solo quando si era rigirata per l’ennesima volta su un fianco con uno sbuffo di frustrazione, aveva notato che qualcuno sembrava avere i suoi stessi problemi. Alex se ne stava seduto in disparte, ad un paio di metri di distanza dagli altri.
Era intento ad intagliare qualcosa sull’elsa di legno del proprio coltellino, molto probabilmente un’incisione che però, da quella distanza, la ragazza non riusciva a vedere. Un raggio di sole gli illuminava il viso, con il solo fine di evidenziare ulteriormente la ruga che gli solcava la fronte.
La figlia di Efesto avrebbe dato qualsiasi cosa, pur di capire a cosa fosse dovuta: preoccupazione? Ansia? Tristezza? Un perfetto mix di tutte e tre?
Rispettava i suoi spazi, così come lui le aveva mutamente pregato di fare, ma non sopportava l’idea che quel ragazzo si ostinasse a tenersi tutto dentro. Nonostante fosse bravo nel celare le proprie emozioni, bastava guardarlo negli occhi per poter distinguere tutte le sensazioni contrastanti che turbinavano nelle sue iridi scure.
Quando ne aveva discusso con John, il figlio di Apollo si era stretto nelle spalle, indeciso sul da farsi. «Non possiamo costringerlo a rivelarci i suoi segreti» aveva appurato poi, corrucciando le sopracciglia. «Quando sarà il momento giusto, lo deciderà lui.»
«Perché ho la sensazione che questo momento non arriverà mai?» aveva replicato quindi lei, con un sospiro.
«Perché credo che neanche Alex conosca la natura dei demoni che ospita dentro di sé.»
Il solo pensiero che quell’affermazione fosse vera le dava i brividi.
Quando quella sera aveva parlato con lui, facendogli notare quanto tutti fossero disposti ad aiutarlo, se solo lui l’avesse voluto, il moro aveva esitato. Capiva l’importanza e l’onestà di quell’offerta, eppure non riusciva pienamente ad accettarla.
«Lei è lì, nei miei ricordi» si era lasciato sfuggire ad un certo punto, con voce smorzata. «E non posso impedirle di farmi del male.»
Lei? Lei chi? E perché il suo ricordo lo straziava tanto?
Che cos’era successo, su quell’isola, che lui non aveva voglia di raccontare?
Chi temeva? O meglio, che cosa temeva?
Skyler avrebbe voluto porgli quelle domande lì, seduta stante; ma al contrario restò in silenzio, fingendo di dormire finché non avvertì John, al suo fianco, stiracchiarsi assonnato.
«Stavo pensando che forse sarebbe meglio, per noi, avanzare anche di giorno» aveva annunciato loro Alex mentre si riunivano in semicerchio a mangiare. «Così potremmo muoverci più rapidamente senza il timore di poter svegliare qualche mostro.»
Giusta osservazione, nonostante i semidei fossero consapevoli che questo riduceva di un bel po’ le loro ore di sonno.
Perciò, quando il pomeriggio fu inoltrato, raccolsero le loro cose, seguendo il corvino lungo il sentiero tra gli alberi.
La figlia di Efesto non aveva ancora mai osservato quella foresta di giorno. Tutto sembrava più tranquillo, quasi idilliaco, ed era impossibile immaginare che in realtà tra quelle folte chiome si nascondessero alcuni tra i mostri più pericolosi di sempre.
Per un attimo ebbe l’illusione di essere tornata al Campo, e di passeggiare tranquillamente per la Baia di Zefiro, diretta alla spiaggia con i suoi amici.
Fu solo l’improvviso arrestarsi di Alex, davanti a lei, a farla tornare bruscamente alla realtà. Sorpresa, andò a sbattergli contro, seguita a ruota dagli altri due ragazzi, che lo fissarono confusi.
«Spillo, che diavolo fai!» lo rimproverò Emma, prima di rendersi conto del modo in cui il ragazzo si guardava intorno, pietrificato. I suoi occhi saettavano frenetici da un lato all’altro, come se stessero scansionando il bosco alla ricerca di qualcosa.
«Amico, che succede?» domandò quindi il figlio di Apollo, incoccando una freccia con la fronte aggrottata, pronto ad ogni evenienza.
«Hai sentito qualcosa?» gli chiese invece la mora, allungando una mano verso di lui. Nel momento in cui il suo palmo venne a contatto con il braccio del corvino, però, una scossa le si irradiò per le vene, tanto irruenta da farle cacciare un gridolino di dolore.
La ragazza indietreggiò, ritraendo di scatto le dita e andando a sbattere contro il biondo, che le avvolse la vita in un istinto di protezione.
«Skyler, che ti prende?» esclamò la figlia di Ermes, confusa, ma le iridi brune della figlia di Efesto erano inchiodate alla figura del moro, colme di interdizione e spossatezza.
Non era tanto la scintilla irradiatasi su per il suo braccio ad averla scombussolata, quanto più i sentimenti che l’avevano accompagnata.
Un’ondata di panico le aveva stretto lo stomaco in una morsa d’acciaio, ed improvvisamente il luogo che li circondava le era apparso conosciuto, familiare. La sensazione di essere appena stata sovrastata da una valanga che non era in grado di fermare aveva fatto sì che il suo cuore prendesse a battere ad un ritmo accelerato, e chissà perché, quando notò il modo impercettibile in cui il corvino aveva cominciato a tremare, Skyler giurò che ciò che in quel momento stava provando lei fosse solo un riflesso di ciò che in realtà piombava su di lui.
«Alex?» lo chiamò, con un fil di voce, ma quello non rispose, quasi fosse appena stato inglobato da una bolla di vetro che gli impediva di ascoltare qualsiasi rumore.
La vista del ragazzo si annebbiò, e le sinuose figure degli alberi che aveva attorno presto si sovrapposero a delle immagini sfocate; immagini che diventavano più nitide man mano che iniziavano a muoversi su quel suolo, quasi non aspettassero altro, apparendo maledettamente solide e reali.
E a quel punto gli fu tutto più chiaro.
Quando percepiva una certa domestichezza in quella zone dell’isola, non stava sbagliando.
Era già stato lì. E mentre che assumeva quella consapevolezza, avvertiva tutto il dolore impregnato nel terreno confluire in lui, bloccandogli il respiro in gola.
Sbattendo più volte le palpebre, fu in grado di orientarsi, e l’angoscia lo assalì.
Se era già stato lì, allora voleva dire che…
«Spillo, va tutto…?» fece per domandargli Emma, ma non riuscì a terminare quella frase che il corvino schizzò via, correndo a perdifiato verso una meta indefinita.
«Alex, aspetta!» gli intimò la figlia di Efesto, poco prima che i tre semidei lo inseguissero, avanzando precipitosamente pur di non perderlo di vista.
Per quanto potessero pregarlo di fermarsi, il ragazzo pareva non udirli. Sembrava attratto da una sorta di calamita che annullasse il mondo intorno a lui, proibendo alla ragione di contrastare l’istinto.
Avrebbe potuto cacciarsi nei guai. Il sole stava già cedendo il posto alla luna, e gli dei solo sanno quanto poco tempo restava, prima che la Foresta si risvegliasse.
Skyler fece un rapido scatto, nel vano tentativo di raggiungerlo ed trattenerlo prima che facesse una qualsiasi cavolata. Ma quando lo scorse immobile, pietrificato come se i suoi piedi fossero ancorati al suolo, rallentò.
Fece per dire il suo nome, cercando di attirare la sua attenzione; ma prima che potesse riuscirci le sue iridi seguirono accidentalmente la direzione del suo sguardo, e ciò che vide la lasciò spaesata.
Un pezzo di legno era incastrato nella terra, e aveva un aspetto marcio e vecchio, quasi i vermi l’avessero divorato. Vi era intagliato qualcosa, sopra, ma a causa dello strato di sporcizia che lo ricopriva, la ragazza non riusciva a tradurlo.
Lanciò una rapida occhiata ad Alex, che con il volto pallido pareva aver perso la facoltà di respirare. Se ne stava semplicemente lì, i muscoli tesi fino all’inverosimile, mentre la sua mente sembrava lontana anni luce, smarrita nei meandri dell’oscurità.
La figlia di Efesto avrebbe voluto porgli qualche domanda, chiedergli che cosa ci facessero lì, ma il moro la precedette, facendo un esitante passo avanti per poi lasciarsi cadere con un tonfo in ginocchio, proprio davanti il pezzo di legno.
Con mano tremolante lo sfregò, pulendo con il palmo lo sporco che lo incrostava. Solo allora Skyler vi riconobbe un nome, tra le incisioni.
Caitlin.
Trattenne il fiato, incredula.
Il ragazzo soffocò un singhiozzo. Anche se sentiva gli occhi bruciare, era talmente represso dalle emozioni contrastanti che gli offuscavano i sensi, da non essere in grado neanche di piangere.
Accarezzò con il pollice la scritta, esalando un tremante respiro che gli corrose i polmoni. Nonostante sapesse che l’avrebbe ritrovata lì, in un certo senso sperava che non ci fosse; che fosse sparita, così da rendere ciò che era successo solo frutto della sua fervida immaginazione.
Il dolore che provava in quel momento era molto più acuto e logorante di quanto avesse immaginato. Gli prosciugava ogni virtù, lo privava di qualsiasi energia, e aizzava in lui la voglia di infilarsi una spada nel petto affinché tacesse e lo lasciasse in pace per sempre.
«Alex?»
Quel suono arrivò ovattato ai suoi timpani, la voce di un’Emma preoccupata alle sue spalle. Le forze che riuscì a racimolare, però, non furono sufficienti a farlo uscire dallo stato catatonico nel quale era piombato.
La figlia di Ermes guardò i suoi amici, prendendo fiato per poter aggiungere altro. Ma il rombo di un tuono glielo impedì, facendo scattare sull’attenti gli altri due.
«Che cos’è stato?» mormorò John, volgendo lo sguardo al cielo. Il sole era ormai tramontato, e con lui, anche l’assenza di pericoli.
La luna era stata coperta da un ammasso di nebulosa nero come la pece, segno evidente che stava per colpirli un temporale. Skyler sollevò le iridi, mentre un ulteriore lampo illuminava per una frazione di secondo la foresta. Con gli occhi, seguì una goccia solitaria che precipitando andava a posarsi a terra, accanto alla punta delle sue scarpe.
L’aria iniziò ad impregnarsi di un odore pungente, salmastro. Quando poi il punto in cui la goccia era caduta si corrose, la figlia di Efesto capì a cosa fosse dovuto.
«È pioggia acida» affermò, attirando così l’attenzione degli altri. «È pioggia acida, dobbiamo andarcene!»
A confermare la sua teoria arrivò un’altra goccia, che posandosi sul ramo di un albero lo erose fino a spezzarlo.
Skyler e John presero ad arretrare velocemente, mentre Emma si precipitò accanto al moro, strattonandolo per un braccio.
«Alex, dobbiamo andare!» urlò, ma questo non si mosse, continuando a fissare il pezzo di legno di fronte a sé. Per la figlia di Ermes sarebbe stato impossibile trascinarlo via di peso, dato che non era tanto in forma. Perciò, agì d’impulso. Diede un calcio alla tavola legnosa con tutte le forze che aveva, e solo quando questa si spezzò, il ragazzo reagì.
«Corri!» gli intimò la bionda, al ché lui scatto in piedi, prendendola per mano e precipitandosi con lei a seguito dei due amici, un secondo prima che tre gocce riducessero il nome di Caitlin in schiuma.
Un ulteriore fulmine squarciò il cielo, e stavolta fu subito succeduto da una tenue pioggerellina, che con il suo tocco leggero prese a logorare qualsiasi punto sul quale si posasse. Sarebbe stata questione di secondi, prima che irruenta li avesse mangiati vivi.
Pur essendo un paio di metri dietro di loro, Alex riuscì comunque a scorgere Skyler e John ruzzolare all’interno di una piccola caverna.
«Da questa parte!» esclamò il figlio di Apollo, ma poco prima che potessero raggiungerli, il moro sentì la bionda gridare di dolore.
Una goccia si era appena posata sul suo braccio, aprendo una ferita che mostrava la carne viva. Il ragazzo la sorresse, poco prima che lei stramazzasse al suolo, i sensi offuscati dalla sofferenza. Le passò una mano nell’incavo delle ginocchia, coricandosela tra le braccia, per poi correre a perdifiato verso il punto in cui li aspettavano i loro amici.
Quando si infilò per un pelo in quella minuscola grotta, il corvino inciampò nei suoi stessi piedi per lo sforzo, ed entrambi i semidei rotolarono a terra, procurandosi qualche graffio. John fu subito da Emma, e dopo averla aiutata a posare la schiena contro la parete le studiò la ferita, che da vicino era addirittura peggio di quanto sembrasse. La pelle era letteralmente bruciacchiata, e la carne viva che si intravedeva pulsava rosea sotto le sue iridi smeraldine.
Nel momento in cui fece per sfiorargliela, la figlia di Ermes strizzò gli occhi, lasciandoci sfuggire un lamento strozzato.
Skyler spostò lo sguardo verso l’entrata, mentre un altro tuono fendeva l’aria.
E sotto i suoi occhi, la foresta prese lentamente a consumarsi.
 
Ω Ω Ω
 
«Credo di dovervi delle spiegazioni.»
La pioggia continuava nel suo incessante scrosciare, relegando i ragazzi in quella che scoprirono essere una caverna profonda non più di tre metri. L’ideale, per poter evitare i mostri per un po’: all’interno non ve ne erano di alcun tipo, e neanche una creatura fuori di senno avrebbe avuto l’incoerenza di andarsene in giro correndo il rischio di essere sciolto in una pozza informe.
Dopo essersi scusato con Emma per essere stato la causa del loro restare indietro, Alex si era appollaiato in un angolo, accanto all’entrata, lontano dai tre semidei come se l’imbarazzo gli impedisse di incrociare i loro sguardi. Non appena pronunciò quelle sommesse parole, poi, su di loro calò un silenzio carico di tensione.
I tre amici si scambiarono un’occhiata furtiva, indecisi sul da farsi. Non volevano costringerlo a dir loro la verità, ma che altra scelta avevano? Se fossero andati avanti di quel passo, avrebbero sempre sbattuto il muso contro un vicolo cieco. Erano successe troppe cose, perché potessero continuare a far finta di niente, e lo scovare quella sorta di mausoleo era stata solo la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Con un po’ di coraggio, Skyler si riassestò sul posto, sgranchendosi la gola. «Quella era la tomba di Caitlin, non è vero?» domandò.
Il moro titubò qualche secondo, per poi annuire mestamente. «Sì. Sì, lo era» ammise, con voce rotta dall’emozione.
«Alex?» chiamò allora la figlia di Ermes, cercando invano il suo sguardo. «Lei chi era?»
Il ragazzo abbozzò un sorriso sghembo, giocherellando con un pezzo sfilacciato dei propri pantaloni. «È…» cominciò, emettendo un sospiroo tremante. «È una lunga storia.»
«Beh, fuori intemperia una pioggia d’acido che sembra non voler finire e noi siamo bloccati in una caverna due per tre per –molto probabilmente- tutta la notte» gli fece notare quindi la bionda, con tono disinvolto. «Quindi, abbiamo tutto il tempo del mondo.»
Alex si lasciò sfuggire una risata roca, puntellata di amarezza. Scosse il capo, grattandosi distrattamente la nuca; poi fece scivolare il proprio palmo sul collo, ed afferrò con le dita una catenina di cuoio che per tutto quel tempo era stata perfettamente celata sotto la maglietta.
Nel vederla, la figlia di Efesto corrucciò le sopracciglia, confusa. Quante cose nascondeva, quel ragazzo, che loro non avrebbero saputo mai?
Alla base vi era appeso un ciondolo di legno: la destra di un cuore intagliato per poter combaciare perfettamente con l’altra metà.
Il corvino se lo rigirò tra le dita, lo sguardo perso in un punto imprecisato. «Conoscete il mito di Platone?» chiese, al ché gli altri scossero il capo, interessati. «Lui sosteneva che nell’antichità tutti gli esseri umani erano una combinazione di maschio e femmina. Ogni individuo aveva due teste, quattro braccia, quattro gambe e due cuori. Erano così potenti che gli dei ebbero paura di loro, perciò Zeus li divise in due. Da allora, gli esseri viventi sono destinati a cercarsi l’un l’altro, e si sentiranno completi solo quando saranno a contatto con l’altra metà.» Quando un sorriso triste gli incurvò le labbra, lui sospirò. «Ho capito cosa Platone intendesse dire solo dopo aver incontrato lei
Fu allora che successe, con una rapidità che lo lasciò stordito e sopraffatto: i ricordi riaffiorarono come un turbine nella sua mente, accavallandosi, più nitidi di quanto non fossero mai stati.
E mentre dava loro voce raccontandoli ai suoi amici, Alex ebbe la sensazione di riviverli, di catapultarsi in tutti quei momenti: dai più belli ai più brutti che ci fossero.
 
Il liceo che Alex frequentava, il Pinnacle High School, non era mai stato famoso per la condotta esemplare degli studenti.
Ma per la varietà di gente che vi potevi incontrare? In quello era il primo assoluto.
Se avesse dovuto collocarsi in un gruppo preciso, però, il ragazzo non avrebbe saputo quale scegliere.
Sportivi? Era sempre stato troppo mingherlino per poter entrare nella squadra di football.
Nerd? Gli scacchi non erano decisamente il suo forte.
Gruppo di teatro? Troppo Shakespeare e poca improvvisazione.
La Banda? L’unico strumento che sapeva suonare era il triangolo, ed una volta era anche riuscito a romperne uno!
Cheerleaders? Diciamo semplicemente che il colore di quelle gonne non si abbinava esattamente al suo incarnato.
Insomma, alla fine aveva deciso di definirsi una sorta di ‘nomade’: aveva amici un po’ da tutte le parti, e questo suo non avere una predisposizione particolare per nessuna di loro gli conferiva anche una certa notorietà, nonostante non fosse mai rientrato nella top ten dei più popolari della scuola.
Ma questo gli andava più che bene. La sua condizione sociale non era di rilevante importanza, e la sua vita sarebbe sicuramente rimasta idilliacamente immutata.
Fino a quel giorno.
Bastò un attimo; una frazione di secondo.
Alex camminava all’indietro mentre raccontava l’ultimo episodio del suo telefilm preferito ad Arnold, il suo migliore amico, quando quest’ultimo fece una battuta. Lui rise, divertito, ma quando fece per voltarsi non valutò minimamente l’ipotesi che potesse esserci qualcuno alle sue spalle; per questo si rese conto troppo tardi di star urtando una persona.
Tutto il cibo sul suo vassoio si riversò sulla sua polo azzurra, e la stessa sorte toccò alla sfortunata vittima, che per la sorpresa si lasciò sfuggire un acuto gridolino.
«Oh miei dei, mi dispiace!» esclamò velocemente lui, contemplando il pasticcio che aveva combinato. «Non volevo, è solo che non ti avevo visto…»
Gli bastò sollevare di poco lo sguardo per far sì che qualunque frase il suo cervello avesse formulato gli morisse in gola. Due occhi color mogano incrociarono i suoi, smorzandogli inaspettatamente il fiato. Erano grandi e lucenti, e in quello sinistro vi era una piccola macchiolina color nocciola che risaltava sullo scuro delle iridi.
Solo quando fu consapevole di aver trattenuto il fiato per qualche secondo di troppo, il moro notò che la ragazza di fronte a lui gli stava sorridendo.
«Non importa» gli assicurò, spostandosi una ciocca dei capelli castani dietro l’orecchio. «Piuttosto, scusami tu. Dei, guarda che macello» commentò poi, mordicchiandosi una pellicina del pollice, a disagio. «Spero che quella maglietta non fosse nuova.»
Alex lanciò un’occhiata all’enorme macchia di sugo che aveva in petto, storcendo il naso. «Lo era, in realtà. Ma non fa nulla, io non…»
«Non ci credo, sono un disastro!» mugugnò però lei, tirando frettolosamente fuori dalla sua piccola pochette qualche fazzolettino pulito. «Rimedio subito, non preoccuparti» giurò, avvicinandosi di poco a lui per potergli pulire lo sporco sulla camicia. «Sono mortificata. È tutta colpa di questo stupido polpettone che non viene via…»
Il ragazzo rise, divertito. «Ehi, non importa» la tranquillizzò, prendendola dolcemente per i polsi pur di farla smettere. «Se vuoi saperlo, era un regalo di mia zia, e non è che mi facesse impazzire…»
Stavolta fu lei ad esibirsi in una timida risata, la più cristallina che il moro avesse mai avuto il piacere di ascoltare.
«Stai cercando di convincermi che ti ho fatto un favore?» lo canzonò lei, le labbra carnose incurvate.
«Proprio così» annuì lui. «Grazie infinite… ehm…»
«Caitlin» si presentò quindi lei, porgendogli la mano dalle dita affusolate.
Il corvino gliela strinse, sorridendo.  «Grazie infinte, Caitlin» ripeté, scandendo attentamente il suo nome con la certezza che difficilmente l’avrebbe dimenticato. «Io sono Alex.»
 
Il ragazzo si asciugò per l’ennesima volta i palmi contro la stoffa dei pantaloni, saltellando sul posto quasi avesse tanta di quell’adrenalina nelle vene da non riuscire a stare fermo.
Si sentiva come un bambino durante la sera che precede il suo primo giorno di scuola, e questo ormai perenne stato nel quale stanziava da lì ad un paio d’ore gli faceva salire i nervi a fior di pelle.
Era già stato ad altri appuntamenti, cavolo! Ed anche con delle bellissime ragazze.
Eppure mai nessuna era riuscita a spaventarlo così come stava facendo Caitlin con il suo quarto d’ora di ritardo.
O era lui, ad essere in anticipo? Era talmente agitato da aver perso completamente la cognizione del tempo.
La sua idea per quella sera era di andare al luna park: avrebbe vinto un peluche per lei, l’avrebbe accompagnata su alcune delle giostre più pericolose e poi magari ci sarebbe scappato un bel bacio, nel tanto famoso Tunnel Dell’Amore.
Ma circa dieci minuti prima di raggiungere il luogo d’incontro in lui erano sorti quei genere di dubbi deleteri per un appuntamento: e se la mia scelta non le piace? E se odia i luna park? E se per lei questa è solo un’uscita con un amico?
Ovviamente, non riuscì a rispondere a nessuna di quelle domande, e perse completamente la facoltà di respirare non appena la scorse in lontananza mentre si affrettava a raggiungerlo nella sua gonna a pois.
Alex si sforzò di abbozzare un sorriso raggiante, nascondendo le mani in tasca affinché lei non notasse l’incessante tremare delle sue dita.
«Ciao!» la salutò, mordendosi distrattamente l’interno della guancia.
«Ciao» ricambiò lei, esibendo i suoi bianchi denti con la massima disinvoltura.
«A-avevo» balbettò inizialmente lui, per poi schiarirsi la voce. «Stavo pensando ad un posto carino dove andare, e mi è venuto in mente che magari prima d’ora nessun ragazzo ti ha mai…»
Non era sicuro di poter terminare di parlare senza ingarbugliarsi nelle sue stesse parole, e sicuramente non l’avrebbe saputo mai, perché prima che potesse anche solo finire di formulare quel pensiero Caitlin si sollevò sulle punte, afferrandogli il viso tra le mani e premendo le labbra contro le sue.
Quelle di lei sapevano di dentifricio e burro cacao alla ciliegia, e quando il moro focalizzò ciò che stava succedendo si sorprese nello scoprire che non aveva alcuna voglia di sottrarsi a quel contatto inatteso.
Quando la ragazza si allontanò da lui quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi, Alex boccheggiò, stupito.
«E questo per che cos’era?» riuscì a domandare, al ché lei inclinò leggermente il capo.
«Per vedere se valeva la pena passare l’intera serata con te.»
Il ragazzo inarcò le sopracciglia, in attesa. «E?»
La mora si lasciò sfuggire un sorriso. «Credo ci sia bisogno di una seconda verifica.»
Alex ridacchiò di fronte a quelle parole, e stavolta fu lui a prenderle dolcemente il volto tra le mani e baciarla, senza esitazioni.
Le labbra di lei si schiusero lentamente, e le loro lingue si scontrarono dapprima più insicure, poi più vogliosa l’una dell’altra, mentre i due giovani diventavano man mano consapevoli di quanto le loro bocche combaciassero alla perfezione.
Quasi in contemporanea, si scostarono teneramente, mentre i loro nasi continuavano a sfiorarsi, le fronti a toccarsi.
«Allora» cantilenò la ragazza, aggiustandogli con cura il colletto della camicia. «Dove avevi intenzione di portarmi?»
 
Quando Alex aveva scoperto che anche Caitlin, come lui, era una semidea, inizialmente non riusciva a crederci. Era convinto di essere l’unico, nella sua scuola, ma soprattutto che nell’arco della sua vita non avrebbe mai incontrato qualcuno che nascondeva lo stesso segreto.
Questo, però, a differenza di quanto aveva temuto, non li divise, né li separò. Al contrario, divennero più uniti che mai, ed ignari dei pericoli che a causa della loro vicinanza correvano si proteggevano a vicenda, affidando l’uno la propria vita nelle mani dell’altra.
Ormai erano fidanzati da circa due anni, ed il ragazzo avrebbe potuto giurare che mai si era sentito tanto completo come quando aveva lei al suo fianco.
Lei lo faceva sentire nel posto giusto; lei gli regalava la sensazione che, fin quando sarebbero rimasti insieme, nulla avrebbe potuto andare storto.
La amava, e di questo ormai ne era consapevole. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di non essere costretto a lasciarla.
Quando lei si intrufolò segretamente nella sua cabina con un regalo tra le mani, si trovavano su una nave da crociera, diretti verso le isole Canarie per una gita scolastica.
Era il giorno del suo compleanno, forse. O magari l’anniversario di qualche ricorrenza speciale. Fatto sta che fu allora che la ragazza gli regalò la collana che non si levava mai dal collo, per poi dirgli che l’altra metà l’aveva lei.
«Perché noi siamo un po’ come questi due pezzi, giusto?» sussurrò, facendoli combaciare con un gesto delicato. «Non potremmo incastrarci così bene con nessun altro neppur volendo.»
Alex non avrebbe mai dubitato di quell’affermazione. Sapevano entrambi quanto fosse tremendamente vera, ed era sorprendente quanto bastasse anche il minimo contatto tra loro per scatenare una scintilla vibrante di passione.
Nel momento in cui lui la prese in braccio, adagiandola delicatamente sul proprio letto, parve ad entrambi il gesto più naturale del mondo.
Quella notte si appartennero, e le loro anime si fusero in una perfetta danza di gemiti e lenzuola. Nessuno avrebbe potuto spezzare la coltre di magia che li aveva inglobati, permettendogli di ardere intensamente d’amore per la prima volta nelle loro vite.
Mai si sarebbero aspettati, quindi, che a distanza di poche ore la loro nave sarebbe affondata, e i loro destini si sarebbero dispersi nell’impeto della tempesta.
 
Loro erano mezzosangue: facili da trovare, ma difficili da uccidere.
Sapevano costruirsi delle armi, combattevano con una maestria esemplare, e non avevano ripensamenti quando erano costretti ad uccidere un mostro pur di sopravvivere.
Risvegliarsi su quell’isola era stato sia un trauma che una sollevazione. Poi si erano inoltrati nella foresta, e da lì aveva avuto inizio il loro peggior incubo.
Di giorno tutto taceva, dandogli la possibilità di poter riposare.
Di notte il bosco risorgeva, e la magia che lo impregnava era tanto acuta da minacciare di fargli implodere le vene.
Alex non lasciava mai la mano di Caitlin, a volte neanche quando sgozzava una qualsivoglia creatura.
Lei era l’unica certezza che gli rimaneva, mentre quel posto maledetto si portava via ogni loro ricordo, tanto che ben presto dimenticarono anche il luogo nel quale erano nati.
Per questo il ragazzo continuava ad intrecciare le dita alle sue: percepire i loro palmi sfregare l’uno contro l’altro gli dava la sicurezza che almeno lei c’era, e che non se ne sarebbe mai andata.
Insieme ce l’avrebbero fatta; sarebbero tornati indietro sani e salvi.
Dovevano solo non mollare.
L’isola non poteva essere davvero più potente di loro.
 
«Devi fare una scelta, mezzosangue.» Quell’orrida voce sembrava non provenire da nessun luogo in particolare. Rimbombava direttamente tra le pareti della sua scatola cranica, facendolo impazzire.
«O tu, o lei.»
Alex incrociò gli occhi spaventati di Caitlin, tentando di convincerla che non c’era pericolo, che andava tutto bene.
La ragazza aveva la schiena premuta contro una parete rocciosa, la via di fuga bloccata da un gruppo di esseri sovrannaturali dalla forma di grossi cani. Avevano il pelo irsuto, dal colore tanto scuro che si confondevano nella notte; i loro occhi fiammeggianti erano puntati sul corvino, quasi fossero in grado di perforargli l’anima.
Cani Neri. Era questo l’unico nome che era riuscito ad affibbiargli. Non sapeva cosa fossero capaci di fare, ma era ben consapevole che se non avesse liberato subito Caitlin, per loro sarebbe stata la fine. Avvertiva quest’anomala sensazione, come una voragine nel petto che lo convinceva che purtroppo non avevano scampo.
Avrebbe dovuto ideare un piano, sì, ma come riuscirci se di fronte aveva i peggior ultimatum che gli avessero mai dato?
«Ne risparmieremo solo uno» aveva decretato il capobranco, con sadica crudeltà. «Così che egli possa vivere abbastanza a lungo da poter assistere alla morte dell’altro. Poi uccideremo anche lui. Sta a voi decidere a chi spetta tale onore.»
Il sangue nelle arterie di Alex era talmente congelato, che se in quel momento qualcuno lo avesse accoltellato in pieno petto non ne sarebbe uscita neanche una goccia.
Che cosa avrebbe potuto fare? Il panico gli serrava talmente tanto la gola da impedirgli di pensare.
«O tu, o lei, semidio» ripeté allora il mostruoso lupo, approfittando di un suo momentaneo attimo di esitazione.
Lui, o lei?
O lui, o lei.
«Non decidi?» lo canzonò subito dopo, ed in un ghigno selvaggio scoprì le fauci. «Vorrà dire che sceglieremo noi per te.»
Successe tutto talmente rapidamente che ad Alex sembrò di viverla a rallentatore.
La creatura fece un balzo verso la ragazza, e penetrò nel suo petto fino a dissolversi in un’enorme macchia scura.
Caitlin sgranò gli occhi, la bocca spalancata in un muto grido di dolore.
Alex urlò.
I mostri guairono, e scapparono con la stessa velocità con la quale erano arrivati non appena l’alba prese a schiarire il cielo.
Il semidio lasciò cadere la propria arma a terra, e si precipitò al fianco di lei, stringendola tra le braccia poco prima che si accasciasse inerme al suolo.
«Cait, guardami!» le ordinò, posandole una mano dietro la nuca per poterla sorreggere. «Ti scongiuro, guardami!»
La ragazza non riusciva a respirare, i polmoni stretti da delle catene di ferro ed oscurità. Boccheggiò qualche secondo, alla ricerca disperata d’aria, ma ogni tentativo sembrava del tutto vano.
«Cait, sono qui» mormorò quindi lui, avvertendo gli occhi bruciare. «Non lasciarmi, sono qui. Ehi, va tutto bene» aggiunse poi, cullandola teneramente. «Va tutto bene.»
 
Ma non andava affatto bene, ed Alex se ne rese conto troppo tardi.
Il giorno seguente Caitlin lo passò a tremare convulsamente e a vomitare, nonostante non avesse ingerito neanche un sorso d’acqua.
Sulla sua pelle candida erano comparse delle maligne macchie scure, e i suoi occhi incavati assumevano una tonalità sempre più tendente al giallo, che sapeva di morte e disperazione.
Il ragazzo non riusciva a credere che stesse succedendo davvero. Continuava a ripetere che sarebbe passato tutto, mentre con la maglietta le tamponava la fronte imperlata di sudore. Ma quando lei cominciò a tossire sangue, la consapevolezza di non aver idea di come aiutarla lo colpì come un pugno nello stomaco.
Le forze della mora si prosciugavano ogni volta che lei esalava un tremulo sospiro, tanto che ad un certo punto si riscoprì incapace anche di tenere gli occhi aperti.
«Ehi, ehi, non ti addormentare» le impose lui, prendendole il volto con una mano ed adagiandosela al petto. «È tutto okay, sono qui.»
«Va via.» Quelle parole lasciarono le sue labbra screpolate in un sussurro tanto lieve, che Alex rischiò di non sentirlo.
«Come?»
«Va via» reiterò quindi lei, con fatica. «Lasciami qui.»
«Che cosa? Non se ne parla. Aspetterò qui con te fino a che non ti rimetterai.»
«Sappiamo entrambi che morirò» replicò a quel punto la ragazza, lasciandolo spiazzato.
«C-Come?» L’idea che potesse morire non l’aveva minimamente sfiorato. Non sarebbe successo davvero, giusto? Non lì, non ora.
«Metti fine a quest’agonia, ti prego» lo supplicò Caitlin, lasciandosi sfuggire un singhiozzo. «Non ce la faccio.»
«Cait…» tentò lui.
«Mettiti in salvo, per favore. Fallo per me. Fallo per noi.»
«Io non ti lascerò qui! Scordatelo.»
«Allora uccidimi e seppelliscimi da qualche parte» propose lei, sfilandosi il coltello dalla cintura. «Fallo, ti prego. È la tua unica possibilità di…»
«Ehi, basta. Stai delirando» la rimproverò dolcemente lui, sfilandole l’arma di mano mentre lei cercava di porgergliela. La posò accanto a sé, a terra.
«Sai che ho ragione» gracchiò lei. Tossì ancora una volta, rischiando quasi di soffocare con il suo stesso sangue.
«Tu hai sempre ragione» mormorò il ragazzo con voce spezzata, sforzandosi invano di ignorare lo stato in cui la semidea si trovava. «Ma questo non vuol dire che io debba darti retta. Ne usciremo insieme, come sempre.»
«No» bisbigliò, a corto di fiato. «Non questa volta.» Le ci volle un’eternità per completare quella breve frase, ogni parola intervallata da un ansito raschiante.
«Alex?» chiamò poi, al ché lui le spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, con tenerezza. «Promettimi una cosa.»
«Tutto quello che vuoi.»
«Promettimi che sopravvivrai. Giurami che continuerai a lottare fino alla fine
«Ma sì, certo.»
«Bene.» Caitlin emise un sospiro strozzato, gli occhi privi di luce fissi nei suoi. «Ti amo» affermò.
«Ti amo anch’io» assentì lui, lasciandole un bacio sulla gelida fronte. Solo quando tornò ad incontrare le sue iridi, notò che erano imperlate di lacrime.
«Quindi sappi che lo faccio per noi.»
Il ragazzo corrucciò le sopracciglia, confuso. «Cait, cosa…?»
Ma prima che potesse concludere, una rapida successione di eventi si svolse davanti a lui, tanto che fu incapace di impedirla.
Caitlin sollevò sfinita il polso, e la lama del coltello che aveva raccolto furtiva da terra catturò il bagliore del tramonto.
«No!» urlò Alex, con tutto il fiato che aveva in gola. Ma ormai era troppo tardi.
La ragazza si era conficcata l’arma nella bocca dello stomaco, così in profondità da procurarsi una ferita mortale.
I suoi occhi si sgranarono, e non fu neanche in grado di esalare il suo ultimo respiro.
Il corvino rimase pietrificato fino a ché il corpo di lei si accasciò privo di vita tra le sue braccia.
«No» mormorò, sentendo un’ondata di panico travolgerlo violentemente. «No, no, no, no, no, no. No! No! Caitlin» la pregò, scrollandola leggermente per le spalle. «Caitlin, ti prego, svegliati. Ti scongiuro. No.»
Lacrime pregne di disperazione gli rigarono copiose le guance, mentre i singhiozzi quasi gli impedivano di poter parlare. «Cait, non farmi questo. Non lasciarmi. Per favore, non lasciarmi. Cait.»
Ma purtroppo il suo cuore aveva già smesso di battere da un pezzo, e la voragine che gli si era aperta nel petto avrebbe cominciato a logorarlo esattamente da quel momento.
Perché Caitlin era morta.
E lui non aveva fatto niente per impedirlo.
 
Quando il racconto del ragazzo terminò, nessuno ebbe il coraggio di parlare.
Alex evitò di incrociare i loro sguardi, perché sapeva benissimo cosa stessero pensando.
Un mostro, ecco cos’era. Un essere inutile che non era neanche in grado di lottare per le cose che amava.
Per che non aveva scagliato quel coltello lontano, la prima volta che aveva capito quali fossero le sue intenzioni?
Perché era rimasto in silenzio, di fronte a quel lupo, invece di farsi avanti ed urlare a squarcia gola: «Uccidi me!»?
Che cosa c’era di sbagliato, in lui? Perché non faceva altro che rovinare sempre tutto?
«È per questo che non vi ho mai parlato di lei» aggiunse dopo un po’, deglutendo a fatica il dolore. «Non volevo rovinare l’opinione che avevate di me.»
«Perché, che opinione dovremmo avere, adesso, di te?» riuscì a chiedere Skyler.
«Di un codardo» rispose lui. «Di un assassino.»
«Non sei stato tu ad uccidere Caitlin» replicò Emma, con un fil di voce.
«No, ma in un certo senso è come se l’avessi fatto. Non l’ho protetta in presenza di quei mostri. Non le ho neanche sfilato quel maledetto coltello di mano.» Una lacrima minacciò di solcargli il volto, e lui strinse le palpebre, posando la nuca contro la parete.
«Non sapete cosa darei, per poter essere stato al suo posto.»
«Neanche tu meritavi di morire, Alex» gli fece notare quindi John.
«Scusatemi se vi ho mentito. Non avreste mai dovuto fidarvi di me. Io riesco solo» esitò, con voce tremante. «Riesco solo a distruggere tutto quello che trovo.»
«Riuscivi» lo corresse la figlia di Efesto, al ché lui si voltò a guardarla, stupito.
«Eh?»
«Il passato è importante» sentenziò lei. «Perché ora non sei più lo stesso ragazzo di allora, e noi ci fidiamo di te.»
«E perché dovreste?»
«Perché ci hai guidati fino a questo punto» esclamò la bionda, quasi fosse scontato. «Insomma, se non fosse per te, ora non saremmo qui.» Rifletté un attimo sulle proprie parole, lo scrosciare della pioggia che li intrappolava in quella lurida grotta. «Okay, pessimo esempio.»
«Quello che Emma sta cercando di dire, a modo suo» intervenne allora John, con tono sicuro. «È che ti dobbiamo la vita, e che non ci interessa quale sia il tuo passato.»
«Tu sei nostro amico» convenne quindi Skyler, seria in volta. «Che ti piaccia oppure no.»
Alex li squadrò attentamente uno alla volta, chiedendosi se non si fosse ritrovato in una banda di schizzati. Ma vi lesse fermezza, nei loro volti. Ed onestà. E gratitudine.
Loro non avevano paura di lui; loro non lo ripudiavano. E avrebbe anche potuto aver fatto quello che aveva fatto: ora erano tutti sulla stessa barca, e sarebbero rimasti a galla insieme.
«Non posso credere che esistiate davvero» commentò lui, le iridi scure imperlate di un sentimento nuovo e a lui ignoto da un po’: amore.
«Mi dispiace dirtelo, Spillo» lo riprese la figlia di Ermes, sfiorandosi le bende sul braccio con una smorfia di dolore. «Ma scoprirai quanto siamo veri solo nel momento in cui John inizierà a russare.»
 
Ω Ω Ω
 
Nonostante la pioggia di acido sembrava non avere alcuna intenzione di arrestarsi, i semidei avevano appurato che sarebbe stato meglio, per loro, non adagiarsi sugli allori.
Alex si era offerto di fare il primo turno di guardia, mentre gli altri si coricavano per poter recuperare le energie.
Osservando la foresta liquefarsi sotto il suo stesso sguardo, il ragazzo si riscoprì incapace di governare le proprie emozioni.
Fu sopraffatto, così come non gli succedeva da anni. Rabbia, tristezza, gioia, dolore e paura formarono un mix micidiale che gli esplose nel petto, pungendo come minuscoli spilli la carne viva del suo cuore.
Ricordare tutto ciò che era successo a Caitlin era stata sia una liberazione che una condanna. Perché pronunciare ognuna di quelle parole aveva fatto sì che tutto l’accaduto diventasse all’improvviso più reale.
Che acquisisse sostanza, e che questa si posasse come un macigno sulle sue spalle.
Calde lacrime presero a bagnarli il viso senza che lui se ne rendesse conto, e forse non sarebbe riuscito a non crollare se non avesse sentito un braccio stringersi attorno alle sue spalle.
Skyler lo abbracciò da dietro, posando il capo contro la sua schiena e restando lì, in silenzio, ad ascoltare il ritmo dei loro cuori che battevano.
E fu solo grazie alla presenza dell’amica che Alex si lasciò andare ad un pianto disperato, con la consapevolezza che qualunque cosa sarebbe successa dopo, sarebbe stata migliore.
Perché ora che il suo segreto non era più solo suo, avvertiva la sensazione di potersi finalmente concedere un nuovo inizio, e che quei tre semidei che continuavano a sorprenderlo giorno dopo giorno ne avrebbero sicuramente fatto parte, in un modo o nell’altro. 

Angolo Scrittrice. 
Ebbe sì: siamo finalmente arrivati al capitolo che la maggior parte di voi aspettava. 
Finalmente
Alex si confida con i nostri tre semidei, e... beh, la storia di Caitlin viene a galla. 
Credo che qui sia lecito lasciare a voi tutti i commenti, e che quindi io mi astenga dal dire la mia. 
Allora, che ne pensate? Vi ha delusi? Vi ha sopresi? Vi è piaciuta? Vi aspettavate un risvolto... diverso?
Ora ci è ben chiaro il peso che il ragazzo, per anni, è stato costretto a trascinare da solo. Quante ne ha passate, nell'arco dela sua vita? E quante ancora ne dovrà passare? 
Mi soffermerei anche a parlare di
Skyler, e di ciò che ha provato nel momento in cui a sfiorato Alex. A cosa era dovuta, quell'empatia? Avete qualche ipotesi, per caso? 
Mi rincresce non aver aggiornato ieri, ma purtroppo mi è stato impossibile.
Ho notato che lo scorso capitolo non vi è piaciuto molto, e questo mi ha un po' mortificata, ma mi auguro davvero che questo non abbia deluso le vostre aspettative, e che io magari mi sia "rifatta" dopo l'esito deludente della scorsa settimana. Un grazie immenso a
Just me_Ilaria, Francesca lol e Lux_Klara, che mi hanno rincuorato con le loro recensioni.
Sapete che prima o poi risponderò ad ognuno di voi, quindi eviterò di ripeterlo. 
Credo che per adesso io non debba dire altro, dato che vorrei sentire la vostra opinione in merito al passato di questo personaggio che ha conquistato un po' il bene unanime, se così si può dire. 
Grazie a tutti coloro che stanno leggendo questo piccolo trafiletto in viola, perchè vuol dire che avete ancora la voglia di continuare a leggere questa storia, e non non l'avete abbandonata.
Purtroppo, il prossimo martedì il capitolo non ci sarà, ma vi prometto che tra due settimane ne sfornerò uno tutto nuovo, apposta per voi.
Un bacione enorme, guys. Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Sempre vostra,

ValeryJackson 
P.s. Mi scuso per eventuali errori di battitura, ma non ho avuto la possibilità di rileggerlo tutto. Nel caso ce ne fossero, verranno corretti domani. 

 

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Capitolo 37
*** Capitolo 36 ***



La pioggia acida aveva scrosciato incessantemente per quasi tutta la notte, relegando i ragazzi in quei pochi metri quadri di caverna.
La ferita sul braccio di Emma molto probabilmente avrebbe lasciato una cicatrice, ma la figlia di Ermes non sembrava darci troppo peso mentre prendeva il posto di Alex per il turno di guardia.
«Sto bene» continuava a ripetere, non riuscendo però a convincere neanche sé stessa.
Per quanto volesse ostinarsi a negarlo, quell’isola stava mettendo a dura prova anche lei. Prima quegli odiosi uccellacci dalla bocca larga, e adesso questo. Cosa ancora sarebbe stata costretta ad affrontare, per poter mettere la parola fine a quella storia?
Non era forte come tutti gli altri credevano; anche lei aveva le sue debolezze.
Si trascinava dietro un cuore deluso dall’amore, un’anima ferita dal corso degli eventi; ma soprattutto un orgoglio bruciato dall’urlo di disperazione che si nascondeva sul fondo della sua gola.
Voleva solo tornare a casa. Non vedeva l’ora di poter ritrovare Michael e lanciarsi di peso sul proprio letto, adagiandosi tra le braccia di Morfeo con la tranquillità che le era ignota ormai da troppi giorni.
Era stanca di lottare per la propria vita, come era stanca del fatto che Skyler non fosse al suo fianco per aiutarla. Sapeva di aver tradito la sua migliore amica, ma in cuor suo era anche consapevole che il loro legame non poteva spezzarsi per uno sbaglio del genere.
O no?
Lei sarebbe stata disposta a sacrificarsi per la figlia di Efesto. Ma poteva essere sicura che quella facesse altrettanto?
I suoi pensieri furono bruscamente interrotti da una mano che si posava sulla sua spalla, facendola sussultare.
John le rivolse un sorriso gentile, per poi indicarle con un cenno del capo gli altri due semidei che riposavano tranquilli.
«Dormi anche tu, ti do il cambio» le sussurrò.
La ragazza non se lo fece ripetere due volte, troppo stanca per avere anche la forza di replicare.
Il figlio di Apollo fece la vedetta finché Skyler non si offrì di sostituirlo. Peccato che ben presto il suo sonno fu interrotto proprio da quest’ultima, che scrollandolo per un braccio gli intimava di svegliarsi.
«Ho bisogno di parlarti» gli spiegò, non appena lui si fu stiracchiato.
Il biondo si tirò su, stropicciandosi gli occhi con uno sbadiglio. «È successo qualcosa?» domandò, la voce ancora impastata dal sonno.
«Vieni con me» replicò lei, con tono basso, per poi tornare a sedersi davanti l’entrata della grotta, dove dopo un attimo di esitazione l’amico la seguì, attento a non svegliare gli altri.
Si accomodò accanto a lei, studiandola con le sopracciglia corrucciate. «Cos’è che ti turba?» le chiese, al ché la mora fece un breve sospiro.
Aveva un solco di preoccupazione in mezzo agli occhi, lo sguardo stretto a due fessure quasi stesse cercando un dettaglio all’orizzonte, ma non riuscisse a coglierlo.
«Si tratta della profezia» mormorò, e al sentire quelle parole, il ragazzo si irrigidì.
Aveva completamente dimenticato la profezia. L’ultima volta che un so verso si era avverato era stato… beh, nel giorno in cui avevano incontrato Alex. Era lui l’uomo che dal tempo è stato inglobato, su questo non c’era più alcun dubbio. Ma i semidei non avevano avuto modo di pensarci, dato che si erano messi a cercare quegli Spiriti del Vento, e poi si erano inoltrati nella Foresta della Luna.
Quei versi erano rimasti sospesi esattamente a metà, e questo voleva dire che il prossimo a realizzarsi sarebbe stato…
«Tra le ombre della foresta un semidio la vita perderà» recitò sommessamente John, mentre un brivido si arrampicava su per la sua schiena.
«All’inizio non mi era molto chiaro il significato di questa frase» cominciò allora Skyler. «E dopo che abbiamo scoperto che nella Foresta del Sole i mostri attaccavano solo di giorno ha perso del tutto ogni senso. Ma poi siamo arrivati qui, e…» Esitò. «Questa parte di isola è piena di ombre, John.»
Il figlio di Apollo prese fiato per replicare, ma inizialmente le sue corde vocali non emisero alcun suono. «Lo so» assentì, con l’amaro in bocca. Si voltò a guardare l’amica, ogni muscolo in tensione. «Che cosa facciamo?»
«Non ne ho la più pallida idea» ammise lei, grattandosi un orecchio. «Ma non voglio che nessuno di noi muoia. Non adesso, almeno.»
«Non possiamo continuare a scappare al nostro destino, Skyler. Prima o poi ci raggiungerà.»
«C’è un altro modo per poter interpretare la profezia?» domandò speranzosa la figlia di Efesto, al ché il ragazzo abbassò lo sguardo, imbarazzato.
«Forse» convenne. «Non lo so. Questo genere di cose non è esattamente il mio forte. Tra i figli di Apollo e l’Oracolo di Delfi non è mai corso buon sangue, quindi io…» Le parole gli morirono in gola, dato che non era certo di come continuare.
Si sentiva impotente, e maledisse tutte le volte in cui lui e i suoi fratelli avevano rifiutato le offerte del padre, che si mostrava disponibile ad insegnare loro l’arte della profezia.
Non gli era mai andata giù l’idea che il dio rovinasse la vita di una giovane mortale, solo per i propri fini.
A pensarci ora, avrebbe voluto saper comprendere quelle frasi sconnesse. Magari se ne fosse stato in grado, ora non sarebbero andati a sbattere contro un vicolo cieco.
«Due morti» ricordò la mora, in un bisbiglio tremante. «Come faremo a sapere quando accadrà?»
«Non accadrà» la contraddisse il biondo, con un’improvvisa nuova determinazione a scorrergli nelle vene. «Non permetterò a nessuno di farvi del male.»
«John…»
«L’ho promesso a me stesso, Skyler. E l’ho promesso a voi. Farò tutto ciò che è in mio potere per far sì che quella stupida profezia rimanga solo un ammasso di strofe, chiaro?»
La ragazza incrociò i suoi occhi verdi, che adesso brillavano di una ferma sicurezza. Molto probabilmente quello che stavano costruendo era solo un instabile castello di carta, ma che alternative avevano?
Erano partiti in tre per quella missione, e due non sarebbero dovuti tornare a casa.
Per impedire che ciò accadesse, dovevano solo essere caparbi e continuare a lottare.
«Anch’io» annuì la figlia di Efesto, al ché lui abbozzò un timido sorriso, per poi accarezzarle la nuca e baciarle teneramente la fronte.
«Sarà meglio svegliare gli altri» sussurrò, poco prima di alzarsi in piedi. «Dobbiamo decidere insieme da che parte andare.»
Skyler lanciò una rapida occhiata alle sue spalle, osservando Alex ed Emma riposare tranquilli. E le venne da chiedersi se il loro restare uniti avrebbe contribuito in qualche modo a salvarli.
O lei, o John, o la figlia di Ermes.
Chi sarebbe stato il primo ad andarsene?
 
Ω Ω Ω
 
La foresta era andata completamente distrutta.
La pioggia della notte prima aveva completamente raso al suolo gran parte degli alberi, e quel che ne restava non era altro che un ammasso informe di tronchi spezzati e terriccio schiumante.
Dopo aver messo qualcosa nello stomaco ed essersi assicurati che il sole splendesse già alto nel cielo, Skyler e John si erano offerti di fare un rapido giro di ricognizione per poter ritrovare l’orientamento perduto, mentre Emma ed Alex restavano accanto alla grotta per far sì che una volta finito potessero tornare facilmente indietro.
Sfruttando un fusto abbattuto a mo’ di panca, i due ragazzi se ne stavano seduti vicini, in un silenzio quasi religioso: lei a disegnare linee sconnesse a terra con un rametto, e lui ad intagliare con dedizione una scritta sull’elsa di legno del proprio coltellino.
La figlia di Ermes tentò di scorgere con la coda dell’occhio la sua creazione, ma non riusciva a leggere ciò che dicevano quelle parole. Fece vagare lo sguardo intorno a sé, ispezionando l’ambiente che li circondava; poi tornò ad osservare il ragazzo.
«Senti» esordì, per sgranchirsi la voce subito dopo, imbarazzata. «Volevo solo dirti che mi dispiace.»
Il moro spostò le sue iridi scure su di lei, squadrandola con interesse. «Per cosa?»
«Per aver…» La ragazza si riassestò sul posto, a disagio. «Per aver distrutto la tomba di Caitlin» confessò. «Voglio dire, forse non avrei dovuto tirarle quel calcio. Non così forte, almeno. Ma non sapevo cos’altro fare.»
Il corvino continuò a fissarla per quelli che parvero secondi interminabili, il ciuffo spettinato che gli ricadeva ribelle sulla fronte. Dopo di ché, senza proferir parola, riportò la propria attenzione sul coltellino che stringeva tra le mani. Intagliò un ulteriore lettera, con molta più attenzione del necessario.
Poi, a dispetto di ciò che Emma aveva pensato, fece una cosa decisamente fuori luogo.
Scoppiò in una fragorosa risata.
La bionda lo studiò allibita, non riuscendo a capire cosa lo divertisse tanto. Si sentì presa in giro, in un certo senso, per questo incrociò le braccia al petto, stizzita.
«Ti sei fumato il cervello?» lo rimproverò, ma il ragazzo non sembrava intenzionato a smetterla. «Si può sapere che cos’hai da ridere?»
«Scusa» mormorò lui, pulendosi con l’indice una lacrima dall’angolo di un occhio. «È che mi hai colto alla sprovvista. Insomma, siamo stati attaccati da centinaia di mostri, una pioggia d’acido ha distrutto più di metà della foresta, non abbiamo idea di dove andare per poter trovare la pietra, e tu ti preoccupi di uno stupido pezzo di legno?»
«Pensavo fosse importante» si giustificò la figlia di Ermes, stringendosi corrucciata nelle spalle.
«Lo era, infatti» assentì lui, con l’abbozzo di un sorriso ad incurvargli le labbra. Si rigirò l’elsa di legno tra le dita, accarezzando la lama con il pollice. «Però se non l’avessi distrutto, molto probabilmente io avrei fatto la stessa fine di tutti gli alberi che ci circondano.» Fece una smorfia rallegrata, arricciando di poco il naso. «Quindi in pratica mi hai salvato la vita, non credi?»
Emma soppesò le sue parole, ripercorrendo mentalmente tutti gli avvenimenti della sera prima. «Un giorno mi pentirò per la mia eccessiva bontà, non è vero?»
A quell’affermazione, il ragazzo ridacchiò di nuovo, con un’espressione sorniona in volto. «Ricordati, Riccioli d’Oro, che tu sei ancora la mia principessa.»
La ragazza si voltò a guardarlo, sorpresa da quelle parole. E per la prima volta da quando avevano messo piede nella Foresta della Luna, fu certa di avere davanti il vero Alex. Quello spontaneo, quello genuino. Quello con la battuta sempre pronta, che sa strapparti un sorriso anche nelle circostanze più improbabili.
L’Alex che sorride, che scherza, e che è più forte di tutti i suoi demoni interiori.
L’Alex che aveva imparato a conoscere ed apprezzare, tanto da non poterne fare più a meno.
«Era da un po’ che non mi chiamavi così» pensò lei, rendendosi conto solo dopo di averlo detto ad alta voce.
Il moro si mordicchiò distrattamente l’interno della guancia, una ritrovata luce a far brillare le sue iridi scure. «Credo che ultimamente io mi sia fatto sopraffare talmente tanto dai ricordi, che ho perso di vista le cose importanti.» Incrociò il suo sguardo, inclinando leggermente il capo. «Non vi sarò mai grato abbastanza per avermi concesso di far riemergere la parte migliore di me. Ora so esattamente quale sia il mio dovere. Ora so per cosa è giusto combattere
La figlia di Ermes prese un gran respiro, posando il mento sul palmo aperto. «Ciò non toglie che sei comunque uno stupido Spillo.»
Il ragazzo rise, buttando la testa all’indietro. «Quanto puoi essere pazza di me, su una scala da uno a dieci?»
«Meno cento» rispose disgustata la bionda.
Alex le spostò divertito una ciocca di capelli dietro l’orecchio, per poi accarezzarle teneramente una guancia. La ragazza chiuse gli occhi, appoggiandosi al suo palmo con un sospiro.
Poi si lasciò sfuggire un sorrisetto sghembo, guardandolo con tono di sfida. «La regola dei tre metri non ha mai smesso di essere valida. Lo sai, vero?»
Il corvino le pizzicò il naso, facendole un complice occhiolino. «So che se non ci fossi, ti mancherei da morire.»
«Oh, sì, certo!» esclamò lei, con sarcasmo. «Così come mi mancherebbero quei due sporchi uccellacci, te l’assicuro.»
Continuare a punzecchiarsi con il ragazzo aveva fatto sì che Emma dimenticasse completamente il perché si trovassero lì, tanto che quando vide tornare Skyler e John sobbalzò, riportando bruscamente i piedi a terra.
«Come avevamo immaginato, non ha piovuto su tutta la foresta, ma solo nell’arco di una cinquantina di metri» li informò il figlio di Apollo.
«Noi siamo arrivati da quella parte» continuò la figlia di Efesto, indicando un punto alla loro sinistra. «Quindi ci converrebbe andare dal lato opposto.»
«Perfetto!» esultò Alex, alzandosi in piedi e sgranchendosi energicamente le gambe. «Mettiamoci in marcia già da adesso. Non mancano molte ore, prima che faccia di nuovo buio.»
 
Ω Ω Ω
 
Nonostante la figlia di Efesto non aveva idea di dove fossero diretti, sembrava che il corvino sapesse esattamente quale strada prendere. Si muoveva sicuro tra le macerie di quell’oscura foresta, e quando finalmente la vegetazione tornò ad essere fitta e rigogliosa, per qualche assurdo motivo il ragazzo si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.
«Gli alberi mi danno un senso di protezione» aveva rivelato ad un certo punto, notando il modo in cui lei lo studiava. «Un posto in più per nascondersi.»
Skyler dovette ammettere che non aveva tutti i torti. Continuando ad avanzare su un terreno del tutto scoperto avevano sì più possibilità di scorgere qualche mostro, nel caso si fossero avvicinati a loro, ma anche di essere visti. Il fatto di essere riusciti a raggiungere la zona ancora sana del bosco prima che calasse la notte, in fondo tranquillizzava anche lei.
«Sai, Alex» esordì ad un tratto, spalleggiandolo di modo che fosse l’unico in grado di sentirla. «Non hai mai finito di dirmi tutte le regole del ‘perfetto semidio’.»
Il moro si mordicchiò il labbro inferiore, al fine di trattenere un ampio sorriso. «Ti avevo detto che dovevi dimostrarmi di esserne all’altezza» le ricordò poi, al ché lei inarcò un sopracciglio.
«E non l’ho fatto?»
«Può darsi.»
«E da cosa dipende?»
Il ragazzo le lanciò una rapida occhiata, per poi grattarsi distrattamente la nuca. «Preferisco dirtele quando sarà il momento giusto. Sono troppo importanti, per essere profanate così.»
La figlia di Efesto fece uno sbuffo di risata, scrollando leggermente il capo. «Inizio a credere che tu debba prima inventartele, queste regole.»
Alex si finse offeso. «Diffidi della mia inconfutabile parola?» esclamò, indignato. 
La ragazza ridacchiò, divertita, per poi lasciargli un goliardico pugno sul braccio che fece sorridere anche lui.
Nello stesso momento il figlio di Apollo portò gli occhi al cielo, accorgendosi di quanto fosse imbrunito in così breve tempo, tanto che la luna stava già condividendo il proprio posto con il sole.
«Posso fare una domanda?» chiese rabbuiato, attirando così l’attenzione degli altri.
«Ma certo, spara» annuì il corvino.
John sospirò. «Siamo diretti verso una meta ben precisa, o ci limitiamo semplicemente a girare a zonzo?» Nessuno ebbe il coraggio di rispondergli, per cui lui continuò. «Non voglio polemizzare, ma sono giorni che camminiamo, ed io non ho ancora visto nessun indizio che potrebbe indicarci dove trovare la Pietra.»
«L’isola fa il suo gioco» lo informò prontamente Alex. «Tutto ciò che possiamo fare è solo sperare in un po’ di fortuna.»
«E nel frattempo cosa facciamo, aspettiamo che Michael muoia?»
Lo sguardo di Skyler si incupì all’istante, tanto che il biondo si pentì di ciò che le aveva appena ricordato.
«Dico solo che abbiamo i giorni contati» mormorò poi. E che voglio andarmene di qui prima che qualcuno di noi perda la vita, pensò, ma si tenne bene dal dare voce ai suoi pensieri.
La chiacchierata con la figlia di Efesto di quella mattina l’aveva fatto tornare sull’attenti, vigile e consapevole del pericolo. Erano stati così occupati a lottare per la propria vita, negli ultimi giorni, da dimenticare che il motivo per cui erano lì non era legato a nessun atto di masochismo.
Il loro compito era trovare la Pietra, e dovevano farlo prima che il termine di due settimane scadesse. C’era in gioco la salvezza del loro migliore amico, e per quanto potesse sembrare ardua quella missione, loro avevano accettato di intraprenderla, costasse quello che sarebbe costato.
Ogni secondo in più passato in quel posto era un istante prezioso sprecato a girovagare. Avrebbero dovuto trovare una precisa direzione il primo possibile, oppure ogni loro sforzo si sarebbe rivelato vano.
Senza che se ne rendesse conto, il suo ragionare era talmente divagato che il ragazzo non aveva neanche notato l’oscurità che ormai incombeva su di loro.
La sera era calata, la foresta si stava risvegliando; ma questo non sembrò essere un problema, finché un ululato non squarciò l’aria.
I semidei rimasero pietrificati, e puntarono le loro armi verso un punto indefinito mentre l’eco di quell’urlo rimbombava tra le fronde degli alberi. Intorno a loro regnava un tale silenzio, che erano in grado di sentire i propri cuori martellare freneticamente nel petto.
«Che cos’è stato?» domandò flebilmente Skyler, quasi temesse che se avesse parlato troppo forte, i mostri sarebbero riusciti a localizzarli.
Un secondo ululo riecheggiò acuto in lontananza, ma poteva provenire da chilometri di distanza così come avrebbe potuto essere vicinissimo, e loro non sarebbero stati in grado di capirlo.
Alex si agitò sul posto, inquieto, ed un brivido attraversò repentino la sua schiena nel momento in cui un terzo ululato li raggiunse, trasformando ogni sua congettura in certezze.
Sgranò gli occhi, spaesato. «I Cani Neri» sussurrò con un fil di voce, il panico a serrargli la gola.
«Che cosa?» fece la figlia di Ermes, ma prima che il ragazzo potesse replicare, un ringhio stridulo gli fece vibrare la spina dorsale.
«Correte» intimò ai suoi amici, ma questi per un attimo parvero troppo scossi, per poter reagire. «Correte!» urlò a quel punto, con tutto il fiato che aveva a disposizione.
Gli altri non se lo fecero ripetere due volte. Ubbidirono, precipitandosi dalla parte opposta ai suoni che avevano udito così velocemente che ben presto le loro gambe cominciarono a protestare.
Incapaci anche solo di farsi strada tra la vegetazione a suon di fendenti, rami spezzati ed edere rampicanti graffiarono loro braccia e gambe, mentre ulteriori versi animaleschi stridevano alle loro spalle.
La figlia di Efesto avvertì ogni muscolo del proprio corpo bruciare, tanto che se non avesse saputo che l’isola annullava i suoi poteri, molto probabilmente avrebbe pensato di star prendendo fuoco.
Ma erano soprattutto i suoi polmoni ad ardere, così come quelli dei suoi compagni, e i loro piedi andavano avanti per così tanta inerzia che quando si imbatterono in un’imponente parete di pietra, per poco non andarono a sbattervici conto.
«No, no, no!» imprecò Alex, battendo furiosamente il palmo contro quell’ammasso di rocce. Era alto circa tre metri, e se si voltava il capo sia a destra che a sinistra, sembrava estendersi fino all’infinito; decisamente troppo, perché potessero sperare di aggirarlo.
Il ragazzo si voltò a guardare indietro, mentre i tre tentarono in tutti modi di arrampicarsi. Ma quel muro era troppo ripido, e soprattutto privo di appigli. Sarebbe stato impossibile, a meno che non fossero stati in grado di volare.
Il moro si passò una mano tra i capelli, il respiro accelerato non soltanto per la sfrenata corsa.
Fu investito da una spossante sensazione di déjà-vu, che lo travolse come una frana senza pietà, portando con sé nient’altro che dolore.
Avrebbe riconosciuto tra mille quei ringhi brutali, perché per notti erano stati la colonna sonora di tutti i suoi incubi. Gli stessi esseri che anni prima avevano tolto la vita a Caitlin, ora erano intenzionati ad uccidere i suoi amici.
E lui si sentiva impotente, proprio come allora. Per quanto potesse convincersi del contrario, non sarebbero mai riusciti a seminarli prima che iniziasse ad albeggiare.
Erano spacciati, così come lo era stata la sua ragazza quella notte di molto tempo fa.
Quando si era ritrovato di fronte quei brutali mostri, lui non aveva potuto far nulla, per poter difendere ciò che più gli stava a cuore.
Permettere a quell’isola di rovinargli la vita un’altra volta sarebbe stato inaccettabile. L’aveva già avuta vinta abbastanza, per poter pensare che lui gliela lasciasse passare liscia così.
«Dobbiamo formare una scala umana» affermò deciso, improvvisamente pronto a fare tutto il necessario. «In questo modo potremo andare oltre la parete e seminarli.»
«Non ce la faremo mai a superarla tutti e quattro» lo contraddisse quindi Emma, ispezionando le rocce con lo sguardo. «Uno di noi resterebbe indietro.»
«Lo so» annuì lui, con tono incredibilmente pacato. «Infatti io rimango qui.»
I ragazzi si voltarono di scatto a guardarlo, fissandolo come si osserva un fantasma. La figlia di Ermes cercò un’ombra di ironia, nel suo sguardo, quasi sperasse che li stesse prendendo i giro. Ma quando si accorse che così non era, si lasciò sfuggire una risata isterica. «Stai scherzando, vero?»
«Alex, non ti lasceremo da solo!» obiettò Skyler, scioccata.
«Non ve lo sto chiedendo, infatti.» Il ragazzo si passò una mano tra i capelli, scompigliandoseli ulteriormente. «Sentite, John aveva ragione: dovete trovare la Pietra, e dovete farlo prima che sia troppo tardi. Non ha senso che moriamo tutti ora per mano di quei mostri, e non possiamo combatterli come speriamo.»
«E allora cosa pensi di fare, tu?» gli urlò contro Emma.
«Rallentarli.»
«Ma io non intendevo…» tentò di ribattere John.
«Ragazzi, non c’è altra soluzione, e lo sapete anche voi.»
«C’è sempre un’alternativa, Alex» gli fece notare la figlia di Efesto. «Dobbiamo solo trovare un modo per poter…»
«Non ho fatto tanta strada per far sì che vi uccidano proprio ora» la interruppe allora lui, con tono severo. «Ho un conto in sospeso con quei… cosi, e voi avete bisogno di tempo per potervi allontanare il più possibile.»
«Ma non ha senso!» inveì quindi la bionda, buttando le braccia al cielo. «Perché mai dovresti fare una cosa così stupida?»
«Perché tutto ciò che ho da perdere rischia di morire, proprio questa sera.» Il corvino incontrò i suoi occhi argentati, sul volto un’espressione indecifrabile. «Ricordi quando ti ho detto che finalmente sapevo per cosa fosse giusto combattere? Ecco, lo sto facendo. Mi sono ripromesso che non avrei mai più permesso a nessuno di spezzarmi il cuore un’altra volta. E se questo significa lottare per ciò che ritengo importante, allora lo farò.»
«Non puoi dirlo sul serio» lo accusò sommessamente lei, prima che una guancia le rigasse molesta una guancia.
«Ehi, Riccioli d’Oro» mormorò lui, accarezzandole teneramente il capo. Fece un passo verso di lei, prendendole il volto tra le mani e asciugandole con i pollici gli zigomi oramai bagnati. «Resterai per sempre la mia principessa preferita, capito? E posso assicurarti che questa è davvero una delle poche certezze che io abbia mai avuto. Il fatto di non essere come le altre non fa altro che renderti speciale. E se c’è qualcuno che non lo capisce… beh, vuol dire che non è affatto degno di te.»
«Perché questo suona tanto come un discorso d’addio?» si lamentò la ragazza, incapace di frenare il proprio pianto.
«Perché non ho mai avuto il coraggio di ammettere che se non ti avessi incontrata, molto probabilmente non sarei riuscito a far entrare qualcun altro nel mio cuore con tanta facilità» le fece notare lui, con un sorriso. Posò dolcemente la fronte contro la sua, per poi bacargliela con accortezza, lasciando lì le sue labbra molto più del necessario.
Dopo di ché guardò John, e i due ragazzi si studiarono a vicenda prima di stringersi in un caloroso abbraccio.
«Abbi cura di loro» gli sussurrò il corvino all’orecchio, e il figlio di Apollo si sforzò di apparire determinato, nonostante in quel momento avesse solo voglia di urlare.
«Sempre» assicurò, e fu allora che il moro incrociò lo sguardo di Skyler.
La ragazza aveva gli occhi imperlati di lacrime, un luccichio incredulo nelle iridi scure mentre scuoteva meccanicamente il capo.
«Alex, per favore» lo pregò.
«Ascolta» le intimò lui, con fermezza. «Mi hai chiesto di dirti quali fossero le altre regole del ‘perfetto semidio’, no? Quindi eccole qua.» Sfilò fuori dalla tasca il coltello che per giorni aveva accuratamente intagliato, rigirandoselo nella mano prima di posarglielo nel palmo. «Prima regola: avere sempre un’arma di riserva. Seconda regola: non mollare mai, neanche quando il nemico sembra più forte di te. Terza regola.» Esitò, prendendo un profondo respiro. «Non morire. E quarta e ultima regola: ricordare di che cosa si è capaci. Vuoi sapere perché ti ho salvato la vita, il giorno in cui ci siamo incontrati?» chiese poi, al ché la figlia di Efesto annuì. «Non è stato per pietà umana, dato che quella l’avevo già persa da un pezzo. Ma è come se mi fossi sentito in dovere di farlo. C’era qualcosa in te, una luce che non avevo mai visto in nessun altro. È come se tu avessi un fuoco dentro, Skyler, e non lo dico solo perché tuo padre ne è il dio. Tu salvi le persone.» Le spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, mentre lei tirava su col naso. «E so che forse non ne sei al corrente, ma hai salvato anche me. Fin da subito, dall’istante in cui mi hai puntato la tua spada alla gola.» Rise tra sé e sé, rubando un accenno di sorriso anche a lei. «Non ho idea di cosa tu abbia di tanto… unico. Ma sono sicuro che il tuo è un dono, e che devi stare attenta a non sprecarlo.»
La afferrò repentino per un polso, attirandola a sé e stringendosela al petto con così tanta forza, che per poco alla ragazza non scivolò il coltello di mano. Dalle sue labbra sfuggì un singhiozzo, e facendo appello a tutte le sue energie si aggrappò alle spalle di lui, nascondendo il viso nell'incavo del suo collo e inspirando a fondo il suo profumo, decisa a non dimenticarlo.
«Ti prego, non andare» tentò un’ultima volta, consapevole del fatto che ogni suo tentativo, ormai, sarebbe stato vano.
Alex si allontanò da lei per rivolgerle un ultimo, smagliante sorriso. Poi si portò la sua mano alle labbra e le baciò il dorso, facendole un rassicurante occhiolino.
Il figlio di Apollo si coricò la figlia di Efesto sulle spalle, che a sua volta aiutò Emma ad arrampicarsi su per la parete. Quest’ultima poi la prese per mano, issandola su, ed entrambe furono presto raggiunte da John, che posando un piede sulle dita incrociate del moro riuscì a darsi lo slancio necessario per poter scalare.
«Buon viaggio a vederci» mimò il ragazzo con le labbra, prima di sguainare la propria spada e correre via, seguito dallo sguardo disperato degli altri.
Skyler provò anche a seguirlo, invocando il suo nome in preda ad una crisi di pianto, ma John glielo impedì, permettendole solo di osservare la sua smilza figura allontanarsi sempre di più.
E nell’istante stesso in cui lo vide sparire tra la fitta oscurità del bosco, le parole della profezia risuonarono maligne nella sua mente.
Tra le ombre della foresta un semidio la vita perderà.
E lei non avrebbe potuto fare nulla per evitare che ciò accadesse.

Angolo Scrittrice. 
Salve, ragazzi. 
Sarò breve, e non solo perchè è la quarta volta, più o meno, che riprovo a pubblicare, oggi, ma anche perchè... beh, non c'è niente da dire. 

Alex è morto, e anche se può sembrare strano, questa cosa mi ha devastato. 
Quando ho ideato questo personaggio, mai avrei pensato che potesse assumere un ruolo tanto importante. E non parlo solo per quanto riguarda la trama. 
Con il suo sorriso, la sua battuta sempre pronta e i suoi logoranti e malvagi demoni interiori e riuscito a conquistare la maggior parte, se non tutti voi. 
Sin dall'inizio, ha sgomitato per farsi spazio tra i miei pensieri e crearsi un suo passato, una sua figura, un suo destino.
Ha sacrificato la propria vita, per far sì che i nostri semidei si salvassero, e questo non fa di lui solo una persona altruista. Lui è un eroe, e dal momento stesso in cui ha assunto il proprio compito ha dimostrato di esserne degno, affrontandolo a testa alta nonostante gli alti e bassi. 
Senza di lui, ormai, ci sarà un vuoto in quel gruppo, ma spero comunque di aver reso giustizia a questo semidio, e che lui sia riuscito a conquistare parte del vosro cuore. 
Sarei curiosa di sapere cosa ne pensate, e soprattutto le vostre opinioni in merito a questo ragazzo che da oggi ci lascerà. 
E' insolito, ma in un certo senso è come se fossi a lutto, perchè non è mai facile uccidere un personaggio a cui tenevi così taanto. 
Se non ci fosse stata la profezia, molto probabilmente lui sarebbe ancora vivo; ma nonostante nessuno avesse immaginato che il semidio in questione fosse lui, sono sicura che non ha deluso le aspettative di nessuno, compiendo quel gesto. 
Fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto, e se non ha deluso le vostre aspettative. Ditemi anche se vi ha fatto schifo. Sono qui per imparare e migliorare. 
Un grazie enorme ai miei Valery's Angels, che mi hanno regalato delle bellissime recensioni:
percabeth is love 98, Francesca lol, Iladn, Dreamer_28 e Lux_Klara. Non preoccupatevi se non vi ho ancora risposto, sapete che lo farò. 
Grazie ancora a tutti voi, e per eventuali errori, prometti che saranno corretti l'indomani. 
Ora vado, perchè nonostante abbia finito già da un bel po' di scrivere questo capitolo, c'è ancora un forte vuoto dentro di me. 
Tre dita alzate per il nostro Alex, perchè se lo merita. 
Spero di risentirvi presto!
Sempre vostra,

ValeryJackson

 
 

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Capitolo 38
*** Capitolo 37 ***


 

Con il tempo, Skyler aveva imparato che la maggior parte delle volte le persona non comprendevano appieno le promesse che facevano nel momento in cui giuravano qualcosa guardandoti negli occhi.
Dopo la notte appena trascorsa, però, poteva esser sicura che Alex non fosse una di quelle.
Seduta ai piedi di un albero di fronte ad un John intento ad accendere un fuoco, la figlia di Efesto posò la nuca contro il tronco, liberando una lacrima silenziosa che solitaria le solcò una guancia.
Aveva pianto per il suo amico fino a che non era sorto il sole, e i suoi occhi si erano essiccati a tal punto da impedirle addirittura di sbattere le palpebre.
Non riusciva a metabolizzare quel lutto, anche perché era successo tutto così velocemente che nonostante continuasse a pensarci, non riusciva a ricordare ogni dettaglio di quel momento.
«Il tuo è un dono, e devi stare attenta a non sprecarlo» le aveva sussurrato il ragazzo, poco prima di lanciarsi tra le braccia della morte. Ma per quanto potesse sforzarsi, la figlia di Efesto non era in grado di capire il vero significato di quelle parole.
A che dono si riferiva? E come sarebbe riuscita a non sprecarlo?
Se era davvero tanto unica come lui l’aveva definita, perché non era riuscita a salvarlo? Perché era rimasta in silenzio, invece di farlo ragionare?
Per via della profezia, ecco perché. In cuor suo sapeva che ciò che stava succedendo era un semplice avverarsi di quello che le Parche avevano già scritto.
Però non era giusto.
Alex non aveva fatto nulla di male.
A dispetto di tutti i suoi alti e bassi, aveva dimostrato di avere un animo tanto grande, da riuscire a sostenere ben tre persone nello stesso istante.
Ma nessuno era riuscito a sorreggere lui. Quella forza che da anni lo faceva oscillare sull’orlo del baratro alla fine aveva vinto, facendolo cadere nel vuoto.
E lui se n’era andato così come aveva sempre vissuto: senza che nessuno fosse a conoscenza del suo straordinario coraggio.
Skyler non avrebbe più permesso una cosa del genere.
Quel ragazzo era stato l’unico capace di farle capire che ognuno è artefice del proprio destino. Lui non ricordava il proprio cognome, non era sicuro di quale fosse la città nella quale era nato e non aveva idea di quale fosse il suo genitore divino. Eppure era diventato lo stesso un eroe.
Grazie alla sua tenacia, grazie alla sua perseveranza; grazie al suo sorriso sghembo e alla sua zazzera scompigliata di capelli neri.
Lui era diventato un eroe grazie alla sua bontà, qualità che gli aveva impedito di cedere quando la sua vita aveva cominciato a correre sul binario sbagliato.
La figlia di Efesto non avrebbe mai condiviso il suo gesto avventato, ma riusciva a comprenderne i motivi.
Al di là di questo, però, il suo unico desiderio continuava ad essere che lui fosse lì, a scherzare accanto a loro.
Lui con i suoi modi strafottenti e la sua svampita ilarità. Lui con le fossette sulle guance e la sua inseparabile spada.
Accorgendosi solo in quel momento delle proprie mani tremanti, Skyler sfilò dalla tasca posteriore dei pantaloni il coltello che le aveva dato lui, poco prima di andar via.
Esitante, se lo rigirò nel palmo, esaminandolo per la prima volta da quando l’aveva ricevuto. Era una semplice lama di bronzo, perfettamente incastrata in un’elsa di legno dall’aspetto consumato e grezzo.
La ragazza vi passò l’indice tutto intorno, disegnandovici una sorta di spirale con il polpastrello, e fu allora che percepì qualcosa.
Corrucciata, se la capovolse in grembo, ed in quel preciso istante, finalmente, riconobbe quell’arma.
Alex aveva passato giorni a lavorarvici, intagliandovici qualcosa con cura e dedizione.
Prendendola con entrambe le mani, la ragazza se l'avvicinò al volto, tentando di decifrare lo sconosciuto messaggio.

"DIMOSTRAMI DI ESSERNE ALL'ALTEZZA" 
                                  – A.

La mora rilesse quelle parole ben quattro volte, fino a ché la sua vista non si appannò. Un sapore salmastro le invase la bocca, un misto di lacrime che bruciavano sulle sue gote arrossate.
Dimostramelo, le chiedeva l’amico. E per quanto sarebbe stato difficile, lei l’avrebbe fatto. Ce l’avrebbe messa tutta, e avrebbe onorato il suo glorioso sacrificio.
Non le importava da dove il ragazzo provenisse o quale fosse il sangue che gli scorreva nelle vene. Lui era un’ispirazione, e lo sarebbe sempre stato.
Grazie a lui, nessuno di loro avrebbe rinunciato.
«Non sprecare il tuo dono» risuonò la sua limpida voce nella sua testa, e la ragazza trasse un sospiro tremante, tirando su col naso.
Okay, promise, senza il bisogno che le sue corde vocali emettessero alcun suono. Qualunque esso sia, non lo farò.
 
Ω Ω Ω
 
Nell’istante in cui i ragazzi si erano finalmente fermati a riposare alla luce del sole, Emma aveva avvertito un gelo meschino insinuarsi nel suo petto.
Seduta a debita distanza dai suoi amici, il suo sguardo era freddo, apatico, fisso nel vuoto. Avrebbero potuto dirle qualsiasi cosa, ma le parole le sarebbero entrate lievemente da un orecchio per poi uscire rapidamente dall’altro.
In quel momento aveva solo voglia di urlare quello che sentiva, di dar sfogo alle proprie corde vocali e di invocare il nome di Alex, con la consapevolezza che quest’ultimo non c’era più.
E invece era rimasta in silenzio, ad ascoltare il rimbombare incessante del proprio cuore otturarle i timpani; il volto impassibile, il corpo rigido.
Perché proprio lui? Che cosa aveva fatto di male, per meritare addirittura la morte?
Non riusciva a trovare nessuna spiegazione valida per la quale il moro avrebbe dovuto perdere la vita quella sera. Ma d’altronde, che cosa poteva aspettarsi?
I semidei sono maledetti, e non la sorprendeva il fatto che alla fine la maggior parte di loro tendeva a nascondersi dietro una corazza di puro ghiaccio.
Era la prima volta che affrontava la perdita effettiva di un amico, e non era sicura di poter convivere ulteriormente con quel dolore. 
Quasi il cuore fosse stato artigliato da delle dita d’acciaio, la figlia di Ermes aveva la costante sensazione di aver sbagliato qualcosa.
Perché non l’aveva fermato? Perché non gli aveva impedito un gesto tanto affrettato?
Perché era rimasta a fissare pietrificata la sua smilza figura scomparire tra gli alberi?
Perché nel momento in cui era corsa via, non si era fermata a guardare indietro?
Perché stava per accadere l’inevitabile, ecco la verità. E lei era stata l’ultima del gruppo a capirlo.
Le mancava Alex; le mancava così tanto. Le mancava il suo sorriso storto, e il suo castano ciuffo ribelle. Le mancava la sua risata travolgente e il cipiglio corrucciato che aveva ogni volta che qualcosa lo turbava.
Le mancavano i suoi limpidi occhi marroni, di quella bellezza che in genere va trattata come una questione importante.
Le mancava il suo Spillo, e non riusciva a capacitarsi dell'idea che se ne fosse andato.
«Sarai sempre la mia principessa, Riccioli d’Oro» le aveva giurato; ma adesso lì, con i vestiti lerci ed i muscoli intorpiditi da rabbia e stanchezza, si sentiva tutto, fuorché regale.
Lei non sarebbe mai stata una principessa. Lei era soltanto un bionda ragazza sfortunata.
Una lacrima silenziosa minacciò di rigarle la guancia, ma lei la fermò prima che potesse raggiungere il mento, pulendosela con una gesto furioso del dorso.
Non aveva nessuna voglia di piangere, perché nel momento in cui l’avrebbe fatto, temeva di non farcela. E se poi fosse crollata, qualcuno sarebbe stato lì a sorreggerla?
Ad interrompere bruscamente i suoi pensieri arrivò John, che inginocchiandosi accanto a lei, le posò una mano sulla spalla.
«Ehi» mormorò dolcemente, ma lei si limitò ad un lieve cenno del capo. «Ti ho portato questi» continuò il ragazzo, porgendole una foglia con su spicchi di un frutto di dubbia provenienza. Ma quello era l’unico sostentamento che gli restava.
«Non ho fame» denigrò lei, senza neanche degnarli di una semplice occhiata.
Il figlio di Apollo sospirò rumorosamente, lasciandosi cadere con un tonfo a terra e cercando invano il suo sguardo. «È da quando ci siamo fermati che non tocchi cibo. Hai bisogno di mangiare.»
La ragazza non rispose, per cui lo sguardo di lui si addolcì mentre le spostava una ciocca dal viso. «Ascolta, so che ti manca Alex, okay? Siamo tutti devastati da ciò che è successo. Non ce l’aspettavamo. Non così presto, almeno. Ma lui ha fatto la sua scelta. Mi hai sentito? Nessuno di noi è colpevole della sua morte.»
«Avremmo potuto fermarlo» replicò quindi lei, con voce spezzata. «Perché non l’abbiamo fatto?»
«Perché sapevamo che quella era la cosa giusta da fare. Per lui e per noi. Alex si è sacrificato per salvarci, per permetterci di scappare. E onestamente ora mi sembra ingiusto rendere vano il suo atto di coraggio.»
«John ha ragione» convenne a quel punto Skyler, ed Emma la soppesò per un attimo con lo sguardo, sorpresa che fosse lì. Per quanto potesse sperare nel contrario, la figlia di Efesto non era ancora riuscita a perdonarla per ciò che le aveva fatto, e in un certo senso non la biasimava.
Capiva che non era semplice, per lei, soprattutto perché quell’inconveniente era accaduto in un periodo di totale spossamento della mora.
Ma fu proprio quando la vide sedersi di fronte a lei, che capì che non tutto era perduto. Le loro anime appartenevano comunque l’una a l’altra, e questo nessuno avrebbe potuto negarlo.
«Alex è morto da eroe» aggiunse la corvina, rigirandosi il coltellino dell’amico tra le mani con aria triste. Il ragazzo vi aveva inciso un messaggio, forse, ma la bionda capì che se lei non l’aveva già reso pubblico, voleva dire che era qualcosa di personale e che voleva rimanesse tale.
Nonostante i suoi sforzi, la figlia di Ermes tirò su col naso, e sentì la mano di John accarezzarle teneramente la nuca.
«Pensavo che le nostre vite ci appartenessero» sibilò lei a quel punto, a denti stretti. «E invece non siamo neanche padroni del nostro destino. Sono sempre le Parche a scegliere al nostro posto.»
«Questo non è del tutto vero» ribatté Skyler, con sguardo basso. «Se Alex non fosse stato padrone del proprio destino, sarebbe morto di fame quella notte, accanto a Caitlin. Ed io non sarei mai fuggita da casa dei miei nonni, John non si sarebbe mai innamorato di Melanie e tu non saresti mai… arrivata al Campo. La vita è fatta di scelte, e per quanto giuste o sbagliate possano essere, sono pur sempre nostre, e noi dobbiamo rispettarle. Non è importante il finale, ma lo scopo.» Dopo di ché alzò lo sguardo in direzione di John, squadrandolo timorosa. «Giusto?»
Il figlio di Apollo si lasciò sfuggire un ghigno divertito, per poi annuire leggermente. «Mi hai tolto le parole di bocca» assentì, fiero di lei.
Anche Emma si voltò a guardarlo, le iridi imperlate di brucianti lacrime. «Non credo di volere che lui diventi un eroe» obbiettò, stringendosi nelle spalle. «Vorrei solo che fosse ancora qui con noi.»
E si rese conto del pianto che le bagnava le guance solo quando il ragazzo gliele pulì con entrambi i palmi. «Vieni qui» le intimò, e lei non oppose resistenza mentre lui l’attirava a sé, permettendole di affondare il viso nel suo petto. Il corpo della bionda, inizialmente, fu scosso da dei tenui singhiozzi. Ma poi il vuoto nella bocca dello suo stomaco si amplificò, e la gola cominciò a bruciarle.
E prima che potesse rendersene conto si ritrovò protetta dalle braccia muscolose del biondo, mentre dava sfogo a tutta la disperazione accumulata fino a quel momento.
Ben presto, anche Skyler si unì all’abbraccio, nascondendo il volto nell’incavo del collo di lui e lasciando sgorgare qualche lacrima solitaria.
Stretti l’uno all’altro, permisero alle loro emozioni represse di sopraffarli, rendendoli fragili e vulnerabili.
Ma andava bene così.
Emma era priva di forze mentre precipitava verso l’ignoto.
Eppure nonostante ciò ora aveva la certezza che ci sarebbero sempre state due paia mani pronte a trarla in slavo.
 
Ω Ω Ω
 
Quando John raccolse un pugno di terra e lo buttò sul fuoco al fine di spegnerlo, quella prese a sfrigolare, e i ragazzi pensarono bene di aspettare fino a che anche l’ultima scintilla non si fosse volatilizzata.
La sera non era ancora del tutto calata, eppure la luna aveva già preso il suo posto nel cielo accanto al sole calante, gettando delle ombre appena accennate tra le chiome degli alberi.
«Perfetto!» esclamò il figlio di Apollo, coricandosi il proprio zaino in spalla con un sospiro. Era quasi del tutto vuoto, ormai, e la cosa non avrebbe portato a nulla di buono. Restavano loro solo pochi giorni di autonomia, prima che anche le cure mediche del ragazzo si depauperassero. Dovevano trovare la Pietra; il tempo stava per scadere. «Da che parte andiamo?»
Skyler si guardò intorno, spaesata. Si erano talmente abituati alla conoscenza di Alex per quel posto, che adesso che lui non c’era più le sembrava di vederlo davvero per la prima volta. Ovunque si girasse, quella folta vegetazione sembrava dannatamente tutta uguale.
«Non ne ho la più pallida idea» ammise, sconsolata. «Ma non possiamo restare qui ancora per molto. Tra un po’ farà buio, e i mostri inizieranno a…»
Qualcuno le diede un pungente pizzico sul braccio, facendole lanciare un gridolino di dolore. Gli altri due semidei brandirono le loro armi, perlustrando tra i tronchi con lo sguardo. Apparentemente, non vi era nessuno. Eppure, dopo poco, Emma avvertì un morso sul lobo, e ringhiò contrariata.
Con sua grande sorpresa, anche John sentì una puntura sul collo. «Ahi!» si lamentò, sorpreso e confuso.
«Chi c’è?» urlò la figlia di Efesto verso l’ignoto, ma tutto ciò che ricevette in risposta fu un leggero scappellotto sulla nuca.
«Eccoli là!» li avvertì la figlia di Ermes, indicando un punto imprecisato tra di loro.
La mora vide dei leggeri bagliori argentati guizzare sotto i loro occhi, per poi sparire con la stessa velocità e cambiare postazione. Non era in grado di scorgere i loro lineamenti, ma qualunque cosa fossero, si stavano decisamente prendendo gioco di loro.
«Prendeteli!» ordinò, poco prima di provare ad intrappolare il primo con entrambe le mani. Ovviamente fallì, e questo schizzò a tre metri di altezza, per poi riscendere in picchiata e battere contro la sua guancia.
Si udì un fastidioso scampanellio, mentre i tre amici tentavano invano di acciuffarli, rischiando a volte di sbattere l’uno contro l’altro.
La bionda sibilò, frustrata, e senza pensare si chinò a raccogliere la piccola ciotola di legno dalla quale, quella mattina, Skyler aveva bevuto, e che ora giaceva a terra, impiastricciata di terra.
Lanciò un grido di sfida, utilizzandola per poter fermare quegli esserini, e miracolosamente ci riuscì. Ne ancorò uno al terreno, facendo sì che tutti gli altri si rendessero conto del pericolo, volatilizzandosi all’istante con uno stridio terrorizzato.
«Che diamine erano?» domandò la mora, seguendo la loro fuga con lo sguardo.
«Ne ho preso uno» annunciò Emma, indecisa se fosse il caso di sollevare o meno il coperchio. Percepiva qualcosa sbattere ripetutamente contro le pareti legnose, mentre quello riluceva tra le sue mani.
Prima che potesse prendere una posizione, però, una voce le ronzò nelle orecchie.
«Lasciami andare!» comandò, accompagnata da un lieve tintinnio.
«Come sapremo che poi non ci attaccherai?» chiese invece John, che a quanto pare l’aveva udita a sua volta.
«Non sono cattivo» giurò allora la creatura intrappolata, smettendo di dimenarsi. «Non voglio farvi del male. Fatemi uscire, vi prego. Inizia a mancarmi l’aria.»
La bionda lanciò un’occhiata dubbiosa ai suoi amici, che esitarono qualche secondo, prima di assentire con un cenno del capo.
Lentamente, la ragazza alzò la ciotola, ed un lampo d’argento sfrecciò sotto il suo naso, facendola barcollare all’indietro per lo stupore.
Inizialmente, pensò che quell’essere se ne fosse andato, troppo spaventato per affrontarli. Ma poi, quella scintilla fu di nuovo davanti a loro, e prima che potesse rendersene conto prese le sembianze di un minuscolo umanoide.
Skyler lo studiò, con attenzione. Non era munito di ali, eppure galleggiava dell’aria quasi non fosse soggetto alla forza di gravità. Aveva la pelle bluastra, e i lineamenti affilati come quelli di un elfo. Sul suo capo, al posto di una chioma di capelli, vi era una piccola fiammella che svettava verso l’alto come una mini fiamma ossidrica.
«Che cosa vuoi da noi?» fece il figlio di Apollo. Aveva l’arco teso, eppure si teneva a debita distanza, quasi temesse che quell’esserino potesse far loro del male.
«Non volevo spaventarvi» rispose lui, provando a tranquillizzarli. «Io sono un Luminex, e come i miei amici sono stato attratto dal vostro dolore.»
«Il nostro…» La figlia di Efesto titubò, interdetta. «Il nostro dolore?»
«Esatto» affermò la creatura. «Noi siamo gli spiriti della sofferenza, ma non intendiamo crearla. Semplicemente, ci cibiamo della vostra, per questo siamo giunti da voi.»
«Abbastanza inquietante» commentò la figlia di Ermes, con una smorfia stranita sul viso.
Il Luminex si voltò ad osservarla, inclinando il piccolo capo di lato. «Percepisco il dolore di una perdita, nelle vostre aure. Mi sto forse sbagliando?»
I semidei chinarono il capo, colti alla sprovvista, e l’essere dovette giudicare il loro silenzio come un cenno d’assenso, perché si avvicinò con circospezione, accompagnato da uno scampanellio.
«Voi, piccoli dei, siete la fonte di tristezza più grande che io abbia mai visto. Aleggiano così tante emozioni forti, intorno a voi. Preoccupazione per un amico scomparso, ansia per ciò che avverrà. Paura del futuro. Ciò di cui le vostre cicatrici sono pregne, poi, è il mio nettare divino.»
«Come sai delle nostre cicatrici?» si stupì John, al ché la creatura volò verso di lui.
«Riesco a sentire la sofferenza che emanano» gli spiegò, per poi sfiorargli
la schiena con le minuscole dita.
Un bruciore lancinante gli attraversò la colonna vertebrale, dal coccige fino all’atlante, tanto che il ragazzo sobbalzò, allontanandosi di scatto.
«Okay, basta così!» si infuriò, sventolando una mano per allontanarlo, infastidito. «Va via, non abbiamo tempo da perdere. Forza, ragazze, mettiamoci in marcia.»
«Oh, ma io posso aiutarvi!» si affrettò ad aggiungere il Luminex, al ché i ragazzi lo soppesarono con lo sguardo, interdetti. «State cercando la Pietra, giusto? Io non so di preciso dove si trovi, ma posso guidarvi per un breve tratto di strada.»
Alle sue parole, Skyler fece un passo avanti, diffidente. Corrucciò le sopracciglia, squadrandolo attentamente con occhio critico. «Che cosa vuoi in cambio?» intuì, a denti stretti.
«Voglio un po’ delle vostre pene. Per nutrirmi. Mi sembra uno scambio equo, a voi no?»
«No!» obbiettò rapidamente il figlio di Apollo, ricordando l’effetto che gli aveva fatto anche una sua semplice carezza. «Non siamo in vendita, mi dispia…»
«Affare fatto.»
«Skyler, ma che fai?»
La figlia di Efesto incrociò sicura le sue iridi verdi, serrando i pugni con determinazione. «È la nostra unica possibilità» gli fece notare, con tono autoritario. «E non intendo sprecarla. Prenderai solo il mio dolore, però. E loro non oserai toccarli.»
«Che cosa? Non se ne parla» tentò di opporsi il biondo.
«Ci sto» concordò l’essere, facendo un rigoroso inchino, quasi si stesse ponendo ai loro ordini.
«Skyler, è una follia. Non sappiamo se possiamo fidarci.»
«Il tempo scorre, John» gli ricordò la ragazza, riempendo a fondo i polmoni.
L’amico aveva ragione: non erano sicuri di potersi fidare.
Ma quale sarebbe stata, l’alternativa?

Angolo Scrittrice. 
Bounjour a tout le monde, demi-dieux!
Oggi è martedì, e come potete notare sono ancora qui per stressarvi con uno dei miei nuovi capitoli. 
Se state leggendo questo messaggio in viola, vuol dire che avete avuto il coraggio di arrivare fino a qui, e non so come ringraziarvi per questo, perchè con l'orrendo periodo che sto vivendo, questa storia è rimasta una delle mia poche ancore di salvezza. 
Ma questo a voi non interessa, suppongo. 
Perliamo del capitolo, vi va?
Anche se non è molto lungo, ho preferito non aggiungere troppi avvenimenti per potermi soffermare sulla cosa più importante: l'elaborazione del lutto da parte dei nostri semidei. 
Penso proprio che
Alex se lo meritasse, un capitolo tutto per sé. E nonostante le innumerevoli difficoltà, abbiamo potuto riosservare lo splendido rapporto che lega i nostri ragazzi. 
Si sentono un po' tutti in colpa per ciò che è successo, dato che hanno permesso che il ragazzo si sacrificasse senza opporre resistenza; ma come ha detto
JohnAlex ha fatto la sua scelta. 
E mentre
Emma sfoga il proprio dolore in rabbia verso le Parche, Skyler scopre finalmente a cosa stesse lavorando il ragazzo da lì a qualche giorno. 
"Dimostrami di essere una perfetta semidea" dice l'incisione sul coltellino, ma per adesso non vi dirò cosa voglia intendere, dato che lo si scoprirà andando avanti. Posso solo annunciarvi che ha qualcosa a che fare con le fantomatiche regole del ragazzo. Qualche supposizione? Secondo voi che significa?
E a che dono si riferisce il moro? 
Anyway, ora finalmente hanno una pista da seguire. Per chi se lo stesse chiedendo: sì, il Luminex è una creatura di mia invenzione. Sarà affidabile, oppure no? Credete che aiuterà davvero i nostri semidei a trovare la Pietra? 
Ormai manca poco, guys. Le due settimane sono quasi finite, così come molto probabilmente i capitoli che mancano alla fine di questa storia. 
Non so se arriverò a pubblicarli tutti, e se sì, mi auguro che abbiate voglia di leggerli.
Ma comunque sia, ora voglio fermarmi a ringraziare i miei stupendi Valery's Angels, che nello scorso capitolo mi hanno lasciato delle recensioni che mi hanno davvero scaldato il cuore. Il vostro sostegno nei miei confronti e in quelli di Alex è stato gratificante, davvero. Grazie infinite a:
Iladn, carrots_98, http_icr, Francesca lol e Dreamer_28
La scuola sta per terminare, e quando questo accadrà risponderò a tutte le recensioni, giuro. 
By the way, ora è arrivato proprio il momento di andare. Vi lascio qui una gif di Alex, ultimo tributo a questo personaggio che purtroppo da oggi in poi non sarà più tra noi. 
Al prossimo martedì, semidei.
Sempre vostra,

ValeryJackson

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Capitolo 39
*** Capitolo 38 ***


 
Se Skyler avesse potuto essere un colore, avrebbe scelto di essere il rosso.
E per quanto potesse negarlo, il suo subconscio le suggeriva che quello fosse in assoluto il più adatto.
Rosso come la passione; rosso come l’energia.
Rosso come l’orgoglio e la fierezza.
Rosso come l’aggressività.
Rosso come la voglia d’amare. Rosso come il desiderio di primeggiare.
Rosso come il sangue.
Rosso come la guerra.
Rosso come la morte, che sembrava seguirli come un’ombra molesta che lasciava una scia alle loro spalle.
Seguire quel Luminex non era stata esattamente una delle sue mosse più geniali, ma si sforzava di mostrarsi sicura mentre con passo deciso vedeva di non perderlo d’occhio.
Con la luna alta nel cielo, l’espressione cupa sul volto di John assumeva un aspetto disarmante. Aveva le sopracciglia aggrottate, minuscole rughe di preoccupazione ad incavargli la fronte; una mano teneva già incoccata una freccia, e con occhio critico si teneva a debita distanza da quel mostro luminescente, pronto ad attaccare.
Accanto a lui, Emma aveva i muscoli del viso contratti, e scrutava intorno a sé come se si sentisse osservata, ma non sapesse da chi.
Ignorando la tensione degli amici con un sospiro, la figlia di Efesto concentrò la propria attenzione sulla creatura che li guidava.
«Dove ci stai portando, con esattezza?»
«Non siete gli unici su quest’isola a bramare il potere della Pietra» le fece notare il Luminex, con voce pacata. «Anche noi… creature mitologiche desideriamo qualcosa, ogni tanto.»
«Come ad esempio uccidere noi semidei?» ribatté sarcastico John, ma la mora non vi trovò alcun divertimento, nella sua voce.
«Può darsi» ammise lui. «C’è chi desidera anche di non poter morire mai. Chi vorrebbe essere qualcun altro, o qualcos’altro
«E il tuo sogno qual è?» domandò quindi Skyler.
L’esserino si voltò appena a guardarla, per poi riportare lo sguardo fluorescente davanti a sé. «Non è importante.»
La ragazza avvertì una sorta di rammarico, nel suo tono; quasi si fosse convinto dell’idea che i suoi pensieri non sarebbero mai stati rilevanti quanto la sua natura.
«Non hai ancora risposto alla prima domanda» osservò Emma, spostando il proprio coltello da un palmo all’altro. «Dove ci stai portando?»
«Sulla via per la montagna.» Capì di non essere stato abbastanza chiaro quando negli occhi dei tre ragazzi fu palese lo sgomento. «È lì che si trova la Pietra» spiegò quindi, accondiscendente. «Più precisamente, sul Picco del Drago. È il punto più alto dell’isola. Sono sicuro che se continuiamo di questo passo, molto presto potrete scorgerlo all’orizzonte.»
La figlia di Efesto esitò, indecisa sul da farsi. Se quel Luminex aveva ragione, allora voleva dire che erano davvero in possesso di una pista da seguire. Stavano per trovare la Pietra. Mancava tanto così; e la consapevolezza di avercela quasi fatta le faceva dubitare del successo di quell’impresa.
Quanto ancora avrebbe dovuto perdere, prima di poter stringere quell’oggetto magico tra le mani?
Sarebbero stati in possesso dei suoi poteri, sì, ma a quale prezzo?
Dopo Alex, quante sofferenze ancora sarebbe stata costretta a sopportare?
«Temo che sia quasi arrivato il momento di salutarvi» annunciò la creatura, distogliendola tutt’a un tratto dai suoi pensieri. Si era fermato in uno spazio dove gli alberi erano radi; a pochi metri di distanza da loro, un dirupo sembrava avere ai suoi piedi nient’altro che vuoto.
«Che cosa? Ma la notte non è ancora finita» obbiettò John.
«Non posso rischiare.»
Skyler lanciò una rapida occhiata al cielo, notando che in realtà stava sul serio iniziando a schiarire. Si morse l’interno della guancia, con disappunto, per poi notare che il piccolo mostro la stava fissando.
Non ebbe il bisogno di fare domande, per poter intuire la sua richiesta. Avevano fatto un patto, e che lo volesse o no, lei doveva rispettarlo.
Fece un passo verso di lui, la pelle d’oca per via della consapevolezza che quello che stava per succedere non sarebbe stato piacevole.
Il figlio di Apollo l’afferrò bruscamente per un polso prima che avanzasse ulteriormente. «Non sei costretta a farlo» le sussurrò, gli occhi verdi che le scandagliavano il volto quasi a volerla pregare di trovare un’altra soluzione.
«Sì, invece» replicò lei, stringendo le labbra in una linea sottile. Spostò lo sguardo sul Luminex. «Farà molto male?»
Quello si strinse nelle spalle, intimidito. «Abbastanza» ammise, e la ragazza gli fu grata per non averle mentito. Allungò un braccio verso di lui, invitandolo con un cenno a farsi avanti.
«Fa quello che devi fare» gli intimò. E dopo aver titubato per qualche secondo, l’esserino le si avvicinò, volteggiando leggiadro fra gli spazi tra le sue dita. Dopo di ché le si inginocchiò sul palmo, sfregando tra loro le piccole manine; e quando queste ultime vennero a contatto con la sua pelle, Skyler ebbe la sensazione che l’aria fosse stata violentemente risucchiata via dai suoi polmoni.
Un bruciore costante le invase tutto il corpo, mandandole in frantumi le budella e lanciandole pungenti fitte alla bocca dello stomaco.
La sua vista si appannò per un attimo, sfocando l’intero mondo attorno a lei, fino a che non divenne davvero tutto rosso come il sangue.
I momenti peggiori di tutta la sua vita la investirono come un tornado, facendole salire la bile alla gola.
Il suo primo braccio rotto.
L’incendio.
Il funerale.
La causa in tribunale.
I suoi nonni che la strappavano via dallo zio per un po’.
L’incidente d’auto che le era costato circa un mese sulla sedia a rotelle.
L’attacco dell’arpia.
La sera in cui Janice l’aveva spinta nel fuoco del Campo.
La notte in cui aveva creduto che Ben fosse morto in Afghanistan.
John che veniva trapassato da parte a parte dalla lama di una spada.
La figura di Michael che si allontanava sempre di più, la sua gamba incastrata in una nave sui fondali degli abissi.
Il Generale che le sfiorava una guancia, con tocco viscido.
Anteo che le procurava una cicatrice sull’addome.
Madison che bruciava il libro di sua madre.
Lo zio che le impediva di andare al Campo.
La litigata con il figlio di Poseidone; il bracciale che lui le aveva regalato che volava dall’altra parte della stanza.
Il suo rapimento.
Il sogno con quell’orrida voce.
Il Simurgh che le artigliava un polpaccio.
Il maremoto.
La morte di Alex.
E poi ancora, visualizzò ogni mostro combattuto in quei due anni, ogni tristezza che aveva patito in sedici.
Tutte le delusioni, tutti i momenti di panico, tutti i rimpianti.
Tutti i sensi di colpa e tutte le battaglie perse.
Si avventarono su di lei, troppo forti perché potesse sperare anche solo di opporvisi.
Era letteralmente in trappola, vincolata dalle proprie e più cupe emozioni.
Il suo cuore decelerava pericolosamente, per poi acquisire un ritmo frenetico subito dopo, quasi fosse indeciso sul da farsi.
Un lamento strozzato giunse ai suoi timpani, ma non era sicura che fosse suo, dato che ormai non riusciva più a distinguere la realtà dai ricordi.
E poi, in uno spossante lampo, tutto svanì.
Qualsiasi dolore stesse provando in quell’istante le scivolò addosso, abbandonando le sue viscere.
La figlia di Efesto barcollò all’indietro, boccheggiando alla disperata ricerca d’aria, e le vertigini la sopraffecero talmente tanto che quando si accasciò a terra, ebbe dei conati di vomito.
«Skyler!» urlò John, inginocchiandosi immediatamente accanto a lei.
La ragazza faceva fatica a respirare, e tremava mentre dei puntini neri danzavano molesti nella sua retina.
«Che cosa le hai fatto!» inveì a gran voce Emma, ma tutto ciò che la mora udì in risposta fu il silenzio, per poi sentire l’acuto scampanellio del Luminex.
«Stanno arrivando» affermò quest’ultimo, e dal modo in cui lo disse Skyler intuì quanto fosse terrorizzato. «Stanno arrivando, ce ne dobbiamo andare.»
«Chi?» insistette il figlio di Apollo, confuso. «Che sta succedendo? Chi sta arrivando?»
«Loro non amano la nostra compagnia» continuò però lui, quasi il suo panico fosse tanto acuto da otturargli tutti i sensi. «Loro non amano la compagnia di nessuno.»
«Loro chi?» ripeté la bionda, ma neanche stavolta quello la ascoltò.
All’improvviso, un brontolio animalesco parve bloccare il tempo.
Il fuoco sul capo nella piccola creatura vacillò, e questo sgranò gli occhi, terrorizzato.
«Scappate» mormorò flebilmente, prima che un ulteriore verso gli fece lanciare un grido spaventato. «Si salvi chi può!»
«Aspetta! Dove vai!» gli sbraitò contro la figlia di Ermes, non riuscendo comunque ad impedire che quello schizzasse via, lasciandoli irrimediabilmente soli.
Un altro ruggito, stavolta più vicino.
Il ragazzo si alzò di scatto, incoccando una freccia e affiancando Emma, che nel frattempo brandiva la propria arma contro un punto indefinito.
Se Skyler fosse stata in grado anche solo di racimolare le forze necessarie per potersi tirare in piedi, avrebbe avuto qualche possibilità di aiutarli. Ma quel piccolo essere dalla testa di fuoco le aveva prosciugato via dal corpo ogni energia vitale, e nonostante gli amici le facessero scudo, sapeva di non essere altro che un peso morto, al momento.
Prese dei grandi respiri, tentando invano di regolarizzare il proprio battito cardiaco. E fu allora che, seppur non nitidamente, li vide.
Un branco di dodici mostri avanzava minaccioso verso di loro.
Camminavano eretti, su due zampe, e sarebbero potuti passare benissimo per delle persone, se la loro pelle non fosse stata come il manto di un giaguaro.
Ghignando con aria di sfida, l’umanoide in testa scoprì i denti affilati, che parvero catturare la luce del sole.
Lì per lì non parvero pericolosi, tanto che la ragazza si chiese a cosa fosse dovuta l’eccessiva reazione del Luminex. Finché tre di loro non sollevarono una mano.
E come se non aspettasse altro che ubbidire ai loro ordini, la terra cominciò a tremare.
Emma e John, colti alla sprovvista, persero l’equilibrio, cadendo in ginocchio.
Una delle creature ringhiò nella loro direzione, quasi stesse avvisando gli altri che la cena era servita.
E poi, accadde il putiferio.
La figlia di Efesto non riuscì a seguire ogni singolo svolgimento di quello scambio di colpi, dato che se si sforzava troppo prendeva a girarle la testa, e se le girava la testa il respiro tornava irregolare.
Vide solo il figlio di Apollo infilzare contemporaneamente due uomini-ghepardo, per poi voltarsi appena in tempo da riuscire a schivare l’attacco del terzo e dargli un colpo sulla nuca talmente brutale da ridurlo in cenere.
Vide la figlia di Ermes farsi strada a suon di fendenti con il suo coltello, disintegrando ben quattro mostri prima che un quinto riuscisse a ferirle un braccio.
Qualcosa cadde pesantemente accanto alla sua testa, e il suono del tonfo arrivò ovattato alle sue orecchie. La mora voltò lentamente il capo, come se quel gesto le costasse molto più del dovuto.
Il suo amico biondo aveva perso lo zaino, che ora giaceva semiaperto vicino a lei. Le dita presero a tremarle per via dell’adrenalina non appena ne ricordò il contenuto.
Allungò una mano, afferrando velocemente un pezzo di ambrosia e ficcandoselo in bocca senza troppe pretese. La medicina era insapore, o forse la sua gola era talmente tanto secca che le sue papille gustative erano fuori uso.
Ma ben presto il mondo intorno a lei diventò nuovamente limpido, e con la stessa velocità la sua mente si schiarì, mentre le sue gambe erano di nuovo in grado di sorreggerla.
«John, va via di lì!» ordinò Emma con tono brusco, per poi spintonare il ragazzo e prendere il suo posto prima che uno di quegli esseri lo colpisse. Nonostante fosse stata costretta ad indietreggiare, la bionda riuscì comunque ad intercettare le sue zanne ed ucciderlo.
«No!» esclamò John, ma prima che potesse fare anche solo un passo verso di lei, un altro mostro gli affondò le unghie nella carne, sul lato destro del petto, e il semidio lanciò un gemito. L’uomo-ghepardo lo sollevò ponderatamente da terra, tanto che il figlio di Apollo si ritrovò con i piedi sospesi nel vuoto; con gli artigli ancora stretti nella loro presa, la creatura emise un sommesso e minaccioso brontolio, per poi scagliarlo a circa tre metri di distanza.
L'impatto del biondo con uno degli alberi fu talmente violento che il ragazzo rischiò di perdere definitivamente i sensi.
Nello stesso istante, tutti gli appartenenti del branco rimasti gridarono, quasi di un dolore lancinante.
Buttando un’occhiata verso il cielo, Skyler capì. Ormai era quasi l’alba; era ora che se ne andassero.
E di sicuro lo fecero in un batter d’occhio, disperdendosi freneticamente tra gli alberi.
Ma prima di imitarli, quello che a quanto pare era il capobranco si voltò, lanciando ai ragazzi un ultimo sguardo di fuoco.
Allargò le braccia ancora una volta, e un’impetuosa scossa fece vibrare il terreno.
Diverse crepe presero a danzare tra l’erba, espandendosi fino a far sgretolare le rocce sotto i loro piedi.
La figlia di Ermes indietreggiò, interdetta, tanto che ben presto sfiorò con il tacco l’orlo del dirupo.
«Ciao, ciao, semidei» grugnì una voce, così roca da sembrare quasi il verso di un animale.
I crepacci formarono una sorta di semicerchio intorno ai piedi della bionda, e l’appezzamento su cui stava era troppo fragile perché potesse sopportare una simile pressione.
La terra si frantumò, cominciando la sua caduta nel nulla. E con lei, anche la ragazza.
«Emma!» urlò Skyler, con tutto il fiato che aveva in gola.
La bionda si rese conto troppo tardi di ciò che stava succedendo.
La figlia di Efesto era riuscita ad afferrarla. La teneva saldamente per una mano, mentre con l’altra era riuscita ad aggrapparsi ad una sporgenza, sostenendo entrambe.
«Ragazze!» gridò John, sopra di loro, ma guardando nella sua direzione, Emma si rese conto che era troppo lontano.
«Tieni duro» le intimò la mora, che però portava già sul viso i segni dell’eccessivo sforzo. Non si era ancora del tutto ripresa dall’esperienza con quel Luminex, e per quanto potesse stringere i denti, sapeva che ben presto le forze l’avrebbero abbandonata.
Le sue dita erano artigliate alla roccia, ma prima che se ne rendesse conto iniziarono a sudare; e per un breve, terribile istante sembrò quasi che stessero per scivolare.
Le ragazze si lasciarono sfuggire un gridolino terrorizzato, mentre le loro gambe penzolavano nel vuoto.
La figlia di Ermes fece l’errore di guardare in basso.
Non riusciva a scorgere il fondo di quel precipizio, e questo non migliorava affatto le cose. Una fitta nebbiolina le impediva di poter vedere cosa esattamente ci fosse sotto di lei, ma era sicura che in ogni caso non si sarebbe trattato di nulla di buono.
La vita di tutte e due era unicamente nelle mani di Skyler, ed era questione di minuti, prima che fossero risucchiate insieme dall’ignoto.
Sollevando lo sguardo verso l’amica, notò la sua fronte imperlata di sudore, mentre un rivolo di sangue le colava dal naso fino a rigarle il labbro.
Non poteva permettere che finisse così. Non prima che John non fosse riuscito a trarle in salvo.
Ma forse al ragazzo serviva più tempo, e loro non ne avevano. La forza di trazione rendeva il loro peso eccessivo per essere sostenuto da un solo braccio; ed entrambe rischiavano di essere attratte verso il basso, e poi sempre più giù, più giù.
Emma non poteva sopportarlo. Non avrebbe permesso che la sua migliore amica morisse per aver tentato di salvarle la vita.
Non era giusto.
«Skyler, ascolta, mi dispiace!» esclamò, costretta ad alzare il tono di voce per far sì che lei la sentisse oltre l’incessante urlare del vento. «Non volevo mentirti. Spero solo che tu possa perdonarmi!»
«Non mi sembra il momento più adatto» replicò la mora, a denti stretti. Strizzò gli occhi, come se quel gesto potesse conferirle maggiore forza.
«Lo è, invece.»
Inizialmente, la figlia di Efesto le lanciò un’occhiataccia, confusa; ma non appena incrociò le sue iridi argentate, le fu tutto, completamente chiaro.
Era sempre stato così, a loro bastava uno sguardo. Ed era come se i pensieri fluissero semplicemente dalla mente di una a quella dell’altra, in linea diretta.
A loro bastava uno sguardo per poter intraprendere silenziosamente la conversazione più bella e densa di significato che due esseri umani potessero mai avere.
A loro bastava uno sguardo, e bastò anche allora.
«No» la ammonì fermamente Skyler, la voce tremante per via dello sbigottimento.
La tenacia degli occhi di Emma si addolcì, ma non vacillò. Non aveva avvertito l’amica perché quella potesse sperare di convincerla.
Lei aveva già deciso.
«Ti voglio bene, hai capito?» le ricordò, le lacrime pronte a solcarle le guance. «Un bene dell’anima. Un bene assoluto. Non dimenticarlo mai, va bene?»
«Emma, non ti azzardare» la minacciò quindi la mora, ma la figlia di Ermes era sicura, ormai, di essere irremovibile.
«Cerca di non morire» pensò infatti con un sorriso triste, mimando quelle parole con le labbra. Dopo di ché, lasciò andare la sua mano.
«No» obiettò la figlia di Efesto, continuando a tenerla saldamente per le dita. Ma queste scivolarono per via del sudore, quasi fossero burro su una padella sfrigolante.
«No» la pregò a quel punto, gli occhi sgranati ed imploranti. «No, per favore, no.»
Ma la bionda non l’ascoltò, e con un ultimo, incoraggiante sorriso sfuggì alla sua stretta, stavolta definitivamente.
«No» ripeté Skyler, presa dal panico. «No!»
La scena parve svolgersi a rallentatore.
Le loro mani si separarono, e il corpo di Emma fu attratto per forza di gravità verso il fondo.
Senza opporre resistenza né gridare, la ragazza chiuse gli occhi, i capelli ricci che le vorticavano attorno al viso.
La nebbia la inghiottì, e l’urlo della mora fu talmente forte che quasi sicuramente riuscirono ad udirlo anche al Campo.
Invocò il nome dell’amica. La chiamò fino ad avere altri conati di vomito.
Ma solo quando la sua folta chioma bionda sparì dalla sua vista, capì che tutte le sue preghiere non l’avrebbero fatta tornare indietro.
Perché Emma si era lasciata andare, donandole così quella possibilità su mille di salvarsi.
Senza alcuna esitazione, aveva dato la vita per lei; e non c’è neanche il bisogno di domandarsi se la figlia di Efesto, a questo punto, ce la farà.
Perché solo uno alla morte nel baratro scampare potrà. 

Angolo Scrittrice.
Buonsalve, semidei!
Okay, so a cosa state pensando: come mai ha già pubblicato?!
In effetti, questo capitolo era pronto già da ieri. Ma forse perchè la mia angoscia nello scriverlo era talmente tanta che non vedevo l'ora di terminarlo. 

Emma. Forse questo capitolo non è stato esattamente come lo immaginavate. 
Non posso credere che sia successo davvero, ma come vedete la profezia non risparmia nessuno. 
Solo che non so proprio cosa dire. La figlia di Ermes è sempre stata uno dei quattro pilastri fondamentali di questa storia, e senza di lei... beh, non sarà più la stessa. 
Se la morte di Alex mi ha distrutta non poco, questa mi ha lasciata del tutto... sgomenta. Non riesco a piangere per lei, soprattutto perchè una parte di me non riesce ancora a credere di averlo fatto. 
Ma forse domani metabilizzerò l'accaduto, e allora sarò in grado di versare molto più che qualche lacrima per questa ragazza che ha avuto il finale che si meritava. Quello di eroina, intendo. 
Mi sembrava il minimo, dopo quello che le ho fatto passare. 
Il fatto poi che sia riuscita a parlare con
Skyler poco prima di lanciarsi ha reso il tutto un po' più tragico, no? Come la prenderà la figlia di Efesto? E John, quando vedrà che Emma non c'è più? 
Lei era pur sempre la loro migliore amica.E resterà comunque una parte di me.
Al di là di quello che vi succede, spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto. O vi ha fatto schifo? Vi prego di farmelo sapere, perchè è davvero molto importante. 
Quello della scorsa settimana, molto probabilmente, aveva deluso la vostre aspettative, e questo mi ha davvero demoralizzato, perchè metto anima e copro in questa storia. 
So che aveva promesso ad alcuni di voi che avrei tentato di arrivare fino alla fine, ma diventa sempre più difficile, soprattutto quando sai che quello che stai scrivendo quasi sicuramente non piacerà. 
Ora sanno dove cercare la Pietra, btw. Cerchiamo almeno di pensare a qualcosa di positivo. 
Ringrazio infinitamente le mie due Valery's Angels,
Dreamer_28 e Francesca lol, che mi hanno regalato delle bellissime recensioni. Attendete solo la fine della scuola, e giuro che risponderò a tutti i vostri stupendi messaggi, anche a quelli di circa un mese fa!
Mi sono resa conto, poi, che con la morte di Alex di due settimane fa mi sono completamente dimenticata di festeggiare: abbiamo superato i 300, semidei! 307 recensioni, che sono davvero la mia forza e ciò che principalmente manda avanti questa storia. Quelle, e voi che le scrivete, dedicandomi parte del vostro tempo. 
E' davvero un traguardo enorme, per me, considerando anche la piega che ultimamente sta prendendo. 
Anyway, molto probabilmente la prossima settimana pubblicherò di mercoledì, causa impegni vari. Se pubblicherò. Non lo so ancora, in realtà. Sto iniziando di nuovo a pensare che forse non vale la pena continuare di nuovo a scrivere, se poi non faccio altro che continuare casini. Più capitoli scrivo, a meno persone piacciono. 
Forse è colpa mia. Forse mi do alla briscola. 
Un bacio enorme in ogni caso, comunque. 
Se tutto va bene, alla prossima settimana. Altrimenti scriverò un avviso nel quale esporrò la mia decisione. 
Grazie ancora a tutti voi che continuate a seguirmi, sul serio.
Ma soprattutto grazie ad Emma per essere stata la migiore figlia di Ermes che la mia mente avesse il privilegio di incontrare. 
Sarai sempre una parte di me, Riccioli d'Oro. Sono sicura che i Campi Elisei ti accoglieranno a braccia aperte. 
Sempre vostra, 

ValeryJackson

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Capitolo 40
*** Capitolo 39 ***




Skyler avrebbe tanto voluto piangere, ma ormai non sentiva più niente.
Tutto ciò che riusciva a percepire era solamente un dolore acuto dietro il plesso solare, la mente incapace di formulare dei pensieri che non si ricongiungessero, in un modo o nell’altro, a ciò che era successo.
Piangere, generalmente, vuol dire aggiungere qualcosa: sei tu-più-le-lacrime.
Ma la sensazione che la ragazza provava in quel momento era l’esatto – e orribile – opposto.
Lei non aveva nulla in più, solo un enorme vuoto all’altezza del petto. Era apatica, priva di ogni energia. E la sua mente continuava a pensare ad una sola parola, sempre; un nome che le provocava un bruciore sotto la gabbia toracica.
Emma.
Emma che non c’era più.
Erano passate circa due ore da quando aveva lasciato andare la sua mano, lasciandosi cadere verso l’oblio.
Aveva fatto la sua scelta, seppur insensata. Aveva deciso di sacrificarsi per la sua amica.
Ma Skyler non aveva bisogno di essere salvata. Skyler aveva bisogno di lei, e ora che se ne rendeva conto era troppo tardi.
Il momento in cui John era finalmente riuscito ad afferrarla, per poi issarla su, era solo una macchia indistinta che vorticava nella sua scatola cranica.
Tutto ciò che ricordava era di essersi accasciata tra le sue braccia, mentre entrambi rotolavano sull’erba sfiniti.
E poi di aver posato la testa sul suo petto, il cuore a rimbombarle talmente forte nelle orecchie da impedirle di udire l’eco della sue grida. La confusione sul volto del figlio di Apollo, prima ancora che capisse cos’era successo. Il rumore di qualcosa che si squarciava brutalmente, ma forse era solo la sua mente ad elaborare quel suono, e non il suo petto che si lacerava davvero.
Dopo di ché, più nulla.
Buio totale. Una serie di immagini sfocate e prive di senso.
Emma era morta, e il resto non contava. Come avrebbe potuto? La figlia di Efesto non aveva neanche mai pensato a come sarebbe stato, continuare senza di lei.
L’eventualità che quel verso della profezia si riferisse a lei non aveva proprio sfiorato l’anticamera del suo cervello.
Emma era la sua migliore amica. Quella ragazza con i riccioli biondi era un vero raggio di sole.
È possibile spegnere un raggio di sole? Privarlo della sua luce? Impedirgli di brillare? 
Perché non era stata in grado di frenare quel suo gesto tanto affrettato?
Che cos’aveva fatto, lei, per meritarsi di non essere al suo posto?
Quelle domande erano come una fitta dietro la nuca. Senza risposta, senza importanza.
Emma era morta, per tutti gli dei.
Emma era morta.
La rapida sequenza di quel momento era così vivida nella sua mente che sembrava quasi che il tempo si fosse pietrificato in quel preciso istante.
L’istante in cui la figlia di Ermes si scusava, rivelandole quanto le volesse bene; l’istante in cui allentava la presa dalla sua mano, e le sue dita scivolavano via come se fossero ghiaccio in procinto di sciogliersi.
«Cerca di non morire» erano state le sue ultime parole.
Ma come sarebbe stata in grado di farlo, se sotto tutto quell’insensibile strato di pelle era già morta?
Molto probabilmente, prima o poi, sarebbe riuscita a superare la dipartita di Alex. Ma quella di Emma? Quella della ragazza che per lei, ormai, era come una sorella?
Come avrebbe fatto a farsene una ragione? Come sarebbe andata avanti, senza di lei?
Non ne sarebbe stata in grado; e di questo, purtroppo, ne era ben consapevole.
Non ne sarebbe stata in grado perché per quanto avrebbe potuto sforzarsi, una parte di lei si era inesorabilmente frantumata come un vaso di vetro preso a sprangate.
Non ne sarebbe stata in grado perché nonostante fisicamente fosse ancora lì, la sua anima si era già precipitata giù da quello strapiombo.
Non ne sarebbe mai stata in grado, perché ormai dar retta al suo cuore sarebbe stato inutile.
Era stato sbriciolato in tanti, minuscoli pezzettini.
Quindi quale di questi avrebbe potuto seguire?
 
Ω Ω Ω
 
La parte più difficile nel perdere una persona non è tanto il fatto di doverle dire addio, quanto più l’idea di dover passare il resto dei tuoi giorni a convivere con la sua assenza.
Quando le ginocchia di Skyler avevano ceduto e John, per impedirle di cadere, l’aveva sorretta, il primo istinto del ragazzo era stato quello di guardare giù. In cerca della chioma d’oro di Emma; in cerca della sua migliore amica.
Ma gli era bastato avvertire i singhiozzi disperati della figlia di Efesto infrangersi contro il proprio petto per poter intendere la dinamica dell’accaduto.
Era come se una parte di sé si fosse spezzata, per poi lanciarsi disperatamente oltre l’orlo del dirupo.
La mora aveva passato più di un’ora a piangere ininterrottamente tra le sue braccia, il viso nascosto nell’incavo del suo collo. Ma a differenza sua, il figlio di Apollo non era riuscito a versare neanche una lacrima.
Quasi le circostanze lo obbligassero ad essere forte, si era limitato a stringerla a sé più forte che poteva, per poi prenderla in braccio una volta calmatasi e portarla lontano da quel luogo maledetto.
Si era fermato solo quando era stato sicuro di essere abbastanza lontano, sdraiandosi ai piedi di un albero senza mai smettere di cullarla tra le braccia.
Non poteva rischiare di perdere anche lei. Semplicemente, non poteva permettersi un ulteriore fallimento.
Skyler aveva posato il capo proprio sopra il suo cuore, e aveva lasciato che quel battito regolare le infondesse calma, nonostante il ragazzo non vi vedesse più luce, nei suoi occhi mogani.
Nessuno dei due era stato capace di sillabare una parola. E forse, in fondo, era meglio così.
Che cos’avrebbero potuto dire, d’altronde?
Emma se n’era andata.
Era caduta nel vuoto, e quasi sicuramente ora stava attraversando i Campi Elisi tutta sola.
Non l’avrebbero più rivista, a meno che non fossero morti a loro volta.
Quindi, che senso aveva sprecare fiato?
Non c’era nulla in grado di descrivere ciò che loro provavano in quel momento, un miscuglio di emozioni che li destabilizzava e spaventava nello stesso momento.
Quando la stanchezza si abbatté sui due semidei tanto violentemente da far crollare la ragazza in un sonno esausto, John si sforzò di restare sveglio.
Fissò le folte chiome degli alberi sulla propria testa, iniziando a contare senza apparente motivo ogni singola foglia. Ma chissà perché ogni volta che focalizzava l’attenzione su una in particolare, era convinto di vedervici la figlia di Ermes, all’interno, che con un sorriso lo salutava.
Passò la successiva mezz’ora a domandarsi quando fosse stata l’ultima volta che le aveva detto di volerle bene.
Poi, sfinito, si addormentò anche lui. Ma avrebbe dato qualsiasi cosa per potersi risvegliare e scoprire che, in realtà, si era trattato solo di uno stupido brutto sogno.
 
Ω Ω Ω
 
Intorno a lei vi era un silenzio rilassante.
La luna era di nuovo calata su quella porzione dell’isola deserta, tingendo il cielo di ombre e di stelle.
Skyler sapeva cosa quell’oscurità poteva significare: mostri in agguato, in arrivo da ogni dove.
Eppure, tra quei folti alberi pareva non regnare altro che tranquillità.
La figlia di Efesto si guardò intorno, scrutando il paesaggio che la circondava. Non era cambiato nulla, constatò; quindi come faceva ad essere sicura che si trattasse davvero di un sogno?
La voragine nel mio petto, pensò, studiando tra le fronde di quelle alte chiome. La voragine non c’è più.
Era da tempo che non sognava. La magia che impregnava le venature di quel posto era tanto potente da fungere da barriera per qualunque messaggio Morfeo avesse intenzione di portare.
Neanche colui che l’aveva creata era più in grado di governarla.
Opporvisi era impossibile. Lei non ci aveva neanche mai provato.
Quella visione, però, era diversa da tutte le altre. In genere le sue notti al Campo erano infestate perlopiù da avvertimenti, accompagnati da fiamme impetuose che la imprigionavano e serpenti malvagi che tentavano di strangolarla. E poi, c’era sempre quell’orrida voce.
Ora invece non era in grado di udirne neanche l’eco.
Ciò che poteva scorgere tutt’intorno a sé sembrava più che altro un’illusione.
«C’è nessuno?» si azzardò a chiedere, ma la sua voce rimbombò contro le pareti del silenzio. «Perché sono qui?» provò di nuovo, e anche stavolta, per qualche secondo interminabile, la quiete non si sgretolò.
Poi un sibilo avvolse l’aria come un guanto, e la ragazza fece un breve giro su sé stessa per cercare di capire da dove provenisse quel suono agghiacciante e prolungato. Questo, però, sembrava riecheggiare in ogni dove.
La figlia di Efesto corrucciò immediatamente le sopracciglia, facendo un esitante passo indietro.
Più che un sibilo, quello pareva il mormorio concitato di una flebile voce.
Un brivido si arrampicò su per la sua schiena, e per un attimo la mora temette di dover vomitare.
Che fosse di nuovo in uno di quegli incubi in cui questa volta il suo nemico aveva deciso di ricordarle che il suo tempo stava per scadere? Anche se sapeva essere tutto un ignobile sogno, era difficile tenere a bada il proprio terrore.
In un sussurro, quel rumore sembrava ripetere velocemente una serie indistinta di parole, che però la eco rimbombante sovrapponeva tra loro, rendendole incomprensibili.
Fino a che non si tramutarono in due uniche, semplici sillabe.
Sky-ler.
Erano state corde vocali femminili, a parlare. Ed il suo nome pronunciato in quel modo non aveva nulla di familiare.
La ragazza portò istintivamente una mano al proprio collo, ma lì, per qualche ostrogota ragione, non vi trovò alcuna collana.
«Skyler, non aver paura» le intimò la voce, con tono accondiscendente. «Non voglio farti del male.»
Con la coda dell’occhio, la giovane scorse un chiaro bagliore, e subito indietreggiò spaventata, tenendo gli occhi fissi in quella direzione.
All’inizio non riuscì a vederlo. Si confondeva tra le ombre degli alberi, quasi fosse intento ad osservarla senza la benché minima intenzione di essere scorto. Ma poi avanzò verso di lei, con passo sinuoso ed elegante.
Era un cervo, ma del tutto diverso dagli altri.
Perché era letteralmente fatto di luce.
Quasi l’astro lunare si fosse plasmato assumendo la sua forma, il suo manto brillava di un bagliore argentato. Tutto, persino gli zoccoli apparivano eburnei, e gli occhi sembravano privi di orbita, mentre fissavano Skyler con attenzione.
La figlia di Efesto sbatté le palpebre più volte, dando per cieche le proprie cornee. Poi, intorno a quel fiero animale, si levò un gelido soffio di vento, che la investì scompigliandole gli scuri capelli.
La ragazza batté i denti, infreddolita, ma non si mosse. Si limitò a stringere i pugni fino a procurarsi del piccoli segni a forma di mezzaluna sui palmi; lo sguardo impassibile mentre quell’essere si avvicinava.
«Non voglio farti del male» ripeté quest’ultimo, con tono calmo e pacato. «Sono qui per farti una proposta.»
«Chi sei?» domandò quindi lei, maledicendosi mentalmente per il tremitio della propria voce.
Il cervo inclinò il capo di lato, esaminandola con cura. «La tua salvezza» si limitò a specificare, scandendo lentamente ogni parola. «Grazie a me, non sarai più costretta a soffrire.»
Skyler l’osservò, guardinga.
Non si fidava di lui. Perché avrebbe dovuto?
Avrebbe potuto essere tanto una fervida creazione della sua mente stanca quanto una minaccia.
«Non tratto con gli sconosciuti» affermò allora, stringendo gli occhi a due fessure.
Dopo un iniziale istante di esitazione, la creatura annuì, comprensiva. «Va bene» consentì. «Forse quest’altra mia versione ti sembrerà più familiare.»
La mora non ebbe neanche il tempo di chiedergli cosa volesse dire.
Lo spazio che circondava l’animale si increspò, quasi gli alberi fossero pronti a deformarsi. Il suo manto niveo diventò ancora più lucente, tanto che dopo un po’ la ragazza fu costretta a voltarsi, un braccio davanti al viso a mo’ di protezione.
Per un attimo che parve infinito, tutto si tinse di bianco.
Poi la figlia di Efesto riportò la propria attenzione sulla creatura, ma con stupore al suo posto vi trovò solo una ragazzina.
Era un po’ più piccola di lei, forse di circa un paio d’anni. Aveva i capelli ramati raccolti in una coda ed un paio d’occhi singolari, di un giallo argenteo come la luna. Il viso era così bello che in altre circostanze le si sarebbe mozzato il respiro, e i tratti infantili che lo caratterizzavano cozzavano con la sua espressione seria e pericolosa.
Skyler represse a stento l’istinto di fare un passo indietro.
Era sicura di non aver mai incontrato quella piccola prima di allora, eppure quelle iridi strane avevano un ché di già visto.
Solo quando, come un lampo, le tornò in mente dove le aveva incontrate in precedenza, il fiato le mancò davvero.
«Divina Artemide…» mormorò flebilmente, le orecchie che ronzavano per la sorpresa.
La dea fece un breve inchino. «In persona» si presentò. «Beh, metaforicamente parlando, ovviamente.»
La ragazza non seppe cos’altro dire. Doveva inchinarsi? Doveva implorare il suo perdono per averla trattata con aria di sufficienza?
Perché era lì? Ma soprattutto, che cosa voleva da lei?
«Io non capisco» balbettò la mora, facendo fatica a riordinare i propri pensieri. «Come ha…? Lei non può…»
«Ti stai chiedendo come faccio ad essere qui?» la precedette la dea, al ché lei annuì. «Vi siete addormentati ai piedi di un cipresso. Avete infangato le sue radici con le vostre lacrime e il vostro sangue, ma non sono qui per biasimarvi.»
Skyler soppesò le sue parole, interdetta.
Un cipresso? Era uno dei suoi simboli sacri?
Davvero era 
sempre stato così semplice? Per tutto questo tempo avrebbero benissimo potuto…?
«Non è stato facile entrare in contatto con te» ammise Artemide, quasi fosse capace di ascoltare quei quesiti. «Ma dopo molti tentativi, finalmente ci sono riuscita.»
«Che cosa vuole da me?» fece allora la semidea, e la ragazzina spostò il peso da un piede all’altro, nascondendo il proprio disagio dietro un’aria autoritaria.
«Sono qui per aiutarti» le spiegò.
«In che modo?»
«Accogliendoti tra le mie Cacciatrici.»
La risposta fu talmente istantanea che colpì la mora come uno schiaffo in faccia. Si irrigidì, ma quando parlò le sue parole non potettero non vacillare. «Non la seguo» ammise, confusa, e la dea prese un gran respiro, riempendo i polmoni.
«Ammiro molto il tuo coraggio» cominciò quindi, con sguardo gentile. «L’ho sempre fatto, e sono convinta che un giorno potresti diventare un’ottima Luogotenente. Ma non sono solo queste doti che mi hanno portata da te. Riesco a percepire il tuo cuore spezzato.» La figlia di Efesto sussultò, colta alla sprovvista, al ché lei continuò. «Non sto parlando del modo in cui hai perso due dei tuoi amici. Sono state delle tragedie insormontabili, certo, e in parte condivido i tuoi sensi di colpa. Ma vedo anche una crepa dovuta a qualcos’altro. Hai sofferto molto per amore.»
«Si riferisce a Michael?» quel nome suonò nostalgico sulla punta della sua lingua. Da quanto tempo non lo pronunciava ad alta voce? Ogni giorno il figlio di Poseidone era sempre stato uno dei suoi pensieri fissi, certo, ma allo stesso tempo anche un argomento tabù. L’idea di saperlo rapito faceva così male che per la maggior parte delle volte Skyler si sforzava di non ricordarlo.
«Proprio così» annuì la dea. «Afrodite mi ha raccontato di tutte le peripezie che avete affrontato nell’arco della vostra storia. Lei spera ancora che voi torniate insieme, ma io posso offrirti una via di fuga.»
«Io non voglio scappare da lui» ribatté quindi la ragazza, metabolizzando solo poi le proprie parole. «Io sono qui per salvarlo.»
«Le emozioni intralciano il nostro giudizio» la fece notare a quel punto Artemide. «Ed Emma ne è la prova.»
«Che c’entra Emma?» sbottò la figlia di Efesto, irritata anche solo dal sentir nominare l’amica deceduta senza apparente motivo.
«Ho proposto a lei la stessa cosa, sai? Ma quell’incosciente ha rifiutato.» La dea sospirò. «Sapevo che la sua relazione con quel Leo Valdez non avrebbe portato a nulla di buono, ma lei non ha voluto ascoltarmi. Provava qualcosa di molto intenso, per lui, questo c’è da riconoscerlo. E molto probabilmente il sentimento era reciproco. Ma se vogliamo evitare di diventare vulnerabili, bisogna lasciare le sensazioni da parte. Le decisioni e i cambiamenti devono essere affrontati in modo chirurgico: più sei bravo a rimanere freddo e distaccato, più sarà facile vincere le sfide della vita. È questo che io insegno alle mie Cacciatrici. L’amore non è nient’altro che una distrazione. Distoglie l’attenzione dal vero obbiettivo.»
«Emma ha rifiutato la sua offerta per stare con Leo…» ragionò la ragazza, colpita da quella confessione. Non si era resa conto di quanto il legame che univa due delle persone più importanti della sua vita fosse diventato speciale. Aveva biasimato l’amica perché le aveva nascosto la verità, ma lei dov’era stata, mentre il suo cuore zampillava di gioia?
«Sostanzialmente» fece spallucce la rossa.
«Sa cos’è successo tra loro?»
«Lui le ha spezzato il cuore, naturalmente. Ma d’altronde, cos’altro ci si può aspettare da un maschio?»
Se il senso di colpa di Skyler si era per un attimo volatilizzato, ora la infiammò.
Quand’era successo? Come aveva fatto a non accorgersene?
Emma… Leo… Come aveva potuto guardarli negli occhi e non rendersi conto di quanto fossero pregni di vetri rotti?
«Chi si unisce alle tue seguaci deve fare voto di castità, giusto? Il mito dice così.»
Artemide annuì. «Gli uomini non sono mai stati un problema, per quelle come noi. Le pene d’amore le lasciamo ad Afrodite.»
La mora corrugò la fronte, e quando aprì la bocca per replicare, le sue corde vocali non emisero alcun suono.
Chi dice che l’amore è fatto solo di sofferenze? È l’unica forza in grado di garantire l’armonia dell’universo.
«Unisciti a me, Skyler Garcia» insistette la dea, percependo la sua interdizione. «Fallo, e sarai libera da ogni tristezza.»
La ragazza esitò. Per qualche secondo non si sentì più padrona del proprio corpo, e fu come se la sua anima stesse ripercorrendo il lungo tragitto che legava la mente al cuore.
Tutti i momenti trascorsi con Michael la investirono come un uragano.
La prima volta in cui si erano incrociati per caso.
Il giorno in cui lei aveva curato le sue ferite in infermeria.
Le sue braccia forti che la trascinavano fuori dall’acqua. Loro due che danzavano sotto la pioggia.
La loro litigata ad Alert. Lui che si lasciava sfuggire un impacciato «Sei bellissima».
Il ragazzo che le regalava tutta l’aria che aveva nei polmoni per permetterle di salvarsi.
Il loro abbraccio dopo la sconfitta di Anteo. Il loro primo bacio.
Skyler visualizzò un centinaio di occhiolini furtivi, di sorrisi timidi, di baci rubati.
Ma anche tutte le incomprensioni, i giorni passati senza parlarsi e le litigate.
A confrontarli, la sua bilancia interiore segnalava esattamente lo stesso peso.
Ma forse era proprio quello il punto.
«Io… Io non posso» denigrò, consapevole che non ci fosse nessun’altra risposta sensata. «Non posso accettare.»
«Stai commettendo un grave errore» la rimproverò la dea, con un’espressione contrariata. «Quel ragazzo sarà la tua rovina.»
«Ma io lo amo.» Quelle parole le scivolarono via dalle labbra prima ancora che riuscisse a carpirne il vero significato. Ma quando con tono quasi rassegnato giunsero alle sue orecchie stanche e la colpirono come un pugno sulla tempia, la ragazza non ebbe neanche la forza di negare.
Lei lo amava, e fino ad allora non se n’era mai resa veramente conto.
Lei lo amava, ed era la prima volta che pronunciava quel pensiero a voce alta.
Lei lo amava, e non aveva mai avuto il coraggio di dirglielo. Dopo tutti quei giri in canoa, tutte le serate passate a chiacchierare sotto le stelle; tutti quei pic-nic improvvisati e tutte le ore passate a telefono insieme. Non era mai riuscita a dirglielo, e lui non l’aveva mai detto a lei.
Ma era la verità, e nessuno dei due avrebbe mai osato affermare il contrario.
Fin dal primo istante in cui i loro sguardi si erano incrociati, erano stati brutalmente investiti da un sentimento tanto profondo quanto travolgente; uno di quelli che ti impedisce di respirare, e del quale non sei consapevole fin quando i vostri nasi non arrivano a sfiorarsi, costringendovi a respirare la stessa aria.
Lei lo amava, e non avrebbe permesso a nessuno di fargli del male. Non importava se lui l’avrebbe fatta soffrire, se prima o poi avrebbe amato un’altra o se non ricambiava il suo affetto.
Avrebbe sacrificato qualunque cosa, pur di vederlo tornare a casa sano e salvo.
Anche la sua stessa vita.
E sarebbe stato ciò che avrebbe fatto, se il nemico che era in procinto di affrontare l’avesse messa alle strette.
Lei era approdata lì con una missione: riavere il suo ragazzo.
«Credo proprio di non poter fare nulla per farti cambiare idea, vero?» tentò un’ultima volta la dea, al ché Skyler scrollò la testa con un sorriso.
Artemide si morse l’interno della guancia, riempendo lentamente i polmoni. «Se ci ripensi, la mia proposta è sempre valida» le ricordò.
La figlia di Efesto chinò il capo in un breve inchino. «Grazie comunque per la considerazione.»
«Hai la stoffa del leader» si complimentò quindi la ragazzina, scrutandola con orgoglio. «Le Parche avevano ragione.»
«Le Parche?» ripeté la mora, confusa.
La foresta intorno a loro ebbe un fremito, diventando una macchia indistinta, per poi tornare alla normalità subito dopo.
«È arrivato il momento di andare» si congedò la dea, corrucciando le sopracciglia. «Il mio potere sta per esaurirsi, e tu sei pronta a svegliarti.»
«Prima che vada» la richiamò la ragazza, non appena quella le diede le spalle. «Posso chiederle una cosa?»
Artemide tornò a guardarla, negli occhi un luccichio di curiosità. «Ma certo.»
«Emma.» Al solo pronunciare quel nome, Skyler sentì gli occhi bruciare. «Che cos’ha fatto, dopo aver rifiutato la sua offerta?»
La dea arricciò il naso, incapace però di nascondere un piccolo ghigno. «Ha baciato quel Leo» confessò.
Gli angoli della bocca della figlia di Efesto si incurvarono, palesando il suo divertimento.
C’era da aspettarselo, tipico di Emma.
«Nel caso al tuo risveglio avessi un trauma cranico, sappi che sto cercando di migliorare» continuò la ragazzina dai capelli ramati. «Non era mia intenzione mandare la figlia di Ermes in infermeria.»
La mora aggrottò la fronte. «Si riferisce alla notte del 4 Luglio? È stata colpa sua?»
«Proprio così. Ma non l’ho fatto di proposito» si affrettò ad aggiungere Artemide, mostrando i palmi. «Entrare nella mente di qualcuno quando questo è sveglio è molto più complicato, e purtroppo senza volerlo sono andata a toccare quella parte di cervello in cui avrebbe dovuto risiedere il dono, e…»
«Aspetti, quale dono?» la interruppe la ragazza, confusa.
I lineamenti della dea sfarfallarono. «Lo scoprirai con il tempo» si limitò a rivelare.
«Ma…»
«Ora devo andare.»
Skyler si morse il labbro inferiore, spostando il peso da un piede all’altro. C’erano così tante domande che voleva farle, ma purtroppo i secondi a loro disposizione stavano per scadere.
In quell’istate si ritrovò ad odiare la dea della Caccia per il solo fatto che avesse deciso di parlarle. Non l’aveva affatto aiutata. La confusione che impediva l’ordine dei suoi pensieri ora era aumentata ancora di più.
«Un ultimo consiglio?» si informò.
«Il Luminex vi ha detto che la Pietra si trova sul punto più alto dell’isola, questo Picco del Drago. Fossi in voi, io inizierei da lì.»
Gli alberi che circondavano la figlia di Efesto presero a vorticare senza sosta. La mora barcollò, inciampando sui suoi stessi piedi. Per un attimo, le sembrò che la figura di Artemide, di fronte a lei, avesse ricominciato a brillare.
Erano corna, quelle che le stavano spuntando sul capo?
«Buona fortuna, semidea» riecheggiò una voce suadente direttamente nella sua scatola cranica. «Io ho fiducia nelle tue potenzialità.»
Dopo di ché, tutto si svolse ad una velocità esagerata.
Skyler percepì un artiglio sprofondare nella sua schiena, fino a perforarle i vestiti. Una mano invisibile l’attirò verso il basso, e poi giù, sempre più giù, fino a che non si rese conto di essere risucchiata in una sabbia mobile.
Tentò di restare ancorata al terreno, sforzandosi di chiamare aiuto, ma prima che potesse riuscirci, uno strano liquido le invase i polmoni.
L’oscurità prese il posto del bosco nell’istante stesso in cui in suo capo veniva ricoperto di terra.
Poi, il suo petto ebbe un fremito.
 
Ω Ω Ω
 
Quando Skyler sbarrò gli occhi, di scatto, l’unico suono che i suoi nervi tesi riuscirono a percepire fu il battere regolare del cuore di John.
Con il capo ancora posato sul suo petto, la ragazza fece vagare le iridi scure lungo tutto il perimetro, alla ricerca di un indizio che le suggerisse che la dea della Caccia fosse davvero stata lì.
Ma ovviamente, l’unico cambiamento nel luogo che li circondava era quel flebile scambio di ombre che l’ascesa della luna aveva causato.
La sera era già arrivata. Dovevano andarsene di lì prima che fosse troppo tardi.
Con un sommesso sbadiglio, la figlia di Efesto si tirò su a sedere.
Era stato tutto frutto della sua immaginazione, o Artemide le aveva davvero proposto di unirsi alle sue Cacciatrici?
In altre circostanze, di fronte ad un invito del genere avrebbe esitato, ragionandoci su.
Ma ora come ora aveva troppe cose da perdere, per poter anche solo prendersi il lusso di valutare quell’ipotesi.
Ripensò al modo in cui il nome di Emma era rimasto in sospeso tra loro durante tutta la conversazione, come un fantasma che le osservava dall’alto, che voleva aiutarle a capire. Una fitta al petto le diede la sensazione di essere appena stata pugnalata.
La figlia di Ermes non le aveva mai detto del suo incontro con la dea. Quante cose erano capitate alla sua migliore amica e che a lei erano sfuggite?
Da quando era iniziata l’estate, non aveva fatto altro che combinare guai.
Era stata una pessima nipote, una pessima fidanzata, una pessima sorella ed una pessima amica.
Che cosa c’era di sbagliato in lei? Perché riusciva a rovinare sempre tutto?
Con un gridolino di frustrazione, la mora si premette i palmi contro gli occhi, sperando che se magari lei non fosse stata in grado di vedere il mondo, forse neanche il mondo avrebbe visto lei.
Poi un lieve sibilo giunse ai suoi timpani all’improvviso.
Il suo primo istinto fu quello di balzare sull’attenti, sguainando la sua spada.
Puntò l’arma verso un punto indefinito davanti a sé, per poi spostare velocemente lo sguardo tutt’intorno.
Il fischio sottile si ripeté, e stavolta alla ragazza venne la pelle d’oca.
Fece per chinarsi, pronta a svegliare John, quando quel suono sconosciuto ed anomalo assunse un nuovo significato.
«Seguici» riecheggiò una voce suadente nella sua testa, come se fosse un invito a giocare. «Vieni con noi.»
Skyler rimase pietrificata, il sangue che aveva smesso di fluirle nelle vene. Fu solo nell’istante in cui prese fiato per parlare, che la vide.
Una debole luce fluttuante, di un colore bluastro con lievi sfumature purpuree. Galleggiava a mezz’aria, fissa di fronte a lei, e se quella piccola increspatura tra le fiamme fosse stata davvero una bocca, la ragazza avrebbe giurato di vederla sorridere.
«Seguici» fu il nuovo mellifluo ordine, e alla figlia di Efesto fu chiaro che proveniva da quello spiritello.
Era sicura di non averne mai visto uno, prima di allora, ma le bastò frugare attentamente tra i cassetti più impolverati della sua memoria per associarlo ad una figura mitologica ben precisa.
Un Fuoco Fatuo. Che cosa diceva il mito su di loro?
Nell’antichità erano ritenute l’essenza stessa dell’anima. Si credeva che seguendoli si potesse trovare il proprio destino.
Era un mito nordico, giusto? O giapponese?
Poco importava, comunque. Quell’esserino senza sostanza stava ancora volteggiando sotto il suo naso, aspettando che lei ascoltasse il suo consiglio e gli andasse dietro.
La ragazza esitò, indecisa sul da farsi.
Il figlio di Apollo non si era ancora svegliato, il ché era un bene, perché molto probabilmente non le avrebbe permesso di andare, ma anche un male, dato che con tutti i mostri che c’erano in giro non era una grande idea, quella di separarsi.
Skyler spostò lo sguardo da lui, alla creatura, poi ancora a lui, e infine di nuovo alla creatura.
Esalò un breve sospiro, rendendosi conto delle sue dita tremanti solo quando strinse la presa sull’elsa della spada.
Dopo di ché fece un passo verso il Fuoco Fatuo, e con uno scintillio questo si dissolse.
Per un attimo, la figlia di Efesto credette che se ne fosse andato; ma dopo qualche secondo lo scorse di nuovo, a pochi metri di distanza da lei.
Il messaggio era chiaro: doveva seguirlo.
Ma diventò più complicato restare concentrati quando a quello spirito se ne aggiunsero altri cento.
Uno spettacolo mozza fiato, tutte quelle luci blu messe in fila indiana che con le loro tenui fiamme tracciavano un sentiero.
La ragazza le seguì senza titubare, ascoltando il fruscio che emettevano ogni volta che si dissolvevano, non appena lei gli era troppo vicina.
Contò in silenzio i passi che la separavano dal luogo nel quale aveva riposato; il posto in cui aveva lasciato John, che quasi sicuramente, notando la sua assenza, si era già messo a cercarla. O forse non si era ancora svegliato. Aveva focalizzato talmente tanto la propria attenzione su quei docili esserini da aver perso completamente la cognizione del tempo.
Lo spazio esterno aveva assunto un’importanza così irrilevante, che se non si fosse bloccata in tempo la mora avrebbe rischiato di sbattere il muso contro un grosso albero.
Un albero? Era uno scherzo, per caso?
Non aveva di che farsene di un albero, eppure era più che convinta che l’ultimo Fuoco Fatuo si fosse fermato lì.
Un albero. Era tutto un trucco per raggirarli e farli finire in trappola?
No, impossibile. Il suo sesto senso da mezzosangue l’avrebbe sicuramente avvertita che qualcosa non quadrava. Era sempre stata brava nel riconoscere i mostri buoni da quelli sanguinari e inaffidabili.
Doveva esserci un indizio nascosto, inciso su quella corteccia. Magari un messaggio.
Senza apparente motivo, le tornarono in mente le parole di Artemide.
«Il Luminex vi ha detto che la Pietra si trova sul punto più alto dell’isola, questo Picco del Drago. Fossi in voi, io inizierei da lì.»
Il punto più alto dell’isola. Ad occhio e croce, quell’arbusto svettava per circa quattro metri.
Skyler si legò la spada alla cintura, facendo appello a tutta la propria forza di volontà per poter dar retta a quell’intuizione. Stringendo i denti fin quasi a spezzarli, si arrampicò lentamente su per il tronco, trovando basi d’appoggio su robusti rami e spaccature nella scorza.
Un rivolo di sudore le colò sulla base del collo, ma ignorandolo lei continuò a salire, finché con un po’ di fortuna non riuscì ad arrivare in cima.
Prese fiato un paio di volte, tentando di regolarizzare il respiro. E non appena la foresta sotto di lei smise di girare per via delle vertigini, tutto andò a fuoco.
C’era un che di magico, nell’osservare l’isola dall’alto. Quasi non facesse più paura, e assumesse le sembianze di un’insignificante luogo tropicale.
La figlia di Efesto assottigliò lo sguardo, scrutando l’orizzonte con attenzione. Quando riuscì a vederla, la contentezza fu tale che minacciò di farla ruzzolare giù.
Eccolo lì, il Picco del Drago. Una montagna che si innalzava imponente e maestosa. Così alta da sfiorare e sorpassare le nuvole. Così bella che Skyler rischiò di svenire.
Ecco il punto più alto dell’isola. Ecco il posto che proteggeva la Pietra dei Sogni.
Sarebbe rimasta ore ad osservarlo estasiata, con le lacrime agli occhi, se qualcuno non avesse invocato il suo nome.
«Skyler!»
Era John. Per qualche assurdo scherzo del destino, era riuscito a dirigersi nella giusta direzione. C’era agitazione, nel suo tono. E soprattutto tanta tensione.
«Skyler, dove sei?»
«Sono qui!» urlò lei di rimando, asciugandosi le palpebre con il dorso. «Sono qui, John!»
Lanciò un’occhiata verso il basso, giusto in tempo per scorgere il figlio di Apollo avvicinarsi ai piedi dell’albero. Non appena la vide, il ragazzo si lasciò sfuggire un sospiro sollevato, quasi il suo petto fosse un palloncino che era stato in procinto di scoppiare.
«Che ci fai lassù?» le domandò, con l’aria di un rimprovero. «Mi hai fatto prendere un colpo!»
«John, l’ho trovato!» esultò però lei, incapace di celare un sorriso. «L’ho trovato!»
Riportò le proprie iridi sulla punta di quella giogaia, la testa che vorticava per la troppa felicità.
«Ho trovato il Picco del Drago!» spiegò poi.
Andiamo a prenderci la Pietra che ci spetta.
 
Ω Ω Ω
 
Riscendere da quel tronco si era rivelato molto più complicato di quanto la semidea potesse immaginare.
Skyler era stanca, e non solo per via di tutte le battaglie che era stata costretta ad affrontare.
Skyler era stanca perché non aveva più voglia di lottare.
Aveva perso Michael. Poi Alex. Poi Emma. E per un attimo la soluzione più semplice era sembrata lasciarsi morire a sua volta, così da mettere fine a quell’ignobile sofferenza.
Ma poi le era tornato in mente il vero motivo per cui erano approdati lì.
La Pietra dei Sogni. Non avrebbe lasciato quell’isola senza riuscire a stringerla tra le mani.
I suoi amici avevano dato la vita affinché lei riuscisse nel suo obbiettivo. Affinché scoprisse come affrontare il proprietario di quell’orrida voce, così da riportare il suo ragazzo al Campo sano e salvo.
Non era ancora finita. Non del tutto, almeno.
C’era ancora un briciolo di speranza, ad aleggiare in quel fiume di morte e disperazione. Una speranza che si era accesa nell’istante in cui avevano scoperto verso quale direzione andare.
Emma ed Alex non si sarebbero sacrificati invano. Lei ce l’avrebbe fatta; per sé stessa e per loro.
Non appena aveva spiegato a John il perché raggiungere quella montagna fosse importante, il ragazzo non aveva sillabato una parola, limitandosi ad annuire per poi prendere ad avanzare verso la meta indicata.
La figlia di Efesto lo osservò, mentre camminavano fianco a fianco tra le ombre della foresta.
Sembrava distrutto; anzi, annientato. Le spalle incurvate come se non ce la facessero più a sostenere un peso così grande, lo sguardo spento quasi le sue iridi non fossero capaci di vedere più alcuna luce.
Non aveva detto nulla, dopo la dipartita della figlia di Ermes. Niente che fosse degno di nota, perlomeno.
La mora non voleva giudicarlo. Ognuno di loro affrontava il lutto in modo diverso, e se lei aveva passato circa un paio d’ore in una valle di lacrime, magari lui preferiva andare avanti e non pensarci.
Ma era convinta che non gli facesse bene tenersi tutto quel dolore per sé. Se non l’avesse condiviso il prima possibile, presto o tardi avrebbe rischiato di implodere.
«Tra poco sorgerà il sole» constatò la ragazza, maledicendosi per la propria voce tremante. «Magari riusciremo a raggiungere la Pietra prima che faccia di nuovo sera.»
«Mh-mh» assentì John, grattandosi distrattamente un orecchio.
Skyler lo guardò di sottecchi, rigirandosi nervosa la spada tra le mani. «È tutto okay?» domandò, apprensiva. «Non mi sembri molto convinto.»
«No, va bene» affermò lui. «Stavo solo pensando che magari dovremmo…»
Non riuscì a finire la frase, che una fitta al petto lo fece piegare in due per il dolore. La figlia di Efesto lo sorresse prima che le sue ginocchia cedessero alla pena, e il ragazzo si portò una mano alla spalla, facendola diventare immediatamente cremisi.
«John!» esclamò la mora, aiutandolo a sedersi ai piedi di un tronco. Solo allora si accorse dell’enorme macchia di sangue che si era espansa sulla sua maglietta. «John, che succede?»
«Sto bene» replicò lui, stringendo gli occhi al fine di darsi forza. «Ho avuto soltanto… un mancamento.»
«John, fammela vedere» gli ordinò, ma il figlio di Apollo si morse l’interno della guancia, contrariato. «Mostramela subito!» sbraitò a quel punto lei.
Il biondo esitò, riluttante a scoprirsi la ferita. Ma dopo un po’ si afferrò con due dita l’orlo del colletto, tirandolo fino a mostrare i profondi segni che un paio di artigli gli aveva lasciato.
«Oh miei dei» mormorò la ragazza, spalancando la bocca scioccata. Allungò una mano per poter sfiorare quello squarcio nel petto dell’amico, ma non appena i suoi polpastrelli entrarono in contatto con la carne viva, lui sussultò, e le dita di lei si intrisero di rosso.
«Sto bene» ripeté lui, non riuscendo però a convincere neanche sé stesso. «Non è niente, giuro.»
«Quando te la sei fatta, questa?» lo rimproverò Skyler, fissandolo con disappunto. «Avresti dovuto disinfettarla e medicarla! Come hai potuto pensare che…»
«C’erano cose più importanti da fare, che pensare alla mia ferita.»
 «Per esempio?»
«Emma era morta.» La sua voce si incrinò nel pronunciare l’ultima parola. Lei incrociò le sue iridi verdi, leggendovi rammarico e disperazione. «Come avrei potuto preoccuparmi del mio male?»
La figlia di Efesto lo soppesò per qualche secondo, sostenendo il suo sguardo senza sapere cosa dire. Poi ripensò a tutto ciò che era successo nelle ultime ventiquattro ore, e un pugno di ferro le strinse la gola.
«Passami il tuo zaino» comandò, e il ragazzo obbedì senza opporre resistenza. Lei si asciugò il naso con un palmo, sgranchendosi meccanicamente la gola. E dopo aver racimolato le bende necessarie per poter guarire il suo amico prese a fasciargli la spalla, scansando dalla contusione i residui di terra.
John la lasciò fare, arricciando solo il naso di tanto in tanto, quando il dolore si acuiva. Passarono ore, o forse solo qualche minuto, e il silenzio avrebbe finito con il soffocarli, se non fosse stato brutalmente interrotto dal figlio di Apollo.
«Avrei dovuto esserci io, al suo posto.»
Quando Skyler sollevò gli occhi per guardarlo, notò che le sue iridi erano fisse in un punto indefinito di fronte a sé; apatiche, prive di spirito.
«John…»
«No, è vero. Inizialmente c’ero io, sull’orlo di quel dirupo. Se mi fossi accorto prima dell’attacco di quel mostro, lei non mi avrebbe spinto via per affrontarlo.»
«Non è stata colpa tua, John» lo rassicurò la ragazza, accarezzandogli teneramente una guancia. «Non pensarlo neanche per un secondo.»
«Avevo promesso ad Alex che avrei avuto cura di voi.» La sua vista si appannò, mentre la sua voce si riduceva ad un tremante sussurro. «Che vi avrei protetto, anche a costo della mia stessa vita. Avevo giurato a me stesso che non avrei permesso a niente e nessuno di farvi del male. E invece guardaci. Emma è morta, ed io non sono stato in grado di impedire che ciò accadesse» continuò. «Ho fallito, Skyler. Non ho mantenuto la promessa fatta ad Alex. Ho lasciato che voi cadeste nel vuoto senza fare niente per aiutarvi, e…»
«Ehi, John, guardami» lo interruppe la mora, afferrandogli il viso tra le mani. «Guardami» ripeté. Il ragazzo lo fece. «Non osare neanche pensare che Emma se ne sia andata a causa tua, chiaro? Quella che lei ha fatto è stata una scelta. Ed io ho provato a fermarla. Giuro che ho tentato con tutte le mie forze. Ma è stato inutile. Lei aveva già deciso, capito? E nessuno avrebbe potuto fermarla.»
«Ma perché l’ha fatto?» ribatté lui. «Come ha potuto pensare che quella fosse la cosa giusta da fare?»
«Non lo so» ammise Skyler, con un sospiro. «Nessuno capirà mai i suoi ragionamenti. Ma lei era così: il suo spirito di sacrificio era così grande che molto spesso le offuscava la ragione. Non penso di aver mai incontrato una ragazza più testarda. Insomma, sarà stata anche una figlia di Ermes, ma era…»
«Speciale» concluse lui, stringendo le labbra in una linea sottile.
La figlia di Efesto si lasciò sfuggire un sorriso, rendendosi conto solo in quel momento di aver iniziato a piangere. «Sì, infatti» annuì. «E le persone speciali non spariscono così, da un momento all’altro. Resteranno per sempre al nostro fianco.»
«Non sai cosa darei per poter essere stato io, quello che cadeva nel vuoto.»
La ragazza gli accarezzò uno zigomo, pulendolo delle lacrime che l’avevano sporcato. «Anch’io» mormorò, prima di attirarlo a sé e stringerlo in un abbraccio.
John abbandonò il capo contro la sua spalla, nascondendo il viso nei suoi capelli scuri e lasciandosi sfuggire un singhiozzo disperato.
Skyler gli baciò delicatamente l’incavo del collo, tirando su col naso e incastrando dolcemente le dita nei suoi biondi capelli.
Era strano vederlo così; così fragile, così indifeso. Fin da quando ne aveva memoria, era sempre stato lui quello che si prodigava per consolare le persone.
Lui sapeva sempre cosa fosse giusto dire; i suoi abbracci infondevano sempre calma e tranquillità.
Ma in quel momento la mora comprese che neanche il suo migliore amico era indistruttibile. Anche lui andava salvaguardato, e soprattutto protetto.
Anche lui aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a restare a galla.
Forse Emma sarebbe stata per sempre un vuoto che li avrebbe accompagnati fino alla fine delle loro vite. Ma la figlia di Efesto lo pensava davvero: le persone speciali non se ne vanno mai, non definitivamente.
Andata ma non dimenticata, ripeteva sempre suo zio, ogni volta che un suo commilitone moriva sul campo di battaglia.
Andata ma non dimenticata.
Andata.
Ma mai dimenticata.
 
Angolo Scrittrice. 
Salve, semidei! 
Cosa ci faccio qui? 
Ebbene sì, ho appena pubblicato un nuovo capitolo. Spero che gli dei non me ne vogliono, soprattutto perchè tra qualche minuto arriverà la mezzanotte, e per questo sarà ufficialmente giovedì. 
Chiedo umilmente perdono, ma questa è stata una giornata molto... impegnativa, per me (per non dire demoralizzante). E al di là del fatto che come al solito non sono del tutto soddisfatta di come io abbia scritto questo capitolo, spero vivamente che vi sia piaciuto. 
Anche se può apparire come un insulso capitolo di passaggio, succedono molte cose importanti. 
Innanzi tutto, vediamo come hanno reagito
Skyler e John alla morte di Emma
Non benissimo, direi. Ma d'altronde, cosa vi aspettavate? Era pur sempre la loro migliore amica. Una sorella, se vogliamo dirla tutta. 
Mentre la figlia di Efesto ha sfogato la propria disperazione nelle lacrime, però, il figlio di Apollo ha tentato di trattenersi fino a quando non ha rischiato di scoppiare come un palloncino troppo gonfio. 
Comprendiamo i suoi sensi di colpa, ovviamente. Però povero cucciolo, mi fa male vederlo triste. Di solito è sempre lui che aiuta gli altri ad affrontare le situazioni. E Skyler quella che ha bisogno di più supporto, invece. 
Qui i ruoli si sono invertiti, ed io ne sono assolutamente contenta. Ognuno di noi ha un proprio lato debole ed un altro invece più forte, e non bisogno vergognarsi né denigrare nessuno dei due. 
Per quanto riguarda il sogno della mora, invece... beh, ora capiamo molte cose. 
Ricordate quando Emma aveva visto quel cervo bianco nei confini del Campo? Che poi aveva avuto un trauma cranico, Leo l'aveva aiutata e i due, alla fine, si erano baciati? 
Beh, quel cervo era
Artemide. Le aveva proposto di entrare a far parte delle sue Cacciatrici, così come ha fatto con Skyler in questo capitolo. 
Ma entrambe le ragazze hanno rifiutato. Secondo voi hanno fatto bene? 
Ora finalmente i nostri semidei sono a tanto così dal poter ritrovare la Pietra. Come pensate che andrà a finire? Riusciranno in questa difficilissima impresa?
Ma parliamo anche di uno degli aspetti più importanti. 
Skyler ama Michael. Ormai l'ha ammesso, guys. Al di là di tutto quello che è successo fino ad ora, lei lo ama e lo amerà fino allaa fine. 
E' la prima volta che lo confessa, perchè prima d'ora si sono limitati entrambi a scambiarsi parole dolci senza mai arrivare al punto. Pensate che lui lo saprà mai?
Riuscirà la ragazza a dirglielo di persona? O morirà prima nel tentativo di farlo?
Detto questo, devo fare una comunicazione: so di avervi detto che entro oggi avrei confermato la continuazione della storia o annunciato la sua sospensione, ma la verità è che non ho ancora deciso.
Mancano così pochi capitoli, ed io non me la sento di abbandonarla proprio ora. Ma allo stesso tempo sono sempre più titubante, perchè è come se sentissi che cintinuandola, forse farei uno sbaglio. 
Purtroppo non sta più avendo l'esito che tanto avevo sperato, e mi dispiace che la maggior parte di voi abbia deciso di lasciarsela alle spalle, ma molto probabilmente è stata solo colpa mia. 
Le mie idee non sono abbastanza belle da poter meritare troppa attenzione, o forse hanno fatto cadere la storia nel noioso e banale, non so.
Per questo il supporto di quelle poche persone che ancora mi sono vicine è così importante. Voi siete la mia forza, e il motivo per cui ho pubblicato questo capitolo. 
Grazie infinitamente a
Sarah Lorence, Francesca lol, Occhi di Smeraldo, Lux_Klara, PeaceandLovewithBTR e Percabeth7897, che con le loro bellissime recensioni sono riusciti a strapparmi un sorriso nel momento in cui avevo deciso di mollare tutto e darmi alla briscola.
Le vostre dolci parole sono davvero una salvezza <3 E scusatemi se non sono ancora riuscita a rispondere a tutte le recensioni, ma non avrei mai immaginato che anche una volta finita la scuola gli impegni mi avessero sommersa senza ritegno. 
Anyway, questa settimana penserò a cosa fare, e poi, forse, vi darò una risposta definitiva. Spero comunque che questo capitolo sia stato di vostro gradimento, e di sentire le vostre opinioni in proposito. 
Un bacione enorme, e grazie ancora a tutti voi!
Al prossimo martedì, si spera.
Ancora vostra,

ValeryJackson 

 
 
 

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Capitolo 41
*** Capitolo 40 ***



Al di là di ciò che Skyler aveva previsto, quando le prime luci dell’alba cominciarono a farsi strada tra gli sprazzi di cielo, i due semidei non erano neanche a metà strada.
La figlia di Efesto non sapeva dire, con esattezza, quante ore di camminata mancassero prima di poter raggiungere il Picco del Drago, ma capì di essere ancora terribilmente lontana dal suo obbiettivo quando in piedi sul massiccio ramo di un albero allungò il collo per poter scorgere l’orizzonte, e si rese conto che la montagna continuava ad apparirle come un’insolita macchia indistinta che svettava tra le nuvole.
«Credo proprio che non potremo riposare a lungo» rivelò a John, mentre riatterrava a terra con un tonfo.
«Quanto è lontana?» domandò il figlio di Apollo, corrucciando pensieroso le sopracciglia.
La ragazza esitò. «Un bel po’.»
Non aveva intenzione di demoralizzarsi. Finalmente avevano una pista da seguire; dopo tutto quel tempo passato a girovagare su quell’isola, ora sapevano perfettamente dove andare per poter perseguire il loro obbiettivo.
Non aveva raccontato all’amico il sogno della notte precedente, ma il ragazzo aveva notato una nuova tenacia scintillare negli occhi della mora.
Lei aveva un compito, ed era quello di salvare Michael. E nulla, neanche il fato le avrebbe impedito di riuscirci.
Dopo circa un paio d’ore di un’estenuante camminata durante la quale nessuno dei due aveva fiatato, Skyler iniziò ad avvertire i primi sintomi dello sfinimento. Aveva la fronte imperlata da un leggero strato di sudore, ed era incredibile come, dopo tutto quel tempo, il polpaccio che il Simurgh le aveva addentato, se sottoposto ad un eccessivo sforzo, continuasse a farle male.
Asciugandosi distrattamente la tempia con il dorso della mano, la ragazza lanciò un’occhiata furtiva al biondo. Avanzava con le spalle incurvate, ma nonostante ci fossero due profondi cerchi neri a contornare le sue orbite, lui non osava lamentarsi.
Fu solo quando la figlia di Efesto lo vide massaggiarsi sovrappensiero la spalla ferita, che intuì fosse arrivato il momento di fermarsi.
«Non ce n’è bisogno» replicò il ragazzo, non appena lei lo costrinse a sedersi ai piedi di una quercia per potergli medicare la piaga sul petto. «Sto bene.»
La mora abbozzò un sorrisetto sghembo. «Tu parli troppo, Davis» lo canzonò, ignorando le sue proteste e sfilandogli le bende ormai già sporche di sangue.
Il figlio di Apollo prese fiato per poter replicare, ma le sue corde vocali non emisero alcun suono, per cui con un sospiro si limitò a lasciarla fare.
«È strano, sai?» esordì poi, mentre lei gli disinfettava lo squarcio con premura. «Ritrovarsi dall’altra parte, intendo. Di solito sono io quello che medica le vostre ferite.»
«C’è sempre una prima volta» si limitò a mormorare Skyler, osservandolo di sottecchi arricciare il naso.
«Odio sentirmi così vulnerabile» si lamentò lui, digrignando i denti al fine di sopportare il dolore.
«Cosa ti fa pensare di esserlo diventato?»
«L’aver lasciato morire due amici su tre.»
La ragazza interruppe la propria azione a metà, sollevando di scatto lo sguardo ed incontrando le iridi smeraldine di John.
Lui si strinse nelle spalle, un sorriso triste ad increspargli le labbra. «Non posso permettere che quest’isola si porti via anche te» confessò con tono amaro. «Non sono sicuro che riuscirei a sopportarlo.»
La figlia di Efesto prese un gran respiro, un groppo che le opprimeva la gola. «Io non vado da nessuna parte, mi hai capito?» ribatté, e a dispetto di quanto sperasse, la sua voce si incrinò. «E vediamo di smetterla con i gesti eroici da oggi in poi, okay? Ne ho abbastanza. Siamo tu ed io, e le cose dovranno rimanere tali finché non avremo lasciato questo posto.» Gli puntò un dito contro, assottigliando lo sguardo. «Mi sono spiegata?»
Il biondo inclinò il capo di lato, squadrandole in viso con attenzione. Poi le afferrò dolcemente una mano, scansandola dal proprio volto, e se la portò al petto, proprio dove batteva il cuore.
«Lo giuro sullo Stige» promise, e di fronte a quelle parole, Skyler sussultò.
Eccola lì, un’altra promessa.
Da quand’è che aveva cominciato a temerle?
Forse dall’istante in cui tutte quelle che le avevano fatto avevano preso a sfaldarsi, una ad una. Forse dal giorno in cui aveva capito che mantenere la parola data era molto più difficile di ciò che si poteva immaginare.
Forse dal momento in cui una scarica di pugni invisibili le si era abbattuta sul petto, rendendola conscia del fatto che dopo tutti quei colpi subiti, lei non sarebbe più stata la stessa.
Non avrebbe più creduto a nessuna promessa. Non sarebbe stata vittima di ulteriori delusioni.
Eppure eccola di nuovo, al punto di partenza. Con John che assicurava che non l’avrebbe abbandonata, e lo spazio tra il suo cuore e la sua mente che minacciava di scoppiare mentre i due tentavano di trovare un punto d’incontro.
Come avrebbe fatto a credere in lui? Come avrebbe potuto non farlo?
Fin dall’inizio, il figlio di Apollo era stato la sua ancora. Il suo porto sicuro. Il suo angelo custode.
Nonostante tutto ciò che era successo tra ed intorno a loro, lui c’era sempre stato, pronto a darle conforto e a coricarsi sulle spalle gran parte della sua angoscia.
Tutti avrebbero desiderato una persona, accanto, che li sostenesse così. E lei sarebbe stata un’idiota se sé la fosse lasciata scappare.
Chinandosi con accortezza verso di lui, gli posò un tenero bacio sulla guancia, facendogli sfuggire un sorriso. Poi si allontanò quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi.
«Lo giuro anch’io» affermò, solenne. Il ragazzo l’attirò con calma a sé, e la figlia di Efesto non oppose resistenza quando lui se la strinse amabilmente al petto, permettendole di nascondere il viso nell’incavo del suo collo.
Skyler inspirò a fondo il suo familiare profumo di menta, mentre John le accarezzava delicatamente i capelli.
Di tutti i momenti che avevano trascorso lì, forse quello era l’unico in cui sentirono davvero di poter contare ciecamente l’uno sull’altra. Erano rimasti soli, e si sarebbero protetti a vicenda contro qualsiasi pericolo avesse barrato loro la strada.
Non era più una questione di abnegazione. Era una questione di amicizia, nel senso più puro del termine.
In quell’attimo i suoi pensieri volarono prima ad Emma, che per qualche ignobile scherzo del destino non avrebbe mai potuto essere lì con loro; poi a Michael. Si chiese che fine avesse fatto, dove lo tenessero segregato, ma soprattutto se stesse bene. Era stata così preoccupata di poterlo raggiungere da non ragionare su cos’avrebbe potuto trovare, una volta che l’avrebbe ritrovato.
E se quella voce gli avesse fatto il lavaggio del cervello? E se avesse perso la sua umanità? E se avessero rimosso dal suo cervello ogni ricordo che lo legava a lei?
Proprio ora che era a tanto così da poter completare la propria missione, fu invasa dall’incertezza. E se il Michael che lei amava fosse scomparso, lasciando il posto a tutt’altra persona? Sarebbe mai stata in grado di fronteggiarlo?
«John?» chiamò ad un tratto, con voce esitante, mentre percepiva la propria cornea bruciare.
«Mh?» mugugnò lui.
«Tu pensi mai a Melanie?»
Il figlio di Apollo titubò, colto alla sprovvista da quella domanda. Ma dopo qualche secondo di esitazione sospirò, posando la nuca contro il tronco al quale era appoggiato. «Ogni giorno» confessò, con l’amaro in bocca.
«E ti capita mai di…» La ragazza scelse con cura le parole. «Di avere paura che al tuo ritorno lei sia cambiata?»
«Ma sì, certo» annuì il biondo. «La maggior parte delle volte, in realtà. Non so cosa aspettarmi, una volta tornati al Campo. E se lei avesse conosciuto qualcun altro? E se avesse commesso un atto di pura follia ed io non fossi stato lì per difenderla?»
«E quindi come fai?» chiese lei. «Come fai a fidarti di lei, con tutta questa distanza?»
Il ragazzo accennò un sorriso, chiudendo gli occhi per un secondo. «Mi basta ripercorrere con la mente tutto ciò che abbiamo passato. Com’è nato ciò che c’è tra noi, e come mi sono sentito la prima volta in cui lei ha detto di amarmi. Come se non avessi peso. Come se… il mondo avesse deciso di lasciare spazio solo a noi due. Non mi sono mai sentito così… completo, prima di allora. È una sensazione difficile da spiegare, ma pensarci mi fa rendere conto che un legame così non può essere scalfito dalla lontananza.»
Ti amo.
Skyler non poteva fare affidamento a quelle due parole. Né lei né Michael avevano mai avuto il coraggio di pronunciarle, e sono in quell’istante si pentì di essere stata tanto pavida.
Aveva combattuto contro mostri, giganti, malattie, bulli e forze ignote, eppure non appena il suo nemico era diventato l’amore, lei aveva fatto un passo indietro.
Aveva avuto paura, si era lasciata intimorire da quelle iridi del colore del mare, quasi temesse che se avesse aperto loro il proprio cuore, quelle avrebbero potuto non corrisponderla.
E ora, ne avrebbe pagato le conseguenze. Poteva fare affidamento solo sui propri ricordi.
Ripensare alle labbra morbide del figlio di Poseidone e al modo unico che aveva lui di stringerla a sé forse l’avrebbe aiutata ad avere fiducia.
La fiducia che a lui era mancata, la sera in cui l’aveva vista in compagnia di Matthew.
La fiducia che forse avrebbe fatto sì che tutto ciò non sarebbe mai accaduto.
Fiducia.
Su cosa si basava, davvero, la fiducia?
«Quanto ti manca da una scala da uno a dieci?» domandò sommessamente, al ché John ridacchiò.
«Non credo sia ancora stato inventato un numero per definirlo» mormorò, per poi baciarle dolcemente la fronte. «A te?»
«Troppo» sospirò lei.
Quello che in quel momento sentiva di provare per Michael era uno spossante vortice di emozioni che difficilmente avrebbe potuto essere spiegato.
Quella zazzera di capelli scuri era l’unico motivo che la spingeva a non crollare, a resistere fino alla fine.
Quindi come avrebbe mai fatto, senza di lui?
 
Ω Ω Ω
 
Dopo aver terminato definitivamente tutte le provviste rimaste per un ultimo pasto di fortuna, i ragazzi si rimisero in viaggio verso la loro meta.
Proprio come aveva fatto durante i loro primi giorni di permanenza lì, anche stavolta John aveva ceduto parte della propria porzione a Skyler, dimezzando il proprio cibo per far sì che l’amica recuperasse le dovute energie.
La figlia di Efesto non l’avrebbe mai ringraziato abbastanza per quel suo gesto, ma aveva avuto comunque premura di fargli notare che così facendo stava venendo meno alla parola data.
Basta gesti eroici, era l’accordo. Almeno finché non sarebbero riusciti ad abbandonare quel posto maledetto.
Lentamente, l’aria stava cominciando a diventare afosa, tanto che ben presto i due semidei si ritrovarono con i vestiti fastidiosamente appiccicati al corpo a causa del sangue e del sudore.
Dovevano solo fare un ultimo grande sforzo; stringendo i denti, avrebbero raggiunto il Picco del Drago al più presto, e a quel punto sarebbero davvero riusciti ad avere qualche speranza.
Chissà perché, la ragazza si augurava che una volta arrivati lì, tutto sarebbe diventato più semplice. Immaginava questa singolare Pietra posta su un piedistallo che si ergeva dal nulla proprio ai piedi della montagna, quasi non aspettasse altro che essere trovata.
Era solo un sogno ad occhi aperti? Molto probabilmente sì.
Ma era così stanca di lottare che per qualche attimo le piaceva credere che il fato non cercasse davvero di rovinar loro l’esistenza.
Quella Pietra, e poi avrebbero finalmente potuto salvare Michael.
Ce l’avrebbero fatta, no? Insieme ce la facevano sempre.
Quando i primi bagliori del tramonto tinsero il cielo d’arancio, il figlio di Apollo tramutò il proprio braccialetto in un arco, tendendo la corda nell’eventualità che un mostro li attaccasse.
Anche Skyler sguainò la propria spada, guardandosi intorno circospetta.
Odiava la sensazione di panico che li invadeva ogni volta che calava la sera, facendoli dubitare anche del più insignificante rumore.
Ma presto sarebbe finita. Presto tutta quella storia sarebbe arrivata ad una conclusione.
«Skyler, aspetta» la chiamò improvvisamente John, facendola sussultare per la sorpresa. Di solito avevano l’abitudine di restare in silenzio, così che prevedere l’attacco di un eventuale nemico fosse più semplice.
Quando la mora si voltò per osservarlo, notò la leggera ruga che gli si formava in mezzo alla fronte ogni qual volta era preoccupato. «Sì?» fece, inarcando un sopracciglio.
«Ho bisogno di parlarti.»
La figlia di Efesto fece un passo verso di lui, leggermente confusa. «Va tutto bene?»
«Sì… cioè, no» balbettò il ragazzo, sfregandosi il volto con una mano. «Ma non voglio arrivare di fronte alla Pietra senza prima avertelo detto.»
La ragazza spostò il peso da un piede all’altro. «Okay, allora ti ascolto.»
«C’è la possibilità che… sì, insomma.» Il biondo esitò, cercando il modo migliore per esprimere il proprio pensiero. Ma prima che ci riuscisse, l’amica aveva già capito dove voleva andare a parare.
Si irrigidì, stringendo l’elsa della propria arma talmente tanto da avere le nocche bianche. Dopo di ché, sospirò. «Lui è vivo» affermò, con un’insolita decisione. «Me lo sento.»
«Lo so, ma non abbiamo idea di cosa troveremo, una volta tornati là fuori» ribatté il figlio di Apollo. «Siamo stati qui per quanto, Skyler? Ho perso il conto. Potrebbe essere troppo tardi.»
«Il tempo è relativo, qui» replicò lei. «Una settimana potrebbe corrispondere ad un giorno nel mondo mortale.»
«Come qualche mese potrebbe corrispondere ad anni» le fece notare lui, al ché lei si zittì. «Ricordi Alex? Era nato intorno agli anni cinquanta ed era ancora convinto di avere diciassette anni.»
«Michael è vivo» reiterò lei, con convinzione. «Io lo so.»
John aprì la bocca per obiettare, ma inizialmente non articolò nessun suono. Comprendeva la speranza quasi disperata dell’amica di credere che avevano ancora una possibilità, ma non voleva che lo scoprire che così non sarebbe stato l’avesse distrutta come fosse vetro.
«Voglio solo che tu ti prepari all’eventualità che quella voce abbia…» Fece fatica anche solo a pensarci. «Abbia già ucciso Michael.»
La ragazza titubò un secondo, quasi quelle parole minacciassero di farle perdere l’equilibrio. Guardò in su, nel tentativo di frenare delle pungenti lacrime. Poi incontrò le iridi smeraldine del biondo, sostenendo il suo sguardo con fermezza.
«Se in questo momento succedesse qualcosa a Melanie, e lei stesse rischiando la vita, tu non lo percepiresti?» domandò.
Il ragazzo non replicò, ma dalla sua espressione fu ben chiara la risposta.
«Allora fidati di me quando ti dico che Michael è ancora vivo» lo implorò. «Non so in che condizioni sia, né se gli abbiano fatto qualcosa che magari l'ha cambiato… in maniera permanente. Ma sono sicura che lui non sia morto. Lo sento qui, capisci? Come una fiammella nel petto che mi avverte che c’è ancora un motivo per non mollare.» I suoi occhi si imperlarono, ma lei continuò. «Capisco che molto probabilmente posso sembrarti pazza, o visionaria. Ma io lo sento, John. Continuo ad avvertire questo filo invisibile che in un modo o nell’altro ci ha sempre legati. Lui sta lottando per restare in vita, in questo momento, perché conta su di me» singhiozzò poi. «Ed io voglio soltanto salvarlo per poter ritornare a casa.»
«Ehi, non fare così» le intimò il figlio di Apollo, non appena una lacrima le solcò timidamente una guancia. Annullò le distanze che li separavano, pulendole lo zigomo con il pollice, per poi afferrarle il viso tra le mani. «Mi dispiace» si scusò. «Se sei davvero convinta che Michael sia ancora vivo, allora io ti credo.»
Skyler annuì, riconoscente. «Grazie» sussurrò con un fil di voce, al ché lui le lasciò un tenero bacio sulla fronte, poco prima di posarvici contro la sua.
Attesero così per qualche istante, mentre la figlia di Efesto tentava di ricomporsi. Poi, un rumoroso fruscio di foglie attirò la loro attenzione.
I due di voltarono, scrutando tra gli alberi.
Poteva essere solo paranoia, quella dei semidei, ma faceva davvero troppo caldo perché potessero sperare che fosse stata colpa di un soffio di vento.
Si misero schiena contro schiena, sollevando le proprie armi.
Dai cespugli emerse un’indistinta sagoma azzurra. La ragazza assottigliò lo sguardo, scrutandola allarmata.
Una creatura avanzò verso di lei, sibilando tra gli appuntiti canini. Apparentemente aveva l’aspetto di un cervo, con zoccoli scheggiati e due possenti corna scure come la pece. E la mora non si sarebbe lasciata impressionare dal suo manto turchino, se questo non fosse stato ricoperto di squame.
Il muso somigliava a quello di un furetto, con dei sottili baffi grigi che si allungavano fino a sfiorare il terreno. Una criniera rosso fuoco gli avvolgeva il lungo collo, mentre con la serpentesca coda fendeva l’aria, producendo un fischio sferzante.
Puntò gli occhietti gialli su Skyler, inclinando leggermente il capo di lato, e non appena questa si domandò se quello sulla sua bocca fosse un ghigno, vide spuntare due dei suoi simili dietro di lui.
«John» mormorò, con tono urgente.
«Li ho visti» rispose il ragazzo, sforzandosi di non perdere di vista gli altri tre mostri che procedevano nella sua direzione. «Muoviti con cautela, mi raccomando.»
Ma tanto la figlia di Efesto non si sarebbe spostata comunque. In un certo senso, era pietrificata. Odiava non conoscere il proprio nemico, e ancor di più non sapere quale fosse il modo migliore di attaccare.
«Che cosa facciamo?» domandò, con quegli esseri che li accerchiavano, ma per un attimo dubitò che il biondo l’avesse sentita.
«Li uccidiamo» si limitò a sussurrare lui.
«È questo il tuo grande piano?»
«Se ne hai uno migliore, allora sono tutto orecchie.»
Però no, lei non ne aveva affatto, uno migliore. A dirla tutta, non era sicura neanche di avercelo, un vero e proprio piano.
Potevano solo sperare che, se avessero attaccato per primi, avrebbero avuto dalla loro parte l’effetto sorpresa.
«Pronto?» borbottò, rigirandosi abilmente la spada nel palmo.
Il figlio di Apollo annuì, incoccando una freccia. «Vai!» esclamò, per poi lasciar andare il dardo ed infilzare l’orbita di una delle creature. Quella urlò, barcollando per il dolore.
Skyler si lanciò contro la successiva con un grido di sfida. Menò un fendente, poi un altro. E se il mostro era riuscito ad evitare i primi due, il terzo andò magistralmente a segno, procurandogli una ferita sul collo dalla quale prese a sgorgare un liquido nero.
La ragazza grugnì, disgustata, poco prima di colpirgli il muso con il piatto dell’arma e tagliargli il tronco con un montante.
L’essere si disintegrò, e le sue ceneri smisero di dissolversi un attimo dopo che il secondo partì alla carica.
La figlia di Efesto riuscì a scansarsi dalla sua traiettoria, ma uno dei suoi robusti corni non mancò di ferirle la schiena. Lei cadde in ginocchio, con un lamento strozzato, ma prima che la creatura potesse trafiggerla con le sue zanne, racimolò le forze necessarie per poterla colpire con l’elsa della spada nello spazio tra i piccoli occhi, facendola indietreggiare per lo stupore.
Si rialzò un po’ a fatica, e distrattamente vide John disintegrare uno dei mostri grazie ad una gomitata ben assestata sul suo cranio.
Skyler sputò a terra un rivolo di saliva mista a sangue, mentre un sapore metallico le invadeva la bocca. Osservò il suo avversario, aspettando che fosse lui il primo ad attaccare.
Questo sbuffò dalle narici, sfregando uno zoccolo contro il terreno. Potpottò con astio, mostrando nervoso i propri denti affilati. Dopo di ché tentò di ferirle il fianco con le corna, e la ragazza si concentrò talmente tanto sul parare quel colpo con la spada, da non accorgersi dei suoi zoccoli posteriori che si abbattevano sul proprio petto.
Venne scaraventata di un paio di metri, finché non andò a sbattere contro il tronco di un albero. Il fiato le si smorzò in gola, e lei boccheggiò, sgranando sorpresa gli occhi.
Si portò una mano ai polmoni, quasi quel gesto potesse alleviare la fitta che avvertiva. Ma quando cercò di rialzarsi, le sue gambe sembravano non voler rispondere ai comandi. Fece perno sui palmi, stringendo i denti con forza; e poco prima che potesse scansarsi, la creatura caricò verso di lei, incastrando le proprie corna nella corteccia alle sue spalle e facendole scappare un urlo di paura.
La figlia di Efesto capì dallo squarcio sulla propria maglietta di essere viva per un pelo, ma questo non la destabilizzò. Prima ancora che il mostro fosse in grado di liberarsi, lei si lasciò sfuggire un’imprecazione, affondandogli la spada nel collo con talmente tanta brutalità, che quello non fece in tempo neanche a gridare, che si era già dissolto.
La ragazza posò la schiena contro l’arbusto, prendendo due grandi respiri. Faceva ancora fatica ad iniettare aria, e ciò le impedì di prevedere l’attacco della terza creatura, che con la propria coda le colpì le caviglie, facendola cadere supina con un tonfo.
L’interdizione fu tale che l’impatto le fece scivolare via la spada; e quando la mora fece per afferrarla, il mostro la stava già calpestando con uno zoccolo.
Skyler alzò lo sguardo sul proprio nemico, rendendosi conto di quanto il suo orrido muso fosse vicino al suo volto solo quando avvertì il suo fiato rancido invaderle le narici.
Avrebbe voluto chiamare aiuto, chiedere a John di aiutarla; ma le parole le morirono in gola, e così, deglutendo, si preparò al peggio.
Fu a quel punto che la vide. Una scintilla argentata si infranse nell’aria, e del mostro sopra di lei non rimase altro che polvere.
La figlia di Efesto tossì, faticando a respirare in quella gialla e malsana nebbia che l’aveva investita. Non appena questa svanì, la mora batté le palpebre, sforzandosi di mettere fuoco.
«Mi sembrava di averti chiesto di non morire» la rimproverò una voce, e la ragazza si portò una mano agli occhi, cercando di identificare quella scura figura illuminata dai raggi del sole. «Non sei molto brava a tenerti fuori dai guai.»
Skyler ebbe un tuffo al cuore, e per poco non rischiò di svenire.
Una chioma di riccioli biondi torreggiava su di lei, crespa e sporca di foglie e fango. La mora pensò ad un’allucinazione, dovuta probabilmente alla troppa stanchezza. Ma quando i suoi occhi si incatenarono ad un paio di iridi argentee come la luna, il suo petto minacciò di implodere d’incredulità.
«Emma» balbettò, frenando un singhiozzo con il palmo della mano.
Non ebbe il tempo di dire altro.
La figlia di Ermes le diede le spalle, e lanciando con precisione il proprio coltello infilzò l’ultimo mostro che tentava di uccidere John, colpendolo proprio dietro il cranio.
Quando anche le sue ceneri si dissolsero, il figlio di Apollo riuscì a focalizzare, e se prima sul suo viso non c’era altro che impaurita concentrazione, ora a dominare erano sgomento e perplessità.
«Non è possibile» mormorò, più a sé stesso che ad altro.
Guardò Skyler, quasi in cerca di una conferma che non fosse l’unico a vederla, ma la ragazza era come pietrificata.
Aveva qualche graffio in più, i vestiti lacerati, i capelli impicciati e una ferita sulla fronte, ma era lei.
La figlia di Efesto l’avrebbe riconosciuta tra mille.
Eppure doveva essere uno scherzo, quella molto probabilmente era solo una stupida illusione dell’isola. Lei non poteva essere lì, perché l’aveva vista…
«Morire» espirò, con un fil di voce. Si alzò in piedi, le ginocchia che non smettevano di tremare. «Io ti ho vista morire.»
La ragazza di fronte a lei abbozzò un sorriso sghembo, e per un attimo, solo un attimo, la mora avvertì una fitta di nostalgia.
«Mi dispiace dirvelo, ragazzi» fece spallucce quella, e nonostante il tono sarcastico, si vedeva che faticava a trattenere l’emozione. «Ma non è così facile liberarsi di me.»
John fu il primo a reagire di fronte a quelle parole. Scattò verso di lei, e prima che le due semidee potessero rendersene conto lui l’attirò a sé, stringendola con così tanto vigore che la bionda fu costretta a sollevarsi sulle punte.
«Miei dei» sussurrò lui, incapace di frenare un singulto. La ragazza rise, con le lacrime agli occhi, e incastrando le dita nei suoi capelli dorati nascose il volto nell’incavo del suo collo, beandosi di quel calore che per due giorni le era mancato.
«Sono qui» lo rassicurò, con voce tremante. «Sono qui, sto bene.»
Il ragazzo si scostò da lei quel tanto che bastava per poterle afferrare il viso tra le mani, squadrandolo confuso. «Ma com’è possibile?» domandò, pulendole del sangue dal sopracciglio. La sua vista era chiaramente appannata, ma lui pareva non curarsene. Emma era di nuovo lì, per tutti gli dei.
Emma era lì, e nient’altro aveva importanza.
«Non lo so» ammise la figlia di Ermes, per poi aggrottare la fronte con un sorriso. «Io… non lo so. So solo che ai piedi di quel dirupo c’era un fiume, e che la corrente mi ha trascinato a riva. Per un attimo, giuro di essere morta. Ho visto il mio corpo lì, riverso a terra. E stavo quasi per essere risucchiata negli Inferi, ma poi… non lo so cos’è successo. Il mio tatuaggio ha iniziato a brillare, e… tutto si è tinto d’argento. Poi ho riaperto gli occhi e mi sono accorta di respirare.» Esitò, comprendendo l’assurdità del proprio discorso. «Capisco che può sembrare insensato» proseguì. «Ma è la verità. Degli Spiriti del Bosco mi hanno nutrito. Non tutte le creature sono cattive, qui. Loro mi hanno anche indicato la strada per ritrovarvi. Non riesco a spiegarvelo, io… era come se il sentiero da seguire si fosse illuminato sotto i miei occhi. Sapevo che sareste arrivati qui prima ancora che voi decideste di venirci, per questo ho preso una scorciatoia, e mi sono imbattuta in un branco di mostri che ha tentato di uccidermi, ma io mi sono…»
«Okay, okay, basta così» la interruppe John, ridacchiando intenerito. Le accarezzò dolcemente una guancia, studiando assorto i suoi lineamenti. «Sei viva» mormorò, estasiato, e lei gli passò una mano tra i capelli, lasciandosi sfuggire un sospiro di sollievo.
«Sì» annuì, commossa, per poi avvolgergli nuovamente le braccia attorno al collo e stringerlo in un abbraccio. Il ragazzo risalì cauto con una mano la curva della sua schiena, quasi temesse che se vi avesse fatto troppa pressione, la ragazza si fosse dissolta.
Quando la figlia di Ermes si allontanò da lui, aveva le guance rigate da calde lacrime. Si voltò verso la figlia di Efesto, che per tutto il tempo era rimasta a fissarli senza sillabare neanche una parola, ed un lacerante senso di colpa la investì come un tornado.
Fece un passo verso di lei, per fronteggiarla, e l’amarezza nei suoi occhi cozzava nettamente con lo spossamento nelle iridi della mora.
Le due semidee si soppesarono per qualche secondo con lo sguardo, producendo un’elettricità statica che aumentava la tensione intorno a loro.
«Skyler…» cominciò la bionda, prendendo un bel respiro per poter parlare, ma prima che potesse aggiungere alcunché, l’altra le si fiondò addosso, ed avvinghiandola saldamente tra le braccia l’attirò a sé, affondando il viso tra i suoi sporchi capelli.
«Non farlo mai più» pianse, afflitta. I suoi stessi singhiozzi le sconquassavano il petto, ma lei non aveva la benché minima intenzione di fermarli. «Temevo di averti persa» aggiunse poi.
Dopo un’istante di interdizione in cui si ritrovò spaesata, Emma ricambiò energicamente l’abbraccio. Posò il mento sulla sua spalla, le iridi imperlate da brucianti lacrime di gioia.
«Non mi perderai» la rasserenò, stringendola come se non avesse più voglia di lasciarla andare. «Abbiamo tante cose di cui parlare.»
«Lo so» convenne Skyler, con voce incrinata. Poi emise un sospiro tremante. «Ma per adesso abbracciami e basta.»
E la figlia di Ermes lo fece, senza pensarci due volte.
C’era tempo per raccontare.
Avevano ancora un lungo viaggio da portare a termine, e i giorni a loro disposizione stavano quasi per terminare, ma in quel momento tutta quella situazione poteva aspettare.
Un’ora in più o in meno non avrebbero fatto la differenza.
Ma lei e la sua migliore amica avevano molto da recuperare. 

Angolo Scrittrice. 
Buonsalve a tutti, miei cari. 
Ebbene sì, I'm still here! Vi chiederete come mai, ma questa è una domanda alla quale risponderto dopo.
Beh, che dire? Ho ancora qualche asso nella manica a mia disposizione. 
Vi aspettavate il ritorno trionfale di
Emma? Se no, spero vi sia piaciuto tanto quanto a me è piaciuto scriverlo. 
Se sì, mi auguro che non abbia deluso le aspettative. 
La nostra figlia di Ermes non è morta, dears, ma le dinamiche di ciò che è successo verranno poi spiegate con calma. Mi rendo conto che dal suo racconto non si capisce granché, anche perchè neanche lei sa con esattezza cosa o come sia successo. 
Ma é tornata. Dopo due giorni di assenza, finalmente si è ricongiunta con i suoi amici. 
E per fortuna i due superstiti erano tanto malconci da non aver camminato poi così tanto, perchè altrimenti sarebbe riapparsa davvero molto più in là. 
Anyway, che mi dite della sua rientrata in scena? Vi è piaciuta? Vi ha fatto schifo? 
Ho voluto concludere il tutto con l'abbraccio con
Skyler perchè mi sembrava giusto e appropriato farlo. 
Durante la sua assenza la figlia di Efesto ha capito quanto l'amica sia essenziale, per lei, e questo pone fine a qualsiasi disguido ci sia stato in passato. 
Ora hanno tutti un solo problema, in mente: Michael. 
Il ragionamento di
John non fa una piega, no? Lui potrebbe essere morto, e magari tutti i loro sforzi sono stati vani. 
O forse potrebbe essere stato manipolato. Chissà, si accettano scommesse. 
Secondo voi è ancora vivo? 
O quella di Skyler è solo un disperato bisogno di credere che ci sia ancora speranza? 
By the way, so cosa state aspettando tutti di sapere. 
La storia continuerà? Verrà sospesa?
La verità?
Le recensioni ricevute nello scorso capitolo mi hanno dato molto da pensare. 
Come hanno detto alcuni di voi, questa storia ha bisogno di trovare una conclusione. 
Non nego di aver iniziato a scriverla con le migliori intenzioni. Ero piena di aspettative, soprattutto considerato l'inaspettato successo che aveva avuto il Morbo di Atlantide. E all'inizio era andata addirittura meglio di quanto sperassi. 
Poi non so, c'è stato un calo che non si è più risanato. 
E sono mortificata per questo, perchè vuol dire che molto probabilmente il mio lavoro non era più così meritevole. Ci sono state molte volte in cui sono stata tentata di mollare tutto e lasciar perdere. 
Ma la verità è che non posso farlo. 
Io ho messo anima e copro in questa storia, e al di là di tutti gli alti e bassi è entrata inesorabilmente a far parte di me. 
Ed è buffo pensare come un personaggio inventato sulla spiaggia mentre aspettavi che tua nonna ti portasse in gelato possa invece essere diventato una dei tuoi migliori amici. 
Io e Skyler siamo cresciute insieme, in un certo senso. E contnuiamo a farlo, passo dopo passo. 
Non sono convinta che questa sia la decisione giusta da prendere. Ma non posso mollare, lo devo a lei. 
Quindi non la lascerò. Non per ora, almeno. 
Mancano circa un paio di capitoli per poter mettere la parola 'fine' a questa storia, e non me la sento di abbandonare nè Skyler, nè John, nè Emma, né Michael proprio ora. 
Al di là di quale sarà il loro destino nel corso dell'epilogo, devo a loro un finale che non sia semplicemente un punto messo troppo presto. 
Detto questo, ringrazio i miei sempre presenti Valery's Angels, che con i loro bellissimi commenti mi hanno chiarito le idee. Grazie immensamente a:
Francesca lol, Sarah Lorence, Iladn, Lux_Klara e Percabeth7897.
Grazie, cuori. Siete i miei angeli custodi <3
Come già  detto in precedenza, mi sto impegnando nel rispondere velocemente a tutte le recensioni lasciate in sospeso. 
Okay, ora è arrivato proprio il momento di andare. 
Grazie ancora una volta a tutti voi, che nonostante tutto continuate a leggere questa storia.  
Spero che non vi pentiate della vostra scelta, così come mi auguro di non pentirmi mai della mia. 
Un bacione a tutti, e per adesso al prossimo martedì
Ancora vostra,  

ValeryJackson


 

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Capitolo 42
*** Capitolo 41 ***



Per quanto si sforzasse, Emma faticava a mettere ordine tra le sue sconnesse memorie.
Man mano che raccontava ai propri amici cosa le fosse accaduto e come avesse fatto a raggiungerli si rendeva conto di quanto le sue parole, in realtà, suonassero prive di senso.
«Ce lo racconterai meglio quando tutto questo sarà finito» l’aveva rassicurata John, dandole un’amichevole pacca sulla spalla. Ma la figlia di Ermes non era sicura che ne sarebbe mai stata in grado.
Continuava ad esserci un tassello mancante, qualcosa che neanche lei riusciva a spiegarsi.
Quando aveva lasciato andare la mano di Skyler, le era stato chiaro che per lei fosse finita.
Non aveva urlato, durante la caduta. Quella era stata una sua scelta, per cui aveva accettato le conseguenze della propria decisione e aveva chiuso gli occhi, attendendo la morte.
Quando il suo corpo si era abbattuto tanto violentemente sul fiume da farle inarcare la schiena per il dolore, la ragazza aveva avvertito quell’acqua limpida insinuarsi nei propri polmoni.
In altre circostanze avrebbe agitato braccia e gambe, nel tentativo di tornare a galla; ma l’impatto con quella superficie era stato così brutale, che la bionda aveva quasi subito perso i sensi.
Mentre la corrente la trascinava sul fondo, ad Emma erano tornati in mente tutti i ricordi che, fino a quel momento, le avevano regalato un sorriso.
Il nonno che l’accompagnava a comprare un gelato.
Travis e Connor che le raccontavano il loro piano per poter rubare i gioielli dei figli di Afrodite.
La prima volta in cui aveva vinto un combattimento con la spada.
L’incontro con Skyler. La gloria subito dopo la loro Caccia alla Bandiera.
I suoi battibecchi con Michael. Gli abbracci di John.
Le chiacchierate con Leo.
Il giorno in cui il figlio di Efesto l’aveva portata al mare. La pietra a forma di cuore. L’altalena.
La notte passata stesi sull’erba, a confidarsi e a guardare le stelle.
Il loro primo, vero bacio.
La figlia di Ermes si era chiesta come sarebbe andata a finire, se lei fosse riuscita a tornare a casa. Magari avrebbero chiarito; o forse semplicemente non si sarebbero più rivolti la parola.
Ma questo non l’avrebbe scoperto mai, perché lei stava morendo, e non poteva fare nulla per impedirlo.
La vita l’aveva abbandonata un secondo dopo che aveva schiuso le labbra, smettendo di opporsi al volere divino.
Ma poco prima che le Parche tagliassero il suo filo, costringendola a chiudere gli occhi per sempre, Emma aveva percepito il proprio tatuaggio bruciare.
Brillava lievemente, evidenziato da un bagliore argenteo che si andava intensificando.
Dopo di ché, quella luce l’aveva avvolta, e lei era spirata, cullata dalle onde del fiume.

Quando aveva riaperto gli occhi, il suo primo istinto era stato quello di rotolare su un fianco, vomitando tutta l’acqua che aveva ingerito.
Non poteva credere che fosse ancora viva, ma era certa che la terra sulla quale era distesa non appartenesse affatto agli Inferi.
Tutte le ferite che si era guadagnata nel corso di quell’impresa scottavano, quasi vi fosse stato versato sopra dell’alcool; il corpo le doleva, ed era così debole che non appena aveva fatto perno sui palmi per alzarsi, una fitta lancinante aveva attraversato come un lampo la sua colonna vertebrale, costringendola a crollare a terra con un lamento strozzato.
«Non muoverti» le aveva intimato una voce a lei sconosciuta, dal suono profondo e gutturale.
La ragazza non aveva avuto la forza di controbattere, né di controllare che il proprio coltello fosse ancora legato alla cintura. Le energie che era riuscita a racimolare erano state necessarie solo a farle sollevare lo sguardo, ed aveva sentito la testa girare non appena aveva messo a fuoco, e si era ritrovata davanti una figura imponente.
I tratti del suo viso non sembravano malvagi, ed Emma ci aveva messo qualche attimo per riconoscervici uno Spirito del Bosco. Aveva una pelle eburnea, tanto da sembrare trasparente, e i capelli albini gli ricadevano leggiadri sulla schiena, mentre le labbra carnose erano dello stesso colore degli abiti che indossava: completamente bianche.
Le sue iridi erano nivee come il ghiaccio, e quando si era inginocchiato accanto alla figlia di Ermes, le sue ali della stessa tonalità del latte avevano emesso un fruscio, facendo sparire i raggi del tramonto dal campo visivo di lei.
La bionda non aveva mai visto uno Spirito con le fattezze di un ragazzo, a quanto ricordasse; ma tutte le domande le erano morte in gola non appena lui aveva allungato una mano per accarezzarle il viso, e lei aveva sussultato, spaventata.
«Non aver paura» aveva borbottato quindi lui, con tono pacato. «Non sono qui per farti del male.»
E chissà come, lei gli aveva creduto. Era come se riuscisse a scorgere la sua bontà.
Sotto quello strato di pelle, piume e magia, vedeva qualcosa.
Una strana fosforescenza, proprio all’altezza del suo petto. Era di un blu cobalto, come il cristallo della collana di Skyler, e per qualche assurdo motivo le infondeva calma e tranquillità.
Quando la creatura le aveva spostato una ciocca bagnata di capelli dalla fronte per esaminarle la ferita, Emma aveva intuito che non aveva cattive intenzioni.
Lo aveva osservato chinarsi su di lei e avvicinare le labbra a quel brutto taglio, per poi soffiarvici delicatamente sopra, fino a ricoprirlo di una leggera brina.
«Presto o tardi cicatrizzerà» le aveva annunciato poi, e solo allora la figlia di Ermes aveva scorto un secondo Spirito, stavolta con l’aspetto di una ragazza, che sedendosi accanto all’amico le aveva sorriso, gentile.
Anche lei aveva quel singolare barlume all’altezza del cuore. Che fosse una particolarità degli esseri come loro?
«Riposati» le aveva ordinato dolcemente quella, posandole una mano sul capo. «Noi nel frattempo penseremo a prenderci cura di te.»
Se ne avesse avuto la possibilità, la bionda avrebbe preferito obbiettare. Ma ben presto le sue palpebre erano diventate pesanti, e la stanchezza l’aveva travolta.
Si era addormentata, e al suo risveglio non si trovava più nei pressi della riva del fiume.
I due Spiriti l’avevano trascinata accanto ad un albero, e l’avevano nutrita, occupandosi di curare tutte le ferite più superficiali.
Guardandosi intorno, la semidea si era resa conto che l’avevano lasciata lì, per poi volatilizzarsi.
Meglio così, si era detta, e non era consapevole di quanto il loro aiuto le avesse beneficiato fino a ché non si era riscoperta in piedi, perfettamente in grado di reggersi sulle proprie gambe.
Un po’ insolito, per una ragazza che era morta solo poche ore prima. Ma Emma aveva preferito non porsi domande, e dopo aver constatato che le due creature l’avevano davvero abbandonata, sparendo nel nulla, aveva deciso che la sua massima priorità, in quel momento, era quella di ritrovare i propri amici.
Aveva fatto vagare lo sguardo tra le fronde della foresta, chiedendosi da che parte fosse giusto andare.
E poi, l’aveva scorto. Un sottile bagliore, tanto chiaro da sembrare quasi invisibile. Era dello stesso identico colore che aveva intravisto aleggiare sui petti degli Spiriti.
Una traccia che loro le avevano lasciato? Come avrebbe fatto a sapere che quella, in realtà, non era una trappola?
L’unica speranza che aveva era quella di dar retta l’istinto, per questo aveva seguito quella luce, percorrendo il sentiero che timidamente le indicava.
Lentamente la notte stava cedendo il posto alle primi luci dell'alba, e la figlia di Ermes era pronta a tirare un sospiro di sollievo, quando un brivido le aveva fatto venire la pelle d’oca. Il mondo che la circondava aveva iniziato a girare, e le vertigini erano state talmente forti da offuscarle per un attimo la vista. Si era appoggiata ad un tronco, prendendo dei grandi respiri.
E ad un tratto lo scenario intorno a lei era cambiato. Non era più sola, ma a pochi metri da una battaglia.
Una battaglia nella quale erano coinvolti John e Skyler. Il suo cuore aveva perso una serie di battiti, mentre con orrore aveva osservato i due ragazzi lottare contro un branco di mostri ricoperti di squame turchine.
Erano in netto svantaggio, ed entrambi sembravano fin troppo stanchi per poter assestare dei colpi abbastanza efficaci.
Ad un certo punto, Skyler cadeva a terra, disarmata. Una di quelle creature le si avvicinava lentamente, scoprendo le fauci, mentre la ragazza voltava disperatamente il capo da una parte all’altra in cerca di una soluzione. Stava per balzare di lato nel tentativo di afferrare la propria spada, quando il mostro le si era avventato contro.
«No!» aveva urlato Emma, fino a svuotare i polmoni; e di fronte a quel grido la visione era sparita con la stessa velocità con la quale era apparsa.
La bionda aveva il respiro affannoso, le pupille dilatate piene d’orrore.
I due semidei erano lontani un bel po’ da lei, questo l’aveva capito osservando il netto cambiamento della vegetazione. Doveva trovarli, prima che fosse troppo tardi.
Perché per qualche ragione che nonostante tutto ancora non riusciva a spiegarsi, la ragazza sapeva che ciò che aveva visto non era ancora avvenuto.
Era semplicemente un avvertimento di quello che sarebbe potuto succedere se non li avesse raggiunti in tempo, e lei forse poteva impedire che accadesse.
Battendo più volte le palpebre, si era resa conto che la flebile scia che l’aveva guidata fin lì, ora era sparita. Ma si era accorta anche che non aveva bisogno di lei, per poter individuare i suoi amici.
Quasi il suo subconscio la stesse spingendo verso una precisa direzione, la figlia di Ermes aveva iniziato a correre, ignorando le fitte al fianco ed i polpacci doloranti.
Non erano mancati gli attacchi da parte di alcuni mostri, ovviamente, ma nulla che non potesse sconfiggere grazie alla rabbia che dirompente l’accendeva come un faro.
Distrattamente, aveva notato anche sui loro petti quell’anomalo bagliore che avevano gli Spiriti del Bosco; l’unica differenza era il colore, di un rosso mattone, che le faceva arricciare il naso, infondendole disgusto ed adrenalina.
Non aveva idea di cosa le stesse succedendo, e smise di chiederselo quando tutti quegli assurdi fenomeni cessarono, non appena si riunì ai propri compagni.
Quando raccontò loro tutto l’accaduto, tenne gelosamente per sé quei piccoli dettagli, quasi ritenesse inutile tentare di spiegare qualcosa alla quale nemmeno lei riusciva a dare un significato.
«Ti resterà la cicatrice» commentò John, indicando con un cenno il taglio sulla fronte, proprio sotto l’attaccatura dei capelli.
Emma fece spallucce, fingendo noncuranza. «Una in più non fa differenza» sminuì, riferendosi a quella che invece le si era già formata sul braccio, dopo l’incidente con la pioggia acida.
«Sapevo che quest’isola continuava a nasconderci i propri segreti» rifletté poi Skyler, sovrappensiero.
La figlia di Ermes sussultò davanti a quelle parole, guardandola di traverso. «Eh?»
«Gli Spiriti del Bosco» specificò la mora. «Non tutti i mostri sono cattivi, qui. Questo posto è in grado di cambiarli anche in meglio, o di non cambiarli affatto.»
Annuendo lentamente, la ragazza si riscoprì a lasciar andare il fiato trattenuto.
Niente più segreti, era questo che si era imposta dopo il brutto equivoco con la figlia di Efesto. Ma sentiva che quello non era il momento giusto per discutere di faccende del genere.
Dovevano salvare Michael.
Trovare la Pietra dei Sogni era il loro unico obbiettivo, e nessuno sarebbe riuscito ad impedirgli di conseguirlo.
Ormai ce l’avevano quasi fatta. Ancora un ultimo sforzo, e poi sarebbero potuti tornare a casa.
 
Ω Ω Ω
 
Tutti i loro sforzi erano valsi la pena.
Tutte le battaglie, i conflitti, le cicatrici. Tutte le loro perdite ed i loro compromessi erano stati necessari per raggiungere uno scopo, ovvero quello di trovare la Pietra.
Quando dopo altri due giorni di estenuante cammino i ragazzi finalmente raggiunsero i piedi della montagna, Skyler sentì il proprio cuore implodere di orgoglio.
Il Picco del Drago svettava per oltre diecimila metri sopra le loro teste, superando qualsiasi altitudine sia mai stata registrata da degli apparecchi umani.
Osservandola, la figlia di Efesto dubitò delle proprie convinzioni, chiedendosi cosa l’avesse spinta a credere che ciò che stavano cercando fosse davvero lì; o che esistesse, addirittura.
«È solo una leggenda» li aveva redarguiti Chirone, poco prima che decidessero di lanciarsi in quella missione suicida.
Ma non appena furono abbastanza vicini da essere costretti a chinare il capo all’indietro per poter individuare la vetta, la ragazza ebbe la sensazione che un palloncino colmo d’aria le si stesse gonfiando nella bocca dello stomaco, a tal punto da farle sturare le orecchie. Quasi avesse appena varcato la soglia di un campo di forza ricolmo di potere.
«È qui» bisbigliò meraviglia, e i suoi amici annuirono, avvertendo anche loro il cambiamento che aleggiava nell’aria.
La magia premeva contro i loro crani, dandogli l’impressione che il mondo avesse preso ad oscillare sotto i loro occhi.
«E adesso che si fa?» domandò ad un tratto Emma, assottigliando nervosa lo sguardo. «Setacciamo ogni metro quadro della montagna finché non la troviamo?»
«È un idea» pattuì John, corrucciato. «Ma a quel punto saremo costretti a separarci. Così da restringere i tempi per poi poter…»
«Ragazzi» lo interruppe Skyler, al ché i due si fermarono, rendendosi conto solo in quel momento che era rimasta indietro. «Non c’è bisogno di passare al setaccio questo posto. Basta seguire il richiamo della Pietra.»
«Il…» balbettò la figlia di Ermes, confusa. «Il richiamo?»
«Non lo sentite?» obiettò la mora, interdetta. «Non percepite questa sorta di… calamita che vi attira?»
I ragazzi si scambiarono un’occhiata, e dalle loro espressioni sembrava si stessero chiedendo se l’amica avesse perso il lume della ragione.
«Sei sicura di non aver…?» cominciò il biondo, incerto.
«Non ho sbattuto la testa!» sbottò quindi lei, capendo dal suo tono dove volesse andare a parare. «Credo che la Pietra sappia che la stiamo cercando, e ci stia inviando un segnale perché vuole essere trovata.»
«Skyler, è una pietra» le fece notare Emma, trascinando lentamente le parole. «È un oggetto inanimato, non può avere una coscienza.»
«E gli alberi non possono parlare, gli uragani non si generano dal nulla e degli innocui spiritelli non hanno manie omicide» sbottò allora la figlia di Efesto, al ché gli altri si zittirono, soppesando le sue parole. «Limitatevi a chiudere gli occhi e ad abbandonare qualunque piano abbiate in mente. Cacciate via i pensieri. La Pietra sa che siamo qui, aspetta solo l’occasione giusta per poterci indicare dove andare.»
Seppur con un po’ di riluttanza, i due semidei non ribatterono. Skyler fu la prima a prendere un gran respiro ed incamminarsi su per uno stretto sentiero della giogaia.
Aveva qualche idea di dove stesse andando? Certo che no.
Era sicura di ciò che aveva spiegato ai suoi amici? Non molto, in realtà.
Era davvero uscita fuori di senno? Probabilmente.
Ma nel momento in cui si ritrovò a mettere un piede davanti l’altro, diretta verso una destinazione sconosciuta, non ebbe alcun tentennamento.
Non poteva permettersene, ecco la verità. Non poteva titubare proprio ora che il destino le chiedeva la massima fermezza.
La Pietra dei Sogni era lì, quella era la sua unica certezza. E non era più disposta a scendere a compromessi.
L’avrebbe trovata, e non le importava il prezzo che sarebbe stata costretta a pagare.
Perché sarebbe riuscita a stringerla tra le mani, a qualunque costo.
 
Ω Ω Ω
 
Con la fronte madida di sudore, la figlia di Efesto sollevò di poco lo sguardo.
Il sole stava già cedendo il posto alle prime calde sfumature del tramonto. La giornata stava per terminare, e così anche la loro possibilità di giungere alla meta senza il timore che qualche nemico balzasse fuori da chissà dove e li attaccasse.
«Quante probabilità ci sono che andiamo incontro ad un enorme buco nell’acqua?» mormorò sottovoce Emma, mentre al fianco di John seguiva l’amica ad un paio di metri di distanza, attenta a non perderla di vista. Sembrava sapesse esattamente dove dirigersi, ed il fatto che parlasse di attrazione e volontà di un pezzo di roccia le faceva sospettare di un eccesso di stress.
«Mi fido di lei» si limitò ad affermare il figlio di Apollo, che però si guardava intorno con area spaesata.
«Anch’io, ma ho una brutta sensazione» ribatté la figlia di Ermes.
«Ovvero?»
«Non lo so.» Scosse il capo. «Ce l’ho e basta.»
«Qualche mostro?»
«Non lo so.»
«Un’imboscata?»
«Non lo so.»
«Credi che la Pietra sia davvero una leggenda?»
«Ti dico che non lo so, John! Smettila di assillarmi.»
Il ragazzo prese fiato per obbiettare, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. «Scusa» concesse poi. «Non vedo l’ora che tutta questa storia sia finita.»
«Lo sarà presto» gli assicurò quindi lei, non riuscendo però neanche a convincere sé stessa, con quelle parole.
Tornò a volgere la propria attenzione sulla mora, accorgendosi solo in quell’istante che era scomparsa dalla loro visuale. Diede di gomito all’amico, sforzandosi di affrettare il passo, allarmata.
Solo quando trovò Skyler con gli occhi fissi in un punto indefinito, comprese perché avesse accelerato. Si era fermata di fronte l’entrata di una grotta, che al suo interno non nascondeva altro che oscurità.
I due semidei l’affiancarono, corrugando le sopracciglia davanti l’eccesso di energia che vibrava fra quelle pareti.
«Suppongo che nessuno di voi ha una torcia, vero?» domandò retorica la bionda, e come immaginava non ricevette alcuna risposta.
I tre ragazzi esitarono dubbiosi sul ciglio della caverna, indecisi se procedere oppure tornare sui propri passi.
Fu solo la figlia di Efesto a racimolare il coraggio necessario per poter proseguire, e senza proferir parola si inoltrò tra le ombre della spelonca finché la sua figura non fu inghiottita dal buio ed i suoi amici si decidessero a seguirla.
Quel posto era decisamente tetro, e puzzava di stantio ed escrementi di pipistrello. Posando il palmo su una parete al fine di farsi strada, la mora si ritrovò quasi subito le dita sporche di terra.
Non c’era nulla che potesse conferire a quel luogo il titolo di ‘incantata’, ma il suolo era pregno di un’elettricità statica che drizzava loro i peli sulla nuca.
«Spero per loro che questa Pietra esista davvero» si lamentò ad un tratto Emma, dopo essere inciampata nell’ennesimo dosso di rocce.
Skyler pareva avanzare come attratta da un singolare richiamo, che però gli altri non riuscivano ad udire, tanto che ad un certo punto la figlia di Ermes afferrò il ragazzo per un braccio, costringendolo ad indietreggiare.
«Secondo te è la caverna giusta?» chiese, in un sussurro.
Ma prima ancora che il figlio di Apollo potesse ragionare sulla risposta giusta da dare, i muri presero fuoco.
Migliaia di scintille partirono dal suolo, saettando in un secondo verso il soffitto umidiccio. Le fiamme si bloccarono poco prima di infrangervisi contro, iniziando a galleggiare a mezz’aria quasi fossero delle fiaccole naturali.
I loro poteri lì erano del tutto annullati, quindi non c’era nessun motivo di credere che fosse opera dell'amica.
Il biondo deglutì, mentre lei sgranava le proprie iridi argentate.
«Ti dico di sì, ma è solo una supposizione» pispigliò, per poi di raggiungere la figlia di Efesto, che ora studiava i tramezzi con il fiato mozzato.
«Aspettatemi!» esclamò Emma, guardandosi le spalle prima di correre da loro. Quello in cui stavano camminando aveva l’aspetto di un vero e proprio corridoio, le cui mura si andavano stringendo quasi tentassero una forma ad imbuto.
«Ci siamo» annunciò Skyler ad un certo punto, e i due semidei capirono a cosa si riferisse non appena le pareti si espansero, ponendoli di fronte ad un ulteriore accesso per uno spazio notevolmente più ampio.
Come se fosse una grotta nella grotta, non appena i ragazzi vi misero piede la pressione aumentò fino a maciullare i loro cervelli.
John strinse gli occhi a due fessure, squadrando il pavimento. «Il posto è di sicuro questo» assentì, osservando la moltitudine di ciottoli che giaceva ai loro piedi, variando di forma e colore. «Ma come facciamo a trovare la Pietra?»
«Già» si unì la figlia di Ermes, chiudendosi il naso per potersi stappare i timpani. «Potrebbe essere una qualsiasi di queste.»
«Scommetto che è quella lì» proclamò la mora, al ché i ragazzi volsero lo sguardo verso il punto da lei indicato, trattenendo il respiro.
Era esattamente come la figlia di Efesto l’aveva immaginata.
A poco più di quattro metri da loro, un conglomerato di rocce si ergeva informe, quasi fungesse da piedistallo per quella che era la selce più luminosa che avessero mai incontrato.
Grande all’incirca come una pallina da tennis, sulla sua superficie rosea aleggiavano diverse gradazioni dello stesso colore, passando da un’indaco intenso ad un’ametista sbiadito. Ricordavano vagamente l’aura che la maggior parte delle volte caratterizzava gli incantesimi dei figli di Morfeo.
«Avrebbe senso» convenne la bionda. 
Il suo bagliore era così lucente che i semidei non riuscivano a fissarla per più di dieci secondi, senza venirne accecati.
Skyler era talmente incredula all’idea che fossero riusciti a trovarla, che fece un passo per acciuffarla, senza prima constatare che ci fossero pericoli.
«Attenta!» le intimò infatti il figlio di Apollo, afferrandola non appena posò il piede su un’instabile passerella. Questa tremolò leggermente, e solo allora la ragazza pensò bene di guardare verso il basso.
Non c’era nessun modo per poter arrivare alla Pietra senza rischiare un impavido salto nel vuoto. Solo un ripido dirupo li separava dalla sponda sulla quale era sistemato l’altare, e lanciandovici un sassolino, Emma ne tastò la profondità.
Quel piccolo sasso non arrivò mai a scontrarsi con il suolo, e questo non fu molto rassicurante.
Il biondo cercò attentamente un’altra soluzione, mentre la mora sentiva gli occhi bruciare.
Stava per convincersi che avevano fatto tutta quella strada per imbattersi nell’ennesimo vicolo cieco, quando notò uno stretto pendio roccioso sporgere sull’abisso, addossato alla parete.
Intuì che anche i suoi amici l’avevano scorto solo quando percepì i muscoli di John tendersi, nervosi, e un brivido di tensione si arrampicò su per la sua schiena quando calcolò che quello spazio fosse grande solo qualche centimetro in più del suo piede.
I ragazzi rimasero in silenzio, una domanda muta che volteggiava tra loro come un fastidioso insetto.
Poi il figlio di Apollo sospirò, sfilandosi lo zaino. «Vado io» si offrì, con il tono di chi non accetta obiezioni.
Lasciò delicatamente la propria sacca a terra, per poi studiare con premura il proprio percorso.
«Okay» si incitò, sfregandosi le mani congelate dall’adrenalina. Avanzò cauto, facendo qualche passo incerto sotto lo sguardo ansioso delle sue amiche.
Non appena però spostò il proprio peso sulla pedana dove poco prima si stava incamminando Skyler, quella si sgretolò, ed il semidio fece giusto in tempo ad indietreggiare che le rocce che la componevano si sfaldarono, precipitando nel baratro.
La figlia di Efesto lanciò un gridolino spaventato, coprendosi istintivamente bocca con una mano.
«Prova questa» gli suggerì la bionda, indicandogli un’altra sporgenza nel tentativo di mascherare la tensione.
Il ragazzo annuì, esitante, ma quando finalmente atterrò con un balzo nel punto da lei indicato, la pietra lo sorresse, e lui fu libero di accollarsi all’umido muro.
«Okay» ripeté flebilmente, il respiro affannoso e le ginocchia che tremavano. «Ci sono quasi» si disse, lanciando un rapido sguardo al proprio obbiettivo.
Si aggrappò con un po’ di fatica ad una colonna alla propria sinistra, cominciando a muovere i primi passi con la schiena rivolta verso il nulla.
Non guardare giù, si impose, ignorando la balza che si scalfiva accanto ai suoi talloni. Guarda in alto!
Emma si lasciò sfuggire un lamento strozzato, mentre Skyler osservava la scena attraverso lo spazio tra le proprie dita, preoccupata.
«Attento» lo avvertì la figlia di Ermes, quando lui rischiò di mettere il piede su un masso più friabile. «Attento! Mantieniti a quella protuberanza accanto alla fiaccola magica, ma non toccare la parte calda.»
«Perché dovrei tenermi alla parte calda?» sbottò lui, a denti stretti. La ragazza prese fiato per controbattere, ma poi strinse le labbra ad una linea sottile, imponendosi di non infierire.
«Attento a dove cammini» lo redarguì quindi l’altra, e fu a quel punto che lui, distratto, balzò su una prominenza che non appena fu sottoposta al suo peso si sbriciolò, minacciando di portarlo nel nulla con sé.
Le ragazze urlarono, spaventate, e lui riuscì a trovare una sporgenza alla quale aggrapparsi poco prima di iniziare la propria caduta nel vuoto.
«Ce l’ho fatta!» annunciò, dopo che la nasua dovuta alle vertigini si fu affievolita. Chiuse gli occhi, concedendosi un tremante sospirò di sollievo. «Grazie colonna» ciangottò poi, posandovici contro la fronte.
«Non metterti sulle parti friabili!» lo rimproverò Emma, stringendo i pungi adirata.
«Ci sono solo parti friabili, qui» le fece notare lui, procedendo nuovamente ma con molta più lentezza.
«Fa attenzione, ti prego» implorò Skyler, in un sussurro troppo lieve perché gli altri potessero sentirlo.
Il figlio di Apollo giunse a circa mezzo metro di distanza dal punto d’arrivo, ma proprio quando sembrava che finalmente ce l’avesse fatta senza procurarsi nessun altro graffio, il soffittò iniziò a crollare, e con lui, anche una delle colonne.
«John!» urlò la figlia di Efesto, e dilatando le pupille, il ragazzo balzò accanto alla Pietra un secondo prima che quel pilastro di rocce lo sbilanciasse, facendogli perdere l’equilibrio.
I detriti si abbatterono accanto al rude piedistallo, sollevando talmente tanta polvere che quando le due semidee la inalarono, furono costrette a tossire a pieni polmoni.
Per un attimo, tutto si trasformò in una bianca nuvola indistinta. Poi lo spesso strato di fuliggine svanì, e la figlia di Ermes corse fino al bordo dello strapiombo, scrutando tra le macerie.
«John!» chiamò, e la voce dell’amico le arrivò ovattata qualche istante dopo.
«È tutto okay» le tranquillizzò, scostandosi un po’ di terra dai capelli dorati. «Sto bene.» Dopo di ché sollevò le iridi smeraldine, ma nel posto in cui si ergeva ciò che cercavano, ora, non vi erano altro che nuove rovine. «Dov’è la Pietra?» domandò, al ché Skyler si sporse oltre l’orlo del dirupo, guardando giù.
«La vedo!» li informò, ritrovandosi suo malgrado ad espirare, confortata.
Per loro fortuna, una lieve sporgenza le aveva impedito di perdersi per sempre nelle profondità di quell’oblio. Si trovava a circa due metri sotto di loro, e scrutando attentamente tra quei massi la mora pensava di riuscire a trovare un modo per raggiungerla.
«Credo di poterci arrivare!» esclamò, ma poco prima che potesse calarsi verso il fondo, Emma la trattenne per un gomito.
«No!» le ordinò. «È troppo pericoloso.»
«Devo almeno tentare» si impuntò lei, e divincolandosi sicura dalla sua presa portò prima una gamba e poi l’altra oltre il vivagno.  «Tieniti pronta a tirarmi su» annunciò poi all’amica, digrignando i denti.
Per un attimo, fece l’errore di lanciare un’occhiata verso il basso, e un capogiro la colpì tanto violentemente che fu costretta a strizzare le palpebre, un rivolo di sudore che le scivolava sulla colonna vertebrale.
Scrollò leggermente il capo, per poi puntare le proprie iridi sull’alone luminoso che la Pietra emanava, studiando accuratamente le rocce sotto di sé, prima di spostarvici il proprio peso.
Era sempre stata brava, nell’arrampicata, eppure le emozioni che le attanagliavano lo stomaco erano diverse da quando scalava la parete del Campo, e del tutto contrastanti tra loro.
C’era paura, ma anche una muta determinazione. Non poteva lasciarsi scappare quel magico oggetto; non ora che lo vedeva brillare sotto la punta del proprio naso.
Quando fu abbastanza vicina da poter identificare ogni singolo cambio di sfumature sulla sua irregolare superficie, afferrò saldamente una stabile protuberanza, incapace di trattenere gemito di fatica mentre allungava il braccio ben oltre le sue capacità.
I suoi polpastrelli riuscirono a sfiorare quel ciottolo incantato, e la ragazza dovette reprimere l’impulso di allontanare la mano di scatto, quasi si fosse appena scottata. Ma irrigidendo la mascella fece un ultimo, grande sforzo, e non capì di essere riuscita nel suo intento finché non si ritrovò a stringere la Pietra nel pugno, portandosela accanto al viso colmo di meraviglia.
«L’ho presa!» esultò, stupita, ma nel momento esatto in cui fece per tornare indietro, il suo tallone scivolò su una parte friabile, e lei perse l’equilibrio, lanciando un grido spaventato.
«Ragazzi!» chiamò, le gambe sospese nel vuoto.
Emma si sporse istintivamente verso di lei, afferrandola per un polso; peccato che le sue braccia stanche non fossero in grado di sorreggere quel peso.
«John» pregò quindi, a gran voce.
«Sono qui!» dichiarò lui, che nel frattempo era tornato sui propri passi, fino ad inginocchiarsi accanto alla figlia di Ermes. Acciuffò la mora per l’altro braccio, facendo appello a tutte le proprie energie per poterla issare su.
Skyler tentò di posare nuovamente i piedi su un masso abbastanza resistente, ma le suole delle sue scarpe continuavano a scivolare sulla parete, sollevando un mucchio di polvere.
Solo nell’istante in cui i due semidei furono riusciti a sollevarla perché non fosse troppo lontana, il figlio di Apollo la prese per i fianchi, ed entrambi rotolarono sul pavimento di quella grotta, mentre lei si accasciava contro il suo petto, esausta.
Per quella che parve un’infinità, il mondo sembrò fermarsi. I ragazzi non si mossero, e l’unico rumore che riecheggiava tra il calcare di quelle mura era l’affanno dei loro respiri, le loro teste che pulsavano per via dell’adrenalina.
La figlia di Efesto giurò che il cuore le si fosse arrampicato fino alla gola, per poi fermarsi lì ed impedirle di respirare correttamente.
Con una lentezza disarmante, quasi fossero intrappolati in una bolla piena d’acqua, i tre amici si alzarono in piedi, facendo vagare i loro sguardi sconcertati sulle macerie del piedistallo – o di quel che ne restava, almeno-.
Dopo di ché, Emma si voltò verso Skyler. Le iridi scure della ragazza erano fisse su ciò che aveva posato sul palmo, tanto che ben presto gli altri due l’affiancarono.
La mora sospirò, ammaliata.
Eccola lì. Dopo tutto quello che avevano affrontato e patito, finalmente ce l’avevano fatta.
Senza apparente motivo, ripensò a Percy, a Leo, a Michael; e poi ancora ad Alex e a Caitlin, che non aveva mai conosciuto. E si domandò che cosa avrebbero detto, se fossero stati lì.
Quanto orgogliosi sarebbero stati, se l’avessero vista maneggiare quell’oggetto.
La Pietra dei Sogni.
Ora non sembrava più solo una stupida leggenda.
«Attenta a ciò che desideri» la redarguì John, e lei lo guardò di traverso, spaesata. «Ricorda che hai una sola possibilità a disposizione.»
«Volete che lo faccia io?» chiese quindi la ragazza, colpita.
«E chi altri, se no?» commentò la figlia di Ermes, con un sorrisetto sghembo.
«Ma io…» provò ad obbiettare lei, prima che le parole le morissero sulle labbra. «Io non so se ne sono in grado.»
«Ci fidiamo di te, Skyler» le assicurò il biondo, al ché l’altra annuì, con decisione.
La figlia di Efesto tornò a studiare la Pietra, stavolta con un magone che le opprimeva il petto.
«Dovrete essere precisi, perché avrete un solo ed unico desiderio» li aveva avvertiti Chirone. «Se lo formulerete in maniera errata, potrebbero esserci delle conseguenze molto gravi.»
La vita del suo ragazzo, quindi, dipendeva da lei, e la mora si sentì come se in quel momento la stesse davvero stringendo tra le mani.
Avrebbe potuto chiedere di portarla da Michael, ma non era sicura che i suoi amici non sarebbero stati lasciati indietro.
Sapere a chi appartenesse la voce misteriosa era inutile, dato che poi non avrebbe avuto idea di come rintracciarla. Per quanto riguardava la prospettiva di far tornare il figlio di Poseidone da lei, meglio di no, visto che non aveva bisogno di un’altra persona cara da dover proteggere, su quell’isola.
Le restava una sola scelta sensata.
«Dimmi dov’è Michael» bisbigliò, tanto flebilmente che nessuno riuscì a sentirla.
All’inizio, non accadde nulla.
Ma nell’istante in cui Skyler pensò fosse stato tutto inutile una luce le investì le iridi, e lei venne inghiottita dalle tenebre.
Prima che potesse perdere i sensi, però, una graffiante risata risuonò nella sua testa, seguita da un tono di sfida.
«Non così in fretta, Ragazza in Fiamme.»
 
Ω Ω Ω
 
Quando riaprì gli occhi, la prima cosa che catturò l’attenzione della ragazza fu il pavimento di marmo sul quale era riversa.
Fece perno sui gomiti, nel vano tentativo di alzarsi, ma quel gesto le causò un grave fitta alla nuca, che la costrinse ad un sommesso lamento.
Si guardò intorno, stropicciandosi gli occhi per far sì che le proprie iridi si abituassero a quell’eccesso di pareti scure.
Aveva un ché di macabro, quel posto; ma dall’arredamento e dall’imponente altura delle colonne che sostenevano il soffitto, Skyler capì essere una reggia.
Si tirò in piedi, dandosi dei colpetti alle cosce affinché smettessero di indebolirsi come gelatina.
Ricordò il desiderio che aveva espresso, e si domandò che cosa ci facesse lì.
Era la dimora del rapitore? Il suo ragazzo era tenuto prigioniero in una delle stanze che costeggiavano le pareti di quegli stretti corridoi?
Non fece in tempo a darsi nessuna risposta, che un richiamo d’allerta attirò la sua attenzione, costringendola a voltarsi.
«Pista!» esclamò qualcuno, sfrecciando accanto a lei così velocemente da sollevarle i capelli spettinati. La ragazza lo seguì con la coda dell’occhio, mentre su dei pattini bianchi quello correva via, portandosi dietro un vassoio pieno di piatti sporchi.
Ma per caso era… uno zombie?
«Signorina, lei non può stare qui» la rimproverò una voce alle sue spalle, facendola sussultare. «È in corso un ricevimento, e non può accedervi a meno che non sia stata invitata.»
La mora strabuzzò le iridi, faticando a registrare quelle parole.
Davanti a lei, fasciato da un tipico smoking per maggiordomi, uno scheletro la squadrava con disappunto. La figlia di Efesto si sarebbe lasciata sfuggire una risatina basita, ne questo non l’avesse investita con la sua aura di morte.
Alle sue spalle, la ragazza notò quelli che ora capì davvero trattarsi di zombie, che in varie divise da camerieri entravano ed uscivano da un enorme salone, svuotando i loro vassoi in meno di cinque secondi.
Quella situazione era così inverosimile da non sembrare neppure reale.
«Glielo ripeterò con le buone, Signorina: lei deve andarsene.»
«Ma veramente io…» balbettò lei.
Lo scheletro le artigliò un braccio. «Se ne vada, o chiamo la sicurezza.»
«Non toccarmi!» urlò Skyler, divincolandosi furiosamente dalla sua presa.
«Heathcliff, che succede?»
La semidea riconobbe all’istante quella voce. Ma cosa…?
Un ragazzo avanzò sconcertato verso di loro. La pelle pallida stonava decisamente con il colori scuri della camicia che indossava, e una zazzera di capelli neri gli ricadeva scompostamente sulla fronte.
Esaminò la scena con le sue iridi d’ossidiana, e nonostante avesse un portamento più fiero e sicuro, la mora lo riconobbe all’istante.
«Nico?» mormorò, incredula ed interdetta.
Il figlio di Ade corrucciò le sopracciglia, mettendola a fuoco. «Skyler?» domandò, altrettanto confuso. Si avvicinò a lei quel tanto che bastava per constatare che non fosse un’allucinazione. «Che ci fai qui?»
«La Signorina tentava di imbucarsi alla festa» spiegò il maggiordomo.
«Festa?» ripeté lei, non capendo. «Quale festa?» Incontrò lo sguardo inquisitore del semidio, che dava l’impressione di essere stato colto alla sprovvista. «Nico, perché sei qui? Dov’è Michael?»
«Michael?» reiterò lui, perplesso. «Perché lo cerchi qui?»
«Perché…» La ragazza studiò quel posto, turbata. «Ma dove siamo?»
«Nella reggia di mio padre» spiegò quindi il ragazzo, al ché lei lo guardò stranita. «Negli Inferi» specificò poi.
La figlia di Efesto avvertì nel petto la completa assenza di battiti.
Aveva chiesto alla Pietra dei Sogni di dirle dove il figlio di Poseidone si trovasse, e quella l’aveva trascinata nel Regno dei Morti.
Le tornarono in mente i versi della profezia, e in quel momento furono come una pugnalata allo stomaco.
La Pietra porterà alla Grande Tomba Circolare.
Non aveva dato peso a quelle parole finché non avevano assunto un senso.
Tomba… quale Tomba più grande di quella, in effetti?
Ma se Michael si trovava lì, allora voleva dire che…
Le sue ginocchia divennero incapaci sostenere il suo peso, e la ragazza minacciò di svenire mentre la vista le si offuscava.
Nico la sorresse giusto in tempo, impedendole di cadere, e lei vide il pavimento sotto i suoi piedi iniziare a vorticare.
«Va a prendere un bicchiere d’acqua!» ordinò il figlio di Ade allo scheletro, mentre la adagiava ai piedi di una colonna di marmo.
Quando quest’ultimo se ne fu andato, la mora percepì gli occhi bruciare, e il proprio respiro diventare pesante quasi stesse avendo un attacco di panico.
Era convinta che fosse ancora vivo. Credeva di sentirlo, come se fossero ancora legati l’uno all’altra. Ma evidentemente la sua dirompente voglia di ritrovarlo le aveva giocato un brutto scherzo, e ora ne stava pagando le conseguenze.
«Skyler?» la chiamò il ragazzo, preoccupato.
«È morto» riuscì semplicemente a sussurrare lei, calde lacrime che le bagnavano le guance.
«Skyler, va tutto bene?»
«È morto…»
«Chi è morto? Di che cosa stai parlando?»
«Michael.» La sua voce si incrinò, e per un attimo temette di poter implodere. «Lui è… è…»
«Skyler, ma che stai dicendo? Lui non è morto.»
I singhiozzi della figlia di Efesto si arrestarono, e lei aggrottò la fronte, disorientata. «C-Come?»
«Sono un figlio di Ade, pensi che non me ne sarei accorto se uno dei miei migliori amici fosse arrivato qui?»
«M-Ma lui è stato rapito. E quella voce ci ha dato due settimane per poterla affrontare, o altrimenti gli avrebbe tolto la vita. E quando ho chiesto alla Pietra dei Sogni di dirmi dove fosse, lei mi ha portato…»
«La Pietra dei Sogni?» domandò Nico, confuso.
«È una lunga storia» sminuì lei, con un sospiro. «Se Michael non è morto, allora perché sono qui?»
«La persona che l’ha rapito deve essere molto più potente di quanto immaginiamo. Credo che abbia deviato la magia di questa… pietra, impedendoti di scoprire dove si trovasse e dirottandoti qui.»
«Ma questo non ha senso» obiettò lei, passandosi una mano tra i capelli. «Perché proprio negli Inferi?»
«Perché si diverte a giocare con te» affermò lui, e nonostante avesse voluto ribattere, Skyler si rese conto di quanto avesse ragione.
Per tutto il tempo quella voce non aveva fatto altro che prendersi gioco di lei. Aveva rapito il suo fidanzato, l’aveva costretta ad inoltrarsi in un’isola sconosciuta, aveva continuato a ricordarle il loro patto e non appena a lei mancava un solo gradino per poter giungere ad una soluzione, allora la ingannava.
Che in quel momento la stesse osservando, deridendola per la sua ingenuità? 
«Nico, che giorno è oggi?» si informò, maledicendosi per il tremitio della propria voce.
«Il 22 Luglio» rispose lui, incerto.
Due giorni. Le restavano due giorni di tempo, prima della data di scadenza.
Aveva ancora un’opportunità.
«Ho bisogno del tuo aiuto» esordì la ragazza, aggrappandosi alla sua spalla al fine di alzarsi in piedi.
«Per fare cosa?»
«Dobbiamo capire a cosa si riferisce la profezia, quando parla di Grande Tomba Circolare.»
«Grande Tomba Circolare» analizzò Nico, a bassa voce. «Credo di aver già sentito questo nome.»
«Davvero?» Gli occhi di Skyler si illuminarono.
Il figlio di Ade lanciò un’occhiata alle sue spalle, quasi volesse assicurarsi che nessuno l’avesse seguito fuori dalla sala del ricevimento. Poi prese la figlia di Efesto per mano, incitandola con un cenno del capo.
«Vieni con me» le intimò, trascinandola per uno stretto e non meno tetro corridoio.
La mora si chiese dove avesse intenzione di condurla, ma non fu in grado di intuirlo finché non si fermarono di fronte ad un enorme portone in mogano scuro.
Sul legno, vi era incisa grottescamente una parola.
Βιβλιοθήκη.
«Biblioteca» tradusse la ragazza, e dal suo tono trapelò un certo sconcerto.
«Solo perché qui sono tutti morti, non vuol dire che siano ottusi» fece spallucce il corvino, afferrando il pomello e spalancando l’entrata.
Skyler rimase letteralmente senza fiato.
Migliaia di libri si addossavano a delle pareti alte più di sei metri, divisi per colore, materia, forma ed anno d’uscita.
La figlia di Efesto scorse qualche antico volume dell’a.C., e mentre procedevano con passo svelto ebbe l’impressione che la stanza si estendesse all’infinito, un po’ come quando si entra in quelli spazi ristretti pieni di specchi.
«Qualsiasi libro sia mai stato scritto o pensato, è qui dentro» raccontò Nico, concedendosi un ghigno meravigliato.
«Vuoi metterti a cercare tra tutti questi libri?» domandò allora lei, indignata. Non avevano tempo da perdere, quella parte non gli era forse molto chiara.
«Ovvio che no» replicò lui, avviandosi verso un bancone alto due metri.
La ragazza non sapeva se essere più scandalizzata dal fatto che questo fosse fatto di ossa, o che la bibliotecaria avesse l’aspetto di un fantasma.
Anzi no, era un fantasma.
«Oh, buonsalve, Re degli Spettri!» trillò lo spirito non appena li vide avvicinarsi, rivolgendosi al ragazzo con un inchino. «In cosa posso esserle utile?»
«Abbiamo bisogno di un’informazione» sentenziò lui, ignorando il titolo che gli era stato affibbiato. «Sai qualcosa riguardo una Grande…» esitò, spostando il peso da un piede all’altro. «Tomba Circolare?»
«Vedrò che posso fare» assentì quella, librandosi sopra di loro. «Aspettatemi qui.»
«Grazie, Ermenegilda.»
Quando quest’ultima sparì, Skyler si voltò a guardarlo, con un sopracciglio inarcato. «Heathcliff? Ermenegilda? C’è qualcuno che abbia un nome normale, in questo posto?»
«Sono morti più di trecento anni fa» ribatté secco Nico. «Che cosa ti aspetti?»
«Ho trovato solo questo» li interruppe la bibliotecaria, tornando con in mano un grosso libro rilegato in pelle. «Ma non è molto.»
Lo aprì sul bancone, e i ragazzi si sporsero sulle pagine per poter osservare. Vi era solo un disegno stilizzato, lì, raffigurante una serie di tavole di pietra disposte secondo un ordine ben preciso.
«Ma questa» ciangottò la figlia di Efesto, stupita. «Questa è Stonehenge.»
«Anticamente era un tomba neolitica» ricordò lui, corrucciato. «Ma poi la si associò alla leggenda di Re Artù. Si diceva che Merlino seppellisse lì tutti i più valorosi caduti in guerra, e che con la sua magia, su quelle terre, riuscì a sconfiggere i Giganti.»
«Questo spiegherebbe perché se il nostro nemico si trova lì, è molto più potente di noi» ragionò lei, non chiedendosi come facesse il ragazzo a sapere tutte quelle cose.
«E la sua forma» le indicò il corvino, seguendo con il dito la linea sulla quale le pietre erano posizionate. «Le megaliti compongono un insieme…»
«Circolare» terminarono insieme, guardandosi con un sorriso.
«Michael e lì!» esclamò Skyler, precipitandosi fuori dalla stanza. «Devo andare a salvarlo!»
«E come pensi di arrivarci?» le urlò dietro lui, al ché lei si arrestò di colpo, spiazzata.
Anche se con la mente era riuscita a volare negli Inferi, fisicamente si trovava ancora sull’isola, insieme ai suoi amici. Come avrebbero fatto ad andare via di lì? Come avrebbero raggiunto l’Irlanda in così poco tempo?
Si prese il volto tra le mani, afflitta. «Non lo so» ammise, scuotendo il capo. «Siamo bloccati lì, maledizione!»
«Io posso aiutarvi» si profferì quindi lui, e la ragazza lo fissò, interrogativa.
«E come?»
«Viaggio nell’ombra» si limitò a spiegare lui. «Se riuscite a lasciare questo… posto in cui vi trovate, e a raggiungere la terra ferma, io posso venire a prendervi, e poi portarvi a destinazione.»
«Perché lo faresti?» domandò la mora.
Nico si rabbuiò. «Perché io e Michael ci capivamo in un istante. Entrambi eravamo visti come le ‘pecore nere’ del Campo, in un certo senso, e questo ci aveva uniti più di quanto immagini.»
«Non parlare di lui al passato» lo riprese a quel punto lei, lo sguardo cupo. «È una cosa che non sopporto.»
«Scusa.»
La figlia di Efesto prese un respiro tremate, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Sei sicuro di esserne in grado?» gli chiese poi. «Non è pericoloso?»
«Tu preoccupati soltanto di andare via di lì» le ordinò il figlio di Ade, con tono deciso. «Al resto ci penso io.»
Skyler annuì, rivolgendogli uno sguardo colmo di gratitudine.
«Lo salveremo» le assicurò lui, e per una frazione di secondo, la ragazza gli credette.
Poi i dubbi l’assalirono, e con loro una valanga di tenebre la investì di nuovo, sfumando il mondo che la circondava e riportandola alla sua realtà.
 
Ω Ω Ω
 
La mora sgranò gli occhi, boccheggiando alla disperata ricerca d’aria.
«Skyler!» esclamò John, inginocchiandosi al suo fianco, e solo allora la semidea si rese conto di essere sdraiata supina sul pavimento roccioso.
«Cos’è…» ciangottò, spaesata. «Cos’è successo?»
«Sei svenuta» la informò il figlio di Apollo, posandole un palmo dietro la nuca per aiutarla a mettersi seduta.
La testa della ragazza girava, i pensieri che vi vorticavano freneticamente all’interno, accavallandosi furiosi tra loro. Con un po’ di fatica, la figlia di Efesto riuscì a formulare una domanda, la gola arsa e assetata.
«Quanto tempo è passato?»
«Pochi secondi» rispose Emma, che in piedi accanto a lei le offrì una mano, tirandola su.
«Stonehenge» gracchiò quindi Skyler, tossendo quasi avvertisse un’anomala sostanza nei polmoni.
«Come?»
«Michael» precisò allora. «Lo tengono prigioniero a Stonehenge.»
«E noi come ci arriviamo in Inghilterra?» obiettò la figlia di Ermes, indignata.
«Dobbiamo raggiungere la terra ferma, andare via di qui. Nico verrà a prenderci.»
«Nico?» Il ragazzo sembrava confuso.
«È una lunga storia, non c’è tempo per spiegarla» si affrettò a dire la mora, porgendo all’amico la Pietra. «Presto, esprimi un desiderio.»
«Eh?»
«Portaci via di qui.»
«Ma…» Prima che il biondo potesse scegliere di replicare, una folata di vento penetrò nella grotta, facendo tremare le stalattiti appese al soffitto. I semidei si protessero i volti con le braccia, ma Skyler era troppo intontita dalla magia che aveva appena subito per poter opporre resistenza, tanto che il turbine la trascinò con sé all’indietro, finché i suoi talloni non sfiorarono l’orlo del precipizio.
La ragazza agitò le braccia, sforzandosi di restare in equilibrio, ma una seconda raffica le colpì l’addome, sbilanciandola.
La figlia di Efesto gridò, rischiando di cadere nel vuoto, però prima che ciò potesse accadere John riuscì ad afferrarla per un polso, digrignando i denti e tirandola in dentro con uno strattone.
Nel trambusto, lo shock della mora fu tale che la Pietra dei Sogni le scivolò di mano, rotolando con uno scintillio nell’abisso.
«No!» urlò lei, allungando un braccio per riacciuffarla. Ma ormai era tutto inutile.
«Dobbiamo andarcene di qui!» ordinò Emma, afferrando il ragazzo per la maglietta e conducendo a forza Skyler con sé.
A quelle parole, la semidea si riscosse; e mentre le colonne di quella piccola caverna una dopo l’altra cominciavano a crollare, i tre amici corsero a perdifiato verso il varco d’uscita, soffi gelidi che si insinuavano sotto la stoffa dei vestiti.
In fila indiana, ruzzolarono fuori. La figlia di Efesto fu l’ultima ad abbandonare quel posto, voltandosi appena in tempo per vederlo disintegrarsi sotto i suoi occhi attoniti.
La Pietra. La Pietra era ancora lì dentro.
Il loro biglietto di sola andata per la salvezza.
Dove avrebbero sbattuto il naso, ora?
«Bene, bene» ridacchiò una voce alle loro spalle, e i ragazzi balzarono in piedi, sguainando repentini le loro armi. «Chi non muore si rivede.»
Se in precedenza non avesse tentato di impadronirsi del suo corpo, molto probabilmente la figlia di Efesto non l’avrebbe riconosciuta all’istante.
Il capo degli Spiriti del Vento si materializzò davanti a loro, rendendo visibili i propri lineamenti tanto vanescenti da apparire sfuggenti.
Ghignò, divertita, e a quel punto Skyler intuì che non era arrivata lì da sola.
«Che cosa ci fai qui?» le chiese, con tono sprezzante. «Che cosa vuoi?»
«Ma mi sembra ovvio, bambina» ribatté quella, con sufficienza. «Esigo che voi mi consegniate la Pietra» annunciò, prima di scoppiare in una grassa risata. A quel suono, i venti vibrarono, scompigliando i capelli dei ragazzi.
«Non scendiamo più a patti con te» ringhiò John tra i denti, al ché lei inclinò il capo di lato, soppesandoli con lo sguardo.
«Datemi la Pietra, e nessuno si farà male.»
«Non l’avrai mai» sibilò quindi la mora, un po’ perché sapeva fosse la verità, dato che era andata perduta, un po’ perché anche se in quel momento l’avesse stretta tra le dita, non l’avrebbe mai consegnata a quel demonio.
La creatura assottigliò lo sguardo diafano, studiandola con disappunto. «Bene» soffiò, furiosa. «Allora dite addio alle vostre vite.»
Detto questo, batté le mani, ed in men che non si dica una dozzina di Spiriti prese forma, volteggiando dinanzi a loro con maestosità.
«Oh, no» mormorò la ragazza, a corto di fiato.
Se la prima volta era riuscita a sconfiggere uno di quegli esseri per pura fortuna, ora non ce l’avrebbe fatta ad opporsi a tutti loro. Come puoi abbattere qualcosa che non si può toccare?
Come fai ad eliminare l’aria stessa?
«Uccideteli!» ordinò la Regina, indicandoli con le sue dita trasparenti. «Adesso.»
Accadde tutto così velocemente che in seguito la figlia di Efesto avrebbe dubitato della sua veridicità.
Un fischio acuto fendette lo spazio sopra le loro teste, giungendo tagliente e lontano.
I semidei sollevarono lo sguardo, interdetti, appena in tempo per poter scorgere una scintilla violacea abbattersi su di loro.
Si scansarono, balzando di lato terrorizzati; ma questa, per qualche arcano motivo, non lì colpì.
Disintegrò tre Spiriti del Vento in uno scoppiettare di urla e sprazzi. Un boato, accompagnato da un accumulo di elettricità statica.
Dopo di ché gli occhi di Skyler misero a fuoco la scena, e si ritrovarono di fronte l’impensabile.
Un mostro era accorso da loro, parandoglisi di fronte per poter intimidire gli avversari con le sue imponenti ali.
Era ricoperto di squame d’ossidiana, con l’aspetto di un rettile che gli conferiva la nomina di drago.
Solo quando voltò il grosso muso per poter lanciare alla mora un’occhiata, lei, sconvolta, lo riconobbe.
Lui. Era la creatura alla quale aveva risparmiato la vita.
Quella che aveva liberato dalla ragnatela, e che poi si era dileguata senza farle del male.
Ma cosa ci faceva lì?
Non le ci volle molto per comprenderlo: le stava restituendo il favore.  
Lei, quella volta, lo aveva salvato, permettendogli di scappare prima che il sole se lo mangiasse. Ora lui era giunto lì per saldare il suo debito.
Con un ulteriore sibilo acuto, il drago racimolò una nube perlacea sul fondo della propria gola, per poi lanciarla sotto forma di palla di fuoco contro due Spiriti che stavano per attaccare.
«Ragazzi, correte» intimò la figlia di Efesto, analizzando velocemente la situazione. «Correte!»
I due amici non se lo fecero ripetere due volte. Si precipitarono dalla parte opposta alla battaglia, non calcolando che così facendo si sarebbero ritrovati in un vicolo cieco.
Skyler li guidò verso uno stretto pendio, che ben presto li costrinse ad avanzare l’uno dietro l’altra; alcuni Spiriti si resero conto del loro tentativo di fuga, e con raffiche violente cercarono di sbatterli ripetutamente contro la parete della montagna, disintegrando con potenti attacchi le rocce ai loro piedi.
«Skyler!» gridò Emma, in cerca di un’idea geniale. «Che cosa facciamo?»
La ragazza ragionò in fretta, guardandosi intorno alla disperata ricerca di una soluzione. Fu allora che si accorse del giovane drago, che per non abbandonarli ora volava basso accanto a loro, affiancandoli a circa due metri di distanza.
La mora si convinse di essere pazza, ma d’altronde non avevano alternative.
«Saltate!» comandò, alzando il tono per far sì che gli altri due la sentissero oltre il rombare del vento.
«Che cosa?» ribatté la figlia di Ermes, scioccata.
«Ora» si limitò a precisare lei. Dopo di ché, prese un gran respiro, e racimolando tutta la propria incoscienza si lanciò verso la creatura, pregando che quella intuisse le sue volontà.
Per un attimo, temette che si sarebbe spiaccicata contro il suolo. Ma poi il drago deviò bruscamente a sinistra, facendola atterrare sul proprio dorso prima che fosse troppo tardi.
Ansante, la figlia di Efesto si lasciò sfuggire un sorriso, non riuscendo a credere che avesse davvero funzionato.
Il primo ad imitarla fu John, che seppur con un po’ di timore si fidò della propria amica, ed atterrò alle sue spalle con un strillo spaventato.  
Skyler fece cenno ad Emma di simularli, ma lei, per qualche ragione, esitò.
Non aveva più tutta questa grande paura per le altezze, ma in un certo senso erano ancora capaci di intimorirla.
E se non ce l’avesse fatta? E se quel mostro l’avesse lasciata cadere?
Fu il nudo e crudo istinto di sopravvivenza a farle lanciare un grido terrorizzato, mentre riluttanti i suoi piedi si staccavano dal terreno.
Per una frazione di secondo, ebbe la sensazione di volare. Un vuoto le colpì la bocca dello stomaco, e la sua scatola cranica minacciò di implodere per via del cambio di pressione.
Ma alla fine sentì il figlio di Apollo afferrarla per i fianchi e metterla a sedere davanti a sé; la bionda strinse i pugni, al fine di interrompere il tremitio delle proprie mani.
«La prossima volta lo invento io il piano B!» si lamentò, aggrappandosi saldamente alle spine dorsali del drago.
«Dite addio a quest’isola» annunciò la mora, capendo che era arrivato il momento giusto di andare. Quella creatura che ora si stava allontanando rapidamente dal Picco del Drago era una benedizione, ed era la loro unica possibilità di raggiungere la terra ferma.
«Non credo che mi mancherà» annunciò John, guardandosi pensieroso alle spalle.
Skyler riempì i propri polmoni, scrutando per l’ultima volta quel luogo che non avrebbe rivisto mai più. Poi si chinò accanto all’orecchio del drago, dandogli un dolce buffetto sul fianco.
«Portaci via di qui» gli sussurrò, e con un ruggito quest’ultimo salì di quota, nascondendosi tra i raggi del tramonto. 



Angolo Scrittrice.
Buonsalve a tutti, semidei!
Ebbene sì, per tutti coloro che pensavano di non rivedermi mai più, purtroppo sono ancora qui a rompervi le balls. Ma non per molto, state tranquilli. 
Ho contato, e mancano esattamente tre capitoli -compreso l'epilogo- alla fine di questa storia (che terminerà, secondo i miei calcoli, il 14 Luglio).
Oh, beh... arrivati a questo punto, mi sembra anche sensato, no?  
Finalmente hanno trovato la Pietra, yeeh! E il penultimo verso della profezia è stato compiuto. 
Chi immaginava un ritorno in scena del Signor
Nico di Angelo? ahah, spero che vi abbia sorpreso. 
Ho sempre immaginato il rapporto tra lui e Michael come qualcosa di molto... fraterno. In un certo senso, erano simili, ed entrambi un po' soli. Per questo il figlio di Ade mi è sembrata la persona più adatte per dare man forte ai nostri ragazzi.
Che -definitivamente- lasciano l'isola. Per chi non ricordasse il drago che è accorso in loro aiuto, lo trova nel Capitolo 34 della seguente storia. Ve l'avevo detto che avrebbe avuto un ruolo importante: grazie a lui, i nostri semidei sono riusciti a fuggire dagli Spiriti del Vento, ed ora si apprestano a giungere sulla terra ferma. 
Mai fidarsi di uno Spirito malvagio, a proposito. Sanno essere piuttosto cattivi. 
Anyway, ora sappiamo cos'è successo ad
Emma dopo essere caduta nel vuoto. 
So che non è molto chiaro, soprattutto la parte riguardante le sue strane percezioni, e quei bagliori che vedeva sui petti delle creature, o la visione... ma era proprio quello l'intento, e poi date tempo al tempo. 
Tutte le domande hanno sempre una giusta risposta. 
Ora finalmente c'è una nuova pista. 

StonehengeA qualcuno era venuto in mente? 
E che cosa li aspetterà, una volta arrivati lì? 
Manca ancora un verso, alla profezia. Che sia quello... decisivo? 
Btw, mi auguro con tutto il cuore che il capitolo vi sia piaciuto, e che non abbia deluso le vostre aspettative. 
Come già detto in precedenza, tengo davvero troppo a questa storia per poter accettare l'idea che finisca nel dimenticatoio. Oramai fa totalmente parte di me. Quelle che leggete attraverso lo schermo sono le mie avventure, le mie emozioni. 
Vorrei ringraziare i miei sensazionali Valery's Angels, che continuano a supportarmi nonostante tutto:
unika, Sarah Lorence, Francesca lol, Iladn, carrots_98, Lux_Klara e Percabeth7897
Se questa storia continua ad esistere, è soprattutt grazie a tutti voi che ora state leggendo questa parte in grassetto. 
Volevo condividere un'ultima cosa con voi prima di andare, perchè anche se può sembrare stupido, mi ha emozionato molto. 
Bazzicavo sul sito di Viria, l'altro giorno, e ad un tratto mi sono imbattuta in questo disegno. 

 

E mi sono venuti i brividi. La mia mente contorta vi ha immediatamente visto Skyler, perchè cavolo, le ha tutte! Dall'aspetto poco femminile, ai capelli raccolti, agli occhi scuri, agli accessori... 
Non ho idea di chi Viria abbia voluto rappresentare, con questo disegno... ma quando è apparso ai miei occhi sono rimasta tanto basita che ora mi piace pensare che sia davvero la mia piccola figlia di Efesto (anche se è letteralmente impossibile, but whatevah) Lo vedo un po' come un regalo di compleanno anticipato -e ccuc se è il 3 Luglio ahah
Okay, dopo questa pensa sia arrivato il momento di andare. 
Grazie mille a tutti voi, e spero che il capitolo vi sia piaaciuto!
Un bacione enorme, e al prossimo martedì
Ancora una volta vostra, 
ValeryJackson


 

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Capitolo 43
*** Capitolo 42 ***



Skyler non aveva chiuso occhio per tutto il tragitto, che in totale era durato un giorno e due notti.
A dispetto di quanto accadeva su quell’isola incantata, il drago che li trasportava non era minimamente minacciato dai raggi del sole.
Nel primo istante in cui li aveva scorti, intimorito, aveva guaito, virando tanto bruscamente in una nuvola che pareva essersi appena scottato. Ma poi aveva scoperto che in fondo non c’era nulla di pericoloso nel planare dolcemente tra i colori dell’alba, e in brevissimo tempo sembrava essersi abituato a quell’insolito bagliore che faceva brillare le sue squame.
Sul suo dorso, Emma si era poco dopo appisolata, un po’ per l’eccesso di stanchezza, un po’ perché la sua avversione per le altezze, in un modo o nell’altro, le impediva di godersi il panorama.
Appoggiata al petto di John, dietro di lei, sonnecchiava silenziosa, sul volto un’espressione nuovamente tranquilla, ora che quell’inferno era finito.
«Dovresti riposare anche tu» aveva intimato il ragazzo alla figlia di Efesto, ma lei, corrucciando le sopracciglia, aveva scosso la testa.
«Dopo, magari» aveva mormorato con un fil di voce, non riuscendo a convincere neanche sé stessa, con quelle parole.
Era consapevole del fatto che non sarebbe riuscita a prendere sonno neppur volendo.
Ora il peggio pareva essere passato, certo; eppure, per qualche arcano motivo, la mora sapeva non essere così.
«Diventa mia, Ragazza in Fiamme.»
Quell’invito continuava a sbattere contro le pareti della sua scatola cranica come una pioggia di molesti spilli.
«Diventa mia.»
Che cos’avrebbe mai potuto significare?
Ricordava bene l’ultimo verso della profezia: E lì il fuoco, con coraggio, il suo destino dovrà affrontare.
Quale fosse il fato al quale si riferiva, la ragazza ben presto l’avrebbe scoperto.
C’era qualcuno ad attenderla, nascosto tra le pietre di Stonehenge; qualcuno di molto potente, e che in qualche modo avrebbe tentato di possederla.
La domanda era: fino a che punto Skyler avrebbe potuto opporsi?
Lei sapeva essere tenace, testarda, e soprattutto coraggiosa. Ma quale sarebbe stato il prezzo da pagare per la propria resistenza?
Ne sarebbe valsa la pena, o doveva prepararsi a combattere l’inevitabile?
 
Ω Ω Ω
 
Quando finalmente raggiunsero uno sprazzo di terra ferma, il sole aveva quasi voglia di iniziare a tramontare.
«Dove siamo?» chiese Emma, guardandosi intorno spaesata. La figlia di Efesto fece qualche passo avanti, assottigliando lo sguardo per poter scorgere un cartello poco lontano.
«’Benvenuti a Lisbona’» lesse John prima di lei.
La figlia di Ermes dilatò le pupille, indignata. «Portogallo» ricordò, sconvolta. «Siamo in Europa?»
«A quanto sembra» borbottò la mora, sovrappensiero.
La bionda buttò le braccia al cielo. «Abbiamo volato fino ad ora per arrivare qui? Non poteva portarci direttamente in Inghilterra, a questo punto?» si lamentò, per poi voltarsi a guardare il mostro, che inclinò il muso di lato, quasi fosse un cagnolino. «Grazie tante, inutile rettile» lo rimproverò quindi lei, al ché quello sbatté le palpebre, studiandola confuso con i suoi grandi occhioni.
«Ha fatto un ottimo lavoro, invece» affermò Skyler, avvicinandosi al lui per accarezzarlo affettuosamente sul collo. La creatura le leccò un orecchio, facendola ridacchiare, poco prima di rivolgerle uno sguardo denso di significato.
Sembrava triste e sofferente, e solo dopo la ragazza capì il perché.
Le tornò in mente la spiegazione di Alex riguardo quel posto che da poco avevano lasciato.
«L’isola può cambiarti. E una volta che lo fa, automaticamente le appartieni. […] Senza rendertene conto inizi ad avere bisogno di lei. È un bisogno quasi viscerale, sai? Ti logora dall’interno.»
Per quanto tempo quel luogo era stata la dimora di quel docile drago? Lei non lo sapeva, ma qualunque fosse la risposta, era abbastanza perché ormai lui non fosse più in grado di vivere nel mondo reale.
Già dopo sole due notti, avvertiva l’impellente desio di tornare lì.
Quella ormai era la sua casa, per quanto disastrosa e spaventosa fosse.
«Capisco» assentì lei, regalandogli un tenero sorriso.
«Che succede?» domandò il figlio di Apollo, accostandosi alla mora.
«Il nostro amico torna indietro» si limitò a dire lei, per poi accarezzarlo un’ultima volta. «Buona fortuna» gli sussurrò, e dal basso ruggito che quello emise, sembrò volesse augurarle la stessa cosa.
Dopo di ché si alzo in volo, senza darle neanche il tempo di ringraziarlo per tutto ciò che aveva fatto per loro.
«Qualsiasi essere faccia parte dell’isola saprà sempre come ritrovare l’isola» ricordò a sé stessa, sospirando mentre osservava la possente figura del drago diventare solo un piccolo punto nel cielo.
Non ti dimenticherò mai, gli promise, finché non sentì la mano di John posarsi sulla sua spalla.
Anche la figlia di Ermes li affiancò, le iridi argentate rivolte verso le nuvole. Prese fiato, con accortezza.
«Non so voi, ma io sto morendo di fame» esordì dopo un po’, rovinando il solenne silenzio che si era creato.
Skyler si lasciò sfuggire un sorriso, mentre il ragazzo roteava gli occhi.
«E cosa vorresti mangiare?» la redarguì quest’ultimo, perplesso. «Le nostre provviste sono finite da un pezzo.»
«Ci sarà pure un minimarket nei paraggi, no?» ribatté lei, mentre i tre semidei, senza rendersene conto, avevano preso a camminare verso una meta indefinita.
«Ma noi non abbiamo soldi» le fece notare lui.
«E tu continui a dimenticare che io sono figlia del dio dei ladri.»
Il biondo la guardò, squadrandola con disappunto. «Non ti aiuterò a rubare del cibo in un minimarket» annunciò, scandalizzato.
«E chi te l’ha chiesto, scusa?» fece spallucce lei. «Io ho bisogno solo che voi mi ricordiate le vostre allergie.»
La figlia di Efesto avrebbe voluto ridere, ma si trattenne di fronte all’espressione corrucciata dell’amico. Si sgranchì la voce, nonostante non ne avesse davvero bisogno.
«Frutta a guscio» affermò, con tono neutro.
Entrambe le ragazze guardarono John più a lungo del necessario, tanto che ad un certo punto lui sbuffò teatralmente, alzando le iridi al cielo.
«Niente sedano per me» brontolò, e per Emma fu impossibile trattenere un ghigno compiaciuto.
 
Ω Ω Ω
 
«Sembra che i portoghesi non facciano caso ad un’americana piena di graffi e sporca di fango che si aggira tra gli scomparti delle schifezze» commentò la figlia di Ermes, lanciando all’amico una busta di patatine.
Il ragazzo la afferrò al volo, studiandola per qualche secondo prima di aprirla.
«Non c’era niente di più salutare?» domandò con disappunto, al ché lei lo fissò stranita.
«Non facciamo un pasto decente da giorni, e tu ti preoccupi che sia salutare?» ribatté, cacciandosi in bocca un pugno di caramelle gommose.
«Emma ha ragione, John» lo riprese Skyler, masticando qualche nocciolina. «Questo potrebbe essere il nostro ultimo pasto.»
Si rese conto delle reazioni che quelle parole potevano scatenare solo quando i due ragazzi puntarono gli occhi su di lei, bloccando le loro azioni a metà.
«Che vuoi dire?» chiese lentamente il biondo, ma lei non rispose, stringendo le labbra in una linea sottile.
«Skyler, c’è qualcosa che dobbiamo sapere?» tentò quindi Emma, però anche stavolta la mora si limitò a scrollare il capo.
«Niente di importante» sminuì, con poca convinzione. «Dicevo così, per dire.»
Gli altri due si scambiarono un’occhiata, e la ragazza capì di non essere riuscita a persuaderli.
«Nico ha detto che sarà lui a trovarci» continuò allora, ansiosa di cambiare discorso. «Ma non ho idea di cosa questo voglia dire.»
«Vuol dire che siete talmente esposti che se non andiamo subito via di qui, ben presto saremo circondati da mostri» li avvertì una voce alle loro spalle, costringendoli a sobbalzare spaventati.
Nascosto nell’ombra dell’alto muro del modesto negozietto che i ragazzi avevano trovato, un giovane li osservava con aria annoiata.
«Davvero inquietante» gli fece notare la figlia di Ermes, al ché quello arricciò il naso, facendo un passo avanti affinché gli altri potessero vederlo.
Il figlio di Ade si era cambiato dall’ultima volta in cui la figlia di Efesto l’aveva visto: non indossava più un’elegante camicia scura, bensì una sgualcita maglia nera con la stampa di un teschio; il suo classico giubbotto da aviatore a rendere la sua figura ancora più smilza.
«Che significa che siamo esposti?» si informò John, soppesandolo con attenzione.
Nico sbuffò, stringendosi nelle spalle. «Non appena siete atterrati, i miei… amici dell’aldilà vi hanno rintracciato subito. Non mi sorprenderei se qualche nemico fosse già in agguato.»
«Dobbiamo sbrigarci» si intromise quindi Skyler, con tono urgente. «E arrivare in Inghilterra prima della fine del tramonto.»
Il corvino annuì, d’improvviso un cipiglio serio in volto. «Muoviamoci, allora» ordinò, facendo un cenno ai tre per indicargli di seguirlo all’ombra della parete.
«In cosa consiste, esattamente?» volle sapere Emma, sorprendendosi di quanto le dita di quel ragazzo fossero fredde non appena lo prese per mano.
«Vedetelo come una sorta di salto» intimò sommessamente lui, che tenendo la mora con la mancina si assicurò che anche il figlio di Apollo si fosse aggrappato all’amica. «Non farà male, ovviamente, ma potreste avvertire un leggero senso di nausea non appena atterreremo.»
«E nel mentre?» disse John, e Nico si rabbuiò.
«Non è tanto male come lo immaginate» si limitò a mugugnare, prima di prendere un profondo respiro.
La figlia di Efesto si preparò a questo grande salto del quale il figlio di Ade aveva parlato, ma nulla avrebbe mai potuto renderla pronta alla sensazione d’inconsistenza che le strinse lo stomaco insieme all’oscurità.
E intuì che il corvino aveva ragione: non era tanto male.
Era forse anche peggio.
 
Ω Ω Ω
 
Non appena chiuse gli occhi, Skyler avvertì un insolito vortice con rimescolio nello stomaco. Udì un suono, acuto e mobile, come se si stesse spostando in una galleria; le sue orecchie si tapparono, e la ragazza ebbe l’impressione che le molecole del suo corpo si stessero lentamente sfaldando, disperdendosi nel vuoto.
Strinse più forte la mano di Nico, sperando che quel gesto l’aiutasse a distinguere la realtà dalle percezioni.
Per un attimo si chiese cosa sarebbe successo, se si fosse lasciata andare.
Poi, sentì una sorta di schiaffo in faccia. Ogni parte del suo copro era esattamente dove avrebbe dovuto essere, riuscì a constatare con un sorriso.
Intorno a lei, silenzio.
Non il silenzio assoluto, in realtà, dato che la leggera brezza che le sfiorava il viso si nascondeva nell’erba sotto le sue suole, producendo un leggero fruscio.
Lentamente, schiuse le palpebre, perlustrando quel luogo spaesata.
Non aveva idea di come il figlio di Ade avesse fatto, ma in un modo o nell’altro era riuscito a portarli a destinazione in poco meno di un minuto. Osservando quello spettacolo, alla figlia di Efesto mancò il fiato.
I toni dell’arancio facevano da sfondo a quelle che da lontano erano solo le sagome scure delle megaliti, poste diligentemente in forma circolare. Assomigliava ad un vero e proprio disegno stilizzato, quasi surreale.
La mora si sarebbe concessa un sospiro, se il corvino, al suo fianco, non fosse stato colto dalle vertigini, minacciando di svenire.
«Nico!» esclamò, preoccupata, portandosi un suo braccio sopra le spalle prima che quest’ultimo cadesse a terra.
«Sto bene» grugnì lui, mettendosi furiosamente in bocca un pezzo di ambrosia che aveva nascosto nella giacca. «Non viaggiavo così da un po’.»
«Non vedo nessuno» annunciò Emma, allungando il collo per scorgere qualcosa tra le pietre. «Sicuri che sia il posto giusto?»
«Sì» annuì Nico, con una smorfia di dolore. «Ma vi conviene avvicinarvi, se volete trovare qualcosa. Chiunque si trovi qui, deve essersi nascosto molto bene.»
«Come, tu non vieni?» domandò Skyler, interdetta.
«Avete bisogno di rinforzi» ribatté lui. «Andrò al Campo per poter chiedere aiuto. Non sono in grado di portare più di tre persone, con me, ma selezionerò i migliori.»
«Avverti Will» esordì John, guadagnandosi un’occhiata dal ragazzo. «Will Solace, mio fratello. Lui è uno dei migliori medici che io conosca. Ci farà sicuramente comodo, il suo aiuto.»
Il figlio di Ade corrucciò le sopracciglia, spostando il peso da un piede all’altro. Poi si guardò intorno, cercando un posto indicato per il prossimo salto. «Quando ho citato i migliori, lui era già tra questi» commentò, un po’ brusco. Poi rivolse alla mora la propria attenzione. «Siate prudenti» le intimò. «Sarò di ritorno il prima possibile.»
La ragazza annuì. «Grazie, Nico.»
Il corvino si limitò ad un cenno del capo, allontanandosi da loro e dirigendosi verso l’ombra di un albero poco lontano. Nel momento esatto in cui mise un piede su quest’ultima svanì, e i tre semidei volsero lo sguardo alle megaliti.
Eccoli, ce l’avevano fatta. Michael era lì, da quelle parti, e loro potevano finalmente riportarlo a casa.
E allora perché esitavano?
La figlia di Efesto aveva la sensazione di aver appena subito un attacco di Medusa, e che le sue membra fossero roccia, incapaci di muoversi. Si rese conto di aver trattenuto il fiato solo quando entrambi i suoi amici la presero per mano.
«Insieme» mormorò il figlio di Apollo, al ché lei, con un sorriso appena accennato, assentì.
Si incamminarono esitanti verso quel monumento centenario, e Skyler non ebbe idea di quanto le pietre che lo formavano fossero alte finché non furono a circa mezzo metro di distanza, e lei fu costretta a chinare il capo all’indietro per osservarne l’apice.
Se si guardavano con attenzione, si aveva l’impressione di essere accanto ad un enorme ed antico orologio.
Difficile pensare che fosse una tomba, in precedenza; ma soprattutto veniva da chiedersi se tutte le leggende sul suo conto fossero vere.
Uther Pendragon? Re Artù? Guerre contro i Giganti?
Se quelle non erano solo favole, allora davvero un mago di nome Merlino era stato lì? E aveva impregnato quelle terre con la propria magia?
La ragazza non ne ebbe la certezza finché i suoi timpani non presero a fischiare. Un solo passo in avanti, e l’atmosfera sembrava vibrare di elettricità statica. Le era familiare, quella sensazione, perché era la stessa che aveva provato nei pressi della Pietra dei Sogni. Lì, aveva attribuito quell’innaturale pressione ad un campo di forza incantato. Che fosse lo stesso anche qui?
Guardando si sottecchi gli altri due, capì che avevano avvertito anche loro un notevole cambiamento.
Esitante, la mora si avvicinò ancor di più ai confini dello Stonehenge, dove il leggero sfrigolare simile a quello dell’olio su una padella calda era decisamente più evidente.
Sollevò una mano, domandandosi se questa avrebbe cozzato contro una qualche sorta di vetro, o simili. Ma mai si sarebbe aspettata che, una volta superata la frontiera, svanisse.
La ritrasse di scatto, indietreggiando stupita e spaventata. Cosa c’era, al di là di quella barriera? Vi si nascondeva qualcosa, era evidente. Forse un mostro, oppure un nascondiglio invisibile all’occhio umano.
O magari…
«Skyler, aspetta» la redarguì John, la voce tesa, ma la figlia di Efesto non lo stava già più ascoltando.
Con un salto disperato superò quella linea impercettibile, ritrovandosi in una stanza del tutto buia, priva di luce.
Allungò le braccia ai due lati, e quando queste sfiorarono entrambe delle mura intuì di essere in uno stretto corridoio. Alle sue orecchie giungeva un rimbombo; un’eco, lontana. Correndo a perdifiato senza sapere dove fosse diretta, la mora non era più in grado di distinguere i rumori esterni dal battere incessante del proprio cuore, che le martellava nel petto. Quella galleria pareva estendersi all’infinito, e ogni passo avanti che faceva aveva l’impressione di farne uno indietro.
Una gelida brezza la investì in pieno, facendole venire la pelle d’oca e insinuandosi sotto i lembi dei suoi lerci vestiti.
Skyler si coprì il volto con le mani, a mo’ di protezione; e troppo tardi di accorse di andare a sbattere contro un’imponente porta di legno che, con un tonfo, si aprì.
Non appena le ante si spalancarono, il vento che l’aveva attaccata si disperse con un ruggito, accompagnato da un’agghiacciante risata ormai a lei nota.
Ma la ragazza smise di chiedersi dove fosse non appena le sue iridi furono attratte da una figura sul fondo della stanza.
Posata accanto al muro di quella che appariva come un’enorme sala da ballo dell’Ottocento, vi era una gabbia. Di un metallo scuro, forse ferro; non era alta neanche due metri.
All’interno, vi era un ragazzo, accasciato contro le sbarre con aria sfinita. Delle catene partivano dal terreno, avvolgendogli il busto, i polsi e le caviglie. Era pieno di graffi, ferite aperte e contusioni, ma lei avrebbe riconosciuto quella zazzera corvina tra mille.
«Michael» sussurrò, portandosi un palmo alla bocca, incredula.
Solo allora il figlio di Poseidone sembrò rendersi conto della sua entrata, e non appena la mise a fuoco i suoi occhi azzurri si sgranarono, terrorizzati.
«No» mormorò, facendo per correre verso di lei; ma le barre glielo impedirono, limitandolo in quello spazio angusto.
In quel momento fecero il loro ingrasso anche Emma e John, che notandolo da lontano si lasciarono sfuggire un sospiro di sollievo.
«Michael» ripeté Skyler, incapace di pensare altro. Era davanti a lei, ed era vivo. Tutti i loro sforzi non erano stati affatto vani. Potevano riportarlo a Long Island sano e salvo, e il solo pensiero le imperlò le ciglia di lacrime.
«No, ragazzi, andate via di qui!» urlò a gran voce il moro. Fece cenno con il braccio di scappare. «Skyler, andate via!»
«Ma che sta dicendo?» sbottò la figlia di Ermes, confusa.
Quell’atteggiamento non aveva alcun senso. Loro erano giunti lì per salvarlo, e lui voleva ce se ne andassero?
«Andatevene, ragazzi!» reiterò il figlio di Poseidone, disperato. «Lui è…»
Qualsiasi cosa avesse intenzione di dire, un boato glielo impedì. Dal pavimento di marmo fuoriuscirono degli arbusti irti di spine, che non appena raggiunsero i tre metri si avventarono su di loro.
La figlia di Efesto riuscì ad evitarli con agilità, ruzzolando di lato, ma gli altri due non furono altrettanto fortunati. Le piante li avvolsero con impeto, ancorandoli brutalmente alla parete.
Si serrarono attorno ai loro corpi, pungendoli senza pietà, finché non furono talmente tanto strette da strappargli un gemito di dolore.
La mora balzò in piedi, sguainando repentina la propria spada. Fece un breve giro su sé stessa, cercando il proprio avversario. Ma nonostante i nervi saldi, non poté non barcollare quando una figura si fece avanti.
Con la sua altezza sfiorava quasi il metro e novanta, e la sua corporatura era robusta ed imponente. Molto più di quanto lei ricordasse, in verità. Stringeva una daga di bronzo celeste in una mano, roteandosela nel palmo con abilità. I suoi capelli scuri erano stati rasati ai lati come quelli di un militare e gli occhi di ghiaccio parevano vuoti e spenti, ma il modo in cui la sua cicatrice si increspò quando ghignò fu un dettaglio inconfondibile.
«Ci rincontriamo, bambina» ridacchiò sprezzante il Generale, al ché la ragazza indietreggiò, colta alla sprovvista.
Che ci faceva lì? C’era davvero lui, dietro tutto questo?
Aveva architettato il rapimento, e i suoi sogni, e tutto il resto?
Era lui il suo sconosciuto nemico?
L’uomo allargò le braccia, un’espressione strafottente in viso. «Sorpresa?» domandò, retorico, per poi avanzare verso di lei.
Skyler deglutì a fatica, sentendo le proprie forze venir meno. L’ultima volta in cui aveva combattuto contro quel tizio non era stata esattamente una passeggiata, per lei. Non era neanche riuscita a sconfiggerlo, in realtà. Era stato lui ad andarsene di sua spontanea volontà, con la promessa che si sarebbero rincontrati al più presto.
E ora, eccolo lì, di fronte a lei.
Se non altro, era un uomo di parola. 
Il Generale si mosse talmente in fretta che fu un miracolo se la ragazza riuscì ad evitare il suo fendente. Parò un montante, ricordando a sé stessa che non si sarebbe arresa senza lottare.
Poi tentò di ferirgli il fianco con un affondo, ma quello lo deviò con facilità, ferendole l’avambraccio senza il minimo sforzo.
Era molto più forte del loro ultimo scontro; e soprattutto decisamente più assetato di vendetta.
Le procurò dei tagli prima sulla guancia, poi su braccia e gambe. La figlia di Efesto, barcollò, stringendo i denti al fine di racimolare le proprie energie. Schivò alcuni colpi con successo, mentre le loro lame cozzavano più volte, producendo un fruscio metallico.
Era da più di due settimane che la semidea non evocava il fuoco, e in quell’istante si domandò se ne sarebbe stata in grado. Ma bastò quel momento di distrazione perché l’uomo tentasse di infilzarla con la spada. Lei si girò appena in tempo di lato, e osservando il bronzo celesta tagliarle via un pezzo di maglia, capì che ci era mancato davvero poco.
Il colpo del Generale non era stato messo a segno, ma il suo gomito proseguì la rotazione, colpendola alla tempia. Doveva avere addosso una qualche specie di corazza, perché Skyler aveva l’impressione di essere appena stata aggredita da una martellata.
Barcollò all’indietro, puntini neri che le danzavano nella retina.
«Skyler, no!» gridò Michael, poco prima che lui le batté l’elsa sul petto, più forte del necessario.
Lei impuntò i talloni, rifiutandosi di cadere, ma era troppo frastornata per poter notare il piatto della daga avversaria abbattersi contro le proprie caviglie, facendola atterrare supina con un tonfo.
Prima che potesse sperare di rialzarsi, l’uomo si prese un momento per darle un calcio contro la mano che stringeva la spada, facendo ruzzolare quest’ultima decisamente fuori portata.
Il Generale ghignò, divertito, assestandole un ultimo pugno sulla mascella.
La figlia di Efesto si riversò di lato, le vertigini che le offuscavano la lucidità. Scrollò il capo più volte, imponendosi di reagire. Ma non fu in grado di mettere di nuovo a fuoco la stanza che le dita dell’uomo le agguantarono la gola, sollevandola da terra finché i suoi piedi non furono sospesi nel vuoto.
La sua mano era talmente grande che se le avesse usate entrambe, la ragazza giurò si sarebbero sovrapposte sulla sua nuca.
Skyler si sorprese di quanta forza avesse in un solo braccio fino a ché non fu più capace di ingerire aria.
Tentò di liberarsi il collo, scalciando con scarsi risultati. È difficile trovare la concentrazione mentre si viene strangolati, e ben presto tutto ciò che la mora poté fare fu aggrapparsi ai suoi tendini per impedirgli di spezzarle l’osso del collo.
La vista le si offuscò totalmente, e per un attimo lei rischiò di perdere i sensi.
Le urla del figlio di Poseidone, i lamenti agonizzanti dei suoi amici e il Generale che rude le sussurrava «Addio, Ragazza in Fiamme» divennero un unico suono, mentre i colori venivano sostituiti da un’enorme macchia indistinta che le danzava davanti agli occhi, facendole notare che i suoi polmoni non ricevevano aria da circa un minuto. La sua presa sul braccio dell’uomo iniziò ad allentarsi, palesando la sua resa.
Ma prima che potesse svenire, una voce sovrastò tutte le altre, imponente.
«Suvvia, Generale» esclamò, con tono scherzoso. «A noi serve viva, ricorda?»
L’uomo esitò, la sua mascella che si irrigidiva, quasi infastidita. Però poi la lasciò andare, e Skyler ricadde su un fianco, ansimante. Si portò una mano al petto, strizzando le palpebre per soffocare il dolore.
«Ecco, così» si complimentò l’ultimo arrivato, e il suo accento le sembrò familiare.
Stringendo gli occhi a due fessure per poterne scorgere i lineamenti, la figlia di Efesto lottò contro la propria testa, che imperterrita non smetteva di girare.
Le ci volle un po’ per riprendere a respirare ad un ritmo regolare, e questo le consentì di vedere le cose in modo nitido.
Si voltò verso lo sconosciuto, intuendo che era lui, la persona che doveva davvero temere.
Ma non appena lo mise a fuoco, il suo cuore si fermò.
E per un attimo –una sola, tremenda frazione di secondo- desiderò che il Generale avesse stretto più forte, tanto da ucciderla ed evitarle quella visione.


Angolo Scrittrice
Bounjour! 
Eccomi qui, con un nuovo capitolo appena sfornato, tutto per voi!
Oggi sono particolarmente felice, perchè è stata davvero una giornata stupenda passata con persone speciali, perciò non sorprendetevi se apparirò più delirante del solito. 
Che dite, vi è piaciuto il capitolo? Spero vivamente di sì, e se così non fosse, non esitate a dirmelo. 
Anche se più corto del solito, è comunque pieno di avvenimenti importanti. Innanzi tutto, c'è l'entrata in scena ufficiale di Nico. Il figlio di Ade non solo li scorta fino in Irlanda, ma ora è anche accorso al Campo Mezzosangue per cercare aiuto. Arriveranno in tempo? Chi lo sa... 
Poi, finalmente, ritrovano Michael. Michael <3 Ebbene sì, gente: il nostro pargoletto è ancora vivo. Dico 'ancora', perchè nelle mie storie tutto può succedere, you know. Il destino è imprevedibile, quindi mai cantar vittoria troppo presto. 
Ne é la dimostrazione il Generale, che ha colto di sorpresa una Skyler un po' impreparata. Ve lo ricordate dalla precedente storia, vero? Cosa pensavate, che fosse sparito nel nulla, il un puff? 
Eheh, purtroppo no. Ma è proprio lui il vero nemico? 
Come potete intuire dalle ultime righe (e come ci suggeriva anche l'epilogo del Morbo d'Atlantide) c'è qualcun altro dietro tutto questo, qualcuno di ancora più potente e cattivo dell'uomo. 
Ma chi? Qualcuno che conosciamo? Oppure un essere tanto mostruoso da far desiderare alla figlia di Efesto d'essere morta? 
Si accettano scommesse, in ogni caso. 
Anyway, mi auguro davvero che questo capitolo non abbia deluso le vostre aspettative, specialmente ora che la storia sta per terminare. Siamo agli sgoccioli, ormai. Mancano solo due capitoli, per dinci. 
Ma se siamo arrivati fin qui, lo dobbiamo soprattutto ai miei meravigliosi Valery's Angels, che con il loro supporto mi danno la forza necessaria per andare avanti. La scorsa settimana mi avete davvero commossa, perchè era da tanto che non ricevevo tante recensioni tutte in una volta. Grazie, è stato davvero emozionante sapere che, al di là di tutto, esiste ancora qualcuno che crede in questa storia. Ho rischiato di piangere di gioia, ve lo dico. 
Un grazie infinito a: Sarah Lorence, Kamala_Jackson, Francesca lol, Iladn, Occhi di Smeraldo, Percabeth7897, SHIELD per sempre, diabolika14, Lux_Klara e PeaceandLovewithBTR.
Siete speciali, non so più come esprimervi tutta la mia gratitudine. 

By the way, now it's time to go. 
Al prossimo martedì, bella gente!
Sempre vostra, 

ValeryJackson 

P.s. Qualcuno di voi conosce/segue la serie televisiva The Flash? Perchè ho intenzione di pubblicare molto presto una mini-long senza pretese su quel fandom, una sorta di What if?/AU rigorosamente Snowbarry centric (perchè diciamocelo, io vivo per quella ship) e mi chiedevo se qualcuno di voi fosse interessato a leggerla. Se sì, sarebbe stupendo! Gnaw **

 

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Capitolo 44
*** Capitolo 43 ***




Le ci volle un po’ per riprendere a respirare ad un ritmo regolare, e questo le consentì di vedere le cose in modo nitido.
Si voltò verso lo sconosciuto, intuendo che era lui, la persona che doveva davvero temere.
Ma non appena lo mise a fuoco, il suo cuore si arrestò.
E per un attimo –una sola, tremenda frazione di secondo- desiderò che il Generale avesse stretto più forte, tanto da ucciderla.
 

Skyler aveva ripensato spesso al sogno che continuava a tormentarla.
Quegli inviti, quelle minacce, quella voce.
Quante volte si era domandata a chi appartenesse, o chi fosse quell’ignoto nemico?
Era pronta a tutto. Anche ad essere posta di fronte all’impensabile.
Ma mai avrebbe immaginato che scoprire la verità avrebbe fatto così male. E riuscì a convincersi che quello fosse solo uno stupido sogno finché lui non fece un passo verso di lei, facendola sussultare.
La figlia di Efesto scivolò sul pavimento, rastrellandolo con i talloni, ed indietreggiò senza distogliere gli occhi da quell’orribile scena.
Ebbe la sensazione di essere appena stata infilzata al petto da una lama affilata, e poi presa a calci più volte, senza alcuna pietà.
Tutte le sue certezze si sfaldarono nell’istante in cui incrociò quelle iridi verde acqua, facendola sentire nuda e vulnerabile, come un’ingenua bambina.
Fece perno sui palmi, lottando contro le proprie ginocchia tremanti per alzarsi. Ma non appena fu in piedi, le vertigini la investirono come un uragano, mentre lei, ansimante, sentiva il cuore martellarle nel petto.
«Tu?» balbettò, incredula.
Le labbra di Matthew si incurvarono in un ghigno, facendole venire la pelle d’oca.
«Ti aspettavo prima, ad essere sincero» affermò, con tono ironico; avanzò lentamente, le mani dietro la schiena in una posa spavalda e rilassata. Ma per ogni suo passo in avanti, la ragazza ne faceva uno indietro, fino a che non si ritrovò a sfiorare la parete con la schiena.
«Mi scuso per l’accoglienza che ti ha riservato il Generale» celiò lui, strafottente. «Ma per quanto ne so, avevate un conto in sospeso da saldare.»
Tutto ciò non aveva senso.
Matthew? Lo stesso con cui aveva riso, danzato e scherzato?
Lo stesso ragazzo che aveva ascoltato i suoi problemi, dandole dei continui consigli?
Doveva pur esserci una spiegazione logica per quello che aveva davanti.
Era sua la voce che la reclamava ogni notte?
«Io non…» ciangottò lei, scrollando il capo. Era frastornata, scettica e scandalizzata. «Non capisco» mormorò, rendendosi conto solo in quel momento delle pungenti lacrime che le imperlavano le ciglia. «Come hai potuto farlo? Tu eri uno di noi…»
«Io non sono un inutile mezzosangue» la interruppe il ragazzo, con disprezzo.
«E allora chi sei?»
Lui prese fiato per parlare, ma prima che potesse dire alcunché parve ripensarci, decidendo di tenere quell’informazione per sé. «Sono il tuo peggior incubo» sussurrò, sorridendo di fronte alla sua espressione disgustata.
«Perché?» domandò quindi lei, alzando furiosa il tono di voce. «Dimmi almeno perché l’hai fatto! Che cosa vuoi da me?» sbottò, al ché il corvino strinse gli occhi a due fessure.
«Sono anni che ti osservo, lo sai?» esordì, confondendola ancora di più. «Sin dal giorno in cui sei nata.»
«Che cosa…?» fece per chiedere la figlia di Efesto, ma le parole le morirono in gola.
«Tu hai qualcosa di cui ho bisogno» continuò allora lui, ignorandola.
«Ma di che stai parlando?»
«Parlo del fuoco, piccola. Un fuoco molto potente. Ma non mi riferisco a quello che ti rende simile ai tuoi fratelli, attenzione» si affrettò ad aggiungere, quasi divertito. «I loro poteri sono insulsi, in confronto al tuo. La tua è un’energia che alberga qui dentro» le spiegò, indicandosi con due dita il centro del petto. «E che sarà la chiave per la mia rivalsa.»
Parlava in tono sommesso, ma in quella stanza pressoché vuota la sua voce si ingrossava.
«Non ti seguo» scosse la testa Skyler, interdetta, e Matthew sospirò intenerito, come se si stesse rivolgendo ad un’infante.
«I rapporti tra me e tuo padre non sono mai stati dei migliori» annunciò, cogliendola un po’ alla sprovvista con quell’ammissione. «Soprattutto dopo quello a cui mi ha condannato pur di eseguire gli ordini di Zeus. Ma la Profezia lo diceva, che prima o poi la sua progenie mi avrebbe… aiutato.»
«Profezia?»
«Ma come, nessuno ve l’ha detto?» si scandalizzò il ragazzo, con sollazzo. «Oh, cavolo. Certo che gli dei non si smentiscono mai. Ma comunque raccontarvelo non avrebbe cambiato di molto le cose. Il mio obbiettivo era uno soltanto, al di là di tutto il resto: tu.»
La figlia di Efesto sussultò, deglutendo a fatica.
«Tu sei la prova che il fuoco non genera altro che vita.»
«I-Io…»
«È da sedici anni che aspetto questo giorno, e finalmente è arrivato. Avevo bisogno di arrivare a te, non mi interessava il come o il quando. Per questo ti ho studiato attentamente, in attesa del momento adatto. Ho memorizzato tutto sul tuo conto: cosa ti piace, ciò che detesti, come agisci, il tuo modo di pensare. Non c’è nulla, di te, che io non sappia già.»
Per un attimo, alla ragazza mancò il fiato. Per tutto questo tempo era stata spiata?
Una parte di lei si sentì profondamente violata, più che indignata; e nel frattempo l’altra continuava voracemente a domandarsi come avesse fatto a non accorgersene prima.
«Tuo zio è stato un bravo tutore, sai? Non ti lasciava mai completamente sola, neanche quando partiva. Ci sono state volte in cui ero tentato di darla vinta all’impulso, e di piombare in casa tua quando meno te l’aspettavi, prendendomi ciò di cui avevo il diritto. Ma poi l’estate scorsa hai finalmente scoperto la tua vera identità, e così ho preso la palla al balzo.»
Sembrava del tutto compiaciuto delle proprie azioni, la figlia di Efesto lo capiva dal verso di scherno che gli incurvava le labbra, donandogli quell’espressione maligna che mai avrebbe pensato di poter osservare su quel volto.
«Erano tutti così protettivi, verso la nuova arrivata, che avevo bisogno di farti allontanare dal Campo. Per questo ho diffuso quella malattia.»
«Il Morbo di Atlantide» ricordò Skyler, con un fil di voce. «Sei stato tu?»
«Come avevo sperato, sei partita per quell’impresa. E anche se non avevo calcolato la fastidiosa presenza di questi tre idioti, ero convinto che non ci sarebbe stato niente di più facile.
«Perciò ho mandato il Generale a prenderti, in compagnia dei suoi uomini migliori. Ma devo riconoscertelo: sei davvero un osso duro. Dopo che anche con l’aggiunta del Capitano quegli incompetenti avevano fallito, ho capito che l’unico modo per poterti ottenere sarebbe stato prenderti io stesso.»
La guardò intensamente negli occhi, allargando sornione le braccia. «E così, eccomi qui!» esclamò. «Ho preso le sembianze del ragazzo ideale: bello, dolce e in cerca di affetto. E se vuoi saperla tutta, sei caduta nella mia trappola molto prima di quanto immaginassi.»
Rise, e alla ragazza fu chiaro che si stava prendendo gioco di lei. Era davvero troppo, da digerire. Tutto quello che aveva condiviso con lui; tutte le lacrime e i sorrisi… erano solo bugie?
Come aveva fatto ad essere così cieca? Sul serio era stata tanto ingenua da vedere del buono in lui?
Avrebbe dato qualsiasi cosa, pur di poter urlare che «No, lei non ci era cascata! Era solo uno scherzo di cattivo gusto, quello.»
Ma purtroppo, man mano che Matthew proseguiva con il suo racconto, tutti i quesiti irrisolti sembravano finalmente trovare una risposta.
Era lui. Era sempre stato lui.
«A quel punto, una volta conquistata la tua fiducia, credevo di averti in pugno» proseguì il ragazzo, passeggiando tranquillamente per la sala. «Ma mi sbagliavo. Eccome, se mi sbagliavo! Saresti stata mia nell’immediato, se non fosse stato per lui!» E con un gesto della mano indicò Michael, che diede uno scossone alle proprie catene, con il desiderio di strangolarlo seduta stante.
«La tua devozione per questo figlio di Poseidone è… ammirevole. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo ad portarti via da lui. Ed è per questo motivo che ho sperato che se vi avessi fatto litigare, avrei avuto carta bianca. Ma ancora una volta, avevo fatto male i miei calcoli» ridacchiò, con amarezza. «Perché anche dopo che lui aveva rovinato il vostro rapporto con la sua gelosia, tu continuavi ad essergli fedele. Quando quella sera mi hai allontanato per l’ennesima volta, ho capito di dover passare al contrattacco. Così l’ho rapito.» Sogghignò. «Sapevo che saresti stata abbastanza coraggiosa da accettare l’impresa.»
A Skyler girava la testa. Aveva voglia di piangere, gridare e prenderlo a pugni tutt’insieme. Assimilare tutte quelle informazioni in una volta sola, per lei, era come avere i polmoni costantemente stretti in una morsa d’acciaio.
Le tornò in mente il pomeriggio in cui aveva confessato a quel ragazzo che un tempo era suo amico di sentirsi nel posto giusto, insieme a lui; quasi fossero destinati ad incontrarsi, nel bene e nel male. E capì che anche se quelle sensazioni non erano sbagliate, era il modo in cui lei le aveva interpretate, ad essere incorretto.
Il fato voleva che loro due si conoscessero, sì. Ma quando ciò sarebbe accaduto, non avrebbe significato nulla di buono.
Per una frazione di secondo, tutta l’ira e il disprezzo che provava nei suoi confronti la investirono, e con uno scatto fulmineo si precipitò a raccogliere la propria spada, che giaceva ancora a terra.
Peccato che lui fu più veloce, e prima che potesse rendersene conto la figlia di Efesto fu assalita da un’onda invisibile, che con violenza la ancorò al muro, minacciando di soffocarla.
La ragazza tentò di divincolarsi, ma l’unico effetto che ottenne fu che questa la opprimesse con più irruenza, rischiando, ad un tratto, di bloccarle il respiro.
«Skyler!» gridò Michael, ma non appena fece per accorrere da lei, la sua prigione glielo impedì, e il ragazzo cadde in ginocchio, con un ringhio frustrato.
Matthew rise di gusto, trovandoci un ché di ilare, in quella situazione. Con un’andatura lenta e misurata si avvicinò alla mora, un sorriso sghembo sulle labbra, finché non fu talmente vicino che la semidea percepì il suo fiato caldo accarezzarle il viso.
Nauseata da quella poca distanza voltò il capo, strizzando le palpebre quasi quel gesto potesse aiutarla a fuggire da un’altra parte.
A vederla il corvino emise uno sbuffo dal naso, divertito. «Bel tentativo» si complimentò, le labbra che le sfioravano la guancia, mentre lo faceva.
Poi le posò un languido bacio sulla mascella, lasciandole subito dopo una rovente ed umida scia sul collo, restando su ogni punto decisamente più del necessario.
Skyler si lasciò sfuggire un singhiozzo, ripugnata, mentre lui le mordeva voluttuoso l’incavo della spalla.
«Non la toccare!» sbraitò il figlio di Poseidone, adirato, ma prima che potesse cercare un’altra volta di correre in soccorso della propria ragazza, una scossa elettrica si generò dalle catene che lo avvolgevano, irradiandosi per tutto il suo corpo e facendolo crollare a terra con un lamento strozzato, in preda alle convulsioni.
«Michael, no!» urlò la figlia di Efesto, ma non si rese conto delle lacrime che le bagnavano le gote fino a ché una roca risata non si infranse contro il suo timpano.
Tutto quello che stava succedendo – il rapimento di Michael; John ed Emma tenuti prigionieri da quei rampicanti; l’agonia che aleggiava nella stanza, molesta-, accadeva tutto a causa sua.
Era lei, che Matthew bramava. Il dolore degli altri non era altro che una conseguenza alla sua resistenza.
«Che cosa vuoi da me?» sibilò, le corde vocali grondanti d’odio.
Di fronte a quelle parole, il ragazzo ghignò, e la mora capì di essere finalmente giunti al succo della questione.
«Ti chiedo solo un bacio» soffiò malizioso lui, al ché la ragazza soffocò un conato di vomito, indignata al solo pensiero. «Un bacio, e i tuoi amici resteranno in vita» giurò. Dopo di ché le accarezzò con un dito la linea del mento, per poi sollevarglielo e costringerla a guardarlo negli occhi.
«Diventa mia, Ragazza in Fiamme» la invitò, e Skyler rabbrividì.
Che fare?
Ora sì che l’ultimo verso della profezia acquistava un significato.
E lì il fuoco, con coraggio, il suo destino dovrà affrontare.
Eccola, la sfida finale. Nonostante le circostanza lasciassero intendere il contrario, la figlia di Efesto non aveva alcuna possibilità di scelta.
A proprie spese aveva imparato che dal fato non si può scappare.
Ma poteva ancora sperare di salvare i propri amici.
«Giura sullo Stige che se lo faccio, li lascerai andare» mormorò, con voce tremante. «Giura che non gli farai del male.»
Il corvino abbozzò un sorriso, malandrino. «Hai la mia parola.»
«Ti ho detto di giurarlo» gli fece notare lei, a denti stretti.
«Okay, va bene. Lo giuro.»
«Allora d’accordo.»
Per un istante, il ragazzo parve sorpreso di averla avuta vinta così facilmente. Ma le proteste del figlio di Poseidone bastarono a fargli cantar vittoria.
«Skyler, ti prego, non farlo» strillò infatti quello a gran voce, disperato, ma la figlia di Efesto finse di non ascoltarlo. «Non farlo, Skyler! No!»
«Liberami» ordinò invece lei, e dopo un attimo di esitazione, Matthew obbedì, facendo svanire la forza che la teneva ancorata alla parete. Si allontanò poi da lei quel tanto che bastava per permetterle di drizzare la schiena, e prima di incontrare le sue iridi acquamarina, la ragazza si sforzò di non dar peso a qualsiasi altro suono che non fosse il proprio respiro affannato.
Ignorò le obbiezioni di Michael. Ignorò i lamenti di John ed Emma. Ignorò la risata trionfante del tizio che aveva di fronte ed ignorò il pesante tonfo dei passi del Generale che lasciava la stanza ghignante. 
Fece in modo di concentrarsi solo sul ritmo rimbombante del proprio cuore, forte ed troppo veloce, sapendo che probabilmente di lì a poco, al posto di quel tamburellare irregolare non ci sarebbe stato più niente.
Un bacio. Quel ragazzo le aveva chiesto solo questo.
E allora perché aveva la sensazione che ci fosse un secondo fine, dietro quel gesto?
Che cosa sarebbe accaduto, se l’avesse baciato?
Lui aveva parlato di un fuoco che albergava nel suo petto, e che in un modo o nell’altro doveva ottenere. E se ci fosse riuscito?
Che ne sarebbe stato, di lei?
Quel suo potere era qualcosa di cui poter fare a meno? O magari era essenziale per la sua sopravvivenza?
Dal verso di scherno che comparve lentamente sul volto del corvino Skyler capì che sì, era giunto il momento.
Il momento di piegarsi al suo volere. Il momento di accettare l’inevitabile.
Il momento della resa dei conti.
«Sarà come addormentarsi» sussurrò sarcastico lui, in modo che solo lei potesse udirlo. «Solo che da questo sonno non ti risveglierai più.»
La figlia di Efesto non rispose, e continuò a sostenere il suo sguardo, senza più timore; solo con coraggio.
Avrebbe voluto lanciare un’ultima occhiata a Michael, dirgli che dopo tutto questo tempo aveva capito di amarlo, e che avrebbe continuato a farlo qualunque cosa sarebbe successa. Avrebbe voluto assicurargli che sarebbe andato tutto bene, e pregarlo di prendersi cura di John, e di Emma, e di Leo, e di tutti gli altri, una volta che quella storia sarebbe finita.
Ma non lo fece.
Si limitò ad emettere un sospiro tremante, sperando che quel gesto potesse allentare il nodo che le otturava la gola.
Matthew le prese il viso tra le mani, e la ragazza dovette reprimere l’impulso di indietreggiare a quel contatto.
«Non opporti» le intimò quindi lui, mentre lei stringeva talmente tanto i pugni da conficcarsi le unghie nel palmo. «E vedrai che farà meno male.»
Poi si concesse un ghigno, da vampiro, e prima che lei potesse anche solo ribattere con tono tagliente lui premette le labbra sulle sue, e la mora ebbe un sussulto.
All’inizio, tutto ciò che percepì fu un calore dirompente che le bruciava ogni singolo poro della pelle. Partiva dal petto, irradiandosi per le braccia, le gambe, i tendini del collo, fin sull’attaccatura dei capelli.
Per un attimo si domandò se non fosse in procinto di prendere fuoco, così, senza rendersene conto. Ma non appena il ragazzo la costrinse ad approfondire quel bacio, a Skyler si svuotarono i polmoni. Un uncino invisibile le ancorò il petto, penetrando nella sua gabbia toracica e perforandole il cuore.
Si sentì fredda e vuota, mentre una forza inesorabile le strappava brutalmente qualcosa dal corpo, come attratta dall’aura del corvino, che lentamente l’assorbiva.
Che cosa le stava rubando? La ragazza non lo sapeva, ma era consapevole di accingersi a perderla. Continuava a percepirla, ma più quella si allontanava, più debole diventava il loro legame; e più sottile si faceva la corda che le univa, tanto che ormai il minimo movimento, la minima scossa minacciavano di tranciarla di netto.
Aveva la sensazione di essere un involucro di vetro, pronto a frantumarsi al primo tocco.
Era questo ciò che si provava quando si moriva?
Se non avesse fatto resistenza, sarebbe stato tutto molto più rapido ed indolore. Matthew avrebbe ottenuto ciò che voleva, i suoi amici sarebbero stati liberi di tornare a casa, e lei avrebbe avuto la consapevolezza di fare la cosa giusta.
E allora perché, d’un tratto, le tornò in mente lo zio? Non solo lui, ma anche la madre, Leo, Microft e tutte quelle persone alle quali aveva giurato di essere coraggiosa.
Ma non era arrendendosi, che avrebbe mantenuto la parola data. Ed era stanca di promesse che continuavano ad essere fatte a pezzi.
Si irrigidì, e dal profondo sentì emergere un unico pensiero: Non voglio morire.
E nell’istante in cui quelle parole presero forma nella sua mente, intuì quanto fossero vere.
Non così.
Strinse di scatto i denti, mordendo con forza il labbro inferiore del corvino; e prima ancora che questo potesse lanciare un grido di dolore con una mossa repentina sollevò il braccio, conficcandogli un pugnale nel fianco.
«Prima regola del perfetto semidio» recitò, a denti stretti, tenendo ben salda l’elsa del coltello che le aveva regalato Alex, e che continuava a portare con sé. «Avere sempre un’arma di riserva.»
Affondò ancora di più la lama nella sua carne, provocandogli una ferita mortale, e da quel taglio iniziarono a sgorgare fiotti di icore dorata.
Le sue pupille verdi si dilatarono, mentre lui restava senza fiato. Poi, una crepa gli si aprì sulla fronte, brillando di una luce intensa.
«Credi davvero che sia così facile?» inveì Matthew, sprezzante, guardandola negli occhi con aria di sfida. «Tornerò, e la prossima volta distruggerò tutto ciò che ami.»
L’energia si espanse dalla fessura sul sopracciglio verso l’esterno. Gli invase tutto il corpo, aprendogli squarci su braccia e gambe.
Dopo di ché, la sua pelle iniziò a sfaldarsi.
Era diverso dal modo in cui si disintegravano i mostri. Era come se, per un secondo, Skyler riuscisse a vedere ogni sua cellula, e uno dopo l’altro i pezzi che lo componevano presero a dissolversi, tramutandosi in pura energia.
La figlia di Efesto capì di dover spostare lo sguardo appena in tempo, e si difese gli occhi con una mano mentre il corvino diventava un unico fascio di luce.
«Questo non è un addio, Ragazza in Fiamme!» furono le sue ultime parole; un’eco indistinta, profonda ed agghiacciante proprio come durante i suoi sogni.
Ci fu un boato, che fece tremare il pavimento senza pietà. Tutto ciò che si trovava in quella stanza venne investito da una barriera sonica, e l’esplosione fu accompagnata da una brezza gelida, che dava i brividi.
Infine, il silenzio.
Ma solo in seguito la mora si rese conto che erano i suoi timpani a non percepire alcun suono, fuorché un molesto ronzio metallico che attutiva qualsiasi altro rumore.
Il mondo intorno a lei parve rallentare, e faceva fatica a metabolizzare tutto ciò che le accadeva davanti, quasi appartenesse ad un universo parallelo, e lei fosse un semplice proiezione che non vi apparteneva. Persino i suoi movimenti erano tardigradi e faticosi, dandole l’impressione di essere intrappolata in una bolla piena d’acqua.
All’improvviso, il suo petto ebbe un singulto, e la ragazza poté giurare di essere appena stata colpita al cuore da qualcosa. Una pallottola, forse, ma apparentemente lì non c’era nessuno con una pistola.
Eppure la sensazione fu la stessa: il fiato le mancò, e i suoi battiti diminuirono con una rapidità spaventosa. Tutti i muscoli del suo corpo si rilassarono contemporaneamente; sentì le proprie membra appesantirsi, liquefarsi.
I suoi occhi si rivoltarono all’indietro, e lei perse i sensi; ma poco prima che rischiasse di cadere due braccia forti l’afferrarono, adagiandola con accortezza al suolo.
«Skyler!» esclamò un voce sopra di lei, ma alle sue orecchie arrivò ovattata, quasi lontana.
La sala ottocentesca nella quale si trovavano fino a qualche istante prima era svanita, cedendo il posto alle megaliti di Stonehenge, illuminate dalle sfumature del tramonto. 
La magia che la teneva in piedi si era volatilizzata, implodendo insieme a Matthew, e con lei anche qualsiasi illusione ne derivasse, come ad esempio i tranci che imprigionavano Emma e John, o la cella che rinchiudeva Michael.
Tutto scomparso, dileguatosi nel nulla. E nel istante stesso in cui ciò era accaduto, il figlio di Poseidone si era precipitato da lei, mentre gli altri due giacevano a terra, agonizzanti dopo quegli attimi di tortura.
Il ragazzo aveva la pelle olivastra piena dei tagli più vari. C’era un livido enorme e violaceo sulle sue costole, i suoi vestiti erano a brandelli e il suo labbro inferiore era spaccato, mentre una grossa ferita gocciolava sangue dal sopracciglio. Ma Skyler avrebbe riconosciuto quelle iridi, ora azzurre, anche se avesse avuto l’aspetto più trasandato del mondo.
Al solo vederlo, gli angoli della sua bocca abbozzarono un sorriso; ma quello sforzo le costò più di quanto avrebbe pensato.
«Michael» sussurrò, con tono tanto lieve che anche lei fece fatica ad ascoltarlo. Gli sfiorò delicatamente una guancia, quasi a voler constatare che fosse davvero lì, e che non se lo stesse solo immaginando.
«Sono io, sono qui» assentì lui, stringendosela al petto con fare protettivo. Le baciò dolcemente il palmo. «Sto bene, okay? È tutto finito. Ma tu adesso devi restare con me. Guardami, Skyler, hai capito?» aggiunse poi, prendendole il volto con una mano e costringendola ad incrociare il suo sguardo. «Resisti, d’accordo? Ce la faremo. Te lo giuro, ma tu non mollare.»
La ragazza avrebbe tanto voluto annuire, ma era consapevole che avrebbe solo mentito.
Loro ce l’avrebbero fatta, sì. I suoi amici sarebbero tornati sani e salvi al Campo.
Ma non lei.
«M-Mi… Mi dispiace» bisbigliò, e le ci volle un’eternità per pronunciare quella semplice frase, ogni sillaba intervallata da un ansito raschiante. «Mi dispiace. È colpa mia…»
«Ssh» la interruppe teneramente lui, accarezzandole le labbra screpolate con il pollice. «Non stancarti» le intimò, passandole le dita tra i capelli, incurante del fatto che fossero sporchi di terra e sudore. Le lasciò un altro lieve bacio sulla fronte, rendendosi conto solo in quel momento di quanto fosse fredda, e pallida. «Non mollare, ti prego» la implorò, disperato. «Dev’esserci una soluzione! C’è sempre, me l’hai insegnato tu» esclamò. «Tu tieni duro. Presto arriveranno i rinforzi e noi… tu…»
Non poteva accettare l’idea che finisse così, e quando la sua vista si offuscò capì di non essere ancora disposto a perdere Skyler. Non in quel modo; non senza aver fatto nulla per impedire che la vita l’abbandonasse.
Ma la cosa peggiore non fu tanto l’essere conscio che stava andando incontro all’inevitabile, quanto più lo scorgere l’espressione rassegnata sul viso di lei, quasi sapesse di non avere più molto tempo, e se ne stesse facendo una ragione.
«Per favore» mormorò, con voce spezzata. Un singhiozzo gli scosse le spalle. «Non lasciarmi, ti scongiuro.»
«Michael» gracchiò la figlia di Efesto, con fatica. I suoi polmoni faticavano ad ingerire aria a sufficienza, e ogni istante che passava le sue palpebre si facevano mano a mano più pesanti. «Mi… Mi dispiace» ripeté, con aria sfinita. «Per tutto. Ho… ho sbagliato. È colpa mia.»
Allungò una mano tremante per asciugargli le lacrime che silenziose gli bagnavano la guancia. «Ti…» Emise un sospiro strozzato, le iridi ormai prive di luce incatenate alle sue. «Ti a-»
Ma qualunque cosa avesse sperato di dire le morì in gola, ed anche dopo aver dilatato le pupille un ultima volta la sua bocca rimase schiusa, il fantasma delle parole che non aveva pronunciato che vi aleggiava sopra.
«Skyler» la chiamò lui, sgranando gli occhi, ma la testa della mora si adagiò contro la sua spalla, le braccia che le ricadevano lungo i fianchi a peso morto.
«No, no, no, no. No! Skyler!» urlò, posandole una mano dietro la nuca affinché lei lo guardasse. «No! Per favore» singhiozzò, e si accorse del pianto afflitto che gli sconquassava il petto solo quando le sue lacrime imperlarono il viso inerme di lei. «Ti prego» reiterò. «Per favore, non lasciarmi. Skyler?»
Ma la figlia di Efesto non rispose, e fu allora che Michael la strinse maggiormente a sé, nascondendo il volto nell’incavo del suo collo gelido e dando sfogo al proprio dolore, continuando ad invocare il nome della ragazza che ormai non c’era più.
D’un tratto, fu come se lo scorrere del tempo decelerasse. Tutto, agli occhi del figlio di Poseidone, si tinse di azzurro, ma lui era talmente distrutto dalla pena che maligna gli aveva invaso il petto da non dare neanche peso al proprio tatuaggio, che seppur lievemente pareva scottare.
Ma forse era solo un’illusione, la sua. La sofferenza era così acuta da offuscargli totalmente la ragione.
In quel momento, Nico di Angelo sbucò dall’ombra di una delle pietre, accompagnato da altri tre mezzosangue che erano accorsi lì per aiutarli.
Ma ormai era troppo tardi.
Il cuore di Skyler si era già fermato. 


Angolo Scrittrice
Ebbene sì, eccoci qui.
Siamo arrivati al penultimo capitolo, e beh, si commenta da solo. E' scontato se vi dico che era in assoluto il più importante, vero? 
Spero di esservi riuscita a dare tutte le risposte. 
Facevate bene ad odiare
Matthew? Oh, sì. 
Ho provato a depistarvi, parlando di lui come un povero angioletto, ma la vostra avversione nei suoi confronti era tale da sorprendermi ed onorarmi nello stesso momento. 
Spero che per voi sia stata un po' una cosa inaspettata, e che in fondo io sia riuscita nel mio intento, ovvero quello di puntare sull'effetto sorpresa. 
Era lui, sì. E' sempre stato lui.
O chiunque abbia assunto le sue sembianze, introducendosi di nascosto nel Campo Mezzosangue. 
Il Morbo di Atlantide, il rapimento di Michael e tutto il resto... ogni cosa faceva parte del suo piano.
Ricordate l'epilogo della storia precedente? Vi avevo presentato questo personaggio dal volto ignoto, lasciandovi intuire quanto desiderasse arrivare a
Skyler
Beh, ora sapete perchè. Voleva un bacio, e l'ha ottenuto. 
La nostra figlia di Efesto ha il fuoco. O meglio, aveva
Come faccio a dire qualcosa riguardo la sua morte? Non chiedetemi questo, vi prego. E' come se con lei se ne fosse andata una parte di me. 
Skyler è un po' il mio specchio, ciò che sono e che vorrei essere nella realtà. Lei è stata la prima ad insinuarsi nella mia mente, costruendo al mio fianco le basi all'origine di questa storia. Mi ha accolto nel suo mondo, mostrandomi il suo passato, il suo carattere, la sua anima.
Lei è la mia Ragazza in Fiamme
E scrivere della sua morte, per me, è stato come pugnalarmi da sola. Ma come vi avevo già spiegato, non si sfugge alle Parche. E lei ha affrontato il suo destino con coraggio, proprio come le imponeva la profezia. 
Non è neanche riuscita a dire il fatidico 'ti amo' a
Michael, perchè il suo tempo era scaduto. Come reagirà secondo voi il figlio di Poseidone, dopo che ha visto la propria ragazza morire tra le sue braccia? Un bello scherzo del destino, se ci pensate. Ripercorrete poi dall'inizio tutta la loro storia mentre ascoltate I'll be good di Jaymes Young come ho fatto io e lasciamoci andare ad un mare di lacrime. 
L'unica nota 'positiva' - se così la vogliamo chiamare- di questo capitolo è soltanto la presenza di Alex, che seppur sia morto continua ad aiutare i nostri protagonisti, in questo caso Skyler. Vi chiedevate che cosa ne avrebbe fatto di quel coltellino? Ora lo sapete. 

DIMOSTRAMI DI ESSERNE ALL'ALTEZZA,  le aveva chiesto. E lei l'ha fatto, siete d'accordo? 
Sarei felice di conoscere le vostre opinioni riguardo a questo capitolo, e non fatevi scrupoli ad insultarmi se è descritto male o se le mie idee vi fanno schifo. Accetto qualsiasi tipo di critica, purché costruttiva. 
Anyway, prima di ringraziare i miei Valery's Angels volevo avvisarvi che questa settimana non ci sarò. Partirò domani alla volta di Lucca (
The Script, amori miei, arrivo!) e farò ritorno solo domenica sera. Non so se in questo lasso di tempo sarò in grado di buttare su carta qualcosa, ma è l'epilogo, e voglio scriverlo come si deve, per terminare al meglio (anche se dopo la morte di Skyler, più a fondo di così non posso andare). 
Per questo motivo, il capitolo non verrà pubblicato di martedì, ma di giovedì! Ripeto: 
non martedì, ma giovedì!
Detto questo, ringrazio infinitamente e con tutto il cuore Lux_Klara, Francesca lol, Sarah Lorence, unika, PeaceandLovewithBTR, Kamala_Jackson, diabolika14, Percabeth7897 e SHIELD per sempre. Le vostre recensioni mi scaldano il cuore, e spero di poter rispondere a tutti prima della prossima settimana. 
E grazie a voi che state leggendo questa parte in grassetto, perchè siete rimasti con me, in attesa della fine. 
A giovedì, ordunque.
Per adesso, ancora vostra, 

ValeryJackson  


 

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Capitolo 45
*** Epilogo ***




Tre settimane.
Erano passate tre settimane da quando Skyler era entrata in coma.
Leo ricordava ancora nitidamente il giorno in cui quella tragedia aveva preso atto.
Lui si trovava al Campo Mezzosangue, ed era intento a farsi una doccia per grattarsi via lo sporco accumulato dopo ore passate nelle fucine. Ogni tanto si domandava dove fosse, sua sorella, e se stesse bene; ma nessuno aveva mai il coraggio di sollevare l’argomento, e tutti erano consapevoli che qualunque parola ottimista sarebbe stata vana.
Quei ragazzi si erano buttati tra le braccia della morte, si diceva. E per quanto fosse doloroso, la maggior parte dei semidei si era rassegnata all’inevitabile.
Il figlio di Efesto sembrava essere l’unico, insieme a pochi altri, a credere ancora che ce l’avrebbero fatta, e che sarebbero tornati a casa sani e salvi. Lui e Microft si davano man forte a vicenda, scambiandosi dei segni di incoraggiamento ogni qual volta se ne conversava.
C’era solo una cosa di cui Leo non si sentiva libero di parlare con nessuno, neanche con il fratello. E il solo pensare ad Emma lì fuori chissà dove e non poter esternare i propri sentimenti senza destare sospetti gravava come un peso sulle sue spalle.
Ormai erano passate due settimane dalla loro partenza, e nessuno aveva loro notizie. Si pensava già al peggio, per questo il ragazzo si sorprese quando un figlio di Ermes entrò trafelato nella loro Cabina, gli occhi sgranati dalla paura.
Nico di Angelo era apparso come un fantasma nel bel mezzo del campo di pallavolo; così, all’improvviso.
Sembrava stanco, e più pallido del solito; ma mentre alcuni erano sobbalzati, spaventati e confusi, altri avevano avuto la premura di chiamare aiuto.
Will Solace era stato il primo ad arrivare, sorreggendo il figlio di Ade prima che questo rischiasse di svenire.
«Sto bene» aveva borbottato il corvino, ansimante, mentre il figlio di Apollo si passava un suo braccio scheletrico intorno alle spalle.
Nico aveva infilato una mano nella tasca dei jeans dell’amico, già sapendo che il biondo vi teneva nascosti dei pezzetti di ambrosia – per le emergenze -; se n’era ficcato in bocca uno, masticandolo corrucciato sotto lo sguardo basito di tutti.
«Che sta succedendo?» aveva domandato Will, interdetto.
«L’hanno trovato» si era limitato a mormorare il moro, prima di raddrizzarsi, la fronte imperlata di sudore. «Jackson!» aveva sbraitato, col fiato grosso, per poi rivolgersi ai presenti. «Dov’è Percy? Andate a chiamarlo, svelti! Muovetevi!»
Quei semidei erano stati talmente impressionati dal suo tono urgente che erano schizzati via come gazzelle, alla ricerca del figlio di Poseidone.
«Di Angelo, ma che succede?» aveva reiterato il biondo, senza però ottenere risposta. In altre circostanze avrebbe rimproverato l’amico per aver rischiato la vita con un altro dei suoi viaggi nell’ombra, ma tutta quella situazione aveva un che di impellente per poter badare a certe cose.
«Nico!» la voce di Percy era giunta lì prima ancora della sua figura. Era seguito a ruota da Annabeth, ed entrambi avevano un’espressione spaesata in viso.
«Hanno trovato Michael» si era affrettato a spiegare il figlio di Ade, sbrigativo.
«Che cosa?»
«Dobbiamo muoverci, non abbiamo molto tempo! Si trovano a Stonehenge, nel Westshire. Hanno bisogno di aiuto, non ce la faranno mai da soli!»
Assimilare velocemente quelle informazioni pareva difficoltoso anche per la figlia di Atena. Ma l’imperioso bisogno di salvare quei ragazzi era tanto forte da azzerare in tutti qualsiasi esitazione.
«Andiamo» aveva assentito il figlio di Poseidone, e la sua ragazza si era unita a lui.
«Will, tu vieni con noi» aveva ordinato Nico, con l’aria di chi non ammette obiezioni. Solo dopo capì che in verità non ce ne sarebbero state comunque. Era così concentrato sull’ombra scura che aveva visto aleggiare sul capo di Skyler da dimenticare che in quella crociata era stato coinvolto anche il fratello dell'altro.
Stavano quasi per fare tutt’insieme un salto nel buio, incuranti dei semidei che preoccupati li fissavano, quando Leo si era precipitato al loro fianco.
«Dove andate?» aveva chiesto, non avendo assistito alla scena. Aveva il respiro pesante, segno evidente che aveva corso per poterli raggiungere. «Mi hanno detto che avete trovato i ragazzi, dove…»
«Valdez, tu resti qui» l’aveva interrotto bruscamente il figlio di Ade, autoritario.
«No! È di mia sorella che stai parlando, io devo…»
«Posso portare con me solo altre tre persone» aveva replicato il corvino, ma il ragazzo messicano non voleva sentire ragioni.
«Verrò al posto di Annabeth. Skyler ha bisogno di me, io posso…»
«Fidati, è meglio se rimani qui» aveva ripetuto Nico, a denti stretti, e posandogli una mano sul petto gli aveva impedito di continuare a parlare.
Il figlio di Efesto non era certo di cosa l’avesse fatto titubare – se il tocco gelido dell’altro o l’occhiata affranta che gli aveva rivolto-, ma seppe soltanto che nell’istante in cui li aveva visti svanire nell’oscurità, gli occhi di molti fissi su di loro, si era sentito del tutto inutile.
Nico non aveva mai dato troppo peso alle ombre che vedeva sospese una spanna sopra le persone finché queste non si facevano scure, più vicine e spaventose. Non appena Will era tornato da loro con una valigetta di pronto-soccorso e lui l’aveva preso per mano, aveva avuto la brutta sensazione che fosse ormai troppo tardi.
E ogni suo dubbio aveva trovato conferma quando erano atterrati in Inghilterra, e l’aura di morte che regnava tra quelle megaliti aveva colpito il figlio di Ade come uno schiaffo in faccia.
Skyler era morta, e Michael versava lacrime disperate sul suo corpo privo di vita. John ed Emma erano riversi su un fianco, poco lontano, e presentavano delle ferite davvero profonde, seppur non letali.
«Dà loro nettare e ambrosia!» aveva esclamato Solace, rivolto ad Annabeth, mentre Nico osservava quella scena, impotente. 
Il figlio di Apollo si era catapultato al fianco della mora, allontanando il figlio di Poseidone con un braccio. «Fa un passo indietro, non c’è tempo da perdere!» gli aveva urlato, un po’ perché voleva riscuoterlo dallo shock, un po’ perché aveva bisogno di molto spazio per poter agire in fretta.
Percy era accorso immediatamente dal fratello, stringendolo tra le braccia tanto da impedirgli di fare pazzie. Anche lui era sconvolto, e scombussolato; ma non per questo sarebbe venuto meno ai suoi doveri di fratello maggiore proprio quando Michael aveva più bisogno di lui. Quest’ultimo si era aggrappato alla sua schiena, singhiozzando; e per un attimo – solo un attimo- Percy era stato sollevato di poterlo avere di nuovo con sé.
Will aveva iniziato a premere con forza i palmi sul petto della ragazza, sperando che un massaggio cardiaco la aiutasse a tornare tra loro.
«Andiamo» mormorava tra sé e sé, digrignando i denti. «Coraggio.»
Ma il corpo inerme della figlia di Efesto non aveva avuto neanche un minimo spasmo, e quando anche Annabeth si era inginocchiata accanto a lei, Will le aveva passato la propria valigetta, imponendole di tirar fuori il defibrillatore.
«Che cosa hai intenzione di fare?» aveva domandato la figlia di Atena, che però, nel frattempo, aveva già acceso il dispositivo.
«Il possibile» aveva risposto lui, applicando le placche adesive sullo sterno della mora. «Sai usarlo?» si era poi informato, e quando la bionda aveva annuito, aveva preso un bel respiro.
«Libera» le aveva detto, procedendo nel suo intento di rianimazione.
E così una, due, cinque volte; senza arrendersi, continuava a fare pressione sul petto di Skyler, mentre Annabeth le lanciava delle scariche ad intervalli regolari.
«So che puoi farcela» le aveva sussurrato Will, dopo il settimo tentativo mancato. Aveva riprovato ancora una volta, conscio del fatto che sarebbe stata l’ultima, e non appena la figlia di Atena aveva lasciato andare ulteriore elettricità, il torace della figlia di Efesto aveva sussultato. Un movimento impercettibile, ma che non era sfuggito all’occhio attento del biondo.
Quest’ultimo le aveva afferrato il polso, trattenendo il fiato, in attesa. E subito dopo le sue iridi chiare erano state attraversate da un luccichio, prima che il suo viso si contorcesse di nuovo in un’espressione imperscrutabile.
«C’è di nuovo battito» aveva affermato, al ché Michael si era allontanato dal fratello, cercando qualche segno di vita sul volto della ragazza. Ma di quest’ultima non si udiva neanche il respiro.
«Skyler» aveva ciangottato, con voce spezzata, osservando il figlio di Apollo coricarsela in braccio.
«È debole» aveva annunciato quello. «Troppo. Non ce la farà, se non la portiamo subito al Campo.»
«Ce la faccio» si era quindi fatto avanti Nico, guadagnandosi un’occhiata dubbiosa.
«Ma…»
«Ce la faccio» aveva semplicemente ripetuto, stavolta con più convinzione.
Si erano avvicinati l’un l’altro, ed il figlio di Ade si era sforzato di eludere qualsiasi altro suono che potesse distrarlo da quell’impresa, che fossero i singhiozzi di Emma, le proteste di Michael o la voce di Will che dava ad Annabeth delle indicazioni.
Era da tanto, forse troppo tempo che non trasportava un simile carico; ma il rezzo che incombeva sulla mora era ancora troppo scuro perché potessero tirare un sospiro di sollievo. Solace era stato bravo, ma adesso toccava a lui fare la propria parte.
Una volta messo piede a Long Island, Will si era diretto verso l’infermeria senza indugiare, mentre Percy correva verso la Casa Grande per avvertire Chirone.
Il figlio di Apollo aveva posto la ragazza nelle mani del centauro, spiegandogli la situazione, ma non appena Michael aveva fatto per andare con loro, l'uomo gliel’aveva impedito.
«Lascia fare a noi, ragazzo» gli aveva intimato, e ci era voluta tutta la resistenza del fratello per far sì che il figlio di Poseidone facesse come gli era stato detto.
Aveva urlato più volte il nome della ragazza, pregando di farlo stare al suo fianco; ma era tutto vano, e dopo un po’ si era arresi all’idea di dover aspettare.
Nico era stato fatto sdraiare su un lettino, nella speranza che recuperasse le energie; nel frattempo, le porte di quel luogo erano state spalancate con un tonfo.
Melanie era sulla soglia, perlustrando il corridoio con agitazione. E solo quando le sue iridi caramellate si erano posate su una chioma color miele, la figlia di Demetra aveva perso un battito.
«John!» Qualcosa a metà tra uno strillo e un grido di gioia, proprio mentre lui si accorgeva di lei. «John!»
Erano corsi l’uno verso l’altra, e di colpo era come se al mondo non ci fosse nessuno tranne loro due, che si aprivano un varco nello spazio per raggiungersi. Si erano scontrati, si erano abbracciati; avevano rischiato di perdere l’equilibrio, e lei si era nascosta nell’incavo del suo collo, lasciandosi andare ad un pianto sollevato. Ed erano rimasti lì per un tempo interminabile, contro un muro, a baciarsi tra le lacrime. Stretti in un unico essere. Invisibili.
Chirone era uscito dalla sala operatoria esattamente dopo due ore, trentasette minuti e quarantacinque secondi.
Michael li aveva contati senza sosta, chiedendosi come mai ci mettessero tanto. Skyler era morta, dannazione. Poi, grazie a Will, il suo cuore aveva riacquistato il proprio ritmo, seppur temporaneo.
E allora perché, nonostante quello sprazzo di luce, il figlio di Poseidone sentiva che qualcosa non andava?
Lo aveva capito solo quando il centauro gli era andato incontro, il capo chino ed un’aria afflitta, scoraggiata.
«È in coma irreversibile» aveva comunicato ai ragazzi, e non c’era stato bisogno di aggiungere altro.
«Mi dispiace, ho fatto il possibile.»
Leo non era un asso, in quanto a medicina, ma non serviva un genio per capire che ormai era finita.
Ci avevano provato, avevano fatto appello a tutto il loro sapere; ma per sua sorella non c’era più nessuna possibilità. Si erano frantumate tutte, spazzate via dall’impeto di quell’uragano che era la morte.
Ciò che permetteva alla ragazza di respirare ancora erano unicamente le macchine alle quali era collegata. Non era più padrona delle proprie funzioni vitali; ogni giorno un figlio di Apollo si recava nella sua stanza per poter verificare se ci fosse qualche attività elettrica, nel suo cervello, ma nulla. Nemmeno le sue pupille reagivano più alla luce.
Eppure se tutti erano apparsi devastati da quella notizia, il figlio di Efesto non era riuscito a sfogare la propria sofferenza. Si era limitato a prendere a pugni il cuscino, fino a che le nocche non avevano iniziato a dolere.
Non una lacrima aveva rigato le sue guance, perché nonostante percepisse gli occhi bruciare, sapeva che non era quello che Skyler avrebbe voluto.
Lei odiava vedere le persone tristi; e ancor di più detestava essere l’artefice di quel malumore.
Ma era inevitabile, si rese conto il ragazzo poco dopo. Anche se inconsciamente, lei era una di quegli esseri umani che ti migliorano la giornata.
Tre settimane.   
Erano passate tre settimane da quando Leo Valdez aveva sorriso per l’ultima volta.
Non una battuta, non un verso di scherno. Il suo volto era rimasto impassibile; la mente divorata da tutti i pensieri che vi albergavano, tempestosi.
Si era buttato a capofitto nel lavoro come mai prima di allora, svolgendo le mansioni assegnate a quelli che tra i suoi fratelli sentivano di più la mancanza della mora. Tra loro, il primo era Microft, al quale lui dava spesso il cambio ogni qual volta il più piccolo si recava in infermeria. 
Avrebbe dovuto essere suo, infatti, il compito di controllare le tubature dei lavandini della Casa Dieci. Sembravano essere tutti a posto, eccetto quello nel secondo bagno, che continuava a dargli del filo da torcere.
Il figlio di Efesto vi lavorava intensamente da circa mezz’ora, incurante della polvere che si incollava ai suoi vestiti. In un certo senso, lo aiutava a distrarsi. E allo stesso tempo lo aiutava a non pensare ad 
Emma, e al senso di inutilità che aveva provato quando aveva scorto occhi arrossati.
La figlia di Ermes aveva pianto per la sua migliore amica forse anche più di tutti gli altri. Leo avrebbe voluto confortarla, stringersela al petto per far sì che si dessero forza a vicenda. Ma sapeva di non poterlo fare dopo tutto il malinteso che si era creato.
In alcuni momenti si domandava come avrebbe reagito Skyler, se avesse saputo cosa c’era stato tra loro – di qualsiasi cosa si trattasse-. Certo, all’inizio magari si sarebbe arrabbiata per averla tenuta all’oscuro, ma in seguito, probabilmente, avrebbe aiutato il fratello a capire che cosa provava davvero per quella ragazza.
Attrazione? O forse un sentimento più profondo?
E come avrebbe fatto a scoprirlo adesso che tra loro si era aperto un baratro che appariva insuperabile?
Non appena si pose quel quesito, la chiave inglese gli scivolò di mano, producendo un suono metallico una volta incontrato il pavimento di marmo.
«C’è nessuno?» si udì una voce proveniente dall’altra stanza, e il moro non fece in tempo a dar risposta che due gambe snelle si intromisero nel suo campo visivo.
«Ah, sei tu» bisbigliò Charlotte, quando lui si affacciò per poter vedere il proprio interlocutore.
Indossava un paio di shorts molto corti, la maglietta del Campo annodata sulla bocca dello stomaco, in modo da lasciare la pancia scoperta. Il suo trucco era impeccabile, così come l’adeguatezza degli accessori.
Al sentire le sue parole, Leo ghignò. «Delusa?» la provocò, sarcastico, per poi riportare la propria attenzione sulle tubature del lavandino.
«No, certo che no» si affrettò a scuotere la testa lei, ravviandosi i capelli già perfetti. «È solo che non mi aspettavo di trovarti qui.»
«Il sifone perde» borbottò il ragazzo, come se quello giustificasse la sua presenza lì. Avrebbe desiderato che il suo tono non suonasse così scortese come lo era stato in realtà, ma non poteva fare a meno di sentirsi a disagio ogni volta che si ritrovava nella stessa stanza con quella ragazza. Peggio ancora se erano soli
Sapeva di essere stato abbindolato da lei, quella sera. Ed era consapevole anche del fatto di doverla affrontare. Ma non sembrava mai il momento giusto per farlo, per questo aveva preferito evitarla fino ad allora.
«Ultimamente sei stato molto sfuggente» gli fece notare distrattamente la figlia di Afrodite, specchiandosi e tamponandosi le labbra con un dito, per rendere omogeneo il rossetto.
«Sì, già.»
«Mi dispiace per tua sorella» annunciò quindi lei. «Non credo di averci mai parlato, ma per quanto ne so era una brava ragazza.»
«Era la migliore» la corresse bruscamente lui, per poi corrucciare le sopracciglia. «È.»
«Sì, certo» ridacchiò Charlotte, quasi avesse detto la stupidaggine del secolo. Sapevano tutti che le possibilità che Skyler si riprendesse erano del tutto nulle; e chi sperava nel contrario, aveva solo la ragione offuscata dal dolore.
«Sai» cantilenò melliflua lei. «Dicono che in occasioni del genere il modo migliore per superare la perdita è un abbraccio» lo informò. «Ma se tu hai qualche idea migliore, non sarò certo io a tirarmi indietro.»
Al figlio di Efesto scivolò nuovamente la chiave inglese di mano, che sbatté contro la sua fronte, al ché lui imprecò. La ragazza rise, soddisfatta dall’idea di essere riuscita a metterlo in imbarazzo. 
Quando Leo si alzò in piedi, facendo per andarsene, la mora gli si parò davanti.
«Hai già finito?» domandò, ingenuamente.
«Ehm, i-io…» balbettò lui, arrossendo. «D-Devo prendere dei pezzi di ricambio per il tubo di scarico.» Diede un passo a destra, pronto ad uscire, ma la ragazza lo imitò, barrandogli ancora una volta la strada. Inclinò il capo di lato, studiandolo con i suoi grandi occhioni cangianti.
«Perché non ti dai una ripulita, invece?» lo invitò. «Così magari usciamo a fare due passi.»
Il ragazzo deglutì, con fatica. «N-Non mi sembra il caso» ciangottò, in un sussurro.
«Vuoi restare in casa, allora?»
«No, grazie.»
«E allora cosa vuoi fare?»
«Niente.»
Charlotte corrucciò le sopracciglia. «Ma come niente?» Sembrava confusa, e quando gli si avvicinò ulteriormente, sui suoi lineamenti aleggiava autorità. «Leo, tu vuoi passare il pomeriggio con me, vero?»  
Scandì lentamente quella frase, con cura; e per un attimo, la sua voce arrivò contorta ed attutita ai timpani del ragazzo. La mente di lui si intorpidì, come se fosse in procinto di entrare in uno stato catatonico. Ma quando la figlia di Afrodite parlò di nuovo, ponendogli la stessa domanda, tutte quelle sensazioni si volatilizzarono.
Piper una volta gli aveva spiegato il funzionamento della lingua ammaliatrice: se sei interessato ad una persona, o se anche inconsciamente la trovi attraente, quella, con il proprio potere, è libera di farti fare quello che vuole.
La sera in cui la mora che aveva di fronte l’aveva costretto a baciarla, Leo doveva ammettere di aver titubato dinanzi alla tentazione di accettare le sue improvvise avances. Aveva avuto una cotta per lei per molto tempo, e nonostante i suoi sentimenti già allora fossero cambiati, non aveva potuto resistere alla sua indiscutibile bellezza.
Ma ora tutti ciò che riusciva a scorgere era una ragazza come le altre, che non sarebbe mai riuscita a fargli battere il cuore. E quella consapevolezza lo fece sorridere, mentre si rendeva conto di ciò che quello poteva significare.
«No» rispose, secco, e sul viso di lei apparve un’espressione interdetta.
«Come?»
«No» ripeté lui, con maggiore convinzione. La guardò. «Non ho intenzione di passare tutto il pomeriggio con te. Non è questo ciò che voglio.»
«Che significa?»
«Tu sei bellissima, Charlotte, davvero. Ma non sei ciò di cui ho bisogno in questo momento. Io…» Ci ragionò su, una fluente chioma bionda che si formava nei suoi ricordi. «Io voglio stare accanto ad un’altra persona» assentì. «E forse prima ero troppo stupido per capirlo, ma adesso lo so.»
«Tu…» La figlia di Afrodite gli puntò un dito contro il petto, indignata. «Tu mi stai scaricando, per caso? Non è così che funziona, chiaro? Sono io che lascio te!»
Il ragazzo sbatté le palpebre, per poi fare spallucce. «Se questo ti fa sentire meglio, pensala come vuoi» convenne, incapace di trattenere il proprio entusiasmo. «A me non interessa. Non più. Ho capito che stare con te è come attendere la pioggia durante la siccità: inutile e deludente. E ora scusami, ma devo scappare.»
La superò, dirigendosi spedito verso la porta; la ragazza lo seguì con lo sguardo, furiosa e basita.
«Valdez!» strepitò, stringendo i pungi e pestando un piede a terra. «Torna qui, non ho ancora finito con te!»
«Ne riparliamo, okay?» propose lui.
«Un giorno te ne pentirai!»
Non appena varcò la soglia della porta, Leo si imbatté in Piper, che vedendolo correre via così adrenalinico e felice, parve stupita.
«Ehi, ma dove stai andando?» gli urlò dietro, al ché lui si voltò verso l’amica, con un sorriso.
«A rimediare all’errore più grande che io abbia mai fatto!» si limitò a specificare, contento, prima di buttare un occhio ai propri vestiti, sgualciti e lerci. «E magari a farmi una doccia» aggiunse, per poi affrettarsi alla volta della Casa Nove.
 
Ω Ω Ω
 
Coma irreversibile.
Michael non avrebbe mai immaginato che due semplici, ignobili parole fossero state capaci di trafiggergli il petto come una lama affilata.
Coma irreversibile.
Come si era arrivati fino a quel punto?
Per tutto il tempo in cui era stato prigioniero, quell’eventualità non aveva neanche sfiorato l’anticamera della sua mente. Si era preparato al peggio –qualsiasi cosa esso comportasse-. Ma mai, neanche per un secondo, aveva preso in considerazione la probabilità che Skyler perdesse la vita.
Dopo essere stato convalescente per tre giorni ed essersi risvegliato in catene, dentro una cella, la prima persona che aveva fatto il suo ingresso nel suo campo visivo era stato il Generale.
Non appena l’aveva visto, il figlio di Poseidone aveva sentito montare il panico, chiedendosi che cosa ci facesse lì, dove si trovasse e come ci fosse arrivato.
Quando aveva scorto Matthew, poi, tutti i tasselli avevano trovato il proprio posto nel puzzle. Gli ci era voluto un po’ per capire che fosse il ragazzo il superiore dell’uomo, e non il contrario; e la cosa lo aveva lasciato senza parole fino a che il presunto figlio di Eris gli aveva rivolto un sorriso sprezzante, e gli insulti erano sgorgati via dalle sue labbra come un fiume in piena.
Era convinto che quello l’avesse rapito unicamente per potersi vendicare, magari sperando che se l’avesse tolto di mezzo, avrebbe avuto un’opportunità in più di impossessarsi della sua vita.
Ma poi gli era stato esposto il suo piano, e quasi le catene dalle quali era imprigionato fossero improvvisamente diventate troppo pesanti, Michael si era accasciato a terra, ogni sua energia che si prosciugava man mano che la voce tagliente di Matthew si avvicinava ad una sola, terribile conclusione.
Non avrebbe mai permesso a quello schifoso tizio di fare alla propria ragazza del male, e aveva confidato nel fatto che nessuno sapesse la verità finché non era venuto a conoscenza dell’impresa che i suoi amici stavano per intraprendere.
Era stato il Generale ad annunciarglielo, e lui non aveva inteso la pericolosità del luogo nel quale si erano addentrati fin quando durante il suo sesto giorno di prigionia, Matthew non si era presentato di nuovo in quell’enorme e vuota sala, un ghigno trionfante sul viso. Aveva poi mosso il polso in un movimento circolare, e l’aria davanti a lui si era increspata, poco prima che vi apparisse il volto di Skyler.
Al vederlo, il figlio di Poseidone aveva fatto per andarvi incontro, gli occhi sgranati, ma era stato costretto a fermarsi un volta raggiunte le sbarre, i guinzagli che producevano un fruscio metallico.
L’immagine mostrava la figlia di Efesto avanzare verso il cuore della foresta, seguita a ruota dagli altri due. Si faceva strada a suon di fendenti, la fronte imperlata di un leggero strato di sudore.
Michael avrebbe dato qualunque cosa, pur di poterla abbracciare; avrebbe voluto dirle che stava bene, e che avrebbe fatto meglio a tornare indietro, a mettersi al sicuro. Ma tutto ciò che gli era concesso era un passivo osservare nel momento in cui quel ragazzo decideva di mostrargli la tragicità di quella spedizione.
Lui aveva visto ogni cosa, sentendosi impotente come mai prima di allora.
Aveva imprecato quando i suoi amici avevano perso le loro provviste.
Aveva stretto i pugni quando John aveva ceduto alle ragazze la propria razione. 
Aveva tirato un sospiro di sollievo quando quell’Alex aveva ucciso un Catoblepa, salvando la vita di Skyler.
Aveva urlato quando quest’ultima aveva rischiato di perdere l’incontro con il Simurgh, e aveva preso a pugni le mura di quella cella ogni volta che lei sembrava stare male.
Aveva pianto per la morte di Emma, e gioito per il suo ritorno.
Si era preoccupato per John quando aveva provato ad acciuffare la Pietra e aveva sentito il proprio cuore perdere un battito quando li aveva visti dirigersi verso il luogo della propria prigione.
In più occasioni aveva tentato di opporsi, con il solo risultato di essere sottoposto ad innumerevoli torture. Era stato picchiato a sangue dagli uomini del Generale, tanto che a volte il dolore gli faceva perdere i sensi. Era stato messo a digiuno per giornate intere, e aveva dovuto subire ogni inflizione del coltello del Capitano quando quest’ultimo vi trovava piacere nella sua sofferenza.
Aveva poi scoperto a proprie spese che le catene dalle quali era ancorato erano radioattive, e che bastava una rapida occhiata di Matthew, perché queste facessero fluire in lui tremila volt di scarica elettrica per tutto il corpo, provocandogli delle gravi ustioni nel migliore dei casi.
Ma tutte le pene che aveva provato in quel lasso di tempo non sarebbero mai state paragonabili al pugno di ferro che gli aveva stretto il cuore in una morsa gelida nel momento in cui Skyler era spirata tra le sue braccia. 
Come se essere in vita non avesse più senso; come se il mondo avesse perso la parte più bella di sé.
Ciò che era accaduto in seguito era solo un ricordo confuso che aleggiava tra le pareti della sua scatola cranica. Appariva tutto futile, di scarsa importanza, fino all’attimo in cui aveva udito quelle due, distruttive parole.
Coma irreversibile.
Coma. Irreversibile.
Era stato come se gli avessero mozzato di netto le gambe, e il figlio di Poseidone si era lasciato cadere su una delle sedie di plastica di quel corridoio, gli occhi vacui, persi nel vuoto.
Qualcuno dei presenti era scoppiato in lacrime; qualcun altro aveva cercato di estorcere qualche informazione in più dal centauro. Ma alla fine, la diagnosi restava sempre quella.
«Coma irreversibile.»
«Stato vegetativo.»
«Morte cerebrale.»
«Non c’è più nulla da fare, ragazzi, mi dispiace.»
E se la prima volta vederla morire sotto le proprie iridi era stato orribile, essere consapevole che questo sarebbe accaduto una di nuovo era addirittura peggio.
Erano passate tre settimane da quel giorno, e Michael le aveva passate tutte seduto su quella scranna blu, in quell’androne infelice; senza muoversi, quasi senza mangiare. Aveva fissato la porta dietro la quale si celava il corpo morente di Skyler senza che le sue corde vocali emettessero più alcun suono.
Anche quando sua sorella Rose era corsa da lui, piangente, non era riuscito a riscuotersi da quello stato di shock. Lei gli aveva buttato le braccia al collo, ringraziando gli dei per averlo fatto tornare a casa sano e salvo, ma il ragazzo si era limitato a ricambiare la sua stretta, non avendo idea neanche di cosa fosse giusto dire, in quelle circostanze.
Per un po’, John ed Emma erano rimasti con lui, su quelle seggiole; con la figlia di Ermes che di tanto in tanto tirava su col naso, la testa posata sulla spalla del biondo, e quest’ultimo con ogni tendine contratto per la tensione.
Erano stati lì per due, tre, dodici ore. Ma senza che se ne rendessero conto la stanchezza aveva preso il sopravvento.
«Michael, noi andiamo a riposarci» aveva annunciato la ragazza, in un sussurro tanto lieve da sembrare impercettibile. «Vieni con noi?»
Il moro non si era neanche voltato a guardarla, gli occhi che bruciavano di rovente tristezza, al ché lei aveva compreso le sue intenzioni.
«Hai bisogno di chiudere gli occhi anche tu» gli aveva quindi intimato, stringendogli teneramente una mano. «Se resti qui, non cambierai le cose.»
Ma il figlio di Apollo conosceva fin troppo bene il suo migliore amico per capire che qualsiasi supplica sarebbe stata vana. Lui si sarebbe trattenuto lì, per Skyler, e loro non avrebbero potuto fare nulla per impedirglielo.
Per questo aveva afferrato dolcemente l’amica per le spalle, mormorandole di andare con via, così da lasciare il figlio di Poseidone in pace.
A meno che non fosse a causa di un impellente bisogno fisico, Michael si rifiutava di ingurgitare qualsiasi alimento. Lui non aveva bisogno di nessun cibo; lui aveva bisogno della sua ragazza. E di averla accanto, viva, che gli sorrideva come solo lei avrebbe saputo fare.
Lui aveva bisogno di sapere di non dover essere costretto ad immaginare un futuro senza di lei.
Lui aveva bisogno di vedere quelle iridi screziate d’oro brillare.
Quando John, quella mattina, si presentò da lui con un cartone di pizza in mano, l’amico a malapena sollevò lo sguardo per osservarlo.
Il biondo prese un gran respiro, porgendogli quel modesto pasto con un’alzata di spalle. «Ho pensato che magari avessi fame» si giustificò, e mentre si lasciava andare di peso sulla sedia accanto alla sua, il moro osservò quei tranci fumanti, e provò una nauseante sensazione di disgusto.
Il figlio di Apollo forse sapeva che non vi avrebbe dato neanche un piccolo morso, ma chissà perché Michael aveva il presentimento che non fosse lì solo per quello.
Tra i due ragazzi aleggiò a lungo il silenzio, pungente, ed entrambi osservarono la porta che li separava da una persona decisamente importante per l’uno e l’altro, seppur in modo diverso.
Poi John sospirò, corrucciando leggermente le sopracciglia. «Ho sentito Will e Theresa parlare, stamattina» esordì, con tono mesto e cupo. «Chirone ha deciso di staccare le macchine tra tre giorni, lo sapevi?»
Il figlio di Poseidone chinò il capo, soffocando un urlo di disperazione.
Sì, ne era a conoscenza. Ma quell’informazione non era sembrata tanto vera fino a che non aveva lasciato le labbra di una delle persone a cui lui teneva di più.
«Dovremo avvisare i parenti» aveva udito affermare al centauro. «E spiegar loro la situazione per bene. Ormai è inutile continuare a farla persistere in quello stato. Noi abbiamo fatto il possibile, certo, ma è giusto che lei raggiunga il posto che al momento potrebbe essere la sua unica dimora: i Campi Elisi.»
No, lui non poteva accettarlo. Come avevano anche solo potuto pensare di fare una cosa del genere?
Skyler era lì, e respirava ancora. Certo, il filo che l’ancorava alla terra diventava ogni giorno più sottile; ma questo non dava loro il diritto di prendere decisioni sulla sua vita.
Eppure, non c’era nulla che lui potesse fare.
Ormai era finita. Doveva solo rassegnarsi all’idea di star per perdere una parte di sé. 
«Dovresti provare a parlarle, qualche volta» gli suggerì ad un tratto il figlio di Apollo, distogliendolo bruscamente dal flusso dei suoi macabri pensieri. «Sono sicuro che lei può sentirci.»
Il moro non aveva mai preso in considerazione quella possibilità.
Sentirli?
Il suo cervello era completamente andato, incapace di rispondere a tutti gli impulsi che arrivavano dal mondo esterno. La figlia di Efesto non era capace neanche di respirare da sola. Come avrebbe potuto ascoltarli?
«Skyler non è ancora morta, Michael» gli rammentò allora John, cogliendolo un po’ alla sprovvista. «Lo sai quanto me. C’è ancora speranza.»
«Non ci credi neanche tu» borbottò lui, le prime parole che sillabava dopo parecchio tempo. Quell’affermazione era rivolta più a sé stesso che all’amico, ma quest’ultimo si girò comunque a guardarlo, un’espressione seria in viso.
«Ti sbagli, invece» lo accusò. «Ne abbiamo passate di cotte e di crude, in questi ultimi due anni, ma in un modo o nell’altro ce l’abbiamo sempre fatta. Abbiamo trovato sempre una soluzione, e sai come? Insieme. Io, te, Skyler ed Emma. Noi siamo una squadra. E resteremo uniti anche quando il mondo parrà remare dal lato opposto al nostro. Noi ci siamo confortati ogni volta, nel momento del bisogno, no? Beh, ora Skyler ha bisogno di noi. Ha bisogno di sentirci compatti, a combattere per lei. Non sei d’accordo?»
Quelle frasi scossero il figlio di Poseidone molto più di quanto avrebbe voluto dare a vedere. Un nodo gli strinse maligno la bocca dello stomaco, e calde lacrime presero a bagnargli le guance prima che lui potesse impedirlo.
Il biondo se ne accorse, e posandogli una mano dietro la nuca lo attirò a sé, stringendolo in un fraterno abbraccio. Fu solo in quell’istante che Michael si sfogò. Decise di liberarsi di tutta la malinconia, tutto il dolore, tutte le ingiustizie subite, tutti i rimpianti. Scivolarono via sul suo corpo sotto forma di un pianto sommesso, sconfortato, liberatorio.
«Noi siamo con lei» gli disse l’amico, prendendo a sua volta un sospiro tremante. «Ricordi?»
E lui se lo ricordava eccome.
Era stata proprio Skyler la prima a pronunciare quella frase, all’inizio un po’ ingenuamente. Ma a lungo andare era diventato il loro motto, un patto sancito al fine di serbar memoria della certezza che ci sarebbero sempre stati l’uno per l’altra.
John aveva ragione: loro erano un team, una squadra.
Una famiglia, a dir la verità. La famiglia più stramba, sfortunata, solida, disagiata ed indivisibile che si fosse mai vista da millenni a quella parte.
 
Ω Ω Ω
 
Subito dopo essersi dato una rinfrescata ed aver indossato una maglietta pulita, Leo aveva avuto bisogno di racimolare tutto il proprio coraggio per non rischiare di avere un ripensamento all’ultimo secondo.
Doveva parlare con Emma. Aveva bisogno di guardarla in quei suoi magnifici occhi da cerbiatto e dirle come erano andate veramente le cose.
Era sicuro ci fosse stato un fraintendimento, e si diede mentalmente nello stupido per aver deciso solo allora che fosse arrivato il momento di aggiustare tutto.
Gli mancava stare con lei. Gli mancavano i suoi capelli, il suo sorriso, il suo profumo.
Gli mancava udire il melodioso suono della sua risata ed incontrare le sue iridi argentate durante i pasti.
Gli mancavano le sue labbra, le sue frecciatine, e il poter svegliarsi la mattina con la consapevolezza che se avesse voluto vederla, gli sarebbe bastato cercarla. 
Aveva nostalgia dell’elettricità statica che pareva sfrigolare ad ogni loro contatto, e si chiese se anche per lei fosse lo stesso.
Certo, lui aveva sbagliato; ma ciò che avevano provato l’uno per l’altra non era un sentimento da poter trascurare, vero?
C’era qualcosa, tra loro, di semplicemente giusto, come se per tutto questo tempo non avessero fatto altro che rincorrersi, per poi finalmente trovarsi e non lasciarsi andare più. 
Non era mai riuscito a dare un nome a questo genere di sensazioni.
Ma in fondo dovevano pur valere, no?
Non appena riuscì a scorgerla in lontananza, percepì gli ingranaggi del proprio cuore intopparsi, minacciando di scoppiare. Camminava al fianco di John, diretta verso la mensa per la cena.
Aveva quasi dimenticato quanto fosse bella, e come riuscisse a mozzargli il fiato ogni qualvolta che i suoi riccioli biondi erano illuminati dal sole.
Per certi versi, sembrava cambiata: aveva una leggera cicatrice sul braccio - che i figli di Apollo le avevano diligentemente curato- ed un’altra quasi impercettibile sulla fronte, accanto all’attaccatura dei capelli. I suoi occhi erano cupi, inespressivi, ed il portamento molto più fiero di quanto il figlio di Efesto ricordasse.
Ma nonostante ciò, era sempre la stessa; e Leo avrebbe dato qualunque cosa pur di avere la certezza che lei non perdesse mai quella luce di cui lui la vedeva brillare.
«Emma!» chiamò, andandole incontro, e quando la ragazza lo scorse, per un attimo si irrigidì. Sostenne il suo sguardo, quasi lui fosse il nemico e lei fosse in procinto di studiarlo.
Ma prima che il ragazzo potesse proferire parola, John gli si parò davanti, sfidandolo con lo sguardo a fare un altro passo.
Il corvino fece vagare le proprie iridi da lei a lui, per poi soffermarsi definitivamente sulla figlia di Ermes e spostare il peso da un piede all’altro.
«Devo parlarti» le spiegò, osservandola da sopra la spalla del biondo (che era qualche centimetro più alto di lui). «È importante.»
«Va via, Valdez» gli ordinò il figlio di Apollo, con tono intimidatorio. «Qui non troverai nessuno con cui parlare.»
«Ci metterò solo un minuto» assicurò quindi lui, senza distogliere gli occhi da lei. «Lo prometto.»
«Forse non mi hai sentito bene» reiterò allora John. «Vedi di andartene prima che io…»
«No, John, aspetta» lo interruppe inaspettatamente Emma, posandogli una mano sul braccio. Squadrò Leo, un’espressione indecifrabile. «Voglio sentire cos’ha da dire.»
Poi sembrò valutare la presenza del proprio amico, rendendosi conto che quello –magari- era un argomento che avrebbero dovuto affrontare da soli, in assenza di spettatori.
Si voltò, allontanandosi di qualche metro, e Leo, dopo qualche secondo di esitazione, la seguì.
Si ritrovarono per la prima volta dopo giorni faccia a faccia, occhi negli occhi, l’uno di fronte all’altra; e, per qualche imbarazzante istante, si limitarono a fissarsi, nessuno dei due che pareva voler cominciare.
«Come stai?» esordì dopo un po’ lui, al ché la bionda, inarcando le sopracciglia, sbuffò.
«Ti interessa davvero?»
«Sì. Insomma, io…» Il figlio di Efesto titubò, boccheggiando in cerca delle giuste parole. «C’è stato un grandissimo malinteso.»
La figlia di Ermes parve divertita da quell’informazione, ed incrociò le braccia al petto, sospirando. «Un malinteso, certo» borbottò, sarcastica.
«No, sul serio!» esclamò il moro. «Mi dispiace.»
«Risparmiami le tue stupide scuse, per favore.»
«Ma lasciami almeno spiegare» la pregò lui. «Se tu sapessi come sono andate realmente le cose potresti capire che…»
Qualsiasi cosa Leo aveva avuto intenzione di affermare si relegò in un angolo segreto della sua mente, rimpiazzata dall’interdizione che lo investì appena il palmo di Emma si posò con forza sulla sua guancia, lasciandovici un segno rossastro e costringendolo a voltare il capo.
Il ragazzo la guardò, confuso.
«Te la dico io, una cosa, invece» sibilò pungente lei, puntandogli con rabbia un dito al petto. «Mi fai schifo, okay? E odio anche solo pensare di aver creduto che condividendo parte del mio tempo con te sarei stata felice.» Abbozzò un sorriso, amareggiata. «Cosa credevi? Che venendo qui ed uscendotene con un misero ‘mi dispiace’ avresti aggiustato tutto, ottenendo il tuo "happy-ending"? Non siamo in un film Disney! Ed io non sono una stupida principessa! Ne hai una pronta ad accoglierti nella Casa Dieci, no? E allora corri! Che ci fai ancora qui?»
Incatenò le proprie iridi argentee a quelle scure di lui, ma tutto ciò che il moro vi lesse fu distacco, disprezzo, furore ed una spossante freddezza.
«L’unico motivo per cui ho accettato di parlarti è per poterti finalmente guardare negli occhi mentre continuavi a dirmi bugie. Eri convinto che ‘scusa’ avrebbe fatto la differenza, ma è soltanto una parola in confronto ad altre mille azioni. Quindi te lo dirò una sola volta, Valdez» proseguì, a denti stretti. «Sta lontano da me. Lasciami in pace. Ho già troppi problemi per potermi prendere la briga di farmi rovinare la vita da te. Magari un tempo avrai 
anche avuto la tua occasione» aggiunse, deglutendo a fatica. «Ma ormai è troppo tardi.»
Leo avrebbe voluto replicare. Avrebbe voluto urlarle che «No! Lei si sbagliava.»; desiderava farle capire che non era orribile come lei se l’era figurato, e che tutto ciò che chiedeva era un’altra possibilità, l’occasione di migliorare le cose.
Ma al contrario si ammutolì, fissandola senza che le sue corde vocali fossero capaci di emettere alcun suono.
Probabilmente la ragazza rimase delusa dal suo silenzio –aspettandosi quanto meno una risposta-, perché prese un respiro tremante, superandolo con l’intenzione di andarsene.
«Aspetta…» fece lui, afferrandola per un braccio. Ma questa si divincolò bruscamente dalla sua presa, fulminandolo con lo sguardo.
«Non mi toccare» mormorò, sprezzante. Poi strinse i pugni, talmente forte da conficcarsi le unghie nei palmi. «Per quanto mi riguarda, puoi anche andare al Tartaro.»
E detto questo gli diede le spalle, tornandosene da John e lasciandolo solo con i suoi sensi di colpa.
Il figlio di Efesto si era preparato ad una reazione furiosa da parte di lei, ma le sue congetture non avevano nulla a che fare con quello. Non aveva intuito quanto lei avesse sofferto finché non l’aveva guardata negli occhi; e avrebbe preferito non farlo, considerato il pugno invisibile che gli aveva colpito lo stomaco alla consapevolezza di essere lui l’artefice di gran parte della tristezza che vi aleggiava.
Sapeva di averla ferita, ma addirittura chiedergli di lasciarla stare?
Voleva dire uscire definitivamente dalla sua vita. Ma come erano arrivati fin lì?
Leo si accarezzò la guancia, che ancora scottava al ricordo dello schiaffo ricevuto.
Lei voleva che lui le stesse lontano? Bene, nessun problema.
Avrebbe obbedito, e dopo un po’ se ne sarebbe fatto una ragione.
Emma era andata, e le sue parole non sarebbero mai servite a niente, quindi perché sprecarle? Si sarebbe limitato a rispettare le distanze tra loro, e magari nel frattempo avrebbe anche trovato una ragazza che faceva al caso suo.
La storia con lei era finita, e stavolta definitivamente, a quanto pareva.
Bel ‘lieto fine’, pensò lui, tra sé e sé. E poi, come se fosse appena stato messo giù da un camion, si lasciò cadere di peso.
E sdraiato supino a terra volse le proprie iridi al cielo, sperando che così facendo assorbire il colpo avrebbe fatto meno male.
 
Ω Ω Ω
 
Lei può sentirci.
Quelle tre parole, da quando erano state pronunciate, avevano vorticato insistentemente nella mente di Michael, facendolo ragionare più di quanto avesse fatto negli ultimi giorni.
Dopo che ebbe finito di sfogarsi con John ed una volta ritrovata la giusta calma, il suo biondo amico era andato via, dirigendosi verso l’ennesima cena a cui lui non aveva voluto partecipare.
Il figlio di Poseidone aveva assistito passivamente al via vai di persone per il corridoio dell’infermeria, concentrandosi unicamente sulla porta di ebano bianco che aveva di fronte, e della quale ormai conosceva ogni venatura.
Skyler era lì dentro, a pochi metri di distanza da lui. Eppure, da quando era caduta in quello stato vegetativo nel quale si trovava, lui si rese cono di non averle fatto visita neanche una volta.
Aveva semplicemente vegliato sulla stanza da fuori, la soglia costantemente chiusa. Non aveva avuto il coraggio di far cigolare quel cardine e stringere la mano della ragazza amava.
Perché sì, solo nel momento in cui aveva rischiato di perderla davanti ai propri occhi aveva capito quanto fossero profondi i propri sentimenti per lei. Avrebbe tanto voluto correrle accanto per dirglielo, ma non ne era mai stato capace.
Che cosa avrebbe trovato, una volta attraversata quella porta?  E se la visione di lei morente in un letto d’ospedale avrebbe reso ancora più difficile il rassegnarsi alla sua morte?
Tre giorni, e poi Chirone le avrebbe staccato la spina.
E a quel punto? Che ne sarebbe stato di lei?
Che ne sarebbe stato di lui?
John aveva detto che in un modo o nell’altro lei poteva sentirli, e anche se anatomicamente parlando era del tutto impossibile, Michael aveva bisogno di credere che fosse così.
Magari se le avesse detto qualcosa, lei avrebbe intuito che non era ancora arrivato il momento di andare, e sarebbe tornata da lui. E se così non fosse stato, doveva riuscire a racimolare le forze almeno per poterle sussurrare un ultimo addio.
Addio. Quella parola non gli piaceva per niente.
Quante persone importanti l’avevano abbandonato per poi non fare più ritorno?
Troppe, tanto che ad un certo punto si era convinto di essere lui il motivo per cui gli altri continuavano ad andarsene.
Inconsciamente, ripensò a sua madre, e al giorno in cui il mare l’aveva inghiottita, portandosela via.
Non voleva che succedesse lo stesso con Skyler; non voleva che la morte la attirasse a sé. Odiava l’idea di dover ripercorrere daccapo tutto il periodo successivo alla perdita. Era sempre il più doloroso, il più logorante; e nonostante dopo un po’ te ne facessi una ragione, ci sarebbe sempre stato questo enorme vuoto dentro di te che nessun’altro sarebbe riuscito a colmare.
Lui ancora lo sentiva; l’enorme voragine lasciata dalla mamma, dopo tutti quegli anni, ancora non si rimarginava. Nell’ultimo periodo sembrava essersi rimpicciolita, ma ora eccola di nuovo lì, pronta a spalancarsi ulteriormente e a diventare più grande di quanto non fosse mai stata.
Non poteva perdere Skyler. Non era ancora pronto a continuare senza di lei.
Ma era solo questione di giorni, prima che la vita l’abbandonasse. E lui non avrebbe potuto impedirlo, perché non era in grado di rallentare il tempo affinché questo durasse in eterno.
Era calata già da un po’ la sera, sul Campo Mezzosangue, per cui i figli di Apollo rimasti erano davvero pochi - quei coraggiosi ragazzi che accettavano di fare il turno di notte-.
In quell’istante, Michael era solo nell’androne eburneo, e d’un tratto la sedia sulla quale era seduto da settimane sembrava essere diventata scomoda, troppo stretta.
Fissò la porta di fronte a sé per qualche secondo, asciugandosi i palmi sudati sulla stoffa sbiadita dei jeans. Prese un respiro tremante; una forza invisibile che premeva contro il suo petto, minacciando di soffocarlo. Si alzò lentamente, domandandosi se le sue gambe intorpidite sarebbero riuscite a sorreggerlo, nonostante sembravano essersi addormentate.
E prima che potesse anche solo pentirsi della propria decisione stringeva già il freddo pomello in una mano, il cardine che cigolava con un sommesso stridio.
C’era così tanta quiete, in quel luogo, che ogni suono sembrava produrre una propria eco personale.
Buttando un’occhiata all’interno, il figlio di Poseidone ebbe l’impulso di tornare indietro, di impedirsi di farsi del male. Ma poi le sue iridi ora blu notte si posarono sull’unico letto della stanza, e il suo cuore si fermò per così tanto tempo che il ragazzo rischiò di svenire.
La figlia di Efesto giaceva tra le bianche lenzuola, immobile, circondata da una serie di complessi macchinari. I suoi capelli scuri erano sparsi sul candido cuscino; la pelle pallida, quasi incolore.
Aveva un ago infilato nel braccio sinistro, collegato ad una flebo che faceva fluire una limpida sostanza direttamente nelle sue vene; l’indice della mano destra, invece, era schiacciato dentro una sorta di pinza che permetteva di segnalare i battiti del suo cuore su un piccolo schermo nero, sotto forma di linea verde.
Si alternavano in dei leggeri ping, ping, ping, intervallati da una pausa che per i gusti del ragazzo durava davvero troppo tempo.
Aveva una maschera respiratoria, a coprirle gran parte del viso; e per quanto potesse esserle di aiuto ad immettere la giusta aria nei polmoni, il moro si sentiva mancare il fiato per lei, convinto che quell’ossigeno non fosse abbastanza, per tenerla in vita.
La ragazza non si mosse, non rivelando il minimo movimento neanche quando lui prese una seggiola di legno dalla parete e la portò accanto al suo letto, sedendovisi sopra e facendo scorrere il proprio sguardo sul suo corpo inerme.
Chirone aveva ragione, per lei non c’erano davvero più molte speranze. Il solo guardarla donava un senso di fragilità, quasi si stesse osservando già un fantasma.
A Michael bruciarono gli occhi al solo pensiero, ma si impose di trattenere l’urlo che dal principio albergava sul fondo della sua gola. Si soffermò ad osservare intensamente il suo viso, studiandone i lineamenti perfetti, rilassati; e si disse che se mai lei avesse dovuto morire, tutto ciò che lui poteva sperare era che lo facesse in pace, così che non provasse alcuna sofferenza.
Fissò le sue palpebre, pregando che si aprissero, ma queste rimasero chiuse, celando le sue bellissime iridi scure. Il figlio di Poseidone si lasciò sfuggire un sorriso triste al ricordo delle piccole striature dorate che li facevano brillare, e chinando il capo di lato, sospirò.
«Ehi» la salutò, maledicendosi per il tremitio della propria voce. Suonava strana, forse proprio perché non l’aveva utilizzata per moltissimo tempo.
Non ce la faceva a vederla così, era troppo. Indifesa, debole, piccola, delicata. Era come guardare una bambola di porcellana e sapere che di lì a poco si sarebbe frantumata.
«Sei bellissima lo stesso, lo sai?» confessò, deglutendo a fatica. «Non so come tu faccia, ma anche in circostanze del genere riesci ad illuminare tutta la stanza. Sarei venuto qui prima, se non avessi avuto paura. Ma Emma e John vogliono che tu sappia che loro resteranno comunque al tuo fianco, sempre. E anch’io. Non ti abbandoneremo proprio ora, e non ci interessa di quello che dicono gli altri» annunciò. «Siamo con te, ricordi?»
Skyler non rispose, ovviamente, né fece cenno di aver capito, ma Michael sapeva che se il suo amico aveva ragione -e lei era davvero in grado di sentirli al di là di ciò che suggerivano le sue attività cerebrali- allora avrebbe sicuramente colto l’importanza e il valore di quel messaggio.
Il ragazzo posò i gomiti sulle ginocchia, prendendosi afflitto la testa tra le mani.
Si sentiva sconfitto, inutile ed amareggiato, a stare lì. Come potevano pretendere che mentre la sua ragazza moriva, lui sarebbe stato a guardare?
Come potevano pensare che non ne sarebbe uscito devastato da tutta quella storia?
«Papà?» chiamò, in un impeto di assoluta disperazione. «Apollo? Ade? Efesto? A chi devo chiedere?» Attese qualche istante, in attesa di un riscontro che però non arrivò. «Argh, non importa!» sbottò, frustrato. «Chiunque di voi sia in ascolto, adesso, vi prego, salvatela. Non portatemela via proprio ora, vi scongiuro. Prendete me al suo posto» dichiarò. «Sono disposto a venire negli Inferi personalmente, se questo significa salvarla. Farò tutto quello che volete, lo giuro. Ma per favore, vi prego, aiutatela.»
Sollevò lo sguardo, e scrutando attentamente il volto della mora ebbe la sensazione di essere appena stato pugnalato al cuore, e che questo di stesse sfaldando in tanti, minuscoli pezzettini.
«Skyler?» continuò, rivolto a lei. «Ti prego, non andartene. Non lasciarmi qui da solo. Non mollare. So che se vivi o…» Esitò, faticando a pronunciare per la prima volta quelle parole ad alta voce. «O muori, dipende solo da te. Per favore, resta» aggiunse poi. «Se resti, farò tutto quello che vuoi. Ti starò accanto per sempre, esaudirò ogni tuo desiderio. Sono anche disposto a rinunciare a te. Se non mi vorrai intorno, io me ne andrò. Accetterò qualunque cosa, se non te ne andrai. Quindi resta. Devi restare. Ti prego, io ho fiducia in te.»
E detto questo la prese per mano, sorprendendosi di quanto fosse gelida e bluastra, quasi non vi fluisse più sangue da un po’. Le accarezzò il palmo con il pollice, disegnandovici dei piccoli cerchi.
Dopo di ché le baciò il dorso, lasciando lì le sue labbra più del dovuto. E quando vi posò contro la fronte chiuse gli occhi, liberando un ultimo, tenue sussurro.
«Resta con me, amore mio.»
Successe tutto in un attimo, tanto che Michael non se ne rese neanche conto.
Il tintinnio che regolare segnava i battiti del cuore di lei cessò, sostituito da un unico fischio continuo ed assordante.
Quattro figli di Apollo si catapultarono nella stanza, allontanandolo sgarbatamente dal lettino, mentre il figlio di Poseidone cercava di capire che cosa stesse accadendo.
Poi lo notò: il diagramma verde associato alle sue pulsazioni era cambiato, tramutandosi in una piatta linea orizzontale.
Riconobbe Theresa, tra i ragazzi appena entrati, ma non fece in tempo a chiederle spiegazioni che questa applicò delle placche adesive sullo sterno di Skyler, proprio come aveva fatto Will quella volta a Stonehenge.
«Libera!» ordinò la ragazza, ed una delle sue sorelle eseguì, liberando nelle vene della mora una serie di volt di scarica.
«Skyler!» berciò il figlio di Poseidone, incapace di correre da lei perché trattenuto da due robusti figli del dio del sole. «Skyler, no!»
Non di nuovo, pensò, osservando il corpo esile della mora in preda a delle convulsioni ogni volta che nuova corrente veniva rilasciata.
Theresa tentò un rapido massaggio cardiaco, per poi comandare un'altra liberazione di energia.
Michael gridò, supplicando la figlia di Efesto di tornare indietro, di non smettere di lottare. Ma sembrava tutto inutile, e quando dopo la decima scarica la figlia di Apollo chinò il capo, con un’espressione afflitta in viso, il ragazzo sentì le proprie ginocchia cedere, la vista offuscarsi a causa delle vertigini.
I due semidei gli impedirono di cadere, aiutandolo a sorreggersi; uno dei due gli disse qualcosa, ma tutto ciò che il moro riusciva ad udire era il frastuono del proprio cuore che si distruggeva.
L’elettrocardiogramma non produceva più alcun suono da qualche minuto, ormai.
Era finita. Lo era davvero. 
Ma lui non era in grado di accettarlo.
Non lì. Non ancora. 
Skyler, rifletté, aspre lacrime che maligne gli rigavano il viso.
Skyler, Skyler, Skyler, Skyler, Skyler, Skyler, Skyler, Skyler, Skyler…
«Skyler!» L’ultimo lo urlò, tirandolo fuori con tutto il fiato che aveva nel polmoni, così forte che il soffitto minacciò di tremare.
Sferzò la notte, espandendosi finché le sue corde vocali non presero a bruciare.
Era pregno di rabbia, dolore, afflizione, disperazione, furore, strazio e tormento. Vi era la pena per un amore perduto; il cordoglio per un destino ingiusto e spietato. Vi era talmente tanta collera e sofferenza da far venire i brividi non solo ai presenti, ma anche a tutti coloro che l’avevano udito.
Era un urlo di crepacuore.
Un urlo; il suo nome.
Fu allora che avvenne, tanto velocemente che quasi nessuno se ne accorse.
Il corpo della ragazza cominciò a luccicare, come se fosse stato puntato da una serie di raggi infrarossi. Per una frazione di secondo, la camera di tinse di rosso, e tutto fu investito da una luce così accecante che i semidei furono costretti a volgere lo sguardo da un’altra parte.
Quando questa scemò, regnò l’assoluto silenzio, durante il quale tutti trattenevano il respiro, non sapendo esattamente cosa fare.
Poi Skyler spalancò gli occhi, all’improvviso, e l’attività elettrica del suo cuore segnò un battito adrenalinico, che correva all’impazzata.
«Oh, miei dei!» esclamò Theresa, sobbalzando spaventata. Corse al suo fianco, per constatare che ciò che vedeva non fosse solo frutto della sua immaginazione; ma quando la mora spostò le proprie iridi scure su di lei, non ebbe più alcun dubbio.
«Impossibile» mormorò, basita, per poi rivolgersi a sua sorella, che fissava la scena imbambolata. «Va a chiamare Chirone, presto!» le impose, prendendo, nel frattempo, la mano della ragazza.
La figlia di Efesto faceva fatica a respirare, ma i suoi occhi scrutavano comunque la stanza, curiosi, quasi si stessero chiedendo che cosa ci facesse lì. Dopo di ché si posarono su Michael, e parvero sorridere, meravigliati.
Il figlio di Poseidone avrebbe voluto dire qualcosa, domandare ai figli di Apollo come questo fosse possibile. Ma gli bastò scorgere quelle striature dorate per capire che non gli interessava affatto ciò che era successo, o di come fosse accaduto.
Skyler era viva, e seppur ancora debole, aveva ascoltato le sue preghiere e aveva deciso di tornare indietro; di tornare da lui.
Skyler era viva, e vederla voltare il capo con movimenti tardigradi e affaticati minacciò di far implodere il petto del ragazzo di gioia.
Skyler era viva, a dispetto di tutto.
Skyler era viva.
 
Ω Ω Ω
 
ᵜ ᵜ 
 
Cinque giorni.
Era passati già cinque giorni da quando Michael aveva assistito ad un miracolo con i suoi stessi occhi.
Cinque giorni da quando una comune figlia di Efesto aveva eluso la morte, stabilendo che i Campi Elisi non erano ancora pronti ad accoglierla.
Cinque giorni da quando Skyler era di nuovo tra loro.
Le emozioni che attanagliavano la bocca dello stomaco del figlio di Poseidone erano tanto spossanti quanto confuse.
Alcuni tra i più esperti di medicina del Campo avevano passato ore a discutere su come quell’episodio fosse stato possibile, ma per quanto fossero tutti indiscutibilmente bravi, nessuno pareva avere la risposta a quel quesito.
Chirone sembrava aver elaborato una propria, dettagliata teoria, ma si rifiutava di condividerla con gli altri, e questo non faceva altro che accrescere lo sbigottimento generale.
Quella ragazza, ormai, era diventata una leggenda. Certo, alcuni dubitavano ancora della veridicità di quella convinzione; ma in fondo, a chi importava?
Skyler era viva, e a Michael non interessavano le contorte congetture di quei ragazzi. Lui voleva solo poterle stare accanto, ed inspirare appieno il suo profumo di lavanda.
Voleva solo stare con lei, ma questo il centauro gliel’aveva impedito.
«Dobbiamo prima assicurarci che non ci siano dei gravi danni cerebrali» aveva detto. «E che quella che si è risvegliata sia la stessa ragazza, e non uno spirito che si è reincarnato nel suo corpo. Potrete visitarla durante le sue ore di riposo.»
E così avevano fatto tutti quanti. John, Emma, Leo, Microft e persino Rose, Melanie e Percy erano accorsi da lei, curiosi di sapere come stava.
La mora sembrava essere in forma, e nonostante non fosse ancora nelle condizioni giuste per poter abbandonare l’infermeria si stava riprendendo in fretta. In breve tempo aveva assunto di nuovo quel suo bel colorito caramello.
Dopo attenti esami, i figli di Apollo avevano affermato che le sue funzioni cerebrali erano intatte, e che era come se per tutto quel tempo, la ragazza si fosse soltanto concessa un riposino.
Nessuno aveva il coraggio di chiederle che cosa le fosse successo, nell’Aldilà, e a chi si fosse rivolta per avere un’altra possibilità.
Lei era viva, quindi che importanza aveva? Tutto ciò che contava era che fosse ancora in grado di immettere aria nei propri polmoni.
Quando Michael entrò nella sua stanza, con una rosa in mano, la trovò che dormiva, proprio come tutte le altre volte.
Aveva i lineamenti rilassati, ed era adagiata sopra ben sei cuscini, di modo che potesse stare seduta pur non affaticandosi.
Il ragazzo si lasciò sfuggire un sorriso al vederla, intenerito dalla sua purezza, simile a quella di una bambina. Si avvicinò alla sua branda, ed infilò delicatamente il fiore in un vaso posato sul comodino, dove ne giacevano altri tredici.
Ogni volta che andava da lei, ne raccoglieva uno e glielo portava. Era il suo modo per dirle che lui c’era, nonostante lei non se ne accorgesse. Voleva farle sapere che non vedeva l’ora di poterla abbracciare.
«Una per ogni volta in cui sei stato qui, vero?» domandò una voce, e il figlio di Poseidone, colto alla sprovvista, sussultò. Non si era reso conto che la ragazza si era svegliata, e che ora lo osservava, un sorrisetto malandrino dipinto sulle labbra.
Chirone gli aveva spiegato che man mano che i giorni passavano la figlia di Efesto era sempre più in grado di racimolare le giuste energie, e che presto o tardi sarebbe stata capace di gestirsi anche da sola.
Ma lui tendeva sempre a sottovalutare la tenacia della propria ragazza.
Con un ghigno divertito, il moro abbassò lo sguardo, imbarazzato. «Dovrei chiederti come fai a saperlo, ma credo di conoscere già la risposta.»
Skyler ridacchiò, stropicciandosi gli occhi assonnata. «Ti conosco molto bene, sai?» lo canzonò. «Troppo, forse.»
«Già» assentì lui, per poi sedersi sul bordo del letto. Per un attimo si limitarono a guardarsi, come se non ci fosse bisogno di parole, in quel momento. Poi lui inclinò il capo.
«Da quant’è che sei sveglia?» le chiese.
«Abbastanza da farti credere che stessi dormendo.»
Il ragazzo soffocò una risata, facendo il gesto di un ‘touché’.
«Come stai?» volle sapere quindi lei, e a quel punto lui parve stupito.
«Dovrei essere io a farti questa domanda, non trovi?»
«Io sto bene» assentì la ragazza, sicura. «E tu?»
«Non c’è male» mormorò, perdendosi in quei pozzi scuri che erano le sue iridi. Si disse che sarebbe stato perso, se avesse rischiato di perderla; e il solo pensare che ciò che era successo era stato in parte per causa sua lo logorava di sensi di colpa.
«Mi dispiace» pensò, e prima che potesse accorgersene, lo stava dicendo ad alta voce.
Lei fece per scrollare la testa. «Michael…»
«No, davvero. Sono stato un idiota, e mi dispiace.»
«Dispiace anche a me» convenne allora la mora. «Avrei dovuto darti ascolto, quando mi dicevi che Matthew era malvagio. Tu l’avevi capito prima di tutti, ed io non ho fatto altro che biasimarti.»
«Se vuoi sapere la verità, l’unico motivo per cui lo dicevo è perché temevo che ti avrebbe portata via da me. Non volevo perderti, Skyler. Ma non mi rendevo conto che con la mia gelosia in realtà era io ad allontanarti, e non il contrario.»
La ragazza soppesò le sue parole, mentre gli angoli della sua bocca si incurvarono. «Siamo stati due stupidi, insomma.»
Michael annuì. «Decisamente.»
Risero sommessamente insieme, rendendosi conto che era da tanto che non chiacchieravano in tale tranquillità. Come se tra loro non fosse successo niente; come se il mondo, in quel momento, avesse deciso di annullarsi.
«Ho una cosa per te» esordì lui, e non appena lei corrucciò le sopracciglia, il figlio di Poseidone estrasse qualcosa dalla tasca.
La prese dolcemente per mano, con accortezza, e Skyler non capì cos’avesse intenzione di fare fino a ché lui non le infilò al polso un bracciale.
Il suo bracciale, la figlia di Efesto lo riconobbe all’istante. Quello che lui le aveva regalato, e sul quale aveva giurato che le cose, tra loro, non sarebbero mai cambiate. Quello che lei aveva scaraventato dall’altra parte della stanza, la sera in cui avevano litigato.
Il ragazzo doveva averlo raccolto, e ora, per una qualche ragione, glielo stava ridando.
«È ancora valida quella promessa, sai?» le spiegò, un po’ disagio. «Anche se tutto andrà per il verso sbagliato, i miei sentimenti per te resteranno immutati. E finché lo avrai indosso, questo resterà esattamente così com’è.»
La mora sentì gli occhi bruciare, ma si impose di non piangere di fronte a quella ammissione. Accarezzò l’intreccio di cuoio, studiando attentamente le conchiglie che vi si nascondevano. Si era sempre odiata per esserselo sfilato con rabbia, quella volta. Nonostante fosse davvero furiosa con lui, non avrebbe mai desiderato che quel giuramento si sciogliesse. Era importante, per lei, sapere di averlo accanto.
Michael continuava ad essere una delle sue poche certezze, al di là di tutto quello che era successo, tra e intorno a loro.
«Devo dirti una cosa» annunciò lui, attirando repentinamente la curiosità della ragazza. «Sento che se non lo faccio la mia mente potrebbe scoppiare, e so che avrei dovuto dirtelo già tempo fa. Ti giuro, ci ho provato mille volte. Ma poi avevo sempre paura.»
Parlava velocemente, quasi cercasse di far fluire le parole via dalle sue labbra contemporaneamente ai pensieri. Sperava che così facendo non avrebbe avuto ripensamenti. Ma sembrava agitato e nervoso, tanto che la figlia di Efesto aggrottò la fronte, preoccupata.
«Michael, è tutto okay?»
«No» rispose lui, come se quella fosse una domanda scontata. «Non è tutto okay. Non è per niente okay. Sei morta tra le mie braccia, Skyler. Ed io non ho potuto fare nulla per impedirlo. Non ho idea di chi abbia fatto cosa per far sì che tu tornassi indietro, ma gli dei solo sanno quanto io abbia pregato affinché tu ti salvassi.»
«Lo so» sorrise lei.
«No, non puoi saperlo. E sento che se non te lo dico ora, lo rimpiangerò per tutta la vita.»
«Michael…» cominciò la ragazza, ma il moro la interruppe, sollevando una mano.
«No, fammi parlare» le intimò, prima di prendere un lungo, profondo respiro. «Ho sempre avuto paura dell’amore» iniziò. «Dopo la morte di mia madre, ho giurato che non mi sarei mai più affezionato tanto ad una persona. Temevo di poter soffrire, capisci? E lo faccio tutt’ora. Ed è sempre stata questa paura a farmi prendere le peggiori decisioni. La paura di non essere adatto, di non essere abbastanza. Non ho mai voluto amare qualcuno, perché non avevo neanche idea di che cosa fosse, l’amore. Per me era un concetto estraneo, irraggiungibile. Ma poi sei arrivata tu» continuò. «E le mani hanno cominciato a tremarmi, e le parole a mancare. E il mio cuore a battere così forte che, giuro, a volte ero convinto che stesse per balzarmi fuori dal petto. E cavolo, se ho avuto paura!» esclamò, scuotendo il capo. «Me la sono fatta sotto, e non sto scherzando. Ma purtroppo è stato inevitabile. Sonno stato pazzo di te dal primo istante, quando i nostri occhi si sono incontrati in quel vuoto corridoio. Ma non ho permesso a me stesso di sentirlo veramente, perché credevo fosse una cosa da niente. “Non è importante”, mi dicevo. “Vedrai che domani passerà”. Tu non immagini neanche, Skyler, quanto avrei voluto che fosse così. Non so cosa ci sia in te di tanto speciale» confessò. «Tu sei come… come il raggio di sole che filtra tra gli alberi. Sei come la risata che spezza la tristezza. Sei come la brezza in una giornata troppo calda. Tu sei come la lucidità in mezzo alla confusione. Non sei il mondo, ma sei tutto ciò che lo rende perfetto. Ho sempre pensato che per consolidare il nostro rapporto uno di noi due avrebbe dovuto buttarsi. Credo di aver capito quale sia il canyon da superare» le spiegò. «Spero solo di trovarti ad aspettarmi dall’altra parte.»
Dopo di ché, la guardò negli occhi, e le sue iridi ora azzurre non poterono fare a meno di ammirare la bellezza di quelle splendide striature dorate. Funsero per lui da calamita, e facendo appello a tutto il proprio coraggio, Michael parlò.
«Ti amo, Skyler» ammise, prima che fosse troppo tardi. «E credimi se ti dico che non ho mai pronunciato queste due parole prima di adesso. Ti amo, ed ora ne sono convinto. Amo quando hai freddo e fuori ci sono trenta gradi. Amo quando hai caldo mentre io indosso il berretto di lana. Amo la nostra diversità. Amo quando ti leghi i capelli così meticolosamente, perché ti aiuta a pensare. Amo la ruga che ti si crea al centro della fronte. Proprio qui
Le accarezzò con il pollice lo spazio tra le sopracciglia, al ché lei arrossì, con un sorriso.
«Mi piace che dopo una giornata passata con te, sento ancora il suo profumo sulle mie felpe» proseguì lui. «E sono felice che tu sia l’ultima persona con cui chiacchiero prima di addormentarmi la sera. Amo quando mi dai il bacio della buonanotte, e adoro svegliarmi la mattina dopo con il sapore delle tue labbra ancora sulle mie. Amo i tuoi capelli. E amo i tuoi anfibi. Amo la dolcezza con cui mi parli, e amo il modo in cui mi guardi. Amo quando ti arrabbi e la tua voce si alza fino a sovrastare la mia. Amo il tuo coraggio. È che amo tutto di te, senza eccezioni.» Sospirò.  «E so che avrei dovuto dirtelo prima. Forse, se lo avessi fatto, avremmo evitato tanti errori stupidi. Ma d’altro canto, a volte penso che siano stati proprio quelli a farmi innamorare di te così profondamente. Ti amo, Skyler» ripeté. «E sono stanco di negare a me stesso la pura e semplice verità. Tu mi completi. E non mi importa se per te non è lo stesso, e se un giorno mi lascerai. Non mi interessa se scapperai con un altro o mi farai soffrire. Spezzami il cuore. Spezzamelo mille volte. È sempre stato tuo perché ne facessi ciò che volevi. Ti amo» mormorò ancora una volta, prima di abbozzare un sorriso sghembo, divertito. «Cavolo, quante volte lo sto dicendo?»
«Non saranno mai troppe» gli assicurò lei, e solo allora il ragazzo si rese conto di come i suoi occhi fossero lucidi per via di lacrime di gioia. «E mi dispiace di aver fatto tanti sbagli, in passato. Ma ti amo anch’io. Dei, sei ti amo. L’ho sempre fatto, in realtà, ma forse non me ne sono mai resa veramente conto. E non è vero che vorrei non averti mai conosciuto» si scusò. «Perché tu sei la cosa più bella che mi sia mai capitata.»
Michael le strinse teneramente una mano, incrociando le dita alle sue come non facevano da un sacco di tempo. Poi allungò l’altra per spostarle una ciocca di capelli che le copriva la fronte, avvolgendosela attorno al dito, con cura, in un gesto tanto spontaneo quanto significativo.
I due si sorrisero, felici, e in quell’istante, tutto passò in secondo piano.
Il figlio di Poseidone le prese il volto fra le mani, e chinandosi su di lei la baciò. All’inizio fu un contatto casto, quasi di attesa; ma poi le labbra di lei si schiusero, ed entrambi si sentirono invadere da un rassicurante calore.
La lingua di lui esitò un attimo, prima di raggiungere quella di Skyler con dirompente passione; cercandola, spingendola, bramandola, abbracciandola. Si esplorarono l’un l’altro, con la consapevolezza che quel bacio sanciva un nuovo inizio per entrambi. Era pieno di cose non dette, di desiderio, di amore e di leggerezza. Era pieno di scuse e, allo stesso tempo, di perdono.
Dal suo canto, il ‘ti amo’ che il ragazzo le sussurrava tra le labbra era colmo di paura, ma anche di certezza.
Per lei, invece, quella fu solo la conferma ad un sentimento che non sarebbe stato scalfito neanche dalle peggiori intemperie, perché troppo solido, troppo vero.
Quando si allontanarono con un leggero schiocco, i loro nasi continuarono a sfiorarsi, e Michael posò la fronte contro la sua, incatenandosi alle sue iridi scure.
Rimasero così per quello che parve un tempo infinito; i respiri che si mischiavano nel poco spazio che li separava, l’odore delle loro pelli che si mescolava a formare un’unica, inimitabile fragranza.
Dopo di ché, qualcuno bussò.
Il figlio di Poseidone si allontanò di scatto da lei, appena in tempo, prima che il cardine cigolasse. Drizzò la schiena, mentre lei si mordeva il labbro inferiore, al fine di mascherare un sorriso.
La testa di Chirone fece capolino nella stanza, e una volta studiata attentamente la situazione sembrò sorpreso, ma anche compiaciuto.
«Ero venuto a vedere come stavi» chiarì, rivolto a Skyler. Lanciò una rapida occhiata al ragazzo. «Ma se volete, ripasso più tardi.»
«Ma no, si figuri» lo tranquillizzò lei, invitandolo con un cenno ad entrare. «Non disturba affatto.»
«Io no» convenne il centauro. «Ma purtroppo li ho incontrati strada facendo, e non sono riuscito ad impedirgli di…»
Prima che potesse anche solo terminare quel pensiero, la porta si spalancò ancora di più, e due teste bionde fecero il loro ingresso nella camera, stanche di aspettare.
Non appena si accorsero che la figlia di Efesto era sveglia, i loro occhi si illuminarono.
Emma fu la prima a lanciarsi sul letto, inginocchiandosi accanto a lei sul materasso e stringendole le braccia attorno al collo tanto che rischiò di soffocarla. Si lasciò sfuggire un singhiozzo, e la mora le accarezzò la schiena, affondando il viso nell’incavo della sua spalla.
«Tu e i tuoi stupidi scherzi» la rimproverò la figlia di Ermes, con voce tremante. «Non fare mai più una cosa del genere, capito? O ti odierò per il resto dei miei giorni.»
La ragazza ridacchiò, divertita, rendendosi conto solo in quel momento delle lacrime che le stavano rigando le guance. «Mi sei mancata, Emma» mormorò, con voce smorzata.
«Anche tu.»
Le due amiche rimasero ancora un po’ lì, ad abbracciarsi quasi non volessero lasciarsi andare più. Solo quando anche John si avvicinò alla branda la bionda si staccò per permettere all’amica di tirare a sé il ragazzo.
«Che cosa avrei fatto senza di te?» le sussurrò il figlio di Apollo, al ché lei tirò su col naso, felice.
«Ti devo almeno tre vite, John» gli ricordò. 
Chirone aspettò pazientemente che il momento degli abbracci fosse finito per potersi fare avanti ed eseguire ciò per cui era lì.
«Come ti senti?» domandò a Skyler, con premura. Quella fece scorrere lo sguardo sui propri amici.
«Alla grande» affermò, e lui parve intenerito da quelle parole.
«Sono contento» disse, per poi sgranchirsi la voce. «Quindi deduco che non ti dispiacerà rispondere ad alcune domande.»
La figlia di Efesto sapeva a che genere di quesiti si riferiva, e per un attimo sbiancò, presa in contropiede. Da quando si era ripresa, non aveva pensato affatto alla ragione per la quale si trovava in quel letto d’ospedale.
Il centauro sembrò comprendere il suo disagio, perché aggiunse: «Sempre se te la senti.»
La mora, dopo un attimo di esitazione, annuì. Era arrivato il momento di guardare in faccia la realtà: la guerra non era affatto finita, era appena iniziata.
«Ricordi qualcosa?» le chiese quindi Chirone, con tono calmo e rassicurante. «Qualcosa in particolare?»
«Tutto» confessò lei, sentendo immediatamente gli occhi dei presenti puntati addosso. «Non potrei mai dimenticarlo. Ma ci sono alcuni punti ai quali non so dare una spiegazione neanch’io.»
«Di questo non devi preoccuparti» la tranquillizzò il direttore delle attività del Campo. «Siamo qui per questo. Ma dimmi, cos’è che ti turba?»
Skyler prese un profondo respiro, aggrottando la fronte. «Matthew…» Fece fatica a pronunciare di nuovo quel nome. «Lui ha detto di non essere un semidio, ma poi non ha aggiunto altro. Ha parlato di questo… fuoco, che io avevo, e che lui doveva rubarmi, ma non ho idea di cosa questo significhi. Quando mi ha baciato, lui…» Titubò, rabbrividendo alla sola memoria. «Ho avuto la sensazione che qualcosa mi fosse stato strappato via con la forza. Qualcosa di vitale importanza.»
«Il tuo fuoco, sì» assentì il centauro, sovrappensiero. «Era l’unico modo in cui potesse ottenerlo.»
«Ha parlato di una Profezia» continuò la ragazza. «E di una condanna alla quale l’aveva sottoposto mio padre per obbedire agli ordini di Zeus.»
«Questo coincide con le informazioni che ci ha dato Michael, bene.»
La figlia di Efesto si voltò a guardare il moro, che aveva gli occhi coperti da un velo di rancore. «Che significa?» si informò.
Il figlio di Poseidone si incupì. «C’erano dei momenti in cui li sentivo parlare, quando loro pensavano che io fossi privo di sensi. Il Generale… lui non è che una pedina, un soldato. Non ha alcun potere, e ancor meno ne hanno gli altri, come ad esempio il Capitano.»
«Aspettate un secondo» lo bloccò lei, sentendo la testa girare. «Tu li ha sentiti parlare? E che dicevano?» Spostò le iridi da lui a Chirone, impaziente. «Che cosa voleva Matthew da me?»
«Lui ha un piano» spiegò il centauro, grattandosi la barba con aria pensosa. «Ma bisogna capire fin dove è disposto a spingersi pur di ottenere ciò che vuole.»
«Ma sapete qualcosa sul suo conto?» reiterò ancora Skyler, ansiosa di saperne di più. «Sapete che cos’è?»
«Chi è» la corresse Michael, e lei lo fissò, interdetta.
«Eh?»
«Chi è» ripeté lui, e fu a quel punto che si fece avanti Chirone, con voce decisa e profonda.
«Prometeo» dichiarò, e le sue parole riecheggiarono nel silenzio della stanza. «Figlio di Giapeto e Climene. Titano della mente e della preveggenza.»

 
Fine.
 
Angolo Scrittrice. 
Okay, datemi qualche secondo. Sto tentando di riprendermi dallo shock per aver scritto quella parola. 
Buonsalve, semidei. Sono qui per voi per -stavolta posso ufficializzarlo- l'ultima volta.
Allora: prima che qualcuno decida di uccidermi per questo finale un po' in sospeto e che io scriva un A.S. più lungo dell'epilogo stesso (wah, odio questa parola), voglio fare una premessa. Questa storia si è sempre presentata nell mia mente sotto forma di 'trilogia', e anche se sono consapevole che forse un terzo capitolo non ci sarà non me la sono sentita di cambiare il finale, rendendolo magari inverosimile agli occhi di tutti.  
Ma andiamo per gradi, che è meglio. 
Beh, che dire? Succedono più cose in questo capitolo che nella storia in sé, tra un po'. 
Partiamo da
Leo ed Emma, vi va?
Dopo tutto quello che è successo -tutte le incomprensioni e i litigi-, il figlio di Efesto ha finalmente capito che cosa fare con Charlotte. Non è più succube della sua linguaa ammaliatrice, dato che non prova più alcun genere di attrazione nei suoi confronti. Ma quando pensa che tutto stia andando per il verso giusto, ecco che Emma lo respinge. 
Come darle torto, d'altronde? Ha sofferto così tanto per lui, che di certo non sarebbe bastato un 'mi dispiace'. Per chi sperava che si riappacificassero, mi scuso, ma non sarà così. 
Lei gli ha ordinato di starle lontana, e lui sembra intenzionato ad obbedire. Quindi, ciao ciao LeoxEmma! Questa coppia sembra destinana a restare così com'è: frantumata.  
Ma non  possiamo dire lo stesso per
Melanie e John. Anche se non si parla di loro direttamente, ho cercato di trasmettere tutto l'amore che provano l'uno per l'altro in quelle poche righe che descrivono il loro incontro. Quei ragazzi sono una certezza, e sfido chiunque a metterlo in dubbio. 
Che altro abbiamo? Un
Will Solace che sala la situazione (se non fosse stato per lui, Skyler sarebbe morta a Stonehenge). Alcuni momenti pucciosi tra fratelli (perchè diciamocelo, quelli non potevo mancarli). 
Un'intera parte del capitolo dedicata all'amicizia tra
Michael e John. Mi sono resa conto di non aver parlato molto di loro due come amici, come confidenti e fratelli. Ma spero comunque che il loro rapporto sia apparso ben chiaro. Loro ci saranno sempre l'uno per l'altro. 
Ma passiamo al fulcro di questo capitolo, che sono principalmente
Michael e Skyler. Non mi soffermo tanto sul parlare del modo in cui lui si è comportato, tanto più sulle parole che le ha rivolto. 
Siamo partiti con un «Io ho fiducia in te». Non so se qualcuno di voi ricorda il momento della loro litigata. Skyler gli chiedeva se lui si fidasse di lei, ma Michael non rispondeva, e a quel punto il loro rapporto si sfaldava. Ecco, quelle cinque parole sono un po' in risposta a quell'affermazione mancata. Lui ha fiducia in lei. L'ha sempre avuta e sempre ne avrà. 
Poi c'è il momento in cui il cuore di lei si ferma, e lui urla disperato il suo nome. Ho fatto il possibile per rendere quel grido il più vero e tragico possibile, e spero vivamente di esserci riuscita, e di non aver combinato un disastro. 
Lei è apparentemente morta (o almeno così credono tutti). Ma poi, per una qualche strana ragione, torna in vita. 
Ripeto ancora che non esistono domande senza risposta, ma non aggiungo altro. 
Passiamo invece al loro incontro. Lui le ridà quel famoso braccialetto che lei si era sfilata in un eccesso d'ira. E poi eccolo lì, il fatidico «Ti amo» da parte di entrambi. Era ora, no? Ora che hanno superato l'ultimo ostacolo, non c'è più alcuna barriera a dividerli. 
Subito dopo c'è stato il ricongiungimento di Skyler con Emma e John, e ancora, finalmente, la scoperta della verità. 
Matthew è in realtà Prometeo, titano della mente e della preveggenza. 
Qualcuno di voi l'aveva immaginato, o aveva avuto qualche sospetto? Onestamente, spero di essere riuscita a cogliervi alla sprovvista. Ma se così non fosse, sono pronta ad accogliere ogni critica. 
Ma è arrivato il momento di discutere della cosa più importante: Vi è piaciuto? Vi ha deluso? Che ve ne pare, come epilogo? 
Chiamatemi pazza, chiamatemi stupida, insultatemi come volete... ma vorrei fare un annuncio. 
Mentre scrivevo, mi sono resa conto di non essere ancora disposta ad abbandonare questi ragazzi. Loro sono i miei piccoli, sono la mia famiglia. E potrà sembrare insensato, ma non voglio che tutto finisca già, e per di più così.  
Il mio desiderio sarebbe quello di continuare la storia, concludendo con il famoso terzo capitolo che in principio era in programma. Ci sono ancora molti quesiti lasciati irrisolti, e vorrei darvi risposta. 
Ma ovviamente, ho bisogno di un significativo numero di consensi, per poterlo fare. 
Sono consapevole che è una follia, perchè nell'ultimo periodo la storia ha avuto un calo, ed io sono stata tentata più volte di lasciarla in sospeso. Ma come avrei potuto? Non sarebbe stato giusto nei vostri confronti, nei confronti di questi piccoli semidei, e (forse) neanche nei miei.
Quello che sto cercando di dire è che anche se sembro fuori di testa, vorrei lanciarmi in un ultima, grande sfida. Quella finale. Quella decisiva. 
Ma se vi dà noia pensare ad un seguito, per me non c'è alcun problema. Continuerò comunque a scrivere di loro -anche solo per il gusto di farlo-. D'altronde, in un certo senso c'è stato un lieve happy ending. Skyler è viva, Matthew/Prometeo è stato temporaneamente allontanato, Michael e Skyler si sono detti ti amo e tutti sono tornati al Campo sani e salvi. 
Un finale rispettabile, no? Quindi capirò se ne avete abbastanza di me. 
Ripeto, prenderò in considerazione l'idea di un Sequel soltanto se avrò la certezza che ci sarà un elevato numero di persone a seguirlo. 
La notizia ufficile della decisione presa verrà annunciata tra una settimana, ergo giovedì prossimo, insieme ai ringraziamenti ufficiali per tutti coloro che hanno reso possibile la pubblicazione di questo epilogo.
Per adesso, mi limito soltato a ringraziare i miei bellissimi Valery's Angels, che nello scorso capitolo mi hanno regalato delle stupende recensioni: Iladn, Francesca lol, diabolika14, Sarah Lorence, unika, Kamala_Jackson, Lux_Klara, SHIELD per sempre, TamaraStoll, Percabeth7897 e carrots_98.  
Siete i miei angeli custodi, sul serio. 
Beh, non mi resta che dire a giovedì prossimo, allora, per i ringraziamenti ufficiali!
Un bacione enorme, e spero di aver mantenuto la parola data quando vi aveva promesso che vi avrei scritto un'epilogo degno di questo nome. 
Io ce l'ho messa tutta, ma sta a voi giudicarmi, nel bene e nel male. 
Grazie per essere arrivati fin qui, perchè vuol dire che avete resistito e accompagnato i miei ragazzi fino a quella piccola ma grande parola in grassetto: Fine. 
Sarei persa senza di voi, semidei. 
Per l'ultima volta vostra, 

ValeryJackson
 
 

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Capitolo 46
*** ~ Ringraziamenti. ***


RINGRAZIAMENTI
 

 

Un anno.
È passato esattamente un anno da quando, piena di dubbi ma anche di un’immensa voglia di scrivere, ho pubblicato il prologo di questa storia che ormai è giunta al termine.
Un anno, durante il quale sono successe molte cose. Ci sono state delusioni, ricompense, alti e bassi e molteplici soddisfazioni. Ho capito cosa volesse dire maturare, ed imparare a cavarmela da sola, senza l’aiuto delle persone che più mi amano.
Mi sono resa conto che questa vita o è bianca o è nera, e che chi è convinto dell’esistenza del grigio cerca solo un modo per eludere la realtà. Ma sono anche giunta alla conclusione che siamo sempre noi a decidere quale colore vedere; e che tutto quello che ci succede dopo –nel bene e nel male- non è altro che una conseguenza delle nostre scelte.
Ho fatto a botte con alcuni tra gli stati d’animi più devastanti, sentendomi dire che non valevo nulla e che sarei sempre stata un passo indietro al primo per eccellenza.
In un anno ho messo in discussione tutte le mie capacità, le mie idee, le mie conoscenze, le mie certezze. Mi sono messa in gioco, applicandomi e dando il massimo perché le mie passioni potessero garantirmi un futuro; rivelandomi chi fossi davvero, donandomi uno scopo.
In un anno, ho dato un volto nuovo e definitivo a quella che è ValeryJackson, e ho capito che cosa volessi fare, e quale fosse il mio obbiettivo.
Ma tutto questo, devo ammetterlo, non sarebbe mai stato possibile se in quel pomeriggio estivo di circa due anni fa non avessi pensato di dar vita prima a Skyler, e poi a Michael, Emma, John e tutti gli altri.
Loro sono diventati in brevissimo tempo parte integrante della mia famiglia. Mi hanno accompagnata durante il mio cammino, hanno gioito con me nei momenti più belli e mi hanno aiutato a risollevarmi dal baratro tante, infinite volte.
Loro mi capivano, mi consolavano, mi ascoltavano, e mi promettevano che sarebbero rimasti con me, fino alla fine.
E anch’io l’ho promesso a loro. Gli ho giurato che non li avrei abbandonati, e che avrei concesso loro il finale che gli spetta, bello, brutto o inaspettato che sia.
Gli ho dato la mia parola, assicurandogli che avrei donato tutta me stessa affinché non diventassero solo un altro paio di nomi che vagano solitari su questo sito, pronti ad essere dimenticati.
Ho promesso che avrei fatto di tutto per far sì che diventassero degli eroi, non solo per me, ma per tutti quanti.
Ed è per questo motivo che, dopo un accurato ragionamento di una settimana, ho deciso che loro non meritano quest’epilogo in sospeso, né tanto meno di passare inosservati.
Ergo: il sequel ci sarà.
Questa storia si concluderà così come avrebbe sempre dovuto: in una trilogia.
So cosa starete pensando: che sono pazza ad aver preso questa decisione, e che dopo il secondo capitolo le persone iniziano già a perdere interesse in ciò che scrivi; che non sono Rick Riordan, né Stephen King, né qualunque altro scrittore pluripremiato che vi venga in mente; che sono solo una ragazza come tante che ama la scrittura, e che sogna (un giorno) di poter lasciare il proprio segno nel mondo.
Ma forse è proprio questo il punto. Io non scrivo perché non ho nulla da fare; io scrivo perché voglio regalare emozioni.
Perché spero di poter suscitare empatia, e di rendere reali dei personaggi attraverso l’uso delle mie parole.
Scrivo perché la scrittura è l’universo della piccola stellina senz’orbita quale sono.
Scrivo perché voglio dire qualcosa. Anzi, scrivo perché ho qualcosa da dire.
Scrivo perché è l’unico modo che ho di far conoscere la vera me alle persone; per far sì che loro si identifichino nelle mie idee; per augurarmi che trovino un amico tra le mie storie.
Scrivo perché adoro farlo. E perché sono una ragazza di parola: ho fatto una promessa a questi semidei; l’ho fatta a voi, e non ho intenzione di tirarmi indietro proprio ora.
Certo, se vedrò che la prossima storia sarà un fiasco totale, giuro che ci darò un taglio. Ma tentar non costa nulla, in fondo, e dopo il consenso generale ricevuto nell’epilogo spero vivamente di riuscire a distinguermi; di fare in modo che –seppur superficialmente- voi vi ricordiate di me.
Che non dimentichiate la strana ragazza che aggiorna ogni martedì (chissà perché, poi).
Che vi ricordiate della Ragazza in Fiamme, e di tutto ciò che ne è derivato.
Ma non sarei mai giunta fin qui se voi non aveste affrontato questo viaggio iniziato l’8 Luglio 2014 insieme a me. Se non aveste pianto, riso e raggiunto traguardi al mio fianco. Se non mi aveste criticato, dato consigli e fatta sentire parte integrante di qualcosa; qualcosa di molto speciale.
È vero, Skyler potrà anche essere la protagonista effettiva di questa storia. Ma siete voi che alimentate, giorno dopo giorno, il suo fuoco. Siete voi le fiamme che tengono in vita questa ragazza.
Per cui grazie. Grazie davvero.
Grazie alle persone che hanno messo la storia tra le ricordate: Ginny_Valdez_Katniss, http_icr e Scilla66.
Grazie a coloro che hanno aggiunto la storia tra le seguite: Ale Herondale, Amy_demigod, Arya Blueshade, A_M_N, cacciaavite, chakira, Chisaki, diabolika14, DiamanteLightMoon, ErzaScarlet2401, Fede890, FoxFace00, Francesca lol, fuck_im_Marauder, Fyamma, Ginny_Valdez_Katniss, Giulippa14, giulji, Hogwartsisourhome, K L I O, Kamala_Jackson, KariWhite, 
l i b r a r i a n, lalad5, luigi024, Lux_Klara, Necantix_, nonsoloaspettativeinutili, Occhi di Smeraldo, percy_daughter, Poseidonson97 Sara JB, scoiattolina_curiosa_97, stydiaisreal, unika, vale_misty, xGhostQueen
 e _hunter_
E grazie a quelli che hanno messo la storia tra le preferite:  aleov_7, anemos99, Anima Ribelle, Asia_Mofos, Bibi96, callie vee, canux, Carla2010star, carrots_98, ChiaraJacksonStone1606 Ciacinski, Cristy98fantasy, 
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Kalyma P Jackson, Kamala_Jackson, kevinpigeon_, kiara00, Krista Kane, littlebiglove, Luna_Everlark, Madame_Bovary, marta93, Martillaaa, martinajsd, Myrenel_Bea, 
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 e _Krios_
Ma soprattutto, un ringraziamento speciale va a voi, miei piccoli angeli. Voi che con il vostro supporto, la vostra dedizione, il vostro amore e il vostro appoggio mi avete sempre impedito di mollare, facendo sì che questa storia non restasse solo su una pagina mai aperta di word.  E non importa se siete stati presenti dall’inizio alla fine, se siete arrivati a metà, se siete stati lì solo una volta o se a un certo punto avete deciso di seguire i nostri semidei da lontano. Grazie comunque, perché siete la mia forza, la ragione per cui ora sono qui a scrivere questo messaggio.
Quindi, un grazie immenso, indescrivibile a tutti i miei Valery’s Angels: Cristy98fantsy, FoxFace00, cacciaavite, Francesca lol, Kalyma P Jackson, Ema_Joey, _angiu_, stydiaisreal, carrots_98,  kiara00, slytherinsprotte, pindow_wane_17,  heartbeat_F_, Ciacinski, _Krios_, Asia_Mofos, Myrenel_Bea, martinajsd, VaneFrancyforever,  Percabeth7897, Sarah Lorence, Rainbows_Butterflies, Iladn, Visyl,  diabolika14, Lux_Klara, Kamala_Jackson, la ragazza di titanio, Hogwartsisourhome, famousdrago, Krista Kane, ChiaraJacksonStone1606, green_jimmy, Briciole_di_Biscotto, KariWhite, Occhi di Smeraldo, callie vee, percy_daughter, Chisaki, Luna_Everlark, SHIELD per sempre, percabeth is love 98, http_icr, aleov_7, unika e TamaraStoll.
Non conosco abbastanza parole per potervi esprimere tutta la mia gratitudine. Ma sappiate che questa storia voglio dedicarla a voi, che siete rimasti con me(noi) fino alla fine.
Ho già le idee chiare per quanto riguarda il sequel, ma mi ci vorrà un po’ per perfezionarle e riportarle su carta, quindi presumo che non arriverà prima di settembre.
Spero di non aver fatto la scelta sbagliata, decidendo di continuare, e che sarete in molti, poi, a seguirlo.
Ma più di tutto, mi auguro di essere riuscita a donarvi qualcosa, con questa storia. Un ricordo, un rifugio, un’emozione… anche un banale sorriso o una lacrima, per me, sono un conquista.
Per adesso è tutto. Ma chi lo sa: forse non è ancora finita davvero.
Grazie ancora, per tutto quanto.
Per –forse- l’ultima volta vostra,
ValeryJackson

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