Narciso e l'Amazzone di Jo_The Ripper (/viewuser.php?uid=116460)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Narciso e l'Amazzone ***
Capitolo 2: *** Imprevedibilità ***
Capitolo 3: *** Ottone ***
Capitolo 4: *** Lacrime ***
Capitolo 5: *** Nome maledetto ***
Capitolo 6: *** E se ***
Capitolo 7: *** Il principio delle cose ***
Capitolo 1 *** Narciso e l'Amazzone ***
La prima
volta che l’undicenne Johanna Mason vide Finnick Odair, fu
alla tv, durante la sua incoronazione come vincitore degli Hunger Games.
All’epoca
Finnick aveva solo 14 anni, ma già si dava arie da uomo
vissuto. Johanna assistette alla trasmissione con un sopracciglio
inarcato e le braccia conserte.
Quel tizio
le suscitava un’antipatia a pelle e gli avrebbe cancellato
volentieri quell’espressione compiaciuta dal viso a suon di
schiaffi. Se ne stava lì, a sorridere come un idiota e a
pavoneggiarsi con quella corona di foglie d’alloro dorato in
testa.
In quel
momento decise che mai e poi mai un tipo del genere sarebbe potuto
diventare suo amico.
*
La prima
volta che Johanna vide Finnick dal vivo, fu durante il suo tour della
vittoria. Era arrivato al Distretto 7, armato di belle parole e larghi
sorrisi che avevano il potere di incantare quella massa di capre beote
che abitavano lì.
Le ragazze
si davano colpetti con i gomiti, si sussurravano alle orecchie parole
sciocche accompagnate da risolini ridicoli e lo guardavano adoranti. A
lei, invece, lo stomaco era stretto in una morsa di ripugnanza e fu
tentata dal togliersi una scarpa e tirargliela dritta sul naso. Fu in
quel momento, quando Finnick omaggiò con la sua voce calda le “grandi bellezze del
Distretto 7” (qualche
ragazza ebbe anche il barbaro coraggio di svenire), che il suo sguardo
si posò su di lei, su quella ragazzina magra come uno stelo
che lo fissava con aria truce.
Johanna
assottigliò le labbra in una linea dura e fece in modo che i
suoi occhi rivelassero tutto l’astio che provava nei suoi
confronti, non potendo farlo con le parole. Sollevò il
mento, sdegnata, e ruppe il contatto visivo con lui, come se fosse la
persona che le suscitava più ribrezzo in tutta Panem.
Finnick per
un attimo ne rimase sorpreso; fino ad allora, nessuno aveva reagito a
quel modo alla sua presenza. Stabilì che quella ragazzina
aveva un chè di interessante e che non gli sarebbe
dispiaciuto fare due chiacchiere con lei.
Peccato che
la ragazza in questione non la pensasse allo stesso modo.
*
La prima
volta che Johanna e Finnick si incontrarono faccia a faccia fu durante
il tour della vittoria della ragazza, sei anni dopo. Johanna aveva
appena tenuto il suo discorso, ringraziando il Presidente per la
possibilità che aveva avuto di farsi largo tra le file dei
tributi a suon di colpi d’ascia. O meglio
ringraziò e basta, poiché l’ultima
parte fu troncata da un improvviso cortocircuito dei microfoni.
Dopo essersi
presa una lavata di capo con i controfiocchi da parte del suo staff,
che la invitò nuovamente ad attenersi ai discorsi preparati,
andò a fiondarsi con poca grazia sul buffet.
Finnick la
adocchiò e, armato delle sue doti migliori, il sorriso e la
galanteria, si diresse verso di lei.
“Ciao.”
Esordì amichevole.
Johanna
sollevò un sopracciglio, dando a stento segno di averlo
notato. Non riuscì a trattenere un ghigno ironico quando
vide la semplice tunica bianca dai bordi dorati che indossava, studiata
appositamente per far risaltare la sua abbronzatura.
“Tu
sei il damerino, quel pavone impagliato che ha vinto i 65esimi
giochi.” Fece lei, senza filtri.
“E
tu sei stata la migliore finta tonta che mi sia mai capitato di
incontrare. Un’ottima performance, se accetti un complimento
sincero.” Rispose lui senza mai perdere il sorriso.
Johanna
posò il piatto ricolmo di pietanze con malagrazia sul
tavolo, si puntellò i fianchi con le mani e si impose di
mettere le cose in chiaro con quello lì.
“Senti
un po’, manichino imbellettato. Io non ho bisogno
né dei compimenti tuoi né di quelli della
marmaglia di Capitol City, sono stata chiara? Ora, se non ti dispiace,
vorrei finire il pranzo, addio.” Affettò un
inchino e gli diede le spalle.
Finnick non
seppe trattenersi e scoppiò in una risata talmente vivace e
calda, di quelle che fanno voltare le persone in pubblico, che Johanna
si girò a fissarlo, quasi inorridita.
“Sei
proprio un bel tipo! Marmaglia…sì, hai
perfettamente ragione!” continuò a ridere.
Lei lo
guardò senza capire, ma sentì il bisogno di
afferrargli la testa ed annegarlo nel punch.
“Che
hai da ridere?”
“Scusami,
è che sei così…buffa!”
Johanna
sgranò gli occhi.
“Buffa?!”
esclamò con la voce di un’ottava superiore.
“Sì,
in senso buono, ovviamente. Non ho mai conosciuto un’altra
come te, davvero.” Ammise asciugandosi una lacrima
dall’occhio.
La ragazza
gli afferrò il colletto della tunica, tutt’altro
che contenta di quell’affermazione, e lo strattonò.
“Forse
non mi sono spiegata, Narciso dei miei stivali: io con te non voglio
avere niente a che fare. Ce la fai a capirlo da solo o devo farti un
disegno?” sbottò acida.
Lui le prese
i polsi e con forza, ma senza farle male, allentò la presa.
“D’accordo,
calma, ho capito.” Si allontanò da lei con i palmi
alzati in segno di resa. “Posso farti solo
un’ultima domanda?”
Lei
sbuffò. “Dopo te ne andrai?”
“Sparirò
come un’ombra.”
Johanna a
malincuore annuì.
“Cosa
ti fa credere che io sia Narciso?”
La ragazza
sollevò le braccia al cielo.
“Dio,
non puoi essere veramente così stupido!” lo
derise. “Non ci sei arrivato da solo? Narciso era un tipo
superbo al quale importava soltanto di se stesso e della sua bellezza.
Ora non venirmi a dire che non è la tua copia sputata,
Odair.” Spiegò sferzante.
Il ragazzo
si ravviò i capelli ramati con un movimento fluido ed
elegante.
“Potrei
dire che ti sbagli, ma non penso che tu abbia voglia di ascoltare.
Comunque, se io sono Narciso, tu sei decisamente un’amazzone.
Arrivederci.”
Con
l’ultima frase sparì nella sala, che man mano si
era riempita di persone, lasciandola bloccata sul posto senza parole.
Quando
rientrò nel suo distretto, Johanna andò dritta
filata a cercare quel nome che le aveva acceso una lampadina nella
memoria. I libri sulla mitologia antica delle terre al di là
dell’oceano erano stati banditi dal governo, ma la sua
famiglia era entrata in possesso di alcune preziose copie che
custodivano gelosamente.
Sfogliò
velocemente uno dei volumi e trovò ciò che
cercava.
“Le
Amazzoni erano un popolo di donne guerriere, le cui armi principali
erano l'arco, l'ascia bipenne ed uno scudo particolare, piccolo ed a
forma di mezzaluna, chiamato pelta.”
Johanna si
ritrovò a sorridere debolmente a quel paragone.
Forse, se
era a conoscenza di quelle cose, quel Finnick Odair non doveva essere
poi così male.
***
Salve a
tutti! Questa è la mia prima storia in questo fandom e devo
dire che sono molto emozionata ed in preda all'ansia da prestazione,
visto quante belle storie ci sono. Dunque, prima di tutto vorrei
ringraziare Darkronin per
aver betato questo capitolo e, insieme aCrystaldrop, avermi
spronato a pubblicare l'ennesimo parto di una mente provata. Poi,
sentivo la necessità di scrivere qualcosa su questi due
personaggi, perchè diciamocelo, sono veramente adorabili e
dopo aver visto il film la mia passione per loro due si è
riaccesa come paglia accostata al fuoco.
Confido che
mi capiate e che la raccolta non si riveli un totale scempio XD
Ai lettori
l'ardua sentenza!
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Capitolo 2 *** Imprevedibilità ***
Imprevedibilità
Era trascorso un anno da quando Johanna e Finnick si erano incontrati
per la prima volta al Distretto 4. In quell’arco di tempo era
capitato che si fossero incrociati a quegli inutili ricevimenti che si
tenevano a Capitol City e a quelle feste, purtroppo, non si poteva
sfuggire in alcun modo.
“Sei la vincitrice degli Hunger Games, rifiutare un invito
sarebbe estremamente scortese!” soleva ripeterle la sua
accompagnatrice della capitale, una tizia piena di piume e glitter,
dalla pelle tinta di un rosa tenue che virava al corallo sulle guance
–dandole un’aria più malaticcia che
attraente-, che si chiamava Caramel, Connie, Candy o Dio solo sapeva
quale nome assurdo.
“Non me ne frega niente di questa roba da deficienti, voglio
solo essere lasciata in pace!” esplodeva lei, rabbiosa.
Eppure, alla fine, era costretta ad issarsi su tacchi vertiginosi che
la facevano sentire esposta come un trofeo sulla parete di un
cacciatore, a coprirsi con quei vestiti pieni di fronzoli e ad
impiastricciarsi il viso con tonnellate di cosmetici.
La odiava, odiava quella vita dal più profondo del suo cuore.
Credeva che una volta vinti gli Hunger Games sarebbe finita, ma non
immaginava nemmeno quanto fosse in errore.
Uno dei party al quale era stata invitata (o meglio, le era stato
ordinato di partecipare) era per festeggiare l’insediamento
di un nuovo primo stratega, tale Seneca Crane, fresco fresco della sua
prima edizione degli Hunger Games.
L’arena, una distesa di terra brulla bruciata dal sole
cocente, si era rivelata un verso successo e tutti non facevano che
parlarne ed elogiarla.
Johanna vestiva un abito sirena i cui strati costituivano un complicato
intreccio tale da farlo somigliare a rami di un albero, sui quali vi
erano applicate delle foglie di paillettes. Era talmente attillato da
impedirle di camminare e respirare. I capelli, invece, erano raccolti
in uno chignon che le metteva in risalto i lineamenti spigolosi.
“Questo straccio è veramente orrendo.”
Borbottò quando misero piede nel giardino della tenuta che
ospitava il ricevimento.
“Via via cara, sei davvero bellissima!”
trillò la sua chaperon.
“Ma va’ un po’ a quel paese.”
Le disse senza troppe cerimonie e la lasciò lì,
impietrita per la sua mancanza di rispetto ed i suoi modi rozzi.
Johanna cominciò a camminare più velocemente
possibile, e strappò dalle mani di un cameriere un intero
vassoio di cocktail. Iniziò a berne uno dopo
l’altro, incurante delle occhiate che la gente le rivolgeva,
comportandosi nel suo solito modo sfrontato.
“Johanna, da quanto tempo.” Una voce alle sue
spalle la riportò indietro dal suo mondo di bollicine. Lei
si voltò e, da dietro la patina alcolica del suo cervello,
scorse il viso sorridente di Finnick.
“Finnick, mi chiedevo proprio quando avresti fatto la tua
comparsa!” esclamò, fingendosi entusiasta.
“Non sai mai chi potresti incontrare dietro
l’angolo, vero?” domandò lui.
Johanna non badò alle sue parole, si focalizzò
bensì sulle due ragazze che lui teneva a braccetto. Le
indicò entrambe e poi disse divertita: “Stasera
sei stato chiamato a fare il babysitter?”
Le due donne la guardarono in cagnesco, ma il ragazzo fu pronto. Si
esibì in un delicato baciamano e si congedò da
loro, dicendo che si sarebbe dovuto recare altrove. Ovviamente venne
scusato e si liberò della loro infausta presenza.
Johanna sbuffò.
“Ma come ci riesci? Come fai a sopportarlo?”
“Sono menti semplici e facili da gestire, una volta che hai
capito cosa vogliono da te.” Le confessò
semplicemente.
“E tu sei bravo a capire cosa passa per la testa della gente,
giusto?” sogghignò lei.
Finnick le rivolse un ampio sorriso.
“Sei uno schianto vestita così.”
“Pensi davvero che io sia a caccia di omaggi svenevoli? Ho il
gel nei capelli, un quarto d’alcool nel sangue, i tacchi alti
ed un vestito aderente che non mi permette di ingozzarmi a dovere. Non
provocarmi.” Lo fulminò sdegnata.
“So io quello che ti serve, andiamo.” Le prese la
mano e la portò sotto al suo braccio.
Camminarono così per un po’ nell’ampio
salone illuminato dal riverbero delle luci dei lampadari di cristallo,
nell’opulenza che Capitol City trasmetteva con fierezza.
Finnick le indicava con un cenno alcuni invitati e raccontava dettagli
di loro così personali che lei cominciò a
chiedersi come facesse ad esserne a conoscenza. Quel ragazzo era una
vera e propria miniera di informazioni e pettegolezzi su tutte le
personalità in vista di Capitol City. Le parlava sottovoce,
con un’intonazione così morbida e accattivante che
avrebbe fatto cadere qualsiasi donna in una spirale di pensieri poco
casti, ma non lei.
Era troppo orgogliosa per cedere al suo fascino.
Durante la passeggiata incapparono in un capannello di persone che
rideva e schiamazzava e videro che al centro vi era proprio il loro
ospite, Seneca Crane. Johanna, però, scorse anche la sua
accompagnatrice e sperò che lei non l’avesse
vista. Ovviamente non andò così.
“Johanna, cara, vieni qui!” la chiamò
con quella sua voce stridula. “Oh, c’è
anche Finnick!” aggiunse nello stesso tono, raggiante come
non mai.
“Cazzo…” sibilò lei per nulla
contenta.
“Fai un bel respiro e sorridi.” La
rassicurò Finnick.
“Cara vorrei presentarti il nuovo primo stratega, Seneca
Crane. Seneca lei è…”
“Johanna Mason, incantato.” Si esibì in
un inchino ed in un baciamano che risultarono comunque molto
più volgari rispetto a quelli di Finnick.
“Piacere mio.” Rispose lei cercando di risultare
gentile, cosa che non le riuscì per niente dato il tono
lapidario della risposta.
“Finnick, è davvero una gioia poterti
rivedere.” La ragazza voltò il capo in direzione
del suo compagno, che fece un umile cenno a Seneca e passò
la mano sulla vita della ragazza con disinvoltura. “Johanna,
devo dire che ho apprezzato davvero molto la tua prestazione, lo scorso
anno. Fingerti debole per poi mostrare un talento
così…particolare contro gli altri
tributi…delizioso.” Continuò lo
stratega.
A Johanna venne voglia di assestargli un dritto sugli occhi. Si
limitò invece a commentare nel suo solito modo sarcastico.
“Sai, Seneca, ci sono persone che vanno…accettate per
quello che sono.”
Finnick le strinse il fianco con la mano, quasi a volerle segnalare di
non esagerare. La reazione del pubblico invece fu quella di ridere
sguaiatamente.
“Oh Johanna, non avevo idea che nascondessi un lato
così divertente!” esclamò Seneca.
“Non hai nemmeno idea di quanti lati nascosti io
abbia.” Sottolineò lei, e Finnick lesse la
minaccia implicita di quelle parole.
In quel momento il discorso venne riportato sulla faccenda Hunger Games
ed in particolare sulla sua vittoria. Trovarsi di fronte a quegli
uomini che esaltavano le spietate uccisioni che era stata costretta a
fare cominciò a darle il capogiro. Sudava freddo e si
sentiva oppressa. Finnick, che la osservava attento, si accorse della
situazione ed intervenne prontamente.
“Scusate signori, ma credo che tutte queste lodi le stiano
dando un po’ alla testa, non è così
Johanna?”
“Decisamente.” Rispose con un filo di voce.
“Se permettete la scorterò fuori a prendere una
boccata d’aria, con permesso.” Gentilmente, Finnick
la condusse al di là della folla, fino al
giardino. Alle sue orecchie arrivò un commento maligno di
uno degli uomini: “Quell’Odair, sempre pronto ad
accaparrarsi il meglio.” Ma non gli diede peso.
S’incamminarono attraverso il giardino in direzione di un
gazebo isolato, posto accanto ad una fontana zampillante. Johanna si
sedette sul bordo e tuffò le mani nell’acqua. Si
sentì subito meglio. Prese un respiro profondo e chiuse gli
occhi.
Finnick nel frattempo estrasse un fazzoletto e lo immerse
nell’acqua, lo strizzò e poi cominciò a
tamponare delicatamente la fronte della ragazza.
“Che diavolo stai facendo?” lei aprì gli
occhi di scatto e gli colpì la mano, allontanandolo da lei.
“Ti sto aiutando, ora vieni qua e sta’ ferma, non
vorrei che ti si rovinasse il trucco.”
“Fottiti.”
Finnick scosse la testa e sorrise quando lei, nonostante fosse
recalcitrante, riprese posto sul marmo freddo.
“Va’ meglio adesso?”
Lei annuì ed abbassò il capo. Non voleva farsi
vedere da lui in quello stato, ma non era riuscita a frenare il flusso
dei ricordi: l’arena, la paura di non sopravvivere e di
essere uccisa, il boato dei cannoni ogni notte, i visi dei tributi che
aveva eliminato…ogni volta che nel Distretto 7 sollevava la
scure sentiva il sangue caldo ed appiccicoso scendere giù
dal manico e le veniva voglia di gridare. E poi c’erano gli
incubi. Con quelli avrebbe dovuto imparare a convivere. Inconsciamente
si chiese se anche Finnick si svegliasse nel cuore della notte con il
gelo della paura nelle ossa.
“Non hai niente di cui vergognarti.”
Esordì lui, quasi leggendole nel pensiero. “Ti
capisco, succede anche a me. Li odio in un modo che non credo sia
umanamente concepibile.”
Johanna balzò in piedi, improvvisamente furiosa.
“Secondo te è una specie di scherzo? Si
può sapere perché ci tieni così tanto
a starmi intorno? Dici che li odi e poi sei sempre qui a Capitol City,
ti fai vedere a braccetto con quelle sgualdrine e mi racconti cose di
cui non mi frega niente! Non dire di sapere cosa provo,
perché non lo sai!” il petto si alzava e si
abbassava a causa dell’ira. Finnick non si scompose, si
limitò solo a guardarla intensamente con quei suoi
penetranti occhi verdi.
“Hai mai pensato che sono qui non per mia scelta? Credo di
sì, visto che lo sei anche tu. E poi non sono intorno a te
perché voglio raggirarti, ho semplicemente pensato che
potessimo essere amici.” Scrollò le spalle con
noncuranza.
“E cosa ti fa credere che io abbia bisogno di un
amico?”
Stavolta fu il suo turno di inarcare il sopracciglio.
“Ostinata e testarda Johanna Mason…noi due siamo
più simili di quello che vogliamo sembrare. Abbiamo bisogno
entrambi di qualcuno che veda oltre le nostre maschere di
serenità e cinismo. Qualcuno abbastanza sano di mente con il
quale parlare dei nostri incubi.”
L’ultima frase la colpì e si costrinse a tornare
calma.
Quindi anche l’affascinante e seducente Finnick del Distretto
4, l’incarnazione stessa della bellezza, era in
realtà una creatura fragile e ferita.
Johanna tornò a sedersi accanto a lui e lo studiò
attentamente. In quel momento di contatto occhi negli occhi prese la
sua decisione, probabilmente la più stupida di tutta la sua
vita. Sospirò teatralmente.
“Ok, ma non aspettarti che ti tenga la mano mentre frigni
come una ragazzina.”
Finnick, che era a disagio sotto lo sguardo guardingo ed indagatore di
Johanna, si rilassò e piegò le labbra in un mezzo
sorriso.
“Sei ridicola con questo vestito, sembri un arbusto secco e
decrepito. Per togliertelo di dosso forse dovrai scuoiarti.”
Vide gli occhi di lei lampeggiare, la battuta era andata a segno.
Johanna però, fece qualcosa che lì per
lì lo sorprese: sorrise. Un sorriso che non era la sua
solita smorfia di sufficienza, ma qualcosa di più malizioso.
Si portò le mani alla lampo dell’abito e la
tirò giù. Il vestito, dopo un’iniziale
difficoltà, scivolò a terra e lei lo
calciò via. Rimase davanti a lui in una lingerie in puro
stile Capitol City e ondeggiò nella sua direzione come un
felino.
“Caro Finnick, per te è giunto il
momento…” gli sussurrò
all’orecchio dopo essersi abbassata al suo livello.
“…di fare un bel bagno!” lo spinse ed il
ragazzo scivolò oltre il bordo della fontana, cadendo
nell’acqua fredda.
Quando si tirò su era bagnato fradicio dalla testa ai piedi
e Johanna lo guardò trionfante.
“Uno a zero per me, bamboccio.” Raccolse
l’abito da terra e lo stracciò in due parti. Si
coprì alla bene e meglio con la gonna lunga e se ne
andò senza nemmeno salutarlo. Alle sue spalle
avvertì solo lo sguardo di Finnick, stupito e preso in
contropiede.
Perché lei era Johanna Mason, ed imprevedibilità
era il suo secondo nome.
***
Hola gente!
Per cominciare vorrei ringraziare tutti voi che avete letto e recensito
il primo capitolo, sono davvero molto entusiasta :D Spero che anche il
secondo sia stato di vostro gradimento e vi rinnovo l'appuntamento alla
prossima settimana con una shot un po' più angst (mi
preparerò per l'eventuale pioggia di zolfo).
Ringrazio ancora la buona darkronin
che subisce in anteprima i miei orrori e si dedica con pazienza al
betaggio, e Crystaldrop
perchè ormai è diventata la vittima destinata a
patire i miei deliri su Finnick.
Baci e buon fine settimana!
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Capitolo 3 *** Ottone ***
Ottone
Il Distretto 7 non
vantava un ricco assortimento di vincitori, ma, secondo le regole
dettate da Capitol City, era stato stabilito che questi fossero
estratti a sorte per adempiere al loro ruolo di mentori,
così come accadeva per i tributi. Il fatto che tra i mentori
alcuni fossero anziani, con palesi difficoltà sia motorie
che cerebrali, non favoriva le cose. Ogni anno i tributi del Distretto
erano tra i primi a morire, sia a causa della loro giovane
età ed insufficienza di mezzi, sia per i mancati sponsor che
il mentore avrebbe dovuto procurargli.
Se
c’era un’altra cosa che Johanna odiava, era lo
sguardo di puro terrore che quei bambini avevano stampato negli occhi
quando la sirena della mietitura riecheggiava nel Distretto. Li vedeva
camminare a passi lenti, quasi arrancando e trascinando le gambe lungo
le strade, stretti gli uni agli altri tremanti e spauriti.
Molti di loro
non erano nemmeno abbastanza forti da riuscire a sollevare
un’arma.
“Come
gli agnelli sottratti alle madri e venduti al macello.” Si era trovata a
pensare.
Il suo primo
anno da mentore, i 72esimi Hunger Games, si erano rivelati un totale
disastro.
Aveva provato
ad istruire due ragazzini di dodici e tredici anni, ma la cosa non era
andata bene: morirono subito, nel bagno di sangue iniziale alla
Cornucopia, trucidati dai tributi dell’1 e del 2.
Quella notte
il letto di Johanna sembrava tappezzato di spilli. Si girava e rigirava
e nonostante i ripetuti tentativi, le palpebre non volevano saperne di
chiudersi. Scalciò le lenzuola con un gesto violento, si
vestì e decise di andare in città, convinta che
camminare le facesse bene.
In
realtà non desiderava nient’altro che essere a
casa sua, scappare all’aperto, nel folto della foresta di
pini e sdraiarsi al suolo, con il solo verso dei rapaci notturni a
farle compagnia.
Invece era a
Capitol City, città scintillante che non dormiva mai; le
insegne luminose la infastidivano, i neon le bruciavano gli occhi ed il
chiasso le massacrava le orecchie.
Dalle finestre
trasparenti dei locali a bordo strada vedeva la gente, riunita attorno
ai televisori olografici, piazzare scommesse su chi sarebbe risultato
vincitore, congratularsi per una previsione azzeccata, commentare le
armi ed i metodi di uccisione di alcuni tributi particolarmente feroci.
Nauseata da
quelle scene, non appena voltò un angolo, la cena le
risalì in gola in maniera così violenta che si
accasciò sulle ginocchia. Si pulì alla bene e
meglio la bocca, che conservava ancora un retrogusto acido, e riprese a
camminare.
Un’auto
si affiancò a lei sul marciapiede ed abbassò il
finestrino.
“Signorina
Mason, le serve un passaggio?”
Lei si
voltò a guardare lo sconosciuto: era un ragazzo tipico della
città, grande forse un paio d’anni più
di lei.
“Non
ho bisogno di nulla, vattene via.” Tagliò corto.
“Temo
proprio, signorina Mason, di dover insistere.” La macchina si
fermò ed il ragazzo scese. Era abbigliato con uno di quei
completi vergognosamente costosi, i capelli scuri raccolti in una coda
bassa dal quale spuntavano delle ciocche color porpora. Le sorrise
gentile e lei si infastidì.
“Che
c’è, sei sordo? Vattene via ho detto!”
“Non
posso. In effetti, la stavo cercando, signorina Mason.”
Johanna si
fermò.
“Mi
cercavi per cosa?”
Lui sorrise di
nuovo, una smorfia inquietante e perversa.
“Come
il gatto che si lecca le labbra prima di assaltare la gabbia del
canarino.”
“Per
il piacere della sua compagnia.” Ammise pacato. Johanna
sapeva che quello che stava per fare era sbagliato, nonostante il
campanello d’allarme nella sua testa non smettesse di
trillare, ma in quel momento non le importava. Voleva qualcosa per
dimenticare, per annullarsi, per stordirsi. E se
quell’imberbe figlio di papà avrebbe potuto
procurargliela, tanto di guadagnato.
Entrò
nell’abitacolo spazioso ed il ragazzo disse
all’autista di mettere in moto.
“Gradisci
qualcosa da bere, Johanna? Posso chiamarti Johanna, non ti
dispiace?” domandò premuroso.
Lei gli
agitò una mano davanti agli occhi.
“Chiamami
come ti pare e sì, versami da bere. Tanto.”
Il ragazzo le
porse un bicchiere colmo di un liquido arancione che lei
trangugiò avidamente. Allungò di nuovo il
bicchiere verso di lui.
“Ancora.”
Gli ordinò e lui obbedì, solerte.
Dopo tre
bicchieri di quella roba, Johanna scrutò con aria sospettosa
il suo benefattore.
“Chi
sei e perché hai detto che mi stavi cercando?”
“Ha
importanza chi sono? E poi te l’ho già detto,
desideravo trascorrere del tempo con la mia vincitrice
preferita.”
La
cerimoniosità di quelle parole nascondeva al suo interno
qualcosa di molto più infido. Quella richiesta, quella
pretesa di volerla lì, ostentando una carineria ed una
gentilezza così inusuali, sapeva di imbroglio.
“È
difficile per me credere di essere la preferita di qualcuno, visto
quanto impegno ci metto nel farmi odiare.” Ribatté
pungente.
Il ragazzo si
avvicinò con fare accattivante e le passò una
mano sulle spalle mentre l’altra cadde casualmente sul suo
ginocchio.
“Qui
sta il bello…con questo tuo carattere ribelle ed altezzoso
attrai i predatori, coloro che bramano intrattenere una ragazza
riottosa e provocatrice.” La mano risalì
pericolosamente lungo la coscia e le labbra dipinte le sfiorarono il
collo. Johanna , colta alla sprovvista, rimase pietrificata, ma poi
prese velocemente coscienza di sé. Ribaltò le
posizioni ed inchiodò quel tizio contro il sedile di pelle
dell’auto con il braccio.
“Brutto
porco, che hai intenzione di fare?” gli gridò
contro e vide gli occhi del ragazzo assottigliarsi pericolosamente.
“Ho
pagato per averti, sgualdrina irriconoscente, quindi ora lasciami e
fammi divertire come merito.” Tutta la cortesia era sparita
dalla sua voce, sostituita da una feroce brama.
La
verità colpì Johanna come una pugnalata: aveva
pagato per averla.
Era stata
venduta.
Venduta ad un
capriccioso per il suo sadico divertimento.
Il suo corpo
rispose prima del suo cervello: il primo pugno colpì lo
zigomo del ragazzo. Ne seguì un altro e poi un altro ancora,
un violento attacco al viso, al torace e a niente servivano i lamenti
che si levavano alti dalla gola di quel maniaco. Johanna si
fermò ansante e si guardò le mani coperte dal
sangue del suo aggressore. Questi si reggeva lo stomaco con un braccio
e con la mano libera si teneva la base del naso per tamponare
l’emorragia, il viso era una completa maschera tumefatta,
piena di graffi, tagli ed ematomi.
Sicuramente
aveva il setto nasale fratturato assieme a qualche costola incrinata.
“Ferma
la macchina!” gridò Johanna
dall’abitacolo. L’autista frenò di botto
e lei aprì la porta, schizzando fuori e correndo veloce, con
l’adrenalina ancora in circolo.
Non
pensò alle conseguenze di quel suo gesto, la sua mente
continuava a darle l’impulso di correre e rifugiarsi in un
posto sicuro, da qualcuno di cui si fidava. Si fermò di
colpo, le mani sulle ginocchia ed il fianco sinistro che pungeva per lo
sforzo.
“Finnick…”
ansimò il suo nome e si guardò attorno. Non
conosceva bene Capitol City, ma sapeva dove trovarlo, visto che era
anche lui in città e l’aveva avvisata. E riprese a
correre.
L’edificio
era alto e l’atrio era piastrellato con marmi lucenti nei
quali erano incastonati dei cristalli colorati. Quando Johanna
entrò, ignorò totalmente il portiere e si diresse
verso l’ascensore. Premette il tasto che conduceva
all’attico e, una volta arrivata davanti alla porta,
bussò con forza.
Un borbottio
sconnesso provenne dall’interno e Finnick apparve sulla
soglia, con indosso solo dei pantaloni morbidi da notte.
“Johanna,
che cosa…” biascicò sorpreso, ancora
assonnato.
“Posso
entrare?” domandò nervosa.
Lui si
scansò dalla porta facendole spazio. Osservò
preoccupato quel suo tormentarsi le dita e la prese delicatamente per
le spalle. Lei si irrigidì sotto il suo tocco.
“Jo,
che ti è successo? Sei qui per quello che è
capitato ai tuoi ragazzi? L’ho visto in tv, ho provato a
chiamarti al centro di addestramento ma mi hanno detto che non
c’eri…”
Lei
sollevò gli occhi, lo stordimento dovuto agli eventi le
impediva di provare dolore, si sentiva frastornata e confusa, come se
avesse assunto una potente droga.
“Non
toccarmi. Non farlo.”
Finnick
allontanò le mani da lei, ed intuì che doveva
celarsi qualcosa di grave dietro le sue parole.
“Siediti,
sei a pezzi.”
Johanna si
sedette come un automa ai piedi del letto: era sudata, con i capelli
scarmigliati e le nocche delle mani erano arrossate e cominciavano a
farle male. Finnick vide il sangue incrostato sulle dita e temette il
peggio.
“Jo…”
esordì, quando le parole di lei lo bloccarono.
“Sono
stata venduta, Finnick. E so anche che è stato quel figlio
di puttana di Snow a permetterlo.”
Snocciolò
l’intera storia con parole che grondavano rancore e rabbia e
lui l’ascoltò in silenzio, concentrato ed assorto.
Quando ebbe terminato il racconto, lo vide sospirare. Lei, invece, dopo
essersi confidata, provò un senso di leggerezza, come se
galleggiasse in uno strano limbo. Il trillo di un messaggio ricevuto li
fece sobbalzare entrambi.
Finnick si
allontanò e lesse. Johanna vide i suoi occhi verdi
spalancarsi ed il volto impallidire. Un brivido di paura corse lungo la
sua spina dorsale.
“Cos’è
successo?”
“Hai
mandato all’ospedale Augustus Bell.”
Annunciò secco. La mandibola di Johanna si contrasse per lo
sdegno.
“Se
lo meritava, quel maiale, porco schifoso.”
“Hai
idea di chi sia?”
“Dovrei?”
rispose di rimando, impermalita. Non riusciva a capire cosa stesse
arrovellando il cervello del suo amico, visto che era lei la vittima in
quella storia.
Finnick prese
a camminare per la stanza, improvvisamente agitato.
“Quello
è il figlio di una delle maggiori figure di spicco di tutta
Capitol City.”
Johanna si
strinse nelle spalle, non sicura di capire dove lui intendesse arrivare.
Finnick si
sedette sul letto e si tenne la testa tra le mani, bianco come un
cencio. Le lasciò poi scivolare tra le gambe e
guardò Johanna.
“Non
doveva succedere anche a te.” Dichiarò mesto.
“Cosa?
Cosa non doveva succedere Finnick?” chiese ansiosa e
perplessa.
La seducente
aura accattivante ed i toni morbidi che lo
contraddistinguevano si erano spenti, sostituiti da uno sguardo carico
di tristezza.
“Quello
che è successo a me. Essere comprati per il divertimento
della gente.”
Johanna
spalancò la bocca in un muto grido di stupore ed il suo
cervello non ci mise molto a collegare i piccoli episodi ai quali aveva
assistito da quando aveva conosciuto Finnick.
La
comprensione arrivò alla velocità di uno schianto
d’albero al suolo.
“Ecco
perché sapevi tutte quelle cose…loro,
tu…sapevi tutto fin dall’inizio!” era
sbalordita e scossa. Finnick le parlò contrito.
“Snow
ha il potere di vendere i vincitori degli Hunger Games a coloro che
sono disposti a pagare profumatamente. Serve per tenerci in riga, per
ricordarci sempre che non possiamo nulla contro il potere di Capitol
City. La vittoria ai giochi non serve a conquistare la
libertà.”
Johanna si
alzò dal letto ed indietreggiò fino a toccare il
muro. Non si era accorta di stare tremando.
“Io
non lo accetto, Finnick! Non sarò la puttana di Capitol
City!”
Anche lui si
alzò, i begli occhi di giada scintillavano d’ira.
Aveva perso ogni traccia di calma e compostezza.
“Credi
che invece a me faccia piacere esserlo? Credi che io voglia essere
considerato alla stregua di un oggetto da vendere al migliore
offerente? Ti sei già ribellata abbastanza, Johanna. Loro ti
porteranno via tutto, lo capisci questo?”
Lei
scivolò contro la parete, fino ad accasciarsi a terra, il
cervello offuscato dalla paura crescente.
“Cosa
accadrà adesso?” domandò in un sussurro
strozzato.
“Non
lo so, io non lo so.” Finnick scosse il capo, rassegnato.
“Perché
non mi hai mai detto niente? Se lo avessi saputo io avrei agito
diversamente.”
“Perché
non potevo parlartene senza temere che tu facessi qualche sciocchezza e
agissi in maniera avventata. Volevo proteggere te dalla
realtà ed anche altre persone che contano su di me a
casa.”
“Ma
questa è la realtà in cui viviamo!”
sbottò lei. “Ed io avevo il diritto di sapere!
Dio, tu dovresti essere mio amico! Sapevi tutte quelle cose e non ti
è venuto in mente di dirmelo prima…sei uno
stronzo, Finnick.”
Si rimise in
piedi, ancora tremante e scossa, e imboccò l'uscita,
sbattendosi la porta alle spalle con malagrazia.
Finnick non la
seguì, rimase fermo a fissare l'ingresso. Il dubbio di non
aver fatto la cosa giusta a parlargliene lo assalì
più e più volte. Cercò di
giustificarsi perché riteneva che, dato il suo carattere,
Johanna non avrebbe risentito della corruzione di Capitol City.
E invece,
così facendo, l’aveva condannata.
L’aveva abbandonata a se stessa senza farle da guida, senza
comportarsi da amico e non poteva biasimarla per averglielo rinfacciato.
E la cosa
peggiore era che non poteva fare ammenda per quel peccato.
*
L’aria
calda che esalava dai palazzi la investì e si
sentì soffocare di impotenza e frustrazione. Cosa avrebbe
potuto fare adesso? Avvisare la sua famiglia, dire a tutti di
scappare… su chi, per primo, si sarebbe accanito il governo?
Su chi Capitol City avrebbe riversato la sua vendetta?
Tutte quelle
domande funestavano la sua mente, ma lei sapeva bene di essere
totalmente impotente: una nullità senza potere, una regina
del niente, un’inerme marionetta in balia della tempesta che
presto l’avrebbe travolta e spazzata via.
Capitol
City…quella città era come un ingannevole
bagliore dorato, visto da lontano: l’uomo incauto avrebbe
potuto scambiarlo per oro puro e vero, ma una volta avvicinatosi
avrebbe scorto il falso riverbero dell’ottone.
*
Nella sala da
pranzo della sua dimora, il presidente Snow leggeva annoiato un
fascicolo che recava il nome di Johanna Mason. Lo chiuse e lo
gettò sul tavolo con un’occhiata di sufficienza.
“Patetico.”
Sentì
bussare alla porta e diede ordine di entrare.
“Signore,
come desidera procedere con il caso Mason?” chiese
l’uomo appena arrivato. Il presidente rifletté per
un attimo e poi parlò.
“Johanna
Mason è una ribelle e presto imparerà a sue spese
che ai ribelli non conviene mettere in discussione il potere di questa
città. Imparerà a rinunciare alla
libertà e a sottostare a me. Sapete già cosa fare
quando tornerà al suo Distretto, alla fine dei giochi. Ma
non subito, aspettate che creda di essere al sicuro. Attendete il mio
segnale.”
L’uomo
annuì e chiuse la porta. Il Presidente si lisciò
la barba, prese un bicchiere di vino e si diresse verso il suo roseto.
Tagliò
i rami secchi e spogli e pensò che presto quello sarebbe
stato lo stesso destino di Johanna Mason e delle persone che amava.
***
Angst, angst
come se piovesse! La regia oggi propone un capitolo meno spensierato
rispetto ai precedenti, ma spera che risulti ugualmente gradevole ai
gentili lettori. Detto questo la sopracitata regia augura a tutti un
buon inizio di settimana e spera in qualche commentino per affrontare i
giorni de fuego che stanno per arrivare.
A domenica
prossima!
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Capitolo 4 *** Lacrime ***
Nda:
si consiglia la lettura della one shot precedente, dato che gli eventi
di entrambe sono collegati.
Lacrime
Da quando aveva fatto
ritorno al suo Distretto, dopo l’episodio
dell’aggressione, Johanna viveva in uno stato di insicurezza
costante. I suoi genitori non comprendevano la causa di quella paranoia
nei loro confronti. La sua maniacalità li rendeva nervosi e
quando a sua volta veniva interrogata sulle motivazioni, rispondeva con
un ostinato silenzio.
Quando Johanna
era fuori durante i suoi turni di lavoro, il tempo sembrava non
scorrere mai: osservava compulsivamente l’orologio e
qualsiasi rumore era capace di farla sobbalzare. Divenne molto
più irritabile del solito e cominciò ad
allontanare da sé anche coloro che, un tempo, erano stati
suoi amici. Questi, alla stregua dei genitori, non se ne spiegavano la
ragione, ma lei decise che era meglio così, nonostante la
dolorosa solitudine a cui sarebbe andata incontro: il presidente non
avrebbe fatto loro del male, se avesse saputo che la odiavano. E lei
era bravissima a scatenare nelle persone questo tipo di reazione.
Al Distretto
le malelingue cominciarono ben presto la loro opera di divulgazione di
voci infondate. La definirono fredda, altezzosa, orgogliosa, snob, una
che si era montata la testa dopo aver vinto i giochi e scoperto le
ricchezze della capitale. I più gentili ritenevano, invece,
che soffrisse di una qualche forma di stress post traumatico che la
rendeva emotivamente instabile.
Solo Finnick
era a conoscenza della verità sulle sue paure più
profonde; in fin dei conti era stato lui a smascherare definitivamente
le reali intenzioni di Capitol City nei riguardi di tutti i vincitori.
Nei momenti in
cui l’ansia prendeva il sopravvento, Johanna si autoimponeva
di resistere all’impulso di chiamarlo. Sapeva di essere
spiata e controllata, anche se le cose sembravano procedere come
sempre. Era a conoscenza dell’oscura presenza che aleggiava
intorno a lei e le teneva il fiato sul collo.
I suoi incubi
diventavano sempre più frequenti e violenti; incubi in cui
sua madre e suo padre venivano barbaramente massacrati e lei era
paralizzata di fronte allo spettacolo dei loro corpi smembrati. Si
svegliava di soprassalto ed le riusciva impossibile continuare a
dormire.
I sedativi
come la morfamina iniziarono ad esercitare una forte attrattiva sulla
sua mente provata. Avrebbe sicuramente cominciato a farne uso, se non
fosse stato per il fatto che, quei medicinali, le avrebbero obnubilato
il cervello, mentre lei doveva rimanere vigile e lucida.
Quell’attesa
la stava distruggendo, la divorava come un tarlo dall’interno
e la cosa peggiore era che alternava degli stati di angoscia profonda,
ad altri in cui nasceva in lei una flebile speranza che il Presidente
avesse dimenticato. Sapeva bene che quella era solo una vana illusione,
ma non poteva frenarsi dal pensare che avrebbe potuto lasciarla in pace.
*
Una mattina,
dopo due mesi dall’accaduto, Johanna si recò in
montagna per il lavoro giornaliero. Aveva dormito circa due ore,
dopodiché si era svegliata, con un angosciante senso di
smarrimento e di gelo instillato nelle ossa. L’ansia che
provava cresceva sempre di più ad ogni colpo inferto dalla
sua ascia contro corteccia di un albero e si sentiva soffocare dalla
paura che qualcosa di terribile stesse per accadere.
L’eco
di una roboante esplosione le fece cadere l’ascia dalle mani
e finì sul tappeto di rami e foglie. Il suo cervello
ignorò l’ordine del caposquadra di restare
concentrati sul proprio lavoro e le diede l’input di scendere
lungo le pendici della montagna, per avere una visuale migliore del
Distretto.
Aguzzò
la vista ed il cuore le si fermò nel petto quando vide un
fumo denso alzarsi in spire nere verso l’alto. La cosa
peggiore era che il punto da quale proveniva il fumo era proprio il
villaggio dei vincitori.
“No…”
mormorò, per poi cominciare a correre di volata attraverso
la foresta, inciampando nelle radici e rialzandosi subito dopo,
incurante del dolore e dei tagli che si era procurata.
Quando
arrivò all’ingresso del viale del villaggio dei
vincitori, non era rimasto nulla della sua casa. La gola le raschiava a
causa delle ceneri che galleggiavano ancora nell’aria come
neve velenosa, ed i polmoni bruciavano per via dell’odore
acre e pungente del fuoco che aveva divorato ogni cosa. Tutto era
ridotto ad un ammasso fumante di macerie.
Si
avvicinò, esitante; gli occhi non volevano ancora arrendersi
a quell’orrendo spettacolo della sua casa sventrata dalla
deflagrazione. I pompieri si davano un gran da fare per spegnere le
rimanenti fiamme, mentre i pacificatori badavano a tenere lontani i
curiosi. Il giardino antistante era tutto ingombro di ogni genere di
residuo: calcinacci, mobili bruciati, schegge affilate di vetro delle
finestre. Persino le case adiacenti, fortunatamente disabitate, avevano
subìto danni.
“Signorina,
non può restare qui.” Un pacificatore le
sbarrò la strada, ma lei lo spintonò con forza.
“Questa
è casa mia e lì dentro c’è
la mia famiglia! Lasciami passare, idiota!”
Si
avviò a passo svelto, ma altri arrivarono a fermarla.
“Signorina
Mason, sono spiacente di doverla informare che la sua famiglia
è rimasta vittima di uno sfortunato
incidente…”
Ma Johanna non
lo ascoltava. Il suo sguardo era stato attirato da un gruppo di uomini
che posavano qualcosa su una portantina di metallo. La scena si svolse
al rallentatore: vide uno degli uomini spingere la lettiga lungo la
strada, ed il terreno instabile la faceva sferragliare. Un braccio,
completamente carbonizzato, scivolò fuori dal lenzuolo,
penzolando ed oscillando sinistramente ad ogni movimento della barella.
Gli occhi le
si riempirono di lacrime ed emise un singulto strozzato.
“…causato
da una fuga di gas. E il governo ha stabilito che, in quanto
vincitrice, potrà trasferirsi in una nuova
abitazione.”
Johanna mosse
il capo lentamente ed il pacificatore tacque, impaurito. Doveva avere
un’espressione davvero folle se quell’uomo
indietreggiava di fronte a lei. Era arrabbiata, frustrata, furente.
“Ho
appena perso la mia famiglia e tu vieni a parlarmi di una casa nuova?
Lui li ha uccisi, li ha uccisi tutti!” con una mossa veloce
gli fu alla gola e strinse con tutte le sue forze. L’uomo
cadde sulla schiena e cominciò a dimenarsi alla ricerca di
aria.
I pacificatori
le furono addosso e liberarono il loro compagno dalla presa salda di
Johanna.
“Assassini,
non siete altro che assassini!”
“Signorina,
si calmi, è stato un inciden…”
“Incidente!
Vuoi che me la beva? Vi auguro di crepare nella maniera più
atroce che esiste, capito!! Mi hai sentita, Snow? Dovrai morire,
maledetto bastardo!” gridò con tutto il fiato che
aveva in gola. Dopodiché scappò. Fuggì
senza voltarsi indietro, verso le montagne, passando per la sua zona di
lavoro e recuperando la sua ascia, sotto lo sguardo allibito di tutti i
colleghi. Nessuno osò rivolgerle qualche domanda e nessuno
la seguì quando si addentrò tra gli alberi.
Una volta
arrivata abbastanza lontano, sicura che nessuno potesse sentirla,
urlò.
Urlò
di disperazione e dolore fino a che la gola non cominciò a
bruciare.
Pianse lacrime
di vendetta e pena.
Non voleva
fare ritorno al villaggio dei vincitori: ogni volta che sarebbe passata
da lì la sua memoria sarebbe tornata a quando la vita era
tranquilla, a quando non aveva vinto gli Hunger Games. Avrebbe
ricordato i piacevoli silenzi che condivideva con suo padre e le brevi
chiacchiere con sua madre, che storceva il naso quando lei scappava via
da qualche “discorso da donne”.
Cosa avrebbe
fatto adesso?
Non le
rimaneva più nessuno. I suoi ricordi, la sua vita e le
persone che amava erano ormai cenere, distrutte dal fuoco di Capitol
City.
Si sedette
contro la corteccia di un vecchio pino, portò le ginocchia
al petto e continuò a singhiozzare.
*
Le voci
circolavano con facilità e velocità nel tessuto
di intrighi di cui era costituita Capitol City. Quando la notizia della
morte della famiglia di Johanna Mason, sussurrata con timore e
sbigottimento, arrivò a Finnick questi decise che sarebbe
andato nel Distretto 7 il prima possibile, anche solo per scontrarsi
contro il muro di silenzio che Johanna gli avrebbe riservato. Era suo
amico, non poteva lasciarla sola ora che aveva bisogno di qualcuno che
le stesse accanto.
Tre giorni
dopo l’accaduto, con un permesso speciale che era riuscito ad
ottenere, arrivò lì. Vide la casa distrutta al
villaggio dei vincitori ma di Johanna non c’era la minima
traccia. Chiese in giro, e tutti gli indicarono la montagna, dicendo
che la ragazza non si faceva viva in città dal giorno
dell’incidente.
“Probabilmente
sarà andata ad impiccarsi. Tanto meglio! Nessuno
sentirà la mancanza di quella pazza.”
Asserì uno dei Pacificatori e a Finnick venne una gran
voglia di piantargli un coltello nel cuore.
Nonostante
questo, si incamminò lungo la montagna, con la sola
indicazione del campo di lavoro di Johanna. Finnick non era
preoccupato: sapeva che prima o poi l’avrebbe trovata e
l’avrebbe convinta a tornare tra gli esseri umani. Aveva un
asso nella manica, qualcosa che sicuramente l’avrebbe smossa
e l’avrebbe spinta a combattere ancora una volta.
Il sentiero
della montagna era impervio, ma non si scoraggiò. I segni
della vicinanza di Johanna parlavano chiaro: rami tranciati di netto,
sangue secco e segni lasciati da un oggetto affilato contro gli alberi.
Finnick non era un cacciatore, ma aveva imparato a seguire le tracce di
qualcuno durante l’addestramento dei suoi Hunger Games.
Probabilmente quella era l’unica cosa utile che i giochi gli
avessero insegnato.
Finalmente,
dopo aver camminato a lungo, riuscì a scorgerla.
La vide in
piedi, con l’ascia stretta in mano, che assestava
l’ennesimo colpo contro il tronco di un albero.
“Johanna.”
La chiamò e lei si voltò piano.
Aveva gli
occhi rossi, gonfi ma asciutti dopo aver pianto tutte le sue lacrime,
il respiro affannoso e la bocca dischiusa per catturare più
aria a causa dello sforzo, i capelli scarmigliati e i vestiti strappati
in più punti. Attorno a lei dominava lo sterminio seminato
con la scure. Aveva distrutto tutti gli alberi, creando un vuoto spazio
circolare attorno a sé.
Era selvaggia
e terribile come una delle dee della vendetta di cui aveva letto in
passato.
“Finnick.”
La sua voce era roca, come se avesse gridato fino a consumarla. E
probabilmente era così. “Cosa ci fai
qui?” gli chiese stupita.
“Sono
venuto per te.”
La risposta la
sorprese: lui era stato il primo ad andarla a cercare. Non pensava che
gli importasse qualcosa di lei, anzi, credeva che le avrebbe sbattuto
in faccia un “Te l’avevo detto” alla
prima occasione.
“Perché?”
“Mi
dispiace per la tua famiglia, Jo.” Rispose rammaricato.
Lei gli lesse
la tristezza e la pietà sul bel viso e si sentì
ancora più inutile e stupida.
Si rivolse a
Finnick, eruttando tutta la rabbia, l’impotenza, la
frustrazione in un’unica, iraconda esplosione.
“Non
so cosa farmene del tuo dispiacere, sei arrivato troppo tardi. Sai cosa
mi hanno detto? Che è stato un fottuto incidente, una
maledetta fuga di gas! Ma noi sappiamo che non è
così, vero Finnick?”
Lui non
cedette, ma la fissò con fermezza.
“No,
non lo è. Ma io sono venuto qui perchè volevo
sincerarmi di come stessi. Francamente non pensavo che avresti avuto
voglia di parlarmi.”
“In
effetti è così, ma come vedi sto
benissimo!” fece una giravolta su se stessa.
“Talmente bene che avrei persino la forza necessaria per
decapitarti.”
“Se
può farti sentire meglio, fallo.” La
incitò e lei strinse le labbra in una linea sottile.
“Ma ricordati che non sono io il tuo nemico.”
“No,
tu sei la puttana di Capitol City, Finnick Odair!”
sputò acida. “Sarebbe troppo facile ucciderti qui
e adesso, ma devo dartene atto, non sei tu che meriti
quest’ascia conficcata nel cranio.”
Soppesò l’arma con ghigno inquietante. Lui le si
avvicinò di più e le pose una mano sulla spalla,
con delicatezza.
“Non
sei l’unica che vuole vendetta, Johanna. Ci sono persone a
Capitol City e negli altri distretti che non vogliono più
essere delle pedine nelle sue mani.”
A
quell’affermazione la ragazza scoppiò in una
risata isterica, allontanandosi da lui.
“Sai,
ho addirittura pensato che sarebbe stato meglio suicidarmi per evitare
che loro soffrissero, ma chi li avrebbe protetti dopo la mia morte?
Sangue chiama sangue. E tu hai davvero fatto tutta questa strada per
dirmi questo? Dopo quello che è successo ti fidi delle
parole degli altri?”
“È
la verità e posso provartelo. Abbassa l’ascia e
parliamone.” Le fece un cenno e le parlò
gentilmente per calmarla. Johanna si accorse di star brandendo lo
strumento in maniera minacciosa e lo abbassò. Il ragazzo non
stava mentendo, era sincero ed era l’unica persona rimasta in
vita di cui si fidasse un po’. Ma non gliel’avrebbe
mai detto, non avrebbe corso quel rischio.
“Perché
fai tutto questo, Finnick? Dimmelo una buona volta e facciamola finita.
Sono stanca di questi giochetti.” Il ragazzo
abbassò lo sguardo al suolo e strinse i pugni. Prese un
respiro e annuì.
“Lo
faccio per Annie. Perché odio quello che l’hanno
costretta a diventare e perché odio quello che hanno fatto a
me.”
Johanna fece
un passo indietro, stupita dalla rivelazione.
“Intendi
Annie Cresta, la ragazza che ha vinto l’edizione precedente
alla mia? Quella che è…”
Finnick
stirò un sorriso amaro.
“Sì,
quella che è impazzita.”
“Capisco.”
Affermò e comprese a fondo quel che Finnick le aveva detto
tempo addietro, ossia che erano più simili di quel che
volevano sembrare. Erano animati entrambi da sentimenti forti ed
intensi, ma mentre Finnick agiva per istinto di protezione e rivincita,
Johanna, che era ormai sola al mondo, avrebbe puntato tutto sulla
vendetta.
“Voglio
la vendetta, Finnick, e non mi accontenterò delle briciole,
sappilo. Voglio Snow e voglio vedere la vita abbandonare i suoi occhi
personalmente.” La voce era pericolosamente ferma e decisa e
Finnick le fece un cenno di assenso. Constatò che ormai nel
cuore di Johanna si allargava a macchia d’olio solo una vuota
oscurità.
“Possiamo
farlo. Possiamo fare in modo che nessuno debba più soffrire
quello che abbiamo sofferto noi.” Affermò lui.
“Nessuno.”
Prese l’ascia e la lanciò. Questa si
conficcò nel tronco dell’albero con uno schianto.
Guardò di nuovo Finnick e decise che avrebbe combattuto. Se
quello era il gioco di Capitol City, allora avrebbe partecipato. Aveva
vinto una volta, poteva farlo ancora.
“Nessuno.”
Ripeté, ed insieme si lasciarono la foresta alle spalle.
***
Salve! Oggi
propongo la mia personale visione di cosa sia successo alla famiglia di
Johanna, giusto per ricollegarmi al famoso: "Non mi è
rimasto nessuno a cui volere bene". -ma
è una bugia perchè c'è sempre Finnick-.
Come sempre
ringrazio darkronin per la cura che ha
nel betaggio e tutti voi che leggete e recensite; fate felice una
povera autrice continuando così :D
Assai copioso
amore scenda su di voi e buon inizio di settimana!
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Capitolo 5 *** Nome maledetto ***
Nome maledetto
Quando Johanna fece
ritorno a Capitol City, la vigilia del 74esimi Hunger Games si
avvicinava e, come da programma, tutti erano in fervente agitazione.
Ci sarebbero
stati dei volontari combattivi, spietati e pronti ad inseguire sogni di
gloria? Quali sorprese ed insidie avrebbe nascosto l’arena
quell'edizione?
La triste
notizia della morte dei suoi genitori, che aveva suscitato tanto
clamore, era ormai un ricordo lontano, soppiantato da più
succulente notizie di gossip. Questo fu un bene, dato che quello che
lei e Finnick si accingevano a fare sarebbe costato loro la vita,
qualora fossero stati scoperti. Finnick, grazie alle sue conoscenze,
era riuscito a scoprire l’esistenza di alcuni
oppositori al governo, persone di una certa rilevanza che intendevano
disfarsi di quella dittatura. Aveva assicurato a Johanna un incontro
con uno dei membri e quello era stato l’unico motivo che
l’aveva condotta fuori dal suo distretto; con
l’attenzione spostata sulla nuova edizione dei giochi,
nessuno avrebbe fatto caso a loro.
Si stavano
dirigendo verso l’abitazione di un certo Plutarch Heavensbee,
un uomo che faceva parte delle alte sfere della città e che,
nelle precedenti edizioni dei giochi, aveva collaborato saltuariamente
con gli strateghi.
Johanna
camminava al fianco di Finnick, in silenzio. Il collo alto del suo
vestito le graffiava la pelle e le scarpe cominciavano già a
farle male.
“Smettila
di essere così rigida, sii meno ingessata e andrà
tutto benissimo.” Provò a rassicurarla Finnick una
volta entrati nell’atrio del palazzo.
Lei gli
scoccò un’occhiata torva.
“Vuoi
dirmi che con il mio portamento non sarò la stella
indiscussa della serata? Johanna Mason, la neo orfanella che viene ad
affogare il suo dolore tra gli amici di Capitol City? Un paio di
commenti graffianti e questo tipo mi adorerà.”
Replicò con sarcasmo ed il ragazzo sorrise.
“Non
hai perso il tuo tocco magico.”
Lei si strinse
nelle spalle, poi assunse un’aria seria, abbassando il tono
di voce e guardandosi attorno, cauta.
“Credi
davvero che questa sia una buona idea?”
“Per
adesso è la migliore possibilità che abbiamo,
quindi vediamo di giocarcela bene.” Asserì lui
convinto.
“Mi
stai chiedendo di fidarmi di gente che non conosco ma, notizia flash,
io non sono te.” Erano fermi davanti alle porte
dell’ascensore e lei l’aveva afferrato per un
braccio, costringendolo a guardarla. Finnick lesse chiaramente la
preoccupazione in quegli occhi solitamente sfrontati. Dolcemente le
posò un dito sulle labbra, tacitando una nuova protesta
nascente.
“Non
si ha fiducia negli altri perché se la meritano ma
perché merita di averla colui che la prova.” Poi
si guardò scocciato la mano. “Hai un fazzoletto?
Mi hai appiccicato sul dito tutti quei maledetti
glitter…” sospirò teatralmente e
Johanna storse le labbra con disappunto.
“Ringrazia
che non te l’abbia staccato con un morso. Potrai sempre
pulirti sul vestito di un invitato.” Suggerì poi
con noncuranza ed entrò nell’ascensore, le cui
porte metalliche si chiusero con un suono ovattato.
Plutarch
Heavensbee fu un ospite accorto, cortese e premuroso: il suo attico fu
messo a disposizione degli invitati, i loro calici non furono mai vuoti
così come i loro piatti.
Quando si
avvicinò con un sorriso sornione, Johanna sentì
uno spasmo allo stomaco. Quello sarebbe dovuto essere un alleato? Non
poteva certo crederci: aveva lo stesso viso di tutti quei capitolini
arricchiti che trascorrevano le loro vite a crogiolarsi
nell’opulenza, rinchiusi nella loro bella oasi felice.
“Vi
state divertendo?” domandò con
quell’accento strascicato ed affettato tipico della
città. “Io adoro le grandi feste: sono
così intime! In quelle piccole non c’è
alcuna privacy, non trovate?”
La ragazza si
chiese mentalmente se per caso non fosse ubriaco. Per tutto il resto
del tempo che Plutarch trascorse con lei e Finnick, parlò di
cose che esulavano palesemente dal punto che le premeva toccare.
Divenne impaziente. Soprattutto la irritò la calma con cui
Finnick, invece, conversava. Sembrava così a suo agio,
sereno e pacato, brillante e carismatico. Plutarch rideva alle sue
battute e gli dava gentili colpetti sulla spalla, mentre con un
fazzoletto si asciugava una lacrima, il viso rosso per le risa.
Finita la
festa, dopo essersi accomiatati alle prime luci dell’alba,
Plutarch salutò Johanna dicendole che, il regalo
perfetto per una donna come lei, sarebbero state tredici rose rosse.
“Allora,
che cavolo era tutta quella farsa?” esordì lei,
una volta rientrata nella sua stanza d'albergo con Finnick.
“Di
cosa stai parlando, esattamente?” replicò ragazzo
e l’insofferenza di Johanna crebbe di una tacca.
“Non
fare l’idiota! Mi riferisco a questa serata. Che
cos'è che abbiamo concluso effettivamente, a parte parlare
di argomenti a caso?”
Finnick
sorrise.
“Niente
di quello che è accaduto stasera è stato un
caso.”
Lei lo
fissò, seccata.
“Che
ne diresti di rendermi partecipe?”
“Sei
entrata nel nostro piccolo club dei ribelli. Il resto te lo
spiegherò quando sarai tornata nel tuo distretto. Fino ad
allora…” si avvicinò alla sua guancia e
vi lasciò un bacio delicato. Si diresse poi verso la porta
della stanza ed uscì, lasciandola spiazzata.
“Ehi,
ma che…Finnick, torna qui! Aaah, fai un po’ come
vuoi!” gli gridò contro, impermalita, per poi
buttarsi a peso morto sul letto.
*
Era una mite
giornata di fine maggio quando Finnick arrivò al Distretto
7. Riuscì a lasciare i suoi impegni, sempre facendo
leva sui numerosi favori che doveva riscuotere (favori che Johanna
preferiva definire ricatti), ed arrivò con il primo treno.
Lei andò a prenderlo alla stazione e, stando bene attenti ad
evitare i luoghi più affollati come la piazza del distretto,
si diressero sulle montagne.
Johanna lo
portò nel folto della foresta fino a raggiungere una radura
circondata da alberi di pino. Si sedette sull’erba e Finnick
la raggiunse.
“Vedo
che hai preso alla lettera il mio consiglio di trovare un posto intimo
dove parlare.”
Lei
inarcò un sopracciglio. “Ti avrei portato a casa
mia ma ho sempre la sensazione che sia controllata.”
“Un
problema comune, temo.” Le rispose sconsolato.
“Sì,
ma adesso basta con queste sciocchezze. Spiegami cosa è
successo e alla svelta.” Lo liquidò in tono
pratico. Finnick scosse leggermente il capo.
“Va
bene, va bene. Come la mia signora comanda. Dunque, come ben sai, nei
distretti c’è un malcontento crescente che Capitol
City sta faticando a controllare. La situazione precaria delle zone
più povere potrebbe essere una scintilla sufficiente a far
sì che si ritrovino con una rivolta tra le mani. Ed i giochi
non aiutano: il fatto che vengano mandati a morire ogni anno dei
ragazzini sta sortendo lo stesso effetto del vento sul fuoco
vivo.”
“Quindi
il piano quale sarebbe? Svegliarci una mattina e andare a fare la
guerra?”
“Certo
che no, sciocca! Riflettici bene: le tredici rose di cui parlava
Plutarch ti ricordano niente?” lei lo fissò e
accennò un diniego con il capo.
“Il
Distretto 13. Loro vogliono allearsi con il Distretto 13 e sfruttare le
sue risorse nucleari.”
Johanna
sgranò gli occhi, incredula. Si alzò in piedi e
spalancò la bocca per parlare ma si accorse di non aver
prodotto alcun suono.
“Giorno
di giubilo! Sono riuscito a lasciarti senza parole!”
gioì Finnick in tono ironico.
“Tu
devi esserti veramente fottuto il cervello, oltre al resto! Distretto
13…e pretendi che io ci creda? E, di grazia, le bombe
nucleari verranno sganciate da asini volanti o draghi?”
esclamò tutto d’un fiato, con voce stridula.
“Vuoi
smettere di starnazzare, per favore? Questa scenetta deprimente potevi
anche risparmiartela! Comunque, ecco a te, mia scettica
amica.” Dalla tasca dei suoi pantaloni estrasse un foglio
ripiegato e glielo porse.
Johanna lo
aprì e lo osservò curiosa.
“Cosa
sarebbe questa roba?” chiese continuando a rigirarsi tra le
dita quella che sembrava essere una specie di mappa.
“È
una scansione termica della zona dove si dice che ci siano solo le
rovine del Distretto 13.”
“E
allora?”
“Vedi
quei colori più intensi nella parte centrale? Bene,
significa che c’è calore lì sotto. Che
c’è vita.” Spiegò il ragazzo
paziente.
“Finnick,
sto sul serio provando a crederti ma mi sembra una presa per il culo
creata su misura per beccare i traditori del governo, facendogli
credere nell’esistenza di un luogo che invece è
stato distrutto da un pezzo.” Provò ad assumere un
tono condiscendente ma in realtà si sentiva delusa da quella
che considerava essere una rivelazione che avrebbe ribaltato le sorti
del suo Paese. E la delusione maggiore era che quel fiume di bugie
proveniva dalle labbra di Finnick.
“Te
lo giuro su Annie.”
Johanna si
bloccò: lo sguardo determinato e sicuro del suo amico le
instillò il dubbio nella mente. Poteva davvero esistere un
Distretto 13 che si sarebbe volentieri alleato con loro per rovesciare
Snow? Ogni anno, da Capitol City, rifilavano lo stesso filmato che
illustrava come quel luogo fosse stato cancellato da ogni mappa e
adesso arrivava lui che le diceva che erano invece tutti sopravvissuti.
Bugia,
verità, chi aveva ragione? Si fidava abbastanza delle parole
di Finnick, di ciò che gli altri gli avevano confessato? Non
avrebbe giurato su Annie se non fosse stato qualcosa in cui riponeva la
massima sicurezza.
“Non
sei stupida: l’hai capito che sto dicendo la
verità nonostante la tua mente stia contenendo due idee
opposte allo stesso tempo.” Affermò interrompendo
il suo flusso di pensieri contrastanti.
“Finnick,
lo so che in questo periodo sono stata una miscela di odio e malessere
ma a questo non pensavo si sarebbe sommata anche la pazzia.
Perché devo essere diventata pazza sul serio se ho deciso di
credere ai vaneggiamenti che escono dalla bocca di un altro
matto.”
Quelle parole
ebbero il potere di risollevarlo. Il fatto che lei gli credesse gli
tolse un peso dall’animo. Si guardarono per un attimo e
sorrisero.
Johanna lesse
nei suoi occhi la gratitudine e, per la prima volta dopo tempo, si
fermò davvero ad osservare uno dei vanti del vincitore del
Distretto 4.
Per lei gli
occhi di Finnick non avevano il colore del mare: avevano il colore dei
giunchi del fiume, delle praterie e delle foglie del bosco in
primavera, verdi e brillanti.
Occhi di un
uomo ricco dei suoi sogni e del suo amore.
Riprese posto
accanto a lui e si sdraiò supina sull’erba fresca.
Prese un bel respiro e parlò.
“Parlami
di lei. Deve essere davvero una persona speciale se il grande Finnick
Odair l’ha scelta tra la schiera di donne che avrebbero
venduto l’anima pur di stare con lui.”
Finnick
tirò le ginocchia contro il petto e vi posò le
braccia.
“All’inizio,
quando pensavo che la mia vita sarebbe potuta scorrere tranquilla in un
ricco languore, non mi interessava molto di lei. C’erano
donne e situazioni più stuzzicanti, Capitol City riservava
molte più attrattive rispetto al mio distretto. Prima di
scontrarmi con la dura realtà dei fatti, volevo solo
continuare a crogiolarmi nella fama. Ero solo un ragazzo, avevo 14
anni.”
Johanna
ascoltava in silenzio, interessata.
“Poi
c’è stato…lo sai. Gli anni sono
trascorsi e mi hanno reso più, confuso, disilluso,
spaventato. Dovevo indossare continuamente una maschera da
seduttore malizioso e lentamente stavo cominciando a
dimenticare chi fosse il vero Finnick. Ed è stato allora che
ho ritrovato Annie, quando ero più che mai bisognoso
d’aiuto, dopo essere stato segnato dalle esperienze passate,
ad un passo dallo smarrire completamente la mia strada, a perdere la
coscienza di me stesso. Avevo visto un sacco di donne più
belle di lei, ma lei aveva qualcosa di caldo, di attraente nella sua
semplicità. Una sua parola, un suo sguardo e le situazioni
assumevano una prospettiva diversa. Poi, fu scelta per partecipare ai
giochi, cosa che ritengo non sia stata così casuale. Non
è mai più stata la stessa da allora ma non potevo
certo abbandonarla: lei ha saputo tirare fuori il meglio di me quando
credevo che ormai non fosse rimasto più niente ed
è per questo che voglio che viva in un mondo dal quale non
dovrà più temere alcun male.”
Johanna si
sentì improvvisamente una vigliacca. Lei non era spinta da
così nobili intenti: non c’era amore nelle azioni
che la guidavano. Voltò il capo nella direzione opposta a
Finnick e con la mano strappò un ciuffo d’erba con
un gesto nervoso.
“Capisco.”
Disse secca.
“E
tu? Non c’è davvero un posto nel tuo cuore per
qualcuno di speciale?”
Johanna
ruotò il capo in direzione del ragazzo. Si diede una spinta
con il busto e si girò lateralmente, con la mano a
sorreggerle la guancia e l’altra stesa lungo il fianco.
“Non
credo che faccia parte del destino delle donne con il mio nome, amare
qualcuno e uscirne indenni.”
Finnick le
agitò una mano davanti al viso.
“Questa
è una sciocchezza bella e buona e tu lo sai.”
Johanna lo
ignorò e prese a raccontare una storia che aveva letto in un
libro, tempo addietro.
“Tanti
secoli fa, in una terra chiamata Spagna, esisteva una regina che si
chiamava Giovanna di Castiglia. Dal carattere forte ed anticonformista,
Giovanna si mostrò poco incline a seguire delle regole
religiose che vigevano all'epoca ma, secondo l’usanza
politica dei matrimoni combinati, andò in sposa a Filippo
d’Asburgo, che fu il suo unico e vero amore. Giovanna era
solita respingere il marito quando questo degnava
d’attenzione altre dame, riuscendo ad allontanarlo per mesi e
a farlo cadere in depressione, mentre lui scatenava drammatiche scene
di gelosia.
Con
l’aggravarsi dei contrasti per la successione, iniziarono
anche i problemi fra la coppia. Reso folle dall'ambizione e dalla sete
di potere, Filippo voleva impossessarsi a tutti i costi del
trono che spettava legittimamente alla consorte. La loro relazione,
però, si mantenne appassionata e salda anche nei periodi di
odio grazie al carattere forte di Giovanna e all’affetto
cieco ed esagerato che Filippo nutriva per lei. Nonostante i ripetuti
tradimenti, quando Filippo si ammalò, lei si
rifiutò di abbandonarlo. Quando lui morì,
cominciarono le dicerie su una presunta follia di Giovanna causata dal
dolore per la sua scomparsa. Fu imprigionata, torturata e condotta alla
pazzia. Giovanna dimostrò fino all’ultimo una
fermezza e una forza morale che neanche la prigionia, dura, spietata e
senza alcun privilegio per la sua posizione regale, riuscì a
piegare.”
Finnick stette
ad ascoltare, tranquillo.
“È
una storia molto triste.”
“Sì,
lo è. Quando l'ho letta ho pensato che, in fin dei conti, il
mondo è ingiusto perfino
nei confronti
di chi dovrebbe essere un privilegiato. Giovanna era regina e guarda
che fine ha fatto. La sua ribellione, il suo amore, l’hanno
solo portata a soccombere.”
“Io
non credo sia così. Fu una donna forte che resistette
persino alla prigionia e morì da vera regina. Credo sia un
esempio di alti valori morali.” Obiettò Finnick.
“Quelli
che a te, evidentemente, mancano.” Lo punzecchiò
lei con un ritrovato accenno di sarcasmo.
“Dai,
io penso ti somigli nel carattere, Jo.”
“Cioè?”
domandò curiosa.
“Vedi
questa foresta? Ecco, tu sei come un albero. La prima cosa che si nota
in un albero è che è avvolto da una ruvida
corteccia ma, strato dopo strato, anello dopo anello, diventa
più liscio e nasconde un lato più delicato tutto
da scoprire.”
“Ma
andiamo! Piantala di dire sciocchezze!” gli diede una spinta
con il braccio libero.
“Guarda
che non ho ancora finito.” Affermò serio, e lei
alzò gli occhi al cielo.
“Il
tuo fisico è come uno stelo di bambù, slanciato e
sottile, ma che non si piega sotto le sferzate del vento più
forte, così come non ti ha piegata Capitol City. Sei forte
come le radici di una quercia, profonde e radicate nella terra, e
feroce in battaglia, con la tua ascia. Tu hai il potere di infiammare
gli animi e di dire le cose esattamente come stanno. Hai il potere di
smascherare tutto ciò che è falso.”
Johanna fece
vagare lo sguardo nella foresta, osservò gli intrecci di
rami e foglie per trovare parole per poter rispondere a quella
dichiarazione. Si decise a parlare, in tono amaro, poco dopo.
“Io
credo che tu mi stia sopravvalutando. La verità è
che io mi sveglio la mattina, guardo il soffitto e non sento niente. Ma
proprio niente. Non sono né felice né triste,
né serena né irritata. Nulla. Così
come Giovanna che ad ogni tradimento di Filippo si sentiva morire un
po’ e diventava sempre più indifferente. Il nostro
è un nome maledetto. In un certo senso è come se
lo sentissi: verrò catturata, imprigionata e torturata e,
quando di me non resterà nient’altro,
diventerò solo un guscio contenente un animo
folle.”
La mente di
Finnick si rifiutò categoricamente di dar credito a quelle
parole anche se un brivido di freddo poco piacevole gli percorse
schiena. Le parole appena pronunciate da Johanna suonavano come una
profezia nefasta.
Tempi duri si
prospettavano per loro e andavano affrontati con il giusto spirito.
“Smettila
di pensare queste assurdità. Hai il nome di una regina
sfortunata e quindi? Questo non significa niente. Tu vivrai,
continuerai ad essere la solita donna sboccata ed irritante e troverai
un tuo Filippo.”
Lei
scrollò le spalle.
“Se
lo dici tu che sei un esperto in materia...”
“Sì,
lo dico e lo confermo. Tu sei un’amazzone e faresti bene a
ricordartene ogni tanto.”
Johanna
annuì e storse le labbra in un sorriso. Tornò a
sdraiarsi supina e Finnick seguì il suo esempio.
Attorno a loro
vi era solo un pacifico silenzio.
Un silenzio
che non si sarebbero mai stancati di condividere.
***
Un mese, sono
una persona orribile e malvagia e avete tutto il diritto di tirarmi
virtuali pomodori ed uova marce in segno di protesta. In mia difesa
dico che il tirocinio e la preparazione esami mi hanno completamente
assorbita e che alle 20:00 ero già in stato comatoso sul
letto.
Chiedo il
vostro perdono, gentili lettori!
Spero
però che, nonostante sia trascorso così tanto,
non mi priviate del piacere di leggere una vostra opinione o sapere
anche solo che avete dato una lettura alla storia :)
La frase "Io adoro le grandi feste: sono
così intime! In quelle piccole non c’è
alcuna privacy" è una citazione del Grande
Gatsby.
Ci
risentiamo il prima possibile, almeno dopo la sessione
d’esami che, me tapina, comincia lunedì D:
Fatemi un in
bocca al lupo e ci vediamo presto – sempre se sopravvivo alla
sopracitata sessione –
Love on ya!
Nota postuma:
ho dovuto ripubblicare il capitolo perchè non so per quale
assurdo problema, non me lo faceva più visualizzare.
Tecnologia del cavolo -.-
|
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Capitolo 6 *** E se ***
E se
Johanna
guardava la messinscena degli sfortunati amanti del Distretto 12 con
aria disgustata. Da quando la 74esima edizione degli Hunger Games era
cominciata, tutto era stato un continuo susseguirsi di colpi di scena
che avevano come protagonisti proprio quei due ragazzini
dell’ultimo Distretto: Katniss Everdeen e Peeta Mellark.
Lei,
introversa e scontrosa, la ragazza di fuoco, come era stata
soprannominata dopo il suo ingresso alla parata dei tributi; lui,
espansivo e gentile, comunicativo e simpatico.
Poi la
ciliegina sulla torta, l’elemento decisivo che aveva mandato
in estasi il pubblico di Capitol City: l’amore.
E non un amore
semplice, ma un amore impossibile tra due tributi il cui unico scopo
era quello di uccidersi a vicenda.
Un amore
destinato a soccombere, ad appassire prima ancora di sbocciare.
“Dio,
potrei vomitare.” Asserì Johanna con
un’espressione orripilata e Finnick, seduto accanto a lei in
uno degli eleganti bar di Capitol City, sorrise senza staccare gli
occhi dal televisore che rimandava in onda una tenera scena in cui
Katniss assisteva Peeta ferito.
“Io
dico che sono carini.”
“Sei
sempre il solito stupido sentimentale.” Lo
apostrofò lei, agitandogli la mano davanti agli occhi con
sufficienza.
“Sarà
come dici tu…” replicò Finnick senza
insistere ulteriormente.
Johanna
buttò giù l’ultimo sorso del drink, si
alzò e gli afferrò la manica della maglietta.
“Sono
stanca di stare qui a guardare questi due che giocano ai piccioncini
accaparra sponsor. Andiamocene.” Sentenziò seccata.
Finnick
levò gli occhi al cielo e scosse il capo. Senza fiatare si
limitò a seguirla mentre lo trascinava con poca grazia
attraverso il locale.
La ragazza si
fece largo tra la calca a spintonate e sguardi ostili, più
che altro rivolti verso la mandria di galline urlanti che si contendeva
anche un solo cenno da parte di Finnick.
“E
levatevi di torno, oche giulive!” gridò loro
contro con la sua solita affabilità.
Le donne la
fissarono con repulsione a causa della sua mancanza di educazione e
sfacciataggine, Finnick, invece, se la rise di gusto e fu tentato
dall’intrattenersi ancora a flirtare con le ragazze giusto
per farle dispetto. Ma accantonò l’idea,
poiché interagire con una Johanna adirata era molto peggio
che interagire con una Johanna annoiata o indispettita.
*
“Sai,”
esordì una volta che si furono seduti su una panchina nel
parco più isolato della città, “dopo la
tua performance di prima, se avessimo partecipato come Tributi nella
stessa squadra avrei potuto usarti come ariete contro i
nemici.” Finnick non riuscì a soffocare un
risolino divertito a quella considerazione e lei, per tutta risposta,
tirò su un angolo della bocca e gli regalò
un’occhiata bieca.
“Ah
ah, molto spiritoso. Dì pure che mi avresti fracassato la
testa con quella roba da sirenetta mancata che ti porti dietro di
solito.” Commentò pungente e lui assunse
un’espressione stupita.
“Credi
sul serio che ti avrei lasciata a morire?” domandò
con una punta di sorpresa nella voce. A Johanna parve strano che, dopo
tante edizioni, al ragazzo ancora sfuggisse l’obiettivo
cardine degli Hunger Games. Tirò una gamba contro il petto e
posò il braccio sul ginocchio.
“Saremmo
stati nemici, Finnick. Non mi illudo certo che mi avresti protetta. Al
massimo avresti sperato che fosse qualcun altro a farmi fuori al posto
tuo.” Replicò in tono pratico.
Lui si
portò due dita al mento e cominciò a
tamburellare, preso da chissà quali pensieri. Johanna lo
lasciò alle sue riflessioni e tornò a
focalizzarsi sui giochi acquatici della fontana situata di fronte a
loro.
Finnick
riemerse dal suo mondo e ritenne opportuno renderla partecipe delle sue
elucubrazioni.
“Avremmo
potuto giocare d’astuzia, come Katniss e Peeta.”
Dichiarò risoluto e aspettò che la ragazza
recepisse le sue parole. Johanna si voltò a guardarlo,
aprì la bocca e ne uscì una risata derisoria.
“Fingere
di essere innamorati per salvarci la pelle? Penso sia una delle idee
più cretine che ti siano mai venute in mente!”
sbottò scandalizzata e lui si strinse nelle spalle,
tranquillo.
“Perché?
Loro se la stanno cavando bene. Con la regola dei vincitori dello
stesso Distretto saremmo stati a cavallo.” Finnick ci tenne a
rimarcare il suo punto di vista, ma Johanna dissentì
ulteriormente.
“Tu
sei convinto che quegli strateghi bastardi li lasceranno vincere
così facilmente? Solo uno resta vivo negli Hunger Games,
Odair. E più che vincitore è un sopravvissuto
miracolato, specie se viene da un Distretto che non è
favorito.”
“Io
continuo a dire che Haymitch sta facendo un ottimo lavoro con il
pubblico.” Ribadì serio.
Johanna si
portò le dita alla testa e si massaggiò le
tempie; quella conversazione stava diventando scomoda e snervante. Per
non parlare poi della sua totale e completa inutilità.
“Vogliono
lo spettacolo e questa storiella d’amore campata per aria
ottiene audience. Guarda, tutti li adorano! Persino un ubriacone come
Haymitch sarebbe riuscito a far guadagnare loro un pubblico fedele.
Gliel’hanno servita su un piatto
d’argento.” Commentò beffarda.
Finnick non
sembrò turbato, anzi, la guardò furbo, come se in
tutta quella faccenda ci fosse un dettaglio che solo lui aveva intuito
e che era la chiave per dipanare la matassa.
“Ricorda,
Jo, che in tutte le storie c’è un fondo di
verità. Se hanno studiato questa strategia, significa che
Haymitch ha avuto del materiale sul quale impostare il piano da fargli
seguire.”
Eccolo, il
dettaglio, il pezzo mancante, l’idea sulla quale Finnick
basava tutte le sue macchinazioni: lui credeva che ci fosse qualcosa di
vero.
“Oddio,
quindi quei due sono veramente innamorati? È davvero
rivoltante... e assurdo.” Disse la ragazza ruotando gli occhi
al cielo, allibita. Finnick non le badò, continuò
anzi ad illustrarle le sue ipotesi.
“No,
non lei. Lei lo sta facendo solo perché ormai quello
è un copione da rispettare. Ma il ragazzo…glielo
si legge in faccia.”
“Tradotto
sarebbe solo lo sfortunato innamorato del Distretto 12…bene,
suona decisamente meglio. Amore unilaterale e palesemente non
corrisposto.” Replicò sarcastica.
“Chissà,
magari con i giochi lei si accorgerà di lui e
cambierà idea.” Aggiunse Finnick con un sorriso
enigmatico. Johanna inarcò un sopracciglio, scettica.
“Io
non ci giurerei.”
Stettero
ancora un po’ in silenzio ad osservare le luci del tramonto
che lambivano i palazzi dalle vetrate a specchio della capitale.
“Quindi
se fossimo venuti dallo stesso Distretto anche noi saremmo stati degli
Sfortunati Innamorati?”
Finnick non la
guardò neglio occhi. Quella domanda scivolata casualmente
dalle sue labbra lo fece sentire leggermente imbarazzato. Per una volta
si pentì di aver dato fiato alla bocca, ma non aveva
resistito alla tentazione di provocare ancora un po’ la sua
amica, che si dichiarava così infastidita dalle faccende
amorose.
Quello scambio
di battute, però, prese una piega inaspettata quando gli
rispose sferzante e sicura:
“Chissà…di
sicuro il tuo sarebbe stato un amore non corrisposto.”
Finnick
batté le palpebre ripetutamente, punto nell' orgoglio.
“E perché scusa?”
“Hai
anche il coraggio di chiedermelo?” fece lei con un sorriso
irriverente e canzonatorio. “Io non mi sarei mai potuta
innamorare di un damerino, bellimbusto e sciupafemmine come te! Saresti
corso dietro a tutte le belle gonnelle che si sarebbero parante davanti
ai tuoi occhioni verdi! Ed io per insegnarti le buone maniere sarei
stata costretta ad evirarti con un colpo secco. E così
avresti perso ogni tua utilità, caro mio!”
esclamò con fare teatrale e si alzò di scatto
dalla panchina su cui erano seduti, ben decisa a porre fine a quella
pagliacciata.
Finnick, che
non voleva assolutamente lasciarle l’ultima parola sulla
questione, fu veloce a raggiungerla, la prese per il polso e la
costrinse a voltarsi.
La avvolse tra
le braccia, tenendola contro il suo petto.
La
guardò con quella sua maschera da gatto sornione stampata su
quel viso che tutte le ragazze adoravano. L’espressione
pulita da angelo che celava una natura perfida non appena il sole
calava all’orizzonte.
“Magari
ti saresti accorta di me nell’arena e avresti cambiato
idea…O forse avresti solo dovuto imparare a conoscermi per
apprezzare le mie qualità
più…nascoste.” Le sussurrò
all’orecchio con un tono di voce roco e suadente, carico di
sottintesi.
Johanna, colta
alla sprovvista da quel contatto ravvicinato, sentì i
battiti del suo cuore accelerare.
“Andiamo Jo,
è solo Finnick e sta facendo il cretino come al
solito.” Si costrinse a recuperare
l’autocontrollo, non lasciando assolutamente trasparire il
disagio che derivava dalla sua vicinanza. A ben rifletterci, non erano
mai stati così stretti prima di allora in un abbraccio che
di amichevole sembrava non avere niente.
Il silenzio
carico di parole non dette, quel gioco di sguardi, la presa su di lei,
tutto andava interrotto subito. Non poteva permettersi di apparire
così vulnerabile, desiderosa anche solo delle briciole di un
contatto umano che si negava da troppo tempo.
Un contatto
che, proprio lui, non poteva
e non doveva
darle.
Perché
era pericoloso per entrambi.
Perché
le aveva raccontato tutto della sua storia con Annie.
“Rendigli
pan per focaccia, Jo. Con te non può usare gli stessi flirt
da quattro soldi che adopera con le sciocche di Capitol City. Tu non
hai bisogno di questo.”
Si riscosse
dal torpore e prontamente elaborò la sua strategia.
Gli
passò le mani sul petto in una carezza gentile,
inclinò il capo e, sorridendogli languida, con un movimento
diretto e preciso gli diede uno spintone che lo fece arretrare di
qualche passo. Finnick, sbilanciato, riuscì a salvarsi in
corner grazie al suo senso dell'equilibrio, evitando di rovinare al
suolo.
“Ma
senti un po’ il buffone! Le tue scenette con la faccia da
cucciolo bastonato con me non attaccano! Addio!”
sbandierò ai quattro venti la sua risoluzione e gli diede
velocemente le spalle, cominciando a camminare a passo di marcia.
Finnick la
guardò allontanarsi e si trovò suo malgrado a
sorridere. Aveva dato inizio lui a tutto e sapeva che, in
quel preciso istante, la sfumatura rossastra della luce solare sarebbe
stata un tenue rosa pastello in confronto al viso imbarazzato di
Johanna.
E
sancì che per lui il rossore sulle gote della ragazza, era
già di per sé una grande vittoria.
***
Sei
sopravvissuta agli esami? Sì.
Hai toppato
con la precedente one shot? Sì.
Ti convince
questa qui? No.
Perché
l’hai postata? Per mettere a tacere le voci nella mia testa,
probabilmente. E masochismo, sicuramente.
Vuoi
ringraziare i lettori e augurargli un buon weekend? Certo che
sì, ovviamente! :D
Ora tornerai
nella tua caverna a fare la maratona degli episodi di Sherlock?
Sì, certamente u_u
Adieu!
|
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Capitolo 7 *** Il principio delle cose ***
Il principio delle cose
Johanna
camminava come un leone in gabbia nella sua stanza al Centro di
Addestramento. I Giochi si erano conclusi, la coppia del Distretto 12
aveva vinto ribaltando inaspettatamente la situazione, e tutti
sembravano felici e contenti.
Tutti, tranne
i piani alti del governo e questo lei e tutti gli altri vincitori, lo
sapevano bene.
La ragazza misurava a grandi passi la sala da pranzo, mordicchiandosi
l'unghia del pollice fino a farla sanguinare. La camera sembrava troppo
stretta attorno a lei, come se stesse per chiudersi e schiacciarla tra
le sue pareti. Il groppo che le serrava la gola era ben difficile da
mandare giù, l'impotenza era un peso gravoso sulle sue
spalle, l'ansia era un fastidioso nodo che le serrava il petto.
Non aveva
ancora avuto notizie da Finnick e questo la turbava, specie quando
l'aveva visto allontanarsi con il solito sorriso cordiale, che
però non gli aveva raggiunto gli occhi, insieme a Plutarch.
Le era bastato
un lieve cenno del capo del ragazzo per capire di non provare a
seguirlo, così si era rintanata nella sua stanza e da allora
era cominciata la sua lenta agonia.
D'improvviso
un bussare energico alla porta la fece sobbalzare e trasalire.
Provò
a dissimulare l'agitazione apponendosi sul viso quell'immaginaria
maschera impastata con calma e sarcasmo e, con il cuore in gola,
andò ad aprire pregando che fosse lui.
Finnick entrò nella stanza repentinamente, un misto tra
l’eccitato ed il preoccupato. La afferrò per un
polso e la trascinò verso il bagno. Lei non ebbe nemmeno
tempo di opporsi che erano già all'interno; lui
aprì il getto della doccia che cominciò a
scrosciare rumorosamente, schizzandogli la maglietta.
“Allora?
Spero mi starai allagando il bagno per una buona ragione.”
Dichiarò tamburellando le dita sulla spalla del ragazzo per
falro voltare e puntellandosi il fianco con la mano libera.
In realtà era perfettamente a conoscenza che il suono
dell'acqua avrebbe coperto il loro dialogo da orecchie indiscrete. Non
vi era una certezza matematica che fossero spiati, ma nella loro
delicata situazione era meglio essere preparati a qualsiasi
eventualità.
Finnick
intanto continuava a guardarla nella sua fittizia quiete: la vena sulla
fronte era gonfia e ben visibile, le mani scosse da un lieve tremore,
il respiro era accelerato, superficiale.
Johanna
studiò attentamente quei cambiamenti nel corpo dell'amico,
scrutando più in profondità, capendo cosa si
celava dietro i suoi gesti meglio di quanto, a volte, capisse se
stessa.
"Capita, quando la gente
trascorre più tempo ad evitarti che a parlarti, di fermarti
ed osservare." Si era ritrovata spesso a pensare.
E Johanna non
vedeva semplicemente Finnick: lei lo osservava.
Osservava e
deduceva, come un agente addestrato. Da quando erano diventati amici si
era sottoposta ad un training veloce della personalità di
Finnick Odair: aveva dovuto imparare ad interpretare i segni, leggere
tra le righe, decodificare i gesti del ragazzo come lo scambiarsi uno
sguardo di intesa per capire come agire in una determinata situazione,
il fingersi allegri, stupiti o, semplicemente, voltare le spalle agli
altri con aria di superiorità e noncuranza.
Un vincitore
quello poteva permetterselo.
Finnick chiuse
le porte scorrevoli di vetro della doccia e si sedette sul pavimento
bagnato. Solo allora si lasciò sfuggire un sospiro
liberatorio.
Johanna
continuò a fissarlo, in attesa, anche se quella vena
tremendamente teatrale del suo carattere la stava distruggendo.
“Ebbene,
devo il piacere della tua compagnia al fatto che la mia doccia sia
più comoda? Trovo la cosa improbabile dato che sei tu quello
che tutti trattano con i guanti bianchi.”
Lui le rivolse
un mezzo sorriso. Batté con la mano sul pavimento facendole
segno di sedersi accanto a lui.
Johanna con uno sbuffo sdegnato, eseguì.
“Allora?”
“Allora,
hanno deciso. La prossima edizione sarà quella
decisiva.”
Il corpo della
ragazza si irrigidì, percorso da un brivido gelido, come se
avesse appena sentito lo schiocco di una frusta e stesse preparandosi
ad accusare il colpo sulla propria pelle. Aveva aspettato tanto quel
momento, la tanto agognata vendetta e adesso che sembrava essere
arrivata le appariva del tutto irreale.
“Così
presto? Perché?” Chiese con una punta di
turbamento nella voce.
Finnick
tirò fuori dalla tasca un apparecchio portatile
olografico e lo accese. Lo schermo vibrò e si
sintonizzò sulla replica della cerimonia di incoronazione
degli Hunger Games.
“Lei.”
La ragazza
guardò lo schermo e poi lui, senza capire.
“Lei?”
Finnick con un
gesto secco spense il dispositivo, si voltò verso di lei,
incrociò meglio le gambe sotto di lui e ripeté
con semplicità: “Lei.”
“Certo,
se continui a ripetere lei
io capirò tutto, mi sembra ovvio.”
Replicò Johanna con pesante sarcasmo.
Finnick si portò la mano alla base del naso, pizzicandola in
un gesto di sconfitta. Evidentemente riteneva la deduzione talmente
banale che il solo perdere tempo a spiegarla risultava sconfortante.
Nonostante ciò, le spiegò la situazione.
“Katniss
Everdeen, la ragazza di fuoco, è appena diventata la miccia
che darà inizio a quel magnifico spettacolo pirotecnico che
sarà la Rivoluzione.”
Johanna
credette di non aver sentito bene. Le parole ci misero un po’
a far presa nel suo cervello e la risposta che questo le
inviò fu una sonora e sprezzante risata.
“Benissimo,
adesso le ragazzine sono promotrici di ribellioni? Ai piani alti devono
essersi veramente bevuti il cervello!”
Finnick
inarcò un sopracciglio in disappunto.
“Dovresti
valutare bene le cose, Johanna. Cerca di non fermarti a ciò
che appare, vedi oltre la semplice vittoria. Quella ragazza ha
sovvertito le regole, ha fatto in modo da poter salvare anche il suo
compagno, ha smascherato il gioco di Capitol City ed il governo ci ha
visto molto di più che una semplice azione salvavita.
Seneca, però, se ne è reso conto troppo tardi.
L'audience non sempre paga.”
Johanna
deglutì piano, questo poteva significare solo una cosa: il
capo stratega era stato sollevato dal suo incarico in maniera
permanente.
“Fammi
indovinare, Plutarch sta già organizzando il suo party di
insediamento.”
Lui
annuì.
“Dice
che sarà una festa come se ne vedono raramente.”
“Lo
immaginavo.” Replicò asciutta. “Quindi
il suo piano originale sulla collaborazione tra Distretti è
cambiato?”
“No,
al contrario. Ora ha trovato un metodo per far rientrare anche noi nel
grande schema.” Finnick disegnò un cerchio con le
mani in maniera artefatta. La mente della ragazza intanto lavorava
frenetica nel tentativo di assemblare i pezzi e,
d’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, tutto le apparve
chiaro e semplice.
“L’edizione
della Memoria.” Alitò in un sussurro.
Finnick
curvò le labbra in un sorriso mesto e lei si
alzò, improvvisamente agitata. Cercò di non darlo
a vedere, provò a respirare, ma l’aria sembrava
essersi condensata nei polmoni.
L’arena,
il sangue, le urla, tutti i ricordi le tornarono alla mente in una
dolorosa scarica.
“Vuole
cominciare la stramaledettissima rivoluzione risbattendo noi
nell’arena? Che piano geniale, ne saranno tutti
entusiasti!”
“Smettila
di fare la melodrammatica, non ci saremo solo noi due. Il piano
è di organizzare un’edizione della memoria
sorteggiando i vincitori dai vari distretti. Il presidente vuole la
ragazza morta ma non per mano sua, poiché le persone si sono
affezionate alla vicenda, ma vuole comunque che muoia per via del suo
gesto di fronte alle telecamere del paese. La sua morte deve essere un
monito, un monito per tutti coloro che oseranno ribellarsi. Nessuno,
nemmeno il più forte tra i vincitori, può vincere
sulla potenza di Capitol City. E poi Plutarch ha colto la palla al
balzo e ha deciso di renderci parte attiva per proteggere la ragazza-
simbolo e farci partecipare in prima persona al piano.”
“Così
io dovrei tornare nell’arena per salvare il culo di una
ragazzina immagine per il bene della ribellione, solo perché
lei piace alla gente? Mi stai dicendo che il succo è
questo?” esclamò incredula.
“Se
la metti in questa maniera rozza, sì, è
così.”
Finnick si
strinse nelle spalle, come se tutta la situazione fosse la cosa
più naturale del mondo. Lei invece si risedette a terra con
le mani intrecciate dinanzi a sé.
“Lo
sapevo che quei due avrebbero incasinato tutto con quella storiella
degli innamorati.” Affermò in un sospiro esausto.
“Tecnicamente
non è proprio così. Diciamo che stavano solo
aspettando un’occasione adatta dopo i tuoi giochi. Tu sei
stata il meccanismo che ha fatto scattare tutto, il principio di tutte
le cose. Ma quando è stato il tuo turno, i tempi non erano
ancora maturi. Il gesto di Katniss è stato il segnale
finale. Devi ammettere che avete un temperamento a tratti molto
simile.”
Sorrise
compiaciuto, ma Johanna non fu dello stesso avviso.
“Lei
non vuole combattere, Finnick. Che motivo avrebbe? Ora si è
sistemata per la vita, l’unica cosa che vuole è
che lei ed il ragazzo siano lasciati in pace. Si sta solo ritrovando
tra l’incudine ed il martello e non è sicuro da
che parte sceglierà di stare quando arriverà il
momento.”
La mano di
Finnick si allungò a poggiarsi sulla sua spalla. Aveva un
sorriso rassicurante, di quelli che la ragazza aveva visto
così poche volte nella vita, che avevano il potere di
spazzare via le parole amare e riempire l'animo di calore.
“Di
motivi ce ne sono più di quanto immagini, Haymitch me
l’ha confermato.”
Johanna storse
il naso.
“Avevo
dimenticato che in questa faccenda c’entra anche
quell’ubriacone. Perché lui sa, vero?”
“Ovvio
che sa, è stata anche una sua idea questa.”
Confermò in tono deciso.
Lei
sollevò gli occhi al cielo.
“Perfetto,
ci siamo affidati anche alle idee di un alcolizzato. Come se quelle di
un tacchino imbellettato non fossero abbastanza.”
Finnick rise
piano e lei ricambiò con l’ombra di un sorriso
sulle guance magre.
“Finn,
posso farti una domanda…indiscreta?” Chiese
mordendosi l’interno della guancia. Si sentiva estremamente
stupida ma voleva sapere.
“Certo.”
Replicò pacato.
“Hai
già pensato a…insomma…lo sai. Se i
tributi verranno scelti tra i vincitori c’è la
possibilità che lei venga sorteggiata.”
Johanna non
era solita chiedere le cose con tatto, ma lui era Finnick e dalla
reazione del suo sguardo, dalla pupilla dilatata per
l’apprensione, la rigidità dei muscoli del viso,
capì che la domanda lo preoccupava.
“Non
lo sopporterebbe. Non di nuovo, sai bene che la distruggerebbe.
Io…ci ho pensato, sì.”
In quel momento il Finnick sicuro di sé scivolò
via, svanì in uno sbuffo di fumo come se non fosse mai
esistito, rimpiazzato dal Finnick più fragile e vulnerabile.
Lei
annuì, lasciando che il discorso cadesse, pentendosi anche
di aver sollevato la questione. Provò inoltre una forte
vergogna quando si scoprì rassicurata di poter condividere i
giochi con lui. Sarebbero stati insieme, si sarebbero guardati le
spalle l’uno con l’altra ma erano tante le
variabili da considerare e tante le domande che le vorticavano in
mente, domande che non avrebbero trovato ancora una risposta, non in
quella sede almeno.
Era solo
sicura che, se avesse dovuto scegliere tra salvare la vita alla ragazza
di fuoco o a lui, avrebbe scelto Finnick senza battere ciglio, e
avrebbe mandato a farsi fottere la ribellione.
“Blight.”
Disse lei rompendo la coltre di silenzio che si era creata.
“È un vincitore del 7, una persona a posto.
Idiota, ma a posto. Ci aiuterebbe, potrei parlarci io.”
“Tu
che parli con una persona senza un’arma in mano e di tua
spontanea volontà? Sei poco credibile, Mason.”
Affermò Finnick con un sorriso ironico. Johanna si
sentì sollevata.
“Chi
ti dice che non mi porterò un’ascia dietro?
Riflettici: se dovesse dirmi di no dovrei ucciderlo. E, a proposito di
asce, sarà meglio che tu vada via, devo rifare il filo e
divento scontrosa quando qualcuno mi osserva. Anzi no, resta, posso
testare la validità della mia arma tagliandoti qualcosa di
prezioso…” calcò bene le ultime parole
e lui si tirò in piedi, avviandosi verso la porta.
“Mi
sono appena ricordato che ho un impegno molto urgente e devo veramente
scappare.” Affettò un inchino vistoso con
un'espressione fintamente impaurita.
“Che
cuor di leone che sei!” lo canzonò lei.
“Ricordati che parteciperemo ai prossimi Hunger Games, e
lì non potrai imboccare la prima porta per scappare via da
me e dalla mia ascia.”
Lui le
sorrise, stavolta in maniera disinvolta e scanzonata, quasi a voler
prendere in giro quel destino crudele che, facendosi beffe di loro,
stava per spingerli nuovamente nell'arena, quel luogo che dominava i
loro incubi più terribili.
“Felici
Hunger Games, Johanna Mason.”
“E
possa la fortuna essere sempre a nostro favore, Finnick
Odair.”
***
Ebbene ci si
rivede, da quanto tempo!
Non me ne
vogliate, purtroppo questi mesi sono stati una continua parabola
discendente di impegni universitari e relativi esami che mi hanno
tenuta lontana dalla scrittura >_< Ora che sono in
vacanza sarà un piacere poter recuperare e continuare questa
raccolta.
Volevo infatti
informarvi, a tal proposito, che ho deciso di chiudere qui questa prima
parte proprio per avere modo e tempo di scrivere quella relativa a La
ragazza di fuoco e al Canto della rivolta, così la serie
sarà bella e completa. Infatti, piuttosto che lasciare il
lavoro incompiuto - cosa che non è nella mia indole fare -
preferisco chiuderla qui e dedicarmi con calma al continuo del progetto
ed anche alla nuova idea che mi frulla in testa, nel fandom di Sherlock
della BBC per l'esattezza.
Vi ringrazio
davvero tantissimo per aver avuto la pazienza di seguirmi e per aver
dedicato un minuto a leggere questa piccola raccolta su due personaggi
che apprezzo molto, e spero inoltre che vi sia piaciuta e che non
l'abbiate trovata davvero pessima XD
Detto questo
vi rinnovo l'appuntamento al prima possibile e vi auguro delle
frizzantissime vacanze estive!
Baci e ancora
grazie dalla vostra amichevole Jo di quartiere :D
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