Di pioggia e di sole

di Nike93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La bambina dalle trecce rosse ***
Capitolo 2: *** Ritorno ***
Capitolo 3: *** Tu devi sparire ***
Capitolo 4: *** Fotografia ***
Capitolo 5: *** Nessuno ***
Capitolo 6: *** Milioni di cose ***
Capitolo 7: *** Rancore ***
Capitolo 8: *** Panico e pentimenti ***
Capitolo 9: *** Fuga ***
Capitolo 10: *** Ritorno di fiamma ***
Capitolo 11: *** Gli scrigni dei ricordi ***
Capitolo 12: *** Senza fiato ***
Capitolo 13: *** Rimpatriata ***
Capitolo 14: *** Tutta la verità ***
Capitolo 15: *** Marzo ***
Capitolo 16: *** Estate in città (due anni dopo) ***



Capitolo 1
*** La bambina dalle trecce rosse ***


Parte I – Nessuno

Parte I – Nessuno

 

 

Capitolo 1 – La bambina dalle trecce rosse

 

Appendo alle pareti

tutti i miei pensieri,

mi lascio trascinare

in dubbi sensoriali,

cerco nelle tasche

gli spiccioli di ieri…”

 

Era sicuro che non vi sarebbe più tornato.

Se l’era ripromesso più volte, fino allo sfinimento. Aveva tentato di convincersi che fosse per il suo stesso bene, aveva cercato mille modi per distrarsi, ma, naturalmente, nessuno di questi era andato a buon fine.

E invece, eccolo di nuovo lì, nell’ultimo posto in cui avrebbe voluto trovarsi.

Eppure ne aveva bisogno. Sperava quasi che quell’aria lo facesse tornare a respirare, a respirare come prima, come non faceva più da… settimane? Mesi, ormai.

Si ritrovò a pensare che era buffo, in fondo, che cercasse di tornare a vivere laddove la sua esistenza si era fermata per sempre. Gli pareva quasi di rivedersi lì, seduto su una delle panchine di quel parco ad Amburgo, tranquillo e sereno come non era mai stato, solo perché ignaro della piega che la sua vita avrebbe preso.

Attraversò silenziosamente il vialetto, sollevando una piccola nuvola di polvere. Forse stava calpestando le sue stesse ceneri.

Il tempo non era particolarmente sereno, quel giorno. Nessuno avrebbe detto che fosse estate inoltrata. Il cielo era striato da lievi sfumature grigiastre, e il sole… già, chissà dov’era andato a nascondersi. Era da un po’ che non lo vedeva più, lui, ma immaginava che ci fosse ancora qualcuno che poteva essere illuminato dai suoi raggi. Lui aveva semplicemente smesso di farlo. Non gli sarebbe servito e, a dirla tutta, non gliene importava poi molto. Non era quella la luce che cercava.

Smise improvvisamente di rimuginare quando si scontrò con qualcosa di piccolo e morbido, trasalendo e quasi perdendo l’equilibrio.

- Mi scusi! – squittì il qualcosa, fino a poco prima raggomitolato ai suoi piedi per colpa del violento impatto. Era un bambino. Non avrebbe saputo che età attribuirgli, ma non ebbe nemmeno il tempo di pensarci. Lo vide scattare in piedi e schizzare lontano da lui, riprendendo a ridere giocoso. No, non l’aveva sentito, ma immaginava che stesse ridendo anche prima. Non lo sapeva. Era tanto che non rideva, lui.

Si vide passare davanti a tutta velocità un’uniforme macchia colorata e rimase fermo sul posto, quasi in attesa che ne arrivassero altre. Invece, a poco a poco, la figuretta rallentò e lui riuscì finalmente a vedere una bambina correre verso il ragazzino che l’aveva urtato. Era piccola e magrolina, con due lunghe trecce ramate.

Non poté fare a meno di deglutire, soprattutto quando i due bambini si raggiunsero di corsa, ridendo, ma non si stupì della strana fitta che avvertì alla bocca dello stomaco.

Forse era qualcosa in quei sorrisi. Forse era qualcosa in quel bambino. O forse era qualcosa in quelle trecce rosse.

Qualunque cosa fosse, sapeva di amaro. Sapeva di ricordi.

Vide i due bambini allontanarsi tenendosi per mano e canticchiando una canzoncina che non aveva mai sentito. Di cosa sapeva, quello?

Sapeva di qualcosa che ormai gli era estraneo. Sapeva di vita.

Si costrinse a voltarsi e proseguì lungo il vialetto polveroso, cercando di allontanare quel fastidio che lo aveva colpito allo stomaco. Gli capitava così spesso che avrebbe dovuto abituarvisi, ma ogni volta si presentava per una ragione diversa, cogliendolo puntualmente impreparato.

Certo, non si sarebbe mai preparato a quel genere di cose. Non lo era stato per quello che era successo prima… perché avrebbe dovuto esserlo ora?

Si fermò di fronte alla fontana che lo aveva visto infinite volte da bambino e dove adesso cercava di annegare il suo dolore. Lo sguardo gli cadde sulla superficie liscia dell’acqua che riempiva la piccola vasca in pietra.

No, era troppo poca perché raccogliesse tutto ciò che lui avrebbe voluto versarvi.

Scorse la sua immagine riflessa nell’acqua, e fu come vedersi per la prima volta. Era diverso da quando, la mattina, si fermava davanti allo specchio del bagno e cercava di trovare qualcosa, in quell’immagine, che gli ricordasse il “se stesso” di pochi mesi prima. Stava lì, spostava lo sguardo da un punto all’altro, ma era come se quel visetto pallido e scavato riflesso nel vetro vivesse di vita propria, o meglio, che non vivesse affatto. I suoi occhi nocciola erano spenti, i lunghi capelli neri gli ricadevano flosci sulle spalle appuntite, persino le labbra avevano perso colore e pienezza.

Non erano altro che occhi di vetro su un viso di carta. Non era che un involucro senza niente dentro.

Guardati Bill, guarda come ti sei ridotto, parve dirgli la figura che lo guardava dal fondo della fontana, non l’avresti mai detto, eh?

Trasalì, distogliendo lo sguardo e stringendosi il busto tra le braccia. Cominciava a chiedersi se non fosse stato così anche prima. Forse non era cambiato affatto, ma adesso non aveva altro che quello, un riflesso offerto da uno specchio, e vi si era talmente concentrato da convincersi di essere cambiato.

No. Se vi si fosse davvero concentrato, avrebbe ricordato l’immagine di un ragazzo giovane e spensierato, vestito alla moda, senza un capello fuori posto. Avrebbe ricordato i suoi occhi sprizzare vitalità, contornati da abbondante trucco nero. Avrebbe ricordato labbra allungate in un sorriso smagliante, inconsapevole forse, ma sincero, convinto.

E tutto questo era sparito, insieme alla sua vita, ai suoi sogni, alla sua carriera… a lei.

Già, lei.

Sentì un brivido freddo corrergli lungo la schiena. Doveva essere stato provocato da quel pensiero perché, intorno a lui, c’erano soltanto donne in abiti leggeri e ragazzi in pantaloncini.

Il cielo, però, continuava ad essere grigio. E per Bill Kaulitz lo sarebbe stato anche con lo spuntare del sole.

 

Voltò le spalle alla fontana, dirigendosi verso il cancello di ferro battuto.

Sembrava quasi l’entrata di un cimitero. Qualsiasi cosa intorno a lui gli portava in mente quel luogo.

Pareva che tutto fosse stato progettato affinché l’atmosfera risultasse pesante, più di quanto non fosse già.

A dire il vero, sembrava che tutto fosse stato progettato perché lui arrivasse a quel punto, perché la sua vita andasse completamente allo sfascio. Era stato così fin dall’inizio, avrebbe dovuto capirlo.

E invece si era nutrito di sogni troppo alti per lui, aveva dormito nel suo castello dorato finché le porte non gli erano state chiuse per sempre.

Si fermò proprio davanti al cancello, voltandosi indietro. Percorse tutto il parco con lo sguardo, come per cercare qualcuno.

Forse, la bambina dalle trecce rosse.

Ma non la vide. I suoi occhi perlustrarono i vialetti per minuti interi, ma lei non ricomparve.

Bill si morse le labbra. Forse non era mai esistita, forse non l’aveva mai vista realmente.

Ecco che tornava il mal di stomaco.

Eppure, per un attimo, ci aveva sperato. Aveva sperato di rivedere in quella bambina il pezzo di vita che si era lasciato alle spalle sei mesi prima, e ora la consapevolezza che non potesse fare nulla per tornare indietro gli bruciava.

Bill chinò la testa, aggrappandosi alle inferriate del cancello e sentendo le ginocchia piegarsi. Le forze vennero tutt’a un tratto a mancargli.

Quelle trecce rosse…

Haylie

Per pochi, terribili attimi ebbe l’impressione che qualcosa gli si fosse fermato in gola, impedendogli di respirare. Si portò una mano al collo e chiuse gli occhi, stringendo più forte la presa sull’inferriata.

…dove sei?

 

Lei gli strinse un’altra volta la mano.

Bill le sorrise, ravviandole i capelli. – Siamo di nuovo qui. Sei contenta? –

Gli parve che Haylie deglutisse, ma non vi fece caso più di tanto, perché le sue labbra si erano increspate in un sorriso. Ed era così tanto che non la vedeva sorridere…

- Sì. Sono felice di essere qui con te – Si guardò intorno, come se vedesse l’interno del tourbus per la prima volta. E invece erano più di due anni che viveva lì. Chinò la testa, sospirando. – Ma per il resto… -

Bill non rispose. Si limitò a stringere più forte la sua mano.

Quasi si pentì di averle fatto quella domanda. Era il momento sbagliato, ma, per un attimo, aveva pensato che la consapevolezza di essere di nuovo lì insieme avrebbe fatto bene anche a lei, l’avrebbe aiutata a cancellare ciò che era stato prima.

E prima ne erano successe tante, di cose. Così tante che lui stesso faceva fatica a rimetterle in ordine nella propria mente.

Ricordava ancora la sua felicità quando, mesi prima, Haylie gli aveva annunciato di aspettare una bambina da lui. Felicità che era andata aumentando ogni giorno, vedendo la sua pancia crescere.

Ma ricordava anche la paura dell’inadeguatezza per quell’impegno che avrebbe dovuto assumersi, tutte le parole che non si erano detti. Ricordava i sorrisi di Haylie, sempre più rari. E ricordava anche quello che aveva provato quando lei gli aveva confessato il suo peccato, la colpa a cui quell’inspiegabile allontanamento l’aveva indotta. Quella colpa che era riuscito a perdonare solo a lei.

Sì, era caduta fra le braccia di suo fratello. Tom, il suo gemello, il suo migliore amico, la sua metà.

Lei lo aveva giustificato. Non perché lo avesse amato, no. Voleva solo che Bill non chiudesse tutte le porte in faccia al fratello, voleva che perdonasse anche lui. Lui che aveva sofferto quanto loro. Lui che la aveva amata credendo di essere ricambiato. Lui che si era sentito in colpa, lui che però non poteva fare a meno di quella ragazza che non avrebbe mai dovuto concederglisi.

Bill non ce l’aveva fatta. Amava troppo Haylie per negarle il suo perdono, la rispettava troppo per non ascoltare il suo punto di vista. Si erano feriti un po’ a vicenda senza volerlo fare davvero, si erano persi solo per potersi ritrovare. E per quanto lei l’avesse supplicato di parlare con Tom, lui non ce l’aveva fatta.

Forse perché dava a lui la colpa di tutto quanto era successo. Lui non c’entrava niente in quella storia, aveva detto ad Haylie, lui non doveva fargli questo. Lei aveva insistito ancora: anche lei l’aveva tradito, quindi perché quella durezza solo nei confronti di Tom?

Ma Bill non aveva ceduto. Forse perché, dopo un tentativo –fallito- di riappacificazione, Tom era sparito lasciando nient’altro che una lettera. Diceva che Bill e Haylie dovevano ricominciare, amarsi come si erano sempre amati, dimenticare tutto.

Parole, erano solo parole.

Anche perché c’era qualcosa che non avrebbe mai cancellato quell’episodio dalla sua mente.

Quella bambina non era mai nata. Bill ricordava ancora le ore passate fuori dalla sala parto, ricordava i fazzoletti impregnati di sudore e il pacchetto di sigarette che aveva svuotato a tempo record. Ricordava il viso di Haylie contratto dalla sofferenza e i suoi occhi chiudersi prima che le dicessero che quella creatura che si era portata dentro per mesi non aveva neanche cominciato a respirare.

Avevano sofferto, avevano pianto insieme. Ma poi si erano asciugati le lacrime a vicenda e si erano detti tutto quello che era stato lasciato in sospeso. Si erano ripromessi di non dover più arrivare a quel punto per ricordarsi quanto avessero bisogno l’uno dell’altra.

Restava il fatto che Tom se n’era andato. Chissà dove, poi. Bill non si sentiva ancora pronto a parlarne, il ricordo gli scottava. Aveva deciso di continuare con i Tokio Hotel anche senza di lui.

E adesso erano di nuovo lì, pronti a ricominciare, ma disarmati davanti alla massa di ricordi che avrebbero dovuto scegliere se affrontare o mettere da parte.

Non poteva pretendere che Haylie fosse felice. Non subito. Del resto, neanche lui lo era davvero. Avrebbe voluto godersi quei mesi con lei, avere quella bambina e festeggiarne la nascita con suo fratello –ma questo non lo avrebbe mai ammesso.

Però lei c’era, e gli bastava.

Bill appoggiò le mani sulle sue spalle, stringendole delicatamente.

- Haylie, ti prometto che d’ora in poi sarà tutto diverso. Vedrai, ci vorrà un po’ di tempo per… beh, rimetterci in sesto, però… però siamo qui, siamo insieme – Lei alzò lo sguardo e gli sorrise con una punta di malinconia. - Per me non conta nient’altro, Haylie, nient’altro –

La strinse a sé in un gesto quasi involontario, non programmato. Ma quando sentì le sue braccia circondargli la vita, non poté fare a meno di sorridere, chiudendo gli occhi e appoggiando la guancia sulla sua testa. – Mi credi? – sussurrò, così piano da riuscire a malapena a sentirsi lui stesso.

Avvertì un piccolo movimento tra le sue braccia. Haylie aveva annuito.

- Sì. Certo che ti credo – mormorò lei, distaccandosi per potergli sfiorare una guancia con un dito.

Quasi non riusciva a credere di poter essere stato tanto stupido. Di aver vissuto mesi lontano da lei, anche se non in senso fisico. Lei era lì, lei era tutto quello di cui aveva bisogno.

La ragazza gli sorrise, e fu un sorriso vero. Bill si riempiva gli occhi, guardandola. Quelle iridi scure, quei capelli ramati, quel naso un po’ a punta, valevano più di qualsiasi altro panorama.

Le prese il viso tra le mani prima ancora di chiedersi se lei pensasse la stessa cosa, se lei volesse.

Chiuse gli occhi e decise di non contare più i minuti. Era lei, il suo tempo.

Lasciò che le loro labbra si sfiorassero e approfondissero a poco a poco il contatto, come se quello fosse il loro primo bacio. Lasciò che lei si scostasse pian piano e gli baciasse la fronte, il mento, gli angoli della bocca, che le sue piccole mani stringessero la stoffa della sua camicia, che il suo respiro gli accarezzasse il collo.

Le toccò i capelli, il viso, il collo. Voleva recuperare il tempo perduto, voleva regalarle tutto quello che le era mancato, tutte le carezze, le parole e i sospiri che aveva tenuto per sé.

Gli costò una fatica enorme staccarsi dalle sue labbra, e gli sfuggì un ansito leggero nel momento in cui le mani di Haylie gli cinsero i fianchi. – Ti… ti amo – balbettò, tremando appena nel riavviarle i capelli.

Gli mancava già il respiro. Voleva regalarlo a lei, il suo fiato, voleva darle tutto quello che lo teneva in vita.

Rabbrividì quando sentì il naso di Haylie sfiorargli il collo. – Anch’io ti amo –

Si lasciò sfuggire un sospiro, stringendola possessivamente a sé. – Dimmelo ancora –

- Ti amo – Haylie gli baciò il mento, risalendo poi verso le sue labbra. Le schiuse piano con le sue, lasciando che Bill l’abbracciasse più stretta. I loro primi, deboli gemiti si fusero insieme, furono soffocati l’uno nella bocca dell’altra. – Ti amo Bill. Non lasciarmi… non lasciarmi mai –

- Non posso lasciarti – Bill si chinò  a baciarla sul collo. La sentì fremere a quel contatto. Le sue mani cominciarono ad accarezzarla ancora prima che lui si chiedesse se fosse la cosa giusta. – E’ che… non so se tu vuoi… - farfugliò, mentre i loro corpi aderivano di più.

Haylie gli prese il viso tra le mani, facendo sì che i loro sguardi s’incrociassero. Bill si rese conto che le dita della ragazza erano incredibilmente fredde in confronto alle sue guance infuocate.

- Tutto quello che vorrai darmi, io lo accetterò, Bill. Sempre –

E lui non poté fare altro che rispondere con un sorriso. Qualsiasi parola perdeva il proprio significato di fronte a lei, qualsiasi gesto diventava irrilevante. Le cinse i fianchi con le mani mentre le dita di Haylie stuzzicavano lievemente il colletto della sua camicia nera, quella camicia che tante volte le aveva lasciato indossare, “perché sta meglio a te che a me”, diceva. Non le aveva mai detto che lo faceva solo per avere il suo profumo addosso anche quando lei era lontana.

- Fai l’amore con me, Haylie – riuscì solo a sussurrarle. Non pensò ad una possibile reticenza o, peggio, ad un “no”: semplicemente, gli venne così naturale chiederglielo che non si preoccupò di una sua qualsiasi risposta.

Risposta che arrivò con un altro bacio, un bacio tenero, morbido, anzi, un bacio che non ammetteva descrizioni. Haylie sedette sul bordo del letto, prendendogli le mani e offrendogli le sue labbra ancora una volta, lasciando che le dita di Bill scorressero tra i suoi capelli e approfondissero quel contatto che tanto desiderava quanto temeva.

Bill non avrebbe mai voluto separarsi da lei, ma sentiva il bisogno di guardarla, riempirsi gli occhi con la sua fragile e delicata bellezza, rendersi conto di ciò che stava per fare.

La vide ridacchiare, timida e bellissima, distesa tra le lenzuola che per troppo tempo avevano sentito la mancanza di momenti come quello, mentre lui si sbottonava velocemente la camicia e le dita gli si impigliavano nelle asole. La vide sorridere raggiante anche quando inciampò nel tentativo di scavalcare i jeans ammucchiati sul pavimento, la vide tendergli le braccia mentre lui saliva sul letto e poi dopo, quando la liberò del suo leggero abito azzurro, impaziente come poche volte era stato.

Sentiva qualcosa di nuovo, quasi estraneo, un desiderio così urgente e violento che non cercò nemmeno di metterlo a tacere. Era qualcosa che andava ben oltre la semplice voglia di sentire la sua pelle calda sotto le dita, di toccare e baciare ogni centimetro del suo corpo esile.

Non seppe dare un nome a quel “qualcosa”, ma si ritrovò a desiderarlo ancora con lo scorrere dei minuti, anche quando smise di chiedersi quanto tempo fosse passato e Haylie si addormentò tra le sue braccia.

Le lacrime, i silenzi, i segreti erano finiti. Avrebbero ricominciato, e l’avrebbero fatto nel modo migliore.

 

Bill pigiò velocemente il campanello, dandogli appena il tempo di suonare, e attese. Sapeva che Simone, sua madre, non avrebbe chiesto “Chi è?” come faceva di solito. Con lui, non lo faceva più da tempo: solo Bill non prolungava il contatto con quel tasto per più di mezzo secondo. Quel trillo gli dava quasi fastidio.

Infatti, la porta si aprì pochi istanti dopo, rivelando una donna dall’aspetto giovanile, con un elegante caschetto biondo e uno di quei sorrisi che non le riusciva mai troppo difficile dispensare.

- Tesoro! Come mai qui? – Bill stiracchiò le labbra in un sorriso che aveva smesso da tempo di assomigliare a quello di sua madre.

- Niente, ero di passaggio e volevo salutarti –

- Perché non ti fermi dieci minuti? Anzi… - Simone diede una rapida occhiata all’orologio che teneva al polso. – Se aspetti che torni Gordon, puoi cenare con noi –

- No, grazie, mamma – rispose lui con una nota di stanchezza nella voce. – Preferisco tornare a casa. Sono solo passato a salutarti –

Simone sospirò appena, lasciando ricadere il braccio lungo il fianco. – Bill, perché invece che stare sempre solo non… - Il ragazzo la interruppe con un rapido gesto della mano.

- Mamma, per favore – Lei lo guardò interdetta, e lui riuscì a tirare fuori un sorriso un po’ più convincente. – Lo so che ti preoccupi per me. Ma sto bene, davvero – Simone si strinse nelle spalle.

- D’accordo – disse. Sorrise, toccandogli una spalla con la mano. – Domani che fai? –

- Vengo a lavoro, no? –

- Certo – Simone gli sfiorò una guancia con una carezza, e Bill si chinò a baciarla su entrambe le guance, più che altro per evitare che il discorso si allungasse. – Ciao, mamma – Lei fece per rispondere al saluto, ma fu bloccata dal telefono, che cominciò a suonare proprio in quel momento. Bill sorrise, incitandola a rientrare. – Vai, vai. Ci vediamo domani –

Non avrebbe negato di provare un certo sollievo, quando si trovò fuori dal portone. Non poteva farci nulla, per quanto cercasse di evitare che sua madre attaccasse con la sua solita ramanzina, era lui il primo a farle visita ogni giorno. Erano stati lontani per troppi anni, era stato troppo preso dal suo lavoro –anche se adesso dubitava addirittura di poterlo chiamare così- per curarsi del loro rapporto. E adesso voleva semplicemente recuperare il tempo perduto.

Almeno con lei questo era possibile, pensò tristemente, cominciando a rovistare nelle tasche alla ricerca delle chiavi di casa.

 

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Buongiorno ^^

Come promesso, eccomi con il mio nuovo lavoretto. Sarebbe il seguito della mia precedente ficdimentica”, ma ho cercato di renderla leggibile anche per chi non la conoscesse. Avevo preparato le mie proverbiali illustrazioni (una a capitolo, sigh!) ma ho uno scanner deficiente e potenzialmente diretto nella spazzatura.

Spero che mi renderete partecipe delle vostre impressioni. Valgono i soliti disclaimer: i Tokio Hotel non mi appartengono, e questa storia non è scritta a scopo di lucro, ma per ciò che a Catania vien definito “malu’cchi’ffari”: ovvero, non aver nulla di costruttivo da fare.

Ah, dimenticavo: la canzone usata è “Nessuno” del grande (e mio amatissimo) Raf.

 

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Capitolo 2
*** Ritorno ***


Grazie a chi ha commentato e/o inserito la fic tra i preferiti

Grazie a chi ha commentato e/o inserito la fic tra i preferiti!

La canzone usata è sempre “Nessuno” di Raf.

 

Capitolo 2 - Ritorno

 

“Come cercar di fissare un punto sul fondo del mare

non mi rimane nemmeno un ricordo che possa spiegare…”

 

Tom cacciò in fretta il cellulare in una delle tasche dei suoi abbondanti e consunti jeans.

Sarà stata la confusione che regnava nel campo d’atterraggio, si disse, sarà stata l’improvvisa consapevolezza di non avere effettivamente un letto dove dormire quella notte, ma chiamare sua madre era stato un gesto istintivo. E infatti adesso si trovava lì, diretto al ritiro bagagli, a scontrarsi con la metà della gente che riempiva l’aeroporto perché troppo preso dai suoi pensieri per fare attenzione a dove mettesse i piedi.

Sua madre era stata contenta di sentirlo, in effetti. Non che potesse darle torto. In quegli ultimi tre anni non si erano visti neanche una volta: per quanto Simone avesse tentato più volte di convincerlo a tornare, lui non era mai andato oltre l’ormai consueta telefonata settimanale. Certo, non poteva pretendere che lei capisse.

Lui non poteva tornare.

E invece eccolo proprio al centro dell’aeroporto di Amburgo, intento a trafficare con la valigia che non sembrava volersi scollare dal nastro trasportatore. Certo non era una novità, per Tom: quando i Tokio Hotel erano in giro per concerti, era sempre lui a dover scarrozzare anche la notevole quantità di bagagli di Bill, pur di non sentirlo sbuffare e lamentarsi.

Bill…

Chissà cos’aveva fatto, in tutto quel tempo. Tom non aveva osato provare a mettersi in contatto con lui, ma neanche suo fratello si era mai preso il disturbo di farlo. Risultato: quelli che per ventidue anni erano stati amici per la pelle, complici dei disastri più disparati, due persone che semplicemente ritenevano inconcepibile qualsiasi tipo di distacco, ora non erano altro che due gemelli estranei l’uno per l’altro. Un controsenso, vero?

Tom cercò di ricordare cosa immaginasse, da piccolo, che avrebbe fatto a venticinque anni. Scalare le classifiche di tutto il mondo, viaggiare senza sosta, salire su tutti i palchi esistenti sulla Terra insieme a suo fratello e alla sua band…

I venticinque anni c’erano. Di viaggiare, beh, aveva viaggiato. Ma di palchi e classifiche aveva addirittura perso la nozione. Senza i Tokio Hotel e con la sua sola Gibson non poteva –e nemmeno voleva- arrivare ai livelli che si era preposto.

Già, a chi voleva darla a bere? Non era dei Tokio Hotel che sentiva la mancanza. Era Bill a mancargli. E anche Haylie.

Sua madre non si era certo risparmiata i tentativi di riappacificazione mediata. C’era da dire che Simone non conosceva abbastanza bene la storia per azzardare mosse del genere. Sì, lo sapeva che Bill e Haylie erano stati molto innamorati, ma che poi lui si era lasciato prendere un po’ troppo dal lavoro proprio quando lei era incinta. Lo sapeva, che la relazione clandestina con Tom era andata avanti per mesi e che Bill aveva sofferto come un cane quando l’aveva scoperto. E sapeva anche che Tom aveva preferito mettersi da parte nel modo meno doloroso per tutti.

Ma forse non sapeva quante notti insonni e quanti pugni sbattuti su un tavolo avesse provocato quella relazione. Forse non sapeva quanto Tom potesse essersi disperato nel tentativo di capire cosa Haylie provasse per lui, e successivamente avendo capito che, qualunque sentimento ci fosse da parte della ragazza, non era quello che lui si aspettava. E di certo non sapeva neanche quanto questo avesse influito nella vita di Tom in quegli ultimi anni passati lontano da casa.

Ne aveva girate un po’, di nazioni. Francia, Italia, poi di nuovo Germania. La sua conoscenza delle lingue straniere non poteva certo definirsi eccellente, ma era bastata per assicurargli un certo periodo di tranquillità. Se pochi anni prima si fosse visto a girare da un Paese all’altro, mettendo da parte la chitarra e cercando di darsi una mossa per altri versi, avrebbe scosso la testa con compassione, sentenziando: “Tom, io non ti riconosco più”.

O forse avrebbe semplicemente riso a crepapelle. Chi avrebbe potuto dirlo?

Erano cambiate tante cose, in tre anni. O forse solo poche, ma di un’entità così consistente da fargli credere che la sua vita fosse stata totalmente rivoluzionata.

Guardò l’etichetta attaccata al manico della valigia, in attesa che un taxi si accostasse al marciapiedi. Tom Kaulitz, spiccava a caratteri minuti e disordinati.

Ma era lo stesso Tom Kaulitz che aveva lasciato Amburgo tre anni prima, in cerca di una nuova aria? Era lo stesso Tom Kaulitz che ai concerti si divertiva a scandalizzare il pubblico di una certa età compiendo gesti inconsulti con la sua chitarra? Ma soprattutto, era lo stesso Tom Kaulitz che veniva comunemente chiamato Sexgott, quello che recuperava una o più ragazzine ogni sera e le accoglieva ben volentieri nella propria camera d’albergo? Non che avesse bisogno di andare a cercarsele, certo. Solitamente erano loro a tentare –con successo- l’approccio, o addirittura a passare alla fase successiva.

Poi c’era stata Haylie, e il suo letto non era stato più occupato da nessuna groupie. Non gli importava che il mondo intero lo sapesse, gli bastava averla accanto a sé, anche se, evidentemente, questo non corrispondeva ai desideri della ragazza.

Per mesi, anche se lontano, aveva continuato a tormentarsi e chiedersi se avesse fatto la scelta giusta. Se Bill e Haylie fossero felici insieme. Probabilmente lo erano, anche se in lui restava quel pizzico di orgoglio che gli impediva di ammetterlo serenamente a se stesso. Certo che lo erano. Ovvio. Haylie non aveva amato altri che Bill, nonostante il tempo che le fosse occorso per capirlo. E poi, con una figlia in arrivo…

Se c’era una cosa che Tom non rimpiangeva di aver fatto, era stato andarsene prima che quella bambina nascesse. Aveva chiamato suo fratello quando Haylie aveva cominciato a soffrire in preda alle doglie, se l’era visto passare davanti per poi precipitarsi da lei, praticamente fingendo che lui non fosse presente, aveva aspettato in preda all’ansia finché non era arrivata un’ambulanza. Allora aveva strappato un foglio da un bloc-notes, era rimasto qualche minuto a pensare, e poi aveva scritto di getto quella lettera che non sapeva a chi consegnare. Il borsone era pronto, il biglietto era stato fatto. Non gli restava che lasciare quella busta a qualcuno e scappare il più presto possibile. Non sapeva cosa sarebbe potuto succedere se si fosse presentato in ospedale dopo il parto di Haylie, e nemmeno voleva saperlo. Più che altro, non voleva che nessuno si rovinasse quel momento a causa sua.

Così si era lasciato alle spalle il risentimento di Bill e i sensi di colpa di Haylie, e aveva cambiato vita.

Avrebbe voluto che cambiasse in meglio. Certo, quella vita non era la stessa di quella vecchia, ma non nel modo che lui aveva programmato.

Tom non era mai riuscito a sapere come fossero andati avanti i Tokio Hotel. Nella sua lettera aveva chiaramente specificato che non voleva che Bill si fermasse con la band –e, per quanto suo fratello gli serbasse  una certa dose di rancore, sapeva che avrebbe potuto fare qualcosa del genere se nessuno l’avesse spronato a fare il contrario. Chissà se avevano trovato un altro chitarrista o se erano rimasti in tre. Raramente aveva acceso la televisione o la radio, e adesso la curiosità si era fatta più forte, insieme a tante altre. Chissà che faccia aveva la figlia di Haylie e Bill, chissà come era cresciuta, chissà se era stata resa partecipe della vita movimentata di suo padre.

A Tom riusciva difficile immaginare suo fratello nelle vesti di genitore, soprattutto considerato che, quando erano piccoli, era stato lui a far quasi da padre a Bill. Ma Haylie, che sicuramente adesso era serena e tranquilla accanto a lui, doveva essere una madre meravigliosa. Dolce e comprensiva com’era sempre stata.

Dopo di lei non c’era stata nessuna storia seria, per Tom. Semplicemente, aveva bisogno di smaltire a poco a poco la delusione che gli aveva provocato quel suo primo –per quanto dubbio- amore, ma, dopo qualche mese, aveva cominciato a pensare che qualcuna delle sue solite avventure da una notte e via non sarebbero state male per mettere da parte i brutti ricordi.

Non che ne sentisse veramente il bisogno, delle sue storielle. Solo, ricordava che quello era stato il suo pallino, per i primi anni in cui aveva cominciato ad essere popolare tra le ragazze, e pensava che questo potesse in qualche modo aiutarlo.

Solo che, a quel punto, Tom aveva dovuto mettere in pratica quello che un tempo, per lui, sarebbe stato impensabile: se voleva un’avventura, doveva essere lui a cercarsela.

Dopo un po’ di tempo passato lontano dalla band che aveva portato il suo nome sulla bocca di tutti, la fama era venuta meno, e questo Tom l’aveva messo in conto. Ma non aveva mai pensato che, a neanche un anno dal suo allontanamento, avrebbe notato la differenza persino entrando in un locale. Era meno frequente che una ragazza gli si buttasse addosso tanto spontaneamente, sebbene quasi nessuna avesse rifiutato le sue poco discrete avances. Ma la differenza la notava anche la mattina dopo, quando apriva gli occhi e si trovava accanto a una ragazza che, a giudicare dall’espressione confusa, non doveva aver adoperato una certa dose di lucidità nello scegliere colui che le avrebbe regalato il divertimento di una notte di fuoco. Quasi sempre la ragazza in questione mormorava confusamente qualcosa, si scusava, recuperava i suoi vestiti borbottando che la sera prima doveva essere un po’ ubriaca, e poi se ne andava con un sorriso di circostanza e un’alzata di spalle. Al risveglio, non aveva più trovato occhi adoranti o mani tese in cerca di soldi. Quasi gli mancava, tutto questo. La consapevolezza di avere un cuore e, quindi, anche dei sentimenti, faceva male oltre l’immaginabile.

Tom Kaulitz non aveva mai creduto nell’amore eterno, quello delle fiabe in cui a trionfare era sempre una giustizia falsa o comunque temporanea, e la storia con Haylie aveva ampiamente confermato la sua tesi. Certo, lei era caduta tra le sue braccia per forza di cose, per solitudine, ma prima… prima erano stati semplicemente amici. E spesso Tom si era trovato a rimpiangere quei tempi, desiderando di non essersi mai intromesso nelle faccende di Bill. Quando lui e Haylie erano soltanto amici, parlavano di tutto senza problemi. Era sempre stato così, ma quella loro relazione clandestina aveva rovinato tutto.

E se il numero di ragazze che si lasciavano sedurre dal Sexgott era direttamente proporzionale alla sua fama, beh, allora forse non esisteva neanche l’amore di una notte. O forse non esisteva per lui.

Così erano finite anche le notti brave. Svanite insieme ai suoi sogni da bambino idealista.

Tom sospirò, guardando per la millesima volta il foglietto su cui aveva rapidamente scarabocchiato quel numero e quell’indirizzo che mai si sarebbe sognato di chiedere a sua madre.

Se sperava che dall’altra parte qualcuno rispondesse, allora forse sì, era davvero solo un bambino idealista.

 

 

Bill sospirò pesantemente, lasciando cadere i cataloghi uno sopra l’altro sulla scrivania e stiracchiandosi all’indietro sulla scomoda sedia di plastica. Gli sarebbe venuto il sedere quadrato, un giorno o l’altro. Non che questo gli cambiasse la vita, certo, ma poteva anche essere considerato come un interessante diversivo alle sue giornate, ormai più monotone e ripetitive di quelle di una gallina.

Ecco cosa si sentiva. Una gallina costretta a vivere in un pollaio troppo piccolo, accanto ad altri pennuti estranei e puzzolenti.

Esaminò tristemente le pile di fogli e cartelle disposte in bilico sulla scrivania. Come aveva potuto ridursi a quel punto? Come era potuto arrivare a non voler neanche fare i conti con se stesso quando la gente gli chiedeva cosa facesse ora che aveva smesso di cantare nel suo gruppo? Quasi si vergognava, anzi no, non quasi, si vergognava enormemente di annunciare – per giunta con disinvoltura- che, ebbene sì signore e signori, Bill Kaulitz adesso lavora nell’agenzia di viaggi gestita da sua madre.

Gli suonava così tristemente patetico che cercava sempre di tergiversare quando si arrivava alla domanda fatidica.

Si sentiva un verme a provare quel senso di disagio anche solo quando pensava a che cosa si era ridotta la sua esistenza. In fondo, sua madre lo aveva fatto per lui. Le era anche grato, in qualche modo, anche se non c’era bisogno che le dicesse che non era quella, la vita che voleva: Simone poteva capirlo benissimo da sé, guardandolo ogni giorno. In realtà, la vita che avrebbe realmente voluto era lontana anni luce, era un desiderio intangibile, quindi, tanto valeva fare almeno qualcosa. Era anche vero che sua madre glielo aveva fatto notare nel modo più gentile possibile: non poteva abbrutirsi tutto il giorno, sepolto dai ricordi, doveva cambiare aria, aveva bisogno di tenersi occupato, di distrarsi, eccetera eccetera.

Come se fosse stato un bambino in attesa all’ospedale, un bambino che non doveva rendersi conto di quello che stava per succedergli.

No. Lui, da quell’ospedale, non sarebbe uscito mai più.

Due mani si posarono sulle sue spalle, stringendole con delicatezza. – Sei stanco? – Bill riaprì gli occhi e si irrigidì.

- Un po’, sì – borbottò, cercando di sottrarsi alla stretta di sua madre senza destare obiezioni. D’accordo, le era grato, ma tutta quell’apprensione gli faceva montare in corpo un’irritazione tale che sovente si trovava a chiedersi se un giorno non avrebbe perso le staffe.

- Dài, ti manca meno di un’ora – la sentì dire con tono accondiscendente. Fantastico, solo un’ora. Come se quello potesse cambiare le cose.

- Lo so – ribatté, stavolta senza curarsi di non apparire scontroso. Riaprì il catalogo che aveva messo da parte poco prima, come a dire “ho da fare, lasciami in pace”. Seguì una breve pausa di silenzio alle proprie spalle.

- Ok, allora… magari avvisami, quando stai per andare – concluse Simone, in tono un po’ meno allegro.

- D’accordo – tagliò lui senza voltarsi. Rimase immobile per qualche secondo, in attesa. Silenzio, poi rumore di passi che si allontanavano, e poi un vocio poco più distante.

Si lasciò andare a un lungo sospiro, appoggiandosi allo schienale. Qualche volta avrebbe voluto mordersi la lingua. Sua madre era l’unica con cui, ogni tanto, riuscisse a parlare. L’unica che gli infondesse un po’ di tranquillità. Magari non bastava a farlo dormire la notte, ma si accontentava di poco. La serenità rientrava nell’elenco di cose che gli mancavano del tutto, dunque non poteva lamentarsi. Ma anche con Simone, spesso e volentieri, Bill non riusciva ad aprirsi più di tanto. Il parlare con lei non era altro che una distrazione, un’occasione per non rimuginare.

Ormai bastava poco per farlo cedere al nervosismo, e Bill non faceva nulla per cambiare. Aveva già fatto più che abbastanza, e se al mondo non andava bene il nuovo Bill Kaulitz, beh, che andassero tutti…

Driiin.

Bill spostò bruscamente la pila di cataloghi e si allungò sulla scrivania nel disperato tentativo di raggiungere il telefono. Afferrò la cornetta prima che le sue manovre causassero la rovinosa caduta dell’apparecchio, e la trasse repentinamente a sé. – Agenzia Trümper, buona sera – esalò, ancora steso per metà sulla scrivania.

Gli giunse alle orecchie un’allegra voce femminile e un cognome che doveva aver già sentito da qualche parte.

- Ah, sì – disse con voce piatta. A un orecchio ben esercitato, quella sarebbe risultata una chiara simulazione, ma la donna dall’altra parte del filo non sembrò prestarvi attenzione. – Mi dica –

- Avevo chiamato la settimana scorsa ed eravamo rimasti un po’ in sospeso, si ricorda? –

- Certo – proseguì Bill, senza muoversi di un centimetro. Però, garrula, la signora…

- Ecco, volevo appunto fissare per quel viaggio che le dicevo la settimana scorsa – Gli sembrò quasi di vederla sorridere. – Sa, quando ci siamo sposati, io e mio marito non abbiamo avuto la possibilità di andare in luna di miele, così adesso che c’è anche il bambino, vorremmo goderci un piccolo stacco… -

Presumibilmente la donna continuò a parlare, ignara che, all’altro capo del filo, nessuno la stava più ascoltando, anche se il ricevitore era ancora stretto in una mano pallida e tremante.

 

Haylie sorrideva, guardandolo di sottecchi e giocherellando con un angolo del lenzuolo.

Era semplicemente adorabile. Una bambina… la sua bambina.

Bill scivolò al suo fianco, passandole un braccio intorno alla vita. Erano passati quattro mesi da quando erano tornati alla loro vita e non si era mai sentito così felice. – Ma lo sai che sei bellissima? – le sussurrò all’orecchio, sorridendo sornione senza curarsi del tono quasi infantile della sua domanda.

Haylie ridacchiò, scuotendo la testa. – E tu lo sai che sei sdolcinato da morire? – Bill si finse meravigliato.

- Tesoruccio, cosa vai a pensare? – cantilenò. – Se mi dici questo mi ferisci a morte, luce dei miei occhi! –

A quel punto, Haylie scoppiò a ridere, tirandogli una cuscinata sulla testa. – Ehi, che ho detto?! – protestò lui, mettendo su un finto broncio.

- Niente, mi prendi solo in giro! – Bill spalancò gli occhi, portandosi una mano sul petto.

- Io? Prendere in giro te? Per carità! – Haylie gli fece una smorfia, poi lo abbracciò all’altezza della vita e si accoccolò contro di lui.

- E la sai un’altra cosa? – Bill sorrise, scuotendo la testa. – Ti amo –

- Sei sdolcinata da far schifo – ribatté, simulando un’espressione disgustata. Haylie sorrise, appoggiando l’orecchio sul suo petto nudo.

- Sento il tuo cuore… - mormorò, mentre la sua mano sfiorava i fianchi di Bill. Il ragazzo non poté trattenersi dal sorridere, accarezzandole i capelli mentre lei restava lì ad ascoltare quei battiti lievi e regolari.

Lei era più della ragazza che amava, era più della persona con cui voleva passare il resto della sua vita. Lei era un dono del cielo, lei era l’essenza di tutti i suoi desideri.

Le baciò dolcemente la fronte. C’era un pensiero che gli frullava in testa da qualche tempo, una domanda che gli martellava nel cervello e che avrebbe voluto porle. Non sapeva come mettere insieme le parole, aveva paura che Haylie le interpretasse nel modo sbagliato. Come se potesse pensare che lei non gli bastasse, o come se lui volesse rievocare ricordi poco felici. Ma non era così.

Proprio perché la amava voleva chiederglielo. Era una domanda impegnativa, sì. Niente proposte di matrimonio, certo, ma comunque qualcosa su cui riflettere.

Bill riuscì a decidersi solo quando Haylie riaprì gli occhi e gli rivolse quel sorriso che non mancava mai di mandarlo fuori di testa. Mise una mano sulla sua, ancora appoggiata sul suo petto.

- Tesoro, volevo dirti… - Lei annuì, sorridendo ancora. Ecco, il coraggio era tornato. Bill prese un bel respiro…

 

Dall’altra parte del filo, non si sentì altro che un tonfo sordo.

- Tutto bene? –

Bill si lasciò sfuggire un rantolo, e quasi non vide il catalogo che aveva fatto cadere giù dalla scrivania. – Io… sì… - balbettò a mezza voce, rendendosi conto di non poter neanche più reggere la cornetta, tanto era sudata la sua mano. – Mi scusi, ho… un imprevisto… non… La richiamerò io… -

- Non… non si preoccupi – fece la voce della donna, alla quale però seguì solo un prolungato tuu-tuu. - Pronto? E’ ancora lì? Pronto! –

Ma il ricevitore era già stato sbattuto al suo posto con violenza, e la sedia dietro la scrivania era vuota.

Bill si lasciò cadere con la schiena contro la porta d’entrata dell’agenzia, subito dopo aver mollato la cliente al telefono ed essere praticamente scappato fuori. Si prese la testa tra le mani, ansimando come se avesse corso per chilometri.

Il cuore andava a mille, poteva sentirlo rimbombargli nel petto. La fronte era madida di sudore, le mani gli tremavano ancora. Bill si appoggiò con le braccia al muro dietro di lui, chiudendo gli occhi e continuando a buttar fuori l’aria con un certo affanno.

Deglutì e rimase immobile, aspettando che il respiro si regolarizzasse. Doveva imparare a controllarsi, non poteva mettersi a ricordare durante le telefonate dei clienti… Ma perché doveva essere sempre lui a prendere le telefonate di certi clienti?!

Quando gli parve di essere tornato più o meno presentabile, si staccò faticosamente dalla parete e rientrò in agenzia, sorreggendosi alla porta. Sospirò e si passò una mano tra i capelli, cominciando a chiedersi se non soffrisse anche di claustrofobia.

- Bill! – Perfetto. Ci mancava solo sua madre. – Bill, che hai? – Simone lo raggiunse a passo svelto, una nota di angoscia nella voce.

- Niente…! Tranquilla, non… non è successo niente – Lui stesso si rese conto di risultare poco credibile.

- Chi era al telefono? – gli chiese infatti Simone. Bill strinse i pugni, sospirando stancamente. Non aveva le energie necessarie per difendersi da quell’attacco di iperprotezione.

- Non lo so, ho dovuto chiudere. Non mi sento bene –

A sua madre, ovviamente, non bastò. – Bill, cosa… -

- Posso andarmene adesso? – la interruppe debolmente lui. Simone lo guardò interdetta per qualche secondo.

- Certo – disse infine. – Certo… vai pure – Bill produsse uno dei suoi finti sorrisi, e fece per andarsene senza aggiungere una parola. – Mi raccomando, Billy… -

- Lo so – tagliò corto lui, mentre il sorriso scompariva dalle sue labbra. – Lo so, mamma. Ci vediamo domani –

E uscì senza attardarsi di un solo secondo, perché altrimenti sua madre avrebbe assistito in diretta alla seconda crisi di panico.

Casa, casa, casa. Voleva solo tornarsene a casa.

 

 

Tom si grattò nervosamente la testa, rigirandosi tra le dita il foglietto ormai mezzo sbrindellato. Si sentiva incredibilmente idiota a star fermo lì, davanti a quella che, secondo l’indirizzo che gli aveva dato sua madre, doveva essere la porta dell’appartamento di Bill.

Le possibilità erano due: o si decideva subito a bussare, o se ne tornava indietro senza lasciar traccia.

Erano quasi le dieci di sera e c’erano tutte le premesse perché il suo tentativo fallisse. Ma se non avesse provato, non l’avrebbe saputo mai, quindi si limitò a tirare un profondo respiro, chiudere gli occhi e premere il campanello prima che un qualsiasi agente esterno gli facesse cambiare idea.

Aspettò per secondi che gli parvero ore prima di sentire lo scattare della serratura e un leggero cigolio accompagnare il lento aprirsi della porta. Doveva essere ancora un po’ confuso, fatto sta che tutto quello che riuscì a focalizzare fu una sola informazione: suo fratello, in piedi sulla soglia, lo guardava con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a fessure.

- Tu qui? – lo sentì sibilare, mentre un lieve scricchiolio gli annunciava che Bill si era aggrappato alla maniglia con tutta la forza che aveva in corpo. Non riuscì a fare altro che sorridere nervosamente.

- Ehm… ciao Bill –

Idiota. Sei un emerito idiota. E’ una settimana che ti prepari discorsi degni di un convegno per farti accogliere da tuo fratello, e ora che ce l’hai davanti non sai dirgli altro che “ciao”?

- Cosa… che cosa vuoi? – lo aggredì la voce di Bill, mentre il suo proprietario rimaneva incollato alla porta.

- Io sono… beh… tornato… - farfugliò Tom totalmente spiazzato, il sorriso ancora impigliato tra le labbra. Non si era aspettato che Bill gli saltasse in braccio, però neanche che gli rivolgesse quello sguardo. – Volevo solo… sapere come state, ecco… Tu, Haylie, la… - Deglutì, incapace di continuare. Bill lo aveva fulminato con lo sguardo, e quegli occhi sembravano tanto carichi di odio da stroncare le sue parole sul nascere.

La mano del moro strinse convulsamente la maniglia.

- Haylie è morta! – ringhiò, subito prima che Tom lo vedesse scomparire, accompagnato da uno schianto. Furono necessari un paio di secondi perché si rendesse conto che Bill gli aveva chiuso la porta in faccia. Tutto quello che l’istinto gli suggerì di fare fu di tempestarla di pugni.

- Bill! Bill, apri! – Nessuna risposta. Tom rimase immobile per qualche istante, poi sferrò un calcio alla porta. – Per favore Bill, aprimi! –

Subito dopo, sentì una voce provenire da sopra la sua testa. – Silenzio! Qui c’è gente che dorme! – Non fece neanche in tempo a vedere l’uomo anziano che si era affacciato dal balcone del primo piano, ancora stordito dalle parole con cui Bill aveva troncato la loro –peraltro brevissima- conversazione.

Cosa voleva dire… Haylie è morta?

Tom fece un rapido calcolo, per quando la sua poca lucidità glielo permettesse. Dunque. Bill non aveva ancora smaltito il risentimento nei suoi confronti. Doveva anche essere successo qualcosa con Haylie, qualcosa di serio, perché, d’accordo, quando Bill era frustrato era capace di prodursi nei deliri più disparati, ma… dal delirare a dare una persona per morta…

Perché se fosse morta davvero, Bill non lo avrebbe liquidato così. Era inconcepibile. Semplicemente non era possibile.

Che la sua partenza non avesse giovato alla loro riconciliazione?

Dovevano essersi lasciati… e chissà da quanto tempo. E allora, la bambina? Che fine aveva fatto? Sì, doveva essere successo qualcosa di terribile se Bill era così accanito nei confronti di Haylie. Del resto, non c’era poi tanto da stupirsi se aveva detto che era morta. La sua storia con quella ragazza era stata tormentata fin dall’inizio… Dunque era questo che Bill voleva, cancellarla per sempre dalla propria vita?

Tom voltò le spalle alla palazzina e si avviò in strada, a testa bassa e con il trolley al seguito.

Le domande erano troppe, ma una più di tutte adesso gli premeva: e se sua madre fosse già andata a dormire…?

 

Eppure non son sempre stato nessuno,

perché non mi apre nessuno

che sappia colmare il vuoto che é in me?”

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Capitolo 3
*** Tu devi sparire ***


Capitolo 3 – Tu devi sparire

Capitolo 3 – Tu devi sparire

 

“Tra schegge di memoria

provo a rintracciare

i cocci di una storia

smarrita dentro me”

 

Ci volle qualche secondo perché Tom si rendesse conto di essersi svegliato a casa di sua madre, per giunta su un letto stranamente comodo.

Cercò di riattivare il cervello, percorrendo mentalmente le ultime ore trascorse prima della “visita” a sua madre. Non pensò neanche di riaprire gli occhi. Dunque. Cosa aveva pensato, una volta sceso dall’aereo?

Bill.

Ah, già, Bill.

E poi? E poi doveva aver fatto male i calcoli perché, per quel poco che ricordava, la conversazione con la porta chiusa era stata più lunga e soddisfacente di quella con suo fratello. Già, Bill l’aveva sbattuto fuori, dopo aver blaterato qualcosa di incomprensibile a proposito di Haylie. Cosa aveva detto, esattamente…?

Tom si strofinò le palpebre con le dita, sbuffando sonoramente. Avrebbe preferito non ricordarlo.

Calciò via il lenzuolo e si mise a sedere sul letto, compiendo uno sforzo immane per aprire gli occhi. Grazie ad un sottile cono di luce che filtrava da uno spiraglio di finestra aperto, Tom constatò che doveva essere mattino inoltrato. Di conseguenza, doveva aver dormito almeno una decina di ore.

Non del tutto strano, pensò, considerato che erano tre anni che non passava la notte in un luogo da potersi definire “casa”.

Solo dopo essersi alzato constatò con un certo stupore di avere ancora indosso i vestiti della sera prima. Si grattò la testa sbuffando una seconda volta: non male, come inizio di soggiorno.

Trovò sua madre intenta a trafficare in cucina, ma il profumo che scaturiva dalla pentola posta sul fornello non fu sufficiente a farlo svegliare del tutto. Simone si accorse della sua presenza prima che Tom facesse in tempo a proferire parola. – Ben svegliato! – esclamò, con un’incomprensibile nota di allegria nella voce.

Considerandola come una dimostrazione del suo senso dell’umorismo, Tom scostò una sedia dal tavolo e vi si lasciò cadere, mugugnando qualcosa di simile a un “buongiorno”. Simone lasciò la pentola fumante sul fornello e lo raggiunse per poi schioccargli un sonoro bacio su una guancia. Il ragazzo si sentì vagamente in colpa dopo aver realizzato che la sera prima non doveva neanche averla salutata.

- Allora, come stai? – gli chiese lei senza perdere il sorriso.

- Benissimo – borbottò Tom, piegando un braccio sul tavolo e appoggiandovi il mento. – Ma tu non lavori? –

- Oggi è domenica – ribatté lei, prendendo posto di fronte a lui.

Tom grugnì, segno che aveva recepito il messaggio. Simone non sembrò scoraggiata da quella palese dimostrazione di disinteresse, e proseguì: - E tu, non avevi detto che saresti andato da Bill? –

Tom richiuse gli occhi, corrugando le sopracciglia. Quella domanda gli riportava in mente pensieri che non facevano altro che provocargli un forte mal di testa.

- Appunto –

- E quindi…? –

Tom sbuffò per la terza volta, appoggiandosi con i gomiti al bordo del tavolo e massaggiandosi le tempie. Che voleva sua madre? Si era appena alzato, non aveva neanche fatto colazione e lei partiva in quarta con gli interrogatori? Prima o poi avrebbe dovuto ricordarle che i venticinque anni li aveva appena compiuti da quasi un mese.

- Niente, mi ha chiuso la porta in faccia – Simone sospirò pesantemente, come se, dietro tutto quell’entusiasmo, vi fosse celato il timore di quella risposta. In qualche modo, se l’aspettava.

- E’ passato così tanto tempo… -

- Già, ed evidentemente non è cambiato molto –

- Tom – Il tono di sua madre era un chiaro invito a guardarla negli occhi, e Tom alzò automaticamente lo sguardo. Si rese improvvisamente conto che sua madre sembrava più vecchia di dieci anni da quando si erano visti l’ultima volta, e questo gli fece una certa impressione. – Tuo fratello sta passando un brutto periodo –

- Questo l’avevo capito – replicò lui, trattenendosi dall’aggiungere “non è colpa mia”. Effettivamente, non era del tutto vero.

- Ma se non provate neanche a parlarvi… -

- Lo so mamma, lo so – la interruppe Tom. – Ci ho provato una volta e non ci sono riuscito. D’accordo, forse è stato un tantino esagerato da parte mia pensare che mi avrebbe accolto a braccia aperte, però non pensavo neanche che ce l’avesse ancora con me. Non così, intendo – Vi fu una breve pausa di silenzio.

- Cosa vorresti fare? – gli chiese infine Simone. Tom rispose con un’alzata di spalle.

- Riprovare a parlargli, immagino –

- Sì, ma a parte questo, intendo… cioè, hai pensato a dove stare? –

Tom provò un certo imbarazzo nel rispondere a quella domanda. – Veramente pensavo di poter passare un po’ di tempo da lui… Giusto il tempo di trovarmi un’occupazione, non so… - L’espressione sul volto di sua madre sembrava dire chiaramente “missione impossibile”, tuttavia Simone preferì ricorrere a termini più delicati.

- Lo sai che puoi restare qui per tutto il tempo che vuoi… -

Per la prima volta da quando si erano rivisti, Tom sorrise. Non aveva il diritto di mettere in mezzo anche lei, dopotutto. Lo stava accogliendo come se fosse solo tornato da una vacanza, quando avrebbe potuto comportarsi come Bill.

No. La reazione di Bill era effettivamente incomparabile.

- Grazie mamma – disse. – Ma preferisco di no. Sono tornato con l’intenzione di restare. Dammi solo il tempo di sistemarmi. E poi… la cosa più importante per me è… - Imbarazzato, non seppe come continuare.

- Riallacciare i rapporti con Bill, vero? – Simone sorrise, posando una mano sulla sua spalla. Tom annuì senza dire nulla. – Ci spero davvero tanto, Tom. Non sopporto di vedervi così lontani, è… è qualcosa che va contro voi stessi, non è nella vostra natura –

Lui annuì di nuovo. Avrebbe voluto che fosse Bill a dirgli quelle cose.

- Va bene… Vado a cambiarmi – tergiversò infine, facendo come per alzarsi. In quello stesso momento si udì il suono del campanello, al che anche Simone si alzò da tavola e uscì dalla cucina, diretta all’ingresso.

Tom la sentì armeggiare con la serratura prima che la sua voce esclamasse:

- Tesoro! Come mai qui? –

Considerato che le uniche persone possibili a cui Simone poteva aver rivolto quel “tesoro” non erano che Bill e Gordon, e che quest’ultimo viveva con lei da oltre vent’anni (dunque un “come mai qui?” sarebbe risultato decisamente fuori luogo), Tom si preparò psicologicamente a quello che, presumibilmente, sarebbe venuto dopo.

Non sentì il resto della breve conversazione. Rimase solo fermo dov’era, i pugni chiusi, le labbra serrate.

Poi accadde in un attimo: Bill entrò in cucina, probabilmente ignaro di chi vi avrebbe trovato, e per Tom fu come vederlo per la prima volta, come se l’episodio della sera prima non fosse mai esistito.

Quando il moro si accorse della sua presenza si bloccò improvvisamente, come se al minimo passo potesse imbattersi in un campo minato. Tom si sentì terribilmente a disagio nel momento in cui si vide il suo sguardo puntato addosso, soprattutto perché non avrebbe saputo come interpretarlo.

La prima informazione che riuscì a focalizzare fu che Bill era cambiato. Decisamente ed irreparabilmente, a quanto poteva vedere.

I capelli erano rimasti quelli di sempre, sì. Lisci e neri, lunghi fino alle spalle… e legati da un elastico. Da quando Bill li aveva lasciati crescere, non li aveva mai legati. Forse era proprio questo particolare a conferire al suo viso un’aria in qualche modo più matura, più adulta.

Era magro, magro come sempre, forse anche di più. L’unica differenza che Tom notò era un leggero accenno di muscolatura in più. Una cosa minima, certo, ma comunque un bel cambiamento, considerato che, per ventidue anni, Tom aveva avuto per fratello solo un mucchietto d’ossa, come lo chiamava spesso per prenderlo in giro.

Se non altro, nel modo di vestire non vi era alcuna traccia del Bill che aveva lasciato tre anni prima. Quel giorno, indossava un’anonima polo bianca a maniche corte e un paio di jeans che avrebbe potuto recuperare da qualunque armadio che non fosse il suo. A completare il tutto, la totale assenza di quegli elementi che per Bill erano stati comparabili a un personalissimo kit di sopravvivenza: niente smalto nero, niente trucco, niente accessori ricercati.

Ma Tom dubitava che fosse la totale assenza di trucco ad aver dato al viso di Bill quell’espressione che non ricordava di aver mai visto. Dopotutto, era pallido come sempre, i lineamenti non erano certo cambiati, forse aveva solo la mascella leggermente più squadrata.

Però vi era qualcosa di diverso, qualcosa di strano, inquietante, quasi. Era come se quegli occhi celassero un segreto, come se non riuscissero a contenere tutto quello che avrebbero voluto trasmettere. Anche le labbra avevano assunto un altro taglio, sembrava quasi che si fossero assottigliate. Sembrava che un sorriso non le toccasse da anni.

Simone seguì frettolosamente Bill nella cucina, per poi rivolgere a Tom uno sguardo ansioso, di cui tuttavia lui non si curò.

Tom vide suo fratello deglutire e i suoi muscoli contrarsi, prima che voltasse la testa verso sua madre.

- Io… posso passare un’altra volta – disse a voce bassa, come se sperasse che lei acconsentisse. Ma tutto quello che fece fu prenderlo per un braccio prima che lui si dirigesse fuori dalla cucina.

- No Bill, resta pure – disse con voce ferma. Bill si irrigidì, fermo sulla soglia, curandosi di non incrociare lo sguardo del fratello.

Rendendosi conto che non gli avrebbe mai rivolto  la parola per primo, Tom raccolse una certa dose di coraggio per apostrofarlo con un sommesso ma deciso: - Allora, non mi saluti? –

Il moro alzò di scatto la testa e lo fissò con astio. – Non vedo perché dovrei –

- Perché siete fratelli – intervenne Simone, cercando di dare alla propria voce un’impronta di maggiore durezza.

Bill socchiuse gli occhi, senza staccare lo sguardo di dosso a Tom. – Non sono io ad averlo dimenticato –

- Bill! – Simone gli rivolse un’occhiata carica di rimprovero, Tom non si mosse. – Non voglio sapere cosa avete intenzione di dirvi. Sbrigatevela da soli, ma parlate. Io esco – Nessuno proferì parola mentre lei si accingeva ad uscire dalla cucina. – E nessuno si muove di qui finché non vi sarete chiariti! –

Povera, illusa mamma fu il repentino pensiero di Tom nel momento in cui sentì lo sbattere della porta d’ingresso.

E così erano passati dal “tuo fratello sta passando un brutto momento” al “chiaritevi immediatamente”. Un bel salto.

La tensione avrebbe potuto essere tagliata a fette. Bill lo fissava con una rabbia tale da fargli dimenticare di colpo tutto quello che avrebbe voluto dirgli.

- Cos’è, sei corso subito a fare la pietà dalla mamma? – ringhiò infine. Il biondo respirò profondamente un paio di volte prima di rispondere.

- Fare la pietà non rientra tra le mie abitudini, veramente – disse, con calma palesemente forzata. – Così come il pretendere un’accoglienza decente da parte tua. Ma speravo che almeno avessi voglia di vedermi –

- Non mi pare che esistano motivi per cui avrei dovuto saltarti al collo – ribatté acidamente Bill.

- Io ti avevo semplicemente chiesto come stavi, Bill. Non mi sembra un’offesa così terribile – Tom si rendeva conto che, così facendo, sfidava apertamente il precario sistema nervoso di Bill, ma aveva ancora in mente l’immagine di quella porta chiusa e non riusciva a mandarla via.

- Cosa può interessarti di come sto io? –

In ogni parola di Bill c’era il veleno.

Tom avrebbe voluto dirgli che gli importava eccome, ma sospettava che ciò non avrebbe provocato una reazione positiva. Era come se Bill gli serbasse rancore per qualcosa che lui non conosceva, per qualcosa che aveva fatto senza saperlo. Ed era chiaro che lui, di accuse da rovesciargli addosso, ne aveva un mucchio.

Ebbe modo di confermarlo non appena riprese a parlare.

- Me la ricordo ancora quella lettera, sai? Mi ricordo di tutto quello che hai detto e fatto. Dicevi che io dovevo continuare con i Tokio Hotel, che se non l’avessi fatto l’avresti saputo. E infatti eccoci qui. E’ da un anno che io e i ragazzi non ci vediamo più, e le tue erano tutte bugie, come al solito – Il cuore di Tom mancò un colpo, forse per la durezza di quelle parole, o forse per quell’inaspettata rivelazione. – Quante me ne hai dette di bugie, eh Tom? –

Tutto quello che l’altro riuscì a formulare fu un tremulo: - Perché voi…? –

Bill lo fulminò con lo sguardo. – Non mi pare che tu ti sia interessato molto del gruppo. Ci hai lasciati nella merda, e ora vuoi sapere perché ci siamo sciolti? –

- Tu… tu non dovervi farlo – disse Tom, stringendo i pugni. – Ti avevo detto che potevate prendervi un altro chitarrista, o… aspettarmi, oppure… -

In quel momento, Tom era pronto a giurarlo, Bill si sarebbe messo a ridere, se non fosse stato completamente disabituato a farlo –come sicuramente doveva essere. Sarebbe stata una risata cattiva, tagliente, e Tom fu decisamente contento di non essere costretto a sentirla.

- Il tuo ego è talmente spropositato da farti pensare che ci siamo sciolti per te? – Bill lo fissò in cagnesco per qualche altro interminabile secondo. – Ho rinunciato da tempo a capirti, sai. Non mi interessa neanche, a dirla tutta. Sono solo curioso di sapere cosa pensi di fare, dopo aver coronato il tutto con il tuo trionfale ritorno –

In quel momento, Tom provò un’irresistibile voglia di scagliarsi contro di lui e prenderlo a schiaffi.

- L’unica cosa che mi aspettavo era di poter sostenere una conversazione decente con te. Che almeno mi spiegassi perché dopo tre anni ce l’hai ancora con me, che mi rendessi un minimo partecipe della tua vita, e… - Ma non poté continuare, perché Bill sbatté un pugno sul tavolo con tanta violenza da farlo sobbalzare.

- Non deve fregartene niente! Hai capito? NIENTE! – gli gridò contro. – HAI MANDATO TUTTO A FANCULO TRE ANNI FA, NON HAI IL DIRITTO DI PIOMBARE COSÌ NELLA MIA VITA E PRETENDERE CHE TI GETTI LE BRACCIA AL COLLO! –

Per un attimo, Tom ebbe paura che Bill potesse avventarsi contro di lui e picchiarlo.

- Io non ho detto che… - tentò di opporsi, ma Bill non glielo permise.

- Tu devi sparire! – urlò, puntandogli l’indice contro. – Sei sparito tre anni fa? Bene, fallo anche adesso! Non me ne frega niente! – Tom non si mosse, completamente annichilito. Stava succedendo tutto troppo in fretta perché potesse pensare a qualcosa di sensato da dire. – Vattene, cazzo! – gridò ancora Bill. Ma per Tom fu come se quelle parole avessero trovato un ostacolo che impediva loro di arrivargli alle orecchie. Non poté fare altro che fissarlo basito, la bocca semiaperta, come un bambino incredulo. Le labbra serrate di Bill, per un attimo, parvero tremare, prima che il ragazzo lasciasse andare la presa sul bordo del tavolo a cui si era convulsamente aggrappato. – D’accordo, allora me ne vado io – disse bruscamente. Rimase fermo a fissare Tom con rabbia ancora per qualche istante prima di voltargli le spalle e lasciare la cucina a passo di carica. Lo schianto della porta arrivò subito dopo.

Di tutti i pensieri che avrebbe potuto formulare, la mente di Tom ne focalizzò uno solo: Bill aveva decisamente perso la testa. Era impazzito.

E questo doveva essere successo già da un bel po’ di tempo.

 

 

Bill stette bene attento a non alzare la testa, continuando a riempire diligentemente i campi vuoti sul foglio.

Sapeva che quel momento sarebbe arrivato, e anche piuttosto in fretta. Per questo stava chino sulla scrivania e scriveva freneticamente, cercando di non pensare a quello che sarebbe successo di lì a breve, quando sua madre sarebbe entrata in agenzia.

Era un trucco che usava spesso, ormai. Annegava la disperazione nei numeri. Sì, era tutto quello che doveva fare: scarabocchiare un nome in alto a destra, mettere delle cifre, apporre una firma a piè della pagina. Lettere, numeri, lettere, numeri, lettere numeri e nient’altro. Nessuno avrebbe potuto rimproverarlo per quella sua abitudine. Non beveva, non commetteva atti vandalici, non andava a puttane. Ogni tanto una sigaretta, anche se sua madre soleva ricordargli che quell’ogni tanto si ripeteva un po’ troppe volte al giorno.

Ma tanto, che male faceva lui agli altri? Nessuno.

E a se stesso, quanto male poteva fare? Non più di quanto se ne fosse già fatto.

- Allora? –

La domanda arrivò concisa e imperiosa direttamente da sopra la sua testa. Bill sospirò e chiuse gli occhi, senza muoversi di un millimetro. Odiava il fatto che sua madre ogni tanto se ne uscisse con la recita della severa impunita. Non le veniva per niente bene, perché non lo era mai stata. E, soprattutto, quei suoi “sbalzi d’umore” non riuscivano a lasciarlo nel suo solito clima di passività e calma forzata. Improvvisamente ogni parola gli ronzava nelle orecchie come uno sciame di zanzare, facendo montare in lui un’irritazione che non tardava a trasformarsi in collera.

- Allora cosa? – sospirò, la penna stretta nel pugno.

- Bill, per favore. Non fare il finto tonto. Avanti, com’è andata con tuo fratello? –

Fantastico. Parlava come se la cosa non la riguardasse. Peccato che il tono di voce un po’ troppo alto la tradisse.

- Perché non lo chiedi a lui? – replicò il ragazzo, costringendosi a non alzare la testa.

- Credi che non l’abbia fatto? – Bill sentì la mascella contrarsi. Brutto segno.

- E allora non ho niente da spiegarti. Sicuramente la sua versione dei fatti sarà stata molto convincente – tentò di liquidarla. Ma, se sua madre si metteva qualcosa in testa, era difficile che cambiasse idea.

Simone sospirò, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi, e Bill prese a fissare un punto qualsiasi del foglio che aveva davanti, pur di illudersi di avere davvero qualcosa che potesse distrarlo.

- Perché, Bill? –

La sentì chiederglielo con la voce talmente carica di rammarico che non poté fare a meno di alzare la testa. L’espressione di sua madre era corrucciata, ogni suo gesto svelava la sua tensione.

- Apprezzo molto che tu voglia sistemare le cose. Sul serio. Ma non è necessario – Si sforzò di sembrare convincente, invece il suo tono era quello di chi vuole concludere in fretta una conversazione poco piacevole.

- Non posso pensare che vi siate ridotti così. Perché non provi nemmeno a… parlargli, o…?

A quel punto, Bill non riuscì a rimanere impassibile. Si alzò e, dopo aver fatto il giro della scrivania, si avvicinò a sua madre e le prese le mani fra le proprie. Ogni traccia di irritazione svanì nel vedere la sua aria afflitta.

- Mamma, io… davvero, ti ringrazio. Ma non è questo che voglio – Lei gli rivolse uno sguardo addolorato.

- Certo che lo vuoi, invece – Bill sentì una sgradevole sensazione in un punto imprecisato nello stomaco. No, non era irritazione. Era… insofferenza, ecco.

- Non ci riesco – disse, laconico. Simone lo prese per le spalle.

- Perché non ci provi neanche, Bill. Se non ci provi non potrai mai riuscirci – Bill strinse impercettibilmente i pugni. Il suo moto di comprensione stava rapidamente svanendo. Sua madre non poteva entrare nella sua testa e leggere i suoi pensieri. Nessuno poteva farlo.

- E cosa dovrei fare, secondo te? – le chiese allora, senza traccia del desiderio di saperlo davvero. Simone esitò.

- Se almeno provaste a passare un po’ di tempo insieme, magari ti accorgeresti che ti è mancato davvero. Tom non è tornato per portare scompiglio, Bill, lo capisci? –

- Certo, l’ha già fatto – rispose lui a denti stretti.

- Ma perché non… -

- Cioè, fammi capire – Bill deglutì, aggrottando le sopracciglia e allontanando le mani di Simone dalle proprie spalle. Lo stomaco stava cominciando a bruciargli. – Stai dicendo che dovremmo prenderci un appuntamento giornaliero e raccontarci cos’abbiamo fatto in questi anni? Eh? E’ questo che devo fare secondo te? –

- No, ma… -

- Oppure mettermelo a casa? Certo, perché non ci ho pensato prima? – soggiunse con sarcasmo. – Passeremmo delle giornate indimenticabili, no? A girarci i pollici senza aver niente da dirci! Tu… tu non puoi pensarlo davvero. Allora non capisci… tu non sai… - Bill le voltò lentamente le spalle, prendendosi la testa tra le mani come se gli dolesse. Neanche sentì le dita di Simone sfiorargli la schiena.

- Tesoro… -

- Tu non sai cosa ho passato… non puoi capire, non puoi sapere… E ora… ora dovrei… no, non capisci… - balbettò, scuotendo lentamente la testa. Improvvisamente, nella sua testa aveva preso vita un vortice di suoni e immagini, di ricordi belli e brutti, ma che mescolati tutti insieme non gli provocavano altro che dolore. Simone, atterrita, non riuscì a pensare di fare altro che avvicinarglisi e cingergli la vita con le braccia, stringendolo delicatamente a sé e poggiando la fronte sulla sua nuca. Poteva sentirlo tremare sotto le sue mani…

- Oh, Billy, certo che so cos’hai passato – mormorò contro la sua schiena. – Se solo tu ti sfogassi… se parlassi con qualcuno, invece che tenerti tutto dentro… -

Le parve di sentirlo sussultare, una sola volta. Ma avrebbe voluto dire che stava piangendo. Ed erano mesi che suo figlio non versava una lacrima, anche se avrebbe avuto tutte le ragioni per farlo. Era questa la sua tortura, e lei non voleva altro che vederlo tranquillo. Non felice, ma almeno sereno…

- E con chi dovrei farlo? – quasi la aggredì, senza però liberarsi della sua stretta.

- Se non vuoi sfogarti con me, potresti farlo con Tom – Simone lo sentì irrigidirsi. – Io sono sicura che se tu riuscissi ad aprirti con lui, se voi riusciste a spiegarvi… poi sarebbe tutto diverso –

Bill avrebbe voluto solo sputarle in faccia un altro “no”, dirle di lasciarlo in pace. Ma quelle parole, quell’abbraccio… forse la sua sanità mentale importava solo a lei. E allora non sarebbe stato giusto deluderla un’altra volta. Ma d’altra parte neanche lui si sentiva di assecondare i suoi desideri.

- Io… non lo so, mamma – mormorò, portando le mani sulle sue e sciogliendole delicatamente tra di loro. Quando si liberò del suo abbraccio, si voltò verso di lei, chinando la testa. – Non credo di farcela –

Simone sorrise appena, sfiorandogli una guancia. – Avete solo bisogno di tempo – Lui rimase in silenzio. – Ti fidi di me? –

Bill non rispose all’istante. Rimase ancora un po’ con il capo chino e il respiro lieve, senza proferire una parola. Poi, lentamente, alzò la testa. E quando incrociò lo sguardo di sua madre, furono le sue stesse labbra a mimare uno stentato ma sincero “sì”.

 

Quella notte, come succedeva ogni due giorni ormai da sei mesi, non chiuse occhio. Le parole di sua madre gli ronzavano ancora in testa e, suo malgrado, ancora non riusciva a spegnere quel fastidioso interruttore.

Come poteva avergli proposto di ospitare Tom a casa sua? Come poteva anche solo pensare che il loro rapporto sarebbe tornato quello di un tempo?

Si rivoltò per l’ennesima volta, stringendo al petto il cuscino e appoggiandovi il mento. Cosa avrebbe potuto cambiare se Tom si fosse fermato davvero a casa sua? In fondo, per Bill l’unico problema era evitare di stare per troppo tempo nello stesso posto, dato che, in quei casi, un orribile senso di angoscia non tardava a farsi sentire.

Tutto quello che voleva era stare tranquillo, in pace, lontano dal mondo.

E chi lo obbligava a stare chiuso in casa…?

 

 

_______________________________________________________________________________

 

Buongiorno buongiorno.

Premetto che non dovrei essere qui, ma a studiare chimica, ma su questo si può tranquillamente soprassedere.

Grazie alle quattro commentatrici e ai 14 che hanno (di già?) aggiunto la fic ai preferiti. Naturalmente la canzone usata è sempre “Nessuno” di Raf (vi seccherà leggerlo ogni volta, ma credetemi, secca più a me doverlo scrivere).

Mi raccomando: se questo capitolo (o l’intera storia) dovesse piacervi o procurarvi un’inarrestabile crisi di vomito, fatemelo sapere!!! Me avida di recensioni ^_^

 

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Capitolo 4
*** Fotografia ***


Capitolo 4 – Fotografia

Capitolo 4 – Fotografia

 

“Cerco nei cassetti

segreti personali…”

 

- Ma tu mi ci vedi tipo… a fare il meccanico? –

- Non lo so… Vuoi una risposta educata o onesta? –

- Onesta, credo –

- Allora passa avanti, che è meglio –

Acciambellato sul divano del salotto, Tom passava in rassegna tutti gli annunci di uno dei quotidiani comprati da sua madre, nella vana speranza di trovare un impiego provvisorio. Era già il terzo giorno consecutivo che passava in casa di Simone, e quella mattina aveva deviato le sue richieste di opinioni da lei a Gordon, dopo avergli raccontato malvolentieri come avesse trascorso quegli ultimi tre anni “in giro per il mondo”, come diceva lui.

Scoraggiato, aveva dovuto prendere atto della situazione: i posti vacanti che gli offrivano le pagine dei giornali riguardavano solo mestieri orribilmente comuni, in nessuno dei quali lui riusciva a ritrovarsi. Come se ciò non bastasse, aveva dovuto sentirsi dire da Gordon che avrebbe fatto meglio a lasciar perdere.

- Tom, tu sei nato con la chitarra in mano – gli aveva detto, vedendolo seppellirsi nel terzo quotidiano nel giro di mezz’ora. – E’ ovvio che non trovi nulla che ti soddisfi! –

Tom sapeva perfettamente che non avrebbe dovuto prenderla come una mancanza di fiducia. Da quando Gordon e sua madre convivevano, lui era stato sempre il suo preferito. Il patrigno gli aveva regalato la prima chitarra elettrica, insegnandogli poi a maneggiarla con una dimestichezza che nemmeno lui possedeva. Era comprensibile che fosse deluso dal fatto che Tom sembrasse intenzionato a mettere da parte la musica, la sua grande passione. Al contrario di Simone, Gordon non sembrava affatto invecchiato in quei tre anni.

- Temo di non poter combinare granché, da solo – ribatté Tom senza alzare gli occhi dalla pagina.

- Beh, ricordati che con tuo fratello avete cominciato dal basso, e guarda un po’ dove siete arrivati! –

A quelle parole, lo sguardo del ragazzo guizzò verso Gordon, in piedi al centro del salotto.

- Dove eravamo arrivati – lo corresse controvoglia.

- Comunque sia, se proprio sei intenzionato a fare qualcosa di diverso, puoi chiudere gli occhi e puntare il dito su un annuncio qualsiasi – disse Gordon con noncuranza.

- E’ un modo carino per sottolineare che non so fare nient’altro che agitare una chitarra? – borbottò l’altro.

- E’ un modo realistico per farti capire che è quello che devi fare. Comunque, decidi tu – L’uomo lanciò uno sguardo all’orologio appeso alla parete. – Ok, io vado. Ci vediamo stasera –

- A più tardi! – si sentì il saluto di Simone proveniente dalla cucina. Nel momento in cui Gordon lasciò il salotto, Tom avvertì il suono del campanello. Seguì lo scricchiolio della porta e la voce del suo patrigno:

- Oh, ciao Bill. Scusa, vado di fretta –

Tom sospirò, tornando a leggere la pagina degli annunci. Bill non poteva pretendere di non trovarselo davanti, andando da sua madre. A quel punto, se si lasciava cogliere da un altro attacco isterico, era un problema suo.

- Ehm… mamma? – fece la sua voce incerta, alla quale Simone rispose all’istante.

- Bill, che ci fai qui? –

Ci fu una breve pausa e Tom si rese conto con grande stupore di aver lasciato a metà la lettura dell’ultima pagina, e di stare ora attendendo la risposta del fratello con il fiato sospeso.

- Niente, volevo dirti… cioè, dirvi una cosa –

Dirvi?

Poteva vederlo benissimo da sé che Gordon era uscito. Dunque, chi includeva in quel “voi”?

Continuò a chiederselo anche quando la risposta si mostrò in tutta la sua ovvietà con l’entrata di Bill in salotto.

- Ciao – disse a mezza voce, senza nascondere la propria meraviglia, ancora mezzo sdraiato sul divano. Il moro rispose con un cenno nervoso e mugugnò qualcosa di simile a un saluto, distogliendo subito lo sguardo.

L’intervento di Simone li distrasse da quel momento d’imbarazzo. – Allora, cos’è che volevi dirci? –

Bill si mordicchiò il labbro inferiore, e dovettero passare diversi secondi prima che si decidesse a cavar le parole fuori di bocca, torcendosi le mani e tenendo lo sguardo fisso in un punto imprecisato.

- Beh, intanto… mi dispiace se l’altro ieri ho… perso il controllo –

Tom capì che la frase era rivolta a lui solo grazie al suo contenuto, perché Bill non guardava né lui né Simone. Il suo imbarazzo era celato dietro una maschera di irritazione, come se fosse stato costretto a giustificarsi. E a Tom non occorse un colpo di genio per capire che quelle scuse, oltre a non essere del tutto sincere, avrebbero dovuto andare a parare da qualche altra parte.

- E a me dispiace che tu sia venuto fin qui solo per dirmi questo – ribatté senza scomporsi. Non era tipo da lasciarsi andare a scenette melense, meno che mai quando capiva che il suo interlocutore non era ben disposto nei suoi confronti. Simone aveva tutta l’aria di voler intervenire, ma si poteva capire a chilometri di distanza che cercava disperatamente di trattenersi.

- Non è solo questo – scoccò infastidito Bill. – Insomma, volevo dirti che, se vuoi, per un po’ di tempo puoi venire a stare da me –

Tom dovette appellarsi a tutta la forza di volontà che possedeva per non rispondergli con il suo proverbiale sarcasmo. Mai sentita richiesta più disperata, era l’osservazione che aveva sulla punta della lingua, pronta a venir fuori, ma sospettava che non avrebbe migliorato la situazione.

- E’… molto gentile da parte tua – si sforzò di rispondere. Si rese improvvisamente conto che, se era quello lo stato d’animo con cui sarebbe stato accolto, non aveva nessuna intenzione di andare a stare da Bill.

Quest’ultimo fece un gesto non ben definito con una mano. – Ecco, quindi… per te va bene? –

Patetico. Questa fu l’unica parola che venne in mente a Tom, mentre guardava il fratello prodursi in atteggiamenti di cortesia che lui, in tutta sincerità, non desiderava. Sentì una morsa alla bocca dello stomaco, rendendosi conto che si stavano comportando come due perfetti estranei. Ecco, sembravano due studenti che, per forza di cose, si sarebbero ritrovati a vivere sotto lo stesso tetto. Magari avrebbero scambiato qualche parola, ma non sarebbero mai stati legati da un rapporto vero.

D’altro canto, lo sguardo di Simone diceva chiaramente “vai, vai prima che ci ripensi”.

Alzò le spalle. – Non so. Ho solo una valigia, i vestiti che porto e tre giornali di annunci. Per te va bene? – Per un attimo, l’evidente tensione di Bill fu tradita da uno sguardo interrogativo. – Sto cercando un lavoro – gli spiegò Tom. – Per evitare di, diciamo, importunarti più di tanto –

Simone alzò gli occhi al cielo.

- Ok, allora – concluse Bill, tornando a guardare in un punto imprecisato alla sua destra. – Puoi restare… per qualche settimana – si affrettò ad aggiungere, come se a Tom potesse venire il sospetto che avesse intenzione di trattenerlo per un anno. Vivere più di un mese con un fratello che a malapena ti rivolge la parola non è il massimo della felicità, avrebbe voluto dirgli, ma, per amor di pace, si costrinse a sorridergli e annuì.

- D’accordo. Grazie –

Bill non rispose e si limitò a cacciare le mani nelle tasche dei jeans. Sembrava al limite della sopportazione, come se avesse scritto in fronte “sono arrivato fin qui, bene, lasciatemi in pace, non ho intenzione di continuare”.

- Allora, beh, andiamo – disse in fretta, rivolgendogli un cenno nervoso. Simone sorrise raggiante, come se li avesse visti riabbracciarsi in un mare di lacrime, e si sporse a baciare Bill su una guancia.

- Ci vediamo oggi pomeriggio – Lui annuì senza rispondere.

Dieci minuti dopo, Tom era seduto in macchina accanto al fratello. Il trolley era stato sistemato nel portabagagli e l’aria era densa di tensione.

Tom avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa pur di spezzare quel silenzio insopportabile, ma non gli venne in mente nessun argomento che potesse tirar fuori senza far arrabbiare Bill. Si diede dello stupido quando ripensò ai tempi in cui si comportavano veramente da fratelli, quando Bill attaccava a parlare senza sosta e lui finiva col soffocarlo con il primo oggetto morbido a portata di mano. Se solo avesse immaginato come si sarebbero ridotti anni dopo, l’avrebbe lasciato straparlare all’infinito, anche solo per compensare quel silenzio opprimente.

Lo sbirciò di sottecchi mentre lui guidava. Forse era colpa della posizione innaturalmente composta, forse per l’espressione forzatamente concentrata, ma Bill sembrava veramente un’altra persona. Era come se fosse diventato adulto tutto d’un colpo, come se del bambino che c’era sempre stato in lui non fosse rimasto più nulla. Tom si ritrovò a fissarlo come se lo vedesse per la prima volta, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso. Non fece neanche caso agli impercettibili movimenti che rivelavano che Bill si sentiva osservato.

- Sei diverso – disse senza nemmeno pensarci. Era immobile, appoggiato allo schienale e con le braccia incrociate sul petto, il viso rivolto verso il gemello. Quest’ultimo gli gettò un’occhiata fugace, che fece riscuotere il biondo da quella sorta di torpore in cui era precipitato perdendosi nelle sue considerazioni.

- Tu invece non sei cambiato per niente – Il tono di Bill suonava vagamente disgustato, e il ragazzo espresse quella considerazione dopo aver gettato una veloce occhiata ai vestiti di Tom, come se quello fosse l’unico indice a rivelargli che suo fratello non era “cambiato per niente”.

Il biondo si irrigidì sul sedile.

- Dì pure per nessuno – replicò. – Per chi avrei dovuto cambiare? –

L’altro non rispose, seguitando a guardare la strada di fronte a sé. Era chiaro che non voleva parlare, anche se a Tom sembrava di potergli leggere in faccia tutta le accuse che aveva accumulato in quegli anni e che avrebbe voluto rovesciargli addosso.

- Siamo arrivati – disse tra  denti. Il biondo gli restituì uno sguardo astioso prima di scendere dall’auto. Quando furono davanti alla porta di casa, notò che Bill sembrava non riconoscere neanche la chiave con cui avrebbe dovuto aprire la porta, perché continuò a passare in rassegna tutte le componenti del mazzo prima di trovare quella giusta e spingerla nella serratura. Lo seguì all’interno con una certa quale riluttanza, trascinandosi dietro il trolley. Bill accese la luce dell’ingresso e gli rivolse un cenno che Tom interpretò come un invito a seguirlo in soggiorno.

Il primo giudizio che riuscì a esprimere tra sé e sé per quell’appartamento fu che sembrava piuttosto grande per un’unica persona. Se, come aveva immaginato, Bill viveva da solo, forse era segno della non completa eliminazione dei suoi vecchi capricci o, più semplicemente, del fatto che in quella casa doveva averci vissuto qualcun altro, con lui.

- Che c’è, non è di tuo gradimento? – lo apostrofò Bill, notando la sua espressione assorta. Tom si riscosse, infastidito dal tono con cui gli si era rivolto.

- No, stavo solo guardando. Non si può? – Passò qualche altro secondo di silenzio prima che Bill ribattesse:

- Avanti, la vuoi posare ‘sta valigia o no? – Gli voltò le spalle e attraversò il soggiorno a passo di carica, lasciando che Tom lo seguisse dopo qualche attimo di smarrimento. Attraversarono il corridoio, in fondo al quale vi era una porta chiusa. Bill la aprì senza guardare né Tom né l’interno della stanza. – Non è granché, ma tanto è una sistemazione provvisoria. Puoi stare qui –

Tom sbirciò all’interno. La stanza era piuttosto piccola e, nonostante la brandina sistemata in un angolo, non sembrava essere stata concepita come camera da letto. Il poco spazio era occupato da due armadi chiusi sopra i quali torreggiava un numero indefinito di scatoloni polverosi. A completare il tutto, una finestra al centro della parete, le cui persiane si presentavano rigorosamente serrate. Tom posò la valigia sul letto, costringendosi a sorridere e fingendo di non sentire la puzza di chiuso che lo aveva colpito alle narici fin da quando aveva messo piede nella camera. – Che dire, grazie –

- Vieni, ti faccio… beh, vedere la casa – borbottò Bill, seguitando a non guardarlo. – Per quando non ci sono, intendo –

Trattenendosi dal ribattere che un giro turistico era l’ultima cosa che desiderava in quella circostanza, Tom annuì e gli andò dietro mentre lui attraversava nuovamente il corridoio. La prima stanza che vide dopo il soggiorno e il ripostiglio –perché in altro modo non poteva definirsi- fu la cucina. Bill parlò come se fosse stato davvero una guida turistica, come se tutto quello non lo riguardasse affatto. – Quando non ci sono, puoi trovare qualcosa in frigo. Se no, il supermercato è a tre isolati da qui –

Reprimendo una fugace visione di Bill con un carrello della spesa al traino, Tom annuì, sforzandosi di rimanere serio. – D’accordo –

Bill fece un gesto indefinito verso il corridoio. – Quello è il mio bagno – mugugnò, e Tom realizzò che stava indicando la porta alla sua sinistra, - quindi tu puoi usare quello là a destra –

- Sei ben attrezzato – non poté trattenersi dall’osservare. – Ne ricevi tanti di ospiti? – Gli venne naturale usare quel tono ironico: la situazione era talmente assurda… Bill contrasse la mascella, ma continuò imperterrito a non guardarlo.

- Cazzi miei –

Tom alzò un sopracciglio. – Capito – Si guardò intorno e scorse un’altra porta chiusa dalla parte opposta del corridoio. – E lì che c’è? –

- Camera mia – fu l’epigrafica risposta. Il tono di Bill, però, risultò stranamente agguerrito. – Quindi vedi di girare al largo! – Questa volta, Tom non poté frenarsi dallo sbuffare.

- Andiamo, Tom – disse stancamente. – Di che ti vergogni, siamo fratelli! –

Di colpo, il moro voltò la testa e puntò il proprio sguardo nel suo, riducendo gli occhi a fessure.

- Dici? –

Tom aggrottò le sopracciglia, ma non rispose. Non gli venne in mente nulla di sensato da dire, e ad ogni modo aveva paura di uscirsene con termini poco gentili –e, vista la situazione, non era proprio il caso. Bill distolse quasi immediatamente lo sguardo, senza però perdere la sua espressione accigliata. Guardò l’orologio che aveva al polso, come se cercasse disperatamente una distrazione. – Devo andare a lavoro –

- Posso almeno chiederti cosa fai da quando hai buttato il microfono nella spazzatura? – replicò Tom con una non poco evidente nota di acidità. Bill lo fulminò con lo sguardo per la seconda volta.

- Mi sono rimboccato le maniche, io! – sottolineò aggressivamente, prima di afferrare la giacca ripiegata su una sedia e dirigersi nel corridoio a passo di carica. Lo schianto della porta sbattuta non tardò ad arrivare, e Tom si lasciò cadere su una sedia, prendendosi la testa tra le mani. Sembrava tutto dannatamente più complicato del previsto. Non che quel “previsto” fosse tutto rose e fiori

Decise di seguire il consiglio di Bill e annegare la disperazione nel cibo, ma, quando aprì il frigorifero, lo spettacolo che gli si presentò davanti agli occhi decisamente non lo incoraggiò: i ripiani erano praticamente vuoti, e tutto quello che offrivano era un numero limitato di bottiglie d’acqua, un cartone di latte e pochissimi altri generi di prima necessità, oltretutto per niente allettanti. Richiuse lo sportello senza neanche prendere in considerazione l’idea del supermercato: con tutto quello che gli avrebbe fatto patire, il minimo che potesse fare Bill era rifornirsi di provviste.

Attraversò il corridoio con l’intenzione di andare in bagno e farsi una doccia, quando si bloccò di fronte alla porta che Bill aveva etichettato come “camera mia”. La percorse interamente con lo sguardo.

…camera mia, quindi vedi di girare al largo!

La porta era semplicemente chiusa, ma era come se attorno a quella maniglia ci fosse del filo spinato.

…vedi di girare al largo!

Eppure, quella stessa maniglia sembrava invitarlo ad abbassarla…

…girare al largo!

Tom scosse la testa, come a scacciare quell’idea, e tirò dritto. Anche il fatto che di bagni ce ne fossero due confermava la sua teoria: Bill non aveva vissuto sempre da solo. Non in quella casa, perlomeno.

Non riuscì a liberarsi di quei pensieri neanche dopo essersi spogliato e rifugiato nella doccia, sotto il getto freddo dell’acqua.

Dov’era Haylie? Dov’era la loro bambina? E perché quel silenzio?

Che Bill non avesse alcuna intenzione di tirar fuori l’argomento era palese, ma lui doveva sapere… Erano fratelli, dannazione. Checché ne dicesse Tom, erano fratelli.

Uscì dalla doccia dopo un’abbondante mezz’ora, giusto in tempo per accorgersi che il bagno non offriva altro che un unico, microscopico asciugamano. Rovistò nella valigia in cerca di vestiti puliti, dopo essersi asciugato alla meno peggio e aver passato in rassegna il suo intero repertorio di imprecazioni. L’istinto gli suggeriva di usufruire del bagno di Bill –e magari anche di lasciare tutto in disordine-, ma il solo pensiero dei suoi strilli gli fece cambiare idea. Sistemò il trolley in un angolo e si lasciò cadere sul letto, prendendo il giornale che non aveva ancora finito di leggere: sarebbe stato meglio trovarselo alla svelta, un lavoro.

 

 

Bastarono meno di tre settimane per riportare Tom alla sua vecchia idea: avrebbe fatto molto meglio a rimanere da sua madre.

Vivere con Bill non era come stare sotto lo stesso tetto con un estraneo: era stare sotto lo stesso tetto con un estraneo, punto e basta. Forse il fatto che stesse quasi sempre fuori era da considerarsi un aiuto. Perlomeno non lo costringeva al silenzio forzato. Inoltre, durante le poche ore al giorno che i due gemelli trascorrevano chiusi tra le quattro mura, Bill si volatilizzava del tutto. Tom non si sarebbe stupito di vederlo scomparire nello scarico, pur di non parlare con lui.

Meglio parlare da solo che con Bill.

Buffo, considerato che il suo obiettivo era proprio quello: parlare con Bill. Peccato che quest’ultimo sembrasse avere tutt’altra opinione al riguardo.

I loro brevissimi dialoghi, solitamente, avevano luogo la mattina a colazione o la sera, sul tardi. Era capitato un paio di volte che Bill, senza perdere il suo tono scontroso e tendente all’offeso, gli avesse chiesto come procedesse la ricerca di lavoro.

Beh, non esattamente in questi termini.

- Allora, te la sei trovata qualcosa da fare, sì o no?!

Questa era una domanda tipicamente mattutina. Bill gliel’aveva chiesto due giorni dopo il trasferimento a casa sua, la settimana successiva e una decina di giorni più tardi. La risposta di Tom non era cambiata: si sforzava di non alzare lo sguardo, girava il cucchiaino nella tazzina del caffé e sospirava:

- Ancora no, ma non ci vorrà molto –

Deprimente. Tutto quello era deprimente all’ennesima potenza. Tom ne prese tristemente atto al diciottesimo giorno consecutivo che passava a casa del gemello. Erano le otto di sera e si era appena riempito di una delle schifezze surgelate che Bill aveva stipato nel freezer. Pensare che avesse imparato a cucinare era troppo, in effetti.

Decise che quella sera non lo avrebbe aspettato. Ovunque andasse Bill, per Tom non era salutare aspettarlo per poi farsi squadrare come un fastidioso intruso. Non era mai stato abituato ad andare a letto presto, ma pazienza, si disse, qualcosa da fare la troverò. Oltretutto non gli era dato sapere dove lavorasse Bill: avrebbe potuto chiedere a sua madre, ma, in primo luogo, non gli andava per niente e, in secondo luogo, non si erano più sentiti da quando era andato a stare da lei. Sarebbe stato avvilente oltre ogni dire sentirsi rispondere che, coraggio, poteva farcela.

Come ogni sera da ormai diciotto giorni, si fermò davanti alla porta chiusa della camera di Bill. Sempre che lo fosse davvero. Suo fratello vi si chiudeva dentro a una tale velocità che per Tom era impossibile sbirciare all’interno. Non seppe quale forza non lo trattenne dall’abbassare la maniglia: forse era curiosità, forse era incoscienza, forse era solo il desiderio di prendere parte anche solo a un pezzo della vita di Bill, sta di fatto che la porta era ormai aperta e Tom ancora esitava a mettere piede in quella stanza.

Cercò l’interruttore della luce e lo premette: un attimo dopo, la camera fu illuminata e Tom poté studiarla nei suoi punti essenziali. Era grande –troppo per una sola persona-, occupata unicamente da un armadio, una piccola scrivania con una sedia, un letto e un comodino. Tom avanzò pochi e lenti passi, fino ad arrivare al centro, vicino al letto. Le tende erano tirate e dalla finestra non filtrava neanche un filo di luce. Sembrava proprio che Bill fosse ostinato a vivere in un sarcofago. Si avvicinò al comodino e ne sfiorò la superficie ricoperta da un sottile strato di polvere, prima di accorgersi della cornice appoggiata alla lampada spenta.

Socchiuse gli occhi, mettendo a fuoco la fotografia posta dietro il vetro, e la sua mano si mosse istintivamente in avanti. Prese la cornice stranamente tirata a lucido e la avvicinò a sé.

Era una foto formato standard. Uno scatto che metteva in risalto quegli occhi scuri e quei capelli ramati che non avrebbe mai dimenticato.

Haylie

Non vi era nessun altro con lei in quella fotografia. Non sembrava neanche che fosse stata ritagliata. Haylie era stata ritratta in una posa di cui nessuno avrebbe mai messo in dubbio la naturalezza: era appoggiata a una ringhiera, teneva le braccia strette intorno al busto, come se sentisse freddo, e i suoi capelli erano libera preda del vento, che li scompigliava dando al suo volto –se possibile- un tocco di bellezza in più. E sorrideva. La testa era girata di tre quarti verso l’obiettivo, gli occhi sembravano luccicare, anzi, tutto il suo viso brillava di luce propria. Era uno sguardo sereno, rilassato, vivo.

- Hay… - Sussurrò il suo nome senza neanche rendersene conto, sfiorando con i pollici i lati della cornice. Fu un richiamo sommesso e quasi impercettibile, ma Tom lo sentiva rimbombare dentro di sé, al punto che gli impedì di accorgersi dello scattare della serratura. Neanche i passi nel corridoio, per quanto leggeri, ebbero il potere di scuoterlo da quella sorta di torpore in cui era precipitato.

- C-cosa stai facendo? – Tom sobbalzò quando udì la voce di Bill alle proprie spalle. Voltò la testa, la foto ancora stretta tra le mani, e vide il fratello guardarlo con occhi spaventosamente vuoti e fissi. Bill mosse un passo verso di lui. – Ti avevo detto di non entrare – disse in un soffio.

Poi lo sguardo gli cadde sul comodino. E Tom si voltò del tutto, rivelando una piccola cornice in legno stretta tra le mani. E tutto accadde molto velocemente.

- Mettila al suo posto! – esplose Bill, stringendo i pugni come se avesse voluto picchiarlo.

Tom deglutì, facendo un passo indietro. – Aspetta Bill, io non volevo… - cominciò, ma non poté continuare. Bill si scagliò contro di lui e gli strappò la cornice dalle mani, come se vederla toccata da lui per un secondo di più potesse togliergli il respiro.

- NON DEVI TOCCARLA! – urlò. – TI AVEVO DETTO DI NON ENTRARE! COSA VOLEVI FARE?

- Bill, perché non… - azzardò debolmente Tom, senza successo.

- NON DOVEVI FARLO! – continuò a gridare Bill, stringendo spasmodicamente al petto la fotografia. – Esci di qui! Subito! – Senza aspettare che il fratello obbedisse, lo spinse violentemente fuori dalla propria camera.

- Bill, ti prego, scusami! – I disperati appelli di Tom non fecero che peggiorare la situazione.

- FUORI DI QUI! – Bill sembrava completamente impazzito, le guance rosse, i pugni stretti, i muscoli tesi: trascinò Tom verso lo sgabuzzino dove lo aveva sistemato diciotto giorni prima. – Prendi le tue cose e vattene! Va’ via! –

Se non fosse stato travolto così violentemente dal corso degli avvenimenti, forse Tom avrebbe trovato la forza di chiedergli perché lo stesse aggredendo così solo per una foto, ma in quel momento era troppo impegnato a cercare di non lasciarsi sopraffare da Bill, dalle sue urla e dai suoi modi decisamente poco delicati.

- Ma perché?! – Continuò a chiederglielo anche quando Bill gli gettò praticamente addosso la sua valigia e i pochi averi che aveva lasciato sul letto, quando lo spintonò fino all’ingresso e quando spalancò la porta, indicando minacciosamente il vialetto davanti casa.

- VATTENE, CAZZO! VATTENE VIA! – sbraitò. Non aspettò neanche che Tom uscisse, lo spinse fuori e gli sbatté la porta in faccia. Si voltò e si accasciò con la schiena sulla parete, cercando di ignorare i richiami del gemello e i pugni sferrati sul legno, poi si allontanò a passo svelto, tappandosi le orecchie con le mani.

Si chiuse in camera e si gettò sul letto, coprendosi il viso con una mano e rendendosi conto di aver cominciato ad ansimare. Rimase qualche minuto ad occhi chiusi, cercando di regolarizzare il respiro, poi si rannicchiò su un fianco e strinse al cuore la cornice.

Voleva piangere. Tutto quello che voleva era scoppiare in lacrime e singhiozzare fino a inzuppare il cuscino, ma era come se quelle lacrime si fossero bloccate a metà strada. Qualcosa gli si era spezzato dentro nell’istante in cui aveva scoperto Tom con la fotografia in mano, e si era sbriciolato del tutto quando l’aveva messo alla porta.

 

Dall’altra parte dell’uscio, Tom non era riuscito a capire che un’unica cosa: forse, Haylie era morta davvero.

 

“Un dejà vu mentre guardo una foto di colpo mi assale

io riconosco il tuo volto e il mio istinto ti viene a cercare

e questa volta giuro sono sicuro, sicuro sei l’unica

al mondo che possa colmare il vuoto che è in me”

 

 

 

______________________________________________________________________________

 

Posto anticipatamente in previsione di un periodo in cui non mi sarà possibile aggiornare (né tantomeno leggere le recensioni, sigh sigh).

Oltre a ripetervi che la canzone in uso è sempre “Nessuno” di Raf, e anche se non ve ne importerà un fico secco, vi comunico che ho appena comprato il suo nuovo cd “Metamorfosi” *_* Quindi, mentre mi lasciate un commentino (perché lo FARETE, vero? *sguardo folle*) incrociate le dita per un suo ipotetico concerto.

Un ringraziamento speciale alla mia sore, presente sempre e comunque ^_^

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Capitolo 5
*** Nessuno ***


Capitolo 5 - Nessuno

Capitolo 5 - Nessuno

 

Volevi casuccia di mamma?

Beh, eccola qui!

Queste erano le parole che Tom si era ripetuto almeno qualche centinaio di volte nei due giorni successivi. Tornare a casa di Simone era all’ultimo posto nella lista dei suoi desideri, ma, dato che le circostanze sembravano voler decidere per lui, non aveva avuto altra scelta. E così, a testa bassa e con il cervello pieno di tutte le maledizioni che avrebbe voluto lanciare più addosso a se stesso che a Bill, suonò il campanello di casa Trümper.

La prima cosa su cui cadde lo sguardo di Simone, naturalmente, fu il trolley.

- Tom, cosa… –

- Posso entrare? – la interruppe stancamente Tom.

La donna non sospirò né alzò gli occhi al cielo: si limitò a farsi da parte per lasciarlo passare, perché immaginava fin troppo bene il motivo della visita di suo figlio. Tom la sorpassò a passo strascicato, senza dire una parola e guardando fisso di fronte a sé. Finché poteva risparmiarsi gli interrogatori, ne sarebbe stato ben felice. Si diresse nella camera dove Simone lo aveva precedentemente sistemato, i primissimi giorni dopo il suo arrivo, e prese a mettere a posto la propria roba con movimenti meccanici, senza mugugnare tra sé e sé, senza aspettare che sua madre gli arrivasse alle spalle, anzi, senza aspettare niente.

Qualsiasi cosa avesse voluto aspettare, non sarebbe arrivata.

“Vattene”.

“Prendi le tue cose e va’ via”.

Richiuse la zip della valigia con un colpo secco, poi la posò a terra e si lasciò cadere sul letto senza neanche togliersi le scarpe.

- Tom? –

Ecco. L’ultima speranza di scollegare il cervello e lasciarsi trascinare nel meraviglioso nulla infinito si era sbriciolata definitivamente. Tom non rispose né aprì gli occhi: rimase steso sul letto a braccia incrociate e non diede segno di aver sentito il debole richiamo di sua madre.

Sentì però il materasso abbassarsi quando lei si sedette sul bordo. – Cos’è successo stavolta? –

“Non devi toccarla!”

“Ti avevo detto di non entrare!”

Tom socchiuse gli occhi e guardò sua madre attraverso le ciglia. Simone gli restituì uno sguardo preoccupato.

“Esci di qui!”

“Subito!”

- Mamma… Haylie è morta, vero? –

Per un attimo, alla preoccupazione si aggiunse un accenno di confusione sul viso di Simone.

- Bill non te l’ha detto? –

Tom la guardò per un istante ancora prima di richiudere gli occhi e lasciare che la testa affondasse nel cuscino. Era stato uno stupido, come sempre. Non aveva capito nulla, come al solito.

Sì, Bill gliel’aveva detto. Ma lui aveva preferito prenderlo come uno dei suoi deliri momentanei piuttosto che affrontare la possibile –e ora indissolubile- verità di quelle parole. Di cosa si stupiva, allora? Come poteva meravigliarsi del fatto che suo fratello lo odiasse? Perché Bill lo odiava, questa era una certezza.

Come poteva stupirsi che Haylie non l’avesse mai amato? O che in quegli ultimi tre anni non avesse più trovato nessuno a cui appoggiarsi? Era ovvio… così dannatamente, schifosamente ovvio.

La mano di Simone si posò sul suo ginocchio, lo strinse con delicatezza. – Tom… -

- Bill mi ha cacciato fuori di casa – La voce gli venne fuori strana, monocorde. Sembrava che, all’improvviso, non fosse più capace di mostrare nessun sentimento, di provare alcuna emozione. O forse non voleva più provarne.

- Perché ha…? –

- Sono entrato in camera sua. Ho trovato una foto di Haylie, l’ho presa in mano… - Non erano rivolte a sua madre, quelle parole, no. Non erano rivolte a nessuno, neanche a se stesso. - …mi ha buttato fuori –

- Oh, Tom – mormorò Simone, muovendo piano le dita sul suo ginocchio, in una carezza che lui non riuscì nemmeno a percepire. Trovò solo la forza di chiederle:

- Quando è successo? – Sua madre si lasciò andare a un lungo sospiro.

- Sei mesi fa. Haylie è morta, così come la bambina che avrebbe dovuto nascere dopo che tu te ne sei andato. Bill non è riuscito ad accettarlo, soffre come se fosse successo ieri… - La donna chinò il capo e Tom lesse nel suo viso una sofferenza profonda causata da quel ricordo. Si mise lentamente a sedere e le accarezzò un braccio.

- Va bene, dài. Basta così – Simone lo guardò con occhi colmi di tristezza, poi lo abbracciò. Tom ricambiò la stretta senza volerlo davvero fare: non vi trovò nessun conforto e pensava di essere il meno adatto a consolare sua madre, ma la abbracciò anche lui perché semplicemente gli sembrava l’unica cosa sensata da fare.

Non voleva sapere come era morta Haylie. Non voleva sapere se avesse sofferto o meno, non voleva sapere come aveva reagito Bill. Non voleva saperlo da sua madre. Avrebbe voluto che fosse suo fratello a raccontarglielo ma, dato che questa possibilità sembrava quanto mai remota, la cosa migliore era cercare di dimenticare tutto e ricominciare da capo, per quanto possibile.

E così fu. La prima cosa che Tom fece fu applicare il consiglio di Gordon, ovvero prendere una qualsiasi pagina di annunci, chiudere gli occhi e puntare il dito a casaccio. Pur non seguendo quelle precise modalità, Tom si affidò totalmente al caso e rimediò un posto dietro al bancone di un bar non molto lontano da lì.

Niente discoteche. Niente locali notturni, niente posti equivoci, niente di niente. Solo gente comune in un bar comune di una città comune. Tutto orribilmente normale, insomma.

Tom si era sentito stranamente inquietato al primo incontro con quello che sarebbe poi diventato il suo datore di lavoro. Aveva catalizzato tre informazioni essenziali: era grosso e nerboruto, puzzava di stracci vecchi e possedeva una voce da cavernicolo. Il resto non era poi granché importante. Gli aveva spiegato in un tedesco degno di un extracomunitario i punti sostanziali della manutenzione del locale e altri trascurabilissimi –per come la vedeva Tom- impegni che avrebbe dovuto assumersi, poi aveva gettato uno sguardo incerto ai suoi vestiti, gli aveva consegnato, o meglio, gettato addosso un grembiule di un improbabile bordeaux e l’aveva liquidato con un “cominci domani”.

Al già consistente sconforto provocatogli da un ennesimo esame di coscienza si aggiunse il ricordo appena sfumato di nostalgia dei suoi vecchi amici, Georg Listing e Gustav Schäfer, nonché bassista e batterista degli ormai estinti Tokio Hotel. Tom non riuscì a non pensare anche ai loro, di ideali distrutti. La verità era che, da quando avevano cominciato, tutti e quattro avevano sempre creduto fermamente in quello che facevano. Checché ne dicesse la gente, non erano i soldi a mandarli avanti. Non erano i contratti, non erano i servizi fotografici.

Erano gli applausi. Erano i riconoscimenti, era l’amicizia, era il credere in qualcosa. Qualcosa che magari un giorno sarebbe finito, qualcosa che non sarebbe durato per sempre, ma che c’era, era tangibile, vero.

Una volta, certo.

Erano bastate poche e brevi ricerche per scoprire che Gustav e Georg vivevano anch’essi ad Amburgo, e neanche ad un’eccessiva distanza. Per un attimo, quando Tom si trovò i due indirizzi davanti agli occhi, era stato preso una strana tentazione. Aveva lanciato uno sguardo al telefono sistemato al centro del tavolino in soggiorno, proprio accanto al divano su cui si era appollaiato con il computer portatile. Ma era bastato fissarlo per più di cinque secondi per far crollare tutti i suoi buoni propositi. Non era escluso che anche loro non covassero bei ricordi.

Con sua madre, non aveva più parlato di Bill. Non era stato neanche nominato, a dire il vero. Non si erano incontrati, tra di loro non vi era il minimo contatto. E così Tom aggiunse un'altra manciata di giorni ai tre anni che aveva passato senza un fratello.

In conclusione, era solo. Di nuovo e, forse, per sempre.

 

 

Il primo giorno dopo lo “sfratto”, Bill si sentiva esausto. Sembrava che, tutt’a un tratto, le forze l’avessero abbandonato e che non avessero la minima intenzione di tornare.

Si sentiva inquieto, più del solito. Non era l’aver buttato Tom fuori di casa, non era la sua assenza, non erano le occhiate cariche di rammarico vagamente misto a rimprovero che Simone gli rivolgeva.

Trovare Tom nella sua camera, con quella cornice tra le mani, aveva fatto scattare una molla dentro di lui. Ora non aveva più il suo universo privato, non aveva un luogo dove rifugiarsi senza sentirsi scrutato da centinaia di occhi immaginari e puntato a dito da altrettante mani invisibili. Tom non lo sapeva, certo. Non aveva fatto altro che calpestare il pavimento di quella stanza e toccare la fotografia di Haylie. Ma adesso, era come se anche lui potesse vedere. Come se potesse sapere tutto senza rendersene conto.

 

Aprì gli occhi lentamente. Sapeva già cosa avrebbe visto.

Voltò piano la testa, socchiudendo le palpebre a causa dell’impatto con la luce del sole che ora riempiva la camera. Doveva aver dormito più del previsto.

Una figuretta dai contorni sbiaditi si stagliava contro quell’esplosione di luce. A Bill occorse qualche secondo per metterla a fuoco: Haylie era raggomitolata al suo fianco, seduta con la schiena sui cuscini, le gambe raccolte al petto e le braccia avvolte intorno ad esse, il mento appoggiato sulle ginocchia. Si mise a sedere anche lui, con un po’ di fatica, ancora gonfio di sonno.

La luce non era poi così forte.

- Haylie… - La ragazza voltò la testa verso di lui, gli sorrise. Ma lui aveva già capito. Quello era il sorriso che voleva nascondere un carico di pensieri troppo imponente. - …ci stai ancora pensando? –

Lei sbatté le palpebre, come confusa, senza perdere quel sorriso innaturale. – Pensando…? A cosa? –

- A quello che ti ho detto ieri

Haylie sospirò lievemente, appoggiando una guancia sulle ginocchia.

- Sì, in verità ci stavo pensando – Bill serrò le labbra, sentendosi in colpa. Come aveva immaginato.

- Ascolta, mi dispiace – disse, scostandole la frangia dagli occhi. – Non dovevo, lo so. Ma… -

- Bill, dàiHaylie sorrise di nuovo, e questa volta parve quasi divertita. – Il cervello purtroppo esiste, almeno lo uso, no? –

- Dico sempre la cosa sbagliata – disse lui sottovoce, abbassando un po’ la testa. Haylie sciolse la stretta sulle proprie gambe e gli si avvicinò, cingendogli la vita con un braccio e sfiorandogli una guancia.

- Tesoro, cosa dici? – mormorò, accarezzandolo lievemente. – Non è vero. Devo solo pensarci un po’, ma è giusto che tu me l’abbia detto. Io capisco, sai… dopo quello che è successo… - La sua espressione assunse una sfumatura di tristezza, e Bill le prese il viso tra le mani.

- Va bene – sussurrò sorridendo. – Va bene così, Haylie. Sappi solo che, se non vuoi, io non avrò niente in contrario, d’accordo? – Haylie sorrise, come sollevata, e posò una mano sulla sua.

- Dammi solo un po’ di tempo, ok? – Bill si sporse per sfiorarle la fronte con un bacio.

- Tutto quello che vuoi –

 

Bill si riscosse di colpo. – Come? –

Sua madre aveva ancora quell’espressione corrucciata. – Ti stavo chiedendo per quanto pensi di andare avanti così –

Il ragazzo sentì di colpo tutta l’insofferenza che doveva aver provato fino a pochi secondi prima di perdersi nei meandri della propria mente. – Grazie della comprensione. Davvero. Sono commosso – disse tra i denti, cancellando l’ennesimo nome dall’agenda con un veloce tratto di penna.

Simone sospirò, e Bill avrebbe fatto lo stesso, se solo quei sospiri non gli avessero dato l’impressione di scandire le sue giornate, più pressanti delle lancette di un orologio. – Qui non si tratta di comprensione, ma di agire secondo certi principi –

Ecco che tornava la severa impunita.

- Tipo quello della privacy – ribatté lui, stringendo nel pugno la penna come se avesse voluto disintegrarla.

- Sei mio figlio, esattamente come Tom – insorse Simone con quel tono autoritario che non le si addiceva per niente. – Non puoi pretendere che stia a guardare mentre vi comportate come due ragazzini! –

- Avanti, cosa c’è adesso? Cosa devo fare? – Nel tono di Bill non vi era alcuna traccia di rabbia, sarcasmo o solo irritazione. Suonava semplicemente stanco… irrimediabilmente stanco.

- Lo sai –

- No, mamma. Non lo so – Faceva quasi paura sentire quelle frasi pronunciate con quel tono basso e monocorde. Era così: a differenza di pochi anni prima, Bill non si impappinava mai nel parlare, non balbettava, non vi era una sola imperfezione nel suo modo di esprimersi, che tuttavia risultava talmente vuoto e impersonale da dare l’impressione che fosse un computer a parlare. – Non ho idea di quello che devo fare, non so cosa devo pensare, non so con chi devo parlare, né di cosa dovrei parlare. E non ne ho neanche voglia, mamma. Vorrei che tu lo capissi –

Simone rimase immobile a guardare il figlio seduto di fronte a lei, con i gomiti appoggiati sulla scrivania e le dita mollemente intrecciate sulla superficie lignea, senza alcun vigore, senza nessuna forza. Avrebbe voluto rispondere, ma non sopportava il pensiero di potersi sentire tanto… inadeguata, di fronte a lui.

- Non voglio compassione, non voglio che tu mi consoli. Non voglio che nessuno lo faccia. Non ne ho bisogno, non serve, lo capisci? Così come non serve che io stia a psicanalizzarmi. Non ho bisogno di nulla, mamma, e anche se mi servisse qualcosa, non c’è nessuno che potrebbe darmelo –

Il silenzio che seguì soppesò ogni singola parola pronunciata da Bill, ma solo una di quelle continuò a rimbombare insistentemente nella testa di Simone.

Nessuno.

Dunque, chi era lei?

Bill non si mosse né la guardò: rimase fermo nella sua posizione, con le dita intrecciate sulla scrivania, il busto leggermente inclinato in avanti.

Simone chinò il capo, con una mezza idea di alzarsi e andare via, ma il silenzio fu spezzato poco dopo.

- Ah, un’altra cosa. Tu vuoi che io riaccolga Tom in casa, vero? –

Non rispose. Non aveva alcun senso.

- Certo che lo vuoi… Sai cosa ti dico, mamma? Va bene. Sì, va bene, gli dirò di tornare da me, se è questo che volete. Sai… a me non cambia nulla. Non voglio vedervi tutti… corrucciati e preoccupati. Se è questo che volete, lo farò. Se dovesse servire a farti sentire più tranquilla, se Tom dovesse mettersi l’anima in pace… allora ok, d’accordo, tornerà a casa mia –

Bill si spinse lentamente con la sedia indietro e si alzò quasi senza far rumore. Prese la giacca, la indossò, rimise la sedia al suo posto.

- Adesso sarete soddisfatti, no? Voi ce l’avete, quello che vi serviva. Sai, sono… contento, davvero. E’ bello pensare che basti così poco per mettersi l’anima in pace – Simone seguitò a non rispondere, il capo chino, una mano sugli occhi. Bill non si stupì di non provare nessun sentimento nel guardarla. – Ciao, mamma –

 

 

- Ohè, è con te che sto parlando! –

- Eh? – Tom riuscì a salvare appena in tempo una tazzina di caffé da una rovinosa caduta, e prestò la propria attenzione al richiamo che il suo “capo”, tale Hans, gli aveva rivolto.

- E’ passato uno che ti cercava – Tom non poté che stupirsi di quella rivelazione.

- Ah. E chi era?

- Che ne so, non mi ha detto il nome. Uno alto e secco, coi capelli neri lunghi –

…Bill era venuto a cercarlo?

- Non gli ha detto che sarei arrivato nel pomeriggio? –

- Sì, ma non ha voluto aspettare. Mi manda a dirti che puoi tornare da lui - Il ragazzo registrò l’informazione senza impedirsi di pensare che Hans doveva avere le traveggole. – Chi è, il tuo ragazzo? – ironizzò l’uomo, producendosi in un’orrenda risata sgangherata. Tom era troppo preso dal messaggio che gli aveva riferito per prestare attenzione a quella battuta di pessimo gusto. Si riscosse improvvisamente.

- No, è mio fratello – Rimase qualche secondo a pensare. – Mi scusi, potrei uscire prima, oggi? Tipo… adesso? –

- Andiamo bene, manco una settimana di lavoro e già siamo ai permessi –

- E se domani faccio orario continuato? – Hans si fece meditabondo e Tom non poté trattenersi dal considerare che quell’espressione non gli si addiceva affatto.

- Mmh… Vabbè. Si può fare –

Cinque minuti dopo, Tom aveva già composto il numero dell’agenzia di sua madre. Non gli andava di inseguire Bill in capo al mondo. – Pronto? – rispose lei, con una voce stranamente mesta.

- Mamma, sai dove posso trovare Bill? – Si aspettava che lei gioisse a quella domanda, ma non fece altro che rispondergli:

- Sì, è qui – Pausa. – Vuoi che te lo passi? –

- No, sto arrivando –

Lungo la strada, Tom non poté fare a meno di chiedersi cosa andasse a fare Bill all’agenzia di viaggi della loro madre. Certo, la morte di Haylie spiegava tante cose… Come per esempio il vuoto che sentiva improvvisamente dentro di sé.

La risposta se la trovò davanti quando le porte dell’agenzia Trümper si aprirono e lo sguardo di Tom cadde sull’individuo seduto dietro il bancone, al posto più vicino all’entrata: Bill.

- Tu… tu lavori nell’agenzia di viaggi della mamma? – boccheggiò. Tutto avrebbe pensato, meno che questo.

- Qualcosa in contrario? – Bill non alzò gli occhi dal foglio su cui stava scrivendo.

- Hai deciso di rivoluzionare del tutto la tua vita, eh? – Il tono di Tom non poté che risultare sprezzante. – Beh certo, ora non puoi neanche degnarti di venirmele a dire in faccia, le cose –

La testa di Bill si sollevò di qualche centimetro, e il moro alzò lo sguardo verso il gemello. – Allora in qualche cosa ci somigliamo, no? –

Tom si appellò a tutta la sua forza di volontà per non dargli una rispostaccia delle sue. Continuava a ripetersi che suo fratello aveva sofferto, stava soffrendo ancora e che quello era il suo modo di sfogarsi. Ma qualcosa in lui si era incrinato, forse nel momento in cui Bill l’aveva cacciato fuori di casa, o forse quando Hans gli aveva riferito il suo messaggio. – Perché gli hai detto che posso tornare? – Bill sospirò stancamente.

- Non mi sembrava talmente rilevante da dover richiedere un colloquio a porte chiuse –

- Intendevo, perché dovrei tornare? Te l’ha imposto mamma? –

- No, Tom – Era la prima volta da quando si erano rivisti che il biondo si sentiva chiamare per nome dal gemello, e questo gli fece una certa impressione. Sembrava che Bill non stesse parlando realmente con lui. – Nessuno mi costringe a fare nulla. Dico solo che puoi venire a stare da me, se vuoi –

- E quando mi butterai fuori, la prossima volta? – Tom incrociò le braccia sul petto. Si detestava profondamente, ma proprio non riusciva a mostrarsi gentile e comprensivo.

L’altro sospirò pesantemente, e Tom non poté non pensare che il fratello sembrasse tutt’a un tratto vecchio.

- Senti, io non voglio né litigi né disordini, quindi… mettiamo le cose in chiaro fin da subito – Anche il suo tono era basso e fiacco come quello di un anziano. – Tu vieni a stare da me. Io mi faccio la mia vita, tu ti fai la tua. Non… non c’è nessun motivo per cui non dovrebbe essere così, quindi è così che sarà –

- Non ha senso – disse Tom. – Perché devi fare così, Bill? Perché non mi dici cosa ti ho fatto? Se è ancora per quella lettera, io… - L’espressioni di Bill si indurì appena.

- Se ti va bene così, è così e basta. Non ho patteggiamenti da offrirti –

- Perché non parli mai di Haylie? Perché non vuoi… - Le domande di Tom furono interrotte da un rumore forte e secco: Bill aveva sbattuto violentemente il pugno sul tavolo.

- Questo… non ti riguarda – disse tra i denti.

- Quindi, la condizione è questa, giusto? Io posso stare da te se non si parla del tuo passato, no? Posso stare certo di non venire sfrattato se ci comportiamo da estranei –

Bill strinse entrambi i pugni. – Se ti sta bene

Mille possibili risposte attraversarono la mente di Tom, una più velenosa dell’altra. Non aveva nessun senso, sarebbero rimasti due estranei a vita.

Non seppe quale forza sconosciuta lo spinse a pronunciare quelle parole in risposta, lentamente e con tono incolore.

- Sì, mi sta bene –

 

“Come cercar di fissare un punto sul fondo del mare

in fondo ognuno ha qualcosa o qualcuno da dimenticare

e questa volta giuro sono sicuro,

non c’è nessun altro al mondo che possa colmare il vuoto che è in me”

(Raf, “Nessuno”)

 

 

 

 

 

 

Chissà che questo piccolo colpo di scena non serva ad attirare qualche commentatore in più! ^_*

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Capitolo 6
*** Milioni di cose ***


Parte II – Milioni di cose che non ti ho detto

Parte II – Milioni di cose che non ti ho detto

 

 

Capitolo 6 – Milioni di cose

 

“Cos’è successo, che cosa è stato?

Mi perdo nel presente ma scavando nel passato

Ho un solo rimpianto come un verdetto sbagliato

Non ci crederai

Milioni di cose che non ti ho detto mai”

 

Tom si ritrovò a benedire lo scattare della serratura: perlomeno, aveva spezzato il silenzio che era calato pesantemente da oltre mezz’ora. Solo per una frazione di secondo, certo, ma era pur sempre qualcosa.

Quella volta, Bill non gli fece cenno di seguirlo, non lo guardò, non alzò neanche la testa. Si limitò a rimettere le chiavi nella tasca dei pantaloni e ad entrare nell’appartamento, seguito a ruota dal gemello. Non appena si trovò nell’ingresso, Tom si sentì come se fosse tornato nella casa in cui aveva vissuto per dieci anni: forse era semplicemente colpa dei diciotto, pesantissimi giorni che vi aveva trascorso.

Osservò di sottecchi Bill sfilarsi la giacca e appenderla all’attaccapanni all’entrata e si sentì cogliere da un improvviso e violento senso di desolazione.

Nessuno dei due avrebbe fatto il primo passo. E sarebbero andati avanti così per sempre, immersi nel silenzio, in un mare di ricordi e di cose non dette.

No, non poteva sopportarlo.

- Senti… - esordì in tono piuttosto burbero. Lui stesso se ne stupì, soprattutto quando Bill voltò di poco la testa come per ascoltarlo, ma non lo guardò in faccia. – Volevo dirti… - Cosa voleva dirgli? Ce n’erano milioni, di cose da dire. Avrebbe voluto, anzi no, doveva dirgli che gli era mancato, che non sopportava di vederlo star male, che avrebbe voluto sentirsi ancora un fratello per lui, che sarebbe stato ore ad ascoltarlo se solo avesse voluto sfogarsi, che Haylie mancava anche a lui. Avrebbe potuto elencare in ordine quei punti, o pescarne uno a caso,  perché erano tutti veri, intrisi di quella sincerità che ora non riusciva a dimostrargli. - …grazie, ecco –

Deglutì, in attesa di una risposta. Magari sarebbe bastato poco per ammorbidire Bill. Doveva solo riabituarsi al fatto che ora Tom fosse lì, che fosse lì per lui, e allora sarebbe stato tutto più facile. Magari quel tanto agognato passo avanti l’avrebbe fatto lui.

Il moro si strinse nelle spalle, arricciando le labbra come faceva sempre quando non aveva niente da dire. – No, figurati –

Tom si lasciò sfuggire un piccolo sospiro di delusione. Già, cosa poteva aspettarsi?

Bill sembrò cogliere l’occasione per avanzare una questione altrimenti troppo difficile. Non erano i dialoghi il problema, era iniziarli. – Ascolta, so che quello stanzino non era il massimo della comodità… -

- Eh – Tom non poté fare a meno di annuire e alzare le spalle.

- …ma non ero preparato –

- Figurati – Il biondo fece un gesto rapido con la mano. – L’importante è poter dormire. Dove, beh, non conta poi molto

- Insomma, c’è poco spazio, è quasi senza luce e puzza pure un po’ – Il biondo cercò di trattenersi dal ribattere “finalmente te ne sei accorto”. Stavano parlando, era già qualcosa. Sempre pura e semplice cortesia, sempre sorrisi tirati se non completamente assenti, ma era pur sempre un inizio… anche se Bill parlava come se ogni parola fosse stata calcolata e necessitasse di un notevole sforzo psichico per essere pronunciata.

- Non importa – gli assicurò, ma Bill fece spallucce una seconda volta. Cercava di comportarsi come se tutto quello non lo riguardasse, ma si stava dimostrando più difficile del previsto.

Quello che stava per dire gli faceva quasi paura. Non avrebbe dovuto essere niente di che, per due fratelli, ma non poteva farci nulla: il solo pensiero lo metteva a disagio. Prese un bel respiro.

- Possiamo spostare il tuo letto nella mia camera –

Tom lo guardò corrugando le sopracciglia, era chiaro che non se lo sarebbe mai aspettato. Come del resto Bill si era aspettato quella reazione. Lui stesso aveva faticato a capacitarsi che quell’idea fosse nata davvero dalla sua testa, ma, da un lato, cercava di convincersi che fosse… giusto, quasi.

In fondo, Tom aveva violato quel suo piccolo universo privato. Ormai per lui non esisteva più, un universo privato, dunque, tanto valeva che cominciasse ad abituarsi all’idea. Non poteva scappare dal passato, dai ricordi e neanche da se stesso, quindi non doveva importare poi tanto che quel suo piccolo rifugio venisse intaccato.

- Non ce n’è bisogno – tentò di opporsi il biondo.

- A me non cambia nulla – puntualizzò Bill in tono indifferente. – C’è più spazio, però. Per te dovrebbe essere meglio, no? –

In realtà non lo sapeva, cosa potesse essere meglio per il gemello. Non sapeva più niente di lui, gli pareva di non aver mai avuto un fratello, quasi. Ma forse, se Tom avesse pensato che perlomeno lui si sforzava di capire cosa volesse, la convivenza sarebbe stata più civile.

- Beh, se non ti dà disturbo… - abbozzò Tom.

- Tanto è solo per la notte – concluse Bill, come se avesse voluto chiudere il discorso con un “e comunque non me ne importa nulla”.

- Allora, beh, ok – disse Tom titubante. Subito dopo, ebbe una fugace visione di Bill che trascinava una brandina in giro per la casa, in un lago di sudore. – Ti aiuto a… spostare il letto, sì? –

Il moro lo guardò come se quella fosse la proposta più stravagante che avesse mai sentito. – Oh. Beh, d’accordo –

Se le circostanze non fossero state quelle che invece erano, Tom sarebbe scoppiato a ridere nel vedere Bill tentare goffamente di sollevare il letto afferrandolo saldamente per la rete. Ma la verità era che in tutta quella situazione non c’era un solo particolare di cui poter ridere. Neanche quando trascinarono la brandina per il corridoio e Bill sbatté con la schiena sullo stipite della porta, o quando la posarono a terra e Tom si pestò un dito, facendolo diventare immediatamente di una preoccupante tonalità violacea.

Il biondo si raddrizzò, massaggiandosi la schiena.

– Insomma, è ok. Andrà bene – constatò, controllando che la brandina non risultasse storta rispetto al muro.

Per un attimo, non notò che Bill aveva stretto i pugni e abbassato la testa. Poi lo vide, e gli sembrò persino che fosse scosso da un tremito.

- No, non andrà bene –

Pronunciò quelle parole come se gli fosse costato uno sforzo immane, come se le sue corde vocali fossero carbonizzate e lui volesse costringerle a lavorare. Tom inclinò la testa di lato, tornando a guardare il letto.

- Se non ti va bene, possiamo riportarlo nello stanzino –

Il suo sguardo si posò nuovamente su Bill, e lo vide contrarre i muscoli del viso. – Non è questo –

- E allora cos’è? – gli chiese, sinceramente confuso. Sembrava quasi che si stessero comportando come due persone normali. Non come fratelli, ma almeno come… conoscenti. E allora…?

Bill socchiuse gli occhi e strinse le labbra, come se sentisse dolore da qualche parte. – Non andrà mai bene, mai. Niente andrà bene, lo sai anche tu. Vivremo sotto lo stesso tetto e non cambierà nulla, non saremo mai fratelli… - Si irrigidì, ogni parte del suo corpo fremeva. - …e tu mi mentirai ancora – Tom trattenne il fiato quasi senza rendersene conto e il tono di Bill si alzò all’improvviso. – Hai detto che andrà bene, e invece no, non andrà mai bene! –

Tom lo guardò attonito, le labbra socchiuse, le sopracciglia aggrottate. Cosa poteva aver detto di tanto terribile, cosa aveva sconvolto quel fragile equilibrio?

- …ti mentirò ancora? –

- Sì, come hai sempre fatto – Pareva che Bill volesse correre via da quella stanza sbattendo la porta, ma che i suoi piedi fossero incollati al pavimento.

Il respiro di Tom si fece appena più pesante mentre stringeva i pugni. Ecco, dunque. Ecco qual era il problema, quale sarebbe stata per sempre la loro croce. – Ah, è questo…? –

Bill non rispose, ancora fermo al suo posto, quasi nella stessa identica posizione di Tom. Quest’ultimo tirò un profondo respiro, mandò giù il nodo che gli stringeva la gola e chinò la testa, come se volesse concentrarsi, pensare bene prima di parlare. Ma a quel punto non c’era più niente da pensare.

- Dici che ti ho sempre riempito di bugie, eh Bill? E’ questo che pensi – Soppesò ogni parola, le scandì lentamente per paura di lasciarsele sfuggire. – Forse hai ragione, chi lo sa? Non era mia intenzione, ma forse è vero quello che dici. Allora, sai cosa facciamo? Per una volta te la dico, la verità –

Ma quale verità, in fondo? Ce n’erano troppe per poterne scegliere una a caso. Forse era la più grossa, la più dolorosa, quella che doveva scegliere. Quella per cui Bill si sarebbe infuriato e l’avrebbe picchiato, quella che gli avrebbe ridotto il cuore come un foglio di carta appallottolato.

Scegliere, poi… Cosa poteva mai scegliere?

- Te la dirò, la verità. Io Haylie la amavo davvero –

Non ci fu una raffica di insulti o pugni in risposta a quella domanda. Ci fu un lamento sommesso, un gemito straziante, che coincise con il momento in cui Bill si prese la testa tra le mani, incurvando le spalle come se volesse proteggersi da una scarica di bastonate.

- Non… tu non puoi… - ansimò, stringendosi la testa fino a conficcarsi le unghie nella carne. Tom si sarebbe aspettato di vederlo scoppiare a piangere da un momento all’altro, ma, quando Bill alzò la testa e incrociò il suo sguardo, vide solo due immensi occhi nocciola talmente disperati da non riuscire a buttare fuori neanche una lacrima. – Non… pronunciare quel nome… - soffiò, stringendo tanto forte i pugni da far sembrare che le ossa potessero lacerargli la pelle e schizzare fuori dalle sue mani. – Non pronunciare quel nome! – gridò infine, prima di correre fuori dalla stanza lasciando Tom immobile e annichilito. Chiuse gli occhi quando sentì lo schianto della porta d’ingresso.

Si voltò lentamente verso la parete e alzò una mano fino a sfiorarne la superficie. Era ruvida. O forse erano le sue mani ad essere difettose. Come il suo cervello, come il suo cuore, come la sua vita.

Strinse il pugno e guardò quel muro con odio, come se fosse stato il colpevole di tutto. Come se avesse spezzato quell’equilibrio.

Poi lo colpì, violentemente.

- MERDA!

Ritirò la mano, ansimando, un po’ per il dolore causato dall’impatto con la parete e un po’ per il terribile senso di solitudine che gli aveva attanagliato la gola togliendogli il respiro.

Eccolo il motivo, ecco perché era solo.

Forse avrei fatto meglio a non tornare, pensò. Almeno non avrei scombinato vite già abbastanza incasinate.

Cosa avrebbe fatto normalmente, in circostanze simili? Chi avrebbe chiamato, a chi si sarebbe appoggiato, di chi si sarebbe fidato incondizionatamente?

C’era solo un nome in risposta a quelle domande, e Tom si rese conto solo in quel momento di scoprirsi impaurito come non mai di fronte alla prospettiva di aver perso per sempre quella persona. Forse aveva ragione sua madre, forse Bill era morto insieme ad Haylie. Allora era vero, non l’avrebbe più riavuto indietro.

Tom uscì velocemente dalla camera da letto, come per paura che quelle quattro mura potessero avere altri influssi negativi su di lui, e si diresse nello stanzino dove aveva lasciato la valigia. Aprì la cerniera della tasca centrale, dove aveva ficcato alla rinfusa i vestiti da lavare, e li tirò fuori. Accese la luce e cominciò a frugare nelle tasche di tutti i jeans che gli passarono tra le mani, finché non trovò quello che cercava.

Tirò fuori dalla tasca il foglietto accartocciato e lo spiegò lentamente, attento a non strapparlo. Lo avvicinò al viso per decifrare le lettere e i numeri sbiaditi: il primo nominativo che lesse fu Gustav Schäfer.

Attraversò il corridoio senza staccare gli occhi dal biglietto e andando a sbattere contro lo stipite della porta del soggiorno, poi alzò la testa e impiegò qualche secondo per perlustrare la stanza fino ad individuare il telefono. Alzò la cornetta e compose il numero senza neanche pensarci, senza chiedersi perché lo stesse facendo o cosa avrebbe detto e, quando si rese conto di quello che aveva appena fatto, una voce rispose: - Pronto? –

Era lui, Tom l’avrebbe riconosciuto tra mille.

Oddio, e ora che gli dico?

- Gustav? – disse incerto, prendendo atto dell’improvviso abbassamento della propria voce. Infatti, dall’altro capo del filo, Gustav non lo riconobbe.

- Chi parla? – chiese dubbioso, mentre Tom deglutiva e cercava le parole più indicate.

- Sono Tom – risolse alla fine. Era inutile, più erano le parole che avrebbe voluto dire, meno ne uscivano fuori. L’evidente meraviglia tradì la natura pragmatica di Gustav. – CosaTom? – Seguirono alcuni istanti di silenzio, scanditi dal respiro appena irregolare di Tom. – Sei tornato? –

- Sì, da quasi un mese – Altra pausa. Era molto più complicato del previsto, e Tom quasi faticò a rendersi conto che lui e i ragazzi non si vedevano da tre anni. – Non… non ce l’hai con me? – gli uscì detto.

La risposta si fece attendere per un paio di secondi. – Beh, sono… sorpreso, diciamo –

Tom strinse le labbra, annuendo lentamente come se l’amico potesse vederlo. Per un attimo ebbe la tentazione di tagliare con un “bene, ok, volevo solo dirti che sono di nuovo qui, per qualsiasi cosa mi trovi a casa di Bill, tanti saluti!”, ma poi cambiò idea. – Possiamo vederci? – azzardò incerto. Questa volta, la risposta gli giunse alle orecchie quasi subito.

- Sì, certo – Gustav parve riflettere per qualche secondo, poi propose: – Puoi venire a casa mia. Anche adesso, se vuoi. Immagino che tu ti sia già procurato l’indirizzo, no? –

Caro, vecchio Gustav. Non sbagli proprio mai.

- Sì, sono a posto – confermò Tom sentendosi vagamente in colpa, come se avesse violato la privacy del suo amico.

- Vuoi che chiami anche Georg? – A quella domanda, il senso di colpa svanì per cedere il posto a un moto di gratitudine nei confronti di Gustav.

- Se può –

- Ok, allora – Tom diede uno sguardo all’orologio.

- Ok – ripeté. – Dovrei farcela in una mezz’oretta –

In realtà impiegò almeno un’ora perché, non avendo quantificato l’effettiva distanza da lì alla via in cui abitava Gustav, partì a piedi e prese atto dell’effettiva lontananza solo quando cominciò a perdere la sensibilità delle gambe. Ma si sentiva sollevato al pensiero che Gustav non gli avesse sbattuto il telefono in faccia o che non lo avesse trattato con sufficienza.

Quando si ritrovò nella via in cui abitava l’amico, i suoi pensieri volarono alle loro lunghe trasferte in tourbus quando giravano il mondo grazie alle loro canzoni e ai pochi album che avevano pubblicato. Era quasi un’altra vita, a pensarci tre anni dopo sembrava pura fantascienza. Ma, per quanto lui ancora non se ne capacitasse, doveva davvero essere stato così.

Anche cercare il cognome “Schäfer” sul citofono gli sembrò addirittura anormale, dopo che, per anni e anni, aveva avuto i suoi amici a disposizione ventiquattro ore su ventiquattro. Certo, a dirla così non suonava tanto bene, anzi, sembrava quasi che non si trattasse di vera amicizia, ma, a voler essere crudi, le cose stavano veramente così.

Tutto gli appariva strano: rispondere alla voce gracchiante che uscì fuori dal citofono, così come spingere il cancello ed entrare nella palazzina, o salire di corsa le quattro rampe di scale. Ogni minimo particolare lo metteva a disagio. Soprattutto, si scoprì meravigliato quando, invece di trovarsi di fronte a una porta chiusa e a un campanello da suonare, vide Gustav attenderlo sulla soglia. Solo quando, al terzultimo scalino, arrestò la corsa notò la presenza di Georg alle spalle del ragazzo dai corti capelli biondi. Tutt’a un tratto, si sentì come bloccato.

Superò a passo lento gli ultimi tre gradini, non riuscendo ad evitare di abbassare lo sguardo. Attraversò altrettanto lentamente il pianerottolo, fino a trovarsi davanti a una delle tante porte che non avrebbe mai creduto di poter, un giorno, varcare. Rendendosi conto che il modo migliore per salutare un amico che non vedeva da anni non era certo stare a fissargli le scarpe, sollevò la testa e incontrò lo sguardo da bambino un po’ troppo maturo che aveva quasi dimenticato. Subito dopo, andò a incrociare quello del ragazzo dai lunghi capelli castani, o meglio, quelli che erano stati lunghi capelli castani. Georg esibiva una pettinatura molto simile a quella che aveva tenuto da piccolo, quando ancora i Devilish non erano diventati Tokio Hotel: i capelli erano stati tagliati appena sotto le orecchie e sembravano non vedere una piastra da molto tempo. A modo suo, anche lui portava addosso quei tre anni in cui non si erano più visti né sentiti.

Tom si stupì di scoprirsi tanto a disagio di fronte a quelli che erano stati due dei suoi più grandi amici oltre che compagni di viaggio e d’avventura. Tuttavia, non poté fare a meno di constatare con un certo sollievo che nessuno dei due sembrava provare risentimento o intenzione di portargli rimprovero per le sue ultime azioni sconsiderate –anche se forse non era neanche questa la sua più grande paura.

- Beh… non ci saluti? – esordì Georg avanzando e posizionandosi accanto a Gustav, a bassa voce e con un mezzo sorriso. Tom sbatté le palpebre un paio di volte, come per svegliarsi da un lungo sonno.

- Io… - Tentò di mettere insieme qualche parola, ma subito dopo si ritrovò ad avanzare un passo incerto e muoversi per abbracciarlo. Avvertì l’amico indugiare appena un istante prima di ricambiare la stretta. Si sentì come sollevato. Non come avrebbe voluto, certo, ma anche quando Gustav, dopo che Georg si fu spostato, lo abbracciò dandogli qualche pacca sulle spalle, chiuse gli occhi e sperò con tutte le sue forze che quel ritrovarsi con i suoi vecchi amici segnasse un passo avanti verso la serenità.

- Bastardo – mormorò sorridendo Georg quando se lo ritrovò di nuovo davanti. – Ci hai fatto stare tre anni a preoccuparci per tutte le cazzate che avresti potuto fare senza qualcuno che ti tenesse d’occhio –

Anche Tom sorrise, inclinando la testa di lato e distogliendo lo sguardo con una punta di imbarazzo. – Mi perdonerete mai per questo affronto? –

Gustav scosse la testa, ma anche lui sorrideva. – Per questa volta. Entra, dài

Quando furono dentro, Tom diede una rapida occhiata all’appartamento –molto pulito, molto ordinato, molto da Gustav. – Però, ti sei sistemato bene – commentò senza alcuna traccia di sarcasmo. – Immagino che tu non sia solo, no? –

Non occorse l’improvviso silenzio per fargli rendere conto che i due amici si erano scambiati uno sguardo incerto. – Ragazzi, potete dirlo tranquillamente – sospirò. – Non sono sconvolto da nessuna turba emotiva e non sarò colto da un attacco di gelosia se mi dite di esservi trovati la ragazza – Cercò di dare una sfumatura ironica alla propria affermazione, che tuttavia non risultò priva di una punta di amarezza.

Gustav alzò timidamente le spalle. – Beh, Georg è fidanzato. E io… mi sono sposato – Non aspettò che Tom rispondesse e aggiunse pacatamente: - Non è per paura di eventuali turbe psichiche che ci siamo solo noi in casa. Pensavo che una rimpatriata tra amici dovesse essere tale –

- Beh… però! Vi siete dati da fare! – esclamò Tom mentre tutti e tre prendevano posto chi sul divano, chi su una poltrona. Li guardò entrambi sorridendo. Sentirsi tranquillo in loro presenza si stava rivelando più semplice del previsto. – Sia chiaro, le voglio conoscere tutte e due – aggiunse in finto tono minaccioso, puntando l’indice contro di loro. – Senza nessun pericolo, tranquilli – aggiunse poi. Georg lo guardò quasi con rimprovero.

- Non dirlo neanche per scherzo – Tom si strinse nelle spalle.

- E chi scherza? Sono serissimo – Già, era un ricordo con cui avrebbe dovuto imparare a convivere, quello di aver tradito Bill con la sua ragazza, più di tre anni prima, oltre alla consapevolezza di non avere più modo per scusarsi. Non si stupì che i due ragazzi fossero tanto restii a chiedergli come avesse passato il lungo periodo successivo a quell’avvenimento, e decise di prendere lui stesso l’iniziativa, introducendo quell’argomento che tanto pesava sia a lui che a loro. – Avete… avete saputo di Haylie, vero? –

- Beh, sì – farfugliò Georg.

- Per vie traverse – aggiunse Gustav, abbassando la voce e incrociando le braccia sul petto con aria pensierosa. Tom sospirò pesantemente, passando un braccio dietro lo schienale del divano.

- Ragazzi, possiamo parlarne – cercò di rassicurarli. – D’altronde, quant’è che non ci vediamo? Dovrò pur fare i conti con quello che ho lasciato qui –

- Siete stati molto innamorati – abbozzò Georg, impacciato. Tom scosse la testa, con un’espressione calma dipinta in viso.

- Lo sono stato – lo corresse pacatamente. – Ma è acqua passata –

L’amore per Haylie era acqua passata, sì, ma lei, lei non avrebbe potuto mai esserlo. Perché tutto quello che le aveva lasciato era stata una misera lettera, con l’illusione di poterla rivedere e chiederle perdono, un giorno. Ma non sarebbe mai stato così, dunque, tanto valeva che cominciasse a rendersi conto che, almeno secondo il volere del destino, quella doveva essere veramente acqua passata. – Immagino che lei e Bill siano stati molto felici dopo che… beh, che me ne sono andato –

- Sì, effettivamente lo erano – confermò tranquillamente Gustav. – A proposito, tu e Bill vi siete già visti, non è così? Non ne avete parlato? – Subito dopo quella domanda, calò quel silenzio che Tom, involontariamente, si aspettava.

- No, non ne abbiamo parlato – si costrinse a rispondere. – Per il momento sto a casa da lui, ma… diciamo che non è molto contento della sistemazione –

- In che senso? – intervenne Georg, sinceramente stupito.

- Nel senso che pare che Bill ce l’abbia ancora con me – gli spiegò l’altro. – Evidentemente non mi ha perdonato il fatto che io abbia lasciato i Tokio Hotel, o… non lo so. So solo che cercare di fare una conversazione decente con lui è una tortura – concluse, nel tono più naturale possibile. Detestava l’idea della compassione, ma quella era l’effettiva rappresentazione dello stato delle cose.

- Beh, lui ha fatto lo stesso – disse cupamente Georg, incrociando le braccia e appoggiandosi allo schienale della poltrona.

- L’avevo immaginato – mormorò Tom. – Ma, più o meno, come sono andate le cose? –

Gustav e Georg si scambiarono uno sguardo, come a chiedersi chi dovesse essere il primo a raccontare. Poi il biondo si schiarì la voce e prese la parola. – Dopo la tua partenza, per un periodo abbiamo continuato in tre con i Tokio Hotel. Bill sembrava abbastanza motivato, ma era come… non so, come se fosse anestetizzato. Non ti ha mai nominato né niente di simile, anche se naturalmente le fan hanno preteso una spiegazione per la tua improvvisa sparizione. Forse si era reso conto che, riportandoti in mente in qualche modo, avrebbe effettivamente sentito la tua mancanza, sia in campo professionale che affettivo, soprattutto – Il tono di Gustav si abbassò lentamente, ma lui continuò a scandire con chiarezza ogni parola.

- Capisco – disse Tom, annuendo. – Poi? –

- Poi, pare che fosse sorto qualche problema con Haylie. Non che litigassero o non si trovassero d’accordo su qualcosa, ma… erano sempre in tensione, come se aspettassero qualcosa di spiacevole. Soprattutto lei era molto tesa. Non ho mai voluto chiedere niente né a lei né a Bill, per delicatezza, ma era chiaro che qualcosa non andava

- Già, Bill era distratto come non mai – intervenne Georg, scuro in volto. – C’era qualcosa che lo preoccupava, ma non ha mai voluto parlarne. Finché non ci ha annunciato che aveva intenzione di prendersi una pausa con il gruppo, perché aveva… questioni personali da sistemare. Questo è successo circa un anno e mezzo fa, forse poco meno, non saprei dirti con esattezza. So solo che, improvvisamente, sembrava contento. Tranquillo, perlomeno. Noi gli abbiamo detto che andava bene, anche perché lui ci ha assicurato che sarebbe stato solo per un periodo, al massimo qualche mese. Comunque promise che ci avrebbe tenuti informati e che ne avremmo riparlato con calma –

Gustav riprese la parola. – Solo che non ne abbiamo mai più riparlato. Ogni tanto sentivamo Bill al telefono e pareva che le cose si fossero sistemate. Con Haylie ho parlato poche volte e… non saprei dirti come stesse. Non sembrava particolarmente elettrizzata come Bill, ma la sentivo… stanca, penso. Sono passati alcuni mesi e Bill non si è fatto più sentire. Della morte di Haylie siamo venuti a conoscenza solo attraverso i giornali, lui non ci ha avvisati. All’inizio abbiamo pensato che volesse stare da solo per un po’, più in là abbiamo provato a tenerci in contatto con lui. Ma abbiamo desistito presto… e la pausa che avremmo dovuto prenderci è diventata una rottura definitiva – concluse tristemente Gustav, abbassando lo sguardo.

- Inoltre non siamo riusciti a sapere come sia morta Haylie – aggiunse Georg, infervorato. – Neanche i giornali l’hanno scritto. Pare che lo sappia solo Bill… e che non abbia intenzione di divulgare l’informazione – Il ragazzo sospirò, stingendosi nelle spalle. – Del resto, come biasimarlo? Solo, non ci ha resi per nulla partecipi, non ci ha permesso di stargli vicino. Le ultime volte che ci siamo sentiti è stato terribilmente imbarazzante –

- Tua madre ha detto qualcosa? – intervenne Gustav. Tom deglutì, rendendosi conto solo in quel momento che il racconto era finito. Le parole gli vorticavano in testa a una velocità impressionante, sembrava una storia tratta da un film…

- N-no – balbettò, ancora confuso. – Cioè, io non ho voluto saperlo. Mi sembrava… ingiusto, ecco. Bill non vuole assolutamente che si parli del suo passato, e io… non me la sono sentita di indagare oltre –

- Magari tra un po’ sbollirà la rabbia e te ne parlerà – ipotizzò Georg.

- Io non ne sarei così sicuro – disse Gustav, tetro, scuotendo lentamente la testa e guardando fisso di fronte a sé. – Non sarà una cosa breve, penso. Immagino che per Bill sia come se Haylie fosse morta ieri –

Tom chinò la testa, mordendosi le labbra e fissando un punto imprecisato sul pavimento. Forse, i suoi amici erano riusciti a capire suo fratello più di quanto non avesse fatto lui.

Si coprì gli occhi con una mano, lasciandosi sfuggire un sospiro molto simile a un rantolo. Doveva sapere… ma non voleva.

Oppure sì, voleva ma non poteva.

Complicato. Era tutto così maledettamente complicato…

- Così complicato – gemette in un soffio, nascondendo il viso tra le mani, soffocato dai milioni di pezzi che sembravano faticare sempre di più per incastrarsi insieme.

 

“Dimmi, dimmi, dimmi come stai

incontrarti per caso è stato bello sai

fermati un po’, solo un caffé se vuoi

poi ognuno di nuovo per i fatti suoi.

Mi trovi diverso, lo sei anche tu

questo mondo ti prende e non ti molla più

è lui che ci cambia, non ti illudere.

Ma dimmi dov’è la voglia di vivere…”

 

 

________________________________________________________________________________

 

Ehilà.

Ecco la sesta puntata di questo bel round di occhiatine dolci e parole stucchevoli ^^ Non sono teneri Bill e Tom a volersi così bene?

Oggi mi va di rispondere ad personam, PER CUI spero che la prossima volta troverò qualche recensione in più. Intanto grazie mille ai 20 utenti che tengono la mia fic tra i preferiti. Ah, dimenticavo: la canzone cambia, stavolta è “Milioni di cose che non ti ho detto”, di… indovinate? Raf.

kag92: La tua buona fede è a dir poco ammirevole XD Beh sì, è stata una sofferenza anche per me scagliarli l’uno contro l’altro…

angeli neri: in realtà, il “mistero” di Haylie è già risolto a metà… Però mi diletterò a farvi soffrire fino alla fine, non temere =D

Temperance_booth: e tu chi sei? Chi ti ci porta qui??? XD Bene, sono felice che già odi i miei diletti gemellino, ciò rende la storia viva (doppio XD). Anzi, spero che con il proseguimento li detesterai ancora di più, il che non è escluso. Baciiiiiiiiiiiii!

 

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Capitolo 7
*** Rancore ***


Capitolo 7 - Rancore

Capitolo 7 - Rancore

 

 

Tom si attardò da Gustav sapendo che Bill non sarebbe tornato prima delle otto, e che dunque non avrebbe trovato nessuno ad aprirgli se fosse arrivato a casa prima del tempo.

Casa… Pensava già come se quella fosse realmente casa sua.

Curioso, pensò mentre attraversava la strada, era da tanto che non aveva un posto da poter chiamare “casa”. Quando suonava con i Tokio Hotel, si spostava in tourbus, e lui e Bill tornavano da Simone e Gordon al massimo per le vacanze di Natale e per qualche settimana in estate. Poi era partito e si era diviso tra alberghi e appartamenti affittati. E adesso… Adesso faceva da secondo incomodo –gli veniva quasi da ridere a quel pensiero- nella casa di un fratello che a malapena lo guardava in faccia. Evidentemente il suo destino era stato deciso già molto prima.

Tom non sapeva esattamente che ore fossero quando suonò il campanello. Gustav lo aveva trattenuto per cena, facendogli conoscere Helen, la simpatica ventenne con cui era sposato da tre mesi. A giudicare dalla tonalità blu scuro tendente al nero assunta dal cielo, doveva essere già abbastanza tardi.

Sentì Bill armeggiare con spioncino e serrature varie prima di vedere la porta aprirsi ed il fratello comparirgli davanti in pantofole, con indosso i pantaloni della tuta e una maglietta sgualcita. Tom non poté fare a meno di squadrarlo da capo a piedi.

- Dormivi? – gli chiese sbigottito. Bill lo guardava con un sopracciglio alzato e un’aria appena supponente.

- E anche se fosse? Non ti sembra un po’ tardi? –

Tom si costrinse a non alzare gli occhi al cielo, gesto che avrebbe sicuramente indispettito ancora di più il gemello, ma gli sfuggì un lieve sospiro. – Non sono andato in giro per locali né niente di simile, se è questo che intendi –

Bill alzò le spalle. – Veramente non mi interessa granché. E’ che potresti evitare di buttarmi giù dal letto quando è quasi mezzanotte –

- Mezzanotte… Saranno appena le undici – mugugnò Tom, cacciando le mani nelle tasche ed entrando in casa a passo sostenuto. – Potevi aspettarmi, o telefonare –

- Veramente non ci ho pensato – Il tono di Bill sottintendeva un “e anche se ci avessi pensato, sta’ sicuro che non l’avrei fatto”.

- Senti, mi dispiace di averti, come dicevi?… buttato giù dal letto – tagliò corto Tom. – E’ successo una volta, basta, non accadrà più. Buonanotte – Voltò le spalle a Bill e si diresse a passo di carica verso il corridoio, prima di ricordarsi che il suo letto era stato spostato nella camera del fratello. Sospirò, cominciando a cercare la maglietta che era solito indossare per la notte nella valigia che non aveva ancora svuotato.

Non era tornato a casa maldisposto nei confronti di Bill, no. Anche quando se l’era visto comparire davanti era stato sul punto di chiedergli scusa per essere tornato tardi e averlo scomodato, ma sentirlo parlare con quel tono odioso e indisponente gliene aveva fatto passare la voglia. Vero, si era ripromesso di essere lui a muovere al più presto i primi passi verso la riconciliazione, ma l’atteggiamento di Bill era tutt’altro che d’aiuto. E se ora non avesse più sopportato nemmeno il pensiero di dover condividere la stanza con lui, beh, erano problemi suoi.

Ma Bill non arrivò. Non subito, perlomeno. Anche quando Tom cominciò a sentire le palpebre pesanti, il letto addossato alla parete opposta era ancora vuoto. Eppure, scivolando nel sonno, avrebbe giurato di aver sentito i suoi passi nel corridoio e poi in camera da letto. O forse era solo il ricordo sbiadito di quando, nel periodo della tournée, venivano sistemati nella stessa stanza d’albergo e rimanevano svegli tutta la notte a parlare, provare qualche canzone o stare semplicemente agitati in due al pensiero dell’imminente concerto.

Stupidi avvenimenti in una vita troppo “su”, forse.

Già, dell’importanza di quelle piccolezze lui non se n’era mai accorto.

 

La mattina dopo, il suo risveglio fu accompagnato, o meglio, causato da un fracasso che sapeva tanto di vetri infranti, al quale seguì immediatamente un rabbioso “e che cazzo”. Tom si stropicciò gli occhi sbuffando e calciò via le coperte, per poi mettersi a sedere sul letto, ancora intontito.

Che Bill abbia cambiato tattica per buttarmi fuori?

Quando, barcollando, entrò in cucina, trovò il gemello accovacciato a terra, intento a raccogliere in un sacchetto di plastica i frammenti in cui aveva ridotto due tazze con annessi piattini.

- Tutto questo casino per un paio di tazze? – si lamentò sbadigliando. Sì, probabilmente era diventato anche troppo temerario nei confronti del precario sistema nervoso di Bill. Quest’ultimo, inaspettatamente, non lo apostrofò con nessun insulto o parola poco gentile, come era solito fare –perlomeno con lui.

- Già – sospirò, chiudendo il sacchetto con un nodo e rialzandosi da terra. – Si è rotta anche la tua –

Tom alzò un sopracciglio. – Mia? –

- Beh sì, quella che usavi tu – Il tono di Bill era stranamente basso, piatto. Forse “incolore” era l’aggettivo più appropriato.

- Ah, ecco – disse Tom annuendo. – Non mi pare che ci sia niente di mio in questa casa –

Si sentiva peggio che detestabile ad uscirsene con affermazioni del genere, ma forse queste non erano dettate che da un timido e recondito desiderio di vedere una minima reazione da parte di Bill, un segno che, per lui, Tom continuava in qualche modo a esistere.

I loro sguardi si incrociarono per una frazione di secondo, poi il moro chiuse gli occhi e sospirò.

- Per oggi useremo dei bicchieri –

Tom prese lentamente posto su una sedia, appoggiandosi con il gomito al bordo del tavolo, mentre Bill gli voltava le spalle e accendeva il fornello. Quel suo tono sul rassegnato andante, quei suoi modi di fare gli ricordavano qualcosa, ma, forse era il sonno, forse era l’irritazione non del tutto smaltita, non riusciva a capire cosa.

Anche quando Bill, dopo aver riempito due bicchieri di latte, si sedette di fronte a lui allungandogliene uno, si ritrovò a guardarlo di sottecchi, come per studiarlo. Bill, dal canto suo, non alzò lo sguardo e prese a sorseggiare il latte senza muovere altro che la mano con cui teneva il bicchiere. Solo quando lo posò sul tavolo, allontanandolo da sé, Tom lo vide stringere i pugni: segno che stava per dire qualcosa di sgradito.

Beh, effettivamente non sembrava che le loro conversazioni potessero basarsi su altro.

- Senti – esordì con lo stesso tono piatto di pochi minuti prima. Continuava a tenere lo sguardo fisso sul tavolo, ma, a parte i pugni stretti e la tonalità monocorde, non vi erano altri segni di tensione su di lui. – Scusa –

Tom alzò lo sguardo, sbattendo le palpebre. – Come? –

- Scusa – ripeté Bill, senza conferire un minimo di espressività in più al proprio viso o alla propria voce. – Per ieri sera, se ti ho aggredito. D’altronde è così che avevamo deciso. Io mi faccio la mia vita, tu ti fai la tua –

Le sopracciglia di Tom si alzarono appena. Non capiva dove quel discorso dovesse andare a parare.

Ma il silenzio che seguì rivelò che non c’era davvero altro da aggiungere.

- Quindi, insomma, scusami – concluse Bill. Stesso identico tono. E fu lì che Tom ricordò quando l’avesse già sentito. Non dovette neanche andare troppo lontano con la mente.

Il giorno prima, quando Bill gli aveva comunicato che lo avrebbe riaccolto in casa. Quando lui aveva ribattuto che non aveva senso, perché questo, Bill, non lo voleva…

“Nessuno mi costringe a fare nulla. Dico solo che puoi venire a stare da me, se vuoi.

E quando mi butterai fuori, la prossima volta?”

“Senti, io non voglio né litigi né disordini, quindi… mettiamo le cose in chiaro fin da subito. Tu vieni a stare da me. Io mi faccio la mia vita, tu ti fai la tua. Non… non c’è nessun motivo per cui non dovrebbe essere così, quindi è così che sarà.”

“Non ha senso. Perché devi fare così, Bill? Perché non mi dici cosa ti ho fatto? Se è ancora per quella lettera, io…”

Se ti va bene così, è così e basta. Non ho patteggiamenti da offrirti.”

Sì, proprio quel tono. Il tono delle cose dette per forza, delle scuse false e per nulla spontanee. Il tono che Tom non voleva sentire mai più.

- No – si sentì dire scuotendo la testa. Tutt’a un tratto, Bill aveva alzato lo sguardo e ora lo stava fissando con un’espressione da potersi quasi definire incredula. – Non voglio le tue scuse –

Il moro aggrottò le sopracciglia, le labbra socchiuse per lo stupore. – Cosa…? –

Tom si alzò, rimettendo la sedia a posto. – Non occorre che tu ti scusi, Bill, anche perché tu non vuoi farlo. E io non sento il bisogno di riceverle, le tue scuse. Quando avrai il coraggio di dire “mi dispiace” ti ascolterò – Si allontanò a passo lento, e si fermò sulla soglia della cucina. Si voltò per guardare Bill, sperando di trovare sul suo viso la traccia di un qualsiasi sentimento. Che fosse odio, rancore, tristezza… poco importava. – E non è a me che devi dirlo, Bill. Buon lavoro –

 

 

Fu necessario un tempo poco superiore a un paio d’ore per far sì che Tom ripensasse seriamente a quello che aveva detto a Bill quella mattina. Doveva essere già le settima volta che Hans gli urlava dietro perché sembrava aver acquisito le facoltà motorie di una lumaca sonnambula, e ancora lui non si sentiva del tutto presente a se stesso.

Si rendeva perfettamente conto che se la convivenza si fosse rivelata impossibile sarebbe stata in gran parte colpa sua, ma era anche cosciente del fatto che il comportamento di Bill nei suoi confronti aveva fatto riemergere nella sua mente qualcosa che andava oltre il rancore che potevano serbarsi tra di loro.

I primi a sbucare fuori dai suoi pensieri erano stati ovviamente Georg e Gustav. Tom ripensava ancora alle tranquille chiacchierate della sera precedente, a come i due amici gli avessero raccontato della loro vita a partire dalla fine dei Tokio Hotel. Una vita normale, tanto normale da far nascere in lui il dubbio che i ragazzi stessero meglio senza la band, senza concerti e trasferte in tourbus.

Questa, però, non era una giustificazione per Bill. Per quanto la cosa lo avesse profondamente ferito, Tom riconosceva che era più plausibile che il fratello non l’avesse avvisato, a suo tempo, della morte di Haylie (o, tre anni prima, della bambina che lei aspettava), piuttosto che il fatto che non avesse reso partecipi Georg e Gustav. In fondo, quali colpe potevano mai avere loro? Tom li avrebbe fatti santi anche solo per aver sopportato le conseguenze di un errore commesso solo ed esclusivamente da lui, oltre a quelle, in seguito, dell’abbandono del gruppo da parte di Bill.

Però non poteva negare a se stesso che, non adottando una politica migliore, la riconciliazione sarebbe rimasta solo un sogno irraggiungibile. Ognuno aveva la sua parte di colpe, e Tom sapeva perfettamente che la sua era ben più consistente di quella degli altri.

Quindi, anche quella volta l’unica soluzione era quella che sembrava la più lontana di tutte: parlare con Bill.

Tom odiava il fatto che il solo pensiero lo facesse rabbrividire.

Quella sera, fece di tutto per non arrivare a casa più tardi delle otto e mezza, e lungo lo strada non fece altro che ripetersi calma, è mio fratello, parleremo e tutto si sistemerà.

Forse mancava un pezzo a quella sorta di monologo, ma Tom aveva paura persino di pensarlo.

Calma, è mio fratello… gli voglio bene… parleremo e tutto si sistemerà.

Già, il problema era dirlo.

Suonò il campanello passandosi ripetutamente una mano tra i dread come faceva sempre quando era consumato dall’ansia, il che non capitava molto spesso. Si ripromise mentalmente di cominciare a parlare non appena Bill gli avesse aperto, ma poi successe tutto molto in fretta. La porta si aprì a una tale velocità che Tom impiegò qualche secondo per rendersi conto che, subito dopo aver girato la maniglia, il gemello aveva fatto dietro-front e ora si stava dirigendo in corridoio a passo di carica. Non un saluto, non uno sguardo.

- Bill…! – lo chiamò, a metà tra il sorpreso e il titubante, ma non ottenne risposta. Entrò in soggiorno e si chiuse repentinamente la porta alle spalle. Nel frattempo, Bill era già sparito in corridoio. Tom lo attraversò a passo svelto e, dopo aver localizzato il punto di provenienza della luce accesa, si precipitò in cucina, dove Bill stava stipando dei piatti nel lavello con una tale violenza da far sembrare che volesse farli a pezzi. – Bill, ascolta… -

- Ho già ascoltato anche troppo – La risposta giunse come in una sorta di basso ringhio e Tom si sentì gelare, aggrappato alla maniglia. – Cos’è, vuoi deliziarmi oltre? –

- Senti, riguardo a quello che ci siamo detti stamattina… -

- “Ci”? Io non ho detto niente – Per quanto il tono di Bill si fosse alzato di almeno un’ottava, era la perfetta rappresentazione della “calma prima della tempesta”. – Mi pareva che in compenso tu ne avessi un mucchio, di cose da dire –

Tom si lasciò sfuggire un lungo e penoso sospiro e le braccia gli ricaddero lungo i fianchi. – Lo so, ho parlato anche troppo, però… -

Bill lo interruppe con una risata nervosa. Una risata inquietante, priva di qualsiasi sentimento. – Già, i vecchi vizi sono duri a morire – Subito dopo, tornò scuro in volto e strinse i pugni. – Anch’io stamattina volevo dirti qualcosa – Il biondo lo guardò con espressione interrogativa e per tutta risposta lui sparì dalla cucina, dirigendosi a grandi passi verso il corridoio. Tom rimase immobile al suo posto, sentendolo armeggiare con oggetti che non riusciva ad identificare. Subito dopo, Bill rientrò in cucina e gettò sul tavolo, proprio davanti al fratello, un portachiavi ad anello a cui era attaccata un’unica chiave, piccola e lucente. – Volevo semplicemente dirti che potevi farti un doppio delle chiavi di casa e tornare all’orario che ti pare, ma tu non mi hai fatto neanche aprire bocca – Tom guardò stupito la chiave al centro del tavolo.

- Oh… scusa – disse senza pensarci. E capì immediatamente dallo sguardo di Bill di aver detto la cosa sbagliata.

- Come, non dicevi che le scuse non servono a niente? – ribatté infatti quest’ultimo in tono astioso prima di voltarsi, facendo come per lasciare la cucina. Tom, però, fu più veloce e lo afferrò per un braccio.

- Basta – Gli soffiò nell’orecchio quella parola con la stessa violenza con cui avrebbe potuto gridarla, stringendo la presa sul suo braccio. – Basta, Bill. Smettila. Se devi insultarmi, fallo, non chiudermi la porta in faccia

Il moro si irrigidì, cercando di liberarsi dalla stretta. – Tu non… tu non capisci –

- Sono stufo di non capire! – Con uno strattone, Tom liberò il braccio di Bill, che barcollò per un istante all’indietro, perdendo l’equilibrio. – Basta, Bill, non venirmi più a dire che non posso capire, non liquidarmi con i tuoi enigmi solo per farmi sentire in colpa! Parla, cazzo, parla! Dillo, cos’è che ti rode! Non pararti il culo con i tuoi maledetti misteri! Illuminami, spiegami, dimmelo, cos’è che non capisco! –

Bill era fermo sulla soglia della cucina, aggrappato allo stipite della porta, come se avesse combattuto una lunga battaglia e fosse privo di forze. Come se il suo gemello fosse il suo nemico.

- Quello che tu non capisci… è che ti stai prendendo la mia vita in mano, come hai fatto tre anni fa, la stai… la stai cambiando come ti pare, non… non tieni in nessun conto quello che posso provare io – Parlava a scatti, quasi ansimando, e Tom lo fissava incredulo, combattuto tra il desiderio di spingerlo da parte e scappare da quella casa e il bisogno di sentire il resto di quello che sembrava solo un discorso senza senso. – Tu pretendi di sapere tutto di me quando sei stato il primo a mandarmi al diavolo, vuoi sapere perché non esiste più un gruppo che… tu stesso… hai distrutto, vuoi che ti parli… di lei… -, e pronunciando queste parole la voce di Bill si affievolì, mentre la sua mano chiusa a pugno si avvicinava al suo petto, stringendo la stoffa della maglietta e spiegazzandola appena. – …quando sei stato il primo che ha cercato di togliermela – Bill si coprì il viso con una mano, quasi graffiandosi la pelle, e gli sfuggì un gemito talmente sommesso che Tom si chiese se non l’avesse solo immaginato. Lo guardava a bocca aperta, completamente distrutto dalle sue parole, totalmente annichilito.

Non sapeva nemmeno lui se quella fosse la verità o no.

- Bill, io… - Si accorse di avere qualche difficoltà nel parlare, ma raccolse tutte le proprie forze. – Io non ti ho mandato al diavolo, me ne sono andato solo perché voi poteste… -

- No! – Il moro rialzò la testa, e Tom non avrebbe saputo come chiamare il sentimento che lesse nei suoi occhi appena socchiusi. – Cosa ne sapevi, tu? Cosa ne sapevi, di quello che io provavo in quel momento, come potevi essere sicuro che io non volessi parlarti?! Tu te ne sei andato perché l’hai creduto comodo così, perché tanto non saresti stato tu a raccogliere i cocci. Ora sei qua, no? E raccoglili, questi cocci! – urlò infine Bill. – Raccoglili adesso, Tom! –

Tom non ebbe neanche il tempo di pensare a una possibile risposta perché, nel momento stesso in cui qualche tassello andava al proprio posto nella sua mente, Bill corse fuori della cucina e si precipitò in camera da letto, chiudendosi dentro. Il biondo realizzò quanto era appena successo solo quando sentì lo scattare della serratura.

Si avventò contro la porta, sferrandovi un pugno.

- BILL! – A rispondergli fu solo un silenzio denso di tutto il rancore che Bill aveva finalmente tirato fuori e rovesciato addosso al fratello. Tom colpì un’altra volta la porta, ancora più forte. – Mi dispiace! Va bene? MI DISPIACE! – urlò a vuoto. Bill seguitò a non rispondere e Tom ritirò la mano, ansimando per il dolore che era arrivato tutto in una volta.

Era una lotta.

Era una lotta disperata che nessuno dei due avrebbe voluto combattere ma a cui non riuscivano a rinunciare, una battaglia che sapevano di non poter vincere ma che si ostinavano a portare avanti, perché ormai era l’unica cosa che fosse rimasta a entrambi.

 

“Cos’è successo, ma che fine ha fatto, dov’è?

E’ partito, è andato altrove portando via con

tutto quello in cui credere

per cui vale la pena di esistere.

Voglia di vivere, dove sei?

Cos’è successo, che cosa è rimasto di noi?

Milioni di cose che non ti ho detto mai.”

 

 

Bill aprì gli occhi con estrema lentezza. Si sentiva come abbagliato da una luce intensa, ma gli bastò mettere a fuoco la stanza per ricordarsi che la sera prima aveva praticamente sprangato le finestre.

Calciò via le coperte e si mise a sedere sul letto, stropicciandosi gli occhi. Poi spostò lentamente lo sguardo da un punto all’altro nella camera, come se cercasse qualcosa. Per un attimo, arrivò persino a chiedersi come mai il letto di fronte al suo fosse vuoto, le coperte senza una piega.

Poi ricordò. E gli venne di colpo una gran voglia di seppellirsi sotto i cuscini e non svegliarsi mai più.

A piedi nudi, rabbrividendo per il fastidioso contatto con gli spazi del parquet non coperti dal tappeto, si trascinò fino alla finestra e tirò su le tapparelle.

Buffo, pensò, ora che la luce c’era davvero lui non la vedeva neanche.

Si sentì incredibilmente stupido a girare la chiave per poter uscire dalla stanza, come quando, da bambino, scongiurava Tom di chiudere la porta per non fare entrare i mostri. Poi suo fratello si infilava nel suo letto, costruiva una barriera con i loro cuscini e gli sussurrava all’orecchio: “se arrivano i mostri, li picchio finché non se ne vanno. E se ne vedi uno diglielo, così poi si spaventa e non torna più”.

Attraversò il corridoio ancora a piedi scalzi ed entrò in cucina, accendendo l’interruttore della luce. In effetti quella sua mania di sbarrare tutte le finestre e tutti gli angoli da cui avrebbe potuto infiltrarsi appena un filo di luce non era granché utile per la sua già precaria sanità mentale.

Mentre pensava questo, lo sguardo gli cadde sul tavolo. La chiave era ancora lì. In più, vi era attaccato un post-it giallo, di quelli che Bill teneva sul frigorifero senza mai usarli. Si avvicinò e strizzò gli occhi per leggere quanto vi era scritto.

“Torno presto. Grazie comunque

Bill prese il biglietto in mano e, per un attimo, ebbe la tentazione di stracciarlo e buttarlo nella spazzatura. Gli ricordava maledettamente quella lettera di più di tre anni prima.

Ma poi, senza neanche sapere perché, lo piegò in quattro e lo posò in cima al frigorifero, accanto all’unica confezione aperta.

 

Quando arrivò all’agenzia, focalizzò un’unica e inquietante informazione: sua madre sembrava contenta.

- Eccolo, il mio piccolo ghiro! – trillò, schioccandogli un bacio su una guancia. Bill non rispose, stranito. – Che c’è, hai dormito male? –

- No, ho solo fatto un po’ tardi, non mi sembra una tragedia – azzardò infine, più per la confusione causata da quell’inspiegabile sorriso a trentadue denti che per la levataccia dopo una notte passata praticamente in bianco.

Simone lo prese dolcemente per un braccio, ma a Bill ricordò vagamente la “discussione” della sera prima, quando aveva fatto come per uscire dalla cucina e Tom l’aveva bloccato afferrandolo per quello stesso braccio.

- Vieni, devo presentarti una persona – disse lei, guidandolo all’interno dell’agenzia. Il ragazzo la seguì ancora in trance, un po’ per il sonno e un po’ per lo stordimento. – Michelle, sono qui! –

Bill capì a chi si stava riferendo perché, per quanto poteva vedere, vi era una sola ragazza nell’agenzia. Quando questa si voltò, lui non poté fare a meno di notare il cartellino appuntato sul petto. Sua madre passò alle presentazioni prima che lui facesse in tempo a leggere quanto vi era scritto.

- Lei è Michelle Steffens, la nostra nuova… collega – disse Simone, esitando per un attimo sull’appellativo da rivolgere alla ragazza, ma senza perdere il sorriso.

Michelle sorrise con una punta d’imbarazzo e gli tese la mano.

- Piacere –

Bill si trovò interdetto di fronte a quella mano che avrebbe dovuto stringere, cosa che si affrettò a fare pochi secondi dopo, guardando stranito la ragazza di fronte a lui. Non si rese nemmeno conto che così facendo l’avrebbe sicuramente messa in imbarazzo: era troppo impegnato a collegare quegli elementi che non quadravano.

Michelle sembrava piuttosto timida, e non solo per lo strano comportamento di Bill. Non era molto più bassa di lui, ma dimostrava almeno ventitrè o ventiquattro anni. I capelli erano una morbida nuvola di riccioli biondi che le sfioravano appena l’incavo tra il collo e le spalla, gli occhi di un insolito celeste. Un semplice maglioncino bianco sottolineava la magrezza della vita rispetto alla generosa rotondità del seno e dei fianchi, mentre un paio di jeans scoloriti fasciava due gambe non proprio snelle, ma lunghe e tornite.

Tuttavia, anche quando le loro mani si separarono, Bill faticò a staccarle gli occhi di dosso non tanto per la sua delicata bellezza, quanto per il senso di estraneità che la ragazza sembrava suscitare in lui nonostante la sua apparente ritrosia.

Simone, incurante del fatto che suo figlio non avesse proferito parola, intervenne:

- Era da un po’ che Michelle cercava un impiego, e a me è sembrata perfetta per lavorare qui. Tu che ne dici, Bill? – gli chiese poi, come per costringerlo a parlare.

- Beh, io… - farfugliò lui, imbarazzato e irritato per quell’inspiegabile insistenza. - …ho molto da fare –

 

 

Quella sera, quando rientrò a casa, si sentiva esausto. Aveva avvertito particolarmente la presenza della madre, e il fatto che lei l’avesse trattato come un bambino maleducato che non vuole salutare gli ospiti l’aveva urtato non poco. Non vedeva cosa ci fosse di così straordinario nell’arrivo di una nuova collega.

La prima cosa che vide quando entrò in casa cancellò quei pensieri dalla sua mente: la chiave che Tom non aveva voluto prendere quella mattina. L’aveva messa all’entrata apposta per ricordarsi ciò che, non senza fatica, si era ripromesso.

E si sentì anche stranamente inquieto quando, appena mezz’ora dopo, il campanello suonò. Bill armeggiò per un’eternità con la serratura, come se sperasse di ritardare l’incontro con il fratello. Quando gli aprì, Tom aveva già distolto lo sguardo.

E lui non riuscì a capire cosa, in quel gesto, gli avesse fatto così male.

- Scusa se ho fatto tardi – borbottò il biondo, entrando in casa senza guardare in faccia il gemello. Quest’ultimo chiuse lentamente la porta, con lo sguardo fisso a terra. Sentiva già i passi di Tom farsi più leggeri e distanti.

Ecco, stava mandando all’aria anche quel misero tentativo.

- Tom – scandì esitante, come se la pronuncia di quel nome gli risultasse particolarmente difficile. L’interpellato si fermò a un passo dal corridoio. – Volevo dirti… -

Tom voltò solo la testa, guardandolo interrogativo. Bill prese un bel respiro.

Ce la posso fare. Tutto questo non mi riguarda, ce la posso fare.

- Volevo darti questa – disse in fretta, allungandogli la chiave. Tom la guardò dall’altra parte del soggiorno senza avvicinarsi. Poi scosse la testa.

- No, Bill. Non la voglio – Non vi era rabbia né tristezza nella sua voce. Solo calma, una calma forzata.

- Lo so, però prendila – Del resto, neanche la richiesta di Bill sembrava tale.

- Davvero, no – replicò tranquillamente Tom. – Questa non è casa mia, non è giusto che io abbia la chiave –

Bill strinse più forte il piccolo oggetto metallico tra le dita. Tom la stava rendendo più difficile del previsto, e lui voleva solo concludere in fretta il discorso.

- Neanch’io so cosa è giusto – gli uscì detto in un soffio. Il biondo lo guardò stranito, lui si riscosse. – Per piacere, prendila. Consideralo… un favore personale –

Lui stesso si rendeva conto che tutto ciò non aveva senso, non dopo la sfuriata di quella mattina. Ma Bill si sentiva come se, dopo aver gettato addosso al fratello tutte le accuse che aveva messo da parte in quegli anni, ora quelle stesse non gli appartenessero più.

Tom esitò qualche istante prima di prendere in mano la chiave, e Bill si morse le labbra.

- Sc… - S’interruppe ancora prima di completare quella parola.

Scusa.

Tom non voleva le sue scuse.

- Come? – Bill scosse la testa.

- Niente… niente – E lo sorpassò in fretta, dirigendosi nella camera da letto. Forse quella era l’ultima volta che toccava una chiave.

 

“Milioni di volte non ci siamo arresi

ci siamo rincorsi, lasciati e ripresi

ma poi cos’è stato, cosa ci allontanò?

Forse tu lo sai, io davvero non lo so

 

 

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Ooollè. Avevo proprio bisogno di un’altra bella litigata *_* Poi, si sa, a me le cose esistenzialistiche piacciono da morire.

Ecco che entra in scena un’altra povera crasta che, per quanto risulti potenzialmente innocua, a me sta su quel discorso (come se non l’avessi creata io, poi).

Vabbuò. Vedo con piacere che la comparsa dei GG ha determinato un incremento di recensioni e aggiunte ai preferiti! Me è contenta e vi ama.

Prima dei ringraziamenti, preciso che no, non ho ancora cambiato canzone, lei è sempre “Milioni di cose che non ti ho detto” di Raf.

Veniamo a noi!

rakith: e me lo chiami “niente”? Sono felicissima di sapere che la mia ff ti piaccia… un po’ meno che ti faccia piangere! Su su, che c’è di peggio nella vita XD Un bacio.

angeli neri: sì, effettivamente Bill fa pena pure a me che l’ho ridotto così. Ma si sa, il Billosky è predisposto a soffrire… Beh, per quanto riguarda Haylie prima o poi scopriremo qualcosa… si spera! X°D

BigAngel_Dark: mi fa piacere sapere che ti sia piaciuta anche “Dimentica”! Secondo il mio modesto parere fa schifo, ma pazienza, si cerca di migliorare…

kag92: no, no, nooooooooo!!! Niente pianti!! Non ne vale la pena!!! Beh, effettivamente questo mio Bill mi piace proprio perché, come dici tu, “non è più lui” ^^’

Sweet Dreamer: già, avete notato tutte la stessa cosa. Certo, se non volete vedere i gemelli così freddi e distanti posso sempre farli prendere a colpi di sedia, ma forse è meglio mantenersi sul dramma psicologico… anche se la litigata di questo capitolo è stata una bella mazzata da scrivere, devo dire.

harumi: oh che bello, dopo settimane che mi vedo nell’elenco dei tuoi preferiti, finalmente ti sento! Me contenta ^^ Eccoti qui il continuo. Soddisfatta di come procede la situazione? (coro: NO!!!) Fammi sapere!

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Capitolo 8
*** Panico e pentimenti ***


Capitolo 8 – Panico e pentimenti

Capitolo 8 – Panico e pentimenti

 

Bill mise giù la cornetta, lasciandosi sfuggire un sospiro di sollievo.

A quante telefonate era arrivato in appena mezza giornata di attività? Quindici, venti? Spesso si domandava per quanto tempo avrebbe continuato a lavorare lì.

Vide sua madre radunare le proprie cose in una borsa, e quasi si sentì stupido a pensare che sembrasse sorridere sempre, in quelle ultime settimane, anche mentre svolgeva le sue semplici attività quotidiane. Non poteva fare a meno di chiedersi quale fosse il motivo di tanta felicità.

Nello stesso istante in cui quella domanda attraversò la sua mente, Simone alzò la testa e i suoi occhi si incrociarono con quelli di Bill, al che il ragazzo chinò immediatamente il capo, riprendendo a scrivere frenetico sul modulo che aspettava di essere compilato, in bella mostra davanti a lui. Si sentiva quasi sotto osservazione, in quel momento più che mai, come se Simone avesse bisogno di controllare ogni suo movimento per stare tranquilla.

Cercò una qualsiasi distrazione nelle vicinanze, ma la coppia di sessantenni seduta in fondo all’agenzia non poteva essere considerata una grande attrattiva, così come non lo era Michelle al telefono, per quanto Simone sembrasse nutrire una vera e propria adorazione per lei.

- Bill, allora io vado – disse allegramente la donna, armeggiando per incastrarsi la borsa sotto il braccio e avvicinandosi al bancone, impacciata da quell’operazione.

Bill annuì senza alzare la testa. – A domani –

Seguì qualche secondo di silenzio, rotto solo dal tintinnio delle chiavi che Simone stava tirando fuori dalla borsa, poi fu lei stessa a schiarirsi la voce. – Come vanno le cose a casa? –

Ecco, quello era uno dei modi di mettere la situazione che più odiava, tra tutti quelli usati da sua madre. Ok “come state?”, ok pure “con tuo fratello come va?”, ma quel “come vanno le cose a casa?” non riusciva a sopportarlo. Suonava troppo simile a un “come vanno le cose con tua moglie e la bambina?”, o qualcosa del genere.

Mise nel conto di chiedere a sua madre di non usare più quell’espressione.

- Bene – rispose secco. La sua giornata di lavoro stava per finire, non aveva intenzione di farsi venire un esaurimento nervoso proprio un’ora prima di completare.

- Allora ci… ci vediamo domani – concluse Simone, già molto meno entusiasta. Rimase interdetta per qualche istante, come se sperasse che Bill alzasse la testa e le sfoderasse un sorriso a trentadue denti, poi si voltò verso Michelle e agitò la mano in sua direzione, salutandola a gran voce: - A domani, cara! –

La ragazza rispose con un sorriso ed un timido cenno della mano, mentre Bill sbirciava sua madre di sottecchi, vedendola voltarsi e uscire con il suo solito passo leggero, il passo di chi non ha una preoccupazione al mondo.

Gettò un’occhiata fugace anche verso Michelle, che ora stava sfogliando uno dei registri.

Durante le settimane che aveva passato lavorando al suo fianco, aveva notato l’unico particolare che potesse sembrare lampante in quella ragazza: la sua timidezza. Nel complesso, Michelle sorrideva quasi sempre, arrossendo e chinando appena la testa, ma Bill non aveva scorto nessun altro particolare. In realtà, faceva di tutto per comportarsi come se lei non ci fosse perché, per quanto la ragazza si mostrasse riservata, c’era qualcosa in lei che lo portava a tentare di ignorarla completamente. Forse era sempre quel senso di estraneità, forse qualcosa nelle poche parole che spendeva, forse qualcosa nel modo in cui lo guardava quelle poche volte che i loro sguardi si incrociavano.

Qualunque cosa fosse, qualcosa dentro di lui gli imponeva di non badare a lei, per quanto possibile.

Il telefono squillò improvvisamente, e Bill si concentrò di nuovo sui suoi moduli quando Michelle rispose: era una specie di tic, quando rispondeva al telefono non la smetteva un attimo di guardarsi intorno, come se cercasse qualcosa.

- Oh, sì signora, aspetti che controllo… -

Bill seguitò a non guardarla, ma il fruscio che seguì gli fece immaginare che Michelle avesse preso a sfogliare freneticamente un catalogo o una delle sue liste di prenotazioni.

- Mi scusi, non sto trovando… ah, eccolo! – La sua improvvisa esclamazione lo portò a voltare involontariamente lo sguardo verso di lei, al che vide che Michelle stava fissando la pila di cataloghi e registri posta di fronte a lui. La ragazza si spostò sulla sedia come se stesse per alzarsi. – Aspetti un secondo, arrivo subito – Ancora prima che lui potesse realizzarlo, Michelle gli si era avvicinata e si era seduta sulle sedia accanto alla sua, avvicinando a sé la pila di raccoglitori e cartelle. – Scusami, ci metto un attimo – disse frettolosamente, mentre le sue guance già si coloravano di rosa acceso. Bill non prestò attenzione a ciò che Michelle stava facendo, sentì solo la sua presenza accanto a sé e il suo fianco urtarlo appena, forse per sbaglio.

Di nuovo inquietudine.

Di nuovo buio.

 

Haylie guardò con diffidenza la fila di piccole sedie azzurre addossate al muro, e lui di certo non poteva biasimarla. L’ambiente non era propriamente confortevole.

Tuttavia, sapeva che era lui a doverla rassicurare.

Era per il loro bene, per la loro felicità.

Le circondò la vita con un braccio, inclinando la testa di lato e sorridendole. – Dài, sediamoci – Haylie annuì poco convinta, ma si lasciò accompagnare fino alla prima sedia della fila. Quando Bill prese posto accanto a lei, gli prese una mano e gliela strinse forte, senza guardarlo.

- Rilassati, andrà tutto bene –

Haylie deglutì, annuendo una seconda volta e avvicinandoglisi impercettibilmente, fino a che i loro fianchi si sfiorarono. Gli credeva, lui era la sua unica fonte di sicurezza, ma quella frase, “andrà tutto bene”, le ricordava un avvenimento doloroso, l’ultimo di una lunga serie: quando stava per partorire, Bill le aveva detto esattamente le stesse parole.

E poi la bambina l’aveva persa, era nata morta.

Haylie appoggiò la testa sulla sua spalla. Per quanto fosse spigolosa, il contatto con essa le procurava calore e conforto. – Sì – mormorò incerta.

Bill strofinò una mano lungo il suo braccio, per riscaldarla, e la strinse a sé. – Andrà tutto bene – ripeté a bassa voce, scandendo piano le parole, come se stesse parlando con una bambina… con una figlia.

Haylie si sciolse dall’abbraccio solo per piegarsi di lato e appoggiare la testa sulle sue gambe, accucciandosi contro il suo grembo e stringendosi il busto tra le braccia. Lui cominciò ad accarezzarle i capelli, facendo scivolare le dita tra i ciuffi ramati, e lei chiuse gli occhi.

Bill si chinò a baciarla su una guancia. Haylie tremava appena.

La abbracciò goffamente, per quanto la posizione glielo permettesse, appoggiando il mento sulla sua spalla, e rimasero così, in silenzio per minuti interi, fino a quando Bill non riuscì più a sopportare il rumore delle lancette che si inseguivano sul quadrante del grande orologio appeso alla parete di fronte a loro. – Stai tranquilla. Sono qui, amore mio. Sono qui – sussurrò sfiorandole la guancia con un dito.

La ragazza richiuse gli occhi, stringendosi nel suo abbraccio, e a Bill sembrò che quei minuti non dovessero passare mai…

 

A Tom sembrava ancora strano, dopo tutti quei giorni, poter aprire la porta di casa senza dover aspettare che suo fratello tornasse dal lavoro. Senza contare che era incredibilmente triste quell’unica chiave attaccata all’anello metallico.

Certo, quello era niente in confronto allo sconforto che provava ogni giorno, entrando e uscendo da quel bar in cui aveva trovato lavoro. Ogni tanto c’era ancora qualcuno che alzava gli occhi e diceva oh, tu sei quello dei Tokio Hotel!, al che lui rispondeva che no, lui non era quello dei Tokio Hotel perché i Tokio Hotel non esistevano più. A parte quei rari avvenimenti, era successo ciò che i critici avevano predetto non molti anni prima: quello era un gruppo destinato a cadere nel dimenticatoio, una band che non avrebbe mai fatto la storia della Germania.

Nonostante tutto, tornare a casa era un sollievo. Non era casa sua e le giornate sembravano essere scandite da un ritmo sempre più lento, ma era sempre meglio che starsene dietro a un bancone nella contemplazione del fallimento della propria vita.

Appena arrivato, Tom non perse tempo per gettare sul letto i propri vestiti e rifugiarsi nella doccia. Aumentò quasi al massimo la temperatura dell’acqua e si appoggiò con la schiena sulla parete, chiudendo gli occhi e lasciando che mille rivoli bollenti gli scivolassero addosso.

Quando girò il rubinetto e il getto si arrestò, gli parve di sentire un rumore in lontananza, come lo sbattere di una porta. Uscì in fretta dalla cabina della doccia, si gettò addosso un asciugamano e diede uno sguardo all’orologio che aveva posato sul ripiano del lavandino: erano appena passate le 19;00.

Rimase immobile e in ascolto per qualche istante e stavolta sentì distintamente dei passi veloci oltre la porta del bagno. Ma Bill tornava sempre dopo le 20;00. Allora cosa…

Fermò l’asciugamano intorno alla vita con un nodo abbastanza stretto e spalancò la porta del bagno, precipitandosi fuori. Nell’attraversare il corridoio sentì un altro rumore, un colpo appena più debole, e accelerò il passo, scivolando sulle sue stesse impronte bagnate. Passò davanti alla cucina, alla camera da letto e al ripostiglio, ma erano vuoti. Così si fermò proprio davanti alla soglia del soggiorno e sporse cautamente la testa oltre lo stipite.

Davanti alla finestra aperta, con le tende che svolazzavano in preda al vento freddo di dicembre, c’era Bill, aggrappato al davanzale e chinato in avanti. Anche a quella distanza Tom riuscì a vedere che aveva gli occhi chiusi, la bocca spalancata in cerca di aria e respirava rumorosamente, come in preda a un attacco d’asma.

- Bill! – Attraversò il soggiorno a grandi passi e, quando affiancò il gemello, poté sentire distintamente il suo fiato pesante: non stava respirando rumorosamente, stava ansimando. Lo afferrò per una spalla, scuotendolo per richiamare la sua attenzione. – Cos’è successo? – Bill si voltò di scatto, appoggiandosi da dietro al davanzale della finestra e ravviandosi i capelli con una mano. Aveva un’espressione di terrore dipinta in volto ed era in un bagno di sudore, nonostante il freddo. – Bill, ma tu stai male! –

Il moro fece un gesto frenetico con una mano, continuando a boccheggiare. – N-no… non è… niente… -

Tom lo prese per le spalle, angosciato come non mai. – Come non è niente?! Che hai? –

Bill affondò il viso tra le mani, tremando. – Non posso… non posso… - rantolò, mentre Tom lo guardava con occhi stralunati. – Non posso conviverci, non posso! – gemette l’altro.

Il biondo sentì delle gocce di sudore mescolarsi con quelle d’acqua. Il gemello sembrava essere in preda al delirio e lui non aveva la minima idea di come calmarlo. – Con cosa, Bill? – tentò di domandargli, con esitazione ma ad alta voce per sovrastare i suoi ansiti. Ma lui non rispose, si limitò a chiudere gli occhi e appoggiare la nuca contro la parete, in cerca di aria. – Stai… stai calmo, sono qui –

Bill si lasciò sfuggire un mugolio sofferente che Tom non seppe come interpretare, ma riuscì pian piano a regolarizzare il respiro, ancora aggrappato con una mano al davanzale della finestra. Socchiuse di poco gli occhi, premendosi l’altra mano sul petto e mandando fuori gli ultimi sospiri più pesanti.

Quando riprese a respirare normalmente, Tom abbandonò la presa sulla sua spalla, ma poteva vedere chiaramente che Bill era ancora sconvolto. Lasciò che muovesse pochi passi incerti verso il divano per poi abbandonarsi sui cuscini, appoggiandosi allo schienale e tirando un altro profondo respiro.

- Cos’era? – gli chiese esitante. Bill voltò lentamente la testa verso di lui: aveva gli occhi lucidi e le labbra secche, e il tremore non lo aveva abbandonato del tutto, ma cercò di darsi un contegno di fronte al gemello.

- Un… una specie di attacco di panico – rispose a mezza voce, ancora con il fiato corto. – A volte mi capita –

Tom cercò di dare l’impressione che quella risposta gli fosse bastata, ma sapeva che Bill non gli avrebbe mai detto a cosa fosse dovuta quella crisi.

- E quando succede non fai niente? – Non poté fare a meno di dare alla propria voce un’intonazione di ansia e apprensione. – Non so, non hai… pillole, o…? -

- Non servono – tagliò corto Bill, portandosi i capelli sudati dietro le orecchie. – Quando viene, viene. E quando passa, tanto meglio –

Tom continuò a fissarlo preoccupato, come se temesse che Bill ricominciasse a sudare e ansimare da un momento all’altro. – E’ stata la mamma a farti tornare prima? – Il moro si lasciò sfuggire uno strano verso.

- No, sono scappato senza bisogno di permesso – ribatté, abbandonandosi tra i cuscini. – Non avrei potuto rimanere lì un minuto di più – Subito dopo si morse involontariamente la lingua: non voleva che Tom indagasse sulla causa di quel suo disturbo, ma l’ultima frase che aveva pronunciato era praticamente un invito a chiedere di più.

- Beh, certo – rispose inaspettatamente Tom. – Non credo sia un granché avere un attacco di claustrofobia in un’agenzia di viaggi – Il suo tono era un vago miscuglio tra l’apprensione per il fratello e la delusione non del tutto smaltita per come Bill avesse buttato via il suo talento senza pensarci due volte, intraprendendo un’attività come quella. Dentro di sé, Bill si disse che quello era molto peggio di un attacco di claustrofobia, ma preferì non ribattere. – Ti capita spesso? –

- No! – rispose, forse un po’ troppo velocemente. Il biondo lo guardò scettico, al che Bill assunse l’unico tono con cui era capace di farlo desistere. – Cos’è, mi fai il terzo grado perché ho avuto un calo di pressione? – aggiunse infatti con voce asciutta.

- Per carità – Tom alzò le mani in segno di scuse. – Perdonami se mi preoccupo per te –

- E smettila con questa sceneggiata – si lasciò sfuggire Bill, con tanto di una sonora sbuffata.

- Guarda che sei tu quello che fino a due minuti fa annaspava davanti alla finestra spalancata! –

- Quella non era una sceneggiata! – berciò Bill, sentendosi punto sul vivo. Cosa ne poteva sapere Tom di quello che lui aveva passato e di quello che stava tuttora vivendo?

- Allora come mai è successo? –

Bill socchiuse gli occhi e strinse le labbra, cercando di sostenere lo sguardo di sfida di Tom. – Senti, – Prese un bel respiro e pronunciò a fatica quella parola: - …scusa se ti ho fatto preoccupare. Non succederà più –

Avrebbe voluto aggiungere “non è colpa mia”, “non sono affari tuoi”, “sono mesi che vado avanti così”, o anche solo “non voglio parlarne”.

O “ho un disperato bisogno di parlarne”.

No. Non era così. Non poteva essere. Non poteva aver voglia di parlarne con qualcuno, men che mai con suo fratello.

Eppure, solo pochi anni prima, in una situazione del genere, non avrebbe neanche preso in considerazione altre possibilità.

Tom incrociò le braccia sul petto con aria corrucciata e solo in quel momento Bill si accorse che il fratello era praticamente nudo, se non fosse stato per l’asciugamano legato intorno alla vita, e bagnato dalla testa ai piedi.

- Va’ ad asciugarti, no? – quasi lo aggredì. – La finestra è spalancata, ti prenderai un accidente –

Il biondo non seppe se prendere quella constatazione come un segno che Bill non lo volesse più tra i piedi o come una prova del fatto che, in fondo, anche lui mostrasse –in un modo tutto suo, indubbiamente- una certa quale preoccupazione nei suoi confronti. Decidendo che la seconda opzione era troppo fantascientifica, preferì prendere in considerazione solo la prima ed esaudire il desiderio del fratello.

- Tolgo il disturbo –

E abbandonò il soggiorno calpestando le sue stesse impronte bagnate, quelle che aveva lasciato per il corridoio prima di scoprire Bill in preda a un attacco di panico.

E pensare che ora era quasi pentito di averlo scoperto.

 

“Dimmi, dimmi, dimmi ora chi sei

se qualche volta hai mai pensato a noi,

soffrire dicono è utile

se non uccide fa crescere”

 

 

Tom mise giù il giornale con un sospiro rassegnato.

Era più di una settimana che scandagliava minuziosamente gli annunci lavorativi, nel disperato tentativo di trovare un altro impiego, uno qualsiasi che potesse riservare qualche attrattiva in più rispetto al posto dietro al bancone di un bar, ma aveva dovuto prenderne atto: questo era praticamente impossibile.

Niente stuzzicava la sua curiosità, niente sembrava interessante.

Era ancora combattuto tra il desiderio di trovarsi un lavoro stabile e quello di continuare così per anni, facendo la spola tra un mestiere, per così dire, riparatore e un altro. La seconda soluzione era certamente meno comoda, ma, trovandosi un impiego fisso, gli sarebbe sembrato di mettere da parte qualsiasi possibilità di tornare, un giorno, a quella che era la sua vita prima.

Sarebbe stato come chiudere la chitarra in un ripostiglio e gettare la chiave. Avrebbe significato mettere una X sul nome dei Tokio Hotel, seppellire un sogno che era diventato realtà.

Forse doveva rassegnarsi a marcire tra brioche e cappuccini.

Il silenzio fu spezzato dallo squillo del telefono nel momento stesso in cui Tom ripiegò il giornale e lo poggiò sul tavolo del soggiorno, da dove l’aveva preso. Quel giorno non aveva fatto orario continuato, era tornato a casa poco dopo pranzo e Bill, come al solito, non sarebbe arrivato che per cena.

Allungò una mano verso il telefono e sollevò il ricevitore. – Pronto? –

Dall’altra parte, una breve pausa di silenzio.

- …oh. Tom, sei tu? – fece poi una voce incerta, che Tom riconobbe come quella di sua madre.

- Sì mamma, sono io –

- Bill non c’è? – Il tono di Simone non risultava particolarmente apprensivo, sembrava solo che sperasse nell’assenza di Bill.

- Non è in agenzia? – Tom aggrottò lo sopracciglia.

- Oggi è il suo giorno libero, non te l’ha detto? –

Seguì un’altra pausa, stavolta più lunga, soppesata solo dai respiri di Tom, brevi e secchi. – No – disse soltanto.

- Ah – Anche Simone sembrava improvvisamente a corto di parole. – Beh, non preoccuparti, sarà in giro… -

- Certo – rispose lui, cercando di convincersi che sua madre non potesse essere tanto stupida da credere che fosse normale che un ragazzo di venticinque anni decidesse improvvisamente di sparire per un’intera giornata senza renderne conto a nessuno.

- Volevo appunto chiederti… come sta? –

- Non puoi chiederlo a lui, scusa? –

Simone si fece impacciata. – So che in questi giorni non è stato bene –

- Oh. Te l’ha detto lui? – Tom si stupì sinceramente di sperare in un “no” di risposta.

- No, è stata… una nostra collega a dirmi di averlo visto un paio di volte uscire di corsa dall’agenzia. E di solito lo fa quando non sta bene, quindi… –

- Mamma, non ci tengo a fargli da babysitter, e neanche lui lo vuole, stanne certa – la interruppe stancamente. – Quindi, se vuoi sapere come sta, chiedilo a lui, se vuoi sapere come sto io chiedilo a me, e se vuoi sapere come vanno le cose te lo dico subito: uno schifo –

- Oh, Tom – Pur non senza rimproverarsi mentalmente, Tom non poté fare a meno di pensare a quanto odiasse quel tono rammaricato. Era lo stesso che Simone aveva usato quando lui e Bill si erano messi nei pasticci a scuola e il preside l’aveva mandata a chiamare, il che era successo non poche volte. Puntualmente, lei accorreva, li guardava seduti vicini e con il capo chino e sospirava “oh, Tom”, “oh, Bill” o “oh, ragazzi”. – Non sai quanto darei perché voi… -

- …vi ricongiungeste felici e contenti, sì – Il ragazzo gettò uno sguardo annoiato fuori dalla finestra. – Lo so –

- So che è difficile, ma tu stagli vicino – soggiunse ansiosamente Simone.

- Per favore, non tirarmi fuori il discorso del periodo difficile – La richiesta di Tom risultò molto più simile a un avvertimento, quasi una minaccia. All’altro capo del filo, invece, il tono di Simone assunse una sfumatura di severità.

- Sei ingiusto, Tom –

Tom sapeva che tutto quello non era normale, sapeva che il suo atteggiamento era molto più che discutibile. Quello che non sapeva era se la delusione di sua madre fosse autentica, se davvero pensasse che le cose si sarebbero sistemate con uno schiocco di dita.

E Tom decise di abbandonare il controllo dei propri pensieri, lasciando che essi fluissero in libertà attraverso le sue parole, che queste scandalizzassero o ferissero sua madre. Non gli importava.

- Già, perché sono sempre gli altri a soffrire, vero? Sono gli altri che piangono, s’incazzano e si sfogano comunque e con chiunque. Io… credo che tu mi conosca, mamma, e che tu sappia che io ho sempre odiato il vittimismo, ma, davvero… io così non ce la faccio – Tom si interruppe solo un attimo per riprendere fiato, non certo per chiedersi se quello che diceva fosse giusto. Capì che sua madre era pronta a ribattere, così ricominciò a parlare senza dargliene la possibilità. E non fu neanche tanto difficile. – Ho già fatto più che abbastanza, mi pare, e te lo posso dire con la coscienza a posto. Ho mollato tutto quando era più giusto farlo, lasciandomi dietro tutto quello che per me era importante, e ancora mi trascino appresso il rancore perché me ne sono andato, ho girato come una trottola per tre anni, mi sono adattato a vivere a chilometri di distanza dalla mia vera vita, e per cosa sono tornato? Per sapere che tutto questo è stato inutile, che le mie scuse non sono state accettate, che non servo a nessuno? –

Se non avesse lasciato che quello sfogo venisse fuori da sé, Tom ne era sicuro, non sarebbe riuscito a pronunciare quell’ultima frase, il suo cruccio trasformato in parole.

Perché era questo a far sì che il sonno arrivasse sempre più tardi, che lui non trovasse il dialogo con Bill anche quando non desiderava altro, che nella sua mente ogni tentativo venisse bollato come inutile.

Non riusciva a farsi raccontare da Bill quello che era successo con Haylie, non riusciva a chiedergli scusa come avrebbe voluto, non riusciva a farlo star meglio, certi giorni non riusciva neanche a guardarlo negli occhi.

Ormai poteva solo farsi scivolare addosso ogni minuto, ogni ora, ogni giornata, senza aspettarsi niente di nuovo, neanche quel miracolo in cui, inconsciamente, aveva sperato non molto tempo prima.

- Io non ci sto, mamma – disse infine, chiudendo gli occhi.

Dall’altra parte, non vi fu risposta.

…se quel respiro lieve e appena irregolare non potesse essere considerato tale.

Simone non disse niente, non spese una sola parola, e Tom si ritrovò a pensare che non gliene importava nulla. Non gli avrebbe dato aiuto, non gli sarebbe servito come conforto, e sicuramente neanche lui avrebbe in qualche modo aiutato sua madre. Dunque era meglio che almeno lei tenesse per sé le parole, che non ne sprecasse altre, se queste avessero dovuto essere taglienti come quelle di Tom.

- …buona serata – esalò alla fine, prima di chiudere la comunicazione con un click leggero e, allo stesso tempo, assordante.

A Tom parve quasi di vederla chinare la testa e lasciarsi sfuggire qualche lacrima. E, anche lì, non avrebbe potuto farci niente.

 

“Sono cresciuto senza di te,

a tutto si fa l’abitudine”

 

 

 

 

 

 

NdA

Ora si comincia a ragionare. Tom dovrà pur dare sfogo alle proprie paturnie, ma io devo dar sfogo al mio odio incondizionato per Simone XD E non chiedetemi perché. La detesto a basta.

La canzone è sempre “Milioni di cose che non ti ho detto” di Raf… non l’avreste mai immaginato eh? Piuttosto, mi chiedo... ma dove sono finite le donzelle che mi hanno commentato i primi capitoli per poi volatilizzarsi (tipo EtErNaL_DrEaMeR e noirfabi...)??? Ragazze mi mancate taaaaaaaaantooo!!

Via alle risposte!

kag92: Ma sì, dai, sono maturi tutti e due… sono cascati dall’albero e hanno battuto la testa XD Ah, non avevi letto “Dimentica”? Beh, non ci perdi niente, ma diciamo che dà una minima idea del perché di tutto questo macello… Kuss

angeli neri: Il mistero che continua a tormentarci… come dimostra che Haylie è il male! Chissà per quanto tempo ancora vi farà rodere…

AlYzScHrEiBy: Allora…. Grazie grazie grazie!! Originale, dici? Mah, non so… semplicemente mi allettava l’idea di mandare i gemellini sul ring e strapazzarli per bene. E ti ringrazio della tua osservazione, perché uno dei miei scopi principali era proprio quello di non rendere il tutto troppo melodrammatico. Sono contenta di ricevere approvazione! XD Baci baci

moonwhisper: a TE devo dedicare un po’ più di attenzione *______* criminala che non sei altro, mi hai fatto prendere un infarto. Ora spiegami il tuo programma: vuoi recensire ogni tot capitoli e mollarmi questi referti psichiatrici, o ti accontenterai di commenti in pillole? XD Ovviamente scherzo, le tue recensioni sono rigeneranti come sempre. Se vuoi rendermi partecipe dell’idea che ti sei fatta sulla morte di Haylie, mandami pure un mp, ma già leggo i tuoi pensieri *_* No, non credo che tu abbia dimenticato niente. Solo un pacco di fazzoletti per la sottoscritta. Mi raccomando, il mio ego è avido di altre impennate d’autostima X°°DDD

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Capitolo 9
*** Fuga ***


Capitolo 9 - Fuga

Capitolo 9 - Fuga

 

Qualcuno doveva aver sbagliato i calcoli quando il giorno non lavorativo era stato denominato “giorno libero”.

Lui non si sentiva libero.

Aveva visto un milione di film in cui qualcuno si ritirava a riflettere in riva al mare, magari con aggiunta di gabbiani e tramonti dai colori spettacolari. Lui, al mare, c’era stato solo da bambino, e soprattutto non sentiva il bisogno di riflettere. Anzi, avrebbe voluto perdere del tutto la capacità di farlo. Ma gli venne naturale pensare a una di quelle scene. Forse sarebbe cambiato qualcosa, se si fosse seduto sulla sabbia e, chiudendo gli occhi, avesse ascoltato gli strilli dei gabbiani e lo scroscio delle onde che si infrangevano contro gli scogli. O forse sarebbe stato tutto uguale.

L’unica cosa di cui sentiva il bisogno era di isolarsi da tutto e da tutti, soprattutto dai ricordi che, invece che lasciarlo in pace, sembravano farsi sempre più insistenti.

 

Quando vide la porta della camera da letto aprirsi con un leggero cigolio, istintivamente cercò di sistemare la propria giacca, tirandola un po’ più in basso. Non era il genere d’abito che era solito indossare, ma quella era un’occasione speciale. Era la sera della vigilia di Natale, lui e Haylie sarebbero andati a cena fuori e…

Quasi rimase senza fiato, quando lei gli comparve davanti.

Sul momento non si soffermò a studiare l’espressione del suo viso, ma i suoi occhi percorsero interamente il corpo della ragazza, fasciato dal bellissimo vestito che lui stesso le aveva regalato. Non era che un semplice, fine abito da sera, bordeaux e senza fronzoli particolari, ma a lei… a lei, stava da Dio. Sottolineava ogni forma e metteva in risalto la sua figura.

E la sua figura era semplicemente incantevole, in quel momento più che mai.

- Santo cielo – non poté trattenersi dal mormorare. – Sei… sei stupenda –

I loro sguardi si incrociarono. Haylie sorrise, ma sorrise in un modo che fece comprendere immediatamente a Bill cosa le passasse per la testa: lei non la pensava affatto allo stesso modo.

- Grazie – rispose appena, chinando la testa quasi come se si vergognasse. Non la alzò neanche quando Bill le si avvicinò e le prese una mano, stringendola forte.

- Haylie – Bill dovette attendere qualche secondo perché i loro sguardi si incontrassero di nuovo e, quando questo successe, si rese conto che non era quella l’espressione che voleva leggere nei suoi occhi. – Ce l’abbiamo fatta, tesoro. Non devi più preoccuparti, va bene? – Si interruppe, in attesa di una risposta che non arrivò. – Vedrai che… -

- Lo so, lo so. D’accordo – Haylie posò velocemente una mano sulla sua guancia, per poi sfiorargli le labbra con un bacio altrettanto rapido. Bill si rilassò, allentando leggermente la presa sulla sua mano, ma, quando i loro volti si separarono, lei non sorrideva più.

E lui non poté fare altro che sospirare.

- Allora… andiamo? –

 

“Sei bella di più,

bella come mai,

solo un po’ di amarezza

sulle labbra e dentro gli occhi tuoi”

 

Bill si riscosse improvvisamente, le mani ancora strette sul volante. Se l’auto fosse stata accesa, come minimo avrebbe tamponato. Oppure ci sarebbe stato direttamente un incidente e allora avrebbe davvero smesso di meditare.

Non che fosse particolarmente piacevole, ma rimuginare barricato in macchina e fermo nel cuore della periferia di Amburgo, possibilmente, era ancora peggio. Non aveva senso, così come non aveva senso sulla terrazza di casa propria, né avvolto tra le coperte al caldo nel suo letto, né da nessun’altra parte.

Ripartì con una sonora sgommata, rischiando di travolgere una ragazzina che aveva deciso di attraversare proprio in quel momento. Premette il piede sull’acceleratore e sperò che questo bastasse a ridurre i ricordi a una nuvoletta pronta a dissolversi, come il gas di scarico che si lasciava dietro in quell’improbabile fuga. Se solo il codice della strada l’avesse permesso, avrebbe guidato ad occhi chiusi. E allora sì, forse così si sarebbe sentito finalmente in pace.

 

Invece gli occhi dovette tenerli bene aperti e questo lo aiutò a rendersi conto di che ora fosse quando parcheggiò nel vialetto di fronte casa: non mancavano che pochi minuti a mezzanotte. Gli ci volle qualche istante per focalizzare l’informazione, mentre rovistava freneticamente nelle tasche alla ricerca delle chiavi di casa, e soprattutto per prendere atto di quella che era stata la sua giornata: non aveva fatto assolutamente niente per più di dodici ore.

Quando infilò la chiave nella serratura non dovette sforzarsi per non fare rumore. Era lui stesso a odiare qualsiasi forma di baccano e ormai era come se si muovesse nell’ombra, nel tentativo di non dare nell’occhio: era una tecnica che aveva dovuto affinare dopo lo scioglimento dei Tokio Hotel.

Tuttavia si stupì, una volta entrato in casa, di trovare le luci accese e, ancora di più, di vedere Tom in soggiorno, seduto sul divano davanti alla televisione. Non mostrò alcun segno di aver notato la sua presenza, anche perché gli dava le spalle. Ma non ci volle molto perché Bill si accorgesse che lo sguardo del fratello sembrava oltrepassare il televisore, mentre il pollice premeva ritmicamente un tasto del telecomando, facendo sì che i canali scorressero l’uno dopo l’altro ad intervalli regolari. Mosse qualche passo verso il divano.

- …sei ancora alzato? –

Si sarebbe aspettato che Tom sobbalzasse a quelle parole, o che, come minimo, si mostrasse sorpreso. Invece non gli rivolse neanche un’occhiata.

- Già, il sonno è partito – disse, apparentemente senza che una sola emozione sfiorasse la sua voce.

- Non mi stavi aspettando, vero? – si ritrovò a chiedergli Bill, senza volerlo davvero. Non credeva che questo gli importasse, ma la domanda era uscita fuori da sola e, prima che lui potesse mordersi la lingua, Tom rispose:

- Beh, dovevi tornare prima o poi, no? –

Bill pensò automaticamente che Tom aveva sempre odiato le risposte enigmatiche e, ancora una volta contro la propria volontà, si chiese come potesse essere cambiato così di colpo.

- Comunque ha chiamato la mamma. Voleva sapere come stai –

- Oh – Il moro si trattenne dall’osservare che, in fin dei conti, lui e sua madre si vedevano praticamente ogni giorno e non c’era motivo perché lei telefonasse. Lo pensò soltanto, non sentì il desiderio di mutare la propria considerazione in parole più o meno acide. Forse la stanchezza giocava davvero brutti scherzi.

Inaspettatamente, Tom si voltò a guardarlo, alzando un sopracciglio. – Hai un’aria stravolta –

A Bill parve di cogliere una nota di preoccupazione nella sua voce, ma forse anche quella era opera della stanchezza. Dopotutto non c’era motivo perché Tom fosse preoccupato per lui. Non dopo che erano diventati due estranei, non dopo che…

…non dopo che lui lo trattava come tale.

- In realtà non ho fatto nulla per tutta la giornata – ammise, chiedendosi ancora una volta il perché di quel round di confidenze. Con stupore, vide le labbra di Tom incresparsi in un sorriso appena accennato.

- Una piccola fuga dalla realtà? –

Se fosse stato il Bill di un tempo, probabilmente sarebbe arrossito. Perché il Bill di un tempo arrossiva sempre, quando si vedeva smascherato.

Il Bill di venticinque anni, invece, si limitò a stringersi nelle spalle e a distogliere lo sguardo.

- Non so. Può essere –

- Scappare non serve a niente, lo sai, vero? – Lo sguardo di Bill guizzò rapidamente verso il gemello: non aveva messo nessun’aria di supponenza o espressione canzonatoria. Ma non sembrava neanche un rimprovero, il suo. Era strano, era come… un’aria da fratello maggiore.

Sbatté più volte le palpebre, passandosi una mano fra i capelli: a giudicare dalla massa informe che le sue dita incontrarono, doveva avere sul serio un’aria stravolta. E questo spiegava anche i pensieri sconnessi.

- Sei tu che non lo sai –

Le sue parole non risultarono taglienti come al solito, e Tom alzò le spalle.

- Forse – si limitò a dire. – Comunque, non preoccuparti se stanotte senti rumore. Dubito che il sonno arriverà tanto presto –

E gli voltò le spalle, alzando appena il volume della televisione.

 

 

Per Bill, la routine si ripeteva sempre uguale.

Ore 7;00: sveglia.

Ore 8;30: lavoro.

Ore 13;20: pausa.

Ore 20;00: a casa.

Doveva aver sentito da qualche parte che la ripetizione continua e costante di una routine, il susseguirsi di una serie di regole precise, conferiva come un senso di sicurezza nel soggetto ad essa sottoposto. Strano, perché la sensazione che tutto ciò gli procurava era ben diverso dal suddetto senso di protezione.

Un tempo, era stata inadeguatezza, che non aveva tardato a trasformarsi in insofferenza. Poi l’insofferenza aveva ceduto il posto a un curioso senso di timore, o persino di angoscia. Questo non accadeva che da qualche giorno, al massimo un paio di settimane. E il senso di inquietudine era sempre abbinato a situazioni specifiche.

Il giorno prima, per esempio. Chiuso in macchina e più attaccato ai ricordi che al volante, cosa poteva aver provato se non una pesante e insistente angoscia?

Anche le domande di Tom erano facilmente riconducibili a quella sensazione. Non era più lo stare semplicemente seduti alla stessa tavola, non erano le poche ore trascorse nel più assoluto silenzio. Erano proprio le sue domande, quegli odiosi interrogativi che suo fratello gli poneva accompagnandoli con sguardi diversi a seconda della situazione: inquisitori, adirati, apprensivi, fraterni…

Fraterni.

Che strana parola.

Gli era capitato di rado di identificare uno sguardo di Tom come fraterno, ultimamente. Non che si fosse mai soffermato a guardarlo negli occhi per più di tre secondi. Aveva paura di scovare qualcosa nel suo sguardo, qualcosa che non avrebbe voluto trovare, pur non sapendo precisamente cosa. Ecco, in realtà non aveva mai pensato di vedere qualcosa di fraterno negli occhi di Tom, in quei pochi mesi che avevano passato sotto lo stesso tetto. Aveva soltanto pensato “in questo momento, Tom sta cercando di comportarsi da fratello”.

Il suo flusso di coscienza si interruppe bruscamente, stuzzicato da una domanda pungente: da quanto tentava di farsi strada nella mente di Tom, dal momento che aveva bollato quell’impresa come “impossibile”?

A sua volta, anche la domanda fu stroncata sul nascere.

- Biiill! –

Non distinse subito l’immagine che si trovava davanti. Dei capelli biondi. Un’indefinita macchia azzurra. Un movimento repentino.

Quando la sua mente si aprì e focalizzò la dinamica degli avvenimenti, Michelle era in bilico tra il telefono e la sua sedia, e parlava tenendosi in precario equilibrio su un piede solo, dopo aver incastrato la cornetta tra guancia e spalla. Bill non dovette faticare molto per capire che il suo telefono doveva aver squillato all’infinito senza che lui vi avesse badato.

La telefonata fu breve, o forse era lui ad aver perso la cognizione del tempo. Già da qualche giorno non riusciva a scrollarsi di dosso quella fastidiosa impressione che lo faceva sentire come se fosse costretto a camminare sott’acqua.

Michelle tornò al proprio posto, passandosi una mano tra i capelli con un sorriso imbarazzato. – Scusami se ti sono praticamente saltata in braccio, ma sembravi in trance! – Bill non trovò una risposta più intelligente di una scrollata di spalle e Michelle proseguì, giocherellando con l’orlo del maglione azzurro che indossava. – A volte sembri perso in un mondo tutto tuo… -

- Oh, beh… - Anche in quel caso, una seconda scrollata di spalle non avrebbe stonato.

- Non sai cosa darei per sapere cosa ti passa per la testa! – ammise la ragazza, dal cui tono traspariva tutto l’imbarazzo che doveva aver provato a causa di quella confessione. Bill rispose senza riflettere.

- Poi te ne pentiresti, credimi – Allegò a quella frase un mezzo sorriso che le diede il tono di una presa di confidenza, cosa assolutamente non intenzionale. Bill si sentiva già abbastanza a disagio nel dover affrontare discorsi del genere per avanzare proposte di amicizia o similari. Ma Michelle non sembrò captare i suoi pensieri.

- Sai che di solito le persone come te mi mettono in… in soggezione, quasi? –

Bill avrebbe voluto rispondere con un educato “oh davvero?”, ma, anche stavolta, non andò oltre un’alzata di spalle. Sperava che la collega afferrasse il messaggio, cosa che non successe. – Non so, con te è diverso. Mi sento a mio agio anche quando non spiccichi parola –

Sorridi o sarai bollato a vita come un gorilla obsoleto, pensò Bill. Ma pensò anche che questo non gli importava affatto. – Beh… -

La sua palese mancanza di entusiasmo non parve scoraggiare Michelle che, al contrario, aveva messo su un’espressione vivace che Bill non ricordava di aver mai visto sul suo viso. – Sai, tua madre mi ha raccontato che fino a un po’ di tempo fa cantavi in un gruppo –

Varie considerazioni transitarono nella mente di Bill, delle quali nessuna si tradusse in parole: sua madre doveva smettere di considerarlo il suo bambino, e in fondo era strano che Michelle si mostrasse tanto curiosa in proposito. Forse che non aveva mai acceso la televisione o la radio? Oppure era davvero così diverso dal Bill Kaulitz dei Tokio Hotel, così diverso da rendere impossibile l’associazione delle due parti?

- Ah – si limitò a constatare, decidendo per una risposta semplice e scarna.

- Me l’ha detto lei, io non avrei mai immaginato… Non ne ho mai capito niente, di musica, in questo campo sono totalmente ignorante. Ma Simone mi diceva che eravate conosciuti in tutto il mondo, che tutti vi adoravano. Come mai hai smesso? E’ un peccato… -

Fu un attimo. Vuoto, buio, di nuovo inquietudine. E poi, blackout.

 

Haylie rigirava tra le mani il cd ormai consumato, in un misto di nostalgia e rassegnazione.

- Haylie, ti prego, mettilo giù – disse Bill, mascherando una risatina. – Speravo di rimuovere l’immagine di me sepolto dal fango solo per rendere interessante la copertina di un cd –

Ma la ragazza non lo ascoltò. – Quand’è che torni con loro? –

Bill alzò gli occhi al cielo. Il discorso non gli risultava per nulla nuovo. – Presto, te l’ho detto. Per ora non è il momento –

- E quando arriva, il momento? – Il tono di Haylie non era né adirato né scontroso. Solo, quella faccenda non le dava pace. Bill alzò le spalle.

- Arriverà. Ma non adesso – La ragazza rimase in silenzio per qualche secondo, sfogliando il libretto con tutti i testi di “Zimmer 483”. Poi lo ripose nella custodia.

- E’ la tua vita… - mormorò, senza alzare lo sguardo. Bill le circondò le spalle con un braccio e le sfiorò una tempia con un bacio.

- Sei tu la mia vita –

 

- Bill? –

Il ragazzo sbatté ripetutamente le palpebre, rimettendo a fuoco Michelle che lo guardava incuriosita. Il suo sorriso era leggermente cambiato. Prese un bel respiro, senza chiedersi per quanti secondi fosse rimasto in trance. – No, davvero – disse lentamente, nel tentativo di riprendere il filo della conversazione. – Non è un peccato. Non era così importante –

Qualcosa gli si fermò in gola. Da quando una semplice bugia lo faceva sentire così… sporco?

E perché, dannazione, perché non riusciva a scrollarsi di dosso quel senso di angoscia che lo perseguitava anche da troppo tempo?

Michelle gli diede una risposta che lui non ascoltò e a cui rispose a sua volta senza nemmeno pensarci, per poi rimuovere tutto dalla propria mente.

Rimuovere, sì. Era l’unica soluzione. Parlare e cancellare ogni parola, dormire e dimenticare ogni sogno, vivere e mettere da parte ogni cosa.

 

 

Tom si riscoprì molto sorpreso di constatare che, in quegli ultimi giorni, Bill sembrava decisamente inquieto. Se ne stupì non perché non se lo aspettasse, ma perché questa si era rivelata la conferma alle sue ipotesi. Ed era molto, molto strano che riuscisse a capire cosa passasse per la testa di Bill.

Aveva notato un cambiamento persino nel suo stesso modo di affrontare la situazione. Forse era a causa di quei brevi momenti in cui Bill aveva mostrato la propria fragilità, forse era la forza dell’abitudine, ma a Tom sembrava di vivere in quella casa da oltre un anno. Avrebbe quasi potuto definirsi tranquillo e sereno, se le circostanze non fossero state quelle che invece erano. In verità, dopo quella conversazione telefonica con sua madre, si sentiva svuotato, come se non avesse neanche voglia di provare rabbia o rancore.

Aveva meno voglia di sforzarsi per comportarsi in un certo modo con il gemello, ma questo, probabilmente, succedeva perché era convinto che un giorno o l’altro sarebbe stato lo stesso Bill a cambiare nei suoi confronti. Non sapeva se avrebbe dovuto mettere da parte quella curiosa speranza, ma quella era lì, intaccava fermamente il suo cervello e sembrava aver intenzione di rimanere dov’era.

Bill era meno aggressivo. Sembrava semplicemente stanco. E Tom sapeva –o forse cercava di convincersene- che, a un certo punto, una molla sarebbe scattata. Un giorno, Bill gli avrebbe raccontato come aveva passato quei tre anni lontano da lui, gli avrebbe rivelato come era morta Haylie.

Se solo ci avesse creduto davvero…

 

Quella sera, Bill sembrava più agitato che mai e Tom avrebbe dato qualsiasi cosa per conoscerne il motivo. Al ritorno dal lavoro, il gemello lo aveva a malapena salutato, per poi issare nuovamente quell’odioso muro che li teneva più lontani di quanto non fossero mai stati. Tom lo aveva guardato consumare frettolosamente la cena e poi ritirarsi in camera da letto, lo aveva visto rigirarsi come un ossesso tra le coperte, chiedendosi cosa lo tormentasse.

Era semplicemente il ricordo di Haylie, la cui fotografia non si era mai spostata dal suo comodino? Era il fatto che lei non ci fosse più? O c’era qualcos’altro, qualcosa di ancora più profondo e martellante?

Sbuffando, si tirò le coperte fin sopra la testa e si costrinse a dormire. Avrebbe voluto tornare indietro e avere sedici anni, per non credere all’esistenza dell’amore e pensare solo a divertirsi.

 

Bill si rigirò per l’ennesima volta, affondando la faccia nel cuscino. Non riusciva a dormire, ma allo stesso tempo non si sentiva neanche completamente sveglio. Calciò via la coperta, sentendo improvvisamente un caldo insopportabile, poi se la tirò su fino alla vita, voltandosi nuovamente su un fianco.

Era strano, era orribile. Si sentiva come se stesse correndo a perdifiato, come se stesse scappando, cercando di raggiungere una meta che neanche lui conosceva. Aveva cominciato a sudare, ma sentiva freddo, come se si fosse trovato sotto la doccia e avesse girato improvvisamente il rubinetto, passando dalla temperatura del Sahara a quella del Polo Nord. Gli pareva di sognare anche se era sveglio, di essere tormentato da un incubo dopo l’altro anche se i suoi occhi erano aperti.

Si mise a sedere sul letto, ma un improvviso senso di vertigini lo costrinse a bloccarsi, aggrappandosi al bordo del materasso. Non osò aprire gli occhi, perché sicuramente avrebbe visto la stanza girargli intorno, ma poi si costrinse a tirarsi su, appoggiandosi al comodino con mani tremanti. Mosse un incerto passo in avanti, socchiudendo le palpebre e senza neanche rendersi conto del tremore che si era impadronito delle sue ginocchia. La stanza non gli girava intorno, ma non era altro che una macchia sbiadita davanti ai suoi occhi.

Barcollando, cercò di oltrepassare il letto, ma un altro giramento di testa lo obbligò ad afferrare la testata per non cadere. Sentì il cuore accelerare i battiti, ma non ne distinse il rumore.

Quando il respiro si fece più affannoso, tornò a sedersi sul letto, appoggiando la schiena sui cuscini e passandosi le mani sul viso, nel tentativo di scacciare quel malessere. Ma lui continuava a sentirsi come se un fantasma, appostato dietro di lui, ridesse della sua sofferenza…

Doveva mandarlo via… doveva mandarlo via o sarebbe impazzito…

Quando riaprì gli occhi, non vide più la macchia sfuocata, ma una figura che si stagliava nettamente sullo sfondo della camera da letto.

Non vide altro che un corpo interamente coperto da un lenzuolo.

 

Volevano che lui non li vedesse mentre la coprivano con quel lenzuolo, come se questo avesse potuto cambiare le cose. Volevano che lui la lasciasse.

- HAYLIE! – urlò con tutto il fiato che aveva. Due mani lo afferrarono saldamente per le spalle, ma lui si divincolò furiosamente. – NO! NON POTETE! NON POTETE MANDARMI VIA! –

- Herr Kaulitz, la prego… -

- NO! – Voleva solo liberarsi da quella stretta e uccidere tutti quelli che in quel momento si trovavano lì, voleva che lo lasciassero solo con lei, voleva che lei si alzasse e gli dicesse che stava bene…

- …la prego, esca di qui –

Quel corpo coperto dalla sottile stoffa bianca…

- NO! HAYLIE! HAYLIE! –

…quel corpo fu l’ultima cosa che vide prima che lo portassero fuori di peso.

 

- NOOOO!

Tom si svegliò di soprassalto, e per un istante non riconobbe neanche il timbro di quel grido che aveva squarciato la notte. Tirò giù le coperte, mettendosi seduto di scatto, e non ebbe nemmeno il tempo di chiedersi cosa fosse successo, perché fu subito colpito dalla vista di Bill, rannicchiato su se stesso nel suo letto, il viso affondato tra i pugni chiusi.

- Bill! – Saltò giù dal letto, precipitandosi accanto al suo: il gemello aveva ritirato le ginocchia al petto e sembrava volersi difendere da una scarica di pugni, il suo corpo era scosso da un tremito incontrollato e il respiro irregolare era suggerito dal sussultare continuo delle sue spalle. – Bill, che succede? – esclamò Tom, la voce ancora impastata di sonno ma carica di ansia.

- No… Haylie… no… - balbettò il moro, stringendosi delle ciocche di capelli tra le dita e non accennando a smettere di tremare. Tom lo afferrò per una spalla, scuotendolo e costringendolo ad alzare la testa. Gli occhi di Bill, spaventosamente vitrei, fissavano il vuoto. – E’ colpa mia… è colpa mia! – gemette, chiudendo il pugno intorno a un lembo della maglia di Tom. Quest’ultimo non sapeva se fosse stato un gesto volontario o meno, sapeva solo che Bill era terrorizzato e, soprattutto, incosciente.

- Che vuoi dire? – mormorò a fior di labbra, stringendo la presa sulla sua spalla. – Cosa significa che è colpa tua? – Ma Bill non fece altro che scuotere la testa, seguitando ad ansimare.

- Haylie… no… perché? – Tom si ritrovò a guardarlo con le sopracciglia aggrottate e le labbra socchiuse, in attesa. La paura gli si era fermata da qualche parte nello stomaco, la bocca gli si era improvvisamente seccata, i pensieri avevano interrotto il loro corso. – Colpa mia… è solo… colpa mia… -

- Bill… - La sua mano allentò di poco la presa sulla spalla del fratello, scivolando sul suo braccio. Dalle labbra del moro non uscì altro che un sommesso “no”. Il tremore era diminuito appena, ma Bill continuava a sudare. Sembrava un bambino svegliato da un brutto sogno, e Tom si chiese quanto simile a un incubo potesse essere la vita di suo fratello.

Ma soprattutto, il vederlo così gli fece acquisire una nuova consapevolezza.

Avrebbe voluto abbracciarlo. Avrebbe voluto che quel muro crollasse una volta per tutte, avrebbe voluto stringerlo a sé e sentirlo sfogarsi tra le sue braccia. Avrebbe voluto sentirsi ancora un fratello per lui.

Il respiro di Bill si regolarizzò, ma lui non sembrava ancora cosciente. Tom deglutì, strofinando leggermente una mano sul suo braccio, come per riscaldarlo. Le dita di Bill lasciarono la stoffa della sua maglia. – Sta’ calmo – sussurrò, fissando i suoi occhi vuoti. – E’ tutto passato, Bill… tutto passato –

Non vi fu risposta se non il suo respiro, rumoroso ma ormai regolare. Tom gli poggiò le mani sulle spalle, tentando cautamente di accompagnarlo con la testa sul cuscino, mentre lui chiudeva gli occhi e i suoi muscoli si distendevano.

- Stai tranquillo… sono qui – mormorò, più a se stesso che a Bill, tirandogli la coperta fin sotto il mento. Si allontanò lentamente, un passo dopo l’altro, in silenzio. E fu quando si sedette sul proprio letto e vide Bill girarsi su un fianco e abbracciare il cuscino che si rese conto che no, non era affatto tutto passato.

 

 

 








Capitolo sconclusionato -.-‘ A parte la fine, che amo.

Innanzitutto buona domenica^^

Scusate il ritardo, è che (tanto per cambiare) sono stata brutalmente privata di Internet per un paio di giorni.

La canzone? No, non ve lo dico. Mi rifiuto. Categoricamente.

…ok. Sempre “Milioni di cose che non ti ho detto” by Raf.

Sweet Dreamer: Grazie cara :-* Per questa volta sei perdonata ù.ù che non succeda mai più! *scappa mentre un’orda di lettrici la picchia a sangue* Cooomuuunque… una delle più belle? *_* Oddei… forse è un po’ esagerato, ma ti ringrazio!

angeli neri: Ok, mi ritengo principale colpevole delle tue notti insonni XD Mi dispiace cara, credo che dovrai aspettare *se la ride* Però ti consiglio di evitare troppe abbreviazioni e parole poco gentili nelle recensioni, credo siano vietate… e di certo io non voglio perdere una lettrice fedele come te! :-*

noirfabi: Sei qui *.* non sparire più, ti prego!! Le tue parole sono rigeneranti per il mio ego XD Intanto mi hai messo la pulce nell’orecchio e per questo ti maledirò a vita, disgraziata! Voglio sapere subito cos’ha partorito il tuo cervellino (magari non qui, davanti a tutti i lettori)!!! Per il resto…beh, spero di non deluderti!

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Capitolo 10
*** Ritorno di fiamma ***


Capitolo 10 – Ritorno di fiamma

Capitolo 10 – Ritorno di fiamma

 

Quella mattina non ci fu nessun rumore ad accompagnare il suo risveglio. Niente piatti rotti, niente rubinetti aperti, niente passi lungo il corridoio.

Sbadigliò sonoramente, calciando via le coperte. Doveva essere domenica.

Gli bastò aprire un occhio per rendersi conto che la stanza era ancora immersa nell’oscurità. E, quando aprì anche l’altro, distinse chiaramente la figura di Bill raggomitolato nel suo letto, all’altro capo della stanza.

La sua mente si riempì di immagini della notte precedente quando si alzò e percorse il corridoio in direzione della cucina: Bill che tremava nel suo letto, balbettando frasi sconnesse, lui che tentava di riportarlo in sé…

“E’ colpa mia”.

Chissà se Bill avrebbe ricordato quei minuti, se una piccolissima parte di lui fosse stata cosciente, quella notte. E dire che, per un attimo, aveva pensato che tutto sarebbe tornato come prima. Era curiosa, la sequenza di immagini che aveva percorso la sua mente, mentre cercava di calmare il fratello: Bill che si scuoteva improvvisamente, lo vedeva lì accanto a sé e poi si sfogava, dicendogli tutto quello che avrebbe dovuto dirgli molto prima, dando libero sbocco a tutte le lacrime che aveva trattenuto davanti a lui.

Sarebbe stato veramente troppo facile, troppo bello per essere vero.

Tom si bloccò in fondo al corridoio, non ancora del tutto sveglio. Invece che girare a sinistra ed entrare in cucina, aveva proseguito fino alla porta chiusa dello stanzino che aveva usato come camera da letto più di due mesi prima. Rimase fermo di fronte ad essa, lo sguardo galleggiante tra la maniglia e la sommità scrostata della porta, la sequenza di immagini ormai bloccata.

Non c’era nessuno a dirgli “aprila!”, né un motivo realmente esistente per cui dovesse farlo. Non aveva nessun presentimento, nessun bisogno di guardare dentro, fu la sua stessa mano a muoversi in avanti e abbassare la maniglia.

Sporse la testa dentro la stanza e si guardò intorno, come alla ricerca di qualcosa, di un particolare che in passato gli era sfuggito. L’ambiente era praticamente vuoto, salvo i due armadi chiusi e…

Tom socchiuse gli occhi, volgendo lo sguardo verso l’alto. Adesso sì che ricordava. Fu come se, nella sua testa, si fosse accesa una lampadina. In cima agli armadi c’erano mucchi di scatoloni polverosi, chiusi ermeticamente con dello scotch da pacchi. Ricordò di averli visti la prima volta che era entrato nello stanzino, per poi rimuoverli del tutto dalla propria mente. Ma gli bastò rivederli perché la sua curiosità venisse stuzzicata.

Voleva qualcosa che lo aiutasse a capire. E, forse, quelle scatole…

Richiuse la porta alle proprie spalle, con un fastidioso pizzicore in gola. No, non era giusto. Non poteva violare i ricordi di Bill. Anzi, forse il contenuto di quegli scatoloni non c’entrava nulla, con quello che voleva scoprire.

O forse non c’era neanche, il qualcosa da scoprire.

Si diresse in cucina con l’immagine degli scatoloni e del loro ipotetico contenuto ancora stabile nella mente, ma fu costretto a scacciarla quasi subito perché Bill fece la sua entrata appena pochi minuti dopo, mentre lui era intento a cercare qualcosa di commestibile nel mobile sotto il lavandino. – Buongiorno – lo salutò, quasi stupito di vederselo spuntare davanti.

-giorno – rispose Bill, la voce ancora impastata di sonno, strofinandosi le palpebre con le mani. Prese posto al tavolo della cucina, sbadigliando, mentre Tom continuava a rovistare. Passò qualche minuto prima che Bill, un po’ più sveglio, intervenisse: - Guarda che non c’è niente là dentro. Non mangio mai, a colazione –

- Ah – Tom richiuse gli sportelli e andò direttamente al frigorifero, appuntandosi mentalmente di comprare qualcosa per colazione. Presto o tardi, il latte gli sarebbe uscito dalle orecchie. Quando ebbe riempito due bicchieri, andò a sedersi anche lui. La sua mente fu attraversata da un pensiero che lui tradusse in parole senza neanche volerlo. – Quando andavamo in giro con il gruppo, eri quello che a colazione ingurgitava mezzo buffet, in hotel –

Bill sembrò spiazzato da quella considerazione, ma continuò a bere il suo latte. Dopo qualche secondo, mise giù il bicchiere. – Beh, era diverso – disse lentamente. – Facevamo una vita pesante –

- Però era divertente, vero? – Tom si rigirò il bicchiere tra le dita, fissandolo fino quasi a ipnotizzarsi. Perché faceva quei discorsi? Dove voleva andare a parare?

- Non lo so… - Contrariamente a quanto si aspettasse, il tono di Bill non era affatto scontroso. Sembrava solo confuso. – Devo averlo dimenticato –

Quell’ultima affermazione fece ricordare qualcos’altro a Tom.

- Hai… hai dormito bene, stanotte? – Bill lo guardò interrogativo.

- Perché, scusa? – L’altro alzò le spalle, cercando una scusa plausibile.

- Così. Io stavo morendo di caldo –

Bill assunse un’aria assorta e parve cercare qualcosa nei propri ricordi. – Sì. Caldo – disse lentamente. Quel particolare sembrava dirgli qualcosa. Ma cosa? – Devo essermi svegliato – Aggrottò appena le sopracciglia, cercando di focalizzare le poche immagini che erano improvvisamente apparse davanti ai suoi occhi, ma non riuscì a trovare nulla che gli dicesse qualcosa di sensato. - …ma nel complesso ho dormito bene, sì – concluse, e Tom non dubitò che ne fosse perfettamente convinto. Dunque non ricordava davvero nulla della notte passata.

Calò il silenzio. Il biondo si ritrovò a chiedersi fino a quando sarebbe durato il nuovo comportamento di Bill, quando avrebbe ricominciato ad aggredirlo per ogni sciocchezza.

La verità era che la vita di suo fratello era così tristemente vuota che persino quei piccoli sfoghi dovevano essere indispensabili per lui. Haylie non c’era più e nessuno l’avrebbe fatta tornare indietro, la bambina di cui era rimasta incinta anni prima non aveva neanche iniziato a vivere. E anche lui l’aveva lasciato solo, e adesso stava solo scontando la punizione per averlo fatto.

Cosa mai avrebbe potuto restituire a Bill almeno una parte di ciò che aveva perduto?

- Bill – Si sentì chiamarlo senza che dal suo cervello partisse il comando, e l’interpellato alzò la testa, guardandolo con un sopracciglio alzato. – Secondo me dovresti ricominciare a cantare –

- Che cosa? – Il moro lo guardò come se il gemello gli avesse proposto di progettare una bomba atomica.

- Hai più scritto qualcosa da quando il gruppo si è sciolto? – gli chiese Tom, ignorando la sua reazione. I lineamenti di Bill si indurirono.

Eccolo qui, sta per innervosirsi di nuovo.

- Il gruppo si è sciolto quando tu l’hai lasciato – disse tra i denti.

- D’accordo, è vero. Lo so che ho sbagliato. Volevo solo sapere se, dopo che tu hai… dopo che ti sei preso una pausa, hai messo da parte qualche testo, qualche canzone… -

Le labbra di Bill erano ancora strette, ma il ragazzo parve calmarsi. – No. Non né ho avuto la voglia né l’occasione –

“Come immaginavo” avrebbe voluto rispondere Tom, ma qualcosa gli disse che era meglio non approfittare dell’apparente calma del gemello. Si chiese se quel suo modo di trattarlo non fosse in realtà la paura di vederlo in preda a un’altra crisi di panico, o qualsiasi cosa fosse. – Perché non riprovi? – si limitò a chiedergli.

- A dire la verità, non ci ho neanche pensato – disse Bill, con una strana espressione diffidente. – E poi scusa, cos’è questo improvviso… interessamento? –

Tom pensò che fosse meglio interrompere la conversazione, perché l’umore di Bill rischiava di peggiorare da un momento all’altro. – Niente, ci pensavo stamattina e mi sembrava giusto parlartene, ecco –

- Ah, ok – Bill alzò le spalle, spingendo indietro la sedia. Tom rimase a guardarlo mentre raccoglieva i bicchieri e li sistemava nel lavandino, per poi aprire il rubinetto e lasciare che l’acqua scorresse lentamente.

- Beh, io… vado in bagno – lo informò infine, alzandosi a sua volta. Bill annuì senza dire nulla, sciacquando accuratamente i bicchieri, e Tom lasciò la cucina, dirigendosi nel bagno.

Quando entrò nella cabina della doccia e regolò al massimo il getto dell’acqua, i pensieri ripresero il via libera, concentrandosi sulla breve conversazione sostenuta con Bill poco prima.

Già, una conversazione vera. Tom si meravigliò nel constatare che non era saltata fuori nessuna parola velenosa, nessun’occhiata sprezzante in più di un quarto d’ora. Certo, Bill aveva accennato al suo abbandono del gruppo, ma era bastato poco perché la sua espressione si rilassasse. Un vero record, considerato che convivevano ormai da circa due mesi.

La sua concentrazione si spostò sull’argomento musica. Quel poco che Bill aveva detto in proposito era bastato a convincerlo del fatto che il gemello non ne sentisse la mancanza soltanto perché l’aveva rimossa del tutto dalla propria esistenza. Tom non aveva faticato a credergli quando lui aveva detto di non ricordare come fosse la vita ai tempi dei Tokio Hotel.

E poi c’erano ancora quegli scatoloni in cima agli armadi…

Sospirando, arrestò il flusso dell’acqua e infilò le braccia nell’accappatoio, uscendo dalla doccia. Si fermò davanti allo specchio e si appoggiò al lavandino, guardando sconsolato il proprio riflesso.

Buongiorno, Sexgott. Sei messo proprio male.

Tornò in camera da letto, ancora avvolto nell’accappatoio, per cercare dei vestiti puliti, e trovò Bill che rassettava il proprio letto. Le tapparelle erano alzate e, finalmente, la stanza vedeva un po’ di luce. Tom fece come per aprire l’armadio, quando il suo sguardo fu attirato da un particolare che gli era sfuggito: sul comodino di Bill c’era solo una lampada. La fotografia di Haylie era sparita.

In quel momento, il cervello di Tom avrebbe potuto riempirsi di domande fino a scoppiare, ma quella vista gli causò l’effetto contrario: la sua mente si svuotò del tutto.

Chissà quanto ricordasse Bill della notte passata, in realtà

Il moro si accorse dello sguardo fisso di Tom e lo guardò a metà tra lo stupito e l’allarmato. – Che c’è? –

Tom lo fissò per qualche istante, per poi tornare a contemplare il comodino.

- E’ per quello che non vuoi più tornare col gruppo, vero? –

Bill lanciò un’occhiata verso il proprio comodino, come se non avesse capito le parole del gemello, poi distolse lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore.

- Perché hai tolto la foto? –

Tom deglutì, dopo avergli posto quella domanda, sicuro che a quel punto Bill si sarebbe messo a urlare, ma non poté trattenersi dal chiederglielo.

- Non posso tenerla – mormorò invece Bill, a voce talmente bassa che Tom lo sentì appena.

- Perché? – Bill strinse i pugni.

- Non posso e basta –

Il biondo si ritrovò a guardarlo come se gli avesse rivolto un’offesa personale. Quali ragioni poteva mai avere Bill per eliminare Haylie dalla propria vita? Da quando aveva cominciato a lasciarsi andare? Voleva cessare di vivere a poco a poco, voleva morire anche lui?

Lo fissò per qualche istante, mentre finiva di sistemare la coperta e rimboccarla sotto il cuscino.

- Sai… - disse lentamente, mentre Bill gli voltava le spalle per mettere a posto la lampada, scivolata di lato sul comodino. – In un certo senso invidio il tuo modo di essere. Al tuo posto, non so se… se riuscirei ad andare avanti come te –

Bill si bloccò nel sentire quelle parole, e per qualche secondo Tom pensò che avesse smesso di respirare. Poi si voltò con estrema lentezza, gli occhi ancora fissi a terra, le sopracciglia aggrottate.

- …mi invidi? – gli uscì detto in un soffio, al che Tom si rese conto che quella parola, pronunciata da lui, assumeva tutt’altro significato. O forse era Bill stesso a volerle dare una traduzione diversa. Alzò il viso e fissò il gemello. – Per favore, Tom – disse, scandendo piano ogni parola. – Non dire mai più una cosa del genere –

La camera da letto fu invasa dal silenzio mentre Bill, distolto nuovamente lo sguardo, spingeva indietro il cassetto del comodino, aperto per metà, e poi abbandonava la stanza, senza accelerare il passo o sbattere la porta.

 

“Cos’è successo, che cosa siamo diventati?

Dovevamo andare lontano,

non è andata così…”

 

A Tom capitò spesso di ripensare a quell’episodio, nei giorni che seguirono. Gli pareva di avere ancora davanti agli occhi il volto di Bill, irrimediabilmente segnato dal dolore.

Persino quel pomeriggio, imprigionato come al solito dietro al bancone del bar e intento a mettere a mollo le tazzine in cui gli ultimi clienti avevano bevuto un caffé, non aveva smesso un attimo di rimuginare. Curioso pensare come il suo approccio con Bill fosse passato da un eccesso all’altro, dalla totale assenza alla sovrabbondanza di parole.

Già, aveva decisamente parlato troppo.

In effetti, non aveva detto nulla di terribile. Era la verità, lui non sarebbe riuscito a tenere duro in una situazione del genere. Ma Bill l’aveva guardato in un modo tale da farlo pentire immediatamente di averlo anche solo pensato.

- Un espresso e un bicchiere d’acqua frizzante, per favore –

Tom stava quasi per eseguire senza neanche guardare in faccia l’interlocutore, ma la voce familiare con cui era stata fatta quella richiesta lo costrinse ad alzare lo sguardo.

- Che ci fate qui? – esclamò, trattenendo a stento una risata.

A rispondere fu un sorridente Gustav, seduto davanti al bancone accanto ad un altrettanto sorridente Georg.

- Beh, dopo la visita a casa mia sei sparito di nuovo e così abbiamo deciso di ricambiare la cortesia –

- E come avreste fatto a raggiungermi fin qui? – lo apostrofò Tom con finto tono canzonatorio. Per un attimo arrivò addirittura a pensare che avessero chiesto a Bill dove poterlo rintracciare, ma si rese conto che ciò era praticamente impossibile.

- Non credo ci siano molti spilungoni rasta con i vestiti di King Kong e il cappellino, qui intorno – replicò distrattamente Georg. – Basta chiedere in giro a chi faccia un minimo di vita sociale – soggiunse con un ghigno divertito.

- Oh, beh… - Tom si asciugò le mani sull’orrido grembiule bordeaux che era ancora costretto a portare. – Cos’è che volevate? Un espresso e…? –

- Ma smettila! – esclamò Georg, alzando gli occhi al cielo. – Sembri quasi una persona seria! –

- Comincio a pensare che avremmo dovuto aspettare che ti rifacessi vivo – commentò Gustav, scuotendo la testa con aria di sufficienza. – Non so se mi riprenderò mai dalla visione di Tom Kaulitz in grembiule o, peggio, dietro il bancone di un bar o, peggio ancora, che lavora!

Anche Tom scosse la testa nel momento in cui Gustav gli assestò una sonora pacca su un braccio, scoppiando a ridere. – E io che dovrei dire di voi due che ve ne andate sempre a spasso insieme? Ma siamo sicuri che tu sei sposato?

- Questo è un colpo basso, Kaulitz –

Se da un lato era fantastico ridere e scherzare come se quei tre anni non fossero mai passati, dall’altro era deprimente rendersi conto che ridere e scherzare era molto più facile con gli amici che con un fratello.

- Vabbè. Siete venuti per un motivo serio e preciso, o volevate solo assicurarvi che fossi vivo? –

- Un po’ tutte e due – rispose Georg, appoggiando un gomito sul bancone. – Almeno la risposta al secondo interrogativo ce l’abbiamo davanti –

- Quando ci siamo visti ti eri appena sistemato, sbaglio? – gli chiese invece Gustav.

- Veramente non sono ancora del tutto “sistemato”, comunque… sì, diciamo di sì –

- Beh, e ora come te la passi? –

Tom alzò entrambe le mani, esibendo uno straccio nella destra e una tazzina nella sinistra. – Così –

- PeròGeorg alzò le sopracciglia, sogghignando. – Forse ti ci voleva, una bella svolta. E’ emozionante? –

- Da morire – sospirò il biondo, ricominciando a strofinare la tazzina.

- Non dirmi che non hai più ripreso la chitarra in mano! – intervenne Gustav, con un tono che sottintendeva una risposta affermativa. Ma gli bastarono i pochi istanti di silenzio che seguirono per rendersi conto di essersi sbagliato. – No, ma dài… - cominciò, come se Tom lo stesse prendendo in giro.

- E no, scusa, cosa avrei dovuto fare da solo? –

- Il Tokio Hotel tarocco – intervenne Georg, ridacchiando.

- Idiota – lo apostrofò Gustav, il quale non soleva fare uso di appellativi come quello solo per scherzare. – Dài Tom, non mi dirai che è bastato allontanarti per qualche anno per farti smettere con la musica! –

- Te lo ripeto, Gustav, da soli non si combina nulla – Tom lanciò uno sguardo all’orologio: fortunatamente mancava solo un quarto d’ora scarso e poi avrebbe staccato. – Perlomeno, io non combino nulla. Perché, forse avete riunito i Tokio Hotel e siete rimasti in due?

- Certo che no, però io non ho messo da parte la batteria –

- Né io il basso – precisò Georg.

- Beh, buon per voi – Tom si strinse nelle spalle. – Io non ci sono riuscito –

Gustav scosse pensosamente la testa. – Che delusione – Cercò di far assumere un tono sarcastico alla propria esclamazione, che tuttavia risultò l’esatta traduzione dei suoi pensieri.

- Mi dispiace – disse Tom, accennando un sorriso. – Dovrete farvene una ragione –

- Questo te lo scordi – replicò fermamente Georg. – A proposito, quando stacchi? –

- Tra poco, appena l’accalappiacani mi il via libera – rispose, indicando Hans con un cenno del capo. L’uomo non sembrò cogliere il sarcasmo né tanto meno sentire le sue parole. Probabilmente il significato della parola “accalappiacani” gli era ignoto.

Come Tom aveva previsto, Hans lo congedò meno di dieci minuti dopo, liquidandolo con un burbero “lascia, finisco io”.

- Finalmente! – esultò Georg quando tutti e tre si trovarono fuori dal bar. – Mi ero fatto un culo esagonale –

- Comincio a pensare che in questi tre anni tu sia regredito – lo rimbeccò Tom. – Mi sa che l’amore non fa bene neanche a te –

- Certo che voi due… - cominciò Gustav, guardandoli stranito. – Vabbè, dài, passiamo a cose serie. Hai impegni stasera? –

- Spiacente di deluderti, ma al momento la mia vita sociale si riduce alle ore che passo al bar. Perché? –

- Le nostre care consorti si sono defilate in quella che chiamano “una serata tra ragazze” – spiegò Gustav, mettendo su un’aria rassegnata. – Se non hai niente in contrario, propongo una seconda rimpatriata –

Tom gettò un’occhiata al cielo già scuro. – Sarò dei vostri – disse infine. – Però… beh, forse dovrei dire a Bill di non aspettarmi –

Gustav e Georg si scambiarono uno sguardo mentre Tom tirava fuori il cellulare e componeva il numero, poi, quando lo avvicinò all’orecchio e aspettò che Bill rispondesse, Gustav tradusse in gesti un “se vuoi, dì anche a lui di venire”. Tom rimase interdetto mentre il telefono squillava e, quando dall’altra parte si udì un “pronto?”, non rispose all’istante.

- Pronto? – ripeté la voce di Bill, con una sfumatura di irritazione.

- Sono io – disse infine Tom, riprendendosi.

- Ah – Pausa. – Beh… che c’è? –

- Niente, volevo dirti che… che stasera sono… - Le espressioni di Gustav e Georg non erano quelle di chi spera in un rifiuto, ma Tom mise immediatamente da parte l’ipotesi di inoltrare al fratello la loro proposta. - …sono da amici, quindi non mi aspettare, ok? – Dall’altra parte, per qualche secondo si udì solo il respiro di Bill.

- D’accordo – disse poi. – Guarda che non c’è bisogno che mi chiedi il permesso. Ci sarà un motivo se ti ho dato le chiavi di casa, no? –

Tom non poté fare a meno di pensare che Bill stesse perdendo colpi: il suo tono non era più così aggressivo.

- Vabbè, volevo avvisarti. Allora buonanotte –

- Buonanotte –

Georg sospirò quando Tom interruppe la conversazione, riponendo il cellulare nella tasca dei jeans. – Ma perché non gliel’hai detto? Non siamo mica litigati –

- Lo so, ma prima vorrei parlarvi di una cosa –

Per un attimo, Tom aveva pensato che l’invito da parte di Gustav fosse una semplice forma di cortesia, ma non ci volle molto per rendersi conto che i due amici erano davvero dispiaciuti per l’assenza di Bill. Chissà perché suo fratello aveva interrotto totalmente i contatti con chi gli voleva sinceramente bene. Perché era ovvio che Gustav e Georg gli volessero bene, anche dopo essere stati esclusi del tutto dalla sua vita.

Tom tirò fuori l’argomento quando arrivarono a casa.

- Ragazzi, voi… state bene così? –

- In che senso? – Georg lo guardò senza capire.

- Così, intendo, senza il gruppo. Forse adesso state meglio, questa vita vi piace di più –

- Che cazzata, Tom – Il ragazzo fece un rapido gesto con la mano. – Naturale che mi manca. Ma se non c’è, non c’è e basta. Vivo bene e sono felice, se è questo che vuoi sapere. Ma è ovvio che se i Tokio Hotel esistessero ancora lo sarei di più –

- Non capisco dove vuoi arrivare – disse invece Gustav, scrutandolo attentamente.

- E tu? Sei d’accordo con lui? – gli chiese Tom, ignorando le sue parole.

Gustav si strinse nelle spalle. – Non lo so, è come se avessi perso il senso del gruppo. Non riesco a immaginarmi come sarebbe. Ma perché ce lo chiedi?

- Io… penso che, se Bill provasse anche solo a ricordare com’era la nostra vita allora, gli mancherebbe da morire – disse, stringendosi nella propria felpa. Georg gli rivolse una seconda occhiata interrogativa.

- Ma perché vai a enigmi, oggi? Non puoi dire chiaramente cosa ti passa per la testa? –

- Ho cominciato a chiedermi come sarebbe tornare a essere i Tokio Hotel, tutti e quattro – disse lentamente il biondo, come se stesse parlando con se stesso più che con gli altri due. – Non parlo dei viaggi in tourbus o cose del genere, mi riferisco al gruppo di cui parlavi tu, Gustav. E’ una storia talmente vecchia che ce ne siamo dimenticati… e questo non è giusto –

Il breve discorso fu seguito da una pausa di riflessione, durante la quale Tom non guardò in faccia né GustavGeorg. Ed era sicuro che neanche loro lo stessero guardando.

- C’è solo una cosa che non capisco – disse infine Gustav, a voce piuttosto bassa. – Per chi lo stai facendo, Tom? Per noi, per te, o per Bill? –

- Credo di essere l’ultima persona per cui vorrei farlo – Tom seguitò a non guardare nessuno dei due. – Non so fino a che punto il gruppo mi servirebbe, o io servirei al gruppo –

- Ma cosa…? – fece per insorgere Georg, scandalizzato.

- Non dirmi che è una cazzata, Georg – lo interruppe pacatamente l’altro. – Senza di me siete andati avanti magnificamente. E io dubito di saper ancora maneggiare una chitarra –

Georg lo fissò ammutolito, come se le sue parole lo avessero offeso profondamente. Gustav, invece, sorrideva, e il suo era quel sorriso capace di infondere tranquillità e fiducia a chiunque.

- E’ un po’ presto per le crisi di mezza età, non ti pare? – chiese a Tom, senza ombra di rimprovero. – E’ questo il tuo problema, vero Tom? Pensi di non servire a niente e a nessuno – L’ultima non era una domanda, ma un’affermazione. Tom non annuì, ma non fece neanche segni di diniego. Rimase semplicemente a fissare le proprie dita intrecciate attorno a un ginocchio, senza dire nulla. – Beh, credo di poter confutare la tua teoria in entrambi i punti. Il gruppo ha cominciato a fare profondamente schifo dal momento in cui tu l’hai lasciato e, se sei convinto di non saper più suonare una chitarra, ne deduco che è parecchio tempo che non ne prendi in mano una – Pausa. – Cosa ne hai fatto, della tua chitarra? –

- Me ne ero portato dietro solo una, quando sono partito – rispose lentamente Tom, rimanendo immobile. – Me la sono scarrozzata per qualche mese e poi… - Deglutì. - …l’ho venduta –

- Cosa hai fatto?!Georg parve sul punto di soffocare, ma Gustav riprese la parola.

- Per quanto riguarda il secondo punto della tua teoria, direi che noi del gruppo siamo persone. Se vuoi metterla sul campo pratico, ci servi anche troppo. E poi c’è anche qualcun altro che ha bisogno di te, in questo momento. Devo dirlo o lo sai già? –

Finalmente, Tom alzò lo sguardo, incrociando quello di Gustav, sereno e rassicurante. Ma lui non riuscì a sorridere. – Bill non ha bisogno di me. Lui ha bisogno di Haylie

- Senti, Tom, non farmi recitare la parte dello psicologo. E’ un bisogno del tutto diverso. Haylie, che noi lo vogliamo o no, non c’è più. Tu invece ci sei, e sei qui per lui. Non costringermi a ricordarti che vivevate in simbiosi, voi due, che vi eravate costruiti un mondo tutto vostro, un mondo che nessuno avrebbe potuto distruggere. Voglio pensare che tu te ne ricordi da solo – Seguì un altro silenzio. – Anzi, mentre ci pensi, vado a prendere una cosa – Gustav si alzò da divano e sparì in corridoio mentre lui rimuginava su quanto gli aveva appena detto.

Cosa voleva dire, Gustav? Che il motivo che non lo spingeva a cercare l’affiatamento e il calore del gruppo era uguale a quello di Bill? Che, dopo venticinque anni e nonostante tutto, erano sempre, irrimediabilmente uguali?

Sciocchezze. Lui non aveva bisogno di fama e palcoscenico. Se tentava di ricomporre il gruppo, era solo per Bill.

Un’ombra proiettata sul pavimento lo costrinse ad alzare lo sguardo. In piedi di fronte a lui, Gustav esibiva un sorriso a trentadue denti e una delle sue vecchie chitarre.

- Ma cosa… - L’amico gliela agitò davanti.

- Sorpresa! Sbaglio o, ai tempi dei Tokio Hotel, possedevi una ventina di chitarre? –

- Sì, però… -

- Non penserai che le avremmo bruciate! –

- No, ma… -

- Fanno la loro porca figura con chi le vede, sai? –

- Insomma, ti… - Tom tentò per l’ennesima volta di controbattere.

- E ora fammi il piacere di far uscire qualche nota da queste corde – concluse Gustav, lanciandogli praticamente lo strumento addosso. Tom lo acchiappò prima che questo si schiantasse contro una sedia.

- Ma sei scemo?!

- Oooh, e suona! – Da una parte, avrebbe volentieri picchiato Gustav con quella stessa chitarra, dall’altra il tenerla di nuovo tra le mani gli aveva provocato una sensazione che non avrebbe saputo spiegare. Percorse con lo sguardo le corde impolverate. – Qualsiasi cosa, la prima musica che ti viene in mente

Le dita di Tom passarono più volte lungo le corde, facendo sollevare quel poco di polvere che vi si era posata, poi le pizzicarono esitanti. Ne uscì un suono sconnesso, stridente. – Io non so se… -

- Devi solo accordarla – lo interruppe Gustav. – Il resto non posso certo essere io a spiegartelo –

Era giusto? Doveva rispolverare quel passato che non aveva più toccato, proprio come aveva fatto con le corde della chitarra? Ne sarebbe rimasto deluso, lo sentiva. Avrebbe deluso se stesso e i suoi amici, non sarebbe servito a niente.

Ma, prima ancora che lui decidesse di desistere e restituire la chitarra a Gustav, le sue dita avevano già ripreso a pizzicare le corde, come per prendere confidenza. Inizialmente, non ricavò che una semplice scala di note, tanto per provare, per capire se potesse andare avanti. Poi fece come gli aveva detto Gustav, prese la prima melodia che gli passò per la testa e la fece scorrere lungo le dita, lungo le corde, finché questa non diventò una morbida, malinconica sequenza di note.

E gli parve di sentire la voce di Bill accompagnare quella musica che tante volte aveva suonato in pubblico, davanti a uno stadio in delirio…

“In mir wird es langsam kalt…”

In die Nacht. La loro musica, la loro canzone.

Forse la stava suonando male, si disse, forse la stava letteralmente massacrando. Ma in fondo, cosa importava? La stava suonando per se stesso. Solo ed esclusivamente per se stesso.

Quando le note si esaurirono, rimase per qualche istante a contemplare la chitarra, chiedendosi come avesse fatto a vivere senza per tre lunghissimi anni.

- Non c’è che dire – intervenne Georg, sorridendo sotto i baffi. – Proprio un ritorno di fiamma –

 

 

 

 

 

 

Devo essere sincera: a guardarlo in foto, Gustav mi dà l’idea di una persona antipatica, ma come l’ho descritto qui lo adoro *__* cioè, voglio un amico così!

Invece scrivere la prima metà è stata una sofferenza, soprattutto le ultime righe prima della canzone (che naturalmente è sempre “Milioni di cose che non ti ho detto” di Raf).

E ora ringraziamo!!!

BigAngel_Dark: Ma perché lei è il male, non l’hai capito ancora? XD

noirfabi: ho letto attentamente la tua email e ti ho anche risposto. Devo dire che le ultime due righe della tua recensione sono particolarmente incisive X°D Che belo sapere che vi faccio venire i dubbi amletici *__* ti adoro!!

Sweet Dreamer: sono lusingata, commossa, elettrizzata, contenta, felice e immersa in un brodo di giuggiole!! Grazie mille carissima :-* E non osare chiedere venia perché non sarai accontentata! XD

FuckedUpGirl: Bia *_________* Sei qui! Non ci credo!!! Oh, Bia, Bia, quanto mi sei mancata… Sono qui a risponderti con gli occhioni luccicosi di lacrime (ma non temere, questa è più la febbre che la commozione XD) eppure ancora stento a crederci! Sono troppo contenta di risentirti, sai? Non pensavo che avessi letto questa storia, e sono doppiamente contenta che ti piaccia! Anch’io la preferisco al prequel, anche se non la trovo “spettacolare”, come dici tu. Spero di ritrovarti presto Bia :-***

rakith: Oh, ma certo che sopravviverò. Mi venderei l’anima per una recensione in più, anche se corta XD Basta che sia sincera! Beh, eccoti accontentata: io non ti faccio stare in pena, ma una ricompensina me la merito, no? *.* (X°°DDDD)

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Capitolo 11
*** Gli scrigni dei ricordi ***


Capitolo 11 – Gli scrigni dei ricordi

Capitolo 11 – Gli scrigni dei ricordi

 

“Domani sembrerà un giorno normale,

uno dei tanti a tutti gli altri uguale”

 

Mancavano due settimane a Natale e Bill non riusciva a capire se quei mesi gli fossero sembrati giorni o anni. La sua vita era talmente piena di cose che non gli interessavano da fargli perdere la concezione di tutto: del tempo, di se stesso, delle proprie emozioni… se poteva ancora provarne.

Provò a stilare un elenco di ciò che poteva includere nell’elenco di “cose inutili” della propria vita mentre, seduto al solito posto su quella sedia che ormai sentiva come parte integrante di sé, aspettava la chiamata delle solite famiglie in partenza per le vacanze.

Il lavoro in quell’agenzia si era guadagnato senza dubbio il primo posto. A volte si chiedeva ancora quale bizzarro scherzo del destino lo avesse portato a rinchiudersi tra quelle quattro mura.

C’era la vita in quella casa troppo grande per lui. Vero, adesso non era più lui da solo, ma era l’abitazione in sé, con i suoi mobili, le sue finestre e le sue stanze spaziose a farlo sentire come se non fosse realmente casa sua.

C’era il rapporto, ormai quasi inesistente, con sua madre. Simone era stata un punto di riferimento essenziale per lui subito dopo la morte di Haylie, o meglio, lui l’aveva considerata tale. Su quanti altri punti di riferimento avrebbe potuto contare? Cosa c’era a legarli? Stima o solitudine?

Simone era stata sempre presente, forse anche troppo. E allora perché tendeva a raccontarle sempre meno di sé, a sottrarsi alle sue domande e ai suoi tentativi di consolarlo, perché si sentiva come se lei l’avesse in qualche modo tradito?

Era assurdo, lo riconosceva. Ma era effettivamente così che si sentiva.

- Sì, signora, attenda in linea –

Volse lo sguardo verso la sua ormai stabile compagna di lavoro. Già, Michelle. Quella figura che, nella sua mente, andava sempre a collegarsi con quella di Simone, che pareva adorarla ogni giorno di più. Cosa mai poteva avere di particolare quella ragazza, oltre al fatto che sembrasse azionare il tasto “play” dei suoi ricordi per poi finire irrimediabilmente col farlo sentire uno straccio? Perché il suo sguardo, seppur così ingenuo e infantile, non mancava mai di inquietarlo?

Come se avesse avuto bisogno di uno stimolo, per ricordare…

 

Quando lo portarono fuori di peso, non aveva più voce per gridare, ma le lacrime parevano non dover finire mai, e lui le lasciò scorrere liberamente, stringendosi il busto tra le braccia e accasciandosi contro la parete bianca di quel luogo asettico.

- Haylie… - balbettò, chiudendo gli occhi e sentendosi scosso da un tremito. – Haylie… no… – singhiozzò piano, stringendosi di più tra le sue stesse braccia. Quando riaprì gli occhi a fatica, le lacrime li riempivano ancora, ma non gli impedirono di vedere che la sala d’attesa era vuota. Desolata come la sua anima.

Dov’era sua madre, dov’era Gordon, dov’erano tutti? Li aveva chiamati più di un’ora prima, quando tutto era cominciato.

“Non preoccuparti tesoro, se si libera un po’ la strada arriviamo in dieci minuti”.

Bugiardi… bugiardi loro che avevano trasformato dieci minuti in un’ora e mezza, bugiardo lui che gli aveva promesso che sarebbe tornato.

Era solo, e lo sarebbe stato anche al loro arrivo.

- Perché… perché? – Strinse i denti e abbandonò la testa all’indietro, contro il muro. – Dove sono… DOVE SONO TUTTI QUANDO UNO STA MALE?! –

Si accasciò su una sedia, il viso sepolto tra le mani, le lacrime che quasi lo soffocavano.

Piangere non serviva a nulla, ma lui pianse finché non sentì la testa dolergli e la gola bruciare, perché ormai niente sarebbe servito a niente.

Quando loro arrivarono, non li vide né li sentì. Solo molto tempo dopo avrebbe immaginato ogni loro movimento, ogni parola.

Simone si portò le mani alla bocca mentre un’esclamazione di stupore le moriva in gola. Tutto quello che venne dopo, lui lo percepì a malapena, perché il suo cuore era talmente gonfio da non lasciare spazio più a nessuna emozione.

- Oh, mio Dio… - balbettò appena Simone. Bill non alzò la testa, fu lei ad avanzare e abbracciarlo, abbracciarlo più forte di quanto non avesse mai fatto, affondando il volto tra i suoi capelli scompigliati. – Oh, BillyOh, tesoro… - mormorò come in una cantilena, cullandolo piano mentre lui, ancora seduto, si aggrappava al suo vestito e singhiozzava violentemente contro il suo grembo, sussultando tra le sue braccia.

Simone lo strinse più forte, Gordon gli sfiorò una spalla mormorando un sommesso “fatti coraggio”.

Non c’era nulla per cui farsi coraggio.

Haylie era morta. E le sue speranze, i suoi sogni, la sua musica… erano morti con lei.

 

L’intera giornata trascorse nel tedio più assoluto. Bill si chiese da quanti mesi andasse avanti non desiderando altro che ogni gruppo di ventiquattro ore si esaurisse il più presto possibile.

Quando fece per andarsene, si sentì chiamare.

- Bill, aspetta un attimo! –

Si girò, sorpreso, e vide Michelle richiudere in fretta i vari cataloghi sparpagliati davanti a lei. Dalle labbra non gli uscì altro che un incerto “sì?”.

La ragazza sorrise nervosamente, e Bill cercò di non chiedersene il perché. – Ascolta, volevo… volevo parlarti di una cosa –

Quella rivelazione non ottenne altro che far diminuire ulteriormente la sua voglia di far conversazione.

- E’ importante? – le chiese esitante. Il rossore che apparve sulle guance di Michelle non lo rassicurò.

- Beh… sì, diciamo di sì. Tra dieci minuti stacco anch’io, e così pensavo… -

- Senti, Michelle… - si costrinse a ribattere. Era la prima volta che la chiamava per nome da quando lavoravano insieme, e gli fece uno strano effetto. A dire il vero, lui non le si sarebbe neanche rivolto dandole del tu, se non fosse stata lei stessa a prendere quell’iniziativa. - …scusami, davvero, ma adesso non posso trattenermi – Che scusa avrebbe dovuto rifilarle? Aveva troppo da fare in casa? Aveva una famiglia ad aspettarlo? Doveva correre a spegnere il gas? Oh, sicuramente sua madre l’aveva dettagliatamente informata su quanto fosse vuota e squallida la sua esistenza. Quel pensiero fulminante lo trattenne dal cercare una scusa plausibile. – Magari ne parliamo domani, o… o quando vuoi, d’accordo? –

L’unico effetto che ottenne fu quello di intensificare il rossore sulle guance di Michelle, che lo guardò interdetta per qualche istante, per poi balbettare un: - Ok… d’accordo – Si riebbe quasi subito, riprendendo il suo solito sorriso. – Allora… beh, buona serata –

Bill uscì talmente in fretta da non darsi neanche il tempo di ribattere, ma aveva ben chiara in mente una possibile risposta.

Buona serata. Bella battuta.

- Bill! –

- Che c’è ancora?! – sbottò, fermandosi a pochi metri dall’uscita. Si girò pronto a trovarsi davanti due occhi celesti colmi di costernazione, ma a chiamarlo era stata sua madre.

- Aspetta, perché scappi? – Simone gli si avvicinò sorridendo. Ma cos’aveva da sorridere sempre? Come diamine faceva?

- Perché ho finito – rispose semplicemente, cercando di non far assumere al proprio tono una sfumatura d’irritazione. – Anche tu devi dirmi qualcosa? –

La donna non parve cogliere il leggero sarcasmo. – In queste ultime settimane non sono riuscita a scambiare neanche due parole con te… Come va adesso? Un po’ meglio? – gli chiese premurosamente, facendo come per sfiorargli una guancia con una carezza. Bill si ritrovò a voltare il viso, scansandola, e Simone lo fissò interdetta, la mano ancora ferma a mezz’aria. Bill la guardò, mordendosi le labbra, e vide un’ombra di profondo rammarico oscurare i suoi occhi. Posò una mano sulla sua, chiudendola a pugno e stringendola delicatamente.

- Scusami… scusami – mormorò, chinando il capo. Non voleva davvero scusarsi, così come non avrebbe voluto respingere quel suo semplice gesto d’affetto. Ma gli era venuto naturale. Terribilmente naturale. – Sono… molto stanco. Non so, forse va meglio… o forse no. Non lo so –

Simone gli accarezzò un braccio. – Non preoccuparti, Bill. Passerà –

- No, non passerà – sussurrò lui a fior di labbra, scuotendo lentamente la testa.

- Per Natale fate qualcosa? – Quel tono tutt’a un tratto falsamente vivace gli fece capire che sua madre stava solo cercando di tirarlo su. Ma forse lei non capì che avrebbe sortito l’effetto contrario.

- No. Cosa dovremmo fare? – La mascella di Bill si contrasse, come se volesse trattenersi dal rispondere male.

- Non lo so, chiedevo soltanto… -

- Non c’è niente da festeggiare – tagliò corto Bill, ritirando di scatto la mano. Sentì i muscoli irrigidirsi, segno che quella conversazione doveva interrompersi il più in fretta possibile.

- Bill, per favore, non fare così – quasi lo supplicò Simone. – Non capisci che chiuderti in te stesso non fa che peggiorare la situazione? –

La risposta, Bill ce l’aveva sulla punta della lingua.

Cosa mai potrebbe peggiorare, mamma?

Ma era stufo di fare la vittima, di farsi consolare quando poi non serviva a nulla.

Non voleva parlare con nessuno, o forse avrebbe voluto parlare con qualcuno che non sapeva ancora come affrontare.

- Ci vediamo domani, mamma –

 

 

- Ma allora oggi non lavori? –

Tom cambiò canale per l’ennesima volta mentre Bill, ancora fermo sulla soglia, lo guardava in attesa di risposta.

- No, te l’ho detto, stanotte qualcuno si è fregato l’intero contenuto della cassa –

Bill alzò le sopracciglia e annuì, come se dovesse riflettere su quanto Tom gli aveva appena detto. Se fosse stato il Bill di un tempo, la sua risposta sarebbe stata più o meno “però, vedo che ti dai da fare!”. Invece, quando Tom si voltò a guardarlo, il gemello non si era ancora tolto di dosso quell’aria apatica che aveva messo su giorni prima.

- Oh. Va bene – Altra pausa di riflessione. – Ti trovo, quando torno? –

Per un attimo, Tom pensò di dirgli che sarebbe uscito. E se Bill fosse tornato prima? Se avesse telefonato? No, decisamente non gli andava di mentire. Aveva ben chiaro in mente che, quel giorno, sarebbe rimasto a casa.

- Probabilmente sì –

- D’accordo – Bill alzò la cerniera del proprio giubbotto. – Allora… beh, a stasera –

- Mh-mh. Ciao –

Quando Bill si chiuse la porta alle spalle, Tom dovette appellarsi a tutta la forza di volontà che aveva per non saltare immediatamente giù dal divano e correre nello stanzino. In realtà, non sapeva ancora se quanto avesse in mente fosse giusto.

Cercò disperatamente un modo per distrarsi. Iniziò col proseguire lo zapping fino a prendere atto della totale assenza di qualcosa di decente in televisione. Passò al proprio cellulare, esplorandolo minuziosamente come faceva, da piccolo, con quello di Bill. Rilesse tutti gli sms ricevuti e inviati, scorse la lista delle chiamate, controllò il calendario: 14 dicembre. Meno di due settimane a Natale. Meno di due settimane al primo Natale senza Haylie, per Bill.

Attese ancora qualche minuto, tamburellando nervosamente le dita sul bracciolo del divano, prima di mandare al diavolo gli scrupoli e la forza di volontà. Si alzò rumorosamente e percorse a passo svelto il corridoio, fino ad arrivare davanti alla porta chiusa dello stanzino, ormai protagonista dei suoi pensieri e persino dei suoi incubi.

Stavolta si sarebbe imposto di non cedere ai dubbi o, peggio, ai sensi di colpa. Abbassò la maniglia, spinse la porta con decisione e, una volta entrato, spalancò l’unica finestra di quella stanza. Sollevò lo sguardo verso gli scatoloni accatastati in cima agli armadi: a prima vista, non dovevano essere più di quattro o cinque. Non riuscì a capire se contenessero oggetti più o meno pesanti o ingombranti, ma sembravano stracolmi di roba.

Per raggiungerli e tirarli giù, non dovette fare altro che alzarsi sulla punta dei piedi e muovere le braccia alla cieca sopra gli armadi.

Quando tutti gli scatoloni furono trasferiti sul pavimento, Tom rimase a guardarli esitante ancora per qualche secondo, poi tirò un profondo sospiro e sedette a terra a gambe incrociate.

Il suo sguardo si posò su tutti e quattro, a turno, poi vi passò una mano sopra, scoprendo che erano coperti da un dito polvere. Ne sollevò uno alla volta: non erano poi molto pesanti.

Al diavolo, si disse. Sto solo cercando di perdere tempo.

Tirò a sé il primo che gli capitò tra le mani e strappò con forza lo spesso scotch da pacchi che lo chiudeva. Lo aprì altrettanto in fretta, per paura che quel coraggio venisse tutt’a un tratto a mancare. E rimase a fissarne il contenuto con le sopracciglia aggrottate.

Erano vestiti. Nient’altro che abiti. Tom ne tirò fuori una parte, appoggiandoseli sulle gambe per non sporcarli, poi li contemplò a lungo. Abiti da donna, senza dubbio, abiti di ogni genere. Gonne lunghe e corte, pantaloni eleganti e jeans, maglioni e canottiere, tutti dai colori delicati e dalla linea semplice, raffinati e per nulla sfarzosi.

Aveva ben chiaro in mente il nome di chi li avrebbe indossati…

Li rimise nella scatola per poi passare alla successiva. Non si rese neanche conto di aver trattenuto il fiato, mentre svuotava anche quella.

Quella volta, riconobbe immediatamente il primo indumento che si trovò fra le mani. Era una maglietta rossa, stretta e asimmetrica. Haylie l’aveva indossata per un concerto dei Tokio Hotel, anche se lei era costretta ad assistere da dietro le quinte, perché faceva parte dello staff. Quella sera, lui l’aveva guardata per la prima volta in modo diverso dal solito. Quella sera, lei aveva alzato i pollici sorridendo incoraggiante. Quella sera, lei era bellissima…

Subito sotto di essa, trovò una leggera camicia da notte sui toni del rosa, e anche questa colpì istantaneamente la sua memoria. Gliel’aveva vista addosso tante volte, gliel’aveva sfilata anche se non avrebbe dovuto, quando Bill era lontano e non poteva vedere il loro tradimento.

Quel loro stupido, inutile tradimento…

Tutti e quattro gli scatoloni contenevano vestiti di Haylie. Alcuni li ricordava, altri non li aveva mai visti, ma tutti erano accomunati da un particolare: per quanto eleganti, per quanto fini e luminosi, erano così spaventosamente vuoti e spenti… Sembravano stracci, senza che lei li indossasse. Non erano altro che un mucchio di stoffa senza vita. E quelle scatole, non erano altro che pezzi di cartone tenuti insieme dallo scotch, ma per Tom era come aver trovato qualcosa di prezioso, delle ricchezze inestimabili chiuse dentro uno scrigno.

Guardò un’altra volta l’ultimo scatolone che aveva aperto, quello contenente gli abiti meno rovinati, presumibilmente più nuovi. Sfiorò con le dita un paio di jeans insolitamente larghi ripiegati in cima, pensando stupidamente che aveva sperato che anche uno solo di quei vestiti avesse trattenuto un briciolo dell’essenza di Haylie… ma poi i polpastrelli incontrarono qualcosa sotto la stoffa, un piccolo rettangolo rigido. Senza chiedersi più nulla, infilò una mano nella tasca di quei pantaloni e ne estrasse una busta da lettere piegata in due.

La distese lentamente, aprendola. Dentro c’era un foglio di carta ripiegato a sua volta. Tom esitò per qualche istante, spostando lo sguardo da un punto all’altro della busta, poi tirò fuori il foglio e lo spiegò, facendo attenzione a non rovinarlo.

Era un semplice foglio bianco coperto dall’inconfondibile grafia di Haylie, appuntita e inclinata verso destra. Non riportava altro che i segni della piegatura, per il resto non sembrava essere stato toccato più di una volta. Tom deglutì, forzando appena la presa sugli angoli del foglio.

 

12 marzo

Bill, amore mio,

questa strana e complessa avventura in cui ci siamo lanciati sta per finire –o, forse, per cominciare– e io sento il bisogno di parlarti, ma mi affiderò alla carta per evitare che i miei pensieri vadano troppo lontano e per cercare di spiegarmi con chiarezza.

Ho un po’ paura, sai Bill? Anzi no, ho tanta paura. Forse è stata la consapevolezza di averti accanto a me, sempre e comunque, che mi ha spinta a usare quel “po’ ”. Ancora oggi spesso mi chiedo cosa ti porti a non staccarti mai dal mio fianco, e altrettanto spesso non so rispondere. Ma alla fine penso che non m’importa, perché sono felice così.

Proprio così: sono felice. Sono felice semplicemente perché tu ci sei, e non mi serve nient’altro al mondo.

Ti chiedo scusa per tutte le volte che ti ho fatto credere di avere dei dubbi, in merito a quello che sta succedendo. Sappi che non è stato così. O, meglio, lo è stato all’inizio. Ora so che andrò avanti, che noi andremo avanti, e che la paura… beh, quella passerà.

Non sentirti mai in colpa, Bill, mai. O, perlomeno, non quando non devi e, stai tranquillo, questo non è un caso in cui tu debba sentirti colpevole.

Se non ci avessi creduto, se non avessi creduto in te, in noi, non sarei andata avanti. E, adesso che siamo giunti alla fine di questo percorso –e all’inizio di uno nuovo–, tutto quello che desidero è che tu mi resti vicino come hai sempre fatto in questi anni. Mi basta sentire le tue mani stringere le mie, la tua voce rassicurarmi e… davvero, non ho bisogno di nient’altro.

Com’era che mi dicevi sempre? Ce la faremo, tesoro.

Ti amo.

Tua Haylie

 

Tom ripiegò lentamente la lettera, incapace di mandare giù il nodo alla gola che quasi gli impediva di respirare.

Tutto quello che sapeva era che voleva piangere.

Era da solo, senza nessuno che lo guardasse o gli chiedesse qualcosa. Era libero, insomma. Poteva aprire i rubinetti e sciogliersi in lacrime fino a perdere i sensi.

E allora perché non ci riusciva?

“Questa strana e complessa avventura”… Che avventura?

“Non sentirti mai in colpa”… In colpa per cosa?

Se non ci avessi creduto, non sarei andata avanti”… Avanti? Verso quale meta?

Rilesse la data in cima alla lettera: 12 marzo. Doveva risalire al massimo a un mese prima che Haylie morisse, se aveva fatto bene i calcoli. Ma cosa mai potevano importare, i calcoli?

Su, avanti, piangi, si disse.

Gli occhi gli bruciavano, ma rimasero ostinatamente asciutti.

Piangi, idiota. Era questo che volevi, no?

Se solo avesse avuto una scusa, per farlo, una scusa per sentirsi così male. Se solo avesse potuto dire “Io amo ancora Haylie”.

Non era così. Amava il suo ricordo, gli mancava, ma i suoi sentimenti erano ben diversi da quelli che l’avevano spinto, tre anni e mezzo prima, a mettere in secondo piano quelli di Bill per seguire le proprie passioni. Haylie gli mancava perché lui non era arrivato a dirle tutto quello che avrebbe voluto, a scusarsi, gli mancava perché, da quando lei non c’era più, Bill aveva cominciato a lasciarsi andare lentamente, come se volesse morire con lei.

E quella lettera, che sicuramente suo fratello non aveva mai letto, ora ce l’aveva in mano lui.

Piangi.

La strinse tra le dita, chiudendo gli occhi.

Una sola. Una sola, fottuta lacrima.

Forse non ce l’aveva più, una spalla su cui piangere.

 

“Cos’è successo, ma che fine ha fatto, dov’è?

E’ partita, è andata altrove portando via con

tutto quello in cui credere,

per cui vale la pena di esistere.

Voglia di vivere, dove sei?”

 

Quella serata sarebbe sicuramente passata alla storia come una delle più sconclusionate, pensò Tom mentre, seduto sul divano, sfogliava il primo libro che gli era capitato tra le mani senza leggerne una sola riga. Dall’altra parte del soggiorno, Bill, appollaiato su una sedia, scriveva. Probabilmente erano questioni di lavoro.

Già, lavoro… Il suo vero lavoro.

- Ascolta – esordì improvvisamente. Tom alzò gli occhi dal libro, ben contento di non dover più fingere di leggerlo. Come tutte le volte in cui si preparava ad affrontare un discorso “difficile”, Bill appariva piuttosto impacciato. – Volevo dirti una cosa, a proposito di quello che mi dicevi qualche giorno fa… -

Tom tentò di ricordare, ma non gli venne in mente nulla. Stranamente, da qualche ora i suoi pensieri erano interamente rivolti al contenuto della tasca posteriore dei suoi jeans.

- …cioè? – Bill fece un gesto d’impazienza.

- E su, quello che mi dicevi a proposito di… della musica, del gruppo –

- Ah! – Tom annuì con aria meditabonda. Cosa gli aveva detto, esattamente? – Quando ti ho proposto di tornare a cantare, giusto? Non fa niente, non pensarci più –

- No, appunto – Bill chinò la testa e si strinse nelle spalle, come se si vergognasse di qualcosa. – Senti, io… non so, non ci avevo pensato bene, così… -

- Bill, non sei costretto a spiegarmi niente, se non vuoi – tagliò corto Tom, vedendolo in difficoltà. Il moro alzò la testa, fissandolo. E, per la prima volta, Tom non incrociò uno sguardo sprezzante, o impaurito, o disperato. Era uno sguardo volutamente indirizzato a lui, diretto a dirgli qualcosa.

- Beh, pensavo che tu potessi capirlo – disse a bassa voce. Tom non rispose, continuando a fissarlo interrogativo. – Volevo solo dirti che… beh, non devi rinunciare a qualcosa solo perché lo faccio io. Se tu vuoi tornare con il gruppo puoi farlo, cioè… non dipendi mica da me – Bill dondolava un piede a destra e a sinistra, segno che era nervoso. – Insomma, non sto dicendo che tornerei anch’io con il gruppo, ma solo che tu non devi rinunciare per colpa mia. Cioè, non so, è qualcosa su cui dovrei riflettere, magari non subito, però, voglio dire, hai capito, no? Sei liberissimo di farlo, se vuoi –

Un mezzo sorriso si fece strada sulle labbra del biondo mentre Bill riprendeva fiato. Finalmente aveva colto una somiglianza con il Bill di qualche anno prima, quello che attaccava a parlare come una macchinetta senza fermarsi più. – Bill, calma. Hai fatto tutto da solo – lo rassicurò. – Non ho mai detto di essere io a voler tornare a fare musica – Il gemello lo guardò sconsolato.

- Oh. Se lo dici tu… - Seguì qualche istante di silenzio imbarazzato. – Mi sembravi… un po’ giù di tono, ecco –

Tom lo guardò stranito. – Come, scusa? –

- Sei… pensieroso – Altro gesto imbarazzato. – Pensavo fosse per quel motivo –

Il motivo ce l’ho tasca, fratellino… e si chiama lettera.

- Anche tu non scherzi, sai? – Tom abbozzò un sorriso per niente allegro. – Ultimamente mi sembri messo peggio del solito – Non lo disse con tono indifferente o eccessivamente sarcastico e, del resto, Bill non mostrò segni di irritazione. Anzi, per la prima volta sembrò cercare di sorridere, anche se il risultato non fu molto convincente: si limitò a stiracchiare le labbra in una strana smorfia.

- Di solito, se prendi in mano un libro, non è per leggerlo – Tom guardò il volume ancora aperto in bella mostra tra le sue gambe incrociate. Accennò un altro sorriso.

- Siamo proprio una bella coppia… - disse ironicamente, richiudendo il libro e lanciandolo sul tavolo.

- Un tempo lo avresti detto sul serio – si lasciò sfuggire Bill dopo qualche istante di silenzio. Il fratello lo fissò di nuovo. Nessuno dei due parlò per minuti lunghi un’eternità, durante i quali Tom si soffermò a scrutare i lineamenti di Bill, cambiati in soli tre anni e mezzo. Solo in quel momento si rese conto di quanto fosse pallida e tirata la sua pelle, di quanto profonde fossero le sue occhiaie e i solchi sui dorsi delle mani, di quanto le sue labbra sembrassero disconoscere il sorriso.

- Sembri quasi malato… - mormorò, seguitando a fissarlo. Bill scosse lentamente la testa, producendo un’altra strana smorfia.

- Già – sospirò. – Il senso di colpa è la malattia peggiore –

Di nuovo il senso di colpa… ma perché il senso di colpa?

- Bill… -

- Non pensarci – tagliò corto il moro, scuotendo la testa e alzandosi. – Non ne vale la pena, davvero –

Mentre Bill usciva dal soggiorno, Tom si chiese quale sarebbe stata la sua prossima scusa, ma non ebbe il coraggio di chiedergli altro.

Lo siamo davvero, una bella coppia… vero, fratellino?

 

“Cos’è successo, che cosa è rimasto di noi?

Milioni di cose che non ti ho detto mai.”

(Raf, “Milioni di cose che non ti ho detto”)

 

 

 

 

 

Oooooooooollè.

Strano ma vero, stavolta non ho commenti significativi da fare. Vorrei solo capire perché, quando le letture e le aggiunte ai preferiti lievitano, le recensioni subiscono un crollo! XD Avanti ragazze, fatevi sentire!

Sore: Ma su, mica Tom voleva dire che invidia la vita del fratello... , dovrebbe essere matto O___O Però dai, prova a capirmi: io ci provo a controllarli, questi qui, però mi sfuggono e approfittano della minima distrazione per ricoprirsi di insulti e parole a sproposito! Anche tu però eh.... perchè non la scrivi su Joe e Bill, la tua tanto agognata slash? Sai che coppia -.-'....

Sweet Dreamer: no, ora mi spieghi perchè sei andata  a recensirmi il capitolo 2 su base del 10 XD A parte questo, come puoi vedere è sintomo comune che uno o entrambi i gemelli rompano le scatole a qualche lettore... colpa vostra che continuate a seguirmi! U_U

rakith: ma grazie, carissima, mi risollevi il morale! :-* Direi che possiamo tranquillamente continuare a ricompensarci a vicenda, che ne dici? XD

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Capitolo 12
*** Senza fiato ***


Parte III – Stai con me

Parte III – Stai con me

 

 

Capitolo 12 – Senza fiato

 

“Stai con me

di pioggia e di sole,

stai con me

nel bene e nel male,

quando tu non ci sei…”

 

Bill aspettava il 25 dicembre solo per potersi finalmente permettere un piccolo stacco. Non gli importava nulla del Natale né niente di simile –non in quel momento-, l’unica cosa che voleva era scollegare il cervello per qualche giorno. Poi, magari, si sarebbe sentito abbastanza riposato da tornare a combattere con il resto del mondo.

Aveva sentito particolarmente la pesantezza di quegli ultimi giorni non perché avesse lavorato più del solito, ma perché il suo già imponente carico di pensieri era ulteriormente aumentato.

Non faceva che chiedersi, per esempio, come fosse potuta venire in mente a Tom l’idea di ricomporre i Tokio Hotel. Gli aveva persino detto di non aver voglia di tornare a fare musica… e allora, perché? Era anche vero che lui stesso aveva fatto un’osservazione incredibilmente stupida: gli aveva detto di riunire il gruppo senza di lui. Gran bell’affare, un gruppo senza cantante.

In realtà, non pensava davvero che l’idea fosse stupida. Del resto, quando Tom se n’era andato, più di tre anni prima, aveva lasciato scritto che Bill avrebbe potuto prendere un altro chitarrista. Dunque cosa ci sarebbe stato di così terribile nel cambiare vocalist? Probabilmente, doveva averlo pensato Tom, che fosse un’idea stupida.

Bill si ritrovò a pensare con velata nostalgia ai tempi in cui, da piccoli, si vantavano di essere “telepatici”. Chissà, forse non era una condizione che durava per sempre…

Diede un’occhiata all’orologio, constatando con sollievo che era quasi ora di tornare a casa. Ormai il cielo diventava nero già nel primo pomeriggio, e quella non era una condizione che lo invogliasse a restare in giro a lungo. A quell’ora erano rimasti solo lui e Michelle. In quanto a sua madre, era da un paio di giorni che staccava subito dopo la pausa pranzo.

- Possiamo cominciare a chiudere, se vuoi – propose a Michelle, in quel momento intenta a compilare l’ennesima pagina di chissà quale registro. Non appena sentì la sua voce, la ragazza saltò su come se le fosse scoppiato un petardo tra le mani.

- Oh… sì, certo – disse in fretta, chiudendo tutto. Bill si alzò, facendo come per rimettere a posto il telefono, quando Michelle lo chiamò incerta. – Bill… -

- Mh-mh? – Continuò a mettere a posto i raccoglitori e i cataloghi sparpagliati sulla scrivania, non badando al silenzio che seguì subito dopo. Quando si voltò, Michelle era in piedi alle sue spalle e, inaspettatamente, sorrideva.

Il ragazzo non si curò del fatto che lei l’avesse chiamato fino a pochi secondi prima, pensò soltanto che erano troppo vicini.

- Sai… - cominciò lei, non badando alla sua espressione vacua. – Subito dopo Natale tornerò a Berlino per una settimana… la mia famiglia è lì –

Perché veniva a parlargli di famiglia, perché proprio a lui?

- Ah… davvero? – commentò incerto, cercando di sorridere.

- Però non ne ho tanta voglia – Bill deglutì, in attesa. – Credo che mi mancherai molto… anche se solo per una settimana – proseguì Michelle, rossa in viso e a voce più bassa.

- Beh, io… - Tutt’a un tratto non aveva la più pallida idea di cosa dire.

- L’altro giorno ti avevo detto che volevo parlarti e… beh, adesso che posso farlo, mi vergogno da morire! – La ragazza si produsse in una risatina nervosa e Bill cercò un appiglio dietro di sé. Si appoggiò alla scrivania, muovendo un esitante passo indietro.

- Non farlo, se non vuoi… - disse debolmente. Evidentemente, Michelle lo interpretò come un commento ironico, perché il suo sorriso si distese e il rossore sulle sue guance divenne un rosa delicato.

- Devo farlo – ridacchiò, e Bill avrebbe dato qualsiasi cosa pur di avere la forza di contraddirla. – Sei così sfuggente e silenzioso che è quasi impossibile parlarti – Chinò appena la testa e, un istante dopo, Bill si rese conto che le sue dita gli avevano sfiorato una mano. E non involontariamente. – Io… non so davvero come spiegarlo, Bill – mormorò Michelle, tornando a guardarlo.

- Che cosa? – Bill tentò di mostrarsi tranquillo, ma la voce gli uscì fuori insolitamente acuta.

- A volte mi chiedo come sia potuto succedere, me lo chiedo per gli stessi motivi per cui non riesco mai a parlarti… perché sei sfuggente – La mano della ragazza tornò a posarsi sulla sua e, questa volta, si fermò lì. – Sei così… strano, a volte sembra che ti porti dentro chissà quale segreto… e forse è per questo che mi sei piaciuto subito così tanto – Quasi trattenendo il respiro, Bill sentì la sua mano salire, sfiorandogli tutto il braccio in una carezza che non aveva nulla di rassicurante. – Non riesco mai a capire cosa pensi, e questo è… terribile, perché vorrei poter dire di conoscerti meglio di chiunque altro –

- Non… non capisco… - cercò di temporeggiare Bill, mentre i suoi piedi muovevano automaticamente qualche piccolo passo all’indietro, fino a sbattere contro la scrivania.

- Neanch’io capisco – sussurrò Michelle, il cui viso si era pericolosamente avvicinato al suo. – Non capisco te. Ho capito solo che… -

La sua mano si posò sulla sua spalla, Bill poteva sentire il suo respiro solleticargli il collo, le loro ginocchia toccarsi, l’odore dei suoi capelli…

- Che io… -

e quello delle sue labbra…

 

Haylie si aggrappò alle sue spalle, tirandosi faticosamente su a sedere. Bill la prese per i polsi, cercando di farla tornare a stendersi.

- Haylie, stai giù –

Gli occhi della ragazza erano oscurati dal terrore. – Resta con me… ti prego, resta con me! –

Bill le prese una mano e gliela baciò, poi se la posò sul cuore e la strinse forte.

- Certo che resto con te. Devi stare tranquilla –

Haylie chiuse gli occhi in uno spasimo di dolore e una lacrima scivolò giù lungo la sua guancia. – Non andartene… non andartene… Bill… – Il ragazzo le prese il viso tra le mani, chinandosi su di lei.

- Non me ne vado, Haylie. Non me ne vado. Sono qui –

Haylie tremò appena contro il suo petto. – Bill… - gemette, stringendogli convulsamente un braccio.

- Sì, tesoro, sì… -

- Aiutami… -

 

Bill sussultò violentemente, ritraendosi un istante prima che le loro labbra si toccassero. – N-no! – farfugliò con voce roca, muovendo pochi, incerti passi all’indietro. – No… non posso… non… -

Michelle spalancò i grandi occhi celesti, di nuovo rossa in viso. – Cosa? – balbettò. – Perché… perché no? –

Bill inspirò profondamente, cercando di far arrivare ossigeno ai polmoni, ma questa sembrava un’impresa impossibile. Si passò le dita tra i capelli e solo allora si accorse che le mani gli tremavano. – Io… non posso… non posso farlo… - continuò a balbettare, in preda al panico. Non vide l’espressione profondamente ferita sul viso di Michelle, non la vide avanzare incerta verso di lui, sentì solo un debole “Bill, aspetta…” e poi tutto quello che fece fu agguantare il giubbotto e correre in strada infilandoselo alla meno peggio.

Voleva scappare, subito, da lei, dal mondo, da tutto.

Un unico pensiero lo rassicurò, una volta arrivato a casa: magari, a quel punto Michelle l’avrebbe creduto gay. E allora avrebbe finalmente potuto depennare un nome dalla lista dei suoi problemi.

Se solo quel curioso pensiero avesse avuto anche il potere di farlo sorridere…

 

 

La settimana che precedette il 25 dicembre non fu molto facile per Tom.

Non era tanto il persistente muso lungo di Bill a preoccuparlo, quanto il fatto che suo fratello si rifiutasse categoricamente di uscire di casa. Non andò nemmeno a lavoro, pescando a caso una giustificazione.

- Ho chiesto alla mamma di anticiparmi le ferie, non ne potevo più –

Da una parte, Tom era contento di potersi finalmente reputare in grado di ipotizzare cosa passasse per la testa di suo fratello, dall’altra, la preoccupazione crescente verso di lui stava rapidamente cominciando a sfiancarlo.

Dubitava seriamente che Bill avesse chiesto a Simone di anticipargli le ferie: mentre nei primi tempi sembrava quasi dipendere da lei, adesso i loro contatti erano decisamente diminuiti. Neanche lui avrebbe potuto reputarsi scontento della situazione: per quanto sua madre avesse fatto di tutto per aiutarlo, ora che era meno presente nella loro vita si sentiva in qualche modo più libero.

Non aveva più tirato fuori l’argomento Tokio Hotel, ma aveva ripensato più volte a ciò che gli aveva detto il gemello pochi giorni prima. Dunque proprio non capiva che la sua idea era diretta a farlo stare un po’ meglio?

In fondo, Gustav aveva avuto ragione: il motivo che portava entrambi a non desiderare la ricongiunzione del gruppo non era che la paura. Paura di non ritrovare l’affiatamento, paura di aver dimenticato la vita da star, paura di deludere gli altri, paura di fallire un’altra volta. Forse erano tornati bambini, erano diventati di nuovo uguali. Peccato che fosse così difficile trovare i punti di somiglianza…

Se la prima volta che li aveva incontrati Tom aveva pensato che Georg e Gustav stessero benissimo senza i Tokio Hotel, adesso era consapevole del contrario. Ma come poteva essere certo di fare la cosa giusta, se neanche lui conosceva i propri desideri?

Ne avevano riparlato una seconda volta, non molto tempo dopo il loro secondo incontro.

“Secondo me vi farebbe solo bene” aveva dichiarato Georg.

Però solo voi potete sapere cosa è meglio per voi stessi” aveva rincarato Gustav.

E dovete esserne convinti!” lo aveva avvertito Georg.

“Giusto, anche se non con troppe aspettative. L’importante è provare, ricordatelo” aveva concluso Gustav.

Conclusione: “Parlatene con calma, avete tutto il tempo per pensarci. Noi siamo sempre qui.

Che bel discorso. Facile, soprattutto.

Doveva molto ai suoi amici, ma forse non erano completamente consapevoli di ciò che quella situazione significasse per lui.

L’unica cosa certa era che Bill non ne avrebbe più riparlato per primo. E non era neanche detto che si sarebbe unito a loro.

e allora, che senso avrebbe avuto?

Tom riconosceva di aver provato una sensazione del tutto nuova quando Gustav gli aveva dato una delle sue vecchie chitarre e gli aveva ingiunto di suonarla. Erano anni che non toccava uno spartito, anni che non riascoltava le canzoni che avevano inciso. Avrebbe potuto dimenticare facilmente ogni nota, che invece era sedimentata in tutte le cellule del suo corpo. Per quanto avesse cercato di scrollarsela di dosso, la musica non l’aveva mai abbandonato, e la sua riscoperta l’aveva colpito così violentemente da confondergli le idee.

Ma il punto era sempre lo stesso: cosa avrebbe mai potuto fare, da solo?

Vero, c’erano anche Gustav e Georg, pronti ad aiutarlo. Ma non bastavano a farlo sentire completo.

C’era sempre qualcosa a mancare…

Qualcuno a mancare…

 

Tom capì sin dalle prime ore del mattino che quel Natale sarebbe stato di gran lunga il più deprimente di tutti quelli trascorsi, quando aprì gli occhi e vide il letto di Bill vuoto.

Richiuse gli occhi, lasciandosi cadere con la testa sul cuscino. Come l’avrebbe salutato, quella mattina? Cosa avrebbe potuto dirgli senza sentirsi sprofondare?

Per un attimo, provò a immaginarsi al posto di Bill.

Il primo Natale senza Haylie.

Si rese conto che non riusciva neanche a pensarci. Avrebbe preferito mille volte restarsene a letto piuttosto che vedersi costretto ad affrontare quella situazione.

Quando si alzò, si accorse che nella casa regnava il silenzio più assoluto. Entrò in cucina, ma Bill non c’era. Fece come per aprire il frigorifero, ma, dopo qualche secondo di esitazione, abbassò la mano, rendendosi conto di non avere il benché minimo accenno di fame.

Quando, ancora in pigiama, entrò in soggiorno, vide Bill seduto sul pavimento con le gambe raccolte al petto e il mento appoggiato sulle ginocchia, davanti alla portafinestra. Le tapparelle erano alzate, e Tom immaginò che lo sguardo di Bill fosse perso in un punto imprecisato. O forse i suoi occhi erano chiusi, la mente alla ricerca di un ricordo che gli facesse tornare il sorriso.

Tom gli si avvicinò silenziosamente, per poi fermarsi in piedi accanto a lui. Bill alzò la testa. – Ehi –

- Buongiorno – lo salutò Tom, reprimendo appena in tempo un “come va?”. Notò che era vestito di tutto punto e che sulla sua maglietta non c’era neanche una piega. – Svegliato presto, stamattina? –

- Non tanto – sospirò il moro, tornando ad appoggiare il mento sulle ginocchia. – In realtà non ho neanche dormito molto – Tom volse lo sguardo oltre il vetro.

- Troppi pensieri, vero? –

- Già – Dal tono di voce, Bill non sembrava particolarmente di malumore, appariva solo pensieroso. Tom lo fissò per qualche istante prima di accovacciarsi accanto a lui sul pavimento. Bill lo guardò stranito. – Che fai? –

- Mi siedo – rispose semplicemente lui.

- Ah – replicò Bill con poca convinzione. Rimasero a fissare punti imprecisati fuori dalla finestra per un po’, finché Tom non prese nuovamente la parola.

- Come mai non sei più tornato a lavoro? –

Bill sbuffò. – Te l’ho detto… -

- No, non me l’hai detto – Lo guardò per qualche secondo, un sopracciglio alzato. – Non che tu sia obbligato a farlo, naturalmente – si affrettò ad aggiungere Tom.

- C’è una persona che non mi va di incontrare, per ora – sospirò Bill, ignorando l’ultima frase.

- Conoscendoti, il “per ora” durerà almeno un paio d’anni – commentò Tom, soffocando una risatina. – E cosa ti ha fatto, questa… persona? –

- E’ una collega – tergiversò Bill.

- Aha. E…? –

- …non so come comportarmi con lei – Tom alzò gli occhi al cielo.

- Questo l’ho capito. Si può sapere cos’ha fatto di preciso? – Bill si lasciò sfuggire un verso di impazienza.

- Insomma…! Possibile che tu non capisca? – sbottò, sperando ancora di non dover raccontare l’episodio a cui alludeva. Ma lo sguardo del fratello era altrettanto allusivo. - …diciamo che le piaccio, più o meno –

Tom alzò le sopracciglia. – Diciamo che ci ha provato? –

- No! Non come intendi tu! – Bill sbuffò, piuttosto rosso in viso. – L’unico problema è che abbiamo punti di vista… molto diversi, ecco –

- E così hai deciso di ritirarti in eremitaggio pur di non affrontarla. E’ così muscolosa? – cercò di scherzare Tom.

- Oh, insomma… - borbottò Bill, sembrando però meno scandalizzato. – No. Ma non mi va di vederla, al momento –

- Ma le hai spiegato perché non vuoi stare con lei? –

Bill incrociò le braccia sulle ginocchia e vi affondò il viso. – Non posso spiegarglielo –

Il biondo rimase qualche secondo senza rispondere, pensando a come dirgli ciò che pensava senza ferirlo. – Bill, devi solo dirle la verità, e cioè che tu ami un’altra donna –

L’altro alzò la testa dalle braccia e lo fissò aggrottando le sopracciglia. Tom non fece in tempo a chiedersi se avesse detto la cosa sbagliata, perché il telefono cominciò a squillare proprio in quel momento. Guardò con aria interrogativa il gemello, che gli fece intendere di non aver alcuna voglia di rispondere.

Fu lui ad alzarsi e sollevare la cornetta. – Pronto? –

- Buon Natale, tesoro! – Tom si lasciò sfuggire un lungo sospiro.

- Ciao, mamma –

- Come state? –

- Non male, grazie. Tu? –

- Bene, bene. Senti, oggi avete da fare? – Tom si trattenne a malapena dallo sbuffare. Avrebbe dovuto immaginarlo. – Perché non venite a pranzo da me? –

- Ehm… a pranzo da te? – La ripetizione della frase ottenne l’effetto sperato: Bill, ancora seduto sul pavimento, fece energicamente segno di no con la testa. – Mamma, non so se… -

- Lo so che Bill non ha voglia di festeggiare, ma è così tanto che non vi vedo! – Tom pensò che una settimana non era poi tanto lunga, ma evidentemente Simone era di altro avviso. – Niente regali e niente auguri, promesso. Vorrei solo vedervi –

- Dài, mamma… -

- Magari non oggi, d’accordo? Facciamo tra qualche giorno, se per voi è meglio. Il ventotto vi va bene? –

- Va bene… va bene – si arrese Tom. – Ok. Allora ci vediamo –

Per Bill non sembrò andar bene. Mostrò il proprio disappunto non appena lui mise giù la cornetta.

- Perché le hai detto di sì? Dovrebbe capirlo da sola che non mi va di stappare champagne! – lo aggredì.

- Ci siamo messi d’accordo per il ventotto. Niente festeggiamenti – Ma Bill non parve affatto contento.

- Io non vengo –

- Non dire cretinate. E’ nostra madre. Potrai pur fare un’eccezione per lei! –

- Ti ho detto che non vengo! – A quell’esclamazione seguì un tonfo sordo, e Tom si rese conto con stupore di aver sbattuto un pugno sul tavolo.

- Insomma, Bill! Fai un po’ quello che vuoi, ma io non voglio parlare con un bambino di tre anni, voglio parlare con mio fratello! – Il moro lo guardò in cagnesco, Tom gli voltò le spalle e uscì dal soggiorno, ma tre giorni dopo erano intenti a vestirsi per andare a pranzo da Simone.

Bill uscì dalla camera da letto con un maglione bianco, un paio di pantaloni beige, i capelli raccolti e una faccia da funerale. Sembrava tornato il Bill dei primi mesi, quello con le sopracciglia eternamente aggrottate e il viso contratto in un’espressione di fastidio, quello pronto ad aggredire chiunque per una parola fuori posto. Tom non tentò nemmeno di sforzarsi di essere elegante e indossò un paio di jeans scuri e la prima felpa che gli capitò tra le mani. L’unica cosa che desiderava era che filasse tutto liscio e che il pranzo durasse poco.

Il disappunto di Bill traspariva da ogni suo gesto: in auto, stringeva il volante con una forza tale da far credere di volerlo strappare dal cruscotto. Non disse una parola, come del resto fece Tom, per paura di vederlo prorompere in uno scatto di rabbia, estremamente probabile viste le condizioni del suo umore.

Non appena Simone aprì loro la porta, Tom fu colto da una specie di brutto presentimento: sua madre esibiva uno spropositato sorriso a trentadue denti e un abito un po’ troppo elegante per un semplice pranzo in famiglia.

- Finalmente! – fu il suo saluto.

Quando entrarono in casa, Tom notò subito che mancava qualcosa, o meglio, qualcuno.

- Gordon non c’è? – lo precedette Bill, con tono scontroso.

- Il lavoro non gli dà tregua – rispose Simone. – Ma non fa niente, ci sarà un’altra occasione per stare tutti e quattro insieme. E’ tanto che non parliamo un po’, noi – soggiunse con un altro sorriso.

Tom non sentiva l’impellente bisogno di modificare quella condizione e, a giudicare dalla faccia di Bill, anche lui doveva pensarla allo stesso modo.

Consolante.

Nonostante i sorrisi e le parole gentili di Simone, la tensione restò palpabile per l’intera durata del pranzo e, a giudicare dal modo in cui la donna si rivolgeva a entrambi, doveva averne frainteso il motivo.

- Non ho ben capito il motivo per cui ti sei assentato tanto a lungo in agenzia, Bill – disse a un certo punto.

- Te l’ho spiegato – fu la tagliente risposta di Bill, mentre il ragazzo squadrava ripetutamente l’etichetta del vino appoggiato poco distante dal suo piatto. – Ero a pezzi. Avrei fatto solo danni – disse, decidendosi a prendere la bottiglia e versarsi una piccola quantità di vino.

- Beh, non sei l’unico, a quanto pare – ribatté sua madre, ridendo. – Anche Michelle sembra a pezzi. Quella povera ragazza si dà tanto da fare, ma pare completamente a terra –

Tom gettò una fugace occhiata in direzione del gemello e, vedendolo stringere i pugni, si preparò a una reazione non esattamente positiva. – Mi dispiace – commentò invece Bill, cercando di mantenere un tono neutro.

- E’ così carina, così gentile… - sospirò Simone.

- Dobbiamo per forza parlare di lei? – la interruppe Bill.

- Beh, avevo immaginato che non ti andasse a genio, ma avresti potuto essere un po’ più… ospitale, nei suoi confronti – Tom vide i lineamenti del gemello indurirsi e la sua espressione mutare pericolosamente.

- Ospitale? E’ solo una collega, non mi riguarda quello che fa o come si ambienta –

Simone sospirò, alzando gli occhi al cielo. – E tu, Tom? Lavori ancora in quel bar? –

- Non ho trovato niente di più interessante – rispose l’interpellato, come riscuotendosi da uno stato di torpore.

Seguì qualche minuto di silenzio, poi Bill prese la parola.

- Strano che tu non ci chieda come vanno le cose a casa – disse con tono chiaramente ironico. – Non capisco perché ci parli come se fossimo due estranei – L’espressione di Simone si inasprì appena.

- Non parlarmi con quel tono, Bill. Sapete entrambi come la penso al riguardo –

Dunque era vero, pensò Tom, non aveva capito affatto da cosa fosse causata quella tensione.

- E cioè? – intervenne, con uno strano tono di sfida.

- Dovreste mettere da parte il passato. E’ stupido tenersi il muso per qualcosa che… -

- Cosa sarebbe per te il passato?! – La donna sobbalzò e Tom guardò il gemello con espressione incredula: Bill aveva praticamente gridato, sbattendo il pugno sul tavolo e facendolo quasi tremare. Simone si costrinse a guardare il figlio con espressione dura, ma era chiaro che ciò comportava uno sforzo non indifferente. – Allora? Cos’è il passato? Si chiama Haylie, il passato?! – Bill spinse indietro la sedia e si alzò rumorosamente.

- Siediti, Bill – disse tra i denti Simone, con una voce che avrebbe voluto apparire severa. Ma tutto ciò che fece Bill fu lanciarle uno sguardo carico di rabbia, girare i tacchi e abbandonare il soggiorno a grandi passi. Lo sbattere della porta giunse subito dopo, e Tom si voltò a guardare sua madre, immobile al proprio posto, i pugni chiusi e le labbra strette.

- Credo che andrò anch’io – disse lentamente, spostando la sedia dal tavolo e alzandosi. Non fece in tempo a voltarsi, che si sentì chiamare.

- Tom, torna qui –

Si costrinse a non rispondere, attraversando il soggiorno. Ma non poté fare più di un paio di passi perché sua madre lo seguisse all’ingresso. Sentì che, se avesse detto solo una parola di più, sarebbe scoppiato. – Non perché tuo fratello si è scordato l’educazione devi farlo anche tu, sai? – lo apostrofò con asprezza.

- Ma smettila! – sbottò Tom, voltandosi di scatto verso di lei. Simone lo fissò aggrottando le sopracciglia. – Per favore, smettila di fare la severa impunita! Non serve a niente, mamma, lo vuoi capire?! Non giocare a fare la madre apprensiva e responsabile, non l’hai mai fatto, non cominciare adesso! Cosa vuoi dimostrare? Hai permesso ai tuoi figli di tingersi i capelli e bucarsi con i piercing quando avevano sei anni, a meno di tredici li hai fatti avventurare nel mondo dello spettacolo, e adesso li rimproveri se si alzano da tavola senza chiedere il permesso? – Simone lo guardò con rabbia, ma i suoi occhi avevano già abbandonato quella maschera di coraggio che si era costretta a indossare. Tom non si lasciò prendere dai sensi di colpa. No, lui non l’avrebbe fatto. – E’ ridicolo. Tu sei ridicola. Dovevi pensarci prima, se volevi tenerci a bada. Adesso è tardi

Simone non tentò nemmeno di ribattere e, anche se ci avesse provato, Tom non gliel’avrebbe permesso. Aprì la porta e uscì sbattendola con forza. Scese di corsa le scale, con le orecchie ancora ronzanti e, quando passò il portone, si stupì di trovare la macchina di Bill parcheggiata lì di fronte, e il gemello seduto davanti, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo basso. Aprì lo sportello ed entrò in auto senza dire una parola.

- Sapevo che non avrei dovuto aspettare molto – disse Bill con espressione cupa. Tom sospirò, appoggiandosi allo schienale.

- Mi dispiace –

- Anche a me – I loro sguardi si incrociarono per un istante. – Non ce l’ho con te, ok? Era da un po’ che io e lei non ci trovavamo più –

- Non fa niente – si affrettò a ribattere Tom. – Anch’io avevo un po’ di cose da dirle –

- Benissimo, allora – Bill accese il motore con decisione. Pochi minuti dopo erano già lontani.

Quando fermò l’auto nel vialetto di casa, Bill sospirò, chiudendo gli occhi e appoggiandosi pesantemente al sedile. Tom, che per tutto il tragitto era rimasto con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo rivolto fuori dal finestrino, gli rivolse un sorriso stanco. – Bella giornata, vero? –

Bill non rispose: seguitò a respirare profondamente, come se dovesse ancora calmarsi. – E dire che fino a qualche anno fa non ne avevamo, di questi problemi – commentò il biondo, chiudendo gli occhi a sua volta.

- Forse eravamo più superficiali – mormorò Bill, stringendosi nel proprio giubbotto.

- Ascolta, Bill… - Tom si era ripromesso di non affrontare più l’argomento, ma le circostanze lo portarono ad agire diversamente. – Dovresti staccare, per un periodo. Dovresti dedicarti a qualcosa di diverso, o finirai con l’avere un esaurimento nervoso – sospirò, tornando a guardare fuori dal finestrino.

- Hai parlato con Georg e Gustav, vero? –

- Sì, più di una volta – Bill non rispose all’istante. Sembrò riflettere a lungo prima di sbottare:

- Va bene! Va bene, proviamo. Non m’interessa, sarà un fallimento, ma… non me ne frega niente. Io… io non ne posso più – gemette, passandosi una mano sulla fronte.

- Non devi farlo per forza –

- Ti ho detto che non m’interessa – Tom vide qualcosa di diverso nello sguardo di Bill, un lampo di vita che doveva aver visto solo molti anni prima. – D’accordo, chiamali, digli che accetto. Chiedigli quando possiamo incontrarci –

Tom fu quasi colto dalla tentazione di rifiutare, ma capì che era troppo tardi per farlo. Lo aveva ripetuto troppe volte per poterselo rimangiare, pensò… e, tuttavia, non gli aveva ancora detto l’unica cosa che avrebbe realmente voluto dirgli.

Tirati su, Bill… Fai qualsiasi cosa, ma ricomincia a vivere.

 

 

 

 

 

 

 

 

Salve salve salve salve.

Ladies and gentlemen, ha inizio la parte *diciamo* più significativa di tutta la fic. E spero che, aiutata dalla meravigliosa “Stai con me” di Raf, attiri qualche commentatore in più ç_ç

BigAngel_Dark: grazie mille tesoro, eccoti servita ^^

Temperance_Booth: sì, Joe e Bill xD Problemi?! Eh sì, che sei una sadica senza cuore lo sappiamo. Del resto, non a caso… tu sei il Male! Spero che Vossignoria la Senza Cuore sia soddisfatta dei primi segni di vita ostentati da Billuccio e che abbia letto la recensione lasciata al nuovo capitolo della Sua nuova fic ù.ù

rakith: quel che si dice uno scambio equo e solidale… Suvvia, i gemelli hanno “quasi” interagito senza scannarsi, non me lo merito un altro premio? *scodinzola in attesa del biscottino a forma di osso* XD

CowgirlSara: la mia artista preferita *____* Grazie, grazie e ancora grazie. Ti perdono per la terribile mancanza, dato che io ho cominciato solo adesso a leggere “Autumn song”. Spero comunque di risentirti prima che questa sottospecie di scontro all’ultimo sangue Kaulitz vs Kaulitz finisca ^___*

noirfabi: fiuu, credevo di averti persa ^^’ Povera Micelle, dici? E già. Io direi “povero chiunque interagisca con Bill” XD Ma no, povero, lo sappiamo che ha sofferto. E presto scopriremo anche perché (si spera XD)

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Capitolo 13
*** Rimpatriata ***


Capitolo 13 - Rimpatriata

Capitolo 13 - Rimpatriata

 

“Stai con me

che a volte mi perdo

senza te

in questo deserto”

 

Tom rimandò l’organizzazione al mese successivo, rendendosi conto che non sarebbe mai stato abbastanza grato a Georg e Gustav per il loro aiuto.

Si sentirono nei giorni immediatamente successivi al pranzo da Simone.

- Indovina? – aveva risposto all’assonnato “Pronto?” di Georg dopo averlo praticamente buttato giù dal letto con la telefonata.

- Ho a malapena la forza di stare in piedi, quindi evitami gli enigmi – lo rimbeccò l’amico.

- Bill è d’accordo. Riuniamo il gruppo – Il rumore che seguì alla rivelazione gli fece immaginare che Georg avesse quasi rovesciato il telefono per la sorpresa.

- Sul serio? –

- Sul serio. Finalmente si è convinto – A quella notizia, la voce di Georg si fece improvvisamente più sveglia.

- Diamine, non ci posso credere… Cioè, l’avevo messo nel conto come un evento millenario! Davvero, non riesco a crederci – ripeté con voce sempre più incredula.

- Già, è stata più o meno la stessa reazione che ho avuto… Dopo –

- Dopo? –

- All’inizio stavo quasi per dissuaderlo –

- Tu sei scemo! – dichiarò Georg, e a Tom parve quasi di vederlo scuotere la testa con commiserazione. – Ma siamo sicuri che lo fa di sua volontà? Ti sento molto più entusiasta dell’ultima volta – ironizzò poi.

- Idiota. Sono solo contento –

- Ne hai ben donde – replicò Georg, ridendo. – Dài, a parte gli scherzi… sono felice, davvero. Secondo me fate solo bene –

- Spero che funzioni – sospirò Tom, e per un attimo si chiese per chi lo sperasse.

- Ma Bill? Non avrà mica detto “ok” e basta! Che dice? – Il tono di Georg era molto simile a quello di un bambino che chiede indizi per scoprire quale sarà il suo regalo di compleanno, cosa che non fece altro che aumentare l’entusiasmo di Tom.

- Non è particolarmente espansivo, in questo periodo – si limitò a dire. – Ma vedrai che sarà questione di un paio di giorni –

Quella era effettivamente una frase azzardata. Parallelamente all’improvviso entusiasmo di Tom, si era verificato in Bill l’effetto contrario: inaspettatamente, sembrava colto da mille e più dubbi, soprattutto da quando la notizia della ricongiunzione del gruppo era arrivata anche alle orecchie di Gustav, che aveva cominciato subito a valutare il lato pratico della situazione. Naturalmente anche lui si era mostrato più che contento della decisione di Bill e, al contrario di Georg, non aveva fatto domande in proposito. Era passato subito a parlare di vecchi inediti, strumenti chiusi nei ripostigli e studi di registrazione.

- Gustav, calmati – l’aveva fermato Tom. – Non credo che incideremo un intero cd già dal primo giorno –

L’altro, però, non aveva colto la sottile ironia né perso l’entusiasmo.

- No, certo, per un disco è ancora presto, però insomma, non possiamo concludere la prima vera rimpatriata con una pizza e tanti cari saluti! Dobbiamo cominciare a darci da fare! –

- Certo, senza manager e senza casa discografica – Tom si riferiva a David Jost, colui che aveva portato avanti i progetti della band per oltre otto anni. Nonostante non avesse fatto altro che lamentarsi dei suoi “quattro nullafacenti, che preferiscono restarsene buttati in tourbus tutto il santo giorno a grattarsi la pancia piuttosto che lavorare”, era stato più che efficiente e buona parte del merito per il successo dei Tokio Hotel spettava a lui. Tom aveva avuto una fugace visione dell’ex manager comodamente disteso sulle spiagge caraibiche mentre si lasciava sventolare con una foglia di banano da una giovane e fascinosa ragazza del luogo, mentre loro erano costretti in Germania al freddo e al gelo.

- Non ho mai detto di aver perso i contatti con David! – era prorotto Gustav, distraendolo dalla pellicola in proiezione nella sua mente. – Ti ricorderai di lui, spero! –

- Come scordarselo… -

- Bene, allora lascia fare a me! – E con questo, Gustav gli aveva praticamente sbattuto il telefono in faccia.

Insomma, l’entusiasmo era rapidamente dilagato tra tutti i componenti del gruppo. Solo Bill ne era stranamente immune. Aveva cominciato a mostrare una certa agitazione solo pochi giorni dopo aver accettato la proposta, e questo aveva contribuito ad acuire la somiglianza con il Bill di un tempo, quello in perenne apprensione –o meglio paranoia, come diceva Tom.

- Ma perché fanno così? – aveva quasi piagnucolato dopo la telefonata di Gustav. – Perché si agitano tanto? –

- Bill, quello agitato, qui, non sono certo io – era stata la risposta di Tom. – Sono contenti, no? Erano secoli che non aspettavano altro, mi sembra quantomeno comprensibile la loro reazione –

- Ma non c’è bisogno che si affannino così! – aveva protestato allora l’altro.

- Dovremo pur darci una mossa, no? Abbiamo aspettato anche troppo –

- Stanno correndo troppo. Io non mi sento pronto a riprendere questi ritmi – era stata la scusa di Bill. Persino lui si era reso immediatamente conto che non stava in piedi.

- Devi solo stare tranquillo, stanno pensando praticamente a tutto loro –

- No che non sto tranquillo. Te l’ho detto, non sono pronto –

- Sei stato tu a dire che potevamo provarci –

- Ma non pensavo che saremmo ripartiti in quarta! –

- Senti Bill, perché non ti distrai un po’, mentre mettiamo a posto le cose? Non so, torna in agenzia… -

- Sei stato tu a dirmi che dovevo fare qualcosa di diverso –

- Sì, però così ti ammalerai prima del tempo! –

A Tom sembravano incredibilmente lontani i tempi in cui si dava dell’egoista per non essere riuscito a comportarsi in un certo modo con il gemello, quando lo vedeva star male eppure non si sforzava neanche di mostrarsi comprensivo. Adesso Bill sembrava solo un bambino spaventato.

Certo, era un’inquietudine diversa da quella che lo aveva assalito settimane prima, quando non faceva che avere attacchi di panico a ripetizione. Quella era un’angoscia causata dai troppi pensieri e dai brutti ricordi, mentre adesso era paragonabile a una sorta di panico da palcoscenico. Bill appariva sicuramente meno pensieroso e immusonito, il che era già una consolazione non indifferente per Tom. La verità era che non riusciva a non sorridere di fronte all’agitazione –a suo parere immotivata– del gemello.

Bill poteva essere impaurito e inquieto finché voleva, ma ora Tom si sentiva tranquillo. Non era più una tortura stare sotto lo stesso tetto con lui. Gli bastava che suo fratello stesse bene, cosa che sperava che succedesse con la ricongiunzione dei Tokio Hotel.

Magari Bill non avrebbe mai capito cosa pensasse lui di quella situazione, magari le cose tra loro non sarebbero mai tornate come prima. Questo, Tom non se lo chiedeva più. Tutto il daffare che si stava dando il quel periodo lo aveva in qualche modo anestetizzato, ed era meraviglioso: non sentiva quasi più niente se non il bisogno di andare avanti a organizzare, telefonare, segnare, per arrivare finalmente all’obiettivo di quel tanto agognato progetto.

Non si era chiesto quanto significasse per lui, non si era posto il problema del ritornare in un mondo che per anni aveva quasi dimenticato. Non aveva pensato ai concerti, alla pubblicità, alle classifiche, al pubblico: si era solo imposto di andare fino in fondo, senza chiedersi a cosa avrebbe portato tutto quel lavoro.

 

Bill aveva perso rapidamente il senso di ciò che stava accadendo intorno a lui. Capiva solo che una spaventosa inquietudine si era impadronito di lui e non l’aveva mollato più.

Non avrebbe saputo dire esattamente da cosa fosse causata.

Forse era un senso di inadeguatezza. Ne fu quasi convinto quando, un giorno, si chiuse in bagno, si appoggiò pesantemente al lavandino e fissò le proprie sembianze riflesse nello specchio.

Era una cosa che non faceva quasi mai, perché odiava vedere in quel pezzo di vetro l’immagine di una vita distrutta, buttata al vento. Era questo, tutto ciò che gli suggeriva il suo riflesso. E, quando questo gli restituì un’occhiata inespressiva, Bill non poté fare a meno di chiedersi cosa mai potesse ricavare un gruppo che si preparava a sfondare di nuovo da un’immagine come quella.

Quali attrattive avrebbe mai potuto riservare, chi si sarebbe soffermato a guardarlo senza scuotere la testa con aria scettica? Lui avrebbe fatto esattamente così.

Non era più adatto a quel mondo. Il suo viso, il suo carattere, la sua vita non erano adatti. I suoi occhi non erano più quelli dallo sguardo carismatico, dal taglio regolare e dal trucco abbondante, non erano gli occhi di un ragazzo dall’aspetto ambiguo né tanto meno affascinante. Erano gli occhi di un uomo che non si sentiva tale, gli occhi di una persona che aveva fallito.

Cosa mai poteva chiedere il mondo dello spettacolo da due occhi come quelli?

Cosa poteva aspettarsi il gruppo da un leader che non era più un leader?

Magari l’immagine non era poi così importante. Sì, lui era il cantante. Non doveva fare altro che impugnare il microfono e cantare, niente di più.

Si schiarì la voce. Doveva provare almeno una volta prima di incontrare i ragazzi.

Cercò una canzone, una qualsiasi. Rimase minuti interi a fissare il vuoto, cercando di ricordare anche solo un ritornello, una strofa. Le canzoni di altri artisti non servivano, non erano quelle che avrebbe dovuto cantare.

Chiuse gli occhi e sospirò pesantemente. Forse la voce non era abbastanza riscaldata e questo costituiva un blocco. Provò a schiarirsela un’altra volta, battendosi leggermente il petto per tirarla fuori, ma quella rimase impigliata nelle corde vocali.

Non aveva voce, non aveva musica, non aveva voglia. Non poteva cantare.

Voltò velocemente le spalle allo specchio, respingendo quell’immagine odiosa. Non poteva farlo. Sapeva che sarebbe un fallimento, ma non avrebbe mai pensato che avrebbe dovuto desistere così presto. Tom ci stava mettendo anima e corpo, ma lui non poteva, non poteva proprio. Doveva dirglielo perché non si creasse false aspettative.

Lo trovò seduto sul divano, mentre scriveva chissà che cosa su alcuni fogli recuperati dai cassetti del mobile del soggiorno. Gli si avvicinò preparandosi psicologicamente a quanto avrebbe dovuto dire.

- Senti… - esordì nervosamente. Tom alzò gli occhi dal foglio.

- Cosa? –

Bill si torturò le mani per qualche secondo prima di parlare. – Ci ho ripensato – disse in fretta. Troppo in fretta, tanto che Tom lo guardò stranito. Ripeté la frase più lentamente, al che il gemello aggrottò le sopracciglia.

- In che senso, scusa? –

- Non posso tornare con il gruppo. Pensavo di farcela, ma non posso. Non posso proprio –

Tom sospirò. – Sei solo nervoso. E poi, chi ti dice che non puoi? Se non provi, non puoi saperlo –

- Ho provato – Improvvisamente, Bill non riusciva più a stare fermo. Strofinò un piede sull’altro, dondolandosi leggermente sul posto. – Non riesco a cantare –

- Sciocchezze – tagliò corto l’altro, tornando ai propri fogli. Bill fece uno strano saltello per non inciampare nei suoi stessi piedi.

- Devi credermi, Tom, ho provato a cantare, ma non ci riesco – farfugliò. – Ti prego, non farmelo fare. Non ce la faccio, non posso, non voglio! –

- Bill – Il biondo lo interruppe con voce pacata, bloccando i suoi vaneggiamenti. – Avanti, siediti – disse, spostandosi per fargli posto sul divano. Bill si lasciò cadere sui cuscini, prendendosi la testa tra le mani.

- Non ce la faccio – ripeté.

- Certo che ce la fai. Dov’è che avresti provato a cantare?

- In bagno, poco fa – Tom sorrise divertito, ma il moro era troppo agitato per accorgersene.

- Allora è ovvio che non ci riesci. Non è molto poetico – Bill gli rivolse uno sguardo disperato. – Seriamente, Bill, non hai provato davvero. Per ora te la stai solo facendo sotto dalla paura, ma non appena ti abituerai all’idea, passerà. E’ come l’ansia da prestazione, diciamo – concluse distrattamente.

- Non puoi paragonarlo a un semplice… non so, panico da palcoscenico?! –

- E’ uguale –

- Non ce la faccio – ripeté Bill, scuotendo la testa.

- Sei monotono –

- Ma perché non capisci? – sbottò. Tom sospirò nuovamente.

- Ascolta – Il suo tono aveva qualcosa di stranamente rassicurante e, per quanto Bill non avesse intenzione di farsi dissuadere, si ritrovò ad obbedire. – Nessuno si aspetta niente da nessuno. Anzi, è proprio per questo che ci riuniamo: perché vogliamo parlare tutti e quattro delle nostre intenzioni e aspettative. Sarà esattamente come prima, se uno non è d’accordo si cerca di ripartire da un altro punto. Se non si affrontano i problemi, non li si risolvono neanche, Bill. E, dato che tutti noi vorremmo ricomporre il gruppo e che io sono sicuro che ti stai facendo un sacco di problemi per nulla, è proprio questo che faremo. Ne parleremo – Bill chinò al testa, serrando le labbra. – Non devi mollare prima ancora di cominciare. Non ha senso, te ne pentiresti – Seconda pausa di riflessione. – Sei più tranquillo? –

Bill rialzò la testa, incrociando lo sguardo di Tom, ma non riuscì a sorridere. – Mi odieranno –

- Chi? –

- Gustav e Georg

- Per l’amor di Dio, Bill, perché mai dovrebbero odiarti?!

- Vi siete incontrati un sacco di volte, lo saprai – lo rimbeccò Bill con tono pungente.

- Sì, ci siamo incontrati e so per certo che non vedevano l’ora che tu ti decidessi a dare l’ok –

Il moro scosse la testa. – Sarò solo motivo di imbarazzo. Vacci tu, a quella riunione. Io non posso –

- Per favore, non ricominciare –

- Ma io non me la sento! –

- Se ti rifiuti, ti piglio per i piedi e ti ci porto di peso – Bill lo guardò con aria di sfida.

- E chi saresti tu per farlo? – Il biondo sorrise appena.

- Tuo fratello –

Per pochi, interminabili secondi, nessuno dei due disse più nulla. Bill si impose di non dargli una rispostaccia, ma, a dire la verità, la parola che aveva usato Tom non gli offriva un motivo per farlo. Continuò a fissarlo, prese un bel respiro, non disse nulla… e si rese conto che, se ci fosse stato il gemello con lui, forse non si sarebbe sentito fuori posto. Non così tanto, perlomeno.

- D’accordo – disse lentamente. – Forse posso farcela – Tom sorrise trionfante.

- Oh, finalmente! E’ così che ti voglio! E togli quel “forse”, per favore, stona da morire –

Insomma, l’aveva visto contento e questo, in qualche modo, l’aveva persuaso. Gli era bastato.

Non capiva cosa portasse Tom a comportarsi in quel modo. Di certo, in quei mesi lui non aveva fatto nulla per incoraggiarlo, anzi, avrebbe voluto solo vederlo fare le valigie e andarsene senza che nessuno gli dicesse nulla. Ma in quelle ultime settimane, senza che Bill lo volesse davvero, qualcosa era cambiato. Lui era troppo stanco per rispondere a qualsiasi provocazione e Tom non si sforzava più di far finta che lui non esistesse.

Era sempre dell’opinione che quella di riunire i Tokio Hotel fosse un’idea folle, ma Tom stava mettendo talmente tanto entusiasmo in quel progetto da fargli passare la voglia di dissuaderlo.

Chissà, forse aveva ragione. Forse avrebbe dovuto accettare quell’ennesimo fallimento, che in qualche modo avrebbe almeno portato i suoi pensieri altrove.

Se solo Tom avesse saputo…

Se avesse saputo, avrebbe capito che era tutto inutile.

Ma lui non poteva sapere… non doveva sapere. Nessuno doveva sapere.

Cosa sarebbe successo, quando non avrebbe più retto il peso dei ricordi e dei sensi di colpa? Sarebbe esploso, e allora non avrebbe potuto farci più niente. E quel momento non doveva essere tanto lontano, lo sentiva.

 

 

Quando il giorno fatidico arrivò, Bill avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non fare ciò che invece si era ripromesso di portare a termine. Aveva atteso con angoscia quel momento per giorni che si erano trasformati in settimane, e adesso l’unica cosa che voleva era tirarsi indietro.

Tom, più che contento, era euforico, ma di un’euforia strana, come se non si rendesse conto fino in fondo di ciò che stavano per fare. Guardandolo passare e ripassare per il corridoio, Bill si rese conto di come il suo aspetto esteriore non fosse affatto cambiato in quei tre anni e mezzo. Aveva indossato i soliti jeans con il cavallo a terra, la solita maglia extra large con felpa in allegato, il solito cappellino con fascia e le solite scarpe da ginnastica.

Lui, invece, non aveva la più pallida idea di come vestirsi. Ricordava fin troppo bene il suo vecchio stile, quello che faceva nascere seri dubbi sulla sua sessualità. Era già molto più di un anno che aveva cominciato a portare abiti più comuni, più o meno da quando si era preso una pausa –o meglio, quella che avrebbe dovuto essere una pausa- dai Tokio Hotel e adesso non riusciva neanche a immaginare di potersi conciare a quel modo.

Proprio mentre era immerso in queste riflessioni, la testa di Tom fece capolino dalla porta della camera da letto e Bill si vide squadrato dalla testa ai piedi. – Sei ancora lì? Ma che, stai dormendo?

- Io… non so come presentarmi – Bill si rese conto che, detta così, la sua era una scusa veramente stupida.

- A mani vuote ma con un bel sorriso! – rispose candidamente Tom. L’altro, troppo stordito per incenerirlo con lo sguardo, gli rivolse invece un’occhiata perplessa.

- Non è una cosa impegnativa, no? Posso restare così? – gli chiese titubante, accennando con un gesto della mano ai vestiti che indossava in quel momento. Tom scrutò con aria critica la felpa grigia e i consunti pantaloni bianchi indicati dal gemello.

- Scherzi? Sono secoli che non vi vedete, devi darti un tono! – Altra occhiata vacua.

- E cioè? –

- Dove hai messo tutta la roba che indossavi prima? – Bill sbatté le palpebre come un animale braccato.

- Ho tenuto un paio di cose negli armadi dello stanzino – Dopo che ebbe pronunciato quelle parole, per un attimo gli sembrò che il fratello avesse deglutito, ma fu un’impressione talmente rapida che non vi diede peso più di tanto.

- Beh, allora vediamo cosa possiamo recuperare –

Bill stava quasi per dissuaderlo, ma poi si ritrovò a fissare perplesso il contenuto di uno dei due armadi mentre, dopo averlo aperto, Tom scandagliava minuziosamente gli abiti appesi alle grucce. Dopo qualche secondo di riflessione, tirò fuori una giacca di pelle nera dalla linea piuttosto semplice che, nonostante negli anni passati fosse stata usata molte volte da Bill, era ancora in buone condizioni. – Dài, questa non te la toglievi praticamente mai! – Il moro se la rigirò tra le mani come se non la riconoscesse. Effettivamente non era nulla di eccessivo… forse non avrebbe stonato così tanto addosso a lui. – Non fare quella faccia da pesce lesso, hai due armadi stracolmi di vestiti, usali, no? –

Straordinario come Tom riuscisse a comportarsi da perfetto fratello maggiore, pensò Bill, mentre l’altro gli stipava una serie di magliette tra le braccia. – Avanti, scegline una –

Lo sguardo di Bill galleggiò fra tre magliette nere, ognuna con un decoro diverso e tutte molto più strette di quanto ricordasse. – Ma forse sono troppo… -

- Senti, per anni hai adorato questa roba che piaceva solo a te. Ora che ti do il via libera ti tiri indietro? –

- Vabbè, prendo questa – si arrese infine, sollevandone una a caso. Era una delle poche a maniche lunghe, con una complicata scritta argento sul petto. Tanto non si sarebbe neanche guardato allo specchio. Poi pescò un paio di jeans da una delle grucce, il primo che gli capitò tra le mani, e chiuse l’armadio. – Soddisfatto? – chiese a Tom, con una lieve sfumatura di sdegno nella voce.

- Decisamente – fu la risposta.

Bill si ritrovò a saltellare per tutta la stanza nel tentativo di infilarsi in quella sottospecie di guaina. Ma perché da ragazzino si era sempre ostinato a portare vestiti così stretti? Non che in quegli anni avesse messo su qualche chilo, ma sicuramente, per entrare in quegli abiti striminziti, ci voleva qualche mossa speciale che doveva aver dimenticato. Cercò di tirare un po’ su i jeans dalla vita decisamente troppo bassa, poi di compensare tirando verso il basso l’orlo della maglietta, ma continuava a sentirsi troppo scoperto. Che razza di idea quello di farlo vestire come un ragazzino dalla sessualità incerta. Eppure quello stile gli era piaciuto, un tempo.

 

“Stai con me

perchè mai come adesso

ho bisogno di te”

 

Bill fu ben felice di affidare a Tom la guida dell’auto, senza contare che lui non conosceva neanche l’indirizzo di Gustav: l’appuntamento era a casa sua.

Prima di scendere dalla macchina, lanciò a Tom un ultimo sguardo disperato. – Devo proprio…? –

- Non devi – lo interruppe il biondo. – Ne sarai felice, credimi. Non agitarti così –

Già, facile a dirsi, pensò Bill, mentre salivano le scale e già cominciavano a sentire le voci di Gustav e Georg in lontananza. Quando si trovò di fronte a loro, ebbe un attimo di esitazione, il piede bloccato sull’ultimo gradino.

- Buonasera! – Il saluto di Tom fu molto più entusiasta del suo, che si limitò a qualche timido passo in avanti, a testa china e senza dire una parola. Non aveva neanche il coraggio di guardarli in faccia.

- Ehi – Alzò di poco la testa quando una mano dalle dita un po’ tozze gli batté una leggera pacca su un braccio, e quasi se ne pentì: aveva ancora in mente l’immagine che lo specchio gli aveva restituito quando si era guardato dopo essersi convinto a prendere del tutto le sembianze del vecchio “Bill Kaulitz dei Tokio Hotel”. Come un automa, aveva recuperato i trucchi che usava a quei tempi per poi tracciare con la matita un’esitante contorno nero intorno agli occhi e pentirsene immediatamente. Ma chissà, forse era così che i suoi amici si aspettavano di vederlo.

- …ciao, Gustav – proferì a mezza voce e guardandolo di sottecchi. Rimasero così per qualche secondo prima che Gustav si muovesse in avanti per abbracciarlo. Si ritrovò a circondare le spalle dell’amico con le braccia, ancora esitante, guardando fisso davanti a sé.

- Ci sei mancato –

Il saluto di Georg fu decisamente più allegro: ancora perso a fissare i suoi capelli insolitamente corti, Bill quasi non si accorse della poderosa pacca che il ragazzo gli assestò su una spalla, facendolo barcollare. – Ma dove eri finito, eh? –

L’entusiasmo dei due amici lo trascinò fin dentro casa e sembrò non doversi spegnere mai, tanto da non farli neanche accorgere che la mente di Bill era totalmente da un’altra parte.

 

Haylie fece una buffa giravolta e il vestito si alzò di qualche centimetro da terra, facendo la ruota insieme a lei.

- Contento? Mi hai visto – ridacchiò, simulando un inchino. Bill, appoggiato con la schiena al muro, sorrise.

- Sei una favola. Te lo compro! –

- Oh, finiscila. Ti si prosciugheranno portafogli, conto in banca e libretto degli assegni – Haylie scosse la testa come per prenderlo in giro, guardandosi allo specchio con l’elegantissimo vestito nero addosso.

- Ma dài, ti sta così bene! – insorse Bill, avvicinandosi a lei e cingendole la vita con le mani.

- Su, l’ho provato solo per farti togliere lo sfizio. Di comprarlo non se ne parla –

- Dimentichi che il conto che hai paura di prosciugare basterebbe a farci campare di rendita per dieci anni – Bill rise di gusto davanti alla sua espressione risoluta. – Posso regalartelo? – le sussurrò all’orecchio con una buffa vocina infantile, mentre le sue mani le accarezzavano le spalle scoperte.

- Nooo! – Haylie si lasciò sfuggire una risatina quando Bill si chinò su di lei e cominciò a baciarle il collo, mormorando un sommesso “ti preeego”. – Non voglio sentirmi debitrice a vita –

- Ma perché le donne sono così difficili da corrompere? – Haylie si girò verso di lui, sorridendo maliziosa. Posò le mani sul suo petto e avvicinò le labbra alle sue.

- Perché altrimenti gli uomini non sarebbero ai loro piedi

 

- Bill, non prendi niente? –

- Eh? – Bill si rizzò sul divano, cercando di sembrare sveglio. Il suo sguardo vagò sui bicchieri e le bottiglie appoggiate sul tavolino, poi si spostò di nuovo su Georg. – No, grazie –

Sembravano tutti così straordinariamente a proprio agio… Li invidiava da morire. Erano lì da almeno mezz’ora e lui non aveva ancora detto una parola. Ma perché si comportavano come se non fosse successo niente, come se avessero mantenuto i contatti per tutti quei mesi?

- Dunque – esordì Gustav, versandosi dell’aperitivo in un bicchiere. – Devo fare una comunicazione –

Tom e Georg si scambiarono uno sguardo esageratamente preoccupato. – Oddio –

- Idioti – Gustav sorseggiò una piccola quantità del liquido contenuto dal bicchiere, poi mise su un’aria scherzosamente solenne. – In onore di questo fantastico gruppo che si riunisce oggi, ho chiesto come favore speciale a David Jost di metterci a disposizione il nostro vecchio studio di registrazione… almeno per stasera! –

Tom si lasciò cadere all’indietro contro lo schienale del divano, affondando il volto tra le mani. – Sapevo che non avrei dovuto lasciarti organizzare tutto – gemette sconsolato. Gustav lo squadrò con aria di sufficienza.

- Puoi, per una volta, mostrarti serio ed esporre seriamente cosa pensi della mia serissima idea? –

Dalle dita di Tom spuntarono due occhi leggermente socchiusi, poi il ragazzo saltò giù dal divano e afferrò Gustav per le spalle. – Sei un grande! – ruggì, ridendo come un matto.

- Aspetta! – lo frenò Georg. – Non vorrai cominciare a… a lavorare proprio stasera? –

- Ma certo che no! – lo rassicurò Gustav. – Ma provare qualche vecchia canzone non sarebbe male per ricominciare, no? –

- Sì! – Georg sbatté un pugno contro il palmo della mano.

Subito dopo, Bill si vide tre sguardi puntati addosso. – Allora, che ne dici? – gli chiese Georg, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Bill boccheggiò per qualche istante, chiedendosi se non fosse il caso di tirarsi indietro proprio in quel momento. Era la sua ultima occasione.

Chiuse gli occhi, li riaprì, prese un bel respiro e…

- D’accordo. Andiamo –

 

 

 

 

 

Non ci credete neanche voi, vero? *.* Giuro solennemente che per il prossimo capitolo non vi farò aspettare troppo… già ho sofferto io a scriverlo! XD

L’avete ascoltata “Stai con me” di Raf (usata anche in questo capitolo), VERO??? Dato che la risposta è sì, do per scontato che vi sia anche piaciuta u.u

angeli neri: bentornataaaaaaaaaaa *coriandoli e stelle filanti* Ecco, hai centrato il punto. In realtà non si sa né come né perché, ma Bill ama Haylie… e c’è poco da fare.

BigAngel_Dark: eheh, nessuno l’avrebbe voluta (risatina malefica). Ma nessuno che esprima sincero rammarico per questa povera ragazza, suvvia… (NdA: io sono la prima a detestarla)

rakith: waaaaa miticuzz X°°DDDD Però qui stavano per scannarsi di nuovo, eccheppalle u.u

Temperance_Booth: l’applauso ci stava come il pane, vero? No, ora tu mi dici se vedi DAVVERO Bill e Michelle insieme *___* (sguardo assassino) E, nel caso non si sia capito, le parole di Tom sono la riproduzione delle idee che la sottoscritta si è fatta di una rispettabile signora che ha fatto tingere i capelli e bucare la lingua al suo figlioletto di 6 anni!

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Capitolo 14
*** Tutta la verità ***


Capitolo 14 – Tutta la verità

Capitolo 14 – Tutta la verità

 

“Quanta vita che corre via,

augurandomi che non sia

tardi ormai

per ritrovare in te me stesso”

 

Quello sgabello gli era estraneo. Il microfono gli era estraneo. Così come gli altoparlanti, gli strumenti, le vetrate. Tutto di quel luogo gli era estraneo.

- Allora, cosa proponi per iniziare? – gli chiese Gustav con un sorriso. Bill lo guardò con espressione vuota.

- Io… non lo so – mormorò, abbassando la testa. Anche le cuffie gli davano fastidio, sentiva le orecchie così calde. – Scegliete voi. Per me è uguale –

Così fu Georg a prendere la parola, forse per allentare la tensione che si stava creando. – Vabbè, dài, facciamo qualcosa di “Zimmer 483” – Gli altri annuirono, ma nessuno disse nulla. – Non so, tipo… “Ich bin da”, “Reden” o… boh, “Heilig”… -

Bill deglutì. Qualcosa gli si era fermato in gola e rendeva difficoltosa la respirazione. Vide Gustav pronto con le sue bacchette, Georg che imbracciava il celebre basso a scacchi bianchi e neri, Tom con la Gibson, una delle tante, poggiata sulle ginocchia.

Chiuse gli occhi, cercando di respirare con calma e di ignorare il sudore che già gli impregnava la fronte.

 

Sorrise quando Haylie, in canottiera e con i capelli legati dietro la nuca, si sedette a cavalcioni su di lui e gli sfiorò la bocca con un bacio lievissimo. – Ma tu me l’hai mai scritta una canzone? – sussurrò appena.

- Mmh? – Bill chiuse gli occhi mentre le labbra di Haylie schiudevano le sue.

- Una canzone tutta per me? L’hai mai scritta? – Le sue mani che gli massaggiavano dolcemente le spalle lo mandavano fuori di testa…

- Uh… certo – mormorò, cingendole i fianchi con le mani. Avvicinò le labbra al suo orecchio. – Ich glaub an dich, du wirst für mich immer heilig sein… - cantò a fior di labbra, sentendola sorridere contro il suo collo. – Per sempre sacra – ripeté in un sussurro, stringendola a sé.

 

Gli sembrò che i primi deboli accordi provocassero un fracasso infernale. Non ce l’avrebbe mai fatta.

Eppure doveva farcela.

 

I suoi occhi erano lucidi oltre il normale, le labbra aperte in cerca di respiro. Non c’era una sola parte di lei che non tremasse incontrollatamente. Bill le strinse ancora più forte la mano, accarezzandole il viso. Non poteva mostrarsi terrorizzato, doveva farcela, doveva farcela per lei. – Haylie… Haylie, tesoro… - balbettò, baciandole la mano stretta a pugno. Ma lei già non rispondeva più.

Bill non riuscì a comprendere le ultime parole che lei pronunciò a fatica, mentre le palpebre si abbassavano e la mano allentava la presa sulla sua, e questo non se lo sarebbe mai perdonato.

Quando il suo sguardo si spense e le sue labbra si aprirono di più, come se avessero finalmente trovato l’aria che cercavano, Bill si ritrovò a stringere una mano inerte. Gli occhi gli si erano già riempiti di lacrime, che cominciarono a scorrere sulle sue guance nello stesso istante in cui fu certo che lei non potesse più vederle.

- Haylie… - Le accarezzò il volto con mano tremante, e si accorse che era freddo come non mai. – Haylie… no… - balbettò, stringendole convulsamente una spalla. Non ci fu nessuna reazione, nessuna risposta. – No… Haylie… HAYLIE! –

 

Le cuffie gli scivolarono dalle orecchie e Bill le lasciò cadere a terra, affondando il volto tra le mani.

- No! – gemette. – Non ce la faccio! Non ce la faccio!

Tutto quello che venne dopo, lo sentì a malapena. Tom abbandonò subito la chitarra, alzandosi di scatto e correndogli incontro. Lo prese per le spalle, scuotendolo lievemente. – Bill… Bill, che succede? – Quando Bill alzò la testa, capì immediatamente cosa stava per accadere. La sua fronte era madida di sudore, le mani avevano cominciato a tremargli e gli occhi apparivano oscurati dal panico.

- Andiamo via… ti prego, andiamo via – lo supplicò Bill con voce roca, aggrappandosi alla sua felpa. Tom gli passò un braccio dietro la schiena, aiutandolo ad alzarsi, al che il gemello si abbandonò contro di lui, tremando.

- Cos’è successo? Che ha? – Nel frattempo, Gustav e Georg l’avevano velocemente affiancato.

- Non preoccupatevi – disse Tom, forzando la presa sulla vita di Bill per non farlo cadere. – Scusateci, dobbiamo andare. Mi dispiace – Gustav lo precedette, aprendogli la porta.

- Ma che dici? Certo, andate! – Tom lo ringraziò con un sorriso nervoso, trascinandosi dietro Bill. – Mi raccomando, chiamami, più tardi! –

 

“Credi,

siamo nati insieme

e cresciuti qua,

anelli di catene uniti

per non spezzarsi più”

 

- E’ stata tutta una grandissima cazzata –

Bill si lasciò cadere seduto sul letto, mentre Tom si affrettava ad entrare nella stanza con lui e spalancare le finestre. – Una stronzata all’ennesima potenza. Non dovevo costringerti –

Bill seguitò a non dire nulla, fissando il pavimento. La crisi era andata scemando mentre tornavano a casa in auto alla velocità della luce, ma la sua faccia sembrava quella di chi fosse stato appena pestato a sangue. Tom aprì un cassetto del mobile che usava come comodino per cercare un pacchetto di fazzoletti. Lo richiuse in fretta, avendo visto un angolo della busta bianca che aveva nascosto lì settimane prima: se l’avesse guardata per un secondo di più, si sarebbe messo a urlare. Sedette accanto a Bill e, dopo aver tirato fuori un fazzoletto di carta, afferrò con una mano il mento del gemello e cominciò a strofinargli il trucco via dalle palpebre. – Avrei dovuto saperlo. Ma già, io faccio sempre quello che non devo – Lo sguardo di Bill era spento. Tom non voleva sapere a cosa avesse pensato prima di essere colto da quell’ennesimo attacco di panico, sentiva solo di odiarsi profondamente per ciò che era successo. – Mi dispiace. Non parliamone più. Evidentemente non era destino –

- Haylie è morta per colpa mia –

Tom si bloccò, il fazzoletto ancora premuto sul viso di Bill. Il trucco non era andato via del tutto.

Lo sguardo di Bill incrociò quello del gemello, e Tom sentì un brivido freddo corrergli lungo la schiena. – Non dire idiozie – si costrinse a replicare, appallottolando il fazzoletto. – Sei sconvolto – Subito, si sentì afferrare per una manica, mentre gli occhi di Bill, ancora puntati nei suoi, assumevano una sfumatura di disperazione.

- Sono stato io. E’ stata colpa mia – La sua voce era talmente inespressiva da provocare a Tom un secondo brivido. C’era qualcosa di tristemente folle, disperatamente bisognoso, in quello sguardo.

- Che cosa… cosa stai dicendo? –

Bill deglutì, lo sguardo di nuovo vacuo, la mano ancora aggrappata alla manica della sua felpa. Tom prese il coraggio a due mani.

- Bill… com’è andata… veramente? –

Le labbra del moro si schiusero appena, il suo sguardo si perse in lontananza. – N-non ce la faccio più – Quando sentì la mano di Tom posarglisi su una spalla, sobbalzò e lo guardò con terrore.

- Dimmelo, Bill. Ti prego, raccontamelo –

Le sue palpebre ancora sporche di nero si abbassarono appena, il suo sguardo si fissò sul pavimento. E, da quando Bill, con tono monocorde e sommesso, iniziò a parlare, non si staccò mai da quel punto.

- Dopo che Haylie perse la prima bambina, cominciai a sentire qualcosa di strano. Da una parte ero distrutto, perché mi ero abituato all’idea di un figlio, e questo sogno si era sgretolato sotto i miei occhi. Dall’altra, ero furioso, perché avrei voluto dirti un sacco di cose e tu non c’eri. Ma da un’altra ancora ero felice, perché io e Haylie ci eravamo chiariti, avevamo promesso di non dimenticarci mai delle cose importanti.

Quando siamo tornati in tourbus, ho cercato in tutti i modi di non farle pesare la situazione. Mi mancavi e non l’avrei mai ammesso, anzi… forse non l’avevo nemmeno capito. Ho portato avanti i Tokio Hotel perché era giusto così, ma sapevamo tutti che qualcosa era venuto a mancare. Io e Haylie eravamo… tranquilli, in quel periodo, felici perché ci eravamo ritrovati. Sapevo bene che lei avrebbe voluto che io ti cercassi, ma non ha mai detto niente. Stavamo così bene insieme, era tutto perfetto.

Ma poi un giorno ho cominciato a pensare… a qualcosa… che non avrei dovuto. Con il passare dei mesi, mi sono reso conto che, per quanto l’amassi, sentivo che mancava qualcosa. Questo non gliel’ho mai detto, perché sapevo fin troppo bene cosa mi avrebbe risposto. “E’ tuo fratello che ti manca”, mi sembrava di sentirla. E magari aveva ragione, ma intanto io avevo maturato la mia idea e ne ero fermamente convinto. Quella bambina nata morta aveva lasciato un vuoto più grande di quanto pensassi. E mi sono accorto… di volerlo, un figlio. Volevo un bambino da lei. Non le avrei chiesto di sposarmi, per quello non mi sentivo pronto. Ma per avere un figlio sì, mi sentivo pronto. Lo volevo davvero, e non tardai a parlargliene. Solo che lei… non sembrò felice quando glielo dissi –

Tom chiuse gli occhi, respirando profondamente. Non c’era niente nelle parole di Bill, non c’era rabbia, non c’era dolore, non c’era nostalgia. Chissà quante volte ci aveva pensato e ripensato, finché quei ricordi non si erano depositati in fondo nel suo cuore. Bill fece una brevissima pausa prima di riprendere il racconto, con lo sguardo ancora fisso a terra.

- Lei era… terrorizzata. La morte di quella bambina l’aveva segnata nel profondo, era stato l’ultimo di una lunga serie di eventi dolorosi. Io le parlai con serenità, cercando di tranquillizzarla, dicendole che poteva pensarci, che con il tempo il dolore si sarebbe alleviato, ma lei non era convinta. Aveva una paura maledetta, ma io mi convinsi che prima o poi sarebbe passato. Haylie capiva quanto fosse importante per me, e fu per questo che, alla fine, mi disse che forse avevo ragione, che si sarebbe abituata all’idea. E comunque c’era tempo, non era detto che il bambino che volevo venisse concepito all’istante.

Infatti non successe. Passarono mesi e mesi, ma Haylie non rimaneva mai incinta. Tentò varie volte di dissuadermi con questo pretesto, sostenendo che magari quello era lo stesso motivo per cui la prima bambina era nata morta, che forse in lei c’era qualcosa che non andava. E fu un tarlo che attaccò subito anche me.

Quello fu… il peggior periodo che passammo insieme. Con la musica non combinavo più niente, ero sempre in tensione sia per quel bambino che non arrivava sia per la preoccupazione per la salute di Haylie. Lei sembrava star bene, ma continuava a non restare incinta. Passavamo da un medico all’altro, e tutti dicevano la stessa cosa, anche se io non capii mai i dettagli e le motivazioni di ciò che spiegavano: eravamo entrambi in salute, ma forse la prima gravidanza aveva preannunciato una certa difficoltà per l’organismo di Haylie. Forse era da prendere come un avvertimento, magari voleva dire che il suo corpo non poteva sostenere uno sforzo simile. Ma io non ho desistito. Mi rifiutavo di credere che potesse esserci qualcosa che non andava, in lei… in noi.

E infatti il miracolo arrivò. Haylie restò incinta l’estate scorsa. Io ero… felice, euforico. Ma Haylie cominciò a non star bene fin dai primi mesi di gravidanza. Era sempre a terra, come se si sentisse debole. Decisi di prendermi una pausa con il gruppo, ma non spiegai nulla. Questa volta ce lo saremmo tenuto per noi fino alla fine.

E poi, un’altra girandola di medici. La conclusione era sempre la stessa: Haylie doveva stare a riposo, era molto indebolita, c’erano grandi rischi di aborto. La gravidanza riuscì a portarla fino alla fine, ma con sforzi disumani. Era sempre… pallida, stanca, si affaticava per nulla. Già al sesto mese le veniva difficile muoversi, e io… le stavo sempre accanto, ripetendole che ce l’avremmo fatta, che eravamo sulla buona strada, che si trattava solo di fare un ultimo sforzo. Non riuscivo a capire se fosse ancora impaurita all’idea del bambino o se fosse semplicemente debole come dicevano i dottori. Quando… tutto iniziò, e andammo in ospedale… non sentivo dire altro che quello sarebbe stato un parto difficile. Haylie era sempre magrissima, la pancia era cresciuta così poco che, prima del parto, sembrava essere ancora al sesto mese… -

Se avesse seguito l’istinto, Tom gli avrebbe preso una mano tra le proprie e l’avrebbe stretta più forte che poteva… Bill chiuse gli occhi e, per la prima volta da quando aveva iniziato a raccontare, i suoi lineamenti si contrassero impercettibilmente.

- Haylie mi supplicò di starle accanto e io… io ero terrorizzato all’idea di assistere al parto, ma… per lei avrei fatto di tutto. Eravamo arrivati al punto che inseguivamo –che io inseguivo- e non l’avrei lasciata sola. Fu… straziante, una tortura. Alla fine, Haylie non aveva neanche più la forza di piangere, c’ero io che le tenevo una mano e cercavo di tranquillizzarla, ma era come se non mi sentisse. E quei medici… quegli stronzi che per mesi avevano vantato tutte le loro grandi conoscenze… non sono riusciti ad aiutarla… non le hanno dato retta quando urlava per il dolore, non… non mi hanno ascoltato quando dicevo che Haylie non respirava quasi più. Il cuore non ha retto allo sforzo, dissero dopo, tutto il suo organismo era troppo debole. E’… è morta tra le mie braccia, prima ancora di raccogliere le forze per spingere fuori del tutto il bambino. E il bambino era… talmente piccolo, talmente fragile, che non sono riusciti a salvare neanche lui. L’ho sentita… l’ho sentita respirare sempre più piano, ho sentito il suo cuore spegnersi a poco a poco – Bill deglutì e chiuse gli occhi, chinando la testa. Le sue labbra ebbero un fremito. – Mi… mi stava ancora stringendo la mano, quando stava morendo – mormorò con voce strozzata.

Tom, seduto accanto a lui, non aveva la forza di muovere un muscolo. Il racconto che aveva appena ascoltato sembrava quasi una storia inventata, una fiaba d’altri tempi. Una fiaba senza lieto fine che aveva tormentato suo fratello per settimane, mesi. – Oh mio Dio… - sussurrò, il respiro rallentato, chiudendo gli occhi.

Quando li riaprì per guardare Bill, pronto a dirgli qualsiasi cosa pur di non sprofondare in quel silenzio opprimente, vide un’unica, piccola lacrima scivolare lungo la sua guancia, trascinando con sé i rimasugli di trucco e rigandogli la pelle di nero. – Io non ho mai capito com’era lei – gemette, scuotendo la testa. – Lei non voleva quel bambino, ma io pensavo che col tempo avrebbe cambiato idea… - Le sue mani tremarono per un attimo, prima che Bill le affondasse tra i capelli, rannicchiandosi su se stesso. – Lei era tutta la mia vita, e io l’ho uccisa con le mie mani! – giunse la sua voce già alterata dal pianto.

- Bill, io… - Per un attimo, la mano di Tom vagò incerta sulla sua spalla, prima che un flash gli attraversasse la mente all’improvviso. Si morse le labbra, si guardò intorno indeciso, ma poi si alzò di scatto dal letto e si diresse verso il cassetto da cui aveva preso i fazzoletti. Afferrò la lettera che vi aveva nascosto poco tempo prima, tornando a sedersi accanto al gemello. Lo scosse leggermente per una spalla. – Ascolta… -

- Sono stato io – fu il flebile sussurro di Bill, il capo ancora chino in avanti. – E’ questa la verità –

- No – Tom gli strinse più forte la spalla e il moro alzò la testa. Il suo sguardo vagò dal viso di Tom alla busta che teneva in una mano. – E’ questa la verità – Bill tornò a guardare la lettera, tirando su col naso.

- C-che cos’è? – Tom indugiò solo un attimo. Stava per svelare il proprio tradimento.

- L’ho trovata nella tasca di un paio di pantaloni di Haylie. E’ per te, leggila – Si aspettava di incrociare uno sguardo furioso, lo sguardo di chi si sentiva tradito per l’ennesima volta, e invece tutto quello che vide sul viso del fratello fu una sfumatura di speranza contrapporsi alla desolazione. Bill prese la busta e, con mani incerte, ne tirò fuori il foglio piegato in quattro.

Mentre i suoi occhi, sempre più avidi e lucidi, scorrevano tra le righe scritte da Haylie molto tempo prima, Tom si ritrovò a chiedersi cosa avesse provato veramente nel momento in cui le aveva lette. E cosa avrebbe provato il suo gemello…

- Haylie… - Il mormorio spezzato di Bill lo avvertì che il gemello aveva terminato di leggere e, anche quella volta, si accorse di essere sprovvisto di tutte le parole che avrebbe voluto dirgli. Bill fu scosso da un tremito e si coprì la bocca con una mano per soffocare un singhiozzo.

Quando le sue spalle sussultarono, Tom avrebbe dato qualsiasi cosa pur di avere la forza di abbracciarlo, ma poi tutto successe talmente in fretta che persino lui si ritrovò spiazzato.

- Tom! – Un secondo singulto, un movimento veloce, e Bill si era abbandonato contro di lui, stringendo convulsamente le braccia intorno al suo collo e singhiozzando forte contro la sua spalla. Le mani di Tom rimasero incerte per pochi istanti, prima che il ragazzo si decidesse a cingere con le braccia il corpo esile del fratello, cullandolo come un bambino spaventato. – Oh, Tomi… Tomi… -

Improvvisamente, ogni precedente emozione lo abbandonò: la rabbia, il rancore, la tristezza. C’era solo Bill, il suo gemello, c’era l’affetto sconfinato che non aveva mai smesso di provare per lui, c’era la nostalgia, la mancanza della sensazione che non provava più da anni, quella di avere ancora una famiglia.

Bill strinse i pugni sulla sua felpa, tremando contro di lui. – Mi sento… così solo! – singhiozzò, il viso nascosto nel collo di Tom.

- Non sei solo – sussurrò il biondo, accarezzandogli piano i capelli e sentendolo sussultare violentemente fra le proprie braccia. Cercò di ricordare quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che si erano abbracciati così, ma si accorse di non riuscirci. – Non sei solo… non lo sei mai stato –

- Io… ho perso tutto, tutto! - I singulti non erano ancora cessati. Tom allontanò Bill da sé per poterlo guardare in faccia. Le lacrime avevano lasciato dei brutti segni lungo le guance e i suoi occhi erano talmente gonfi da far sembrare che Bill avesse pianto per tutto il giorno.

- Non è così – Tom gli strinse un braccio, accarezzandolo con il pollice, e gli sorrise. Avrebbe voluto dirgli che Haylie era sempre accanto a lui, ma non aveva mai creduto alla presenza dei morti ed era sicuro che il gemello lo sapesse. Non voleva essere ipocrita. Voleva, e doveva, solo dirgli quanto di più vero riuscisse a cavare fuori dal cuore. – Ci sono io. Ti voglio bene, Bill – Il moro lo guardò per qualche attimo tirando su col naso, prima di chinare la testa e riprendere a piangere sommessamente, coprendosi la bocca con una mano. Tom lo circondò con le braccia e lo strinse di nuovo a sé, sentendo i singhiozzi di Bill soffocati sul proprio petto, sulla felpa ormai bagnata a chiazze e sporca di nero. Lasciò che si sfogasse liberamente, che facesse scorrere tutte le lacrime che aveva trattenuto, sperando che questo servisse ad alleviare la sua sofferenza.

Com’era possibile soffrire a quel modo e tenersi tutto dentro per tanto tempo, com’era possibile soffocare il dolore fino a sentirlo parte di sé? Fu la mancata risposta a queste domande a confermare il pensiero di Tom: suo fratello era davvero la persona speciale che era sempre stato. E allora com’era possibile che tutto quello fosse toccato proprio a lui?

Quando i singhiozzi diminuirono, Bill, con il respiro ancora un po’ affannoso, si staccò da lui, asciugandosi gli occhi con la manica della giacca. Furono i pochi istanti di silenzio che seguirono a provocare un altro lampo nella mente di Tom.

- Bill, dov’è sepolta Haylie? –

Il moro lo guardò in modo strano, come se si sentisse messo con le spalle al muro, e mugugnò l’indirizzo del cimitero continuando a strofinarsi gli occhi. – Ma io non so se… - tentò poi debolmente di opporsi.

- Andiamo da lei. Adesso –

Bill si passò una mano sul viso, poi guardò il palmo sporco di trucco. I suoi occhi si posarono su Tom. – N-non posso venire conciato così! – Il biondo si alzò dal letto, tirandolo per un braccio e facendo alzare anche lui.

- Allora cambiati. Dài, sbrigati –

Gli era preso come uno strano impulso, un incomprensibile, urgente bisogno. Non avrebbe saputo spiegarlo e neanche gli interessava: sapeva solo che doveva farlo, che dovevano farlo.

Pochi minuti dopo, Bill uscì dalla camera da letto in jeans e con un vecchio giubbotto grigio, tentando di tirare su la zip fino al mento. Si era ripulito il viso alla meno peggio, anche se gli occhi erano ancora gonfi come se avessero ricevuto un pugno ciascuno. Tom lo spinse fuori di casa appena in tempo per fargli afferrare una sciarpa attaccata all’appendiabiti, e pochi minuti dopo erano già in macchina, con Bill al volante.

Tom notò subito l’incertezza del gemello nella guida, come se non conoscesse la strada, ma la attribuì alla stanchezza e allo stordimento. Quando parcheggiarono nei pressi dell’entrata del cimitero, lo sguardo di Tom percorse le inferriate dei cancelli con una certa inquietudine.

- Dài, entriamo – si costrinse a dire. Vide l’esitazione di Bill accentuarsi quando si trovarono a due passi dall’entrata, ma non poteva tirarsi indietro. Stava succedendo esattamente come qualche ora prima: Bill non voleva venire alla riunione, lui l’aveva praticamente costretto e tutto era finito in dramma. Ma adesso era diverso, non poteva cambiare idea. Infilò un braccio sotto quello del gemello, tirandoselo dietro. Credeva che Bill conoscesse la strada, ma lo vide fermarsi e chiedere sottovoce qualcosa al custode, che fece un cenno distratto verso sinistra e rispose a voce altrettanto bassa.

La spiegazione di quel comportamento cominciò ad apparirgli più chiara quando si trovarono di fronte alla tomba di Haylie. A differenza di molte altre, la lapide era piuttosto sporca, il nome in rilievo si presentava opaco e la foto scolorita. A completare il tutto, la totale assenza di fiori.

Tom sentì qualcosa di molto simile a un pugno nello stomaco. Fu colto da un lieve giramento di testa e si aggrappò al braccio di Bill, balbettando: - Cosa… perché…? –

- Non ho mai avuto il coraggio di venire – rispose Bill con la voce rotta, stringendo i pugni e mordendosi il labbro inferiore.

Tom chinò la testa, coprendosi gli occhi con una mano. Era una visione insopportabile. La tomba abbandonata come se Haylie fosse stata dimenticata da tutti, la foto scolorita… no, non avrebbe potuto guardarla per un secondo di più.

Non si accorse che Bill aveva stretto i pugni, non vide i suoi occhi colmarsi nuovamente di lacrime, sentì solo un gemito spezzato provenire dalla sua sinistra. - …no! –

Alzò la testa e lo vide con il viso sepolto tra le mani, leggermente curvato in avanti, come se non avesse più la forza di reggersi in piedi. Per la seconda volta non ebbe il tempo di fare nulla, perché Bill si aggrappò a lui, riprendendo a piangere contro il suo collo. Tom lo strinse a sé, appoggiando il mento sulla sua spalla, e rimasero così per minuti interi, senza dire nulla, lasciando che il vento, con la sua furia e il suo sibilo, parlasse per loro.

 

“Stai con me

nell’alto dei cieli,

stai con me

tra questi veleni”

 

- Non andartene anche tu – singhiozzò debolmente Bill stringendo più forte il gemello.

- Sono qui – Tom non sapeva quante volte avesse ripetuto quelle parole, ma non gl’importava, perché quella era la semplice verità. Era lì, era lì per lui, come era stato fin dal primo momento. Sentì Bill tirare un respiro affannoso.

- Giurami che non cambierà più niente, che ci vorremo sempre bene – Bill strinse i denti come se sentisse dolore fisico, mentre le lacrime riprendevano a scorrere copiose lungo le sue guance. – P-perdonami Tom… perdonami! – singhiozzò.

Tom lo abbracciò con forza senza dire nulla. Gli parve di sentire un lieve pizzicore da qualche parte negli occhi, e ne ebbe la conferma quando li strofinò con le nocche e le sentì bagnarsi leggermente.

Ce l’aveva fatta. Era libero.

- Hai chiesto scusa troppe volte, Bill – mormorò sorridendo appena. – E sei l’unico che non ha nulla da farsi perdonare – Il moro si separò da lui, guardandolo con occhi colmi di tristezza. – Non cambierà più niente. Te lo giuro, fratellino –

Bill ingoiò le ultime lacrime rimaste prima di sorridere.

Sorridere davvero per la prima volta, sorridere al fratello che credeva di aver perso, quel fratello che era l’unica persona che gli era rimasta.

Un ultimo abbraccio mise la parola “fine” al rancore e alla rabbia che si erano tenuti dentro fino a scoppiare, e suggellò un patto davanti agli occhi di Haylie che, seppur dai colori un po’ sbiaditi, li guardava sorridendo da quel pezzo di ceramica stampata.

 

 

 













Eccoci, dunque.
Da questo capitolo emerge quanto io sia priva di fantasia e come la struttura di questa fic sia praticamente uguale a quella del suo prequel "Dimentica". Però, ecco... E' questa la scena attorno a cui si è creata la vicenda, questi i primi dialoghi che ho creato, questo il momento che aspettavo. E la mia amata "Stai con me" di Raf non poteva risultarmi più utile di così.
Ormai ci avviciniamo alla fine, il prossimo capitolo sarà l'ultimo prima dell'epilogo... e spero che queste ultime puntate spingano chi ha letto senza mai commentare (32 preferiti °__° grazie) a fare un piccolo sforzo almeno per una volta.
rakith: il "tuo" capitolo? Wè bella, modera i toni! XD
noirfabi: speranza avverata, come puoi notare. E la frase che hai citato trova il suo collegamento.
Pikkola Tokietta: meglio tardi che mai XD No, scherzo, sono stata contentissima di leggere la tua recensione e spero di trovarne anche per i prossimi capitoli. Grazie di cuore.
Sweet Dreamer: vabbè, perdonata (per questa volta!)... Beh, più sorpresa di così si muore (che brutta cosa da dire in un contesto come questo XD)
Sore: io sono raccomandata U_U Penso che adesso neanche Bill ti piacerà più, dato che 1) piange (sì, ha un cuore, lui); 2) ha rivelato che non sei effettivamente stata tu a uccidere Haylie...

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Capitolo 15
*** Marzo ***


Capitolo 15 - Marzo

Capitolo 15 - Marzo

 

"E se avrai perduto i ricordi

nella ruggine stanchi,

se avrai rimpianti,

non dimenticare il mare

calmo nei mattini limpidi,

quella voglia di partire

che ci mette ancora i brividi"

 

Erano passati quasi due mesi dal giorno che nessuno dei due avrebbe dimenticato tanto facilmente: quello in cui ogni barriera era stata abbattuta, i segreti messi da parte e i cuori aperti l’uno all’altro.

Chiunque fosse mai passato in quel locale con una certa regolarità non avrebbe potuto non constatare quanto ultimamente sembrasse contento il barista alto e magro dai lunghi dread biondi, ma non poteva neanche conoscere il motivo di quella nuova felicità. Forse, qualche settimana dopo, quel qualcuno -chiunque fosse- si sarebbe trovato a passare nuovamente di lì e non l'avrebbe più visto, il barista dai lunghi dread biondi. Allora avrebbe scrollato le spalle, girando il cucchiaino nel caffé, poi avrebbe gettato uno sguardo incerto alla bevanda e pensato “Beh, in fondo non ha tutti i torti”.

Era esattamente così che Tom aveva dipinto la scena nella propria mente. Peccato non poter spiegare a tutte quelle persone il vero motivo del suo auto-licenziamento.

 

La mattina dopo, al risveglio, aveva trovato il letto di Bill vuoto, e non era certo una novità. Sentiva però, o forse sperava, che quel giorno qualcosa sarebbe cambiato.

Non mancò di darsi mentalmente dell’idiota, perché in realtà le cose erano cambiate già la sera prima, e anche notevolmente.

Dopo la regolare sosta in bagno, si vestì e partì alla ricerca del gemello. Anche se in futuro non si sarebbe mai spiegato perché, in lui persisteva un recondito timore di scoprire che la situazione non fosse cambiata affatto.

Trovò Bill in cucina, ma non fu questo il motivo della sua sorpresa: infatti, il suo sguardo si spostò all'istante sul bendiddio con cui era stato praticamente ricoperto il tavolo: confezioni assortite di corn flakes, fette biscottate, confetture varie, burro, biscotti… Seduto a capotavola, Bill era intento a spalmare una generosa quantità di marmellata su un paio di fette biscottate, mentre, proprio di fronte a lui, dava bella mostra di sé una tazza dalle dimensioni considerevoli colma di latte e cereali. Non appena il moro notò la sua presenza, gli sorrise da sopra il barattolo. – Sei fortunato, se fossi arrivato dieci minuti più tardi non avresti trovato più nulla –

Tom arrancò fino a una sedia, troppo stupito e sonnolento per ridere. – Non eri tu quello che a colazione non ha mai fame? – Bill parve riflettere.

- Diciamo che è stato una specie di periodo di standby. Mi sono svegliato con una voragine nello stomaco, quindi adesso la riempio – concluse con noncuranza. – Vuoi favorire? –

Tom rimase a guardarlo dubbioso per qualche istante prima di annuire e cominciare a servirsi. Da quello che aveva imparato in quegli ultimi mesi, Bill non era più capace di fingere. Possibile, allora, che fosse davvero di buon umore? Un tempo, magari, avrebbe potuto persino metterlo in dubbio: ad avere a che fare con ragazzine urlanti praticamente sei giorni su sette, non si poteva fare altro che indossare una maschera dal perenne sorriso, come effettivamente Bill aveva fatto ai tempi dei Tokio Hotel. Ma adesso…

- Mi stai guardando male – Tom quasi sobbalzò, ancora perso nei meandri della propria mente.

- Chi, io? –

- No, mia nonna. Vedi qualcun altro in questa stanza? – Altra occhiata incerta.

- Non ti sto guardando male – Tom fece una pausa, chiedendosi se fosse il caso di esporre il proprio pensiero. Lo sguardo curioso del fratello lo incoraggiò. – Mi stavo chiedendo se… se tu stessi bene, ecco –

Bill si lasciò sfuggire un sospiro e si strinse nelle spalle, come a dire “e io che posso farci?”.

- Sono tranquillo, se è questo che intendi – Staccò un morso dalla sua fetta biscottata e ridacchiò a bocca piena nel vedere lo sguardo apprensivo di Tom. – Sì, forse sono sempre quel pazzo lunatico che hai lasciato qui tre anni fa. Forse tra un’ora sarò di nuovo intrattabile. Ma in questo preciso momento mi sento… disteso, e voglio godermi questa sensazione –

Anche Tom si sentì più rilassato, almeno fino al momento in cui Bill non mise da parte la propria tazza ed esordì con un appena esitante: - Vorrei parlarti –

- Caspita, mi sembrava che ieri avessimo parlato a sufficienza! – Il biondo tentò di smorzare la lieve tensione con una battuta, ma Bill rimase piuttosto serio.

- No, davvero. Non preoccuparti, non sto per dirti che entro la settimana tenterò il suicidio o sparirò dalla nazione. Però è importante lo stesso –

Tom richiuse il pacchetto di biscotti ormai quasi vuoto. – Ti ascolto –

Il moro giocherellò nervosamente con una ciocca di capelli prima di prendere la parola. – E’ vero, ieri abbiamo… anzi, ho parlato anche troppo, ma mi sono reso conto che, nonostante ciò, un paio di questioni le ho lasciate in sospeso – Fece una pausa, durante la quale Tom lo incitò a proseguire con un’occhiata. – Io… prima di tutto, devo chiederti scusa per come è finita la riunione. Evidentemente era destino che dovessi scoppiare giusto ieri, ma resta il fatto che ho rovinato tutto – Tom avrebbe voluto protestare, ma, quando fece per dire qualcosa, Bill lo zittì con un gesto della mano. La sua espressione era straordinariamente pacata. – In quel momento mi sono sentito così oppresso che non ce l’ho fatta più e sono esploso, ma… la differenza è che all’inizio pensavo che fosse tutta una cavolata, invece ora mi sono reso conto di quello che ho perso –

- Dài, questa è… -

- …la verità, Tom – Gli occhi di Bill si fecero appena più cupi. – Se solo io… mi sentissi sicuro, capace… ci riproverei, credimi. Ma non so se sono in grado di affrontare tutto questo – Per la seconda volta, Tom fece come per ribattere, ma fu preceduto. – Però vorrei, Tom, capisci? –

- Cos’è che ti spaventa? Il pubblico, i concerti? – Bill esitò per qualche istante prima di chinare la testa.

- E’ che… io non voglio deludere nessuno –

Nonostante tutto, Tom non poté trattenersi dal sorridere. Aveva pensato la stessa cosa, lui, quando si era cominciato a parlare della ricongiunzione del gruppo. L’aveva ripetuto fino alla nausea, senza ascoltare i consigli dei suoi amici, poi Gustav gli aveva messo una chitarra in mano e lui aveva capito che, se riusciva ancora a suonarla, lo faceva solo per se stesso.

- Bill, ascolta. Non voglio perdermi in discussioni filosofiche né trasformarmi in uno strizzacervelli, ma ci tengo a dirti una cosa – Bill lo guardò e un lampo di speranza attraversò i suoi occhi. – Se decidi di riprovarci, non farlo per nessuno all’infuori di te stesso

- Ma non ci riesco – protestò debolmente il moro.

- Solo perché l’hai fatto per accontentare quel gran rompicoglioni di tuo fratello – I due gemelli sorrisero in simultanea. – Se vuoi ricominciare a cantare, fregatene del gruppo, dei soldi e dei concerti. Fallo per te. Nessuno ha detto che sia obbligatorio salire su un palco per fare ciò che piace –

Bill appariva già molto più fiducioso, ma c’era ancora un velo di incertezza a oscurare i suoi occhi. – Sì, è… solo che prima vorrei riprovare –

- Perché non ti fai una bella cantata sotto la doccia? E’ un classico – Bill si lasciò sfuggire una risatina, poi tornò di nuovo serio.

- …e se mi accompagnassi con la chitarra? –

Tom aveva sentito qualcosa di strano da qualche parte nello stomaco, ma non avrebbe saputo dire cosa fosse.

- Beh… Quando Gustav mi ha rimesso una chitarra in mano, ero così su di giri che me la sono portata fin qui. Se vuoi posso prenderla, sta sotto il mio letto – Il moro corrugò le sopracciglia.

- Sotto il tuo letto? –

- Beh, sì – Tom si strinse nelle spalle. – E’ il primo posto che mi è venuto in mente –

Qualche risata nervosa, qualche sguardo incerto, e pochi minuti dopo erano già in soggiorno a formare uno strano quadretto: Tom seduto sul divano con la chitarra classica sotto il braccio e Bill accovacciato sul tappeto a gambe incrociate. – Con cosa cominciamo? – chiese Tom, facendosi meditabondo. – Cavolo, con la chitarra classica non ci facciamo granché – Incrociò subito dopo lo sguardo esitante di Bill.

- Veramente ce n’è una che potremmo provare… -

Il resto non ebbe bisogno di parole. Si guardarono ancora per un istante, poi Tom si chinò sulla chitarra e ne pizzicò le corde tanto lievemente che il suono che ne uscì era appena percettibile. Proseguì la melodia senza esitazione. Per Bill, invece, fu come quando Tom aveva imbracciato lo strumento per la prima volta sotto insistenza di Gustav. Pasticciò con le parole della prima strofa, la sua voce si alzò più volte per paura di toccare note troppo basse, ed era chiaro dal suo sguardo che avrebbe smesso subito, se solo Tom avesse interrotto la sua musica.

“In mir wird es langsam kalt…”

E invece continuò. Chiuse gli occhi, si mise più dritto con la schiena e cercò di ricordare le basilari regole di respirazione cui ogni cantante doveva attenersi. Le parole cominciarono a scivolare morbide fuori dalle sue labbra. Dolci e fluide.

“Ich will da nicht allein sein, lass uns gemainsan in die Nacht…”

Passarono pochi secondi e Bill si accorse che la canzone stava andando avanti da sola, le parole affioravano spontaneamente dalle sue labbra e seguivano la melodia suonata da Tom senza che lui impartisse loro alcun comando. Quando arrivò all’ultimo verso, gli parve che fossero passati appena pochi attimi dall’inizio della canzone, e si rese conto anche di sentirsi stranamente accaldato.

Tom gli sorrise, appoggiando la chitarra sul divano. – “Non ce la farò mai” – lo imitò ironicamente, producendo una vocetta esageratamente acuta. Bill lo fissò smarrito, come se fosse ancora troppo preso dall’ebbrezza di quella conquista. – Allora? Cosa dice Vossignoria il Vocalist?

Lo sguardo di Bill vacillò ancora per qualche istante, poi il ragazzo si lasciò andare a un lungo sospiro, appoggiando la fronte su un ginocchio del fratello.

- Grazie, Tomi –

 

Alla fine, Bill si era deciso. Certo, lui aveva i suoi tempi: c’erano volute settimane prima di sentirlo dire “Chiama Georg e Gustav e chiedigli quando possiamo vederci”, ma in qualche modo ce l’avevano fatta. Il resto, Tom non cercava neanche di ricordarlo: non era che una sequenza confusa di immagini e suoni. Il finale, però, ce l’aveva ben chiaro: quell’incontro, a differenza del primo, era andato più che bene e ne aveva preceduto subito uno con David Jost. Restando fedele alla politica dei “nullafacenti”, Jost, seppur partendo in quarta con idee su idee per un imminente nuovo album, aveva proposto di pescare qualche vecchio singolo e riarrangiarlo.

- Perché in tutto ‘sto tempo non sarete mica rimasti a fissare le mongolfiere che passano, vero? – era stato il suo commento finale, con una pericolosa sottolineatura sull’ultima parola. Insomma, l’obiettivo era riaffacciarsi sul mercato senza fare passi azzardati, ma riproponendo i pezzi che avevano fatto la fortuna dei Tokio Hotel.

Tom sorrise appena, guardando oltre la porta a vetri del bar. Diluviava, come il giorno in cui, squadrando Bill da capo a piedi, Jost aveva sospirato: - Non mi abituerò mai alle tue nuove vesti da bravo bambino o uomo maturo che sia

Povero, vecchio David, pensò, sfilandosi l’odiato grembiule bordeaux che da lì a qualche giorno avrebbe finalmente abbandonato per sempre.

Lo stesso pensiero fu però interrotto da un repentino aprirsi e sbattere della porta a vetri su cui il suo sguardo si era posato poco prima. Non ebbe nemmeno il tempo di vedere chi fosse entrato, che il bar era già stato invaso da quelli che sembravano appelli disperati.

- Qualcosa per asciugarmi!! Per favore per favore per favore, che sono in ritardoooooo! –

Ancora stordito da quel tono insolitamente acuto, Tom spostò lo sguardo su colei che sembrava aver cominciato a urlare ancora prima di infilarsi nel bar. Strizzò gli occhi, pensando di aver visto male.

Cos’era quella, una bambina? La risposta poteva essere benissimo affermativa, data la statura decisamente ridotta dell’esserino che continuava imperterrito a strepitare. Quando lo scricciolo in questione si precipitò davanti al bancone –alzandosi in punta di piedi per essere vista, immaginò Tom-, vide solo due braccia e due gambe sbucare da un cumulo di vestiti fradici e due occhi azzurri colmi di disperazione che facevano capolino tra ciuffi di capelli neri altrettanto bagnati. A guardarla meglio, non doveva essere poi così giovane come la statura lasciava credere.

La ragazza (o la bambina) agitò le braccia come un mulino a vento. – Oh cavolo, ma perché c’ho sempre la nuvola di Fantozzi che mi corre dietro, perché? Ce l’avete un asciugamano o qualcosa di simile, per piacere? – la sentì sparare a raffica, mentre continuava a saltellare nervosamente sul posto.

Nuvola di fan…che?

Totalmente spiazzato da quell’entrata per così dire trionfale e con un vago senso di nausea causato dal moto perpetuo dello scricciolo, oltretutto spropositato per quelle che erano le sue dimensioni, Tom si ritrovò ad appallottolare il grembiule appena sfilato e gettarglielo tra le braccia.

Il dopo fu confuso almeno quanto il prima. Con uno stridulo “Graziegraziegrazie!”, la ragazza-bambina diede una frettolosa asciugata ai propri capelli, passò altrettanto rapidamente sui vestiti e le braccia nude, poi partì come un razzo verso l’uscita e scomparve portandosi dietro il grembiule.

Tom rimase a fissare imbambolato la porta per almeno un minuto, con la frase peraltro incompleta “Ma scusa, il mio grembiule…” ancora in procinto di uscirgli dalle labbra. Nei pochi secondi in cui si era svolta l’azione, non aveva capito altro che “Ce l’avete un asciugamano?”, e poi le sue mani avevano lanciato automaticamente il grembiule tra le braccia dell’esserino, molto probabilmente con l’unica speranza di far cessare i suoi strilli.

Inoltre, come diamine avrebbe dovuto rivolgersi a un essere umano dall’età oscillante tra gli otto e i trent’anni?

Scosse la testa, borbottando un “Mah!” poco convinto e accingendosi a riporre il grembiule al solito posto. Solo qualche secondo dopo si ricordò di non avercelo più, il grembiule.

Evidentemente era un segno che lui, in quel posto, non avrebbe neanche dovuto entrarci.

 

Quando tornò a casa bagnato fradicio, il saluto che rivolse a Bill fu: - Me lo passeresti qualche asciugamano, per favore?

- Ma scusa, non puoi prendertelo tu? – udì la risposta provenire dal corridoio, prima che Bill comparisse all’ingresso, squadrandolo da capo a piedi. – Oh. Aspetta un attimo –

Pochi secondi dopo, ricomparve con una bracciata di asciugamani, lanciandoglieli tra le braccia. – Ecco qui –

Mentre era intento a strofinarsi energicamente i capelli e i vestiti, Tom si accorse di essersi lasciato sfuggire una risatina solo quando il gemello lo guardò stranito. – Ma perché ridi? –

La risposta esatta sarebbe stata: niente, è che mezz’ora fa si è ripetuta più o meno la stessa scena al bar. Con la differenza che io non sto saltellando come un martello pneumatico. E che la mia voce non sembra una serie di squilli di trombe. Ah, e anche che i miei venticinque anni li dimostro tutti, e che non sono alto un metro e una ciabatta.

- Niente, è che a volte si fanno strani incontri – risolse alla fine, optando per una risposta meno difficile da ricordare. Bill alzò un sopracciglio, sorridendo come se suo fratello fosse mezzo matto.

- Ah –

- O forse è stata la triste monotonia di questi mesi ad aprirmi nuovi orizzonti – concluse Tom, sbuffando dopo l’ennesimo colpo di asciugamano. Alla fine, se li mise tutti sotto un braccio e fece come per entrare, ma Bill lo bloccò pestando con poca grazia un piede sul suo. – Ahia, cretino! –

- Togliti le scarpe – lo apostrofò il moro senza fare una piega. – O mi righi tutto il parquet –

Tom sbuffò, calciando le Nike in un angolo all’ingresso. – Sembri una suocera. Anzi no, peggio, sembri nostra madre

Bill fece una strana smorfia, ma poi sorrise come per scusarsi. Non ne avevano più parlato, ma era già passata qualche settimana dalla seconda grande discussione con Simone.

 

Tom impiegò pochissimo tempo per accorgersi dell’evidente inquietudine del fratello. Del resto, non poteva certo biasimarlo: al suo posto, avrebbe lasciato perdere tutto.

- Sei proprio sicuro? – gli chiese un’ultima volta. Lo sguardo di Bill diceva chiaramente “stai zitto”.

- Ti prego, non ripeterlo ancora o ci ripenso sul serio – Poi, con una mossa decisa, suonò il citofono e attese.

- Sì? – rispose la voce di Simone, poco dopo. Bill esitò un attimo prima di annunciare:

- Mamma, siamo noi –

Non ci fu risposta se non il “click” del portone, al che Tom si rivolse nuovamente al gemello: - Devo salire anch’io? – Bill aggrottò le sopracciglia.

- Ovvio. Sei o non sei mio fratello? –

Simone non li accolse certo con un sorriso. Si morse le labbra quando Bill comparve in cima alle scale e le sfuggì un’occhiata risentita in direzione di Tom, ma poi si spostò per farli passare. – Entrate –

Una volta entrata in soggiorno, Simone sedette sul divano a testa china, mentre Bill prendeva posto su una sedia lì accanto e Tom restava in piedi di fianco alla finestra.

Non ci furono convenevoli né inutili preamboli.

- Scusa se ti ho fatto aspettare – disse Bill. Il suo tono non era né risentito né saccente. Anzi, a Tom parve di cogliervi una sfumatura di dolcezza.

- Sentiamo, cos’è che ho sbagliato, stavolta? – ribatté Simone con un tono carico di amarezza. Anche se la donna non aveva ancora alzato la testa, Tom si sentiva come se avesse pronunciato quelle parole piantandoglisi davanti e scuotendolo per le spalle.

- Non hai sbagliato niente, mamma, voglio solo parlarti – Simone, troppo concentrata sul proprio risentimento per accorgersi del tono di Bill, insolitamente tranquillo, non rispose. – Mi dispiace per com’è andata quel giorno quando siamo venuti qui, mi dispiace se non ti ho più cercata al telefono e non sono tornato in agenzia. Ma noi stiamo cercando di rimettere in piedi il nostro gruppo, mamma. Tom mi ha aiutato molto e io voglio ricominciare da capo, ma senza che tra noi ci sia ancora qualcosa in sospeso –

Finalmente, Simone alzò gli occhi. Il suo sguardo vagò più volte da Bill a Tom. – Avrei voluto saperlo prima, se sono stata una così cattiva madre per voi –

A quel punto, Tom sentì che avrebbe potuto dirle che non era vero, che aveva sbagliato. Ma nella sua testa, nessuna voce gli disse di farlo, così rimase in silenzio. – Non lo sei stata – disse invece Bill, sorridendole. – Non pensarlo nemmeno. Ma cerca anche di capirmi, ok?

Era stato solo il suo silenzio a congedarli.

 

Effettivamente, non ne erano mancate, di discussioni. Poco tempo dopo, Bill gli aveva raccontato di aver parlato finalmente con Michelle. Il suo resoconto era stato abbastanza dettagliato.

 

Quando lo vide entrare, sembrò che Michelle fosse stata colta dalla tentazione di scappare via, ma fu Bill a bloccarla, avvicinandosi a lei e posandole una mano sulla spalla.

- Ciao, Michelle

La vide arrossire furiosamente prima di chinare la testa. – Ciao, Bill – sussurrò flebilmente.

- Possiamo parlare un minuto? – le chiese gentilmente, sedendosi accanto a lei. Michelle non fece altro che annuire senza guardarlo e Bill sorrise, incurante di quel particolare. – Devo ringraziarti –

A quelle parole, la ragazza l’aveva guardato stupita, ancora rossa in volto. – Come? –

- Sì, devo e voglio ringraziarti – Le sorrise di nuovo, muovendo la mano sulla sua spalla in una carezza lievissima. – Tu devi perdonarmi, Michelle. Non mi sono mai comportato nel migliore nei modi, con te, e in effetti non ho nessuna scusa per questo. E non devi preoccuparti di capirmi, perché l’hai già fatto: io ce l’avevo, un segreto – Lo sguardo di lei si fece ancora più confuso. – Io… avevo una ragazza, una persona meravigliosa con cui ho avuto la fortuna di stare per quasi sei anni. Ma poi lei è morta, e ha lasciato un grande vuoto. Questo mi ha cambiato molto, ma ora sto cercando di andare avanti. Finora non ho dato niente a nessuno se non rabbia e angoscia, e mi dispiace, ma adesso… adesso sto recuperando il rapporto con mio fratello e voglio anche riprovarci con la musica. Però devo dirti grazie, perché sei riuscita a sopportarmi quando… beh insomma, nonostante tutto –

Michelle lo guardò con occhi colmi di tristezza. – La tua fidanzata era molto fortunata. Sai che è la prima volta che ti vedo sorridere? – Bill si strinse nelle spalle con una punta d’imbarazzo. – E tuo fratello deve essere una persona speciale –

Lui le accarezzò i capelli, sorridendole di nuovo. – Sì, lo è. E anche tu lo sei –

E poi, Michelle lo abbracciò. Si tenne stretta a lui per secondi interminabili, il viso nascosto nel suo collo. Alla fine, anche lui trovò il coraggio di circondarla con le braccia. – Ti voglio bene, Bill –

 

 

Tom considerava l’ultimo giorno al bar come una specie di evento simbolico, il taglio definitivo con quei mesi d’inferno, altrimenti sarebbe rimasto a casa a dormire. Senza contare che era già da una settimana che Hans lo salutava ogni giorno con un “arrivederci ragazzo, buona fortuna”, nonostante avesse segnato il suo ultimo giorno di lavoro sul calendario.

Nel pomeriggio, Tom stava giusto chiedendosi quanto sarebbe passato prima di vedersi crollare addormentato sul bancone, quando una voce squillò: - Oh, non ci speravo più! –

Mezzo intontito, alzò la testa, ma dovette subito riabbassarla per guardare negli occhi la ragazza che si era appena materializzata davanti a lui. Per un attimo la guardò dubbioso, poi un paio di occhi azzurri e la statura discutibile gli suggerirono la soluzione all’enigma: era quella che gli aveva fregato il grembiule pochi giorni prima.

Sì, perché a guardarla bene era effettivamente una ragazza e non una bambina come aveva inizialmente creduto: nonostante la poco considerevole altezza, c’erano un’espressione vivace e soprattutto un vasto assortimento di parabole femminili a darle qualche punto. I diciotto doveva averli raggiunti. Forse.

- Scusa, forse non ti ricordi – La ragazza interpretò erroneamente il suo silenzio. Aprì l’enorme borsa che portava appesa a una spalla e ne tirò fuori il grembiule perfettamente ripiegato. – Comprendo il blackout, comunque io sono Eva, ho ventiquattro anni e sono anche la pazza che ti ha portato via questo – aggiunse con un sorriso smagliante, depositando l’indumento sul bancone.

Secondo attimo di smarrimento. Eva? Ventiquattro anni? Cioè, quel soldo di cacio aveva solo un anno e circa trenta centimetri meno di lui? – Oh – disse infine, riprendendosi il grembiule. – Grazie. Ma… beh, poteva passare prima e lasciarlo qui, tanto… - …oggi è il mio ultimo giorno di lavoro, avrebbe voluto dire, ma Eva lo interruppe distrattamente.

- Ma che, scherzi? Metti che poi arrivava qualcun altro e se lo prendeva al posto tuo… quello mica te lo riportava, sai? E poi dove lo ritrovi un grembiule così bello? – A Tom piacque pensare che quello fosse sano e genuino senso dell’umorismo. Intanto, senza neanche rendersene conto, aveva indossato di nuovo l’orrendo pezzo di stoffa bordeaux, mentre la ragazza riprendeva a parlare a raffica. – Vabbè… visto che ti ho fatto questo favore, me lo offri un caffé? –

Tom impiegò qualche secondo per formulare una risposta. Cioè, aveva dato del lei a una cosina alta la metà di lui che per giunta gli si rivolgeva dandogli del tu? Decise di imitarla. – Ma veramente sono stato io a farti un favore, eh! –

- Beh, sì, ma io un caffé non te lo posso offrire perché momentaneamente non ho neanche una casa mia, sto da mio zio. E soprattutto non lavoro in un bar, quindi… -

Tom studiò di nascosto la ragazza comodamente seduta davanti a lui –e stranamente zitta- mentre si accingeva a prepararle un caffé. Se non fosse stato per le forme più che generose abbinate a un vitino da vespa, chiunque l’avrebbe scambiata per una minorenne. Nel complesso, era uno strano soggetto: capelli neri mossi, occhi azzurri e sorriso smagliante incorniciato da labbra sottili, mani minuscole e dalle dita affusolate, non poteva essere definita bellissima, ma l’espressione a tratti svagata o allegra la rendeva piacevolmente… guardabile, ecco.

Mentre le porgeva la tazzina e lei rispondeva con un sorridente “Grazie!”, gli tornò in mente la domanda che si era posto vedendola uscire a precipizio tre giorni prima. – Scusa… Eva, giusto?, cosa dicevi l’altro giorno a proposito di una certa nuvola di non so che? – Lei lo fissò per qualche secondo, sorseggiando il caffé, poi scoppiò a ridere. Sì, sembrava decisamente un cartone animato in miniatura.

- Ah, sì! No, niente, non farci caso, quando mi incavolo mi lascio andare alle imprecazioni italiane – Doveva aver notato lo sguardo perplesso che ricevette in risposta, perché, con finta aria di superiorità, aggiunse: - Metà del mio sangue è italiano, sai? –

- Ah, ecco – Effettivamente aveva già notato qualcosa di strano nella sua cadenza, come se le parole scorressero stranamente morbide. Troppo morbide per quella che era la pronuncia di un tedesco. – Bel posto, per quel che mi ricordo. E chi ti ci porta in Germania?

- Lo studio – Eva fissò con aria assorta il fondo della tazzina ormai vuota. – Faccio Psicologia e un mio zio di qui mi ha detto che mi avrebbe dato una mano… non ho idea di come voglia aiutarmi precisamente, però è ok –

- Psicologia? – Tom si lasciò scappare una smorfia perplessa. Che ci faceva una specie di fumetto a colori in uno studio di strizzacervelli? Lei ridacchiò della sua reazione.

- Sì, mi piace smontare la testa della gente. Però poi i pezzi me li tengo per me, mica mi siedo con blocchetto e matita – Sistemò il cucchiaino nella tazzina. In quel momento, dalla radio partì un annuncio che risparmiò a Tom la fatica di trovare una risposta.

“…pronti a imporsi di nuovo nel mercato intercontinentale, i Tokio Hotel ci ripropongono nuove versioni dei singoli che hanno dato loro un meritatissimo successo. Assistiamo al ritorno della band che farà la storia della Germania del ventunesimo secolo!”

Seguì una canzone che Tom, occupato a cercare di decifrare l’espressione assorta di Eva, non riconobbe nemmeno. – E questi sarebbero…? – gli chiese alzando un sopracciglio.

Tom sapeva fin troppo bene come avrebbe reagito solo pochi anni prima. Invece, sentì un sorriso affiorargli alle labbra. – Non li conosci? –

- Sì, e chi ce l’ha il tempo di seguire radio e tv? – Alla ragazza scappò da ridere. – Dovrei conoscerli? –

- Dovere? Per carità – Sorridendo sotto i baffi, Tom prese la tazzina sporca e la infilò sotto il rubinetto, sciacquandola accuratamente. – Non conosco il significato di questa parola – Quando ebbe finito, prese in mano la tazzina e cominciò a strofinarla direttamente sul grembiule per asciugarla. E poi, la sua bocca parlò senza che lui ci pensasse su. Continuando a sorridere, naturalmente. – E comunque non li conosco neanch’io –

 

 

- Tom, ma che hai da ridere?! – sbottò un esasperato Bill, rigirandosi nel letto per l’ennesima volta.

- Niente, Bill… scusa –

- E allora fammi dormire! -

Cosa aveva da ridere? Beh, c’erano neolaureate in miniatura che transitavano nei bar rubando grembiuli, tazze di caffé date dimenticandosi di chiedere di pagare, ragazze dall’aria smarrita ma sorridente che ancora non conoscevano i Tokio Hotel… E c’era anche un inspiegabile desiderio di tornarci, qualche volta, in quel bar.

Sempre meglio che trovarsi catapultato su un divanetto nello studio di una psicologa. Dopotutto, era stata lei a salutarlo con un “Però sai che quel grembiule mi piaceva? Se me lo ridai te lo porto la settimana prossima!”

- Sì, sì, dormi… non sai cosa ti perdi, là fuori – mugugnò Tom con un sorrisetto comparso nel buio, incrociando le braccia dietro la testa e preparandosi ad accogliere il sonno.

 

“Stai con me in tutti i miei giorni,

quelli no e quelli bastardi,

stai con me nei giorni sereni

mai così passeggeri,

mai come adesso”

(Raf, “Stai con me”)

 













Ultimo capitolo prima dell'epilogo. Ecco l'entrata in scena della mia migliore creazione *_____* Ebbene sì, l'ho voluta mezza italiana solo per poterla chiamare Eva, per farla imprecare come piace a me e per non farle parlare il tedesco con quella pronuncia aspra! Obiezioni? Spero di no per voi, perchè io la amo e nessuno al mondo riuscirà a farmi cambiare idea. Arumi_chan: ok, sei perdonata! Menomale che questo capitolo non contiene niente per cui riprendersi :P angeli neri: ora puoi dormire sonni tranquilli! XD rakith: piango solo al pensiero che i nostri scambi di favore stanno per estinguersi ç______ç come sopravviverò? Zickie: una classica recensione da diretta in brodo di giuggiole *___* Mi è particolarmente piaciuta la cronologia delle opinioni capitolo per capitolo XD Spero che continuerai a rendermene partecipe almeno per gli ultimi due! noirfabi: anche se volessi dare loro un po' di felicità, ormai è troppo tardi (me sadica). E comunque c'è sempre "Ci parliamo da grandi", no? Visto che alla fine gli ospedali c'entravano comunque? ^____* (la tua ipotesi di cancro però era più tragica) Sore: e naturalmente nel momento in cui è felice Bill sono depressa io, per il mio amato prof di filosofia che è all'ospedale... dura la vita. Comunque sì, che io a Bill voglia male è risaputo, ma solo per poterlo accogliere disperato e piangente tra le mie braccia e consolarlo a vita: io sono molto meglio di Haylie ù.ù

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Capitolo 16
*** Estate in città (due anni dopo) ***


Epilogo




Estate in città (due anni dopo)



“La regola d’oro c’è
per i cuori naufraghi,
è scritta in ogni manuale di sopravvivenza.
Abbiamo distratto un po’
le nostre abitudini,
come sorpresi dal gioco di essere vivi.
Senza lo stress di dire qualcosa di nuovo
ce ne stiamo a parlare
dell’estate in città…”



Bill sistemò meglio un piatto leggermente storto sulla tavola. In fondo quel particolare non avrebbe dovuto preoccuparlo, viste le circostanze, ma, a differenza di molti anni prima, ormai non poteva più fare a meno dell’ordine.
Fece qualche passo indietro, controllando che tutto fosse al proprio posto. Sì, i piatti c’erano tutti e tre. Non mancava nessuna forchetta e i bicchieri luccicavano come nuovi. Non restava che aspettare, anche se certamente quella era la parte più lunga.
Si avvicinò alla finestra, spalancandola. Adorava che la stanza fosse riempita di luce: gli serviva ancora a compensare i mesi in cui l’intera casa era stata praticamente immersa nelle tenebre. Erano tempi così lontani che faticava quasi a ricordarsene. Si appoggiò alla finestra, sporgendo la testa. Era già luglio inoltrato e non si muoveva un alito di vento, ma, sotto la luce del sole, la strada sembrava addirittura più colorata.
Improvvisamente, sentì un rumore molto simile a quello di un trattore e sorrise tra sé. Quell’automobile era riconoscibile a chilometri di distanza. Accostò un’anta della finestra e andò ad aprire la porta, pronto alla solita entrata trionfale.
Infatti, li sentì pizzicarsi già lungo il vialetto.
- E’ ridicolo, perché ti ostini a girare con quella scatoletta con le ruote? E’ talmente scassata che appena le fai un’altra ammaccatura la puoi direttamente infilare sul sedile posteriore della mia! –
- Perché sono una persona normale e giro con una macchina normale, non con un carro armato! –
- Sì, carro armato… voglio vedere te su una Cadillac, manco arrivi allo sterzo… ahia! – Tom comparve sulla porta con un’espressione contratta. – Ma perché a me, perchè?
Bill trattenne a stento una risata, guardando oltre la sua spalla. – E dov’è la piccola peste? –
Da dietro la schiena di Tom comparve un ammasso di riccioli neri e un sorriso smagliante. – Ciao Bill! Scusa, finisco di picchiarlo e sono da te! – Tom entrò in casa con passo strascicato e mugugnando tra sé e sé mentre, subito dietro di lui, Eva gli tirava un ultimo pizzicotto su un braccio. – Così impari a insultare la mia macchina! – - Ma quella non è una macchina! –
Bill sorrise, alzando gli occhi al cielo. Era così da due anni, da quando Tom si era deciso a raccontargli di quella tipa stramba che un giorno era volata nel bar in cui lavorava supplicandolo di darle un asciugamano. Poi aveva scoperto che quella stessa tipa non era poi così male, nonostante lui dovesse praticamente piegarsi in due per poterla guardare negli occhi, e, pochi mesi dopo, aveva avuto la malaugurata idea di mettercisi insieme. L’unica controindicazione consisteva nel fatto che da allora non si erano più scollati per più di ventiquattro ore e, ancora peggio, che, nonostante le apparenze, si adorassero l’un l’altra.
Eva era una specie di folletto saltellante e sempre allegro, e anche Bill aveva impiegato poco tempo per capire come suo fratello fosse irrimediabilmente perso per lei. In fondo, forse era proprio di una così che aveva bisogno.
La ragazza si staccò da Tom solo per tendergli le braccia, esclamando: - Finalmente rivedo il mio adorato zio Bill! – Un attimo dopo, lo stava già abbracciando, guardandolo con quei suoi sfacciatissimi ma allo stesso tempo dolcissimi occhi azzurri. – Vero che ti sono mancata, zietto? –
Bill alzò gli occhi al cielo, ricambiando la stretta, poi rivolse al gemello uno sguardo scherzosamente esasperato. - Ho proprio una nipote terribile –
Eva mise su un finto broncio. – Sei cattivo proprio come tuo fratello. Però ti perdono, ma solo perché ti voglio troppo bene – Gli sorrise di nuovo, porgendogli la guancia con la sua solita faccia da schiaffi. – Un bacino per farti perdonare –
Bill soffocò una risata, ma un attimo dopo le stava già stampando un delicato smack su una guancia, mentre Tom guardava la scena con aria perplessa. - Con me non ti perdi in tutte ‘ste smancerie. Cos’ha lui più di me? –
- Che c’entra, te ti vedo tutti i giorni. E notti – precisò Eva. – Anzi, per essere pignoli, se guardo dritto di fronte a me ho una magnifica panoramica del tuo sterno… che comincia pure a stufarmi, tra parentesi –
Bill si preparò a un secondo uragano. L’altezza di Eva, che non superava il metro e cinquanta, era uno degli argomenti preferiti di Tom. – Non è colpa mia se alla nascita ti hanno compressa – la rimbeccò infatti.
Nonostante i loro battibecchi potessero anche andare oltre, fino a limiti snervanti, Bill aveva imparato a sopportarli solo perché conosceva perfettamente la fine di ognuno di essi: Eva e Tom erano capaci di beccarsi per ore e poi di attaccare con bacini e paroline dolci senza alcun preavviso, il che era ancora peggio, se possibile.
In fondo, quella di Tom non appariva poi come una vera e propria metamorfosi. Sembrava che tenesse nascosto quel lato del proprio carattere in attesa di poterlo tirare fuori con la persona più adatta.
Forse era per questo che tra Bill ed Eva era nata un’amicizia così forte: erano entrambi lunatici oltre l’immaginabile, senza contare che tutti e due dovevano combattere contro la stessa persona, ovvero Tom. Non poteva fare a meno di ricordare con gioia il momento in cui la felice coppietta aveva preso un appartamento a pochi isolati da lì, per poi compiere irruzioni barbariche in casa sua almeno una volta a settimana, quando il lavoro non li costringeva a spostarsi.
Ben presto, infatti, Bill aveva scoperto che tutte le sue paure erano state infondate. A due anni dalla ripresa del loro lavoro, i Tokio Hotel avevano già pubblicato due album molto diversi dai più vecchi. Per quanto il loro pubblico fosse ancora costituito prevalentemente da adolescenti, c’era un bel numero di over 35 ad averne preso parte già da un bel po’. Forse era merito dell’immagine meno eccessiva, o forse di una maturazione personale più che professionale. In sostanza, anche se i viaggi in tourbus erano decisamente diminuiti e la vita un po’ più tranquilla, i Tokio Hotel avevano riottenuto il loro successo.
- Vi prego, finitela – li interruppe stancamente Bill. – Ho un sistema nervoso anch’io, eh –
- Non ci posso fare niente, in questo periodo è insopportabile – insorse Tom, facendo come per soffocare Eva con entrambe le mani. – Ieri aveva un muso lungo fino a terra e oggi… -
Bill sorrise scuotendo la testa, mentre Eva cercava di liberarsi agitando le braccia in direzione di Tom.
Se solo non gli arrivasse poco sotto le spalle l’avrebbe già menomato, pensò.


Il pranzo trascorse con relativa tranquillità: come Bill aveva previsto, il lungo battibecco fu immediatamente compensato, infatti, quando tornò in soggiorno con una vaschetta di gelato, vide Eva con la testa comodamente appoggiata sulla spalla di Tom, mentre lui sorrideva con la classica espressione assorta che metteva su in quei loro momenti di tenerezza.
Nonostante lui e Tom fossero così diversi sotto molti aspetti, spesso, guardando la buffa coppia formata da suo fratello ed Eva, gli ritornava in mente Haylie, anche se il suo ricordo non era più così simile a un pugno nello stomaco.

“Ma improvvisamente il tempo
si va mettendo male,
improvvisamente sento
quel classico dolore…”




Eva fece come per infilarsi in bocca un cucchiaino di gelato, ma poi lo fece cadere rumorosamente contro il bordo del piatto. Era evidente dalla sua espressione a metà tra l’assorto e lo sconvolto che non si fosse accorta del subitaneo scontro tra il cucchiaino e la maglietta bianca di Tom, che si lasciò sfuggire un verso di disapprovazione. - Ma a che stai pensando tu?! – si lamentò, prendendo a strofinare la macchia marrone con un tovagliolo. Eva, però, non gli prestò la minima attenzione, anzi si schiaffò una mano sulla fronte.
- Oddio, avevo dimenticato… scusate! – esclamò, prima che i gemelli la vedessero schizzare in piedi, afferrare la borsa attaccata all’appendiabiti dell’ingresso e partire a razzo verso il bagno, per poi chiudercisi dentro.
Bill rivolse al fratello un’occhiata interrogativa. – Ma che è successo? –
- E che ne so? – sbuffò l’altro, continuando a strofinare la macchia. – E’ una settimana che fa così, il giorno prima tutta sorrisi e carezzine e quello dopo intrattabile. Ma appena torna giuro che le verso in testa un bicchiere di gelato e… -
- Tom – Il moro gli lanciò uno sguardo eloquente e un mezzo sorriso. – Se lo stanno chiedendo tutti quelli che vi conoscono – Tom lo guardò senza capire.
- Cosa? –
- Quando capirai che lei ti tiene totalmente in pugno – Il sorriso di Bill si allungò e il biondo fece un gesto vago con la mano.
- Ma và… -
- Del resto, quando le hai chiesto se voleva venire a vivere con te, non hai aspettato un secondo a metterti in ginocchio – Tom alzò gli occhi al cielo mentre il sorriso di Bill si faceva beffardo.
- Sì, questo solo perché faceva talmente la sostenuta che per poterla guardare in faccia mi sono dovuto abbassare! – protestò, prima di fissare con rassegnazione la macchia sulla maglietta. – Vabbè, ho capito, questa rimane qui –
- Andiamo di là, ho la schiena a pezzi – disse Bill, alzandosi dalla sedia e stiracchiandosi.
Quanto tornarono in soggiorno, Tom si lasciò cadere sul divano, poi sorrise in direzione del gemello. – Allora, che mi racconti? E’ un po’ che non si parla di cose importanti, qui – aggiunse, trattenendosi dal ridere.
Bill alzò le spalle. – Dipende da cosa intendi per cose importanti –
- Ti senti ancora con Michelle? – Bill dovette fare uno sforzo per non sbuffare.
- Sei monotono. Veramente non abbiamo mai perso i contatti –
- Quanto ci scommetti che ci finisci insieme? –
Bill si preparò a rispondere a tono, ma, nello stesso momento, Eva comparve sulla soglia del soggiorno. – Eva! Allora? –
Tom si voltò a guardarla e, quando i loro occhi si incrociarono, quasi gli venne un colpo. La sua ragazza era pallida come un cadavere e sembrava sconvolta. – Ma che è successo? – Senza rispondere a nessuno dei due, Eva si trascinò fino al centro del soggiorno, davanti ai due gemelli, con la stessa espressione scioccata. Tom si alzò dal divano, andandole vicino. – Amore, che c’è? – le chiese preoccupato, mettendole una mano sotto il mento e facendole alzare la testa. Lei scosse la testa, guardandolo con occhi spalancati.
- E’ successa l’Apocalisse! – squittì, storcendo la bocca in una smorfia disperata.
- E cioè? – Tom aggrottò le sopracciglia mentre Eva frugava nelle tasche dei propri jeans. Ne tirò fuori un oggetto non identificato, tendendo il braccio verso l’alto e cominciando a scuoterlo violentemente proprio davanti alla faccia di Tom, che la bloccò afferrandola per il polso. – Così non vedo niente! –
- E’ terribile! – gemette lei, lasciandosi cadere sul divano mentre Bill la guardava stranito. – Mi sa che non posso più chiamarti “zio” – mugolò.
Tom, intanto, fissava attentamente l’oggetto che Eva gli aveva piantato in mano. Il suo sguardo si spostò rapidamente su di lei. – Dimmi che non è quello che penso – Lei scosse la testa, appoggiando il mento sulle mani. – Qualsiasi cosa tu stia pensando, lo è –
Tom inspirò profondamente, come per calmarsi. – Ok, allora… dimmi di che colore dovrebbe essere –
- Blu, proprio come quello che hai in mano! – sbottò Eva, riprendendo ad agitare le braccia.
- Ma si può sapere cos’è successo? – insorse Bill, disorientato. Tom gli sventolò davanti quella che sembrava una provetta contenente del liquido azzurro. - Chiamasi test di gravidanza positivo – Il moro si voltò verso Eva, spalancando gli occhi.
- Eva! Sei sconvolta per questo? – Altra occhiata disperata. – Ma… è bellissimo! Cioè… non sei contenta? –
La ragazza si voltò a guardare Tom di sottecchi. – E tu, sei contento? – Tom fissò ancora per qualche istante l’oggetto come se si trovasse una famiglia di alieni tra le mani.
- Ehm… oddio, forse dovremmo parlarne con più calma – Sobbalzò vedendo gli occhi azzurri di Eva spalancarsi paurosamente. – No, cioè… insomma, non fare quella faccia, non ho intenzione di metterti alla porta con un assegno e un pacco di pannolini, se è questo che intendi! – si affrettò a rassicurarla. Non ebbe nemmeno il tempo di studiare il cambiamento repentino della sua espressione, che Eva era già saltata giù dal divano e lo stava abbracciando come se avesse paura di vederlo volare via da un momento all’altro.
- Ti amo, ti amo, ti amo! – esclamò, appoggiando la guancia sul suo petto. Poi lo guardò speranzosa. – Allora mi aiuti tu a prepararmi psicologicamente, vero? – Si staccò da lui lasciandogli solo il tempo di mormorare un flebile “Beh…”, poi si passò una mano tra i capelli già scompigliati e sorrise appena, come se non credesse nemmeno lei a quanto aveva appena detto. – Oh, cielo… diventerò… grassa!
Bill non poté fare a meno di lasciarsi andare a una sonora risata, sollevato nel constatare a cosa fosse realmente dovuto il panico di Eva. Per un attimo aveva temuto che la vicenda potesse concludersi in modo tragico. Fece un passo avanti, chinandosi su di lei e pizzicandole scherzosamente la pancia. – Beh, un po’ di roba già ce n’è – Eva gli schiaffeggiò via la mano, ridendo debolmente.
- Ti prego, non causarmi altri danni cerebrali. Sono già abbastanza su di giri per conto mio –
Bill si voltò a guardare Tom, ancora mezzo intontito. – Sai cosa significa questo, vero? –
Istantaneamente, fu lui a mettere su un’espressione sconvolta. – Sì – gemette. – Pannolini… notti in bianco… e soprattutto un’unione ufficializzata – concluse con una smorfia.
- No, volevo dire che… insomma, ce l’hai presente una donna incinta? Questa qui ti esploderà sotto gli occhi, ti consiglio di nascondertela sotto la maglietta se non vuoi correre rischi. Tanto, di spazio ce n’è – ridacchiò Bill. Poi notò lo sguardo di Tom, decisamente eloquente. – Ok, ok. Vi lascio soli. Poi, quando vorrai farti un bel pianto liberatore, chiamami – E abbandonò la stanza canticchiando tra sé e sé.
Eva guardò Tom con espressione inquisitoria. – Cosa intendevi per unione ufficializzata? –
- Beh… - cominciò lui, sorridendole e giocherellando con una ciocca dei suoi capelli. – Ora non avrò più modo di toglierti di mezzo, mi sa – Gli occhi della ragazza si illuminarono.
- Oooh! Allora è vero che sotto questa dura scorza si nasconde un animo da cavaliere medievale! –
- Sì, però vediamo di non comunicarlo al mondo intero –
- Più che altro… - Eva si fece meditabonda. – Cosa faremo quando io sarò troppo enorme perché tu mi prenda in braccio? O tu troppo vecchio per abbassarti? Non mi bacerai più? – mormorò con una buffa vocetta infantile, sporgendo il labbro inferiore. Tom scoppiò a ridere.
- E chi ti dice che per allora non ti avrò già defenestrata? –
- Sei insopportabile – Eva lo guardò con odio. – Ti detesto profondamente –
- Mi pareva di aver capito il contrario, fino a cinque minuti fa – Tom rise della sua espressione sostenuta, poi si abbassò e le cinse i fianchi con le braccia, sollevandola di peso. Eva strillò, aggrappandosi alle sue spalle.
- Cosa dicevi a proposito del defenestrarmi? – lo rimbeccò, dondolando i piedi.
- Che, finché resisterò fisicamente e psicologicamente, possiamo anche approfittarne… - mormorò lui, sporgendosi per posare un live bacio sulle sue labbra. Eva sembrò assecondarlo, finché non si scostò da lui e cominciò a scalciare.
- Biiiiiiill! Qui c’è qualcuno che molesta le donne incinte! –
L’interpellato si affacciò in soggiorno proprio mentre Tom permetteva alla sua ragazza di posare nuovamente i piedi per terra. – Sì, è un vizio ricorrente – lo punzecchiò, guadagnandosi un’occhiata perplessa.
Tom si rivolse ad Eva. – Ora è il momento delle discussioni tra uomini, quindi fila via, pulce! –
Un sorriso furbo comparve sulle labbra di lei. – Vorrà dire che aspetterò pazientemente nella mia bellissima macchina, in attesa che tu venga a guidarla! – Poi si rivolse a Bill, alzandosi sulla punta dei piedi per stampargli un bacio su una guancia. – Mi raccomando, trattalo male il mio Tomi – Seguì un attimo di silenzio, al che Eva si coprì la bocca con una mano. – Ops… scusa, scusa, scusa, mi è scappato –
- Guarda che non ho i diritti d’autore su un soprannome – la rassicurò Bill.
- Sì, ma lo sappiamo tutti che solo un Kaulitz può chiamare “Tomi” l’altro – Eva sorrise ad entrambi mentre Bill apriva la porta d’ingresso. – Allora a dopo, uomini! – ridacchiò, prima di dileguarsi lungo il vialetto.


Bill si voltò verso il gemello e, nonostante questi gli voltasse le spalle, sorrise. – Non dirmi che te la sei presa –
Il biondo gli rivolse un’occhiata perplessa. – Eh? Per cosa? –
- Per la mia battuta a proposito a proposito del vizio ricorrente – Bill si sarebbe aspettato che Tom ridesse e tutto finisse lì, invece il gemello si strinse nelle spalle con espressione pensierosa.
- Beh… credevo che ti riferissi a lei
- Tom, chiamiamo le persone col loro nome. Sì, mi riferivo ad Haylie, ma non volevo offenderti, credimi. Volevo solo farti capire che… beh, che sono felice per voi – Tom lo guardò stranito, anzi, per un attimo Bill ebbe l’impressione di scorgere una traccia di risentimento sul suo volto.
- Hai un modo tutto tuo di dimostrare le cose, eh –
Bill si lasciò sfuggire una risata, avvicinandosi a Tom e posando una mano sulla sua spalla. – Dài, ora non venirmi a dire che non sei contento! –
- Insomma, io… cioè, mi dispiace… - farfugliò l’altro. – Magari Eva avrebbe dovuto dirmelo dopo, non… non davanti a te, ecco –
- Scherzi? – Bill gli pizzicò un braccio. – Non avrei dovuto sapere in diretta della nascita di mio nipote? Dài, a parte gli scherzi… sei contento, vero? –
- Sono… spiazzato – ammise Tom a voce più bassa. – Ma ti dirò che l’idea non mi terrorizza poi così tanto –
- Secondo me era l’unica cosa che vi mancava – Tom guardò il gemello, come alla ricerca di una traccia di ironia o persino risentimento, ma non vide altro che un sorriso aperto e sincero. – Non ho idea di che essere umano verrà fuori da due genitori suonati come voi, ma non smettiamo mai di sperare –
- Parliamo di te, piuttosto – Tom produsse un ghigno divertito. – Cosa stavamo dicendo a proposito di Michelle, prima di ricevere la lieta notizia? –
- Oh, che palle che sei – Bill sbuffò sonoramente. – Continuiamo a sentirci, sì. Devo ammettere che, quando lavoravamo insieme, non avevo assolutamente capito che tipo di persona fosse –
- Ma le sue intenzioni non sono cambiate, immagino –
- Smettila! No, è fidanzata. Davvero, non è come pensi. Per ora io… -
- D’accordo, d’accordo – Tom lo bloccò con un cenno della mano, poi gli diede un buffetto scherzoso dietro la nuca. – Guarda che non devi spiegarmi niente. Volevo solo sapere quante possibilità ci sono perché tu ti innamori di nuovo –
Bill sorrise, e in quel sorriso Tom vide un’intera esistenza. Vide l’immagine dei loro giochi da bambini, vide la serenità di quella nuova vita, vide persino il periodo buio che avevano riempito con tre anni di ritardo.
- Non ho mai smesso di essere innamorato, Tom. Amo quello che faccio, le persone che mi stanno accanto, ma anche quelle di cui conservo solo un ricordo – Il biondo gli sorrise, stringendogli un braccio quasi come se Bill fosse stato suo figlio. – Per ora mi basta questo per essere felice. Quando arriverà il momento di aggiungere qualcosa alla mia vita, sono certo che qualcuno mi manderà un segnale –
- Spero per te che riuscirai a coglierlo –
Il sorriso di Bill si fece più ampio, e il suo sguardo si perse per un istante fuori dalla finestra.
- Lo capirò. Questa volta, lo capirò –

“Domande da fare ne avrei
però mi spaventa un po’
far finta che sia ordinaria amministrazione.
Senza mai avventurarmi in discorsi d’amore
io mi tengo più stretto
alla mia libertà.”

(Raf, “Estate in città”)








E siamo all'ultimo. No, non preoccupatevi, non si sposano. O perlomeno, lo faranno quando si sposeranno anche Minnie e Topolino, Olivia e Braccio di ferro, Lupo Alberto e Marta...
Beh, spero davvero con tutto il cuore che vi sia piaciuta. Personalmente, ritengo di aver dato il massimo in questa storia, al di là dei commenti e delle 37 aggiunte ai preferiti (grazieeeeeee!). Il perchè non saprei dirverlo, so solo che questa è proprio una storia mia. Grazie di cuore a chi ha letto, commentato, aggiunto, a chi (spero) si è emozionato con me e.... insomma, grazie a tutti. Un bacio e alla prossima!

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