The Random Story

di Astrid Romanova
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Scotch ***
Capitolo 3: *** Flashes ***
Capitolo 4: *** Point Of View ***
Capitolo 5: *** Unnecessary ***
Capitolo 6: *** Blind Date ***
Capitolo 7: *** (Un)lucky Encounter ***
Capitolo 8: *** Courtship ***
Capitolo 9: *** Distraction ***
Capitolo 10: *** Never Have I Ever ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Qual è il parassita più resistente? Un'idea. Una singola idea della mente umana può costruire città.
Un'idea può trasformare il mondo e riscrivere tutte le regole.
-D. Cobb, Inception

   Girava rapida, leggera, puntando verso l'alto.
   Come fanno i programmi. Decidi che le cose debbano andare in un certo modo, predisponi una strategia e parti con un solo obiettivo: l'alto. Raggiungere un piano superiore, un livello superiore, o anche solo il primo gradino della scala. Fai programmi per arrivare da qualche parte e quei programmi hanno un solo limite: il cielo.
Il cielo, o l'altezza massima raggiungibile prima che la forza di gravità superi l'accelerazione del corpo verso l'alto, facendolo precipitare. E, si sa, per quanta forza tu imprima nella spinta, maggiore è il peso delle tue speranze minore è il tempo entro il quale ti ricadranno tutte addosso.
    Persino la moneta più leggera, prima o poi, smetterà di salire e ricomincerà a scendere. Ma, almeno questa volta, l'obiettivo è la caduta, non l'ascesa. Perché la risposta arriverà alla fine dell'ultimo giro, che è più facile dell'aspettare che tutti i tuoi programmi vadano in pezzi. La gravità è molto più veloce di una persona nel rovinare tutto. C'è quel momento, quando la moneta si ferma alla massima altezza e prima che cominci la sua discesa, in cui rimane aperta un'infinita serie di possibilità. Possibilità che tu hai ridotto a due: testa o croce. Farlo o non farlo. Il peso leggero che senti sulla pelle è il peso enorme di una scelta che non hai fatto tu, che hai lasciato al caso. Lo sposti da una mano all'altra, voltando la moneta e appoggiandola sul dorso dell'altra mano.
    E ti chiedi, a quel punto, se ci vuole più coraggio a prendere una decisione o ad accettarne una, facendoti trovare pronta a qualsiasi cosa possa capitarti.

 
•●•

   Se pretendi di fumare una sigaretta al buio, hai il cinquanta per cento di probabilità di accenderla dalla parte sbagliata. Che è come dire che hai il cinquanta percento di probabilità di accenderla dalla parte giusta, ed è quello che ti importa di più, è quello ciò a cui pensi. Inserisci il pilota automatico, giri la rotella dell'accendino, schiacci il bottone e, mentre la fiamma illumina la parte a cui stai per dare fuoco, potresti notare se stai per mandare a puttane il filtro. Ma non guardi attentamente, e se lo fai non hai comunque il tempo di fermarti. Ormai ha preso fuoco e tu stai già imprecando prima ancora di aver spento la fiamma.
   È così che vanno le cose. Ti accorgi sempre di quando stai per fare una stronzata, ma non è che ci pensi. Chiamatela testardaggine o stupidità, ma ormai ci sei dentro e non ti fermi, ignorando il fatto che ti ritroverai a buttare la sigaretta per terra e schiacciarla sotto il piede incazzato come una iena. Non c'è mai abbastanza tempo per evitare l'evitabile. Le tragedie non avvengono lentamente, e se lo fanno non sono tragedie. Sono drammi calcolati, e i drammi calcolati hanno il non insignificante pregio di suonare il campanello. Le tragedie no, quelle ti sfondano la porta e hanno anche il cattivo gusto di chiederti: “è permesso?”.
   Accendersi una sigaretta al contrario non è una disgrazia, puoi sempre prenderne un'altra. Ma non tutto viene fatto in serie. Se perdi un padre non hai altri diciannove padri infilati in un pacchetto. Se perdi una madre non c'è nessuna tabaccheria che te ne rivenda altre venti perfettamente confezionate. Certe cose sono in edizione limitata. Certe cose sono pezzi unici. Se spendi tempo e fatica dietro ad un sogno, se fai dei progetti, se ti organizzi l'intera esistenza per raggiungere quello e quel solo obiettivo, ne fai inevitabilmente un pezzo unico.
    Non potevo costruirmi una nuova strada come se si trattasse solo di accendere un'altra sigaretta, esattamente come nessuno sarebbe venuto ad indicarmi una nuova direzione come Darcey mi stava offrendo una delle sue sigarette dopo che avevo calpestato violentemente la mia.
    Quindi, per il momento, mi limitavo ad aspirare.
    «Abbiamo un nuovo vicino di casa, te l'ho detto?» esordì Darcey dopo aver preso una boccata.
    «Perché, avresti dovuto?» le chiesi a mia volta.
    Il motivo per cui Darcey era la mia migliore amica era che non mi chiamava per informarmi di ogni cambiamento nello status quo, non aveva l'impellente bisogno di mettermi a parte di qualsiasi avvenimento di importanza inferiore alla caduta di un meteorite sulla terra, a meno che non glielo chiedessi, e se mi raccontava qualcosa era solo per passare il tempo.
    «Credo di sì. Due giorni fa è venuto a presentarsi e Chase lo ha invitato alla festa. Ciò significache se scoprirà che non gli sta simpatico come credeva farà di tutto per scaricarlo, e a chi credi che si rivolgerà?»
    Bene, questo era un validissimo motivo per dirmelo. Il maledetto gemello di Darcey, Chase, faceva amicizie con la stessa facilità con cui io perdevo accendini, invitava chiunque poteva alle sue amate feste ma, se qualcuno iniziava a stargli antipatico, io e sua sorella diventavamo come i cestini del computer: lo scaricava a noi e, a fine serata, svuotava la cartella.
    Della serie parli del diavolo e spuntano le corna, Chase fu tanto premuroso da venirci ad avvertire dell'inizio del pezzo forte della serata: il Random Kiss. Era un'idea tutt'altro che originale e a dirla tutta anche un po' superata, ma era anche vero che fosse l'attrattiva principale delle sue feste. A quanto pareva c'era gente che davvero si divertiva a baciare altra gente al buio, ed io non ero nessuno per giudicare i gusti degli altri.
    Io e Darcey spegnemmo la sigaretta e rientrammo in casa Kidman, tornando nel salone dove si stava svolgendo la festa. Chase si era già piazzato, munito di microfono, sul fondo della sala, dietro la consolle del dj, e non aveva perso tempo nell'iniziare a spiegare in cosa consisteva il Random Kiss. Per niente interessata, visto che ormai avevo partecipato ad almeno venti di quelle sceneggiate, fissavo il bordo inferiore del mio bellissimo vestito blu scuro che, ovviamente, non era mio. Darcey aveva ragione a dire che faceva risaltare gli occhi azzurri, peccato che io non avessi gli occhi azzurri. Ma se stavo vicino a lei i suoi risaltavano davvero tanto.
    «Ci sono solo due regole: silenzio e baci appassionati!» concluse Chase.
   Non sapevo chi avrebbe spento le luci quella volta. Di solito ero io perché non volevo prendere parte attiva all'avvenimento, ma quell'anno mi avevano soffiato il posto. La verità era che ero sempre stata molto più brava sulla carta che nella vita reale nel “buttarmi”. Potevo scrivere di persone capaci di prendere e partire per un viaggio senza un soldo, rendendolo credibile, ma io non avevo le palle per baciare uno sconosciuto al buio. Negli ultimi tempi la mia inibizione aveva iniziato a cadere in pezzi e le delusioni che avevo ricevuto mi avevano resa molto meno prudente e misurata, ma solo perché la metà delle volte non sapevo proprio cosa stesse succedendo.
    Le luci si spensero. Sulle note di una canzone che non conoscevo sentivo le persone muoversi intorno a me, sfiorarmi e continuare la loro avanzata fino a perdersi le une tra le altre. Nessuno voleva sapere dove fosse o vicino a chi si trovasse. Tutti speravano solo di ricevere un bacio, un bel bacio, solo per il gusto di sentire le labbra di qualcun altro sulle proprie. Per il gusto di toccare qualcuno sapendo di non essere respinti, per il gusto di provare un po' di intimità senza impegno.
    Provai a fare i primi passi, sfiorando o scontrandomi con gli altri, senza sapere dove fossi andata. Sentivo i mormorii di chi si lamentava di qualcuno che gli aveva pestato un piede, di chi rideva eccitato, di chi muovendosi alla cieca finiva contro il muro. Tutto si interruppe quando la musica finì e un'altra prese il suo posto, annunciando l'inizio di quei tre minuti di casuale passione. Una canzone di tempo per perdersi, una per baciarsi, un'altra per perdersi di nuovo. Girai su me stessa senza il coraggio di allungare la mano e fare una scelta, anche se inconsapevole, chiedendomi se fosse possibile ritrovarsi soli in quel momento. Se, mentre tutti intorno si davano lunghi baci sconosciuti, qualcuno potesse rimanere isolato nel buio, ad attendere il suo cavaliere o la sua principessa. Mi resi conto che non era impossibile e che forse stava capitando a me. Ma su quell'ultima considerazione mi sbagliavo: potevo non aver cercato nessuno, ma qualcuno aveva trovato me. La mano mi sfiorò la schiena e, senza staccarsi, risalì fino alla mia spalla. Se da un lato ero felice di non ritrovarmi sola, dall'altro il disagio bussava insistentemente alle porte della mia mente. Complice l'oscurità trovai il coraggio di voltarmi, afferrando la mano che mi toccava per evitare che scappasse: sarebbe stato ancora più imbarazzante voltarsi e, nel cercare chi aveva cercato me, scoprire di aver perso il treno, di essere riuscita ad allontanare qualcuno, uno sconosciuto, in meno di quattro secondi. Avrei potuto non baciare proprio nessuno e non si sarebbe mai scoperto, ma non era tanto una brutta figura quella che temevo. Era attendere la riaccensione delle luci maledicendomi per essere stata la solita imbranata. Feci scivolare il mio palmo per tutta la lunghezza di quel braccio inequivocabilmente maschile fino a raggiungere la sua spalla. Le sue dita erano già arrivate al mio collo e ora mi solleticavano la nuca, affondate nei miei capelli. Sentii il suo corpo farsi più vicino fino ad entrare in contatto col mio, il suo respiro iniziare a solleticarmi la fronte. Era più alto di me.
    Una seconda mano si appoggiò sulla mia guancia, come se lui volesse essere sicuro di trovare il mio viso. Non potendoci vedere dovevamo toccarci per capire dove fossimo rispetto all'altro, ed era questo probabilmente che rendeva il Random Kiss non solo misterioso, ma anche più intimo e appassionante dei normali baci agli sconosciuti in una discoteca. Col pollice mi sfiorò il mento e giunse alle labbra. Il suo respiro si abbassò lungo il mio naso, che poco dopo ne accarezzò un altro, subito prima che potessi sentire il fiato caldo sulle labbra e accorgermi di non avere più tempo, di non avere più spazio. La lentezza dei nostri movimenti venne sostituita dalla rapidità con cui il nostro bacio divenne più veloce e intenso, attimo dopo attimo. Perché anche se le mie dita erano annodate tra i suoi capelli, anche se le sue erano lentamente scese lungo la mia gola fino alla spalla e più giù, lungo la schiena, fino a che tutto il suo braccio non mi cinse con più forza di quella che mi sarei aspettata, il centro di tutto non erano le mani, non era il mio cuore che batteva confuso, non era il mio stomaco stretto o la mia mente vuota e silenziosa. Era quel bacio.
    E finché la canzone non fosse finita, finché le luci non si fossero accese e sarei stata lontana da chiunque fosse coinvolto con me in quei tre minuti di trasporto, mi sarei sentita desiderata. Desiderata e libera di esserlo.
    Mentre i secondi di tempo venivano meno anche la nostra ebbrezza scemava, in modo incostante ma inesorabile. Poi tutto rallentò fin quasi a fermarsi, ogni contatto tornò alla leggerezza insicura dell'inizio e la pressione sulle mie labbra si allentò nel momento in cui l'ultima nota vibrò dalle casse. Decisi di voler conservare il ricordo di una mia iniziativa, per quanto insignificante, e per questo mi sporsi in avanti prima che il suo viso si allontanasse troppo dal mio. Non lo avrei considerato un bacio, quanto piuttosto una stretta prossimità di labbra. Forse nemmeno se ne accorse, eppure la risposta delle sue dita e il modo con cui blandirono il contorno del mio viso sembrava dire il contrario.
    Ma la canzone era finita e la mia libertà con essa, mentre un'altra iniziava riportandomi quell'incomodo imbarazzo che non potevo evitare. La mia mano destra fece il percorso inverso lungo il suo braccio, fino alla mano, e fu l'ultima cosa che toccai prima di perdere completamente il contatto con la sua pelle e tornare a muovermi tra chi aveva baciato e chi era stato baciato, tra chi avrebbe voluto dimenticarsi quell'esperienza e chi se la sarebbe ricordata a vita. O, almeno, fino al prossimo bacio. Uno alla luce, uno che, quando ti stacchi, guardi negli occhi chi hai di fronte, uno che hai aspettato o che ti sei guadagnato, che hai voluto per lungo tempo o che speri sia seguito da molti altri. Ma non per questo uno più vero. Perché io avevo avuto un bacio più vero di molti altri in cui ero stata coinvolta. Perché l'avevo sentito. E forse iniziavo a capire perché tutti fossero sempre così trepidanti al pensiero del Random Kiss.
    Le luci vennero riaccese e tutti impiegammo diversi istanti a riabituarci alla se pur tenue luminosità della stanza. Dopo un Random Kiss sentivo sempre Darcey e Jaena parlare cercando di capire chi avessero baciato, basandosi sulla lunghezza dei capelli, sull'altezza, sugli abiti indossati. Il mio cavaliere nel buio aveva una giacca morbida, i capelli corti ed era più alto di me, ma avevo ristretto il campo a più o meno metà degli invitati maschili. Non che ci tenessi particolarmente a ritrovarlo, ma avere la sicurezza che il mio partner dei tre minuti fosse irrintracciabile mi dava sollievo.
    Jaena mi raggiunse lamentandosi di aver sicuramente baciato una ragazza e, dopo una teatrale tanto quanto finta lavata di lingua, iniziò a bombardarmi di domande.
   Jaena era quel genere di ragazza che, anche con dei fari puntati addosso, nessun ragazzo avrebbe rifiutato tanto alla leggera. Qualsiasi gradazione luminosa la investisse la faceva sempre sembrare bella, probabilmente perché era bella davvero. Di una bellezza semplice, innocente in un certo senso. Non fosse stato per quella massa di capelli ricci e rossi che riuscivano a renderla sexy anche se indossava una tuta da militare.
    Fui salvata – il che mi fece capire quanto quella situazione mi avesse messa in crisi – dall'arrivo per una volta provvidenziale di Chase.
    «Allora, vi è andata bene?» esordì con un largo sorriso.
   «Io ho baciato una ragazza. Cameron è restia a dare dettagli, ma nel suo caso non significa néche sia andata bene né che sia andata male, ma solo che è andata» rispose Jaena anche per me.
    Meglio, mi risparmiava l'incomodo di dover trovare una risposta.
   «Che è comunque più di quello che può dire di solito» commentò lui. Non gli davo tutti i tortiin quel caso. «Credo che anche Darcey abbia baciato una ragazza» ci informò allegro, come se ci interessasse. Be', in effetti a Jaena interessava.
    Non avevo mai visto Chase Kidman non allegro, ma avevo sempre sospettato che un ben assestato calcio nei bassifondi avrebbe intaccato il suo primato.
    «A proposito di Darcey, dove si è cacciata?» domandò Jaena voltandosi da una parte e dall'altra.
    Sia lei che Chase iniziarono a guardarsi intorno, ignorando momentaneamente la mia presenza. Era il momento per una sigaretta. Mi defilai silenziosamente.
    Era una tipica nottata di fine aprile. Non soffiava un filo di vento, ma l'aria dell'una di notte era fredda sulla pelle. La ignorai. C'era qualcuno che rideva, lì fuori, qualcuno che faceva una telefonata, qualcuno che cercava gli amici dispersi e qualcuno che non sembrava sapere esattamente dove si trovasse. Mi appostai in un angolo libero e feci bene attenzione a mettere la sigaretta tra le labbra per il verso giusto. Non ricordavo quando fossi divenuta una fumatrice regolare, ma supponevo che nessuno si rendesse mai conto di essere diventato dipendente da qualcosa. Di certo non programmi una dipendenza. Ti arriva e basta. Come d'altro canto qualsiasi altra cosa negativa nella vita. Non pensi “domani cadrò dalle scale” o “tra un'ora esatta litigherò con la mia migliore amica”. I progetti si fanno sulle speranze positive, non sui pessimi presagi, anche perché dire “il mio sogno è cadere dalle scale” è decisamente un cattivo segno riguardo la propria saluta mentale. Tutti mettono in conto che qualcosa possa andare male, ma nessuno è onestamente capace di pensare: e se va tutto in fumo? Ho un piano di riserva?
    Certo che no. Già inseguire un obiettivo alla volta è sfiancante, figuriamoci due o tre contemporaneamente. Quindi non resta che riprendere a guardarsi in giro, come quando hai diciassette anni e non sai dove sarai di lì a dieci anni. Ma non sei più un diciassettenne, la tua fiducia nel futuro è andata a puttane e ormai hai la profonda, radicata convinzione che alla fine, inevitabilmente, è tutta questione di fortuna. Puoi fare tutte le scelte che vuoi, puoi fare tutti i programmi che vuoi, ma giunto ad un certo punto non dipende più da te. Chiunque dica il contrario è idealista, è troppo giovane o ha un culo sfondato. Addirittura gli scienziati erano arrivati a dire che la vita stessa è nata per puro caso, quindi perché ogni singola esistenza dovrebbe procedere in modo diverso? Dopotutto quando avviene il concepimento è pura fortuna – o sfortuna – che dal casino salti fuori proprio tu. Per quanta autonomia si possa raggiungere nessuno può essere libero dal caso. Quindi perché fare progetti che potrebbero crollare con la stessa facilità di una catasta di paglia investita da una bufera? Qualcuno direbbe perché, altrimenti, l'alternativa sarebbe rimanere impassibili e non combinare proprio niente di niente. Valida obiezione. Ma nessuno ha mai detto che si debba smettere di pensare o di provare qualcosa, solo... non contarci mai troppo. Fare tutto e niente, in modo casuale. Quello che capita capita. E rispondere, alla domanda “come ti vedi tra dieci anni”, semplicemente “mi vedo”. In pratica, contare sul fatto di essere ancora vivi, ma fregarsene di dove, del come e del perché.
    Non sembrava una brutta filosofia di vita se eri abbastanza coraggioso da scenderci a patti, ma la mia era solo un'idea.
    «Ehi» disse improvvisamente una voce alla mia sinistra.
   Istintivamente mi voltai, nonostante non potessi sapere chi quella voce stesse chiamando. Un “ehi” non era molto esemplificativo. Ma visto che alla mia sinistra, oltre ad una ragazza che stava ridendo talmente tanto da sembrare sul punto di vomitare, c'era solo un ragazzo voltato nella mia direzione, presupposi con una certa sicurezza che si stesse rivolgendo a me.
    «Ehi» fu la mia brillante risposta.
    D'altronde, dire “ciao persona sconosciuta e mai vista prima d'ora” non era molto meglio.
    «Tu sei Cameron, vero?» mi domandò, avvicinandosi di qualche passo. Poi, visto che il mio “sì”era stato sostituito da uno sguardo solo più sconcertato di prima, aggiunse: «la migliore amica della sorella di Chase».
    Le cose non mi erano più chiare, ma almeno ora sapevo che lo erano per lui.
    «Ti conosco?» fu tutto quello che trovai da chiedere. Magari non mi era familiare perché non gli avevo mai prestato attenzione e in realtà lo conoscevo da anni. Avevo fatto una figuraccia simile con Richard, un'amico del college di Chase.
    «Non direi» disse con un sorriso.
    Avrei preferito un “mi chiamo Pinco Pallo e sono il qualcosa di Chase”.
   Dovetti aspettare qualche secondo prima che lui – che fosse un po' ritardato? - si decidesse ad allungare una mano e dirmi finalmente qualcosa che potesse fare un po' di chiarimento.
    «Nathaniel» si presentò, «abito qui di fronte da un paio di giorni».
    Ma bene, il famoso nuovo vicino di casa. Speravo solo che non l'avesse mandato lì Chase per levarselo di torno.
    La sua stretta era salda e decisa, in netto contrasto con la calma serafica con cui si era fatto avanti. Nella sua giacca grigia, nei jeans scuri e nella camicia bianca leggermente sbottonata, sembrava disinvolto. Il classico tipo: aria sbarazzina, sguardo vivace, a suo agio tra la gente e aperto alle nuove amicizie. Se fosse stato biondo sarebbe potuto essere lo stereotipo dello stereotipo del ragazzo americano. Invece aveva i capelli scuri del ragazzo cattivo, che lo aiutavano solo a prendere le sembianze del ventenne complessato apparentemente scellerato ma fondamentalemnte insicuro, legato da un rapporto controverso alla ragazza angelica e ingenua che rappresentava la sua unica speranza di redenzione.
    Non potendo dar voce alla mia riflessione, mi limitai a sorridere di rimando e tornare alla mia occupazione, prendendo una boccata di fumo. Dal canto suo, lui tirò fuori una moneta dalla tasca e iniziò a lanciarla in aria. Per le prime tre volte mi limitai a guardarlo con sconcerto, pensando che non fossero affari miei, ma se l'alternativa starcene lì in silenzio tanto valeva fare una domanda che, di certo, avrebbe solo distolto entrambi dall'evidente stato di noia in cui eravamo cascati.
    «Che stai facendo?».
    C'erano un milione di modi per porre quella stessa domanda in modo più cordiale, ma non credevo avrebbe fatto differenza se fossi stata cortese e affettata piuttosto che diretta e affabile.
    Lui sorrise – di nuovo – e si voltò verso di me con l'espressione di chi sta per fare qualcosa di divertente.
    «Testa o croce?» mi chiese.
    La mia reazione fu del tutto comprensibile: lo guardai come si guarda un cane che rincorre la propria coda da mezz'ora buona, chiesi a me stessa quale diavolo fosse il problema di quel tizio e subito dopo quale fosse il mio per farmi tante preoccupazioni.
    «Croce» risposi, anche se suonò più come una domanda.
    «Se vinci, ti spiego cosa sto facendo» mi sfidò gioviale.
    La moneta girò rapida davanti ai nostri volti quando le diede un colpo secco col dito, quindi ricadde sulla sua mano. Nathaniel la rigirò sul dorso della mano sinistra, tenendola coperta, e attese qualche secondo per far crescere una tensione che non sentivo. Nel momento in cui tolse la mano e croce fu il chiaro rovescio vincente, mi sentii stranamente soddisfatta. Il caso mi aveva fatto vincere, forse dovevo davvero interessarmi alla risposta che ora Nathaniel avrebbe dovuto darmi. Dopotutto avevo appena passato più di metà sigaretta a ragionare su come affidarsi al caso fosse meglio che creare cataste di paglia.
    «Dillo con parole tue» lo invitai, con un pizzico di inutile sarcasmo.
    Neanche a dirlo, eccolo sorridere per l'ennesima volta. Non è che non apprezzassi le persone sorridenti, è solo che prima o poi la faccia ti si può fossilizzare in quel modo.
    «In realtà non c'è granché da spiegare. Hai mai provato la sensazione di non avere più ilcontrollo di niente, di aver fatto qualcosa inutilmente?».
    Non era affatto divertente. Mi aveva appena letto nella testa. E probabilmente era chiaro anche dal mio viso, visto che non gli servì ricevere alcuna risposta perché continuasse col suo discorso.
   «Non è una cosa di cui vergognarsi. Tutti si sentono così almeno una volta. Qualcuno di più e qualcuno di meno» fece una pausa, chissà che se per darmi il tempo di ricompormi o se perché voleva dare più enfasi alle sue parole. «Il segreto per non subire la mancanza di controllo è desiderare di non averlo. Se non hai aspettative non hai delusioni, se scegli di non scegliere non puoi mai sbagliarti».
   Se quel discorso non aveva un senso, io ce lo vedevo lo stesso. Era un riassunto perfetto di quello che la mia testa aveva provato a formulare, era un modo pratico per vedere la mia ideale sfiducia nei progetti a lungo termine e il bisogno di qualcosa di più rapido e incerto. Se non hai obiettivi, qualsiasi meta raggiungi è un traguardo.
   «Lancia una moneta» proseguì, eseguendo quello stesso gesto. La riprese al volo. «Aspettache ti dica cosa il caso ha scelto per te», tolse la mano per svelare il lato vincente, «non tirarti indietro».
   Io mi tiravo sempre indietro. Non prima, prima non lo facevo. Dopo. Dopo ho iniziato a dire “no, questo non posso farlo”. Fondamentalmente ero sempre stata sulle mie, perennemente indecisa tra il fare e il non fare, ma ero capace di buttarmi in qualcosa, ero capace di dire “perché no”. Prima. Ora era tutto “perché sì?”. Mi sembrava tutto vano. E anche se avevo sempre saputo che ogni cosa non viene creata per esistere per sempre, che prima o poi, in un modo o nell'altro, tutto finisce in niente, non mi ero mai resa conto di quanto la parola “effimero” potesse fare paura. Non era solo qualcosa che spariva. Era qualcosa che spariva e ti lasciava con un pugno di mosche. Ma persino le mosche volavano via quando aprivi la mano.
    «È questo che stavo facendo» concluse Nathaniel, stringendo la sua preziosa monetina nelpugno.
    «E quale scelta avresti affidato al caso?» gli chiesi.
   In fondo era quello lo scopo della mia precedente domanda. Che tirava una moneta l'avevo capito da sola, e non gli avevo mai chiesto perché lo stesse facendo. Gli avevo chiesto cosa, ed era l'unico punto che non aveva chiarito.
    «Credo di avere il diritto di tenerlo per me» mi rispose in tono cortese, come se non mi avesse appena fatto una lezione accelerata di vita.
   Una lezione inquietante, visto che arrivava al termine di una riflessione sullo stesso, identico argomento. E arrivava come una soluzione, come il punto esclamativo alla fine di un'affermazione. Chiudeva il mio ragionamento, gli dava un tono e uno scopo. Gli dava una forma reale. Una forma tonda, a quanto sembrava.
   Sinceramente, poteva anche tenersi per se i suoi dilemmi. Riuscivo a pensare solo se sarei stata davvero capace di farlo, di desiderare di non avere il controllo, di scegliere di non scegliere. Di lasciare tutto al caso.
    «Non so se potrei farlo» dissi sovrappensiero.
    Lui non mancò di sentirmi e sembrò sollevato dal fatto che non avessi insistito con la mia domanda. Non ero mai stata una persona insistente. Di solito, se qualcuno non vuole dirti una cosa, ha un buon motivo per farlo, e tu stessa stai probabilmente meglio senza saperla.
    «Sei una che ha bisogno di obiettivi, vero?» mi domandò con triste curiosità. Sembrava quasidispiaciuto, come se aver bisogno di obiettivi fosse come essere in prigione.
    Ma a dire il vero no, non ne avevo bisogno.
    «No. Tutt'altro».
    Ora la sua espressione esprimeva sconcerto. In effetti sembrava paradossale non avere affatto bisogno di obiettivi ma ritenersi incapaci di non averne affidandosi alla casualità.
    «Allora cosa ti frena?».
    Per come la vedevo, dire “perché sono una cacasotto” suonava terribilmente male in quella conversazione. Meglio non dire proprio niente e tirare fuori l'arma del “sono affari miei”.
    Feci spallucce.
    «Ho capito, non vuoi dirmelo» intuì lui. Che incredibile perspicacia.
   Non ebbi premura di rispondere. Ero già tornata a riflettere su come la teoria della moneta sembrasse così dannatamente perfetta per me, ma anche su come io fossi dannatamente inadatta a lei. Potevo trovare il coraggio per fare qualsiasi cosa avrei messo sulla bilancia? Certo, avrei potuto mettere in lizza due diverse possibilità, entrambe rientranti della categorie di cose che sarei stata in grado di affrontare. Ma avrebbe avuto lo stesso significato? Se avessi scelto cosa mettere a confronto avrei ancora potuto dire di aver affidato tutto al caso?
    Se mai avessi deciso di provarci non avrei dovuto trovare scuse o scorciatoie. Sarebbe sempre stata una questione di “farlo o non farlo”.
    «Credo che dovresti provarci» disse lui all'improvviso, ridestandomi dai miei pensieri.
    Stava cercando adepti per la sua personale dottrina? O ero io ad avere l'aria di una che non sapeva che diavolo combinare della sua vita?
    «Mal che vada, ti aiuterà a capire se preferisci una strada sterrata o una perfettamenteasfaltata».
    Però, metafora interessante. E calzante, estremamente calzante.
   Dovevo ammettere che lo stereotipo dello stereotipo del ragazzo americano sapeva il fatto suo. Il suo aspetto traeva in inganno dando l'idea del banale, dello scontato, del prevedibile. La sua mente era molto più originale. Forse perché il suo modo di pensare era simile al mio, con la differenza che era molto più diretto e non era pateticamente sconclusionato.
    Con l'ennesimo scatto del dito mi lanciò la moneta, che presi per un soffio. Il mio fu praticamente uno stop di petto, ma fortunatamente riuscii a bloccare il centesimo prima che mi scivolasse dove sarebbe stato imbarazzante se fosse scivolato.
   In fondo aveva ragione. Alla peggio avrei scoperto di non essere pronta, di non essere in grado di vivere in quel modo. Il termine provarci era già di per sé sintomatico di qualcosa da cui non ti aspetti necessariamente una vittoria. Provare non è obiettivo.
    «Se non hai obiettivi, qualsiasi meta è un traguardo» ripetei, questa volta ad alta voce,rigirandomi la moneta tra le dita.
    Quando poco prima l'avevo pensata non mi ero accorta che fosse così vera.
    Nathaniel sorrise, come se lui stesso avesse appena raggiunto un traguardo. Dopotutto mi aveva convinta, anche se forse non ci sarebbe mai riuscito se non fossi già stata con un piede sulla strada sterrata.
    «Allora in bocca al lupo, Cameron».
    E questa volta la conversazione era davvero finita. Lui mi voltò le spalle e si incamminò.
    La mia sigaretta era spenta da tempo, la mia decisione era presa. Già, avevo preso una decisione. Avevo iniziato col piede sbagliato.
    «Testa lo faccio, croce non lo faccio» mormorai.
    Notai solo con la coda dell'occhio che Nathaniel si era fermato e aveva leggermente voltato il viso verso di me, mentre osservavo la moneta roteare un'altra volta.
La fermai, la rigirai sul dorso della mano sinistra. Tolsi la destra per scoprire il risultato.
    Non avevo mai creduto nel destino. Ma se una volta nella vita pensai che potesse esistere, fu nel momento esatto in cui osservai una moneta dirmi, silenziosamente, testa.

Due parole veloci:
dal momento che questo è solo il prologo non c'è molto da dire, vi do solo qualche piccola anticipazione su cose dovete aspettarvi se procederete con la lettura di questa storia.
Tutte le scelte importanti di Cameron saranno guidate dal caso, dal semplice lancio di una moneta. L'unica costante della storia è il suo disperato tentativo di andare avanti: non per arrivare da qualche parte, ma solo per evitare di fermarsi. Almeno finché non andarà a sbattere contro la realtà dei fatti, che la costringerà a rivedere di nuovo il suo modo di agire e a ritrovare una volta di più qualcosa che la spinga a riprendere la marcia. Ma forse, a quel punto, sarà pronta a farlo. Nel frattempo passerà attraverso attrazioni sbagliate, risate insensate, momenti di panico e di passione, conoscendo forse più odio che amore.

Se voleste spendere cinque minuti del vostro tempo per lasciarmi un commento ve ne sarei immensamente riconoscente, ma direi che vi meritate già un grosso grazie per aver buttato l'ultimo quarto d'ora della vostra vita a leggere quello che ho scritto. Quindi, grazie :D

State sempre in piedi,
Astrid

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Capitolo 2
*** Scotch ***


Capitolo 1
Scotch
 
Fatti una bella risata e metti da parte i tuoi bei piani. Davvero non ne hai bisogno. Ciò che dovrà accadere accadrà e tu hai una scelta:
andarci insieme o andarci contro.
-Osho
 
    «Perché ti rigiri una moneta tra le mani?».
   Un mio professore del college aveva definito il mio modo di scrivere “il prodotto di chi odia irresponsabilmente”. Diceva che in ogni mio racconto avevo la tendenza a descrivere qualcosa che odiavo, lasciando emergere il mio sentimento al lettore. Odiando, perciò, irresponsabilmente, perché rischiavo di trasmettere il mio odio al mio pubblico. Non avevo mai capito se intendesse anche dire che odiavo troppo o solo che ciò che odiavo dovevo tenerlo per me, ma una cosa era certa: odiavo a morte le domande appena sveglia.
   «Sto decidendo se fartela ingoiare così ti ci strozzi, o se infilartela nel...» come sempre nel bel mezzo di un momento di libera ispirazione, il mio flusso di coscienza venne bruscamente interrotto.
    «Cam, puoi venire un momento?».
    Mi alzai dal divano e attraversai il salone, irriconoscibile rispetto alla scorsa serata: i mobili di nuovo al loro posto, il pavimento splendente, nessun ammasso di persone che ballavano né, tanto meno, si baciavano al buio. La luce attraversava le grandi vetrate perfettamente lucidate sul lato nord della casa, inondando completamente il locale. Non c'era che dire: l'impresa di pulizie aveva fatto un'ottimo lavoro mentre noi dormivamo.
   Darcey mi aspettava in cucina, dove stava tentando di preparare qualcosa per colazione. La signora Kidman aveva una passione sfrenata per la colazione all'italiana, ma entrambi i suoi figli preferivano le care, vecchie omelette. Che, naturalmente, nessuno dei due sapeva preparare, per cui quand'erano soli in casa si ritrovavano sempre a mangiare uova e bacon.
    «Hai bruciato le uova?» le chiesi innocentemente.
    Davvero innocentemente, visto che ormai la mia era una domanda di routine. Era come chiedere “che ore sono?” e, in genere, la risposta era sì.
    «No» rispose per una delle rare volte, ma ormai aveva rinunciato ad usare un tono ferito. «Volevo solo chiederti una cosa».
    Inevitabilmente – il mio era praticamente diventato un riflesso involontario alle parole “chiederti-una-cosa” – alzai gli occhi al cielo e mi lasciai cadere sulla panca a parete del tavolo della cucina.
    Era interessante il modo con cui Darcey non ti chiedesse mai “posso farti una domanda?”. Non ti chiedeva il permesso. Ti avvisava che stava per chiederti qualcosa e, se proprio ci tenevi ad evitarlo, o scappavi o fingevi una sordità improvvisa. Se da un lato non era una chiacchierona, dall'altro era curiosa come un cavaliere medievale di fronte ad un iperstore. Ma in quel caso la sua non era affatto curiosità.
    «Chase ha invitato il nuovo vicino a cena. Ho bisogno, dico bisogno, di una spalla».
    Per essere una che “dice bisogno”, non aveva un tono molto supplichevole. Più che altro mi stava avvertendo che stasera avrei cenato da loro per farle da supporto morale. Col cavolo.
    «Chiedi a Jaena, io passo».
    Darcey aveva un modo estremamente teatrale di sbuffare. Mentre l'aria soffiava fuori dalle labbra corrucciate, le sue pupille facevano un giro completo, poi spalancava la bocca con uno schiocco e inspirava. Il suo viso assumeva tre diverse espressioni, tutte scocciate. Sembrava una bambina arrabbiata quando faceva così, anche se alla fine il suo atteggiamento era tutt'altro che infantile. Il problema era che aveva un volto davvero fanciullesco, con i tratti delicati, le labbra rosee, il naso piccolo e leggermente a punta e una chioma bionda che le arrivava alle spalle. Di conseguenza non riuscivi a prenderla sul serio quando si arrabbiava, ma i suoi occhioni azzurri ti mettevano ko quando ti fissava speranzosa. Avevano effetto su tutti, tranne che su suo fratello e, grazie al cielo, su di me. Non più almeno.
    Tutto il contrario di Jaena, che esprimeva il concetto di “donna fatta e finita” con ogni millimetro di pelle.
    «Dico sul serio Darcey, non lo farò mai e poi mai» insistetti.
    Il lato positivo era che, se anche difficilmente riuscivi a dirle di no, non serviva ripeterlo mille volte per convincerla.
    «Questa me la lego al dito» mi avvertì, tornando a controllare il cibo sul fuoco. «Sei una pessima amica, ricordatelo».
   Un paio di occhiatacce e sorrisetti dopo, la colazione fu pronta; l'argomento del pasto fu l'individualismo di Chase, che nonostante abitasse in casa con una sorella gemella pretendeva di prendere tutte le decisioni che coinvolgevano anche lei senza consultarla. Questo mi consentiva di starmene il religioso silenzio, osservando come lui riuscisse sempre a mettere i piedi in testa alla sorella e come Darcey – al livello nove di una scala decimale di sopportazione, dove il dieci è quando ti esce il fumo dalle orecchie – si spostasse delicatamente lasciando che il fratello cadesse per terra, prendendo una bella botta sul culo. In senso figurato, ovviamente.
    A volte era difficile credere che fossero davvero gemelli. Non erano solo completamente diversi nel carattere, nei modi di fare e nella personalità. Se Darcey era bionda e con tratti dolci, Chase aveva i capelli scuri e una fisionomia più dura. Aveva il viso più appuntito, la pelle più colorita, le labbra sottili e un naso più squadrato, anche se in punta era curiosamente tondo. In effetti, Alec sembrava più fratello mio che suo, complice il fatto che il verde dei nostri occhi fosse inquietantemente simile. A fugare i dubbi era l'altezza, visto che dal suo metro e ottanta mi guardava abbassando lo sguardo sul mio metro e sessantasette. Tuttavia, a ben vedere, nemmeno i centosettanta centimetri di Audrey competevano con quelli del fratello. Se non li conoscevi non avresti mai detto che fossero anche solo imparentati come cugini. Ma poi vedevi le loro espressioni e il modo in cui visi così diversi ti osservavano nello stesso identico modo, ed allora capivi che quei due erano praticamente la stessa persona. Per questo, immaginavo, in fondo volevo bene persino ad Chase. Quasi.
    A colazione finita seppi che dovevo defilarmi al più presto se volevo evitare di essere riportata all'argomento “cena” e, comunque, il sabato era il giorno del pranzo obbligatorio con mio padre. Era da quando ero tornata a casa dall'ospedale – dopo l'incidente – che mi lasciava libera come non lo ero mai stata di fare dentro e fuori casa a mio piacimento, anche mancando per intere giornate e nottate. Era la reazione contraria rispetto a quella di qualsiasi padre, ma nemmeno la mia situazione era esattamente nella norma. Sapeva che se mi avesse tenuta dentro casa sarei impazzita, e uscire era anche l'unico modo in cui, sperava, avrei potuto ritrovare quello che avevo perso: un posto in cui arrivare.
Però il sabato, aveva stabilito, dovevamo pranzare insieme. Non potevo tirarmi indietro nemmeno se avessi voluto, pur avendo ventisei anni e non essendo legalmente obbligata a rispettare le sue decisioni.
    Quando rincasai quasi mi pentii di non aver preferito rimanere tutto il giorno a casa di Darcey, persino per quella cena che avevo voluto evitare come la peste. Non che avrebbe fatto differenza: se non fosse stato quel sabato sarebbe stata la domenica, o il lunedì, o comunque il primo giorno in cui io e mio padre ci saremmo visti per più di cinque minuti consecutivi.
    Appena infilai il naso in cucina lo sguardo mi cadde su una pigna scomposta di volantini, il primo dei quali invitava soggetti di tutte le età con un minimo di vena artistica ad iscriversi ad un corso di fotografia. Dunque, eccolo che tornava all'attacco. Ogni tot di tempo – circa una volta al mese, giorno più giorno meno – papà si metteva in testa di provare a convincermi a riprendere una qualsiasi attività che mi “distraesse”. O, come la chiamava lui, un'attività “nastro adesivo”: dal suo punto di vista dovevo scotcharmi, rimettere insieme con la colla un po' di buona volontà e attaccarmi adesivamente a qualcosa. Scotcharmi. Non scocciarmi, come invece mi capitava ogni santa volta.
    «Oh, ciao tesoro. Dormito bene?» esordì lui candidamente, alzano lo sguardo dalla pentola di...di cosa? Speravo non del suo immangiabile bollito misto.
    «Cos'è tutta questa roba?» gli domandai retoricamente senza nascondere una certa esasperazione.
    Mi chiedevo se avrebbe mai smesso di ossessionarmi con i suoi “buoni propositi”.
    «Andiamo, dagli un'occhiata. Magari trovi qualcosa che ti potrebbe interessare» mi incoraggiò, senza perdere il suo tono da “non voglio farti arrabbiare, però dovresti pensarci”.
   Eccome se ci avevo pensato. Ci avevo pensato tanto che iniziavo ad avere dei tic nervosi ogni volta che vedevo una brochure, un manifesto o un qualsiasi altro prodotto di stamperia che mi invitasse a fare “l'esperienza che ti cambia la vita”.
   «Dovresti smetterla di portare a casa tutti questi affari. Quando avrò l'intenzione di trovarmi un passatempo sarai il primo a saperlo» razionalizzai, cercando inutilmente di dissuaderlo dal rimettere insieme sempre lo stesso copione.
    «Dai tesoro, fai uno sforzo. Almeno guardali» insistette lui, rimestando il contenuto della pentola.
    In fondo lo sapevo che qualsiasi cosa avessi detto non sarebbe servita a nulla. Abbandonai la borsa sullo schienale di una sedia e feci ricadere sonoramente la mano sulla coscia, facendola poi scivolare verso l'alto per piantarla lungo il fianco, pronta a dargli battaglia come tutte le volte finché non avesse preso tutta quella pila di inutili scartoffie e non l'avesse buttata nel cestino. Invece, nel compiere quel movimento, le mie dita intercettarono qualcosa di duro sotto il tessuto jeans della tasca dei pantaloni, qualcosa che riconobbi immediatamente con un flash di memoria. Solo alcune ore prima mi ero ripromessa di non prendere più nessuna decisione consapevole, di provare a vedere dove il caso mi avrebbe condotta. Eppure ero già pronta a dire di no senza lasciarmi la possibilità di un sì. Estrassi la moneta dalla tasca e pensai, guardandola mentre la rigiravo tra le dita, che sarebbe stata inutile se non mi fossi mai posta davanti a delle scelte, ed era quello che evitavo da più di un anno. Era quello che cercava di offrirmi mio padre in quello stesso momento e che io rifiutavo consapevolmente. Il punto non era solo scegliere di non scegliere, come mi era stato fatto notare la sera prima, ma scegliere di lasciare che fosse qualcos'altro a decidere per me, qualcosa su cui non avrei mai potuto avere il controllo per definizione: il caso.
    Per caso il volantino del corso di fotografia era in cima a quella pila. Avrei fatto un solo tentativo. Lanciai la moneta sotto gli occhi disorientati di mio padre pensando che, se fosse uscita testa, avrei almeno provato ad andare al primo incontro di quel corso, fissato per il giovedì di quella stessa settimana. Niente scuse, niente ripensamenti. Testa e avrei mosso il mio dannato culo, riportandolo nel mondo degli impegni e delle possibilità.
    «Pare che stavolta abbia vinto tu» dissi rassegnata, alzando lo sguardo sull'espressione ancora sconcertata di papà.
    Afferrai il volantino con malagrazia, ripresi la borsa e abbandonai il campo di battaglia senza dire un'altra parola, ripetendomi che non dovevo tornare indietro. Avevo fatto il mio lancio imponendomi di accettare qualsiasi conseguenza. Tornare sui miei passi e rifiutare il responso ottenuto avrebbe mandato all'aria tutta la mia nuovissima filosofia di vita e tanto valeva che gettassi quella moneta in un tombino, o che la spendessi per comprarmi una caramella. Avrei ridotto la mia unica via d'uscita ad una non meglio definita quantità di zuccheri e plastica: per due minuti sarebbe stata una cosa carina, ma per il resto della mia vita sarebbe stato il classico rimorso che ti rode finché campi. O, per farla più breve, al di là di tutto ero troppo orgogliosa per ammettere di non avere il coraggio di confidare davvero nella fortuna e lasciarmi trascinare dal caso. Non perché non volessi confessarmi codarda agli occhi del resto del mondo, ma perché non sopportavo di considerarmi tale. Se avevo avuto il coraggio di prendere le mie decisioni accettando ogni rischio calcolato e non, potevo anche avere quello di non decidere proprio niente. E più ci pensavo più mi sembrava stupido, più non riuscivo a trovare una sola buona ragione per cui non farlo.

 
•●•

   Darcey mi rinfacciò la mia assenza alla cena per tutta la settimana. Tirava fuori l'argomento nei momenti meno indicati, come alla cassa di un bar del centro mentre contavo i centesimi per pagare il conto o durante la proiezione del film del martedì, tradizione iniziata circa tre settimana prima e che, come tutte le altre, sarebbe durata poco più di un mese.
    Quel giovedì, il primo giorno di maggio, stavamo pranzando in una tavola calda insieme a Cèline Foster, un'amica di vecchia data della signora Kidman che gestiva il marketing del Schweser’s Stores Inc, negozio d'abbigliamento femminile. A quanto pareva era in cerca di un paio di volti giovani che presenziassero all'interno dell'Imperial Mall – il comprensorio in cui si trovava il negozio – rifilando il maggior numero possibile di volantini ai visitatori perché conoscessero la promozione del mese. Era stata proprio la madre di Darcey a consigliarle di proporre l'incarico a noi due, specialmente visto che essendo conoscenti di conoscenti aveva una buona scusa per pagarci poco e ritenere il nostro lavoro un “favore ad un'amica”. Per quanto mi riguardava ne avevo abbastanza di volantini, ma Darcey sembrava entusiasta di quel piccolo impiego della durata di un fine settimana ed io le dovevo un favore, avendole già negato il mio appoggio alla cena.
    Tra un boccone e l'altro Cèline ci spiegò per filo e per segno cosa avremmo dovuto fare esattamente e cosa ci sarebbe stato fornito per farlo. Vestite con abiti rigorosamente di Schweser’s che poi ci saremmo potute tenere senza sborsare un centesimo, non avremmo dovuto occuparci d'altro che di braccare ignari passanti, sorridendo come se fossimo le persone più felici al mondo e porgendogli quei dannati volantini. Il tutto non sarebbe comunque avvenuto prima del mese successivo, perché ancora la promozione in questione non era stata attivata in quel preciso punto vendita.
    Alle due e mezza, quando ormai il discorso era divagato sulla passione per la moda di Darcey, mi alzai salutando cortesemente e giustificandomi con la solita scusa: “ho un'altro appuntamento”. Per una volta era però la verità: alle tre precise si sarebbe tenuto l'incontro per gli aspiranti fotografi, intenzionati a partecipare al corso di un certo Kendall Hamilton. Fortunatamente il luogo definito per il meeting era poco distante dalla tavola calda, dettaglio che mi permise di raggiungere la meta a piedi. Arrivai con un buon quarto d'ora di anticipo, ma non ero la sola. Mano a mano che il marciapiede di fronte alla galleria fotografica che organizzava il corso si riempiva di avventori, ebbi modo di constatare la varietà di soggetti che avevano deciso, per chissà quale ragione, di interessarsi all'arte della fotografia. Si andava da studenti liceali in cerca di una strada per il futuro ad anziani senza niente di meglio da fare nella propria esistenza, da soggetti entusiasti, con già in mano la reflex che non avevano mai saputo usare, a persone moderatamente curiose che sbirciavano di continuo il manifesto appeso alla porta a vetri della galleria. Il signor Hamilton si presentò con cinque minuti di ritardo e nessuno capì che si trattasse proprio del nostro futuro insegnante finché, dopo averci fatto strada al di là di una porta secondaria situata a lato della prima sala espositiva, non attese che ci accomodassimo su delle sedie poste in semicerchio per presentarsi ufficialmente.
    Non aveva affatto l'aria del fotografo. Forse per la barba un po' sfatta, la capigliatura bionda spettinata e gli abiti trasandati, ma sembrava la versione tedesca degli artisti decadenti francesi. Uno a cui piace vedere la realtà a modo suo, con quello sguardo inteso e penetrante, piuttosto che immortalarlo in modo oggettivo su una pellicola.
    «Eviterei i convenevoli, se non vi dispiace» esordì, saltando a piè pari le frasi di rito come “benvenuti” e “sono lieto della vostra presenza” o cose simili. Non mi dispiaceva per niente.
    «Tutti voi che siete qui oggi avete i vostri motivi, ma possiamo ragionevolmente dividervi in due categorie: chi è qui per interesse e chi è qui per finto interesse».
    Introduzione interessante. Sarebbe stato curioso capire dove sarebbe andato a parare.
    Se ne stava seduto su uno sgabello più alto rispetto alle sedie pieghevoli da cui noi lo ascoltavamo, i piedi appoggiati alla sbarra di legno che congiungeva due delle tre assi di supporto che reggevano la seduta a disco. Con le gambe piegate e un gomito appoggiato sul ginocchio destro, era in una posizione disinvolta che si sposava alla perfezione col suo tono sciolto e piacevolmente basso. Nella stanza quasi totalmente vuota – fatta eccezione per alcune cornici appoggiate alla parete alle sue spalle e un paio di treppiedi in un angolo – le sue parole quasi rimbombavano tra le pareti bianche, stemprate dai rumori del traffico che giungevano dall'unica finestra socchiusa.
    «Chi è qui per finto interesse ha pensato, tra le altre sciocchezze, quanto sarebbe stato bello imparare a giocare con le luci immortalando affascinanti soggetti in immagini ad alta definizione. A queste persone vorrei chiedere, per favore, di abbandonare i loro propositi e tornare a casa. Non sto scherzando».
    Per un secondo nessuno si mosse. Tutti si stavano facendo un'esame di coscienza chiedendosi, probabilmente per la prima vera volta, che diavolo ci facevano lì dentro. Cosa li aveva spinti a proporsi per l'iscrizione? Quasi sentivo i loro cervelli macchinare freneticamente per trovare una risposta degna di considerarsi tale. Perché qualcosa, nell'espressione e negli occhi di Hamilton, nella sua voce calma e asciutta, aveva convinto tutti che parlava sul serio, più di quanto non avesse fatto la sua stessa ammissione. Di circa una ventina di persone, sette si alzarono e uscirono, portandosi dietro il loro orgoglio ferito o la consapevolezza che della fotografia, in realtà, non gliene fregava un cazzo.
    «Si presume che voialtri siate gli appartenenti alla prima categoria. Allora vi chiedo, prima di iniziare a parlarvi di cosa affronteremo in questo corso, che tipo di interesse avete. Non siate timidi, parlate. Spiegatevi. Se c'è ancora qualcuno che è arrivato qui per motivi al di fuori di una vera e oggettiva attrattiva, fa ancora in tempo a dispensarci dalla sua infruttuosa presenza».
    Apprezzavo la sincerità, quasi estenuante, di Hamilton, ma c'erano momenti in cui l'essere chiari e onesti sfociava nell'essere semplicemente stronzi. E lui era senza alcun dubbio stronzo. Ma non fu per quel motivo che mi alzai.
    La moneta mi aveva suggerito di provarci, ma solo di provarci. Se il presupposto fondamentale per seguire quel corso era esserne profondamente interessanti io non rientravo nella categoria voluta da Hamilton. Fu quasi imbarazzante quando fui l'unica a scattare in piedi, ma perdeva d'importanza se pensavo che sarebbe stata l'ultima volta nella mia vita che avrei visto ognuno di quegli individui.
    «Bene, tu» mi indicò Hamilton, prima ancora che potessi voltarmi e incamminarmi verso l'uscita. «Perché sei qui?» mi domandò.
   Mi guardai intorno, non del tutto certa che parlasse davvero con me. Aveva altre dodici persone da torturare in quel senso, persone che evidentemente sentivano di essere abbastanza motivate. Perché, quindi, rivolgersi a me che, alzandomi, avevo ammesso di non esserlo sufficientemente? Certo che era un tipo strano.
    Feci spallucce e mi limitai a dire la verità. Se fossi passata per stupida me ne sarei facilmente fatta una ragione.
    «Perché è uscito testa» affermai semplicemente.
   Non riuscii a capire come avrei dovuto interpretare la sua reazione. Strinse leggermente gli occhi come se fosse incuriosito, ma quello sul suo volto era un ghigno di divertimento. Mi stava prendendo in giro o la mia risposta lo aveva stuzzicato? Forse non aveva nemmeno capito cosa intendessi dire. Dopotutto, “è uscito testa” non è una frase particolarmente chiara.
    «Se è vero» ribatté lui, che apparentemente aveva intuito il senso della mia dichiarazione, «siediti. Sei probabilmente la più motivata».
    Per quello che riguardava me, la mia espressione era perfettamente esplicativa e urlava a chiare lettere: “scusa, cosa?”.
    «Prego?».
   «Tiro ad indovinare, ma sono abbastanza sicuro che con “testa” ti riferissi al rovescio di una moneta. Se hai davvero tirato a sorte allora hai lasciato che fosse la casualità a dirti come comportarti, se venire o no. In tal caso, per presentarti qui oggi devi aver accettato di non tirarti indietro a prescindere dal risultato. Essere pronti a tutto è un sentimento molto più forte dell'essere pronti a fare ciò che si creda di voler fare, non trovi?» spiegò in tono pratico.
    Fondamentalmente, era la seconda volta in meno di una settimana che qualcuno, in meno di due minuti, mi prendeva la testa, la scuoteva come un salvadanaio fino a farne uscire le mie idee e poi me le rilanciava addosso senza nemmeno troppo tatto. La cosa avrebbe anche potuto iniziare a stancarmi.
    «Non credevo che per partecipare ad un corso di fotografia bisognasse essere pronti a tutto» risposi inarcando un sopracciglio, sebbene avessi capito il reale significato di quella sua affermazione.
    Non potevo dargli torto: se credi di voler fare qualcosa fai sempre in tempo ad accorgerti che ti sbagliavi, che non è affatto come te la immaginavi, finendo così per perdere interesse anche se all'inizio eri infiammato di volontà. Ma se te ne freghi e dici “quello che capita capita, lo faccio e non ritorno sui miei passi”, azzeri tutte le aspettative e ti prepari a farti andare bene qualsiasi cosa. D'altronde, tutti i “qualsiasi cosa” superano le aspettative, se di aspettative non ne hai.
    «Puoi andartene se lo desideri, ma credo che dovresti restare» mi disse lui sorridendo, ignorando il mio commento sarcastico.
    Detto da uno che fino a qualche minuto prima aveva indirettamente cacciato dalla stanza quasi la metà dei presenti, poteva suonare persino come un complimento. Un tantino contorto ma stranamente lusinghiero.
    Dopo essere rimasta qualche secondo a fissarlo stordita, girai la testa dall'altra parte e ripresi il mio posto. Non vidi se fosse soddisfatto o meno, ma quando rialzai gli occhi su di lui aveva già ripreso a osservare tutti gli altri.
    «Forza, ora tocca a voi: perché siete qui?».

 
•●•

    La spiegazione da parte di Hamilton era stata chiara ed esaustiva: il corso si sarebbe protratto per tre mesi, con due lezioni da due ore a settimana. Non era necessario comprare una propria macchina fotografica e il costo della partecipazione non era eccessivo. Avremmo studiato i dettagli tecnici della strumentazione di un fotografo e tutte le sue funzioni, quindi saremmo passati alla parte più pratica: le angolazioni, il taglio, la luce, la scelta di una sfumatura monocromatica piuttosto che di colori saturi, la messa a fuoco, l'utilizzo di un'obiettivo più o meno moderno. In pratica, tutto ciò che rendeva una fotografia un'opera d'arte, senza necessitare di ritocchi grafici. Una cosa seria, insomma. Non come i corsi di fotografia organizzati dai licei, dove ti mettevano in mano una macchina e ti insegnavano a schiacciare il pulsante per lo scatto. E non era nemmeno un corso di fotografia giornalistica e reportage. In quel corso la parola fotografia era un sinonimo di arte, e in quanto tale necessitava di studi preparatori, soggetti precisi e tecniche specifiche.
    L'unica cosa poco chiara era la personalità del docente, se così lo si voleva chiamare, e il suo modo di fare. Faceva la sua figura con quegli occhi azzurri, le spalle larghe e la considerevole altezza, ma era come se l'insieme venisse disturbato dalla giacca un po' troppo vecchia, i jeans scoloriti e la scarsa cura per l'aspetto del viso. Un paio di occhiaie rossastre gli incavavano ulteriormente gli occhi, già messi in secondo piano dall'arcata sopraccigliare sporgente. Immaginavo che, sotto certi punti di vista, potesse anche risultare affascinante. Aveva l'aria dell'uomo volutamente trasandato, uno di quelli che la propria bellezza la riversano nei propri capolavori piuttosto che nel loro stesso corpo. Eppure, ricordavo distintamente il barbone sulla Baltimore Ave: la sua somiglianza con Hamilton era attenuata solo dall'odore, che in quest'ultimo era molto più gradevole. O almeno così mi era parso quando, al termine dell'incontro, ci eravamo stretti la mano e lui mi aveva spostato una ciocca di capelli con fare tremendamente impertinente. Sembrava contemporaneamente una persona seria e un irrimediabile coglione.
    Quando giunsi a casa dovetti sopportare il famoso terzo grado dei Grayson: la capacità di tutti i membri della mia famiglia di fare domande a ripetizione quando volevano sapere qualcosa era rinomata per tutto il Nebraska. Ma mio padre, bisognava ammetterlo, ci batteva tutti. Tuttavia, in anni che li conoscevo, nemmeno i Kidman scherzavano sotto quel punto di vista; non erano dei grandi ficcanaso, ma se succedeva qualcosa che suscitava il loro interesse ingranavano la quinta e non ti mollavano finché non gli avessi dato risposte soddisfacenti. Per questo ero indecisa se dire o meno a Darcey del corso di fotografia, sebbene prima o poi quella storia sarebbe saltata fuori. Forse era meglio levarsi il cerotto ed evitare, in futuro, di sentirmi rimproverare per non averne fatto parola prima.
    «Ma è grandioso, Cam!» esclamò lei appena le diedi la notizia.
    Per molto tempo aveva spalleggiato mio padre nel tentativo di trovarmi un'occupazione degna di quel nome, rinunciandovi solo su mia esplicita e appassionata richiesta.
    «E com'è andata?» fu la prima domanda.
   A quel punto iniziò un'altra mezz'ora di interrogatorio che niente e nessuno riuscì a risparmiarmi. Mentre tutti, seduti al tavolo del Kitty's, ridevano e chiacchieravano sugli argomenti più vari, io stringevo i denti e rispondevo, aspettando che Darcey si stancasse. Se non altro sapevo che, finché non ne avessi fatto parola io, lei non l'avrebbe detto a nessun altro. Non mi andava proprio di ascoltare le prese in giro di Chase e gli “evviva” sarcastici di tutti gli altri. Certo, sarebbero stati sinceramente felici di sapere che finalmente mi ero presa un impegno serio, ma almeno per il momento preferivo risparmiarmi la sceneggiata. Se mi avessero fatto le congratulazioni per una cosa obiettivamente tanto banale – e non avevo dubbi che lo avrebbero fatto, visto che era praticamente un evento quando si trattava di me – mi sarebbe sembrata ancora più stupida.
    «Però non aspettare troppo a dirlo. È una cosa bella che tu abbia deciso di cominciare qualcosa
di nuovo» concluse Darcey.
    «Già...» mormorai, pensando che non era tecnicamente vero.
Non avevo deciso un bel niente, ma se le avessi detto com'erano effettivamente andate le cose lei avrebbe avuto sicuramente una reazione esagerata. Non avrei potuto aspettarmi di meno da un'illuminista convinta. “L'uomo è artefice del proprio destino”. Ci credevo anch'io una volta.
    «Ma perché... perché dovrebbe essere una cosa bella? È una cosa del tutto normale. Vorrei che fosse una cosa normale. Vorrei che la consideraste una cosa normale» aggiunsi poco dopo, ripensando alla sua frase di incoraggiamento.
    Insomma, iscriversi ad un corso di fotografia era una cosa normale. Sarebbe stata normale per chiunque. Mi infastidiva pensare che tutti avrebbero pensato che, trattandosi di me e non di qualcun altro, allora diventasse tutto meno scontato. Mi avrebbe fatto sentire anormale, e non lo ero. Ero solo disillusa.
    «Va bene, è una cosa normale» acconsentì lei, ma il tuo tono era un po' troppo compassionevole.
    Mi stava dando ragione solo per darmi ragione, non perché credeva che avessi ragione.
    «Non usare quel tono» la avvertii, anche se un avvertimento dovrebbe presupporre una eventuale conseguenza che nemmeno avevo in mente.
    «Non te ne va bene una» ribatté, sforzandosi di non roteare gli occhi.
    Aveva ragione, avevo sempre qualcosa di cui lamentarmi, ma avevo un buon motivo. Non mi capivano, nemmeno lei. Non ero un'adolescente incompresa, ero una a cui era capitata una cosa che agli altri non era capitata e che perciò non potevano capire. Potevano aiutarmi, sostenermi, e di questo avevo bisogno, di questo ero grata. Ma capire no. E accondiscendere alle mie lamentele era un bruttissimo modo per fingere di riuscirci.
    «Non mi va bene quando cerchi di accontentarmi e poi mi fai passare per incontentabile» le feci notare, senza nascondere troppo la mia esasperazione.
    «Chi è incontentabile? Perché io ho sempre accontentato tutte» si intromise Chase, sedendosi di fianco a me.
    Io e sua sorella lo guardammo storto, molto storto, senza esprimerci in alcun modo. Avevamo rinunciato anche a mandarlo al diavolo, ormai.
    «Nathaniel!» gridò, alzando un braccio per richiamare l'attenzione. «Vieni qua, voglio presentarti qualcuno!».
    A ben pensarci, la sera della festa né Chase né Darcey mi avevano presentato il loro nuovo vicino. E, a quanto pareva, nessuno dei due sapeva che ci fossimo già incontrati. Da quel venerdì notte non l'avevo più rivisto, e in tutta onestà non potevo dire di aver atteso il momento con trepidazione.
    «Nathaniel, lei è...».
    «Cameron» anticipò Nathaniel sorridendo, quando Chase partì con le presentazioni. «Abbiamo già avuto occasione di conoscerci» spiegò.
   Forzai un sorriso di conferma. Per quanto fruttuosa e senza alcun dubbio originale, la conversazione che avevamo avuto non era stata tra le più piacevoli della mia vita. Nathaniel mi dava troppo l'idea del classico “bello e dannato” perché potesse piacermi. Persone come lui erano interessanti sulle pagine di un libro, non nella vita reale. Che poi, se anche aveva l'aria del dannato, non era nemmeno troppo bello, o almeno non secondo i miei criteri. Sarà che preferivo la bellezza caucasica a quella mediterranea, ma trovavo Hamilton, con i suoi mille difetti, più attraente di lui. Ed era tutto dire.
    «Grandioso, mi risparmiate un sacco di fatica» commentò Chase allegramente.
    Non vedevo quale fosse, esattamente, la fatica di presentare due persone, ma se a Chase piaceva fare amicizia all'opposto odiava far fare amicizia.
    Dal momento che l'iniziativa di Chase era stata stroncata sul nascere e nessuno aveva pronto un argomento di salvataggio, ce ne rimanemmo tutti e quattro in silenzio: Chase grattandosi la nuca, Darcey arricciando le labbra e guardandosi intorno, Nathaniel – manco a dirlo – sorridendo ed io, incastrata tra i gemelli, contandomi le linee della mano destra. Il sonoro sbuffo annoiato triplicò di potenza quando lo facemmo tutti e tre contemporaneamente, sotto lo sguardo divertito del nuovo arrivato.
   «Ho un'idea» esordì nuovamente Chase, battendo le mani sulle cosce mentre si alzava di scatto.
   Era un pessimo presagio quando Chase Kidman diceva di avere un'idea. Di solito finiva con me costretta a fare qualcosa di molto stupido, perché a quanto pareva ero il soggetto preferito delle sue pazzie.
   Quando riprese a parlare lo fece rivolgendosi a tutti quanti, invitandoli prima a mettersi compostamente intorno al tavolo che stavamo occupando. A quel punto, tornò a sedersi accanto a me.
   «Siamo in... – contò rapidamente i presenti – undici. Bene, credo che esistano abbastanza varietà di alcolici... >>.

 
 
•●•

   Quattro giri e quaranta minuti dopo era di nuovo il mio turno. Come avevo immaginato, anche quell'iniziativa di Chase prevedeva che quella a pagarne di più le conseguenze fossi io. L'aveva fatto apposta.
   Sapeva, come lo sapevano tutti, che non ero nemmeno lontanamente capace di riconoscere quale alcolico stessi bevendo. Ma nel gioco di quella sera era proprio quello l'obiettivo: di fronte a cinque cicchetti della stessa sostanza – una diversa per ogni partecipante – bisognava indovinare cosa si stava bevendo. Se non azzeccavi la prima volta, avevi altri quattro tentativi per imbroccare la risposta. Se indovinavi, potevi fermarti. Se nemmeno dopo il quinto bicchiere eri riuscito a indovinare saltavi il giro. Quando anche l'ultima persona aveva completato il suo turno, si ripartiva da chi aveva fallito, che si trovava costretto a bere gli avanzi di chi invece ci era riuscito. E si continuava così, un bicchiere dopo l'altro, un tentativo dopo l'altro, finché non davi la risposta giusta. Se non ce la facevi, finivi per berti tutto quello che era rimasto sul tavolo.
    Dopo aver cileccato la mia fila di tequila, i due bicchieri di Gin rimasti a Wyatt e i quattro di Rum rimasti a Chase, mi sentivo male. O meglio, mi sentivo bene. Benissimo. Mai stata meglio. Se anche avessi bevuto acqua minerale, a quel punto, non sarei riuscita ad indovinare, ma non era una situazione poi così disperata. Finché bevevo non stavo male, e per non stare male bevevo. E più bevevo più sarei stata male, ma finché continuavo a bere non sarei stata male. O lo sarei stata, ma non in quel preciso momento. Non mentre tentavo la fortuna con un cicchetto di scotch che non sapevo fosse scotch. Era l'ultimo bicchiere rimasto pieno.
   «Whiskey, brandy, grappa, aranciata, ananas, appiccicoso, colla, scotch, nastro adesivo...»
tentai, sparando i termini a raffica senza sapere bene cosa stessi dicendo.
   Le parole “nastro adesivo” si persero nelle grida di giubilio dei miei commensali. Avevo dovuto dare fondo a tutto il tavolo per riuscirci, ma alla fine persino io avevo detto una cosa giusta.
   Ed ero ubriaca. Dannato Chase. A proposito, dov'era Chase? Era lì, ancora di fianco a me. Lo abbracciai. Era un po' come mio fratello, visto il legame che univa me e Darcey come sorelle. Lui mi diede delle leggere pacche sulla schiena, ridendo. Oh, certo, perché non ridere di me dopo avermi ridotto in condizioni pietose? Molto divertente. Incredibilmente divertente. Da morire dal ridere. Risi senza controllo.
   A fatica mi staccai dal mio appoggio, costituito in primis dalla panca e in secondo piano dal corpo saldo di Chase, che aveva bevuto solo un bicchiere. C'era qualcosa di importante che dovevo fare. Dovevo fare delle foto, per il corso di cucina. Se arrivavo senza il tacchino si sarebbero ripresi i vestiti e mi avrebbero lasciata nuda dentro l'Imperial Mall, a distribuire i volantini per la svendita di monetine. Lo dissi a Chase, quando cercò di farmi rimettere a sedere. Rise, rise tanto, e con lui Darcey e qualcun altro. Ma non c'era da ridere, per niente. Riuscii a reggermi sulle gambe e aprii la bocca per fare il mio annuncio: dovevo assolutamente fare quel tacchino. No, moneta. No, fotografia. Perché il tacchino? Dio, odiavo il tacchino. Cioè no, mi piaceva, ma mi nauseava pensare di mangiarlo in quel momento.
   «Non voglio il tacchino...» mormorai.
   Sentivo che se lo avessi mangiato avrei vomitato.
   In un lampo di lucidità, la bocca di nuovo aperta perché dovevo assolutamente fare quella fotografia, sentii il mio stomaco contorcersi.
   «Devo vomitare» dissi, quindi cercai di farmi strada tra la gente per guadagnare l'uscita. Se avessi vomitato lì dentro Hamilton mi avrebbe sgridata.
   Non seppi come arrivai fuori né chi mi aiutò a farlo, sapevo solo che alla prima boccata d'aria fresca che presi non potei più trattenermi. A un non meglio precisato numero di minuti di distanza – o ore, chissà per quanto ero andata avanti a dare di stomaco – mi ritrovai seduta per terra, accoccolata a Chase, mentre ripetevo debolmente che volevo poter tornare a scrivere. Lui mi accarezzava i capelli e qualcuno ci osservava. Quando alzai gli occhi mi parve di vedere Jaena con tre occhi, e anche di scorgere un'espressione triste sul volto del sorridente Nathaniel.
   «Voglio poter scrivere di nuovo, lo capisci?» chiesi, a nessuno in particolare.
   Forse lo stavo chiedendo a me stessa. Non esserne più in grado mi aveva distrutto la vita. Dopo tutti i progetti, dopo tutto il mio impegno, dopo tutte le fatiche, dopo tutti i miei sogni... non potevo rimettermi a scrivere più di dieci parole senza immaginarmi i fari di un'auto lanciata a tutta velocità verso di me e, se anche avessi potuto, in quelle dieci parole avevo probabilmente già compiuto un errore grammaticale. Volevo solo poter scrivere di nuovo, e invece mi ritrovavo a fare un corso di fotografia.
   Non mi erano mai piaciute le immagini predefinite, avevo sempre preferito l'immaginazione. Quel magnifico momento in cui qualcosa che non esiste viene alla luce e non ha delle forme perfette. Ogni cosa rimane indefinita e perciò infinita. Una foto ha dei confini, dei bordi, dei limiti. Anche le parole non occupano più spazio di quello riempito dalle lettere che le compongono, ma ciò che puoi vedere leggendole... quello è infinito. Una foto ha un volto, un paesaggio, un soggetto a cui non puoi sfuggire. Quello che vedi è tutto quello che puoi vedere. Ma una parola, una frase, una storia intera... nessun punto fermo può davvero fermare l'immensità di ciò che puoi guardare, andando al di là delle linee e dei colori. Quando guardi il nulla e sai che può diventare tutto. Qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa tu possa pensare. Quando la realtà diventa povera, diventa niente, e tu diventi ricco.
   Tu diventi tutto.
   Non mi resi conto di averlo detto ad alta voce, come non mi resi conto di molte altre cose che accadevano intorno a me. Come non mi resi conto, col viso affondato nella giacca di Chase, di avere tanto sonno da addormentarmi.


Mi sono dimenticata di dirvi una cosa: non so come abbiate letto il nome Jaena, ma si legge Gèna, con la "e" aperta. 
Specificazioni fonetiche a parte, mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto. Non c'è molto da dire, i commenti non spettano a me. A questo proposito spero di riceverne di vostri, ma come ho detto l'altra volta vi devo già un grazie per esservi fermati qui qualche minuto. Nel prossimo capitolo ci sarà l'entrata in scena di un personaggio secondario eppure estremamente importante. Perciò, per chi ci sarà, alla prossima :)

State sempre in piedi,
Astrid

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Capitolo 3
*** Flashes ***


Capitolo 2
Flashes
 
Gli uomini costruiscono troppi muri e mai abbastanza ponti.
-I. Newton

   Le prime sei ore di lezione furono di una noia mortale. Il lunedì successivo al primo incontro – quand'erano magicamente comparsi dei banchi e una scrivania all'interno dell'aula – parlammo solo ed esclusivamente di tutta l'attrezzatura che un fotografo poteva avere, come di quali strumenti erano più adatti ad una situazione piuttosto che un'altra. Quando era bene usare un treppiedi e quando no? Quando era meglio un ombrello e quando un softbox? Quale colore di ombrello era meglio in determinate occasioni? Flash o monotorce? Queste e decine di altre questioni riempirono le due ore di lunedì, di giovedì e di nuovo del lunedì seguente. Solo al terzo giovedì di incontri prendemmo finalmente in mano una macchina fotografica, e ci fu chiesto di scattarci una foto a vicenda. Hamilton diminuì l'intensità delle luci nella stanza e abbassò le tapparelle mentre noi ci disponevamo in coppia; io mi ritrovai insieme alla più anziana del gruppo, una donna sui sessant'anni che aveva di certo molto più entusiasmo di me.
    «Comincio io bimba mia, se a te sta bene» mi disse dolcemente.
C'era qualcosa, nel mio aspetto, che mi aveva sempre fatta sembrare più piccola di quanto in realtà non fossi, ma essere chiamata “bimba” non mi capitava più dai tempi del liceo, quando il mio fidanzatino di allora mi soprannominava così. Una cosa terrificante a ripensarci in quel momento. Forse per la delicatezza del suo tono o per il sorriso innocente – un sorriso da bambina – che mi rivolse, ma non obiettai in alcun modo a quella definizione.
    Avrei scommesso che quella donna avesse tanti nipoti e che le piaceva viziarli un po'. Aveva proprio l'aria della nonna ancora in forma, che portava le proprie nipoti più grandi a fare compere nei grandi magazzini per il loro compleanno, piuttosto che regalare loro le solite bustarelle. Una donna a cui piaceva vivere la vita insieme agli altri invece che continuare a sborsare dollari ricevendo in cambio un “grazie” e un bacio, forzato, sulla guancia. Forse anche la madre di mio padre si sarebbe comportata così, se l'avessi mai conosciuta. Ricordavo, però, i miei nonni Canadesi; abitavamo insieme quando io e la mia famiglia stavamo ancora a Montreal, ma dopo il trasferimento li avevo visti sempre meno. Ricordavo che provavano ad educarmi nel miglior modo possibile, probabilmente perché i miei genitori erano troppo giovani per portare a termine quella responsabilità con successo. Eppure erano sempre due nonni che, quando potevano, mi davano soldi di nascosto o mi compravano il giocattolo che tanto desideravo.
     Il flash – troppo, troppo vicino – mi accecò improvvisamente. D'istinto mi tirai indietro, portai un braccio a coprirmi gli occhi ed emisi un breve grido di spavento.
     «Oh, perdonami bimba mia!» esclamò la signora Landry accorata, facendosi avanti e posandomi una mano sulla spalla.
    Stavo tremando. Un flash non era paragonabile alla doppia luce degli anabbaglianti di un'auto, ma per un attimo non vi avevo visto alcuna differenza; mi ero quasi aspettata lo schianto, le ossa che si rompevano, la testa che sbatteva e il buio totale arrivato subito dopo. Non riaprii gli occhi, forse temendo che se lo avessi fatto non avrei visto niente.
   Intanto, intorno a noi, mi sembrò che tutto si fermasse, eccetto i bisbigli dei miei compagni di corso. Hamilton ci raggiunse per accertarsi che non fosse successo niente di strano, e in effetti era così: essere accecati da un flash poteva capitare facilmente se la foto veniva scattata troppo vicino agli occhi e in condizioni di scarsa luminosità. Nessuno era mai morto per questo. Ma io c'ero andata vicino quando avevo visto quei fari, senza più riaprire gli occhi per giorni.
   Occhi che rifiutavo di aprire anche in quel momento, mentre la signora Landry stava spiegando l'accaduto ad Hamilton. Sentii una presa salda afferrami le braccia e costringermi ad abbassarle, ma dietro le palpebre serrate non potevo vedere niente. Un braccio mi cinse le spalle e mi spinse a camminare, conducendomi chissà dove, mentre una voce bassa e grave molto vicina a me chiedeva a tutti di riprendere la loro esercitazione.
    Udii una porta aprirsi e proseguii alla cieca, sempre guidata da quello che sospettavo fortemente essere ancora Hamilton.
    «Avanti, guarda» mi incitò lui con una gentilezza un po' rude. Come se volesse essere delicato ma non ammettesse repliche.
   Io continuavo a tenere la testa bassa e a rimanere al buio, ma da tanto serravo le palpebre iniziavo a vedere strane forme di luce aggrovigliarsi, dilatarsi e restringersi senza alcuno schema. Allentai un po' la stretta e l'oscurità si schiarì leggermente, svuotandosi di quelle assurde immagini.
     «Apri gli occhi» insistette lui, addolcendo ulteriormente il tono.
     Forse pensava che lo avrei ascoltato solo se mi fossi sentita calma e al sicuro. In realtà avevo bisogno di uno schiaffo.
     E, diavolo, mi arrivò.
    «Ah!» esclamai, mettendomi una mano sulla guancia colpita e spalancando gli occhi per guardare Hamilton, sorpresa e furiosa al tempo stesso.
     Ma entrambe le sensazioni passarono in fretta, sapevo di averne avuto bisogno. E lo sapeva, o lo indovinava, anche lui, perché mi guardava di traverso come per dirmi: “però ha funzionato”.
     «Grazie» dissi poco dopo, calmandomi definitivamente con un bel respiro.
     «Dovere» rispose lui, allontanandosi da me. «Ora torna dentro» mi esortò, tornando ai toni distaccati che lo contraddistinguevano.
     Leggermente frastornata dall'improvviso cambio di atteggiamento, non me lo feci ripetere due volte e mi affrettai a tornare in aula.
     La signora Landry mi chiese di nuovo scusa. Mi sembrava sinceramente dispiaciuta e preoccupata, poverina. La rassicurai, inventando su due piedi la scusa che avevo le "retine molto sensibili" e che perciò il flash mi aveva momentaneamente inebetita, ma che ormai lo shock era passato senza alcuna consguenza.
     Tornammo nelle nostre posizioni e questa volta lei si mantenne ad una distanza più consona. Dovetti ripeterle che poteva serenamente rifare la fotografia fin tanto che tra me e la macchina fotografica ci fosse stato uno spazio sufficientemente ampio. Mi sforzai di non chiudere di nuovo gli occhi quando la luce mi investì per la seconda volta, ma fu molto più semplice ora che ero preparata, più lontana e che non guardavo direttamente l'obiettivo. Preferii fissare un punto leggermente alle sua destra.
Presi dalle sue mani la macchina per poter eseguire lo stesso compito a parti invertite. Nello spioncino della Olympus non vedevo chiaramente il soggetto che stavo per fotografare a causa della scarsa luminosità, tuttavia riuscivo a distinguere che la signora stava guardando nella mia direzione. Avrei voluto evitare l'effetto “fototessera”, ma ero già stufa di quell'esercizio che mi sembrava tanto inutile. Forse, in un'altra occasione, avrei cercato di fare qualcosa di meno scontato, ma prima facevo quella dannata foto prima avremmo rialzato le luci tornando a parlare di qualcosa di assolutamente noioso. Il mio fu un flash solitario, visto che tutti avevano già completato il loro esercizio. Scattai senza nemmeno centrare correttamente il soggetto.
    La stanza tornò alla luminosità originale e dalle finestre riprese ad entrare il sole. Per qualche minuto ne fummo tutti intontiti, mentre ad Hamilton sembrava non fare né caldo né freddo. Intanto ci informò che lunedì ci avrebbe portato tutte le fotografie sviluppate e le avremmo studiate insieme, mentre ci avrebbe spiegato lo scopo di quella prova. A quel punto mancava circa un quarto d'ora al termine della lezione, ma sembrava che non avessimo più niente da fare. Infatti, ci fu data la possibilità di andarcene in anticipo e molti, compresa la signora Landry, iniziarono a raccogliere le proprie cose.
    «Non tu» intimò Hamilton.
Anche se gli davo le spalle sapevo a chi si stava rivolgendo. Me lo sarei dovuta aspettare.
   Rimasi voltata finché anche l'ultima persona non ebbe abbandonato la barca, chiedendomi che genere di discussione mi attendeva. Non ci voleva molto a capire di cosa lui voleva parlarmi, solo non riuscivo ad immaginarmi in quali termini avrebbe affrontato l'argomento.
    «Forza, parla» mi esortò, sedendosi sopra l'angolo della scrivania in fondo alla stanza.
    Evidentemente anche lui aveva capito che io avevo capito.
    Mi girai per poterlo vedere in faccia. Odiavo non guardare negli occhi le persone con cui non parlavo, e poi rimanere di spalle era più patetico che disinvolto.
    Quel giorno, Hamilton era vestito in giacca e cravatta; il completo antracite lo faceva apparire distinto e rispettabile, mentre la cravatta azzurra – che spiccava così tanto sopra la camicia nera – donava molto ai suoi occhi chiari. Anche i capelli erano pettinati in modo regolare e la barba, sebbene fosse nelle stesse identiche condizioni di tutte le altre volte, appariva di conseguenza più ordinata.
    Dopo il primo giorno, quando si era presentato con quel look trasandato, aveva già cambiato stile tre volte. Sembrava che non avesse la visione comune del “quel vestito è per quell'occasione”, ma che qualsiasi cosa ci si potesse mettere addosso andava bene in qualsiasi situazione, purché fosse adatta alla temperatura. Non era un'idea sbagliata, però c'erano dei limiti. Eravamo solo al quarto giorno di lezione e già mi spettavo di vederlo entrare in pigiama, prima o poi.
Anche le occhiaie erano sparite quasi del tutto. Non era solo questione di vestiti, era tutta la sua immagine che cambiava di volta in volta. Ogni giorno in quell'aula poteva entrare una persona diversa, eppure con gli stessi modi di fare pratici ed eleganti al tempo stesso. Avevo visto giusto quando avevo detto che era un'uomo strano, non c'erano termini più specifici per definirlo.
     «Allora?» insistette, e il suo tono non tradì l'insistenza della sua domanda.
     Allora niente, allora non erano affari suoi. Ma, visto che mi aveva chiesto di parlare, parlai. Ripetendo ad alta voce l'alfabeto.
     «Non fare l'idiota» mi interruppe alla “f”. «Vuoi che sia più specifico? Cos'è successo prima, perché hai avuto quella reazione?».
  Quella era senza alcun dubbio una domanda più specifica. Il fatto che mi avesse dato dell'idiota non mi infastidì tanto quanto la sua curiosità: era legittima, dopotutto, specialmente visto che non poteva sapere quanto personali fossero le ragioni del mio silenzio, ma la privacy era la privacy.
     «Non mi piacciono le luci troppo forti dritte negli occhi» mi giustificai banalmente.
     Da un certo punto di vista era vero, ma comunque era chiaro come il sole che fosse una scusa, e nemmeno tanto buona. Mi era sembrato un modo meno scortese di dire “non sono cazzi tuoi”.
     Hamilton si alzò e mi venne incontro, fermandosi solo quando non mi ritrovai costretta a piegare il collo indietro per vederlo in faccia.
     «Sì, questo l'ho notato» confermò. «Non volevi più aprire gli occhi. Avrei potuto portarti chissàdove, avrebbe potuto portartici chiunque... e tu non avresti aperto gli occhi. Ho dovuto tirati uno schiaffo per fartelo fare».
     Era terribilmente serio. Non mi piaceva. Non mi piaceva quel tono, non mi piacevano quelle parole, non mi piaceva quella vicinanza. Ma dovevo chiudere il discorso, se mi fossi allontanata prima di farlo lui avrebbe solo insistito di più.
     «Mi dispiace, ma non è una questione che la riguardi» dissi chiaramente, sforzandomi di rimanere almeno rispettosa.
     «Va bene, allora. Và pure».
Per un attimo non mi mossi. Sì, speravo che non continuasse ad ostinarsi, ma non mi aspettavo che si arrendesse così facilmente. Forse sarebbe bastato dirgli subito che non volevo discutere con lui di quell'argomento, invece di pretendere di farlo trasparire?
     Sbattei le palpebre e aprii e richiusi la bocca rapidamente, spiazzata.
     «La... la ringrazio» conclusi, allontanandomi più in fretta che potevo.
    Una volta fuori dall'edificio continuavo a camminare velocemente, forse per un qualche tipo di riflesso involontario, senza guardare con precisione dove mettevo i piedi.
     Perché, per una volta che provavo a combinare qualcosa di buono, dovevo ritrovarmi in una situazione del genere? Perché il dannato flash di una macchina fotografica doveva farmi quell'effetto, perché il dannato professore del corso che frequentavo doveva essere così inquietante? Forse avrei preferito come insegnate perfino Chase, che con quel suo modo di fare per lo meno non era stravagante e lunatico, anche se per la metà del tempo avrei desiderato strangolarlo.
     Come in quel momento, quando la mia distrazione mi portò a sbattere contro qualcuno evidentemente altrettanto distratto. Quel qualcuno si allontanò di un passo compiendo un movimento identico al mio e domandò ironico:
     «Di nuovo sbronza?».
    Non ricordavo di essere andata a sbattere contro qualcuno la sera dell'indovina chi alcolico, ma se era per quello non ricordavo diverse altre cose. Comunque non era quello il punto.
     «Non ho mai controllato a quanto ammonti la popolazione del Nebraska, ma tra diversi milionidi persone dovevo incontrare te? Come se la giornata non stesse già andando male» commentai, senza sapere con precisione perché avevo usato tante parole per dirgli che non mi faceva piacere vederlo in quel momento.
     «Nervosa?» constatò.
     «Perspicace» osservai.
Rimanemmo immobili uno di fronte all'altra per diversi secondi, finché una voce che avevo già sentito non richiamò il nome di Chase.
     «Oh, ciao Cam» mi salutò Scott notandomi, quando ci fu arrivato di fianco.
     Per un certo periodo avevo sospettato che Scott fosse il migliore amico di Chase, ma era difficile stabilire chi gli stesse più simpatico di chi, conosceva troppe persone. Forse, semplicemente, lui e Scott si conoscevano dal liceo ed era una delle amicizie più durature che Chase avesse mantenuto.
     Avevo avuto una cotta per Scott. Forse perché all'epoca mi piacevano i biondi con gli occhi scuri. Tutte in giro a idolatrare i ragazzi bruni con gli occhi azzurri, affascinanti e misteriosi. Più per principio che per reale interesse, io dovevo andare contro corrente e preferire qualcuno che fosse tutto il contrario. Alla fine avevo scoperto che anche Scott aveva una cotta per me, ma quando quella verità fu svelata eravamo entrambi rinsaviti. A suo modo era una cosa triste di cui rendersi conto. Se solo uno dei due avesse avuto il coraggio di farsi avanti.
    «Ciao» salutai a mia volta, con un po' meno di entusiasmo.
    «A proposito, che ci fai qui?» mi domandò Chase d'improvviso, come se si fosse appena accorto che ero in giro da sola e ben lontana dai posti che normalmente frequentavo.
     «Sbatto contro la gente che cammina sui marciapiedi» dissi ironica, agitando una mano come per non dare importanza alla cosa.
     «Sì, questo l'ho notato».
     Questa cosa di dire “l'ho notato” stava diventando un po' troppo comune. Preferii non esprimermi o sarei stata molto poco garbata.
     «Signorina Grayson» mi salutò formalmente qualcuno.
    Quando mi voltai verso la fonte di quel suono vidi Hamilton sorridere e continuare per la sua strada. Probabilmente era rimasto qualche minuto ancora alla galleria, magari per mettere a posto quattro cose, e come me stava tornando a casa. Non c'era niente di anomalo.
      A parte Chase. Quando tornai a guardare lui lo vidi trattenersi dal dire qualcosa, o forse stava solo cercando il modo per fare un commento che fosse il più pungente possibile.
     «No, Chase, non ti azz...» tentai di bloccarlo, ma fu lui a interrompere me.
    «Non ho detto niente» si difese soffocando una risata. «Ma se avessi detto qualcosa, sarebbestata “non devi nemmeno metterti in ginocchio”».
     Naturalmente, sia lui che Scott scoppiarono a ridere.
    Che battuta squallida. Squallida e triste. E sarebbe stata solo la prima di molte; non contava che un tizio in giacca e cravatta mi avesse fatto un rapido e distaccato saluto senza nemmeno fermarsi il secondo necessario a dire quelle parole. Era un'uomo, mi conosceva e loro non lo avevano mai visto prima. Occasione perfetta per prendermi in giro. Se avessi detto che era il mio insegnante di fotografia, invece di migliorare la situazione giustificando il fatto che ci conoscessimo, l'avrei peggiorata perché avrei ammesso di vederlo regolarmente. E a quel punto avrei anche dovuto dire che frequentavo un corso di fotografia, ma per il momento preferivo essere presa per il culo con lo scherzo di una tresca amorosa.
    Va bene, forse non avrei davvero preferito Chase come insegnate. Forse persino Kendall Hamilton poteva essere più gestibile.
    O forse, più semplicemente, ero io che non ero adatta alle persone. Non perché non potessi andarci d'accordo o voler loro del bene, ma perché nonostante tutto continuavo a volere qualcuno che non avevo ancora trovato.
     Perché, nonostante tutto, speravo ancora di incontrare quella persona che ti cambia la vita.

 
•●•

    Non vedevo perché quella giornata sarebbe dovuta peggiorare. Non che fosse stata così brutta – ne avevo vissute di peggiori – ma dopo due pessime conversazioni non mi sarei nemmeno sognata che, a meno di un'ora di distanza, sarebbe arrivata la terza. Forse sfigata lo ero nata, ma quella specie di convergenza cosmica per cui tutti dovevano rompere le palle nell'arco di dodici ore era accanimento, non sfortuna.
     «Mamma?» domandai sbalordita, la mano ancora posata sulla maniglia della porta d'ingresso.
     Lei mi sorrise. Sorrideva sempre da quando se n'era andata.
    Ricordavo quand'ero bambina e lei rideva con me, guardandomi ogni giorno come se non avesse desiderato altro al mondo che avere me. Poi... poi ero cresciuta. Lei aveva iniziato a ridere di meno e a volere qualcosa di più. Non potevo darle torto. Era stata una buona mamma, solo... lo era diventata troppo presto. Così, quando io ero entrata nella mia giovinezza, lei aveva deciso di riprendersi la propria. Una giovinezza che ora stava sfiorendo, lo vedevo di anno in anno.
     Ma, almeno, sorrideva ancora.
    «Ciao tesoro, com'è andata al corso di fotografia?» mi domandò innocentemente, come se fosse una cosa del tutto normale che io rientrassi a casa e la trovassi lì, a chiedermi come mi andavano le cose, cose di cui lei era a conoscenza.
    Ma non era normale. Non lo era perché lei abitava ancora a Montréal e non poteva sapere niente di più di me di ciò che era mio padre a dirle. Io non la chiamavo, lei non mi chiamava. Non eravamo in rotta, ma a causa della sua scelta io non riuscivo più a vederla come una madre, la vedevo più come un'amica. Un'amica che abitava lontana e che a volte era piacevole incontrare, ma verso il quale non mi sentivo in dovere né tanto meno avevo piacere di riferirle come procedeva la mia esistenza.
    Squadrai mio padre. Non è che gli avessi chiesto esplicitamente di non raccontare niente alla mamma, ma ormai doveva aver capito che per qualsiasi cosa mi riguardasse preferivo essere io a decidere quando metterla a parte di un cambiamento.
    «È andata» mi limitai a dire senza guardarla in faccia.
    Mi infastidiva l'importanza che stavano dando a quella faccenda. Mia madre era addirittura arrivata dal Canada per questo.
    «Laurel, ti spiacerebbe andare a prendere la barras che hai portato? Così possiamo parlare tutti insieme di fronte ad una bella fetta di dolce» propose candidamente mio padre.
   Mia madre non era mai stata una cima nel capire quando qualcuno nascondeva secondi fini, ma per quanto mi riguardava sapevo perché papà le aveva improvvisamente chiesto una cosa del genere. Infatti, non appena Laurel ebbe messo piede fuori dalla porta, lui mi si avvicinò e parlò in tono cospiratorio.
   «Scusami, ma più avessimo aspettato a dirglielo peggio sarebbe stato. Non pensavo sarebbe venuta fin qui, ma credo che voglia approfittare della tua buona volontà sperando di convincerti a fare anche qualcos'altro» disse rapidamente, trascinandomi verso il divano, mentre lanciava continue occhiate alle sue spalle verso la porta della cucina.
     «Mi inventerò qualcosa, tu reggimi il gioco» gli risposi mormorando al suo stesso modo.
     Era assurdo come dovessimo metterci d'accordo per raggirare mia madre.
     Laurel arrivò cinque minuti dopo portando tre piattini di barras che posò sul tavolino di vetro e acciaio di fronte al divano. Si accomodò sulla poltrona a destra mentre io e papà ci allungavamo dalla nostra seduta per prendere il dolce.
    «Ecco qui» sospirò, prendendo il primo assaggio. «Allora, ti piace?».
    Guardai la mia fetta intonsa.
    «Non lo so» dissi stranita.
    Lei rise cristallina, una risata che fortunatamente non mi aveva trasmesso. Era quasi fastidiosa all'udito.
    «Non la torta!» esclamò divertita. «Il corso!».
    Ah.
    «Sì, non c'è male».
    “Non c'è male”. Avevo perso il conto di tutte le volte che le avevo detto quelle parole.
   «Sai, anche a Montréal hanno aperto una galleria fotografica vicino a casa mia, organizzano dei corsi davvero molto interessanti» mi informò con disinvoltura.
    Evitai di rispondere.
   «La nonna mi ha detto anche che tra un paio di mesi inizieranno dei corsi di recitazione al vecchio teatro. Ricordo che quando eri piccola eri una gran bugiarda, anche se ti scoprivamo sempre perché non eri brava a nascondere le prove dei tuoi disastri. Ma sei sempre stata molto convincente!» scherzò.
    Altro che convincermi a fare qualcos'altro. Avevo capito dove voleva andare a parare.
    «Sì, credo che saresti tagliata come attrice. Alla recita delle elementari avevi affascinato tutti».
   Sinceramente non ricordavo niente del genere. Alla recita di Natale della prima elementare avevo interpretato la parte della stella cometa: non esattamente un'esibizione straziante. Per il resto, mi ero sempre rifiutata di prendere parte alle successive rappresentazioni dopo che, vestita di giallo e con un cappello a cinque punte, mentre guidavo i re magi alla grotta ero caduta di faccia sul pavimento.
   Vedevo quanto fosse eccitata nel riferirmi quelle notizie, era sinceramente intenzionata a darmi tutte le possibilità che era in grado di offrirmi per fare in modo che trovassi un nuovo interesse. Tanto intenzionata da essere invadente, e questo purtroppo mi seccava più di quanto mi facesse piacere. Apprezzavo che volesse fare qualcosa per me, ma io non le avevo chiesto niente. Papà, pur nella sua insistenza, non aveva mai oltrepassato certi limiti, e poi mi era stato a fianco ogni giorno dopo l'incidente. Lei mi aveva tenuto la mano fin tanto che ero stata in ospedale, poi era tornata alla sua vita. Non aveva combattuto come mio padre, per me. Non aveva attraversato il dopo, come aveva fatto lui. Se, metaforicamente, lui aveva tutto il diritto di prendermi a schiaffi per costringermi a darmi una mossa, lei non lo aveva nemmeno di darmi una carezza di incoraggiamento.
    «Mi sono iscritta anche a un altro corso» buttai lì, giusto per farla smettere di parlare e proporre iniziative che non avrei mai accettato.
    La sua reazione fu strana: il suo sguardo si accese di curiosità, ma le sue labbra si tesero quasi con disappunto.
    «Magnifico!» esclamò, posando il piattino sul tavolo. «Di cosa si tratta?».
    Diceva che ero una brava bugiarda? Lo speravo proprio, perché dovevo inventarmi qualcosa entro cinque secondi.
  «Difesa personale» dissi, ricordando di aver visto un manifesto affisso per strada. «Di questi tempi è sempre meglio essere pronti a difendersi, giusto?».
   Fortunatamente, gli anni trascorsi insieme soli soletti avevano creato tra mio padre e me una certa affinità, e non appena ebbi finito di parlare lui finse di ricordarsi improvvisamente qualcosa.
   «A proposito, mi avevi detto che la prossima lezione era stata spostata, ma non mi hai detto a quando» si inventò.
   Lui sì che avrebbe potuto fare l'attore. Lo avevo visto in azione parecchie volte, e avrebbe potuto abbindolare chiunque.
   «A domani pomeriggio. Il nostro insegnante aveva una conferenza ieri, e oggi la palestra era occupata».
   Ancora una volta mia madre dimostrò il suo scarso spirito di intuizione cascandoci con tutte le scarpe.
   «Sembra molto interessante!» cinguettò, ma dalla sua faccia non sembrava affatto interessata.
   Per circa un minuto non volò più una mosca. Io presi il primo boccone di torta e guardai ovunque tranne che i visi dei miei genitori.
   Erano stati molto civili quando avevano divorziato. Era filato tutto liscio, probabilmente anche perché lui sarebbe rimasto ad Hastings mentre lei sarebbe tornata in Canada. Avevano gentilmente atteso il mio diploma per informarmi della loro separazione, anche se sospettavo che una cosa simile sarebbe accaduta già da parecchi mesi. Non perché litigassero spesso o si contraddicessero su tutto, ma lo vedevo che non avevano più l'intesa di una volta. Vedevo lei insofferente alla vita da madre, in quella città del Nebraska. Vedevo mio padre sempre meno interessato a farla stare bene e sempre più concentrato sul proprio lavoro. Fare quattro conti non era stato difficile.
    A quel punto, mentre loro sbrigavano le pratiche per il divorzio, io avevo iniziato il college, quindi il problema di scegliere con chi avessi voluto continuare a stare poteva attendere altri quattro anni, sebbene in realtà non avevo una vera e propria decisione da prendere. Al termine sapevo senza alcun dubbio dove volevo andare, perché sapevo dove sarei stata accolta meglio. Papà era raggiante quando mi ero presentata alla sua porta con i bagagli. Anche se ormai ero cresciuta e potevo badare a me stessa, mia madre non sarebbe stata felice quanto mio padre di avermi con sé. Mi voleva bene, non ne dubitavo, ma aveva anche bisogno di tornare a voler bene a sé stessa: doversi occupare di me glielo impediva. E poi ad Hastings avevo tutto, a Montréal non avevo più niente da quando a dodici anni mi ero trasferita.
    «Oh! Ora ce ci penso, quando eri piccola adoravi prenderti cura degli animali. Portavi a casa uccellini con le ali spezzate, raccoglievi gatti e cani randagi per dargli da mangiare... potresti entrare in una di quelle associazioni animaliste, no? A Montréal ce n'è una che ha sede proprio di fianco All'ospedale».
    Se non l'avessi sentito uscire dalla sua bocca, non avrei mai creduto che avesse potuto tirare fuori una storia tanto patetica. Tutti i bambini minimamente sensibili adoravano gli animali. Magari non si rinchiudevano in cantina con un cane randagio minacciando di rimanerci per sempre se non gli avessero concesso di tenerlo – era proprio un bel cane, bisognava dirlo – ma comunque questo non faceva di me un'animalista nata.
    «Non credo faccia per me» le risposi forzando un sorriso.
    «Nha, forse hai ragione» concordò, sventolando la mano come per scacciare quell'idea.
    Forse per stemprare la tensione che si era venuta chiaramente a creare – nemmeno lei poteva non percepirla – decise di buttare la cosa sul ridere.
    «Allora magari potresti fare la veterinaria, tanto non si capisce comunque niente di quello chescrivono i dottori!».
    Peccato che non facesse per niente ridere. Mio papà divenne quasi viola, non sapevo se per il nervoso o l'imbarazzo. Io rimasi shoccata per un attimo, incredula che potesse averlo detto davvero.
    «I dottori scrivono male, non sbagliano la grammatica più elementare».
    Ero quasi sicura di essere stata io a parlare. Non la guardai mentre pronunciavo quelle parole, né diedi loro una particolare inflessione. Con la coda dell'occhio notai il suo sorriso spegnersi e la sua espressione farsi mortificata.
    Ma, dopotutto, lei non poteva saperlo. Non poteva sapere quanto ancora fossi ferita, quanto ancora il solo pensarci mi annodava lo stomaco e mi faceva odiare il mondo, perché non era stata lì a vedermi impazzire giorno dopo giorno per tutto l'anno. Sapevo che voleva solo sdrammatizzare, ma io non ero pronta. Non ero ancora pronta a parlarne, tanto meno a scherzarci sopra.
    «Tesoro, io ho...» balbettò Laurel.
    Non importava cosa avesse da dire. Non mi era importato niente di quella conversazione, e a quel punto non mi importava più nemmeno di fingere.
    «No, senti...» la interruppi, posando il mio piatto e alzandomi in piedi. «Ho capito dove vuoi arrivare. Ma non mi muoverò di qui, mamma. Sto bene, casa mia è questa, so cosa fare. Non ho bisogno di te, non o bisogno di Montréal. Quindi ora, per favore, va via» le dissi, ma ancora mi rifiutavo di guardarla in faccia.
   Non sapevo se avessi usato un tono duro, piatto o amareggiato, ma ero certa che non avrebbe fatto differenza. Volevo solo che se ne andasse, come se n'era andata tante volte.
    «Cam...» mi chiamò, tentando un nuovo approccio.
    No, bastava così.
    «Va bene, vado io».
    Muovendomi come se fossi stata all'uscita da scuola, impaziente di arrivare a casa, raggiunsi la porta d'ingresso e uscii, infilandomi la giacca che avevo agguantato dal  bracciolo del divano.
    Solo che non stavo uscendo da scuola. Stavo fuggendo da casa mia, casa mia, perché lì dentro c'era mia madre. Nessuno dovrebbe sentire il bisogno di scappare dalla propria madre. Io non avrei dovuto sentirne il bisogno. Avrei dovuto essere felice di vederla, perché avrei dovuto sapere che la sua presenza sarebbe significata una sicurezza in più. Ero sempre stata più brava ad aiutarmi che a ricevere aiuto, sapevo come trattare con me stessa e sapevo come darmi coraggio. Perché sapevo dove volevo arrivare. Dal momento in cui avevo perso il mio obiettivo mi ero resa conto di non potermela più cavare. Mi ero resa conto di quanto mi mancasse avere una famiglia unita, mentre a suo tempo il divorzio non mi aveva fatto particolare effetto.
    Papà c'era sempre stato. Era stato il suo viso il primo che avevo visto quando mi ero risvegliata. Erano state le sue mani quelle che mi avevano tenuta in piedi mentre ricominciavo a camminare, erano state le sue dita ad asciugarmi le prime lacrime, che avevo trattenuto per così tanto tempo che alla fine erano letteralmente esplose. Era stata la sua voce a dirmi di farlo, a dirmi di buttare fuori tutto. Di lui avevo bisogno.
     Di mia madre... l'unica cosa che desideravo da lei era che ammettesse di essere mancata e accettasse di non provare a redimersi.
     Diedi un calcio ad un sasso solitario sul marciapiede. No sapevo bene dove stavo andando, anche se ero quasi sicura che sarei finita di fronte a casa di Darcey. Non per lei, per Chase: probabilmente era l'unica persona – o almeno la più indicata – capace di farmi innervosire abbastanza da dimenticare quell'ultimo brutto quarto d'ora.
    Come disse Oscar Wilde, “la vita non è altro che un brutto quarto d'ora, composto da momenti squisiti”. Sui momenti squisiti avrei avuto seriamente da ridire, ma che tutta la mi vita si potesse riassumere in un quarto d'ora era vero: cinque minuti per imparare e scoprire dove volevo arrivare, cinque minuti per vedere tutto distruggersi spettacolarmente e cinque minuti per... ancora non lo sapevo. Cinque minuti. Se hai solo cinque minuti vedi ogni secondo in una prospettiva diversa. Vedi il tempo rallentare, esattamente come quando lanci una moneta per decidere cosa fare della tua vita. A seconda di come cadrà tu andrai in una direzione o nell'altra e il tempo, il tempo in cui quel centesimo ti ruota davanti agli occhi, sembra dilatarsi. Cinque minuti possono diventare tanti, se sai come viverli. Per questo mi chiedevo, fermandomi di fronte alla casa dei Kidman, se cinque minuti mi sarebbero mai sembrati abbastanza.
Quando si dice "viva la mamma".
Ci tengo a specificare una cosa: mi rendo conto che i contrasti tra madre e figlia sono un argomento trito e ritrito, ma spero che abbiate capito in quali termini ho intenzione di parlarne io. Cameron NON ha il tanto decantato senso di abbandono, lei STA BENE. La cosa verrà spiegata meglio nei prossimi capitoli, ma già da ora voglio farvi sapere che il problema tra Cameron e sua madre non ha nulla a che fare con il divorzio e con il trasferimento di quest'ultima in Canada. Ma proprio NULLA. La faccenda è un po' più complicata, spero di riuscire a proporvi i futuri pensieri di Cameron in modo che capiate cosa intendo dire.
Ringrazio (lo so che è noioso leggere i ringraziamenti, ma è doveroso farli) tutti coloro che seguono la mia storia, in particolar modo chi l'ha già inserita tra le preferite. Ma i ringraziamenti più sentiti vanno alle due anime pie che mi hanno lasciato un pensiero.
Non sono il tipo che richiede recensioni come se ne dipendesse la mia sanità mentale, ma sappiate che se anche aveste delle critiche da farmi sarei ben felice di accoglierle e rivedere i miei errori. Un ultimo ringraziamento va a chi è passato di qua. I miei sono capitoli piuttosto lunghi, perciò anche solo leggerne uno merita un grazie. 

State sempre in piedi,
Astrid

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Capitolo 4
*** Point Of View ***


Capitolo 3
Point of View
 
Non v'è forse cosa umana che non paia, se guardata da un lato, assurda; se guardata da un altro, ragionevole.
-A. Graf

  Punti di vista.
    Era sempre questione di punti di vista. Non ero mai stata brava indisegno tecnico – le squadre mi mandavano in bestia – ma l'avevo studiato abbastanza da sapere che la posizione del punto di vista può cambiare completamente il modo di vedere qualcosa.
    Quello e l'alcol.
    Se mi capitava, come in quel momento, di non sapere bene come guardare ad un determinato avvenimento, avevo la possibilità di parlarne e provare ad osservare la cosa con gli occhi di qualcun altro, anche se non ero mai certa che potesse funzionare.
    Perciò, nel dubbio provai con l'alcol.
   C'era stato un periodo in cui mi ero seriamente domandata se non stessi divenendo un'alcolizzata, ma tutto sommato non avevo i segni tipici dei dipendenti: non bevevo a qualsiasi ora del giorno, se iniziavo potevo fermarmi e, soprattutto, non ne avevo mai assunto abbastanza da sviluppare una maggiore resistenza. Avevo lo stesso grado di sopportazione di cinque anni prima, quando avevo iniziato a bere un po' più seriamente avendo raggiunto i ventuno anni d'età.
    Nella totale incapacità di vedere ciò che era accaduto a casa quel pomeriggio con più lucidità, decisi di perderla del tutto. Di nuovo. Informato mio padre che avrei dormito da Darcey, abbassai il freno a mano e partii a tutta velocità. Naturalmente stetti male, alla fine, ma ne valse la pena.
    Ne fui un po' meno convinta la mattina dopo.
    Quando mi svegliai nel letto matrimoniale dei signori Kidman avevo un gran mal di testa e una bruttissima acidità di stomaco.
    Mentre cercavo di scendere dal letto con le luci ancora spente – non avevo idea di dove fosse l'interruttore – mi ingarbugliai con le lenzuola e, invece di mettere i piedi per terra e alzarmi come anche nel post-sbronza era possibile fare, atterrai di pancia schiacciando sotto il mio peso il braccio destro, trascinando con me le non tanto innocenti lenzuola ricamate.
    Il tonfo prodotto dalla mia poco elegante caduta svegliò Nathaniel, il cui viso spuntò da sopra il bordo del materasso confuso e mezzo addormentato dopo che ebbe acceso la piccola lampada sul comodino, di fianco alla sua parte di letto.
   «Tutto bene?» mi domandò con la voce impastata dal sonno.
   La domanda del secolo.
   «Te lo dico tra un paio di minuti» grugnii mentre cercavo di rialzarmi.
   Una volta che fui riuscita a reggermi sulle mie gambe, mi tastai il braccio dolente e provai a fare qualche movimento. Ahi.
   «Aspetta... tu che ci fai qui?» chiesi, realizzando solo in quel momento che, in effetti, lui era .
   «Te lo dico tra un paio di minuti» rispose, concordando con l'idea che mi ero fatta di quel
momento: un grosso, gigantesco, bho.
    Mentre scendevamo le scale per raggiungere il piano terra rischiai una seconda volta di fare un bel capitombolo, con la differenza che in quel caso avrei sbattuto contro un numero non meglio identificato di gradini che probabilmente mi avrebbero fatto male sul serio. Fortunatamente, con dei riflessi notevoli per uno che si era appena svegliato dopo una sonora sbornia, Nathaniel riuscì ad afferrarmi per il braccio. Anche se la sua presa mi fece cainare, era sempre meglio che sbattere il naso ripetutamente.
   «Scusa» mi disse, allungando un altro braccio per reggermi dal fianco, in modo da evitare di stringermi il braccio ulteriormente.
   «No, va bene così» lo rassicurai cercando di ritrovare l'equilibrio.
    «Non si direbbe» mi fece notare lui.
   Difficile non dargli ragione, dopotutto.
   «Questione di punti di vista» risposi. «Meglio il braccio che la faccia».
   Nemmeno lui poteva darmi tutti i torti.
   Facendo molta attenzione a dove mettevamo i piedi, raggiungemmo finalmente la cucina. Chase e Darcey non si vedevano ancora. Era mezzogiorno.
   «Ricordi?» domandai.
   «Scarsi» mi rispose. «Tu?».
   «Idem».
   Anche se non l'avrei definito imbarazzante, il silenzio assoluto che cadde dopo quel breve e per niente intenso scambio di battute era di sicuro poco distensivo.
   Seduta al tavolo, mi fissavo le dita cercando di farmi venire in mente com'ero finita dov'ero finita. Nathaniel stava probabilmente facendo la stessa cosa dalla sua postazione appoggiata al piano della cucina, perché il suo sguardo sembrava assente.
   «È meglio che vada a casa» esordì parecchi secondi dopo, staccandosi dal piano e slacciando le braccia che aveva tenute conserte.
   Non vedevo che fretta ci fosse dal momento che casa era dall'altra parte della strada, ma visto che la sua compagnia non mi era particolarmente sentita mi limitai a salutarlo con un cenno del capo.
   Anche se...
   «Aspetta» lo fermai, un piede già fuori dalla porta.
   Si voltò a guardarmi, curioso.
   «Non credo... non ti ho ancora ringraziato. Per la moneta, intendo. Anche per avermi evitato una visita al pronto soccorso, in realtà, ma facciamo una cosa alla volta».
   Odiavo il dopo sbronza. Mi sembrava di non essere più in grado di esprimermi. Il mal di testa e il bruciore di stomaco potevo farmeli passare, ma quando mi si attorcigliava la lingua potevo solo aspettare che si snodasse.
   «Non c'è di che. La stai usando?» mi domandò con un sorriso.
   Non mi ero aspettata la domanda, anche se a ben pensarci poteva essere prevedibile. Ma del senno di poi son piene le fosse.
   «No, non l'ho ancora spesa» scherzai, anche se rimandavo solo il momento di dargli una risposta seria, ergo una sostanziale palla.
   Dire a lui che la stavo usando era dirgli che mi ero messa a giocare con la fortuna, e dire a lui che mi ero messa a giocare con la fortuna era come dirlo a Chase, che era come dirlo a Darcey.
   E dirlo a Darcey era come scavarsi la fossa tra quelle del senno di poi.
   Lui ridacchiò – anche se ad essere onesti non faceva granché ridere come battuta – e non aggiunse altro, forse pensando che avrei risposto di mia iniziativa.
   «Sto ancora cercando di capire in che situazioni è meglio usarla» dissi infine.
   Una mezza verità. In fondo era vero che non sapevo ancora bene quando usarla. Ad esempio, forse avrei dovuto fare testa o croce anche la sera prima, per vedere se bere litri di alcol o no. Ma non l'avevo fatto, quella decisione mi era sembrata troppo banale per richiedere quel tipo di intervento. Non ci avevo nemmeno pensato. Ma era anche vero che l'avevo sfruttata per sapere se iscrivermi o meno al corso di fotografia.
   Nathaniel sorrise di nuovo e tornò sui suoi passi, chiudendosi la porta alle spalle.
    Rimasi sola nella cucina ed estrassi dalla tasca dei jeans la moneta, rigirandomela tra le dita come spesso avevo fatto nelle ultime tre settimane. Anche se era più poetico dire che mi affascinavano i riflessi di luce sul metallo, in realtà non la stavo nemmeno realmente guardando. La fissavo, ma vedevo l'espressione desolata di mia madre – quell'espressione che avevo colto solo di sfuggita – come se fossi proprio lì di fronte ai miei occhi.
   Avrei dovuto parlarle? Avrei dovuto minimizzare la faccenda che, di per sé, in fondo non era così grave? Anche se probabilmente ormai se n'era già andata, potevo darle un colpo di telefono. Giusto per farle sapere che andava tutto bene, che ero già passata sopra quell'episodio. Ma non sarebbe stato vero. Non vedevo perché lenire il suo senso di colpa visto che ero ancora ferita dalle sue parole. Avevo sempre fatto in modo che non si sentisse responsabile per essere tornata in Canada senza più preoccuparsi per me, perché in quel caso davvero non ce l'avevo con lei. Non che il suo comportamento mi fosse piaciuto, ma quando aveva preso la sua decisione ero già abbastanza grande da accettarla e comprenderla. E, in generale, da non avere più bisogno di lei.
   No, non l'avrei chiamata. Non ancora almeno. Le avevo già perdonato troppe cose.
   Chase fece letteralmente irruzione nella cucina: un tonfo secco e la porta si era spalancata, lasciando spazio ad un corpo in procinto di cadere. Fortunatamente sbattere contro la porta doveva averlo frenato almeno un po' o sarebbe sicuramente finito faccia a terra. Invece riuscì a mantenersi in equilibrio e raddrizzare la schiena, puntando lo sguardo su di me che lo osservavo allibita.
   Un ingresso col botto, non c'era che dire.
   «Buongiorno» esordì sorridente, come se invece di precipitare nella stanza fosse entrato delicatamente e senza emettere il minimo rumore.
   «Se lo dici tu».
   «Perché, non lo è? Ad ogni modo, Nathaniel dorme ancora?».
   Be', almeno uno in quella casa sembrava sapere qualcosa sulla situazione.
   «È andato a casa. Mi dici come siamo finiti a dormire nello stesso letto? Anzi... mi dici che diavolo è successo?».
   Chase ignorò totalmente le mie domande.
   «A casa? Strano, aveva detto che sarebbe rimasto qui a mangiare».
   Sì, tutto molto interessante. Ma, quindi, era programmato che dormisse lì?
   «Sapevi che si sarebbe fermato per la notte?».
   «Bha, magari tornerà dopo» ipotizzò, continuando a fregarsene dei miei quesiti.
   «Ma chi se ne frega, vuoi spiegarmi qualcosa?» berciai irritata.
   Iniziavo a perdere la pazienza. Già non ne avevo molta, figurarsi appena sveglia e dopo una notte brava.
   «Che carattere» si lamentò lui, avvicinandosi al frigo. «Qualcosa da bere? Da mangiare?».
   Niente. Inevitabilmente finii, per la milionesima volta da quando lo conoscevo, per schiaffarmi una mano in faccia dall'esasperazione.
   «Non era programmato che si fermasse a dormire, ma quando siamo rientrati ieri sera mi sa che eravamo tutti troppo ubriachi per pensarci. Tu cadevi ad ogni passo che facevi, quindi qualcuno doveva trascinarti fino alla camera. Io ero già impegnato ad evitare che Darcey si buttasse dal divano convinta di riuscire a volare per poter badare a te. O forse pensava di essere superman. Non so, comunque ricordo che si agitava in piedi sul divano. Nathaniel deve averti trasportata di sopra, anche se ad un certo punto ho sentito un tonfo, quindi credo che siate caduti comunque. So solo che alla fine sono salito in camera mia a dormire, ma di quello che è successo nella tua stanza io non ne ho idea».
   Oh. Be', semplice.
   «E ci voleva tanto?» borbottai aprendo le braccia, come per mostragli che tutto sommato non eravamo diventati vecchi mentre lui mi spiegava quello che sapeva.
   «Immagino che Darcey stia ancora dormendo» supposi.
   Strano, qualsiasi cosa accadesse era raro che Chase si svegliasse prima della sorella.
   «Be', sì, era andata a le...».
   Le...? L'espressione di Chase, da disinteressata che era, divenne... be', divenne quel tipo di espressione che esprime “merda!” a chiare lettere. Si fiondò fuori dalla stanza e io lo seguii a ruota, chiedendomi che diavolo gli fosse preso.
   Quando arrivammo nella sala principale ci bloccammo contemporaneamente, increduli, fissando l'essere vivente raggomitolato sul tappeto ai piedi del divano. Chase apri la bocca aspirando l'aria per dire qualcosa, quindi si piegò verso il mio orecchio e disse:
   «Secondo te è comoda?».
   Ero così stranita che quella domanda non mi parve nemmeno troppo stupida.
   «Almeno un po' sì, se non si è ancora mossa di lì» constatai.
   «Non è che è morta?».
   «No, credo respiri».
   «Oh, bene».
  Rimanemmo ad osservarla per diversi altri secondi senza sapere bene cosa fare. Non c'era bisogno che si svegliasse, ma lasciarla lì sul pavimento non era molto carino. L'alternativa era trasportarla fino al suo letto, ma nemmeno io e Alec insieme avremmo potuto portarla su per le scale. Magari sul divano. Almeno quello.
   «Divano?» proposi.
   «Divano» acconsentì lui.
   «Tu per i piedi».
   Con uno sbuffo, Chase raggiunse le gambe della sorella e le afferrò le caviglie, mentre io miavvicinai alla testa e la agguantai da sotto le ascelle. Darcey era minuta e leggera, ma un corpo umano a peso morto era comunque piuttosto pesante da trasportare, specie per me che non ero in possesso di particolare forza. Il risultato fu che mentre Chase stava ben dritto con le gambe io ero piegata in avanti, quindi la povera Darcey era piuttosto inclinata e aveva la testa incassata nel collo. Come diavolo faceva a non essersi svegliata? Non fummo molto delicati quando la posammo sul divano, ma ancora lei non diede segni di vita. L'unica reazione che ebbe fu un movimento scomposto delle braccia, che poteva benissimo essere uno spasmo. Mi venne il dubbio che, se anche avessimo provato intenzionalmente a svegliarla, non ce l'avremmo comunque fatta.
   «Allora, come si chiama?» mi domandò improvvisamente Chase.
   Nonostante sentii nel suo tono una nota di insinuazione, non riuscii a capire a cosa si riferisse.
   «Chi?» domandai, sinceramente confusa.
   «Mio Dio, non dirmi che non te lo ricordi!» esclamò lui sbalordito e, ben lontano dal preoccuparsi di nasconderlo, chiaramente divertito.
   «Cosa?» insistetti, già esasperata dal suo tenermi sulle spine che temevo si sarebbe protratto per tutto il giorno.
   «Cazzo, non te lo ricordi davvero» constatò facendosi più serio.
   Credeva che scherzassi?
   «Ti vuoi spiegare?» continuai, digrignando i denti per il nervoso.
   Mi faceva davvero saltare i nervi quel suo modo di rispondere alle domande in modo indiretto, seguendo il suo personale filo del discorso, ed era già la seconda volta in meno di quindici minuti.
   «Non lo so chi, speravo me lo dicessi tu visto che sembravate...»
   «Non dire “intimi”» lo avvertii preoccupata, già persa nelle mie elucubrazioni, iniziando a capire la situazione e intuendo dove probabilmente voleva andare a parare.
   «Stavo per dire “buoni amici”» mi corresse, non afferrando al volto cosa dovevo aver pensato io.
   «Aspetta, non avrai creduto...».
   Non ci fu alcun seguito alla frase, perché non appena i suoi occhi si riempirono di comprensione iniziò a ridere come un dannato. Roteai gli occhi: non potevo dire di non essermela andata a cercare, ma lui poteva anche fare meno scenate.
   «Dovresti provare con un appuntamento al buio, hai bisogno di trovarti un ragazzo» scherzò, anche se qualcosa mi diceva che l'idea dell'appuntamento gli sembrasse davvero una buona soluzione.
   «Falla finita» lo redarguii scocciata marciando di nuovo verso la cucina.
   «Potrebbe essere divertente, perché non ci provi?» tentò infatti, seguendomi. «Anzi, sai che ti dico? Te lo organizzo io».
   Mi fermai di botto e mi voltai con altrettanta tempestività. Sapevo che lo avrebbe fatto davvero, quando lui si metteva in testa qualcosa non c'erano santi che tenessero. Anche quando pensavi che scherzasse, in realtà era molto probabile che facesse sul serio. Era un pericolo pubblico.
   «Non ti...».
   «Troppo tardi!» gridò saltellando di nuovo verso la sala, impedendomi di concludere la frase.
   Non potei fare altro che corrergli dietro, ma lui accelerò l'andatura e si mise a scavalcare i gradini a due a due per arrivare in camera sua. Cercai di tenere il passo, ma a parte il fatto che lui aveva le gambe più lunghe delle mie e un piccolo vantaggio di partenza, al liceo non gli chiedevano sempre di partecipare alle gare di velocità per niente. In genere era un tipo molto flemmatico, che prendeva tutto con calma, ma quando iniziava a correre era una maledetta scheggia.
   Una scheggia che mi sbatté letteralmente la porta in faccia, chiudendosi dentro la sua camera.
   Una parte di me pensava che stesse facendo qualcos'altro, che non si sarebbe davvero permesso di organizzarmi un appuntamento al buio ben sapendo quanto fossi contraria. Che volesse solo farmi arrabbiare per prendermi in giro. Un'altra parte, quella che effettivamente era incazzata, desiderava sfondare la porta a calci e rompergli tutte le dita in modo che non potesse digitare nulla sulla tastiera. L'ultima parte, d'altro canto, si era già rassegnata, proprio perché sapeva che era impossibile fermare Chase Kidman dai suoi brutti propositi.
   Nel panico più totale, non sapendo a quale parte di me dare retta, scesi di corsa le scale con l'intenzione di svegliare Darcey, ma quando arrivai in fondo mi ritrovai a pensare che comunque nemmeno lei avrebbe potuto fare qualcosa.
   Mi sedetti su un gradino, ragionando sul fatto che in fondo, anche se lui organizzava l'appuntamento, potevo sempre non andarci. Era inutile fare tante paturnie. L'unica cosa da fare in quel momento era andare a casa, prendere qualcosa per il mal di testa insistente, sforzarmi di mangiare un boccone e rimanere blindata nella mia camera finché non mi fossi sentita meglio. Il comportamento di Chase non era un caso isolato, avevo già sperimentato – parecchie volte – la sua insopportabile insistenza, imparando ad ignorare lui e le sue geniali fantasticherie.
   Mi riscossi al suono del campanello. Dal momento che Darcey dormiva e che Chase non si sarebbe mai scomodato sapendo che c'era un'altra persona vivente in giro per casa, mi alzai e andai ad aprire.
   «Ciao Cam, Chase?» mi salutò rapidamente Scott.
   Era sempre stato un tipo sbrigativo.
   Col pollice gli indicai svogliatamente il piano superiore, spostandomi di lato per permettergli di entrare. Anche se per un momento pensai di poter sfruttare Scott – seguendolo fino alla camera di Chase e aspettando che lui aprisse al suo amico – per intrufolarmi in camera e incatenarmi al pc, mi resi presto conto di quanto fosse un'idea stupida. Prima o poi me ne sarei pur dovuta andare e, a quel punto, Chase avrebbe potuto agire indisturbato. Sarebbe stata solo una perdita di tempo sprecare tante energie per qualcosa che non potevo evitare.
   «Già che ci sei, digli che sono andata a casa» gli dissi, mentre lui era in procinto di salire le scale dopo avermi ringraziato.
   «Sarà fatto. Ah, Cameron» si fermò prima di essersi voltato completamente, tornando a guardarmi. «Ho conosciuto una ragazza che ti somiglia in modo incredibile, sia di aspetto che come personalità» mi informò.
   Va bene, dunque?
   «Siamo usciti un paio di volte, ma non è andata» continuò.
   E con questo? Era un modo alternativo di dirmi che, se anche ci fossimo confessati i nostri sentimenti ai tempi in cui eravamo entrambi invaghiti l'uno dell'altra, comunque le cose non avrebbero funzionato?
   «Perché era troppo testarda?» scherzai, pensando che se era davvero così simile a me allora dovesse essere altrettanto cocciuta.
   «No, perché non era te» mi rispose lui con semplicità.
   Mi venne inevitabile sorridere. Nonostante la sua potesse essere un'affermazione un po' ambigua, sapevo quale fosse il suo significato. Immaginavo che anche io, se avessi incontrato il doppione di Scott, non sarei mai riuscita ad avere una relazione con lui, non trovandomi costretta adammettere che il motivo della mia attenzione per la sua copia fosse proprio la somiglianza con lui. Era un po' come tornare al passato, ad un sentimento che era morto da anni. Anche ad ignorare tutto il resto, sarebbe stato difficile amare qualcosa di tanto somigliante a ciò che hai smesso di volere. Al massimo puoi tornare ad amare ciò che hai perso, non quella che ti sarebbe sempre sembrata la sua imitazione.
   «Allora doveva essere un ottimo partito» scherzai ancora.
   Lui ridacchiò e mi salutò con un cenno della mano, sparendo su per la scalinata. Io stavo per andarmene quando mi resi conto che non avevo ancora recuperato la mia giacca. La borsa l'avevo lasciata a casa nella fretta di uscirne il pomeriggio prima, ma la giacca doveva essere da qualche parte in camera visto che mi ero svegliata senza. Feci il percorso inverso e raggiunsi la stanza da notte dei signori Kidman, il letto ancora disfatto e la luce della lampadina ancora accesa. Trovai la giacca buttata a terra ai piedi dell'armadio: forse avevo tentato di infilarcela, ovviamente senza successo. La agguantai e tornai sui miei passi.
   Quando mi richiusi la porta d'ingresso alle spalle non potei fare a meno di fermarmi a guardare la casa di fronte, quella che se non avevo capito male apparteneva a Nathaniel e alla sua famiglia. Era praticamente identica a quella dei Kidman, il che mi fece intuire che anche i Winter erano piuttosto ricchi. D'altronde, tutta quella via era piena di villette di proprietà di famiglie benestanti. La via in cui abitavo io era solo la seconda parallela, ma probabilmente si vedeva anche dal satellite che c'era una bella differenza. Non che fossi in una specie di quartiere povero, ma il tenore di vita di Kansas Ave era piuttostodiverso da quello di Denver Ave.
   Mi diressi a sud camminando con calma, non proprio impaziente di rincasare. Arrivata all'incrocio svoltai sulla 4th e, nel percorrerla, passai davanti alla mia libreria preferita.  Superato l'incrocio con la Joseph Ave imboccai le stradine secondarie fino a sbucare proprio dietro casa mia. Avevo eseguito quel percorso centinaia di volte.
   Rimasi sull'uscio per almeno cinque minuti, indecisa se entrare o meno. Anche se la mamma se n'era andata sapevo che mio padre avrebbe voluto parlare di ciò che era successo. Eppure, se glielo avessi chiesto, sapevo che avrebbe aspettato che fossi io a volerne discutere, quindi perché preoccuparsi tanto?
   Non appena misi piede oltre la porta, però, mio padre alzò la testa dal divano e mi guardò quasi dispiaciuto. Bruttissimo segno.
   «Ieri non ho fatto in tempo a dirtelo, tesoro, ma, vedi...».
   Anche se non finì la frase mi bastò sentire il rumore di un oggetto d'accaio che cadeva a terra in cucina per capire cosa volesse dirmi. Chiusi gli occhi sconsolata per concedermi un sospiro preparatorio che non riuscì affatto a farmi sentire meglio. Non potevo scappare di nuovo. Ma, come ignoravo Chase, potevo ignorare lei, anche se sarebbe stato più difficile. Avevo il forte sospetto che prima o poi tutta quell'indifferenza sarebbe diventata insostenibile, ma se avessi smesso di coprirmi gli occhi avrei visto più di quanto ci tenessi a vedere. Non mi importava più se il loro proposito di fondo fosse quello di aiutarmi, io non volevo essere aiutata. Avevo già tutto il supporto che mi serviva, e sebbene debole sapevo di essere ancora capace di restare in piedi sulle mie gambe.
   Tutto quello che volevo, in realtà, era poter smettere di dovermi difendere dalle persone.

 
•●•

   Forse per il fatto che feci cadere per terra la macchina fotografica due volte e che scattai le cinque foto a sequenza rapida senza togliere il tappo all'obiettivo, ma il micidiale intuito di Hamilton comprese che c'era qualcosa che non girava per il verso giusto, quel giorno.
   Era alquanto appropriato che quei cinque scatti dovessero rappresentare il nostro umore, visto che le mie foto vennero tutte, inevitabilmente, nere.
   «Per oggi abbiamo finito, potete andare» ci lasciò liberi Hamilton, al termine di un breve monologo sull'importanza di imprimere sulla pellicola non solo la luce, ma soprattutto un'emozione.
   Ah, certo, come no. Perché se fotografavi uno scoiattolo con le scarpe da ginnastica erafondamentale che la tua tristezza pervadesse l'immagine.
   Mentre mi immaginavo uno scoiattolo in tenuta da jogging e ridacchiavo istericamente, mi accorsi che tutti erano già usciti eccetto me, che ero ancora seduta al mio banco come un'idiota. A riscuotermi era stata la voce di Hamilton, impicciona come al solito.
   «Perché ridi?».
   Esattamente come il giovedì precedente, era semi-seduto sulla sua scrivania e mi osservava con un'espressione indecifrabile.
   «Per gli scoiattoli» risposi sinceramente, per spiazzarlo.
   Ma, invece che stranito, mi sembrò solo pacatamente interessato.
   «Pensavi agli scoiattoli anche quando hai quasi distrutto la macchina fotografica?» mi domandò con un'irritante nota di insinuazione.
   «No, in quel momento pensavo a mia madre».
   Quell'affermazione riuscì a zittirlo per qualche istante, mentre pensava se stessi dicendo laverità e, in quel caso, a come doverla interpretare.
   «Rapporto in crisi?» domandò.
   «Lo sarebbe, se ci fosse un rapporto».
   «Madre assente?».
   «Presente, più che altro. Troppo presente».
   «Eccessivamente apprensiva?».
   «Non ci stai andando nemmeno vicino».
   Per quanto fosse quasi divertente, quel “botta e risposta” non sarebbe mai arrivato da nessuna parte, né ero sicura di volere che ci arrivasse.
   «Allora spiegati. Ho capito che non ti piace parlare dei tuoi problemi con qualcuno, ma in fondo io sono nessuno».
   Alzai di scatto gli occhi su di lui, colpita dalla sua proposta. O, per meglio dire, dal modo in cui l'aveva posta. Era... era perfetta. Era perfettamente vero che non mi piaceva raccontarmi a qualcuno ed era perfettamente vero che lui non fosse nessuno, per me. I suoi occhi – così calcolatori, così indagatori, così perspicaci – erano gli occhi di qualcuno che avrebbe potuto capire senza condannare, ascoltare senza coinvolgersi. Erano un punto di vista. Un punto di vista diverso, completamenteestraneo, completamente neutrale. Perfettamente equo.
   «Hai tempo da perdere?» gli chiesi, rassegnata.
   «No» ammise.
   Ma avanzò verso di me. Prendendo una sedia dal banco di fronte al mio la trascinò fino al lato opposto rispetto a quello dove io mi trovavo, sedendosi con le braccia appoggiate al bordo dello schienale.
   «Ho tempo da dedicare» precisò, osservandomi intensamente in attesa che iniziassi a parlare.
La scorsa volta me ne sono dimanticata, quindi rimedio ora. Siccome sono una persona originale e molto all'avanguardia (la sentite l'ironia?) ho realizzato il trailer della storia, che vi lascio qui: The Random Story - Trailer
Il solito grazie è doveroso! Grazie a tutti, a chi è passato solo ora per dare un'occhiata e soprattutto a chi ha aspettato l'aggiornamento. Sono piuttosto avanti con la stesura dei capitoli, il mio problema è sempre trovare il tempo per dare battaglia all'editor. 
Se mai voleste, colte da un'ispirazione improvvisa e inarrestabile, concedermi di conoscere il vostro pensiero riguardo alla storia, sapete dov'è il riquadro delle recensioni o, in alternativa, potete contattarmi su facebook (Astrid Romanova Efp).
Adesso potete andarvene in pace. 

State sempre in piedi,
Astrid 

 

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Capitolo 5
*** Unnecessary ***


Capitolo 4
Unnecessary

È proprio quando fai attenzione a non perderci la testa che, probabilmente, l'hai già persa.
-A. De Pascalis

 Quando ebbi finito di spiegare, Hamilton rimase in silenzio per diversi secondi.
   Avevo detto tutto: la decisione di mia madre di riappropriarsi della propria vita, tornando a vivere in Canada. Il suo prolungato disinteresse riguardo alla mia carriera universitaria, il fatto che ci vedessimo una volta l'anno e che anche per telefono non ci sentissimo quasi mai. Il fatto che non mi interessasse, che stavo bene anche senza di lei. E il fatto che fossi giunta al punto di stare addirittura meglio se lei non c'era. Gli raccontai che ora lei era lì, ad Hastings, e che c'era rimasta per tutta la settimana, dormendo nella camera accanto alla mia. Che non l'avevo mai guardata in faccia. Che non le avevo parlato. Che avevo cercato di stare in casa il meno possibile, che quando c'ero la ignoravo. Esposi ciò che era accaduto quel primo giorno, il giovedì precedente, senza entrare nello specifico per evitare di dover citare il mio incidente e il conseguente handicap che avevo sviluppato, ma fui chiara nel descrivere quanto lei, con la sua sconsideratezza, mi avesse ferita. Conclusi rivelandogli che quella sera sarebbe ripartita e che non avevo ancora trovato una sola buona ragione per aggiustare le cose prima che se ne andasse.
   «Eppure ne sei turbata» constatò lui. «Nonostante tu non riesca a trovare un motivo per riconciliarti, l'idea che le cose rimangano come stanno ti tormenta».
   Poteva essere una buona osservazione, se fosse stata vera.
   «No, non hai capito» mormorai abbassando la testa mentre la scuotevo.
   «Cos'è che non ho capito?» mi domandò dolcemente, come se avesse voluto evitare di mettermi pressione.
   «Non mi preoccupa perdere l'opportunità di sistemare le cose. È che fatico a sopportare l'idea di dover sempre essere costretta a proteggere me stessa dalla persona che dovrebbe proteggermi» ammisi.
   Per qualche ragione, la mia voce si spezzò sull'ultima parola. L'avevo detto. Ad alta voce. Era quella l'unica verità. Già da tempo avevo imparato a non prendermela per i comportamenti di mia madre: non aveva solo ripreso in mano la sua giovinezza quando ci aveva lasciati, era del tutto regredita all'età di diciotto anni, a quando era dovuta crescere rapidamente per poter allevare a sua volta una figlia. Non l'avevo mai odiata, non l'avevo mai incolpata di niente, non l'avevo mai disprezzata, non ero mai stata arrabbiata o delusa, non mi ero mai sentita abbandonata.
   Ma ero stanca di dovermi fare scudo contro di lei. Ero stanca. Stanca.
   «Sei una persona strana, Cameron» disse lui diversi altri secondo dopo, forse trascorsi a riflettere sulle mie parole.
   Da che pulpito veniva la predica.
   «Ci sono persone, come me, che affrontano la loro semplicità di essere uomini comportandosi come la gente non si aspetta. Pensano in modo alternativo, agiscono in modo alternativo. Tu senti in modo alternativo».
   Aggrottai le sopracciglia, non del tutto certa di aver capito cosa volesse dire. Ma, e non potevo negarlo a me stessa, molto incuriosita.
   «Ho viaggiato molto e ho sentito raccontare le storie familiari più strane. La tua non è niente di diverso, niente di speciale, perdonami se te lo dico. Ho conosciuto un ragazzo, una volta, che aveva un talento straordinario per il pianoforte. I genitori erano fieri di lui, o almeno così credeva. Un giorno, non volle raccontarmi come, successe qualcosa che gli cambiò la vita. Le sue mani, se sue preziose mani, non furono mai più in grado di scivolare sui tasti che lo rendevano tanto speciale. Non poté più esibirsi, non poté più ottenere gli applausi che si era sempre meritato...non venne più pagato. Nessuno parlava più di lui. Da quel giorno in avanti dovette abbandonare la musica e la sua famiglia abbandonò lui».
   Chissà se per la tonalità della sua voce, così coinvolgente, se per la mia situazione già fragile, se per l'affinità che potevo trovare tra questa storia e la mia o se per un'insieme di tutte queste cose, ma sentii una stretta al cuore nell'udire il racconto di Hamilton. Quel ragazzo aveva già perso la passione che lo animava e le sue prospettive per il futuro, come aveva potuto la sua stessa famiglia sbattergli la porta in faccia? Non ero così concentrata su me stessa da non sapere che esistevano situazioni molto peggiori delle mie, e questa era una di quelle. Tuttavia, pur essendo sempre stata consapevole che c'erano persone che stavano peggio di me, la cosa non mi aveva mai fatta stare meglio. Non vedevo come la sofferenza di qualcun altro potesse alleviare la mia.
   «Non ha più avuto contatti con loro, di nessun tipo. Quando l'ho conosciuto viveva da solo a New York, lavorando come accordatore di pianoforte. Mi ha raccontato quanto li ha odiati e di come, alla fine, abbia capito che il loro ricordo gli avrebbe solo rovinato la vita. Li ha dimenticati».
   Ancora non riuscivo esattamente a capire cosa questo avesse a che fare con me. Si trattava sempre di questioni familiari, certo, ma ben diverse. Stava cercando di insegnarmi qualcosa? Di darmi una specie di lezione di vita della serie: “dimentica e continua per la tua strada?”. Perché non era per niente adatta alla mia situazione. Non si trattava di dimenticare, si trattava di abbassare le armi.
   «Vedi? Questo è quello che ha provato lui. Odio e indifferenza. Te l'ho detto, ne conosco tante di storie come questa, migliori o peggiori della tua. E tutti hanno odiato e disprezzato, e tutti hanno dimenticato o perdonato. Per te... tu provi compassione per tua madre, ma non è solo questo. Anche la compassione non è strana inquesti casi. La tua non è compassione diversa per la persona che tua madre si è rivelata essere, ma per la persona che ti sei accorta di non desiderare. Di cui ti sei accorta di non aver bisogno, di cui ti sei accorta di stare meglio senza per tua stessa ammissione».
   Non sapevo esattamente quando, ma nel mezzo di quel discorso avevo alzato gli occhi su di lui ed ora ero lì, a fissare il suo sguardo penetrante che mi guardava colmo di sorpreso interesse.
   «Quello che provi... dici che vorresti poter smettere di doverti difendere da lei. Ed è unico che tu senta di doverlo fare. Di doverti proteggere. In tutte le storie che ho sentito le persone sono state ferite e hanno dovuto guarirsi. Sono state deboli e sono diventate forti. Tu sei stata forte in partenza, ed ora... ora non vuoi doverti guarire dal male che sai lei può farti».
   Oh. Come, come... come c'era riuscito? Com'era riuscito a mettere tutto nella giusta prospettiva? Non avrei mai definito il mio modo di provare qualcosa come strano o chissà quanto particolare, ma era davvero così? Non potevo dire di aver sentito tante storie quante ne aveva sentite lui, ma ne avevo lette a centinaia. E in tutte, ora lo vedevo, le dinamiche erano sempre le stesse: il dolore, la rabbia, la delusione, la reazione, la razionalizzazione, la guarigione. O la depressione, una totale e definitiva depressione. Io avevo saltato i primi quattro gradini e avevo razionalizzato fin da subito, perché era la cosa chesapevo fare meglio. Razionalizzare. Ed ora ero bloccata prima della fine, a combattere imbracciando il mio scudo per non ridurmi a dover leccare le mie ferite. Era un po' come prepararsi all'assedio prima della dichiarazione di guerra, ma perché consci che sia solo questione di tempo.
   Il mio cellulare prese a squillare spezzando l'atmosfera quasi magnetica che si era venuta a creare. Scuotendo la testa per riemergere dai miei pensieri allungai le mani verso la borsa. Frugai per diversi secondi prima di trovarlo, e a quel punto dovetti concentrarmi per dare alla mia voce un tono perfettamente tranquillo.
   «Cam, va tutto bene?» mi rispose qualcuno che non riuscivo ad identificare.
   «Sì, ehm... con chi parlo?» domandai sconcertata.
   «Scherzi vero? È mezz'ora che ti aspetto!».
   Cosa?
   «No, io... scusami, ma non ricordo di aver fissato alcun appuntamento con qualcuno» mi spiegai un po' imbarazzata. Se mi aveva chiamata “Cam” significava che il tizio dall'altro lato della cornetta mi conosceva, ma io non riuscivo proprio a farmi venire in mente chi potesse essere.
   «Cameron, sono Doug. Ma stai bene? Ci siamo incontrati al Carribean qualche sera fa, sei stata tu a dirmi di incontrarci oggi!».
   Oh merda. Con la mano non occupata a reggere il cellulare, mi schiaffai il palmo sulla fronte e lo feci scorrere su tutto il viso.
   Ecco chi era. Chase mi aveva detto che la sera in cui eravamo tornati tutti ubriachi avevo parlato conqualcuno. Doveva essere Doug. Ed io dovevo essere messa parecchio male se gli avevo chiesto di uscire. Lui come diavolo aveva fatto a non notarlo?
   «Sì, Doug!» esclamai con simulato entusiasmo, fingendo di aver appena ricordato qualcosa. Era meglio che ammettere di non averla proprio saputa. «Certo, scusami, è che ho avuto davvero una settimana piena di impegni e ricordavo di aver preso appuntamento con te per la prossima!» mi giustificai, inventando una scusa lì per lì.
   Se non altro, Doug non era esattamente un maestro a capire le prese per il culo.
   «Ah, ho capito... riesci a raggiungermi?».
   Mi pinzai il naso tra le dita, pensando ad un'altra scusa per declinare. Avevo sperato che, avendo già aspettato tanto a lungo, volesse andarsene, e invece... invece io avevo già fatto abbastanza casino, non potevo non presentarmi neanche. Mi toccava andarci.
   «Sì, sì certo».
   Peccato che non sapessi dove dovevo andare.
   «Ehm... dove sei?» domandai, rendendomi conto che, se potevo inventarmi una balla per essermi dimenticata il quando, sarebbe stato molto più difficile giustificare l'aver dimenticato il dove. «Voglio dire... sei ancora lì?» mi corressi, sperando nella sua ingenuità.
   «Sì, sono ancora al Tank» confermò lui.
   Salvata in corner.
   «Perfetto, allora a tra poco!» lo salutai, ansiosa di terminare quella chiamata.
   Riattaccai e imprecai tra i denti, maledicendo quella dannata serata al Carribean.
   «Mi sembra di capire che hai un appuntamento» constatò sagacemente Hamilton con un sorrisetto divertito.
   A lui doveva essere parsa una scena esilarante. In effetti riuscivo anche io a vedere il ridicolo di tutta quella conversazione telefonica.
   «Acuta osservazione» borbottai.
   Ormai il clima da confessionale sembrava appartenere ad una conversazione di ore e ore prima, sebbene non fossero passati che pochi minuti. Tutte quelle sensazioni che mi era sembrato di non potermi più scrollare di dosso – l'ansia, il turbamento, la tristezza, lo sgomento e persino una sorta di empatia – si erano volatilizzate al ritmo della mia suoneria. Ma, ripensando a ciò che era appena stato detto in quella stanza, non potevo dirmi dispiaciuta di essere stata interrotta. In genere, dialoghi simili finiscono per diventare sempre più pesanti senza risolvere niente. Solo nei telefilm una lunga e sofferta discussione sui problemi dell'esistenza umana portava alla risoluzione di ogni problema. Ma visto che non avevo confessato i miei “strani” turbamenti interiori per vederli appianare da uno stravagante insegnante di fotografia, il mio scopo lo avevo raggiunto. Mi sembrava di vedere le cose in modo diverso, a quel punto. Tutto rimaneva esattamente uguale a prima, ero solo io ad essermi spostata di qualche centimetro.
   «Grazie, credo» sospirai alzandomi, afferrando la cinghia della tracolla per mettermela in spalla.
   «Prego, suppongo» mi rispose Hamilton con una punta di sarcasmo.
   Rimasi a guardarlo oscillando la testa, indecisa non sapevo nemmeno io su cosa. Colta dall'ispirazione improvvisa schioccai le labbra e mi voltai, prendendo la direzione d'uscita.
   «Ah, Grayson» mi richiamò lui, come se gli fosse improvvisamente venuta in mente una cosa.
   Dal fatto che aveva usato il cognome mi aspettai che fosse qualcosa di molto antipatico come “per la seduta sono duecento dollari”.
   «Se vorrai ancora parlare avrai il mio tempo. Hai una voce piacevole da ascoltare».
   L'affermazione mi spiazzò. Anche ignorando la bizzarria di quella che immaginavo volesse essere una carina dimostrazione di disponibilità, l'idea che Hamilton potesse diventare una specie di mio personale confessore mi inquietava un tantino. Quel colloquio era stato frutto di un impulso improvviso e, sebbene non potessi dire con certezza di non poter provare la stessa cosa in futuro, mi sarei ben guardata dal ripetere l'esperienza proprio con lui.
    Per gentilezza annuii e me ne andai prima che potesse tirare fuori altre allarmanti carinerie.

 
•●•

    Nonostante l'avessi fatto aspettare per tre quarti d'ora, Doug mi accolse con un sorriso. Da quello che potevo notare non era cambiato di molto dai tempi del liceo, era solo un po' più alto. I capelli biondi erano ancora corti e spettinati, i piccoli occhi castani oscurati dalle sopracciglia sempre un po' troppo folte. Anche il suo sguardo, se pur vivace, era quello ottuso di anni prima, e i tratti spigolosi non lo aiutavano. Nell'insieme era un bel tipo, ma dovevi guardarlo come si guarda un quadro impressionista: da lontano, o noti tutte le macchie di colore e la bellezza diventa confusione.
   Quando fui abbastanza vicina a lui, si piegò in avanti e avvicinò il suo volto al mio.
   «Che fai?» mi allarmai, tirandomi indietro istintivamente.
   Lui, poverino, ci rimase male. A quel punto realizzai che probabilmente voleva solo baciarmi sulla guancia, in segno di saluto. Spiazzato dalla mia inaspettata reazione, raddrizzò la schiena per allontanarsi a sua volta, sbattendo le palpebre sopra gli occhi sgranati.
   «Scusa, scusami. È stato involontario, scusa» cercai di rimediare.
   Eravamo insieme da due minuti e già l'avevo trattato male per poco meno di un'ora. Di quel passo, dopo cinque minuti di appuntamento l'avrei fatto scappare urlando un gigantesco vaffanculo.
   «No, non fa niente» mi disse lui addolcendo lo sguardo.
   Sì, altro che addolcendo. Leggevo qualcosa di troppo simile alla compassione sul suo viso. Lo stesso sguardo che avevano tutti quelli che mi incontravano per la prima volta da dopo l'incidente. Il tipico sguardo di chi non vuole contrariare uno psicolabile.
   «Allora... ci sediamo?» propose un po' impacciato.
   Se c'era una cosa che non mi andava di fare era sedermi. Sedersi significava dover restare lì per troppo tempo. Ma, invece di farlo presente ed ammettere che non avevo alcuna voglia di passare del tempo con lui, specificando che nel momento in cui ci eravamo accordati io sapevo a mala pena come mi chiamavo, sorrisi e mi avvicinai ad uno dei tavoli in ferro battuto del Tank.
   Odiavo quei tavolini. La superficie del piano era in tasselli di scuro legno lucido mal lavati, mentre le gambe in ferro erano saldate in modo talmente stupido che non riuscivi a sistemare le gambe. Le sedie erano scomode e, sebbene anche loro in ferro battuto, era chiaro che non appartenessero allo stesso set di cui facevano parte i tavoli. Il Tank era così: un'accozzaglia poco piacevole di scomodo arredamento. Ma ti servivano della buona birra.
   «Allora, come ti vanno le cose?» mi chiese Doug innocentemente.
   Quella domanda mi sembrò una presa in giro. Sapevo che lui sapeva quello che mi era successo, anche se non ne aveva fatto parola. Lo lessi nel suo comportamento, e comunque la notizia aveva fatto il giro di tutte le mie conoscenze sebbene l'incidente non fosse avvenuto in quella città.
   Tuttavia, la sua domanda mi fece rendere conto di una cosa. Io non sapevo niente, ma proprio niente, di cosa ci fossimo detti quella sera in cui ci eravamo incontrati per caso. Non ricordavo una sola virgola di discorso. Ma era abbastanza probabile che non ci fossimo detti praticamente niente.
   Nella mia rinomata magniloquenza, gli risposi come rispondevo sempre a tutti.
   «Vanno».
   Potevo vedere dalla sua espressione che il mio bisillabismo lo metteva a disagio. O forse ero proprio io ad imbarazzarlo. Non mi stavo comportando proprio bene, probabilmente si vedeva lontano un miglio che in realtà non desideravo essere lì, a dispetto di quello che avevo detto al telefono e del mio sorriso. Solo che nemmeno sforzandomi avrei potuto rispondere in modo più dettagliato a quella domanda. Mi infastidiva troppo.
   «E a te?» mi sforzai di chiedere.
   Ero quasi certa che anche il tono di quella domanda fosse molto poco entusiastico, ma lui non se neaccorse. Bastava poco per ingannarlo. Il pensiero non mi fece sentire meglio ma era il massimo che potessi fare per lui.
   Doug prese a raccontarmi un mucchio di cose, non pensavo che avesse una vita così piena. Buon per lui e buon per me: finché parlava io potevo fingere di ascoltare e pensare a tutt'altro. Questo mi andava bene. Pensai a mia madre, al fatto che il quel preciso momento stesse andando all'eroporto mentre io me ne stavo lì, in un posto dove non volevo essere insieme ad una persona con cui non volevo stare. Credevo che, a quel punto, avrei scoperto di sperare che venisse a salutarmi. Non perché lo volessi io direttamente, ma perché lei mi dimostrasse che comunque voleva vedermi un'ultima volta prima di andarsene. Invece non sentivo niente del genere. Al contrario: se l'avessi vista scendere da un taxi in quello stesso momento mi sarei alzata con molto contegno e mi sarei incamminata lontano da quel posto. Istintivamente voltai lo sguardo verso la strada e osservai le auto correre sull'asfalto.
   «Cosa guardi?» la domanda di Doug mi arrivò come da lontano, bucando una bolla in cui non mi ero accorta si essermi chiusa. Quando lo guardai mi accorsi che aveva l'espressione sconcertata. Forse non era la prima volta che mi richiamava, ma io non lo avevo sentito. Mentre fissavo il suo viso realizzai definitivamente che stare lì era una puttanata; lo stavo prendendo per il culo, mentre ero già abbastanza stressata per conto mio e avrei solo voluto avere un momento per restare da sola.
   «Scusami Doug. Scusami per... per tutto. Non sarei dovuta venire. Ho troppe... troppo per la testa e non voglio farti perdere altro tempo. Scusami».
   Mi alzai nel momento in cui un cameriere stava arrivando per chiedere le ordinazioni, lasciandolo basito. Non più di Doug, comunque, di cui non potevo vedere il volto ma sapevo con certezza che fosse parecchio confuso. Ci avrebbe messo un po' a capire davvero che lo avevo piantato in asso. Ma io non mi sentivo in colpa. O meglio, mi sentivo in colpa, sì, ma per il fatto di non sentirmi in colpa. Era orribile. Ero una persona orribile a volte.
   Cacciai le mani nelle tasche della giacca, la tracolla che mi sbatteva sulla coscia, e mi accorsi di non sapere in che direzione stessi andando. Camminavo sulla Denver Ave in direzione Nord. Quattro isolati più avanti c'era la casa di Darcey. Se proseguivo dritto ci sarei arrivata in una quindicina di minuti, a quel passo forse venti. Altrimenti potevo svoltare alla prima a destra per immettermi sulla 2nd e poi curvare di nuovo a sinistra e ritrovarmi sulla Kansas, in dirittura verso casa. Oppure potevo, potevo... mi resi conto che non potevo poprio nient'altro. Non avevo altri posti dove andare. A parte forse...
   Proseguii lungo la Denver fino all'incrocio con la 4th. Mi bastò procedere per pochi metri per ritrovarmi la libreria sulla destra. Se mi fossi persa tragli scaffali pieni di libri forse avrei potuto dimenticarmi dei problemi e delle scocciature almeno per un po'.
   Mentre avanzavo nella sezione di letteratura spagnola mi parve di scorgere un volto conosciuto semicoperto da uno scaffale. Da quello che potevo notare la testa era piegata e le braccia alzate, quindi probabilmente il mio presunto conoscente stava leggendo un libro. Ne vedevo solo parte del profilo di cui l'orecchio, la linea iniziale della mascella, la curva del collo e i capelli scuri. Indossava un maglioncino blu e dei pantaloni neri. Non che l'abbigliamento potesse suggerirmi qualcosa.
   Quando si fece un po' indietro per cambiare posizione, finalmente riuscii a vederlo meglio e lo riconobbi: era Nathaniel.
   Non ero certa di voler andare da lui. Non mi andava di parlare con qualcuno, tanto meno con uno che conoscevo a mala pena. Non mi mossi, ma mi presi del tempo per osservarlo come ancora non avevo fatto. Aveva un accenno di barba chegli induriva appena dei lineamenti altrimenti molto dolci. La sua mascella era morbida, in un certo senso, o almeno questa era l'impressione che mi faceva. Il labbro superiore era sottile, quello inferiore più carnoso. Il naso ben delineato, le sopracciglia folte sopra gli occhi leggermente allungati. Non ne ricordavo il colore, non ci avevo mai fatto caso e in quel momento non riuscivo a vederlo. Qualche ciuffo libero di capelli gli ricadeva sulla fronte ampia, dandogli un'aria distratta. Eppure sembrava concentrato. Mentre osservavo i dettagli del suo viso cercavo delle similitudini con le descrizioni di tanti personaggi in cui mi ero imbattuta nellalettura, ma non riuscivo a farmi venire in mente nessuno. Non ci riuscivo mai. Non sapevo perché, ma non ero mai riuscita ad associare i volti di persone conoscite con quelli di nessun personaggio letterario. Forse perché lavoravo troppo di fantasia e non volevo, inconsciamente, avere alcun riscontro nella mia realtà.
   Feci spallucce rivolta a me stessa e mi voltai di nuovo verso la fila di libri di letteratura spagnola che stavano alla mia sinistra. Scorsi i titoli per diversi secondi prima di rendermi conto che non mi interessavano minimamente. Ero stanca e frustrata e non ero mai riuscita a guardare ai libri come una specie di cura. Per me erano più spunti di riflessione, rappresentanti di altri mondi che mi permettevano di evadere da ciò che mi circondava senza però strapparmi di dosso le sensazioni cheprovavo. Forse fin tanto che leggevo non riuscivo a pensare ai miei problemi, ma appena smettevo mi tornava tutto indietro, addosso, ed era anche peggio di prima. I libri erano un sedativo. Un'anestesia. Ma né un vaccino né una cura.
   Avevo voglia di sbattere la testa contro il legno dello scaffale. Durante la settimana avevo accumulato tensione su tensione e lo sentivo che ce l'avevo sotto la pelle, pulsante. Forse avrei voluto correre. Saltare. Gridare. Fare qualcosa, qualsiasi cosa, che mi facesse smettere di sentirmi come se ogni organo del mio corpo volesse saltare fuori e mandare affanculoqualcuno.
   «Mi scusi, signorina, riuscirebbe a prendermi quel libro lassù?».
   La domanda arrivò da una voce femminile alla mia destra e non ero del tutto sicura che fosse rivolta a me. Girai la testa con circospezione, come se temessi che la signora anziana appena apparsa nel mio campo visivo stesse parlando con me. Il problema era che lei mi arrivava si e no alla spalla – quindi aveva per forza bisogno di una mano – ed io ero l'unica persona in tutta la corsia. A quanto pareva, nessuno leggeva la letteratura spagnola tranne noi due.
   «Certo» risposi costringendomi a sorridere.
   Non perché non volessi essere gentile con lei, ma perché non ero per niente in vena di sorridere.
   Lei mi informò del titolo del libro in questione e io lo individuai nella seconda fila partendo dall'alto. Dovetti alzrmi sulle punte e stendere il braccio per arrivarci, ma alla fine agganciai la parte superiore della rilegaturae tirai verso di me con dei piccoli colpetti, per evitare che mi crollassero addosso tre o quattro volumi insieme. Il Castello Interiore di Teresa D'Àvila aveva una copertina piuttosto anonima e non potevo dire di averlo letto. Non avevo mai letto niente che riguardasse la religione. Ero cresciuta in una famiglia Agnostica e nessuno mi aveva mai introdotto ad alcun tipo di credo. Tra la scuola e la vita sociale ero venuta in contatto con diversi culti e mi era stata data la libertà di aderire ad uno di essi, se ne avessi manifestato il desiderio, ma la mia educazione e le mie idee mi allontanavano di anni luce rispetto a qualsiasi idea di Dio avessi conosciuto.
   La donna al mio fianco doveva essere Cristiana e sentii l'impulso di chiederle perché lo fosse, ma mi trattenni. In fondo lo sapevo. Qualcuno credeva in Dio perché gli dava speranza, qualcuno semplicemente perché aveva bisogno di credere in qualcosa di superiore. Il fatto che non condividessi quei pensieri non mi dava il diritto di domandare alla gente che diavolo aveva in testa per affidarsi a qualcosa di così inconsistente come un essere divino infinitamente buono ed infinitamente potente, che pure non aveva mai fatto niente di buono per nessuno. Non era Dio, era l'idea di Dio che aveva potere sulle persone, sia in senso positivo che negativo. Era l'idea che esistesse qualcosa di cui non si aveva il controllo e che poteva guidare i fedeli nel corso della loro vita, facendoli sentire più sollevati dai pesi gravosi dell'esistenza.
   Un po' come il caso. Qualcuno pregava, qualcuno lanciava una moneta.
   Porsi il volume all'anziana signora, che mi ringraziò calorosamente prima di sparire – piuttosto lentamente – dietro l'ennesimo scaffale in direzione della cassa. Attribuire al caso una specie di connotazione divina mi metteva stranamente a disagio. Io non credevo, non credevo in niente; non credevo né in Dio né nel Diavolo, né alla luce né al buio, né alla pace né alla guerra. Non credevo in niente, se non nella verità di chi eravamo. Ed eravamo uomini, uomini che dovevano cavarsela. La vita era quello, era cavarsela. Io me la cavavo con una moneta in tasca, niente di più.
   Il mio cellulare prese a suonare nella taschina esterna della tracolla; sapevo chi stava cercando dicontattarmi prima ancora di leggerne il nome sul display, perché quella suonera era associata a lui e lui soltanto. Eppure non lo salutai direttamente, come facevo di solito. Avevo una brutta sensazione.
   «Pronto?»
   «Cameron...».
   Riattaccai.
   Non mi diedi nemmeno il tempo di pensare consapevolmente che la voce fosse quella di mia madre, che chiamava dal cellulare di mio padre. Riattaccai all'istante.
   Era un comportamento infantile. Ero infantile. Infantile e melodrammatica, perché stavo facendo di quello che era successo una tragedia. Non so da dove mi arrivò esattamente quella cognizione così improvvisa, soprattutto visto che fino ad un minuto prima mi stavo crologiando nella mia pateticità di ragazza incompresa. Lo ero, in fondo. Incompresa. Lo ero. Ma non tanto quanto mi stavo permettendo di sentirmi. Stavo esasperando, stavo esasperando tutto perché era meglio che prendermi a ceffoni. L'ultima volta che avevo attaccato in faccia a qualcuno in quel modo avevo diciotto anni e avevo appena rotto col mio ragazzo. Avevo diciotto anni e mia madre era ancora mia madre, per poco, io ero ancora capace di scrivere ed ero un'adolescente ancora in crisi esistenziale. Ora cos'ero? Avevo ventisei anni e avevo dovuto attraversare l'inferno, o comunque qualcosa che per me ci era andato molto vicino. Avevo visto la morte in faccia, le avevo stretto la mano e avevamo chiacchierato un po'. Forse le ero risultata simpatica, visto che mi aveva lasciata andare, oppure ero stata così insopportabile che non aveva voluto portarmi via con sé. Da allora avevo fatto a pugni con la vita, con me stessa, con mia madre. Non la sopportavo. Non sopportavo i suoi modi, la sua stupidità. Era lei quella infantile. Io non lo ero. Io ero migliore.
   “Tu sei stata forte in partenza, ed ora... ora non vuoi doverti guarire dal male che sai lei può farti”.
   Non volevo dovermi guarire.
   Ripresi in mano il telefono e andai all'elenco delle ultime chiamate. Selezionai il numero di cellulare di mio padre.
   «Cameron, tesoro...» partì mia madre, parlando veloce come se temesse che le attaccassi in faccia un'altra volta. Faceva bene a temerlo, anche se non l'avrei mai richiamata se poi avessivoluto chiudere la comunicazione prima di dire qualcosa.
   Ma non volevo nemmeno starla a sentire, perciò la interruppi subito.
   «Sta zitta, mamma» dissi brusca.
   Si zittì.
   «Ho solo una cosa da dirti, ma tu non rispondere» esordii. Anche io stavo parlando in fretta, ma perché avevo paura che se non mi fossi sbrigata i miei buoni propositi si sarebbero sciolti come neve al sole. In un giorno particolarmente assolato. «Devi sapere, e devi saperlo da me, che mi hai fatto male. E non avresti dovuto, perché sei mia madre. Questa non è una chiamata per una riconciliazione in extremis, sono stanca di riconciliarmi. Mi hai fatto male. Richiamami quando smetterai di farlo».
   Be', io avevo concluso. Non mi sentivo davvero come se mi fossi tolta un peso, ma era meglio di niente. Avrei potuto essere più chiara, ma non mi interessava di risolvere tutte le nostre divergenze in una chiamata del cazzo. Non mi interessava risolverle e basta. Lei doveva solo vivere la sua vita e lasciarmi vivere la mia, smettendola una buona volta di infilare il naso in affari che non la riguardavano più col solo risultato di farmi ammattire. Era stata qui una settimana e mi aveva fatto quasi uscire di testa la sua sola presenza. A ben vedere il commento che mi aveva fatta tanto arrabbiare era una cazzata se paragonata a tutto quello che aveva combinato prima, ma era stata la classica goccia che fa traboccare il vaso. La dimostrazione che, in cinque minuti, era in grado di ferirmi come nessun altro. Non glielo avrei più permesso.
   Dall'altro capo della linea non veniva alcun suono, ma era come se riuscissi a percepire il malanimo che lei stesse provando proprio attraverso quel silenzio.
   «Buon viaggio, mamma» conclusi, e senza attendere risposta riattaccai.
   Sapevo che ci avrebbe messo un po' per trovare qualcosa da dire e non mi andava proprio di aspettare né, in ogni caso, volevo sentirle dare una risposta. Non serviva. Non serviva a me.
   “La persona di cui ti sei accorta di non aver bisogno, di cui ti sei accorta di stare meglio senza”.
   Riposi il cellulare e uscii dalla libreria, incamminandomi verso casa.
A puro titolo informativo, la città di Hastings in Nebraska, dove si svolge la storia, è realmente esistente, e con lei ogni strada e luogo citati nei diversi capitoli. Ci sono pochissime eccezioni alla regola, necessarie per evitare di avere qualche piccola discrepanza. Col procedere dei capitoli verranno nominati sempre più luoghi come il Kitty's (Kitty's roadhouse per intero), ma sappiate che, al di là del nome e della posizione geografica, la descrizione di tali luoghi è per lo più opera di fantasia. 
Precisazione fatta, passo ai soliti ringraziamenti. Questa volta taglio molto corto perché, dell'ora a disposizione che avevo per pubblicare il nuovo capitolo, ho passato più di 50 minuti a litigare con l'html che non ne voleva sapere di darmi retta. Ergo, devo scappare, ma un grazie è d'obbligo.

State sempre in piedi,
Astrid
 

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Capitolo 6
*** Blind Date ***


Capitolo 5
Blind Date

Grazie a Dio non prevediamo il futuro, altrimenti non ci alzeremmo mai dal letto.
-B. Weston, I Segreti di Osage County

 Non è che non lo sapessi che era solo questione di tempo, ma avevo smesso di pensarci perciò me n'ero dimenticata. C'erano altre questioni a calamitare la mia attenzione, questioni che avevano preso un volo per il Canada solo tre giorni prima.
   Era una domenica pomeriggio che minacciava pioggia, ma il mio umore era raramente stato migliore. Peccato che il mio piccolo idillio personale non fosse destinato a durare.
   «Ah, l'ho fissato per domani sera» esclamò Chase, al termine di una conversazione sull'imminente lavoro che io e Darcey ci eravamo accollate, quello all'imperial Mall.
   Benché sapessi che non avesse il minimo senso, la mia prima osservazione mentale fu che Chase avesse fissato la data e l'ora per lo svolgimento del nostro incarico al posto di Céline Foster, ma ovviamente non poteva essere quello.
   «Di che parli?».
   Non fui a porre la domanda, ma Darcey. C'eravamo noi tre, Jaena, Scott, Nathaniel, Rhonda e Wyatt intorno al tavolo da giardino sul retro della casa dei Kidman, e nessuno aveva capito di che diavolo stesse parlando Chase.
   «Dell'appuntamento al buio di Cam» spiegò lui allegramente, come se fosse stata una cosa programmata in simpatia invece che una bella e buona pugnalata alle spalle.
   «COSA?» sbottai immediatamente.
   Sì, sapevo che era solo questione di tempo perché avevo saputo fin dall'inizio che Chase facesse sul serio. Ma trovarsi di fronte al fatto compiuto mi faceva comunque girare le palle.
   «Hai un'appuntamento al buio?» mi domandò Wyatt, incuriosito.
   La curiosità in effetti era su tutti i volti che mi circondavano, eccetto Scott che doveva essere stato presente quella mattina, in camera di Chase, dopo che ci eravamo incrociati sulla soglia, mentre il traditore organizzava la cosa. Magari gli aveva anche dato una mano.
   «No che non ce l'ho» affermai convinta, lanciando un'occhiataccia al gemello cattivo.
   «Sì che ce l'hai» mi contraddisse lui, in quel modo petulante dei bambini.
   «No, invece» mi ostinai.
   «Ti dico di sì» insistette lui serenamente, come se non fosse possibile negare in alcun modo la verità.
   «Te lo scordi».
   Non potevo cedere. Non avrei ceduto. Non se ne parlava neanche.
   «Alle nove al Barrel».
   Col cavolo.
   «Neanche morta».
  Tutti assistevano allo scambio di battute tra me e Chase con una aria vagamente annoiata, a quel punto. Era ordinaria amministrazione che io e lui ci rimbeccassimo in quel modo, lui sempre pacifico e io sempre più in fiamme. Non c'era modo di interromperci finché non avessimo smesso volontariamente, quindi ormai non ci provava più nessuno. Aspettavano solo che passasse, come la pioggerella molesta tipica di quello strano maggio.
   «Non comportarti da repressa, Cameron, alle nove al Barrel» si impuntò Chase.
   Repressa. Il codice penale andava rivisto: oltre che come legittima difesa, l'omicio doveva essere considerato giustificabile anche se commesso da un soggetto che usi l'aggettivo "represso".
   «E tu non fare lo stronzo, Chase. Non mi interessa, non vado a nessun appuntamento al buio, nada, niet, scordatelo».
   Mi guardò con un sopracciglio alzato che non presagiva nulla di buono.
   «Scommettiamo?».
   Promemoria per il pianeta terra: mai scommettere contro Chase Kidman.

 
•●•

   Siccome era più sexy che una donna si presentasse con cinque o dieci minuti di ritardo, Chase mi trattenne in macchina per un quarto d'ora.
   «Così capisci subito se è un cazzone senza niente di meglio da fare nella vita, o se è davvero interessato all'appuntamento» si giustificò.
   Quando aveva detto la parola “scommettiamo?” mi ero immaginata lui che barava a morra cinese, come faceva sempre quando andavamo al liceo, abbassando la mano per ultimo o gridando “jolly!”. Non esisteva il jolly, in quel gioco, ma questo non era mai sembrato importargli. Così, anche se non avrei mai fatto quella scommessa con lui, mi ritrovai a pensare ad un gioco in cui non potesse barare. Un testa a testa dove non avrebbe avuto il potere di manipolare il risultato.
    Il lancio di una moneta.
   Jaena, seduta di fianco a me, aveva dovuto farmi chioccare due dita davanti alla faccia, perché mi ero persa nei miei pensieri. Quella, quella poteva essere una decisione da imputare al caso. Come il corso di fotografia, era qualcosa che non mi andava direttamente di fare, ma che non mi ero mai data la possibilità di provare. Si trattava solo di una serata, non di sposarmi con uno sconosciuto. Una serata. Qualcosa di diverso. Qualcosa che mi dimostrasse di saper ancora socializzare con persone nuove e che, contemporaneamente, avrebbe zittito Chase.
   Tanto per non destare sospetti avevo ripreso ad esprimere il mio rifiuto con toni sempre più accesi, ma quando mi ero trovata un minuto da sola avevo preso la moneta e l'avevo lanciata.
   Perciò ero lì, quel lunedì sera, sul sedile anteriore dell'auto di Chase. Alle nostre spalle c'erano Darcey e Scott, mentre su una macchina parcheggiata dietro di noi stazionavano Wyatt – l'altro guidatore – Jaena, Rhonda e Micah, il musicista della compagnia che da meno di un anno aveva rotto con la ex-ragazza. A lui serviva quel genere di incontri, non a me. Alla loro presenza mi ero opposta ancor più strenuamente, ma non potevo impedire a nessuno di passare la serata lì al Barrel. Avrebbero fatto finta di non conoscermi mentre mi spiavano. Della serie "oltre al danno la beffa".
   «Ora direi che puoi andare, Cenerentola» mi fece Chase.
   Lo guardai storto ma non risposi, limitandomi a scendere dalla macchina per potermi finalmente liberare della sua invadente presenza.
   Secondo quanto detto da Chase, avrei trovato il tizio dell'appuntamento seduto al tavolo sei. Supponevo che si fossero messi d'accordo. Il che mi fece automaticamente pensare che Chase si fosse finto me quando lo aveva contattato tramite uno di quei siti idioti che permettevano alle persone di incontrarsi in quel modo assurdo. Già i siti di incontri per single, dove almeno c'erano le foto e i dati degli iscritti, mi avevano sempre fatto una pessima impressione, figurarsi quelli dove vieni collegato ad uno sconosciuto a caso senza volto. La trovavo una cosa triste e anche un po' patetica, ma adesso c'ero dentro anch'io e questo mi faceva sentire triste e patetica. Se non altro avevo ancora la mia dignità, visto che l'idea non era stata mia e che non avevo mai davvero avuto l'intenzione di fare una cosa del genere.
   Quando entrai feci scivolare lo suguardo sui tavoli del locale, che ospitavano i più disparatigeneri di persone: coppiette che si tenevano le mani appoggiate alla superficie di finto legno rossastro, compagnie di liceali in cerca disvago, gruppetti di ragazzi di circa la mia età che ridevano affiancati al bancone o raccolti sui divanetti posizionati sul fondo della sala. In un angolo c'era un novero di sole donne, probabilmente fuori per una serata tutta al femminile. Posizionati strategicamente vicino all'uscita c'erano un paio di uomini tra i quaranta e i cinquanta che avevano proprio l'aria dei fumatori incalliti, tanto che uno dei due aveva già una sigaretta tra le dita. In quell'agglomerato umano c'era una sola anima solitaria, seduta ad un tavolo a circa metà sala e intenta a fissare il cubo di metallo che conteneva i tovaglioli. Le luci rossastre e violacee del locale, tenute accortamente soffuse, mi impedivano di identificare le fattezze dell'uomo che stavo per incontrare. Nemmeno i faretti gialli posti a intervalli regolari contro il muro riuscivano a rischiarare la figura, e comunque lui dava le spalle alla parete su cui erano posizionati, quella alla mia sinistra. Le lampadine gialle appese sopra il bancone, invece, erano troppo distanti per poter essere di qualche aiuto. Non potevo fare nessuna constatazione pre-incontro e la cosa non mi piaceva affatto. Potevo solo farmi avanti.
   Avevo già visto quei capelli neri. Corti, con la riga laterale, qualche ciuffo che ricadeva sulla fronte nonostante fossero tirati indietro. Avevo già visto anche la linea di quella mascella, la curva del collo, la forma del naso.
   Dio, avevo già visto quel viso. Eccome se l'avevo già visto.
   «Ian?».
   Lui si voltò verso di me, ferma a circa un metro di distanza. La sua bocca si aprì incredula come la mia, nei suoi occhi leggevo lo stesso shock che avvertivo nella pancia, sulla pelle, in ogni muscolo del mio corpo.
   «Cameron?»
  Le mie sinapsi si erano scollegate, non riuscivo a pensare a niente di concreto. Le ovvie domande che attraversavano a razzo la mia testa non prendevano forma, non si solidificavano in parole compiute. Per un attimo smisi di respirare, finchè non mi ritrovai quasi ad annaspare in cerca di... di qualcosa. Qualsiasi cosa. Una spiegazione.
   «Che diavolo...» biascicai, incapace di esprimere chiaramente il mio sconcerto.
   «Tu che diavolo!» mi anticipò, capendo la mia domanda prima che potessi porla e cercando di rivolgermela a sua volta.
   «Da quando vai a degli appuntamenti al buio?» continuò diversi secondi, non ricevendo alcuna risposta da parte mia.
   «Da quando ti chiami Jordan Rhys?» lo rimbeccai.
   «Ma Cristo, non sono io Jordan!» esclamò con ovvietà, come se fosse impossibile che io potessi aver veramente creduto una cosa simile.
   Avrebbe potuto aver ragione. Avrei potuto aver sbagliato tavolo. Ma se lui sapeva dell'appuntamento al buio significava che vi fosse coinvolto, quindi non avevo sbagliato. E lui doveva tirare fuori qualcosa di meglio di un “Cristo!”.
   «E allora che diavolo ci fai qui?» chiesi ancora una volta, parlando più rapidamente e in tono più alto per evitare di essere interrotta di nuovo.      
   «Perché...».
   Perchè?
   «Oh, Cristo, siediti» mi ordinò brusco.
   Non accennai a muovermi, guardandolo di traverso. Solo allora notai che si era fatto un piercing al sopracciglio sinistro, ma era una questione del tutto irrilevante. Avrebbe dovuto ricordarsi che non davo retta a chi pretendeva di comandare invece di chiedere.
   Ma lui aveva sempre voluto comandare.
   Sospirò.
   «Siediti, per favore».
   Così andava meglio.
   Presi posto di fronte a lui, dall'altra parte del tavolo.
   «Jordan arriverà tra un minuto, è in bagno» mi informò. «Io l'ho solo accompagnato».
   Bastava poco per rendere tutto più chiaro e, passata la sorpresa – soppiantata dall'istantaneo nervosismo che io e Ian riuscivamo a metterci addosso solo guardandoci – era più facile concentrarsi sulla situazione. Jordane sisteva e non era Ian. Ian era solo un suo amico che, mi auguravo, a tempo debito se ne sarebbe andato.
   «Ho capito» risposi, mantenendo comunque una certa cautela.
   Una sola parola sbagliata e io e lui potevamo metterci a litigare così, su due piedi. Eravamo già partiti con quello sbagliato.
   «Intanto dimmi la verità: sei interessata a quest'appuntamento o, chessò, sei qui per una scommessa o cose del genere?».
   Se solo anche lui fosse stato altrettanto prudente. D'altro canto era quello che scatenava le liti, anche al liceo. Io ero quella che non riusciva ad evitare di rispondergli.
   «La verità è che non sono cazzi tuoi».
   Curioso come riuscisse a tirare fuori la parte più aggressiva di me anche dopo tutti quegli anni.
   «Chiedevo solo» si difese seccato, appoggiandosi allo schienale della sedia come per prendere le distanze. «Volevo essere sicuro che non fossi qui per prenderlo in giro».
   Ma per chi mi aveva presa?
   Mi venne in mente che, magari, quella non era la prima volta che Jordan partecipava a questo genere di incontri, e forse le sue esperienze passate non erano state delle migliori. Oppure il poverino era solo un tipo insicuro. Ma Ian mi conosceva, per la miseria.
   «Bel modo di far iniziare un'appuntamento, dubitare dei principi di un'altra persona».
   Mi tirai indietro a mia volta e incrociai le braccia al petto.
   Rimanemmo in silenzio per diversi secondi, senza guardarci se non di sfuggita. Due bambini arrabbiati.
   «Ci sta impiegando un bel po' il tuo amico» commentai.
   «Se è per quello, tu sei arrivata in ritardo di un quarto d'ora» ribattè lui.
   Non aveva tutti i torti.
   «Almeno c'è davvero qualcuno, in bagno?» insinuai, abbandonando immediatamente l'argomento “tempo”.
   «Per chi mi hai preso?» mi punzecchiò imitando la domanda retorica che io stessa gli avevo fatto.
   Poco ci mancava che mi facesse il verso.
   Comunque, sinceramente? Avevo smesso di fidarmi di Ian Ward otto anni prima, non avrei ricominciato in quel momento.
   «Incredibilmente, ho bisogno di andare in bagno» affermai allusiva.
  Mi alzai con dignità e, mentre lo facevo, scorsi con la coda dell'occhio la porta di ingresso venire aperta. Ad entrare furono Darcey e il resto della cricca, che mi individuarono subito. Darcey lanciò un'occhiata al ragazzo seduto altavolo e poi tornò a guardare me, sorridendomi e mostrandomi i pollici alzati. Lei non l'aveva riconosciuto; comprensibile, dopotutto quel tempo.
   Scossi la testa e tornai a concentrarmi sulla mia meta, le avrei spiegato tutto in un momento migliore.
  Quando arrivai in bagno me ne fregai della sconvenienza e a voce alta chiamai Jordan Rhys: se era davvero lì mi avrebbe risposto.
   «Sì?» giunse una voce dalla porta sulla destra, quella del cubicolo degli uomini.
   Il Barrel era un bel posto, ma i suoi bagni lasciavano abbastanza a desiderare.
   Rimasi così stupita di aver ricevuto una risposta che non seppi più cosa aggiungere. Dopo una manciata di scondi la porta si aprì e ne emerse un ragazzo magrolino e allampanato, completamente sbarbato ma con delle folte sopracciglia, gli occhietti azzurri vispi e i capelli biondo cenere del tutto spettinati. Sulle guance e sul naso aveva una spruzzatina di efelidi, accompagnate da qualche solco lasciato probabilmente dall'acne ormai scomparsa.
  Be', non aveva per niente l'aria del tipo insicuro. Al contrario, nonostante il suo fisico suggerisse che potesse essere di costituzione un po' deboluccia, l'espressione del suo viso e il suo sguardo davano tutt'altra impressione. Dovevo ammettere che un po' mi inquietava.
   «Cameron Grayson» mi presentai con ritardo, tendendogli una mano.
   La sua stretta era sicura e un po' troppo decisa, il suo sorriso beffardo.
  «Piacere di conoscerti, Cameron Grayson. Vuoi saltare i convenevoli e andare direttamente al sodo?» scherzò, riferendosi probabilmente al fatto che ci trovassimo soli in bagno. Eppure non è che il suo tono fosse poi così tanto scherzoso.
   «Ah-ah». Ma che divertente.
   Decisi di cambiare argomento.
   «Hai un gran bell'amico, lo sai?» accennai ironica.
   Jordan sembrava divertito dalla – evidente – scarsa considerazione che avevo del suo accompagnatore.
   «Perché, che ti ha detto?» mi domandò curioso, ma sembrava che già conoscesse la risposta o che potesse immaginarsela.
   «È invadente e pensa che io sia una specie di vedova nera» ammisi senza problemi.
   Preferii sorvolare momentaneamente sul fatto che già ci conoscessimo.
   Come avevo sospettato, non era affatto sorpreso.
   «Cioè, ti ha insultata?».
   «Non direttamente, ma so leggere tra le righe».
   Jordan ridacchiò e mi superò per tornare in sala, senza nemmeno invitarmi a seguirlo. Le sue gambe erano decisamente più lunghe delle mie, ma non mi misi a saltellargli dietro per tenere il passo. Arrivai al tavolo che lui si era già seduto, perciò non rimaneva più posto per me. Mi aspettai che Ian avesse la buona creanza di alzarsi per lasciarmi lo spazio, a quel punto, e permettere a me e al suo amico di iniziare finalmente quel dannato appuntamento, ma non si mosse.
   «Sei proprio un coglione, lo sai?» gli stava dicendo Jordan quando arrivai a destinazione.
   «Lei è più stronza di te, quindi non sono servito a molto» rispose Ian, ben cosciente che la stronza fosse proprio di fianco a lui.
   Jordan, alla mia sinistra, alzò gli occhi su di me e si tirò un po' indietro con la sedia, battendole mani sulle sue cosce.
  «Vieni qui, Cameron» mi invitò gioviale. «Ma poi che razza di nome è Cameron? È da uomo!» proseguì, chiaramente molto divertito dalla sua scoperta.
   In realtà Cameron era un nome unisex, ma starglielo a spiegare mi sembrava una perdita di tempo. Qualcosa mi diceva che comunque non gli sarebbe interessato.
   «Stare in piedi fa bene alla schiena» dissi per declinare l'offerta, il tono un po' troppo scocciato.
  «Come preferisci. Allora, io e te abbiamo un appuntamento, giusto? Credo che dovrei offrirti da bere, ma non ho soldi. Ci penserà il mio amico invadente, non preoccuparti».
   L'ultima delle mie preoccupazioni, a quel punto, era che mi venisse offerto da bere. In che diavolo di situazione mi ero cacciata? Quei due erano uno peggio dell'altro. Mi sentivo presa per il culo su due fronti.
   «Sei carina, sai?» continuò, ma per qualche motivo non riuscii a prenderlo come un complimento. Probabilmente perché l'aveva detto come un maniaco che faceva apprezzamenti sul culo di una passante.
   Si appoggiò allo schienale e si mise comodo sulla sedia, prendendo a giocare con l'aggeggio di metallo che numerava il tavolo. Aveva un sorriso un po' sadico un po' sornione sul viso. Un sorriso largo, ma per niente amichevole.
   «È carina, vero Ian?».
   «Sì» rispose semplicemente lui, piatto.
   Dal tono con cui pronunciò quelle due lettere e dallo sguardo che riservava a Jordan non sembrava davvero d'accordo con lui, sembrava... accondiscendente. O circospetto. 
   «Sì, sei carina» proseguì ancora Jordan. «E sei sveglia, o almeno così sembri. Insomma, sei venuta fin dentro il bagno per cercarmi, no?».
   Si mise a ridere da solo, sbattendo una mano sul tavolo. Istintivamente feci un passo indietro.
   «Che c'è, ti ho spaventata? Non dovevo sbattere così la mano, vero? A volte sono un po' troppo vivace» si giustificò. «È che davvero, mai vista una così, una ragazza carina che mi viene a cercare in bagno!» riprese a ridere, così tanto da piegarsi in due.
   Guardai Ian di traverso come se guardare lui potesse essermi in qualche modo d'aiuto. Ma lui guardava ancora Jordan con sguardo attento, come se lo tenesse d'occhio.
   Quando finalmente Jordan smise di ridere e raddrizzò di nuovo la schiena, tirò su col naso e si passò un dito sotto le narici.
   «Sicura che non ti vuoi sedere?» mi domandò di nuovo.
   Il suo comportamento iniziava seriamente a seccarmi. Tutta quella circostanza iniziava as eccarmi.
   «Per sedermi voglio sedermi, ma non sulle tue gambe».
   Con la coda dell'occhio, visto che fissavo Jordan, vidi Ian alzare repentino lo sguardo su di me. Ma ci feci a mala pena caso visto che il volto di Jordan era improvvisamente diventato ostile.
   «Perché, cos'hanno che non va le mie gambe?» mi chiese minaccioso.
   Il suo fulmineo cambio di atteggiamento mi spiazzò e, inutile negarlo, mi spaventò.
  Bene, avevo peggiorato le cose. Appena mi fossi liberata di quei due fuori di testa avrei ucciso Chase, altroché se lo avrei fatto. Ebbi l'istinto di andarmene proprio in quell'istante, ma ero così disorientata che non sapevo nemmeno come fare. Potevo andarmene e basta, ma avevo paura che Jordan mi fermasse in qualche modo. Non riuscivo a capire cosa gli passasse nella testa, mi era solo chiaro che non fosse il tipo a cui piaceva vedersi voltare le spalle. Non volevo farlo incazzare ancora di più.
   Lanciai un'altra occhiata a Ian, che tra i due era il meno suonato e, nonostante il nostro complicato rapporto, almeno era una faccia amica. Mi stava guardando; non appena intercettai il suo sguardo scosse lentamente la testa. In quel frangente suonava tanto come un avvertimento. Lo raccolsi.
   «Niente, è a me che non piace sedermi in braccio a qualcuno. Ho paura di pesare troppo» mi inventai, sforzandomi di utilizzare un tono leggero. In ogni caso dubitavo che Jordan sarebbe stato ingrado di accorgersi se mentivo.
   Sul suo volto ricomparve il sorriso, ma io ero ancora agitata. Se volevo calmarmi dovevo riuscire a racapezzarmi almeno un po', il che era più facile a dirsi che a farsi.
   «Non dire stronzate, scommetto che sei leggera come una piuma».
   «Secondo me ha il culo grosso» intervenne subito Ian.
   Questo suscitò un nuovo scoppio di risa da parte di Jordan, che diede a me il tempo di dare uno sguardo a Ian e a quest'ultimo di farmi l'occhiolino.
   E, all'improvviso, capii. Capii il suo comportamento al primo approccio, capii le sue parole e cosa davvero stava cercando di dirmi. Il suo “Volevo essere sicuro che non fossi qui per prenderlo in giro”. La sua cautela nel trattare con Jordan. Il suo dargli ragione, eppure con circospezione. Persino il suo darmi della stronza e non lasciarmi il posto. Era tutto coerente con una sola spiegazione, una che avrei dovuto capire non appena avevo incontrato Jordan. Jordan che era stato in bagno per un tempo spropositato, si strofinava il naso, cambiava umore facilmente, rideva per niente.
   No, non ero stata in grado di leggere tra le righe, avevo sbagliato tutto. Il fatto che conoscessi Ian e mi aveva deviata, facenomi credere che l'unica ragione della sua ostilità fosse un qualche tipo di risentimento che provava nei miei confronti. Ma lui non aveva paura che volessi prendere in giro Jordan perché lo avrei ferito, magari. Aveva paura perché lo avrei fatto incazzare. Perché se Jordan Rhys non si era appena sniffato qualcosa io ero la nuova direttrice del New York Times.
   Non era la prima volta che mi trovavo di fronte ad un drogato. Potevo contare sulla sicurezza offerta dall'essere in un locale pubblico, con la maggior parte dei miei amici seduti poco più in là, spalleggiata da un amico – più o meno – evidentemente abituato a trattare con lui.
   Ma volevo andarmene. Immediatamente. Più di quanto avessi desiderato farlo fino a una manciata di secondi prima. 
  Tuttavia ero ancora del parere che quella poteva essere la mossa sbagliata. Dovevo solo mantenere la calma e aspettare il momento giusto; se non altro, ora che avevo capito la situazione, sempre che ci avessi visto giusto, sarebbe stato più facile capire come comportarmi.
   «Sì, sei proprio un coglione» riprese Jordan quando riuscì a bloccare le risate. «Sai cosa mi ha detto lei?» continuò, indicandomi col pollice. «Ha detto che sei un “gran bell'amico” e che sei invadente. Sai che ha ragione? Sei proprio un bell'amico. E sei invadente. Un coglione invadente».
   Ian reagì semplicemente con un sorriso misurato.
   «Mi sembra di capire che non le sto simpatico» commentò divertito, ma non sapevo più se lo era davvero o se fingeva soltanto.
  «Meglio per me. Io ti sto simpatico, vero Cameron?» sottolineò il mio nome usando il tono di un vecchio camionista che avesse del catarro in gola, sgommando sulla “C”.
   Sperai che non lo ripetesse mai più.
   «Più di lui di sicuro» dissi, cercando di buttarla sul ridere nella speranza che lui scoppiasse di nuovo.
  Mentre si sbellicava era meno preoccupante, e non poteva fare domande a cui avrei dovuto dare risposte calcolate facendo attenzione a non contrariarlo.
   Riuscii nel mio intento e vidi Ian tirare un sospiro di sollievo. Chissà se si era ritrovato molte altre volte in circostanze simili. Sospettavo di sì. Ma se fosse stato più chiaro fin all'inizio ci saremmo risparmiati un sacco di problemi.
   «Senti, brutto ingrato, porto la tua amichetta a prendere da bere visto che devo sborsare io» annunciò alzandosi.
   «Mi raccomando, qualcosa senza zuccheri, deve tenersi in linea!» ci accordò Jordan.
   Mentre mi avviavo per seguire Ian al bancone, Jordan mi guardò il sedere e risalì fino al mio viso, facendomi l'occhiolino. Strinsi i pugni per non rabbrividire dal disgusto.
   Arrivati al bancone Ian si assicurò di posizionarsi in un punto da cui Jordan non potessevederci.
   «Dovresti andartene» mi disse, appoggiando un braccio sulla superficie del piano e guardandomi dritta negli occhi, come se così avesse potuto inculcarmi il messaggio nella testa.
   Ma non serviva, ne ero ben consapevole da sola.
   «Puoi dirlo forte che me ne vado».
   Lui alzò un sopracciglio continuando a scrutarmi.
   «Bene. Allora fallo adesso che sei lontana. Se torni lì cercherà di trattenerti, e se tu insisterai si arrabbierà».
   E anche questo lo avevo capito per conto mio.
   «Era la mia intenzione».
   «Avresi dovuto darmi retta subito» mi accusò.
   «Avresti dovuto essere più chiaro» ribattei immediatamente.
  «Cos'avrei dovuto dire? Guarda che Jordan è in bagno per tirare di coca, forse è meglio se non rimani. Tanti saluti» sbottò alterandosi, eppure riuscì a tenere un tono basso che divenne quasi impercettibile quando pronunciò le tre parole critiche.
   «Una cosa del genere, sì» confermai implacabile.
   Potevo anche essergli grata, in fondo, per aver tentato di mettermi in guardia e avermi parato il culo durante tutta la conversazione, ma di certo avrebbe potuto fare di meglio. A cominciare dall'impedirmi di trovarmi faccia a faccia con un drogato.
   «E tu potevi evitare di andarlo a cercare in bagno» mi sgridò stringendo i denti.
   «E secondo te l'oroscopo mi aveva avvisata che il tuo amico si è appena fatto una dose?».
   Ma anche se me lo fossi immaginato sul serio, che differenza avrebbe fatto? Jordan sarebbe tornato al tavolo e allora ci saremmo ritrovato nella stessa situazione di prima, solo che io sarei stata seduta e mi sarei sentita ancora più a disagio.
   «No, hai ragione, non potevi saperlo» disse, ma non suonava affatto come un'ammissione. «Sai cosa potevi fare? Potevi arrivare in orario, lui non sarebbe andato in bagno e a quest'ora staremmo tutti meglio!».
   Il suo sussurro era un urlo strozzato, ormai. Anche il mio.
   «Oh certo» sputai, «avremmo chiacchierato amabilmente finché non sarebbe comunque andato in bagno, e allora dimmi che differensa avrebbe fatto!».
   «Cristo, quanto sei ostinata!».
   «Puoi invocare anche il resto della trinità, rimarrai un maledettissimo coglione!».
  Per qualche secondo ci guardammo in cagnesco, poi sospirammo nello stesso momento abbassandogli occhi. Mi sembrava di essere tornata al passato, a quando avevamo diciotto anni e passavamo metà del nostro tempo a litigare, a scannarci a vicenda, a sputarci addosso puro veleno finendo per sbattere tutte le porte. Finendo per tornare indietro, subito dopo, e prendere l'uno le mani dell'altra. Finendo per dire “è l'ultima volta, okay?”. Finendo per darci un bacio. Finendo in camera da letto.
   Per poi ricominciare a gridare.
   «Comunque sei stata brava. L'altra volta è andata molto peggio» riprese in tono molto più tranquillo, quasi stanco.
   «L'altra volta?» chiesi senza pensare.
   Avevo supposto che il nostro potesse non essere un caso isolato, ma avere la conferma era più triste di quanto avessi immaginato.
   Ian sospirò.
   «Questo è il quarto tentativo».
   «E tu lo segui tutte le volte?».
   «La prima volta no, ma dopo aver sventato la denuncia per un pelo ho pensato fosse meglio controllarlo a vista».
   Non volevo nemmeno immaginare cosa fosse successo. Sicuramente niente di troppo grave se ne parlava con quella calma, ma nemmeno qualcosa di piacevole. L'avevo scampata più bella di quanto avessi creduto.
   «E questo non hai pensato di dirmelo subito, vero?».
   Ero così ironica che persino la sottigliezza della mia ironia era ironica di per sé.
   Non la prese tanto bene.
   «Avrei voluto. La prima cosa che ho pensato quando ti ho vista è stato: “perché proprio lei?”. Ma poi mi hai fatto girare le palle e mi sono innervosito. Non dire che non te la sei cercata».
   Me l'ero... dannato Ian Ward.
   «Cercata? Sei tu che hai iniziato a fare il comandante Ward, come al solito».
   Comandante Ward. Lo chiamavo sempre così quando iniziavamo a litigare.
   Lui aprì la bocca per ribattere, glielo si leggeva in faccia che avrebbe voluto rispondermi a tono. Eppure non lo fece. Rimase lì, sul punto di contestare ancora una volta. Io polemizzavo, lui polemizzava e non ne uscivamo mai finché uno dei due non si tappava la bocca per evitare di andare troppo oltre. Ero quasi sempre stata io a dare un taglio alle nostre discussioni.
   Quella volta, invece, sebbene ancora lontani dai livelli di rabbia che raggiungevamo un tempo, fu lui a fermarsi.
   «È meglio che io torni indietro» affermò infine, rassegnato.
   Fece i primi passi, ma lo trattenni afferrandogli un braccio. Non volevo che il nostro primo incontro dopo tutti quegli anni si concludesse così, e per quanto torto lui potesse aver avuto anche io avevo la mia parte di colpa. La nostra testardaggine, all'epoca, ci aveva allontanati definitivamente. Ora eravamo cresciuti, eravamo più responsabili di noi stessi ed era ora di smetterla di voltarci le spalle, lasciandoci l'amaro in bocca.
   «Un attimo. Come te la caverai adesso? Non si arrabbierà quando non mi vedrà tornare con te?»
  Sperai capisse che la mia preoccupazione era per lui, non per me. Ma qualcosa nel mio sguardo, nella mia espressione o nel tono della mia voce glielo lasciarono intendere.
   «Non preoccuparti, so come gestirlo» mi rassicurò con un sorriso.
   Ne abbozzai uno anch'io.
   «Bene. Allora... grazie, Ian».
   Non ero certa di sapere "grazie" per cosa. Forse perché, al di à di tutto, mi aveva dato una via di fuga. 
   «Di niente, Cameron».
   E, detto da lui, il mio nome aveva un suono del tutto diverso.
Partendo dal presupposto che a me, questo capitolo, non piace (eppure appena l'avevo scritto ne ero entusiasta, bah) non mi aspetto che piaccia a voi, ma è importante ai fini della trama per due buone ragioni che non vi spiego. Tuttavia, è proprio questo capitolo che celebra finalmente l'entrata nella prima zona davvero attiva della storia. Mi spiego meglio: da qui in avanti la narrazione diventerà più rapida e le situazioni più interessanti. Stiamo entrando nel vivo. Non voglio però che vi facciate l'idea sbagliata: i pensieri ossessionanti di Cameron continueranno ad occupare una buona parte dei capitoli, ma saranno più mirati. I capitoli stessi manterranno più o meno la stessa lunghezza e quindi, visto il mio stile di narrazione, comprenderanno una quantità limitata di "punti salienti". Se non l'avevate ancora capito sono il tipo di autrice che procede con calma, che cerca di creare uno sfondo ampio agli avvenimenti della propria storia e lascia spazio ad un certo grado di introspezione, cercando di far emergere il più chiaramente possibile la psicologia della protagonista. Ma nel momento in cui deciderò di dare un colpo alla storia ve ne accorgerete eccome. 
Forse dopo sei capitoli pensavate che fossimo vicini all'inizio della partita? No, abbiamo appena iniziato a scaldarci.

Come sempre grazie a chi è passato di qui, a chi mi segue e, soprattutto, alle poche anime pie che mi mettono a parte dei loro pensieri. Non sarebbe male per il mio ego pigrone ricevere una bella scossa o una bastonata in testa - opinioni positive o critiche sono entrambe ben accette, se espresse con discernimento - ma la loro assenza non influenzerò il procedere della storia, questo ve lo garantisco.

State sempre in piedi,
Astrid

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Capitolo 7
*** (Un)lucky Encounter ***


Capitolo 6
(Un)lucky Encounter

L'ultimo gradino della cattiva fortuna è il primo della buona
-C. Dossi


    Mi era stato gentilmente fatto notare che esistevano poche persone al mondo sfigate quanto me.
   Non sfortunate, la sfortuna era un'altra cosa. La sfortuna era nascere dal latosbagliato delle Ande – dove non c'era una goccia d'acqua perché tutti i fiumi scorrevano vero la parte opposta –, era incontrareuna turbolenza tanto forte da far precipitare l'aereo su cui viaggiavi.
   Sfiga era la macchina che ti si fermava in pieno deserto del Nevada, era perdere alla lotteria per unsolo, dannato numero, era partecipare al primo ed unico appuntamento al buio della tua vita e incontrare, insieme, un tossicodipendente eil tuo ex ragazzo, con cui più di una volta sei pericolosamente andata vicina al comettere un omicidio preterintenzionale.
  Non volevo essere melodrammatica, quindi non mi sarei definita sfortunata. Ma i fatti parlavano da sé e dicevano molto chiaramente, lo gridavano, che ero una gran sfigata.
   Quando Ian era tornato da Jordan io ero schizzata verso l'uscita del Barrel, avvertendo a gesti il resto della mia compagnia di levare le tende. Appena fuori li avevo fatti tutti salire rapidamente in macchina, promettendo di dare spiegazioni solo quando ci fossimo allontanati. Alla fine, raggruppati come capitava spesso ad un tavolo del Kitty's, raccontai la mia esperienza sotto i loro occhi sempre più increduli. Al termine era arrivato il fatidico riassunto di Chase: “mai conosciuta persona più sfigata di te”.
    A dispetto dei miei propositi di farlo fuori in modo non molto rapido e per niente indolore, quando ormai mi era tornata la calma ebbi modo di riflettere sul fatto che in fondo non fosse colpa sua. Non poteva prevedere l'eventualità di una situazione come quella in cui mi ero effettivamente trovata, senza contare che alla fine ero stata io ad accettare di andare all'appuntamento, nessuno mi aveva puntato una pistola alla testa. Ma di certo non potevo esimermi dal ritenerlo direttamente coinvolto nel problema: mi sarei risparmiata parecchie pessime esperienze se lui si fosse tenuto le mani in tasca un po' più spesso.
  Il lato positivo di essere una iellata abitudinale era che finivi col tendere a dimenticarti delle brutte giornate, invece che rimuginarci sopra.
   La domenica di quella stessa settimana io e Darcey ci presentammo all'Imperial Mall alle sette e mezza del mattino, perfettamente puntuali. Ci fu dato il tempo di cambiarci per indossare i vestiti di Schweser’s e fummo informate che avremmo avuto due pause da mezz'ora a testa, ma che ci saremmo dovute alternare per non lasciare mai lo stand incustodito. Per il resto saremmo rimaste in piedi nell'atrio a distruibuire la pila di volantini che ci misero in mano senza troppa delicatezza. Io rischiai di farli cadere tutti a terra, salvandoli per il rotto della cuffia.
   Nell'atrio ancora vuoto avevano posizionato un tavolino coperto da una tovaglia rossa, sopra il quale c'erano altre quattro pile di volantini. Dubitavo che li avremmo finiti tutti entro le nove di sera, orario di chiusura del centro commerciale. Subito dietro il nostro misero stand ce n'era uno di divani: un sofà angolare era posto di fianco ad un totem che illustrava la convenienza e la comodità dei prodotti artigianali. Ai lati dell'atrio, in corrispondenza della nostra posizione, c'erano una piccola gioelleria che stava alzando la propria serranda e una rosticceria, dove un paio di persone in divisa rossa e gialla stavano già smanettando per scaldare i forni e mettere dietro il vetro da esposizione i prodotti di gastronomia che offriva. Qua e là c'era qualche inserviente che completava le pulizie pre-apertura, mentre altri dipendenti dei vari negozi sistemavano i cartelloni esterni per attirare la clientela, riordinavano le vetrine o chiacchieravano tra loro in attesa dell'arrivo dei clienti.
   Mi chiedevo se io sarei mai stata in grado di compiere un lavoro del genere. Passare ogni giorno dentro un centro commerciale, servire un numero non meglio definito di persone più o meno strafottenti, più o meno esigenti, più o meno indecise. Emettere scontrini, dare consigli, saltare da una parte all'altra nel mio negozio per sistemare le cose fuori posto, per trovare il capo d'abbigliamento giusto, o il giusto braccialetto, o il giusto numero di scarpe. Essere sempre costretta a sorridere. Essere sempre gentile. Essere sempre disponibile. In fondo, quando ai tempi del college lavoravo come cameriera, la solfa non era poi molto diversa: mostrami sempre allegra e prendere le ordinazioni, portarle ai clienti, chiedere il saldo del conto e ripetere sempre gli stessi gesti senza un attimo di pausa. E nei momenti in cui stavo dietro il bancone spillare birre e coca-cole, riempire e svuotare la lavastoviglie, battere i tasti alla cassa e salutare tutti con un “buon giorno, mi dica” e poi un “grazie e buona gironata”.
  A volte, dovevo ammetterlo, mi divertivo, scherzando insieme alle mie colleghe durante il servizio, punzecchiandomi in continuazione col barista e col cuoco, facendo dribbling tra i tavoli fingendo di essere nel pieno di una partita dicalcio, accettando le mance che qualche buon'anima mi lasciava per ripagarmi non del mio lavoro, ma della mia gentilezza nel farlo. Forse non proteggevo gli innocenti, non progettavo nuove tecnologie per il bene dell'umanità e non scoprivo nuove forme di energia rinnovabile, ma avevo le mie piccole gratificazioni e uno stipendio fisso a fine mese, sufficiente per il tipo di vita che conducevo e implementato dai periodici sussidi di mio padre.
   Per come stavano le cose recentemente, però, dubitavo che mi sarei trattenuta tanto facilmente dal strozzare qualcuno con le maniche di una felpa che avrei dovuto vendere, o dallo spaccare un piatto di patatine fritte in testa ai tizi che dicevano: “e questa sarebbe una porzione per due?”.
   Rifliare volantini a tutti quelli che potevo non sarebbe certo stato soddisfacente e non avrebbe fatto differenza nello status del mio conto in banca, ma almeno non mi avrebbe portato lo stesso grado di stress del sopportare dei clienti incontentabili.
Dalle porte scorrevoli bordate di nero di fronte a noi iniziarono ad entrare le prime persone, in coppie o singolarmente. Io e Darcey ci guardammo ed entrambe ci facemmo avanti, sorridenti.

•●•

   Céline Foster non si era nemmeno presentata. Avevo sospettato che, dopo averci contattate, non avrebbe più preso parte attiva all'evento, probabilmente aveva altro su cui lavorare. Ma, non potevo negarlo, un po' mi irritava il fatto che ci avesse lasciate nelle mani della responsabile del punto vendita di Schweser’s, una presuntuosa di prima categoria.
   Darcey rientrò dalla sua seconda pausa – durata cinque minuti in più del previsto – dandomi finalmente la possibilità di prendermi i miei ultimi trenta minuti di meritato risposo. Tanto per cominciare, dovevo sedermi.
   Diedi le spalle all'uscita e mi avviai lungo l'atrio, fino a raggiungere le scale mobili che mi avrebbero portata al primo piano. Era lì che si trovava, di fatto, il negozio Schweser’s, ma quello sarebbe stato l'ultimo dei mieiobiettivi. Perciò, invece di girare a sinistra, svoltai a destra appena i miei piedi toccarono di nuovo un suolo fermo e stabile, procedendo con le gambe doloranti fino alla caffetteria. Ero stata in piedi per sette ore – escluso l'intermezzo di mezz'ora per il pranzo – con indosso delle scarpe col tacco – col tacco, dannata Céline – spostandomi a zig zag per agguantare il maggior numero di persone possibile: poggiare il culo da qualche parte era la mia priorità.
   Mi accomodai ad un tavolino libero con un grugnito di soddisfazione.
   Naturalmente non c'era il servizio al tavolo. Perché non importa dove tu sia o perché ci sia, se hai bisogno di stare seduta dovrai sicuramente fare qualcosa che ti costringa a rimanere in piedi. 
   «Guarda un po' chi c'è, niente meno che la signorina Grayson».
   Oh, no. La giornata era già abbastanza stressante.
   Chiusi gli occhi chiedendomi se potevo far finta di non aver sentito, ma lui aveva parlato a voce alta proprio dietro le mie spalle: sarebbe stato palese che lo stavo deliberatamente ignorando. Mi voltai simulando un sorriso.
   Hamilton indossava un paio di jeans scuri e una giacca di pelle nera, sopra una maglietta bianca con dei disegni di un colore che assomigliava tanto al blu. Quel giorno aveva optato per una tenuta casual ordinaria; poteva andare peggio, poteva presentarsi come al primo incontro del corso di fotografia. Almeno in quel modo poteva sembrare una persona normale. Sembrare.
  «Buongiorno signor Hamilton» lo salutai con una scarsa inflessione nella voce, segno un po' troppo evidente che non ero esattamente felice di incontrarlo.
   «Oh, qui puoi chiamarmi Kendall» fece lui, apparentemente non notando o decidendo di trascurare lo scarso calore del mio saluto, prendendo posto sull'altra sedia del mio tavolo. Non ricordavo di averlo invitato a farmi compagnia. «Cosa prendi? The, caffé, limonata...» elencò guardando in alto, come se nel frattempo si stesse figurando le immagini delle bevande proposte.
  Era un testa. Quando andavo al college era stato organizzato un'incontro, per chiunque volesse partecipare, tenuto da un professore della facoltà di psicologia, dove sarebbe stato spiegato il metodo più rapido ed efficace per capire la personalità di un soggetto e quindi rapportarvisi nel modo migliore. Una conoscenza che poteva dimostrarsi utile specialmente nei colloqui di lavoro, visto che spesso gli stessi impiegati delle risorse umane – e perciò quelli che dirigevano il colloquio – la sfruttavano in quelle stesse occasioni. Ci era stato svelato che esistevano tre principali tipi dipersone: i cuore, i pancia e i testa. I testa propendevano per un approccio distaccato, anche in senso fisico, allontanandosi da chi avevano di fronte e, quando si immaginavano ciò che stavano dicendo, guardavano verso l'altro. C'erano poi tante altre caratteristiche cheidentificavano quale fosse la personalità dominante in un individuo, come il senso preferito nella percezione della realtà, l'uso più frequente della ragione piuttosto che l'affidarsi maggiormente alle emozioni, la posizione delle mani, la spontaneità delle reazioni, il modo di porsi ad un primo incontro, gli ideali seguiti. Ma era quasi tutto decisamente troppo al di là delle mie capacità deduttive. 
  Hamiltom se ne stava appoggiato allo schienale della sedia, le mani sulle cosce; il suo atteggiamento era certamente quello impassibile dei testa, in modo così palese che chiunque avrebbe potuto capirlo. 
   «Caffé» dissi, fissandolo insistentemente.
   «Anch'io».
   Riflettendo sui tre centri di personalità mi venne automaticamente da chiedermi, allora, come fosse Hamilton nella sua interiorità. I testa, da che ricordavo, si sentivano spesso confusi, isolati. Hamilton era davvero così, nel profondo? Era pura questione di psicologia, nessuno scappa alle leggi che governano la mente umana e le sue attitudini. Non avrei mai definito Hamilton confuso, ma isolato, forse, sì.
  Lui sostenne il mio sguardo. Nel silenzio più assoluto continuammo a guardarci finché credetti che, ormai, qualsiasi cosa ci avesse singolarmentef atto intraprendere quella battaglia si fosse trasformata in un pura volontà di vittoria. Chi avrebbe abbassato lo sguardo per primo?
   «Sei un testa, lo sapevi?» dissi, nel tentativo di distrarlo. «Te ne stai sulle tue, fai il superiore e poi ti impicci negli affari degli altri. Sembra che tu non abbia mai dubbi e non fai mai vere domande, per lo più affermi».
   Niente da fare. Anche se avevo descritto tutti i lati peggiori dell'essere un testa, lui non parve esserne particolarmente offeso. Al contrario, mi sorrise senza staccare gli occhi dai miei.
   «E tu una pancia. Reagisci in maniera istintiva ed impulsiva, non filtri mai colcervello. Per te la vita è un campo di battaglia e, anche se sembri forte e sicura di te, non sai nemmeno tu come ti vedi».
   Questa non me l'aspettavo. Non è che fosse segreto di stato tutta la faccenda dei centri di personalità, ma non credevo che anche Hamilton li avesse studiati. Né credevo che avesse studiato me per azzeccare così precisamente la sua descrizione.
   Anche se sbattei le palpebre sorpresa e mi sentii già un po' come se fossi stata sconfitta, tenni duro e non abbassai lo sguardo. Però qualcuno doveva pur andarli a prendere quei caffé.
   «Che ne dici se io adesso mi alzo, prendo le ordinazioni, torno e poi riprendiamo da dove avevano lasciato?» propose.
   Di nuovo quella brutta, bruttissima abitudine di anticipare i miei pensieri.
   «Va bene» dissi, insistendo un po' troppo sulla “b”.
   Lui piegò beffardamente un angolo della bocca e si alzò.
   Non appena il nostro contatto visivo entrò in pausa spostai lo sguardo di lato e iniziai a battere il piede per terra con impazienza. I tacchi rendevano il movimento più difficile e anche un po' fastidioso, ma la mia gamba non voleva saperne di fermarsi. Mi capitava spesso quando ero nervosa, arrabbiata o scocciata. O così o mi mettevo a massacrarmi l'interno delle labbra, e ora che l'avevo pensato iniziai a fare anche quello.
   Al lato sinistro del mio visivo ricomparve la sagoma di Hamilton, quindi mi imposi di femare la gamba, di stringere i denti e tornai a concentrarmi sulla sua faccia. Occhi negli occhi, lui spinse verso di me la tazza di cartone e io mi allungia per prenderla, anche se non potendo guardare dove mettevo le mani dovetti procedere per tentativi. Al terzo riuscii a stringere le dita intorno al mio caffé e mi tirai di nuovo indietro, prendendo il primo, complicato sorso.
   «Ti va di uscire con me sabato sera?».
   Con gran classe, sputai tutto quello che non avevo ancora mandato giù.
  A causa di quello spiacevole inconveniente mi ritrovai a fissare un punto non meglio precisato del pavimento, la mano serrata intorno alla tazza. Dire che ero incredula era un eufemismo di quelli tosti, come dire “fa caldo” mentre si sta nuotando nella lava. Forse basita o scioccata rendevano meglio l'idea, sebbene fossimo ancora ai livelli del “fa molto caldo”.
  «Cameron?» mi richiamò Hamilton, notando che avevo la stessa espressione di uno a cui avevano appena sparato nelle ginocchia.
   Va bene, forse stavo esagerando. Dovevo solo darmi una calmata e dire, sempre con molta calma, “assolutamente no”.
   «Mm?»
   «C'è una mostra fotografica all'aperto questo fine settimana, all'Heartwell Park» spiegò, un po' divertito dalla mia reazione – o almeno così suggeriva il suo sorrisetto sornione – ma evitando galantemente di commentarla. «Vorrei che tu la vedessi».
   Dovevo ammettere che, posta in questi termini, la domanda suonava già in modo diverso.
   «Perché?».
   Nonostante la patetica povertà della mia domanda, se non altro avevo ripreso ad usare parole invece che esprimermi a versi.
   «Perché hai del talento, Cameron. Hai un buon occhio, e per essere bravi con l'obiettivo è necessario essere prima di tutto dei bravi osservatori. La fotografia si basa sul soggetto rappresentato, e sceglierne uno non è semplice quanto si creda, non nel tipo di fotografia che insegno io. Ma credo che tu debba vedere ciò di cui ti sto parlando, per poterlo capire».
   Ma dai. Voleva darmi una specie di lezione fuori porta? Non sembrava poi così male. Se glissavo sul fatto che ci sarei andata con lui, visitare una mostra di fotografia poteva essermi d'aiuto per capire dove quel corso mi avrebbe portata, o dove si presumeva che dovesse portarmi. Di certo non sarei diventata in quattro e quattr'otto una fotografa professionista – né volevo diventarlo, ad essere sinceri – ma non avrei mai potuto dire con certezza “non arriverò mai fino a questo punto” finché non avessi davvero visto in cosa consistesse quel punto. Così come, al contrario, potevo accorgermi che in realtà di fare fotografie mene fregava anche meno di quanto avessi sospettato all'inizio.
   Quella mi sembrava esattamente una situazione in cui mettere da parte me stessa, visto che me stessa non mi avrebbe portata da nessuna parte.
   Dopo aver scrutato Hamilton, senza realmente guardare lui, durante le mie rimuginazioni, tirai fuori la moneta e la lanciai in aria. Se fosse uscito testa non sarei andata proprio da nessuna parte, mentre se fosse uscito croce... . Be', era uscito croce.
   «Va bene. La mostra è a pagamento?».
   Hamilton sorrise con quel suo modo quasi sibillino, per cui non sapevi mai se ti stava prendendo ingiro o se era effettivamente di buon umore, soddisfatto o se provasse qualsiasi altra emozione che facesse sorridere i comuni esseri umani.
   «Di questo non devi preoccuparti» mi disse.
   Annuii e per qualche istante nessuno disse più nulla, ma non riprendemmo a fissarci come in precedenza. Non sapevo cosa stesse passando per la sua testa, ma la mia era parecchio trafficata dai dubbi. Dubbi che infine si ridussero, come si riduceva tutto sempre e comunque, ad un sano “o la va o la spacca”.

 
•●•


   La spacca. O meglio, io ero sul punto di spaccare qualcosa. In testa al tizio che mi bloccava l'ingresso alla mostra.
   «Senza invito non può entrare» mi ripetè per la millesima volta.
   In realtà, l'unica persona da incolpare per quella spiacevole situazione era Hamilton, che aveva brillantemente dimenticato di mettermi a parte di quel dettaglio.
   Appena ero arrivata avevo notato una specie di recinzione composta da pali dorati e corde elegantemente intrecciate tinte di rosso. Avevo pensato che servissero semplicemente a delimitare l'area entro il quale aveva luogo l'esposizione, ma mi sbagliavo: aveva il preciso scopo di impedirti il passaggio. Non che non fosse estremamente facile scavalcarla, ma ogni decina di metri c'era appostato un uomo in divisa rossa che controllava a vista chiunque si aggirasse nei paraggi. Intorno al recinto c'erano gruppetti di persone che si fermavano per dare un'occhiata, ma a cui era vietato l'accesso perché, a quanto pareva, per oltrepassare la palizzata serviva un invito. Alle spalle dell'uomo che mi bloccava la strada vedevo dei cavalletti distruibuiti in brevi file, le quali non sembravano formare un vero e proprio percorso di osservazione. La trovavo una cosa affascinante: essere completamente liberi di muoversi tra le diverse fotografie, seguendo solo la propria ispirazione e i propri gusti. Dopotutto la fotografia stessa presumeva di essere libera espressione della propria interiorità, o una cosa del genere. Inoltre, temevo che se avessi dovuto guardare tutte le fotografie presenti in ordine mi sarei annoiata nel giro di cinque minuti.
   Ma finché non potevo entrare dubitavo che la disposizione dei cavalletti avrebbe fatto molta differenza. Avevo provato a chiedere al simpatico ometto dell'ingresso se Hamilton fosse già arrivato e, in quel caso, se poteva chiamarlo in modo che potesse confermargli che ero stata invitata, sebbene non con un atto scritto. Ma lui aveva risposto che sì, Hamilton era arrivato, ma lui non si sarebbe mosso di lì rischiando che io sgattaiolassi dentro la mostra senza permesso.
   «Non può mandare qualcuno a chiamare il signor Hamilton?» ritentai, anche se ormai stavo perdendo la speranza tanto quanto stavo perdendo la pazienza.
   «Signorina, non ci casco».
   Lanciai una breve occhiata al paletto dorato alla mia destra, colta dall'improvviso istinto di afferrarlo e sbatterglielo in fronte, ma essere abbandonata fuori da una mostra fotografica mi sembrava ancora meglio di venire scortata in centrale di polizia con l'accusa di aggressione.
   Mi spostai di qualche passo a sinistra – sempre sotto stretta osservazione del zelante controllore – e vagai con lo sguardo in cerca del volto familiare di Hamilton. Forse me ne sarei dovuta andare e basta, ma era diventata una questione di principio. Ed odiavo l'idea di darla vinta a quella cocciutissima guardia.
  Non era facile cercare qualcuno in quel casino: le persone presenti non erano poi moltissime, ma la vista era continuamente ostacolata dai cavalletti sui quali, per altro, erano montati delle lampade di metallo che proiettavano la luce sulle fotografie appese. La sera non era ancora inoltrata e c'era sufficiente luminosità per riuscire a vederle, ma da lì a breve il sole sarebbe tramontato; come diceva il cartello all'entrata proprio di fianco a me, l'esposizione si sarebbe protratta fino a mezzanotte.
   Niente da fare, individuare Hamilton sembrava impossibile e io non potevo rimanere lì fuori per tutta la serata. Lunedì, quando ci saremmo rivisti a lezione, gli avrei espresso tutta la mia indignazione nei toni più pacifici possibili, per evitare di dargli anche la soddisfazione di vedermi incazzata. Ma da quel momento in poi avrebbe potuto pure considerarsi sotto ordinanza restrittiva nei miei confronti. Per la sua sicurezza, più che per la mia.
   «Cameron!».
   Una volta tanto, la sua voce non mi fece venire voglia di girarmi dall'altra parte.
   Alzai lo sguardo e lo vidi venire verso di me, sorridente e perfettamente a proprio agio. A quanto sembrava l'idea che potessi essere un pelo incazzata per l'attesa non lo sfiorava nemmeno.
   «Perdonami, sono stato trattenuto» si giustificò, ed era una scusa così banale che non sapevo se crederci o meno.
   Magari era pure vero, ma convincersene era un altro paio di maniche. Per il momento però volevo solo accedere a quella dannata mostra, al diavolo il resto.
  «Potevi dirmelo che serviva un'invito, o magari darmene uno» lo accusai quando ci fummo allontanati di qualche passo, avviandoci verso le file di cavalletti.
   «Sì, potevo, ma contavo sul fatto che saremmo arrivati alla stessa ora. Invece ho dovuto anticipare il mio ingresso».
  Altra scusa. Sembrava un po' meno campata per aria, ma andare a fidarsi di Hamilton era un po' come fare paracadutismo in deltaplano: una cazzata. Solo perché il deltaplano assomiglia vagamente al paracadute non significa che vadabene lo stesso. Solo perché una giustificazione può sembrare veritiera non significa che lo sia. In entrambi i casi rischi di schiantarti, fisicamente o metaforicamente.
   «Ce l'hai un'orologio?» gli domandai innocentemente.
   «Sì» mi rispose, e probabilmente aveva capito dove volevo andare a parare.
   «E lo sai leggere?».
   «Credi che mi sia divertito a lasciarti fuori per un quarto d'ora?» insinuò.
   Incredibile: l'irremprensibile Kendall Hamilton sembrava appena essersi messo sulla difendiva.
   «Credo che tu sia egocentrico».
   Si fermò e si voltò verso di me, perplesso, le sopracciglia aggrottate.
   «Perché dici così?».
   «Perché a quanto pare ti preoccupa di più che io possa credere che tu ti sia divertito invece che interessarti al fatto che io non mi sia sicuramente divertita».
   Poteva risultare un pensiero contorto, ma ero piuttosto certa della mia logica.
  «Allora tu sei un'ipocrita» mi rimbeccò. «Da che mi risulti, tu mi hai raccontato i tuoi problemi mentre io ascoltavo pazientemente. Tra i due la più egocentrica sei tu».
   «A me non risulta che raccontare qualcosa sotto esplicita richiesta sia egocentrismo».
   «Non lo è nemmeno cercare di difendersi da delle accuse».
  Se c'era una cosa che dovevo aver capito riguardo ai dialoghi tra me ed Hamilton, era che non arrivavamo mai davvero da nessuna parte. Eravamo entrambi troppo testardi e tenaci – sebbene in modi diversi – per darla vinta l'uno all'altra, e purtroppo avevamo sempre una parte di torto e una parte di ragione che ci impediva di schiacciare l'altro con la pura logica. Diventava una battaglia a chi resisteva più a lungo, e in quel campo io perdevo sempre perché mi veniva più voglia di tirargli un gancio destro alla mascella che star lì a discutere.
   «Va bene, allora non sei egoista. Quindi sei solo stronzo».
   Dio, l'avevo detto davvero? Mi morsi la lingua, ma non potevo negare che non mi dispiacesse neanche un po' avergli dato dello stronzo.
   Solo, lo sguardo sotto le sue ciglia mi fece temere di aver tirato troppo la corda.

Tanto per dire, io odio qualsiasi editor html. Tutti gli html di questo capitolo sono fatti a mano e mi hanno causato molto meno stress. Perciò, se vedete qualcosa fuori posto, avvisatemi, per favore. 
Strano ma vero non ho altro da aggingere, a parte i ringraziamenti. Quindi, be', grazie per aver scelto TRS per diventare una delle vostre storie, una di quelle per cui vi prendete una pausa dalla vita. 
Se volete contattarmi per un qualsiasi motivo al mondo, questo è il mio profilo: 
Astrid Romanova Efp
Io per ora vi saluto fino al prossimo aggiornamento!

State sempre in piedi,
Astrid

 

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Capitolo 8
*** Courtship ***


Capitolo 7
Courtship

Cosa vediamo dipende soprattutto da che cosa stiamo cercando.
-J. Lubbock
   «Definisci stronzo».
   Non sembrava offeso. Era tornato il solito, ilare Hamilton, quello che sorrideva di traverso quando trovava spiritoso qualcosa che per nessun altro sarebbe stato spiritoso.
   «Kendall Hamilton» risposi di getto.
   Esplose in una risata che era davvero divertita, il che ebbe quasi l'effetto di offendere me. Era come se non gli importasse cosa pensavo o, peggio ancora, come se più bassa fosse la mia opinione di lui più spassoso fosse ascoltarmi.
   «Un po' più precisamente?» Insistette tutto sorridente.
   Ecco perché era irritante: perché niente sembrava riuscire a fargli abbassare quella maledettissima cresta.
   «Odioso, detestabile, insopportabile, antipatico, prepotente, arrogante...»
   «Questi sono sinonimi» mi interruppe.
   Pignolo, insistente, insolente, petulante. Roteai gli occhi, esasperata.
  «Sostantivo maschile, epiteto ingiurioso di senso figurativo con significato generale di persona che si comporta in modo criticabile, anche in funzione di aggettivo con riferimento ad atteggiamento deprecabile e/o stupido. Per amor di sintesi, persona con una grande capacità di far girare le palle.»
   La seconda risata di Hamilton fu anche meno contagiosa della prima.
   «Allora credo proprio di essere uno stronzo» ammise – sempre sorridente – con una certa sincerità che non mi aspettavo.
  Evidentemente non ero l'unica a cui faceva girare le palle, e non mi era difficile immaginarlo. Io potevo essere abbastanza permalosa, ma Hamilton era un campione nel dare sui nervi.
   «Felice che te ne sia accorto.»
   «Mi trovi davvero detestabile?» Domandò ignorando il mio commento, sebbene un'eventuale risposta affermativa non sembrava preoccuparlo.
   «C'è una bella differenza tra odio e scarsa sopportazione» gli feci notare.
Anche se mi faceva spazientire come poche altre persone al mondo, non volevo pensasse che lo odiavo. L'odio era un sentimento che mi ero accorta di provare verso una sola persona che mai avrei potuto paragonare a chiunque altro. Hamilton era insopportabile, ma non mi aveva rovinato la vita. 
   «Felice che tu sappia fare questa distinzione» mi disse.
   Il suo sorriso, in quel caso, fu molto diverso. Era più aperto, genuino, autenticamente lieto.
   Riprendemmo a camminare, in silenzio.
  Quando giungemmo di fronte al primo cavalletto non ci fermammo, dando giusto un'occhiata alle fotografie appese. Avanzavamo lentamente per avere il tempo di vedere i soggetti immortalati, ma nessuno attirava la mia attenzione tanto da indurmi a fermarmi ed Hamilton, che procedeva dietro di me, sembrava volermi lasciare il tempo di trovare qualcosa che mi interessasse sul serio.
   Lo trovai. Su un solo cavalletto erano disposte tre foto e, sul momento, credetti che si trattasse di una sequenza. Tutti e tre gli scatti rappresentavano lo stesso momento, la stessa scena dallo stesso punto di vista. Ma in tre parti distinte.
   La fotografia in alto era quasi incomprensibile: c'era un cielo azzurro cosparso qua e là di nuvole bianchissime, sospese sopra un campo di grano maturo. Dal bordo inferiore spuntava una cunetta che sarebbe stata impossibile da identificare se non si avesse avuta la possibilità di vedere il secondo scatto, quello che proseguiva l'immagine. Era la sommità di una testa dai capelli biondi e lucenti, così intensi che facevano sembrare il grano di un giallo sporco. Il viso della donna dalla chioma dorata era bello e sorridente. Stava guardando qualcosa che stava sotto di sé, qualcosa che dalla posizione delle braccia potevo intuire che stesse anche toccando. Ma i suoi avanbracci erano tagliati, perciò per vedere l'oggetto delle sue attenzioni bisognava spostarsi ulteriormente, arrivando alla terza e ultima fotografia: un'uomo guardava la bella afrodite con gli occhi sgranati e un silenzioso urlo sulla bocca spalancata; una sua mano stringeva debolmente il polso della donna, l'altra era coperta dal resto del corpo. E il suo collo – il suo dannato collo – era stretto nella morsa di dita sottili, i pollici che premevano sulla giugulare.
   Afrodite stava uccidendo lo sventurato. Quando si diceva “bella da togliere il fiato”.
   «Una vera opera d'arte» commentai ironica.
  Per quel che mi riguardava era una rappresentazione piuttosto sessista, sia interpretandola dal lato femminista che da quello maschilista. O la donna si stava prendendo una meritata vendetta per poter guadagnare la propria libertà o, al contrario, l'emancipazione delle donne stava rendendo l'uomo sempre più succube o, per fare dell'ironia, lo stava “soffocando”.
Tutte stronzate. Se gli uomini non erano abbastanza bravi da tenersi la loro virilità attaccata al posto giusto non erano uomini, e se la donna era così infima da strappargliela per vendetta non era una donna. Semplice.
   Hamilton colse il mio sarcasmo – o almeno così mi suggerì il ghigno che comparve sul suo volto – ma per il resto rimase in religioso silenzio. Meglio così, non mi andava di iniziare una diatriba riguardo ai ruoli dell'uomo e della donna nella società, soprattutto non con lui.
   Ripresi a camminare.
   Attraversando la sezione degli scatti paesaggistici mi ritrovai in quella dei nudi artistici. Le immagini di nudo non mi avevano mai attirata molto, o almeno non da quando avevo dodici anni e non ero ancora molto sicura di come fosse fatto un corpo maschile, anche se Tommy Wright, una volta, si era abbassato i pantaloni durante l'ora di ginnastica alle elementari.
   Lanciai solo uno sguardo ai cavalletti che mi circondavano, ma più che notare delle foto in particolare constatai l'alta affluenza di osservatori in quella zona della mostra. Uomini, per lo più, ma anche diverse donne. Tutte più grandi di me.
   In effetti, più mi guardavo in giro più rilevavo che l'età media dei visitatori fosse sui quarant'anni. Eccetto una bambina attaccata alla gamba della madre, io ero la più giovane avventrice. Questo poteva significare solo una cosa, che avrei dovuto capire non appena avevo visto la corposa vigilanza presente all'esterno: era una mostra seria.
   Non una di quelle, come mi ero immaginata, dove ti fai un giro di ricognizione giusto per poter dire di aver partecipato ad una mostra d'arte fotografica, così da far salire di un paio di punti il proprio quoziente di rispettabilità – o almeno credere di sembrare più rispettabile –, ma una mostra per intenditori, per gente del mestiere o molto vicina adesso. E, in tutto questo, io non c'entravo assolutamente niente.
   «Perché mi hai fatta venire qui?» chiesi ad Hamilton, voltandomi verso di lui.
   Non servivano spiegazioni, ero certa che avrebbe capito cosa sottintendeva la mia domanda.
   Infatti lui abbassò lo sguardo – assumendo di nuovo quel maledetto ghigno da “so qualcosa che tu non sai” - e si passò un dito sul labbro inferiore, annuendo a sé stesso.
   «Te l'ho detto. Perché sai osservare, e volevo che tu osservassi».
   Sì, quello lo ricordavo. Ma se fosse stata l'unica ragione avrebbe potuo invitarmi alla galleria dove si tenevano le lezioni.
   «Questo l'ho capito. E?» cercai di spronarlo.
   Lui insipirò e, quando buttò fuori l'aria, mi parve rassegnato.
   «C'è una spiegazione semplice, ma devi farmici arrivare per gradi».
   «Wow, ti sei fatto la scaletta?».
   Non avevo pazienza. Per me non esisteva il concetto di “andare per gradi”. Non era una di quelle cose alla “mi sono accorta che la vita è troppo breve” o della serie “voglio il dolce prima dell'antipasto”. Procrastinare significava solo perdere tempo nella speranza che, arrivati al punto, le rivelazioni risultassero più facili da digerire, ma se erano digeribili non serviva girarci tanto intorno. Se non lo erano, invece, be'... se andando in Groenlandia passi dall'equatore, quando ci arrivi non senti meno freddo.
   «No, ma c'è un modo giusto e uno sconsiderato di fare le cose. Non voglio essere sconsiderato».
   Giustificazione interessante.
   E pessima.
   «Hai tutta la mia benedizione per essere sconsiderato, e comunque il concetto di “giusto” è fortemente opinabile».
   Ridacchiò, e seppi che qualsiasi cosa avessi detto non sarebbe servita a niente.
   «La cortesia no, però».
   «In alcune culture è scortesia guardare direttamente negli occhi qualcuno. Quindi, tecnicmente, sei già stato abbastanza scortese, e nessuno ti ha sparato alle ginocchia per questo».
   Rise di nuovo. Era fastidioso.
   «Valida argomentazione» mi concesse sorridendo, «ma inutile.»
   Alzai gli occhi al cielo e sbuffai esasperata, ripartendo a passo di marcia per andare alla sezione successiva. Nature morte.
   «Almeno inizia, per l'amor di Dio, o per i fuochi d'artificio non avremo ancora finito» lo esortai, scorrendo rapida con lo sguardo su una serie di noiosissimi scatti. L'avevo detto che non mi erano mai piaciute le immagini predefinite, figurarsi se rappresentavano una bacinella d'acqua immobile sopra il quale galleggiava una foglia.
   «Non ci sono i fuochi d'artificio, all'ultimo il comune ha ritirato i permessi».
   Cosa? Perché, dovevano esserci?
   «Parlavo di quelli di capodanno».
   Anche se lieve, riuscii comunque ad udire la sua risatina soffocata. Era meglio quando rideva che quando faceva il prepotente alla galleria per dimostrare la propria autorità, ma non mi sarebbe dispiaciuto se per cinque minuti fosse tornato un insegnante invece di un ragazzino di undici anni.
   «Ora chi è che fa la stronza?»
   Colpita. Non affondata, quello mai. Ma colpita sì: non aveva tutti i torti. A dispetto di quello che avevo detto poco prima, iniziavo seriamente ad odiarlo.
   Eppure, se non avessi creduto che la sua personalità eccentrica non valesse almeno un minimo sforzo, in quel momento non sarei stata lì insieme a lui ad una stramaledetta di mostra piena di quarantenni.
   «Definisci stronza» lo imitai, continuando a voltargli le spalle.
   Rise. Basta, per l'amor del cielo.
   «Stiamo divagando» mi avvertì, e aveva ragione.
   Io avevo insistito perché arrivasse dritto al punto, ed ora ero la prima a distrarsi.
   «Ma visto che mi hai molto chiaramente espresso la tua opinione di me, credo che dovresti permettermi di renderti il favore» continuò, mentre davo una sbirciata alla foto di un orologio rotto che segnava l'una e dieci da chissà quanto tempo.
   Non mi preoccupava particolarmente l'impressione che Hamilton si era fatto di me, non era un problema mio. Non avevo mai posto molta attenzione ai giudizi degli altri, se non altro perché dovevo già confrontarmi con ciò che io per prima pensavo di mé stessa. Avevo idee così contrastanti che mi ci voleva troppo impegno per capire cosa vedevo quando mi guardavo allo specchio. Perciò rimasi in silenzio, senza vietargli di fare le sue considerazioni né invitarlo esplicitamente a rivelarmele.
   «Ti ho già riferito quanto ti trovi assolutamente strana, ma non credo di averti mai confidato quanto io ami le stranezze».
   Mi arrestai e aggrottai le sopracciglia, distogliendo lo sguardo da un velo di raso che vorticava su una distesa di cemento nella foto di un certo P. Bloomingdale. Guardai il tappeto d'erba sotto i miei piedi, la figura di Hamilton presente solo al margine del mio campo visivo.
   «Non sei affascinante nel senso comune, non c'è un tratto del tuo viso particolarmente accattivante o una nota nella tua voce che risulti singolarmente suggestiva. Ma c'è qualcosa in te - e ad essere affascinante è proprio l'impossibilità di capire cosa con precisione - che è incantevolmente avvincente. So che è un pensiero controverso, ma è l'unico modo che ho per definirti, perché tu stessa sei straordinariamente controversa. In una parola, Cameron... sei...».
   «Controversa?».
   «Intrigante».
Questo mi stupì. Supponevo che il suo fosse un complimento, ma la parola “intrigante” mi suggeriva che mi vedesse un po' come un mistero da risolvere, come il soggetto di una fotografia che non sapesse bene come catturare. Questo non mi piaceva, perché mi poneva di fronte all'aspettativa che lui avesse intenzione di studiarmi proprio come avrebbe fatto se avesse dovuto scattare una foto. Se non mi dava fastidio essere giudicata, mi irritava a morte l'essere analizzata come un curioso soggetto umano. A tentare di sviscerarmi ci aveva già pensato lo psicologo da cui ero stata mandata dopo l'incidente, con esiti pressocché nulli visto che lo ostacolavo mentendo o comportandomi da idiota. Dal mio referto psichiatrico era risultato, in parole povere, che fossi una testa di cazzo. In verità lì avevano scritto che, se pure non ero a rischio di depressione, tendevo al completo disinteresse per la vita nella sua forma organizzata, o una cosa del genere. Questa era la parte che ricordavo di più, ma ero certa che il mio psicologo avrebbe volentieri scritto che ero una testa di cazzo e basta. Di pazienti difficili ce n'erano tanti in giro, anche più difficili di me, ma prendi una venticinquenne incazzata col mondo, che ha appena visto il suo futuro crollare, emotivamente distrutta e laureata in lettere e avrai una paziente perfettamente in grado di mettere a dura prova la tua pazienza professionale.
   «Io ti trovo intrigante» specificò Hamilton, distogliendomi dai miei pensieri. «E in questo momento vorrei che tu mi guardassi».
  Il suo tono si era fatto terribilmente serio, ora. Forse per questo non mi venne di fare alcuna espressione impertitente che alleggerisse l'atmosfera: il suo essere serio era contagioso come non lo era la sua risata.
   Mi voltai.
  Anche la sua espressione era seria, e per un attimo mi chiesi com'eravamo arrivati a quel punto. Già la domenica precedente, all'Imperial Mall, avevamo passato diversi minuti a fissarci; sarei dovuta essere abituata al suo sguardo insistente. Solo, non era così semplice. Perché non c'era più quel mezzo sorriso sul suo volto, né c'era quella cocciutaggine nervosa da parte mia che mi aveva aiutata persino a sopportare il bruciore agli occhi.
  Bruciavano anche in quel momento. Sbattei le palpebre, aspettando che aggiungesse qualcosa. Aspettando che sorridesse di nuovo e dicesse qualcosa che mi avrebbe mandata in bestia, ma non fece niente per parecchi secondi. Stavo per rompere il silenzio quando si decide a riprendere la parola.
   «Perché l'hai fatto?».
   Sbattei le palpebre, questa volta confusa, e socchiusi le labbra pensando di dire qualcosa.
   «Cosa?» fu tutto quello che chiesi.
   «Guardarmi».
   La mia confusione divenne sconcerto, ma non ero meno spiazzata di prima.
   «Perché me l'hai chiesto» risposi in tono ovvio.
   «Io ti ho detto solo che avrei voluto che tu mi guardassi. Ti capita spesso di interpretare i desideri degli altri come richieste?».
   Ed ora era di nuovo confusa. Pensai che stesse già iniziando a studiarmi come avevo pronosticato, ma la sua non era curiosità, era più... incredulità. Non risposi. Non sapevo come rispondere.
   «Riformulo la domanda: perché pensi di dover soddisfare i desideri degli altri come se ti avessero chiesto di farlo?».
   Ecco, questa era curiosità. Ma nemmeno a questa sapevo rispondere. Mi stavo stancando.
   «Vuoi arrivare al punto?» chiesi spazientita.
   Finalmente sorrise di nuovo, proprio in quel modo insolente di sempre.
   «Ti sto corteggiando, Cameron».
   Ah-ah.
   «Se mi avessi dato il tempo di fare le cose con calma lo avresti capito da sola, ma tu hai sempre fretta».
   Era vero, ora che l'aveva detto mi accorsi di avere fretta. Fretta di andarmene.
   Invece rimanevo incollata al prato, di fronte a quella foto col velo di raso. In silenzio, con un'espressione analoga a quella di qualcuno a cui avessero appena detto “Natale è stato spostato al tre agosto”, ogni singolo centimetro del mio corpo era immobile, senza un singolo pensiero in testa se non: “io devo andarmene di qui”.
   Abbassai lo sguardo e guardai, guardai Hamilton per la prima, vera volta come un'uomo. Solo un'uomo. Quella sera – con quel completo grigio scuro, le scarpe lucide, la barba ben rasata, il viso pulito e solo un'ombra di occhiaie – non c'era niente che rovinasse l'immagine di quello che era innegabilmente un uomo attraente.
   Ma ne ero attratta? Il pensiero non mi aveva mai sfiorata nemmeno alla lontana, nemmeno per sbaglio, nemmeno per scherzo, e forse non avrebbe dovuto farlo nemmeno in quel momento.
   O forse sì.
   «Non devi rispondermi in qualche modo, Cameron. Lascia solo che ti corteggi».
   Non ero mai stata timida. Avrei potuto presentarmi di fronte al Pentagono e gridare al segretario della difesa di lavarsi i denti più spesso, ma non riuscivo a gestire il mio eventuale ascendente su un uomo. In effetti, preferivo di gran lunga elencare diverse marche di dentifricio a tutto il Dipartimento della Difesa che trovarmi nella situazione in cui mi trovavo proprio in quel preciso momento.
   Non ero timida, nossignore.
   Ma allora non sapevo come spiegarmi perché avvertissi così forte il desiderio di allontanarmi.
   «Me lo permetterai?» mi domandò dolcemente.
   Era carino da parte sua darmi la possibilità di rifiutare le sue attenzioni, e questo mi impediva di dargli un secco no come sentivo impellentemente di voler fare. Era facile mandare al diavolo qualcuno di insistente e sfrontato, ma la gentilezza... la gentilezza mi aveva sempre indebolita. Era rara, ed io non era una che se la sapesse guadagnare. La gentilezza mi smontava. Mi sgonfiava.
   Non potevo dire no, non potevo dire sì. Ma non potevo nemmeno dirgli “non lo so”.
   Abbassai lo sguardo.
   «Non posso impedirtelo».
   Mi era sembrata la soluzione più logica.
   «Sì, puoi. Devi solo dirmelo».
   Non sapevo cosa stessi negando, ma scossi la testa.
   «Posso...» mi uscì, prima che potessi rendermi davvero conto di cosa volessi dire.
   Lui aspettò pazientemente che terminassi la frase, ma non ero sicura di come intendevo finirla.Visto che i miei pensieri stavano risultando tristemente infruttuosi, forse era meglio schiacciare off e lasciare che fosse l'istinto a tirari fuori da quella situazione. Se avessi fatto un casino, ero comunque più brava a sistemare le cazzate che ad evitarle.
   «Posso andare?».
   Codarda. Ero una codarda. Una bambina lagnosa e codarda. Ma preferivo esserlo da qualsiasi altraparte.
   «Certo. Vai».
   Era ancora gentile, quasi remissivo, ma non ero abbastanza concentrata su di lui per stupirmidi questo suo lato nascosto.
   Annuii alzando di nuovo gli occhi su di lui, non volevo essere così pietosa da non guardarlo nemmeno più in faccia. Aveva un sorriso caldo in volto, che formava piccole rughe intorno ai suoi occhi. Rimasi lì qualche altro secondo, respirando a fondo, molto a fondo, ma lentamente. Trattenni il fiato.
   Mentre espiravo dalla bocca con un colpo secco, scattai verso l'uscita.
Immagino abbiate notato il cambio di rating per la storia. Una scelta dettata dalla necessità: le scene a rating rosso sarebbero dovute essere due, una delle quali, ripensandoci, non sono sicura rientri in quella categoria; la seconda era senza dubbio a rating rosso, ma portava la trama su una via che ho deciso di non percorrere più. Il finale rimane fondamentalmente uguale a quello inizialmente previsto, ma ho deciso di arrivarci in un modo diverso.
Ho fatto un calcolo approssimativo e la storia si comporrà di una quarantina di capitoli. Forse qualcosa in meno, ma di sicuro non staremo sotto i trenta. 
Grazie a tutti i lettori abitudinari, ai visitatori che hanno dato una possibilità a The Random Story e a chiunque avrà la voglia, e il tempo, di lasciarmi una recensione.

Lunga vita e prosperità,
Astrid

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Capitolo 9
*** Distraction ***


Capitolo 8
Distraction

E d'un tratto capii che pensare è per gli stupidi, i cervelluti si affidano all'ispirazione.
-A. De Large, Arancia Meccanica

   Forse avevo bisogno di fare sesso.
   Non avevo contato i minuti, né le ore (nemmeno i mesi, se era per quello) ma era da un tempo spropositatamente lungo che non lo facevo.
   In parte era perché non ero il tipo da rapporti occasionali e, dopo l'incidente, la mia priorità non era stata quella di trovarmi un partner. In parte perché, a dirla tutta, non c'era nemmeno stato qualcuno che mi avesse cercata.
  Avevo perso i contatti con l'universo maschile, almeno in quel senso, e non avevo mai creduto alla leggenda per il quale l'astinenza rendesse le persone irritabili. Poteva essere vera per i maschi, che avevano un comprovato bisogno fisiologico di sfogarsi ed erano anche notevolmente più arrapati delle donne. Ma per la maggior parte delle femmine non era così: secondo una ricerca di non ricordavo quale ente l'ottanta percento delle donne aveva affermato di preferire il sonno al sesso.
   Ma, guarda caso, l'ottanta percentro delle donne erano suscettibili come i gatti durante il pasto: al minimo disturbo estraevano gli artigli e ti soffiavano contro.
   Non ero ancora certa che il sesso calmasse effettivamente i sensi e riappacificasse l'animo, ma farlo o non farlo non era poi così indifferente come credevo. Se una donna dice il contrario – che sta benissimo nonostante siano tre anni che non ha un rapporto sessuale – meglio starle alla larga. Specialmente mentre mangia.
   Con questo non volevo dire che il sesso avrebbe risolto i miei problemi, solo che forse avrebbe allentato un po' la tensione che sentivo e che mi avrebbe dato una spinta – in senso figurato, per l'amor del cielo – a recuperare la fiducia in mé stessa nelle relazioni con l'altro sesso. Non ero mai stata particolarmente audace, ma prima non desideravo scappare di fronte al primo uomo che avesse dimostrato di essere minimamente attratto da me.
   Perché era quello il problema, iniziavo a capirlo. Dopo l'incidente avevo dovuto affrontare decine e decine di problemi per ristabilire la mia capacità a relazionarmi, ma non avevo ancora mai affrontato il problema “attrazione”. Non mi sentivo pronta ad essere di nuovo desiderata come donna, né a desiderare qualcuno a mia volta. Sarei stata più pronta a buttarmi ad occhi chiusi in qualcosa che a vivere giorno per giorno un corteggiamento, sapendo che prima o poi avrei dovuto compiere una scelta, quel genere di scelta che non puoi assolutamente attribuire al caso come in qualsiasi altra occasione.
   Mi serviva una spinta, una spinta che mi facesse riavere quel lato dell'essere donna per cui ci sente lusingate dall'essere oggetto di attenzioni da parte di qualcuno, invece che terrorizzate. Non che il sesso fosse una risuluzione al problema, e comunque non c'era un solo rappresentante del genere maschile che mi causasse anche un minimo formicolio nella pancia, tanto meno lì sotto. Nella mia stanza, sola e pacificamente seduta sul letto, era più facile credere di avere abbastanza fegato da rilanciarmi nella mischia, ma ero sicura che non appena avessi messo piedi fuori – nel dannato, incasinatissimo mondo – mi sarei sentita molto meno eroica.
   Avevo una gran confusione in testa. Non capivo perché dovessi sentirmi così... bho. Ero a mio agio nel mio corpo e avevo familiarità con le situazioni di intimità. Non ero vergine, ecco.
   Ma mi sentivo come se lo fossi. Mentalmente vergine. Così tanto che persino un'innocente dichiarazione d'interesse mi mandava in panico.
   Altro che vergine, ero praticamente frigida. Non mi piaceva. Le cose dovevano cambiare.
  Al diavolo, avevo bisogno di fare sesso. Certo, questo significava prima trovare qualcuno con cui volessi farlo e di cui potevo fidarmi. Ma, che io fossi dannata, non riuscivo proprio ad andare d'accordo con l'idea di essere desiderata, figurarsi trovare le palle per dare una svolta alla mia apatia sessuale.
   Quasi come se volessi controllare di avere ancora l'organo che tanto a lungo avevo ignorato, mi fissai la stoffa dei pantaloni della tuta all'incrocio delle gambe. Con un gesto lento, che percepivo come immensamente stupido, portai una mano a sfiorare il punto visualizzato, guardando diffidente la meta con un solo occhio aperto. Che idiozia. Se proprio volevo la certezza che funzionasse ancora avrei dovuto fare molto di più, ma non mi sembrava il momento adatto. In realtà poteva anche esserlo, a ben vedere, ma io avevo deciso che non lo era. A prescindere.
   Premetti giusto un po' di più finché il tessuto poliestere non entrò incontatto col cotone degli slip. Qualcosa, lì dietro, c'era, e reagì quasi impercettibilmente, come una persona addormentata a cui venisse sfiorato un dito con una piuma. Un rapido e insignificante spasmo, ma se non altro significava che, con ogni probabilità, era ancora collegata alle terminazioni nervose.
   A reagire con un salto di venti centrimetri fu invece tutto il resto del mio corpo, quando papà busso alla porta e poi entrò senza aspettare il permesso. Ritrassi di scatto la mano, fortunatamente in tempo, e fulminai mio padre con lo sguardo.
   «All'ingresso c'è un certo Doug che chiede di te. C'è qualcosa che ti sei dimenticata di dirmi?».
   Doug? Che diavolo ci faceva lì? L'avevo trattato malissimo l'ultima volta che ci eravamo visti. Io non sarei mai andata a casa di una persona che mi aveva trattato come io avevo trattato lui. È da idioti.
   Ma lui era un'idiota, effettivamente.
  Ignorai il tono sarcastico di papà e mi alzai dal letto, superandolo per scendere al piano di sotto e andare a vedere che cacchio voleva Doug per essersi fatto così tanta strada per arrivare lì. Non che abitasse dall'altro lato del pianeta, ma dall'altro lato della città sì.
   «Doug?» lo chiamai quando, arrivata al piano di sotto, lo trovai a guardarsi intorno posizionato come un attaccapanni vicino al divano.
   «Oh, ciao» esordì col tono di chi ha appena incontrato un conoscente per strada.
   Niente. Non proseguì. Inarcai un sopracciglio, in attesa, ma visto che non accennava a parlare lo incoraggiai con un gesto della mano.
   «Scusa se sono piombato qui così all'improvviso».
   Sì, andava bene. E?
   «Volevo solo avvisarti di una cosa, e dirtelo al telefono non mi sembrava adatto».
   Quelle parole avevano sempre avuto il potere di farmi preoccupare. Le cose inadatte ad essere dette al telefono erano cose brutte, in genere. Molto brutte. Istantaneamente mi immaginai che fosse capitato qualcosa a qualche nostro amico in comune, o magari a lui stesso. Era morto qualcuno? Era all'ospedale per qualcosa di grave? Qualuno aveva una malattia incurabile e gli restavano pochi mesi di vita? Qualcuno...
   «Sto per sposarmi».
   Ah.
  Non glielo avrei detto – ero già stata abbastanza insensibile con lui – ma la notizia del suo imminente matrimonio non era neanche lontanamente qualcosa che non potesse essere riferita in una semplice chiamata. Anche perché non era qualcosa che mi interessasse particolarmente.
   «Oh, congratulazioni» dissi invece, sforzandomi di sembrare davvero felice per la notizia.
  In fondo un po' mi faceva piacere per lui. Era una brava persona, se lo meritava, anche se non osavo immaginare che tipo di soggetto fosse la sua futura sposa. O era idiota quanto o peggio di lui, o si stava cacciando in un bel guaio.
   Ora che ci pensavo, mi aveva accennato di avere una fidanzata, o roba simile, ma Doug non era mai stato il tipo a cui piacesse parlare delle sue storie amorose. Non che ne avesse mai avute molte. Due, contando quella attuale. Ma non aveva mai fatto riferimento ad un matrimonio: dovevano averlo deciso molto di recente.
   «Sì, grazie» balbettò, un po' imbarazzato. «Volevo chiederti se ti andasse di venire. Anita ha invitato tantissimi suoi amici del liceo».
   Supposi che Anita fosse la fidanzata in questione. E, se all'inizio non capivo perché mi stesse invitando al suo matrimonio visto che non eravamo poi in rapporti così stretti, quando la nominò mi venne l'illuminazione. Era ovvio. Lei avrebbe portato i suoi amici del liceo, mentre lui... lui non ne aveva. O, per meglio dire, ne aveva pochissimi, e sospettavo che con la maggior parte di essi non fosse più in contatto da anni. Aveva cercato me perché dovevo essere l'ultima sua ex compagna di scuola di cui aveva avuto notizie. Improvvisamente sentii un fiotto di compassione verso di lui.
   Ci sarei andata. Glielo dovevo, dopo il mio comportamento di qualche settimana prima. Si trattava solo di un giorno, dopotutto. Avrei sparato un paio di cazzate su come Doug a scuola fosse sempre stato molto ammirato e circondati di amici, magari. O magari niente, sarei solo stata presente per dimostrare che ne aveva avuto almeno uno.
   «Ne sarei davvero felice».
   Il suo viso si illuminò e dalle sue labbra spuntò un sorriso.
   «Davvero? Grandioso, grazie».
   La sua euforia durò pochi istanti. Iniziò a mordicchiarsi le labbra, pensieroso. C'era qualcos'altro che doveva dirmi, o chiedermi, e credevo di sapere cosa.
   «Senti, mi chiedevo... non è che potresti...».
   Lo interruppi, sia per risparmiare tempo che per risparmiargli l'imbarazzo.
   «Chiedere anche ad altri nostri ex compagni? Certo» lo rassicurai, sorridendo a mia volta.
   Sarebbe stato meglio anche per me. E poi, visto che a quanto pareva Anita si sarebbe portata dietro metà del suo vecchio liceo, più eravamo più bella figura ci avrebbe fatto anche lui.
   Fare a gara a chi ha più vecchie conoscenze non era una buona premessa per un matrimonio, ma era meglio tenerlo per me.
   «Ti ringrazio davvero, Cam».
  Finalmente il suo sorriso divenne permanente e sorrisi anche io di riflesso, felice di averlo reso felice. A volte era bello fare qualcosa per gli altri. A volte era un gran rottura, ma in certi casi rendersi disponibili faceva stare meglio te che la persona a cui offrivi aiuto. E io avevo bisogno di sentirmi utile almeno ad una persona al mondo, perché per tutta la domenica ero rimasta chiusa in casa a domandarmi se madre natura, dopotutto, non avesse starnutito polvere di imbecillità mentre mi progettava. Stronza.
   «Allora io vado» riprese Doug, alzando una mano in segno di saluto. «Oh, sì, ti farò recapitare l'invito ufficiale, con data, ora e luogo» mi informò.
   Troppo difficile dirmelo subito?
   «Va bene, Doug. Ci vediamo il gran giorno, allora» lo salutai a mia volta.
   Lui sorrise di nuovo e di avviò alla porta, richiudendosela alle spalle.
   Avrei dovuto offrirgli da bere, probabilmente. Invitarlo a rimanere cinque minuti per raccontarmi qualcosa della sua bella, magari. Avrei dovuto. Ma sarebbe stato un suicidio, per cui andava benissimo così.
   A non andare bene era l'indolenza che avevo tenuto per tutta la domenica, e che anche quel lunedì minacciava di assorbire l'intera giornata. Dovevo uscire. Dopo una doccia e un cambio d'abiti, ma dovevo uscire. E dove va un'ex studentessa di letteratura quando deve dimenticarsi di sé stessa?

 
•●•

   Dovevo ammettere che il bar poteva essere una buona alternativa, ma non ero conciata così male da dovermi dare all'alcol a tutte le ore del giorno. Il solo fatto che l'avessi pensato mi dava un po' i brividi.
   Libreria. Quello era il posto perfetto. Con la scusa di cercare il libro giusto potevo leggermi qualche pagina di qualsiasi volume trovassi interessante, saltando dalla vita di un personaggio letterario ad un'altra. Perfetto.
  Stavo “consultando” il best seller mondiale “Cinquanta sfumature di Grigio” – avevo sentito che la protagonista era un'innocente e inviolata fanciulla rigida come una stecca di legno – cercando di capire in che modo una ventiduenne senza né arte né parte potesse tirarsi fuori dal guscio e diventare improvvisamente una ninfomane leggermente deviata. Dal momento che parte del processo di mutazione comprendeva un uomo irrealmente bello, del sadomaso spicciolo e una straordinaria produzione di feromoni, eravamo decisamente lontani da qualcosa che potesse anche solo vagamente interessarmi per comprendere un pochino meglio la logica femminile, visto che a quanto pareva io non ero ingrado di capirla da sola, pur facendo parte di quello stesso genere.
   Richiusi malamente il volume e lo rinfilai nel suo spazio, dove per quel che mi riguardava poteva rimanere fino alla prossima era glaciale e funzionare come combustibile per il falò che avrebbe tenuto in vita i sopravvissuti.
   Fantasy. Il fantasy era un toccasana quando dovevi evadere momentaneamente dai pensieri di una comune vita mortale. Era strano come ti portava in un universo completamente diverso, dove per farti strada dovevi ammazzare un numero non meglio precisato di persone, scappare da chissà quante altre e prendere parte ad un incredibile scontro finale per la salvezza del pianeta, dove sai che potresti benissimo rimanerci secco... e fartelo preferire alla tua vita. Perché chiunque avesse letto “Il Signore degli Anelli” avrebbe preferito attraversare l'intera Terra di Mezzo piuttosto che il tragitto in metropolitana per andare a lavorare.
   Non che il fantasy fosse tutto scazzottate e spade magiche, ma se ti impegnavi in una lettura di quel genere non cercavi “le banali giornate di un gruppo di fate pacifiche”, cercavi “le cazzutissime avventure di Mr.Vispaccoleginocchia”. Insomma, un po' di azione. Qualche intrigo. Diversi morti. Posti incredibili e pericolosi.
   Se no ti guardavi un film della Disney.
   Stavo giusto per prendere in mano “Under Heaven” di Guy Gavriel Kay quando scorsi un volto noto molto poco distante da me, che guardava lo scaffale concuriosità.
   Otto anni che non lo vedevo ed era già la seconda volta in due settimane.
   Aprii la bocca per richiamarlo.
   «Ahi! Cazzo...».
   Come richiamo non era il massimo, ma non mi venne altro da dire quando mi caddero addosso due libri, uno in testa e uno sulla spalla.
   «Mi scusi signorina, mi dispiace, sta bene?».
   Mi voltai per vedere chi fosse il genio che mi aveva appena fiondata con due tomi da ottocento pagine l'uno. Una donna di circa una quarantina d'anni mi guardava mortificata con in mano un terzo libro, quello che probabilmente aveva preso facendo cadere gli altri due.
  «Sì, sto bene, non si preoccupi» riuscii a dire, sebbene quello che stavo in realtà pensando assomigliasse più ad un insieme scomposto di insulti.
   Se stava facendo fatica a raggiungere il volume che voleva perché c'ero davanti io, tanto da non riuscire ad evitare il crollo di un quarto dello scaffale – c'erano altri libri per terra, chiusi o con le pagine schiacciate sul pavimento –, avrebbe anche potuto chiedere permesso.
   Sentii una risatina soffocata alle mie spalle, sapendo bene da chi provenisse. Oltre al danno la beffa. Girai la testa giusto quanto bastava per poter vedere il suo sorrisetto divertito.
   «Funziona ancora tutto là dentro?» domandò Ian ironico, facendo cenno alla mia testa.
   Pessima battuta. Inarcai un sopracciglio cercando di recuperare un po' di contegno e non la commentai in alcun modo. In realtà era perché non sapevo come rispondere, ma preferivo far passare la mia per un'aria di superiorità.
   Mi chinai per aiutare la signora a raccogliere i libri caduti e li rinserii nei loro spazi, facendo attenzione a non sbagliare.
   «Scusami ancora, davvero» ripetè questa quando finimmo di riordinare il disastro.
   «Non è niente» la rassicurai.
   Bastava che la finisse di scusarsi e se ne andasse prima di fare altri danni.
   «Allora sei tu che attiri disgrazie» considerò Ian mentre la donna si allontanava.
  Non aveva tutti i torti, ma per principio alzai gli occhi al cielo prima di voltarmi definitivamente verso di lui, lanciandogli un'occhiataccia.
   «Oppure sei tu che porti sfiga» gli feci notare.
  «Possibile» disse annuendo, senza perdere la sua espressione allegra, quella che aveva sempre, con cui sembrava prendersi costantemente beffe del mondo intorno a lui.
   Con qualcosa si diverso.
  Impiegai diversi istanti per capire cosa mancasse al quadro generale, istanti in cui la mia espressione, prima scocciata, divenne indagatrice. Lui mi guardò a sua volta con sconcerto, cercando forse di capire perché lo stessi fissando in quel modo. Poi arrivò la rivelazione.
   E dopo la rivelazione un pressante senso di colpa.
   «Sicura di non aver preso un colpo un po' troppo forte?» mi domandò.
   Questa volta il suo tono non era granché scherzoso.
   «Tu, piuttosto: chi ti ha tirato un pugno? Dimmi che non è stato Jordan».
   Ian chiuse gli occhi e capì il motivo del mio minuzioso interesse circa il suo viso, assumendo un'aria rassegnata.
   «Tu e il tuo dannato “spirito d'osservazione”...» mormorò seccato.
   Il suo pearcing al sopracciglio – quello che avevo notato di sfuggita la sera dell'appuntamento, troppo occupata in altri pensieri – era sparito, e al suo posto campeggiava un piccolo taglio. Doveva essersi in qualche modo strappato dalla pelle e, a meno che non avesse sbattuto la testa contro uno spigolo per pura distrazione, ciò significava che qualcuno lo aveva colpito proprio in quel punto. L'ipotesi del pugno era pura inventiva, ma mi sembrava plausibile visto la gente che frequentava.
   «Non è stato Jordan» confermò a voce più alta, ma non avevo modo di sapere se stesse dicendo o meno la verità.
  L'idea che Jordan potesse essersi arrabbiato con lui perché mi aveva lasciata andare mi faceva sentire terribilmente in colpa. Eppure, ora che ci pensavo bene, se la zuffa si fosse tenuta quella sera del taglio non sarebbe rimasta più che una cicatrice, perciò la ferita doveva essere più recente. Uno, due giorni al massimo.
   Non ero un medico, ma al corso di scrittura creativa del college ci avevano insegnato a documentarci sempre con attenzione per qualsiasi dettaglio che avessimo voluto inserire in un racconto. Quando, come compito, avevamo dovuto scrivere un racconto breve su un argomento a nostra discrezione e io avevo scelto le risse da strada, mi ero informata circa il tipo di ferite che si potevano riportare, sul come curarle e sui tempi di guarigione. Diverse cose le ricordavo ancora piuttosto bene.
   Comunque, questo non escludeva che Jordan, sebbene per qualcosa che non aveva a che fare con me, avesse potuto prenderlo a pugni.
   «Pensi di essere stata così importante per lui da picchiare il suo migliore amico?» mi chiese retorico.
   «Penso che il tuo migliore amico sia instabile, incontrollabile e molto, molto suscettibile» ribattei.
   «No, non lo è» mi contraddisse immediatamente, con fervore.
   Poteva aver ragione. Io non conoscevo Jordan. Ma conoscevo gli effetti della droga.
   «Sai cosa intendo».
  Per qualche altro secondo mi guardò contrariato, e avrei giurato di vedere una scintilla di rabbia nei suoi occhi. Ma alla fine fu costretto a darmi ragione con un sonoro sospiro.
   «Sì, lo so» ammise.
   I successivi secondi di silenzio avrebbero dovuto porre fine all'argomento, se solo non fossi stata troppo curiosa di scoprire come fosse andata a finire la serata dell'appuntamento. Volevo solo sapere come aveva reagito Jordan e come se l'era cavata Ian, se era successo un casino che si sarebbe potuto evitare o se era filato tutto liscio come mi ero augurata.
   Volevo essere certa di non aver creato problemi decidendo di non prendermi carico dei miei.
   «In ogni caso... cos'è successo dopo che me ne sono andata?» domandai cauta, cercando di non dare anche un tono invadente ad una domanda che lo era già di per sé.
   Lui valutò per qualche secondo se rispondermi o no, ma evidentemente non trovò una valida ragione per cui dover tacere.
   «Niente di che. Gli ho detto che avevi ricevuto una chiamata e te n'eri dovuta andare all'improvviso in gran fretta. Ma che gli porgevi i tuoi più cari saluti e le tue più sincere scuse».
   Si esibì in un mezzo sorriso nel dire l'ultima frase. Non era da tutti raccontare al proprio migliore amico tre cazzate in mezzo minuto di discorso.
   «Cosa ti aspettavi, esattamente?» aggiunse poco dopo.
   Già, cosa mi aspettavo?
   «Forse meno bugie, visto che è il tuo migliore amico».
   Anche se l'avevo detto di slancio mi accorsi che ci credevo davvero. Era sembrato personalmente offeso quando avevo parlato di Jordan in termini non proprio rispettosi, e non mi risultava difficile credere che si sentisse in dovere di difendere il suo – per l'appunto – migliore amico. Ma a quanto pareva era altrettanto pronto a mentirgli.
   «Cerco solo di proteggerlo da sé stesso» si giustificò in tono di sufficienza, stringendosi nelle spalle.
  Ma era la verità. Stava dicendo la pura verità, la stessa che avevo intuito quella sera al Barrel osservando come si stava comportando con Jordan, la stessa che si era in parte lasciato sfuggire durante la nostra precedente conversazione.
   «Sono felice di sapere che sia filato tutto liscio» asserii chiaramente, tanto per non lasciare spazio a fraintendimenti. «Resta da capire chi ti ha preso a pugni».
  «Filato tutto liscio? Ma chi diavolo usa ancora l'espressione: “filato tutto liscio”?» mi prese in giro, evitando senza troppa eleganza la mia domanda indiretta.
   Se c'era una cosa non facile da fare era distrarmi quando volevo sapere qualcosa. Hamilton ci era riuscito, una volta, ma quello era un altro conto e, col senno di poi, forse era meglio se contnuavo a rimanere all'oscuro di tutto. Molto meglio, mi sarei risparmiata parecchi grattacapi, sebbene ad essere onesti non era stata la sua confessione il problema, ma la mia reazione ad essa. Però se non l'avesse fatta io non... non era quello il punto; stavo pensando a quanto debole fosse stato il tentativo di Ian di depistarmi e a quanto fosse comunque arduo portarmi fuori strada, se avevo ben in mente la meta. Ironia della sorte, mi distraevo da sola.
   «Io e un altro buon paio di miliardi di persone, tra cui magari quella che ti ha preso a pugni».
   Ian dovette intuire che non avrei ceduto facilmente e forse pensò che non valeva la pena di sforzarsi tanto, perché mi chiese:
   «Vuoi davvero sapere chi mi ha colpito?».
   In realtà, no. Erano affari suoi, mi bastava sapere che non era stato Jordan e che non l'aveva fatto a causa mia. Ma a quel punto era diventata una questione di principio; non ero una persona insistente per natura, ma quando qualcuno cercava di deviare il discorso lo diventavo. Preferivo che mi venisse detto chiaramente “non voglio dirtelo”. La ricerca di scappatoie mi aveva sempre infastidita.
   «Se non vuoi dirmelo non farlo. Ma non tergiversare».
   «Mio Dio, quanto sei noiosa» si lamentò alzando gli occhi al cielo.
   Oh sì, lo ero. Terribilmente noiosa.
   «Mi piacerebbe raccontarti le gesta eroiche che mi hanno portato a guadagnarmi questa ferita, ma sono qui per prendere un libro e non voglio stare tutto il pomeriggio in una biblioteca a parlare con la mia ex fidanzata di otto anni fa».
   «Molto comodo ricordarti che eravamo fidanzati dopo avermi presa per il culo».
   Con questo si entrava in una fase di stallo. Lui aveva ragione, io avevo ragione. Per uscirne uno doveva cedere, o trovare una scappatoia diversa dal mettersi a litigare com'era successo al Barrel.
   Controllai l'orologio. La lezione di fotografia sarebbe iniziata da lì a mezz'ora, e più il termine si avvicinava più mi rendevo conto di non volerci andare. Era l'apoteosi dell'infantilità iniziare ad evitare Hamilton, ma era più semplice che fingere indifferenza. O affrontarlo, alternativa che era, per ora, alla posizione numero centodue della lista delle centro cose da fare prima di morire, tenendo conto che morire era la centunesima.
   Se fossi tornata a casa avrei dovuto dare spiegazioni. Se fossi andata da Darcey avrei dovuto dare spiegazioni.
   «Se ti offrissi una birra?» mi uscì.
   Se fossi andata a bere birra con un ex fidanzato all'oscuro di tutto ciò che mi riguardava e privo di qualsiasi contatto col resto della mia vita, non avrei dovuto rendere conto di niente a nessuno. Tranne al mio buon senso, ma quello potevo tenerlo a bada.
   «Mi stai chiedendo di uscire con te, Cameron?» scherzò lui, sebbene ci fosse un che di insinuatorio nella sua voce.
   «Non essere noioso» lo ammonii sarcastica.
   Lui ridacchiò e osservò per qualche istante la copertina del libro che teneva in mano, poi rialzò gli occhi su di me.
   «Una birra, eh?».
Scusate l'immenso ritardo >_< Vorrei darvi la mia parola che non accadrà di nuovo, ma preferisco non fare promesse che potrei non riuscire a mantenere. Il fatto è che sono bloccata da settimane su uno stesso capitolo, che solo ieri sono riuscita finalmente a mandare avanti; non volevo rischiare di pubblicare questo capitolo e poi farvi aspettare magari più di un mese per il successivo, così ho pensato di distribuire le pubblicazioni in modo da avere un ritardo minore. Se mi dite che preferite un aggiornamento regolare ed eventuali buchi di un mese e mezzo farò come volete, a me non fa differenza. 
Per chiudere ci tengo a ringraziare tutti i nuovi arrivati, che di recente hanno iniziato a leggere la mia storia, e le vecchie conoscenze che seguono TRS da quando è uscito il prologo. Se tra di voi c'è qualcuno intenzionato a lasciarmi un commento ne sarei molto felice ^_^ ma come al solito è una scelta vostra (se non recensite vengo in casa vostra e vi brucio tutta la collezione Harmony. So che ce li avete, non mentite).
Alla prossima!

Lunga vita e prosperità,
Astrid

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Capitolo 10
*** Never Have I Ever ***


Capitolo 8
Never Have I Ever

L'uomo ragionevole si adatta al mondo; l'irragionevole insiste nel tentare di adattare il mondo a sé. Quindi, ogni progresso dipende dall'uomo irragionevole.
-G. B. Shaw

   Forse non era stata una grande idea portarlo al Kitty's. Il rischio di incontrare uno dei miei amici era relativo – non ci andava quasi mai nessuno nel pomeriggio – ma se ero davvero così sfigata come l'universo cercava di dimostrarmi non era da escludere che, proprio quella volta, sarebbe comparso un volto – con un paio di occhi, purtroppo – conosciuto.
   Fatto stava che quel locale era uno dei più distanti dalla galleria fotografica, dettaglio che abbassava quasi a zero la possibilità che apparisse Hamilton.
  «Una rissa di strada, eh?» domandai retorica, osservando Ian da sopra il mio bicchiere. «Posso tirare a indovinare chi l'ha scatenata?».
   Sì, c'era sarcasmo nella mia voce.
   «No, non puoi» mi negò lui tranquillamente. «Ma se lo facessi, ti direi che avresti ragione».
  Interessante. Mi aveva impedito di porre la domanda ma non mi aveva rifiutato la risposta. Forse aveva voluto evitare che affermassi ad alta voce la realtà dei fatti. A nessuno piace sentirsi dire “hai fatto a botte perché il tuo migliore amico è un pazzo scatenato”.
   «In quel caso ti chiederei perché ti ostini a stargli dietro».
  «Be', se tu me lo chiedessi non avrei una risposta facile da darti. Ci sono diversi fattori da considerare, e tu non ne capiresti nemmeno uno».
   Viaggiare per ipotesi non era mai stato il mio modo preferito di comunicare. Era il modo più semplice in cui mentire e il più difficile da sostenere, una volta arrivati ad un certo punto. Accatastare un “se” dopo l'altro finiva solo per confondere le idee. Ma interrompere il discorso in favore di un approccio più diretto avrebbe potuto cementare quello spiraglio che Ian mi stava lasciando intravedere.
   In tutta onestà sarei sopravvissuta anche senza conoscere le ragioni malate che spingevano una persona fondamentalmente regolare a prendersi cura di una completamente squilibrata, ma era inutile far mistero della mia innata curiosità. Se poi si trattava di qualcosa in cui ero stata direttamente coinvolta – per quando marginalmente – la mia indiscrezione non faceva che aumentare.
  Se Ian avesse voluto tenere per sé determinati dettagli o anche l'intera faccenda, gli bastava dirlo. Lo avevo avvertito: “non tergiversare”.
   «Se mi dicessi una cosa del genere mi infastidirebbe, perché tu non hai idea di cosa io posso o non posso capire. Perciò, se fosse quella l'unica cosa a frenarti dal concedermi qualche spiegazione, non avresti scuse plausibili».
   Il mio sorriso spuntò all'improvviso ed era falso come le banconote da tre dollari, uno di quelli che prenderesti a schiaffi senza nemmeno pensarci.
   «Quindi se io ti decessi che per me è come un fratello, che lui è stato presente quando il mio vero fratello è morto e che se ha preso la strada sbagliata è solo perché io non gli ho impedito di prenderla dopo che suo padre si è suicidato, mi diresti che lo capiresti?».
   Oh.
   Insomma... oh.
  Non avrei mai immaginato che in quegli otto anni le cose per lui fossero cambiate così tanto. A dire il vero, non avrei mai immaginato che suo fratello fosse morto. Più precisamente ancora, nonostante la relazione tra me ed Ian, non avevo mai conosciuto suo fratello, né da quanto ne sapevo erano particolarmente legati. Ma che differenza faceva? Quell'episodio doveva averlo distrutto. Forse potevo davvero capire perché avesse sentito il bisogno di legarsi tanto ad un altra persona.
   Ed ecco il motivo per cui, nonostante la mia curiosità, non insistevo mai troppo se mi veniva detto che qualcosa non mi riguardava. La maggior parte delle volte avrei scoperto cose che avrei preferito non sapere, come in quel momento. Non perché non me ne importasse, ma perché non ero mai stata in grado di far capire agli altri la mia... la mia cosa? Quando mi veniva svelato qualcosa di così personale lo assorbivo, lo metabolizzavo e cercavo di non prendermene carico, ma risultavo quasi del tutto insensibile. Non volevo provare compassione, ma non sapevo esprimere qualcosa che fosse simile al dispiacere.
   Non fosse stato per quelle particolari parole.
   Mio padre aveva cercato di addossarsi la colpa per quando ero quasi morta. E come lui mia zia –“è solo perché ho insistito tanto per farvi venire qua” – e mio cugino - “non avrei dovuto dirti di prendere quella strada”.
   Non sopportavo quando qualcuno si assumeva colpe che non aveva. Non era stato mio padre a sbandare conla macchina, né mia zia né mio cugino.
   Non era stato Ian a preparare la prima striscia di Jordan, ci avrei scommesso la testa. Forse avrei prima dovuto dire “mi dispiace”, ma avevo un'altra urgenza.
   «Gliel'hai comprata tu?» domandai.
   Sapeva esattamente di cosa parlavo.
   «No, ma...».
   Non gli permisi di continuare.
   «Gliel'hai tagliata?».
   «No, ma...».
   «Gli hai trovato lo spacciatore?».
   «Ma che diavolo stai...».
   «Gli hai preparato la siringa, la striscia o qualisiasi cosa usi?».
   «No».
   A quel punto il suo tono era molto più secco. Duro, avrei osato dire. O aveva capito dove volevo arrivare o il solo sentirsi porre quelle domande lo innervosiva.
   «Perciò...».
   Questa volta fu lui ad interrompere me.
   «Avrei potuto fermarlo».
   «Come, legandolo a letto? Ammanettandolo al tuo polso così da tenerlo costantemente sotto controllo? E tutto solo per il sospetto  che magari avrebbe potuto fare la cosa sbagliata?».
   Cameron Grayson, professione: eliminare i sensi di colpa. Forse avevo trovato la mia vocazione.
  «Ero lì, capisci? Ero lì mentre lo faceva» sbottò tirandosi in avanti di scatto, come se la riduzione della distanza avrebbe anche potuto velocizzare i tempi in cui la frase mi fosse arrivata alle orecchie. Era irrequieto. Non arrabbiato, solo... non dovevano essere bei ricordi. Aveva perso un fratello e un altro si stava ditruggendo la vita.
   Sì, capivo bene perché si prendeva tanta cura di Jordan.
   «Mettiamo il caso che lo avessi fermato, poi? La prima volta che tu non fossi stato lì con lui avrebbe detto “no grazie”?».
   Rimase a fissarmi col pugno posato sul piano del tavolo e i denti digrignati, forse cercando di contenere la fiamma che si era accesa dentro di lui.
   Non avrei mai immaginato che saremmo potuti arrivare a quel punto. C'erano mille cose di cui si poteva palare dopo essere stati lontani per tanto tempo, eppure noi stavamo parlando di morte, di droga e di senso di colpa.
   Secondo dopo secondo la sua posa rigida iniziò a rilassarsi, i suoi mucoli ad allentare la tensione. In qualche modo doveva aver capito che non avevo tutti i torti, sebbene mi rendevo conto che sarebbe stato impossibile sradicare le sue convinzioni in due minuti di conversazione.
   «Questo non cambia niente» disse stancamente, appoggiandosi di nuovo allo schienale della sedia. «Avrei potuto farlo, lo so. In un modo o nell'altro avrei potuto convincerlo a non iniziare».
   Oh, ma certo.
  «Come, mostrandogli qualche foto di come si riducono le persone come lui? O magari con un bel documentario? O, perché no, partecipando ad uno di quegli incontri per ex-tossicodipendenti, giusto per fargli capire che si sarebbe solo rovinato intraprendendo quella strada? Oppure, no, ci sono: giocando la carta della fratellanza. Implorandolo di tenere duro perché tu gli saresti stato vicino, e che avrebbe rischiato di perdere anche te se non ti avesse dato ascolto? Anzi, ancora meglio! Dicendogli che tu avresti rischiato di perdere lui, e che se ti voleva bene doveva restare al tuo fianco per combattere insieme. Ora sei tu che non capisci, Ian: tutti sanno a cosa vanno incontro quando si abbandonano ad una dipendenza, di esempi ne è pieno il mondo. Ma nelle loro teste i pro, se così li vogliamo chiamare, superano i contro. Vuoi che si renda conto di quanto può perdere continuando su quella strada? Piantala di fargli da cagnolino».
   La domanda era: da dove mi era uscito tutto quel bel sermone da tutor di comunità di recupero? Semplice: avevo sentito una quantità incredibile di discorsi motivazionali. Quando in ballo c'era la convinzione (più o meno oggettiva) di non essere più in grado di fare qualcosa o di non essere stati abbastanza bravi nel farne un'altra, le carezze di conforto servivano solo a farti sentire più inutile. Quello che ci voleva era una sonora strigliata, di quelle che prenderesti a pugni chi ti sta davanti.
   Ian, però, non sembrava aver voglia di alzare le mani, e questo era un sollievo. In realtà sembrava sbalordito: nessuno gli aveva mai fatto discorsi del genere? Be', se tutte le sue conoscenze avevano un carattere affine al suo probabilmente no.
   «Perché...» esordì, stringendo gli occhi, «perché di tutto quello che ti ho detto ti sei soffermata su questo tanto da prendere le parti della strizzacervelli?».
   Bella domanda.
  Mi strinsi nelle spalle, pensando che, alla fine, ero effettivamente risultata insensibile al lutto che lo aveva colpito, non avendo nemmeno espresso un minimo di solidarietà. Non ne ero capace, non lo ero mai stata. Averi voluto, ma non sapevo farlo.
   «Non hai niente da dire sul fatto che ti ho dato del cagnolino?» tentai, sospettosa della sua assenza di reazioni alla mia critica.
  O se ne infischiava splendidamente del mio parere, o sapeva anche lui di essere più una badante che un amico. O entrambe le cose, ora che ci pensavo.
   «Sono per la libertà di pensiero» ironizzò.
   Non voleva rispondermi. Mentre guardavo il quarto rimasto della mia birra realizzai che c'era una quarta opzione da aggiungere alla lista: la mia affermazione gli aveva dato fastidio ma non voleva darmene la soddisfazione. Ma se pensava che innervosirlo mi avrebbe soddisfatta era proprio un coglione.
   «Sai, dovresti...» continuò.
   «Farmi gli affari miei?» lo anticipai, rialzando lo sguardo su di lui.
   «No, parlare con Jordan».
   Lo ammisi, mi stupì.
   «Neanche per idea».
  «Nessuno gli dice le cose come stanno. Se è sano perché è sano, se é fattoperché è fatto. A meno che lui non ti faccia paura» insinuò con un mezzo sorriso.
   Diavolo, sì che mi faceva paura. Quello poteva prendermi e farmi chissà cosa, a me sarebbero rimaste solo le grida. Ma sospettavo che avrebbe trovato il modo di tapparmi la bocca e che le mie reazioni lo avrebbero solo acceso di più.
   «Da dove ti viene il pensiero che potrebbe non farmi paura?».
   «Non so. Non sei mai stata una piagnona, e hai mantenuto il sangue freddo quando hai capito che eri nei guai a stare con lui».
   Perché le persone associavano sempre il sangue freddo alla mancanza di paura? Era solo istinto di conservazione. Quando pensi di essere in una brutta situazione cerchi di tirartene fuori, punto. O lo fai diventando isterico ottenendo l'effetto contrario, o mantieni la calma e ragioni, che è ben diverso dal non avere paura.
  «L'ho fatto perché se mi fossi fatta prendere dal panico avrei peggiorato le cose, perché avevo capito che il tuo amico era pericoloso. E, ora ti stupirò, di solito le cose pericolose mi fanno paura».
   «Ma riesci ad affrontarle».
   «Non fare lo scarica barile. Posso affrontare il pericolo per salvarmi lapelle, non per levare le castagne dal fuoco ad uno che aspetta di vederle bruciate prima di combinare qualcosa».
   Io ero molto, molto seria, ma dalla sua espressione mi pareva che lui stesse solo giocando.
   «Carina la metafora. Appropriata» disse infatti, ignorando elegantemente la mia ennesima critica. «È il tuo modo per dirmi che te ne lavi le mani, dopo tutto il tuo bel discorso?».
   Ero io o nel suo tono c'era un che di accusatorio?
   «È il mio modo per dire che non ho intenzione di assumermi le tue responabilità».
  Si accigliò, quindi prese un sorso di birra senza perdere la sua espressione. Allora, solo allora, sospirò e tornò a guardarmi dritto negli occhi.
   «Lo so».
  Dovetti fare appello a tutta la mia forza di volontà per non spalancare la bocca come un personaggio dei cartoni animati. Cosa, esattamente, avrebbe dovuto significare “lo so”?
   «Ma per essere una che non vuole assumersi le responsabilità altrui ti sei impegnata non poco a ficcare in naso in affari che non ti riguardano».
   Non che potessi dargli tutti i torti. Mi ero intromessa. Ma era stato lui a parlarmi dei suoi “affari”, non l'avevo costretto a fare niente. Era un po' tardi per ritirare la mano, il sasso lo aveva lanciato e io lo avevo preso al volo. E glielo avevo ributtato addosso.
   «Ho solo fatto delle constatazioni. Sei libero di ignorarle, ma rigirare la frittata non le renderà meno vere».
   Lo scontro si protrasse silenziosamente tramire gli sguardi. Non pretendevo che mi desse ragione, ma lui non poteva pretendere che io ne dessi a lui. A quanto pareva il suo senso di colpa era troppo radicato, il che mi spingeva a chiedere da quanto tempo andasse avanti quella storia. Ma, almeno quella volta, evitai di porre la domanda.
   «Dai, chiedimelo» disse lui improvvisamente.
   Dischiusi le labbra e scossi appena la testa, sorpresa. Aveva...
   «Lo so che vuoi chiedermi perché sono così ostinato».
   ...No, non aveva intuito la mia domanda inespressa.
   «In realtà, no» risposi onesta.
   La sua espressione si fece scettica.
   «Allora posso farti io una domanda?».
   Ahia. Non la vedevo bene. Ma come potevo rifiutarmi?
   «Okay».
   Ian ispirò bruscamente, portandosi avanti con la schiena e appoggiando le braccia al tavolo. La mia ansia non fece che crescere.
   «Hai mai perso qualcuno di importante?».
   Fu il mio turno di ispirare con più enfasi del necessario.
   «No» risposi cauta.
   «No» mi fece eco lui, raddrizzando le spalle.
   «Non vuoi perdere anche lui, lo capisco, ma...».
   Mi interruppe.
   «No, non capisci. Se non hai mai perso nessuno non puoi capirlo. Non importa cosa succede, non vuoi, non puoi perdere qualcun altro».
   Hai mai provato a perdere te stesso?
  Fui sul punto di chiederglielo, ma la domanda non uscì dalla mia bocca né volevo che lo facesse. Non sapevo se lui fosse o no a conoscenza del mio incidente, ma non ne aveva fatto parola ed io non sarei statala prima a tirare fuori l'argomento.
   «Hai ragione» ammisi.
  Ne aveva davvero. Immaginavo cosa sarebbe accaduto se avessi perso mio padre. Avrei fatto di tutto per non permettere che qualcun altro potesse andarsene per sempre, a qualsiasi costo. Ma se il prezzo per non perdere qualcuno era lasciare che lui perdesse sé stesso, non c'era più amore o disperazione nel proprio desiderio. C'era solo egoismo.
   «Quindi tu non vuoi perderlo ma ti va bene che si ammazzi con le sue mani».
   «La fai finita?» sbottò, alzando gli occhi al cielo.
  Non sembrava molto scosso dal mio commento fuori dai denti. Probabilmente lo stavo esasperando più di quanto lo stessi impressionando, e il tono accorato con cui aveva parlato fino a mezzo minuto prima era scompraso, sostituito da un tono, be', esasperato.
   «Come vuoi».
   «Grazie».
   Avevamo smesso da un pezzo di dialogare indirettamente, facendo ipotesi invece che affermazioni, ma quel botta e risposta su cui sembrava che ci stessimo incamminando non mi sembrava molto meglio. In ogni caso, la discussione con Ian era stata un disastro per conto proprio, indipendentemente dalla forma che aveva assunto.
   Picchiettai con l'unghia sul vetro del mio bicchiere, ormai quasi vuoto. Non sembrava che avessimo altro da dirci, ma non capivo se la cosa mi dispiacesse o no. Parlare con lui mi aveva distratta, e questo andava bene, ma se io lo avevo esasperato era anche vero che la sua cocciutaggine aveva esasperato me, e questo non andava bene per niente. Non avevamo cavato un ragno dal buco, ma più che un ragno mi sembrava di aver tentato di tirare fuori un mammut da una caverna, un mammut particolarmente testardo. Ero verbalmente esausta e avevo richiato di farmi infilzare da una di quelle grosse, lunghe zanne più di una volta, metaforicamente parlando.
   «Quand'è, esattamente, che sei diventata una donna così frustrata?» mi domandò Ian all'improvviso.
  Grande, adesso dava la colpa alla mia frustrazione per i pessimi risultati della nostra conversazione. Non alla sua pervicacia, no. Alla mia frustrazione.
   «Dall'altro ieri».
   Be', è vero, ero frustrata. Non c'entrava niente col discorso, ma lo ero. E visto che ero convinta che non fosse la causa della mia ostinazione nel cercare di farlo ragione, probabilmente lo era eccome. L'ho detto che ero stata da uno psicologo: se c'era una cosa che avevo capito dalle sedute era che, quando mi sentivo frustrata, per non pensare ai miei problemi mi concentravo su quegli degli altri.
   Però quello era un pessimo momento per rendersene conto.
   «Posso saperne il motivo?».
   «No».
   «Chiaro. Quindi tu puoi sfiancarmi con la tua insistenza ma io non posso avere una risposta ad una semplice domanda».
   «La vita non è equa».
   Finii la mia birra e appoggiai il bicchiere sul tavolo.
   «Su questo siamo d'accordo» ribatté a sorpresa, alzando il suo bicchiere e muovendolo come per fare un brindisi.
   Anche lui lo svuotò e, quando tornò a guardarmi, stava sorridendo.
   E lo stavo facendo anch'io.
   «D'accordo, vediamo se puoi aiutarmi».
  Non gli avrei spiegato la situazione nei dettagli, ma raccontando a grandi linee la mia frustrante situazione sentimentale forse, e avrei sottolineato il forse, Ian avrebbe potuto offrirmi quello di cui avevo sempre bisogno: un punto di vista diverso. Parlare con Hamilton di mia madre, a suo tempo, mi aveva aiutata. Parlare con Ian di Hamilton poteva essermi d'aiuto di nuovo. Bastava che non mi ritrovassi, per chissà quale motivo, a parlare con mia madre di Ian, tanto per chiudere il cerchio.
  Raccontai dunque sommariamente la mia situazione emotiva, tralasciando il perché mi turbasse così tanto e il come mi ci fossi ritrovata. Naturalmente elisi anche sul soggetto che mi rivolgeva le attenzioni, sebbene dubitavo che Ian potesse aver mai sentito parlare di un dubbio fotografo con la passione per la moda in stile tramp.
   «Sarebbe questo il tuo problema?».
   Quella sfumatura di sarcastico scetticismo non mi piaceva granché.
   «Più o meno, sì».
   «Puttanate».
   Putta...
   «Puttanate?».
   «Sì. E non dirmi che non te ne sei accorta anche tu. Sei una palla al piede, ma non sei stupida. Sai già per conto tuo che le tue sono pure e semplici seghe mentali. O, in altre parole, puttanate».
   Non si poteva dire che, quando voleva, Ian non fosse diretto e conciso.
   Ebbene sì, ero ben cosciente che la mia preoccupazione fosse una puttanata, tanto per citare il nuovo Oscar Wilde. Era infondata e infantile, inutile ed esagerata. Ma ripeterselo era un conto.
   Sentirselo dire un altro.
   «Un applauso al tuo intuito» tagliai corto, ironica. «Ora passiamo almotivo per cui ti ho raccontato queste puttanate. Visto che con tanto acume hai capito che so da me quando stupidi siano i miei crucci, vorresti, di grazia, dirmi qualcosa di utile?».
   «Utile? Va bene: cambiati il pannolino».
   Bastardo di un...
   «Prima o dopo averti autato a cambiare il tuo?».
   L'espressione “guardarsi in cagnesco” non rendeva abbastanza bene l'idea dello sguardo d'odio che ci stavamo lanciando. Questo prima che lui stringesse le labbra e che io fossi costretta a mordermi la lingua per non scoppiare a ridere.
   Inutilmente.
   Per due minuti buoni nessuno dei due riuscì a smettere di ridere; ci bastava alzare lo sguardo e incontrare il volto scosso dalle risate dell'altro e, se stavamo per riprendere fiato, ricominciavamo a sghignazzare fino a esplodere di nuovo, tanto che qualcuno, dai tavoli vicini, aveva iniziato a guardarci con perplessità. Per un attimo sembrò che entrambi fossimo sul punto di darci un taglio, ma poi ci guardammo di nuovo negli occhi e fu inveitabile la ricaduta.
   Dopo anni di silenzio e di separazione, eravamo lì, di nuovo a litigare, come se non fosse trascorso un solo giorno. Come se fossimo ancora i due ragazzi che cercavano di tenere a galla un amore affogato da tempo e che, alla fine, ci aveva trascinati sul fondo con lui. Dopo otto anni in cui avevamo avuto entrambi la nostra dose di drammi distruttivi, in cui entrambi avevamo sofferto ed entrambi eravamo cresciuti, eravamo lì, di nuovo a combattere per avere la meglio l'uno sull'altra senza che ci fosse un reale motivo per farlo.
   Quando finalmente fummo in grado di riprendere fiato le risa si trasformarono in semplici sorrisi, finché non si spendero anche quelli.
  Abbassai lo sguardo e l'occhio mi cadde sul suo orologio da polso. Sbattei le palpebre, convinta di aver visto male, ma era impossibile essere certa di ciò che avevo visto da quell'angolazione. Senza pensarci gli afferai il braccio e lo tirai verso di me per poter avere una visuale migliore: no, non mi ero sbagliata.
   «Per la miseria, è già passata più di un'ora!» esclamai allibita.
   «Felice di saperlo, ora mi ridai la mano?».
  Lasciandi andare il suo braccio senza nemmeno provare a chiedere scusa. Se anche avessi voluto farlo, ero comunque troppo concentrata sul fatto che il tempo fosse passato così in fretta.
   «Devi andare?» mi domandò, nascondendo accuratamente la mano sotto il tavolo.
   «No. A dire il vero non ho assolutamente niente da fare per altri trequarti d'ora pieni».
   Lui ricontrollò l'orologio, osservandolo per diversi secondi.
   «Tu?» mi azzardai a chiedere.
Avevo quarantacinque minuti di vuoto prima di poter tornare a casa e fingere di essere stata al corso per tutto il tempo. Certo, sarei potuta rientrare e inventarmi una scusa per una falsa uscita anticipata, oppure essere onesta e avvalermi dei miei ventisei anni per rivendicare la mia autonomia, ma nel primo caso avrei dovuto mentire apertamente – che era diverso dall'omettere la verità – mentre nell'altro sarei stata oggetto di una delle tediose prediche di Andrew Grayson.
   In poche parole, dovevo occupare il tempo che mi rimaneva in qualche modo e, se Ian se ne fosse andato, avrei difficilmente trovato qualcosa da fare in cui non rischiassi di essere beccata a marinare il corso di fotografia.
   «Non nell'immediato».
   D'altro canto l'dea di continuare a litigare non mi entusiasmava, ma c'era da dire che sembravamo esserci dati una calmata. Se solo avessimo evitato argomenti personali limitandoci alla tipica conversazione tra due vecchi “amici”, le cose sarebbero potute andare molto meglio.
   «Vuoi usarmi come distrazione?».
   Non mi serviva ripercorrere il nostro incontro fino a quel momento per sapere perfettamente di non aver nascosto quel dettaglio. In realtà era strano che ci fosse arrivato solo a quel punto.
   O forse l'aveva intuito anche prima ma non gli importava. Forse mi stava usando nello stesso identico modo.
   «Non eri obbligato a venire, non sei obbligato a restare».
   Ci pensò su per qualche secondo.
   «Quindi non te la prenderesti se me ne andassi?».
   Riuscivo a capire la sua volontà di scaricarmi.
   «No».
   Altri attimi di silenzio.
   «Perciò posso scegliere».
   Che diavolo, gli serviva un contratto siglato in cui sottoscrivevo di non minacciare né mettere in pratica ritorsione alcuna ai danni del contraente?
   «Puoi scegliere» lo assecondai.
   Se se ne voleva andare che si alzasse e la facesse finita, per l'amor del cielo. Eppure sembrava ancora pensieroso.
   Si grattò il mento e le sua fronte si increspò per un rapido istante. Sbattè le palpebre, giunto ad una conclusione.
   «Bene, allora: prossimo argomento?».

 
•●•

   La sincerità ha un prezzo.
  Si può essere sinceri in molti modi, ma in ognuno di essi ciò che riveliamo ha un'effetto imprevedibile sugli altri e su noi stessi. Quando porti alla luce un segreto che a lungo è stato tenuto nascosto. Quando racconti la verità su ciò che hai fatto tu o che ha fatto qualcun altro. Quando ammetti una colpa o dici qualcosa di giusto alla persona sbagliata.
  Qualcuno può rimanerne ferito, nel peggiore dei casi in modo irreparabile. Altre volte, più semplicemente, qualcuno si mette nei casini, tu ti messi nei casini. Oppure succede un vero e proprio disastro e, sebbene ne escano tutti indenni, attraversarlo non è come fare una rilassante passeggiata in spiaggia.
   La sincerità ha un prezzo.
   E quando la sincerità diventa un gioco proposto da Chase Kidman, il prezzo è ritrovarsi semi ubriachi nel giardino di casa di Scott Sawyer.
   L'ultima volta che avevo giocato a Never have I ever era al mio primo anno di college, nell'appartamento fuori sede di una delle mie compagne di corso. Doveva essere un modo divertente per fare un po' più di conoscenza, ma prevedibilmente si era trasformato in un disastro di dimensioni cosmiche, dove ognuno era costretto ad ammettere di aver fatto qualcosa che gli altri non avevano fatto o, al contrario, di non aver mai fatto niente del genere. Quel gioco era il modo peggiore per rivelare qualcosa su di sé che si vorrebbe evitare di dire, ma non aveva senso se non si giocava con sincerità. Per questo, probabilmente, alla base di tutto c'era alcol.
   «Non ho mai... fatto il bagno nudo nel mare».
   L'inizio era leggero. Si diceva qualcosa che non compromettesse la propria immagine perché erano tutti ancora troppo, troppo sobri. Ma erano cose abbastanza banali e trovare qualcuno che le avesse fatte era fin troppo facile.
   Io, per esempio.
   Darcey alzò il bicchiere insieme a me, ma non eravamo le sole: la metà dei presenti sollevò il proprio e lo scolò. La fortuna di essere in tanti ad aver fatto qualcosa che qualcuno non aveva fatto era che nessuno si ritrovava costretto a spiegare il come e il perché. Non che fosse un problema rivelare di aver fatto il bagno nuda nel Tirreno, l'estate in cui Darcey – per festeggiare la mia laurea – mi aveva regalato un viaggio in Italia. Ma non tutte le affermazioni erano così innocenti.
   Dopo Wyatt fu il turno di Micah, ma a preoccupare me era il turno di Chase. Lui avrebbe di certo trovato qualcosa che avessi fatto solo io, qualcosa che mi avrebbe messa in totale imbarazzo dover spiegare, perché sapeva troppe cose di me. Stavo cercando di pensare al mio segreto più profondo e oscuro, qualcosa che lui potesse tirare fuori e che, forse, usando le parole giuste avrei potuto contenere.
   «Non ho mai... usato il preservativo».
  Dopo qualche occhiataccia da parte delle donne presenti, Micah si giustificò dicendo che tutte le sue conquiste prendevano la pillola, ma intanto tutti gli altri ragazzi stavano già bevendo. A ben vedere nessuna di noi femmine aveva mai usato direttamente un preservativo, quindi mi sentivo libera di non bere. Meglio evitare quando possibile.
   «Non ho mai... provato una canna».
   Da Scott me lo aspettavo, in fondo. Non era mai stato interessato a quel genere di cose. Forse anche per questo, a suo tempo, mi era piaciuto tanto, tuttavia mi costrinse a bere di nuovo. Altre riminiscenze del college.
   «Non ho mai... fatto sesso con qualcuno più grande di me».
   Questo, invece, non me lo sarei mai immaginata, ma bevemmo tutti tranne Rhonda, la stessa autrice della confessione.
   «Non ho mai avuto un rapporto sessuale da ubriaco o con qualcuno di ubriaco».
   Non avevo nemmeno avuto il tempo di rendermi conto che era il turno di Chase quando lui aveva parlato. Ma, per una volta, aveva fatto il bravo: solo un paio di persone bevvero, tra cui non io.
   Era però ancora presto per cantare vittoria: nessuno aveva stabilito un numero massimo di giri e dubitavo che, avendo solo quello da fare per tutta la sera, avremmo chiuso baracca e burattini con una sola confessione a testa.
   Un paio di affermazioni dopo era il mio turno, ma non sapevo cosa dire. Mi ero concentrata troppo su cosa non dire, ed ora ero a corto di parole.
  «Non ho mai...» mi ci vollero diversi secondi di pausa prima di trovare qualcosa che non fosse pateticamente ridicolo o eccessivamente personale. «...Portato nessuno nel mio letto».
   Più gente di quanta mi aspettassi si astenne dal bere. Quando vidi Chase buttare giù il proprio bicchiere di Gin il mio sguardo volò immediatamente a Darcey, che invece era immobile e guardava il fratello di traverso. Sì, mi era giunta voce delle avventure di Chase, avvenute esattamente al di là della parete della camera da letto di Darcey.
   Io non avevo mai portato nessun uomo del mio letto, mai. In nessuno dei miei letti. Non nel mio letto a casa, non in quello del mio alloggio al campus, non in quello della casa a Montréal, non in quelli degli alberghi italiani. Il posto dove dormivo era territorio sacro, per me.
   Le bottiglie piene di fronte a noi erano ancora tre, più una svuotata solo a metà. Mancava ancora molto alla fine del gioco, ne ero certa. E c'erano ancora troppe cose che almeno uno di noi non aveva fatto e io invece sì. Ma contavo sulla mia naturale propensione a non fare mai niente di troppo audace per sopravvivere alla serata senza finire ubriaca fradicia.
   Nonostante questo, a metà del terzo giro la testa mi girava abbastanza da aver bisogno che le cose mi venissero ripetute un paio di volte, ma a quel punto mancava solo un'ultima bottiglia.
   Ed era il turno di Chase.
   «Non ho mai avuto un rapporto con qualcuno del mio stesso sesso».
   Propendevo a non fare mai niente di troppo audace.
   Ma non significava che non avessi mai fatto niente di azzardato.
   «Sei un bastardo».
   Non potei trattenermi dal dirlo prima di prendere il mio bicchiere e bere. Da sola.
  Com'era prevedibile si levò un'ondata di risate sorprese e commenti increduli. Tutti volevano sapere come, quando e perché era avvenuto il fatto. Eh, be', ero costretta a rispondere, essendo stata l'unica persona a bere. Non ce l'avrei mai fatta se non fossi stata sufficientemente brilla, ma non sapevo se esserlo fosse una fortuna o una sfortuna.
   «E va bene» mi arresi, tediata dalle continue richieste di spiegazioni.
   Non mi restava che lanciarmi nel racconto, cercando quanto meno dievitare i dettagli.
   «Era l'estate del diploma, eravamo in vacanza a Daytona...».
   «C'ero anch'io a quella vacanza!» si intromise Scott.
  Sì, c'era. Ma cosa si era aspettato, che avrei raccontato la mia esperienza a chiunque fosse stato lì con me? L'avevo rivelata a Darcey ed era stata solo una sfortunata serie di eventi a portare Chase a conoscere la storia, ma di certo non avrei riunito il gruppo di fronte a un fuoco in spiaggia per rendere pubblico il mio momento saffico.
   «Sta zitto un po' Scotty» lo riprese Wyatt, che tra tutti sembrava il più interessato.
   Ripresi il discorso.
   «Insomma, c'era questa compagnia di Floridesi con cui abbiamo stretto amicizia, tra cui una ragazza gay. Mi era solo stato riferito da un suo amico che le piacevo, ma la cosa non mi interessava. O almeno credevo. Lei era gentile, era persuasiva, e io ero appena stata scaricata da Ward per un'altra ragazza mentre i miei stavano divorziando. Sapete no? Una cosa tira l'altra e...».
   «E?» mi esortò Wyatt.
   «E nemmeno un litro di alcol potrebbe mai farmi continuare. Avete avuto la vostra risposta».
   Si levarono sentite proteste da una buona parte del gruppo, mentre Chase rideva e Darcey si asteneva dai commenti.
   A giungere in mio soccorso fu Nathaniel che, avendo il turno dopo Chase, richiamò l'attenzione iniziando la sua confessione.
   «Non ho mai...».
   Tutti si zittirono e si concentrarono su di lui. Ormai era più di un mese che abitava ad Hastings, ma rimaneva pur sempre “quello nuovo”, e qualsiasi informazione o novità su di lui risultava fortunatamente più interessante delle mie sepolte esperienze.
   «Non ho mai chiesto perdono ad una persona a cui ho fatto un torto gravissimo».
   Che strana affermazione. Bevemmo tutti – a quanto pareva avevamo tutti combinato qualcosa di grave, ma se non altro avevamo chiesto scusa – senza staccargli gli occhi di dosso, in assoluto silenzio. La sua non era il genere di confessione per quel tipo di gioco. Non che ci fossero delle regole scritte per la moderazione degli argomenti da trattare, ma esisteva una specie di convenzione per la quale, quando svelavi di non aver mai fatto qualcosa, quella cosa doveva essere imbarazzante per te o per gli altri. Non che non aver chiesto scusa dopo aver fatto del male a qualcuno fosse qualcosa di cui andare fieri, ma era qualcosa di... fin troppo personale. Non era una cosa su cui, alla fine, ci si potesse scherzare sopra. Infatti nessuno scherzò, rise o accennò anche solo vagamente a chiedere spiegazioni, sebbene non ne avesse diritto nemmeno secondo una delle poche regole del gioco.
   «Non ho mai fatto sesso in macchina!» esclamò Jaena all'improvviso, per ridistendere l'atmosfera che si era improvvisamente tesa.
  La reazione di tutti fu istantanea: qualcuno bevve – io no – e appena posato il bicchiere domandò come fosse possibile che qualcuno non avesse mai provato l'ebrezza del sesso nell'abitacolo di un auto. A detta loro era “molto intimo”. Io l'avevo sempre immaginato solo molto scomodo, a meno che non avevi una macchina spaziosa a disposizione. Ma fare sesso su una monovolume familiare suonava incredibilmente male.
   Quando finimmo eravamo tutti brilli, ma nessuno davvero ubriaco. Eccetto Wyatt, che a quanto pareva aveva fatto la stragrande maggioranza delle cose che erano state confessate. Non era un problema, visto che restavamo tutti a dormire da Scott, ma trascinare Wyatt fino alla camera da letto del padrone di casa richiese l'intervento di ben tre persone.
   Il resto di noi avrebbe dormito in salotto, chi sul divano chi sui materassini gonfiabili, chi su due strati di sacchi a pelo chi direttamente sul tappeto munito solo di un cuscino e una coperta. Io guadagnai uno dei materassini buttandomici sopra di slancio quando tutti rientrammo in casa di corsa per accaparrarci il posto migliore. Quando, ognuno sdraiato al proprio posto, sentii Rhonda lamentarsi del secondo matrimonio di sua madre con un uomo della metà dei suoi anni, mi tornò improvvisamente in mente la mia conversazione di quel primo pomeriggio con Doug. Gli avevo promesso che avrei tentato di convincere qualcun altro a partecipare alle sue nozze. Tanto valeva introdurre l'argomento in quel momento.
   «Vi ricordate Doug? Bassetto, capelli biondi, aria perennemente persa in un altro mondo... be', è diventato più alto e sta per sposarsi. Siete tutti invitati al matrimonio!».
   Va bene, forse quello non era esattamente introdurre il discorso. Mi aspettai il sollevarsi di un repentino coro di proteste, ma in realtà nessuno aveva capito chi fosse Doug. Ci sarebbe voluto molto più lavoro del previsto, ma mi addormentai mentre pensavo a come fargli ricordare chi fosse Doug Peters.
A dispetto della probabile convinzione di molti di voi, sono ancora viva. E sì, sono sparita per quasi un mese, cosa per cui vi chiedo umilmente perdono. Il lato positivo è che nel mio periodo di silenzio sono riuscita a definire interamente la trama e ho fatto alcune modifiche che hanno accorciato la lunghezza della storia. Vi avevo informati che avrei superato i quaranta capitoli, e così era secondo l'idea originale, ma riguardando il tutto mi sono resa conto che la storia sarebbe proceduta in modo troppo lento. Così ho tagliato di qua e di là, ho specificato questo e quel dettaglio ancora in sospeso e ho diviso la trama capitolo per capitolo. Il risultato è che la storia sarà composta di un totale di ventisette capitoli, ed il rating rimarrà fermo all'arancione. Per un capitolo in particolare ho in realtà dei dubbi, ma quando arriverà il momento ci penserò. 
Intanto vi dico anche che domani andrò in vacanza, quindi a chiunque vorrà lasciarmi una recensione risponderò domenica prossima. Per ora vi lascio, ringraziandovi di essere tornati qui per leggere anche questo capitolo e ringraziando anche chiunque sia appena arrivato e, magari, abbia trovato in The Random Story un racconto che valga la pena di seguire. 

Lunga vita e prosperità,
Astrid

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