Narciso e l'Amazzone

di Jo_The Ripper
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Narciso e l'Amazzone ***
Capitolo 2: *** Imprevedibilità ***
Capitolo 3: *** Ottone ***
Capitolo 4: *** Lacrime ***
Capitolo 5: *** Nome maledetto ***
Capitolo 6: *** E se ***
Capitolo 7: *** Il principio delle cose ***



Capitolo 1
*** Narciso e l'Amazzone ***


narciso


La prima volta che l’undicenne Johanna Mason vide Finnick Odair, fu alla tv, durante la sua incoronazione come vincitore degli Hunger Games.
All’epoca Finnick aveva solo 14 anni, ma già si dava arie da uomo vissuto. Johanna assistette alla trasmissione con un sopracciglio inarcato e le braccia conserte.
Quel tizio le suscitava un’antipatia a pelle e gli avrebbe cancellato volentieri quell’espressione compiaciuta dal viso a suon di schiaffi. Se ne stava lì, a sorridere come un idiota e a pavoneggiarsi con quella corona di foglie d’alloro dorato in testa.
In quel momento decise che mai e poi mai un tipo del genere sarebbe potuto diventare suo amico. 

*

La prima volta che Johanna vide Finnick dal vivo, fu durante il suo tour della vittoria. Era arrivato al Distretto 7, armato di belle parole e larghi sorrisi che avevano il potere di incantare quella massa di capre beote che abitavano lì.
Le ragazze si davano colpetti con i gomiti, si sussurravano alle orecchie parole sciocche accompagnate da risolini ridicoli e lo guardavano adoranti. A lei, invece, lo stomaco era stretto in una morsa di ripugnanza e fu tentata dal togliersi una scarpa e tirargliela dritta sul naso. Fu in quel momento, quando Finnick omaggiò con la sua voce calda le “grandi bellezze del Distretto 7” (qualche ragazza ebbe anche il barbaro coraggio di svenire), che il suo sguardo si posò su di lei, su quella ragazzina magra come uno stelo che lo fissava con aria truce.
Johanna assottigliò le labbra in una linea dura e fece in modo che i suoi occhi rivelassero tutto l’astio che provava nei suoi confronti, non potendo farlo con le parole. Sollevò il mento, sdegnata, e ruppe il contatto visivo con lui, come se fosse la persona che le suscitava più ribrezzo in tutta Panem.
Finnick per un attimo ne rimase sorpreso; fino ad allora, nessuno aveva reagito a quel modo alla sua presenza. Stabilì che quella ragazzina aveva un chè di interessante e che non gli sarebbe dispiaciuto fare due chiacchiere con lei.
Peccato che la ragazza in questione non la pensasse allo stesso modo.

*

La prima volta che Johanna e Finnick si incontrarono faccia a faccia fu durante il tour della vittoria della ragazza, sei anni dopo. Johanna aveva appena tenuto il suo discorso, ringraziando il Presidente per la possibilità che aveva avuto di farsi largo tra le file dei tributi a suon di colpi d’ascia. O meglio ringraziò e basta, poiché l’ultima parte fu troncata da un improvviso cortocircuito dei microfoni.
Dopo essersi presa una lavata di capo con i controfiocchi da parte del suo staff, che la invitò nuovamente ad attenersi ai discorsi preparati, andò a fiondarsi con poca grazia sul buffet.
Finnick la adocchiò e, armato delle sue doti migliori, il sorriso e la galanteria, si diresse verso di lei.
“Ciao.” Esordì amichevole.
Johanna sollevò un sopracciglio, dando a stento segno di averlo notato. Non riuscì a trattenere un ghigno ironico quando vide la semplice tunica bianca dai bordi dorati che indossava, studiata appositamente per far risaltare la sua abbronzatura.
“Tu sei il damerino, quel pavone impagliato che ha vinto i 65esimi giochi.” Fece lei, senza filtri.
“E tu sei stata la migliore finta tonta che mi sia mai capitato di incontrare. Un’ottima performance, se accetti un complimento sincero.” Rispose lui senza mai perdere il sorriso.
Johanna posò il piatto ricolmo di pietanze con malagrazia sul tavolo, si puntellò i fianchi con le mani e si impose di mettere le cose in chiaro con quello lì.
“Senti un po’, manichino imbellettato. Io non ho bisogno né dei compimenti tuoi né di quelli della marmaglia di Capitol City, sono stata chiara? Ora, se non ti dispiace, vorrei finire il pranzo, addio.” Affettò un inchino e gli diede le spalle.
Finnick non seppe trattenersi e scoppiò in una risata talmente vivace e calda, di quelle che fanno voltare le persone in pubblico, che Johanna si girò a fissarlo, quasi inorridita.
“Sei proprio un bel tipo! Marmaglia…sì, hai perfettamente ragione!” continuò a ridere.
Lei lo guardò senza capire, ma sentì il bisogno di afferrargli la testa ed annegarlo nel punch.
“Che hai da ridere?”
“Scusami, è che sei così…buffa!”
Johanna sgranò gli occhi.
“Buffa?!” esclamò con la voce di un’ottava superiore.
“Sì, in senso buono, ovviamente. Non ho mai conosciuto un’altra come te, davvero.” Ammise asciugandosi una lacrima dall’occhio.
La ragazza gli afferrò il colletto della tunica, tutt’altro che contenta di quell’affermazione, e lo strattonò.
“Forse non mi sono spiegata, Narciso dei miei stivali: io con te non voglio avere niente a che fare. Ce la fai a capirlo da solo o devo farti un disegno?” sbottò acida. 
Lui le prese i polsi e con forza, ma senza farle male, allentò la presa.
“D’accordo, calma, ho capito.” Si allontanò da lei con i palmi alzati in segno di resa. “Posso farti solo un’ultima domanda?”
Lei sbuffò. “Dopo te ne andrai?”
“Sparirò come un’ombra.”
Johanna a malincuore annuì.
“Cosa ti fa credere che io sia Narciso?”
La ragazza sollevò le braccia al cielo.
“Dio, non puoi essere veramente così stupido!” lo derise. “Non ci sei arrivato da solo? Narciso era un tipo superbo al quale importava soltanto di se stesso e della sua bellezza. Ora non venirmi a dire che non è la tua copia sputata, Odair.” Spiegò sferzante.
Il ragazzo si ravviò i capelli ramati con un movimento fluido ed elegante.
“Potrei dire che ti sbagli, ma non penso che tu abbia voglia di ascoltare. Comunque, se io sono Narciso, tu sei decisamente un’amazzone. Arrivederci.”
Con l’ultima frase sparì nella sala, che man mano si era riempita di persone, lasciandola bloccata sul posto senza parole.

Quando rientrò nel suo distretto, Johanna andò dritta filata a cercare quel nome che le aveva acceso una lampadina nella memoria. I libri sulla mitologia antica delle terre al di là dell’oceano erano stati banditi dal governo, ma la sua famiglia era entrata in possesso di alcune preziose copie che custodivano gelosamente.
Sfogliò velocemente uno dei volumi e trovò ciò che cercava.
“Le Amazzoni erano un popolo di donne guerriere, le cui armi principali erano l'arco, l'ascia bipenne ed uno scudo particolare, piccolo ed a forma di mezzaluna, chiamato pelta.”
Johanna si ritrovò a sorridere debolmente a quel paragone.
Forse, se era a conoscenza di quelle cose, quel Finnick Odair non doveva essere poi così male.

***
Salve a tutti! Questa è la mia prima storia in questo fandom e devo dire che sono molto emozionata ed in preda all'ansia da prestazione, visto quante belle storie ci sono. Dunque, prima di tutto vorrei ringraziare Darkronin per aver betato questo capitolo e, insieme aCrystaldrop, avermi spronato a pubblicare l'ennesimo parto di una mente provata. Poi, sentivo la necessità di scrivere qualcosa su questi due personaggi, perchè diciamocelo, sono veramente adorabili e dopo aver visto il film la mia passione per loro due si è riaccesa come paglia accostata al fuoco.
Confido che mi capiate e che la raccolta non si riveli un totale scempio XD
Ai lettori l'ardua sentenza!

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Capitolo 2
*** Imprevedibilità ***


Imprevedibilità

Era trascorso un anno da quando Johanna e Finnick si erano incontrati per la prima volta al Distretto 4. In quell’arco di tempo era capitato che si fossero incrociati a quegli inutili ricevimenti che si tenevano a Capitol City e a quelle feste, purtroppo, non si poteva sfuggire in alcun modo.
“Sei la vincitrice degli Hunger Games, rifiutare un invito sarebbe estremamente scortese!” soleva ripeterle la sua accompagnatrice della capitale, una tizia piena di piume e glitter, dalla pelle tinta di un rosa tenue che virava al corallo sulle guance –dandole un’aria più malaticcia che attraente-, che si chiamava Caramel, Connie, Candy o Dio solo sapeva quale nome assurdo.
“Non me ne frega niente di questa roba da deficienti, voglio solo essere lasciata in pace!” esplodeva lei, rabbiosa.
Eppure, alla fine, era costretta ad issarsi su tacchi vertiginosi che la facevano sentire esposta come un trofeo sulla parete di un cacciatore, a coprirsi con quei vestiti pieni di fronzoli e ad impiastricciarsi il viso con tonnellate di cosmetici.
La odiava, odiava quella vita dal più profondo del suo cuore.
Credeva che una volta vinti gli Hunger Games sarebbe finita, ma non immaginava nemmeno quanto fosse in errore.
Uno dei party al quale era stata invitata (o meglio, le era stato ordinato di partecipare) era per festeggiare l’insediamento di un nuovo primo stratega, tale Seneca Crane, fresco fresco della sua prima edizione degli Hunger Games.
L’arena, una distesa di terra brulla bruciata dal sole cocente, si era rivelata un verso successo e tutti non facevano che parlarne ed elogiarla.

Johanna vestiva un abito sirena i cui strati costituivano un complicato intreccio tale da farlo somigliare a rami di un albero, sui quali vi erano applicate delle foglie di paillettes. Era talmente attillato da impedirle di camminare e respirare. I capelli, invece, erano raccolti in uno chignon che le metteva in risalto i lineamenti spigolosi.
“Questo straccio è veramente orrendo.” Borbottò quando misero piede nel giardino della tenuta che ospitava il ricevimento.
“Via via cara, sei davvero bellissima!” trillò la sua chaperon.
“Ma va’ un po’ a quel paese.” Le disse senza troppe cerimonie e la lasciò lì, impietrita per la sua mancanza di rispetto ed i suoi modi rozzi.
Johanna cominciò a camminare più velocemente possibile, e strappò dalle mani di un cameriere un intero vassoio di cocktail. Iniziò a berne uno dopo l’altro, incurante delle occhiate che la gente le rivolgeva, comportandosi nel suo solito modo sfrontato.
“Johanna, da quanto tempo.” Una voce alle sue spalle la riportò indietro dal suo mondo di bollicine. Lei si voltò e, da dietro la patina alcolica del suo cervello, scorse il viso sorridente di Finnick.
“Finnick, mi chiedevo proprio quando avresti fatto la tua comparsa!” esclamò, fingendosi entusiasta.
“Non sai mai chi potresti incontrare dietro l’angolo, vero?” domandò lui.
Johanna non badò alle sue parole, si focalizzò bensì sulle due ragazze che lui teneva a braccetto. Le indicò entrambe e poi disse divertita: “Stasera sei stato chiamato a fare il babysitter?”
Le due donne la guardarono in cagnesco, ma il ragazzo fu pronto. Si esibì in un delicato baciamano e si congedò da loro, dicendo che si sarebbe dovuto recare altrove. Ovviamente venne scusato e si liberò della loro infausta presenza.
Johanna sbuffò.
“Ma come ci riesci? Come fai a sopportarlo?”
“Sono menti semplici e facili da gestire, una volta che hai capito cosa vogliono da te.” Le confessò semplicemente.
“E tu sei bravo a capire cosa passa per la testa della gente, giusto?” sogghignò lei.
Finnick le rivolse un ampio sorriso.
“Sei uno schianto vestita così.”
“Pensi davvero che io sia a caccia di omaggi svenevoli? Ho il gel nei capelli, un quarto d’alcool nel sangue, i tacchi alti ed un vestito aderente che non mi permette di ingozzarmi a dovere. Non provocarmi.” Lo fulminò sdegnata.
“So io quello che ti serve, andiamo.” Le prese la mano e la portò sotto al suo braccio.
Camminarono così per un po’ nell’ampio salone illuminato dal riverbero delle luci dei lampadari di cristallo, nell’opulenza che Capitol City trasmetteva con fierezza. Finnick le indicava con un cenno alcuni invitati e raccontava dettagli di loro così personali che lei cominciò a chiedersi come facesse ad esserne a conoscenza. Quel ragazzo era una vera e propria miniera di informazioni e pettegolezzi su tutte le personalità in vista di Capitol City. Le parlava sottovoce, con un’intonazione così morbida e accattivante che avrebbe fatto cadere qualsiasi donna in una spirale di pensieri poco casti, ma non lei.
Era troppo orgogliosa per cedere al suo fascino.
Durante la passeggiata incapparono in un capannello di persone che rideva e schiamazzava e videro che al centro vi era proprio il loro ospite, Seneca Crane. Johanna, però, scorse anche la sua accompagnatrice e sperò che lei non l’avesse vista. Ovviamente non andò così.
“Johanna, cara, vieni qui!” la chiamò con quella sua voce stridula. “Oh, c’è anche Finnick!” aggiunse nello stesso tono, raggiante come non mai.
“Cazzo…” sibilò lei per nulla contenta.
“Fai un bel respiro e sorridi.” La rassicurò Finnick.
“Cara vorrei presentarti il nuovo primo stratega, Seneca Crane. Seneca lei è…”
“Johanna Mason, incantato.” Si esibì in un inchino ed in un baciamano che risultarono comunque molto più volgari rispetto a quelli di Finnick.
“Piacere mio.” Rispose lei cercando di risultare gentile, cosa che non le riuscì per niente dato il tono lapidario della risposta.
“Finnick, è davvero una gioia poterti rivedere.” La ragazza voltò il capo in direzione del suo compagno, che fece un umile cenno a Seneca e passò la mano sulla vita della ragazza con disinvoltura. “Johanna, devo dire che ho apprezzato davvero molto la tua prestazione, lo scorso anno. Fingerti debole per poi mostrare un talento così…particolare contro gli altri tributi…delizioso.” Continuò lo stratega.
A Johanna venne voglia di assestargli un dritto sugli occhi. Si limitò invece a commentare nel suo solito modo sarcastico.
“Sai, Seneca, ci sono persone che vanno…accettate per quello che sono.”
Finnick le strinse il fianco con la mano, quasi a volerle segnalare di non esagerare. La reazione del pubblico invece fu quella di ridere sguaiatamente.
“Oh Johanna, non avevo idea che nascondessi un lato così divertente!” esclamò Seneca.
“Non hai nemmeno idea di quanti lati nascosti io abbia.” Sottolineò lei, e Finnick lesse la minaccia implicita di quelle parole.
In quel momento il discorso venne riportato sulla faccenda Hunger Games ed in particolare sulla sua vittoria. Trovarsi di fronte a quegli uomini che esaltavano le spietate uccisioni che era stata costretta a fare cominciò a darle il capogiro. Sudava freddo e si sentiva oppressa. Finnick, che la osservava attento, si accorse della situazione ed intervenne prontamente.
“Scusate signori, ma credo che tutte queste lodi le stiano dando un po’ alla testa, non è così Johanna?”
“Decisamente.” Rispose con un filo di voce.
“Se permettete la scorterò fuori a prendere una boccata d’aria, con permesso.” Gentilmente, Finnick la condusse al di là della folla,  fino al giardino. Alle sue orecchie arrivò un commento maligno di uno degli uomini: “Quell’Odair, sempre pronto ad accaparrarsi il meglio.” Ma non gli diede peso.

S’incamminarono attraverso il giardino in direzione di un gazebo isolato, posto accanto ad una fontana zampillante. Johanna si sedette sul bordo e tuffò le mani nell’acqua. Si sentì subito meglio. Prese un respiro profondo e chiuse gli occhi.
Finnick nel frattempo estrasse un fazzoletto e lo immerse nell’acqua, lo strizzò e poi cominciò a tamponare delicatamente la fronte della ragazza.
“Che diavolo stai facendo?” lei aprì gli occhi di scatto e gli colpì la mano, allontanandolo da lei.
“Ti sto aiutando, ora vieni qua e sta’ ferma, non vorrei che ti si rovinasse il trucco.”
“Fottiti.”
Finnick scosse la testa e sorrise quando lei, nonostante fosse recalcitrante, riprese posto sul marmo freddo.
“Va’ meglio adesso?”
Lei annuì ed abbassò il capo. Non voleva farsi vedere da lui in quello stato, ma non era riuscita a frenare il flusso dei ricordi: l’arena, la paura di non sopravvivere e di essere uccisa, il boato dei cannoni ogni notte, i visi dei tributi che aveva eliminato…ogni volta che nel Distretto 7 sollevava la scure sentiva il sangue caldo ed appiccicoso scendere giù dal manico e le veniva voglia di gridare. E poi c’erano gli incubi. Con quelli avrebbe dovuto imparare a convivere. Inconsciamente si chiese se anche Finnick si svegliasse nel cuore della notte con il gelo della paura nelle ossa.
“Non hai niente di cui vergognarti.” Esordì lui, quasi leggendole nel pensiero. “Ti capisco, succede anche a me. Li odio in un modo che non credo sia umanamente concepibile.”
Johanna balzò in piedi, improvvisamente furiosa.
“Secondo te è una specie di scherzo? Si può sapere perché ci tieni così tanto a starmi intorno? Dici che li odi e poi sei sempre qui a Capitol City, ti fai vedere a braccetto con quelle sgualdrine e mi racconti cose di cui non mi frega niente! Non dire di sapere cosa provo, perché non lo sai!” il petto si alzava e si abbassava a causa dell’ira. Finnick non si scompose, si limitò solo a guardarla intensamente con quei suoi penetranti occhi verdi.
“Hai mai pensato che sono qui non per mia scelta? Credo di sì, visto che lo sei anche tu. E poi non sono intorno a te perché voglio raggirarti, ho semplicemente pensato che potessimo essere amici.” Scrollò le spalle con noncuranza.
“E cosa ti fa credere che io abbia bisogno di un amico?”
Stavolta fu il suo turno di inarcare il sopracciglio.
“Ostinata e testarda Johanna Mason…noi due siamo più simili di quello che vogliamo sembrare. Abbiamo bisogno entrambi di qualcuno che veda oltre le nostre maschere di serenità e cinismo. Qualcuno abbastanza sano di mente con il quale parlare dei nostri incubi.”
L’ultima frase la colpì e si costrinse a tornare calma.
Quindi anche l’affascinante e seducente Finnick del Distretto 4, l’incarnazione stessa della bellezza, era in realtà una creatura fragile e ferita.
Johanna tornò a sedersi accanto a lui e lo studiò attentamente. In quel momento di contatto occhi negli occhi prese la sua decisione, probabilmente la più stupida di tutta la sua vita. Sospirò teatralmente.
“Ok, ma non aspettarti che ti tenga la mano mentre frigni come una ragazzina.”
Finnick, che era a disagio sotto lo sguardo guardingo ed indagatore di Johanna, si rilassò e piegò le labbra in un mezzo sorriso.
“Sei ridicola con questo vestito, sembri un arbusto secco e decrepito. Per togliertelo di dosso forse dovrai scuoiarti.”
Vide gli occhi di lei lampeggiare, la battuta era andata a segno.
Johanna però, fece qualcosa che lì per lì lo sorprese: sorrise. Un sorriso che non era la sua solita smorfia di sufficienza, ma qualcosa di più malizioso. Si portò le mani alla lampo dell’abito e la tirò giù. Il vestito, dopo un’iniziale difficoltà, scivolò a terra e lei lo calciò via. Rimase davanti a lui in una lingerie in puro stile Capitol City e ondeggiò nella sua direzione come un felino.
“Caro Finnick, per te è giunto il momento…” gli sussurrò all’orecchio dopo essersi abbassata al suo livello. “…di fare un bel bagno!” lo spinse ed il ragazzo scivolò oltre il bordo della fontana, cadendo nell’acqua fredda.
Quando si tirò su era bagnato fradicio dalla testa ai piedi e Johanna lo guardò trionfante.
“Uno a zero per me, bamboccio.” Raccolse l’abito da terra e lo stracciò in due parti. Si coprì alla bene e meglio con la gonna lunga e se ne andò senza nemmeno salutarlo. Alle sue spalle avvertì solo lo sguardo di Finnick, stupito e preso in contropiede.
Perché lei era Johanna Mason, ed imprevedibilità era il suo secondo nome.

***
Hola gente!
Per cominciare vorrei ringraziare tutti voi che avete letto e recensito il primo capitolo, sono davvero molto entusiasta :D Spero che anche il secondo sia stato di vostro gradimento e vi rinnovo l'appuntamento alla prossima settimana con una shot un po' più angst (mi preparerò per l'eventuale pioggia di zolfo).
Ringrazio ancora la buona darkronin che subisce in anteprima i miei orrori e si dedica con pazienza al betaggio, e Crystaldrop perchè ormai è diventata la vittima destinata a patire i miei deliri su Finnick.
Baci e buon fine settimana!

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Capitolo 3
*** Ottone ***


Ottone

Il Distretto 7 non vantava un ricco assortimento di vincitori, ma, secondo le regole dettate da Capitol City, era stato stabilito che questi fossero estratti a sorte per adempiere al loro ruolo di mentori, così come accadeva per i tributi. Il fatto che tra i mentori alcuni fossero anziani, con palesi difficoltà sia motorie che cerebrali, non favoriva le cose. Ogni anno i tributi del Distretto erano tra i primi a morire, sia a causa della loro giovane età ed insufficienza di mezzi, sia per i mancati sponsor che il mentore avrebbe dovuto procurargli.
Se c’era un’altra cosa che Johanna odiava, era lo sguardo di puro terrore che quei bambini avevano stampato negli occhi quando la sirena della mietitura riecheggiava nel Distretto. Li vedeva camminare a passi lenti, quasi arrancando e trascinando le gambe lungo le strade, stretti gli uni agli altri tremanti e spauriti.
Molti di loro non erano nemmeno abbastanza forti da riuscire a sollevare un’arma.
“Come gli agnelli sottratti alle madri e venduti al macello.” Si era trovata a pensare.
Il suo primo anno da mentore, i 72esimi Hunger Games, si erano rivelati un totale disastro.
Aveva provato ad istruire due ragazzini di dodici e tredici anni, ma la cosa non era andata bene: morirono subito, nel bagno di sangue iniziale alla Cornucopia, trucidati dai tributi dell’1 e del 2.

Quella notte il letto di Johanna sembrava tappezzato di spilli. Si girava e rigirava e nonostante i ripetuti tentativi, le palpebre non volevano saperne di chiudersi. Scalciò le lenzuola con un gesto violento, si vestì e decise di andare in città, convinta che camminare le facesse bene.
In realtà non desiderava nient’altro che essere a casa sua, scappare all’aperto, nel folto della foresta di pini e sdraiarsi al suolo, con il solo verso dei rapaci notturni a farle compagnia.
Invece era a Capitol City, città scintillante che non dormiva mai; le insegne luminose la infastidivano, i neon le bruciavano gli occhi ed il chiasso le massacrava le orecchie.
Dalle finestre trasparenti dei locali a bordo strada vedeva la gente, riunita attorno ai televisori olografici, piazzare scommesse su chi sarebbe risultato vincitore, congratularsi per una previsione azzeccata, commentare le armi ed i metodi di uccisione di alcuni tributi particolarmente feroci.
Nauseata da quelle scene, non appena voltò un angolo, la cena le risalì in gola in maniera così violenta che si accasciò sulle ginocchia. Si pulì alla bene e meglio la bocca, che conservava ancora un retrogusto acido, e riprese a camminare.
Un’auto si affiancò a lei sul marciapiede ed abbassò il finestrino.
“Signorina Mason, le serve un passaggio?”
Lei si voltò a guardare lo sconosciuto: era un ragazzo tipico della città, grande forse un paio d’anni più di lei.
“Non ho bisogno di nulla, vattene via.” Tagliò corto.
“Temo proprio, signorina Mason, di dover insistere.” La macchina si fermò ed il ragazzo scese. Era abbigliato con uno di quei completi vergognosamente costosi, i capelli scuri raccolti in una coda bassa dal quale spuntavano delle ciocche color porpora. Le sorrise gentile e lei si infastidì.
“Che c’è, sei sordo? Vattene via ho detto!”
“Non posso. In effetti, la stavo cercando, signorina Mason.”
Johanna si fermò.
“Mi cercavi per cosa?”
Lui sorrise di nuovo, una smorfia inquietante e perversa.
“Come il gatto che si lecca le labbra prima di assaltare la gabbia del canarino.”
“Per il piacere della sua compagnia.” Ammise pacato. Johanna sapeva che quello che stava per fare era sbagliato, nonostante il campanello d’allarme nella sua testa non smettesse di trillare, ma in quel momento non le importava. Voleva qualcosa per dimenticare, per annullarsi, per stordirsi. E se quell’imberbe figlio di papà avrebbe potuto procurargliela, tanto di guadagnato.
Entrò nell’abitacolo spazioso ed il ragazzo disse all’autista di mettere in moto.
“Gradisci qualcosa da bere, Johanna? Posso chiamarti Johanna, non ti dispiace?” domandò premuroso.
Lei gli agitò una mano davanti agli occhi.
“Chiamami come ti pare e sì, versami da bere. Tanto.”
Il ragazzo le porse un bicchiere colmo di un liquido arancione che lei trangugiò avidamente. Allungò di nuovo il bicchiere verso di lui.
“Ancora.” Gli ordinò e lui obbedì, solerte.
Dopo tre bicchieri di quella roba, Johanna scrutò con aria sospettosa il suo benefattore.
“Chi sei e perché hai detto che mi stavi cercando?”
“Ha importanza chi sono? E poi te l’ho già detto, desideravo trascorrere del tempo con la mia vincitrice preferita.”
La cerimoniosità di quelle parole nascondeva al suo interno qualcosa di molto più infido. Quella richiesta, quella pretesa di volerla lì, ostentando una carineria ed una gentilezza così inusuali, sapeva di imbroglio.
“È difficile per me credere di essere la preferita di qualcuno, visto quanto impegno ci metto nel farmi odiare.” Ribatté pungente.
Il ragazzo si avvicinò con fare accattivante e le passò una mano sulle spalle mentre l’altra cadde casualmente sul suo ginocchio.
“Qui sta il bello…con questo tuo carattere ribelle ed altezzoso attrai i predatori, coloro che bramano intrattenere una ragazza riottosa e provocatrice.” La mano risalì pericolosamente lungo la coscia e le labbra dipinte le sfiorarono il collo. Johanna , colta alla sprovvista, rimase pietrificata, ma poi prese velocemente coscienza di sé. Ribaltò le posizioni ed inchiodò quel tizio contro il sedile di pelle dell’auto con il braccio.
“Brutto porco, che hai intenzione di fare?” gli gridò contro e vide gli occhi del ragazzo assottigliarsi pericolosamente.
“Ho pagato per averti, sgualdrina irriconoscente, quindi ora lasciami e fammi divertire come merito.” Tutta la cortesia era sparita dalla sua voce, sostituita da una feroce brama.
La verità colpì Johanna come una pugnalata: aveva pagato per averla.
Era stata venduta.
Venduta ad un capriccioso per il suo sadico divertimento.
Il suo corpo rispose prima del suo cervello: il primo pugno colpì lo zigomo del ragazzo. Ne seguì un altro e poi un altro ancora, un violento attacco al viso, al torace e a niente servivano i lamenti che si levavano alti dalla gola di quel maniaco. Johanna si fermò ansante e si guardò le mani coperte dal sangue del suo aggressore. Questi si reggeva lo stomaco con un braccio e con la mano libera si teneva la base del naso per tamponare l’emorragia, il viso era una completa maschera tumefatta, piena di graffi, tagli ed ematomi.
Sicuramente aveva il setto nasale fratturato assieme a qualche costola incrinata.
“Ferma la macchina!” gridò Johanna dall’abitacolo. L’autista frenò di botto e lei aprì la porta, schizzando fuori e correndo veloce, con l’adrenalina ancora in circolo.
Non pensò alle conseguenze di quel suo gesto, la sua mente continuava a darle l’impulso di correre e rifugiarsi in un posto sicuro, da qualcuno di cui si fidava. Si fermò di colpo, le mani sulle ginocchia ed il fianco sinistro che pungeva per lo sforzo.
“Finnick…” ansimò il suo nome e si guardò attorno. Non conosceva bene Capitol City, ma sapeva dove trovarlo, visto che era anche lui in città e l’aveva avvisata. E riprese a correre.

L’edificio era alto e l’atrio era piastrellato con marmi lucenti nei quali erano incastonati dei cristalli colorati. Quando Johanna entrò, ignorò totalmente il portiere e si diresse verso l’ascensore. Premette il tasto che conduceva all’attico e, una volta arrivata davanti alla porta, bussò con forza.
Un borbottio sconnesso provenne dall’interno e Finnick apparve sulla soglia, con indosso solo dei pantaloni morbidi da notte.
“Johanna, che cosa…” biascicò sorpreso, ancora assonnato.
“Posso entrare?” domandò nervosa.
Lui si scansò dalla porta facendole spazio. Osservò preoccupato quel suo tormentarsi le dita e la prese delicatamente per le spalle. Lei si irrigidì sotto il suo tocco.
“Jo, che ti è successo? Sei qui per quello che è capitato ai tuoi ragazzi? L’ho visto in tv, ho provato a chiamarti al centro di addestramento ma mi hanno detto che non c’eri…”
Lei sollevò gli occhi, lo stordimento dovuto agli eventi le impediva di provare dolore, si sentiva frastornata e confusa, come se avesse assunto una potente droga.
“Non toccarmi. Non farlo.”
Finnick allontanò le mani da lei, ed intuì che doveva celarsi qualcosa di grave dietro le sue parole.
“Siediti, sei a pezzi.”
Johanna si sedette come un automa ai piedi del letto: era sudata, con i capelli scarmigliati e le nocche delle mani erano arrossate e cominciavano a farle male. Finnick vide il sangue incrostato sulle dita e temette il peggio.
“Jo…” esordì, quando le parole di lei lo bloccarono.
“Sono stata venduta, Finnick. E so anche che è stato quel figlio di puttana di Snow a permetterlo.”
Snocciolò l’intera storia con parole che grondavano rancore e rabbia e lui l’ascoltò in silenzio, concentrato ed assorto. Quando ebbe terminato il racconto, lo vide sospirare. Lei, invece, dopo essersi confidata, provò un senso di leggerezza, come se galleggiasse in uno strano limbo. Il trillo di un messaggio ricevuto li fece sobbalzare entrambi.
Finnick si allontanò e lesse. Johanna vide i suoi occhi verdi spalancarsi ed il volto impallidire. Un brivido di paura corse lungo la sua spina dorsale.
“Cos’è successo?”
“Hai mandato all’ospedale Augustus Bell.” Annunciò secco. La mandibola di Johanna si contrasse per lo sdegno.
“Se lo meritava, quel maiale, porco schifoso.”
“Hai idea di chi sia?”
“Dovrei?” rispose di rimando, impermalita. Non riusciva a capire cosa stesse arrovellando il cervello del suo amico, visto che era lei la vittima in quella storia.
Finnick prese a camminare per la stanza, improvvisamente agitato.
“Quello è il figlio di una delle maggiori figure di spicco di tutta Capitol City.”
Johanna si strinse nelle spalle, non sicura di capire dove lui intendesse arrivare.
Finnick si sedette sul letto e si tenne la testa tra le mani, bianco come un cencio. Le lasciò poi scivolare tra le gambe e guardò Johanna.
“Non doveva succedere anche a te.” Dichiarò mesto.
“Cosa? Cosa non doveva succedere Finnick?” chiese ansiosa e perplessa.
La seducente aura  accattivante ed i toni morbidi che lo contraddistinguevano si erano spenti, sostituiti da uno sguardo carico di tristezza.
“Quello che è successo a me. Essere comprati per il divertimento della gente.”
Johanna spalancò la bocca in un muto grido di stupore ed il suo cervello non ci mise molto a collegare i piccoli episodi ai quali aveva assistito da quando aveva conosciuto Finnick.
La comprensione arrivò alla velocità di uno schianto d’albero al suolo.
“Ecco perché sapevi tutte quelle cose…loro, tu…sapevi tutto fin dall’inizio!” era sbalordita e scossa. Finnick le parlò contrito.
“Snow ha il potere di vendere i vincitori degli Hunger Games a coloro che sono disposti a pagare profumatamente. Serve per tenerci in riga, per ricordarci sempre che non possiamo nulla contro il potere di Capitol City. La vittoria ai giochi non serve a conquistare la libertà.”
Johanna si alzò dal letto ed indietreggiò fino a toccare il muro. Non si era accorta di stare tremando.
“Io non lo accetto, Finnick! Non sarò la puttana di Capitol City!”
Anche lui si alzò, i begli occhi di giada scintillavano d’ira. Aveva perso ogni traccia di calma e compostezza.
“Credi che invece a me faccia piacere esserlo? Credi che io voglia essere considerato alla stregua di un oggetto da vendere al migliore offerente? Ti sei già ribellata abbastanza, Johanna. Loro ti porteranno via tutto, lo capisci questo?”
Lei scivolò contro la parete, fino ad accasciarsi a terra, il cervello offuscato dalla paura crescente.
“Cosa accadrà adesso?” domandò in un sussurro strozzato.
“Non lo so, io non lo so.” Finnick scosse il capo, rassegnato.
“Perché non mi hai mai detto niente? Se lo avessi saputo io avrei agito diversamente.”
“Perché non potevo parlartene senza temere che tu facessi qualche sciocchezza e agissi in maniera avventata. Volevo proteggere te dalla realtà ed anche altre persone che contano su di me a casa.”
“Ma questa è la realtà in cui viviamo!” sbottò lei. “Ed io avevo il diritto di sapere! Dio, tu dovresti essere mio amico! Sapevi tutte quelle cose e non ti è venuto in mente di dirmelo prima…sei uno stronzo, Finnick.”
Si rimise in piedi, ancora tremante e scossa, e imboccò l'uscita, sbattendosi la porta alle spalle con malagrazia.
Finnick non la seguì, rimase fermo a fissare l'ingresso. Il dubbio di non aver fatto la cosa giusta a parlargliene lo assalì più e più volte. Cercò di giustificarsi perché riteneva che, dato il suo carattere, Johanna non avrebbe risentito della corruzione di Capitol City.
E invece, così facendo, l’aveva condannata. L’aveva abbandonata a se stessa senza farle da guida, senza comportarsi da amico e non poteva biasimarla per averglielo rinfacciato.
E la cosa peggiore era che non poteva fare ammenda per quel peccato.

*

L’aria calda che esalava dai palazzi la investì e si sentì soffocare di impotenza e frustrazione. Cosa avrebbe potuto fare adesso? Avvisare la sua famiglia, dire a tutti di scappare… su chi, per primo, si sarebbe accanito il governo? Su chi Capitol City avrebbe riversato la sua vendetta?
Tutte quelle domande funestavano la sua mente, ma lei sapeva bene di essere totalmente impotente: una nullità senza potere, una regina del niente, un’inerme marionetta in balia della tempesta che presto l’avrebbe travolta e spazzata via.
Capitol City…quella città era come un ingannevole bagliore dorato, visto da lontano: l’uomo incauto avrebbe potuto scambiarlo per oro puro e vero, ma una volta avvicinatosi avrebbe scorto il falso riverbero dell’ottone.

*

Nella sala da pranzo della sua dimora, il presidente Snow leggeva annoiato un fascicolo che recava il nome di Johanna Mason. Lo chiuse e lo gettò sul tavolo con un’occhiata di sufficienza.
“Patetico.”
Sentì bussare alla porta e diede ordine di entrare.
“Signore, come desidera procedere con il caso Mason?” chiese l’uomo appena arrivato. Il presidente rifletté per un attimo e poi parlò.
“Johanna Mason è una ribelle e presto imparerà a sue spese che ai ribelli non conviene mettere in discussione il potere di questa città. Imparerà a rinunciare alla libertà e a sottostare a me. Sapete già cosa fare quando tornerà al suo Distretto, alla fine dei giochi. Ma non subito, aspettate che creda di essere al sicuro. Attendete il mio segnale.”
L’uomo annuì e chiuse la porta. Il Presidente si lisciò la barba, prese un bicchiere di vino e si diresse verso il suo roseto.
Tagliò i rami secchi e spogli e pensò che presto quello sarebbe stato lo stesso destino di Johanna Mason e delle persone che amava.

***
Angst, angst come se piovesse! La regia oggi propone un capitolo meno spensierato rispetto ai precedenti, ma spera che risulti ugualmente gradevole ai gentili lettori. Detto questo la sopracitata regia augura a tutti un buon inizio di settimana e spera in qualche commentino per affrontare i giorni de fuego che stanno per arrivare.
A domenica prossima!

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Capitolo 4
*** Lacrime ***


Nda: si consiglia la lettura della one shot precedente, dato che gli eventi di entrambe sono collegati.

Lacrime

Da quando aveva fatto ritorno al suo Distretto, dopo l’episodio dell’aggressione, Johanna viveva in uno stato di insicurezza costante. I suoi genitori non comprendevano la causa di quella paranoia nei loro confronti. La sua maniacalità li rendeva nervosi e quando a sua volta veniva interrogata sulle motivazioni, rispondeva con un ostinato silenzio.
Quando Johanna era fuori durante i suoi turni di lavoro, il tempo sembrava non scorrere mai: osservava compulsivamente l’orologio e qualsiasi rumore era capace di farla sobbalzare. Divenne molto più irritabile del solito e cominciò ad allontanare da sé anche coloro che, un tempo, erano stati suoi amici. Questi, alla stregua dei genitori, non se ne spiegavano la ragione, ma lei decise che era meglio così, nonostante la dolorosa solitudine a cui sarebbe andata incontro: il presidente non avrebbe fatto loro del male, se avesse saputo che la odiavano. E lei era bravissima a scatenare nelle persone questo tipo di reazione.
Al Distretto le malelingue cominciarono ben presto la loro opera di divulgazione di voci infondate. La definirono fredda, altezzosa, orgogliosa, snob, una che si era montata la testa dopo aver vinto i giochi e scoperto le ricchezze della capitale. I più gentili ritenevano, invece, che soffrisse di una qualche forma di stress post traumatico che la rendeva emotivamente instabile.
Solo Finnick era a conoscenza della verità sulle sue paure più profonde; in fin dei conti era stato lui a smascherare definitivamente le reali intenzioni di Capitol City nei riguardi di tutti i vincitori.
Nei momenti in cui l’ansia prendeva il sopravvento, Johanna si autoimponeva di resistere all’impulso di chiamarlo. Sapeva di essere spiata e controllata, anche se le cose sembravano procedere come sempre. Era a conoscenza dell’oscura presenza che aleggiava intorno a lei e le teneva il fiato sul collo.
I suoi incubi diventavano sempre più frequenti e violenti; incubi in cui sua madre e suo padre venivano barbaramente massacrati e lei era paralizzata di fronte allo spettacolo dei loro corpi smembrati. Si svegliava di soprassalto ed le riusciva impossibile continuare a dormire.
I sedativi come la morfamina iniziarono ad esercitare una forte attrattiva sulla sua mente provata. Avrebbe sicuramente cominciato a farne uso, se non fosse stato per il fatto che, quei medicinali, le avrebbero obnubilato il cervello, mentre lei doveva rimanere vigile e lucida.
Quell’attesa la stava distruggendo, la divorava come un tarlo dall’interno e la cosa peggiore era che alternava degli stati di angoscia profonda, ad altri in cui nasceva in lei una flebile speranza che il Presidente avesse dimenticato. Sapeva bene che quella era solo una vana illusione, ma non poteva frenarsi dal pensare che avrebbe potuto lasciarla in pace.

*

Una mattina, dopo due mesi dall’accaduto, Johanna si recò in montagna per il lavoro giornaliero. Aveva dormito circa due ore, dopodiché si era svegliata, con un angosciante senso di smarrimento e di gelo instillato nelle ossa. L’ansia che provava cresceva sempre di più ad ogni colpo inferto dalla sua ascia contro corteccia di un albero e si sentiva soffocare dalla paura che qualcosa di terribile stesse per accadere.
L’eco di una roboante esplosione le fece cadere l’ascia dalle mani e finì sul tappeto di rami e foglie. Il suo cervello ignorò l’ordine del caposquadra di restare concentrati sul proprio lavoro e le diede l’input di scendere lungo le pendici della montagna, per avere una visuale migliore del Distretto.
Aguzzò la vista ed il cuore le si fermò nel petto quando vide un fumo denso alzarsi in spire nere verso l’alto. La cosa peggiore era che il punto da quale proveniva il fumo era proprio il villaggio dei vincitori.
“No…” mormorò, per poi cominciare a correre di volata attraverso la foresta, inciampando nelle radici e rialzandosi subito dopo, incurante del dolore e dei tagli che si era procurata.
Quando arrivò all’ingresso del viale del villaggio dei vincitori, non era rimasto nulla della sua casa. La gola le raschiava a causa delle ceneri che galleggiavano ancora nell’aria come neve velenosa, ed i polmoni bruciavano per via dell’odore acre e pungente del fuoco che aveva divorato ogni cosa. Tutto era ridotto ad un ammasso fumante di macerie.
Si avvicinò, esitante; gli occhi non volevano ancora arrendersi a quell’orrendo spettacolo della sua casa sventrata dalla deflagrazione. I pompieri si davano un gran da fare per spegnere le rimanenti fiamme, mentre i pacificatori badavano a tenere lontani i curiosi. Il giardino antistante era tutto ingombro di ogni genere di residuo: calcinacci, mobili bruciati, schegge affilate di vetro delle finestre. Persino le case adiacenti, fortunatamente disabitate, avevano subìto danni.
“Signorina, non può restare qui.” Un pacificatore le sbarrò la strada, ma lei lo spintonò con forza.
“Questa è casa mia e lì dentro c’è la mia famiglia! Lasciami passare, idiota!”
Si avviò a passo svelto, ma altri arrivarono a fermarla.
“Signorina Mason, sono spiacente di doverla informare che la sua famiglia è rimasta vittima di uno sfortunato incidente…”
Ma Johanna non lo ascoltava. Il suo sguardo era stato attirato da un gruppo di uomini che posavano qualcosa su una portantina di metallo. La scena si svolse al rallentatore: vide uno degli uomini spingere la lettiga lungo la strada, ed il terreno instabile la faceva sferragliare. Un braccio, completamente carbonizzato, scivolò fuori dal lenzuolo, penzolando ed oscillando sinistramente ad ogni movimento della barella.
Gli occhi le si riempirono di lacrime ed emise un singulto strozzato.
“…causato da una fuga di gas. E il governo ha stabilito che, in quanto vincitrice, potrà trasferirsi in una nuova abitazione.”
Johanna mosse il capo lentamente ed il pacificatore tacque, impaurito. Doveva avere un’espressione davvero folle se quell’uomo indietreggiava di fronte a lei. Era arrabbiata, frustrata, furente.
“Ho appena perso la mia famiglia e tu vieni a parlarmi di una casa nuova? Lui li ha uccisi, li ha uccisi tutti!” con una mossa veloce gli fu alla gola e strinse con tutte le sue forze. L’uomo cadde sulla schiena e cominciò a dimenarsi alla ricerca di aria.
I pacificatori le furono addosso e liberarono il loro compagno dalla presa salda di Johanna.
“Assassini, non siete altro che assassini!”
“Signorina, si calmi, è stato un inciden…”
“Incidente! Vuoi che me la beva? Vi auguro di crepare nella maniera più atroce che esiste, capito!! Mi hai sentita, Snow? Dovrai morire, maledetto bastardo!” gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Dopodiché scappò. Fuggì senza voltarsi indietro, verso le montagne, passando per la sua zona di lavoro e recuperando la sua ascia, sotto lo sguardo allibito di tutti i colleghi. Nessuno osò rivolgerle qualche domanda e nessuno la seguì quando si addentrò tra gli alberi.

Una volta arrivata abbastanza lontano, sicura che nessuno potesse sentirla, urlò.
Urlò di disperazione e dolore fino a che la gola non cominciò a bruciare.
Pianse lacrime di vendetta e pena.
Non voleva fare ritorno al villaggio dei vincitori: ogni volta che sarebbe passata da lì la sua memoria sarebbe tornata a quando la vita era tranquilla, a quando non aveva vinto gli Hunger Games. Avrebbe ricordato i piacevoli silenzi che condivideva con suo padre e le brevi chiacchiere con sua madre, che storceva il naso quando lei scappava via da qualche “discorso da donne”.
Cosa avrebbe fatto adesso?
Non le rimaneva più nessuno. I suoi ricordi, la sua vita e le persone che amava erano ormai cenere, distrutte dal fuoco di Capitol City.
Si sedette contro la corteccia di un vecchio pino, portò le ginocchia al petto e continuò a singhiozzare.

*

Le voci circolavano con facilità e velocità nel tessuto di intrighi di cui era costituita Capitol City. Quando la notizia della morte della famiglia di Johanna Mason, sussurrata con timore e sbigottimento, arrivò a Finnick questi decise che sarebbe andato nel Distretto 7 il prima possibile, anche solo per scontrarsi contro il muro di silenzio che Johanna gli avrebbe riservato. Era suo amico, non poteva lasciarla sola ora che aveva bisogno di qualcuno che le stesse accanto.
Tre giorni dopo l’accaduto, con un permesso speciale che era riuscito ad ottenere, arrivò lì. Vide la casa distrutta al villaggio dei vincitori ma di Johanna non c’era la minima traccia. Chiese in giro, e tutti gli indicarono la montagna, dicendo che la ragazza non si faceva viva in città dal giorno dell’incidente.
“Probabilmente sarà andata ad impiccarsi. Tanto meglio! Nessuno sentirà la mancanza di quella pazza.” Asserì uno dei Pacificatori e a Finnick venne una gran voglia di piantargli un coltello nel cuore.
Nonostante questo, si incamminò lungo la montagna, con la sola indicazione del campo di lavoro di Johanna. Finnick non era preoccupato: sapeva che prima o poi l’avrebbe trovata e l’avrebbe convinta a tornare tra gli esseri umani. Aveva un asso nella manica, qualcosa che sicuramente l’avrebbe smossa e l’avrebbe spinta a combattere ancora una volta.

Il sentiero della montagna era impervio, ma non si scoraggiò. I segni della vicinanza di Johanna parlavano chiaro: rami tranciati di netto, sangue secco e segni lasciati da un oggetto affilato contro gli alberi. Finnick non era un cacciatore, ma aveva imparato a seguire le tracce di qualcuno durante l’addestramento dei suoi Hunger Games. Probabilmente quella era l’unica cosa utile che i giochi gli avessero insegnato.
Finalmente, dopo aver camminato a lungo, riuscì a scorgerla.
La vide in piedi, con l’ascia stretta in mano, che assestava l’ennesimo colpo contro il tronco di un albero.
“Johanna.” La chiamò e lei si voltò piano.
Aveva gli occhi rossi, gonfi ma asciutti dopo aver pianto tutte le sue lacrime, il respiro affannoso e la bocca dischiusa per catturare più aria a causa dello sforzo, i capelli scarmigliati e i vestiti strappati in più punti. Attorno a lei dominava lo sterminio seminato con la scure. Aveva distrutto tutti gli alberi, creando un vuoto spazio circolare attorno a sé.
Era selvaggia e terribile come una delle dee della vendetta di cui aveva letto in passato.
“Finnick.” La sua voce era roca, come se avesse gridato fino a consumarla. E probabilmente era così. “Cosa ci fai qui?” gli chiese stupita.
“Sono venuto per te.”
La risposta la sorprese: lui era stato il primo ad andarla a cercare. Non pensava che gli importasse qualcosa di lei, anzi, credeva che le avrebbe sbattuto in faccia un “Te l’avevo detto” alla prima occasione.
“Perché?”
“Mi dispiace per la tua famiglia, Jo.” Rispose rammaricato.
Lei gli lesse la tristezza e la pietà sul bel viso e si sentì ancora più inutile e stupida.
Si rivolse a Finnick, eruttando tutta la rabbia, l’impotenza, la frustrazione in un’unica, iraconda esplosione.
“Non so cosa farmene del tuo dispiacere, sei arrivato troppo tardi. Sai cosa mi hanno detto? Che è stato un fottuto incidente, una maledetta fuga di gas! Ma noi sappiamo che non è così, vero Finnick?”
Lui non cedette, ma la fissò con fermezza.
“No, non lo è. Ma io sono venuto qui perchè volevo sincerarmi di come stessi. Francamente non pensavo che avresti avuto voglia di parlarmi.”
“In effetti è così, ma come vedi sto benissimo!” fece una giravolta su se stessa. “Talmente bene che avrei persino la forza necessaria per decapitarti.”
“Se può farti sentire meglio, fallo.” La incitò e lei strinse le labbra in una linea sottile. “Ma ricordati che non sono io il tuo nemico.”
“No, tu sei la puttana di Capitol City, Finnick Odair!” sputò acida. “Sarebbe troppo facile ucciderti qui e adesso, ma devo dartene atto, non sei tu che meriti quest’ascia conficcata nel cranio.” Soppesò l’arma con ghigno inquietante. Lui le si avvicinò di più e le pose una mano sulla spalla, con delicatezza.
“Non sei l’unica che vuole vendetta, Johanna. Ci sono persone a Capitol City e negli altri distretti che non vogliono più essere delle pedine nelle sue mani.”
A quell’affermazione la ragazza scoppiò in una risata isterica, allontanandosi da lui.
“Sai, ho addirittura pensato che sarebbe stato meglio suicidarmi per evitare che loro soffrissero, ma chi li avrebbe protetti dopo la mia morte? Sangue chiama sangue. E tu hai davvero fatto tutta questa strada per dirmi questo? Dopo quello che è successo ti fidi delle parole degli altri?”
“È la verità e posso provartelo. Abbassa l’ascia e parliamone.” Le fece un cenno e le parlò gentilmente per calmarla. Johanna si accorse di star brandendo lo strumento in maniera minacciosa e lo abbassò. Il ragazzo non stava mentendo, era sincero ed era l’unica persona rimasta in vita di cui si fidasse un po’. Ma non gliel’avrebbe mai detto, non avrebbe corso quel rischio.
“Perché fai tutto questo, Finnick? Dimmelo una buona volta e facciamola finita. Sono stanca di questi giochetti.” Il ragazzo abbassò lo sguardo al suolo e strinse i pugni. Prese un respiro e annuì.
“Lo faccio per Annie. Perché odio quello che l’hanno costretta a diventare e perché odio quello che hanno fatto a me.”
Johanna fece un passo indietro, stupita dalla rivelazione.
“Intendi Annie Cresta, la ragazza che ha vinto l’edizione precedente alla mia? Quella che è…”
Finnick stirò un sorriso amaro.
“Sì, quella che è impazzita.”
“Capisco.” Affermò e comprese a fondo quel che Finnick le aveva detto tempo addietro, ossia che erano più simili di quel che volevano sembrare. Erano animati entrambi da sentimenti forti ed intensi, ma mentre Finnick agiva per istinto di protezione e rivincita, Johanna, che era ormai sola al mondo, avrebbe puntato tutto sulla vendetta.
“Voglio la vendetta, Finnick, e non mi accontenterò delle briciole, sappilo. Voglio Snow e voglio vedere la vita abbandonare i suoi occhi personalmente.” La voce era pericolosamente ferma e decisa e Finnick le fece un cenno di assenso. Constatò che ormai nel cuore di Johanna si allargava a macchia d’olio solo una vuota oscurità.
“Possiamo farlo. Possiamo fare in modo che nessuno debba più soffrire quello che abbiamo sofferto noi.” Affermò lui.
“Nessuno.” Prese l’ascia e la lanciò. Questa si conficcò nel tronco dell’albero con uno schianto. Guardò di nuovo Finnick e decise che avrebbe combattuto. Se quello era il gioco di Capitol City, allora avrebbe partecipato. Aveva vinto una volta, poteva farlo ancora.
“Nessuno.” Ripeté, ed insieme si lasciarono la foresta alle spalle.

***
Salve! Oggi propongo la mia personale visione di cosa sia successo alla famiglia di Johanna, giusto per ricollegarmi al famoso: "Non mi è rimasto nessuno a cui volere bene". -ma è una bugia perchè c'è sempre Finnick-.
Come sempre ringrazio darkronin per la cura che ha nel betaggio e tutti voi che leggete e recensite; fate felice una povera autrice continuando così :D
Assai copioso amore scenda su di voi e buon inizio di settimana!

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Capitolo 5
*** Nome maledetto ***


Nome maledetto

Quando Johanna fece ritorno a Capitol City, la vigilia del 74esimi Hunger Games si avvicinava e, come da programma, tutti erano in fervente agitazione.
Ci sarebbero stati dei volontari combattivi, spietati e pronti ad inseguire sogni di gloria? Quali sorprese ed insidie avrebbe nascosto l’arena quell'edizione?
La triste notizia della morte dei suoi genitori, che aveva suscitato tanto clamore, era ormai un ricordo lontano, soppiantato da più succulente notizie di gossip. Questo fu un bene, dato che quello che lei e Finnick si accingevano a fare sarebbe costato loro la vita, qualora fossero stati scoperti. Finnick, grazie alle sue conoscenze, era riuscito a scoprire l’esistenza di alcuni oppositori al governo, persone di una certa rilevanza che intendevano disfarsi di quella dittatura. Aveva assicurato a Johanna un incontro con uno dei membri e quello era stato l’unico motivo che l’aveva condotta fuori dal suo distretto; con l’attenzione spostata sulla nuova edizione dei giochi, nessuno avrebbe fatto caso a loro.

Si stavano dirigendo verso l’abitazione di un certo Plutarch Heavensbee, un uomo che faceva parte delle alte sfere della città e che, nelle precedenti edizioni dei giochi, aveva collaborato saltuariamente con gli strateghi.
Johanna camminava al fianco di Finnick, in silenzio. Il collo alto del suo vestito le graffiava la pelle e le scarpe cominciavano già a farle male.
“Smettila di essere così rigida, sii meno ingessata e andrà tutto benissimo.” Provò a rassicurarla Finnick una volta entrati nell’atrio del palazzo.
Lei gli scoccò un’occhiata torva.
“Vuoi dirmi che con il mio portamento non sarò la stella indiscussa della serata? Johanna Mason, la neo orfanella che viene ad affogare il suo dolore tra gli amici di Capitol City? Un paio di commenti graffianti e questo tipo mi adorerà.” Replicò con sarcasmo ed il ragazzo sorrise.
“Non hai perso il tuo tocco magico.”
Lei si strinse nelle spalle, poi assunse un’aria seria, abbassando il tono di voce e guardandosi attorno, cauta.
“Credi davvero che questa sia una buona idea?”
“Per adesso è la migliore possibilità che abbiamo, quindi vediamo di giocarcela bene.” Asserì lui convinto.
“Mi stai chiedendo di fidarmi di gente che non conosco ma, notizia flash, io non sono te.” Erano fermi davanti alle porte dell’ascensore e lei l’aveva afferrato per un braccio, costringendolo a guardarla. Finnick lesse chiaramente la preoccupazione in quegli occhi solitamente sfrontati. Dolcemente le posò un dito sulle labbra, tacitando una nuova protesta nascente.
“Non si ha fiducia negli altri perché se la meritano ma perché merita di averla colui che la prova.” Poi si guardò scocciato la mano. “Hai un fazzoletto? Mi hai appiccicato sul dito tutti quei maledetti glitter…” sospirò teatralmente e Johanna storse le labbra con disappunto.
“Ringrazia che non te l’abbia staccato con un morso. Potrai sempre pulirti sul vestito di un invitato.” Suggerì poi con noncuranza ed entrò nell’ascensore, le cui porte metalliche si chiusero con un suono ovattato.

Plutarch Heavensbee fu un ospite accorto, cortese e premuroso: il suo attico fu messo a disposizione degli invitati, i loro calici non furono mai vuoti così come i loro piatti.
Quando si avvicinò con un sorriso sornione, Johanna sentì uno spasmo allo stomaco. Quello sarebbe dovuto essere un alleato? Non poteva certo crederci: aveva lo stesso viso di tutti quei capitolini arricchiti che trascorrevano le loro vite a crogiolarsi nell’opulenza, rinchiusi nella loro bella oasi felice.
“Vi state divertendo?” domandò con quell’accento strascicato ed affettato tipico della città. “Io adoro le grandi feste: sono così intime! In quelle piccole non c’è alcuna privacy, non trovate?”
La ragazza si chiese mentalmente se per caso non fosse ubriaco. Per tutto il resto del tempo che Plutarch trascorse con lei e Finnick, parlò di cose che esulavano palesemente dal punto che le premeva toccare. Divenne impaziente. Soprattutto la irritò la calma con cui Finnick, invece, conversava. Sembrava così a suo agio, sereno e pacato, brillante e carismatico. Plutarch rideva alle sue battute e gli dava gentili colpetti sulla spalla, mentre con un fazzoletto si asciugava una lacrima, il viso rosso per le risa.
Finita la festa, dopo essersi accomiatati alle prime luci dell’alba, Plutarch salutò Johanna dicendole che, il regalo perfetto per una donna come lei, sarebbero state tredici rose rosse.

“Allora, che cavolo era tutta quella farsa?” esordì lei, una volta rientrata nella sua stanza d'albergo con Finnick.
“Di cosa stai parlando, esattamente?” replicò ragazzo e l’insofferenza di Johanna crebbe di una tacca.
“Non fare l’idiota! Mi riferisco a questa serata. Che cos'è che abbiamo concluso effettivamente, a parte parlare di argomenti a caso?”
Finnick sorrise.
“Niente di quello che è accaduto stasera è stato un caso.”
Lei lo fissò, seccata.
“Che ne diresti di rendermi partecipe?”
“Sei entrata nel nostro piccolo club dei ribelli. Il resto te lo spiegherò quando sarai tornata nel tuo distretto. Fino ad allora…” si avvicinò alla sua guancia e vi lasciò un bacio delicato. Si diresse poi verso la porta della stanza ed uscì, lasciandola spiazzata.
“Ehi, ma che…Finnick, torna qui! Aaah, fai un po’ come vuoi!” gli gridò contro, impermalita, per poi buttarsi a peso morto sul letto.

*

Era una mite giornata di fine maggio quando Finnick arrivò al Distretto 7. Riuscì a lasciare i suoi impegni, sempre facendo leva sui numerosi favori che doveva riscuotere (favori che Johanna preferiva definire ricatti), ed arrivò con il primo treno. Lei andò a prenderlo alla stazione e, stando bene attenti ad evitare i luoghi più affollati come la piazza del distretto, si diressero sulle montagne.
Johanna lo portò nel folto della foresta fino a raggiungere una radura circondata da alberi di pino. Si sedette sull’erba e Finnick la raggiunse.
“Vedo che hai preso alla lettera il mio consiglio di trovare un posto intimo dove parlare.”
 Lei inarcò un sopracciglio. “Ti avrei portato a casa mia ma ho sempre la sensazione che sia controllata.”
“Un problema comune, temo.” Le rispose sconsolato.
“Sì, ma adesso basta con queste sciocchezze. Spiegami cosa è successo e alla svelta.” Lo liquidò in tono pratico. Finnick scosse leggermente il capo.
“Va bene, va bene. Come la mia signora comanda. Dunque, come ben sai, nei distretti c’è un malcontento crescente che Capitol City sta faticando a controllare. La situazione precaria delle zone più povere potrebbe essere una scintilla sufficiente a far sì che si ritrovino con una rivolta tra le mani. Ed i giochi non aiutano: il fatto che vengano mandati a morire ogni anno dei ragazzini sta sortendo lo stesso effetto del vento sul fuoco vivo.”
“Quindi il piano quale sarebbe? Svegliarci una mattina e andare a fare la guerra?”
“Certo che no, sciocca! Riflettici bene: le tredici rose di cui parlava Plutarch ti ricordano niente?” lei lo fissò e accennò un diniego con il capo.
“Il Distretto 13. Loro vogliono allearsi con il Distretto 13 e sfruttare le sue risorse nucleari.”
Johanna sgranò gli occhi, incredula. Si alzò in piedi e spalancò la bocca per parlare ma si accorse di non aver prodotto alcun suono.
“Giorno di giubilo! Sono riuscito a lasciarti senza parole!” gioì Finnick in tono ironico.
“Tu devi esserti veramente fottuto il cervello, oltre al resto! Distretto 13…e pretendi che io ci creda? E, di grazia, le bombe nucleari verranno sganciate da asini volanti o draghi?” esclamò tutto d’un fiato, con voce stridula.
“Vuoi smettere di starnazzare, per favore? Questa scenetta deprimente potevi anche risparmiartela! Comunque, ecco a te, mia scettica amica.” Dalla tasca dei suoi pantaloni estrasse un foglio ripiegato e glielo porse.
Johanna lo aprì e lo osservò curiosa.
“Cosa sarebbe questa roba?” chiese continuando a rigirarsi tra le dita quella che sembrava essere una specie di mappa.
“È una scansione termica della zona dove si dice che ci siano solo le rovine del Distretto 13.”
“E allora?”
“Vedi quei colori più intensi nella parte centrale? Bene, significa che c’è calore lì sotto. Che c’è vita.” Spiegò il ragazzo paziente.
“Finnick, sto sul serio provando a crederti ma mi sembra una presa per il culo creata su misura per beccare i traditori del governo, facendogli credere nell’esistenza di un luogo che invece è stato distrutto da un pezzo.” Provò ad assumere un tono condiscendente ma in realtà si sentiva delusa da quella che considerava essere una rivelazione che avrebbe ribaltato le sorti del suo Paese. E la delusione maggiore era che quel fiume di bugie proveniva dalle labbra di Finnick.
“Te lo giuro su Annie.”
Johanna si bloccò: lo sguardo determinato e sicuro del suo amico le instillò il dubbio nella mente. Poteva davvero esistere un Distretto 13 che si sarebbe volentieri alleato con loro per rovesciare Snow? Ogni anno, da Capitol City, rifilavano lo stesso filmato che illustrava come quel luogo fosse stato cancellato da ogni mappa e adesso arrivava lui che le diceva che erano invece tutti sopravvissuti.
Bugia, verità, chi aveva ragione? Si fidava abbastanza delle parole di Finnick, di ciò che gli altri gli avevano confessato? Non avrebbe giurato su Annie se non fosse stato qualcosa in cui riponeva la massima sicurezza.
“Non sei stupida: l’hai capito che sto dicendo la verità nonostante la tua mente stia contenendo due idee opposte allo stesso tempo.” Affermò interrompendo il suo flusso di pensieri contrastanti.
“Finnick, lo so che in questo periodo sono stata una miscela di odio e malessere ma a questo non pensavo si sarebbe sommata anche la pazzia. Perché devo essere diventata pazza sul serio se ho deciso di credere ai vaneggiamenti che escono dalla bocca di un altro matto.”
Quelle parole ebbero il potere di risollevarlo. Il fatto che lei gli credesse gli tolse un peso dall’animo. Si guardarono per un attimo e sorrisero.
Johanna lesse nei suoi occhi la gratitudine e, per la prima volta dopo tempo, si fermò davvero ad osservare uno dei vanti del vincitore del Distretto 4.
Per lei gli occhi di Finnick non avevano il colore del mare: avevano il colore dei giunchi del fiume, delle praterie e delle foglie del bosco in primavera, verdi e brillanti.
Occhi di un uomo ricco dei suoi sogni e del suo amore.
Riprese posto accanto a lui e si sdraiò supina sull’erba fresca. Prese un bel respiro e parlò.
“Parlami di lei. Deve essere davvero una persona speciale se il grande Finnick Odair l’ha scelta tra la schiera di donne che avrebbero venduto l’anima pur di stare con lui.”
Finnick tirò le ginocchia contro il petto e vi posò le braccia.
“All’inizio, quando pensavo che la mia vita sarebbe potuta scorrere tranquilla in un ricco languore, non mi interessava molto di lei. C’erano donne e situazioni più stuzzicanti, Capitol City riservava molte più attrattive rispetto al mio distretto. Prima di scontrarmi con la dura realtà dei fatti, volevo solo continuare a crogiolarmi nella fama. Ero solo un ragazzo, avevo 14 anni.”
Johanna ascoltava in silenzio, interessata.
“Poi c’è stato…lo sai. Gli anni sono trascorsi e mi hanno reso più, confuso, disilluso, spaventato. Dovevo indossare continuamente una maschera da seduttore malizioso e lentamente stavo cominciando a dimenticare chi fosse il vero Finnick. Ed è stato allora che ho ritrovato Annie, quando ero più che mai bisognoso d’aiuto, dopo essere stato segnato dalle esperienze passate, ad un passo dallo smarrire completamente la mia strada, a perdere la coscienza di me stesso. Avevo visto un sacco di donne più belle di lei, ma lei aveva qualcosa di caldo, di attraente nella sua semplicità. Una sua parola, un suo sguardo e le situazioni assumevano una prospettiva diversa. Poi, fu scelta per partecipare ai giochi, cosa che ritengo non sia stata così casuale. Non è mai più stata la stessa da allora ma non potevo certo abbandonarla: lei ha saputo tirare fuori il meglio di me quando credevo che ormai non fosse rimasto più niente ed è per questo che voglio che viva in un mondo dal quale non dovrà più temere alcun male.”
Johanna si sentì improvvisamente una vigliacca. Lei non era spinta da così nobili intenti: non c’era amore nelle azioni che la guidavano. Voltò il capo nella direzione opposta a Finnick e con la mano strappò un ciuffo d’erba con un gesto nervoso.
“Capisco.” Disse secca.
“E tu? Non c’è davvero un posto nel tuo cuore per qualcuno di speciale?”
Johanna ruotò il capo in direzione del ragazzo. Si diede una spinta con il busto e si girò lateralmente, con la mano a sorreggerle la guancia e l’altra stesa lungo il fianco.
“Non credo che faccia parte del destino delle donne con il mio nome, amare qualcuno e uscirne indenni.”
Finnick le agitò una mano davanti al viso.
“Questa è una sciocchezza bella e buona e tu lo sai.”
Johanna lo ignorò e prese a raccontare una storia che aveva letto in un libro, tempo addietro.
“Tanti secoli fa, in una terra chiamata Spagna, esisteva una regina che si chiamava Giovanna di Castiglia. Dal carattere forte ed anticonformista, Giovanna si mostrò poco incline a seguire delle regole religiose che vigevano all'epoca ma, secondo l’usanza politica dei matrimoni combinati, andò in sposa a Filippo d’Asburgo, che fu il suo unico e vero amore. Giovanna era solita respingere il marito quando questo degnava d’attenzione altre dame, riuscendo ad allontanarlo per mesi e a farlo cadere in depressione, mentre lui scatenava drammatiche scene di gelosia.
Con l’aggravarsi dei contrasti per la successione, iniziarono anche i problemi fra la coppia. Reso folle dall'ambizione e dalla sete di potere, Filippo voleva impossessarsi a tutti i costi del trono che spettava legittimamente alla consorte. La loro relazione, però, si mantenne appassionata e salda anche nei periodi di odio grazie al carattere forte di Giovanna e all’affetto cieco ed esagerato che Filippo nutriva per lei. Nonostante i ripetuti tradimenti, quando Filippo si ammalò, lei si rifiutò di abbandonarlo. Quando lui morì, cominciarono le dicerie su una presunta follia di Giovanna causata dal dolore per la sua scomparsa. Fu imprigionata, torturata e condotta alla pazzia. Giovanna dimostrò fino all’ultimo una fermezza e una forza morale che neanche la prigionia, dura, spietata e senza alcun privilegio per la sua posizione regale, riuscì a piegare.”
Finnick stette ad ascoltare, tranquillo.
“È una storia molto triste.”
“Sì, lo è. Quando l'ho letta ho pensato che, in fin dei conti, il mondo è ingiusto perfino
nei confronti di chi dovrebbe essere un privilegiato. Giovanna era regina e guarda che fine ha fatto. La sua ribellione, il suo amore, l’hanno solo portata a soccombere.”
“Io non credo sia così. Fu una donna forte che resistette persino alla prigionia e morì da vera regina. Credo sia un esempio di alti valori morali.” Obiettò Finnick.
“Quelli che a te, evidentemente, mancano.” Lo punzecchiò lei con un ritrovato accenno di sarcasmo.
“Dai, io penso ti somigli nel carattere, Jo.”
“Cioè?” domandò curiosa.
“Vedi questa foresta? Ecco, tu sei come un albero. La prima cosa che si nota in un albero è che è avvolto da una ruvida corteccia ma, strato dopo strato, anello dopo anello, diventa più liscio e nasconde un lato più delicato tutto da scoprire.”
“Ma andiamo! Piantala di dire sciocchezze!” gli diede una spinta con il braccio libero.
“Guarda che non ho ancora finito.” Affermò serio, e lei alzò gli occhi al cielo.
“Il tuo fisico è come uno stelo di bambù, slanciato e sottile, ma che non si piega sotto le sferzate del vento più forte, così come non ti ha piegata Capitol City. Sei forte come le radici di una quercia, profonde e radicate nella terra, e feroce in battaglia, con la tua ascia. Tu hai il potere di infiammare gli animi e di dire le cose esattamente come stanno. Hai il potere di smascherare tutto ciò che è falso.”
Johanna fece vagare lo sguardo nella foresta, osservò gli intrecci di rami e foglie per trovare parole per poter rispondere a quella dichiarazione. Si decise a parlare, in tono amaro, poco dopo.
“Io credo che tu mi stia sopravvalutando. La verità è che io mi sveglio la mattina, guardo il soffitto e non sento niente. Ma proprio niente. Non sono né felice né triste, né serena né irritata. Nulla. Così come Giovanna che ad ogni tradimento di Filippo si sentiva morire un po’ e diventava sempre più indifferente. Il nostro è un nome maledetto. In un certo senso è come se lo sentissi: verrò catturata, imprigionata e torturata e, quando di me non resterà nient’altro, diventerò solo un guscio contenente un animo folle.”
La mente di Finnick si rifiutò categoricamente di dar credito a quelle parole anche se un brivido di freddo poco piacevole gli percorse schiena. Le parole appena pronunciate da Johanna suonavano come una profezia nefasta.
Tempi duri si prospettavano per loro e andavano affrontati con il giusto spirito.
“Smettila di pensare queste assurdità. Hai il nome di una regina sfortunata e quindi? Questo non significa niente. Tu vivrai, continuerai ad essere la solita donna sboccata ed irritante e troverai un tuo Filippo.”
Lei scrollò le spalle.
“Se lo dici tu che sei un esperto in materia...”
“Sì, lo dico e lo confermo. Tu sei un’amazzone e faresti bene a ricordartene ogni tanto.”
Johanna annuì e storse le labbra in un sorriso. Tornò a sdraiarsi supina e Finnick seguì il suo esempio.
Attorno a loro vi era solo un pacifico silenzio.
Un silenzio che non si sarebbero mai stancati di condividere.

***
Un mese, sono una persona orribile e malvagia e avete tutto il diritto di tirarmi virtuali pomodori ed uova marce in segno di protesta. In mia difesa dico che il tirocinio e la preparazione esami mi hanno completamente assorbita e che alle 20:00 ero già in stato comatoso sul letto.
Chiedo il vostro perdono, gentili lettori!
Spero però che, nonostante sia trascorso così tanto, non mi priviate del piacere di leggere una vostra opinione o sapere anche solo che avete dato una lettura alla storia :)
La frase "Io adoro le grandi feste: sono così intime! In quelle piccole non c’è alcuna privacy" è una citazione del Grande Gatsby.
Ci risentiamo il prima possibile, almeno dopo la sessione d’esami che, me tapina, comincia lunedì D:
Fatemi un in bocca al lupo e ci vediamo presto – sempre se sopravvivo alla sopracitata sessione –
Love on ya!

Nota postuma: ho dovuto ripubblicare il capitolo perchè non so per quale assurdo problema, non me lo faceva più visualizzare. Tecnologia del cavolo -.-

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Capitolo 6
*** E se ***


E se

Johanna guardava la messinscena degli sfortunati amanti del Distretto 12 con aria disgustata. Da quando la 74esima edizione degli Hunger Games era cominciata, tutto era stato un continuo susseguirsi di colpi di scena che avevano come protagonisti proprio quei due ragazzini dell’ultimo Distretto: Katniss Everdeen e Peeta Mellark.
Lei, introversa e scontrosa, la ragazza di fuoco, come era stata soprannominata dopo il suo ingresso alla parata dei tributi; lui, espansivo e gentile, comunicativo e simpatico.
Poi la ciliegina sulla torta, l’elemento decisivo che aveva mandato in estasi il pubblico di Capitol City: l’amore.
E non un amore semplice, ma un amore impossibile tra due tributi il cui unico scopo era quello di uccidersi a vicenda.
Un amore destinato a soccombere, ad appassire prima ancora di sbocciare.
“Dio, potrei vomitare.” Asserì Johanna con un’espressione orripilata e Finnick, seduto accanto a lei in uno degli eleganti bar di Capitol City, sorrise senza staccare gli occhi dal televisore che rimandava in onda una tenera scena in cui Katniss assisteva Peeta ferito.
“Io dico che sono carini.”
“Sei sempre il solito stupido sentimentale.” Lo apostrofò lei, agitandogli la mano davanti agli occhi con sufficienza.
“Sarà come dici tu…” replicò Finnick senza insistere ulteriormente.
Johanna buttò giù l’ultimo sorso del drink, si alzò e gli afferrò la manica della maglietta.
“Sono stanca di stare qui a guardare questi due che giocano ai piccioncini accaparra sponsor. Andiamocene.” Sentenziò seccata.
Finnick levò gli occhi al cielo e scosse il capo. Senza fiatare si limitò a seguirla mentre lo trascinava con poca grazia attraverso il locale.
La ragazza si fece largo tra la calca a spintonate e sguardi ostili, più che altro rivolti verso la mandria di galline urlanti che si contendeva anche un solo cenno da parte di Finnick.
“E levatevi di torno, oche giulive!” gridò loro contro con la sua solita affabilità.
Le donne la fissarono con repulsione a causa della sua mancanza di educazione e sfacciataggine, Finnick, invece, se la rise di gusto e fu tentato dall’intrattenersi ancora a flirtare con le ragazze giusto per farle dispetto. Ma accantonò l’idea, poiché interagire con una Johanna adirata era molto peggio che interagire con una Johanna annoiata o indispettita.

*

“Sai,” esordì una volta che si furono seduti su una panchina nel parco più isolato della città, “dopo la tua performance di prima, se avessimo partecipato come Tributi nella stessa squadra avrei potuto usarti come ariete contro i nemici.” Finnick non riuscì a soffocare un risolino divertito a quella considerazione e lei, per tutta risposta, tirò su un angolo della bocca e gli regalò un’occhiata bieca.
“Ah ah, molto spiritoso. Dì pure che mi avresti fracassato la testa con quella roba da sirenetta mancata che ti porti dietro di solito.” Commentò pungente e lui assunse un’espressione stupita.
“Credi sul serio che ti avrei lasciata a morire?” domandò con una punta di sorpresa nella voce. A Johanna parve strano che, dopo tante edizioni, al ragazzo ancora sfuggisse l’obiettivo cardine degli Hunger Games. Tirò una gamba contro il petto e posò il braccio sul ginocchio.
“Saremmo stati nemici, Finnick. Non mi illudo certo che mi avresti protetta. Al massimo avresti sperato che fosse qualcun altro a farmi fuori al posto tuo.” Replicò in tono pratico.
Lui si portò due dita al mento e cominciò a tamburellare, preso da chissà quali pensieri. Johanna lo lasciò alle sue riflessioni e tornò a focalizzarsi sui giochi acquatici della fontana situata di fronte a loro.
Finnick riemerse dal suo mondo e ritenne opportuno renderla partecipe delle sue elucubrazioni.
“Avremmo potuto giocare d’astuzia, come Katniss e Peeta.” Dichiarò risoluto e aspettò che la ragazza recepisse le sue parole. Johanna si voltò a guardarlo, aprì la bocca e ne uscì una risata derisoria.
“Fingere di essere innamorati per salvarci la pelle? Penso sia una delle idee più cretine che ti siano mai venute in mente!” sbottò scandalizzata e lui si strinse nelle spalle, tranquillo.
“Perché? Loro se la stanno cavando bene. Con la regola dei vincitori dello stesso Distretto saremmo stati a cavallo.” Finnick ci tenne a rimarcare il suo punto di vista, ma Johanna dissentì ulteriormente.
“Tu sei convinto che quegli strateghi bastardi li lasceranno vincere così facilmente? Solo uno resta vivo negli Hunger Games, Odair. E più che vincitore è un sopravvissuto miracolato, specie se viene da un Distretto che non è favorito.”
“Io continuo a dire che Haymitch sta facendo un ottimo lavoro con il pubblico.” Ribadì serio.
Johanna si portò le dita alla testa e si massaggiò le tempie; quella conversazione stava diventando scomoda e snervante. Per non parlare poi della sua totale e completa inutilità.
“Vogliono lo spettacolo e questa storiella d’amore campata per aria ottiene audience. Guarda, tutti li adorano! Persino un ubriacone come Haymitch sarebbe riuscito a far guadagnare loro un pubblico fedele. Gliel’hanno servita su un piatto d’argento.” Commentò beffarda.
Finnick non sembrò turbato, anzi, la guardò furbo, come se in tutta quella faccenda ci fosse un dettaglio che solo lui aveva intuito e che era la chiave per dipanare la matassa.
“Ricorda, Jo, che in tutte le storie c’è un fondo di verità. Se hanno studiato questa strategia, significa che Haymitch ha avuto del materiale sul quale impostare il piano da fargli seguire.”
Eccolo, il dettaglio, il pezzo mancante, l’idea sulla quale Finnick basava tutte le sue macchinazioni: lui credeva che ci fosse qualcosa di vero.
“Oddio, quindi quei due sono veramente innamorati? È davvero rivoltante... e assurdo.” Disse la ragazza ruotando gli occhi al cielo, allibita. Finnick non le badò, continuò anzi ad illustrarle le sue ipotesi.
“No, non lei. Lei lo sta facendo solo perché ormai quello è un copione da rispettare. Ma il ragazzo…glielo si legge in faccia.”
“Tradotto sarebbe solo lo sfortunato innamorato del Distretto 12…bene, suona decisamente meglio. Amore unilaterale e palesemente non corrisposto.” Replicò sarcastica.
“Chissà, magari con i giochi lei si accorgerà di lui e cambierà idea.” Aggiunse Finnick con un sorriso enigmatico. Johanna inarcò un sopracciglio, scettica.
“Io non ci giurerei.”

Stettero ancora un po’ in silenzio ad osservare le luci del tramonto che lambivano i palazzi dalle vetrate a specchio della capitale.
“Quindi se fossimo venuti dallo stesso Distretto anche noi saremmo stati degli Sfortunati Innamorati?”
Finnick non la guardò neglio occhi. Quella domanda scivolata casualmente dalle sue labbra lo fece sentire leggermente imbarazzato. Per una volta si pentì di aver dato fiato alla bocca, ma non aveva resistito alla tentazione di provocare ancora un po’ la sua amica, che si dichiarava così infastidita dalle faccende amorose.
Quello scambio di battute, però, prese una piega inaspettata quando gli rispose sferzante e sicura:
“Chissà…di sicuro il tuo sarebbe stato un amore non corrisposto.”
Finnick batté le palpebre ripetutamente, punto nell' orgoglio. “E perché scusa?”
“Hai anche il coraggio di chiedermelo?” fece lei con un sorriso irriverente e canzonatorio. “Io non mi sarei mai potuta innamorare di un damerino, bellimbusto e sciupafemmine come te! Saresti corso dietro a tutte le belle gonnelle che si sarebbero parante davanti ai tuoi occhioni verdi! Ed io per insegnarti le buone maniere sarei stata costretta ad evirarti con un colpo secco. E così avresti perso ogni tua utilità, caro mio!” esclamò con fare teatrale e si alzò di scatto dalla panchina su cui erano seduti, ben decisa a porre fine a quella pagliacciata.
Finnick, che non voleva assolutamente lasciarle l’ultima parola sulla questione, fu veloce a raggiungerla, la prese per il polso e la costrinse a voltarsi.
La avvolse tra le braccia, tenendola contro il suo petto.
La guardò con quella sua maschera da gatto sornione stampata su quel viso che tutte le ragazze adoravano. L’espressione pulita da angelo che celava una natura perfida non appena il sole calava all’orizzonte.
“Magari ti saresti accorta di me nell’arena e avresti cambiato idea…O forse avresti solo dovuto imparare a conoscermi per apprezzare le mie qualità più…nascoste.” Le sussurrò all’orecchio con un tono di voce roco e suadente, carico di sottintesi.
Johanna, colta alla sprovvista da quel contatto ravvicinato, sentì i battiti del suo cuore accelerare.
“Andiamo Jo, è solo Finnick e sta facendo il cretino come al solito.” Si costrinse a recuperare l’autocontrollo, non lasciando assolutamente trasparire il disagio che derivava dalla sua vicinanza. A ben rifletterci, non erano mai stati così stretti prima di allora in un abbraccio che di amichevole sembrava non avere niente.
Il silenzio carico di parole non dette, quel gioco di sguardi, la presa su di lei, tutto andava interrotto subito. Non poteva permettersi di apparire così vulnerabile, desiderosa anche solo delle briciole di un contatto umano che si negava da troppo tempo.
Un contatto che, proprio lui, non poteva e non doveva darle.
Perché era pericoloso per entrambi.
Perché le aveva raccontato tutto della sua storia con Annie.
“Rendigli pan per focaccia, Jo. Con te non può usare gli stessi flirt da quattro soldi che adopera con le sciocche di Capitol City. Tu non hai bisogno di questo.”
Si riscosse dal torpore e prontamente elaborò la sua strategia.
Gli passò le mani sul petto in una carezza gentile, inclinò il capo e, sorridendogli languida, con un movimento diretto e preciso gli diede uno spintone che lo fece arretrare di qualche passo. Finnick, sbilanciato, riuscì a salvarsi in corner grazie al suo senso dell'equilibrio, evitando di rovinare al suolo.
“Ma senti un po’ il buffone! Le tue scenette con la faccia da cucciolo bastonato con me non attaccano! Addio!” sbandierò ai quattro venti la sua risoluzione e gli diede velocemente le spalle, cominciando a camminare a passo di marcia.
Finnick la guardò allontanarsi e si trovò suo malgrado a sorridere.  Aveva dato inizio lui a tutto e sapeva che, in quel preciso istante, la sfumatura rossastra della luce solare sarebbe stata un tenue rosa pastello in confronto al viso imbarazzato di Johanna.
E sancì che per lui il rossore sulle gote della ragazza, era già di per sé una grande vittoria.

***
Sei sopravvissuta agli esami? Sì.
Hai toppato con la precedente one shot? Sì.
Ti convince questa qui? No.
Perché l’hai postata? Per mettere a tacere le voci nella mia testa, probabilmente. E masochismo, sicuramente.
Vuoi ringraziare i lettori e augurargli un buon weekend? Certo che sì, ovviamente! :D
Ora tornerai nella tua caverna a fare la maratona degli episodi di Sherlock? Sì, certamente u_u
Adieu!

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Capitolo 7
*** Il principio delle cose ***


Il principio delle cose

Johanna camminava come un leone in gabbia nella sua stanza al Centro di Addestramento. I Giochi si erano conclusi, la coppia del Distretto 12 aveva vinto ribaltando inaspettatamente la situazione, e tutti sembravano felici e contenti.
Tutti, tranne i piani alti del governo e questo lei e tutti gli altri vincitori, lo sapevano bene.

La ragazza misurava a grandi passi la sala da pranzo, mordicchiandosi l'unghia del pollice fino a farla sanguinare. La camera sembrava troppo stretta attorno a lei, come se stesse per chiudersi e schiacciarla tra le sue pareti. Il groppo che le serrava la gola era ben difficile da mandare giù, l'impotenza era un peso gravoso sulle sue spalle, l'ansia era un fastidioso nodo che le serrava il petto.

Non aveva ancora avuto notizie da Finnick e questo la turbava, specie quando l'aveva visto allontanarsi con il solito sorriso cordiale, che però non gli aveva raggiunto gli occhi, insieme a Plutarch.
Le era bastato un lieve cenno del capo del ragazzo per capire di non provare a seguirlo, così si era rintanata nella sua stanza e da allora era cominciata la sua lenta agonia.
D'improvviso un bussare energico alla porta la fece sobbalzare e trasalire.
Provò a dissimulare l'agitazione apponendosi sul viso quell'immaginaria maschera impastata con calma e sarcasmo e, con il cuore in gola, andò ad aprire pregando che fosse lui.

Finnick entrò nella stanza repentinamente, un misto tra l’eccitato ed il preoccupato. La afferrò per un polso e la trascinò verso il bagno. Lei non ebbe nemmeno tempo di opporsi che erano già all'interno; lui aprì il getto della doccia che cominciò a scrosciare rumorosamente, schizzandogli la maglietta.

“Allora? Spero mi starai allagando il bagno per una buona ragione.” Dichiarò tamburellando le dita sulla spalla del ragazzo per falro voltare e puntellandosi il fianco con la mano libera.
In realtà era perfettamente a conoscenza che il suono dell'acqua avrebbe coperto il loro dialogo da orecchie indiscrete. Non vi era una certezza matematica che fossero spiati, ma nella loro delicata situazione era meglio essere preparati a qualsiasi eventualità.

Finnick intanto continuava a guardarla nella sua fittizia quiete: la vena sulla fronte era gonfia e ben visibile, le mani scosse da un lieve tremore, il respiro era accelerato, superficiale.
Johanna studiò attentamente quei cambiamenti nel corpo dell'amico, scrutando più in profondità, capendo cosa si celava dietro i suoi gesti meglio di quanto, a volte, capisse se stessa.
"Capita, quando la gente trascorre più tempo ad evitarti che a parlarti, di fermarti ed osservare." Si era ritrovata spesso a pensare.
E Johanna non vedeva semplicemente Finnick: lei lo osservava.
Osservava e deduceva, come un agente addestrato. Da quando erano diventati amici si era sottoposta ad un training veloce della personalità di Finnick Odair: aveva dovuto imparare ad interpretare i segni, leggere tra le righe, decodificare i gesti del ragazzo come lo scambiarsi uno sguardo di intesa per capire come agire in una determinata situazione, il fingersi allegri, stupiti o, semplicemente, voltare le spalle agli altri con aria di superiorità e noncuranza.
Un vincitore quello poteva permetterselo.
Finnick chiuse le porte scorrevoli di vetro della doccia e si sedette sul pavimento bagnato. Solo allora si lasciò sfuggire un sospiro liberatorio.
Johanna continuò a fissarlo, in attesa, anche se quella vena tremendamente teatrale del suo carattere la stava distruggendo.
“Ebbene, devo il piacere della tua compagnia al fatto che la mia doccia sia più comoda? Trovo la cosa improbabile dato che sei tu quello che tutti trattano con i guanti bianchi.”
Lui le rivolse un mezzo sorriso. Batté con la mano sul pavimento facendole segno di sedersi accanto a lui.
Johanna con uno sbuffo sdegnato, eseguì.

“Allora?”
“Allora, hanno deciso. La prossima edizione sarà quella decisiva.”
Il corpo della ragazza si irrigidì, percorso da un brivido gelido, come se avesse appena sentito lo schiocco di una frusta e stesse preparandosi ad accusare il colpo sulla propria pelle. Aveva aspettato tanto quel momento, la tanto agognata vendetta e adesso che sembrava essere arrivata le appariva del tutto irreale.
“Così presto? Perché?” Chiese con una punta di turbamento nella voce.
Finnick tirò fuori dalla tasca un apparecchio portatile olografico e lo accese. Lo schermo vibrò e si sintonizzò sulla replica della cerimonia di incoronazione degli Hunger Games.
“Lei.”
La ragazza guardò lo schermo e poi lui, senza capire.
“Lei?”
Finnick con un gesto secco spense il dispositivo, si voltò verso di lei, incrociò meglio le gambe sotto di lui e ripeté con semplicità: “Lei.”
“Certo, se continui a ripetere lei io capirò tutto, mi sembra ovvio.” Replicò Johanna con pesante sarcasmo.
Finnick si portò la mano alla base del naso, pizzicandola in un gesto di sconfitta. Evidentemente riteneva la deduzione talmente banale che il solo perdere tempo a spiegarla risultava sconfortante. Nonostante ciò, le spiegò la situazione.

“Katniss Everdeen, la ragazza di fuoco, è appena diventata la miccia che darà inizio a quel magnifico spettacolo pirotecnico che sarà la Rivoluzione.”
Johanna credette di non aver sentito bene. Le parole ci misero un po’ a far presa nel suo cervello e la risposta che questo le inviò fu una sonora e sprezzante risata.
“Benissimo, adesso le ragazzine sono promotrici di ribellioni? Ai piani alti devono essersi veramente bevuti il cervello!”
Finnick inarcò un sopracciglio in disappunto.
“Dovresti valutare bene le cose, Johanna. Cerca di non fermarti a ciò che appare, vedi oltre la semplice vittoria. Quella ragazza ha sovvertito le regole, ha fatto in modo da poter salvare anche il suo compagno, ha smascherato il gioco di Capitol City ed il governo ci ha visto molto di più che una semplice azione salvavita. Seneca, però, se ne è reso conto troppo tardi. L'audience non sempre paga.”
Johanna deglutì piano, questo poteva significare solo una cosa: il capo stratega era stato sollevato dal suo incarico in maniera permanente.
“Fammi indovinare, Plutarch sta già organizzando il suo party di insediamento.”
Lui annuì.
“Dice che sarà una festa come se ne vedono raramente.”
“Lo immaginavo.” Replicò asciutta. “Quindi il suo piano originale sulla collaborazione tra Distretti è cambiato?”
“No, al contrario. Ora ha trovato un metodo per far rientrare anche noi nel grande schema.” Finnick disegnò un cerchio con le mani in maniera artefatta. La mente della ragazza intanto lavorava frenetica nel tentativo di assemblare i pezzi e, d’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, tutto le apparve chiaro e semplice.
“L’edizione della Memoria.” Alitò in un sussurro.
Finnick curvò le labbra in un sorriso mesto e lei si alzò, improvvisamente agitata. Cercò di non darlo a vedere, provò a respirare, ma l’aria sembrava essersi condensata nei polmoni.
L’arena, il sangue, le urla, tutti i ricordi le tornarono alla mente in una dolorosa scarica.

“Vuole cominciare la stramaledettissima rivoluzione risbattendo noi nell’arena? Che piano geniale, ne saranno tutti entusiasti!”
“Smettila di fare la melodrammatica, non ci saremo solo noi due. Il piano è di organizzare un’edizione della memoria sorteggiando i vincitori dai vari distretti. Il presidente vuole la ragazza morta ma non per mano sua, poiché le persone si sono affezionate alla vicenda, ma vuole comunque che muoia per via del suo gesto di fronte alle telecamere del paese. La sua morte deve essere un monito, un monito per tutti coloro che oseranno ribellarsi. Nessuno, nemmeno il più forte tra i vincitori, può vincere sulla potenza di Capitol City. E poi Plutarch ha colto la palla al balzo e ha deciso di renderci parte attiva per proteggere la ragazza- simbolo e farci partecipare in prima persona al piano.”
“Così io dovrei tornare nell’arena per salvare il culo di una ragazzina immagine per il bene della ribellione, solo perché lei piace alla gente? Mi stai dicendo che il succo è questo?” esclamò incredula.
“Se la metti in questa maniera rozza, sì, è così.”
Finnick si strinse nelle spalle, come se tutta la situazione fosse la cosa più naturale del mondo. Lei invece si risedette a terra con le mani intrecciate dinanzi a sé.
“Lo sapevo che quei due avrebbero incasinato tutto con quella storiella degli innamorati.” Affermò in un sospiro esausto.
“Tecnicamente non è proprio così. Diciamo che stavano solo aspettando un’occasione adatta dopo i tuoi giochi. Tu sei stata il meccanismo che ha fatto scattare tutto, il principio di tutte le cose. Ma quando è stato il tuo turno, i tempi non erano ancora maturi. Il gesto di Katniss è stato il segnale finale. Devi ammettere che avete un temperamento a tratti molto simile.”
Sorrise compiaciuto, ma Johanna non fu dello stesso avviso.
“Lei non vuole combattere, Finnick. Che motivo avrebbe? Ora si è sistemata per la vita, l’unica cosa che vuole è che lei ed il ragazzo siano lasciati in pace. Si sta solo ritrovando tra l’incudine ed il martello e non è sicuro da che parte sceglierà di stare quando arriverà il momento.”
La mano di Finnick si allungò a poggiarsi sulla sua spalla. Aveva un sorriso rassicurante, di quelli che la ragazza aveva visto così poche volte nella vita, che avevano il potere di spazzare via le parole amare e riempire l'animo di calore.
“Di motivi ce ne sono più di quanto immagini, Haymitch me l’ha confermato.”
Johanna storse il naso.
“Avevo dimenticato che in questa faccenda c’entra anche quell’ubriacone. Perché lui sa, vero?”
“Ovvio che sa, è stata anche una sua idea questa.” Confermò in tono deciso.
Lei sollevò gli occhi al cielo.
“Perfetto, ci siamo affidati anche alle idee di un alcolizzato. Come se quelle di un tacchino imbellettato non fossero abbastanza.”
Finnick rise piano e lei ricambiò con l’ombra di un sorriso sulle guance magre.
“Finn, posso farti una domanda…indiscreta?” Chiese mordendosi l’interno della guancia. Si sentiva estremamente stupida ma voleva sapere.
“Certo.” Replicò pacato.
“Hai già pensato a…insomma…lo sai. Se i tributi verranno scelti tra i vincitori c’è la possibilità che lei venga sorteggiata.”
Johanna non era solita chiedere le cose con tatto, ma lui era Finnick e dalla reazione del suo sguardo, dalla pupilla dilatata per l’apprensione, la rigidità dei muscoli del viso, capì che la domanda lo preoccupava.
“Non lo sopporterebbe. Non di nuovo, sai bene che la distruggerebbe. Io…ci ho pensato, sì.”
In quel momento il Finnick sicuro di sé scivolò via, svanì in uno sbuffo di fumo come se non fosse mai esistito, rimpiazzato dal Finnick più fragile e vulnerabile.

Lei annuì, lasciando che il discorso cadesse, pentendosi anche di aver sollevato la questione. Provò inoltre una forte vergogna quando si scoprì rassicurata di poter condividere i giochi con lui. Sarebbero stati insieme, si sarebbero guardati le spalle l’uno con l’altra ma erano tante le variabili da considerare e tante le domande che le vorticavano in mente, domande che non avrebbero trovato ancora una risposta, non in quella sede almeno.
Era solo sicura che, se avesse dovuto scegliere tra salvare la vita alla ragazza di fuoco o a lui, avrebbe scelto Finnick senza battere ciglio, e avrebbe mandato a farsi fottere la ribellione.

“Blight.” Disse lei rompendo la coltre di silenzio che si era creata. “È un vincitore del 7, una persona a posto. Idiota, ma a posto. Ci aiuterebbe, potrei parlarci io.”
“Tu che parli con una persona senza un’arma in mano e di tua spontanea volontà? Sei poco credibile, Mason.” Affermò Finnick con un sorriso ironico. Johanna si sentì sollevata.
“Chi ti dice che non mi porterò un’ascia dietro? Riflettici: se dovesse dirmi di no dovrei ucciderlo. E, a proposito di asce, sarà meglio che tu vada via, devo rifare il filo e divento scontrosa quando qualcuno mi osserva. Anzi no, resta, posso testare la validità della mia arma tagliandoti qualcosa di prezioso…” calcò bene le ultime parole e lui si tirò in piedi, avviandosi verso la porta.
“Mi sono appena ricordato che ho un impegno molto urgente e devo veramente scappare.” Affettò un inchino vistoso con un'espressione fintamente impaurita.
“Che cuor di leone che sei!” lo canzonò lei. “Ricordati che parteciperemo ai prossimi Hunger Games, e lì non potrai imboccare la prima porta per scappare via da me e dalla mia ascia.”
Lui le sorrise, stavolta in maniera disinvolta e scanzonata, quasi a voler prendere in giro quel destino crudele che, facendosi beffe di loro, stava per spingerli nuovamente nell'arena, quel luogo che dominava i loro incubi più terribili.
“Felici Hunger Games, Johanna Mason.”
“E possa la fortuna essere sempre a nostro favore, Finnick Odair.”

***
Ebbene ci si rivede, da quanto tempo!
Non me ne vogliate, purtroppo questi mesi sono stati una continua parabola discendente di impegni universitari e relativi esami che mi hanno tenuta lontana dalla scrittura >_< Ora che sono in vacanza sarà un piacere poter recuperare e continuare questa raccolta.
Volevo infatti informarvi, a tal proposito, che ho deciso di chiudere qui questa prima parte proprio per avere modo e tempo di scrivere quella relativa a La ragazza di fuoco e al Canto della rivolta, così la serie sarà bella e completa. Infatti, piuttosto che lasciare il lavoro incompiuto - cosa che non è nella mia indole fare - preferisco chiuderla qui e dedicarmi con calma al continuo del progetto ed anche alla nuova idea che mi frulla in testa, nel fandom di Sherlock della BBC per l'esattezza.
Vi ringrazio davvero tantissimo per aver avuto la pazienza di seguirmi e per aver dedicato un minuto a leggere questa piccola raccolta su due personaggi che apprezzo molto, e spero inoltre che vi sia piaciuta e che non l'abbiate trovata davvero pessima XD
Detto questo vi rinnovo l'appuntamento al prima possibile e vi auguro delle frizzantissime vacanze estive!
Baci e ancora grazie dalla vostra amichevole Jo di quartiere :D

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