Crazy Little Thing Called Love

di Sissi Bennett
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Make a change! ***
Capitolo 2: *** The bitch is back ***
Capitolo 3: *** Dirty Dance ***
Capitolo 4: *** By the light of the Moon ***
Capitolo 5: *** The hot teacher ***
Capitolo 6: *** Team Bonnie ***
Capitolo 7: *** A gentleman doesn't kiss and tell ***
Capitolo 8: *** The Pumpkin King ***
Capitolo 9: *** Awkward ***
Capitolo 10: *** The english stranger ***
Capitolo 11: *** Blame it on the alcohol ***
Capitolo 12: *** The hangover ***
Capitolo 13: *** Road to Debussy ***
Capitolo 14: *** Happy Birtheve ***
Capitolo 15: *** Slutherine's day ***
Capitolo 16: *** All Damon's women ***
Capitolo 17: *** Baby steps ***
Capitolo 18: *** The ugly truth ***
Capitolo 19: *** Caroline does it so much better ***
Capitolo 20: *** Daddy issue ***
Capitolo 21: *** Family business ***
Capitolo 22: *** Game on ***
Capitolo 23: *** This is what it feels like ***
Capitolo 24: *** La belle et la bête ***
Capitolo 25: *** It's too cliché, I won't say I'm in love ***
Capitolo 26: *** The farewell waltz ***
Capitolo 27: *** Goodbye to Sandra Dee ***
Capitolo 28: *** Eventually ***



Capitolo 1
*** Make a change! ***


Crazy Little Thing Called Love

Capitolo uno: Make a change!

 

“And I’ve been a fool and I’ve been blind
I can never leave the past behind
I can see no way, I can see no way
I’m always dragging that horse around

Tonight I’m gonna bury that horse in the ground
So I like to keep my issues strong
But it’s always darkest before the dawn

Shake it out, shake it out, shake it out

And it’s hard to dance with a devil on your back
So shake him off”

(Shake it out- Florence and The Machine).

Tornare a Fell’s Church dopo un mese trascorso a girare per la Spagna era stata per me, Bonnie McCullough, un’esperienza tutt’altro che piacevole; e a dirla tutta ne avrei fatto volentieri a meno.

Era stata una bella vacanza; uno stacco dalla solita vita. Per un mese intero  non ero stata classificata solo come ‘quella dai capelli rossi’, non ero rimasta all’ombra delle mie amiche. In Spagna, lontano da casa, ero finalmente riuscita a trasformarmi in una persona diversa, più sicura di me, meno ansiosa di ciò che pensavano gli altri.

Ma qui a Fell’s Church tutto sarebbe tornato come prima; sarei stata Bonnie, l’amica di questo o di quella, sarei stata solo la ragazza dai capelli rosso fuoco.

In fondo non mi era mai pesato molto; dopotutto avevo delle amiche fantastiche, che mi conoscevano per quella che ero veramente e non giudicavano.

In tanti si erano chiesti che diamine avessi di speciale per fare parte del gruppo di ragazze più popolari e benvolute della città.

Ero carina, ma non bella; simpatica, ma non propriamente uno spasso; intelligente, ma non un genio. Una ragazza totalmente ordinaria.

E questo provocava l’antipatia di tutte le altre che erano rimaste escluse dalle luci della fama. Il che era davvero strano, perché di me si sarebbe potuto dire di tutto tranne che fossi antipatica. Cercavo sempre di essere gentile con tutti e disponibile. Ero di una bontà disarmante.

Forse la mia amicizia con Stefan Salvatore non era molto di aiuto. Insomma, immaginate se nella vostra piccola città ci fosse stata una ragazza totalmente comune, apparentemente senza alcun merito, cui però era permesso di essere in confidenza con i più belli e popolari del liceo. La domanda sarebbe sorta spontanea: che diamine ha quella lì di tanto speciale che io non ho?

Non ero in grado di rispondere perché non lo sapevo neanche io. In realtà ero tutto fuorché speciale dal mio punto di vista; eppure ero stata così fortunata.

Stefan era un bel ragazzo, riservato ed educato, che con il suo fare misterioso e sfuggente aveva fatto battere il cuore a molte ragazze, ma solo in poche erano riuscite a conquistare il suo; anzi forse soltanto una avrebbe potuto arrogarsene il merito: Elena Gilbert, la cui bellezza folgorava chiunque.

Conoscevo Stefan da tutta la vita ed era stato inevitabile diventare amici. Avevamo la stessa età, eravamo vicini di casa, entrambi avevamo perso la mamma da piccoli. Eravamo cresciuti insieme, aiutandoci a vicenda, facendoci da spalla, supportandoci nei momenti di difficoltà.

Neanche mi ricordavo quando avessimo iniziato a considerarci quasi come fratello e sorella; era accaduto e basta. Tutto così naturale e spontaneo, come se fossimo stati destinati a divenire così intimi.

Non ci eravamo visti per un mese intero e non era mai successo. Di solito facevamo tutti le vacanze insieme; non eravamo abituati a stare così lontano.

L’unico mio pensiero, appena finiti di disfare la mia valigia, fu quello di attraversare la strada, fiondarmi a casa sua e abbracciarlo fino a soffocarlo.

“Mary” urlai a mia sorella “Vado da Stefan”.

Mary bofonchiò qualcosa in risposta che io non recepii. Uscii e andai dall’altra parte della via, trovandomi subito sotto il portico di casa Salvatore.

Aprii la porta con il duplicato delle chiavi che il mio amico mi aveva dato qualche anno prima per le emergenze.

“Stefan” chiamai.

Non ci fu risposta.

Proseguii su per le scale. Ero certa che il signor Giuseppe Salvatore non ci fosse; a quell’ora doveva essere al lavoro. Sperai di avere la stessa fortuna con Damon, il fratello maggiore di Stefan.

Non ero mai andata molto d’accordo con quel ragazzo, nemmeno quando eravamo bambini. Damon era bellissimo e questo era innegabile. Di una bellezza disumana, quasi irreale. Ma era anche egoista, arrogante, opportunista, donnaiolo, sfacciato e troppo sicuro di se stesso e aveva l’innata capacità di farmi venire i nervi a fior di pelle con una sola occhiata.

Sapeva di avere un certo ascendente sulle persone, in particolare sulle donne, e se ne approfittava senza ritegno.

Ogni ragazza che contava a Fell’s Church era passata per il suo letto; tranne Elena. Damon aveva un debole per lei, da sempre. Il costante rifiuto della ragazza non faceva altro che alimentare la sua fissazione.

“Stefan! C’è nessuno in casa?”.

Mi sentii improvvisamente sollevare da dietro e urlai d’istinto. Quando ritoccai terra, feci qualche passo avanti e mi girai.

“Stef!” boccheggiai “Volevi farmi venire un infarto?!”.

Il ragazzo non  mi ascoltò nemmeno e mi riabbracciò, sollevandomi di nuovo “Sei tornata finalmente!” esclamò facendomi fare un mezzo giro “Fatti un po’ vedere” mi disse “Ti sei fatta riccia?”.

“Sì” confermai toccandomi i capelli con un sorrisino soddisfatto “Ti piacciono?”.

“Stai molto bene” mi squadrò da capo a piedi “Hai fatto qualcos’altro, sembri più … più …”.

“Tonica? Allenata? Tutta colpa di Caroline” spiegai “Mi faceva svegliare tutte le mattine alle sette per andare a correre sulla spiaggia. Uno strazio” mi lamentai.

“Sei in gran forma, Bonnie” si complimentò “Farai girare la testa a tutti i ragazzi quest’anno” e strizzò l’occhio.

“Ma smettila!” gli tirai uno schiaffetto sulla spalle e mi buttai sul letto “Dimmi di te piuttosto, com’è andata al campo estivo per il football con Matt?”.

“Alla grande” rispose stendendosi accanto a me “Il posto era completamente immerso nel verde, ho conosciuto un sacco di gente e soprattutto sono stato lontano da Damon”.

“Va ancora così male con lui?”.

“Ora va anche peggio”.

Sapevo perfettamente a cosa si riferiva: Damon non aveva accettato la storia del fratello con Elena e questo non aveva avuto altro risultato che aumentare la tensione tra loro. Da che ricordassi i due non erano mai andati molto d’accordo; non certo per volere di Stefan, che aveva sempre fatto di tutto per non scontentare il fratello, specialmente durante gli anni dell’infanzia. Stefan cercava di stargli alla larga, di non dargli noia, di recuperare il loro rapporto, ma Damon aveva sempre e solo un obiettivo: tormentarlo. Lo accusava infatti della morte della madre, deceduta poco dopo aver dato alla luce il figlio più giovane, per delle complicazione post-parto. Aveva covato questo rancore nei confronti del suo fratellino ed era cresciuto nel corso degli anni allontanandoli uno dall’altro. Senza contare, poi, che, mentre Stefan sembrava incarnare l’essenza del figlio perfetto, Damon risultava sempre una delusione su tutti i fronti; cosa che il padre non dimenticava di sottolineare ogni volta che ne aveva occasione.

Stefan avrebbe pagato vagonate d’oro per cambiare la sua situazione, per farsi accettare dal fratello, ma era ben consapevole che Damon non lo avrebbe mai perdonato; e ne soffriva senza trovare pace.

Gli posai una mano sul braccio “Vedrai che prima o poi la smetterà”.

“No Bonnie, mi odia”affermò “Ma ormai ci sono abituato” e sorrise tristemente “Non voglio annoiarti con i solito discorsi. Dai, parlami della Spagna”.

Passammo così le due ore successive, a raccontarci le nostre rispettive estati, a ridere e a scherzare; almeno fino a che il rombo di quella che sembrava una macchina da corsa non ci interruppe bruscamente.

Io guardai stranita fuori dalla finestra e Stefan m’imitò. Una Ferrai nera luccicante stava percorrendo la via. Ma di chi poteva essere?

Il mio stupore crebbe ancor più quando la vidi fermarsi davanti a casa Salvatore e parcheggiare nel vialetto d’ingresso.

“E’ di Damon” spiegò Stefan quasi avesse letto i miei pensieri.

“E quando l’ha presa???”.

“Qualche giorno dopo la tua partenza. Papà era furioso! Credo si sia pentito di avergli cointestato il conto in banca” ridacchiò Stefan.

“Tuo fratello è completamente fuori dal mondo” commentai sempre più sbalordita. La famiglia Salvatore era ricca e lo sapevano tutti, ma viveva in un quartiere normalissimo, in una casa normalissima che non faceva sfoggio di nessuno sfarzo. Era una famiglia che preferiva mantenere un profilo basso, anche se avrebbe potuto permettersi i lussi più sfrenati. Ma Damon era un caso a parte.

“Credo fosse geloso del fatto che io guidi una Jaguar” ipotizzò Stefan.

“Sì ma è della tua famiglia!” replicai io “Non hai speso una fortuna per un capriccio”.

“Ma papà l’ha data a me e non a lui” precisò il mio amico “Sai che smacco per il suo ego! Battuto un’altra volta da suo insignificante e odioso fratellino”.

“Tu non sei né odioso né insignificante” ribattei “Se lui la smettesse di fare lo spaccone, forse tuo padre non lo tratterebbe come uno stupido incapace”.

“Oh Bonnie, ti assicuro che Damon è ben lontano da essere uno stupido incapace” lo difese Stefan.

“Hai ragione; è peggio!”.

Stefan rise di gusto e andò a prendere il cellulare che aveva preso a vibrare insistentemente. “E’ Elena” disse.

“Rispondi”.

Stefan rifiutò la chiamata e prese a guardarmi seriamente “Non te l’ho mai chiesto e credo che sia il momento di farlo” incominciò facendomi un po’ preoccupare “Ti dà fastidio che io mi sia messo con la tua migliore amica?”.

Un paio di secondi e io scoppiai a ridere tenendomi la pancia “N-no” pronunciai tra una risata e l’altra “Stefan, siete due persone meravigliose e meritare di stare insieme più di chiunque altro” questa era una chiara allusione a Damon “Sono strafelice che vi siate trovati, davvero” lo rassicurai “E adesso richiamala, perché se la conosco si starà facendo un mucchio di paranoie sul perché non le hai risposto”.

“Te l’ho già detto che sei la ragazza migliore del mondo?” mi disse baciandomi sulla fronte con fare fraterno.

“Lo so” scherzai. Lo salutai con un gesto della mano, uscì dalla sua camera e scesi le scale. 

Raggiunsi l’ultimo gradino e mi bloccai all’ingresso: la porta di casa si stava aprendo. Per un momento considerai l’idea di nascondermi da qualche parte o di ritornare di corsa in camera di Stefan e rinchiudermi dentro finché la via non fosse stata libera, ma non ebbi nemmeno il tempo di mettere in atto nessuno dei due piani. Ero letteralmente in mezzo all’entrata, in piena vista e la porta ormai era completamente spalancata. Lui mi aveva già beccata e io non avevo possibilità di svignarmela.

Richiuse la porta con un semplice gesto del polso. Come al solito era vestito di nero, portava sempre abiti neri o per lo meno molto scuri. Era un po’ abbronzato; non molto dato la carnagione bianchissima, ma quel colore dorato gli donava parecchio. Lo osservai togliersi gli occhiali da sole e il giubbotto di pelle. Fuori c’erano quaranta gradi all’ombra, ma pur di apparire superfigo si sarebbe sciolto al sole. Probabilmente nel tragitto verso casa aveva fatto svenire metà della popolazione femminile di Fell’s Church, la metà cui era permesso di uscire dopo le sei di sera.

Alzai il mento con fare altezzoso e lo superai salutandolo con un freddo “Ciao Damon” e lui mi rispose con lo stesso identico tono “Bon Bon”.

Damon Salvatore aveva coniato un’innumerevole sfilza di soprannomi appositamente per me, uno più idiota dell’altro. Andavano dal più sopportabile ‘Bon Bon’ al denigrante e canzonatorio ‘Uccellino’.

Uccellino. Poteva apparire come un nomignolo dolce e affettuoso, ma le sfumature che gli aveva conferito Damon erano di natura ben peggiore. Perché io ero fragile e fastidiosa come gli uccellini che cantavano al mattino svegliando la sua regale persona!

Avevo quasi raggiunto la porta e stavo per uscire trionfante, quando la sua voce pronunciò con una nota derisoria “Cosa cavolo hai fatto ai capelli?!”.

Mi voltai e lo guardai stranita “Si chiama permanente, Damon”.

“Somiglia a quelle parrucche rosse che usano i clown” sentenziò tra una risata e l’altra.

“Nessuno ha chiesto il tuo parere” replicai.

Damon ghignò alzando le spalle “Senza offesa. Lo dicevo per te, ma se preferisci andare in giro come una che ha messo le dita nella presa della corrente, fa’ pure”.

“Quanto sei idiota” commentai indispettita marciando fuori di casa.

Lo odiavo, lo odiavo, lo odiavo!

C’era stato un tempo in cui aveva cercato di farmelo piacere: non volevo stringerci amicizia, ma almeno provare ad avere un rapporto civile. Ma con Damon Salvatore non esistevano le vie di mezzo: o tutto o niente, o odio o amore.

No, forse odio era una parola troppo forte. Io non ero certo capace di provare un sentimento così forte e netto nei confronti di qualcuno.

Più che altro non sopportavo il suo modo di fare da “sono il più figo del pianeta e tu sei soltanto uno sgorbio che non merita la mia attenzione”.

Da che potessi ricordare non aveva mai avuto molto rispetto nei miei confronti; mi considerava solo una bambina, fastidiosa e sprovveduta, una che non poteva prendersi cura di se stessa, un’inetta in tutto. Era la migliore amica del suo odiato fratello e questo bastava per disonorarmi.

Il grande difetto di Damon era la sua immensa superbia. A volte mi stupivo di come la sua testa non venisse schiacciata dal suo enorme ego. Si riteneva dieci gradini sopra tutti e se, per un malaugurato caso, decideva che qualcuno non era degno della sua compagnia, non si abbassava nemmeno a fare un saluto.

Avrei preferito di gran lunga essere ignorata come tanti altri, ma il mio legame con Stefan, il fatto che fossimo vicini, che i nostri padri fossero amici, tutto ciò ci obbligava a stare a contatto.

Comunque dovevo ammettere che i nostri rapporti erano parecchio migliorati da quando Damon si era diplomato. A scuola mi aveva fatto piangere quasi ogni settimana; trovava sempre un modo per imbarazzarmi davanti a tutti. Di norma non era un tipo gentile, ma sembrava sfogare tutta la sua rabbia su Stefan e la sua arroganza su di me, per cui si era prodigato con particolare cura a rendere il nostro primo anno un inferno. Poi finalmente la sua esperienza liceale si era conclusa (con gran sollievo degli insegnanti) ed era arrivata l’università. Si era trasferito a Dalcrest* e ritornava raramente a casa. Forse la lontananza dal padre oppressivo o dal fratello perfetto, forse l’incontro con una nuova realtà; non so dire di preciso che cosa avesse causato il suo cambiamento, ero solamente certa che fosse maturato.

Rimaneva sempre il solito spaccone, a tratti maleducato, ma almeno aveva smesso di torturarmi. Io stessa ero cresciuta, ero diventata meno impressionabile e capitava che gli tenessi perfino testa. Non era più così facile portarmi sull’orlo delle lacrime.

In definitiva potevo affermare che il nostro rapporto si basava più che altro sulla sopportazione forzata. Non eravamo amici e mai lo saremo diventati. Ognuno dei due avrebbe proseguito per la sua strada e non ci saremmo mancati; e se dopo vent’anni ci fossimo incontrati di nuovo, ci saremmo salutati cordialmente e niente di più.

Perché io e Damon Salvatore eravamo due anime incompatibili. Costretti dalle circostanze a condividere una parte della nostra vita e più che felici di separarci definitivamente quando sarebbe giunto il momento.

Io amavo** e rispettavo un solo Salvatore e Damon ne era decisamente l’opposto.

 

Me ne stavo semistesa sul dondolo che avevamo in veranda. Risi ironicamente.

Il dondolo in veranda. Che cliché. Se ne vedeva almeno uno in ogni serie tv americana. Gettando un’occhiata intorno ci si rendeva conto che tutta la via rispecchiava l’essenza della famiglia media americana: casette con il portico, vialetto d’ingresso, giardinetto retrostante, strade tranquille che ad Halloween si riempivano di zucche intagliate.

Era fine estate, la scuola sarebbe ricominciata in pochi giorni e volevo godermi gli ultimi momenti di pace. Mia sorella e mio padre stavano litigando come al solito.

A Mary mancavano pochi esami per ottenere la sua laurea in infermeria  e aveva deciso di trasferirsi in un piccolo appartamento preso in affitto con il suo fidanzato.

Papà aveva dato ovviamente di matto. Da quando nostra madre ci aveva lasciato, lui aveva fatto il possibile per crescerci al meglio e per colmare quella mancanza; d’altra parte si era talmente attaccato a noi da non riuscire nemmeno ad immaginare che un giorno che ne saremmo andate.

In realtà il problema per me non sussisteva nemmeno: mi piaceva Fell’s Church, era casa mia, era il mio guscio protettivo. Mi lamentavo spesso di quanto le persone fossero provinciali, di come avrei voluto essere guardata in modo diverso, ma in fondo al mio cuore avevo una paura matta di lasciare il luogo in cui ero nata e cresciuta.

Ormai mi ero troppo abituata al ruolo di Bonnie la brava ragazza, mi trasmetteva una sicurezza confortante. Qui avevo delle amiche, una famiglia, avevo Stefan e potevo anche fregarmene dell’opinione di tutti gli altri; ma là fuori? Come sarebbe stato?

Non credevo che sarei riuscita ad essere qualcosa di diverso. Quel mese in Spagna era stata una specie di prova, ma si era trattato di poco tempo. Cosa ne sarebbe stato davvero della mia vita una volta finita la mia adolescenza?

Le mie amiche avevano tutto dei piani, più o meno realizzabili: Meredith avrebbe fatto domanda ad Harvard, Caroline voleva trasferirsi a Los Angeles per una carriera da modella, Elena probabilmente avrebbe seguito Stefan a New York e sarebbe diventata dirigente di qualche azienda. Lei era forte e decisa; ce la vedevo proprio a comandare a bacchetta delle povere stagiste.

Io al contrario non ne avevo la più pallida idea. Quasi certamente sarei finita in un college di serie B e avrei trovato un lavoro mediocre a Fell’s Church. Non ero un tipo ambizioso; avevo una visione più romantica della vita: un matrimonio, dei figli, un cane. Eppure … eppure sentivo che mancava qualcosa. Avevo solo un anno di tempo per capire che cosa fosse e mi pareva pochissimo tempo.

Abbandonai la testa sul cuscino dietro di me. La porta di casa si aprì e uscì papà sbuffando. Si appoggiò contro il muro con fare esasperato.

“Tu sei sempre stata più semplice da gestire” commentò.

Certo, pensai amaramente, io dico sempre di sì.

“Dovresti lasciarla andare, sai” gli consigliai piegando le gambe per fargli posto sul dondolo.

Lui si voltò verso di me fulminandomi “Due contro uno non vale”.

“E’ grande papà, ha quasi ventitre anni. Studia e ha già cominciato un apprendistato; praticamente si mantiene da sola. Non sta andando a vivere con uno sconosciuto, ma con Alec e lo conosci da anni. Non mi sembra tanto male come prospettiva”.

“Da quando sei tu a dare consigli a me?!” chiese incredulo “Stai crescendo anche tu, gattina?”.

Gattina. Uccellino. Avrei tanto voluto sapere perché la gente si divertiva tanto a darmi quei nomignoli; mi facevano sentire ancora più piccola di quanto già non fossi.

“Sì, papà, capita anche a me” risposi “Ho diciott’anni”.

“Ne hai diciassette e sette mesi***. Non barare” precisò lui “E comunque ci devo pensare, non posso cacciare tua sorella fuori di casa da un giorno all’altro”.

“In realtà non la stai cacciando, è lei che se ne vuole andare” gli feci notare con un sorrisino furbo.

“Non starò a discuterne con te” ribadì mio padre “Piuttosto, che ne dici di raccontarmi com’è andata in Spagna. Non ne hai ancora fatta parola”.

“Bene. E’ molto diverso da qui … i loro orari sono pazzeschi”. Era stato abbastanza destabilizzante abituarsi a mangiare alle undici tutte le sere. Negli Stati Uniti cenare alle sette era considerato già tardi.

“E ti sei divertita?”.

“Certo! Ero con le mie migliore amiche … non potevo chiedere di meglio” confermai.

“Tutto qui? Non c’è nient’altro che vorresti dirmi?”.

Alzai un sopracciglio: so dove voleva andare a parare e non erano certo cose di cui volevo discutere con lui. “Non tirare in ballo l’argomento ragazzi. La mia bocca rimarrà sigillata”.

“E’ solo che non ti vedo mai con nessuno e beh, so che preferiresti parlarne con una donna; potrei mettere una parrucca se ti fa sentire più a tuo agio”.

Io scoppia a ridere tirandogli un leggerissimo pugno sulla spalla “Ma smettila!”.

“Se mi dici che va tutto bene, gattina, io ti credo” disse mio papà “Però cerca di trovartene uno con la testa a posto, ok? Il giovane Salvatore qui davanti sarebbe una scelta che approverei”.

“Stefan è il mio migliore amico” replicai indignata. Soltanto l’idea mi sembrava assurda “E poi lui sta con Elena”.

“In realtà mi riferivo all’altro” precisò lui abbassando la voce e indicando con la testa la casa di fronte a noi. Mi voltai anche io e vidi Damon uscire di casa, sicuramente pronto a una nottata di baldoria.

Non avevo mai capito come mio padre potesse ritenerlo un ragazzo a posto. Lui lo adorava! Davvero non so quell’ammirazione da dove saltasse fuori, dato che era risaputo che Damon fosse un’emerita testa di cazzo. Tutti i padri di Fell’s Church avrebbero pregato che loro figli stessero lontane da un tipo del genere e invece il mio avrebbe festeggiato per il contrario. Vallo a capire!

Mio padre si alzò per salutarlo, sventolando la mano “Ehi Damon! Mi farai fare un giro prima o poi, vero?”.

Io mi schiaffai una mano in fronte: papà che chiedeva a quell’imbecille di fargli provare la macchina era una delle situazioni più imbarazzanti cui avessi assistito.

“Certo, signor McCulluogh” rispose Damon avvicinandosi al nostro portico “Per lei questo ed altro”.

Rotei gli occhi irritata. Ovvio che mio padre avesse una predilezione per lui: Damon era un vero maestro della captatio benevolentiae****. Come riusciva quel ragazzo ad arruffianarsi le persone, nessuno mai!

Iniziarono a parlare di automobili, potenza dei motori, numero dei cavalli … tutte cose assolutamente incomprensibili per me e sostanzialmente inutili.

Cosa diamine serviva comprare una macchina così veloce quando non la si poteva usare al massimo delle sue possibilità senza rischiare una sanzione o addirittura la vita? Un grande spreco di soldi.

“Sa signor McCullough, dovrebbe parlare con mio padre; lui non sa godersi la vita come fa lei”.

Il mio papà mise su un’espressione un po’ più seria, senza però mostrare tutto il rimprovero che avrebbe voluto “Beh Damon, forse avresti dovuto avvisarlo prima di prelevare tutti quei soldi per comprarti l’auto”.

“Che posso dire in mia difesa?” alzò le spalle lui “Anche io so godermi la vita”.

Mio padre ridacchiò “Avresti dovuto esserci, gattina! Il giorno in cui l’ha portata a casa … le urla di suo padre arrivavano fino alla fine della strada!”.

Tirai un sorriso e allungai le gambe sul dondolo con fare annoiato. Certo che avrei voluto esserci: vedere Giuseppe mentre cercava di staccare la testa a quel disgraziato di suo figlio, sarebbe stato uno dei momenti più belli della mia vita.

“Tuo fratello è tornato oggi, giusto? Non l’ho ancora visto. Come sta? Si è divertito?” s’informò mio padre.

“Sì” rispose Damon con fare suppositivo. Era chiaro che non ne avesse la più pallida idea “Stefan adora il baseball”.

“Era un campeggio di football” lo corressi tagliente. L’indifferenza verso suo fratello era vergognosa e non potevo proprio accettarla.

“Sempre di sport si parla” dissimulò Damon con incredibile nonchalance, anche se aveva percepito perfettamente tutta la mia ostilità.

Quando si trattava di Stefan diventavo estremamente protettiva.

Anche mio padre fiutò la tensione che si stava creando e preferì ripiegare in casa e congedare Damon per impedire che ci addentrassimo troppo nell’argomento ‘Stefan’.

“Beh, è stato un piacere vederti! Salutami tanto tuo padre”.

“Lo farò” gli assicurò Damon osservandolo entrare in casa.

Come no!

Credevo che a quel punto il ragazzo se ne sarebbe andato, magari con un saluto accennato. Invece si lasciò scivolare sul dondolo, nel posto prima occupato da mio padre, sedendosi quasi sui miei piedi. Li ritirai in fretta e ne arricciai la punta innervosita per quell’invasione di spazio.

Si stiracchiò portando le mani dietro la testa, poi mi guardò piegando leggermente il collo “Perché sei sempre così fredda con me, gattina?” mi chiese con un finto broncio, calcando bene quel nomignolo per prendermi in giro.

“Non sai nemmeno dove ha passato l’estate tuo fratello” lo biasimai “Sei così pieno di te stesso! E non chiamarmi così”.

“Adoro quando tiri fuori il tuo lato tenero” ironizzò lui solleticandomi la pianta del mio piede sinistro con un dito. Lo calciai via con poca forza per non fargli male; volevo solo levarmelo di dosso.

“Comunque quei posti sono tutti uguali per me” sembrò quasi giustificarsi “Niente divertimento, niente vita sociale, niente ragazze. Solo allenamenti e contatto con la natura. La solita noia”.

“Tu sì che sei un uomo profondo, Damon” commentai con sarcasmo.

Fece un sorriso di falsa modestia e continuò “Parliamo di te piuttosto. Un intero mese in Spagna? Ti devi essere divertita parecchio”.

Mi chiesi come facesse a sapere dove avevo passato l’estate, poi mi ricordai che con me c’era anche Elena. Era chiaro che lui fosse così ben informato sui nostri spostamenti “Sì, mi sono divertita molto”.

“Anche Elena si è divertita?”.

Bingo! Capii perché era rimasto a parlare con me. Normalmente mi evitava come la peste e quella sera era troppo gentile per essere sincero.

“Anche lei si è divertita, ma non come intendi tu” ci tenne a specificare “Elena si diverte solo con il suo ragazzo”.

Gli occhi di Damon per un attimo s’indurirono. Odiava quando qualcuno gli ricordava di quanto suo fratello fosse migliore di lui e se a farlo ero io, la sua irritazione aumentava. Mi chiamava la paladina di Stefan.

Io non potevo fare altro che difenderlo; gli ero troppo affezionata e ai miei occhi Damon era una sorta di carnefice e cercavo di punirlo ogni volta che mi si presentava l’occasione.

“Questo perché non ha ancora provato cosa significa stare con me”.

“Il tuo ego prima o poi chiederà una stanza tutta per sé”dissi.

Le sue labbra si tirarono in un mezzo sorriso, probabilmente intenerite dal mio pallido tentativo di fare del sarcasmo.

Mi chiesi pure io da dove venisse tutta quella spavalderia. Non che normalmente volassero della parola gentili tra noi, ma quella sera ero particolarmente sicura di me; cosa che non capitava quasi mai, soprattutto quando Damon era coinvolto. Di solito mi metteva soggezione, a volta paura, e non mi azzardavo a tirare troppo la corda. Piuttosto chiudevo la conversazione, me ne andavo o evitavo di rispondere.

Avrei potuto rifugiarmi in casa e sottrarmi a quel confronto, ma qualcosa mi aveva fermato. Era la mia casa, la mia veranda, il mio dondolo! Semmai era lui a dover sloggiare. Per cui ero rimasta lì con lui tenendogli testa.

Sapevo bene che mi stava permettendo di essere così sfrontata. Se avesse alzato di un pelo la voce o se avesse indurito il tono, probabilmente avrei abbassato le orecchie come un cucciolo impaurito.

Sembrava, però, di buon umore e io ne approfittai per rimetterlo al suo posto. In quel momento mi resi conto che il mio viaggio in Spagna era stato più utile del previsto per la mia autostima.

“Rinfodera gli artigli, gattina. Volevo soltanto scambiare due parole con la mia adorata vicina di casa” mi stuzzicò. Si alzò decidendo finalmente di liberarmi della sua fastidiosa presenza “Comunque oggi ho detto una bugia”.

Spostai lo sguardo su di lui, confusa.

“I tuoi capelli” si spiegò “Non ti stanno male”.

Incredula, storsi la schiena e seguii i suoi movimenti fino all’altro lato della strada, dov’era parcheggiata la sua Ferrari.

Damon Salvatore mi aveva appena fatto un complimento? Forse quella era una parola un po’ forte.

Riformulai il pensiero: Damon Salvatore aveva appena detto una cosa gentile sul mio aspetto?

Era la prima volta da quando ci conoscevamo e mi sorprese parecchio. Non aveva detto chissà che, non era neanche un commento lusinghiero, anzi era piuttosto mediocre, ma sentirlo proprio da lui appariva una cosa di un altro mondo.

Infine mi rigirai e mi toccai i capelli attorcigliandomeli tra le dita. Mi piacevano molto; di natura li avevo dritti e abbastanza fini, per cui la maggior parte delle volte non avevano una vera forma. Quella permanente mi dava un tocco grintoso.

Sembrava una massima banale, ma il look influiva molto sulla personalità di una ragazza. Bastava un piccolo accorgimento per farci sentire subito più forti.

Ed era così che volevo essere: forte; una che non si piegava.

Ero soddisfatta di come mi ero comportata quella sera con Damon, di come ero riuscita a rispondergli a tono senza abbassare la testa.

Non potevo più continuare con la storia della ragazza timida ed indifesa, non a quasi diciott’anni, non al mio ultimo anno di scuola superiore.

Non potevo promettere a me stessa dei grandi risultati, ma mi sarei impegnata per far sì che quel lato più aggressivo del mio carattere, di solito latente, emergesse un po’ di più.

Saltai giù dal dondolo e entrai in casa, canticchiando una canzone che avevo sentito in auto, alla radio, di ritorno dall’aeroporto.

Mondo preparati alla nuova me.

 

Il mio spazio:

Prima cosa: non sto trascurando la mia storia Ashes&Wine (anzi ne approfitto per avvisarvi che posterò il nuovo capitolo mercoledì); solo che mi sono trovata con una voglia matta di iniziare questa nuova storia e ho buttato giù il primo capitolo. Sarà che con l’avvicinarsi dell’estate ho voglia di un di leggerezza, ma alla fine ho scelto la prima delle trame che vi avevo proposto.

Seconda cosa: parliamo di Crazy Little Thing Called Love.

Questo è solo un capitolo di assaggio, una specie di sneak peek. Ho deciso di postarlo così voi lettrici potevate farvi un’idea di come sarebbe stata questa nuova storia e magari darmi delle idee per gli eventi futuri, dato che non ancora programmato niente.

Non credo verrà più aggiornata fino a che non avrò terminato Ashes&Wine, quindi mi sa che passerà molto tempo prima che potrete vedere il secondo capitolo. Ma vi prometto che ci lavorerò su e se mi renderò conto di riuscire a portare avanti due storie contemporaneamente, lo farò con piacere!

Crazy Little Thing Called Love è ambientata sempre a Fell’s Church, ma i nostri protagonisti sono tutti umani. Non ci sarà il dramma che avete incontrato nell’altra mia storia; ho intenzione di scrivere qualcosa che si avvicini più alla commedia! Ho voglio di farmi quattro risate e di essere un po’ ironica. Non so quanto ci riuscirò ma spero che apprezzerete.

Ho messo anche l’avvertimento OOC perché si tratta appunto di un “altro universo” e si conoscono tutti fin da bambini, quindi le loro relazioni saranno un po’ diverse da quelle del libro e di conseguenza anche i loro atteggiamenti. Tranquille, non ho intenzione di sconvolgere la personalità di nessuno (solo quella di Caroline, scusate ma amo troppo quella della serie tv!).

Più che altro credo che Bonnie sarà quella che affronterà i cambiamenti più significativi. Sono un po’ stufa di vedere , sia nei libri sia nella serie, il suo personaggio un po’ sottovalutato; insomma si merita di ricevere le stesse attenzione che hanno le altre ed è il momento che qualcuno dei nostri uomini si accorga di lei!

Non la trasformerò in una diva o in una mezza sgualdrina che si ubriaca e si lascia andare con i ragazzi, non ho intenzione di farla nemmeno troppo seducente o sfacciata; non sarebbe più Bonnie altrimenti. Le voglio solo dare un po’ di sicurezza!

La stessa che ha mostrato in questo capitolo con Damon, anche se, come lei stessa ha detto, è stato lui a permetterglielo. Bonnie lo conosce da quando è nata quindi può prendersi la confidenza di parlargli così schiettamente, ma rimane comunque la solita ragazza tenera e sensibile, ancora soggetta al carisma di Damon, anche se non ne è affascinata come nei libri.

Sarà principalmente narrata dal punto di vista di Bonnie, ma anche Damon avrà i suoi i spazi.

Spero davvero che vi piacerà quanto Ashes&Wine e spero continuerete a lasciarmi i vostri splendidi consigli e commenti.

A mercoledì! E grazie in anticipo!!!

 

*In Phantom i ragazzi decidono di frequentare il college di Dalcrest; ho seguito questa linea per Damon.

** Tra Bonnie e Stefan ci sarà solo un amore fraterno! Sarà pieno di bei momenti tra loro, ma non vedrete mai un’interazione romantica. Anche perché in questa storia Elena rimarrà SOLO con Stefan. Nessuno dubbio sulla sua fedeltà. Damon ha bisogno di un altro percorso.

***Allora la questione dell’età per me è abbastanza un problema. Mi spiego meglio: da quanto ne so io, negli Stati Uniti le superiori durano solo quattro anni, quindi i ragazzi all’inizio dell’ultimo anno, hanno solo diciassette anni (quante volte ho scritto anno in questa frase?? Ahah). Però in alcune serie tv (TVD per esempio) compiono diciott’anni prima di gennaio. Ora io mi atterrò alle mie conoscenze e qui gli studenti diventeranno maggiorenni solo dopo gennaio del loro ultimo anno di scuola, come dovrebbe essere. In ogni caso se qualcuno ha capito come funzione questa cosa, per favore mi dia delle delucidazioni perché comincio a credere di essere stupida e di non sapere fare nemmeno dei calcoli elementari. Anche Internet la pensa come me, ma fidarsi è bene, non fidarsi è meglio ahah.

****Captatio benevolientiae: letteralmente “accattivarsi la simpatia”; era una tecnica dei retori classici per portare il favore delle giuria dalla loro parte.

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Capitolo 2
*** The bitch is back ***


Crazy Little Thing Called Love


Capitolo due: The bitch is back.

 

“I pick all my skirts to be a little too sexy
Just like all of my thoughts they always get a bit naughty
When I'm out with my girls I always play a bit bitchy
Can't change the way I am sexy naughty bitchy me

I like all of my shorts to be a little too shortly
Unlike all of my guys I like them tall with money
I love all of my nights to end a little bit nasty
Can't change the way I am sexy naughty bitchy me”

(Sexy, naughty, bitchy me- Tata Young).

 

La selezione casuale del mio Ipod partì alle dieci in punto di mattina, come avevo programmato la sera prima. Saltai sul letto, colta alla sprovvista dalla prima canzone che rimbombò nelle casse.

Mugugnando, allungai la mano fino a schiacciare il pulsante di spegnimento; prima o poi mi sarei dovuta decidere a creare una playlist adatta per il risveglio. Ero stufa di essere strappata dai miei sogni da una musica altissima e assordante.

Il brano di quel giorno, poi, mi stava particolarmente antipatico, non tanto per il pezzo in sé, quanto per la persona che mi ricordava: Katherine.

Avrei maledetto per sempre la notte in cui gli spermatozoi di Grayson* Gilbert si erano dati alla pazza gioia ballando con gli ovuli di Miranda, la dolce mogliettina, che un mese dopo si era scoperta felicemente incinta non di una bambina, ma di due! La vita sarebbe stata molto più semplice se il destino si fosse accontentato solamente di Elena. Un pomeriggio di diciott’anni prima Katherine Gilbert era venuta al mondo piangendo istericamente come una disperata e in poco tempo aveva mostrato il suo lato peggiore, o meglio, il suo unico lato, dato che non si sarebbe potuto trovare del buono in lei nemmeno con la lente d’ingrandimento.

Non la vedevo da anni, da quando si era trasferita a Parigi da zia Judith per sfondare nella moda o un’altra cavolata simile.

Aveva solo tredici anni ma era già molto alta e bella e altre modelle aveva iniziato così giovani. L’età non era certo un problema per una presuntuosa come lei.

Da quanto mi aveva raccontato Elena, sua sorella era arrivata sulle passerelle di stilisti importanti, ma zia Judith l’aveva sempre tenuta a freno, impedendole di venire risucchiata da quel mondo e costringendola ad impegnarsi a scuola; questo aveva tolto chiaramente del tempo ai casting.

Elena si sbellicava dalle risata nel constare che la sua superbissima gemella non era riuscita a raggiungere i suoi obiettivi di popolarità.

Quelle due non si erano mai potute sopportate: tanto simili nell’aspetto quanto diverse nella personalità.

Entrambe erano ambiziose, ma tutto ciò che faceva Katherine era corrotto da una certa cattiveria. Era scaltra e molto sveglia, s’interessava del proprio bene senza badare a chi veniva ferito nel processo; anzi sembrava quasi godere delle sofferenze altrui, specialmente se provocate da lei.

Le piaceva avere il potere sulla sua vita, sulle persone; era una grande manipolatrice e sapeva accattivarsi i favori di chi le risultava utile.

Era insomma un diavoletto già da piccola: sempre pronta a seminare zizzania. Magari in questi anni era cambiata in meglio, anche se dai racconti di Elena appariva la solita stronza di qualche anno prima.

Mentre mi lavavo i denti mi chiesi perché stessi pensando a Katherine Gilbert. Non mi era mai venuta in mente in cinque anni, perché proprio ora?

Forse era il mio sesto senso ma avevo un brutta sensazione a riguardo. Con un gesto della mano scacciai la mia paranoia e tornai in camera per vestirmi.

Elena sarebbe passata a prendermi in pochi minuti per andare al lago a trascorrere la nostra ultima giornata di libertà.

Aprii l’armadio e mi bloccai a guardare nel vuoto. Ero ancora mezza addormentata e non avevo ripreso regolarmente i ritmi cui era abituata.

Bei tempi quelli in Spagna: sveglia all’una, colazione all’una e mezza, pranzo alle quattro e cena alle undici.

Adesso, tornata a casa, le cose erano ben diverse; comunque alzarsi alle dieci era una vera mazzata per la mia testa dolorante e stanca.

Alla fine mi riscossi e frugai tra i vestiti. Indossai un abito leggero e sotto un costume di quelli che non avevo portato in Spagna.

Dieci minuti dopo ero seduta sui gradini della mia veranda in attesa di Elena, che sarebbe arrivata in ritardo come al solito.

Sbuffai e mi appoggiai sui gomiti guardando impazientemente in fondo alla strada nella speranza di scorgere l’auto della mia amica.

La mia attenzione fu invece colta da alcune grida provenienti dalla casa di fronte. Non mi era difficile immaginare chi fossero: Damon e suo padre.

Almeno una volta a settimana la quiete del quartiere veniva scossa da scenate del genere. Normalmente era Giuseppe ad urlare; suo figlio manteneva una calma surreale, saccente ed irritante che ti faceva venir voglia di prenderlo a schiaffi.

Quel giorno, però, potevo udire distintamente anche la voce del ragazzo. Doveva esserci un motivo veramente grave per scuotere l’impassibile Damon Salvatore.

Fu così che lo vidi uscire dalla sua villetta qualche secondo dopo, sbattendo furiosamente la porta, da rischiare di scardinarla.

Marciò verso la sua Ferrari posteggiata nel vialetto, furente e i miei occhi non lo lasciarono un attimo. Non m’importava di osservarlo tanto impunemente; sapevo che non si sarebbe mai accorto della mia presenza o che comunque non si sarebbe sprecato a girarsi e salutare. Non ero né con mio padre né con Elena, per cui non era costretto a comportarsi come una persona educata.

Eppure tentennò prima di aprire la portiera e il suo sguardo si alzò su di me, incrociando il mio. Mi gelò.

Non avevo mai visto una tale malinconia negli occhi di nessuno, tanto meno nei suoi. Damon non mostrava quasi mai le sue emozioni.

Era dall’altra parte della strada ma non era difficile capire quanto fosse turbato e mortificato? No, era proprio infelice. Appariva quasi indifeso.

Non mi stava simpatico, non mi piaceva neppure come persona, ma non potevo fare finta di niente. Lo conoscevo da tutta la vita e avevo imparato un paio di cose sulla sua nebulosa personalità. Sapevo che cosa gli avesse provocato tanta tristezza, perché era la stessa che mi attanagliava al ricordo di quella madre che mi aveva abbandonato a cinque anni. Su quel punto, io e Damon ci intendevamo perfettamente.

Mi alzai e feci per attraversare la via e raggiungerlo. La jeep di Elena mi si parò di fronte, impedendomi la visuale.

Tirò giù il finestrino e mi salutò “Ehi Bon! Scusa il ritardo ma ho litigato con i miei. Dai, salta su! Ci staranno tutti aspettando. Bonnie?”.

Io non l’ascoltai nemmeno; aggirai l’auto per avere ancora il campo visivo libero ma constatai che Damon era già salito sulla sua Ferrari e stava mettendo in moto.

Il momento era stato spezzato: entrambi eravamo tornati due anime incompatibili.

 

“Caroline dov’è finita?” chiesi mentre mi spalmavo la crema solare.

“Sarà da qualche parte a fare i bagni nel latte”.

Mi voltai verso Meredith e le diedi una leggera spinta sulla spalla. La mia amica rotolò sul fianco ridendo e si mise a pancia in giù.

“Sul serio, dov’è?”.

“Non stavo scherzando” si difese Meredith “Mi ha detto che doveva prepararsi per il Ballo di Autunno”.

“La scuola non è nemmeno cominciata!” obiettai come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

“E’ il suo ultimo anno, Bonnie” spiegò Meredith “Vuole fare bingo: reginetta di Homcoming**, Miss Fell’s Church e reginetta del Ballo di Fine Anno”.

Corrugai la fronte. Caroline era sempre stata una mezza maniaca del controllo, ma mi sembrava esagerato cominciare a prepararsi per una festa che si sarebbe tenuta una settimana più tardi.

D’altra parte Caroline sognava il titolo di reginetta da tutta la vita ma per un motivo o per l’altro non era mai stata eletta. Quando l’anno precedente Elena era stata incoronata durante il ballo, per poco Caroline non si era colorata di verde.

Lei era bellissima, popolare e ammirata ma Elena era un angelo caduto dal cielo. Era molto sicura delle sue doti e le piaceva ricevere attenzioni, anche se non faceva niente per ottenerle. Non c’era competizione con Elena Gilbert; era il tipo di ragazza cui tutto risultava facile.

Caroline voleva bene ad Elena, ma avrebbe voluto batterla, almeno per una volta e non era un mistero per nessuno.

Potevo capire perché stesse cercando di preparare tutto nei minimi dettagli; non voleva lasciare niente al caso, soprattutto ora che la meravigliosa Gilbert non mostrava più alcun interesse a tenere lo scettro. Stefan era tutto ciò che le stava a cuore e avrebbe ceduto più che volentieri la sua corona a Caroline.

Quelle erano delle preoccupazioni che nemmeno mi sfioravano. Nessuno mi avrebbe mai votata, nessuno mi avrebbe presa in considerazione. La mia non era falsa modestia e non credevo che la mia vita si sarebbe potuta trasformare in una delle solite commedie americane***. Non lo volevo neppure.

La rivolta delle Cenerentole, che assurdo cliché! Io non ero così, non avevo mai sognato di essere una principessa né tanto meno che avrei trovato un principe azzurro.

Una volta, in quarta elementare, la maestra aveva assegnato a noi bambine un tema sull’amore nelle favole della Disney. Io avevo parlato de “La Bella e la Bestia”, il mio cartone preferito, perché io avevo sempre parteggiato per la Bestia.

Facile innamorarsi di un bel principino, con i capelli biondi e gli occhi azzurri, che galoppando sul un cavallo bianco, salvava dal drago la fanciulla di turno; ma era certamente più sincero un amore rivolto ad un mostro, apparentemente brutale e senza sentimenti, che si alla fine si dimostrava molto più meritevole di un qualunque ragazzetto in calza maglia.

Belle aveva saputo vedere la luce in quella bestia che l’aveva imprigionata; era stata capace di donargli il suo affetto e di renderlo un uomo migliore; un uomo da amare.

Un sogno tanto irreale quanto l’idea di me reginetta di Homecoming, ma ero un’incurabile romantica.

“Non mi candiderò quest’anno” dichiarò Elena, che era stesa di fianco a me, dall’altra parte “Voglio che Care vinca quest’anno, è davvero importante per lei e non mi va che mi porti il broncio ancora per una settimana come l’ultima volta”.

“Ti voteranno sicuramente reginetta della modestia” ironizzò Meredith ed Elena la guardò torva, ma non poté rispondere perché una bocca scese sulla sua rubandole un bacio lungo e appassionato.

“Prendetevi una camera” mi lamentai mettendomi una mano davanti agli occhi. Le effusioni tra i miei due migliori amici non erano propriamente il mio spettacolo preferito.

“Dove sei stato fino adesso?” gli domandò Elena ignorando il mio commento.

“Ho dovuto calmare, papà” raccontò Stefan “Ha litigato con Damon e aveva un diavolo per capello”.

“Li ho sentiti mentre ero fuori ad aspettarti” dissi rivolgendomi ad Elena.

“Non vedo l’ora che cominci l’università” borbottò Stefan sdraiandosi accanto alla sua ragazza “Sono a casa da due giorni e mi hanno già tirato scemo. Non capisco perché Damon non se ne stia in camera sua al campus”.

“A casa tua c’è la governante, Stef” gli feci notare. Quella santa donna di Teophilia Flowers.

“Magari vuole stare con la sua famiglia, no?” replicò Elena.

No, la mia ipotesi era decisamente più realistica. Damon non sopportava né suo fratello  né suo padre.

Meredith si era completamente esclusa dalla conversazione: aveva infilato gli auricolari del suo Ipod nelle orecchie e aveva chiuso gli occhi. Non conosceva molto bene Damon e preferiva non intromettersi.

“Aveva uno strano sguardo oggi quando l’ho visto” commentai “Tuo padre ha esagerato ancora?”.

Stefan mi guardò serio e annuì “Papà odia quando Damon non lo ascolta o lo ignora; quello è l’unico argomento che lo fa scattare”.

Elena non capì di cosa stavamo parlando ma non indagò. Apprezzavo molto il fatto che non volesse impicciarsi dei segreti miei e di Stefan. Rispettava la nostra amicizia e la nostra confidenza; sapeva che certe cose sarebbero rimaste solo tra di noi.

“Staserà tornerà più incazzato del solito e mi torturerà” sospirò Stefan amareggiato.

“Damon non è così male, ragazzi” disse Elena “Lo dipingete molto peggio della realtà. E non ti odia affatto, Stefan”.

Adoravo Elena. Era la mia migliore amica da sempre, era quasi un’altra sorella e avrei fatto di tutto per lei, ma proprio non capivo da dove venisse tutta quella comprensione nei confronti di Damon; per qualche motivo finiva sempre per difenderlo.

La grande dote di Elena era la compassione e in qualche modo era riuscita a trovare una connessione con Damon e vedeva solo la sua parte migliore, che sinceramente mi era del tutto sconosciuta.

Il maggiore dei Salvatore aveva una passione per lei e avevano trascorso insieme del tempo. Elena lo considerava solo come un amico, ma si era affezionata e si sentiva il dovere di proteggerlo.

“Sei cieca, Bonnie, se non vedi la sua anima” mi ripeteva sempre la mia amica “Damon soffre e non c’è nessuno disposto ad ascoltarlo”.

Che Damon avesse delle questioni in sospeso, questo era chiaro a tutti, ma non gli dava il diritto di essere un immenso pezzo di schifo.

“E tu dovresti smetterla di aizzare l’odio tra questi due” mi rimproverò.

“Io non aizzo niente!” protestai indignata “Non sono una grande fan di Damon, ma non è un segreto. Non si è mai comportato bene con me e non vedo perché dovrei essere gentile quando lui me ne ha fatte di tutti i colori per anni”.

“Ha provato ad essere carino con te” ribatté Elena “Ti ricordi quando ha vinto dei biglietti omaggio per il parco divertimenti? Invece d’invitare i suoi amici, ha portato te e Stefan”.

“Io me lo ricordo” affermò il mio migliore amico “Papà l’ha obbligato ad invitare me e Bonnie”.

Il sorriso dalla bocca di Elena sparì.

“Non è stata quella volta che mi ha rotto il dito?” chiesi.

Elena sbiancò ulteriormente: tra tutti gli esempi che poteva scegliere, aveva preso proprio quello sbagliato.

“Sì, è stata quella volta” confermò Stefan “Però non ha fatto apposta: non aveva visto che avevi ancora la mano nella portiera”.

“Intanto ho passato tutto il pomeriggio con un dolore atroce mentre lui si divertiva sull’auto volante. Neanche si è scusato”.

Elena portò mesta la testa sulla spalla di Stefan e decise di non aprire più bocca. Voleva mettere Damon in buona luce e aveva fatto peggio.

La verità era soltanto una: Damon Salvatore era indifendibile ed imperdonabile.

 

Lo odiavo, lo odiavo con tutto il cuore.

E anche Stefan. Li odiavo tutti e due.

A volte mi chiedevo per quale motivo mi ostinassi a rimanere a casa quando aveva una camera al campus pronta per me.

La risposta era semplice: quella era anche casa mia e avevo il diritto di rimanerci per tutto il tempo che desideravo. E se, nel mentre, riuscivo pure a fare andare su tutte le furie mio padre, tanto meglio.

Perché io lo odiavo.

La notte prima ero tornato tardi, parecchio tardi e non credevo proprio che avrei trovato qualcuno in giro. Mio padre aveva scelto il momento sbagliato per andare in bagno. Non era la prima volta che facevo le ore piccole, avevo ventuno anni, ero grande abbastanza per decidere della mia vita.

Lui aveva provato a rimproverarmi, ma mi ero chiuso in camera prima che potesse anche solo aprire bocca.

Ero un illuso se credevo che si sarebbe arreso. Quella mattina mi aveva inchiodato nell’ingresso e aveva incominciato una delle sue solite filippiche, totalmente inutili.

Dopo così tanti anni avrebbe dovuto imparare che ormai le sue parole non mi scalfivano più. A meno che non la nominasse; era l’unica cosa che mi faceva scattare e mio padre lo sapeva bene. Lo usava per ottenere qualche reazione.

Odiavo anche questo.

Mio padre era un inetto, un uomo che non era nemmeno capace di tenere a bada suo figlio senza nominare il nome della madre morta.

Avevo provato a renderlo fiero di me, davvero! Avevo fatto del mio meglio ma nessuno poteva competere con la perfezione di mio fratello.

Qualunque merito io avessi, Stefan mi superava senza nemmeno sforzarsi. Per mio padre solo uno di noi era degno di portare il nome dei Salvatore e quello non ero io.

Stefan lo venerava perché era l’unico genitore che avesse mai conosciuto. Stefan non aveva idea di quanto nostra madre fosse migliore di nostro padre.

Lo ammirava incondizionatamente e non riusciva a vedere la merda che in realtà si celava in quell’uomo.

Mio padre Giuseppe lo aveva sempre favorito. Non importava quanto io m’impegnassi, mio fratello stava due passi davanti a me in ogni caso.

Così un giorno avevo smesso di essere come voleva mio padre e avevo cominciato ad essere come volevo io. Ed era stato l’inizio della fine.

Giuseppe non dimenticava mai di ricordarmi che ero la sua delusione più grande per svariati motivi. Avrei dovuto comportarmi più come Stefan, secondo lui.

Ma io non ero Stefan; io ero Damon, il figlio che avrebbe preferito non avere.

Per questo li odiavo tutti e due. Odiavo mio fratello perché mi aveva rubato entrambi i genitori e odiavo Giuseppe perché non era capace di amarmi quanto mia madre.

Quella mattina era uscito come una furia, dopo una delle nostre solite litigate; ero certo di avere un’espressione stravolta, mi si poteva leggere in faccia quanto le parole di mio padre mi avessero turbato. Non avrei mai voluto che qualcuno mi vedesse in quello stato ma la fortuna sembrava essermi avversa, dato che mi ero trovato davanti quella pulce di Bonnie McCullough.

Non ne ero rimasto seccato, comunque. Lei aveva inteso al volo che cosa fosse successo e io non mi ero preoccupato di nasconderlo.

Non mi vergognavo di mostrare il mio dolore a Bonnie, perché anche lei aveva perso la mamma da piccola e mi capiva come nessun’altro.

Era una ragazzina petulante e immatura, totalmente accecata dal bagliore di mio fratello, come tutti del resto, ma non m’infastidiva averla intorno quando ripensavo alla mia mamma e a quanto mi mancasse.

Non che avessimo mai condiviso molti momenti commuoventi, aprendo il cuore uno all’altra, ma se ne avessi avuto bisogno, sarei andato da lei.

Sentii una pernacchia di fianco a me, che mi strappò maleducatamente dalle mie riflessioni. Mi girai con un sopracciglio alzato.

Perché mi ero scelto degli amici così idioti?

Osservai i due ragazzi seduti con me al tavolo di Starbucks, che ignari del mio malcontento, giocavano a soffiarsi il ghiaccio sciolto con la cannuccia.

Tyler Smallwood, giocatore di football, testa calda, pluri- ripetente che per grazia di Dio forse quell’anno sarebbe riuscito a diplomarsi.

Sage de Lioncourt****, mio compagno di stanza, capelli un po’ lunghi color bronzo, origini francesi. Usava il suo finto accento per fare colpo sulle ragazze, ma in realtà non sapeva che poche parole di quella lingua, anche se fingeva il contrario.

Non erano propriamente delle menti geniali e a volte avrei voluto prenderli a testate solo per farli tacere, ma li conoscevo da molti anni e non riuscivo ad immaginarmi un gruppo diverso dal loro.

“Ieri ho incrociato Elena Gilbert mentre tornavo a casa. È ancora più bella di quanto ricordassi” commentò Sage con l’unico intento di stuzzicarmi “Tuo fratello è il ragazzo più fortunato della città”.

“Stefan non sa a che cosa va incontro” grugnii io senza scompormi più di tanto “Una come Elena dovrebbe stare con qualcuno alla sua altezza, non con un ragazzino”.

“Le servirebbe un uomo, certo” parve concordare lui “E tu sei chiaramente così maturo e virile” mi prese in giro con una risata.

Avrei dovuto prenderlo a pugni. Sage doveva ringraziare che gli stessi concedendo tutte quelle confidenze.

“Sappiamo tutti che prima a poi te la porterai a letto, Damon” disse Tyler un po’ ingenuamente e io non mi presi la briga di correggerlo.

Elena  non era uno sfizio, non la volevo solo per soddisfare le mie voglie. Elena era la perfezione scesa tra gli umani e insieme avremmo formato una coppia esplosiva.

“Basta parlare della Gilbert” tagliò corto Tyler “Non è l’unica ragazza sulla faccia della terra; anzi ce n’è altra tra le sue amiche che mi farei volentieri”.

Caroline Forbes, sai che sorpresa! Pensai.

“Bonnie McCulluogh”.

Per poco non mi strozzai con il mio frappé. Avevo sentito bene?!

“La piccola rossa?” domandò anche Sage in conferma, stupito quanto me.

“L’ho vista oggi al lago e fidati: non è più tanto piccola” e strizzò l’occhio.

“Ho incontrato Bonnie ieri sera e anche stamattina. È la solita tavola da surf” lo smontai con uno sbuffo.

“Non ho detto che è diventata Pamela Anderson” replicò Tyler “Ho detto che è diventata figa”.

Figa? Quel piccolo uccellino? Le brutte erano altre, ma figa non era la parola che avrei usato per descriverla. Graziosa, forse. Carina ma niente di più.

Era un tipo che viaggiava nell’anonimato. Niente a che spartire con Elena.

“La vacanza in Spagna deve averle fatto molto bene. Dovevate vedere che costume aveva e come le stava. Era sexy”.

Scoppiai a ridere a quell’assurdità. Potevo accettare “figa” ma “sexy” proprio no. Bonnie non poteva mostrarsi sensuale, non ce l’aveva nel sangue ed era una delle poche cose che apprezzavo di lei. Poteva essere irritante e saccente fino allo sfinimento ma almeno era autentica.

“Ho sempre pensato che Bonnie fosse carina” confessò Sage “Però mi sembra ancora una bambina, non è il genere di ragazza che potrebbe tentarmi”.

“Non sembra una bambina, lo è” precisai io.

“Ha la stessa età di Elena e Caroline” mi fece notare Tyler.

Colpo basso: desideravo Elena ed ero stato uno dei primi ragazzi di Caroline; entrambe però si avvicinavano molto più alla mia idea di donna.

“Non è una questione di età, ma di atteggiamento” replicai “Senti, Tyler: Bonnie vive ancora nel mondo della favole, okay? Quindi ti sconsiglio di provare qualsiasi cosa tu abbia in mente” ero risultato un po’ troppo minaccioso ma fui soddisfatto del mio risultato quando lo vidi abbassare lo sguardo.

L’Uccellino non mi piaceva, ma non volevo sentire i suoi piagnistei per essere stata molestata da quel porco di Tyler. Lei non avrebbe mai potuto soddisfare i suoi bassi istinti; lui era un tipo un po’ troppo materiale.

“Era solo per dire” alzò le spalle lui “Non devi per forza marchiare il territorio”.

Dio mio, era anche più stupido di quanto pensassi! “Non era quello che intendevo”.

“Lo dici adesso” continuò a punzecchiarmi “Vediamo tra qualche settimana quando altri si faranno avanti. Morirai dalla voglia di aggiungere un’altra tacca alla tua cintura; non resisterai mai alla soddisfazione di prenderti la prima volta di Bonnie McCulluogh”.

Mi misi a ridere senza molta convinzione “Sì, certo” finsi di accontentarlo “Ne riparliamo tra una decina d’anni, quando finalmente si svilupperà”.

Non sarei riuscito a considerare Bonnie sotto quel punto di vista. Come aveva detto Sage era ancora una bambina; carina ma non abbastanza donna da tentarmi. Senza contare che era il capo del fan club di Stefan e questo costituiva un bel deterrente.

Era troppo santarellina per i miei gusti, troppo moralista, di una bontà quasi nauseante. Fredda come un ghiacciolo; non avrebbe mai permesso a nessuno di toccarla. Chissà perché avrei dovuto fare tanta fatica per avere tra le mani uno stecchino di legno.

Bonnie McCulluogh, quel fastidiosissimo Uccellino rosso non avrebbe mai catturato le mie attenzioni e io non mi sarei mai abbassato a corteggiarla.

Mai.

 

“Caroline, ti stai ingozzando con quel frullato” appuntò Meredith osservando preoccupata l’amica trangugiare il mix di frutta.

“E’ l’unica cosa che posso mangiare questa settimana” disse Caroline mentre con la cannuccia consumava anche il fondo di plastica “Ho comprato un vestito così stretto che dovrò perfino dimenticarmi di respirare”.

“Care, lo sai di essere bellissima? E che non ti serve strizzarti in un corpetto per mostrarlo a tutti?” cercai di rassicurarla io. Caroline Forbes aveva l’aspetto di una modella di Vogue e non aveva certo bisogno di qualche sciocco espediente per risplendere.

“Grazie, Bon, ma tu non hai idea di cosa si debba fare per essere elette reginette”.

M’imbronciai impercettibilmente. Caroline non l’aveva detto con cattiveria ma io ci rimasi un po’ male lo stesso. Era come se qualcuno avesse ribadito per l’ennesima volta quanto io fossi irrilevante.

Meredith se ne accorse e mi sorrise calorosamente e scosse la testa come a dirmi di non farci caso. Ritrovai subito il buon umore.

Se volevo che tutti notassero quanto ero cresciuta, avrei dovuto cambiare qualcosa anche nel mio atteggiamento e vittimizzarmi non era un buon punto di partenza.

“E’ il nostro ultimo anno ragazze e deve essere perfetto” continuò Caroline “Noi dobbiamo essere perfette, dobbiamo lasciare il segno. Inizia tutto con il ballo Homecoming, quindi non facciamoci trovare impreparate, okay? Vi voglio tutte favolose! Forse Elena un po’ meno di me, ecco” ammise con un mezzo ghigno “A proposito, dov’è Elena?”.

“L’hanno chiamata i suoi genitori mentre eravamo al lago ed è dovuta tornare a casa. Ci raggiunge qui dopo”.

“Mi straccerà anche quest’anno” si lamentò Caroline improvvisamente seria.

“Non essere così tragica” sbottò Meredith.

“Lei ha Stefan. Stefan!” ribadì ripetutamente “Il ragazzo più bello e popolare della scuola! E io non posso neanche invitare Matt. La nostra storia è finita in un disastro, non ho nemmeno il coraggio di parlargli”.

“Questo sì che è un problema” la prese in giro Meredith.

“Forse potrei chiedere a Damon di accompagnarmi” ipotizzò l’altra.

Io aprii la bocca scioccata e mi girai verso il tavolo dei ragazzi, dove insieme a quell’imbecille del mio vicino erano seduti anche Sage e Tyler.

Mi rivoltai verso Caroline “Stai scherzando, vero?! Sono io l’unica che si ricorda come ti ha trattata quel mese in cui siete stati insieme?”.

“E’ successo più di un anno fa, Bonnie! Posso buttarmi alle spalle il passato per un fine superiore” concluse.

“Venderesti tua nonna pur di vincere quella corona” ridacchiò Meredith.

“Solo la nonna? Io pensavo più alla sua anima” la seguii sempre più sbigottita.

“Ridete pure, adesso” ci sfidò bonariamente Caroline “Ma quando sarò famosa, vi ricorderete delle mie parole e di quanto avessi ragione”.

“Alla salute della nostra regina allora” dissi io alzando il mio milk-shake.

 Meredith mi imitò e anche Caroline ma si accorse di avere il bicchiere vuoto.

“Me ne serve un altro” si alzò e andò al bancone ad ordinare.

“Ha il tatto di un elefante ma le auguro di vincere” ammisi abbassando un po’ la voce in modo che mi sentisse solo Meredith che annuì alla mia affermazione.

Elena era la mia migliore amica e l’adoravo ma era giunto il momento che passasse il testimone; era il turno di Caroline.

Inoltre ad Elena non importava molto del titolo di reginetta o di qualsiasi altra frivolezza. Era sempre stata l’ape regina del gruppo, quella che catalizzava tutta l’attenzione, sebbene il più delle volte avrebbe preferito il contrario.

Sapeva di essere bella, la consapevolezza di tutte le sue qualità l’aveva aiutata a forgiare una personalità forte e sicura di sé.

Non aveva bisogno che la gente la elogiasse per sentirsi importante.

Caroline d’altra parte, pur essendo altrettanto bella e ammirata, aveva seri problemi di autostima. Per quanto si sforzasse, si fermava sempre su un gradino più in basso di Elena.

Sarebbe stata una grande rivincita per lei venire votata come reginetta della scuola; sarebbe finalmente uscita dall’ombra di Elena Gilbert e si sarebbe resa conto di quanto valesse, con o senza scettro.

Se io avessi potuto scegliere a quale delle mie amiche assomigliare, avrei risposto Meredith. Forse non era bella quanto Elena o Caroline, ma appariva comunque meravigliosa e spiccava lontana dalle luci di quelle due.

Era molto intelligente, spiritosa e sveglia. Contava sulle proprie capacità, conquistava tutti con il suo spiccato buon senso e con la sua lealtà.

Non giudicava ma consigliava. Era ammirata per la sua compostezza, per il suo acume e per la sua bravura. Meredith rappresentava un modello per le giovani studentesse del Robert E. Lee, un termine di paragone. Tutte avrebbero voluto diventare come lei, me compresa.

“Scommetto che avrà già minacciato metà comitato del ballo di eleggerla. È impossibile che qualcuno possa batterla ed Elena non si candiderà nemmeno” il ragionamento di Meredith non fece una piega come al solito.

“Sai già con chi andrai al ballo?” le chiesi dal nulla.

“Con me stessa. Sono una compagnia migliore di tutti gli stupidi che ci sono a scuola” fu la sua risposta secca.

Ecco perché apprezzavo così tanto quella ragazza!

“Almeno non sarò la sola” mi consolai.

“Non saprei … voglio dire … Tyler Smallwood ti sta facendo la radiografia da quando sei arrivata” mi sussurrò.

Io inorridii “Punto un po’ più in alto di uno che non distingue la destra dalla sinistra”.

“Questa è la mia ragazza!” scherzò lei battendomi il cinque “E prevedo che quest’anno farai strage di cuori”.

“Qualche sconosciuto alto e bruno in vista?” domandai ironicamente.

“Bruni, biondi, rossi! Chi se ne frega, basta che siano belli!”.

“Meredith Sulez, ti credevo una ragazza più profonda di così” sorrisi.

In quel momento Caroline riprese il suo posto con un megafrullato in mano “Dov’eravamo rimaste?” finse di esserselo scordato “Ah giusto, brindavamo alla mia vittoria … guardate, è arrivata Elena!” alzò una mano per attirare la sua attenzione “Bionda, vieni ad inchinarti di fronte alla tua regina”.

Elena non parve dell’umore giusto per quella battuta. Ci raggiunse, si sedette e mise i gomiti sul tavolo, corrucciata.

“Tutto bene?” m’informai.

“Una catastrofe” sibilò “La mia pace è appena stata sconvolta”.

Tutte e tre la guardammo con la fronte corrugata, senza capire le sue parole, ma un brusio si sparse nel locale e ci obbligò a spostare lo sguardo all’entrata.

Sulla soglia stava una ragazza dai lunghi capelli biondi e lisci, i suoi occhi blu saettavano per la sala; sembrava compiaciuta di aver scatenato quella fibrillazione in tutti i presenti.

Sage e Tyler avevano la bocca così aperta che chiunque avrebbe potuto vedere anche le loro tonsille; Damon invece non si era scomposto molto e aveva piegato le labbra all’insù in un ghigno trionfante.

Elena era rimasta immobile con il viso tra le mani, disperata; Meredith aveva sbattuto un paio di volte le ciglia incredula.

Caroline era completamente ammutolita; sembrava che il mondo le stesse per cadere addosso da un momento all’altro.

Io, d’altro canto, non sapevo se fidarmi dei miei stessi occhi. Solo una persona poteva causare tutto ciò. E a giudicare dalle espressioni degli altri non ero in preda alle allucinazioni; quindi poteva significare solo una cosa.

La stronza era tornata.

 

Il mio spazio:

Ho ritardato di un paio di giorni, lo so =( Solo che domenica non sono riuscita a finire il capitolo perché volevo vedere la finale e tutto è slittato. Forse avrei fatto meglio a  scrivere considerando com’è finita ma va beh!

Comincio con le noti dolenti: non aggiornerò più Crazy Little Thing Called Love fino a settembre e vi assicuro che ho una buona ragione, ovvero: voglio impegnarmi per costruire al meglio questa storia e adesso non ne ho il tempo.

Come vedete è molto diversa da A&W e ho un sacco di idee ma non so dove metterle. Devo pensare in che direzione devo andare e fare una scaletta; mi servirò dell’estate per fare tutto ciò e prometto che a settembre ne sarà valsa la pena … almeno spero!

Non odiatemi :p

Come poi vi avevo già detto ora la mia priorità è Ashes&Wine; sono davvero presa da questa storia e ho in mente già come si svolgeranno i prossimi capitoli. Mi piacerebbe finirla entro la fine dell’anno e voglio concentrami su questa.

Ora parliamo un po’ del capitolo: per me il secondo capitolo di ogni storia è sempre una tragedia perché mi sembra sempre di scrivere delle grandissime cavolate. Mi rifarò al massimo con il capitolo tre aahaha!

Vengo introdotti un po’ di personaggi in più tra cui alcuni degli amici di Damon; ovviamente ce ne saranno altri e uno ve lo potrete pure immaginare!

Elena conserverà un po’ le sue caratteristiche di principessina ( o non sarebbe più lei) ma si avvicinerà molto di più alla dolcissima ragazza della prima stagione di TVD; quella è l’Elena che ammiro. In questo capitolo difende a spada tratta Damon e anche durante il corso della storia sarà sempre quelle che si schiererà dalla sua parte. Mi spiego meglio; lei ama SEMPRE e SOLO Stefan, ma ha avuto modo di vedere la parte migliore di Damon e si è ritrovata a volergli molto bene. Damon con lei si è sempre comportato in modo impeccabile per via della sua (chiamiamola) ossessione quindi Elena non ha mai sperimentato il suo lato cattivo.

Diciamo che giocherà un ruolo fondamentale nell’avvicinamento tra Damon e Bonnie.

Il nostro Uccellino è molto acido nei confronti dell’altro protagonista ma ha tutti i buoni motivo dato che lui l’ha sempre trattata malissimo solo perché è la migliore amica di suo fratello.

C’è , però, un’intesa tra loro, un punto di contatto: la mamma di Damon e Stefan è morta alla nascita di quest’ultimo e quella di Bonnie l’ha abbandonata tredici anni prima dell’inizio di questa fanfiction (copiata palesemente dalla serie tv, lo so!). Damon e Bonnie non si piacciono, non si rispettano neppure se non costretti dalle situazioni, ma su quel punto trovano una connessione; anche questo sarà fondamentale per la crescita della loro relazione.

Ho inserito anche un punto di vista di Damon; è venuto bene secondo voi? Credo di averlo reso un po’ meno distaccato rispetto al libro, ma qui è un umano perciò è normale che abbia degli amici e che si lasci andare a qualche emozione!

Ora la stronza alias Katherine è tornata, che succederà? Caroline ed Elena probabilmente tenteranno il suicidio ma ce la dovrebbero fare per fine estate; le ritroveremo entrambe a settembre!

Ora un po’ di ringraziamenti sono dovuti:

-Chi ha messo la storia nelle seguite:

1 - Amy In Wonderland
2 - AniaS
3 - BONNIE SALVATORE
4 - Carolaspostata
5 - Desyree92
6 - dree07
7 - Eyesless
8 - gaga96
9 - iosnio90
10 - irene862
11 - Kaname94
12 - KiAmAtEmI_BoS
13 - meiousetsuna
14 - mishy
15 - missgabriella
16 - Mizzy
17 - nannavis
18 - Refia
19 - Roly_chan
20 - sole a mezzanotte
21 - Suspiria _
22 - sweet_ebe
23 - tykisgirl
24 - Valby
25 - veggente
26 - _Finchel92_

-Chi ha messo la storia tra le preferite:

1 - bonniesalvatore
2 - JaneYumi
3 - leloale
4 - lilyanne89masen
5 - lisetta95
6 - LittleWitch_
7 - real
8 - SassyKat
9 - star11

-Chi tra le ricordate:

- princess of the darkness

 

E quella fantastiche 12 persone che hanno commentato:

star11

nannavis

bonniesalvatore

LittleWitch_

Jane The Angel

Bumbuni

meiousetsuna

Refia

irene862

real

sweet_ebe

Amy in Wonderland.

E ovviamente a tutti i lettori silenzionsi!!!

 

Infine un ringraziamento speciale a meiousetsuna che mi sprona sempre a scrivere e a fare meglio!! Grazie!!

Qualche giorno fa Amy in Wonderland ha postato l’epilogo della sua bellissima storia “Ti serve un concorrente?”; per chi non l’avesse fatto, corra a leggerla!

 

Ora vi lascio! Ci vediamo con questa storia a settembre ma il 13 con Ashes&Wine!

Baci,

Fran;)

 

*Grayson e Miranda sono i nomi dei genitori di Elena nella serie tv.

** Allora qui si apre una disquisizione sui balli nelle scuole americane: Homecoming è il ballo d’inizio anno o il ballo di autunno. Prom è il ballo di fine anno; in entrambi vengono eletti re e reginette. Ora non so se ci sia e quale sia la differenza, forse il Prom è riservato agli studenti dell’ultimo anno.

*** “Non è un’altra stupida commedia americana” è un film parodia di tutti i film adolescenziali sulle high school degli Stati Uniti.

**** De Lincourt è il cognome di Lestat, il vampiro nato dalla penna di Anne Rice. Omaggio a questa grande scrittrice.

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Capitolo 3
*** Dirty Dance ***


Crazy Little Thing Called Love

Capitolo tre: Dirty Dance.

 

“I wanna dance with somebody,
I wanna feel the heat.
I wanna dance with somebody,
With somebody who loves me.
Somebody who loves me,
To hold me in his arms.
I need a man who'll take a chance,
On a love that burns hot enough to last.
So when the night falls,
My lonely heart calls”

(I wanna dance with somebody- Whitney Houston).

 

Feci una giravolta, continuando a ruotare il collo per non lasciare la mia immagine riflessa nello specchio.

Il mio viso si contrasse in una smorfia poco convinta: quella specie di carta stagnola che mi avvolgeva il corpo non aveva proprio niente a che spartire con il mio stile, ma a detta di Caroline era l’ultimo trend della stagione, un capo che non poteva mancare nell’armadio di una ragazza.

Tirai l’orlo verso il basso in un vano tentativo di coprire almeno una parte di coscia; mio Dio, cosa avrebbe detto mio padre?!

Non potevo scendere con quel coso strizzato addosso o sarei morta di vergogna. Per non parlare poi di quel paio di trampoli che mi guardava minacciosamente, a monito del male che i miei poveri piedi avrebbero patito.

Se un mese prima mi avessero detto che sarei andata al Ballo d’Inizio Anno indossando un abito di tal genere, accompagnata da uno dei più bei ragazzi della città, non ci avrei mai creduto; anzi sarei scoppiata a ridere.

Mia sorella mi chiamò dal salotto, annunciando che il mio cavaliere era arrivato a prendermi e improvvisamente le mie riserve sul vestito sparirono e non mi preoccupai più delle occhiatacce bigotte di mio padre. Ero semplicemente pronta per una delle serate più importanti della mia vita.

 

Tre giorni prima.

Il falò propiziatorio per la stagione del football precedeva tradizionalmente Homecoming.

Era uno di quei momenti che una ragazzina sognava per tutto il periodo delle medie, accecata dai bagliori delle serie tv, e che perdeva tutto il suo fascino già la prima volta; immaginate quanto fosse noioso dopo ben tre anni.

Caroline ed Elena erano cheerleader e la loro presenza era necessaria; così io e Meredith le accompagnavamo come supporto morale.

Era passata poco meno di una settimana dal ritorno di Katherine ma aveva già scombussolato l’equilibrio che ci eravamo create faticosamente.

Non era difficile credere che tutti i ragazzi fossero andati in estasi: un’altra dea era scesa tra loro e questa era molto più incline al flirt della sua gemella. Peccato che Katherine non fosse certo una sprovveduta e aveva già adocchiato il donnaiolo più ambito di Fell’s Church.

Non sapevo di preciso che tipo di relazione avessero, erano trascorsi davvero pochi giorni, ma li avevo visti insieme un paio di volte ed era chiaro che ci fosse del feeling.

Caroline quando aveva appreso la notizia era entrata nel panico; aveva lottato per tutta la sua vita per eccellere ma sembrava comunque destinata ad essere seconda ad una Gilbert. Katherine in pochissimo tempo l’aveva già superata in popolarità: era bellissima, aveva fascino da vendere e si era accaparrata il ragazzo più sexy della città.

Grazie al Cielo, Caroline non era il tipo da arrendersi così facilmente; Homecoming non si era ancora tenuto e colei che sarebbe stata eletta regina, avrebbe dettato legge.

Tirando un paio di conti, avevamo una Gilbert che preferiva godersi il suo Salvatore lontano dalle luci della fama, un’altra Gilbert che fremeva di diventare la nuova it girl con il suo di Salvatore, una Forbes che non si sarebbe placata fino a che quella maledetta corona non fosse stata tra le sue mani, una Sulez troppo superiore e matura per immischiarsi in quelle faccende da bambine frivole e una McCulluogh che come al solito passava inosservata.

La cosa, in ogni caso, non mi dispiaceva: Katherine sapeva essere molto crudele e io preferivo starmene in disparte.

“Non mi piace” fu il commento di Meredith che ruppe il nostro silenzio.

Io mi voltai interrogativa verso di lei.

“Non è una persona che vorrei avere attorno; è come se spargesse veleno” continuò “Doveva rimanere in Francia”.

Mi stupii che Meredith si fosse lasciata andare ad un giudizio così categorico; normalmente non si pronunciava mai su questioni che non sentiva di conoscere.

“Nemmeno tu sei una gran fan di Kathy, eh?” le chiesi osservando la ragazza in questione mentre sgambettava nella sua divisa rossa, molto corta e attillata in mezzo alle altre cheerleader. Caroline a suo malincuore era stata costretta ad ammetterla nella squadra, probabilmente nella speranza che si sarebbe rotta una caviglia cadendo.

“Me la ricordo da piccola” disse Meredith “Era già subdola allora, non mi sembra che sia cambiata molto. Ho l’impressione che porterà solamente un sacco di liti”.

“Su questo non ho dubbi” confermai io.

“E’ sempre stata invidiosa di Elena; quanto ci metterà a volere quello che ha lei?” domandò forse più a se stessa che a me, dato che dava l’impressione di non aver nemmeno ascoltato cosa le avevo detto.

Appariva davvero crucciata, troppo per una come lei, di solito così razionale e imperturbabile.

“Vado a prendere ancora della coca. Vuoi qualcosa?”.

“No, grazie” la guardai sparire tra la folla.

Avrei voluto capire a cosa si riferisse ma non ebbi neanche il tempo di fermarla. Sospirai e decisi di non darmi tanta pena. Avevo fin troppe cose cui pensare senza perdere tempo con Katherine Gilbert e i suoi piani diabolici.

Mi strinsi nelle spalle un po’ a disagio. Non mi piaceva stare sola in mezzo alla massa di studenti in festa: mi faceva sentire stupida, una perdente, come se tutti gli occhi fossero puntati su di me.

In realtà nessuno stava prestando attenzione a me, ma era un senso di fastidio che non riuscivo a scrollarmi di dosso. Senza le mie amiche ero persa. Desiderava con tutto il cuore rendermi più indipendente, più sicura ma a Fell’s Church mi risultava più complicato; tutti mi conoscevano, sapevano che tipo di persona ero. Che senso aveva cercare di cambiare se coloro che mi circondavano non avrebbero accettato il mio cambiamento?

Stavo quasi per richiamare Meredith quando una mano si posò sulla mia spalla, stringendola. Io sobbalzai e mi girai “Matt!” esclamai.

Istintivamente mi venne da indietreggiare ma m’imposi di non farlo. Matt Honeycutt era stato la mia cotta segreta per i primi anni del liceo; ovviamente non mi aveva mai considerata in quel senso.

La sua storia con Elena lo aveva scottato parecchio, tanto da non riuscire a frequentare nessun’altra per molto tempo; poi era arrivata Caroline, ma anche con lei era finita proprio per colpa del fantasma di Elena che aleggiava sempre attorno a loro.

Conoscevo Matt dai tempi dell’asilo ed era sempre stato un buon amico, un punto di riferimento. Nonostante fosse il capitano della squadra di football, non si era mai montato la testa e rimaneva il ragazzo più dolce e gentile che avessi mai incontrato.

Lentamente avevo dimenticato e sotterrato la mia piccola infatuazione, però ogni volta che me lo trovavo così vicino non potevo fare a meno di arrossire.

“Ehi Bon! Che ci fai qui? Tu che puoi evitarti questo strazio” mi disse accennando alla cerimonia del falò.

“Sono qui per supporto; Mere è andata a prendere da bere”.

Matt sorrise “Non vedo l’ora che finisca. Sono troppo stanco, ho voglia di andare a casa a dormire”.

“Non dirlo a me” sbuffai “Sono qui solo perché Caroline mi ha supplicata; sai, sta preparando il terreno per Homecoming”.

“Giusto, assisteremo ad uno scontro tra titani?”.

“Probabile”.

“Parlando del ballo, ci vai con qualcuno?”.

“Nessuno in particolare e tu?” ero davvero tanto ingenua e non avevo capito dove volesse andare a parare.

“Se t’invitassi?” mi propose lui “Preferirei andarci con un’amica piuttosto che con qualcuna con cui ho scambiato solo due parole”.

Matt Honeycutt mi aveva appena invitata al ballo? Come amica, certo, però mi aveva invitata. La mia autostima fece un paio di capriole.

Gli risposi sorridendo come un’ebete. Mi sarei messa a saltellare ma non sarebbe stato molto dignitoso.

Fu così che il giorno dopo mi ritrovai in una delle boutique più alla moda di Fell’s Church con le mie amiche.

Fare shopping con Elena e Caroline era parecchio demoralizzante: su di loro ogni vestito sembrava risplendere. Erano due top model, avevano gioco facile.

Anche Meredith comunque aveva ad un bel fisico slanciato. Io ero la più bassina. L’estate in Spagna mi aveva fatto davvero bene, il mio corpo ero molto più tonico e potevo permettermi certi abiti che prima mi sarei sognata ma ero lontana anni luce dal livello delle mie amiche. Tra la folla non venivo certo notata quanto loro.

Ma quel vestito che Caroline mi aveva costretta ad indossare era decisamente troppo. Un tubino corto, senza maniche, abbastanza stretto, color argento. Non sembrava fosse molto adatto per un fisico con poche forme come il mio; Caroline era di opinione contraria e così anche Elena.

L’unica che mi dava man forte era Meredith ma contro le altre due risultava comunque una lotta impari.

“Care, non potrei provare qualcosa di più sobrio?”.

“Intendi noioso? Neanche per sogno!” s’impuntò lei “Anche voi, dite qualcosa”.

“Ti sta molto bene, Bonnie” concordò Elena “Caroline ha ragione: ogni tanto devi osare un po’ di più”.

“E poi andrai al ballo con Matt” rincarò Caroline “Non è il primo sfigato che passa per strada, è uno dei ragazzi più popolari della scuola! Devi togliergli il fiato!”.

“Non devi mettere niente che non ti faccia sentire a tuoi agio” mi confortò Meredith.

“Credi mi stia male?” le chiesi dato che mi sembrava la più obiettiva.

“No” mi rispose sinceramente “Ma è a te che deve piacere non a noi”.

Mi morsi il labbro, indecisa. Da una parte non lo sentivo mio, ma dall’altra era molto diverso dal mio genere e forse era quello che mi serviva per una bella scossa.

Matt lo sto facendo solo per te.

 

Sera della festa.

Restai attonito di fronte alla dea che si presentò alla porta quando l’andai a prendere.

Era straordinaria la somiglianza con la gemella, anche se –dovevo proprio ammetterlo- Elena aveva un’altra classe. La sua bellezza era naturale, non esibita; Katherine d’altro canto trasudava sensualità da tutti i pori.

Mi piaceva quel suo lato malizioso e sfacciato. Si divertiva a stuzzicarmi e io stavo al gioco più che volentieri. Le lasciavo perfino credere che potesse condurre le danze, ma sapevo che avrei potuto prendere il controllo e rimetterla al suo posto in qualsiasi momento.

Mi rendevo conto di quanto la cosa risultasse strana, al limite del malato: da tempo ormai desideravo Elena solo per me e alla fine avevo iniziato a frequentare la sua gemella. Quale assurdo meccanismo del mio subconscio mi aveva portato a fare ciò? Non avrei saputo dirlo. Non era un premio di consolazione, quello no.

Semplicemente un giorno si era presentata a casa mia e mi aveva invitato a prendere un caffè. Nelle lunghe ore trascorse a parlare, avevo scoperto quanto fosse molto simile a me; la sua personalità era molto più compatibile alla mia rispetto a quella di Elena e perciò mi ero detto: perché no?

Perché non provare a conquistare la mia Gilbert personale? Una Gilbert che mi avrebbe reso sicuramente più felice della sorella.

Così mi ero ritrovato incastrato in questa stupida faccenda del ballo.

Non feci nemmeno molto caso al suo vestito, forse era rosa; la mia attenzione venne catalizzata dalle gambe lunghe e ben definite lasciate scoperte dalla stoffa.

Quanto avrei voluto saltare il ballo e portarla in camera mia, dove avrei potuto toccarle fino a consumarle e bearmi di tanti altri doni.

Questa stupida festa era molto importante per lei ed ero obbligato ad accontentarla. Dopotutto, ne valeva la pena: Katherine rappresentava la mia compagna ideale, quasi quanto Elena. Non potevo lasciarmi scappare un’occasione che forse non si sarebbe più ripresentata. Io ero Damon Salvatore e non fallivo mai.

“Ehi, il viso è qui su” la sentii rimproverarmi dopo che il mio sguardo si era soffermato un po’ troppo sul suo corpo. Chi poteva biasimarmi?

Ritornare al Robert E. Lee dopo tutto quel tempo non era il mio sogno ricorrente; anzi l’avrei evitato con tutto il cuore.

Per quattro anni ero stato il re della scuola, il suo vero padrone. Le ragazze mi amavano, i ragazzi mi temevano, i professori non mi sopportavano ma in un modo o nell’altro tutti mi rispettavano.

Ero a conoscenza dell’ascendente che avevo sugli altri benché non sapessi da dove derivasse. Sicuramente dovevo ringraziare il mio bell’aspetto ma non poteva essere soltanto quello.

Da quando mia madre era morta, mi ero arrangiato per crescere da solo, senza l’aiuto del mio odiato padre. Mi ero reso indipendente, sicuro, avevo sviluppato un gran carisma e un ottimo controllo su me stesso e su chi mi stava attorno.

La forte personalità era l’unica cosa positiva che avevo preso da mio padre, con una buona dose di egoismo che mi aveva risparmiato parecchie seccature.

Tutto questo sembrava oro colato agli occhi delle persone; continuavo a non capirne il perché, ma ne approfittavo, lo giravo a mio favore.

Perché non avrei dovuto? Al mondo non c’era posto per i deboli, io colpivo e sopraffacevo; se gli altri erano così stupidi da mostrare le loro insicurezze, peggio per loro, mi rendevano la strada solo più facile.

Trovarmi in mezzo a tutta quella marmaglia di adolescenti mi fece sentire quasi vecchio; sicuramente seccato. Avevo superato il tempo dei balli scolastici e dei palloncini sparsi per la palestra.

Ormai mi ero abituato a feste di ben altro livello. Per una sera mi sarei dovuto adattare. Katherine avrebbe fatto meglio a ricompensarmi ampiamente e generosamente.

Iniziavo a vedere le prime teste girarsi verso di noi. Eravamo una coppia da togliere il fiato, me ne rendevo conto. Gli occhi delle ragazzine si sgranarono nello scorgermi: ero il loro sogno proibito.

Tutte impazzivano per Stefan perché lui era la quintessenza del principe azzurro; ma io ero il loro diavolo tentatore, ero l’unico capace di portare un brivido nella loro vita monotona in questa cittadina sperduta nella Virginia.

Potere; ecco ciò che ricercavo senza sosta: potere sulle persone.

Poco più in là fecero il loro ingresso il mio fratellino e la sua ragazza e fu il mio turno di trattenere il respiro.

Elena era davvero bellissima e per un momento (forse più di un momento) mi sfiorò la fantasia di avere entrambe le gemelle per me, ma la scacciai in fretta. Non volevo che Katherine si sentisse minacciata dalla sorella; conoscevo la sensazione e non l’avrei augurata a nessuno, per cui mi sbrigai a distogliere lo sguardo e a concentrarlo sulla mia dama che camminava al mio fianco come una pantera.

Più stavo con lei, più mi convincevo che saremmo diventati una coppia esplosiva e in un universo parallelo saremmo stati degli esseri superiore pronti a governare il mondo.

La strinsi e procedemmo per la sala.

“Santo Cielo” la sentii inveire “Le feste a Parigi erano tutta un’altra cosa”.

“Sei tu che hai insistito per venire; fosse stato per me adesso staremo festeggiando in altra maniera”.

Questo mi costò un pungo sulla spalla.

“Non essere così triviale” mi rimproverò ma nei suoi occhi potevo leggere lo stesso mio desiderio “Dovevo venire questa sera; mi eleggeranno reginetta”.

“Non per rovinare le tue aspettative ma non ne sarei così sicuro: hai un paio di avversarie piuttosto toste” le ricordai.

“La mia sorellina non si è nemmeno candidata e Caroline non è un problema” mi rispose senza scomporsi “Non mi credi abbastanza bella per vincere?”.

“Preferisco tenermi lontano da queste dispute da liceale” dissi “Ma la mia opinione mi sembra abbastanza chiara, no? Non mi pare di essere al ballo con Caroline Forbes”.

“Caro il mio Damon” mi soffiò all’orecchio “Sempre così bravo ad aggirare le risposte” mi punzecchiò “Ti prometto che non ti pentirai di avermi accompagnata”.

Mi lasciò un bacio all’angolo della bocca e si allontanò per salutare delle sue compagne. Era proprio una civetta nata e stavo cadendo in pieno tra i suoi artigli.

Gironzolai un po’ per la palestra in attesa che Katherine tornasse e scorsi una coppia davvero inaspettata: Matt Honeycutt e il mio Uccellino.

Da quando quel troglodita di Mutt aveva delle mire su Bonnie? Credevo fosse talmente accecato dal fulgore di Elena da non avere occhi per nessun’altra.

Non mi sarei sorpreso di vederlo con Caroline ma Bonnie era una novità. Mi presi un attimo per osservare la rossa e mi scappò una risatina.

Quell’abito non era assolutamente adatto a lei e si poteva percepire lontano un miglio il suo disagio nell’indossarlo.

Quel vestito sarebbe stato più appropriato su una donna, non su una bambina. Bonnie poteva anche avere quasi diciott’anni sulla carta ma non li dimostrava per niente. Non parlavo tanto del fisico quanto dell’atteggiamento.

La piccola McCulluogh viveva ancora nel modo delle favole, non aveva la minima idea di cosa volesse dire la parola femminilità. Era troppo ingenua e immatura per capire il potere che esercitava una donna, il fascino che poteva emanare anche con una sola occhiata. Bonnie era totalmente inesperta nel gioco della seduzione.

Quell’abito la stava imbarazzando oltre ogni misura perché lei per prima non si sentiva bene strizzata in quella stoffa così aderente.

C’era di sicuro lo zampino di Caroline.

Decisi che mi sarei divertito un po’ a prenderla in giro. Dovevo pur intrattenermi in qualche modo mentre attendevo Katherine.

“Uccellino” la chiamai dopo che il suo cavaliere si fu allontanato “Come siamo tutte tirate a lucido stasera”.

“Vattene, Damon” fu il suo lapidario avvertimento; si voltò per andarsene ma io le bloccai la strada.

“Non essere acida, il mio voleva essere un complimento” sì, come no!

“Ti ringrazio” e sorrise falsamente “Ora puoi sparire”.

Mosse un passo in avanti ma io la riacciuffai per un braccio e la tirai verso di me “Sciogliti un po’, siamo ad una festa dopotutto”.

Lei avvicinò pericolosamente il viso al mio e digrignò tra i denti “Tornate dalla vipera che ti sei portato. Tra serpi v’intenderete benissimo”.

Che coraggio che aveva sviluppato quella piccoletta! In altre occasioni l’avrei anche apprezzato ma era già la seconda che mi sfidava così apertamente e non potevo permetterle di continuare a prendersi certe confidenze.

La obbligai a fare una giravolta e premetti la sua schiena contro il mio torace. Mi chinai sul suo orecchio a sibilarle “Stai giocando a fare la grande, non è vero Bon Bon? Ma non basta un vestito per crescere all’improvviso. Credi che Honeycutt ti abbia invitato perché gli piaci? Lascia che ti illumini: non voleva presentarsi da solo come uno stupido dopo aver mollato la Forbes e ha chiesto alla prima ragazza con cui poteva andare sul sicuro. E tu sei stata talmente patetica da aver accettato pur sapendo che il suo unico scopo è far ingelosire Elena. Fatti un favore: smettila di renderti ridicola e va’ a casa; a quest’ora i bimbi dovrebbero già essere a letto”.

Lasciai la presa prima che lei potesse obiettare qualcosa e mi mischiai tra la folla per non sorbirmi le sue lacrime.

Ero stato un vero stronzo ma proprio non riuscii a pentirmene.

Nessuno poteva mettermi i piedi in testa, nessuno poteva mancarmi di rispetto. Bonnie aveva tirato troppo la corda, se l’era cercata. La prossima volta ci avrebbe pensato due volte prima di provocarmi.

Katherine mi venne incontro in tutto il suo splendore e Bonnie McCulluogh sparì in un baleno dalla mia mente.

Avevo una ragazza decisamente più importante di cui occuparmi.

 

Come osava? Che diritto aveva di farmi sentire una piccola sfigata?

Quello era il motivo per cui proprio non riuscivo a vedere in lui tutto il bene che mi decantava Elena, per cui non avrei mai potuto capirlo e compatirlo: la sua cattiveria gratuita.

Non avevo fatto niente di male per essere trattata in tal modo e quella di prima era stata solo una delle tante volte. Si divertiva a sputare veleno su di me, su tutti a dire la verità, ma io ero di gran lunga il suo bersaglio preferito.

Sembrava quasi volesse punirmi perché ero una brava ragazza e più gli stavo alla larga, più si accaniva.

Rispetto ai tempi in cui anche lui frequentava il liceo, aveva fatto degli enormi passi avanti, ma capitava che la sua rabbia repressa tornasse pronta ad attaccare.

Era di quello che si trattava, di rabbia repressa verso tutta la sua famiglia e la sua vita. Ogni tanto doveva sfogarla su qualcuno per non esplodere. E quel qualcuno spesso ero io o in alternativa Stefan.

Odiavo che Damon riuscisse a colpirmi sempre così in profondità; le sue parole facevano male perché erano vere o quantomeno verosimili. E nemmeno quella volta si era smentito: io non piacevo a Matt.

Mi voleva bene, ero una sua amica, ma non sarei mai stata la sua prima scelta. Probabilmente in fondo al cuore sperava di ingelosire un po’ Elena portandomi al ballo. Invitare Caroline sarebbe stato troppo imbarazzante, così aveva ripiegato su di me.

Damon aveva ragione: io sapevo quali fossero le condizioni, eppure avevo accettato ugualmente e magari adesso tutta la scuola la pensava allo stesso modo: quell’insulsa di Bonnie McCullough che si offriva spontaneamente come rimpiazzo.

O forse a nessuno importava.

Non avrei dovuto permettere a Damon Salvatore di rovinarmi così la serata. La nuova Bonnie non si sarebbe mai piegata alle sue prepotenze.

Delle braccia mi strinsero da dietro “Qualunque cosa ti abbia detto, non prestargli ascolto. Sei bellissima”.

Mi appoggiai al torace del mio migliore amico che, dopo aver notato il mio viso afflitto, si era avvicinato per consolarmi.

“Non mi ha detto niente, non me lo ricordo neanche più” lo rassicurai. Non volevo fare la solita piagnona.

“Meglio così” sorrise Stefan e prese ad ondeggiare a ritmo di musica “Allora, tu e Matt. Sbaglio o finalmente ha capito quanto tu sia speciale?”.

“Siamo soltanto amici, Stef” sminuii io “Mi avrà invitata per comodità”.

“Ecco cosa ti ha detto” intuì lui “Matt è il mio migliore amico e credo di conoscerlo un po’ meglio di mio fratello. Credimi se ti dico che ti ha invitata per una ragione”.

Mi girai verso di lui e lo guardai con occhi sospettosi “Se sai qualcosa devi dirmelo! Non puoi tenermi così sulle spine!”.

“E’ così divertente” ridacchiò lui “E poi non spetta a me spifferare tutto. Ti basti sapere che Matt ti ha invitata perché voleva venirci con te”.

“Mi farai morire dalla curiosità, Stefan” lo rimproverai e gli scoccai un bacio sulla guancia per ringraziarlo di avermi fatto tornare il buon umore “Non dovresti tornare da Elena? L’hai lasciata sola?”.

“E’ con Meredith; non sentirà la mia mancanza per cinque minuti”.

“Se fossi in te la terrei d’occhio, potrebbe saltare al collo di Katherine in qualsiasi momento”.

“Non credo che la disturberebbe in questo momento: Katherine è troppo occupata a saltare al collo di mio fratello” mi aggiornò facendo un cenno con il viso.

Guardai nella direzione che m’indicò e scorsi la coppia del secolo che si baciava in mezzo alla pista, incurante degli sguardi indiscreti come il mio.

Avrei scommesso qualsiasi cosa che Katherine per tutta la sera non aveva aspettato altro che l’occasione di marchiare il territorio ed esibire la sua succulenta preda.

Damon poteva credere fino alla morte di essere il cacciatore, ma in realtà era finito nella trappola della bionda come un allocco.

“Sono due esibizionisti” mormorai.

“Katherine non è proprio in cima alla lista delle mie persone preferite” iniziò Stefan “Ma se rende felice mio fratello, è la benvenuta”.

Io spalancai la bocca incredula “Sei davvero troppo buono! Sono anni che quel pazzo cerca di rovinarti la vita e tu sei contento per lui?”.

“Prima di tutto: adesso che ha la sua Gilbert magari lascerà in pace la mia. E poi è pur sempre mio fratello, non posso che volergli bene”.

Stefan Salvatore: il ritratto della maturità. Quanto avrei voluto essere così comprensiva. Da un lato comunque lo capivo: come aveva detto lui stesso, Damon era suo fratello, era la sua famiglia e per quanto potessero odiarsi, alla fine erano tutto ciò che avevano.

Giuseppe era un brav’uomo ma non era adatto a fare il padre; era diventato freddo, quasi insensibile, specialmente dopo la morte della moglie, e non era stato in grado di trasmettere loro l’amore di cui avevano bisogno.

“Ora fammi un piacere: togliti Damon dalla testa e divertiti. Soprattutto torna dal tuo cavaliere” mi esortò dandomi una spintarella.

Matt era vicino al tavolo delle bevande e mi guardava un po’ intristito, aspettando pazientemente che io finissi la mia chiacchierata con Stefan.

Mi diressi verso di lui e accettai sorridendo il bicchiere che mi porgeva “Grazie”.

“Figurati; non ti assicuro sulla qualità del contenuto” scherzò “Comincio a sentire la mancanza di Tyler e dei suoi cocktail corretti”.

“Io no; tornavo a casa sempre su di giri. Non reggo molto l’alcol”.

“Mi pare di ricordare la tua prima sbronza” mi punzecchiò lui.

Io divenni bordeaux: quell’esperienza era ben stampata nella mia memoria. Avevamo fatto un festa in casa di Caroline e io mi ero ritrovata a correre su e giù dalle scale, ubriaca come mai nella mia vita, finché Stefan non mi aveva costretta a mettermi a letto. Dopo pochi minuti mi ero alzata e avevo vomitato tutto, mentre quel povero del mio amico mi teneva la testa pazientemente. Quando la mattina successiva mi ero resa conto che Matt aveva assistito a tutta la scena, mi ero sciolta per l’imbarazzo.

Era stata la mia unica sbronza e non ci tenevo a riprovare.

“Possiamo dimenticarcela?” chiesi soffocando uno sbuffo nel bicchiere.

“Perché mai? Eri così carina con quel pigiamino rosa” continuò a prendermi in giro.

“Matt!” lo implorai mentre lui liberava una risata.

Quanto era bello quando rideva! Gli occhi blu si illuminavano. Forse la mia cotta non era sparita del tutto, forse avevo cercato di scordarmene ma non potevo avere il controllo sui miei sentimenti. E Matt li risvegliava tutti.

Dovevo ricacciarli via perché non avevo speranze con un ragazzo come lui. Anche se le parole di Stefan mi avevano messo la pulce nell’orecchio.

Avrei voluto trovare il modo d’introdurre l’argomento ma la voce amplificata del preside bloccò ogni mio tentativo.

Era giunta l’ora della nomina di re e reginetta di Homecoming.

I miei occhi scattarono istintivamente verso Caroline che si stava torturando le mani in attesa del verdetto. Pregai davvero con tutto il cuore che fosse eletta perché l’avrebbe resa molto felice e magari si sarebbe finalmente convinta di valere quanto Elena.

Stefan fu proclamato re senza la sorpresa di nessuno. Erano anni che lui e Matt si alternavano il titolo. Salì sul palco e prese la corona.

Gli attimi successivi si svolsero a rallentatore e al nome di Katherine Gilbert sembrò che il mondo attorno a me si fosse congelato.

Nella mia testa partì un filmino in cui sia Elena che Caroline si gettavano sulla bionda infame; la prima per strappare il suo fidanzato dalle grinfie di quell’arpia, la seconda per riprendersi il diadema che sentiva suo di diritto.

Alla fine entrambe riemergevano vittoriose dalla lotta, contendendosi la testa insanguinata di Katherine.

Ovviamente non accadde niente del genere, ma non me ne sarei stupita, almeno a giudicare dagli sguardi omicidi delle mie due amiche.

Katherine saltellò sul palco, felice come una pasqua, s’incoronò da sola e poi prese Stefan per una mano, trascinandolo in pista per aprire la danza dei vincitori, come da tradizione.

Mi scusai con Matt e corsi da Caroline. Poco ci mancava che avesse i capelli per aria e gli occhi fuori dalle orbite. Improvvisamente si era resa conto che tutti i suoi sforzi per conquistare il primo posto erano stati vani e che anzi, stava lentamente scivolando in terza posizione.

“Quella stronza! Quella piccola biscia infida! Quella grandissima pu-” stava inveendo ma Meredith la fermò prontamente.

“Tesoro, datti un contengo” la blandì “Non vuoi fare una scenata proprio adesso, vero?” le intimò “Fa’ l’indifferente, fa’ la superiore”.

“La fai facile tu!” ringhiò Caroline “Vorrei vedere se … se … insomma un conto era Elena; potevo anche sopportare di essere battuta ma quella lì, quella lì … per l’amor di Dio Elena, vuoi fare qualcosa? Non vedi come si sta strusciando sul tuo ragazzo?!” trillò indignata dal modo in cui Katherine si era avviluppata addosso a Stefan.

La nostra amica bionda nemmeno l’ascoltò; era troppo impegnata a lanciare dardi di fuoco contro la gemella.

“E’ sempre stata invidiosa di Elena; quanto ci metterà a volere quello che ha lei?”.

Mi ricordai delle parole di Meredith al falò, che in quel momento mi erano parse totalmente prive di senso. Avrei dovuto sospettare che lei avesse capito le intenzioni di Katherine molto meglio di tutte noi.

Che l’altra Gilbert volesse Stefan e non Damon, solo per il gusto di soffiarlo alla sorella? O che li volesse entrambi per dimostrare qualcosa?

In tutta quella confusione, potei appurare con molto piacere di aver scovato una nota positiva: Damon Salvatore appoggiato contro la parete, verde di gelosia nel vedere il fratello ballare con Katherine.

E un’idea mi balzò in mente: volevo fargliela pagare per ciò che mi aveva detto prima. Non era da me progettare vendette ma Damon mi aveva esasperato e doveva smetterla di trattarmi come se fossi stato uno zerbino da calpestare senza problemi.

Io non ero più quel tipo di ragazza.

Lo affiancai con un sorrisino compiaciuto “Cambia il soggetto ma non cambia la storia”.

“Cosa vuoi, Bonnie?” tagliò corto. Doveva essere proprio nervoso se non usava uno dei miei soliti nomignoli.

“Niente d’importante, riflettevo solo quanto può essere ironico il destino” insinuai “Hai desiderato per anni una ragazza che non ti ha mai degnato di uno sguardo e sei stato così patetico da trovare come rimpiazzo la sua gemella. Sembra, però, che anche lei preferisca tuo fratello e tu sei costretto ancora una volta a stare in disparte. Chi è che si sta rendendo ridicolo adesso, Damon?”.

Le sue iridi nere saettarono su di me più scure di quanto si potesse immaginare. Mi ero spinta troppo in là, mi avrebbe fatto rimpiangere quel mio atto di spavalderia ma non ero riuscita a trattenermi.

Probabilmente se fossi stata un uomo, mi avrebbe già tirato un pugno. Lo intuii dal fremito di rabbia lo scosse e dalla mascella che si contrasse. Per un attimo intravidi un lampo mortificato nei suoi occhi ma svanì subito.

Damon si calmò e distolse lo sguardo senza più prestare attenzione a me; non mi restò altro che andarmene, con un fastidioso senso di colpa che mi attanagliava lo stomaco. Da una parte ero contenta di avergli tenuto testa, dall’altra non ero fiera di essere stata così cattiva perché non era nella mia natura. Odiavo che Damon tirasse fuori quel lato di me.

 Matt che m’intercettò a metà strada e mi fece piroettare fino alla pista dove iniziammo a ballare; presto il maggiore dei Salvatore sparì dai miei pensieri e mi concentrai solamente sul mio splendido accompagnatore.

Quella musica lenta terminò e si cambiò decisamente ritmo; Stefan sgusciò via per ritornare dalla sua Elena e Katherine e Damon si dileguarono, probabilmente per volere di quest’ultimo.

Il resto della serata trascorse tra balli, scherzi e risate. Il dramma della reginetta fu presto dimenticato; Caroline risolse di proiettarsi verso il futuro e di progettare eventualmente una piccola rivincita sulla nuova bella del reame.

Quando Matt mi riaccompagnò a casa, era mezzanotte passata. Il mio abito non si era tramutato in stracci, non c’erano zucche in vista. Come avevo già sospettato, non ero affatto la versione moderna di Cenerentola.

Raggiungemmo il mio portico e mi affrettai a cercare la chiavi di casa per togliermi da quei saluti carichi di un silenzio imbarazzante.

Matt, però, mi spiazzò “Bonnie ti devo confessare una cosa”.

Gelai sul posto e la mia mano lasciò ricadere le chiavi nella pochette.

“Al falò ti ho detto che ti consideravo un’amica con cui andare al ballo” disse “Non è proprio così” appariva piuttosto imbarazzato; io invece ero pietrificata “Quando ti ho rivisto dopo le vacanze, è stato diverso, come se … improvvisamente non ti volessi più come solo come amica”.

O mio Dio, stava capitando davvero a me?

“Stefan mi ha consigliato d’invitarti al ballo e beh… è quello che ho fatto; forse avrei dovuto dirti subito le mie intenzioni”.

“Matt, mi stai dicendo la verità perché ti sei pentito di avermi accompagnato?” non potevo credere che fosse tutto così semplice, non potevo credere che Matt Honeycutt si fosse finalmente accorto della mia esistenza.

“No!” negò lui “Tutto il contrario; sono stato benissimo con te e mi piacerebbe uscire qualche altra volta con te, solo noi due. Sempre che per te vada bene” aggiunse con tono speranzoso.

“Anche io sono stata bene” ammisi mordicchiandomi il labbro “Uscirei molto volentieri con te”.

Era assurdo! Ci conoscevamo da una vita, eppure eravamo imbalsamati come delle mummie, immobilizzati dall’imbarazzo.

“Grazie della serata; è stata …”.

“Sì, infatti”.

Scoppiammo a ridere, sciogliendo infine la tensione.

Lo ringrazia un’altra volta e gli diedi la buona notte, piegandomi per stampargli un bacio sulla guancia. Lui mi fece l’occhiolino e si diresse verso la sua macchina.

Rientrai in casa, trattenendo l’euforia e la voglia di saltare fino al soffitto. Dovevo chiamare subito le ragazze. Feci un passo troppo lungo e sentii il vestito  fare resistenza sulla gambe. Mi sciolsi infastidita i capelli e marciai in camera con un solo obiettivo.

Togliermi quella carta da pacchi di dosso e bruciarla.

 

Il mio spazio:

Ben tornate dalle vacanze (per chi è ancora via, fortuna voi!). Com’è andata l’estate? Io posso dire di essermi divertita moltissimo e mi sto lentamente facendo forza per affrontare questo grigio autunno =(

Prima di tutto voglio dedicare questo capitolo a nannavis e augurarle un buon compleanno! Spero davvero che ti piaccia questo mio regalino!

Allora ci siamo lasciate con un ballo scolastico e ci rivediamo con un altro ballo scolastico; scusate la poco originalità -_-. Comunque questo è decisamente diverso.

Come potete vedere Bonnie e Damon non si possono proprio sopportare ed entrambi rimangono sulle loro posizioni. Bonnie è lontana anni luce dal suo corrispettivo cartaceo, non è affascinata da Damon, ne è intimorita (anche se a volte caccia fuori le unghie, come qui) ma è totalmente immune al suo charm.

Damon d’altra parte è …beh, ci penserete voi a definirlo con i francesismi che più vi aggradano. Sono davvero contenta di poter esplorare l’umanità di questo personaggio; è davvero stimolante per me e spero di star facendo un lavoro soddisfacente.

Questa storia è scritta in prima persona, quindi molte cose verranno spiegate con il tempo e in relazione ai due protagonisti; mi rendo conto, però, che alcuni dettagli possono essere per il momento un po’ confusi, quindi se avete delle curiosità, chiedete pure =)

Per quanto riguarda A&W mi servirà ancora un po’ di tempo per il prossimo capitolo, perché è abbastanza importante e voglio scriverlo bene. Comunque dopo il capitolo 33 gli aggiornamenti riprenderanno regolarmente ogni due settimane.

Non so nemmeno dirvi quando posterò il capitolo 4 di questa storia (lo so, sono un disastro) perché fino a che non finirò l’altra, questa procederà un po’ a rilento.

Abbiate pazienza; sono un po’ lenta ma non lascerò niente d’incompiuto.

Ora ho un grossissimo favore da chiedervi: qualcuna di voi ha voglia e tempo di creare un’immagine per questa storia?

Lo farei da sola, ma non so se avete visto quella che ho ideato per A&W, è davvero orribile. Diciamo che la grafica non è il mio forte :s.

Grazie in anticipo se qualcuno si proporrà!

Bene, ora vi lascio in pace e vi ringrazio per il continuo supporto!

A presto,

Fran;)

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Capitolo 4
*** By the light of the Moon ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo quattro: By the light of the Moon.

 

“Even though the neighborhood thinks I'm trashy,

And no good,

I suppose it could be true,

But there are worse things I could do

I could hurt someone like me,

Out of spite or jealousy.

I don’t steal and I don’t lie,

But I can feel and I can cry.

A fact I'll bet you never knew.

But to cry in front of you,

That's the worst thing I could do”

(There are worse thing I could do- da ‘Grease’).

 

Il buon giorno si vede dal mattino.

Non potevo essere più d’accordo. Mi ero svegliata con il sorriso sulle labbra al ricordo della sera prima. La festa era andata oltre ogni mia aspettativa.

Matt non mi aveva invitata per pena o per andare sul sicuro, ma perché gli piacevo. Alla facciaccia di Damon Salvatore!

Dato che ero una ragazza con i piedi per terra, per niente sognatrice, avevo già cominciato a fare le prove con il nome: Bonnie Honeycutt, la signora Honeycutt, McCulluogh in Honeycutt; suonava bene, no?

La giornata si era illuminata ancor più quando Matt mi aveva chiamato chiedendomi di uscire quella sera stessa. E io ovviamente avevo accettato all’istante, senza immaginare minimamente che qualcun altro avesse già preso impegni per me.

Evidentemente avrei dovuto considerare che i genitori non erano solo stati inventati per prendersi cura dei figli, ma anche per rovinare loro qualunque momento di gloria.

Probabilmente apparivo come una bambina che aveva appena scoperto la verità su Babbo Natale, o come un povero cucciolo con le orecchie basse; la mia espressione era palesemente delusa e mio padre mi guardò stranito.

“Gattina ma non sei contenta?”.

Quel soprannome non fece che aumentare la mia rabbia.

“Eh no però!” esplosi “Che cavolo! Una buona volta che un ragazzo mi chiede di uscire, tu stravolgi i miei piani senza nemmeno chiedermelo”.

“Ma Bonnie, abbiamo sempre fatto cene dai Salvatore e non ti sei mai lamentata”.

L’ennesima cena a casa Salvatore; non avevo niente contro Stefan e suo padre ma se ne avessi saltata una, non sarebbe cascato il mondo. Si poteva rimandare tranquillamente oppure per una volta avrei potuto mandare mio padre da solo. Stefan avrebbe capito l’emergenza e a Giuseppe non sarebbe certo mancata la mia presenza.

“Ho già detto a Matt che avrei mangiato con lui al Grill; non sarebbe carino cambiare idea all’ultimo momento” provai a convincerlo sbattendo le sopracciglia come mi aveva insegnato a fare Caroline.

“Non è tardi per disdire; basta richiamarlo e dire che hai un altro impegno”.

Il mio volto si scurì. Ma allora proprio non voleva capire!

“Papà, vedo Stefan tutti i giorni! Non credo che nessuno morirà se stasera non vengo”.

“Mi dispiace Bonnie ma mi sono già messo d’accordo con Giuseppe. Ti potrai vedere con Matt un’altra volta”.

“Già, perché spostare questa cena sarebbe troppo difficile? Perché poi è tanto importante?” berciai puntando i piedi “Insomma non hai pensato che io potessi essere già impegnata? La mio opinione non conta più in questa casa?” continuai con una vena isterica.

“Bada al tono, signorina” mi rimproverò subito “Non m’interessa se sei arrabbiata, non si alza la voce sotto al mio tetto”.

Incrocia le braccia al petto, offesa. Feci dietrofront e marciai in camera mia pestando i piedi a terra per enfatizzare il mio sdegno.

La verità era che mio padre non apprezzava Matt quanto me. Lo conosceva da molto tempo, gli voleva bene, sapeva che era un mio carissimo amico ma non lo approvava come mio ragazzo, per cui stava cercando in tutti i modi di mettermi i bastoni tra le ruote.

Probabilmente se gli avessi detto che io e Damon volevamo scappare insieme, proprio quella sera, mi avrebbe perfino dato le chiavi della sua macchina perché Damon era Damon. In questo caso, però, si trattava semplicemente di Matt e qualunque impegno con lui poteva anche aspettare secondo la  sua logica.

Era stato innamorato per anni di Elena, poi aveva avuto una breve storia con Caroline; in tutto quel tempo non si era mai accorto di me. Tutti i padri consideravano le proprie figlie delle principesse che dovevano venire trattate con il dovuto rispetto. Mio padre non poteva concepire che io fossi arrivata terza tra gli interessi di Matt; non capiva che le persone potevano crescere, cambiare idea, trovarsi nuove priorità.

Nemmeno io ero facevo i salti di gioia per averlo aspettato così tanto, ma ora che finalmente era arrivata la mia occasione, perché non coglierla al volo?

Non avevo nemmeno vent’anni, mi sembrava stupido rifiutare un invito innocente solo per una questione di orgoglio femminile. Ero giovane e volevo godermela.

Chiamai il mio amico avvisandolo dell’imprevisto e gli chiesi di vederci dopo cena. Con mio gran disappunto mi rispose che il suo turno di lavoro cominciava proprio a quell’ora.

Di comune accordo decidemmo che sarebbe stato per un’altra volta ma ebbi il brutto presentimento che ormai il treno fosse passato.

Ne dedussi che anche un giorno di merda si mostrava subito fin dal mattino.

L’unica consolazione: avrei trascorso la serata con Stefan; non era esattamente come uscire con il ragazzo per cui avevo una cotta da anni, ma si trattava pur sempre del mio migliore amico e il tempo con lui non era mai sprecato.

Magari sarei perfino riuscita a strappargli qualche segretuccio Matt, qualche informazione utile a fare colpo.

Non potevo chiedere a nessun altro o almeno non me la sentivo: Elena e Caroline erano state entrambe insieme a Matt e Meredith per quanto assennata fosse, non si poteva dire un’esperta in materia sentimentale. Aveva avuto pochissime storie, tutte di breve durata perché non riteneva nessuno alla sua altezza; le serviva qualcuno che fosse intelligente almeno quanto lei. L’unico sui cui potevo contare era proprio Stefan.

“Bonnie” mia sorella entrò in camera mia “Perché urlavi in quel modo? Mi hai svegliata”.

Proprio lei mi veniva a fare la paternale? Erano due settimane che si scannava con mio padre per la storia del trasferimento e adesso mi rimproverava perché mi ero permessa di alzare la voce.

“Stasera c’è una cena a casa di Stefan” raccontai in modo sbrigativo.

“Lo so, me lo ha detto papà ieri sera”.

“Che gentile! Sarebbe stato carino avvisare anche me”.

“Eri alla tua festa” obiettò “Non ci sembrava giusto rovinare la tua serata con Matt solo per dirti che saremmo andati a cena dai Salvatore. Non è proprio una novità”.

Appunto!” protestai io “Che male c’era a spostarla? È da quando sono nata che giro in quella casa; nessuno si sarebbe offeso”.

Mary si sedette sul mio letto e mi guardò sospettosa “Perché? Hai altri impegni?”.

Il tono sorpreso con cui lo disse fu una batosta per la mia già scarsa autostima “Ti sembra una cosa così strana?”.

“E con chi?”.

“Matt mi aveva chiesto di uscire con lui”.

“Allora non ti aveva invitata solamente perché non sapeva con chi altro andare al ballo!” esclamò Mary spalancando la bocca.

Io aggrottai le sopracciglia “Hai per caso parlato con Damon?”.

“L’ho incontrato ieri pomeriggio. Sembrava davvero impensierito che tu potessi rimanerne ferita” aggiunse lei.

Le mie labbra si piegarono in una smorfia particolarmente seccata. Potevo quasi figurarmelo mentre faceva la scena del bravo ragazzo sinceramente preoccupato per i miei sentimenti, m’immaginavo il suo tono di scherno mascherato da un turbamento inesistente.

Alzai gli occhi al cielo ma non proferii parola. Mary e Damon erano abbastanza amici, lei era di qualche anno di più grande e avevano compagnie totalmente diverse ma erano sempre andati d’accordo. Inspiegabilmente ero l’unica della mia famiglia a non avere una cotta per Damon Salvatore.

“Non dovresti ascoltare tutto quello che ti dice, sai? Dovresti avere più fiducia in tua sorella” la sgridai mettendo il broncio.

“Stavamo solo scherzando, Bon!” si giustificò lei “Piuttosto, passiamo alle cose importanti: com’è andata alla festa?”.

“Bene! Stefan è diventato re di Homecoming ma Caroline non ce l’ha fatta”.

“Ha vinto Elena?”.

“No, Katherine” la corressi.

Mary strabuzzò gli occhi “E’ tornata da poco più di una settimana ed è già reginetta? La ragazza sa come farsi notare”.

“Se va avanti così, Caroline le spezzerà le gambe” sghignazzai.

“Non m’interessa della vita di Katherine Gilbert. Raccontami ancora di Matt: ti ha baciata?”.

Mia sorella e il senso della vita.

 

Quando la porta di casa Salvatore venne aperta, allungai le braccia esibendo una bellissima torta che Mary aveva preparato durante il pomeriggio.

“Spero che non l’abbia fatta tu, Uccellino. Non vorrei finire all’ospedale per intossicazione”.

Il sorriso mi morì sulle labbra e tutta la cordialità che avevo mostrato un secondo prima svanì. Ritirai la torta allontanandola da lui.

“Damon? Come mai non sei tornato al campus?” chiese mia sorella dando voce ai miei pensieri.

“Non ho lezioni durante il weekend, mi sembrava sensato rimanere a casa” spiegò con un’alzata di spalle e si spostò per lasciarci entrare.

Il volto di mio padre s’illuminò “Per noi è solo un piacere, vero ragazze?”.

Mary annuì sorridente e mi precedette nel corridoio di entrata. Stefan ci stava aspettando in salotto; non fece nemmeno in tempo a salutare che lo presi tirandolo da parte “Perché tuo fratello è qui?”.

“Non lo so” ammise a bassa voce “Credo che volesse passare il weekend con Katherine”.

Io arricciai il naso. Avevo un presentimento che non fosse l’unica ragione che lo avesse trattenuto a Fell’s Church. Era strano anche che avesse deciso di fermarsi a cena. I Salvatore erano i nostri vicini, ci trovavamo spesso con loro ma Damon s’inventava sempre una scusa per evitare quel tipo d’impegni.

Faticavo ancora a scordarmi della sua espressione ferita e delle urla che avevo sentito una settimana prima. Lui e Giuseppe dovevano aver litigato pesantemente e non capivo come qualcuno potesse sopportare una tensione simile. Io, al suo posto, avrei cercato il più possibile di stare lontano da casa. Normalmente anche Damon seguiva quella strategia, lo si vedeva raramente in città e dubitavo che Katherine fosse l’unica ragione per cui aveva scelto di prolungare la sua permanenza.

Giuseppe, in tutta la sua autorevolezza, fece poco dopo la sua comparsa in salone. Ci salutò allegramente e c’invitò ad accomodarci in sala da pranzo.

Scambiammo qualche parola e mi chiese come mi era sembrata la prima settimana di scuola. Gli risposi gentilmente ma senza prendermi troppe confidenze.

Lo conoscevo da tutta la via eppure sentivo una certa soggezione quando era nei paraggi. Era una brava persona ma non lo avevo mai visto lasciarsi andare ad un gesto di affetto; non aveva assolutamente idea di cosa volesse dire fare il padre. Senza considerare Damon che era un caso a parte, anche con Stefan rimaneva sempre molto freddo. Lo trattava bene, con rispetto e orgoglio, chiaramente gli voleva bene ma non sapeva dimostrarlo.

Anche io in tutti quegli anni avevo imparato a trattarlo in maniera quasi reverenziale, a tratti diffidente.

Mi accomodai accanto a Stefan. Davanti a me c’era mia sorella, tra mio padre e Damon. Giuseppe era a capo tavola.

La signora Flowers iniziò a servire la cena. Quella governante era diventata praticamente una seconda mamma per i due fratelli. Li aveva cresciuti quando il loro vero padre era stato troppo occupato a nascondere il dolore per la morte della moglie. Perfino l’insensibile Damon era molto affezionato alla donna, forse era l’unica che stimava nella sua famiglia.

La serata proseguì sorprendentemente senza particolari intoppi. I toni rimanevano molto pacati e finalmente mi dimenticai di tutti i miei dubbi e iniziai a rilassarmi.

“Ho sentito che lunedì arriverà il nuovo professore di storia” mi disse Stefan.

“Non sai come sono contenta che Tanner sia andato in pensione. Quest’anno mi avrebbe bocciata di sicuro” sospirai di sollievo.

“Beh … forse non mi avrebbe rimandato in storia, ma probabilmente sarei morto sul campo da football. Non so come ho fatto a sopportarlo come coach per tutti questi anni”.

“Si sa già il nome di quello nuovo?”.

“Di sicuro a scuola lo sanno ma io non ne ho idea. Caroline è nel consiglio studentesco e lo ha detto a Matt che lo ha detto a me. Credevo avrebbe preso anche il posto di allenatore ma ho scoperto che sarà un altro”.

“Non avrai nessun problema come al solito. Tutti ti adorano” intervenne Mary.

“Già fratellino, tutti ti adorano” ribadì Damon con tono tutt’altro che sincero.

Solo allora mi accorsi che i nostri fratelli maggiori avevano interrotto il loro discorso per ascoltare il nostro.

Mia sorella, normalmente così acuta e sveglia, non colse la tensione che in un attimo impregnò l’aria e non si premurò di cambiare argomento.

“Mi hanno detto che hai vinto il titolo di re” si congratulò “E’ una tradizione di famiglia, vero Damon?” osservò alludendo ai tempi in cui il maggiore dei Salvatore veniva eletto tutti gli anni.

“La nostra popolarità è ereditaria” concordò lui “Ma sembra che il mio fratellino la ricerchi molto più di me”.

“Se tutti lo adorano ci sarà un motivo. Lui non è costretto ad arruffianarsi le persone” lo difesi io assottigliando gli occhi.

Non mi ero dimenticata il commento velenoso che Damon mi aveva rivolto su Matt durante il ballo. Anche io ero stata acida e cattiva e non ne ero fiera ma ero stata attaccata per prima e avevo tutto il diritto di ribattere.

Stefan si schiarì la gola e mi tirò un calcio sotto il tavolo intimandomi di tacere. Non voleva che scoppiasse una lita a tavola.

“Non siete gli unici che si passano il testimone. Ha vinto Katherine, giusto? Fatemelo dire: non avevete molta fantasia comunque. Voglio dire sono gemelle; potevate scegliere qualcun altro” disse Mary bevendo un sorso di vino “Elena si è arrabbiata?”.

“Non si è nemmeno candidata” rispose Stefan.

“Katherine è più che capace di farsi strada senza copiare sua sorella” replicò Damon un po’ freddamente “Da quanto ho visto, lei sa prendere le decisioni giuste”.

Sentii Stefan tendersi accanto a me. Quello era un chiaro riferimento alla scelta di Elena. Povero Damon, mi fece quasi pena: era sul serio convinto della genuinità della sua ragazza.

Qualunque obiezione fu interrotta dalla voce di mio padre che si alzò sopra le altre “Allora!” esclamò “Perché non mi raccontate della festa di ieri?”.

Ma perché tutti erano fissati con quel dannato ballo.

“Ne abbiamo parlato fino adesso, papà” disse Mary “Sono l’unica che non ha partecipato, mi sento un po’ vecchia” e ridacchiò.

“Mary il tempo del liceo è finito” le fece notare Giuseppe “Tu hai una laurea, un lavoro e ti sei realizzata. Non dovresti rimuginare su una festa da adolescenti. Questa, però, è una cosa che mio figlio Damon non ha ancora capito. Preferisce accompagnare una ragazza così piccola ad un ballo, piuttosto che concentrarsi sull’università”.

Ecco perché mi ero preoccupata così tanto non appena avevo visto Damon: sapevo che una cena tranquilla si sarebbe trasformata nel festival delle frecciatine.

Sperai con tutto il cuore che lui lasciasse correre senza rispondere alla provocazione.

“Come sta andando all’università?” s’interessò mio padre smorzando con un’occhiata il sarcasmo fuori luogo di Giuseppe.

“Bene, signor McCullough” sorrise Damon “Mi manca ancora qualche esame alla laurea, però”.

“Qualche!” sbuffò Giuseppe “E’ iscritto da tre anni e avrà completato si e no la metà del piano di studi”.

“Sai, papà, sono qui; potresti smettere di parlare di me in terza persona” lo beccò.

Io abbassai la testa e spiluccai quel che restava nel mio piatto. Avrei voluto sparire.

“Sto fingendo che tu non sia qui” lo zittì l’altro “Sto fingendo che tu sia al college a fare il tuo dovere invece di essere l’eterno Peter Pan”.

“Questi anni in realtà sono stati molto utili” confessò Damon “Ho capito che l’università non fa per me ed economia non è decisamente la mia materia. Alla fine di questo semestre ritirerò la mia iscrizione. Lascio gli studi”.

Mollai la forchetta che tenevo in mano e il mio sguardo scattò su Giuseppe temendo la sua reazione: era diventato bordeaux e fremeva di indignazione.

Santo Cielo, lo avevo detto che sarebbe scoppiata una bomba.

 

Udii la forchetta di Bonnie cadere e rimbombare sul piatto; non mi voltai verso di lei, continuare a fissare mio padre che sembrava sull’orlo di una crisi di nervi.

L’avevo avvertito di non nominare più mia madre, di non tirarla in mezzo nelle nostre discussioni ma non mi aveva mai dato retta. Ora era tempo di vendetta.

Già da qualche mese avevo in mente di non proseguire con l’università, non era il mio ambiente, non avevo la concentrazione, la mia testa era sempre in confusione.  Avevo dato qualche esame, soprattutto all’inizio, e li avevo superati brillantemente ma non ero interessato a prendere una laurea.

Non era cambiato molto dal liceo: avevo fatto dannare i miei insegnanti per quattro anni. Ero il classico ragazzo sveglio che non aveva voglia di studiare, quello che alla fine di ogni semestre si metteva sotto per non essere bocciato. Ero intelligente e alla fine me la cavavo sempre con dei bei voti; lo facevo più per il piacere degli altri che per il mio.

Se fosse stato per me, nemmeno mi sarei iscritto al college ma mio padre aveva insistito così tanto, che pur di non sentirlo più lamentarsi avevo scelto di accontentarlo.

Dopotutto non mi era andata male: potevo starmene via di casa quanto volevo per un buon motivo, Dalcrest era pieno di belle ragazze e le feste erano pazzesche. Insomma la cultura non stava proprio in cima alla lista delle mie priorità.

Per quanto l’idea di mollare tutto fosse sempre stata appetibile, per fare contento mio padre, avrei anche potuto sforzarmi e concludere gli studi e mi ero quasi convinto a compiacerlo; poi lui per l’ennesima volta aveva nominato mia madre e io avevo deciso di fargliela pagare nel modo peggiore: disonorando la famiglia.

Non si era mai sentito di un Salvatore che non avesse frequentato il college. Era un’umiliazione, una provocazione, un affronto. Annunciarlo ad una cena davanti ad altre persone era stato il colpo di grazia.

Una volta tolto questo impiccio, avrei raggiunto il mio scopo: non solo innervosire mio padre oltre ogni misura, ma trovare più tempo per dedicarmi a Katherine.

“Devo aver frainteso quello che hai detto” affermò mio padre mentre nella sala era ormai calato un gelo polare.

“Mi sembra di essere stato sufficientemente chiaro: non andrò più all’università”.

“Damon” fu Stefan a parlare un po’ per cercare di far ragionare me un po’ per calmare mio padre “Ti manca solo un anno alla fine; sarebbe stupido mollare proprio adesso”.

“Non ho chiesto la tua opinione, fratellino” lo apostrofai “Sei troppo piccolo, non puoi capire queste cose”.

“Credo che le capisca meglio di te” intervenne mio padre “Non voglio più sentire sciocchezze simili. Tu prenderai la laurea e ti occuperai degli affari di famiglia. Fine della discussione” tagliò corto, poi si girò verso il signor McCulloughe provò a riprendere la loro conversazione, ignorando totalmente me.

Era veramente un illuso se credeva di cavarsela così facilmente.

“Veramente, è una decisione che spetta a me. Non ti stavo chiedendo il permesso, ti stavo solo informando”.

Giuseppe fremette di rabbia, non solo per l’annuncio, che di per sé era già un’eresia, ma anche pe il fatto che lo stessi sfidando pubblicamente.

“Toglietelo dalla testa, Damon. Io sono tuo padre e non ti permetterò di buttare via la tua vita in questo modo”.

“Con tutto il rispetto, papà, ma sono maggiorenne, tu non hai più voce in capitolo”.

Lui scattò in piedi e marciò fino al mio posto, abbassandosi su di me con fare minaccioso e mi puntò il dito contro “Fino a che vivrai sotto al mio stesso tetto, seguirai le mie regole”.

“Forse allora dovrei cercarmi un posto tutto per me” ipotizzai arcuando le sopracciglia.

“Con che soldi? Non hai un lavoro, non sai fare niente e scordati di chiedere aiuto a me, non ti darò nemmeno un centesimo” mi minacciò.

“Ti devo ricordare che quest’estate mi ha cointestato il conto?” continuai a provocarlo. Avevo pensato a tutto, il mio piano non aveva falle, era inattaccabile. La mia decisione era definitiva, mio padre non poteva fermarmi, non ne aveva più il potere. Mettere anche la mia firma sul suo conto in banca era stata per lui una scelta stupida e incauta; io ne avevo approfittato con piacere.

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso; Giuseppe esplose in tutta la sua collera e indignazione “Sei il mio più grande fallimento; speravo che con il tempo ti saresti preso le tue responsabilità ma sei soltanto peggiorato. Mi vergogno perfino di considerarti mio figlio” sibilò.

Anche io mi alzai in piedi per fronteggiarlo; la sua autorevolezza non mi spaventava, ormai non lo rispettavo né stimavo, non poteva farmi niente di male.

“Non preoccuparti, io ho smesso di considerarti mio padre molto tempo fa” replicai con tono calmo ma di una freddezza disarmante.

“Tua madre sarebbe così delusa da te”.

No, non un’altra volta. Quell’uomo non imparava mai.

“Ti ho detto di non nominarla più. Non sei degno di parlare di lei” gli intimai.

Tu non sei degno dell’affetto che ti ha sempre dimostrato” urlò “Sono felice che sia morta, almeno non è stata costretta a vedere il disastro che sei diventato!”.

“Papà!” questo fu il richiamo scandalizzato di Stefan; finalmente si era deciso a porre fine a quel litigio delirante che aveva messo in scena mio padre. Ma io lo sentii a malapena.

I miei occhi non lasciarono quelli dell’uomo di fronte a me. Gli trasmessi tutto l’astio e il disgusto che provavo, lo fulminai, lo trafissi.  Avrei potuto ucciderlo; in quel momento avrei davvero potuto ucciderlo: la mia mente era annebbiata dalla rabbia, la ragione era sparita. L’istinto di colpirlo era fortissimo, non avevo mai desiderato di fare del male a qualcuno così tanto in vita mia. Avrei desiderato essere orfano sì, ma di padre.

Me ne andai di casa, sbattendo la porta, prima di perdere sul serio il controllo delle mie azioni.

La mia Ferrari mi aspettava nel vialetto. Vi salii. Non misi in moto, però.

Avevo bisogno di qualche istante per calmarmi. Respirai a fondo e notai che le mie mani stavano tremando. Le tolsi dal volante e me le misi sotto alle gambe.

Come poteva qualcuno anche solo pensare di trarre felicità dalla morte di mia madre? Lui non si era mia meritato il suo amore, io sì.

Non avrei mai potuto perdonarlo per ciò che aveva detto. Non m’interessava se era stato colto dall’ira, se l’aveva fatto solo per punirmi. Non avrebbe dovuto osare, non davanti a me, non con la famiglia McCullough presente. Anche loro avevano perso una moglie e una madre.

Sentii una sensazione strana alla gola, come se ci fosse qualcosa ad impedirmi il respiro. Il mio petto si alzò e si abbassò affannosamente. I miei occhi si bagnarono.

Stavo per piangere?

Non piangevo da anni, nemmeno mi ricordavo più come si piangesse. Mi morsi il labbro e cercai di riprendermi. Nessuna lacrima scese, non glielo permisi.

Ritrovai in fretta il controllo di me stesso e girai la chiave. Il rombo del motore fu come una scarica elettrica; pigiai l’accelerato e sfrecciai via.

 

Il primo istinto quando lo vidi correre alla porta, fu quello d’inseguirlo.

Che cosa potevo dirgli? Con che diritto soprattutto? Mi avrebbe urlato contro solo per sfogare tutto il rancore che gli era montato dentro. Non aveva potuto riversarlo su suo padre; se fossi andata ad istigarlo, se la sarebbe presa con me.

Guardai Stefan in attesa che rimproverasse Giuseppe per quell’uscita infelice e meschina. Il mio amico rimase in silenzio, troppo intimorito da quell’uomo.

Il signor Salvatore si scusò per il comportamento di suo figlio e ritornò a sedere. Avrei voluto rispondere che per una volta non avevo trovato niente d’inappropriato nelle parole di Damon ma mi tappai la bocca.

C’era già abbastanza tensione. La signora Flowers arrivò con il dolce e una smorfia mortificata stampata in volto; le sorrisi per rincuorarla.

Sentii distrattamente mio padre esprimere a Giuseppe il suo disappunto per ciò che aveva detto. Erano amici, si conoscevano da quando erano giovani quindi avevano la confidenza per parlarsi liberamente. Se qualcuno poteva mettere un po’ di senno in quell’uomo testardo, mio padre era la persona giusta.

Mary se ne andò presto, adducendo come scusa un incontro con il suo ragazzo. Io sapevo che semplicemente non vedeva l’ora di levarsi di torno. Avrei voluto imitarla.

Fortunatamente Stefan, poco dopo, mi fece cenno di seguirlo ed entrambi lasciammo la sala da pranzo. Ci rifugiammo  nella sua camera da letto.

Lui chiuse la porta e ci poggiò sopra la testa chiudendo gli occhi. Capivo che fosse una brutta situazione e che gli servisse un po’ di pace, magari di conforto ma proprio non riuscii a trattenermi “Avresti potuto dire qualcosa” appuntai con una nota di critica.

“E cosa, Bonnie? Conosci mio padre; con lui … è impossibile parlare”.

“Sai che non ho nessun problema quando litiga con tuo fratello. Damon se le cerca; anche stasera avrebbe potuto starsene zitto ma … accidenti, Giuseppe ha detto una cosa davvero brutta, ha tirato troppo la corda. Nessuno dovrebbe venire trattato in quel modo”.

Stefan sospirò esasperato e si stese sul letto. Si passò una mano tra i capelli “Hai ragione: avrei dovuto difenderlo, ma non ce la faccio, non sono ancora abbastanza forte per oppormi a papà, non voglio deluderlo. In ogni caso Damon continuerà ad odiarmi”.

“Non dovevi intrometterti per conquistare tuo fratello, dovevi perché era giusto”.

Lui annuì “Sono stanco, Bonnie” mi disse “Ho provato a mettere un po’ di pace tra quei due ma non è servito a niente. Ogni volta che prendo le parti di Damon, mio padre mi lancia certi sguardi di disprezzo … io … non riesco a sopportarli”.

Mi sdraiai accanto a lui e lo abbracciai cercando di trasmettergli un po’ di supporto. In fondo capivo le sue ragioni, le sue riserve: tutto ciò che chiedeva era una famiglia normale ed unita, come la mia, eppure si era trovato costretto tra due fuochi.

Prima o poi anche Stefan li avrebbe obbligati ad ascoltare la sua voce, ne ero certa. Quel momento, però, sembrava ancora lontano.

Quando gli diedi la buonanotte, era già tardi. Il salotto era deserto e ne dedussi che mio padre fosse tornato a casa. Uscii dalla villa e attraversai la strada cercando le chiavi nella mia borsa. Rialzai gli occhi non appena raggiunsi il giardino ma non mossi un passo di più. Aggrottai la fronte alla scena che mi si parò davanti: Damon Salvatore steso sul mio prato, con le braccia aperte e lo sguardo fisso al cielo.

Ebbi il presentimento che sarebbe stata una lunga notte.

Quella sera mi sentivo più buona, più comprensiva e mi lasciai intenerire. Normalmente l’avrei rispedito malamente a casa; considerai però che era già stato maltrattato abbastanza.

Lui non si era nemmeno accorto della mia presenza e continuava a tenere gli occhi puntati in alto, in contemplazione di qualcosa che mi rimaneva oscura.

“Damon!” lo chiamai.

A giudicare da quanto era assorto, avrebbe dovuto come minimo sobbalzare o sorprendersi. Invece girò lentamente la testa verso di me e mi guardò pure un po’ scocciato, come se lo stessi disturbando.

“Che cosa stai facendo?” premetti.

“La luna” mi rispose e riportò lo sguardo in alto.

“Hai bevuto?”.

“Sì” confermò “Ma non è quello che ti ho detto”.

Notai che la sua Ferrari non era parcheggiata come al solito nel vialetto e nemmeno da nessuna parte della via. Mi dovevo preoccupare?

“Dov’è la tua macchina?”.

“Da qualche parte vicino a casa di Tyler. Mi hanno riportato qui, dicevano che non ero in condizioni di guidare”.

Non so se si riferisse all’alcol o alla litigata con suo padre, ma la ritenni una buona idea e mi stupii che una mente semplice come quella di Tyler avesse potuta partorirla.

Almeno per quella sera, Damon avrebbe fatto meglio a tenersi lontano da qualunque rischio.

Comunque non doveva aver bevuto molto: sembrava nel pieno delle sue facoltà e non sbiascicava. Mi accorsi però che appariva distante, quasi apatico.

“Alzati da lì; andiamo a letto”.

Andiamo a letto? Sei sicura di non essere tu quella ubriaca, Uccellino?”.

Non riuscii ad evitare di arrossire. Perché non contavo fino a dieci prima di parlare? Mi ripresi subito e lo fulminai mettendomi le mani sui fianchi “Sei un maiale”.

“Mi hanno chiamato in modi peggiori”.

Sbuffai indispettita e mi avvicinai a gran passi “Mi spieghi che cosa stai facendo?”.

“Sto guardando la luna”.

“Va’ a guardarla nel tuo giardino!”.

“Non posso; casa mia è troppo grande, la coprirebbe”.

Mi girai per verificare quell’affermazione e gli diedi ragione. Il prato era minuscolo paragonato alla grande villa e da quella posizione quasi non si scorgeva il cielo.

La luna era piena e splendeva in contrasto con il nero che le faceva da sfondo. Immagine bella, suggestiva, ma io avevo sonno e Damon doveva sloggiare.

Allungai le braccia per incitarlo ad alzarsi “Forza, tirati su”.

Per tutta risposta mi prese per le mani e mi trascinò giù accanto a lui “Sta’ un po’ zitta e goditi lo spettacolo”.

Non ebbi nemmeno la forza di mandarlo a quel paese; sospirai rumorosamente e mi stesi. Passarono minuti di silenzio in cui pensai a qualunque scusa possibile per obbligarlo ad andare via. Mi meravigliai di me stessa quando dalla mia bocca uscì una domanda che non c’entrava niente con ciò cui stavo pensando “Perché lo stai facendo?”.

Lui si voltò verso di me “Cosa?”.

“Lasciare l’università” chiarii “Stefan ha ragione: ti manca poco e poi potrai fare quello che vuoi e andartene di casa. Non avrai più legami se non li vorrai”.

Damon sollevò le spalle “Il college non è il mio ambiente. Dopo il liceo non volevo nemmeno continuare a studiare”.

“Perché mollare adesso?”.

“Perché non ha più senso” mi disse seccamente per farmi intendere di non voler proseguire con quel discorso.

“Sei sicuro che sia questo il motivo? O vuoi solo farla pagare a tuo padre? Ho la sensazione che tu stia rovinando il tuo futuro per tenere il punto”.

“Non credo di doverti spiegazioni. È la mia vita, posso mandarla a puttane quanto mi pare”.

Elegante come al solito. Quel tono poco educato comunque non mi offese ci ero abituata e forse io per prima mi ero spinta troppo in là.

Non demorsi “Credo che tua madre sarebbe contenta se tu ti laureassi”.

“Mia madre non è più qui come ha così gentilmente sottolineato mio padre” i suoi occhi s’intristirono e non si premurò di nasconderlo.

Mi spostai su un fianco per osservarlo meglio “Mi dispiace per quello che ha detto”.

Fu colto di sorpresa da quel mio commento. Evidentemente non si aspettava una tale comprensione dopo l’acidità della sera prima, alla festa.

Ci trovavamo in situazioni completamente diverse; ora il momento era molto più serio e delicato. In qualche modo Damon era diventato la vittima e per quanto fosse insopportabile e presuntuoso, non meritava di venire ferito così brutalmente.

Capivo benissimo il suo stato. Forse non ero in grado di difenderlo apertamente, forse non ero nemmeno così buona, ma sentivo che era mio dovere stargli vicino.

“Non me lo ricordo neanche più” mormorò.

“Meglio” considerai “Tanto era una cazzata” e sorrisi.

Damon ghignò palesemente divertito.

Sembrava molto più tranquillo e ne fui felice. A cena per un attimo avevo temuto che si scagliasse contro Giuseppe, ora il suo umore era radicalmente mutato.

“Che farai adesso? Tornerai a casa?”.

“Starò al campus per questo semestre, poi vedrò. Al massimo posso chiedere asilo in casa tua. Sono certo che tuo padre mi permetterà più che volentieri di stare da voi”.

Scattai a sedere “Scordatelo”.

“Ora ti riconosco, Uccellino”.

Mi stesi di nuovo sull’erba e chiusi gli occhi. Mi appisolai quasi subito. Quando mi svegliai, avevo la schiena leggermente dolorante per il terreno duro.

Doveva essere passata una mezz’ora appena e allungai la mano per avvertire Damon. Tastai solo il prato freddo. Il ragazzo era sparito, probabilmente stava già dormendo nel suo letto.

Mi ha lasciato dal sola in giardino! Pensai sconcertata.

Chiaramente si era stufato di studiare la sua luna e non aveva trovato altro motivo per restare, senza nemmeno avere la decenza di avvisarmi. Che razza d’idiota.

Certe cose non cambiavano mai.

 

Il mio spazio:

Dopo più di due mesi torno con questa storia. Sono imperdonabile.

Come al solito non so dirvi quando arriverà il prossimo aggiornamento; fino a che non finirò A&W, sarà tutto un po’ incerto.

Prima di tutto, voglio indirizzare la vostra attenzione sul bellissimo banner ad inizio capitolo, che ritrae i due protagonisti.

Ovviamente non è mio (io sono proprio negata con certe cose), ma della bravissima Bumbuni che è stata davvero gentile e disponibile, assecondando tutte le mie richieste. Se avete bisogno di immagini per le vostre storie, contattatela perché come potete vedere ha delle splendide idee e soprattutto sa metterle in atto.

Nei prossimi capitoli posterò altri suoi banner, anche per Ashes&Wine. Per ora la ringrazio tantissimo e le dedico questo capitolo. Spero che ti piaccia, Ali!!

Passando alla storia, abbiamo cambiato tono rispetto al capitolo scorso: Damon e Bonnie sono stati molti più civili, quasi amici.

Non credo che questa tregua durerà molto, già alla fine la nostra rossa si è indispettita parecchio ma volevo soffermarmi un attimo su questa piccola “questione della mamma” di cui avevo parlato in precedenza. Volevo mostrarvi quanto riescano ad intendersi grazie ad passato molto simile. Non è una coincidenza che Damon si sia ritrovato proprio nel giardino della ragazza che non sopporta. Sente che è l’unica con cui può sfogarsi.

Il loro rapporto è strano (in tutte le mie storie), speriamo solo che ne uscirà qualcosa di buono.

Ultimamente sono davvero fissata con questa coppia, riesco a scrivere solo di loro. All’inizio di questa storia ero un po’ preoccupata perché mi sembrava sempre di soffermarmi sulle solite cose e non volevo stufarvi, ma ora sono contenta di aver ideato questa storia Bonnie-centrica.

Insomma è un personaggio maltrattato sia nella saga che nella serie tv. La recensione e gli spoiler sull’ultimo libro mi hanno fatta rabbrividire. Per non parlare dello show televisivo: è assurdo che in tre stagioni Bonnie Bennett non sia cresciuta nemmeno un po’.

Siamo agli inizi della quarta ed è ancora lì a rimproverare Damon. Non do la colpa al suo personaggio ma a chi l’ha creata. Se proprio dovevano stravolgere la sua personalità, potevano almeno darle un po’ di spessore, una trama decente.

Questa è un po’ la mia rivincita ahah!

Bene, non vi trattengo oltre.

Vi ringrazio per l’enorme supporto che continuate a dimostrarmi, sempre; commentando e anche solo leggendo.

Baci,

Fran;)

 

Ps: il titolo è lo stesso dell’episodio 2x11 di The Vampire Diaries.

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Capitolo 5
*** The hot teacher ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo cinque: The hot teacher.

 

“Life's too short to even care at all
I'm losing my mind, losing my mind, losing control
If I could find a way to see this straight
I'd run away
To some fortune that I,
I should have found by now
And so I'd run now to the things
they said could restore me
Restore life the way it should be
I'm waiting for this cough syrup
to come down”

(Cough syrup- Young the Giant).

 

Meredith era sempre stata un tipo razionale, composto e quadrato. Sensibile ma non emotivo e soprattutto molto maturo.

Non perdeva quasi mai la calma, non saltava alle conclusione, non si agitava a meno che ne valesse la pena. A volte credevo che venisse da un pianeta tutto suo.

Perciò, rimasi allibita quando la vidi saltellare come un’oca per il corridoio con aria assente e gli occhi sognanti.

Non fui l’unica a notarla: Caroline mi si affiancò e rimase a fissarla allibita almeno quanto me. Non che Meredith fosse una musona, ma era strano trovarla così allegra di prima mattina, senza una ragione apparente.

“Credi che abbia sbattuto la testa?” mi soffiò Caroline nell’orecchio “Il colpo potrebbe averle provocato un cambio di personalità”.

“Per quanto possa sembrare assurdo, mi sembra la soluzione più plausibile” concordai.

La nostra amica ci raggiunse, sempre sorridendo felice come una pasqua. Ci salutò con entusiasmo e ripose i suoi libri nell’armadietto.

“Non avete idea di cos’è successo ieri sera”.

Non nascosi la mia sorpresa: credevo che sarebbe servita una grande opera di convincimento per farci rivelare il motivo di tutta quella contentezza; invece sembrava più che disposta a raccontarcelo. Azzarderei che non stava più nella pelle.

“Hai incontrato un ragazzo” ne dedusse Caroline.

Meredith spalancò la bocca “Come fai a saperlo?”.

“Sorriso da scema, occhi a cuoricino, parlantina a raffica … chiari segno di eccitazione da cotta” spiegò Caroline con estrema naturalezza.

“Che fine ha fatto la teoria della botta in testa?” chiesi alzando un sopracciglio.

“Stavo solo facendo la stupida” scosse le spalle e si rivolse a Meredith “Spara, chi è?”.

“Credo sia nuovo, non l’ho mai visto in giro” ci spiegò “E’ più grande di noi; si è laureato da poco ed è qui per il suo nuovo lavoro”.

Mi aspettai che aggiungesse qualcosa ma lei rimase zitta. Era tutto ciò che aveva da dire? Meredith non si era mai presa una cotta nemmeno per qualche star della tv e si presentava tutta agitata per un tizio appena incontrato?

“Tutto qui? Non avete parlato d’altro?”.

“Magari hanno fatto altro” suppose Caroline “Io approvo”.

Meredith ritrovò un po’ del suo contegno e le lanciò un’occhiataccia “Abbiamo solo parlato. Per tutta la notte” specificò “Ci siamo incontrati al Grill per caso e si è offerto di accompagnarmi a casa. È stato sul portico con me fino all’alba”.

“In effetti hai un po’ di occhiaie” commentò Caroline.

“Hai accettato il passaggio da uno sconosciuto?!” ripetei io. Quello non era certo un comportamento da Meredith.

Lei ci pensò un po’ su “Beh … sì; ma è stato un perfetto gentiluomo e, Santo Cielo, non è questa la parte importante!” s’infervorò “Mi ha affascinata per davvero! Insomma, sapete quanto è difficile che un ragazzo mi piaccia, di solito sono tutti stupidi …”.

“Sei tu quella troppo intelligente” la corresse Caroline.

“Potrebbe essere davvero quello giusto” continuò Meredith “Ci siamo scambiati i numeri; spero che mi chiami”.

“Vi siete baciati, toccati, strofinati … avete fatto qualcosa?” insistette Caroline indignata ad ogni ‘no’ della nostra amica.

“Allora chiamerà di sicuro; deve riscuotere” concluse.

“E’ una prospettiva fantastica” ironizzai mentre sceglievo i libri per la prossima lezione.

Tutto quel discorso mi mise un po’ di tristezza. Ripensai a Matt e all’appuntamento mancato. Ci ero andata così vicina e poi mio padre aveva rovinato tutto.

Per cosa? Per assistere all’ennesima litigata tra Damon e suo padre? Per ascoltare i deliri di quell’uomo che nemmeno si rendeva conto delle sue stesse parole e di quanto potessero ferire non solo Damon ma anche me?

Non mi stupiva che suo figlio fosse cresciuto così irrispettoso dei sentimenti altrui; con un padre del genere era inevitabile.

Non mi soffermai molto sulla nostra inaspettata chiacchierata sul prato di casa mia. Si era rivelata piacevole e utile; in qualche modo aveva aiutato ad alleggerire la tensione. Io stessa mi ero sentita meglio. Nessuno si meritava di venire disprezzato in quella maniera dal proprio padre, neppure Damon. Non era giusto usare il nome di sua madre per metterlo in una posizione di totale disagio. In generale, un genitore non dovrebbe nemmeno sognarsi di ferire il figlio.

Quindi, non mi vergognavo di provare dispiacere per Damon, non mi vergognavo di averlo in qualche modo consolato. Mi ero comportata bene, aveva seguito la mia natura. In situazioni come quelle era giusto mettere da parte l’orgoglio.

Ciò non toglieva che avrei preferito cento volte uscire con Matt che assistere a quello spettacolo pietoso e adesso la mia occasione era sfumata forse per sempre.

“Bonnie, vieni a lezione?” mi chiese Meredith.

La guardai un po’ confusa. Avevo abbandonato il filo del discorso da qualche minuto e impiegai un attimo per tornare alla realtà. Qualcuno, però, attirò il mio interesse.

“Vi raggiungo subito” disse e mi diressi verso Stefan. Non l’avevo visto né sentito per tutto il giorno precedente e volevo assicurarmi che andasse tutto bene.

“Ciao!” lo salutai schioccandogli un bacio sulla guancia “Non ho avuto tue notizie, mi sono preoccupata”.

“Scusa, Bon. Ieri è stata una giornata un po’ complicata”.

“Ancora liti?”.

“In realtà no: Damon ha fatto le valigie e se n’è andato, non l’ho nemmeno visto. Mio padre non ha parlato per tutto il giorno. Sono scappato da Elena per evitare tutto quel silenzio”.

Nascosi il cipiglio che mi colse. Dovevo imparare che ormai Stefan aveva una ragazza con cui confidarsi ed era normale che volesse andare da lei per distrarsi.

“Tuo fratello è tornato al college, almeno fino alla fine del semestre” lo informai.

“Come fai a saperlo?”.

“Me l’ha detto lui, sabato notte” raccontai “L’ho trovato nel mio giardino, ubriaco. Abbiamo parlato un po’. Penso che sia stufo quanto te di vivere in questa situazione”.

“Tu hai parlato con mio fratello?” ripeté Stefan incredulo “Com’è che non ho sentito le urla?”.

“Damon sa essere sopportabile quando vuole. Non ho cambiato idea su di lui, per me è sempre il solito stronzo ma non potevo cacciarlo via in quello stato”.

La campanella suonò interrompendo la nostra conversazione.

“Faremo meglio ad andare se non vogliamo beccarci una nota” suggerì il mio amico.

“Cosa abbiamo adesso? Storia? Non sai quanto sono contenta che il professor Tanner sia andato in pensione,  mi odiava!”.

Feci un paio di passi e finii contro la schiena di Stefan. Non capivo perché si fosse fermato. Eravamo già in ritardo, che bisogno c’era d’indugiare sulla soglia? Mi spostai di lato per avere piena visuale dell’aula.

“Quello è il nuovo insegnante di storia?” domandò Stefan sorpreso accennando con il capo all’uomo che stava scrivendo alla lavagna il suo nome.

“Credo di sì” bisbigliai “Ed è già in classe. Forse è meglio sederci”.

Stefan annuì, mi prese per mano e mi condusse al posto velocemente. Il professore non se ne accorse, ci dava ancora le spalle.

“E’ Alaric” disse sotto voce Stefan come se quell’informazione dovesse destare chissà quale reazione in me.

“Lo conosci?” replicai.

“E’ il migliore amico di Damon”.

Aggrottai la fronte. Non avevo mai visto quel tipo in giro; probabilmente si erano conosciuti al college. Osservandolo meglio notai che in effetti era molto giovane: doveva avere ventidue o ventitré anni al massimo.

“Meredith, che diamine hai? Sembra che tu abbia visto un fantasma” si allarmò Caroline, seduta dietro di me.

Mi voltai. Meredith era bianca come un lenzuolo e fissava inorridita la cattedra.

“E’ lui” affermò “E’ lui il ragazzo del Grill”.

Puntai di nuovo gli occhi verso il nuovo insegnante. Era appena arrivato, eppure era già abbastanza famoso!

Scossi la testa ed aprii il libro. Potevo avvertire lo sconforto che irradiava dal corpo di Meredith. Non faticavo a comprendere il suo umore nero: non si era mai veramente interessata a nessun ragazzo ed ora scopriva che era proprio il suo professore il primo ad averle suscitato qualche emozione.

Nessuno dei due fece qualche cosa per attirare l’attenzione dell’altro. A fine lezione, Meredith raccolse in fretta i suoi libri e schizzò via dalla classe. Quando gli passò davanti, Alaric Saltzman non alzò nemmeno gli occhi dal foglio che stava leggendo.

I guai erano chiaramente dietro l’angolo.

 

Ogni volta mi stupivo sempre più; eppure dovevo esserci ormai abituato.

Chiunque dopo una litigata come quella che avevo avuto con mio padre non sarebbe riuscito a chiudere occhio almeno per una settimana. Io avevo dormito praticamente per un giorno intero senza alcun accenno di insonnia o agitazione.

Nella mia vita non ero mai stato veramente felice, non avevo problemi ad ammetterlo. Mi ci erano voluti parecchi anni per raggiungere questo stato di calma assoluta. Da piccolo ero molto più irrequieto: non capivo perché non potessi avere quello che anche gli altri bambini avevano: una famiglia felice, un’infantile serenità.

Mia madre era morta.

Mio fratello sembrava creato per rubare ogni cosa su cui mettevo gli occhi.

Mio padre? Praticamente non pervenuto.

Nessuno si era mai occupato di me e alla fine era arrivato ad una semplice e chiara conclusione: perché mai io avrei dovuto preoccuparmi di qualcuno o qualcosa?

La vita era troppo breve per struggersi, non ne valeva la pena. Se mi fossi davvero tormentato per la merda che c’era dentro di me, sarei uscito di testa.

Ero stufo di combattere sempre contro mio padre; era una lotta persa in partenza. Non perché me ne importasse più di tanto ma perché non sarebbe mai cambiato. Era ottuso ed egoista, freddo e insensibile e con il passare del tempo temevo sempre più che un giorno sarei finito esattamente come lui. Nonostante lo detestassi, condividevo con quell’uomo più di quanto fossi disposto ad ammettere.

Avevo giurato a me stesso che non mi sarei mai trasformato in Giuseppe Salvatore e potevo impedirlo solamente riducendo al minimo i nostri contatti. La sua presenza era tossica. Ogni volta che ero costretto ad affrontarlo, me ne andavo con la sensazione di essere stato contaminato dallo sporco che si portava dentro.

Prima o poi qualcosa avrebbe posto fine a questo tormento; forse avrei trovato il coraggio di scappare sul serio, o forse sarebbe morto; il che era anche meglio.

Odiavo mio padre proprio perché mi rendeva così facile odiarlo. Lo odiavo perché non avevo rimorso nel desiderare la sua morte. Mi rendevo conto di quanto fosse sbagliato augurargli un male così grande ma non potevo farne a meno. Gli attribuivo, quindi, anche quella responsabilità, perché se fosse stato davvero degno del nome di padre, io non avrei nemmeno  pensato di considerare la sua scomparsa come una liberazione.

Un qualunque ragazzo normale si sarebbe sentito come minimo un mostro. Io no. E la colpa era soltanto sua.

Guardai l’ora e sbuffai. Erano le tre del pomeriggio e non avevo niente da fare. Avrei potuto tornare a dormire ma sarebbe stato abbastanza scandaloso.

Katherine era a scuola per gli allenamenti delle cheerleader o qualcosa di simile. Avevamo in programma di vederci quella sera.

Tutti i miei amici erano al college, a studiare e a combinare qualcosa della loro vita. E il mio miglior amico non era ancora tornato dal suo primo giorno di lavoro.

In definitiva ero solo. Mi serviva un modo per tenermi occupato.

Non mi venne in mente niente di meglio che accendere la tv. Dopo un rapido giro dei canali, appurai che non c’era in programma nulla di interessante. Stavo già per ripiombare nella noia più totale quando la porta di casa si aprì.

Alari comparve con un’espressione da funerale che mascherò subito non appena si accorse della mia presenza “Sei ancora sul divano?”.

Alzai le spalle sottolineando l’ovvietà della domanda.

“Non ti sei mosso da quando sei piombato qui ieri mattina” puntualizzò “Non ti fai un po’ schifo?”.

“In realtà mi amo alla follia” replicai ghignando “Ma starei meglio se mi portassi una birra e a giudicare dalla tua faccia, ne hai bisogno anche tu”.

Alaric mi trucidò con un’occhiata ma si avvicinò al suo frigo. Prese due lattine, le aprì e me ne porse una; poi si sedette pesantemente su di me.

Rimanemmo in silenzio a fissare le immagini che scorrevano sullo schermo. Chiaramente stava cercando di tenersi tutto dentro, ma alla fine esplose.

“Ho conosciuto una ragazza”.

Avrei tanto voluto rispondere che non m’interessava, perché in effetti era così. Però era stato così gentile da ospitarmi nel suo appartamento e feci uno sforzo.

“Carina?” grugnii.

“Molto” confermò “Ma sono stato colpito dalla sua intelligenza, più che altro”.

“Ecco dove sei sparito tutta notte. Mi hai fatto quasi preoccupare”.

“Ti sei accorto che non c’ero?”.

“Potrei essermi svegliato quando sei tornato” restai vago “Ma parliamo di te”.

“Non c’è storia” troncò subito Alaric “Tra di noi non potrà mai succedere niente”.

“Perché? Hai fatto così schifo?”.

Ci mise un po’ a capire cosa intendessi, poi mi tirò un pugno piuttosto forte sulla spalle mormorando tra i denti “Coglione”.

Non potevo dargli torto.

“Abbiamo solo parlato” specificò.

“Non l’hai nemmeno baciata?” mi scandalizzai.

“Sono stato con lei tutta la sera, l’ho riaccompagnata a casa, le ho chiesto il numero. Cosa dovevo fare ancora, saltarle addosso?”.

“Un bacio non equivale ad uno stupro, sai? Non  te l’hanno insegnato all’università? Non mi stupisce che la vostra intesa sia già finita. Avrà pensato che sei uno sfigato”.

“E’ una mia alunna” sganciò la bomba Alaric “Me la sono ritrovata oggi in classe. Ecco perché non c’è storia”.

Avrei dovuto mostrare un po’ di comprensione, di gentilezza, almeno un po’ di tatto, invece gli scoppiai a ridere in faccia. Era confortante sapere che al mondo esisteva qualcuno ancora più sfortunato di me.

“Una tua alunna? Santo Cielo, Ric, non ti sei accorto che era ragazzina?”.

“Non chiedo la carta d’identità a tutte le ragazze che incontro. Sembrava molto più grande. Cos’hai da criticare poi? Tu esci con una diciottenne”.

“Sì ma non è una mia alunna” obiettai “Come si chiama? Magari la conosco”.

“Meredith Sulez”.

A quel punto m’imposi di non ridere o non mi sarei più fermato “Sei nei guai, amico”.

“Non dirmelo”.

“Sul serio” continuai “Meredith non è una delle solite adolescenti. È sveglia, matura e seria. Già te la farebbe sudare in casi normali, ma adesso che sei il suo insegnante … non te la darà mai” conclusi e finii di sorseggiare la mia birra.

“Forse dovrei lasciare il posto” suppose.

“L’hai appena incontrata, non essere drammatico” smorzai io “Come farai a pagare l’affitto senza stipendio?”.

“Magari potrei usare i tuoi soldi! Tanto te ne stai steso sul divano senza fare niente!”.

“Il solito permaloso” mi scocciai “Non sai nemmeno accettare una critica”.

Alaric si allontanò dal divano e si chiuse in camera. Non lo disturbai, aveva bisogno di smaltire la delusione e i miei commenti sarcastici non lo avrebbero certo aiutato.

Si era messo in un bel pasticcio. Meredith era un osso duro, molto più intelligente della sua età e dalla morale molto forte. Non avrebbe ceduto facilmente.

Ripresi la mia posizione sul divano e spensi la tv. Alaric coinvolto in una quasi relazione con una sua studentessa era un argomento molto interessante, ma il sonno mi richiamava.

 

“Sembra una storia da film!” squittii agitandomi sul sedile dell’auto di Meredith. Da quando avevo scoperto che il misterioso ragazzo non era altri che il professore di storia, non avevo fatto altro che fantasticare sulla loro relazione impossibile. Non era ancora successo niente di compromettente ma la mia mente da inguaribile sognatrice aveva cominciato a girare.

“Insomma, Mere” proseguii “Non ti è mai piaciuto nessuno e ora ti sei presa una cotta per un tuo insegnante. Fa tanto Romeo e Giulietta”.

“Spero di no” sbiancò Meredith “Ho in programma di vivere ancora a lungo”.

“E soprattutto mi auguro che non ci sia bisogno di un matrimonio segreto” fu il commento secco di Elena dal sedile posteriore accanto a Caroline.

“Solo io la considero una cosa straordinaria?” mi scandalizzai “Stamattina sei arrivata con gli occhi che brillavano, non ti era mai successo” m’impuntai “Hai passato anni a lamentarti che quelli della nostra età non ti suscitavano il minimo interesse; poi arriva questo ragazzo, passate tutta la notte assieme, scatta la scintilla e …”.

“E il giorno dopo scopro che è il mio insegnante”.

“Ma è questo il bello! Se riuscirete a superare questo ostacolo, sarà vero amore”.

“Bon, ci ho parlato a malapena cinque ore. Certo, è molto affascinante e ne sono rimasta colpita ma finisce qui. Non sono compromessa fino al punto di disperarmi perché non posso stare con lui”.

“Se c’è attrazione non ci puoi fare nulla. Prima o poi ti colpirà alle spalle” l’avvisai.

“Mi ricorda molto Pretty Little Liars” s’intromise Caroline “Aria ed Ezra praticamente hanno cominciato così”.

“Non è quello show in cui le protagoniste sono perseguitate da un pazzo omicida?” s’informò Elena.

“Ecco appunto!” esclamò Meredith “Qualunque esempio prendiate, non è mai finita bene”.

“Il loro rapporto ha portato parecchi problemi” confermò Caroline “Ma sono ancora insieme, per adesso”.

“E’ una finzione” puntualizzò la mora.

“Se vuoi il mio consiglio, stanne alla larga” le suggerì Elena “E’ il tuo ultimo anno di scuola, probabilmente sarai ammessa ad Harvard. Non hai bisogno di qualcuno che t’incasini il cervello. Senza contare che se ti dovessero scoprire …”.

Meredith piantò una frenata pazzesca e per poco io non finii contro il parabrezza “Non c’è niente da scoprire, va bene?!” si scocciò “Niente di niente. È stata una parentesi. Pensavo potesse essere qualcosa di più ma non è il caso; quindi smettiamo di parlarne perché non c’è niente di cui parlare”.

Il discorso finì lì. Chiaramente Meredith ne era turbata anche se cercava in tutti i modi di non darlo a vedere.

Era una situazione davvero complicata, in cui nessuno avrebbe voluto essere coinvolto. Come diceva lei, si era trattato solo di alcune ore, troppo poche per stabilire una connessione profonda e inevitabile; eppure ero convinta che solo qualche minuto poteva cambiare radicalmente la vita di tutti.

Avrei dato qualsiasi cosa per provare una sensazione del genere. Non avevo molta esperienza in campo amoroso; mi piaceva flirtare e avevo un debole per i bei ragazzi (chi non lo aveva?), ero parecchio vulnerabile al loro fascino, ma non ero mai andata oltre. Qualche bacio, nemmeno un vero appuntamento.

Non avevo la più pallida idea di cosa significasse essere in una relazione, ero proprio una novellina e per giunta nessuno dei ragazzi che avevano stuzzicato la mia curiosità, aveva mai mostrato alcun segno d’interesse verso di me.

Forse ero noiosa, o non ero abbastanza bella. Qualunque fosse il motivo, ero rimasta esclusa dalla maggior parte delle esperienze che la maggior parte delle mie coetanee aveva già provato. Non credevo fosse tanto difficile trovare un’intesa, percepire della chimica con qualcuno, le cosiddette scintille.

Quando Matt mi aveva invitato al ballo, era stato come se fosse scesa una luce dal cielo e gli angeli avessero cominciato a cantare l’Alleluya . Per anni avevo avuto una cotta segreta per lui, avevo osservato gelosamente il tempo che aveva passato prima con Elena, poi con Caroline, sperando di ottenere anche io quella possibilità. Alla fine mi ero arresa, avevo rinunciato a qualsiasi sciocca fantasia e per uno strano scherzo del destino, avevo ricevuto quel graditissimo e inaspettato invito.

Non avevo sentito proprio i fuochi d’artificio scoppiettare dentro di me, più che altro era stato un leggero fuocherello che mi aveva scaldato le guance fino ad arrosarle, però era già qualcosa e avrebbe potuto crescere.

Matt non era un tipo passionale; era più un ragazzo dolce e affettuoso, molto sensibile e molto bello, il che non guastava mai.

Non pensavo che sarebbe stato l’amore della mia vita, ma mi fidavo di lui e per il momento mi bastava. Speravo solo in un altro appuntamento, dato che non mi aveva più chiamato dopo che avevo cancellato il primo.

Non era stata colpa mia! Mio padre me l’aveva praticamente imposto e non capivo davvero perché Matt non avesse più tirato in ballo l’argomento.

Possibile che avesse già cambiato idea? Magari mi stavo solo facendo prendere dalla paranoia ma ci sarei rimasta molto male se la cosa fosse caduta nel dimenticatoio.

Avevo già passato una buona parte della mia vita nell’ombra, non volevo sentirmi ancora un’illusa o insignificante. Durante il ballo, per la prima volta, mi era sembrato di stare finalmente sotto i riflettori e mi era piaciuto.

Non ero ancora pronta ad abbandonare quella sensazione, non era giusto perché me la meritavo.

Meredith mi lasciò davanti a casa mia e con me scese anche Elena. Ci rifugiammo nella mia camera per studiare. Alaric, per quanto fosse affascinante e simpatico, ci aveva sommerso di compiti per recuperare la settimana persa.

Per un po’ nessuna della due fiatò, troppo intenta a memorizzare date ed eventi. Elena continuò a sottolineare il suo libro, mentre io, già stufa, feci vagare gli occhi per la mia stanza fino a soffermarmi sulla finestra.

Istintivamente mi alzai e mi avvicinai per guardare fuori: lì davanti si stagliava la villa dei Salvatore; sembrava che al momento non ci fosse nessuno.

La stanza di Damon dava sulla strada ed era perfettamente visibile da camera mia. Le tende tirate mi misero un’infinita tristezza. Normalmente passava la maggior parte del suo tempo al campus e non era strano vedere la sua camera vuota; ma ebbi la brutta sensazione che quella volta non ci sarebbe tornato per molto.

Mi chiesi come una famiglia potesse essere così divisa dopo il lutto tremendo che l’aveva colpita. Avrebbe dovuto unirli e invece aveva sparso solo astio e rancore.

Sarei morta, se fosse successa una cosa del genere a me. Mia sorella e mio padre erano tutto

per me; ci volevamo bene. Non credo che sarei mai riuscita a sopportare di essere guardata nel modo in cui Giuseppe guardava Damon, né il silenzio opprimente che aleggiava nella loro casa, ancor meno la tensione.

“Stefan ti ha raccontato niente dell’altra sera?” domandai ad Elena.

Lei alzò la testa dal libro “Parli della cena? Mi ha detto che Damon ha sfidato tuo padre e i toni si sono alzati di parecchio … troppo”.

“E’ stata una scena davvero pietosa” commentai “E stranamente mi trovo a dar ragione a Damon”.

“Wow! Dev’essere stato davvero brutta se stai dalla sua parte” si stupì Elena.

“L’ho trovato steso nel mio giardino dopo” proseguii “Abbiamo parlato un po’ e poi è sparito. Tu … sai se Katherine lo ha visto?”.

“Bonnie, sei preoccupata per Damon?” fu la sua risposta, profondamente colpita.

“Non dire assurdità” negai, forse un po’ troppo velocemente “E’ solo che non vorrei che facesse qualcosa di stupido. Nessuno sa dov’è”.

“Credo che abbiano un appuntamento stasera” mi informò Elena “Quindi direi che è vivo e pronto a riprendere a folleggiare con mia sorella” sospirò “Bon, tu sei una brava ragazza e hai un gran cuore; non riesci a sopportare le sofferenze degli altri. Damon non ti piace, non ti sta simpatico, non lo stimi nemmeno ma non vuoi che stia male. Non devi vergognartene perché è una cosa bella” provò a tranquillizzarmi.

“Non lo dirai a nessuno, vero?” le  chiese a bruciapelo. Mi aveva beccata in pieno.

“La mia bocca è sigillata”.

“Bene” affermai “Perché è una cosa passeggera; tra un paio di giorni riprenderò ad insultarlo come al solito e tu continuerai a dirmi quanto io lo stia giudicando male”.

“Sembra un buon piano”.

Annuii con vigore e ritornai sui miei libri.

Col cavolo che mi sarei ancora fatta incastrare in una cena come quella. Non volevo dispiacermi per Damon Salvatore, lui non se lo meritava; perché nonostante fosse venuto da me per parlare, se n’era andato lasciandomi sola. Non gli importava di me, perciò io non ero tenuta a comportarmi diversamente.

Avevo chiuso con qualsiasi cena, riunione o festa a casa di quella famiglia!

 

Katherine si lasciò cadere sfiancata accanto a me. Si mise una mano sul cuore e respirò a fondo “Dio mio, Damon! Se litigare con tuo padre fa questo effetto, continua pure”.

Io ghignai. Almeno qualcuno ne era felice. Avevo molto di cui sfogarmi e Katherine era lo sfogo migliore che mi fosse mai capitato.

Forse quella sera me n’ero approfittato un po’ troppo.

Si avvicinò e posò la guancia sul mio petto nudo “Alaric non si arrabbierà? Stiamo facendo le cose sporche nel suo letto”.

“Sistemerò tutto prima che torni. È uscito per andare non so dove”.

Probabilmente a caccia di studentesse. Pensai divertito ma non lo esternai.

“Avresti preferito incontrarci a casa tua? Con il pericolo che rientrassero i tuoi? Vorrei cercare di fare una buona impressione” osservai.

“I miei genitori non sanno neanche che esisto” sbottò lei “Sono accecati dal fulgore di mia sorella” disse con una nota acida e ironica.

Nessuno la comprendeva più di me; sebbene adorassi Elena e non me la fossi ancora dimenticata del tutto, immaginavo quanto dovesse essere difficile averla come sorella.

Io venivo battuto ogni volta dal mio insulso fratellino più piccolo e Katherine era costretta a fare i conti con una persona uguale a lei, solo considerata migliore.

“Le nostre famiglie non ci hanno mai capiti” sussurrò Katherine “Nessuno ci ha mai capito. Esistono solo Stefan ed Elena. Il nostro potenziale è sprecato in un posto come questo. Potremmo fare grandi cose, ma nessuno crede in noi; siamo limitati. La verità è che non ci meritano. Non so come farò a passare un anno qui dopo tutto quel tempo a Parigi”.

“Abitudine” alzai le spalle io “Non è così male dopo un po’. Vedrai”.

“Io non voglio vedere, Damon” replicò piccata “Voglio andarmene”.

Io mi stiracchiai “Tra qualche mese sarai libera”.

“Non so se riuscirò ad aspettare fino alla fine della scuola” s’imbronciò “Tu non sei costretto a rimanere a casa. Puoi stare qui o al college, puoi andartene dalla tua famiglia”.

“Katherine” la chiamai, guardandola seriamente “Capisco il tuo rancore verso tua sorella, davvero, ma a parte quello hai una bella famiglia, unita e che ti vuole bene. Ti hanno mandata a Parigi per seguire il tuo sogno”.

“Mi hanno mandata a Parigi per sbarazzarsi di me, perché potevano avere solo una figlia perfetta. E adesso mi hanno fatta tornare solo per punirmi. Mi sottovalutano, non credono che io possa essere all’altezza di Elena. Se proprio devo rimanere qui, voglio dimostrare di essere migliore. Non mi fermerò fino a che non avrò ottenuto tutto quello che ha lei”.

Non insistetti oltre. Per quanto mi riguardava, Elena era un angelo e non riuscivo a vedere nessuna colpa in lei, ma la sua situazione era molto simile alla mia e di Stefan, perciò non mi permisi di giudicare. Ognuno aveva le sue ragioni.

Restammo abbracciati e in silenzio per un altro po’. Katherine sembrava essersi calmata e la cosa mi dava un certo piacere dato che era merito mio.

Se Alaric ci avesse trovato così nel suo letto, completamenti nudi, probabilmente mi avrebbe cacciato di casa senza nemmeno lasciarmi il tempo di vestirmi.

Katherine mi salutò dopo che replicammo in un secondo round. Mi affrettai a cambiare le lenzuola e mi feci una doccia. Ripresi posto sul mio divano e accessi la tv.

Alaric tornò che era già notte fonda. Io ero mezzo addormentato davanti allo schermo e mi rifugiai sotto un cuscino non appena si accesero le luci del salotto.

“Perché devi essere così maledettamente fastidioso?” borbottai.

“Perché devi stanziare sul mio divano quando hai una camera al campus?”.

Alzai il capo dal cuscino “Dove sei stato? In cerca di altre minorenni?” sbottai particolarmente irritato.

“Ero in giro con Sage” mi rispose “Voleva sapere se eri ancora vivo”.

“Dovrebbe essere solo contento: ha la stanza tutta per sé”.

“So che non è una sensazione cui sei abituato ma era preoccupato per te” ribatté il mio amico sparendo nella sua camera.

Normalmente mi sarei scocciato per tutte quelle risposte scortesi ma ad Alaric era consentito questo ed altro. Non era il mio più vecchio amico ma era di certo il migliore, l’unico che consideravo davvero come mio pari.

Lo avevo conosciuto al primo anno di college. Lo avevo reputato subito molto sveglio e brillante ma troppo pomposo per i miei gusti. Non mi serviva un’altra figura di spicco intorno, bastavo già io. Ero piuttosto geloso delle attenzioni che ricevevo.

A quel tempo, io e Sage dividevano la stanza con una altro ragazzo che aveva abbandonato gli studi solo un paio di mesi dopo l’inizio dei corsi. Al suo posto era arrivato Alaric. Il resto è storia: la convivenza forzata mi aveva fatto scoprire l’amicizia più sincera che avessi mai sperimentato.

“Damon” urlò dall’altra stanza “Cos’è successo al mio letto?”.

Sbiancai  vistosamente “Perché”.

“Ci sono le lenzuola pulite” osservò tornando in salotto.

“E’ un piccolo ringraziamento per l’ospitalità. Ho sistemato un paio di cose” restai vago. Ero una faccia di merda di dimensioni colossali.

“Hai per caso fatto sesso con Katherine nel mio letto?”.

Com’era volgare.

“Come ti vengono certe idee” negai con forza “Adesso uno non può più nemmeno essere gentile che si pensa subito male” mi diressi verso il bagno e chiusi la porta alle mie spalle.

“Comunque dobbiamo parlare di questa cosa!” esclamò Alaric dall’altra parte del legno.

Mi sedetti sul water e sbuffai: in una casa o in un’altra, ero sempre tormentato da un padre. Questo qui almeno era più tollerabile. E mi sarei divertito un mondo a farlo diventare matto; perché in fondo l’amicizia serviva a quello.

 

Il mio spazio:

E dopo mesi, eccomi a postare di nuovo!

Bene, ora che è finita Ashes&Wine posso finalmente dedicarmi a questa. Gli aggiornamenti saranno regolari.

Come avete visto è una storia un po’ più leggera dell’altra e i capitoli sono più corti, per cui dovrei riuscire ad aggiornare più o meno ogni settimana. Chiaramente dipende un po’ dagli impegni universitari ma di certo non passeranno più di due settimane tra un capitolo e l’altro.

Questo, come avete letto, è servito per introdurre la figura di Alaric. Grazie a lui nei prossimi capitoli arriveranno un paio di rivelazioni niente male.

Bonnie è un po’ più morbida nei confronti di Damon ma non durerà molto. È molto dispiaciuta per come lo ha trattato Giuseppe ma presto tornerà a considerarlo uno stronzo.

Damon invece non ha speso nemmeno due minuti per pensare a lei, nonostante lo abbia confortato durante la litigata. Chissà se prima o poi si ricorderà del suo aiuto?

Non ho altro da aggiungere. È un capitolo di passaggio, quindi non succede niente di che.

Vi ringrazio immensamente per le bellissime recensioni e per tutti quelli che seguono e leggono! Siete i migliori!

A presto!

Fran;)

 

Il banner è di Bumbuni. Da sinistra a destra vi presento: Alaric, Meredith, Damon, Bonnie, Matt, Elena, Stefan, Caroline.

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Capitolo 6
*** Team Bonnie ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo sei: Team Bonnie.

 

“It's a sweet romance
A spotlight dance
Girl you shake me to my bones
But every now and then I'll start to slip away
I gotta hear you say
Take me out spin me around
We can laugh when we both fall down
Let's get stupid dancing with cupid tonight
When I sing out of key
Still play air guitar for me
Let's get stupid dancing with cupid tonight
Don't feel all kind of right”

(Cupid- Daniel Powter).

 

Storsi il naso, sentendomi un po’ ipocrita.

Mi ero sempre vantata di essere una ragazza con un certo senso della realtà. Avevo i miei sogni e mi piaceva fantasticare, ma conoscevo bene i miei limiti.

Per i primi tre anni del liceo ero stata abbastanza invisibile e insignificante, non avevo mai avuto molta fiducia in me stessa e gli altri non avevano fatto niente per convincermi del contrario.

La sera del ballo si era rivelata fantastica, ma ero ben consapevole che non mi sarei trasformata in un attimo nella più figa della scuola. Quelle cose succedevano solo nel film.

Però passare nel giro di una settimana da Cenerentola al topo mi sembrava un po’ eccessivo.

Non che mi aspettassi di diventare da un momento all’altro la principessa del castello solo perché mi ero presentata al ballo con il quarterback della squadra di football; insomma per anni ero stata amica delle ragazze più ammirate del liceo e nessuno mi aveva mai filato lo stesso, però pensavo che almeno Matt mi avrebbe preso più in considerazione.

Era sparito. Mi vedeva e mi salutava e poi faceva come se nulla fosse. Mi ignorava e faticava quasi a scambiare due parole.

Non riuscivo a capire quel comportamento.

La situazione in realtà era piuttosto chiara: mi aveva chiesto un appuntamento e si era tirato indietro perché non era veramente interessato. Un atteggiamento piuttosto comune, ma assolutamente non tipico di Matt.

Era un ragazzo molto sensibile che sapeva sicuramente della mia cotta per lui (anche se ufficialmente mi era passata) ed era anche un mio carissimo amico; non ce lo vedevo proprio a prendermi in giro volutamente.

Ero in un vicolo cieco. Non potevo parlarne con nessuno: non mi sembrava carino coinvolgere Caroline ed Elena in quanto sue ex, Stefan era il suo migliore amico e non volevo metterlo in mezzo, Meredith infine era ancora abbattuta per la storia di Alaric,  forse era meglio evitare l’argomento ‘ragazzi’.

Così mi trovavo a spiarlo come una piccola stalker in erba, nascosta dietro uno dei cespugli che circondavano il campo da football.

Improvvisamente venni scossa da un fremito di orgoglio. La soluzione si rivelò molto più facile del previsto. Continuavo a lamentarmi di come fossi invisibile per tutti ma non avevo mai fatto niente per cambiare le cose.

Da quando ero tornata dalla Spagna, mi ripetevo che ero diversa, cresciuta, un po’ più sicura di me; mi ero ripromessa che mi sarei impegnata a diventare più forte eppure ogni volta mi ritiravo dietro la maschera della bambina timida, mi rimangiavo il coraggio.

Ora avevo l’occasione di dimostrare qualcosa. Se avessi cominciato a credere un po’ di più in me stessa, forse anche gli altri mi avrebbero trattata diversamente.

Aspettare qualche segno divino dal cielo non sarebbe servito a molto, almeno non nell’immediato. Dovevo prendere in mano la situazione, anche a costo di farci la figura della stupida.

Provai a ricordarmi come si atteggiava Caroline quando entrava in modalità seduzione. Testa alta, di sicuro. Bisogna dare l’impressione di non avere paura.

Voce ferma e aria distaccata, casuale, come se fossi io a fargli un favore e non il contrario.

Non sembrava tanto difficile, almeno in via teorica.

Scossi la testa indignata; non potevo essere una tale inetta a quasi diciotto anni!

Presi un bel respiro e uscii dal mio nascondiglio. I ragazzi avevano appena finito la prima parte dell’allenamento e si stavano rinfrescando vicino alle panchine.

Marciai nella loro direzione, più decisa di quanto mi aspettassi. Mi sentivo come se qualcosa fosse scattato in me, accendendo l’interruttore del coraggio.

Mi fermai solo quando fui davanti a Matt.

Non gli diedi il tempo di parlare, non mi diedi il tempo di ripensarci.

Esplosi come un fiume in piena, forse con voce un po’ troppo alta “Vuoi uscire con me domani sera?”.

Stefan, dietro al suo amico, si strozzò con l’acqua che stava bevendo. Il resto dei giocatori ammutolì. Matt mi guardò allucinato.

Avevo appena commesso, per caso, la cazzata più grande della mia vita?

 

“Gli hai chiesto un appuntamento?” esclamò Caroline incredula “Davanti all’intera squadra di football?”.

Io annuii, temendo la sua reazione.

Si girò verso Elena che mi fissava con la stessa espressione sconvolta. Scambiarono un sorrisino divertito.

“Finalmente stai uscendo dalla terra degli unicorni per entrare in quella degli uccelli”.

“Caroline!” la rimproverai diventando rossa come un peperone.

“Sei troppo puritana, è questo che ti frega”.

“Lasciala in pace, arpia” l’apostrofò Elena “Sono orgogliosa di te, Bonnie!”.

“Non credevo di averne il coraggio e invece sono contenta di averlo fatto. Ora mi sento davvero bene”.

“Ti senti bene perché ti ha detto di sì. Immaginati il contrario” ipotizzò Caroline alzando eloquentemente le sopracciglia.

“Smettila di smontarla” la sgridò Elena.

Caroline si ricompose subito e si volse verso di me “Stavo solo scherzando, non te la sei presa, vero?”.

Scossi la testa per tranquillizzarla.

Quando Matt aveva risposto di sì alla mia proposta, avevo sentito di nuovo gli angioletti cantare in coro. Per un momento avevo temuto che avrebbe rifiutato. La mia era stata una mossa molto azzardata.

Matt per tutta la settimana mi aveva evitata, ben deciso a non voler affrontare l’argomento; sarebbe stato normale se non avesse accettato, anzi sarebbe stato logico. Ancora faticavo a capire il suo comportamento ambiguo.

“Per dimostrarti quanto sia dalla tua parte, ti aiuterò a trovare il vestito perfetto” continuò Caroline facendo la linguaccia ad Elena.

Io strabuzzai gli occhi. Se ripensavo all’abito per il ballo, tremavo dall’orrore. Ero ben determinata a cambiare, ma non a stravolgermi.

“Grazie, Care, ma sta volta voglio fare da sola”.

“Non preoccuparti, per me è un piacere”.

“Per me un po’ meno” confessai mordicchiandomi il labbro “L’ultima volta mi hai impacchettato come un regalo a Natale!”.

Caroline aprì la bocca, sempre più indignata e sempre più divertita. Si voltò verso Elena “Ma che fa? Si ribella?”.

“Il nostro uccellino sta lasciando il nido”.

Uccellino. Ancora. Damon aveva contagiato tutti?

No, niente uccellino, niente Damon. Volevo godermi la mia serata romantica senza qualcuno a ricordarmi che per Matt non valevo niente.

Quello mi riportò alla mente qualcosa.

“Ragazze, a voi sta bene che io esca con Matt?”.

Passarono dei secondi interminabili e poi tutte e due scoppiarono a ridere.

“Bonnie!” disse Elena “La storia tra me e Matt è finita più di un anno fa. È stato il mio primo ragazzo ma ora è finita. E poi …” e arrossì.

Poi c’è Stefan.

“Lo stesso per me, cioè … non è stato il mio primo ragazzo” ci tenne a precisare; ovvio, lei era ormai una donna navigata “Sono totalmente team Bonnie”.

Team Bonnie. La cosa cominciava seriamente a piacermi.

 

Quando realizzai il significato della parola appuntamento era ormai troppo tardi. Mi ero tappata le orecchie quando Caroline aveva cercato di darmi qualche consiglio ed ora me ne pentivo.

Non avevo assolutamente idea di come ci si dovesse comportare ad un appuntamento; c’erano delle regole da seguire, un codice non scritto?

Mi era già sembrata un’impresa titanica ottenerne uno, ma non avevo assolutamente valutato le difficoltà di metterlo in atto.

Avevo svuotato il mio armadio e buttato tutto sul letto. Fissavo quel mucchio di indumenti come se potessero prendere vita propria e suggerirmi cosa indossare. Che poi, perché mai un abito doveva essere così importante? I vestiti non poteva mica parlare per me, fare colpo al mio posto. O no?

Cominciavo a rimpiangere di non aver accettato l’aiuto di nessuno, neppure di mia sorella. Ecco, com’ero finita a fare di testa mia!

Non potevo arrendermi così, non dopo la spavalderia che avevo mostrato prima a Matt poi alle mie amiche. Mi ero vantata di potermela cavare da sola e questa era l’ora della verità.

Mi riscossi in fretta. Ero stata costretta a vivere da sempre con una serie di cliché che avevo sempre odiato. Adesso non volevo solo tenermene alla larga, ma anche romperli, frantumarli. La commedia della ragazzina fragile alla lunga aveva stufato.

Piangersi addosso e tormentarsi con i dubbi non mi avrebbe portato nulla di buono. Stavo per andare ad un appuntamento, un comunissimo e normalissimo appuntamento. Non era una prova insuperabile, tante ragazze ce l’avevano fatta. Perché partivo già con l’idea che avrei fallito?

Scelsi un vestito molto semplice, bianco e sbracciato, stretto in vita con la gonna a campana. Un po’ da bambolina, romantico. Mi assomigliava per certi aspetti.

Mi ero presentata al ballo con un abito super stretto e provocante e non aveva funzionato, almeno non su di me. Non mi ero trovata a mio agio e si era notato.

Il mio stile mi spiaceva: era fresco, sobrio e soprattutto trasparente: mi rappresentava. Alcuni poteva trovarlo noioso e poco accattivante, ma perché interpretare attraverso i miei indumenti un ruolo che non mi apparteneva?

Forse sicurezza significava proprio quello: accettarsi per davvero e giocare suoi propri punti di forza, senza usare espedienti per adattarsi alle aspettative degli altri.

Io ero ben lontana dall’accettarmi totalmente; sentivo che dovevo ancora crescere e trovare la mia strada, però forse avevo individuato la direzione giusta.

Presi dei tacchi, anche se non altissimi (non quanto avrebbe consigliato Care) e una giacchetta. Eravamo verso la fine di settembre e alla sera faceva freddo.

Cercai di domare i miei riccioli che sembravano elettrizzati quanto me e scesi in salotto. Mary aveva finalmente convinto papà e stava organizzando il trasloco per andare a vivere con Alec.

In casa c’eravamo solo io e il vecchio, che mi guardava dalla poltrona mentre fingeva di leggere il giornale.

Alla fine si era rassegnato all’idea che Matt mi avrebbe portata fuori a cena. Mi aveva stupito tutta quella sua avversione perché in realtà a mio padre piaceva molto. Diceva sempre che era un bravo ragazzo, molto educato e onesto, ma proprio non gli andava giù il fatto che avesse frequentato due delle mie più care amiche prima di me. Prima o poi se ne sarebbe fatto una ragione.

“Papà”.

Lui grugnì in risposta.

“Ti vedo” lo avvisai. Credeva davvero che non mi sarei accorta dei suoi occhi puntati addosso al mio povero vestito?

Sbuffò e posò il giornale sulle sue ginocchia.

“Stai molto bene, gattina” sorrise forzatamente “A dirla tutta, temevo che scendessi con un abito tipo quello dell’altra volta” rabbrividì.

La scelta di Caroline era piaciuta proprio a tutti!

“Nessun altro appunto?”.

Riprese in mano il giornale e alzò le spalle “No”; attese qualche secondo e lanciò un’occhiata all’orologio “E’ in ritardo” constatò “Se fa così anche al ritorno, perderà la mia benedizione”.

“Come se ce l’avesse mai avuta” commentai.

“Non essere così tragica” mi smorzò “Non ho niente contro quel ragazzo, anzi sono tranquillo quando esci con lui perché so che sei al sicuro. Semplicemente non lo vedo adatto a te” confessò “Credo che stare in una relazione significhi anche confrontarsi; tu e Matt siete molto simili. Come potete crescere se la pensate allo stesso modo su tutto?”.

Rimasi un attimo sorpresa: aveva appena descritto la mia idea di rapporto perfetto. Sospettai che avesse dato una sbirciata al mio diario (sì, perché io che tanto volevo stare lontana dai cliché adolescenziali, tenevo un diario).

“Suppongo di essere un po’ esagerato” continuò lui “Matt non sarà l’unico ragazzo della tua vita. È normale non trovare quello giusto al primo colpo”.

“Perché sei così sicuro che finirà male?”.

“Non lo sono” obiettò “Ma sono convinto che alla fine ti troverai a fianco un migliore amico e non un fidanzato”.

Scossi la mano per troncare quel discorso. Apprezzavo davvero l’interesse che papà aveva verso di me, mi voleva bene e me lo dimostrava, ma quella era una mia decisione. Lui non poteva sapere che cosa mi passava per la testa o chi andasse bene per me.

Il mio cellulare suonò e guardai fuori dalla finestra: vidi il pick-up di Matt parcheggiato davanti a casa mia. Lo squillo era per avvisarmi di uscire.

Anche mio padre mi raggiunse “Quella è la sua macchina?” pronunciò allarmato “Sei sicura che reggerà tutti e due?”.

“Alla prossima critica …” gli intimai.

“Buona serata, gattina” mi salutò interrompendomi. Si era salvato in corner.

Mi avviai alla porta, super agitata.

Team Bonnie, team Bonnie, team Bonnie, continuai a ripetermi nella testa per darmi coraggio. Team Bonnie contro cosa poi?

La mia squadra doveva pur aver un avversario.

Team Bonnie contro tutte le cose che potrebbero andare male stasera. Pensai con sconcerto.

Forse quest’opera di convincimento non  stava andando a buon fine.

Saltai sull’auto, sul sedile accanto al guidatore. Matt mi sorrise. La serata iniziò decisamente a prendere una piega diversa.

Mi portò in un ristorante appena fuori Fell’s Church, molto carino. Ero sollevata che si fosse occupato lui dell’organizzazione. Non avrei saputo da che parte incominciare, nonostante fossi stata io ad invitarlo.

Temevo di finire subito in una situazione imbarazzante, invece rompemmo in fretta il ghiaccio e il tragitto verso il ristorante fu molto piacevole.

Chissà poi perché avevo avuto così tanta paura. Conoscevo Matt da anni e avevamo già passato del tempo insieme senza sentirci a disagio, ovviamente in amicizia.

Avrei vinto la sfida, ce la potevo fare, ero pronta.

Perché io ero il capo del team Bonnie.

 

Mi trascinai forzatamente lungo i corridoi dell’università. Mi ero ripromesso di non tornarci mai più, ma non avevo niente da fare e dormire tutto il giorno era diventato noioso.

Praticamente da quando erano incominciate le lezioni non ci avevo più messo piede, non sapevo neanche a che punto fossimo arrivati con il programma.

Mi sembrava un modo sconosciuto, totalmente distante da me nonostante ci avessi vissuto per bene due anni, trovando pure il mio spazio.

A pensarci bene, in effetti mi ero inserito perfettamente nell’ambiente universitario; quello delle feste però, non quello dei corsi.

Avevo una certa reputazione lì dentro, soprattutto tra le ragazze. Non sapevo se esserne fiero o no, ma sicuramente aveva rinvigorito il mio ego. Almeno da qualche parte, in qualche cosa, ero apprezzato.

Me la cavavo abbastanza anche negli studi. Mi mancavano ancora molti esami ma la cosa non mi spaventava affatto. Ero intelligente e ne ero consapevole; semplicemente non mi applicavo, per quanto potesse suonare banale. Forse non ci ero portato o forse volevo solo indispettire mio padre. Preferivo non indagare sulle ragioni della mia scarsa concentrazione, perché mi sarei infastidito molto se avessi scoperto che anche quell’aspetto della mia vita era condizionato da lui. In un modo o nell’altro tutto sembrava ritornare a Giuseppe Salvatore.

Mi ero iscritto al college per scappare. All’inizio aveva funzionato: non tornavo quasi mai a casa ed ero davvero pronto a costruirmi una nuova vita lontana da Fell’s Church. Mio padre era stato quasi contento, quasi fiero, ma solo in un secondo momento mi ero accorto che stava progettando il mio futuro secondo il suo schema. Ero destinato ad entrare nell’azienda di famiglia.

A quel punto avevo iniziato a ribellarmi. Mi ero convinto che se mi fossi dimostrato completamente ingestibile e irresponsabile, Giuseppe alla fine mi avrebbe lasciato in pace, permettendomi di fare quello che volevo pur di tenermi lontano dai suoi affari.

Non mi aveva deluso sotto quell’aspetto, era tragicamente prevedibile: sempre così veloce a togliermi ogni barlume di fiducia.

Katherine aveva ragione: ero sprecato per Fell’s Church; se nemmeno la mia famiglia mi capiva, come ci sarebbero riusciti gli altri?

Avevo bisogno di altri spazi, di andarmene e scrollarmi di dosso il mio nome. Allora mi sarei sentito davvero libero. Nessuno mi avrebbe più paragonato a Stefan, non avrei dovuto sopportare lo sguardo rassegnato di mio padre.

Entrai sbrigativamente nell’aula. La lezione era già iniziata e mi affrettai ad individuare la figura di Sage e a prendere posto.

Il mio amico alzò la testa dal quaderno e mi fissò stupito “Allora sei vivo” constatò.

“Ti prego, non cominciare anche tu” gli chiesi posando la testa sul banco.

“Non voglio farti la predica” mi tranquillizzò “Temevo solo che avessi seppellito il corpo di tuo padre e fossi scappato”.

“Ti sei dato al thriller?”.

Lui non rispose “Come mai sei venuto in università oggi?”.

“Mi annoiavo” spiegai “Alaric è scuola tutto il giorno. Non sapevo più che fare”.

“Povero stupido che lavora per guadagnare” sbuffò ironicamente.

Gli lanciai un’occhiata seccata “Che lezione è?”.

“Business strategy . Hai almeno letto il programma?”.

“Sage, non so neanche che esami abbiamo quest’anno. Chissà perché poi mi sono iscritto ad economia; è inutile” mi lamentai.

“Forse perché tuo padre gestisce attività in tutta la Virginia e tu erediterai tutto?”.

Appunto.

“Quindi questo ritorno è definitivo?” s’informò Sage “Dovrei saperlo perché ci sarebbe una ragazza e beh, deve avere il tempo di trovare un’altra sistemazione”.

“Una delle tue conquiste sta dormendo nel mio letto?!” mi scandalizzai per essere stato sfrattato con così poco tatto.

“Non fare lo schizzinoso. Devo ricordarti di quando usavi anche il mio letto perché tu e le tue ragazze non stavate tutti nel tuo?”.

Gran bei tempi. Durante il mio primo anno me l’ero spassata, forse fin troppo. Ma certe esperienze si apprezzavano meglio a vent’anni.

“Farò avanti e indietro” dissi “Credo che Alaric prima o poi mi sbatterà fuori di casa”.

“Mi stupisco che non l’abbia già fatto”.

“Sei veramente di aiuto, Sage” mormorai cercando di leggere i suoi appunti. Non era il migliore della classe ma s’impegnava.

Durante tutto il liceo ci eravamo divertiti a combinare guai e comportarci da stupidi. Ci conoscevano dall’elementari e d’allora ne avevamo combinate peggio di qualunque alunno passato per le scuole di Fell’s Church. La nostra presenza nell’ufficio del preside era fissa, le note piovevano. Eravamo compagni di cazzate e anche durante i primi mesi del college non ci eravamo smentiti.

Poi era arrivato Alaric, di un anno più grande e molto più maturo di noi. Frequentandolo, Sage aveva messo la testa a posto. Non era diventato uno studente modello, ma almeno era quasi in pari con gli esami e contava di laurearsi in tempo.

Aveva trovato una sua dimensione, sebbene rimasse in parte il solito idiota, sempre pronto a farsi trascinare in qualche casino, soprattutto se era Tyler a proporlo.

Tyler. Ogni gruppo aveva il suo coglione e lui era il nostro.

A volte pensavo che le sue ripetute bocciature fossero parte di un piano divino, perché se si fosse diplomato in tempo e si fosse iscritto al college con noi, probabilmente ci avrebbero cacciato dopo la prima settimana.

“Dirò a Sue* di tornare nella sua vecchia stanza” accettò di buon grado “Ti dirò: cominciavo a stufarmi di averla sempre attorno”.

“Ora ti riconosco”.

Sage ghignò e lasciò perdere i suoi appunti “Hai visto Tyler mentre eri a Fell’s Church?”.

Scossi la testa “No, non sono uscito molto”.

“Sono morto dal ridere quando ho saputo che era stato bandito da Homecoming”.

“E’ uno scemo. Per anni ha corretto le bevande e per anni si è fatto beccare. I nostri insegnanti non saranno delle cime ma alla quarta volta l’hanno imparata!”.

“Tu sei stato al ballo” affermò “Com’è stato tornare al liceo?”.

“Niente di nuovo, è sempre lo stesso. Mio fratello è stato incoronato re; il solito fascino dei Salvatore” commentai con un moto di orgoglio ricordando i tempi in cui ero io a vincere.

“Ho sentito che Katherine è diventata reginetta”.

“Avevi dubbi?” lo ribeccai “Le Gilbert regnano in quanto a bellezza, non c’è nemmeno competizione. Credevo che Caroline salisse sul palco a strapparle la corona” sghignazzai “Almeno avrebbe movimentato un po’la serata; invece si è limitata a trucidarla con lo sguardo mentre ballava con …” mi bloccai sconcertato.

Con Stefan.

Solo l’idea m’infastidì. Non era stata colpa di nessuno, era tradizione che il re e la reginetta ballassero insieme dopo l’incoronazione, ma non potei evitare di ritenere il mio fratellino responsabile. In qualche modo era sempre in mezzo.

Era come un’ombra che mi seguiva, mi tormentava e non se ne stava mai al suo posto. E ancor peggio, aveva dato il pretesto a quella piccola peste rossa per vendicarsi delle mie cattiverie e sbattermi in faccia le sue frecciatine.

Sarebbe stato anche divertente osservarla mentre cercava di fare la spavalda,  se io non fossi stato l’oggetto delle sue battute poco gradite.

Prima o poi avrei dovuto restituirle il favore e insegnarle a tenere quella lingua tra i denti.

Non ero mai stato un grande fan di Bonnie McCullough, la consideravo una bambina, troppo sensibile, a tratti frignona e infantile. Credeva di essere cresciuta ma rimaneva sempre la solita petulante mocciosa e non vedevo l’ora di lasciarmi alle spalle pure lei.

“Damon” mi chiamò Sage “Damon, la smetti di torturare la mia penna?”.

Solo in quel momento mi accorsi che stavo stringendo pericolosamente tra le mani la biro che Sage aveva appoggiato sul banco. La mollai e ricadde rotolando sulla superficie liscia.

C’era qualcosa che mi disturbava in tutto ciò. Mi ero sempre vantato di essere una persona particolarmente insensibile, poco interessata a quello che mi accadeva attorno, eppure mi facevo colpire da eventi e persone insignificanti.

Mi alzai dal mio posto, il professore mi guardò male. Salutai bruscamente Sage e uscii dall’aula. Non avevo seguito una parola, era inutile che continuassi a perdere il mio tempo lì dentro.

Camminai veloce per il corridoio, incrociai qualche viso conosciuto ma non mi fermai, non ero in vena di fare due chiacchiere.

Presi il cellulare dalla mia tasca. Avevo intenzione di chiamare Katherine e chiederle di saltare l’ultima ora di lezione per passare del tempo insieme. Cercai il suo numero nelle chiamate rapide ma non ebbi mai la possibilità di premere il tasto.

Qualcuno mi venne addosso, per poco non persi l’equilibrio. La mia irritazione stava per scoppiare e per riversarsi sul povero malcapitato quando vidi, circondata da un mucchio di fogli, una testa rossa piegata a radunarli.

Fu facile riconoscerla.

“Mary” dissi piegandomi per aiutarla.

“Damon” mi sorrise “Scusami davvero! Stavo leggendo una cosa e non ho guardato dove mettevo i piedi”.

“Non preoccuparti”. Fosse stata un’altra persona, l’avrei rivoltata fino a farla piangere. Mary era la figlia simpatica del signor McCullough, la maggiore, quella che sopportavo. Anche lei aveva i capelli rossi ma erano più ramati rispetto a quelli di Bonnie. Le mancava poco alla laurea e lavorava già nell’ospedale di Fell’s Church.

“Stai andando a lezione?” le domandai.

“No, mi hanno affidato un seminario” mi rispose.

“Sei diventata professoressa?” spalancai gli occhi.

“Certo no!” arrossì tirandosi indietro una ciocca di capelli “Aiuto solo il mio insegnante. È solo un seminario per parlare della mia esperienza all’ospedale”.

Le porsi i fogli che avevo raccolto.

“Tu piuttosto che ci fai qui?” mi chiese. Evidentemente non si aspettava di vedermi all’università dopo quella furibonda litigata con mio padre.

“Ho fatto solo un giro. C’è ancora la mia stanza qui e dato che a casa non sono gradito …”.

“Mi dispiace per quello che ha detto tuo padre. Anche io mi sarei arrabbiata”.

“Questa è la prassi a casa Salvatore, ormai ci sono abituato” cercai di sminuire la cosa “A me dispiace che tu abbia dovuto assistere a quella scena. Non è stata piacevole”.

“Non preoccuparti, le liti in famiglia capitano” mi assicurò “Credo che mia sorella ci sia rimasta davvero male, sai? Per tutta la domenica non ha fatto altro che inveire contro tuo padre” mi raccontò.

Fu il mio turno di rimanere meravigliato. Bonnie mi disprezzava almeno quanto io non tolleravo lei. Di certo si era goduta quella mia umiliazione.

Improvvisamente realizzai che Bonnie aveva già dimostrato di essere dalla mia parte. Era successo sempre quella notte, nel suo giardino. Aveva tanti lati fastidiosi e il più delle volte si comportava come una tredicenne, ma per qualche strano motivo finivo sempre da lei quando qualcosa mi ricordava brutalmente e tristemente mia madre.

Bonnie aveva un effetto calmante su di me. Per assurdo mi capiva come nessun altro al mondo ed era l’unica con cui avrei voluto parlare.

Non era successo molto spesso negli anni passati; le nostre conversazioni civili si potevano contare sulle dita di una sola mano e riguardavano le nostre madri. Non c’erano momenti strappalacrime, né tantomeno abbracci o simili, non le nominavamo neanche; ma la sua presenza mi aiutava a superare lo sconforto e così la mia.

Dopo la penosa uscita di mio padre, ero scappato di casa con la mia Ferrari. Ero andato da Tyler, aveva bevuto, tanto. Non ero in  condizioni di guidare e mi avevano riportato a casa. Ma io non volevo entrare, non volevo dividere lo stesso tetto con quel mostro. Senza rendermene conto, mi ero ritrovato steso sul prato dei McCullough. Solo quando avevo visto i suoi grandi occhi guardarmi storto, mi ero reso conto che ero rimasto nell’attesa d’incontrarla.

Odiavo ammetterlo perché mi faceva sentire vulnerabile e stupido, ma Bonnie più di una volta mi aveva impedito di scoppiare come una bomba che aveva accumulato troppa energia.

“Non l’ha ancora accettato; per questo è così sensibile” spiegò Mary, destandomi dai miei pensieri.

Si riferiva all’abbandono da parte della loro mamma. Mary era più forte, si era ormai rassegnata. Bonnie no. Segretamente sperava ancora nel suo ritorno.

Era in quelle circostanze che avrei desiderato essere senza cuore come tanto declamavo, perché avrei preferito di gran lunga non provare compassione per quell’uccellino.

“Beh, ti assicuro che non ci saranno altre cene per un molto tempo. O almeno io non sarò presente”.

Mary annuì, palesemente a disagio. Mi commiserava e non voleva mostrarlo per non mettermi in imbarazzo, ma potevo fiutare la pietà intorno a noi.

Le augurai buona fortuna per il suo seminario e me la svignai il più in fretta possibile. Le sue parole, però, mi avevano lasciato da pensare.

Non ero uno santo, specialmente nei confronti di Bonnie. Se vedevo un’occasione per prenderla in giro o mortificarla, non me la lasciavo scappare.

Nonostante l’avessi ferita più e più volte senza pentirmene, lei non mi aveva mai cacciato. Era buona, fin troppo, tanto da darmi il voltastomaco e lo era anche con me, benché non me lo meritassi. Non ne capivo il motivo, io non ci sarei mai riuscito.

Forse avrei dovuto ringraziarla o almeno fare qualcosa di carino.

 

Mi avviai alla porta tenendo tra le mani un pacchetto di carta.

Erano le dieci e mezza di domenica mattino. Normalmente a quell’ora ero nel pieno del mio sonno ma avevo un compito.

Suonai il campanello. Aprì giusto la persona che stavo aspettando. Era assonata, con i capelli rossi arruffati. Indossava un delizioso pigiamino color pesca con i fiorellini.

Mi guardò con occhi stralunati. Forse cercava di capire se stesse ancora sognando oppure se fossi reali.

Sbadigliò portandosi una mano davanti alla bocca “Che ci fai qui?”.

“Ho portato la colazione” annunciai sventolandole il sacchetto davanti al viso “Ciambelle”.

Ora era sbalordita. Non era roba da tutti i giorni trovarsi Damon Salvatore davanti alla porta con un pacco di ciambelle in mano.

“Sei ubriaco?” mi chiese.

“No, uccellino, non passo la mia vita a bere” mi scocciai.

“Abbiamo già fatto colazione” mi disse e fece per chiudere la porta. Io misi il piede in mezzo “Suvvia, Bon Bon, rifiuteresti una ciambella?”.

Mi trucidò con lo sguardo. Evidentemente sì.

“Damon!” il signor McCullough apparve alle spalle della figlia “Cosa ci fai qui?”.

“Ho comprato delle ciambelle in più e ho pensato di portarvele per scusarmi del mio comportamento dell’altra sera”.

Ora Bonnie mi guardava ancor più scettica. Potevo quasi leggere i suoi pensieri: mi stava sicuramente dando del leccapiedi.

“Non dovevi disturbarti” disse lui “Forza vieni dentro, Bonnie fallo passare” le ordinò prima di tornare in cucina.

“Prima o poi mi adotterà” commentai ridacchiando.

“Non ci sperare” mi stroncò Bonnie “Perché sei qui, Damon? Se ti vede tuo padre …”.

“La strada è ancora territorio pubblico” replicai “E questa è casa tua; non può dirmi niente. Se magari mi lasciassi entrare, saremmo sicuri di evitare altre scenate”.

Bonnie sospirò e si spostò di malavoglia di lato.

Mi feci strada nell’ingresso “Hai l’aria stanca, uccellino. Hai fatto le ore piccole stanotte?”.

Lei arrossì e distolse lo sguardo.

Inarcai le sopracciglia. La mia era stata una battuta ma sembrava che avessi fatto centro.

“Almeno le hai prese al cioccolato?” mi chiese.

“Doppia glassa”.

Bonnie sembrò soddisfatta. Mi fece segno di seguirla in cucina e mi diede le spalle. Rimasi un attimo all’ingresso per osservarla meglio mentre camminava via.

Non era la mia persona preferita ma quella mattina riuscivo a trovarla quasi adorabile. Probabilmente avrei ricominciato a schifarla non appena avessi sbrigato quella faccenda del ‘ringraziamento’ ma per il momento ero solo contento che non mi avesse sbattuto fuori dalla porta. Era una sensazione piacevole, sentivo il calore di quella casa e il profumo del caffè, che sapeva tanto di famiglia.

“Allora ti muovi o no?”. La voce di Bonnie arrivò sgarbata e impaziente.

Come rovinare l’atmosfera.

Ebbi la netta impressione che la mia sopportazione sarebbe presto evaporata. Nel frattempo, potevo divertirmi un po’a torturarla.

“Uccellino, perché non racconti al tuo vicino di casa preferito cosa hai combinato ieri sera per avere un’aria così stanca?” chiesi entrando in cucina.

Suo padre s’insospettì “Hai qualcosa da dirmi, gattina?”.

Poco ci mancò che Bonnie mi tirasse una padella in testa.

 

Il mio spazio:

Sono stata veloce sta volta, vero? Eheh.

Allora vorrei un attimo parlarvi di Damon. Come aveva già detto nelle note del secondo capitolo, qui parliamo di un ragazzo, umano, di solo ventun anni. Per quanto odi ammetterlo, è pieno di emozioni; la maggior parte sono negative, quasi distruttive, confuse e complicate ma sono sempre emozioni. Avevo pensato di ritrarlo molto più freddo e senza cuore ma non mi sembrava molto credibile. In fondo, noi leggiamo tutte queste cose perché la narrazione è in prima persona e quindi entriamo direttamente nella sua mente ma gli altri personaggi non conoscono questo suo lato.

Soprattutto verso la fine, vi potrà sembrare un po’ OOC; spero che non lo sia troppo. Semplicemente la chiacchierata con Mary gli ha aperto gli occhi. A Damon non piace Bonnie, ma si è reso conto che lei c’era.

I suoi amici lo hanno riportato a casa ubriaco, suo fratello non ha praticamente alzato un dito per difenderlo da Giuseppe ma Bonnie c’era e non l’ha cacciato.

Damon sa di non meritarsi la sua comprensione e le è grato.

Che ne dite di questa Bonnie che decide di chiedere a Matt un appuntamento? Vi avviso subito: non avete scampato la serata. Ne parlerò nel prossimo capitolo.

Ho anche una comunicazione di servizio: a fine mese ho un esame e sto lavorando ad un progetto per l’università; per cui forse i prossimi due  o tre aggiornamenti non saranno settimanali.

Vi ringrazio tantissimo per il continuo seguito!! Sono contenta come una bambina a Natale!

Nei prossimi due capitoli questa storia prenderà finalmente il via con un paio di svolte interessanti.

Titolo del prossimo capitolo: A gentleman doesn’t kiss and tell.

A presto,

Fran;)

 

Il banner è di Bumbuni.

 

*Sue Carson è un personaggio del libro.

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Capitolo 7
*** A gentleman doesn't kiss and tell ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo sette: A gentleman doesn’t kiss and tell.

 

“Superstar, where you from, how's it going?
I know you, gotta clue whatcha doing
You can play brand new to all the other chicks out here
But I know what you are, what you are, baby
Look at you, getting more than just a re-up
Baby you, got all the puppets with their strings up
Faking like a good one, but I call 'em like I see 'em”

(Womanizer- Britney Spears).

 

“Hai qualcosa da dirmi, gattina?”.

Ero certa che mio padre si sarebbe insospettito per l’insinuazione di Damon. Perché si divertiva così tanto a mettermi nei guai?

Ebbi l’istinto di tirargli una padella in testa ma mi trattenni.

“Niente, papà, lo sai cosa ho fatto ieri sera” risposi restando vaga. Non volevo che Damon sapesse del mio appuntamento con Matt o mi avrebbe presa in giro per sempre.

“Sei rientrata tardi” osservò lui.

“Ero sul portico a parlare” spiegai sperando che lasciasse cadere il discorso.

“Non voglio che diventi un vizio. Anche settimana scorsa l’hai fatto” mi rimproverò.

“Temo che sia stata colpa mia per quella volta” s’intromise Damon “Bonnie era con me”.

Adesso si decideva ad aiutarmi? Sarebbe stato molto più utile se non avesse tirato in ballo l’argomento.

Come udì quelle parole, mio padre s’illuminò. Qualcuno prima o poi mi avrebbe dovuto spiegare come potesse avere una così alta considerazione di quel ragazzo. Quasi tutti i genitori di quella città lo guardavano con sospetto per paura che corrompesse le loro figlie; lui era l’unico che avrebbe gioito a vederci insieme.

Mistero che non avrei mai scoperto.

“Che sia l’ultima volta, però” mi avvertì con un’occhiata eloquente. Passò una tazza di caffè a Damon e insieme cominciarono a parlare della partita di football della sera prima.

Capii che quella simpatica chiacchierata sarebbe andata avanti ancora per molto; perciò mi affrettai a prepararmi un po’ di latte caldo. Volevo filarmela in camera il prima possibile.

Sfortunatamente il cellulare di mio padre iniziò a squillare.

“Gattina, stai tu con Damon mentre rispondo” mi disse. Sparì nell’altra stanza.

Al mondo c’era, chiaramente, una forza avversa creata apposta per tormentarmi.

“Allora” incominciò appoggiandosi contro i fornelli “Cos’hai combinato ieri sera?”.

Ma che gliene fregava?!

“Niente, sono uscita” tagliai corto.

 

Ancora non potevo credere di essere ad un appuntamento con Matt Honeycutt, quarterback della squadra di football, nonché uno dei più bei ragazzi di Fell’s Church.

Un po’ mi dava fastidio di essere elettrizzata da aspetti così frivoli, ma non potevo farne a meno: quella era la mia rivincita.

Dopo il viaggio in macchina, avevo ritrovato la mia calma ed ero decisamente più tranquilla. Cercai di vedere quella cena non tanto come un appuntamento romantico, quanto come un’uscita tra amici.

In cuor mio, ovviamente, speravo che fosse il primo caso, ma pensare al secondo mi aiutava a non agitarmi. Io e Matt eravamo amici da una vita e non desideravo rovinare il nostro rapporto: se fosse andata male, non ne avrei fatta una tragedia. Avrei tentato in tutti i modi di non lasciar cadere l’imbarazzo tra noi.

Il ristorante era molto carino, un posto tranquillo con atmosfera familiare, ma non prestai molta attenzione a ciò che mi circondava. La mia mente era decisamente altrove, tutta focalizzata sul ragazzo davanti a me.

Matt era la dolcezza fatta a persona. Nonostante fosse ritenuto molto bello e popolare, non si era mai mostrato arrogante né presuntuoso. Era un gran lavoratore: serviva quattro giorni a settimana al Grill per aiutare la sua famiglia con le bollette. Era di origini modeste, non molto ricche, capitava che avesse ogni tanto qualche difficoltà economica.

A scuola andava discretamente; non era quel si suol dire un genio, ma se la cavava. Puntava ad una borsa di studio per la sua abilità nel football; in quel campo era un vero talento. Grazie a lui avevamo vinto gli ultimi due campionati regionali ed ci eravamo classificati tra i primi dieci delle squadre nazionali.

Un po’ lo invidiavo, perché, nonostante la sua situazione economica non fosse delle migliori, aveva un obiettivo reale e raggiungibile. Era scontato che avrebbe ottenuto una borsa di studio da qualche parte.

Grazie al lavoro di mio padre, potevo permettermi un’ampia scelta per l’università, ma ero totalmente persa. Era così assurdo che a diciassette anni non sapessi che fare del mio futuro? Evidentemente sì, perché tutti i miei amici avevano già pianificato tutto.

Scossi la testa e tornai a concentrami su Matt. Quella sera si era vestito elegante e la cosa non poteva che farmi piacere. Significava che considerava la nostra uscita importante e non voleva sfigurare.

Anche lui si concentrò su di me e mi squadrò come non aveva mai fatto prima. Era una bella sensazione: mi sentivo apprezzata, finalmente da qualcuno cui tenevo.

Tanti ragazzi in Spagna mi avevano corteggiata, ma alla fine lo avevo percepito fino a un certo punto. Non m’importava niente di loro, quindi non la ritenevo una grande conquista.

“Ti sta molto bene questo vestito” si complimentò “Questo l’hai scelto tu” affermò.

“Noto che il vestito che ha scelto Caroline non è piaciuto a nessuno” borbottai.

“In realtà a me è piaciuto molto” si corresse “Eri …beh, eri sexy” mi confessò un po’ in imbarazzo. Matt non era il tipo da fare certi commenti così espliciti. Normalmente andava sul dolce e sul semplice.

“Ma chi io?” replicai con tono sorpreso.

“Non guardarmi così stupita, è vero” ribadì “Però stai molto bene anche così. Sei molto tu; riesco a riconoscerti”.

“Matt, posso domandarti una cosa?”.

Eravamo in vena di confidenze; tanto valeva approfittarsene.

“Perché non mi hai più chiesto di uscire? E perché hai accettato il mio invito? Credevo…che avessi cambiato idea, sai?”.

Matt sorrise, quasi colto da un’illuminazione “Io credevo che tu avessi cambiato idea” disse “Quando hai disdetto il nostro appuntamento, per andare a cena da Stefan, ho pensato che fosse solo una scusa perché non volevi uscire con me”.

Avevo sentito bene? Era serio?

“Sono felice che tu me l’abbia richiesto. Io sono stato stupido a non fare un secondo tentativo”.

“Perché adesso?”. Non so cosa mi prese; semplicemente non riuscii a fermare le mie stesse parole. Mio padre con la sua stupida apprensione mi aveva messo un tarlo in testa: Matt mi aveva sempre considerata solo come un’amica. Adesso era cambiato qualcosa e io avevo il diritto di sapere il motivo.

“Un po’ mi vergogno” ammise “Non guadagnerò punti a raccontarti questa cosa” mi avvisò “Ho sempre avuto un debole per te; quando eravamo piccoli, volevo sempre proteggerti. Sembravi così piccola e fragile, eri talmente carina. Il problema è che in tutti questi anni non mi sono accorto che sei cresciuta, ho continuato a vederti come una bambina”.

Per ora mi aveva detto cose che già sapevo. Io ero la ‘bambina’ del gruppo, soprattutto per il mio aspetto da bambolina. Le mie forme erano ancora un po’ adolescenziali e il mio atteggiamento non aiutava. Mi avevano trattato per talmente tanto tempo come la bimba di turno che alla fine mi ero adatta a quel ruolo.

“Poi sei tornata dalla Spagna e …ti ho vista sotto tutt’altra luce. Non so davvero come spiegartelo, Bonnie: c’è qualcosa di diverso in te e non riesco a toglierti gli occhi di dosso. Mi dispiace molto di essermene accorto solo adesso”.

Divenni tutta rossa, ma non abbassai lo sguardo. Adoravo i suoi occhi blu e avrei potuto stare a fissarli per tutta la vita; soprattutto in quel caso che ricambiavano la mia stessa intensità.

Il cameriere venne a prendere l’ordinazione. Per tutto il resto della sera finimmo a parlare di altro. Ricordammo la nostra infanzia e le prime feste, i primi guai in cui ci eravamo cacciati. In fondo, avevamo condiviso praticamente la nostra intera vita e trovare un argomento di conversazione non fu affatto difficile.

Quando mi riportò a casa era quasi mezzanotte. Ci fermammo sotto il portico per altre due ore senza rendercene nemmeno conto.

Arrivò il momento di separarci e ancora una volta fui io quella più coraggiosa: mi allungai sulle punte e gli posai delicatamente un bacio sulla bocca.

Fu molto tenero e breve, ma per me significò moltissimo. Ci stavamo addentrando piano in una nuova fase del nostro rapporto, stavamo riscoprendo un nuovo lato di noi. Quel bacio, per me, rappresentò il vero inizio del mio cambiamento.

 

“Ce l’hai scritto in faccia che non vedi l’ora di raccontarlo a qualcuno. Fa’ finta che sia Stefan” m’incitò quasi con tono provocatorio.

Ripiombai di botto nella realtà.

“Tu non sei Stefan” asserii. La mia non voleva essere un’affermazione per ribadire l’ovvio; gli stavo trasmettendo un messaggio chiaro e lapidario: ‘tu non sei come Stefan, non provare a prendere il suo posto’.

Damon lo capì senza problemi. Lo vidi per un attimo irrigidirsi, ma si rilassò subito. Alzò le spalle, indifferente.

“Sai, Bon Bon, alcune persone non vogliono essere come Stefan” mi fece notare.

“Forse tu non vorresti essere come lui, ma non ti dispiacerebbe avere ciò che ha lui” replicai con la massima calma. Stavo camminando sull’orlo di un burrone: se Damon si fosse arrabbiato per davvero, mi ci avrebbe spinto giù a piena forza.

“E cosa ti fa credere che io vorrei anche te?” sibilò.

La mia tranquillità dissimulava una certa agitazione; la sua una freddezza mortale.

“Non intendevo quello …” provai a protestare.

I suoi occhi s’indurirono improvvisamente e bloccò ogni mio tentativo di parlare. “Chiariamo una cosa, Bonnie”.

Non mi chiamava mai per nome. Doveva essere molto seccato; d’istinto indietreggiai.

È stato divertente per un po’, ma stai superando il limite. Ti ho permesso più di una volta di parlarmi come se fossimo alla pari e ho l’impressione che te ne stia un po’ approfittando” mi gelò “Da quando sei tornata dalla Spagna ti credi una gran figa, perché qualcuno ti ha finalmente notata, ma non è così. Sei ancora la solita ragazzina insulsa, irritante, che vive all’ombra delle sue amiche. Non sei nessuno”.

Ero pietrificata. Non capivo davvero per quale motivo fosse diventato così cattivo. Sapevo che l’argomento Stefan era una nota dolente per lui, ma non avevo detto niente di male e non mi aveva nemmeno lasciato il tempo di correggermi.

“Quindi fa’ un favore a te stessa e torna ad abbassare quella testolina rossa, perché sappiamo entrambi che potrei rimettermi al tuo posto con un’occhiata; non costringermi a farti piangere”.

Mi lanciò un’ultima occhiata di ghiaccio prima di abbandonare la cucina. Lo udii salutare cordialmente mio padre e andarsene.

Io non mi ero mossa di un millimetro. Come minimo avrei dovuto inseguirlo e rispondergli a tono, urlargli che non poteva permettersi di venire a casa mia a insultarmi, non dopo che lo avevo così gentilmente consolato.

Mi resi conto, però, che Damon aveva tremendamente ragione: tutto il coraggio che avevo cercato con affanno, spariva di fronte a lui. Aveva come nessun altro il potere di farmi sentire un insetto.

Mi morsi con forza un labbro e serrai gli occhi. Qualche lacrimuccia lottò per fuoriuscire, ma venne bruscamente ricacciata indietro.

Non volevo dargli quella soddisfazione; mi aveva già umiliata abbastanza.

Dopotutto, forse si meritava tutte le cattiverie che suo padre continuava a gettargli addosso; di certo non era un mistero che Stefan fosse ritenuto il figlio migliore.

Damon Salvatore era solo uno spocchioso, un viziato. Lo avevo aiutato e quello era il ringraziamento.

Lo volevo il più possibile lontano da me.

 

Entrai al Grill come una furia. Le ragazze erano già sedute al nostro solito tavolo. Tirai indietro la sedia bruscamente e mi sedetti sbattendo la borsa a terra.

Le altre tre mi fissarono stranite. Non ebbero nemmeno il tempo di parlare che cominciai a blaterale su quello che era successo e ad inveire contro Damon.

Il che era davvero il colmo: avevo trascorso tutta la sera precedente con Matt, al mio primo appuntamento e invece di raccontare tutta agitata quello che era successo, me ne stavo a lamentarmi di quel pallone gonfiato.

Non sarei mai riuscita a tranquillizzarmi se non mi fossi tolta quel peso. Mi dava fastidio perché era l’unico a riportarmi sempre con i piedi per terra, malamente. Sembrava che si divertisse a spezzare ogni mio sogno.

Al termine della mia invettiva, le altre tre rimasero in silenzio, forse per paura di farmi innervosire ancora di più. Fu lo sguardo di Elena a colpirmi più di tutti: non appariva troppo convinto, come se fosse colpa mia.

“Non dirmi che stai dalla sua pare adesso!” l’attaccai puntandole un dito contro.

“No, certo che no” si affrettò a chiarire “Ti ha detto delle cose veramente cattive e non lo sto difendendo, però … Bonnie, anche tu potevi evitare quella battuta su Stefan”.

“E’ stato lui a tirarlo in ballo. Forse sarò stata anche acida, ma non aveva nessun diritto di presentarsi in casa mia e parlarmi in quel modo. È solo un ingrato! La prossima volta che prova ad occupare il mio giardino perché vuole vedere la luna, lo sbatto fuori a calci nel sedere” conclusi.

“Non hai fatto niente di male” mi assicurò Elena “Non volevo prendere le sue difese. È solo che so quanto sia suscettibile all’argomento Stefan”.

“Ha ventun anni. È ora che superi questo complesso d’inferiorità” intervenne Caroline “Il mondo non ruota intorno a lui o a Stefan. Senti, Elena, mi dispiace aprirti gli occhi in questo modo, perché so che gli sei affezionata, ma Damon non è una bella persona. Con te si comporta bene solo per infilarsi tra le tue mutande. In realtà è uno stronzo, senza cuore, che si diverte a ferire gli altri”.

La conversazione stava decisamente prendendo una piega inaspettata. Io mi ero sfogata, me l’ero tolto dalla testa ed ero pronta a raccontare del mio momento di gloria con Matt; per quale motivo stavamo ancora parlando di Damon Salvatore?

“Con me è gentile perché sono disposta ad ascoltarlo e non ho pregiudizi come voi due” berciò Elena indicando me e Caroline.

“Anche io ero disposta ad ascoltarlo, ma mi ha trattata di merda lo stesso” appuntò Care “Ci sono cascata troppo in fretta; gliela dovevo far sudare di più”.

“Per quanto questo processo a Damon sia molto interessante, io vorrei …” cominciai ma venni interrotta da Elena che esclamò preoccupata “Meredith, stai bene?”.

Mi girai anch’io verso la mora e mi accorsi che era pallida come un lenzuolo. Sembrava spaventata da qualcosa e immersa nei suoi stessi pensieri. Non si rese neanche conto che tutte noi ci eravamo zittite e che la fissavamo allarmate.

Caroline, con il suo solito tatto, le schioccò due dita davanti al viso. Meredith sobbalzò e finalmente riportò l’attenzione su di noi.

“Ti senti male?” premette Elena.

“N-no, no” rispose un po’ incerta “E’ che questi discorsi su Damon mi hanno fatto venire in mente una cosa cui non avevo pensato fino adesso”.

Attendemmo che proseguisse di sua spontanea volontà.

“Lui e Alaric sono migliori amici, giusto?”.

Io annuii “Stefan dice di sì”.

“E se gli raccontasse della mia prima volta? Sarebbe oltremodo imbarazzante”.

Corrugai la fronte. Evidentemente mi ero persa da qualche parte nel discorso, perché non avevo idea a che cosa stesse riferendo.

“La tua prima volta nel senso …?” si accertò Caroline, confusa almeno quanto me.

“Sì in quel senso!” confermò Meredith.

“Temo di non trovare il collegamento” azzardai.

Meredith ci guardò di sottecchi. Indugiò un po’, dondolandosi avanti e indietro come una bambina beccata con le mani nella marmellata. Appariva molto colpevole; mi sfuggiva la ragione, però.

“Devo confessarvi una cosa” sospirò “Vi ricordate della vacanza che ho fatto con i miei genitori un anno fa? Quando siamo andati a Santa Monica per una settimana”.

Facemmo un cenno di assenso, invitandola a proseguire.

“E vi ricordate che vi ho raccontato di una festa sulla spiaggia?”.

“Quella in cui ti sei ubriacata e hai perso la verginità?” tagliò corto Caroline “Eri disperata perché il tipo ero uno sconosciuto e ti sei dannata per un mese perché avevi sprecato la tua prima volta. Cosa c’entra con Damon?”.

“Ecco, il tipo non era proprio uno sconosciuto” tentennò “E io non ero così ubriaca”.

Non ero un genio della logica, ma non c’impiegai molto a fare due più due. Per poco non caddi dalla sedia, scioccata.

Tu e … Damon?” boccheggiò Caroline senza voce. Stava interpretando il pensiero di tutte.

“Lui era lì per un viaggio organizzato dall’università. Ci siamo incontrati a quella festa. Avevo bevuto un po’, non ero completamente ubriaca, ma non potevo tornare in quelle condizioni dai miei genitori. Damon è rimasto con me finché non mi è passata la sbornia. Anche lui era un po’ brillo e beh…una cosa tira l’altra”.

“Perché non ce l’hai detto prima?” le chiese Caroline mentre ancora cercava di metabolizzare quella scoperta.

“Ero imbarazzata” si giustificò.

“Avevi una cotta per Damon?” domandò Elena.

“No, assolutamente no!” negò “E’ stata solo una cosa fisica, il che è anche peggio. Io ero presa dall’alcol e lui era particolarmente bello quella sera; mi sono lasciata trascinare”.

“Mere, non si è approfittato di te perché eri sbronza, vero?” si accertò Caroline.

Lei scosse la testa “Sapevo cosa stavo facendo. Ero senza inibizioni, ma capivo perfettamente. Suppongo che volessi sapere cosa si provasse”.

“Com’è possibile che non si sia mai saputo? In questa città è praticamente impossibile fermare un pettegolezzo” osservò Caroline.

“Abbiamo deciso di tenerlo segreto” spiegò Meredith “E’ stato un errore. Abbiamo preferito non spargere la voce”.

“Incredibile” sbuffai “Quel ragazzo non si smentisce mai”.

Damon non perdeva occasione di vantarsi delle sue conquiste. Non avrebbe mai taciuto una cosa simile se non per …

“Non voleva rovinarsi la reputazione; ecco perché è stato zitto” mi diede man forte Care.

“Santo Cielo, dategli tregua” esplose Elena “Siete sempre lì a parlare male di lui, quando in realtà ha fatto una cosa molto carina. Ha mantenuto il segreto di Mere per rispettarla. Non voleva farla passare per una poco di buono, per una facile. Era la sua prima volta e non doveva andare così; Damon ha solo cercato di rimediare”.

Caroline si zittì ed io con lei. Il ragionamento di Elena filava liscio, ma mi sembrava impossibile che Damon potesse essersi comportato così bene per il semplice gusto di difendere la reputazione di qualcun altro.

Caroline sospirò, cedendo infine e abbandonò i suoi tentativi di screditare Damon; più per Meredith che per una vera convinzione della sua innocenza.

“Beh, tesoro mio, dobbiamo festeggiare. Finalmente la ragazzaccia che è in te sta uscendo: hai fatto le cose sporche con Damon e vorresti farle con il tuo professore”.

“Con Alaric la questione è chiusa” dichiarò Meredith “Ma ho paura che lo venga a sapere; sarebbe ancora più imbarazzante”.

“Ha tenuto la bocca chiusa fino adesso; non penso che parlerà” la tranquillizzò Elena, che tra tutte era la più attiva a difenderlo.

“Pare che siamo le uniche due immuni al fascino di Damon Salvatore in questa città” considerai. Non mi sarei mai aspetta una notizia simile da Meredith. Non la stavo assolutamente giudicando né incolpando. Io non avevo una gran stima di Damon, ma non mi sarei mai permessa di reputare una mia amica una ragazza frivola solo per aver ceduto alla sua bellezza. Anche Meredith era umana dopotutto.

“In realtà anche tu nascondi un segretuccio” canticchiò Caroline “Anche se non ne sei a conoscenza”.

“Non …” l’avvertì Meredith ma l’altra non l’ascoltò “Sono passati quasi tre anni, possiamo anche dirglielo adesso”.

“Dirmi cosa?” domandai con tono intimorito.

“Ti ricordi quel gioco che facevamo un po’ di anni fa? Il bacio al buio?”.

 

Sabato sera. Grande festa.

Tyler Smallwood ogni anno, verso i primi di ottobre, organizzava un fantastico party a casa sua per festeggiare l’inizio della scuola. Un pretesto come un altro per bere fino a stramazzare al suolo. A mezzanotte non c’era ragazzo che non fosse almeno un po’ brillo.

Camminavano quasi tutti storti e ridevano per ogni cretinata.

Come al solito io ero una delle poche ancora sana. Avevo solo quindici anni e non ero molto abituata all’alcol. Cercavo sempre di trattenermi in pubblico per evitare di fare figuracce.

La musica a palla mi stava frantumando i timpani ma sfumò dolcemente in un lento. Conoscevo quella canzone: “Can you feel the love tonight” di Elton John. La cantavo sempre quando guardavo il “Re Leone”.

Intuii che era giunto il momento del bacio al buio e mi spostai verso il lato della sala, in attesa della coppia delle serata.

Il gioco consisteva nel prendere una ragazza e un ragazzo a caso, bendar loro gli occhi e in un certo senso obbligarli a baciarsi davanti a tutti. Naturalmente i due non dovevano sapere l’identità dell’altro e i presenti erano tenuti a mantenere il segreto. Una tradizione, per noi, vecchia come il mondo: un party non era completo senza il bacio al buio. Una versione rivisitata del gioco della bottiglia o dei ‘sette minuti in paradiso’. Una stupidata.

Non mi ero mai preoccupata di quel gioco: prima di tutto perché non ero mai stata incastrata (chi mai avrebbe preso in considerazione la piccola Bonnie?) e in secondo luogo, a quel tempo stavo con un tipo di nome Reynold* e una delle regole consisteva nel prendere solo due persone single.

Non mi sarei mai aspettata di finire rinchiusa nello stanzino alla mia destra e di essere bendata da un paio di mani non troppo gentili che mi spinsero fuori appena terminata l’opera.

Tyler alzò la voce annunciò “E’ il momento che tutti aspettavate…le nostre vittime sono al centro della stanza. Vi invito a non rivelare mai i nomi dei fortunati che a loro volta sono pregati di non proferire parola né di fare altro che potrebbe far scoprire la vostra identità…se non c’è altro, direi che possiamo cominciare”

Un applauso precedette l’inizio del gioco.

Io era furiosa, lo sapevano che avevo sempre odiato quello stupido gioco. Era imbarazzante e mi dava particolarmente fastidio scambiare saliva con qualcuno che nemmeno potevo guardare in faccia.

Rimasi immobile rifiutandosi di ballare.

Il mio partner non era del mio stesso parere: mi prese per la vita e mi attirò a sé. Senza sapere bene il perché, gli passai d’istinto le braccia attorno al collo e da lì in poi non ci capii più nulla.

Non avevo la minima idea di chi fosse quel ragazzo, ma per una ragione sconosciuta non mi scocciava sentire le sue mani sui fianchi, davano una sensazione di sicurezza. Mi piaceva il contatto dei miei polpastrelli con il tessuto della maglietta di lui: era una stoffa morbida e profumata, così diversa dalle camicie ruvide di Reynold.  Gli posai la testa contro la spalla e avvertii la sua presa farsi più salda.

La canzone si affievolì a poco a poco. Il momento fatidico era arrivato, ma non ero agitata; inconsciamente volevo quel bacio..

Un frazione di secondo e unimmo le labbra. Gli amici attorno partirono con battiti di mani e fischi, ma io non udii assolutamente nulla. Ero finita in un universo parallelo, dove nessuno mi avrebbe disturbata.  C’eravamo solo noi due.

Il contatto tra le nostre bocche durò troppo. Un paio di ragazzi ci divisero, portandoci lontano l’uno dall’altro.

Mi tolsero la benda e mi rispedirono subito nel mezzo della massa, in modo che non potessi vederlo. Presumo che fecero lo stesso con lui.

Mi guardai attorno spaesata in cerca di qualunque indizio che potesse indentificarlo, senza successo.

Mi stupii nel percepire un grande vuoto all’altezza del cuore.

 

Volevo mettermi a ridere. Doveva essere tutto uno scherzo, per forza.

Ricordavo bene quel bacio: era stato uno dei primi e mi aveva elettrizzato come pochi. Non poteva essere Damon. Io lo odiavo e sicuramente avrei sentito quel disprezzo anche attraverso un bacio. O no?

“Stai per svenire?” disse Meredith mettendomi una mano sulla spalla.

“Perché non me l’avete mai detto? Per nessuno me l’ha detto?” chiesi a raffica.

“E’ la regola” si giustificò Caroline “E poi quella sera erano quasi tutti ubriachi marci; la vedo dura che se ne siano perfino accorti. Probabilmente Damon non lo sa nemmeno”.

“Avrei preferito non saperlo neppure io!” mi lamentai “Perché non mi avete lasciato nella mia beata ignoranza?!”.

“Non farne una tragedia, Bon” si spazientì Elena “E’ successo anni fa. Piuttosto aggiornaci sul tuo appuntamento con Matt”.

Ah, adesso le veniva in mente!

 

Per me la domenica era sacra. Non c’era altro modo di definirla.

Per me la domenica era pigrizia allo stato puro. Letto, cibo, divano, tv, cibo, divano, letto. Era il mio santo rito, rigorosamente in sequenza e quella domenica lo avevo già trasgredito una volta per quella stupida testa rossa.

Adesso lo stavo facendo ancora, per un motivo un po’ più interessante almeno: dovevo incontrarmi con Katherine al Grill.

Sarebbe anche stato un pomeriggio speso bene, se Tyler non si fosse presentato, imponendo la sua presenza al nostro tavolo. Quando arrivò anche Sage, non mi sprecai nemmeno a mostrarmi infastidito; ormai il mio tempo con Katherine era rovinato.

Ero già abbastanza infastidito dal quartetto che si trovava alle mie spalle. Non avevo assolutamente voglia di vedere Bonnie dopo la nostra discussione. La sua sola presenza mi faceva venire l’orticaria.

Non ero abituato a comportarmi in modo gentile, tantomeno a ringraziare. Mi era costato molto presentarmi a casa sua con un pacco di ciambelle in mano. Stavo cercando di sdebitarmi, di fare qualcosa di carino.

Invece di accettarlo, si era trasformata per l’ennesima volta nella paladina di Stefan; sembrava quasi una regola che ogni giorno qualcuno dovesse rimarcare la differenza tra noi.

Bonnie McCullough aveva alzato troppo la testa e mi ero stufato di permetterle tutte quelle confidenze. Non m’importava se avevo ferito i suoi sentimenti o se mi ero fatto odiare ancora di più; se l’era cercata con le sue stesse mani. Magari questa volta avrebbe imparato a portarmi rispetto.

“Sai Damon, è una vera fortuna che tu sia con Katherine. Da quando sei fuori dai giochi, ci sono molte più ragazze per me” commentò Tyler quando la mia ragazza andò a prendere il suo cappuccino.

Arricciai le labbra all’espressione fuori dai giochi; ero impegnato, mica morto.

“Ammetto che ci hai fatto un gran favore ad uscire dal mercato” concordò Sage.

“La smettete di parlare di me come se fossi impotente?!” m’indispettii.

“Fidanzato, impotente. La cosa non cambia” appuntò Tyler “Le ragazze non osano nemmeno guardarti, hanno paura di Katherine”.

Ghignai compiaciuto. Adoravo che la mia Gilbert avesse tale potere sulle sue compagne. Mi assomigliava più di quanto avessi pensato all’inizio.

“Credo che farò la mia mossa con la McCullough molto presto” annunciò Smallwood, stiracchiandosi sulla sedia.

“Tyler!” lo sgridò Sage, perplesso quanto me.

“Siete due stupidi” ci accusò “Avete le fette di salame sugli occhi”.

“Toglietela dalla testa, Tyler” gli ordinai “E’ ancora una verginella”.

“E allora? La cosa m’intriga molto di più. Andare con una novellina è il mio sogno proibito”.

“Abbandona le tue fantasie” lo avvertì Katherine, appena tornata con la sua tazza fumante “Qualcuno è arrivato prima di te. Ieri ho sentito mia sorella parlarne con Meredith: Bonnie e Matt sono usciti insieme”.

Finalmente avevo scoperto cosa aveva combinato la sera prima. Chissà poi per quale motivo era stata così reticente quando glielo avevo domandato.

“Ti è andata male, Ty” scherzò Sage.

“Honeycutt non ha l’esclusiva”.

“Ringrazialo, ti ha appena risparmiato l’umiliazione più imbarazzante delle tua vita” commentai. Katherine accanto a me ridacchiò.

“Dici così solo perché sai di non avere speranze con lei” mi provocò Tyler, imbronciato.

Ero incredulo. Diceva sul serio?

“Io non vado dietro alle tredicenni; non mi sembra un concetto difficile da comprendere” replicai seccato.

“Tu rosichi, Salvatore. A pensarci bene, l’unica che te l’ha data è stata Caroline; ma non è un grande sforzo. La Forbes non è una schizzinosa”.

Piegai un angolo della bocca all’insù. Se avessero saputo che io ero stato la prima esperienza di Meredith, probabilmente sarebbero caduti dalla sedia.

Era una memoria abbastanza vivida e, a essere sincero, non ne andavo fiero. Eravamo entrambi molto brilli; lei non mi aveva fermato e io mi ero lasciato trascinare dall’istinto. Solo quando avevo letto il pentimento nei suoi occhi, avevo capito di aver commesso un errore. Le avevo giurato che non ne avrei mai fatta parola con anima viva, non avrei intaccato la sua reputazione.

Meredith era una ragazza seria, intelligente. Il suo atteggiamento distaccato e superiore non mi disturbava. La rispettavo molto e non mi sarei mai permesso di sbandierare ai quattro venti il nostro incontro, sebbene molti me l’avrebbero invidiata.

Ma non potevo sopportare di venire deriso per colpa di Bonnie. Mi sarebbe piaciuto sapere per quale ragione tutti improvvisamente fossero impazziti per lei.

“Ascoltami bene, Tyler Smallwood perché lo ripeterò solo una vola: potrei avere qualunque ragazza con uno schiocco delle dita. Semplicemente non sono interessato e soprattutto sono già impegnato” ribadii indicando Katherine, che se ne stava zitta ad osservare il suo cappuccino. Quel silenzio m’inquietò parecchio.

“Ti va bene che hai una scusa convincente” s’intromise Sage ridendosela sotto i baffi. Non condivideva sul serio il pensiero di Tyler, ma se la stava godendo da matti a vedermi in difficoltà.

Cominciavo a sentirmi un po’ ferito nel mio orgoglio. Davvero dubitavano del mio fascino? Una mocciosa come Bonnie McCullough non avrebbe mai potuto resistermi, nessuno poteva. Solo Elena mi aveva rifiutato, per stare con mio fratello. Cosa abbastanza patetica e sgradevole, ma a lei era concesso. Quello stupido uccellino invece …

“Dovresti provarci, Damon”.

Non fu la voce di Katherine a risvegliarmi; fu il significato delle sue parole. Provarci in che senso? E soprattutto con chi?

“E’ chiaro che i tuoi amici non hanno fiducia in te. Dimostragli il contrario. Seduci Bonnie e piantala in asso sul più bello”.

Pensai che quel pomeriggio dovesse esserci qualcosa nell’aria, perché mi sembravano tutti diventati matti.

“Katherine, io sto con te”. Mi sentii un po’ stupido mentre pronunciavo quella frase, ma mi pareva un punto piuttosto importante da ribadire.

“Non ci devi mica andare a letto” precisò “Bonnie crede di essere migliore di me, di te, di tutti. Solo perché un paio di ragazzi sono interessati a lei, non significa che ti può schifare come il peggiore degli insetti. Ho l’impressione che debba essere riportata sulla terra. Falla cadere ai tuoi piedi, portala al punto di rottura. Immagina che s’innamori di te; quanto non sarebbe bello spezzare quel suo cuoricino da santerellina?”.

Ero il maestro delle cattiverie gratuite, ma quella mi parve una mossa davvero stupida, inutile e soprattutto una perdita di tempo. Da una parte mi allettava l’idea di dare una bella lezione a Tyler e alla sua boccaccia; dall’altra non volevo avere niente a che fare con Bonnie. Non mi ispirava proprio, non riuscivo a ritenerla abbastanza donna e di certo non mi sarei approfittato di una bambina.

“Damon, non mi dire che ti tiri indietro? Credi di non esserne in grado?” mi sfidò Tyler con una faccia che avrei preso volentieri a schiaffi.

“Considerala una vendetta contro Stefan, se ti convince di più” mi suggerì quella mente diabolica di Katherine “Insomma, tuo fratello si è sempre accaparrato tutte le attenzioni da quando è nato e tu lo odi. Quante volte mi hai detto che vorresti vederlo soffrire? Ferisci la sua migliore amica e gliela farai pagare di sicuro”.

Quella prospettiva mi allettava molto di più.

Sarebbe stato facile come rubare una caramella ad un bambino. Ero una vera calamita per il genere femminile; un paio di giorni e l’avrei avuta in pugno.

Toglierle quell’aria da moralista e smascherarla per l’ipocrita che era, poteva essere un passatempo divertente, in fin dei conti. 

Chissà come avrebbe reagito il mio adorato Stefan una volta scoperto che la sua migliore amica, la sua confidente, la sua leale paladina, era passata al lato oscuro. Innamorata del fratello cattivo.

Oh sì, me la sarei goduta davvero.

 

Il mio spazio:

Buon pomeriggio, gente!

Come va? Pronti per le vacanze di Pasqua?

Che ne dite di questo capitolo? Le nostre ragazze e Damon nascondono dei bei segreti, vero?

Mi soffermo un attimo sulla vicenda di Meredith: nel libro originale, non avrebbe mai fatto una cosa del genere, anche perché è l’unica immune al fascino del vampiro.

Prendetela come una mia piccola licenza poetica. In questa storia rimane sempre la solita ragazza sveglia, seria e matura; si è solo una volta concessa una piccola trasgressione. Spero che non vi sembri troppo fuori dal personaggio.

Bonnie e Damon in passato si sono baciati. Questo cambierà qualcosa nella mente della rossa? E lui lo sa?

Il capitolo si chiude con una specie di “scommessa” tra Damon e Tyler. Vi prometto che farò di tutto per non renderla la sua solita solfa. È un modo come un altro per costringerli ad interagire e mi è parso divertente riprendere questo schema con loro due come protagonisti.

Ora qui nasce un bel problema: Damon dovrebbe corteggiarla ma Bonnie, dopo l’ennesima umiliazione, è ben decisa a stargli lontano. Senza contare la sua cotta per Matt.

Nel prossimo capitolo parliamo un po’ di Halloween. Eheh

Domani ho un esame quindi lasciatemi qualche recensione per tirarmi su il morale! (Ormai non dissimulo nemmeno più i tentativi di corruzione!).

Spero di aggiornare in fretta per la prossima volta!

Avete visto l’episodio di settimana scorsa? Mi è piaciuto un sacco; Damon negli anni settanta è qualcosa di favoloso. Sto pensando di costruire una storia su quel periodo; tra un po’ mi sa che appoderò anche sul sito della serie tv. Preparatevi! Ahah

Vi ringrazio sempre di cuore e vi mando un abbraccio!

A presto,

Fran;)

 Banner di Bumbuni.

 

*Reynold, se non ricordo male, è davvero il primo ragazzo di Bonnie. O forse si chiamava Raymond? Ho un dubbio atroce; qualcuna di voi lo sa? Ahah.

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Capitolo 8
*** The Pumpkin King ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo otto: The Pumpkin King.

 

“Skeleton Jack might catch you in the back
And scream like a banshee
Make you jump out of your skin
This is Halloween, everyone scream
Wont' ya please make way for a very special guy
Our man jack is King of the Pumpkin patch
Everyone hail to the Pumpkin King
This is Halloween, this is Halloween,
Halloween! Halloween! Halloween! Halloween!
In this town we call home
Everyone hail to the pumpkin song”

(This is Halloween- da “Nightmare before Christmas”).

 

Da che avessi memoria ero sempre stata una gran fifona.

Di notte tenevo sempre una lucina accesa, controllavo gli armadi prima di andare a dormire, evitavo di guardare i film dell’orrore e mi tappavo le orecchie quando i miei amici raccontavano storie di paura.

Halloween, perciò, era il periodo dell’anno che più detestavo. La notte delle streghe, già dal nome non ne veniva nulla di buono.

In realtà, adoravo in generale l’idea delle streghe, ma Halloween riusciva a rovinarmi pure quella. Mi ricordava qualcosa di inquietante e perfido.

Succedevano sempre cose strane durante quella festa; era praticamente il via libera di tutti gli squilibrati. Come facevo a sapere che dietro quei costumi ci fossero persone normali e non serial killer pronti ad uccidere? Dopotutto, era un’ottima copertura.

Le mie amiche continuavano a dirmi che ero troppo paranoica, ma preferivo definirmi prudente. Non capivo davvero il senso di andare in giro vestiti da mostri o fantasmi, o da creature ripugnanti. Perché Halloween doveva essere sempre sinonimo di spaventoso?

In città ovviamente ero l’unica a pensarla così. Fell’s Church amava alla follia Halloween. Incominciava settimane prima i preparativi, quasi fosse una festa propria di quella città.

Forse perché si raccontava che i primi abitanti fossero le streghe di Salem emigrate per sfuggire ai roghi. Sapevo solo che ogni anno per una settimana intera ero tormentata da zucche, scheletri, pipistrelli appesi non solo per tutti gli edifici pubblici ma anche in casa mia.

Certo, perché mio padre andava pazzo Halloween. Sembrava quasi si divertisse ad adorare qualunque cosa che io non sopportavo.

Dopo anni, avevo imparato a rassegnarmi e avevo smesso di combattere quella stupida festività. Ero pure brava: partecipavo alla festa della scuola, aiutavo con le decorazioni, intagliavo zucche con mio padre; insomma, dissimulavo come una professionista.

La mattina del 30 ottobre mi svegliai con un terribile mal di testa. Forse era il mio corpo che dopo anni di costrizioni, si stava rifiutando di affrontare ancora per un altro anno quell’insopportabile tradizione. Non volevo uscire dalla mia cuccia di coperte, ma se non mi fossi presentata a scuola, Caroline sarebbe come minimo venuta personalmente a stanarmi. Aveva bisogno di aiuto per i preparativi.

Così mi alzai di forza e mi vestii. Quando arrivai a scuola, non sembrava nemmeno un giorno di lezione.

Parecchi studenti erano fuori dalle classi, portavano grosse scatole avanti e indietro per i corridoi. Cercavano di sistemare il più possibile, prima che suonasse la campanella.

Mancava circa un quarto d’ora all’inizio dei corsi e decisi di prendermi un cappuccino ai distributori. Ovviamente non potei fare neanche un passo.

“Bonnie! Credevo non arrivassi più!” esclamò Caroline saltandomi in spalla “Ho così tante cose da organizzare che ho paura di non riuscire a preparare tutto per domani”.

“Hai bisogno di una mano?”. Mi costava chiederlo, mi costava tantissimo.

“Dato che ti offri così gentilmente” mi sorrise.

Mi avrebbe obbligata lei comunque.

Mi trascinò fino alla palestra, dove molti alunni si erano già messi al lavoro. Meredith ed Elena stavano cercando di assemblare uno scheletro di carta.

“Allora, come procede?” le incitò Caroline.

“Più difficile del previsto” considerò Mere.

“Questi cosi non stanno insieme” si lamentò Elena sventolando le due braccia dello scheletro che non volevano saperne di unirsi al torace.

“Date qua” sbuffò Caroline “Piuttosto avete già scelto un costume?”.

“Io e Stefan abbiamo deciso di impersonare una coppia di vampiri. Carino, no?” c’informò Elena tutta contenta.

“Io penso che mi vestirò come Hermione Granger” annunciò Meredith.

Caroline la guardò di sbieco.

“Che c’è?!” la ribeccò Mere “Quando ero piccola, era il mio idolo. È Halloween, quindi mi vesto come una strega” spiegò come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Caroline l’accettò di buon grado “E tu, Bon?”.

“Non credo di venire quest’anno”.

Non l’avessi mai detto. Tutte e tre smisero di sistemare quello scheletro e mi fissarono severe. Si aspettavano di passare una serata insieme e ci erano chiaramente rimaste male.

“Senza offesa, ragazze, ma non ho proprio voglia quest’anno”.

“Non siate così sorprese” s’intromise una voce alle mie spalle “Non è la prima volta che la piccola Bon Bon diserta Halloween”.

Caroline prese un bel respiro e si girò, pronta a difendermi “Guarda un po’! Mi serviva giusto una cornacchia da mettere vicino alle zucche” la fulminò.

Katherine esibì un sorrisino tirato e fece qualche passo verso di noi.

“Non ascoltarla, Bonnie” mi consigliò Elena.

“E’ davvero lodevole come tutte accorrete per proteggere la piccolina del gruppo”.

“Io non sono la pic-” era perfino inutile correggerla; tanto valeva accontentarla e togliercela di torno “Cosa intendi, Katherine?”.

Si arricciò una ciocca tra le dita “Sono l’unica che si ricorda del raduno di Halloween?”.

Era una specie di rito di passaggio dalle medie al liceo. Durante la festa delle streghe, gli studenti di terza media trascorrevano una notte tutti insieme nel bosco. Era una tradizione e io l’avevo saltata. Il pomeriggio di quel raduno mi era venuta una febbre da cavallo e mio padre si era rifiutato di farmi uscire di casa.

“Ero malata” mi giustificai.

“Ah, sì? Sicura che non fosse solo una scusa perché avevi troppa paura?” mi provocò.

“Non avevo paura” replicai piccata “E poi è una cosa accaduta quasi cinque anni fa”.

“E’ là che si è fermato il tempo per te” mi disse “Tu non sei cambiata per niente”.

“Qual è il tuo problema?” gli chiesi.

“Mi sto solo divertendo. Pare che abbia toccato un tasto dolente, permalosetta” mi canzonò.

“Katherine, sul serio, perché non la lasci stare?” l’attaccò Elena.

Faceva davvero senso vederle una davanti all’altra a fronteggiarsi.

“La lascerò in pace quando mi avrà dimostrato di non essere una frignona!” s’impuntò Katherine “Prova a passare una notte da sola nel bosco. Completa l’iniziazione di cinque anni fa e ti prometto di non rivolgerti nemmeno più la parola”.

“Tu sei completamente matta” sbottò Meredith “Sparisci” mi prese sottobraccio e insieme ci allontanammo.

“Non darle retta, Bonnie, tu sei perfetta così come sei. Non devi dimostrare niente a nessuno”.

Annuii poco convinta. Mi sembrava l’esatto contrario, mi sembrava che il mondo stesse proprio aspettando una mia prova.

 

Alla fine mi ero fatta convincere, anche se avrei voluto essere ovunque tranne che lì. Non avevo programmato di andare e fui costretta ad improvvisare un costume. Considerando le mie origini celtiche, avevo scelto di vestirmi da druida. Era stato piuttosto semplice: una tunica bianca e una coroncina sottilissima di fiori intrecciati, che Mary era corsa a comprarmi. Forse sembravo più una hippie che una sacerdotessa dell’antica religione.

Caroline aveva il costume più curato: si era vestita come Sally, la bambola di pezza del film ‘Nightmare before Christmas’. Era praticamente identica.

Non persi tempo e andai subito a cercare Matt. Era praticamente l’unica ragione per cui avevo acconsentito a quella buffonata; altrimenti me ne sarei stata in casa ad aspettare che quella terribile notte passasse. Mi aveva chiamato durante il pomeriggio, implorandomi di partecipare.

Avevo un po’ paura d’incrociare Katherine. Ero alla festa per divertirmi e non per sentire le sue parole velenose che mi ricordavano quanto fossi ancora una bambina.

Come poteva saperlo lei? Era stata via per tre anni e non aveva la minima idea di come fosse la mia vita. Credeva di essere chissà quale donna matura eppure mi proponeva uno stupido rito d’iniziazione che facevano i ragazzini delle medie.

Come se una notte nel bosco avrebbe potuto trasformarmi improvvisamente!

Katherine era veramente l’anima gemella di Damon, senza dubbio. Perfida e arrogante allo stesso modo, con l’unico scopo di tormentare la sorella solo perché era più amata di lei. Si meritavano a vicenda e si sarebbero anche distrutti a vicenda.

Erano uguali, vuoti e senza morale. Nessuno dei due avrebbe tratto qualche vantaggio da quella relazione, sarebbero sempre stati fermi al punto di partenza, perché non potevano aiutarsi. Alimentavano il loro stesso rancore e la loro presunzione si duplicava quando erano insieme. Non esisteva via d’uscita. Era un rapporto sterile.

Cercai di non pensare a Katherine e continuai nella mia ricerca. Matt doveva per forza essere lì da qualche parte; aveva così insistito perché lo raggiungessi.

Lo trovai poco dopo, vicino al banco delle bevande. Stava scherzando con un suo compagno di squadra, ma appena mi vide lo salutò e venne verso di me.

“Alla fine ti ho convinta” sorrise schioccandomi un bacio sulla guancia.

“Non potevo certo perdermi questa fantastica vista” scherzai indicandolo “Tu vestito da … da cosa sei vestito di preciso?”.

“Dottore matto” mi spiegò “Hai presente? Quello che fa esperimenti folli sui pazienti”.

“Uh, è inquietante” commentai.

“E tu chi saresti? Una figlia dei fiori?”.

“Smettila!” lo rimproverai tirandogli una leggera sberla sulla spalla “Sono una sacerdotessa celtica”.

“Non ci sarei mai arrivato, troppo colto” disse giocherellando con i miei boccoli rossi “Comunque sono davvero contento che tu sia venuta”.

“Anche io” arrossii “Non sembra male questa festa”.

“E non hai ancora visto la camera dell’orrore. Dai, seguimi” m’incitò prendendomi per mano e trascinandomi per i corridoio.

Camera dell’orrore?” ripetei con voce tremolante “Non è un nome rassicurare”.

“Sarà divertente. L’ho fatta prima, ma è sempre divertente vedere voi ragazze urlare”.

“Ehi! È un commento sessista!” protestai.

“Adoro che tu sia spaventata” mi confessò “Così posso difenderti.  Mi piace essere il tuo cavalier servente. Non ti succederà niente di male, è solo per gioco. Ti fidi di me?”.

“Beh, sì ma …” titubai. Ogni mia obiezione venne bloccata sul nascere quando giungemmo davanti ad una porta sulla quale spiccava una grande scritta: camera dell’orrore.

Continuavo a non capire per quale motivo uno dovesse entrare in un posto del genere. Nel caso in cui la si considerasse una stupidata, diventava inutile perché non faceva paura; se invece si era dei gran fifoni, perché tormentarsi così?

Matt si mise dietro di me e mi spinse ad aprire la porta. Superammo la soglia e ci trovammo in una stanza totalmente buia. La cosa non mi piaceva, non mi piaceva per niente.

Sentivo la presenza del ragazzo alle mie spalle e mi dava un po’ di conforto, ma non avevo il coraggio di muovere un passo.

Udivo qualche urla ogni tanto senza capire da dove provenisse. Ne intesi, però, subito la ragione: davanti a me si accese all’improvviso una luce e contemporaneamente comparve un ragazzo travestito da killer sanguinario che finse di attaccarmi.

Credo che raggiunsi le note più alte della scala con il mio grido. Praticamente saltai in braccio a Matt e nascosi il viso nel suo petto.

Cominciò a muoversi, portandomi con sé, un po’ a fatica dato che mi rifiutavo di girarmi di nuovo, nemmeno per vedere dove stessi mettendo i piedi.

Da quello che potei comprendere, era un percorso attraverso varie classi, studiato in modo che ogni tot metri qualcuno o qualcosa apparisse a spaventare gli studenti.

Alzai gli occhi solo quando percepii attorno a me un cambiamento di atmosfera. Finalmente quel tour da incubo era finito.

Mi staccai da Matt e lo fulminai “Sei impazzito?! Volevi farmi venire un infarto?”.

Lui mi scompigliò i capelli e mi passò un braccio attorno alla vita “Non era così terribile, dai” si giustificò “Non puoi partecipare alla festa di Halloween senza farti un giro là dentro” poi esitò un attimo “Non sei arrabbiata, vero?”.

Scossi la testa “Se mi costringi un’altra volta a farlo, non ti parlerò mai più” m’imbronciai.

Mi posò un bacio sui capelli “Andata”.

Ritornammo in giardino in cerca degli altri, ma non trovammo nessuno. Mentre eravamo chiusi nella sala delle torture, molti altri studenti erano arrivati ed era davvero difficile distinguere qualcuno in tutta quella folla.

“Aspettami qui, vedo se riesco a rintracciare Stefan e gli altri” mi disse.

Annuii e l’osservai sparire nella massa. Presto mi ritrovai a sogghignare come un’ebete per quello che era appena accaduto.

Nonostante avessi odiato quel giro nella camera dell’orrore, mi aveva davvero fatto piacere la cura con cui Matt mi aveva stretta lungo il tragitto. Era stato molto protettivo e, soprattutto, aveva cercato di portarmi fuori il più in fretta possibile, una volta notato la mia paura crescente. Avrei potuto seriamente abituarmi a quel tipo di abbraccio.

Per tanto tempo mi ero chiesta che cosa si provasse ad essere coccolata in quel modo. Avevo avvertito calore e preoccupazione. Matt era riuscito a trasmettermi quelle emozioni non perché mi considerava una bambina da proteggere, ma perché teneva a me.

Era una bella sensazione.

“Alla fine hai trovato il coraggio di uscire di casa?” mi canzonò una voce alle mie spalle.

Katherine Gilbert avrebbe potuto scrivere un manuale su come rovinare un bel momento.

Cercai d’ignorarla, inutilmente.

“Pensavo t’inventassi ancora qualche malattia immaginaria”.

“Per l’ennesima volta: avevo davvero la febbre!” replicai scocciata “Katherine, perché continui a rivangare una cosa successa quattro anni fa?”.

“Sto verificando una teoria” mi rispose alzando le spalle “Matt ti ha già piantata in asso?”.

“E’ andato a cercare gli altri”.

Lei mugugnò qualcosa divertita e si guardò intorno.

Non riuscii a trattenermi “Che c’è?”.

“Niente” disse vaga “Pensavo solo che è davvero strano come se le sia filata in fretta”.

“Matt non se l’è filata” mi trovai a replicare stupidamente.

“Lo farà presto” affermò lei sicura “Prima o poi si stuferà di fare il babysitter”.

“Sei veramente un’arpia!” esclamai indignata “Sei stata via tutti questi anni; tu non hai idea di chi sono. Smettila di darmi della bambina!”.

“Temo proprio che tu lo sia, Bonnie” asserì “Come faccio a saperlo? Non sei cambiata per niente. Quando sono partita, tu eri la migliore amica di Stefan, avevi una cotta per Matt ed eri l’ombra di mia sorella. Adesso sono tornata e tu continui ad essere la migliore amica di Stefan e l’ombra di Elena e hai una cotta per Matt. Non ti sei mossa di un centimetro”.

“Non sono la stessa, Katherine. Tu non sai niente”.

“Allora dimostramelo” mi sfidò lei “Dimostrami che non sei più la solita Bonnie McCullough, paurosa e ingenua. Dimostrami che puoi prendere le tue decisioni senza ascoltare gli altri, dimostrami che non hai bisogno di essere protetta”.

“Ti sei fissata su quella stupida tradizione di Halloween” intuii “Perché?”.

“Chiamalo sfizio” disse “Cos’hai da perdere? Nessuno ti costringe a rimanere là se la cosa diventa troppo spaventosa; ma se lo farai, ti lascerò in pace”.

La guardai in cagnesco. Quanto avrei voluto staccarle quei capelli d’oro uno per uno.

 

Mi avevano incastrato un’altra volta.

Ultimamente avevo l’impressione di aver perso il controllo della mia vita; in un modo o nell’altro erano gli altri a prendere le decisioni per me e la cosa cominciava ad infastidirmi.

Quando Katherine mi aveva invitato alla festa di Halloween del Robert E. Lee, avevo gentilmente declinato. Non avevo voglia di passare un’altra serata circondato dai ragazzini del liceo. Non si era mai visto un universitario che stanziasse regolarmente ai party delle superiori; non ci tenevo proprio a fare la figura dello sfigato.

Ero pronto per una bella maratona di film horror quando avevo ricevuto una telefonata disperata da parte di Alaric: un paio di genitori avevano rifiutato il ruolo di ‘controllori’ per partecipare alla festa del comune e lui si trovava con la supervisione scoperta.

Non potevo credere che avesse pensato proprio a me per tenere d’occhio i suoi studenti: non ero decisamente in cima alla lista delle persone più affidabili di Fell’s Church.

Alaric doveva essere davvero a corto d’idee.

Mi ero trascinato, quindi, fino alla scuola, senza nemmeno preoccuparmi di cercare un costume. Normalmente quel genere di feste duravano fino a mezzanotte; potevo sopportare per qualche ora di sballo liceale.

Il cortile era decorato come tutti gli anni: zucche e scheletri qua e là, ragnatele che scendevano dalle colonne e calderoni fumanti ai lati della scala. Non faceva ancora particolarmente freddo per cui la maggior parte degli studenti stava festeggiando fuori.

Durante il mio ultimo Halloween al liceo, io e Sage avevamo praticamente distrutto l’ufficio del preside.  Volevamo vendicarci di tutte le punizioni subite nel corso dei nostri anni. Non che noi fossimo mai stati degli angioletti, ma quell’uomo sembrava accanirsi con una discreta vena di sadismo.

Così ci eravamo intrufolati in presidenza, stando molto attenti a non lasciare nessun indizio che potesse ricollegare quello scherzo a noi, e avevamo imbrattato i muri di vernici rossa e appeso fili di spago e carta igienica da un muro all’altro in modo talmente fitto che non si riusciva nemmeno ad attraversare la stanza.

Ci era voluta una settimana intera per ripulirla. Il preside era furioso. I primi sospetti, ovviamente, caddero su di noi, ma non c’erano prove e alla fine la scampammo. Ci tenne d’occhio per tutto l’anno, nella speranza di incastrarci e alla consegna dei diplomi, ci porse il pezzo di carta, livido di rabbia per non essere riuscito a fregarci.

Forse un giorno avrei confessato al preside quel mio piccolo scherzetto, giusto per sbatterglielo di nuovo in faccia.

Mi sistemai meglio il giubbotto di pelle e cominciai a guardarmi in giro. Se proprio ero costretto a sorvegliare una banda di mocciosi urlanti, almeno ne avrei approfittato per passare del tempo con la mia ragazza.

Poco lontano da me, Stefan stringeva la mano di Elena. Per un attimo la scambiai per Katherine: era vestita da vampira, con dei pantaloni molti attillati, i tacchi e i capelli mossi, gli occhi pesantemente truccati. Era il tipico abbigliamento della sua gemella, fatta eccezione per le lenti a contatto rosse e i canini pronunciati.

Il sorriso di Elena, però, era molto più dolce rispetto a quello della sorella. Katherine nascondeva sempre una certa malizia in ogni suo gesto.

Era difficile capire che cosa passasse per la sua testa, a volte perfino io facevo fatica a starle dietro, nonostante fossi la sua versione al maschile.

Ero rimasto allibito quando aveva dato corda a Tyler con quella storia della scommessa. Io ero il re della cattiveria gratuita, mi divertivo sempre a scapito degli altri e l’idea di far soffrire un po’ Stefan mi allettava da matti, ma Katherine quali ragioni poteva avere a parte farsi una bella risata?

Non mi sembrava una ragazza che agiva senza un motivo sotteso. Stava sicuramente pianificando qualcosa.

Improvvisamente qualcuno mi tirò bruscamente per un braccio e mi trovai nascosto dietro un manichino vestito apposta da mostro.

Ghignai sornione quando riconobbi la giovane davanti a me.

“Vuoi una rinfrescatina alla memoria?” le chiesi alludendo al nostro incontro di anni fa.

“Non nominarlo neanche! Te lo devi dimenticare” mi ordinò puntandomi un dito contro.

“A cosa devo questo avvertimento?” m’incuriosii “Non ne abbiamo parlato per anni”.

“Sul serio, Damon, tieni la bocca chiusa” m’intimò.

“Potrei anche offendermi. Non dirmi che ti vergogni?” continua a scherzare, con il solo risultato di irritarla ancora di più.

“Damon…” pronunciò lapidaria.

“Tranquilla, Meredith” la calmai “Non ho manie da suicida, me ne guardo bene dal rivelare il nostro piccolo segreto proibito”.

“A nessuno?” si accertò lei.

“Possiamo chiamare questo nessuno con il suo nome, sai?” la stuzzicai. Mi fulminò con un’occhiata e aggiunsi “Soprattutto a quel nessuno. Non approverebbe e probabilmente mi spaccherebbe il naso. Ho un bel viso, non ci tengo a rovinarmelo”.

Meredith si rilassò percettibilmente e soffiò un ‘grazie’ sollevato.

“Figurati” le risposi “Non sono uno stronzo ventiquattro ore su ventiquattro”.

“Povera anima, ti faranno presto santo” ironizzò.

“Sparisce, Sulez” le ordinai “Prima che decida di rivelare al mondo che ragazzaccia sei”.

Ci scambiammo uno sguardo complice e si allontanò.

Più di una volta l’avevo definita inquietante; non perché ci fosse qualcosa di male in lei, ma perché riusciva a trasmettermi un senso di autorevolezza incredibile per una ragazza di neanche diciotto anni.

“Prenditela con più calma la prossima volta, eh!” mi rimproverò Alaric apparendo alle mie spalle “Da che cosa sei travestito? Da te stesso?”.

“Cosa hanno messo nel punch, frutta e simpatia?” replicai schioccando la lingua contro al palato.

Alaric mi rivolse un sorriso tirato e tornò a guardare la folla di alunni. Si era veramente calato nella parte dell’insegnante responsabile.

Nei pochi giorni duranti i quali ero stato nel suo appartamento, lo avevo osservato preparare scrupolosamente sempre le lezioni del giorno successivo, agitato di fare un clamoroso fiasco fin dall’inizio.

“Ti ho visto parlare con Meredith, che vi siete detti?” mi domandò.

“Della tua voglia di portartela a letto” lo provocai.

“Vaffanculo”.

Finalmente il signorino era sceso tra noi comuni mortali.

Ero pronto a infierire in perfetto stile Damon, ma mi accorsi che tutta l’attenzione del mio amico era catalizzata da un’altra parte.

Seguii il suo sguardo fino alla figura di Meredith. Sbuffai contrariato “Datti un contegno, Alaric. Non riesci nemmeno a toglierle gli occhi di dosso”.

“Sei il solito idiota” mi rimproverò “Non vedi che è successo qualcosa”.

Meredith era insieme a Elena e Caroline, il mio fratellino accanto a loro. Parlavano in modo concitato, sembravano preoccupati per qualcosa.

Alaric impiegò un paio di secondi per entrare in modalità insegnante apprensivo. Si avvicinò e io lo seguii, più per noia che per vera curiosità.

“Ragazzi, va tutto bene?”.

“Sì, professore” rispose subito Caroline. Era chiaro che nascondesse qualcosa.

“In realtà no, signor Saltzman” la contraddisse Meredith. Mi venne da ridere, sentendolo chiamare con quell’appellativo, soprattutto da lei.

Le due amiche la incenerirono con lo sguardo.

“Ci può aiutare” le fece ragionare la mora “Si tratta di Bonnie” spiegò.

“Cos’ha combinato sta volta?”. Non riuscii a fermare il mio palese disappunto.

“Non la troviamo più” svelò “Crediamo sia andata da sola nell’Old Wood”.

“Perché avrebbe dovuto farlo?” s’informò Alaric.

“Forse perché quella serpe della sua ragazza” berciò Caroline indicandomi “La sta tartassando da due giorni!”.

Alzai le ciglia scettico “Katherine non sa nemmeno che Bonnie esiste” la difesi.

“Io vado a cercarla” dichiarò Stefan, l’eroe senza macchia e senza paura “E’ inutile stare qui a litigare”. Elena si affrettò ad imitarlo ed entrambi sparirono dalla nostra visuale.

Presto anche Meredith e Caroline si dileguarono tra la folla, forse per controllare ancora una volta che Bonnie se ne fosse effettivamente andata.

Alaric non si muoveva: era sbiancato dall’agitazione.

“Ric!” lo risvegliai “Che ti prende?”.

“E’ la prima volta che faccio da supervisore e una ragazza sparisce sotto la mia responsabilità”.

“Probabilmente sarà tornata a casa” tagliai corto senza capire il problema.

“E se fosse veramente nel bosco?”.

“Ha paura della sua ombra, perché mai dovrebbe fare una cosa del genere. E comunque non è colpa tua; gli studenti sono liberi da lasciare la festa quando vogliono”.

“Devo assicurarmi che stia bene” ragionò Alaric, ignorandomi completamente “Se le dovesse succedere qualcosa, la mia testa finirà appesa all’ufficio della presidenza. Non posso abbandonare la festa ora, il mio turno non è ancora finito e …” venne come illuminato da un lampo di genio e si voltò verso di me.

Intuii subito i suoi pensieri e mi rifiutai categoricamente “Non provarci nemmeno”.

 

Mi chiesi come avessi potuto essere così ingenua.

Continuavo a ripetermi che non ero più piccola, eppure ci ero cascata esattamente come una bambina capricciosa. Chiunque avesse un minimo di senno non avrebbe mai acconsentito a una tale sciocchezza.

Andare nel bosco da sola. Come diamine mi era saltato in mente? Perché avevo dato retta a Katherine? Sapevo che era una vipera vendicativa, non avrei dovuto nemmeno ascoltarla.

Mi ero persa, nel bosco, di notte.

Camminavo ormai da parecchio tempo, nella speranza di trovare la raduna dei campeggiatori e chiedere aiuto.

Il mio cellulare era morto, come nella miglior tradizione dei racconti dell’orrore.

Nessuno sapeva dove fossi. Dopo l’ennesima provocazione di Katherine, ero scappata via dalla festa senza avvertire, decisa a provarle la mia forza. Non ero più una bambina, non avevo più paura del buio.

Il risultato? Stavo girando a vuoto tra gli alberi, circondata dal gelo e dall’oscurità, completamente terrorizzata.

Non che l’Old Wood fosse dimora di particolari pericoli. Non c’era motivo di pensare che non avrei superato la notte indenne, ma non riuscivo comunque a calmarmi.

Saltavo per ogni minimo rumore, i tronchi apparivano come figure nascoste nell’ombra, la luce della luna donava solo un aspetto spettrale ai contorni.

Strofinai le mani sulle braccia, in un vano tentativo di scaldarmi. La giacchetta che avevo dietro  era davvero troppo leggera. L’umidità mi entrava nelle ossa e appiccicava i miei vestiti contro la mia pelle, in un fastidioso effetto bagnaticcio. Non passò molto tempo che cominciai a tremare.

Alla fine, stanca e rassegnata, mi rannicchiai a terra contro un masso e mi strinsi le ginocchia al petto.

 

Sbuffai per l’ennesima volta, quando le mie scarpe scivolarono lungo il terreno umidiccio. Alaric sarebbe stato la mia rovina con quelle sue assurde richieste.

Un’alunna aveva lasciato la festa. E allora?

Non era proibito e non era certo responsabilità del mio amico assicurarsi che non le fosse capitato niente di male. Tutto doveva filare liscio all’interno delle mura scolastiche, ma fuori era territorio di nessuno.

Avevo accettato solo perché, se l’avessi effettivamente trovata, avrei fatto bella figura e sarebbe stato molto più facile conquistarla.

Non ero ancora pienamente convinto di questo assurdo piano per sedurre Bonnie. Le motivazioni di Katherine non stavano né in cielo né in terra; mi allettava solo l’idea di vendicarmi del mio caro fratellino.

Tutti quegli anni spesi ad odiarlo e non avevo mai pensato che il metodo più veloce ed efficace per ferirlo era proprio colpire la sua migliore amica.

Non che mi fossi mai comportato come un gentiluomo con Bonnie, ma erano stati più che altro scherzetti innocui. Qui si giocava ad altri livelli.

Vagai un altro po’ senza successo. Non vi era traccia di Bonnie, tanto che cominciai a credere che fosse davvero tornata a casa.

Ero sul punto di fare dietrofront e andarmene quando mi accorsi di non aver ancora controllato l’area dei campeggiatori. Forse Bonnie si era rifugiata là in cerca di un po’ di caldo, nella speranza d’incontrare qualcuno.

Avevo un buon senso dell’orientamento e rintracciai in fretta la strada. L’area non distava molto, una ventina di minuti al massimo. Affrettai il passo.

Sorpassai un cartello che indicava il sentiero; feci per imboccarlo, ma un rumore dietro una fila di alberi, catturò la mia attenzione.

Mi avvicinai con prudenza e alla fine la vidi: rannicchiata a terra, con la schiena contro una roccia. Era addormentata.

Probabilmente, aveva pensato di cercare proprio l’area riservata al campeggio, senza trovarla. Eppure ci era andata così vicina.

Mi piegai per svegliarla. Le toccai un braccio e notai che era gelata. La scossi con forza, inutilmente: non dava segni di volersi svegliare.

“Che razza di stupida” digrignai tra i denti. Voleva forse morire di ipotermia? Eravamo solo a fine ottobre, non faceva così tanto freddo, ma Bonnie era davvero molto piccola di costituzione; la sua sopportazione alle intemperie era più bassa rispetto alla media normale.

Mi tolsi la giacca e gliela posai sulle spalle, poi la presi in braccio.

Era più pallida del solito, cattivo segno. Percorsi a ritroso la strada, fino alla mia macchina, camminando più veloce possibile. Bonnie non mosse le palpebre nemmeno una volta.

L’adagiai sul sedile di destra e mi misi al volante. Se l’avessi portata in ospedale, si sarebbe scatenato un putiferio. Suo padre l’avrebbe segregata in casa fino alla fine del college come minimo e probabilmente anche Katherine si sarebbe ritrovata nei casini in quanto istigatrice.

Per evitare a tutti dei grossi problemi, mi diressi verso casa sua. Frugai nella sua borsa in cerca delle chiavi e, dopo aver aperto la porta, la sollevai di nuovo di peso e la trasportai fino alla sua camera, poggiandola sul letto.

Andai in bagno e girai il rubinetto dell’acqua. Dovevo riscaldarla in qualche modo. Mentre la vasca si riempiva, tornai nuovamente in camera. Iniziai a svestire Bonnie e la lasciai in biancheria. Se fosse stata sveglia, probabilmente mi sarebbe saltata al collo con l’intento di uccidermi.

Non indugiai molto a guardare il suo corpo. Avevo visto decine di ragazze nude, una in più non avrebbe fatto la differenza.

Le passai un braccio intorno ai fianchi e l’altro sotto le ginocchia e raggiunsi il bagno. Lentamente la feci scivolare nell’acqua calda e con una mano chiusi il rubinetto.

Lei ebbe un fremito e cercò di ribellarsi, nel sonno. La tenni ferma, premendo saldamente sulle sue braccia.

“Troppo …caldo” sussurrò con un gemito e poi, con calma, si rilassò.

Solo allora mi accorsi di quanto fosse scomoda quella posizione: ero inginocchiato sul pavimento di piastrelle, con un braccio a sorreggere la rossa. Non potevo mollare, altrimenti sarebbe finita sott’acqua. Ero bloccato.

Poggiai la testa sul bordo, imprecando a bassa voce. A fatica e con una mano sola, mi tolsi le scarpe e tutto quello che avevo nelle tasche, poi le sollevai il busto ed entrai sedendomi dietro di lei. L’acqua era veramente calda, forse un po’ troppo.

La pelle di Bonnie si era arrossata parecchio, ma non sembrava niente di grave. La tenni stretta al mio petto, per passarle il mio stesso calore corporeo. Da che ricordassi, quello era il primo contatto fisico che condividevamo.

La situazione era paradossalmente ironica: non l’avevo neppure mai abbracciata e adesso eravamo a mollo, nella stessa vasca, appiccicati uno all’altra, lei praticamente nuda.

Sentivo i suoi fianchi minuti premere in mezzo alla mie gambe, coperte fortunatamente da jeans neri. Le sue spalle riposavano contro il mio torace e la sua testa era ricaduta all’indietro, poggiandosi contro al mio collo.

Constatai che il suo fisico non era proprio quello di una dodicenne come avevo sempre sostenuto. Non aveva delle grandi forme, di seno arrivava a mala pena a una seconda, però era ben proporzionata e tonica, forse un po’ troppo magrolina per i miei standard. Non era certo un corpo che mi sarei girato a guardare per strada, ma nel complesso si presentava bene. Provare a sedurla, dopotutto, non sarebbe stato così male.

Mugugnò qualcosa e si mosse leggermente. Mi sporsi per guardarla oltre i capelli rossi e notai che le sue guance avevano ripreso un po’ di colore.

Sebbene si stesse finalmente svegliando, continuai a tenerla tra le braccia per accertarmi che non scivolasse con la testa sott’acqua.

Le sue gambe si stiracchiarono e le sue dita sfiorarono e accarezzarono, inconsapevolmente le mie mani. La lasciai fare piuttosto divertito. Sarebbe stato un risveglio col botto.

Infine, alzò il capo e lo girò a destra e a sinistra, chiaramente spaesata. Non aveva ancora realizzato la mia presenza alle sue spalle.

“Bentornata nel nostro mondo, uccellino” le mormorai all’orecchio.

Un secondo dopo, era schizzata dall’altra parte della vasca, sgusciando via dalla mia presa, e mi fissava inviperita e allibita nello stesso tempo.

“Che diamine ci fai tu qui?” sibilò.

Ghignai mentre il mio sguardo scivolava sul suo corpo in bella vista.

Si accorse di indossare solo il reggiseno e le mutande. Si affrettò a rannicchiarsi ancor di più e a coprirsi come meglio poté con le braccia.

“Perché siamo in una vasca? Perché sono nuda?” mi chiese a raffica “Se stavi cercando di approfittartene, ti giuro che …”.

“Frena la fantasia, rossa” troncai subito “So che impazziresti per uno dei miei tocchi, ma non è questo il caso. Ti ho trovata svenuta nel bosco, eri gelata. Tentavo solo di scaldarti” le spiegai. Mi tirai in piedi, uscii dalla vasca gocciolando per tutto il pavimento e agguantai un asciugamano. Glielo porsi.

Lei lo afferrò un titubante. M’imitò, abbandonando l’acqua diventata ormai tiepida, e si avvolse nella stoffa.

Le sue gambe tremavano ancora; mi avvicinai per aiutarla, ma si scostò bruscamente. Era chiaramente a disagio e non voleva essere toccata.

“Sei sempre così dannatamente cocciuta” l’apostrofai seccato.

Bonnie mi lanciò un’occhiata di fuoco che non sortì certo l’effetto sperato. Voleva trasmettermi il suo fastidio, ma più che altro mi suscitò tenerezza.

Cominciava a risultarmi veramente difficile arrabbiarmi con quella ragazzina; così indifesa nel suo asciugamano bianco, con i capelli rossi per metà bagnati e l’equilibrio ancora instabile.

“Come mi hai trovata?” mi domandò con voce pacata.

“I tuoi amici stavano andando fuori di testa. Blateravano qualcosa riguardo al bosco”.

“E hai deciso di venirmi a cercare?” alzò le sopracciglia scettica “Ma come, Damon, non hai forse detto che io non sono nessuno?”.

Tipico delle donne: rigirati addosso le tue stesse parole in circostante del tutto inappropriate. La mia testa mi suggerì di dissimulare l’irritazione e di giocarmi bene le mie carte. Mi sarebbe bastato mormorare qualche parola dolce per tranquillizzarla e avrei fatto dei passi da gigante nel mio piano di seduzione.

Eppure le cose degenerarono davvero in fretta. Quella piccola peste sapeva mandarmi il sangue al cervello come nessun altro al mondo, neppure mio padre era così bravo.

Le avevo appena salvato la vita e lei doveva per forza comportarsi da acida, da altezzosa, come se il mio gesto non valesse niente in paragone alla sua persona.

“Perché faccio cose stupide, Bonnie*!” esplosi “Come fare il boyscout di notte, in cerca di una ragazzina capricciosa o infradiciarmi i vestiti per tenerla al caldo, dato che è stata così furba da vagare nei boschi senza portarsi dietro qualcosa con cui coprirsi. Idea geniale, tra l’altro, degna di te!” la feci notare rimarcando ancora una volta quanto fosse insignificante “Forse hai ragione, forse avrei davvero dovuto lasciarti là a congelare. A chi mai importerebbe se sparissi?” conclusi con una nota velenosa.

L’avevo colpita nel suo punto più debole e improvvisamente mi sentii un verme. Non mi era mai capitato; normalmente stavo benissimo dopo averla umiliata un po’, ma quella volta mi resi conto di aver oltrepassato il limite.

Bonnie distolse lo sguardo e si morse il labbro “Credo che dovresti andartene”.

“Non potrei essere più d’accordo” risposi impassibile, agguattando le mie scarpe. Me le infilai e uscii veloce come il vento.

Benché avessi desiderato rimangiare le mie stesse parole, non riuscivo a calmare la mia rabbia. Io ero stato uno stronzo, ma lei era solo una mocciosa ingrata e piagnona.

Me la figuravo già a lamentarsi con le sue amiche, a darmi dell’insensibile e della carogna, dimenticandosi ovviamente di raccontare l’altra parte della storia.

Alla fine della fiera, ero sempre io il cattivo, anche quando provavo a comportarmi da eroe. Ma nessuno avrebbe mai conosciuto quel lato di me, perché faceva sempre comodo avere qualcuno da incolpare.

Ogni favola, dopotutto, aveva la sua bestia.

 

Il mio spazio:

Allora, ragazze, parto subito con i ringraziamenti perché sono davvero contentissima della reazione positiva che ha suscitato lo scorso capitolo.

Amo i vostri commenti, davvero! E poi siete state carinissime ad augurarmi buona fortuna per l’esame, quindi grazie tantissimo!!

Che pensate di questo capitolo?

Beh, sicuramente avrete riconosciuto la scena della vasca, la più famosa tra Damon e Bonnie nei libri originali. Mi è sempre piaciuta e volevo rivisitarlo un po’, anche se, ovviamente, quella della Smith è insuperabile.

Come nei libri, anche qui Bonnie non si risveglia pronta a ringraziare Damon, anzi. È molto a disagio per la situazione imbarazzante e un po’ intima, ed è ancora ferita per le parole del ragazzo dello scorso capitolo.

Damon poteva segnare un gran centro e invece si è fatto trasportare ancora dall’impulsività e ha rovinato il momento. Il titolo vuole ovviamente smentire la sua ultima affermazione: il re delle zucche, inteso come il re di Hallowee, colui che ha salvato la situazione, benché Bonnie non sia disposta ad ammetterlo.

Colpa di tutti e due, non c’è dubbio.

Le cose comunque si smuoveranno, ho un paio di idee ma se avete suggerimenti, scrivetemi pure. Se avete una scena in mente e vorreste vederla in questa storia, farò il possibile per accontentarvi, con i dovuti crediti ovviamente =)

Dobbiamo comunque ancora vedere la scena dal punto di vista di Bonnie, nel prossimo capitolo leggeremo anche il suo pensiero.

Poi ho due comunicazioni: mi trovo in un momento davvero produttivo e ho un sacco d’idee in testa, quindi…

-         Settimana prossima pubblicherò quella storia rossa di cui avevo accennato (non mi ricordo più se nelle note di questa ff o di Ashes&Wine). Mi ero ripromessa che l’avrei fatto solo dopo aver concluso tutti e dieci i capitoli e invece ne ho scritti solo tre; ma proprio non riesco a trattenermi. Credo che l’alternerò con questa, così avrò il tempo di scrivere e più o meno tutte le settimane avrete qualcosa.

-         Nei prossimi giorno posterò anche una fanfiction nel fandom della serie tv di TVD, su Damon nel suo periodo buio negli anni ’70. S’intitola "A beast about to strike". Vi lascio sotto l’introduzione. Se vi va, fateci un salto.

Bene, ora vi lascio andare!

Grazie mille ancora a tutti!!

Il banner è sempre di Bumbuni.

Bacioni!

 

*Battuta di Damon, presa dalla 3x21 di TVD.

 

A beast about to strike. Nessuno sano di mente si sarebbe mai addentrato negli anfratti scuri della City quando la luna era alta nel cielo; la notte non era un luogo rassicurante, fatta eccezione per gli ubriachi, per gli sprovveduti e gli squilibrati, e ovviamente per lui.
Non c’era più spazio per i buoni sentimenti, niente più giustizia, niente più compassione, niente più umanità. Non quando le paure aumentavano e la pazzia trovava spazio.
E il vampiro era ben contento dell’appellativo disumano, perché voleva essere considerato un qualcosa di superiore; uno spietato assassino, senza limiti, senza scrupoli; voleva incutere terrore con il suo comportamento inumano.
Per questo adorava passeggiare per i vicoli immersi nelle tenebre e nel silenzio; perché quella era la New York che amava: malvagia, amorale, ambigua, sfacciata e disinibita; la New York che gli calzava a pennello, la New York della notte.
E lui, Damon Salvatore, ne era il padrone indiscusso.

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Capitolo 9
*** Awkward ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo nove: Awkward.

 

“Take what you want
Steal my pride
Build me up
Or cut me down to size
Shut me out
But I'll just scream
I’m only one voice in a million
but you ain’t taking that from me”

(Strip me- Natasha Bedingfield).

 

Mi strinsi l’asciugamano attorno al corpo, senza pensare che non sarebbe servito a niente, perché avevo ancora addosso la biancheria intima zuppa d’acqua. Eppure non riuscii a muovermi dal bagno.

Fissavo malinconica la porta oltre cui era sparito Damon. Per una volta non avevo voglia di fare l’arrabbiata o l’orgogliosa. Ero sola e stanca; potevo permettermi di crogiolarmi nello sconforto per un po’.

Ripercorsi velocemente le vicende di quella giornata, cercando di capire come diamine avessi potuto cacciarmi in quella situazione.

In un modo o nell’altro tutte le risposte conducevano alla mia dannata insicurezza. Andavo a fasi: in un momento mi convincevo di poter conquistare il mondo, nell’altro mi sarei rintanata nella mia camera senza uscirne mai più.

Avevo permesso che Katherine mi manipolasse a suo piacimento; mi si era infilata in testa con le sue parole velenose e i suoi modi subdoli. Ero talmente stufa di lei e del suo atteggiamento superiore che l’avrei accontentata in qualunque maniera pur di essere lasciata in pace.  Ero così ansiosa di darle una lezione, di dimostrarle quanto valevo che ero caduta a pieno peso nel suo gioco.

Già me l’immaginavo a ridere di me!

Un paio di mesi non mi avevano certo cambiato completamente; dovevo accettare che non sarei maturata dalla sera alla mattina. Avevo fatto giganteschi passi avanti, ma chiaramente la strada era ancora lunga.

Ci sarebbe sempre stato qualcuno come Katherine ad approfittarsi delle mie debolezze.  Dovevo cominciare a riconoscerle e a combatterle, perché ignorarle non era servito a un granché.

Quella bruttissima esperienza finiva dritta tra le ragioni per odiare Halloween dal profondo del cuore. Perdersi nel bosco si era rivelato orribile, ma rendersi conto di aver commesso ancora gli stessi errori del passato era stato peggio.

In quel bosco mi ero arresa, avevo rinunciato a cercare la strada per tornare indietro per stanchezza e rassegnazione: non mi reputavo abbastanza forte da farcela.

Allora avevo deciso di trasformarmi di nuovo nella vecchia Bonnie, quella un po’ fifona e incerta, che reputava un’idea migliore accucciarsi contro un masso che proseguire.

Avevo chiuso gli occhi e avevo finto di non trovarmi al freddo, tra alberi inquietanti, ma a casa mia, al sicuro.

Il risveglio mi aveva totalmente spiazzata. All’inizio non avevo nemmeno capito dove fossi, sentivo solo un torpore confortante e qualcosa ad avvolgermi in un caldo abbraccio. Avevo inconsapevolmente accarezzato la pelle liscia di colui che mi stava cullando. Stavo bene, avevo finalmente abbandonato il freddo e una timida luce mi conduceva lentamente lontano dal sonno. Sarei rimasta in quello stato di semi coscienza per sempre.

La bolla si era infranta quando avevo udito la voce di Damon mormorare alle mie spalle.

Stare in quella vasca, mezza nuda, con lui era stato davvero mortificante e non solo per una banale questione d’imbarazzo.

Mi ero resa ridicola davanti a lui, aveva fatto la figura dell’incapace, della damigella in pericolo. Avevo confermato in pieno la sua teoria: ero proprio una bambina.

La sua espressione eloquente aveva gridato per tutto il tempo “Visto? Avevo ragione”.

Non volevo che Damon mi vedesse il quello stato, debole e spaurita; gli avrebbe concesso soltanto ancora più potere di ferirmi. Cosa che effettivamente aveva fatto.

Non si era risparmiato la sua solita battutina acida e arrogante. Dovevo risultare una macchietta parecchio divertente ai suoi occhi; e adesso mi ritrovavo pure in debito con lui!

Mi alzai di scatto, sciolsi il nodo dell’asciugamano che ricadde silenziosamente sul pavimento e mi diressi in camera per cambiarmi.

Avevo appena messo il pigiama, quando sentii la porta d’ingresso aprirsi e la voce di Stefan chiamarmi affannata. Probabilmente aveva usato le sue chiavi di riserva per entrare oppure quell’idiota di suo fratello si era dimenticato di chiudere.

Gli andai incontro e un secondo dopo venni stretta dalle sue braccia, contro al suo petto. Chiusi gli occhi e mi rilassai all’istante. Non c’era posto in cui potevo sentirmi più al sicuro.

Non m’importava se dopo avrei subito una ramanzina infinita, per il momento ero solo contenta di poter abbracciare il mio migliore amico.

“Dovrei ammazzarti” mi sussurrò tra i capelli. Era arrabbiato, ma potevo percepire il sollievo di avermi trovata tutta intera.

“Ancora un minuto” gli chiesi spingendo ancor di più il mio viso contro al suo torace.

Purtroppo quei sessanta secondi durarono troppo poco. Nell’istante in cui sciogliemmo l’abbraccio, l’espressione di Stefan s’indurì pericolosamente.

“Non guardarmi così; mi sento già abbastanza stupida senza il tuo aiuto” lo pregai.

Lui sbuffò, superandomi per entrare in camera mia. Lo seguii.

“Non so nemmeno da dove cominciare” proruppe “Dalla fatto che tu abbia ascoltato Katherine o dalla tua gita per i boschi!”.

“Come facevi a sapere che ero andata nell’Old Wood?”.

“Intuizione, istinto” rispose “Elena mi ha raccontato della discussione che hai avuto con sua sorella sul raduno di Halloween, poi vi ho viste parlare alla festa. Ti conosco, Bonnie, so quanto sei testarda. Avresti fatto di tutto pur di mettere a tacere Katherine”.

“Non è andata proprio come speravo”.

“Ci hai mandato tutti fuori di testa!” la rimproverò “È vero che non fa ancora così freddo, ma saperti da sola nel bosco... ho passato le due ore peggiori della mia vita. Non sapevo se chiamare tuo padre o no. Per dirgli cosa poi? Ti ho telefonato decine di volte e avevi il cellulare spento. Ho pensato davvero al peggio”.

“Si è scaricato mentre cercavo la strada per il campeggio” mi giustificai.

Lui mi guardò un po’ indeciso, come se si stesse trattenendo da qualcosa; infine cedette e sbottò “Vieni qui, razza d’incosciente” mi disse e si avvicinò per abbracciarmi di nuovo.

“Mi dispiace di avervi fatto preoccupare” mi scusai, appoggiando la fronte alla sua spalla.

“Prova a fare un’altra volta una cosa del genere e giuro che racconterò tutto a tuo padre” mi avvisò bonariamente accarezzandomi i capelli.

“Perché sei venuto qui?” gli domandai.

É il primo posto che ho controllato. Non ti ho trovato e ho raggiunto gli altri nell’Old Wood; poi ho ricevuto un messaggio di Damon”.

“Damon ti ha scritto?” ripetei sorpresa, staccandomi per guardarlo in faccia.

“Sì; diceva di tornare a casa. Credevo fosse una cosa urgente; Damon non mi scrive mai. Temevo fosse successo qualcosa a papà; ho parcheggiato e ho visto le luci di casa tua accese” mi raccontò.

Aggrottai le sopracciglia mentre un sospetto si faceva strada in me: era forse un modo contorto di Damon per far venire Stefan qui?

“Non ho neanche controllato che mio padre stia bene!” esclamò il mio migliore amico, ricordandosene solo dopo avermene parlato. Prese il cellulare, ma io lo bloccai prendendolo per un polso.

“Tuo padre sta bene” lo rassicurai istintivamente.

“Ma allora perché…? Quello è il giubbotto di mio fratello?” si stupì Stefan.

Mi voltai e vidi la giacca di pelle abbandonata sul letto.

“Deve avermela messa addos…oppure se l’è tolta quando…” e indicai il bagno. Nella mia testa tutte quelle frasi avevano senso, ma uscirono sconnesse.

Io per prima stavo cercando di mettere un po’ d’ordine nei miei pensieri.

“Perché Damon era qui?” mi chiese.

“Perché è stato lui a …” mi fermai appena prima di pronunciare quella parola. Realizzai in quel preciso momento il gesto di Damon. Mi aveva trovata, mi aveva salvata. Per quanto detestassi ammetterlo, m’infuse una nuova consapevolezza.

“Mi ha portata lui qui a casa” dirlo ad alta voce aveva tutt’altro sapore.

“Mio fratello ti è venuto a cercare?” ripeté sconcertato quanto me.

Annuii. Ragionai velocemente sulla mia prossima mossa.

“Stefan, mi daresti un passaggio fino a Dalcrest?”.

 

Ero esausto.

Faticavo a ricordare l’ultima volta che mi ero stancato così tanto. Desideravo solo mettermi nel letto e staccare la spina per almeno una decina di ore.

Mi liberai delle scarpe sporche di terra e dei vestiti bagnati. Mi feci una doccia veloce, per togliermi via la sensazione di umido che mi si era appiccicata alla pelle. Nemmeno dieci minuti dopo ero già sotto le coperte in pigiama.

Sperai davvero che Sage rimanesse a dormire a a casa di una delle sue conquiste, perché non avrei proprio sopportato di essere disturbato in piena notte.

Avevo bisogno di dormire e di stare da solo.

Per quanto fosse dura ammetterlo, ero rimasto deluso dell’esito della serata. Non mi aspettavo una medaglia e nemmeno una corona di fiori, ma almeno un piccolo ringraziamento mi pareva dovuto.

Avevo ottenuto soltanto un’occhiata disgustata e un sacco di rancore.

Mi aspettavo che una ragazza gentile e compassionevole come Bonnie apprezzasse il mio gesto, che riconoscesse il merito e invece mi aveva guardato sospettosa e un po’ spaventata, quasi mi ritenesse responsabile della sua situazione.

Ero davvero una creatura così odiosa da non meritare neppure una parola di gratitudine?

Cominciai a pensare che sedurla si sarebbe rivelato molto più difficile del previsto. Con la mia ultima frecciatina non avevo certo guadagnato punti.

In quel momento avrei tanto voluto rimangiarmela. Non sapevo nemmeno io spiegarmi come mai diventassi così cattivo ogni volta che parlavo con Bonnie. Di carattere non ero una persona molto affabile, ma con quella piccola rossa davo sempre il peggio di me.

Forse mi compiacevo a ferirla perché i suoi grandi occhioni innocenti spesso mi facevano sentire effettivamente colpevole di qualcosa. Una specie di vendetta inconscia.

Mi sarei tagliato la lingua piuttosto che dirlo ad alta voce, ma Bonnie ogni tanto aveva il potere di mettermi a disagio.

Sbuffai e mi rigirai nel letto. Appena prima di spegnere la luce,  mi accorsi che sulla sedia su cui avevo posato i vestiti ad asciugare, mancava qualcosa.

Il mio giubbotto di pelle!

L’avevo lasciato a casa di Bonnie. Imprecai.

Ero già nel panico al pensiero che sarei dovuto tornare là. Forse potevo chiedere a Mary di portarmelo in università. Stavo pianificando un modo per evitare quel dannato uccellino, quando qualcuno bussò alla porta.

Guardai l’orologio: l’una e un quarto.

Non era tardissimo, ma rimasi comunque sorpreso e irritato. Chi mi rompeva la palle a quell’ora?

Era forse Sage, troppo ubriaco per aprire la porta da solo?

La figura che mi si presentò davanti era decisamente più bassa del mio amico, aveva i capelli molto più lunghi e aveva in mano il mio giubbotto.

Bonnie McCullough se ne stava sul pianerottolo in pigiama. Avrei persino potuto scambiarla per una bambina che mi chiedeva ‘dolcetto o scherzetto’.

“Non sapevo se fossi già tornato o no” confessò. La sua voce era delicata come al solito, ma riuscivo a percepire una nota più decisa.

“Hai dimenticato questa” mi disse porgendomi la giacca. Sembrò soppesare nella sua mente le parole che voleva disperatamente dire. Si mordicchiò il labbro inferiore e alzò lo sguardo su di me. Non avevo mai visto i suoi occhi così fieri.

“Mi hai portata a casa” sentenziò.

Stentavo a credere alle mie orecchie. Che fossero giunti infine dei benedetti ringraziamenti?

“Ti devo ringraziare, Damon, e mi spiace di non averlo fatto prima. Senza di te probabilmente mi sarei presa una polmonite o peggio”.

Alleluia. Pensai con sarcasmo. La principessina era finalmente scesa dal suo piedistallo.

“Non sono venuta qui solo per questo, Damon”.

Aveva pronunciato il mio nome già due volte: o stava per dichiararmi il suo amore o era sul piede di guerra. Propendevo più per le seconda.

“La devi smettere di trattarmi come se fossi uno zerbino” affermò con una sicurezza che mi sorprese “Devi smetterla di venire in casa mia e insultarmi e pensare ogni volta che vada bene così. Non sei mai stato carino o gentile nei miei confronti, quindi non ti aspettare la stessa cortesia da parte mia. Non sono più una bambina, Damon …”.

Ahia, la terza volta!

“… e sono stufa di venire continuamente mortificata da te e dalla tua presunzione. Non accetterò più tutto lo schifo che continui a gettarmi addosso, perciò…non parlarmi più. Almeno finché non avrai imparato un po’ di rispetto”.

Rimasi zitto, mentre lei se ne andava senza aggiungere altro. Richiusi la porta con estrema calma. Non ero rimasto turbato dalle sue parole, in fondo aveva detto solo la verità: io non la rispettavo e non avevo problemi a umiliarla o a ferirla perché per me contava quasi quanto uno zero.

Ero rimasto, però, esterrefatto dalla forza con cui aveva espresso il suo punto di vista. Altre volte aveva provato a tenermi testa, senza riuscirci veramente. In ogni momento avrei potuto rimetterla facilmente al suo posto. Quella sera, invece, ne sarei uscito sconfitto io.

In condizioni normali non avrei fatto una piega, perché non ricercavo la sua gentilezza, ma il suo discorso mi aveva aperto gli occhi: non sarei mai riuscito a conquistarla se non mi fossi deciso a trattarla con più riguardo.

Dovevo smetterla di additarla come una bambina. Continuare a chiamarla mocciosa o piagnona non mi avrebbe portato a grandi risultati.

Il suo suggerimento era molto allettante: smettere definitivamente di parlarle non costituiva un grande sacrificio per me. Allo stato delle cose, purtroppo,  non era per niente vantaggioso ai fini del mio piano.

Non c’era altra soluzione, dovevo mettere in atto una ben costruita messinscena: fingere non solo di avere un interesse per Bonnie, ma di considerarla anche una donna.

Se si fosse comportata sempre come stasera, non l’avrei trovato così difficile. Con quell’espressione così seria e determinata, mi aveva decisamente convinto ad ascoltarla e quasi a stimarla.

Speranza vana, perché quelli erano momenti di coraggio che svanivano in fretta. Forse avrei fatto bene a non dimenticarlo.

Tornai nel letto, dopo aver gettato il giubbotto sulla sedia. Sprofondai in fretta nel sonno e non mi accorsi nemmeno del ritorno di Sage, ubriaco marcio.

Capii che aveva bevuto molto, proprio perché al mio risveglio trovai tutti i vestiti fuori dall’armadio, il letto mezzo staccato dal muro e il mio amico addormentato con i piedi sul cuscino, ancora coperti dalle scarpe.

Sicuramente se l’era spassata la sera prima. Quello che non aveva potuto fare io per colpa di quella moc-.

Mi trattenni dal pensarlo. Bisognava che mi togliessi dalla testa certi termini.

Abbandonai il letto e non mi preoccupai di fare piano. Sage era talmente secco che nemmeno una bomba sotto al materasso lo avrebbe svegliato.

Una mezz’ora dopo ero in macchina e stavo guidando verso casa Gilbert. Avevo bisogno di discutere con Katherine di alcune cose e soprattutto avevo voglia di vederla.

Non l’avevo avvertita, perché sapevo che i suoi genitori sarebbero stati via tutto il weekend. Potevo presentarmi a qualunque ora senza disturbare nessuno. Non ero abituato ad annunciare il mio arrivo; normalmente piombavo a casa delle persone quando più mi gradiva. Era uno dei tanti motivi per cui i genitori delle mie ex ragazze non mi potevano sopportare.

Con Katherine era diverso. Cercavo di fare le cose per bene, m’impegnavo davvero per non inimicarmi i signori Gilbert. Già avevano avuto modo di sperimentare il mio lato più docile con Elena, ma adesso stavo dando il meglio di me.

La nostra relazione andava a gonfie vele, il che mi spaventava. Era tutto troppo bello per essere vero. Mi aspettavo da un momento all’altro che qualcosa crollasse, distruggendo il resto. Probabilmente si trattava solo di un’impressione, del mio pessimismo cronico.

Parcheggiai la Ferrari davanti al loro vialetto e mi avviai all’ingresso.

Non feci neanche in tempo a bussare che la porta si aprì, rivelando dall’altra parte una delle due gemelle, non la mia.

Incontrare Elena di prima mattina era sempre una gioia. Stavo sua sorella, ma Elena avrebbe sempre tenuto un posto speciale nel mio cuore. Le ero inevitabilmente affezionato.

“Damon!” esclamò sorpresa “Katherine sta ancora dormendo” mi disse con un tono più freddo del solito.

“Beh, sono qui per svegliarla” alzai le spalle.

Lei mi guardò di sottecchi, poi sospirò pesantemente “Accomodati pure” e si spostò per lasciarmi entrare.

Chiaramente stava per uscire, ma non mosse un passo. Si voltò lentamente verso di me.

“Senti, Damon, ti devo parlare di una cosa”.

Ricambiai il suo sguardo con molta confusione.

“Stefan mi ha detto che ieri sera hai riportato a casa Bonnie, che l’hai aiutata. Te ne sono davvero grata”.

Gongolai soddisfatto, felice di ricevere il giusto merito dal mio angelo.

“Però devi smetterla di trattarla in quel modo. Non è una bambolina, ha dei sentimenti, sai? Perché ti comporti così con lei? È una mia amica, non potresti usare un po’ di tatto?!”.

Fantastico, un’altra ramanzina.

M’infastidì molto la presunzione che trasparì dalla sua voce, come se avesse qualche tipo di controllo su di me. Bonnie era una sua amica, ma questo non le conferiva nessuna sorta di immunità. Non ero tenuto a trattarla con i guanti di velluto solo per non arrecare un dispiacere a Elena.

“Con tutto il rispetto, non credo di doverle qualche riguardo per fare un favore a te”.

Era una brava ragazza, dolce e comprensiva, a volte, però, peccava un po’ di superbia e usava, forse inconsapevolmente, quel potere che di norma preferiva non toccare.

Se ne rese conto e intenerì lo sguardo “Mi piacerebbe che gli altri ti vedessero per come ti vedo io”.

Avrei adorato quelle parole, se dietro avessero nascosto una qualche sfumatura d’interesse. Invece, celavano solamente amicizia e un profondo affetto.

Le apprezzai, eppure mi sembrava tanto di aver ricevuto il solito contentino made in Gilbert.

“Non sono un grande fan di Bonnie” sentenziai “E lei ricambia il mio stesso sentimento. Elena, ieri sera le ho praticamente salvato la vita e lei si preoccupa solo di raccontare come l’ho tratta male dopo!” mi lamentai con uno sbuffo.

La bionda alzò le sopracciglia “Dopo?” mi chiese con cipiglio.

“Sono stato un po’ stronzo, lo ammetto” la feci contenta.

“Damon, a cosa ti riferisci?”.

Mi stava prendendo in giro? Mi aveva appena fatto il culo e ora fingeva di non ricordarsi il motivo?

“Perché io mi riferisco a qualche settimana fa, quando sei andato a casa sua a colazione” m’informò “C’è qualcos’altro che devo sapere?”.

O cazzo.

Mi stava forse dicendo che l’uccellino per una volta in vita sua era stato zitto e aveva riferito solo la parte buona della storia?

“Damon” mi intimò lei con gli occhi che mandavano scintille.

“Sono solo i nostri soliti litigi, angelo, niente di preoccupante” la rassicurai “Ti stupirai nel vedere quanto saprò essere gentile con Bonnie d’ora in poi”.

Le lasciai credere che il merito fosse il suo, senza chiaramente nominare la scommessa.

“Damon, sei tu?” mi chiamò una voce dal piano superiore.

Katherine, mia salvatrice.

Elena mi fece cenno di andare e sparì chiudendosi la porta alle spalle.

Io tirai un sospiro di sollievo. Quella giornata iniziava a diventare particolarmente strana e imbarazzante. Ero stato sgridato per ben due volte come un bambino di tre anni e avevo ricacciato giù ogni replica solo per evitare ulteriori scocciature.

Volevo solo vedere la mia ragazza, passare del tempo con lei e togliermi ogni pensiero dalla testa. Perciò salii, saltando i gradini per arrivare prima.

La trovai in camera sua. Aveva appena finito di cambiarsi. Le andai incontro e la baciai, stringendola tra le braccia.

Cademmo sul letto alle sue spalle. Ero pronto a toglierle i vestiti che aveva indossato da pochi minuti, ma lei mi mise una mano sul petto.

“Sei impaziente stamattina” commentò con un ghigno.

“Recupero per ieri sera” risposi baciandole il collo “Mi hai dato buca per una festa da liceali” brontolai.

Non le avevo detto che anche io ero andato alla festa. Dopo aver ricevuto la telefonata di Alaric, avevo pensato di farle una sorpresa, ma tutto era andato in fumo per la scomparsa di Bonnie.

“Non avresti avuto tempo per me ieri sera” replicò Katherine “Ho sentito che eri molto occupato a salvare la piccola Bonnie”.

Alzai la testa di scatto “Stavi origliando?”.

“Solo un po’. Ero curiosa” si sporse per baciarmi ancora.

Io mi spostai “Kat, sei tu che le hai suggerito di andare nel bosco?”.

Lei annuì “L’ho sfidata a passare una notte per dimostrarmi che non era una fifona. Stavo scherzando, non credevo l’avrebbe fatto veramente”.

“Forse dovresti stare attenta a parlare. Sai che Bonnie è facilmente manipolabile; ieri sera ha rischiato grosso” le feci notare.

“Non mi dirai che ti sei preoccupato?” mi domandò alzando un sopracciglio.

“Non molto in realtà” scrollai le spalle indifferente “Il problema è che quella ragazzina  si mette nei guai e poi c’è da andare a riprenderla. Non vorrei farle da cavalier servente ogni santa volta”.

“Beh, è stata un’ottima occasione per metterti in mostra. Scommetto che adesso sei il suo grande eroe …” incominciò, sgusciando via dal mio abbraccio per sistemarsi i capelli davanti allo specchio.

Grande eroe. Non proprio.

“…sarà un gioco da ragazzi farla cadere ai tuoi piedi” concluse.

Quello mi riportò al mio dubbio iniziale “Katherine, mi ricordi perché è così importante per te questa scommessa? Ho qualche difficoltà a capire come mai sei così contenta che il tuo ragazzo ci provi con un’altra”.

“Credi che possa sentirmi minacciata da Bonnie McCullough?” mi domandò quasi indignata, voltandosi verso di me “Non mi lasceresti mai per quella frignona, Damon, per questo non ho nessun problema. Io non potrei mai essere gelosa di lei”.

“E cosa ci guadagni tu?”.

“Un po’ di divertimento” disse “È la migliore amica di Elena e sarò ben felice di vedere mia sorella soffrire. E poi, mi ha dato molto fastidio che Tyler abbia messo in dubbio la tua capacità di conquistarla. Noi due siamo una coppia esplosiva e nessuno si deve permettere di sottovalutarci”.

“Tutto qui? Vuoi far vedere chi ce l’ha più lungo?”.

“No, tu vuoi far vedere chi ce l’ha più lungo” mi corresse “Fremevi di dare una lezione a Tyler, ma avevi paura che io mi arrabbiassi. Così ho parlato per te”.

Sapevo che c’era qualcos’altro sotto. Non poteva essere una semplice questione di vanità, anche se da Katherine mi sarei aspettato anche quello.

Rimaneva tutto troppo strano.

 

Il telefono continuava a squillare, ma non avevo il coraggio di rispondere. Sul display lampeggiava il nome di Matt.

Probabilmente voleva solo sentire come stavo, dato che la sera prima ero sparita senza avvertire nessuno. Di sicuro sapeva già tutto quello che mi era successo.

Ero oltremodo imbarazzata, per non dire in preda alla vergogna.

Mi ero comportata da stupida e irresponsabile. Non ero ancora pronta a sostenere lo sguardo di Matt. Avevo fatto la figura della stupida, di quella facilmente abbindolabile. Mi sentivo umiliata e mi serviva un po’ di tempo togliermi di dosso quella sensazione.

Il weekend era appena iniziato, per cui potevo contare su due giorni di totale isolamento.

Caroline era già passata per assicurarsi che fossi tutta intera e Meredith mi aveva telefonato, minacciando di raccontare tutto a mio padre se avessi rifatto una cosa del genere.

Finii di prepararmi la cioccolata e continuai a giocare con il  mio portatile. Avevo una ricerca di storia da svolgere, ma non riuscivo a trovare la voglia.

Girovagare su facebook in quel momento mi sembrava molto più divertente.

Il mio pomeriggio di totale relax venne fastidiosamente interrotto dal campanello che suonava. Ebbi la tentazione di fingere di non essere in casa.

Alla fine mi alzai e andai ad aprire.

Matt mi sorrise dall’altro lato della soglia. Stavo per svenire.

“Ciao” lo salutai sorpresa “Che ci fai qui?”.

“Non rispondevi alle mie chiamate. Volevo vedere di persona che stessi bene. Stefan mi ha detto che potevo trovarti a casa”.

Grazie tante, amico. Pensai con ironia.

“Ieri sei sparita di colpo e mi sono preoccupato. All’inizio ho pensato che ti fossi arrabbiata per la camera dell’orrore”..

Scossi la testa e ridacchiai “No, non ero arrabbiata. È stato quasi divertente”.

Lui ricambiò il mio sorriso “Ora va meglio? Stefan mi ha detto che non sei stata bene”.

Aggrottai le sopracciglia: Matt non sapeva davvero che cos’era successo? O stava solo facendo finta per non mettermi a disagio?

“Credo di aver imparato un sacco di cose ieri notte” affermai “Vuoi entrare? Ho appena preparato la cioccolata” lo invitai.

“Potrei mai dire di no alla cioccolata?”.

Mio padre non era in casa. Se avesse scoperto che ero rimasta sola con un ragazzo, probabilmente mi avrebbe ucciso. Ma a questo punto, un guaio in più o uno in meno non mi faceva la differenza.

Gli versai la bevanda calda nella tazza e io ripresi a sorseggiare la mia.

“Com’è andata la festa alla fine?” gli domandai.

“Il solito” mi rispose alzando le spalle “È triste che sia il nostro ultimo anno. Credo che mi mancherà tutto questo quando sarò al college”.

“Quando sarai al college, non ti ricorderai nemmeno più del liceo”.

“Può darsi” disse “Però la prossima volta non scappare così da una festa; sarebbe stata molto più divertente se fossi rimasta”.

Mi lusingava troppo sapere che Matt mi teneva così in alta considerazione. Solo qualche giorno prima mi aveva confessato che ai suoi occhi ero cresciuta, eppure mi ero comportata per l’ennesima volta come una tredicenne. Io ero convinta di essere maturata, lo ero davvero. Perché chi mi stava intorno non se ne rendevano conto?

“Matt” mormorai “Secondo te gli altri vedranno mai il mio cambiamento?” gli chiesi.

“Tu vai benissimo così come sei, Bonnie” replicò “Non devi cambiare solo perché lo dicono gli altri; ma se proprio lo vuoi anche tu, sarebbero dei ciechi se non se ne accorgessero”.

La doveva smettere con i complimenti o sarei andata a fuoco dal rossore. Abbassai la testa per nascondere un sorrisino.

Lo sentii posare un dito sotto al mio mento.

“Non guardare giù. Sei bella quando sorridi”.

Potevo sciogliermi in quel momento?

Lo vidi avvicinarsi a rallentatore e un attimo dopo le sue labbra si posarono sulle mie. mi accarezzò dolcemente una guancia, ma non fece nient’altro per approfondire il bacio. Con mio grande disappunto.

Mi staccai “Matt, non sono una bambola” gli ricordai. Non ero fatta di porcellana e non mi sarei rotta se fosse stato un po’ più irruento.

Sembrò che non stesse aspettando altro. Mi spinse verso di lui e finalmente venni coinvolta in un bacio con la ‘B’ maiuscola. Mi sedetti sulle sue gambe e gli strinsi le spalle, mentre faceva passare le mani su tutta la mia schiena.

Fu uno dei momenti più belli di tutta la mia vita, almeno finché non udii la voce di mio padre chiamarmi dall’ingresso. Gelai sul posto e mi allontanai bruscamente. Anche Matt sbiancò.

“Sono in cucina, papà” gli disse, passandomi in continuazione la lingua sulle labbra per alleviare il gonfiore.

“Buongiorno, signor McCullough” salutò educatamente Matt. Si era spostato dall’altra parte del tavolo, per non dare strane impressioni.

“Matt!” esclamò sorpreso mio padre “Non sapevo fossi qui”.

“Sono passato per vedere come stava Bonnie”.

“Non stai bene, gattina?” mi chiese preoccupato, rivolgendosi a me.

“Sto benissimo” assicurai pensando al bacio di poco prima “Ieri ho lasciato presto la festa, perché avevo un po’ del mal di testa, ma ora è passato” spiegai, mentendo.

“Comunque me ne stavo andando” si affrettò ad aggiungere Matt “I miei genitori mi aspettano” e si alzò.

“Gattina, accompagnalo alla porta” mi suggerì mio padre e io fui svelta ad obbedire.

Quando raggiungemmo all’entrata, rivolsi a Matt uno sguardo di scuse. Lui mi tranquillizzò con una stretta di mano.

Aprii la porta e uscimmo sul portico.

La mia attenzione venne, però, catturata dalla macchina di Stefan parcheggiata di fronte casa Salvatore: il bagagliaio era aperto e il mio amico stava scaricando una valigia.

“Stefan!” lo chiamai, mentre attraversavo la strada, seguita da Matt “Che fai? Sei andato da qualche parte in queste sei ore?” scherzai.

“Questa non è mia” ribatté “Sono andato all’aeroporto a prendere mio cugino”.

“Tuo cugino?” ripetei confusa.

“Sì” mi confermò “Non l’hai mai incontrato. Vive a Londra. È la prima volta che viene negli Stati Uniti”.

Avevo sentito parlare dei loro cugini inglesi, ma effettivamente non li avevo mai visti di persona.

“È questa la splendida fanciulla di cui mi hai parlato, Stefan?” s’intromise una voce alle mie spalle. Mi girai e incrociai lo sguardo di un bellissimo ragazzo, biondo, con un accento inglese da far tremare le ginocchia.

Mi prese delicatamente la mano e la baciò “Il mio nome è Klaus”.

 

Il mio spazio:

Klaus new entry. Ve l’aspettavate?

Scusate se posto solo ora. Volevo farlo prima, ma sono piombati ospiti a sorpresa a casa per cui non ho potuto accendere il pc.

È un capitolo di passaggio, entriamo un po’ più nella mente dei due protagonisti. Ci sono dei piccoli cambiamenti, minuscoli, però meglio di niente.

Abbiamo avuto delle risposte da Katherine; credete che sia davvero tutto qui?

E questo Klaus che farà? Matt potrebbe avere un avversario, ma anche Damon.

Grazie mille a tutti voi! Ci vediamo presto con le mie altre storie!

Un bacio!

Fran;)

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Capitolo 10
*** The english stranger ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo dieci: The english stranger.

 

Everything’s changing when I turn around all out of my control
Everywhere I go I’m a mobile
Hanging from the ceiling life’s a mobile spinning round
With mixed feelings crazy and wild
Sometimes I wanna scream out laud
Everything’s changing
Everywhere I go
All out of my control
Everything’s changing
Everywhere I go out of what I know

(Mobile- Avril Lavigne).

 

Odiavo quando nei film la sfigatella di turno rimaneva completamente attonita di fronte alla bellezza del ragazzo nuovo. Odiavo l’espressione da pesce lesso.

Eppure ero lì, con gli occhi da triglia, a fissare allucinata quell’inglese, splendido da togliere il fiato. Non saprei dire quanto rimasi lì con la mia mano nella sua.

“No, Klaus, prima ti parlavo di Elena, la mia ragazza. Questa è Bonnie, la mia migliore amica” spiegò Stefan.

Klaus lasciò (con mio sommo dispiacere) la mia mano e mi guardò allibito, poi si girò verso Stefan “Mi avevi parlato di una ragazza dalla bellezza devastante e ora ce l’ho davanti. Non vedo come qualcuno possa superarti, sweetheart” disse rivolgendosi di nuovo a me.

Non aveva ancora visto Elena, ma ero lusingata lo stesso.

Lo conoscevo da cinque minuti e la mia autostima era già salita. Potevo portarmelo a casa?

“Io sono Matt, il suo ragazzo”.

A malapena lo udii. In condizioni normali avrei fatto i salti di gioia a quell’affermazione, ma in quel momento mi entrò da un orecchio e uscì dall’altro.

Non credevo che Matt lo intendesse davvero, comunque. Probabilmente aveva notato quanto fossi rimasta affascinata dal cugino di Stefan e voleva chiarire subito le posizioni.

Incrociai gli occhi del mio migliore amico e solo allora mi decisi a scuotermi dal mio stato d’intontimento.

“Rimarrai qui molto, Klaus?” gli chiesi con un po’ troppa speranza nella voce.

“Un mesetto credo” mi rispose “Potrei cambiare i miei programmi, chissà” suppose con una nota di malizia che non sfuggì a nessuno di noi tre.

“Noi dobbiamo andare a questo punto” s’intromise Stefan “È meglio se sistemiamo un paio di cose prima che arrivi papà”.

“È stato un piacere conoscervi” sorrise gentilmente Klaus. Mi fece l’occhiolino, senza curarsi minimamente delle presenza di Matt e seguì Stefan, portandosi dietro la valigia.

Quando la porta di casa Salvatore si chiuse, tornai finalmente alla realtà. Realizzai di essermi comportata un po’ male nei confronti di Matt e mi girai per scusarmi e accertarmi che fosse tutto a posto, ma non ne ebbi l’occasione.

Lui mi salutò un po’ sbrigativo con un gesto della mano e saltò in macchina.

Mi ritrovai sola in mezzo alla via e mi sentii una stupida. Mi piaceva flirtare, mi era sempre piaciuto, sebbene non ne fossi molto capace, però non mi era mai capitato di baciare un ragazzo e un secondo dopo fare gli occhi dolci a un altro.

A pensarci meglio, mi ero pure resa ridicola, perché Klaus non ci stava assolutamente provando con me; magari era il suo modo tremendamente inglese di mostrarsi simpatico.

Mi vergognai un po’ del modo in cui mi ero posta. Non avevo fatto niente di che, però avrei potuto darmi un minimo di contegno e soprattutto non rimanere così imbambolata, esibendo palesemente il mio apprezzamento.

Me lo sarei appuntata per la volta successiva: no alla faccia da pesce lesso.

Mi rifugiai presto nella solitudine della mia camera, sfuggendo a mio padre che non provava nemmeno a nascondere il suo disappunto per avermi trovata sola in casa con un ragazzo.

Quel particolare incontro avvenuto poco prima, aveva appena aperto un’altra scottante questione. Non ci avevo prestato molta attenzione al momento, ma circondata dal silenzio e dalla tranquillità, iniziavo a rimuginarci sopra.

Matt mi aveva definito la sua ragazza.

Lo intendeva davvero o era stata solo una presa di posizione? E poi ero pronta per essere la ragazza di qualcuno?

Avevo praticamente appena scoperto che cosa si provasse a venire corteggiata e non volevo rinunciarci subito. Era forse un po’ egoista da parte mia, ma dopo tutto quel tempo credevo di meritarmelo.

Per anni Matt era stato la mia cotta non così tanto segreta e lui non mi aveva mai considerato. Non mi andava di cedere facilmente, come se non aspettassi altro.

Doveva sudarsela. Si era accorto di me troppo tardi per ottenermi senza neppure sforzarsi.

Inoltre avevo collezionato troppe delusioni per lasciarmi andare come se niente fosse. Non desideravo venire ferita di nuovo.

Per quanto fosse il mio sogno nel cassetto, non potevo buttarmi a capofitto in una relazione che non sapevo neanche se avrebbe funzionato o no.

Già mi vedevo, scaricata dopo qualche settimana, rannicchiata nel mio letto a piagnucolare.

Non avevo nemmeno intenzione di rovinare un’amicizia, perché ero stata troppo affrettata. Avevamo appena condiviso il primo bacio serio, non era necessario approfondire subito la nostra storia. Senza contare che avevo bisogno di tempo per abituarmi all’idea. Non mi ero mai impegnata con nessuno; non sapevo da che parte incominciare.

Avrei sicuramente commesso qualche errore e magari Matt non sarebbe stato disposto ad aspettarmi o a insegnarmi.

Ci dovevo proprio andare con i piedi di piombo.

Guardai fuori dalla finestra, verso casa Salvatore. Notai che le tende della camera di Damon erano state tirate, mostrando l’interno,

Stavo per chiedermi se fosse tornato, quando notai la figura di Klaus muoversi per sistemare le sue cose.

Così Giuseppe aveva definitivamente cacciato Damon dalla sua stessa casa? Klaus sarebbe rimasto un mese o poco più, però ai miei occhi appariva proprio come una sostituzione.

Scrollai le spalle. Poco male! Se avessi goduto di quella vista per le settimane successive, non mi sarei certo lamentata.

Lo trovavo uno scambio più che conveniente.

 

A scuola questo nuovo arrivo era stato accolto con molta gioia e non si parlava d’altro. Forse perché era straniero, o per via del suo accento, o del suo viso d’angelo, non ne sapevo il motivo. Sapevo solo che il pomeriggio successivo tutte e tre le mie amiche si erano piazzate davanti alla finestra di camera mia.

Osservavano Klaus girare tranquillamente in mutande, forse ignaro di essere spiato o forse compiaciuto proprio per quello.

“Ho sentito che è stato il ragazzo di una delle cugine di William d’Inghilterra” bisbigliò Caroline, quasi fosse convinta che Klaus ci potesse ascoltare.

“Spero per lui che tu non ti riferisca a una delle figlie della Ferguson” commentò Meredith, che tra tutte era la meno agitata da quella vista mozzafiato.

“Com’è possibile che girino già queste voci? È arrivato solo ieri sera” considerai.

“Siamo a Fell’s Church. Il potere dei gossip è inarrestabile” fu la risposta di Meredith.

“Era così curiosa di vederlo!” esclamò Elena “Stefan voleva presentarmelo, ma non c’è stata occasione. Non ho insistito, non volevo dargli un’impressione sbagliata”.

“In effetti è strano. Tu sei fidanzata” la beccò Caroline.

“Non sono cieca” precisò la bionda “È un piacere per gli occhi”.

Ridacchiai, allungandomi sul letto. Era talmente evidente che nella mia piccola città non accadesse mai nulla d’interessante. Quel povero ragazzo era arrivato da un giorno appena ed eravamo già lì a puntarlo come squali.

“E così ci ha provato con te ieri?” s’incuriosì Meredith, chiudendo con uno scatto le tende per evitare distrazioni. Improvvisamente lo sguardo delle tre si focalizzò su di me.

“Non ci ha provato” contestai “Stava solo facendo lo splendido”.

Dopo averci riflettuto durante la notte, avevo concluso che avevo esagerato la situazione. Ero una sognatrice e tendevo a ingigantire le cose. Una brutta abitudine, considerando che venivo puntualmente riporta sulla terra in maniera piuttosto brusca.

“Deve essersi spinto un po’ in là se Matt si è dichiarato il tuo ragazzo” ragionò Elena “Abbiamo parlato l’altro giorno: è chiaramente pazzo di te, però siete usciti solo una volta”.

“Lo so e sono completamente d’accordo”.

“Pensavo volessi metterti con lui” si stupì Meredith.

“È così, ma con calma” confermai.

“Chi la può biasimare?” s’intromise Caroline “Tesoro, hai appena scoperto il fantastico mondo del flirt. Non ti limitare proprio ora. Esplora. Quel pezzo di figo lì di fronte mi sembra un ottimo punto di partenza” mi consigliò.

“Io non voglio un appuntamento con Klaus” obiettai.

“Chi ha parlato di appuntamento?”.

Meredith sbuffò incredula “Care, forse Bonnie sta cercando una storia seria” le fece notare.

“Tutti i ragazzi con cui sono uscita, aspettavano solo una cosa ed era tutt’altro che seria”.

“Beh, forse se imparassi a tenere le gambe chiuse la prima volta che ti portano a cena” replicò Elena aggrottando la fronte in un’espressione molto eloquente.

“Mi stai dando della zoccoletta?” s’indignò l’altra mia amica.

“Certo che no!” negò Elena “Però…Care, tu ti sottovaluti un pochino”.

Era vero.

Caroline Forbes era una ragazza molto sveglia. Era impegnata in ogni associazione della scuola ed era anche attiva nelle iniziative organizzate dalla città. I suoi voti erano nella media, abbastanza buoni per l’ammissione in diversi college, senza contare una  possibile borsa di studio per le cheerleader.

Era una maniaca del controllo, doveva assolutamente tenere sotto controllo ogni aspetto di ciò che la riguardava, dalle feste alla sua immagine. Sapeva cavarsela, sapeva adattarsi alle situazioni più formali, trattare e relazionarsi con le persone.

Non era né una fallita né una disadattata.

Eppure si ostinava a puntare tutto sul suo aspetto fisico. Aveva sempre preparato con minuzia le sue campagne per l’elezione di reginetta come se la sua vita dipendesse da quello. Dio solo poteva immaginare che cosa non avrebbe combinato con l’avvicinarsi di “Miss Fell’s Church”, il concorso di bellezza della città.

Non aveva mai vinto e non si era mai abbattuta, ma mi domandavo quanto avrebbe resistito prima di esplodere.

Era convinta che gli altri la vedessero solo come un bell’involucro, niente di più. Non si dava abbastanza credito. A volte credevo che fosse molto più insicura di me.

Ma Caroline dissimulava molto meglio, fingeva di non curarsene. Non si lamentava quasi mai; avrei dovuto seguire di più il suo esempio.

Guardò Elena di sottecchi. I suoi occhi urlavano “Tu sei Elena Gilbert. Non tutti vengono adorati come una dea”. Rimase zitta, però.

Dopotutto non si poteva recriminare niente a Elena, non usava mai quel potere e nemmeno lo voleva. Gli altri la ammiravano senza che lei ricercasse il loro favore.

Era un talento naturale e inevitabile. Elena si poteva permettere tutto e l’avrebbero amata in ogni caso.

Caroline aveva sempre sofferto la sua presenza, si sentiva soffocata, quasi minacciata; tuttavia era la sua migliore amica, non le avrebbe mai rinfacciato né rimproverato niente.

“Adesso basta parlare di ragazzi” intuì Meredith “Troviamo un argomento più interessante”.

“Io ne ho uno! Avete visto l’ultima puntata di Geordie Shore*? Mi sono sentita così triste per Charlotte”.

Ecco che era ritornata la cara, vecchia Forbes. Sempre così meravigliosamente frivola.

Meredith, evidentemente troppo erudita per prendere solo in considerazione un programma come quello, le tirò dietro un cuscino.

Rimasi a guardarle affascinata. Il discorso di Meredith era tremendamente giusto. Perché perderci dietro ai ragazzi, quando potevamo avere anche altro dalla vita?

Non era facile trovare un’amicizia come la nostra. Eravamo in quattro e ci volevamo bene in egual modo, ci conoscevamo fin da bambine, ci capivamo con uno sguardo.

Capitava che ci fossero delle incomprensioni, capitava che litigassimo, ma niente ci aveva mai tenute separate.

Avevamo solo diciassette anni, quasi diciotto; era normale che cercassimo l’approvazione altrui. Forse avremmo dovuto imparare a farne a meno, però.

Se me lo avessero chiesto, non le avrei scambiate per Matt, o Klaus, per nessun altro.

Sapevo che mi sarebbero rimaste accanto per tutta la vita, perché io avrei fatto lo stesso. Avevo tre anime gemelle, completamente compatibili non solo con me, ma pure tra loro. Avevo un migliore amico fantastico, era mio fratello, era la mia metà.

Se avessi dato più credito a ciò che già stava intorno a me, forse avrei smesso di fare la ragazzina piagnona.

Forse era proprio quello il primo passo.

 

Quel martedì dopo Halloween mi ritrovai a studiare nel cortiletto davanti alla mia camerata del campus. Avevo sì deciso di lasciare l’università, ma non avevo niente di meglio da fare.

La mia ragazza era a scuola, i miei compagni seguivano le lezioni o scrivevano tesine, il mio migliore amico insegnava alla sua classe.

Ero solo e senza uno scopo e mi stavo annoiando.

Aveva già finito gli esercizi dell’unità che avevo studiato, probabilmente ero perfino più avanti di Sage, senza neanche frequentare i corsi.

Cercavo disperatamente qualcosa con cui riempire la mattinata. Qualcuno rispose al mio richiamo: scorsi sopraggiungere una Jaguar rossa che aveva tutta l’aria di essere      quella di mio fratello.

Spalancai gli occhi quando mi accorsi che il guidatore era Klaus, uno dei miei cugini inglesi. Ricordai improvvisamente che la sua visita era proprio programmata in quei giorni. Dopo la lite con mio padre, la rinuncia agli studi, avevo dimenticato completamente ogni impegno che riguardasse la famiglia.

Andavo abbastanza d’accordo con Klaus, sebbene lo guardassi sempre con un certo sospetto, perché non ero mai riuscito a capirlo del tutto.

Ci assomigliavamo sotto certi aspetti, entrambi belli e affascinanti, un po’ in competizione. Tra i due, ero io il più irriverente; Klaus aveva un modo di fare più subdolo.

Insomma, aveva una faccia di merda tale e quale alla mia, solo che lui la nascondeva meglio.

Posteggiò la macchina e mi raggiunse, con un sorrisino strafottente che ricordava troppo il mio. Mi alzai e gli strinsi la mano con fare fraterno; dopotutto, ero contento di rivederlo.

“Scusami se non mi sono presentato prima a casa; ma non mi avevano informato del tuo arrivo” gli spiegai, mentre mi risiedevo al tavolino.

Lui m’imitò “Sì, ho notato qualcosa di strano in casa. Quando ti ho nominato, tuo padre mi ha riposto con un silenzio glaciale”.

“Divergenze di pensiero” liquidai.

Klaus squadrò il libro aperto di fronte a me. Alzò le sopracciglia “Non hai l’aria di uno che ha lasciato l’università” commentò.

“Al momento non avevo di meglio da fare” mi affrettai a cambiare discorso “Hai già visitato la città?”.

“Un po’. Più che altro mi sono ripreso dal fuso orario” disse “Ho conosciuto la tua vicina di casa, Bonnie, giusto?”.

Io annuii.

“Sai, ci ho messo un po’ a fare il collegamento, ma alla fine ho capitolo. È stata lei a slogarti il polso, vero?”.

 

Avevo solo tredici anni, ma ero sveglio.

Abbastanza da riconoscere le regole fondamentali della sicurezza.

Non ero mai stato un ragazzino tranquillo. Adoravo mettermi nei guai, soprattutto se significava far arrabbiare mio padre.

Ma non ero nemmeno completamente incosciente; non mi lanciavo mai in qualche pazzia se non ero sicuro di uscirne tutto intero.

Una volta, qualche anno prima, per scommessa avevo fatto un salto da un tetto di un edificio della mia scuola a un altro; erano molto vicini, sapevo di non rischiari nulla, perciò mi ero buttato. Nemmeno una mezz’ora dopo, il preside mi aveva trascinato nel suo studio pronto a chiamare mio padre.

Un’altra volta avevo deciso di prendere una vecchia moto dal garage dei miei cugini e fare un giro per le campagne dell’Inghilterra. Una voltante della polizia mi aveva inseguito, chiamata da mio zio convinto che i ladri gliel’avessero rubata.

Ero scavezzacollo, non imprudente. Sebbene tutti perdessero tempo a rimproverarmi, io sapevo perfettamente cosa stavo facendo.

Perciò capivo benissimo che arrampicarsi sugli alberi, di sera, dopo un forte acquazzone non era proprio la migliore delle idee. Soprattutto se si indossa un vestitino leggero azzurro un po’ lunghetto e delle ballerine di vernice rossa, nuove di pacca, con la suola ancora liscia e levigata.

Bonnie non era una sportiva nata e non era neanche molto agile. Si era lasciata condurre in quell’impresa folle solo perché mio fratello l’aveva convinta.

In realtà non avrebbe mai ceduto se fossero stati loro due soli, ma dato che c’ero anche io, Bonnie non voleva sfigurare e aveva deciso di fare la bambina coraggiosa.

Eravamo appena tornati da un matrimonio di una delle sue tante cugine. Ci avevano invitati perché eravamo amici di famiglia.

I nostri genitori ci avevano lasciato tornare a casa prima perché eravamo stanchi. Ovviamente mio padre mi aveva affidato quelle due pesti, dato che io ero il più grande.

Ora li osservavo arrampicarsi sull’albero nel giardino dietro casa nostra. Stefan era più avanti rispetto a Bonnie, lei lo seguiva un po’ a stento, incespicando ogni tanto.

I rami erano ancora umidi e un po’ scivolosi, non aiutavano certo la salita. Per il momento, comunque, non si erano manifestati segni di particolare pericolo e li avevo lasciati fare.

Mi ero steso su una delle sdraio del giardino a giocare con il mio game boy. Volevo rimanere nei paraggi nel caso fosse successo qualcosa di grave.

Non che m’importasse molto di loro, ma non avevo alcuna intenzione di sorbirmi le ramanzine di mio padre.

Avevo anche provato a fermarli all’inizio; non mi avevano dato retta. Allora avevo deciso di non sprecare troppe energie per tenerli sotto controllo. Speravo proprio che qualcuno dei due si sbucciasse un ginocchio e si slogasse un polso, così avrebbero imparato la lezione. A quel punto, però, sarebbe stato solo colpa mia per non aver badato a loro.

Mi ero dunque trattenuto dal lanciare qualche maledizione e mi auguravo che ritoccassero terra senza un graffio, più che altro per la mia di salvezza.

Mi allentai il nodo alla cravatta, dato che mi stava praticamente strozzando. Odiavo i matrimoni o gli eventi formali di qualunque genere.

Non solo dovevo starmene tutto impettito ad assistere a cerimonie noiosissime, dovevo pure sorridere e comportarmi gentilmente con persone che avrei volentieri inseguito con il lancia-fiamme.

Tutti che venivano da me, mi toccavano le guance e mi dicevano che ero cresciuto un sacco dall’ultima volta che mi avevano visto.

Lo consideravo un commento davvero assurdo: avevo solo tredici anni, ero un ragazzino. Certo che ero cresciuto, che altro avrei dovuto fare?!

Mio padre naturalmente ci esibiva come i suoi gioielli da collezione, quasi fossimo pezzi da esposizione, con una menzione speciale sempre per Stefan.

Il mio povero fratellino trovava molto divertente tutto ciò; era contento che papà fosse così orgoglioso di lui.

Lo seguiva con un sorriso innocente e fiducioso, tirando in fuori il petto come per mostrarsi più grande. Ogni tanto mi guardava, speranzoso che anche io mi unissi alla parata. Rimaneva sempre deluso, perché appena potevo me la squagliavo il più lontano possibile.

Udii il telefono di casa squillare. Fui veramente tentato di ignorarlo e continuare il mio livello. Spensi il game boy con un gesto seccato ed entrai.

Era mio padre; voleva sapere se andasse tutto bene e m’informava che stava per tornare. Risposi a monosillabi e riattaccai.

Mi affrettai a uscire nuovamente in giardino, iniziando a chiamare mio fratello e la sua amichetta del cuore per farli scendere.

Non mi ascoltarono.

“Forza, venite giù, sono serio” ordinai.

“Sono quasi arrivato in cima, Damon!” urlò mio fratello.

“Non m’importa! Sta tornando papà, se ti becca lassù…” gli intimai.

“Non ascoltarlo, Stefan” s’immischiò Bonnie “È geloso perché tu sei così in alto, mentre lui è ancora a terra”.

Sbuffai. Mi sentivo davvero un cretino a gridare con il naso per aria “Sto morendo dall’invidia” la canzonai, poi mi rivolsi a mio fratello “Ti do dieci secondi per scendere o salgo io e non ti piacerà” lo minacciai. Sapeva che potevo fargli molto male.

Lo osservai guardare in basso, nella mia direzione e convincersi definitivamente. Era un tale fifone; piuttosto che rischiare di prenderle da me, si sarebbe lanciato giù.

Quando constatai che entrambi avevano cominciato la loro discesa, mi voltai e feci per andarmene, ma una frase mi gelò il sangue nelle vene.

“Ehi Stefan, scommetti che arrivo prima giù io?”.

Ma che diamine era preso a quella ragazzina? Poco prima tremava all’idea di arrampicarsi e ora non vedeva l’ora di rompersi l’osso del collo?

Riportai lo sguardo su quelle due piaghe. Erano più o meno allo stesso livello, praticamente quasi alla fine. Avevano appena scampato il rischio di ferirsi seriamente, perché dovevano tentare ancora una volta la fortuna con una stupida gara?

“Non montarti la testa, Bon Bon” la stroncai “Ti chiamo uccellino ma non hai davvero le ali. Vacci piano”.

L’effetto fu l’opposto di quello sperato. Offesa e indignata, mise il broncio e iniziò a scivolare il più velocemente possibile da un ramo all’altro per raggiungere terra prima di Stefan e dare a me una lezione.

Il mio brutto presentimento si concretizzò non appena vidi il suo piede fermarsi in una posizione instabile, mentre lei si calava con tutto il peso.

Nell’istante successivo perse l’equilibrio. Stefan urlò in preda al panico, ma era ancora sull’albero, un po’ più in alto e non poté fare nulla.

Io corsi, slanciandomi in avanti, pregando di afferrarla prima che si spaccasse la schiena al suolo. Non fu come nei film, non cadde tra le mie braccia con grazia.

Mi volò addosso con tutto il corpo ed entrambi finimmo a terra. O meglio, io ruzzolai sul terreno, lei atterrò sul mio petto, togliendomi il respiro per la botta.

Avvertii un male acuto al mio polso sinistro, quello aggrovigliato attorno ai suoi fianchi nel vano tentativo di tenerla.

Stefan ci raggiunse con un balzo e l’aiutò a rialzarsi. Io rimasi a terra a massaggiarmi il polso dolorante.

“Ti sei fatto male?” mi chiese.

“Secondo te?” berciai, lanciando un’occhiata furiosa a Bonnie.

Mio fratello mi diede una mano a rimettermi in piedi, giusto in tempo prima che una voce tuonasse alle mie spalle “Che cosa sta succedendo qui?”.

Mio padre marciò verso di noi con passo autorevole “Perché avete tutti i vestiti sporchi?” si riferiva chiaramente al terriccio e all’erba che si erano attaccati ai nostri indumenti “E tu cosa hai fatto al braccio?”.

Stavo già elaborando una scusa convincente, quando qualcun altro ci pensò al mio posto “Ci scusi, signor Salvatore” s’intromise la voce melodiosa di Bonnie “Stavamo solo giocando e sono caduta. Damon mi ha aiutato e si è fatto male”.

Restai leggermente allibito. Quella ragazzina aveva appena mentito, tralasciando la sua bravata, per farmi sembrare l’eroe della situazione?

Mio padre parve bersela e comunque preferì non indagare.

“Vieni dentro che diamo un’occhiata a quel polso” mi disse “Credo che sia meglio che tu vada a casa Bonnie, tuo padre ti sta aspettando” le consigliò. Fu il primo a rientrare.

Lo seguii a testa bassa, perché sapevo che non l’avrei passata liscia comunque; ma venni fermato da un leggero tocco sull’altro polso.

Un secondo dopo, Bonnie posò un velocissimo bacio sulla mia guancia, mormorando un “Grazie” a voce bassissima. Lo potei udire giusto io che ero così vicino.

Poi spiccò una corsa verso casa sua, in un turbinio di capelli rossi.

 

Mio padre aveva esaminato velocemente il polso, decretando una leggera storta. Il giorno dopo mi ero svegliato con un braccio grosso e gonfio.

Al pronto soccorso mi avevano diagnosticato una brutta slogatura e mi avevano steccato il polso talmente stretto da farmi male.

Un’ora dopo ero partito alla volta della Gran Bretagna, per raggiungere i miei zii nella loro tenuta estiva nelle campagne inglesi. I miei cugini mi avevano preso in giro per una settimana intera.

“Pensa che l’avevo scambiata per la ragazza di Stefan” disse Klaus, destandomi dal quel ricordo.

Lo fissai scettico e liberai una risata un po’ cinica “È difficile crederlo. Quando incontrerai Elena te ne accorgerai. La sua bellezza è inconfondibile”.

Klaus piegò gli angoli della bocca all’insù e scosse la testa.

“Perché ridi? Mi trovi divertente?”.

“No, Damon” negò “Però ho l’impressione che tu scelga sempre la via più scontata”.

Non mi piacque il suono di quell’affermazione, non mi piacque per niente.

 

Era un martedì particolarmente assolato per l’inizio di novembre. Avevo deciso di godermelo il più possibile prima dell’arrivo del gelido inverno.

Stavo leggendo il saggio che avevo appena finito di scrivere per la professoressa di inglese, stesa sul mio dondolo, correggendo qua e là qualche errore o frase.

Non mi accorsi assolutamente della figura che, elegante e silenziosa, si era avvicinata fino a fermarsi davanti a me.

“Non c’è niente di meglio che osservare una ragazza immersa nei suoi pensieri” commentò una voce, marcata e riconoscibile.

Alzai gli occhi dal quaderno e il mio volto s’illuminò di un sorriso forse un po’ troppo contento “Ciao, Klaus” lo salutai “Ti hanno lasciato solo?”.

“In realtà sono appena tornato da Dalcrest; sono andato a trovare Damon” mi raccontò “Ora sto aspettando che Stefan porti la sua ragazza a casa per cena. Me la vuole presentare”.

“Elena è un tesoro, stai tranquillo. Prega di non incontrare la sua gemella, però, quella è davvero cattiva”.

Klaus aggrottò la fronte “Ha una gemella?”.

“Sì” confermai “Sta con Damon, non te l’ha detto?”.

Lui scosse la testa, poi sbuffò incredulo “I miei cugini stanno con due gemelle!” esclamò “Quando lo racconterò a mio fratello, non finirà più di prenderli in giro”.

Io strinsi le spalle “Sono delle ragazze molto belle” replicai “Suppongo che li riterrai fortunati, quando le conoscerai”.

Si sedette accanto a me “Ho visto una foto di Elena in camera di Stefan. Hai ragione, è molto bella. Capelli d’oro, occhi color cielo” la descrisse con espressione annoiata “È la cosa più banale che abbia mai sentito”.

Mi voltai parecchio stupita. Klaus non sembrava né affascinato né colpito dall’immagine della mia migliore amica. Non l’aveva ancora vista di persona, ma era già un fatto di per sé straordinario.

Probabilmente era il primo che incontravo a essere immune al suo splendore.

“Ti confesserò che nemmeno mi piacciono i capelli biondi” rivelò, dopo aver preso un mio boccolo rosso tra le dita.

Fu un gesto quasi casuale, ma abbinato al suo sguardo intenso, mi fece rabbrividire.

Non sapevo dire per certo se avesse una sorta d’interesse per me oppure no. Poteva essere semplicemente il suo modo di comportarsi, eppure ero parecchio lusingata dalle attenzioni che mi aveva riservato in quei pochi giorni.

E in quel momento sembrava mi stesse dicendo che aveva un debole per le rosse.

Potevo morire lì!

“Mi stavo chiedendo se fossi impegnata stasera” s’informò.

“Stasera hai la cena con Elena e Stefan” gli ricordai.

“Domani sera?” propose “Potresti mostrarmi cosa combinate qui in America dopo le nove di sera”.

Ero tentata di rispondere affermativamente, poi l’immagine di Matt mi balzò davanti agli occhi. Non credevo che sarebbe stato molto contento se fossi uscita con Klaus.

D’altra parte avevo deciso di prendermela con calma con Matt per evitare di rovinare la nostra amicizia per nulla. Non avevamo mai parlato di stare insieme seriamente, non ci eravamo definiti una coppia, quindi non mi dovevo sentire già legata a lui.

In fondo era solo un’uscita innocente; non avrei fatto niente di male.

Klaus, intanto, attendeva una mia risposta.

 

Il mio spazio:

Ragazze, scusatemi enormemente per il ritardo. Purtroppo è un periodo un po’ impegnato, perché ho cominciato a scrivere la tesi e non go molto tempo per dedicarmi alle storie.

Comunque, ho deciso che questa storia ha la mia priorità sulle altre, perciò non vi farò più aspettare così tanto.

Quindi, vi presento Klaus! È un tipo che ha bene in chiaro quello che vuole e riesce ad avere subito una panoramica di quello che accade a Fell’s Church.

Chissà quali sono i suoi piani. Credete che sia veramente attratto da Bonnie (anche se l’ha conosciuta da pochi giorni) o sta facendo solo l’amico? E soprattutto, credete che le sue intenzioni siano oneste?

Una piccola annotazione: quando vedete scritto sweetheart significa che sta semplicemente calcando il suo accento inglese (come fa nella serie tv). Questi appellativo sono nel suo linguaggio comune e proprio non ce la facevo a tradurli in italiano. “Dolcezza o tesoro”, non suonano allo stesso modo.

Non c’è stato molto Bamon in questo capitolo.

È da un po’ che questi due o non si parlano o litigano, quindi ho inserito il flashback per sopperire a questa mancanza. Nella saga originale, Damon ha salvato più e più volte Bonnie; anche in questa storia accade lo stesso. Sebbene non gli piaccia, in un modo o nell’altro è sempre lui ad aiutarla.

Bonnie, invece, è rimasta subito affascinata da Klaus. Sempre nei libri, lei viene descritta come una ragazza romantica, particolarmente suscettibile alla bellezza degli uomini. Anche in questo caso, ho mantenuto questo particolare. Non prendetela per una frivola, semplicemente è solo un diciassette che arrossisce quando il bello di turno le dedica attenzioni e la fa sentire speciale.

Ps: nel prossimo capitolo avremo molti momenti tra Damon e Bonnie!

Vi ringrazio tantissimo per il continuo supporto! Spero che vi sia piaciuto questo pezzo! 

Banner di bumbuni

Il titolo è una storpiatura del film Il paziente inglese (The english patient).

Buona serata!

Fran;)

 

*Geordie Shore, è la versione inglese di Jersey Shore. Sono reality molto famosi negli Stati Uniti.

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Capitolo 11
*** Blame it on the alcohol ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo undici: Blame it on the alcohol.

 

I kissed a drunk girl
I kissed a drunk girl, yes I did
Kissed a drunk girl on the lips
I let my guard down
How could I have been so dumb?
Her eyes were open
I know I am not the one
I kissed a drunk girl
Why do I do these things I do to myself?
I kissed a drunk girl
I'm sure I could've been anybody else”

(I kissed a drunk girl- Something Corporate).

 

Evidentemente c’era qualcosa di sbagliato in me. Non trovavo altra soluzione plausibile.

Caroline mi avrebbe preso in giro fino alla fine dei miei giorni.

Avevo rifiutato l’invito di Klaus.

Metà della città mi avrebbe probabilmente invidiato e dato della pazza, ma dentro di me ero certa, dopo tutto, di aver agito nel modo migliore.

Non sapevo se Klaus fosse interessato a me per davvero; di sicuro io ne ero rimasta colpita. Uscirci insieme non sarebbe stato corretto nei confronti di Matt.

Sebbene non avessimo ancora parlato della nostra relazione, non desideravo né compromettere tutto per una fantasia da bambina, né ferirlo.

Non ero il tipo che giocava con i sentimenti degli altri. Se Matt avesse portato a cena una ragazza, adducendo come scusa il fatto che la nostra era solo una frequentazione, mi sarei arrabbiata da morire.

La tentazione c’era. Klaus non solo possedeva un fascino fuori dal comune e una sicurezza non indifferente, emanava anche un’aria misteriosa, mandava i brividi. Non era come Matt, non era un bravo ragazzo e la cosa m’intrigava molto, mi lusingava.

Ma finiva là, non andava oltre. Era semplicemente un fantastico incentivo per la mia autostima, alimentava i miei sogni; nient’altro. Rimaneva, appunto, in una dimensione d’immaginazione.

La maggior parte delle mie compagne se ne sarebbero fregate, io invece mi ritenevo molto onesta e non mi sarei mai lasciata travolgere da una semplice curiosità di conoscere il brivido del pericolo. Considerando soprattutto che avevo conosciuto Klaus solo qualche giorno prima.

Era perfino assurdo che stessi anche a pensarci.

Mi sarei crogiolata un po’ per aver catturato l’interesse di quel bell’inglese, lo avrei ricordato e raccontato con piacere ai miei nipoti, me ne sarei vantata un po’.

Quello in fondo mi era permesso.

Dovevo assolutamente chiarire la questione con Matt e capire a che punto ci trovavamo. Mi risultava ancora un po’ difficile figurarmi in una coppia. Ancor più mi sorprendeva che qualcuno mi volesse come ragazza.

In realtà in quei tre mesi passati, ero rimasta piuttosto stupita dalle attenzione che alcuni  mi avevano rivolto. Non ci ero assolutamente abituata e mi sembrava uno scherzo.

Non ero cambiata così tanto dall’anno trascorso e il mio atteggiamento era pressoché lo stesso. Non comprendevo proprio che cosa avesse convinto i miei compagni a guardarmi in modo diverso, o più che altro ad accorgersi della mia presenza.

 

Passò un’altra settimana e io non trovai il coraggio di parlare chiaro con Matt. L’occasione si presentò quando Caroline mi annunciò che Tyler stava organizzando una festa a casa sua, tra liceali e universitari.

All’inizio fui tentata di rifiutare, poi Matt mi chiese d’incontrarci là per passare una serata insieme. Mi feci forza e accettai. Non potevo rimandare in eterno. Non esisteva un momento giusto, ma preferivo sistemare le cose a una festa, in tutta tranquillità, piuttosto che a scuola tra una lezione e l’altra.

Con il senno di poi, avrei fatto molto meglio a restarmene a casa.

 

Ormai sembrava che Fell’s Church non potesse fare a meno delle feste.

Questa volta mi recai molto più volentieri a casa di Tyler. Era una serata molto più tranquilla e comoda. Non servivano abiti particolarmente eleganti, potevo presentarmi come più preferivo.

Caroline lanciò uno sguardo un po’ schifato, notando il mio abbigliamento dismesso, ma non proferì parola. Dopotutto, avevo solo bisogno di vedere Matt e parargli e non avevo nessuna intenzione di agghindarmi troppo.

Mi ero preparata un bel discorso, studiato e calibrato. Quando dovevo dire qualcosa di importante, m’impappinavo, diventavo nervosa. Avere un discorso già pronto mi tranquillizzava molto. Era come un’interrogazione a scuola: non poteva andarmi male se avevo letto il libro fino allo sfinimento.

Avevo ripetuto mille volte quel discorso, sapevo anche le espressioni da esibire nel momento più opportuno.

Santo Cielo, iniziavo ad assomigliare in maniera inquietante a Caroline, manica del controllo! Mi spaventavo da sola!

Non avevo altra scelta che pianificare ogni parola. Se Matt avesse frainteso il punto, mi sarei mangiata le mani per aver rovinato la mia unica possibilità con lui.

Il problema era uno solo: avevo paura; per una marea di motivi che avevo già analizzato fino alla nausea, come l’inesperienza e l’insicurezza.

Soprattutto volevo capire se Matt fosse davvero intenzionato a stabilire una relazione seria o se avesse solo cercato di imporsi nei confronti di Klaus.

La seconda ipotesi non era per nulla confortante.

Villa Smallwood era piena zeppa di gente, la maggior parte già molto alticcia. Caroline si lanciò subito tra la folla.

Mi mancò molto la presenza di Meredith ed Elena. Normalmente aspettavano almeno un po’ prima di attaccarsi a una bottiglia e di ballare sfrenate in mezzo a tutti.

In realtà, anche Caroline non era solita perdere il contegno così in fretta, ma quella sera sembrava voler spaccare il mondo.

Cominciai a girare per le stanze, in cerca di Matt. Non vedevo l’ora di togliermi quel peso.

Fu lui a trovare me. Mi colse di sorpresa, afferrando il mio polso, e mi attirò a sé. Un attimo dopo ricevetti un bacio da mozzare il fiato, tanto da far vacillare i miei piani.

Matt mi aveva sempre trattato con estrema delicatezza; baci cos’ irruenti non erano proprio nel suo repertorio. Mi colpì piacevolmente.

Quando ci staccammo, rimasi in silenzio per quasi un minuto, allibita da quel gesto.

“Scusami; ho esagerato, non volevo spaventarmi” si allarmò.

“No, no, no, no” lo tranquillizzai “Sono solo sorpresa. A cosa devo quest’accoglienza?”.

“Avevo voglia di vederti” mi disse “Vieni! Andiamo a prendere qualcosa da bere” mi propose, spingendomi verso un’altra sala.

“Matt” lo chiamai per attirare la sua attenzione “Ho bisogno di parlarti di una cosa”.

Lo guidai fino al giardino, dove sapevo che saremmo stati più tranquilli e nessuno avrebbe origliato. Ci sedemmo su una delle panchine vicino all’ingresso della grande villa coloniale.

“È successo qualcosa di grave?” si preoccupò.

“No, Matt, è solo una cosa che hai detto l’altro giorno” sospirai “Quando Stefan ci ha presentato Klaus, tu … ti sei presentato come…”.

“Come il tuo ragazzo” completò lui.

Mi mordicchiai il labbro annuendo. Percepivo le mie guance colorarsi di rosso.

“Non è che mi stia lamentando” chiarii “Ma ammetto che mi ha presa alla sprovvista. Insomma, non abbiamo mai avuto quel genere di discussione. Ci siamo appena dati due baci!” esclamai.

“Tre” mi corresse Matt alludendo a quello di poco prima.

“Non so come si fa!” sbottai “È la mia prima relazione ed è troppo presto per me. Vorrei capire se questa cosa può funzionare, vorrei esserne davvero sicura. E se non andassimo d’accordo; e se rovinassimo la nostra amicizia? Diventerebbe un inferno! In più non voglio sembrare una ragazzina che smania per averti e che alla prima occasione dice sì. Io non sono una facile, Matt Honeycutt. Dovresti vergognarti per averlo solo pensato. E perché diamine prendi già tutte le decisioni?”. Il discorso si era cancellato dal mio cervello. Faticavo parecchio a tenere le mie idee ordinate. Ero esplosa come una bomba; i miei pensieri fluivano senza filtri attraverso la mia bocca. Mi sarei tagliata la lingua da sola.

Matt mi prese le mani e me le massaggiò nel tentativo di calmarmi “Bonnie, non ti agitare, okay? Va tutto bene” sussurrò “Mi dispiace di averti messo così in ansia, non era mia intenzione” si scusò “In realtà la penso esattamente come te”.

Sgranai gli occhi “M-ma, allora perché…?” balbettai.

“Mi sono ingelosito” raccontò “Quel tipo, il cugino di Stefan, ti ha fatto un sacco di complimenti, mi sembrava un po’ troppo interessato. Non mi piaceva come ti parlava. Volevo che sapesse che al momento non sei totalmente disponibile”.

Quindi il suo era stata solo un tentativo di chiarire la sua posizione.

“Oh” mormorai un tantino delusa “Hai ragione, mi sto comportando da stupida”.

“Questo non toglie che io sarei pronto a iniziare una relazione con te” continuò Matt “Condivido tutti i tuoi dubbi, ma sono anche sicuro della mia scelta. Io voglio te, Bonnie McCullough, e non ho problema ad aspettarti finché non ti convincerai pure tu”.

Gli sorrisi e sentii per la prima volta che tutto sarebbe andato bene. Mi ero preoccupata per niente. Temevo che le mie perplessità avrebbero mandato tutto all’aria, che Matt non sarebbe stato così comprensivo. Avevo paura che dopo il mio discorso mi avrebbe visto di nuovo come una bambina e non come la donna che stavo disperatamente cercando di diventare e invece Matt si era dimostrato perfetto come sempre.

“Adesso vado a prendere qualcosa da bere” disse “Aspettami qui”.

Non mi dispiacque rimanere sola per qualche minuto. Tutto procedeva come avevo desiderato e mi godetti il momento, immersa nella quiete di quel giardino.

La musica arrivava soffusa dalla casa; gli altri invitati rimanevano tutti dentro per via del freddo di metà novembre. Io mi strinsi nella giacca, ma trovai stranamente piacevole l’aria che mi sferzava le guance.

Mi sarei sentita soffocare tra le decine di persone che ballava freneticamente per la villa; soprattutto preferivo tenermi lontana da Caroline e dalla sua smania di festeggiare. Mi allettava molto di più l’idea di starmene fuori a bere e a chiacchierare con Matt, piuttosto che immergermi nel fracasso.

“È la scena più romantica cui abbia mai assistito” commentò una voce alle mie spalle “Che ci veda Matt in te, questo mi è ancora oscuro”.

A volte pensavo che Katherine Gilbert non avesse una vita propria, dato che s’impegnava così arduamente a tormentare quella degli altri.

Dopo il brutto scherzo che mi aveva tirato la sera di Halloween, avevo provato in tutti i modi di evitarla. Ci ero riuscita fino a quella sera.

“In realtà, mi piacerebbe sapere che cosa ci vedono tutti in te” proseguì con un tono più acido del solito.

“Katherine, per piacere, non ora” la pregai “Avevi detto che mi avresti lasciato in pace se fossi andata nel bosco” le ricordai.

“Avevo detto che ti avrei lasciata in pace se avessi passato tutta la notte nel bosco. Se non sbaglio, il mio ragazzo ti ha tolto dai guai prima che congelassi” mi corresse.

“Stupida io che ti ho dato retta” replicai, ammettendo le mie colpe.

Katherine sbuffò “Vedi, è per questo che ti considero ancora una bambina. Prendi una decisione e non sei in grado di portarla fino in fondo. Mi sembra di essere tornata alle elementari, quando cercavi di copiare i compiti di Meredith e poi cancellavi tutto per paura che ti beccassero”.

“Cosa ne vuoi sapere tu? Te ne sei andata cinque anni fa e non ha la minima idea di come sono cambiata io! Francamente non capisco nemmeno come mai sei tornata. Tua sorella non ti sopporta e quelli che chiami amici ti stanno accanto solo perché hanno paura. Forse dovresti smettere di giudicare la vita degli altri e farti un esame di coscienza”. Avrei volentieri aggiunto che il suo ragazzo stava con lei perché era la copia esatta del suo vero amore, ma mi pareva una cattiveria esagerata.

Katherine indurì lo sguardo e non mi riservò la stessa cortesia “Almeno nessuno dei miei genitori mi ha mai abbandonata per seguire sogni di grandezza”.

Quella conversazione per me era più che conclusa. Mi rifiutavo di ascoltarla riaprire una ferita mai guarita. Giocare la carta di mia madre era davvero una mossa infima, degna delle sue spire da serpente.

Mi alzai e la mollai lì. Spalancai le porte della casa e ringraziai di essere avvolta dal chiasso che fino a un momento prima stavo fuggendo.

Attraversai l’ingresso, decisa a cercare Matt e a dimenticarmi quello spiacevole incontro, quando la voce di Katherine mi gelò sul posto.

“L’ho vista, sai!” urlò per sovrastare il fracasso “A Parigi, ho visto tua madre”.

Non so perché mi voltai. Sarei dovuta semplicemente correre via e tapparmi le orecchie, ma i piedi si erano incollati al pavimento. Una parte di me moriva dalla voglia di sapere che cosa ne fosse stato della donna che era sparita dalla mia vita tredici anni prima.

Mi girai, con gli occhi che già si riempivano di lacrime, i miei lineamenti piegati in un’espressione incredula e spaventata.

Katherine non provò un minimo di compassione; le sue parole uscirono velenose e fredde, tremendamente calcolate “Ora organizza sfilate per le grandi firme francesi, è un pezzo grosso” mi rivelò “L’ho incrociata una volta ad un evento e mi sembrava famigliare. Il mio agente poi mi ha detto chi era. Lei mi ha vista da lontana; un secondo dopo era scappata via; è quello che sa fare meglio, no?” mi chiese retoricamente.

Alcune persone si erano zittite e ci fissavano incuriosite.

“Non voleva farsi riconoscere, non voleva rischiare di farsi scoprire, non voleva essere trovata. T’immagini che disastro se suo marito si fosse presentato con figlie a carico?”.

Il mio cuore si era certamente fermato, non poteva sostenere un colpo del genere.

“Brucia, vero? Essere così d’impaccio alla donna che dovrebbe proteggerti più della sua stessa vita. Ti considerava talmente un ostacolo che ha messo un oceano in mezzo a voi”.

Non sostenni più la vista di quella carogna e mi guardai attorno in cerca di una faccia amica. Avevo un disperato bisogno di qualcuno che mi trasmettesse un po’ d’amore almeno con un’occhiata. Ma ero circondata da estranei, volti visti forse in giro, che bisbigliavano attoniti. Meredith, Elena e Stefan non erano venuti alla festa. Caroline sembrava scomparsa dal nulla e Matt non era ancora tornato.

Ero sola.

E non mi sentii così persa come quella volta.

 

Finalmente una festa cui mi faceva piacere partecipare. L’aveva organizzata Tyler a casa sua e aveva invitato praticamente tutta l’università. Ci sarebbeo stati sicuramente anche i ragazzini del liceo, ma almeno non mi sarei sentito fuori posto.

Ero contento di poter passare una serata con i miei amici e con la mia ragazza ed ero ancor più elettrizzato per l’after party.

I genitori di Katherine erano via per il weekend e la casa era nostra.

Quando oltrepassai la porta di villa Smallwood, avvertii subito qualcosa di sbagliato. L’atmosfera appariva tipica di una festa: gente che ballava, bicchieri rossi* pieni di alcol, un gran chiacchiericcio a riempire l’aria. Eppure potevo fiutare una certa tensione.

“L’ho vista, sai! A Parigi, ho visto tua madre”. Questa era la voce di Katherine; l’avrei riconosciuta tra mille.

Mi feci largo tra la folla che si era accalcata lungo l’ingresso, fino a che non raggiunsi il centro delle scena.

“Ora organizza sfilate per le grandi firme francesi, è un pezzo grosso. L’ho incrociata una volta ad un evento e mi sembrava famigliare. Il mio agente poi mi ha detto chi era. Lei mi ha vista da lontano; un secondo dopo era scappata via; è quello che sa fare meglio, no?”.

Katherine aveva visto la mamma di Bonnie? Perché cazzo non me l’aveva detto?

Non ero mai stato un mostro di bontà, men che meno di sensibilità, ma in quel momento qualcosa si mosse in me, mentre osservavo quella piccola rossa spalancare sempre più gli occhi ricolmi di lacrime. Non avrei mai più rivisto uno sguardo tanto triste.

“Non voleva farsi riconoscere, non voleva rischiare di farsi scoprire, non voleva essere trovata. T’immagini che disastro se suo marito si fosse presentato con figlie a carico?”.

Per quasi tutto il discorso ascoltai incredulo quelle parole. Amavo definirmi un uomo d’azione e parecchio impulsivo, eppure il tono tagliente della mia ragazza aveva bloccato ogni movimento del mio corpo e della mia mente.

Faticavo a credere che una tale meschinità potesse provenire da quel volto d’angelo. Katherine continuò a infierire, affondando una stoccata dopo l’altra sempre più in profondità, animata da una vena feroce che quasi m’impressionò.

“Brucia, vero? Essere così d’impaccio alla donna che dovrebbe proteggerti più della sua stessa vita. Ti considerava talmente un ostacolo che ha messo un oceano in mezzo a voi”.

Bonnie era l’immagine della mortificazione. Mi figurai un cucciolo a terra, preso a sassate per divertimento e non lo trovai per niente divertente.

Nemmeno mi accorsi di aver compiuto qualche passo in avanti. Registrai solo l’espressione atterrita di Katherine mentre il mio biasimo si mostrava in tutta la sua potenza.

“Finiscila adesso. Hai già dato abbastanza spettacolo”. Non urlai né alzai la voce di una nota; gli altri attorno non mi udirono neanche. Era la mia assoluta calma a spaventarla, troppo imperturbabile e calibrata per rappresentare un buon segno.

Le indicai con un cenno del capo la porta, invitandola a uscire. Lei ubbidì subito.

Mi voltai, ma non trovai più Bonnie. Sospirai, perfettamente cosciente che il danno ormai era irreparabile.

Seguii Katherine in giardino e questa volta la mia frustrazione scoppiò senza che riuscissi a trattenerla “Che cazzo ti è salato in mente?”.

Cercò di rabbonirmi con uno dei suoi sorrisi da finta innocente “Mi stavo solo divertendo”.

Divertendo?” ripetei incredulo “L’hai appena fatta a pezzi!”.

Non pensava di venire sgridata in quel modo; lo capii dal sopracciglio che si alzò incredulo e infastidito. Recuperò in fretta la sua sicurezza “Non mi farai la morale proprio tu?!”.

“Sei andata troppo oltre questa volta” replicai “Così, davanti a tutti…”.

“Damon, tu non hai nemmeno il diritto di parlare! Non tu che sei disposto a romperle il cuore in due per vendicarti di tuo fratello”.

Il ragionamento era piuttosto lineare e corretto, ma non vi badai. Persistetti con la mia idea; ero troppo furioso per come aveva trattato quell’argomento così delicato e non avevo riguardo per nient’altro.

“Tu non hai lontanamente idea di quello che hai fatto! Non sai che cosa significa crescere senza un genitore o ancora peggio essere abbandonato. Lascia che te lo dica: fa dannatamente male!” esplosi.

“Al contrario di quello che pensi, so perfettamente cosa si prova a essere messi da parte” ribatté stringendo i pugni.

“I tuoi non ti farebbero mai una cosa del genere, perché ti vogliono un fottuto bene; ma sei troppo viziata e invidiosa di tua sorella per accorgertene! Ti lamenti come una bambina capricciosa”.

“Fantastico! Sei passato da difendere quella mocciosa a difendere la mia gemellina”.

“Non sviare il discorso” l’avvertii minaccioso.

“E tu non mi dire cosa fare. Non ho bisogno del tuo permesso per umiliare Bonnie McCullough. La disprezzi quanto me, quindi non ti ergere a suo cavalier servente perché non sei credibile” si attorcigliò una ciocca tra le dita “E poi ti ho appena dato l’occasione d’oro per far breccia nel suo cuore. Perché non vai a consolarla? Scommetto che si scioglierebbe tra le tue braccia” ipotizzò ghignando furba “Oppure possiamo lasciare questa festa per perdenti e andare a casa mia”.

Scossi la testa d’istinto “Non mi va di averti intorno stasera” la stroncai. Le diedi le spalle e la piantai in asso senza aggiungere altro. Non avrei tollerato la sua vista ancora a lungo.

Rientrai in casa. Katherine provò a seguirmi, ma non me ne curai. In altre circostanze mi sarei mostrato cinico e indifferente, mi sarei perfino congratulato con la mia ragazza per la sua mente diabolica.

Quel caso, però, mi toccava profondamente. Mia madre non mi aveva abbandonato, era morta, un po’ diverso dalla situazione di Bonnie. Ciò non significava che non capissi il vuoto lasciato da quella mancanza. Dopotutto, mio padre mi odiava e se non fosse stato per Stefan, forse se ne sarebbe andato anni fa.

Non era assolutamente da me provare una tale empatia per quella rossa fastidiosa, ma quella sera non lo potei evitare. Non c’entrava la scommessa, non me ne stavo approfittando, volevo solo che ritornasse a essere la solita mocciosa irritante, così avrei potuto tormentarla come meglio sapevo fare e soprattutto quello sguardo da cagnolino ferito non avrebbe più tormentato me.

La cercai tra le sale della grande villa, senza fortuna. Doveva essersi rifugiata da qualche parte a piangere, magari in una delle stanza non aperte alla festa.

Adocchiai Sage venirmi incontro. Non avevo molta voglia di perdermi in chiacchiere; tentai di evitarlo, ma mi agguantò per un braccio. Poco lontano da noi, Matt Honeycutt girava con due bicchieri, scandagliando con attenzione la sala. Era chiaro chi fosse l’oggetto delle sue ricerche. Considerai che lui probabilmente l’avrebbe confortata molto meglio di me.

“Va tutto bene?” mi chiese Sage.

“Certo, perché?” risposi distrattamente.

“Ho sentito che c’è stato qualche problema con Katherine”.

“Sarà successo neppure dieci minuti fa!” esclamai meravigliato “Si è già sparsa la voce?”.

“Dicono che si è presa per i capelli con Bonnie” mi riferì.

“Sempre i solito esagerati” sbuffai “Ha solo fatto la stronza”.

“Questo spiega molte cose”.

“Tipo?”. Ero sempre meno interessato a quella conversazione.

“Tipo la piccola rossa che balla come una forsennata sul divano”.

Solo allora mi accorsi che Matt osservava con cipiglio due ragazze in piedi sul sofà di velluto, scalze, saltare e agitarsi. Una era Caroline, l’altra era Bonnie e aveva una bottiglia di tequila in mano, per metà vuota.

Quella era decisamente una scena cui non mi sarei mai aspettato di assistere.

“Ricordi quando Tyler ci ha detto che Bonnie era diventata figa e sexy?” mi domandò Sage.

Annuii meccanicamente.

“Potrei anche dargli ragione adesso. Insomma, è un piacere vederla così disinibita” commentò “Il problema è che quella non è una ragazza che si sta divertendo, è una ragazza che sta chiedendo aiuto”.

A volte mi stupivo dell’acutezza che il mio amico mostrava in certe situazioni.

Mi trovavo di fronte alla classica sbronza per dimenticare e non ne sarebbe venuto niente di buono, già lo prevedevo.

Caroline era conciata anche peggio e Matt sembrava piuttosto irritato da quel comportamento. Nessuno aveva notato che qualcosa si era rotto in lei.

Stefan in occasione come queste risultava veramente utile, ma ovviamente aveva deciso di non presentarsi.

Sembrava proprio che io e Sage fossimo gli unici in quella stanza a renderci conto della realtà delle cose. Un gran bel paradosso, dato che eravamo uno più irresponsabile dell’altro.

“Che bomba di festa!” commentò Tyler, circondando le nostre spalle con le sue braccia “Dovrei farlo più spesso”, poi ci guardò con sospetto “Voi due siete sobri?”.

“Gli unici a quanto pare” replicai bieco. La scena che si stava svolgendo su quel sofà non mi piaceva per niente.

Conoscevo troppo bene gli effetti di una delusione del genere e affogare i dispiaceri nell’alcol era la mia specialità. Bonnie stava seguendo alla lettera il mio esempio.

Preferivo stare nei paraggi e controllare che non combinasse nulla di stupido. Mi stavo comportando in modo totalmente contradditorio; quello non ero io, non avevo l’abitudine di badare alle liceali. Avevo addosso una strana inquietudine che m’impediva di rimanere calmo come al mio solito.

Forse ero preoccupato, forse quella sera la mia coscienza aveva deciso di farsi un po’ più insistente del normale; il motivo non mi era ben chiaro e non indagai oltre per evitare di scoprire lati di me che sarebbe stato meglio lasciare nascosti.

La mia serata perfetta era ormai rovinata e non mi restava altro che fissare quella ragazzina mentre perdeva totalmente il controllo nel vano tentativo di dimenticare.

Qualcuno avrebbe dovuto farle notare che non sarebbe servito molto: dopo una sbronza, i problemi aspettavano in silenzio, pronti a ricomparire la mattina successiva.

Tyler si allontanò di qualche metro da noi per rispondere al cellulare. Tornò poco dopo con una faccia bianca come un cadavere.

“Mi ha appena chiamato il mio amico della centrale della polizia. Hanno ricevuto una chiamata per schiamazzi. Stanno venendo a controllare qui”.

“Sta volta non c’è la marijuana in giro, vero?” si accertò Sage senza avvedersi del problema che si agitava davanti a lui.

“No ma c’è una marea di alcol e una marea di liceali” ribatté Tyler.

“Ti devi disfare delle bottiglie” risolsi io con semplicità.

Sbarazzarmi dell’alcol?” ripeté lui come se fosse una bestemmia.

“O butti fuori tutti quelli che non hanno l’età per bere. A occhio e croce, direi la metà degli invitati. La prossima volta impari a invitare i ragazzini delle superiori”.

Tyler ci rifletté un paio di secondi, poi corse a spegnere la musica. Dei lamenti sconnessi si levarono dalla folla.

“Ascoltatemi tutti!” urlò salendo su una sedia “Fate sparire tutte le bottiglie! Avete cinque minuti prima che piombi qui la polizia e … ehi tu, ho detto fare sparire e non bere!” s’infervorò non appena notò un tizio che si era attaccato a una bottiglia, desideroso di eseguire l’ordine.

Al nome della polizia, iniziò un fuggi fuggi generale di tutti gli studenti sotto i ventun anni che non volevano rischiare di finire dei guai.

Fu a quel punto che mi accorsi dell’assenza di Bonnie.

“Cazzo” imprecai “Dov’è andata?”.

“Chi?” chiese Sage “La piccola rossa? Non lo so”.

Neanche lo ascoltai finire la frase. Incominciai a perlustrare le altre stanze. Potevamo anche ripulire la casa di tutti gli alcolici, ma se la polizia avesse trovato qualcuno di ubriaco, sarebbero stati guai seri**. Specialmente per quel qualcuno.

Finalmente la individuai, appoggiata a un muro, con gli occhi chiusi.

“Bonnie” la chiamai avvicinandosi.

Lei alzò le palpebre “Questo è un incubo” disse riabbassandole.

“Cosa?”.

“Ce ne sono due … di te”.

Bene, era già arrivata al punto di vedere doppio. La sua parlata era un po’ strisciata.

“Damon!” proruppe alle mie spalle Sage “La polizia è appena arrivata. Che cosa ci fa ancora qui?” si agitò quando si accorse della presenza non proprio sobria di Bonnie “Portala via prima che la scoprano! Esci dal retro” mi suggerì.

Non potevamo sapere se i poliziotti sarebbero entrati a perlustrare la casa o se avrebbe effettuato solo un veloce controllo. Era meglio far sparire ogni prova, per sicurezza.

Tirai Bonnie per un braccio, ma quella si divincolò e mi sfuggì “Devo aspettare Caroline” protestò.

Sospirai rumorosamente nella speranza di darmi una calmata o le avrei torto il collo.

“Fanculo Caroline” digrignai. Non avevo né tempo né pazienza, così la sollevai di peso e me la caricai sulle spalle.

“Non molto ortodosso ma approvo” considerò Sage, mentre ci muovevamo verso la porta sul retro.

“Che f-fai?” si dimenò Bonnie, tirandomi qualche debole pugno sulla schiena.

“Ti salvo il culo; ancora” sottolineai. Uscimmo nel grande parco che circondava la villa; Sage mi salutò e tornò dentro.

“Mettimi giù”. Non stava ferma un attimo e cominciava a rendermi molto nervoso.

Smisi di camminare e la scaricai a terra come un sacco di patate. Mi piegai su di lei puntandole il dito addosso “Non ho nessun problema a mollarti qui, uccellino. Ci penserai tu a spiegare a quei poliziotti e a tuo padre come tutto quest’alcol sia finito nel tuo corpo”.

Mi lanciò un’occhiata truce, ma parve infine sottomettersi. Provò ad alzarsi. Non era conciata così male come credevo; si mise in piedi e mosse qualche passo incerto.

“Hai intenzione di barcollare fino alla mia macchina?” le chiesi. Se avessi seguito il suo ritmo, ci avremmo impiegato due ore; perciò le passai un braccio intorno alla vita e la condussi alla mia Ferrari.

L’aiutai a sedersi, poi presi posto accanto a lei, sul sedile del guidatore. Abbassai il vetro del suo finestrino. Un po’ di aria fresca le avrebbe prima di tutto schiarito le idee e in secondo luogo le avrebbe impedito di vomitare nel prezioso abitacolo della mia auto.

Il viaggio fu breve e silenzioso, credetti perfino che Bonnie si fosse addormentata.

Quando parcheggiai di fronte a casa sua, lei non mosse un muscolo. Aveva il viso rivolto alla finestrino e gli occhi chiusi.

Allungai una mano per scuoterla leggermente, ma la sue parole mi fermarono.

“La tua ragazza è una stronza” mormorò.

Puoi dirlo forte.

“Dovresti lasciarla”.

Aspetta e spera. Ci voleva qualcosa di ben più grave per separarmi da Katherine.

“Forse hai solo paura di restare solo”.

Mi girai di scatto verso di lei. La sua voce era ancora impastata e mezza assonnata, probabilmente non sapeva nemmeno che cosa stesse dicendo. La sua affermazione mi turbò comunque. Non ero io ad aver bisogno di una psicoanalisi quella sera.

“Perché stai zitto?”.

Da ubriaca era anche più irritante del solito.

“È ora di metterti a letto, Bonnie” le suggerii.

Finalmente si degnò di guardarmi in faccia e puntò i suoi grandi occhi nei miei “Non è sempre così, vero? Prima o poi passa?”.

Immaginai che mi stesse chiedendo della delusione bruciante sulla nuova vita di sua madre. E chi meglio di me era un esperto di genitori negligenti?

No, di solito va peggio. Quella era la mia risposta sincera.

“Tra una settimana non te lo ricorderai neanche più” mentii, invece.

Annuì debolmente. “Devo andare” annunciò all’improvviso, aprendo la portiera per catapultarsi fuori.

Mi affrettai a imitarla. Aveva le gambe ancora molli e l’agguantai appena in tempo prima che finisse a terra. Il suo precario equilibrio mi persuase a prenderla in braccio per evitare spiacevoli e imbarazzanti cadute.

Una mano dietro la sua schiena e una sotto alle ginocchia e la sollevai. I nostri volti si avvicinarono di parecchio, ma non vi feci caso fino a che non notai il suo sguardo fisso sulle mie labbra.

“Che c’è, uccellino? Vuoi un bacio?” la stuzzicai.

Scosse i riccioli rossi “Pensavo solo…” e arricciò il naso poco convinta “Hanno detto che io e te ci siamo già baciati”.

“Ah sì?” stetti al gioco, credendo fosse uno scherzo “E quando? Nei tuoi sogni?”.

Mi colse alla sprovvista. Se mi fossi accorto prima delle sue intenzioni, mi sarei certamente spostato. Allungò con uno scatto repentino il collo e posò la sua bocca sulla mia.

Il contatto tra le nostre labbra mi trasmise una strana sensazione e mise in discussione la considerazione che avevo appena formulato. Forse no, non mi sarei spostato.

Fu bello per quel poco che durò; e quasi mi scoprii triste al pensiero che non avrei più avuto il pieno diritto di farlo a mio piacimento.

“No” borbottò Bonnie mentre il suo capo ricadeva pesantemente sulla mia spalla “Non sei tu. Quello che ricordo io, baciava meglio”.

Arcuai le sopracciglia scettico e offeso.

In quel momento la porta di casa si aprì e la figura di suo padre comparve minacciosa sulla porta.

 

Il mio spazio:

Buon sabato a tutte!

Finalmente sono riuscita a completare questo capitolo che mi stava particolarmente a cuore. Chissà perché!

Allora che ne dite, mi sono riscatta per tutti i capitoli in cui Damon e Bonnie hanno solo litigato?

Forse la storia dell’abbandono della mamma di Bonnie risulta un po’ melodrammatico, ma l’ho pensata così fin da subito. L’idea è ispirata a un episodio di Hart of Dixie, in cui viene presentata una situazione simile.

Come vi avevo già anticipato, la questione “mamma” è ciò che più unisce i protagonisti di questa storia. Non si sopportano ma non possono fare a meno di consolarsi quando uno o l’altra sta male per la mancanza della propria madre.

Una cosa volevo precisare: nonostante ciò che è successo in questo capitolo, Bonnie rimarrà sempre sulla difensiva con Damon, a volte in maniera molto irritante. Sarà lui a inseguirla per una volta!

E Katherine? Parecchio stronza, possiamo dirlo. Forse gli occhi dolci non le basteranno. E penso proprio che scriverò anche una scena con Elena.

Bonnie ha rifiutato l’invito di Klaus, ma il nostro inglese non desisterà molto facilmente.

Poi c’è anche la questione della scommessa; Damon deve iniziare a darsi da fare se vuole vincere.

TVD è finito! =(

Mi manca la mia dose di vampiri settimanale. Che vi è parso del finale?

A me nel complesso è piaciuto molto, in particolare per Silas/Stefan. Sono davvero contenta che Paul Wesley abbia questa occasione, perché con Stefan è stato messo in ombra in questa stagione.

Il momento che ho odiato? Beh, mi sembra chiaro. COME SI SONO PERMESSI DI UCCIDERE BONNIE BENNETT?????

Io forse sono un po’ di parte, ma trovo che le abbiano dato una dipartita davvero pietosa . È avvenuta in silenzio, senza che nessuno se ne accorgesse. Strano, tra l’altro, che una squadra di vampiri non abbia notato che il suo cuore non batteva.

L’unico testimone è Jeremy e qui potrei aprire una parentesi lunga un chilometro. Mi limiterò a dire che, se proprio dovevano far fuori l’unica strega della città, avrebbe potuto riportare indietro Alaric, invece del piccolo Gilbert.

Non ho niente contro Jeremy, ma lo trovo abbastanza inutile e noioso.

Bene, gente, la prossima stagione ci ritroveremo una Bonnie fantasma che può comunicare solo con Jeremy. Strano, vero? Non abbiamo mai visto scene insieme tra queste due. -_-

Ma sono positiva e sono comunque felice, perché hanno mostrato che Bonnie, per quanto possa risultare a volte un po’ saccente, è comunque un’ottima amica, altruista e leale. Spero solo che se ne accorga qualcuno lì dentro.

Dopo il mio sfogo, di cui giustamente non ve ne frega niente, vi saluto e vi auguro un buon weekend!

Ci vediamo presto con Would you hold it against me?

Bacioni e grazie mille per il continuo supporto!!

Il titolo è un’espressione comune americana. L’ho presto dal titolo dell’episodio 2X14 di Glee.

Il banner è di Bumbuni.

*Non chiedetemi perché, ma negli Stati Uniti pare che esistano solo questi grossi bicchieri rossi. Pensavo fosse una cosa solo dei film, e invece ho appurato con i miei occhi che nelle feste ci sono solo quelli.

** Negli U.S.A è vietato dalla legge bere alcol sotto i ventun anni. Sono piuttosto rigidi nei controlli, ma non so fino a che punto. Nei film e telefilm, vedo spesso che i poliziotti entrano spesso in casa, anche senza mandato, per verificare che i minorenni non stiano bevendo, ma prendete quest’informazione con le pinze.

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Capitolo 12
*** The hangover ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo dodici: The hangover.

 

“You, with your switching sides
And your wildfire lies and your humiliation
You have pointed out my flaws again
As if I don’t already see them
I walk with my head down
Trying to block you out ‘cause I’ll never impress you
I just wanna feel okay again”

(Mean- Taylor Swift).

 

“Ciao, papa” lo salutò Bonnie con voce strisciata, alzando una mano a fatica.

C’erano momenti in cui avrei davvero desiderato tagliarle la lingua.

Il signor McCullough mi adorava e non avevo nessuna intenzione di perdere la mia immunità per colpa di questa piccola screanzata.

“Che cos’è successo?” domandò perentorio l’uomo.

Valutai l’idea di rivelargli il motivo di quell’ubriacatura, ma mi frenai. Non avevo il diritto di sganciare una tale bomba, soprattutto senza esserne sicuro. Tornai a comportarmi come il vecchio me e mi approfittai della situazione.

“L’ho trovata in questo stato” spiegai “Ho pensato di portarla a casa prima che combinasse qualche guaio”. Era una mezza verità, in fin dei conti.

Non ebbi problemi a tirarmene fuori. Io non avevo colpe e lei avrebbe chiarito con suo padre il giorno successivo, passata la sbornia. Forse si sarebbe beccata una bella punizione, ma la considerai un’ottima cosa; almeno avrebbe smesso di cacciarsi nei guai. Cominciava a diventare faticoso aiutarla ogni volta.

“Ti ringrazio, Damon” disse il signor McCullough, spostandosi per lasciarmi entrare. Bonnie finalmente si era addormentata, con la testa appoggiata alla mia spalla.

Lui la guardò preoccupato.

Mi affrettai a tranquillizzarlo “È solo una sbronza. Domani mattina si sveglierà con una bella emicrania, niente di più”.

“Non capisco. Mia figlia non si è mai ubriacata” si accigliò, evidentemente deluso “Le è accaduto qualcosa di male?”.

“Non che io sappia” risposi subito “Non se la prenda, signor McCullough. C’è chi ha fatto di peggio” lo smorzai un po’, mentre salivamo in camera della ragazza. La posai sul letto ancora vestita. Non accennò a svegliarsi, si girò su un lato e continuò a dormire “E sono sicuro che non ci riproverà più”.

“Su questo sono d’accordo. La chiuderò in casa fino alla laurea” risolse l’uomo “Non so come ringraziarti, Damon. Sono contento che sia stato tu a riportarla a casa”.

“Nessun problema” gli strinsi la mano e lo salutai. Quando fui lontano dal suo campo visivo, scossi la testa compiaciuto: normalmente quando un ragazzo riportava a un padre la figlia totalmente ubriaca, non veniva innalzato come eroe della serata.

Ma io ero Damon Salvatore e il signor McCullough mi amava alla follia. Non avevo mai pensato ai vantaggi che avrei potuto ottenere; quello rappresentava di certo un enorme passo avanti nella mia scommessa.

Conquistato il padre, il lavoro si riduceva alla metà.

Una volta spezzato il cuore di sua figlia, probabilmente sarei uscito dalle sue grazie, ma che me ne importava? Un danno collaterale come un altro.

Saltai in macchina e guidai fino al campus. Mi chiesi se Sage fosse tornato. Non era molto tardi, potevamo andare a prenderci una birra e concludere un po’ meglio la serata.

Afferrai il cellulare posto sul sedile accanto al mio.

“Ma che caz-?”.

Avevo tra le mani un telefono, non il mio.

Doveva essere di Bonnie; magari le era scivolato dalla tasca lungo il tragitto. Per un attimo fui tentato di girare la macchina e restituirglielo, ma mi venne in mente un’idea migliore.

Scesi dall’auto e raggiunsi la mia stanza. Solo qualche minuto prima mi avrebbe infastidito trovarla vuota, adesso ringraziavo che Sage fosse ancora fuori.

Mi stesi sul letto e mi rigirai quel cellulare tra le mani. Sapevo di aver guadagnato dei punti con la buona azione di quella sera, ma potevo puntare molto più in alto.

Scrissi il messaggio quasi con trepidazione, ripetendomi mentalmente le parole che avevo ideato nel tragitto per salire in camera mia.

Quando finii di digitare, cercai il numero cui volevo spedirlo. Aveva un cuoricino a fianco; storsi il naso disgustato e lo selezionai.

Esitai appena prima di premere il pulsante ‘invio’. Era una cosa saggia mandarlo?

Non m’importava molto di essere scoperto, al massimo avrei dovuto sorbirmi una bella scenata e le possibilità di conquistare Bonnie si sarebbero ridotte a zero. D’altra parte, poteva pure andarmi bene. I miei piani di norma funzionavano sempre, anche nei casi più scontati.

Non fu l’unico pensiero che mi fermò, perché i miei propositi si congelarono al ricordo di quella ragazzina mortificata, con gli occhi spalancati. Aveva ricevuto un brutto colpo quella sera e comprendevo il suo dispiacere al punto di dubitare delle mie stesse azioni.

Una scommessa stretta con un mio amico valeva quanto la ferita che avrei causato a quella povera anima già abbastanza martoriata?

Il mio ego reclamava una rivincita, l’astio verso mio fratello pretendeva una vendetta, ma per la prima volta mi soffermai un attimo a riflettere. L’idea non mi appariva più così allettante.

Senza contare che anche Katherine si aspettava chiaramente di ottenere qualcosa da quel gioco e non avevo nessuna voglia di concedergliela finché non avessi capito il motivo.

Tutto ciò che mi spingeva in precedenza, ora sembrava attenuare la sua forza. Probabilmente avrei pure deciso di lasciare perdere, se un altro tarlo non mi si fosse infilato prepotente in testa.

Era scattato tutto con quel bacio.

Mi sentivo una femminuccia, eppure quel semplice gesto mi aveva smosso qualcosa. Non era niente di romantico o cazzate varie, si trattava più che altro di un certo fastidio.

Non mi turbava di aver baciato una ragazza non mia, avevo fatto ben di peggio con ragazze già impegnate. Tutte loro si erano buttate spontaneamente tra le mie braccia, avevano tradito i loro fidanzati senza porsi troppi problemi, non erano riuscite a resistermi.

Bonnie no.

Bonnie era ubriaca e farneticava.

Bonnie con molte probabilità mi disprezza pure.

Era la prima volta che baciavo qualcuno che nelle sue piene facoltà mentali mi avrebbe tirato uno schiaffo capace di girarmi la faccia.

Quello mi irritava.

Forse si era anche immaginata che al mio posto ci fosse Matt, per quello aveva parlato di un altro bacio scambiato in precedenza. Non vedevo altra soluzione, perché mi sarei ricordato di una cosa simile.

In sostanza avrei potuto essere chiunque e lei non si sarebbe nemmeno accorta della differenza.

Quello mi fece incazzare, parecchio.

Di nuovo la mia coscienza venne offuscata dal mio orgoglio.

Inviai il messaggio.

 

Quando piano piano il sonno mi abbandonò, temetti la mia testa fosse stata percossa brutalmente con una mazza da baseball.

Così, appena sveglia, non trovai altra soluzione plausibile.

Non solo le tempie mi dolevano come se qualcosa me le battesse dall’interno, ma le mie orecchie fischiavano e il mio stomaco sembrava sottosopra.

Avvertii la stoffa fresca del cuscino sfiorarmi la guancia. Istintivamente mi tuffai con tutto il volto, in cerca di un po’ di sollievo. Per un momento mi sentii meglio, ma durò poco.

Se una mia amica mi avesse raccontato i sintomi, avrei subito pensato a una sbronza; nel mio caso, però, non era possibile perché io non bevevo quas-

Scattai a sedere e mi pentii subito di quella pessima mossa. La mia stanza tremolò a destra e sinistra, leggermente indietro e infine si stabilizzò.

O cavolo.

Fu il primo pensiero sensato che formulai.

Non potevo più negare la realtà dei fatti: stavo per affrontare i postumi di una bella sbornia.

Ora dovevo solo capire dove me l’ero presa e perché. Quei punti mi risultavano ancora un po’ oscuri e soprattutto sfocati.

Prima cosa: alzarsi dal letto.

Seconda: buttarsi una secchiata d’acqua gelata in faccia.

Terza: cercare di chiarire tutta la confusione che mi girava per la mente.

Completai le prime due azioni senza grandi problemi; riuscii perfino ad abbinare una maglietta a un paio di pantaloni.

Quando arrivò il momento di riordinare le idee, cominciai a incontrare qualche difficoltà. Scesi al piano inferiore per fare colazione. Volevo prendere un bel caffè e farmi una lunga camminata; mi pareva l’idea migliore per darmi una svegliata e affrontare con una mente più fresca il mio problema.

Trovai ad attendermi mio padre. Non vi badai molto; lo salutai con un bacio sulla guancia e andai a prepararmi il caffè.

Lui si schiarii la voce, ma ancora una volta quasi non me ne accorsi, o lo ignorai spontaneamente, non saprei dirlo.

Al quarto colpo di tosse mi voltai un po’ scocciata e finalmente non potei più evitare la realtà dei fatti: mio padre appariva furioso e c’era un unico motivo che poteva spiegare quell’umore così pessimo.

Ebbi la netta impressione di essere in guai seri.

“Com’è andata ieri sera?” mi domandò.

“Bene” risposi, forse un po’ troppo in fretta. Aggiunsi qualcosa per recuperare “La solita festa. Non sono tornata tardi, mi ha riaccompagnata Caroline”.

Mio padre mi guardò duramente poi sospirò “Non credevo di aver cresciuto una figlia bugiarda” commentò.

Rimasi di sasso. Mi aveva beccata? Sarebbe stato tutto molto più chiaro, se la mia memoria non si fosse resettata.

“Papà …” incominciai incerta.

“Mi reputi davvero così stupido?” mi ribeccò subito “Ti presenti ubriaca alla porta, tanto da non reggerti in piedi e adesso provi a ingannarmi?”.

“Io non... è successo solo una volta” mi difesi, senza sapere bene dove appigliarmi.

“Ti ho trovato perfino in casa sola con un ragazzo e non mi avevi neanche avvertito!”.

“Matt era passato per vedere come stavo. È entrato solo un momento e se ne stava già andando quando sei arrivato tu! Stefan è stato qui un sacco di volte e non ti sei mai arrabbiato” gli rinfacciai.

“Stefan non è interessato a te in quel senso” replicò.

“Ho quasi diciotto anni. Credo di avere il diritto di invitare un ragazzo a casa mia”.

“Con il mio permesso sì”.

“L’altra volta non era voluto, te l’ho già detto” ripetei a denti stretti.

“Non mi piace come ti stai comportando” mi gelò “Ti ho sempre considerata una ragazza responsabile, non me l’aspettavo proprio. Stamattina ho incontrato il padre di Tyler, mi ha detto che la polizia ha fatto dei controlli alla festa. Tu non hai ventun anni, potevi finire veramente nei guai. Se Damon non ti avesse portato a casa…”.

“Damon?”. La domanda uscì spontanea e stupita.

“Non te lo ricordi nemmeno?” mio padre scosse la testa sconsolato “Sei in punizione per due settimane” decretò.

“Cosa?!”.

“Niente uscite, niente telefono o televisione. Due ore al giorno di computer e solo per i compiti. Per i prossimi quindici giorni vedrai solo questa casa e la scuola”.

“Ma non è giusto!”.

“Ringrazia che non sia un mese”.

Strinsi i pugni lungo i fianchi e marciai fuori dalla cucina, nella mia camera. Sbattei la porta.

Non ero mai stata una gran bevitrice, l’alcol non mi piaceva. Mi era già capitato di accettare un bicchiere di vino a cena, ma niente di più.

Doveva essere accaduto  qualcosa di davvero grave se avevo buttato giù così tanto alcol da non ricordarmi nemmeno chi mi avesse riaccompagnato a casa.

Mi stesi sul letto e provai a ripercorrere la serata; magari avrei scoperto la ragione, se fossi ripartita dall’inizio.

Ero andata alla festa per cercare da Matt. Avevamo parlato e lui aveva capito le mie esitazioni, aveva detto che mi avrebbe aspettato. Era andato a prendermi da bere e poi era apparsa Katherine.

Saltai quasi giù dal letto.

Katherine.

Perché quel nome aveva risvegliato in me una strana inquietudine?

Aveva sibilato qualcuna delle sue solite cattiverie, non ci avevo fatto molto caso finché…

Tutto mi ritornò improvvisamente in mente.

“L’ho vista, sai. A Parigi, ho visto tua madre”.

Così aveva detto. Il resto era caduto completamente nel dimenticatoio.

Incominciai a respirare affannosamente e la stanza mi parve restringersi. Dovevo uscire, dovevo parlare con qualcuno.

Guardai d’istinto la casa di fronte. Mio padre mi aveva impedito di uscire, ma non m’importò molto in quel momento.

Corsi giù in salotto e lo trovai vuoto. Forse non era più in casa e neanche me n’ero accorta. Colsi l’occasione e mi precipitai fuori. Attraversai la strada ed entrai come un tornando in casa Salvatore. La signora Flowers mi osservò stranita e non mi fermò.

“Stefan”.

Quasi non mi resi conto di urlarlo. Quando arrivai nella sua stanza, il mio amico mi aspettava già, preoccupato dal mio tono, con gli occhi spalancati.

Lo raggiunsi in un attimo. L’intenzione era di abbracciarlo, ma quando mi trovai a pochi centimetri da lui, potei solo riempirgli il petto di piccoli pungi.

“Non ti permettere mai più” gli intimai “Non osare mai più lasciarmi sola a una festa. Tu non puoi lasciarmi sola; sono stufa della gente che lo fa”.        

Lui corrugò la fronte e mi prese i polsi, allontanandomi leggermente “Bonnie? Che cos’è successo? Qualcuno ti ha fatto del male?” si allarmò.

“Sì, tu” risposi tirando su con il naso “Perché non c’eri”.

Stefan piegò la testa di lato, confuso. Potevo solo immaginarmi dove stesse correndo la sua fantasia, dopo avermi visto piombare in camera sua, in lacrime e sconvolta.

“Va bene, Bonnie” mi disse e mi prese il volto tra le mani nel tentativo di calmarmi “Mi stai uccidendo con questa attesa. Qual è il problema? Se qualcuno ti ha toccato, giuro che…”.

Scossi la testa: aveva frainteso tutto “No” mugugnai “È colpa di Katherine”.

“Cioè?” m’incalzò, mentre mi guidava lentamente verso il letto per farmi sedere.

“Non so perché è così cattiva nei miei confronti, io non le ho fatto niente” piagnucolai. La scena doveva risultare molto comica dall’esterno, peccato che rasentasse il tragico.

“Mi ha mortificata davanti a tutti, non si è impietosita neanche un po’. Come si può essere così meschino su un argomento del genere?”.

“Qualunque cosa sia non devi ascoltarla. Katherine si diverte a ferire gli altri. Non vale neppure il tuo tempo” provò a consolarmi.

“Ha detto di aver visto mia madre a Parigi. Ora organizza sfilate per le grandi firme, è una persona famosa in Francia. Se n’è andata perché io ero solo un intralcio”.

Tra tutto ciò che potevo rivelare, quello di certo Stefan non se lo sarebbe mai aspettato. Contrasse i lineamenti, per nascondere il dispiacere e la rabbia.

“A Katherine piace manipolare le persone. Probabilmente è una delle sue tante bugie” affermò in un vano tentativo di trovare una spiegazione che non mi facesse così male.

“Anche se fosse?” replicai “Non cambia le cose. Mia madre mi ha abbandonato perché non ero abbastanza”.

Avevo passato tutta la mia vita a chiedermi se in qualche io avessi contribuito al suo allontanamento, se ne fossi in parte responsabile, dato che proprio non riuscivo a comprenderne il motivo e ora mi accorgevo che la risposta era sempre stata davanti a me.

Non m’importava scoprire se Katherine stesse mentendo oppure no; non avrei riavuto indietro mia madre in ogni caso. Lei non voleva fare la madre.

Quindi, a che mi serviva scoprire dove si trovasse veramente? Non era insieme a me, che cos’altro dovevo conoscere?

Non mi resi conto che Stefan mi aveva abbracciato fino a che non sentii una stoffa umida contro la mia guancia: era la sua maglia bagnata dalle mie lacrime.

Ero così dannatamente stufa di piangere ogni volta, ma non potevo trattenermi.

Dopo tutti gli anni non avere una mamma era diventata una routine; tendevo a ignorare la cosa. Non potevo accettarla, perciò cercavo di non pensarci. Non mi ero mai fermata un attimo ad analizzare quello che provavo. All’inizio ero troppo piccola per capire e poi mi ero rifiutata di capire.

Avevo perfino sperato di vederla tornare, come se si trattasse di una situazione momentanea e provvisoria.

La discussione con Katherine mi aveva aperto gli occhi; più che altro me li avevi strappati a giudicare dal dolore.

In casa non se ne parlava mai. Mary l’aveva cancellata dalla sua vita e mio padre conservava  il ricordo di sua moglie come un gioiello che doveva essere nascosto e rinchiuso in cassaforte e che sarebbe rimasto lì, segregato, per sempre.

Loro aveva accettato l’abbandono, io no. Ne ero terrorizzata, perciò mi ero rifiutata di affrontarlo.

Eppure era la triste verità: mia madre se n’era andata e non sarebbe più tornata indietro. Mia madre non mi voleva. Non esisteva un modo migliore per ingoiare quella pillola.

Bisognava cacciarsela in gola, a forza e mandare giù. E fu quello che feci con il groppo che si era appostato all’inizio della bocca, impedendomi di formulare parola sensate.

Singhiozzai per ancora qualche minuto, buttai fuori tutta l’amarezza e la delusione e finalmente mi calmai.

Faticavo a distinguere che sensazione mi aveva lasciato quello sfogo; forse era rabbia o mortificazione, tristezza. Una sorta di grigia malinconia che mi svuotò totalmente.

“Lo dirai a tuo padre?” mi domandò titubante Stefan.

“No” risposi con convinzione “Questa è l’ultima volta che ne parlo”.

“Fai bene” concordò Stefan “Ci rimarrebbe troppo male e non sai nemmeno se è vero”.

“Potrebbe essere dovunque, non me ne frega niente. Non è rimasta con noi e non ha il diritto di renderci ancora tristi dopo così tanto tempo”.

“Scusami, Bonnie. Avrei dovuto essere lì con te” si dispiacque Stefan, poggiando il suo capo contro i miei capelli.

“Adesso sei qui” ribattei con tono pacato e mi strinsi più a lui “Ti voglio bene, Stef”.

“Ti voglio bene anch’io” sussurrò.

Uscii da quella camera e percepii che la mia angoscia si era ridotta di parecchio e potei tirare un sospiro di sollievo.

Quando Stefan mi era vicino, tutto si volgeva sempre in una prospettiva meno tetra. Non ci servivano molte parole, bastava uno sguardo o un minimo di contatto.

Se la sera prima mi avesse accompagnato alla festa o mi avesse anche solo stretto la mano, probabilmente non avrei nemmeno toccato un bicchiere di vino.

Mi ero trovata sola, invece, contro Katherine. A quella rivelazione mi ero sentita come se il pavimento fosse scomparso da sotto i miei piedi e tuttavia non ero riuscita a cadere, a scomparire.

Costretta a stare sotto gli occhi di tutti gli indiscreti, avevo sopportato la peggiore umiliazione della mia vita, e la più dolorosa.

In fin dei conti, però, ero sopravvissuta. E sarebbe stato stupido da parte mia permettere a Katherine, a mia madre e a tutti gli egoisti come loro di rovinarmi la vita.

Fu così che decisi di cancellare dalla mia memoria la donna che mi aveva generato, almeno per quanto potei. Me la buttai finalmente alle spalle e mi resi conto che sarei diventata qualcuno di grande senza il suo aiuto.

Aveva fatto carriera, ma rimaneva una fallita e una codarda e non la volevo come termine di paragone, come modello. Mi vergognavo di averla giustificata così a lungo.

Amavo Stefan, lo amavo come un fratello. Lo amavo perché era una parte di me, una parte senza cui non potevo vivere. Lo amavo perché un suo abbraccio mi aveva fatto capire tutte quelle cose. Sapevo di aver lo stesso valore per lui.

Quindi al diavolo mia madre e i suoi sogni di gloria, al diavolo Katherine e la sua vanità ferita.

Io non ero sola. Non ero sola.

 

Aprii la porta della mia camera e il primo istinto fu di richiuderla.

No, chiudere non era il termine adatto.

Desideravo fortemente sbatterla sul dannato muso che mi stava di fronte e rompere quel visino perfetto che stregava tutti. Volevo frantumare quella nauseante perfezione.

“A che cosa devo la visita, fratellino?” gli chiesi un po’ annoiato “Non dirmi che ti manco”.

Stefan mi superò ed entrò in camera. Non perse tempo in strani giri di parole, andò dritto al punto. Il che mi sorprese; non ricordavo l’ultima volta che si era dimostrato così spavaldo nei miei confronti. Ma, in questa occasione, aveva un buon motivo.

“Ieri sera eri alla festa di Tyler?” si accertò.

Annuii distrattamente.

“Sai che cos’è successo?”. Non era una domanda, era un’accusa.

“Scommetto che non vedi l’ora d’illuminarmi”.

“Bonnie si è ubriacata” disse con lo stesso tono tremendamente serio.

“Che cosa tenera! Sei venuto a raccontarmi della sua prima sbronza”. Mi era perfettamente chiaro la ragione che lo aveva spinto a venire fino al campus per stanarmi, ma adoravo prenderlo in giro e fare il finto tonto.

“Non meno di un’ora fa era a casa nostra a piangere”.

“Di solito non piange mai” commentai con uno sbuffo.

“Devi tenere a freno la tua ragazza, Damon” m’intimò mio fratello. Tutto quel teatrino era piuttosto seccante, eppure non riuscii a buttare fuori Stefan, come avrei fatto in altre circostanze. Aveva ragione: Katherine aveva esagerato, bisognava rimetterla al suo posto. Ma l’idea che qualcuno mi desse degli ordini, mi mandava in bestia.

“Quello che è accaduto la notte di Halloween è tutta colpa sua” continuò lui.

“Non ti aspetterai che la metta in punizione perché la tua amica è stata così stupida da ascoltarla. Forse dovresti riferire questa conversazione ai signori Gilbert”.

“Non è solo per Halloween. Se ieri eri alla festa, sai sicuramente che cosa le ha rivelato” ne dedusse Stefan.

Gli diedi le spalle.

“Ne eri già a conoscenza?”.

“No, Stefan” mi esasperai “Katherine ha deciso di sganciare la bomba con effetto a sorpresa. Non ne avevo idea. L’avrei fermata ma non ne ho avuto il tempo. È inutile piangersi addosso. A Bonnie passerà in fretta”.

“Com’è passata a te?” mi provocò Stefan.

Stava solo cercando di difendere la sua amica e in un certo senso lo rispettavo per questo, però non potevo accettare che tirasse in ballo le mie faccende personali. Aveva sempre sofferto la mancanza della mamma meno di me, perché non l’aveva mai conosciuta e non sapeva davvero che cosa comportasse quella perdita.

“Trovo commuovente che tu sia venuto fin qui convito che la cosa m’interessasse” lo schernii “Ora vattene, però”.

“Gliela fai passare liscia?” si stupì “Damon, ha oltrepassato il segno questa volta”.

“Non vedevi l’ora che lo facesse, vero? Non vedevi l’ora di atteggiarti da eroe”.

“Come puoi essere così insensibile?” si costernò “Nemmeno su questo argomento mostri un po’ di comprensione?”.

“Te l’ho già detto, fratellino, non sono suo padre. Non ho alcun potere su di lei” gli ricordai.

“Cazzate!” esclamò “Sei Damon Salvatore, ti vanti sempre di essere il padrone del mondo. Tu hai quel potere, ma non vuoi usarlo”.

Normalmente era una teoria che valeva per tutti, tranne che per Katherine. Lei non poteva essere domata e sinceramente mi piaceva così.

“Io non me ne starò fermo senza fare niente” dichiarò deciso “Avverti la tua ragazza di darsi una regolata, perché non le permetterò più di ferire la mia migliore amica”. Abbandonò la stanza sbattendo la porta.

Per poco non mi cadde la mascella. Mio fratello non si era mai mostrato così sfrontato in vita sua, almeno non con me.

Nel silenzio della mia camera, scoppiai a ridere. Da mesi non avevo una conversazione decente con mio fratello e ci eravamo ritrovati a parlare proprio di Bonnie. Decisamente non era qualcosa che avrei potuto prevedere.

Era ammirevole l’attaccamento alla sua migliore amica. Nonostante nutrisse un certo timore nei miei confronti, era comunque venuto a fronteggiarmi per difenderla. Sapeva che ero l’unico in grado di mettere un freno a Katherine.

La lealtà che legava mio fratello a Bonnie mi sorprendeva ogni giorno di più e da un lato m’irritava pure.

Nell’economia del mio piano, quello rappresentava un bell’ostacolo: l’uccellino non avrebbe mai ceduto, consapevole di quanto odiassi il suo amichetto del cuore. Non poteva stare con qualcuno che disprezzava Stefan con la mia intensità.

L’unico modo per convincerla a darmi almeno una possibilità era cambiare totalmente strategia. Fino a quel momento avevo puntato solo un mio fascino e sulla faccia tosta che inspiegabilmente piaceva tanto alle altre ragazze; ora dovevo trasformarmi in un ragazzo dolce e compassionevole, abbastanza maturo da lasciarsi alle spalle il passato. Prima cosa: fare qualcosa di carino per mio fratello; seconda: assicurarsi che Bonnie ne venisse a conoscenza.

E avevo giusto in mente un’idea geniale.

Mi prepari per uscire. Avevo ancora il suo cellulare, lo avrei usato come scusa per andare a trovarla. Nel mettere in atto il mio piano, avevo anche l’occasione di verificare che stesse bene.

Con Stefan mi ero atteggiato da indifferente, ma quella vicenda mi aveva un po’ turbato. Nemmeno io sarei stato capace di infierire su un argomento di tale delicatezza. Odiavo nutrire  quella sorta di empatia nei confronti di Bonnie, ma non potevo evitarlo.

Come avevo considerato la sera prima, non vedevo l’ora che tutto tornasse come al solito, che quella brutta faccenda venisse gettata via, così magari avrei finito di provare compassione verso quell’insulsa ragazzina.

Ancora un volta mi dissi che dovevo togliermi certe espressioni dalla testa o non sarei mai riuscito a conquistarla.

In macchina guardai più volte, piuttosto compiaciuto, il cellulare posato sul sedile accanto a me. Mi ero premurato di cancellare il messaggio precedentemente spedito e mi augurai che il destinatario fosse fesso come avevo sempre pensato e che non andasse a chiedere spiegazioni. Una bella ferita nell’orgoglio, di solito, era la miglior arma per troncare un rapporto.

Parcheggiai, presi il telefono e mi diressi alla porta di casa McCullough. Sperai che non venisse ad aprirmi il padre di Bonnie. Nonostante avessi riportato sua figlia ubriaca, mi vedeva ancora come un eroe, ma preferivo non tirare troppo la corda.

Inaspettatamente, sulla soglia comparve proprio la persona che stavo cercando.

Mi salutò allegra e sorridente. E mi lasciò di stucco.

“Uccellino” dissi stupito “Ti sei ripresa” constatai. Non credevo di trovarla moribonda, ma almeno un po’ provata dalla sbornia o triste per la notizia su sua madre.

“Pensavi che mi rinchiudessi in camera mia ad ascoltare Mean piangendo?” mi rispose ironica.

Beh, sì.

“Sono passato per accertarmi che stessi bene” spiegai, colto alla sprovvista.

Lei alzò le sopracciglia, scettica. Chi poteva biasimarla? Non era certo tipico di me mostrare così tanta premura.

Stranamente non mi attaccò né mi cacciò via. Tirò un altro mezzo sorriso e parlò “Ti devo ringraziare…un’altra volta” osservò.

“Non ce n’è bisogno. Non mi ha dato fastidio farti da autista, ma non ti ci abituare” scherzai. Da una parte stavo recitando il ruolo del ragazzo gentile, dall’altra ero rimasto piacevolmente meravigliato dalla dolcezza con cui mi aveva accolto.

“Oh, sì anche per quello” confermò “Ma in realtà intendevo … grazie di avermi difeso con Katherine”. Tentennò alla parola ‘difeso’. Effettivamente sembrava così strana e azzardata.

“Sai, i ricordi stanno tornando a pezzi” mi raccontò “Ho ancora dei buchi, ma ricordo che ti sei messo in mezzo a noi e l’hai fermata”.

La sua sincerità mi spiazzò; cominciai a sentirmi un attimo a disagio. Mi domandai se ricordasse anche il bacio che mi aveva dato.

Tenni quel commento per me. La nostra conversazione era partita fin troppo bene, volevo evitare di rovinarla con una battutina che l’avrebbe mandata su tutte le furie.

“In realtà, sono venuto anche per riportarti questo” e le porsi il cellulare “Ti dev’essere caduto mentre eravamo in auto”.

“Santo Cielo, l’ho cercato dappertutto!” esclamò sollevata “Credevo di averlo perso”.

Adesso era giunto il momento del pezzo forte. Sapevo che l’avrei stesa con la prossima richiesta; non poteva rifiutare.

“Bonnie” la chiamai “Ho un favore da chiederti” confessai “Ho ordinato un regalo per il compleanno di Stefan. Devo andare a ritirarlo direttamente in un negozio ad Atlanta e mi chiedevo se volessi accompagnarmi. Non è che io conosca così bene Stefan, ho bisogno di un consiglio”.

Hai comprato un regalo per Stefan?” ripeté basita.

Perfino io mi rendevo conto dell’assurdità di quella frase.

“Il suo compleanno è tra più di un mese” obiettò.

“Arriva dall’Europa, dovevo sbrigarmi” chiarii.

“Damon, non posso accompagnarti. Sono in punizione per due settimane” ammise.

Ringraziai mentalmente suo padre; almeno in casa non poteva provocare molti danni.

“Facciamo tra due settimane allora” proposi “Il regalo resta lì, non se lo porta via nessuno. E se non va bene, faccio sempre in tempo a cambiarlo. Non vorrai che il compleanno del tuo migliore amico venga rovinato da un pessimo regalo” provai a convincerla.

“Va bene” accettò, anche se non molto convinta “Ma al primo insulto o battutina, scendo dalla macchina, chiamo un taxi e torno indietro” mi minacciò.

“Mi comporterò come un vero gentiluomo” le promisi.

Prima fase del piano: completata.

Ora, dovevo solo cercare un regalo per Stefan e assicurarmi che arrivasse ad Atlanta nel giro di due settimane. Dall’Europa.

Che cazzo potevo prendergli?

 

Il mio spazio:

Chiedo umilmente venia. Sono in ritardo sparato, lo so =(

Questa settimana ha avuto due esami e la tesi mi sta facendo diventare matta, perciò ho dovuto rimandare un po’ tutto il resto.

E soprattutto mi presento con un capitolo in cui non succede niente; che vergogna!

Comunque, vi prometto che recupererò nel prossimo. Sapete quanto adoro le gite fuori città, perché comportano sempre cose interessanti!

Vi anticipo subito un dettaglio sul compleanno di Stefan: dato che, nella storia, ci stiamo avvicinando a Natale (qui fa un caldo boia e io vi parlo di Natale, va beh!), ho deciso che il suo compleanno sarà il 31 dicembre. Lo faccio più che altro per evitare di inserire in ogni capitolo una festa, perché alla lunga stanca e diventa poco verosimile. Quindi diciottesimo di Stefan e capodanno tutto nello stesso giorno. Che accadrà?

Ora vi lascio due quesiti.

A chi ha mandato il messaggio Damon? (Questa è facile).

E secondo voi, Bonnie si ricorda del bacio e sta facendo finta di niente?

Bene, ora arrivano le note dolenti: nella settimana del 24 giugno aggiornerò la mia storia nel fandom del telefilm, quindi dovrete aspettare un po’ prima di avere un nuovo capitolo di questa.

Mi dispiace molto, ma poi mi concentrerò (giuro) su questa long e su Would you hold it against me?

Vi ringrazio tantissimo per il continuo supporto; siete meravigliose, davvero! Spero, comunque, che questa capitolo vi sia piaciuto e che mi lascerete qualche commentino XD

Il banner è di Bumbuni.

La canzone Mean è sì di Taylor Swift, ma personalmente la preferisco nella versione di Glee, quindi se c’è qualcuno di voi che non ha una grande stima di questa cantante come me, magari apprezzerà quella cover.

A presto! Grazie mille ancora!!

Fran;)

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Capitolo 13
*** Road to Debussy ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo tredici: Road to Debussy.

 

“There's something sweet
And almost kind
But he was mean and he was coarse and unrefined
But now he's dear, and so unsure
I wonder why I didn't see it there before

(Something there- da ‘Beauty and the beast’).

 

Quei momenti in cui ti chiedi: perché l’ho fatto?

Ultimamente prendevo un po’ troppe decisioni di cui mi pentivo in seguito. Questa, lo sapevo, già, mi avrebbe portato solo un mucchio di guai.

Era perfino difficile stabilire che cosa fosse più strano, il fatto che io avessi accettato o che lui me lo avesse proposto.

Non eravamo gli unici a comportarci in modo strano, per fortuna. Tutta la città sembrava andare al contrario, forse per colpa del Natale che si stava avvicinando.

Damon che voleva comparare un regalo di compleanno adatto a suo fratello le superava tutte, ma era solamente la punta dell’iceberg.

Meredith da un paio di settimane sembrava su un altro pianeta. Non rispondeva quasi mai al telefono, si distraeva in classe, passava da stati di palese preoccupazione a stati di esaltante felicità. Non mi aveva nemmeno sgridata per essermi ubriacata alla festa.

Il primo giorno dopo quel weekend da dimenticare, era stata una delle prove più temibili che avessi mai affrontato.  Mi aspettavo di essere additata o almeno guardata da lontano mentre la gente bisbigliava alle mie spalle, mi aspettavo di trovare Katherine con un sorrisino sfacciato stampato in faccia. Non accadde niente di tutto ciò.

Entrai a scuola e venni totalmente ignorata. Nessuno si girò stranito, nessuno mi lanciò sguardi di compassione. Ebbi l’impressione che nessuno sapesse, ma era impossibile: quando mai a Fell’s Church un pettegolezzo come quello non si diffondeva alla velocità della luce?

Ne ebbi la conferma nel momento in cui sia Elena sia Meredith, pure Caroline che era perfino presente alla festa, mi chiesero che cosa mi avesse spinto a bere tutto quell’alcol.

Se neanche le mie migliore amiche ne erano a conoscenza, allora anche gli altri erano all’oscuro di tutto.

E poi c’era Matt, che non mi parlava più.

Non riuscivo a capirne il motivo. Da che ricordassi alla festa avevamo messo in chiaro la nostra situazione. Si era mostrato molto comprensivo, aveva persino detto che mi avrebbe aspettato finché non mi sarei sentita pronta a iniziare una vera e propria relazione.

Che cosa diamine avevo combinato per fargli cambiare idea nel giro di due giorni?

A meno che, in preda ai fumi dell’alcol, non mi fossi baciata appassionatamente con qualcun altro davanti a lui, non vedevo altra ragione per quel trattamento così freddo.

 

“A Parigi?” ripeté Caroline incredula “Tua madre è a Parigi?”.

Io annuii “Meno male che c’eri anche tu a quella festa!” esclamai sarcastica.

“Ero talmente ubriaca che non avrei riconosciuto neanche mio padre. Mi sono ripresa solo verso la fine, quando è arrivata la polizia”.

“È stata mia sorella a riferirti quella cosa su tua madre? Io l’ammazzo, l’ammazzo e la buttò giù da Wickery Bridge. Non mancherà a nessuno quella vipera” s’infervorò Elena.

“Ma davvero non ne sapevate niente?” chiesi allibita.

Eravamo già all’ora di pranzo e la notizia sembrava non essersi diffusa. Una cosa più unica che rara a Fell’s Church.

“Forse per una volta questa città ha avuto la decenza di farsi un esame di coscienza e di tacere” considerò Meredith.

Ero oltremodo sorpresa e nel contempo sollevata. Non avrei saputo come affrontare gli sguardi impietositi dei miei compagni.

“Tua madre si dovrebbe vergognare, Bonnie” mi disse Caroline.

“E anche mia sorella” rincarò Elena “Mi dispiace così tanto. Non so come scusarmi per il suo comportamento”.

“Prima o poi tutte le sue cattiverie le torneranno indietro e io sarò lì a ridere” affermò Meredith, con una vena sadica che non le apparteneva.

“Vedi il lato positivo. Ti sei presa la tua prima sbronza” esultò Caroline.

“Gran bel risultato” commentai ironica “Ora sono in punizione per due settimane e se Damon non mi avesse riportato a casa, probabilmente sarei anche in prigione”.

“Damon?!” esclamarono tutte e tre all’unisono.

“Mi ha accompagnato lui. Almeno così mi ha detto mio padre” spiegai.

“Quel Damon? Quello che tu disprezzi tanto?” continuò Elena con un sorrisino compiaciuto “Proprio lui?”.

“Non so che cosa gli stia prendendo” ammisi ignorando la soddisfazione nella sua voce “Mi ha persino chiesto di andare con lui a comprare il regalo per Stefan”.

“È stato investito dalla luce del pentimento?” ironizzò Caroline.

“O ha picchiato la testa da qualche parte” ipotizzai “Sarebbe stato molto più logico domandarlo a te Elena. Andate d’accordo e avrebbe avuto l’occasione di passare del tempo con te”.

“Non vuole passare del tempo con me” s’intestardì lei “Ha già una ragazza ed è mia sorella. Inoltre, sei la migliore amica di suo fratello. conosci Stefan meglio di me”.

Storsi la bocca, poca convinta. “E tu, Mere, che ne pensi?” la interpellai.

“Di che cosa?” rispose distratta.

Al momento non vi prestai molta attenzione. Meredith normalmente aveva sempre una parola saggia per tutto, era strano che non mi avesse nemmeno ascoltato, ma non mi posi nessun problema.

Matt mi era appena passato davanti senza degnarmi di uno sguardo.

Mi alzai d’istinto. Percepii subito che qualcosa non andava.

Lo seguii. Lo chiamai. Non si voltò.

Eppure doveva avermi sentito per forza, ero proprio dietro di lui.

M’ignorò per il resto del giorno, evitò accuratamente il mio sguardo. Rimasi come una scema a fissarlo nella speranza che almeno mi sorridesse per rassicurarmi.

Non accadde.

 

Per i giorni successivi si era comportato nello stesso modo. Non mi parlava, non mi guardava, non rispondeva al cellulare. Mi aveva salutato solo una volta, perché ci eravamo trovati uno di fronte all’altra e non aveva avuto scelta. Era stato solo un cenno veloce e quasi impercettibile.

Non riuscivo a decifrare quell’atteggiamento, né a ricordarmi precisamente che cos’era accaduto la sera della festa.

La soluzione doveva essere per forza in quelle poche ore.

I miei quindici giorni di punizione si erano appena conclusi e io me ne stavo seduta sotto al mio portico ad aspettare Damon.

Avrei potuto chiedere a lui, magari sapeva se avevo fatto qualcosa di sbagliato nei miei momenti da ubriaca, ma sicuramente mi avrebbe soltanto preso in giro.

Ora mi aspettavano tre ore di macchina fino ad Atlanta, altre tre per il ritorno e il tempo necessario per prendere quel regalo, tutto insieme a Damon.

L’avrei ritenuto un miracolo se a fine giornata fossimo tornati entrambi vivi.

Non ero certo dell’umore per passare un pomeriggio con lui, se si fosse trattato di me, non avrei accettato.

Questa volta era per Stefan e dovevo ammettere, seppur con riluttanza, che Damon ultimamente si era rivelato molto più gentile nei miei confronti.

Non so che diamine gli fosse preso. Mi sembrava di essere circondata da matti.

Continuavo a chiedermi come mai avesse chiesto proprio a me di accompagnarlo. Era strano che non avesse considerato Elena come prima scelta, era un’occasione perfetta per approfittarsene.

Certo, c’era anche di mezzo Katherine, ma non potevo credere che Damon si fosse tolto una volta per tutte Elena dalla testa.

Dovevo rassegnarmi, era impossibile capire la mente contorta di quel ragazzo. A volte pensavo che soffrisse di disturbi di personalità.

Udii il rombo della sua macchina ancor prima di vederla. Non mi convinceva molto l’idea di salire su una Ferrari, specialmente se era lui a guidare.

Temevo per la mia incolumità. In generale non mi piaceva correre in macchina. Andavo piuttosto piano, con prudenza e apprezzavo quando gli altri facevano lo stesso.

Damon come minimo l’avrebbe lanciata a cento all’ora appena usciti dal centro abitato, chissà in autostrada!

Mi ripetei che era per Stefan, solo per Stefan.

Mi augurai che Damon gli avesse comprato il regalo più bello del mondo, almeno quella tortura sarebbe valsa a qualcosa.

Parcheggiò di fronte a casa mia e abbassò il finestrino. Non parlò, mi lanciò solo un’occhiata per invitarmi a raggiungerlo.

Controvoglia mi alzai e aprii la portiera di destra. Era la prima volta che mi trovavo in quella macchina in uno stato cosciente.

Istintivamente accarezzai il cruscotto di pelle lucidissima e rimasi colpita da quella morbidezza, così come dalla comodità del sedile.

Le macchine sportive non mi avevano mai dato l’impressione di essere confortevoli, invece mi stavo ricredendo.

Almeno non avrei avuto il mal di schiena a fine giornata. Poteva andarmi peggio.

“Studiatela bene ora che sei in te” mi consigliò Damon “Visti i precedenti, ho idea che non ti accorgerai nemmeno di essere in macchina al ritorno” scherzò.

Incrociai le braccia offesa e mi voltai dall’altra parte. Cominciava già male.

La prima mezz’ora passò in assoluto silenzio, non accendemmo neppure la radio per alleggerire la tensione.

Fu Damon il primo a decidersi a parlare “Allora, com’è il tuo primo giorno di libertà?”.

“Pensavo di trascorrerlo in altro modo” replicai.

“Coraggio, Bon Bon, non sarà così male. So essere un tipo divertente, se voglio”.

“Lo vuoi?”.

“Per te questo e altro” rispose con nonchalance.

Corrugai la fronte. Perché era così affabile con me? Nemmeno gli stavo simpatica.

Forse stava solo cercando di mantenere una convivenza civile. Dopo tutto non aveva torto: il pomeriggio era appena iniziato, ci attendeva un lungo viaggio. Saltarci subito alla gola non sarebbe servito a niente.

Sospirai. “Mi vuoi dire che regalo gli hai preso?” cedetti.

“No, è una sorpresa anche per te”.

“Ma dai! Almeno ti posso dire subito se è una pessima idea o no. Ci risparmieremmo un viaggio inutile” commentai, voltandomi infine verso di lui.

Lo vidi stringere le labbra “Ti dà così fastidio fare questa cosa con me, vero?”.

Quella semplice domanda ebbe il potere di ammorbidirmi in un secondo. Lo stavo trattando male, sebbene quella volta non se lo meritasse.

“Scusami” mormorai quasi inconsapevolmente “Non era mia intenzione essere così cattiva”.

“Sì, che lo era” mi corresse lui con un mezzo sorriso “Ma te ne ho fatte di peggio” ammise.

“Ti stai riscattando piuttosto bene” gli concessi “Mio padre tra un po’ ti eleggerà a eroe della famiglia. Dovresti ringraziarmi, gli sto lasciando credere che tu sia un angelo”.

“A dispetto del mio nome, sono davvero un angelo”.

Non trattenni una risata. Questa le batteva tutte.

“Conosco un paio di persone che avrebbe un’obiezione o due a riguardo, me compresa” lo stroncai “Però, c’è una cosa…insomma…”.

“Non essere troppo chiara, mi raccomando” m’incalzò sarcasticamente.

Tentennai. Stavo per fare un complimento a Damon e non era per niente facile, non per me. “Non so che genere di regalo tu abbia preso, ma è un gesto carino e credo che Stefan lo apprezzerà. È convinto che non t’importi niente di lui”.

A volte lo penso anche io.

“Sei la solita sentimentalona, Bonnie” mi apostrofò “Sto solo provando a comportarmi in modo maturo, in fondo è mio fratello. Questo regalo è una specie di segno di pace, ma non significa che conti qualcosa per me”.

Una frase del genere normalmente mi avrebbe mandato su tutte le furie. Mi limitai, invece, a scuotere la testa. Con Damon funzionava sempre così: un passo avanti e quattro indietro.

Per la prima volta notai ciò che Elena aveva tentato di dimostrarmi per anni: quel ragazzo accanto a me indossava una maschera di freddezza e indifferenza, troppo impassibile per essere vera. Damon si nascondeva.

“Forse ti sei dimenticato che cosa si prova a voler bene a tuo fratello, ma ho l’impressione che la sensazione sia ancora lì sotto, da qualche parte” azzardai.

“Devo aver perso un passaggio, uccellino. Non mi avevi definito un bastardo senza cuore?”.

“Io non uso quel linguaggio” ribattei “Comunque normalmente sì, lo sei” confermai “Ma hai avuto i tuoi momenti di compassione umana”.

“Per esempio?”.

Rimuginai un attimo in cerca di qualche memoria passata “Ricordi il giorno in cui mia madre scappò di casa?”.

Damon s’irrigidì percettibilmente.

“Ricordi che rimanesti con me e Stefan quasi tutta la sera? Tuo fratello chiamava la mamma. Sei sceso tu per calmarlo”.

“Non sono sceso per calmarlo, sono sceso perché non sopportavo più i vostri piagnistei. Tua madre se n’era appena andata e quel coglione di mio padre per farvi stare buoni vi mise su la cassetta di Bambi. Di Bambi!” ribadì quasi scandalizzato “Il cartone meno adatto considerando la situazione. Tu cominciasti e piangere e Stefan ti seguì a ruota perché gli mancava la sua di mamma che non aveva mai conosciuto. Sentivo le vostre urla da camera mia, così sono sceso e ho cambiato film”.

“La Bella e la bestia” dissi sovrappensiero.

“Era più divertente, si parlava d’amore. Sapevo che se tu avessi smesso di piangere, anche Stefan ti avrebbe imitato. Sono rimasto con voi per assicurarmi che non riprendeste con i piagnucolii. Non era buon cuore, era istinto di sopravvivenza”.

“Odiavi che tuo fratello stesse piangendo per sua madre. Anche a te mancava. Ti sei messo vicino a lui e gli hai preso la mano. Avevo solo cinque anni, Damon, ma ricordo quel giorno come se fosse ieri, quindi non provare a ingannarmi”.

Lo zittii.

E ne fui molto compiaciuta.

 

Non avevo mai fatto una cosa del genere.

Mai.

E se l’avevo fatto, chiaramente non ero in me o avevo rimosso.

Comunque non provai nemmeno a controbattere. Quel giorno era stato particolarmente doloroso per Bonnie; le avrei mancato di rispetto contraddicendola su certi dettagli.

“A proposito di tua madre” iniziai “Qualcuno a scuola ha commentato quello che è successo con Katherine?”.

Lei scosse la testa “No. Mi sembra assurdo ma nessuno ne ha parlato. Non lo sapevano neanche le mie amiche”.

Mi preparai per la reazione che avrebbero scatenato le mie parole. Erano due settimane che non vedevo l’ora di svegliarglielo, ma non volevo rovinare subito la sorpresa.

“Una gran fortuna che ultimamente io sia così altruista” sogghignai.

“Egocentrico, più che altro. Ti metti sempre in mezzo” commentò.

“Questa volta per una buona ragione. Esercito ancora una certa influenza sui ragazzini del liceo, hanno paura di me. Se si fosse sparsa la voce su ciò che ti aveva fatto Katherine, non ne sarei stato affatto contento. Mi sono premurato che tutti tenessero la bocca chiusa”.

Ed eccola lì, l’espressione che speravo.

Occhi  strabuzzati, bocca spalancata, sopracciglia incurvate, qualche suono sconnesso, nessuna parola di senso compiuto.

“Per me? L’hai fatto per me?”.

Questo era un colpo da maestro. Non si sarebbe mai aspettata che io potessi agire in suo favore così apertamente. L’avevo impressionata.

Riflettendoci bene, forse non si trattava solo della scommessa. Mi sentivo davvero un mollaccione, ma su quell’argomento m’intenerivo come un cucciolo. Ciò non significava che non me ne sarei approfittato.

Se proprio dovevo fare la figura dell’idiota, almeno potevo girarlo a mio vantaggio.

“Perché?” sussurrò incredula.

“Sto solo ricambiando il favore che mi hai fatto tu quando qualche mese fa ho litigato con mio padre. Sei stata gentile a non cacciarmi dal tuo giardino e io ti ho tirato via da una situazione spiacevole”.

Bonnie sbuffò “Hai davvero preso una testata da qualche parte. Prima il regalo per Stefan ora questo…mi stai lasciando…”.

“Estasiata?”.

“Perplessa”.

“Di solito ti lasciavo incazzata” considerai. Stavo compiendo dei bei passi avanti.

“Che cosa c’è sotto, Damon?”.

Quella domanda spiazzò me. Avevo la coda di paglia, per cui mi tesi d’istinto ma fui molto bravo a non farglielo notare.

Era impossibile che sospettasse il vero motivo della mia gentilezza.

“Ma non ti stanca stare sempre sulla difensiva?” la punzecchiai per cambiare argomento.

“Non con te” mi freddò “Tu sei come un grizzly, prima giocherelli con la preda e poi affondi” mi rimproverò.

“Un grizzly?” ripetei sconcertato “Mi hai paragonato a un enorme palla di pelo?”.

“Una palla di pelo letale” precisò lei.

Mi ritrovai a ridere, come non mi accadeva da tempo. Non perché la battuta fosse particolarmente divertente, ma per il modo in cui Bonnie l’aveva pronunciata.

Non riusciva a essere cattiva. I suoi insulti erano buffi e mai volgari. Sembrava che non volesse offendere, non fino in fondo.

Prendersela con lei era come sparare sulla croce rossa. Quasi mi sentii in colpa per tutti le volte in cui l’avevo trattata da schifo, quasi.

“Va bene, allora nessuno ti ha dato fastidio per la storia di tua madre. E tu come la stai affrontando?”.

Sicuramente mi sarei guadagnato un po’ di credito ai suoi occhi se mi fossi interessato alla sua vita e ai suoi sentimenti.

“Per come la penso io, mia madre non mi vuole. Non c’è motivo per cui io dovrei volere lei. Le vorrò sempre un po’ bene, sai? Dopotutto è mia madre, ma è tempo di smetterla di stare male per una cosa successa tredici anni fa. Insomma, bisogna penare solo per chi ti ama, per chi ne è degno, no?” domandò un po’ titubante nell’ultima parte, quasi le servisse una conferma.

Mi stupii, mi stupii sul serio. Per il suo carattere, per come l’avevo sempre vista io, immaginavo che si sarebbe chiusa in camera per settimane a commiserarsi. Normalmente sfogava ogni emozione nel pianto.

Non era la mia persona preferita, ma l’avevo vista crescere e credevo di conoscerla. Forse mi ero sbagliato, forse era più di una bambina piagnona.

“E tuo padre come l’ha presa?”.

“Non gliel’ho detto, nemmeno a mia sorella. Non l’ho raccontato a nessuno, solo alle mie amiche. Anzi, ti devo ringraziare. Almeno così sono limitate le possibilità che vengano a saperlo da qualcun altro”.

“Non c’è di che, uccellino, non c’è di che” mi compiacqui.

Per il resto del tragitto, Bonnie non tacque un secondo. Continuò a blaterale sulla festa a sorpresa che avrebbe voluto organizzare per Stefan. Lei ed Elena ci stavano già lavorando.

Staccai la spinta a un certo punto. Annuivo e sorridevo ogni tanto, ma in realtà non stavo ascoltando per davvero.

Avrebbe potuto dirmi che si sarebbe tenuta nella mia camera al campus e neanche me ne sarei accorto.

Quando superai il cartello di benvenuto di Atlanta, tirai un sospiro di sollievo. Non avrei sopportato un minuto in più delle sue stupide chiacchiere su Stefan.

Avevo pianificato tutte quella gita per farle cambiare idea su di me, per iniziare la mia opera di conquista e lei pensava solo a mio fratello. La sua presenza era ingombrante.

Il negozio che cercavo stava in una stradina un po’ lontana dal centro; trovai in fretta parcheggio.

Bonnie guardò sorpresa l’edificio davanti a noi. “È un negozio di musica?”.

“Non ti sfugge proprio niente”.

Avevo passato una settimana a scervellarmi per scegliere il regalo perfetto. Non doveva solamente piacere a Stefan, doveva soprattutto lasciare Bonnie di stucco, doveva manifestare tutta la mia (poca) voglia di riappacificarmi con mio fratello. Sapevo che quel gesto mi avrebbe fatto guadagnare punti ai suoi occhi.

Alla fine era arrivata l’idea geniale. Con un po’ di fortuna e parecchi soldi ero riuscito nel mio intento. Si trattava di una merce più unica che rara e il negozio che aveva fatto da mediatore nella compravendita si era rifiutato di spedirmelo fino a casa, richiedendo la mia presenza fisica per l’identificazione. Proprio quello che mi serviva perché la storiella che avevo raccontato a Bonnie due settimane prima stesse in piedi.

Fummo accolti da un vecchio signore che si premurò subito di recuperare il pacco nel magazzino non appena gli ebbi mostrato un documento.

Bonnie si guardava attorno affascinata. Il negozio conteneva oggetti strani, strumenti musicali antichi e d’antiquariato, pezzi unici e quasi introvabili, preziosi probabilmente solo a un occhio esperto.

Quando il signore tornò al bancone con la busta, chiamai la ragazza. Ero pronto a ricevere il complimento del secolo, perché quello era un regalo con la ‘R’ maiuscola.

Bonnie prese delicatamente tra le mani i fogli un po’ ingialliti, pieni di pentagrammi per lei incomprensibili. In alto una scritta recitava The snow is dancing.

È lo spartito originale” le spiegai “Fa parte di una composizione che Debussy ideò per la figlia, s’intitola Children’s Corner”.

“A Stefan piacerà” mi assicurò “Lui è molto bravo con il pianoforte”.

Ma il bello doveva ancora arrivare.

“Non credo che l’abbia mai suonata, ma forse se la ricorda, sebbene fosse molto piccolo quando l’ascoltava. Non era neppure nato, a dire il vero”.

Bonnie mi fissò incuriosita.

“Mamma suonava spesso il pianoforte” le raccontai “M’insegnò qualche canzoncina, ma non ero molto portato. Avevo si e no tre anni, ma ricordo che spesso si metteva al piano e suonava questo pezzo, lo adorava. In quei momenti Stefan calciava come un matto nella sua pancia. Credo, ecco…credo che gli piacesse”.

Le mani di Bonnie tremarono un attimo e fu costretta ad appoggiare lo spartito sul bancone per non farlo cadere. I suoi occhi brillarono. Non avevo mai visto quella luce, almeno non rivolta a me.

Per un attimo mi sentii estremamente orgoglioso, come se fossi il responsabile di quel meraviglioso luccichio. Bonnie non mi era mai sembrata così bella come in quel momento.

Fu una sensazione che mi spiazzò, tanto da togliermi l’uso della ragione.

Una volta mio padre mi aveva detto, in uno dei suoi rarissimi istanti di sensibilità, che il pensiero umano si azzerava di fronte alla vera bellezza. Era questo che intendeva?

Non impiegai molto a riscuotermi da quello stato di rapimento. Me ne vergognai subito dopo. Sicuramente erano state le tre pesanti ore di viaggio ad avermi rimbambito.

Bonnie d’altra parte non si era ancora ripresa dallo shock e osservava lo spartito, sorridendo come una bambina a Natale.

Non so che cosa l’aveva colpita maggiormente, se il pensiero delicato che avevo avuto, o il tono pacato e nostalgico con il quale avevo pronunciato il discorso. Quello non era recitato, mi veniva naturale quando rimuginavo sul periodo in cui mia madre era ancora viva.

“Credo che sia la cosa più dolce che ti abbia mai visto fare” mormorò lei “Come potevi pensare che questo regalo non fosse adatto e che ti servisse il mio aiuto? Se Stefan prova solo a fare una faccia che non rasenti la felicità assoluta, lo prendo a schiaffi io stessa”.

Sarei di certo stato in prima fila ad assistere.

“Voglio rendere il mio fratellino contento, il giorno del suo compleanno”. Ma da dove mi uscivano tali cazzate?

“Meno male che non t’importa di lui” mi ribeccò.

Non mi presi la briga di rispondere. Avevo ottenuto il risultato che mi ero prefissato. Per quanto mi riguardava, poteva anche urlare ai quattro venti che ero diventato la controparte umana di un orsacchiotto di peluche. Tra pochi mesi avrebbe di sicuro cambiato idea. Avrebbe preso me a schiaffi.

“Aggiudicato, quindi?” chiesi in conferma.

Bonnie annuì con forza.

Prima di tornare in macchina, ci fermammo a bere qualcosa. Ero abituato a guidare tanto, ma non avevo proprio voglia di affrontare subito altre tre ore di superstrada.

Il mio piano malefico sembrava funzionare alla perfezione. Bonnie si era addolcita molto rispetto all’inizio del pomeriggio e mi guardava anche in modo diverso, un po’ meno schifato del solito.

Negli ultimi due mesi l’avevo tolta da situazioni scomode e compromettenti e mi ero preso lo stesso un sacco di insulti. Ora facevo qualcosa di carino per Stefan e la rossa cambiava subito opinione su di me.

Ecco un altro dei poteri magici del mio fratellino. Tutti avevano un disperato bisogno di vederlo felice e contento.

Lui aveva decisamente l’aspetto di un tenero cucciolo da salvare; era comprensibile l’istinto di protezione nei suoi confronti ma non potei evitare di chiedermi come mai nessuno avesse mai provato a difendere me, almeno non con la stessa intensità.

I miei ragionamenti vennero interrotti dalla risata spontanea della ragazza seduta di fronte a me. Cominciò a ridere a crepapelle dal nulla.

“Uccellino, cosa hanno messo in quel tè?” le domandai scettico.

“Nel mio niente, ma la tua cioccolata deve essere particolarmente buona” rispose.

Aggrottai la fronte, senza afferrare il senso della frase.

Fosse stato per me avrei preso qualcosa di un po’ più forte, ma sapevo che Bonnie non sarebbe stata d’accordo, dato che dovevo mettermi alla guida. Così avevo optato per quella cioccolata a suo dire così buona.

“Perché lo pensi?”.

“Piace anche al tuo naso”.

Ci impiegai un paio di secondi a realizzare il significato di quelle parole. La mia mano scattò al tovagliolo e mi pulii  frettolosamente.

Avevo appena intinto il mio naso nella cioccolata?

Prima avevo pensato che Bonnie fosse addirittura bella e adesso infilavo il naso nella cioccolata sporcandomi come un bambino?

Mi stavo rincretinendo.

 

Durante il viaggio di ritorno probabilmente mi appisolai. Chiusi gli occhi per un momento e quando li riaprii eravamo già vicini a Fell’s Church.

Nonostante il pisolo durato quasi tre ore, ero terribilmente stanca e non solo per il tempo passato in macchina.

Damon era uno delle ragioni che mi avevano sfiancato quel giorno. Era diventato difficile stargli dietro, seguire i suoi sbalzi d’umore e i cambiamenti repentini d’idee.

Al mondo non c’erano persone capaci di coprirsi di una patina di odioso e saccente menefreghismo, per poi lasciarmi andare a ricordi e pensieri di una tale tenerezza.

Elena aveva ragione: Damon non era un totale idiota come poteva apparire. C’era molto di più sotto il suo sguardo scuro e freddo.

Aveva indubbiamente sofferto nella sua vita, ma nella mia testa non riuscivo a giustificarlo fino in fondo per il suo fare irrispettoso e scontroso.

Eppure mi chiesi come avessi potuto non notare quel suo lato così diverso dopo diciotto anni passati a gironzolare in casa sua.

Di solito ero brava a inquadrare le persone. Avevo sbagliato con Damon?

“Non pensare così intensamente, Bon Bon, o ti fumerà la testa” fu il suo primo commento quando si accorse che ero sveglia.

“Qual è il problema che ti affligge?” continuò.

Non potevo certo dirgli la verità, ma mi venne in mente un’altra idea. Prima di partire l’avevo completamente escluso; ora invece…

Beh, tanto valeva un tentativo. Visto che lui sembrava così ben disposto nei mie confronti.

“Damon. La sera della festa di Tyler…ho fatto qualcosa di strano?”.

Lui alzò le spalle “Niente di particolare. Hai ballato sul divano con Caroline. Insomma, ho visto cartoni animati più trasgressivi di te”.

Arricciai le labbra irritata, mente l’auto si fermava davanti a casa mia.

“In effetti hai fatto qualcosa di …inaspettato” si corresse “Di sicuro mi hai colto di sorpresa e non capita spesso”

“Qualunque cosa sia, dimmi che non l’ho fatta davanti a tutti” lo pregai. Rifiutavo di credere che avessi mandato all’aria le mie speranze con Matt con le mie mani.

“Oh no” ghignò lui “È successo proprio qui, in quest’auto”.

Il tono mi stava preoccupando.

“Mi hai baciato”.

Se non mi venne un infarto in quel frangente, fu solo per un fortunato miracolo.

“Non è divertente” sibilai con una mano già sulla portiera.

“Giuro che non è uno scherzo. Mi hai baciato per davvero. Probabilmente credevi che fossi qualcun altro, blateravi di un altro bacio” raccontò con una punta infastidita.

Sbiancai. E se nel mio stato d’incoscienza gli avessi rivelato del bacio al buio? Quello di cui mi avevano parlato le mie amiche?

Era questo cui Damon si stava riferendo.

Ma perché diamine lo avevo baciato?

Stava mentendo, per forza.

“Non te lo ricordi?”.

“No” borbottai scuotendo la testa. Mi sentivo parecchio confusa. Qualche immagine cercava di farsi strada nella mia memoria ma non era niente di definito.

“Rimedio subito allora” sussurrò.

Uno. Due. Tre.

Furono i secondi che passarono prima di sentire le sue labbra premute contro le mie.

Uno. Due. Tre.

Furono i secondi che passarono prima che lui sentisse il mio schiaffo sulla guancia.

Non glielo tirai forte, volevo solo allontanarlo.

Il suo sguardo era disorientato, quasi offeso.

“Non so a che gioco stai giocando Damon, ma io non voglio farne parte” lo avvisai. Scesi dalla macchina e mi diressi con passo deciso verso casa mia.

Udii la portiera sbattere e dei passi inseguirmi.

“Hai idea di quante ragazze pagherebbero per essere al tuo posto adesso?” mi rinfacciò.

Mi voltai furente “Allora vattene a divertirti con loro! Anzi, ho un suggerimento. Provaci con Katherine, la tua ragazza” sbraita. Aprii la porta e gliela chiusi in faccia.

Avevo ancora il fiatone, neanche avessi corso chilometri e chilometri.

Era impazzito del tutto?

Il campanello di casa suonò.

Raccolsi tutta la mia rabbia e mi preparai per gettargliela addosso e mettere fine a quell’assurdo teatrino.

“Damon, se non mi lasci in pace, giuro che…Stefan?”.

Cambiai radicalmente tono non appena mi accorsi che quello sulla soglia era il mio migliore amico. Il mio molto agitato migliore amico.

“Che cosa ci fai qui?”.

“Katherine mi ha baciato”.

Uccidetemi ora.

 

Il mio spazio:

Sono in ritardissimo lo so!!

Date tutta la colpa alla tesi, è tutta colpa sua!

Va beh, ragazze sono tornata con un capitolo bello carico, però! Spero sia valsa tutta questa attesa.

Confesso che mi piace questo capitolo, il che è strano, normalmente non sono mai sicura. Adesso voi troverete tutte le incongruenze del mondo ahah!

Avete visto che bel casino che sta combinando Katherine? Cosa faranno ora Stefan e Bonnie? E Damon quando lo scoprirà?

Ormai lo avete capito tutte: il messaggio è stato inviato a Matt per questo si comporta così freddamente con Bonnie.

Non vorrei essere nei panni di Damon quando lei lo verrà a sapere.

Non ho assolutamente idea se esista l’originale del pezzo di Debussy citato. Se esiste, ora ce l’ha Damon =)

Ora, se tutto va bene, lunedì do l’ultimo esame del terzo anni (incrocio le dita) e poi per due settimane sarò libera di scrivere.

Settimana prossima arriverà il capitolo cinque di Would you hold it against me?

Spero anche di riuscire a postare ancora due capitoli di questa storia, sicuramente il quattordicesimo.

Comunque vi aggiornerò nelle prossima puntate. 

Banner di bumbuni.

Ora vi do la buona notte, dato che è tardi.

Vi ringrazio tantissimo delle recensioni! Siamo a 100!!!!

Grazie mille anche a cui segue/legge e mi segna tra le preferite e ricordate!

Un bacione,

Fran;)

Ps: la canzone è azzeccata, vero? La adoro!

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Capitolo 14
*** Happy Birtheve ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo quattordici: Happy Birtheve.

 

“A little party never killed nobody, so we gonna dance until we drop
A little party never killed nobody, right here, right now’s all we got
All we got, all we got, all we got, all we got
All we got, all we got, all we got, all we got
Glad that you made it, look around
You don’t see one person sitting down
They got drinks in their hands and the room’s a bust
At the end of the night maybe you’ll find love”

(A little party never killed nobody- Fergie).

 

C’erano momenti in cui credevo che qualcuno mi avesse lanciato contro il malocchio. Tutti avevano sicuramente attraversato una fase simile nella loro vita, ma io stavo battendo ogni record.

Ero uscita dalla mia punizione da nemmeno un giorno e mi ero già ritrovata incastrata in situazioni che avrei preferito evitare.

Stefan se ne andava avanti indietro per la mia stanza, irrequieto e nervoso. Io me ne stavo stesa sul letto a fissarlo.

Non sapevo che cosa dire né che pensare. Katherine per me diventava sempre più cretina ogni giorno che passava. Non avevo altra spiegazione.

D’altronde andava a braccetto con quello psicopatico del suo ragazzo. Era per caso cominciata la settimana del tradimento e nessuno mi aveva avvertito?

Damon era un idiota e probabilmente stava solo cercando d’incasinarmi la testa o di fare uno scherzo a Stefan, ma Katherine che motivo aveva?

Ricordai le parole di Meredith, alla festa d’inizio anno. Katherine era sempre stata gelosa marcia di Elena, aveva sempre voluto ciò che aveva la sorella.

Katherine era affetta da un enorme complesso d’inferiorità che si trasformava in un’eccessiva voglia di primeggiare.

Aveva conquistato Damon, ma non era abbastanza: doveva avere anche Stefan, doveva soffiarlo alla gemella tanto odiata.

Davvero non capivo come una persona potesse arrivare a tali livelli di egocentrismo e manipolazione.

“Stefan mi stai facendo girare la testa” mormorai nella speranza che la smettesse.

“Sapessi quanto gira a me” sbuffò.

“Raccontami ancora come è successo” lo incalzai.

“Non c’è molto da aggiungere. Si è presentata alla mia porta e ha detto di essere Elena. Sembrava proprio lei, era vestita come lei, parlava e si muoveva come lei. Non ho sospettato nulla finché non mi ha baciato. Mi sono accorto che qualcosa non andava perché Elena non mi aveva mai baciato in modo così provocante. Mi sono allontanato subito e ho notato un piccolo neo sul suo collo…lì ho capito che era Katherine. L’ho mandata via e lei non ha opposto resistenza. Ha detto che sarebbe stato il nostro piccolo segreto ma che non finiva qui” mi spiegò lasciandosi cadere sul letto accanto a me.

“Che razza di sgualdrina” sibilai.

“Damon mi ucciderà” considerò Stefan.

Non era un’ipotesi da escludere. Damon non avrebbe mai sopportato di venire scavalcato per l’ennesima volta da suo fratello, sebbene non fosse sua la colpa.

Aveva passato una vita fermo al secondo posto: Giuseppe gli aveva sempre preferito il figlio minore, Elena amava Stefan e ora ci mancava solo Katherine.

Sembrava quasi che le persone più importanti nella sua vita facessero a gara per ferirlo.

“Damon non lo dovrà mai sapere” gli suggerii “Anche Katherine terrà la bocca chiusa, non è così stupida da rovinarsi con le sue mani”.

“Non lascerò che mio fratello venga preso per il culo da quella poco di buono” obiettò Stefan.

Ammirai la sua devozione e normalmente lo avrei incoraggiato per quella strada. Quella volta, però, mi dimostrai particolarmente egoista “Preferisci raccontargli che la sua adorata fidanzatina ha cercato d’infilarsi tra le lenzuola di suo fratell? Già ti odia, Stefan, vuoi peggiorare la situazione? Troveremo un altro modo per allontanarlo da Katherine, ma fai in modo di non essere il motivo della loro separazione o puoi dire addio a ogni speranza di aggiustare il rapporto con Damon”.

“Anche Elena sarà furiosa” osservò Stefan.

“Non puoi dirlo nemmeno a lei” lo avvisai.

“Stai scherzando?” si scandalizzò “Non ti aspetterai che tenga segreta una cosa del genere alla mia ragazza!”.

“Se Elena lo venisse a sapere, staccherebbe la testa a Katherine davanti a tutta la scuola. Damon lo verrebbe a scoprire nella mezz’ora successiva”.

“Scordatelo, Bonnie” si oppose “Elena ha il diritto di sapere la verità. E così anche Damon”.

Mi mordicchiai le labbra, indecisa. “Aspetta almeno il tuo compleanno. Lascia passare la tua festa e poi penseremo a come dirglielo, va bene?”.

Non potevo sapere con certezza se Damon fosse sincero o no, ma il regalo che aveva comprato a Stefan rasentava davvero la perfezione.

Forse desiderava sul serio sotterrare l’ascia di guerra, forse stava cercando di buttarsi il rancore alle spalle.

Non avrei permesso che il loro momento venisse distrutto dalle mire malate di quella stronza platinata.

 

La festa di Stefan, nonché il Capodanno si avvicinavano velocemente, troppo velocemente. Dovevo farmi venire in mente un piano per sistemare le cose e alla svelta.

Avevo chiesto un po’ di tempo per trovare il modo migliore e meno indolore per smascherare quella piccola manipolatrice di Katherine; in realtà non sapevo nemmeno da dove cominciare.

Il problema non era tanto Elena, si sarebbe arrabbiata a morte con sua sorella, ma non me ne importava niente. Stefan non aveva fatto niente di male, era stato solo ingannato, perciò quella faccenda non avrebbe rovinato il loro rapporto.

Non potevo dire lo stesso di Damon. Non esisteva un modo giusto per rivelare il tradimento della sua ragazza. Non solo lo avrebbe distrutto, avrebbe pure compromesso qualunque possibilità di riappacificarsi con suo fratello.

Da  un paio di settimane non riuscivo a pensare ad altro.

No, in realtà c’era una cosuccia che ogni tanto mi tormentava e che ogni volta mi lasciava infastidita oltre misura.

Damon mi aveva baciato. Era la terza volta, se non aveva mentito su ciò che mi aveva raccontato della notte in cui mi ero ubriacata.

Quella sera lo avevo baciato io. Avrei davvero desiderato che non fosse vero, ma le parole di Damon mi avevano colpito.

“Giuro che non è uno scherzo. Mi hai baciato per davvero. Probabilmente credevi che fossi qualcun altro, blateravi di un altro bacio”.

Blateravo di un altro bacio, quello accaduto anni fa alla festa di Tyler.

Mi sarei strappata la lingua da sola. Fortunatamente, Damon aveva pensato che presa dai fumi dell’alcol lo avessi scambiato per qualcun altro.

Stava di fatto che lui mi aveva baciato, di sua spontanea volontà e da sobrio. E non riuscivo a capirne il motivo. A ventun anni traeva ancora piacere dal prendermi in giro?

Forse sospettava dell’infedeltà di Katherine e cercava di vendicarsi, forse era semplicemente idiota. Da qualunque parte la girassi, non riuscivo a venirne a capo.

Non potevo immaginare che cosa avesse in mente, potevo solo stargli alla larga e non permettergli d’incasinarmi la testa.

Perché era quello che normalmente Damon Salvatore faceva: giocava e derideva qualunque tipo di sentimento. Non mi sarei lasciata coinvolgere.

In ogni caso avevo cose più importarti di cui occuparmi.

“Gattina, è pronto”.

Il pranzo di Natale a casa McCullough. Il periodo dell’anno che più adoravo. Avrei passato la mia giornata in famiglia e sarei uscita con le mie amiche la sera per gli auguri.

Infilai il maglione rosso e scesi saltellando in sala. Per un attimo ebbi paura di trovare strane sorprese ad attendermi, ma non appena scorsi solo mio padre e Mary mi rasserenai subito. Non avrei sopportato un’altra cena con i Salvatore.

Casa mia durante il periodo natalizio sembrava un pacco regalo. Tutto merito mio, lo ammetto. Il Natale mi rendeva allegra e ottimista e portava a galla la mia estrosità.

Papà di solito mi lasciava fare perché non aveva tempo di addobbare le stanze e mia sorella iniziava a trovarla una cosa un po’ infantile.

Così avevo campo libero e mi sbizzarrivo come più desideravo.

Aiutai mio padre con il pranzo e portai le patate in tavola. Avevano un profumo delizioso, non vedevo l’ora di mangiarle.

Papà non era un cuoco eccezionale, ma se la cavava, soprattutto se c’era Mary ad aiutarlo. In realtà odiava cucinare, non gli era mai piaciuto. Si era dovuto dare una mossa quando mia madre se n’era andata. Aveva cercato in qualche modo di prendere il suo posto in ogni cosa, e in tutta onestà, si era rivelato un genitore di gran lunga migliore di quanto lei avrebbe mai potuto sognarsi.

“Come mai Alec non è venuto?” chiese a un tratto mio padre, riferendosi al ragazzo di mia sorella.

“Perché ce l’ha anche lui una famiglia, papà” rispose Mary.

“Quindi non state pensando di formarne una vostra?” indagò lui addentando un pezzo di arrosto.

“Non incominceremo questa conversazione” troncò Mary.

“Sono tuo padre, ho diritto di sapere se mi troverò a breve dei nipotini”.

Sbuffai divertita e continuai a mangiare tranquillamente. Papà aveva a malapena digerito il fatto che Mary e Alec fossero andati a vivere insieme, voleva assicurarsi di non trovarsi altre sorpresine in giro.

“Parliamo di Bonnie piuttosto” saltò su mia sorella.

Io alzai la testa di scatto e corrugai la fronte. Che cosa c’era da dire su di me?

“Giusto, gattina non ci hai ancora aggiornato sul college. Hai preso una decisione?” mi domandò mio padre.

Sbiancai di colpo. Con tutto quello che mi era successo, l’università era proprio passata in secondo piano. O meglio, tutti i miei drammi erano diventati un’ottima scusa per non pensare a che cosa avrei fatto della mia vita.

“Sto valutando un paio di opzioni” temporeggiai.

“Tipo?” m’incalzò mio padre.

Fulminai con gli occhi Mary per aver scaricato tutta l’attenzione su di me. Non sapevo che cosa inventarmi.

“Io sono andato alla Dartmouth*” disse casualmente papà. Credo che fosse l’unica persona sulla faccia della Terra a essersi laureato all’Ivy League e aver scelto di esercitare in una piccola città come Fell’s Church.

“Papà per andare Dartmouth ci vogliono punteggi troppo alti ai test” gli ricordai.

“Niente di inarrivabile, ti basta impegnarti a fondo”.

Mi mordicchiai le labbra nervosamente. Ogni genitore è convinto che suo figlio sia speciale e intelligente, ma prima o poi mio padre avrebbe dovuto accettare la dura realtà: io non appartenevo a quella categoria. Ero normale, i miei voti si mantenevano nella media. Non avevo nemmeno una possibilità di entrare in un college dell’Ivy League.

“Che noia questi discorsi. Sai Bonnie, non posso aspettare che tu apra il mio regalo. È una bomba!” esclamò soddisfatta.

Le rivolsi un sorrisino tirato. Prima mi metteva nei guai, poi mi salvava.

Megera di una sorella.

 

Era una coincidenza piuttosto inquietante che il giorno di Natale in tv trasmettessero il Grinch su tutti i canali.

Un povero esserino verde che odiava il resto del mondo e soprattutto era odiato dal resto del mondo. Io non ero verde e molte persone aveva dichiarato di amarmi, ma alla fine dei conti me ne stavo da solo, il giorno di Natale, chiuso nella mia stanza del college.

Sage mi aveva invitato a casa sua e anche Alaric, ma avevo rifiutato.

Bisognava passare il Natale con la propria famiglia, non con quella degli altri. Mio fratello e mio padre sembravano esserci scordati di me. Non una chiamata, nemmeno un biglietto.

Non che mi mancassero molto, non ero pronto a ritornare nel dramma di casa Salvatore. Dopotutto, me ne stavo bene anche da solo.

Già non mi entusiasmava il pensiero che tra pochi giorni sarei dovuto andare al compleanno di Stefan. Se non fosse stato per quel maledetto regalo, lo avrei saltato volentieri. Ormai, però, mi ero cacciato con le mie mani in quella seccatura.

Tutto per conquistare una ragazza che mi aveva sganciato uno schiaffo ben assestato al nostro primo bacio. Al primo bacio da sobri, per lo meno.

Mi sentivo terribilmente ferito nell’orgoglio: non mi era mai capitato che qualcuno mi rifiutasse, soprattutto non mi mai capitato di dare così tante attenzioni a una ragazza per ricevere quel ringraziamento.

Ero stato con Meredith Sulez, Santo Cielo!

Bonnie non era niente di speciale eppure si comportava come se fosse superiore a tutti, come se si credesse superiore a me!

Non vedevo l’ora di farla capitolare sul serio e spezzarle il cuore in così tante parti che le sarebbe risultato impossibile ricomporlo.

Dovevo cambiare totalmente approccio. Mi dispiaceva ammetterlo ma l’uccellino non era così stupido come credevo: aveva fiutato qualcosa di sospetto.

Mi ero mosso troppo in fretta, da quel momento sarebbe stato meglio procedere lentamente. La recita del sentimentalone era un buon punto di partenza, dovevo soltanto stare attento a non farmi prendere dall’impazienza.

Se Bonnie era rimasta affascinata da Honeycutt, quanto avrebbe resistito con me?

Mi serviva solo trovare il suo punto debole. Improvvisamente la festa di Stefan non mi parve più una tortura. Era l’occasione perfetta per colpire.

Volevo chiudere questa storia il più in fretta possibile, volevo togliermi dalla testa quella ragazzina dai capelli rossi che mi stava facendo diventare pazzo con quel suo modo di negarsi a me e soprattutto volevo scoprire che cosa avesse in realtà in mente Katherine.

La festa di Stefan forse avrebbe risposto a qualche mia domanda. Quel dannato compleanno significava anche la fine delle vacanze, grazie al Cielo.

Ero un tipo piuttosto popolare, sempre circondato di gente, ma a Natale mi ritrovavo solo come un cane e mi sentivo uno sfigato. Odiavo quella sensazione, perché io non ero debole e normalmente non permettevo a nessuno di mettermi i piedi in testa, di ridurmi in quello stato. Amavo la mia compagnia, era la migliore che avessi mai sperimentato, ma non essere desiderato m’infastidiva parecchio.

E ultimamente un po’ troppe persone avevano messo in chiaro di non gradire la mia presenza, cosa totalmente assurda per me.

Sbuffai spegnendo la tv. Stavo cominciando a rimbambirmi a furia di canzoncine di Natale. Mi stesi sul divano, pronto per schiacciare un pisolino quando qualcuno bussò alla mia porta.

Per un attimo lo ignorai, sperando che avessero sbagliato o che desistessero. I colpi si fecero più insistenti.

Mi alzai e aprii la porta con furia, pronto a scaraventare il rompiscatole giù dalle scale.

Dal pianerottolo, mi rivolse un mezzo sorriso una persona che mai mi sarei aspettato di vedere: mio fratello, Stefan.

“Ti prego, dimmi che non sei lo spirito del Natale passato” mormorai in un moto di sarcasmo e incredulità.

Stefan alzò un pacchetto di fronte ai miei occhi “Ti ho portato i ravioli della signora Flowers. Queste camere hanno una cucina da qualche parte, vero?”.

Una ventina di minuti dopo stavo mangiando con una certa voracità quei ravioli squisiti. La signora Flowers era sempre stata una maga con il cibo.

Era da tempo che non gustavo un buon pasto fatto in casa. Sebbene fossi un cuoco niente male, i miei piatti non avevano lo stesso sapore di quelli della mia governante.

“Che cosa ci fai qui, fratellino?” gli chiesi, quando ebbi finito.

“È Natale” rispose semplicemente.

Arcuai le sopracciglia “Ti ha mandato Alaric per vedere se ero ancora vivo?”.

“No” negò “Quei ravioli erano avanzati, sarebbe stato uno spreco buttarli”.

Non servì il suo sorrisino divertito per capire la battuta. Non so per quale strano motivo mio fratello avesse deciso di passare del tempo con me e soprattutto non so per quale incredibile miracolo io non lo avessi ancora cacciato fuori.

“Giuseppe non si è arrabbiato? Non è da te lasciare così presto il pranzo di Natale”.

“Papà è andato via presto questa mattina: doveva occuparsi di non so quale problema”.

Allora non aveva abbandonato solo me.

“Bene, adesso che mi hai sfamato te ne puoi anche andare. Sono sicuro che tu abbia già altri impegni con Elena” lo liquidai.

Non potevo dire di essere totalmente infastidito dalla sua presenza: in un modo strano e tutto mio quasi mi faceva piacere. Di certo, però, non era mia intenzione gettarmi a capofitto in una giornata tra fratelli. Non ci ero abituato, non ne ero capace.

“Elena è fuori città con la famiglia. Sono sicuro che lo sai dato che anche Katherine è con loro” mi rigirò contro le mie stesse parole.

Ci furono minuti di silenzio, poi Stefan sospirò rumorosamente e parlò “Damon, io sono qui anche perché devo parlarti di una cosa…”

Non lo ascoltai neanche. Mi alzai di scatto dalla sedia e gli feci un cenno di seguirmi. Mentre ci dirigevano verso la mia camera, lui continuò a blaterare a proposito di qualcosa di assolutamente importante, ma non gli prestai attenzione.

Entrai nella mia stanza e mi diressi subito alla cassettiera vicino al mio letto. Mi rigirai un attimo lo spartito tra le mani. Non si sarebbe ripresentata occasione migliore per darglielo. L’idea consegnarglielo davanti a tutti alla festa non mi attirava molto.

Tutta quella messinscena era in atto solo per intenerire Bonnie, per farle cambiare idea sul mio conto. Lei aveva già visto quel regalo, quindi non avrei dovuto impressionare nessun altro.

Grazie alla visita a sorpresa di Stefan, potevo compiere la mia buona azione senza perdere la faccia davanti all’intera città.

Mio fratello mi guardò stranito quando allungai la mano per passargli i fogli ingialliti dal tempo.

“Regalo di compleanno un po’ in anticipo” gli annunciai.

“Mi hai comprato qualcosa?” domandò allibito.

“Credevi che mi sarei presentato a mani vuote?” lo presi in giro.

“Credevo che non ti saresti proprio presentato” ammise “The snow is dancing” lesse “È di   Debussy” proseguì.

“Ed è l’originale” puntualizzai.

Sgranò gli occhi e mi osservò sospettoso, quasi volesse una conferma che era la realtà e non un sogno. “Non ricordo di averla mai suonata” aggiunse.

“Era uno dei brani preferiti dalla mamma” gli dissi “Lo eseguiva spesso. Ho l’impressione che la melodia ti sarà molto famigliare. Sembravi apprezzarla quando eri ancora nella sua pancia”. Neppure mi resi conto che eravamo entrati nel pericoloso territorio della nostalgia.

“Damon, io…” boccheggiò in cerca delle parole.

“Non c’è di che”.

Stefan strinse quello spartito come se fosse scritto con fili d’oro.

Non avevo considerato l’impatto emotivo che un regalo del genere avrebbe provocato, non tanto su di lui, quanto su di me. Non avevo memoria dell’ultima volta in cui mi ero sentito così in sintonia come mio fratello e mi accorsi che, in fin dei conti, non era una sensazione malvagia.

“Che cos’è che volevi dirmi prima” mi affrettai a cambiare discorso.

Stefan mi fissò combattuto e indeciso, aveva una strana tristezza negli occhi che non riuscivo a decifrare.

“Niente” soffiò infine “Niente, solo…un semplice buon Natale”.

 

Mia sorella aveva superato se stessa.

Il vestito che mi aveva regalato per Natale rasentava la perfezione assoluta. Mary aveva sempre avuto un ottimo gusto, non mi ero mai accorta, però, che possedesse anche un così buon occhio per le misure.

Non ero abituata a indossare abiti di quel genere, ero più la ragazza jeans e maglietta della porta accanto. Non mi sentivo a mio agio con i vestiti da sera, avevo solo l’impressione di apparire come un gigantesco clown, ridicolo e sciocco.

Non fu la sensazione che percepii non appena provai l’abito: color avorio, stretto in vita e aderente nella sua parte inferiore fino alle mie ginocchia, morbido e fluente sul petto e sulle spalle a nascondere e a non appiattire ulteriormente il mio seno poco pronunciato.

Sorrisi esterrefatta e arrossii da sola, osservandomi nello specchio. Ero davvero io?

Non che fossi cambiata radicalmente, ma c’era qualcosa in quell’abito, un’eleganza e una raffinatezza che potevo avvertire su di me, dentro di me.

Ci voleva davvero così poco per tirare fuori un po’ di fiducia in se stessi?

Non sprecai molto tempo a rispondere a quella domanda. Mi truccai poco: un po’ di mascara e un leggerissimo rossetto, infilai le scarpe e il cappotto.

Elena mi aspettava già in macchina con Stefan.

Alla fine, l’idea del party a sorpresa era saltata miseramente: lui non ci era cascato. Senza contare che suo padre aveva già organizzato tutto: una festa in uno dei migliori locali vicino a Fell’s Church per il compleanno del suo figliolo prediletto, cui era stata invitata praticamente tutta la scuola.

Si sarebbe rivelata una baraonda micidiale, già lo sapevo.

E infatti un gran casino fu proprio quello che ci accolse: musica altissima, una marea di persone che si agitava per tutto il locale, luci da capogiro, chiarissime tanto che sembrava pieno giorno.

Una scena da cinema. Definizione che non andava molto lontano dalla realtà dal momento che mi pareva di stare dentro un film.

“Porca miseria” fu il commento scioccato di Elena “Tuo padre si è veramente dato da fare. Non ricordavo che il diciottesimo di Damon fosse così” considerò.

“O no, papà organizzò una festa del genere anche a lui” spiegò Stefan “Ma mio fratello decise di boicottarla e spostò tutto a casa nostra”.

Naturalmente non ero stata invitata a quella festa, sapevo solo che un mese dopo Giuseppe si era trovato costretto a ristrutturare parte della villa per i danni causati da Damon e dai suoi amici.

“Verrà stasera?” s’informò Elena.

“Non credo…questo non è il suo gen-” si bloccò quando i suoi occhi individuarono la figura del fratello, intento a parlare con Tyler e Katherine.

“Mi è salita la nausea” sibilò Elena alla vista della sorella “Le brutte sorprese di Capodanno” borbottò sgusciando via.

“Che cosa diamine ci fa qui?” sbottò Stefan irritato “Elena mi aveva detto che subito dopo il Natale sarebbe partita per Parigi per passare le vacanze con la zia. L’avrei informata che la sua presenza non era gradita se avessi saputo che era tornata. Perché Elena non mi ha avvisato?”.

“A giudicare dalla sua espressione, anche lei lo ha scoperto stasera” gli dissi per cercare di calmarlo: aveva la mascella contratta e gli occhi che mandavano fiamme, non l’avevo mai visto così infuriato in vita mia.

“Non la voglio qui, non voglio che faccia danni” affermò risoluto “Damon mi ha fatto un regalo, sai?” mi raccontò “E stasera è venuto alla mia festa. Ci stiamo riavvicinando e non voglio che quella sgualdrina rovini tutto”.

“Quand’è che te l’ha dato?” chiesi sconcertata. Da quello che avevo capito, Damon avrebbe dovuto darglielo quella sera.

“Sono andato a trovarlo il giorno di Natale. Avevo intenzione di rivelargli tutto su Katherine. Poi lui ha tirato fuori quel regalo bellissimo e…non ho potuto dirglielo. Non me la sono sentita”.

Sospirai: avevamo appena sfiorato la catastrofe mondiale. Se Damon fosse venuto a conoscenza di quello che era successo, sarebbe scoppiata l’apocalisse.

“Non penso che Katherine sia qui per creare problemi. È qui perché è Capodanno e non aveva nessun altro posto dove andare. Tutta la scuola è qui, Damon è qui, lei ha semplicemente seguito la massa” lo consolai “Se fossi in te, cercherei Elena e poi scambierei due parole con tuo fratello, non appena la vipera si allontana”.

Stefan si rilassò percettibilmente alle mie parole, ma era chiaramente ancora agitato.

“Forza, è la tua festa!” lo incitai “Goditela. Un po’ di divertimento non ha mai ucciso nessuno” gli ricordai canticchiando la canzone in sottofondo.

In effetti, la serata continuò senza grandi problemi. Vidi Damon e Stefan scambiarsi qualche parola, niente di che, ma comunque un gran passo avanti rispetto al solito.

Elena e sua sorella s’ignorarono. Meredith sembrava su un altro pianeta, come da un po’ di tempo a questa parte e Caroline si stava dando alla pazza gioia tra champagne e danze.

Tutto regolare, tutto tranquillo.

Le mie preoccupazioni via via scemarono e cominciai anche io a godermi il party. Mi tenni lontana dall’alcol per non ripetere l’esperienza dell’altra volta, ma mi lasciai trascinare sulla pista da ballo da Care.

Procedeva tutto splendidamente e forse sarebbe andato ancora meglio, se a un certo punto, osservando Katherine vagare da sola, non avessi deciso di mettere un paio di cose in chiaro.

Mi districai da Caroline che continuava ad agitare le mie braccia come una matta e serpeggiando tra la massa, mi trovai proprio di fronte a Katherine.

Mi guardò dall’alto al basso, un po’ sorpresa dalla mia spavalderia. Era chiaro che volessi parlare e probabilmente mi credeva ancora spaventata a morte da lei.

“Bonnie” sorrise falsamente “Non è un po’ tardi per stare in giro? È quasi mezzanotte”.

Non accolsi la provocazione “Perché sei qui?”.

Lei si accigliò “È l’ultimo dell’anno, di solito si festeggia. Capisco che tu non ci sia molto abituata: tutta questa euforia dev’essere difficile da gestire per te”.

Non le permisi d’intimidirmi. Ignorai le sue continue frecciatine e replicai “Non so che cosa tu abbia in mente, ma la festa di Stefan, la vita di Stefan” mi corressi “È off limits, quindi non provare a intrometterti, stagli lontano”.

“Altrimenti?” sollevò un sopracciglio. Katherine Gilbert non era certo tipo da permettere a chiunque di minacciarla e passarla liscia.

“Non ho problemi a raccontare a Damon quello che è successo” sentenziai.

“E cosa sarebbe successo, illuminami” mi provocò “Crederebbe alla parola del suo odiato fratello e di quella sfigata della sua migliore amica, o alla sua ragazza di cui è pazzamente innamorato?”.

Mi venne da ridere a quell’affermazione. Damon Salvatore non era mai stato innamorato di nessuno, di certo non di lei che era solo il pallido riflesso del vero angelo, Elena.

“Mettiamolo alla prova”. Da dove mi usciva quel coraggio?

“Tu non dirai niente, Bonnie” m’intimò “Perché conosco molte più cose di quanto tu pensi: non faresti mai niente che possa danneggiare le tue amiche”.

“Elena non ne soffrirà. Sei tu la traditrice, non Stefan” sbuffai.

“Non parlavo di Elena, ma di Meredith” ghignò “Non mi considero un’esperta di diritto, ma sono abbastanza certa che intrattenersi con il professore di storia sia illegale”.

Impallidii. Come poteva Katherine essere a conoscenza di ciò che era avvenuto tra Meredith e Alaric?

Al momento inorridii, poi mi presi un attimo per riflettere. Meredith e il professor Saltzman non avevano fatto niente di male: non appena avevano scoperto di essere alunna e insegnante avevano lasciato perdere qualunque tipo di relazione che non fosse professionale.

“Questa è un’assurdità bella e buona. Il preside non ti crederà mai” ribattei.

“Vogliamo metterlo alla prova?” mi rigirò contro Katherine “Rinunciaci, Bonnie, accetta la sconfitta. Sarò sempre e comunque un passo avanti a te”.

Cinque minuti dopo mi trovavo in terrazza. Faceva un freddo cane e non c’era nessuno, proprio quello che mi serviva.

Avevo davvero bisogno di sbollire un po’ la rabbia e avrei preso Katherine per i capelli. Gli occhi mi pizzicavano dal nervoso e la testa mi doleva paurosamente. Tutte quelle chiacchiere su Meredith, poi, mi avevano spiazzato.

Per concludere, Katherine Gilbert mi aveva battuto un’altra volta e io ero stata così stupida da cascarci.

Era tremendamente fastidioso non riuscire a tapparle la bocca, non riuscire a togliermi quella dannata soddisfazione.

E ciò che mi spaventava di più era la calma e la sicurezza che aveva dimostrato. Stava di sicuro macchinando qualcosa e io non potevo fermarla.

“Non sei in vena di stare in mezzo al chiasso, sweetheart?”.

Quella voce mi sciolse come la neve al sole, l’avrei ascoltata per tutta la vita.

“Klaus” mi voltai quasi raggiante.

“È da molto che non ci vediamo” osservò mentre compiva qualche passo verso di me.

“Dove sei stato?”.

“Un po’ in giro” rispose “Ho visitato la Virginia coloniale e mi sono interessato per qualche università”.

“Vuoi continuare qui gli studi?”.

“Magari per un master” suppose “Devo ancora parlarne con la mia famiglia”.

Annuii senza controllare il rossore che prepotente colorava le mie guance. Klaus aveva un fascino sinuoso e raffinato, uno sguardo attento e ipnotizzante. Quando parlava, mi sembrava di venire lentamente e dolcemente soggiogata, cullata. Adoravo quella sensazione.

“Perché sei qui fuori tutta sola?” mi domandò.

Scrollai le spalle “Non ero in vena del chiasso” ripetei le sue stesse parole.

“Chiasso a Capodanno, davvero singolare” commentò con una nota ironica “Però ti do ragione: alcune persone lì dentro sono parecchio fastidiose”.

“Klaus posso farti una domanda?” chiesi di getto.

“Tutto quello che vuoi, darling”.

“C’è un motivo in particolare per cui vorresti trasferirti? Che so: cambiare aria, costruirti una nuova vita, circondarti di gente che non conosci”.

“È questo che vuoi tu? Circondarti di gente che non conosci?” s’incuriosì di rimando. Non era stupido, aveva intuito che tutto il discorso fosse più rivolto a me che a lui.

“Non ne sono sicura. Immagino che sia più facile quando le persone non sanno come sei, perché puoi diventare chiunque”.

“Senti di dover essere qualcun altro?” si accigliò “Non trovo che ci sia nulla di male in te”.

“Vorrei solo dimostrare a tutti che sono cambiata, ma nessuno sembra disposto a crederci. Sono un po’ stufa di sforzarmi così tanto, come se fossi costantemente sotto esame. Alla fine è tutto inutile, fallisco sempre” conclusi affranta.

“In effetti, credo proprio che tu abbia fallito” concordò con me Klaus.

“Grazie tante, questo lo so” borbottai piccata, incrociando le braccia. Nemmeno mi accorsi che due mani si erano poggiate delicatamente sul mio volto, non fin quando fui costretta a incrociare i suoi occhi chiari.

“Ti preoccupi talmente tanto di quello che pensano gli altri che tu stessa non ti sei neanche accorta di quanto in realtà sei cambiata” mi soffiò a pochi centimetri dal viso.

Era vero? Ero cambiata senza rendermene conto?

Sicuramente mi sentivo diversa dalla ragazzina spaurita di qualche mese prima. Forse Klaus aveva ragione, forse non volevo ammetterlo neppure a me stessa.

Udii in lontananza e distrattamente i miei amici che incominciavano il conto alla rovescia per la fine dell’anno. Le mie mani, invece, iniziarono a tremolare e a sudare.

Allo scoccare dello zero era tradizione baciare qualcuno, che fosse un fidanzato, un amico, o un perfetto sconosciuto bello da morire.

Realizzai in mezzo secondo che su quella terrazza c’eravamo solo noi due e, data la vicinanza, Klaus sembrava del tutto intenzionato a baciarmi.

Ripensai a qualche tempo prima, quando lo consideravo solo una sorta di piacere proibito, guardare e non toccare. Avevo rifiutato il suo invito a uscire perché stavo con Matt.

Adesso ero totalmente libera, non dovevo più riguardo a nessuno. Matt mi aveva scaricata malamente; c’era qualche altra ragione che m’impediva di lasciarmi andare?

Klaus non rimaneva più nella dimensione dell’immaginazione, non era una fantasia, era lì di fronte a me, le sue mani mi tenevano ancora il volto e la fine del countdown si avvicinava.

Non mi sarei spostata nemmeno per tutto l’oro del mondo: ero ben decisa a prendermi il mio bacio di Capodanno da quello schianto di ragazzo che con una semplice frase era stato capace di risollevarmi l’umore.

Allo zero, Klaus si piegò su di me e io chiusi gli occhi. Avvertii il suo respiro sulla bocca, ma presto si allontanò scaldando la mia guancia. Con mia somma delusione, le sue labbra si posarono proprio sotto il mio orecchio e, comunque, mi mandarono i brividi fino ai capelli.

“Mi dispiace, darling, ma temo che qualcuno non sarebbe felice se ti baciassi veramente” mi mormorò, lasciando la presa.

Mi voltai e intravidi giusto tempo la figura di Matt sparire dal vetro della porta finestra.

Non mi sentii in colpa, almeno non del tutto.

Mi chiesi, però, perché Klaus fosse così rispettoso dei sentimenti di Matt. Neanche si conoscevano.

“Tra me e lui non c’è più nie-” mi affrettai a specificare.

Ma su quella terrazza ero rimasta solamente io. Klaus se n’era andato.

 

Tyler fece l’ennesima battuta sull’ennesima ragazza che si era portato a letto la sera prima. Katherine lo ascoltava con un ghigno stampato in faccia e rincarava la dose di frecciatine. Era decisamente il tipo che si trovava meglio in mezzo ai maschi, con quel suo fare da civetta e la risposta sempre pronta.

La sua presenza, in realtà, non era prevista: mi aveva chiamato dall’aeroporto pregandomi di andare a prenderla; non voleva più partire per Parigi, ma restare in famiglia e festeggiare il Capodanno con i suoi amici.

Si era cambiata e sistemata in macchina, nel tragitto di ritorno, e il risultato rimaneva comunque ottimo. Non vedevo l’ora di restare un po’ da solo con lei.

Mi resi conto che Katherine non aveva ancora avvertito la sua famiglia, quando scorsi Elena trafiggerla con gli occhi, forse nella speranza di farla evaporare.

La mia attenzione gravitò stranamente poco intorno a lei: virò in fretta sulla figura accanto.

Non ebbi problemi a riconoscere Bonnie: il suo stile, la sua innocenza e ingenuità erano perfettamente riconoscibili, ma qualcosa di diverso brillava in lei. Appariva più sicura e consapevole, a suo agio nell’abito chiaro che delineava il suo corpo ancora un po’ acerbo, da ragazzina. Per una volta, però, non mi parve un difetto.

Aveva compiuto una scelta migliore rispetto alla festa di inizio anno, quando si era presentata strizzata in un pezzo di carta stagnola.

Quella sera realizzai che Bonnie McCullough non era affatto male. Tyler aveva provato a urlarmelo in tutte le lingue e io stupidamente non l’avevo ascoltato.

Mi premurai bene di nascondere la sorpresa e l’apprezzamento sorti alla vista della rossa. Avevo ancora una certa reputazione da mantenere e non desideravo darla vinta così facilmente a quel decerebrato di Tyler.

Tenni per me quei pensieri e ascoltai, senza prestarvi veramente caso, i commenti poco gentili che Katherine rivolse a sua sorella e a Bonnie.

Quando l’uccellino sparì tra la folla, sparì anche dalla mia mente. Ritornai a essere il solito me stesso e a scherzare con Tyler, stringendo Katherine.

Nel corso della festa scambiai anche due parole civili con Stefan e per la prima volta non provai un gran fastidio a vedere Elena accanto a lui.

Non appena notai che mancavano pochi minuti alla mezzanotte, condussi Katherine lontano dal casino. Era da molto che non stavamo insieme e avevo voglia di trascorrere un po’ di tempo con lei, da soli. Non potevo accontentarmi soltanto di un bacio, avevo bisogno di più, avevo bisogno di farla e sentirla mia.

Mai nella vita avrei pensato che proprio Bonnie avrebbe rovinato i miei piani, ma così fu.

Individuai la sua sagoma e quella di un’altra persona fuori in terrazza.

L’aria si era raffreddata parecchio, aveva smesso di nevicare da poco; non capii perché qualcuno dovesse patire il gelo in quel modo.

Finalmente identificai l’altro: Klaus. Klaus piegato sul viso di Bonnie, Klaus un po’ troppo vicino al viso di Bonnie per essere una conversazione innocente.

Mio cugino incrociò per un breve istante i miei occhi, prima di poggiare la sua bocca sulla pelle della ragazza.

Nella stanza accanto esplose un boato per l’anno nuovo. Scorsi Matt Honeycutt, palesemente irritato, marciare via dalla porta finestra, verso l’altra sala; poi Katherine mi si gettò addosso, parandomi la visuale, e coprì le mie labbra con le sue.

Agognavo quel contatto da tutta le sera, eppure non dimenticai la scena cui avevo appena assistito: continuò a frullarmi in testa anche quando le mani della mia ragazza scivolarono nei miei pantaloni.

Riuscii a scacciarla solamente qualche minuto più tardi, mentre prendevo Katherine in un angolo buio, contro al muro, a pochi metri dai festeggiamenti, con il rischio di venire pure scoperti. Un suo gemito spodestò infine l’ultima considerazione:

Bonnie non me l’avrebbe mai lasciato fare.

Ritornammo in mezzo agli altri, nessuno si era accorto di niente, troppo occupati a divertirsi. Non c’era traccia di Bonnie; sperai che non avesse già abbandonato il party.

Dovevo ancora mettere in atto il mio piano per riacquistare la sua simpatia, sempre che ce l’avessi mai avuta!

Mi scusai con Katherine e iniziai la mia ricerca tra la folla, scandagliando ogni angolo, ma di capelli rossi non vi era neanche l’ombra.

Stavo per gettare la spugna, quando il mio sguardo intercettò Klaus appoggiato al muro, che sorseggiava da solo un bicchiere di champagne.

Nuovo obiettivo: segnare il territorio.

Non persi tempo in convenevoli, non aggirai la situazione prendendola larga. Andai dritto al punto “Che cosa pensi di fare con Bonnie McCullough?”.

Lui sollevò il capo e mi fissò sconcertato “Scusami?”.

Aveva capito benissimo, faceva il finto tonto.

“Ti ho visto prima sulla terrazza. Ti conosco, Klaus, so quando ci stai provando con una ragazza” lo accusai.

“Non ti seguo: qual è precisamente il problema?”

“È impegnata”.

“Da quanto mi risulta non esce più con quell’amico di Stefan”.

Si stava divertendo un mondo, lo percepivo dal suo ghigno.

“Klaus tu vivi a Londra. Quali sono le tue intenzione: sedurla e abbandonarla?”

“Ti stai prodigando veramente tanto per una persona con cui non parli nemmeno” mi rinfacciò con tutto il suo aplomb  tremendamente british.

“Bonnie è la regina del dramma, va bene? Come salirai sull’aereo, inizierà a piangere e a strapparsi i capelli. Sarà una scena tragica e non ce ne libereremo per almeno due mesi. Fidati, stalle lontano, se non vuoi essere tempestato di messaggi e di email strappalacrime” gli consigliai. Stavo decisamente esagerando la cosa, ma dovevo indurlo a scappare a gambe levate per avere campo libero.

Lo scenario che gli avevo preannunciato non sortì alcun effetto.

“Damon, ti infastidisce che io ci provi con Bonnie?”.

Di sicuro non ottenni l’effetto che avevo sperato.

Ma quanto era stupido? Io geloso di lui e Bon Bon?

Sembrava l’inizio di una barzelletta.

“È questo che voi inglesi chiamate humor?”

“Per esperienza, se un ragazzo ti racconta tante fandonie solo per scoraggiarti, significa che c’è qualcosa sotto”.

C’è una cazzo di scommessa sotto e se non ti togli dai piedi, mi renderai la vita molto difficile!

“Dammi retta, Klaus, scappa finché sei in tempo” gli suggerii. Non tirai ulteriormente la corda: la conversazione aveva preso una piega che non mi piaceva per nulla, era meglio finirla lì. Mi augurai che avesse capito il messaggio.

“Io di certo sono ancora in tempo, la stessa cosa non si può dire di te” insinuò “Forse sei venuto a questa festa con la ragazza sbagliata”, non aggiunse altro. Mi superò, tornando a immergersi tra la folla.

Scossi la testa sfinito. Ci mancava solo questa: ma come poteva anche solo pensare che io avessi un debole per quell’irritante testolina rossa?

Come se l’avessi chiamata, Bonnie mi passò accanto proprio in quell’istante, senza degnarmi di uno sguardo.

Mi scordai subito delle parole di Klaus e mi concentrai su di lei. Era la mia occasione, non me la sarei fatta scappare.

“Uccellino” la canzonai.

Probabilmente finse di non sentirmi perché non si voltò.

Scocciato, le afferrai un polso. Bonnie si bloccò sul posto e si dimenò sgusciando dalla mia stretta “Non mettermi le mani addosso” sibilò.

“Non dirmi che mi hai preso per uno stupratore” osservai scettico.

“Ti ho preso per uno da cui dovrei stare alla larga” rispose acida.

La gattina aveva tirato nuovamente fuori gli artigli.

Mi imposi di tirare un respiro profondo e non mandarla a quel paese seduta stante. Stavo per esibirmi nella messinscena più riuscita della mia vita; quella messa in atto ad Atlanta in confronto era una recita da asilo materno.

“Sono qui con buone intenzioni” le assicurai “Volevo chiederti scusa… quant’era difficile  sì, ti chiedo scusa, Bonnie, per il bacio dell’altro giorno. Con Katherine è un periodo un po’ complicato e quel bacio è stato una specie di ripicca, una stupida vendetta. Non avrei dovuto trascinarti nei nostri casini, avevi ragione e mi dispiace”.

Dalla sua espressione era chiaro che il mio discorso l’avesse colpita. Non capitava tutti i giorni che Damon Salvatore chiedesse perdono e ammettesse di aver sbagliato.

Si trattava di una montagna di bugie, ma finché risultavano efficaci non me ne importava.

“Adesso sembra tutto risolto” commentò, alludendo alla situazione con Katherine.

“Lo è” confermai.

Lei parve tentennare: aprì la bocca più volte e la richiuse altrettante, appariva combattuta “Damon non…voglio dire…” temporeggiò “Tu sei terribile” dichiarò “Ma lei è peggio. Non perderci troppo tempo, non ne vale la pena”.

Non compresi il significato di quel consiglio. Non mi turbarono tanto le parole quanto la genuinità con cui me le disse. Un campanello di allarme suonò nella mia testa e io, scioccamente, scelsi d’ignorarlo.

Decisi di smorzare l’atmosfera, per evitare di rimuginarci troppo “Andiamo, Bon Bon, non ti sarai mica presa una cotta per me?”

Bonnie assottigliò le labbra, stizzita, e mi diede una leggera spinta per oltrepassarmi.

Io ghignai soddisfatto.

“Stai davvero bene stasera” mi complimentai mentre lei marciava via. Rallentò percettibilmente la camminata, pur non fermandosi del tutto; girò per metà il viso, poi proseguì senza prestarmi più attenzione.

Tra i due, comunque, quello più stupito ero io.

Me ne rimasi lì, immobile, con una strana espressione a dipingermi il volto.

Stai davvero bene stasera.

Un colpo da maestro, una chiusura perfetta.

Me ne sarei anche compiaciuto, se non avessi constatato con estrema preoccupazione, che quella frase si era rivelata troppo spontanea, troppo sincera e soprattutto troppo vera.

 

Il mio spazio:

1

2

3

4

5

Mi ripresento con estrema umiltà, nella speranza di evitare lanci di pomodori o insulti.

Da quant’è che manco? Non quantifico, perché me ne vergogno da sola.

So di aver detto che avrei aggiornato durante l’estate, eppure sono sparita. Sono partita per Londra e quando sono tornata la tesi mi attendeva minacciosa.

Mi scuso davvero per l’attesa. D’ora in poi gli aggiornamenti saranno più frequenti. Mi scuso anche per il ritardo immenso nelle risposte alle vostre recensioni.

Forse vi sono apparsa un po’ ingrata e maleducata. Non lo farò più, giuro!

Il capitolo è un più lunghetto rispetto agli altri. Mi auguro che vi sia piaciuto e che abbia rimediato all’assenza di questo mese.

Il prossimo capitolo sarà incentrato quasi interamente su Damon e capiremo molto cose sul comportamento ambiguo di Katherine.

Klaus presto ci lascerà e sarà chiaro il ruolo che ha in questa storia, sebbene sia già abbastanza palese. Solo Damon è talmente cieco da non rendersene conto.

Il nostro protagonista sta cuocendo a fuoco lento, la nostra protagonista è, invece, completamente indifferente al suo fascino. Come cambierà questa situazione?

Avete apprezzato il momento tra fratelli? Secondo voi tra quanto scoppierà la bomba?

Una piccola spiegazione sul titolo: birtheve è una parola inventata da me.

È un incrocio tra birthday (quello di Stefan) e eve.

Eve vuol dire vigilia e in questo caso si riferisce alla notte di Capodanno.

Fa un po’ schifo, vero? Ahaha

Per ora vi do la buona notte!

Vi ringrazio infinitamente per i commenti e il sostegno. Ho notato che sono aumentati anche i preferiti e i seguiti, grazie tantissimo!!!

Scusatemi ancora per i ritardi! Ormai sarete stufe delle mie continue giustificazioni =(

Ci vediamo presto con il prossimo capitolo!

Banner di bumbuni.

Bacioni,

Fran;)

Ps: trovate che le personalità dei personaggi stiano scadendo nell’OOC? Ho cercato di mantenere un’evoluzione fedele, ma un parere in più mi rende sempre più obiettiva, perciò se avete critiche, non esitate!

Pss: se non avete mai ascoltato la canzone a inizio capitolo, fatelo. E' bellissima!

 

*La Dartmouth è un’università molto prestigiosa negli Stati Uniti e fa parte dell’Ivy League, ovvero un titolo che accumuna le otto migliori università private degli U.S.A: oltre a Dartmouth, abbiamo Harvard, Yale, Columbia, Brown, Princeton, Cornell, Pennsylvania.

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Capitolo 15
*** Slutherine's day ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo quindici: Slutherine’s day.

 

“I remember years ago
Someone told me I should take
Caution when it comes to love, I did
And you were strong and I was not
My illusion, my mistake
I was careless, I forgot , I did

[…]

Tell them I was happy
And my heart is broken
All my scars are open
Tell them what I hoped would be
Impossible, impossible”

(Impossible- James Arthur).

 

 

Ma che diamine ci facevo lì davanti?

Chi volevo prendere in giro?

Non avevo frequentato praticamente neanche una lezione per tutto il semestre e il momento per la rinuncia agli studi si avvicinava. Non aveva senso affrontare quell’esame.

Avevo deciso mesi prima di lasciare l’università, avevo litigato pesantemente con mio padre per quello, ero pronto per iniziare a vivere la mia vita senza nessuna interferenza.

Eppure da qualche minuto stanziavo davanti all’aula dell’esame, indeciso se entrare o no. Avevo pensato più volte alla possibilità di sostenerlo. Se inizialmente ero risoluto a non buttare via tempo, ora cominciavo a non essere più tanto sicuro.

Mia madre sarebbe stata così orgogliosa se mi fossi laureato; abbandonare così miseramente appariva quasi un tradimento.

Sapevo di essere parecchio intelligente, non era la mole di lavoro a spaventarmi: avrei potuto recuperare l’anno perso in una sola sessione.

Alla fine avevo deciso di tentare un unico esame e vedere l’esito, poi avrei valutato che cosa fare, tutto ciò all’oscuro di mio padre.

Non avevo molto interesse a recuperare il nostro rapporto e soprattutto non desideravo venire riaccettato solo per aver ceduto a un ricatto.

Nessuno era a conoscenza di quella decisione, nessuno tranne Katherine. Avevo sentito il bisogno di parlarne con qualcuno e lei mi capiva meglio di chiunque altro: sebbene a mio parere la situazione fosse ben diversa, anche i suoi genitori avevano difficoltà a starle accanto. I signori Gilbert erano certamente delle bravissime persone, ma erano sempre stati abituati alla perfezione di Elena; il carattere di Katherine era ben più difficile da gestire. Loro, però, non avevano sbattuto la figlia fuori di casa.

Non che mi facesse schifo l’idea di prendere una dannata laurea, poteva risultare sempre utile e mi avrebbe anche reso orgoglioso di me stesso. Quello che mi rifiutavo categoricamente  di accettare era la vanagloria di Giuseppe.

Finire l’università, concludere ciò che avevo iniziato mi sembrava tanto come piegarmi al suo volere, come se fosse stato tutto merito suo.

A pensarci bene, non ricordavo nemmeno un mio successo in cui, in qualche modo, non ci fosse anche il suo zampino, non richiesto chiaramente.

D’altra parte non desideravo nemmeno passare la mia vita a sperperare i suoi soldi, a dipendere da lui. Agognavo totale indipendenza e distacco da quell’uomo e forse, per assurdo, accontentarlo con quella stupida laurea mi avrebbe fornito le basi costruire qualcosa di mio.

In fin dei conti, non me ne fregava niente di vederlo contento, ma volevo che mia madre fosse davvero fiera di me, ovunque si trovasse.

Spalancai, dunque, le porte dell’aula ed entrai. Un paio di volti si girarono, ma tornarono in fretta a concentrarsi sul manuale negli ultimi minuti che restavano.

Mi sedetti stancamente nelle prime file. Ai tempi del liceo copiavo come un matto e avevo anche un certo talento: avevo le piene capacità per superare ogni tipo di test, ma nel contempo non avevo mai voglia di sprecare energie sui libri.

Ora, all’università avevo deciso di provare a fare le cose per bene.

L’esame si rivelò più semplice di quanto mi aspettassi, lo finii anche prima dello scadere del tempo. Uscii dall’aula con un moto di compiaciuto. Ero certo di averlo passato.

Mi ero dimenticato delle sensazione di leggerezza che sopraggiungeva dopo aver sostenuto un esame, potevo abituarmici.

E se l’università fosse stata davvero il mio posto?

Avevo speso talmente tanto tempo a incolpare mio padre, ad autoconvincermi di non aver scelto io quella facoltà, che non mi ero mai accorto di quanto, invece, quel mondo mi facesse stare bene.

Sapere di aver combinato qualcosa di buono nella vita era sempre una grande soddisfazione, non trovavo giusto privarmi di un traguardo così importante solo a causa di quell’idiota.

Alaric mi aveva suggerito di rimandare qualsiasi soluzione alla fine della prima sessione di esami e cominciavo a credere che fosse una buona idea.

Il mio futuro buttato al vento per una leggerezza non rappresentava proprio una bella immagine e supponevo che quello a rimetterci sarei stato io.

Nel cortile principale, di fronte all’ingresso, mi aspettava una meravigliosa e gradita sorpresa: Katherine.

Era appoggiata alla portiera della sua macchina, un piede accavallato sull’altro e le braccia incrociate mollemente al petto. Portava dei pantaloni particolarmente stretti e neri e un giaccone dello stesso colore, segnato sulla vita. I tacchi le slanciavano ancor più la figura.

Uno spettacolo da acquolina alla bocca.

“Hai finito presto” notò quando mi fui avvicinato.

“Era per bambini delle elementari” mi vantai.

“E scommetto che tu sei un genio della finanza” mi stuzzicò.

“Hai dubbi?” replicai “A quest’ora hai scuola, non dovresti essere qui”.

“Lo so”.

“Potresti finire nei guai”.

“Lo so” mormorò ancora puntando i suoi occhi nei miei.

“Faresti meglio a tornare là”, ma nemmeno io lo dissi con convinzione.

“Lo so” ribadì distrattamente prima di mordicchiarmi sensualmente le labbra con i denti “Sono venuta per premiare il mio intelligentissimo ragazzo”.

Le posai le mani sui fianchi e l’allontanai di poco, cercando di evitare quel maledetto contatto tra i nostri bacini che stava risvegliando certi istinti del mio corpo.

“Katherine, sono appena rientrato in università, non vorrei essere sbattuto subito fuori per attività illecite in luogo pubblico”.

“Pensi che nel regolamento ci sia qualche divieto esplicito sul sesso?” mi chiese curiosa.

“Penso che rientri negli atti contro il buon costume”.

“Oh” trillò contrita “Allora è proprio una fortuna che abbia la macchina con me” civettò.

“Già, ma ritengo più conveniente la mia camera vuota a due passi da qui”.

Le perplessità che mi avevano attanagliato qualche attimo prima, svanirono nel momento in cui lei mi prese la mano invitandomi a farle strada.

Il tragitto fu breve, silenzioso e frettoloso. Nemmeno ci preoccupammo di chiudere la porta a chiave. Non importava quante volte avessi già esplorato il corpo di Katherine, non me ne stufavo mai.

Era una ragazza scontrosa, competitiva, estremamente egocentrica e vanitosa, difficile da domare, ma forse era proprio il suo lato ribelle e imprevedibile ad attirarmi.

Katherine mi teneva testa, Katherine m’incantava come un elegante felino, sapeva imporsi e brillare. La maggior parte delle volte mi capiva al volo e non sprecava tempo in inutili chiacchiere, cercava soluzioni e riempiva i vuoti con la sua presenza.

Quella mattina, come sempre, mi persi in lei, nei dolci brividi che il suo corpo mi donava, nella confortante percezione che fosse mia e solo mia.

“Non vedo l’ora che finisca la scuola, così io e te potremo trasferirci a Parigi” considerò, mentre ricadeva con grazia sul materasso, un po’ stanca.

Alzai la testa dal cuscino, confuso “Parigi?”.

“Sì” confermò lei “Dopo il diploma ho intenzione di tornare là per riprendere la mia carriera da modella. Tu non hai problemi a seguirmi, la tua futura laurea ti permetterà di lavorare dappertutto. Mi sembra un piano eccellente: ti allontanerai finalmente da tuo padre”.

Un posto per me valeva l’altro, avevo già preso in considerazione l’idea di trasferirmi da qualche altra parte, soprattutto per una vantaggiosa offerta di lavoro.

Quello che mi disturbava era la facilità e la disinvoltura con cui Katherine aveva preso quella decisione, senza neanche parlarmene.

Se io mi fossi rifiutato, lei sarebbe partita lo stesso?

Non ero un ingenuo, sapevo perfettamente che una storia sbocciata al liceo aveva ben poche speranze di durare a lungo, ma Katherine non appariva minimante turbata da una possibile separazione, come se desse per scontato il mio consenso o ancora peggio come se non le importasse.

“Da quello che ricordo anche New York offre grandi opportunità per la moda. Non dobbiamo per forza oltrepassare l’oceano” le feci notare, accarezzandole il braccio. Ero semplicemente curioso della sua reazione.

“Damon” disse con calma “La mia vita è a Parigi, me ne sarei rimasta là se i miei genitori non mi avessero obbligato a tornare qui per l’ultimo anno. Ma tra poco diventerò maggiorenne e nessuno potrà dirmi cosa devo fare”.

“Parigi non è proprio la mia prima opzione” replicai.

“Certo che lo è!” obiettò “La tua prima opzione è ovunque io ci sia”, sparì sotto le lenzuola e percorse tutto il mio torace con le labbra.

Ma quella conversazione mi aveva lasciato con l’amaro in bocca e non riuscii a godermi la mia coccola preferita.

Qualche ora più tardi, Katherine mi diede un passaggio fino a casa di Alaric. Il mio amico non era rientrato. Aprii con il doppione delle chiavi che mi aveva consegnato lui stesso e mi accomodai sul divano, con una birra, in attesa del suo arrivo.

Non mi notò subito: buttò le chiavi sul comò all’ingresso e il giaccone sull’attaccapanni, poi si diresse verso il frigo.

Fu lì che qualcosa lo insospettì: gli avevo fregato l’ultima birra.

Si girò confuso e quando i suoi occhi incrociarono i miei, divennero furiosi.

Mi prese la lattina dalle mani “Ti farai mai una vita tua?” berciò.

“Sai, amico, più invecchi più diventi egoista. Che fine ha fatto ‘mi casa es tu casa’?”.

“Prima di tutto questa è la mia casa e non la tua!” precisò “Secondo, mi piacerebbe non preoccuparmi degli intrusi ogni volta che esco”.

“Intruso, che parolone!” storsi il naso “È questo il modo di trattare un amico che è venuto a farti visita?”

“Di solito questo amico vuole favori”.

“No grazie, preferisco le ragazze, ma apprezzo l’offerta”.

Alaric mi mandò a quel paese con un gesto della mano e continuò a sorseggiare la sua birra.

“Oggi ho sostenuto un esame” gli rivelai di getto.

Adoravo dargli fastidio, ma quel giorno volevo parlare di cose serie. Alaric era il mio migliore amico e l’unica persona di cui mi fidassi ciecamente.

Non ero il tipo da chiedere esplicitamente consiglio, ma il suo parere era molto importante per me e in qualche maniera riuscivo sempre a ottenerlo senza espormi.

Questo era il bello di Alaric: non gli serviva nessun aiuto, capiva tutto da solo.

“Significa che continui l’università?”.

“Se passo l’esame, sì”.

“E come ti è sembrato?”.

“A occhio e croce ho preso il massimo”.

“Quindi non rinunci agli studi”.

“No”.

“E ti puoi tenere la tua camera al campus”.

“Sì”.

“Allora che diamine ci fai ancora sul mio divano?”.

Ghignai, fregandogli a mia volta la birra “Dobbiamo comprarne altra” considerai “Trovi che sia una buona idea continuare?” gli domandai.

“Onestamente, Damon, ti avrei preso a calci nel culo se avessi davvero mollato”.

“È il tuo modo per dirmi che ami, lo so”.

Alaric alzò gli occhi al cielo “Tuo padre sa di questo improvviso cambiamento d’idea?”.

Scossi la testa “No, e non ho intenzione di avvertirlo, non sono fatti suoi. Solo tu e Katherine ne siete a conoscenza”.

L’espressione di Alaric mutò radicalmente, ma lui non disse nulla.

“Puoi evitare di fare quella smorfia disgustata ogni volta che parlo della mia ragazza?”.

“Scusa, è più forte di me” commentò acido.

Non avevo mai compreso questo astio di Alaric nei confronti  di Katherine: fin dall’inizio non gli era  mai andata a genio.

“Ammetto di essere contento che manchino pochi mesi alla fine della scuola: almeno  ti libererai di lei. So che preferisci non sentire certe cose, ma ti farebbe bene allontanarti” mi disse.

“Mi dispiace stroncare così le tue speranze ma la faremo funzionare lo stesso” replicai, leggermente infastidito.

“E come? Da quello che si dice a scuola, Katherine tornerà a Parigi”.

Passarono un paio di secondi prima che…

“Non andrai anche tu, vero?”.

Il tono era chiaramente intimidatorio. Alaric non avrebbe approvato, avrebbe cercato in tutti i modi di dissuadermi.

“Da quando vuoi andare a vivere a Parigi?”.

“Non voglio, è solo una delle opzioni”.

“E quali sarebbero le altre?”.

Tacqui per un momento. Non ero davvero pronto per affrontare il discorso.

“Non ne hai, giusto? Ha già deciso tutto lei”.

“Che cosa ti devo dire? Non so ancora che cosa succederà alla mia vita tra sei mesi, non ho le idee chiare. Parigi è una delle alternative” sbuffai “Perché ce l’hai così tanto con Katherine? Ogni volta parli di lei come se fosse il male personificato”.

“È una mia alunna e ho avuto modo di osservarla: è capricciosa e vendicativa. Sicuramente è pure bella e intelligente, molto sveglia…ma…ammettiamolo: non l’avresti guardata con occhi diversi se non fosse stata uguale a Elena”.

“Che cosa stai insinuando?” sibilai.

“Fino a qualche mese fa avresti dato qualsiasi cosa per avere Elena e adesso ti sei messo con la sua gemella, con la sua copia identica, non ti pare strano? Mi stupisco come tu non l’abbia mai chiamata con il nome della sorella durante l’orgasmo!”.

“Fottiti, Alaric, non ho trasferito i sentimenti che avevo per Elena su Katherine” sbottai, agguantando la mia giacca.

“Sarebbe malato, giusto?” mi provocò ancora Alaric.

“Non prendo lezioni di vita da uno che si è innamorato della sua stessa alunna. Questo è malato e illegale” sbattei la porta del suo appartamento e mi affrettai a uscire dall’edificio.

Ero furente. Mi aspettavo molto di più dal mio migliore amico, mi aspettavo che avesse un’opinione un po’ più alta di me.

La mia vita amorosa si era sempre rivelata un disastro, la maggior parte delle volte per colpa mia. Ero il tipo di ragazzo che non s’innamorava, che usava le donne.

Poi era arrivata Elena. La conoscevo da quando eravamo bambini, non l’avevo mai considerata in quel senso fino a che non aveva cominciato a frequentare il liceo. Io ero all’ultimo anno, lei al primo. Era ancora piccola, quattordici anni appena, ma aveva già un’aria molto matura e una grazia fuori dal comune.

Per quanto avesse stuzzicato la mia curiosità, non mi ero mai fatto avanti: ero ancora nella fase da play boy e non volevo mancarle di rispetto, non volevo turbare la sua innocenza.

Per un anno ancora mi ero limitato a osservarla da lontano, niente di più.

La nostra “relazione” era incominciata un pomeriggio di metà ottobre, in un caffè poco lontano dal liceo Robert E. Lee. Entrambi soli, ci eravamo trovati senza accorgercene seduti allo stesso tavolo.

Nonostante fosse diventato una sorta di appuntamento settimanale, quasi una specie di rito, Elena non aveva mai dato segni di voler portare il nostro rapporto a un livello superiore, destabilizzandomi completamente.

Verso maggio, si era diffusa la voce che lei e Stefan avessero iniziato a uscire insieme.

Stupidamente le rivelai i sentimenti che nutrivo nei suoi confronti: nella mia arroganza, mi ero convinto che frequentasse mio fratello solo per rendermi geloso.

Mi rifiutò con dolcezza, scuotendo la testa dispiaciuta. Disse che ciò che provavo non era reale, disse che avevo un’idea sbagliata di lei, l’idea che tutti si erano fatti: la ragazza perfetta, con i suoi perfetti capelli biondi e occhi azzurri, voti perfetti, movenze perfette.

“La verità è che sono molto lontana dalla perfezione e nessuno se n’è mai accorto” aveva aggiunto.

Mi raccontò di aver sempre avuto un debole per Stefan, ma lui non l’aveva mai degnata di uno sguardo, un po’ perché era stata la ragazza del suo migliore amico, Matt Honeycutt, un po’ perché non era restato folgorato dalla sua personalità.

“Non gli piaceva molto la mia indole da reginetta. Non me l’ha mai detto in modo chiaro, ma mi ha sempre fatto intendere che potevo essere qualcosa di più di una bella ragazza”.

Non so di preciso che cosa accadde tra Elena e mio fratello, non entrai mai nei dettagli della loro storia. Da quello che potei capire lui la rendeva una persona migliore o qualche cazzata simile.

Non le parlai per il mese successivo, incredulo e umiliato. Tutto, poi, era lentamente sfumato, così come la mia rabbia e la mia delusione. Perdonarla era stato più facile del previsto: non mi aveva mai ingannato o illuso, non aveva fatto niente di male se non essere onesta.

Che cosa rappresentasse per me Elena Gilbert restava tuttora un mistero. La mia donna ideale, la mia migliore amica, il mio primo amore ormai dimenticato?

Alaric non sapeva neanche di che cosa parlava quando la paragonava a Katherine. Erano due persone totalmente diverse, l’aspetto fisico le accumunava ben poco.

Katherine era vendicativa e capricciosa? Assolutamente sì e mi piaceva proprio per quello. Mi assomigliava tantissimo, a volte vedevo qualcosa di me in lei.

Soprattutto non era una fantasia, era reale, presente, non si spacciava per qualcuno che non era. La conoscevo in tutti i suoi difetti, la conoscevo in tutte le sue imperfezioni.

Non l’avevo mai scambiata per Elena, nemmeno una volta, soprattutto non in quei momenti.

Se Alaric era nervoso perché non poteva stare con la ragazza dei suoi sogni, allora erano problemi suoi.

Era come un libro aperto per me, intuivo i suoi pensieri con una sola occhiata. Il fatto che non avessero mai raggiunto l’atto fisico non significava che la loro intesa non stesse crescendo sempre di più.

Capitava che mi parlasse di lei, delle sue intuizione durante le lezioni o dell’ottima reputazione di cui godeva a scuola.

Non si sbilanciava molto, non diceva niente di che, ma aveva una strana luce negli occhi, fiera e affascinata. Ammirava davvero Meredith, l’ammirava come studentessa, come persona, come donna.

Malignamente, quindi, ero convinto che fosse in qualche modo geloso del rapporto che condividevamo io e Katherine e che, soprattutto, avesse troppo tempo a disposizione per far vagare la mente.

 

Un paio di giorni dopo ero seduto in macchina, davanti al liceo, in attesa della mia ragazza. Avevo passato l’esame con la votazione massima e avevamo deciso di andare fuori a pranzo per festeggiare.

Katherine amava farsi desiderare e non uscì subito. Ero abituato ad aspettarla, perciò non ci prestai caso, ormai avevo rinunciato perfino ad arrabbiarmi.

I miei occhi si posarono, invece, su un’altra figura e m’incantai quasi inconsapevolmente ad ammirarla. Era un’abitudine che avevo preso da qualche tempo, quella di ammirarla, e avevo smesso anche di chiedermene la ragione.

Alla festa di Stefan mi aveva lasciato di stucco, perché non capitava spesso di vederla tutta vestita bene. Ero stato così sciocco da credere che si fosse trattato di una circostanza particolare, non destinata a ripetersi; al contrario mi ero reso miseramente conto di considerare Bonnie McCullough una bella ragazza.

Certo, non era una bellezza esibita e lampante come quella di Katherine; intendevo qualcosa di più delicato, quasi trascurato, ma molto lontano dall’aspetto insignificante che avevo sempre scorto in lei.

Non avevo più avuto occasione di parlarle. Le avevo sguinzagliato dietro Tyler che non dimenticava mai di riferirmi tutto: non aveva ancora riallacciato i rapporti con Matt e sembrava anche essersi tenuta lontana da Klaus.

Punti a mio favore dato che dovevo ancora trovare la mossa vincente per farla cadere ai miei piedi: impresa rivelatasi tutt’altro che facile.

Ero talmente assorto nella mia contemplazione che non notai l’arrivo di Katherine: entrò nella mia auto, sbatté la portiera e mi salutò raggiante.

Peccato che nemmeno me ne accorsi.

“Si può sapere che hai?” berciò.

Solo in quel momento mi girai, degnandola della mia attenzione “Quando sei arrivata?”.

Lei alzò le sopracciglia indignata “Stai scherzando?”.

In situazioni come quelle c’era solo una cosa da fare: mentire.

“Ti prendo in giro, angelo”.

Katherine apparve soddisfatta, ma io gelai sul posto: l’avevo appena chiamata con il soprannome che avevo inventato per Elena anni fa.

E improvvisamente le parole di Alaric mi riecheggiarono nella mente come una condanna.

 

 

Avevo solo un obiettivo: andare a casa e dormire.

Era da tutta la settimana che studiavo per i test a scuola ed ero stravolta. Avrei pagato per possedere il cervello di Meredith: aveva la capacità straordinaria di assimilare qualunque cosa; io al contrario faticavo tantissimo. Mi ammazzavo di studio per ottenere risultati decisamente inferiori ai suoi.

Negli ultimi tempi, comunque, avevo accolto volentieri la crescente mole di compiti, mi aiutava a tenere la mente occupata: io e Stefan non avevamo ancora risolto la faccenda di Katherine.

Stefan cominciava a diventare davvero irrequieto, aveva la sensazione che quel segreto gli si sarebbe rivoltato contro e ultimamente non potevo che dargli ragione.

Buttai la testa sul libro, scoraggiata.

Dirlo a Damon sembrava un’impresa impossibile, non avrei mai voluto trovarmi nei panni di Stefan e doverlo affrontare.

Non potevo nemmeno immaginare la sua reazione, ma dopotutto anche lui aveva le sue colpe: mi aveva baciato, di sua spontanea volontà.

Che fosse per vari incomprensioni o per una stupida ripicca non importava: aveva fatto esattamente ciò che aveva fatto Katherine.

Se io avessi risposto a quel bacio, che cosa sarebbe accaduto, fin dove si sarebbe spinto?

Damon aveva poco di che lamentarsi.

Chiusi il libro con uno scatto, spazientita.

Odiavo il lato buono del mio carattere, perché nonostante lui stesso si fosse comportato super giù alla stessa maniera, nonostante mi avesse sempre trattato come un gioco, non riuscivo a non dispiacermi.

Non credevo fosse innamorato di Katherine, ma vedersi ancora una volta superato dal fratello gli avrebbe fatto molto male.

In paragone al nostro, il bacio tra Stefan e Katherine era una doppia pugnalata alla schiena. La gemella cattiva lo aveva tradito con suo fratello, il fratello che gli aveva, in un certo senso, sempre rubato l’attenzione dei suoi cari.

Non esisteva un modo giusto per rivelarlo e nemmeno il momento. Ero stata una stupida a convincere Stefan a rimandare.

Ora bisognava raccontarlo a Elena e poi a Damon.

Avevo capito che per quel giorno non sarei riuscita a leggere una riga in più. Scesi in salotto a farmi una tazza di tè.

Per me il tè era un rito, qualcosa di sacro. Bevevo sempre lo stesso tipo, nella stessa tazza, possibilmente in una situazione di totale tranquillità.

Ero sola in casa, nessun disturbo esterno in vista: da quando mia sorella si era trasferita, mio padre si era calmato molto. Probabilmente lo spaventava più l’idea di non avere più una delle sue bambine in casa, piuttosto che l’atto in sé.

Mary veniva a farci visita tutti i weekend, a volte con Alec. Era davvero felice e serena, sembrava aver trovato il suo posto nel mondo. Prima o poi si sarebbero sposati, ne ero certa. Probabilmente aspettavano solo che Mary finisse il suo apprendistato e venisse assunta.

Non avevo osato parlare a mio padre di quelle mie supposizione e non ne avevo intenzione: gli sarebbe venuto un infarto, come minimo, poi avrebbe rinchiuso Mary in camera sua almeno fino ai trent’anni e ucciso Alec.

Mi buttai sulla poltrona con il mio bellissimo e profumatissimo tè in mano, pronta a godermelo.

Qualcuno bussò.

Sentivo che non avrei dovuto aprire, qualcosa mi urlava di stare lontana da quella porta, ma non lo feci.

“Damon lo sa”.

Furono le parole che mi accolsero, seguite da uno zigomo gonfio, un labbro spaccato e un occhio leggermente nero. Dietro tutto ciò, Stefan mi guardava in preda al panico.

 

Piegai più volte le mie dita doloranti, ma nessun suono uscì dalla mia bocca.

Non mi ero ancora mosso dalla macchina, non volevo scendere, non volevo vedere nessuno.

Mi fissai nello specchietto retrovisore e per poco non mi spaventai: dov’era finito Damon Salvatore? Di chi era quel riflesso sbiadito? Solo l’ombra del ragazzo spavaldo e brillante che ero sempre stato.

Ero diventato un cliché, un fottutissimo cliché: mi ero tenuto lontano per tutta la mia vita da ogni sentimento e avevo lasciato entrare proprio la stronza che aveva ben pensato di prendermi per il culo per tutti i mesi della nostra relazione.

Quella storia della scommessa era un immenso campanello di allarme, il mio sesto senso mi aveva avvertito ma avevo scelto di non ascoltarlo.

E ora mi ritrovavo a crogiolarmi nell’umiliazione, nel mio orgoglio ferito e anche nella rabbia.

Ero mortificato perché Katherine aveva preferito Stefan, perché Alaric aveva provato ad avvertirmi, perfino Bonnie ci aveva tentato, e soprattutto perché mi ero rovinato da solo, con le mie stesse mani, con la mia stessa, maledetta testardaggine.

 

“Damon, passa da casa mia: voglio lasciare i libri giù prima di andare a pranzo”.

Svoltai alla prima strada a sinistra, verso la dimora dei Gilbert.

Era mia intenzione aspettarla in macchina, ma Katherine mi convinse a entrare. Non so se avesse in mente di approfittare della casa vuota, pronta per noi; so solo che dopo due minuti esplose in una serie d’imprecazioni contro la sua famiglia.

Da quello che capii, aveva trovato sul tavolo da pranzo due biglietti aerei per Parigi intestati ai suoi genitori. Era oltremodo arrabbiata perché i suoi avevano deciso di non portarla con loro. Non senza una motivazione: Katherine aveva ancora la scuola e gennaio era un periodo pieno di test e verifiche, non il momento migliore per prendersi una vacanza.

Onestamente la sua fissazione per Parigi iniziava a diventare irritante.

“Hai avuto la tua occasione per andare a Capodanno” mi lasciai sfuggire con poco tatto.

Lei si voltò furente “Scusa se volevo passare del tempo con il mio ragazzo” mi freddò “Grazie a Dio, l’anno prossimo tornerò a vivere là e non dovrò sopportare…”

Non le permisi di finire la frase “A proposito di Parigi: non so ancora che cosa farò l’anno prossimo, non darlo così per scontato”.

Se l’avessi insultata, forse se la sarebbe presa meno.

“Damon, Parigi è la mia vita e non ho intenzione di rinunciarci. Se sono qui, è perché i miei genitori mi hanno obbligato a finire qui la scuola”.

“Non mi dà fastidio che tu sia qui” le rivelai “Non è necessario oltrepassare l’oceano per allontanarti dalla tua famiglia”.

“Mi ami?” chiese a bruciapelo.

“Scusami?”.

“Mi ami? Perché se mi ami, mi seguirai”.

Non glielo avevo mai detto, non ero nemmeno sicuro di essere innamorato di lei, non mi ero neanche posto il problema.

Katherine aveva deciso di ricattare la persona sbagliata.

“Potrei farti la stessa domanda!”

“Non c’è niente per te qui! Tuo padre ti odia, tuo fratello si crede una spanna sopra di te. Niente ti trattiene, sono l’unica che hai”.

“Errato: ho degli amici. Non puoi dire lo stesso di te” le rinfacciai “E per la cronaca la tua famiglia ti adora. Te ne accorgeresti se non fossi così capricciosa e piena di te!”.

“Stiamo giocando a chi trova più difetti all’altro?” mi sfidò “Non mi sorprende che tutti preferiscano Stefan a te, scommetto che sa essere molto più comprensivo. Di certo è un amante fedele e anche un ottimo baciatore”.

“Peccato che non avrai mai occasione di scoprirlo” la stroncai. Non mi piaceva il corso di quella conversazione, non comprendevo il motivo di tutto quell’interessamento delle doti amatorie di mio fratello.

“Mi dispiace deluderti ma ho già provato”.

Faticai a registrare il significato di quelle parole.

Katherine non tardò a spiegarmele “Sì Damon, ho baciato tuo fratello. Più di un mese fa sono andata a casa sua e l’ho baciato spacciandomi per Elena. Purtroppo si è accorto quasi subito dell’inganno. È troppo devoto a mia sorella, come tutti del resto”.

Accadde tutto a rallentatore. La voce di Katherine mi arrivò distante, la sua bocca si muoveva piano, il suono usciva in ritardo.

Mantenni la calma, m’imposi di non perdere il controllo prima che Katherine mi raccontasse tutto. Una parte di me ancora sperava che fosse uno scherzo di cattivo gusto.

“Hai un’ottima ragione suppongo” commentai.

“Ti ho visto” parlò con voce grave “La notte in cui hai litigato con tuo padre sono venuta a casa tua: volevo stare con te, aiutarti. Ti ho visto steso nel giardino dei McCullough con lei. Io non sono seconda a nessuna, non sono quella che chiami per ultima, specialmente non dopo Bonnie”.

Era successo talmente tanto tempo fa che non me lo ricordavo nemmeno. Katherine si era davvero arrabbiata per così poco?

“E la scommessa allora, era solo un modo per incasinarmi la testa?”. Mi rendevo conto di quando fosse stupida la mia curiosità. Avrei dovuto piantarla lì in asso, ma avevo troppi dubbi da risolvere. Sentivo che se non li avessi chiariti, non sarei mai riuscito a superare quella notizia.

“Mi stavo divertendo” sollevò le spalle “Ti stavo pure mettendo alla prova. All’inizio ero davvero convinta che non ti saresti fatto abbindolare, che le avresti spezzato quel suo delicato cuoricino. Sono passati mesi e non hai combinato niente. Ti sei lasciato intenerire” mi accusò.

“Tu sei fuori di testa. Mi punisci perché pensi che io mi sia fatto venire degli scrupoli?”.

“Lo so, non lo penso! A Capodanno per poco no ti sono andati gli occhi fuori dalle orbite quando l’hai vista con tuo cugino”.

“Non volevo che s’intromettesse” mi giustificai.

“Tu mi hai messo da parte, dovevo pareggiare i conti”.

“Baciando mio fratello?”.

“Non atteggiarti da innocente. Ti sei messo con me solo perché sono la copia identica di Elena. Mi hai usato, esattamente come io ho usato te” era impressionante la tranquillità con cui mi stava rivelando tutti quei dettagli “Sarò sincera, Damon, in fondo te lo meriti: il mio scopo era quello di farla pagare a mia sorella. Rubarle il ragazzo pareva il piano perfetto, poi sei arrivato tu. Mi piacevi, mi piaceva l’idea che il grande Damon Salvatore avesse scelto proprio me, mi piaceva un meno che tu non avessi ancora dimenticato Elena, per non parlare di questa tua fissazione per la McCullough…”

“Credevo che tu non potessi essere gelosa di Bonnie: è quello che mi hai detto quando mi hai proposto la scommessa” la interruppi.

“Sono delusa. Se preferisci la sua compagnia o quella di mia sorella alla mia, sei tu che ci perdi” affermò con sicurezza.

 

C’erano state altre grida e insulti. Katherine mi aveva emotivamente distrutto, sebbene mi fossi premurato di non farglielo intendere.

L’avevo lasciata con una mezza minaccia: di non farsi più vedere in giro o avrebbe passato l’inferno.

Ma nello stato in cui mi trovavo, non avevo la forza né la voglia di escogitare nessuna vendetta. Quel potere che avevo sempre ritenuto mio, ora mi sfuggiva dalle mani.

Avevo perso tutto un’altra volta: la mia ragazza, il mio migliore amico e la mia famiglia. Mio padre non mi avrebbe più permesso di mettere piede in casa dopo aver visto come avevo conciato il suo figliolo prediletto.

Stefan non aveva colpe, eccetto il fatto di essere il favorito di tutti, ma non mi ero riuscito a trattenere. Ero corso a casa e lo avevo preso a pugni come non succedeva da quando eravamo dei ragazzini. Tra le urla di Elena che cercava disperatamente di dividerci, si era lasciato picchiare, non aveva reagito; forse perché si sentiva in colpa per non avermi detto subito la verità, forse pensava che potesse ripagarmi almeno in parte della sofferenza.

Alzai ancora lo sguardo su quella villetta bianca. Era la seconda volta che finivo lì davanti, quasi inconsapevolmente.

Non scesi dall’auto, non bussai alla porta e non entrai, sebbene sentissi il forte istinto di stendermi di nuovo su quel giardino.

Quando scorsi, nella stanza illuminata al primo piano, una massa di capelli rossi affacciarsi alla finestra, il mio respiro divenne più angosciato.

Lei non mi vide: la mia macchina scura si confondeva con il buio della sera.

Non mi vide.

Nessuno mi vedeva.

Confuso e arrabbiato, mi resi conto che nessuno, in realtà, mi aveva mai visto veramente.

 

Il mio spazio:

Buon pomeriggio, ragazze!

Ricompaio con un capitolo praticamente dedicato per intero a Damon.

Ammetto che è stato parecchio difficile da scrivere e non ne sono pienamente soddisfatta, ma non potevo farvi aspettare oltre.

La bomba è stata sganciata dalla stessa Katherine. Se troverete le sue motivazioni completamente assurde, beh è proprio l’effetto sperato.

Katherine ha dei grossi problemi di egocentrismo e agisce spinta dal capriccio. Il flashback forse è un po’ affrettato, ma tornerò sui suoi motivi nel prossimo capitolo, in cui vedremo come se la sta cavando Damon.

Purtroppo non ci sono state interazioni tra lui e Bonnie, se non per un piccolo momento a scuola e qui alla fine, e comunque è tutto dalla prospettiva di Damon, lei nemmeno se ne accorge.

Posso solo dirvi che non sarà felice delle condizioni in cui è ridotto Stefan, quindi sì…nel prossimo capitolo ci sarà sicuramente una scena in cui le canta a Damon. Ma come andrà a finire?

Non mi sono dimenticata di Meredith e Alaric. Nemmeno di Matt e Klaus. Siamo già al capitolo 15 ma devono accadere ancora un bel po’ di cose.

TVD è cominciato, ho visto poco fa la puntata. Vi dirò che mi è piaciuta. Avrei voluto un po’ più di Bonnie perché mi piace come personaggio ma non si può pretendere tutto e subito!
Vi spiego anche il titolo: Slutherine è una storpiatura del nome di Katherine. Non è mia, è un soprannome molto popolare nelle fanfiction in lingua inglese di TVD. In pratica gioca sul suo essere un po’ sgualdrina: slut significa puttana, scusate il francesismo ma è così!

La canzone Impossible è in realtà di Shontelle, ma trovo che la cover di James Arthur sia molto più bella.

Banner di bumbuni.

Ci vediamo presto con il prossimo capitolo! Grazie mille a tutte!!

Fran;)

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Capitolo 16
*** All Damon's women ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo sedici: All Damon’s women

 

“This is how to be a heartbreaker
Boys, they like a little danger
We'll get him falling for a stranger
A player, singing I love you
How to be a heartbreaker
Boys, they like the look of danger
We'll get him falling for a stranger
A player, singing I love you
At least I think I do”

(How to be a heartbreaker- Marina and the diamonds).

 

“Davvero, non riesco a capire perché ti dovresti sentire inferiore a tuo fratello”.

“Io non sono inferiore a nessuno”.

“Ma è così che ti senti”.

Evitai il suo sguardo: era così limpido e blu e ogni volta mi faceva ammettere cose che avrei preferito proprio eliminare dal mio pensiero.

Non mi reputavo inferiore a Stefan, tutt’altro: mi consideravo dieci gradini più in alto di lui, per questo non potevo sopportare di passare sempre per secondo.

“Tuo padre non ti odia” affermò con sicurezza Elena “Dicono che ci comportiamo più duramente verso chi amiamo. Credo che tuo padre stia cercando di dimostrare quanto tiene a te” suppose.

“Che gran bel metodo di merda” borbottai.

Elena scoppio a ridere, della sua bellissima e contagiosa risata. A volte spaventava perfino me la perfezione che rasentava quella ragazza.

Sapeva sempre che cosa dire, che espressione fare, come toccarmi, il suo corpo gravitava senza problemi intorno al mio, con naturalezza.

“Non m’importa di mio padre” dissi “Ci sono altre persone che contano di più nella mia vita” presi un bel respiro. Era qualche giorno che avevo un dubbio da togliermi “È vero che stai uscendo con Stefan?”.

“Ci siamo visti un paio di volte. Mi ha chiesto un appuntamento e ho accettato”.

La fissai un po’ sconcertato: Elena non si era mai sbilanciata con me, non aveva palesato le sue intenzioni e io, fatta eccezione per qualche battuta, ero stato molto attento a non tirare troppo la corda. Mi ero, però, convinto che fosse nato qualcosa tra noi, che le fantasie cresciute nel corso dell’anno fossero effettivamente divenute realtà.

Che cosa rappresentava dunque Stefan? Una distrazione? Un trabocchetto?

“Sprechi il tuo tempo. Non è adatto a te, non sarai felice” l’avvisai.

“Ci stiamo solo frequentando, non mi ha proposto di sposarlo” obiettò, un po’ imbarazzata.

“Elena” la chiamai, e per la prima volta la mia voce traballò “Se ci fosse qualcun altro, qualcuno che fino adesso non si è fatto avanti, tu non…tu non sceglieresti Stefan, vero?”.

Lei parve finalmente capire il motivo di quel discorso, si rese conto che stavamo entrando in un territorio inesplorato, ma che inevitabilmente ci attendeva.

Non aspettai la sua risposta. Mi piegai e la baciai con delicatezza. Elena non ricambiò, non si mosse. Portò solo le sue dita sulle mie guance e allontanò con dolcezza il mio viso dal suo “Damon, credo che tu stia commettendo un grosso sbaglio”.

“Non mi sbaglio mai, angelo” ghignai “Provo per te sentimenti che non ho mai provato per nessuna. Tu sei assolutamente perfetta”.

Si alzò dalla panchina, cercando di mascherare il suo disagio. Si tirò dietro a un orecchio una ciocca di capelli e infine si rivolse a me “La verità è che sono molto lontana dalla perfezione e nessuno se n’è mai accorto”.

“Sei perfetta per me!” replicai ostinato.

“Perché mi ritieni perfetta? Che cosa c’è di perfetto in me? I miei capelli o i miei occhi, il mio fisico? Vogliamo parlare allora del mio egoismo, o della mia testardaggine? I tuoi sentimenti sono rivolti all’immagine che hai di me, non a ciò che sono veramente”.

Piegai la bocca in una smorfia infastidita e delusa “Invece il mio caro fratellino ti vede per come sei, nevvero?”.

“Non gli piaceva molto la mia indole da reginetta. Non me l’ha mai detto in modo chiaro, ma mi ha sempre fatto intendere che potevo essere qualcosa di più di una bella ragazza”.

 

“Pensi che io non ti conosca abbastanza, pensi che non abbia mai notato i tuoi difetti. Sono chiarissimi davanti ai miei occhi, ma non m’importa. Tu non devi cambiare per me, ti voglio così…ti voglio bella, e potente e irresistibile”.

Lei scosse la testa, aveva l’impressione che io stesso volutamente mancando il punto di tutta la questione “Ti sei uno dei miei più cari amici, Damon, sei il mio migliore amico, se dovesse succederti qualcosa di male, ne morirei…”.

“Ma non sono Stefan, tu preferisci Stefan, come tutti” conclusi amaramente.

“Non ho preferito lui a te. Occupate due ruoli completamente diversi nella mia vita, nessuno ha sostituito l’altro”.

“Certo, non sono neanche degno di entrare in competizione”.

“Perché reputi una sconfitta avermi come amica?”.

“Perché non è quello che voglio e se non ottengo quello che voglio, allora ho perso”.

 

Aprii un occhio, ma lo richiusi subito. L’altro rimase nascosto contro al cuscino.

Non bastava una giornata terribile, ci mancava anche la notte a tormentarmi. E con tutto quello che potevo sognare, proprio il rifiuto di Elena.

Cominciavo a credere che le sorelle Gilbert si fossero messe d’accordo per distruggermi. Oppure lassù qualcuno doveva volermi molto male.

Tirai le coperte oltre la mia testa, mi rifugiai sotto al piumone. Non sarei mai più uscito dalla mia camera del campus. Ero diventato una ragazzina piagnona, ero diventato un cazzo di cliché.

Non potei fare a meno di chiedermi se tutte quelle ragazze con cui avevo giocato fossero state male come me. No, era impossibile, io non le avevo mai ingannate, più o meno.

La signorina Katherine Gilbert si era rivelata ancora più calcolatrice di quanto avrei mai immaginato. Aveva studiato me, i miei punti deboli e aveva colpito senza pietà.

Non potevo neanche dire se fossi più deluso dalle sue bugie o dalla mia ingenuità. Io, una volta così attento e scaltro, battuto sul mio stesso campo di gioco.

Katherine era una perfetta macchina per spezzare i cuori, smaliziata e focalizzata sull’obiettivo. Tanto simile a me per certi aspetti e molto più crudele in altri.

Un giorno solo era bastato per ribaltare completamente le mie prospettive. A conti fatti, nella mia vita avevo combinato poco e niente. In quei mesi credevo di aver compiuto grande passi avanti e invece ero rimasto al punto di partenza, dietro a mio fratello.

Stefan vinceva sempre in un modo o nell’altro, senza neppure sforzarsi. Avrei potuto perdonargli qualsiasi cosa, stavo finalmente iniziando a superare la faccenda di Elena, ma non potevo tollerare che si fosse preso anche Katherine.

Sebbene non fosse direttamente colpa sua, nella mia testa era lui il responsabile. Forse era facile scaricargli addosso tutte le mie disgrazie, forse era solo una serie di coincidenze, ma stranamente, qualunque cosa di storto mi capitasse, lui era coinvolto.

Dovevo dargliene atto: Katherine, per quanto contorta e in un certo senso malata, era stata tremendamente ingegnosa nella sua vendetta: in una sola volta aveva colpito sia me che sua sorella. Peccato che avesse funzionato veramente solo con me. Nella sua mente psicopatica forse Stefan si sarebbe innamorato di lei, piantando in asso Elena; nella realtà rimaneva un sogno.

Quindi l’unico fottuto, rimanevo io.

Che gran bel senso dell’umorismo aveva il destino.

Io ero il perdente. Io ero lo stupido. Io!

Già m’immaginavo la faccia di Tyler, come se la sarebbe goduta! La sua grande idea della scommessa non era nient’altro se non un tassello della mia furbissima ex ragazza. Una scommessa che, tra le altre cose, non stavo assolutamente portando a termine nella maniera sperata.

Altra enorme beffa: la piccola Bonnie, la sfigatella, si rifiutava categoricamente di arrendersi al mio fascino.

Era stata la prima a resistermi, a parte Elena, ma Elena era un’altra storia.

Avevo baciato Bonnie e mi aveva tirato uno schiaffo, mi aveva baciato e aveva pensato a Matt o ancor peggio a mio cugino Klaus.

Lo negavo, lo negavo, ma mi infastidiva terribilmente. Lei m’ignorava e io la cercavo in continuazione, inconsapevolmente, e non volevo nemmeno indagarne il motivo.

Ero diventato un cazzo di cliché.

Porca miseria.

Le donne sarebbero state la mia morte.

 

“Io lo ammazzo”.

“Siete tutti un po’ inclini alla violenza ultimamente”.

“Guarda come ti ha ridotto, Stefan! E scommetto che a Katherine non ha nemmeno tirato due schiaffi” sbottai.

“Non ce lo vedo mio fratello a picchiare una donna” constatò Stefan.

“Due calci nel sedere le starebbero bene”.

“Ci penserà Elena, tranquilla”.

Gli passai il disinfettante sul labbro e lui gemette. Lo fissai un po’ preoccupata: non era messo proprio così male, ma mi chiesi se fosse il caso di portarlo al pronto soccorso per un controllo.

Mi resi conto che era solo tempo perso, compreso quel mio pallido tentativo di medicarlo. La mia amica si era già presa cura di lui, sarebbe stato meglio lasciare le ferite libere di respirare. Elena aveva assistito al fattaccio. Era in casa quando Damon era piombato come una furia per riscuotere la sua vendetta. Stefan le stava raccontando di Katherine. Momento chiaramente rovinato da Damon e dalla sua maledetta impulsività.

Stefan aveva appena finito di spiegarle quello che aveva fatto la sua gemella e i motivi che l’avevano spinto a non rivelarlo subito (non turbare suo fratello, ad esempio).

Trovavo davvero molto strano il comportamento di Katherine: quale motivo aveva di rovinarsi con le sue mani e confessare il suo “tradimento” a Damon?

A Capodanno mi aveva intimato di tacere, alludendo come ricatto a un’ipotetica relazione tra Meredith e Alaric, relazione che Meredith aveva categoricamente negato nel momento in cui le avevo chiesto un chiarimento.

Damon non era un ragazzo dal temperamento tranquillo, le sue reazioni erano sempre imprevedibili. Katherine doveva avere qualche ragione sottesa, forse proprio quella di ferirlo. Anche in questo caso non ne vedevo il perché: Damon l’adorava, non ne era innamorato, ma sembrava abbastanza felice con lei.

Non mi veniva in mente niente di tanto grave per spingerla a baciare il fratello del suo ragazzo, con l’intento di rubarlo alla sorella.

Katherine era pazza e su quello non c’erano obiezioni. Probabilmente Meredith aveva ragione, probabilmente Katherine voleva solo ottenere tutto ciò che aveva Elena, in un moto d’invidia e capriccio.

Allora perché mettersi con Damon? Desiderava dimostrare di avere entrambi i fratelli Salvatore ai suoi piedi, di essere migliore di Elena?

Qualunque fossero i suoi motivi, ora il danno si era esteso a dismisura. Non più una stupida scaramuccia tra sorelle, ma un’ulteriore spaccatura tra Damon e Stefan.

Questa volta forse insanabile per sempre.

“Che cosa sperava di ottenere Katherine? Che tu lasciassi Elena per lei?”.

Sospirò ma non rispose.

“E se Katherine avesse raccontato a Damon che sei stato tu a baciarla? Spiegherebbe perché ti ha attaccato”.

Stefan scosse la testa “Sospetto che mio fratello aspettasse solo un pretesto. Non so che cosa gli abbia detto Katherine e non m’importa. Ormai è inutile. Avrei dovuto parlargli prima, ho avuto un sacco di occasioni e le ho sprecate perché avevo paura”.

“Sono io che ti ho convinto a rimandare, mi dispiace” mi scusai, poggiando la fronte sulla sua spalla “Comunque se l’è cercata: la prossima volta impara a mettersi insieme a Katherine Gilbert…quella megera. Ho provato perfino ad avvertirlo ma non mi ha ascoltato. Gli sta bene” m’imbronciai.

Stefan si spostò leggermente e piegò il collo per osservarmi meglio “Scusa la franchezza, Bon, ma perché hai pensato che mio fratello potesse darti retta? Non sei proprio sulla lista delle sue persone preferite”.

“Beh, no…” concordai un po’ stupidamente “Però si è fidato di me per il tuo regalo”.

Stefan mi fissò stranito. Non aveva idea che Damon avesse chiesto la mia approvazione  prima di compare quello spartito.

“Sono andata con lui ad Atlanta a ritirarlo. Non era sicuro di aver scelto bene, voleva un mio consiglio”.

Mio fratello ha chiesto aiuto a te?”.

Effettivamente sembrava incredibile.

“Se per questo mi ha pure baciato”.

Questo non avrei dovuto dirlo.

“Lui cosa?!” proruppe Stefan “Perché diamine me lo dici solo ora?”.

“Non è stato niente, gli ho tirato uno schiaffo” chiarii “A Capodanno si è scusato. Ha detto che si è trattato di un momento di debolezza perché stava passando un brutto periodo con Katherine. È lì che l’ho messo in guardia, senza risultati”.

“Damon, ovvero mio fratello, ovvero proprio quel Damon ti ha chiesto aiuto, ti ha portato ad Atlanta, ti ha baciato, tu gli hai tirato uno schiaffo e lui si è scusato?!” ricapitolò Stefan allibito “Bonnie, c’è qualcos’altro che mi devi dire? Del tipo che non ti vedi più con Matt perché hai una relazione segreta con mio fratello e Katherine l’ho scoperto e ha baciato me per vendicarsi?”.

Il mio migliore amico aveva sempre avuto una fantasia sfrenata. La sua era un’ipotesi interessante, ma era anche lontana anni luce dalla realtà.

“Assolutamente no!” strillai “Io con Damon, no, no…bleah!” esibii un’espressione schifata “Katherine è solo una schizzata, invidiosa della sua stessa gemella. Ecco perché si è messa in mezzo e tuo fratello la segue a ruota. Non potrei mai innamorarmi di una persona del genere” affermai con sicurezza.

“Penso che tu sia l’unica in città a pensarla così” ridacchiò, tenendosi il labbro dolorante.

“Ho una sorta di cotta per tuo cugino, però” mormorai colpevole.

“Per Klaus?”.

“A Capodanno ci siamo quasi baciati. O almeno ho avuto l’impressione che volesse baciarmi” arrossii nel confessarlo. Mi rendevo conto che la sequenza del racconto potesse apparire molto singolare.

“Anche lui?” domandò con voce strozzata Stefan “Adesso che cosa salterà fuori, che Alaric ti fa la corte?”.

No, quella è Meredith.

“Seriamente Bonnie, sta attenta: ho la sensazione che ti stai per cacciare in un bel guaio. Klaus parte questo fine settimana”.

“Lo so” sussurrai. Non mi ero fatta chissà che illusioni, ma avrei desiderato più tempo almeno per conoscerlo. Nelle due settimane successive alla festa di Stefan sembrava sparito nel nulla.

Il discorso cadde nel vuoto: Elena entrò prepotentemente in casa mia, rossa in viso e affannata “La porta non era chiusa a chiave” annaspò “Ho appena parlato con quella stronza di mia sorella – sventolò il cellulare – ha negato di aver mentito a Damon”.

“Questo significa che anche Damon è uno str-”.

“Questo significa che qualcuno mi deve spiegare che cosa cavolo vi è salato in mente di tenerlo segreto fino adesso” ci puntò il dito contro con fare minaccioso “E come mai Katherine mi ha appena detto che tu, Bonnie, ne sai più di tutti noi?”.

Stefan si stiracchiò sulla poltrona “Mettiti comoda, amore, la nostra amica qui ha un paio di notizie davvero simpatiche”.

Lo trucidai con un’occhiata.

 

Il giorno dopo ero ancora nel letto e programmavo di restarci ancora per molto. Potevo solo ringraziare che Sage fosse via per una breve vacanza. La solitudine era proprio quello che mi serviva in quel momento.

Se solo avessi potuto uscire con Alaric a farmi una birra o meglio a ubriacarmi. Ma quel maledetto sapeva capire da un’occhiata se qualcosa non andava in me, mi avrebbe beccato in un nanosecondo, e io non avevo voglia di lanciarmi in una sentimentale chiacchierata sui mille motivi che mi rendevano così triste.

Avevo appena scoperto che la mia ragazza sognava a occhi aperti mio fratello, che cosa dannatamente mortificante!

Con che coraggio l’avrei confessato a Alaric, proprio a lui che aveva continuato a ripetermi quanto Katherine fosse sbagliata per me?

La prima volta che sentii bussare, pensai di essermelo immaginato.

La seconda non fiatai, per dare l’impressione che la camera fosse vuota.

La terza mi gettai verso la porta, pronto spazzare via chiunque avesse osato disturbarmi. Nella mia testa tre erano le possibilità: Alaric che era corso in mio soccorso, Stefan che era venuto inutilmente a scusarsi, Bonnie che mi voleva sgridare per aver preso a pugni il suo miglior amico.

Ultimamente alla mia porta si presentavano solo persone indesiderate.

“Buon pomeriggio, cugino”.

Quanto odio il mondo.

“Grazie, non ho bisogno di niente” lo liquidai con un finto sorriso, nella speranza che percepisse l’antifona.

“E così questa è la tua camera?” m’ignorò, bloccando ogni mio tentativo di chiuderlo fuori. Si fece spazio nella mia stanza con faccia schifata.

“Un dormitorio come un altro” borbottai.

“Suppongo di sì…solo più disordinato e puzzolente. Ti sei lavato ieri sera?”.

“Cosa diavolo vuoi, Klaus?” ruggii.

“Ho un presentimento e mi piacerebbe sapere se è corretto o se mi sono completamente sbagliato. Seguimi se riesci: ieri sera sono tornato a casa e ho trovato tuo fratello con il viso tutto gonfio, mentre tuo padre sbraitava per tutto il salotto”.

Io lo sguardavo di sbieco, con una smorfia infastidita.

“Stefan ha detto di essersi imbattuto in una banda di bulli che volevano rubargli il cellulare”.

“Scommetto che il suo racconto su come sia riuscito a metterli tutti al tappeto sia stato molto commuovente”.

“No, in realtà gliel’hanno portato via sul serio. Se non fosse che qualche ora dopo ho beccato Stefan usare di nascosto un telefono davvero simile al suo. Ora, a meno che non abbia incontrato dei ladri dall’animo veramente sensibile, che presi dal senso di colpa hanno deciso di restituirgli il cellulare, direi che la sua versione è a dir poco assurda”.

“Perché pensi che io possa aiutarti?”.

“Perché poi gli ho rubato io il telefono e ho letto i messaggi che si è scambiato con Elena. Conoscendo il tuo temperamento, se l’è cavata anche bene”.

“Cento punti, Sherlock. Sono sicuro che ti proclameranno detective dell’anno. C’è un motivo per cui sei qui o volevi solo annoiarmi?”.

“Nessuno ti ha più visto in giro da almeno due giorni: sono venuto per controllare che non ti fossi soffocato con il cuscino”.

“Beh, come vedi sono perfettamente in salute. Non serve che ti accompagni alla porta, vero?” lo invitai a uscire con un gesto della mano.

“Sono qui anche per annoiarti” ammise con il suo sorrisino da schiaffi. Prese tra le mani la palla ovale, da football, di Sage e se la rigirò tra le dita “Ti va qualche passaggio?”.

“C’è la neve” lo stroncai.

“Hai paura di un po’ d’acqua?”.

Mi ero lasciato convincere. Tra tutti, non avrei mai pensato che proprio Klaus sarebbe riuscito a tirarmi fuori dal groviglio di coperte in cui mi ero nascosto.

Quando eravamo piccoli giocavamo spesso football, o meglio a rugby: un inglese non potrebbe mai provare simpatia per uno sport così popolare negli Stati Uniti.

“Allora è vero? Mio fratello ha mentito a mio padre?” chiesi, ancora un po’ sconcertato.

“Sì” mi confermò “Credo che non volesse toglierti per sempre la possibilità di rientrare in casa tua” suppose, mentre mi lanciava la palla.

“O forse non voleva prenderne altre” ghignai, ricevendo il passaggio “Non capisco neanche perché tu sia qui. Non è Stefan il tuo preferito?”.

“Così mi offendi, Damon” disse Klaus “Hai già dimenticato il viaggio che abbiamo fatto in Grecia per il mio diploma?”.

Impallidii leggermente: c’erano momenti di quel viaggio che erano marchiati a fuoco nella mia memoria.

“Ti ricordi quelle due tedesche che ti stavano sempre addosso?” domandò.

Ecco, questi momenti per esempio.

“In realtà, ho l’impressione che sia tu quello che cerca di evitarmi. Suppongo che tu non gradisca il mio interesse verso Bonnie McCullough” continuò lui.

“Sei serio?” scoppiai a ridere “Per la piccola Bon Bon? Non scherzare”.

“Mi hai quasi linciato quando ci hai visto insieme a Capodanno” s’intestardì.

“È una ragazzina frignona e credulona. Ti avrebbe tormentato anche con un oceano in mezzo. Stavo solo cercando di farti un favore” mascherai l’effettiva l’irritazione che era cresciuta a quel ricordo.

“Il mio interesse verso di lei si limita alla pura amicizia” precisò Klaus “Il mio era soltanto un piccolo esperimento”.

“E a che conclusioni sei arrivato?”.

“Sempre le stesse: non capisco perché tu abbia scelto di stare con Katherine, quando passi la maggior parte del tempo a controllare che cosa fa Bonnie”.

Mancai la presa, la palla volò oltre la mia spalla. Fissai mio cugino, completamente scioccato dalla sua affermazione.

Da una parte mi preoccupava veramente che qualcuno potesse immaginare me e Bonnie come coppia, dall’altra fui stranamente sollevato che Klaus non avesse nessuna mira di quel genere nei suoi confronti.

Aprii la bocca per replicare, ma qualcosa di appuntito mi colpì in pieno la nuca. Udii un leggero tonfo e accanto a me vidi cadere la palla da football.

Mi girai furente verso chi aveva osato tirarmela addosso e ricevetti in faccia un mucchietto di neve. Tra il ghiaccio mezzo sciolto che mi colava sugli occhi, scorsi la sagoma minuta di Bonnie venirmi incontro.

Solo due sere prima me ne stavo davanti a casa sua e lei non mi aveva visto neanche per sbaglio. Adesso mi vedeva, anche piuttosto bene a giudicare dalla mira.

“Tu, razza di pallone gonfiato. Bisonte che non sei altro!”.

Avrei potuto seriamente incazzarmi, ma nel momento in cui mi chiamò ‘bisonte’, mi strozzai per trattenere le risate.

Ed eccola lì, incarnata in una piccola furia rossa, la punizione divina per aver picchiato Stefan.

Dopo la sua invettiva, si lanciò contro di me; cosa sperasse di fare mi era ignoto: seppur non fossi altissimo, la superavo di un bel pezzo ed ero decisamente più forte di lei.

Si avvicinò con la mano alzata, pronta a sferrarmi una sberla ben assestata, ma nella sua goffaggine, scivolò sulla neve: mi cadde addosso con tutto il peso, trascinando a terra anche me. Situazione imbarazzante, almeno con chiunque altro.

Bonnie, per nulla turbata dalla posizione, si tirò a sedere, ancora per metà su di me, e iniziò a prendermi a pugni (per quanto si potessero definire pugni) e a tirarmi i capelli.

Da fuori la scena doveva apparire molto comica.

“T’insegno io le buone maniere” strepitò, continuano ad agitarsi.

Non mi stava facendo male, ma odiavo i pizzicotti con tutto il cuore e Bonnie sembrava divertirsi un mondo a strizzare ogni pezzo di pelle che afferrava.

Era un dannato folletto, agile e veloce.

Faticai a bloccarle le braccia e quando ci riuscii, fui costretto a mettermi seduto per fermarle dietro alla sua schiena.

In altre circostanze avrei sentito una grande carica di tensione fisica; in quel frangente lo sguardo truce di Bonnie uccise ogni forma di malizia.

“Non ti facevo così coraggiosa, uccellino” la stuzzicai.

“Va’ a quel paese” sibilò “Ti dovresti vergognare: non si picchia così la gente, brutto incivile”.

“Qui sei tu quella che ha alzato le mani” le feci notare.

“Te lo meriti per come hai trattato Stefan. Lui non c’entra niente, è stata Katherine a baciarlo”.

“Se n’è rimasto zitto fino adesso, me l’ha tenuto nascosto. Ringrazia che non gliele abbia date più forti!”.

“Io lo sapevo e non ti ho detto niente. Vuoi prendere a schiaffi anche me?” mi sfidò.

Quella piccola ragazzina era una continua sorpresa: non la credevo capace di affrontarmi apertamente, ma per santo Stefan questo e altro.

“D’altronde, cosa potevo aspettarmi da uno come te. La tua ragazza era Katherine e tu sei esattamente come lei. La biasimi perché ha baciato tuo fratello, ma tu avresti fatto lo stesso se Elena ci fosse stata” mi accusò.

“Io stavo con Katherine, non l’avrei mai umiliata così” mi difesi.

“Ma avresti umiliato volentieri tuo fratello!” m’incastrò.

Sbuffai sonoramente e le lasciai i polsi. Mi stesi a terra, incurante della neve che mi bagnava i vestiti “Che cosa vuoi da me, Bonnie?” soffiai esasperato.

“Non lo so” ammise lei. Aveva ancora il fiatone per l’impeto nella lotta e si stese accanto al mio corpo “Credevo di aver visto qualcosa di buono in te” disse delusa.

“Niente è cambiato. Sono sempre il solito”.

“Potrei anche cascarci, se non fossi venuta con te ad Atlanta. Ero lì quando hai comprato quel regalo a Stefan. Devi volergli almeno un po’ di bene”.

Ho scelto quello spartito per conquistarti, averti ai miei piedi e spezzarti il cuore.

Non risposi. Onestamente, non sapevo che cosa dirle.

Venne in mio soccorso Klaus. Era rimasto in silenzio tutto il tempo, a osservarci immobile, quasi non volesse disturbare la nostra discussione, o per godersi meglio lo spettacolo.

Bonnie seguì il mio sguardo e sussultò quando il suo si posò sulla figura di mio cugino.

“Klaus” sussurrò “Da quanto sei qui?”.

Davvero non l’aveva notato?

“Dall’inizio” disse lui pacato “Io e Damon stavamo facendo due tiri” spiegò indicando la palla che giaceva a terra, accanto a noi.

“Penso che ora sia il momento di andarmene, ho fatto il mio dovere” dichiarò con un sorrisino compiaciuto “E tu sei pregato di venirmi a salutare prima della mia partenza” m’intimò, mentre con passo elegante si allontanava da noi.

Mi alzai scrollandomi la neve di dosso “Bene, uccellino, possiamo anche finirla qui…”.

“Col cavolo” tuonò, sollevandosi in piedi a sua volta “Ho ancora un paio di cose da chiarire e tu rimarrai ad ascoltarmi” mi minacciò puntando il dito a un centimetro dal mio naso “Tu non mi piaci, Damon Salvatore” affermò “Non mi sei mai piaciuto e ultimamente mi piaci ancora meno: mi hai insultata, presa in giro, mortificata! Mi hai chiesto scusa, mi hai chiesto aiuto, mi hai baciata, mi hai salvata! Soffri di disturbi della personalità? Non m’importa, so solo che non mi piaci” ribadii per l’ennesima volta “Ma per qualche assurda ragione, tuo fratello ti vuole un bene dell’anima e non sarà mai felice finché non risolverete i vostri problemi, quindi non permetterò a una vipera qualunque di distruggere quel poco che avevate!”.

“Sveglia, Bon Bon, io e mio fratello non abbiamo mai avuto un rapporto” la canzonai, desideroso di sottrarmi a quella tortura mentale.

“Dalla a bere a qualcun altro” mi freddò con una carica impressionante “Tu ora vai da Katherine e le fai bene capire che tu sei Damon Salvatore e che nessuno può ferirti senza il tuo permesso. Liberati di questo potere che le sorelle Gilbert hanno sulla tua vita”.

Io ho potere sulla mia vita” rimarcai quasi ringhiando.

Bonnie non arretrò di un centimetro.

“Allora smettila di farti trascinare dal rancore”.

 

 

Non avrei mai pensato che Klaus potesse risollevarmi l’umore e non avrei mai pensato che Bonnie McCullough potesse darmi una tale scarica di autostima.

Stavo lentamente mettendo insieme tutti i pezzi: da ciò che mi aveva più volte ribadito Alaric alle ultime battute scambiate con mio cugino.

Katherine Gilbert era stata una sorta di rimpiazzo, almeno all’inizio. Se non avesse avuto lo stesso identico aspetto di sua sorella, probabilmente non l’avrei mai degnata di uno sguardo.

Nessuno credeva che sarei riuscito a conquistare Elena, nessuno ci avrebbe scommesso un centesimo, neppure i miei più vecchi amici. Katherine era arrivata come un miracolo sceso dal cielo, la mia occasione di rivincita.

Il suo carattere era molto più simile al mio che quello della sua gemella, mi riconoscevo nei suoi modi di porsi e comportarsi, rivedevo nei suoi occhi la mia stessa brama di potere.

Ciò che mi aveva tanto attratto inizialmente, era anche ciò che giorno dopo giorno mi aveva lasciato dubbioso e inquieto: era come me, in versione femminile.

Tutte le cattiverie e le sue subdole idee così affascinanti, che mi avevano riempito di orgoglio, ora mi sembravano degli ostacoli che separavano nettamente i nostri modi di concepire la vita.

Io non ero così, non potevo essere così.

Bonnie non aveva la più pallida idea di come fossi in realtà, ma su una cosa aveva ragione: le sorelle Gilbert per troppo tempo avevano esercitato il loro controllo su di me. Elena mi aveva fatto sentire un fallito e un incapace, Katherine si era presa gioco di me. E se le intenzione della prima non erano certamente quelle di ferirmi, non si poteva dire lo stesso della seconda.

L’aspettai fuori da casa sua, appoggiato alla mia macchina, deciso a chiarire un paio di questioni. Quando mi vide, di ritorno da scuola, rallentò il passo, sorpresa e intimidita.

Recuperò in fretta la sua sfacciataggine “Che cosa ci fai qui, Damon?”.

“Mi devi delle spiegazioni, raggio di sole” la schernii.

Lei sbuffò, palesemente irritata, ma rimase a pochi passi da me “Credevo di essere stata fin troppo chiara”.

“Perché ti sei messa con me?” domandai a bruciapelo.

Scrollò le spalle “Perché sei bello, sei popolare, perché mi sentivo lusingata che tu avessi scelto me. Ma le voci corrono e ho scoperto la tua piccola cotta per mia sorella. Scusami tanto se ho ridimensionato le mie illusioni” commentò sarcastica.

“Perciò io facevo solo parte di un piano malato e vendicativo?”.

“No, non da subito. Ho osservato i tuoi comportamenti per assicurarmi che tu fossi sincero e che non mi stessi usando per dimenticare la mia copia. Avevo accantonato le mie macchinazioni, avevo perfino in mente di lasciare in pace la mia gemellina, questo almeno finché non è entrata in scena Bonnie. Se potevi provare anche una minima scintilla di curiosità per quell’esserino insignificante, chissà cosa avresti fatto se Elena fosse venuta da te. A queste condizioni non ci potevo stare, capisci?”.

“Capisco benissimo” le assicurai “Il tuo piano diabolico prevedeva di rubare il ragazzo a tua sorella e correre con lui verso il tramonto, mentre io e Elena vi guardavamo come due idioti. E nel frattempo, hai pensato bene di torturare un po’ Bonnie”.

“Non prendermi per una ragazzina” mi avvisò “Sei stato tu il primo a giocare con me”.

“Hai fatto tutto da sola, Katherine. Non ho mai avuto alcun tipo d’interesse nei confronti della McCullough, neanche mi stava simpatica. Se tu non avessi proposto quella stupida scommessa, io non mi sarei mai avvicinato a lei; se tu non l’avessi convinta ad andare nel bosco, io non l’avrei salvata; se tu non le avessi rivelato quelle cose su sua madre, lei non si sarebbe ubriacata e soprattutto se non avessi chiamato la polizia per rovinare la festa di Tyler, io non avrei dovuto riportarla a casa”.

“Cos-?” provò a ribattere.

“Smettila di fare la finta tonta. So benissimo che hai chiamato i poliziotti per ripicca. Non potevi sopportare che ti avessi dato contro davanti a tutti”.

Realmente, perché sei qui?” ripeté sempre più inviperita.

“Per farti sentire un po’ stupida” le risposi con un sorrisetto “E per risistemare un attimo la gerarchia. Ora che mi hai sfidato, chissà come potrei ripagarti? Magari accompagnando Caroline al prossimo ballo, sono certo che questo l’aiuterà a guadagnare un po’ di punti per l’elezione della reginetta della scuola” ipotizzai “Oppure, ancor meglio, potrei diffondere la voce che ci siamo lasciati perché tu non potevi sopportare le attenzione che riservavo a Bonnie”. Questo l’avrebbe uccisa: venire battuta e superata pubblicamente da Bonnie McCullough, era probabilmente il suo peggior incubo.

“Ci siamo lasciati perché io ho preferito tuo fratello” sibilò, stringendo gli occhi e assottigliando le labbra.

“Che ti ha scaricato dopo due secondi come un sacco di patate” le ricordai innocentemente “La storia fila comunque liscia come l’olio: tu hai deciso di tradirmi con mio fratello, perché, umiliata e ferita, avevi scoperto che io avevo già baciato Bonnie…cosa che in effetti ho fatto…per ben due volte”.

Katherine era sul punto di esplodere come una bomba: rossa in viso dalla rabbia, le labbra tiratissime, i pugni che si stringevano a scatti lungo i fianchi. Non mi sarei stupito se i suoi capelli si fossero rizzati di scatto in testa.

“Dimentichi la scommessa, amore” era sul punto di staccarmi la testa a morsi.

“Tyler è l’unico testimone e non aprirà bocca se io gli dirò di tacere. È la tua parola contro la mia e questa è la mia città: posso far credere quello che voglio a chi voglio. Forse avresti dovuto rimanere sul serio a Parigi” aprii la portiera della macchina, non avevo nient’altro d’aggiungere.

Mi voltai un’ultima volta “Non crucciarti così, ti verranno le rughe prima del tempo”.

Chiusi appena in tempo la portiera: Katherine aveva tirato la sua borsa contro al mio finestrino.

 

Il mio spazio:

Stasera sarò velocissima, è tardi e voglio pubblicare!

Spero che sia piaciuto questo viaggio nella mente di Damon, che completa il capitolo precedente.

Adesso che ci siamo sbarazzati di Katherine, finalmente entreremo a piena forza nella storia tra Damon e Bonnie.

Dobbiamo solo convincere la piccola rossa!

Mi sono divertita un sacco a scrivere la loro piccola scena insieme, chiusi nella loro bolla!

Non mi sono dimenticata di Would you hold it against me?, aggiornerò presto anche quello. Volevo solo portarmi un po’ avanti con Crazy Little Thing Called Love!

Vi ringrazio sempre e tantissimo per il continuo supporto!
Il banner è di Bumbuni.

Buona notte!

Fran;)

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Capitolo 17
*** Baby steps ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo diciassette: Baby steps.

 

“I got a love of my own, babe
I shouldn't get so hung up on you
I remember the way that we touch
I wish I didn't like it so much
I get so emotional, baby
Everytime I think of you
I get so emotional, baby
Ain't it shocking what love can do”

(So emotional- Whitney Houston).

 

“Stai scherzando, vero?” tuonai, tra l’incredulità e il panico.

“Sono estremamente serio, gattina” rispose mio padre con tono pacato.

“Ma ho fatto qualcosa di male? Mi stai punendo?”.

“Perché lo pensi?”.

“Te ne vai per una settimana e mi lasci con i Salvatore” mormorai.

“Ti sei sempre divertita a stare da Stefan” replicò, ottuso.

“Ho quasi diciotto anni, posso resistere da sola per qualche giorno” obiettai.

“Devo ricordarti che un paio di mesi fa sei tornata a casa completamente ubriaca”.

Quello era veramente un colpo basso. Non avevo mai sgarrato di un centimetro, mai commesso errori, nemmeno una botta di testa. Una rara volta che mi comportavo da adolescente, venivo tacciata come la peggiore delle ribelli.

Non potevo credere che Giuseppe avesse accettato, non potevo credere che Damon avesse accettato. Non ci potevo credere e basta.

Mio padre riusciva anche e soprattutto nell’impossibile.

La notizia era scoppiata come un fulmine a ciel sereno, apposta per torturare i miei nervi.

Sapevo già da qualche giorni che mio padre sarebbe partito per una settimana per recarsi a un convegno di aggiornamento medico. Immaginavo di potermi godere la casa vuota, invitare qualche amica, ammazzarmi di tv senza aprire un libro. Non era stato così.

Il mio caro papà aveva appena infranto i miei sogni di gloria: di ritorno da scuola, avevo scoperto che i Salvatore mi avrebbero ospitato per tutta la durata del convegno.

Fin qui tutto bene: non avevo nessun problema a trascorrere del tempo con il mio migliore amico, specialmente perché quella villa era provvista di un’enorme camera da letto riservata agli ospiti, ovvero a me.

Tutto perfetto, se la mia evidente cattiva sorte non avesse cominciato a lavorare contro ogni aspettativa di tranquillità: anche Giuseppe sarebbe mancato per una settimana.

Aveva deciso di accompagnare Klaus in Inghilterra e approfittarne per visitare sua sorella, suo cognato e tutta la famiglia Mikealson.

Così io e Stefan ci eravamo trovati incastrati in una situazione a dir poco imbarazzante: mio padre aveva convinto con qualche assurdo ricatto pensai Giuseppe a lasciare che Damon ritornasse a casa sua per badare a noi due.

E questo era davvero il colmo che batteva ogni assurdità.

Damon non sapeva neanche prendersi cura di sé e soprattutto non aveva alcun interesse a sprecare del tempo tenendo d’occhio me né tantomeno suo fratello.

Non capivo come diamine avesse potuto acconsentire a questa soluzione. Non capivo come Giuseppe avesse potuto cedere alle richieste di mio padre.

“Ho imparato la lezione. Non ho bisogno della babysitter” m’imbronciai “E poi Damon è assolutamente inaffidabile”.

“L’ultima volta ti ha riportato a casa. Senza di lui forse saresti finita nei guai”.

“Va bene, papà, non vorrei davvero ma ti devo aprire gli occhi. Ti ricordi tutte le volte che al primo anno del liceo tornavo piangendo? Ecco, di solito era colpa di Damon”. Non ne potevo più di sentire mio padre adorare quel ragazzo.

Non fece una piega, scrollò le spalle e continuò a sistemare i vestiti nella sua valigia “È un giovane irrequieto, non sa ancora che cosa vuole nella vita e commette errori. Tu, invece, sei troppo prevenuta nei suoi confronti, gattina. Da che ho memoria, Damon ti ha sempre tenuta al sicuro. A modo suo ti è affezionato. Detesta vederti stare male”.

Io alzai le sopracciglia, scettica “Stiamo parlando della stessa persona? Onestamente, credo che tu abbia una visione del tutto distorta di quell’imbecille. Sono stupida io che continuo a non raccontarti tutte le cattiverie che mi ha fatto”.

Mi ritirai in camera mia senza più aggiungere una parola. C’era qualcosa di assolutamente sbagliato in tutta la situazione.

Ero arrabbiata perché avevo quasi raggiunto la maggiore età eppure non avevo nessuna libertà, arrabbiata perché mi trovavo bloccata sotto la custodia di un ragazzo che era cento volte meno maturo di me e che aveva dimostrato di non sapersi comportare civilmente. Negli ultimi tempi era un po’ cambiato, un po’ cresciuto e in effetti senza di lui sarei rimasta coinvolta in circostanze spiacevoli, ma come potevo essere sicura che la bestia non si nascondesse dietro quelle buone intenzioni?

Si era rivelata con Stefan, c’era qualche motivo per cui la sua cattiveria non si dovesse riversare su di me?

Potevo fidarmi di un tipo che mi aveva disprezzata così a lungo?

La risposta era negativa e mio padre sembrava cieco a riguardo.

 Forse ero io ad aver perso un passaggio, forse non conoscevo tutta la storia e forse un giorno avrei finalmente compreso che cosa si celasse dietro a quella faccia da schiaffi di Damon Salvatore.

L’idea di dividere per una settimana la casa con lui non mi entusiasmava molto, ma probabilmente non c’era da preoccuparsi: sicuramente gli serviva qualche favore da Giuseppe, per questo aveva acconsentito.

Guardai dalla finestra la villa dei Salvatore e solo allora mi accorsi che la luce nella stanza del ragazzo era accesa. Fino a quel momento Klaus l’aveva occupata, ma che sarebbe accaduto una volta partito?

Scostai la mia tenda per osservare meglio quella camera e un moto di tristezza mi colse di sorpresa: appariva così sbagliato che il suo legittimo proprietario non fosse più lì.

Non potevo concepire che una famiglia fosse così irrimediabilmente distrutta. Nonostante mia madre ci avesse abbandonato senza più voltarsi indietro, noi tre eravamo quasi dipendenti uno dall’altro. Non potevo vivere senza mio padre e mia sorella.

Stefan, Damon e Giuseppe non avevano idea di che cosa si stessero perdendo.

Sospirai e lasciai ricadere la tenda a ricoprire una parte della finestra. Sarebbe stata una settimana da pazzi, ma non l’avrei sprecata.

Non potevo fare niente per il rapporto tra Damon e suo padre. Giuseppe era totalmente fuori dalla mia portata, incomprensibile.

Stefan e Damon, invece, erano tutt’altra storia. In qualche modo sentivo di avere il potere di aggiustarli. Erano fratelli, dovevo solo far sì che se lo ricordassero.

Nessuna ragazza in mezzo e soprattutto nessuna Gilbert. Nessun Giuseppe a seminare zizzania. E forse i pezzi di quella famiglia disastrata si sarebbero ricomposti.

Andai a dormire con un animo molto più tranquillo.

Ero ancora furiosa per quell’idea assurda, ma almeno adesso avevo uno scopo: potevo scrivere un lieto fine a quella maledetta storia.

Un Damon felice era un Damon che non creava problemi. Una vincita su tutti i fronti.

Ingenua io che credevo di poter vedere finalmente una soluzione ai miei dilemmi. Mi ero talmente abituata a dare la colpa di tutto a quel ragazzo, che non mi aspettavo proprio altre sorprese.

E invece la sorpresa arrivò dalla persona più pacata e prudente. Lei che doveva essere una sicurezza, lei mi provocò quasi un colpo al cuore.

Meredith avvinghiata ad Alaric. Ecco, la scena che mi si presentò davanti agli occhi, quando, il giorno dopo, entrai nella classe di storia. La lezione era finita, io mi ero dimenticata un libro in classe.

“O Santo Cielo!”.

 

Ultimamente passavo davvero troppo tempo a fissare le case degli altri. Quella, in realtà, era la mia, ma da mesi non ci mettevo più piede e iniziavo a non sentirla più vicina come una volta. Non era più il mio rifugio sicuro.

L’idea di ritornarci, anche se solo per qualche giorni, mi turbava parecchio.

Quando mio padre mi aveva telefonato, proponendomi di badare a Stefan e a Bonnie per quella settimana, ero scoppiato a ridere, poi avevo interrotto la comunicazione.

Pochi minuti dopo mi aveva richiamato. Era stato parecchio insistente, il che mi era parso ancor più ridicolo della richiesta in sé.

E al contempo ero anche un po’ deluso, benché fossi restio ad ammetterlo. Per un momento avevo immaginato che lo scopo della sua chiamata fosse di congratularsi con me per l’eccellente esito del mio esame. Invece stavo solo cercando di accontentare il suo vecchio amico, Rudy McCullough*.

Alla fine non avevo rifiutato, sorprendendo perfino me stesso. Avevo, però, delle buone motivazioni: prima di tutto lo studio.

Aprire un libro con Sage che continuava a fare avanti e indietro per la stanza con ragazze diverse ogni volta, stava diventando davvero complicato. Non mi era mai importato, perché non mi ero mai dedicato seriamente all’università.

Ora, non vedevo altro scopo che quello nella mia vita: la mia ex ragazza mi aveva preso in giro per tutto il tempo, la mia famiglia mi evitava, il mio migliore amico stava aspettando delle scuse di prima classe da parte mia.

Mi ero già preso in parte la rivincita con Katherine e per il momento non avevo alcun interesse di riallacciare i rapporti né con Stefan né con mio padre. Avevo intenzione di sistemare le cose con Alaric, ma non avevo tutta sta voglia di dargli ragione subito.

Lo studio era la mia unica distrazione. Non sarei mai riuscito a passare il resto degli esami del primo semestre se fossi rimasto al campus e la biblioteca non faceva per me.

Casa mia era il luogo ideale per stare un po’ in pace. Mio padre sarebbe rimasto per una settimana o più a Londra dai miei zii e con molte probabilità non avrei mai neanche incrociato mio fratello: la casa era grande e lui era sempre impegnato tra allenamenti di football e tutte le sue cagate da adolescente.

Questo mi lasciava non solo il tempo e la tranquillità per studiare, ma anche la possibilità di avere Bonnie sotto lo stesso tetto, a portata di mano. Solo perché la mia storia con Katherine si era conclusa, non ero obbligato a mettere la parola fine anche alla scommessa.

Avevo ancora una certa reputazione io e non avrei permesso a Tyler di darmi del perdente fino alla fine dei suoi giorni.

Senza contare che sarebbe stato un bello smacco verso la mia ex ragazza Gilbert. Ci avevo riflettuto su parecchio ed ero arrivato alla conclusione che la miglior ripicca si celava proprio dietro quella scommessa che lei stesse aveva messo in piedi.

“Potrei diffondere la voce che ci siamo lasciati perché tu non potevi sopportare le attenzioni che riservavo a Bonnie”.

Una frase buttata lì per ferirla, si era rivelata una grande e diabolica idea, degna di me.

Rimaneva sempre il solito problema: Bonnie non mi poteva sopportare.

Rudy McCullough mi aveva dato la possibilità di cambiare le cose. Era davvero impressionante la fiducia che quell’uomo riponeva in me, considerando soprattutto il numero di padri che mi avevano intimato di stare lontano dalle proprie figlie.

Non ne avevamo mai parlato, io e il signor McCullough, però sapevo che la sua simpatia verso di me risaliva a molti anni fa: il giorno in cui Abby aveva deciso di andarsene.

 

Un bambino di otto anni non comprende tante cose.

Un bambino di otto anni osserva, si stranisce e continua la sua vita.

Un bambino di otto anni si pone delle domande, ma spesso non aspetta il tempo necessario per ottenere delle risposte e torna alle sue occupazioni da bambino di otto anni.

Io non ero così.

M’impicciavo degli affari altrui, insistevo, mi capitava di pestare i piedi a qualche adulto, di solito mio padre. Oltretutto ero piuttosto perspicace.

Quando, dal mio portico,  osservai la signora McCullough trasportare una grossa valigia dentro la macchina, fiutai all’istante aria di problemi.

Il signor McCullough assisteva in silenzio a quello strano avanti e indietro, con un’espressione da funerale stampata in volto. Non la stava aiutando come avrebbe fatto un qualsiasi gentiluomo, neanche si degnava di spostarsi dalla porta quando lei doveva passare. Comportamento davvero strano, trattandosi del padre di Bonnie, ovvero la gentilezza fatta a persona. Non come il mio.

Si scambiarono qualche parola, non riuscii a sentirle. Non sembravano amichevoli, però.

Cosa altrettanto strana, dato che non li avevo mai visti litigare.

Lui era una maschera di freddezza, talmente diverso dall’uomo gioviale cui ero abituato.

Lei non lo guardava neanche negli occhi, come se fosse colpevole di qualcosa. Continuava a sistemare le sue cose nel baule della macchina e replicava alle affermazioni del marito in modo quasi meccanico, come se avesse imparato il copione a memoria.

La compostezza del signor McCullough non durò a lungo e ben presto si ritrovò a supplicarla con lo sguardo, come un disperato senza altra possibilità.

 In uno scatto di risoluzione, si avventò sul bagagliaio, lasciato momentaneamente incustodito dalla moglie, e iniziò a scaricare tutto ciò che gli capitava per le mani.

Abby ricomparve sulla soglia con l’ultimo borsone. Non appena si accorse del marito, lo fermò, riponendo tutto nuovamente al suo posto.

Alzò la voce e gli intimò di stare lontano, perché ormai lei aveva preso la sua decisione, perché lì in quella città non le era rimasto più niente a renderla davvero felice.

Fu in quel momento che capii, quasi con orrore che cosa significasse quella scena che fino a un secondo prima mi pareva solo strana.

Ero un bambino di otto anni, mi impicciavo degli affari altrui, insistevo, mi capitava di pestare i piedi a qualche adulto, di solito a mio padre. Oltretutto ero piuttosto perspicace.

E tremendamente impulsivo.

Non spesi nemmeno qualche istante a pensare. Scesi i gradini della mia veranda e attraversai la strada, percorrendo la distanza che mi separava dalla donna.

Con voce più innocente e ingenua che riuscii a riprodurre, dissi “Va da qualche parte, signora McCullough?”.

Lei sussultò. Si voltò e piegò il collo verso la mia direzione “Damon” mi chiamò “Non dovresti essere a scuola?”.

“Sono malato”.

“Non sembri malato”.

Le riservai un sorriso furbetto. Tutti si meritavano qualche giorno di riposo.

“Vado qualche giorno fuori città” mi rispose, frettolosamente, forse nella speranza di liquidarmi senza tante spiegazioni.

“Sono tante valigie per una persona sola” considerai.

“È una vacanza un po’ lunga”.

“Bonnie è ancora all’asilo. Non l’aspetta, non la saluta?”. Serviva ben altro per sbarazzarsi di me.

La donna sospirò “Damon, se sei davvero malato, dovresti stare in casa al caldo”.

“In realtà è una domanda molto intelligente” s’intromise Rudy “Non saluti le tue figlie?”.

Abby ebbe un tremito.

“Mia madre voleva rimanere, non voleva lasciarci. È stata costretta” sussurrai tristemente “Un bambino non deve crescere senza la sua mamma”.

Avevo toccato un tasto dolente, perché parve cedere per qualche istante. Presto ricompose la sua espressione determinata “Tua mamma era una donna coraggiosa”.

Sembrava quasi dire ‘Io non lo sono’.

E infatti aggiunsi “Lei invece è codarda”.

Avevo imparato quella parola qualche giorno prima, guardando un film, e mi sentii estremamente orgoglioso a usarla.

Abby si accigliò, sorpresa che un bambino di otto anni si fosse preso tutta quella confidenza di accusarla così spudoratamente. Non aveva altro da dire, niente l’avrebbe mai assolta dal gesto che stava per compiere.

Salì in auto e chiuse con un botto la portiera. Non accennò neppure un saluto a suo marito, che se ne stava in piedi accanto al veicolo.

Mise in moto, ingranò la marcia e sparì dietro l’angolo, lasciandosi dietro una scia leggera di fumo.

Io non sapevo che fare, incredulo. Pensavo e ripensavo a ciò che sarebbe accaduto una volta che Mary e Bonnie avesse appreso la notizia.

Il signor McCullough si accovacciò di fronte a me e mi posò le mani sulle spalle, stringendole delicatamente “Diventerai un ometto degno di tua madre” mi disse.

Io mi morsi un labbro e annuii con un mezzo sorriso.

“Ti devo chiedere un favore, Damon: mi devi aiutare con le mie figlie, specialmente con Bonnie perché è ancora tanto piccola. Mi prometti che la terrai d’occhio, che proverai a proteggerla?”.

Il mio petto si gonfiò di orgoglio e ancora una volta annuii con forza.

 

Non lo intendeva sul serio, o almeno non l’aveva mai considerata una promessa vincolante; solo ora lo comprendevo.

Era più che altro un tentativo di rincuorarmi, di ripagarmi per il mio sforzo: avevo provato a fermare la mamma di Bonnie  e non ci ero riuscito.

Suo padre in cambio aveva cercato di ricompensarmi, di darmi la possibilità di fare comunque qualcosa di buono.

Nel corso degli anni non avevo proprio tenuto fede alla promessa. Non potevo soffocare la mia indole, non potevo comportarmi sempre bene, non era da me.

Era divertente prendere in giro Bonnie, era facile ed estremamente soddisfacente. Non avevo mai sopportato il tuo attaccamento verso Stefan o i suoi modi da bambina frignona o la faccia da vittima che esibiva ogni volta che qualcosa andava storto.

E fino a qualche settimana fa ero sicuro, al cento per cento, che niente fosse cambiato. Invece tutto era cambiato.

Per quanto provassi a non pensarci, per quanto provassi a ingannare gli altri e soprattutto me stesso, dovevo arrendermi all’idea che Bonnie McCullough non fosse più una bambina frignona e insopportabile.

Katherine ci aveva visto giusto, Klaus ci aveva visto giusto. E quel grandissimo stronzo di mio cugino mi aveva sbattuto pesantemente in faccia la nuova realtà delle cose, macchinando una trappola in cui ero cascato come un pivellino colto dalla gelosia.

Forse senza il suo brusco intervento e senza il tradimento della mia ragazza non me ne sarei mai accorto. Gettando un’occhiata indietro alle ultime settimane della mia storia con Katherine, era lampante che qualcosa si fosse incrinato.

Non mi sarei mai avvicinato a Bonnie senza quella stupida scommessa, senza tutti i piani che Katherine aveva ideato per farmi vincere o mettermi alla prova o qualunque fosse il suo cazzo d’intento. Ma ora che era successo, mi risultava molto difficile tornare indietro, ai tempi in cui snobbavo Bonnie con tanta naturalezza.

La settimana che mi aspettava rappresentava una grande occasione: oltre allo studio, finalmente forse avrei capito per quale dannato motivo mi era sorto un improvviso debole per le rosse di capelli.

La scommessa e la vendetta verso Katherine erano solo delle scuse, degli schermi, dei pretesti per indagare a fondo: il mio era solo un capriccio? Mi ero intestardito perché Bonnie non ne voleva sapere di me? Oppure si trattava di qualcosa di più..?

Meglio non pensare alla seconda ipotesi.

Scesi dalla mia macchina e mi tirai dietro un borsone. Klaus mi aveva chiamato chiedendomi di aiutarlo a preparare le sue valigie. Avevo colto l’occasione al volo, dato che dovevo sistemare un paio di cose in camera mia.

Stefan era a scuola, mio padre al lavoro. Non rischiavo incontri spiacevoli.

Appena entrato feci giusto in tempo a compiere un paio di passi. Cos’è che avevo detto? Che mio padre era al lavoro.

Porca p-

“Damon” pronunciò il mio nome con quella nota strisciata in grado di mettere paura a chiunque.

“Pensavo che in casa non ci fosse nessuno” dissi di getto.

“E io non mi aspettavo di vederti varcare quella porta. I miracoli avvengono davvero, suppongo” continuò mentre ritirava dei documenti nella sua cartella.

“Salgo in camera mia e chiudo questa conversazione prima che inizi” troncai.

La voce di mio padre mi fermò, quando posai il piede sul primo gradino delle scale.

“Ho ricevuto la lettera per il pagamento della seconda rata della tua università. Ti conosco bene, Damon: ti piace la vita comoda, ti piace sfruttare la libertà che il college ti dà senza dare gli esami. Non hai il coraggio di rinunciare agli studi…quello implicherebbe trovare un lavoro. Ma non pagherò altro se non vedrò dei risultati”.

“Ho anche io la firma sul conto” gli ricordai, mentre mi giravo. Non ero furente come avrei immaginato, ero calmo e sicuro di me “Non che siano affari tuoi, ma ho dato da poco un esame e ho preso il massimo. Entro fine semestre avrò recuperato il tempo perso. A fine anno mi laureo e tu non sei invitato alla cerimonia. Ho già pagato la seconda rata con i soldi che mi ha lasciato mamma. Quindi tu e il tuo denaro potete farvi compagnia l’uno all’altro”.

 

“Dimmi che scherzi ti prego!”.

“Non eri tu che trovavi questa cosa molto romantica?”.

“Sì, ipoteticamente parlando” m’indignai.

“Bonnie…”

“No, niente Bonnie. Questa non la scampi. Hai dieci secondi per raccontarmi tutto!”.

“Non c’è molto da raccontare: per mesi siamo stati lontani, a mala pena ci salutavamo. Poi un giorno, un po’ prima di Natale, ci siamo incontrati al bar. Io stavo leggendo un libro, ero all’inizio. Lui mi ha detto di lasciare perdere, che era una schifezza. E da lì abbiamo cominciato a vederci sempre più spesso. Parlavamo di scuola, del college, argomenti innocenti e neutrali…fino a che un giorno ci siamo baciati e il resto lo sai”.

Sbiancai e mi passai una mano tra i capelli. Facevo su e giù per la palestra vuota, cercando di calmarmi.

Quando avevamo scoperto che Alaric era il nostro insegnante, ero stata la prima e forse l’unica a tifare per loro. Mi piaceva quell’idea di proibito e rischioso, l’idea dell’amore impossibile ma abbastanza forte da superare quel grandissimo ostacolo.

Ma era accaduto prima di Matt e di Klaus, di Damon, di Katherine, di mia madre e di tutti i casini che mi erano piombati addosso.

Certo, era bello immaginarsi un mondo di favole, la vita però era un po’ diversa: normalmente andava tutto storto e il gioco in cui si era invischiata Meredith era molto pericoloso.

“Me lo sarei aspettata da Caroline, ma da te proprio no!” le puntai un dito contro.

“Nemmeno io sono così contenta della situazione, ma non ho potuto resistere. È come avevi detto tu: ‘se c’è attrazione non ci puoi fare nulla, prima o poi ti colpirà alle spalle’. E questa non è semplice attrazione” specificò, dopo aver citato le mie esatte parole.

“Da quando tu mi dai retta?”  mi stupii, per niente felice. Con tutti i consigli che avevo dispensato, decideva di seguire proprio questo!

“È inutile resistere. Ci abbiamo provato e non ha funzionato. A giugno finisce la scuola, mancano solo pochi mesi. Dobbiamo solo essere discreti e poi potremmo fare quello che ci pare” mi spiegò, pratica come al suo solito.

“Discreti? Vi stavate baciando nella sua aula! Poteva entrare chiunque e infatti sono entrata io!” la sgridai senza alzare la voce.

“Questa è stata una mossa stupida, lo ammetto” mi concesse “E assolutamente non da me. Credo di essermi fatta prendere dall’euforia, sai. Sono sempre stata così composta e razionale. Mi piaccio così, non mi cambierei mai…è solo che ogni tanto viene voglia anche a me di sgarrare qualche regola o di fare cose stupide”.

“Beh, le fai in grande stile” ironizzai.

“Sono pur sempre un genio”.

Cercai di trattenere una risata, ma proprio non ci riuscii. L’abbracciai ridendo come una pazza.

Se avessi avuto un minimo di senno, non avrei lasciato perdere così facilmente l’argomento. L’anima romantica e sognatrice aveva sempre soffocato la mia parte razionale. Con che faccia tosta potevo stroncare la sua prima vera storia d’amore? Con quegli occhi che brillavano di agitazione e allegria.

Provai un po’ d’invidia per quella luce.

Avrei tanto desiderato essere su di giri come Meredith. Trovare qualcuno che mi facesse buttare al vento ogni cautela. Eppure i ragazzi che avevano dimostrato così tanto interesse verso di me, ora sembravano totalmente indifferenti.

Klaus mi aveva mandato segnali molto ambigui, ma non era mai arrivato al dunque.

Matt era invece sparito del tutto. Mi conosceva da anni e non si era nemmeno degnato di darmi delle spiegazioni. Qualunque fosse il motivo meritavo di saperlo.

Dovevo aver combinato un bel guaio quella sera alla festa di Tyler. Avevo bevuto molto e non mi ricordavo praticamente niente, ma più ci ripensavo più non riuscivo a immaginare che cosa di tanto grave avessi fatto per allontanarlo in quel modo.

E fu in quel momento, come una risposta divina, che Matt mi passò accanto.

Mi fermai nel mezzo del corridoio. Impiegai circa due secondi e mezzo per racimolare il coraggio necessario, poi mi voltai e marciai verso di lui. Stava sistemando dei libri nell’armadietto.

Lo chiamai e gli chiusi praticamente l’anta in faccia.

Bonnie in modalità pazzoide, accesa.

“Chi ti credi di essere Honeycutt, eh?!” lo fulminai “Siamo amici dall’asilo. Era tanto difficile dirmi le cose di persona?”.

“B-bonnie…” la sua voce tremava, non per spavento, quanto per la sorpresa.

“Che scusa hai adesso? Prima mi fai tutti quei discorsi su noi due, mi dici che sei disposto a fare le cose con calma e poi sparisci senza nemmeno rivolgermi più la parola?”.

Era trascorso più di un mese e mezzo, ma tutta la rabbia mi era salita tutta d’un tratto. Guardare Meredith così felice, mi aveva fatto capire che anche io meritavo un po’ di rispetto.

“Io…ho avuto l’impressione che avessi cambiato idea su noi due” disse, chiaramente colto alla sprovvista dalla mia carica.

“Ho cambiato idea? Io? Va bene, quella sera ho bevuto un po’, evidentemente ho fatto qualcosa che ti ha offeso, ma non sono io quella che ti ha voltato le spalle”.

“Non mi hai offeso…cioè, mi sono sentito preso in giro. Ero davvero intenzionato a cominciare qualcosa di serio con te ma tu…tu mi hai detto di non volerne più sapere di me, che cercavi qualcuno di diverso. Hai detto che potevi puntare più in alto”.

Io corrugai la fronte “Neanche da ubriaca potrei dirti una cosa del genere. Forse sei tu quello che ha esagerato con l’alcol”.

Mi voltai pronta ad andarmene. Non né tempo né voglia di stare ad ascoltare le sue stupide scuse campate per aria.

“Non me l’hai nemmeno detto, in realtà” si corresse Matt “Me l’hai scritto. Mi hai piantato in asso con un messaggio”.

“Questa sì che è un’immensa sciocchezza!” mi alterai “Quella notte non avevo neanche il cellulare, me l’ero dimenticata in macchina di…”.

O cavolo.

Impallidii, mentre collegavo con crescente irritazione i dettagli appena scoperti.

Damon Salvatore era un uomo morto.

 

Qualcuno quel giorno evidentemente voleva che io risolvessi tutti i miei problemi senza affaticarmi troppo. Sembrava che le occasioni cadessero dal cielo pronte per essere sfruttate.

L’auto di Damon stanziava di fronte a casa sua.

Non mi fermai nemmeno un secondo a chiedermi perché fosse lì. Posai il mio zaino in salotto e uscii di nuovo sulla strada.

Mi appoggiai alla Ferrari e lo aspettai, pazientemente.

“Che cosa ci fa lì, uccellino? Ammiri la mia macchina?” fu il suo primo commento quando mi vide.

“Sto decidendo se staccarti lo specchietto o direttamente la testa”.

“E dire che credevo di non aver fatto nulla di male in questi due giorni”.

“Ricordi quando mi hai riportato a casa, dopo la festa di Tyler?”.

“Non c’è bisogno di ringraziamenti. L’ho fatto con il cuore” mi disse, mettendosi una mano sul petto.

Incrociai le braccia e lo trucidai con lo sguardo “Hai tenuto il mio cellulare per quasi tutto il giorno. Me l’ero dimenticato qui dentro” e picchiai un dito sul finestrino.

Lui fece un bel sospiro e alzò gli occhi al cielo “Ne deduco che hai ripreso a parlare con Honeycutt”.

“Non ti difendi neanche?” mi scandalizzai.

“Era solo uno scherzetto” liquidò il fatto.

“Solo- uno-scherzetto?” scandii bene le parole, ripetendole.

“Uh, uh, qualcuno ha lasciato nello zaino il senso dell’umorismo” mi canzonò.

“Come ti sei permesso!” ruggii “Ho passato più di un mese a chiedermi che cosa avessi fatto di male. Io e Matt non ci siamo più parlati!”.

“Tu vorresti stare con uno che si gira dall’altra parte, invece di chiederti spiegazioni? Svegliati, uccellino, ti ho fatto solo un favore” si gongolò.

“Vuoi farmi un favore? Allora stammi alla larga, perché quelle che faccio nella mia vita non sono affari tuoi!”.

Mi resi conto di aver oltrepassato il limite quando i suoi occhi brillarono di un luccichio sinistro. “Vuoi che ti stia alla larga, Bonnie?” soffiò il mio nome con una strana delicatezza, mentre si muoveva passi lenti verso di me “Ne sei sicura? Perché ultimamente mi sei sempre intorno, a sgridarmi per un motivo o per un altro. Forse sei tu che non riesci a starmi lontana” ipotizzò, con evidente compiacimento.

Ora ero bloccata tra il suo corpo e la portiera dell’auto. Le sue mani si erano posate sui miei fianchi e nemmeno me n’ero accorta.

Deglutii, “Se non ti sposti, ti tiro uno schiaffo” lo minacciai.

“Sto aspettando” mi sfidò. Si piegò ancor più nella mia direzione e le punte dei nostri nasi si toccarono.

Io non chiusi gli occhi, non cedetti, ma rimasi immobile, incapace di districarmi da quella situazione e soprattutto dalla sua presa.

Da una parte volevo scappare il più lontano possibile, dall’altra cominciavo a prendere confidenza con il disagio che mi procurava la sua vicinanza. Un disagio inebriante.

Improvvisamente, mi liberò dalla stretta. Mi fissò per un po’, dopodiché fece il giro della vettura e aprì la portiera del guidatore.

“Ci vediamo sabato, Bon Bon. Non vedo l’ora di tenerti d’occhio”.

Era serio o ancora si divertiva a beffeggiarmi?

Una cosa era certa: io non ne sarei uscita viva.

 

Quel sabato non fu un lieto giorno per me.

Era l’inizio della mia settimana a casa Salvatore.

L’inizio di sette interminabili giorni sotto lo stesso tetto di Damon.

Io, in mezzo ai due fratelli. Avvertivo aria di catastrofi.

Era anche il giorno della partenza di Klaus.

Mi dispiaceva: quel ragazzo era stato il primo a farmi sentire davvero speciale, così com’ero. Non mi aveva mai detto nulla di che, ma il suo sguardo più di una volta mi aveva lasciato senza fiato.

Ero affascinata da Klaus e mi emozionava pensare che io avessi sul serio catturato la sua attenzione. Per fortuna non ero ancora così coinvolta da lui da strapparmi i capelli, ma avrei tanto desiderato avere un po’ più di tempo per approfondire qualunque cosa ci fosse tra noi.

Il modo migliore per affrontare quel distacco, era semplicemente considerare quella parentesi solo come un bellissimo ricordo.

Ero cresciuta grazie a Klaus. Avevo cominciato a credere più in me e a pretendere più dagli altri. Non potevo negare che il nostro incontro avesse lasciato una forte impronta.

Potevo solo ringraziarlo e parlargli per un’ultima volta, almeno fino alla prossima visita, se mai ci sarebbe stata.

Stava caricando le valigie sul taxi, mentre Giuseppe salutava Stefan. Damon non si vedeva da nessuna parte.

“Salve, darling” mi salutò con il suo splendido accento inglese “Sei qui per dirmi addio?”.

“Spero di no” gli sorrisi “Ti aspetto qui per quel master”.

Piegò un angolo della bocca all’insù “Allora ci rivedremo prima del previsto suppongo. Se non hai niente da fare quest’estate, prima del college, vieni a trovarmi. Scommetto che Londra ti piacerebbe da matti”.

“Oh sì, soprattutto la pioggia e la nebbia” scherzai “Sarai il primo a saperlo, comunque, sei dovessi trovarmi dalle tue parti”.

“Mi mancherà il rossore che hai sempre sulle guance quando ti parlo” mi confessò “Sei adorabile, Bonnie. È seccante andarmene proprio adesso. Sarei stato davvero contento di diventare tuo amico”.

“Solo amico?”. E questa da dove mi era uscita? O giusto, dalla nuova me, quella un po’ più spavalda, quella che in situazioni come questa avrebbe dovuto tacere.

“Non ho speranze né desiderio di essere di più. Non sono abituato a essere la seconda scelta. Credo che sia colpa del mio narcisismo sovrasviluppato”.

“A Capodanno stavi per baciarmi” continuai, trattenendo con tutte le mie forze l’agitazione “Ti sei fermato perché hai visto Matt. Avrei davvero voluto provare, sentire…” mi avvicinai sempre più a lui, fino a far sfiorare i nostri corpi “Vorrei un ultimo ricordo” lo pregai, alzandomi sulle punte.

Era mia intenzione baciarlo, togliermi quello sfizio. Ero partita davvero decisa, eppure a pochi centimetri dalle sue labbra, gelai. Non riuscii ad andare avanti, come se un muro invisibile si fosse piazzato davanti a me.

Klaus mi prese gentilmente per le spalle e mi allontanò “Che ti avevo detto? Seconda scelta. Non sono io quello giusto per te”.

Scossi la testa “Mi dispiace, io…ho parlato con Matt. Ci siamo chiariti. Non stiamo insieme, ma non sarebbe giusto nei suoi confronti”.

“Non parlavo di Matt, darling. Matt non è mai stato un problema per me, nemmeno a Capodanno”.

Mi scostai per guardarlo meglio.

“Che co-?”.

“Ti auguro ogni fortuna, sweetheart. Ti aspetto a Londra” mi posò un bacio sulla fronte e mi strizzò l’occhio.

Klaus salì sul taxi. Salutò suo cugino con un gesto della mano, poi la macchina partì.

Stefan mi si avvicinò, chiaramente stranito.

“Bonnie, cos’era quello?”.

“Onestamente non ne ho idea”.

 

Il mio spazio:

Stasera aggiorno tardi, perché domani non ci sono tutto il giorno. Meglio adesso quindi!

Mi piace particolarmente questo capitolo. Mi piace per quel ricordo di Damon, mi piace perché sempre Damon si prende una piccolissima rivincita con suo padre e mi piace perché finalmente iniziamo a vedere la luce per i nostri protagonisti.

Abbiamo molti più punti di vista di Bonnie, ma in realtà credo che Damon la faccia da padrone. I piccoli passi, i “baby steps”, sono suoi. È lui che prende coscienza di quello che sta iniziando a provare per Bonnie.

La ragazza, invece, non sa più che cosa le stia succedendo.

Il prossimo capitolo sarà incentrato sulla loro breve convivenza a casa Salvatore. Che cosa prevedete?

Mi sono concentrata soprattutto su Damon negli ultimi capitolo, perché sono stata influenzata un po’ dalla serie tv, lo ammetto. Questo vampiro si sta facendo davvero in quattro per rendere tutti contenti, per riportare in vita una ragazza con cui non ha mai avuto molto a che spartire. Mi aspetto dei ringraziamenti da Oscar. Me li aspetto, sul serio. Altrimenti avrò la conferma che gli autori di questo show lasciano troppe cose al caso.

Infine, ringrazio tantissimo tutte le persone che si sono fermate per lasciarmi un commento. Nei capitoli precedenti avevo avuto l’impressione che l’interesse fosse un po’ calato, ma la volta scorsa mi avete veramente risollevato il morale.

Ho anche aggiornato Would you hold it against me?, se volete farci un salto!

Grazie mille a tutte!!

A presto con il prossimo capitolo!

Il banner è di Bumbuni.

Buona notte =)

Fran;)

 

*Ho scelto per i genitori di Bonnie gli stessi nomi che hanno nello show.

 

Ps: se avete qualche richiesta per i capitoli successivi, ditemi pure. Cercherò di accontentarvi!

Pss: come vi ho detto domani sono via tutto il giorno, quindi ritarderò un po’ con le risposte alle recensioni! Scusatemi fin da ora.

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Capitolo 18
*** The ugly truth ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo diciotto: The ugly truth.

 

He kissed my lips
I taste your mouth
He pulled me in
I was disgusted with myself
‘Cause when I'm with him
I am thinking of you
What you would do if
You were the one
Who was spending the night
I wish that I was looking into your eyes”

(Thinking of you- Katy Perry).

 

Io, Bonnie McCullough, ero cresciuta, ero maturata e non mi spaventava più niente.

Non vi era nulla di strano, quindi, se me ne stavo rintanata sotto le coperte e mi rifiutavo di uscire dalla camera. Assolutamente niente di strano.

Dopotutto, con il febbrone da cavallo che mi ritrovavo, era perfettamente normale non voler lasciare il letto. Solita routine da ammalata.

Non c’entrava proprio niente il fatto che Damon si trovasse nei paraggi, pronto a tendermi un’imboscata. A dire il vero non ero certa che il ragazzo fosse in casa: non ero più uscita dalla camera da ventiquattro ore. Stefan mi aveva messo a riposo forzato.

Si era accorto il giorno prima, tornati da scuola, della mia pallida cera. Era bastato toccarmi la fronte per sentire quanto fosse calda la mia pelle.

Era saltato fuori che rotolarmi nella neve nella speranza di suonarle a Damon non fosse stata proprio una delle mie idee migliori. Quella era la mia punizione per essermi impicciata di fatti che non mi riguardavano.

In quelle ore passate da sola, nel letto, mi ero presa del tempo per rimuginare molto su ciò che era accaduto qualche giorno prima.

Cominciavo a essere davvero confusa dai comportamenti di Damon e turbata dalle mie stesse reazioni.

Lui si era sempre divertito a incasinarmi la testa e per questo motivo non avevo mai prestato molta attenzione all’improvvisa fissazione che aveva sviluppato nei miei confronti.

Non ero un tipo vanitoso, ma ripercorrendo gli ultimi mesi non potevo non notare che in qualche modo Damon fosse sempre lì nei paraggi: nel bosco, alla festa di Tyler, quando mi aveva chiesto di aiutarlo con il regalo di Stefan, a Capodanno.

Tutto mi era sembrato irrilevante, almeno fino a un paio di giorni prima.

“Non vedo l’ora di tenerti d’occhio”.

Pareva una minaccia. Che cosa significava?

Ancora non riuscivo a capacitarmi dello sguardo che mi aveva lanciato, tremendamente serio da una parte, e compiaciuto dall’altro. Mi aveva destabilizzato.

Ricordavo benissimo il bacio che mi aveva rubato al ritorno da Atlanta. Era stato inaspettato, ma non mi aveva scatenato nessuno scompiglio, tranne un bel po’ di rabbia. Lo avevo classificato come il solito vecchio Damon che si divertiva a tormentarmi, lo avevo classificato come una stupida ripicca nei confronti di Katherine, tanto assurda allora, quanto giustificata alla luce della loro rottura.

Sebbene si fosse trattato di un gesto inusuale per Damon, non ci avevo visto niente di allarmante né di sospetto.

Non era stato lo stesso per la brevissima conversazione che avevamo avuto in merito al messaggio che aveva mandato a Matt. In quel momento, il mio istinto mi aveva suggerito che qualcosa era inevitabilmente cambiato.

Non riuscivo proprio, però, a capire cosa.

Da dove saltava fuori quell’interesse per me? Per quale motivo stuzzicarmi con frasi lasciate a mezz’aria e doppi sensi? E tutto quel discorso su Matt?

Potevo considerarla un’altra vendetta verso Katherine, potevo per quitarmi il dubbio. Aveva anche senso: la sorella di Elena mi odiava e sarebbe crepata di vergogna a sapere che il suo ex ragazzo nutriva una sorta di simpatia per me.

Ottima teoria per mettermi l’animo in pace, ma non ero così ingenua da credere che non ci fosse altro sotto. Ed ero inquietata da quell’altro.

Fin da quando eravamo dei ragazzini, Damon aveva impostato la maggior parte delle sue relazioni con le donne sotto forma di ossessione: lui amava tutto ciò che non poteva avere.

Era stato così per la sua insegnante di chimica del secondo anno di liceo, era stato così per Elena, e poi per Katherine, ovvero il surrogato di Elena.

Avevo la brutta sensazione di essere improvvisamente entrata in quel lungo elenco e non lo pensavo per presunzione.

Damon aveva le ragioni più disparate per considerarmi la sua prossima preda, tutte sbagliate: per fare un dispetto a suo fratello, per divertirsi, per riassaporare il piacere della caccia e della conquista, per dimostrare a se stesso di potermi sedurre, nonostante l’astio che gli avevo più volte riservato.

Forse erano allucinazioni dovute alla febbre, forse dovevo smetterla di leggere libri d’amore per ragazzine, forse mi stavo fasciando la testa per niente.

Forse. Nel frattempo preferivo restarmene fuori dal suo giochino perverso, qualunque fosse.

Avevo bisogno di mantenere il mio spazio. Mi ero lasciata troppo coinvolgere dai drammi di Damon. Lo stavo facendo per Stefan, per farli riunire, ma mi stavo lentamente accorgendo che in me qualcosa si era incrinato.

Non era da me rimanere pietrificata mentre quello spaccone si permetteva non solo di invadere il mio spazio personale, ma anche di sputare sentenze sulla mia vita.

Normalmente non era lui ad allontanarsi, ero io a spingerlo via.

Uscire da quella stanza era fuori discussione. Conciata com’ero, non avrei resistito due secondi a fronteggiarlo.

D’altro canto, non ero migliorata nemmeno un po’ e avevo bisogno di prendere ancora la medicina per abbassarmi la febbre.

Stefan prima di andare a scuola mi aveva lasciato una compressa sul comodino e io l’avevo preso poco dopo. Erano passate cinque ore e il termometro segnava una temperatura ancora troppo alta.

Avevo mal di testa, nausea e mal di ossa, non riuscivo più a dormire.

L’istinto di sopravvivenza fu più forte della paura d’incontrare Damon. Non sapevo nemmeno se fosse in casa, non l’avevo ancora sentito muoversi. A dire il vero, non l’avevo neanche ancora visto da quando mi ero trasferita a villa Salvatore.

Scivolai giù dal letto e oltre la porta. Il corridoio era vuoto, non si udiva un rumore.

La cassetta dei medicinali stava sul ripiano più alto di un armadietto nel bagno del piano terra. E l’armadietto, chiaramente, non ero sotto al lavandino. Purtroppo per me, se ne stava attaccato al muro accanto alla doccia, ad un’altezza improponibile. Per qualcuno bassino quanto me, era una vera impresa raggiungerlo.

Salii su uno sgabello e protesi la mano. Afferrai la scatola e la sollevai. In quel momento mi colse un capogiro dovuto alla stanchezza.

La cassetta con le medicine cadde a terra e io la seguii, picchiando la schiena sulle piastrelle del pavimento. Mi si mozzò il fiato.

“Ma che diavolo stai facendo?”.

Ci mancava solo questa.

Poteva andare peggio?

 

La vidi stesa sul pavimento del bagno, circondata da scatoline, scatolette, tubetti di pomate e cerotti. Tra il bianco del pigiama, delle piastrelle e della sua pelle, non l’avrei mai individuata se non fosse stato per i suoi capelli rossi.

La pelle di Bonnie era color del latte, quasi trasparente, ma quel giorno era veramente pallida, tendente al cadaverico.

“Hai deciso di fare bungee jumping dallo sgabello?” chiesi con ironia, mentre mi piegavo su di lei per accertarmi che non si fosse spaccata la schiena.

“Sono caduta” rispose con un gemito.

“Non dirmelo!” l’aiutai ad alzarsi e quando notai le sue gambe tremanti la presi in braccio. Stranamente non oppose resistenza. La trasportai con facilità fino al salotto e la posai sul divano. Lei si stiracchiò e si accoccolò sul cuscino.

“Hai davvero un aspetto orribile” le rivelai.

“Ho la febbre, idiota” borbottò, senza la sua solita acidità.

“Se avevi bisogno delle medicine, potevi chiamarmi, invece di arrampicarti sugli scaffali e buttarti giù”.

“Me le avresti portate?”.

“No”.

“L’ho già detto che sei un idiota, vero?”.

“La tua fiducia nei miei confronti è quasi pari al tuo senso dell’umorismo”  considerai.

Bonnie chiuse gli occhi e non rispose. Credetti che nel profondo del suo cuore sperasse che io sparissi nel nulla.

Mi alzai e mi diressi in cucina. Tornai da lei con un bicchiere d’acqua e una compressa sciolta al suo interno.

“Tieni”.

Aprì gli occhi e senza repliche prese il bicchiere e mandò giù tutto il contenuto.

“Odio la febbre” si lamentò.

“La prossima volta ci pensi due volte a immergerti nella neve solo per me” scherzai.

Bonnie mi squadrò da capo a piedi. Appariva un po’ sconcertata e sulla difensiva. Non era mai stata troppo serena in mia presenza, ma adesso mi guardava come se fossi sul punto di sbranarla con i denti.

“Da quanto sei qui?” mi domandò “Non ti ho visto in questi giorni”.

“Appena arrivato” disse indicando il borsone pieno di vestiti abbandonato sul tappeto.

“E hai in programma di restare qui molto?”.

“Fino a che non tornerà mio padre. So che non puoi resistere senza di me” la canzonai.

Si ritrasse maggiormente contro lo schienale del divano, come se si volesse allontanare da me. Alzai le sopracciglia, sorpreso.

“Hai già incontrato Stefan?” continuò con la raffica di domande.

“No” grugnii “E se ho fortuna riuscirò a evitarlo per il resto della settimana”.

“Che cosa sei venuto a fare qui allora?” si stizzì.

“Studiare” spiegai e mi allungai sulla poltrona su cui ero seduto.

Bonnie liberò una debole risata “Studiare. Tu?”.

“Devo per forza mettermi sotto se voglio laurearmi a luglio” conclusi con ovvietà.

Tirò leggermente su la testa, piacevolmente stupita “Allora ogni tanto mi dai ascolto. O almeno il tuo inconscio mi dà retta, dato che eri ubriaco quando ne abbiamo parlato”.

“Sì, ho un vago ricordo” sminuii subito la cosa. In realtà avevo ben in mente il discorso che mi aveva fatto Bonnie quella sera di fine settembre.

“Idiota” mormorò.

“È la terza volta che mi chiami così. I soprannomi che io ho dato a te sono molto più carini”.

Bonnie strusciò il viso contro al cuscino con aria stanza. Probabilmente il medicinale cominciava a fare effetto, dandole anche un po’ di sonnolenza.

“Non sei qui solo per studiare” affermò “Tu hai sempre un secondo fine”.

Mi sorprendevo che non avesse ancora compreso quale. Più lampante di così.

“E c’entra Stefan, che tu lo voglia ammettere o no” proseguì.

Non capivo se facesse la finta tonta o se fosse sul serio così ingenua. Temevo  la seconda ipotesi, conoscendo il tipo.

“Tu non lo odi…tu fingi. Sei qui per stare vicino a tuo fratello senza tuo padre tra i piedi”.

Cominciai a credere che il dosaggio di quella compressa fosse troppo alto per quel corpicino.

“È il caso che tu dorma, uccellino. Stai straparlando”.

“Sì, sì, dormo” concordò chiudendo gli occhi “Quando mi sveglio sistemo tutto…”.

“Che cosa dovresti sistemare?”.

Non ricevetti risposta.

Spostai lo sguardo sulla sua figura: era scivolata nel sonno, il suo respiro era molto più tranquillo e il suo colorito meno cadaverico.

Improvvisamente mi ritrovai catapultato tempo addietro, quando cercavo disperatamente di cattura l’attenzione di Bonnie senza successo.

Non l’avevo mai rivelato a nessuno, ma c’era stato un periodo, tra i dieci e gli undici anni, in cui ero rimasto completamente affascinato da quella bambina dai capelli rossi.

Mi piaceva il suo aspetto da bambola di porcellana, la sua voce melodiosa e il suo sorriso sempre luminoso. Avevo inventato allora il soprannome ‘uccellino’, decisamente azzeccato per una creaturina così delicata.

Mio padre iniziava a mostrare la sua insofferenza verso di me, mi considerava sempre meno. Io mi sentivo solo, tagliato fuori.

Stefan avrebbe dato un braccio per me, ma io lo tenevo a distanza. Non avevo bisogno di un fratello, non di quel fratello. Avevo bisogno di un amico.

Volevo il rapporto che condividevano lui e Bonnie. Volevo Bonnie.

Invidiavo la loro amicizia, leale e intima. Me la meritavo anche io. Avevo deciso che qualcuno doveva voler bene anche a me, per forza.

Avevo provato a dimostrare la simpatia che avevo per lei in ogni modo possibile, senza alcun successo: Bonnie, come ora, non aveva mai avuto la minima considerazione per me.

Stefan, solo Stefan. Nessun altro potevo superarlo.

Ormai odiarlo era diventato la normalità, ma a ripensarci forse il mio disprezzo era cominciato proprio allora.

L’avevo sempre guardato con un po’ di diffidenza, dato che nostra madre era morta dopo averlo dato alla luce. La preferenza che aveva per lui mio padre aveva contribuito ad aumentare il mio fastidio.

Era abitudine di mio fratello portarmi via tutto. Non lo faceva apposta, ma il risultato era quello e io non ero un tipo comprensivo, men che meno incline al perdono.

Con la faccenda di Bonnie, avevo messo un punto su quella strana relazione di amore e odio tra me e Stefan. Contemporaneamente, avevo sviluppato rancore verso Bonnie stessa. E gliel’avevo fatta pagare a oltranza negli anni successivi.

Le cose non sembravano essere cambiate.

Non solo Bonnie non era affatto interessata a me, ma neanche si accorgeva dei miei tentativi di fare colpo. Qualunque altra ragazza si sarebbe buttata tra le mie braccia per molto meno.

A questo punto, assecondarla diveniva la soluzione migliore per entrare nelle sue grazie, e per una volta non lo intendevo letteralmente.

Già mi veniva male alla testa al pensiero di tutte le chiacchierate su Stefan che avrei dovuto sorbire, ma magari ne sarebbe valsa la pena.

Avevo già avuto prova che il mio fratellino era il punto debole di Bonnie: non era mai stata così sorpresa da me quanto il giorno in cui l’avevo portata ad Atlanta.

Potevo accettare d’ingoiare qualche rospo, potevo fingere che m’importasse di Stefan. Sarebbe stata davvero una grande rivincita, se fossi riuscito a soffiargli la sua migliore amica.

Mi misi a studiare in sala da pranzo: comunicava attraverso un grande arco con il salotto, e potevo tenere d’occhio Bonnie e assicurarmi che non combinasse altri danni.

Era stata una grande idea spostarmi a casa mia per quella settimana: studiai ore di fila senza neanche una distrazione. La rossa continuò a dormire beatamente, tanto che un paio di volte controllai che respirasse ancora.

Stefan non era ancora tornato. Aveva chiamato sul telefono di casa, cui io non avevo risposto, lasciando un messaggio: il suo allenatore, Tanner, li aveva trattenuti per ulteriori esercizi in vista della partita di fine weekend. Chiedeva a Bonnie di richiamarlo quando avesse ascoltato il messaggio e fargli sapere se stava bene.

Ero solo contento di quella notizia, almeno non avrei avuto mio fratello tra i piedi.

Venne buio e intuii che era giunto il momento di chiudere i libri. Accessi qualche luce e finalmente Bonnie si mosse, girandosi sul divano.

Mi inginocchiai accanto a lei e aspettai che si svegliasse del tutto: si stiracchiò, sbadigliò e infine aprì gli occhi. Socchiuse le palpebre e mi fissò.

“Perché sei in camera mia?” berciò.

“Siamo in salotto” le suggerii “E sono quasi le sette di sera”.

Lei corrugò la fronte “Perché non mi hai portato in camera?”.

“Perché volevo accertarmi che non cercassi più di ucciderti” ironizzai puntandole il dito contro come a sgridarla “Ho badato a te fino adesso”.

“Mentre dormivo? Sarà stato faticoso” replicò con sarcasmo.

“A giudicare dal tasso di acidità nella tua voce, direi che stai meglio” scommisi.

“Decisamente!” esultò, tirandosi a sedere.

“Hai fame?” le domandai “La signora Flowers ha preparato un sacco di roba e l’ha lasciata in freezer. Posso scongelare qualcosa…” le proposi “Anche se…credo che il tuo stomaco non abbia voglia delle sue lasagne” valutai.

Bonnie si portò una mano sulla pancia “No” mi confermò “È meglio qualcosa in bianco”.

“Tortellini in brodo” decisi battendo le mani, dandola come cosa fatta.

“Sai farli?” si preoccupò.

“Devo prendere dei tortellini e metterli nel brodo. Non ho ancora una laurea, ma mi arrangerò”.

“Non sono molto leggeri” osservò lei “Forse berrò solo un po’ di brodo”.

“Cattiva idea. Devi mangiare anche qualcosa di solido o ti tornerà la nausea” le sconsigliai, mentre mi dirigevo in cucina per apprestarmi a preparare la cena.

“Oh, prima scopro che sei un cuoco e ora un medico?” si accigliò con finto stupore.

“Sai, Bon Bon, non vorrei allarmarti ma mi assomigli sempre di più: ormai hai il sarcasmo nelle vene” la zittii.

In effetti tacque, impallidendo leggermente.

Misi l’acqua a bollire e cercai nel freezer un sacchetto di tortellini. Nel frattempo agguantai anche una teglia di lasagne. Io non ero malato e avevo bisogno di sostanza.

“Dov’è Stefan?” s’informò, rendendosi contro che il suo migliore amico non c’era.

“Non ne ho idea” scrollai le spalle.

Udii uno sbuffo dietro di me “Con te è sempre la solita storia: chissenefrega di cosa accade a tuo fratello, basta che non ti stia tra i piedi”.

Posai stancamente il mestolo sul ripiano dei fornelli “Ha chiamato oggi pomeriggio: ha detto che sarebbe tornato tardi a causa degli allenamenti” le comunicai, con tono chiaramente infastidito.

“Oh”.

“Già oh” ribadii “Al contrario di quello che pensi, non sono un orco che prega sempre nell’improvvisa scomparsa del suo stesso fratello”.

Bonnie si sedette e accennò un sorriso “Faccio davvero fatica a capirti, sai Damon? Passi anni a maltrattare tuo fratello e poi decidi di comprargli il regalo più bello che abbia mai visto. Lo picchi per una cosa di cui non è nemmeno colpevole e ti arrabbi se insinuo che non te ne importa niente?”.

“Stefan non mi piace” affermai “Non mi piace quell’aria da bravo ragazzo, non mi piace la sua dannata perfezione, non mi piace dover sempre combattere contro di lui, anche se so che è inutile perché non vincerò mai. Questo non significa che gli auguro il male. Per odiare qualcuno per tutti questi anni, bisogna volergli anche un po’ di bene”.

Mi ero preparato il discorso nei minimi particolari, le parole, le pause. Credevo mi avrebbe nauseato, invece mi lasciò un certo senso di sollievo, come se dirlo ad alta voce mi avesse liberato di un peso.

“Mi stai dicendo che vuoi bene a Stefan?” si sbalordì Bonnie.

“No, sto dicendo che non lo detesto quanto tutto il mondo pensa” la corressi.

Spensi il fuoco e  iniziai a trafficare con le pentole e i piatti. Quando mi girai per darle i suoi tortellini, la trovai a guardarmi con un’espressione confusa e scettica.

“Non sforzarti a capire, uccellino” fu il mio suggerimento “Tu sei cresciuta in un mondo dove tu e tua sorella giocavate a Piccole donne tutto il giorno”.

“Nel mio mondo abbraccio mia sorella per dimostrarle che le voglio bene, non la prendo a schiaffi” mi fece notare, mente portava alla bocca il cucchiaio.

“Mi piace distinguermi” ghignai.

“Ti piace incasinarmi la testa”. Subito dopo quel commento arrossì vistosamente, dandomi l’impressione che le fosse sfuggito, che in realtà non volesse esprimerlo.

Il resto della cena trascorse per lo più in silenzio, con qualche battutina da parte mia per stemperare la tensione.

Mi aiutò a ritirare i piatti nella lavastoviglie, poi, muta come un pesce, salì in camera sua. Sospettai che avesse qualcosa a frullarle nella testa e che preferisse stare sola.

Finii di sparecchiare e mi buttai sul divano a guardare  un po’ di tv. Il mio momento di pace venne interrotto dal telefono di casa.

Mi alzai di malavoglia e risposi.

“Damon?” si sorprese una voce all’altro capo “Sei tu?”.

“Mi lusinga che il mio fratellino mi riconosca ancora” lo canzonai.

“Dov’è Bonnie? Sta male?”.

“Tutt’altro” dissi con compiacimento “Siamo rimasti insieme tutto il giorno e ci siamo divertiti un sacco. Non ci sei mancato per niente, anzi non disturbarti a tornare. Ce la caviamo benissimo da soli”.

La chiamata s’interruppe.

Le mie parole erano state molto ambigue, erano andata a implicare molto più di quello che era realmente successo. Probabilmente mio fratello aveva avuto un colpo al cuore.

Osservai le scale che con una curva attorno al muro della casa salivano nel buio. Incapace di trattenermi, mi avviai verso la stanza di Bonnie.

“Perché sei qui?” s’insospettì subito, tirandosi le coperte fino al mento in un gesto segnato da una pudicizia di altri tempi.

“Controllo veloce prima di andare a dormire” spiegai con nonchalance “Niente nausea? Rigetto? Spasmi strani?Allucinazioni?”.

“Sto bene” mi assicurò.

“Bene” dissi, sentendomi improvvisamente a corto di argomenti “Allora buon riposo” le augurai e mi girai per chiudere la porta.

“A volte sono gelosa di Mary” mi bloccò la sua voce delicata. Fece una pausa, deglutì, poi riprese a parlare “Lei era quella brava a scuola, prendeva sempre dei voti eccellenti. Aveva le idee chiare. Era spigliata. Usciva con i ragazzi, si divertiva. Una volta tornò talmente ubriaca che si addormentò sul portico, fortunatamente la trovai io e non papà” mi raccontò “Non piange quasi mai, è tremendamente forte, sa gestire qualunque tipo di problema. Io non sono mai stata nulla di tutto ciò e…e mi capita di invidiarla”.

Non seppi bene come reagire a quella rivelazione, ma compresi all’istante che era il suo modo di assolvermi almeno in parte da tutte le accuse che mi aveva lanciato. Perché anche lei a volte era gelosa di sua sorella e anche lei a volte poteva capirmi.

Annuii, ringraziandola silenziosamente e le diedi la buona notte.

Ora mi serviva sul serio del tempo da passare da solo, a riflettere. Mi sembrava di aver appena concluso una straziante conversazione a cuore aperto, quando in realtà non ci eravamo neanche spinti troppo in là.

Purtroppo, come misi piede sull’ultimo gradino delle scale, la porta della villa si aprì e la figura di Stefan apparve sulla soglia, trafelata e affannata.

“Ti sta inseguendo un serial killer, Stef?” lo presi in giro.

“Dov’è Bonnie?” domandò ancora con il fiatone “È tutto il giorno che provo a chiamarla e non risponde. E voi due…che cosa sta succedendo?”.

La tentazione di scoppiare a ridergli in faccia era forte.

“Calmati, supereroe, la tua Bonnie sta benissimo. L’ho curata, le ho fatto da mangiare e l’ho messa a letto. No, non nel modo che pensi tu” mi affrettai a precisare “Non è successo niente di grave”.

“Ah” si tranquillizzò leggermente, appoggiandosi al muro. Mi scrutò come se avesse davanti un fantasma “Sei a casa” constatò.

“Sportivo e intelligente” ironizzai.

“Non credevo che accettassi la proposta di papà” mormorò con una nota di contentezza nella voce.

“Invece sono qui” replicai con altrettanta enfasi, come se fossi davvero contento di vederlo “Ti ho lasciato delle lasagne nel microonde, se ti vanno”.

Non gli diedi il tempo di commentare oltre. Gli voltai repentinamente le spalle e marciai verso camera mia.

Un’irritante consapevolezza si fece strada nella mia testa: forse Bonnie non aveva tutti i torti.

Forse era ora di ammettere una dura verità: non odiavo più Stefan.

 

Due giorno dopo mi ero totalmente ripresa dalla febbre. Finalmente mi ero guadagnata la possibilità di uscire da quella casa.

Stefan mi aveva rivoltato come un calzino per non aver mai risposto alle sue chiamate. Dopo il disastro in bagno, mi ero dimenticata il cellulare in camera e Damon non mi aveva riferito il messaggio che Stefan aveva lasciato nella segreteria del telefono fisso.

Mi stupivo perfino io a pensarlo, ma la sua preoccupazione era infondata: non solo la febbre era scesa, avevo anche passato una piacevole giornata.

Damon non si era comportato da stupido come avevo immaginato, non mi aveva neppure messo a disagio.

Ero sincera quando avevo ammesso che per me era davvero difficile capirlo: stare dietro a quel ragazzo era un’impresa impossibile. Non sapevo mai quale versione di lui avevo di fronte, se quella sbruffona e maligna, o quella maliziosa, o ancora quella sorprendentemente sensibile e profonda.

Quest’ultima appariva sempre nei frangenti in cui si parlava di suo fratello. Damon, con molte probabilità, non ne era neanche consapevole.

Mi ero sbagliata, mi ero totalmente sbagliata. A malincuore dovevo accettarlo: non avevo mai capito un bel niente di ciò che Damon provava davvero per  Stefan.

Non erano state le sue parole a convincermi, ma il suo sguardo malinconico e la voce un po’ roca per trattenere l’innocenza che invece avevo percepito fortissima.

A questo punto il mio aiuto non era più indispensabile. Già il fatto che Damon fosse disposto a descrivere così liberamente il loro rapporto in mia presenza, rappresentava un grande passo avanti. Doveva solo ammorbidirsi del tutto e la loro riconciliazione sarebbe stata immediata.

Non lo giustificavo, avevo però smesso di puntargli il dito contro. Damon rimaneva un cazzone e aveva tanto da farsi perdonare. Il suo problema  erano sostanzialmente i suoi momenti alterni. Doveva imparare a tenere sotto controllo la sua impulsività.

Non so come mi era venuta in mente quella storia su mia sorella: avevo solo sentito un improvviso bisogno di condividere un ricordo, e di confortarlo.

C’era sempre qualche problema tra fratelli e tra sorelle. C’era sempre un po’ di gelosia latente, non era un peccato.

Non avevo mai serbato rancore per Mary, ma la sua forte personalità mi aveva spesso messo in soggezione e in ombra. Era un peso piuttosto ingombrante avere una sorella così, abbinata alle amiche più popolari della scuola.

Non ero niente, non mi sentivo niente e non ero mai riuscita a elaborare il pensiero di essere gelosa di Mary, me ne vergognavo.

Mi ero sorpresa quando l’avevo detto a Damon. Tra tutte le persone al mondo, lui sarebbe stata l’ultima. Forse era stata l’emozione del momento a convincermi, oppure la mia crescente sicurezza.

Gli avevo dato un’arma in più per ferirmi o per burlarsi di me. Eppure non me ne pentivo.

Mi si sarebbe ritorto contro. Succedeva così ogni volta che agivo d’istinto.

Questo, però, non risolveva la misteriosa fissazione che Damon aveva per me. Sebbene non avesse tentato niente di strano, si era preso cura di me con una dedizione destabilizzante.

Il vecchio lui mi avrebbe lasciato moribonda sul letto. Di certo non mi avrebbe cucinato i tortellini.

La situazione puzzava di losco e mi veniva difficile credere nella sua genuinità. Continuavo a credere che ci fosse qualcos’altro dietro i suoi atteggiamenti quasi cortesi.

Anche se non potevo negare che quelle improvvise attenzioni mi facessero piacere. Da dove veniva fuori tutto questo apprezzamento?

Avevo la testa più confusa di prima. Damon adorava incasinarmi la testa, era il suo sport preferito. Mi era pure scappato nella nostra conversazione.

Sperai che non se ne fosse accorto: sarebbe stato controproducente mostrare così palesemente il mio turbamento.

Decisi di non badarci troppo: sicuramente era un’inclinazione momentanea. Damon mi vedeva come il suo giocattolino del momento. Quando ne avrebbe trovato un altro più divertente, mi avrebbe dimenticato in un attimo.

Le premesse erano buone, ma non riuscivo a pensare ad altro. Era un chiodo fisso, latente e fastidioso.

Mi sentivo come se mi fossi appena svegliata da un sogno e non riuscissi a concentrarmi su nient’altro, come se quel sogno avesse cambiato la mia prospettiva.

“Ehi Bonnie? Bon, mi stai ascoltando?”.

I miei viaggi mentali si presentavano sempre nelle circostanze meno opportune.

“Certo Matt” gli sorrisi.

Ed era vero: gli avevo prestato attenzione, fino a un certo punto.

Mi aveva invitato prendere un caffè dopo cena, per chiarire un po’ di cose. Eravamo andati in un baretto non lontano da casa mia. Un posto decisamente più tranquillo e raffinato del Grill. Avevo ordinato un tè, lui una cioccolata.

Dopo essere stati serviti, Matt si era lanciato in un discorsone su tutto quello che aveva fatto durante le vacanze di Natale: grazie alle sue doti sportive era stato scelto per un programma di orientamento in un college del North Carolina.

Ero contenta per lui perché se lo meritava. Date le sue scarse possibilità economiche, spesso si era trovato costretto a stare a casa, mentre noi partivamo per le feste.

A metà racconto, però, avevo staccato la spina.

“Tu hai fatto qualcosa di bello?” mi chiese.

Scossi la testa, cercando di mascherare la mia espressione vacua.

“Sono felice che tu abbia accettato il mio invito. Mi sei mancata” disse con un adorabile luccichio negli occhi “Non posso credere che Damon si sia intromesso così nella tua privacy e che mi abbia inviato quel messaggio!”.

“Non posso credere che tu abbia smesso di parlarmi per quel messaggio!” sbuffai “Ci sono rimasta malissimo. Pensavo che non volessi più stare con me e non avessi il coraggio di dirmelo. O ancora peggio che io avessi combinato qualche disastro alla festa di Tyler, qualcosa che ti avesse offeso o che ti avesse fatto arrabbiare”.

“All’inizio volevo parlartene, ma preferivo discuterne fuori da scuola. Ho provato a prenderti da sola, è stato impossibile. E sei sparita per i giorni successivi: non ti si vedeva più in giro”.

“Mio padre mi aveva messo in punizione” spiegai.

“Dato che nemmeno tu mi avevi cercato, mi sono sentito preso in giro: non m’interessava più chiarire, se non eri disposta a scusarti. Poi sono partito per il college e quando sono tornato a Capodanno per la festa di Stefan, ti ho visto con Klaus”.

“Non è successo nulla con Klaus” mi affrettai a puntualizzare “Io ero libera e lui era carino, mi aveva colpito il fascino dello straniero. Alla fine è stata solo platonico, nessuno dei due era veramente interessato” affermai “Quando ci siamo salutati, prima che ritornasse a Londra, ho pensato di…baciarlo, però non ci sono riuscita”.

“Per me?” s’incuriosì speranzoso.

“I-io…”.

Non feci in tempo a concludere la frase: Matt si sporse verso di me e mi baciò, premendo le labbra contro le mie con slancio.

Non mi opposi e per un attimo percepii le mie guance imporporarsi. Impallidirono subito, quando mi accorsi che qualcosa non quadrava. Dov’erano finite le farfalle? Dov’era l’euforia, l’entusiasmo, la trepidazione?

Ricordavo palpitazioni diverse l’ultima volta che ci eravamo baciati.

“Vorresti stare con uno che si gira dall’altra parte, invece di chiederti spiegazioni? Svegliati, uccellino, ti ho fatto solo un favore”.

Oddio, come mai udivo la sua voce?

“Vuoi che ti stia alla larga, Bonnie? Ne sei sicura?”.

E come mai adesso vedevo pure la sua faccia?

Mi staccai spaventata, temendo di trovarmi davanti un’altra persona. Mi calmai, incrociando gli occhi azzurri di Matt e non quelli neri di qualcun altro.

“Devo rientrare, scusami” tagliai corto, alzandomi “Mi accompagni?”.

“Non sei a casa dei Salvatore? Hai comunque il coprifuoco?” scherzò.

“Ho avuto la febbre e Stefan non vuole riconsegnarmi a mio padre malata. Mi ha pregato di non tornare tardi”. Questo era vero.

La strada del ritorno sembrò più lunga del solito. Arrivati al portico, salutai Matt con un veloce bacio sulla guancia e scappai dentro.

Tirai un sospiro di sollievo, appoggiandomi alla porta ormai chiusa.

Avevo intenzione di precipitarmi in camera, dormire e dimenticare quella brutta sensazione. Come al solito i miei buoni propositi fallirono: una luce soffusa mi attirò fino in soggiorno.

Un figura era seduta al tavolo da pranzo, con le spalle ricurve e la testa appoggiata su un libro aperto: Damon si doveva essere addormentato durante lo studio.

Rimasi davvero impressionata dall’impegno che stava dedicando alla sua laurea.

Ignorai la tentazione di coprirlo almeno con una coperta. Abbandonai la sala e salii in fretta le scale verso la mia stanza.

Quello che non potevo ignorare era una dannata, dura verità: non odiavo più Damon.

 

Il mio spazio:

Ben trovate a chi di voi è ancora sveglia a quest’ora!

Pubblico ora perché almeno domani troverete il capitolo bello pronto per essere letto.

Sarò brevissima: è il punto di svolta. Non c’è molto altro da aggiungere: stanno cambiando tante cose per Bonnie.

Vi anticipo che nel prossimo capitolo ci sarà il concorso di Miss Fell’s Church. Ottima occasione per fare accadere qualcosa, no?

Ora è tardi, vado a dormire  e vi lascio stare.

Il banner è di Bumbuni.

Vi ringrazio tantissimo!!!

Buona notte,

Fran;)

Ps: purtroppo il prossimo aggiornamento arriverà un po’ in ritardo, perché settimana prossima sarà via per qualche giorno.

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Capitolo 19
*** Caroline does it so much better ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo diciannove: Caroline does it so much better.

 

“I know it's late, I know you're weary
I know your plans don't include me
Still here we are, both of us lonely
Longing for shelter from all that we see
Why should we worry, no one will care girl
Look at the stars so far away
We've got tonight, who needs tomorrow?
We've got tonight babe
Why don't you stay?”

(We’ve got tonite- Bob Seger).

 

Giorni folli erano quelli che precedevano il concorso di Miss Fell’s Church.

Tutte le ragazze della città impazzivano. Non so che cosa si aspettassero da quella dannata fascia, come se aprisse le porte a una grande carriera.

Probabilmente era più che altro per gratificazione personale, lo consideravano come un riconoscimento dato loro dalla comunità.

Non mi ero iscritta alla gara. Non m’interessava e non mi avrebbero preso nemmeno sul serio. Io non ero una modella, non ero un miss. Ero la ragazza della porta accanto.

In passato avevo più volte desiderato di salire su quel palco, con un abito lungo, i capelli bel acconciati, a sfilare come una principessa.

Per tanti anni avevo ammirato Elena e Caroline per la loro naturale eleganza, e Meredith per la sua straordinaria personalità e intelligenza. Le avevo invidiate, perché io non mi ero mai sentita bella o speciale. Ora, quella sensazione di inadeguatezza era lontana anni luce.

Anzi, il pensiero di stare su di un palco sotto gli occhi di tutti mi nauseava ancora più che rimanere nell’ombra per tutta la vita.

Non cercavo di fare la preziosa o la superiore. Non parlavo per invidia, non ero frustrata perché si trattava di qualcosa che non potevo avere.

Semplicemente mi ero resa conto di non appartenere a quella vita, di non desiderarla più. Avevo smesso di inseguire con affanno un ideale che nemmeno era mio.

La mia non era una bellezza da reginetta e mi stava bene così. Un tempo aggettivi come graziosa o carina mi irritavano al solo suono. Adesso non avrei saputo come descrivermi in altro modo: io ero così.

E mi sentivo diversa, in un senso positivo.

Per il primo anno, finalmente, potevo godermi quel dannato concorso con animo sereno. Distaccata e quasi divertita da tutta quell’euforia.

Euforia era un termine inadatto e fin troppo gentile: si aveva a che fare con vero e proprio panico.

Panico che si trasformava in isteria se il tuo nome era Caroline Forbes.

Isteria che eri costretta a percepire se eri la migliore amica di Caroline Forbes.

Dopo il disastro di Homecoming, Care era ben decisa a prendersi la sua rivincita su Katherine. E se ogni ragazza di Fell’s Church si limitava a ordinare il vestito settimane prima e a scegliere la pettinatura, Caroline oltrepassava ogni limite.

Da parecchio si stava esercitando con i passi del valzer, con le risposte alle interviste, con le pose e le espressioni da foto e la sfilata in passerella.

Aveva preparato tutto fino al minimo dettaglio: sapeva a memoria le movenze, le parole da dire, i sorrisi da elargire.

La sua indole da maniaca del controllo ci sguazzava in quella situazione.

Katherine era un’avversaria da temere, ma credevo che Caroline avesse ottime possibilità di vittoria, a partire dal suo ruolo attivo nelle iniziative proposte dalla comunità.

Non vedevo nessun intoppo nel suo percorso: per portare la corona di Miss Fell’s Church bisognava anche incarnare lo spirito della città e Katherine con i suoi anni passati a Parigi non rientrava proprio tra le candidate. Da questo lato, Elena, pur essendo uguale alla gemella, avrebbe avuto molte più chance, ma si era rifiutata ancora una volta di competere.

Ero convinta che niente potesse andare storto, almeno finché…

“Ha la varicella!” piagnucolò Caroline, accucciata sul divano del suo salotto.

Era saltato fuori che il suo accompagnatore, un tal rampollo di una facoltosa famiglia della Virginia, si era ammalato come un bambino a pochi giorni dal concorso.

“Chi si prende la varicella al giorno d’oggi?! Non era stata debellata?” inveì Care.

“È varicella, non peste” osservò Meredith con il suo solito senso pratico.

“Beh, signorina so-tutto-io, varicella o meno, sono rimasta senza cavaliere!” sbottò e strizzò tra le mani un fazzolettino di carta ormai tutto bagnato di lacrime.

“Non è la fine del mondo” provai a consolarla “Sono sicura che avrai una fila intera disposta ad accompagnarti”.

“Ma questo era perfetto” si lamentò lei “Avevo stilato una lista delle qualità che doveva possedere il mio cavaliere. Lui ha riempito tutte le caselle”.

A volte il suo bisogno patologico di organizzare tutto fino all’ultimo dettaglio spaventava perfino me.

“Non vincerò mai” e nascose ancora il volto nel fazzoletto.

“Sarò dannata prima che mia sorella stringa tra le mani quella corona” giurò Elena “Personalmente, credo che non sia un uomo a regalarti la vittoria, ma dato che ci tieni tanto…ti ho procurato il ragazzo più desiderato della città”.

Caroline saltò subito giù dal divano “E chi è? Un nuovo arrivato? O, ti prego, dimmi che quel gran figo di Klaus è tornato a Fel-”.

“No, psycho barbie, parlava di me” s’intromise una voce alle nostre spalle, all’entrata del salone.

Non mi girai. Lanciai a Elena un’occhiata confusa e lei mi rispose con un occhiolino.

Stai scherzando?” boccheggiò Caroline in preda a un attacco d’indignazione.

Alla fine mi voltai, per averne la conferma: eccolo là, Damon Salvatore con il suo ghigno strafottente e la posa da ‘sono il dio del mondo’.

Improvvisamente mi si ribaltò lo stomaco.

“Calmati, va bene. È la scelta più sensata” le suggerì Elena.

“No, è ciò che mi farà perdere ancora prima d’iniziare. Lo odiano tutti!” si oppose Caroline, in piedi a fronteggiare Damon.

“Mi amano tutti” la corresse lui “Mi odi tu perché ti ho piantata in asso”.

Meredith afferrò il braccio di Caroline appena in tempo, prima che questa gli si scagliasse addosso.

“Così non migliori la situazione” lo rimproverò la mora.

“Non è divertente neanche per me, sai” ironizzò Damon.

“Ti tolgo subito d’impiccio: piuttosto che presentarmi con te, ritiro la mia candidatura” lo ribeccò Caroline.

“Perfetto” concordò Damon “Scusami Elena, io ci ho provato”.

Il ragazzo diede le spalle a tutte noi e io, senza esserne nemmeno ben consapevole, mi ritrovai a parlare “Dovresti accettare, Caroline”.

I presenti in quella stanza quitarono il loro vociare e mi guardarono come se improvvisamente mi fosse spuntata un’antenna sulla testa.

“Elena ha ragione” continuai “Katherine diventerà nera quando ti vedrà con il suo ex ragazzo, e poi Damon appartiene a una delle famiglie fondatrici, è ben visto, sa i passi del valzer e ti farà fare un figurone con il ballo. Conquisterà certamente la parte femminile della giuria…anche se i motivi mi sono sconosciuti” aggiunsi, per precisazione.

Caroline mi fissò allibita “Tu quoque? Da quando sei entrata nel suo fan club?”.

“Ma come? Non sapevi che l’uccellino è la mia ammiratrice numero uno?” mi canzonò Damon, mentre i suoi occhi neri non lasciavano un attimo il mio viso.

“Ci ho ripensato, Care. Uccidilo pure” replicai, acida.

La discussione andò avanti ancora per qualche minuto. Tra un insulto e un’accusa, finalmente Caroline si convinse che Damon era la scelta più azzeccata.

Più che altro furono Elena e Meredith a parlare, io mi chiusi nel silenzio. Non vedevo l’ora di uscire da quella stanza.

Erano passate un paio di settimane dalla mia permanenza a casa Salvatore e da allora ero stata molto attenta a non incrociare più Damon.

Ero rimasta troppo sconcertata dalla premura che mi aveva riservato quando mi ero ammalata e dalle parole con cui mi aveva spiegato il suo rapporto con Stefan.

Non le avevo capite appieno: io e mia sorella ci trattavamo in tutt’altro modo, ma almeno iniziavo a riconoscere una certa volontà di riappacificazione.

Forse il mio intervento dopotutto era inutile.

E per una volta ero ben contenta di non immischiarmi e lasciare che se la sbrigassero da soli. Se c’era qualcosa che non tolleravo più di Damon in modalità strafottente, era Damon in modalità gentile. Di solito non prometteva niente di buono.

Mi stupiva ancor più il fatto che io ne fossi rimasta affascinata, sconcertata più che altro.

Mi avrebbe mandato al manicomio primo o poi.

Una volta era così facile per me guardarlo con sospetto e detestarlo. Adesso quasi mi sentivo in colpa, o quantomeno a disagio.

Quel senso di inadeguatezza era ciò che mi infastidiva maggiormente. Continuavo ad avvertire i suoi occhi puntati addosso, anche quando non mi stava prestando attenzione.

Non mi piaceva questo inaspettato interesse, non mi piaceva perché mi obbligava a mettere in discussione le mie convinzioni. Rendeva tremendamente complicate le cose.

Tenevo sempre il mio sarcasmo e la mia diffidenza. Una volte, però, le battute al vetriolo uscivano spontanee, da qualche settimana invece mi dovevo sforzare per non mostrare il cambiamento che mi stava tormentando.

Avevo sempre accusato Damon di tirare fuori il peggio di me. Non mi ritenevo una persona cattiva, men che meno vendicativa. Ero forse fin troppo buona, comprensiva e generosa. Con Damon no; mi era capitato di provare un fortissimo desiderio di ripagarlo di tutte le lacrime che mi aveva fatto versare.

Ed era una sensazione che non sopportavo, perché io non volevo essere quel tipo di persona. Negli ultimi mesi la mia prospettiva si era ribaltata: di colpo mi ero ritrovata a prodigarmi per assicurargli un po’ di felicità.

Stefan era stato il mio obiettivo principale, Damon ci era finito in mezzo, ma sotto sotto ero davvero sollevata che anche lui avesse ottenuto un po’ di pace.

Mi sorprendeva la svolta che stava dando alla sua vita: finalmente si stava impegnando con l’università, aveva mollato quella palla al piede di Katherine e per la prima volta aveva speso belle parole nei confronti di suo fratello. Con me! Praticamente la sua peggior nemica.

Mi aveva colpito, mi aveva destabilizzato. E ancora peggio mi aveva impedito di godermi la mia serata con Matt.

Avevo deciso di non indagare troppo sulle ragioni di quel mio disagio. Non ero il tipo da lasciarsi abbindolare da un bel sorriso e un paio di occhi penetranti, se dietro non c’era sostanza. Non potevo credere che fosse bastata quella giornata con Damon per scordarmi  della mia prima vera cotta.

D’altra parte mi sentivo nauseata ogni volta che ci pensavo. Mi sembrava di essermi comportata male con Matt, di averlo ingannato, preso in giro.

Guardavo avanti, nel nostro futuro e faticavo a vedere un punto d’incontro. Come potevamo esserci allontanati così tanto in poche settimane?

Quando mi aveva toccata, quando mi aveva baciata, avevo percepito un brivido d’imbarazzo. Un imbarazzo dato non dalla trepidazione e dalla poca esperienza, ma da un senso di estraneità.

Matt mi era parso uno sconosciuto.

Nessuno problema finché avevamo parlato e scherzato, finché ci eravamo comportati da buoni amici. Avevo iniziato ad avere spiacevoli sensazioni nel momento in cui le cose si erano spinte oltre, in un territorio che non apparteneva più a Matt.

Mi sentivo una persona orribile, colpevole.

Mi sentivo come se gli avessi voltato le spalle, dimenticandomi di avvisarlo.

Oscar Wilde diceva che l’attesa del piacere era essa stessa il piacere. Probabilmente avevo passato così tanto tempo a sperare che Matt si accorgesse di me, che il mio stesso desiderio era andato diminuendo.

Damon ne era solo in parte causa. Nel periodo in cui io e Matt avevamo troncato ogni contatto, avevo sperimentato molte più cose che in anni della mia vita.

Era cresciuta, ero diventata più forte. Avevo superato la delusione per l’abbandono di mia madre, avevo imparato ad affrontare le mie paure. Avevo conosciuto Klaus e avevo capito di non essere solo la ragazzina dai capelli color fuoco amica di Elena Gilbert.

L’infatuazione per Matt si stava lentamente trasformando in un ricordo.

Non era il finale che avevo immaginato. Ne ero rimasta delusa, quasi mi fossi accorta che il mio più grande sogno fosse solo una mera illusione.

Non potevo fare a meno di chiedermi se le cose sarebbero andate comunque così anche senza il messaggio di Damon.

Per quanto cercassi in tutti i modi di convincermi, di essere arrabbiata con lui, non ci riuscivo fino in fondo. Avevo l’impressione che prima o poi io e Matt ci saremmo allontanati in ogni caso.

Adesso dovevo solamente trovare il modo per dirglielo. Non so dove avrei trovato il coraggio o le parole.

Ironia della sorte: avevo passato talmente tanto tempo a preoccuparmi di non piacere alla gente, di non essere adatta a fare la fidanzata, con la paura di venire mollata da un momento all’altro, ed ora non avevo la più pallida idea di come spiegare a Matt i miei ripensamenti.

Non potevo tenerglielo nascosto per molto. Non ero in capace di recitare, non ero capace di portare avanti la recita e tenermi tutto dentro.

Il concorso di bellezza si sarebbe tenuto nel fine settimana. Matt aveva proposto di andare insieme. Decisi che gli avrei parlato in quell’occasione.

Alzai lo sguardo sul gruppo di persone davanti a me e ritornai con i piedi per terra: ero ancora nel salotto di Caroline, non potevo permettermi di fantasticare troppo.

Ci mancava solo che Damon se ne accorgesse e cominciasse a infastidirmi come al suo solito.

Lanciai un’occhiata a lui e a Caroline, stretti in un abbraccio poco convincente mentre la mia amica cercava d’insegnarli i passi del valzer.

Entrambi li conoscevano alla perfezione ma entrambi volevano condurre il ballo. In altre parole era atto una lotta per decidere chi dei due portasse i pantaloni in famiglia.

Era davvero assurdo che Damon si prestasse a quelle condizioni. Normalmente scappava da ogni formalità o obbligo. Per non parlare di quanto odiasse quegli eventi a suo parare così ridicoli e noiosi.

Come aveva fatto Elena a persuaderlo rimaneva un mistero.

In fondo, lei era Elena e tutto poteva, specialmente con Damon.

Dovevo ricordarmi che sì si era liberato di Katherine, ma che forse non si sarebbe mai liberato di Elena.

Quel pensiero m’incupì e mi fece sentire ancora più stupida di quanto avrei mai immaginato.

In quei giorni mi ero arrovellata il cervello a cercare di capire perché Damon si fosse di punto in bianco dimostrato così carino e disponibile con me. Avevo fin immaginato che qualcosa in lui stesse finalmente cambiando, che forse prima o poi anche io avrei potuto vederlo come una persona diversa.

Ma Elena era sempre lì. Lei aveva un potere su Damon pari a quello di nessun altro. Non era il tipo da approfittarsene ma ciò non significava che lui ne fosse libero, dato che era il primo a permetterglielo.

Se mai mi era passato per la testa una qualche possibilità di relazione tra noi, mi bastava ricordare che io non sarei mai stata abbastanza. Nessuna poteva competere.

Mi alzai dal divano e salutai frettolosamente tutti. Abbandonai la stanza e la casa.

Stare in quella sala mi mandava fuori di testa.

Ero infastidita, turbata e sconcertata. Damon rimaneva comunque una presenza tossica per me. Era difficile diventare amica di qualcuno che tentava in tutti i modi di metterti a disagio.

Unica soluzione? Stargli lontano.

 

Avevo detto che non m’importava niente di Miss Fell’s Church.

Avevo detto che non desideravo più da tempo avere una corona in testa.

Avevo detto di essere finalmente in pace con me stessa.

Ma diamine, mi sciolsi quasi letteralmente mentre ammiravo un bellissimo vestito che Caroline aveva spedito a casa mia per la serata di gala.

Lungo fino ai piedi, color azzurro-ghiaccio, senza spalline, stretto in vita da una cintura di brillanti, con una sottile allacciatura sulla schiena che si apriva in uno scollo per poi ricongiungersi con la stoffa.

Le scarpe costituivano già un problema, ma potevo sopportare quell’altezza killer per il bene dell’abito. Potevo anche sopportare il trucco!

Ero elettrizzata all’idea di indossarlo, mi sentivo come una bambina a Natale.

Sembrava proprio che alla fine sarei riuscita a vivere il mio momento da principessa. E tale mi sentii quando varcai le porte della sala patronale del municipio.

La moglie del sindaco aveva superato se stessa: non appariva un concorso di bellezza, piuttosto come un ballo di alta società.

Matt mi prese la mano e mi condusse per la sala, in cerca di Stefan, Elena e tutti gli altri.

Sgusciai dalla stretta e gli agguantai il polso. Meglio togliermi subito quel peso.

“Matt, ti devo parlare”.

 

Non avevo mai partecipato a così tanti eventi mondani come in quei sei mesi. La maggior parte delle volte nemmeno si trattava di una mia iniziativa.

Accompagnatore di Caroline, ma come mi era venuta in mente?

Elena me l’aveva chiesto con tale gentilezza che non avevo potuto rifiutare. In fin dei conti, veniva in tasca qualcosa anche a me: avrei fatto un favore al mio angelo, Katherine sarebbe diventata verde dalla rabbia e forse avrei stupito Bonnie una volta per tutte.

Avevo l’impressione che qualcosa fosse davvero cambiato tra noi da quando aveva passato una settimana a casa mia: la vedevo sempre agitata, più acida del solito, vedevo i suoi occhi guizzare sempre su di me, anche quando non la stava guardavano, come se le piacesse tenermi sotto controllo.

Stava lontana da me, si isolava e tendeva a parlarmi il meno possibile. Comportamenti che aveva sempre tenuto in mia presenza, per altri motivi però.

Era chiaro come il sole che adesso non le provocavo più un senso di disgusto, ma piuttosto la confondevo, la provocavo. Il fatto che me lo permettesse, seppure inconsapevolmente, significava che stava piano piano cedendo. Mancava solo il colpo di grazia.

Ero intenzionato a sferrarlo proprio stasera.

Rimasi seduto fuori dai camerini in attesa che la signorina Forbes facesse la sua comparsa tutta tirata a lucido.

I giorni precedenti erano stati particolarmente divertenti per me: stuzzicare Caroline era un hobby alquanto soddisfacente, dato che lei ci cascava ogni volta. Era estremamente irritabile, e l’idea che fossi io ad accompagnarla non l’aveva proprio esaltata.

Potevo capire il suo rancore: l’avevo usata e abbindolata, ma sinceramente la cosa non mi aveva mai turbato più di tanto. Era passato parecchio tempo, era ora che lei lo superasse.

Vivere in maniera civile non comportava per forza un legame di amicizia.

Neanche a farlo apposta, Katherine aprì la porta dei camerini e uscì, fasciata splendidamente da un abito viola. Era inutile negarlo: quella ragazza era bella da impazzire con qualunque cosa indossasse.

Mi concesse un brevissimo sguardo sprezzante, prima di andarsene con un bell’imbusto che fino a quel momento era rimasto appoggiato alla parete accanto a me.

Non ne fui infastidito, con mia grande sorpresa.

A parte il mio orgoglio ferito, quell’incontro non mi aveva suscitato nessun’altra emozione. Mi chiesi a che cosa fossero serviti i mesi passati insieme a lei.

Era bastato così poco a farmela dimenticare?

Una forte delusione poteva allontanare due persone, non far sparire un sentimento. Sempre che il sentimento ci fosse mai stato.

Mi ero sempre rifiutato di pensare che Katherine fosse solo una sostituta di Elena, la sua copia uscita male. Arrivato a questo punto, mi rendevo conto che era solamente il suo pallido riflesso. Avevo finto di poterla sostituire. L’avevo usata per scordarmi della sua gemella innamorata di mio fratello.

Ma Katherine non era stata all’altezza delle mie aspettative e mi aveva preso in giro. Non sentivo nemmeno di meritarmelo: in tutto il tempo in cui eravamo stati insieme, non le avevo mai fatto mancare nulla, non l’avevo mai trattata come il surrogato di sua sorella.

Mi ero davvero convito di poterla amare per ciò che era e mi ero comportato di conseguenza.

Quei giorni mi parevano lontanissimi, totalmente estranei.

Katherine non era più nei miei pensieri e neanche Elena. Per assurdo, quella tremenda esperienza mi aveva aiutato a liberarmi dall’ossessione che nutrivo per le Gilbert.

Reputavo Elena una grande amica, forse la mia unica amica, l’unica ragazza che avevo rispettato davvero fino all’ultimo, fino a che i miei sentimenti di conquista non si erano trasformati in qualcosa di molto più puro e genuino.

E molto probabilmente solo per lei in questo mondo avrei potuto sottopormi a quella pagliacciata che era Miss Fell’s Church.

Finalmente l’aspirante reginetta mise piede fuori dal camerino.

Se qualcuno si meritava quel titolo era proprio Caroline Forbes. Con quel vestito color bronzo avrebbe steso i giudici e chiunque con un po’ di buon gusto e senso estetico.

“Madame” le porsi il braccio.

“Madame un corno” mi rispose piccata, superandomi “Hai visto Katherine, vero? È uscita prima di me. L’hai vista? Era uno schianto. E sai chi è il suo accompagnatore? È quello che doveva venire con me! Quello stronzo mi ha dato buca per la sgualdrina di Fell’s Church. Scommetto che gli avrà promesso un giro in giostra dopo il concorso. Altro che varicella, spero gli cada il pis-”.

Non ricordavo che Caroline Forbes incazzata facesse così paura nella sua schizzata e maniacale maniera di affrontare i problemi.

Il bell’imbusto quindi era il suo precedente cavaliere, quello che si era dato malato di varicella. Interessante scambio di coppie.

“Potrei sentirmi quasi offeso. Ho certamente più carisma di quel damerino” osservai “E poi noi accompagnatori serviamo solo per il valzer. Non credo che cinque minuti con quel tizio possano garantire la vittoria a Katherine”.

Quel tizio è uno dei migliori ballerini della Virginia. Lo avevo selezionato apposta. Tu non conoscevi nemmeno i passi fino a due giorni fa” sbuffò.

Stizzito dal suo commento, la presi per un braccio e le feci fare una piroetta. Mi finì addosso, come previsto, e strinsi una mano dietro la sua schiena.

“Posso fare cose su quella pista da ballo che neppure t’immagini” le soffiai sul viso.

Non so se rimase più incantata o intimorita dalla mia reazione, ma di certo le infusi un po’ di coraggio. Intrecciò le dita con le mie e mi trascinò nell’enorme salone.

Si destreggiò tra le personalità della città e tra i giurati, esibendomi come se fossi un gioiello. Glielo permisi senza tante cerimonie: per una sera potevo anche accettare il suo comando, se fosse servito ad assicurarle la vittoria.

Tutto pur di togliere quel ghigno soddisfatto dalla faccia di Katherine Gilbert.

Non passò molto prima che Caroline sparisse dietro il palco, pronta per mettersi in mostra come un pezzo d’asta.

Mi nascosi dietro una colonna in attesa del mio momento. Non avevo voglia di intrattenermi con nessuno. Conoscevo più o meno tutti, mio malgrado.

Evitavo soprattutto Elena e le sue occhiatine divertite.

La mia attenzione, però, venne risvegliata da una figura vestita di azzurro: Bonnie McCullough era praticamente irriconoscibile.

Sembrava che quell’abito l’avesse trasformata: camminava in maniera molto più aggraziata, sorrideva con garbo, perfettamente a proprio agio.

Un’immagine molto diversa da quella che ricordavo della festa di inizio anno.

Coperto dalla colonna, potei continuare ad ammirarla indisturbato.

Lei non si curò di me, ma notai con piacere che Matt Honeycutt non le ronzava più intorno. Che finalmente gli avesse dato il benservito?

Lo spettacolo iniziò e le ragazze cominciarono la loro sfilata.

Quando venne annunciato il valzer, uscii dal mio nascondiglio e mi posizionai accanto alle scale per accogliere la mia dama.

Caroline sprizzava gioia da tutti i pori e per un attimo parve dimenticare l’antipatia che provava nei miei confronti.

Si abbarbicò al mio braccio come se fossi il suo principe azzurro. Lei probabilmente si sentiva Cenerentola.

No, Caroline Forbes non poteva essere Cenerentola, al massimo la regina dei ghiacci.

Mi accorsi a malapena della musica e dei commenti acidi che la mia partner lanciava verso le sue avversarie. Poco m’importava di principi e principesse, quella sera il mio unico obiettivo era una splendida fata. Una fata che non mi staccò gli occhi di dosso per tutto il ballo. Io cercai di ricambiare lo sguardo ogni volta che giravo nella sua direzione.

Se fossero spariti tutti, non me ne sarei accorto.

Non me ne sarei proprio accorto.

 

Ci fu un istante prima dell’annuncio in cui mi prefigurai il peggio.

Venne sbalzata indietro, al ballo di Homecoming, quando la voce al microfono aveva annunciato la vittoria di Katherine.

Sapevo per certo che questa volta Caroline l’avrebbe ammazzata, seguita da Elena. Avrebbero danzato sul suo corpo insanguinato e forse Damon avrebbe messo la sua testa su una picca.

Perciò ebbi serie difficoltà a credere alle mie orecchie e ai miei occhi, quando la mia amica venne dichiarata Miss Fell’s Church e camminò sul palco per ricevere fascia e corona.

Seguirono feste e applausi: Elena saltava sui suoi tacchi, rischiando di rompersi una caviglia, e si sbracciava. Stefan fischiava di gioia.

Era solo uno stupido concorso di bellezza, ma a noi sembrava di aver appena trionfato nella guerra per la conquista del mondo.

Scorsi Matt battere le mani e congratularsi con Caroline. Fingeva che tutto andasse bene, ma a me non sfuggì la patina triste che gli adombrava gli occhi.

Non era stata una grande serata per lui. Ci eravamo lasciati abbastanza bene, eppure non potevo evitare di chiedermi se la nostra amicizia avrebbe superato anche questo ostacolo.

Mi defilai silenziosamente, in cerca di un attimo di pace. Fuori, sul portico faceva un freddo cane, ma almeno potevo restarmene un po’ da sola.

Lontana da Matt e dal mio senso di colpa, lontano da Damon e dalla confusione che avevo in testa. Solo alla fine del suo valzer con Caroline mi ero resa conto di averlo fissato per tutto il tempo e di essere stata beccata.

Ma che cosa mi stava prendendo?

Per tutta sera non lo avevo perso di vista: sebbene mi fossi opposta con tutta la mia volontà, una strana forza mi aveva obbligato a controllare ogni sua mossa.

Stavo diventando ciò che avevo sempre aborrito: una maniaca spiona, una dannata fan del club di Damon Salvatore.

Ero una mollacciona, mannaggia a me! Tutta colpa del mio debole per i bei ragazzi. Era mia abitudine farmi incantare da personaggi particolarmente fascinosi, così come era accaduto con Klaus.

Adesso che lui e Matt erano spariti dal mio interesse e Damon aveva sfoderato le sue armi, io stavo cadendo come una pera cotta.

Bella prova, Bonnie.

“Perché sei qui fuori da sola?”

Quella voce mi era fin troppo nota. Non dovevo nemmeno girarmi per vedere a chi apparteneva. Lo sapevo benissimo.

“Aspetto che i palloni gonfiati come te spariscano dalla faccia della terra!” replicai con voce un po’ troppo acuta.

“Adoro quando fai la simpatica” commentò Damon con tono chiaramente ironico. “Non dovresti festeggiare con Caroline? Ha appena battuto Katherine, sarai al settimo cielo”.

Io non risposi, sperando che se lo avessi ignorato, lui se ne sarebbe andato.

“Ti ho visto prima, durante il valzer” iniziò e il sangue mi si gelò nelle vene “Mi sembrava avessi voglia di provare anche tu. Adesso hanno aperto la pista a tutti. Scommetto che Honeycutt non vede l’ora di pestarti i piedi”.

“Non credo che Matt voglia ballare con me” ammisi con rimpianto “E poi non mi piacciono balli da sala: la gente ti si fa troppo vicina e comincia a farsi gli affari tuoi” questo era un chiaro riferimento a lui.

Damon non si scompose. Allungò una mano verso di me “Posso anche rimanere in silenzio, se preferisci” mi promise.

Lo guardai costernata “No, io con te non ballo!” affermai sicura, alzando il naso con fare stizzito.

“Mi stai dicendo che non muori dalla voglia di fare neanche una giravolta?”.

“Non con te”.

“Con nessuno mi pare di capire”.

“Che cosa t’importa? Non c’è neppure la musica” lo ribeccai, augurandomi che la smettesse.

“Se stessi zitta, la sentiresti” considerò Damon. In lontananza si udiva effettivamente una melodia.

“Non ho intenzione di ballare né con te né con nessun altro” lo stroncai.

“Perché?”.

“Perché no”.

“Uccellino…”

“PERCHÈ HO VERGOGNA!” sbottai senza poter frenare la lingua.

Mi accorsi di ciò che avevo detto e avvertii la rabbia montare dentro di me. Non solo mi ero resa ridicola davanti a quell’idiota ma avevo anche ceduto al suo gioco. Voleva farmi scoppiare per sapere la verità e ci era riuscito.

Mi aspettavo di vederlo ridere o prendermi in giro. Mi voltai di scatto per andarsene e non guardare la soddisfazione negli occhi di Damon. Un mano afferrò il mio polso in una stretta salda e mi tirò indietro. Cercai di puntare i piedi ma Damon era più forte. Mi inchiodò a sé avvolgendomi la vita sottile con le braccia e incominciò a muoversi lentamente.

“Dico ma sei impazzito?” chiesi con voce strozzata.

“No, ti sto facendo passare la vergogna” rispose con semplicità

“In realtà la stai facendo aumentare” dissi, tesa come una corda di violini.

“Siamo soli qui fuori” mi fece notare. La sua voce era quasi un soffio, vulnerabile. Riacquistò in fretta la sua spavalderia “Sei sempre impettita, seria, sembri una creatura intoccabile, sciogliti un po’. Divertiti”

“Per essere una che pare intoccabile, tu mi stai toccando un po’ troppo” dissi alludendo alle mani del ragazzo terribilmente vicine al mio sedere.

“E dire che mi sto trattenendo!” e rise.

Scossi la testa. Non c’era più nulla da fare. Lui era troppo testardo e aveva una presa d’acciaio. Non sarei mai stata capace di sgusciare via. Tanto valeva farlo contento e sperare che dopo un ballo si stancasse. Dopo tutto aveva ragione: un po’  di divertimento non aveva mai fatto male a nessuno. Gli posai una mano sulla spalle e con l’altra presi la sua. Provai a mettere una certa distanza tra noi, ma Damon mi aveva tirata davvero molto vicina. Quel contatto mi ricordò un momento già vissuto: quello del ‘bacio al buio’.

Non ci avevo mai creduto fino in fondo, avevo pensato che le mie amiche si fossero prese gioco di me. Eppure sentii le stesse emozioni, la stessa tranquillità.

Il cuore iniziò a battere furiosamente, per l’agitazione e l’incredulità. Quasi mi ritrovai a sovrapporre le due immagini, mentre la mia mente lavorava ormai per conto suo: mi sembrava di essere tornata indietro, a quella festa. Eravamo solo noi due, condividevamo un ballo, gli altri erano spariti dalle nostre preoccupazioni e attendevamo il bacio.

Chiusi gli occhi e li riaprii di scatto per scacciare quella scena. Non era la realtà.

Stupidamente avevo sperato che quel minimo gesto potesse farmi ritornare in me e invece produsse l’effetto contrario.

Ipnotizzata, spinsi lentamente il viso verso Damon, mentre lui si piegava su di me. Le nostre fronti si toccarono. Non andammo oltre e fu ancora più intimo.

Mi sottrassi all’abbraccio con un brusco strattone.

Senza rivolgergli una parola, gli voltai le spalle e ritornai nel grosso salone. 

Mi stavo cacciando in un guaio troppo grosso per me.

 

Il mio spazio:

Non so come scusarmi per il ritardo.

Per assurdo queste settimane di dicembre sono state più frenetiche dei mesi più intensi di università.

Spero davvero che ora sarò più libera, dato che sono in pausa esami.

Per questo capitolo mi sono chiaramente ispirata all’episodio di Miss Mystic Falls di TVD.

Bonnie sta cominciando a prendere consapevolezza, ma questo non vuol dire che si arrenderà così su due piedi. Nel prossimo capitolo succederà qualcosa che scuoterà l’equilibrio che si è creato.

E se da una parte questa cosa li avvicinerà, dall’altra li porterà ad accantonare per un po’ qualunque progetto romantico (un po’, eh, non molto!)

Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto. Lasciatemi un parere, please! =)

Il banner è di Bumbuni.

Bene ragazza, vi ringrazio tantissimo per il vostro supporto e vi auguro di passare un felice Natale e di divertirvi tantissimo a Capodanno.

Ci rivediamo con l’anno nuovo!

Grazie ancora a tutte voi!

Bacioni,

Fran;)

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Capitolo 20
*** Daddy issue ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo venti: Daddy issue.

 

“I was once like you are now and I know that it's not easy
To be calm when you've found something going on
But take your time, think a lot, why, think of everything you've got
For you will still be here tomorrow, but your dreams may not

How can I try to explain? When I do he turns away again
It's always been the same, same old story
From the moment I could talk I was ordered to listen
Now there's a way and I know that I have to go away
I know I have to go”

(Father and son- Cat Stevens).

 

A volte la vita concedeva qualche soddisfazione.

Gli esami di metà anno erano andati alla grande, Katherine aveva avuto un piccolo assaggio della sua medicina, avevo aiutato Caroline a vincere e nel frattempo mi avvicinavo sempre di più al mio obiettivo: Bonnie.

Era cotta a puntino. Finalmente.

Era stata la prova più dura che avessi mai affrontato. E nonostante cominciasse chiaramente a sentirsi attratta da me, le sue remore continuavano a costituire un problema.

Era restia a lasciarsi andare, frenata dai suoi principi morali.

Io ero quello stronzo e cattivo, il manipolatore, il donnaiolo, l’odiato fratello del suo migliore amico. Non esisteva al mondo nessuno peggio di me secondo la sua opinione.

Cedere al mio fascino significava rinnegare tutto ciò che aveva ben predicato per tutti questi anni. Capivo la sua reticenza e mi ci rispecchiavo.

Avevo affrontato gli stessi suoi dubbi. L’immagine che avevo di lei si era completamente ribaltata: fino a qualche mese fa Bonnie per me non esisteva nemmeno.

Una bambina immatura, a volte frignona. Carina, ma per nulla attraente.

Ora era il mio chiodo fisso.

Purtroppo mi rendevo conto che la scommessa c’entrava sempre meno e lentamente stavo cominciando ad accettarlo.

All’inizio l’idea mi atterriva, perciò comprendevo la sua esitazione.

Infatuato di Bonnie McCullough! Mi faceva senso solo pensarlo.

Per ora mi limitavo all’infatuazione, non mi azzardavo ad andare oltre. Mi sembrava già un bel traguardo ammetterlo.

Katherine non aveva nemmeno idea di che cosa avesse scatenato accettando per me la scommessa proposta da Tyler.

Quello che era cominciato come un gioco stava diventando tremendamente serio, tanto da spaventarmi.

Eccomi lì, Damon Salvatore, ventun anni, a ritrattare una della convinzioni più radicate della mia vita. Eccomi lì ad accettare il fatto che Bonnie McCullough non fosse una bambina, né immatura né frignona.

Si trattava di una donna, che con la sua innocenza e la sua a tratti irritante bontà, era stata in grado di intrigarmi molto più di quanto avessero fatto le mie precedenti conquiste.

Ragazze bellissime, seducenti che alla fine avevano perso ogni barlume di fascino.

E quella piccola impertinente mi tormentava come la peggiore delle tentatrici.

Durante il ballo avevo fatto ricorso a tutta la mia forza per non piantare Caroline su due piedi e andare da Bonnie. Durante il nostro piccolo interludio, avevo combattuto l’istinto di portarla altrove, dove nessuno ci avrebbe disturbati.

Il mio bisogno di baciarla era stato frenato da un suo possibile rifiuto. Sapevo che in fondo al cuore anche lei avrebbe voluto cedere, ma sapevo anche che il suo orgoglio l’avrebbe fermata in tempo.

Così era stato: l’avevo osservata scappare via da me, da ciò che poteva accadere.

Le mie braccia si erano sentite improvvisamente vuote e l’aria era diventata più fredda. Solo allora mi ero reso conto di quanto la presenza di Bonnie portasse un gran sollievo con sé.

Onestamente non sapevo più come comportarmi.

Era palese che anche lei avesse iniziato a guardarmi con occhi differenti. Lo mostravano il suo sguardo, i suoi movimenti, le sue parole. Aveva lasciato Matt.

Non potevo giurarlo al cento per cento, ma mi piaceva pensare di esserne almeno in parte la causa. L’avevo sconvolta, l’avevo stupita.

Non era, però, ancora abbastanza, io non ero abbastanza.

Accettare quel cambiamento significava, secondo il suo punto di vista, tradire i suoi principi, tradire Stefan. Evidentemente io non valevo quel sacrificio.

Sempre la solita storia. Già sentita, già vista.

Non ero stato degno di Elena, non ero stato degno di Katherine e non ero degno di Bonnie.

Persino il mio stesso padre mi disprezzava, perché qualcun altro avrebbe dovuto riconoscere del buono in me?

Mi sforzavo, m’impegnavo ma non arrivavo mai al traguardo.

Bonnie era maledettamente complicata.

Una creatura pura, incontaminata, priva di qualsiasi malizia. Spendeva sempre parole gentili per tutti, non augurava mai il male ad altri, nemmeno al suo peggior nemico. In lei non c’era traccia di corruzione o desiderio d’imporsi.

Tutte le ragazze con cui ero stato, avevano sempre sentito una certa curiosità per il mio lato più oscuro e misterioso, perfino la compassionevole Elena era rimasta intrigata dalla vita passionale e travolgente che avrebbe potuto condividere con me. Si era trattato di una piccola scintilla, consumatasi sul nascere, ma almeno aveva dato qualche segno.

Bonnie era fin troppo integra per lasciarsi ammaliare.

Si era un po’ ammorbidita perché le avevo fatto credere di poter essere migliore. Nella realtà rimanevo il solito viziato, sfrontato, cattivo ragazzo. Lei si sarebbe sempre fermata un secondo prima di baciarmi, non mi avrebbe mai accettato fino in fondo.

Non ero una persona per bene.

Nonostante ne fossi consapevole, il mio immenso egoismo m’impediva di arrendermi. Il buon senso mi diceva di lasciarla stare, ma non ero un tipo particolarmente razionale.

“Damon, volevi vedermi?”. Elena si sedette di fronte a me al tavolo.

Avevo richiesto i rinforzi.

 

“Finalmente quella vipera è tornata a strisciare nel suo buco!” esultò Caroline.

“Che linguaggio nobile. Hai letto Shakespeare ultimamente?” osservò Meredith senza alzare lo sguardo dal suo libro.

“Non essere così snob” la ribeccò Caroline “Sei solo contenta che Katherine non abbia vinto”.

“Lo ammetto, non avrei sopportato la sua aria da regina del mondo”.

“E invece ho vinto io!” si compiacque Caroline “Questo finisce dritto nel mio curriculum per l’agenzia di moda che ho adocchiato”.

“Di solito funziona al contrario” la prese in giro Meredith “Sono loro che dovrebbero adocchiare te”.

“Scusami! Non tutti hanno ricevuto una borsa di studio da Harvard”.

Quel commento mi fece sentire ancora più uno schifo. Non ero molto contenta della piega che aveva preso la conversazione, perciò me n’ero tenuta fuori.

Avevo ancora poco tempo per mandare le mie iscrizioni all’università, non sapevo nemmeno che facoltà scegliere. Ero negata in matematica e non ero una grande studiosa, avevo problemi di concentrazione.

Non avevo mai avuto il coraggio di parlarne con nessuno, mi vergognavo troppo. Mio padre era convinto che avessi già inviato i moduli, le mie amiche conoscevano la verità ma non osavano per chiedere.

Senza parlare degli esami SAT*. Avevo già provato delle simulazioni e non erano andate benissimo.

Mi sentivo persa, disorientata. Il college erano molto costosi e sbagliare scelta sarebbe stato un grave peso. Non avevo speranze di ottenere una borsa di studio con i miei voti.

Per tutti quei mesi avevo provato a trovare una soluzione, ma la sola idea mi mandava in panico. Avevo parlato perfino con la consulente scolastica, senza venirne a capo.

Alla fine mi ero ridotta all’ultimo e il tempismo non era certo dei migliori.

Non avevo la mente per niente sgombra, anzi era più incasinata che mai.

Mi ero rimproverata da sola quando avevo permesso a Damon di avvicinarsi e mettermi in soggezione, gli avevo permesso di impressionarmi con le sue premure e qualche giorno prima avevo perfino condiviso un ballo.

Peggio, un momento estremamente intimo.

Se non fossi ritornata in me all’ultimo, forse mi avrebbe pure baciato. Il fatto era già di per sé grave, ma non contenta mi ero resa anche più ridicola: l’avevo fissato tutta sera.

Non ero gelosa di Caroline e ancora meno avrei voluto essere tra le braccia di quel presuntuoso; semplicemente non ero riuscita a togliergli gli occhi di dosso. Mi ero trasformata in una di quelle ragazzine che avevo tanto odiato, una di quelle che agognavano per un sorriso di Damon.

Da quando?

Era stato un gesto involontario, il che era anche peggio: almeno ne fossi stata consapevole, avrei potuto fare qualcosa per impedirlo.

Se ci si metteva in mezzo il subconscio, allora ero davvero fregata.

Non che lui mi rendesse la vita più facile. Da quando si era intestardito con me, sbucava ad ogni angolo. 

Dalla fine della scuola, mi ero trovata costretta insieme a lui in più di un’occasione. Quelle che avevo considerato coincidenze, ora sembravano parti prese da un copione.

Sinceramente dei motivi che avevo portato Damon a interessarsi a me, poco m’importava. Il vero punto della questione era: come mai io stavo ricambiando quel singolare gioco? Perché diamine non lo avevo stroncato sul nascere?

Fuori da ogni vana gloria o presunzione femminile, avevo il presentimento che sotto ci fosse qualcosa di ben più complicato.

Qualche settimana prima ero giunta alla conclusione di non odiare Damon Salvatore, ora mi stavo pericolosamente avvinando ad accettare una probabile quanto inquietante cotta nei suoi confronti.

Fantastico! Avevo piantato Matt per sostituirlo con il peggiore dei soggetti.

Tendevo troppo spesso a dimenticare che stavamo parlando dello stesso ragazzo che non avrebbe esitato un attimo a soffiare la ragazza a suo fratello, che aveva preso in giro una delle mie migliori amiche e che per anni mi aveva trattato come uno zerbino.

Ultimamente si era comportato bene, tanto da farmi pensare che l’esperienza con Katherine lo avesse davvero aiutato a crescere.

Solo che non riuscivo a capacitarmi di come quel suo cambiamento potesse aver causato un così grande turbamento in me.

Peggio ancora, non riuscivo a buttarmi alle spalle tutte le cattiverie che mi aveva gettato addosso. Potevo trovare tutte le giustificazioni, le attenuanti, ma l’immagine che avevo di Damon era sempre la stessa e non potevo scrollarmi di dosso la sensazione che alla fine, una parte di lui, sarebbe rimasta per sempre cattiva.

“Tu hai molte spiegazioni da darci, signorina!” mi apostrofò Caroline.

Fu un’affermazione che mi colse di sorpresa e saltai sulla sedia con espressione colpevole, come se mi avessero beccata con le mani nella marmellata. Avevano per caso letto nella mia mente?

“Mi hai sorpreso, in effetti” concordò Meredith “Non è da te”.

Considerando che lei intratteneva una relazione clandestina con un professore, non aveva nessun diritto di fare la predica a me per una cosa che neanche era ancora accaduta.

“Ci hai spiazzato tutte” rincarò Caroline “Di’ la verità: hai aspettato apposta il concorso. Volevi che io fossi occupata per avere campo libero. Se me ne fossi accorta, ti avrei impedito di fare una stupidata”.

“Adesso non esageriamo” provai a placarle “È stato solo un momento di debolezza”.

“Il tuo momento di debolezza ha colpito duramente Matt”.

Io sbiancai “Matt? Lo sa anche lui?”.

“Certo che lo sa! Chi pensi che ce l’abbia detto?” trillò Caroline “A fine serata non ti trovavamo più e abbiamo chiesto a Matt. Ha dovuto informarci, per forza”.

“Ma…ma…eravamo soli…non c’era nessun altro” mi allarmai “Come ha potuto accorgersene?”.

“Bonnie” mi chiamò dolcemente Meredith “Ora non stare in pensiero. Se è quello che vuoi, va bene. Mi sembra logico, però, che a Matt bruci ancora: è difficile non notare quando si viene scaricati”.

Fu come se un grosso peso si fosse levato dalle mie spalle. Non parlavamo del ballo tra me e Damon, ma della rottura tra me e Matt.

Non potevo credere di essere entrata subito in panico per un’incomprensione. Avevo qualcosa da nascondere, ero davvero arrivata al livello di dover tenere un segreto alle mie migliori amiche. Tutto ciò rendeva il mio rapporto platonico con Damon, non più tanto platonico e molto reale.

Per salvare le apparenze, mi ricomposi in fretta. Era comprensibile che Caroline e Meredith desiderassero discutere di Matt: per anni le avevo tirate matte con la mia cotta per lui e adesso che avevo finalmente raggiunto l’obiettivo, rinunciavo.

“Mi ero infatuata di un’idea” confessai. Fu un’epifania anche per me, perché non avevo mai considerato quel punto di vista “Matt è un bravissimo ragazzo ed è anche bello. Quando mi ha chiesto di uscire la prima volta ero al settimo cielo, ma qualche mese fa non avevo ancora capito che cosa volevo dalla vita”.

“E ora lo sai?” m’interrogò Meredith.

“Non voglio Matt” ammisi “Non sento le farfalle nello stomaco, non sento il bisogno di stargli accanto. Nelle settimane in cui non ci siamo parlati non ho fatto niente per sistemare le cose, stavo bene così”.

Mai una volta avevo provato a chiarire. Niente mi aveva spinto verso di lui, tutt’altro. Avevo pure flirtato palesemente con Klaus.

Eppure non ero riuscita a stare lontana da Damon.

“Lo reputo un caro amico” dissi “Temo che le mie aspettative siano stato deluse”.

“Ha fatto qualcosa per deluderti così tanto?” s’intromise Caroline.

“No, lui no” negai “Mi riferivo a me stessa. I miei obiettivi hanno preso una piega diversa”.

“Si chiama crescere, Bon” esordì Meredith.

Che fregatura.

 

Io e il caro papà non eravamo mai andati d’accordo e questo era risaputo.

Non c’era feeling tra noi, da che ricordassi.

Quando ero piccolo, lui voleva vestirmi come un damerino e io preferivo le scarpe da ginnastica.

A quattordici anni, mi aveva portato in azienda, esibendosi in una scena a mo’ di “Il re leone”, “tutto questo sarà tuo” e una settimana dopo ero quasi finito in centrale per aver fumato uno spinello.

A diciotto anni, mi aveva organizzato una grandiosa festa per la maggiore età ed era partito il giorno del mio compleanno senza nemmeno farmi gli auguri. Allora avevo spostato la festa a casa mia, che per poco non era andata a fuoco.

Avevamo interesse diversi, niente per cui prendersela tanto.

Ma mio padre non aveva mai accettato di avere generato un figlio così ribelle e poco rispettoso della sua persona.

Non avevo rispetto per lui, non l’avevo mai considerato degno.

Indubbiamente era un grande uomo d’affari. Aveva costruito un futuro e una carriera dal nulla, aveva garantito alla sua famiglia un benessere e un prestigio di rilievo.

Umanamente parlando, però, era una merda. Perfino con Stefan, il suo figliolo prediletto.

O eri con lui o contro di lui. Non esisteva comprensione o via di mezzo.

Mi odiava perché ero la sua delusione più grande. Aveva risposto le sue più rosee aspettative in me e quando si era accorto che mai avrei potuto soddisfarle, aveva scelto di ripudiarmi. Non legalmente, ma affettivamente.

Mi aveva escluso dal suo amore (se mai gliene fosse rimasto un briciolo), dalla sua stima, dal suo interesse, perfino dalla sua cortesia.

Gli importava solamente dell’impressione che suscitavo negli altri, e dato che la maggior parte delle volte davo il peggio (o il meglio, a seconda delle opinioni) di me, eravamo sempre in rotta, costretti a litigare, a scontrarci.

Entrare in casa mia mi dava, di conseguenza, la nausea. In un modo o nell’altro mio padre spuntava fuori da ogni angolo, a qualsiasi ora.

Ultimamente aveva preso l’abitudine di chiamarmi. Per mesi non si era fatto sentire, e adesso sembrava aver immediata urgenza di parlarmi.

Non avevo mai risposto. Io non avevo alcuna intenzione di sprecare il mio tempo. Sapevo per certo che nessuno dei miei famigliari era in pericolo di morte, per cui non era necessario nessun contatto tra noi.

Purtroppo per me, avevo stupidamente dimenticato alcuni libri in camera mia e mi servivano per le lezioni.

Non avevo altro scelta che entrare in casa mia e riprenderli.

Mi soffermai un attimo a osservare il portico di Bonnie. Mi ricordai una sera di fine estate, quando avevo cercato qualche informazione piccante sull’estate che lei e Elena avevano passato in Spagna. Mi sembravano secoli fa.

La chiacchierata con il mio angelo si era rivelata parecchio utile. Quella ragazza aveva sempre avuto la capacità di farmi vedere le cose sotto un’altra prospettiva.

Ma ora non avevo il tempo di occuparmi di Bonnie.

Nel vialetto di fronte alle mia villa, era posteggiata la macchina di mio padre. Considerai di girare la mia auto e tornare un’altra volta.

Avevo davvero bisogno di quei libri e non potevo continuare a evitare mio padre. Non valeva niente per me e mi dovevo comportare di conseguenza.

Io non avevo paura di affrontarlo.

Era seduto sulla sua solita poltrona a studiare delle carte, presumibilmente per il suo lavoro.

Quando mi udì entrare, alzò il viso e mi osservò come sei avesse visto un fantasma.

Posò i suoi documenti sul tavolino di vetro di fronte e si tirò in piedi, venendomi incontro.

“Hai ricevuto i miei messaggi?” disse.

Sollevai un sopracciglio. Immaginai che parlasse dei messaggi che aveva lasciato nella mia segreteria, quelli che avevo cancellato.

“Sei qui per questo?”.

“Mi servono dei libri che ho dimenticato” lo gelai, lapidario.

Parve deluso dalla mia spiegazione. Si riscosse in fretta, riappropriandosi della sua espressione fredda e autoritaria “Non importa. Dato che sei qui, posso dirtelo di persona. Dopo quello che mi hai detto l’ultima volta, ho fatto delle indagini, chiesto in giro: sembra che tu ti sia davvero dato una regolata con gli esami, con ottimi risultati aggiungerei” affermò fieramente “Non so se siano state le mie parole o la paura di perdere i soldi, ma almeno ho raggiunto il mio scopo. Un patto è un patto: tu hai fatto la tua parte, quindi non dovrai più preoccuparti delle tasse finché terrai questo ritmo. Ma ho un’altra richiesta: pranzerai qui tutte le domeniche. Non mi piace essere argomento di conversazione nei salotti della città. Da quando te ne sei andato, la gente ha messo sempre più il naso nei nostri affari. La famiglia deve stare unita. Non posso più accettare le voci che mi sono giunte all’orecchio”.

Rimasi scioccato, quasi pietrificato dalla mente calcolatrice che si svelava dietro quelle parole. Scossi la testa, rassegnato.

“Certo che no: come può un padre di merda ammettere di essere effettivamente un padre di merda?” gli chiesi con tono provocatorio.

“Bada al tono, ragazzino” mi rimproverò subito.

“Puoi scordatelo” urlai “Come puoi scordarti di vedermi qui tutte le domeniche per salvare le apparenze. Non siamo una famiglia perfetta e tutti lo sanno”.

“Damon, non stiamo trattando, non era un invito. Ti sto comunicando quello che accadrà nelle prossime domeniche della tua vita”.

“Non ho nessuna intenzione di tornare in questa casa per un tuo capriccio”.

“Sono tuo padre. Farai quello che ti dico. Mi rifiuto di assecondare il tuo orgoglio” disse perentorio. Mi voltò le spalle per tornare ai suoi documenti.

Un fremito di rabbia di percorse. Lui aveva finito, io non avevo ancora cominciato.

“Smettila di fare il santo, non se la beve più nessuno. La tua richiesta è la cosa più infima che abbia mai ascoltato. Non solo mi rivuoi in casa per mettere a tacere le voci che girano su di te, ma nemmeno me l’avresti chiesto se non avessi ottenuto il mio successo all’università. Vuoi solo sbandierarmi come un trofeo ai tuoi amici. Tu non sei mio padre, sei solo quello che mi ha dato il cognome. Puoi anche riprendertelo per quanto mi riguarda” mi parve di sputare veleno. Da una parte mi sfogavo, dall’altra sentivo il disperato bisogno di fargli male, fargli terribilmente male “Sei un fallimento come padre, come uomo. Non sai che cosa sia una famiglia, non hai mai fatto nulla per noi. Hai tenuto un comportamento un po’ più decente con Stefan solo perché ti è venuto dietro. Sei stato anche un fallimento come marito. Ricordo che la mamma piangeva sempre, eravamo sempre io e lei. Tu dov’eri? Magari a farti la segretaria!”.

Lo vidi diventare paonazzo. Mi puntò il dito contro “Non ti permettere. Tu non sai niente di me e di tua madre!”.

“E tu che cosa sapevi di lei? Non la conoscevi, altrimenti non l’avresti lasciata sola” lo accusai “Ho sempre incolpato Stefan, ma forse sei stato tu a farla ammalare. L’hai logorata, le hai tolto la voglia di vivere. Sarebbe stata meglio senza di te, tutti noi saremmo stati meglio! Perché non sei morto tu? Perché tu hai ancora il diritto di respirare, quando lei sta sotto tre metri di terra?”.

Avevo esagerato. Ne ero consapevole, ma non me ne pentivo.

Se le meritava, se le meritava tutte.

Me ne andai in camera, senza guardarmi indietro.

 

Tornai a casa tardi quella sera.

Ormai era diventata un’abitudine passare le ore in biblioteca dopo la scuola. Gli esami SAT si avvicinavano e mi serviva un punteggio abbastanza alto per entrare in un college decente.

Appena mi chiusi la porta alle spalle notai che qualcosa non quadrava: le stanze erano buie e silenziose. Sembrava che mio padre non fosse nemmeno tornato dal lavoro.

Eppure, a giudicare dall’ora, doveva aver finito da un pezzo.

Controllai sul cellulare se mi avesse chiamato o mandato un messaggio per avvisarmi del ritardo, ma constatai che la batteria si era scaricata. Nemmeno restava acceso.

Mi ero immersa talmente tanto nello studio da non accorgermene neanche. Mio padre sicuramente mi aveva chiamato decine di volte senza ricevere risposta. Mi aspettava una bella lavata di capo.

Accesi la luce del salotto e presi il cordless dal tavolino. Salii in camera mia dove attaccai il mio cellulare alla presa elettrica, mentre con il telefono fisso digitavo il numero di mio padre.

Questa volta fui io a non ottenere risposta. Immaginai che avesse avuto un’emergenza al lavoro, non ci feci molto caso.

Quello che catturò la mia attenzione fu una luce accesa in casa Salvatore, la luce della stanza di Damon. Mi stranii, dato che nessuno l’abitava ora che Klaus era tornato in Inghilterra e il legittimo proprietario si era trasferito al campus.

Il telefono squillò.

“Bonnie?”.

“Papà, ero in biblioteca. Si è scaricato il cellulare”.

“Sono in ospedale”. Pareva che non mi avesse neppure ascoltato.

“Sì, lo sospettavo”.

“È accaduto un incidente: Giuseppe si è sentito male” mi rivelò.

“Male?” chiesi con voce sempre più allarmata “Quanto male?”.

“Ha avuto un infarto”.

Trattenni il respiro e involontariamente mi girai a guardare fuori dalla finestra, verso quella luce accesa al piano superiore di Villa Salvatore.

“Stefan è qui in sala di aspetto. Elena è con lui”.

“E Damon?” domandai a bruciapelo.

“Non è qui. So che è stato lui a chiamare l’ambulanza, ma non si è ancora presentato” sospirò “Faresti meglio a raggiungerci. Stefan ha bisogno di te”.

“Arrivo subito”. Interruppi la chiamata.

Mi precipitai nuovamente in salotto in cerca della giacca che avevo abbandonato poco prima. La indossai e uscii con la borsa sotto braccio.

La macchina mi aspettava nel vialetto. La osservai per qualche secondo, indecisa, combattuta. Stefan mi attendeva all’ospedale, gli serviva la sua migliore amica. Ma Stefan aveva già Elena con sé e c’era un nome nella mia testa che non riuscivo a dimenticare.

Cominciai a muovere qualche passo, quasi involontariamente, poi con sempre più convinzione finché non mi trovai davanti alla porta di casa Salvatore.

Estrassi dalla mia borsa le chiavi di riserva ed entrai: una luce filtrava giù dalla scale; appena chiusi la porta, si spense.

Lasciai la tracolla lì a terra e salii velocemente i gradini. Mi diressi verso la stanza di Damon, ora immersa nel buio. Procedetti a tentoni, guidata dalle luci dei lampioni della strada.

La porta era spalancata, ma non potei vedere niente. La mia mano strisciò sulla parete in cerca dell’interruttore.

Venni fermata da un ordine.

“Non farlo” mi disse “E vattene”.

“Damon” sussurrai. Riuscivo a scorgere il profilo della sua figura, allungata sul letto.

“Non ti avvicinare”.

“Damon, non dovresti essere qui” lo rimproverai.

Ci furono minuti d’interminabile silenzio, poi un sospiro affannato.

Corrugai la fronte. Fu un suono che mi preoccupò.

“È tutta colpa mia” ammise con voce rotta “L’ho quasi ucciso”.

M’inginocchiai accanto a lui e allungai una mano fino a sfiorargli una guancia. Si ritrasse con uno scatto, ma avvertii comunque le mie dita bagnarsi: stava piangendo.

Aveva spento la luce perché non voleva che lo vedessi piangere.

Stavo per chiedere maggiori informazioni. Damon mi precedette, come un fiume in piena.

“Abbiamo litigato, pesantemente” precisò “Ho detto delle cose orribili. Quando sono sceso da camera mia, l’ho trovato riverso a terra”.

“Perché non sei in ospedale?”.

“Non ho potuto” mormorò “La mia sola presenza gli darebbe il colpo di grazia”.

“Sei suo figlio, Damon” gli ricordai, stringendogli la mano.

Lui non si sottrasse al mio tocco, ma replicò con una nota di panico “Mi odia, mi ha sempre odiato. Adesso l’ho quasi mandato nella tomba, come pensi che mi accoglierà? Gli ho detto che avrei volentieri scambiato la sua vita con quella di mamma. Le mie parole hanno lacerato quello che era rimasto del suo cuore”.

“Non incolpare te stesso, non darti pena. È la tua famiglia. Il tuo posto è là con loro, con Stefan. Dovete stare uniti adesso”.

“L’ho accusato per anni di essere stato la causa della morte di nostra madre. E adesso ho mandato il nostro unico genitore in ospedale. Mi detesterà, mi disprezzerà”.

“Stefan ti adora” lo corressi.

“Gli ho reso l’esistenza un inferno. Come si può voler bene a uno come me?”.

Quella domanda mi gelò come una fredda mattina d’inverno. Per poco faticai perfino io a respirare, colta da un’opprimente malinconia.

Gli lasciai la mano e mi sedetti sul letto. Lo abbracciai, cingendolo delicatamente per paura che sfuggisse al mio conforto. Non si oppose. Nascose il volto nei miei capelli e si schiacciò contro di me, come se avesse paura che qualcosa mi portasse via da lui.

“Non è difficile volerti bene” lo rassicurai “Stefan è tuo fratello e non potrebbe sopportare che voi foste divisi per sempre. Ti vuole bene più di chiunque altro al mondo”.

“Allora perché mi abbandonano tutti?”.

“Nessuno ti ha abbandonato. Siamo qui per te” esitai un attimo prima di concludere la frase “Io sono qui per te e starò qui finché non ti convincerò a seguirmi in ospedale”.

“Rimaniamo qui ancora per un po’, per favore” mi supplicò “Soltanto qualche altro minuto. Non ho la forza di muovermi”.

“Damon” lo chiamai con un soffio di voce.

“Ho paura di lasciare questo letto, ho paura che farò ancora del male a qualcuno”.

“Ti prometto che andrà tutto bene” gli disse all’orecchio “Non sei da solo. Senti, vero? Di non essere da solo?”.

Annuì debolmente “Hai detto che Stefan è già in ospedale”.

Glielo confermai.

“Che cosa ci fai qui? Non dovresti essere con lui?”.

“Ti dispiace  che io sia qui con te?”.

“No” ammise, dopo una lunga pausa.

“Immagino che il resto non abbia importanza, allora” supposi.

Non parlammo più, non indagammo oltre.

Restammo abbracciati e stretti a lungo, aggrappati uno all’altro, non solo in senso fisico.

Non seppi dire quando Damon finalmente si decise a lasciare quel letto. Seppi solo che non lasciò mai la mia mano.

 

Il mio spazio:

Ultimamente mi trovo ad aggiornare a orari improponibile. Ma è ora o mai più.

Questo capitolo è stato parecchio complicato da scrivere, ci sono state un paio di scene che non sapevo bene come affrontare.

Spero di non aver toppato in pieno, spero di essere rimasta comunque delicata su certi argomenti.

Per sollevarvi il morale, ho un’ottima notizia.

Pronte?? Oddio, magari qualcuna di voi lo sa già!

Lisa Jane Smith continuerà la sua versione del “Diario del vampiro”. Pubblicherà sotto forma di fan fiction grazie a un’iniziativa di Amazon. Vi lascio qui sotto il link del suo sito ufficiale:

http://www.ljanesmith.net/

E sì, Bonnie avrà un ruolo più centrale e sì, Damon non perderà il suo interesse per lei come nei libri della ghost writer.

Il banner è sempre di Bumbuni.

Ora vi saluto, sono stanca morta!

Non dimenticate di lasciarmi i vostri pareri. Adoro sentire le vostre opinioni e discuterne con voi. Vi ringrazio tantissimo!

Buona notte, care!

 

*I SAT sono dei test che i ragazzi dell’ultimo anno svolgono per accedere ai college statunitensi. Mi sa, tra l’altro, che le domande d’iscrizione devono essere mandare entro gennaio o forse anche prima. Qui siamo un po’ in ritardo, ma prendetela come una licenzia poetica.

 

Ps: domani giuro che rispondo alle vostre recensioni ;)

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Capitolo 21
*** Family business ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo ventuno: Family business.

 

Five hundred twenty-five thousand six hundred minutes
Five hundred twenty-five thousand moments so dear
Five hundred twenty-five thousand six hundred minutes
How do you measure, measure a year?
In daylights, in sunsets
In mid nights, in cups of coffee
In inches, in miles, in laughter, in strife
In five hundred twenty-five thousand six hundred minutes
How do you measure a year in the life?
How about love?”
(Season of love- da “Rent”).

 

Così entrammo in ospedale. Con le mani ancora intrecciate.

Ero un po’ più indietro: non gli lasciavo la mano ma non osavo nemmeno affiancarlo.

Sapevo quanto fosse difficile per lui varcare quei corridoi. Non bastava la preoccupazione per le condizioni di suo padre a tormentarlo, si aggiungeva anche la paura di essere rifiutato, accusato, disprezzato.

La sua andatura era incerta, i suoi occhi vulnerabili trasmettevano un qualcosa d’infantile: come un bambino che sa di aver combinato un guaio e comunque ostinatamente sente il bisogno di cercare la mamma.

Me ne stavo in posizione defilata per non impormi sul suo animo già di per sé molto volubile. Rimanendo indietro, lasciavo a lui la scelta, gli permettevo di credere che fosse lui il padrone della situazione, che avrebbe potuto in qualsiasi momento cambiare idea, prendersi il suo tempo.

Non aveva parlato durante il tragitto in macchina. Aveva guidato in maniera estremamente lucida, quasi fredda, senza frenate brusche, o strappi al semaforo.

Una condotta calma e attenta, che mi aveva quasi indotto a credere che Damon, dopo il suo sfogo, si fosse nuovamente rinchiuso in se stesso.

Quella era la peggiore delle mie paure, perché un atteggiamento simile, in una tale situazione, lo avrebbe distrutto.

D’altra parte consideravo già un miracolo che avesse pianto di fronte a me, che mi avesse confidato i suoi sensi di colpa e rimorsi. Forse si era trattato solo di un momento, forse aveva solo ceduto alla debolezza.

E adesso poteva finalmente tornare a indossare la maschera.

Non lo biasimavo, comunque: non so che cosa avrei fatto se fosse successo qualcosa di grave a mio padre, men che meno se ne fossi stata la causa.

Era comprensibile che Damon credesse di avergli provocato l’infarto. Da ciò che mi aveva raccontato, la lite era stata furibonda.

La rabbia aveva dettato quelle parole velenose, ma la giustificazione non rendeva meno amara o tragica la situazione.

Se Giuseppe non si fosse rimesso, Damon sarebbe colato a picco con lui.

Gli strinsi la mano più forte mentre entravamo in ascensore, per infondergli un po’ di coraggio, e lo osservai. Ma lui non ricambiò il mio sguardo, continuando a fissare dritto davanti a sé.

Mi morsi il labbro, un improvviso disagio mi colse, al ricordo delle parole di Damon su suo padre e Stefan: aveva riconosciuto i suoi sbagli, in una sorta di confessione liberatoria.

Lo avevo ascoltato in silenzio. Più lui parlava, più mi rendevo conto che avrei dovuto puntare verso me stessa un grosso dito di accusa.

Non che Damon si fosse mai comportato da santo, ma stupidamente non mi ero mai sforzata di guardare oltre. Stupido e ignorante, così lo reputavo.

Avevo lasciato che m’ingannasse, senza mai accorgermi della montatura che aveva architettato nel corso degli anni, tanto da renderla la sua verità.

Damon non si era pentito di aver trattato come uno sconosciuto suo fratello, mq se ne vergognava. Il suo orgoglio gli aveva sempre impedito di provare a cambiare e l’imbarazzo lo avevo convinto a non svelare mai se stesso.

Non credeva che qualcuno lo avrebbe mai perdonato, forse perché a ruoli invertiti lui avrebbe serbato rancore per sempre, o forse perché per primo non si era ancora perdonato.

Ed eccomi lì, chiusa in un ascensore con quello che avevo sempre considerato il mio peggior nemico, a provare un immenso dispiacere per lui.

E a darmi della stupida, cosa ancor più grave.

Volevo spezzare quell’opprimente silenzio, ma non osai. Mi sembrava di tenere per mano una bomba pronta a esplodere e non un essere umano.

Adesso ero io a provare vergogna. Poche persone si sarebbero fatte i miei stessi scrupoli, quasi nessuno si sarebbe tormentato come stavo facendo io.

Sentivo di aver contribuito ad aggravare in peso che stanziava sulle spalle di Damon, di certo non mi ero mai preoccupata di alleggerirlo.

Parlare mi appariva inopportuno e quasi non avevo il coraggio.

Desideravo con tutto il cuore rassicurarlo, ma qualsiasi modo mi sembrava inadeguato.

Potevo fare ben poco, qualunque mio tentativo non sarebbe servito a nulla.

Damon aveva bisogno di una sola cosa: la sua famiglia.

Aveva bisogno di essere abbracciato, di essere accolto. Solo Stefan e Giuseppe potevano donargli un po’ di pace. Solo loro potevano finalmente farlo sentire davvero amato.

Non mi esprimevo su Giuseppe, ma avevo piena fiducia in Stefan: ero certa che non l’avrebbe mai abbandonato.

Damon chiaramente non riusciva proprio a sperare che qualcuno lo accettasse, nonostante i suoi errori.

Nessuno di noi si era mai impegnato, e neppure interessato, a conoscerlo veramente. Solo Elena lo aveva sempre difeso, inutilmente. Immagino che per Damon fosse in ogni caso una magra consolazione, dato che lei aveva scelto Stefan.

Lanciai ancora una veloce occhiata nella sua direzione: aveva la mascella contratta e le labbra tirate. Sospettavo che stringesse la mia mano solo per non prendere a pugni le pareti dell’ascensore che sembrava proprio non voler affrettare la sua salita.

Mossi le dita, sfilandole leggermente dalla sua presa. Non era obbligato a tenermi la mano, gli stavo dando una via d’uscita.

Ma lui mi riagguantò prima che potessi defilarmi del tutto. Mi fece un po’ male, impresse troppa pressione. Rimasi in silenzio e sopportai.

Aveva bisogno di percepire del contatto umano.

Mi domandai da quanto non ricevesse un abbraccio. Probabilmente da molto tempo. Probabilmente neanche conosceva il vero significato di un abbraccio: aveva scelto una vita in solitudine, lontano dal calore di una vera famiglia.

Aveva perso la mamma da piccolo, ma non poteva neppure dire di aver calmato la mancanza con l’affetto di un fratello o di un padre.

Colpa in parte sua, senza dubbio. In quella circostanza così drammatica, però, veniva spontaneo chiedersi: e se avessi agito diversamente?

Se invece di ripetere a Stefan che suo fratello era ovviamente un demone degno del suo nome, lo avessi incitato a stargli vicino?

Ero stata cieca a ritenere che Damon non lo volesse e adesso avevo l’impressione di stare accanto a una persona decisamente migliore. Migliore di ciò che avevo creduto, migliore di ciò che aveva mostrato.

Quando, finalmente, le porte dell’ascensore si aprirono, Damon camminò deciso verso il corridoio di terapia intensiva.

Ne rimasi stupita, dato che fino a un istante prima mi aspettavo di vederlo correre nella direzione opposta. Gli stavo dietro un po’ a fatica e un paio di volte rischiai di pestargli i piedi. Aprii la bocca per dirgli di rallentare o di mollarmi, quando girammo l’angolo, trovandosi davanti a Elena e Stefan, seduti uno di fianco all’altra.

“Damon!” esclamò Stefan saltando in piedi “Io…sai, temevo che…ti ho chiamato più volte, non sapevo se…”.

Fu in quel momento che lasciò la mia mano per posarla sulla spalla di Stefan “Sono qui”.

Il mio migliore amico nemmeno si era accorto che eravamo entrati mano nella mano. I suoi occhi erano lucidi e tristi, ma nel vedere il fratello si erano accesi nuovamente.

A Elena invece non era sfuggito quel particolare e mi studiava con fronte corrugata.

Non fare quella faccia. Sono più sorpresa io di te.

Passarono pochi minuti e sopraggiunse anche mio padre con una cartella tra le mani.

“Sono felice di vederti, ragazzo mio” disse “Mi hanno chiamato dalla segreteria dell’ingresso per avvisarmi che eri arrivato” continuò. I suoi occhi guizzarono su di me “Gattina, non sapevo che ci fossi anche tu”.

“Era con Damon, signor McCullough. Sono venuti insieme” spiegò Elena con un tono un po’ forzato, come se volesse sottintendere qualcosa.

Per caso aveva cominciato a fare comunella con mio padre?

“Come sta?” chiese Damon, ignorando completamente e saggiamente la questione del ‘Si sono presentati assieme’.

“Ha avuto un piccolo infarto. Non ti mentirò dicendoti che non è grave. È una cosa seria, dovremo tenerlo qui per qualche giorno, ma è fuori pericolo di vita: tra una settimana tornerà a essere il solito brontolone”.

“Possiamo vederlo?”  disse Stefan.

“Ora sta dormendo” spiegò mio padre “Fareste meglio a tornare a casa e riposare. Vi chiamerò non appena di sveglierà”.

“No” obiettò Stefan “Io resto qui”.

“Possiamo vederlo?” ripeté la domanda Damon.

Papà annuì e fece cenno con il capo di seguirlo.

Stefan si voltò verso Elena e l’abbracciò “Non c’è bisogno che resti qui. Domani abbiamo scuola, va’ a dormire” le consigliò dolcemente.

“Non mi va di lasciarti solo” si oppose lei.

“Non sono solo” la rassicurò “Va’ a casa. Andate tutte e due” aggiunse e abbracciò anche me “Grazie per averlo convinto a venire” mi sussurrò all’orecchio.

Gli sorrisi distrattamente. La mia attenzione era tutta concentrata su suo fratello: Damon non disse una parola, si affrettò solo a seguire mio padre.

Cercai di nascondere la delusione per essere stata liquidata senza nemmeno un ringraziamento o un saluto.

Non ebbi il tempo di elaborare bene ciò che era successo, perché Elena mi prese sotto braccio e mi trascinò verso l’uscita.

“Credo che dovrei stare qui ancora un po’, aspettare mio padre” obiettai, guardandomi indietro “Non ho la macchina…”.

“Ti porto a casa io” rispose Elena, tirando dritto.

“Preferirei non sparire così” provai a ribattere, debolmente.

“Hanno bisogno di rimanere da soli, Bonnie” replicò lei “È una questione di famiglia”.

“Ma…Elena, non possiamo mollarli lì così”.

“Hai sentito che cosa ha detto Stefan, giusto?” insistette “È un momento delicato e non sarebbe giusto intrometterci. Entrambi sanno che noi siamo qui per loro, ma non ci hanno chiesto di rimanere. La nostra presenza non serve”.

Ammisi che aveva ragione. Né Damon né Stefan avevano dato segno di aver bisogno del nostro sostegno, non ora che erano finalmente insieme.

Restare sarebbe stata solo un’imposizione. Non potevo rovinare l’unica occasione che avevano per parlarsi apertamente e sinceramente.

Non sapevo nemmeno spiegare perché mi fossi intestardita fino a quel punto. Avevo già fatto tanto, avevo portato Damon in ospedale, gli avevo dato la forza di affrontare una delle sue più grandi paure. Stefan se n’era accorto, mi aveva ringraziato.

Eppure non mi sembrava abbastanza.

“Sali in auto, Bon” m’incitò Elena “È giunta l’ora, per te e per me, di fare una bella chiacchierata. E non mi scappi questa volta” concluse, chiudendo le sicure della vettura.

“Riguardo cosa?”.

“Non fare la finta tonta” mi rimproverò “Damon non si fa trovare per ore e poi compare con te a fianco? Mano nella mano per giunta”.

“Beh, la situazione era seria. Mi sembrava educato…si fanno certe cose in casi del genere, no?”.

“Bonnie McCullough, provi qualcosa per Damon?”.

 

O lei era impazzita oppure io avevo le allucinazioni.

Liberai una risatina imbarazzata “Non dire stupidaggini. Come ti è venuto in mente?”.

“Che cosa ci facevi con Damon?” proseguì il suo interrogatorio.

“Frena l’immaginazione, Elena” la stroncai “Dopo aver ricevuto la telefonata di mio padre, mi sono accorta che la luce della camera di Damon era accesa. Sai com’è fatto: non appena accade qualcosa di brutto, come minimo dà di matto. Ero preoccupata che stesse spaccando tutta casa o qualcosa del genere. L’ho trovato nella sua stanza, disperato. Allora sono rimasta con lui”.

“Un mese fa non saresti entrata in quella camera neanche con un fucile puntato alla schiena” osservò Elena, scettica.

“Questo non è vero!” m’indignai “Io non sono un’insensibile. Non potrei mai gioire delle disgrazie di qualcun altro”.

“Non ho detto che ne avresti gioito, ho detto che non l’avresti aiutato”.

“Altra cosa falsa: non ho mai sbattuto la porta in faccia a Damon quando ha avuto bisogno”.

“E ultimamente è successo spesso, vero?” insinuò.

Ignorai il suo ultimo commento. Cercai di smorzare l’argomento, cercai di attribuirgli poca importante, perché chiunque avrebbe agito come me.

“Senti, mi sarei comportata ugualmente se al posto di Damon ci fosse stata tua sorella, va bene? Non vedere cose che non ci sono”.

Parve finalmente arrendersi e riportò la sua attenzione sulla strada, tacendo per un paio di minuti.

Pensavo davvero di aver scampato la ramanzina, almeno per quella sera. Mi sbagliavo, mi sbagliavo di grosso.

“Sono quasi offesa, Bonnie” mi disse seriamente “Credevo di essere la tua migliore amica”.

E adesso che cosa c’entrava?

“Lo sei” risposi con ovvietà.

“Evidentemente non ti fidi abbastanza o te ne vergogni e non so quale sia peggio”.

“Sto facendo fatica a starti dietro” ammisi, senza avere la più pallida idea di che cosa stesse parlando.

“Avrei preferito che me lo confidassi tu, non qualcun altro”.

Probabilmente si accorse del mio sguardo vacuo e della mia totale confusione sull’oggetto della discussione. Ci mise un secondo a chiarire “Intendo quello che è successo durante il concorso di Miss Fell’s Church”.

Ben decisa a non farmi ingannare com’era capitato con Caroline e Meredith, pronunciai subito il nome di Matt, pronta a raccontare le ragione della nostra rottura.

Elena mi bloccò ancor prima che io potessi terminare la prima frase.

“Scusa per la brutalità ma non m’interessa di Matt. M’importa molto di più del ballo tra te e Damon, del vostro quasi bacio. Oppure vogliamo discutere di quando vi siete effettivamente baciati, anche se da quanto mi è parso di capire tu non eri molto collaborativa in quel frangente”.

Mi sentii come se tutto il sangue nelle mie vene si fosse congelato. Altri paragoni particolarmente azzeccati e altrettanto banali erano: come se mi avessero tolto la terra da sotto i piedi o come se il mondo mi fosse crollato addosso.

Comunque l’avessi messi, il concetto rimaneva lo stesso: paralizzata, sbigottita, intontita e tremendamente spiazzata.

“Elena” mormorai con un fil di voce “Tu come sai queste cose?”.

“Me le ha dette Damon”.

Perfetto, ora avvertivo anche un principio di svenimento.

Forse allontanarsi dall’ospedale non era stata una grande idea.

“Era un modo per farti ingelosire?” mi scandalizzai “Mi stava prendendo in giro? Sicuramente si sarà vantato di come sono caduta ai suoi piedi. Quel pallone gonfiato…”.

Elena scosse la testa e sbuffò “Santo Cielo, è peggio di quanto pensassi”.

“Non fidarti di quel presuntuoso. Scommetto che ogni sua parola è una bugia”.

“Bonnie” disse il mio nome con estrema lentezza “Il suo racconto è stato piuttosto dettagliato, non ha lasciato nulla sottinteso e…come dirtelo senza sconvolgerti troppo?”.

“Ho già capito tutto, tranquilla. Quando suo padre si riprenderà…”.

“È cotto di te” sparò a bruciapelo.

Mi ammutolii, frastornata “Cosa?”.

“Damon è cotto di te” ribadì il concetto “Chiaramente non ha usato queste parole, ma…insomma, ce l’aveva scritto in faccia”.

“Scusami Elena, ma com’è diamine saltato fuori questo discorso?”.

“Mi ha chiamato lui, voleva dei consigli. Ti posso assicurare che è ben consapevole della repulsione che hai nei suoi confronti: non si è inventato niente Bon, ha ammesso che il suo pluri-provato fascino da playboy con te non funziona”.

“È solo una fase” sminuii io “Katherine l’ha piantato e si è attaccato alla prima ragazza sotto mano. Non è cotto di me, è annoiato e single. Probabilmente lo intriga solo il fatto che io sia la prima a non cedere alle sue lusinghe”.

“Wow, non mostrare troppo la buona opinione che hai di lui, mi raccomando” mi rimproverò con evidente ironia.

“Damon non è mai stato buono con me. La mia diffidenza è totalmente giustificata” replicai con un mezzo cipiglio.

“Ti è venuto a riprendere nel bosco. Ti ha portato a casa quando ti sei ubriacata alla festa di Tyler. Ha impedito che le voci su tua madre si spargessero per la città dopo che Katherine l’ha urlato ai quattro venti. Onestamente, mi sembra che stia cercando di rimediare ai suoi errori in maniera egregia”.

“Ti ha raccontato lui queste cose?” domandai.

“Sì. Sono forse false?”.

“No” disse subito. La curiosità mi stava divorando “E che cos’altro ti ha detto?”.

“Ha ammesso particolari interessanti. È stata una sorpresa sentirli dalla bocca di Damon. Ha cominciato con la vostra gita ad Atlanta, la prima volta in cui si è accorto di trovarsi davvero bene con te. Ha detto di aver rovinato tutto baciandoti e che si è preso uno schiaffo. Poi ha parlato del rapporto tra te e Klaus, e di come l’ha messo in crisi, specialmente quando vi ha visti insieme a Capodanno. Quello è stato un grande campanello d’allarme, perché lui stava con mia sorella e non avrebbe dovuto sentirsi geloso di qualcun’altra. Quando ha scoperto il doppiogioco di Katherine è rimasto più ferito nell’orgoglio che nel cuore. In effetti l’ha superata abbastanza bene e abbastanza in fretta per essere Damon” commentò con un sorriso compiaciuto “Alla fine mi ha confessato di averti sempre in testa e non sa come comportarsi perché non ha speranze con te. Voleva ascoltare il parere di qualcuno che ti conosce davvero”.

“E tu che cosa gli hai risposto?”.

“Che quando si tratta di te, l’arma migliore è la sincerità. Tu conosci tutti i suoi trucchetti con le ragazze, i suoi giochi mentali. Finché non ti parlerà onestamente, non gli crederai mai, anzi sarai convinta che ti sta solo prendendo in giro come ha fatto con tutte le altre”.

 

Non entrammo nella stanza. Ci limitammo a osservarlo dalla vetrata.

Dormiva, mentre una macchina monitorava la sua attività cardiaca. Così quieto e inerme, talmente diverso dall’uomo che avevo imparato a detestare e in parte a temere.

Adesso non faceva più tanta paura, e suscitava più pena che odio.

Una persona tanto potente e rispettata, ma in fondo sola, sola come un cane. Non eravamo poi tanto diversi, noi due.

Io l’avevo ridotto in quello stato così vulnerabile e avrei dato di tutto per tornare indietro e non perdere il controllo come invece avevo fatto.

La solitudine, al contrario, era connaturata nel suo carattere. Allontanare gli affetti e chiudersi in se stesso era due delle sue più sviluppate abilità.

Con estremo orrore, mi accorgevo di assomigliargli sempre di più.

Gettai un’occhiata verso Stefan che se ne stava ritto accanto a me, talmente silenzioso che quasi potevo sentire i suoi pensieri.

Prima o poi doveva giungere il momento di parlare, ma onestamente non sapevo nemmeno da dove cominciare.

Non dalle scuse, poco ma sicuro. Non era mia abitudine scusarmi e mi serviva  del tempo, molto tempo, per elaborare l’idea.

D’altra parte non avevo altra scelta che raccontare a Stefan della nostra litigata. Meglio ascoltare la verità da me, piuttosto che da nostro padre.

Una volta sveglio, avrebbe puntato subito il dito contro di me. Io non avevo alcuna intenzione a passare per un vigliacco.

Guardai ancora Stefan e per la prima volta in vita mia, avvertii l’irrefrenabile istinto di comportarmi da fratello maggiore, di proteggere il mio fratellino.

Si meritava una famiglia migliore. Una famiglia che nonostante le liti, i contrasti, si volesse bene fino in fondo.

Stefan non aveva mai conosciuto niente che vi si avvicinasse.

Avevo ricordi sfocati del tempo passato con nostra madre, ma ero certo che fossero i momenti più felici della mia vita. Perfino mio padre all’epoca poteva definirsi una persona decente. Non troppo incline a dimostrazioni di affetto, ma almeno capace di donare un bacio sui capelli prima di andare a dormire.

Stefan, purtroppo, era estraneo a tutto ciò. Non aveva mai percepito il calore di un abbraccio materno e non aveva neanche idea che nostro padre nascondesse un lato umano.

Un lato che aveva sepolto da anni, dimenticato e probabilmente cancellato.

Solo allora, guardandolo steso in quel letto di ospedale, mi ero ricordato di quel lato, mi ero ricordato che una volta ero solito chiamarlo papà e non padre.

E se lui prima o poi si fosse ricordato che io ero suo figlio, e non soltanto una delusione vivente, forse avrei potuto perdonarlo.

Poco importavano, però, i miei sentimenti, i miei buoni propositi. Il problema non ero io, erano loro, perché non mi avrebbe mai accettato.

Dopo l’inferno che avevo fatto passare a Stefan, come potevo credere di scamparla dopo aver spedito nostro padre all’ospedale?

E soprattutto come potevo credere che suddetto padre non mi avrebbe disprezzato ancor più di quanto già non facesse?

Ero una causa persa. Senza più speranze di un riscatto.

Contemplai l’idea di aspettare il suo risveglio e poi andarmene, sfuggire ai suoi occhi accusatori. Nessuno avrebbe sentito la mia mancanza.

Ma non ero un codardo e rimasi lì ad affrontare le mie responsabilità. E il mio compito numero uno era badare a Stefan, non lasciarlo solo.

Così finalmente mi decisi a rompere il ghiaccio e a inoltrarmi nella conversazione che più mi spaventava.

“Per quanto sei stato qui, da solo?” domandai. Mi sentii uno schifo per averlo abbandonato in un momento come quello.

“Quando l’ospedale mi ha chiamato ero con Elena. Siamo venuti insieme”.

Almeno non dovevo tenermi anche quel peso sulle spalle.

“Dov’eri finito?” disse lui “Hanno detto che hai chiamato tu l’ambulanza. Perché ci hai messo così tanto ad arrivare?”.

“Ero con lui” spiegai “Cioè, non proprio con lui, ero a casa e lui era lì. Mi serviva un libro che avevo dimenticato in camera. Quando sono tornato in salotto, l’ho trovato steso a terra”.

“Non capisco: papà non ha mai avuto problemi di cuore, o almeno non ne ero a conoscenza” osservò Stefan, mesto.

“Se avesse avuto qualche problema non l’avrebbe certo comunicato a me” fu la mia replica “Ma, forse sotto una grave dose di stress e dopo un evento particolarmente provante…”.

“Evento provante? Il massimo sport che faceva era giocare a golf”.

“Beh sai…dopo una furiosa litigata, un paio di battute al vetriolo e un bell’augurio di morte da parte del proprio figlio, non stento a credere che si sia quantomeno alterato”.

Avevo provato a metterla giù in maniera ironica, ridicola. Ne era uscito un disastro.

Tenni gli occhi dritti davanti a me, ma potevo sentire quelli di Stefan puntati su di me, forse nell’intento di fulminarmi “Che cosa intendi per augurio di morte, Damon?” insinuò, pronunciando il mio nome con una nota più alta.

“Abbiamo litigato come al solito. È incominciato con lui che mi ordinava di presentarmi tutte le domeniche per pranzo ed è finito con me che esprimevo il mio forte desiderio di essere orfano di padre e non di madre”.

Stefan aprì la bocca e la richiuse un paio di volte. Stava meditando se tirarmi un pugno o urlarmi addosso.

“Oh…Damon” mormorò pallido come un cencio “È per questo che sei sparito fino adesso”.

“Non volevo dargli il colpo di grazia”.

“Ti sentivi in colpa?” s’insospettì mio fratello.

“Ma cosa…?” sbuffai incredulo “Io? No…no”.

“Damon, non sei stato tu a mandare papà all’ospedale. Di sicuro ha qualche problema cardiaco, qualcosa di cui non ci ha parlato. E poi nostro padre ama provocarti. Non te ne faccio una colpa se sei esploso”.

Annuii, un po’ incerto. Non erano le parole che mi sarei aspettato.

“Tu non lo speri davvero?” continuò lui.

“Che cosa?”.

“Che papà muoia. O che preferiresti avere qui mamma al posto suo”.

Temporeggiai. Non esistevano modi per esprimere l’immenso amore che tutt’ora provavo per mia madre. Avrei dato qualsiasi cosa per riaverla con me, per passare almeno qualche minuto nel suo abbraccio.

Qualsiasi cosa.

Ma non la vita di mio padre.

Non ero un mostro, non ero senza cuore, sebbene ci fosse molte persone pronte ad affermare il contrario. Non potevo contemplare uno scambio. Erano entrambi miei genitori.

“No” sospirai.

“Non ti torturare, Damon, non serve a niente. Tu sei il mio unico fratello, non ti accuserò”.

“È carino che tu mi consideri ancora tuo fratello, non è che mi sia mai comportato come tale” gli feci notare un po’ a disagio “So che questa non è la famiglia che vorresti, so di non essere proprio la persona più affabile del mondo, ma se per caso uno di questi giorni ti capita di passare al campus e per caso hai voglia di vedermi…beh, potrei anche essere libero per una chiacchierata”.

Mai nella vita gli avrei detto esplicitamente “Ehi fratellino, recuperiamo il nostro rapporto”, ma il messaggio sembrava chiaro comunque.

“E se per caso ti capita di annoiarti, il mio numero non è cambiato” mi rispose con un mezzo sorriso che io ricambiai.

Non ci fu molto tempo per la nostra riconciliazione: alle nostre spalle una voce proruppe in un potente insulto, riferito a me stranamente.

“Brutto bastardo che non sei altro!” ruggì Alaric “Tuo padre finisce all’ospedale e tu non ti degni nemmeno di fare una chiamata?”.

“Ric?” domandai basito “Come l’hai saputo?”.

“L’ho avvisato io” confessò Stefan “Credevo avessi bisogno di un amico. Non avrei mai immaginato che saresti arrivato mano nella mano con Bonnie”.

Allora se n’era accorto.

“E tu sei venuto?” mi rivolsi nuovamente ad Alaric.

“Certo che sono venuto, razza di coglione. Per chi mi hai preso? Solo perché sei una testa di cazzo non significa che ti pianterei in asso in una situazione simile”.

Borbottò ancora un paio di volte la parola coglione e alle fine mi tirò un pugno sulla spalla come monito per occasioni future.

Alaric era stato il primo cui avevo pensato quando avevo visto mio padre portato via in barella. Non avevo osato avvertirlo, convinto che mai si sarebbe presentato dopo la nostra litigata. Ero abituato agli abbandoni facili.

Tutti desideravano stare con me, essere miei amici, ma una volta sperimentato il mio carattere tremendamente egoista e sbruffone, svanivano più in fretta della luce.

Avevo mal giudicato Alaric e la cosa mi rincuorò. Fino a un’ora prima, mi ero convinto di aver toccato il fondo, ora c’era qualcuno che mi stava aiutando ad alzarmi.

“Damon guarda!” mi scosse Stefan, indicando la stanza attraverso il vetro, per poi affrettarsi a cercare un medico.

Nostro padre si era svegliato.

Venne visitato immediatamente. Mio fratello entrò per sentire i nuovi sviluppi, io attesi fuori con Alaric.

Non passò molto che Stefan mi raggiunse in corridoio. Non disse nulla, non servì.

Sapevo che cosa mi aspettava: papà voleva me.

Non tentennai, non questa volta. Era inutile rimandare. Se dovevo essere diseredato, meglio togliersi il pensiero subito.

Giuseppe era steso sul letto, immobile, con gli occhi fissi davanti a sé. Non mi guardò quando entrai.

Rimasi sulla porta.

“Ho sbagliato tutto con te, ragazzo” alla fine si decise a parlare e l’inizio non era dei migliori “Ti ho sempre considerato una delusione, ma anche io devo aver fallito se sei arrivato a odiarmi così tanto”.

Quest’ultima parte mi prese in contro piede. Che cosa potevo rispondere a un uomo reduce da un infarto. “No, non ti odio”.

Stupido, banale. Vero, ma comunque poco convincente.

“Oh sì invece”  replicò mio padre tirando un sorriso “Sei sempre stato difficile da gestire: hai ereditato la testa dura di tua madre, e il mio dannato orgoglio. Non siamo tanto dissimili io e te, per quanto non ti possa piacere questo fatto: noi non parliamo di sentimenti, non mostriamo emozioni o dolcezza o sensibilità. Tua madre era molto più brava di me in queste cose, conosceva  l’affetto, il calore”.

“Era abbastanza fantastica” concordai.

“Sì, lo era” annuì “Suppongo di non essere stato un bell’esempio. Ti ho in qualche modo rovinato. Un carattere ribelle come il tuo avrebbe avuto bisogno di qualcuno molto diverso da me. Tua madre sarebbe stata un modello migliore e forse hai ragione, forse uno scambio avrebbe reso tu e tuo fratello molto più felici”.

“Ero arrabbiato” mi giustificai.

“Non significa che non lo pensassi e non ti biasimo”.

Mi accorsi davvero che io e mio padre eravamo più simili di quanto avrei mai potuto immaginare: quelle erano le sue scuse e io le capivo benissimo, non avevo bisogno d’altro. Comprendevo la sua difficoltà ad ammettere gli sbagli, e ancor più la reticenza a svelare una parte di se stesso. Giuseppe non era il tipo da lasciarsi andare ai sentimentalismi, io neppure.

Non pretendevo né lacrime né parole piene di rimorso o dramma. Ciò che aveva detto era sufficiente.

“Che cosa hanno detto i dottori per il tuo cuore?”.

“Dovrò rimanere qui qualche giorno in osservazione. Hanno scoperto un piccolo problema, ma non è molto grave. Andrò avanti tutta la vita a prendere medicine” mi spiegò “Beh, mi aspettavo di peggio”.

“Resterai in giro ancora per un po’, quindi” conclusi.

“Temo che non ti sarà così facile liberarti di me”.

“Bene, allora magari c’è tempo per organizzare uno di quei pranzi domenicali di cui mi parlavi” sogghignai.

Io e Stefan passammo in ospedale la notte, con papà. La nostra non fu una conversazione particolarmente lunga. Giuseppe si addormentò dopo poco e noi vegliammo su di lui finché il sonno non ci colse.

Mi svegliai intorno alle otto. In quella stanza dormivano ancora tutti. Mi alzai dalla poltrona su cui mi ero appisolato e uscii in corridoio per sgranchirmi le gambe.

Alaric era tornato a casa la sera prima, per cui non mi aspettavo di trovare qualcuno sulle sedie delle sala di attesa.

“Bonnie?”.

Lei mi sorrise “Ho portato la colazione” disse indicando il sacchetto di Starbucks posato sulle sue ginocchia.

Mi sedetti accanto a lei “Grazie”.

Prima che potessi aggiungere o fare qualcosa, Bonnie intrecciò le sue dita con le mie e mi strinse la mano.

“Così va meglio” borbottò a bassa voce.

Ghignai, prendendo con l’altra mano una tazza di caffè.

Sì, così andava decisamente meglio.

 

Il mio spazio:

Ho finito gli esami e ho finito il capitolo.

Scusate per i continui ritardi ma ultimamente sono un po’ impegnata. Sappiate comunque che non ho intenzione di abbandonare questa storia.

Non manca moltissimo al termine, non so di preciso quanti capitoli ma forse dovrei terminarla prima dell’estate (contando i miei tempi un po’ lunghi).

Che ne dite? Trovate che sia un capitolo troppo melenso?

Ho cercato di non esagerare con i sentimentalismi perché mi sembravano fuori dal personaggio, sia di Damon sia di Giuseppe.

Elena versione cupido? Vi piace?

Le cose dal prossimo capitolo cambieranno: Bonnie forse finalmente si è convinta.

Qualcuna di voi ha per caso letto i libri della Smith di cui vi avevo parlato su Amazon. Io non ho fatto in tempo ma ho sentito voci sul fatto che siano disponibili sono per gli utenti statunitensi. Sapete se è vero?

Grazie tantissimo per i vostri commenti! E preferiti/ricordati/seguiti, anche le letture aumentano sempre più!!

A presto(spero)!

 

Un bacione,

Fran;)

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Capitolo 22
*** Game on ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo ventidue: Game on

 

“You had a hold on me right from the start
A grip so tight I couldn't tear it apart
My nerves all jumping acting like a fool
Well, your kisses they burn
But my heart stays cool
Fire! Oh kisses like fire
Love what you're doing now
Fire, touching me
Fire, touching me, burning me”
(Fire- Bruce Springsteen)

 

 

Non mi ero mai ritenuta una persona particolarmente agitata.

Certo non avevo la sicurezza di Elena, la compostezza di Meredith o il controllo maniacale di Caroline, ma non avevo neppure mai dato di matto per l’isteria.

A una settimana dalla scadenza per la consegna delle iscrizioni dell’università, fissavo ancora quel cavolo di foglio bianco senza avere la minima idea di che cosa scrivere. Cominciavo sì a mostrare i primi segni di cedimento: irritabilità e sbalzi d’umore.

Avevo sgridato mio padre per aver cotto la carne più da un lato che dall’altro, litigato con mia sorella per essere arrivata tardi alla cena di famiglia.

Evitavo le mie amiche come la peste perché non volevo sentire dei loro progetti futuri. Avevo perfino impedito a Stefan di studiare con me per via del suono della sua voce che disturbava la mia concentrazione.

Ero diventata acida, tendenzialmente sgradevole, difficile da sopportare.

Se non avessi subito risolto la situazione, mio padre avrebbe capito che qualcosa non andava, che gli avevo mentito per mesi.

Che disastro di figlia!

Avevo molti interessi, ma nessuno mi sembrava abbastanza stimolante per una carriera universitaria.

Materie scientifiche assolutamente da escludere, ero una frana.

Questo stringeva di poco il campo.

Guardai per l’ennesima volta gli opuscoli sparsi sul mio letto. Molti riportavano proposte allettanti e non c’era un numero massimo di iscrizioni: potevo mandare le domande a tutti i college che desideravo. Puntare sulla quantità mi dava una mezza garanzia che da qualche parte mi avrebbe accettato.

D’altro canto, si trattava di università valide e selettive. I loro requisisti spaziavano anche nel campo delle attività extracurricolari e io non ne avevo praticamente nessuna. Ormai era troppo tardi per rimediare.

In definitiva, da una parte ero davvero confusa su ciò che aspettavo dal mio futuro, dall’altra temevo fortemente di venire rifiutata.

C’era pur sempre Dalcrest. Un campus sì buono, ma non troppo rigido.

Dalcrest, però, era molto vicino a Fell’s Church.

L’idea di rimanere bloccata nella mia piccola città mi nauseava.

A modo mio l’amavo: era il luogo dov’ero cresciuta, dove viveva la mia famiglia, dove avevo trovato amici e affetti, ma non potevo credere che la mia vita potesse riassumersi, iniziare e finire qui.

I miei amici avevano grandi progetti, grandi ambizioni, nessuno di loro sarebbe rimasto a Fell’s Church. E io? Potevo essere l’unica a rimanere indietro?

Non riuscivo nemmeno a concepirlo, figuriamoci accettarlo.

Pretendevo di più dalla mia vita, da me stessa. Dovevo costruirmi delle aspettative.

Ero cambiata così tanto in quei pochi mesi e non potevo rovinarmi con le mie mani.

Un passo in più, mi serviva solo un passetto per completare il mio percorso.

Stavo crescendo, stavo maturando. La sicurezza aumentava di giorno in giorno, la mia autostima, prima ammaccata e fragile, ora si faceva sentire con forza. Non arretravo, non mi spaventavo, non mi nascondevo.

Ma senza un piano per il futuro erano solo parole a vuoto e gesti inutili.

Avevo impiegato tanta energia per uscire dal mio guscio e adesso mi ritrovavo indecisa proprio sulla cosa più importante.

Potevo già immaginarmi la delusione e la rabbia di mio padre, la compassione di mia sorella e la pietà di tutti gli altri.

Povera, piccola Bonnie. L’università è un compito troppo difficile, una responsabilità troppo pesante da portare sulle spalle.

Povera Bonnie un cavolo.

Non ero un uccellino ferito come a tanti piaceva pensare. Non ero una ragazzina da compatire, né tanto meno da biasimare.

Avevo superato l’abbandono di mia madre, avevo superato il suo tradimento, cosa che avrebbe lasciato la maggior parte delle mie coetanee nella confusione più assoluta. Non per questo avevo indossato la maschera della vittima, non avevo chiesto comprensione o favoritismi. Mi ero sempre comportata da brava ragazza, nessuna botta di testa, nessuna voglia di ribellione.

Mi ero rialzata, anche se a fatica. La ferita era sempre lì e a volte bruciava, eppure non le avevo mai permesso di condizionare la mia vita.

Non aveva senso buttare via il duro lavoro proprio adesso, a un soffio dal traguardo.

Presi quei cataloghi, accessi il computer e mi armai di santa pazienza.

Iniziai a concentrarmi sui lavori che mi sarebbe piaciuto svolgere, poi pensai alle facoltà più adatte per quella formazione. Restrinsi la cerchia e valutai le università che offrivano i programmi migliori.

Ritornai sui moduli e cominciai a compilarli. Ne stampai altri, inerenti ai college che avevo selezionato.  Non avevo intenzioni d spedirli tutti, di alcuni non ero neppure sicura, ma almeno potevo avere ampia scelta prima della decisione finale.

Un paio di ore dopo avevo quasi finito. Mancava solo una cosa: la lettera di presentazione.

Non tutte le università la richiedevano; un paio di quelle che avevo visto sì.

Non era solo una questione di dati anagrafici, bisognava convincere di essere la miglior candidata per quell’università. Non era assolutamente scontato come passaggio.

Come potevo raccontare di me senza sembrava ordinaria, una delle tante? Per tantissimo tempo gli occhi di Fell’s Church mi avevano relegato al ruolo della secondo scelta.

Adesso dovevo spiccare.

Ma dopo qualche minuto, capii che non sarei riuscita a scrivete niente, non in quel momento.

Mancava ancora un po’ all’ora di cena, avevo tempo per uscire, pensare in tranquillità. Non sopportavo più le mura della mia camera.

Avvisai mio padre, che in cucina già stava preparando da mangiare, e scattai fuori dalla porta prima che potesse obiettare.

La strada, e scoprii poi tutto il quartieri, era tremendamente silenziosa: tutti in casa ad attendere la cena.

Io ero l’unica fuori, come una stupida a riflettere sui massimi valori della vita.

Forse non proprio i massimi valori in assoluto, ben lungi da voler apparire come la filosofa dei poveri. Di certo non avrei risolto i problemi del mondo in quella mezz’ora, mi accontentavo di trovare una soluzione ai miei.

I minuti passavano e la situazione non migliorava. Qualunque cosa mi venisse in mente, mi sembrava scontata e noiosa.

Io non ero una scrittrice, non ci sapevo fare con le parole.

Mi resi conto di essere una completa imbranata: solo io potevo mancare l’obiettivo per carenza di iniziativa.

Che diamine aveva d’interessante da scrivere una ragazzina che aveva sempre vissuto in un paesino di provincia, che cosa avevo imparato di tanto sorprendente da stupire la commissione di accettazione?

Fu al piccolo parco giochi del quartiere che avvertii finalmente un po’ di tranquillità. Quel posto mi aveva sempre ispirato un gran senso di calore.

Quando eravamo piccoli io e Stefan andavano sempre lì a giocare. A volte ci portavano i nostri genitori, a volte scappavamo dai nostri giardini per trovarci lì. Ai tempi ci sembrava una grossa trasgressione, ci faceva sentire grandi, capaci di conquistare il mondo.

Mi piaceva quella sensazione (che non era sparita nemmeno dopo che mia madre se n’era andata) mi piaceva credere che avrei potuto fare qualsiasi cosa.

Mi resi conto con compiacimento di aver speso la maggior parte della mia vita a essere una sognatrice e constatai con rammarico che quel lato di me era purtroppo svanito durante il liceo: nessuno mi considerava, nessuno credeva in me.

“Ti preoccupi talmente tanto di quello che pensano gli altri che tu stessa non ti sei neanche accorta di quanto in realtà sei cambiata”

Me ne accorgevo, me ne accorgevo eccome.

Ero forte, ero sicura. Una stupida lettera non aveva il potere di fermarmi.

Volevano sapere chi fosse Bonnie McCullough, bene: li avrei accontentati. Ero decisa a stupirli, a creare l’immagine che mi ero sempre figurata di me stessa. Non solo un’immagine, ma un obiettivo anche, un modello che stavo lentamente raggiungendo.

La mia passeggiata alla fine si era rivelata utile e ne ero sollevata: temevo che la prospettiva della lettera avesse bloccato quell’improvviso slancio, invece così non era stato.

Ma ero soltanto un’illusa se credevo che i miei guai per quel giorno fossero finiti.

I miei guai di solito si presentavano sotto la forma di un ragazzo di ventun anni, con i capelli neri e gli occhi ancora più neri che spiccavano sul quel volto diafano.

Se ne stava dall’altra parte del parco giochi, dondolava mollemente sull’altalena. Aveva lo sguardo fisso davanti a sé e non dava segni di avermi visto.

Valutai l’idea di ignorarlo e tornare a casa il più velocemente possibile senza immischiarmi come sempre in fatti che non mi riguardavano.

Le mie gambe rifiutarono qualsiasi movimento. Per la prima volta in vita mia, rimasi a contemplare Damon Salvatore in tutto il suo splendore.

Non avevo mai negato la sua bellezza, ma nemmeno l’avevo mai capita fino in fondo.

Un ragazzo sicuramente affascinante, niente di più di un bel faccino.

Un pensiero decisamente riduttivo in confronto alla figura che stavo osservando.

Era tutta colpa di Elena e del suo discorsetto su Damon. Avevo percepito una sorta di cambiamento in lui e anche in me, avevo già compreso che qualcosa si fosse incrinato o evoluto, ma sentirlo dire ad alta voce faceva tutt’altro effetto.

Un effetto straniante. Mi aveva colpito, aperto gli occhi, illuminato.

E adesso faticavo a guardarlo nello stesso modo di prima, perché sapevo che anche la sua percezione era diversa.

Non che mi fidassi totalmente del suo inaspettato interesse nei miei confronti. I dubbi rimanevano ben saldi, ma non potevo negare di ricambiare quel sentimento di curiosità.

Lo chiamavo curiosità e niente di più per non compromettermi ulteriormente.

Mi conoscevo fin troppo bene e tendevo a farmi trasportare dalle emozioni una volta scoperte. Questa volta ero ben decisa a restarne fuori per quanto mi sarebbe riuscito.

Elena aveva ragione: fino a quel momento avevo tenuto Damon lontano da me per paura di finire come Caroline e molte altre ragazze prima di me. Buttata via come un fazzoletto sporco.

Per anni Damon si era dimostrato uno spocchioso, viziato e arrogante, incurante dei sentimenti altrui, senza un minimo di rispetto.

Lo avevo detestato per così tanto tempo e così profondamente da rendere quasi assurda l’idea che in lui ci fosse altro, che in lui battesse un cuore.

Ero innocente ma non del tutto ingenua: sebbene l’avessi tenuto per me, avevo capito da tempo che l’atteggiamento di Damon verso di me si era fatto più ambiguo.

Ed era proprio la cosa che più mi disturbava, quel suo fare equivoco, a metà tra la seduzione e la presa in giro. Quel suo flirtare quando ancora stava con Katherine, e poi le sue parole velenose, sempre pronte a colpire non appena alzavo un po’ la voce.

Era un gioco cui non volevo partecipare, totalmente estraneo al mio modo di essere.

Insomma, se da una parte avevo inevitabilmente preso atto del suo cambiamento, dall’altra non mi ero lasciata coinvolgere perché non confidavo in un reale miglioramento.

Era solo una montatura, era solo un passatempo.

Quando mai Damon Salvatore aveva buone intenzione, soprattutto con me?

Poi suo padre si era sentito male e tutto era diventato ancor più confuso di quanto già non lo fosse stato prima.

Ero corsa da lui, in casa sua. Lo avevo consolato, lo avevo abbracciato, avevo provato dolore e avevo avvertito un vuoto quando ero stata costretta a lasciarlo solo con la sua famiglia.

Tutti sentimenti che non avevo ben compreso finché Elena non aveva parlato.

Strano come una semplice conversazione potesse ribaltare le carte in tavola.

Mi aveva sconvolta? Era un eufemismo.

Damon aveva raccontato a Elena, la ragazza di cui era sempre stato innamorato, dei suoi sentimenti per me.

E già quest’ultima affermazione racchiudeva l’assurdità delle circostanze.

Damon Salvatore che si metteva a discorrere di sentimenti che nutriva per me con Elena.

O era totalmente impazzito o per una volta era sincero.

Il fatto che la sua confidente fosse proprio Elena rendeva la notizia abbastanza affidabile.

Damon non avrebbe mai compromesso il rapporto con lei solo per ‘spassarsela’ con me. Era una persona troppo importante nella sua vita per deluderla in maniera così eclatante.

Ciò significava che ogni gesto, ogni parola, perfino quel tentativo di baciarmi dopo la gita ad Atlanta, tutto era stato dettato da qualcosa di vero. Qualcosa che al tempo era ancora latente, praticamente inconscio. E nonostante tutto, alla fine era rimasto.

Questo dove mi lasciava?

Che non fossi completamente indifferente era palese anche ai sassi, ma ero davvero disposta a gettare dalla finestra tutti i miei principi o a dimenticare gli anni che avevo trascorso a piangere per i suoi scherzi crudeli?

Tutte le mie domande restarono sospese, senza risposta.

Non perché ero ancora troppo indecisa, ma perché Damon alzò il capo, notando finalmente la mia presenza.

Mi guardò un po’ sorpreso.

Io ricambiai e sorrisi.

Forse qualche risposta ce l’avevo.

 

Trovavo quel fatto più incredibile che impossibile.

Non ricordavo nemmeno l’ultima volta che era accaduto, se mai era accaduto.

Per ovvie questioni mi ero trasferito nuovamente a casa mia, dopo che mio padre era stato dismesso dall’ospedale.

In realtà non ero di molto aiuto: non sistemavo, non cucinavo, non pulivo. Quelli erano mestieri che per fortuna la signora Flowers svolgeva egregiamente. In qualche modo mi piaceva pensare che la mia presenza fosse comunque di conforto.

Stefan si sentiva meno solo e mio padre era più tranquillo sapendo di aver qualcun altro su cui contare oltre a un diciasettenne sì dal cuore d’oro, ma davvero poco pratico nelle situazioni drammatiche.

Non avevamo ancora litigato e questo aveva appunto dell’incredibile. Mi trovavo sorprendentemente bene a casa mia.

Cosa che non avrebbe dovuto creare scalpore dato che ognuno stava bene a casa propria, ma io non ci ero abituato.

Mangiavamo insieme alla sera, un po’ presto perché papà di solito era stanco e preferiva andare a dormire. Io e Stefan passavamo la sera in salotto. Non parlavamo molto, non ci confidavamo i segreti, e neanche ci lasciavamo andare a momenti strappalacrime sul tempo perduto. Guardavano la tv e ci godevamo semplicemente la compagnia uno dell’altro.

Mi alzavo di buon’ora alla mattina per raggiungere l’università in tempo e seguire i corsi. Quando rientravo ero distrutto.

In quelle settimane avevo dimenticato che cosa volesse dire avere una vita sociale e stranamente non mi mancava.

Non so quanto avrei resistito a quel ligio regime, ma per ora mi bastava. Avevo fatto il coglione per così tanto tempo che adesso mi pareva un privilegio spendere qualche ora tranquillo con la mia famiglia.

Stavo finalmente crescendo?

Secondo mio padre, quell’infarto era stato una benedizione che mi aveva inculcato un po’ di buon senso nel cervello. Un commento tipico del vecchio Giuseppe Salvatore, ma il tono bonario e quasi compiaciuto lo rendevano molto più sopportabile.

Continuavamo a essere una famiglia non convenzionale, almeno però adesso potevamo chiamarci effettivamente una famiglia.

Tra noi tre, Stefan era sicuramente quello più euforico, sembrava un bambino in un negozio di giocattoli. Sorrideva sempre, a volte non stava zitto un attimo, altre non osava parlare per paura di rompere il nostro equilibrio.

Io e papà eravamo un po’ più disincantati, ci osservavamo ancora con occhio critico, procedevamo con calma. Ci stavamo conoscendo.

Una volta al giorno il signor McCullough passava o chiamava per avere notizie del suo amico. Bonnie invece non si era più vista.

Non che visitare mio padre fosse un suo dovere, ma era ciò che mi sarei aspettato da lei, sempre così apprensiva e buona.

Avevo accennato una volta a mio fratello di trovare quel fatto molto strano e lui mi aveva risposto che Bonnie non si voleva intromettere, non si voleva imporre.

Stefan non ne era chiaramente turbato: poteva vederla tutti i giorni a scuola, poteva passare del tempo in sua compagnia, parlarle.

Io non avevo quel lusso.

Il mio fratellino non aveva più sollevato l’argomento ‘mano nella mano’ e io avevo fatto finta di nulla, ben contento di non dovere spiegazioni.

Anche se me le avesse chieste, avrei liquidato la cosa come un semplice gesto di conforto.

Io per primo faticavo ancora a capire, a definire quell’assurdo rapporto che si era instaurato tra me e la rossa.

E ancora meno capivo il suo comportamento.

Mi era stata di grande aiuto con tutta la situazione di mio padre. Era venuta spesso a trovarmi in ospedale, con la scusa della colazione o semplicemente per chiedere informazioni sulle condizioni di Giuseppe.

Apprezzavo la sua presenza discreta e rispettosa, sapeva quando tacere e quando stordirmi con le sue infinite chiacchiere su quello che le era successo a scuola. Non che fossi veramente interessato, ma almeno riusciva a distrarmi.

Non la vedevo dal giorno in cui mio padre era stato dimesso e cominciava a mancarmi. Mi ero abituato ad averla intorno.

Pensavo che avessimo fatto dei passi avanti, pensavo di essere riuscito in qualche modo a entrare nel suo guscio, a convincerla che in fondo non ero così male.

Dopotutto, se si tralasciava la storia della scommessa, le mie intenzioni erano quasi buone. Bonnie non doveva saperlo per forza, non c’era una regola che m’imponeva di raccontale tutta la verità. La verità poteva essere un po’ distorta.

Il dettaglio di quella sfida tra me e Tyler era irrilevante.

I motivi per cui mi ero avvicinato a lei erano sbagliati, ma ciò che ne era derivato era assolutamente autentico: non volevo conquistare Bonnie per via della scommessa; la volevo e basta. E se nel frattempo avessi tolto quel sorrisino strafottente dalla faccia di Tyler, allora tanto meglio.

La reticenza di Bonnie era più che comprensibile: io per primo avevo fatto molta fatica ad accettarlo.

Non mi ero reso conto di quanto fossi veramente coinvolto finché non avevo parlato con Elena. Un azzardo e il più grande scoglio che avessi mai superato.

Si trattava della ragazza che avevo desiderato più di ogni altra al mondo e adesso mi ritrovavo a discutere con lei della mia vita amorosa. Il soggetto era niente meno della sua migliore amica.

Era stata una mossa rischiosa: non solo c’era una buona possibilità che mi prendesse a schiaffi, ma se avessi fatto un piccolissimo passo falso, mi sarei potuto scordare per sempre del mio angelo.

I miei propositi erano più che seri, per due motivi: primo, non avrei mai chiesto certi consigli a Elena se ormai non l’avessi considerata solamente come un’amica; secondo, se il mio intento fosse stato di ingelosirla, non avrei scelto Bonnie come vittima.

Potevo concludere di aver completamente dimenticato la mia ossessione per Elena.

Io avevo fatto chiarezza nella mia mente, Bonnie era evidentemente ancora combattuta. Mi era stata accanto  finché ne avevo avuto bisogno, poi era scomparsa.

Stefan diceva che non voleva intromettersi nelle nostre questioni di famiglia, io dicevo che era terrorizzata all’idea d’incontrarmi, avendo ormai capito che le cose tra noi erano cambiate, a un punto decisivo. Ora bisognava scegliere se andare avanti o indietro.

Il momento della verità sembrava giunto più in fretta del previsto: quando alzai la testa, trovai ferma di fronte a me proprio la ragazza che mi stava facendo diventare pazzo.

Ero preparato a tutto: a vederla scappare o abbassare la testa, ero pronto ad affrontare la sua espressione imbarazzata e pentita, ero pronto a sentirla balbettare qualche scusa per svignarsela via e non più ritornare.

Non ero preparato al suo sorriso.

Che cos’era? La quiete prima della tempesta?

“Non hai il coprifuoco, Bon Bon?”.

Oh sì, questa è un ottimo metodo per non farla incazzare.

“Tu non dovresti essere a casa a occuparti di tuo padre?” mi ribeccò.

“Mi hanno dato un’ora libera” risposi.

Lei ridacchiò e sorprendentemente prese posto sull’altalena accanto alla mia “Come vanno le cose tra voi?” mi domandò.

“Non ci siamo ancora picchiati, se è quello che intendi”.

Calò un silenzio imbarazzante. Un tempo accadeva spesso perché non avevamo nulla da dirci, adesso c’era fin troppo da dire.

“Tuo padre si sta rimettendo bene?”.

“Lo conosci. Passa la sua giornata a lamentarsi di tutto. Odia non poter andare al lavoro, ma è meglio così: alla sera è sempre molto stanco, anche se non lo ammetterebbe mai”.

“Normale considerando quello che gli è capitato” osservò.

“L’altra sera si è addormentato sul divano. Quando si è svegliato, ha detto che era tutta colpa del film: noioso e con poca azione. Stavamo guardando l’ultimo di Star Trek, giusto per intenderci”.

“Decisamente poca azione” concordò ironica “Sono davvero contenta per voi, Damon. mi spiace che tuo padre sia stato male, però finalmente avete iniziato a comportarvi come...”.

“Una famiglia?”.

“Stavo per dire come persone civili. La tua definizione è ugualmente accettabile”.

“Grazie per l’approvazione” commentai “Credevo che saresti venuta a trovarci, sai? Dopo quello che hai fatto per trascinarmi in ospedale, mi pareva il minimo”.

“Potevate cavarvela benissimo da soli e poi sono stata impegnata con le domande di ammissione al college” mi spiegò.

“Sei quasi al limite, Bonnie, non manca molto alla scadenza”.

“Avrei già finito se non fosse per quelle stupide lettere di presentazione”.

“O certo” affermai dondolandomi “Le lettere per l’università. Dalcrest non le richiede, non ho mai avuto il piacere di descrivere me stesso”.

“Scommetto che il tuo ego ne sarebbe stato felicissimo”.

“Può darsi” sghignazzai “Se fossi in te scriverei qualcosa del tipo: mi chiamo Bonnie McCullough, ho diciott’anni, vivo a Fell’s Church da quando sono nata” dissi tutto cercando di imitare la sua vocina “Nella mia città tutti mi considerano una ragazzina immatura, a volte piagnucolona, un po’ petulante, che vive all’ombra delle sua amiche popolari. Non esprimo mai la mia opinione perché ho la voce troppo bassa per farlo e soprattutto non ho sufficiente coraggio. Nessuno mi ritiene capace di fare qualcosa di buono nella mia vita, nessuno in realtà si è quasi mai accorto della mia presenza” conclusi con tono provocatorio.

Bonnie allargò gli occhi, furente, e aprì la bocca pronta probabilmente a insultarmi, ma io la bloccai “Oppure…potresti scrivere che sei esattamente il contrario di tutto ciò e che la maggior parte delle persone non ha mai capito niente di te”.

 

“Oppure…potresti scrivere che sei esattamente il contrario di tutto ciò e che la maggior parte delle persone non ha mai capito niente di te”.

Non fu tanto quello che disse, ma il tono che usò: fragile, un po’ sommesso, sincero.

Mi voltai di scatto verso di lui. Onestamente non pensavo che quel momento sarebbe arrivato così in fretta.

Mi alzai per mettere un po’ di spazio tra di noi: era difficile ragionare avendolo così vicino.

“Damon, io…”.

“Hai parlato con Elena” dichiarò.

“Cosa?”.

“Hai parlato con Elena” ribadì “Sei saltata come una molla per un mezzo complimento”. Appariva così calmo e sicuro. Io invece ero un fascio di nervi.

“Non serve che tu aggiunga niente” lo fermai bruscamente “Dopo tutta la storia con Katherine, beh…capisco la tua confusione. E ora le cose con Stefan stanno andando bene, non sarebbe carino rovinare tutto ritornando a perseguitare Elena con le tua avances…”.

“Che cosa stai insinuando?” s’indispettì.

“Possiamo continuare come se niente fosse. Ti sono capitate un sacco di cose spiacevoli in poco tempo e io ero lì, ero conveniente. Passerà nel giro di poco, magari ti è già passata. Forse è questo che mi volevi dire, che è stato tutto uno sbaglio, che hai frainteso. Non c’è nessun problema, non facciamone un dramma”.

Io stessa non avevo ancora deciso se fidarmi o no delle parole della mia amica. Cercavo di dare una via d’uscita a Damon nel caso avesse cambiato idea, cercavo di finirla ancor prima che fosse cominciata.

Si alzò anche lui dall’altalena che tremò violentemente sotto il peso della spinta “Quindi, secondo te, mi sono solo fatto trascinare dalle circostanze. Secondo te io sarei andato a chiedere consiglio su un’altra alla ragazza per cui avevo un’ossessione folle solo per capriccio? Grazie Bonnie, grazie per questa perfetta analisi! Che dote meravigliosa, quella di poter leggere la mente altrui”.

Aveva alzato la voce e tanto. Il che mi fece infuriare a mia volta, tanto da non cogliere subito la parola ossessione dove un tempo avrebbe usato amore.

“Scusami, con che diritto ti stai arrabbiando? Io dovrei essere arrabbiata casomai!”.

“Perdonatemi vostra freddezza, sono mortificato che le mie attenzione vi indispongano così tanto!” esclamò sarcastico e velenoso.

“Non osare darmi della fredda solamente perché non voglio essere presa in giro!”.

“Ti stai prendendo in giro da sola, ragazzina” ribatté gelido “Ma è così tipico di te tirarti indietro ogni volta che la sfida si fa un po’ più difficile. Non hai nemmeno il coraggio di accettare i tuoi stessi sentimenti”.

“Adesso siamo passati ai sentimenti?” mi scioccai “Io non potrei mai provare sentimenti per uno come te. Ricordi tutto quello che mi hai fatto? Tutte le volte che ho pianto per colpa tua? Sei un illuso se speri che io possa dimenticare”.

Non lo vidi neanche avvicinarsi. Fu fulmineo a spostarsi proprio di fronte a me, a impedirmi il passaggio e a spingermi verso le gabbia di ferro del parco giochi dietro di me.

Quando la mia schiena toccò i tubi di metallo mi resi in conto di aver tirato troppo la corda; non per aver scatenato l’ira di Damon, ma perché sentirlo così vicino mi provocò un subbuglio allo stomaco.

“Sì, uccellino, sono quello che ha reso la tua vita un inferno al liceo, sono quello che si è preso gioco della tua amica Caroline, sono quello che ha tormentato Stefan durante questi anni, ma non cambia i fatti, vero? Tu sei attratta da me, piccola rossa, nonostante tutto”.

“Sei visionario” fu la mia unica, debole, obiezione.

Allungò una mano per spostarmi una ciocca di capelli “Devo aver avuto le allucinazioni anche dopo il concorso di Fell’s Church, allora”.

“Quello è stato solo un momento di debolezza” constatai “Sai che ho un debole per i bei ragazzi”. Meglio ammettere il suo immenso fascino, piuttosto che dargliela vinta sulla questione sentimentale.

“Stronzate” mi stroncò “Qualche mese fa ho provato a baciarti e mi hai tirato uno schiaffo. Non sei il tipo che si sofferma solamente sull’aspetto fisico. Tu quella sera stavi per cedere perché qualcosa tra noi è cambiato”.

“Sì, stavi diventando una persona quasi decente” gli concessi “Adesso non ne sono più tanto sicura” tentai di provocarlo e di suonare convincente.

“Non ti ho mai considerata un’ipocrita, ma dovrò rivedere la mia opinione dato che continui a criticarmi e poi ti sciogli come un ghiacciolino appena mi avvicino un po’ più del dovuto”.

“Non darmi dell’ipocrita” tuonai puntandogli il dito contro. Riuscii finalmente ad allontanarlo un po’, ma durò poco.

Mi trovai ancor più schiacciata sui tubi di ferro alle mie spalle.

“Dimostramelo, uccellino” soffiò sulle mie labbra “Dimostrami di non esserlo”.

Volevo farlo, volevo farlo davvero.

Volevo prenderlo a schiaffi, volevo colpirlo con le ginocchia in mezzo alle gambe, volevo spingerlo via e tornare a casa mia.

Ero molto determinata a mettere in atto questo piano, sul serio. Quindi non seppi dire perché invece finii per baciarlo.

No, baciarlo non era il termine adatto. Lo soffocai quasi.

Gli strinsi il collo così forte da lasciargli un graffio dietro la nuca e mi spinsi sulle punte dei piedi per raggiungere la sua bocca. Damon m’incontrò a metà strada. Ricambiò il mio slancio, la mia presa, schiacciandomi tra lui e la gabbia. Ci mise qualche secondo prima di prendere totale controllo del bacio, come se non aspettasse altro da tempo.

In casi del genere è normale descrivere le sensazioni come ‘farfalle nello stomaco’ o ‘fuochi d’artificio’.

Io sentii proprio di tutto in quel dannato bacio: vertigini, morsa allo stomaco, il mio cuore accelerò i battiti e ogni singola parte del mio corpo si risvegliò urlando.

Damon non si fermava. Mi baciava, mi lambiva, mi mordeva e io lo imitavo, completamente sopraffatta e maledettamente felice.

Fino a che non mi resi conto di che cosa stessa accadendo, in un brevissimo momento di lucidità: stavo baciando Damon Salvatore. Damon Salvatore.

“N-no” balbettai con la mia bocca ancora sulla sua. Mi staccai, sconcertata, e sgusciai via, toccandomi le labbra per accertare che fosse successo davvero.

Lui se ne stava appoggiato alla gabbia e mi guardava compiaciuto e strafottente.

“Come ti sei permesso?!” mi scandalizzai “Mascalzone che non sei altro”.

“O sì certo, adesso mi dirai pure che ti ho obbligato” mi canzonò.

“Questo non capiterà mai più” precisai, indicando me e lui “Non diventerò un cliché, non diventerò la brava ragazza che si arrende al cattivo di turno” strillai, mentre giravo i tacchi.

“Invece fare la fidanzatina d’America fino al midollo non è affatto un cliché” commentò Damon sarcastico “Rinchiuderti in quel convento che ti sei costruita attorno è assolutamente originale e innovativo”.

Udivo i suoi passi dietro ai miei, ma lo ignorai.

“Molto meglio ripiegare su un tipo alla Matt Honeycutt, molto più rassicurante”.

“Non entrerai nella mia testa” lo avvisai minacciosa “E smettila di seguirmi!”.

“Non ti sto seguendo, casa mia è da quella parte. O il bacio è stato talmente scioccante da farti scordare che siamo vicini?” mi stuzzicò.

Puntai i piedi e mi voltai verso di lui “Chiariamo subito una cosa: quel bacio non è mai accaduto. Noi ci dimenticheremo di quel bacio, lo cancelleremo dalla nostra memoria. Eliminato. Nessuno dovrà mai saperlo. Quel bacio non è mai esistito. Siamo d’accordo?”.

Damon era proprio dietro di me e ghignò piegando il volto in avanti “Mi stai facendo venire ancor più voglia di baciarti” confessò prima di premere di nuovo le sue labbra sulle mie.

Esitai un istante e mi spostai “No!” gli intimai istericamente “Mai più! Mai più!”.

Affrettai il passo per raggiungere casa il più velocemente possibile. Quando richiusi la porta d’ingresso, mi appoggiai stanca e sospirai di sollievo.

Qualunque cosa si fosse messo in testa Damon, dovevo stroncarla sul nascere. Lui non mi piaceva, io non desideravo quelle attenzioni. Si era trattato solo di un attimo di debolezza (un altro), niente di cui preoccuparsi. Io ero forte, io potevo resistere.

“Sei tornata finalmente, gattina” mi accolse mio padre, mentre entravo in cucina “È successo qualcosa?” mi domandò.

“No” risposi già in agitazione “Perché?” proseguii con voce stridula.

“Hai un sorriso che va da un orecchio all’altro”.

E osservando la mia immagine riflessa nella finestra, mi accorsi che Damon aveva ragione: ero diventata un cavolo di cliché.

 

Il mio spazio:

Stappiamo la bottiglia: finalmente si sono baciati!

Ragazze, se non ci metto almeno una ventina di capitoli prima di farli concludere, non sono mai contenta, ehehehe.

Il prossimo capitolo arriverà molto più velocemente perché in parte è già scritto e non preoccupatevi da qui in poi si andrà solo in avanti, niente più passi indietro, nonostante i dubbi di Bonnie.

Damon ha deciso di prendere in mano la situazione ed è riuscito a far esplodere la nostra rossa. Vedremo gli effetti di questo bacio, effetti che la manderanno in totale agitazione.

Più tardi risponderò alle vostre magnifiche recensioni.

Vi ringrazio tantissimo!!

Buona serata,

Fran;)

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Capitolo 23
*** This is what it feels like ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo ventitré: This is what it feels like

 

“The way you make me feel
You really turn me on
You knock me off of my feet
My lonely days are gone”
(The way you make me feel- Michael Jackson).

 

Sapevo esattamente quali sarebbero state le conseguenze di quel bacio, quello che non ero riuscita a dimenticare.

Primo: un immenso imbarazzo a ripensare a quel momento.

Secondo: un discreto fastidio per aver infine ceduto.

Terzo: totale confusione mentale, perché, nonostante cercassi in tutti i modi di convincermi che non mi fosse piaciuto, a malincuore dovevo ricredermi.

Quarto: completa incertezza sul da farsi.

Erano tutte domande vitali per la mia situazione emotiva. Ci pensavo notte e giorno, erano diventate la mia tortura.

Mi ero immaginata tutti gli scenari possibili. Avevo scomposto e analizzato quel problema come se si trattasse di un esperimento scientifico. Mai ero stata così razionale e accurata. Mi ero sforzata tantissimo per rimanere distaccata.

Normalmente tendevo a giudicare tutto con il cuore, ad agire come comandava il mio istinto, ma questa volta avevo davvero provato a evitarlo.

Forse non si era rivelato tutto inutile, ma quasi, per colpa di un dannato fattore che proprio non avevo calcolato: quel bacio mi aveva provocato uno scompenso ormonale da record.

Supposi che Damon si fosse guadagnato il titolo di seduttore più ambito per una valida ragione. Sapeva come usare le sue mani e la sua bocca, indubbiamente.

E nella mia poca esperienza, aveva di sicuro fatto centro.

La mia mente non era del tutto convinta, ma il mio corpo era stregato. Considerazione banale e piuttosto frustante, almeno per me che mi ero sempre vantata di essere l’unica a non aver mai trovato affascinante Damon Salvatore.

Prima o poi doveva succedere: nella vita di ogni ragazza arrivava il momento in cui i bisogni fisici si facevano sentire in maniera più forte di quelli razionali. Alla fine lo sviluppo aveva beccato anche me, in ritardo ma mi aveva comunque scovato.

Forse la stavo affrontando più tragicamente di quanto non fosse necessario. Insomma non ero ancora corsa da Damon come una disgraziata bisognosa di affetto e di carezze; per adesso mi limitavo a sognare quel bacio e le sensazioni che mi aveva donato.

Tralasciando strani sbalzi ormonali, non potevo negare che quel maledetto pallone gonfiato mi avesse scombussolato la vita più del necessario.

Era stato lento e scrupoloso, si era infilato nella mia testa senza nemmeno farsi notare e aveva cambiato tutta la mia prospettiva.

Avevo rifiutato Matt per lui. Era difficile, era assurdo, era imbarazzante, ma dovevo ammetterlo: avevo lasciato Matt perché non sentivo i brividi dell’attesa, perché non mi mancava, perché non suscitava in me abbastanza emozioni.

E tutto quello l’avevo sentito con Damon.

Non l’avevo voluto, non l’avevo chiesto. Le cose stavano così, però. Pure e semplici.

Forse iniziavo a capire l’irrazionalità del sentimento di cui avevo tanto letto e che non avevo mai sperimentato, men che meno compreso.

Un passo alla volta, comunque.

Non avevo nessuna intenzione di buttarmi tra le braccia di Damon. Avevo bisogno di esserne sicura al cento per cento.

Non credevo che fosse una sbandata passeggera, ma era accaduto tutto troppo in fretta e troppo inaspettatamente. Mi ero ripromessa di evitare un sacco di situazioni in cui invece ero capitolata senza tante obiezioni.

Adesso era giunto il momento di chiedere aiuto. Era giunto il momento di affidarmi a mani più esperte, anche a costo di mandare all’aria la mia reputazione da santarellina.

Dovevo confessare.

Come tutti i miei buoni propositi, trovai anche questo più facile a dirsi che a farsi.

Avevo invitato le mie amiche a casa mia con la scusa di prendere un tè tutte insieme, dato che non ci vedevano da un po’ sole e solette.

Elena già sapeva tutto. Meredith e Caroline ne erano all’oscuro. Volevo che fossero presenti al completo cosicché non sarebbe stato necessario ripetere il misfatto. Una volta era più che sufficiente.

Ero decisa, quindi, a vuotare il sacco non appena le tre si fossero accomodate in salotto.

Ma Caroline era in ritardo come al solito e quando arrivò nemmeno si perse in convenevoli.

“Ragazze, è successa una cosa…non riesco neppure a dirla”.

Benvenuta nel club.

“Dovrei pentirmene ma non ci riesco”.

Mal comune mezzo gaudio.

Come previsto catalizzò l’attenzione su di sé e il mio piano andò a farsi friggere.

“Se si tratta di un acquisto sbagliato, mi alzo e me ne vado” la avvisò Meredith mentre soffiava sul suo tè bollente.

“Quello lo potrei restituire. Potrei rimediare” disse Caroline sconsolata.

“Che cos’hai combinato?” l’accontentò infine Elena.

“Ieri ero in piscina, stavo facendo qualche vasca così per allenarmi. Non mi piace granché nuotare, ma dicono che faccia bene ai muscoli e quindi…”.

“Anche Katherine ieri era in giro per la scuola per allenarsi” disse Elena “Se hai rischiato di affogarla, sappi che non te ne devi pentire. Hai la mia benedizione”.

“Non ho nemmeno visto Katherine” smentì Caroline “C’era Tyler, però”.

“Tyler Smallwood? A scuola dopo la fine delle lezioni? Intendi quel Tyler?” mi stranii io. In realtà non ero attentissima al discorso. Stavo pensando a come sganciare la bomba e a come trovare il coraggio di rivelare il mio segretuccio, nonostante Caroline avesse rovinato il momento perfetto. Non ci fece caso, perciò quando mi rispose “No, intendevo Matt”, non colsi il sarcasmo.

“Allora c’era Matt?” osservai, distratta.

“No, c’era Tyler” insistette lei, forse accortasi del mio poco interesse.

“Niente Matt?”.

Evidentemente Caroline decise di non darmi più ascolto e proseguì con il suo racconto. Ero l’unica a non seguirla con attenzione; le altre due la guardavano in attesa.

“Mi ha baciata”.

“Chi?” domandò Meredith. Aveva già capito ma voleva una conferma.

Io ero su tutt’altro pianeta e misi insieme i pezzi sbagliati di ciò che avevo ascoltato.

“Matt ti ha baciata?”. Non stavamo insieme, poteva fare quel che voleva, ma con una delle mie migliori amiche…

“Noooo” ribadì Caroline “Tyler”.

“Tyler ha baciato Matt?”.

Caroline sbuffò, giustamente innervosita. Mi prese il viso tra le mani e guardandomi negli occhi, scandì bene “Tyler-ha-baciato-me”.

Questa era bella. Quasi più bella della mia notiziona.

Improvvisamente non mi sentivo più colpevole.

Damon poteva anche essere uno stronzo patentato, ma Tyler era il re dei cretini. Insomma nella gara del bacio più imbarazzante, stupido vinceva su stronzo.

Tyler Smallwood era sempre stato un bulletto della peggior specie. Si atteggiava da granduomo, ma aveva il cervello di un topolino.

Le sue battute erano grezze e i suoi hobby si limitavano a donne e football. Almeno questo era quello che potevo dire per come lo conoscevo io. Non ci eravamo mai frequentati e faceva parte del gruppetto di Damon, ergo al liceo era complice dei suoi scherzi.

Non sembravo l’unica sconvolta in quella stanza: Elena aveva sgranato gli occhi e Meredith aveva una smorfia eloquente sulle labbra.

“Perché?” si scandalizzò.

“Non ho detto che ho ricambiato, ho detto che lui mi ha baciato” ribatté Caroline.

“L’hai mandato via quindi?” concluse Elena.

Caroline abbassò la testa “No, mi sono lasciata baciare e ho anche partecipato”.

“Allora la domanda resta: perché?” ribadì Meredith.

“Lo so che è rozzo e arrogante. Sostanzialmente è anche un perditempo…che cosa vi devo dire…mi ha aiutato un po’ con l’allenamento e poi abbiamo fatto una pausa. Abbiamo parlato della fine della scuola, dei nostri progetti, è saltato fuori che non è così stupido come pensavo, solo non ha voglia di studiare”.

“Mi sono persa come in tutto ciò le vostre bocche si sono unite” la punzecchiò Elena.

“Quando mi ha accompagnata alla macchina, è successo lì”.

“E ora?”.

“Mi riterreste una persona orribile se volessi continuare a frequentarlo?”.

“O Care, no, no” scosse la testa Meredith “C’è chi ha fatto di peggio”.

Annuii, d’accordo. Quello era il mio momento. La reazione sarebbe stata attenuata dalla novità di Caroline.

Se lei era riuscita ad ammettere quello di cui tutte noi ci saremmo vergognate, allora pure io potevo fare uno sforzo. Erano le mie migliore amiche, non mi avrebbero giudicato.

“Io ho una storia segreta con Alaric Saltzman” sparò a bruciapelo Meredith.

Questa volta toccò a Elena e a Caroline spalancare la mascella.

Io inveii mentalmente. Mi avevano battuta sul tempo per la seconda volta. Era forse un segno che avrei fatto meglio a tacere?

“Il nostro professore?” si accigliò Caroline.

Meredith confermò con un cenno della testa.

“No scusa, mi hai guardato come se avessi ucciso qualcuno e poi salta fuori che ti sbatti il prof di storia?”.

“Caroline!” esclamammo io e Elena per contenere la sua carica.

“O santo Cielo, se mi dici che non l’avete fatto, ti prendo a schiaffi. Figo com’è!” commentò con la sua solita profondità.

“L’ho tenuto segreto fino adesso perché…beh…perché è una cosa delicata, Alaric potrebbe andare nei casini e io potrei rimetterci Harvard. Onestamente non credevo che sarebbe durata. Mi rendo conto che è una pazzia”.

“Mere, non ti fidavi di noi? Avevi paura che ti avremmo giudicata?” si preoccupò Elena.

“C’è in mezzo un’altra persona. Mi sembrava di tradire la sua fiducia a parlarvene”.

“Non oso immaginare come sia stato non potere sfogarsi con qualcuno” s’intristì Caroline.

“Bonnie lo sapeva” svelò Meredith.

Adesso gli occhi erano puntati su di me. Per il motivo sbagliato. Grazie, Mere!

“Li ho beccati in flagrante, ecco perché lo so” ci tenni a presentare.

“La vita ti sorprende sempre” considerò Caroline “Mai avrei sognato che la razionalissima Meredith Sulez nascondeva un segreto più piccante del mio”.

“A questo proposito…” iniziò io, un po’ tentennante “In effetti vi ho invitato qui perché anche io ho una confessione da farvi” e scambiai un’occhiata con Elena.

Nemmeno lei conosceva gli ultimi risvolti, però rispetto alle altre aveva un’idea.

“Che cosa avrai mai combinato di tanto grave” sbuffò Caroline “Hai per caso un ripensamento su Matt?”.

“No” smentii “Ho baciato Damon Salvatore”.

Il gelo calò nella stanza. Elena era quella meno sorpresa, perché già era al corrente della situazione e se la rideva sotto i baffi, ma Mere e Caroline erano pietrificate.

Una aveva intrecciato una relazione clandestina con il suo insegnante, l’altra progettava di uscire con il re degli scimmioni e improvvisamente ero io sotto accusa.

“Mi sa che non ho capito bene” affermò Meredith “Anzi ne sono certa perché la mia amica Bonnie vorrebbe tirare Damon sotto con la macchina”.

“No, no…avete sentito benissimo” confermò Elena, compiaciuta come non mai “Anzi, mi sorprendo che ci abbiamo messo tanto”.

“Tu lo sapevi?” si sbalordì Caroline.

“L’ho scoperto ora, ma Damon mi ha raccontato del loro rapporto un po’ complicato”.

Rapporto? Siamo addirittura a un rapporto? Elena, perché non l’hai stroncato sul nascere?!” si indignò Caroline.

“Sono fatti l’una per l’altro” obiettò Elena.

“Stiamo parlando degli stessi Bonnie e Damon che conosco io?” si accigliò Meredith.

“Ehilà!” sventolai una mano per riportare un po’ di ordine “Sono ancora qui”.

“Da quant’è che va avanti questa storia?” mi chiese con tono quasi minaccioso Meredith.

“Non lo so” ammisi onestamente “Ora potrei dirti che è incominciato verso settembre, ottobre, ma non me n’ero accorta allora”.

“Settembre o ottobre?” ripeté Caroline “Ma non stavi con Matt?”.

“Non so dirti il momento preciso. Abbiamo cominciato a parlare civilmente all’inizio della scuola e poi…sono successe un paio di cose”.

“Tipo?”.

“La notte di Halloween, il regalo di Stefan, il ballo al concorso di Fell’s Church, la rottura con Katherine, Klaus”.

“Dov’ero io in tutto questo tempo?” Meredith era sempre più sconvolta.

“A studiare con il professore, suppongo” sogghignò Elena.

“Chi l’avrebbe mai detto che saresti stata proprio tu quella con la vita sentimentale più prevedibile” scherzò Caroline “Di certo non avrei scommesso un centesimo su queste due” e indicò Meredith e Bonnie “E sto ancora decidendo se sia peggio questa che sta infrangendo ogni regola della scuola o quella che si è presa una cotta per il figlio cattivo di Lucifero”.

“Va bene, Bon, è il momento della verità. Spara” mi incitò Meredith.

“E io sono pronta a correggere nel caso omettesse qualcosa” si offrì Elena con un sorrisino diabolico.

Caroline posò la tazza sul tavolino e si alzò dalla poltrona.

“Dove stai andando?” le chiesi.

“A cercare del vino. Se proprio devo stare ad ascoltarti mentre racconti di come tu e Damon siete diventati due piccioncini, allora ho bisogno di qualcosa di forte”.

 

La mattina successiva iniziò peggio rispetto a tutte le altre.

Noi abitanti di Fell’s Church ci eravamo svegliati sotto la pioggia. Sotto un dannatissimo acquazzone per essere precisi.

La simpatica sveglia del cellulare sul comodino si era rifiutata di suonare. Mio padre non si era sprecato di venirmi a chiamare. Era uscito come tutte le mattine mezz’ora prima dell’inizio delle lezioni. Solitamente si fermava sempre ad avvertire, ma quella mattina, l’unica in cui avrebbe dovuto rompermi le balle, aveva scelto di lasciarmi dormire tranquilla.

Quando un tuono si propagò nell’aria facendo tremare i vetri, mi svegliai di soprassalto. Capii subito che qualcosa non andava. L’ora lampeggiante in rosso sul display del lettore dvd me lo confermò. Otto e quarantacinque. Avevo un quarto d’ora per arrivare a scuola.

Cacchio.

Mi tuffai nell’armadio in cerca dei vestiti. La stanza era buia per via della luce plumbea che filtrava attraverso le tende pesanti e non feci molto caso a ciò che mi capitava in mano.

Buttai i libri nella borsa a tracolla e uscii dalla camera, mente m’infilavo i pantaloni. Sbucai nel garage, quasi trascinando la cartella con un piede. Aprii la portiera della macchina, la basculante si alzò e io partii a tutta birra.

Sembrava che tutti i semafori si fossero messi d’accordo per diventar rossi alla vista della mia macchina, per non parlare della quantità d’imbecilli che incontrai lungo il tragitto.

Erano le nove in punto quando parcheggiai l’auto davanti al Robert Lee High.

Non ero l’unica comunque ad essere arrivata in ritardo. Qualcun altro si era attardato, ma non di certo per non essersi svegliato in tempo. In cima alla scalinata principale, stavano parlando due ragazzi che non avevo mai visto. Sembravano più grandi di me, per questo ci feci caso e persi un po’ di tempo a osservarli nonostante il ritardo pazzesco. I due stavano ridendo di gusto e nemmeno si erano accorti della mia presenza.

La testa della donna si spostò leggermente di lato e finalmente riuscii a riconoscere il viso di lui: era Damon.

Quella scena mi riportò indietro di anni, quando Damon frequentava ancora il liceo: mi capitava spesso di trovarlo fuori dalla scuola, incurante delle lezioni, ad amoreggiare con la tipa di turno.

Era senza dubbio un bel ragazzo, forse uno dei più belli che avessi mai visto in vita mia ed era sempre circondato da una marmaglia di ragazze adoranti. Beccarlo in compagnia di qualcuno era all’ordine del giorno. Ci ero abituata, non avrebbe dovuto farmi un effetto così strano. Stavano solo parlando, sebbene la distanza tra i loro corpi non fosse molta.

Forse per la pioggia, forse per il ritardo, forse perché mi aveva baciato solo due giorni prima,  vederli insieme mi innervosì.

Mi seccò talmente tanto che, marciando spedita su le scale, pronta a rendere nota la mia presenza e farlo sentire un verme, non guardai dove mettevo i piedi e scivolai sull’ultimo gradino, capitolando in avanti. La mia cartella cadde a terra, insieme all’ombrello, e la pioggia mi colpì senza pietà, come ultimo tocco di quella immensa figura di cacca.

Avvertii un dolore lancinante nel punto in cui la gamba si era piegata nella caduta.

Damon abbandonò l’angolo protetto vicino al muro dove si era fermato a parlare con quella donna e mi raggiunse.

 “Bonnie” disse sorpreso, piegandosi su di me.

Fu particolarmente seccante farsi aiutare da lui ad alzarsi, ma lo fu ancor più appoggiarsi al suo braccio nel tragitto verso l’infermeria. Mi sarei fatta tagliare la gamba piuttosto, ma erano circostanze estreme non avevo davvero la forza di saltellare fino all’infermeria per farmi controllare la caviglia.

La tipa ci aveva seguito, con un’espressione preoccupata e con la mia cartella in mano. Era stata gentile, stava cercando di essere utile, ma io l’avrei fulminata.

Fortunatamente si tolse di torno in fretta, adducendo non so quale scusa. Doveva  incontrare qualcuno, una roba del genere. Non m’importò.

Mi assicurai solo che lasciasse la mia cartella ai piedi del lettino ospedaliero e poi la fissai sparire oltre la porta. Non prima di aver ringraziato Damon di averla accompagnata con un sonoro bacio sulla guancia.

“Sei diventato il Cicerone della scuola adesso?” commentai, il tono volutamente acido.

“Attenta, uccellino, stai diventando verde” replicò.

“Non sono gelosa!” obiettai, quasi offesa.

“Adesso ti si allunga pure il naso” mi prese in giro, mentre mi aiutava a issarmi sul lettino in attesa dell’infermiera che era sparita nell’altra sala. Tornò poco dopo e, inforcati gli occhiali, esaminò attentamente la mia gamba.

La tastò, premendo forte sul punto che mi faceva male. Storsi il naso dal dolore.

Delicata come un macigno!

“No, non è rotta, è solo una storta, però è meglio se per i prossimi giorni usi queste!” e mi mostrò un paio di stampelle, adagiate contro al muro dietro di me.

“Sta scherzando vero? No, senta non mi servono quelle, io cammino beniss …” nel parlare saltai giù dal lettino e atterrai su i due piedi. Una fitta di dolore risalì per la gamba infortunata e fui costretta a spostare tutto il peso sull’altra.

Damon mi sostenne per un braccio “Che ne dici di seguire gli ordini per una volta?!” propose con tono ironico.

Gli lanciai un’occhiata di fuoco.  Se mi fosse stato possibile, gli avrei sferrato un calcio di quelli potenti.

Afferrai arrabbiata le stampelle e, addossandomi a quelle, uscii in corridoio.

“Bonnie! La borsa!” mi rincorsi Damon.

Cercai di prenderla tenendo con una mano le due stampelle e allungando l’altra, ma ciò comportò solo la perdita dell’equilibrio e rischiai di finire ancora a terra.

Damon mi agguantò appena in tempo e mi mise le mani attorno alla vita per tenermi su mentre mi ero aggrappata alla sua giacca in un gesto istintivo.

Ci trovammo così a fissarci dritti negli occhi, tremendamente vicini. Furono attimi di panico per me. Non mi ero mai sentita così in balia di qualcuno come in quel momento.

Osservai il viso di Damon avvicinarsi e avvertii la sua mano risalire per la mia schiena fino a toccare i miei capelli.

Io attendevo come un’ebete. Ma cosa attendevo esattamente? Un altro bacio?

Bonnie, un po’ di forza di volontà! M’impose la mia coscienza.

Scostai il volto e balbettai “La b-borsa”.

Damon si riscosse da un sogno. Rimase qualche secondo stupito poi parlò con voce bassa e un po’ delusa “Te la porto io se vuoi”.

“No, grazie. Ce la faccio da sola”. Avevo riacquistato un po’ del mio coraggio e del mio buon senso. Senza aggiungere altro,  proseguii, da sola e impacciata, per la mia strada con la borsa a tracolla in pericoloso bilico sulla mia spalla.

 

Gattina, so che non puoi rispondere perché sei a scuola, ma ho avuto un’emergenza in ospedale e mi hanno messo anche il turno di notte. Non mi va che tu stia a casa da sola con quella gamba malconcia. Ho parlato con Giuseppe: stasera andrai da i Salvatore. Non voglio sentire storie.

Quello era il messaggio che avevo trovato sul cellulare alla fine delle lezioni. Onestamente non so se mio padre lo facesse apposta o se fossi io quella beffata di continuo dalla sorte.

Casa Salvatore era il posto da cui volevo stare il più lontano possibile e il caro papà mi ci spediva come cappuccetto rosso in bocca al lupo.

Lo avevo avvisato del mio incidente con la gamba e lo avevo convinto a non venirmi a prendere a scuola solo dopo avergli giurato di non essermi fatta seriamente male.

Ma era evidente che la sua preoccupazione non fosse svanita o non mi avrebbe imposto di trasferirmi da Stefan per la notte.

Da una parte ero tentata di ripiegare su una delle mie amiche, dall’altra non me la sentivo di allontanarmi troppo da casa.

Dopotutto se papà aveva parlato con Giuseppe significava che Giuseppe era lì e per forza ci doveva essere anche Stefan. Non sarei rimasta sola con Damon, potevo stare tranquilla.

Avevo capito che non potevo fidarmi di me stessa se era nella vicinanze. Odiavo ammettere una cosa del genere, mi faceva sentire debole e senza spina dorsale.

Quante volte avevo biasimato quelle ragazze che si lasciavano ammaliare da un bel visino?

Io ero molto suscettibile al fascino maschile, ma nessuno mi aveva mai abbindolato. Non ero la classica ragazza che si perdeva dietro lo stronzo di turno, io avevo sempre cercato qualcuno che valesse davvero. L’aspetto fisico da solo non bastava.

Ora, invece, mi ritrovavo a non avere più il controllo del mio corpo e delle mie azioni. La vicinanza di Damon mi stordiva completamente.

Il che mi lasciava perplessa come non mai dato che non mi era mai capitato prima.

Caroline e Meredith mi avevano avvisato di stare molto attenta. Superato lo shock iniziale, si erano mostrate comprensive più di quanto mi aspettassi e non avevano nemmeno sprecato molto tempo a dar contro a Damon.

Certo, non erano saltate dalla gioia (Caroline in particolare), ma avevano cercato di rimanere il più neutrali possibili.

Meredith era preoccupata specialmente per il lato più da donnaiolo di Damon, Caroline attaccava, invece, il lato più cattivo.

Entrambe concordavano sul fatto che quell’interesse fosse quanto meno curioso. Ma come avevo cambiato io parere, anche lui aveva tutto il diritto di rivalutare l’opinione che aveva di me. Perché dovevo avere dei pregiudizi?

Perché fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.

Se di lui o di me, questo era ancora da scoprire.

In entrambi i casi le mie due amiche mi avevano consigliato di tenere un po’ le distanze.

Appurato che, nonostante avessi gli ormoni in subbuglio, il mio non fosse solamente interesse fisico, valeva davvero la pena mettersi in gioco? Oppure era meglio ritirarsi subito, prima di raggiungere il punto di non ritorno?

Al contrario di Mere e Care, Elena mi aveva suggerito senza tanti giri di parole di godermi il momento e non farmi troppe paranoie mentali.

Lei sì che aveva piena fiducia in Damon e tifava per noi due senza ritegno.

Così, alla fine, avevo deciso di seguire la sua idea, dopo aver rifletto a lungo sui pro e i contro.  Conclusione? Non ero arrivata a nessuna conclusione.

Fortunatamente non avevo in programma di restare da sola con Damon. Quella sera sarei rimasta attaccata a Stefan tutto il tempo e magari avrei pure trovato il coraggio di confessargli che avevo baciato suo fratello. E che l’avrei rifatto volentieri, molte altre volte.

Scossi la testa per scacciare quell’idea. Era così difficile pensare lucidamente.

E chi aprì la porta?

“Uccellino, ti aspettavo”.

Eccolo lì, a gongolare con il suo sorriso soddisfatto.

“Mi aspettavi?” ripetei.

“Sì, ho accompagnato mio padre in ospedale e ho incontrato il tuo. Gli avevano appena comunicato che sarebbe dovuto rimanere anche per il turno di notte ed era preoccupato per la tua gamba. Così mi sono offerto di badare a te. È già la seconda volta, mi devi un favore”.

Occuparmi di te. Mi sono offerto. Ho accompagnato mio padre in ospedale.

“Scusa, ma Giuseppe non c’è quindi?” chiesi in panico.

“No, è in ospedale per dei controlli. Lo vado a riprendere domani mattina”.

Che razza di manipolatore!

“Mi sono stupito che tu abbia accettato” ammise “Stamattina non hai voluto il mio aiuto” mi rinfacciò.

Feci scivolare lo zaino con le cose per la notte giù per la spalle e glielo passai in malo modo, poi mi appoggiai alle stampelle ed entrai, guardandomi in giro.

“Dov’è Stefan?” m’informai.

“Non c’è. È da Elena”.

“E quando torna?”.

“Boh, penso domani”.

A quel punto gelai sul posto. Scoppiai a ridere un secondo dopo: mi aveva fregata, era solo uno scherzo “Sii serio. Stefan non mi pianterebbe mai in asso, soprattutto con una gamba fuori uso”.

“Non sa che sei qui. Mi sono dimenticato di avvertirlo, mi è proprio passato di mente”.

Mi resi conto con orrore di essere caduta in pieno nella sua trappola. Come una cretina.

Frenai l’istinto di sollevare una stampella e tirargliela in testa.

“Siamo io e te, qui, da soli” conclusi.

“Non fare quella faccia arrabbiata, Bon Bon, so perfettamente che è come un sogno che si avvera per te” mi stuzzicò.

“Più un incubo” replicai acida “Damon non ho bisogno della babysitter. È solo una storta”.

“Ricordi quando avevi la febbre e sei volata sul pavimento del mio bagno? Se ti dovesse succedere mentre sei da sola? Se ti dovessi rompere quella gamba?”.

“Non te ne frega nulla della mia caviglia. Tu volevi incastrarmi” lo accusai.

“Sempre questi paroloni” scherzò “Ho visto un’occasione e l’ho colta. Non venirmi a raccontare che non sei contenta, non ti crederei”.

Non ero contenta davvero. Avevo bisogno di più tempo per riflettere e per prendere le mie decisioni. Con quel gesto mi sembrava di non avere il controllo della situazione.

“Almeno c’è da mangiare? Sto morendo di fame” mugugnai. Avevo lo stomaco che pretendeva di essere riempito.

“La signora Flowers ci ha cucinato tutto il giorno quando ha saputo della tua gamba. C’è tanta di quella roba che potresti scoppiare”.

A fine cena stavo in effetti per esplodere. Non ricordavo l’ultima volta che avevo mangiato così bene. La signora Flowers era una cuoca eccezionale. Quando ero bambina volevo sempre restare a cena da Stefan solo per i piatti della sua governante.

Damon si dimostrò un perfetto uomo di casa e si occupò di ripulire tutto senza che io muovessi un dito. Con la mia gamba malmessa avrei avuto molte difficoltà a sistemare.

Avevo provato a stare in piedi senza stampelle, ma la mia caviglia bruciava tremendamente. Era peggiorata rispetto al mattino, probabilmente perché l’avevo stancata durante la giornata. Prima di andare a letto, avrei fatto meglio a prendere un antidolorifico.

“Fa ancora male?” s’interessò Damon.

“Un pochino” ammisi.

“Mi sorprende che ti sia presa solo una storta. Credevo ti fossi spaccata la testa quando sei caduta” disse.

“Mi sorprende che tu mi abbia perfino notata. Mi sembravi parecchio distratto”.

Lui sogghignò mentre riponeva l’ultimo piatto nella lavastoviglie “Mi eviti come la peste, però t’infastidisci quando l’attenzione non è tutta su di te” considerò.

“Questo non è vero!” obiettai “Non sono un’egocentrica”.

 “Oh, andiamo uccellino, di’ la verità: mi vuoi tutto per te” mi provocò.

“Smettila”.

“Non sopporti nemmeno che io parli con qualcun altro”.

“Smettila”.

“Hai fulminato quella povera ragazza”.

“Quello che fai nel tuo tempo libero con le tue povere ragazze non è affar mio. La mia era una semplice osservazione: eri talmente preso dalla vostra conversazione che non ti sei accorto di me fino a che non sono rotolata sul pavimento davanti a te. E se mi vedi infastidita forse dovresti chiederti se è giusto baciare una ragazza e poi provarci con un’altra due giorni dopo. Ma che cosa pretendo! Tu sei Damon Salvatore”.

“Già” mi fece eco, arrabbiato “Io sono un poco di buono”.

“Ti aspettavi un applauso?” mi accigliai “È così che speravi di convincermi?”.

“Non ho bisogno di convincere nessuno. E neppure mi scuserò per quello che hai visto”.

Ci rimasi di sasso. Lo avevo palesemente beccato con le mani nel sacco, era in torto marcio, eppure aveva ragione lui.

“Grazie, Damon, mi hai appena semplificato la vita”. Se quelle erano le premesse, tanto valeva non cominciare neanche.

Afferrai le mie stampelle e lasciai la cucina. Gradino dopo gradino, faticosamente raggiunsi il piano superiore e poi la stanza degli ospiti.

Indossai il pigiama e mi misi sotto alle coperte con il mio libro di lettura. Se Damon voleva comportarsi da bambino, non avevo nessun problema. Non avevo bisogno della sua compagnia.

“Sei la persona più irritante che conosca!” proruppe lui, entrando nella camera. Scostò le lenzuola che coprivano il mio corpo e si sedette in fondo al letto.

Ritirai le ginocchia al petto, spaurita e incerta.

Con una mano, agguantò una delle mie gambe, quella dolorante, e la esaminò: si era gonfiata un po’ e aveva un grosso livido dove avevo picchiato contro al gradino.

Solo in quel momento mi accorsi che Damon aveva in mano il tubetto di una pomata. Ne spremette un po’ sulla mia pelle e iniziò a massaggiarla.

“Questa la usava sempre la signora Flowers quando mi facevo male da piccolo. Attenuerà un po’ il gonfiore” mi spiegò.

Ero immobile. Le dita sulla mia pelle erano delicate e piacevoli e avrei potuto addormentarmi sotto il tocco di quelle carezze.

“Era la sorella di Alaric quella che era con me oggi. Sono andato a prenderla in stazione. Non si vedono da tempo e lei voleva fargli una sorpresa, così mi ha chiamato e mi ha chiesto di accompagnarla a scuola. E prima che ti vengano strane idee, convive con il suo fidanzato da tre anni e a ottobre si sposano”.

Lo guardai mortificata. Tanto rumore per dimostrare che non ero più una bambina frignona e alla prima prova mi comportavo esattamente come tale.

Come avrei desiderato nascondermi sotto al letto in quel momento.

“Tu mi odi, vero?” domandò a bruciapelo.

Aspettai a rispondere. No, non lo odiavo.

Ma se non era odio quello che provavo, che cos’era?

“Non ti biasimo. Mi sono sempre comportato male con te e con quelli che ti stanno a cuore. Ho dato il peggio di me”.

“Penso di non averti mai capito”, le parole mi uscirono dalla bocca prima che potessi fermarle “Io vedo il buono nelle persone, ogni volta, ma con te è stato difficile”.

“Perché sono uno stronzo”.

“Perché non ho voluto” confessai “Non ho voluto trovare del buono in te. Non lo so, Damon, forse mi hai sempre messo paura…”.

“Paura?”.

“Sì, paura. Non osavo avvicinarmi per paura. Mi facevi sentire piccola così…prima”.

“E adesso?”.

“Adesso mi spaventi ancora di più. Adesso so che ciò del buono in te, l’ho visto e ho paura di non poter più farne a meno” mi morsi un labbro imbarazzata.

Le dita di Damon risalirono lentamente verso il ginocchio “Non devi aver paura, uccellino. Sei l’unica che può dirlo. Ogni volta che ti guardo, mi sale una dannata voglia di prendermi cura di te”.

“Allora perché non mi hai detto subito che quella era la sorella di Alaric?”.

Strisciò sul materasso per avvicinarsi. Le sue mani avevano abbandonato la mia gamba e stringevano la mia vita attraverso la maglietta.

“Volevo che ti sentissi come me” soffiò sul mio volto. Baciò lentamente una guancia “Che ti sentissi come quando ti vedevo con Matt” e poi baciò la mia fronte “E con Klaus” e poi baciò la pelle vicino all’orecchio.

“In che senso vorresti prenderti cura di me?” lo sfidai, mentre chiudevo gli occhi, dopo aver scacciato ogni obiezione che la mia mente aveva formulato.

“In tutti i sensi” sussurrò veloce, prima di impossessarsi delle mie labbra.

Scivolai all’indietro, contro al cuscino. Le sue dita si fecero spazio sotto la maglietta del mio pigiama e la mia gamba, quella sana, s’intrufolò tra le sue, mentre le mie mani finivano tra i suoi capelli tirandolo sempre più vicino a me.

Non mi era mai capitato niente del genere e seguivo l’istinto. Sicuramente stavo mostrando il lato più impacciato di tutta la mia inesperienza, ma Damon non parve curarsene. Lui era il mago, lui conduceva i giochi. Io ero solo una piccola allieva.

Un’allieva curiosa e disposta a imparare ogni cosa.

Ogni sensazione.

Ogni tocco.

Ogni sospiro.

 

Il mio spazio:

Oggi non mi dilungo nei commenti perché ho poco tempo, ma dovevo assolutamente aggiornare.

Direi che in questo capitolo abbiamo fatto dei passi da gigante. È tutto incentrato sul punto di vista di Bonnie perché volevo darvi un’idea sulla confusione che le gira in testa.

Confusione che tutt’ora persiste e che si farà sentire ancora nel prossimo capitolo. Come vedete, questi due a gesti sono dei fenomeni, a parole un po’ meno e devono ancora spiegarsi per bene.

Vi ringrazio tantissimo per il seguito che ottiene questa storia capitolo dopo capitolo.

Vi adoro alla follia!

Stasera risponderò alle vostre recensioni!

Buon pomeriggio!

Fran;)

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Capitolo 24
*** La belle et la bête ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo ventiquattro: La belle et la bête

 

“This thing called love, I just can't handle it
This thing called love, I must get round to it
I ain't ready
Crazy little thing called love
This thing called love
It cries like a baby
In a cradle all night
It swings, it jives
It shakes all over like a jelly fish
I kinda like it
Crazy little thing called love”

(Crazy Little Thing Called Love- The Queen).

 

Lo avevo definito con gli epiteti peggiori che mi fossero mai venuti in mente. Qualunque mio accenno di cattiveria si era sempre palesato quando c’era lui di mezzo.

I suoi genitori lo avevano chiamato Damon. Nome azzeccatissimo.

Eppure addormentato sembrava semplicemente bello.

Tutto era bello, non solo lui.

Era bello stare appoggiata al suo petto, aggrappata alla sua spalla come un koala. Era bello avere il suo braccio attorno ai fianchi e già m’immaginavo quanto fosse intorpidito per il mio peso. Era bello guardare il suo viso così da vicino.

Si mosse leggermente nel sonno e io sgusciai via dal suo abbraccio, scivolando sul materasso per mettere un po’ di spazio.

Quel ragazzo mi stava facendo diventare matta.

Era nato per quel compito, ma una volta si trattava di un altro tipo di pazzia. Una volta era solo la voglia di zittirlo, di prenderlo per il collo.

I suoi sbalzi di umore, le sue cattiverie, le battute e le risatine mi avevano tormentato per anni. Non lo capivo e non m’importava.

Ora la situazione si era completamente ribaltata: stavo impazzendo, sì, ma nella maniera più dolce che si potesse intendere.

Arrossivo per le sue parole, il cuore mi andava a mille per la sua compagnia, mi mancava il fiato per la sua insistenza. Un’insistenza che non mi infastidiva affatto.

Quando ero insieme a Damon staccavo completamente la spina. Era una sensazione che mi spaventava e animava nel contempo.

La sera prima mi ero ripromessa di stargli alla larga e mi ero avviluppata a lui come una piovra. Non era stata proprio una prova di ferma volontà.

Non potevo fare altro: Damon mi attirava come una calamita. Era irrazionale, era istintivo, era nuovo per me. Ne ero semplicemente ipnotizzata.

Ancora più sorprendente: non si trattava solamente di attrazione fisica. La notte prima avevamo fatto le ore piccole, a parlare.

Parlare di stupidate, niente di importante. Mi ero sentita a mio agio come non mai.

Non era successo nulla, eccetto qualche bacio e qualche carezza che si era mantenuta al limite del casto, cosa che non mi sarei mai aspettata da Damon.

E poi un sacco di racconti e di battute, di risate, tanto da dimenticare il male alla gamba.

Alle fine ci eravamo addormentati praticamente uno sopra l’altro, dopo una breve battaglia a colpi di solletico. Non era stato un sonno tranquillo e rilassante: Damon si muoveva di continuo, un paio di volte mi aveva tirato un calcio e si era spalmato su di me, non in senso piacevole o malizioso.

Mi aveva scambiato forse per il suo cuscino e mi aveva pressato contro al materasso in una morsa troppo calda e opprimente.

Nonostante la notte agitata, mi sentivo riposata e felice. Stavo bene.

Stavo bene con Damon. Stavo bene con Damon. Stavo bene con Damon.

Continuavo a ripetermelo un po’ per convincermi che fosse vero, un po’ perché mi piaceva il suono che quelle parole mi evocavano.

Mi sentivo come una bambina a Natale e non capivo proprio come avessi potuto resistere così tanto. Da dove arrivava la mia reticenza?

Da anni di prese in giro, magari?

La mia vocina interiore aveva segnato un bel punto, ma non mi aveva scalfito per nulla.

Ricordavo perfettamente tutta l’antipatia che avevo provato verso di lui, semplicemente adesso non m’infastidiva così tanto.

Le persone potevano cambiare, giusto? Io per prima.

Era ancora mattina e io ero ancora un po’ intontita. Non avevo proprio la forza di mettermi a pensare al futuro. Mi volevo solo godere il momento.

Riappoggiai la testa sul cuscino, accanto alla spalla di Damon.

Ero lì per ricadere nel sonno quando le sue palpebre si alzarono e i suoi occhi neri si puntarono dritti nei miei.

“Credevi che stessi dormendo?” mi schernì “Nessuno mi guarda senza il mio permesso”.

“Non ti stavo guardando” replicai “Pensavo”.

“A me? È la stessa cosa” gongolò.

“Sei il solito egocentrico” m’imbronciai.

“Una delle mie tante qualità” sogghignò, girandosi del tutto verso di me.

“Direi anche umile”.

Si sporse verso di me prendendo gentilmente il mio braccio e massaggiò il polso scendendo fino alla mano “Se cerchi qualcuno di umile o altruista, hai scelto il ragazzo sbagliato”.

“Alle brave ragazze piacciono i cattivi ragazzi…così mi hanno detto” dissi molto lentamente, non perché volessi ottenere chissà che effetto, ma non riuscivo a parlare, troppo concentrata sulle carezze delle sue dita.

“Allora l’hai accettato alla fine” si compiacque.

“Non ho più l’istinto di ucciderti nel sonno se è questo che intendi” lo stuzzicai.

“E io non ho più il mal di orecchie a sentire la tua voce. Stiamo facendo passi avanti” ironizzò.

“Che cos’ha la mia voce che non va?” berciai.

“Niente, a parte il fatto che raggiunge note impensabili quando ti arrabbi. Cosa che accade spesso se sono nei dintorni”.

“La tua colpa è tua. Normalmente sono melodiosa come un usignolo. Anzi, scommetto che è proprio per questo che mi chiami uccellino”.

“Pensavo più a una cornacchia quando ho inventato quel soprannome”.

Sfilai la mano dalla sua presa e picchiettai con le dita sul suo torace “Ammettilo, Salvatore, inconsciamente ti sono sempre piaciuta”.

“Sì, a cinque anni quando eri ancora una bambina dolce e gentile, poi sei cresciuta”.

“Tu invece eri insopportabile già da piccolo” lo ribeccai.

“Come se mi avessi mai considerato. Sempre insieme a Stefan, il tuo migliore amico” sottolineò con una vocina derisoria.

“E questo che cosa significa?” chiesi.

“C’è stato un periodo in cui ti ritenevo carina” ammise con molta fatica. Pronunciò quel ‘carina’ con un’espressione costipata. Non seppi definire se il problema ero io o il complimento in sé. Probabilmente entrambi.

Corrugai la fronte “Non ricordo che tu sia stato mai carino con me” usai la sua stessa parola apposta “Mi hai fatto tanti di quegli scherzi che ho perso il conto”.

“Forza Bon Bon, non dirmi che la mamma non ti ha mai raccontato che se un maschietto fa gli scherzi a una bambina, significa che gli piace”.

Si rese subito conto della battuta di pessimo gusto.

“Sono arrogante, egocentrico e anche stupido. Scusami Bonnie, ho parlato senza pensare”.

Che Damon chiedesse scusa era già di per sé un fatto straordinario, ma che si dispiacesse così naturalmente senza temere di mostrarlo non era mai accaduto prima.

Rimasi attonita e poco ci mancò che mi scusassi io stessa. Era un vero mago a rigirare la frittata, anche quando non ne aveva l’intenzione.

Non era un argomento su cui desideravo soffermarmi più di tanto e decisi di insistere su un altro punto che m’interessava particolarmente.

“E così…aveva una cotta per me?” lo stuzzicai.

“Assolutamente no” smentì “Non travisare le mie parole”.

“Allora spiegamele”.

“Mi stavi solo più simpatica” minimizzò visibilmente a disagio “Ero un bambino. Cosa vuoi che ne capissi!”.

“E adesso? Che ne capisci?” lo pressai.

Mise una mano sulla mia guancia e l’accarezzò “Stai diventando sleale, uccellino”.

“Chissà da chi ho imparato” mormorai e ritornai giù, ad appoggiare la testa sulla sua spalla.

Ero pronta a riaddormentarmi, pronta a perdermi nel torpore che il suo corpo emanava. Ero talmente intontita che non udii il rumore di passi salire le scale, men che meno avvicinarsi alla porta.

Nel momento in cui la porta si aprì e il mio nome venne pronunciato era già troppo tardi.

Mi ero completamente dimenticata di averlo chiamato la sera prima, ma trovando la segreteria, gli avevo lasciato un messaggio.

Stefan rimase sulla soglia pietrificato. Guardava verso di noi come se al nostro posto ci fossero due alieni.

In effetti la situazione era abbastanza assurda considerando i soggetti. Doveva essere un bel colpo rientrare in casa e trovare la tua migliore abbracciata a tuo fratello, stesi sul letto in una posizione tutt’altro che difensiva.

Amica e fratello che si erano più volte giurati odio eterno.

Non avevo raccontato nulla a Stefan, niente di niente. Neanche una parola su come i rapporti tra me e Damon fossero cambiati, neppure in tempi non sospetti, quando le circostanze era ben meno compromettenti e gli unici gesti che avevamo scambiato erano di pura e semplice cordialità.

Damon si tirò a sedere sul materasso e io lo seguii a ruota.

“Fratellino, che ci fai qui così presto?”.

Forse non era proprio la domanda adatta per dissimulare una situazione scomoda.

E chiaramente Stefan lesse tra le righe quello che Damon gli aveva suggerito.

“Ti ho rovinato la festa?” lo ribeccò, alzando un sopracciglio.

Percepivo i toni scaldarsi. Non sarebbe finita bene.

“Che cosa diamine sta succedendo qui?” chiese Stefan scandendo con cura ogni parola.

“Niente d’interessante” rispose Damon con tono deluso, quasi volesse aggiungere un ‘purtroppo’.

Gli lanciai un’occhiataccia.

“Allontanati da lei” ordinò Stefan con una fermezza che colpì anche me.

Damon corrugò la fronte “Perché? Non stiamo facendo niente di male”.

La voce che usò era del tutto inappropriata. Sembrava più: abbiamo perfino i vestiti addosso, non farne una tragedia.

“Non so che cosa tu abbia in mente, ma Bonnie è fuori dalla tua portata” affermò Stefan convinto.

Proibire a Damon qualcosa era un invito a fare quella determinata cosa e anche di più.

“Io invece non so che cosa tu sia insinuando, ma onestamente non me ne frega molto della tua opinione”.

Gli occhi di Stefan mandarono fulmini “Bonnie” mi chiamò “Vieni qui”.

“Sa parlare anche da sola” gli fece notare Damon.

“Ragazzi…” cercai di calmarli, invano.

“Vattene da qualcun’altra, fratellone” ribadì Stefan con l’aria di uno che lo avrebbe preso volentieri per il collo.

“Perché non te ne vai tu, fratellino”.

Vidi Damon spostarsi sul letto, pronto a scendere. Sapevo che da lì a poco sarebbe scoppiato un putiferio. Fui più veloce e balzai giù sulla gamba sana, frapponendomi tra i due.

Misi una mano sul petto di Stefan per catturare la sua attenzione “Non è successo niente” dissi con decisione “Ci siamo solo addormentati sul letto dopo aver visto un film” mentii.

“Sul tuo letto?”.

“Avevo male alla caviglia, era più comoda qui” chiarii.

“Abbracciati?”.

“Nel sonno ci si muove”.

Ero diventata brava a inventare scuse. Non sapevo se preoccuparmene o compiacermene.

Stefan mi osservò scettico. Forse nemmeno aveva ascoltato bene le mie giustificazioni, pensava solo a come staccare la testa a Damon.

Ci voleva qualcosa di più convincente.

“Andiamo Stef” commentai con uno sbuffo “Io e tuo fratello? Pensi davvero che possa succedere qualcosa tra noi?”.

Guardò oltre le mie spalle. Fece un paio di respiri profondi e annuì. Sembrava che il problema si fosse risolto un po’ troppo velocemente rispetto a come era iniziato.

Possibile che tutto il sospetto e la rabbia fossero spariti con delle scuse così banali? Mi ero impegnata molto per apparire credibile, ma adesso Stefan stava cedendo troppo facilmente.

“Ti aspetto giù in salotto, preparo la colazione” mormorò e lasciò la stanza.

Mi sciolsi dal sollievo “C’è mancato poco” e mi voltai verso Damon.

Ciò che vidi fu peggio dello sguardo omicida di Stefan: i suoi occhi erano freddi, severi, quasi mortificati, delusi. Ed erano rivolti a me.

Ne fui colpita, confusa. Un momento prima mi stringeva delicatamente e un secondo dopo mi fissava come se fossi la peggiore delle criminali.

In quel momento capii che per me i guai non erano ancora finiti.

“Sei diventata un’ottima bugiarda, uccellino” constatò. Il mio nomignolo risuonò come un insulto tremendo.

“Beh, non ho proprio mentito: in fondo è vero, non è successo niente” ripetei.

“Sbagliato. Non è vero che non è successo niente. Non è successo quello, ma qualcosa è successo” precisò, seccato e innervosito.

“Stava per saltarti alla gola. Se non avessi negato, a quest’ora vi stareste prendendo a pugni” mi irritai a mia volta.

“Sicura che sia solo per questo?” cantilenò “O forse non avevi il coraggio di dire la verità!”.

“Sei paranoico, Damon”.

“Ho passato anni della mia vita a inseguire una ragazza che non mi voleva. Poi sono stato con un’altra ragazza che non mi voleva. Non ho interesse a ripetere la storia per una terza volta”.

“Dove vuoi arrivare?”.

“Per cominciare sarebbe carino se riuscissi a dire al tuo amichetto come stanno effettivamente le cose”.

“L’ho fatto per dividervi!” proruppi “L’ho fatto per evitare una lite inutile!”.

“Tu ti vergogni di me” mi accusò “E ti vergogni di te stessa, tanto da non riuscire nemmeno a dirlo ad alta voce”.

“Ho raccontato tutto alle altre” protestai “Sanno tutto”.

“Che cosa hai raccontato? Hai detto di provare qualcosa per me? Hai detto che nonostante il nostro passato adesso vuoi stare con me? Che puoi mettere da parte le tue idee per me?”.

Restai zitta. La conversazione non era andata proprio così. Damon pretendeva troppo: dovevo ancora fare chiarezza nella mia mente, avevo bisogno di più tempo.

“Ti va bene finché siamo soli, ma appena c’è la possibilità che qualcuno ci veda, scappi più lontano che puoi”.

“Non è proprio così” lo corressi “Mi sto ancora abituando”.

“Abituando a cosa? Hai già avuto altri ragazzi”.

“Ho avuto Matt e ci siamo solo frequentati”.

“Sì, alla luce del giorno. Avevi gli occhi a cuore, non vedevi l’ora di urlarlo a tutti”.

“Non è andata a finire bene tra noi” gli ricordai, un po’ per rincuorarlo, un po’ per fargli capire l’assurdità del suo discorso “Tu e io siamo ancora all’inizio: fino a ieri sera non ero neanche sicura di aver preso la decisione giusta”.

“Ora lo sei invece!” replicò sarcastico “Qual è la decisione giusta, Bonnie?”.

“Sei nervoso, Damon. Sei nervoso per come ti ha trattato Stefan. Ne parleremo quando ti sarai calmato, ma ora è meglio se scendiamo per colazione o tuo fratello s’insospettirà ancor di più”.

“Sarebbe una vera tragedia” commentò lui scettico “Adesso o più tardi non fa la differenza per me: non ho intenzione di essere il tuo segretuccio. E onestamente non capisco se vuoi solamente toglierti uno sfizio o sei hai paura di ammettere che ti piaccio sul serio”.

“Non è uno sfizio. Non sono il tipo da sfizio” obiettai, indignata che potesse pensare una cosa del genere di me.

“Allora non cambierà niente. Tra due giorni o tra due mesi, la verità è che non mi accetterai mai del tutto” sussurrò scoraggiato.

“Mi serve un po’ di tempo” mi giustificai, mortificata che si sentisse rifiutato per colpa mia “Mi sto abituando”.

“A cosa, Bonnie, a cosa?” pressò, esasperato.

“A te!” sbottai spazientita “Mi sto abituando a te, all’idea di essere attratta da te, all’idea di volerti. Non sei un santo, Damon. Me ne hai fatte di tutti i colori, ho pianto per colpa tua, mi sono sentita uno zerbino per colpa tua, ho dubitato di me stessa per colpa tua. Ora sono cresciuta, sono più forte e non voglio gettare i miei sforzi al vento. Quindi scusami se preferisco prendermi del tempo per riflettere, prima di buttarmi a occhi chiusi nelle braccia di chi mi ha fatta stare male!”.

Era ufficiale: con quelle parole avevo aperto il vaso di Pandora.

Avevo provato a tenermi tutto dentro, a non pensare ai miei sospetti. Avevo provato a evitare quel confronto. Speravo di risolvere le mie incertezze da sola, senza renderlo partecipe delle perplessità che avevo su di lui.

Damon incassò il colpo: la mia resa era stata da una parte una liberazione per lui, dall’altra una conferma delle sue paure.

“Non ti fidi di me” concluse amareggiato “C’è poco da stupirsi: mi sono comportato da vero stronzo con te. Il problema è che non posso tornare indietro e sistemare i miei errori. Ho cercato di rimediare in questi ultimi mesi, mi sono davvero impegnato per mostrarti la parte migliore. Hai visto tutto di me, il mio lato buono, quello cattivo, quello molto cattivo. Ti ho permesso di conoscermi. Evidentemente non è abbastanza. Sono sincero, ma non posso costringerti a credermi. Se mai ti deciderai, sai dove trovarmi. Ti chiedo solo di non tornare finché non sarai davvero convinta. Anche io ho costruito qualcosa e non posso rovinarlo per l’ennesima delusione”.

Mi superò uscendo dalla stanza.

Impiegai due secondi per girarmi verso la porta con l’intenzione di seguirlo, di fermarlo. Eppure non mossi un solo passo.

Non sarebbe cambiato niente. Io restavo della mia idea e Damon su quel punto era stato molto chiaro: torna solo se sarai convinta.

Non avevo niente di nuovo da aggiungere a ciò che gli avevo praticamente urlato.

Raccolsi la mia roba e zoppicai giù dalle scale attaccandomi alla ringhiera, senza prendere le stampelle, appoggiate in un angolo. Le dimenticai lì e me ne accorsi solo quando raggiunsi l’ingresso.

Avrei potuto chiedere a Stefan di portarmele, invece lo salutai frettolosamente, inventando che mio padre mi aveva appena chiamato per avvisarmi che il suo turno era finito.

Non potevo stare in quella casa un minuto di più.

 

Arrabbiato. Incazzato. Furioso.

Ero anche deluso, umiliato e tremendamente irritabile.

Mi ero morso la lingua per trattenermi, per non peggiorare la situazione. Ma la tentazione era stata forte.

Lei si vergognava di me. Lei!

Avevo trascorso anni della mia vita a considerarla una bambina, nemmeno così carina da tentarmi. L’avevo denigrata e ignorata. Davanti ai miei amici non aveva detto una singola parola gentile nei suoi confronti, mi ero sempre mostrato superiore e indifferente.

Avevo una reputazione da difendere!

Ma alla fine me n’ero fregato, alla fine mi ero arreso. Ero pronto ad ammettere i miei sbagli, a prendere a pugni Tyler se mai avesse avanzato altri commenti sporchi su di lei. Ero pronto a portarla fuori per un vero appuntamento, davanti agli occhi di tutti, a costo di passare per un incoerente, un ipocrita.

E lei si tirava indietro! Lei mi rifiutava perché non poteva mettere da parte i suoi stupidi principii da moralista.

Davvero ti stupisci? La ritieni inferiore a te e ti stupisci che sia fuggita a gambe levate?

C’erano momenti in cui avrei staccato il mio stesso cervello pur di sbarazzarmi della mia coscienza. Una volta neanche avevo una coscienza e adesso mi torturava un giorno sì e l’altro pure.

Bonnie aveva ragione: non ero uno stinco di santo. I miei stessi pensieri lo dimostravano.

Ero stato cattivo con lei, spesso senza un vero motivo, solo con la scusa di divertirmi. Scoppiava a piangere per niente e si arrabbiava per tutto. Provocarla era sempre stato il mio sport preferito.

Era il mio opposto. Incarnava quelle qualità che avevo sempre ritenuto difetti, quelle che non potevo sopportare. Quelle di cui ero miseramente privo.

Forse avevo invidiato la sua spontaneità e la sua innocenza. Forse avevo cercato di punirla per avermi schifato come un insetto.

Chi era lei per non degnarmi di uno sguardo? Perché Stefan sì e io no?

Bonnie era stata la prima a preferire mio fratello, era stata la prima a farmi sentire piccolo e insignificante.

Il mio orgoglio e il rancore mi avevano impedito di vederla per la splendida persona qual era. Avevo scelto di guardarla dall’alto al basso, di porla su un gradino inferiore al mio.

Mi era costata fatica e una buona dose di umiltà per cambiare opinione, per levarmi quei pregiudizi dagli occhi. Ma dopotutto niente era mutato da parte sua.

Nel momento di esporsi, si era ritirata impaurita: Stefan non doveva sapere.

E le sue amiche? Loro conoscevano parzialmente la storia, ma Bonnie si era ben premurata di non smascherare troppo le sue emozioni.

Della serie sì,  con Damon sento il brivido del proibito, niente di più.

La ragione di questa sua reticenza era ciò che mi feriva maggiormente: Bonnie non si fidava di me. Non riusciva a percepire la mia sincerità.

Non che le mie azioni fossero scaturite da un nobile intento. Se ripensavo alla scommessa, mi venivano i brividi dalla vergogna.

Alla fine, però, mi ero fregato con le mie mani. Caduto in una trappola degna della più banale commedia romantica.

Nonostante le mie colpe, nonostante riconoscessi che la sua diffidenza fosse giustificata, non mi pentivo dell’aut aut che le avevo dato.

Io non ero l’eroe, non ero il principe azzurro. Probabilmente in una fiaba mi avrebbero messo a fare il cattivo. Ma non eravamo in La bella addormentata nel bosco e lei non era la principessa da salvare.

Nel mondo reale i personaggi non erano tagliati con l’accetta.

Bonnie doveva imparare a seguire il suo lato più selvaggio, più istintivo. Se cercava un cavaliere senza macchia e senza paura, aveva sbagliato soggetto.

Lei stessa mi aveva confidato di non volere un bravo ragazzo. Con Matt era finita malissimo.

Io non ero del tutto cattivo. Avevo del buono in me e mi ero stufato di nasconderlo.

Esattamente nello stesso modo in cui Bonnie non era solo una ragazzina educata, ingenua e di cuore. Aveva avuto anche lei sprazzi di irruenza e combattività.

Nei miei confronti specialmente non si era risparmiata in battutine e affondi. La sua rettitudine iniziava a vacillare.

Ne era ben conscia e per questo tentava di mettere paletti tra di noi perché cedere a me significava accettare lati del suo carattere che la spaventavano.

Dichiarava di essere cresciuta, ma rimaneva troppo imbrigliata nel ruolo che per anni aveva interpretato. Non era più una matricola del liceo, si preparava a diventare una donna.

Io nel bene e nel male avevo messo sul tavolo da gioco tutto me stesso.

Adesso era il suo turno.  Dentro o fuori.

Non potevo sopportare una storia a metà, ma se era ciò che riusciva a offrirmi, allora mi sarei tirato indietro.

Perché avevo bisogno di Bonnie, sentivo e sapevo di aver bisogno di lei, di quella vera, senza freni e senza incertezze.

Non avevo mai provato niente del genere in vita mia. Ne ero terrorizzato.

E più di tutto temevo che lei non avesse bisogno di me allo stesso modo.

Cosa molto probabile visto la velocità con cui mi aveva accantonato per non turbare la quiete di Stefan.

“Damon, sei in camera?”.

O no. Ci mancava solo lui. Non volevo parlargli, non volevo vederlo. In realtà volevo solo essere lasciato in pace.

Me ne rimasi zitto, ma quel rompiscatole aprì la porta.

“Sto studiando” risposi a denti stretti.

“Senza libro?” replicò mio fratello scettico.

“Ripeto mentalmente” provai a scrollarmelo di dosso in tutti i modi, senza risultato.

“Sei diventato un pessimo bugiardo” sottolineò per poi sedersi sul mio letto.

Io continuai a dargli le spalle, appoggiato alla mia scrivania con i gomiti.

“Hanno chiamato dall’ospedale: tra poco possiamo andare a prendere papà”.

“Bene” asserii “Vado io. Non ti scomodare”.

Speravo che non avesse altro da aggiungere, ma non se ne andò. Non parlava e io potevo sentire comunque la sua presenza e i suoi occhi puntati sulla mia schiena.

“Damon mi dispiace per come ho reagito stamattina” sussurrò con un filo di voce.

Questo mi costrinse a voltarmi: non mi aspettavo le sue scuse, non dopo la scena di qualche ora prima. Non credevo nemmeno mi avrebbe più rivolto parola. Aveva messo in chiaro di non volermi vicino alla sua migliore amica, perché mi riteneva un poco di buono.

“Non preoccuparti, Stef” lo liquidai.

“Ti ho attaccato senza lasciarti spiegare. Ti ho visto lì con Bonnie e mi è salito il sangue al cervello, non sono riuscito a trattenermi”.

“C’era poco da spiegare. Come ti ha ribadito Bonnie non è successo niente”.

“Pessimo bugiardo” ripeté.

“Che cosa pretendi dalla mia vita Stefan? Stamattina quasi mi stacchi la testa perché mi sono addormentato accanto a Bonnie e adesso mi chiedi di perdonarti. O stai diventando bipolare o ti diverti a prendermi in giro”.

“Stavo solo difendendo la mia amica, non mi sono fermato a pensare. Tu sei mio fratello e abbiamo appena incominciato a ricostruire il nostro rapporto. Se abbiamo un problema dobbiamo risolverlo subito, quindi inizio io: mi spiace di averti accusato in quel modo”.

Liberai uno sbuffo esasperato “Come diavolo ci riesci?!” esclamai “Com’è possibile che qualunque cosa tu faccia, alla fine ne esci sempre da eroe? Sei…sei perfetto. Dici sempre la cosa giusta, fai sempre la cosa giusta, pensi sempre la cosa giusta. Come cazzo ci riesci?”.

“Ho come l’impressione che non stiamo parlando più di me” ipotizzò fissandomi.

“No, sono io il problema! Sono io quello sbagliato”.

“Sbagliato per chi?” indagò.

“Nessuno” troncai “Come mai sei tornato così presto questa mattina? Elena ti ha cacciato dal letto?” sviai il discorso.

“Ieri sera Bonnie mi ha lasciato un messaggio chiedendomi di venire qui. Avevo il cellulare scarico e non me ne sono accorto. Quando l’ho ascoltato, sono corso qua. Avevo paura fosse successo qualcosa a papà”.

Fantastico, non sopportava nemmeno di rimanere da sola con me. Pensai amaramente.

“C’è un motivo se ti ho chiesto scusa, se ho cambiato idea: è stata l’espressione che hai fatto quando Bonnie ha detto che non era successo niente tra voi” mi raccontò “Damon, credo che tu tenga a lei più di quello che vorresti ammettere e credo ci sia molto altro da sapere”.

Che cosa te lo fa credere?”.

“Per esempio quella volta in cui siete arrivati all’ospedale mano nella mano. Ammetto che trovarvi nel letto assieme è stato un po’ più sconvolgente”.

“Stavamo dormento, vestiti. Ho visto cartoni animati più spinti”.

“Per te forse, mi sembra che per Bonnie sia stato sconvolgente quanto lo è stato per me”.

“Calmati, Santo Stefan, non assisterai più a una scena simile. Sospetto che la tua amica mi abbia dato il ben servito”.

“Bonnie si sta proteggendo; è ancora una bambina” mi disse, teneramente “È una bambina che crede nelle favole. Sogna il grande amore, sogna l’avventura, ma la spaventa il salto nel vuoto. Non ha la minima idea di come gestirti. Tu sei…”.

“Il buco nero” ironizzai “Sei stranamente tranquillo rispetto a questa mattina”.

“Aspetto di ascoltare tutta la storia prima di minacciarti di morte, un’altra volta” sogghignò “Andiamo a prendere papà, mi racconti in macchina” proprose.

“Non mi basta il tempo”.

“Facciamo il giro lungo”.

 

Elena mi aveva proprio incastrato.

Adoravo i bambini, normalmente avevo un ottimo feeling con loro, ma quel giorno non ero dell’umore adatto per avere compagnia.

Avrei tanto desiderato starmene sola; invece la mia migliore amica si era presentata da me con sua sorella Margaret chiedendomi di farle da babysitter.

I genitori erano usciti a cena, Katherine come al solito si era defilata più veloce della luce. Elena inizialmente si era offerta di badare alla sua sorellina, poi Caroline l’aveva praticamente supplicata di aiutarla con un evento di beneficienza.

Avevo accettato di tenerla con me, ma non ero assolutamente dell’umore adatto per giocare o intrattenerla. Allora l’avevo piazzata sul divano a guardare un cartone animato.

Aveva scelto la “Bella e la bestia”. Avevo ancora tutti i film di quando ero piccola e quello era uno dei miei preferiti. Rimasi con lei sul divano, anche se avevo la testa da tutt’altra parte. Restai attenta solo per i primi due minuti, durante il racconto iniziale con quella musichetta che mi metteva sempre angoscia e meraviglia nel contempo, poi staccai.

Mi ero cacciata in una spiacevole situazione. Per quanto ne fossi combattuta, non mi ero mai resa conta di quanto mi mettesse a disagio fino a questa mattina.

Non mi ero mai esposta per Damon, almeno non pubblicamente. Alle mie amiche avevo confessato tutto, ma non mi ero mostrata affatto convinta, anzi ero apparsa più propensa a un no che a un sì. Stefan ne era addirittura all’oscuro.

A questo punto fosse sospettava qualcosa, dato che le mie scuse non erano state di grande inventiva.

L’intento era di non mettere Damon ulteriormente nei guai, ma ne avevo anche approfittato per rimandare una scomoda chiacchierata.

Mi vergognavo a rivelarlo a Stefan, perché per anni non avevo fatto altro che denigrare suo fratello. Mi ero vantata di non essere come le altre ragazze, di non avere alcun interesse per Damon, di non considerarlo nemmeno così fascinoso. E poi finivo addormentata e abbracciata a lui nel letto? Gran prova di coerenza!

Ci avevo provato, sul serio. Avevo tentato di accettare i sentimenti che provavo, di dimenticarmi del passato. Eppure, nel momento in cui Stefan mi aveva colta sul fatto, i miei sforzi erano stati spazzati via.

Damon suscitava in me emozioni che non avevo mai sentito in vita mia, questo sì. Ma non mi fidavo.

Non credevo alle sue buone intenzioni. Temevo che si trattasse solo di un gioco o di un capriccio, che mi avrebbe piantato in asso non appena gli fosse passata l’infatuazione.

Io non ero la ragazza che cercava. Non ero pronta a una relazione come quella che poteva offrirmi: passionale, intensa, inebriante, quasi infiammata.

Con lui tutto andava a cento all’ora, tutto era spinto all’eccesso. Non sapevo come stargli dietro. Ero completamente destabilizzata e un po’ frenata dalle mie stesse remore.

La questione si risolveva in una semplice domanda: ero cambiata a tal punto da imbarcarmi in una relazione con Damon? I suoi sbalzi d’umore potevano conciliarsi con le mie insicurezze, la sua impulsività con la mia sensibilità?

Osservai distrattamente lo schermo: eravamo già arrivati al punto in cui la bestia salvava Belle dai lupi.

Margaret aveva scelto un film provvidenziale: la bestia assomigliava un po’ a Damon.

Arrogante, cinico, totalmente privo di tatto o di una qualsivoglia educazione; ma anche sofferente, buono nel profondo, appassionato e autentico.

New and a bit alarming
Who'd have ever thought that this could be?
True that he's no Prince Charming
But there's something in him that I simply didn't see*

Illuminazione, epifania, non sapevo come chiamarla. Improvvisamente tutto era diventato chiaro nella mia mente, dopo l’ascolto di quella semplice canzone e dopo l’intesa nata tra i due protagonisti in seguito all’episodio nella foresta.

Udii un’auto fermarsi nel vialetto di Villa Salvatore. Gettai un’occhiata oltre la finestra e scorsi Stefan, Damon e Giuseppe scendere dalla vettura.

Mollai lì Margaret che nemmeno si accorse di niente tanto era presa dalla visione.

Uscii in strada: Giuseppe e Stefan erano appena entrati in casa, Damon stava scaricando un borsone dal bagagliaio.

Mi avvicinai in fretta, lo chiamai e senza dargli il tempo di aprire bocca, cominciai “Non dire una parola. È importante, quindi ascoltami in silenzio”.

Corrugò la fronte incuriosito e mi fece segno di continuare.

“Hai presente che le bambine da piccole sognano il Principe Azzurro? Quello sul cavallo bianco, senza macchia e senza paura? Ecco, lo sognavo anche io ovviamente. Poi si cresce, i sogni cambiano ma le basi rimango quelle: cercare il principe delle favole. Tu eri il sogno di tutte le mie compagne, per me eri un incubo. Anzi, sei il mio incubo peggiore: presuntuoso, egocentrico, irresponsabile, zero senso della famiglia o dell’affetto, egoista…”.

“Se sei venuta per insultarmi puoi anche andartene. Lo hai già fatto per anni”.

“Io ho sempre preferito la bestia” confessai di getto “La bestia era divertente e complicata, era da scoprire. Da un po’ di tempo il mio cuore è freddo e non riesco a sentire niente. Un incubo mi tormentava: tu. L’idea di arrendermi a te era una paura che si stava avverando e ho fatto di tutto per impedirlo. Solo adesso ho realizzato che non me ne frega niente del sogno, mi basta l’incubo perché è l’unico che riesce a scaldarmi il cuore. Tu sei quella dannata bestia e mi va benissimo così”.

Damon rimase di stucco a fissarmi. Io divenni bordeaux. Era stata la mia voce a parlare? Mi ero davvero messa a nudo in quel modo?

E Damon non mi rispondeva, il che mi imbarazzava ulteriormente.

“Io…devo andare. Margaret…beh, abito qui di fronte se…” farfugliai qualche scusa sconclusionata e corsi a cercare riparo in casa.

Posai una mano sul cuore che batteva all’impazzata. Ora che l’adrenalina stava sparendo, le mie gambe iniziavano a tremolare.

Non avevo chiuso la porta d’ingresso a chiave per la fretta. Questa si aprì alle mie spalle e io mi voltai spaesata, in un tumulto di emozioni confuse.

“Mi serviva qualche secondo per elaborare l’offesa” disse Damon affannato “Non posso credere che tu mi abbia paragonato a quella bestia pelosa”.

Un attimo dopo mi sollevò da terra, i miei fianchi stretti tra le sue dita, e mi baciò, cancellando finalmente ogni mio dubbio.

 

Il mio spazio:

Scusatemi per l’immenso ritardo, ma avevo un compito per l’università e ho dovuto accantonare un po’ la scrittura.

In più è stato un capitolo disastroso da completare e non sono nemmeno sicura che sia uscito così bene.

No, niente notte di fuoco tra Damon e Bonnie. La storia non è ancora finita, quindi potrebbe accadere, ma ora era troppo presto.

In questo capitolo viene affrontato un grosso problema: Bonnie non cede perché non si fida di Damon, delle sue intenzioni e delle emozioni che le fa provare.

Non si fida neanche di se stessa, della sua capacità di gestire una situazione del genere. Sta entrando nel mondo degli adulti e come ogni adolescente né attratta e intimorita.

Spero davvero che la sua “illuminazione” finale non vi sembri troppo affrettata. A volte capita che le cose più banali ci facciano capire ciò che vogliamo in pochissimo tempo. Poi sono anche del parere che a diciott’anni certi momenti vadano vissuti e basta, d’istinto, accantonando le pare mentali.

Che ne dite del confronto tra fratelli? Stefan alla fine a mente lucida e più tranquilla è andato a scusarsi con Damon e a chiedere la sua versione. Non è proprio al settimo cielo per questa relazione, ma imparerà anche lui ad abituarsi.

Vi avviso che mancano ancora pochi capitoli al termine, quattro o cinque!

Ora vi lascio perché comincia a farsi tardi. Ho corretto il capitolo adesso, quindi mi scuso per eventuali errori, sono un po’ stanca.

Buona notte (se c’è ancora qualche pazza sveglia che ha letto ora), e buona giornata per tutte voi che leggerete domani!!

Grazie mille per il continuo supporto. Un bacione,

Fran;)

 

 

*Questi sono alcuni versi tratti dalla canzone Something there. La scena in particolare è quella in cui Belle e la bestia sono in giardino e danno da mangiare agli uccellini. È il momento in cui si accorgono che qualcosa tra loro sta cambiando. Ho scelto la versione in inglese perché le parole erano più adatte. La traduzione è questa:

Nuovo e un po’ allarmante

Chi avrebbe mai pensato che potesse accadere?

Certo, non è il Principe Azzurro

Ma c’è qualcosa in lui che semplicemente non avevo visto.

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Capitolo 25
*** It's too cliché, I won't say I'm in love ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo venticinque: It’s too cliché, I won’t say I’m in love

 

“I can see it in your eyes
That you despise the same old lies you heard the night before
And though it's just a line to you, for me it's true
And never seemed so right before
I practice every day to find some clever lines to say
To make the meaning come through
But then I think I'll wait until the evening gets late and I'm alone with you
The time is right, your perfume fills my head, the stars get red and  the night's so blue
And then I go and spoil it all by saying something stupid like I love you

(Something stupid- Frank e Nancy Sinatra).

 

Chissà perché compiere diciott’anni era una cosa che spaventava e eccitava nel contempo?

Si trattava solo di un numero. Un giorno avevi diciassette, il giorno dopo uno in più.

Che cosa c’era di tanto diverso? Non si cambiava in una notte.

A diciotto anni si poteva votare, questo mi doveva far sentire più matura? Probabilmente avrei impiegato minimo altri due anni per formarmi un’opinione sulla politica.

Avevo preso la patente a sedici anni e non avrei potuto bere alcolici legalmente fino ai ventuno. Che cosa c’era di speciale nel diciottesimo compleanno?

Semplice: non si diventava adulti da un giorno con l’altro, ma si entrava di diritto nel mondo degli adulti e quello era un passaggio troppo importante nella vita di un’adolescente.

Dovevo cominciare a fare i conti con la fine della scuola superiore e l’inizio di una nuova esperienza: l’università, il distacco con la famiglia, la responsabilità crescente.

Ma era ancora troppo presto per preoccuparmi di tutto quello e avevo impegni decisamente più imminenti, come la festa per il mio compleanno.

Avevo delegato il compito a Caroline che era stata felicissima di potersene occupare. Me n’ero pentita nemmeno due ore dopo.

Da sola non ero capace di organizzare un evento simile e onestamente, sebbene avessi voglia di festeggiare, non avevo di certo le capacità e la pazienza di trafficare tra inviti, musica, catering e altro.

Erano i miei diciott’anni, desideravo dare una festa con i fiocchi, ma senza un’esperta non avrei combinato niente. Per questo avevo pensato a Caroline e alla sua innata dote organizzativa.

Peccato che non avessi messo in conto anche la sua tendenza a esagerare tutto. Se non fossi stata attenta, mi sarei trovata in mezzo a un circo.

Avevamo trovato un locale molto carino, appena fuori da Fell’s Church, abbastanza grande senza essere troppo dispersivo. I proprietari mi avevano dato praticamente carta bianca. Fatta eccezione per il bar che rimaneva sotto la loro gestione, potevo gestirmela come preferivo.  Mio il DJ, mio l’allestimento, mia l’atmosfera.

O meglio, di Caroline perché era lei il capo per quella sera.

Le avevo dato istruzioni precise: festa chiusa e su invito, alcol limitato per evitare eccessi e danni, nessun tema ridicolo che implicasse un dress code. Un po’ di eleganza era richiesta, ma non mi andava di vedere tutti in bianco e nero, o in rosso, o conciati come manichini dell’Ottocento.

Ci tenevo a organizzare qualcosa di carino e adatto a me, quindi semplice, non troppo sfarzoso.

Sapevo che Caroline avrebbe sforato da qualche parte, non si sarebbe mai contenuta così tanto, ma potevo sopportare qualche stravaganza.

Ero assolutamente elettrizzata all’idea di passare una serata dedicata a me (un po’ di sano egoismo a volte faceva bene) circondata da tutti i miei amici.

E da Damon. Pensai con un mezzo sorriso imbarazzato.

Era passato un mese o giù di lì, ma era ancora quello l’effetto che sentivo quando fantasticavo su di lui: rossore, palpitazioni, sorriso da ebete, morsa allo stomaco.

Non riuscivo a parlarne senza balbettare o arrossire come una ragazzina alla sua prima cotta.

Lo sapevano più o meno tutti, sebbene né io né Damon avessimo confermato nulla. Uscivamo insieme, ma non ci tenevamo per mano, men che meno ci baciavamo in pubblico. Eravamo riservati, gelosi della nostra privacy. Ma suppongo che fossero stati i piccoli gesti a far intuire ciò che stava succedendo tra noi: come uno sguardo, un buffetto sulla guancia, una carezza sui capelli. E ovviamente i pettegolezzi a Fell’s Church volavamo più veloci della luce.

Uno degli ultimi a scoprilo era stato proprio mio padre, per assurdo, il capo del fan club di Damon. Una scena ridicola e d’impatto, cui un’adolescente non vorrebbe mai assistere.

Eravamo seduti sui gradini del portico di casa mia, dopo un appuntamento serale. Il bacio della buona notte si era prolungato più del previsto e mio padre aveva aperto la porta, pronto a trucidare la nuova fiamma della sua bambina.

La sorpresa di trovarsi davanti nient’altri che il suo pupillo lo aveva quasi commosso.

Io mi sarei sotterrata, Damon non poteva apparire più compiaciuto di così.

Avevo chiacchierato a lungo con Stefan riguardo a quel rapporto sgangherato nato da chissà dove. Mi era servito parecchio per rimettere in asse alcuni momenti e emozioni.  Stefan era la mia roccia, era il mio punto di riferimento e non avrei mai mosso un passo senza chiedere un suo parere.

Alla fine eravamo giunti alla conclusione che entrambi avevamo mal giudicato Damon. Non che lui si fosse mai impegnato troppo per cambiare l’immagine che si era creato. Ma quella era un’occasione per tutti e tre di ripartire da zero.

Avevo comunque apprezzato lo scatto protettivo che Stefan aveva avuto nei miei confronti. Fratello o meno, se Damon mi avesse fatto soffrire anche per sbaglio, Stefan non avrebbe esitato a rimetterlo in riga.

Le altre aveva accettato la nostra relazione senza tanti problemi. Non contando Elena che accompagnava mio padre nella gestione del Damon-Bonnie fan club, Meredith e Caroline avevano accolto di buon grado la novità, specialmente la seconda che non smetteva più di fare battutine piccanti su di noi.

La cosa mi avrebbe messo a disagio in qualunque situazione, ma in quel contesto ancora di più perché tra me e Damon non era ancora successo niente, in quel senso.

I nostri incontri erano decisamente al di là di baci innocenti, eppure non eravamo arrivati fino in fondo.

Motivo semplicissimo: non ero ancora pronta.

Damon mi piaceva alla follia, stavo bene con lui come con nessun altro, ma ci frequentavamo da poco e quel passo era troppo importante, almeno per me.

Lui era già stato con centinai di ragazze. Io no. Con nessuno.

Non sapevo neanche da dove cominciare, non sapevo muovermi, avrei rovinato tutto.

Il pericolo di fare una figuraccia era dietro l’angolo.

Mi mancava ancora un po’ di sicurezza e qualche conferma. Cercavo di rimanere con i piedi per terra e di non saltare nel vuoto a occhi chiusi.

La mia prima esperienza non doveva essere presa alla leggera, non ero quel genere di ragazza. Se non fossi stata certa al cento per cento, me ne sarei pentita per sempre.

D’altra parte Damon aveva risvegliato tutti gli ormoni che non credevo di possedere e mi risultava sempre più difficile resistere.

Più di una volta avevo pensato di buttarmi e basta, senza badare troppo alle conseguenze. Alla fine mi ero sempre fermata.

Era inutile dopotutto crucciarsi in quel modo per un problema che non trovava soluzione logica. Se doveva accadere, sarebbe stato spontaneo.

E poi c’era anche quella dannato domanda a martellarmi: quanto mi avrebbe aspettato?

Un tipo come Damon, fisico e passionale, si sarebbe stufato presto o tardi.

Ero tremendamente combattuta, ma non volevo per nulla al mondo farmi condizionare. La decisione era mia soltanto e se non gli stava bene, allora non aveva senso continuare.

In realtà, Damon non mi aveva mai pressato o scaricato su di me il peso dell’attesa. Si era dimostrato sorprendentemente comprensivo. Ogni tanto scappava qualche battuta, ma capivo che non c’era insofferenza nella sua voce.

Alla fine dei conti, si trattava solamente di mie paranoie.

Di certo potevo solo affermare di essere pazza di quel ragazzo. Tutto ciò che prima non sopportavo di lui, adesso mi sembrava essenziale per la mia vita.

Non vedevo l’ora di passare il mio compleanno con Damon, di farmi viziare e coccolare, di creare quel ricordo e portarmelo via per sempre.

Per questo restai totalmente di sasso quando mi disse:

“Scusami, Bonnie, ma non credo che verrò”.

“Che cosa significa che non credi che verrai?” berciai minacciosa.

“Ho già passato troppe feste di liceali quest’anno e poi gli esami si avvicinano e mi sveglio presto al mattino per studiare”.

“Ma è il mio compleanno!” replicai stupidamente “Sono i miei diciott’anni”.

“Festeggiamo un altro giorno. Io e te, da soli” ghignò.

“No” obiettai “NO!” ribadii “Io voglio festeggiare domani sera con i miei amici e con te”.

“Parole magiche: tuoi amici, non miei. Che differenza fa se stiamo insieme domani sera o un’altra volta?”.

“Te l’ho già detto che è il mio compleanno, vero?” m’indignai.

“Sono un po’ grande per circondarmi di ragazzini. Farei ridere in mezzo a voi, sembrerei il vostro babysitter. Preferisco evitare”.

“Per Katherine eri disposto a sopportarlo però!”.

“Bonnie, non prenderla sul personale…”.

“E come potrei? Per lei sei venuto alla festa di inizio anno, poi a quella di Stefan. Hai persino accompagnato Caroline al concorso di bellezza. È chiaro che sono io ad avere qualcosa di sbagliato!”.

“Lo sapevo che ne sarebbe uscito un dramma” sbuffò “Katherine non c’entra niente e poi guarda com’è finita. Non cambia nulla tra noi”.

“Cambia, invece” precisai “Tutte le tue belle parole non valgono se alla prima occasione scappi per un motivo così stupido”.

I suoi occhi s’incupirono e mi prese per le spalle “Credimi, uccellino, quando ti dico che è nel tuo interesse. Terrei il muso, ti rovinerei la serata e mi odieresti più quanto tu non stia facendo ora”.

“Ne sei sicuro? Mi sembra difficile” lo freddai scrollandomelo di dosso. Gli girai le spalle.

“E adesso dove vai?”.

“Lontano da te. Sono arrabbiata”.

 

Ero ancora arrabbiata la sera successiva, quando arrivai al locale con Stefan e Elena. Entrambi sembravano non curarsi del mio problema, come se fosse una cosa normalissima per Damon. Beh, non lo era per me!

Erano i miei migliori amici, avrebbero dovuto spalleggiarmi e non dare corda a lui.

Non appena vidi Caroline, fuori dall’entrata, mi rallegrai. Sapevo che sarebbe stata dalla mia parte e al momento avevo bisogno solo di qualcuno che mi ascoltasse e mi desse ragione.

Mi prese il braccio, tutta agitata, e prima che potessi aprire bocca, mi trascinò dentro. Non ero preparata a ciò che mi accolse, o meglio a chi: una moltitudine di persone che urlarono all’unisono buon compleanno.

Feci brevemente un calcolo e constati di conoscere, forse, la metà della gente presente.

Sorrisi forzatamente e lanciai di traverso un’occhiataccia alla mia amica.

“Non avevo detto una cosa tranquilla?” digrignai tra i denti.

“Ho fatto di testa mia” ridacchiò “Tesoro mio, diciott’anni si compiono solo una volta nella vita. Perché non approfittarne?” saltellò tutta contenta.

“C’è tutta la scuola o sbaglio?” azzardò Elena, scioccata quanto me.

“Tutti tranne tua sorella” confermò Caroline “E mi sono premurata che sapesse di essere l’unica non invitata”.

“Ottimo, aggiungiamo un altro motivo alla sua vendetta contro di me” borbottai a bassa voce. Caroline non mi udì.

“Dov’è Damon?” domandò invece guardandosi attorno.

“A giocare alla playstation, presumo” risposi con sarcasmo.

“Damon non se la sentiva di passare la serata con noi adolescenti” spiegò Stefan, molto più diplomaticamente.

“Che stronzo!” commentò.

“Grazie” esultai “Finalmente qualcuno che mi capisce”.

“Fanculo Damon Salvatore” proruppe Caroline “Troviamo Meredith e Matt e apriamo una bottiglia per brindare. Stasera si festeggia, non si piange!”.

E così fu.

Per quanto sentissi l’assenza di Damon e mi dispiacesse, cercai di non rimuginarci troppo sopra e di godermi il party per il mio compleanno.

Nonostante la gran folla, trascorsi la maggior parte del tempo con i miei amici e presto cominciai a divertirmi veramente.

Non mancava molto alla fine della scuola e all’inizio dell’università. Nessuno di noi aveva scelto college vicini e forse momenti come quelli non sarebbero tornati più.

Io stesso aspettavo la risposta da un’università in particolare che non si trovava proprio nelle vicinanze di Fell’s Church.

Il che poneva una discreta quantità di problemi, ma non era il caso di pensarci in quel frangente. Potevo sempre rifiutare. Magari neanche mi avevano accettata.

“Bonnie!!” mi chiamò Meredith sventolando la mano “La torta!” mi avvisò.

Quella sì che era una bella notizia.

 

Per la seconda volta mi trovai ad avere a che fare con una Bonnie elettrizzata dall’alcol.

Cominciavo a capire perché le brave ragazze non bevevano: tendevano a ubriacarsi.

Rispetto all’ultima volta era molto meno marcia. Non l’avrei definita sbronza, ma molto allegra, euforica. Talmente tanto da saltellare su quei tacchi come se fossero ballerine.

Ero andato alla sua festa, ma non avevo nessuna intenzione di condividerla con i suoi amici. Il suo tempo era mio, la volevo tutta per me senza interferenze esterne.

Non era stato divertente interpretare la parte dell’insensibile ancora. Non con Bonnie. M’importava poco degli altri, ma lei…lei non mi doveva più odiare.

L’aveva già fatto abbastanza in passato. Eppure mi ero impegnato tanto per deluderla, di proposito. Era tutto parte di un piano.

Mi era rifiutato di partecipare alla sua festa, perché ne avevo organizzata un’altra, solo per noi due. L’avevo lasciata divertirsi con i suoi amici per le prime ore della serata. Adesso pretendevo il mio turno.

Era mia intenzione prenderla da sola, sottrarla alla folla e convincerla a venire via con me. C’era davvero troppo gente in giro, la maggior parte a me sconosciuta. Sospettavo che fosse opera di Caroline.

Anche la festa in generale era troppo chiassosa per i gusti di Bonnie. Il mio uccellino non era certo il tipo da grandi party o serate in discoteca.

Sembrava divertirsi, dopotutto. Circondata dai suoi amici, indifferente del casino che le girava intorno.

Guardai l’ora: cominciava a farsi tardi. Non potevo aspettate oltre. Avrei preferito evitare qualsiasi interazione con gli altri, ma non avevo molto tempo.

Scivolai tra la massa, silenzioso e invisibile. Erano tutti troppo presi dalla musica e nessuno fortunatamente mi notò.

Almeno finché non mi avvicinai abbastanza al gruppetto in questione e Elena mi riconobbe. Provò a non ridacchiare come una ragazzina che la sapeva lunga; provò anche a non incrociare lo sguardo di Bonnie e lasciarle scoprire tutto, ma non servì a nulla.

La rossa, insospettita dall’occhiata che le aveva tirato l’amica, si voltò e la mia sorpresa venne totalmente rovinata.

Non posso dire che restai deluso dall’accoglienza. Credevo mi avrebbe preso a schiaffi dopo la discussione del giorno prima, invece i suoi occhi s’illuminarono e mi venne incontro con un sorriso che brillava nonostante le luci soffuse.

“Alla fine ti sei deciso a mischiarti con  noi adolescenti?” mi beccò.

Era brilla, non ubriaca. Aveva ancora la lucidità per freddarmi quando era necessario.

“Non mi merito nemmeno un bacio di benvenuto?” la stuzzicai.

“Pensi di cavartela così facilmente?”.

“Ho in mente qualcosa che rimedierà”.

Mi fissò scettica “Di che si tratta?”.

“Vieni via con me” le proposi.

“Sei impazzito?!” esclamò “È la mia festa. Ci sono i miei amici, non posso andarmene via così. Non è educato e mi stavo divertendo”.

“Io sono più divertente” la spronai “Su, Bon Bon, non conosci nemmeno la metà della gente che c’è qui. Non mi scambieresti mai per loro”.

“Ma ti credi più bello degli altri?” mi bacchettò.

“Temo che tu sappia già la mia risposta”.

Sbuffò e mi gettò un’occhiata di avvertimento. Mi stava avvisando di non tirare troppo la corda perché altrimenti me ne sarei pentito.

Sapevo di non averla convinta completamente. Non aveva motivo per abbandonare la sua festa di compleanno e seguirmi. Non capiva perché non potessimo stare tutti insieme.

Mi piegai su di lei e le nostre fronti si sfiorarono “Vieni via con me” le mormorai “Ho voglia di passare del tempo con te, da soli. I tuoi amici capiranno. Fidati” la pregai.

Ricambiò il mio sguardo, poi sospirò e mi fece segno di aspettare.

Tornò da mio fratello e dai suoi amici, bisbigliò qualcosa indicandomi. Sparì alla mia vista per un paio di minuti. Alla fine ricomparve con la sua borsetta in mano e una giacca.

Uscimmo dal locale per dirigerci verso la mia macchina.

“Spero che tu abbia una buona ragione” disse “Prima ti rifiuti di venire al mio compleanno, poi mi trascini via. Che cos’hai in mente adesso?”.

“Sei rimasta abbastanza lì dentro. Avevi anche già tagliato la torta e fatto il brindisi. Ho aspettato parecchio prima di venirti a chiamare”.

“Come lo sai?”.

“Ti ho visto”.

“Da quando eri alla festa? Perché ti sei nascosto invece di stare con me?”.

“Te l’ho già detto: non mi andava di stare con dei ragazzini del liceo. Ma volevo stare con te. Senti, non t’impedirò di urlarmi addosso più tardi, per adesso fidati di me. Magari ne sarai pure contenta”.

Guidai fino a Dalcrest, al mio college. Bonnie era chiaramente confusa e un po’ sconcertata. Aveva parlato lungo il tragitto, del più e del meno, ma quando l’auto aveva imboccato la strada per il campus, lei si era zittita di colpo.

Parcheggiai nel cortile principale, accanto alla macchine degli altri studenti. Scendemmo e le feci cenno di seguirmi.

Le presi la mano, la condussi lungo i corridoi bui della mia università. Non c’era in giro nessuno data l’ora tarda e l’atmosfera era un po’ cupa.

Bonnie si strinse al mio braccio, intimorita dal rumore dei nostri stessi passi.

Ci fermammo di fronte a una porta chiusa, quella della biblioteca. Un cartello era affisso a indicare gli orari. Noi eravamo decisamente fuori tempo massimo.

Estrassi una chiave dalla mia tasca e la girai nella toppa.

Bonnie strabuzzò gli occhi “A chi l’hai rubata?”.

“Grazie per la fiducia” ironizzai “Si dà il caso che la bibliotecaria abbia una vera passione per me. Mi adora e mi ha fatto questo favore”.

“Damon, non so che cosa tu abbia in mente, ma non è una buona idea. È vietato stare qui di notte e se ci dovessero beccare, sarebbero guai”.

“Non ci beccheranno. Come hai detto tu: è vietato entrare qui di notte, quindi non c’è nessuno. O meglio, di solito c’è un guardiano che fa la ronda ma non farà storie”.

“Come puoi esserne certo?”.

“Perché sa tutto”.

“Tutto cosa?” si spazientì “Mi spieghi che cosa sta succedendo?!”.

“Varca quella porta e scoprilo” la tentai.

Titubante, mise il capo oltre la soglia e lo girò a destra e a sinistra.

“È troppo buio” sentenziò “Va’ avanti tu”.

“Fifona” la presi in giro.

Illuminai la via con il cellulare e mi inoltrai tra gli scaffali. Avevo appena dato della ‘paurosa’ a Bonnie, ma ne ero molto grato, almeno potevo avere il piacere di sentirla aggrappata alla mia schiena come un piccolo koala.

Quanto adoravo quella ragazzina.

Arrivai fino al punto prestabilito. Impiegai un po’ per convincere Bonnie a lasciarmi andare e fui costretto a girarmi con uno scatto e spingerla contro una libreria alla sue spalle. La baciai con foga, assaporando quel momento che aspettavo da due giorni.

Mi staccai altrettanto velocemente e mi piegai a terra cercando con la luce del mio telefono l’accendino che avevo posto sul pavimento.

Lo trovai e accesi una candela.

Bonnie se ne stava ancora in piedi, con una mano sul petto “Tu…” annaspò “Tu non puoi fare certe cose, non puoi baciarmi così”.

Io ghignai “E chi me lo impedisce?”.

“Il mio cuore. Prima o poi scoppierà per colpa tua” ammise sinceramente. Alzò gli occhi su di me e si accorse della scena che le si presentava davanti “Damon, che…è opera tua?”.

“Ti ho portato via dalla tua festa di compleanno. Dovevo organizzare qualcosa per cui ne valesse la pena”.

Odiavo quelle smancerie, le odiavo davvero. Mi veniva l’orticaria solo a pensarci. Se qualcuno avesse scoperto che cosa avevo fatto, mi sarei sotterrato.

Ma con Bonnie potevo concedermi qualche strappo alla regola.

Era il suo compleanno e si meritava un regalo speciale, uno che potesse ricordare per tutta la vita.

Sulla moquette era stesa una coperta su cui avevo appoggiato due bicchieri e una borsa-frigo, al cui interno avevo messo una bottiglia di vino bianco e una piccola torta.

La due candele mandavano una luce soffusa, molto intima.

“Tu sei fuori di testa!” esclamò “Rischi grosso, lo sai? Se ci beccano, potrebbero cacciarti dall’università”.

“Beh, non era la reazione che mi aspettavo” ammisi ironico.

“Sono seria”.

“Anche io” sostenni “La bibliotecaria ha davvero una passione per me. Mi adora. E quando le ho raccontato che volevo organizzare una sorpresa per il tuo compleanno, mi ha proposto di farla qui. Il custode di questo piano è suo marito ed è al corrente di tutto. Perciò rilassati, nessuno ci disturberà e nessuno ci denuncerà al rettore”.

“Lo sapevi già ieri?” mi chiese.

“Secondo te perché ho rifiutato il tuo invito?” alzai un sopracciglio “Ammetto che non ero entusiasta all’idea di passare con i tuoi amici, ma non è per questo che non ho partecipato alla festa. Hai ragione, è un giorno importante e volevo stare con te. L’hai detto anche tu che non sono il principe azzurro. Io sono egoista e onestamente non mi pento di averti portata via da loro”.

“Te ne pentirai quando capiterai tra le grinfie di Caroline. Ha faticato tanto per niente”.

“Per niente non mi pare. La festa è durata quasi cinque ore, avete mangiato e bevuto. E tu sei una visione con questo vestito” confessai, cercando di attirare il suo favore “Non parliamo delle grinfie di Caroline, parliamo delle tue che m’ispirano molto di più”.

Lei guardò ancora la coperta a terra e le candele. Si mordicchiò il labbro e si torturò una ciocca di capelli con le dita. Era agitata.

“Non ti credevo un tipo romantico”.

“Non lo sono” confermai.

“Per me sì”.

Annuii convinto “Solo per te”.

“Scusami davvero se adesso ti apparirò stucchevole e  piagnona, probabilmente è l’effetto dell’alcol, ma…so quanto sia difficile per te mostrare le tue emozioni e lasciarti andare così e…il fatto che tutto questo sia per me, non credo che riceverò mai regalo più bello”.

Le presi una mano e la strinsi. Ci fissami negli occhi, senza muovere un dito o proferir parola. Tutto quello che ci passava per la testa, sembrava banale e stupido.

Quel silenzio e quegli sguardi significavano molto di più.

Io in particolare dovetti mordermi la lingua per non mandare tutto all’aria. Avevo pianificato quella sorpresa nei minimi dettagli e non avevo intenzione di spaventarla e rovinare la serata pronunciando due paroline parecchio importanti.

Per stemperare la tensione e per distrarmi, le offrii un bicchiere di vino e poi un altro. Senza rendercene conto, presto consumammo quasi l’intera bottiglia e toccammo a stento la torta.

Bonnie aveva appena smaltito il vino bevuto in precedenza e tornò brilla nel giro di poco. Io ero più che abituato e quei bicchieri non mi fecero quasi effetto.

Sciolsero i nervi, nient’altro.

E sciolse decisamente anche la sua parlantina.

Mi raccontò dell’adorazione che suo padre aveva per me e della sua segreta speranza che finissimo insieme un giorno e io evitai di farle notare che non era proprio un mistero.

Raccontò di come si era trattenuta più di una volta dal riferirgli molti dei miei scherzi e la ringraziai perché avrei rischiato di trovarmi con un occhio nero.

Mi domandò come avessi vissuto i miei diciott’anni, come fosse andata la mia festa.

Allora mi lanciai in una dettagliata descrizione del casino che avevo combinato, invitando tutti a casa mia per fare un dispetto a mio padre.

La verità era che non mi ero affatto goduto la mia maggiore età: in rotta con Giuseppe, incastrato in un futuro che non desideravo con un fratello minore che sembrava sceso da cielo per rendermi la vita un inferno.

Ricordavo la sensazione di vuoto che avevo provato quel giorno, privo di ogni aspettativa.

Nessuna speranza per il college, nessuna voglia di iniziarlo, consolato solo dall’idea di trasferirmi al campus.

Avevo scelto la facoltà sulla scia delle pressioni di mio padre (lui si era laureato in economia e si aspettava lo stesso da me)  e neanche mi ero sprecato di cercare un ateneo valido, sebbene avessi le capacità per ambirvi.

Nella mia pigrizia, Dalcrest era stata l’alternativa più adatta.

Ma non volevo annoiare Bonnie con chiacchiere tristi sul mio passato e proseguii con gli aneddoti su quell’assurdo diciottesimo.

“Ok, adesso basta” le imposi togliendole dalla mani la bottiglia “Non esagerare”.

“Che c’è? Sto bene, sono solo un po’ allegra” s’imbronciò.

“Appunto”.

“È il mio compleanno” obiettò “Ogni mio desiderio è un ordine”.

“Allora desidera qualcos’altro, perché con questo hai chiuso per stasera”.

“Posso desiderare tutto quello che voglio?”.

“È il tuo compleanno” le feci il verso.

Quella provocazione fu accolta più che calorosamente e mi ritrovai Bonnie in braccio nel giro di pochi secondi.

Non mi lamentai del suo slancio e mi godetti quell’impetuosa affettuosità che era sempre mancata a Bonnie da sobria.

Era dolce e si scioglieva per le mie carezze, ma raramente prendeva l’iniziativa e mai si era mostra così disinibita.

Non mi feci scappare l’occasione e la spinsi sulla coperta, senza staccare le mie labbra dalle sue. La situazione s’infiammò in un momento, quando sentii le sue mani togliermi la giacca e le mie scattarono sulle sue gambe fino all’orlo del suo vestito.

Lei sospirò, incitandomi a continuare.

Da più di un mese ormai non facevamo che stuzzicarci e basta e iniziavo a diventare matto. Non glielo avevo mai rivelato per non metterle troppe pressione addosso, troppe aspettative, ma sinceramente ero sull’orlo della pazzia.

Volevo quella ragazzina, volevo sentirla gemere il mio nome, volevo vederla sudare e contorcersi per me.

Io non l’avrei mai sporcata, le avrei lasciato comunque la sua purezza, perché non si trattava di una mera questione fisica, c’era qualcosa di gran lunga più profondo: sentimenti sinceri.

Niente sotterfugi, niente dietrologie o piani ossessivi.

La scommessa era lontana dalla mia mente, nemmeno la consideravo più. Era stato semplicemente un modo per avvicinarmi a lei, una mossa meschina che mi aveva segnato e cambiato in meglio.

Senza quel progetto diabolico, quella meravigliosa creatura non sarebbe mai finita tra le mie braccia.

Mi staccai dal suo corpo e lei protestò.

“Letto” boccheggiai.

“Cosa?”.

“Letto, ci serve un letto. Andiamo in camera mia. Sage è dai suoi genitori”.

Arruffai la coperta e il resto in un sacco, afferrai la mano di Bonnie e corremmo per il corridoio verso i dormitori.

Appena chiusi la porta della mia stanza alle nostre spalle, riprendemmo dove ci eravamo interrotti, solo che questa a volta, sul pavimento, finì il suo vestito.

Le baciai il mento, il collo, le spalle, mentre le sue mani mi slacciavano con foga i bottoni della mia camicia.

Fu in quel momento che capii che qualcosa non andava: Bonnie, da sobria, avrebbe faticato molto per sfilarli dalle asole, si sarebbe attorcigliata con le sue stesse dita.

Tutta quella intraprendenza e confidenza non erano da lei, ma erano dovute all’alcol. E la mia coscienza irruppe prepotentemente (e non richiesta) sulla scena, obbligandomi a fermarmi.

“Continua, Damon” mi pregò Bonnie con una voce così impaziente da farmi tremare le gambe e qualcos’altro.

“Uccellino” la chiamai “Sei ubriaca”.

“No” mugugnò “Sono euforica”.

“E io sono un coglione” sentenziai “E uno sfigato e rimpiangerò questa decisione per il resto della mia vita ma…è meglio se ti rivesti”.

Lei si tirò sui gomiti “Che cosa c’è che non va?”.

“Non sei in te” le spiegai con calma “Tu non sei davvero pronta per questo passo”.

“So che cosa sto facendo e mi va…ti giuro che mi va. Dai, torna qui”.

“Non m’incanti, ragazzina” la stroncai “Adesso sei tutta una fuoco, ma domani mattina ti sveglierai e mi prenderai a calci con i tuoi tacchi per essermi approfittato di te”.

Questa sarebbe entrate negli annali di storia: Damon Salvatore che cercava di convincere una ragazza a tenersi gli abiti addosso.

“C’è un motivo se siamo qui, ora” mi disse alzandosi in piedi dal letto. Mi venne incontro e posò le mani sul mio viso “C’è un motivo se sono in biancherai intima davanti a te, se sta succedendo proprio con te. Capiscimi quando ti dico che c’è un motivo” insistette, calcando sulle ultime parole come a far trasparire un messaggio.

Messaggio che recepii benissimo, dato che provavo esattamente lo stesso “E c’è un motivo se io mi sto trattenendo” le assicurai “Se sei davvero convinta, non cambierà niente oggi o domani. Non ho nessun problema a rotolarmi nudo con te tra le lenzuola, uccellino, ma cerchiamo di essere entrambi lucidi quando accadrà”.

Non sembrava molto d’accordo. Alla fine mi diede retta e raccolse il suo vestito da terra. Le bloccai il polso. Mi guardò stranita.

Andai verso il mio armadio e tirai fuori una mia vecchia maglietta.

“Rimani con te stasera. Dormi con me” le proposi.

Bonnie annuì sorridendo e indossò il magliettone.

Una volta cambiatomi, la raggiunsi nel letto. Potei constatare che era già addormentata.

“E tu volevi fare la trasgressiva stanotte, eh?” commentai sarcastico, stendendomi accanto a lei.

Ripensai alle sue parole, a quel suo c’è un motivo.

Non potevo dire con certezza quale fosse la sua ragione, ma conoscevo perfettamente la mia: mi stavo innamorando.

 

Il mio spazio:

Sono in super ritardo e in super fretta.

In definitiva sono un disastro!

Beh, spero che questo capitolo compensi un po’ la lunga attesa.

Ho voluto inserire il compleanno perché nella serie tv abbiamo visto quello di Elena e di Caroline, ma non il suo…stranamente messo da parte.

A proposito di serie tv, avete visto l’ultimo episodio? La fine? Io sono ancora al settimo cielo. Spero che a ottobre non deludano tutte le mie aspettative.

Passando al capitolo, troppo sdolcinato? Ho pensato di sbottonarmi un po’ in questa circostanza, perché mancano solo tre capitoli alla fine e i guai attendono dietro l’angolo.

Ho letto tutte le vostre recensioni e vi ringrazio tantissimo! Come al solito sono in ritardo con le risposte, ma domani provvederò a sistemare.

Grazie infinite!

Buona serata,

Fran;)

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Capitolo 26
*** The farewell waltz ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo ventisei: The farewell waltz

 

But you're just a boy
You don't understand
How it feels to love a girl
Someday you wish you were a better man
You don't listen to her
You don't care how it hurts
Until you lose the one you wanted
'Cause you're taking her for granted
And everything you had got destroyed
But you're just a boy!”

(If I were a boy- Beyonce Knowles).

 

Il ballo di fine anno era nella vita di un’adolescente americana un evento tanto importante quanto il giorno del matrimonio.

Forse di più, perché di nozze ce ne potevano essere più di una. Il Prom* arrivava solo una volta nella vita.

E questo non era un ballo come gli altri: era l’ultimo ballo dell’ultimo anno del liceo.

Il vero traguardo di quei quattro anni passati a diventare adulti tra quelle quattro mura tanto amate e tanto odiate.

Avevano prodotto centinaia di film sull’argomento. Uno all’anno non bastava per rendergli giustizia. Perché poteva sembrare una sciocchezza, ma segnava il vero punto di svolta nella nostra crescita.

Era un rito di passaggio e chiunque l’avesse perso o non gli avesse dato credito, aveva sentito con rammarico un gran vuoto.

E c’era solo una cosa nella mente di ogni ragazza prima del ballo: il vestito.

Caroline fece scivolare il vestito color lavanda lungo il corpo e con un calcio lo gettò in un angolo del camerino.

Sconsolata gliene passai un altro indaco sperando con tutto il cuore che fosse quello giusto; Caroline nel giro di mezz’ora si era provata più di dieci abiti e non aveva ancora trovato quello adatto o per  citare le sue parole “un vestito che si conformasse con il suo stato d’animo”.

Non avevo avuto il coraggio di chiederle quale fosse di preciso il suo stato d’animo, volevo solo uscire il più in fretta possibile da quel negozio.

La festa di fine anno era ormai alle porte e tutte le ragazze della scuola stavano cercando disperate un abito per l’occasione.

Caroline era la prima tra tutte. Voleva un vestito che rispecchiasse in pieno la sua personalità e che non si confondesse con quella massa di stupide ochette, sempre sue parole, che starnazzavano per la pista da ballo.

La boutique di Lady Ulma era in assoluto la sua preferita e quel pomeriggio ci aveva coinvolto tutte in uno shopping all’ultimo sangue con la scusa di trovare appunto un abito per ognuna di noi.

Avevamo accettato senza pensare alle ripercussioni morali e fisiche, senza contare il fattore Forbes, ossia la regina dello spendere!

Quattro ore che giravamo per negozi, quattro ore che Caroline era l’unica ad essersi provata un vestito.

In preda ad una vera crisi esistenziale, agitò la mano istericamente facendo segno a Meredith di passarle l’abito purpureo a fianco.

“Ci potresti dare almeno un indizio sul tipo d’abito che vuoi?” domandò Elena.

“Qualcosa che dica che sono Caroline Forbes”  rispose mentre si allacciava la zip.

“Un bel cartello?” propose Meredith.

Care la guardò malissimo – Non essere sciocca, voglio qualcosa che faccia capire agli altri come mi sento-

“E come ti senti, di grazia?”.

“Non lo so … dammi un po’ di opzioni!”

“Sei triste per qualcosa?-

“No ….”

“Allora sei felice per qualcosa?”.

“Non particolarmente …”.

“Ti senti irascibile?”.

“Non so nemmeno cosa vuol dire!”.

“Allora come diavolo ti senti?”.

“Non lo so … vorrei … vorrei …. QUELLO!”.

Saltò giù dallo sgabello su cui era salita per vedere meglio le amiche dato che erano più alte di lei, e indicò un vestito giallo che io avevo tirato fuori per caso da una pila di abiti.

Si avventò letteralmente su di me e mi strappò il vestito di mano, dopodiché corse nel camerino a provarselo.

Uscì poco dopo cambiata: lo scollo era a barchetta, molto lungo dietro con uno strascico che toccava terra, le scendeva morbido sui fianchi e le accarezzava perfettamente le sue forme e il suo fisico atletico.

Era il vestito perfetto.

Le altre si sentirono sollevate da un peso: ora che Caroline avevo trovato quello che cercava; loro potevano fare altrettanto e la boutique di Lady Ulma era il posto ideale per iniziare.

Mentre le altre si buttavano a capofitto tra scaffali e appendini, mi  sedette su un divanetto; accavallai le gambe e presi a fissar il pavimento di moquette violetto.

Avevo riflettuto a lungo sulla sua situazione ed ero arrivata alla conclusione che, per quanto Damon fosse un vero disastro su parecchi i fronti, era comunque il ragazzo giusto.

Ormai aveva capito di essersi affezionata un po’ troppo a Damon e avevo accettato anche l’idea che forse il mio era qualcosa di più di semplice affetto; perderlo sarebbe stato insopportabile. E nonostante il suo stile di vite fosse un po’ sopra le righe per il mio animo tranquillo e sobrio, desideravo davvero che funzionasse.

Elena si avvicinò e mi suggerì di provare un bel vestito che aveva visto in fondo al negozio.

Rifiutai scuotendo la testa: ne avevo già uno perfetto nell’armadio; me l’aveva prestato mia sorella Mary.

Elena allora mi prese da sotto le ascelle e mi alzò di forza spingendomi con decisione verso l’abito.

In effetti era molto bello: bianco, corto fino al ginocchio; si allacciava dietro il collo e la schiena rimaneva nuda, aderente su tutto il corpo. All’altezza del ginocchio c’era un ricamo in pizzo che allungava di qualche centimetro l’abito.

Era vero: mi sarebbe stato d’incanto addosso. Si adattava al mio fisico, i miei capelli sul bianco brillavamo come una fiamma.

“Dai! Solo per vedere come ti sta!” cercò di convincermi Elena.

Sospirando rumorosamente lo afferrai ed entrai nel camerino.  Mi ammirai allo specchio: sì, mi stava davvero bene.

Forse potevo farmi un regalo. Non credo che Mary si sarebbe offesa, anzi si era pure lamentata quando le avevo chiesto di prestarmi quell’abito.

Lo sfilai e rimisi i miei indumenti. Tirai la tenda del camerino, portandomi dietro quel  capo. Elena aveva un sorriso che andava da una parte all’altra, contenta di aver azzeccato.

Appena fuori dal negozio, c’era un’altra sorpresa ad aspettarmi.

“Mi stai spiando?” gli domandai, fingendomi arrabbiata.

“E poi sarei l’egocentrico?” replicò Damon prima di darmi un bacio veloce “Sto andando da Alaric e ti ho visto nel negozio. Hai comprato il vestito?” chiese, indicando il sacchetto.

“Lontano, non puoi guardare” lo avvisai.

“Non ho il diritto di voto? Sono il tuo cavaliere!” protestò.

“Ah, questa volta ti va di mischiarti con noi ragazzini del liceo” lo stuzzicai.

“Più che altro credo di non poter scappare. Immagino che se rifiutassi, tu mi pianteresti in asso all’istante”.

“Immagini bene” sghignazzai.

“Il tuo principe scintillante, o meglio la tua bestia, non ti lascerà sola la sera del gran ballo, uccellino. Facciamo morire d’invidia le tue compagne”.

“Sei il solito egocentrico…sì proprio tu” sbuffai.

Mi schioccò un bacio sulle labbra “Alle sette, cerca di essere puntuale. Ti aspetterò davanti a casa: sarò quello bellissimo nel suo smoking, appoggiato alla sua bellissima Ferrari”.

 

Quando aprii la porta con le mie chiavi di scorta, tutto mi aspettavo fuorché un pugno in faccia.

Oltrepassai la soglia, chiusi la porta alle mie spalle e SBAM, dritto sulla mia guancia destra.

Toccai la pelle pulsante con le dita e guardai stralunato il mio aggressore.

Solo che non si trattava di un ladro, ma del proprietario di casa.

“Sei impazzito, Alaric? Sono io!” urlai.

“Lo so che sei tu, brutto coglione” mi rispose, altrettanto arrabbiato “E ti conviene toglierti dalla mia vista se non ne vuoi un altro”.

“Che ti salta in mente, ti è venuto il ciclo?!”.

“Ancora una parola e ti faccio cadere tutti i denti. Ti credevo migliore di così Damon. Non sei mai stato il tipo tranquillo e sensibile, ma questa è una carognata anche per te”.

“Mi spieghi per piacere che cosa sta succedendo così almeno posso difendermi?”.

“Oggi ho minacciato Tyler di metterlo in punizione, di fargli saltare il ballo di fine anno e sai che cosa mi ha risposto? Che non poteva perderselo, che doveva controllare se tu avresti portato o no a termine la scommessa. È talmente stupido che non si è nemmeno preoccupato di accertarsi se lo sapessi o no. Mi ha raccontato tutto”.

Ora si spiegava la reazione violenta. E l’incazzatura. E gli insulti.

“Giuro che non è come sembra” mi giustificai, scandendo bene le parole “E c’è una spiegazione logica”.

“Osa rifilarmi la storiella dell’amore nato per caso per una scommessa e ti butto fuori a calci” m’intimò.

“Allora esco da solo” mi arresi “E comunque tu dovresti essere mio amico e stare dalla mia parte” gli rinfacciai.

“Sono tuoi amico e per questo ti rimetto in riga quando oltrepassi il limite”.

“Ti racconto tutto se hai voglia di ascoltarmi, ma aspetta di arrivare alla fine prima di tirarmi qualcos’altro in testa”.

“Questo pugno non è solo per la scommessa. Copre anche gli arretrati”.

“Hai del ghiaccio?” ignorai il suo commento.

Rimase in silenzio e con le mani a posto per tutta la mia spiegazione. Dalla sua espressione potevo capire che il suo stato d’animo non fosse dei più lieti, ma almeno sembrava meno arrabbiato di prima e più propenso a comprendere le mie ragioni.

“Sul serio, hai dato retta a Katherine? Già l’idea era partita da quella testa vuota di Tyler, ma che Katherine l’abbia appoggiata. Non so se tu sia stato più stupido o più immaturo. Hai ventun anni, Damon, non ti pare l’ora di smetterla con questi giochetti?”.

La predica doveva arrivare prima o poi e me la meritavo.

“Non so neanche se l’avrei portato a termine comunque. Era per ridere e nemmeno ci credevo. Katherine mi spingeva e alla fine si è rovinata con le sue mani”.

“E tu?”.

“Io cosa?”.

“Pensi di cavartela così facilmente? È uno scherzo pesante e ti si ritorcerà contro”.

“Mi sono chiamato fuori tempo fa. Anche se Katherine non avesse provato a sedurre mio fratello, probabilmente l’avrei lo stesso lasciata, perché grazie al suo piano diabolico mi ero avvicinato a Bonnie…quella ragazzina dai capelli rossi è capace di farti diventare matto, sai? Ti s’infila nella testa e non ne vuole sapere di uscire. Un attimo prima la odi, un secondo dopo l’adori. Sei contento di non averla in torno e nel frattempo ti manca. Non ti dico che cosa avrei voluto fare a Klaus quando li ho visti insieme a Capodanno. Quell’inglesuccio di mer-”.

Mi bloccai non appena notai il sorrisino compiaciuto che segnava il volto del mio amico. Era più lunatico di me: prima mi prendeva a pugni e poi mi fissava con gli occhi inteneriti. Intuii che cosa avrebbe detto da lì a poco. Non serviva un genio per capirlo, io stesso ero arrivato alla stessa conclusione sebbene non fossi un mostro di sensibilità.

Ma dirlo e sentirlo dire ad alta voce era tutt’altra storia.

“Non ti azzardare” gli intimai.

“Damon, non ti ho mai visto così” mi confidò, fingendo eccessiva commozione.

“Non commentare” gli ordinai “Sì, hai ragione: questa forse è la volta buona, ma nessuno qui pronuncerà quelle parole, va bene? Ho intenzione di dirle una sola volta e sarà a lei” precisai, mettendo un punto alla questione.

“Come preferisci, amico” mi accontentò “Resta il fatto che hai in mano un’arma a doppio taglio. Tyler è del gruppo e starà zitto, ma Katherine?”.

“Katherine terrà la bocca chiusa se sa che cosa è meglio per lei”.

“E se parlasse, che succederebbe?” mi chiese scettico, alzando un sopracciglio.

Non aveva tutti i torti. Katherine non aveva alcun motivo di temermi. L’unico suo punto debole erano la sua presunzione e il suo ego. Entrambi facile da minare qui a Fell’s Church dove tutti la conoscevano, dove una mia parola poteva umiliarla e farla cadere nel ridicolo. In meno di due settimane il liceo sarebbe finito per sempre e lei sarebbe partita per chissà quale luogo. Era rimasta tranquilla per tutto questo tempo per non minare la sua reputazione da reginetta della scuola, ma la sua permanenza qui stava per termine e perché non uscire di scena con il botto, mettendo in atto la sua piccola vendetta?

Non potevo mica rinchiuderla in una scatola e spedirla dall’altra parte dell’oceano.

“La tua storia con Bonnie è nata sulla base di una bugia, Damon” mi fece notare Alaric “Non importa se ti sei ricreduto, se hai mollato tutto. Nel momento in cui scoprirà la verità, si sentirà tradita. Meglio che sia tu a confessare, piuttosto che qualcun altro. Magari sarà meno propensa ad ammazzarti” mi suggerì.

“Ne dovrò discutere anche con Stefan” valutai “Era pronto a picchiarmi quando ci ha trovati insieme nella stessa camera, figuriamoci se…”.

“Io non mi preoccuperei di Stefan” azzardò Alaric “Hai altre gatte da pelare: Elena, Caroline e Meredith. Hai finito di vivere, lo sai questo?”.

Appariva piuttosto divertito dal mio destino funesto. Ero contento che almeno qualcuno ne vedesse il lato ironico.

Gettai una veloce occhiata alla mia immagine riflessa nello specchio: sembravo un bambino di sei anni cui avevano tolto il giocattolo di mano.

Nero in volto, con il broncio. Quasi offeso.

Lungi da me passare per la vittima innocente, ma – dannazione – mi sarei mai scrollato di dosso quell’aura da cattivo che mi etichettava da tutta la vita.

Avevo commesso un errore, mi ero lasciato trascinare in uno scherzo stupido, egoista e meschino e avevo permesso a Katherine di manipolarmi, le avevo concesso il potere di controllare me e ferire Bonnie.

Mi odiavo per tutto ciò, per essermi rivelato così ingenuo. Ero io il responsabile, potevo prendermela solo con me stesso; eppure trovavo ingiusto venire tormentato in quel modo da quello sbaglio oramai passato.

Perché non potevo lasciarmi tutto alle spalle e non parlane più? Alla fine mi ero pentito e avevo cambiato totalmente i miei piani.

Era davvero necessario mettere nel dito nella piaga?

Il ragionamento di Alaric era sensato: battere Katherine sul tempo prima che mi facesse fare la figura del doppiogiochista, falso. D’altro canto non mi vergognavo di ammettere che se non ci fosse stato quel rischio, mi sarei portato il segreto nella tomba.

Di sicuro non l’avrei svelato per molto tempo ancora.

Quella piccola stronzetta che voleva sempre scombussolare i miei progetti. Non le bastava essersi finta la sua gemella per baciare mio fratello.

No, lei era Katherine Gilbert e in un modo o nell’altro doveva per forza intromettersi, condurre le danze. Insopportabile egocentrica, sempre al centro di tutto.

Era impossibile prevedere la sua prossima mossa. Un tempo amavo quella sua scaltrezza, ora non esisteva caratteristica che detestassi maggiormente.

E se poi si fossero rivelate solo paranoie mie e di Alaric, allora sarebbe stata la beffa peggiore di tutte. In entrambi i casi, era lei a vincere.

Potevo sperare – pregare – con tutte le mie forze che Bonnie non saltasse subito alle conclusioni, che si mostrasse almeno disposta ad ascoltare la mia versione, capendo infine che per quanto fossi stato un cretino, tenevo moltissimo a lei.

Ma non ero un illuso e già mi preparavo ad affrontare le conseguenze.

Le possibilità che Bonnie mi perdonasse su due piedi erano meno che inesistenti.

“Domani c’è il ballo di fine anno” mormorai, rendendomene conto solo in quell’istante “Non posso rovinarle la serata, non posso dirglielo adesso”.

“Stai cercando delle scuse per rimandare” mi stuzzicò Alaric.

“Sono serio” affermai “È la notte che ogni ragazza del liceo sogna. Ha già comprato un vestito, io non ho fatto storie per accompagnarla. È già convinta che sarà una festa perfetta. Probabilmente passerò comunque per lo stronzo di turno, almeno non vorrei diventare lo stronzo che mi ha fatto piangere la notte del ballo”.

“Sei sempre così altruista, Damon” mi prese in giro.

“Sta’ zitto”.

 

Non potevo credere che quella lettera fosse arrivata proprio il giorno del ballo. Non mi aspettavo più una risposta, non dopo così tanto tempo.

Me n’ero scordata e adesso la busta se ne stava appoggiata alla mia scrivania in attesa di venire aperta.

Avrebbe aspettato ancora un giorno. Non sapevo che cosa ci fosse scritto e non desideravo scoprirlo prima della mia grande serata né farmi condizionare.

Senza contare che ne dovevo ancora parlare con Damon.

Il suono di un clacson richiamò la mia attenzione. Finalmente era arrivato il momento. Mi guardai velocemente allo specchio, sistemando qualche piega del vestito e scesi.

Mio padre era già pronto con la macchina fotografica. Provai a dribblarlo ma fu tutto inutile. Mi obbligò perfino a fare una foto con Damon che si dimostrò un perfetto accompagnatore e lo accontentò.

Salutato mio padre e la sua mania di immortalare tutto con il suo obiettivo, entrammo in macchina. Normalmente era tradizione affittare un limousine, ma Damon aveva una Ferrari tutta sua. Non c’era storia.

Stefan e gli altri non erano ancora arrivati, così li aspettammo nel parcheggio. Mi guardai un po’ in giro per assicurarmi che nessuno avesse comprato il mio stesso vestito.

Per il momento, l’imbarazzo sembrava evitato: non vedevo neanche nessuna con il mio stesso colore. Si erano buttate su tonalità più audaci.

Poco più in là Katherine stava parlando con il suo cavaliere (un membro della squadra di football). In realtà fingeva di ascoltarlo perché – e potevo vederlo distintamente – ogni due secondi spostava gli occhi su di noi, squadrandoci con superiorità.

“Se penso che a Homecoming hai accompagnato lei” commentai con una smorfia.

Damon intuì a chi mi stavo riferendo e ghignò “Beh, tu sei venuta con Mutt”.

Corrugai le sopracciglia. E quel nomignolo da dove saltava fuori?

“Matt” lo corressi.

“È lo stesso, un nome non lo renderà certo più virile. O più stupido di quello che è”.

“Se è una competizione per l’ex peggiore, tu vinci a mani basse” replicai piccata.

“Un errore in buona fede” commentò “Non potevo immaginare fosse una tale stronza. Non potevo nemmeno immaginare che sarei finito insieme a te quindi…”.

“Oh mi ricordo bene. Mi dissi che Matt mi aveva invitato perché gli facevo pena”.

“E tu che Katherine preferiva comunque mio fratello”, si accorse di quanto fossero vere quelle parole e si girò dall’altra parte, contrariato.

Mi morsi la lingua per non pronunciare quell’avevo ragione che mi si era bloccato in gola.

“Ci avevi visto giusto, piccola strega” considerò con voce triste.

Gli posai una mano sulla spalla e una sulla sua guancia. Damon continuava a evitare di guardarmi. Probabilmente cercava di nascondere la sconfitta stampata sul suo volto, l’orgoglio ferito.

“Siamo la coppia peggio assortita” ridacchiai “Ma ci siamo scelti. Io non sono la copia della tua passata ossessione e tu non sei il principe azzurro che ho sempre sognato. Non ci stavamo simpatici, no scusami, non ci sopportavamo proprio. Siamo cresciuti, abbiamo imparato a conoscerci ed è capitato per caso. Nessuno di noi due l’aveva programmato” gli dissi “Sai che cosa significa? Che io e te siamo qui, siamo reali. Chi se ne frega degli idioti che abbiamo incontrato prima. Quale ragazza sana di mente guarderebbe altro, quando può avere te?”.

“Tu mi hai snobbato per mesi!” esclamò.

“Sei serio? Dopo tutto il mio discorso, è la prima cosa che hai da dirmi?” mi finsi offesa.

“Bonnie McCullough” mormorò prendendomi le mani “Non ti ho cercato e non ti ho considerata, ma non importa come siamo finiti insieme o perché, quello che provo per te è più vero e più forte di qualsiasi altra cosa abbia mai sentito. Fanculo il resto”.

“Adoro il tuo romanticismo” gli sorrisi ironica.

“O mio Dio, non ci credo che questo sarà il nostro ultimo ballo!” urlò una voce dietro di me e un secondo dopo una figura mi stritolò in un abbraccio.

Damon alzò gli occhi al cielo e si spostò. La sua tolleranza a Caroline cominciava già a vacillare. Me l’avrebbe rinfacciato tutta la vita.

Mi stupii dalla facilità con cui la mia amica saltellava su quei tacchi vertiginosi.

Tyler la seguiva un po’ meno entusiasta, probabilmente spossato dai modi di fare esigenti e maniacali della sua ragazza. Se c’era una donna che poteva metterlo al guinzaglio, quella era Caroline Forbes.

Damon fece un passo avanti e lo prese malamente per un braccio “Dobbiamo fare quattro chiacchiere io e te, piccolo idiota” ringhiò, trascinandolo via.

Caroline mi guardò confusa e io scrollai le spalle.

L’ultimo dei miei pensieri era immischiarmi nelle faccende di quei due.

Stefan e Elena arrivarono subito dopo. Sembravano due divi del cinema, splendidi, camminavano sopra tutti.

Infine giunse Meredith, sola perché il suo cavaliere non si poteva mostrare, perché lei era ancora una studentessa e lui un insegnante. Nonostante tutto era contenta: dopo il ballo, mancavano solo due settimana al diploma e poi c’era Harvard ad aspettarla.

E Alaric.

“Questo sarà il migliore Prom di sempre” esultò Caroline “Me lo sento”.

“Questo sarà l’ultimo Prom” precisò Elena, un velo di tristezza sul volto.

“No, non ci provare” l’avvisò Stefan “Niente musi lunghi, Caroline ha ragione: è la nostra serata e ce la dobbiamo godere”.

“Io sono al ballo di fine anno da sola, va bene? Da sola!” ribadì Meredith “Sono l’unica che ha il diritto di lamentarsi e non lo farò. Voi fate il vostro dovere di amici e rendetela la notte più bella della mia vita” ci incitò.

“Più bella delle notti spese con il tuo professore?” la stuzzicò Caroline.

“Se proprio ti interessa, abbiamo passato pochissime notti insieme e a parlare”.

“A me non interessa” le fermò Stefan mettendosi le mani sulle orecchie “Non voglio sapere come trascorri il tempo con il mio professore/barra migliore amico di mio fratello. A proposito, dov’è Damon?”.

“Proprio qui, fratellino” rispose quello, ricomparendo con Tyler e non solo. Dietro loro due, seguivano Matt e Sue Carson, una nostra compagna di scuola.

“Ehi, Matt pensavo non arrivassi più” lo salutò Stefan con una pacca sulla spalla.

“Io e Sue abbiamo trovato traffico” spiegò “Appena parcheggiato, abbiamo incontrato Damon e ci ha invitato a unirci a voi”.

Io sbarrai gli occhi, considerate le parole poco gentili che il mio ragazzo gli aveva rivolto poco prima.

“Certo, Mattie, non sarebbe lo stesso senza di te” lo abbracciò Elena.

Strinsi la mano a Damon per ringraziarlo. Dopo la nostra “rottura”, i rapporti tra me e Matt si erano raffreddati parecchio. Ogni volta che c’incrociavamo, imbarazzo e tensione si avvertivano nell’aria. Allora Matt si era allontanato dal gruppo di noi ragazze per non creare ulteriore disagio.

“Alla prima occhiata ambigua che ti lancia, lo stendo” mi sussurrò Damon all’orecchio.

Io gli tirai una leggera gomitata. Si trattava sempre di Damon Salvatore.

Superammo lo stand delle foto. O meglio, Caroline ci obbligò tutti a posare per l’album del ballo, ma non fu così tragico.

Quindi oltrepassato il primo ostacolo, finalmente la vera atmosfera del Prom ci avvolse. Le decorazioni e l’organizzazione in generale erano ovviamente impeccabili, dato che se n’era occupata Caroline.

Tema: com’eravamo. Tutta la palestra era tappezzato di foto di tutti gli alunni dell’ultimo anno, durante il tempo trascorso al Robert E. Lee High. Immagini di partite di football, altri balli e feste, riunioni studentesche e aggregazioni di club.

Passammo un’ora a commentarle tutte, a prenderci in giro per improbabili look o pose, a valutare quanto quattro ci avevano cambiati.

Damon compreso che s’inseriva nel discorso con simpatici aneddoti sulla nostra infanzia. Dove nostra stava per noi poveri piccoli pivelli e lui ragazzo già maturo costretto a subire la nostra presenza.

Ebbi un po’ di tempo anche per parlare con Matt e qualunque incomprensione venne spazzata via da risate e affetto.

L’euforia esplose poi nel momento in cui Caroline venne proclamata reginetta, battendo così Katherine che furiosa lasciò il palco.

Il re fu senza tante sorprese Stefan, ma entrambi aprirono le danze con i rispettivi partner, rompendo così la tradizione del ballo tra re e reginetta.

Nessuno ci fece caso e lentamente le varie coppie scesero in pista, compresi Damon e io.

“Ho un segreto da confidarti” sussurrai all’improvviso.

Mi ero decisa a lasciar passare almeno un giorno o due prima di parlargliene. Nemmeno sapevo che cosa c’era scritto in quella lettera

Chiunque altro non avrebbe avuto problemi a tenere la bocca chiusa, ma io no, io dovevo complicarmi la vita.

Non riuscivo a trascorrere una serata tranquilla con quel peso sullo stomaco. In ogni caso avevo preso la mia decisione e il contenuto della busta non poteva farmi cambiare idea.

“Sei stufa del ballo e vuoi scappare da qualche parte con me?” mi chiese speranzoso e ironico.

“Che cosa? Sei pazzo?! Mi sto divertendo e anche tu. Ammettilo”.

“Pensavo peggio”.

“Ma dopo possiamo scappare dove ti pare” lo accontentai.

“Musica per le mie orecchie” si compiacque “Allora, svelami il tuo segreto. Onestamente mi auguro che sia qualcosa di perverso e sporco”.

“Perverso e sporco, io? Sei certo di essere con la ragazza giusta?”.

“Al cento per cento” mi assicurò prima di baciarmi senza fretta, prendendosi tutto il tempo per strapparmi qualche sospiro e un mezzo sorriso.

“Non distrarmi” lo ammonii.

“Va bene, uccellino, ti ascolto”.

“Beh, qualche mese fa ho mandato le richieste d’iscrizione alle università. E tra le mie alternative c’era anche un campus a Londra”.

Mi strinse istintivamente i fianchi e la sua espressione tradì una certa apprensione, ma cercò di mantenere la sua compostezza.

“Non ne ho mai fatto parola perché me n’ero perfino dimenticata. Non credevo di passare la selezione, era solo uno sfizio”.

“Invece ci sei riuscita” concluse per me.

“No…cioè non lo so” chiarii “Oggi mi è arrivata una lettera dall’università, ma non l’ho ancora aperta”.

Damon annuì “Prima vediamo che c’è scritto e poi…sono sicuro che tu sia entrata. Potrei trattare un contratto con l’American Airlines o magari…Londra è piena di ottime scuole. Niente mi vieta di tentare un master là”.

Mi scaldò il cuore il fatto che stessa già cercando delle soluzioni.

Gli misi delicatamente un dito sulla bocca per zittirlo “ Non voglio andare a Londra. Quando ho mandato la domanda ero in un periodo un po’ confuso, non sapevo come sarebbe stato il mio futuro. Londra era un’opzione per spronarmi”.

“Bonnie non…va bene, non ti mentirò: è chiaro che sarei molto più contento se tu rimanessi da questa parte dell’oceano. Se ci tieni, però, me ne farò una ragione e…”.

“Non c’è niente a Londra che io non possa trovare qui” affermai “Tranne te. Mi hanno accettata all’università di Atlanta, sai. Voleva essere una sorpresa, ma a questo punto…”.

“Atlanta non è lontana da qui” calcolò Damon.

“Infatti. Le cose tra noi devono funzionare. Non c’è motivo di volare in Europa quando qui, vicino a te, con te, ci sono dei college altrettanto validi. Posso avere tutto”.

Appoggiò la fronte contro la mia e ondeggiò guidandomi nei movimenti “Adesso avrei davvero voglia di scappare via con te”.

Ero tentata di rispondergli di sì, ma la voce di Meredith mi precedette “Scusate ragazzi, avete visto Elena?”.

Sapevo che non ci avrebbe mai disturbati se non per qualcosa d’importante.

“Stava ballando con Stefan” replicò Damon guardandosi in giro.

Stava” ripeté Meredith “Si è allontanata per andare a parlare con Katherine. Penso volesse accertarsi che non facesse scenate o robe simili. Non è ancora tornata. Considerando i due soggetti, forse stanno provando a uccidersi a vicenda”.

“Ti aiuto a cercarla” mi proposi.

“No vado io” si offrì Damon velocemente “Se si stanno azzuffando, ci vuole un maschio per dividerle. Voi godetevi la festa”.

Sparì un secondo dopo. Ne restai perplessa.

Anche Meredith continuò la sua ricerca e io mi ritrovai sola in mezzo alla pista da ballo. Mi decise a fare un giro di ricognizione. Il mio cavaliere se n’era andato e i miei amici non si vedevano, tanto valeva rendermi utile.

M’inoltrai per i corridoi della scuola e controllai nelle classi vicine alla palestra.

“Sei solamente una bambina viziata. Accetta la sconfitta e vivi la tua vita”.

Questa era la voce di Elena che urlava.

Trovate. La mia intuizione era giusta. Mi diressi verso l’aula da cui proveniva il vociare.

“Adesso sei tu che ti stai impicciando degli affari miei”.

Questa era Katherine.

“Ti conosco da troppo tempo. Ho visto come guardavi Damon e Bonnie. Ti ho visto camminare verso di loro. Cosa credevi? Che ti avrei lasciato rovinare la loro serata?”.

Quella sgualdrina. Già me la immaginavo a infastidirci con le sue parole velenose.

“Hai mente di rinchiudermi in uno sgabuzzino? Sorvegliarmi a vista?”.

Avevo rallentato il passo perché ero davvero curiosa di sentire dove sarebbe andata a parare quella conversazione.

“Scendi dal piedistallo. Hai perso la corona, la scuola è finita. Devi per forza mettere zizzania?”.

“Non è zizzania, è la verità”.

“Tu non sopporti che Bonnie e Damon stiano insieme. Sei gelosa marcia e sei un’egocentrica…”.

“Bonnie e Damon insieme non esistono” rivelò Katherine “Possibile che nessuno l’abbia capito? Era solo uno scherzo! Stanno insieme per una mia idea”.

Mi arrestai appena prima della soglia, confusa.

“Che cosa stai blaterando?” chiese Elena esasperata.

“Si tratta di una scommessa. Quando ci frequentavamo, ho convinto Damon a prestarsi per questo giochino. Una scommessa, hai presente? Falla innamorare di te e spezzale il cuore. Una cosina banale, in effetti, tanto per divertirsi”.

Fu talmente scioccante che non registrai nemmeno le sue parole. Non mi venne da piangere e non mi mancò il respiro. Semplicemente non poteva essere.

“Non dire sciocchezze, Damon ti ha lasciato” obiettò la sua gemella.

“Perché ho baciato Stefan – qui probabilmente Elena si trattenne dal prenderla a sberle – allora è ripiegato su Bonnie. Non so se stia ancora fingendo o cosa. So per certo che lei è comunque una sostituta e se non ci fossimo lasciati, adesso non la vedrebbe neppure con il binocolo”.

Ricordai il primo bacio che mi aveva dato Damon in macchina, di ritorno da Atlanta. Gli avevo tirato uno schiaffo, lo avevo allontanato perché lui stava con Katherine e io non volevo entrare nei loro giochini di ripicca.

Ricordai l’improvviso interesse di Damon nei miei confronti, la sua determinazione e la sua insistenza. Ricordai di esserne rimasta sorpresa, dato che ero l’esatto contrario di tutte le sue precedenti ragazzi.

E ricordai anche i dubbi e i sospetti, la fatica nel dargli fiducia.

Dubbi, sospetti e fatica che iniziavo a sentire di nuovo.

Ritornai in palestra e lasciai le due gemelle Gilbert sole a urlarsi addosso. Non mi fermai un attimo finché non raggiunsi il cortile e mi nascosi in un angolino appartato.

L’intento era di staccarmi dal resto del gruppo per riflettere, per pensare razionalmente a quello che avevo appena ascoltato, ma non riuscivo nemmeno a cominciare.

Il mio momento di pace non diede i suoi frutti anche per un altro motivo: scorsi Damon poco lontano da me che controllava in giro. Fu stupido di scorgere me e non Katherine o Elena.

Era per quello che si era offerto di cercarle? Non voleva che io mi trovassi a faccia a faccia con la sua ex ragazza?

La serata aveva preso una piega particolarmente deludente. E l’espressione agitata di Damon non mi calmò.

Gli avevo promesso che sarei rimasta a Fell’s Church. Adesso, forse, mi preparavo a dirgli addio.

 

Il mio spazio:

È stato un capitolo difficile da scrivere; per questo il confronto tra Damon e Bonnie è stato rimandato al prossimo.

Non volevo troppa tristezza in un solo pezzo.

La bomba è stata sganciata. Bonnie ci crederà? O meglio Damon sarà abbastanza convincente da ottenere in fretta perdono e comprensione?

Mancano solo due capitoli alla fine, vedremo se riusciranno a risolvere prima che sia troppo tardi.

Vi ringrazio immensamente per il vostro supporto e affetto!

A prestissimo,

Fran;)

 

*Prom è il ballo di fine anno. Homecoming è il ballo d’inizio anno.

Farewell waltz è il titolo di un libro di Milan Kundera

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Capitolo 27
*** Goodbye to Sandra Dee ***


Capitolo ventisette: Goodbye to Sandra Dee

 

“Look at me,
There has to be something more than what they see
Wholesome and pure,
Also scared and unsure, a poor man’s Sandra Dee,
You must start anew,
Don't you know what you must do?
Hold your head high,
Take a deep breath and sigh
Goodbye to Sandra Dee”

(Look at me, I’m Sandre Dee reprise- da “Grease”).

 

Guardare il soffitto.

Era l’unica cosa che riuscivo a fare da cinque giorni.

Mi alzavo, mangiavo qualcosa, mi stendevo di nuovo sul letto e iniziavo a guardare il soffitto. Così per tutto il giorno e smettevo solo per cena o per il bagno.

Io, solo nella mia camera, immerso nell’autocommiserazione, tagliato fuori dal mondo a contemplare la stupidità umana, la mia stupidità. Troppo pigro per muovere un muscolo, troppo rassegnato per sistemare le cose, troppo avvilito per aprire le tende e affrontare ciò che mi aspettava dall’altro lato della strada.

In realtà, dopo la festa avevo passato ore seduto sul suo portico, in attesa e nella speranza che scendesse, mi parlasse, mi picchiasse. Qualsiasi reazione mi sarebbe andata bene.

Ma Bonnie non mi aveva degnato della minima attenzione.

 

Uscii in cortile nella speranza di braccare Katherine prima che scoppiasse un casino.

Avevo un presentimento che quell’amabile ragazza non se ne sarebbe stata calma, soprattutto dopo aver perso la sua ambita corona.

Lei e sua sorella sembravano sparite nel nulla. Avevo cercato perfino nel bagno delle ragazze e avevo dovuto scansare l’attacco di seduzione di una matricola troppo spavalda.

Il cortile della scuola era quasi deserto, solo pochi studenti usciti a prendere una boccata d’aria. Mi fu subito chiaro che le gemello Gilbert non erano nemmeno qui, ma una folta chioma di capelli rossi attirò il mio sguardo.

Che ci faceva Bonnie fuori dalla palestra?

Mi avvicinai sorridendole. Forse, finalmente, si era stufata di quella festa ed era pronta a venire via con me. Probabilmente era uscita proprio per aspettarmi.

Ma non ricambiò il mio sorriso com’era solita fare e ne rimasi sorpreso.

Non mi lasciò parlare. Mi gelò non appena mi trovai di fronte a lei.

“Damon, so tutto”.

Lì per lì non pensai subito alla scommessa. Ero talmente certo di avere tutto sotto controllo che non immaginavo nemmeno di essere stato battuto sul tempo, sotto al mio naso per giunta.

“Ho visto sentito Elena e Katherine parlare in un’aula” continuò “C’era di mezzo una scommessa su di me”.

Non avevo mai compreso a fondo il significato dell’espressione ‘non sentire la terra sotto i piedi’. L’avevo sempre trovata un’esagerazione.

Mi ero ripromesso di non farmi mai cogliere impreparato dalla vita e non credevo che una cosa del genere potesse capitare a me.

“Katherine è una bugiarda” disse Bonnie “E si diverte a rendere le persone infelici. Sta mentendo, vero? È solo una ripicca per separarci?”.

Ammirai la sua forza d’animo, ammirai la sua fierezza. Non aveva gli occhi lucidi, la voce non tremava e non distolse lo sguardo un secondo.

Era cresciuto così tanto il mio uccellino.

Scossi la testa “Non so neanche perché ho accettato. Era uno scherzo stupido”.

Ancora una volta non tremò e non si scompose come avrebbe fatto un tempo, ma vidi chiaramente un’ombra di tristezza e delusione cadere sul suo viso.

“Sentivo che qualcosa non andava” mormorò.

“Bonnie…”.

“C’era un motivo se non riuscivo a fidarmi di te” affermò con freddezza.

Benché me le meritassi tutte, quelle parole mi ferirono.

Ed eccomi là: relegato di nuovo al ruolo del cattivo.

Eravamo tornati indietro di mesi, bloccati ancora a quel punto, a quando io non potevo scrollarmi di dosso la pessima reputazione che mi ero creato e lei mi teneva a distanza.

Quel dannato muro di diffidenza era comparsi di nuovo.

“Katherine ha avuto l’idea e ho accettato. Giravano già delle battutine su di me e mi sono sentito colpito nell’orgoglio, nell’immagine…”.

“Immagine?” ripeté sconvolta “Temevi che gli altri ti sminuissero perché Bonnie la sfigatella non era caduta ai tuoi piedi?”.

Tentativo di formulare una scusa decente: fallito. Mi stavo scavando la fossa da solo.

“Ero un cretino e Katherine…”.

“Il fatto di essere succube di non ragazza non ti discolpa. Avevo un cervello da usare”.

“L’ho usato” sbottai. Tanto valeva aggrapparsi a un po’ di sincerità. Forse ne sarei uscito meglio, meno codardo “Era un gioco per me, immaginavo sarebbe stato divertente”.

“Ottimo lavoro, Damon: mi hai completamente umiliata e distrutta”.

Aveva appena messo i suoi sentimenti sul tavolo, aveva ammesso la sconfitta, eppure non era lei quella debole, non era lei ad aver perso la dignità.

“Tutto quello che abbiamo condiviso è finto. Mi hai usata come passatempo, mi hai usato per distrarti da Katherine. Almeno vi siete davvero lasciati o vi siete fatti delle grosse risate alle mie spalle fino a stasera?”.

“È iniziata così” ammisi “Sono venuto a salvarti nel bosco per avvicinarmi a te, ti ho chiesto di aiutarmi con il regalo di Stefan per farti una buona impressione, ti ho baciata subito dopo perché ero convinto di averti già conquistata…”.

“Non sono sicura di voler ascoltare il resto” mi avvisò.

“Più passava il tempo, più mi tormentavi. Eri sempre lì, anche quando stavo con Katherine, tu eri nella mia testa. Non sai quanto sono stato contento di mettere mio cugino su un aereo e spedirlo lontano da te. Poi Katherine si è finta Elena e ha baciato Stefan. Abbiamo rotto sul serio e onestamente non ci sono stato così male come avevo pensato. Avrei potuto chiuderla con la scommessa, avrei potuto lasciarti stare. Non l’ho fatto perché semplicemente non ne ero capace, non volevo staccarmi da te”.

Bonnie liberò una risata amara “Non ti aspetterai che creda alla storiella del playboy redento, caduto nella sua stessa trappola?”.

“Patetico e banale, eh? Sto cadendo sempre più in basso” osservai “Non saprei neppure dirti quando è finito il gioco. È confuso. Inconsciamente mi piacevi anche quando ti ritenevo una bambinetta. Perfino Katherine mi detto di essersi interessata a Stefan perché mi vedeva troppo coinvolto da te”.

“Devi aver recitato bene la tua parte” commentò Bonnie.

“Non è una recita, te lo giuro.

“Come posso esserne sicura? Magari eri solo annoiato e io sono stata la prima così stupida da darti retta!”.

“Ce ne sono centinaia di ochette che non vedono l’ora di buttarsi su di me. Se avessi voluto uno scalda letto, non ti sarei stato addosso per mesi e mesi”.

“Allora perché non ne scegli una e mi lasci in pace!” mi rinfacciò.

“Perché sono pazzo di te” esplosi “Ho fatto cose da matti per te. Sono entrato nel bosco di notte per cercarti. Ti ho portato via dalla polizia quando eri ubriaca. Ho corrotto una bibliotecaria e un guardiano per organizzare il tuo regalo di compleanno. Ho risolto i miei problemi con mio padre e mio fratello grazie a te. Non ho abbandonato gli studi grazie a te. Se ripenso a ogni momento importante della mia vita, tu eri lì con me”.

“Hai un modo curioso di dimostrare gratitudine” sbuffò. Per un attimo scorsi il fantasma di un sorriso, ma venne cancellato immediatamente “Una parte di te è ancora attaccata a quella scommessa. Se l’avessi del tutto superata, mi avresti raccontato la verità”.

“Volevo evitare sofferenze inutili. Me ne vergognavo. Non c’era motivo di parlartene e rovinare tutto. So bene qual è l’opinione che hai di me” conclusi, mortificato.

“Non avevo tutti i torti” considerò “Ti sei preso gioco dei miei sentimenti fino adesso”.

“Ho smesso molto tempo fa” obiettai.

Lei non mi ascoltò “Qual era il piano? Fare una scenata davanti a tutti, magari proprio al ballo. Dov’è Katherine, non si sta gustando la sua vittoria? Santo Cielo, se penso che ero pronta a …”.

“A cosa? A venire a letto con me? Ti ricordo che ti ho fermata perché eri completamente sbronza. Ti ricordo che ho fatto un passo indietro e ti ho rispettata”.

“Magari ti disgustava solo l’idea. Magari detesti l’idea di toccarmi e ti sei nascosto dietro la prima scusa che hai trovato”.

“Ecco perché non te l’ho voluto dire: adesso ti stai facendo mille paranoie, metti in dubbio tutto”.

“E di chi è la colpa?”. Questa volta aveva urlato.

Sospirai “C’è stato un momento in cui ero davvero convinto a portare a termine la scommessa, a ferirti come se fossi un giocattolo inutile: quando Katherine me l’ha proposto. Dopo quel giorno, l’idea mi stuzzicava sempre meno. Mi è capitato perfino di evitarti, perché non ero più interessato. Katherine mi ha spinto a proseguire e si è fregata con le sue stesse mani. Era uno scherzo crudele e io mi sono comportato da idiota, ma non me ne pento. Senza la scommessa mi sarei avvicinato a te? Senza Katherine avrei perseverato? Forse no, ma me ne frego perché ti ho conosciuto, ti ho scoperto. L’inizio non è stato dei più nobili, lo ammetto, ma quello che è venuto dopo…Bonnie, tu sei ciò che ho sempre cercato. Bonnie…”.

“Ti prego non continuare”.

“Mi sono innamorato”.

Se avessi visto la scena dall’esterno, probabilmente di sarei messo una mano davanti alla bocca per non vomitare. Era l’apoteosi del cliché e del romanticismo. Tutte cose che avevo sempre evitato come la peste.

Non c’era, però, altro modo per esprimerlo. Nel mondo andava naturalmente così: un ragazzo innamorato di una ragazza contro ogni aspettativa.

Comune perché semplice, puro e vero.

Bonnie si passò una mano tra i capelli, a disagio “Se me l’avessi detto mezz’ora fa, sarei stata la persona più felice del mondo”.

“Non cambia niente: è pur sempre quello che sento”.

“Mi hai mentito per tutto questo tempo. Non so più dove finisce la finzione”.

“Non esiste finzione” replicai “Per piacere, non buttare tutto al vento per uno sbaglio. È solo colpa mia. Insultami, picchiami, arrabbiati, ma non arrenderti”.

“Non sono arrabbiata” mi disse, con calma “Non quanto avrei immaginato, almeno. Sento, però, che qualcosa si è spezzato. Mi hai appena confermato che c’era un motivo se non riuscivo a fidarmi di te”.

 

E tutt’ora non mi fido.

Non me l’aveva detto in faccia, ma era abbastanza intuibile.

Se n’era andata dopo l’ultima frecciata e io non l’avevo seguita. Non ne avevo avuto il coraggio.

Bonnie si era sempre mostrata molto restia a cedere alle mie pressioni. Mi ci erano voluti mesi prima di conquistarla per davvero, per convincerla che non ero più il ragazzo crudele e immaturo di un tempo. Le avevo perfino rimproverato di aggrapparsi troppo ai pregiudizi che aveva su di me, di dar troppo peso alle opinioni altrui.

Scegli, Bonnie, o tutto o niente. Le avevo intimato.

Alla fine, il mio segreto era scoppiato come una bolla di sapone. Avevo fatto la figura del cretino e del bugiardo. Non era proprio le migliori credenziali per sperare in una soluzione veloce e indolore.

Inoltre le avevo praticamente servito su un piatto d’argento una più che valida ragione per dubitare di me e tenermi alla larga.

Avevo provato a chiamarla, a farle la posta sotto casa, ma non era servito a niente. Neppure suo padre era riuscito a persuaderla a parlarmi, pur giurandomi di averci tentato con tutte le sue forze.

Non gli aveva raccontato il vero motivo della nostra litigata e questo mi lasciava un po’ di sollievo: se cercava ancora di proteggermi, significava che non tutto era perduto.

Mi ero nascosto nella mia camera e le avevo permesso di prendersi del tempo per riflettere, per sbollire. Non sapevo quanto quella decisione avrebbe effettivamente giocato a mio favore, ma per il momento non avevo altra scelta.

Le avevo mandato un messaggio, semplice e conciso: abito dall’altra parte della strada, sono qui con te. Una tua parole e corro.

Non ero sparito. Le stavo ancora vicino. Doveva sapere che quel silenzio non significava la mia resa. Io non mi ero ancora dato per vinto.

Avevo ripercorso decine di volte quei mesi passati a darle letteralmente la caccia. Mesi in cui quella maledetta scommessa era solamente un pretesto, un alibi che mi ero costruito perché non volevo ammettere neanche a me stesso di essere cotto di lei.

Avevo valutato più volte l’idea di raccontarle la verità, cancellare quella macchia dalla coscienza. Spaventato da ciò che sarebbe potuto accadere, avevo taciuto.

Mossa da codardo? Forse, ma in buona fede.

Avevo abbandonato da talmente tanto tempo il proposito di portare a termine quello scherzo che mi era sembrata un’inutile seccatura confessarlo.

Che necessità avevo di far soffrire Bonnie per niente?

Tutto ciò che le avevo detto, che avevo fatto. Gesti eclatanti, frasi a effetto, risate strappate e baci rubati. E poi i litigi e gli insulti, gli errori. Tutto vero, anche quando credevo di comportarmi così per via della scommessa, sotto sotto c’era un fondo di verità che non avevo ancora consapevolmente afferrato.

Bonnie questo non lo potevo sapere, Bonnie non si poteva fidare ciecamente: le avevo dato ogni motivo per non farlo.

Non la biasimavo per avermi piantato in asso alle festa, per non aver risposto alle mie chiamate. Non ero proprio un soggetto su cui scommettere, il bravo ragazzo affidabile.

Evidentemente in me c’era qualcosa di sbagliato: avevo il potere di allontanare ogni donna di cui m’importasse qualcosa. E quando arrivava finalmente l’unica, quella giusta, quando finalmente ero diventato una persona decente, rovinavo tutto.

Il vecchio Damon era sempre in agguato per riportarmi indietro, anche contro la mia volontà. Non serviva un’azione vera e propria, bastava un ricordo, uno sbaglio passato e in un attimo la nomea di cattivo ragazza tornava a perseguitarmi.

Bonnie non era l’unico mio problema: avevo parecchie spiegazioni da dare anche a Stefan.

Normalmente me ne sarei fregato, ma avevamo fatto progressi ed era la sua migliore amica. Era un discorso che dovevo affrontare, sebbene non ne avessi assolutamente voglia.

Mi stupivo che non fosse ancora venuto a stanarmi per ridurmi in piccoli pezzettini. Aveva reagito veramente male quando ci aveva sorpreso stesi sullo stesso letto. Questo era molto peggio. Strano che non fosse ancora venuto a difendere l’onore della sua fanciulla prediletta.

E proprio quando pensavo che tutti si fossero completamente dimenticati di me, qualcuno bussò alla mia porta. Guarda caso l’oggetto delle mie preoccupazioni.

No, non la ragazza dai capelli rossi, ma l’impavido eroe dagli occhi verdi.

Da qualcuno dovevo pur cominciare, no?

“Allora sei vivo” commentò.

Fantastico, adesso nemmeno il sarcasmo era mia prerogativa esclusiva.

“Sei qui dentro da tre giorni. Mi aspettavo di trovarti mummificato”.

“Mummificato? Davvero? È la migliore ipotesi che hai scovato?”.

“No, dato che ti sentivo vagare per i corridoi di notte, ho anche creduto che fossi diventato un vampiro, ma in quel caso probabilmente sarei stato la tua prima vittima”.

“Spiacente deluderti, fratellino, sono ancora tutto umano. Ma ammetto che se ci fosse un vampiro con il mio nome, sarebbe sicuramente un gran figo”.

“Va bene, sarò breve e conciso: voglio una spiegazione” tagliò corto.

Avevo appena deciso che anche Stefan si meritava come minimo una giustificazione, ma più metteva pressione, più mi passava la voglia.

Primo passo per levarmelo di torno: fare il finto tonto.

“Non so di cosa tu stia parlando”.

“Sono giorni che tu e Bonnie vi evitate. Lei si rifiuta di venire qui e tu non ti rifiuti di lasciare la tua camera. Ti ho lasciato in pace fin troppo tempo”.

Secondo passo: temporeggiare.

“Hai ragione, fratellino, come sempre. Ne possiamo discutere più tardi? Ora devo studiare”. Falso ma efficace.

“No, ne discutiamo ora” s’impuntò.

Terzo passo: negare.

“Non è andata come credi”.

Santo Cielo, mi sembrava di essere appena stato beccato nel letto con la mia amante.

“Vorrei credere qualcosa…davvero vorrei, ma nessuno di voi due si decide a parlare” osservò esasperata e sempre più determinato.

Corrugai la fronte “Nel senso che Bonnie non ti ha detto niente?”.

“No” mi confermò “Solo che avete litigato, che è finita e che vuole stare da sola”.

Mi sorprese quella risposta, mi sorprese di non essere stato additato come il colpevole della situazione, sebbene lo fossi.

Mi rincuorò sapere che Bonnie non avesse divulgato il vero motivo della nostra rottura. Mi stava in qualche modo proteggendo, stava cercando di salvaguardare il mio rapporto con Stefan.

Magari non era tutto perduto, magari una parte di lei continuava a credere in noi e preferiva non farmi terra bruciata intorno. Almeno non con Stefan che mi avrebbe ammazzato se avesse scoperto della scommessa.

Mi resi conto che era infine giunto anche per me il momento di prendermi le mie responsabilità, di comportarmi da persona matura.

 E ritornai al mio piano originario: confrontarmi con Stefan, essere onesto. Raccontare i fatti dal mio punto di vista e provare almeno a convincerlo di non avere per fratello il diavolo in persona.

Accade esattamente come con Alaric. Stefan divenne prima paonazzo, poi sbiancò e fu sull’orlo di scoppiare. Avvicinandoci alla fine la sua espressione mutò: sempre più empatica, sorpresa e comprensiva.

“Le hai confessato di amarla?”.

In tutto il discorso, almeno era rimasto colpito dalla parte più positiva.

“Sì e sono stato mollato un secondo dopo”.

 

 

Rifiutai l’ennesima chiamata di Elena. Lei e Stefan erano diventati un vero tormento.

Cominciavo a pentirmi di essermi rivolta proprio a loro per cercare un po’ di conforto.

In realtà non era stata una cosa voluta: dopo la litigata con Damon, ero di corsa tornata in palestra (per assurdo sentivo che tra la folla avrei potuto trovare un po’ di tranquillità) e mi ero imbattuta subito in quei due.

Avevo il viso stravolto e subito si erano resi conto che qualcosa non andava.

Li avevo pregati di accompagnarmi a casa, dato che non avevo la mia macchina. Mentre Stefan era andato a prendere l’auto, Elena aveva indagato.

Avevo intenzione di tenere per me la storia della scommessa, ma Elena sapeva già tutto per via di Katherine, perciò decisi di confidarmi con lei.

All’inizio non volle credere che Damon avesse davvero preso parte a quello scherzo crudele. Lo aveva sempre difeso, ci aveva spinti uno tra le braccia dell’altra e adesso ne era rimasta delusa almeno quanto me.

L’avevo pregata di non dirlo a Stefan né a nessun altro.

Damon aveva superato ogni limite, ma non avevo alcun interesse a gettargli altro fango addosso, o ad accrescere la sua brutta reputazione, soprattutto agli occhi di Stefan.

Per quanto riguardava Meredith e Caroline, non avevo voglia di sentire nessuno “Te l’avevo detto”, men che meno insulti rivolti al mio ormai ex ragazzo.

Così, nonostante la notizia della nostra rottura si fosse diffusa, nessuna sapeva il vero motivo a parte Elena.

Continuava a pressarmi perché risolvessi la situazione. Stefan, invece, pretendeva spiegazioni, che io non gli avrei dato di certo.

Non volevo mettermi in mezza tra i due fratelli, non volevo creare contrasti. Era compito di Damon dirlo a Stefan. Se la dovevano sbrigare da soli.

Fatta eccezione per la sera della festa, appena dopo il misfatto, non ne avevo parlato con nessuno.

Seppur fosse difficile tenersi tutto dentro, era la decisione migliore per me.

Temevo che, altrimenti, sarei stata influenzata dai pareri esterni, sia in positivo sia in negativo. Ma era una cosa importante ed era mia.

Faceva male ripensare a quei momenti. Alle parole di Katherine che tutta soddisfatta sbatteva in faccia a Elena la sua vittoria. Alle conferme di Damon che costretto a confessare tutto mi aveva ferito più di altri mille tradimenti.

Mi sentivo davvero una stupida, perché non avevo ascoltato il mio istinto quando mi aveva suggerito di scappare lontano da lui.

Mi sentivo debole, perché avevo permesso a Damon di farmi, ancora una volta anche se in maniera diversa.

E mi sentivo incompleta, perché mi sembrava che Damon si fosse portato via quella parte di me per cui tanto avevo lottato. Quella forte, sicura, cresciuta.

Avevo messo a tacere la mia diffidenza per niente, per essere smentita, per ritornare al punto di partenza.

Damon non si meritava la mia fiducia, non se l’era mai meritata.

Non m’importava che si fosse pentito, che avesse lasciato perdere tempo addietro la scommessa. Non m’importava che si fosse innamorato di me.

Aveva tenuto nascosta la verità, permettendo a Katherine di mortificarmi.

La nostra storia era costruita sostanzialmente su una bugia. Forse i sentimenti di Damon erano veri, forse era accaduto sul serio come nei film e alla fine era rimasto intrappolato nella tela che lui stesso aveva intrecciato e da un lato capivo anche la sua paura di rovinare  ciò che avevamo creato con fatica. Ma a conti fatti, pianificare di conquistarmi e spezzarmi il cuore era un gioco pericoloso, un segreto pesante e grave. Aveva minato per sempre la mia fiducia

“Mi sono innamorato di te”.

Ma chi voleva prendere in giro?

M’importa di quella dichiarazione, mi rimbombava nella testa giorno e notte.

Lo odiavo: mi aveva portato sul punto più in alto e mi aveva lasciato cadere. Perché alla fine il suo piano aveva ottenuto l’effetto sperato: anche io mi ero innamorata.

Dirlo ad alta voce mi faceva paura, ma almeno a me stessa lo potevo ammettere.

E se non era ancora amore vero, ci mancava poco. Non m’immaginavo un sentimento diverso da quello che nutrivo nei suoi confronti.

Avevo passato giorni interi a riflettere su come comportarmi. Non era una circostanza semplice e faticavo a capire se fosse il caso di continuare oppure no.

Avevo l’impressione di stare lentamente perdendo me stessa, il mio centro, il mio obiettivo: mi ero trasformata di nuovo una ragazzina piagnona che si nascondeva nella propria camera.

Volevo essere quel tipo di persona? No.

Bonnie McCullough non era una bambina. Bonnie stava diventando un’adulta, si stava scrollando di dosso l’immagine della ragazza della porta accanto.

E per quanto mi costasse, sapevo di avere un unico modo per dimostrarlo.

 

Il giorno del diploma in casa mia era esplosa una vera e propria euforia. Tra mia sorella e mio padre non sapevo dire chi fosse più agitato.

Mary insistette per truccarmi almeno un po’ e papà cucinò per colazione tanta di quella roba che saremmo andati avanti altri tre giorni a mangiare.

Tra i miei amici, Caroline era certamente la più entusiasta. Un’altra cerimonia nel giro di poco. Il suo ego non poteva stare meglio.

Mi sentivo un po’ goffa in quella tunica larga e con quel tocco in testa. Eravamo tutti vestiti allo stesso modo e tutti ci guardavamo straniti.

“Ci pensate che questa è l’ultima volta che siamo tutti insieme qui a scuola, come studenti” si commosse Caroline.

“Non incominciare già a piangere” la riprese Meredith.

“La fai facile tu! Sei contenta di uscire da questo posto, così potrai sbandierare la tua relazione con il prof!” la ribeccò.

“Questo è un segreto che non mi mancherà” commentai.

“A proposito di segreti. Tu ci devi ancora qualche spiegazione, Bon” mi disse, alludendo alla rottura con Damon.

Elena sapeva quanto fossi restia a parlarne e venne in mio aiuto “Non roviniamoci questo giorno. Ci racconterà un’altra volta. Adesso voglio un abbraccio”.

“Oh sì, un abbraccio” batté le mani Caroline “Aspetta! Stefan, Matt!! Venite qua!” urlò per chiamarli “Qualcuno prende una macchina fotografica”.

Ma non ci fu tempo per nessuna foto, perché il preside ci incitò a sederci per l’inizio della cerimonia.

Quando venne annunciato il mio nome, sentii il cuore battere più forte. Temevo d’inciampare nella tunica o mettermi in imbarazzo in qualche modo. Fortunatamente passai indenne la consegna del diploma e nel momento in cui lo presi in mano, avvertii un moto di orgoglio per me stessa. Una scarica come non ne avevo mai percepite.

Voltandomi verso il pubblico per accettare l’applauso, incrociai lo sguardo di Damon, accanto a suo padre per sostenere Stefan.

Gli rivolsi un mezzo sorriso perché una parte di me era contenta di vederlo. Mi piaceva pensare che fosse venuto un po’ anche per me.

Abbracci e foto piovvero non appena fu terminato tutto.

Una dolce malinconia aleggiava tra noi: eravamo alla fine di un ciclo. Per me forse più che per tutti gli altri.

Abbracciai forte Stefan e mi aggrappai alla sua tunica. Era la persona che avrei lasciato con più fatica. Non eravamo amici, non eravamo fratelli.

Eravamo qualcosa di più. Anime gemelle destinate a condividere per sempre un legame unico.

“Rimarrai con me?” gli chiesi.

“Per tutta la vita, e di più” sussurrò tra i miei capelli “Bonnie, devi dirglielo”.

“Lo so” dissi atona.

“Lo distruggerà”.

“Una piccola vendetta personale” ironizzai con la voce fievole.

“Ha incasinato tutto come al suo solito. Mi ha raccontato della scommessa…ma io gli credo. Sicura di non potere dargli un’altra possibilità?”.

“È questo il problema, Stefan, concedere a lui un’altra occasione sarebbe come toglierla a me” osservai tristemente.

Stefan annuì, poco convinto “Lo terrò d’occhio per te”.

L’incontro con Damon fu inevitabile. Io dovevo parlargli e lui sembrava non attendere altro. Mentre tutti festeggiavano, noi ci trovammo seduti uno accanto all’altra sulle sedie occupate prima dagli invitati alla cerimonia.

C’erano fiumi di parole da dire, pensieri da esplicare eppure entrambi rimanemmo zitto per un bel po’. Non so che cosa passasse nella sua mente.

Io semplicemente non trovavo il coraggio di annunciargli la cattiva notizia.

“Mi ritengo fortunato” saltò su all’improvviso.

“Per cosa?”.

“Non mi hai ancora tirato una sedia in testa”.

“C’è ancora tempo”.

“Ricordati che potresti rovinare il mio bel visino. E tu ami il mio bel visino”.

La sua faccia da schiaffi piuttosto.

Al mio silenzio replicò in fretta, come se non volesse permettermi di rimuginare troppo “Mi spiace di essere sparito così, Bonnie. La verità è che non sapevo che cosa dire. Non so ancora cosa dire. Tutto quello che mi viene in mente è stupido o banale o peggio patetico. Ci ho riflettuto molto e sono arrivato alla conclusione che qualunque cosa dicesse non servirebbe a niente se tu non fossi disposta ad ascoltarmi. Quindi te lo chiedi per piacere: vorresti ascoltarmi?”.

Corrugai la fronte. Sarei stata ad ascoltare per ore, ma il problema era un altro.

Il problema era che pure io avevo qualcosa d’importante da dirgli.

“Aspetta” lo fermai “Prima devi sapere una cosa. Ti avevo accennato di quell’università di Londra. Ecco, mi hanno accettata e ho deciso di trasferirmi là”.

Damon s’irrigidì. La sua espressione cambiò totalmente. Scorsi un’ombra di delusione, ma poi  ci fu solo panico e sorpresa.

Si alzò di scatto, nervoso “Certo, è logico. Te lo meriti, non c’era motivo perché non ti prendessero. Hai fatto bene ad accettare. Non c’è nulla che ti trattiene qui”.

Quell’ultima frase fu un colpo al cuore per me, non osai immaginare per lui.

Mi alzai e feci per parlare ma Damon m’interruppe di nuovo. Adesso appariva arrabbiato.

“Ti auguro buon viaggio e…

Non mi aveva lasciata spiegare, era scappato via.

Capivo la sua amarezza, capivo la sua confusione. Aveva passato mesi e mesi a ripetermi quanto fossi matura, cambiata. Ma non si era mai reso conto di quanto in effetti fossi cresciuta.

Era davvero la fine di un ciclo.

 

Se un anno fa mi avessero detto che mi sarei trovato solo, piantato da Bonnie McCullough, gli avrei riso in faccia.

Se un anno fa mi avessero detto che avrei sofferto come un cane perché Bonnie McCullough si toglieva finalmente dalla circolazione, mi sarei proprio sbellicato dalla risate.

Adesso non ridevo, però.

Continuavo a guardare fuori dalla finestra in attesa di vederla uscire con le valigia per andarsene a  Londra.

Chissà se aveva avvertito Klaus, chissà se aveva intenzione di vederlo.

Quel pensiero mi fece ribollire il sangue.

Mi ero preparato tutto un bel discorso per il giorno del suo diploma e me l’ero tenuto per me. La notizia della sua partenza mi aveva completamente colto alla sprovvista.

Sentivo che mi stava sfuggendo dalle mani, sentivo di non avere tempo per rimediare al casino che avevo combinato, allora avevo lasciato perdere.

Santo Cielo, ero Damon Salvatore.

Io non aspettavo  che le cos venissero da sé, non guardavo il destino compiersi. Prendevo ciò che volevo, combattevo fino alla fine.

Sebben avessi sbagliato, anche Bonnie stava commettendo i suoi errori e non c’era motivo per cui dovessi tacere e non tentare il tutto per tutto almeno un’ultima volta.

Così mi diressi a casa sua e bussai ripetutamente alla porta.

Suo padre mi aprì e non si fece alcun tipo di problema a lasciarmi entrare. La mia espressione valeva più di molte altre parole.

Piombai in camera di Bonnie e la sopresi mentre stava finendo di riporre alcuni vestiti nel suo borsone.

“Tu stai scappando!” l’accusai.

Improvvisamente da imputato ero diventato giudice.

“Tu sei scappato” mi rispose, inquieta.

“No, io ero venuto per provare a sistemare le cose e tu mi hai informato che ti saresti trasferita dall’altra parte dell’atlantico”.

“Sto pensando a me stessa, al mio futuro” replicò.

“L’università di Atlanta non ti dispiaceva fino a poco tempo fa” le ricordai amaramente.

“Fino a poco tempo fa non sapevo nemmeno che ti fossi alleato con la mia peggior nemica per ingannarmi”.

“Non significa niente!” le urlai “Sono stato uno stronzo, è vero. E mi dispiace, ho sbagliato. Credi che andartene ti servirà a qualcosa? Che imparerò la lezione? Tu non ti traferisci perché non ti fidi di me, te ne vai perché hai paura!”.

“Certo che ho paura!” affermò lei “Ho una dannata paura perché per la prima volta mi sono completamente dedicata a qualcuno, ho lasciato che le mie difese cadessero, ci ho creduto davvero e tu mi hai colpito al cuore”.

“Allora resta qui! Lotta per me. Dimostrami che tra i due sei tu quella forte, insegnami, non arrenderti con me” la pregai.

“Damon, questo va oltre te e me” disse “Mi ha totalmente distrutta scoprire della scommessa. Mi sono sentita di nuovo una ragazzina piagnucolona e ingenua e non voglio più tornare a essere quella persona. Questa esperienza mi serve per trovare un equilibrio, per avere il potere di decidere se stare male o no. Ed è una cosa che devo fare da sola”.

Era seria e tremendamente decisa.

Capivo la sue ragione, ma – diamine – era difficile lasciarla andare.

La guardai e mi resi conto che sarebbe passato molto tempo prima di averla di nuovo così vicino.

Le presi il volto con uno scatto repentino e la baciai e la tenni stretta, come se fossimo in mezzo alla burrasca e il vento me la volesse portare via.

“Sbrigati a laurearti e torna in fretta da me”.

Io l’avrei aspettata. Senza riserve, senza tentennamenti.

E forse, prima o poi, ci saremmo dimenticati dei tempi in cui ci odiavamo e saremmo tornati a essere solo Bonnie e Damon, ai confini del mondo.

 

Il mio spazio:

Ecco qui il penultimo capitolo della storia.

Beh sì…le cose non si mettono affatto bene. Bonnie è decisa a partire e Damon non riesce a trattenerla. Riusciranno a risolvere la situazione prima della fine?

Non sono riuscita a correggere il capitolo, sarà pieno di errori di battitura. Mi spiace molto, al mio ritorno provvederò subito a editare.

Oggi partirò per il mare per una decina di giorni quindi l’ultimo capitolo arriverà nella prima settimana di agosto.

Ho letto tutte le vostre recensione, purtroppo causa partenza non faccio in tempo a rispondervi e non avrò internet per tutta la settimana, ma risponderò non appena ritornerò a casa. Scusatemi tantissimo per questo “inconveniente”.

Se ci siete ancora, non si siete partite e avete voglia, lasciatemi il vostro parere e le vostre congetture.

Vi ringrazio tantissimo!!

A presto,

Fran;)

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Capitolo 28
*** Eventually ***


Crazy Little Thing Called Love

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Capitolo ventotto: Eventually

 

Mamma mia, here I go again
My my, how can I resist you?
Mamma mia, does it show again
My my, just how much I've missed you?
Yes, I've been brokenhearted
Blue since the day we parted
Why, why did I ever let you go?
Mamma mia, now I really know
My my, I could never let you go”

(Mamma mia- ABBA).

 

Londra era molto più incasinata di Fell’s Church. E molto più fredda.

I primi giorni non erano stati affatto facili. Ci avevo messo un po’ ad ambientarmi.

Avevo richiesto una camera singola al campus e questo non mi aveva facilitato a stringere amicizia. Erano tutti talmente presi dal trasloco e dall’inizio delle lezioni che ogni contatto si limitava a qualche chiacchiera di cortesia.

Avevo scoperto un delizioso caffè italiano in un vicolo vicino al college. Ogni mattina prendevo il mio cappuccino e mi dirigevo verso la fermata della metropolitana.

Dopo una settimana a girare nei parchi e nei musei, mi ero finalmente decisa a immergermi nella vita universitaria.

Lentamente avevo cominciato a conoscere gente, a integrarmi: mi orientavo per la città, avevo capito come funzionavano tutti i servizi della mia università e i miei compagni mi salutavano e riconoscevano quando entravo in classe.

Avevamo formato un piccolo gruppetto. Gli inizi erano stati molto formali, ma avevamo iniziato a entrare in fretta in coincidenza.

Eravamo tutti ragazzi lontani da casa, pronti a cominciare una nuova fase della nostra vita. Ci sentivamo accomunati da quel senso di novità e smarrimento.

Oltre a quella strana combriccola, avevo legato particolarmente con un’altra ragazza. Londinese doc, bionda, alta, con gli occhi azzurri. Tosta e impertinente, molto altezzosa. Non ero riuscita a capire chi mi ricordasse fino a che non avevo scoperto il suo cognome.

Rebekah Mikealson era la degna sorella di Klaus.

Emanava un incredibile fascino alimentato dalla sua ambizione. Una persona così si sarebbe mangiata Katherine in un boccone se l’avesse incontrata.

Rebekah era l’unica che riusciva un po’ a colmare il vuoto lasciato dalla mie amiche. Sapevo che prima o poi sarebbe passato ma non potevo fare a meno di sentire la mancanza di Elena, Caroline e Meredith. E naturalmente di Stefan.

Ci tenevamo in contatto praticamente ogni giorno tramite Skype. Ora condivideva con Elena un appartamento vicino all’università, quindi riuscivo a parlare spesso con entrambi.

I contatti con Meredith e Caroline erano un po’ meno frequenti, ma quando ci chiamavamo rimanevamo al computer per ore.

Tutto sommato me la stavo cavando più che bene ed ero molto fiera di me stessa. Superato lo spaesamento iniziale, ero gradualmente diventata parte di Londra.

Oltre al mio bar preferito, avevo anche un parco preferito e una libreria e un delizioso negozio vintage.

Rebekah mi aveva portato in giro per la città, mostrando le meraviglie lontane dagli occhi dei turisti. Ormai potevo dire di muovermi tra quelle vie come una vera londinese.

Avevo ancora qualche problema con l’accento, ma fortunatamente nessun inglese mi aveva ancora additata come una stupida americana.

Dopo quasi tre mesi non provavo nemmeno più tanto nostalgia di casa. Papà e Mary erano già venuti a trovarmi una volta e li avevo portati in giro come un perfetto cicerone.

Erano rimasti parecchio sorpresi dal vedermi totalmente integrata nel mio nuovo ambiente e io ero altrettanto orgogliosa e contenta: mi ero finalmente lasciata alle spalle la ragazzina impaurita e piagnucolona.

Dopo tutto quello che avevo passato lungo l’anno trascorso, quel distacco non aveva fatto altro che fortificarmi ancor di più.

Capitava spesso che io, Rebekah e Klaus uscissimo assieme e durante uno dei nostri pranzi era saltato fuori l’argomento Damon.

Klaus si era finto dispiaciuto per averlo nominato, ma era più che evidente che l’avesse fatto di proposito per sapere che cosa era successo tra noi.

Rebekah era caduta dalle nuvole, chiedendo se il Damon in questione fosse suo cugino. Mi era toccato raccontare brevemente la nostra storia e il motivo che vi aveva poso fine. Mi sentivo libera di parlare con loro perché sapevo che non mi avrebbero giudicata o compatita.

 

“Che razza di stronzo. Proprio come me lo ricordavo. Hai fatto bene, Bonnie: lascia che ti rimpianga per il resto della sua vita. E poi chi si crede di essere questa Katherine?”.

“Sempre melodrammatica, Rebekah” la rimproverò Klaus.

“Hai il coraggio di difenderlo?” s’indignò.

“È un uomo. Noi uomini facciamo cazzate, ma non siamo così cattivi come pensate. Damon piace proprio perché è una mina vagante”.

 

Ed erano andati avanti a litigare su chi avesse ragione, senza interpellarmi minimamente.

Rebekah era davvero un osso duro e si lanciò in un discorso in difesa delle donne, sostenuto da parecchie delusioni personali.

Klaus cercava di smorzare la sua carica. Un po’ perché era stato il nostro primo vero sostenitore, un po’ perché aveva capito che l’argomento mi metteva a disagio.

Non avevo più avuto notizie di Damon da quando ero partita. Stefan mi aveva solo detto che si era laureato, ma non avevo chiesto altro.

La cerimonia coincideva con l’inizio delle mie lezioni, perciò ero rimasta a Londra. Avevo pensato di scrivergli qualcosa. Alla fine tutto mi sembrava inappropriato.

Avevo lasciato passare in silenzio anche quell’evento, rassegnata ad accettare la fine della nostra storia: ero andata a Londra per staccarmi da tutto e trovare veramente la mia strada. Tagliare qualunque contatto era stata la soluzione migliore.

Rebekah aveva imparato la lezione e non aveva più fiatato su suo cugino.

Avevo scelto la facoltà di scienze della formazione e giorno dopo giorno mi accorgevo di quanto fosse giusta quella materia per me.

I miei insegnanti non erano stati molto d’aiuto durante la mia crescita. Certo, avevo tutti fatto il proprio dovere, comportandosi da perfetti educatori ma non si erano mai una volta fermati a chiedersi che cosa io avessi da dare al mondo.

Mi sarebbe piaciuto essere un giorno per dei ragazzini ciò che era mancato davvero a me: una guida.

Tanti chilometri solo per diventare un’insegnante? Chiamatemi pazza, ma ne valeva la pena.

Giorno dopo giorno mi sentivo sempre più viva. Era merito di Londra, dei suoi quartieri eleganti e di quelli underground, era l’aria che si respirava.

Aria di innovazione, aria di ambizione, aria di professionalità e bravura.

Non avevo alcun problema con il tempo. Potevo accettare la pioggia e la nebbia se in cambio ricevevo tali stimoli.

Ero lì da poco, eppure cominciavo già a valutare l’idea di traferirmi definitivamente. L’idea di  lasciare, una volta ottenuta la laurea, quella magnifica città mi stringeva il cuore.

La mia avventura che era partita, com’era prevedibile, con titubanza e malinconia, stava continuando con trepidazione e entusiasmo.

Era impressionante guardarsi indietro e vedere tutto quello che era successo in un solo anno: la mia vita si era completamente ribaltata, così come le mie convinzioni e relazioni.

Ci stavamo avvicinando a Halloween e non potevo non pensare alla festa passata, al momento in cui tutto aveva iniziato radicalmente a cambiare, a quell’incontro (meglio lo scontro) con Damon, nella mia vasca da bagno, dopo essermi persa nel bosco per colpa di Katherine.

Avevamo litigato e per la prima volta avevo sentito una scossa nel profondo, per la prima volta avevo deciso di reagire e non crogiolarmi nella mortificazione.

A così tanto tempo di distanza, mi accorgevo che quell’istante aveva segnato l’inizio della nostra connessione, volenti o meno.

Avevo chiarito le mie posizioni, lo avevo rimesso al suo posto e lui era rimasto in silenzio, impressionato e basito. E aveva iniziato a trattarmi alla pari.

Mi piaceva credere che fosse merito mio, che l’avessi finalmente convinto, o almeno incuriosito, ma non potevo mettere la mano sul fuoco. In quel periodo la bellissima scommessa era già in atto.

Una parte di me mi spingeva, mi pregava di credere alle giustificazioni di Damon, alla sua sfacciataggine quando mi aveva detto di non esserne pentito, dato che altrimenti non si sarebbe mai avvicinato a me come poi era in effetti avvenuto.

Quindi sì, forse mi aveva cercato per via della scommessa incitato da Katherine e forse sì quello che ne era scaturito non era soltanto una bugia.

Inutile tormentarsi. Damon al momento era fuori dalla mia vita e dopotutto non stavo così male, perché nonostante la mancanza, la mia indipendenza ne stava di sicuro traendo beneficio.

Osservai il mio quaderno: la pagina era praticamente vuota. Rebekah mi avrebbe ammazzato. Era via per impegni di famiglia e le avevo promesso di prendere appunti anche per lei.

La lezione era finita e non c’era speranza di rimediare. Dovevo assolutamente cercare qualcuno e recuperarli.

Uscii dalla classe e trovai lì ad attendermi, sulle panche del corridoio, la più inaspettata delle sorprese.

 

“O mio Dio!!” urlai e per poco non feci cadere la borsa.

Tre voci ripeterono in coro le mie parole, poi tre paia di braccia mi strinsero fino a togliermi il respiro.

Elena, Meredith e Caroline mi liberarono dall’abbraccio e finalmente riuscii a guardarle in volto. Nonostante le avessi toccate con le mie stesse mani, faticavo a credere che fossero davvero lì.

“Ok, ti risparmio qualche domanda e ti racconto subito come siamo arrivate qua” tagliò corto Caroline “Due giorni fa ci siamo trovate tutte a Fell’s Church e abbiamo iniziato a ricordare l’ultimo anno del liceo e ci siamo accorte che qualcosa mancava. A fine serata avevamo prenotato i biglietti per Londra”.

“Voi siete pazze!” commentai “Vi sarà costato una fortuna”.

“Abbastanza, quindi per Natale per favore torna tu” disse Meredith.

“Ma ne è valsa la pena” affermò Elena abbracciandomi di nuovo “Stefan non è potuto venire, aveva delle cose da sbrigare all’università ma si è raccomandato di baciarti tutta per lui” sorrisi e mi stampò un sonoro bacio sulla guancia.

“Ecco perché ieri sera sembrava così strano. Mi ha detto che non potevi venire al telefono per un’intossicazione alimentare” spiegai.

“Il solito melodrammatico” scherzò.

“Dove alloggiate?” chiese.

Le tre si guardarono colpevoli.

“Domandalo alla tour operetor qui accanto” borbottò Meredith, indicando Caroline.

“Ho letto male, va bene?!” si spazientì questa “Smettetela di darmi la colpa, la prossima volta potete occuparvene voi”.

“Che cosa è successo?” indagai.

“Care non ha prenotato l’albergo o meglio l’ha prenotato a Manchester. Ha preso il numero dalla riga sbagliata” spiegò Mere.

“Dannate catene di hotel! Hanno i siti peggiori del mondo”.

“Forse l’accento diverso ti poteva dare un indizio” le suggerì Elena.

“Sono tutti uguali per me. Come pretendi che distingua l’accento di Manchester da quello di Londra?” replicò.

“Ragazze non scaldatevi” intervenni nel battibecco “Vicino al mio campus c’è una pensioncina carina. Possiamo sentire se c’è posto. Ho finito adesso le lezioni, andiamoci subito” proposi.

Fortunatamente c’era ancora qualche camera libera. Presero una tripla e salirono subito a mettere le valigie e a darsi una rinfrescata.

Le portai nel mio baretto preferito: una graziosa teeria, vicino a Regent’s Park, anni ’20 e tremendamente inglese.

“Giuro, ancora non ci posso credere che siate venute fino qua a trovarmi” mi emozionai.

“Ci mancavi troppo, Bon” confessò Caroline “Noi abbiamo scelto college diversi, ma almeno siamo tutte negli States e durante le vacanze torniamo a Fell’s Church”.

“Sarei tornate anche io, ma ho solo tre giorni di pausa e il fuso orario è troppo stancante. Poi i voli costavano una follia”.

“Dovremo abituarci a non vederci più così spesso” osservò Elena.

“Mi rifiuto di accettare che la nostra sorellanza velociraptor finisca così. Dobbiamo stabilire un giorno a settimana e organizzare delle riunioni su Skype tutte e quattro”.

“Abbiamo tre fusi diversi, Care” le fece notare Meredith.

“Poco importa. Per voi posso stare sveglia per tutta la notte”.

“Non sei cambiata per niente” le assicurai, mentre aggiungevo il latto al mio tè.

“Sai Bonnie” incominciò Meredith “Onestamente mi hai sorpresa”.

“Per cosa?”.

“Credevo…beh, tutte lo credevamo, che saresti tornata per la laurea di Dam-” Mere si zittì di colpo e lanciò un’occhiata furante a Caroline che le aveva tirato un calcio sotto il tavolo.

Aveva provato a mascherarlo, ma io me n’ero accorta e anche Meredith sembrava decisa a non tacere.

“Che c’è? Mica è Voldemort. Posso ancora pronunciare il suo nome”.

Adesso anche Elena la stava guardando male.

“Va bene, allora la prenderò larga” si spazientì Mere “Credevamo di vederti alla laurea di Tu Sai Chi. Così va meglio? Precauzione inutile dato che abbiamo capito di chi sto parlando. E smettetela di guardarmi con quelle facce: lo volete sapere quanto me”.

“È  tutto ok, ragazze” le tranquillizzai “Non ho problema a parlare di Damon”.

“Oh, quando è così” si lasciò convincere immediatamente Caroline “Ora sei pronta a sputare il rospo: non ci hai ancora detto perché vi siete lasciati”.

“Non offenderti, Care, ma questo preferisco tenerlo per me” obiettai.

“Ma Elena lo sa!” si lamentò.

“Non l’ho detto io a Elena” mi difesi “Non arrabbiatevi. È una cosa tra me e lui e non mi va di alimentare pettegolezzi. So che non lo direste mai a nessuno, ma sento di fargli un torto a raccontare la nostra vita privata. Inoltre, solo lui sa una parte della storia”.

“Chissà perché sospetto che sia colpa sua” ipotizzò Meredith.

Non avevo tenuto per me la vera ragione solo per non buttare odio su Damon, ma anche perché non avevo voglia di sorbirmi i vari “Te l’avevo detto”.

“Diciamo che non ero pronta a mollare tutto per lui” mi giustificai “Non riuscivo a fidarmi totalmente”.

“E adesso qualcosa è cambiato?” domandò speranzosa Elena, la nostra fangirl numero uno.

“Io” risposi “E al momento non so se me la sento di ritentare. Non solo con Damon, con chiunque. Mi piace la persona che sono diventata”.

“Ben detto, Bonnie, tu meriti molto di più. Se penso che Damon ti ha costretto a lasciare il party che avevo organizzato per te, solo per godersi la sua festicciola privata”.

“Devi ammettere che è stato un bel regalo” s’intromise Elena.

“Certo” concordò Caroline “Di tutti i modi che si è inventato per portarsi a letto le ragazze, questo è stato di sicuro il più carino”.

Le mie guance si tinsero di rosso “In realtà no. Non abbiamo fatto nulla quella sera”.

Le tre spalancarono la bocca.

“Davvero?” si sorprese Meredith “Noi non ti abbiamo mai chiesto niente perché sappiamo quanto tu sia riservata, ma pensavamo…sì, insomma, pensavamo che non ci avessi detto nulla perché non ti andava di parlare di cose così intime ma…”.

“Abbiamo dato per scontato che voi foste andati a letto assieme” concluse Caroline.

“No” negai “Mai fatto”.

“Sei ancora vergine?” si indignò Caroline.

“Non dirlo come se fosse una brutta parola” la ribeccai.

“Intendevo…” si corresse “Sei stata con Damon per tutto quel tempo e non avete mai…come cavolo hai fatto?”.

“Sai, Care, a qualcuno piace tenere le gambe chiuse ogni tanto” la stuzzicò Elena.

“Santo Cielo, Bonnie, quel ragazzo è pazzo di te” commentò Meredith “È un malato del sesso e se è riuscito a trattenersi per tutti quei mesi solo per aspettarti…penso che sia uno dei gesti più altruisti e sinceri di Damon”.

Grazie amiche, non fatemi sentire ancora più in colpa, mi raccomando.

 

Partirono dopo qualche giorno e ci furono fiumi di lacrime. Vennero a salutarmi in dormitorio di mattina e ci misero quasi mezz’ora a trovare la forza di andarsene.

Poco dopo qualcuno bussò alla porta della mia stanza: era sicuramente Caroline che si era dimenticata qualcosa, come al solito.

“Entra, Care, è aperto” dissi ad alta voce.

La porta si aprì e si richiuse. Io continuai a fare il letto senza preoccuparmi di voltarmi.

“Per una che deve avere sempre il controllo su tutto, sei abbastanza sbadata” considerai.

“Se è per questo, mi sto chiedendo come tu abbia fatto a sopravvivere tre mesi da sola senza di me, uccellino”.

Mollai di colpo il cuscino e gelai sul posto. Avevo le allucinazioni?

“Da quanto mi hanno raccontato non ti sei ancora persa in nessun bosco e non ti sei ubriacata fino a svenire” rincarò.

Mi voltai per accertarmi di non star sognando. Non potevo toccarlo, ma potevo vederlo e sembrava tremendamente reale.

“Damon” dissi con un filo di voce “Che cosa ci fai qui?”. Domanda intelligentissima.

Lui alzò le sopracciglia “Secondo te?” mi canzonò “Ti ho dato tre mesi di libertà, Bon Bon. Adesso basta, non potevi pretendere che me ne stessi lontano ancora a lungo”.

“Guarda che non mi sono trasferita qui per gioco!” lo avvertii “Hai sprecato soldi se sei venuto per riportarmi indietro”.

“Mi sono iscritto a un master qui a Londra” mi rivelò e io sgranai gli occhi.

“Perché?”. I miei interventi erano al limite del banale, ma non riuscivo a formulare altro.

“Per stare vicino a te” rispose semplicemente.

“Sei venuto a Londra per me?”.

“Non è un gran sacrificio: è una delle città più belle d’Europa, ci sono ottime università riconosciute a livello internazionale e poi c’è una certa rossa da cui proprio non riesco a staccarmi” mi confidò con il suo ghigno sbruffone.

“E se lei non fosse d’accordo?” lo sfidai, sollevando il mento.

“Sono un tipo persuasivo, saprò convincerla. Ci sono già riuscito una volta”.

“Ti avverto che sono diventata molto più testarda”.

“Anche io. E pensa un po’: il mio appartamento è proprio di fronte al tuo campus”.

“Sei uno stalker” lo apostrofai.

“Mi hai chiamato in modi peggiori”.

Il tempo delle battutine, per quanto mi riguardava, era finito.

Era stato divertente, per un attimo, stuzzicarsi come una volta, mi aveva portata indietro. Damon aveva sempre avuto la capacità di risucchiarmi nel suo vortice.

Ritrovarlo non solo a Londra, ma proprio in camera mia aveva suscitato in me una tale confusione che faticavo a seguire un senso logico nelle parole e nei pensieri.

Centinaia di volte mi ero giurata di averla superata, di non sentire più il bisogno di averlo accanto, di poter tranquillamente andare avanti senza di lui.

La sua presenza mi aveva, invece, destabilizzato completamente e apprendere che si era iscritto a un master a Londra per starmi vicino mi aveva sciolto il cuore.

Non negavo che mi avesse fatto molto piacere e naturalmente avevo subito pensato che forse c’era ancora una speranza: mi aveva seguito fin lì, aveva lasciato tutto per venirmi a riprendere.

Stava cercando di dimostrarmi qualcosa. Cercava di riguadagnarsi la mia fiducia, il mio rispetto. E io avrei dovuto apprezzare. Apprezzavo, giuro.

Eppure c’era qualcosa che mi martellava in testa e che mi teneva con i piedi ben piantati a terra: ero così orgogliosa di me stessa per essermela cavata anche senza di lui. Ero disposta a rinunciare a tutto e ripartire da zero?

“Perché devi essere sempre così impulsivo e complicato?!” sbottai “Ti ho detto che mi serviva spazio, che mi serviva un cambiamento. E tu prendi un aereo e vieni qui?”.

“Ho resistito tre mesi” disse “Sei partita e volevo seguirti il giorno dopo ma ho resistito…tre mesi. Speravo di vederti alla mia laurea”.

“Non mi hai invitato” gli ricordai.

“Non mi hai nemmeno scritto un messaggio” mi accusò.

Congratulazioni per la tua laurea? Quanto sarebbe stato patetico?”.

“Avevo capito che volevi trovare la tua strada. Non credevo che mi avresti cancellato completamente dalla tua vita” s’infervorò.

“Io non ti ho cancellato dalla mia vita. Tu mi hai mentito!” gli rinfacciai.

“Mi dispiace!” si sfogò “Mi dispiace. Non so più come ripeterti che mi dispiace, ma non posso…io non voglio perderti per uno sbaglio, non lo sopporterei”.

“Ci potevi pensare prima”.

“Avrei dovuto dirtelo prima” mi concesse “Chiamami pure pazzo ma lo rifarei, perché quello è stato l’inizio di tutto. Avrei lasciato comunque Katherine. Anche se non avesse baciato mio fratello, l’avrei lasciata. Mi sono innamorato di te, non di lei”.

“Non continuare a ripeterlo per piacere” lo pregai.

“È vero. Non posso spegnere i miei sentimenti. Tu ci sei riuscita?”.

“Certo che no” risposi di getto “Quello che provo per te non è cambiato”.

“Allora?”.

“Non sono convita, però. Me ne sono andata da Fell’s Church per una ragione. È troppo presto, è semplicemente troppo. Tu sei troppo! Ogni volta che sei nei dintorno mi sento sopraffare”.

“Questa la considero una buona cosa”.

Lo fulminai con uno sguardo.

“Bonnie, io non ti voglio mettere in gabbia, ostacolarti. Non voglio prenderti in giro, farti stare male, divertirmi e basta. Sono qui perché voglio affidarmi completamente a te, voglio darti affetto, sostegno, passione, desiderio. Voglio darti i brividi, l’amore. Me stesso. È un tipo di legame che posso condividere solo con te. E voglio darti tutto questo perché è ciò che inconsapevolmente mi restituisci tu”.

Gli occhi mi pizzicavano. Non avevo pianto fino a quell’istante, ma il mio autocontrollo cominciava seriamente a vacillare.

“E se non fossi in grado di darti ciò che desideri?” mormorai.

“Non è mia intenzione costringerti, uccellino. A Fell’s Church stavo impazzendo, dovevo tentare fino alla mia ultima possibilità. Non m’importa quanto dovrò aspettare. Sei la parte migliore della mia vita. Sarei matto a non lottare fino alla fine”.

Mi mossi senza neanche accorgermene. Realizzai che cosa stavo veramente facendo quando avvertii tra le mie dita la stoffa del suo maglione e la strinsi possessivamente mentre nascondevo il viso nell’incavo del suo collo.

Ero così concentrata sulla famigliare sensazione di tranquillità che il suo corpo, tra le mie braccia, mi dava che quasi non percepii le sue mani circondare la mia schiena.

Mi era mancato come l’aria.

Non mi ero arresa a lui, alle sue parole. Non mi sarei subito gettata ai suoi piedi. Avevo ancora bisogno del mio tempo e del mio spazio, ma nel contempo avevo bisogno di riassaporare quel contatto.

Un piccolo momento di debolezza che mi ero concessa per svuotare la mente e abbandonarmi totalmente.

Perché per quanto fossi cresciuta, per quanto fossi divenuta sicura, indipendente e forte, comunque restavo in parte una semplice ragazza in cerca del suo amore.

Sciolsi quell’abbraccio e mi asciugai in fretta una lacrima che era scappata dal mio occhio. Mi allontanai da Damon e ridacchiai imbarazzata.

“Perdonami per questo slancio”.

“Accetto volentieri questo e altri slanci” ridacchiò. All’ennesima occhiataccia, corresse il tiro e sollevò le spalle in segno di resa “Per oggi ho tirato fin troppo la corda”.

“Sei sul filo del rasoio” confermai.

“Dato che dobbiamo ricominciare con calma, che ne dici di vederci domani per un caffè?”.

“Dato che dobbiamo ricominciare con calma, che ne dici se rimandiamo il caffè a settimana prossima e ti prendi il tuo tempo per ambientarmi”.

Damon sospirò rassegnato “Me la renderai difficile, vero?”.

“Non ho ancora deciso se ti concederò una seconda possibilità o no”.

“Fai pure la dura, uccellino, ma ricordati che abito qui di fronte e ti osservo” mi avvertì con un mezzo sorriso prima di lasciare la mia stanza, chiudendosi la porta alle spalle.

Era difficile prevedere come sarebbe andata a finire: eravamo come trottole traballanti sull’orlo di un precipizio. Una leggera inclinazione e saremmo rotolati giù.

Eppure, in un luogo lontano da Fell’s Church, dove non eravamo la sfigata o l’amica di qualcuno, il playboy o il teppista, dove eravamo solamente Bonnie e Damon, in un tempo lontano da quello del liceo, delle ripicche e delle scommesse, quel noi appariva più reale che mai e così giusto come non era stato prima.

Liberai una risatina isterica e scossi la testa ripensando a quanto fosse stata poco credibile la mia ultima frase, perché dopotutto una seconda possibilità gliel’avevo appena data.

 

Il mio spazio:

Posso mettere la parola fine anche a questa storia.

Avrei preferito aggiornare ieri sera, ma alla fine sono venute a trovarmi delle mie amiche tornate dalla vacanze e non ho avuto tempo.

Non so se a tutte voi soddisferà questo finale. È una di quelle conclusioni un po’ a metà, ma sinceramente mi sembrava la maniera più giusta di terminarla. Ci sono ancora delle questioni irrisolte tra Damon e Bonnie e un capitolo non poteva esaurirle in modo appropriato.

È sempre stata mia intenzione lasciare il finale un po’ in sospeso, aperto alle vostre teorie. Onestamente io sono per il lieto fine e confido che questi due troveranno la strada uno verso l’altra fuori dal tempo della mia storia.

A questo punto non so davvero come ringraziarvi per avermi seguito fino a qui, per la vostra pazienza e il vostro supporto.

Se penso soprattutto ai primi capitoli e a come avete accolto calorosamente questa storia…spero solo di aver fatto un buon lavoro e avervi restituito almeno in parte il vostro tempo e affetto.

Avviso per coloro che seguono anche Would you hold it against me?: purtroppo per il prossimo capitolo dovrete aspettare fino a settembre, perché settimana prossima parto e starò via fino a fine agosto. Comunque una volta ripresa, la finirò in fretta, promesso!

Non mi resta che ringraziarvi ancora una volta e augurarvi delle buone vacanze.

Divertitevi e riposatevi. Io vi aspetterò a settembre.

Un abbraccio grande,

Fran;)

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