The other side of Hollywood

di Love_in_London_night
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come farsi lasciare in dieci giorni ***
Capitolo 2: *** Ricatto d'amore ***
Capitolo 3: *** Amici, amanti e... ***
Capitolo 4: *** Se scappi ti sposo ***



Capitolo 1
*** Come farsi lasciare in dieci giorni ***







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Guarda il trailer della storia realizzato da Kath Redford



Capitolo 1

 
Come farsi lasciare in dieci giorni


 
La prima giornata di vacanza dopo il lavoro era sempre fantastica: poteva alzarsi tardi, infilarsi il costume, trovarsi con gli amici in spiaggia per surfare un po’ e, verso sera, bere qualche birra attorno al falò a raccontarsi aneddoti divertenti. Erano gli amici di sempre, tanto quanto lui tornava a essere quello di sempre in loro compagnia, un ragazzo qualunque.
Certo, se non si calcolava la piccola villa a Hollywood e il conto in banca a tanti zeri, troppi per ricordarli tutti.
Perché Parker Payne era il nuovo astro nascente dello star system americano, ma era troppo semplice perché attirasse su di sé i riflettori fuori dal set. Gli bastava poco per sentirsi felice e appagato, quel poco che non piaceva a John, il suo agente.
«Dio, Parker, perché sei così poco interessante? Non hai problemi d’alcool, non ti droghi, niente. Ok, mi sta anche bene avere un reale talento tra le mie mani d’oro, ma non sei nemmeno uno sciupa femmine! Capisci che non posso fare tutto io?»
Glielo ripeteva in continuazione John, tanto che aveva sentito quello stesso discorso la sera prima, quando aveva deciso di saltare la festa di fine riprese organizzata dalla produzione del suo ultimo film, e il pomeriggio stesso. Questa volta per telefono.
«Ho fatto surf oggi. E mi sono alzato prima di mezzogiorno, non mi sembra poco». Lo prese in giro Parker mentre salutava gli amici e si sedeva in auto ma senza metterla in moto. Nemmeno quel giorno l’avrebbero arrestato per infrazione del codice stradale.
«Ti ha morso uno squalo?»
«No». Rispose Parker, stufo di quello che si sarebbe rivelato un infruttuoso interrogatorio per quel povero Cristo di John.
«Hai salvato la vita a qualche persona?»
«Nah»
«Conquistato qualche modella?» lo incalzò.
«Nemmeno». Almeno replicare era facile e, nonostante la risposta fosse stata sempre la stessa era riuscito a sfoggiare tre diverse negazioni, era soddisfatto di sé e della sua cultura. Chiunque avrebbe capito che adorava leggere, bastava prestare attenzione al suo vasto vocabolario.
«Ho bevuto una birra prima, ah!» Parker lo aggiunse compiaciuto, quasi volesse dimostrare di essere trasgressivo se solo avesse voluto. «Attorno a un fuoco».
Lo aggiunse come se avesse calato il carico da novanta.
«Con i tuoi amici?»
«Beh… sì». Ammise meno spavaldo.
«Allora non hai fatto nulla di produttivo per la tua carriera». John sospirò. «Sei un vero talento, e non parlo come il tuo cinico agente, ma da uno esperto dell’ambiente. Sei anche un bravo ragazzo, ma lo sei pure troppo. Non ti presenti alle feste, ti tieni distante dalla vita mondana e frivola». Era diventato più conciliante, come un padre che tentava di spiegare al figlio il significato più profondo della vita.
«A me non piace la vita mondana e frivola, se posso la evito». Gliel’aveva ripetuto più volte, ma ribadirlo non lo uccideva di certo. Era fatto così Parker, e aveva sempre promesso agli altri e soprattutto a se stesso che mai sarebbe cambiato nonostante il proprio lavoro. Era orgoglioso di poter dire di aver mantenuto la parola data.
Non sopportava di dover presentarsi a feste dove non conosceva nessuno, non c’era uno straccio di faccia amica, beveva champagne vestito da damerino come se stesse pubblicizzando Chanel n°5; trovava fastidioso dover essere compassato e rigido in un completo firmato che non lo rappresentava molto, fingere di essere pieno di fascino e mistero, sfoggiare la sua miglior faccia da uomo perbene come tutti, quando poi – a turno – si chiudevano in bagno per farsi qualche striscia di coca.
Preferiva stare in casa con la felpa a ripassare il copione, cercare nuovi progetti o giocare a Gran Theft Auto.
«Sai chi decreta il vero successo di un attore?» John lo riportò con i piedi per terra e le orecchie ben piantate al telefono.
«I fan?!» rispose insicuro.
«No. Ok, non solo. I paparazzi Parker, i paparazzi. Se tu attiri l’attenzione sullo schermo sei bravo, ma se riesci a interessarli anche fuori, specialmente in positivo, beh… sei il migliore. Un Dio».
Parker era confuso. Certo, sapeva che avere l’interesse dei media era importante e che erano loro a decretarne il successo o la totale sconfitta, ma non era convinto di dipendere così tanto da loro, se ora recitava in film che potevano essere candidati per l’Oscar era merito suo.
«Se ti vedessero uscire con, vediamo… Scarlett Johansson, attireresti la loro attenzione senza ledere la tua immagine. Il loro focalizzarsi così poco su di te è un punto a tuo sfavore. Ti fotografano se ti trovano per caso in giro, non escono per cercarti, aspettano sempre altri. Devi renderti desiderabile». Spiegò l’agente spiccio.
«Perché…» cercò di farlo arrivare al punto.
«Perché più interessi al gossip, più la gente vorrà vederti. Più la gente vorrà vederti, più i produttori e i registi ti cercheranno. Tutti vorranno nei propri film un ottimo attore che sia anche in grado di garantirgli pubblico, e quindi un buon rientro monetario. È ovvio, no?»
«Sì, ovvio». Tanto quanto la virilità di Robin Williams in Mrs. Doubtfire.
«Bene, ora devo andare, ho un appuntamento per te, mio piccolo talento perbene. Vedi di rendermi fiero». E riagganciò prima che Parker potesse salutarlo.
Il ragazzo fissò il telefono con aria strana, capiva il suo agente, ma non poteva certo cambiare il suo modo d’essere.
Scosse la testa e un sorriso divertito gli comparve sul volto, nulla nella sua vita era normale come lo ricordava, nemmeno le persone che lo circondavano.
Avviò il motore e si diresse verso casa propria. Solo davanti a un piccolo market all’inizio del Boulevard si ricordò di avere uno stomaco che andava riempito e brontolava per non essere stato assecondato. Scese dal fuoristrada parcheggiato accanto al marciapiede nei pressi dell’entrata e si sgranchì le gambe e le spalle.
In realtà aveva bisogno anche di non pensare alle parole del suo agente. Lui non voleva essere l’attrattiva dei paparazzi, anche se voleva dire essere in cima al mondo. La loro indifferenza era più che ben accetta. Gli piaceva poter camminare con una certa libertà, sapere che nessuno rovistava nei sacchetti delle spazzatura che lasciava nei bidoni fuori casa, sentirsi libero di girare per casa come meglio credeva e, soprattutto, avere una certa riservatezza in bagno.
Perché avrebbe dovuto rinunciare a tutto quello?
Non riusciva a trovarne un beneficio.
Si guardò in giro e, prima di entrare nel drugstore, fissò per qualche secondo una figura strana davanti a sé: era una ragazza. Capelli rossi, quasi arancio, e la faccia con tantissime lentiggini.
Era seduta sul bordo del prato di fianco al parcheggio del market, la fronte ora appoggiata sulle ginocchia, una bottiglia di vodka in mano. Anche se non stava piangendo si poteva capire benissimo che l’aveva fatto per molto, molto tempo, aveva gli occhi gonfi e cerchiati da occhiaie viola.
Parker sgranò gli occhi, quella ragazza doveva essere messa davvero male per bere da sola seduta sul ciglio del marciapiede, eppure aveva in sé qualcosa di buffo. Lei era buffa. Nonostante fosse triste riuscì a strappargli un sorriso.
Avrebbe voluto toglierle la bottiglia di vodka dalle mani e gettarla via, magari era un’alcolista che aveva bisogno di un aiuto, ma poi si disse che lui non era nessuno per poter applicare tutta quella autorità su qualcuno, quindi decise di seguire i bisogni del suo stomaco ed entrò nel drugstore alla ricerca di qualcosa di commestibile e, preferibilmente, già cotto.
Dopo venti minuti si era ritrovato in cassa con delle patatine alla paprika nel sacchetto, dei popcorn da mettere nel microonde, una bibita gassata alla ciliegia e una pizza surgelata. Guardò fuori dalla porta d’entrata e lì accanto vide ancora la ragazza, seduta dove era prima.
«Sono sedici dollari e settanta» disse svogliato il proprietario del negozio.
«Aggiunga anche questo» Parker posò sul bancone una barretta al cioccolato e al caramello, a tutti piacevano quelle schifezze. «Ok, ne metta due».
Si era dimenticato il dolce, doveva pure rimediare.
«Diciotto e cinquanta» rispose l’uomo sempre più indolente. Mise tutto nel sacchetto di carta e nemmeno ringraziò Parker per avergli augurato un buon lavoro. Almeno uno dei due conosceva l’educazione.
L’attore mise in auto la spesa e poi schiacciò di nuovo il tasto dell’allarme. Non che avesse intenzione di allontanarsi da lì, dato che aveva l’idea di assicurarsi che per la ragazza tutto fosse okay, ma era abitudine. Non per nulla era una persona precisa.
Aveva fiducia nel prossimo, ma non in tutti.
Non di sicuro nel tipo che stava passeggiando con quell’aria losca sull’altro marciapiede.
«Tieni». Esordì gentile allungando la barretta alla sconosciuta. «Ho pensato che potesse aiutarti… Beh, ad assorbire» e indicò la bottiglia.
Lei sorrise stanca, prese la confezione tra le mani ma non la aprì. «Come se potesse fare la differenza. Comunque grazie».
Almeno lei era stata più gentile rispetto al proprietario del drugstore, Parker sorrise di quelle parole. Non sembrava ubriaca, in effetti la bottiglia non era molto vuota. Decise che non doveva essere facile buttare giù della vodka liscia, di sicuro non era semplice come sembrava nei film.
«Ehi, ma dove è finito il sacchetto marrone in cui ti hanno nascosto la bottiglia?» decise di sedersi accanto a lei, forse parlare un po’ le avrebbe fatto bene. Lui non aveva fretta di rintanarsi a casa per mangiare da solo. «Sai, per noi americani è d’obbligo quell’involucro, mantiene alto il nostro valore di finta pudicizia».
Sorrise senza essere davvero contagiata dal resto. «Appunto, per voi americani. Siete davvero dei finti moralisti!» aggiunse quasi divertita. «Siete la patria del porno e vi scandalizzate per un seno mostrato in diretta, avete creato il junk food e vi lamentate dell’obesità. State pensando di vietare la Nutella. No dico, siete per caso scemi?»
Parker sorrise, la sua invettiva aveva un qualcosa di appassionato che lo fece divertire. «Deduco che tu non sia americana». Diede un morso alla sua barretta al cioccolato. «Però sulla Nutella posso darti ragione da vendere. Quella cosa è fantastica, una vera droga!»
«No, appunto». Si limitò a rispondere lei, chiudendosi dietro il silenzio e la faccia scura che l’aveva caratterizzata fino a prima. Il cappuccio calato sulla testa le conferiva un’aria più cupa di quella che in realtà aveva.
Bevve un sorso di vodka per levare i residui di caramello tra i denti, ma dopo tradì tutta la sua facciata esprimendo il proprio disprezzo con una smorfia di disgusto accompagnata da un brivido.
«I programmi per la serata?» a Parker piacevano le persone, c’era sempre qualcosa di nuovo e affascinante da scoprire. Era sicuro di una cosa: il successo e la propria umiltà dipendevano dalla sua curiosità; se non avesse avuto quella a spingerlo non sarebbe arrivato da nessuna parte.
La ragazza fece dondolare la bottiglia. «Sono indecisa» pronunciò con tono amaro. «La vodka sta iniziando a darmi alla testa, quindi le alternative sono due: o mi chiudo in casa a piangere tutte le mie lacrime – quelle della giornata, sia chiaro – oppure do fondo alla bottiglia e mi addormento nel giardino di qualche sconosciuto, nella speranza di non vomitare l’anima»
«Beh, alternative allettanti» scherzò Parker mentre si grattava il mento. «Però potresti fare due passi con me per smaltire l’effetto della vodka. Niente pianti e niente vomito, solo un giro e due chiacchiere, prometto».
Si alzò e poi le tese la mano davanti al viso, nella speranza che dopo una prima reticenza avesse potuto accettare.
«Devo proprio parlare?» quasi grugnì contrariata alzando gli occhi al cielo.
«No, se vuoi parlo solo io e tu ascolti». Sorrise rallegrato. Il fatto che lei fosse contraria a tutto quello ma continuasse a stare al suo gioco lo divertiva parecchio, voleva vedere fino a che punto quella sconosciuta poteva sopportarlo.
Senza contare che non l’aveva riconosciuto o, comunque, non aveva dato peso al suo essere famoso.
«Ma chi sei tu, il buon samaritano di turno?» disse lei nell’alzarsi.
No, a quanto pare non sapeva chi fosse.
«No, sono Parker. Tu?»
Ma prima che potesse rispondere lei si mise in piedi con troppa foga e, complice la vodka in corpo, gli volò addosso. Per fortuna, come poté constatare anche la ragazza in prima persona, era così sodo da non aver incassato il colpo.
In effetti Parker non si era spostato di un millimetro, il suo corpo era allenato per ricevere stimoli maggiori, però quel contatto così ravvicinato non gli aveva fatto altro che piacere.
La ragazza aveva un viso pieno, e il resto del corpo rifletteva questa sua caratteristica. Inoltre, per essere una donna, era abbastanza alta.
«Devin» disse lei una volta recuperato l’equilibrio mentre tornava in possesso della propria mano.
Parker si incamminò lungo il marciapiede sul quale erano rimasti seduti, una passeggiata tranquilla nella zona residenziale di quel quartiere di Los Angeles non li avrebbe certo uccisi. Anzi, era convinto che se John avesse saputo cosa una semplice curiosità l’aveva spinto a fare sarebbe stato fiero di lui e di quella sua piccola trasgressione.
«Ma voi buoni samaritani andate in giro tutti con il cappellino di notte, oppure sei una di quelle persone strane che popolano gli Stati uniti?»
Prima di rispondere Parker si guardò in giro, quasi si sentisse osservato. Come se le piante lì attorno potessero mettersi a spiarli.
«A dire la verità sono un samaritano strano americano. E non saprei dirti quale sia il più inquietante di questi due lati».
Sorrise nella speranza di essere risultato simpatico, ma Devin lo guardò con fare compassionevole. Decise di essere comunque risultato divertente, era ovvio che il problema fosse di lei, in quanto straniera  non avrebbe certo capito il suo spiccato senso dell’umorismo.
Avrebbe voluto mettere le mani in tasca, ma la bottiglia glielo impedì, così tornò indietro – vicino alla propria auto – e mise la bottiglia nel cestino della spazzatura lì accanto, beccandosi un’occhiata torva della proprietaria della vodka.
«Non ti servirà. E non te ne pentirai, lo prometto».
Devin non sembrava convinta e aveva continuato a fissarlo in cagnesco, ma non si era permessa di obiettare. Parker lo prese come un buon segno, un primo step verso una pace silenziosa verso il quale stavano andando a ogni passo.
«Hai un viso famigliare» disse la ragazza con fare forse troppo scontroso.
No ok, quella conversazione sarebbe stata tutto, tranne che divertente. Ora ne aveva le prove.
«Ti ricorderò qualche modello stampato sulle borse di Abercrombie. Sai, mi capita spesso che mi scambino per uno di loro. Voglio dire, guarda il mio profilo».
Si mise in posa per farla ridere, e ci riuscì. Ok, doveva ammetterlo: era stato scorretto, ma in fondo non aveva mentito, aveva omesso soltanto parte della questione. Devin non gli aveva chiesto perché era un viso che aveva già visto o se, per caso, fosse stato un attore di Hollywood, a quelle domande non avrebbe potuto non rispondere o, peggio, mentire; ma sapere di non essere stato riconosciuto gli aveva fatto piacere, apprezzava che lei avesse accettato la sua compagnia solo per il puro bisogno di sfogarsi con qualcuno, o magari perché l’aveva trovato interessante.
Era lontano dall’essere Parker Payne, l’attore famoso in ogni via degli Stati Uniti, sapeva che all’estero non riscuoteva questo immenso successo, e per una volta voleva sfruttare la situazione a proprio favore.
«E così ti chiami Devin. È un bel nome» disse per spezzare il silenzio che era calato tra loro. Avevano iniziato a camminare lungo il marciapiede silenzioso e buio mentre guardavano le abitazioni accanto a loro: case indipendenti a due piani con il giardino che terminava sul lastricato che stavano percorrendo, erano le anticipazioni  delle ville appartenenti ai veri ricchi che sarebbero iniziate a vedersi di lì a qualche chilometro.
«Talmente bello che alle elementari mi chiamavano Devil» rispose la ragazza con un tono schifato.
«Come Crudelia. I bambini sanno essere spietati quando vogliono. Beh, vedila così: non ti hanno dimenticata». Un paragone forse infelice, ma tornare a cartoni animati e film – il suo mondo – per  lui era un richiamo troppo forte per non cedervi.
Inoltre era saggio tacere che il suo soprannome, alle medie, era Iron Man. E non di certo perché aveva il fisico talmente allenato da sembrare acciaio, era merito dell’apparecchio che sfoggiava a ogni sorriso. Sempre meglio di ‘ferraglia’, il nomignolo con cui chiamavano Jack Fletcher, il caso umano della classe di letteratura americana. Lui sì che era davvero un perdente. Certe cose era meglio che restassero private, dato che non sarebbe stato carino divulgare determinate informazioni imbarazzanti riguardo un attore che doveva avere la parvenza di un sex symbol.
«Credimi, io però vorrei scordarmi di loro». Finse un brivido al solo ricordo.
Almeno si stava aprendo, Parker era riuscito a catturare la sua attenzione.
«Il nome, i capelli rossi – no ok, quasi arancio – e le lentiggini… Mi fanno presupporre che tu sia inglese. Sbaglio?»
Continuare a muoversi su argomenti neutri forse avrebbe prodotto i suoi frutti. Voleva distrarla dal suo essere così triste, ma desiderava conoscerla. Era un balsamo per la sua anima essere trattata come uno qualsiasi, e quella ragazza era interessante, oltre che carina. La serata era decisamente migliore di come l’aveva preventivata in spiaggia. Sì, superava le sue solite aspettative, meglio del film e della pizza che lo aspettavano.
«Hai dimenticato la carnagione che tende alla trasparenza. Cmq sì, sono scozzese». Abbassò il cappuccio e, mentre infilava le mani nelle tasche della felpa, scosse i capelli per ravvivarli.
«E cosa ti porta a Los Angeles?»
Era davvero un ragazzo curioso, non poteva farci nulla. Non sarebbe certo cambiato a ventisei anni, doveva solo accettare quello che era e cercare di migliorare. Era fiero di sé in quell’istante: prima di porre la domanda che più gli premeva aveva intavolato una specie di rapporto con la sua interlocutrice, non potevano dargli del semplice impiccione come una volta.
Lo sentiva, era sulla strada giusta.
«Il passato».
Silenzio.
Aria cupa. Occhio lucido.
Bam! Tra di loro si era schiantato un silenzio degno di un film horror, forse quello non era l’argomento adatto da affrontare, maledizione.
«Sei nata qui?» tentò di rimediare.
Devin sospirò. «No, il passato mi ha spinta qui. Hai presente la storia di prima del voler dimenticare i compagni delle elementari? Ecco, diciamo che sono in buona compagnia sulla mia lista delle persone che vorrei prendere a calci negli stinchi».
Lo sapeva, era cosciente che prima o poi avrebbero toccato un simile tasto e che lei avrebbe ceduto davanti a due occhi chiari così belli e sinceri. La verità era che aveva bisogno di sfogarsi ed era terribilmente vulnerabile. Un ragazzo bello e cordiale non si trovava in giro tutti i giorni, inoltre da quando era arrivata a Los Angeles non si era confidata con nessuno perché, oltre ai propri colleghi, non conosceva anima viva.
Si rese conto che la sua vita doveva sembrare più triste di quanto fosse in realtà.
«Su, non fare la vaga. Confidati, non mordo né tantomeno giudico».
Era così persa nei propri pensieri da non essersi resa conto di non aver più parlato, lasciando Parker ad attendere una risposta per lei difficile da fornire.
«Ehi, ma non eri tu quello che doveva parlare? Io avevo espresso la mia intenzione di non voler aprire bocca». Un po’ scontrosa forse, ma era il suo ultimo tentativo di difesa, il modo di non vedere crollare i propri muri costruiti con tanta fatica, dietro il quale aveva cercato di reprimere lacrime, bocconi amari e dolore.
«Ma sei tu quella che ha bisogno di sfogarsi, non sono io la persona con una storia da raccontare»
«Cosa ti dice che sia così?» alzò un sopracciglio, una maschera dietro cui celarsi.
«Occhi gonfi e rossi, una bottiglia di vodka liscia… Non sai nasconderti bene».
Devin sospirò e abbassò la testa.
In effetti non era il ritratto della felicità, e non faceva nulla per nasconderlo.
Aveva deciso: avrebbe spiattellato la propria storia e avrebbe visto Parker scappare a gambe levate prima della fine del suo racconto. Di solito i ragazzi non amavano avere a che fare con ragazze complessate che si piangevano addosso. Meglio così, si disse, non le sarebbe piaciuto affezionarsi all’idea di un nuovo amico per poi vederlo scomparire poco dopo, era meglio far cadere subito le illusioni di quella strana confidenza nata tra loro.
«Ok, va bene, facciamola finita. A Glasgow la mia vita era piena. Un lavoro, un ragazzo, una casa; non potevo desiderare di meglio. Ok, lavoravo come segretaria, niente di fantasmagorico, ma mi piaceva la mia vita. Un giorno Oliver mi ha chiesto di andare a convivere e, logicamente, ho accettato. Un mese fa avevamo comprato casa, stavamo per firmare il contratto, invece quando ci siamo visti per sistemare i dettagli mi ha lasciata. Sentiva la mancanza della sua ex – di cinque fottuti anni prima – e diceva che non era quello che voleva per sé».
Aveva condensato gli avvenimenti principali in una lunga, unica frase nella speranza che il tutto suonasse meno patetico di quanto fosse in verità. Magari aveva parlato così velocemente da non permettergli di apprendere tutti i fatti, o così sperava.
«Ho pensato fosse la paura per un gesto così importante, ma in realtà lui era deciso, sicuro di non amarmi più. Così ho prenotato un volo il più lontano possibile. Ed eccomi qui». Sospirò più tranquilla, tanto ormai il danno era stato fatto. «La vuoi sapere la cosa divertente?»
Perché, perché aveva aggiunto la parte finale? Perché era diventata un fiume in piena che non accennava a frenare il proprio flusso? Dio, che imbarazzo.
«Avanti, spara». Parker la guardava senza pietà, non la stava giudicando con una semplice occhiata. Si sentiva meno sfigata del solito.
«Quando Oliver ha saputo che sarei partita io pensavo mi avrebbe fermata, invece mi ha inviato un sms con scritto solo “Buona fortuna, ti meriti di essere felice come lo sono io ora”».
Mh, doveva rettificare. Dopo quella confessione si sentiva la solita perdente di quei giorni.
Però almeno aveva raccontato la storia a qualcuno di estraneo, togliendosi un peso dal petto che non pensava nemmeno di avere.
Ora Parker era libero di prenderla per il culo a vita e mostrare tutto il suo compatimento, cosa che Devin odiava.
«Beh, la storia non è delle migliori, ma hai avuto il coraggio di cambiare, ora hai l’opportunità di ricominciare dall’inizio ed essere te stessa. Una nuova te stessa, magari quella che hai sempre sognato di essere».
Non era bravo con le parole, ma di sicuro non sarebbe caduto in convenevoli scontati come il classico “Ci vorrà del tempo” o “Posso capire/comprendere/immaginare/’sticazzi/la tua vita è solo una terribile bugia/Luke, io sono tuo padre”. Odiava le frasi fatte, né tantomeno era qualcuno per poter giudicare il passato. No, lui era una persona proiettata sul futuro e sulle opportunità da cogliere, quindi non si sarebbe dilungato sulla triste vicenda, quanto più su ciò che da essa si poteva ricavare, soprattutto riguardo i lati positivi.
«Non è così facile. Pensavo che trasferirmi lo fosse. Invece ho un lavoro precario, sento la mancanza della mia famiglia, dei miei amici e vivo con la paura di essere una totale fallita e di non farcela».
Dov’era la vodka? Avrebbe preferito vomitare quella rispetto alle proprie paure, riversate – per giunta – su un totale sconosciuto. E se dopo lui, sapendo che era lì da sola, l’avesse uccisa?
«Ti manca Oliver?»
Ecco, se le avessero chiesto quale domanda si sarebbe aspettata dopo, quella non rientrava affatto nelle prime duecento. Elevate alla enne. Tanto per dire, eh.
«Vorrei poter dire di no, che non merita un mio pensiero perché è un senza palle di prima categoria, ma purtroppo non è così, ci vorrà del tempo».
Quello sconosciuto solleticava il suo lato sincero senza filtri, peggio di una foto in Instagram, e non andava bene. Si sentiva come Cenerentola con gli amici topolini: compresa. Allora il mondo non era popolato da persone stronze come le sorellastre della principessa. E di Oliver.
Fiducia nell’umanità: ritrovata.
«Da quanto sei qui?»
«Tre settimane».
Silenzio.
Parker doveva ammettere che in effetti non c’era molto altro da dire, così decise di aggiungere una considerazione personale.
«Allora vedrai che tutto si sistema, è solo questione di abituarsi un attimo. Giuro che Los Angeles non è male, sa dare molto se la si tratta con gentilezza e tempra».
Capiva come potesse sentirsi, lui veniva dalla Georgia. Certo, non proprio dall’altra parte del mondo, ma comunque la costa opposta rispetto a dove viveva ora. Là aveva tutto: i migliori amici, la famiglia, le sue origini. Nonostante abitasse a Los Angeles da quasi dieci anni sentiva sempre la mancanza della sua vecchia vita, quindi immaginava quanto potesse essere dura per lei.
«Tu hai fatto così?» Devin cercava solo speranza, un appiglio in cui credere, un qualcosa che le facesse capire che poteva farcela pure lei.
«Sì, e ha funzionato».
Si girò di spalle e fissò le luci notturne di quella città. Se di giorno non era un granché, dal tramonto in poi acquistava tutto il fascino che col chiaro mancava. Era una città arida, ma era piena di natura e, rispetto a metropoli come New York, era estesa e ariosa. La cosa che aveva scoperto era che regalava panorami mozzafiato che in quelle sere le avevano impedito di pentirsi della decisione presa.
«Sentimi, buon samaritano, spero tu abbia ragione, perché se scopro che questa città fa più schifo di quanto tu mi abbia detto, ti assicuro che non mi importa per quanto dovrò cercarti, ti troverò e ti prenderò a calci nel culo, anche se sei più alto di me di venti centimetri».
Era una ragazza scozzese dopotutto, il suo bon ton era tutto birra, modi rudi e uomini con il gonnellino, non si poteva pretendere che parlasse come una principessa dispersa in una foresta di fate e unicorni. Lei non viveva a Narnia.
Fatto sta che sperava di incutere un po’ di terrore, invece Parker rise di gusto, tanto che dovette interrompere la camminata verso il drugstore per reggersi la pancia e asciugarsi gli occhi.
Stare lontana dalla Scozia le faceva male, perdeva tutto il suo fascino pericoloso. Non faceva più paura nemmeno a uno sbarbatello americano che, con ogni possibilità, considerava come sommo atto virile pettinarsi il ciuffo con la cera.
«Stai meglio?»
Le chiese dopo essersi ripreso.
«Non pensavo… Ma sì, grazie». Lo ammise sollevata, in fondo dedicarsi a quella specie di seduta di psicoterapia era stato meglio che ubriacarsi da sola con la vodka. Parker, nonostante l’aspetto innocente da studente canterino di High School Musical, si era rivelato un ragazzo interessante, oltre che molto comprensivo.
«Ora sarà meglio che vada, domani inizio a lavorare a mezzogiorno». Voleva solo dormire, piangere e svegliarsi con un aspetto orrendo per poi maledirsi e dover rimediare infine con il trucco.
«Cosa fai?» era curioso, nemmeno a dirsi.
«Lavoro in una caffetteria». Rimase sul vago, vergognandosi un po’. Non sapeva cosa facesse Parker, ma aveva un aspetto fresco e curato, non sembrava di certo uno di quelli che si svegliavano la mattina all’alba per andare a trastullarsi con sacchi di cemento.
«Dove?» e perché era così invadente?
«A West Hollywood, da Alfred Coffee». Per fortuna aveva trovato un ambiente di lavoro che, seppur umile, le era molto gradito. Un posto davvero gradevole e dei colleghi poco suscettibili, al momento non poteva chiedere di meglio.
«Lo conosco! Mi piace un sacco. È da una vita che non ci vado». Parker sembrava pensare a qualcosa in quel momento, un qualcosa che non era sicura di voler conoscere.
«Ora è anche meglio». L’aveva accennato con un sorriso quasi compiaciuto.
«Perché?»
«Perché ci lavoro io! Vuoi mettere il fascino di una scozzese incazzata con il mondo?» e ridacchiò divertita, per la prima volta dopo tempo era riuscita a far ridere se stessa, di nuovo. «Sono l’attrazione del locale!»
Parker rise, quella battuta l’aveva spiazzato così come la sua improvvisa voglia di scherzare. Sapeva che non si limitava solo a essere scontrosa e triste, un qualcosa gliel’aveva detto, anche se non capiva cosa. Forse la sua predisposizione al dialogo con uno sconosciuto, o forse il suo sorriso che triste non era davvero.
«Senti, Ribelle» intervenne di nuovo lui – con un riferimento al film Disney per via del colore di capelli e della sua provenienza – dato che lo stava liquidando. Doveva ammettere almeno a se stesso che gli dispiaceva porre fine a quella serata. «Dove abiti?»
«A un po’ di isolati da qui» bisbigliò con tono quasi impercettibile, presa in contropiede.
«A un paio di isolati?» chiese Parker incerto, non aveva ancora sviluppato il superudito come Spiderman e Superman.
«A dire il vero a una decina» rispose la ragazza spostando parte dei propri capelli fulvi dietro l’orecchio, ormai rossa in viso.
«Vieni Merida» la prese in giro di nuovo. «Ti do un passaggio».
Con un cenno del capo indicò il proprio fuoristrada.
«Davvero?»
Era indecisa, aveva davvero bisogno di un passaggio, ma non voleva pesare su di lui, non dopo averlo fatto tutta la sera.
«Certo, non è un problema, le auto vanno dove vogliamo noi. Lo sapevi?! Sono i miracoli dell’era moderna». E ammiccò quasi volesse sottolineare quella magia.
Arrivò accanto alla portiera e dopo averla aperta si girò a guardarla. «Allora?»
Devin si morse un labbro, forse a lui non dispiaceva portarla a casa, almeno quanto non dispiaceva a lei trascorrere altro tempo in sua compagnia.
«Ok, buon samaritano, ho deciso farti svolgere il tuo compito al meglio». Si avviò verso il posto del passeggero con il cappuccio calato in testa, si sentiva osservata.
Parker ridacchiò contento.
«Grazie».
 

 
Bonsoir!
Rispunto dall’oltretomba con questa mini long che, quasi un anno fa, era nata come One Shot; peccato che i personaggi mi siano piaciuti molto e, nel portare avanti la storia, mi sono resa conto che sarebbe stata una OS lunga centordici pagine, quindi ho deciso di approfondire le scene che mi erano venute in mente e farne una mini long di quattro capitoli, di cui tre già scritti.
Quindi l’aggiornamento sarà settimanale, ogni giovedì mi ritroverete qui a rompervi per il mese di luglio con questa storia estiva e fresca, almeno spero.
Intanto io continuo a portare avanti il capitolo della long Ti ruberò il cuore. Non l’ho né abbandonata né dimenticata, lo giuro. Ho semplicemente in testa grandi progetti per quella storia, quindi metterci mano mi crea un po’ d’ansia a causa delle molte aspettative che ho, anche se la amo davvero.
Ma torniamo a noi: come vedete, siccome siamo a Los Angeles e abbiamo a che fare con un attore famoso, ho deciso che il titolo di ogni capitolo si riferirà a una commedia romantica americana… D’altronde non siamo nella sezione romantica? Vediamo di renderla degna di tale nome!
Inoltre, come spero abbiate potuto notare, nel testo ci sono un sacco di riferimenti a film, telefilm e cartoni, questo perché ho pensato potesse essere carina come cosa richiamare il mondo da cui Parker viene.
Alfred coffee esiste davvero.
Non mi dilungo oltre, ho un sacco di cose da leggere e – soprattutto – scrivere, quindi vi saluto.
Spero che vi sia piaciuta e se vorrete farmi sapere il vostro parere sarò felice di leggerlo.
Vi ricordo il link al mio gruppo fb per comunicazioni, spoiler e quant’altro: Love Doses.
A settimana prossima, Cris.

EDIT 10/10/14: La storia si è classificata terza a Il contest dei cliché

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Capitolo 2
*** Ricatto d'amore ***




Banner a cura di @underljne

Guarda il trailer della storia realizzato da Kath Redford



CAPITOLO 2


Ricatto d'amore


 
Aveva sì preventivato di rivedere Devin, ma non così presto. Di sicuro non la mattina dopo. Eppure sentiva la necessità di parlarle, specialmente dopo che la sua faccia gonfia di pianto – non proprio presentabile – era finita spiattellata in ogni angolo del mondo.
Parker se ne era accorto dopo la telefonata entusiasta della mattina da parte di John che, tra l’altro, l’aveva svegliato, facendolo alzare dal letto più incazzato di Jacob Black dopo il rifiuto di Bella in Eclipse.
«Parker, io non so cosa ti abbia preso stanotte… Ma grazie, hai fatto avvenire il tanto atteso miracolo!» esordì l’agente al cellulare.
L’attore aprì gli occhi e si accorse che, purtroppo, quelle parole provenivano da un uomo per giunta assente dalla sua stanza, mai che avesse la fortuna di sentirle pronunciare da una donna soddisfatta dopo una notte di sesso con lui.
Cosa che – detta in via confidenziale – non accadeva da un bel po’.
«Eh?» una dialettica invidiabile, doveva ammetterlo anche a se stesso.
«Ma sì. Tu, una ragazza misteriosa in giro di notte, una bottiglia di vodka gettata via. I paparazzi hanno amato questa cosa». Si interruppe, stava guardando le immagini nel dettaglio. «Certo, lei non è proprio questa figa stratosferica, ma già sono impazziti tutti per scoprire la sua identità. È la tipica ragazza della porta accanto, una donna qualunque che fa ben sperare le fan e che attira l’attenzione dei giornalisti per vedere se possono condannare i suoi comportamenti, se sono sempliciotti o no. La gente adora queste cose!»
Ripensò a come Devin aveva interagito con lui la notte appena trascorsa, di sicuro se ai media non fossero piaciuti i suoi modi li avrebbe presi a calci in culo senza tanti complimenti. Lui di sicuro avrebbe approvato.
«John, potresti esprimerti in termini umani e fare capire anche a me cosa è successo?» aveva la vaga sensazione di stare ancora sognando. Che fosse come nei film, in cui il protagonista si svegliava alla fine e scopriva che era tutto nella sua testa? Lo sperava, in effetti. Si augurava di stare ancora dormendo, di essere in piena fase rem, a dire il vero.
«Ieri sera sei stato paparazzato. Per sbaglio, come tuo solito, ma con una bottiglia d’alcool in mano e una ragazza misteriosa che hanno suscitato molto interesse nei tuoi confronti. È come se d’improvviso fossi diventato interessante!»
Perché, prima era stato insignificante? Bell’agente che si ritrovava!
Oh cazzo, gli aveva appena detto che, comportandosi come suo solito, era riuscito ad attirare l’attenzione dei media, cosa che John si era sempre auspicato.
Cosa c’era di sbagliato in lui?
Gli piaceva il suo angolo di indifferenza e anonimato.
«Sono già fuori da casa tua?» John doveva avere i dollari al posto delle pupille in quel momento, Parker se lo sentiva.
Si alzò di malavoglia dal letto e sbirciò oltre le tende e ben oltre il suo giardino. Non contento della visuale, decise di controllare le telecamere che filmavano la strada, facenti parte del sistema di sicurezza.
«Sembrerebbe di sì, un paio di paparazzi sono fuori dal cancello». Ammise contrariato. Se avesse potuto avrebbe comprato il marciapiede per renderlo proprietà privata e allontanarli ancora di più da sé.
«Ci siamo, è fatta! Che splendido inizio di giornata!» dire che era entusiasta era un eufemismo.
Sì, talmente splendida come partenza che Parker si sentiva affabile come il Grinch, giusto per rendere al meglio l’idea.
«Come si chiama?»
«Chi?» era così assorto nei propri pensieri da aver perso il filo logico della questione.
«Come chi? La tua pseudo ragazza, la rossa!»
Panico. Paura. Delirio.
Anche il suo agente sembrava curioso come un fan. Ed era già diventata la sua ragazza. Male, malissimo.
«Si chiama Devin». Alzò le spalle, quasi volesse togliersi il peso di dosso. «E non è la mia ragazza, ma sconosciuta che ieri sera ha tentato di ubriacarsi in modo molesto. Io gliel’ho solo impedito».
Normale amministrazione, in pratica.
«Quindi sei pure un eroe!» annotò qualcosa sulla propria agenda. «Altri dettagli per la stampa? Il cognome? Cosa fa? Progetti futuri? Che intenzioni avete?»
Faceva davvero paura, sembrava una fangirl impazzita.
«Ma non lo so il cognome, l’ho conosciuta ieri sera!» ribadì quasi stizzito, ma lo stava ascoltando? «E comunque niente dettagli alla stampa. È fuori discussione, non voglio che si intromettano, non voglio che la tirino in mezzo alle mie faccende. Non voglio nulla, niente di niente»
«Oh beh, va bene. Tutto questo mistero alimenterà l’interesse».
Lo sentì sorridere soddisfatto. Maledetto, era più malvagio di Malefica. La versione cartone, s’intendeva, perché nel film il lato sadico non era stato pervenuto, che delusione.
«Ciao John, ora devo proprio scappare»
«Mi raccomando, renditi presentabile, non si sa mai cosa potrà succedere» ridacchiò e, contento, riattaccò la chiamata.
Ecco perché si era presentato all’Alfred Coffee quella mattina, ancora una volta sveglio prima di mezzogiorno, sentiva il bisogno di darle delle spiegazioni, e magari dirle che la sua faccia era comparsa in ogni sito/blog/giornale/social network esistente sulla faccia della terra. Cosa voleva che fosse?
Comunque era una buona scusa, cioè… un buon motivo per vederla di nuovo.
Sorrise tra sé mentre la osservava oltre la vetrina. I capelli raccolti in uno chignon molto alto e spettinato, la faccia concentrata mentre preparava da bere, il sorriso che riservava a molti clienti e l’espressione arcigna che regalava a quelli più esasperanti. Era davvero buffa, e lo metteva di buonumore.
Aprì la porta nella speranza di ricevere un sorriso, ma quando Devin lo vide assottigliò lo sguardo e i lineamenti si indurirono mentre asciugava delle tazze appena estratte dalla lavastoviglie, sembrava volesse ucciderlo. Lei sapeva.
Glielo si leggeva in faccia, nelle nuvole di fumo grigio che le uscivano dal naso e dalle orecchie. Era furibonda come il T Rex  di Jurassic Park o Sweeney Todd, il barbiere che aveva compiuto la propria vendetta uccidendo chi l’aveva spedito ingiustamente in esilio. Dalla faccia di Devin si poteva capire con un certa facilità che stava pensando a vari modi in cui ucciderlo – ne era abbastanza sicuro – e poteva vedere una vignetta sopra la sua testa in cui apparivano i diversi metodi, come se fosse stata una scena di Ally McBeal.
«Ciao» sussurrò avvicinandosi  al bancone con fare impacciato, almeno per lui. Non era mai stato così sicuro di sé da essere tronfio, ma andava in giro con una certa serenità, caratteristica che in quel momento aveva smarrito, un po’ come il padre di Nemo aveva perso il figlio. O Dory il senno.
«Oh sì, bravo, fatti vedere di nuovo nei dintorni, così finirò in altre foto orrende». Sibilò tra i denti mentre cercava di salutare cordialmente i clienti a cui stava consegnando la colazione. «Se l’avessi saputo almeno stamattina mi sarei stuccata la faccia, e magari mi sarei data una pettinata».
E, nel dirlo, si indicò quella specie di ananas che aveva in testa. A lui piaceva, comunque.
La gente li fissava come se li avesse riconosciuti, e si allontanava dal bancone in modo veloce e con bisbigli sempre più insistenti che irritavano Devin. Quella giornata era iniziata male e stava continuando nel peggiore dei modi.
«Ti presenti pure dove lavoro? Certo che sei proprio cretino!» lo apostrofò senza mezzi termini mentre sbatteva con rabbia sul bancone dei bicchieri di carta.
«Posso fermarmi un attimo?» chiese al capo palesemente agitata. «Ho una questione urgente da risolvere».
Vedendo la sua faccia ancor più pallida del solito, Alfred decise di concederle la pausa che stava chiedendo, non voleva che facesse piazzate davanti agli altri clienti, soprattutto con un personaggio famoso. Inoltre l’orario di punta era passato da un pezzo, la metà della mattinata era un orario abbastanza sonnacchioso che potevano gestire con tranquillità.
«Se perdo il lavoro mi avrai sulla coscienza» disse mentre lo trascinava in un tavolo piccolo e intimo il più possibile nascosto da occhi e orecchie indiscreti. «E me ne troverai un altro, sappilo».
Non scherzava, era chiaro. Gli comparvero davanti agli occhi ancora quelle vignette alla Ally McBeal che poteva vedere uscire dalla testa della ragazza seduta davanti a lui, e iniziò a pensare dove avrebbe potuto collocarla per evitare di sentire quel senso di oppressione che lei gli aveva trasmesso con il pensiero.
Forse sarebbe andato da Alfred in ginocchio chiedendo di non licenziarla. Non che sembrasse intenzionato a farlo, ma qualche supplica male non avrebbe fatto di certo.
«Allora, cosa vuoi?» chiese scontrosa. Già, come se la sua vita non facesse già abbastanza schifo, ora ci si metteva pure lui, la nuova stella di Hollywood. Ma non avrebbe potuto decidere di ubriacarsi e vomitare la sera prima?
«Ero venuto per dirti delle foto e…»
«Beh, le ho viste. Cioè, me le hanno fatte vedere» disse Devin incrociando le braccia al petto per poi appoggiarle al tavolino.
«E per scusarmi dell’imprevisto». Concluse Parker dopo essere stato interrotto. «Come hai fatto a vederle? Scusa, ma non avendomi riconosciuto ieri sera pensavo non frequentassi i siti di gossip»
«No, appunto» rispose piccata. Lei aveva di meglio da fare nella sua vita, tra cui struggersi per la sua fresca storia naufragata. Come faceva poi a lamentarsi dei chili presi se no? Doveva pur dar la colpa a qualcuno, e Oliver era il capro espiatorio perfetto. «Ma sai com’è, sono entrate un sacco di ragazze che mi hanno riconosciuta, mi hanno urlato in faccia qualcosa e poi, davanti alla mia confusione, mi hanno mostrato le foto che circolavano in internet».
Sospirò per poi riprendere: «Sono a quota due “Sei meglio dal vivo”, a quattro “Io sono più carina, non è giusto”, a sette più neutri “Beata te”, a tre “Sembravi più magra nelle foto”, a due “Mi dai il numero di Parker?” e ad altri due “Ho capito perché tenevi il cappuccio”. La crudeltà delle ragazze è inimmaginabile, mi sembrava di stare in un episodio di Gossip Girl».
Era sconsolata, e a Parker venne voglia di abbracciarla, perché quando lui non era abituato alle foto fatte a tradimento si sentiva braccato il giorno dopo, quando comparivano sui vari siti, come fosse leso nel profondo della sua riservatezza, costantemente controllato e sotto giudizio, quindi capiva  bene i suoi sentimenti, e dunque anche l’astio nei suoi confronti.
«E comunque in tutto questo non ho ancora sentito le tanto famigerate scuse di cui parlavi» aggiunse fintamente offesa. Forse.
«Hai ragione, scusami, mi dispiace tantissimo, non avrei voluto trascinarti in una follia simile». Si affrettò a dire cogliendo il suo assist al volo. «Ti giuro che non ne sapevo nulla, non pensavo fossero nei paraggi, non li ho chiamati io e non erano lì per me, poco ma sicuro»
Devin spalancò gli occhi. «Ci mancherebbe altro! Se avessi avuto il sospetto che li avessi chiamati tu giuro che a quest’ora saresti già evirato».
Parker sobbalzò. Cacchio, non ci aveva pensato! E se fosse stata pazza? Una cosa tipo alla  “Misery non deve morire”. Poteva essere davvero pericolosa, in fondo lui non l’avrebbe saputo. Nonostante le confidenze della sera prima era comunque una sconosciuta.
«Perché non mi hai detto chi eri?» lo chiese delusa, come se fosse stata presa in giro, non aveva usato il suo tono aggressivo mentre aveva approfittato del protratto silenzio dell’attore.
«Scusami anche per questo. Anzi, soprattutto per questo, non sono stato onesto». Mio Dio, non ricordava fosse così difficile essere onesti dopo aver omesso o mentito; ecco perché era un tipo sincero, di solito: perché recuperare a un danno era peggio che non crearlo proprio in partenza. «Ma sei stata l’unica persona dopo anni che mi ha trattato con imparzialità, come se fossi normale. Il fatto che tu non sapessi chi ero mi ha reso più tranquillo»
«Peccato che ho scoperto di essere con un attore di Hollywood nel modo peggiore possibile». Lo interruppe con dispiacere.
«Scusa, ma la tua spontaneità mi è piaciuta molto. È stato bello essere trattato come una persona qualsiasi». Vide il suo sopracciglio alzarsi in modo scettico, così Parker si affrettò a correggere il tiro. «Non fraintendermi, non mi credo chissà chi – sia chiaro – però gli altri quando mi riconoscono mi trattano in maniera diversa, e vedere che con te non è successo mi ha portato a omettere un dettaglio importante di me. Mi dispiace essermi approfittato di te».
Bugia. Non gli dispiaceva affatto, anche se non era successo come lui si era figurato poi per tutta la notte. Perché, doveva ammetterlo, non gli sarebbe dispiaciuto baciarla, per poi passare ad altro. Insomma, l’avrebbe scoperta più che volentieri, anche in senso biblico. Soprattutto quello.
«Diciamo che posso capire il tuo punto di vista» ammise sincera con una certa difficoltà, non era facile lasciarsi andare con lui. Il suo essere schietto e diretto la metteva sempre un po’ in imbarazzo, ecco perché spesso stava sulla difensiva o rispondeva in modo troppo acido. «Ma non ti giustifica. Sappi però che ti perdono, ci sono bugie ben peggiori al mondo che uno non vorrebbe mai sentire, questa era a fin di bene».
Le spalle di Parker, già larghe, si distesero mostrando l’ampio petto fasciato dalla maglietta bianca con una stampa colorata, cosa che attirò lo sguardo di Devin, interessato a quello che madre natura le aveva messo davanti agli occhi.
Si era fatto tutta quella strada per chiederle scusa e, nel caso non fosse stata ancora al corrente delle foto, per avvisarla. Non era tenero?
Scosse la testa nel tentativo di scacciare ogni pensiero carino e coccoloso, non poteva lasciarsi abbindolare da quel bel faccino, lui era un attore di Hollywood e lei… Beh, lei una qualunque. Lei era quella che, al massimo, poteva servigli il caffè, o la ragazza con la quale gli venivano scattate foto e le chiedevano se nello sfondo fosse capitata per caso.
«Bene, ora che sei venuto a cospargerti il capo di cenere, a profonderti in scuse e a dimostrare che non sei una persona orribile… Posso tornare a lavorare? Non vorrei perdere un’altra parte del mio stipendio. O peggio, il mio lavoro».
Eccolo. Il momento tanto temuto da Parker, quello dei saluti. Si sarebbero salutati e addio, ognuno per la sua strada. Si sarebbero rincontrati per sbaglio, dopo anni, come in Serendipity? Per il volere del destino? O nemmeno quello sarebbe stato possibile?
Cavolo, si era appena accorto di non voler mettere fine a quel discorso, né tantomeno a quella conoscenza. Devin l’aveva colpito, ma glielo leggeva in faccia che non voleva aver nulla a che fare con lui, quindi doveva giocare d’astuzia. O di estrema stupidità.
«In realtà dovrei dirti ancora una cosa». Davvero? Doveva pensare in fretta a cosa. «Dovrei chiederti un favore».
Merda, l’aveva detto davvero. Era sicuro di voler intraprendere quella strada?
«Un favore? Da me?!» Devin si indicò mentre si muoveva a disagio sulla sedia, le efelidi che risaltavano sul rossore che era divampato sul viso. «Guarda che tra i due sei tu quello che ha i soldi, io pago a malapena il mio affitto».
Ok, non era del tutto vero, ma cacchio, tra i due la star con uno stipendio a troppi zeri non era certo lei.
Parker rise divertito, forse sarebbe stato più facile del previsto affrontare l’argomento, bastava ostentare indifferenza e sangue freddo. Quantomeno fingerli.
«No, niente del genere, grazie a Dio sono autosufficiente. I miei hanno smesso di darmi la mancia quando avevo diciassette anni». Nel dirlo si era avvicinato con il fare di una persona che voleva rivolgerle una confidenza.
«Meno male!» Devin invece si buttò contro lo schienale, una mano sul petto sentendo il sollievo irradiarsi in ogni vena.
«No, in realtà…» all or nothing. All in. «Volevo chiederti se ti andava di vederci più spesso, dato che per i media sei una sorta di mia… ragazza». Lo aggiunse con lo sguardo che vagava sui dettagli di lei che non facevano parte del viso, nonostante avesse voluto fissare a malapena il tavolo.
Lei decise che a irradiarsi nel petto non era il sollievo, ma un attacco di cuore.
«Come scusa?» aveva gli occhi marroni chiari spalancati. «Penso di non aver capito bene».
L’avevano scambiata per la sua sottospecie di ragazza, e lui al posto di sbarazzarsene voleva farsi vedere di nuovo con lei? Voleva proprio capire come funzionava il magico mondo di Hollywood, perché al momento le faceva pensare che se fossero stati tutti come lui avrebbe affibbiato loro un solo aggettivo: sciroccati.
«Vedrò di essere sincero». Cosa peggiore non poteva dirla, ora l’avrebbe presa come la sua causa primaria, e non le avrebbe mentito più. Lo sapeva, perché quando dava la propria parola non lo faceva a caso, ci si metteva di impegno anima e corpo.
«Non mi aspetto altro, a dire il vero» era curiosa e scioccata. «Sorprendimi».
Adorava essere sorpresa. Quella parola – sorprendimi – era la più pronunciata da Devin, tanto che i suoi genitori e il fratello minore la prendevano sempre in giro per la sua propensione alle novità.
Parker sospirò e decise di raccontare tutta la verità. Avrebbe sussurrato tutto per non divulgare i meccanismi più finti di quella macchina produci soldi che era Hollywood, e prima di concludere il discorso si sarebbe allontanato da lei e da quel tavolo, in modo da non prendersi lo schiaffo che Devin gli avrebbe sicuramente dato dopo una simile proposta.
«Il mio agente, John, vuole che io sia più ricercato fuori dal set. Dice che sono bravo, ma non so attrarre l’attenzione dei media. E senza i paparazzi attorno – a quanto pare – sei un buon attore ma non sei perfetto. Sono loro a far girare l’interesse intorno a una persona, e quindi loro a decretarne il successo, dato che se un attore piace al pubblico è molto più facile che i registi e i produttori lo chiamino per lavorare».
Devin si fermò a pensare un po’. «In effetti ha un senso. Ma io, in tutto questo, cosa c’entro?»
«Ci sto arrivando». Respirò per poi continuare: «Fino a ieri per John ero una causa persa, non attiravo l’attenzione dei media. Sai com’è, tendo a evitare gli eventi mondani se non strettamente necessari – come i vari premi che consegnano spesso – e frequento gli amici di sempre. Le cose più inebrianti che faccio sono giocare alla Playstation e fare surf con gli amici»
«Veramente trasgressivo». Lo prese in giro Devin.
«Stessa cosa che pensa lui. Gestisce anche attori che sono nell’occhio del ciclone a causa di problemi di alcool o droga. Non sono facili da amministrare, ma hanno successo perché il pubblico vuole saperne di più. Ecco, io non rientro nemmeno in queste categorie, e lui fa un po’ fatica a piazzarmi, a far salire la mia popolarità, diciamo». Era orrendo da sentire e ripetere ad alta voce, ma il suo lavoro si basava proprio su quello, oltre che sulla bravura.
«Mh mh» l’invito di lei a continuare.
«Tutto questo… L’indifferenza nei miei confronti, è cambiato all’improvviso. Ora sono molto interessati a me. Vogliono saperne di più». Sì, il discorso non era stato poi così brutto, doveva solo arrivare al punto d'arrivo.
«E perché?»
«Per via di ieri sera. Grazie a te».
«A me?» forse iniziava a capire dove volesse andare a parare, ma non aveva il coraggio di trarre le conclusioni cui era effettivamente arrivata.
«Sì, tu sei una ragazza qualsiasi, di cui non conoscono l’identità. Hanno pensato che tu fossi il mio appuntamento e, chissà, magari hanno ipotizzato che non sia stato il nostro primo incontro. Fatto sta che mi hai regalato la visibilità che il mio agente tanto agognava. Per dire, lui è entusiasta delle foto».
Aggiunse come incoraggiamento, ma si rese conto di non essere risultato convincente.
«Quindi io, il fatto che tu fossi con me, e il mio essere straniera e sconosciuta è tornato tutto a tuo vantaggio?!» riassunse Devin scioccata.
«In pratica, sì». Parker, davanti alla sua pacatezza, si rilassò un po’.
«Beh, è perfetto allora». Concluse lei con un sorriso sulle labbra.
«Perfetto… Cosa?»
«Se noi non ci vediamo più, e ti vedono con un’altra ragazza, attirerai di più l’attenzione» disse concitata. «“Con chi sta? E chi è la nuova fiamma?” È perfetto, e io me ne chiamo fuori».
Alzò le spalle soddisfatta.
«È qui che ti sbagli, ti pedinerebbero. Vorrebbero da te dichiarazioni ufficiali su un’ipotetica rottura o, in caso, una rassicurazione sul nostro rapporto. Inoltre non ho intenzione di vedere nessuna in questo momento». Era vero, non aveva conosciuto nessuna ragazza interessante – al di fuori di Devin – che avesse catturato la sua attenzione. Le colleghe erano tutte stereotipate o accoppiate, ed era da un bel pezzo che non metteva il naso nel mondo dei single, era più concentrato sul proprio lavoro.
«È tutta questione di immagine: se mi vedessero con un’altra donna mi farei la fama dello sciupa femmine e, sinceramente, se devono parlare di me preferisco che lo facciano in termini lusinghieri o, quantomeno, che mi rispecchino il più possibile».
Non era un brutto discorso, no? Si sentiva un po’ Silente davanti agli studenti di Hogwarts, quelle scene che risultavano epiche senza esserlo davvero. Essenziali nella loro semplicità. Cioè, diciamocelo, chi non sarebbe peso dalle sue labbra?
«Certo, ed è per questo che li inganni».
Ecco, chi se non Devin?
Ci voleva lei per smontare quel piccolo barlume di speranza che gli faceva augurare tra sé di non sembrare un idiota totale. Lei e meno di dieci parole, ma non si diede per vinto.
Si avvicinò di più a lei, piegato sul tavolo per non dover urlare: «Io non ho mai parlato di ingannarli, ti ho chiesto di farti vedere con me in modo… assiduo, senza nessuna implicazione. Diciamo che se dopo i media avanzano ipotesi, beh, io sono talmente riservato – ed è risaputo – da non smentire o confermare, quindi non è colpa mia ma loro, perché traggono conclusioni sbagliate».
Questa volta non poteva appuntargli nulla, non poteva smontargli il discorso.
«Non se ne parla. Dovrei farti da cavia?»
In pratica le stava chiedendo di aiutarlo a fingere un qualcosa che poteva essere frainteso con molta facilità e di rinunciare alla propria riservatezza, perché avrebbe dovuto vivere sotto i riflettori con lui, quando avrebbe passato del tempo con Parker, quindi molte delle sue ore libere.
Interessante, davvero. Ma si era accorto che lei non era un cavia? Le avrebbe chiesto anche di girare sulla ruota prima o poi?
«Più da complice, direi».
Non poteva smontare il discorso, ma poteva di certo rifiutare la proposta. Cosa che aveva effettivamente fatto, quindi a lui era toccato attivare il fascino da attore di Hollywood – quello che usava agli eventi ufficiali, nelle ospitate in tv e nelle interviste – e sperare di stordirla con il minimo indispensabile; e se fosse stato necessario non l’avrebbe centellinato ma usato in dosi massive.
Per cosa poi? Per passare un po’ di tempo con lei ma evitare di chiederle chiaramente di uscire perché Devin avrebbe risposto di no?!
Ne valeva la pena? Non lo sapeva, ecco perché voleva conoscerla, perché magari stava prendendo un granchio allucinante. E sì, lui era un senza palle di prima categoria, ne era consapevole, ma la sua popolarità in questi casi diventava più un problema che altro, quindi aveva deciso di accontentare John e sfruttare la cosa a proprio vantaggio, soprattutto la compagnia che il caso gli aveva concesso.
«No, io voglio rimanere fuori da questa cosa»
«Purtroppo – e, credimi, non vorrei dirtelo – è un po’ tardi». Ne era dispiaciuto in parte, perché se avesse potuto non l’avrebbe coinvolta, ma le foto nel web dimostravano l’esatto contrario, ormai.
«E di chi è la colpa?» era tornata acida e ovvia come aveva saputo essere la sera prima, anche se quel difetto non sembrava irritare Parker come le altre persone che invece aveva conosciuto in una vita intera.
Lui alzò gli occhi al cielo nel tentativo di risultare simpatico e discolparsi al contempo. «Sì, lo so, ok. È inutile che me lo rinfacci, anzi, sto cercando di sistemare la situazione».
Devin si piegò sul tavolo esattamente come Parker, era curiosa di conoscere il modo in cui lui cercava di tutelarla. Era questo che intendeva con quel ‘sorprendimi’ minuti prima.
«E come? Con un patto di pura finzione tra le parti? E in cui io sarei quella che non ci guadagna nulla, in questo caso». Alzò le spalle con fare ovvio, lei la vedeva proprio così.
«Sei stata additata come mia probabile ragazza, giusto? Quindi vorranno saperne di più su di te. Se esci potrebbero seguirti per farti domande, per sapere dove vai e con chi ti vedi». Parker le stava illustrando solo la verità, quindi aveva snocciolato la notizia con una certa sicurezza, d’altronde lui sapeva come funzionavano le cose nell’ambiente, purtroppo. «Se invece fossi con me io potrei garantirti protezione. Mi piaci Devin, sei simpatica e buffa, e non pretendi nulla da me, alla fine ti sto offrendo un amico in una città sconosciuta. Puoi passare le sere a casa mia, puoi fare un bagno in piscina o usare la sala cinema per vedere un film. Una passeggiata a Santa Monica o una domenica a Disneyland. Puoi conoscere i miei amici, sono persone tranquillissime e normali, ti piacerebbero. Non sono forse alternative migliori della solitudine fatta di lacrime e vodka in cui ti chiudi ogni sera? Saremmo protetti dalla privacy la maggior parte delle volte». Concluse sincero.
Cavoli, era quasi tenero, aveva pensato a ogni eventualità.
Soprattutto… aveva davvero una sala cinema a casa? Mio Dio, lei aveva faticato per avere uno schermo da ventisette pollici! Però alla fine doveva ridimensionare le cose a quello che erano: Parker le stava dicendo che avrebbero potuto essere amici, ma le stava offrendo una prigione dorata. Di lusso, ma comunque una gabbia. Perché se fossero usciti, insieme, sarebbero stati braccati da flash e da domande alle quali nemmeno loro avrebbero saputo rispondere.
«Ma io non sono venuta a Los Angeles per approfittarmi di una persona come te». Fu l’unica risposta che le uscì dalla bocca corrucciata. Il problema era uno: Parker sembrava in difficoltà, e la situazione che le stava proponendo pareva agli occhi di lui l’unica soluzione possibile perché tutto quello non si trasformasse in un disastro. Come poteva dirgli di no con il suo solito tono scorbutico quando lui le aveva mostrato gli occhi verdi, chiari e liquidi, e il sorriso innocente?
Sentiva le proprie convinzioni vacillare davanti a quella supplica di aiuto e al suo bel faccino.
«E non lo stai facendo, sono io che ti sto proponendo quest’accordo, ma se tu volessi potrebbe essere l’inizio di una vera amicizia. Non mi sembra di starti così antipatico, altrimenti mi avresti già aggiunto alla lista delle persone da prendere a calci negli stinchi. Sbaglio?»
Parker aveva acquistato un po’ di sicurezza, dato che  al suo discorso non aveva ricevuto l’ennesimo no, ma piuttosto una giustificazione a quanto fosse sbagliato tutto quello se lei avesse accettato, perché Devin non era così.
«Ci sto seriamente pensando». Ammise lei incrociando le braccia al petto.
«Alla mia proposta?» scherzò tentando di alleggerire la tensione.
«No, all’inserirti in quella lista». Sorrise, poi abbassò la testa come per riflettere su qualcosa. «E se io dovessi incontrare un ragazzo che mi piace? O se tu invece conoscessi una ragazza con cui vuoi uscire davvero?»
Lui gesticolò con gli occhiali da sole stretti nella mano destra. «Farò un comunicato stampa in cui dichiaro che tra noi non c’è stato niente, o che quello che c’era è finito, e ognuno andrà per la sua strada»
«E mi lascerebbero in pace?»
Devin alzò un sopracciglio, scettica. Era davvero così facile?
«Sì, certo. Alla fine l’interesse – e non c’è presunzione, davvero – è nei miei confronti. Quindi si focalizzerebbero sulla nuova persona con cui mi vedrei, in caso».
Aveva un senso quel discorso, e bastò a tranquillizzarla un po’.
«Non lo so, mi sembra una cosa orrenda». Devin si morsicò un labbro, sempre più indecisa. Non le sarebbe costato nulla aiutarlo, inoltre Parker si era rivelato un ragazzo così carino, e andava ben oltre l’aspetto fisico.
«Andiamo. È anche un modo per tranquillizzare la tua famiglia, non trovi? Se sanno che esci con uno che ha la dote» scherzò «si sentiranno più sereni; inoltre è un modo per mostrarti ai tuoi più spesso, vedranno tue foto in qualche sito o rivista, e potranno constatare che stai bene».
Oddio, l’aveva detto davvero? Era la cosa più astrusa che potesse sentire in quel momento, eppure si era dimostrato premuroso con quel pensiero, e la cosa la fece quasi sorridere. Peccato che volesse mantenere un’aria seria e dura, quindi decise di reprimere le risa per concedersi un più impassibile sopracciglio alzato.
«È un tentativo di convincermi? Sappi che è squallido»
«Lo so, lo ammetto. Ma se vuoi ti parlo di Oliver».
Ecco, quello poteva essere l’argomento giusto.
«Del tipo?»
Capite cosa intendeva Parker con il fascino da attore di Hollywood?
Sicurezza, sfrontatezza, pronto a tutto. Sì, modestamente sapeva essere pericoloso anche lui. A piccole dosi, si intendeva.
«Del tipo che non trovi sarebbe una vendetta perfetta farti vedere con un attore quasi famoso dopo la vostra rottura? Gli dimostreresti che sei riuscita ad andare oltre, e che hai avuto anche fortuna, no? Si mangerebbe le mani»
«In effetti…»
Cacchio! Lei non ci aveva pensato. Se avesse potuto si sarebbe mangiato anche i gomiti. Oliver conosceva Devin abbastanza per sapere che si sarebbe crogiolata nel proprio dolore e nella sua assenza, cosa che doveva lusingarlo anche a chilometri di distanza. Gli uomini godevano a sapere che c’erano donne scaricate ancora in attesa del loro ritorno.
Maledetto stronzo.
Parker tornò a parlare, stavolta non come il fascinoso attore di Hollywood pronto alla stoccata finale, quanto più come il semplice ragazzo che la sera prima aveva offerto una mano a una sconosciuta per aiutarla, perché lui era fatto così.
«Senti, lascia perdere tutti questi discorsi, è sì un patto, ma ti sto offrendo solo della sincera amicizia e un po’ di compagnia, anche se in teoria sei tu ad aiutare me. Cos’hai da perdere?»
Devin tentennò. Sapeva che erano arrivati alla fine delle trattative, la sua risposta sarebbe stata definitiva almeno quanto la conclusione della persuasione di Parker; era a conoscenza che se non avrebbe più provato a convincerla.
E da quel momento non si sarebbero rivisti più. Forse quando a lui sarebbe venuta voglia di un caffè di Alfred. E, sebbene le costò ammetterlo, le scocciava non vederlo più; era diventato una faccia amica.
«Va bene, ok. Ci sto. Ma solo se posso tirarmene fuori quando voglio, soprattutto se vedo di non poterla gestire».
Cos’aveva da perdere in fondo? Si diceva che tutto tornava nella vita, forse aiutare una persona in difficoltà avrebbe rimesso le cose nella giusta carreggiata anche per lei.
«Certo, ovvio. Grazie, mi stai facendo un favore enorme!» era sollevato, quasi si era messo a saltare sulla sedia dalla gioia. Parker era così entusiasta che attirò l’attenzione della clientela lì intorno.
«Sappi che mi hai convinta con la sala cinema e la gita a Disneyland. Però paghi tu, te lo dico fin da subito» ammise con uno sbuffo lei.
«Ti dico solo che ho il distributore di pop-corn caramellati». Sorrise furbo e compiaciuto.
Era illegale.
E ovviamente si riferiva ai pop-corn caramellati, non di certo a quelle splendide fossette che gli dipingevano il sorriso rendendolo meraviglioso.
Doveva rivalutare l’ipotesi della prigione, vedeva più quella casa come un albergo di lusso.
«Non aggiungere altro». Doveva pur fingere di essere contrariata, aveva una dignità da difendere e una facciata da mantenere.
Parker si alzò frenetico. «Ora me ne vado, prima che tu possa cambiare idea»
«Sarà meglio» mormorò lei a mezza bocca.
Lui le lasciò il biglietto da visita con il proprio numero, poi la salutò con un “A presto” pronunciato a bassa voce.
Devin lo sapeva, si era cacciata in un mare di guai, nemmeno si fosse tuffata nell’oceano popolato dagli squali di Blu profondo.

 



Eccomi qui con il secondo capitolo di questa storia!
Innanzitutto volevo ringraziarvi per l'accoglienza riservata a questo racconto scritto giusto per divertire, sono felice che vi sia piaciuto, spero di non avervi deluso con questo capitolo...
Lo so, Devin non avrebbe dovuto cedere, ma Parker è carino, lei è vulnerabile e ha pensato che, nonostante sia un attore molto manzo bello, possa nascere tra loro almeno una buona amicizia.
Non concordate anche voi che è brutto essere in una città sconosciuta e senza una persona amica? Figurarsi se ti offrono un po' di riparo all-inclusive. Giuro che Parker non lavora per la Valtur!
Al posto di Devin come avreste reagito? Vi aspettavate un simile risvolto?
Quindi dove porterà questo loro accordo? Ve lo lascio scoprire nel prossimo capitolo!
Il trailer è stato inserito sotto il banner! Vi consiglio di guardarlo perchè merita un sacco *___*
Sto per postare una OS nel fandom dei Thirty Seconds To Mars, quindi se a qualcuna piacciono può trovarmi pure lì.
Niente, non ho molto da aggiungere, se non che vi ringrazio davvero, spero vi sia piaciuto e se volete mi trovate nel mio gruppo fb: Love Doses.
A giovedì prossimo, sbaciucchiamenti piovosi, Cris.

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Capitolo 3
*** Amici, amanti e... ***



Banner a cura di @underljne

Guarda il trailer della storia realizzato da Kath Redford



CAPITOLO 3


Amici, amanti e...

 

Devin sapeva di aver accettato un patto alquanto strano, ma mai si sarebbe aspettata di vedere la sua vita stravolta in quel modo. Di giorno era una semplice cameriera, additata certo come la presunta ragazza dell’attore più in vista del momento, ma di sera tutto cambiava: usciva con Parker e, molto spesso, con i suoi amici.
Era come passare dall’essere Cenerentola… a diventare Vivienne di Pretty Woman. Non proprio una prostituta, ma una ragazza qualsiasi a cui era stato concesso un fantastico upgrade nella propria vita.
Per lei era davvero strano uscire ed essere fotografata di nascosto, senza permesso. E gli scatti aumentavano se si avvicinava a Parker. Ma come poteva non cercarlo, quando era l’unica persona che conosceva in quel gruppo?
Nonostante tutto, quelle uscite si rivelavano sempre tremendamente normali, così semplici da farle apprezzare ogni volta di più quei momenti.
Certo, ormai aveva imparato a conoscere i suoi amici, e lui aveva avuto ragione, le erano piaciuti parecchio. Tutti sapevano perché si trovava lì, ma la trattavano come una ragazza qualunque, un’amica nuova che si era aggiunta al loro gruppo di sempre perché lo voleva, e perché loro la volevano.
Ridevano, si divertivano e scherzavano eppure – per quanto adorasse Travis, Dane e Shayla su tutti – Parker era il suo punto di riferimento.
Era lui a sapere un sacco di cose su di lei, lui a cercarla con lo sguardo e ancora lui a rassicurarla con un solo gesto. Parker aveva imparato a comprendere i segni del suo nervosismo e anche come metter loro  fine, era bravo a tranquillizzare le persone, o forse soltanto lei. Sapeva come prenderla, e Devin gliene era immensamente grata.
Nonostante fosse un attore di Hollywood ai suoi occhi era solo un ragazzo come tanti. Vederlo nei suoi atteggiamenti più normali, in gesti comuni a tutti, l’aveva aiutata a ridimensionare la sua fama, almeno in privato. Perché in casa, davanti alla playstation e a bordo dei gonfiabili per la piscina lui era solo Parker, era fuori che diventata Parker Payne, l’attore che stava catalizzando l’attenzione dei giornalisti come il suo agente si era sempre auspicato.
Ed era proprio in quei momenti che Devin si trovava in difficoltà.
Anche perché, per la miseria, si ritrovava a condividere il tempo divisa tra gli amici di sempre dell’attore e persone che – per lei – erano sempre state immagini nel web e nulla più.
“Usciamo a cena” le diceva, peccato che fosse organizzata da Ashton – sono figo anche se sto per diventare padre – Kutcher.
“Andiamo a una festa di beneficienza” e si era ritrovata seduta tra Jennifer Aniston e Bradley Cooper.
Persone molto carine e simpatiche, ma che solo con la loro presenza l’avevano fatta sentire più cessa di Ugly Betty in quattro stagioni. Avevano un’aura particolare, le star, che le sembrava di sfigurare anche solo nel respirare. Jennifer era senza trucco e senza reggiseno, eppure con la canotta bianca, i jeans e le semplici infradito nere sembrava più giovane e fresca di lei. Come si poteva competere con donne che non erano nate, ma uscite da una stampante e procreate da Photoshop?
Devin, con il vento che soffiava sempre su Los Angeles la sera, sembrava che si fosse fatta una mezza maratona per arrivare alla spiaggia, non sembrava semplice in confronto a lei e alle altre, solo sciatta e sbattuta.
Parker si era avvicinato per dirle che era bellissima, di non sentirsi a disagio e fuori luogo, dato che tutti le parlavano con una certa naturalezza e aveva ricevuto un sacco di complimenti, ma era facile per lui dirlo, dato che faceva parte del team “respiro e faccio venire mezzo mondo nelle mutande” come tutti gli altri là attorno, mentre lei giocava nella squadra avversaria, quella dei comuni mortali. Le sembrava che in quei contesti le troppe lentiggini sul viso fossero dei semafori o dei neon che segnalavano ai presenti quanto fosse… diversa da loro.
Aveva sbuffato fissando il seno di Miranda Kerr, lei nemmeno con dieci push up di Victoria’s Secret sarebbe riuscita ad averle così sode e alte. E Miranda era più vecchia di lei.
«Stasera andiamo al concerto di Katy». Gliel’aveva annunciato dopo averla fatta salire in auto, perché Parker aveva imparato che se gliel’avesse detto prima Devin avrebbe trovato un modo per evitare di unirsi a loro, e non l’avrebbe mai voluto.
«Katy Perry?» oddio la adorava. Se non fosse stata lei ci sarebbe rimasta malissimo.
«Certo» sorrise lui contento nel sentirla sorpresa e rilassata. «Proprio lei, so che ti piace».
Piacere? La adorava. Come adorava i Muse, Rihanna, i OneReplic, gli Imagin Dragons, i Thirty Seconds To Mars, i Linkin Park, i Red Hot Chili Pepper e gli Oasis, nonostante si fossero sciolti tempo addietro.
E lui stava realizzando uno dei suoi sogni più grandi.
Fu solo quando arrivarono all’Hollywood Bowl che si rese conto che, in realtà, nemmeno lei era riuscita a fantasticare così in grande.
Per lei “andare a un concerto” voleva dire fare la coda per il parterre ed essere disposti a uccidere pur di avere un posto anche solo lontanamente decente e, nel caso in cui avesse avuto qualche soldo in più e la minima voglia di comportarsi come Gerard Butler in 300, si sarebbe presa il biglietto numerato con tanto di seduta.
Con Parker si era ritrovata nella zona VIP del palazzetto, dove poteva contare gli strass del vestito che Katy indossava. Senza contare il fatto che aveva potuto dirle di persona quanto fosse stata sensazionale, dato che erano finiti nel backstage. La cantante l’aveva abbracciata e Devin aveva chiesto a Parker di scattare loro una foto.
«Ehi, perché non venite a casa mia? Ho organizzato una festicciola dopo il concerto, niente di impegnativo, sia chiaro». Katy l’aveva davvero appena invitata a casa sua per bere qualcosa? La sola compagnia di Parker era davvero in grado di permetterle tutto quello?
Devin non riusciva a concepirlo.
«Certo, sempre che a Devin vada» rispose Parker sorridendole e aspettando una sua risposta.
«Volentierissimo, grazie!» disse lei con il cuore in gola mentre sentiva salire il disagio.
Fu solo fuori che, mentre Travis baciava Shayla e Dan parlava con Luke e Tamra, l’assistente di Katy, che Devin entrò nel panico. Era stata catapultata in una vita che non le apparteneva e, una volta passato l’entusiasmo datole dal concerto, si era lasciata prendere dall’ansia.
Si era avvicinata a Parker per la prima volta volontariamente, con la voglia di sentire la sua presenza che riusciva a rassicurarla. Lui stava parlando con qualcuno dell’entourage di Katy Perry, ma non interruppe il dialogo quando la sentì vicino a sé.
Devin si fece piccola nel tentativo di nascondersi dietro il suo braccio, abbastanza grande da darle la sensazione di eclissarla, soprattutto dopo aver avvistato i paparazzi in lontananza, nonostante fossero nella zona consentita solo allo staff e loro oltre la recinzione. Già si sentiva uno schifo, ci si mettevano pure loro a peggiorare il suo senso di inadeguatezza?
Fu Parker a coglierla di sorpresa.
«Ehi» la salutò abbassando lo sguardo in tempo per vedere un suo sorriso tirato e nervoso. «Tutto bene?»
Devin lo guardò come un cucciolo smarrito, sperando di assomigliare almeno in parte a qualche esserino carino e non sembrare più a Mickey Rourke dopo i vari interventi di chirurgia plastica, anche se aveva una parte di labbro arricciato insieme al naso per denotare il proprio disappunto.
Parker alzò il braccio incriminato per posarlo poi dietro la schiena di lei, nel tentativo di accarezzarle la colonna vertebrale e calmarla.
Lei, senza accorgersene, circondò la vita di lui con le braccia, sentendosi per la prima volta a casa da quando si trovava a Los Angeles. Aveva percepito la protezione che Parker le aveva promesso quando aveva cercato di convincerla a prendere parte a quella sceneggiata.
«È tutto ok, tranquilla». Gliel’aveva sussurrato mentre la stringeva di più a sé, poi appoggiò la testa su quella di lei, nel tentativo di infonderle più quiete possibile.
Devin capì che quello che Parker le aveva ripetuto tempo poteva essere reale anzi, era diventato vero. Tra loro si era instaurata una bella sintonia, cercarsi era diventato normale e lei ritrovava nel ragazzo una compagnia voluta e quanto mai gradita. Per quanto si frequentassero da poco era diventato un bisogno immediato, parte della sua quotidianità.
Aprì gli occhi e in lontananza vide i flash impazziti, ma non gliene importava nulla, tutto era diventato distante tranne Parker, e quella era l’unica cosa importante in quel momento. Il suo sorriso che la tranquillizzava, il calore del corpo che la cullava e la sensazione di benessere che provava con solo lui accanto.
Dopo tempo Oliver in quel momento non faceva male e, soprattutto, non rientrava nei suoi ricordi, Los Angeles non le sembrava così sconosciuta e lei non soltanto si sentiva compresa, ma era conscia di non essere più sola.
Quella sera avrebbe potuto partecipare a mille feste con ancor più persone famose che non le sarebbe importato nulla di quanto potessero apparire perfette, perché per lei lo era quel momento.
Che Katy portasse tutti gli ospiti che desiderava, lei aveva la certezza di avere un appoggio che mai l’avrebbe lasciata sola, ed era la sensazione migliore che potesse mai provare.
 
«Ciao» esordì Parker contento di vederla.
Da quando Devin aveva accettato la situazione in cui si era cacciata insieme a lui aveva iniziato a distendersi e a mostrargli il lato di sé più leggero, quello che la caratterizzava.
Concedeva molti più sorrisi e si lasciava andare con lui e i suoi amici. Era bello poter vedere quanto riuscisse a scherzare con Travis, Dane e gli altri, e vedere che, al posto di prendersela quando giocavano alla Play come aveva fatto una modella con cui era uscito quasi un anno prima, si era unita a loro stracciandoli.
Si stava rivelando più interessante di quanto Parker si fosse immaginato all’inizio, e ne era soltanto contento. Gli piaceva passare il tempo con lei, anche se le serate sembravano sempre troppo corte e gli amici iniziavano a essere di troppo per i suoi gusti.
«Ciao!» Devin sorrise rilassata, la sensazione che in lei era nata dopo il concerto di Katy Perry non se ne era più andata. Era meno scorbutica con tutti, regalava sorrisi e le occhiaie se ne erano andate. Il pensiero di Oliver era meno frequente e non faceva male, ormai si arrabbiava solo con se stessa per aver perso tempo.
L’effetto Parker era fantastico e anche lei poteva vederne i benefici, inutile negare che quel ragazzo fosse stato per lei la migliore delle riabilitazioni esistenti sulla faccia del pianeta. Ma come avrebbe potuto resistere alle fossette che incorniciavano un sorriso che abbagliava, al suo buonumore e alla tranquillità che riusciva a infonderle?
«Sposta pure il sacchetto sul sedile posteriore» disse lui indicando un po’ di buste che erano accatastate ai piedi del posto del passeggero.
Devin alzò gli occhi al cielo, anche se in realtà era divertita.
«Scusa, la mia auto è un cesso». Cercò di giustificarsi lui con il sorrisino affascinante che sfoderava nelle interviste per distrarre le povere malcapitate che cercavano di scoprire i fatti suoi.
«Ehi!» lo prese in giro lei. «Sei andato a Yale?»
«Certo» rispose Parker con fare ovvio, tanto che Devin si girò a guardarlo con tanto d’occhi. Non gliel’aveva mai detto. «Ci sono andato una volta, ho assistito alla laurea di mia cugina Lorain!»
Lei ridacchiò mentre cercava di assestargli un pugno sul braccio, ma lui bloccò ogni suo tentativo di attacco nonostante fosse alla guida.
«Cosa facciamo stasera? Andiamo da te?» Devin cercò di chiederlo in modo distaccato, ma la verità era che passare del tempo in casa sua, con lui, non le sarebbe dispiaciuto poi molto. Da qualche giorno si portava sempre in borsa il costume da bagno. Aveva notato che da quando avevano usato la piscina, un pomeriggio, si erano avvicinati parecchio. Si era sempre chiesta se il buio della sera e le luci nell’acqua avrebbero portato… ad altro.
Non che lo volesse eh, ci teneva a precisarlo, ma se fosse successo qualcosa non le avrebbe fatto schifo.
Lo trovava strano, ma da un po’ di tempo le piaceva quando Parker le era vicino o la toccava, magari per sbaglio. Il contatto era diventato qualcosa di gradito, pure troppo.
«Avevo pensato di mangiare spagnolo, ti va?»
«Certo!» non proprio quello che si era aspettata, ma a del tempo in sua compagnia non avrebbe rinunciato. «Ho voglia di paella. I ragazzi?»
Parker sorrise contento, quando non aveva a che fare con la psicopatica dei loro primi incontri – o del periodo del ciclo – si divertiva parecchio con lei.
Non era espansiva, ma di certo era ben lontana dall’essere la persona che si piangeva addosso come la sera in cui l’aveva conosciuta. Era come aver incontrato Bridget Jones e avere a che fare in realtà con Lara Croft.
«Travis è con Shayla, Dane e gli altri non lo so, non li ho sentiti. Vuoi che lo faccia?»
Ci era rimasto male per la domanda di lei, sperava di poter passare un po’ di tempo con Devin, qualcosa di veramente sereno e intimo rispetto alla baraonda che la propria compagnia di amici riusciva a portare con sé. Non che fossero dei vandali, ma quando ci si mettevano riuscivano a essere peggio di Alan in Una notte da leoni.
«No. Sono stanca, preferisco fare qualcosa di tranquillo»
Espirò più calmo e soddisfatto, continuando a guidare verso il ristorante. Era come se avesse avuto la conferma che anche per lei la sua presenza fosse diventata normale, e la cosa gli piaceva un sacco; non c’era più il fine di farsi vedere con Devin dai paparazzi, ma la cercava perché  era bello stare con lei, ed era diventata parte della sua quotidianità. Forse non l’aveva mai fatto per dare ai fotografi ciò che volevano preservando in qualche modo la riservatezza di lei, quanto più per poter stare con lei e darsi una possibilità.
Entrarono nel ristorante e mangiarono la paella di cui avevano parlato nel tragitto. Devin si era concessa delle domande sul passato di Parker per conoscerlo meglio, e lui non le negò nemmeno alcuni episodi imbarazzanti tanto era felice di vederla così partecipe.
Dopo la crema catalana decisero di abbandonare il tavolo così appartato che avevano loro concesso e uscirono dal locale per andare a casa.
«Abbassa la testa se ti danno fastidio» le aveva detto prima di uscire nella notte fresca di Los Angeles. Devin annuì alla vista dei paparazzi che li stavano aspettando, e indossò la felpa che aveva in borsa per calare il cappuccio sulla testa. Nonostante non fosse la prima volta in cui li cercavano per braccarli, lei non riusciva certo a farci l’abitudine. Odiava l’insistenza con cui li seguivano e li stressavano, ma erano parte del mondo di Parker, un universo di cui aveva deciso di far parte nel momento in cui aveva accettato la sua strana richiesta.
I paparazzi non stavano diventando sopportabili, ma era uno dei pochi contro che facevano parte di quel ragazzo con i piedi così per terra che stava conoscendo, una brutta parte – seppur piccola – che non le aveva mai rovinato la serata.
Corsero all’auto e vi si chiusero all’interno. Una volta lontano, con la sicurezza di non essere inseguiti, dato che quello che avevano immortalato gli era bastato, Parker e Devin tornarono a respirare con regolarità e si rilassarono sui sedili del SUV nero, tanto che lei si tolse la felpa e la rimise nella borsa.
«Ok, dopo questo bagno di popolarità non desiderato mi è venuta ancora più voglia di fare qualcosa di terribilmente normale, ne avrei davvero bisogno» esclamò lui nel tentativo di spezzare il silenzio carico di tensione che si era creato.
«Più di una cena in un ristorante qualsiasi?» Devin lo fissava con un sopracciglio alzato, non era sicura che esistesse qualcosa di più tranquillo e meno interessante di un normalissimo pasto. Avevano fatto ciò che facevano due persone qualsiasi che non avevano stipendi stratosferici e vite da sogno.
«Sei sincero?» si divertiva a punzecchiarlo ogni volta che poteva, dato che le aveva promesso di essere sempre onesto nel momento in cui la stava invitando a unirsi in una grande bugia.
Lui evitò di cogliere la provocazione e passò direttamente alla risposta: «Già, un qualcosa di insulso… Un qualcosa che non mi ricordo di fare da tempo».
Devin nel pensarci spostò bottiglietta d’acqua vuota sul sedile posteriore, quell’auto era davvero una pattumiera come lui le aveva fatto notare qualche ora prima. Ma in America non erano tutti a favore dell’economia domestica e dell’ecologia? Non facevano dei corsi apposta? Avranno pur parlato di inquinamento!
Di sicuro Parker in quelle lezioni sarà stato impegnato a fantasticare sul proprio futuro da modello o attore, doveva pur immaginare di poter sfruttare la propria bellezza.
«Avanti… Sorprendimi». La prese in giro mentre era assorta nel suo silenzio.
Lo guardò con tanto d’occhi, conscia che stava imparando a conoscerla troppo bene.
Decise di continuare a voltarsi verso il sedile posteriore per evitare il suo sguardo, e vedere lo sporco accumulato dietro e la bottiglietta a mezz’aria le diede l’idea. «Ce l’ho io la soluzione per te, Mr non alzo un dito perché sono servito e riverito». Lo provocò con aria soddisfatta. «Prosegui per Venice Boulevard».
Voleva fare la persona normale? L’avrebbe accontentato.
«Cosa vuoi fare? Approfittarti di me in spiaggia al chiaro di luna?» la sfidò con un solo angolo della bocca alzato, non voleva lasciarle il vantaggio che lei pensava di avere, non lo trovava giusto.
Devin divenne rossa, cosa che avrebbe accentuato le sue già marcate lentiggini. Si girò così verso il finestrino per ammirare le luci che si confondevano con la notte grazie alla velocità dell’auto. La sua mente, più veloce di lei, era già corsa all’immagine vietata ai minori di diciotto anni che le parole di Parker avevano dipinto.
«Ti piacerebbe, eh?» si difese ostentando sicurezza. «Peccato che quel tipo di trattamento io lo riservi solo ai più meritevoli, e sono moooolto pochi».
Per mostrare quanto il suo intero discorso fosse ironico gli fece una linguaccia.
Parker rise, ma non gli sarebbe dispiaciuto di certo.
Se poi si parlava del rumore del mare, le stelle, la sabbia e loro due non avrebbe rifiutato. Era da un po’ che non si concedeva dell’azione, e nell’ultimo periodo la protagonista delle sue fantasie sessuali era diventata Devin.
Si sentiva come Jim, il protagonista sfigato di American Pie.
«Eccolo!» urlò lei indicando un punto sulla destra e risvegliandolo così dalle sue fantasticherie a luci rosse. «È lì, entra!»
Mise la freccia e si ritrovò in uno spiazzo ampio con tre posti auto molto grandi.
Era un autolavaggio.
«Qui?!» chiese scettico, convinto di aver sbagliato a girare.
«Sì» rispose sicura Devin.
«E perché?» e dire che di solito pensava di essere abbastanza sveglio, non proprio Sherlock Holmes, ma nemmeno tardo come Forrest Gump.
«Non hai detto tu che la tua macchina è un cesso e che vorresti fare qualcosa di normale?» replicò lei sempre più soddisfatta, un sorriso che si allargava a ogni parola. «Ecco la tua occasione: lavati l’auto».
«Ora?» era preoccupato, sembrava facesse sul serio.
«No, vuoi forse farlo domani alle tre? Quando c’è l’ora di punta e tutti possono girare dei video mentre lo fai?!» fece ovvia. «Se no se non ti va possiamo chiudere qui la serata e andare a casa». Finse uno sbadiglio per sottolineare la cosa.
Poi appoggiò i gomiti sul cofano e passò un dito sulla carrozzeria, dato che erano scesi per giovare dell’aria fresca della notte.
Parker alzò un sopracciglio, quella posa lo allettava parecchio. Senza contare che lì attorno di strumenti per attuare la propria vendetta ce n’erano a bizzeffe.
«Ok, hai vinto tu. Puliamo quest’auto prima che arrivi l’alba». Accettò l’offerta pur di non doverla riportare a casa prima del tempo, e vide il sorriso compiaciuto di lei farsi strada sul viso.
Aprirono entrambe le portiere posteriori e ripulirono il sedile da tutte le bottigliette e le cartacce che era riuscito a collezionare in settimane. Poi, con la macchina alleggerita di qualche chilo, si dedicarono alla pulizia esterna.
«Hai delle monete? Io ho cinque dollari, spero siano abbastanza». Lo ammonì lei con quel tono di scherno che tanto gli piaceva. Era il modo di Devin di dimostrargli di essere entrata in confidenza e lui non aveva intenzione di farla allontanare o contraddirla in alcun modo.
Solo vendicarsi.
Parker prese i gettoni che gli  aveva porto Devin e ne inserì uno nella fessura per poi scegliere la pistola che spruzzava sapone. Solo che, ops!, aveva dimenticato di dirle che – forse – non aveva una mira infallibile e al posto di insaponare la carrozzeria a un certo punto si era ritrovato con il getto puntato su Devin.
«Viscido traditore!» urlò. «Non si attacca il nemico alle spalle!»
«E chi l’ha detto?» domandò sarcastico mentre continuava a bagnarla.
La vide cercare altri soldi per prendere dei gettoni da infilare nello spazio accanto.
«Vuoi la guerra? Bene, l’avrai». Selezionò il sapone e passò al contrattacco con l’altra pistola. Fortuna il lavaggio era lontano dalle abitazioni o li avrebbero denunciati per gli schiamazzi.
Si nascosero ai lati dell’auto e, con i vari spruzzi, la insaponarono per bene.
Devin era sconvolta. Non solo Parker si stava lavando l’auto da solo, ma aveva iniziato una guerra con quelle specie di pistole che spruzzavano acqua o sapone, dipendeva da cosa uno selezionava prima di usarle.
Proprio lui, l’attore che appariva sempre perfetto senza nemmeno prepararsi, lui con le pose da modello, la stessa persona che veniva fotografato e che conosceva altre persone ancora più famose di lui.
Al diavolo! Era sconvolta perché Parker era tutto quello, ma lui era molto altro. Era la persona normale che frequentava gli amici di sempre, il ragazzo che l’aveva aiutata e accolta nella sua vita, e lo stesso buon samaritano che preferiva passare del tempo da solo con lei piuttosto che alle feste piene di VIP. Era un giovane uomo che nel cuore della notte non soltanto non si rifiutava di pulire l’auto con le sue stesse mani, ma aveva deciso di rendere la cosa divertente coinvolgendo entrambi il quel gioco assurdo.
Solo in quel momento Devin si rese conto di non conoscere affatto Parker Payne, l’attore con cui veniva paparazzata in giro molte sere, ma di aver imparato a conoscere Parker, il ragazzo che aveva cambiato stato anni prima ma che era rimasto sempre lo stesso nonostante la notorietà, lo stile di vita e tanti altri benefici che aveva e non sfruttava appieno.
E a lei era quella la cosa che più piaceva, la normalità di cui era entrata a far parte.
Certo, era un bel ragazzo, ma non si limitava solo a quello, era molto di più e lei aveva avuto la fortuna di poterlo scoprire.
Si ritrovò con il cuore in gola: era partito tutto da uno scherzo per diventare qualcosa di più. Poteva davvero piacerle un ragazzo che in realtà era una star proiettata verso il firmamento mondiale?
Parker approfittò della distrazione di Devin per bagnarla ancora.
Sì, poteva. Sì, stava già succedendo.
Si riscosse dai propri pensieri. «Ehi! Che fai?»
«Cosa ne dici» le rispose lui fradicio e contento come mai l’aveva visto. «Se passiamo all’acqua così risciacquiamo l’auto e noi stessi?»
Quell’inaspettato car wash gli aveva regalato molte prospettive interessanti, tra cui la maglietta di lei quasi trasparente, i suoi occhi contenti per la prima volta e una felicità che non ricordava di provare da tempo.
Devin si avvicinò con un sorriso luminoso. «Sarà meglio, non ci tengo a sedermi sul sedile e scivolare poi sui tappetini appena aspirati per sporcarli di nuovo».
Gli puntò lo spruzzino al petto e liberò il getto d’acqua con una certa pressione.
«Ahi! Non è giusto!» obiettò lui colpito in un suo momento di disattenzione.
«No» rispose Devin allontanandosi ancora un po’ per ripararsi e bagnarlo meglio. «Tu sei ingiusto».
E si rincorsero finché l’auto non fu lavata e splendente come nuova mentre loro si asciugarono con il telo che Parker aveva usato in spiaggia quella mattina.
Si strinsero entrambi in un abbraccio per asciugarsi e scaldarsi nel silenzio che loro stessi avevano lasciato, un momento che nessuno dei due avrebbe mai scordato, soprattutto per la scossa che avevano percepito e per la morsa allo stomaco che aveva preso entrambi di soppiatto.
D’altronde agli occhi di lei era solo un ragazzo con una vita nel cielo stellato di Hollywood, nulla più.
 
«Cosa? No! Io lì dentro non ci metto piede».
Era… allibita. All’entrata c’erano dei bodyguard che controllavano i nominativi delle persone che si presentavano alla festa e i loro inviti, la villa era addobbata come un immenso parco giochi, le gigantografie – photoshoppate, perché il naso era ben più imponente – della festeggiata appese lungo le pareti e niente era lasciato al caso.
«Ma te l’avevo detto che era la festa di compleanno di una mia amica». Parker le mise un braccio intorno alle spalle nel tentativo di calmarla, nemmeno fosse stato Dylan di Beverly Hills 90210, ma lei si allontanò, stizzita per quel suo comportamento, alla fine lui aveva capito anche il modo di trascinarla a quelle feste Hollywodiane, ovvero tacere ogni dettaglio che avrebbe riportato a una celebrità.
«No! Tu avevi detto Stefani, mi hai mentito»
«Non ti ho detto bugie. Non si chiama forse così Lady Gaga?»
Cazzarola, lui aveva maledettamente ragione, ma Devin non poteva dargliela vinta, dato che stava comunque camminando verso l’imponente villa in stile Losangelino.
«Già, ma per noi comuni mortali rimane comunque Lady Gaga!»
Stephanie, puah. Cos’è? Erano così in intimità? Cosa era successo tra i due?
No ok, forse non voleva saperlo, anche se pensare che tra quei due fosse avvenuto qualcosa la rincuorava un po’. Dopo aver visto la modella – sì, aveva fatto le proprie ricerche in internet – con cui era uscito tempo addietro, sapere che anche Lady faccio paura sia con il trucco che senza Gaga aveva avuto una possibilità con lui la faceva ben sperare.
Forse agli occhi del mondo poteva giustificare la propria presenza al fianco di lui per la prima volta senza sembrare una totale idiota.
«Parker Payne più Devin». Parker mostrò l’invito ai ragazzi dello staff mentre con la mano libera intrecciò le dita a quelle di lei. Se era quello che i paparazzi volevano gliel’avrebbe dato, anche perché era ciò che desiderava di più poter camminare così con lei, come se fosse normale.
Gli uomini al cancello lo aprirono e li fecero entrare, e loro si inoltrarono sul viale che divideva l’immenso giardino verde.
«Cosa? Dei gonfiabili?» Devin era sbalordita. Accanto alla casa, prima di girare l’angolo e trovare l’immensa piscina da cui provenivano urla e musica, c’era un castello gonfiabile completamente senza vita con tanto di drago appollaiato sulla torre da dove partiva lo scivolo, come se le persone fossero passate già di lì e si fossero poi dedicate ad altro.
Agli alcolici e alla piscina, supponeva, dato che erano le cinque di pomeriggio.
«È un party a tema». Si giustificò Parker siccome sapeva che – in effetti – nel suo ambiente le stranezze fossero all’ordine del giorno.
Doveva ammettere che non aveva molta voglia di prendere parte a quella festa, ecco perché era arrivato così tardi: sperava di aver perso il momento dei convenevoli per entrare subito nel suo vivo, quando gli altri erano troppo indaffarati per subissarlo di chiacchiere inutili, in quel modo sarebbe rimasto poco e se ne sarebbe andato alla svelta con Devin, facendo però molto felice John che quasi piangeva di gioia a saperlo a simili eventi.
«E quale sarebbe questo tema?»
«L’infanzia». Rispose con un sorriso. Un gonfiabile per la piscina sbucò dall’angolo ma qualcuno corse prontamente a riprenderlo. Oddio, non era Jared Leto quello? E l’uomo che lo rincorreva sembrava proprio Leonardo. Di Caprio, s’intendeva.
Ben oltre la piscina Devin adocchiò Robert Pattinson con una ciambella a forma di papera sulla testa mentre era al telefono con qualcuno.
«Sì, ci sono sia i Leto, che Robert Pattinson, che Jennifer Lawrence e Leo». La informò con un sorrisino compiaciuto.
La ragazza lo guardò con tanto d’occhi, forse averla trascinata lì non era stata una cosa così brutta come aveva pensato. I Leto, li avrebbe conosciuti senza concerto. L’avrebbe mai portata a un loro live? O a una premiere di Rob? O meglio ancora: a quella del capitolo finale di Hunger Games.
«Voi a Hollywood siete tutti completamente fuori di testa». Fu l’unica cosa in grado di dire, perché niente di quello che aveva visto le sembrava normale, inoltre le piaceva non dargliela mai vinta, era il loro gioco preferito quello: lui la sorprendeva mostrandole la verità del mondo di Hollywood, lei fingeva di non esserne colpita, cercando di mostrare quanto più self-control avesse in corpo in realtà.
«È per quello che non frequento molto l’ambiente». Ed era vero. Erano sì simpatiche quelle persone, ma non tutte e, soprattutto, a piccole dosi. Parker aveva degli amici nell’ambiente, ma si potevano contare sulle dita di una mano, non quella monca di Peter Minus; le altre a volte erano troppo anche per lui, tra atteggiamenti altezzosi e vizi che non riusciva a concepire non apprezzava più di tanto quella vita in cui tutto era concesso e niente sembrava avere valore.
«Sì certo, come se tu non fossi il più pazzo di tutti». Lo prese in giro Devin tentando di tirarlo verso la piscina.
Non che fosse così ansiosa di mostrarsi in costume vicino a quella dea di Jennifer Lawrence, ma essere in casa altrui senza essersi annunciata alla festeggiata le metteva un certo disagio, specialmente se la persona in questione era una eccentrica cantante di fama mondiale.
«Ah, è così? Allora il pazzo in questione ora ti porta nel castello gonfiabile con tanto di drago. Immagino che tutti l’abbiano già sfruttato a dovere e saranno ormai in piscina mezzi ubriachi» disse esercitando forza sulla mano che ancora aveva intrecciato a quella di lei per tirarla a sé. «Meglio, così potrò dire di aver preso parte alla festa senza dover per forza partecipare. Sei sempre un ottimo diversivo»
«Un’ottima soluzione, direi» rispose ridendo Devin mentre poggiava una mano sul suo petto per non cadergli addosso come la peggiore delle fan. «E comunque lì dentro non mi ci trascini».
Nel dirlo aveva puntato i piedi a terra
«Scommettiamo?» Parker alzò un sopracciglio, convinto di avere la vittoria in pugno.
«Dai, vediamo come mi schiodi di qua» replicò lei con il peso del proprio corpo proiettato sui talloni.
Quello che Devin non aveva calcolato era il fatto che lui non fosse proprio pompato come Brad Pitt in Troy, ma non era nemmeno scheletrico come quei ragazzini un po’ nerd che si aggiravano per i corridoi della scuola senza nemmeno un muscolo, per quanto con loro condividesse la passione per lo skateboard.
Era più come Jake Gyllenhaal in Prince of Persia. E Dio solo sapeva quante notti aveva fantasticato su di lui.
Il problema era che questa sua prestanza fisica non andava a suo favore, dato che l’aveva sollevata di peso per caricarsela a spalle.
«Mettimi giù!» urlò lei tentando con una mano di far aderire la gonna del vestito ai glutei per non mostrarli a nessuno nel caso fossero passati di lì, mentre con l’altra gli prendeva a pugni la schiena.
Inutile, sembrava fatto di gomma come Mr. Fantastic dei Fantastici quattro, quindi i suoi colpi non sortivano effetto alcuno. Appena avesse avuto un po’ di soldi da parte si sarebbe iscritta in palestra, lo giurò tra sé.
«Certo!» annuì Parker tra le risate. «Ma quando lo decido io».
E così fece. La depositò poco dopo, ma Devin non posò i piedi sul terreno, a meno che non si trovassero nella Fabbrica di Cioccolato e Lady Gaga fosse diventata Johnny Depp. Fu come camminare su una nuvola.
Lo guardò scettica, con un sopracciglio alzato e lo sguardo affilato, ma la verità era che tutto quello risultava divertente. Era stata catapultata al volo nella sua infanzia, si sentiva una bambina dell’asilo.
Fece fatica a trattenere un sorriso divertito mentre iniziava a camminare all’interno del castello, per poi voltarsi verso Parker: «Allora? Hai intenzione di lasciarmi qui sola?»
«Oh no» rispose prontamente lui. «Ho intenzione di divertirmi un po’ a modo mio».
Qualcosa in quella frase fece contorcere le budella a Devin in una dolce aspettativa. Erano ormai due mesi che si vedevano maniera assidua, eppure non era successo nulla. Da quanto aspettava un bacio o un semplice gesto da parte sua? Non avrebbe saputo dirlo.
Parker iniziò a inseguirla e finirono ben presto per aderire al tema. Erano due bambini che si rincorrevano per l’intero gonfiabile. Saltavano, scendevano dallo scivolo interno e fingevano combattimenti che nemmeno in Star Wars o Matrix erano tanto assurdi.
Fu nel momento in cui Parker era distratto che Devin gli sferrò un attacco degno di una tartaruga ninja, facendolo piombare a terra. Inutile dire che, senza grazia alcuna, cadde insieme a lui dato che Parker non aveva frenato la sua mossa e la forza con cui si era scagliata sul povero malcapitato li aveva stesi entrambi.
Rimbalzarono così per l’intero perimetro del castello, finché non si fermarono: Parker stramazzato sul pavimento morbido e Devin con la faccia spiattellata sulla pancia di lui, che assomigliava più a un’asse da stiro vista la consistenza.
Parker la prese e la fece scorrere lungo il proprio corpo fino a portare il suo viso al livello del proprio.
Devin non ricordava di essere mai stata così vicina a lui e la fece sentire a disagio, per quanto lo desiderasse.
«Scusa, non volevo ucciderti» si giustificò diventando rossa.
«Tranquilla» rise lui. «Ero distratto».
Anche se non poteva ammettere di essersi perso a fissarla a tal punto da non accorgersi che lei gli stava saltando addosso.
Senza aspettare la sollevò di peso e ribaltò le posizioni. Si mise su di lei per non farla scappare e, puntellato sui gomiti, con l’indice iniziò a delineare i contorni di quel rossore, come se cercasse di collegare tra loro ogni lentiggine a formare un disegno.
Devin stava andando in fiamme. Ogni parte di lei reclamava quel tocco, desiderava Parker da morire perché sì, le piaceva, e pure tanto.
«Io pe…» cercò di dire combattendo contro il cuore in gola.
«Sssshhhh». Parker si avvicinò ancora di più al suo viso mentre con il dito scendeva sulle labbra piene di lei. «Non sempre bisogna dire qualcosa».
Parker era nervoso ed eccitato. Era dalla prima volta in cui l’aveva vista che voleva baciarla, ma non ne aveva mai avuto il coraggio. Aveva sempre avuto la convinzione che Devin non l’avesse mai guardato con interesse, ma sapeva che qualcosa in quei loro momenti passati insieme era cambiato. Ogni giorno aveva percepito il cambiamento in entrambi, e aveva solo aspettato il momento giusto, sperando che arrivasse e che lui fosse tanto sveglio da riconoscerlo.
Gli occhi di lei erano liquidi e luminosi, ogni volta avvertiva un’apertura da parte di Devin nei suoi confronti che sperava significasse qualcosa. E in quel momento, il suo non scappare dalla situazione, voleva dire molto ai propri occhi.
«Non. Muoverti». Scandì le parole mentre con lentezza si avvicinava alla sua bocca nella speranza che lei non si ritraesse.
«No. Non lo farò» sussurrò Devin con la voce spezzata dall’attesa. Non si sarebbe mossa per nessuna ragione al mondo, aveva aspettato pure troppo il bacio di Parker per non cogliere l’occasione.
La certezza che venne dalle stesse labbra che si stava apprestando a baciare, oltre che a renderlo felice, lo galvanizzò. Abbandonò i modi delicati per prendersi con forza ciò che aveva sempre desiderato.
Cercò di non pesarle addosso, ma con le mani era ormai concentrato sul suo corpo. Una corse dietro la nuca per avvicinarle la bocca, mentre l’altra era scivolata lungo il fianco per spostare la gamba di lei attorno alla propria vita, ora che poteva averla per sé non sembrava mai abbastanza.
Accarezzò le labbra di Devin con le proprie prima di imprimere con urgenza il suo passaggio, sempre più avido di quel contatto che ormai era diventato realtà.
Lo stupì in modo piacevole sentire la risposta del corpo di lei. Si stava lasciando andare, adattandosi ai suoi respiri e ai suoi morsi mentre stringeva la presa e accarezzava la sua schiena lasciando una scia bollente sopra la maglietta.
Forse non c’era una scena da film a cui paragonare la cosa, non era perfetto come posto o come situazione, ma per loro non era un problema.
Erano in un castello e qualcosa con quel bacio era stato risvegliato; non erano un principe e una principessa, ma era meglio di una favola perché tutto era diventato reale.
«Ti prego, dimmi che le ragazze scozzesi baciano sempre così» Parker cercò di alleggerire la tensione e di riprendere un po’ di lucidità, non poteva permettersi di lasciarsi andare proprio in quel posto e alla festa di qualcuno di così in vista, sarebbe stato disdicevole.
«Sanno fare anche di meglio» espirò estasiata Devin.
«Perché hai aspettato così tanto?» gli lasciò un altro bacio a fior di labbra, troppo tentata da quella bocca che aveva desiderato da tempo e finalmente assaggiato.
«Perché avevo paura di finire in cima alla lista delle persone che avresti voluto prendere negli stinchi». Le sorrise timido mentre l’aiutava a rialzarsi, c’era una festa che li attendeva.
Devin gli accarezzò una guancia con una delicatezza che fece fare le fusa a Parker.
«Credimi, non sarebbe mai successo». Ammise mentre, una volta usciti dal gonfiabile, si dirigevano verso la piscina per fare gli auguri alla festeggiata con un braccio intorno alla vita dell’altro. «A dire il vero non hai mai fatto parte di quella lista»
«Non ne ero convinto dopo averti proposto di farmi compagnia in questa cosa senza senso» replicò l’attore dopo averle lasciato un bacio sul naso. Sapere che non c’erano paparazzi in giro faceva sentire entrambi più a loro agio con quei comportamenti così naturali, era come essere rinchiusi in una bolla costruita apposta per loro, anche se non era proprio così.
«Oh, non potrei mai avercela con un buon samaritano». Lo prese in giro.
«Ti svelo un segreto: è solo apparenza. In realtà sono un ragazzaccio». Per sottolineare il concetto assunse un’espressione misteriosa e dura che la fece ridere.
«Vuoi dirmi che saresti capace di replicare ancora quello che hai fatto lì dentro?» Devin con il pollice indicò il castello alle loro spalle.
«Ogni volta che vuoi» rispose con un solo angolo della bocca alzato, un sorriso compiaciuto e mozzafiato che le fece tremare le gambe e il cuore.
«Ci conto».


 


Ciao a tutte!
Come state? Spero bene!
Mmmmhhh, ho visto che il capitolo scorso non vi ha fatto impazzire, quindi spero proprio di recuperare con questo!
Cosa dite, ce l'ho fatta? Me lo auguro!
I gusti musicali, come quelli in fatto di manzi... cioè, di attori, sono i miei, lo so. Non è una cosa biografica, affatto, è solo pigrizia e comodità. Insomma, non mi sono dovuta scervellare, capite quanto mi ha facilitata nella scrittura? #teampigri, sempre.
Tamra è davvero l'assistente di Katy Perry. Io sto lavorando sull'ultimo capitolo, sono a metà dell'opera... Sono ottimista per settimana prossima, lo ammetto. Se dovessi farcela mi piacerebbe pubblicare il capitolo addirittura un giorno prima! Siete contente, eh? *vede passare un pomodoro marcio*
Sono sempre pronta per ascoltare i vostri pareri riguardo al capitolo, anche alle quasi zozzerie nel castello gonfiabile. Sì, mi sono trattenuta, lo ammetto. Io, dirty birdy, ho pensato di far fare loro di peggio, ma non so come avrebbe potuto reagire Gaga a tutto ciò.
Se volete mi trovate nel gruppo facebook: Love Doses.
A settimana prossima, sbaciucchiamenti, Cris.

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Capitolo 4
*** Se scappi ti sposo ***



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Guarda il trailer della storia realizzato da Kath Redford


CAPITOLO 4


Se scappi ti sposo

 

«A noi due» mormorò tra sé Parker.
Prese il crostaceo e fissò gli occhi neri e ormai spenti, e si sentì tremendamente in colpa. Come poteva uccidere il povero Tom? Ok, era già morto, ma era sicuro fosse stato diviso dalla sua amata prima di morire per finire poi nella sua pancia. Quindi come poteva infliggerli altro dolore?
Sì, aveva dato il nome a un gambero e sì, aveva fantasticato sulla sua possibile storia struggente.
Di quel passo sarebbe diventato vegetariano, la tendenza del momento tra i suoi colleghi di Hollywood, una moda che lui non aveva mai preso in considerazione, anche perché sapeva che dietro c’erano delle scelte etiche e non prettamente salutiste che gli altri personaggi famosi non prendevano nemmeno in considerazione. E, doveva ammetterlo, amava troppo la carne per pensare anche solo di rinunciarvi.
Si armò di coraggio e mise Tom nel sugo, seguito dai suoi amici.
Quella sera aveva deciso di cucinare per Devin, era un periodo che la vedeva sempre stanca e abbattuta e voleva fare qualcosa per tirarle su il morale. Lei non lo sapeva, ma Parker non era affatto male ai fornelli, andava ben oltre il classico sandwich al burro di arachidi e i mac&cheese già pronti. Certo, non era Gordon Ramsay o Remy, il topolino aspirante cuoco di Ratatuoille, ma non se la cavava per niente male.
Anche perché John gli aveva lanciato la proposta di partecipare a un’edizione di MasterChef per personaggi famosi i cui proventi sarebbero andati interamente in beneficenza, non poteva quindi sfigurare e farsi sbattere fuori dopo cinque minuti perché sapeva cucinare a malapena un uovo e un hamburger.
Insomma, da Aaron Eckhart in Sapori e dissapori aveva imparato parecchio, specialmente come l’atteggiamento giusto in cucina poteva conquistare una donna. Non che ne avesse poi bisogno, dato che Devin stava con lui da qualche mese, ma gli piaceva l’idea di stupirla e corteggiarla in modi diversi.
Anche con il grembiule con scritta la frase ‘bacio meglio di quanto cucino’.
Oh sì, era pronto a dimostrare entrambe le cose e ad applicarsi su tutti e due i fronti con tutto se stesso.
Sentì il campanello e, dopo aver guardato nel videocitofono, aprì il cancello della piccola villa.
Sorrise tra sé. Magari durante la cena si sarebbe macchiato e avrebbe dovuto quindi togliersi la maglia. Uno spogliarello improvvisato avrebbe sicuramente movimentato la parte del dessert. Non era un maniaco, ci teneva a precisarlo, ma sotto quel fronte le cose andavano particolarmente bene, e non gli dispiaceva affatto recuperare il periodo di astinenza forzata in cui si era cacciato prima di incontrarla.
Non era Christian Grey, ma sapeva difendersi molto bene anche da solo.
«Ciao!» la salutò dalla cucina, controllando il pane che aveva messo ad abbrustolire sulla piastra per farne delle bruschette croccanti.
«Mh mh» rispose Devin senza aprir bocca e gettando la borsa sul pavimento alla rinfusa. Si tolse le scarpe da ginnastica  e si prese un attimo per rilassare i muscoli.
Visto? L’aveva detto lui che era sempre stanca e più acida del solito. Nemmeno la Miranda Priestley più incattivita avrebbe potuto competere con Devin e la sua perenne sindrome premestruale.
«Ehi» la accolse in cucina mentre studiava la sua faccia pallida e sbattuta. «Ti senti bene?»
La vide sedersi sul tavolo alle sue spalle. «Ho un po’ di mal di testa».
Poi Devin si accorse di tutto il ben di Dio che Parker stava preparando, lasciandosi andare a un’esclamazione meravigliata: «Wow! Tutto questo per me?»
«Sì». Le sorrise come aveva imparato a fare sul set di qualche commedia romantica, e la vide arrossire prima di volgere lo sguardo altrove.
«Non hai comprato nulla di pronto?» un sopracciglio alzato.
«Niente» rispose fiero. «Malfidente!»
La ammonì prima di avvicinarsi a lei per accarezzarle la fronte con le labbra. No, non scottava per fortuna. Le baciò una guancia per poi arrivare piano alla bocca, bisognoso di quel contatto come se gli servisse per continuare a vivere.
Adorava baciarla e l’avrebbe fatto sempre se possibile. Amava sentire come il corpo di lei reagiva al proprio, abbandonandosi al calore della proprie braccia e circondandogli il collo per avvicinarlo a sé. Sentiva i muscoli sciogliersi, il cuore accelerare e il loro trasporto crescere a ogni secondo.
Anche quella volta non era stata da meno. Il braccio di Devin gli circondava il collo, la mano libera era finita tra i suoi capelli sempre più lunghi, la percepiva ammorbidirsi con il passare del tempo.
Poi però si separò di colpo.
«Non posso».
«E perché?» certo che poteva. Aveva tutto il diritto di violentargli la bocca e abusare del suo corpo. Sì, come aveva immaginato prima, cose che nemmeno in Magic Mike si erano viste. Lui era favorevole.
La vide abbassare lo sguardo, il senso di colpa palpabile tra loro due.
«Oggi ho visto Oliver».
Un sussurro che era arrivato alle sue orecchie forte come un fischio assordante e terribilmente fastidioso.
«Ah».
Non era un segreto che Oliver fosse a Los Angeles, era stato lui a scrivere a Devin un mese prima dicendo che sarebbe capitato in zona – il caso, proprio! – e che avrebbe voluto parlarle, ma lei si era sempre mostrata categorica a riguardo, non voleva saperne. Così Parker si era voluto dimostrare la persona matura e sincera quale era, suggerendole di vedersi per risolvere la questione una volta per tutte.
Le aveva detto che da quell’incontro avrebbe capito molte cose, perché poteva farle comprendere che Oliver era un capitolo archiviato, come invece aprirle gli occhi e mostrarle quanto le fosse sempre mancato. Non voleva stare con una persona che lo accettava come ruota di scorta, non ora che si era innamorato davvero.
Ecco perché la cosa lo feriva, perché non gli aveva detto niente. Nulla dell’incontro, nulla della decisione a riguardo.
E ora quella faccia. Cosa stava cercando di dirgli Devin?
«Mi dispiace non avertelo detto, ma non volevo metterti ansia. Ora però so di aver sbagliato, mi sento in colpa».
Non doveva sentirsi in colpa, non se avesse avuto qualcosa da nascondere.
Quindi la domanda era: aveva qualcosa da nascondere? Qualche confessione orrenda da fargli?
Cazzarola, questo colpo di scena non se lo aspettava proprio. Era sempre stato convinto di doverla incoraggiare a riguardo, fare il perfetto Mr. Darcy e mostrarle la via del vero amore – con tanto di musica di sottofondo – e invece si era ritrovato a sentirsi come il Titanic in procinto di andare contro l’iceberg, incapace di evitare l’impatto: nel bel mezzo di un disastro annunciato.
La sentiva solo lui la voce di Celine Dion in sottofondo?
A proposito di Titanic. Si sentiva come Leonardo Di Caprio agli ultimi Oscar, sapeva di avere la stessa faccia da cucciolo abbandonato in autostrada, ma voleva ostentare indifferenza almeno finché Devin non avesse parlato – cosa che non si risparmiava mai di fare, ecco perché era preoccupato, quella parsimonia non era da lei – e mostrare la sua migliore poker face di sempre. Proprio come Leo davanti all’ennesimo Oscar che gli era passato sotto il naso per andare ad accomodarsi sulla mensola di qualcun altro, sgraffignato  come capitava ormai da anni.
Stupido Oliver che si prendeva ciò che era suo.
No, doveva rimanere calmo e impassibile. Pensare positivo e attrarre verso di sé le forze benevole del mondo come gli avevano insegnato nel corso di yoga, prima di abbandonarlo dopo due lezioni. No, tutte quelle filosofie e posizioni strane non facevano per lui.
«E come è andata? Insomma… Ti ha chiarito le idee?»
Stava mescolando il sugo ostentando indifferenza, in realtà sembrava che all’interno della padella si stesse creando un piccolo tornando. Non era così bravo a fingere nella realtà.
Devin sembrò riprendere colore. «È stato strano. Come… Come vedere uno sconosciuto».
Si vedeva che stava cercando le parole per rendere il caos che aveva in testa, ma era ben evidente la sua voglia di parlare dell’argomento. «Non lo dico per rincuorarti, davvero. Ma è stato come trovarmi davanti una persona che non ha significato nulla, come se non l’avessi mai conosciuta davvero. Un estraneo».
Fece mente locale prima di proseguire: «Più parlava più mi chiedevo perché mai avessi perso tutto quel tempo con lui, mi chiedo dove sia finita la persona in grado di ferirmi e farmi prendere l’aereo per trasferirmi dall’altra parte del mondo. Poi forse ho capito che non è lui a essere cambiato, ma io. E quindi sei subentrato tu nella mia testa, e il paragone tra voi. Mi sono resa conto che non è il modo in cui mi fai vivere, le opportunità che mi dai, ma il modo in cui mi fai sentire che fa la differenza».
Ok, Parker sentiva ancora Celine Dion, ma aveva cambiato canzone. Era forse l’eco di un Allelujah quello che udiva? No perché Devin non si era mai aperta sui suoi pensieri e sentimenti come in quel momento.
«Vu…»
Ma fu interrotto da lei, diventata un fiume in piena. «Con te sono me stessa, vederti stare bene fa sentire meglio anche me. Con lui non era così, non lo è mai stato. Era un continuo accontentarsi per illudermi che tutto andasse bene. Tu mi hai aperto gli occhi, non vedo perché tornare indietro e pentirmene per il resto della mia vita. Non che abbia mai preso in considerazione la cosa, ma tu sembravi così sicuro che potesse essermi d’aiuto questo incontro. È stato imbarazzante e mi ha solo confermato le cose che sapevo già».
Aveva rallentato, abbandonato la modalità mitraglietta per concludere quel discorso con calma e serenità. Molte delle cose che le erano passate per la testa era riuscite a dirle e a ogni frase il senso di colpa nei confronti di Parker era passato, ora doveva solo aspettare che lui aprisse bocca dopo quel monologo, perché era curiosa di capire se fosse pronto a perdonarle quella omissione o se invece avesse decretato la fine di quella storia così promettente e lontano dai flash dei paparazzi, ma che loro stessi – inconsapevolmente – avevano alimentato.
Parker abbandonò la cena per pararsi davanti a lei. Continuava a spostarle i ciuffi dal viso, una scusa per accarezzarla mentre le sorrideva contento.
Per lui non aveva importanza quello che si erano detti Devin e Oliver, né che lei l’avesse tenuto nascosto, l’aveva fatto per non ferirlo, e lo sapeva perché aveva imparato a conoscerla. No, la cosa fondamentale in tutto quello era che Devin aveva capito che lui era la persona con cui lei avrebbe voluto condividere il proprio tempo, e gli bastava.
Mr. Darcy, beccati questo.
Un aplomb impeccabile, meglio di qualsiasi approccio zen o vecchio stampo.
«Lo sai che la tua suona tanto come una dichiarazione d’amore?» la prese in giro. In fondo lui le aveva detto chiaro e tondo di amarla, e lei aveva risposto con un bacio che gli aveva tolto parole, respiri e ogni facoltà di parola, ma aveva avuto paura di ricambiare a voce quel sentimento.
Devin si mise una mano sulla bocca e spalancò gli occhi. Divenne rossa come i propri capelli, ma le scappava da ridere.
Ops!
Forse aveva parlato troppo.
Scrollò le spalle, tolse le dita dalle labbra e sorrise.
«Lo è». Riuscì a dire prima di ridere a cuor leggero, sapeva che Parker con la sua domanda aveva messo a tacere ogni dubbio. Nessun appunto da fare, nessun atteggiamento da rinfacciarle, solo capire quanto in là si fosse spinta con la rivelazione dei propri sentimenti.
«Devin MacLean». Le prese il volto tra le mani sorridendo felice. «Sei una creatura imbarazzante».
Le uniche parole che si concesse prima di baciarla.
Al diavolo il sugo.
 
Nonostante fosse a Los Angeles da sei mesi era stata in spiaggia poche volte.
Da quando aveva iniziato a frequentare Parker lavorare da Alfred era diventato sempre più impegnativo: la gente faceva domande, si prendeva libertà che non erano loro concesse e si permetteva di giudicarla solo perché si vedeva in giro con un personaggio pubblico.
Una situazione che non le andava a genio, inoltre le dispiaceva creare disguidi ad Alfred. Quindi aveva deciso di licenziarsi. Qualche tempo dopo aveva trovato lavoro come assistente di un produttore. Non proprio un lavoro facile ma comunque appagante e frenetico, simile a quello lasciato a Glasgow. Un lavoro meno a contatto con il pubblico ma comunque stimolante, e quello le bastava.
Respirare l’aria dell’oceano era diverso dalla vista brulla e selvaggia delle coste scozzesi, lì a Los Angeles le spiagge erano popolate, gli animali erano abituati alla presenza dell’uomo e la sabbia scottava. Era talmente fine da sollevarsi non solo con le corse delle persone, ma con l’aria che soffiava verso il mare, eppure le piaceva molto.
I tramonti che si tuffavano nell’orizzonte riuscivano a lasciarla senza respiro tanto erano in grado di trasformare la percezione di quella città così dispersiva ed eterogenea, sembravano essere capaci di mettere Los Angeles d’accordo in un’armonia di colori anche i cuori più freddi, come quelli scozzesi.
Si strinse nella felpa grigia che le andava larga dato che era di Parker, l’aria iniziava a darle fastidio.
Aveva raggiunto Parker e i suoi amici in spiaggia dopo aver finito il lavoro, loro erano andati a surfare nelle ore in cui la gente la spiaggia la abbandonava, preferivano ritagliarsi dei momenti per loro, nonostante le onde migliori fossero già passate da un pezzo e l’oceano fosse gelato.
Lo vide uscire dall’acqua e sorrise tra sé.
Sebbene il mondo si stesse accorgendo di Parker Payne, per lei rimaneva sempre e solo un ragazzo qualunque, lo stesso che l’aveva aiutata una sera di cinque mesi prima e non l’aveva lasciata più andare. Raccolse il telo per porgerglielo, si stava facendo crescere i capelli come Chris Hemsworth per il ruolo che di lì a qualche settimana avrebbe iniziato a ricoprire, ed era solito divertirsi bagnandola scuotendosi come un cane appena uscito da una toeletta. Voleva evitare di arrivare a casa infreddolita.
«Tieni». Glielo allungò con sguardo adorante.
Non si era innamorata dell’attore, ma dell’uomo che dietro a esso si celava.
I capelli spettinati e gocciolanti, la muta aperta sulla schiena, il sorriso soddisfatto e lo sguardo malizioso. Forse Devin non aveva le gambe di Blake Lively, ma a lui piacevano perché erano le stesse gambe che gli avvolgevano la vita prima di fare l’amore, e niente avrebbe vinto contro una cosa simile.
«Grazie». Le sorrise.
Avrebbe voluto con tutto il cuore allontanarsi da lei, ma la verità era che quella vicinanza gli piaceva troppo, nonostante in quel momento sembrassero la brutta copia – anche se più giovane – di David Hasselhoff e Pamela Anderson in Baywatch, ma senza costumi rossi dalle sgambature sospette.
L’unica cosa che stonava nel contesto erano i paparazzi in lontananza che sembravano ben intenzionati a far sembrare quel tramonto la notte del quattro luglio in piena festa, o la settimana della moda a New York: per immortalare un momento come quello avevano bisogno ormai dei flash che, manco a dirlo, aumentarono la loro frequenza dopo i gesti di Devin.
Nemmeno in Fireworks di Katy Perry si arrivava ad avere un simile show pirotecnico. Avrebbero bruciato loro le retine di quel passo.
«Prego» rispose lei con un sorriso sempre più sognante, completamente inebetita dall’effetto che Parker aveva su di lei.
Al posto di indietreggiare o allontanarsi aveva mosso un passo verso di lui, appoggiando le mani al suo petto coperto ancora dalla muta. Stava facendo le fusa, nemmeno Brooke Logan con Ridge sarebbe arrivata a tanto.
Voleva baciarlo, e nulla gliel’avrebbe impedito in quel momento.
«Dev… I paparazzi». Non la voleva ammonire, ma solo ricordarle che se non si erano fatti cogliere in un momento intimo era stato per preservare il loro rapporto, cosa che Parker aveva già dimenticato, dato che le aveva circondato la vita con le braccia per avvicinarla ancora di più al proprio corpo.
Si sentiva un maniaco come Stifler di American Pie.
«Si? Quindi?» la voce di Devin era roca ed era possibile che stesse iniziando a strusciarsi languida su di lui, nemmeno Cat Woman avrebbe raggiunto un simile livello di fusa, peccato che la tutina aderente nera la indossasse Parker tra i due. E non sembrava certo Batman.
«Ci stanno scattando un servizio fotografico che nemmeno Johnny Depp ne ha avuto uno così dettagliato» precisò l’attore beato. Ok, sembrava di vedere un rave party in lontananza, la rappresentazione istantanea del Coachella, ma poco gli importava finché poteva stringere Devin.
«Bene, allora diamogli qualcosa da immortalare». Si avvicinò alle labbra di lui, ma voleva lasciargli modo di fare l’ultimo passo davanti al mondo, in fondo agli occhi di tutti era Parker l’uomo della situazione, anche se era Devin a portare i pantaloni tra i due. Ma non era necessario che gli altri sapessero.
«John amerebbe questa cosa». Parker era felice e divertito. Vedere quanto Devin fosse pronta a condividere con i fotografi e – quindi – con il resto del mondo il proprio sentimento lo riempiva di gioia, avrebbero smesso di nascondersi e frenare anche i più piccoli gesti per tutelare la loro riservatezza.
Le sciolse i capelli rossi legati in un chignon, la voleva sentire libera, le ciocche che sarebbero corse a solleticargli il viso.
«Più di te?» Devin scosse la chioma al posto di tirarsi indietro, come a ringraziare per il gesto. Si protese sulle punte dei piedi: specchiarsi negli occhi verdi di Parker era il modo migliore per allontanare ogni ombra o dubbio, anche i fotografi sembravano lontani anni luce in un momento intimo come quello.
«Naaah».
Le mise una mano sulla guancia per accarezzarle lo zigomo con il pollice.
«Allora baciami».
Una richiesta appena sussurrata che Parker non esitò a cogliere.
Poco importavano i flash che sembravano rendere apocalittico quel paesaggio, i paparazzi che sentivano che il loro lungo lavoro di inseguimento non era stato vanificato, anzi, gli amici che li prendevano in giro per quel gesto così sdolcinato e così… loro, perché gliel’avevano visto fare ben più di una volta.
No, loro si sentivano i sovrani del mondo, molto più in alto di Rose e Jack sulla prua del Titanic, soltanto che in loro avevano la certezza che, al contrario dei due protagonisti del film, non sarebbero naufragati.
 
Tra risate e pianti, Paradiso + Inferno, Amore e altri rimedi era passato un anno più intenso di quello che si erano aspettati.
Devin non era tornata a casa perché poco prima delle festività natalizie era venuto a mancare Doug, il papà di Parker. L’aveva così accompagnato fino in Georgia per il funerale, e Devin non avrebbe potuto immaginare occasione peggiore per conoscere la sua famiglia. Nonostante fossero passati mesi da quel giorno, ancora rabbrividiva  a pensare all’abbraccio caloroso che Ellen le aveva rivolto durante il loro primo incontro.
Tra quelle braccia aveva ritrovato la scena di un suo film e saga che le stava a cuore. Ellen le ricordava Molly Weasley e tra le sue braccia si era sentita tanto Harry Potter, era stato come avere di nuovo sua madre accanto a sé e non a un oceano di distanza, la sensazione intima e famigliare che ritrovava quando era a casa.
Ellen non si era risparmiata nei suoi confronti, nonostante le fosse appena morto il marito. Aveva confidato al figlio che era felice di saperlo in compagnia di qualcuno dall’altra parte dell’America, un qualcuno che lo rendesse così felice. Lo vedeva dalle foto che trovava sui siti web e sui giornali, oltre che dalle parole di Parker che trasudavano gioia a ogni telefonata.
Devin l’aveva aiutato a superare il lutto con la propria dolcezza, continuava a proporgli attività differenti per tenerlo occupato e distrarlo, riusciva a dosare comprensione a momenti in cui sapeva di doverlo lasciare solo.
Ed era giunta di nuovo l’estate, peccato che agosto si stesse rivelando più afoso del solito. Devin, abituata al clima imprevedibile e ventoso della Scozia, non era preparata a tanto, eppure era riuscita a non perdere mai il sorriso.
Tutti le facevano notare quanto fosse diventata affabile, sapendo di dover attribuire quell’umore da fata madrina di Cenerentola a Parker e alla sua vicinanza, eppure Devin non raccoglieva mai la provocazione, sorrideva ancora di più e affrontava le proprie giornate con carica e positività.
Fu una sera qualunque che arrivarono davanti alla porta d’ingresso della villa di Parker e lì davanti lui si fermò.
Era pronto a porle una domanda di cui conosceva già la risposta.
«Ti fidi di me?»
«No». Sorrise lei divertita, era chiaro che lui si fosse aspettato un sì in risposta. Difatti vide il sorriso morirgli sulle labbra.
«Simpatica». La ammonì sarcastico. «Chiudi gli occhi»
«E perché?» controbatté diffidente. «Mi vuoi fare uno scherzo?»
Diciamo che quella cosa era sfuggita loro di mano. Da quando aveva cercato di risollevargli l’umore dopo Natale era partita quella guerra silenziosa a suon di scherzi che non si erano fermati più con l’avanzare del tempo. Sembravano la versione non verde e meno invadente di Jim Carrey di The mask, quindi tendevano a guardarsi le spalle per stanare i piani dell’altro, nemmeno fosse stata una missione di guerra come in Black Hawk Down.
«No». Le sorrise in modo tenero questa volta. «Volevo farti una sorpresa».
Calcò le ultime parole sapendo di farle piacere.
«Potevi dirlo subito» rispose con un sorriso elettrizzato stampato in faccia. Inutile dire che ormai aveva gli occhi chiusi.
Parker alzò gli occhi al cielo. «Speravo di non arrivare a tanto. Su, alza le braccia in alto».
Devin stava per aprire gli occhi, un sopracciglio alzato per esprimere il proprio scetticismo.
«Non. Aprire. Gli. Occhi» disse categorico. Non sapeva dire il perché ma si era sentito Johnny Depp nei panni di Jack Sparrow e la cosa non gli dispiaceva per nulla.
«Su le braccia» continuò con fare sicuro.
Devin sbuffò ma fece come le aveva detto, era curiosa di sapere cosa stesse tramando.
Sentì la felpa leggera scivolarle sul busto per essere sfilata dalle braccia alzate. Certo, facile approfittarsi così della sua altezza da Godzilla.
«Parker…» iniziò incerta cercando di trattenere le risate che iniziavano a nascere in lei. «Certe cose non sarebbe meglio farle in casa?!»
«Sei una pervertita!» Rise lui, lusingato dal fatto che la mente di Devin fosse andata a parare proprio lì e non avesse pensato ad altro. Era stato come essere catapultati in Amici di letto, e la cosa non gli dispiaceva affatto.
«Ma tu mi spogli! Cosa dovrei pensare?» rispose divertita lei. «E comunque ho freddo, quindi se non devi abusare di me risolvi alla svelta la questione».
Per evidenziare il concetto iniziò a saltellare sul posto. In effetti era quello il bello di Los Angeles: nonostante di giorno facesse molto caldo, la sera la temperatura scendeva tanto da rendere necessario portare con sé una giacca leggera o una felpa.
«Stavo giusto rimediando alla cosa».
Devin, trepidante nella sua cecità temporanea, sentì qualcosa avvolgerla. Prima le braccia, poi il busto, Parker le aveva infilato qualcosa addosso.
Toccò il tessuto morbidissimo che le accarezzava il corpo, era come mettere la mano in una nuvola, e lei non aveva mai avuto un simile indumento, per quanto sembrasse una felpa  o un maglione.
Era curiosa di sapere cosa le avesse fatto indossare, anche se, doveva ammetterlo, rimanere senza vestiti addosso nella stessa stanza con lui non le sarebbe dispiaciuto affatto.
«Posso aprire gli occhi ora?» strano modo di farle un regalo, farglielo indossare prima di mostrarlo.
«No, non ancora». Lo sentì aprire la porta di casa, e questo servì a consolarla almeno un po’, perché qualunque cosa stesse architettando Parker era sempre più vicina a lei, di lì a poco l’avrebbe scoperta.
Entrò in casa e sentì freddo, ma il freddo vero, quello che faceva stringere nelle braccia e sentire la mancanza di un cappotto, il freddo che aveva amato in Scozia per ventisei anni. Non che non apprezzasse l’estate, ma non l’aveva mai conosciuta come a Los Angeles negli ultimi sedici mesi.
Avrebbe voluto spalancare gli occhi per capire cosa stesse succedendo, ma sentiva Parker chiudere la porta e muoversi attorno a lei con fare concitato, senza averle mai dato l’ordine di riaprirli, quindi decise di stare al gioco. D’altronde le sorprese le piacevano proprio perché creavano aspettativa ed eccitazione, e lei adorava sentirsi così. Era come essere la protagonista di un film che descriveva la propria vita, amava quella sensazione.
Sentì Parker accendere un ultimo interruttore prima di sistemarsi accanto a lei e metterle qualcosa attorno al collo di morbido, caldo e confortevole, l’ideale per il freddo anomalo della stanza.
«Ecco» disse soltanto lui, come se stesse valutando l’effetto finale.
«Posso?»
«Puoi» rispose impacciato, quasi fosse sicuro di aver combinato più un danno che altro, nemmeno fosse stato Dennis la minaccia o Joey di Friends.
Devin aprì gli occhi e rimase sconvolta.
«Oh mio Dio» mormorò. Si coprì la bocca spalancata con entrambe le mani per poi guardarlo in faccia nel tentativo di comunicare con lo sguardo tutto ciò che a voce non riusciva a dire.
Quella non era una sorpresa, ma una dichiarazione d’amore vivente, come se Parker non gliene avesse mai fatta una, era diventato più esperto di Gerard Butler in P.S. I love you.
«So che ti piace il freddo». Iniziò lui da dentro la sua felpa pesante. «Il Natale, la neve… so che tutto questo ti mancava, dato che non sei potuta nemmeno tornare a casa per le feste, così ho pensato di portarlo da te. O meglio, di fartelo rivivere, per quanto fosse possibile a Los Angeles».
Devin mosse un passo tra la neve finta che ricopriva tutto il pavimento. Era come stare in Lapponia nella casa di Santa Klaus, quello che si vedeva in La vera storia di Babbo Natale.
Avanzò e vide un lampione nella neve, accanto a un armadio. Narnia! Era a Narnia!
Appese per la stanza c’erano luci intermittenti che riproducevano il cadere della neve e le lucette dell’albero. Un pupazzo di neve come quello di Frozen era in un angolo, con un albero addobbato lì vicino.
Era il suo regno quello, si sentiva come Elsa, le stava venendo voglia di cantare nonostante fosse stonata.
Sulla finestra era appesa una foto di Glasgow innevata, come se stessero guardando oltre il vetro il panorama, e in quella accanto c’era un poster 3D di Hogwarts in cui scendevano fiocchi di neve. Continuò il giro per la stanza e vide una coperta di pile bianca con dei cristalli ghiacciati rossi appoggiata sul divano, accanto c’era una piccola riproduzione di una renna, mentre sul muro era appeso un fuoco finto, quelli che si vedevano riprodotti negli schermi.
Il freddo nella stanza era reso dal condizionatore che segnava dieci gradi. Sia lei che Parker indossavano maglioni con delle renne ricamate sopra e le sciarpe: lei Grifondoro e lui Serpeverde.
Il bello di aver scoperto di avere un ragazzo fanboy tanto quanto lei era una piccola grande fangirl.
Non era come stare in Scozia a dicembre, era molto meglio. Andava oltre ogni sua aspettativa e non riusciva a capacitarsi del fatto che Parker avesse fatto tutto quello per lei, per vederla felice.
«Potresti dire qualcosa? Mi sento abbastanza idiota al momento». Si grattò il naso lui in imbarazzo.
«Tutto questo per me?» bisbigliò Devin con la paura di interrompere la magia che si percepiva in quella stanza. Si era avvicinata a lui, non avrebbe voluto essere in quel posto con nessun altro al mondo.
«Sì, volevo vederti felice». Sorrise più rilassato nel poterla abbracciare e constatare quanto fosse stata gradita la sua sorpresa.
«È meraviglioso» mormorò commossa. «È perfetto, e io non posso credere di aver avuto la fortuna di incontrarti quella sera»
«Dovremmo dire che l’alcool aiuta davvero in certi casi» cercò di minimizzare lui.
Adorava poterle dire quanto la loro storia fosse importante, ma sapeva che a Devin certe cose andavano strette, quindi preferiva buttarla sul ridere per evitare l’imbarazzo tra loro. Aveva mille modi per dimostrarle quanto l’amava, non c’era bisogno di ostentarlo.
«Ti amo». Devin gli saltò al collo, contenta come non mai da quando aveva deciso di stare con Parker, il ragazzo che l’aveva aiutata a raddrizzare un periodo storto, non l’attore che si aggirava tra set e premiere per avviare la propria sfavillante carriera.
«Anche io Dev, non sai quanto». La baciò con trasporto senza darle modo di aggiungere altro, andava più che bene così.
Devin si sentiva elettrizzata da quella situazione, era come avere un parco giochi a propria disposizione. Si allontanò da Parker e si abbassò in fretta per poter prendere una manciata di neve finta e tirargliela addosso.
«Scusa» esordì con una risata divertita e per nulla dispiaciuta. «Volevo provare!»
«Ehi, piano! Alcune cose le ho rubate dai vari studios, ma altre le devo restituire». Si era inoltrato  nello scenario costruito da se stesso per sedersi su un bracciolo del divano, fin troppo pacifico per i suoi standard, cosa che mise in allarme Devin.
Decise così di controllare sotto la coperta, i finti regali di Natale sotto l’albero, dietro il caminetto e tra i ciocchi di legno accatastati lì sotto ma no, non c’era traccia di alcuno scherzo, anche se era convinta che fosse tutto troppo perfetto perché filasse liscio. Sapeva che prima o poi sarebbe spuntato un orrendo clown per tormentarla  e farle venire gli incubi, non avrebbe mai dovuto confidargli quella sua insensata fobia. Ma cosa poteva farci lei se i pagliacci erano grotteschi e suo fratello quando era piccola le aveva fatto vedere It, traumatizzandola a vita?
«Cosa stai facendo?»
Lei incrociò le braccia al petto e alzò un sopracciglio. «Sorprendimi».
Una provocazione, una delucidazione sul fatto che fosse impossibile che non ci fossero scherzi.
Parker alzò un angolo della bocca. Nella fretta Devin si era dimenticata di aprire l’armadio, dove avrebbe trovato ad attenderla un clown insanguinato.
Poi un pensiero lo colpì all’improvviso, un ragionamento che quel ‘sorprendimi’ aveva solleticato ma che era andato ben oltre le semplici idee che potevano venire di getto di solito.
Era come essersi reso conto d’un tratto perché la sera in cui l’aveva incontrata e conosciuta non l’aveva lasciata andare, come se le sensazioni nate durante il loro primo incontro l’avessero segnato nel profondo, e il suo essere determinato a non lasciarle sfuggire fosse stato il più chiaro tra tutti i segnali. Un qualcosa che si percepiva prima nello stomaco che nel cuore, anche se le convenzioni sociali – specialmente quelle che Hollywood imponeva – impedivano di agire d’istinto. Ma lui sapeva che se non avesse osato in quel momento come un anno prima avrebbe rischiato di non ritrovarsi lì e perdere tutto. Se non avesse seguito l’istinto ora come allora, non avrebbe mai avuto Devin.
Ecco, in quello era rimasto Parker fino in fondo. Alla faccia delle consuetudini hollywoodiane, dei contratti, degli accordi e di tutte le scartoffie che dovevano per forza definire i rapporti tra le persone.
Era arrivato a quel pensiero in modo naturale, senza averci riflettuto granché, ma con la certezza che quella sarebbe stata l’unica cosa giusta da fare.
Voleva essere stupita? Ci avrebbe messo tutto se stesso.
«Sposami».
Diretto, chiaro e coinciso, non una incertezza nella voce o nello sguardo.
Devin si alzò di scatto, smettendo di colpo di cercare uno scherzo.
Era arrivato così, a parole, eppure il cuore aveva iniziato a martellarle in petto, il sangue ad affluire nelle guance e la testa a girarle sempre di più. C’era qualcosa nel tono di Parker che non sembrava affatto uno scherzo, ecco perché quella parola le aveva fatto attorcigliare le viscere, preda di uno tsunami di farfalle, alla faccia di Blair e Chuck di Gossip girl.
«Sei sicuro?» ansimò in cerca d’aria. «Sei sincero?»
Parker annuì. Poteva leggerle sul viso la sorpresa e il panico, ma ancora non aveva risposto. Sapeva che molto probabilmente aveva fatto un passo troppo lungo e poco ragionato per quel rapporto, per lei, ma non voleva lasciare niente di intentato. Lui lo desiderava, e non capiva perché aspettare a chiederglielo se in quel momento aveva la voglia e il coraggio di proporglielo.
«Sì, te l’ho promesso quando hai accettato di aiutarmi e non vedo perché iniziare a mentire ora. Sposami» incominciò. «Non era una cosa programmata, giuro. Non ho nemmeno fatto tutto questo per proportelo. È stata un’idea insana venuta al momento. Non ho nemmeno l’anello!»
Aveva continuato a parlare, ma Devin era persa e concentrata nei suoi pensieri.
Quando Parker avrebbe finito il suo monologo lei avrebbe dovuto rispondere. Sì o no. Era inutile dire “più avanti”, odiava le donne che rispondevano in quel modo. Che senso aveva? Era come dire sì e aggiungere non ora. Ma se una persona rispondeva in modo affermativo tanto valeva farlo subito, non capiva perché aspettare.
Dio, era una follia. Era stata sei anni con Oliver e non aveva mai preso in considerazione l’idea. Arrivava Parker e dopo un anno saltava fuori con una cosa simile?
Era pronta? No.
Non era la tipa adatta per compiere certe follie, lei adorava la sua routine. Si sentiva un po’ Bridget Jones, ma al contrario della sfigata protagonista lei viveva benissimo in quelle piccole quotidianità.
Aveva fatto solo una pazzia, ed era stata seguire Parker in tutto quello, accettare la sua proposta.
Quel pensiero la colpì come un fulmine a ciel sereno.
Mai una pazzia. In sei anni con Oliver mai una scelta insensata e la relazione era naufragata senza possibilità di recuperarla, lei si era ritrovata da sola dall’altra parte del mondo a inseguire il suo sogno di una grande metropoli, però sola e sconsolata.
Una follia soltanto l’aveva portata lì, da Parker. Se ci avesse ragionato probabilmente non avrebbe avuto niente di quello che possedeva  in quel momento. Non un ragazzo che le preparava la stanza come se fosse dicembre nonostante fuori agosto si facesse sentire, non un uomo che la amasse per quello che era, non Parker che lei aveva imparato ad amare con tutta se stessa in maniera incondizionata.
L’unica azione impulsiva della sua vita si era rivelata l’unica scelta giusta in ventisei anni.
Cosa c’era di sbagliato in lei?
Certo, non era facile stare con Parker, il suo lavoro si era frapposto qualche volta fra loro, eppure fino a quel momento la situazione non era stata ingestibile. Non era come in Notting Hill, ma nemmeno un mare pieno di squali pronti a divorarli. C’erano alti e bassi, eppure erano ancora lì, ben sopravvissuti a ogni tempesta, meglio di Tom Hanks in Cast away.
Parker continuava a parlare per convincerla, ma Devin non aveva sentito una singola frase di quel monologo.
«Sì» sussurrò con lo sguardo perso, interrompendo il discorso di lui.
«Cosa?» non si aspettava una risposta simile.
Era convinto di sentirsi mandare al diavolo, lui e la sua sconclusionata vita.
«Sì» rispose emozionata, con le lacrime agli occhi e la mano davanti alle labbra mentre tentava di sorridergli. «Al diavolo la razionalità, sposiamoci».
Aveva capito che della razionalità non se ne sarebbe fatta nulla se Parker non fosse stato al suo fianco, tanto valeva accantonarla e lasciarla per momenti più pacati, aveva bisogno di emozione e istintività, cosa che riusciva a trovare solo in lui.
Era riuscito a capire come leggerla, a interpretarla e stupirla ogni giorno anche con le piccole cose, non se lo sarebbe lasciata scappare per nulla al mondo.
Devin si sedette sullo schienale del divano, ormai senza forza nelle gambe. Parker la raggiunse con un sorriso radioso che impresse sulle sue labbra, quasi avesse voluto trasmetterle con quel gesto la felicità di cui lei era artefice. Il riflesso della stessa gioia che provava lei.
Erano in mezzo a quel salotto innevato, al centro del loro mondo, e non importava quanto freddo facesse, perché a scaldarli c’era stata l’eco di quella promessa che avevano deciso di mantenere fino alla fine dei loro giorni.
Si era presentata a Los Angeles come fredda e arida, e infine aveva trovato il proprio eroe che l’aveva riportata nell’estate della propria vita.
Aveva lasciato le vesti da regina delle nevi per indossare quelle di una semplice donna innamorata, quasi fosse stata una principessa. Una principessa ribelle.
Quella era la loro favola metropolitana, e non avrebbe avuto un lieto fine, ma una continuazione gioiosa e appagante, perché Devin e Parker erano riusciti a trovare il loro equilibrio.
Sarebbero riusciti a far conciliare tutto, nonostante le enormi differenze tra loro e i mondi in cui si muovevano.
Happily ever after, proprio come il titolo di un film.




Buonasera a tutti!
Scusate se non ho pubblicato ieri, ma alla fine ho completato il capitolo la sera. Anzi, alcune parti, purtroppo, non sono riuscita a rileggerle. Spero non ci siano troppi errori, anche se conto di rileggere il tutto dopo la pubblicazione.
Tengo a precisare che non tutti i film citati nei quattro capitolo sono stati visti dalla sottoscritta, spero di non aver fatto gaffe. Non dirò mai quali, perchè alcuni sono molto famosi, ma io sono a particolare a riguardo.
Non ho molto da dire, se non che - come promesso - vi ho lasciato la storia in questo luglio, anche se di estivo aveva ben poco.
Ora è il mio turno di andare via per una settimana, spero che questa storia possa avervi fatto compagnia!
Sono contenta di aver reso la OS che doveva essere in origine una mini long, perchè a questi personaggi mi sono legata in modo particolare e, come vedete, non avrei mai potuto scrivere una shot, sarebbe stata più lunga di un rotolone regina! Senza contare che la battuta da cui era nata l'idea di questa storia era l'ultimo sorprendimi, quello poco più in alto. Eh no signore, non sono una persona che possiede il dono della sintesi.
Il prossimo aggioramento sarà sempre nelle romantiche, e riguarderà la mia long "Ti ruberò il cuore", spero di postare entro fine agosto, è una storia un po' particolare e ho bisogno di concentrarmi al 100%.
Spero che la storia vi sia piaciuta, ci terrei a sentire le vostre opinioni a riguardo!
Grazie a chiunque abbia letto, recensito o aggiunto la storia, vi mando tanti baci nutellosi.
Se volete mi trovate nel mio gruppo fb: Love Doses.
Vi auguro una meravigliosa estate, a presto, sbaciucchiamenti, Cris.

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