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Se l’era ripromesso più volte, fino allo sfinimento. Aveva tentato di convincersi che
fosse per il suo stesso bene, aveva cercato mille modi per distrarsi, ma,
naturalmente, nessuno di questi era andato a buon fine.
E
invece, eccolo di nuovo lì, nell’ultimo posto in cui avrebbe voluto trovarsi.
Eppure ne aveva bisogno. Sperava quasi che quell’aria lo facesse
tornare a respirare, a respirare come prima, come non
faceva più da… settimane? Mesi, ormai.
Si ritrovò
a pensare che era buffo, in fondo, che cercasse di
tornare a vivere laddove la sua esistenza si era fermata per sempre. Gli pareva
quasi di rivedersi lì, seduto su una delle panchine di quel parco ad Amburgo, tranquillo e sereno come non era mai stato, solo
perché ignaro della piega che la sua vita avrebbe preso.
Attraversò
silenziosamente il vialetto, sollevando una piccola nuvola di polvere. Forse
stava calpestando le sue stesse ceneri.
Il tempo
non era particolarmente sereno, quel giorno. Nessuno avrebbe detto
che fosse estate inoltrata. Il cielo era striato da lievi sfumature grigiastre,
e il sole… già, chissà dov’era andato a nascondersi. Era da un po’ che non lo
vedeva più, lui, ma immaginava che ci fosse ancora qualcuno che poteva essere
illuminato dai suoi raggi. Lui aveva semplicemente smesso di farlo. Non gli sarebbe
servito e, a dirla tutta, non gliene importava poi
molto. Non era quella la luce che cercava.
Smise
improvvisamente di rimuginare quando si scontrò con
qualcosa di piccolo e morbido, trasalendo e quasi perdendo l’equilibrio.
- Mi
scusi! – squittì il qualcosa, fino a poco prima raggomitolato ai suoi piedi per
colpa del violento impatto. Era un bambino. Non avrebbe saputo che età
attribuirgli, ma non ebbe nemmeno il tempo di pensarci. Lo vide scattare in
piedi e schizzare lontano da lui, riprendendo a ridere giocoso. No, non l’aveva
sentito, ma immaginava che stesse ridendo anche prima. Non lo sapeva. Era tanto
che non rideva, lui.
Si vide
passare davanti a tutta velocità un’uniforme macchia colorata e rimase fermo
sul posto, quasi in attesa che ne arrivassero altre. Invece, a poco a poco, la figuretta
rallentò e lui riuscì finalmente a vedere una bambina correre verso il
ragazzino che l’aveva urtato. Era piccola e magrolina, con due lunghe
trecce ramate.
Non poté
fare a meno di deglutire, soprattutto quando i due
bambini si raggiunsero di corsa, ridendo, ma non si stupì della strana fitta
che avvertì alla bocca dello stomaco.
Forse era
qualcosa in quei sorrisi. Forse era qualcosa in quel bambino. O forse era qualcosa in quelle trecce rosse.
Qualunque
cosa fosse, sapeva di amaro. Sapeva di ricordi.
Vide i due
bambini allontanarsi tenendosi per mano e canticchiando una canzoncina che non
aveva mai sentito. Di cosa sapeva, quello?
Sapeva di
qualcosa che ormai gli era estraneo. Sapeva di vita.
Si
costrinse a voltarsi e proseguì lungo il vialetto polveroso, cercando di
allontanare quel fastidio che lo aveva colpito allo stomaco. Gli capitava così
spesso che avrebbe dovuto abituarvisi, ma ogni volta
si presentava per una ragione diversa, cogliendolo puntualmente impreparato.
Certo, non
si sarebbe mai preparato a quel genere di cose. Non lo era stato per quello che
era successo prima… perché avrebbe
dovuto esserlo ora?
Si fermò
di fronte alla fontana che lo aveva visto infinite volte da bambino e dove
adesso cercava di annegare il suo dolore. Lo sguardo gli cadde sulla superficie
liscia dell’acqua che riempiva la piccola vasca in pietra.
No, era
troppo poca perché raccogliesse tutto ciò che lui avrebbe voluto versarvi.
Scorse la
sua immagine riflessa nell’acqua, e fu come vedersi per la prima volta. Era
diverso da quando, la mattina, si fermava davanti allo
specchio del bagno e cercava di trovare qualcosa, in quell’immagine, che gli
ricordasse il “se stesso” di pochi mesi prima. Stava lì, spostava lo sguardo da
un punto all’altro, ma era come se quel visetto pallido e scavato riflesso nel
vetro vivesse di vita propria, o meglio, che non vivesse
affatto. I suoi occhi nocciola erano spenti, i
lunghi capelli neri gli ricadevano flosci sulle spalle appuntite, persino le labbra
avevano perso colore e pienezza.
Non erano
altro che occhi di vetro su un viso di carta. Non era che un involucro senza niente dentro.
Guardati
Bill, guarda come ti sei ridotto, parve dirgli la figura che lo
guardava dal fondo della fontana, non l’avresti mai detto, eh?
Trasalì,
distogliendo lo sguardo e stringendosi il busto tra le braccia. Cominciava a
chiedersi se non fosse stato così anche prima. Forse non
era cambiato affatto, ma adesso non aveva altro che quello, un riflesso
offerto da uno specchio, e vi si era talmente concentrato da convincersi di
essere cambiato.
No. Se vi
si fosse davvero concentrato, avrebbe ricordato l’immagine di un ragazzo
giovane e spensierato, vestito alla moda, senza un capello fuori posto. Avrebbe
ricordato i suoi occhi sprizzare vitalità, contornati da abbondante trucco
nero. Avrebbe ricordato labbra allungate in un sorriso smagliante,
inconsapevole forse, ma sincero, convinto.
E
tutto questo era sparito, insieme alla sua vita, ai suoi sogni, alla sua
carriera… a lei.
Già, lei.
Sentì un
brivido freddo corrergli lungo la schiena. Doveva essere stato provocato da
quel pensiero perché, intorno a lui, c’erano soltanto donne in abiti leggeri e
ragazzi in pantaloncini.
Il cielo,
però, continuava ad essere grigio. E per Bill Kaulitz
lo sarebbe stato anche con lo spuntare del sole.
Voltò le
spalle alla fontana, dirigendosi verso il cancello di ferro battuto.
Sembrava
quasi l’entrata di un cimitero. Qualsiasi cosa intorno a lui gli portava in mente quel luogo.
Pareva che
tutto fosse stato progettato affinché l’atmosfera risultasse
pesante, più di quanto non fosse già.
A dire il
vero, sembrava che tutto fosse stato progettato perché lui arrivasse a quel
punto, perché la sua vita andasse completamente allo sfascio. Era stato così fin dall’inizio, avrebbe dovuto capirlo.
E
invece si era nutrito di sogni troppo alti per lui, aveva dormito nel suo
castello dorato finché le porte non gli erano state chiuse per sempre.
Si fermò
proprio davanti al cancello, voltandosi indietro. Percorse
tutto il parco con lo sguardo, come per cercare qualcuno.
Forse, la
bambina dalle trecce rosse.
Ma non
la vide. I suoi occhi perlustrarono i vialetti per minuti interi, ma lei non
ricomparve.
Bill si
morse le labbra. Forse non era mai esistita, forse non
l’aveva mai vista realmente.
Ecco che
tornava il mal di stomaco.
Eppure,
per un attimo, ci aveva sperato. Aveva sperato di rivedere in quella bambina il
pezzo di vita che si era lasciato alle spalle sei mesi prima, e ora la
consapevolezza che non potesse fare nulla per tornare
indietro gli bruciava.
Bill chinò
la testa, aggrappandosi alle inferriate del cancello e sentendo le ginocchia
piegarsi. Le forze vennero tutt’a
un tratto a mancargli.
Quelle
trecce rosse…
Haylie…
Per pochi,
terribili attimi ebbe l’impressione che qualcosa gli si fosse
fermato in gola, impedendogli di respirare. Si portò una mano al collo e
chiuse gli occhi, stringendo più forte la presa sull’inferriata.
…dove
sei?
Lei gli
strinse un’altra volta la mano.
Bill le
sorrise, ravviandole i capelli. – Siamo di nuovo qui. Sei
contenta? –
Gli
parve che Haylie deglutisse, ma non vi fece caso più di tanto, perché le sue labbra si erano
increspate in un sorriso. Ed era così tanto che non la
vedeva sorridere…
- Sì.
Sono felice di essere qui con te – Si guardò intorno,
come se vedesse l’interno del tourbus per la prima volta. E
invece erano più di due anni che viveva lì. Chinò la testa, sospirando. – Ma
per il resto… -
Bill
non rispose. Si limitò a stringere più forte la sua mano.
Quasi
si pentì di averle fatto quella domanda. Era il
momento sbagliato, ma, per un attimo, aveva pensato che la consapevolezza di
essere di nuovo lì insieme avrebbe fatto bene anche a lei, l’avrebbe aiutata a
cancellare ciò che era stato prima.
E prima
ne erano successe tante, di cose. Così tante che lui
stesso faceva fatica a rimetterle in ordine nella propria mente.
Ricordava
ancora la sua felicità quando, mesi prima, Haylie gli aveva annunciato di aspettare una bambina da
lui. Felicità che era andata aumentando ogni giorno, vedendo la sua pancia
crescere.
Ma ricordava anche la paura dell’inadeguatezza per
quell’impegno che avrebbe dovuto assumersi, tutte le parole che non si erano
detti. Ricordava i sorrisi di Haylie, sempre più
rari. E ricordava anche quello che aveva provato quando
lei gli aveva confessato il suo peccato, la colpa a cui quell’inspiegabile
allontanamento l’aveva indotta. Quella colpa che era riuscito
a perdonare solo a lei.
Sì, era
caduta fra le braccia di suo fratello. Tom, il suo gemello,
il suo migliore amico, la sua metà.
Lei lo
aveva giustificato. Non perché lo avesse amato, no. Voleva solo che Bill non
chiudesse tutte le porte in faccia al fratello, voleva che perdonasse anche
lui. Lui che aveva sofferto quanto loro. Lui che la aveva amata credendo di essere ricambiato. Lui
che si era sentito in colpa, lui che però non poteva
fare a meno di quella ragazza che non avrebbe mai dovuto concederglisi.
Bill
non ce l’aveva fatta. Amava troppo Haylie per negarle il suo perdono, la rispettava
troppo per non ascoltare il suo punto di vista. Si erano
feriti un po’ a vicenda senza volerlo fare davvero, si erano persi solo
per potersi ritrovare. E per quanto lei l’avesse supplicato
di parlare con Tom, lui non ce l’aveva fatta.
Forse
perché dava a lui la colpa di tutto quanto era successo.
Lui non c’entrava niente in quella storia, aveva detto adHaylie, lui non doveva fargli questo. Lei aveva
insistito ancora: anche lei l’aveva tradito, quindi perché quella durezza solo
nei confronti di Tom?
Ma Bill non aveva ceduto. Forse perché,
dopo un tentativo –fallito- di riappacificazione, Tom era sparito lasciando
nient’altro che una lettera. Diceva che Bill e Haylie dovevano ricominciare, amarsi come si erano sempre
amati, dimenticare tutto.
Parole,
erano solo parole.
Anche perché c’era qualcosa che non avrebbe mai cancellato
quell’episodio dalla sua mente.
Quella
bambina non era mai nata. Bill ricordava ancora le ore passate fuori dalla sala parto, ricordava i fazzoletti impregnati di
sudore e il pacchetto di sigarette che aveva svuotato a tempo record. Ricordava
il viso di Haylie contratto dalla sofferenza e i suoi
occhi chiudersi prima che le dicessero che quella
creatura che si era portata dentro per mesi non aveva neanche cominciato a
respirare.
Avevano sofferto, avevano pianto insieme. Ma
poi si erano asciugati le lacrime a vicenda e si erano detti tutto quello che
era stato lasciato in sospeso. Si erano ripromessi di non dover più arrivare a
quel punto per ricordarsi quanto avessero bisogno l’uno dell’altra.
Restava il fatto che Tom se n’era andato. Chissà dove,
poi. Bill non si sentiva ancora pronto a parlarne, il ricordo
gli scottava. Aveva deciso di continuare con i Tokio
Hotel anche senza di lui.
E
adesso erano di nuovo lì, pronti a ricominciare, ma
disarmati davanti alla massa di ricordi che avrebbero dovuto scegliere se
affrontare o mettere da parte.
Non
poteva pretendere che Haylie fosse felice. Non
subito. Del resto, neanche lui lo era davvero. Avrebbe voluto godersi quei mesi
con lei, avere quella bambina e festeggiarne la
nascita con suo fratello –ma questo non lo avrebbe mai ammesso.
Però lei c’era, e gli bastava.
Bill
appoggiò le mani sulle sue spalle, stringendole delicatamente.
- Haylie, ti prometto che d’ora in poi sarà tutto diverso.
Vedrai, ci vorrà un po’ di tempo per… beh, rimetterci in sesto, però… però
siamo qui, siamo insieme – Lei alzò lo sguardo e gli sorrise
con una punta di malinconia. - Per me non conta nient’altro, Haylie, nient’altro –
La
strinse a sé in un gesto quasi involontario, non programmato. Ma quando sentì le sue braccia circondargli la vita, non
poté fare a meno di sorridere, chiudendo gli occhi e appoggiando la guancia
sulla sua testa. – Mi credi? – sussurrò, così piano da riuscire a malapena a
sentirsi lui stesso.
Avvertì
un piccolo movimento tra le sue braccia. Haylie aveva
annuito.
- Sì.
Certo che ti credo – mormorò lei, distaccandosi per
potergli sfiorare una guancia con un dito.
Quasi non riusciva a credere di poter essere stato tanto
stupido.
Di aver vissuto mesi lontano da lei, anche se non in senso
fisico. Lei era lì, lei era tutto quello di cui
aveva bisogno.
La ragazza gli sorrise, e fu un sorriso vero.
Bill si riempiva gli occhi, guardandola. Quelle iridi scure, quei
capelli ramati, quel naso un po’ a punta, valevano più di qualsiasi altro
panorama.
Le
prese il viso tra le mani prima ancora di chiedersi se lei pensasse la stessa
cosa, se lei volesse.
Chiuse
gli occhi e decise di non contare più i minuti. Era lei, il suo tempo.
Lasciò
che le loro labbra si sfiorassero e approfondissero a poco a poco il contatto,
come se quello fosse il loro primo bacio. Lasciò che lei si scostasse pian
piano e gli baciasse la fronte, il mento, gli angoli della bocca, che le sue
piccole mani stringessero la stoffa della sua camicia, che il suo respiro gli accarezzasse il collo.
Le
toccò i capelli, il viso, il collo. Voleva recuperare il tempo perduto, voleva regalarle tutto quello che le era mancato, tutte le
carezze, le parole e i sospiri che aveva tenuto per sé.
Gli
costò una fatica enorme staccarsi dalle sue labbra, e gli sfuggì un ansito leggero nel momento in cui le mani di Haylie gli cinsero i fianchi. – Ti… ti amo
– balbettò, tremando appena nel riavviarle i capelli.
Gli
mancava già il respiro. Voleva regalarlo a lei, il suo fiato, voleva darle
tutto quello che lo teneva in vita.
Rabbrividì quando sentì il naso di Haylie sfiorargli il collo. – Anch’io
ti amo –
Si
lasciò sfuggire un sospiro, stringendola
possessivamente a sé. – Dimmelo ancora –
- Ti amo – Haylie gli baciò il mento,
risalendo poi verso le sue labbra. Le schiuse piano con le
sue, lasciando che Bill l’abbracciasse più stretta. I loro primi, deboli
gemiti si fusero insieme, furono soffocati l’uno nella
bocca dell’altra. – Ti amo Bill. Non lasciarmi… non lasciarmi
mai –
- Non
posso lasciarti – Bill si chinòa baciarla sul collo. La sentì fremere
a quel contatto. Le sue mani cominciarono ad accarezzarla ancora prima che lui
si chiedesse se fosse la cosa giusta. – E’ che… non so se tu vuoi… - farfugliò, mentre i loro corpi aderivano di più.
Haylie gli prese il viso tra le mani, facendo sì che i loro
sguardi s’incrociassero. Bill si rese conto che le dita della ragazza erano
incredibilmente fredde in confronto alle sue guance infuocate.
- Tutto
quello che vorrai darmi, io lo accetterò, Bill. Sempre –
E lui non poté fare altro che rispondere con un sorriso. Qualsiasi parola perdeva il proprio significato di fronte a lei,
qualsiasi gesto diventava irrilevante. Le cinse i fianchi con le mani mentre le dita di Haylie
stuzzicavano lievemente il colletto della sua camicia nera, quella camicia che
tante volte le aveva lasciato indossare, “perché sta meglio a te che a me”,
diceva. Non le aveva mai detto che lo faceva solo per
avere il suo profumo addosso anche quando lei era lontana.
- Fai l’amore con me, Haylie – riuscì
solo a sussurrarle. Non pensò ad una possibile reticenza o, peggio, ad un “no”:
semplicemente, gli venne così naturale chiederglielo che non si preoccupò di una sua qualsiasi risposta.
Risposta che arrivò con un altro bacio, un bacio tenero,
morbido, anzi, un bacio che non ammetteva descrizioni. Haylie
sedette sul bordo del letto, prendendogli le mani e offrendogli le sue labbra
ancora una volta, lasciando che le dita di Bill scorressero tra i suoi capelli
e approfondissero quel contatto che tanto desiderava quanto temeva.
Bill
non avrebbe mai voluto separarsi da lei, ma sentiva il
bisogno di guardarla, riempirsi gli occhi con la sua fragile e delicata
bellezza, rendersi conto di ciò che stava per fare.
La vide
ridacchiare, timida e bellissima, distesa tra le lenzuola che per troppo tempo
avevano sentito la mancanza di momenti come quello, mentre lui si sbottonava
velocemente la camicia e le dita gli si impigliavano
nelle asole. La vide sorridere raggiante anche quando inciampò nel tentativo di
scavalcare i jeans ammucchiati sul pavimento, la vide
tendergli le braccia mentre lui saliva sul letto e poi dopo, quando la liberò
del suo leggero abito azzurro, impaziente come poche volte era stato.
Sentiva
qualcosa di nuovo, quasi estraneo, un desiderio così urgente e violento che non
cercò nemmeno di metterlo a tacere. Era qualcosa che
andava ben oltre la semplice voglia di sentire la sua pelle calda sotto le
dita, di toccare e baciare ogni centimetro del suo corpo esile.
Non
seppe dare un nome a quel “qualcosa”, ma si ritrovò a
desiderarlo ancora con lo scorrere dei minuti, anche quando smise di chiedersi
quanto tempo fosse passato e Haylie si addormentò tra
le sue braccia.
Le
lacrime, i silenzi, i segreti erano finiti. Avrebbero ricominciato, e
l’avrebbero fatto nel modo migliore.
Bill pigiò velocemente il campanello, dandogli appena il tempo di
suonare, e attese. Sapeva che Simone, sua madre, non avrebbe chiesto “Chi è?”
come faceva di solito. Con lui, non lo faceva più da tempo: solo Bill non
prolungava il contatto con quel tasto per più di mezzo secondo. Quel trillo gli
dava quasi fastidio.
Infatti, la porta si aprì pochi istanti dopo, rivelando una donna
dall’aspetto giovanile, con un elegante caschetto
biondo e uno di quei sorrisi che non le riusciva mai
troppo difficile dispensare.
- Tesoro! Come mai qui? – Bill stiracchiò le labbra in un sorriso che
aveva smesso da tempo di assomigliare a quello di sua madre.
- Niente, ero di passaggio e volevo salutarti –
- Perché non ti fermi dieci minuti? Anzi… - Simone diede una rapida occhiata all’orologio che teneva al
polso. – Se aspetti che torni Gordon, puoi
cenare con noi –
- No, grazie, mamma – rispose lui con una nota di stanchezza nella
voce. – Preferisco tornare a casa. Sono solo passato a salutarti –
Simone sospirò appena, lasciando ricadere il braccio lungo il fianco. –
Bill, perché invece che stare sempre solo non… - Il ragazzo la interruppe con
un rapido gesto della mano.
- Mamma, per favore – Lei lo guardò interdetta, e lui riuscì a tirare
fuori un sorriso un po’ più convincente. – Lo so che ti preoccupi per me. Ma sto bene, davvero – Simone si strinse nelle spalle.
- D’accordo – disse. Sorrise, toccandogli una spalla
con la mano. – Domani che fai? –
- Vengo a lavoro, no? –
- Certo – Simone gli sfiorò una guancia con una carezza, e Bill si
chinò a baciarla su entrambe le guance, più che altro per evitare che il
discorso si allungasse. – Ciao, mamma – Lei fece per
rispondere al saluto, ma fu bloccata dal telefono, che cominciò a suonare
proprio in quel momento. Bill sorrise, incitandola a rientrare. – Vai, vai. Ci vediamo domani –
Non avrebbe negato di provare un certo sollievo, quando si trovò fuori dal portone. Non poteva farci nulla, per quanto cercasse di evitare che sua madre attaccasse con la sua
solita ramanzina, era lui il primo a farle visita ogni giorno. Erano stati
lontani per troppi anni, era stato troppo preso dal suo lavoro
–anche se adesso dubitava addirittura di poterlo chiamare così- per
curarsi del loro rapporto. E adesso voleva
semplicemente recuperare il tempo perduto.
Almeno con lei questo era possibile, pensò
tristemente, cominciando a rovistare nelle tasche alla ricerca delle chiavi di
casa.
Come
promesso, eccomi con il mio nuovo lavoretto. Sarebbe il seguito della mia
precedente fic “dimentica”, ma
ho cercato di renderla leggibile anche per chi non la conoscesse. Avevo
preparato le mie proverbiali illustrazioni (una a capitolo, sigh!) ma ho uno scanner
deficiente e potenzialmente diretto nella spazzatura.
Spero che mi renderete partecipe delle vostre impressioni. Valgono i soliti disclaimer: i Tokio Hotel non mi appartengono, e questa
storia non è scritta a scopo di lucro, ma per ciò che a Catania vien definito “malu’cchi’ffari”:
ovvero, non aver nulla di costruttivo da fare.
Ah,
dimenticavo: la canzone usata è “Nessuno” del grande (e mio amatissimo) Raf.
Grazie a chi ha commentato e/o inserito la fic tra i preferiti
Grazie a
chi ha commentato e/o inserito la fic tra i
preferiti!
La canzone
usata è sempre “Nessuno” di Raf.
Capitolo 2 - Ritorno
“Come cercar di
fissare un punto sul fondo del mare
non mi rimane nemmeno un ricordo che
possa spiegare…”
Tom cacciò
in fretta il cellulare in una delle tasche dei suoi abbondanti e consunti
jeans.
Sarà stata
la confusione che regnava nel campo d’atterraggio, si disse,
sarà stata l’improvvisa consapevolezza di non avere effettivamente un letto
dove dormire quella notte, ma chiamare sua madre era stato un gesto istintivo.
E infatti adesso si trovava lì, diretto al ritiro
bagagli, a scontrarsi con la metà della gente che riempiva l’aeroporto perché
troppo preso dai suoi pensieri per fare attenzione a dove mettesse i piedi.
Sua madre
era stata contenta di sentirlo, in effetti. Non che potesse
darle torto. In quegli ultimi tre anni non si erano visti neanche una
volta: per quanto Simone avesse tentato più volte di convincerlo a tornare, lui
non era mai andato oltre l’ormai consueta telefonata settimanale. Certo, non
poteva pretendere che lei capisse.
Lui non
poteva tornare.
E invece
eccolo proprio al centro dell’aeroporto di Amburgo,
intento a trafficare con la valigia che non sembrava volersi scollare dal
nastro trasportatore. Certo non era una novità, per Tom: quando i Tokio Hotel erano in giro per concerti, era sempre lui a
dover scarrozzare anche la notevole quantità di bagagli di Bill, pur di non
sentirlo sbuffare e lamentarsi.
Bill…
Chissà
cos’aveva fatto, in tutto quel tempo. Tom non aveva osato provare a mettersi in
contatto con lui, ma neanche suo fratello si era mai preso il disturbo di
farlo. Risultato: quelli che per ventidue anni erano stati
amici per la pelle, complici dei disastri più disparati, due persone che
semplicemente ritenevano inconcepibile qualsiasi tipo di distacco, ora non
erano altro che due gemelli estranei l’uno per l’altro. Un controsenso,
vero?
Tom cercò
di ricordare cosa immaginasse, da piccolo, che avrebbe
fatto a venticinque anni. Scalare le classifiche di tutto il
mondo, viaggiare senza sosta, salire su tutti i palchi esistenti sulla Terra
insieme a suo fratello e alla sua band…
I
venticinque anni c’erano. Di viaggiare, beh, aveva viaggiato.
Ma di palchi e classifiche aveva addirittura perso la
nozione. Senza i Tokio Hotel e con la sua sola Gibson non poteva –e nemmeno voleva- arrivare ai livelli
che si era preposto.
Già, a chi
voleva darla a bere? Non era dei Tokio Hotel che
sentiva la mancanza. Era Bill a
mancargli. E anche Haylie.
Sua madre
non si era certo risparmiata i tentativi di riappacificazione mediata. C’era da
dire che Simone non conosceva abbastanza bene la
storia per azzardare mosse del genere. Sì, lo sapeva che Bill e Haylie erano stati molto innamorati, ma che poi lui si era
lasciato prendere un po’ troppo dal lavoro proprio quando
lei era incinta. Lo sapeva, che la relazione clandestina con Tom era andata
avanti per mesi e che Bill aveva sofferto come un cane quando
l’aveva scoperto. E sapeva anche che Tom aveva
preferito mettersi da parte nel modo meno doloroso per tutti.
Ma forse
non sapeva quante notti insonni e quanti pugni sbattuti su un tavolo avesse provocato quella relazione. Forse non sapeva quanto
Tom potesse essersi disperato nel tentativo di capire cosa Haylie
provasse per lui, e successivamente avendo capito che,
qualunque sentimento ci fosse da parte della ragazza, non era quello che lui si
aspettava. E di certo non sapeva neanche quanto questo avesse
influito nella vita di Tom in quegli ultimi anni passati lontano da
casa.
Ne aveva
girate un po’, di nazioni. Francia, Italia, poi di nuovo Germania. La sua
conoscenza delle lingue straniere non poteva certo definirsi eccellente, ma era
bastata per assicurargli un certo periodo di tranquillità. Se pochi anni prima
si fosse visto a girare da un Paese all’altro,
mettendo da parte la chitarra e cercando di darsi una mossa per altri versi, avrebbe
scosso la testa con compassione, sentenziando: “Tom, io non ti riconosco più”.
O
forse avrebbe semplicemente riso a crepapelle. Chi avrebbe potuto dirlo?
Erano
cambiate tante cose, in tre anni. O forse solo poche, ma di
un’entità così consistente da fargli credere che la sua vita fosse stata
totalmente rivoluzionata.
Guardò
l’etichetta attaccata al manico della valigia, in
attesa che un taxi si accostasse al marciapiedi. Tom Kaulitz, spiccava a
caratteri minuti e disordinati.
Ma era
lo stesso Tom Kaulitz che aveva lasciato Amburgo tre anni prima, in cerca di
una nuova aria? Era lo stesso Tom Kaulitz che ai concerti si divertiva a
scandalizzare il pubblico di una certa età compiendo gesti inconsulti con la
sua chitarra? Ma soprattutto, era lo stesso Tom Kaulitz che veniva
comunemente chiamato Sexgott, quello che
recuperava una o più ragazzine ogni sera e le accoglieva ben volentieri nella
propria camera d’albergo? Non che avesse bisogno di andare a
cercarsele, certo. Solitamente erano loro a tentare –con successo-
l’approccio, o addirittura a passare alla fase successiva.
Poi c’era
stata Haylie, e il suo letto non era stato più
occupato da nessuna groupie. Non gli importava che il
mondo intero lo sapesse, gli bastava averla accanto a sé, anche se, evidentemente,
questo non corrispondeva ai desideri della ragazza.
Per mesi,
anche se lontano, aveva continuato a tormentarsi e chiedersi se avesse fatto la
scelta giusta. Se Bill e Haylie
fossero felici insieme. Probabilmente lo erano, anche se in lui restava
quel pizzico di orgoglio che gli impediva di
ammetterlo serenamente a se stesso. Certo che lo erano.
Ovvio. Haylie non aveva amato altri che Bill,
nonostante il tempo che le fosse occorso per capirlo. E poi, con una figlia in arrivo…
Se c’era una cosa che Tom non rimpiangeva di aver fatto, era stato
andarsene prima che quella bambina nascesse. Aveva chiamato suo fratello quandoHaylie aveva
cominciato a soffrire in preda alle doglie, se l’era visto passare davanti per
poi precipitarsi da lei, praticamente fingendo che lui non fosse presente,
aveva aspettato in preda all’ansia finché non era arrivata un’ambulanza. Allora
aveva strappato un foglio da un bloc-notes, era rimasto qualche minuto a
pensare, e poi aveva scritto di getto quella lettera che non sapeva a chi
consegnare. Il borsone era pronto, il biglietto era
stato fatto. Non gli restava che lasciare quella busta a qualcuno e scappare il
più presto possibile. Non sapeva cosa sarebbe potuto succedere se si fosse
presentato in ospedale dopo il parto di Haylie, e
nemmeno voleva saperlo. Più che altro, non voleva che nessuno si rovinasse quel
momento a causa sua.
Così si
era lasciato alle spalle il risentimento di Bill e i sensi di colpa di Haylie, e aveva cambiato vita.
Avrebbe
voluto che cambiasse in meglio. Certo, quella vita non
era la stessa di quella vecchia, ma non nel modo che lui aveva programmato.
Tom non
era mai riuscito a sapere come fossero andati avanti i
Tokio Hotel. Nella sua lettera aveva chiaramente specificato che non voleva che
Bill si fermasse con la band –e, per quanto suo fratello gli serbasseuna certa dose di
rancore, sapeva che avrebbe potuto fare qualcosa del genere se nessuno l’avesse
spronato a fare il contrario. Chissà se avevano trovato un
altro chitarrista o se erano rimasti in tre. Raramente aveva acceso la
televisione o la radio, e adesso la curiosità si era fatta più forte, insieme a
tante altre. Chissà che faccia aveva la figlia di Haylie
e Bill, chissà come era cresciuta, chissà se era stata
resa partecipe della vita movimentata di suo padre.
A Tom
riusciva difficile immaginare suo fratello nelle vesti di genitore, soprattutto
considerato che, quando erano piccoli, era stato lui a far quasi da padre a
Bill. MaHaylie, che
sicuramente adesso era serena e tranquilla accanto a lui, doveva essere una
madre meravigliosa. Dolce e comprensiva com’era sempre stata.
Dopo di
lei non c’era stata nessuna storia seria, per Tom. Semplicemente, aveva bisogno
di smaltire a poco a poco la delusione che gli aveva provocato quel suo primo
–per quanto dubbio- amore, ma, dopo qualche mese, aveva cominciato a pensare
che qualcuna delle sue solite avventure da una notte e via non sarebbero state male per mettere da parte i brutti ricordi.
Non che ne sentisse veramente il bisogno, delle sue storielle. Solo, ricordava che quello era
stato il suo pallino, per i primi anni in cui aveva cominciato ad essere
popolare tra le ragazze, e pensava che questo potesse in qualche modo aiutarlo.
Solo che,
a quel punto, Tom aveva dovuto mettere in pratica quello che un tempo, per lui,
sarebbe stato impensabile: se voleva un’avventura, doveva essere lui a
cercarsela.
Dopo un
po’ di tempo passato lontano dalla band che aveva portato il suo nome sulla
bocca di tutti, la fama era venuta meno, e questo Tom
l’aveva messo in conto. Ma non aveva mai pensato che,
a neanche un anno dal suo allontanamento, avrebbe notato la differenza persino
entrando in un locale. Era meno frequente che una
ragazza gli si buttasse addosso tanto spontaneamente, sebbene quasi nessuna
avesse rifiutato le sue poco discrete avances. Ma la
differenza la notava anche la mattina dopo, quando apriva gli occhi e si
trovava accanto a una ragazza che, a giudicare
dall’espressione confusa, non doveva aver adoperato una certa dose di lucidità
nello scegliere colui che le avrebbe regalato il divertimento di una notte di
fuoco. Quasi sempre la ragazza in questione mormorava
confusamente qualcosa, si scusava, recuperava i suoi vestiti borbottando che la
sera prima doveva essere un po’ ubriaca, e poi se ne andava con un sorriso di
circostanza e un’alzata di spalle. Al risveglio, non aveva più trovato occhi
adoranti o mani tese in cerca di soldi. Quasi gli mancava,
tutto questo. La consapevolezza di avere un cuore e, quindi, anche dei
sentimenti, faceva male oltre l’immaginabile.
Tom
Kaulitz non aveva mai creduto nell’amore eterno, quello delle fiabe in cui a
trionfare era sempre una giustizia falsa o comunque
temporanea, e la storia con Haylie aveva ampiamente
confermato la sua tesi. Certo, lei era caduta tra le sue braccia per forza di
cose, per solitudine, ma prima… prima erano stati semplicemente amici. E spesso Tom si era trovato a rimpiangere quei tempi,
desiderando di non essersi mai intromesso nelle faccende di Bill. Quando lui e Haylieerano soltanto amici, parlavano
di tutto senza problemi. Era sempre stato così, ma quella loro relazione
clandestina aveva rovinato tutto.
E se
il numero di ragazze che si lasciavano sedurre dal Sexgott
era direttamente proporzionale alla sua fama, beh, allora forse non esisteva neanche
l’amore di una notte. O forse non esisteva per
lui.
Così erano
finite anche le notti brave. Svanite insieme ai suoi sogni da bambino
idealista.
Tom
sospirò, guardando per la millesima volta il foglietto su cui aveva rapidamente
scarabocchiato quel numero e quell’indirizzo che mai
si sarebbe sognato di chiedere a sua madre.
Se
sperava che dall’altra parte qualcuno rispondesse, allora forse sì, era davvero
solo un bambino idealista.
…
Bill
sospirò pesantemente, lasciando cadere i cataloghi uno sopra l’altro sulla
scrivania e stiracchiandosi all’indietro sulla scomoda sedia di plastica. Gli
sarebbe venuto il sedere quadrato, un giorno o l’altro. Non che questo gli cambiasse la vita, certo, ma poteva anche essere considerato
come un interessante diversivo alle sue giornate, ormai più monotone e
ripetitive di quelle di una gallina.
Ecco cosa si sentiva. Una gallina costretta a vivere in un
pollaio troppo piccolo, accanto ad altri pennuti estranei e puzzolenti.
Esaminò
tristemente le pile di fogli e cartelle disposte in bilico sulla scrivania.
Come aveva potuto ridursi a quel punto? Come era
potuto arrivare a non voler neanche fare i conti con se stesso quando la gente
gli chiedeva cosa facesse ora che aveva smesso di cantare nel suo gruppo? Quasi
si vergognava, anzi no, non quasi, si vergognava
enormemente di annunciare – per giunta con disinvoltura- che, ebbene sì signore
e signori, Bill Kaulitz adesso lavora nell’agenzia di viaggi gestita da sua
madre.
Gli
suonava così tristemente patetico che cercava sempre di tergiversare
quando si arrivava alla domanda fatidica.
Si sentiva
un verme a provare quel senso di disagio anche solo quando pensava a che cosa
si era ridotta la sua esistenza. In fondo, sua madre lo aveva fatto per lui. Le
era anche grato, in qualche modo, anche se non c’era bisogno che le dicesse che non era quella, la vita che voleva: Simone
poteva capirlo benissimo da sé, guardandolo ogni giorno. In realtà, la vita che
avrebbe realmente voluto era lontana anni luce, era un
desiderio intangibile, quindi, tanto valeva fare almeno qualcosa. Era
anche vero che sua madre glielo aveva fatto notare nel modo più gentile
possibile: non poteva abbrutirsi tutto il giorno, sepolto dai ricordi, doveva
cambiare aria, aveva bisogno di tenersi occupato, di distrarsi, eccetera eccetera.
Come se
fosse stato un bambino in attesa all’ospedale, un
bambino che non doveva rendersi conto di quello che stava per succedergli.
No. Lui,
da quell’ospedale, non sarebbe uscito mai più.
Due mani
si posarono sulle sue spalle, stringendole con delicatezza. – Sei stanco? – Bill riaprì gli occhi e si irrigidì.
- Un po’,
sì – borbottò, cercando di sottrarsi alla stretta di sua madre senza destare
obiezioni. D’accordo, le era grato, ma tutta
quell’apprensione gli faceva montare in corpo un’irritazione tale che sovente
si trovava a chiedersi se un giorno non avrebbe perso le staffe.
- Dài, ti manca meno di un’ora – la sentì dire con tono
accondiscendente. Fantastico, solo un’ora. Come se quello
potesse cambiare le cose.
- Lo so – ribatté, stavolta senza curarsi di non apparire
scontroso. Riaprì il catalogo che aveva messo da parte poco prima, come a dire
“ho da fare, lasciami in pace”.
Seguì una breve pausa di silenzio alle proprie spalle.
- Ok,
allora… magari avvisami, quando stai per andare – concluse
Simone, in tono un po’ meno allegro.
-
D’accordo – tagliò lui senza voltarsi. Rimase immobile per qualche secondo, in attesa. Silenzio, poi rumore di passi che si
allontanavano, e poi un vocio poco più distante.
Si lasciò
andare a un lungo sospiro, appoggiandosi allo
schienale. Qualche volta avrebbe voluto mordersi la lingua. Sua madre era
l’unica con cui, ogni tanto, riuscisse a parlare. L’unica che gli infondesse un po’ di tranquillità. Magari
non bastava a farlo dormire la notte, ma si accontentava di poco. La serenità
rientrava nell’elenco di cose che gli mancavano del tutto, dunque non poteva
lamentarsi. Ma anche con Simone, spesso e volentieri,
Bill non riusciva ad aprirsi più di tanto. Il parlare con lei non era altro che
una distrazione, un’occasione per non rimuginare.
Ormai
bastava poco per farlo cedere al nervosismo, e Bill non faceva nulla per
cambiare. Aveva già fatto più che abbastanza, e se al mondo non andava bene il
nuovo Bill Kaulitz, beh, che andassero tutti…
Driiin.
Bill
spostò bruscamente la pila di cataloghi e si allungò sulla scrivania nel
disperato tentativo di raggiungere il telefono. Afferrò la cornetta prima che
le sue manovre causassero la rovinosa caduta
dell’apparecchio, e la trasse repentinamente a sé. – Agenzia Trümper, buona sera – esalò, ancora steso per metà sulla
scrivania.
Gli giunse
alle orecchie un’allegra voce femminile e un cognome che doveva aver già
sentito da qualche parte.
- Ah, sì –
disse con voce piatta. A un orecchio ben esercitato,
quella sarebbe risultata una chiara simulazione, ma la donna dall’altra parte
del filo non sembrò prestarvi attenzione. – Mi dica –
- Avevo
chiamato la settimana scorsa ed eravamo rimasti un po’
in sospeso, si ricorda? –
- Certo –
proseguì Bill, senza muoversi di un centimetro. Però, garrula, la signora…
- Ecco,
volevo appunto fissare per quel viaggio che le dicevo
la settimana scorsa – Gli sembrò quasi di vederla sorridere. – Sa, quando ci
siamo sposati, io e mio marito non abbiamo avuto la
possibilità di andare in luna di miele, così adesso che c’è anche il bambino,
vorremmo goderci un piccolo stacco… -
Presumibilmente
la donna continuò a parlare, ignara che, all’altro capo del filo, nessuno la
stava più ascoltando, anche se il ricevitore era ancora stretto in una mano
pallida e tremante.
Haylie sorrideva, guardandolo di sottecchi e giocherellando con un angolo
del lenzuolo.
Era semplicemente adorabile. Una
bambina… la sua bambina.
Bill scivolò al suo fianco,
passandole un braccio intorno alla vita. Erano passati quattro mesi da quando erano tornati alla loro vita e non si era mai
sentito così felice. – Ma lo sai che sei bellissima? –
le sussurrò all’orecchio, sorridendo sornione senza curarsi del tono quasi
infantile della sua domanda.
Haylie ridacchiò, scuotendo la testa. – E tu lo sai
che sei sdolcinato da morire? – Bill si finse meravigliato.
- Tesoruccio,
cosa vai a pensare? – cantilenò. – Se mi dici questo mi ferisci
a morte, luce dei miei occhi! –
A quel punto, Haylie
scoppiò a ridere, tirandogli una cuscinata sulla
testa. – Ehi, che ho detto?! – protestò lui, mettendo
su un finto broncio.
- Niente, mi prendi solo in giro! –
Bill spalancò gli occhi, portandosi una mano sul petto.
- Io? Prendere in giro te? Per
carità! – Haylie gli fece una smorfia, poi lo
abbracciò all’altezza della vita e si accoccolò contro di lui.
- E la sai
un’altra cosa? – Bill sorrise, scuotendo la testa. – Ti amo –
- Sei sdolcinata
da far schifo – ribatté, simulando un’espressione disgustata. Haylie sorrise, appoggiando l’orecchio sul suo petto nudo.
- Sento il tuo cuore… - mormorò,
mentre la sua mano sfiorava i fianchi di Bill. Il ragazzo non poté trattenersi
dal sorridere, accarezzandole i capelli mentre lei
restava lì ad ascoltare quei battiti lievi e regolari.
Lei era più della ragazza che
amava, era più della persona con cui voleva passare il resto della sua vita.
Lei era un dono del cielo, lei era l’essenza di tutti
i suoi desideri.
Le baciò dolcemente la fronte.
C’era un pensiero che gli frullava in testa da qualche tempo, una domanda che
gli martellava nel cervello e che avrebbe voluto porle. Non sapeva come mettere
insieme le parole, aveva paura che Haylie le
interpretasse nel modo sbagliato. Come se potesse pensare che
lei non gli bastasse, o come se lui volesse rievocare ricordi poco felici.
Ma non era così.
Proprio perché la amava voleva
chiederglielo. Era una domanda impegnativa, sì. Niente proposte di matrimonio,
certo, ma comunque qualcosa su cui riflettere.
Bill riuscì a decidersi solo quandoHaylie riaprì gli
occhi e gli rivolse quel sorriso che non mancava mai di mandarlo fuori di
testa. Mise una mano sulla sua, ancora appoggiata sul suo petto.
- Tesoro, volevo dirti… - Lei
annuì, sorridendo ancora. Ecco, il coraggio era tornato. Bill prese un bel
respiro…
Dall’altra
parte del filo, non si sentì altro che un tonfo sordo.
- Tutto
bene? –
Bill si
lasciò sfuggire un rantolo, e quasi non vide il
catalogo che aveva fatto cadere giù dalla scrivania. – Io… sì… - balbettò a mezza voce, rendendosi conto di non poter neanche più
reggere la cornetta, tanto era sudata la sua mano. – Mi scusi, ho… un
imprevisto… non… La richiamerò io… -
- Non… non
si preoccupi – fece la voce della donna, alla quale però
seguì solo un prolungato tuu-tuu.
- Pronto? E’ ancora lì? Pronto! –
Ma il
ricevitore era già stato sbattuto al suo posto con violenza, e la sedia dietro
la scrivania era vuota.
Bill si
lasciò cadere con la schiena contro la porta d’entrata dell’agenzia, subito
dopo aver mollato la cliente al telefono ed essere praticamente
scappato fuori. Si prese la testa tra le mani, ansimando come se avesse corso
per chilometri.
Il cuore andava a mille, poteva sentirlo rimbombargli nel petto. La
fronte era madida di sudore, le mani gli tremavano
ancora. Bill si appoggiò con le braccia al muro dietro di lui, chiudendo gli
occhi e continuando a buttar fuori l’aria con un certo affanno.
Deglutì e
rimase immobile, aspettando che il respiro si regolarizzasse. Doveva imparare a
controllarsi, non poteva mettersi a ricordare durante le telefonate dei
clienti… Ma perché doveva essere sempre lui a prendere le telefonate di certi
clienti?!
Quando gli
parve di essere tornato più o meno presentabile, si
staccò faticosamente dalla parete e rientrò in agenzia, sorreggendosi alla
porta. Sospirò e si passò una mano tra i capelli, cominciando a chiedersi se
non soffrisse anche di claustrofobia.
- Bill! –
Perfetto. Ci mancava solo sua madre. – Bill, che hai? – Simone lo raggiunse a
passo svelto, una nota di angoscia nella voce.
- Niente…!
Tranquilla, non… non è successo niente – Lui stesso si rese
conto di risultare poco credibile.
- Chi era
al telefono? – gli chiese infatti Simone. Bill strinse
i pugni, sospirando stancamente. Non aveva le energie necessarie per difendersi
da quell’attacco di iperprotezione.
- Non lo so, ho dovuto chiudere. Non mi sento bene –
A sua
madre, ovviamente, non bastò. – Bill, cosa… -
- Posso
andarmene adesso? – la interruppe debolmente lui. Simone lo guardò interdetta
per qualche secondo.
- Certo –
disse infine. – Certo… vai pure – Bill produsse uno
dei suoi finti sorrisi, e fece per andarsene senza aggiungere una parola. – Mi
raccomando, Billy… -
- Lo so – tagliò corto lui, mentre il sorriso scompariva dalle sue
labbra. – Lo so, mamma. Ci vediamo domani –
E uscì
senza attardarsi di un solo secondo, perché altrimenti sua madre avrebbe
assistito in diretta alla seconda crisi di panico.
Casa, casa, casa. Voleva solo tornarsene a casa.
…
Tom si
grattò nervosamente la testa, rigirandosi tra le dita il foglietto ormai mezzo
sbrindellato. Si sentiva incredibilmente idiota a star fermo lì, davanti a
quella che, secondo l’indirizzo che gli aveva dato sua madre, doveva essere la
porta dell’appartamento di Bill.
Le
possibilità erano due: o si decideva subito a bussare, o se ne tornava indietro
senza lasciar traccia.
Erano
quasi le dieci di sera e c’erano tutte le premesse perché il suo tentativo
fallisse. Ma se non avesse provato, non l’avrebbe saputo mai, quindi si limitò
a tirare un profondo respiro, chiudere gli occhi e premere il
campanello prima che un qualsiasi agente esterno gli facesse cambiare
idea.
Aspettò
per secondi che gli parvero ore prima di sentire lo scattare della serratura e
un leggero cigolio accompagnare il lento aprirsi della porta. Doveva essere
ancora un po’ confuso, fatto sta che tutto quello che
riuscì a focalizzare fu una sola informazione: suo fratello, in piedi sulla
soglia, lo guardava con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a
fessure.
- Tuqui? – lo sentì sibilare, mentre un lieve scricchiolio gli
annunciava che Bill si era aggrappato alla maniglia con tutta la forza che
aveva in corpo. Non riuscì a fare altro che sorridere nervosamente.
- Ehm…
ciao Bill –
Idiota.
Sei un emerito idiota. E’ una settimana che ti prepari discorsi degni di un
convegno per farti accogliere da tuo fratello, e ora che ce
l’hai davanti non sai dirgli altro che “ciao”?
- Cosa… che cosa vuoi? – lo aggredì la voce di
Bill, mentre il suo proprietario rimaneva incollato alla porta.
- Io sono… beh… tornato… - farfugliò Tom totalmente spiazzato, il
sorriso ancora impigliato tra le labbra. Non si era aspettato che Bill gli
saltasse in braccio, però neanche che gli rivolgesse quello sguardo. – Volevo
solo… sapere come state, ecco… Tu, Haylie,
la… - Deglutì, incapace di continuare. Bill lo aveva fulminato con lo sguardo,
e quegli occhi sembravano tanto carichi di odio da
stroncare le sue parole sul nascere.
La mano del moro strinse convulsamente la maniglia.
- Haylie è morta! – ringhiò, subito
prima che Tom lo vedesse scomparire, accompagnato da uno schianto. Furono
necessari un paio di secondi perché si rendesse conto che Bill gli aveva chiuso
la porta in faccia. Tutto quello che l’istinto gli suggerì di fare fu di
tempestarla di pugni.
- Bill! Bill, apri! – Nessuna risposta. Tom rimase
immobile per qualche istante, poi sferrò un calcio alla porta. – Per
favore Bill, aprimi! –
Subito dopo, sentì una voce provenire da sopra la sua testa. –
Silenzio! Qui c’è gente che dorme! – Non fece neanche in tempo a vedere l’uomo
anziano che si era affacciato dal balcone del primo piano, ancora stordito
dalle parole con cui Bill aveva troncato la loro –peraltro brevissima-
conversazione.
Cosa voleva dire… Haylie è morta?
Tom fece un rapido calcolo, per quando la sua
poca lucidità glielo permettesse. Dunque. Bill non
aveva ancora smaltito il risentimento nei suoi confronti. Doveva anche essere
successo qualcosa con Haylie, qualcosa di serio,
perché, d’accordo, quando Bill era frustrato era capace di prodursi nei deliri
più disparati, ma… dal delirare a dare una persona per morta…
Perché se fosse morta davvero,
Bill non lo avrebbe liquidato così. Era inconcepibile. Semplicemente non era
possibile.
Che la
sua partenza non avesse giovato alla loro riconciliazione?
Dovevano
essersi lasciati… e chissà da quanto tempo. E allora,
la bambina? Che fine aveva fatto? Sì, doveva essere
successo qualcosa di terribile se Bill era così accanito nei confronti di Haylie. Del resto, non c’era poi tanto da stupirsi se aveva detto che era morta. La sua storia con quella ragazza
era stata tormentata fin dall’inizio… Dunque era questo che Bill voleva,
cancellarla per sempre dalla propria vita?
Tom voltò
le spalle alla palazzina e si avviò in strada, a testa bassa e con il trolley al seguito.
Le domande
erano troppe, ma una più di tutte adesso gli premeva:
e se sua madre fosse già andata a dormire…?
Ci volle
qualche secondo perché Tom si rendesse conto di essersi svegliato a casa di sua
madre, per giunta su un letto stranamente comodo.
Cercò di
riattivare il cervello, percorrendo mentalmente le ultime ore trascorse prima
della “visita” a sua madre. Non pensò neanche di riaprire gli occhi. Dunque. Cosa aveva pensato, una volta
sceso dall’aereo?
Bill.
Ah,
già, Bill.
E poi?
E poi doveva aver fatto male i calcoli perché, per
quel poco che ricordava, la conversazione con la porta chiusa era stata più
lunga e soddisfacente di quella con suo fratello. Già, Bill l’aveva sbattuto
fuori, dopo aver blaterato qualcosa di incomprensibile
a proposito di Haylie. Cosa
aveva detto, esattamente…?
Tom si
strofinò le palpebre con le dita, sbuffando sonoramente. Avrebbe preferito non
ricordarlo.
Calciò via
il lenzuolo e si mise a sedere sul letto, compiendo uno sforzo immane per
aprire gli occhi. Grazie ad un sottile cono di luce che filtrava da uno
spiraglio di finestra aperto, Tom constatò che doveva essere mattino inoltrato.
Di conseguenza, doveva aver dormito almeno una decina di ore.
Non del tutto strano, pensò, considerato che erano tre anni che non
passava la notte in un luogo da potersi definire “casa”.
Solo dopo
essersi alzato constatò con un certo stupore di avere ancora indosso i vestiti
della sera prima. Si grattò la testa sbuffando una seconda volta: non male,
come inizio di soggiorno.
Trovò sua
madre intenta a trafficare in cucina, ma il profumo che scaturiva dalla pentola
posta sul fornello non fu sufficiente a farlo svegliare del tutto. Simone si
accorse della sua presenza prima che Tom facesse in tempo a proferire parola. –
Ben svegliato! – esclamò, con un’incomprensibile nota di allegria
nella voce.
Considerandola
come una dimostrazione del suo senso dell’umorismo, Tom scostò una sedia dal
tavolo e vi si lasciò cadere, mugugnando qualcosa di simile a
un “buongiorno”. Simone lasciò la pentola fumante sul fornello e lo raggiunse
per poi schioccargli un sonoro bacio su una guancia. Il ragazzo si sentì
vagamente in colpa dopo aver realizzato che la sera
prima non doveva neanche averla salutata.
- Allora,
come stai? – gli chiese lei senza perdere il sorriso.
-
Benissimo – borbottò Tom, piegando un braccio sul tavolo e appoggiandovi il
mento. – Ma tu non lavori? –
- Oggi è domenica – ribatté lei, prendendo posto di fronte a lui.
Tom
grugnì, segno che aveva recepito il messaggio. Simone
non sembrò scoraggiata da quella palese dimostrazione di disinteresse, e
proseguì: - E tu, non avevi detto che saresti andato
da Bill? –
Tom
richiuse gli occhi, corrugando le sopracciglia. Quella domanda gli riportava in
mente pensieri che non facevano altro che provocargli un forte mal di testa.
- Appunto
–
- E quindi…? –
Tom sbuffò
per la terza volta, appoggiandosi con i gomiti al bordo del tavolo e
massaggiandosi le tempie. Che voleva sua madre? Si era
appena alzato, non aveva neanche fatto colazione e lei partiva in quarta con
gli interrogatori? Prima o poi avrebbe dovuto
ricordarle che i venticinque anni li aveva appena compiuti da quasi un mese.
- Niente,
mi ha chiuso la porta in faccia – Simone sospirò
pesantemente, come se, dietro tutto quell’entusiasmo, vi fosse celato il timore
di quella risposta. In qualche modo, se l’aspettava.
- E’
passato così tanto tempo… -
- Già, ed
evidentemente non è cambiato molto –
- Tom – Il
tono di sua madre era un chiaro invito a guardarla negli occhi, e Tom alzò
automaticamente lo sguardo. Si rese improvvisamente conto che sua madre
sembrava più vecchia di dieci anni da quando si erano
visti l’ultima volta, e questo gli fece una certa impressione. – Tuo fratello
sta passando un brutto periodo –
- Questo
l’avevo capito – replicò lui, trattenendosi
dall’aggiungere “non è colpa mia”. Effettivamente, non era del tutto vero.
- Ma se non provate neanche a parlarvi… -
- Lo so
mamma, lo so – la interruppe Tom. – Ci ho provato una
volta e non ci sono riuscito. D’accordo, forse è stato un tantino esagerato da
parte mia pensare che mi avrebbe accolto a braccia aperte, però non pensavo
neanche che ce l’avesse ancora con me. Non così,
intendo – Vi fu una breve pausa di silenzio.
- Cosa vorresti fare? – gli chiese infine Simone. Tom rispose
con un’alzata di spalle.
-
Riprovare a parlargli, immagino –
- Sì, ma a
parte questo, intendo… cioè, hai pensato a dove stare?
–
Tom provò
un certo imbarazzo nel rispondere a quella domanda. – Veramente pensavo di
poter passare un po’ di tempo da lui… Giusto il tempo
di trovarmi un’occupazione, non so… - L’espressione sul volto di sua madre
sembrava dire chiaramente “missione impossibile”, tuttavia Simone preferì
ricorrere a termini più delicati.
- Lo sai
che puoi restare qui per tutto il tempo che vuoi… -
Per la prima volta da quando si erano rivisti, Tom sorrise. Non aveva il diritto di mettere
in mezzo anche lei, dopotutto. Lo stava accogliendo come se fosse solo tornato
da una vacanza, quando avrebbe potuto comportarsi come Bill.
No. La
reazione di Bill era effettivamente incomparabile.
- Grazie
mamma – disse. – Ma
preferisco di no. Sono tornato con l’intenzione di restare. Dammi solo il tempo
di sistemarmi. E poi… la cosa più importante per me è…
- Imbarazzato, non seppe come continuare.
-
Riallacciare i rapporti con Bill, vero? – Simone sorrise,
posando una mano sulla sua spalla. Tom annuì senza dire nulla. – Ci
spero davvero tanto, Tom. Non sopporto di vedervi così lontani, è… è qualcosa
che va contro voi stessi, non è nella vostra natura –
Lui annuì
di nuovo. Avrebbe voluto che fosse Bill a dirgli quelle cose.
- Va bene… Vado a cambiarmi – tergiversò infine, facendo come
per alzarsi. In quello stesso momento si udì il suono del campanello, al che
anche Simone si alzò da tavola e uscì dalla cucina, diretta all’ingresso.
Tom la
sentì armeggiare con la serratura prima che la sua voce esclamasse:
- Tesoro!
Come mai qui? –
Considerato
che le uniche persone possibili a cui Simone poteva aver rivolto quel “tesoro”
non erano che Bill e Gordon, e che quest’ultimo
viveva con lei da oltre vent’anni (dunque un “come
mai qui?” sarebbe risultato decisamente fuori luogo),
Tom si preparò psicologicamente a quello che, presumibilmente, sarebbe venuto
dopo.
Non sentì
il resto della breve conversazione. Rimase solo fermo dov’era, i pugni chiusi,
le labbra serrate.
Poi
accadde in un attimo: Bill entrò in cucina, probabilmente ignaro di chi vi
avrebbe trovato, e per Tom fu come vederlo per la prima volta, come se
l’episodio della sera prima non fosse mai esistito.
Quando il
moro si accorse della sua presenza si bloccò
improvvisamente, come se al minimo passo potesse imbattersi in un campo minato.
Tom si sentì terribilmente a disagio nel momento in cui si vide il suo sguardo
puntato addosso, soprattutto perché non avrebbe saputo come interpretarlo.
La prima
informazione che riuscì a focalizzare fu che Bill era cambiato. Decisamente ed irreparabilmente, a quanto poteva vedere.
I capelli
erano rimasti quelli di sempre, sì. Lisci e neri, lunghi fino
alle spalle… e legati da un elastico. Da quando Bill li aveva lasciati
crescere, non li aveva mai legati. Forse era proprio questo particolare
a conferire al suo viso un’aria in qualche modo più matura, più adulta.
Era magro,
magro come sempre, forse anche di più. L’unica
differenza che Tom notò era un leggero accenno di muscolatura in più. Una cosa
minima, certo, ma comunque un bel cambiamento,
considerato che, per ventidue anni, Tom aveva avuto per fratello solo un
mucchietto d’ossa, come lo chiamava spesso per prenderlo in giro.
Se non
altro, nel modo di vestire non vi era alcuna traccia del Bill che aveva
lasciato tre anni prima. Quel giorno, indossava un’anonima
polo bianca a maniche corte e un paio di jeans che avrebbe potuto
recuperare da qualunque armadio che non fosse il suo. A completare il tutto, la
totale assenza di quegli elementi che per Bill erano stati comparabili a un personalissimo kit di sopravvivenza: niente smalto
nero, niente trucco, niente accessori ricercati.
Ma Tom
dubitava che fosse la totale assenza di trucco ad aver dato al viso di Bill
quell’espressione che non ricordava di aver mai visto. Dopotutto, era pallido
come sempre, i lineamenti non erano certo cambiati, forse aveva solo la
mascella leggermente più squadrata.
Però
vi era qualcosa di diverso, qualcosa di strano, inquietante, quasi. Era come se
quegli occhi celassero un segreto, come se non riuscissero a contenere tutto
quello che avrebbero voluto trasmettere. Anche le
labbra avevano assunto un altro taglio, sembrava quasi che si fossero
assottigliate. Sembrava che un sorriso non le toccasse da anni.
Simone
seguì frettolosamente Bill nella cucina, per poi rivolgere a Tom uno sguardo
ansioso, di cui tuttavia lui non si curò.
Tom vide
suo fratello deglutire e i suoi muscoli contrarsi,
prima che voltasse la testa verso sua madre.
- Io…
posso passare un’altra volta – disse a voce bassa,
come se sperasse che lei acconsentisse. Ma tutto quello che fece fu prenderlo per un braccio prima che lui si dirigesse fuori
dalla cucina.
- No Bill,
resta pure – disse con voce ferma. Bill si irrigidì,
fermo sulla soglia, curandosi di non incrociare lo sguardo del fratello.
Rendendosi
conto che non gli avrebbe mai rivoltola parola per primo, Tom raccolse una
certa dose di coraggio per apostrofarlo con un sommesso ma deciso: - Allora, non
mi saluti? –
Il moro
alzò di scatto la testa e lo fissò con astio. – Non vedo perché dovrei –
- Perché siete fratelli – intervenne Simone, cercando di dare alla
propria voce un’impronta di maggiore durezza.
Bill
socchiuse gli occhi, senza staccare lo sguardo di dosso a Tom. – Non sono io ad
averlo dimenticato –
- Bill! –
Simone gli rivolse un’occhiata carica di rimprovero, Tom non
si mosse. – Non voglio sapere cosa avete intenzione di dirvi.
Sbrigatevela da soli, maparlate. Io esco –
Nessuno proferì parola mentre lei si accingeva ad
uscire dalla cucina. – E nessuno si muove di qui finché non vi sarete chiariti! –
Povera,
illusa mamma fu il
repentino pensiero di Tom nel momento in cui sentì lo sbattere della porta
d’ingresso.
E così
erano passati dal “tuo fratello sta passando un brutto momento” al “chiaritevi
immediatamente”. Un bel salto.
La
tensione avrebbe potuto essere tagliata a fette. Bill
lo fissava con una rabbia tale da fargli dimenticare di colpo tutto quello che
avrebbe voluto dirgli.
- Cos’è, sei corso subito a fare la pietà dalla mamma? – ringhiò
infine. Il biondo respirò profondamente un paio di volte prima di rispondere.
- Fare la
pietà non rientra tra le mie abitudini, veramente – disse,
con calma palesemente forzata. – Così come il pretendere un’accoglienza decente
da parte tua. Ma speravo che almeno avessi voglia di
vedermi –
- Non mi
pare che esistano motivi per cui avrei dovuto saltarti
al collo – ribatté acidamente Bill.
- Io ti
avevo semplicemente chiesto come stavi, Bill. Non mi sembra un’offesa così
terribile – Tom si rendeva conto che, così facendo,
sfidava apertamente il precario sistema nervoso di Bill, ma aveva ancora in
mente l’immagine di quella porta chiusa e non riusciva a mandarla via.
- Cosa può interessarti di come sto io? –
In ogni
parola di Bill c’era il veleno.
Tom
avrebbe voluto dirgli che gli importava eccome, ma
sospettava che ciò non avrebbe provocato una reazione positiva. Era come se
Bill gli serbasse rancore per qualcosa che lui non conosceva, per qualcosa che
aveva fatto senza saperlo. Ed era chiaro che lui, di accuse
da rovesciargli addosso, ne aveva un mucchio.
Ebbe modo
di confermarlo non appena riprese a parlare.
- Me la
ricordo ancora quella lettera, sai? Mi ricordo di tutto quello che hai detto e
fatto. Dicevi che io dovevo continuare con i Tokio
Hotel, che se non l’avessi fatto l’avresti saputo. E infatti
eccoci qui. E’ da un anno che io e i ragazzi non ci vediamo
più, e le tue erano tutte bugie, come al solito – Il cuore di Tom mancò un
colpo, forse per la durezza di quelle parole, o forse per quell’inaspettata
rivelazione. – Quante me ne hai dette di bugie, eh
Tom? –
Tutto
quello che l’altro riuscì a formulare fu un tremulo: - Perché voi…? –
Bill lo
fulminò con lo sguardo. – Non mi pare che tu ti sia interessato molto del
gruppo. Ci hai lasciati nella merda,
e ora vuoi sapere perché ci siamo sciolti? –
- Tu… tu
non dovervi farlo – disse Tom, stringendo i pugni. –
Ti avevo detto che potevate prendervi un altro
chitarrista, o… aspettarmi, oppure… -
In quel momento,
Tom era pronto a giurarlo, Bill si sarebbe messo a ridere, se non fosse stato
completamente disabituato a farlo –come sicuramente doveva essere. Sarebbe
stata una risata cattiva, tagliente, e Tom fu decisamente
contento di non essere costretto a sentirla.
- Il tuo
ego è talmente spropositato da farti pensare che ci siamo
scioltiper te? –
Bill lo fissò in cagnesco per qualche altro interminabile secondo. – Ho
rinunciato da tempo a capirti, sai. Non mi interessa
neanche, a dirla tutta. Sono solo curioso di sapere cosa pensi di fare, dopo
aver coronato il tutto con il tuo trionfale ritorno –
In quel
momento, Tom provò un’irresistibile voglia di scagliarsi contro di lui e
prenderlo a schiaffi.
- L’unica
cosa che mi aspettavo era di poter sostenere una conversazione decente con te.
Che almeno mi spiegassi perché dopo tre anni ce l’hai
ancora con me, che mi rendessi un minimo partecipe della tua vita, e… - Ma non
poté continuare, perché Bill sbatté un pugno sul tavolo con tanta violenza da
farlo sobbalzare.
- Non deve
fregartene niente! Hai capito? NIENTE! – gli gridò contro. – HAI MANDATO TUTTO
A FANCULO TRE ANNI FA, NON HAI IL DIRITTO DI PIOMBARE COSÌ NELLA MIA VITA E
PRETENDERE CHE TI GETTI LE BRACCIA AL COLLO! –
Per un
attimo, Tom ebbe paura che Bill potesse avventarsi contro di lui e picchiarlo.
- Io non
ho detto che… - tentò di opporsi, ma Bill non glielo
permise.
- Tu devi sparire!
– urlò, puntandogli l’indice contro. – Sei sparito tre anni fa? Bene, fallo
anche adesso! Non me ne frega niente! – Tom non si mosse, completamente
annichilito. Stava succedendo tutto troppo in fretta perché potesse pensare a
qualcosa di sensato da dire. – Vattene, cazzo! –
gridò ancora Bill. Ma per Tom fu come se quelle parole
avessero trovato un ostacolo che impediva loro di arrivargli alle orecchie. Non
poté fare altro che fissarlo basito, la bocca semiaperta, come un bambino
incredulo. Le labbra serrate di Bill, per un attimo, parvero tremare, prima che
il ragazzo lasciasse andare la presa sul bordo del
tavolo a cui si era convulsamente aggrappato. – D’accordo, allora me ne vado io – disse bruscamente. Rimase fermo a fissare Tom con
rabbia ancora per qualche istante prima di voltargli le spalle e lasciare la
cucina a passo di carica. Lo schianto della porta arrivò subito dopo.
Di tutti i
pensieri che avrebbe potuto formulare, la mente di Tom ne focalizzò uno solo: Bill aveva decisamente perso la testa. Era
impazzito.
E
questo doveva essere successo già da un bel po’ di tempo.
…
Bill
stette bene attento a non alzare la testa, continuando a riempire
diligentemente i campi vuoti sul foglio.
Sapeva che
quel momento sarebbe arrivato, e anche piuttosto in fretta. Per questo
stava chino sulla scrivania e scriveva freneticamente, cercando di non pensare
a quello che sarebbe successo di lì a breve, quando sua madre sarebbe entrata
in agenzia.
Era un
trucco che usava spesso, ormai. Annegava la disperazione nei numeri. Sì, era
tutto quello che doveva fare: scarabocchiare un nome in alto a destra, mettere
delle cifre, apporre una firma a piè della pagina. Lettere, numeri, lettere,
numeri, lettere numeri e nient’altro. Nessuno avrebbe
potuto rimproverarlo per quella sua abitudine. Non beveva,
non commetteva atti vandalici, non andava a puttane. Ogni tanto una sigaretta,
anche se sua madre soleva ricordargli che quell’ogni tanto si ripeteva un po’ troppe volte al giorno.
Ma tanto, che male faceva
lui agli altri? Nessuno.
E a se stesso, quanto male
poteva fare? Non più di quanto se ne fosse già fatto.
- Allora? –
La domanda arrivò concisa e imperiosa direttamente da sopra la sua
testa. Bill sospirò e chiuse gli occhi, senza muoversi di un millimetro. Odiava il fatto che sua madre ogni tanto se ne uscisse con
la recita della severa impunita. Non le veniva per niente bene, perché non lo
era mai stata. E, soprattutto, quei suoi “sbalzi
d’umore” non riuscivano a lasciarlo nel suo solito clima di passività e calma
forzata. Improvvisamente ogni parola gli ronzava nelle orecchie come uno sciame
di zanzare, facendo montare in lui un’irritazione che non tardava a
trasformarsi in collera.
- Allora
cosa? – sospirò, la penna stretta nel pugno.
- Bill,
per favore. Non fare il finto tonto. Avanti, com’è
andata con tuo fratello? –
Fantastico.
Parlava come se la cosa non la riguardasse. Peccato che il tono di voce un po’
troppo alto la tradisse.
- Perché non lo chiedi a lui? – replicò il ragazzo,
costringendosi a non alzare la testa.
- Credi
che non l’abbia fatto? – Bill sentì la mascella contrarsi. Brutto segno.
- E allora non ho niente da spiegarti. Sicuramente la sua
versione dei fatti sarà stata molto convincente – tentò
di liquidarla. Ma, se sua madre si metteva qualcosa in
testa, era difficile che cambiasse idea.
Simone
sospirò, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi, e Bill prese a fissare
un punto qualsiasi del foglio che aveva davanti, pur di illudersi di avere
davvero qualcosa che potesse distrarlo.
- Perché, Bill? –
La sentì
chiederglielo con la voce talmente carica di rammarico che non poté fare a meno
di alzare la testa. L’espressione di sua madre era
corrucciata, ogni suo gesto svelava la sua tensione.
- Apprezzo
molto che tu voglia sistemare le cose. Sul serio. Ma non è necessario – Si
sforzò di sembrare convincente, invece il suo tono era quello di chi vuole concludere in fretta una conversazione poco piacevole.
- Non
posso pensare che vi siate ridotti così. Perché non
provi nemmeno a… parlargli, o…? –
A quel
punto, Bill non riuscì a rimanere impassibile. Si alzò e, dopo aver fatto il
giro della scrivania, si avvicinò a sua madre e le prese le mani fra le
proprie. Ogni traccia di irritazione svanì nel vedere
la sua aria afflitta.
- Mamma,
io… davvero, ti ringrazio. Ma
non è questo che voglio – Lei gli rivolse uno sguardo addolorato.
- Certo che lo vuoi, invece – Bill sentì una sgradevole sensazione in
un punto imprecisato nello stomaco. No, non era irritazione. Era… insofferenza, ecco.
- Non ci riesco – disse, laconico. Simone lo
prese per le spalle.
- Perché non ci provi neanche, Bill. Se
non ci provi non potrai mai riuscirci – Bill strinse impercettibilmente i
pugni. Il suo moto di comprensione stava rapidamente svanendo. Sua madre non
poteva entrare nella sua testa e leggere i suoi
pensieri. Nessuno poteva farlo.
- E cosa dovrei fare, secondo te? – le chiese allora, senza
traccia del desiderio di saperlo davvero. Simone esitò.
- Se almeno provaste a passare un po’ di tempo insieme, magari
ti accorgeresti che ti è mancato davvero. Tom non è tornato
per portare scompiglio, Bill, lo capisci? –
- Certo,
l’ha già fatto – rispose lui a denti stretti.
- Ma perché non… -
- Cioè, fammi capire – Bill deglutì, aggrottando le
sopracciglia e allontanando le mani di Simone dalle proprie spalle. Lo stomaco
stava cominciando a bruciargli. – Stai dicendo che
dovremmo prenderci un appuntamento giornaliero e raccontarci cos’abbiamo fatto
in questi anni? Eh? E’ questo che devo fare secondo te? –
- No, ma… -
- Oppure mettermelo a casa? Certo, perché non ci ho pensato
prima? – soggiunse con sarcasmo. – Passeremmo delle giornate indimenticabili,
no? A girarci i pollici senza aver niente da dirci! Tu… tu non puoi pensarlo
davvero. Allora non capisci… tu non sai… - Bill le voltò
lentamente le spalle, prendendosi la testa tra le mani come se gli dolesse.
Neanche sentì le dita di Simone sfiorargli la schiena.
- Tesoro… -
- Tu non sai cosa ho passato… non puoi
capire, non puoi sapere… E ora… ora dovrei… no, non
capisci… - balbettò, scuotendo lentamente la testa. Improvvisamente, nella sua
testa aveva preso vita un vortice di suoni e immagini, di ricordi belli e
brutti, ma che mescolati tutti insieme non gli
provocavano altro che dolore. Simone, atterrita, non riuscì a pensare di fare
altro che avvicinarglisi e cingergli la vita con le
braccia, stringendolo delicatamente a sé e poggiando la fronte sulla sua nuca.
Poteva sentirlo tremare sotto le sue mani…
- Oh, Billy, certo che so cos’hai passato – mormorò
contro la sua schiena. – Se solo tu ti sfogassi… se parlassi con qualcuno,
invece che tenerti tutto dentro… -
Le parve
di sentirlo sussultare, una sola volta. Ma avrebbe voluto dire
che stava piangendo. Ed erano mesi che suo figlio non
versava una lacrima, anche se avrebbe avuto tutte le ragioni per farlo. Era
questa la sua tortura, e lei non voleva altro che vederlo tranquillo. Non
felice, ma almeno sereno…
- E con chi dovrei farlo? – quasi la aggredì, senza però
liberarsi della sua stretta.
- Se non vuoi sfogarti con me, potresti farlo con Tom – Simone
lo sentì irrigidirsi. – Io sono sicura che se tu riuscissi
ad aprirti con lui, se voi riusciste a spiegarvi… poi sarebbe tutto diverso –
Bill
avrebbe voluto solo sputarle in faccia un altro “no”, dirle di lasciarlo in
pace. Ma quelle parole, quell’abbraccio… forse la sua
sanità mentale importava solo a lei. E allora non
sarebbe stato giusto deluderla un’altra volta. Ma
d’altra parte neanche lui si sentiva di assecondare i suoi desideri.
- Io… non
lo so, mamma – mormorò, portando le mani sulle sue e sciogliendole
delicatamente tra di loro. Quando
si liberò del suo abbraccio, si voltò verso di lei, chinando la testa. – Non
credo di farcela –
Simone
sorrise appena, sfiorandogli una guancia. – Avete solo
bisogno di tempo – Lui rimase in silenzio. – Ti fidi di me? –
Bill non
rispose all’istante. Rimase ancora un po’ con il capo chino e il respiro lieve,
senza proferire una parola. Poi, lentamente, alzò la testa. E quando incrociò
lo sguardo di sua madre, furono le sue stesse labbra a mimare uno stentato ma sincero “sì”.
Quella notte, come succedeva ogni due giorni ormai da sei mesi, non
chiuse occhio.
Le parole di sua madre gli ronzavano ancora in testa e, suo
malgrado, ancora non riusciva a spegnere quel fastidioso interruttore.
Come
poteva avergli proposto di ospitare Tom a casa sua? Come poteva anche solo
pensare che il loro rapporto sarebbe tornato quello di un tempo?
Si rivoltò
per l’ennesima volta, stringendo al petto il cuscino e appoggiandovi il mento. Cosa avrebbe potuto cambiare se Tom si fosse fermato davvero
a casa sua? In fondo, per Bill l’unico problema era evitare di stare per troppo
tempo nello stesso posto, dato che, in quei casi, un orribile senso di angoscia non tardava a farsi sentire.
Tutto
quello che voleva era stare tranquillo, in pace, lontano dal mondo.
Premetto
che non dovrei essere qui, ma a studiare chimica, ma su questo si può
tranquillamente soprassedere.
Grazie
alle quattro commentatrici e ai 14 che hanno (di già?)
aggiunto la fic ai preferiti. Naturalmente la canzone
usata è sempre “Nessuno” di Raf (vi seccherà leggerlo
ogni volta, ma credetemi, secca più a me doverlo scrivere).
Mi
raccomando: se questo capitolo (o l’intera storia) dovesse piacervi o
procurarvi un’inarrestabile crisi di vomito, fatemelo sapere!!!
Me avida di recensioni ^_^
- Non lo
so… Vuoi una risposta educata o onesta? –
- Onesta,
credo –
- Allora
passa avanti, che è meglio –
Acciambellato
sul divano del salotto, Tom passava in rassegna tutti
gli annunci di uno dei quotidiani comprati da sua madre, nella vana speranza di
trovare un impiego provvisorio. Era già il terzo giorno consecutivo che passava
in casa di Simone, e quella mattina aveva deviato le sue richieste di opinioni da lei a Gordon, dopo avergli raccontato
malvolentieri come avesse trascorso quegli ultimi tre anni “in giro per il
mondo”, come diceva lui.
Scoraggiato,
aveva dovuto prendere atto della situazione: i posti vacanti che gli offrivano
le pagine dei giornali riguardavano solo mestieri orribilmente comuni, in
nessuno dei quali lui riusciva a ritrovarsi. Come se ciò non bastasse, aveva
dovuto sentirsi dire da Gordon che avrebbe fatto meglio a lasciar
perdere.
- Tom, tu sei nato con la chitarra in mano – gli aveva detto,
vedendolo seppellirsi nel terzo quotidiano nel giro di mezz’ora. – E’ ovvio che
non trovi nulla che ti soddisfi! –
Tom sapeva
perfettamente che non avrebbe dovuto prenderla come una mancanza di fiducia. Da
quando Gordon e sua madre convivevano, lui era stato
sempre il suo preferito. Il patrigno gli aveva regalato la prima chitarra
elettrica, insegnandogli poi a maneggiarla con una dimestichezza che nemmeno
lui possedeva. Era comprensibile che fosse deluso dal fatto che Tom sembrasse
intenzionato a mettere da parte la musica, la sua grande
passione. Al contrario di Simone, Gordon non sembrava affatto
invecchiato in quei tre anni.
- Temo di non poter combinare granché, da solo – ribatté Tom
senza alzare gli occhi dalla pagina.
- Beh, ricordati
che con tuo fratello avete cominciato dal basso, e guarda un po’ dove siete
arrivati! –
A quelle
parole, lo sguardo del ragazzo guizzò verso Gordon, in piedi al centro del
salotto.
- Doveeravamo arrivati – lo corresse controvoglia.
- Comunque sia, se proprio sei intenzionato a fare qualcosa di
diverso, puoi chiudere gli occhi e puntare il dito su un annuncio qualsiasi –
disse Gordon con noncuranza.
- E’ un
modo carino per sottolineare che non so fare
nient’altro che agitare una chitarra? – borbottò l’altro.
- E’ un
modo realistico per farti capire che è quello che devi fare. Comunque, decidi tu – L’uomo lanciò uno sguardo all’orologio
appeso alla parete. – Ok, io vado. Ci vediamo stasera –
- A più
tardi! – si sentì il saluto di Simone proveniente dalla cucina. Nel momento in
cui Gordon lasciò il salotto, Tom avvertì il suono del campanello. Seguì lo
scricchiolio della porta e la voce del suo patrigno:
- Oh, ciao
Bill. Scusa, vado di fretta –
Tom
sospirò, tornando a leggere la pagina degli annunci. Bill non poteva pretendere
di non trovarselo davanti, andando da sua madre. A quel punto, se si lasciava
cogliere da un altro attacco isterico, era un problema suo.
- Ehm…
mamma? – fece la sua voce incerta, alla quale Simone rispose all’istante.
- Bill,
che ci fai qui? –
Ci fu una
breve pausa e Tom si rese conto con grande stupore di aver lasciato a metà la
lettura dell’ultima pagina, e di stare ora attendendo la risposta del fratello
con il fiato sospeso.
- Niente,
volevo dirti… cioè, dirvi una cosa –
Dirvi?
Poteva
vederlo benissimo da sé che Gordon era uscito. Dunque,
chi includeva in quel “voi”?
Continuò a
chiederselo anche quando la risposta si mostrò in tutta la sua ovvietà con
l’entrata di Bill in salotto.
- Ciao –
disse a mezza voce, senza nascondere la propria meraviglia, ancora mezzo
sdraiato sul divano. Il moro rispose con un cenno nervoso e mugugnò qualcosa di
simile a un saluto, distogliendo subito lo sguardo.
L’intervento
di Simone li distrasse da quel momento d’imbarazzo. – Allora, cos’è che volevi
dirci? –
Bill si
mordicchiò il labbro inferiore, e dovettero passare diversi
secondi prima che si decidesse a cavar le parole fuori di bocca,
torcendosi le mani e tenendo lo sguardo fisso in un punto imprecisato.
- Beh,
intanto… mi dispiace se l’altro ieri ho… perso il controllo –
Tom capì
che la frase era rivolta a lui solo grazie al suo contenuto, perché Bill non
guardava né lui né Simone. Il suo imbarazzo era celato dietro una maschera di irritazione, come se fosse stato costretto a
giustificarsi. E a Tom non occorse un colpo di genio per capire che quelle
scuse, oltre a non essere del tutto sincere, avrebbero
dovuto andare a parare da qualche altra parte.
- E a me dispiace che tu sia venuto fin qui solo per dirmi
questo – ribatté senza scomporsi. Non era tipo da lasciarsi andare a scenette
melense, meno che mai quando capiva che il suo interlocutore non era ben
disposto nei suoi confronti. Simone aveva tutta l’aria di voler intervenire, ma
si poteva capire a chilometri di distanza che cercava disperatamente di
trattenersi.
- Non è solo questo – scoccò infastidito Bill. – Insomma, volevo dirti che, se vuoi, per un po’ di tempo puoi venire a stare
da me –
Tom
dovette appellarsi a tutta la forza di volontà che possedeva per non
rispondergli con il suo proverbiale sarcasmo. Mai sentita richiesta più disperata, era l’osservazione che aveva
sulla punta della lingua, pronta a venir fuori, ma sospettava che non avrebbe
migliorato la situazione.
- E’… molto gentile da parte tua – si sforzò di rispondere. Si
rese improvvisamente conto che, se era quello lo stato
d’animo con cui sarebbe stato accolto, non aveva nessuna intenzione di andare a
stare da Bill.
Quest’ultimo
fece un gesto non ben definito con una mano. – Ecco, quindi… per te va bene? –
Patetico.
Questa fu l’unica parola che venne in mente a Tom, mentre guardava il fratello
prodursi in atteggiamenti di cortesia che lui, in tutta sincerità, non
desiderava. Sentì una morsa alla bocca dello stomaco, rendendosi conto che si
stavano comportando come due perfetti estranei. Ecco, sembravano due studenti
che, per forza di cose, si sarebbero ritrovati a vivere sotto lo stesso tetto.
Magari avrebbero scambiato qualche parola, ma non sarebbero mai stati legati da
un rapporto vero.
D’altro
canto, lo sguardo di Simone diceva chiaramente “vai, vai
prima che ci ripensi”.
Alzò le
spalle. – Non so. Ho solo una valigia, i vestiti che porto e tre giornali di annunci. Per te va bene? – Per un attimo,
l’evidente tensione di Bill fu tradita da uno sguardo interrogativo. – Sto cercando un lavoro – gli spiegò Tom. – Per evitare di,
diciamo, importunarti più di tanto –
Simone
alzò gli occhi al cielo.
- Ok, allora – concluse Bill, tornando a guardare in un punto
imprecisato alla sua destra. – Puoi restare… per qualche settimana – si affrettò ad aggiungere, come se a Tom potesse venire il
sospetto che avesse intenzione di trattenerlo per un anno. Vivere più di un
mese con un fratello che a malapena ti rivolge la parola non è il massimo della
felicità, avrebbe voluto dirgli, ma, per amor di pace,
si costrinse a sorridergli e annuì.
-
D’accordo. Grazie –
Bill non
rispose e si limitò a cacciare le mani nelle tasche dei
jeans. Sembrava al limite della sopportazione, come se
avesse scritto in fronte “sono arrivato fin qui, bene, lasciatemi in pace, non
ho intenzione di continuare”.
- Allora,
beh, andiamo – disse in fretta, rivolgendogli un cenno
nervoso. Simone sorrise raggiante, come se li avesse visti riabbracciarsi in un
mare di lacrime, e si sporse a baciare Bill su una guancia.
- Ci vediamo oggi pomeriggio – Lui annuì senza rispondere.
Dieci
minuti dopo, Tom era seduto in macchina accanto al fratello. Il trolley era stato sistemato nel portabagagli e l’aria era
densa di tensione.
Tom
avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa pur di spezzare quel silenzio
insopportabile, ma non gli venne in mente nessun
argomento che potesse tirar fuori senza far arrabbiare Bill. Si diede dello stupido quando ripensò ai tempi in cui si comportavano veramente
da fratelli, quando Bill attaccava a parlare senza sosta e lui finiva col
soffocarlo con il primo oggetto morbido a portata di mano. Se
solo avesse immaginato come si sarebbero ridotti anni dopo, l’avrebbe lasciato
straparlare all’infinito, anche solo per compensare quel silenzio opprimente.
Lo sbirciò
di sottecchi mentre lui guidava. Forse era colpa della
posizione innaturalmente composta, forse per l’espressione forzatamente concentrata, ma Bill sembrava veramente un’altra persona.
Era come se fosse diventato adulto tutto d’un colpo,
come se del bambino che c’era sempre stato in lui non fosse rimasto più nulla.
Tom si ritrovò a fissarlo come se lo vedesse per la prima volta, senza riuscire
a staccargli gli occhi di dosso. Non fece neanche caso agli impercettibili
movimenti che rivelavano che Bill si sentiva osservato.
- Sei diverso – disse senza nemmeno pensarci. Era immobile,
appoggiato allo schienale e con le braccia incrociate sul petto, il viso
rivolto verso il gemello. Quest’ultimo gli gettò
un’occhiata fugace, che fece riscuotere il biondo da quella sorta di torpore in
cui era precipitato perdendosi nelle sue considerazioni.
- Tu
invece non sei cambiato per niente – Il tono di Bill suonava
vagamente disgustato, e il ragazzo espresse quella considerazione dopo aver
gettato una veloce occhiata ai vestiti di Tom, come se quello fosse l’unico
indice a rivelargli che suo fratello non era “cambiato per niente”.
Il biondo si irrigidì sul sedile.
- Dì pure
per nessuno – replicò. – Per chi
avrei dovuto cambiare? –
L’altro
non rispose, seguitando a guardare la strada di fronte a sé. Era chiaro che non
voleva parlare, anche se a Tom sembrava di potergli
leggere in faccia tutta le accuse che aveva accumulato in quegli anni e che
avrebbe voluto rovesciargli addosso.
- Siamo
arrivati – disse tradenti.
Il biondo gli restituì uno sguardo astioso prima di scendere dall’auto. Quando
furono davanti alla porta di casa, notò che Bill sembrava non riconoscere
neanche la chiave con cui avrebbe dovuto aprire la porta, perché continuò a
passare in rassegna tutte le componenti del mazzo
prima di trovare quella giusta e spingerla nella serratura. Lo seguì
all’interno con una certa quale riluttanza, trascinandosi dietro il trolley. Bill accese la luce dell’ingresso e gli rivolse un
cenno che Tom interpretò come un invito a seguirlo in soggiorno.
Il primo
giudizio che riuscì a esprimere tra sé e sé per
quell’appartamento fu che sembrava piuttosto grande per un’unica persona. Se, come aveva immaginato, Bill viveva da solo, forse era
segno della non completa eliminazione dei suoi vecchi capricci o, più
semplicemente, del fatto che in quella casa doveva averci vissuto qualcun
altro, con lui.
- Che c’è, non è di tuo gradimento? – lo apostrofò Bill,
notando la sua espressione assorta. Tom si riscosse, infastidito dal tono con
cui gli si era rivolto.
- No,
stavo solo guardando. Non si
può? – Passò qualche altro secondo di silenzio prima che Bill ribattesse:
- Avanti,
la vuoi posare ‘sta valigia o no? – Gli voltò le
spalle e attraversò il soggiorno a passo di carica, lasciando che Tom lo
seguisse dopo qualche attimo di smarrimento. Attraversarono il corridoio, in
fondo al quale vi era una porta chiusa. Bill la aprì senza guardare né Tom né
l’interno della stanza. – Non è granché, ma tanto è una sistemazione
provvisoria. Puoi stare qui –
Tom
sbirciò all’interno. La stanza era piuttosto piccola e, nonostante la brandina sistemata in un angolo, non sembrava essere stata
concepita come camera da letto. Il poco spazio era occupato da due armadi
chiusi sopra i quali torreggiava un numero indefinito
di scatoloni polverosi. A completare il tutto, una finestra
al centro della parete, le cui persiane si presentavano rigorosamente serrate.
Tom posò la valigia sul letto, costringendosi a sorridere e fingendo di non
sentire la puzza di chiuso che lo aveva colpito alle narici fin da quando aveva messo piede nella camera. – Che dire, grazie –
- Vieni,
ti faccio… beh, vedere la casa – borbottò Bill,
seguitando a non guardarlo. – Per quando non ci sono, intendo –
Trattenendosi
dal ribattere che un giro turistico era l’ultima cosa che desiderava in quella
circostanza, Tom annuì e gli andò dietro mentre lui
attraversava nuovamente il corridoio. La prima stanza che vide dopo il
soggiorno e il ripostiglio –perché in altro modo non poteva definirsi- fu la
cucina. Bill parlò come se fosse stato davvero una guida turistica, come se
tutto quello non lo riguardasse affatto. – Quando non ci sono, puoi trovare qualcosa in frigo. Se no, il supermercato è a tre isolati da qui –
Reprimendo
una fugace visione di Bill con un carrello della spesa al traino, Tom annuì,
sforzandosi di rimanere serio. – D’accordo –
Bill fece
un gesto indefinito verso il corridoio. – Quello è il mio bagno – mugugnò, e
Tom realizzò che stava indicando la porta alla sua
sinistra, - quindi tu puoi usare quello là a destra –
- Sei ben attrezzato – non poté trattenersi dall’osservare. –
Ne ricevi tanti di ospiti? – Gli venne naturale usare
quel tono ironico: la situazione era talmente assurda… Bill contrasse la
mascella, ma continuò imperterrito a non guardarlo.
- Cazzi miei –
Tom alzò
un sopracciglio. – Capito – Si guardò intorno e scorse un’altra porta chiusa
dalla parte opposta del corridoio. – E lì che c’è? –
- Camera
mia – fu l’epigrafica risposta. Il tono di Bill, però, risultò
stranamente agguerrito. – Quindi vedi di girare al
largo! – Questa volta, Tom non poté frenarsi dallo sbuffare.
- Andiamo, Tom – disse stancamente. – Di che ti vergogni,
siamo fratelli! –
Di colpo,
il moro voltò la testa e puntò il proprio sguardo nel suo, riducendo gli occhi
a fessure.
- Dici? –
Tom
aggrottò le sopracciglia, ma non rispose. Non gli venne in mente nulla di
sensato da dire, e ad ogni modo aveva paura di uscirsene
con termini poco gentili –e, vista la situazione, non era proprio il caso. Bill
distolse quasi immediatamente lo sguardo, senza però perdere la sua espressione
accigliata. Guardò l’orologio che aveva al polso, come se cercasse
disperatamente una distrazione. – Devo andare a lavoro –
- Posso
almeno chiederti cosa fai da quando hai buttato il
microfono nella spazzatura? – replicò Tom con una non poco evidente nota di acidità. Bill lo fulminò con lo sguardo per la seconda
volta.
- Mi sono
rimboccato le maniche, io! – sottolineò
aggressivamente, prima di afferrare la giacca ripiegata su una sedia e dirigersi
nel corridoio a passo di carica. Lo schianto della porta sbattuta non tardò ad
arrivare, e Tom si lasciò cadere su una sedia, prendendosi la testa tra le
mani. Sembrava tutto dannatamente più complicato del previsto. Non che quel
“previsto” fosse tutto rose e fiori…
Decise di
seguire il consiglio di Bill e annegare la disperazione nel cibo, ma, quando
aprì il frigorifero, lo spettacolo che gli si presentò davanti agli occhi decisamente non lo incoraggiò: i ripiani erano praticamente
vuoti, e tutto quello che offrivano era un numero limitato di bottiglie
d’acqua, un cartone di latte e pochissimi altri generi di prima necessità,
oltretutto per niente allettanti. Richiuse lo sportello senza neanche prendere
in considerazione l’idea del supermercato: con tutto quello che gli avrebbe
fatto patire, il minimo che potesse fare Bill era
rifornirsi di provviste.
Attraversò
il corridoio con l’intenzione di andare in bagno e farsi una doccia, quando si
bloccò di fronte alla porta che Bill aveva etichettato come “camera mia”. La
percorse interamente con lo sguardo.
…camera
mia, quindi vedi di girare al largo!
La porta
era semplicemente chiusa, ma era come se attorno a quella maniglia ci fosse del
filo spinato.
…vedi
di girare al largo!
Eppure,
quella stessa maniglia sembrava invitarlo ad abbassarla…
…girare
al largo!
Tom scosse
la testa, come a scacciare quell’idea, e tirò dritto. Anche
il fatto che di bagni ce ne fossero due confermava la sua teoria: Bill non
aveva vissuto sempre da solo. Non in quella casa, perlomeno.
Non riuscì
a liberarsi di quei pensieri neanche dopo essersi spogliato e rifugiato nella
doccia, sotto il getto freddo dell’acqua.
Dov’era
Haylie? Dov’era la loro
bambina? E perché quel silenzio?
Che Bill
non avesse alcuna intenzione di tirar fuori l’argomento
era palese, ma lui doveva sapere… Erano fratelli, dannazione. Checché ne
dicesse Tom, erano fratelli.
Uscì dalla
doccia dopo un’abbondante mezz’ora, giusto in tempo per accorgersi che il bagno
non offriva altro che un unico, microscopico asciugamano. Rovistò nella valigia
in cerca di vestiti puliti, dopo essersi asciugato alla meno
peggio e aver passato in rassegna il suo intero repertorio di
imprecazioni. L’istinto gli suggeriva di usufruire del bagno di
Bill –e magari anche di lasciare tutto in disordine-, ma il solo pensiero dei
suoi strilli gli fece cambiare idea. Sistemò il trolley
in un angolo e si lasciò cadere sul letto, prendendo il giornale che non aveva
ancora finito di leggere: sarebbe stato meglio trovarselo alla svelta, un
lavoro.
…
Bastarono
meno di tre settimane per riportare Tom alla sua vecchia idea: avrebbe fatto
molto meglio a rimanere da sua madre.
Vivere con
Bill non era come stare sotto
lo stesso tetto con un estraneo: era stare sotto lo stesso tetto con un
estraneo, punto e basta. Forse il fatto che stesse quasi
sempre fuori era da considerarsi un aiuto. Perlomeno non lo costringeva
al silenzio forzato. Inoltre, durante le poche ore al
giorno che i due gemelli trascorrevano chiusi tra le quattro mura, Bill si
volatilizzava del tutto. Tom non si sarebbe stupito di vederlo scomparire nello
scarico, pur di non parlare con lui.
Meglio
parlare da solo che con Bill.
Buffo, considerato che il suo obiettivo era proprio quello: parlare
con Bill.
Peccato che quest’ultimo sembrasse avere tutt’altra opinione al riguardo.
I loro
brevissimi dialoghi, solitamente, avevano luogo la
mattina a colazione o la sera, sul tardi. Era capitato un paio di volte che
Bill, senza perdere il suo tono scontroso e tendente all’offeso, gli avesse chiesto come procedesse la ricerca di lavoro.
Beh, non
esattamente in questi termini.
- Allora,
te la sei trovata qualcosa da fare, sì o no?! –
Questa era
una domanda tipicamente mattutina. Bill gliel’aveva chiesto due giorni dopo il
trasferimento a casa sua, la settimana successiva e una decina di giorni più
tardi. La risposta di Tom non era cambiata: si sforzava di
non alzare lo sguardo, girava il cucchiaino nella tazzina del caffé e
sospirava:
- Ancora
no, ma non ci vorrà molto –
Deprimente.
Tutto quello era deprimente all’ennesima potenza. Tom ne prese tristemente atto
al diciottesimo giorno consecutivo che passava a casa del gemello. Erano le
otto di sera e si era appena riempito di una delle schifezze surgelate che Bill
aveva stipato nel freezer. Pensare che avesse imparato
a cucinare era troppo, in effetti.
Decise che
quella sera non lo avrebbe aspettato. Ovunque andasse
Bill, per Tom non era salutare aspettarlo per poi farsi squadrare come un
fastidioso intruso. Non era mai stato abituato ad andare a letto presto, ma pazienza,
si disse, qualcosa da fare la troverò.
Oltretutto non gli era dato sapere dove lavorasse Bill: avrebbe potuto chiedere
a sua madre, ma, in primo luogo, non gli andava per niente e, in secondo luogo,
non si erano più sentiti da quando era andato a stare
da lei. Sarebbe stato avvilente oltre ogni dire sentirsi rispondere che, coraggio,
poteva farcela.
Come ogni
sera da ormai diciotto giorni, si fermò davanti alla porta chiusa della camera
di Bill. Sempre che lo fosse davvero. Suo fratello vi
si chiudeva dentro a una tale velocità che per Tom era
impossibile sbirciare all’interno. Non seppe quale forza
non lo trattenne dall’abbassare la maniglia: forse era curiosità, forse era
incoscienza, forse era solo il desiderio di prendere parte anche solo a un
pezzo della vita di Bill, sta di fatto che la porta era ormai aperta e Tom
ancora esitava a mettere piede in quella stanza.
Cercò
l’interruttore della luce e lo premette: un attimo dopo, la camera fu
illuminata e Tom poté studiarla nei suoi punti essenziali. Era grande –troppo
per una sola persona-, occupata unicamente da un armadio, una piccola scrivania
con una sedia, un letto e un comodino. Tom avanzò pochi e lenti passi, fino ad
arrivare al centro, vicino al letto. Le tende erano tirate e dalla finestra non
filtrava neanche un filo di luce. Sembrava proprio che Bill fosse ostinato a
vivere in un sarcofago. Si avvicinò al comodino e ne sfiorò la superficie
ricoperta da un sottile strato di polvere, prima di accorgersi della cornice
appoggiata alla lampada spenta.
Socchiuse
gli occhi, mettendo a fuoco la fotografia posta dietro il vetro, e la sua mano
si mosse istintivamente in avanti. Prese la cornice stranamente tirata a lucido
e la avvicinò a sé.
Era una
foto formato standard. Uno scatto che metteva in risalto
quegli occhi scuri e quei capelli ramati che non avrebbe mai dimenticato.
Haylie…
Non vi era
nessun altro con lei in quella fotografia. Non sembrava neanche che fosse stata
ritagliata. Haylie era stata ritratta in una posa di
cui nessuno avrebbe mai messo in dubbio la naturalezza: era appoggiata a una ringhiera, teneva le braccia strette intorno al busto,
come se sentisse freddo, e i suoi capelli erano libera preda del vento, che li
scompigliava dando al suo volto –se possibile- un tocco di bellezza in più. E sorrideva. La testa era girata di tre
quarti verso l’obiettivo, gli occhi sembravano luccicare, anzi, tutto il
suo viso brillava di luce propria. Era uno sguardo sereno, rilassato, vivo.
- Hay… - Sussurrò il suo nome senza neanche rendersene conto,
sfiorando con i pollici i lati della cornice. Fu un richiamo sommesso e quasi impercettibile, ma Tom lo sentiva rimbombare dentro di sé,
al punto che gli impedì di accorgersi dello scattare della serratura. Neanche i
passi nel corridoio, per quanto leggeri, ebbero il potere di scuoterlo da
quella sorta di torpore in cui era precipitato.
- C-cosa stai facendo? – Tom sobbalzò
quando udì la voce di Bill alle proprie spalle. Voltò la testa, la foto
ancora stretta tra le mani, e vide il fratello guardarlo con occhi
spaventosamente vuoti e fissi. Bill mosse un passo verso di lui. – Ti avevo detto di non entrare – disse in un soffio.
Poi lo
sguardo gli cadde sul comodino. E Tom si voltò del tutto, rivelando una piccola
cornice in legno stretta tra le mani. E tutto accadde molto velocemente.
- Mettila
al suo posto! – esplose Bill, stringendo i pugni come se avesse voluto
picchiarlo.
Tom
deglutì, facendo un passo indietro. – Aspetta Bill, io non volevo…
- cominciò, ma non poté continuare. Bill si scagliò contro di lui e gli strappò
la cornice dalle mani, come se vederla toccata da lui per un secondo di più
potesse togliergli il respiro.
- NON DEVI
TOCCARLA! – urlò. – TI AVEVO DETTO DI NON ENTRARE! COSA
VOLEVI FARE? –
- Bill,
perché non… - azzardò debolmente Tom, senza successo.
- NON
DOVEVI FARLO! – continuò a gridare Bill, stringendo spasmodicamente al petto la
fotografia. – Esci di qui! Subito! – Senza aspettare
che il fratello obbedisse, lo spinse violentemente
fuori dalla propria camera.
- Bill, ti
prego, scusami! – I disperati appelli di Tom non
fecero che peggiorare la situazione.
- FUORI DI
QUI! – Bill sembrava completamente impazzito, le guance rosse, i pugni stretti,
i muscoli tesi: trascinò Tom verso lo sgabuzzino dove lo aveva sistemato
diciotto giorni prima. – Prendi le tue cose e vattene! Va’ via! –
Se non
fosse stato travolto così violentemente dal corso degli avvenimenti, forse Tom
avrebbe trovato la forza di chiedergli perché lo stesse aggredendo così solo
per una foto, ma in quel momento era troppo impegnato a cercare di non
lasciarsi sopraffare da Bill, dalle sue urla e dai suoi modi decisamente
poco delicati.
- Ma perché?! – Continuò a chiederglielo anche quando Bill gli gettò praticamente addosso la sua valigia e i pochi averi che
aveva lasciato sul letto, quando lo spintonò fino all’ingresso e quando
spalancò la porta, indicando minacciosamente il vialetto davanti casa.
- VATTENE,
CAZZO! VATTENE VIA! – sbraitò. Non aspettò neanche che Tom uscisse, lo spinse
fuori e gli sbatté la porta in faccia. Si voltò e si accasciò con la schiena
sulla parete, cercando di ignorare i richiami del gemello e i pugni sferrati
sul legno, poi si allontanò a passo svelto, tappandosi le orecchie con le mani.
Si chiuse
in camera e si gettò sul letto, coprendosi il viso con una mano e rendendosi
conto di aver cominciato ad ansimare. Rimase qualche minuto ad occhi chiusi,
cercando di regolarizzare il respiro, poi si rannicchiò su un fianco e strinse
al cuore la cornice.
Voleva
piangere. Tutto quello che voleva era scoppiare in lacrime e singhiozzare fino a inzuppare il cuscino, ma era come se quelle lacrime si
fossero bloccate a metà strada. Qualcosa gli si era spezzato dentro
nell’istante in cui aveva scoperto Tom con la fotografia in mano, e si era
sbriciolato del tutto quando l’aveva messo alla porta.
Dall’altra
parte dell’uscio, Tom non era riuscito a capire che un’unica cosa: forse, Haylie era morta davvero.
“Un dejà vu mentre
guardo una foto di colpo mi assale
io riconosco il tuo volto e il mio
istinto ti viene a cercare
e questa volta giuro sono sicuro,
sicuro sei l’unica
Posto
anticipatamente in previsione di un periodo in cui non mi sarà possibile
aggiornare (né tantomeno leggere le recensioni, sigh sigh).
Oltre a
ripetervi che la canzone in uso è sempre “Nessuno” di Raf,
e anche se non ve ne importerà un fico secco, vi comunico che ho appena
comprato il suo nuovo cd “Metamorfosi” *_* Quindi, mentre mi lasciate un commentino (perché lo FARETE, vero? *sguardo folle*)
incrociate le dita per un suo ipotetico concerto.
Un
ringraziamento speciale alla mia sore, presente
sempre e comunque ^_^
Queste
erano le parole che Tom si era ripetuto almeno qualche centinaio di volte nei
due giorni successivi. Tornare a casa di Simone era all’ultimo posto nella
lista dei suoi desideri, ma, dato che le circostanze
sembravano voler decidere per lui, non aveva avuto altra scelta. E così, a testa bassa e con il cervello pieno di tutte le
maledizioni che avrebbe voluto lanciare più addosso a se stesso che a Bill,
suonò il campanello di casa Trümper.
La prima
cosa su cui cadde lo sguardo di Simone, naturalmente, fu il trolley.
- Tom,
cosa… –
- Posso
entrare? – la interruppe stancamente Tom.
La donna
non sospirò né alzò gli occhi al cielo: si limitò a farsi da parte per
lasciarlo passare, perché immaginava fin troppo bene il motivo della visita di
suo figlio. Tom la sorpassò a passo strascicato, senza dire una parola e
guardando fisso di fronte a sé. Finché poteva
risparmiarsi gli interrogatori, ne sarebbe stato ben felice. Si diresse nella
camera dove Simone lo aveva precedentemente sistemato,
i primissimi giorni dopo il suo arrivo, e prese a mettere a posto la propria
roba con movimenti meccanici, senza mugugnare tra sé e sé, senza aspettare che
sua madre gli arrivasse alle spalle, anzi, senza aspettare niente.
Qualsiasi
cosa avesse voluto aspettare, non sarebbe arrivata.
“Vattene”.
“Prendi
le tue cose e va’ via”.
Richiuse la zip della valigia con un colpo secco, poi la posò a terra
e si lasciò cadere sul letto senza neanche togliersi le scarpe.
- Tom? –
Ecco.
L’ultima speranza di scollegare il cervello e lasciarsi trascinare nel
meraviglioso nulla infinito si era sbriciolata definitivamente. Tom non rispose
né aprì gli occhi: rimase steso sul letto a braccia incrociate e non diede
segno di aver sentito il debole richiamo di sua madre.
Sentì però
il materasso abbassarsi quando lei si sedette sul bordo. – Cos’è successo stavolta? –
“Non
devi toccarla!”
“Ti
avevo detto di non entrare!”
Tom
socchiuse gli occhi e guardò sua madre attraverso le ciglia. Simone gli
restituì uno sguardo preoccupato.
“Esci di qui!”
“Subito!”
- Mamma… Haylie è morta, vero? –
Per un
attimo, alla preoccupazione si aggiunse un accenno di confusione sul viso di
Simone.
- Bill non
te l’ha detto? –
Tom la
guardò per un istante ancora prima di richiudere gli occhi e lasciare che la
testa affondasse nel cuscino. Era stato uno stupido, come sempre. Non aveva
capito nulla, come al solito.
Sì, Bill
gliel’aveva detto. Ma lui aveva preferito prenderlo come uno dei suoi deliri
momentanei piuttosto che affrontare la possibile –e ora indissolubile-
verità di quelle parole. Di cosa si stupiva, allora? Come poteva
meravigliarsi del fatto che suo fratello lo odiasse? Perché
Bill lo odiava, questa era una certezza.
Come
poteva stupirsi che Haylie non l’avesse mai amato? O che in quegli ultimi tre anni non avesse più trovato
nessuno a cui appoggiarsi? Era ovvio… così dannatamente, schifosamente ovvio.
La mano di
Simone si posò sul suo ginocchio, lo strinse con
delicatezza. – Tom… -
- Bill mi
ha cacciato fuori di casa – La voce gli venne fuori
strana, monocorde. Sembrava che, all’improvviso, non fosse più capace di mostrare nessun sentimento, di provare alcuna emozione. O forse non voleva più provarne.
- Perché ha…? –
- Sono
entrato in camera sua. Ho trovato una foto di Haylie, l’ho presa in mano… - Non erano rivolte a
sua madre, quelle parole, no. Non erano rivolte a nessuno, neanche a se stesso.
- …mi ha buttato fuori –
- Oh, Tom
– mormorò Simone, muovendo piano le dita sul suo ginocchio, in una carezza che
lui non riuscì nemmeno a percepire. Trovò solo la forza di chiederle:
- Quando è successo? – Sua madre si lasciò andare a un lungo sospiro.
- Sei mesi
fa. Haylie è morta, così come la bambina che avrebbe dovuto nascere dopo che tu te ne sei andato. Bill
non è riuscito ad accettarlo, soffre come se fosse successo
ieri… - La donna chinò il capo e Tom lesse nel suo viso una sofferenza
profonda causata da quel ricordo. Si mise lentamente a sedere e le accarezzò un
braccio.
- Va bene,
dài. Basta così – Simone lo guardò
con occhi colmi di tristezza, poi lo abbracciò. Tom ricambiò la stretta senza
volerlo davvero fare: non vi trovò nessun conforto e pensava di essere il meno
adatto a consolare sua madre, ma la abbracciò anche lui perché semplicemente
gli sembrava l’unica cosa sensata da fare.
Non voleva
sapere come era morta Haylie.
Non voleva sapere se avesse sofferto o meno, non
voleva sapere come aveva reagito Bill. Non voleva saperlo da sua madre. Avrebbe
voluto che fosse suo fratello a raccontarglielo ma, dato
che questa possibilità sembrava quanto mai remota, la cosa migliore era cercare
di dimenticare tutto e ricominciare da capo, per quanto possibile.
E così
fu. La prima cosa che Tom fece fu applicare il consiglio di Gordon, ovvero prendere una qualsiasi pagina di annunci, chiudere
gli occhi e puntare il dito a casaccio. Pur non
seguendo quelle precise modalità, Tom si affidò totalmente al caso e rimediò un
posto dietro al bancone di un bar non molto lontano da lì.
Niente
discoteche. Niente locali notturni, niente posti equivoci,
niente di niente. Solo gente comune in un bar
comune di una città comune. Tutto orribilmente normale, insomma.
Tom si era
sentito stranamente inquietato al primo incontro con quello che sarebbe poi
diventato il suo datore di lavoro. Aveva catalizzato tre informazioni
essenziali: era grosso e nerboruto, puzzava di stracci vecchi e possedeva una
voce da cavernicolo. Il resto non era poi granché importante. Gli aveva
spiegato in un tedesco degno di un extracomunitario i punti sostanziali della
manutenzione del locale e altri trascurabilissimi –per come la vedeva Tom- impegni che avrebbe dovuto assumersi, poi aveva
gettato uno sguardo incerto ai suoi vestiti, gli aveva consegnato, o meglio,
gettato addosso un grembiule di un improbabile bordeaux e l’aveva liquidato con
un “cominci domani”.
Al già
consistente sconforto provocatogli da un ennesimo esame di coscienza si
aggiunse il ricordo appena sfumato di nostalgia dei suoi vecchi amici, GeorgListing e GustavSchäfer, nonchébassista e batterista degli
ormai estinti Tokio Hotel. Tom non riuscì a non pensare anche ai loro, di ideali distrutti. La verità era che, da quando avevano
cominciato, tutti e quattro avevano sempre creduto fermamente in quello che
facevano. Checché ne dicesse la gente, non erano i
soldi a mandarli avanti. Non erano i contratti, non erano
i servizi fotografici.
Erano gli
applausi. Erano i riconoscimenti, era l’amicizia, era il credere in qualcosa.
Qualcosa che magari un giorno sarebbe finito, qualcosa che non sarebbe durato
per sempre, ma che c’era, era tangibile, vero.
Una volta,
certo.
Erano
bastate poche e brevi ricerche per scoprire che Gustav
e Georg vivevano anch’essi ad Amburgo, e neanche ad
un’eccessiva distanza. Per un attimo, quando Tom si trovò i due indirizzi
davanti agli occhi, era stato preso una strana
tentazione. Aveva lanciato uno sguardo al telefono sistemato al centro del
tavolino in soggiorno, proprio accanto al divano su cui si era appollaiato con
il computer portatile. Ma era bastato fissarlo per più
di cinque secondi per far crollare tutti i suoi buoni propositi. Non era
escluso che anche loro non covassero bei ricordi.
Con sua
madre, non aveva più parlato di Bill. Non era stato neanche nominato, a dire il
vero. Non si erano incontrati, tra di loro non vi era
il minimo contatto. E così Tom aggiunse un'altra manciata
di giorni ai tre anni che aveva passato senza un fratello.
In
conclusione, era solo. Di nuovo e, forse, per sempre.
…
Il primo giorno dopo lo “sfratto”, Bill si sentiva esausto. Sembrava
che, tutt’a un tratto, le
forze l’avessero abbandonato e che non avessero la minima intenzione di
tornare.
Si sentiva inquieto, più del solito. Non era l’aver buttato Tom fuori
di casa, non era la sua assenza, non erano le occhiate cariche di rammarico vagamente
misto a rimprovero che Simone gli rivolgeva.
Trovare Tom nella sua camera, con quella cornice tra le mani, aveva
fatto scattare una molla dentro di lui. Ora non aveva più il suo universo
privato, non aveva un luogo dove rifugiarsi senza sentirsi scrutato da
centinaia di occhi immaginari e puntato a dito da
altrettante mani invisibili. Tom non lo sapeva, certo. Non aveva fatto altro
che calpestare il pavimento di quella stanza e toccare la fotografia di Haylie. Ma adesso, era come se
anche lui potesse vedere. Come se potesse sapere tutto senza rendersene
conto.
Aprì
gli occhi lentamente. Sapeva già cosa avrebbe visto.
Voltò
piano la testa, socchiudendo le palpebre a causa dell’impatto con la luce del
sole che ora riempiva la camera. Doveva aver dormito più del previsto.
Una figuretta dai contorni sbiaditi si stagliava contro
quell’esplosione di luce. A Bill occorse qualche
secondo per metterla a fuoco: Haylie era
raggomitolata al suo fianco, seduta con la schiena sui cuscini, le gambe
raccolte al petto e le braccia avvolte intorno ad esse, il mento appoggiato
sulle ginocchia. Si mise a sedere anche lui, con un po’ di fatica, ancora
gonfio di sonno.
La
luce non era poi così forte.
- Haylie… - La ragazza voltò la testa verso di lui, gli sorrise. Ma lui aveva già
capito. Quello era il sorriso che voleva nascondere un carico di pensieri
troppo imponente. - …ci stai ancora pensando? –
Lei
sbatté le palpebre, come confusa, senza perdere quel sorriso innaturale. –
Pensando…? A cosa? –
- A
quello che ti ho detto ieri –
Haylie sospirò lievemente, appoggiando una
guancia sulle ginocchia.
- Sì,
in verità ci stavo pensando – Bill serrò le labbra,
sentendosi in colpa. Come aveva immaginato.
-
Ascolta, mi dispiace – disse, scostandole la frangia
dagli occhi. – Non dovevo, lo so. Ma…
-
-
Bill, dài – Haylie sorrise
di nuovo, e questa volta parve quasi divertita. – Il cervello purtroppo esiste, almeno lo uso, no? –
- Dico sempre la cosa sbagliata – disse lui sottovoce,
abbassando un po’ la testa. Haylie sciolse la stretta
sulle proprie gambe e gli si avvicinò, cingendogli la vita con un braccio e
sfiorandogli una guancia.
-
Tesoro, cosa dici? – mormorò, accarezzandolo lievemente. – Non è vero. Devo
solo pensarci un po’, ma è giusto che tu me l’abbia detto. Io capisco, sai…
dopo quello che è successo… - La sua espressione
assunse una sfumatura di tristezza, e Bill le prese il viso tra le mani.
- Va bene – sussurrò sorridendo. – Va bene così, Haylie. Sappi solo che, se non vuoi, io non avrò niente in
contrario, d’accordo? – Haylie sorrise, come
sollevata, e posò una mano sulla sua.
-
Dammi solo un po’ di tempo, ok? – Bill si sporse per sfiorarle la fronte con un
bacio.
-
Tutto quello che vuoi –
Bill si riscosse di colpo. – Come? –
Sua madre aveva ancora quell’espressione corrucciata. – Ti stavo
chiedendo per quanto pensi di andare avanti così –
Il ragazzo sentì di colpo tutta
l’insofferenza che doveva aver provato fino a pochi secondi prima di perdersi
nei meandri della propria mente. – Grazie della comprensione. Davvero. Sono commosso – disse tra i denti, cancellando l’ennesimo
nome dall’agenda con un veloce tratto di penna.
Simone sospirò, e Bill avrebbe fatto lo stesso, se solo quei sospiri
non gli avessero dato l’impressione di scandire le sue
giornate, più pressanti delle lancette di un orologio. – Qui non si tratta di
comprensione, ma di agire secondo certi principi –
Ecco che tornava la severa impunita.
- Tipo quello della privacy – ribatté lui,
stringendo nel pugno la penna come se avesse voluto disintegrarla.
- Sei mio figlio, esattamente come Tom – insorse Simone con quel tono
autoritario che non le si addiceva per niente. – Non
puoi pretendere che stia a guardare mentre vi
comportate come due ragazzini! –
- Avanti, cosa c’è adesso? Cosa devo fare? –
Nel tono di Bill non vi era alcuna traccia di rabbia, sarcasmo o solo irritazione. Suonava semplicemente stanco…
irrimediabilmente stanco.
- Lo sai –
- No, mamma. Non lo so – Faceva quasi paura
sentire quelle frasi pronunciate con quel tono basso e monocorde. Era così: a differenza
di pochi anni prima, Bill non si impappinava mai nel
parlare, non balbettava, non vi era una sola imperfezione nel suo modo di
esprimersi, che tuttavia risultava talmente vuoto e impersonale da dare
l’impressione che fosse un computer a parlare. – Non ho idea di quello che devo
fare, non so cosa devo pensare, non so con chi devo
parlare, né di cosa dovrei parlare. E non ne ho
neanche voglia, mamma. Vorrei che tu lo capissi –
Simone rimase immobile a guardare il figlio seduto di fronte a lei,
con i gomiti appoggiati sulla scrivania e le dita mollemente intrecciate
sulla superficie lignea, senza alcun vigore, senza nessuna forza. Avrebbe
voluto rispondere, ma non sopportava il pensiero di
potersi sentire tanto… inadeguata, di fronte a lui.
- Non voglio compassione, non voglio che tu
mi consoli. Non voglio che nessuno lo faccia. Non ne ho
bisogno, non serve, lo capisci? Così come non serve che io stia a psicanalizzarmi. Non ho bisogno di nulla, mamma, e
anche se mi servisse qualcosa, non c’è nessuno che
potrebbe darmelo –
Il silenzio che seguì soppesò ogni singola parola pronunciata da Bill,
ma solo una di quelle continuò a rimbombare insistentemente nella testa di
Simone.
Nessuno.
Dunque, chi
era lei?
Bill non si mosse né la guardò: rimase fermo nella sua posizione, con
le dita intrecciate sulla scrivania, il busto leggermente inclinato in avanti.
Simone chinò il capo, con una mezza idea di alzarsi e andare via, ma
il silenzio fu spezzato poco dopo.
- Ah, un’altra cosa. Tu vuoi che io riaccolga Tom in casa, vero? –
Non rispose. Non aveva alcun senso.
- Certo che lo vuoi… Sai cosa ti dico, mamma?
Va bene. Sì, va bene, gli dirò di tornare da me, se è questo che volete. Sai… a
me non cambia nulla. Non voglio vedervi tutti… corrucciati e preoccupati. Se è questo che volete, lo farò. Se dovesse
servire a farti sentire più tranquilla, se Tom dovesse mettersi l’anima in
pace… allora ok, d’accordo, tornerà a casa mia –
Bill si spinse lentamente con la sedia indietro e si alzò quasi senza
far rumore. Prese la giacca, la indossò, rimise la
sedia al suo posto.
- Adesso sarete soddisfatti, no? Voice l’avete,
quello che vi serviva. Sai, sono… contento, davvero.
E’ bello pensare che basti così poco per mettersi
l’anima in pace – Simone seguitò a non rispondere, il capo chino, una mano
sugli occhi. Bill non si stupì di non provare nessun sentimento nel guardarla.
– Ciao, mamma –
…
- Ohè, è con te che sto parlando! –
- Eh? – Tom riuscì a salvare appena in tempo una tazzina di caffé da
una rovinosa caduta, e prestò la propria attenzione al richiamo che il suo
“capo”, tale Hans, gli aveva rivolto.
- E’ passato uno che ti cercava – Tom non poté
che stupirsi di quella rivelazione.
- Ah. E chi era? –
- Che ne so, non mi ha detto il nome. Uno
alto e secco, coi capelli neri lunghi –
…Bill era venuto a cercarlo?
- Non gli ha detto che sarei arrivato nel
pomeriggio? –
- Sì, ma non ha voluto aspettare. Mi manda a dirti
che puoi tornare da lui - Il ragazzo registrò l’informazione senza impedirsi di
pensare che Hans doveva avere le traveggole. – Chi è,
il tuo ragazzo? – ironizzò l’uomo, producendosi in un’orrenda risata
sgangherata. Tom era troppo preso dal messaggio che gli aveva riferito per
prestare attenzione a quella battuta di pessimo gusto. Si riscosse
improvvisamente.
- No, è mio fratello – Rimase qualche secondo
a pensare. – Mi scusi, potrei uscire prima, oggi?
Tipo… adesso? –
- Andiamo bene, manco una settimana di lavoro e già siamo ai permessi
–
- E se domani faccio orario continuato? – Hans si fece meditabondo e Tom non poté trattenersi dal
considerare che quell’espressione non gli si addiceva affatto.
- Mmh… Vabbè. Si può fare –
Cinque minuti dopo, Tom aveva già composto il numero dell’agenzia di
sua madre. Non gli andava di inseguire Bill in capo al mondo. – Pronto? – rispose
lei, con una voce stranamente mesta.
- Mamma, sai dove posso trovare Bill? – Si aspettava che lei gioisse a
quella domanda, ma non fece altro che rispondergli:
- Sì, è qui – Pausa. – Vuoi che te lo passi? –
- No, sto arrivando –
Lungo la strada, Tom non poté fare a meno di chiedersi cosa andasse a
fare Bill all’agenzia di viaggi della loro madre. Certo, la
morte di Haylie spiegava tante cose… Come per
esempio il vuoto che sentiva improvvisamente dentro di sé.
La risposta se la trovò davanti quando le
porte dell’agenzia Trümper si aprirono e lo sguardo
di Tom cadde sull’individuo seduto dietro il bancone, al posto più vicino
all’entrata: Bill.
- Tu… tu lavori nell’agenzia di
viaggi della mamma? – boccheggiò. Tutto avrebbe pensato, meno che questo.
- Qualcosa in contrario? – Bill non alzò gli occhi dal foglio su cui
stava scrivendo.
- Hai deciso di rivoluzionare del tutto la tua vita, eh? – Il tono di
Tom non poté che risultare sprezzante. – Beh certo,
ora non puoi neanche degnarti di venirmele a dire in faccia, le cose –
La testa di Bill si sollevò di qualche centimetro, e il moro alzò lo
sguardo verso il gemello. – Allora in qualche cosa ci somigliamo, no? –
Tom si appellò a tutta la sua forza di volontà per non dargli una
rispostaccia delle sue. Continuava a ripetersi che suo fratello aveva sofferto,
stava soffrendo ancora e che quello era il suo modo di
sfogarsi. Ma qualcosa in lui si era incrinato, forse nel momento in cui Bill
l’aveva cacciato fuori di casa, o forse quando Hans gli aveva riferito il suo messaggio. – Perché gli
hai detto che posso tornare? – Bill sospirò
stancamente.
- Non mi sembrava talmente rilevante da dover richiedere un colloquio
a porte chiuse –
- Intendevo, perché dovrei tornare? Te l’ha
imposto mamma? –
- No, Tom – Era la prima volta da quando si
erano rivisti che il biondo si sentiva chiamare per nome dal gemello, e questo
gli fece una certa impressione. Sembrava che Bill non stesse parlando realmente
con lui. – Nessuno mi costringe a fare nulla. Dico solo che puoi venire a stare
da me, se vuoi –
- E quando mi butterai fuori, la prossima
volta? – Tom incrociò le braccia sul petto. Si detestava profondamente, ma
proprio non riusciva a mostrarsi gentile e comprensivo.
L’altro sospirò pesantemente, e Tom non poté non pensare che il
fratello sembrasse tutt’a un
tratto vecchio.
- Senti, io non voglio né litigi né disordini, quindi… mettiamo le
cose in chiaro fin da subito – Anche il suo tono era
basso e fiacco come quello di un anziano. – Tu vieni a stare
da me. Io mi faccio la mia vita, tu ti fai la tua. Non… non c’è nessun motivo per cui non dovrebbe essere così, quindi è così che
sarà –
- Non ha senso – disse Tom. – Perché devi
fare così, Bill? Perché non mi dici cosa ti ho fatto?
Se è ancora per quella lettera, io… - L’espressioni di
Bill si indurì appena.
- Se ti va bene così, è così e basta. Non ho
patteggiamenti da offrirti –
- Perché non parli mai di Haylie?
Perché non vuoi… - Le domande di Tom furono interrotte
da un rumore forte e secco: Bill aveva sbattuto violentemente il pugno sul
tavolo.
- Questo… non ti riguarda – disse tra i
denti.
- Quindi, la condizione è questa, giusto? Io
posso stare da te se non si parla del tuo passato, no? Posso stare certo di non
venire sfrattato se ci comportiamo da estranei –
Bill strinse entrambi i pugni. – Se ti sta bene
–
Mille possibili risposte attraversarono la mente di Tom, una più
velenosa dell’altra. Non aveva nessun senso, sarebbero
rimasti due estranei a vita.
Non seppe quale forza sconosciuta lo spinse a pronunciare quelle
parole in risposta, lentamente e con tono incolore.
- Sì, mi sta bene –
“Come cercar di fissare un punto sul fondo del mare
in fondo ognuno ha qualcosa o qualcuno da dimenticare
e questa volta giuro sono sicuro,
non c’è nessun altro al mondo che possa colmare il vuoto che è in me”
(Raf, “Nessuno”)
Chissà che
questo piccolo colpo di scena non serva ad attirare qualche commentatore in
più! ^_*
Tom si
ritrovò a benedire lo scattare della serratura: perlomeno, aveva spezzato il
silenzio che era calato pesantemente da oltre mezz’ora. Solo per una frazione
di secondo, certo, ma era pur sempre qualcosa.
Quella
volta, Bill non gli fece cenno di seguirlo, non lo guardò,
non alzò neanche la testa. Si limitò a rimettere le chiavi nella tasca
dei pantaloni e ad entrare nell’appartamento, seguito a ruota dal gemello. Non
appena si trovò nell’ingresso, Tom si sentì come se fosse tornato nella casa in
cui aveva vissuto per dieci anni: forse era semplicemente colpa dei diciotto,
pesantissimi giorni che vi aveva trascorso.
Osservò di
sottecchi Bill sfilarsi la giacca e appenderla all’attaccapanni all’entrata e
si sentì cogliere da un improvviso e violento senso di desolazione.
Nessuno
dei due avrebbe fatto il primo passo. E sarebbero
andati avanti così per sempre, immersi nel silenzio, in un mare di ricordi e di
cose non dette.
No, non
poteva sopportarlo.
- Senti… -
esordì in tono piuttosto burbero. Lui stesso se ne stupì, soprattutto
quando Bill voltò di poco la testa come per ascoltarlo, ma non lo guardò
in faccia. – Volevo dirti… - Cosa voleva dirgli? Ce
n’erano milioni, di cose da dire. Avrebbe voluto, anzi no, dovevadirgli che gli era mancato, che non sopportava di vederlo
star male, che avrebbe voluto sentirsi ancora un fratello per lui, che sarebbe
stato ore ad ascoltarlo se solo avesse voluto sfogarsi, che Haylie
mancava anche a lui. Avrebbe potuto elencare in ordine quei punti, o pescarne
uno a caso,perché
erano tutti veri, intrisi di quella sincerità che ora non riusciva a
dimostrargli. - …grazie, ecco –
Deglutì, in attesa di una risposta. Magari sarebbe bastato poco per
ammorbidire Bill. Doveva solo riabituarsi al fatto che ora Tom fosse lì, che
fosse lì per lui, e allora sarebbe stato tutto più
facile. Magari quel tanto agognato passo avanti l’avrebbe
fatto lui.
Il moro si
strinse nelle spalle, arricciando le labbra come faceva sempre
quando non aveva niente da dire. – No, figurati –
Tom si lasciò
sfuggire un piccolo sospiro di delusione. Già, cosa
poteva aspettarsi?
Bill
sembrò cogliere l’occasione per avanzare una questione altrimenti troppo
difficile. Non erano i dialoghi il problema, erainiziarli.
– Ascolta, so che quello stanzino non era il massimo della comodità… -
- Eh – Tom
non poté fare a meno di annuire e alzare le spalle.
- …ma non ero preparato –
- Figurati
– Il biondo fece un gesto rapido con la mano. – L’importante è poter dormire. Dove, beh, non conta poi molto –
- Insomma,
c’è poco spazio, è quasi senza luce e puzza pure un po’ – Il biondo cercò di
trattenersi dal ribattere “finalmente te ne sei accorto”. Stavano
parlando, era già qualcosa. Sempre pura e semplice cortesia,
sempre sorrisi tirati se non completamente assenti, ma era pur sempre un
inizio… anche se Bill parlava come se ogni parola fosse stata calcolata e necessitasse di un notevole sforzo psichico per essere
pronunciata.
- Non
importa – gli assicurò, ma Bill fece spallucce una
seconda volta. Cercava di comportarsi come se tutto quello non lo riguardasse,
ma si stava dimostrando più difficile del previsto.
Quello che
stava per dire gli faceva quasi paura. Non avrebbe dovuto essere niente di che,
per due fratelli, ma non poteva farci nulla: il solo pensiero lo metteva a
disagio. Prese un bel respiro.
- Possiamo
spostare il tuo letto nella mia camera –
Tom lo
guardò corrugando le sopracciglia, era chiaro che non se lo sarebbe
mai aspettato. Come del resto Bill si era aspettato quella reazione. Lui stesso
aveva faticato a capacitarsi che quell’idea fosse nata
davvero dalla sua testa, ma, da un lato, cercava di convincersi che fosse…
giusto, quasi.
In fondo,
Tom aveva violato quel suo piccolo universo privato. Ormai per lui non esisteva
più, un universo privato, dunque, tanto valeva che cominciasse ad abituarsi
all’idea. Non poteva scappare dal passato, dai ricordi e neanche da se stesso,
quindi non doveva importare poi tanto che quel suo piccolo rifugio venisse intaccato.
- Non ce
n’è bisogno – tentò di opporsi il biondo.
- A me non
cambia nulla – puntualizzò Bill in tono indifferente.
– C’è più spazio, però. Per te dovrebbe essere meglio, no? –
In realtà
non lo sapeva, cosa potesse essere meglio per il
gemello. Non sapeva più niente di lui, gli pareva di
non aver mai avuto un fratello, quasi. Ma forse, se
Tom avesse pensato che perlomeno lui si sforzava di capire cosa volesse, la
convivenza sarebbe stata più civile.
- Beh, se
non ti dà disturbo… - abbozzò Tom.
- Tanto è
solo per la notte – concluse Bill, come se avesse voluto chiudere il discorso
con un “e comunque non me ne importa nulla”.
- Allora,
beh, ok – disse Tom titubante. Subito dopo, ebbe una fugace visione di Bill che
trascinava una brandina in giro per la casa, in un
lago di sudore. – Ti aiuto a… spostare il letto, sì? –
Il moro lo
guardò come se quella fosse la proposta più stravagante che avesse mai sentito.
– Oh. Beh, d’accordo –
Se le circostanze non fossero state quelle che invece erano, Tom
sarebbe scoppiato a ridere nel vedere Bill tentare goffamente di sollevare il
letto afferrandolo saldamente per la rete. Ma la verità era che in
tutta quella situazione non c’era un solo particolare di cui poter ridere.
Neanche quando trascinarono la brandina per il
corridoio e Bill sbatté con la schiena sullo stipite della porta, o quando la
posarono a terra e Tom si pestò un dito, facendolo diventare immediatamente di
una preoccupante tonalità violacea.
Il biondo
si raddrizzò, massaggiandosi la schiena.
– Insomma,
è ok. Andrà bene – constatò, controllando che la brandina non risultasse storta rispetto al muro.
Per un
attimo, non notò che Bill aveva stretto i pugni e abbassato la testa. Poi lo
vide, e gli sembrò persino che fosse scosso da un tremito.
- No, non
andrà bene –
Pronunciò
quelle parole come se gli fosse costato uno sforzo immane, come se le sue corde
vocali fossero carbonizzate e lui volesse costringerle a lavorare. Tom inclinò
la testa di lato, tornando a guardare il letto.
- Se non ti va bene, possiamo riportarlo nello stanzino –
Il suo
sguardo si posò nuovamente su Bill, e lo vide contrarre i muscoli del viso. –
Non è questo –
- E allora cos’è? – gli chiese, sinceramente confuso. Sembrava
quasi che si stessero comportando come due persone normali. Non
come fratelli, ma almeno come… conoscenti. E
allora…?
Bill socchiuse
gli occhi e strinse le labbra, come se sentisse dolore da qualche parte. – Non
andrà mai bene, mai. Niente andrà bene, lo sai
anche tu. Vivremo sotto lo stesso tetto e non cambierà nulla, non saremo mai
fratelli… - Si irrigidì, ogni parte del suo corpo
fremeva. - …e tu mi mentirai ancora – Tom trattenne il
fiato quasi senza rendersene conto e il tono di Bill si alzò all’improvviso. –
Hai detto che andrà bene, e invece no, non andrà mai
bene! –
Tom lo
guardò attonito, le labbra socchiuse, le sopracciglia aggrottate. Cosa poteva aver detto di tanto terribile, cosa aveva
sconvolto quel fragile equilibrio?
- …ti
mentirò ancora? –
- Sì, come
hai sempre fatto – Pareva che Bill volesse correre via
da quella stanza sbattendo la porta, ma che i suoi piedi fossero incollati al
pavimento.
Il respiro
di Tom si fece appena più pesante mentre stringeva i
pugni. Ecco, dunque. Ecco qual era il problema, quale sarebbe stata per sempre
la loro croce. – Ah, è questo…? –
Bill non
rispose, ancora fermo al suo posto, quasi nella stessa identica posizione di
Tom. Quest’ultimo tirò un profondo respiro, mandò giù
il nodo che gli stringeva la gola e chinò la testa, come se volesse
concentrarsi, pensare bene prima di parlare. Ma a quel
punto non c’era più niente da pensare.
- Dici che ti ho sempre riempito di bugie, eh Bill? E’ questo
che pensi – Soppesò ogni parola, le scandì lentamente
per paura di lasciarsele sfuggire. – Forse hai ragione, chi lo sa? Non era mia
intenzione, ma forse è vero quello che dici. Allora,
sai cosa facciamo? Per una volta te la dico, la verità –
Ma
quale verità, in fondo? Ce n’erano troppe per poterne scegliere una a caso.
Forse era la più grossa, la più dolorosa, quella che doveva scegliere. Quella per cui Bill si sarebbe infuriato e l’avrebbe picchiato,
quella che gli avrebbe ridotto il cuore come un foglio di carta appallottolato.
Scegliere,
poi… Cosa poteva mai scegliere?
- Te la
dirò, la verità. Io Haylie la amavo davvero –
Non ci fu
una raffica di insulti o pugni in risposta a quella
domanda. Ci fu un lamento sommesso, un gemito straziante, che coincise con il
momento in cui Bill si prese la testa tra le mani, incurvando le spalle come se
volesse proteggersi da una scarica di bastonate.
- Non… tu
non puoi… - ansimò, stringendosi la testa fino a conficcarsi le unghie nella
carne. Tom si sarebbe aspettato di vederlo scoppiare a piangere da un momento
all’altro, ma, quando Bill alzò la testa e incrociò il suo sguardo, vide solo due immensi occhi nocciola talmente disperati da
non riuscire a buttare fuori neanche una lacrima. – Non… pronunciare quel nome…
- soffiò, stringendo tanto forte i pugni da far sembrare che le ossa potessero
lacerargli la pelle e schizzare fuori dalle sue mani.
– Non pronunciare quel nome! – gridò
infine, prima di correre fuori dalla stanza lasciando
Tom immobile e annichilito. Chiuse gli occhi quando
sentì lo schianto della porta d’ingresso.
Si voltò
lentamente verso la parete e alzò una mano fino a
sfiorarne la superficie. Era ruvida. O forse erano le
sue mani ad essere difettose. Come il suo cervello, come il
suo cuore, come la sua vita.
Strinse il
pugno e guardò quel muro con odio, come se fosse stato il colpevole di tutto. Come se avesse spezzato quell’equilibrio.
Poi lo colpì, violentemente.
- MERDA! –
Ritirò la
mano, ansimando, un po’ per il dolore causato dall’impatto con la parete e un
po’ per il terribile senso di solitudine che gli aveva attanagliato la gola
togliendogli il respiro.
Eccolo il
motivo, ecco perché era solo.
Forse avrei fatto meglio a non tornare,
pensò.
Almeno non avrei scombinato vite già abbastanza incasinate.
Cosa
avrebbe fatto normalmente, in circostanze simili? Chi avrebbe chiamato, a chi
si sarebbe appoggiato, di chi si sarebbe fidato incondizionatamente?
C’era solo
un nome in risposta a quelle domande, e Tom si rese
conto solo in quel momento di scoprirsi impaurito come non mai di fronte alla
prospettiva di aver perso per sempre quella persona. Forse aveva ragione sua
madre, forse Bill era morto insieme adHaylie. Allora era vero, non l’avrebbe
più riavuto indietro.
Tom uscì
velocemente dalla camera da letto, come per paura che quelle quattro mura
potessero avere altri influssi negativi su di lui, e si diresse nello stanzino
dove aveva lasciato la valigia. Aprì la cerniera della tasca centrale, dove aveva
ficcato alla rinfusa i vestiti da lavare, e li tirò fuori. Accese la luce e
cominciò a frugare nelle tasche di tutti i jeans che
gli passarono tra le mani, finché non trovò quello che cercava.
Tirò fuori dalla tasca il foglietto accartocciato e lo spiegò
lentamente, attento a non strapparlo. Lo avvicinò al viso per decifrare le
lettere e i numeri sbiaditi: il primo nominativo che
lesse fu GustavSchäfer.
Attraversò il corridoio senza staccare gli occhi dal biglietto e
andando a sbattere contro lo stipite della porta del soggiorno, poi alzò la
testa e impiegò qualche secondo per perlustrare la stanza fino ad individuare
il telefono. Alzò la cornetta e compose il numero senza neanche pensarci, senza
chiedersi perché lo stesse facendo o cosa avrebbe detto e, quando si rese conto
di quello che aveva appena fatto, una voce rispose: - Pronto? –
Era lui, Tom l’avrebbe
riconosciuto tra mille.
Oddio,
e ora che gli dico?
- Gustav? – disse incerto, prendendo atto
dell’improvviso abbassamento della propria voce. Infatti,
dall’altro capo del filo, Gustav non lo riconobbe.
- Chi parla? – chiese dubbioso, mentre Tom deglutiva e cercava le
parole più indicate.
- Sono Tom – risolse alla fine. Era inutile,
più erano le parole che avrebbe voluto dire, meno ne uscivano fuori. L’evidente
meraviglia tradì la natura pragmatica di Gustav. – Cosa… Tom? – Seguirono alcuni istanti di silenzio,
scanditi dal respiro appena irregolare di Tom. – Sei tornato?
–
- Sì, da quasi un mese – Altra pausa. Era molto più complicato del
previsto, e Tom quasi faticò a rendersi conto che lui e i ragazzi non si
vedevano da tre anni. – Non… non ce l’hai con me? –
gli uscì detto.
La risposta si fece attendere per un paio di secondi. – Beh, sono…
sorpreso, diciamo –
Tom strinse le labbra, annuendo lentamente come se l’amico potesse
vederlo. Per un attimo ebbe la tentazione di tagliare con un “bene, ok, volevo
solo dirti che sono di nuovo qui, per qualsiasi cosa
mi trovi a casa di Bill, tanti saluti!”, ma poi cambiò idea. – Possiamo
vederci? – azzardò incerto. Questa volta, la risposta gli giunse alle orecchie quasi subito.
- Sì, certo – Gustav parve riflettere per
qualche secondo, poi propose: – Puoi venire a casa mia. Anche
adesso, se vuoi. Immagino che tu ti sia già procurato l’indirizzo, no? –
Caro,
vecchio Gustav. Non sbagli proprio mai.
- Sì, sono a posto – confermò Tom sentendosi
vagamente in colpa, come se avesse violato la privacy del suo amico.
- Vuoi che chiami anche Georg? – A quella
domanda, il senso di colpa svanì per cedere il posto a
un moto di gratitudine nei confronti di Gustav.
- Se può –
- Ok, allora – Tom diede uno sguardo all’orologio.
- Ok – ripeté. – Dovrei farcela in una mezz’oretta –
In realtà impiegò almeno un’ora perché, non avendo quantificato
l’effettiva distanza da lì alla via in cui abitava Gustav,
partì a piedi e prese atto dell’effettiva lontananza
solo quando cominciò a perdere la sensibilità delle gambe. Ma
si sentiva sollevato al pensiero che Gustav non gli
avesse sbattuto il telefono in faccia o che non lo avesse trattato con
sufficienza.
Quando si ritrovò nella via in cui abitava l’amico, i suoi pensieri
volarono alle loro lunghe trasferte in tourbus quando
giravano il mondo grazie alle loro canzoni e ai pochi album che avevano
pubblicato. Era quasi un’altra vita, a pensarci tre anni dopo sembrava pura
fantascienza. Ma, per quanto lui ancora non se ne
capacitasse, doveva davvero essere stato così.
Anche cercare il cognome “Schäfer” sul citofono gli sembrò addirittura anormale, dopo
che, per anni e anni, aveva avuto i suoi amici a disposizione ventiquattro ore
su ventiquattro. Certo, a dirla così non suonava tanto bene, anzi, sembrava
quasi che non si trattasse di vera amicizia, ma, a voler essere crudi,
le cose stavano veramente così.
Tutto gli
appariva strano: rispondere alla voce gracchiante che uscì fuori
dal citofono, così come spingere il cancello ed entrare nella palazzina,
o salire di corsa le quattro rampe di scale. Ogni minimo particolare lo metteva
a disagio. Soprattutto, si scoprì meravigliato quando, invece di trovarsi di
fronte a una porta chiusa e a un campanello da
suonare, vide Gustav attenderlo sulla soglia. Solo
quando, al terzultimo scalino, arrestò la corsa notò la presenza di Georg alle spalle del ragazzo dai corti capelli biondi. Tutt’a un tratto, si sentì come
bloccato.
Superò a passo lento gli ultimi tre gradini, non riuscendo ad evitare
di abbassare lo sguardo. Attraversò altrettanto lentamente il pianerottolo,
fino a trovarsi davanti a una delle tante porte che
non avrebbe mai creduto di poter, un giorno, varcare. Rendendosi conto che il
modo migliore per salutare un amico che non vedeva da anni non era certo stare
a fissargli le scarpe, sollevò la testa e incontrò lo sguardo da bambino un po’
troppo maturo che aveva quasi dimenticato. Subito dopo, andò a
incrociare quello del ragazzo dai lunghi capelli castani, o meglio, quelli che
erano stati lunghi capelli castani. Georg esibiva una
pettinatura molto simile a quella che aveva tenuto da piccolo, quando ancora i Devilish non erano diventati Tokio Hotel:
i capelli erano stati tagliati appena sotto le orecchie e sembravano non vedere
una piastra da molto tempo. A modo suo, anche lui portava addosso
quei tre anni in cui non si erano più visti né sentiti.
Tom si stupì di scoprirsi tanto a disagio di fronte a quelli che erano
stati due dei suoi più grandi amici oltre che compagni di viaggio e
d’avventura. Tuttavia, non poté fare a meno di constatare con un certo sollievo
che nessuno dei due sembrava provare risentimento o intenzione di portargli
rimprovero per le sue ultime azioni sconsiderate –anche se forse non era
neanche questa la sua più grande paura.
- Beh… non ci saluti? – esordì Georg
avanzando e posizionandosi accanto a Gustav, a bassa voce e con un mezzo sorriso. Tom sbatté le
palpebre un paio di volte, come per svegliarsi da un lungo sonno.
- Io… - Tentò di mettere insieme qualche parola, ma subito dopo si
ritrovò ad avanzare un passo incerto e muoversi per abbracciarlo. Avvertì
l’amico indugiare appena un istante prima di
ricambiare la stretta. Si sentì come sollevato. Non come avrebbe voluto, certo,
ma anche quando Gustav, dopo che Georg
si fu spostato, lo abbracciò dandogli qualche pacca sulle spalle, chiuse gli
occhi e sperò con tutte le sue forze che quel ritrovarsi con i suoi vecchi
amici segnasse un passo avanti verso la serenità.
- Bastardo – mormorò sorridendo Georg quando se lo ritrovò di nuovo davanti. – Ci hai fatto stare
tre anni a preoccuparci per tutte le cazzate che
avresti potuto fare senza qualcuno che ti tenesse
d’occhio –
Anche Tom sorrise, inclinando la testa di lato e distogliendo lo
sguardo con una punta di imbarazzo. – Mi perdonerete
mai per questo affronto? –
Gustav scosse la testa, ma
anche lui sorrideva. – Per questa volta. Entra, dài –
Quando furono dentro, Tom diede
una rapida occhiata all’appartamento –molto pulito, molto ordinato, molto da Gustav. – Però, ti sei sistemato
bene – commentò senza alcuna traccia di sarcasmo. – Immagino che tu non sia
solo, no? –
Non occorse l’improvviso silenzio per
fargli rendere conto che i due amici si erano scambiati uno sguardo incerto. –
Ragazzi, potete dirlo tranquillamente – sospirò. – Non
sono sconvolto da nessuna turba emotiva e non sarò colto da un attacco di
gelosia se mi dite di esservi trovati la ragazza – Cercò di dare una sfumatura
ironica alla propria affermazione, che tuttavia non risultò priva di una punta di amarezza.
Gustav alzò timidamente le
spalle. – Beh, Georg è fidanzato. E io… mi sono
sposato – Non aspettò che Tom rispondesse e aggiunse
pacatamente: - Non è per paura di eventuali turbe psichiche che ci siamo solo
noi in casa. Pensavo che una rimpatriata tra amici dovesse essere tale –
- Beh… però! Vi siete dati da fare! – esclamò Tom mentre tutti e tre prendevano posto chi sul divano, chi su una poltrona. Li
guardò entrambi sorridendo. Sentirsi tranquillo in loro presenza si stava
rivelando più semplice del previsto. – Sia chiaro, le voglio conoscere tutte e
due – aggiunse in finto tono minaccioso, puntando
l’indice contro di loro. – Senza nessun pericolo, tranquilli – aggiunse poi. Georg lo guardò quasi con rimprovero.
- Non dirlo neanche per scherzo – Tom si strinse nelle spalle.
- E chi scherza? Sono serissimo – Già, era un ricordo con cui avrebbe dovuto imparare a convivere,
quello di aver tradito Bill con la sua ragazza, più di tre anni prima, oltre
alla consapevolezza di non avere più modo per scusarsi. Non si stupì che i due
ragazzi fossero tanto restii a chiedergli come avesse passato il lungo periodo
successivo a quell’avvenimento, e decise di prendere lui stesso l’iniziativa,
introducendo quell’argomento che tanto pesava sia a
lui che a loro. – Avete… avete saputo di Haylie, vero? –
- Beh, sì – farfugliò Georg.
- Per vie traverse – aggiunse Gustav,
abbassando la voce e incrociando le braccia sul petto con aria pensierosa. Tom
sospirò pesantemente, passando un braccio dietro lo schienale del divano.
- Ragazzi, possiamo parlarne – cercò di
rassicurarli. – D’altronde, quant’è che non ci
vediamo? Dovrò pur fare i conti con quello che ho lasciato qui –
- Siete stati molto innamorati – abbozzòGeorg, impacciato. Tom scosse la testa, con un’espressione
calma dipinta in viso.
- Lo sono stato – lo corresse pacatamente. – Ma è acqua passata –
L’amore per Haylie era acqua passata, sì, ma lei,
lei non avrebbe potuto mai esserlo. Perché
tutto quello che le aveva lasciato era stata una misera lettera, con
l’illusione di poterla rivedere e chiederle perdono, un giorno. Ma non sarebbe mai stato così, dunque, tanto valeva che
cominciasse a rendersi conto che, almeno secondo il volere del destino, quella
doveva essere veramente acqua passata. – Immagino che lei e Bill siano stati molto felici dopo che… beh, che me ne sono
andato –
- Sì, effettivamente lo erano – confermò
tranquillamente Gustav. – A
proposito, tu e Bill vi siete già visti, non è così?
Non ne avete parlato? – Subito dopo quella domanda,
calò quel silenzio che Tom, involontariamente, si
aspettava.
- No, non ne abbiamo parlato – si costrinse a
rispondere. – Per il momento sto a casa da lui, ma…
diciamo che non è molto contento della sistemazione –
- In che senso? – intervenne Georg,
sinceramente stupito.
- Nel senso che pare che Bill ce l’abbia
ancora con me – gli spiegò l’altro. – Evidentemente non mi ha perdonato il fatto che io abbia lasciato i Tokio Hotel, o…
non lo so. So solo che cercare di fare una conversazione decente con lui è una
tortura – concluse, nel tono più naturale possibile. Detestava l’idea della
compassione, ma quella era l’effettiva rappresentazione dello stato delle cose.
- Beh, lui ha fatto lo stesso – disse
cupamente Georg, incrociando le braccia e
appoggiandosi allo schienale della poltrona.
- L’avevo immaginato – mormorò Tom. – Ma, più o meno,
come sono andate le cose? –
Gustav e Georg
si scambiarono uno sguardo, come a chiedersi chi dovesse
essere il primo a raccontare. Poi il biondo si schiarì la voce e prese la
parola. – Dopo la tua partenza, per un periodo abbiamo continuato in tre con i Tokio Hotel. Bill sembrava abbastanza motivato, ma era
come… non so, come se fosse anestetizzato. Non ti ha
mai nominato né niente di simile, anche se naturalmente le fan
hanno preteso una spiegazione per la tua improvvisa sparizione. Forse si era
reso conto che, riportandoti in mente in qualche modo, avrebbe effettivamente
sentito la tua mancanza, sia in campo professionale che
affettivo, soprattutto – Il tono di Gustav si abbassò
lentamente, ma lui continuò a scandire con chiarezza ogni parola.
- Capisco – disse Tom, annuendo. – Poi? –
- Poi, pare che fosse sorto qualche problema
con Haylie. Non che litigassero o
non si trovassero d’accordo su qualcosa, ma… erano sempre in tensione, come se
aspettassero qualcosa di spiacevole. Soprattutto lei era molto tesa. Non
ho mai voluto chiedere niente né a lei né a Bill, per delicatezza, ma era
chiaro che qualcosa non andava –
- Già, Bill era distratto come non mai – intervenne Georg,
scuro in volto. – C’era qualcosa che lo preoccupava, ma non ha mai voluto
parlarne. Finché non ci ha annunciato che aveva intenzione di
prendersi una pausa con il gruppo, perché aveva… questioni personali da
sistemare. Questo è successo circa un anno e mezzo fa, forse poco meno,
non saprei dirti con esattezza. So solo che,
improvvisamente, sembrava contento. Tranquillo, perlomeno. Noi gli abbiamo detto che andava bene, anche perché lui ci ha assicurato che
sarebbe stato solo per un periodo, al massimo qualche mese. Comunque
promise che ci avrebbe tenuti informati e che ne avremmo riparlato con calma –
Gustav riprese la parola. –
Solo che non ne abbiamo mai più riparlato. Ogni tanto
sentivamo Bill al telefono e pareva che le cose si fossero sistemate. Con Haylie ho parlato poche volte e… non saprei
dirti come stesse. Non sembrava particolarmente elettrizzata come Bill, ma la
sentivo… stanca, penso. Sono passati
alcuni mesi e Bill non si è fatto più sentire. Della morte di Haylie siamo venuti a conoscenza
solo attraverso i giornali, lui non ci ha avvisati. All’inizio abbiamo pensato
che volesse stare da solo per un po’, più in là abbiamo provato a tenerci in
contatto con lui. Ma abbiamo desistito presto… e la pausa che avremmo dovuto
prenderci è diventata una rottura definitiva – concluse
tristemente Gustav, abbassando lo sguardo.
- Inoltre non siamo riusciti a sapere come sia
morta Haylie – aggiunse Georg,
infervorato. – Neanche i giornali l’hanno scritto. Pare che lo sappia solo
Bill… e che non abbia intenzione di divulgare l’informazione – Il ragazzo sospirò, stingendosi nelle spalle. – Del resto, come
biasimarlo? Solo, non ci ha resi per nulla partecipi, non ci ha permesso di
stargli vicino. Le ultime volte che ci siamo sentiti è stato terribilmente
imbarazzante –
- Tua madre ha detto qualcosa? – intervenne Gustav.
Tom deglutì, rendendosi conto solo in quel momento che il racconto era finito.
Le parole gli vorticavano in testa a una velocità
impressionante, sembrava una storia tratta da un film…
- N-no – balbettò, ancora confuso. – Cioè, io non ho voluto saperlo. Mi sembrava… ingiusto, ecco.
Bill non vuole assolutamente che si parli del suo passato, e io… non me la sono
sentita di indagare oltre –
- Magari tra un po’ sbollirà la rabbia e te ne parlerà – ipotizzòGeorg.
- Io non ne sarei così sicuro – disseGustav, tetro, scuotendo lentamente la testa e guardando
fisso di fronte a sé. – Non sarà una cosa breve, penso.
Immagino che per Bill sia come se Haylie fosse morta
ieri –
Tom chinò la testa, mordendosi le labbra e fissando un punto
imprecisato sul pavimento. Forse, i suoi amici erano riusciti a capire suo fratello più di quanto non avesse fatto lui.
Si coprì gli occhi con una mano, lasciandosi sfuggire un sospiro molto simile a un rantolo. Dovevasapere… ma non voleva.
Oppure sì, voleva ma non poteva.
Complicato. Era tutto così maledettamente complicato…
- Così complicato – gemette in un soffio, nascondendo il viso tra le
mani, soffocato dai milioni di pezzi che sembravano faticare sempre di più per
incastrarsi insieme.
Ecco la
sesta puntata di questo bel round di occhiatine dolci
e parole stucchevoli ^^ Non sono teneri Bill e Tom a volersi così bene?
Oggi mi va
di rispondere adpersonam,
PER CUI spero che la prossima volta troverò qualche recensione in più. Intanto grazie mille ai 20 utenti che tengono la mia fic tra i preferiti. Ah, dimenticavo: la canzone
cambia, stavolta è “Milioni di cose che non ti ho detto”, di… indovinate? Raf.
kag92: La tua buona fede è a dir poco ammirevole XD Beh sì, è
stata una sofferenza anche per me scagliarli l’uno contro l’altro…
angeli neri: in realtà, il “mistero” di Haylie
è già risolto a metà… Però mi diletterò a farvi soffrire fino alla fine, non
temere =D
Temperance_booth: e tu chi sei? Chi ti
ci porta qui??? XD Bene, sono felice che già odi i
miei diletti gemellino, ciò rende la storia viva (doppio XD). Anzi, spero che
con il proseguimento li detesterai ancora di più, il che non è escluso. Baciiiiiiiiiiiii!
Tom si
attardò da Gustav sapendo che Bill non sarebbe
tornato prima delle otto, e che dunque non avrebbe trovato nessuno ad aprirgli
se fosse arrivato a casa prima del tempo.
Casa… Pensava già come se
quella fosse realmente casa sua.
Curioso, pensò mentre attraversava la strada, era da tanto che
non aveva un posto da poter chiamare “casa”. Quando suonava con i Tokio Hotel, si spostava in tourbus, e lui e Bill
tornavano da Simone e Gordon al massimo per le vacanze di Natale e per qualche
settimana in estate. Poi era partito e si era diviso tra alberghi e
appartamenti affittati. E adesso… Adesso faceva
da secondo incomodo –gli veniva quasi da ridere a quel pensiero-
nella casa di un fratello che a malapena lo guardava in faccia. Evidentemente
il suo destino era stato deciso già molto prima.
Tom non
sapeva esattamente che ore fossero quando suonò
il campanello. Gustav lo aveva trattenuto per cena,
facendogli conoscere Helen, la simpatica ventenne con
cui era sposato da tre mesi. A giudicare dalla
tonalità blu scuro tendente al nero assunta dal
cielo, doveva essere già abbastanza tardi.
Sentì
Bill armeggiare con spioncino e serrature varie prima di vedere la porta
aprirsi ed il fratello comparirgli davanti in pantofole, con indosso i pantaloni
della tuta e una maglietta sgualcita. Tom non poté fare a meno di
squadrarlo da capo a piedi.
- Dormivi?
– gli chiese sbigottito. Bill lo guardava con un sopracciglio alzato e
un’aria appena supponente.
- E anche se fosse? Non ti sembra un po’ tardi? –
Tom si
costrinse a non alzare gli occhi al cielo, gesto che avrebbe sicuramente
indispettito ancora di più il gemello, ma gli sfuggì un lieve sospiro. – Non sono andato in giro per locali
né niente di simile, se è questo che intendi –
Bill
alzò le spalle. – Veramente non mi interessa
granché. E’ che potresti evitare di buttarmi giù dal letto quando è quasi mezzanotte –
-
Mezzanotte… Saranno appena le undici – mugugnò Tom,
cacciando le mani nelle tasche ed entrando in casa a passo sostenuto. –
Potevi aspettarmi, o telefonare –
-
Veramente non ci ho pensato – Il tono di Bill
sottintendeva un “e anche se ci avessi pensato, sta’ sicuro
che non l’avrei fatto”.
- Senti,
mi dispiace di averti, come dicevi?… buttato giù dal letto –
tagliò corto Tom. – E’ successo una
volta, basta, non accadrà più. Buonanotte – Voltò le
spalle a Bill e si diresse a passo di carica verso il corridoio, prima di
ricordarsi che il suo letto era stato spostato nella camera del fratello.
Sospirò, cominciando a cercare la maglietta che era solito
indossare per la notte nella valigia che non aveva ancora svuotato.
Non era
tornato a casa maldisposto nei confronti di Bill, no.
Anche quando se l’era visto comparire davanti era stato sul punto di
chiedergli scusa per essere tornato tardi e averlo scomodato, ma sentirlo
parlare con quel tono odioso e indisponente gliene aveva fatto passare la
voglia. Vero, si era ripromesso di essere lui a
muovere al più presto i primi passi verso la riconciliazione, ma
l’atteggiamento di Bill era tutt’altro
che d’aiuto. E se ora non avesse più sopportato
nemmeno il pensiero di dover condividere la stanza con lui, beh, erano problemi
suoi.
Ma
Bill non arrivò. Non subito, perlomeno. Anche
quando Tom cominciò a sentire le palpebre pesanti, il letto addossato
alla parete opposta era ancora vuoto. Eppure,
scivolando nel sonno, avrebbe giurato di aver sentito i suoi passi nel
corridoio e poi in camera da letto. O forse era solo il ricordo sbiadito di quando, nel periodo della tournée, venivano
sistemati nella stessa stanza d’albergo e rimanevano svegli tutta la
notte a parlare, provare qualche canzone o stare semplicemente agitati in due
al pensiero dell’imminente concerto.
Stupidi
avvenimenti in una vita troppo “su”, forse.
Già, dell’importanza di quelle piccolezze lui non se
n’era mai accorto.
La mattina
dopo, il suo risveglio fu accompagnato, o meglio, causato da un fracasso che
sapeva tanto di vetri infranti, al quale seguì immediatamente un
rabbioso “e che cazzo”. Tom si
stropicciò gli occhi sbuffando e calciò via le coperte, per poi
mettersi a sedere sul letto, ancora intontito.
Che Bill abbia cambiato tattica per buttarmi fuori?
Quando,
barcollando, entrò in cucina, trovò il gemello accovacciato a
terra, intento a raccogliere in un sacchetto di plastica i frammenti in cui aveva ridotto due tazze con annessi piattini.
- Tutto
questo casino per un paio di tazze? – si lamentò sbadigliando.
Sì, probabilmente era diventato anche troppo temerario nei confronti del
precario sistema nervoso di Bill. Quest’ultimo,
inaspettatamente, non lo apostrofò con nessun insulto o parola poco
gentile, come era solito fare –perlomeno con
lui.
-
Già – sospirò, chiudendo il sacchetto con un nodo e
rialzandosi da terra. – Si è rotta anche la tua –
Tom
alzò un sopracciglio. – Mia? –
- Beh
sì, quella che usavi tu – Il tono di Bill
era stranamente basso, piatto. Forse “incolore” era
l’aggettivo più appropriato.
- Ah, ecco
– disse Tom annuendo. – Non mi pare che ci sia niente di mio in
questa casa –
Si sentiva
peggio che detestabile ad uscirsene con affermazioni del genere, ma forse
queste non erano dettate che da un timido e recondito desiderio di vedere una
minima reazione da parte di Bill, un segno che, per lui, Tom continuava in
qualche modo aesistere.
I loro
sguardi si incrociarono per una frazione di secondo,
poi il moro chiuse gli occhi e sospirò.
- Per oggi
useremo dei bicchieri –
Tom prese lentamente posto su una sedia, appoggiandosi con il
gomito al bordo del tavolo, mentre Bill gli voltava le spalle e accendeva il
fornello. Quel suo tono sul rassegnato andante, quei
suoi modi di fare gli ricordavano qualcosa, ma, forse era il sonno, forse era
l’irritazione non del tutto smaltita, non riusciva a capire cosa.
Anche
quando Bill, dopo aver riempito due bicchieri di latte, si sedette di fronte a
lui allungandogliene uno, si ritrovò a guardarlo di sottecchi, come per
studiarlo. Bill, dal canto suo, non alzò lo sguardo e prese a
sorseggiare il latte senza muovere altro che la mano con cui teneva il
bicchiere. Solo quando lo posò sul tavolo, allontanandolo da sé,
Tom lo vide stringere i pugni: segno che stava per dire qualcosa di sgradito.
Beh,
effettivamente non sembrava che le loro conversazioni potessero basarsi su
altro.
- Senti – esordì con lo stesso tono piatto di
pochi minuti prima. Continuava a tenere lo sguardo fisso sul
tavolo, ma, a parte i pugni stretti e la tonalità monocorde, non vi
erano altri segni di tensione su di lui. – Scusa –
Tom
alzò lo sguardo, sbattendo le palpebre. – Come? –
- Scusa
– ripeté Bill, senza conferire un minimo di espressività
in più al proprio viso o alla propria voce. –
Per ieri sera, se ti ho aggredito. D’altronde è così
che avevamo deciso. Io mi faccio la
mia vita, tu ti fai la tua –
Le
sopracciglia di Tom si alzarono appena. Non capiva dove quel discorso dovesse
andare a parare.
Ma il
silenzio che seguì rivelò che non c’era davvero altro da
aggiungere.
- Quindi, insomma, scusami – concluse Bill. Stesso
identico tono. E fu lì che Tom ricordò quando
l’avesse già sentito. Non dovette neanche andare troppo lontano
con la mente.
Il giorno prima, quando Bill gli aveva comunicato che lo avrebbe riaccolto in casa. Quando lui aveva ribattuto che non aveva senso,
perché questo, Bill, non lo voleva…
“Nessuno
mi costringe a fare nulla. Dico solo che puoi venire a stare da me, se vuoi.”
“E quando mi butterai fuori, la prossima volta?”
“Senti,
io non voglio né litigi né disordini, quindi… mettiamo le cose in chiaro fin da subito. Tu vieni a stare da me. Io mi faccio la mia vita, tu ti fai la
tua. Non… non c’è nessun motivo per cui
non dovrebbe essere così, quindi è così che
sarà.”
“Non
ha senso. Perché devi fare così, Bill? Perché non mi dici cosa ti ho fatto? Se è ancora per quella lettera, io…”
“Se ti va bene così, è così e basta. Non
ho patteggiamenti da offrirti.”
Sì, proprio quel tono. Il tono delle cose
dette per forza, delle scuse false e per nulla spontanee. Il tono che
Tom non voleva sentire mai più.
- No – si sentì dire scuotendo la testa. Tutt’a un tratto, Bill aveva
alzato lo sguardo e ora lo stava fissando con un’espressione da potersi
quasi definire incredula. – Non voglio le tue scuse –
Il moro aggrottò le sopracciglia, le labbra socchiuse per lo
stupore. – Cosa…? –
Tom si alzò, rimettendo la sedia a posto. – Non occorre
che tu ti scusi, Bill, anche perché tu non vuoi farlo. E io non sento il bisogno di riceverle, le tue scuse. Quando avrai il coraggio di dire “mi dispiace”
ti ascolterò – Si allontanò a passo lento, e si
fermò sulla soglia della cucina. Si voltò per guardare Bill,
sperando di trovare sul suo viso la traccia di un qualsiasi sentimento. Che fosse odio, rancore, tristezza… poco importava.
– E non è a me che devi dirlo, Bill. Buon
lavoro –
…
Fu necessario un tempo poco superiore a un
paio d’ore per far sì che Tom ripensasse seriamente a quello che
aveva detto a Bill quella mattina. Doveva essere già le
settima volta che Hans gli urlava dietro
perché sembrava aver acquisito le facoltà motorie di una lumaca
sonnambula, e ancora lui non si sentiva del tutto presente a se stesso.
Si rendeva perfettamente conto che se la convivenza si fosse rivelata
impossibile sarebbe stata in gran parte colpa sua, ma era anche cosciente del
fatto che il comportamento di Bill nei suoi confronti aveva fatto riemergere
nella sua mente qualcosa che andava oltre il rancore che potevano serbarsi tra di loro.
I primi a sbucare fuori dai suoi pensieri
erano stati ovviamente Georg e Gustav.
Tom ripensava ancora alle tranquille chiacchierate della sera precedente, a
come i due amici gli avessero raccontato della loro vita a
partire dalla fine dei Tokio Hotel. Una vita normale,
tanto normale da far nascere in lui il dubbio che i ragazzi stessero meglio
senza la band, senza concerti e trasferte in tourbus.
Questa, però, non era una giustificazione per Bill. Per quanto
la cosa lo avesse profondamente ferito, Tom riconosceva che era più
plausibile che il fratello non l’avesse
avvisato, a suo tempo, della morte di Haylie (o, tre
anni prima, della bambina che lei aspettava), piuttosto che il fatto che non
avesse reso partecipi Georg e Gustav.
In fondo, quali colpe potevano mai avere loro? Tom li avrebbe fatti santi anche
solo per aver sopportato le conseguenze di un errore commesso solo ed
esclusivamente da lui, oltre a quelle, in seguito, dell’abbandono del
gruppo da parte di Bill.
Però non poteva negare a se stesso che, non adottando una
politica migliore, la riconciliazione sarebbe rimasta solo
un sogno irraggiungibile. Ognuno aveva la sua parte di colpe, e Tom sapeva
perfettamente che la sua era ben più consistente di quella degli altri.
Quindi,
anche quella volta l’unica soluzione era quella che sembrava la
più lontana di tutte: parlare con Bill.
Tom odiava il fatto che il solo pensiero lo
facesse rabbrividire.
Quella sera, fece di tutto per non arrivare a casa più tardi
delle otto e mezza, e lungo lo strada non fece altro che ripetersi calma,
è mio fratello, parleremo e tutto si
sistemerà.
Forse mancava un pezzo a quella sorta di monologo,
ma Tom aveva paura persino di pensarlo.
Calma, è mio fratello… gli voglio
bene… parleremo e tutto si sistemerà.
Già, il problema era dirlo.
Suonò il campanello passandosi ripetutamente una mano tra i dread come faceva sempre quando
era consumato dall’ansia, il che non capitava molto spesso. Si ripromise
mentalmente di cominciare a parlare non appena Bill gli avesse aperto, ma poi
successe tutto molto in fretta. La porta si aprì a
una tale velocità che Tom impiegò qualche secondo per rendersi
conto che, subito dopo aver girato la maniglia, il gemello aveva fatto
dietro-front e ora si stava dirigendo in corridoio a passo di carica. Non un
saluto, non uno sguardo.
- Bill…! – lo chiamò, a metà tra il sorpreso
e il titubante, ma non ottenne risposta. Entrò in soggiorno e si chiuse
repentinamente la porta alle spalle. Nel frattempo, Bill era già sparito
in corridoio. Tom lo attraversò a passo svelto e, dopo aver localizzato
il punto di provenienza della luce accesa, si precipitò in cucina, dove
Bill stava stipando dei piatti nel lavello con una tale violenza da far
sembrare che volesse farli a pezzi. – Bill, ascolta…
-
- Ho già ascoltato anche troppo – La risposta giunse come in una sorta di basso ringhio e Tom si
sentì gelare, aggrappato alla maniglia. – Cos’è, vuoi deliziarmi oltre? –
- Senti, riguardo a quello che ci siamo detti stamattina… -
- “Ci”? Io non ho detto niente – Per quanto il tono
di Bill si fosse alzato di almeno un’ottava, era
la perfetta rappresentazione della “calma prima della tempesta”.
– Mi pareva che in compenso tu ne avessi un
mucchio, di cose da dire –
Tom si lasciò sfuggire un lungo e penoso
sospiro e le braccia gli ricaddero lungo i fianchi. – Lo so, ho parlato anche troppo, però… -
Bill lo interruppe con una risata nervosa. Una risata inquietante,
priva di qualsiasi sentimento. – Già, i vecchi vizi sono duri a
morire – Subito dopo, tornò scuro in volto e strinse i pugni.
– Anch’io stamattina volevo dirti qualcosa
– Il biondo lo guardò con espressione interrogativa e per tutta
risposta lui sparì dalla cucina, dirigendosi a grandi passi verso il
corridoio. Tom rimase immobile al suo posto, sentendolo armeggiare con oggetti
che non riusciva ad identificare. Subito dopo, Bill
rientrò in cucina e gettò sul tavolo, proprio davanti al
fratello, un portachiavi ad anello a cui era attaccata un’unica chiave,
piccola e lucente. – Volevo semplicemente dirti
che potevi farti un doppio delle chiavi di casa e tornare all’orario che
ti pare, ma tu non mi hai fatto neanche aprire bocca – Tom guardò
stupito la chiave al centro del tavolo.
- Oh… scusa – disse senza pensarci. E
capì immediatamente dallo sguardo di Bill di aver detto la cosa
sbagliata.
- Come, non dicevi che le scuse non servono a
niente? – ribatté infattiquest’ultimo in tono astioso prima di voltarsi,
facendo come per lasciare la cucina. Tom, però, fu più veloce e
lo afferrò per un braccio.
- Basta – Gli
soffiò nell’orecchio quella parola con la stessa violenza con cui
avrebbe potuto gridarla, stringendo la presa sul suo braccio. – Basta,
Bill. Smettila. Se devi insultarmi, fallo, non chiudermi la
porta in faccia –
Il moro si irrigidì, cercando di
liberarsi dalla stretta. – Tu non… tu non capisci –
- Sono stufo di non capire! – Con uno
strattone, Tom liberò il braccio di Bill, che barcollò per un
istante all’indietro, perdendo l’equilibrio. – Basta,
Bill, non venirmi più a dire che non posso capire,
non liquidarmi con i tuoi enigmi solo per farmi sentire in colpa! Parla, cazzo, parla! Dillo, cos’è che ti rode! Non pararti
il culo con i tuoi maledetti misteri! Illuminami,
spiegami, dimmelo, cos’è che non capisco! –
Bill era fermo sulla soglia della cucina, aggrappato allo stipite
della porta, come se avesse combattuto una lunga battaglia e fosse privo di
forze. Come se il suo gemello fosse il suo nemico.
- Quello che tu non capisci… è che ti stai prendendo la
mia vita in mano, come hai fatto tre anni fa, la stai… la stai cambiando come ti pare, non… non tieni in nessun
conto quello che posso provare io – Parlava a scatti, quasi
ansimando, e Tom lo fissava incredulo, combattuto tra il desiderio di spingerlo
da parte e scappare da quella casa e il bisogno di sentire il resto di quello
che sembrava solo un discorso senza senso. – Tu pretendi di sapere tutto
di me quando sei stato il primo a mandarmi al diavolo,
vuoi sapere perché non esiste più un gruppo che… tu
stesso… hai distrutto, vuoi che ti parli… di lei… -, e
pronunciando queste parole la voce di Bill si affievolì, mentre la sua
mano chiusa a pugno si avvicinava al suo petto, stringendo la stoffa della
maglietta e spiegazzandola appena. – …quando sei
stato il primo che ha cercato di togliermela – Bill si
coprì il viso con una mano, quasi graffiandosi la pelle, e gli
sfuggì un gemito talmente sommesso che Tom si chiese se non
l’avesse solo immaginato. Lo guardava a bocca aperta, completamente
distrutto dalle sue parole, totalmente annichilito.
Non sapeva nemmeno lui se quella fosse la
verità o no.
- Bill, io… - Si accorse di avere qualche difficoltà nel
parlare, ma raccolse tutte le proprie forze. – Io non ti ho mandato al
diavolo, me ne sono andato solo perché voi poteste… -
- No! – Il moro rialzò la testa, e Tom non avrebbe saputo come chiamare il sentimento che lesse nei
suoi occhi appena socchiusi. – Cosa ne sapevi,
tu? Cosa ne sapevi, di quello che io provavo in quel momento, come potevi
essere sicuro che io non volessi parlarti?! Tu te ne
sei andato perché l’hai creduto comodo così, perché
tanto non saresti stato tu a raccogliere i cocci. Ora sei qua,
no? E raccoglili, questi cocci! – urlò
infine Bill. – Raccoglili adesso, Tom! –
Tom non ebbe neanche il tempo di pensare a
una possibile risposta perché, nel momento stesso in cui qualche
tassello andava al proprio posto nella sua mente, Bill corse fuori della cucina
e si precipitò in camera da letto, chiudendosi dentro. Il biondo
realizzò quanto era appena successo solo quando
sentì lo scattare della serratura.
Si avventò contro la porta, sferrandovi un pugno.
- BILL! – A rispondergli fu solo un silenzio denso di tutto il
rancore che Bill aveva finalmente tirato fuori e rovesciato addosso al
fratello. Tom colpì un’altra volta la porta, ancora più forte.
– Mi dispiace! Va bene? MI DISPIACE! – urlò a vuoto. Bill
seguitò a non rispondere e Tom ritirò la mano, ansimando per il
dolore che era arrivato tutto in una volta.
Era una lotta.
Era una lotta disperata che nessuno dei due avrebbe voluto combattere ma a cui non riuscivano a rinunciare, una
battaglia che sapevano di non poter vincere ma che si ostinavano a portare
avanti, perché ormai era l’unica cosa che fosse rimasta a
entrambi.
“Cos’è
successo, ma che fine ha fatto, dov’è?
E’ partito,
è andato altrove portando via con sé
tutto quello in cui credere
per cui vale la pena di esistere.
Voglia di vivere,
dove sei?
Cos’è successo, che cosa è rimasto di noi?
Milioni di cose che
non ti ho detto mai.”
…
Bill aprì gli occhi con estrema lentezza. Si sentiva come
abbagliato da una luce intensa, ma gli bastò mettere a fuoco la stanza
per ricordarsi che la sera prima aveva praticamente
sprangato le finestre.
Calciò via le coperte e si mise a sedere sul letto,
stropicciandosi gli occhi. Poi spostò lentamente lo sguardo da un punto
all’altro nella camera, come se cercasse qualcosa. Per un attimo,
arrivò persino a chiedersi come mai il letto di fronte al suo fosse
vuoto, le coperte senza una piega.
Poi ricordò. E gli venne di colpo una
gran voglia di seppellirsi sotto i cuscini e non svegliarsi mai più.
A piedi nudi, rabbrividendo per il fastidioso contatto con gli spazi
del parquet non coperti dal tappeto, si trascinò fino alla finestra e
tirò su le tapparelle.
Buffo, pensò, ora che la luce c’era
davvero lui non la vedeva neanche.
Si sentì incredibilmente stupido a girare la
chiave per poter uscire dalla stanza, come quando, da bambino, scongiurava
Tom di chiudere la porta per non fare entrare i mostri. Poi suo fratello si infilava nel suo letto, costruiva una barriera con i loro
cuscini e gli sussurrava all’orecchio: “se arrivano i mostri, li
picchio finché non se ne vanno. E se ne vedi uno diglielo,
così poi si spaventa e non torna più”.
Attraversò il corridoio ancora a piedi scalzi ed entrò
in cucina, accendendo l’interruttore della luce. In
effetti quella sua mania di sbarrare tutte le finestre e tutti gli
angoli da cui avrebbe potuto infiltrarsi appena un filo di luce non era
granché utile per la sua già precaria sanità mentale.
Mentre
pensava questo, lo sguardo gli cadde sul tavolo. La chiave era ancora
lì. In più, vi era attaccato un post-it
giallo, di quelli che Bill teneva sul frigorifero
senza mai usarli. Si avvicinò e strizzò gli occhi per leggere
quanto vi era scritto.
“Torno presto. Grazie comunque”
Bill prese il biglietto in mano e, per un attimo, ebbe la tentazione
di stracciarlo e buttarlo nella spazzatura. Gli ricordava maledettamente quella
lettera di più di tre anni prima.
Ma poi, senza neanche
sapere perché, lo piegò in quattro e lo posò in cima al frigorifero,
accanto all’unica confezione aperta.
Quando
arrivò all’agenzia, focalizzò un’unica e inquietante
informazione: sua madre sembrava contenta.
- Eccolo, il mio piccolo ghiro! – trillò, schioccandogli
un bacio su una guancia. Bill non rispose, stranito. – Che
c’è, hai dormito male? –
- No, ho solo fatto un po’ tardi, non mi sembra una tragedia
– azzardò infine, più per la confusione causata da
quell’inspiegabile sorriso a trentadue denti che per la levataccia dopo
una notte passata praticamente in bianco.
Simone lo prese dolcemente per un braccio, ma a Bill ricordò
vagamente la “discussione” della sera prima, quando aveva fatto
come per uscire dalla cucina e Tom l’aveva bloccato afferrandolo per
quello stesso braccio.
- Vieni, devo presentarti una persona –
disse lei, guidandolo all’interno dell’agenzia. Il ragazzo la
seguì ancora in trance, un po’ per il
sonno e un po’ per lo stordimento. – Michelle,
sono qui! –
Bill capì a chi si stava riferendo perché, per quanto
poteva vedere, vi era una sola ragazza nell’agenzia. Quando
questa si voltò, lui non poté fare a meno di notare il cartellino
appuntato sul petto. Sua madre passò alle
presentazioni prima che lui facesse in tempo a leggere quanto vi era
scritto.
- Lei è MichelleSteffens, la nostra nuova… collega – disse
Simone, esitando per un attimo sull’appellativo da rivolgere alla
ragazza, ma senza perdere il sorriso.
Michelle
sorrise con una punta d’imbarazzo e gli tese la mano.
- Piacere –
Bill si trovò interdetto di fronte a quella mano che avrebbe
dovuto stringere, cosa che si affrettò a fare pochi secondi dopo,
guardando stranito la ragazza di fronte a lui. Non si rese nemmeno conto che
così facendo l’avrebbe sicuramente messa
in imbarazzo: era troppo impegnato a collegare quegli elementi che non
quadravano.
Michelle
sembrava piuttosto timida, e non solo per lo strano comportamento di Bill. Non
era molto più bassa di lui, ma dimostrava almeno ventitrè o
ventiquattro anni. I capelli erano una morbida nuvola di riccioli biondi che le
sfioravano appena l’incavo tra il collo e le spalla,
gli occhi di un insolito celeste. Un semplice maglioncino
bianco sottolineava la magrezza della vita rispetto
alla generosa rotondità del seno e dei fianchi, mentre un paio di jeans
scoloriti fasciava due gambe non proprio snelle, ma lunghe e tornite.
Tuttavia, anche quando le loro mani si separarono, Bill faticò
a staccarle gli occhi di dosso non tanto per la sua delicata bellezza, quanto
per il senso di estraneità che la ragazza
sembrava suscitare in lui nonostante la sua apparente ritrosia.
Simone, incurante del fatto che suo figlio non avesse proferito
parola, intervenne:
- Era da un po’ che Michelle cercava
un impiego, e a me è sembrata perfetta per lavorare qui. Tu che ne dici,
Bill? – gli chiese poi, come per costringerlo a parlare.
- Beh, io… - farfugliò lui, imbarazzato e irritato per
quell’inspiegabile insistenza. - …ho molto da fare –
…
Quella sera, quando rientrò a casa, si sentiva esausto. Aveva
avvertito particolarmente la presenza della madre, e il fatto che lei
l’avesse trattato come un bambino maleducato che non vuole salutare gli
ospiti l’aveva urtato non poco. Non vedeva cosa ci fosse di così
straordinario nell’arrivo di una nuova collega.
La prima cosa che vide quando entrò in
casa cancellò quei pensieri dalla sua mente: la chiave che Tom non aveva
voluto prendere quella mattina. L’aveva messa all’entrata apposta
per ricordarsi ciò che, non senza fatica, si era ripromesso.
E si sentì anche
stranamente inquieto quando, appena mezz’ora dopo, il campanello
suonò. Bill armeggiò per un’eternità con la
serratura, come se sperasse di ritardare l’incontro con il fratello.
Quando gli aprì, Tom aveva già distolto
lo sguardo.
E lui non riuscì
a capire cosa, in quel gesto, gli avesse fatto così male.
- Scusa se ho fatto tardi – borbottò
il biondo, entrando in casa senza guardare in faccia il gemello. Quest’ultimo chiuse lentamente la porta, con lo
sguardo fisso a terra. Sentiva già i passi di Tom farsi più
leggeri e distanti.
Ecco, stava mandando all’aria anche quel
misero tentativo.
- Tom – scandì esitante, come se la pronuncia di quel
nome gli risultasse particolarmente difficile.
L’interpellato si fermò a un passo dal
corridoio. – Volevo dirti… -
Tom voltò solo la testa, guardandolo interrogativo. Bill prese
un bel respiro.
Ce la posso fare. Tutto questo non mi riguarda, ce la posso fare.
- Volevo darti questa – disse in
fretta, allungandogli la chiave. Tom la guardò dall’altra parte
del soggiorno senza avvicinarsi. Poi scosse la testa.
- No, Bill. Non la voglio – Non vi era
rabbia né tristezza nella sua voce. Solo calma, una calma forzata.
- Lo so, però prendila – Del resto, neanche la richiesta
di Bill sembrava tale.
- Davvero, no – replicò tranquillamente Tom. –
Questa non è casa mia, non è giusto che
io abbia la chiave –
Bill strinse più forte il piccolo oggetto metallico tra le
dita. Tom la stava rendendo più difficile del previsto, e lui voleva
solo concludere in fretta il discorso.
- Neanch’io so cosa è giusto
– gli uscì detto in un soffio. Il biondo
lo guardò stranito, lui si riscosse. –
Per piacere, prendila. Consideralo… un favore personale –
Lui stesso si rendeva conto che tutto ciò non aveva senso, non
dopo la sfuriata di quella mattina. Ma Bill si sentiva come se, dopo aver
gettato addosso al fratello tutte le accuse che aveva
messo da parte in quegli anni, ora quelle stesse non gli appartenessero
più.
Tom esitò qualche istante prima di
prendere in mano la chiave, e Bill si morse le labbra.
- Sc… - S’interruppe ancora
prima di completare quella parola.
Scusa.
Tom non voleva le sue scuse.
- Come? – Bill scosse la testa.
- Niente… niente – E lo sorpassò in fretta,
dirigendosi nella camera da letto. Forse quella era l’ultima volta che
toccava una chiave.
Ooollè. Avevo proprio bisogno di un’altra bella litigata *_* Poi, si
sa, a me le cose esistenzialistiche piacciono da
morire.
Ecco che
entra in scena un’altra povera crasta che, per
quanto risulti potenzialmente innocua, a me sta su
quel discorso (come se non l’avessi creata io, poi).
Vabbuò. Vedo con piacere che la comparsa dei GG ha determinato un incremento
di recensioni e aggiunte ai preferiti! Me è
contenta e vi ama.
Prima dei
ringraziamenti, preciso che no, non ho ancora cambiato
canzone, lei è sempre “Milioni di cose che non ti ho
detto” di Raf.
Veniamo a
noi!
rakith: e me lo
chiami “niente”? Sono felicissima di sapere che la mia ff ti piaccia… un po’
meno che ti faccia piangere! Su su, che c’è
di peggio nella vita XD Un bacio.
angeli
neri: sì, effettivamente Bill fa pena pure a me che
l’ho ridotto così. Ma si sa, il Billosky
è predisposto a soffrire… Beh, per quanto riguarda Haylieprima o poi scopriremo
qualcosa… si spera! X°D
BigAngel_Dark: mi fa
piacere sapere che ti sia piaciuta anche “Dimentica”!
Secondo il mio modesto parere fa schifo, ma pazienza,
si cerca di migliorare…
kag92: no, no, nooooooooo!!! Niente pianti!! Non ne vale la pena!!! Beh, effettivamente questo mio Bill mi piace proprio perché,
come dici tu, “non è più lui” ^^’
SweetDreamer: già, avete notato tutte la stessa cosa. Certo, se non volete vedere i gemelli
così freddi e distanti posso sempre farli prendere a colpi di sedia, ma
forse è meglio mantenersi sul dramma psicologico…
anche se la litigata di questo capitolo è stata una bella mazzata
da scrivere, devo dire.
harumi: oh che
bello, dopo settimane che mi vedo nell’elenco dei tuoi preferiti, finalmente
ti sento! Me contenta ^^ Eccoti qui il continuo. Soddisfatta di come procede la
situazione? (coro: NO!!!) Fammi sapere!
Bill mise
giù la cornetta, lasciandosi sfuggire un sospiro di sollievo.
A quante
telefonate era arrivato in appena mezza giornata di attività? Quindici,
venti? Spesso si domandava per quanto tempo avrebbe continuato a lavorare
lì.
Vide sua
madre radunare le proprie cose in una borsa, e quasi si sentì stupido a
pensare che sembrasse sorridere sempre, in quelle ultime settimane, anche
mentre svolgeva le sue semplici attività quotidiane. Non poteva fare a
meno di chiedersi quale fosse il motivo di tanta felicità.
Nello
stesso istante in cui quella domanda attraversò la sua mente, Simone
alzò la testa e i suoi occhi si incrociarono con quelli di Bill, al che
il ragazzo chinò immediatamente il capo, riprendendo a scrivere frenetico
sul modulo che aspettava di essere compilato, in bella mostra davanti a lui. Si
sentiva quasi sotto osservazione, in quel momento più che mai, come se
Simone avesse bisogno di controllare ogni suo movimento per stare tranquilla.
Cercò
una qualsiasi distrazione nelle vicinanze, ma la coppia di sessantenni seduta
in fondo all’agenzia non poteva essere considerata una grande attrattiva,
così come non lo era Michelle al telefono, per quanto Simone sembrasse
nutrire una vera e propria adorazione per lei.
- Bill,
allora io vado – disse allegramente la donna, armeggiando per incastrarsi
la borsa sotto il braccio e avvicinandosi al bancone, impacciata da
quell’operazione.
Bill
annuì senza alzare la testa. – A domani –
Seguì
qualche secondo di silenzio, rotto solo dal tintinnio delle chiavi che Simone
stava tirando fuori dalla borsa, poi fu lei stessa a schiarirsi la voce.
– Come vanno le cose a casa? –
Ecco,
quello era uno dei modi di mettere la situazione che più odiava, tra
tutti quelli usati da sua madre. Ok “come state?”, ok pure
“con tuo fratello come va?”, ma quel “come vanno le cose a
casa?” non riusciva a sopportarlo. Suonava troppo simile a un “come
vanno le cose con tua moglie e la bambina?”, o qualcosa del genere.
Mise nel
conto di chiedere a sua madre di non usare più quell’espressione.
- Bene
– rispose secco. La sua giornata di lavoro stava per finire, non aveva
intenzione di farsi venire un esaurimento nervoso proprio un’ora prima di
completare.
- Allora
ci… ci vediamo domani – concluse Simone, già molto meno
entusiasta. Rimase interdetta per qualche istante, come se sperasse che Bill
alzasse la testa e le sfoderasse un sorriso a trentadue denti, poi si
voltò verso Michelle e agitò la mano in sua direzione,
salutandola a gran voce: - A domani, cara! –
La ragazza
rispose con un sorriso ed un timido cenno della mano, mentre Bill sbirciava sua
madre di sottecchi, vedendola voltarsi e uscire con il suo solito passo
leggero, il passo di chi non ha una preoccupazione al mondo.
Gettò
un’occhiata fugace anche verso Michelle, che ora stava sfogliando uno dei
registri.
Durante le
settimane che aveva passato lavorando al suo fianco, aveva notato l’unico
particolare che potesse sembrare lampante in quella ragazza: la sua timidezza.
Nel complesso, Michelle sorrideva quasi sempre, arrossendo e chinando appena la
testa, ma Bill non aveva scorto nessun altro particolare. In realtà,
faceva di tutto per comportarsi come se lei non ci fosse perché, per
quanto la ragazza si mostrasse riservata, c’era qualcosa in lei che lo portava
a tentare di ignorarla completamente. Forse era sempre quel senso di
estraneità, forse qualcosa nelle poche parole che spendeva, forse
qualcosa nel modo in cui lo guardava quelle poche volte che i loro sguardi si
incrociavano.
Qualunque
cosa fosse, qualcosa dentro di lui gli imponeva di non badare a lei, per quanto
possibile.
Il
telefono squillò improvvisamente, e Bill si concentrò di nuovo
sui suoi moduli quando Michelle rispose: era una specie di tic, quando
rispondeva al telefono non la smetteva un attimo di guardarsi intorno, come se
cercasse qualcosa.
- Oh,
sì signora, aspetti che controllo… -
Bill
seguitò a non guardarla, ma il fruscio che seguì gli fece
immaginare che Michelle avesse preso a sfogliare freneticamente un catalogo o
una delle sue liste di prenotazioni.
- Mi
scusi, non sto trovando… ah, eccolo! – La sua improvvisa
esclamazione lo portò a voltare involontariamente lo sguardo verso di
lei, al che vide che Michelle stava fissando la pila di cataloghi e registri
posta di fronte a lui. La ragazza si spostò sulla sedia come se stesse
per alzarsi. – Aspetti un secondo, arrivo subito – Ancora prima che
lui potesse realizzarlo, Michelle gli si era avvicinata e si era seduta sulle
sedia accanto alla sua, avvicinando a sé la pila di raccoglitori e
cartelle. – Scusami, ci metto un attimo – disse frettolosamente,
mentre le sue guance già si coloravano di rosa acceso. Bill non
prestò attenzione a ciò che Michelle stava facendo, sentì
solo la sua presenza accanto a sé e il suo fianco urtarlo appena, forse
per sbaglio.
Di nuovo
inquietudine.
Di nuovo
buio.
Haylie guardò con diffidenza
la fila di piccole sedie azzurre addossate al muro, e lui di certo non poteva
biasimarla. L’ambiente non era propriamente confortevole.
Tuttavia, sapeva che era lui a doverla
rassicurare.
Era per il loro bene, per la loro
felicità.
Le circondò la vita con un
braccio, inclinando la testa di lato e sorridendole. – Dài,
sediamoci – Haylie annuì poco convinta, ma si lasciò
accompagnare fino alla prima sedia della fila. Quando Bill prese posto accanto
a lei, gli prese una mano e gliela strinse forte, senza guardarlo.
- Rilassati, andrà tutto
bene –
Haylie deglutì, annuendo una
seconda volta e avvicinandoglisi impercettibilmente, fino a che i loro fianchi
si sfiorarono. Gli credeva, lui era la sua unica fonte di sicurezza, ma quella
frase, “andrà tutto bene”, le ricordava un avvenimento
doloroso, l’ultimo di una lunga serie: quando stava per partorire, Bill
le aveva detto esattamente le stesse parole.
E poi la bambina l’aveva persa,
era nata morta.
Haylie appoggiò la testa
sulla sua spalla. Per quanto fosse spigolosa, il contatto con essa le procurava
calore e conforto. – Sì – mormorò incerta.
Bill strofinò una mano lungo
il suo braccio, per riscaldarla, e la strinse a sé. – Andrà
tutto bene – ripeté a bassa voce, scandendo piano le parole, come
se stesse parlando con una bambina… con una figlia.
Haylie si sciolse
dall’abbraccio solo per piegarsi di lato e appoggiare la testa sulle sue
gambe, accucciandosi contro il suo grembo e stringendosi il busto tra le
braccia. Lui cominciò ad accarezzarle i capelli, facendo scivolare le
dita tra i ciuffi ramati, e lei chiuse gli occhi.
Bill si chinò a baciarla su
una guancia. Haylie tremava appena.
La abbracciò goffamente, per
quanto la posizione glielo permettesse, appoggiando il mento sulla sua spalla,
e rimasero così, in silenzio per minuti interi, fino a quando Bill non
riuscì più a sopportare il rumore delle lancette che si
inseguivano sul quadrante del grande orologio appeso alla parete di fronte a
loro. – Stai tranquilla. Sono qui, amore mio. Sono qui –
sussurrò sfiorandole la guancia con un dito.
La ragazza richiuse gli occhi,
stringendosi nel suo abbraccio, e a Bill sembrò che quei minuti non
dovessero passare mai…
A Tom
sembrava ancora strano, dopo tutti quei giorni, poter aprire la porta di casa
senza dover aspettare che suo fratello tornasse dal lavoro. Senza contare che
era incredibilmente triste quell’unica chiave attaccata all’anello
metallico.
Certo,
quello era niente in confronto allo sconforto che provava ogni giorno, entrando
e uscendo da quel bar in cui aveva trovato lavoro. Ogni tanto c’era
ancora qualcuno che alzava gli occhi e diceva oh, tu sei quello dei Tokio
Hotel!, al che lui rispondeva che no, lui non era quello dei Tokio Hotel
perché i Tokio Hotel non esistevano più. A parte quei rari
avvenimenti, era successo ciò che i critici avevano predetto non molti
anni prima: quello era un gruppo destinato a cadere nel dimenticatoio, una band
che non avrebbe mai fatto la storia della Germania.
Nonostante
tutto, tornare a casa era un sollievo. Non era casa sua e le giornate
sembravano essere scandite da un ritmo sempre più lento, ma era sempre
meglio che starsene dietro a un bancone nella contemplazione del fallimento
della propria vita.
Appena
arrivato, Tom non perse tempo per gettare sul letto i propri vestiti e
rifugiarsi nella doccia. Aumentò quasi al massimo la temperatura
dell’acqua e si appoggiò con la schiena sulla parete, chiudendo
gli occhi e lasciando che mille rivoli bollenti gli scivolassero addosso.
Quando
girò il rubinetto e il getto si arrestò, gli parve di sentire un
rumore in lontananza, come lo sbattere di una porta. Uscì in fretta
dalla cabina della doccia, si gettò addosso un asciugamano e diede uno
sguardo all’orologio che aveva posato sul ripiano del lavandino: erano
appena passate le 19;00.
Rimase
immobile e in ascolto per qualche istante e stavolta sentì distintamente
dei passi veloci oltre la porta del bagno. Ma Bill tornava sempre dopo le
20;00. Allora cosa…
Fermò
l’asciugamano intorno alla vita con un nodo abbastanza stretto e
spalancò la porta del bagno, precipitandosi fuori.
Nell’attraversare il corridoio sentì un altro rumore, un colpo
appena più debole, e accelerò il passo, scivolando sulle sue
stesse impronte bagnate. Passò davanti alla cucina, alla camera da letto
e al ripostiglio, ma erano vuoti. Così si fermò proprio davanti
alla soglia del soggiorno e sporse cautamente la testa oltre lo stipite.
Davanti
alla finestra aperta, con le tende che svolazzavano in preda al vento freddo di
dicembre, c’era Bill, aggrappato al davanzale e chinato in avanti. Anche
a quella distanza Tom riuscì a vedere che aveva gli occhi chiusi, la
bocca spalancata in cerca di aria e respirava rumorosamente, come in preda a un
attacco d’asma.
- Bill!
– Attraversò il soggiorno a grandi passi e, quando affiancò
il gemello, poté sentire distintamente il suo fiato pesante: non stava
respirando rumorosamente, stava ansimando. Lo afferrò per una
spalla, scuotendolo per richiamare la sua attenzione. –
Cos’è successo? – Bill si voltò di scatto,
appoggiandosi da dietro al davanzale della finestra e ravviandosi i capelli con
una mano. Aveva un’espressione di terrore dipinta in volto ed era in un
bagno di sudore, nonostante il freddo. – Bill, ma tu stai male! –
Il moro
fece un gesto frenetico con una mano, continuando a boccheggiare. –
N-no… non è… niente… -
Tom lo
prese per le spalle, angosciato come non mai. – Come non è
niente?! Che hai? –
Bill
affondò il viso tra le mani, tremando. – Non posso… non
posso… - rantolò, mentre Tom lo guardava con occhi stralunati.
– Non posso conviverci, non posso! – gemette l’altro.
Il biondo
sentì delle gocce di sudore mescolarsi con quelle d’acqua. Il
gemello sembrava essere in preda al delirio e lui non aveva la minima idea di
come calmarlo. – Con cosa, Bill? – tentò di domandargli, con
esitazione ma ad alta voce per sovrastare i suoi ansiti. Ma lui non rispose, si
limitò a chiudere gli occhi e appoggiare la nuca contro la parete, in
cerca di aria. – Stai… stai calmo, sono qui –
Bill si
lasciò sfuggire un mugolio sofferente che Tom non seppe come
interpretare, ma riuscì pian piano a regolarizzare il respiro, ancora
aggrappato con una mano al davanzale della finestra. Socchiuse di poco gli
occhi, premendosi l’altra mano sul petto e mandando fuori gli ultimi
sospiri più pesanti.
Quando
riprese a respirare normalmente, Tom abbandonò la presa sulla sua
spalla, ma poteva vedere chiaramente che Bill era ancora sconvolto.
Lasciò che muovesse pochi passi incerti verso il divano per poi
abbandonarsi sui cuscini, appoggiandosi allo schienale e tirando un altro
profondo respiro.
-
Cos’era? – gli chiese esitante. Bill voltò lentamente la
testa verso di lui: aveva gli occhi lucidi e le labbra secche, e il tremore non
lo aveva abbandonato del tutto, ma cercò di darsi un contegno di fronte
al gemello.
-
Un… una specie di attacco di panico – rispose a mezza voce, ancora
con il fiato corto. – A volte mi capita –
Tom
cercò di dare l’impressione che quella risposta gli fosse bastata,
ma sapeva che Bill non gli avrebbe mai detto a cosa fosse dovuta quella
crisi.
- E quando
succede non fai niente? – Non poté fare a meno di dare alla
propria voce un’intonazione di ansia e apprensione. – Non so, non
hai… pillole, o…? -
- Non
servono – tagliò corto Bill, portandosi i capelli sudati dietro le
orecchie. – Quando viene, viene. E quando passa, tanto meglio –
Tom
continuò a fissarlo preoccupato, come se temesse che Bill ricominciasse
a sudare e ansimare da un momento all’altro. – E’ stata la
mamma a farti tornare prima? – Il moro si lasciò sfuggire uno
strano verso.
- No, sono
scappato senza bisogno di permesso – ribatté, abbandonandosi tra i
cuscini. – Non avrei potuto rimanere lì un minuto di più
– Subito dopo si morse involontariamente la lingua: non voleva che Tom
indagasse sulla causa di quel suo disturbo, ma l’ultima frase che aveva
pronunciato era praticamente un invito a chiedere di più.
- Beh,
certo – rispose inaspettatamente Tom. – Non credo sia un
granché avere un attacco di claustrofobia in un’agenzia di viaggi
– Il suo tono era un vago miscuglio tra l’apprensione per il
fratello e la delusione non del tutto smaltita per come Bill avesse buttato via
il suo talento senza pensarci due volte, intraprendendo un’attività
come quella. Dentro di sé, Bill si disse che quello era molto peggio di
un attacco di claustrofobia, ma preferì non ribattere. – Ti capita
spesso? –
- No!
– rispose, forse un po’ troppo velocemente. Il biondo lo
guardò scettico, al che Bill assunse l’unico tono con cui era
capace di farlo desistere. – Cos’è, mi fai il terzo grado
perché ho avuto un calo di pressione? – aggiunse infatti con voce
asciutta.
- Per
carità – Tom alzò le mani in segno di scuse. –
Perdonami se mi preoccupo per te –
- E
smettila con questa sceneggiata – si lasciò sfuggire Bill, con
tanto di una sonora sbuffata.
- Guarda
che sei tu quello che fino a due minuti fa annaspava davanti alla finestra
spalancata! –
- Quella
non era una sceneggiata! – berciò Bill, sentendosi punto sul vivo.
Cosa ne poteva sapere Tom di quello che lui aveva passato e di quello che stava
tuttora vivendo?
- Allora
come mai è successo? –
Bill
socchiuse gli occhi e strinse le labbra, cercando di sostenere lo sguardo di
sfida di Tom. – Senti, – Prese un bel respiro e pronunciò a
fatica quella parola: - …scusa se ti ho fatto preoccupare. Non succederà più –
Avrebbe voluto aggiungere “non è colpa mia”,
“non sono affari tuoi”, “sono mesi che vado avanti
così”, o anche solo “non voglio parlarne”.
O “ho un disperato bisogno di parlarne”.
No. Non era così. Non poteva essere. Non poteva aver voglia di
parlarne con qualcuno, men che mai con suo fratello.
Eppure, solo pochi anni prima, in una situazione del genere, non
avrebbe neanche preso in considerazione altre possibilità.
Tom incrociò le braccia sul petto con aria corrucciata e solo in
quel momento Bill si accorse che il fratello era praticamente nudo, se non
fosse stato per l’asciugamano legato intorno alla vita, e bagnato dalla
testa ai piedi.
- Va’ ad asciugarti, no? – quasi lo aggredì. –
La finestra è spalancata, ti prenderai un accidente –
Il biondo non seppe se prendere quella constatazione come un segno che
Bill non lo volesse più tra i piedi o come una prova del fatto che, in
fondo, anche lui mostrasse –in un modo tutto suo, indubbiamente- una
certa quale preoccupazione nei suoi confronti. Decidendo che la seconda opzione
era troppo fantascientifica, preferì prendere in considerazione solo la
prima ed esaudire il desiderio del fratello.
- Tolgo il disturbo –
E abbandonò il soggiorno calpestando le sue stesse impronte
bagnate, quelle che aveva lasciato per il corridoio prima di scoprire Bill in
preda a un attacco di panico.
E pensare che ora era quasi pentito di averlo scoperto.
“Dimmi, dimmi,
dimmi ora chi sei
se qualche volta hai
mai pensato a noi,
soffrire dicono
è utile
se non uccide fa
crescere”
…
Tom mise giù il giornale con un sospiro rassegnato.
Era più di una settimana che scandagliava minuziosamente gli
annunci lavorativi, nel disperato tentativo di trovare un altro impiego, uno
qualsiasi che potesse riservare qualche attrattiva in più rispetto al
posto dietro al bancone di un bar, ma aveva dovuto prenderne atto: questo era
praticamente impossibile.
Niente
stuzzicava la sua curiosità, niente sembrava interessante.
Era ancora combattuto tra il desiderio di trovarsi un lavoro stabile e
quello di continuare così per anni, facendo la spola tra un mestiere,
per così dire, riparatore e un altro. La seconda soluzione era
certamente meno comoda, ma, trovandosi un impiego fisso, gli sarebbe sembrato
di mettere da parte qualsiasi possibilità di tornare, un giorno, a
quella che era la sua vita prima.
Sarebbe stato come chiudere la chitarra in un ripostiglio e gettare la
chiave. Avrebbe significato mettere una X sul nome dei Tokio Hotel, seppellire
un sogno che era diventato realtà.
Forse doveva rassegnarsi a marcire tra brioche e cappuccini.
Il silenzio fu spezzato dallo squillo del telefono nel momento stesso
in cui Tom ripiegò il giornale e lo poggiò sul tavolo del
soggiorno, da dove l’aveva preso. Quel giorno non aveva fatto orario
continuato, era tornato a casa poco dopo pranzo e Bill, come al solito, non
sarebbe arrivato che per cena.
Allungò una mano verso il telefono e sollevò il
ricevitore. – Pronto? –
Dall’altra parte, una breve pausa di silenzio.
- …oh. Tom, sei tu? – fece poi una voce incerta, che Tom
riconobbe come quella di sua madre.
- Sì mamma, sono io –
- Bill non c’è? – Il tono di Simone non risultava
particolarmente apprensivo, sembrava solo che sperasse nell’assenza di
Bill.
- Non è in agenzia? – Tom aggrottò lo sopracciglia.
- Oggi è il suo giorno libero, non te l’ha detto? –
Seguì un’altra pausa, stavolta più lunga, soppesata
solo dai respiri di Tom, brevi e secchi. – No – disse soltanto.
- Ah – Anche Simone sembrava improvvisamente a corto di parole.
– Beh, non preoccuparti, sarà in giro… -
- Certo – rispose lui, cercando di convincersi che sua madre non
potesse essere tanto stupida da credere che fosse normale che un ragazzo di
venticinque anni decidesse improvvisamente di sparire per un’intera
giornata senza renderne conto a nessuno.
- Volevo appunto chiederti… come sta? –
- Non puoi chiederlo a lui, scusa? –
Simone si fece impacciata. – So che in questi giorni non è
stato bene –
- Oh. Te l’ha detto lui? – Tom si stupì sinceramente
di sperare in un “no” di risposta.
- No, è stata… una nostra collega a dirmi di averlo visto
un paio di volte uscire di corsa dall’agenzia. E di solito lo fa quando
non sta bene, quindi… –
- Mamma, non ci tengo a fargli da babysitter, e neanche lui lo vuole,
stanne certa – la interruppe stancamente. – Quindi, se vuoi sapere
come sta, chiedilo a lui, se vuoi sapere come sto io chiedilo a me, e se vuoi
sapere come vanno le cose te lo dico subito: uno schifo –
- Oh, Tom – Pur non senza rimproverarsi mentalmente, Tom non
poté fare a meno di pensare a quanto odiasse quel tono rammaricato. Era
lo stesso che Simone aveva usato quando lui e Bill si erano messi nei pasticci
a scuola e il preside l’aveva mandata a chiamare, il che era successo non
poche volte. Puntualmente, lei accorreva, li guardava seduti vicini e con il
capo chino e sospirava “oh, Tom”, “oh, Bill” o
“oh, ragazzi”. – Non sai quanto darei perché
voi… -
- …vi ricongiungeste felici e contenti, sì – Il
ragazzo gettò uno sguardo annoiato fuori dalla finestra. – Lo so
–
- So che è difficile, ma tu stagli vicino – soggiunse
ansiosamente Simone.
- Per favore, non tirarmi fuori il discorso del periodo difficile
– La richiesta di Tom risultò molto più simile a un
avvertimento, quasi una minaccia. All’altro capo del filo, invece, il
tono di Simone assunse una sfumatura di severità.
- Sei ingiusto, Tom –
Tom sapeva che tutto quello non era normale, sapeva che il suo
atteggiamento era molto più che discutibile. Quello che non sapeva era
se la delusione di sua madre fosse autentica, se davvero pensasse che le cose
si sarebbero sistemate con uno schiocco di dita.
E Tom decise di abbandonare il controllo dei propri pensieri, lasciando
che essi fluissero in libertà attraverso le sue parole, che queste scandalizzassero
o ferissero sua madre. Non gli importava.
- Già, perché sono sempre gli altri a soffrire, vero?
Sono gli altri che piangono, s’incazzano e si sfogano comunque e con
chiunque. Io… credo che tu mi conosca, mamma, e che tu sappia che io ho
sempre odiato il vittimismo, ma, davvero… io così non ce la faccio
– Tom si interruppe solo un attimo per riprendere fiato, non certo per
chiedersi se quello che diceva fosse giusto. Capì che sua madre era
pronta a ribattere, così ricominciò a parlare senza dargliene la
possibilità. E non fu neanche tanto difficile. – Ho già
fatto più che abbastanza, mi pare, e te lo posso dire con la coscienza a
posto. Ho mollato tutto quando era più giusto farlo, lasciandomi dietro
tutto quello che per me era importante, e ancora mi trascino appresso il
rancore perché me ne sono andato, ho girato come una trottola per tre
anni, mi sono adattato a vivere a chilometri di distanza dalla mia vera vita, e
per cosa sono tornato? Per sapere che tutto questo è stato inutile, che
le mie scuse non sono state accettate, che non servo a nessuno? –
Se non avesse lasciato che quello sfogo venisse fuori da sé, Tom
ne era sicuro, non sarebbe riuscito a pronunciare quell’ultima frase, il
suo cruccio trasformato in parole.
Perché era questo a far sì che il sonno arrivasse sempre
più tardi, che lui non trovasse il dialogo con Bill anche quando non
desiderava altro, che nella sua mente ogni tentativo venisse bollato come
inutile.
Non riusciva a farsi raccontare da Bill quello che era successo con
Haylie, non riusciva a chiedergli scusa come avrebbe voluto, non riusciva a
farlo star meglio, certi giorni non riusciva neanche a guardarlo negli occhi.
Ormai poteva solo farsi scivolare addosso ogni minuto, ogni ora, ogni
giornata, senza aspettarsi niente di nuovo, neanche quel miracolo in cui,
inconsciamente, aveva sperato non molto tempo prima.
- Io non ci sto, mamma – disse infine, chiudendo gli occhi.
Dall’altra parte, non vi fu risposta.
…se quel respiro lieve e appena irregolare non potesse essere considerato
tale.
Simone non disse niente, non spese una sola parola, e Tom si
ritrovò a pensare che non gliene importava nulla. Non gli avrebbe dato
aiuto, non gli sarebbe servito come conforto, e sicuramente neanche lui avrebbe
in qualche modo aiutato sua madre. Dunque era meglio che almeno lei tenesse per
sé le parole, che non ne sprecasse altre, se queste avessero dovuto
essere taglienti come quelle di Tom.
- …buona serata – esalò alla fine, prima di chiudere
la comunicazione con un click leggero e, allo stesso tempo, assordante.
A Tom parve quasi di vederla chinare la testa e lasciarsi sfuggire
qualche lacrima. E, anche lì, non avrebbe potuto farci niente.
“Sono cresciuto
senza di te,
a tutto si fa
l’abitudine”
NdA
Ora si
comincia a ragionare. Tom dovrà pur dare sfogo alle proprie paturnie, ma
io devo dar sfogo al mio odio incondizionato per Simone XD E non chiedetemi perché.
La detesto a basta.
La canzone
è sempre “Milioni di cose che non ti ho detto” di Raf…
non l’avreste mai immaginato eh? Piuttosto, mi chiedo... ma dove sono finite le donzelle che mi hanno commentato i primi capitoli per poi volatilizzarsi (tipo EtErNaL_DrEaMeR e noirfabi...)??? Ragazze mi mancate taaaaaaaaantooo!!
Via alle
risposte!
kag92: Ma sì, dai, sono maturi
tutti e due… sono cascati dall’albero e hanno battuto la testa XD Ah,
non avevi letto “Dimentica”? Beh, non ci perdi niente, ma diciamo
che dà una minima idea del perché di tutto questo macello…
Kuss
angeli neri: Il mistero che continua a
tormentarci… come dimostra che Haylie è il male! Chissà per
quanto tempo ancora vi farà rodere…
AlYzScHrEiBy: Allora…. Grazie graziegrazie!! Originale, dici?
Mah, non so… semplicemente mi allettava l’idea di mandare i
gemellini sul ring e strapazzarli per bene. E ti ringrazio della tua
osservazione, perché uno dei miei scopi principali era proprio quello di
non rendere il tutto troppo melodrammatico. Sono contenta di ricevere
approvazione! XD Baci baci
moonwhisper: a TE devo dedicare un po’
più di attenzione *______* criminala che non
sei altro, mi hai fatto prendere un infarto. Ora spiegami il tuo programma:
vuoi recensire ogni tot capitoli e mollarmi questi referti psichiatrici, o ti
accontenterai di commenti in pillole? XD Ovviamente scherzo, le tue recensioni
sono rigeneranti come sempre. Se vuoi rendermi partecipe dell’idea che ti
sei fatta sulla morte di Haylie, mandami pure un mp,
ma già leggo i tuoi pensieri *_* No, non credo che tu abbia dimenticato
niente. Solo un pacco di fazzoletti per la sottoscritta. Mi raccomando, il mio
ego è avido di altre impennate d’autostima X°°DDD
Qualcuno
doveva aver sbagliato i calcoli quando il giorno non lavorativo era stato
denominato “giorno libero”.
Lui non si
sentiva libero.
Aveva
visto un milione di film in cui qualcuno si ritirava a riflettere in riva al
mare, magari con aggiunta di gabbiani e tramonti dai colori spettacolari. Lui,
al mare, c’era stato solo da bambino, e soprattutto non sentiva il
bisogno di riflettere. Anzi, avrebbe voluto perdere del tutto la
capacità di farlo. Ma gli venne naturale pensare a una di quelle scene.
Forse sarebbe cambiato qualcosa, se si fosse seduto sulla sabbia e, chiudendo
gli occhi, avesse ascoltato gli strilli dei gabbiani e lo scroscio delle onde
che si infrangevano contro gli scogli. O forse sarebbe stato tutto uguale.
L’unica
cosa di cui sentiva il bisogno era di isolarsi da tutto e da tutti, soprattutto
dai ricordi che, invece che lasciarlo in pace, sembravano farsi sempre
più insistenti.
Quando vide la porta della camera
da letto aprirsi con un leggero cigolio, istintivamente cercò di
sistemare la propria giacca, tirandola un po’ più in basso. Non
era il genere d’abito che era solito indossare, ma quella era
un’occasione speciale. Era la sera della vigilia di Natale, lui e Haylie
sarebbero andati a cena fuori e…
Quasi rimase senza fiato, quando
lei gli comparve davanti.
Sul momento non si soffermò
a studiare l’espressione del suo viso, ma i suoi occhi percorsero
interamente il corpo della ragazza, fasciato dal bellissimo vestito che lui
stesso le aveva regalato. Non era che un semplice, fine abito da sera, bordeaux
e senza fronzoli particolari, ma a lei… a lei, stava da Dio. Sottolineava
ogni forma e metteva in risalto la sua figura.
E la sua figura era semplicemente
incantevole, in quel momento più che mai.
- Santo cielo – non
poté trattenersi dal mormorare. – Sei… sei stupenda –
I loro sguardi si incrociarono.
Haylie sorrise, ma sorrise in un modo che fece comprendere immediatamente a
Bill cosa le passasse per la testa: lei non la pensava affatto allo stesso
modo.
- Grazie – rispose appena,
chinando la testa quasi come se si vergognasse. Non la alzò neanche
quando Bill le si avvicinò e le prese una mano, stringendola forte.
- Haylie – Bill dovette
attendere qualche secondo perché i loro sguardi si incontrassero di
nuovo e, quando questo successe, si rese conto che non era quella
l’espressione che voleva leggere nei suoi occhi. – Ce
l’abbiamo fatta, tesoro. Non devi più preoccuparti, va bene?
– Si interruppe, in attesa di una risposta che non arrivò. –
Vedrai che… -
- Lo so, lo so. D’accordo
– Haylie posò velocemente una mano sulla sua guancia, per poi
sfiorargli le labbra con un bacio altrettanto rapido. Bill si rilassò,
allentando leggermente la presa sulla sua mano, ma, quando i loro volti si
separarono, lei non sorrideva più.
E lui non poté fare altro
che sospirare.
- Allora… andiamo? –
“Sei bella di
più,
bella come mai,
solo un po’ di
amarezza
sulle labbra e dentro
gli occhi tuoi”
Bill si
riscosse improvvisamente, le mani ancora strette sul volante. Se l’auto
fosse stata accesa, come minimo avrebbe tamponato. Oppure ci sarebbe stato
direttamente un incidente e allora avrebbe davvero smesso di meditare.
Non che
fosse particolarmente piacevole, ma rimuginare barricato in macchina e fermo
nel cuore della periferia di Amburgo, possibilmente, era ancora peggio. Non
aveva senso, così come non aveva senso sulla terrazza di casa propria,
né avvolto tra le coperte al caldo nel suo letto, né da
nessun’altra parte.
Ripartì
con una sonora sgommata, rischiando di travolgere una ragazzina che aveva
deciso di attraversare proprio in quel momento. Premette il piede
sull’acceleratore e sperò che questo bastasse a ridurre i ricordi
a una nuvoletta pronta a dissolversi, come il gas di scarico che si lasciava
dietro in quell’improbabile fuga. Se solo il codice della strada
l’avesse permesso, avrebbe guidato ad occhi chiusi. E allora sì,
forse così si sarebbe sentito finalmente in pace.
Invece gli
occhi dovette tenerli bene aperti e questo lo aiutò a rendersi conto di
che ora fosse quando parcheggiò nel vialetto di fronte casa: non
mancavano che pochi minuti a mezzanotte. Gli ci volle qualche istante per
focalizzare l’informazione, mentre rovistava freneticamente nelle tasche
alla ricerca delle chiavi di casa, e soprattutto per prendere atto di quella che
era stata la sua giornata: non aveva fatto assolutamente niente per più
di dodici ore.
Quando
infilò la chiave nella serratura non dovette sforzarsi per non fare
rumore. Era lui stesso a odiare qualsiasi forma di baccano e ormai era come se
si muovesse nell’ombra, nel tentativo di non dare nell’occhio: era
una tecnica che aveva dovuto affinare dopo lo scioglimento dei Tokio Hotel.
Tuttavia
si stupì, una volta entrato in casa, di trovare le luci accese e, ancora
di più, di vedere Tom in soggiorno, seduto sul divano davanti alla
televisione. Non mostrò alcun segno di aver notato la sua presenza,
anche perché gli dava le spalle. Ma non ci volle molto perché
Bill si accorgesse che lo sguardo del fratello sembrava oltrepassare il
televisore, mentre il pollice premeva ritmicamente un tasto del telecomando,
facendo sì che i canali scorressero l’uno dopo l’altro ad
intervalli regolari. Mosse qualche passo verso il divano.
-
…sei ancora alzato? –
Si sarebbe
aspettato che Tom sobbalzasse a quelle parole, o che, come minimo, si mostrasse
sorpreso. Invece non gli rivolse neanche un’occhiata.
-
Già, il sonno è partito – disse, apparentemente senza che
una sola emozione sfiorasse la sua voce.
- Non mi
stavi aspettando, vero? – si ritrovò a chiedergli Bill, senza
volerlo davvero. Non credeva che questo gli importasse, ma la domanda era
uscita fuori da sola e, prima che lui potesse mordersi la lingua, Tom rispose:
- Beh,
dovevi tornare prima o poi, no? –
Bill
pensò automaticamente che Tom aveva sempre odiato le risposte enigmatiche
e, ancora una volta contro la propria volontà, si chiese come potesse
essere cambiato così di colpo.
- Comunque
ha chiamato la mamma. Voleva sapere come stai –
- Oh
– Il moro si trattenne dall’osservare che, in fin dei conti, lui e
sua madre si vedevano praticamente ogni giorno e non c’era motivo
perché lei telefonasse. Lo pensò soltanto, non sentì il
desiderio di mutare la propria considerazione in parole più o meno
acide. Forse la stanchezza giocava davvero brutti scherzi.
Inaspettatamente,
Tom si voltò a guardarlo, alzando un sopracciglio. – Hai
un’aria stravolta –
A Bill
parve di cogliere una nota di preoccupazione nella sua voce, ma forse anche
quella era opera della stanchezza. Dopotutto non c’era motivo
perché Tom fosse preoccupato per lui. Non dopo che erano diventati due
estranei, non dopo che…
…non
dopo che lui lo trattava come tale.
- In
realtà non ho fatto nulla per tutta la giornata – ammise,
chiedendosi ancora una volta il perché di quel round di confidenze. Con
stupore, vide le labbra di Tom incresparsi in un sorriso appena accennato.
- Una
piccola fuga dalla realtà? –
Se fosse
stato il Bill di un tempo, probabilmente sarebbe arrossito. Perché il
Bill di un tempo arrossiva sempre, quando si vedeva smascherato.
Il Bill di
venticinque anni, invece, si limitò a stringersi nelle spalle e a
distogliere lo sguardo.
- Non so.
Può essere –
- Scappare
non serve a niente, lo sai, vero? – Lo sguardo di Bill guizzò
rapidamente verso il gemello: non aveva messo nessun’aria di supponenza o
espressione canzonatoria. Ma non sembrava neanche un rimprovero, il suo. Era
strano, era come… un’aria da fratello maggiore.
Sbatté
più volte le palpebre, passandosi una mano fra i capelli: a giudicare
dalla massa informe che le sue dita incontrarono, doveva avere sul serio
un’aria stravolta. E questo spiegava anche i pensieri sconnessi.
- Sei tu
che non lo sai –
Le sue
parole non risultarono taglienti come al solito, e Tom alzò le spalle.
- Forse
– si limitò a dire. – Comunque, non preoccuparti se stanotte
senti rumore. Dubito che il sonno arriverà tanto presto –
E gli
voltò le spalle, alzando appena il volume della televisione.
…
Per Bill,
la routine si ripeteva sempre uguale.
Ore 7;00:
sveglia.
Ore 8;30:
lavoro.
Ore 13;20:
pausa.
Ore 20;00:
a casa.
Doveva
aver sentito da qualche parte che la ripetizione continua e costante di una
routine, il susseguirsi di una serie di regole precise, conferiva come un senso
di sicurezza nel soggetto ad essa sottoposto. Strano, perché la
sensazione che tutto ciò gli procurava era ben diverso dal suddetto
senso di protezione.
Un tempo,
era stata inadeguatezza, che non aveva tardato a trasformarsi in insofferenza.
Poi l’insofferenza aveva ceduto il posto a un curioso senso di timore, o
persino di angoscia. Questo non accadeva che da qualche giorno, al massimo un
paio di settimane. E il senso di inquietudine era sempre abbinato a situazioni
specifiche.
Il giorno
prima, per esempio. Chiuso in macchina e più attaccato ai ricordi che al
volante, cosa poteva aver provato se non una pesante e insistente angoscia?
Anche le
domande di Tom erano facilmente riconducibili a quella sensazione. Non era
più lo stare semplicemente seduti alla stessa tavola, non erano le poche
ore trascorse nel più assoluto silenzio. Erano proprio le sue domande,
quegli odiosi interrogativi che suo fratello gli poneva accompagnandoli con
sguardi diversi a seconda della situazione: inquisitori, adirati, apprensivi,
fraterni…
Fraterni.
Che strana
parola.
Gli era
capitato di rado di identificare uno sguardo di Tom come fraterno, ultimamente.
Non che si fosse mai soffermato a guardarlo negli occhi per più di tre
secondi. Aveva paura di scovare qualcosa nel suo sguardo, qualcosa che non
avrebbe voluto trovare, pur non sapendo precisamente cosa. Ecco, in realtà
non aveva mai pensato di vedere qualcosa di fraterno negli occhi di Tom,
in quei pochi mesi che avevano passato sotto lo stesso tetto. Aveva soltanto
pensato “in questo momento, Tom sta cercando di comportarsi da
fratello”.
Il suo
flusso di coscienza si interruppe bruscamente, stuzzicato da una domanda
pungente: da quanto tentava di farsi strada nella mente di Tom, dal momento che
aveva bollato quell’impresa come “impossibile”?
A sua
volta, anche la domanda fu stroncata sul nascere.
- Biiill!
–
Non
distinse subito l’immagine che si trovava davanti. Dei capelli biondi.
Un’indefinita macchia azzurra. Un movimento repentino.
Quando la
sua mente si aprì e focalizzò la dinamica degli avvenimenti,
Michelle era in bilico tra il telefono e la sua sedia, e parlava tenendosi in
precario equilibrio su un piede solo, dopo aver incastrato la cornetta tra
guancia e spalla. Bill non dovette faticare molto per capire che il suo
telefono doveva aver squillato all’infinito senza che lui vi avesse
badato.
La
telefonata fu breve, o forse era lui ad aver perso la cognizione del tempo.
Già da qualche giorno non riusciva a scrollarsi di dosso quella
fastidiosa impressione che lo faceva sentire come se fosse costretto a
camminare sott’acqua.
Michelle
tornò al proprio posto, passandosi una mano tra i capelli con un sorriso
imbarazzato. – Scusami se ti sono praticamente saltata in braccio, ma
sembravi in trance! – Bill non trovò una risposta più
intelligente di una scrollata di spalle e Michelle proseguì, giocherellando
con l’orlo del maglione azzurro che indossava. – A volte sembri
perso in un mondo tutto tuo… -
- Oh,
beh… - Anche in quel caso, una seconda scrollata di spalle non avrebbe
stonato.
- Non sai
cosa darei per sapere cosa ti passa per la testa! – ammise la ragazza,
dal cui tono traspariva tutto l’imbarazzo che doveva aver provato a causa
di quella confessione. Bill rispose senza riflettere.
- Poi te
ne pentiresti, credimi – Allegò a quella frase un mezzo sorriso
che le diede il tono di una presa di confidenza, cosa assolutamente non intenzionale.
Bill si sentiva già abbastanza a disagio nel dover affrontare discorsi
del genere per avanzare proposte di amicizia o similari. Ma Michelle non
sembrò captare i suoi pensieri.
- Sai che
di solito le persone come te mi mettono in… in soggezione, quasi? –
Bill
avrebbe voluto rispondere con un educato “oh davvero?”, ma, anche
stavolta, non andò oltre un’alzata di spalle. Sperava che la
collega afferrasse il messaggio, cosa che non successe. – Non so, con te
è diverso. Mi sento a mio agio anche quando non spiccichi parola –
Sorridi
o sarai bollato a vita come un gorilla obsoleto, pensò Bill. Ma
pensò anche che questo non gli importava affatto. – Beh… -
La sua
palese mancanza di entusiasmo non parve scoraggiare Michelle che, al contrario,
aveva messo su un’espressione vivace che Bill non ricordava di aver mai
visto sul suo viso. – Sai, tua madre mi ha raccontato che fino a un
po’ di tempo fa cantavi in un gruppo –
Varie
considerazioni transitarono nella mente di Bill, delle quali nessuna si
tradusse in parole: sua madre doveva smettere di considerarlo il suo bambino, e
in fondo era strano che Michelle si mostrasse tanto curiosa in proposito. Forse
che non aveva mai acceso la televisione o la radio? Oppure era davvero
così diverso dal Bill Kaulitz dei Tokio Hotel, così diverso da
rendere impossibile l’associazione delle due parti?
- Ah
– si limitò a constatare, decidendo per una risposta semplice e
scarna.
- Me
l’ha detto lei, io non avrei mai immaginato… Non ne ho mai capito
niente, di musica, in questo campo sono totalmente ignorante. Ma Simone mi
diceva che eravate conosciuti in tutto il mondo, che tutti vi adoravano. Come
mai hai smesso? E’ un peccato… -
Fu un
attimo. Vuoto, buio, di nuovo inquietudine. E poi, blackout.
Haylie rigirava tra le mani il cd
ormai consumato, in un misto di nostalgia e rassegnazione.
- Haylie, ti prego, mettilo
giù – disse Bill, mascherando una risatina. – Speravo di
rimuovere l’immagine di me sepolto dal fango solo per rendere
interessante la copertina di un cd –
Ma la ragazza non lo
ascoltò. – Quand’è che torni con loro? –
Bill alzò gli occhi al
cielo. Il discorso non gli risultava per nulla nuovo. – Presto, te
l’ho detto. Per ora non è il momento –
- E quando arriva, il momento?
– Il tono di Haylie non era né adirato né scontroso. Solo,
quella faccenda non le dava pace. Bill alzò le spalle.
- Arriverà. Ma non adesso
– La ragazza rimase in silenzio per qualche secondo, sfogliando il
libretto con tutti i testi di “Zimmer 483”. Poi lo
ripose nella custodia.
- E’ la tua vita… - mormorò,
senza alzare lo sguardo. Bill le circondò le spalle con un braccio e le
sfiorò una tempia con un bacio.
- Sei tu la mia vita –
- Bill?
–
Il ragazzo
sbatté ripetutamente le palpebre, rimettendo a fuoco Michelle che lo
guardava incuriosita. Il suo sorriso era leggermente cambiato. Prese un bel
respiro, senza chiedersi per quanti secondi fosse rimasto in trance. –
No, davvero – disse lentamente, nel tentativo di riprendere il filo della
conversazione. – Non è un peccato. Non era così importante
–
Qualcosa
gli si fermò in gola. Da quando una semplice bugia lo faceva sentire
così… sporco?
E
perché, dannazione, perché non riusciva a scrollarsi di
dosso quel senso di angoscia che lo perseguitava anche da troppo tempo?
Michelle
gli diede una risposta che lui non ascoltò e a cui rispose a sua volta
senza nemmeno pensarci, per poi rimuovere tutto dalla propria mente.
Rimuovere,
sì. Era l’unica soluzione. Parlare e cancellare ogni parola,
dormire e dimenticare ogni sogno, vivere e mettere da parte ogni cosa.
…
Tom si
riscoprì molto sorpreso di constatare che, in quegli ultimi giorni, Bill
sembrava decisamente inquieto. Se ne stupì non perché non se lo
aspettasse, ma perché questa si era rivelata la conferma alle sue
ipotesi. Ed era molto, molto strano che riuscisse a capire cosa passasse per la
testa di Bill.
Aveva
notato un cambiamento persino nel suo stesso modo di affrontare la situazione.
Forse era a causa di quei brevi momenti in cui Bill aveva mostrato la propria
fragilità, forse era la forza dell’abitudine, ma a Tom sembrava di
vivere in quella casa da oltre un anno. Avrebbe quasi potuto definirsi
tranquillo e sereno, se le circostanze non fossero state quelle che invece
erano. In verità, dopo quella conversazione telefonica con sua madre, si
sentiva svuotato, come se non avesse neanche voglia di provare rabbia o
rancore.
Aveva meno
voglia di sforzarsi per comportarsi in un certo modo con il gemello, ma questo,
probabilmente, succedeva perché era convinto che un giorno o
l’altro sarebbe stato lo stesso Bill a cambiare nei suoi confronti. Non
sapeva se avrebbe dovuto mettere da parte quella curiosa speranza, ma quella
era lì, intaccava fermamente il suo cervello e sembrava aver intenzione
di rimanere dov’era.
Bill era
meno aggressivo. Sembrava semplicemente stanco. E Tom sapeva –o forse
cercava di convincersene- che, a un certo punto, una molla sarebbe scattata. Un
giorno, Bill gli avrebbe raccontato come aveva passato quei tre anni lontano da
lui, gli avrebbe rivelato come era morta Haylie.
Se solo ci
avesse creduto davvero…
Quella
sera, Bill sembrava più agitato che mai e Tom avrebbe dato qualsiasi
cosa per conoscerne il motivo. Al ritorno dal lavoro, il gemello lo aveva a
malapena salutato, per poi issare nuovamente quell’odioso muro che li
teneva più lontani di quanto non fossero mai stati. Tom lo aveva
guardato consumare frettolosamente la cena e poi ritirarsi in camera da letto,
lo aveva visto rigirarsi come un ossesso tra le coperte, chiedendosi cosa lo
tormentasse.
Era
semplicemente il ricordo di Haylie, la cui fotografia non si era mai spostata
dal suo comodino? Era il fatto che lei non ci fosse più? O c’era
qualcos’altro, qualcosa di ancora più profondo e martellante?
Sbuffando,
si tirò le coperte fin sopra la testa e si costrinse a dormire. Avrebbe
voluto tornare indietro e avere sedici anni, per non credere
all’esistenza dell’amore e pensare solo a divertirsi.
Bill si
rigirò per l’ennesima volta, affondando la faccia nel cuscino. Non
riusciva a dormire, ma allo stesso tempo non si sentiva neanche completamente
sveglio. Calciò via la coperta, sentendo improvvisamente un caldo
insopportabile, poi se la tirò su fino alla vita, voltandosi nuovamente
su un fianco.
Era
strano, era orribile. Si sentiva come se stesse correndo a perdifiato, come se
stesse scappando, cercando di raggiungere una meta che neanche lui conosceva.
Aveva cominciato a sudare, ma sentiva freddo, come se si fosse trovato sotto la
doccia e avesse girato improvvisamente il rubinetto, passando dalla temperatura
del Sahara a quella del Polo Nord. Gli pareva di sognare anche se era sveglio,
di essere tormentato da un incubo dopo l’altro anche se i suoi occhi
erano aperti.
Si mise a
sedere sul letto, ma un improvviso senso di vertigini lo costrinse a bloccarsi,
aggrappandosi al bordo del materasso. Non osò aprire gli occhi,
perché sicuramente avrebbe visto la stanza girargli intorno, ma poi si
costrinse a tirarsi su, appoggiandosi al comodino con mani tremanti. Mosse un
incerto passo in avanti, socchiudendo le palpebre e senza neanche rendersi
conto del tremore che si era impadronito delle sue ginocchia. La stanza non gli
girava intorno, ma non era altro che una macchia sbiadita davanti ai suoi
occhi.
Barcollando,
cercò di oltrepassare il letto, ma un altro giramento di testa lo
obbligò ad afferrare la testata per non cadere. Sentì il cuore
accelerare i battiti, ma non ne distinse il rumore.
Quando il
respiro si fece più affannoso, tornò a sedersi sul letto,
appoggiando la schiena sui cuscini e passandosi le mani sul viso, nel tentativo
di scacciare quel malessere. Ma lui continuava a sentirsi come se un fantasma,
appostato dietro di lui, ridesse della sua sofferenza…
Doveva
mandarlo via… doveva mandarlo via o sarebbe impazzito…
Quando
riaprì gli occhi, non vide più la macchia sfuocata, ma una figura
che si stagliava nettamente sullo sfondo della camera da letto.
Non vide
altro che un corpo interamente coperto da un lenzuolo.
Volevano che lui non li vedesse
mentre la coprivano con quel lenzuolo, come se questo avesse potuto cambiare le
cose. Volevano che lui la lasciasse.
- HAYLIE! – urlò con
tutto il fiato che aveva. Due mani lo afferrarono saldamente per le spalle, ma
lui si divincolò furiosamente. – NO! NON POTETE! NON POTETE
MANDARMI VIA! –
- Herr Kaulitz, la prego… -
- NO! – Voleva solo liberarsi
da quella stretta e uccidere tutti quelli che in quel momento si trovavano
lì, voleva che lo lasciassero solo con lei, voleva che lei si alzasse e
gli dicesse che stava bene…
- …la prego, esca di qui
–
Quel corpo coperto dalla sottile
stoffa bianca…
- NO! HAYLIE! HAYLIE! –
…quel corpo fu l’ultima
cosa che vide prima che lo portassero fuori di peso.
- NOOOO! –
Tom si
svegliò di soprassalto, e per un istante non riconobbe neanche il timbro
di quel grido che aveva squarciato la notte. Tirò giù le coperte,
mettendosi seduto di scatto, e non ebbe nemmeno il tempo di chiedersi cosa
fosse successo, perché fu subito colpito dalla vista di Bill,
rannicchiato su se stesso nel suo letto, il viso affondato tra i pugni chiusi.
- Bill!
– Saltò giù dal letto, precipitandosi accanto al suo: il
gemello aveva ritirato le ginocchia al petto e sembrava volersi difendere da
una scarica di pugni, il suo corpo era scosso da un tremito incontrollato e il
respiro irregolare era suggerito dal sussultare continuo delle sue spalle.
– Bill, che succede? – esclamò Tom, la voce ancora impastata
di sonno ma carica di ansia.
-
No… Haylie… no… - balbettò il moro, stringendosi delle
ciocche di capelli tra le dita e non accennando a smettere di tremare. Tom lo
afferrò per una spalla, scuotendolo e costringendolo ad alzare la testa.
Gli occhi di Bill, spaventosamente vitrei, fissavano il vuoto. – E’
colpa mia… è colpa mia! – gemette, chiudendo il pugno
intorno a un lembo della maglia di Tom. Quest’ultimo non sapeva se fosse
stato un gesto volontario o meno, sapeva solo che Bill era terrorizzato e,
soprattutto, incosciente.
- Che vuoi
dire? – mormorò a fior di labbra, stringendo la presa sulla sua
spalla. – Cosa significa che è colpa tua? – Ma Bill non fece
altro che scuotere la testa, seguitando ad ansimare.
-
Haylie… no… perché? –
Tom si ritrovò a guardarlo con le sopracciglia aggrottate e le labbra
socchiuse, in attesa. La paura gli si era fermata da qualche parte nello
stomaco, la bocca gli si era improvvisamente seccata, i pensieri avevano
interrotto il loro corso. – Colpa mia… è solo… colpa
mia… -
-
Bill… - La sua mano allentò di poco la presa sulla spalla del
fratello, scivolando sul suo braccio. Dalle labbra del moro non uscì
altro che un sommesso “no”. Il tremore era diminuito appena, ma
Bill continuava a sudare. Sembrava un bambino svegliato da un brutto sogno, e
Tom si chiese quanto simile a un incubo potesse essere la vita di suo fratello.
Ma
soprattutto, il vederlo così gli fece acquisire una nuova
consapevolezza.
Avrebbe
voluto abbracciarlo. Avrebbe voluto che quel muro crollasse una volta per
tutte, avrebbe voluto stringerlo a sé e sentirlo sfogarsi tra le sue
braccia. Avrebbe voluto sentirsi ancora un fratello per lui.
Il respiro
di Bill si regolarizzò, ma lui non sembrava ancora cosciente. Tom
deglutì, strofinando leggermente una mano sul suo braccio, come per
riscaldarlo. Le dita di Bill lasciarono la stoffa della sua maglia. –
Sta’ calmo – sussurrò, fissando i suoi occhi vuoti. –
E’ tutto passato, Bill… tutto passato –
Non vi fu
risposta se non il suo respiro, rumoroso ma ormai regolare. Tom gli
poggiò le mani sulle spalle, tentando cautamente di accompagnarlo con la
testa sul cuscino, mentre lui chiudeva gli occhi e i suoi muscoli si
distendevano.
- Stai
tranquillo… sono qui – mormorò, più a se stesso che a
Bill, tirandogli la coperta fin sotto il mento. Si allontanò lentamente,
un passo dopo l’altro, in silenzio. E fu quando si sedette sul proprio
letto e vide Bill girarsi su un fianco e abbracciare il cuscino che si rese conto
che no, non era affatto tutto passato.
Capitolo
sconclusionato -.-‘ A parte la fine, che amo.
…
Innanzitutto buona domenica^^
Scusate il
ritardo, è che (tanto per cambiare) sono stata brutalmente privata di Internet per un paio di giorni.
La
canzone? No, non ve lo dico. Mi rifiuto. Categoricamente.
…ok.
Sempre “Milioni di cose che non ti ho detto” by Raf.
SweetDreamer: Grazie
cara :-* Per questa volta sei perdonata ù.ù
che non succeda mai più! *scappa mentre un’orda
di lettrici la picchia a sangue* Cooomuuunque…
una delle più belle? *_* Oddei… forse
è un po’ esagerato, ma ti ringrazio!
angeli neri: Ok, mi ritengo principale colpevole delle tue notti
insonni XD Mi dispiace cara, credo che dovrai aspettare *se la ride* Però ti consiglio di evitare troppe
abbreviazioni e parole poco gentili nelle recensioni, credo siano vietate…
e di certo io non voglio perdere una lettrice fedele come te! :-*
noirfabi: Sei qui *.* non sparire più, ti prego!! Le tue
parole sono rigeneranti per il mio ego XD Intanto mi hai
messo la pulce nell’orecchio e per questo ti maledirò a vita,
disgraziata! Voglio sapere subito cos’ha partorito il tuo cervellino
(magari non qui, davanti a tutti i lettori)!!! Per il
resto…beh, spero di non deluderti!