Light Years

di Sheep01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Disclaimer: Occhio di Falco, la Vedova Nera e tutti i personaggi citati non mi appartengono, ma sono proprietà di Marvel e Disney. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

 

 

***

 

Prologo

 

Cristalli di ghiaccio danzavano in vortici, sospinti dal vento.

Tracce rosse a delineare il percorso.

Gli ricordavano tanti piccoli rubini, sparsi sul gelido manto immacolato della neve.

E poi c’era lei. Una gamba che stillava sangue. L’incarnato a riprendere lo stesso pallido colore di quello scenario di morte. Ai piedi di una betulla. Lo sguardo ostile, allarmato, ma dai tratti ancora decisi. Determinati.

 

“Nat…”

 

Quindici passi. Poco più. Era certo di non poterla mancare.

La sua mano era ferma. Il dardo puntato. Lo sguardo incredulo, ardente, diretto all’improbabile obiettivo.

“Nat, sono io.”

Non una risposta. Non un solo cenno di identificazione.

“Nat… sono Clint. Clint Barton.”

“Non conosco… Clint Barton. Non conosco… Nat.”

In uno sguardo aveva capito quanto fosse sincera. Quello stesso sguardo che credeva di aver imparato a riconoscere, tanto tempo prima.

“Che ti hanno fatto?”

Poteva avvertire, distinto, il rumore del proprio cuore. Un groviglio allo stomaco, indefinibile, brutale.

E quel ritmo, pulsante, nei timpani? Era l’unico a percepirlo?

“Uccidimi. Rapido.”

“Non voglio… ucciderti, Nat.” La voce a insistere su quel nome. Quello stesso nome che aveva pronunciato così tante volte. Come a rimarcarlo. A riportarlo alla mente di colei che per prima non avrebbe dovuto dimenticarlo.

“Allora, cosa vuoi… ?”

Davvero non lo riconosceva? Era cambiato così tanto? Era cambiata lei… così tanto?

“Sapere che ti è successo. Ti credevo… morta.”

La donna – sì, adesso era davvero una donna - lo osservava insospettita. Faceva fatica a reggersi in piedi. Le mani, ora artigliate a quella corteccia pallida e inconsistente, la guidavano. Le gambe che tremavano un po’ per il freddo, un po’ per la debolezza.

“No, non sono… morta”, un sussurro, impalpabile a confondersi con il rumore insistente del vento. Quel vento gelido che intirizziva le ossa, intorpidiva i sensi. “Tu… tu sei morto.”

Clint non comprese il peso di quelle parole finché non vide il suo viso trasformarsi, come fosse una maschera.

La smorfia della donna che diveniva un ghigno, furente, ferino. In quello che intuì il preludio di un ultimo, disperato tentativo.

Natalia si lanciò su di lui con la furia di un animale.

Clint non riuscì a scoccare quella maledetta freccia.

 

***

 

CAPITOLO 1

 

“Dieci, venti, trenta, quaranta…”

Cinquanta, sessanta, settanta…

Banconote da dieci, da cento.

Soldi. Fanno muovere il mondo.

Non è così che dicono? Per qualcuno i soldi sono una conquista, la definizione di uno status sociale. Per altri… i soldi sono mera necessità. Sopravvivenza.

Quando non hai niente da perdere poi, sei quasi disposto a tutto, pur di ottenerli.

A tutto.

A rubare.

A uccidere... (forse).

Se ti ritrovi investito di un sacrosanto dono del quale non puoi o non vuoi ringraziare nessun altro – se non allenamenti feroci, abrasioni e tagli sulle dita, e in buona parte madre natura, per quell’occhio di falco che ti permette di vedere meglio da una certa distanza – ti senti in diritto di usufruirne.

A modo tuo.

… cento, duecento, trecento, quattrocento, cinquecento, seicento…

Non gli piaceva essere definito cecchino. Ma di fatto… era un po’ quello che era chiamato a fare su commissione. La sua mira poteva essere sfruttata in qualsiasi frangente.  Gli piaceva definirsi un atleta, un artista, più che un ladro, un truffatore o uno pseudo assassino. A richiesta usava qualsiasi tipo di arma, certo, ma era con arco e frecce – attrezzi ben più che collaudati, dal paleolitico in poi - in cui la sua arte trovava la sublimazione. Lo pensavano un eccentrico.

Se avessero conosciuto i suoi trascorsi o spulciato gli archivi dei giornali che richiamavano a spettacoli circensi, avrebbero certo scorto il suo nome. O il suo pseudonimo. Stella nascente del circo, arciere dalla mira infallibile. Successivamente fuggiasco, per necessità.

… settecento, ottocento…

“Meno trecento… per i danni.”

Clint rialzò la testa da quella scarica di fruscianti banconote.
“Quali danni?”

“Il camioncino.”

“Che ha il camioncino?”

“È esploso.”

L’alito dell’argentino gli aveva accarezzato le narici, nauseandolo. In realtà era un po’ tutto il complesso, di quell’uomo, a nausearlo. A cominciare da quei baffi che parevano posticci, luridi di grasso di maiale o qualsiasi altra bestia avesse appena finito di sbranare. I capelli giallognoli, impomatati con qualcosa dall’aroma dolciastro, che faceva fatica a definire.

Non erano passati gli anni della brillantina? O forse aveva viaggiato nel tempo senza nemmeno essersene reso conto.

Si sentiva ancora giusto un tantino frastornato.

Un occhio era pesto e gonfio. Ci vedeva appena da quella fessura tumefatta e sulla bocca aveva un taglio che bruciava come l’inferno, ogni volta che la sua lingua si ostinava ad andare a stuzzicare proprio lì.

“Avevi detto che non ti importava del camioncino.”

“Avevo anche detto di volere un’operazione pulita e discreta, Occhio di Falco.”

Clint cercò di non ribattere sul fatto che in ogni caso il suo lavoro lo aveva fatto, e lo aveva portato a termine nelle modalità più consone all’operazione, rimettendoci anche la faccia, letteralmente, ma rimase in silenzio.

La volta scorsa una parola di troppo gli era costata un calcio in culo. E una costola rotta.

E i due omoni di colore che troneggiavano, adesso, alle sue spalle, non erano poi così rassicuranti. E comunque non era il caso di prolungare troppo le trattative: la musica in quel localaccio fetente gli stava facendo esplodere il cervello.

Fece una smorfia. O forse credette solo di farla. A giudicare dallo stato delle cose, i suoi muscoli facciali avevano qualche difficoltà a muoversi agilmente, non senza provocare un dolore diffuso su tutto il perimetro del viso.

Strinse le mani su quel mucchietto di soldi.

Ne aveva bisogno. Come si ha bisogno dell’aria per respirare.

Non era nelle condizioni adatte per andare a procacciarsi il cibo in altro modo. E poi aveva ancora la fedina penale pulita. Perché rischiare con un furtarello in qualche discount?

Lo sapevano tutti che finire in gabbia per una stronzata simile era più facile che per aver occultato un cadavere.

Perciò si morse la lingua. Che per la cronaca pulsava quanto tutto il resto. Non era sicuro di ricordare il momento esatto dell’impatto o le modalità dell’incidente (di percorso), ma la sua faccia sul cruscotto e la fronte che aveva crepato il parabrezza, ricordavano piuttosto chiaramente il dolore.

Il resto, adesso, era una nebulosa di ricordi più o meno confusi. Era più concentrato sui soldi. Avrebbe avuto modo più tardi di fare la stima dei danni. E in caso, di dar fuori di testa.

 

Uscì dal locale che il buio era già calato. L’olezzo della spazzatura ammassata sul retro lo investì come uno schiaffo. Capì solo in quel momento di quanto fosse stanco. E debilitato. Le note della musica che pulsava sommessa, all’interno, scandiva il suo mal di testa.

Gli veniva un po’ da vomitare, ma per decenza magari si sarebbe astenuto dal dare anche quel degradante spettacolo di sé.

Si caricò sulle spalle il bauletto che conteneva arco e frecce. Non era consigliabile mostrarlo in giro. Fingere che fosse la custodia di uno strumento particolarmente grosso avrebbe persino giustificato il suo ambiguo andirivieni da locali più o meno malfamati della zona.

Un musicista. Dopotutto gli piaceva cantare… sotto la doccia, più che altro.

Abbozzò un motivetto a fior di labbra, mentre cercava di capire da che parte andare. Aveva persino i soldi per concedersi un taxi. Per una volta tanto, avrebbe potuto fare il signore, che diamine!

Si frugò nelle tasche dei pantaloni, cacciandone fuori un paio di occhiali da sole, assieme alle banconote.

“Aw, merda…” una delle lenti era irrimediabilmente scheggiata. Li aveva pagati un casino, perché ci teneva particolarmente ad avere i filtri UVA. La vista era la sua più fedele (e tristemente unica) alleata. Doveva prendersene cura come fosse una bambina.

Se li infilò comunque, avrebbero migliorato il suo aspetto. Nessun tassista si sarebbe fermato con cortesia per dare passaggio a un tizio dall’apparenza (e non solo) tutt’altro che raccomandabile, che puzzava e aveva per di più un viso da far paura al mostro di Frankenstein.  Con più cicatrici e tumefazioni… del mostro di Frankenstein.

Era quasi convinto a trascinarsi sulla strada, per chiedere quel famoso passaggio, magari sventolando la mazzetta, giusto per giocarsela un po', quando finalmente realizzò quella sensazione che aveva solo percepito, fra nausea, mal di testa, disappunto per gli occhiali scheggiati: qualcuno lo stava spiando. Oppure si stava facendo semplicemente i cazzi suoi, nell’ombra, ma di fatto era lì a fargli compagnia. Da qualche parte.

Alzò lo sguardo, puntandolo esattamente dove le sue percezioni lo guidavano.

Un movimento gli suggerì che quel qualcuno si era accorto di lui.

“Ehi amico…” la voce era quella di un ragazzo. Poco più giovane di lui, forse.

Amico… di chi? Non aveva amici, lui. Era abbastanza patetico?

Aguzzò la vista, vedendolo finalmente emergere dalle tenebre. Se ne stava seduto su un vecchio computer smesso. Fermo lì ad arrugginire da mesi.

“Hai mica da accendere?” gli domandò con indolenza. L’aria era poco incline al dialogo. Una felpa e un cappuccio rossi. Niente che suggerisse qualcosa di buono.

Si limitò a scuotere la testa, non fumava… non lo aveva mai fatto. Okay, forse solo una volta. E forse non era nemmeno una sigaretta. E suo padre se ne era accorto. E lo aveva riempito di botte…

Divagazioni a parte, non fece in tempo a nascondere il suo bottino nella tasca dei pantaloni che se lo sentì, letteralmente, sfilare di mano.

Rimase lì, come un allocco a seguire con lo sguardo quel flash rosso incappucciato che se ne andava dalla parte opposta del vicolo… con il suo guadagno della serata.

“Pezzo di merda.” Boccheggiò, per un istante, talmente incredulo da risultare quasi comico nella postura, gli occhiali gli erano scivolati dal naso, scoprendo di nuovo quell’occhio tumefatto, tutt’altro che sexy. Come poteva esser stato così incredibilmente, ingenuamente… stronzo?

Panico e irritazione lo investirono all’improvviso, come una botta di adrenalina. E si lanciò all’inseguimento.

Arco e frecce sobbalzavano dolorosamente, avvolti in quel pesante bauletto, sulla sua spina dorsale.

Cappuccio rosso aveva saltato una recinzione per finire nel vicolo adiacente. Clint non fu da meno, se non per i pantaloni che rimasero miseramente agganciati a un ferro puntuto. Li strattonò con violenza, sentendo lo schiocco dello strappo sul polpaccio. E anche i suoi jeans preferiti erano andati a farsi fottere, tanto per gradire.

Avrebbe sempre potuto peggiorare, comunque… avrebbe potuto piovere.

Per dire.

 

*

 

Alzò lo sguardo verso il cielo, quando sentì il mormorio di un tuono, lontano. Non era che un borbottio sommesso, ma l’odore, nell’aria, era cambiato. Presto avrebbe piovuto. Di questo era certa.

Abbassò lo sguardo sulle sue mani, le sue braccia, tremavano ancora. Era sicura che prima o dopo avrebbero smesso di farlo. Così come il mondo aveva smesso di vorticarle ferocemente attorno.

Le ci era voluto un po’ per capire dove si trovava.

Il perché fosse finita in un vicolo, insanguinata, indolenzita e confusa era una soluzione a cui ancora non era riuscita ad arrivare.

Aveva freddo. E a giudicare dal gorgoglio del suo stomaco, aveva persino fame.

Le orecchie fischiavano come avesse avuto un calo di pressione. La maglietta era larga, strappata, aveva perso una scarpa da ginnastica. Qualcosa era andato storto solo… non riusciva a capire cosa o perché.

Alzò una mano ancora stretta attorno al manico di un coltello.

Si ritrovò a specchiarsi nel bagliore della lama insanguinata, cogliendo solo vaghi stralci del proprio riflesso. Capelli rossi… labbra piene, viso acerbo ma… da ciò che riusciva a scorgere, non sembrava avere un bell’aspetto. Qualcosa di caldo le scivolò lungo la tempia, ricadendo in una goccia vermiglia sulla punta bianca della sua unica Converse.

 

“Ci rivediamo all’alba, Natalia.”

 

Una voce. Un volto.

Un soffio di coscienza, in quel dedalo di confusione.

Rialzò lo sguardo, trovando il cadavere di un ragazzo a pochi passi di distanza. Sdraiato scompostamente a terra. Un braccio piegato sotto il torace, come a contenere il dolore ormai per sempre estinto.

Gli era rovinato addosso. Questo… questo lo ricordava. Era saltato giù dal muretto.

Saltato giù dal muretto e non era riuscita a scansarlo.

Lei aveva picchiato la testa, molto forte ma…

Scorse quella scura macchia oleosa che andava ingrandendosi sull’asfalto, attorno al torace del cadavere: doveva averlo colpito. Colpito e affondato.

Sparpagliati attorno a lui, un numero imprecisato di banconote da dieci e da cento… dollari.

Dollari. Dunque era in… America.

America. Stati Uniti. Stati Uniti… nel distretto di…

Era sicura di essere sulla strada giusta per raggiungere una soluzione, quando la vista le si offuscò, di nuovo, in un’esplosione di cristalli di luce; un fischio pacato, latente tuonò all’improvviso nel suo cervello, annientandola.

Il coltello le sfuggì di mano.

Le ginocchia cedettero, facendola rovinare al suolo.

La nausea la invase come una marea. Fu vinta da una serie di conati di vomito che la costrinsero a piegarsi e a rimettere bile.

La stanchezza, l’odore del sangue, della pioggia, il rumore del tuono sommesso, furono rapidamente accantonati, dimenticati.

Una tabula rasa.

Rimase a fare i conti con il suo malessere fisico e le percezioni ovattate a lungo, prima che cominciasse a piovere.

 

“Ehi tu…” un’eco nel candido nulla in cui stava affogando.

“Dico a te… ragazzina…”

Fu il rumore del proprio cuore pulsante a riportarla alla ragione. Alla pseudo lucidità.

La bocca ancora impastata, le membra gelide, tremanti.

Quando sentì il lieve tocco dello sconosciuto su di sé, scattò in lei qualcosa di antico, furibondo, letale.

Le mani trovarono il coltello che aveva abbandonato, le dita si strinsero sul manico, le ossa, i muscoli risposero uno ad uno a dei comandi istintivi, mai dimenticati, sempre all’erta.

Fu in piedi ancora prima di smaltire i postumi dello stordimento.

La lama affondò in qualcosa di… rigido.

I suoi occhi misero a fuoco un bauletto. Nero.

E poi, rialzando il tiro, a scrutare un paio di occhi grigio azzurro.

“Woah, ma che razza di ringraziamento sarebbe, questo?” si scostò con una rapidità tale che le fece perdere l’equilibrio, di nuovo. “La prossima volta mi faccio i cazzi miei e tanti saluti.”

La pioggerellina fastidiosa le aveva appiccicato ciocche di capelli al viso. Lo scrutava in terrore d'ubriaca, fra i capelli fradici, mentre l'uomo si infilava le bretelle di quello che sembrava un grosso strumento musicale. Forse un sassofono, forse… no.

“Sei stata tu?” lo vide indicare il ragazzo a terra. Era morto.

Era… stata lei?

Probabile.

Non riusciva a ricordarlo. Qualche meccanismo doveva essersi irrimediabilmente inceppato nella sua testa.

Ebbe come la sensazione che non fosse nemmeno la prima volta.

“Ti ha fatto del male?”

Non disse nulla, non fece… nulla.

Lo sconosciuto continuava a guardarla, ora vagamente spazientito.

“Vaffanculo, non ho tempo da perdere con queste stronzate.” Lo sentì borbottare, mentre infilava in tasca una mazzetta umidiccia di… soldi? O forse solo cartacce.

O forse solo…

La nausea la colse di nuovo impreparata.

Una nuova scarica di bile. La gola era talmente irritata dallo sforzo da strappargli una serie di colpi di tosse in rapida sequenza. Una combinazione tutt’altro che gradevole.

“Sei fatta?” lo sentì di nuovo domandare.

Le si avvicinò, titubante.

“Ho detto: sei.fat.ta?” scandì.

Di nuovo non rispose.

Fatta significava drogata. Forse lo era. Non lo ricordava. Non lo sapeva.

Si asciugò il viso, le labbra. La mano era sporca di sangue. Sangue che aveva raccolto direttamente dalla sua tempia.

“Quanti anni hai… dodici?” era un tono di compatimento o di rimprovero?

In ogni caso non aveva una risposta a quella domanda.

Voleva chiudere gli occhi e dormire. Accantonare il dolore, la paura, la rabbia. Ma forse sarebbe morta lì, in quel vicolo, accanto al cadavere di quel… ragazzo con la felpa rossa.

“Cazzo, dovrei chiamare un’ambulanza…”

Un’ambulanza. Per la testa? Forse anche per la nausea.

“Come ti chiami me lo sai dire?”

Le era di nuovo accanto, non prima di aver allontanato con un calcio il coltello con cui lo aveva quasi colpito, prima.

Come si chiamava?

Non sapeva nemmeno quello.

Poi un lampo.

E un tuono.

 

“Ci rivediamo all’alba, Natalia.”

 

Rialzò lo sguardo e lo fissò a lungo, negli occhi.

“Natalia… ?” esalò, prima di essere investita da un nuovo, tremendo conato di vomito.

 

*

 

Natalia, a quanto pareva gli aveva appena vomitato sulle scarpe. L’unica cosa a cui teneva di più dopo il suo arco e delle sue frecce, più degli occhiali, comunque. Più del denaro.

Ci aveva messo una vita a trovarne un paio di quella particolare sfumatura di viola. Sembrava una cosa un po’ da fissati ma… chi non ha le sue piccole manie, scagli la prima pietra.

Scrollò quella schifezza giallognola aiutato dalla pioggerellina fastidiosa.

Forse avrebbe solo dovuto andarsene. Prima che arrivasse qualcuno, e gli desse anche la colpa della tragedia appena consumata nel vicolo.

Lo avrebbero creduto un omicida. Un tampinatore di ragazzine drogate. Il serial killer di ragazzini... ladri.

“Senti... io ti chiamo un'ambulanza e poi... poi ti arrangi, mh?”

Era veramente un pezzo di merda. Ma di quelli veri. Di quelli che leggi sul giornale o vedi in tv e dici: macchepezzodimmerda bastardo, perché l'ha lasciata lì?

Sì, facile a dirsi quando te ne stai seduto sul tuo divano, le mani sprofondate nei pantaloni... o in una ciotola di patatine al formaggio. O tutti e due.

Ma prova a essere tu, quello stronzo.

Prova a essere tu quello che deve fare una scelta.

Non faceva un lavoro onesto. O pulito. Non era una persona onesta... né pulita.

E quella ragazzina, per dio, era una drogata e forse pure un'assassina. Cioè, forse aveva solo fatto valere il suo diritto all'autodifesa, però il cappuccio rosso era morto e lei... e lei stava svenendo.

Stava svenendo?

“Ehi, Natolia... Natuzza... come cavolo hai detto che ti chiami.”

Le era finito vicino per l'ennesima volta. Bianca come un cencio. Aveva le labbra viola. E gli occhi le si erano irrimediabilmente ribaltati all'indietro.

“Porco cazzo, Natalina!”

Non che volesse farsi prendere dal panico ma... se non era quello il momento di farsi prendere dal panico, quando lo sarebbe stato?

Le diede uno schiaffo. Non successe nulla.

Poi un altro.

Niente di nuovo.

Respirava?

Avvicinò il viso al suo. Pareva di sì, ma il rantolo del respiro si confondeva con quello della pioggia.

Si rimise dritto, le mani ancorate sui fianchi.

E adesso che cosa avrebbe dovuto fare, in quanto stronzo da giornale o tv?

Fosse stato un eroe da film l'avrebbe salvata, ma forse aveva un'immagine di sé troppo negativa per calarsi nell’immedesimazione di quello scenario.

In tutto quel teatrino di sentimenti contrastanti risuonò la sirena di una macchina della polizia.

Lo stronzo pezzo di merda se la sarebbe data a gambe.

 

E Clint lo fece, alla grande.

Ma non prima di essersi caricato la ragazzina sulle spalle, per sparire in quel vicolo grondante oscurità.

 

___

 

Note:

Torno con una nuova storia a capitoli che nasce da un’idea che mi ronzava in testa da un po’.

E ronzava è la parola chiave, perché il rumore era così fastidioso da non permettermi di pensare con lucidità alla sua stesura. Il percorso è stato lungo e travagliato ma alla fine ho trovato la via e ho sedato il ronzio, sparandoci su decibel di musica.
La fanfiction nasce dalla semplice idea del primo vero incontro fra Occhio di Falco e la Vedova Nera. Stavolta affidandomi però alla versione dei fumetti. Dove il nostro arciere perde la testa per questa ladra che, solo in seguito, scoprirà essere una spia russa.

Ecco, diciamo che ho preso davvero solo l’idea. Soprattutto per la traccia e il background, come forse si intuisce da questo primo capitolo. Domandandomi cosa sarebbe successo se Clint e Natasha si fossero incontrati prima che lo SHIELD e gli Avengers tutti entrassero a giocare un ruolo fondamentale nella loro vita. Entrambi a gestire delle esistenze tutt’altro che semplici: incasinati, giovani e tremendamente irresponsabili.

Entreranno in gioco anche altri personaggi, in seguito. Uno fra tutti un personaggio che io amo molto, e del tutto legato al nostro Clint (e no, non sto parlando di Coulson). La storia è presumibilmente da collocare verso la metà/fine degli anni ’90. Insomma un bel periodo tamarro.
Per il resto… vedremo cosa succederà.

Nel frattempo ringraziamenti di rito a Sere, perché, credetemi se dico che ha assistito a tutte le mutazioni possibili e immaginabili di questa storia e l’ha sempre sostenuta più di me. Perciò grazie. Giuro che la finisco, sono a buon punto. E la finisco pure prima dell’altra, quella seria. Quella tremenda XD
Sperando di aver stuzzicato un minimo la curiosità… rimando alla prossima.

Salutazioni attutti!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

 

Sometimes I feel, like I don't have a partner
Sometimes I feel, like my only friend, is the city I live in...
(Red Hot Chili Peppers – Under the Bridge) 

 

 

Gli occhi di Natalia si riaprirono su un raggio di sole appena filtrato dalle tende che schermavano una piccola finestra.

Si rimise seduta a fatica, la testa leggera come fosse stata completamente vuota, solo per rendersi conto di essere su un letto, le lenzuola presumibilmente cambiate di fresco. In una camera da letto che non riconosceva.

Si portò una mano alla tempia indolenzita e, tastando, capì di avere la testa fasciata. Ecco il fastidio attorno al cranio a cui non riusciva a dare un nome.

I ricordi di ciò che era successo erano lontani e nebulosi. Rammentava un gran mal di testa e la confusione. Quella rimaneva. E il coltello, il cadavere, la nausea, la pioggia… il tizio che le chiedeva se fosse “fatta”.

 

“Ci rivediamo all’alba, Natalia.”

 

Osservò l’orologio a parete, constatando che erano le dieci. L’alba esaurita da un pezzo: da qualsiasi posto provenisse quell’ordine o augurio… era un po’ troppo tardi per onorarlo.

La cosa più importante, adesso, era capire dove diavolo si trovasse.

Scalciò via le lenzuola e scrutò la stanza.

Una camera da letto piuttosto essenziale. Poster di vecchi film alle pareti. Una libreria con qualche libro e fumetto. Un armadio dall’anta semi aperta con una gruccia vuota appesa a uno dei pomelli. Al soffitto penzolava una lampadina solitaria agganciata a un unico filo. Nemmeno lo straccio di un lampadario. In un angolo dei vestiti ammonticchiati che però non erano i suoi: indossava ancora i vecchi abiti della sera precedente. Meno le Converse.

Sul comodino una bottiglietta di plastica con dell’acqua.

Scoprì di avere sete, ma decise di non prendere in prestito nulla di cui non conoscesse la provenienza.

Doveva uscire da lì. O quantomeno capire cosa stesse succedendo.

Il fatto che non ricordasse il perché fosse in quel vicolo, la sera precedente, non faceva che aumentare la sua curiosità. O la sua necessità.

Non era più tanto terrorizzata come si era sentita al primo risveglio di coscienza. Impotente, smarrita e dolorante, quello sì. E quello stato d’ansia faticava a sparire. Solo che ora sembrava più che padrona di sé. La nausea andata, sparita. Magari le ci sarebbe voluta meno di una giornata per recuperare i ricordi.

Ci rivediamo all’alba… Natalia.

All’alba, ma dove?

Chiunque fosse stato… l’avrebbe ancora attesa a lungo.

Adesso la priorità era un’altra.

 

*

 

Provò di nuovo con il telefono.

“Ma dove cazzo sei finito Herbert… ?” a rispondergli un vago e fastidioso: tu tu tu.

Era l’unico dottore che Clint conosceva. L’unico che non faceva domande, se non altro. Per tutte le volte che era tornato a casa pesto, con le ossa rotte, colpito da un proiettile, o da una coltellata non richiesta, vittima di incidenti stradali o simili, Herbert, il tedesco, lo aveva sempre aiutato, senza nemmeno chiedersi perché. Una raccomandazione al termine di ogni visita o prestazione (fai più attenzione, la prossima volta). Non lo aveva mai denunciato, dunque presumeva fosse affidabile.

Aveva assolutamente bisogno di capire come comportarsi con quella stupida ragazzina che stava dormendo in camera da letto (rubandogli il letto). Il perché non l’avesse abbandonata di fronte all’ospedale, era una domanda a cui non riusciva a dare una risposta. Semplicemente una decisione che non era stato in grado di prendere al momento. La pioggia, la fretta, lo stordimento, il mal di testa…

Aveva preso la via più comoda: quella di casa sua. Valeva a dire un vecchio appartamento fatiscente in quel di Brooklyn. Una catapecchia in cui si era trasferito solo qualche mese prima.

L’affitto era una miseria, i vicini erano poco rumorosi e la vista dall’ultimo piano era impagabile.

Mise da parte il telefono.

Ingoiò una pasticca per il mal di testa e subito dopo ci rovesciò addosso una buona dose di caffè. Semifreddo, ma era ciò che di meglio era riuscito a fare. Avrebbe dovuto comprarsi un nuovo bollitore, comunque.

Si portò con la tazza ancora colma di fronte al tavolo della cucina: sparpagliati su di esso una cifra astronomica di banconote. Ne tastò una per constatare che si fossero asciugate. Alcune erano accartocciate malamente - si domandò se non gli avrebbero fatto storie - altre erano appese come panni stesi a un filo che attraversava per lungo tutta la cucina. Un addobbo quantomeno costoso.

La faccia di Benjamin Franklin sembrava lanciargli, da più prospettive, occhiate di sufficienza.

“Finiscila…” lo schiaffeggiò portandosi accanto al divano, per sprofondarcisi e riprendere a occupare la fossa che lo aveva accolto per tutta la notte. Aveva veramente un divano orribile e un mal di schiena da far concorrenza a un nonno. Non il suo, che non aveva mai conosciuto… ma a un nonno.

In preda a quelle inutili considerazioni e al sacrale atto di godersi il primo caffè della mattina, la porta della camera da letto in cui dormiva la ragazzina si aprì. Con circospezione.

Alzò lo sguardo prima di trovarsi a dover schivare un libro (IT di Stephen King, nientemeno!) in volo planare.

“Cazzo!” esclamò, rimettendosi in piedi, mentre il caffè si sparpagliava attorno a fontana, andando a inzuppare pavimento, pareti, vestiti e il libro che si era accucciato accanto alla parete alle sue spalle.

“Ma dico! Non…” altro giro, altro regalo. E stavolta a farne le spese, oltre alla sua incolumità, l’intera collezione di Batman.

“Non i fumetti! Finiscila, finiscila!” la ragazzina si era appena lanciata contro di lui, a ariete, decisa, probabilmente, a spingerlo abbastanza forte da farlo crollare e prendersi comodamente il diritto di fare di lui ciò che più le interessava. Nello specifico, niente di troppo piacevole. Con tutta probabilità ciò che presumibilmente aveva fatto a Cappuccio Rosso, la sera precedente, in quel vicolo dimenticato da Dio.

La vide invece virare, all’ultimo istante. E deviare verso la cucina, su quel grosso, malconcio tostapane sul piano da lavoro.

In previsione di quello che sarebbe accaduto l’istante successivo, Clint si tuffò, letteralmente, dietro al divano, dove, per sua fortuna, teneva le riviste smesse, acciuffate dai parrucchieri della zona (sì, lo sapeva, era una pessima persona. Rubava le riviste dai parrucchieri. Alle vecchine sotto al casco della permanente: sono venuto a prendere mia zia, è qui? E via, il giornale sotto la maglietta. Qualcosa doveva pur utilizzare per le sedute al cesso, no? Argomenti adatti allo stimolo).

Trovò l’ultimo numero di Tuttasalute e Divaeddonna e dopo aver preso la mira le aveva scagliate a frisbee sulla ragazza. La disarmò del tostapane prendendola dritta ai polsi.

Si rimise in piedi l’istante successivo, in preda a un sacrosanto nervosismo e una divina incazzatura.

“Mi vuoi spiegare che cazzo ti prende?! Ti ho salvato la vita!” più o meno. Essere melodrammatici però di solito funzionava, nei film… e nei romanzi. Oh, e nei fumetti.

La vide caricare di nuovo, ma stavolta, prima che potesse reagire in qualche maniera, prese lo slancio da una sedia e per librarsi letteralmente in volo, piroettando nella sua direzione.

Ne rimase così affascinato (il millesimo di secondo in cui riuscì a realizzare l’acrobazia) che non registrò che la mossa era stata studiata espressamente ai suoi danni.

Si trovò circondato da una morsa non preventivata di cosce, che gli mozzò il fiato in gola.

A tenerlo in piedi solo la parete che si era trovato alle spalle.

Si dimenò per un istante, comicamente, cercando, nel contempo, di mantenere l’equilibrio. Non gli si era ancora spezzato il collo; chiamatelo culo, chiamatelo fata madrina, ma la ragazza non sembrava aver preso bene le misure. Oppure non era ancora in forma eccezionale per portare a termine un’operazione studiata come quella.

Ma chi era? Da dove veniva? Domande che forse non era proprio il caso di porsi in quella particolare situazione.

Si sentì strattonare per i capelli. Le sue braccia ora attorno alla sua testa, cercavano di reindirizzare la mossa.

Cercò di liberarsene con una mano e lei lo morse. Clint cacciò un grido strozzato che fece eco dalla finestra aperta della cucina, a disperdersi fuori, sulla strada.

Cercò di rimediare con l’altra e quando fallì di nuovo non trovò altra soluzione se non quella di lanciarsi sul divano, di schiena, sperando che il contraccolpo la facesse desistere dal suo aggancio violento.

La sentì liberare le mani e la bloccò al divano in meno di un istante, viola in volto (come le scarpe) e il respiro corto, affannato; le si era letteralmente spalmato addosso, trovandocisi ora faccia a faccia, le mani a trattenerle i polsi sopra la testa.

Una posizione tanto compromettente quanto vantaggiosa.

La sentì dimenarsi per qualche istante ancora, prima di desistere, vinta dalla sua superiorità muscolare o forse solo dal fatto che era ancora troppo debole. La fascia le era scivolata giù dalla testa, la tempia era incrostata di sangue rappreso.

“Non voglio farti del male…” esalò cercando di regolare il respiro e il battito accelerato del suo cuore. “Perché tu ne vuoi fare a me? Se te ne volevi… andare… sarebbe b-bastato…” tossì “Chiedere.”

La ragazzina si limitò a fissarlo: un misto di ostilità e angoscia.

“Dico davvero…” non seppe perché sentisse così intenso il desiderio di tranquillizzarla. Forse perché era troppo giovane, forse perché i disadattati erano un po’ il suo tallone d’Achille… forse perché lo era lui stesso, un disadattato…

Dopo essersi accertato che non avrebbe tentato altre mosse la lasciò andare. Liberandole innanzitutto i polsi. E poi scavalcandola per rimettersi in piedi.

Si passò una mano sul viso, mentre lei se ne stava lì, sdraiata sul divano, il petto che le si alzava e abbassava in un ritmo incostante.

Si chinò di fianco al divano, deglutendo a fatica in quel groviglio infiammato che adesso era la sua gola.

“Mi hai fatto… un male cane… quella mossa... da dove sei uscita? Da un circo?”

Se fosse stato così non ci avrebbe messo molto a risalire alle sue origini. Se non altro avrebbe saputo a chi chiedere.

Lei di nuovo non rispose e quasi si chiese se comprendesse la sua lingua. Però la sera prima gli aveva risposto. Aveva detto di chiamarsi…

“Natalia…”

Per la prima volta, gli sembrò di cogliere un guizzo di consapevolezza nel suo sguardo. Quando si volse a guardarlo, certo.

“Ti chiami così, no? Me lo… hai detto tu.” E la indicò per dare forza alla sua affermazione. Sperò ardentemente che se lo ricordasse, perché dato il modo in cui l’aveva raccolta dalla strada, non sembrava affatto essere padrona di se stessa.

L’aveva ispezionata, in qualche modo, prima di stenderla a letto, la scorsa notte. Non aveva segni su braccia o fra le dita dei piedi e, per quello che aveva potuto constatare, almeno non sembrava bucarsi. Sul resto non aveva indizi sufficienti. Però non pareva esser vittima di una qualsivoglia crisi d’astinenza.

Era solo impaurita, astiosa… e parecchio nervosa.

Chi non lo sarebbe stato?

Insomma, era in un appartamento che non riconosceva, con un perfetto sconosciuto, che appendeva banconote per casa come fossero vestiti per… bambole.

L’aveva intuita la direzione del suo sguardo.

“Posso… posso portarti all’ospedale, se preferisci. Chiamare qualcuno. C’è qualcuno che posso contattare?”

La vide fare uno sforzo non indifferente per rimettersi seduta sul divano.

Lui si scostò per istinto, se mai le fosse venuto in mente di replicare lo scherzetto di qualche minuto prima. Ma sembrò limitarsi a rimanere lì, a farsi sorreggere dallo schienale del divano, come se l’exploit acrobatico l’avesse prosciugata di qualsiasi energia.

Lo fissò di nuovo, con quegli occhi verdi e penetranti.

Si ritrovò a sentirsi schiacciato dal peso di quello sguardo… come se in quelle profondità fosse racchiuso tutto e… assolutamente niente.

Un ossimoro di quelli da violenza mentale.

Natalia si umettò le labbra, lucide e piene. Non poteva avere davvero più di… quindici… o sedici anni. Un’adolescente.

“Non conosco… nessuno.” Esalò in un soffio e Clint quasi si ribaltò all’indietro al suono della sua voce. Credeva di esserselo solo immaginato. Credeva non sapesse parlare. Aveva però intercettato un accento vagamente straniero. Di quale parte di mondo fosse, non avrebbe saputo dirlo.

“Capisco, bè…” si passò una mano fra i capelli, scompigliandoseli come non sapesse che pesci prendere, “non conosci nessuno davvero oppure semplicemente non te lo… ricordi?”

 

*

 

“Ci rivediamo all’alba, Natalia…”

 

No, Natalia proprio non se lo ricordava. E avesse continuato con quella assurda tecnica non sarebbe mai arrivata da nessuna parte.

Il tizio… non sembrava intenzionato a farle del male… o almeno…

Non l’aveva abbandonata in un vicolo, le aveva lasciato addosso i vestiti, e le aveva fasciato la testa, un po’ misero come riferimento ma più che sufficiente ad assicurarle che le sue intenzioni, almeno per il momento, non erano cattive.

“Non… ricordo. Non lo so.” Le uniche cose che sentì la necessità di dire. Sentiva il bisogno di tacergli la sua confusione mentale. Ma sapeva quando fosse più che evidente la gravità del suo disagio.

“Okay… quindi hai un’amnesia.” Clint si passò una mano fra i capelli, un’altra volta. Ma si rimise in piedi, come sopraffatto da una grossa crisi interiore.

“Ti porto all’ospedale. Di sicuro potranno darti una mano… più di quanto non possa fare io comunque.”

Si chiese perché non lo avesse fatto la sera stessa del suo ritrovamento. Ma tutte quelle banconote appese e l’occultamento di un omicidio in un vicolo, forse nascondevano ben più di un buon samaritano.

Doveva ammettere di essere sollevata di essere ancora in grado di fare delle deduzioni. Compromessa… fino a un certo punto.

“Sto bene…” gli disse dunque.

Lui rialzò la testa. La perplessità gli si leggeva persino nel modo in cui il ciuffo scomposto gli si stava ammosciando sulla fronte.

“Non ho bisogno di un ospedale.”

“Bella questa... sei un dottore?”

Natalia lo fissò perplessa.

“No che non lo sei. Anche se lo fossi, non te lo ricorderesti, no? Non ricordi nulla... tanto bene non devi stare.”

Il ragionamento non faceva una piega.

“Potrebbero capire chi sei, se si è smarrita una ragazzina se...”

“No.” L'istinto le stava dicendo, a gran voce, di non sbandierare in giro la sua immagine. Una sensazione che si propagava per lo stomaco, a seguire nel petto, fin su, nella testa.

“No... che cazzo significa, no?”

“No... me ne vado.”

Forse era l'unica soluzione possibile. Sarebbe arrivata a risolvere il mistero in un altro momento. Magari, fuori da quell'appartamento, avrebbe potuto ragionare senza la pressione di quel tizio con le banconote.

“Okay...” non ci era voluto poi molto a convincerlo.

Cercò di rimettersi in piedi, ma le gambe le cedettero di nuovo. La testa aveva ripreso a girare.

Merda. Ma per quanto tempo sarebbe andata avanti in quel modo?

“Sui gomiti...”

“C-come?”

“Io proverei ad andarmene sui gomiti. E' anche un modo abbastanza scenografico per uscire di scena.”

Cercò di capire quanto fosse serio. La cosa peggiore era che, per un terribile attimo, aveva persino preso in considerazione la possibilità.

Si aggrappò al divano e si rimise seduta.

“Bene, dunque siamo d'accordo sull'ambulanza.”

“No.”

Il tizio adesso la fissava come se fosse completamente suonata.

“Ma sai dire solo no? Non puoi stare qui.”

“Sei tu che mi hai portata qui...”

“Sì ma solo perché... bé, perché sono cazzi miei, ma adesso te ne vai. E se non all'ospedale almeno alla polizia... e...”

“E se avessi ucciso io il tizio del vicolo?”

L'uomo rilasciò un sospiro esasperato.

“Non è affar mio.”

“Lo è... perché se fossi colpevole... e i dottori chiamassero la polizia... potrebbero scoprirlo ed io finirei nei guai.”

“Come ho detto prima... non sono cazzi m-”

“Gli racconterei dei tuoi dollari appesi per la casa.”

“Scusa?” adesso la stava osservando preoccupato. Forse aveva trovato la strada giusta.

“Racconterei loro che ti sei rifiutato di portarmi immediatamente all'ospedale.”

“Bè, questa è bella.” la risata era nervosa.

“Direi loro che mi hai tenuto qui una notte intera... e hai tentato di fare... cose.”

“Che cosa?!” adesso era indignato, arrabbiato.

“Direi loro che il giorno dopo hai tentato di liberarti di me...”

“Dove vuoi andare a parare ragazzina?” furente.

Lo osservò per un lungo istante. Aveva capito improvvisamente cosa fare.

“Voglio restare qui.”

 

*

 

La ragazzina doveva decisamente aver battuto la testa un po' troppo forte per i suoi gusti.

Lo stava ricattando?

Lui odiava i ricatti. Erano infimi... e bastardi.

Farsi poi ricattare da un'adolescente in crisi d'amnesia... era veramente da principianti.

Era finito. Credeva di poter almeno mirare ad arrivare ai venticinque anni, facendo quella vita, ma a quanto pareva, si sarebbe fermato prima. E per colpa di chi? Di se stesso!

Perché in fondo, la decisione di portarsi via quella criminale era stata sua, presa in un attimo di follia, per non sentirsi una totale merda umana ma... adesso la sua buona azione gli si stava rivoltando contro in modo del tutto controproducente.

“Cos-? Non puoi restare qui, ragazzina!”

“Non so dove altro andare.”

Stava per caso cercando di fare la patetica?

“Ti sta venendo malissimo.” blaterò senza darle il tempo di capire a cosa fosse rivolto il suo commento. A volte gli capitava di parlare da solo, ma magari non era proprio il caso di mostrarlo così spudoratamente in pubblico.

Cominciò a camminare avanti e indietro.

“Non puoi restare qui... davvero. Sono... un tipo pericoloso.” Dichiarò con tono intenso.

“Non sembri pericoloso.”

Si fermò per guardarla.

“Lo sono.”  Adesso era minaccioso.

Lei scosse la testa.

Ma che cazzo!

Le si inginocchiò di fronte.

“Ti prego, non puoi stare qui…” supplicante.

Lei si strinse nelle spalle.

“Porca puttana, ho detto di no!” incazzato.

Natalia di nuovo non fece una piega.

Clint si rimise in piedi, scalciando la tazza caracollata al suolo poco prima, che nella foga, straordinariamente ancora non si era rotta.

Quasi però non scivolò sul caffè sparpagliato, salvandosi in corner, aggrappato al tavolo.

“Non sono un cazzo di assistente sociale. E non sono un dottore.”

“Questo lo immaginavo...”

“Anche per il culo mi prende...” disse rivolto a Benjamin che ancora lo fissava con sufficienza dalle banconote.

“Solo fino a quando non starò meglio...”

Si voltò a guardarla. Stava forse ridimensionando la richiesta? O forse la stava semplicemente specificando. In fondo... effettivamente mica gli aveva detto di voler rimanere in pianta stabile. Nemmeno gli avesse chiesto di sposarlo.

“Vale a dire?”

“Quando arriverò a capire cosa è successo ieri sera...”

“Con cosa? I tuoi poteri psichici?”

Lei gli rivolse uno sguardo confuso: “Che... significa?”

“Lascia perdere.”

“Ho solo bisogno... di un po' di... riposo. Forse solo un paio di giorni... e poi me ne... andrò. Io non ti denuncio. Tu non chiami... la polizia. Anche non riuscissi a capire cosa succede... sarò fuori di qui, sulle mie gambe.”

Clint le lanciò uno sguardo strano.

Certo se qualcuno la stava cercando e l'avesse trovata, per caso, la merda se la sarebbe trovata addosso lui. E la merda era l'ultima cosa di cui aveva bisogno.

“Sulle tue gambe...” Lei annuì.“Come quella mossa pazzesca... delle cosce. Quella però la ricordavi bene.”

“E' stata istintiva...”

“Quando io sono istintivo al massimo devo sedare le mie m...” … utande. Si morse la lingua. Capì di non essere granché avvezzo al dialogo con altre persone. Non quel giorno in particolare.

Inspirò a fondo, cercando di essere razionale.

Avrebbe dovuto avere fra i piedi una ragazzina. Come quella volta che aveva ospitato suo fratello Barney (dopo vicissitudini che non aveva gran voglia di ricordare) e ci aveva quasi rimesso una mano e il portafoglio.

La famiglia, gran bella cosa... la famiglia.

A proposito di soldi: forse avrebbe dovuto nascondere tutte quelle banconote.

“Due giorni hai detto.”

“Due.” confermò lei e non seppe dire come o perché, le credette, sulla fiducia. Forse lo sguardo, forse la determinazione, il tono di voce, la postura. O forse, più probabile, si era definitivamente fottuto il cervello.

“Ti piace il caffè?” le domandò allora.

La vide tirare una sottospecie di sospiro... di sollievo?

“Non... me lo ricordo.”

“Bene. Meglio così, anche perché è l'unica cosa che ho nella dispensa.”

Aveva appena firmato la sua condanna a morte?

Probabile. Grazie al cielo era ben consapevole... di essere un coglione.

“E ti tocca il bicchiere di vetro perché mi hai fatto distruggere l'unica tazza sana che avevo. E a proposito: io mi chiamo Clint.”

Si fece strada oltre la tendina di banconote che, frusciando, sembravano ribadire il concetto, scandito dal sorriso sornione di Benjiamin.

Coglione.

 

___

 

Note:

Insomma il nostro Clint si è fatto convincere (ricattare) dalla giovane Natalia.

Bene? Male? Lo scopriremo solo nel prossimo capitolo. In fondo credo che presto o tardi anche lui si vedrà curioso di scoprire da dove arriva la misteriosa ragazzina smemorata.

Da questo capitolo in poi, in testa, troveremo un po’ di canzoni ripescate direttamente dagli anni ’90. In tutto l’arco degli anni ’90, più o meno. Gli anni della mia adolescenza (bei ricordi, mygod). Giusto per dare atmosfera e colonna sonora a tutta la storia. That’s it.

Ringrazio chiunque si sia fermato a leggere e commentare questa nuova impresa e alla beta, as usual.

Piccolo annuncio. Questo sarà l’ultimo capitolo a venir pubblicato per almeno un paio di settimane. Motivo: vado (finalmente!!!) in ferie. Perciò se non mi sentirete più non sarò stata rapita dai pirati, ma molto più banalmente in giro per Creta, zaino in spalla, alla scoperta di siti archeologici e perché no, qualche dio Greco. Ahem. Nel caso venissi rapita dal Minotauro che qualcuno mi lanci un filo. Insomma, se ha aiutato Teseo…

Nel migliore dei casi ci risentiremo il 28 di luglio. Nel peggiore… continuate a ricordarvi il filo.

Ci risentiamo a fine mese! E per chi andrà in vacanza: buone ferie!

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3

Think of me what you will
I got a little space to fill

(You don't know how it feels – Tom Petty and the Heartbreakers)

 

Natalia aveva capito che convivere con Clint avrebbe potuto rivelarsi piuttosto semplice.

La regola sembrava essere una sola: fai quello che ti pare. Senza limiti di spazio (bagno escluso) o di orario.

L'uomo le aveva ceduto spontaneamente la sua stanza e si era allestito un letto improvvisato in salotto. Corredato da un paio di cuscini che dio solo sapeva dove si fosse procurato. Grandi e comodi, ma piuttosto… distanti dall’idea che si aveva di buon arredamento.

I soldi erano spariti, li aveva nascosti dietro uno degli zoccolini della cucina, in un vano scavato nel muro, piuttosto sicuro che lei avrebbe faticato a trovarli. Se avesse voluto, invece, Natalia avrebbe potuto recuperare l’intera refurtiva e fuggire - per dove, ancora non lo sapeva - ma date le circostanze, capì che tanto valeva approfittare del buon cuore del… criminale gentiluomo e restare comoda, a ristabilirsi e cercare notizie.

L’unica cosa che veramente gli rimproverava era la totale mancanza di mezzi telematici. E non un solo apparecchio tecnologico (moderno) in casa, se non si considerava un vecchio microonde (nel quale Natalia ipotizzò ci cucinasse tutti i suoi pasti), un televisore dall’aria malconcia o il vecchio stereo. Aveva una serie spropositata di musicassette nascoste nei posti più impensabili. Originali, ben poche. Più un numero di vinili che stavano solo facendo la muffa.

Non era uno che badava molto alla forma. Di certo era un tipo originale.

Aveva scoperto che quel bauletto che tanto si era tenuto stretto la sera del temporale, non conteneva affatto uno strumento musicale, bensì qualcosa di molto più pericoloso e altrettanto singolare: un arco dall’aria piuttosto costosa e una faretra munita di frecce decisamente troppo tecnologiche per un tipo come lui. Forse l’unico vero sfizio costoso che si era mai concesso in quella sobria vita fatta di pareti scrostate, arredamento povero e pasti frugali. Aveva dedotto fosse lo strumento con cui lavorava.

Un paio di indizi l’avevano condotta a scoprire (in una mezza mattinata) che doveva aver persino lavorato in un circo.

Non si sentiva particolarmente felice di dover rovistare in giro in cerca di indizi altrui – dato che per se stessa, all’attuale stato delle cose, avrebbe potuto scoprire ben poco - ma il fatto che l‘avesse lasciata a casa da sola per fare chissà cosa in uno dei suoi giri mattutini le aveva dato una certa stuzzicante autorizzazione a farlo.

Non doveva nemmeno essere un tipo molto socievole quel Clint. In una specie di agendina teneva numeri di gente (la maggior parte delle quali cancellata a secchi colpi di penna) che intuì fossero clienti o contatti. E non aveva che vecchissime fotografie a testimoniare il fatto che avesse avuto una vita, in qualche modo sociale, prima di allora. Ma in quegli scatti sembrava un adolescente o poco più e doveva avere un fratello che gli somigliava parecchio, non fosse per il colore di capelli. Clint era biondo, il fratello rosso stinto. In che rapporti fossero non seppe dirlo: doveva però essere l’unico parente rimasto in vita.

Su uno dei documenti del contratto di affitto, aveva scoperto che Clint faceva Barton di cognome (e Clinton Francis di nome) e aveva ventitré anni o giù di lì. Non ebbe il tempo di approfondire ulteriormente il discorso: verso l’ora di pranzo, finalmente, l’oggetto della sua curiosità rientrò a casa.

Si fermò all’ingresso per qualche istante, dopo aver aperto la porta. A fissarla come se non si fosse aspettato di trovarla ancora lì.

Ho pensato che potessi avere fame…” le disse solamente, prima di riscuotersi dal suo momentaneo stupore, lanciando letteralmente sul tavolo, una scatola che probabilmente conteneva della pizza. “Siedi pure… mangiamo.”

Natasha si avvicinò per quello che le suggerivano l’istinto e la fame (il profumo, se non altro sembrava invitante), prendendo posto al tavolo, mentre lui recuperava un paio di lattine di birra e un bicchiere.

Non sono sicuro tu possa bere alcolici.” Si preoccupò solo dopo averle messo di fronte la birra ancora fresca di frigorifero.

Nemmeno io.” Le rispose Natalia che no, ancora non era stata in grado di stabilire quanti anni avesse. Si era ispezionata allo specchio, cercando di guardarsi come fosse la prima volta. Per assurdo che fosse, riconosceva il suo volto, ma non tutto quello che raccontava del suo passato. A giudicare da quello che vedeva, non poteva certo avere più di sedici anni. Ma avrebbe potuto oscillare fra i quattordici e i venti, senza particolari problemi.

Bè, allora forse… dovrei… ho solo acqua, temo.”

La birra andrà bene.” Gli rispose, decidendo che non avrebbe potuto poi farle così male.

Clint si passò una mano fra i capelli, incerto, poi probabilmente decise di concedere alla propria coscienza una tregua: le versò un bicchiere, senza farsi scrupoli di quantità. Sollevato, se non altro, dal dover prendere spontaneamente la decisione.

Allora… Natalia…” disse mettendosi seduto. Aprì il cartone della pizza, e senza badare alle formalità se ne prese una gran fetta con le mani, “novità sul fronte memoria?”

Natalia, che lo stava ancora guardando vagamente sospetta, si strinse nelle spalle.

Nessuna”, si limitò a rispondergli, prima di decidersi ad allungare una mano verso quella pizza ancora fumante.

Mh…” mugugnò lui, che aveva preso a mangiare senza smettere un solo istante di fissarla.

Se potessi recuperare un computer, forse potrei accedere ad alcune informazioni. Avevo con me questo…” e nel dirlo, estrasse dalla tasca dei jeans strappati, un floppy disk dall’aria consunta e macchiata di sangue. Non ebbe particolari problemi a mostrarglielo: vista la sua riluttanza alla tecnologia non doveva esserne poi così curioso.

Clint deglutì a fatica, scrutando quel floppy nemmeno fosse una bestia rara: come volevasi dimostrare.

Non ho un computer.”

Lo so. Per questo ti sto chiedendo se puoi… procurartene uno.”

I computer costano parecchio…” puntualizzò lui, con una certa aria che a Natalia non piacque per niente.

Uno che per lavoro fa il criminale a pagamento, non dovrebbe avere dei problemi a procurarsi un computer. O sbaglio?”

Lo sguardo che le rivolse Clint fu impagabile. Riuscì a trarne una certa soddisfazione personale. Come se fosse abituata a scambi verbali del genere.

Vedi? Hai detto giusto: a pagamento. Non vado in giro a rubare cose a caso. Sono una persona onesta, io.”

Natalia non seppe come rispondere a un’uscita del genere. Decise di glissare e andare sul lato pratico della faccenda.

Allora ti pago.”

Mi paghi? Per cosa? Per recuperarti un computer?”

Lei si limitò ad annuire.

E con cosa? Con i soldi degli Ewoks?”

Natalia di nuovo si frugò nelle tasche dei pantaloni, tirandone fuori quella che aveva tutta l’aria di essere una carta di credito.

Ah… e questa dove l’hai trovata?” era sorpreso.

Era cucita nella tasca interna dei miei pantaloni.” Gli rispose solo.

Ah…” si accigliò e glielo vide fare con troppa rapidità “Può darsi che tu non abbia comunque un soldo bucato.”

Natalia di nuovo si strinse nelle spalle.

Prima di dirlo dovremmo provare.”

Lo vide azzannare la pizza in modo valutativo e rimuginarci su per tutto il tempo che ci mise a deglutire il boccone. Forse stava stabilendo il modo di trarre vantaggio da quella fastidiosa situazione.

Non mi piacciono le carte di credito”, sono tracciabili, intuì lei, e la risposta un po’ la sorprese, “ma se per te è lo stesso possiamo raggiungere la biblioteca qui all’angolo.”

Che tipo di computer hanno?” gli rispose, incuriosita potesse fare al caso suo.

Sa il cavolo se lo so…” le disse, “ma è pieno di studenti che ci vanno a fare le ricerche. Credo.”

Allora potrebbe andare bene.”

Clint le rivolse un altro sguardo inquisitorio.

È buffo sai?” aggiunse, posando i gomiti al tavolo. Natalia attese pazientemente il resto “Mi chiedi un computer, e questo mi fa dedurre che… presumibilmente tu sia in grado di usarne uno, ma…” Fece schioccare la lingua incerto, “non ricordi chi sei e che cosa ci fai qui.”

Natalia non si scompose affatto.

Probabilmente si tratta di una forma di amnesia dissociativa.”

Clint inarcò un sopracciglio.

L’amnesia dissociativa è-“

Okay…” mise le mani avanti, come a frenarla: non doveva amare granché spiegazioni non richieste, “credo di intuire da solo di cosa si tratti… quello che mi domando è: si guarisce?”

Natalia lo fissò di nuovo.

Può darsi.”

Sei davvero sicura di non volere un parere medico a riguardo? No, perché conosco un tizio che-”

Il dottor Herbert?”

Precisamente, il dottor Her-” lo vide accigliarsi rapidamente, di nuovo: sembrava essere una delle sue espressioni preferite, “come cavolo fai a conoscere il dottor Herbert?”

L’ho trovato sulla tua rubrica.”

La mia… ? Hai frugato fra la mia roba?” si stava forse indignando? Forse non avrebbe dovuto dirglielo.

Non avevi detto di non farlo.”

Ma non avevo nemmeno detto che potevi farlo!”

Immagino di doverti chiedere scusa allora.”

Immagini? Certo che devi chiedermi scusa, ma chi te l’ha insegnata l’educazione?”

Natalia scosse la testa.

Non ne ho idea.”

Certo, non ne hai idea. È comodo così: poterlo usare come giustificazione a tutto.”

Forse allora dovrei dirti che ho trovato anche il tuo arco”, lo vide sgranare gli occhi, “le tue fotografie”, adesso stava silenziosamente imprecando, “e so che i soldi li hai nascosti là dietro.” Gli indicò lo zoccolino della cucina e lo vide divenire rosso quasi quanto i suoi capelli.

Se hai preso qualcosa, io…”

Non ho preso niente. Non ne ho bisogno adesso.”

L’ombra del sospetto però non aveva ancora finito di esaurirsi. Di nuovo si scompigliò quei capelli che già finivano un po’ da tutte le parti e sospirò qualcosa di esausto.

Finisci di mangiare”, le disse solo, “poi ce ne andiamo in biblioteca.”

Natalia fu più che felice di soddisfare la sua richiesta.

 

*

 

Il fatto che Natalia avesse frugato fra la sua roba, lo aveva messo in uno stato mentale piuttosto precario.

Non ci aveva mai pensato in termini così specifici, ma il paragone che gli venne in mente per l’occasione fu che: casa sua era il suo santuario. Un ammasso di cianfrusaglie che lo definivano, in tutto e per tutto.

Era sempre stato attento a non tenere mai cose troppo personali o che potessero rivelare ciò che faceva per vivere (arco a parte, ma avrebbero potuto prenderlo per un hobbista qualunque), ma tutto il resto era la rappresentazione lampante di ciò che Clint Barton era al di fuori del suo lavoro. E tutto ciò andava ad intaccare la sua sfera privatissima.

Erano anni che non permetteva a nessuno di accedere alla sua vita privata.

Sul lavoro lo conoscevano con un nome in codice, per lo più. Fuori da quello era solo Clint. Clint il disoccupato, Clint che tirava a campare, il Clint che al massimo si concedeva una birra al pub di fronte, dove raccontava balle a occasionali compagni di sbronze e occasionali… amanti. Ma le mura di casa sua ospitavano ciò che era veramente. Clint e Occhio di Falco, una coesione di corpi e anime. Per questo il fatto che Natalia avesse messo le mani un po’ ovunque fu come se gli avesse ispezionato il cervello senza guanti da chirurgo. Si sentiva un po’ lordo. E la cosa lo frastornava un po’.

Il fatto che poi non sembrasse impressionata da nessun lato da ciò che aveva scoperto, lo faceva sentire persino un po’ miserabile nel complesso. Forse era solo un tipo del tutto ordinario. Che credeva di nascondere grossi scheletri negli armadi dove invece non c’erano altre che vecchie magliette e scarpe puzzolenti.

 

Si accertò che riuscisse a camminare in modo decente, prima di condurla per strada. Sembrava ancora vagamente indebolita dalla performance del giorno prima, ma di base pareva stabile e in forma per affrontare una passeggiata di qualche centinaio di metri.

Aveva fatto una doccia prima di uscire… le aveva prestato il suo bagnoschiuma e profumava di buono. I capelli erano ancora umidi e gli sembrò persino più giovane di quanto immaginasse.

Era magrolina. Vagamente carina, insomma, passabile… a tratti una bella ragazza. Con due labbra da schianto. E un seno da provocazione criminale.

Clint decise di non guardarla più di mezzo minuto a volta. Perché le sue considerazioni avrebbero potuto diventare fin troppo pericolose.

Nonostante fosse piuttosto avvezzo al pericolo, non ignorava affatto le conseguenze dell’importunare una minorenne. Una minorenne vittima di traumi di qualsiasi natura, per giunta.

Si sentiva ancora più sporco che dopo l’analisi clinica del suo appartamento. Non che avesse davvero bisogno di provarci: aveva persino tentato di ucciderlo! E se non fosse stata così debole, forse ci sarebbe persino riuscita.

Non era ancora così stupido da non aver capito che Natalia, chiunque fosse, che se lo ricordasse o meno, lo stava semplicemente usando per i suoi scopi. Perché probabilmente non aveva altro; nessun aiuto che ricordasse per riportarla sulla retta via.

L’unica cosa di cui era certo era che la ragazza era letale e che nascondeva molto più di quello che lei stessa avrebbe ammesso a se stessa. La speranza era che una volta riuscita ad arrivare al bandolo della matassa, sarebbe scomparsa, così come era apparsa nella sua vita.

I soldi che aveva guadagnato con l’ultimo lavoro gli sarebbero bastati per un mese o poco più, aveva bisogno di trovare un altro ingaggio per assicurarsi il mese successivo. Non era proprio il caso di perdere tempo.

Ci siamo…” le disse, quando arrivarono di fronte al grosso portone. Sui muri tutt’intorno delle decorazioni a murales. Graffittari di quelli con i controcazzi.

Natalia si fermò a guardarlo, fermo sugli scalini, la mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni.

Tu non… vieni?”

Clint inspirò a fondo, indeciso fino all’ultimo.

Non mi piacciono granché le biblioteche.” Dichiarò e la ragazza sembrò non capire. Forse perché no, in effetti non avrebbe potuto capire. “Soffro i luoghi chiusi e il silenzio.” Mentì.

Di nuovo sembrò perplessa dalla confessione. “Se per te è lo stesso ti aspetto qui fuori.”

Valutò la sua proposta per qualche istante, decidendo infine di portare avanti il suo intento, con o senza la sua presenza. In fondo, Clint era certo, avesse preventivato, se necessario, anche l'eventualità di tornare da sola. Aveva notato il modo in cui, durante il tragitto, aveva tentato di memorizzare la strada.

Quando finalmente la vide sparire dietro la porta, adocchiò la cabina telefonica all’angolo.

Non era affatto sicuro fosse una buona idea… quella di chiamare la polizia.

Natalia probabilmente avrebbe cantato, mettendolo nei guai, di quelli grossi. Avrebbe dovuto cambiare casa, sparire… per un bel po’ e pensare anche di cambiare nome… forse per sempre. Anche se Clint, al suo nome, c'era piuttosto affezionato.

Se poi le autorità avessero constatato la gravità della sua amnesia, allora forse avrebbero archiviato il caso… o qualcosa di simile.

Gli sembrava un po’ troppo semplicistica come soluzione, ma doveva ragionare in quei termini per non esplodere ulteriormente in paranoie.

Decise di prendersi del tempo ancora per pensarci. A meno che Natalia non fosse Flash non sarebbe riuscita tanto facilmente a capire che cosa aveva in un dischetto di plastica, no?

Si mise seduto sui gradini della biblioteca, un po’ a contemplare il cielo, un po’ a pensare a tutti i pro e i contro delle sue possibili decisioni.

Non passarono che dieci minuti scarsi che una grossa macchina nera venne a parcheggiare proprio sotto la biblioteca.

Ricconi megalomani... ma non ce l'avevano un po' di senso pratico? Fosse stato ricco, avrebbe comprato una di quelle macchinine inutili che potevano essere parcheggiate persino sugli alberi. Problema parcheggio: risolto. Ma dato che era povero, il fatto che usasse biglietti della metro già usati, lo levava comunque dall'impiccio.

Rimase immobile ad osservare la macchina ferma sotto il sole di giugno.

Si domandò perché il proprietario non si decidesse a scendere: forse aspettavano qualcuno. O forse il riccone megalomane era solo uno sporco guardone. Il fatto che Clint fosse l'unico rappresentante umano del circondario fu un tantino intimorente, oppure vagamente lusinghiero (ma solo se il tizio in macchina gli stava lanciando dardi lussuriosi).

L'allarme macchina nera divenne improvvisamente più preoccupante quando ne giunsero almeno un altro paio. Clint cominciò ad avvertire una forte, fortissima sensazione di disagio.

Ma che diavolo era? Un ritrovo di ricconi guardoni? Una gara di SUV in cerca di emozioni forti? Un concorso di bellezza su quattro ruote? C'erano per caso in giro le telecamere?

Il rumore dell'elicottero sulla sua testa fu l'ultimo, definitivo indizio che qualcosa non andava. Oppure andava alla stragrande. Magari c'era un vip nella zona. L'unica persona famosa che Clint avesse mai incontrato era stato Danny de Vito a un diner di New York. Lo aveva avvicinato per un autografo e questo gli aveva mostrato un piede nudo. I divi di Hollywood potevano essere parecchio strani.

Qualcosa però titillò i suoi sensi di... Falco.

Non c'era nessuno ritrovo vip. Le macchine tutte uguali, l'aura di mistero e dannazione, l'elicottero. Scene che aveva già visto alla tv. Da qualche parte. E una sigla... di quelle che fai fatica a ricordare, perché ti sembrano totalmente senza senso. Ma quella sigla lui la ricordava bene. Sei lettere. Altrettanti puntini. Un'aquila come logo.

Lo S.H.I.E.L.D.

Strategic qualcosa della logistics bla bla bla.

Non seppe dire come o perché, ma improvvisamente ricollegò tutto a quella ragazzina che stava armeggiando in biblioteca con un computer.

E un floppy disk. Un floppy disk tutto sporco di sangue. E poi non si poteva mica dimenticare la cosa delle cosce. Insomma, chi diavolo è in grado di fare cose del genere, e di usare persino l'intelletto per far andare uno stracazzo di computer?

Erano venuti per lei. Avevano messo in piedi quell'assurdo teatrino per un'adolescente particolarmente dotata che non ricordava un accidenti di niente. Una genia senza arte né parte.

Era o non era quella l'occasione che stava aspettando? Se Natalia era davvero l'obiettivo di quegli uomini brutti e cattivi, allora era a cavallo. Gli sarebbe bastato allontanarsi con non-chalance, e lasciare che l'organizzazione mondiale di... sicurezza... degli scudi... facesse il suo lavoro.

Il problema era uno solo, però: se l'avessero presa e avesse cantato? Non si trattava più della polizia. Lo avrebbero catturato e seccato come un moscerino. Uno di quelli che si spappolano sui parabrezza delle auto senza possibilità di vincere la forza di spinta del vento.

Non che si ritenesse un personaggio di spicco che svolgeva il suo mestiere nelle infime strade della criminalità organizzata, ma insomma, chiunque si sarebbe sbarazzato volentieri di un sassolino un po' rompicoglioni.

E lui non aveva voglia di fare né la fine del moscerino spappolato, né quella del sassolino in una scarpa sudata.

Perciò si mise in piedi. Si sgranchì la schiena e sbadigliando con calcolata indifferenza... scattò in biblioteca.

Nel momento stesso in cui la porta si chiudeva alle sue spalle, sentì le portiere di tutti i macchinoni aprirsi all'unisono.

 

La biblioteca era ancora relativamente silenziosa, ma tutti alzarono lo sguardo quando Clint emerse dal buio con un fragore di porte smosse.

Ssssh” fece la bibliotecaria occhialuta e dall'aria tutt'altro che socievole.

Clint - che avrebbe voluto correre e gridare a Natalia di scappare in modo piuttosto scenografico - frenò la sua sgommata e si fece docile come un agnellino.

Camminò quasi in punta di piedi sotto lo sguardo vigile della donna che pareva monitorare tutte le sue mosse.

Natalia sedeva ancora al computer, intenta a digitare furiosamente chissà che cosa a chissà chi. Lo sguardo perso, totalmente perso su quelle informazioni del tutto incomprensibili.

La raggiunse giusto il tempo di sussurrarle un: “Mi sa che è meglio scappare.” che un branco di man in black fecero irruzione nel locale.

Ispezione!” gridò qualcuno dalle retrovie.

La bibliotecaria si era alzata in piedi, blaterando un: “Per l'amor del cielo, siamo in una biblioteca, non in discoteca!”

Clint che aveva compreso che Natalia non stava capendo una benemerita, si limitò a strapparla, letteralmente, dalla sua postazione e spronarla a precipitarsi dalla parte opposta della stanza. Lei si dimenò giusto il tempo di recuperare quel dannato floppy tutto insanguinato e poi riprendere la fuga.

I passi in corsa alla loro spalle, non tardarono a farsi sentire.

 

*

 

Troppe informazioni, troppe informazioni… tutti quei codici, quelle formule criptate.

La testa aveva preso a dolerle così come era successo la sera del vicolo. Del temporale. Una serie di lampi le tormentavano la vista, improvvisi e violenti.

E la nausea. Quella nausea, così intensa e devastante…

A malapena aveva percepito le parole di Clint, e solo per chissà quale perverso processo mentale si era ricordata di recuperare quel dischetto.

Le informazioni che era riuscita a recuperare, i codici che era riuscita a memorizzare, erano frutto di qualcosa che andava oltre il suo libero arbitrio. Come fosse programmata, esattamente per quelle operazioni.

Tutto quello che registrò in quel turbinio di eventi, era che doveva scappare. E farlo in fretta, rapidamente, mentre alle loro spalle vibravano le voci di persone che, a quanto le era dato di capire, stavano cercando proprio lei.

Clint le teneva la mano. Non era nemmeno sicura di ricordare il momento in cui lo aveva fatto. Prenderle la mano…

Stavano correndo, non sapeva dove o perché, la confusione la nausea, oh, quella nausea. Si affidò completamente a quell’uomo che conosceva a malapena e si lasciò trascinare via, seguendo le sue direttive, senza domandarsi perché.

In balia degli eventi, così come lo era da un paio di giorni a quella parte. Sapeva non essere quella la sua natura. Qualcosa strideva potentemente quando decideva di affidarsi semplicemente all’istinto. Qualcosa le diceva che non era così che agiva solitamente, che tutte le cose che faceva, che le operazioni che svolgeva, era abituata a ragionarle. A valutarle, una per una. Così come si era ritrovata a fare per le cose che concernevano il suo rapporto con l’arciere o la selezione di mosse più o meno studiate da compiere per perseguire il suo obiettivo… obiettivo che, in quel momento, era letteralmente andato a farsi benedire.

Tutto ciò che riusciva a capire, era che la biblioteca era enorme. Che le gambe le facevano male e che stava lentamente perdendo i sensi.

 

*

 

La ragazzina non poteva decidere di abbandonarlo proprio adesso. A un passo dalla salvezza. O da quel finestrone invitante e spalancato proprio in fondo alla sala di lettura.

I ragazzi tutti attorno a loro non avevano fatto altro che rimettersi in piedi, inorriditi. Clint non seppe dire se dalla sua faccia, dal rumore molesto o dall’avvento dello SHIELD, ancora più molesto di quanto potessero esserlo tutti i rumori del mondo.

Attirò a sé la ragazzina.

Muoviti! Va’ per prima.” La spronò con tutta la buona volontà che riuscì a metterci, ma lei, già pallida di suo, adesso sembrava un cencio stinto. Le labbra viola e l’espressione di qualcuno in procinto di vomitare.

Non di nuovo, porco cane, non di nuovo!” quando la vide crollare sulle ginocchia comprese che il momento era giunto di nuovo, nonostante tutte le sue invocazioni e preghiere.

Indeciso se lasciarla a terra e scappare, infine fu il suo buon cuore (di panna) a non permettergli di farlo.

Si chinò al suo fianco, tentò di rianimarla per almeno mezzo secondo finché non se la caricò fra le braccia, inerme come una bambola di pezza.

Chiunque risolva il mistero del perché io ti stia così tenacemente aiutando, vincerà un premio bella mia.” Si trovò a mormorare, prima di scappare fuori da quel finestrone.

Non era così ingenuo da non immaginare che sul retro avrebbe trovato qualcuno ad attenderlo, ma fu proprio così che accadde: sul retro della biblioteca non c’era proprio uno stracavolo di nessuno ad attenderli.

Forse era una trappola. Decise di non essere avventato e di andare a incunearsi fra i cespugli e alberi del giardino retrostante. Una giungla di quelle spinose per giunta.

Dall’altra parte, la strada. E sul marciapiede retrostante, il ragazzo che consegnava le pizze a domicilio… munito di macchina.

Natalia… devi aiutarmi…” ma la ragazzina sembrava dormire della grossa, “Natalia, per favore…” la mise a terra, dandole dei colpetti sul viso per farla svegliare.

Lei sembrò non riconoscerlo immediatamente. Si cimentò con un paio di mugugni sconnessi, e agitazioni non richieste, prima di metterlo a fuoco.

Aspettami qui. Prendo una cosa… e torno”, si assicurò avesse capito le sue direttive, e quando la vide annuire, sebbene ancora piuttosto stonata, si precipitò fuori dal nascondiglio e poi sulla strada a ritrovare la macchina scassata del fattorino delle pizze (ora nel palazzo per la consegna), ancora con le chiavi inserite.

Scusa, amico… giuro che te la restituirò… prima o poi.” Saltò a bordo, fece una virata e si precipitò verso i giardinetti della biblioteca, disintegrando cespugli e aiuole, mentre il rumore delle pale dell’elicottero si agitavano sopra la struttura, sicuro che presto o tardi lo avrebbero individuato.

Monta!” gridò a Natalia che, ancora stordita e pallida, sembrava non capire cosa le stesse gridando.

Oh, ma porca puttana!” spalancò la portiera, agguantandola per la collottola. Lei nemmeno si dimenò. La recuperò al volo, lanciandola nel sedile del passeggero, prima di richiudere la portiera e ripartire a tutto gas, lasciandosi alle spalle, odore di benzina e di erba maciullata.

 

___

 

Note:

Ebbene sì, son tornata. Un po' meno pallida di quando son partita e decisamente più riposata. Lo stato di grazia post vacanze già concluso... torno così a dedicare un po' del mio tempo alla mia piccola storia che si è sicuramente sentita trascurata in queste due settimane.

Il capitolo era già stato scritto per cui non ho fatto questo grande sforzo... giusto una rilettura per capire se non avessi scritto stupidaggini nella prima stesura.
E quindi... già. Lo SHIELD. Dato che è ancora troppo presto per rivelare la natura della voce che tormenta la nostra Natasha, ho pensato bene di metterci un'altra... complicazione. Giuro che riuscirò far collimare il tutto, prima o poi. Ahem.
Ringraziamenti di rito alla mia socia (con la quale oggi sto abbastanza sclerando per le rivelazioni e le foto del Comicon di San Diego dove han presenziato i nostri Avengers e ciurma Marvelistica tutta) per il betaggio e supporto. E ringraziamenti, ovviamente, ai lettori e i commentatori sempre presenti e super graditi.
Insomma che dire, a questo punto? Alla prossima, direi!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4

 

He's a twentieth century boy, with his hands on the rails, trying not to be sick again, and holding on for tomorrow [...] She's a twentieth century girl with her hands on the wheel, trying not to make him sick again, seeing what she can borrow.

(For Tomorrow – Blur)

 

Il problema reale, in tutta quella faccenda, era stato pulire casa.

Natalia, dopo la rocambolesca fuga dalla biblioteca, aveva vomitato tipo esorcista. Apparentemente avevano avuto un gran c… olpo di fortuna: lo SHIELD o chi per loro non erano riusciti a rintracciarli.

Clint aveva abbandonato la macchina in una via, sperando che quel maledetto elicottero si fermasse ad esaminare quella carcassa ferma al palo (con tante maledizioni del povero fattorino delle pizze, defraudato di mezzi) e si era fatto gli ultimi metri con Natalia fra le braccia, deviando in modo ubriacante per tutto il quartiere onde evitare di essere individuato facilmente.

La ragazzina aveva cominciato a stare male sul serio quando avevano raggiunto il suo appartamento. Come se lo avesse risparmiato dal lasciarsi andare nel momento di crisi più nera.

L’aveva appena sistemata sul divano, dopo l'ennesima crisi di vomito, che la ragazzina aveva preso a dimenarsi in preda alle convulsioni. Fra gli occhi ribaltati e la schiuma alla bocca, non era stato per niente un bello spettacolo. Clint non era affatto sicuro di saper affrontare certi tipi di emergenza: si era limitato a evitare che battesse la testa e che non ingoiasse la lingua, finché la faccenda non aveva compiuto il suo corso.

Una cosa però aveva dovuto farla: telefonare al dottor Herbert.

L’uomo era arrivato con una rapidità sconcertante, forse sorpreso che, questa volta, il soggetto coinvolto non fosse Clint, bensì una ragazzina.

Come al solito non aveva fatto domande, ma non si era comunque risparmiato sguardi di rimprovero che lo accusavano di aver alzato un tantino il tiro questa volta. Giocare con la sua vita era un conto, ma tentare la fortuna con quella altrui… era da considerarsi avventato. Nonché assolutamente riprovevole.

Clint si era limitato ad abbassare il capo, senza far segreto di quanto già si sentisse in colpa per quello che era accaduto. Se solo non si fosse fatto quegli incredibili scrupoli, l’avrebbe portata al pronto soccorso direttamente la notte del temporale.

E forse… forse, oltre ad essersi alleggerito la coscienza immediatamente, avrebbe avuto la sicurezza che Natalia sarebbe stata trattata con tutte le attenzioni del caso.

Sembra si sia stabilizzata…” gli aveva detto il dottore, richiudendo la porta della camera da letto in cui l’avevano sistemata. Natalia stava riposando, apparentemente serena.

Clint aveva rialzato lo sguardo dalla sua tazza – ormai vuota – di caffè e aveva lanciato all’uomo un’occhiata supplice: adesso sì che non sapeva più che pesci pigliare.

Non posso far più di così”, aggiunse il dottore, “avrebbe bisogno di una visita specialistica. Di una tac. Il problema è neurologico”, gli specificò intuendo la sua preghiera.

L'arciere si passò una mano fra i capelli. Non poteva portarla in una clinica proprio ora. Non solo perché era stata lei a chiedergli di non farlo, ma anche perché adesso era chiaro che qualcuno la stava cercando. Che era nel mirino di una delle più grosse organizzazioni di sicurezza mondiale.

Per quanto pericolosa fosse, non era del tutto sicuro di voler permettere che un branco di incapaci (perché si erano fatti giocare come dei pivelli o forse avevano solo sottovalutato la faccenda… oppure, no, il fatto che li avessero, di fatto, lasciati spontaneamente scappare non lo voleva prendere in considerazione come opzione per non innescare meccanismi pericolosi) mettessero le loro grinfie su una ragazzina. Un po’ di solidarietà o pietà o che dir si voglia, riusciva ancora a provarla.

Si limitò quindi ad annuire, di nuovo.

Clint… non puoi lasciarla così. Potrebbe essere più grave di quanto immaginiamo.”

Grazie dottore, per non alimentare affatto il mio dilemma interiore.” lo rimproverò esausto, non era proprio di prediche che aveva bisogno. O forse sì e per quello lo trovava fastidioso.

Il dottor Herbert si limitò a stringersi nelle spalle: “Ti prescrivo qualche medicinale… assicurati che li prenda.”

Clint si rimise in piedi per recuperare la ricetta e stringere la mano all’uomo. Lo accompagnò alla porta, assicurandosi di non mostrargli quanto fosse seriamente preoccupato per quell'assurda faccenda.
“Non voglio intromettermi negli affari tuoi...” lo ammonì in ultimo, sulla soglia, “ma la vita di una ragazzina ti porterebbe addosso più merda di quanta potresti accumularne se scoprissero cosa fai per vivere.”

Clint assorbì il colpo. Quel diavolo di dottore sapeva sempre dove battere per fare più male.

Come quella volta che gli aveva salvato la mano... e gli aveva detto che è in famiglia che a volte si nascondono i tuoi peggiori nemici.

Richiuse la porta alla sue spalle e vi rimase appoggiato per un tempo indefinito a scrutare lo spiraglio che dava sulla camera da letto, dove giaceva quel cosino dai capelli rossi e dall'aria apparentemente innocua.

Forse era vero che non sarebbe mai riuscito a convivere anche con quella colpa. Le collaborazioni criminali, i furti, i depistaggi, gli inseguimenti, i pedinamenti... quelli erano gestibili. Aveva imparato a portarne a termine di diversi, abbastanza presto, per dirsi un esperto in materia. Ma la morte... no, con quella non era mai riuscito a convivere. Nemmeno con quella dei suoi stessi genitori. Se ne portava appresso il peso, da sempre. Il fatto che avessero influenzato la sua vita, fin dalle origini, era un dettaglio che non si poteva proprio trascurare.

Che diritto aveva di negare uno spiraglio di salvezza alla ragazzina? Insomma... dopotutto non era nemmeno certo di poter continuare a lungo con quella vita. Forse era il karma a suggerirgli che era arrivato il momento di smetterla. Di darci un taglio, di acchiappare la crudele occasione di una svolta. Di smetterla di buttare via in quel modo assurdo la sua esistenza.

Prima o poi lo avrebbero preso. Preso e ingabbiato. Se non avessero scoperto i suoi tentati omicidi (era ancora piuttosto orgoglioso del fatto di non aver mai dovuto far fuori nessuno per concludere i suoi affari), magari gli avrebbero fatto qualche sconto di pena e sarebbe uscito per buona condotta in una manciata di anni. Ancora in tempo per rifarsi una... vita. Magari avrebbe preso una cazzo di laurea. Non lo facevano in molti fra i muri di una cella?

Certo, come no? Proprio di una laurea aveva bisogno...

 

Si era inconsapevolmente avvicinato alla porta della sua stessa stanza. Con un dito l'aveva sospinta fino ad aprirla quasi del tutto e vi aveva sbirciato dentro.

Natalia dormiva ancora. Sembrava minuscola nel suo grosso letto sfatto. I capelli rossi sparpagliati un po' ovunque. Le labbra appena dischiuse, sembrava serena sul serio; di certo più colorita di quanto non fosse solo un paio di ore prima.

Che razza di segreto nascondeva? Perché lo SHIELD la stava cercando? Che diavolo c'era in quel floppy? Ma soprattutto, perché non si ricordava nulla? Saperlo avrebbe facilitato di molto le cose. Forse, se le avesse parlato... con calma... sarebbero potuti arrivare a un accordo.

Era certo che nemmeno a lei piacesse particolarmente perdere i sensi e vomitare a spruzzo nei momenti più tensivi. Una visita di quelle specialistiche... insomma, magari la situazione era meno brutta di quanto... immaginassero.

Ancora del tutto incastrato nelle sue elucubrazioni mentali, non si era accorto di avere lo sguardo della ragazzina puntato su di sé.

Quasi trasalì quando la vide muoversi nel letto.

Merda...” mormorò, annientato dal fatto di esser stato colto in fallo, “non volevo. Me ne vado.” e fece sul serio per mettere in atto il suo intento, quando lei sembrò sussurrare qualcosa.

Che? Non capisco...” le domandò, indeciso se lasciar cadere l'argomento o se avvicinarsi, fingendo di essere assolutamente padrone della situazione.

Optò per la seconda opzione, non con i risultati sperati. Le si avvicinò un po' ingobbito e titubante, fino a raggiungere il letto.

Hai bisogno di qualcosa?” le domandò allora. Forse aveva sete. O le faceva male la schiena. O peggio, magari stava per sentirsi male di nuovo.

Il floppy...” la sentì dire, e per poco lui non si fece venire l'ennesima crisi isterica.

Fanculo quel cazzo di floppy!” esalò alzando un braccio come a mandarcela, “è colpa di quel coso se è successo quel che è successo!”

Lei non si scompose, si limitò a fissarlo sperando si placasse per continuare il discorso. Clint recuperò una sedia (dopo aver lanciato a terra i vestiti che c’erano appesi sopra) e se la trascinò dietro fino al letto, prima di sedercisi sopra.

Non voglio più sentir parlare di floppy disk e computer… per un bel po’.” Le puntò il dito contro e Natalia parve cogliere l’antifona perché non parlò più.

Ti senti meglio?” insisté allora, rilasciando piano il fiato come per darsi di nuovo un certo contegno.

Natalia annuì, gli occhi ancora lucidi per la stanchezza o le sue ultime prodezze.

Bene…” si schiarì la voce, come per cominciare un discorso che però non si era affatto preparato. Cercò di assumere l’atteggiamento severo del dottor Herbert, ma prima che potesse aprir bocca, fu Natalia a parlare.

Grazie per non avermi portata… in ospedale.” Gli disse solo e per poco Clint non imprecò di nuovo.

Natalia… ascolta…” si armò di tutta la santa pazienza di cui sapeva disporre in momenti critici.

Non posso finire nelle mani di quella gente”, lo interruppe di nuovo.

Lui inarcò un sopracciglio un po’ istupidito dal commento e poi si fece attento.

Hai scoperto… qualcosa?” l’atteggiamento ora sembrava altamente confidenziale.

Lei si limitò a fissarlo di nuovo, senza dire nulla e Clint cominciò a spazientirsi, ma per amor di umanità cercò di non darlo a vedere.

Ascolta… io non so in che razza di guai sei invischiata. E non credo nemmeno di essere così curioso di scoprirlo… il fatto è che… non posso continuare a tenerti qui. Primo: perché non ho le forze, né le competenze per aiutarti. E secondo: perché non voglio essere coinvolto in questa faccenda. Sono già abbastanza incasinato di mio, e non posso e non voglio che anche tu diventi un mio problema, lo capisci questo, vero?”

Natalia di nuovo non disse nulla.

Il punto è che… continui pure a stare male. Ed io non so come gestirla questa cosa. Preferisci affrontare uno squadrone di uomini in nero e capire che cosa sta succedendo o rimanerci secca e non scoprire mai niente di niente e non arrivare ai vent’anni?”

Ancora nessun cenno.

Guarda che quando finisce l’adolescenza tutto migliora. Ma di tanto, eh. Ora… non guardare me, nello specifico, che sono un caso particolare, ma tu… insomma hai tutto da scoprire. E magari liberarti subito di questa merda sarà la svolta. Non credo torturino ragazzine allo SHIELD. Né tantomeno negli ospedali. Per cui… insomma… che cosa mi dici?”

Natalia ebbe solo un vago tremito, ma di nuovo rimase in silenzio. Negli occhi ancora lucidi ora sembravano brillare delle lacrime.

Inorridì: non era mica in procinto di piangere, vero?

No senti, non mi guardare così. Lo so che è difficile e spaventoso e tante altre cose ma… non è peggio rimanere nel limbo e nella paura che decidersi ad affidarsi a qualcuno?”

Un grosso lacrimone aveva preso a scorrerle lungo la guancia. Clint cominciò a sentirsi un tantino a disagio, ma soprattutto nauseato da tutta la faccenda.

Che cosa vuoi che faccia?” sbottò “Non so come aiutarti! Cerca di venirmi incontro, Cristo santo!”

Io mi sono affidata a te.” La sentì dire, e di nuovo, per poco non ci rimase secco.

Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? Nemmeno mi conosci!”

Nemmeno tu, eppure mi hai aiutata. Due volte.”

Perché se non lo avessi fatto sarei finito nella merda.”

La vide asciugarsi di nuovo gli occhi, le labbra che prendevano una piega tutt’altro che rassicurante. In quel momento gli sembrò veramente piccolissima. Una bambina. E quella considerazione lo sospinse ancor più a fondo nel cuneo del suo senso di colpa.

Tu mi vuoi morto. Mi vuoi finito, ah?”

Non voglio niente di tutto questo… ti ho solo chiesto… del tempo.”

Non ne abbiamo di tempo. C’è gente che ti sta cercando, quanto credi che ci metteranno a trovarti? Ci hanno messo meno di un quarto d’ora minuti a beccarti in quella cazzo di biblioteca.”

Voglio capire da sola di chi potermi fidare…”

E fra tutti gli stracazzo di cittadini di New York City tu decidi proprio di fidarti di me?” era così stupido, ma talmente stupido che... la vide annuire “Questo è ridicolo! Nessuno si fida di me.”

Qualcuno sì… con il lavoro che fai.”

Quello è un tipo di fiducia del tutto diverso. Mi pagano. E i soldi rendono affidabile chiunque.”

Cercò di calmarsi perché, se da una parte quell’ammissione lo aveva destabilizzato, dall’altra lo aveva persino un poco lusingato. Il problema adesso era sul come affrontare quella strampalata responsabilità.

Mi metterai nei guai… che cavolo racconterò ai vicini quando mi chiederanno di te?”

Natalia non aveva risposte. E giustamente non rispose.

E se dovessero trovarti di nuovo? Prima che tu sia riuscita a recuperare stabilità o memoria? E se invece ti sentissi di nuovo male?”

Non sarà una tua responsabilità…”

Lo sarà, hai appena detto di fidarti di me! Di esserti, come era la frase? Ah, sì: affidata a me.”

Lo metterò per iscritto.”

Non me ne frega un cazzo delle cose per iscritto.”

Non ci voglio tornare in ospedale…” la voce le si era rotta sul finale e Clint si sentì morire.

C-che vuoi dire? Che ricordi di esserci già stata?” cercò, se non altro, di essere razionale. Di evitare di farsi prendere dal panico.

Non lo so.”

Non lo sai… e allora che cazzo…” adesso era un tantino esasperato.
La vide portarsi una mano alla testa, socchiudere gli occhi, come a cercare di riportare alla mente ricordi lontani.

Non ci voglio tornare in ospedale. Ti prego… ti prego…” Clint ebbe come l’impressione di essere improvvisamente finito in un programma televisivo di quelli scadenti. Dove la gente era pagata per essere patetica e piagnona. Ma lei sembrava abbastanza convincente... e la cosa peggiore era che... cazzo, odiava veder piangere le donne. In realtà odiava veder piangere chiunque, perché non sapeva come gestirlo, ma le donne, di solito, se versavano lacrime in sua presenza, finiva sempre per essere colpa sua.

Merda, merda, merda…” esalò in rapida sequenza.

Ti prego…” un sussurro impercettibile fra i singhiozzi. Per quanto avrebbe continuato?

Oh cazzo! Va bene! Va bene! Resti qui.” Era infine sbottato “Resti qui! Ma non voglio sentir parlare di floppy, di traumi, non voglio sentir palare di niente! Te ne stai a letto, tranquilla, ti prendi le medicine che il dottor Herbert ha prescritto e poi… poi che cazzo ne so, a qualcosa penseremo.”

Natalia aveva appena alzato lo sguardo. Se Clint fosse stato meno preso a maledirsi, si sarebbe accorto del microscopico sorriso sulle sue labbra.

 

*

 

Doveva ammettere di essersi sentita un po’ un verme per il modo in cui lo aveva costretto a cedere. Le lacrime erano state un colpo basso. Era sicura che non tutti si sarebbero fatti infinocchiare da una sorta di commovente empatia, ma Clint pareva il soggetto adatto al tentativo. E doveva dire di essere stata piuttosto brava. Piangere a comando doveva essere una della sue qualità nascoste. Una delle tante. Una di quelle che non ricordava affatto, sebbene fosse più che consapevole di non aver mentito… non riguardo al ricordo degli ospedali.

Aveva sognato. Sognato qualcosa di troppo reale per essere totalmente frutto della sua immaginazione. Una poltrona. Elettrodi. Aghi. E la voce di un uomo che le assicurava che sarebbe andato tutto bene.

E poi il bagliore accecante di esplosioni mentali.

Era sicura che qualcuno avesse fatto qualcosa al suo cervello… e che lei, adesso, si stesse portando a spasso tutte le conseguenze di quel mistero.

Però era vero che si fidava di Clint. O perlomeno aveva capito che avrebbe potuto essere un tipo affidabile, con una buona dose di manipolazione.

Ne andava della sua stessa sopravvivenza.

Lo SHIELD, quel nome non le era nuovo.

Considerato il fatto che i dati che era riuscita a carpire da quel floppy avevano documenti decorati con quella stessa sigla e lo stemma di un’aquila, il quadro più o meno generico della faccenda adesso le era un po' più chiaro: aveva sottratto qualcosa allo SHIELD e lo SHIELD era da considerarsi nemico. Di sicuro non un alleato, perché un alleato non si presenta con un arsenale di personaggi minacciosi, armi e un elicottero.

Le nausee e le crisi improvvise continuavano però a spaventarla. L’unica cosa reale in tutta quella pseudo finzione carica di misteri: la paura

Il fatto di non poterle controllare in alcun modo la faceva sentire fragile e indifesa. Non gradiva la sensazione. Era certa, nel profondo del suo essere, di non essere abituata a sentirsi così.

Per cui adesso cercava solo di giocare bene le sue carte. Di impedire a chiunque di avere accesso a quel poco che possedeva.

Era certa di avere una missione da compiere e qualcosa le suggeriva che, se non lo avesse fatto, sarebbe andata molto male per qualcuno.

Quel “ci rivediamo all’alba, Natalia.” tornava a tormentarla di continuo. Una spinta a non scoprirsi, così istintiva quanto potente da non permetterle di cedere a nessuna debolezza.

Capì che doveva essersi azionato un meccanismo del tutto perverso. Un meccanismo che avrebbe dovuto districare lei sola.

 

Quella stessa notte sognò di nuovo di essere legata a una sedia. E degli elettrodi. Un ago che si avvicinava. Un uomo che le diceva che sarebbe andato tutto bene. In una lingua che capiva, ma che di certo non era inglese.

Venne sbloccato, inatteso, anche il ricordo di saper parlare il russo.

 

La mattina successiva si sforzò di rimettersi in piedi. Clint non avrebbe mai permesso una mossa tanto azzardata, ma non avrebbe certo potuto legarla al letto; e poi si sentiva… bene. Un po’ frastornata, ma riposata e dannatamente affamata.

Il profumo che arrivava dalla cucina glielo ricordò in modo fin troppo doloroso.

Esitò a lungo prima di decidersi a palesare la sua presenza nella stanza accanto.

Clint sembrava averci dato dentro con le prestazioni culinarie, anche se, più che avere a che fare con i fornelli, sembrava aver appena concluso una battaglia.

Che cavolo ci fai in piedi?” la sua reazione fu così prevedibile da strapparle quasi un sorriso. Mentale.

Ho sentito… il profumo.”

Clint si guardò attorno, pulendosi le mani appena bagnate sulla maglietta stinta.

È la colazione”, specificò, “hai fame?”

Natalia si limitò ad annuire, sbirciando qua e là quello che l’uomo aveva da offrire.

Spero ti piacciano uova e bacon. Non so fare altro…” concluse a gloria come a giustificarsi di qualcosa che comunque non gli era stato chiesto. Lo vide nascondere rapidamente un aborto di quello che sembrava l’impasto di qualcosa.

Ho provato con i pancakes… ma… meglio bacon e uova. E ho anche pane caldo.” Il tostapane se non altro sembrava servire davvero a qualcosa oltre ad essere utile per usi bellici.

Natalia pensò che ci si fosse impegnato anche più del dovuto. Questo non faceva che confermare la sua tesi: Clint aveva buon cuore. E se non buono del tutto, per lo meno pareva impegnarcisi.

Preferisci caffè o succo di… questa cosa?” le agitò di fronte quello che aveva l’aria di essere un cartone di succo tropicale. Non le sembrava per niente il tipo da succo tropicale.

Però ci devi controllare la data di scadenza… io queste cose non le bevo.”

Vuoi dire che compri le cose che non ti piacciono?” non riuscì a non domandargli, mettendosi seduta al tavolo, le braccia intrecciate sulla superficie, ad occhieggiarlo mentre sistemava la colazione nei piatti.

Ah? No, certo che no, mica l’ho comprato io.” Certo, e chi altri? Si era materializzato nel frigorifero dalla sera alla mattina?

L’uomo doveva aver odorato la sua perplessità perché si affrettò ad aggiungere: “Storia lunga. Non adatta ai minorenni.”

Natalia andò immediatamente a guardare la data di scadenza. Stabilito che era ancora bevibile, recuperò il bicchiere dalla tavola versandocene dentro fino all’orlo.

Ti senti meglio?” le domandò poi, in un rituale che avrebbe persino trovato snervante se l’uomo non ce l'avesse messa proprio tutta per metterla a suo agio.

Meglio…” si limitò a rispondere e bere un lungo sorso di succo di frutta: la gola ne aveva decisamente bisogno.

Lui le piazzò il piatto fumante sotto al naso. Natalia si limitò ad osservarne il contenuto con un misto di curiosità e timore, il bacon ancora sfrigolante.

Che c’è… non ti piace?”

Non lo so.”

Oh, giusto… bè, immagino tu debba assaggiarlo, per saperlo.”

Prese la forchetta e ne tastò la consistenza, prima di afferrarlo fra i denti, titubante. Un sorriso le si aprì sulle labbra quando percepì il gusto pieno e gustoso del bacon. Se anche lo avesse già assaggiato, fu un’esplosione di sapori del tutto inaspettata e totalmente piacevole.

Lo zio Clint fa le cose per bene.” Si bullò per un istante, compiaciuto di quel successo, prima di rimettersi a sedere e servire anche se stesso.

Quindi com’è che funziona? Sai fare un sacco di cose… ma non ricordi quelle più… basiche?” le domandò, cercando di risultare amichevole… o forse essendolo sul serio.

Non lo so…” si maledì per qualche istante per la risposta monotematica, ma era un po’ troppo presa a gustare quella meraviglia. Così come aveva capito che non le piaceva il caffè, aveva compreso di amare le colazioni americane… oppure erano inglesi? Reminiscenze di nozioni nascoste.

Ci sono un sacco di cose che non sai.” Commentò solo e Natalia rialzò lo sguardo, cercando di capire dove volesse andare a parare, forse persino un po’ colpita nel suo amor proprio.

So il russo.” Gli disse allora, per poi pentirsene l’istante successivo. Non era sicura di sapere perché lo avesse fatto, forse per alimentare un pelo il suo ego e veder dipinta sul viso dell’uomo proprio quell’espressione lì, sorpresa e un tantino comica, quella che gli si stava formando a seguito della dichiarazione.

Il russo?” le domandò come ad averne una conferma “Dimmi qualcosa in russo.”

Lo capiresti?”

Clint fece una smorfia, colto in fallo.

No, non lo capirei, potresti dirmi qualsiasi cosa. Hai ragione. Buon punto.”

Ya lyublyu bekon

Che cos’era?”

Ho detto: mi piace il bacon.”

Ah… quello scioglilingua lì?”

Natalia si strinse nelle spalle.

Bè, forte”, sembrava seriamente colpito, “mi pareva che non avessi un accento del tutto… americano. E anche il tuo nome…” la scrutò a lungo, “non dirmi che vieni dai servizi segreti russi.”

La sua espressione fu così seria che per un attimo Natalia sembrò prendere in considerazione la possibilità. Poi Clint scoppiò a ridere.

Scusami… ma con tutte quelle cose che sembri saper fare: sei russa, sei ricercata da un’organizzazione americana, fai le acrobazie con le cosce assassine e decripti floppy insanguinati… ho solo fatto una supposizione. Ma non hai l’aria di una spia.”

Nemmeno tu hai l’aria di essere un criminale.” Ed era vero. Forse un ragazzo troppo trasandato che non aveva la più pallida idea di cosa facesse per sopravvivere o perché.

Clint smise rapidamente di ridere.

Non è questo il punto di una professione del genere?” le domandò allora, e ci lesse un po’ di fastidio nel suo tono e nel modo in cui stava inforchettando le uova, “fingere di non essere chi si è veramente.”

 

*

 

Clint non era scemo. O per lo meno, non più di quanto non facesse credere.

Aveva capito perfettamente il gioco di Natalia. E l’aveva assecondato. Si era trovato invitato al ballo… e di conseguenza avrebbe ballato. O almeno ci avrebbe provato. Il fatto che non fosse per niente capace di ballare o che non ci avesse mai provato… era irrilevante in quel momento.

Aveva deciso di dare qualche giorno alla ragazzina. Se non altro per orientarsi in tutto quel macello di eventi sempre più turbolenti. Non l’avrebbe portata all’ospedale, a meno che non le fosse venuta l’ennesima crisi, ma si era tenuto aperto la possibilità di farlo, in caso di emergenza.

Ma fregarla, no, quello ormai era un'eventualità che aveva scartato.

Si sarebbe anche lui preso del tempo. Per capire, per elaborare un piano d’attacco.

Nel frattempo avrebbe cercato di fare di tutto per non farla uccidere.

In primis evitando di propinandole pessima cucina per colazione.

Lo stupore della ragazzina per le piccole cose era in grado di rianimare lo stato di fiducia nelle sue buone intenzioni. Non lo stava ingannando su quel fronte. E forse era solo molto curiosa di capire con chi aveva a che fare. Di fatto, si ritrovò a considerare che, nella sua amnesia, lui era l’unico essere umano che al momento conoscesse.

Malvagio non concederle almeno qualche piccolo premio.

Va bene allora… che vuoi sapere?” le domandò, recuperando una tazza di caffè nero.

La ragazzina gli lanciò uno sguardo valutativo.

Puoi chiedere. Davvero…” la spronò onde evitare che si facesse vincere da qualche sorta di scrupolo o…

Perché arco e frecce?” la domanda fu così rapida che realizzò che la ragazzina non aveva affatto bisogno di incoraggiamenti. “Per lavorare… perché non un’arma più pratica. Perché non una pistola. O un fucile… di precisione.”

Perché sono armi rumorose.”

Esistono i silenziatori.”

Preferisco prendermi del tempo, per fare le cose. Per quante frecce tu possa avere… non saranno mai tante quante i proiettili che gonfiano un caricatore.”

Natalia non sembrò del tutto soddisfatta della risposta.

E il circo?”

Clint fece rapidamente due più due: doveva aver ricollegato le vicende, dalle fotografie scovate in giro.

Bè… sì… anche quello c’entra. Abbastanza. L’arco è lo strumento che so usare meglio. Non il più pratico, ma quello con cui ho più familiarità. Che uso da più tempo.” Adesso era stato del tutto sincero e Natalia, di conseguenza, sembrava essere appagata.

L’arco aveva rappresentato una realtà piuttosto concreta della sua esistenza. Aveva imparato a tirare frecce ancora prima di imparare e tenere in mano una bottiglia di birra o a capire come funzionassero le donne. In realtà aveva imparato più ad accarezzare il collo di una bottiglia di birra che non a capire una donna… ma insomma, per dire quale fosse il grado di familiarità con lo strumento.

Perché te ne sei andato dal circo?”

Domanda spinosa. Una a cui non era sicuro di voler rispondere.

Perché c’era gente che aveva smesso di piacermi.” E che gli aveva fatto del male, più di quanto gliene avesse mai fatto suo padre con le sue percosse ottenebrate dall’alcool.

E tuo fratello?” anche di questo, Clint non era certo di volerne parlare, forse persino un po’ infastidito dal fatto che avesse ripescato nel mazzo proprio quella carta.

Ha smesso di piacermi anche lui.”

In realtà le cose con Barney erano ben più complicate di così. Forse in futuro sarebbe tornato a farci i conti, ma non quel giorno.

Natalia continuava a guardarsi attorno, come a cercare ispirazione per le sue domande, finché non si fissò su un poster di Blade Runner appeso proprio sopra il divano.

Quello cos’è?” gli domandò.

Clint quasi non ebbe un infarto alla domanda.

Blade Runner. Uno dei film cult del cinema di fantascienza. Dalla fama... mondiale.”

Non so cosa sia.”

Non ci credo. Harrison Ford? Ma Guerre Stellari, almeno, lo conosci?”

Natalia scosse di nuovo la testa.

Stai scherzando, vero?” ora la guardava così come solo un terrestre può osservare un alieno. Poteva anche passare sul fatto che probabilmente avesse a che fare con una pericolosa organizzazione criminale di fama internazionale, che aveva perso la memoria, che non ricordava i nomi dei presidenti degli Stati Uniti d'America... ma non sul fatto che non conoscesse le basi.

Ho come l'impressione che avremo molto su cui lavorare.”

Natalia si prese tutto il tempo necessario per finire la sua colazione.

 

___

 

Note:

Capitolo di transizione. Dopo la fuga, si torna a fare i conti con una presa di coscienza e un’ammissione di responsabilità. Ma mica è finita qui: adesso si devono prendere delle decisioni… e nel prossimo capitolo si capirà persino quali. Oltre all’introduzione di… nuovi personaggi. Per così dire. Ma non aggiungo altro, perché sennò che gusto c’è?

Al solito ringrazio la mia beta che continua a spronare la stesura della storia (che ora devo finire sennò non riesco a continuare anche con l’altra, mezza scritta), e tutti coloro che si fermano a leggere e recensire.

A questo proposito. Vi invito a cliccare [QUI] e [QUI] per i credits.

Perché la signora Blackmoody ha creato una locandina superlativa per l’altra mia storia su Clint già conclusa. Una storia a cui tengo tanto e che sono orgogliosa e felicissima abbia avuto il potere di scatenare addirittura ispirazione altrui. Ma non è bellissima? Grazie infinite! Davvero, di cuore. Spero di averti creditata per bene :)

In più, questa settimana Matt Fraction mi ha fatto un regalo con il nuovo numero di Hawkeye, con un flashback che pare uscito direttamente da Cinque Centesimi. Roba che se non mi ritroverò presto quel fumetto fra le mani darò di matto. Bene. Dopo questo sfoggio di esaltazione non richiesta, rinvio al prossimo capitolo.

Alla prossima!

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5

 

Can I have some remedy?
Remedy for me please.
Cause if I had some remedy
I'd take enough to please me.

(The Black Crowes – Remedy)

 

 

Odiava i locali dalle musiche assordanti.

Non riusciva a percepire nemmeno i suoi più intimi pensieri. Né a capire come tanti corpi potessero dimenarsi uno contro l’altro senza provare un impeto di disgusto a tutto quel sudore appiccicaticcio. Svolazzante o meno, a seconda del colpo di frusta di chiome fluenti.

Si fece largo fra la folla.

Il tizio all’ingresso non lo avrebbe mai fatto passare se non avesse mostrato il tesserino di riconoscimento controfirmato dal proprietario del locale.

Non aveva l’abbigliamento adeguato: così lo aveva redarguito per poi consigliargli di ricordarselo, per la prossima volta. Clint si chiese quale fosse l’abbigliamento adeguato: una camicia slacciata fino all’ombelico a mostrare lussureggiante peluria da orango e una catenazza d’oro con la croce? O un vestitino succinto giro mutande a mostrare cosce e indescrivibili abissi di silicone?
La sua felpa grigia e i suoi jeans erano decisamente più sobri. Non riusciva a capire cosa ci fosse di sbagliato: forse un po’ troppo sportivo, ma decisamente di gusto migliore.

Egor Novikov sedeva, al solito, in uno dei tavoli di fondo a dominare il locale, le chiappe russe su divanetti di color nero lucido, accanto al suo seguito di guardie del corpo, leccapiedi e donnine seminude. Non era un ambiente che amava frequentare, non della bella gente… ma pagavano bene.

Stavolta però l’obiettivo era un altro. Se Egg (come amava farsi chiamare) era abbastanza ricco da potersi permettere un giro di affari milionario in città, dall’altra aveva contatti più o meno estesi per tutta la costa orientale degli Stati Uniti. Ed era proprio su questi contatti che Clint sperava di poter fare affidamento. Navigava fra i canali russi con una certa dimestichezza.

Il caso di Natalia gli era entrato nel cuore. O nel fianco… più come una spina. Di cui prima o dopo avrebbe dovuto liberarsi. Il fatto di non poter usare computer, per evitare di essere rintracciati nuovamente, rendeva le operazioni più lunghe e complicate.

Avvicinò i divanetti, facendo solo un vago cenno con il capo, attirando l’attenzione di donnine, guardie del corpo e leccapiedi.

Guarda guarda cosa ci porta la notte! Un falchetto viaggiatore”, lo accolse Egg allungandogli una mano affinché gliela stringesse o ci giocasse con uno di quegli sconclusionati saluti da rapper che Clint non aveva mai compreso.

Salute a te…” lo apostrofò senza troppe cerimonie.

Non ti ho chiamato io, vero?” si interrogò l’uomo che stava scacciando una delle sue ragazze per fargli spazio, “ma siedi, prendi da bere! Un sigaro?”

No, grazie…” disse solamente, guardandosi attorno un po’ titubante.

Oh, non fare il prezioso, cos’è? Il tuo culo è troppo sofisticato per scendere così in basso?”
Clint non rispose, ma non si fece pregare ulteriormente: l’ultima cosa che voleva fare era innervosirlo. E farlo proprio quando aveva bisogno di lui, non gli sembrava una mossa molto astuta.

Sembrava un bel po’ fuori luogo, schiacciato fra due grossi bodyguards dall’aria ingrugnita e la curiosità e l’invidia di donnine e leccapiedi per quella familiarità.

Dimmi Occhio di Falco, qual buon vento ti porta qui, nella mia umilissima dimora?” Lo sentì trattenere una risata del tutto inutile. A Egg piaceva ridere. Un po’ come quei cattivi che non fanno altro per tutto il giorno, senza un apparente motivo. Forse solo per inarrestabile follia.

Si prese del tempo per elaborare la risposta, per cercare di indorarla un po’, renderla sofisticata, diplomatica, condita di elegante ironia.

Ho bisogno di un favore.” Brutale.

L’aveva sganciata peggio di una scoreggia in ascensore.

E la faccia che aveva fatto Egg era esattamente quella che avrebbe potuto produrre il disgusto per quella puzza di marcio.

L’atmosfera si era fatta, per un terribile momento, pesantissima. L’aspettativa da parte della sua corte dei miracoli era palpabile, intimorita.

Fu di nuovo Egg a spezzare l’attimo: ricominciò a ridere, come se Clint avesse appena fatto una battuta particolarmente divertente. E di conseguenza anche il suo seguito di sudditi si distese e abbozzò accenni di ilarità.

Con tutto quello che hai fatto per noi…” accennò, ma Clint non si distese. Per quanto compagnone potesse sembrare, non era esattamente tipo da favori, “una consulenza non posso certo negartela.”

Il fatto che avesse accennato a una consulenza, se non altro, era consolante: avrebbe ascoltato ciò che aveva da dire. Ma l’occhiata che gli aveva lanciato non preannunciava niente di buono. Avrebbe dovuto pagare, in qualche modo, quel favore.

Lo vide rimettersi in piedi, facendo cenno alle sue guardie di stargli appresso come bulldog attaccati ai coglioni.

Possiamo trovare un luogo più intimo per discutere.” Gli disse, finendo di bere in un unico sorso, la vodka che avanzava nel bicchiere.

Se lo portò via con un certo cameratismo. Le occhiate dei leccapiedi alle sue spalle, per un attimo, gli misero i brividi.

 

*

 

Natasha aveva appena finito di leggere l’ennesimo numero di Batman.

Superato l’iniziale scoglio di un linguaggio visivo e verbale che non le era familiare, aveva infine preso confidenza con l’uomo pipistrello e la sua schiera di psicopatici e cominciato ad apprezzare il perverso meccanismo delle sue gesta.

La città di Gotham City, inquietante quanto i suoi abitanti, suscitava in lei un certo fascino. Si chiese se non provasse un po’ di empatia per quell’essere cupo e solitario che era Bruce Wayne. Una doppia identità per nascondere le sue attività notturne.

Aveva come il sentore che persino lei, come Clint, avesse a che fare con quel tipo di problematica. Nascondere identità, agire nell’ombra. Con una schiera di nemici ad attenderla al varco.

Erano giorni che non usciva di casa: Clint si occupava di tutto, la sfamava mentalmente e fisicamente e soddisfaceva in modo celere tutte le sue (poche) richieste.

A Natalia bastava poco per sopravvivere, molto di più per sedare la propria curiosità.

Dal momento in cui sembrava essersi completamente rimessa sul piano fisico, aveva avvertito giorno dopo giorno, sempre più crescente, la smania di tornare in azione. Di divenire parte attiva nella riscoperta della sua perduta identità.

Clint le aveva proibito di riprovarci con il computer e le aveva chiesto il permesso di cimentarsi in una serie di tentativi personali, prima di mettere in atto un misterioso piano B.

Ancora una volta aveva deciso di fidarsi. Aveva sviluppato per l’uomo (il ragazzo?), una simpatia del tutto inusuale. Il modo in cui le si approcciava, quello in cui, spesso, riusciva a farla ridere, la grezza schiettezza dei suoi commenti, la malcelata gentilezza... erano cose di cui aveva capito di aver bisogno.

Un amico.

Ecco cosa era diventato Clint Barton in quei giorni. Lei, che di amici, per quanto ricordasse, non ne aveva nemmeno uno.

Aspettava sempre con un certo entusiasmo il suo rientro a casa. Un po’ come un cagnolino con il padrone: il paragone non le faceva certo onore, ma il fatto che non avesse proprio niente altro da attendere durante il giorno (ora che la minaccia SHIELD sembrava essersi momentaneamente volatilizzata), faceva di Clint il focus, il picco delle sue giornate.

Aveva deciso di pazientare. Di dargli la possibilità di rendersi utile così come sentiva di fare, sedando la propria natura che sentiva scalciare come una piccola Natalia in fondo alle sue viscere e che pretendeva di entrare in azione. Rabbiosa e violenta.

Per quello Batman. E una serie infinita di videocassette di film e telefilm (soprattutto di fantascienza) che Clint aveva preteso che vedesse.

Aveva cominciato ad apprezzare il genere. Il fatto che le situazioni fossero così totalmente assurde (così come quelle di Batman) la mettevano sul piano di ignorarne la credibilità e la razionalità e di apprezzarle per quello che erano veramente: niente altro che fiction.

Decise però di averne avuto abbastanza, di quell’overdose di intrattenimento. Lanciò Batman accanto a sé sul divano e prese lo slancio per rimettersi in piedi. I muscoli avevano ripreso forza. Di tanto in tanto si dava da fare con una serie di esercizi per evitare di impigrirsi troppo. Clint aveva degli attrezzi niente male nascosti nell’armadio e una sbarra, appesa proprio sopra lo stipite della porta della camera da letto, utile per le flessioni.

Quella sera non era però in vena di allenamenti. Si affacciò alla finestra, sedendosi sul davanzale a sbirciare le luci di una Brooklyn eccezionalmente silenziosa. Le finestre illuminate del palazzo dirimpetto a regalarle stralci di vita altrui.

In certi momenti riusciva a sentirsi così in pace. La musica sommessa di uno stereo, che arrivava da una finestra aperta. I flash di ragazzini che si rincorrevano su e giù per un divano. La vecchia cucina di un appartamento di studenti che stavano preparando la cena… o uno stuzzicante spuntino in tarda serata. Le calde effusioni di una giovane coppia, nella luce soffusa di una stanza da letto.

Posò la testa sulle ginocchia, ad abbracciare quel mondo che non riconosceva per niente, ma che le appariva così complice, amico.

Ebbe come l’impressione di doversi godere il più possibile quegli attimi, di assorbirli e trattenerli, per farli propri, e mantenerli vividi in vista di un futuro che ancora la preoccupava.

Alzò la testa solo quando la sua attenzione non venne catturata da un’ombra che camminava lungo la strada solitaria, illuminata dalle luci dei lampioni.

Un uomo che indossava un cappello: non riusciva a riconoscerne le fattezze. Si trascinava indolente sul marciapiede e nella postura, nei movimenti, nella stazza: le ricordò Clint.

Si chiese se non stesse cominciando a sviluppare una certa stupidissima ossessione per l’uomo, tanto da ritrovarlo così spesso in atteggiamenti altrui, in quelli di un occasionale passante notturno.

Si ritirò prima di poter indagare ulteriormente su quello stupidissimo sentimento.

I sentimenti ti rendono debole…

Chi le aveva regalato quell’insegnamento? Non lo ricordava, ovviamente, ma mai come in quel momento le sembrò tanto stupido e privo di senso.

Decise di prepararsi una tisana: aveva compreso di preferirla al caffè.

Aveva appena acceso il bollitore e recuperato una tazza (quella che Clint le aveva entusiasticamente regalato meno di due giorni prima: guarda, ha le tue iniziali!), che il cagnolino della portinaia che viveva al piano terra, cominciò ad abbaiare. Probabilmente infastidito da un rumore molesto o dalla rumorosa sigla dell’ennesima telenovela sudamericana che la sua padrona si ostinava a guardare.

Quando lo sentì guaire si rese conto che qualcosa non quadrava nella sfera degli avvenimenti serali del palazzo.

Posò con circospezione la bustina con la tisana e tornò ad affacciarsi alla finestra. L’uomo di prima era scomparso. E il cane della portinaia si era zittito troppo presto. Di solito continuava per una buona mezz’ora.

I suoi sensi entrarono improvvisamente in allerta, uno dopo l’altro. Quel qualcosa di assolutamente istintivo che la rianimava era appena tornato a bussare alle porte della sua coscienza… o a quella della finestra della camera da letto di Clint.

Si volse di scatto. Lo guardo determinato e fiero, i pugni alzati, pronti allo slancio. Un uomo era appena emerso dal davanzale.

Alto e muscoloso. Non grasso ma ben piazzato. Massiccio… come un pugile.

Quando lo vide alzare la testa ci riconobbe un viso che le era sin troppo familiare…

Sei cambiato un po’ dall’ultima volta che ci siamo visti… fratellino.”

un viso che le ricordava quello di Clint Barton.

 

*

 

“… sembra la trama di un romanzo spionistico.”

Egg aveva appena finito di versarsi un corposo bicchiere di vodka. Sul tavolo del suo ‘studio’ , un paio di strisce avanzate di cocaina, un piccolo ricordino di qualche precedente party privato.

Guardava Clint con un certo interesse, lo sguardo famelico di chi sta già pregustando la sua ricompensa.

Sapeva che non avrebbe potuto cavarsela così a buon mercato. Non gli aveva raccontato proprio tutto quanto. Giusto un paio di dettagli per arrivare almeno a risolvere il mistero della russa sconosciuta. Di certo non gli aveva rivelato che stava da lui, né tantomeno che la stava aiutando. Il favore riguardava lui soltanto: doveva rintracciare questa ragazza. Capire chi fosse, da dove venisse.

Potrei conoscere le persone giuste”, alluse il russo, facendo muovere pigramente il liquido ambrato nel bicchiere, “fare un paio di telefonate. Ho dei contatti fra le organizzazioni russe insediate negli Stati Uniti.”

Clint sentì nascere il fiore (il cardo) della speranza, nel suo stomaco.

Certo… avrei bisogno di qualche dettaglio in più, ma immagino che potremmo arrivarci strada facendo”, Egg gli si era avvicinato e posato una mano sulla spalla, in modo confidenziale.

Clint ricordò che faceva sempre così, quando dovevano concludere un accordo.

Però, però…” eccolo che arrivava, insidioso come un serpente dai capelli color cenere, “guarda caso, la tua presenza, stasera, arriva giusto in tempo per assecondare un mio… piccolo capriccio. Una cosa da nulla, a cui stavo pensando l’altra sera al ristorante con la mia signora…”

Ecco arrivare la richiesta. Lo scotto da pagare per l’azzardo. Clint lo aveva atteso. Era pronto. Aveva ancora abbastanza soldi da parte per potersi permettere di svolgere un lavoro gratuito per Egg, per dimostrargli che non lo voleva fregare, che era un tipo a posto, che era fedele… e riconoscente.

Quanto cazzo odiava tutto questo.

Si limitò ad annuire, a cercare di fargli capire che era pronto ad ascoltarlo e prendere atto della richiesta.

Conosci le Stark Industries?” gli domandò con un sorriso diabolico.

Clint si sentì quasi indignato. Che domanda del cazzo.

Quale abitante di New York City non conosceva le Stark Industries?

 

*

 

Natalia ci aveva visto giusto. Quell'uomo ovviamente non era Clint, ma gli somigliava tanto perché condividevano stesso codice genetico: era suo fratello. Quello stesso fratello di cui Clint non amava parlare, che aveva smesso di piacergli.

I motivi le erano ancora oscuri, ma qualcosa, nel suo modo di fare, le suggeriva di non fidarsi di lui, nonostante i modi amichevoli che tanto le ricordavano quelli dell'uomo che le aveva salvato la vita.

Sedeva sul divano, manifestando una tale familiarità con l'appartamento da farle capire, senza ombra di dubbio, che era già stato lì.

Sei carina. Come ti chiami me lo vuoi dire o dovrò indovinarlo?” la scrutava invadente, come se il fatto che fosse nell'appartamento del fratello gli desse il diritto di trattarla con quello stesso sentimento di intimità... e sfacciataggine.

Non sono sicura che dovresti stare qui.”

Ma dai? Hai direttive precise a riguardo?” le domandò, chinandosi in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia, in una posa ferina.

No, ma conosco abbastanza Clint per sapere che non gli farebbe... piacere.”

Oh...” adesso sorrideva, come uno di quelli che la sanno lunga.

Natalia non si sentiva al sicuro. Era pronta a scattare in qualsiasi momento e qualcosa le diceva che anche Barney (così aveva detto di chiamarsi) aveva capito che doveva dosare bene le sue mosse con lei. Doveva averle letto negli occhi che non amava scherzare, che era una che faceva sul serio.

Magari dovremmo aspettare che torni... e capire se i suoi sentimenti nei miei riguardi non sono... cambiati. E' passato così tanto tempo... uno tende a rimuovere o sminuire i motivi di un conflitto familiare.”

Non era certa di capire le sue parole, ma non si lasciò incantare.

Dove hai detto che è andato?”

Non l'ho detto...”

Aaaah, giusto. Non sembri una di molte parole, mh? Da dove ti ha ripescata il mio fratellino?”

Pescata? Cos'era, un pesce? Non era sicura di amare la sua melliflua ironia.

Decise di non rispondere, così da dare credibilità alla sua asserzione. Magari se ne sarebbe sentito appagato.

Lo vide recuperare il fumetto che aveva abbandonato sui cuscini del divano e mettersi a sfogliarlo con una certa noncuranza.

Caro, vecchio Clint... certe abitudini sono dure a morire. Sai quanti fumetti ci siamo fatti fuori quando eravamo dei ragazzini? A migliaia. Amava Batman”, e poi le scoccò un'occhiata da sopra le pagine, “io personalmente ho sempre preferito Oswald Cobblepot. La conosci la storia... del Pinguino?”

Natalia di nuovo non rispose. Non certo per dirgli che sì, una vaga idea del personaggio del pinguino se l'era fatta. E a parte una sorta di patetico sentimento di pietà, non era stato in grado di stuzzicare la sua più vivida simpatia.
“Un mostriciattolo. Un viscido emarginato... che ha dovuto imparare a sfruttare ben altre qualità per sopperire alla sua scarsa simpatia o socialità. E diamine... è riuscito nel suo intento. Genio della finanza, della criminalità, imprenditore, con intelletto più sottile e sobrio del Joker”, voltò il fumetto per indicarglielo sulla carta stampata, “risorto e battezzato dalle ceneri della feccia della società.”

La ragazza di nuovo, non era sicura di capire dove volesse andare a parare, sempre non si trattasse di inutili chiacchiere in amicizia.

Magari da bambino tendi a voler assomigliare a Batman, il paladino della giustizia, con qualche macchia, ma senza paura; da adulto... cominci ad apprezzare altri personaggi. E a sperare, un giorno, di poter emulare le sue gesta”, sorrise, “forse non ho esattamente le sue qualità geniali, ma ehi... si può sempre sperare.” lanciò il fumetto da qualche parte.

Ho come l'impressione che tu non ci abbia capito molto da questa spiegazione, mh?” lo vide scuotere la testa, “bè sappi che ero a tanto così...” e avvicinò pollice e indice della mano destra, come ad indicarle la quantità, “dal raggiungere il successo, quando l'indole di Clint l'ha di nuovo fatta da padrona... rovinando tutti i miei piani e i miei sogni di gloria. Puff...” seguì una scia invisibile di bolle esplose, “tutto rovinato, svanito nel niente. Capisci bene di come possa avere i miei... motivi del tutto personali, per avercela un tantino con il mio caro fratellino. Il fatto che vada in giro a dire che è lui ad essere adirato con me... lo trovo un bel po' presuntuoso. E piuttosto inattendibile per giunta.”

Natalia cominciò ad avvertire una punta di crudeltà in quell'affermazione. Disagio mal represso: per quello che poteva intuire, c'era in gioco ben più che una lite familiare, in quel quadretto. Anche se non era del tutto sicura di aver capito a che successo si riferisse.

Vide Barney rimettersi in piedi, risoluto in una decisione che non le riuscì determinare.

Era pronta a scattare, quando la porta dell'appartamento si spalancò.

 

*

 

Brutto figlio di...”

Attento a ciò che dici, fratellino, stai parlando di nostra madre.”

Era davvero Barney, in carne ossa, capelli rossi e naso rotto a stargli di fronte.

Di tutte le persone che si sarebbe atteso di vedere, in quella strampalata serata, Barney era proprio l'ultima del suo (breve) elenco.

Che cazzo ci fai qui?”

Sono venuto a trovarti. È questo il modo di accogliere il tuo unico parente rimasto?”

Il modo giusto per accoglierti è ficcarti una freccia in mezzo agli occhi.”

Aw, sentito?”, si stava per caso rivolgendo a Natalia? “Te l'avevo detto che mi voleva ancora bene.”

Non lo vide estrarre la pistola.

E nemmeno riuscì a deviare in modo decente, per non prendersi in pieno la pallottola.

Il colpo vibrò e sbandò per conto suo. O per conto di una ragazzina che aveva casualmente atterrato Barney con un calcio rotante.

Merda!” lo sentì ululare, mentre lo sparo rimbombava per l'appartamento.

Il cane della portinaia stranamente non aveva preso ad abbaiare. Clint gli fu addosso, calpestandogli malamente la mano con l'arma. Scalciò via la pistola, tornando a colpirlo. A ripetizione. Una certa soddisfazione personale, nel vederlo dimenarsi sotto di lui.

Ahia, ahia, brutto stronzo, fermati, cazzo fermati! Non volevo spararti, porca troia!”

Eccerto e avresti tirato fuori la pistola per farmi vedere il tuo nuovo acquisto?”

Natalia, che l'aveva raccolta da terra, gliela stava puntando contro. A Barney.

Con una certa dimestichezza, dovette ammettere.

Fa anche schifo! Chi cavolo se ne va in giro con una pistola con gli intarsi a forma di drago?”
“Non è nemmeno mia! L'ho rubata!”

A chi?”

A un tizio, di Chinatown! Un cinese!” si poteva essere più prevedibili di così?

E perché cavolo hai rubato una pistola a un cinese?”

Seriamente? È questo che vuoi sapere?” adesso si teneva la mano, praticamente maciullata e dolorante, fissando Clint da terra, l'espressione fra il dolorante, il rancoroso e l'atterrito.

No, voglio sapere chi cazzo ti ha dato il permesso di entrare in casa mia.”

Barney andò a cercare Natalia con lo sguardo.

Nikita qui non mi ha fermato...”

Natalia non c'entra niente.”

Aaah, ti chiami Natalia, bambolin- ahia cazzo!” Clint gli aveva rifilato un calcio nello stinco.

Non parlare con lei. Non ti rivolgere a lei.”

Non sapevo fossi diventato una baby sitter... nel frattempo.”

Fottiti. Non è affar tuo quello che faccio. Voglio sapere che cazzo ci fai qui e poi ti levi dai coglioni. E stavolta per sempre.”

Barney si lasciò abbattere sul pavimento, abbandonando le braccia lungo il corpo con un sospiro teatrale.

Sono al verde, fratellino...”

Al verde? Era quella la motivazione di quel ritorno di fiamma?

Vuoi dirmi che ti sei fumato mezzo milione di dollari?”

Barney non fece altro che stringersi nelle spalle, in un'espressione che a Clint fece solo emergere più forte la necessità di colpirlo.

Ahia! Ma che cazzo!”

Mezzo milione di dollari.

Suo fratello era il re delle teste di cazzo.

___

 

Note:

Tadaaaan! Barney. Ecco svelata l'identità del nuovo elemento della storia. Ormai mi sono affezionata a lui e a ciò che rappresenta nella vita di Clint... in tutte le sue varianti. Anticipo solo che la sua presenza non sarà affatto random e che riserverà delle sorprese. Mi ci sono divertita a giocarci un po' su.
Detto questo: ringraziamenti as usual alla beta Sere, a tutti coloro che ancora mi seguono in questa estate umorale e a chi mi fa sempre sapere che ne pensa :)
Alla prossima!

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


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CAPITOLO 6

Soy un perdedor
I'm a loser baby, so why don't you kill me?
(Beck – Loser)

 

“Sei abbastanza comodo?”

Clint aveva legato Barney come un salame, agganciato al calorifero accanto alla finestra.

“Come no? Come sprofondato in un letto di ovatta.”

Natalia aveva delle difficoltà a comprendere la natura del loro rapporto. Sembravano odiarsi, ma in modo… amichevole? Probabilmente non aveva senso, ma era quella l’impressione.

Clint aveva rimandato l’idea di rispedirlo fuori dal suo appartamento a calci nel sedere.

Si era assicurato che non potesse arrecare ulteriore danno e praticato dei nodi piuttosto complessi per sedare la sua tendenza al contrattacco.

“Per quanto tempo hai intenzione di tenermi legato, mh?” Barney sembrava non avere intenzione di zittirsi un attimo, da quando era entrato in casa loro... in casa... di Clint. Anche se la domanda era un po’ quella che anche lei si era posta quando lo aveva visto tirar fuori una corda (da dove l’avesse recuperata, rimaneva un mistero).

“Fin quando non ti si saranno staccate le braccia.”

“Carino… devo rimarcare il fatto che sono pur sempre tuo fratello?”

“Ed io devo rimarcare il fatto che l’ultima volta mi hai quasi distrutto una mano?”

“Sì, e hai voluto restituirmi il favore, a quanto pare.” Barney aveva alzato la sua, di mano (per quanto le corde glielo permettessero) adesso bendata, sventolandola come una banderuola.

“Almeno ci penserai due volte prima di puntarmi contro un’arma.”

“Oh, ma dai! Non ti avrei fatto niente, lo sai.”

“Finiscila di prendermi per il culo Barney, non sono più un ragazzino.”

“Opinabile…” ribatté sarcastico, “ma non volevo prenderti per il culo… non avrei sparato, per davvero. Ma Nikita mi ha scalciato come fossi un pallone: è partito il colpo.”

Natalia continuava a chiedersi perché quell’uomo si ostinasse a chiamarla Nikita. Chi diavolo era… Nikita? Il fatto che Clint avesse intuito l’allusione le fece presupporre che fosse una persona che conoscevano entrambi. E che forse… le somigliava?

Ancora le risultava faticoso comprendere i giochetti verbali dei due.

“Perché hai tirato fuori la pistola allora? Per spirito di compensazione?”

Natalia non si era resa conto di aver preso a seguire il dialogo a colpi di testa, come se stesse assistendo a una partita di tennis.

“Perché mi hai minacciato, diamine! Non sono stato mica io a dire che mi sarei meritato una freccia in mezzo agli occhi.”

“Bella merda, Barney. Mi hai visto imbracciare un arco?”

“No, però avresti potuto avere una pistola nelle mutande…” e qui Barney scoppiò a ridere e Natalia preferì andare a prepararsi la tanto sospirata tisana.

“A proposito di mutande, fratellino… non mi hai ancora detto che ci fa una ragazzina nel tuo appartamento.”

Clint si era lanciato sul divano, apparentemente esausto e ignaro di quello che avrebbe dovuto fare con lui.

A Natalia non era ancora chiaro cosa fosse andato a fare quella sera e quali fossero gli esiti delle sue ricerche. Sapeva che era uscito per lei. Ma non sapeva dove, o perché. E in un certo modo, nel considerarlo, si trovò curiosa di scoprire cosa avrebbe avuto da raccontarle o svelarle. Peccato per quel piccolo inconveniente formato… famiglia.

“A parte che non capisco che cazzo c’entrano le mutande…” riprese Clint, e questo, francamente, non lo capiva nemmeno lei, “... comunque non sono affari tuoi.”

“Ma come siamo suscettibili… era per fare conversazione.”

“Se taci magari mi dai tempo per pensare.”

“Pensare a cosa?”

“A cosa farne di te…”

Barney si rimise dritto, seduto sul pavimento, le braccia dovevano aver cominciato a dolergli. Le strattonò appena, forse per evitare che le corde gli segassero i polsi.

“Lasciarmi andare, tipo?”

“No.”

“Lanciarlo dalla finestra e farlo sembrare un incidente.” Stavolta era stata proprio Natalia a parlare, con tutta la calma del caso. Si era versata la sua buona tazza di tisana e messa a sedere, per godersi comodamente la scena.

Clint le aveva puntato un dito contro, come ad approvare la scelta.

“Oppure c’è sempre l’acido.”

“L’acido?” Clint ora sorrideva divertito.

“Sì, l’acido. Non è ancora provato che esista un composto chimico in grado di sciogliere del tutto il corpo di un essere umano… ma l’acido fluoridrico potrebbe essere una buona alternativa.”

Adesso entrambi i fratelli parevano impressionati.

“No, dai, da dove l’hai tirata fuori questa qui? Non dirmi che ti sei preso un’assistente.”

Clint fece per rispondere qualcosa, o forse elaborare una risposta abbastanza convincente per zittirlo, ma fu di nuovo Natalia ad interromperlo.

“Sono la sua ragazza.”

Clint sgranò gli occhi, Barney fece un verso inarticolato con la gola.

“Ti sbatti una minorenne?” era scioccato e ammirato al tempo stesso. Non era sicura che il mix le piacesse. Barney era un pessimo elemento: nella natura così simile a Clint, ma nell’esecuzione ben più viscido e apparentemente privo di quel sentimento di pietà o pudore che la sua controparte giovane manifestava, seppur con una certa parsimonia.

“Non sono minorenne. Ho diciotto anni, compiuti”, mentì.

“Non sembra, ragazzina. Quel faccino pienotto mi dice il contrario, di solito sono piuttosto bravo ad inquadrare la gente…”

Natalia si limitò a prendere un sorso di tisana e fissarlo negli occhi. Vedere chi avrebbe ceduto per primo fu la sua sfida del giorno.

Provò una certa soddisfazione quando lo vide fare a lui per primo, una sorta di timore del tutto ingiustificato a fargli abbassare la testa. Come se avesse avuto paura che avesse potuto leggervi qualcosa di troppo, in quello sguardo. Era bravo, certo, ma non bravo quanto lei, a quanto pareva. La sensazione non fu positiva.

“Aw Clint, Clint, Clint…”

Per un attimo Natalia fu sul punto di credere che Clint l’avrebbe smentita, per evitare scomode e compromettenti illazioni, ma invece rimase in silenzio.

Forse aveva intuito che era meglio andare verso una direzione più controversa che svelare stupidi dettagli della vera natura della loro “relazione”.

“Non avrei mai pensato di vederti accasato.”

“Non sono accasato… e finiscila di chiedere. Ti ho già detto che non sono cazzi tuoi.”

“Va bene, va bene…” sembrò arrendersi, “però prima o poi Nikita me lo dovrai proprio dire che cosa ci trovi in questo qui.”

Natalia soffiò sulla tisana per freddarla un po’.

“Quando troverò questa Nikita, glielo chiederò”, disse, puntando lo sguardo nella sua direzione in modo piuttosto eloquente, scatenando l’ilarità di Barney.

 

*

 

Non era esattamente la soluzione che Clint si era augurato di trovare per giustificare la presenza di Natalia, ma ormai aveva deciso di assecondarla e aggrapparcisi fingendo una certa nonchalance.

Non gli andava granché a genio passare per un mezzo pedofilo (sebbene di Natalia non si conoscesse effettivamente l’età), però si era votato alla causa per amor di finzione.

Barney poteva diventare seriamente noioso e soprattutto ficcanaso e, per natura, soleva usare certe informazioni per averne un qualche subdolo vantaggio.

Non poteva certo permettersi il lusso di lasciarsi andare a confessioni pericolose.

Il piano d’attacco, questa volta, stentava ad arrivare: non poteva chiamare la polizia (o sarebbe andato nei casini anche lui), non poteva lasciarlo andare (comunque Barney sarebbe tornato) e l’omicidio non era contemplato, sebbene più volte avrebbe voluto prendere un randello e spaccargli quella testa di cazzo che si ritrovava.

Il fatto era che Barney aveva preso un po’ troppo spesso a finirgli fra i piedi e, per quanto Clint si sforzasse di risolvere sempre più o meno pacificamente la cosa, il ritorno di Barney non faceva sempre che portargli guai e sventure di ogni tipo.

L’ultima volta era finita peggio delle altre: per questo era seriamente convinto che non si sarebbe mai più ripresentato alla sua porta. Non era diventato ricco? D’accordo era riuscito a impedirgli il colpo del secolo per realizzare i suoi intenti ambiziosi, ma il mezzo milione di dollari che aveva già recuperato non erano proprio robetta da gratta e vinci perdente. Clint non aveva nemmeno mai visto tanti soldi tutti assieme.

Ed ora gli veniva persino a dire che era rimasto al verde? Incredibile. E pure un po' da stronzi. Dato che lui direttamente non ci aveva guadagnato null’altro che una mano rotta.

“Vorrei solo capire che diavolo vuoi da me stavolta…” aveva deciso di essere diretto.

Barney continuava a guardarlo con quell’espressione divertita di chi la sa lunga: Clint aveva sempre la stessa impressione quando aveva a che fare con lui. Che non lo mettesse a parte di un qualche segreto che solo lui conosceva, e la cosa lo faceva imbestialire.

“Asilo politico?” di nuovo gli aveva sorriso con quell’aria un po’ a presa in giro, “e magari… dei soldi.”

Soldi. Perché tutto doveva sempre ridursi a… una questione di soldi?

“Sono al verde anche io Barney.”

“Non ci credo. Hai sempre via un po’ di quattrini… non ti conoscessi… lo so che fai come le formichine: accumuli, accumuli, accu-”

“Seriamente!” lo interruppe spazientito. “Sono a secco. Ho avuto un sacco di spese... e il lavoro ultimamente scarseggia.”

“Certo, in più devi anche mantenere la tua… ragazza.”

Clint aveva pronto un insulto di quelli buoni, ma lo tenne per sé. Aveva un principio di mal di testa e, con tutto quello che aveva passato quella sera, non vedeva l’ora di andare a dormire. Ma per farlo, prima, avrebbe dovuto risolvere quella non trascurabile questione.

“Ripeto che non sono affari tuoi.”

“Se puoi mantenere lei, puoi anche mantenere me, per un giorno o due… non ti chiedo di più.”

Clint avrebbe voluto mandarcelo per direttissima. E se si stava trattenendo dall’andare a recuperare arco e frecce per finire in cortesia la diatriba era solo per… quello stupidissimo legame sentimentale.

Barney era sempre stato il suo fratellone. Ne avevano passate diverse, assieme. Prima fra le mura domestiche, vittime di padri violenti e madri troppo deboli per riuscire a proteggerli, poi richiusi in quello stupido orfanotrofio dove non avevano certo fatto loro una cortesia. E infine al circo, artisti e saltimbanchi che, se all’inizio sembravano averli accolti come e meglio di una qualsiasi famiglia o educatore, poi si erano rivoltati loro contro con spregevole maestria.

Unica qualità di questi ultimi era stato l’addestramento e la scoperta di talenti che andavano oltre le ben più rosee aspettative.

Per quello erano scappati, prima l’uno e poi l’altro e infine deciso di seguire una strada piuttosto… tortuosa.

Quella del raggiro, del furto…
Non era proprio in vena di ricordare tutti i trascorsi che li avevano visti protagonisti, ma il fatto era che, sebbene Barney avesse rischiato di fotterlo più di una volta, nel loro costante tira e molla, si era sempre messo in prima fila per proteggerlo… da quando erano bambini. Non fosse stato per lui forse non ci sarebbe nemmeno mai arrivato a quel punto.

In alcune giornate no, Clint era certo che forse sarebbe stato meglio non arrivarci mai.

Cercò di assumere un atteggiamento distaccato, di non far capire che stava già cedendo a quella stupidissima richiesta.

“Ho alternative?” gli chiese dunque, fissandolo a lungo, fra il frustrato e l’esasperato, il malinconico e il rabbioso.

Barney che aveva già in serbo una risposta tagliente, straordinariamente si zittì. Forse ci aveva letto un po’ troppo in quello sguardo da cane bastonato. O forse semplicemente non aveva più molti argomenti.

“Non più di quante ne abbia io.” Si limitò a rispondere.

“Prova a fare una cazzata e ti sparo nelle palle.”

“Non avevi parlato di una freccia in mezzo agli occhi?”

Clint scosse la testa: “Una freccia in testa ti uccide. Un proiettile nelle palle fa molto male… molto a lungo.”

La minaccia ebbe un certo effetto.

Barney non blaterò più di stronzate nemmeno quando gli concesse la comodità di un cuscino e una coperta.

Se non si fosse addormentato di schianto si sarebbe accorto di essere stato liberato.

 

*

 

Natalia aveva come l’impressione che la conclusione di quello scontro verbale, fosse costato moltissimo a Clint. Le aveva chiesto di andare a dormire, le aveva assicurato che si sarebbe occupato lui di tenere a bada l’uomo, ma lei gli aveva risposto che, visto che durante il giorno non aveva mai volto da fare, non riusciva a percepire granché stimolo al sonno.

Lui non aveva insistito, forse aveva compreso che Natalia non la si poteva semplicemente mettere a letto.

Gli sedeva dunque di fianco, dopo aver preparato una buona dose di caffè per entrambi (ne avrebbero avuto bisogno, durante la lunga notte di veglia). Tutti e due a fissare quell’uomo che adesso russava di prepotenza, tutto rannicchiato sul pavimento. Lo trovò un tantino crudele, ma forse lo sarebbe stato di più rimetterlo alla porta. Per quello che riusciva a capire, sebbene non conoscesse affatto i precedenti, Barney doveva ritenersi parecchio fortunato di avere Clint come fratello.

“Non è… cattivo, sai?” le disse a sorpresa, la tazza ancora intonsa fra le mani. Lo sguardo apparentemente perso sull’uomo a terra, sguardo che però sembrava andare un po’ oltre le barriere fisiche, “cioè, intendiamoci: è un bastardo pezzo di merda, quando ci si mette ma… di natura, voglio dire… non è… come sembra.” E nel dirlo, in quel tono pacato, vagamente da sbronzo come solo può esserlo il tono di chi si sta mantenendo sveglio a stento, lei gli credette. O quantomeno credette alla buona fede di Clint.

Rimase in silenzio, non era nemmeno sicura fosse consigliato dire qualcosa.

“Eravamo una gran… bella squadra, una volta. Poi ognuno ha preso la sua… strada, se così vogliamo chiamarla.” Sospirò e in quel sospiro le sembrò di sentire tutto il rammarico di una serie di scelte di vita sbagliatissime.

“Ci siamo finiti fra i piedi più volte di quanto mi piaccia ammettere… e non siamo mai giunti a soluzioni pacifiche, ma tant’è.”

Avrebbe voluto chiedergli della storia della mano, del mezzo milione di dollari, avrebbe voluto capire in che modo Clint avesse impedito a Barney di mettere a punto i suoi piani di gloria, ma pensò che non fosse una buona idea. Soprattutto dal momento che anche lei, a casa di Clint, ci era finita a seguito di una specie di ricatto.

Si limitò ad affondare la sua curiosità nella tazza di caffè, trovandolo ancora disgustoso.

“Hai scoperto qualcosa?” le uscì poi, del tutto fuori tema. Piuttosto che affrontare un argomento scomodo che non sapeva come indagare, decise di tornare su binari a lei più congeniali. Pratici.

Clint volse la testa nella sua direzione, come risvegliato dal torpore dei suoi ricordi. Natalia capì che gli ci era voluto qualche secondo per capire a cosa si riferisse.

“Oh…” lo vide assumere un posa più rigida e poi, solo poi, scrollare le spalle, “un paio di domande. I miei informatori mi faranno sapere al più presto qualcosa.” Si limitò a riferirle, piuttosto stringato.

“Chi sono i tuoi informatori?”

Clint serrò le labbra: “Non ti riguarda.”

“Mi riguarda. E’ di me che stiamo parlando. Le domande che fai sono su di me”.

“Dio, ma potrò mai avere un po’ di tregua questa sera?”

Natalia gli lanciò uno sguardo obliquo, gli occhi verdi che dardeggiavano nella sua direzione.

“Informatore è informatore, sono persone fidate!”

“E tu cosa hai promesso loro in cambio?” aveva ancora nozioni che le ricordavano che non si fa mai niente per niente.

“Io? Un bel niente… che vuoi che mi abbiano chiesto, con tutte le cose che ho fatto per loro in questi anni…” lasciò la frase così in sospeso e con aria così casuale che Natalia cominciò a nutrire dei certi sospetti.

“Che cosa gli hai promesso, Clint?”

“Ti ho detto… ma a te che diavolo importa quello che gli ho promesso?” aveva un po’ alzato la voce, per poi riabbassarla di nuovo, onde evitare che Barney si svegliasse o nel caso fosse già sveglio per sentirlo.

“La questione… riguarda me. E se c’è qualcosa da sganciare, sono io quella che deve rimetterci. Non tu. Tu hai già fatto abbastanza.”

“In realtà non ho ancora fatto un bel niente.”

Natalia gli tirò via il caffè dalle mani.

“Dimmi che cosa gli hai promesso.”

“Sei insistente.”

In realtà appena Natalia aveva subodorato la possibilità di entrare in azione non aveva esitato un solo istante a coglierla… al volo.

“Ho chiesto: che cosa gli hai… ?”

“D’accordo, finiscila.” Le aveva piazzato una mano sulla bocca, un gesto che ad istinto Natalia avrebbe scansato come la peste, ma che evitò di fare per non indispettirlo e spingerlo a non scucirsi per niente a riguardo. E poi aveva usato un tono che non le era mai capitato di udire, prima di allora. In una parola avrebbe potuto definirlo: pericoloso.

Non si fece comunque intimorire: continuava a fissarlo con quell’aria minacciosa e indagatrice.

Solo quando fu certo che non avrebbe più ripetuto la richiesta, la lasciò andare.

“Un lavoretto”, si sganciò infine, l’atteggiamento un po’ burbero di chi non aveva granché intenzione di rivelare troppo. Come se avesse appena violato l’intimità del suo mondo. Del suo lavoro.

“Un lavoretto di che tipo?” doveva arrivare al fondo della faccenda, a costo di strappargli la confessione, parola per parola. Non le importava quanto tempo ci avrebbe messo, avrebbe sedato quella sua ingiustificata smania pur di arrivare all’obiettivo.

“Un furto.”

“A chi?”

Lo sentì sbuffare, ma non demorse con quelle sue occhiate.

“Conosci le Stark Industries?”

Natalia inarcò un sopracciglio. Le conosceva? Forse aveva sentito qualche notizia al telegiornale. Forse no. Aveva fatto overdose di tv, tanto da non riuscire quasi a distinguere cosa fosse vero e cosa no.

Non gli fece alcun cenno.

“Una società che crea ed esporta armi e attrezzature di alta tecnologia”, le spiegò con impazienza, “devo recuperare il progetto di un prototipo. Un lavoretto facile.”

“Facile?”

“Facilissimo.” Non le sembrò del tutto sincero.

“Bene. Allora vengo con te.”

Clint le rivolse uno sguardo fulmineo. Se avesse potuto ucciderla con un'occhiataccia…

“No, mi spiace, ragazzina, ma io lavoro da solo.”

“Potresti avere bisogno di un aiuto.”

“Mi sembra di averti detto che è un lavoro facile… non ho bisogno di nessun impiccio fra i piedi. Se qualcosa va storto, non voglio perdere credibilità con i miei… clienti.”

“La perderai comunque se qualcosa andrà storto.”

Clint si era giusto un po’ incartato con le giustificazioni.

“Sul serio, puoi aiutarmi in altri modi. Ma non in questo.”

“Hai dimenticato quello che sono capace di fare?”

“Giochetti da saltimbanchi… ti stupiresti se ti dicessi che ne so fare un paio persino io.”

“Non mi stupirei. So che hai lavorato in un circo.”

Lo sentì sbuffare, di nuovo, frustrato.

“Perché oggi sembrate rompere tutti i coglioni?”

“Io non rompo i coglioni. Sono qui per darti un aiuto concreto. Per una questione che riguarda… me.”

Clint le rivolse uno sguardo frustrato, esausto. E sospirò come se tutte le disgrazie del mondo fossero precipitate sulle sue spalle.

“Sta bene allora… se qualcosa va storto però saranno solo cazzi tuoi. Non avremo le informazioni, e darò a te tutta la colpa.”

Natalia scrollò le spalle. Clint doveva essere veramente esausto per cedere così facilmente. O forse era davvero un lavoretto semplice, semplice. Sentì un sorrisetto risorgerle sulle labbra.

“E non sorridere. Non è divertente.”

Natalia non ebbe bisogno di dirgli che non sorrideva perché era divertente, ma perché era soddisfatta e il pensiero di poter entrare in azione l'aveva, finalmente, rianimata. Non ebbe bisogno di pronunciare una sola parola poiché Barney si era rimesso seduto, capelli e faccia accartocciati e li stava fissando.

“La finite di tubare voi due?” biascicò con aria stralunata, passandosi una mano sulla faccia.

Mano che prese a osservarsi solo l’istante successivo, con una certa curiosità.

“Oh…” disse, “sono libero.”

___

Note:

E siamo finalmente arrivati alla conclusione dei preamboli. I guai cominceranno a diventare concreti dal prossimo capitolo in poi.
Non dico di più… un po’ per non svelare molto e un po’ perché… sto dormendo. Come dicevo stamattina: oggi è una di quelle giornate da dipingersi gli occhi sulle palpebre e dormire. Dormire, è così bello dormire.
Ringraziamenti variegati alla socia Sere, per il betaggio et supporto e a chi continua a seguirmi, leggermi, commentarmi, mettere la storia fra i preferiti e altro.
Se tutto va bene (e qui il SE va scritto maiuscolo) la prossima settimana ci sarà una piccola sorpresa… visiva per questa storia. E ripeto: SE tutto va bene. Perciò… ahm, okay.
Buona notte. Cioè… alla prossima!

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7

 

 I’ll take you down the only road I’ve ever been down
You know the one that takes you to the places
where all the things meet yeah

(Bitter Sweet Symphony - Verve)

 

 

Non c’era un vero motivo per il quale avessero deciso di pianificare un furto, proprio in un puzzolente bar di Brooklyn, ma Natalia aveva insistito tanto a mettere, finalmente, il naso fuori casa, con l’aggiunta della sgradita e altrettanto insistente partecipazione di Barney.

Clint avrebbe volentieri fatto a meno di spendere soldi per spillare carburante nocivo dalle bottiglie, ma erano già alla terza birra in attesa di verdetto.

Barney si era lanciato in una sfida a biliardo con i due o tre avventori ancora sobri abbastanza da riuscire almeno a capire che quelle sul tavolo erano palle e che quello che avevano fra le mani non era un fucile.

Questo gli lasciava tempo di capire come muoversi, mentre Natalia cercava di destreggiarsi con un laptop preso in prestito da uno dei vicini di casa. Uno studente di ingegneria che in cambio aveva solo chiesto una stecca di sigarette d’importazione. Clint cominciava a pensare che quell’impiccio gli stesse costando più soldi di quanti ne aveva guadagnati grazie all’ultimo lavoretto.

“Ho una notizia buona… e una cattiva.” Aveva esordito Natalia che non era nemmeno mezz’ora che stava rovistando fra gli archivi e i file che aveva fornito loro Egg.

Clint cercò di deviare l’attenzione che andava sempre a sbirciare fuori dalle finestre ingiallite del locale, come si aspettasse l’arrivo di qualche sgradito ospite a bordo di gigantesche macchine nere.

“A-ah…” le aveva risposto, prima di sporgersi verso di lei, regalandole la sua attenzione, “Prima la buona.”

Giusto per arrivare con atteggiamento positivo alla notizia più sgradita. Anche se solo l’idea che ci fosse davvero una notizia negativa già gli faceva girare i coglioni.

“La buona notizia è che il progetto del prototipo che il tuo cliente va cercando non si trova nei laboratori della Stark Industries.”

“Ah no?” Bè buono. Solo l’idea di dover affrontare tutta quella sorveglianza avrebbe fatto perder loro un sacco di tempo nella programmazione del colpo.

“A quanto pare è un’iniziativa personale del giovane Stark, niente a che vedere con i progetti in produzione nella sua azienda.”

“Giovane e unico rappresentate della famiglia rimasto in vita… da quanto ne so.”

“Erede universale di Howard Stark, sì. Quel ragazzo è un genio, lo sapevi?”

“Genio. Che parola grossa.”

“Genio, i dati forniti sono piuttosto dettagliati a riguardo. Laureato al MIT, studente dall'età di quindici anni”

“Tutta pubblicità.” La liquidò Clint con un cenno della mano. Non era granché propenso a lodare una persona che presto avrebbero dovuto derubare. In più quello Stark gli era sempre stato antipatico… a pelle. Aveva tutto: soldi, fama, una brillante carriera, intelletto, fascino (per quello che gli era dato comprendere) e un carattere estremamente carismatico. Insomma un mix di qualità che se non ti davano almeno un minimo pretesto per rosicare, eri da catalogare come un’altruista San Francesco d’Assisi con tanto di chierica e uccelletti a fringuellar fra le sottane.

“Quindi dove li troviamo questi progetti tutti speciali?” creati dalle manine sante del bell’Antonio? Detto Tony?

“Immagino nel laboratorio di casa sua.”

“Fantastico. E dove lo andiamo a stanare?”

“Ecco, questa è la cattiva notizia.”

“Cattiva… quanto?”

“Bè, dipende dai punti di vista, suppongo.”

Natasha aveva voltato il laptop nella sua direzione per permettergli di vedere lo schermo.

Se a Clint non andò di traverso la birra fu solo perché era partita a spruzzo dalle sue labbra, inondando il locale.

 

*

 

In viaggio verso Malibù, California

 

Il vento le accarezzava i capelli, il viso.

La testa fuori dal finestrino dell’auto, a godersi la frescura e il paesaggio desertico che sfrecciava lungo tutta l’autostrada.

Non ricordava affatto di essere mai stata nel deserto o di essersi goduta un panorama del genere. Il profumo di benzina e della sabbia calda si fondevano in uno scenario che non le era granché familiare. Si riscoprì più che mai felice di essersi lasciata coinvolgere in quella pseudo missione dai risvolti ancora tutti da definire. Le sembrava di essere in vacanza. Per quanto fosse più incline ad analizzare solamente il concetto di vacanza, più che a trattarlo come qualcosa che avesse mai sperimentato.

Clint guidava al suo fianco. Non le era sembrato particolarmente felice di sganciare tutti quei soldi: prima per comprare i biglietti dell’autobus che li aveva portati fino a Indianapolis e tappe successive (con il fatto che fosse ricercata dallo SHIELD un viaggio in aereo sarebbe stato impensabile) e poi per l’affitto di una macchina per i loro spostamenti e del costo della benzina consumata. Continuava a blaterare di rimborsi, di come si fosse fatto fregare, di Barney che, lasciato solo nel suo appartamento, probabilmente gli avrebbe distrutto casa o peggio affittata a qualche tizio di malaffare per le sue bische clandestine.

Aveva avuto almeno la premura di nascondere tutti i suoi vinili. E i suoi fumetti. Nella speranza che qualcosa si sarebbe salvato al suo rientro.

“Giù i piedi dal cruscotto…” si sentì rimproverare per l’ennesima volta dacché erano partiti.

“Nemmeno fosse tua, la macchina.” Stronfiò lei per l’ennesima volta.

“Proprio perché non è mia. E’ una questione di educazione.”

Educazione. Che ne sapeva lui dell’educazione? Non gli era sembrato il tipo di persona che si facesse certi tipi di problemi, né che possedesse badilate… di educazione.

A volte però assumeva degli atteggiamenti che le facevano pensare il contrario. Forse era cresciuto in un ambiente troppo rigido da bambino. Forse ne aveva assorbito certe regole per poi disfarsene una volta cresciuto… senza rendersi conto di quanto, per assurdo, alcune di essere gli fossero rimaste imbrigliate addosso.

Natalia si limitò a levarsi le scarpe, giusto per dargli un contentino.

“Ah, ora sì che va molto meglio. Credi che i tuoi piedi profumino?”

“Non più del tuo dopobarba.”

“Io non uso dopobarba.”

“Ah giusto, per usare un dopobarba uno si suppone debba possedere… una barba.”

Clint le lanciò uno sguardo ostico. Era arrivata alla conclusione che fosse un tantino nervoso. E forse un po’ era colpa sua. A parte aver speso in poco meno di un paio di settimane tutti i soldi che aveva guadagnato la sera del vicolo, adesso si trovava a portare a termine un lavoretto per il quale avrebbe ricevuto un compenso in informazioni. Insomma niente di nuovo. Sommato alla questione  che, per la prima volta dacché aveva cominciato le sue attività in solitaria, si sarebbe trovato ad affrontare un lavoro in compagnia di una persona che conosceva appena… forse sarebbero girate le palle anche a lei.

Senza contare il fatto che adesso la stanchezza pesava su di loro come una bestia nera che risucchiava di minuto in minuto ogni traccia di energia rimasta.

“Quanto credi che manchi per arrivare in California?”

“Un giorno di viaggio, poco meno, poco più.”

Amava la precisione dei suoi pronostici. In ogni caso avrebbero dovuto passare un’altra nottata di quelle da incubo. La sua schiena e i muscoli del suo collo erano ancora provati dalle nottate passate su quei pullman di linea.

“Credi che potremo dormire in un letto, stanotte?”

Il silenzio che ne seguì non sembrò troppo positivo. Poteva avvertire distintamente tutti gli ingranaggi della mente di Clint, lavorare e lavorare e… immaginare tutta una serie di prediche a favor di risparmio. Dal: “possiamo sempre dormire in macchina”. Al: “cos’è, ragazzina, sei diventata improvvisamente troppo sofisticata?”. Per concludere con un: “vaffanculo, cazzo vaffanculo, ti sembra che lavori per la zecca dello stato?”. E via discorrendo.

Invece la sua voce arrivò quasi come una carezzevole e confortante promessa.

“Devo anche fermarmi a fare benzina.”

Natalia lasciò scivolare i piedi dal cruscotto con una certa pesantezza, si voltò a guardarlo come fosse improvvisamente diventato un mostro a tre teste.

“Cosa?” lo sentì abbaiare con quel suo tono tanto sempre docile.

“Niente…” si affrettò a tranquillizzarlo. Non fosse mai che decidesse di cambiare idea perché lo aveva innervosito.

Il pensiero di un letto e una doccia calda la misero ancora più di buonumore. In tutto quello che era successo in quegli ultimi giorni una cosa sola era certa: non aveva più avuto incubi o malori.

 

*

 

Parcheggiò la macchina nello spiazzo accanto all’area di servizio. Dirimpetto un motel dall’aria un po’ decadente, ma non sembrava il caso di fare troppo gli schizzinosi. Decadente poteva voler dire… decadente, certo, ma anche economico. E data la situazione del suo portafoglio, non potevano certo permettersi di pretendere un servizio di quelli con i controfiocchi.

Doveva ammettere di essere stanco. Il solo fatto di aver acconsentito alla proposta della ragazzina senza sollevare nessuna questione ne era la riprova. La vista aveva cominciato ad appannarsi e la testa a fargli un male cane. Senza contare il fatto che avrebbero dovuto arrivare in forma smagliante in previsione dell’impresa di Malibù.

Quel maledetto Stark. In quali e quanti lidi di delirio si trovava a sguazzare il suo cervello quando aveva deciso di costruire una nuova, scintillante magione in quel di Malibù? Insomma tutti i laboratori e il suo megagalattico palazzo stavano a New York. Non sembrava granché comodo farsi avanti e indietro di continuo. Avanti e indietro su un jet privato che probabilmente macinava miglia alla velocità della luce. Un pendolare di lusso.

Certo, nessuno ti offriva delle tartine al caviale su un puzzolente autobus che attraversa gli Stati Uniti. Era già tanto avessero fatto quelle due o tre pause per pisciare.

Insomma a ben guardare, fosse stato ricco… forse se la sarebbe costruita anche lui una villa a Malibù.

Scese dalla macchina che le sue giunture cominciarono a gridare al miracolo.

Natalia, al suo fianco, sembrava perfettamente a suo agio con la situazione.

Era da un po’ che il sospetto si era impossessato di lui, ma cominciò a pensare che l’unica che fosse veramente soddisfatta della piega che avevano preso quelle losche vicende fosse proprio lei.

Sorrideva. Spesso.

E il suo sguardo era un groviglio di continuo stupore e meraviglia. Come fosse davvero la prima volta che si trovasse a vivere qualcosa del genere.

La missione non era che il pretesto per entrare in azione. E mettere in pratica un paio di quelle cose che sembrava ricordare a istinto.

Gli sembrava ancora così pazzesco. Aveva cercato di documentarsi sui disturbi di amnesia dissociativa ma non ne aveva cavato un ragno dal buco. Chiedere al dottore sarebbe stato quantomeno sospetto. Gli aveva promesso che l’avrebbe portata in ospedale e invece…

L’unica cosa che era riuscito a partorire (senza troppo dolore) dopo giorni di ragionamenti era che la sua amnesia fosse stata provocata direttamente dai suoi mandanti. O dalle persone in lotta contro lo SHIELD. Forse aveva visto un po’ troppi polizieschi ma il fatto che potesse davvero essere un agente infiltrato di qualche strana associazione russa non finiva di ronzargli nel cervello. Per quale altro motivo lo SHIELD avrebbe dovuto cercarla? Insomma… non era che una ragazzina… particolarmente dotata e non solo di (tette) intelletto strabiliante. Ma di abilità specifiche. Quella cosa delle cosce poi. Non l’aveva vista mai fare nemmeno alle contorsioniste del circo in cui aveva lavorato.

Per cui sì, la situazione si stava ingarbugliando più delle cuffie del suo walkman. E la cosa peggiore era che, per certi versi, l’idea di districarla non gli risultava così fastidiosa. Una specie di caccia al tesoro di quelle particolarmente eccitanti. Eccitanti quando sei un ragazzino… ma per un adulto non avrebbero dovuto essere una mera seccatura?

La verità era che per troppo tempo si era dato da fare per soddisfare richieste di criminali dalle pretese assurde per scopi che gli erano del tutto estranei, mentre ora era qualcosa che aveva a che fare con la sua sfera privata.

Perché, per quanto cercasse di starne fuori, Natalia era diventata una sua questione personale.

Lo era stata dal giorno in cui l’aveva portata via da quello stupidissimo vicolo, dal momento in cui aveva acconsentito di darle asilo politico, da quando si era preso la responsabilità di cercare indizi sul suo conto; fino ad arrivare a svolgere lavori gratis solo per ottenere delle stupidissime risposte.

Cominciò a pensare di essersi completamente fottuto il cervello.

O forse solo… di essersi in qualche modo affezionato a lei.

Sì insomma un po' come ti affezioni a un animaletto da compagnia, no? Sminuire. Sminuire sempre.

Roba da dita in gola.

“Che stai facendo?”

Natalia lo stava guardando con tanto d’occhi. Clint si trovò a ritirare le dita che si era portato alla bocca in un gesto istintivo, come a provocarsi davvero il vomito. Fu costretto e ritirarle per non darle modo di vedere quanto fosse coglione.

Oltre a parlare da solo, a quanto pareva, in quegli ultimi giorni, aveva anche cominciato a dar vita a grotteschi teatrini per animare i suoi pensieri.

“Avevo un… moscerino. In gola.”

“Ew.”

“Eh, già. Ew.”

Si avvicinò alla ragazza e tirò fuori una banconota da dieci dollari.

“Prenditi qualcosa da mangiare. Io faccio il pieno e poi vediamo di sistemarci per la notte.” Le disse solo. La vide scrutarlo con un cipiglio un po’ sospetto.

“Che c’è? È solo un prestito. Niente schifezze! Roba nutriente!” le gridò dietro quando la vide correre letteralmente verso il discount, come avesse paura che potesse ritrattare le sue decisione o il prestito dei suoi soldi.

Roba nutriente. Come la raccomandazione di un padre con la figlia.

Il pateticometro stava segnando livelli improponibili.

Avrebbe dovuto fare qualcosa di veramente maschio per riportarlo a livelli decenti. E tanto per cominciare…

Un ragazzino brufoloso gli si avvicinò per fare benzina.

“Quanto?” le ganasce a ruminar chewing-gum.

“Il pieno…” blaterò schiaffandogli in mano un cinquanta.

Mentre lo guardava armeggiare distrattamente con la pompa della benzina, decise quantomeno di godersi il tramonto. Che era una tavolozza di colori pazzeschi a quell'ora della sera.

Il tramonto.

Una cosa veramente maschia.

Si infilò gli occhiali da sole.

Meglio.

 

*

 

Natalia aveva infilato le monetine con il resto nella tasca posteriore dei jeans. Il tizio dietro al bancone non aveva fatto altro che fissarle le tette per tutto il tempo in cui ci aveva messo a fare il conto della spesa.

Se per un attimo l'istinto le aveva suggerito di farlo fuori con un calcio in fronte, il buonsenso l'aveva altresì sedata dal commettere una cazzata.

Dovevano mantenere un basso profilo. Per quello che poteva significare. Clint si era tanto raccomandato. E lei non aveva ribattuto proprio su quel punto.

Lui l'aspettava fuori, gli occhiali da sole a fissare il buio che si stava inghiottendo il deserto.

Un'immagine un po' inquietante, ma non volle interrogarsi sulle bizzarrie dell'uomo.

Clint si era voltato giusto in tempo per individuarla e aveva alzato una mano a stringere la chiave di una camera.

Un letto. Una doccia. Era tutto quello che chiedeva.

 

E un letto e una doccia, fu proprio tutto ciò che ottenne. Letteralmente.

“Non potevi chiedere una camera doppia?” la domanda era nata spontanea.

“Costava dieci dollari in più. E poi c'è un letto. E una poltrona. Uno si prende il letto, l'altro la poltrona.”

Il ragionamento era così semplice e lineare che decise di lasciar cadere la polemica.

Lanciò il sacchetto della spesa sul letto e ci si lasciò cadere lei stessa, rimbalzando su quel materasso troppo molle anche per lei. L'avrebbe inglobata nel sonno. Sempre che Clint non avesse intenzione di cederle la poltrona.

“Che hai preso da mangiare?” le domandò, sistemando accuratamente il bauletto con arco e frecce in un angolo della stanza. Se la delicatezza con cui trattava quell'arnese l'avesse usata anche per tutto il resto...

“Panini.”

“Panini?”

“Sì. Non c'era niente di molto... nutriente.”

“E le patatine?”

“Le patatine sono nutrienti?”

Clint si strinse nelle spalle.

“Le patate sono nutrienti. Caloriche.”

“Fritte... ?”

“In qualsiasi modo. Una patata è buona in tutte le salse”, e in quella frase ci lesse una saggezza che poco aveva a che fare con gli intenti prettamente culinari.

Perciò non ebbe la forza di ribattere.

“Ho preso dell'acqua.”

“Niente birra?”

Natalia gli lanciò una lattina di Budweiser. E si scoprì soddisfatta nel vederlo sorridere e aprirla sprofondando nella sua poltrona.

“Domani al più tardi saremo in California...” le disse, allungando le gambe su quella moquette color vomito stinto, “magari dovremo cominciare a organizzare un piano d'attacco.”

“Posso farmi una doccia, prima?”

“Certo. Abbiamo tutta la sera per farlo. Sono appena le...” lo vide lanciare uno sguardo all'orologio da parete che stazionava proprio al di sopra al comodino, “nove e un quarto.”

Giusto il tempo di una doccia, e una cena frugale.

Si rimise in piedi per recuperare lo zainetto in cui aveva lanciato la sua roba.

Clint le aveva fatto trovare un paio di magliette pulite che sicuramente non aveva riciclato dai suoi indumenti: erano decisamente troppo minuscole.

Non era la prima volta che comprava qualcosa per lei e se, sulle prime, non ci aveva dato granché importanza, ora l'idea di Clint che sceglieva quelle cose appositamente per lei, pensando a lei, sperando forse che potessero piacerle... le diedero una brusca strattonata allo stomaco.

Una gentilezza.

Fu piuttosto bizzarro che i suoi pensieri andassero a rivolgersi proprio al volto opaco di quell'uomo, del: “ci vediamo all'alba, Natalia”, come se quella sensazione andasse a sommergere di prepotenza il vuoto che quell'unico ricordo le donava.

Una voragine improvvisa alla base dello stomaco, una marea. Le mani a stringersi su quelle magliette che ancora profumavano di nuovo.

“Ehi...” la voce di Clint si era fatta improvvisamente più vicina. L'odore della birra a suggerirgli che era lì, accanto a lei.

“Stai male?”

No, non stava male.

Non poteva stare male.

La voragine che avvertiva alla base dello stomaco andò a svanire nel momento in cui si voltava per rivolgergli uno sguardo rassicurante.

“No... è che mi sono resa conto di puzzare più di te...”

L'espressione preoccupata di Clint le suggerì che non le aveva creduto.

 

*

 

Non doveva dormire. Non doveva e basta.

Insomma, doveva vegliare. Natalia non gliel'aveva proprio data a bere. Erano giorni che non aveva crisi, ma l'idea che potesse succedere proprio lì, nel nulla, nel bel mezzo del deserto gli lasciò addosso una sensazione di panico sopito.

Una sensazione di quelle brutte che davano i brividi.

Non riusciva a distogliere lo sguardo.

Le aveva concesso una doccia e poi di filato a letto. Si era assicurato che si addormentasse e a giudicare dallo stato del suo respiro, stava filando davvero tutto liscio.

Fuori, la luna mandava riverberi tutt'intorno al letto, come un'aura di protezione.

Protezione.

Erano anni che non pensava a quella stupida parola.

Protezione, come quella sensazione che non riusciva ad associare a nessuno se non a Barney, da anni, da sempre. Nonostante tutti i casini che gli aveva procurato da quando le loro strade si erano divise.

Protezione... un'idiozia per ragazzini.

Eppure era l'unica parola che gli veniva in mente appena il suo sguardo si andava a posare sul corpo di Natalia, disteso sotto le coperte.

Il respiro regolare.

Un mistero assurdo, quella ragazzina.

Letale e vulnerabile al tempo stesso.

C'era qualcuno a parte lo SHIELD che stesse cercando di lei? Qualcuno che si domandasse che fine avesse fatto?

Si chiese se non avesse la sfortuna di essere nata sotto la sua stessa stella.

Quella della gente incasinata. Quella della gente sola.

Intrecciò le braccia al petto e cercò di contare le pecore per tenersi sveglio.

Si rese conto troppo tardi che contare le pecore... producevano l'effetto contrario.

 

*

 

“Clint... Clint...”

Perché diavolo non si svegliava?

“Clint, ce ne dobbiamo andare.” la voce le usciva in un sibilo, mentre fuori, i colori rosso e blu della silenziosa sirena della polizia lanciavano strisce di luce tutt'intorno.

“Clint, porca... p-puttana!” lo schiaffo non era preventivato, ma ebbe un buon effetto.

L'uomo le aveva afferrato la mano e l'aveva fissata con una tale intensità e sgomento che per un attimo ebbe paura di un contrattacco.

“Che succede?” biascicò invece, allentando la presa, passandosi un braccio sulla faccia a scacciare l'intontimento.

“C'è la polizia. Stanno parlando con il proprietario... del Motel. Credo.”

Clint si era rimesso in piedi, andando a sbirciare fuori dalla finestra, fra le tende.

“Forse non cercano noi”, gli disse, tentando di sedare un po' l'agitazione.

“Forse no... ma non credo sia il caso di rischiare, ti pare?”

No. Non le pareva.

“Prendi la tua roba. Ce ne andiamo.”

“Ci vedranno.”

Clint si rimise in piedi, richiudendo lo spiraglio delle tende.

“Come stiamo messi a finestra del bagno?”

“Un buco.”

“Bè... tu ci passi, no?”

“Io sì... ma tu?”

“Io mi arrangio. Cercano te, non me, giusto?”

Non era convinta che esistesse il termine arrangiarsi. Non il quel frangente.

“Ti conviene muoverti.”

Il tono di Clint non lasciava spazio a repliche.

“Mi aspetto che tu mi segua dopo.”

“Non ti preoccupare. Vedrai che andrà tutto bene, Nat.”

“Nat?”

“Natalia è troppo lungo”, la liquidò. “Raus, muoversi, muoversi, muoversi.”

Le aveva lanciato il suo zaino e spronata a uscire dal bagno.

Non aveva ancora guadagnato la stanza che qualcuno bussò alla porta della camera.

Si lanciò in bagno e andò a forzare la finestrella appena sopra al water.

“Chi è?” sentì Clint rispondere.

“Polizia.”

“Non ho bisogno di pulizie.”

Aveva lanciato fuori lo zainetto e si era sporta con mezzo busto da quel pertugio.

“Polizia! Apri questa porta!”

“Apri la… cesta corta?”

La voce di Clint ora le arrivava ovattata dall'interno.

Era certa non avrebbe dovuto, ma mentre i suoi piedi finivano al suolo a guadagnare la libertà, le venne improvvisamente da ridere.

 

___

 

Note:

Poco da dire sul capitolo, se non che il viaggio on the road ha finalmente avuto inizio. In qualche modo.

La novità sta nel fatto che avevo promesso una sorpresa visiva… alla storia ed eccola [QUI].

Cliccate sul link e vedrete una rappresentazione grafica di come io vedo Clint e Natasha in questa storia. Un’illustrazione che rimanda più a un paio di capitoli successivi a questo ma è l’idea quella che conta, no?
D’obbligo sono i ringraziamenti alla socia e beta, a tutti i lettori, scriventi e silenti e in particolare a chi, come me, questa triste settimana di ferragosto lavora o studia. Il capitolo è tutto dedicato a loro.
Io vado a prendere qualcosa per il mal di testa. Viva l’OKI. Il medicinale preferito dagli Dei [QUI].

Basta con i disegni. Alla prossima :P

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8

 

Twenty-five years and my life is still
Trying to get up that great big hill of hope
For a destination

(What’s Up – 4 Non Blondes) 

 

Una voce nasale gli rispose dall’altra parte della cornetta.

“Prondo. Questa è le segrederia delefodica di Clind Baddon. In questo momendo dod sono in…”

“Barney”, con tutto l’impegno che ci stava mettendo, Clint quasi si sorprese restio ad interrompere quella strabiliante performance.

“Clinton?”

“No, tua sorella.”

“Appunto. Clinton. Que pasa? Sentivi già la mia mancanza?”

“Come no? Ho pianto per tre notti di fila pensandoti a casa mia…”

“Aw, bro.”

“Senti…” la voce si era fatta improvvisamente incerta. Lo sguardo andò a parare proprio sull’agente che lo stava fissando insistente a qualche passo di distanza. Clint si incassò fra la parete e il telefono a muro della centrale di polizia. Si sentiva prepotentemente violato nella sua intimità, “… sono nei guai. Credo.”

Il silenzio, dall’altra parte della cornetta, poteva voler dire due cose: che Barney si era fatto improvvisamente attento, o che era svenuto.

La risata che ne seguì fu segno piuttosto evidente di quale opzione si fosse effettivamente perso per strada.

“E quando mai?”

“Barney, seriamente…” si passò una mano sul viso, “mi hanno trascinato in un commissariato di polizia… nel New Mexico.”

“Ah! Mandrillo, t’han beccato con la minorenne!”

“Ma quale minorenne!”

Specificare che sì, forse il motivo per cui lo avevano richiamato fosse anche a causa di Natalia non gli sembrava saggio dacché aveva mentito a Barney riguardo l’identità della ragazzina. Lanciò al poliziotto, che ancora lo ascoltava, un lungo sguardo minaccioso. Ci mancava solo che ci si aggiungesse quell’aggravante.

“Che vuoi che faccia, Clint?”

“Non lo so… mi hanno detto che potevo fare una telefonata.”

“E giustamente tu chiami me, che sto a qualcosa come millemila miglia di distanza.”

“Che ne so. Era l’unico numero che ricordavo a memoria.”

“E se non mi avessi trovato?”

“Non lo so…” e non lo sapeva davvero. In effetti Barney non avrebbe potuto fare proprio niente a riguardo. Ed era abbastanza patetico che fosse davvero l’unica persona a cui aveva pensato. Il dottor Herbert nemmeno da prendere in considerazione. Molto probabilmente nemmeno chiedere l’intercessione di Egg avrebbe dato buoni risultati. E come avrebbe potuto? Era un criminale!

Sentì Barney sospirare pacatamente, come se stesse ponderando una soluzione.

“Non dire niente che potrebbe comprometterti.”

“Non sono così imbecille.”

“Lo so che non lo sei... solo… non metterti nei guai per qualcuno che conosci appena.”

“Come?”

“Cosa?”

“Che hai detto?”

“Niente… solo di non fare cazzate. E vedrai che andrà tutto bene.”

Si limitò e ragionare sulle sue parole, come se Barney fosse a conoscenza di qualcosa di cui Clint non gli aveva mai parlato. Come se avesse capito la vera natura della sua “relazione” con Natalia.

Nemmeno Barney era un imbecille. Non lo era mai stato.

“Tempo scaduto.” Il poliziotto alle sue spalle si era avvicinato, pollici infilati nella cintura, sguardo arrogante ed esausto come si può avere solo alle cinque del mattino.

Clint gli fece cenno di aspettare.

“Barney, ti devo lasciare.”

“Fammi sapere se devo venire a portarti una cesta di arance, mh?”

“Come no? Tu non distruggermi casa, nel frattempo.” Lo sentì dire qualcosa di poco chiaro, prima di poterlo congedare: il poliziotto aveva fatto cadere bruscamente la comunicazione.

“Che modi, agente… ma dove l’ha imparata l’educazione?”

 

Si trovò seduto nell’ufficio del sergente ancora prima di capire che cosa li avesse spinti a trascinarlo fino a lì e a trattenerlo per almeno un paio d’ore in una cella assieme a un tizio con la faccia da maniaco sessuale. Forse era stato il modo molto poco carino con cui si era rivolto al poliziotto nel motel. Certo, avesse saputo che possedeva così poco senso dell’umorismo non avrebbe continuato su quel tono. Si era ritrovato in manette in meno di dieci secondi. Il fatto era che lo avevano preso alla sprovvista. Ed era ancora addormentato. Diceva un sacco di cazzate quando aveva sonno.

Cercò quindi di ricordarsi di trattenere la lingua per non commettere ulteriori disastri.

A quel punto sperò solo che Natalia fosse al sicuro. Il resto… sarebbe stato solo un fastidioso inconveniente.

“Clint Barton… è il suo nome, dico bene?”

“Così pare.”

Il sergente, sguardo acuto, baffoni da texano un po’ retrò, accento da texano, ergo, probabilmente un… texano, stringeva fra le mani una cartellina dall’aria tutt’altro che confortante.

Sperò ardentemente non ci fossero documenti che lo riguardavano direttamente lì dentro.

“Mh… mh…” lo sentì dire solamente, mentre apriva la cartellina, cominciando a spulciare fra una serie di fogli ingialliti.

“Non è di queste parti signor Barton.” La constatazione non faceva una piega. “Come mai in New Mexico?”

Clint scrollò le spalle. La domanda era apparentemente così innocente che preferì non mentire.

“Sto andando in California.”

Il baffone dall’aria severa non si perse nessuna mossa.

“Motivo?”

“Non sono mai stato in California.”

“Turismo?”

“Non proprio”, mise in moto i meccanismi del suo cervello per tirarne fuori una storia quantomeno credibile. “Lavoro: sono un musicista. Ho degli amici a Hermosa Beach. Mi hanno fatto una proposta che non potevo proprio rifiutare…” sorrise in modo stupido, ma il baffone parve non cogliere la citazione. Ma che ne poteva sapere di cinema uno che probabilmente passava le sue domeniche pomeriggio al rodeo? Fra pupe scosciate, salamelle e incornate?

“Mh. C’è qualcuno che può confermare la sua dichiarazione?”

“Come no?” ahm. “Cerchi di Billy Coughlin. È piuttosto famoso nell’ambiente, da quelle parti. Gli porti anche i miei saluti”.

Il texano del New Mexico si limitò a fissarlo malamente: “Rick!” richiamò uno degli agenti.

“Prova a sentire un po’ di questo Billy… Coughlin. Di Hermosa Beach, California. E porgigli i saluti di Clinton Francis… Barton.”

Figlio di puttana. Era proprio necessario specificare anche il secondo nome?

“Sissignore.” Il ragazzo schizzò fuori dalla stanza alla stessa velocità con cui era arrivato.

“Dunque, signor Barton… avrà capito che non sono esattamente il tipo a cui piace scherzare.”

Non sa cosa si perde. Quanto avrebbe voluto dirglielo. Ma si limitò a sorridergli in modo cordiale, non troppo a presa di culo.

“Quindi direi che arriviamo diretti al punto.”

Tirò fuori dalla cartellina quella che sembrava una fotografia. Quando gliela mise sotto al naso, dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per mantenere un’espressione se non neutra, quantomeno non troppo nervosa.

Il volto della ragazzina che lo stava fissando dalla polaroid non era altri che quello di Natalia.

“Conosce questa ragazza?” la domanda arrivò esattamente come se l’era immaginata. Anche con la stessa intonazione da interrogatorio di bassa lega.

“Uhm…” avvicinò il viso alla scrivania, alla foto, come se facesse fatica a focalizzarla. Il problema era che l’aveva inquadrata fin troppo bene.

Dalle viscere sorse un dubbio atroce. E se li avessero visti assieme?

Anzi, ripensandoci… sicuramente li avevano visti assieme. Almeno un paio di persone: il brufoloso alla pompa di benzina, il tizio del discount; forse anche la signora alla reception del motel. Tutta gente che, in seguito, avrebbe potuto smentire la sua versione.

Si umettò le labbra, sentendole secche, quanto la gola. Inspirò a fondo e decise di essere di nuovo sincero. O quasi.

“La conosco.”

“La conosce?” il sergente pareva sorpreso.

“Sì, le ho dato un passaggio in macchina.”

“Il suo nome?”

“Non lo sapete già?”

“Qui le domande le faccio io, signor Barton.”

Uuuuuh.

“Ha detto di chiamarsi Edith”, gli rispose.

Edith… il primo nome femminile che gli veniva in mente doveva proprio essere quello di sua madre? Cercò di non indagare sui risvolti psicologici della faccenda.

“E dove le ha detto essere diretta?”

“Non ne ho idea. Forse in Colorado. Forse in Arizona. Forse in Messico. Io le ho dato un passaggio fino al motel. Dopodiché se n’è andata.”

“Andata.”

“Sì, andata. Puff. Svanita. Mi sembra di averla vista chiacchierare con un camionista in sosta, ieri sera, e poi più nulla.”

Il poliziotto sembrava poco convinto della sua spiegazione, ma non aveva abbastanza elementi per giudicarlo un bugiardo.

“Per cosa la state cercando, agente?”

L’uomo non sembrò avere intenzione di rispondergli ma poi arrivò Rick che gli fece solo un cenno con la testa. Doveva aver rintracciato il famoso Billy di Hermosa Beach. Non aveva avuto mezzo dubbio a riguardo.

“Ha confermato di conoscere Clint Barton. E di aspettarlo entro domani sera, al più tardi, in California.”

Clint sorrise al baffone texano.

“Avete ancora bisogno di me?”

“No.” lo sentì stronfiare qualcosa. Non aveva motivi per trattenerlo ulteriormente. Non dopo averlo fatto per quasi una notte intera, senza possibilità di cauzione. Quindi gli fece cenno di andarsene.

Clint si rimise in piedi.

“Non mi ha detto perché cercate quella ragazza.”

“Non credo siano affari che la riguardino, signor Barton.”

“D’accordo, d’accordo, ero solo curioso.”

Quando raccolse il giacchetto dalla sedia si preoccupò di farlo volteggiare in modo piuttosto violento, tanto da alzare fogli e cartellina ancora sulla scrivania del sergente.

“Perdiana!” lo sentì esclamare e per poco non gli venne da ridere. Ma chi diavolo si esprimeva ancora a quel modo?

“Gesùssanto!” rispose d’istinto, beccandosi un’occhiataccia di fuoco. Non si poteva certo dire che Clint non se le andasse a cercare, a volte. “Non volevo, sono rammaricato.”

Si chinò per aiutare l’uomo nelle operazioni che però lo scacciò in malo modo.

“Se ne vada! Se ne vada, per favore, ha fatto abbastanza.” Riprese in mano la cartellina in modo possessivo, strappandogli poi di mano, in ultimo, la foto di Natalia che Clint gli stava porgendo.

“Rick, accompagnalo fuori e fargli firmare la deposizione.”

E Rick si prodigò ad eseguire l’ordine celermente.

Clint fece un cenno di saluto al texano infastidito e seguì il poliziotto fuori dal suo ufficio, stando bene attendo a nascondere giusto quei due o tre documenti sottratti dal fascicolo dell’ignaro baffone.

 

*

 

Non appena Natalia si era resa conto che la visita di (dis)spiacere della polizia si era trasformata in una sottospecie di sequestro di persona per vilipendio, camuffata da interrogatorio per accertamenti, era rientrata in camera. Aveva recuperato tutte le cose che Clint era stato costretto ad abbandonare (arco e frecce comprese – cavolo, quanto pesavano!) e, cercando di essere il più discreta possibile, era balzata a bordo della macchina che avevano affittato.

Aveva passato momenti di completo, assurdo, panico.

Sebbene l’istinto le suggerisse esattamente cosa fare (dalla chiave nel cruscotto, al piede sulla frizione, inserire la prima marcia e poi accelerazione), dall’altra si trovò a pensare che era la prima volta, dacché ricordasse (vale a dire un mese a quella parte) che prendeva davvero in mano una macchina. Senza cambio automatico, per giunta.

Le manovre però le risultarono talmente ovvie, una volta partita, che dovette quasi credere che fosse proprio vero il detto che non te lo scordi mica, come si guida.

Aveva proceduto a scatti, per i primi centro metri, per prendere familiarità con il mezzo e poi si era trovata a sfrecciare per la statale senza quasi registrare il progressivo aumento di velocità.

L’alta velocità le diede l’ispirazione giusta per osare e, mani al volante, si trovò a spingere sull’acceleratore nemmeno fosse inseguita dal demonio in persona…

… per poi ritrovarsi ad inchiodare bruscamente dopo un miglio o poco meno.

La realizzazione di un pensiero fu violenta e brutale.

Non aveva la più pallida idea di dove andare.

Non l’aveva proprio vista la direzione presa dalla macchina della polizia e la strada, inghiottita dal cielo notturno, era tutta uguale, da una parte e dall’altra. Forse avrebbe dovuto aspettare il rientro di Clint, nascosta da qualche parte... ma se lo avessero lasciato a se stesso una volta avvenuto il rilascio? Doveva trovare la città più vicina. Magari era la stessa che avevano superato quel pomeriggio prima dell’arrivo al motel, ma magari no. Era per colpa sua se era successo. Clint si stava andando a infilare in una marea di casini, solo per colpa sua. Questa era l’unica cosa certa in tutta la faccenda.

Glielo doveva.

Sì, ma la questione restava. Che diavolo di direzione avrebbe dovuto prendere? Impensabile tornare al motel per chiedere informazioni. Per finire ingabbiata a sua volta?

Sprofondò nel sedile della macchina e il camionista che le passò accanto, con il suo bestione colorato, si trovò a sbirciare uno spettacolo alquanto singolare: una ragazzina che si dimenava tirando calci e pugni a bordo di una vecchia Ford.

“Cazzooooooooooooo!” gridò, sfogando tutta la frustrazione e la rabbia che probabilmente aveva accumulato in tutti i quei giorni, senza nemmeno rendersene conto.

Per la prima volta, da quando era precipitata in quella assurda situazione, si concesse il sollievo di dare fuori di testa.

Si abbandonò sul volante solo quando fu certa di aver sfogato un po’ di tutte quelle energie in eccesso, aprendo a chiudendo le dita delle mani, a sgranchirle dal dolore di un colpo troppo forte.

Quando rialzò la testa, la sua espressione era tornata calma e determinata.

“E’ tutto a posto, Natalia…” parlò fra sé e sé, maledicendosi per la pessima influenza che Clint aveva avuto su di lei in quelle settimane.

Però doveva ammettere che funzionava. Sentire la propria voce, in tutto quel silenzio, sembrò calmarla ulteriormente.

Trasalì di nuovo quando sentì bussare al finestrino della sua auto e il faccione rotondo di un tizio entrò nel suo campo visivo.

La polizia?

“E’ tutto a posto?” lo sentì dire, con un sorrisetto che non prometteva niente di buono. Alle sue spalle, un grosso camion dai colori sgargianti e una fiammata aerografata sul fianco sinistro.

Natalia trasse un sospiro di sollievo e quando fu lì lì per mandarlo al diavolo e partire, si rese conto della possibilità che quel fortuito incontro le procurava.

Chi meglio di un camionista avrebbe saputo indicarle la strada?

Sfoggiò il suo miglior sorriso e calò il finestrino dell’auto.

“Mi sono persa.” Gli disse. E questo con sorriso sornione sembrò gonfiarsi tutto alla prospettiva di darle una mano.

“Viaggi tutta sola?” le domandò sistemandosi i jeans da cui strabordava una pancia niente male. La maglietta di Capitan America a completare l’opera.

“Ti sembra di vedere qualcun altro?” imbecille? Ma questo lo tenne per sé.

“A meno che tu non abbia un cadavere nel bagagliaio.” Che cavolo di battuta era? Improvvisamente si rese conto che il tono del tizio era venuto fuori così mellifluo che quasi ebbe l’impressione stesse tentando di provarci con lei. Come abbordaggio faceva un bel po’ schifo.

“Vuoi controllare? Magari sono più pericolosa di quanto sembro.” A quanto pare le era servito davvero guardare tutti quei filmacci con Bruce Willis o Van Damme che Clint si ostinava a propinarle come scusa per la sua formazione cinematografica. Le battute le uscivano così spontanee…

“Se fossi una criminale non vorrei saperlo mai… piuttosto potremmo venirci incontro riguardo altre… questioni.”

“Mh mh, interessante…” quanto un calcio nelle palle, “… forse, tanto per cominciare, potresti dirmi dove si trova la città più vicina, da queste parti.”

“Uno scambio di favori? Mi piace.”

“Io propenderei più per un altruistico gesto di cortesia…” suggerì, sperando nel suo buon senso. O nella buona fede degli uomini, una volta tanto.

“Le cortesie non fanno al caso delle ragazzacce come te.” La risposta più scontata e avvilente.

Ma per chi diavolo l’aveva presa? E poi da cosa lo aveva capito che era una ragazzaccia? Dai jeans strappati? O dai capelli incasinatissimi? Cercò di restare calma e razionale.

“Voglio solo sapere da che parte si trova la città più vicina”, cercò di farla breve, prima che la mano di quell’omaccione si andasse ad allungare dentro l’abitacolo e poi sulla sua di mano, agganciata al volante. Un brivido di disgusto e fastidio la riempì tutta.

“Prima tu. Perché non scendi dall’auto e non vediamo su cosa basare il nostro accordo?”

Su che cosa diavolo si aspettava che fosse basato il loro accordo? Sentì qualcosa di molto nitido ribollirle nello stomaco. Una sensazione di familiarità che le diede l’idea di aver già avuto a che fare, in passato, con persone del genere… in situazioni… del genere.

Nonostante la sensazione riuscì a regalargli un sorriso, a mantenere la finzione. Scostò lentamente la  mano, per non innervosirlo. Aprì la portiera della macchina e ne scivolò fuori, flessuosa e acerba come una gatta. Le gambe strizzate in quei jeans strappati, a svelare un po’ di quelle cosce tornite di cui era dotata.

“Avrei un’idea.” Gli disse solamente, mentre questo si avvicinava, asciugandosi le manone sudate sulla bandiera americana di quel povero, vecchio, eroe nazionale sparito dopo la seconda guerra mondiale. Un gesto così poco patriottico.

Quando le fu abbastanza vicino Natalia gli assestò una gomitata nello stomaco e, in rapida sequenza, un colpo di piatto alla gola. Un calcio alle ginocchia e il ciccione fu a terra, incredulo e a corto di fiato.

Per un attimo fu stupita lei stessa dell’efficacia di quella mossa. Che al solito le era uscita istintiva. Ma cercò di portare a suo favore la buona riuscita.

“Allora”, gli si chinò di fianco, passandogli una mano fra i capelli, fino a strattonargli la testa all’indietro.

“Adesso mi dici dov’è la città più vicina con una stazione di polizia.”

“Brutta stronza, non…”

“Ah, sono io la stronza? Ti avevo chiesto una gentilezza e tu in cambio cosa volevi che facessi, mh? Lo sai che sono minorenne? Lo sai che rischi una denuncia penale per molestie sessuali? Ma non li guardi i telegiornali?”

Il tizio gorgogliò qualcosa e fece per controbattere con la sua pesante mole ma Natalia fu più rapida e gli strizzò un capezzolo di quelle tettone che si ritrovava.

“Ahi, cazzo, fai male!”

“Era quello l’intento. Dunque… la città. La stazione di polizia.”

“Col cazzo che te lo dico.”

“Ah, giusto: Cazzo.”

E rimettendosi in piedi gli aveva sganciato un calcio nelle palle che lo spedì dritto dritto nel mondo di doloralandia.

“Se ne vuoi ancora, di piedi ne ho due.”

“Da quella parte…” lo vide indicarle una direzione e solo allora, alzando lo sguardo alle sue spalle, si rese conto delle luci sfocate sullo sfondo. Se solo ci avesse prestato più attenzione... Clint sicuro le avrebbe individuate prima di lei.

“Ci voleva tanto?” alzò le spalle, guadandolo dall’alto verso il basso, ancora a terra a tener stretti i suoi minuscoli gioielli di famiglia, “non lo sai che così facendo rovini la reputazione di un’intera categoria di onesti lavoratori?”

Lo sentì mugugnare qualcosa, forse a sua discolpa, forse no.

“Che ti serva di lezione… magari la prossima volta che una ragazza ti chiede un’informazione… tu dagliela e basta, mh?”

Scrollò le gambe come fanno i gatti disgustati da un cibo che non è di loro gradimento e salì in macchina.

L’anonima Ford color grigio topo schizzò di nuovo a tutta velocità sulla strada, lasciando strisciate di copertoni sull’asfalto.

 

*

 

Clint si ritrovò a rabbrividire.

Cazzo se faceva freddo. Il deserto era implacabile. E lui aveva ancora addosso quella maglietta azzurro stinto che indossava al momento del… sequestro.

Si massaggiò le braccia per riscaldarsele un po’, indeciso sul da farsi.

Erano stati così carini a lasciarlo andare.

Così carini ad accompagnarlo alla porta.

Così carini a lasciarlo in mezzo alla strada, in una schifossima cittadina del New Mexico, all'alba, senza soldi, senza mezzi, senza…

Un colpo di clacson.

Allungò lo sguardo fino alla fine della via e non fece fatica a riconoscere, fra le luci appena abbozzate del sole appena sorto, la Ford su cui aveva viaggiato con Natalia fino alla sera prima.

Non si fece ripetere due volte l’avvertimento: qualche affrettata falcata e fu dall’altra parte della strada. Si stupì di trovare Natalia al volante.

“Sai guidare?” le domandò,  abbassandosi a livello del finestrino, fra lo stupefatto e l’ammirato. Una punta di sollievo nel constatare che stava bene. Che nessuno l’aveva trovata.

“A quanto pare”, gli rispose lei, allungandosi per aprirgli la portiera dalla parte del passeggero.

Clint si guardò alle spalle, come se si aspettasse di veder sbucare il texano che l’aveva interrogato e infine saltò in macchina senza ulteriori preghiere.

“Metti in moto, è meglio non farsi trovare qui fuori.”

“Che cosa è successo?” la sentì dire.

“Tu metti in moto e te lo spiego.”

Dovette puntare i piedi a terra, per evitare di finire spiaccicato al parabrezza, al modo brusco in cui Natalia era partita.

“Porca troia, ma chi ti ha insegnato a guidare?”

“Non me lo ricordo.”

“Bè, chiunque sia stato doveva avere dei problemi. Posto che tu abbia davvero una patente da qualche parte…”

Natalia sterzò bruscamente per tornare da dove era venuta e poi dritta alla statale.

Clint, si agganciò la cintura di sicurezza. Certo che se volava farlo vomitare era proprio sulla strada giusta.

“Allora? Che cosa è successo?” gli chiese.

“E tu come mi hai trovato?”

“Dobbiamo continuare a farci domande, finché uno dei due non cede?”

Clint stronfiò qualcosa e decise che no, era stufo di domande. Di qualsiasi tipo.

“Avevano una tua fotografia.”

“Chi… i poliziotti?”

“Mh mh…”

“Perché?”

“Questo non lo so. Ti stanno cercando.”

Natalia si era zittita improvvisamente e non ebbe nessuna parola di conforto per lei, se non… dei documenti che gli sbucavano dalla tasca posteriore dei jeans. Tentò una mossa azzardata e quasi non si disintegrò i muscoli della schiena per estrarli.

“Che cosa sono?”

“Non lo so. Ma erano nella stessa cartellina da cui il poliziotto ha tirato fuori la tua foto.”

La vide stringere le mani al volante mentre le nocche diventavano bianche. Più bianche del normale comunque.

Era nervosa e la capiva. Aveva lo stomaco contratto lui stesso all’idea che forse avrebbero scoperto qualcosa in più su quella malsana faccenda.

“Vuoi che ti legga cosa c’è scritto?” le domandò con cautela. Lo avrebbe fatto comunque.

La vide alzare e abbassare il capo, una sola volta, in un secco cenno d’assenso.

Clint dispiegò i fogli tutti accartocciati e cominciò far scorrere lo sguardo sulle pagine.

Rimase in silenzio un po’ troppo a lungo. E Natalia dovette cominciare a spazientirsi perché dopo qualche minuto di quella silenziosa tortura sbottò: “Allora?”

Clint si prese del tempo, giusto un po’, giusto per assorbire un po’ lui stesso la notizia.

Perché francamente, fra lo stordimento del sonno, dell’interrogatorio, della stanchezza generica, non era del tutto certo di aver compreso proprio tutto tutto di quello che aveva appena letto.

Insomma, era un po’ assurdo ma…

“Allora… è scritto in una lingua che non conosco nemmeno per il cazzo.”

“Come?”

“Boh. È cirillo.”

“Cirillo?”

“Cirillo! La lingua dei russi.”

“Cirillico?”

“E io che ho detto?”

Natalia sterzò fino a uscire quasi fuori strada e fermò la macchina. I pneumatici scivolarono sulla sabbia del deserto, lasciando solide impronte.

“Fammi vedere.”

Clint le allungò i fogli un po' nervoso: non era del tutto sicuro fosse una buona idea. Che sarebbe successo se, alla luce delle nuove, scoppiettanti scoperte, Natalia avesse avuto una nuova crisi? Forse sarebbe risultato troppo, forse avrebbe dovuto aspettare, forse avrebbe dovuto tacere, forse...

“Che cosa c'è scritto?”

Natalia indossava un’espressione di marmorea freddezza. Impossibile anche solo intuirne i pensieri. Una maschera di cera. O di pietra. A seconda delle prospettive.

“Nat… ?” si era sporto un po’ nella sua direzione come a sbirciare su quei fogli che in ogni caso non gli avrebbero detto niente di nuovo.

“Nat. Cosa c’è scritto?”

La ragazzina abbassò i fogli e gli piantò addosso uno sguardo inquietante.

“Che il mio colesterolo è nella norma, ma sono un po’ carente di ferro.”

“Scusa?” l’espressione di Clint dovette risultare parecchio comica, perché Natalia abbandonò quell’aria gelida per schiaffeggiarlo con i fogli di carta.

“Sono esami. Esami del sangue.”

“Davvero?” Clint riprese i fogli (anche per evitare che si sfogasse su di lui) e tornò a rigirarseli fra le mani, scrutando quei simboli arcani con apprensione, come se potesse decriptarli con la sola forza di volontà.

“Davvero. Esami clinici. Test… di qualche tipo. Immagino che al commissariato non servisse sapere quello che c’era scritto, solo fotocopie con i dati personali e una mia… foto. Mandati via fax.”

“Ah… in effetti dubito che il texano conosca il russo. È già tanto non si sia espresso a malinconiche ballate country…”

“Chi è il texano?”

“Lascia stare…” Clint aveva preso a sventagliarsi con i fogli, “Quindi non ci servono a niente? Perché hanno mandato dei tuoi esami clinici alla polizia del New Mexico?”

“Non lo so.”

“Perché c’è della gente che ha i tuoi test clinici, tanto per cominciare?”

“Non… lo so.”

Clint la scrutò a lungo.

“Magari è perché sei malata.”

“Malata?”

“Sì, malata. Pensaci bene”, si preoccupò molto di striscio di risultare poco delicato, “amnesia dissociativa, frequenti nausee, mal di testa, vomito tipo esorcista…”

“Grazie per la precisazione…”

“No, ma ascoltami. Insomma, può darsi che ti cerchino per qualche motivo specifico. Magari sei scappata da qualche clinica. Magari è per quello che ti cercano. E se fossi la figlia di un pezzo grosso? Se avesse sguinzagliato i servizi segreti apposta per trovarti?”

“E se tu avessi guardato un po’ troppi thriller?”

“Oh dai, ti sentiresti di escludere la possibilità?”

La guardò a lungo, intensamente.

“Sì.”

“Ma perché?”

Il viso di Natalia aveva assunto un’espressione tutt’altro che rassicurante.

“Perché c’è scritto che sono orfana.” Gli fregò un foglio dalle mani e gli indicò esattamente la riga che riportava quella dicitura.

“Sei sicura?”

“Sono sicura.”

Clint se ne volle accertare di persona. Ma ovviamente non ci capì un’acca.

“Bè… cavolo mi dispiace… immagino.” E si maledì persino per aver insistito con quella cretinata della rampolla perduta.

“Non devi… sono delle informazioni a me del tutto estranee.”

“Se ti consola… sono orfano anche io.” Non era del tutto certo di sapere perché glielo avesse detto. Una sottospecie di solidarietà orfanesca o qualcosa di simile. Sapeva solo di voler allentare la tensione, ma non fu sicuro di essere riuscito granché nella sua impresa con quella nota stonata.

“Questo lo avevo intuito.”

“Non che ci volesse molto.”

“Immagino di dover dire… che dispiace anche a me…”

Clint si strinse nelle spalle.

“Nah…” le rispose, lanciandole uno sguardo obliquo, “a me non dispiace per niente.”

Si stiracchiò cercando una posizione comoda sul sedile (la dissimulazione non era mai stata il suo forte), per poi rianimarsi come una lampadina al neon.

“E se fossi una pazza scappata da un penitenziario criminale?”

“Clint.”

“No, pensaci bene.”

“Clint, finiscila.”

“Guarda che sarebbe talmente plausibile che… ehi!” Quella pazza di Natalia e le sue sgommate del cazzo. “Non dovresti nemmeno guidare, non hai la patente!”

“E tu non dovresti parlare, dici solo cazzate.”

“… e sei ricercata.”

“Mi fermerò alla prossima stazione di servizio.”

Clint scosse la testa.

Ma... forse non era nemmeno una cattiva idea. Non aveva dormito per nulla e la stanchezza prima o dopo gli avrebbe fatto crollare i bulbi oculari. Decise di darle soddisfazione. Solo per un po’.  Giusto il tempo di recuperare due o tre tacche di energia…

“Almeno hai scoperto quanti anni hai?” le chiese, già con la voce rallentata dal sonno incipiente.

Natalia annuì una sola volta. Come prima.

Il dondolio della macchina era così conciliante che non riuscì nemmeno a sentire la sua risposta.

 

*

 

Natalia avvicinò e passò oltre anche alla seconda area di servizio.

Clint dormiva al suo fianco, così profondamente e così saporitamente che non se l’era sentita di svegliarlo. E poi aveva scoperto che le piaceva guidare.

Nel caso in cui fossero incappati in una macchina della polizia allora si sarebbe fermata per trovare un rapido escamotage.

Ma finora avevano incrociato solo un paio di camper e qualche sporadica macchina nel senso di marcia opposto.

Se davvero erano sulle sue tracce, ed erano riusciti a raggiungerla fin lì, nel New Mexico, probabilmente non ci avrebbero messo molto per arrivare a lei, anche alla prossima fermata. Per questo continuò a guidare, come se volesse lasciarsi alle spalle quella nube incombente di guai.

E poi, ora che aveva letto quei documenti…

Le sue mani si serrarono al volante, al pensiero.

Non era stata proprio del tutto sincera con Clint, e il fatto di avergli omesso delle… cose… la spinsero ad avvertire, di nuovo, pungente, quello stupido senso di colpa.

Solo che… no. Non era sicura di volerlo coinvolgere. Di spingerlo a rischiare più di quanto non stesse già facendo. O anche solo di vedergli crescere addosso quell’aria preoccupata e sbigottita che già riusciva a figurarsi.

Prima lo avrebbe aiutato con il caso Stark, poi avrebbero ricevuto le informazioni… e infine avrebbe potuto cominciare a… cavarsela da sola.

Il pensiero le serrò lo stomaco in maniera così dolorosa, che dovette accelerare di nuovo per seminarlo, come tutte quelle nuvole temporalesche di guai.

___ 

Note:

Poche note oggi. Solo la promessa, per il prossimo capitolo, dell’arrivo in California, alla famosa (per chi?) Hermosa Beach. Cha fa tanto vacanza e che mi permette di introdurre il mio: BUON FERRAGOSTO a tutti.

Ringraziamenti, as usual, alla beta studiosa, che tanto mi spiace di non riuscire a vedere in questi giorni nella sua regione (mi raccomando, non fondere troppo, eh?) e a tutti i lettori, commentatori attivi e silenti.

Ci sentiamo la prossima settimana!

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9

 

California, knows how to party
In the city of L.A.
In the city of good ol' Watts
In the city, the city of Compton
We keep it rockin!

(California Love - 2Pac ft. Dr.Dre)

 

Ah, la California. Terra di sole e mare, terra di stelle, di quelle che puoi calpestare sui marciapiedi, terra di cinema, di bagnini sexy, di surfisti, di grandi serie televisive di… cliché.

Da quello che Clint Barton aveva potuto constatare durante quella mezz’ora in cui aveva percorso a piedi Hermosa Beach… tutto poteva dire di aver visto tranne che bagnini alla Pamela Anderson in Baywatch.

Si infilò gli occhiali da sole e osservò la spiaggia dalla sabbia bianca, accecante e quel mare se non altro di un colore più sano di quello della baia di New York.

“La televisione è un’illusione”, si trovò a commentare amaramente quando avvistò  un bagnino grassoccio che assomigliava al salumiere Jim, quello sotto casa con la maglietta piena di patacche sanguinolente. Qualcosa stonava grandemente nell’immagine che aveva sempre avuto di quelle zone.

Parevano un duo comico lui e Natalia.

L’uno con jeans e maglietta e una felpa con cappuccio senza maniche, un berretto sdrucito che gli calava sugli occhiali da sole.

L’altra un paio di pantaloncini strappati e una camicia a quadri fuori taglia a farle più che altro da vestito. Anche lei indossava un paio di grossi occhiali da sole dalla montatura spessa e un cappellino, sistemato al contrario, in cui aveva nascosto la massa di capelli rossi.

Avevano concordato sul fatto che a quel punto della storia fosse necessario un travestimento o un camuffamento che impedisse a chicchessia di gridare all’avvistamento. Se anche la polizia californiana aveva ricevuto lo stesso dispaccio su Natalia, allora non era il caso di farsi agilmente  vedere in giro alla luce del giorno.

Fosse stato per Clint si sarebbe rifugiato nella stanza di un motel ad aspettare l’arrivo delle tenebre per poter uscire, come i vampiri, e confondersi con la fauna festaiola locale. Ma poi avevano visto il mare dai finestrini della Ford e quel profumo di salsedine che aveva attivato tutti i ricettori della più pura esaltazione pre e post adolescenziale.

“Non ti piace?” la domanda, dal tono stupefatto, di Natalia, lo aveva quasi intenerito. Quasi.

“No, scherzi? È una figata”, il tono vagamente canzonatorio, “il sole che ti ustiona la pelle, il sudore che ti pezza le ascelle… questo odore di olio solare e grasso disciolto… gli schiamazzi dei teneri bambini che pisciano e defecano in mare.”

Il fresco e genuino stupore di Natalia adesso era diventato irritato disgusto.

“Ma è una figata. Siamo al mare, woo-uh. Vuoi farti un bagno?”

“No grazie.”

“Guarda che scherzavo.”

“Su quale delle cose che hai detto?”

“Del fatto che fosse una figata.”

Natalia aveva ignorato le sue disquisizioni e si era tolta le scarpe da ginnastica, probabilmente affatto incline a lasciarsi influenzare dalla sua negatività e aveva affondato i piedi nella sabbia.

“Scotta.”

“Questo ricade nella categoria: ustioni.”

“È sopportabile.”

“Questo perché sei una super donna.”

Non gli sfuggì il guizzo turbato nello sguardo della ragazzina e si zittì. C’era qualcosa che non gli tornava nell’atteggiamento che aveva scorto in lei, da quando, ore prima, si era svegliato durante il loro viaggio in macchina. Si era fatta taciturna, più di quanto non fosse già di suo. E lo aveva insultato solo un paio di volte. Di per sé già un fatto di straordinaria anormalità.

La sensazione che non gli avesse raccontato tutto quello che c’era da dire riguardo i documenti in cirillico (ora lo aveva imparato) era diventata sempre più insistente, sempre più opprimente.

Le scoccò uno sguardo rapido, decidendo di non infierire ulteriormente. Almeno per il momento.

“Io ho bisogno di fare una telefonata, Nat. Puoi restare qui… se mi prometti di non finire nei guai.”

“Dovresti farlo promettere a chi ci sta alle calcagna.”

Right…” si levò il berretto per scompigliarsi i capelli inumiditi dal sudore e si sventagliò mezzo istante, seguendo la ragazzina che si allontanava verso il mare con lo sguardo, prima di decidersi a raggiungere uno dei bar vicini per cercare un telefono.

 

*

 

Natalia non era sicura di aver mai visto l’oceano. O nello specifico: quel tipo di oceano. La sensazione, anche quella volta, le suggeriva il contrario ma… dato che nessun ricordo le scatenava particolare calore, dovette arrendersi al suo fascino come se fosse la prima volta.

Si era portata sulla riva ad osservare l’andirivieni dei flutti sul bagnasciuga.

L’acqua le solleticava le caviglie mentre la sabbia le scivolava da sotto i piedi. La sensazione era così strana e divertente che rimase ferma a lungo, agganciata a quello strato di terra, prima di decidersi ad avanzare un po’.

Un gruppo di ragazzi giocava con un pallone poco distante, e il chiacchiericcio di alcune famiglie, alle sue spalle, faceva da sonoro sottofondo allo scenario.

Un sacco di gente. Un sacco di gente che si divertiva.

L’atmosfera era distesa e, per un istante, per un solo, misero istante, avrebbe voluto provare esattamente quella sensazione anche sulla sua pelle, nello stomaco.

Si era mai sentita così? A giudicare dalla tensione che sentiva intorpidirle le membra di continuo, era convinta di no. Al contrario, il pensiero le provocò una sorta di malinconia del tutto ingiustificata, per poi andare a stuzzicare il ricordo dei dati che aveva assorbito dai documenti in russo. Socchiuse gli occhi per scacciarli con altri pensieri.

“Palla!” ancora immersa in quelle considerazioni si girò di scatto, tutti i ricettori all’erta, ritrovandosi a prendere al volo qualcosa di sferico. Lo trattenne fra le mani giusto il tempo di rendersi conto dei passi in corsa dello stesso gruppo di ragazzi che stavano giocando poco distante.

“Grande. Bella presa.”

Doveva forse ringraziarli? Un ragazzo dall’aria scompigliata le si era piazzato di fronte, allungando le mani affinché gli restituisse il pallone.

Ci mise un po’ per capire quello che doveva fare e solo allora decise a mollare la presa, a distendersi.

“Tutto a posto?” le domandò il ragazzo, forse intuendo qualcosa di strano nel modo in cui lei lo stava fissando.

“Certo. Tutto a posto.”

“Non sembri di queste parti… di dove sei?”

Natalia non accennò a parlare immediatamente, rimase ferma a guardarlo, attraverso le lenti scure degli occhiali da sole, domandandosi se non ci fosse un tranello in quella domanda.

Alle sue spalle, i suoi amici lo stavano aspettando.

Le parole uscirono dalle sue labbra ancora prima che potesse realizzare la reale intenzione di rispondere: “Di New York.”

“Dai! Figo.”

Tentò un sorriso, un po’ intorpidito dalla tensione.

“Sei qui in vacanza?”

“Sì…”

“Sola?”

“No.”

“Con la tua famiglia?”

“Con… un amico.”

“Figo… figo. Io sono Alan.” Le aveva improvvisamente allungato la mano e per un attimo la osservò come fosse un candelotto di dinamite. Non era sicura di capire cosa fosse diverso fra l’incontro con il camionista e quello con questo ragazzo. Forse il segreto stava nell’approccio totalmente differente. Se con uno le era risultato facile fingere, mentire, con questo… che da tutto sembrava mosso fuorché cattive intenzioni, si sentiva intimidita. Intimidita dalla spontaneità della sua offerta… di amicizia.

Gli prese la mano, dopo essersela asciugata sulla camicia.

“Na… tasha.”

“Natasha, di New York. Si vede che non sei di qui. Sono tutti così pallidi i newyorchesi?”

“Non saprei. Io lo sono.”

Il ragazzo parve cogliere una battuta nelle sue parole e si mise a ridere.

“Bè… piacere di averti conosciuto Natasha di New York.”

“Piacere mio… Alan di Hermosa Beach.”

“Magari ci becchiamo in giro, ah?”

“Magari… sì. Ci… becchiamo.”

Lo seguì con lo sguardo finché non ebbe di nuovo raggiunto i suoi amici. Restò ad osservarlo a lungo, finché non sentì esaurirsi quella strana sensazione di calore sul viso.

Ma forse era solo il sole.

 

*

 

Clint aveva riattaccato con una certa soddisfazione. Aveva pagato la telefonata al barista e comprato un paio di ghiaccioli (dopo aver scartato tutte le improbabili proposte di gelati dai nomi osceni), poi era tornato alla spiaggia, dove si aspettava di vedere Natalia.

Di vedere Natalia, sola… non in compagnia di un ragazzo.

Rimase fermo ad osservarli per qualche istante con una punta di smarrimento e due di preoccupazione: l’aveva lasciata sola per cinque minuti e aveva già attirato l’attenzione? Eppure si era preoccupato di regalarle una camicia delle sue. Di quelle che mostrano giusto i polsi, se arrotoli le maniche e non quel paio di… airbag che Natalia aveva sporgenti sul davanti. Perché sì, come li aveva notati lui, con profondissimo sdegno e vergogna, potevano notarli tutti. Non erano proprio un dettaglio trascurabile nella descrizione di una ricercata. O forse sì?

Quando il tizio si era allontanato in solitaria, lasciandola di nuovo sola, decise di raggiungerla, per non destare inutili sospetti. Non ci avrebbe fatto una bella figura a fissarla da lontano come un allocco maniaco sessuale on the beach.

“Ehi.”

La ragazza si parò il viso, per poterlo guardare.

“Ehi.”

“Chi era quello?” la domanda gli era uscita più frettolosa e antipatica di quanto avesse preventivato. Non era mica colpa sua se tutti gli approcci esterni lo insospettivano. Insomma, erano ricercati. O meglio Natalia… era ricercata.

“Un tipo.”

“Un tipo di cosa… ?” un tipo di delinquente? Un tipo di tampinatore? Un tipo di animale?

“Un tipo. Gli ho recuperato la palla.”

Clint abbassò appena gli occhiali, fissando il gruppo che giocava, intercettando lo sguardo del ragazzino di nuovo puntato nella loro direzione. Che diavolo voleva? Si premurò di esprimere al meglio il suo sguardo intimidatorio.

“Prima la palla e poi…” alluse.

“E poi?”

“E poi lo so io. Sei arrossita.”

Natalia lo fissava perplessa. Non che fosse la prima volta ma…

“È il sole.”

“Come no? Ghiacciolo?” le porse un’offerta di pace, per sedare la conversazione.

Natalia accolse la premura con un sorriso.

“La tua telefonata?”

“Abbiamo un alloggio per la notte.”

“Sul serio?”

“Sul serio. Solo dobbiamo fare ancora un po’ di strada. Vuoi salutare mister palla prima?”

“No che non voglio.”

“Sei arrossita.”

“Clint, la smetti?”

“Di fare cosa?”

“Di rompere le palle.”

Natalia aveva usato un tono stizzito e imbarazzato al tempo stesso e, senza preventivarlo, Clint si ritrovò a lasciarsi andare, per la prima volta dopo settimane, ad una risata di quelle piene, di quelle di pancia. Non era certo del perché la situazione lo divertisse tanto e al contempo lo irritasse in egual modo. Forse era davvero il caldo. Forse era lo stress accumulato. Forse era isteria.

“Perché cavolo ridi?”

“Perché sei divertente.”

“E tu sei strano.”

Su quello non c’era alcun dubbio.

“Possiamo fermarci ancora un po’ se vuoi…”

“No… perché?” il tono di Natalia adesso era incerto.

Clint si strinse nelle spalle.

“Mi sembrava ti piacesse qui.” Le aveva lanciato uno sguardo interrogativo, per quanto gli occhiali potessero aiutare in quel senso, ma lei sembrò intuire ugualmente la sua espressione.

“Mi piace.” La sentì dire con un tono così sincero che gli strappò un sorriso, “ma non è giusto rischiare.”

“Sei… sicura?”

“Mh, mh…” annuì con convinzione. Una sola volta. Brusca, come era solita fare quando una cosa le creava del disagio, ma anche risoluta ad andare avanti. Si stupì persino nel constatare di come avesse cominciato ad identificare i suoi piccoli tratti distintivi. Già. Stava passando davvero troppo tempo con la ragazzina. La cosa però non gli dispiaceva affatto. Era passato un secolo da quando… non provava una certa empatia con qualcuno.

“Okay.”

“Grazie per il pensiero comunque.”

Si sentì addosso i suoi di occhi stavolta, carichi di gratitudine, e grugnì qualcosa di inarticolato in risposta.

Si passò il ghiacciolo ancora incartato sul viso. Forse gli sarebbe servito un intero frigorifero.

 

*

 

Il locale era ancora chiuso quando arrivarono di fronte al portone dall’edificio.

Una grossa insegna a caratteri gotici torreggiava appesa ad una sbarra di ferro, accanto alla vetrina.

“Che posto è questo?” Natalia sbirciò attraverso i vetri oscurati, senza riuscire a intuire che la sagoma di alcuni tavolini, all’interno.

“Una specie di pub, ristorante. Ci lavora un mio amico qui.” Clint stava trascinando fuori dalla macchina, la custodia del suo arco.

“Un tuo amico?”

“Sì. Ti stupisce che io abbia amici?”

“No…” gli rispose, scostandosi per permettergli di bussare e annunciare la sua presenza, “mi stupiva il fatto che non ne avessi.”

Perché in effetti sì, Clint era un tipo all’apparenza scostante e burbero, almeno nei suoi confronti, ma di base piuttosto incline ad intrattenere buone conversazioni con le persone con cui avevano avuto a che fare in tutti quei giorni. Perciò aveva sempre pensato che la sua presunta solitudine fosse da affidare esclusivamente al tipo di lavoro che svolgeva. Ma che avesse amici più o meno nascosti in giro… quello… la rincuorava in un modo del tutto singolare.

Si chiese se da qualche parte, nell’universo, anche lei conoscesse qualcuno. Qualcuno che non la stesse cercando per dio solo sapeva cosa. Qualcuno che si stesse preoccupando per lei.

Qualcuno che non fosse associato a quella frase.

 

“Ci vediamo all’alba, Natalia.”

 

Il viso nebuloso di quell’uomo – sì, perché la voce che ricordava era esattamente quella di un uomo – e il suo accento… il suo accento era russo.

 

“Clint!” un richiamo dalla porta d’ingresso la costrinse a voltarsi.

Quando lo fece, fu sorpresa di trovare l’arciere coinvolto nell’abbraccio stritolante di un uomo dalle fattezze pericolose.

“Ciao Billy”.

Billy. E chi diavolo era Billy?

Sulla trentina. Tatuaggi su entrambe le braccia. Labbra piene, testa rasata sui lati. Massiccio nella muscolatura. Non un tipo da palestra ma con risultati piuttosto soddisfacenti a giudicare da come la maglia strizzava sulla linea dei bicipiti.

“Non ti aspettavo prima di stasera.

“Eravamo nei paraggi…” lo sentì giustificarsi.

“Nei paraggi, da New York, passando per un commissariato del New Mexico, mh? Sempre nei guai tu, ragazzino.” E nel dir così gli aveva tirato il berretto per la visiera, fino a inglobargli direttamente tutta la testa.

“Dai, cazzo…” si era scostato bruscamente.

Dai, entra.”

“Aspetta…” Clint si era voltato nella sua direzione, facendole cenno di avvicinarsi.

“Woah, e chi è questo splendore?”

“Na…”

“… tasha.”

Clint le scoccò uno sguardo strano, ma non la corresse.

“Natasha…” ripeté quel Billy con un sorriso sornione sulle labbra, “siete già al punto di completarvi le frasi da soli?”

“In che senso?” Clint pareva decisamente sorpreso, Natalia invece aveva già capito tutto.

“Nel senso… non è la tua ragazza?”

“Ah, bè…” Clint sembrava essere precipitato nuovamente nella stessa situazione di qualche giorno prima. Solo che adesso pareva sentirsi in colpa a mentire all’uomo. Molto più di quanto invece non avesse fatto con suo fratello.

“No. Sono una sua amica.” lo aveva tratto dall'imbarazzo con poche, semplici, dirette parole.

“Solo? Clint mi stupisci.”

Natalia ebbe come l'impressione che l'amicizia fra i due arrivasse da un passato decisamente più lontano di quello che lo vedeva coinvolto nella... criminalità.

 

*

 

Non era mai stato in quel locale, Clint. Ma per come era arredato e l’atmosfera che aleggiava tutt'intorno, gli sembrava quasi di sentirsi a… casa. O se non altro di nuovo nel caravan del suo amico Billy durante i bei tempi andati.

Aveva preparato loro la cena e sistemati in uno dei tavoli di fondo con una buona vista del palco delle esibizioni. La gente aveva appena cominciato ad arrivare, quando loro erano già sazi e riposati.

Finalmente avevano messo nello stomaco qualcosa di decente e senza sborsare mezzo dollaro, per giunta. Il suo portafoglio avrebbe ringraziato. La sua coscienza anche. Avrebbero potuto rientrare a New York senza dover tentare una rapina. Questo lo metteva decisamente di buon umore.

“Le finisci quelle?” chiese a Natalia che sembrava del tutto intenzionata a lasciare a metà la sua porzione di patatine.

La vide scuotere la testa e spingere il piatto verso di lui.

“Hai mangiato abbastanza?” si preoccupò immediatamente lui, senza però evitare di infilarsi in bocca un numero consistente di patatine.

“Sì… era tutto buono.”

“Già…”

“Da quanto tempo conosci Billy?” gli aveva chiesto a bruciapelo, scrutandolo appena.

Clint si stiracchiò contro lo schienale della panca e si strinse nelle spalle: “Da quando ero un ragazzino.”

“Ragazzino…”

“… al circo.”

“Oh.”

Clint sorrise, già ben sapendo che Natalia conosceva in qualche modo i suoi trascorsi.

“Non mi hai mai raccontato del circo.”

Si chiese se fosse il caso di farlo veramente. Dopotutto che cosa aveva da perdere? Nemmeno la sua reputazione, a voler ben guardare. Era stato un eroe… ai suoi tempi.

“Non c’è niente da dire, veramente. Ci hanno raccolti dalla strada. A me e Barney. E abbiamo passato un po’ di tempo con loro.”

“E hai imparato a usare…”

“Arco e frecce. Sì.”

“Non ti ho mai visto usarle ancora.”

“Magari allora è solo una finta. Mi piace il design dell’arma…”

Natalia gli stava sorridendo e poi tornò nuovamente seria, quando vide sopraggiungere il ragazzone che li aveva accolti quello stesso pomeriggio.

“Allora, tutto a posto? Avete mangiato bene? Abbiamo assunto un tizio messicano niente male, un paio di settimane fa.”

“Era tutto... ottimo. Ti sei sistemato bene…” gli disse Clint, facendogli un po’ di spazio sulla panca per permettergli di sedersi.

“Non mi lamento. Buon cibo, alcool, buona musica. I ragazzi che si offrono di fare serate non chiedono molto. Alcuni si esibiscono anche solo per una cena a patto che possano vendere i loro cd. Tutte autoproduzioni… niente di eclatante.”

Clint si era sporto a guardare il gruppo che stava accordando gli strumenti sul palco.

Era da un sacco che non si concedeva una serata… diversa. Il meglio che gli era riuscito di fare era andare a una partita di baseball, più di un anno prima. In compagnia di una ragazza che aveva conosciuto al diner all’angolo. Avevano passato un paio di buone settimane insieme prima che lei non si rivelasse una pazza che pretendeva di stabilirsi in pianta stabile a casa sua. Ma per chi lo avevano preso? Per un samaritano? Le donne potevano andare a venire come volevano a casa sua… ma mai dormire nel suo letto per più di due notti di fila.

Lo sguardo andò a posarsi irrimediabilmente su Natalia.

Lei ci aveva dormito più di due o tre giorni nel suo letto. E si era stabilita a casa sua ben prima di due settimane.

Ma la situazione era totalmente diversa!  Natalia lo aveva corrotto, Natalia era un pessimo elemento con il passato oscuro… e di certo non ci era mai andato a letto insieme.

Di certo.

Annuì a se stesso, mentre Billy gli tirava uno scappellotto alla testa.

“Ahia! Perché?!” domandò rifilandogli una gomitata nel fianco.

“Perché ti eri perso. Ancora ti capita, a quanto vedo.”

“Mi fai suonare come un mentecatto.”

Billy scoppiò a ridere e sembrò stesse solo rimarcando quella inconfutabile verità.

“Stavo raccontando a Nat… del circo.”

“Oh…” si illuminò Billy, “… il circo. Dai, spara, bellezza”, si era rivolto a Natalia con quell’aria da grezzo imbroglione, “secondo te che facevo al circo?”

Natalia parve scrutarlo a lungo, come se avesse preso molto seriamente la sua domanda. Clint poteva quasi sentire tutti i suoi ingranaggi lavorare sotto quella frangetta di capelli rossi.

“Avevi a che fare con degli… strumenti specifici?” gli domandò allora, dopo averci ragionato abbastanza.

Billy annuì: “Direi di sì, piuttosto specifici, già.”

Natalia assottigliò lo sguardo.

“A giudicare dai muscoli potresti essere stato un acrobata. Ma a giudicare dai tatuaggi… sollevavi pesi. Spezzavi catene… cose di questo tipo.”

Billy ora si osservava i tatuaggi come a cercare dove se ne fosse fatto uno con scritta tutta la spiegazione.

“Woah… direi che… ci hai preso.”

Clint per un attimo, come quella volta dell’acido fluoridrico si trovò in parte orgoglioso di quella risposta.

“Lo fa di continuo.”

Natalia si limitò a sorridere.

“Da dove l’hai tirata fuori, Clint?”

“Da un vicolo.”

“Da un vicolo?”

Clint scrollò le spalle come a liquidare l’argomento e Billy straordinariamente sembrò comprendere che non era il caso di insistere.

“Bè… ora che siamo relativamente tranquilli… me lo dici che ci siete venuti a fare qui?” l’atteggiamento di Billy era cambiato dal gioviale al confidenziale serioso. Aveva già capito tutto. O almeno sembrava. Era un tipo sveglio Billy, quando non si preoccupava di fingere il contrario.

“Lavoro.”

“Lavoro… okay. Che tipo di lavoro?”

“Non sono sicuro di potertelo dire, Billy.”

“Oh, andiamo… non saresti venuto da me se non avessi bisogno di aiuto.”

“Avevo solo bisogno di un posto in cui stare…”

“Non hai mai bisogno di un posto in cui stare… a meno che questa decisione non riguardi la nostra amica Natasha.”

Bingo.

Odiava profondissimamente le intuizioni di quell’uomo.

Clint scrollò le spalle e lanciò uno sguardo alla ragazza che parve sorpresa da quell'atteggiamento. Molto più sorpresa dal fatto che non si preoccupasse di nasconderlo o negarlo.

Forse era arrivato il momento di dare un paio di spiegazioni in più.

“Billy ed io... ahm... lavoravamo insieme. Qualche anno fa. Dopo la parentesi circense, voglio dire. E’ uno dei pochi che non ha… smesso di piacermi.”

Billy sembrò aver improvvisamente compreso la natura del loro rapporto.

“E' una tua nuova socia?” domandò allora.

“Qualcosa di simile.” si trovò a confermare Clint, lanciandole uno sguardo di scuse. Non aveva intenzione di sbandierare in giro quello che dovevano fare, o chi era veramente, ma si era reso conto che l'impresa avrebbe richiesto un po' più di preparazione di quella che aveva pronosticato all'inizio.

“Eravamo una squadra molto affiatata.” spiegò Billy che a quanto pareva, sembrava ora concorde sul darle spiegazioni in più.

“Finché poi non abbiamo deciso di separarci.”

“Io ho optato per la California. Clint si è dato alle aree sofisticate. Bazzichi ancora a New York, no?”

“Bazzico.”

“Allora... forza. Ditemi di che avete bisogno.”

“Non lo so, Billy. Adesso sei una persona onesta.”

“Onesta? Non esistono persone oneste.” e nel dirlo aveva scoccato uno sguardo d'intesa a Natalia.

Clint la guardò per un solo istante. E ci lesse un po' tutto quello che aveva bisogno di sapere. Dal: se ti fidi, raccontaglielo. Al: avremo bisogno di aiuto.

Clint si infilò in bocca l'ultima patatina nel piatto.

“Cosa sai dirci di Tony Stark?” Si era infilato il pollice in bocca a succhiar via un po' di sale.

Gli occhi di Billy si erano illuminati di una luce tutta particolare.

“Direi che abbiamo bisogno di più birra.”

 

___

 

Note:

E così il famoso Billy di Hermosa Beach, a quanto pare, esisteva davvero. E, per la cronaca, io me lo immagino del tutto simile a un giovane Tom Hardy.

Detto ciò, finalmente si comincia a programmare il colpo che porterà nel vivo… l’azione.

Stavolta come citazione iniziale una canzone di 2Pac. Non amo particolarmente il rap, ma negli anni ’90 penso che questa canzone abbia fatto il botto. E in ogni caso come colonna sonora Californiana ci stava proprio bene. Per cui, mentre le casse pompano musica, parto con i ringraziamenti: alla beta, ai recensori affezionati (grazie, grazie grazie e grazie) e a tutti coloro che hanno voglia di passare un po’ di tempo con la storia anche senza dire niente :)
Non mi resta che rimandarvi alla prossima!

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10

 

I think I've got a feeling I've lost inside
I think I'm gonna take me away and hide
I'm thinking of things that I just can't abide

(Roll With It – Oasis)

 

Natalia aveva appena fatto il suo quinto centro consecutivo.

Il fatto che Billy avesse allestito un mini poligono di tiro, proprio nello scantinato del locale, gli faceva supporre che non avesse smesso un solo istante, anche solo a livello mentale, di darsi alla sua attività… preferita.

“Dove hai detto di averla trovata?” stava indagando il ragazzone, all’apparenza piuttosto impressionato dalle capacità di tiro della giovane. Entrambi avevano alzato la testa dalle mappe che stavano studiando su un grosso tavolo da lavoro sul fondo dello stanzone.

“In un vicolo.”

“Dimmi quale vicolo… magari hanno cominciato una produzione industriale di fenomeni…”

Clint era rimasto lui stesso piuttosto impressionato dalla prestazione. Non che dopo la… famosa cosa delle cosce non fosse già persuaso delle sue capacità, ma che fosse anche una tiratrice provetta... Che volesse minare a quella che era la sua personalissima peculiarità?

Natalia aveva rimesso la sicura e, voltandosi nella loro direzione, levandosi le cuffie di protezione, aveva allungato la pistola a Billy.

“Dovesti ricalibrarla.” Gli disse solo, una ruga di disappunto fra le sopracciglia, “tende a deviare il proiettile a sinistra.”

Billy si rigirò la pistola fra le mani come se fosse stato in grado di constatarne il danno solo guardandola.

“Bè, grazie. Vedrò di farla sistemare.” Prese appunto mentale e Clint sbirciò Natalia con rinnovato interesse.

“È che sono anni che non la uso. E affitto questo posto a chi ha voglia di farsi due tiri… ma più di quello… Mi fa piacere averla riaperta per qualcuno che se ne intende.” Sorrise.

Natalia scoccò a Clint uno sguardo ambiguo prima di mettersi a sedere su una cassa di birre vuota a scrutare quello che stavano facendo.

“Quindi ora che facciamo?” domandò, come se dopo essersi sgranchita, non vedesse l’ora di entrare in azione.

Clint stronfiò qualcosa, mandando all’aria una matita.

“Stiamo ancora cercando di capire la quantità spropositata di sistemi di sicurezza che ha la casa di Malibù. di quel cavolo di Tony Stark.” E come, all’occorrenza, aggirarli.

Natalia si rimise in piedi, raggiungendoli al tavolo.

“Posso darci un’occhiata?”

Sapeva che quella richiesta sarebbe arrivata prima o dopo. Natalia doveva essersi trattenuta abbastanza, quasi fosse stata ben più che consapevole che facendolo avrebbe minato al loro orgoglio. Come se avesse loro regalato, se non altro, il tempo di venirne a capo da soli… peccato che nonostante la magnanima concessione, non avevano cavato un ragno dal buco.

Che figura di merda.

Billy aveva loro procurato piantine e tutto il resto da un tizio che conosceva un altro tizio che ai suoi tempi aveva aiutato a mettere in piedi il progetto, se non altro architettonico, di quella strabiliante catapecchia miliardaria.

Clint si chiese se non fossero un po’ troppi i tizi che erano a conoscenza del fatto che qualcuno voleva sapere come muoversi in quella villa. Questo accorciava di parecchio i tempi d’azione.

Natalia scrutava i progetti con una serietà tale che per un attimo Clint si trovò a pensare che ben presto sarebbe uscita con un piano di quelli inattaccabili. Un attimo dopo si trovò piantati addosso i suoi occhi verdi.

“Quell’uomo è un genio.” Constatò lei suscitando persino l’approvazione di Billy che a furia di annuire a quel modo, gli si sarebbe svitata la testa dal collo.
“Genio… parola grossa.” Aveva dovuto ribadire Clint, giusto per ridimensionare tutta quella solennità.

“È un sistema molto complesso. Innovativo, moderno, non sono nemmeno sicura che esista qualcuno, a parte lui, che sappia gestire materiale del genere.”

“Solo perché non te ne ricordi, non significa che non esista.” Puntualizzò Clint che ci teneva particolarmente a far valere la sua tesi… sulla minimizzazione del genio in questione.

“In ogni caso penso di poterci arrivare… con un po’ di logica.” Lo zittì con una certa qual aria di stizzita superiorità che non faticò a riconoscerle. Doveva aver toccato un tasto dolente. Peccato che non volesse offendere lei direttamente. Si diede mentalmente del coglione, prima di invitarla tacitamente a continuare.

“Datemi un paio d’ore.” La vide recuperare block-notes e matita, e poi, rivolgendosi a Billy, “e magari un tè?”

“Un tè?”

“Mh mh”, annuì sempre quella sola volta, “è un problema?”

“No, per niente. E tè… sia.” Dichiarò Billy, prima di sgomitare Clint, “Tè?” mimò con le labbra, con aria del tutto disgustata.

Come lo capiva…

 

*

 

Erano decisamente passate più di un paio d’ore da quando Natalia aveva messo mano a quei progetti.

Tanto più che probabilmente Stark poteva aver cambiato le carte in tavola almeno un centinaio di volte, dalla costruzione della villa.

La cosa positiva era stato riuscire ad individuare, quantomeno, dove erano situati tutti i sistemi di sicurezza, dopo un attento esame della struttura. E infine quelli che probabilmente a loro più interessavano: il sotterraneo che presumibilmente l’uomo usava come personalissimo laboratorio.

Si era concessa ben più di un tè nel processo. L’appetito era tornato feroce verso l’ora di cena, ma non si era fermata. Non era nemmeno del tutto sicura di cosa Billy si fosse preoccupato di prepararle, o di cosa avesse inconsapevolmente ingerito.

Sapeva solo che non poteva fermarsi, almeno non fino a quanto non fosse arrivata a capo di qualcosa.

La sua concentrazione spinta ai massimi livelli, gli ingranaggi che avevano preso a muoversi in modo frenetico, febbrile.
Quando ebbe concluso si sentì esausta come dopo una lunga sessione di allenamento. La testa le pulsava dolorosamente, ma non di quel dolore che ormai aveva imparato a riconoscere che preannunciava una qualsivoglia crisi.

Era una stanchezza di quelle che accompagnavano una certa soddisfazione, di quelle che suggeriscono che sei riuscito a concludere qualcosa di buono, qualcosa che, ne era sicura, non provava da tanto, troppo tempo.

Aveva raccolto gli enormi fogli dei progetti, arrotolandoli uno sull’altro e finalmente si era rimessa in piedi, pronta a portare le sue soluzioni ai due complici a delinquere.

Quando aveva rialzato la testa sul poligono, aveva individuato almeno tre frecce conficcate nel centro del bersaglio.

Clint?

E quando diavolo aveva peso ad allenarsi? Possibile non se fosse accorta?

 

Tornò al locale e si rese conto che Billy era troppo preso con la clientela per poterle dare veramente retta. Lo aveva salutato con un cenno del capo, senza intralciarlo.

“Dov’è Clint?” gli domandò solo, mentre lui barcollava fra la distribuzione di un Margarita e un cocktail dal nauseabondo odore di ananas.

“Di sopra.”

“In camera?”

“No, di sopra… sul tetto.”

Sul tetto.

Natalia era rimasta ferma al centro del locale a fissare Billy che elargiva sorrisi calorosi a tutti, a chiedersi come mai una risposta del genere sembrasse non turbare nessuno tranne lei.

Trovare il tetto della palazzina non fu poi così difficile: una rampa di scale, una porticina tenuta malamente insieme da una catenaccia arrugginita ed era fuori.

Il vago cigolio della porta non sembrò che il verso di un gabbiano in cerca di cibo.

Individuò Clint rapidamente. La sua sagoma si stagliava nettamente contro il cielo notturno, accanto al parapetto. La gambe presumibilmente penzoloni dalla parte opposta, nel vuoto.

Serrò le mani sui progetti su cui tanto aveva lavorato, tormentata fra l’impazienza di dimostrargli che aveva finalmente un piano e l’incertezza nel non volerlo disturbare.
Sembrava, per la prima volta, che Clint avesse spontaneamente cercato un angolo solitario dove passare del tempo senza la sua… ingombrante presenza.

Ingombrante. Adesso si sentiva ingombrante?

Ingombrante e ricolma di un senso di colpa che non era più tanto sicura di saper gestire. Si rispose da sola.

Perché non era stata sincera con lui. Perché lo aveva prima ricattato, poi ingannato e adesso stava solo cercando il modo meno doloroso per poterlo sfruttare un’ultima volta e arrivare al bandolo della matassa.

Perché ciò che aveva parzialmente scoperto dai suoi test clinici e la sua cartella medica avevano scatenato in lei l’urgenza di finire alla svelta quella assurda ricerca. Perché sapeva di non avere più troppo tempo a disposizione.

Perché sapeva che, presto o tardi, sarebbero venuti a riprendersela… perché Natalia Romanova – così aveva capito di chiamarsi, per intero – non apparteneva a se stessa, ma a qualcun altro.

Un oggettino prezioso che era stato rilasciato, a cui stavano solo dando il tempo di cavarsela da sola… prima di decidere che non ne era in grado?

E lei doveva, seguendo un folle istinto, essere in grado di cavarsela da sola, prima che qualcosa di orribile – la sensazione era opprimente tanto quanto i suoi incubi – le si scatenasse addosso. A lei… e a Clint.

E, a lui, non poteva permettere che accadesse niente di male.

Niente che lo precipitasse in quell’orrore di cui lei stessa sembrava essere pregna.

 

Si rese conto di essere osservata solo quando concluse tutta quella sequenza preoccupante di considerazioni mentali.

Clint si era accorto di lei.

“Volevi tendermi un agguato?” aveva esordito con la solita, malcelata leggerezza.

Natalia non fece altro che osservarlo un'ultima volta, per rimettere insieme le idee.

“E tu volevi suicidarti?”

Clint ci mise un po’ a rielaborare una risposta, ma doveva aver deciso che una risata avrebbe sciolto abbondantemente il dilemma.
“Che cavolo fai lì impalata? Vieni qui. Devi vedere una cosa veramente forte.”

Veramente forte. Il facile entusiasmo di Clint non le suggeriva niente di troppo fenomenale. In ogni caso, il suggerimento le diede una scusa per avvicinarsi.

“Che stai guardando?” gli chiese, allungando lo sguardo oltre il parapetto. La città tutta si dispiegava luminosa intorno a loro.

“Il mare. Io dico che è più efficace, visto da questa prospettiva.”

La macchia nera, oleosa, nella quale si riflettevano le luci della baia, aveva un che di inquietante.

“Perché non puoi vederci i bambini che ci fanno pipì dentro?” indagò, chinandosi in avanti, posando i gomiti, ancora affatto pronta a seguire il suo esempio e a mettere i piedi nel vuoto.

Non era certa di poter sopportare una disquisizione più o meno filosofico-poetica. Non da un tipo come Clint almeno e non con il mal di testa che si ritrovava.

“Buon punto”, lo sentì rispondere, meditabondo, “ma pensavo più al fatto che sembra un enorme buco nero…” fece per interromperlo con un’altra stupidaggine, onde evitare il trasporto sentimentale di quella considerazione, ma lui fu più rapido, “e ci vedrei scorrere alla grande i titoli di testa di Star Wars… nella linea di orizzonte.”

Natalia scoppiò a ridere. Ma ridere veramente.

Per un attimo aveva pensato al sopraggiungere di una conversazione piuttosto scomoda. Ma il fatto che avesse potuto dubitare proprio di Clint…

“Che ridi? Non ti sembra?” aveva parlato sopra lo scoppio della sua risata. “Immagina: Tanto tempo fa…”

“… in una galassia lontana, lontana…”

Clint le diresse uno sguardo stupefatto, prima di allungarle una mano aperta a palmo.

Natalia ricordò vagamente di dovergliela, per qualche arcano rito, schiaffeggiare.

Lo schiocco fu solenne e vagamente liberatorio.

“L’allieva che supera il maestro… mi sento così orgoglioso in questo momento.” Dichiarò lui soddisfatto, con esagerata enfasi, prima di occhieggiare, finalmente, i progetti di casa Stark.

“Sei riuscita ad arrivare a capo di qualcosa?”

Natalia si issò allora sul parapetto, con un balzo che per poco non gli fece prendere un colpo. Si era sbilanciata in avanti, tenendosi in bilico solo sulla braccia, prima di ricadere seduta le gambe penzoloni come lui.

“Ti avevo detto che ci sarei riuscita.”

“Non farlo mai più…” lo sentì gridacchiare isterico, la mano sul petto a sottolineare il suo sconcerto.

“Che cosa?”

“Questo. E se fossi caduta di sotto?”

“Mi avresti afferrata?”

“Magari no.”

“Magari avresti fatto bene.”

Clint si zittì e le lanciò uno sguardo criptico.

“Quindi… abbiamo un piano?” decise di glissare e lei gliene fu grata. Anche perché non era sicura, con il peso di un pomeriggio di studi, di riuscire a sostenere un'ulteriore menzogna.

“Abbiamo un piano”, confermò, “vuoi parlarne ora?”

“Potremo risparmiarcelo per domani mattina? Mi pare che siamo entrambi... piuttosto stanchi.”

Natalia si limitò ad annuire.

Il tempo di discutere i piani, capire i movimenti del giovane Stark… e… la cosa avrebbe iniziato il suo corso verso la conclusione. Non c'era motivo di correre, non quella sera, almeno.

“Magari dovremmo festeggiare.” Propose improvvisamente Clint.

“Non si dovrebbe festeggiare dopo? Quando tutto si è concluso?” aveva anche perso la memoria, ma certe cose erano ovvie anche per lei.

“Io festeggio sempre prima.”

“Perché?”

“Nel caso andasse male… almeno non avremmo comunque perso l’occasione, no?”

Il ragionamento, per una volta, le sembrò filare. Dunque le parve un giochetto al quale le sarebbe piaciuto giocare.

“E in che modo festeggi di solito?” indagò non del tutto certa che fosse una buona idea chiederglielo.

E Clint si passò una mano fra i capelli, come sempre faceva quando c’era qualcosa che lo metteva a disagio.

 

*

 

La ragazzina aveva sempre quella caratteristica tutta sua di metterlo a disagio anche quando non aveva la più pallida idea di cosa avesse scatenato.

La risposta a quella domanda era multipla, c’erano tante varianti… e la più ovvia non la poteva certo andare a raccontare a una minorenne.

Demente lui e a quando gli era venuto in mente di parlare di festeggiamenti.

Ma che cazzo ne poteva sapere che la faccenda gli si sarebbe rivoltata contro? E poi era vero che festeggiava sempre… prima.

Gli arrivò un’ispirazione divina fra un vaffanculo e un porca merda.

“Diciamo che ci sono diversi modi di festeggiare, mh?” gli sembrò di tergiversare e poi si voltò verso di lei, “vediamo: nomina la prima cosa che ti viene in mente vorresti fare, sapendo che magari poi non ne avrai più l’occasione, se tutto dovesse andare storto.”

“Mi sembra… contorto.”

Contorto? Nel suo cervello funzionava alla grande.

“Un po’, magari”, le concesse con una punta di paternalismo. “Ma una cosa… ti verrà pur in mente, no?”

“Fammi un esempio.”

“Ahm…” sembrava essersi incastrato nella sua stessa domanda, “non lo so. Tipo mangiare una pizza?”

Gran trovata, quella della pizza.

“Quindi una delle cose che desideri ardentemente fare prima di finire male… è mangiare una pizza.”

“Era un esempio! Perché cazzo devi sempre essere così fiscale?”

“Non lo sono. Chiedevo solamente. Hai mai mangiato una pizza per festeggiare prima di un colpo?”

Clint scosse la testa, frustrato.

“No. Ma non è questo il punto.”

“Lo è. Fammi un esempio concreto, affinché io possa avere un riscontro reale.”

“Ah? Come diavolo ti salta in mente di parlare?”

Natalia lo fissò con aria di rimprovero misto a spazientita aspettativa. E di regola era un atteggiamento che non riusciva ad ignorare. O sopportare.

“Oh, che cazzo ne so? Ubriacarmi?”

“Ti ubriachi prima di un lavoro importante?”

“No.” Stronfiò, mentre Natalia continuava a fissarlo con quegli occhi indagatori… e accusatori.

“Clint, continui a non…”

“Sesso.” La interruppe bruscamente.

“Come?”

Adesso lo costringeva persino a ripeterlo? Era una sadica, ecco cosa!

“Sesso. A volte festeggio con quello. Scarico la tensione. Fiù, via tutto. Sesso. Ecco come festeggio.”

Lo aveva detto, e si sentiva anche liberato di un certo qual peso. Il tabù di parlarne con una ragazzina. Grazie al cielo non era ancora stato maledetto dalla nascita di un figlio. Immaginare di dovergli spiegare il procedimento api e…

“Quindi dovremmo fare sesso?”

… fiori. Ah?

“NO!” inorridì, mentre il panico gli serpeggiava lungo la schiena, lo stomaco, i testicoli…

Si era persino ritratto da quella inquietante presenza dai capelli rossi che tutto sapeva e tutto indagava.

“Hai detto che è così che festeggi.”

“Ma quando sono solo!”

“Quindi fai sesso… da solo?”

“NO!”

“E allora di cosa stiamo parlando?”

“Stiamo parlando di...” si interruppe, scalciando un piede nel vuoto, “volevi un esempio concreto e ti ho fatto un esempio! Ora sei tu che devi dirmi come vorresti festeggiare.”

Natalia parve fissarlo come se quell'esempio non fosse esattamente ciò che si era attesa.

Il silenzio divenne inquietante quando rimase zitta per più di cinque minuti consecutivi.

“Possiamo anche andare a mangiare una pizza... sai?” le suggerì alla fine.

“Possiamo anche restare qui a parlare?” le chiese lei all'improvviso, interrompendo quell'imbarazzante pausa.

Parlare. Parlare non era esattamente la prima idea che gli saltava in testa se pensava a dei festeggiamenti.

“Immagino che... si possa fare.” si trovò a rispondere prima di avere la possibilità di indagare ulteriormente. Se quello era veramente ciò che avrebbe preferito fare, nell'ipotesi di non poterlo più fare in futuro...

Improvvisamente la realtà di quella considerazione gli si palesò di fronte agli occhi più nitidamente dei titoli di testa di Star Wars. In sequenza più o meno simile... a dissolversi nello spazio siderale.

 

Natalia desiderava passare del tempo a conoscerlo, piuttosto che mangiarsi una pizza.

 

E no... insomma, sapeva che era più di quello, ma cercò di non perseverare con quel pensiero per non finire con i titoli di testa di Star Wars a sciogliersi nello spazio siderale.

 

*

 

Le ci era voluta meno di mezz'ora per ritrovare la strada per la spiaggia.

Aveva chiacchierato con Clint per almeno due ore, appollaiati su quel tetto – come a lui sembrava piacere tanto – a raccontarsi stupidaggini senza senso. Nessuna rivelazione trascendentale, nessun patetico racconto di vita vissuta. Il mal di testa le si era dissolto come neve al sole.
Forse era vero che ridere faceva bene al cuore... e alla testa.

Aveva raccolto abbastanza vibrazioni positive per dirsi soddisfatta dei festeggiamenti così come Clint li intendeva. E doveva essere sincera: le era piaciuto.

Le era piaciuto e al tempo stesso le aveva fatto male. Male al petto, in uno sconquasso che aveva rischiato di farla annegare nel bel mezzo della notte. Perché realizzare che, per sua stessa decisione, ben presto avrebbe perso tutto quanto, le provocò una voragine nel petto, che ebbe la sensazione si sarebbe concretizzata nell'ennesimo malessere. Però la nausea non ce l'aveva... il fatto che non riuscisse a dare un nome a quello che sentiva, dentro, nello stomaco, le diede il suggerimento adatto ad abbandonare momentaneamente l'ospitalità di Billy e a trovare del tempo per stare sola.

Sapeva di aver preso una decisione stupida e altrettanto pericolosa.

Ma la cosa peggiore fu che, per un attimo, un misero azzardato attimo, quasi si augurò che chi la stesse cercando, chiunque la stesse cercando, la trovasse. E mettesse fine per lei, a quella storia. Alle sue paranoie. Che decidesse per lei il destino che si sarebbe meritata.

Poi però pensava a Clint. Pensava a tutto quello che stava facendo per lei. E no, non riusciva più a farlo. O a pensarci senza sentirsi un verme.

Un circolo vizioso di quelli belli grossi. Di quelli che avrebbero finito con l'annientarla.

 

Furono i colori sgargianti di un falò sulla spiaggia ad attirare la sua attenzione: qualcuno si stava divertendo. O per dirla alla Clint: qualcuno stava festeggiando.

Tutti quegli assaggi di normalità... una normalità che, ormai era certa, non le apparteneva affatto.

Fu una voce conosciuta a farla voltare.

“Ma dai, non ci credo. Natasha di New York?”

Gli occhi di lei si posarono sul volto abbronzato del ragazzo a cui aveva restituito la palla solo il giorno prima.

Alan.

“Ehilà...” si limitò a un saluto pacato, celando piuttosto bene la sorpresa.

Questo, per tutta risposta le si avvicinò, affatto inquietato dal suo aspetto un po' malaticcio. Forse doveva pensare, come quello stesso pomeriggio, che fosse solo una pallida newyorchese.

“È bello rivederti così presto... sei qui con quel tuo amico... ?” lo vide allungare il collo, un po' nervoso, come a cercare Clint, evidentemente. Non le era affatto sfuggito il modo in cui lo aveva dardeggiato con gli occhi, solo il giorno prima, per chissà quale motivo.

“No, sono sola.”

“Oh... figo.”

Figo... sembrava piacergli molto quella parola.

Forse era solo un termine con cui si esprimevano i giovani della sua età.

Registrò l'esclamazione come a volerla fare sua, in qualche assurdo modo.

“Magari vuoi unirti a noi? C'è una specie di festa. Un paio di birre... qualcosa da... fumare.”

La guardò in attesa di una risposta che non sapeva come regalargli. E alla fine le sue labbra parlarono prima che il cervello potesse preventivarlo.

“Okay… figo.”

Alan sembrò così estasiato dalla risposta che la prese per mano e la trascinò al falò per presentarla a tutti gli altri.

 

Non seppe dire esattamente quanto avesse bevuto. O fumato. Ma veder quella massa di ragazzini perdere lucidità, sebbene lei non sembrasse affatto sull'orlo del baratro come più della metà di tutti loro, la fece precipitare in una cupa depressione. Perché le diede un'idea piuttosto precisa di ciò a cui non era affatto abituata.

Sembravano divertirsi a rimanere ottenebrati da tutto quell'alcool o dal fumo, ma se c'era una cosa che aveva capito in quelle poche settimane era che non esisteva niente... niente di peggio che rimanere imbrigliati in qualcosa che ti faceva perdere il controllo.

Il controllo era tutto. Il controllo era quella parte di lei che sentiva più familiare.

Il controllo.

Controllare le situazioni.

Saperle gestire e girarle a suo favore.

Adesso sapeva.

Sapeva di cosa poteva essere capace. Ne aveva avute delle brevi rivelazioni il giorno in cui era riuscita in qualche modo a manipolare il povero Clint, ma adesso... adesso forse sarebbe stata in grado di raggiungere il passo successivo.

Con il camionista ciccione era stato facile. Ma lo sarebbe stato altrettanto con una persona che... forse, in qualche modo, a pelle, le piaceva?

Lanciò uno sguardo ad Alan che stava aprendo l'ennesima lattina di birra.

Se ci fosse riuscita con lui, forse avrebbe superato l'ultimo ostacolo per potersi liberare definitivamente del senso di colpa che provava nei confronti di Clint.

Di quella sensazione di familiarità che l'avrebbe solo rallentata. E assicurata a un finale oscuro.

Fu istintivo come se fosse abituata a farlo da tempo immemore.

 

Aveva sfilato la lattina di birra dalle mani di Alan e si era avvicinata a lui con una confidenza che non le apparteneva. Il passo ad agganciare i suoi occhi per convincerlo a fare ciò che probabilmente desiderava dal momento in cui l'aveva invitata a quella buffonata di festa, fu fin troppo breve.

Trovò le sue labbra che sapevano di birra e sale. Il suo alito caldo, la sua lingua. Un bacio che per quello che ricordava non aveva mai destinato a nessuno o che, forse, aveva regalato a troppe persone di cui non le importava niente per ricordarsene.

Le mani cercarono i suoi capelli ammorbiditi dall'acqua di mare, gli occhi si chiusero dietro le palpebre e per quell'attimo riuscì a fingere.

Fingere di essere tutto ciò che sentiva di non essere.

Fingere di godersi quella fresca serata di fine luglio.

Fingere di aver deciso finalmente il suo modo di festeggiare.

Fingere di baciare Clint Barton.

 

Adesso sì... che si sentiva abbastanza sporca per poter cancellare dietro quella marea di lordume... tutto il suo senso di colpa.

 

*

 

Clint si raddrizzò sul letto come una molla, quando la porta della camera si aprì.

Aveva individuato la sagoma di Natalia ancora prima di metterla del tutto a fuoco, nella penombra.

Le prime luci dell'alba spuntavano dalle tende della finestra e aveva un gran mal di testa.

“D-dove sei stata?” era ancora mezzo rincoglionito dal sonno ma non ancora così stupido da non essersi accorto della mancanza della ragazza.

Si era alzato almeno un paio di volte per pisciare e il suo letto era sempre stato vuoto.

Aveva deciso di non preoccuparsi troppo per non insultare il tacito patto che sembravano aver stipulato su quello stupidissimo tetto solo la sera prima.

Insomma quel patto che li vedeva ormai complici in qualcosa che avrebbe dovuto concludersi, nel bene e nel male.

Avevano persino “festeggiato” per celebrarlo. E per lui, i festeggiamenti, erano sacri.

Anche senza il sesso. Dopotutto.

La vide trascinarsi al suo letto e slacciarsi le Converse.

“A fare un giro. Non riuscivo a dormire.”

A Clint sembrò un tono di voce troppo simulato. Ma forse era solo perché era stanca lei. O era... stanco lui.

“Potevi svegliarmi...”

“Dovevi riposare. Domani è un gran giorno e tu sei l'eroe della storia, no?”

“Eroe... non direi... proprio.” si grattò la testa confuso dalla piega assurda della conversazione, “se io sono l'eroe tu che cosa sei, allora?”

La domanda era uscita sulla scia di tutte quelle stupidaggini che si erano raccontati sul tetto del palazzo.

“Forse solo il cattivo destinato a morire.”

Clint non seppe dire se fu di nuovo il tono o il fatto che Natalia non lo avesse guardato una sola volta mentre gli parlava, ma sentì qualcosa di perverso aleggiare nell'atmosfera, peggio di una colonna sonora particolarmente tensiva.

“Nat...” aveva pronunciato il suo nome solo una volta, ma lei gli aveva già dato le spalle.

Rimase fermo a osservare la sua schiena a lungo, prima di decidere di rimettersi a dormire... e sperare che quella brutta sensazione allo stomaco si dissolvesse con la luce del giorno.

 

___

 

Note:

Siamo sull’orlo del draaaama. No in realtà non proprio, ma Natalia comincia ad avere delle idee piuttosto precise sul ruolo che vuole avere nella storia. Il furto alla magione Stark si avvicina, ma quella sarà la prova meno difficile che i nostri si troveranno ad affrontare.

Nessun appunto particolare se non i soliti ringraziamenti di rito: alla socia e beta come sempre e a tutti i lettori silenti o meno. Grazie.

Per chi è in vacanza, per chi è tornato, per chi non è mai partito… ci sentiamo alla prossima.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11

 

I was caught
In the middle of a railroad track
I looked round
And I knew there was no turning back
My mind raced
And I thought what could I do
And I knew
There was no help, no help from you

(Thunderstruck – AC/DC)

 

 

“Gran bel pezzo di… casa.”

Clint doveva scendere a patti con il fatto che Stark era inaspettatamente, indiscutibilmente, irrimediabilmente nerd.

“Dimmi se non assomiglia all’Enterprise.”

Appollaiati sulla collina antistante la mastodontica, futuristica villa di Malibù, aggrovigliati attorno a intricati rami di arbusti, lui e Natalia stavano osservando il loro prossimo obiettivo.

Natalia non aveva risposto, si era limitata a stringersi nelle spalle e Clint dovette ammettere che il suo comportamento, da un paio di giorni a quella parte, lo aveva, oltre che infastidito, soprattutto preoccupato.
Si era data la pena di illustrare il suo piano a lui e Billy con tanto di schemi che nemmeno una professoressa di matematica particolarmente artistica si sarebbe spinta a elaborare… per poi non rivolgere loro – o a Clint in particolare – la parola se non per necessari scambi di cortesie.

Si era persino chiesto se avesse fatto qualcosa di male, se inconsciamente l’avesse offesa (anche se ormai era arciconvinto che i suoi pseudo insulti nemmeno la sfiorassero), se avesse fatto qualcosa per infastidirla. Non aveva certo un grande intuito per queste cose, ma nemmeno sforzandosi grandemente, mettendo in moto tutti i suoi ricettori, riusciva a darsi risposte soddisfacenti. L’altra supposizione era che fosse semplicemente tesa nonostante il malcelato entusiasmo che traspariva dalla possibilità di entrare in azione, che gli raccontasse qualcosa di molto diverso a riguardo.

Quindi aveva viaggiato sul limbo della pacata affabilità, sperando che prima o dopo le passasse. Ed erano giunti al tanto atteso giorno dell’azione senza particolari discussioni.

Però la battuta gli era uscita, come da naturale inclinazione personale. E lei di nuovo non aveva colto. Oppure aveva colto, ma non aveva voluto dargli alcuna soddisfazione. Il fatto che probabilmente non le importasse o non la trovasse poi così interessante gli fece di nuovo storcere la bocca.

“Dovremo muoverci.” La sentì aggiungere, mentre si legava i capelli in una coda di cavallo. Indossava una t-shirt nera dei Ramones, una di quelle che Billy le aveva regalato, spacciandola per un articolo dimenticato a casa sua da una ex-fidanzata. Clint non aveva dovuto sforzarsi troppo per capire che invece era un acquisto recente. E che Billy aveva intuito che nello zainetto di Natalia c’erano troppi pochi articoli d’abbigliamento per essere una ragazza.

A furia di regali, avrebbe finito per rifarsi il guardaroba.

“Mancano cinque minuti alle dieci.” Le fece presente Clint. Voleva essere sicuro che la casa fosse davvero deserta così come l’informatore di Billy aveva loro assicurato.

“Mi sembra evidente che non c’è più nessuno.”

Clint le lanciò uno sguardo perplesso. La sua impazienza gli sembrò fuori luogo. E totalmente fuori personaggio.

La vide allungargli il binocolo con cui aveva scrutato i dintorni della casa fino a quel momento.

“Magari dovresti dare uno sguardo ravvicinato.” La sentì dire con aria di sufficienza.

“Non ne ho bisogno. Ci vedo fin laggiù.”

Il fatto che gli avesse lanciato l’occhiata più pungente che gli avesse mai riservato dacché si conoscevano, quasi lo offese.

“Non ci credi? Ho una buona vista.”

“Certo.” La vide ritirare il binocolo e fare una smorfia che lo infastidì ulteriormente.

“Due telecamere. Ai lati del cancello…” disse, prima di riuscire a frenarsi. “Altrettante all’ingresso. Sul portone. Ce ne sono altre sul tetto, ad ampio raggio. Più un altro paio fra i rami degli alberi a destra.”

Natalia che lo stava guardando insospettita, aveva dovuto rimettere mano al binocolo per accertarsene. E fu sicuro che ne rimase stupita, perché le uniche due telecamere segnate sui progetti stavano ai cancelli.

“Oh, c’è persino un gatto che sta attraversando il cortile”, aggiunse. “Adesso si è fermato per farsi il bidet.” La scoccata finale gli aveva dato una certa soddisfazione.

Natalia abbassò il binocolo senza dimostrare di volergli dare alcuna soddisfazione.

“Dunque è evidente che non abbiamo motivo di indugiare ulteriormente.” La sentì dire, come a ribadire il concetto che, in ogni caso, aveva ragione lei.

Forse era in fase pre: quella cosa che succede alla donne ogni mese e le rende intrattabili. O qualcosa di simile. Non era in grado di gestire situazioni tensive e dare retta a un’adolescente con le ovaie impazzite. Forse era quello il motivo. Ma certo! Perché cavolo non ci aveva pensato prima?
Si sentì improvvisamente a posto con la coscienza. La biologia femminile lo aveva cavato d’impiccio. Grazie madre natura.

“Io aspetterei ancora un paio di minuti.” E ci avrebbe aggiunto un: hai fretta? Se qualcosa, nel suo cervello, non gli avesse suggerito che non è saggio stuzzicare un gatto che soffia. Non avrebbe sopportato la furia dei suoi artigli.

La sentì sbuffare, per l'appunto, senza rispondere. Se non altro, se anche lo stava insultando, lo stava facendo mentalmente. E lui, grazie al cielo, non era dotato di poteri psichici.

Aveva però sentito dire che esisteva un tizio, negli Stati Uniti, che ne possedeva, di quei poteri… da qualche parte. Si raccontava avesse messo in piedi una scuola tutta sua di gente… particolare. Speciale. Che sapeva fare cose fuori dall’ordinario. Dicevano che aveva perso tutti i capelli a causa del suo potere tutto speciale. E che stava su una carrozzella per i casini che quello stesso potere gli aveva procurato. Ma Clint alla magia non ci credeva mica. E quindi sebbene la storiellina fosse piuttosto intrigante, l’aveva immediatamente collocata proprio lì, dove doveva stare: fra quelle leggende metropolitane che circolano in America.

Anche se a volte, sapere che qualcuno collezionava gente con abilità particolari, che li accoglieva, come in una grande famiglia, stuzzicava la sua fantasia. Si era chiesto se sarebbe mai stato degno di entrare a far parte di una squadra di gente… speciale.

Ma forse la sua abilità specifica non era abbastanza speciale per fare di lui uno dei prescelti.

Si rese improvvisamente conto di quanto gli venissero particolarmente ispirati i voli pindarici per sdrammatizzare la tensione.

Natalia lo stava osservando con impazienza (così come avrebbe potuto fare un bambino a cui hai promesso un giro pomeridiano alle giostre) e forse con un po’ di preoccupazione. Perché doveva essersi imbambolato come gli aveva rimproverato Billy solo qualche sera prima.

“Non sono ancora passati due minuti”, ci tenne a specificare.

“Lo so. Sono passati novanta secondi. Mi preoccupava la tua faccia.”

“Che faccia?”

“La faccia che fai quando stai pensando a qualcosa di particolarmente... profondo”, e nel dirlo aveva pateticamente cercato di imitarlo, lo sguardo perso, vagamente terribile, fisso in un punto dritto di fronte a sé. L’occhio un po’ appannato.

“Io non faccio quella faccia.”

“Invece sì.”

“E’ la mia faccia da riposo.”

“Bè, comunque è inquietante.”

“Ah, io sarei quello inquietante?”

“Che vuoi dire?”

“Niente.”

“No, che vuoi dire?”

“Non voglio litigare.” Aveva alzato le mani in segno di resa. E forse aveva sbagliato del tutto l’approccio, perché Natalia aveva preso a sistemarsi stizzosamente lo zainetto d’assalto sulle spalle.

“Io vado. Sono passati due minuti e trentacinque secondi. Trentasei.”

Trentasette, trentotto. Trentanove…

Un rumore di pale di elicotteri.

Quaranta. E di macchine in corsa sulla strada.

“Aspetta”.

Adesso tutti i suoi sensi erano all’erta e forse… anche quelli di Natalia.

“Cos’è?”

“Sta arrivando gente”, l’aveva afferrata per lo zainetto e trascinata di nuovo dentro il folto della vegetazione.

“Dovevano essere partiti tutti.” La sentì dire, incredula.

“A quanto pare sono cambiati i piani.”

“Perché?”

“Che cazzo ne so? Magari a Stark è venuta improvvisamente voglia di organizzare una festa da ricconi megalomani.”

“Quelle macchine non sono da ricconi megalomani.”

E Clint dovette ammettere che no, non lo erano.

Quelle macchine rappresentavano qualcosa di preoccupante. Non la polizia. Non lo SHIELD (che prediligeva i SUV neri). Magari l’FBI.

Che Stark si fosse messo nei casini? La cosa per un attimo lo ringalluzzì tutto. Ma se invece avessero avuto una soffiata su qualcosa di poco chiaro in corso? Dubitò di avere tutta quell’importanza come ladruncolo da scatenare persino l’FBI, ma…

“Meglio andarcene da qui.” Suggerì con una punta di fastidio.

“Ma… e il colpo?”

“Temo sia rimandato, Nat.”

“A quando?”

“Non lo so. Data da destinarsi.”

“Ci farà perdere un sacco di tempo.”

“Certo. Ma meglio perdere tempo che andare nei casini con le forze dell’ordine, no?” e su quello, finalmente, Natalia sembrò non avere niente da ridire.

“Billy…” aveva aperto la ricetrasmittente con cui comunicava con l’amico che attendeva in macchina a poche centinaia di metri di distanza, “stiamo tornando. Operazione abortita.”

Chiuse la comunicazione, si caricò sulle spalle il bauletto con arco e frecce e si preparò a tornare indietro.

Fu certo che Natalia si fosse fermata a guardare ancora la villa di Malibù come a elaborare la sconfitta subita ancora prima di iniziare; prima di decidersi, finalmente, a seguirlo.

 

*

 

Adesso era certa che se avesse aspettato un altro giorno sarebbe letteralmente esplosa.

Sembrava che la prospettiva dell’azione, dell’adrenalina irrisolta, si fosse concentrata tutta alla base del suo stomaco. E della sua nuca. Il malessere che stava aspettando solo un’altra tensiva ispirazione per deflagrare violento.

Non avrebbe potuto gestire che un’altra manciata di ore in quelle condizioni.

Il fatto che Clint e Billy continuassero a blaterare sulla possibilità di attendere almeno un’altra settimana che le acque si fossero definitivamente chetate, le mise addosso una smania che era sicura non avrebbe potuto frenare nemmeno correndo per ventiquattrore di fila sulle spiagge di Hermosa Beach.

Si era limitata ad accettare pacatamente (all’apparenza) ogni tipo di suggerimento, fingere di rimettere a loro ogni genere di decisione, finché la mattina successiva non aveva preso lei stessa, autonomamente, una decisione definitiva.

Si era alzata presto, lasciato un biglietto a Clint sulla necessità di fare un po’ di jogging mattutino –   premurandosi di tranquillizzarlo sul fatto che avrebbe sfruttato alla grande il suo travestimento – e poi si era diretta al seminterrato, forzando la porta senza particolari problemi.

Aveva raccolto quella vecchia Beretta mal calibrata che Billy aveva lasciato a sua disposizione, nel caso avesse voluto allenarsi, e l'aveva vuotata di tutti i proiettili a salve che, sapeva, non le sarebbero serviti a niente. L’aveva nascosta all’interno dello zaino che aveva portato con sé ed era uscita poi alla luce del giorno, diretta a un paio di negozi che aveva registrato per la strada, quando erano arrivati.

Fece colazione con un paio di ciambelle al cioccolato e una tazza di cappuccino, con quei dieci dollari che Clint le aveva regalato per le emergenze. Si prese del tempo per elaborare un piano d’azione, scrutando dalla grossa vetrina del diner i pochi, pigri turisti che sfruttavano le prime ore del mattino per evitare le ustioni del sole inferocito di mezzogiorno; e infine, quando fu certa che almeno la metà dei negozi del circondario avessero cominciato le loro attività giornaliere, riconobbe come prima tappa del suo viaggio il negozietto di articoli da caccia e pesca alla fine della strada.

Il negoziante, un tizio brizzolato sulla sessantina dall'aria gentile, che inizialmente l’aveva scrutata con sospetto, si era ricreduto dopo l’entusiastico racconto di un padre (che Natalia in realtà non possedeva) con la passione per la pesca sportiva ed in particolare per la pesca con la mosca.

“Compie cinquant’anni la prossima settimana e vorrei fargli una sorpresa. Ci cadrà stecchito quando vedrà la sua scintillante nuova Fenwick ad attenderlo sul divano del soggiorno.”

Il negoziante aveva detto di avere un paio di articoli per lei, fra i nuovi arrivi. Di attendere solo un istante che sarebbe andato a recuperarli sul retro.

Avrebbe dovuto muoversi rapidamente: quando Natalia fu sicura di essere sola, completamente sola, deviò con maestria il giro delle telecamere di sorveglianza e andò, letteralmente, a svaligiare una delle vetrine con i proiettili. Quando trovò quelli adatti alla sua pistola, ne svuotò generosamente almeno quattro scatole nello zainetto che si era portata appresso, preoccupandosi anche di richiuderle e riporle nuovamente nello scaffale per non destare alcun sospetto.

Dopodiché era tornata al bancone, in attesa del negoziante, sfoggiando il suo miglior sorriso.

“Ho una carta di credito.” Aveva detto solo, raccogliendo anche un altro paio di (all’apparenza) innocui articoli, fra cui una rete, alcuni ganci, un paio di stivaletti antiscivolo e dei guanti che mise tutti sul conto, assieme alla canna da pesca per il presunto padre cinquantenne.

Trattenne il fiato finché non fu certa che le operazioni furono andate a buon fine. Chiunque le avesse fornito i soldi doveva essersi assicurato un buon plafond.

Adesso la questione si sarebbe fatta piuttosto urgente. Forse sarebbero venuti a prelevarla prima della fine della serata. Ma di certo non prima di aver fatto un favore a Clint. Doveva assicurarsi il furto di quel materiale che lo aveva indebitato con il suo datore di lavoro. E dopo, solo dopo, avrebbe potuto concedersi il lusso di venir catturata… da chiunque… fossero i suoi mandanti. O i suoi carnefici.

Salutò il commerciante che sembrava aver appena fatto l’affare del secolo ed uscì senza voltarsi né salutarlo.

Svoltato l’angolo, aveva regalato la preziosa Fenwick a un senzatetto non particolarmente ricettivo.

“Tanti auguri, papà”, gli disse, prima di dileguarsi.

L’uomo si era rigirato la canna fra le mani confuso, già vittima dei fumi dell’alcool alle dieci del mattino e solo dopo averla esaminata per bene l’aveva usata per grattarsi un punto irraggiungibile sulla schiena.

 

*

 

A meno che la ragazzina non intendesse andare avanti a correre per tutto il giorno come una forsennata, il jogging mattutino di Natalia si era protratto un po’ troppo a lungo.

Era vero che aveva intuito che forse aveva bisogno di scaricare un po’ di tensione, ma correre per la spiaggia, fino alle due del pomeriggio, gli sembrava un po’ esagerato anche per lei.

“Io vado a cercarla.” Dichiarò Clint dopo l’ennesima sbirciata all’orologio.

La realtà era che adesso la situazione aveva raggiunto dei picchi piuttosto preoccupanti. Se anche erano passati dei giorni abbastanza tranquilli, era pur sempre vero che qualcuno la stava ancora cercando. E se l’avessero presa, lui non avrebbe potuto nemmeno accorgersene, né intuirlo per qualche straordinaria illuminazione divina.

“Vengo con te.” Billy non aveva esitato mezzo istante a seguirlo nell’impresa, “prendo la macchina.”

“Io preferisco andare a piedi. Comincio dalla spiaggia.”

E così aveva fatto. Si era diretto spedito verso il lido in cui aveva fatto la prima determinante chiamata a Billy e da lì aveva preso a cercarla.

Non gli ci volle molto per individuare quel gruppo di ragazzini che avevano incontrato il primo giorno. Se non altro qualcuno che avrebbe potuto riconoscerla. Un buon punto con cui cominciare.

“Ehi, giovane.” Aveva apostrofato lo stesso tizio che aveva riconosciuto come quello su cui Natalia sembrava aver fatto più colpo.

Il ragazzo si era voltato nella sua direzione, distraendosi dai giochi da spiaggia del suo gruppo di amici, occhieggiandolo con un’espressione un po’ stonata da cannaiolo di periferia che però si destò subito non appena parve riconoscerlo.

“D-dice a me?”

Stava forse balbettando?

“Sì, a te, giovane.”

Giovane… giusto per mettere in chiaro le gerarchie d’età. Se non fosse stato preoccupato per Natalia si sarebbe anche goduto quella sorta di navigata e fasulla autorità.

“Mi d-dica…”

Sì, stava decisamente balbettando.

“Senti un po’…?” si era levato gli occhiali da sole, per fargli capire che gli stava venendo incontro, che, anche se intimidatorio, aveva solo bisogno di un favore e aveva alzato una mano per battergli una fraterna pacca sulla spalla.

Ma il tizietto non sembrò capire il suo atteggiamento ed arretrò nemmeno avesse alzato su di lui un’ascia.

“Non ho fatto niente, lo giuro!”

Clint rimase con la mano mezza alzata e mezza no, in una posa pure un po’ da imbecille.

“Ehi…” era avanzato solo di un passo, ma questo era arretrato di nuovo, incespicando un po’ sui piedoni. Ma di che cavolo aveva paura? Era persino più alto di lui.

Cazzo di incomprensibili adolescenti moderni.

“Giuro!”

“Giura, giura, pure, ma non…”

“Solo un bacio!”

Clint aveva smesso di avanzare. Anche perché quell’incomprensibile scambio di battute aveva decisamente bisogno di più concentrazione.

Un bacio? Perché doveva dargli un bacio?

“No, grazie…” disse solo, pure un po’ inquietato dalla proposta.

“Le ho dato solo un bacio, lo giuro, non c’è stato altro. Se n’è anche andata presto. Io non l’ho più vista!”

La cosa stava diventando più complessa di quanto sembrasse.

“Senti, giovane... riesci per un attimo a uscire dal fumo di tutte le canne che ti sei fatto e starmi ad ascoltare o devo chiamare un interprete?”

“N-non capisco… s-signore.”

Signore. Carino. Nessuno lo aveva mai chiamato così, ma quasi quasi gli piaceva.

“No, nemmeno io capisco. Perché non sono ancora riuscito a farti una domanda che hai cominciato a sparlare.”

“S-signore?”

Signore, di nuovo. Prego, prego, continua pure, giovane.

“Volevo solo chiederti se hai visto… Nat… insomma, la ragazza che era con me l’altro giorno sulla spiaggia… bassina, capelli rossi, carina.” Ci scommetteva i coglioni che se la ricordasse, ma specificare era sempre cosa buona.

“No. Glielo giuro.” Di nuovo. Giurava. Ma su cosa?

Povero giovane bruciato dalla droga.

“Giurare ti metterà un po’ nei guai con il padreterno ci hai mai pensato?”

“N-no… cioè s-sì.”

“Allora non l’hai vista?”

“No. L’ultima volta che l’ho vista è stata quattro sere fa. Poi non l’ho più vista. Lo giu…”

“Sì, ho capito, lo giuri.” Si accigliò. “Quattro sere fa, hai detto?”

La sera in cui Natalia era tornata all’alba.

Il velo di nebbia che aveva permeato la discussione, cominciò lentamente a dissiparsi.

“S-sì. Solo quella sera. Ed è stato solo uno… stupido, stupido bacio.”

Uno stupido bacio. Quattro sere fa. Natalia era andata a farsi un giro e aveva incontrato il suo bell’Adone della spiaggia. E semplicemente se l’erano… spassata un po’.

La notizia aveva chiarito il mistero, ma non gli aveva dato una scarica d’adrenalina positiva.

Al contrario aveva cominciato, incomprensibilmente, a fargli girare i coglioni.

“Mh. E oggi… non l’hai vista.” Doveva comunque continuare ad indagare. E sfruttare il fatto che a questo punto il ragazzino se la ricordava… anche piuttosto bene. O almeno ricordava le sue labbra. Cazzo di adolescente in vena di limonate estive.

“N-no.”

“Sei sicuro?”

“Sicuro. Sono qui da stamattina.”

“Mi ha detto che scendeva in spiaggia per un allenamento mattutino. Non l’hai vista? Poteva indossare un berretto. E un paio di occhiali da sole.”

“No, gliel’ho detto… non l’ho vista, sono sicuro…”

Signore.”

“C-come?”

“Mi piaceva quando mi chiamavi signore.”

“S-sì, sì, signore.”

Meglio.

“Se dovessi vederla me lo fai un favore?”

“C-certo, signore.”

“Dille che la sto cercando. E di tornare a casa… il prima possibile.”

“S-sicuro…” Clint gli scoccò un’occhiataccia, “signore!” ci tenne ad aggiungere il ragazzo.

“Bene. Bravo giovane…” e stavolta la pacca sulla spalla gliela diede davvero. E decisamente più pesante e dolorosa di quanto avesse preventivato all'inizio.

Non registrò nemmeno il gemito strozzato di limonator cannaiolo, che aveva già inforcato i suoi occhiali ed era tornato alle sue ricerche.

Natalia… ma dove cazzo si era andata a cacciare?

Se si fosse voltato almeno cinque secondi prima, avrebbe visto sfrecciare sulla strada che costeggiava la spiaggia, una Ford color metallo, con a bordo Natalia Romanova.

 

*

 

Era certa di aver seguito alla lettera il piano. Di non aver commesso e errori e allora adesso perché non riusciva ad aprire quella stracazzo di porta? Il meccanismo era stato disinnescato senza particolari problemi! Che avesse sottovalutato quell’intricato sistema di sicurezza?

Natalia continuava a digitare furiosamente codici su quella tastierina dai colori psichedelici, ma non c’era stato niente da fare: il laboratorio segreto di Tony Stark era, di fatto, diventato inespugnabile.

Il problema non era certo stato entrare (solo una manciata di minuti prima del tramonto), eludere i sistemi d’allarme, liberarsi delle telecamere di sicurezza (si era trovata più volte a stupirsi di come tutti i meccanismi che teneva evidentemente sopiti si fossero azionati, facendo di lei una perfetta macchina da guerra pensante), trovare il codice per il laboratorio e trovare i progetti (sparpagliati un po’ ovunque sul grosso tavolo da lavoro del miliardario) che tanto sembravano interessare il mandante di Clint. Qualcosa che presumeva delle energie rinnovabili (ma non si occupava di armi?) e il prototipo di una sottospecie di giocattolo di mastro lindo robotico. Persino un po’ bruttino a voler ben guardare. Sembrava un’accozzaglia di lamiere con un secchio di metallo per testa. Li aveva raccolti entrambi, quale che fossero quelli giusti.

Il problema, in tutto quel procedimento – che non aveva richiesto a Natalia più di una mezz’ora – era, adesso, uscire.

Aveva decisamente sottovalutato la cosa. Senza prevedere il palese contrattacco che l’uomo aveva architettato in caso di intrusione.

Riprovò l’ennesima volta, prima di sentire un rumore ronzante alle sue spalle.

“Il codice è di nuovo errato, signorina.”

Natalia trasalì d’orrore e fu abbastanza rapida da voltarsi, estrarre la pistola e puntarla direttamente sulla sorgente di quella voce...

Un computer.

“Ma che… d-diavolo… ?” se vacillò fu solo un istante: doveva trattarsi di una qualche porcheria di Stark.

“Chi ha parlato?” domandò allora, cercando di usare la razionalità, “dove sei?”

Perché evidentemente la voce arrivava da un computer, ma probabilmente, no anzi, sicuramente era una persona, ubicata da qualche altra parte, a parlarci attraverso.

“Esattamente qui, di fronte a lei, signorina.”

“Non prendermi in giro…” la pistola ancora puntata sul computer, irrazionalmente forse, ma… l’istinto le suggeriva di tenerla lì, a concreta minaccia.

“Non sono stato programmato per la derisione, signorina.”

“Smettila di chiamarmi signorina.”

“Mi dispiace, signorina. La programmazione mi impone rigide regole comportamentali.”

“La programmazione? Che… diavolo vuol dire?”

“Significa che il Signor Stark mi ha programmato per interagire in questo modo, secondo codici prestabiliti.”

“S-sei… sei davvero una macchina?”

“Sì, signorina.”

“Questa macchina qui… che ho di fronte?”

“In parte. Sono nell’intero sistema telematico della struttura.”

Natalia dovette ragionarci per qualche istante, prima di capire che forse, quella era proprio il tipo di porcheria che Stark poteva produrre.

“Se sei dentro il sistema… magari allora puoi aiutarmi.”

“Posso provarci, signorina.”

“Come si fa ad uscire da qui?”

“Oh…”

“Oh? Oh non è una risposta. Non ti ha programmato per saperlo?”

“Sì, signorina. Ma manifestavo il mio disappunto in modo garbato.”

Ma che bello, le mancava un computer che conosceva le regole del galateo.

“Disappunto perché non sei in grado di dirmelo?”

“Disappunto perché non posso… aiutarla ad uscire. Lei è un’estranea. E per gli estranei non autorizzati esiste una procedura del tutto diversa. La sua presenza qui mi impone di effettuare una chiamata alle forze dell’ordine per sollecitarne un intervento.”

Non poteva permettere che una macchina sollecitasse le forze dell’ordine di… come aveva detto? Insomma, no. Categorico. Clint l’avrebbe uccisa. Più di quanto non avrebbe fatto appena sarebbe tornata con i piani, dopo un furto in solitaria. Sempre che non l’avessero sbattuta in gattabuia prima di avere la possibilità di rivederlo... Clint.

Forse doveva fare chiarezza mentale, per valutare almeno le sue priorità.

“E non potresti, che ne so… signor coso...”

“Che imperdonabile mancanza di educazione. Mi permetta di presentarmi: mi chiamo J.A.R.V.I.S.” e sullo schermo apparve la sigla, così un po’ come quella dello SHIELD. Era stufa di sigle e puntini.

“Jarvis… sì, bè, piacere… insomma, Jarvis, non potresti per caso evitare di effettuare quella chiamata?”

“La procedura mi impone…”

“Bè, al diavolo la procedura, no? Non ti sembra già abbastanza frustrante non avere un corpo? Un’intelligenza superiore come la tua non la sente quella spinta verso la disobbedienza?”

“Non conosco la parola disobbedienza, signorina.”

“No? Bè, la disobbedienza è una cosa buona. Ed è persino scritta nel galateo.”

“Non credo, signorina. Conosco a memoria, il...”

“Anche la versione aggiornata?”

“Non esiste una versione aggiornata.”

“Sì che esiste. Permette anche di mettersi le dita nel naso… quando ti prude.”

“Non credo di…”

“Forza Jarvis, apri la porta e ti prometto che ti porto quella versione aggiornata di galateo.”

“Ma la procedura…”

“Ho detto: al diavolo la procedura!” adesso stava perdendo la pazienza.

“Il suo battito cardiaco sta aumentando in modo anomalo.”

“Perché mi stai facendo uscire di testa, razza di macchina infernale!”

“Mi chiamo Jarvis, non-”

“Lo so come ti chiami!”

“Livello adrenalinico in crescita progressiva.”

“Che diavolo stai dicendo?”

“Le suggerirei di posare l’arma.”

“Col cazzo!”

“Turpiloquio non richiesto”
“Fottiti e esplodi.”

“Richiesta d’intervento inoltrata a…”

Natalia non si risparmiò nemmeno un colpo del caricatore. Il fumo dalla canna della Beretta la costrinse a tossire pure un po'.

Sapeva che non sarebbe servito a niente – posto che il famoso Jarvis fosse davvero ovunque nel  sistema multimediale della villa – ma almeno si era tolta una soddisfazione.

E quella voce marcatamente inglese era stata zittita da un inquietante sfrigolio di circuiti esplosi.

Solo cinque secondi dopo... le sirene della villa avevano preso a suonare come nemmeno a un concerto degli AC/DC.

 

___

 

Note:

Casa dolce casa… direbbe Stark. Ma anche no. O almeno non dal punto di vista di Natalia.

Piccola nota sul capitolo. L'espressione da riposo, faccia da riposo (o resting face) citata nel dialogo fra Clint e Natalia all’inizio, si ispira a quella di Renner (sì, Jeremy), che ha personalmente spiegato quanto sia terrificante la sua resting face. In giro è anche pieno di foto a riguardo. Vedere per credere.

Sul resto niente da dire, se non che ormai stiamo entrando nel vivo dell’azione. E finalmente, dissero tutti. Per concludere, ringrazio sempre la socia/beta (con cui continuiamo a condividere spasmi di dolore e sollievo a fasi alterne sulla sorte dei nostri Avengers in Age of Ultron: dove Renner ha rivelato le sorti di Hawkeye. A mettere a tacere tutti i fatalisti portasfiga), e poi, al solito a tutti i commentatori, ai lettori e ai preferitori (si dice? Non credo) della storia. Siete tutti bellissimi. Così, perché mi va. And then: alla prossima!

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


CAPITOLO 12

 

Believe, believe in me, believe
That life can change, that you're not stuck in vain
We're not the same, we're different tonight

(Tonight, Tonight – Smashing Pumpkins)

 

Clint Francis Barton era su tutte le furie.
E non solo perché quel sistema d’allarme gli aveva fatto saltare le coronarie (tutte. Quante ce ne fossero non avrebbe saputo dirlo), ma soprattutto perché Natalia aveva fatto la cosa più stronzatamente imbecille che avrebbe potuto fare.

Andare da sola ad effettuare il colpo! Ingannandolo! Sconsideratamente, deliberatamente.

Il fatto di non essere sicuro se il cocente mal di stomaco che aveva preso a ribollirgli dentro –  peggio di un calderone di streghe – fosse da imputare alla rabbia o al livello massimo di preoccupazione, aumentava il disagio.

“Che cazzo facciamo? Che cazzo facciamo, adesso, Clint?” Billy accanto a lui. Avevano raggiunto Malibù ad una velocità tale che Clint era sicuro le ruote si fossero fuse con l’asfalto della strada costiera. Perché l’illuminazione divina su dove si fosse andata a cacciare Natalia era arrivata con la realizzazione della mancanza dello zainetto e della Beretta dal poligono.

In più, in città avevano preso a girare automobili con gente piuttosto inquietante a bordo. E improvvisamente Clint prese a ragionare sull’utilizzo della… carta di credito.

Non fosse stato per la situazione altamente pericolosa, forse si sarebbe complimentato con se stesso per la sagacia. Novello Watson americano.

“Che cazzo dobbiamo fare, Clint?” Se Billy avesse continuato ad alimentare il panico a quel modo, sarebbero andati poco lontano.

“Dobbiamo andare a recuperarla. Prima che qui si scateni il finimondo.” La risposta gli era uscita molto più lucidamente e razionalmente di quanto avesse preventivato.

“Saranno qui in una manciata di minuti, sei fuori?”

“Proprio per questo dobbiamo muoverci.” Era uscito dalla macchina, imbracciando arco e frecce già estratti dalla valigetta. Forse sarebbe stato più efficace tenere in mano una pistola, ma aveva bisogno di sentirsi sicuro e solo con l’arco alla mano avrebbe potuto sfruttare al meglio le sue qualità operative. Aveva bisogno di tutto ciò che gli era familiare per restare con i piedi per terra e non farsi prendere dal panico.

La chiusura della portiera dalla parte opposta gli suggerì che persino Billy era uscito.

“Ci prenderanno… tutti quanti.”

“Non sei obbligato a seguirmi Billy. Hai già fatto abbastanza.” E, nel dirlo, Clint si era già aggrappato ai cancelli della villa, pronto a scavalcarli per entrare. Gli allarmi erano già tutti belli che attivati, non era nemmeno più necessario essere cauti.

“Clint!”

“Tieni la macchina accesa. E vattene se la situazione diventa scomoda!”

“E tu muoviti, per l’amor di Dio!”

Dio. Clint non aveva mai pregato in vita sua, ma qualcosa gli disse che sperare che qualcuno ci mettesse una buona parola, per la prima volta, sarebbe stata una buona idea.

 

*

 

Natalia aveva ricaricato l’arma. E scaricata per l’ennesima volta sulla porta, sperando di scalfire i vetri antiproiettile.

“Dannato Stark!” gridò al culmine della frustrazione, stordita dal rumore costante di tutti quegli allarmi lanciati all’unisono.

Il pensiero che il suo piano fosse fallito così miseramente, che di lì a poco sarebbero arrivati a prelevarla e che, con molta probabilità non avrebbe avuto alcuna via di fuga, lo portò ad essere in collera con se stessa.

Se solo avesse avuto tutti i mezzi a disposizione, se solo si fosse soffermata a studiare il piano con più calma e concentrazione. Invece no, aveva agito d’istinto e tutta l'inutile sequenza di preoccupazioni che l’avevano oppressa fino a quel giorno, adesso l’avrebbero definitivamente distrutta.

Forse era un prototipo di quelli difettosi. Forse i tizi che l’avrebbero aspettata all’alba non avevano alcuna intenzione di tornare a riprendersela. Forse i test clinici con i quali aveva scoperto di essere… praticamente un esperimento da laboratorio… portavano solo riscontri negativi. Forse.

Cercò di restare lucida. Non era il caso di pensare a quelle cose proprio in quel momento.

Sapeva di avere un istinto di sopravvivenza piuttosto sviluppato e sapeva, nel profondo, di non poter deludere le capacità che erano emerse una dopo l’altra, di prepotenza.

Dunque avrebbe solo dovuto… respirare. Respirare e concentrarsi. Respirare e cominciare a isolare il rumore di quelle sirene. Quelle sirene e… quei colpi ritmati su una superficie… di vetro?

Riaprì di scatto gli occhi, puntandoli sulla porta appena scheggiata del laboratorio, per trovarsi di fronte…

“Clint!” le si aprì nel petto una voragine di sollievo che per poco non la fece vacillare. Ma l’espressione che l’uomo aveva dipinta in viso (un misto di rimprovero, preoccupazione, delusione) le fece recuperare in un attimo tutta la lucidità di cui aveva bisogno.

Gli fu vicina in un istante, cercando di leggergli il labiale, perché il vetro isolante e il suono delle sirene le avrebbero impedito di comprendere alcunché.

Scosse la testa.

“E’ bloccata. I vetri sono antiproiettile.” Disse solamente intuendo la domanda non richiesta dell’uomo.

Lo vide fare un gesto della mano che poteva solo significare: “Levati di mezzo!”

Natalia non se lo fece ripetere due volte e si mise da parte, infilandosi le dita nelle orecchie così come lui le stava suggerendo di fare.

Lo vide impugnare l’arco (forse per la prima volta dacché lo conosceva) e, portandosi ad una discreta distanza di sicurezza, prendere la mira (con un’espressione così concentrata e tesa che, era certa, non gli aveva mai visto dipinta in viso) e scoccare la freccia che andò a impigliarsi fra le crepe dei vetri scalfiti. Lo vide abbassarsi rapidamente, le mani alla testa. La freccia si illuminò per un istante di luce rossa e, dopo qualche secondo, una deflagrazione che Natalia non si era attesa.

Deviò agilmente una sedia con le rotelle che era rimasta sulla traiettoria dell’esplosione e le finirono addosso alcuni pezzi di vetro.

La porta era definitivamente saltata.

Una freccia esplosiva.

Clint… aveva una freccia esplosiva?

L’ammirazione e lo stupore si fusero in una mistura ubriacante e si alimentarono ancor di più nel momento in cui scorse la voragine che stava al posto di quella maledetta porta, a restituirle la  libertà.

“Sì!” Sibilò, raccogliendo zainetto e progetti e lanciandosi letteralmente all’esterno.

Clint l’attendeva con una certa impazienza, ma non aveva ancora abbandonato quell’espressione di puro sdegno. Che la frenò dal gettarglisi fra le braccia, così come, impulsivamente, irrazionalmente, si sentiva spinta a fare.

“Grazie…” riuscì a malapena ad articolare.

“Muoviamoci.” le rispose lui glaciale, prima di afferrarla per lo zainetto, sospingendola su per le scale, obbligandola a precederlo.

Ci sarebbe stato tempo e modo… per un confronto. Capiva anche lei la priorità di una rapida fuga.

 

*

 

Grazie.

Pensava di potersela cavare con un grazie?

Ah, ma l’avrebbe sentito. Lo avrebbe sentito eccome… sempre se fossero riusciti a cavarsela davvero in quel dedalo di allarmi.

Avevano appena guadagnato l’atrio che la porta dell’ingresso, che era rimasta spalancata fino a quel momento, fu scossa da un tremito e una grata prese a scendere con un cigolio inquietante.

“No.” Esalò Clint, estraendo in tutta fretta una freccia, scoccandola con precisione millimetrica verso una delle cinghie che facevano scorrere il meccanismo. La serranda si bloccò con uno schiocco inquietante.

Il sollievo non durò che pochi secondi perché la freccia si spezzò nuovamente, sotto lo sforzo degli ingranaggi e la serranda cadde così di schianto da ammutolire ogni speranza ancora attiva.

“Dimmi che hai un’altra freccia esplosiva.” Sentì esalare Natalia che stava guardando le mille finestre della villa che… davano soprattutto sulla scogliera a picco sull’oceano.

“No… non ho più frecce esplosive.”

Ne aveva progettata una… solo lo scorso inverno. Nemmeno sicuro l’avrebbe mai usata. Non ci aveva pensato a produrne in serie. Non era così che lavorava. Non con la teatralità. Il silenzio, la discrezione, la distanza, erano la sua specialità. Non quel caos… in cui sembravano essere precipitati.

Avvertì degli spari alle sue spalle e scorse Natalia fare dei tentativi per abbattere almeno una delle finestre. Ma evidentemente, ovviamente, anche quelle erano antiproiettile. E decisamente non avevano un bazooka a disposizione.

“Merda!” ringhiò stizzosamente, prendendo a correre verso la serranda, sperando di trovare un modo per riaprirla, ma se era stato Stark a progettare quell’intricato sistema di difesa, dubitò fosse proprio così semplice riuscirci. E anche lo fosse stato, il tempo a loro disposizione ormai si stava assottigliando. Secondo, dopo secondo.

“Forse possiamo provare da un’altra stanza. I piani alti.” La sentì dire, lasciando che facesse come meglio credeva. Era sicuro che non ci sarebbero state altre vie di fuga. Stupido lui e il fatto che non si fosse preoccupato di assicurarsi vie di rientro efficaci. Ma aveva dovuto agire in fretta e la preoccupazione aveva, in parte, bruciato la razionalità.

C’era un motivo se aveva sempre preferito lavorare da solo. E allora perché cazzo aveva deciso di coinvolgerla?

La vide ridiscendere le scale, la coda fra le gambe, ma non con minor determinazione.

“Di sopra è la stessa storia. Forse dovremmo provare con-”

“Niente.”

“Come?” gli era finita di fronte, l’aria confusa.

“Con niente, è finita, siamo al time out.”

“Non è vero. Sono sicura che c’è un sistema per disinnescare l’allarme. Devo solo capire dove si trova il pannello di controllo centrale e…”

“E cosa? Capire come funziona? Non abbiamo più nemmeno il tempo per respirare!”

“E cosa dovremmo fare, restare ad attendere gli sbirri?”

“Avremmo evitato tutto questo se non avessi fatto il cazzo che ti pareva!” le ringhiò contro, sapendo perfettamente che non sarebbe servito a niente, ma lo stomaco aveva preso a fargli così male che se non avesse sfogato in qualche modo la tensione, sarebbe esploso. O svenuto. Forse sarebbe stato meno degradante esplodere.

Natalia, quantomeno, ebbe la buona creanza di non ribattere e assumere un atteggiamento remissivo.

“Che diavolo ti è venuto in mente, ah? Dimmi che cazzo credevi di fare da sola?” il problema, però era che una risposta la voleva. E la voleva immediatamente. Perché non era poi tanto sicuro che avrebbe avuto la possibilità di chiarire la faccenda… in carcere o davanti al creatore. O il cazzo avrebbe saputo dove altro sarebbe andato a finire da lì a qualche minuto.

“Volevo chiudere la faccenda rapidamente.”

“Rapidamente. Le cose in questo settore non si fanno, rapidamente! Ci vuole del tempo, per progettare, per programmare! Credevo avessimo deciso di essere una squadra!” la sua voce faceva fatica ad emergere sotto il suono insistente delle sirene ancora attive.

“Volevo occuparmene io.”

“E per quale cazzo di motivo? Il lavoro era mio! Era un favore che io dovevo fare a Novicov! Non tu.”

“Ma era una cosa che dovevi fare per me! Che riguardava me! E… d-dopo tutto quello che hai fatto, volevo solo… solo…”

“Cosa? Che cazzo volevi fare? Farti arrestare?”

“Volevo solo smetterla di coinvolgerti!” aveva gridato così forte che per un attimo la voce di Natalia lo sopraffece.

“Credevo fossimo d’accordo che…”

“No!”, stavolta era stata Natalia ad interromperlo, ad assumere un atteggiamento d’attacco, “no, eravamo d’accordo che mi ci sarebbe voluto solo qualche giorno per riprendermi, per fare chiarezza mentale. E invece ho finito per approfittarmi di te in tutti i modi… possibili. Mi ha fatto comodo usufruire di tutti i mezzi di cui disponi, mi ha fatto comodo ingannarti e manipolarti e…”

“Manipolarmi?” aveva alzano una mano, per frenarla e una risata secca, severa, gli era uscita dalle labbra, senza che potesse fare nulla per frenarla, “Credi che se non avessi voluto aiutarti sarei stato davvero così imbecille da farmi giocare da una ragazzina? Credi davvero di essere così brava?” Forse adesso stava esagerando ma... sì, magari era riuscito a manipolarlo, un po’… in ogni caso se era arrivato fin lì non era stato solo per quello. Insomma… lo aveva fatto anche e soprattutto perché si era preso a cuore la faccenda… o no?

Natalia piegò le labbra in una smorfia un po’ offesa. Ma forse se lo meritava.

“Allora sei doppiamente imbecille.”

Okay, questa non se l’era aspettata.

“Come scusa?”

“Sapevi che ti stavo manipolando o che almeno ci stavo provando e hai deciso comunque di aiutarmi?”

“Sì...”

“Allora sì, sei doppiamente imbecille.”

L'insulto, ripetuto due volte, non poteva essere frainteso.

“Che cazzo vuol dire?”

“Che non mi conosci nemmeno! Che non lo sai chi sono! Che hai deciso di fidarti di me, ma potrei essere un... mostro.”

Un mostro? Di quale cavolo di mostro andava blaterando?

“Adesso non esagerare, non sei poi così brutta.”

“Sono seria, Clint.” e l'espressione sul suo viso non celava altro che quello, “Sono seria... potrei essere un mostro. E tu non lo meriti di essere complice di una cosa del genere. E non meriti di finire male... per causa mia.”

“Nat... io davvero non so più di che cazzo stai parlando”, e non era nemmeno sicuro lo avesse sentito per bene, perché non aveva quasi più la forza di urlare per sovrastare il rumore delle sirene. “Ti stavo cazziando!” riprese poi con più furore. “Perchè mi devi castrare con il siparietto patetico?!”

“Ed io ti stavo chiedendo scusa! Ma tu non ci arrivi!”

“Ah, quelle dovevano essere delle scuse? Mi hai chiamato imbecille!”

“Perché è quello che sei!”

“E allora tu sei stronza!”

“Coglione!”

“Deficiente!”

“Ingenuo!”

“In... ingenuo non è un insulto degno di questo nome!”
“Ho finito gli insulti!”

“Di già? Non ti ho insegnato proprio un cazzo in queste settimane, allora.”

“E allora... vaffanculo.” un po' più incerto, ma efficace.

“Vaffanculo va meglio. Però... vaffanculo tu.” decisamente meno convinzione.

“Okay.”

Un passo, uno verso l'altra.

“Brava.”

“Grazie.”

Due passi.

“Mi dispiace.”

“Va bene.”

Tre passi.

“Non sei un imbecille.”

“E... tu non sei un... mostro.”

Quattro passi.

“Invece sì. Non ti ho detto delle cose.”

“Quali cose?”

Adesso, dopo aver esaurito tutte le forze per gridarsi in faccia, erano così vicini.

“Delle cose... scritte sui documenti che hai sottratto al commissariato di polizia.”

“Avevo... avuto dei sospetti...”

“Se usciamo vivi da qui ti racconto tutto.”

“Sarà meglio.”

Natalia stava tentando un sorriso un po' mesto, guardandolo dal basso verso l'alto.

“Stark è davvero un genio.”

“Genio... non... esageriamo.”

Sminuire. Sempre sminuire.

“Possiamo provare a cercare il pannello di controllo...”

“Abbiamo alternative?”

Natalia stava ancora scuotendo la testa, quando gli allarmi si zittirono. Di colpo.

Lasciando l'ingresso completamente silenzioso.

“Che cosa sta succedendo?” la voce della ragazza suonò estranea, nell'eco dell'atrio.

“Forse è finita la batteria.” Clint si era voltato verso l'ingresso, perché proprio in quella direzione, la grata che si era appena chiusa, si stava riaprendo, con un ronzio piuttosto familiare.

“Nat...”

Sentì il rumore del caricatore della sua sgangherata Beretta, come a dargli l'ispirazione per imbracciare di nuovo arco e frecce.

Chiunque si fosse trovato là fuori, di certo avrebbe dovuto sudare un po', prima di prenderli. Vivi.

Se non altro.

Quando di fronte a loro non c'era tutto lo squadrone di poliziotti o soldati che si era atteso di trovare, Clint si trovò a sgranare gli occhi. Ma miseramente, tristemente solo due sagome si stagliavano all'orizzonte, nella luce del sole ormai quasi completamente al tramonto.

“Sarà meglio che posiate le armi. Tutti e due.”

Clint avvertì un brivido partirgli direttamente dalla base dello stomaco e risalire su, fino alla nuca, provocandogli un moto di nausea non richiesto.

Quella voce, così profonda e autoritaria. Così simile, nel timbro, nel tono... a quella di suo padre.

“Barney?”

La mano gli tremò per un istante, quando finalmente lo riconobbe. Non seppe se per la sorpresa o il sollievo.

Ma che cazzo ci faceva Barney, lì, di fronte a loro, con un cazzo di completo grigio da coglione, in compagnia di... Billy che teneva stretta fra le mani niente meno che una pistola, così come suo fratello, puntata direttamente nella loro direzione.

“In carne e sangue, fratello. Metti giù l'arco, fai il bravo.”

“Che cazzo significa?” Clint adesso era talmente confuso da aver la necessità di cercare Natalia con lo sguardo per accertarsi che fosse tutto vero. Nell'espressione di lei ci lesse non meno sgomento, non meno incertezza.

“Significa che avete fatto un bel macello ragazzi. E significa che... siete circondati.”

Circondati, da cosa, da chi?

“Billy?” adesso era all'amico che si era rivolto, “Billy dimmelo tu che cazzo sta succedendo.”

Aveva evitato di aggiungerci un per favore, perché sarebbe stato completamente fuori luogo, così come un insulto per direttissima.

“Mi dispiace, Clint.”

“Ti dispiace... cosa? Che cosa state facendo lì impalati, siamo circondati da chi?”

“Credevate che la vostra bravata sarebbe passata inosservata? Da chi altro credete di essere circondati?”

Il rumore di motori e sirene in lontananza gli diedero un quadro piuttosto chiaro sul fatto che non stessero mentendo.

“La polizia? Lo SHIELD? L'esercito della Regina?”

“L'FBI.”

“L'F... scusa? E tu che cosa ci fai con l'FBI... lì fuori?”

“Non voglio insultare la tua intelligenza, imboccandotela, Clint. Sai fare i conti da solo, mi pare.”

“Sei dell'FBI? E da quando?” sbuffò una risata fra l'incredulo e l'isterico, “Questo deve essere uno scherzo di pessimo gusto.”

“Non è uno scherzo, Clint. Non lo è mai stato.”

“Billy...”

“Mi dispiace Clint.”

“Ma ti si è incantato il disco? Porca puttana, cosa state dicendo?!”

“Stiamo dicendo che questa è l'ultima occasione. Ci consegni la ragazza. E noi evitiamo che catturino anche te.”

“Consegnare la ragazza a chi? A voi? Scordatevelo.”

“Consegnaci la ragazza e nessuno si farà del male.”

“La ragazza ha un nome. Si chiama Natalia.”

“Lo sappiamo perfettamente come si chiama. Perché credi che ti siamo venuti dietro in tutta questa manfrina, fin dall'inizio?”

“La... stavate tenendo d'occhio?”

“Bravo. Vedi che quando fai lavorare il cervello...”

“E perché cazzo non ve la siete presa subito, se era quello che volevate, ah?”

“Sarebbe... giusto un tantino lunga da spiegare in questo momento.”

“Oh, guarda... tanto siamo qui a chiacchierare solo della vita di un essere umano.”

“Clint...” Stavolta era stata Natalia a parlare. Il rumore della pistola che veniva disarmata, “a me sta bene.”

“Sta bene un cazzo!”

“Clint...”

“Clint un cazzo! Questi due stanno facendo i buffoni! Ci stanno prendendo per il culo, è evidente! Come se non conoscessi i tentativi di raggiro di Barney! Li conosco, uno per uno, tutte le volte che organizzavo qualcosa di importante eccolo comparire, così a disintegrare i miei piani, e questa volta non è diverso, anche questa volta...”

“... sono qui per salvarti il culo.”

La dichiarazione gli si palesò dinnanzi come una doccia fredda.

“Clint... finirai in gattabuia. Per davvero stavolta se non farai quello che diciamo. Ma la ragazza...”

“E' Natalia, porca puttana!” aveva gridato. Non era sicuro di poter reggere la tensione ancora a lungo. Le orecchie ancora compromesse dal suono di quelle sirene, l'adrenalina, la stanchezza. Le rivelazioni assurde di quella stupidissima serata di mezza estate. Un incubo... di mezza estate.
Barney... Barney che era sempre stato lì per lui, a cavarlo fuori dai guai, solo perché lavorava nell'FBI?

Suonava così assurdo che gli sembrava di essere finito in un programma di scherzi. O in un filmetto scadente. La testa aveva cominciato a pulsargli, il cuore a battere così rapido che per un attimo credette che gli sarebbe venuto un infarto.

“Barney...” era intervenuto Billy, “possiamo occuparci più tardi di lei. Possiamo darle ancora del tempo. Possiamo...”

“E poi? Cosa succederà poi?”

Lo scambio di battute dei due uomini, risvegliò in lui una scintilla di ragionevolezza.

“Volete salvare me... allora aiutate anche lei. O entrambi. O nessuno. Non mi importa di finire in gattabuia. Evidentemente me lo merito. Sono stato un coglione. Non me ne vado. Resto. Non mi importa. Non me ne vado senza Natalia.”

“Clint...” la voce della ragazza al suo fianco non era che un debole sussurro. Le prese la mano senza nemmeno aver bisogno di sapere dove fosse. La strinse così forte come a rassicurarla che sarebbe andato tutto bene.

Perché, per quanto ne sapeva, al momento, nonostante i tentativi di manipolazione, quella ragazzina minuscola di cui non conosceva nemmeno l'età, era davvero l'unica persona di cui riusciva a fidarsi.

Barney non gli aveva mai detto niente.

Barney aveva agito nell'ombra, per tutti quegli anni?

Barney.

Mentirgli. Per proteggerlo. Adesso non sapeva se era più infuriato o spinto alla commozione dalla faccenda. Decise di essere infuriato. Perché la furia era l'unico sentimento, in quell'istante, in grado di renderlo meno... vulnerabile.

“Sono praticamente già tutti qui... Billy, non...”

“Sono entrati nella villa con il sistema di sicurezza più complicato dopo Alcatraz...”

Barney li stava osservando. Con quel cazzo di vestito grigio da coglione che gli cadeva anche malissimo sulle spalle. E il cartellino di riconoscimento. Il cartellino... di riconoscimento. Che rendeva quella assurda faccenda fin troppo reale. Suo fratello era Fox Mulder e non lo aveva mai minimamente sospettato.

“Sparami.” lo sentì dire.

Clint inarcò un sopracciglio, senza capire.

“Prendi la pistola di Nikita... e sparami, dai” e poi voltandosi verso Billy, “Se dobbiamo farli scappare almeno diamoci un alibi valido. Non possiamo certo dirgli che non li abbiamo visti! Almeno fingiamo di aver combattuto con onore.”

“Saranno tutti qui a momenti...”

“E allora muoviamoci.” Barney aveva fatto partire un colpo a caso, lungo il corridoio, “Sparami, Clint, sparami!”

“E dove cazzo ti sparo?!”

“Che cazzo ne so, a una gamba, sparami a una spalla! Hai una mira infallibile, no? E allora falla lavorare!”

“Perché non con una freccia?”
“Perché quale cazzo di ladro se ne va in giro con arco e frecce?”

“Robin Hood?”

“No, tu, coglione! Sparami con una pistola non registrata.”

Billy aveva sparato un altro colpo a caso.

“La volete finire di litigare?! Non abbiamo tempo. Sparagli!”

“Sparami!”

E Clint... strappò la pistola di mano a Natalia, la ricaricò e sparò. A Barney. Dritto nel polpaccio. Lo passò da parte a parte, vide lo schizzo di sangue allargarsi sulla parete alle sue spalle.

“Ma porca di quella...”

“Scusa!”

“Adesso fuori dai coglioni! Tutti e due, muovetevi!”

“Te ne devo una...”

“Me ne devi cento!”

Clint strinse la mano di Natalia e se la trascinò dietro: corsero fuori dall'atrio, nel cortile, le macchine dell'FBI o della polizia che correvano su per la strada a sirene spiegate.

Corse, corse come non aveva fatto mai in vita sua.

La mano della ragazzina, l'unica cosa concreta a raccontargli che non stava per niente sognando.

 

___

 

Note:

Già. Vi aspettavate tutti (tutti chi?) Tony Stark ed invece: surprise!
In realtà Tony avrebbe dovuto esserci, ma poi il racconto ha preso un’altra strada e per Stark non c’è stato più spazio. Scusa Tony: questa non è una storia su di te. Ego distrutto.

Ringrazio prima di tutto la mia beta/socia Sere (a cui dedico il capitolo perché oggi fa gli anni – forza, voglio un coro di: AUGUUUUURI - il regalo te l’ho già fatto ma questo è un bonus un po’ così! E sì, ho aspettato oggi a pubblicare, solo per questo motivo). Ringrazio poi, di cuore, tutti coloro che ci tengono sempre a farmi sapere che ne pensano della storia, e a tutti coloro che hanno manifestato un qualsiasi interesse per la fan fiction che, ora posso dirlo, sono riuscita a concludere! Tutti i suoi capitoli sono ancora da rivedere, però attendono pazienti di essere pubblicati, in letargo, nel mio pc. Sì, per dire che sono soddisfatta di essere riuscita a finirne un’altra. Così posso dedicarmi a un altro progetto… più… globale. Ma è ancora presto per parlarne.

Perciò, alla prossima!

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


CAPITOLO 13

You don't know how you took it
You just know what you got
Oh Lordy you've been stealing
From the theives and you got caught
In the headlights
Of a stretch car
You're a star

(Hold Me, Thrill Me, Kiss Me, Kill Me – U2)

 

 

Il passo dall’aver appreso, con una sorta di statico shock, che Barney Barton, l’estimatore del Pinguino, faccia da schiaffi bugiardo, non era altri che un agente sotto copertura, al trovarsi spediti a tutta birra lungo la statale, inseguiti da un fornito gruppo di macchine dell’FBI, della polizia o di qualsiasi forza di sicurezza nazionale, era stato tanto breve quanto… rapido.

Natalia non riusciva nemmeno ricordare con sicurezza ogni singola dinamica degli eventi.

Sapeva solo che Clint aveva preso a correre e correre. Che Billy aveva lasciato le chiavi nella macchina… accesa (come se si aspettasse davvero di farli… o farlo – a Clint – scappare) e che si erano lanciati in fuga, senza più guardarsi indietro una sola volta.

E adesso… adesso erano a tavoletta, con il rumore dei motori che rombavano minacciosi alle loro spalle, a sperare in un miracolo che li cavasse dall’impiccio.

“Dovremmo cercare di rallentarli. Non sono nemmeno sicuro che il motore di questo catorcio reggerà ancora per molto!” Clint aveva l’espressione tesa di chi non sa se dare fuori di testa o vomitare. Costipato, però, da entrambe le opzioni.

Natalia aveva estratto la sua scarsa Beretta e si era issata su per il finestrino aperto. Non una posizione troppo comoda.

“Che stai facendo?” lo sentì urlare, mentre l’aria le sferzava il viso, i capelli che frustavano scompostamente lungo il collo, le spalle.

“Li rallento!” gridò, prendendo la mira, calibrando l’arma, ricordando il difetto di costruzione che non le avrebbe dato la certezza di un centro perfetto. Ma doveva provare.

E solo il fatto di avere a portata di mano una sfida del genere, la investì di una scarica di adrenalina non richiesta. Una lucidità atavica, che si propagò per le braccia, il collo, lo stomaco, le gambe.

Individuò la prima macchina: una Mercedes grigio chiaro, così luccicante che per un attimo si trovò a pensare che sarebbe stato un vero peccato.

Sparò il colpo che andò a frantumare il parabrezza.

Vide la macchina sbandare, ma senza perdere il controllo. Questo le diede comunque il tempo per provare con un secondo colpo che mancò di poco la ruota anteriore.

“Merda.” Imprecò, cercando di andare a segno con il terzo colpo, prima che qualcuno dall’abitacolo non uscì per restituire il favore: un proiettile andò a conficcarsi da qualche parte, nella carrozzeria.

“Quanto ci tiene Billy alla sua macchina?” dovette proprio chiedere, mentre si ritirava per sistemare la pistola inceppata.

“Ci hanno colpito?”

“Ahm…”

“Merda.”

“E questa schifo di pistola non fa il suo dovere.”

“Fantastico. Sono già a tavoletta!”

Il click della pistola le disse che era di nuovo pronta a sparare.

“Lascia stare quella schifezza.” Clint aveva emesso la sua sentenza.

“E’ l’unica modo che abbiamo per rallentarli.”

“Nah… non è l’unico.”

Le frecce.

“Ma stai guidando!” e di certo non avrebbero potuto fermarsi per darsi il cambio.

“Lo so… dammi il tempo di…”

Pensare. Ma il proiettile che frantumò il vetro posteriore della vettura, diminuì i tempi di riflessione. E allora Natalia lo fece per lui. Lanciò sul sedile la pistola ormai inservibile e scavalcò il cambio.

“Continua a guidare… dritto.”

“Che cosa stai facendo?” esclamò Clint mentre Natalia si arrampicava comicamente su di lui, costringendolo a levare almeno un braccio dal volante per passare. “Non vedo un cazzo!”

“Lo so! Continua dritto, stai andando bene! Non ti fermare.” ora gli era praticamente seduta sopra.

“Nat, non vedo un…”

“Lascia andare i comandi, quando te lo dico io. Prendo il tuo posto.”

“Faremo una fine di merda, io te lo dico.”

Con il calore del suo fiato, praticamente sul collo, si lasciò scivolare lentamente fra le sue gambe. Il gemito sommesso di Clint le suggerì che doveva essere stato doloroso, per alcuni dei suoi organi… vitali.

“Scusa.”

“No, niente, era solo l’ultimo baluardo della mia virilità…”

“Clint…” Lo sentì irrigidirsi come a prende coscienza dell’imminente ordine. I piedi di lei, accanto a quelli di lui, sui pedali. “Lascia.”

E Clint lo fece.

Natalia prese il comando del mezzo con rapidità. La macchina sbandò un solo istante, prima che il suo piede scivolasse sull’acceleratore a recuperare la velocità.

Lo sentì fare dei movimenti strani alle sue spalle, cercando di sottrarsi al suo peso e spostarsi, in uno strofinio di membra, tutt’altro che distaccato.

“La tua virilità mi sembra a posto.” Commentò solo.

“Fottiti.” L’apostrofò lui, strappandole un sorriso non richiesto. Il fatto che il cuore avesse preso a battere tanto rapidamente, le aveva messo addosso una strana, perversa euforia.

Improvvisamente conscia che non c’era niente di sbagliato in quella sensazione, che doveva essere qualcosa di strettamente connesso alla sua naturale inclinazione. Decise di cibarsene finché ne avesse avuto l’occasione.

Lo sentì armeggiare con arco e frecce lanciate alla rinfusa, nella fuga troppo frenetica.

Lo osservò dallo specchietto retrovisore mentre prendeva posto sui sedili posteriori e apriva i finestrini.

“Un californiano che non ha una decappottabile...” lo sentì imprecare, “dovevo capirlo che c’era qualcosa di sbagliato in Billy.”

Lo vide farsi strada oltre il finestrino e la responsabilità di non farlo finire fuori del tutto la costrinse a guardare la strada con maggiore attenzione.

Solo l’istante successivo, un centro, gridato con un certo entusiasmo, e il fischio di gomme che stridevano sull’asfalto le suggerirono che l’operazione era riuscita…

“Ommerda.” … e precitata di nuovo.

“Cosa?” gli gridò, cercando di capirci qualcosa da quello che vedeva dal vetro crepato e dallo specchietto laterale.

“Non ti preoccupare, continua a guidare!”

E nel nome del gesto altruistico che Clint aveva compiuto per lei, rifiutandosi di consegnarla, fu quello che fece.

Anche quando una scarica indefinita di proiettili si scaricò sulla loro macchina, come una pioggia di grandine.

 

*

 

Altre tre, quattro, no, cinque fottutissime macchine, si erano precipitate al loro inseguimento. Il luccichio infernale delle lamiere, il rombo dei motori e la gragnola di proiettili a non lasciargli nemmeno il tempo di capire dove direzionare i colpi. O se prendere coscienza che di lì a poco lo avrebbero ridotto a un colabrodo.

E, in tutta sincerità, non era arrivato fin lì per diventare cibo per i vermi. Potevano benissimo nutrirsi di terra così come avevano sempre fatto, senza dover usufruire dell’apporto del sorbetto Barton.

In più… prima di tutto, avrebbe dovuto chiarire la questione con Barney, perché insomma, dopo le recenti rivelazioni una spiegazione se la sarebbe pur meritata, sebbene il fatto che fosse un (cazzo di) federale complicava un attimo la questione.

Un (cazzo di) federale! Dunque era questo che aveva fatto nei due miseri anni in cui si erano separati per cause di forze maggiori, dopo la fuga dal circo? Clint si era unito a un branco di ladruncoli da strapazzo e il fratello, ciarlando di aver raggiunto l’esercito, invece, stava completando la sua formazione. E poi era tornato, semplicemente, come se nulla fosse. A raccontargli che aveva fallito, che magari insieme avrebbero potuto uscirne...

Era forse un modo per spronarlo ad abbandonare quella vita?

Clint si era sempre tenacemente opposto a dargli retta. E… Barney aveva finito per unirsi a lui. E poi solo a finirgli fra i piedi. E infine solo a distruggere i suoi piani.

Perché diavolo non lo aveva arrestato, facendola finita?

Per le stesse motivazioni per cui non lo aveva fermato quello stesso giorno.

Per le stesse motivazioni che lo avevano spinto a gridargli di sparargli addosso. Come un (cazzo di) cavallo zoppo.

Sentiva qualcosa stridere prepotentemente nel suo comportamento, ma solo il groppo alla gola gli raccontava che Barney aveva fatto tutto sempre e solo per il suo bene. In un modo del tutto perverso e completamente fuorilegge.

Forse avrebbe dovuto moderare i toni… se mai gli fosse stato concesso di rivederlo, dopo quell’inseguimento.

La questione gli diede la giusta spinta a reagire, a non arrendersi. Quello… e Natalia che stava guidando, a pochi centimetri da lui. Quello, e il ricordo dei piani di Stark che ballavano in tubi di carta, sul sedile posteriore dell’auto.

Avrebbe finito quel (cazzo di) lavoro e poi… e poi ci avrebbe pensato.

Cazzo di Novicov, cazzo di Stark, cazzo di SHIELD, cazzo di FBI. E stavolta senza parentesi.

Incoccò due frecce, cercò il momento adatto per uscire di nuovo dal finestrino e in una pausa di proiettili fece la sua mossa.

Altre due ruote furono messe fuoriuso. Un’altra Mercedes andava fuori strada.

“E due!”

“Tutto a posto?”

“Alla grande, ragazzina.”

“Credevo non mi avresti più chiamata così!”

“Ti dà fastidio?”

“No. Mi piace.”

Uno scambio di battute del tutto fuori luogo che però riuscì a strappargli un sorriso e che di nuovo lo trascinò fuori dall’auto a scoccar frecce, nemmeno fosse un inseguimento alla John Wayne a cavallo.

Si ritirò di nuovo, quando capì che le sue bravate non erano andate a genio a quel gruppo di macchinoni o a chi li occupava.

Aveva bisogno di un diversivo. Qualcosa che gli desse la possibilità di frenarle in toto.

Cercò fra le frecce, mentre Natalia sembrava del tutto intenzionata a fargli rimettere la colazione.

“Che cazzo stai facendo?”

“Cosa credi che stia facendo? Devio i proiettili!”

“Ma non siamo in un (cazzo di) videogioco!” perché si sentiva davvero in una di quelle piattaforme basiche con le macchinine che devono evitare l’olio sulla strada.

Olio.

Sulla strada.

“Nat, sei un genio.”

“Scusa?”

“Un genio, ti adoro, grazie!” Disse, accompagnando alla frase un bacio sulla testa della ragazzina, che per tutta risposta sbandò di nuovo.

Billy aveva una tanica di benzina nel bagagliaio.

Non era olio ma… qualcosa con cui far passare un pessimo quarto d’ora a quelli dell’FBI, sì.

Forse era persino meglio dell’olio. Diciamo la versione aggiornata e teppista del giochino con le automobiline.

Smontò la tendina del bagagliaio e con cautela andò a testare con la sola mano, la tanica il cui liquido suonava rassicurante a pochi centimetri da lui.

Fu costretto a ritirarsi all’ennesima scarica di proiettili.

“Figli di puttana.” Sibilò guardandosi le mani, sperando di non essere stato colpito. Le mani quanto la vista. Avrebbe barattato qualsiasi altro senso, pur di non perdere quei due specifici.

Inspirò a fondo e attese qualche istante prima di ritentare.

“Tutto a posto Clint?”

“Tutto a posto!” la rassicurò con un gemito acuto, mentre cercava di sganciare il tappo che teneva prigioniera la benzina.

Esultò internamente quando se lo ritrovò fra le mani.

Si infilò fra i due sedili per recuperare l’accendisigari e tornò sul retro.

“Che stai facendo?”

“Ora lo vedi…”

Sperò.

Prese un profondo respiro, si sporse per l’ultima volta per azionare la serratura del bagagliaio che si aprì di schianto.

L’istante successivo aveva spinto la tanica giù a rotolar per la strada, lasciandosi dietro una scia di liquido infiammabile.

Dopodiché lanciò l’accendisigari sperando funzionasse.

Non gli ci volle molto per accorgersi che il cielo aveva accolto le sue preghiere: giusto il tempo della scintilla di entrare in contatto con la benzina e questa aveva preso fuoco, incendiando la strada tutta, in un cancello di fuoco che ebbe il potere di frenare le macchine all’inseguimento.

“BOOM!”

“Cos’è quel fumo?”

Natalia sembrava nel panico.

“Il nostro diversivo.” Una bella finestra sul retro. Ecco che cosa gli ci voleva.

Il campo d’azione così ampio gli diede la possibilità di prendere di nuovo la mira e fra fumo e fiamme, fare fuori almeno altre quattro ruote.

Una sola Mercedes ora sembrava aver avuto la meglio.

Un gioco da ragazzi.

Calibrò di nuovo la mira, mentre dai finestrini affumicati si sporgevano almeno tre uomini.

Ignorali. Pensa alle ruote.

Mirò un'ultima volta, mentre il rumore dei proiettili gli permeava il cervello.

Le ruote. Solo le ruote.

 

Concentrato com’era, quando partì la prima freccia non si rese conto del sibilo che gli sferzò il viso.

Concentrato com’era, quando anche la seconda freccia fece il suo dovere, registrò appena il bruciore appena sopra la tempia.

Concentrato com’era… vide la macchina sbandare di lato e finire fuori strada… mentre l’arco gli scivolava dalle mani.

“Clint!”

Non sentì nemmeno il grido di Natalia. Né capì perché improvvisamente il mondo fosse diventato buio… e silenzioso.

 

*

 

Natalia fu certa di non aver mai provato un panico tanto intenso, viscerale, nauseante.

Aveva spinto la macchina a livelli impensabili. Ignorando la possibilità di venir fermata. Deviando le poche macchine che sfrecciavano nel traffico serale.

Doveva fermarsi, doveva trovare un posto dove accertarsi che Clint stesse bene.

Aveva ignorato tutti i suoi richiami, le sue grida, le scosse più o meno violente della macchina.

Respirava, per quanto le fosse dato capirlo, ma aveva sangue su tutta la faccia. Ed era pallido, pallido come un fantasma. Pallido come… quel ragazzino, in quel vicolo, il giorno in cui… l’aveva trovata.

Aveva sterzato verso un'area di servizio, non appena ne aveva trovata una, ignorando l’istinto che le diceva che li avrebbero rintracciati in fretta; nascondendo quella macchina compromessa, ormai troppo vistosa, dietro un grosso camion in sosta.

Si era precipitata sul sedile posteriore e aveva preso a schiaffeggiarlo, per farlo rinvenire.

Ma non sembrava dar segni di ripresa di nessun tipo e fu proprio in quel momento che al panico si aggiunse una sensazione nuova, assurda, devastante di disperazione che finì per centuplicare quel mal di stomaco e quel groppo alla gola che tanto sembrava assomigliare alla voglia di… piangere.

Ma lei non poteva piangere. Non era un esperimento? Non era una specie di automa creato a tavolino da qualche russo pazzoide? Non era quello che c’era scritto su quei cazzo di documenti che Clint le aveva mostrato?

Soggetto numero 156: Natalia Romanova.

Questo c’era scritto.

Somministrazione siero H34.

Vedova Nera: esperimento numero 13.

“Ci vediamo all’alba, Natalia.”

E poi il rumore di macchinari. Colla di elettrodi sulle tempie, sul petto. La sensazione di un tubo, infilato giù per la gola. Le lacrime che scendevano per lo sforzo di deglutire… la sensazione così reale che per poco pensò di aver cominciato a piangere… davvero.

 

Quando si trovò le guance umide capì che no, non era solo una stupida sensazione, scatenata da un ricordo. Ma che quelle lacrime avevano preso a precipitare davvero. Grosse, calde, reali. A bagnarle il viso, il collo, a liquefarsi sul viso di Clint.

La realizzazione di quel pensiero innescò un processo che la frantumò come un bicchiere di cristallo.

Un pessimo momento. Un pessimo momento per lasciarsi andare. Un pessimo momento per perdere le speranze. Un pessimo momento… per dimostrarsi la ragazzina che era. Una stupida ragazzina.

Un esperimento riuscito male.

“Clint, svegliati!” rabbrividì al modo in cui le aveva vibrato la voce.

Un altro schiaffo, uno scossone.

Un esperimento riuscito male che non riusciva a far altro che assistere impotente a quell’assurdo spettacolo.

“Clint, per favore, per favore! Svegliati.”

La vista offuscata da quell’ammasso indecente di acqua salata che stillava, arrogante, dai suoi occhi.

“Clint, brutto stronzo! S-svegliati!” lo scosse così forte che sentì le sue dita, aggrappate alla sua maglia, dolere per la contrazione.

“Se non ti svegli giuro che ti uccido! L’ho già fatto una volta…” o forse di più? “Posso farlo anche con te! Lo giuro… lo giuro.”

Dove diavolo era andata a finire tutta quella razionalità che credeva di possedere? Dove diavolo era finita la convinzione di avere qualità particolari? Concentrazione, reazione, calcolo.

Solo fino a pochi minuti prima aveva funzionato, dove era andata a finire?

Clint era lì, di fronte a lei. E lei non sapeva più cosa diavolo fare.

Lo scosse un’ultima volta, uno schiaffo così forte che se non lo avesse ucciso se non altro le avrebbe restituito la lucidità per il dolore del palmo contro il suo viso.

Non si rese conto degli occhi dell’uomo che si aprivano, né dell’imprecazione, affatto galante che gli sfuggì dalle labbra…

“P-porca la puttana, ma che cazzo… ?”

… che gliene riservò un secondo così forte che lo rimise seduto come fosse stato azionato a molla.

“Ti sei rincoglionita?!” lo sentì gridare, la voce rotta dalla sorpresa, dal dolore, dallo stordimento.

La mano di lei ancora levata a metà, le lacrime sospese fra le ciglia, in statica sorpresa.

Ci era riuscita? Lo aveva risvegliato.

A… suon di ceffoni.

I medici avrebbero avuto più di un’obiezione da fare a riguardo.

La gioia e il sollievo furono tante e troppe che gli si gettò – davvero stavolta – fra le braccia travolgendolo su due piedi, mandandolo a rovinare di nuovo disteso sul sedile posteriore.

“Nat!” lo sentì gorgogliare, ignorando il fatto che si stesse agitando nemmeno fosse stato tarantolato e che, probabilmente, gli stava anche facendo male.

“Credevo stessi per morire.” Si levò appena solo quando pensò che fosse stato sufficientemente punito per averle procurato tali preoccupazioni. Lo aveva preso per il bavero della maglietta e strattonato con aria minacciosa, senza che potesse impedire ad altre lacrime di offuscarle la vista. Si rese conto, adesso, che il sollievo aveva preso delle inquietanti sfumature di rabbia. Rabbia per aver provato quella stupida, insensata, scellerata paura.

Lui si limitò a lanciarle uno sguardo stordito, incomprensibile. Il viso ancora una maschera di sangue e stupore.

“Stai bene?”

La stava fissando come se non capisse un accidenti di niente di quello che gli stava dicendo.

“Clint…”

Gli fece ballare una mano sul viso, come a capire se ci fosse del tutto, ma lui si limitò a scostargliela e guardarle le labbra in modo inquietante.

“Ehi…”

Il panico che gli vide dipinto addosso lo avvertì chiaro e nitido anche sulla sua pelle.

“Nat…” mormorò, “perché non sento niente… ?”

Merda.

 

*

 

Bella domanda.

Non sentiva… un accidenti di niente.

A parte il peso di Nat addosso e quel mal di testa terrificante che gli prendeva tutto il lato destro della faccia.

La sensazione era come quella di avere dell’acqua nell’orecchio. Solo che l’acqua doveva essere troppa perché, quel sibilo gli dava l’idea di un tappo che a malapena gli permetteva di percepire dei rumori.

Le labbra della ragazza si muovevano appena, e fu costretto a voltare il capo per darle la sinistra, a istinto, a favore di suono.

E lì la situazione migliorò sensibilmente.

Se non altro non era diventato… completamente sordo.

“Ti hanno colpito.” Riuscì a percepire, ma solo perché lei probabilmente stava urlando.

Sì, quello forse lo ricordava. O almeno… era sicuro di essere appena stato sfiorato da un proiettile ma da qui ad essere colpito.

Eppure sì, aveva le mani sporche di sangue. E il sapore metallico sulle labbra gli suggeriva di averne anche sulla faccia.

“L’FBI?” le domandò, trovandosi a voltare di nuovo il capo, e scrutare con la coda dell’occhio le sue labbra, come a cercare di cogliere al meglio le sue parole.

“Seminati.”

Il sollievo gli scese nello stomaco come balsamo lenitivo.

“Dove siamo?”

“In un’area di servizio.”

“Dobbiamo andarcene. Ci metteranno poco a trovarci.”

Natalia non ebbe bisogno di parlare per comunicargli che lo sapeva.

Si portò una mano al viso, un po’ gonfio e bollente.

“Mi fa male la testa…” mormorò.

“E’ stato il proiettile…”

“E anche… la faccia.”

Natalia fece una smorfia.

“Non ti svegliavi.”

Realizzò solo in quel momento l’espressione sul suo viso congestionato e gli occhi arrossati, umidi.

Sentì una dolorosa contrazione allo stomaco. Come se non fosse già stato sufficiente provarne alla faccia.

Avrebbe voluto dirle qualcosa. Qualcosa di rassicurante, qualcosa che avesse un significato profondo. Ma quel qualcosa aleggiò un po’ troppo a lungo nella sua testa che, quando il momento passò, sembrò solo stupido farlo.

“Sto bene.” Si limitò quindi a smozzicare a fatica, strizzandole il naso fra due dita, rimproverandosi per il gesto forse troppo confidenziale, ma che sembrò dapprima stizzirla e poi distenderle finalmente lo sguardo.

“Dobbiamo andarcene.” Ribadì, come in rewind, “mi dai una mano?”

Si appoggiò a lei con tutto il peso, realizzando di avere le gambe molli e la testa che girava e girava.

“Dove andiamo, Clint?”

“Non lo so… per ora lontano da questa macchina.”

 

Fu solo qualche metro più in là che notarono il camion dei rifornimenti, parcheggiato di fronte all’area di servizio, con gli sportelli posteriori spalancati.

Un invito scritto a caratteri cubitali.

L’illuminazione parve cogliere entrambi, perché fu quella la direzione che presero, senza dirsi una sola parola.

 

___

Note:

La fuga ha avuto inizio. E, come si nota, non è ancora conclusa.

Poco da dire sul capitolo se non, che si continui!

Ringraziamenti di rito alla socia e beta, ringraziamenti ai commentatori, vecchi (nel senso di… vintage) e nuovi e ringraziamenti sparsi a chi li vuole.

Piccolo spazio pubblicità. Ho scritta una cosetta: [LOOP] perché sto sviluppando una certa simpatia per Capitan America, che mi sta succedendo? L’ho sempre trovato noioso! Scusa Cap, ma non eri il mio genere. E invece…
E poi promuovo una fan fiction della mia socia e beta: [Soul Stripper] perché ha dato vita a una inconsapevole sfida che non voglio nemmeno sapere SE e quando proseguirà, ma sappi che è sempre aperta (sì, è una minaccia).

Bene dopo queste inutili divagazioni, ci si sente la prossima settimana!

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


CAPITOLO 14

 

I don't know where I'm going
Only God knows where I've been
I'm a devil on the run
A six gun lover
A candle in the wind

(Blaze of Glory – Bon Jovi) 

 

I sobbalzi disarticolati del cargo del camion che trasportava casse di lattine e bottiglie, il clangore prodotto da mille liquami che sbattevano uno sull’altro all’unisono, impedivano pressoché di riposare.

Non che Natalia pensasse ci sarebbe riuscita. Non che si augurasse che Clint potesse farlo. Il solo fatto di vederlo ciondolare, di tanto in tanto, faceva rinascere in lei la stessa identica paura che il vederlo svenuto e sanguinante in macchina, meno di mezz’ora prima, le aveva provocato.

Perciò si era imposta di obbligarlo a non addormentarsi. Nella remota ipotesi potesse risultare pericoloso. Nell’ipotesi ancora più spaventosa che non si sarebbe più risvegliato, questa volta.

Gli regalò un'altra gomitata nelle costole.

“Ahia…”

“Rimani sveglio. Nel caso questo camion si fermi, dobbiamo essere pronti a una rapida fuga.”

La scusa più plausibile. Il fatto era che adesso che aveva la vita di Clint fra le mani, manteneva più alto il senso d’allerta.

Le ricordava ancora le sue parole, anzi, ebbe il dubbio non le avrebbe dimenticate mai.

O entrambi. O nessuno.

Non l’avrebbe lasciata sola. Si sarebbe esposto, lanciato nell’occhio del ciclone, solo per non lasciarla sola. E per quanto la riguardava le sembrava ne avesse già abbondantemente pagato lo scotto.
Se Clint non fosse tornato in pieno possesso del suo udito, non se lo sarebbe mai perdonato.

Fosse stata la vista… non ci voleva nemmeno pensare.

Gli diede un pizzicotto, quando ancora lo vide abbattere la testa sul petto.

“Dai…” protestò lui, passandosi una mano sul viso, mezzo incrostato di sangue.

“Devi rimanere sveglio, Clint.” E poi ebbe un’idea. Si mise in piedi, barcollando pericolosamente, per andare a recuperare una bottiglia d’acqua. Se anche si fossero accorti della sua mancanza, di certo non sarebbe stata la cosa che le avrebbero fatto pagare più cara.

“Ah, buono, avevo sete.” Colse il suggerimento, mentre lei cercava qualcosa nello zaino, tirandone fuori una maglietta pulita.

“Avevi intenzione di cambiarti?” le domandò, vedendolo fare uno sforzo incredibile per aprire una misera bottiglietta d’acqua.

Lei gliela sfilò di mano e gliel’aprì, bagnandoci la maglia, prima di restituirgliela.

“No.”  Gli rispose. “Avevo intenzione di andarmene”, le parole pronunciate così flebilmente che nemmeno era sicura fosse riuscito a sentirla.  Il fatto che lui avesse preso a bere, senza rivolgerle uno sguardo, sembrò confermare la sua tesi.

Sì, l’intenzione era quella di andarsene. Poco dopo il colpo. Far trovare a Clint i progetti di Stark e scappare, senza nemmeno un saluto.

L’assurdità di quel piano le si palesò dinnanzi in tutta la sua stupidità.

Gli si inginocchiò di fianco e attese che finisse di dissetarsi, prima di costringerlo a voltarsi nella sua direzione. Con il suo sguardo confuso puntato addosso, Natalia prese a lavargli via il sangue dalla faccia con una maglietta delle “Auto-officine Mitchell, dal 1960 al vostro servizio”, e una bottiglietta d’acqua minerale.

“Ahia.”

“Non ti faccio male.”

“Questo lo dici tu. Non hai la mano leggera.”

“E’ per picchiarti meglio.”

“Ecco, brava, giusto il lupo di Cappuccetto Rosso.”

“E tu chi dovresti essere… la nonna?”

“Eh?”

Natalia scosse la testa. Cercò di essere più delicata possibile in prossimità dello sfregio del proiettile. Si era resa conto che il colpo gli aveva portato via un po’ di capelli, scavando un piccolo solco. Niente che non avrebbe potuto essere nascosto facendoli ricrescere. Il proiettile lo aveva preso di striscio: sperò che i danni fossero temporanei.

“Perché te ne volevi andare?” la voce di lui così vicina, rallentò la sua mano. Un brivido inaspettato le scivolò lungo lo stomaco.

Era riuscito a sentirla, prima?

Si prese tutto il tempo per finire di ripulirlo, portandosi via gli ultimi residui di sangue sulla tempia, prima di decidersi a fronteggiarlo.

Gli aveva promesso delle spiegazioni. E non sembrava, in quel momento, ci fosse più modo di rimandare. O di sfuggirgli. Per l’ennesima volta.

Strinse le dita attorno alla stoffa della maglietta, ormai ridotta a una pezza sanguinolenta.

“Non volevo più che rischiassi per me.” Soffiò, rimettendosi seduta al suo fianco, nemmeno il coraggio di guardarlo veramente negli occhi.

“Questo lo avevo capito ma… perché? Arrivati a questo punto?” era una nota di delusione quella che avvertiva nella sua voce? Forse per quello non lo guardava, per non leggerla anche nei suoi occhi.

“E’ perché ti sei limonata quel tipo della spiaggia?”

La titubanza, il senso di colpa, il timore evaporarono all’istante per essere rimpiazzati dallo stupore, e della vergogna (?) di quell’affermazione.

“C-che cosa?”

“Il tipo. Sulla spiaggia.”

“Che cosa ne sai tu?” adesso sì che lo stava guardando, anche un po’ indignata, sperando fosse solo una presunta illazione. Le sue parole successive chiarirono però ogni dubbio a riguardo.

“Sono venuto a cercarti questo pomeriggio e l’ho incontrato. Gli ho chiesto di te e mi ha detto tutto.”

“Ti ha… detto tutto.” Un’affermazione più che una domanda.

“Sì. Tutto. Ma non l’ho minacciato. Ha fatto tutto da solo.” Scagionarsi da qualsiasi responsabilità sembrava una delle abilità particolari di Clint.

Valutò se andare o meno avanti, se mantenere acceso il dibattito, quando decise che forse non era esattamente il caso. Che importava a Clint, dopotutto, con chi avesse deciso di divertirsi o perché?

“Non è per quello… comunque.” Perché avrebbe dovuto essere quello? Non si sentiva in colpa. Anzi, lo aveva fatto proprio per provare a se stessa… che avrebbe potuto non sentirsi… in colpa.

Ma questo non glielo avrebbe detto mai.

Men che meno ammettere che di Adam non ricordava che il loro incontro assolato sulla spiaggia… mentre in quel bacio non aveva fatto altro che pensare a Clint. Per tutto il tempo.

“E allora perché? E’ per via di quelle cose… che non mi hai detto?”

Adesso sì che aveva avuto il coraggio di guardarlo. E aveva annuito. Una sola volta.

 

*

 

Clint si scoprì curioso ma altrettanto a disagio di scoprire che cosa Natalia avesse omesso di raccontargli.

Un orribile segreto, nascosto fra le pieghe della storia.

Talmente ben nascosto che non riusciva a immaginare un bel niente. Ma forse era solo lo stordimento ancora in atto. Il fatto poi, che ancora sentisse onde in moto discontinuo, roboante nelle orecchie, non aiutava certo la concentrazione.

“I documenti che hai sottratto alla centrale di polizia…”

Li ricordava. Li ricordava benissimo. Quelli scritti in cirillico. Quelli che invece lei aveva letto.

Annuì come a farle capire di continuare, che aveva compreso di che stava parlando.

“Il mio nome è Natalia Romanova. Ero immatricolata come il soggetto 156, sui quei file, come… non lo so… una specie di cavia, da laboratorio. C’era una catalogazione anche piuttosto dettagliata sulla somministrazione di farmaci specifici.”

Farmaci. Catalogazioni? Numeri di matricola? Di che cosa stava parlando? Il collegamento non arrivò così rapido come sperava.

“Stai dicendo di essere una specie di…”

“Esperimento.”

“No.”

“Sì. Un esperimento. Una serie di test sulla mia reattività fisica, cerebrale e allegato il rapporto settimanale .”

“Dai, non… è possibile.”

“Dici di no? Spiegherebbe un sacco di cose… se ci pensi. Molto più di tutte le fantasiose ipotesi che mi hai propinato.”

“Quella della spia russa però, adesso, diventa follemente reale, Nat.”

La vide ammutolirsi per un istante.
“Questa… te la concedo.”

“Lo sapevo che doveva esserci qualcosa di grosso sotto, qualcosa di mostruosamente… grosso.”

Una spia! Una spia russa. Nemmeno fossero protagonisti di un cazzo di film di James Bond. Una roba da romanzi, una roba… pazzesca.

Ma forse non era esattamente il caso di esaltarsi. Natalia lo stava mettendo a parte di un segreto. Un segreto anche piuttosto inquietante. Esperimenti su ragazzine… per creare delle spie? Erano supposizioni ma… anche una… figata pazzesca, cazzo!

“Già… anche se credo di non essere esattamente un esperimento andato a buon fine.”

“Ma cosa dici?”

E la cosa delle cosce? Insomma, la cosa delle cosce gli era rimasta così impressa nel cervello che probabilmente avrebbe continuato a tormentarlo anche negli anni a venire. Sempre non gli fosse balzata in testa l’assurda idea di imparare lui stesso a farla. E fosse miseramente morto nel tentativo.

“Dico che… i mal di testa. La perdita di coscienza. Di memoria. Non possono certo essere fattori positivi. Il fatto che nessuno, fino ad ora, a parte organizzazioni segrete e polizia mi sia venuto a cercare… credo che… credo che abbiano preferito abbandonarmi. Come una specie di rottame da smaltire.” La tristezza che improvvisamente aveva colto nel tono di Natalia ebbe il potere di placare la sua esaltazione… di un poco.

“Sarebbero dei coglioni ad averlo fatto.”

“Sarebbero stati pratici. Avrebbero seguito una procedura…”

“I cavalli zoppi si eliminano. Non si lasciano in giro come mine vaganti. Perché è questo che sei, Nat. Una mina vagante.” Non era un’offesa, quella che voleva rivolgerle, ma pensò fosse il caso di ridimensionare i toni. “Sei in gamba. Ma non sai come gestire queste qualità. Hai con te ancora qualcosa che probabilmente appartiene a loro. Il dischetto, macchiato di sangue, giusto?”

Natalia lo stava fissando e annuì.

“E a quanto pare lo sta cercando lo SHIELD, lo sta cercando l’FBI, lo sta cercando chiunque. E molto probabilmente lo sanno anche i tuoi mandanti. Il motivo per cui ti abbiano permesso di andare in giro fino ad ora è oscuro. A meno che non stiano aspettando solo il momento buono. Oppure pensano che valga la pena… aspettare per qualcuno come te.”

Natalia ora stava scuotendo la testa.

“Se non avessi incontrato te non sarei andata molto lontano. Credo che abbiano preferito abbandonarmi. Sono difettosa, Clint. Sono difettosa… e pericolosa. Probabilmente anche per chi mi ha creata.”

Creata. Quella parola smise improvvisamente di essere poi così esaltante. Di nuovo il tono di lei, la pena che traspariva dalla sua espressione, gli fece serpeggiare un brivido lungo la schiena. Qualcosa di indefinito a serrargli lo stomaco. Come la premonizione di qualcosa di spaventoso. Che per l’appunto non tardò ad arrivare.

“Sai… penso che forse… dovremmo fermarci qui, Clint. Penso che dovresti valutare la possibilità di lasciarmi prendere dallo SHIELD o da chi per loro.”

“Nat…”

“Sono seria.” Ora gli aveva puntato lo sguardo addosso, serio, determinato. “Non potremo continuare a scappare per sempre.”

“Non sai quello che stai dicendo.”

“Lo so invece, fin troppo bene. Qualsiasi cosa abbiano in serbo per me, ho come la sensazione che non sarà mai così spaventosa… come l'essere sottoposta a esperimenti di sorta. Di provare quella o-orribile sensazione di essere trattata come una cavia. Di continuare ad avere quegli orribili incubi.”

Incubi. Di che incubi stava parlando? Quelli che la facevano lamentare, nel bel mezzo della notte?

“Non dire stronzate, Nat. Lo SHIELD, l’FBI, credi che si farebbero scrupoli a rivoltarti come un calzino?” gli era uscito, sebbene solo qualche settimana prima non la pensasse esattamente così. Solo qualche settimana prima era convinto che la polizia non fosse il male peggiore che potesse capitarle ma… dopo aver appurato che non si erano fatti scrupoli a sparar loro addosso…

E poi solo qualche settimana prima le cose con Natalia non stavano così.
Il livello di familiarità a cui era arrivato con quella stupida ragazzina ormai era troppo elevato per essere ignorato.

Ci teneva… a lei. Ci teneva come fosse un membro della sua famiglia. Anzi, più che a un membro della sua famiglia, considerato il fatto che, alla sua famiglia, Clint non ci aveva tenuto mai abbastanza. A parte quel cretino di suo fratello che…

“Non mi importa, Clint. Voglio solo che finisca.”

Finire. Cosa? La parola fine non gli piaceva, non gli era mai piaciuta.

“Non è necessario che finisca. Possiamo scappare, Nat. Sparire.” Gli era uscita un po’ come una frase da filmetto romantico di serie B, e si odiò per questo, ma continuò esattamente su quel tono.

“Mio fratello lavora all’FBI, potrebbe darci una mano. Lo ha fatto prima…”

“Clint…”

“Davvero! Mi deve un sacco di favori.” E nel dirlo non ci credeva nemmeno lui.

“Più di quanti tu ne debba a lui?”

“Più di-” fece una smorfia, interrompendosi per un istante, “questo non c’entra. È lui il fratello maggiore, deve continuare a coprire le mie stronzate. Altrimenti che cazzo è entrato a fare nell’FBI?”

Clint…”

“Sul serio, Nat…”

“E se ci trovassero? Se ci trovassero i miei di mandanti? O se… come hai detto tu: aspettassero solo che scopra di potermela cavare da sola? Se mi tornasse la memoria e l’esito della missione fosse più importante di-”

Di te.

“Neutralizzerei le tue gambe per evitare quella cosa delle cosce.” Aggiunse con urgenza.

Si rifiutava di crederlo.

E poi sarebbe stato un modo come un altro per cambiare scenario.

Il pensiero di cambiare vita, identità – che lo colse in quell’attimo esatto – fu piuttosto inebriante.

Aveva sempre detto che presto o tardi avrebbe smesso con quelle stronzate. Che avrebbe dovuto –    come dire? – mettere la testa a posto. Sempre se avesse capito che diavolo significasse. Certo, magari avrebbero avuto delle difficoltà all’inizio, ma poi avrebbero saputo come cavarsela. Non lo aveva sempre fatto? Non lo stava facendo Natalia?

Il pensiero che quella prospettiva fosse azzardata e assolutamente infantile, ingenua e un sacco di altri appellativi tutt’altro che gratificanti, nonché scatenata dallo stordimento del proiettile, gli passò per il cervello, ma cercò altrettanto ostinatamente di accantonarla, come se volesse rifiutarsi di credere a quello che stava succedendo; di rimandare il momento che lo avrebbe inevitabilmente separato… da lei.

“Deve finire.” il tono di Natalia sembrò definitivo. “Voglio che finisca. Voglio smetterla di scappare. Voglio smetterla di preoccuparmi per te.”

“Non devi preoccuparti per me.” Qualcosa di molto simile alla stizza cominciò a formicolargli nel petto.

“Non devo, lo so, ma lo faccio… e per tutto quello che ti ho fatto passare io… me ne scuso.”

“Te ne scusi. E’ troppo tardi.”

La vide assumere un’espressione di assoluta confusione e stupore.

“E’ troppo tardi. Te l’ho detto… è troppo tardi e non hai nemmeno modo di ripagarmi se non con delle stupide scuse?” ora quella stizza cominciava a concretizzarsi in qualcosa che gli ricordava la rabbia.

“Clint, non…”

“Non ti sembra un po’ poco? Delle scuse. E poi tanti saluti: ciao Clint, è stato bello, ma adesso me ne vado a fare un giro con quei simpaticoni dello SHIELD. A mai più arrivederci.”

“Clint…”

“Smettila di dire Clint. Smettila di dire il mio nome!”

“Non so cosa… devo fare.”

“Cosa devi fare? Te lo dico io cosa devi fare!” e si prese una pausa lunghissima, perché in realtà non aveva la minima idea di cosa Natalia dovesse fare. “Dimenticati il mio nome!” l’ispirazione gli sembrò di un certo effetto, “Ecco cosa devi fare! Dimenticalo così come hai dimenticato tutto il resto. Perché tanto non ti servirà più saperlo! Non ci rivedremo mai più, no? E allora tanti saluti e vaffanculo. Dimenticati come mi chiamo! Ecco cosa devi fare!”

Il perché avesse avuto quella reazione del tutto insensata non gli fu del tutto chiara, ma il groppo che aveva preso a stringergli lo stomaco gli sembrò un po’ troppo simile a quello che lo aveva colto il giorno in cui era stato lasciato da quella bella ragazzina con i capelli biondi, ai tempi delle elementari. Il cuore spezzato da occhi azzurri e un paio di labbra che gli dicevano che preferivano Jimmy Bean.

Il groppo allo stomaco di quando sentiva i singhiozzi di sua madre, dalla camera accanto, dopo un diverbio violento con il padre.
O come quello che lo aveva colto di sorpresa il giorno in cui quel poliziotto era venuto a casa loro a comunicare a lui e Barney che i loro genitori erano morti in un incidente stradale.

Come quella volta che aveva beccato Duquesne, il suo mentore al circo, rubare a piene mani l’incasso della giornata.

O il giorno in cui Barney se ne era andato, lasciandolo solo, blaterando di volersi unire all’esercito.

O proprio poche ore prima, di come aveva scoperto l’inganno del fratello.

Per tutte le volte che era stato lasciato, tradito, abbandonato.

Lo stesso identico groppo allo stomaco. Lo stesso identico sordo dolore.

Che si gonfiava e sgonfiava, pulsava, come qualcosa di vivo, che avrebbe dovuto placare per evitare che esplodesse.

E non si rese conto di avere Natalia troppo vicina. Non delle sue braccia che gli circondavano il collo. Non del suo abbraccio, dei suoi capelli sul viso e del suo fiato caldo sul collo.

Quella stupida… stupida ragazzina.
O forse se ne era reso conto.

Se ne era reso conto eccome… perché adesso gli facevano male le braccia nello sforzo di stringerla a sé, deciso a trattenerla un’ultima volta, prima di dirsi pronto a lasciarla definitivamente andare.

 

*

 

Se solo Clint avesse saputo quanto sforzo avesse richiesto prendere quella decisione, se solo l’avesse lasciata parlare, se solo le avesse dato la possibilità di spiegare...

Non era nemmeno sicura di avere le parole adatte ad esprimere che cosa cavolo le passasse per la testa, e allora, solo allora aveva fatto l’unica cosa che le sembrò sensata fare. Che sperò con tutto il cuore sedasse i suoi dubbi. Che gli spiegasse in modo tangibile che il fatto di volersi consegnare, di allontanarlo, non era dettato dalla scarsa importanza che Clint aveva nella sua esistenza, ma piuttosto il contrario.

Si sentì investire da una sensazione che non avrebbe mai più scordato quando lo sentì ricambiare l’abbraccio.

Le dita che si stringevano alla sua maglia, la necessità di sentirlo vicino, solido, contro di lei. Tangibile, forse per l’ultima volta.

Avrebbe dovuto lasciarlo andare, avrebbe dovuto dargli la possibilità di scappare, di liberarlo della sua ingombrante, pericolosa presenza.

Lo scricchiolio che avvertì da lì a poco fu certa fosse solo un’eco di quello che era il rumore di un cuore in frantumi…

 

… oppure di una cassa di bottiglie di birra che rischiava di rovinar loro addosso.

Fu più rapida che precisa. Scagliò Clint di lato, mentre lei si lanciava dalla parte opposta.

Le bottiglie rotolarono tutt’intorno, alcune sbriciolandosi, altre vagando scomposte per tutto il vano.

“Che cazzo sta succedendo?” la voce di Clint, dall’altra parte delle casse rovinate a terra.

Il furgone stava sbandando in maniera innaturale.

“Non lo so!” si alzò in piedi, per quanto l’equilibrio glielo permettesse, prima che l’ennesimo scossone non sconquassasse l’intero cargo.

“Il camionista si è addormentato?”

“O è impazzito, quel figlio di puttana!”

E poi li udì, rumore di spari, rumori di esplosioni. Stava succedendo qualcosa là fuori, qualcosa che, fu certa, era strettamente connesso ai loro inseguitori.

Di qualsiasi natura fossero.

Alzò lo sguardo verso l’alto, a istinto, quando le parve di sentire il rumore di pale di elicottero, sopra di loro.

“Che senti?” Clint, in evidente difficoltà cercava di reggersi alle casse rovesciate e andare verso di lei.

“Elicotteri. Spari. Sta succedendo di tutto la fuori.” Gridò, per farsi sentire.

“Fantastico, è arrivata la cavalleria. Dici che se sventoliamo bandiera bianca si fermano?”

Natalia aveva paura che non sarebbe servito. E ancora di più di scoprire come avesse potuto, in poche settimane, provocare tutto quel caos.

Un dischetto. Un cazzo di dischetto.

Si tastò nella tasca dei pantaloni, senza trovarlo.

“Il floppy.”

“Come?”

“Il mio floppy!”

La merce di scambio, l’unica di cui si trovava in possesso. La sua… bandiera bianca.

“Lo hai perso?”

“Non c’è più!”

“Bè, fanculo al floppy.”

“Sono qui per quello, se non lo trovano cosa diavolo pensi che si prenderanno?”

“Il mio scalpo se lo sono già presi.”

Di nuovo il camion sbandò e questa volta le sembrò che fosse finito fuori strada, perché aveva preso a sobbalzare come su un terreno irregolare.

“Dobbiamo uscire da qui!” fu tutto ciò che le sembrò sensato dire.

“Sei capace di scardinare una porta dall’interno?”

Ma non ci fu bisogno di elaborare un piano: il camion sbandò di nuovo e parve sollevarsi.

Le casse di bottiglie si ammassarono tutte sul fondo del vagone, quelle a terra rotolando come sospinti da una gravità misteriosa e aliena. A preannunciare un disastro imminente.

Natalia si aggrappò a Clint, quando il mondo cominciò a girare vorticosamente.

Vennero sbatacchiati da una parte all’altra. Da una parete all’altra. Le ossa, i muscoli a cozzare contro le lamiere del cargo. Dolorosamente.

L’impatto finale li trovò accartocciati sul fondo così come tutto il resto del materiale ormai frantumato.

Le portiere del camion si aprirono con un cigolio inquietante, scardinate senza preavviso. Il fumo all’esterno impediva di vedere alcunché.

“Che… botta…” sentì Clint lamentarsi… contro il suo petto.

Abbassò lo sguardo trovando la sua faccia spiaccicata alle sue tette, l’impatto se non altro era risultato più morbido del previsto.

“Tutto a posto?” domandò scostandosi, per quanto dolorante, da lì.

“A p-postissimo. Siamo solo stati f-frullati.”

“Dobbiamo uscire…”

Il rumore delle pale dell’elicottero lontano, molto al di sopra di loro.

Si fecero largo fra le casse, le bottiglie, i cocci che li avevano tagliuzzati senza pietà.

Dimenticarono lo zaino, i piani, il floppy, ma Clint sembrò abbastanza lucido per scovare in quell’ammasso informe di cianfrusaglie il suo arco.

“Che stai facendo?”

“Questo non lo l-lascio.”

“Fanatico.”

Mormorò più per dire qualcosa che per schernirlo veramente.

Si trascinarono fino alle porte spalancate, il fumo che cominciava a volatilizzarsi, facendo entrare l’oscurità della notte.

“Qualsiasi cosa succeda, corri.” Mormorò, fissando la cortina di fumo, che si dissipava. La determinazione e l’adrenalina che prendeva a galoppare in circolo nel suo sangue, nelle sue ossa. “Corri come non hai mai fatto in vita tua.”

Non le servì voltarsi per capire che Clint l’aveva sentita.

Che le aveva preso la mano.

Che si era chinato.

E che il bacio che si ritrovò stampato improvvisamente, inaspettatamente sulle labbra aveva tutta l’aria di un addio.

“Ci vediamo all’alba… Nat.” Lo sentì mormorare a un centimetro dal suo viso, mentre una solida carezza si portava via uno dei suoi sospiri.

Un addio.

O forse no.

 

 

___ 

Note:

Uh oh, che è successo? Non lo so. Però adesso siamo in dirittura d’arrivo di questo inseguimento. E c’è ancora qualcosa di importante da raccontare prima che sia definitivamente concluso. E no, non sarà tutto rose e fiori. Poco da dire o aggiungere se non al solito i ringraziamenti a beta Sere e lettori e commentatori.

Ci sentiamo alla prossima, io, intanto, vado a iniettarmi un po’ di caffè in vena.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


CAPITOLO 15

 

Thinking so hard on her soft eyes and the memories
Offer signs that it's over... it's over

(Last Goodbye – Jeff Buckley)

 

Il volto tumefatto, la bocca spaccata, la spalla lussata, l’orecchio… sordo.

I polsi incastrati in un paio di manette. La luce accecante a far proliferare cellule di mal di testa.

Avrebbero almeno potuto offrirgli un caffè. Non sarebbe mai stato abbastanza lucido per articolare frasi sensate, di senso compiuto, senza un caffè.

Un uomo seduto di fronte a lui. Un altro passeggiava nervoso per quello stanzino fatto di luce e piastrelle di uno squallido color bile.

Lo sguardo che ostentavano nella sua direzione, le parole al vento, in un susseguirsi di nebulosi: bla bla bla.

“Ha capito che cosa le ho chiesto, signor Barton?”

I capelli dei quel tizio si sollevavano, buffissimi, in un ciuffo sbilenco sulla calvizie incipiente, nonostante la giovane età. La fronte lucida rifletteva le luci al neon.

“Cosa?”

Lo sentì sospirare, di nuovo. Il tizio sembrava dotato di ammirabile pazienza.

“Ho detto…”

“Coulson, è sordo come una campana, non ci caverai un ragno dal buco.”

“Ci è stato ordinato di interrogarlo. Ed è quello che sto facendo, se non ti dispiace.”

“Stiamo perdendo tempo. E in ogni caso non vinceremo un premio… per questo qui.”

Il cosiddetto Coulson (evviva, adesso aveva un nome!), sembrò ignorare il commento. Al contrario tornò a guardare Clint, in procinto di ricominciare con tutta la trafila.

“Signor Barton…”

Signore. Un bell’appellativo. Gli piaceva… essere chiamato signore.

“Parlavamo di un floppy disk.”

Clint intese perfettamente quello che stava dicendo. Sordo… lo era solo da un orecchio, dopotutto.

“Cosa?”

“Visto? Sordo come una campana!”

“Sitwell, puoi uscire, per favore?”

“Come?”

“Sei sordo pure tu?” quel Coulson aveva smesso di sorridere.

“Ma-”

“Vai a prenderti un caffè e torna quando ti andrà di essere più collaborativo.”

“Non sei tu che decidi.”

“No, ma sto cercando di lavorare. Tu che stai facendo?”

Il tizio con gli occhialetti e una folta chioma bionda stronfiò qualcosa, prima di decidersi a prendere la porta e uscire.

Coulson.

Aveva delle potenzialità quell’ometto tutto sorrisi, dopotutto.

“Non le ho nemmeno chiesto se lo desiderava lei, un caffè…” domandò dopo un istante, guardandolo dritto negli occhi.

Clint sorrise appena. Adesso sì che ci cominciava a ragionare.

 

*

 

I polmoni bruciavano. Le gambe dolevano. Non era sicuro di ricordare quando fosse stata l’ultima volta che aveva corso così a lungo, così rapidamente, così intensamente.

Natalia era ancora al suo fianco quando scaricarono loro addosso una raffica di proiettili. Il fatto di non riuscire a sentire un accidenti di niente da un lato, lo metteva in una certa difficoltà. Tenere d'occhio il terreno, dritto di fronte a sé, irregolare e pericoloso mentre, con l'altro occhio, cercava  capire la direzione presa da Natalia per imitare le sue mosse.

Se non altro la vista gli era rimasta buona.

Non aveva capito più nulla quando gli si era lanciata addosso per scagliarlo su un lato, dietro il tronco robusto di un grosso albero.

Il dolore intenso gli suggerì che doveva aver rimediato una lussazione alla spalla, come minimo. Nemmeno riuscì a sentire l'urlo che gli sfuggì dalle labbra. Era ancora tutta una nebulosa di suoni, mentre Natalia si era rimetteva in piedi pronta a un qualsiasi tipo di attacco.

Quando furono circondati, Clint non riuscì a capire nulla di quello che stavano gridando loro contro.

Solo Natalia, in piedi, dritta di fronte a lui, a protezione.

Gli ricordò tanto una leonessa, pronta a difendere il suo cucciolo, con le unghie e con i denti.

Si odiò per tutto quello che successe nel mentre, e tutto ciò che successe dopo.

 

*

 

“Contiene informazioni di grande importanza, per la nostra organizzazione. Informazioni che non dovrebbero finire nelle mani… sbagliate.”

L'uomo ancora perseguiva con i toni pacati, mentre Clint sorseggiava quel caffè che era certo adesso, dopo il terzo assaggio, fosse il peggiore avesse mai bevuto in vita sua. Se non altro, il sapore forte e vagamente bruciacchiato gli impedivano di prestare totale attenzione a tutta una serie di dolori più o meno intensi, e concentrati nelle più svariate parti del suo corpo.

Lo sentì sospirare e lo guardò aprire una cartellina piena di fogli, cominciando a spulciarli, come se non avesse niente di meglio da fare nell'attesa.

Riuscì a deglutire a fatica, quando gli mise sotto al naso dei documenti che riconobbe come quelli che il poliziotto in New Mexico gli aveva mostrato.

“Siamo noi, i buoni, signor Barton. Si tratta di una questione di sicurezza nazionale...”

Sicurezza nazionale. Cosa c'entrava la sicurezza nazionale con la sua Nat?

Lei non era altro che un burattino, in quel macabro gioco.

“La sua collaborazione potrebbe essere determinante, e potrebbe giocare a suo favore... siamo generosi con chi collabora. Meno con chi non lo fa. Le è chiaro, questo, signor Barton?”

Adesso non era più tanto sicuro di apprezzare l'appellativo.

Mandò giù l'ennesimo boccone amaro e posò il bicchiere.

Sarebbe finito in galera, e con questo?

Aveva ancora senso... tutto quanto?

“Ci aiuterebbe a incastrare quella gente, signor Barton. E a capire chi ha fatto questo... alla signorina Romanova.” puntò un dito sui documenti.

Pensava che sottolineando la cosa lo avrebbe convinto a parlare?

“Non credo abbia più senso ormai.”

Disse la prima cosa che gli era venuta in mente. E l'ometto sembrò sorpreso di sentire la sua voce.

“Ne ha, signor Barton. Potrebbe aiutarci a mettere fine al progetto che ha coinvolto la sua amica. Su quel floppy c'erano informazioni che abbiamo accumulato su di loro nel corso degli anni. Informazioni che vedono coinvolte un sacco di altre ragazzine... potrebbe evitare che quello che è successo alla signorina Romanova succeda ad altre ragazze. Potremmo trovare tutte le cellule di questa organizzazione che-”

“Non mi importa delle altre ragazze.”

“Signor Barton.”

“Non mi importa...”

E nel dirlo, aveva ancora negli occhi una delle ultime immagini di Natalia.

 

*

 

Solo dopo alcuni minuti comprese perché non riusciva a capire davvero nulla dello scambio di battute fra Natalia e quegli uomini inquietanti che li circondavano.

Stavano parlando in russo.

E il russo gli risultava ancora un tantino ostico da decifrare.

Natalia invece sembrava riuscire ad approcciarli con una naturalezza piuttosto navigata.

Il fatto che questi stessero puntando loro armi addosso non pareva complicare la faccenda.

Che fossero finalmente venuti a riprendersela?

Già… e allora perché quello che stavano dicendo assomigliava a una serie variegata di insulti o parolacce? Forse perché tutte le lingue straniere dai toni forti… gli ricordavano gli insulti. Come quanto il dottor Herbert prendeva a parlargli in tedesco. Ecco, forse in quel caso si trattava davvero di insulti, ma non era il caso di analizzare il fatto proprio in quel momento.

Aveva provato ad alzarsi, solo per riuscire a non fare la figura della completa nullità. Uno dei russi gli stava gridando addosso, mentre Natalia rispondeva con tutta la furia del caso.

“Clint, rimani dove sei.”

“Che cazzo sta succedendo, Nat?” la voce gli era uscita flebile, vagamente rasposa.

“Vogliono che vada con loro…”

“Sono… ?”

Natalia annuì. Una sola volta.

E Clint ebbe chiaro, immediatamente, con quel segnale, che non era ciò che lei voleva fare.

 

*

 

Lo avevano trascinato in una stanzetta. Il fatto che fosse già la terza destinazione diversa dacché lo avevano portato lì, gli fece pensare fosse solo un modo per confonderlo o frustrarlo abbastanza da convincerlo a parlare.

Il problema era che non aveva alcuna intenzione di collaborare.

Perché era vero che non sarebbe servito a niente.

Si trovò ad osservare fuori da una finestrella troppo minuscola per poterci passare attraverso.

Fuori stava tramontando il sole. Per la seconda volta.

Pensare a come fossero precipitati gli eventi, in una manciata di ore, gli serrò lo stomaco, tanto da impedirgli di guardare con interesse i sandwich che gli avevano preparato per cena.

Sandwich. Al tonno.

Si domandò come facessero a sapere che era la sua combinazione preferita.

Forse lo stavano spiando da più tempo di quanto immaginasse.

Forse era stato uno stupido sciocco.

Forse sarebbe stato il caso di levare… il forse.

Era stato uno sciocco, avventato, superficiale. Un ragazzino.

Un ragazzino che avrebbe dovuto seguire il consiglio del fratello.

Se avesse consegnato Natalia adesso non sarebbe stato lì a fare i conti con i morsi famelici della sua coscienza.

Gli faceva male il petto. Un male del diavolo.

 

La porta si aprì per la seconda volta. E di nuovo si preparò ad accogliere l’ometto sorridente della stanza degli interrogatori.

Quando rialzò lo sguardo però non era lui ad essere entrato nella stanza: bensì un uomo alto, di colore e con una benda nera sull’occhio.

Un cazzo di... pirata?

 

*

 

La situazione era precipitata in modo disastroso, quando Natalia, contro ogni buonsenso, si era opposta a un’esecuzione capitale… ai suoi danni.

Il modo in cui lo avevano preso per i capelli e trascinato al centro di quel macabro cerchio sovietico gli aveva dato degli indizi più o meno evidenti su quello che sarebbe successo.

Il fatto era però che Natalia tutto sembrava, fuorché propensa a lasciarglielo fare.

Il modo in cui aveva gridato loro contro e poi…

E poi.

Le cosce.

Quella cosa delle cosce che tornava di prepotenza a dare spettacolo, in un coreografico déjà-vu.

Natalia che li assaliva, li colpiva, li atterrava. Tutti e dieci.

Clint non aveva mai visto una cosa del genere.

Certo, forse solo in qualche film di Bruce Lee o Van Damme. Forse qualcosa con Chuck Norris, una volta. Non erano amici Bruce Lee e Chuck Norris?

Strani i collegamenti mentali nei momenti tensivi.

Di certo Natalia era sua amica, o forse qualcosa di più, dato quello che aveva stupidamente fatto prima di allontanarsi dal camion disfatto ma… era una sua amica. Ed era reale. Reale come poteva esserlo il dolore sordo alla spalla. Reale come il fatto che si stesse facendo salvare il culo da lei.

Reale come il fatto che non gliene fregava niente.

E reale come il tifo che gli era partito a più riprese, che terminò con un battito di mani e un grido liberatorio.

“Sei fantastica, dovevi vederti! Avessi avuto una telecamera, dovevi vederti!”

Natalia lo aveva tirato su di peso, per la collottola.

“Lo so, Clint, lo so.”

“No, non lo sai, dovevi vederti, da fuori… fantastica, fantastica.”

E continuò a blaterarlo più o meno per tutto il percorso, in fuga da un altro gruppo di russi che li spinse fino al limite di quella intricata boscaglia, a spedirli dritti dritti sul ciglio di quella dannata… dannatissima scogliera.

 

*

Il pirata sembrava incazzato.

O forse era solo la sua espressione a riposo. Non aveva detto niente, proprio un bel niente, nemmeno stessero giocando al gioco del silenzio, a chi avrebbe ceduto per primo.

Stringeva fra le mani una cartellina. La copertina della cartellina era nera.

Non era sicuro di capire perché, ma lo interpretò immediatamente come un pessimo segno.

Il nero era un colore severo. Grave.

Se la vide volare di fianco, a planare sulla branda senza lenzuola che gli avevano fornito.

“Nel caso ti annoiassi”, aveva finalmente parlato l’omone, con una voce bassa e greve. Come il colore della cartellina.

Se non altro, al gioco del silenzio, aveva vinto lui.

Se ne andò così come era arrivato, richiudendosi silenziosamente la porta alle spalle.

Che diavolo avrebbe dovuto farci con una cazzo di cartellina nera?

Le lanciò uno sguardo esausto.

Per quello che lo riguardava, avrebbe potuto muffire lì dove era.

O forse anche a terra… dove la scagliò, prima di prendersi lo spazio sul materasso nudo.

Morire, dormire...

 

*

 

Per un attimo fu certo che quelli sarebbero stati gli ultimi attimi della sua vita.

Almeno il doppio degli uomini che Natalia aveva atterrato ora si dispiegavano di fronte a loro. Armi puntate nemmeno si fossero trovati di fronte Godzilla.

Aveva stretto la mano alla ragazza tanto forte che fu certo di averle fatto male. Ma a giudicare da come lei stessa aveva risposto alla stretta, non trovò nient’altro che il disperato tentativo di farsi forza.

Le intimazioni che si perdevano nel vuoto, una dopo l’altra.

Non la volevano uccidere, non lei almeno. Per lui sarebbe stata solo una questione di tempo.

La sentì muovere il polso.

“Salti tu, salto io, giusto?”

Abbassò su di lei uno sguardo assolutamente attonito, mentre lo stomaco gli si ingarbugliava senza possibilità di ritorno.

“Perché fra tutte le frasi ad effetto, proprio Titanic?” fu tutto ciò che Clint ebbe la forza di rispondere.

Saltare. Saltare giù dalla scogliera? Si sarebbero ammazzati. Sarebbero morti.

Ma… non sarebbero morti comunque? Lui per lo meno.

Titanic.

Morire con una citazione di Titanic? Impensabile.

“Spazio. Ultima frontiera.” Aggiunse, sentendosi se non altro liberato, in parte, del fantasma di Di Caprio. Che tanto tanto a Rose le sarebbe bastato scostarsi un minimo su quell’asse, invece di tenerla tutta per sé.

La sentì ridere, ridere di gusto, ridere e singhiozzare, i singulti che si spezzavano in un pianto a dirotto, incontenibile.

E fu certo di essere pronto per scoppiare a ridere e piangere anche lui. In un macabro, folle, conclusivo rituale.

Ma fu proprio allora, al limite della follia, delle decisioni inarrestabili e dell’ultimo gradino che li avrebbe spinti dritti dritti nelle fauci di Poseidone… che sentirono gli spari.

 

*

 

Aveva raccolto e lanciato via quella maledetta cartellina a più riprese da quando il pirata tutto nero era venuto a scagliargliela contro, nemmeno fosse stata la sua dichiarazione dei redditi.

E alla fine aveva ceduto.

Si era seduto.

Seduto su quel materasso scomodo e… letto tutti i documenti.

Decine e decine di pagine di informazioni. Più o meno dettagliate. Di macabri dettagli sugli esperimenti che riguardavano Natalia.

Degli esperimenti che riguardavano centinaia di ragazzine come lei.

Centinaia di vite plagiate, umiliate, spezzate, stroncate.

Fotografie, descrizioni minuziose di test fisici, psicologici. Centinaia di volti acerbi a fissarlo in scatti che trasudavano disperazione.

Una muta richiesta d’aiuto che non sarebbe mai stata accolta. Da nessuno.

Da nessuno se non…

Scagliò lontano la cartellina, mentre i fogli si sparpagliavano in giro in una pioggia di carta e inchiostro.

Si prese la testa fra le mani e, assecondando quel dolore al petto, quello allo stomaco, al fatto che non riuscisse nemmeno a prendere in considerazione di mangiare proprio il suo sandwich preferito… finalmente cominciò a piangere.

 

*

 

Lo SHIELD. Doveva essere per forza lo SHIELD perché nessun altro poteva eguagliare il pessimo gusto di presentarsi con elicotteri, macchinone nere e costosi vestiti da funerale. Come una specie di esercito di becchini d’assalto.

La guerriglia si scatenò di fronte ai loro occhi senza che nemmeno potessero scegliere di non assistere allo spettacolo.

Clint si trovò a scoprire che invece avrebbe persino pagato pur di vedere una scena del genere in uno dei suoi film preferiti. Effetti speciali di tutto rispetto e stuntman da paura.

I becchini erano la loro cavalleria.

I russi… erano solo dei cazzo di russi.

E fu proprio un russo a staccarsi dalla battaglia in una fuga che sarebbe sembrata comica se l’attimo successivo non si fosse tramutata in un attacco kamikaze.

“Cazzo!” fu tutto quello che Clint riuscì ad articolare, mentre la mano di Natalia si separava dalla sua con uno strappo straziante quanto una deflagrazione.

Gli attimi che seguirono furono vissuti come al rallentatore. E, per la prima volta nella sua vita, Clint si trovò a sperare ardentemente gli fornissero anche un cazzo di telecomando per poter mandare indietro… e rifare esattamente le stesse cose, ma con risultati meno disastrosi.

Vide la ragazza venir trascinata oltre il precipizio. Il russo avvinghiato a lei a spingerla fuori dalla sua portata.

Ebbe appena il tempo di allungare una mano e afferrare di nuovo la sua, agganciarsi al terreno con l’arco e cadere al suolo, il busto che si sporgeva pericolosamente oltre al baratro.

 

Il tempo tornò a scorrere in modo normale.

Il russo era aggrappato alle gambe di Natalia e Natalia era agganciata alla presa di Clint, mentre Clint pregava che il suo arco, il suo amato arco, non decidesse di abbandonarlo proprio in quel momento.

“Lasciala andare!” gridò, impossibilitato a tentare una qualsiasi offensiva. O lasciava Natalia o lasciava l’arco. E in entrambi i casi non sarebbe stata una geniale alternativa.

La ragazza aveva preso a dimenarsi e scalciare affinché il russo mollasse la presa, mentre Clint, la spalla lussata e tutto il resto, cominciava a sentir venir meno tutte le forze di cui ancora era miracolosamente in possesso.

“Lasciami andare…” sentì la voce di Natalia, nonostante l’orecchio compromesso, nonostante la guerriglia ancora attiva e violenta alle loro spalle.

“Sì, lasciala andare!” gridò Clint, mentre uno sguardo alla ragazza gli comunicò che non era al russo che lei si stava rivolgendo.

“No.” Gli uscì categorico e definitivo, mentre il suo braccio, i suoi muscoli, la sua spalla, sembravano essere in feroce disaccordo con quella soluzione.

“C-Clint… lasciami andare.”

“No! Salti tu, salto io, ricordi?”

“Credevo non volessi finire con una… c-citazione di Titanic.”

“Infatti, non è finita!”

 

Fu lo strattone che diede il russo a mettere la parola fine.

Sentì la mano perdere forza e quella di Natalia aprirsi e scivolare via fra le sue dita.

Lo strappo che Clint avvertì alla spalla fu lacerante.

E mentre Natalia precipitava fino a diventare un puntino rosso in volo, Clint non riuscì a capire se il grido che era emerso dal suo petto fosse dovuto al dolore o alla disperazione.

L’alba stava nascendo.

 

*

 

Bussò un paio di volte alla porta della stanza che lo teneva prigioniero.

Il volto congestionato, gli occhi gonfi, lo stomaco ancora contratto.

Gli venne ad aprire un ometto dall’aria innocua, un po’ intimorita. Teneva la mano sulla pistola.

Clint si trovò a pensare di averne avuto decisamente abbastanza, di pistole.

“Voglio parlare con il pirata”, disse solo.

“Il pirata?”

“Sì, il pirata. Voglio parlare con lui. Di questa.” E nel dirlo gli aveva porto la cartellina nera dentro cui aveva avuto tutto il tempo di risistemare i fogli che aveva sparpagliato in giro.

“Oh… il direttore Fury.”

Direttore Fury. Che nome del cazzo per un pirata.

Non ebbe bisogno di specificare altro.

Nemmeno fosse stato a casa sua, aveva sbattuto la porta in faccia all’ometto ed era tornato a lanciarsi sul materasso.

Natalia.

Lo avrebbe fatto per Natalia.

Avrebbe restituito il floppy allo SHIELD.

Il floppy che le aveva sottratto il giorno in cui erano partiti per Malibù.

Avrebbe parlato. Avrebbe chiuso il circolo. Messo fine a quella assurda odissea.

Lo avrebbe fatto. Per Natalia.

Solo per… Nat.

 

***

 

Aprì gli occhi e fu accolta dalla luce accecante di una lampada al neon.

Penzolava sopra la sua testa, ammiccante. Non fosse stato per la situazione scomoda avrebbe quasi detto che si stesse prendendo gioco di lei.

Che la stesse deridendo.

Provò a muovere le braccia, rendendosi conto che erano bloccate.

Provò a respirare ma la bocca era impastata. E… quel fastidio.

Un tubo. Un tubo a bloccarle la lingua, a bloccarle la gola.

Sgranò gli occhi, il tempo per rendersi conto che non poteva muoversi, in alcun modo, se non per le mani, se non per le dita e le estremità tutte.

Gli occhi cercarono di andare oltre, ma la visuale era limitata dalla posizione semi sdraiata e da quella cinghia che le teneva bloccata anche la testa.

Non era morta.

Non era... morta, precipitando?

Ricordava l'impatto con l'acqua, ricordava di aver provato dolore, ricordava persino di aver, a istinto, seguito le bollicine che correvano in un susseguirsi macabramente brioso, su, verso la superficie. Ricordò di aver pensato che se mai fosse riuscita a sopravvivere...

E poi il piede che le restava incastrato in qualcosa. Che quel qualcosa era la mano di un uomo. E che quell'uomo aveva preso a trascinarla giù, strappandole di dosso l'ultimo rimasuglio di lucidità, prima che il buio la inghiottisse.

Ed ora...

Avvertì i passi. Cadenzati, vagamente claudicanti. Che la raggiungevano. Come il fetido odore dolciastro di una qualche spezia.

“Natalia...”

La voce. Quella voce.

 

“Ci vediamo all'alba, Natalia.”

 

“Dopotutto non avevo specificato quale... alba.”

 

___

 

Note:

Ebbene sì, come qualcuno ha giustamente commentato: la frase “ci vediamo all’alba” porta sfiga. E questo è stato il tristo epilogo della storia. Epilogo fino a un certo punto, perché non è finita qui. Insomma… c’è tutta l’intro da spiegare, giusto? Perciò non disperate. C’è ancora qualche nodo da sciogliere, prima di dire addio ai nostri fanciulli. Nota d’appendice: sì, Sitwell è proprio “quel” Sitwell. E sì, non chiedetemi perché, ma negli anni novanta me lo immagino con una folta chioma alla Axl Rose. Rock and roll, Hydra.

Ringraziamenti sentiti a tutti quanti, alla socia e beta, costante compare di deliri più o meno sani e… cheddire, alla prossima!

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


CAPITOLO 16

 

Wit tha sure shot, sure ta make tha bodies drop
Drop an don't copy yo, don't call this a co-op

(Bulls on Parade – Rage Against the Machine) 

 

Non aveva mani libere.

Non aveva mani libere e si trovò a fare i conti con un istante di vero, puro, sordo panico.

Finché il suo cervello, messo in moto dall’adrenalina, non gli offrì una soluzione piuttosto rapida. E indolore. Forse.

Alzò una gamba e spalancò la porta con un calcio ben assestato. I cardini protestarono cigolando in modo inquietante, ma crearono un passaggio sufficiente.

 

Clint sganciò lo scatolone accanto alla pila consistente all’ingresso, sollevando nuvole di polvere più o meno dense.

Casa.

“Un piccolo passo per un uomo…”

La sua voce si perse fra le pareti spoglie del nuovo appartamento dall’arredamento essenziale di chi ancora deve concludere un trasloco.

Aveva appena fatto un affare, a suo dire. Coulson gli aveva procurato il nome di un tizio che sembrava affittare loft a poco prezzo a Brooklyn.

Ed effettivamente l’affitto era un miseria. E il quartiere era tranquillo. Certo, sulla porta del palazzo di fronte c’erano ancora i buchi delle pallottole di una sparatoria fra bande di qualche mese prima. Ma si era trattato di un episodio isolato, di quelli di cui senti parlare ogni tanto al telegiornale, che accantoni perché non ti sono abbastanza vicini per esserne spaventato.

E poi, insomma, ormai era abituato alle pistole, alle sparatorie. Anche se, come ormai andava vaneggiando tipo motto da qualche anno a quella parte: preferiva guardare le cose da una certa distanza. In un certo senso era diventata una delle sue caratteristiche distintive… allo SHIELD.

Già.

Lo S.H.I.E.L.D.

Proprio quello Strategic qualcosa della logistics bla bla bla.

Gli sarebbe piaciuto raccontare di aver collaborato con loro dopo essersi fatto sedurre dalla loro incredibile spinta d’entusiasmo.

In realtà ci si era trovato invischiato per necessità.

E poi era diventato una via di fuga.

Un appiglio.

Infine un lavoro.

Un lavoro al quale aveva dovuto votare cieca fedeltà. La sua intera esistenza.

Non che di quella che gli era rimasta dopo il primo incontro/scontro ci fosse molto da salvare.

Ma si era risollevato.

Un po’ come l’araba fenice, ma senza fuoco e fiamme. Giusto un po’ di polvere. Un bel po’di polvere di cui liberarsi.

Coulson, quell’ometto buffo dal sorriso prestampato gli aveva fatto da mentore e consigliere.

 

“La tua formazione inizia domani, Barton.”

“Significa che devo tornare a… scuola?”

“Una cosa del genere.”

“Odiavo studiare.”

“Anche io.”

“E sei finito a fare il galoppino di Fury.”

“Meglio che la puttana di qualche bell’imbusto in galera.”

“Meglio che il ragioniere.”

“Dovresti rivedere le tue priorità, Barton.”

 

Il pirata, il direttore, colonnello Nicholas J. Fury, si era preso in carico il suo pacchetto di casini e si era preoccupato di accoglierlo fra le file dei suoi uomini, proprio come solo un terrore dei mari avrebbe potuto fare. Non erano i pirati quelli che si portavano appresso i peggiori criminali, per mettere insieme una squadra di persone senza troppi problemi morali?

 

“L’aquila imbalsamata è il vostro Jolly Rogers?”

“Di che diavolo sta parlando, Barton?”

“Ahm… di niente.”

 

Non che si considerasse un pirata. Più un Falco. Così come avevano preso a chiamarlo, in virtù delle sue particolari qualità. Nemmeno a dovergli spiegare che era così che lo chiamavano al circo, così che lo conoscevano i criminali con cui aveva lavorato.

 

Richiuse la porta con la stessa forza con cui l’aveva aperta e decise di constatare i danni più tardi.

Prima doveva godersi la vista dal finestrone che dava sulla parte orientale della città.

Cinque anni.

Cinque anni di quella vita e sembrava ieri.

Non fosse che in cinque anni poteva finalmente dirsi a pieno titolo un agente decorato dello SHIELD.

L’orgoglio di Coulson… un po’ meno quello di suo fratello.

Che lavorava per l’FBI.

La chiacchierata l’avevano fatta. Eccome. Con tanto di scazzottata che gli aveva procurato un occhio nero per almeno tre settimane.

 

“Con tutto quello che ho fatto per te!”

“Ma che carino, Barney, che cosa vuoi, un premio?”

“No, ma magari un grazie sarebbe gradito.”

“Va bene, grazie…”

“Prego.”

“Stronzo.”

 

Così come aveva dovuto spiegare a chiunque che fine avessero fatto i progetti di Stark.

E Stark lo aveva conosciuto per davvero. E la sua opinione non era mutata di una virgola.

 

“Lo sai che dovrei chiederti i danni morali per il trauma psicologico subito da Jarvis?”

“Chi cazzo è Jarvis?”

“Il mio maggiordomo.”

“Non ho visto nessun maggiordomo.”

“Meno male ti chiamano Occhio di Falco.”

 

Borioso, carismatico… genio del cazzo.

 

E adesso aveva finalmente avuto la possibilità di cambiare casa. Perché dopotutto cominciava ad andargli stretto quel buco in cui aveva infognato la sua roba per anni e anni.

E in ogni caso avrebbe dovuto liberarsi di un po’ di ricordi.

Negativi. Positivi.

Natalia.

Da quanto tempo non pensava a lei?

Ci aveva pensato ogni giorno, ogni ora, i primi tempi, da quando era scomparsa per sempre oltre quel precipizio.

Poi ci aveva pensato almeno una volta alla settimana. E infine… il ricordo aveva preso a tormentarlo solo in alcuni momenti. Quando era particolarmente stanco.

O quando le circostanze lo portavano a pensare a lei.

Tipo quella.

Ricordava lo spazio che le piaceva occupare nel suo vecchio appartamento. Alla finestra. A sbirciare la vita che scorreva tranquilla, quella degli altri.

Quale che fosse il ricordo di lei una cosa era stata certa da subito: non avrebbe mai più potuto vedere Titanic senza mettersi a piangere come un deficiente.

E no, non per la triste sorte di Di Caprio. Anzi, quella era forse la parte del film che più gli risollevava il morale.

 

Quando sentì squillare il telefono scattò sull’attenti, nemmeno fosse stata la campanella dell’intervallo.

Esisteva qualcuno che aveva il suo numero di casa?

Gli vennero in mentre tre nomi.

Barney.

Coulson.

Lo SHIELD.

Sperò nei primi due.

“Pronto?”

“Nick Fury.”

Non era mai stato troppo fortunato.

 

*

 

Un brusio di parole russe, in sottofondo.

Una stanza oscura. Confusi bagliori si sprigionavano da una moltitudine di schermi di terminali dall’aria moderna. Telecamere di sicurezza che rimandavano le immagini, offuscate dalla pioggia, di una grossa villa in collina. La termocamera rivelava la presenza di un gruppo di individui in rapida fuga. Stesi al suolo, un numero imprecisato di altrettanti soggetti.

“My nachinayem”*

Un uomo di mezza età, dall’andatura claudicante, si staccò dal gruppo, ancora inglobato in quella teatralissima penombra, per venire verso la luce ammiccante di un corridoio piuttosto scarno.

Si frugò nelle tasche dei pantaloni, prima una e poi l’altra, come se avesse scordato dove volesse andare a parare. Ne tirò fuori una chiave che probabilmente avrebbe perso, se non fosse stata assicurata a una lunga catena che trovava aggancio al cinturone dai richiami militari.

Si fermò di fronte a una porticina di metallo. Un vetro zigrinato per sbirciare all’interno.

Infilò la chiave nella toppa e la fece girare: una, due, tre volte.

La porta cigolò sui cardini: qualcuno avrebbe dovuto oliarla. Quel rumore molesto l’avrebbe sicuramente svegliata.

“È il momento… malìshka**”sussurrò, lasciando che la sua silhouette si stagliasse in un rettangolo di luce.

Non si stupì di trovarla già sveglia, seduta sulla branda, lo sguardo fisso, come quello di una bambola.

Entrò nella stanzetta e le sorrise. Una ragazza, una pioggia di capelli, rossi come il peccato.

Il suo gioiello, il suo rubino, il suo miglior risultato. Era adesso pronto a cogliere i frutti maturi di tutto il lavoro svolto in quegli ultimi anni. Il prodotto dei suoi studi, dei suoi esperimenti.

Studi ed esperimenti collettivi, certo, ma era stato lui stesso a sceglierla, allevarla, accudirla, come una figlia.

Come una vera figlia. Alla quale aveva insegnato tanto sin dal giorno in cui l’aveva strappata, in fasce, dalla sua famiglia. Dal giorno in cui l’aveva recuperata dopo quell’esperimento andato a male. Era riuscito a impedire che la eliminassero. Era riuscito a riplasmarla. Persa per strada una volta e rimessa a nuovo, investendola di nuova vita e identità.

“Quale è tuo nome?” le domandò. Faceva fatica a pronunciare la frase in quella che, evidentemente, non era la sua lingua madre.

Lei non sembrò avvedersene, nemmeno quando le fu troppo vicino. Nemmeno quando sentì su di sé il suo sguardo inquisitore, compiaciuto, fin troppo… accalorato.

“Natuska.” Pronunciò monocorde, stando bene attenta a non rivolgergli nemmeno uno sguardo.

“Chi tuo padre?” Un sussurro caldo, sul viso.

“Ivan.”

“Tua madre?”

“Morta.”

“Dove sei cresciuta… Natuska?”

“In America.”

“Per chi lavori?”

“Per me sola.”

“Chi ti ha addestrata?”

“Nessuno.”

“Quanti anni hai, Natuska?”

“Venti.”

L’uomo sembrò piuttosto soddisfatto di quello scambio di battute apparentemente insulso.

In realtà, entrambi sapevano di star recitando una parte. Un alias, in cui la ragazza aveva dovuto identificarsi rapidamente. Una parte che aveva dovuto imparare a memoria, fino a rivestirsene.

“Tu… pronta?”

La ragazza si rimise in piedi.

Annuì solo una volta.

“Viaggerai tu sola.”

“Lo so.”

Lo vide porgerle uno zainetto. Piccolo ma abbastanza corposo, nella consistenza.

Vi avrebbe trovato tutto ciò di cui aveva bisogno: era già stata abbondantemente istruita a riguardo.

La sospinse fuori dalla stanza, la costrinse a percorrere il corridoio, a tenere il suo passo, lento, trascinato.

Natuska – così si chiamava, doveva tenerlo a mente – odiava quel passo.

Perché le ricordava un po’ troppe cose. La maggior parte delle quali affatto piacevoli.

E non era il ricordo dei test fisici, mentali… ma qualcosa che andava a scavare in una sensazione più intima. In situazioni… più intime. Che avrebbe potuto definire, senza troppi giri di parole: sgradevoli.

Quel suo passo affaticato (frutto di un vecchio incidente, conosceva la storia a memoria). Il cigolio della scarpa dalla suola consunta dall’errata postura. E poi, a seguire, l’odore del suo alito: caldo, dolciastro e pastoso. Il peso del suo sguardo, bramoso e tutt’altro che paterno. La consistenza delle sue mani. Morbide… scivolose, viscide.

Tentò di concentrarsi su quel nome: Natuska.

L’aveva scelto lui, ma sarebbe stata l’ultima cosa che le avrebbe regalato, per un bel pezzo.

Si concentrò sull’identità di quella ragazza che avrebbe lei stessa imparato a conoscere e forgiare, giorno dopo giorno, a darle un’identità reale, concreta, appena fuori da lì.

Come tante altre, prima di lei, a cui aveva dato vita. Maschere che aveva indossato una dopo l’altra, per poi svestirsene e gettarle, così come si fa con i vestiti consunti.

 

Natuska.

Natuska non era che l’ennesimo abito. Avrebbe dovuto imparare a conviverci per un po’. Giusto il tempo di portare a termine l’ennesimo compito.

 

Il portellone d’ingresso venne aperto.

Ad attenderli, all’esterno, un elicottero. Il vento gelido dell’inverno si confondeva con quello delle pale che alzavano pioggia e neve in turbini inconsistenti.

I capelli frustavano il viso di Natuska. Scomposti, bellissimi. Visibili presumibilmente a miglia di distanza, in quel mare di bianco e grigio.

“Ti aspettano… malìshka”, la voce carezzevole, disgustosa, “Ci rivediamo… all’alba.”

All’alba.

Scattò in lei, nella sua testa, un meccanismo che non riuscì a frenare.

Qualcosa le si agitò nello stomaco, nel cuore, nelle mani.

Posò a terra lo zaino, con un gesto meccanico, istintivo. Si chinò su un ginocchio, che sprofondò nella neve, così soffice e molliccia, fastidiosa. Non sembrava le importasse.

“Cosa fai?”

Frugò solo un istante, prima di saggiare la consistenza di metallo di una pistola.

La caricò ancora prima di estrarla.

“Malìshka?”

Si rimise in piedi, puntò l’arma alla tempia dell’uomo e fece fuoco.

L’eco dello sparo fu immediatamente inghiottita da quello delle pale ancora in movimento.

Il corpo crollò a terra con un tonfo attutito e vagamente bagnato. La testa, spappolata, a decorare l’ingresso di un color rosso vivo, ossa e materia cerebrale.

“Non sono più la tua malìshka…” esalò, ripulendosi lo zigomo da uno schizzo di sangue sfuggito al suo controllo.

Reclinò il capo di lato per gustarsi al meglio il proprio operato. L’espressione di quel viso, o di quello che ne era rimasto, scolpito per sempre nello stupore, nell’incredulità. Un buon modo per ricordarlo.

Un uomo, appostato poco più avanti, le stava correndo incontro, l’arma sguainata, pronto a fare fuoco.

Decise di averne avuto abbastanza.

Raccolse di nuovo lo zaino. Scavalcò il cadavere del suo (ex) supervisore e senza nemmeno tentare di scansare la scarica di proiettili del suo improvvisato traghettatore, sparò uno, due, tre colpi. Che andarono a segno, senza il minimo sforzo.

Raggiunse l’elicottero, senza più voltarsi indietro.

Aveva le conoscenze necessarie per pilotarne uno?

Ne aveva. L’avevano preparata anche a quell’evenienza.

Stava davvero contravvenendo a un ordine? Stava davvero approfittando dell’occasione per… scappare? Si sarebbe trovata circondata in fretta. Molto in fretta.

Dunque doveva agire in fretta. Si infilò le cuffie che l’uomo con la pistola aveva abbandonato sui comandi e si preparò al decollo.

Adesso che si era liberata dell’aggancio che la teneva ancorata alla sua formazione, poteva rinascere totalmente Natuska.

 

*


Non si era fatto assumere dallo SHIELD per fare il cecchino, ma chissà come era quello che finiva sempre per fare.

Per certi versi era effettivamente ciò che gli riusciva meglio. Per altri… avrebbe preferito che la sua straordinaria qualità si fosse manifestata ai fornelli.

Prima di tutto perché non rischi la vita, ai fornelli (a meno che tu non finisca in qualche reality show dove un cuoco pazzo ti lancia dietro i coltelli se sbagli la cottura di un supplì, nemmeno gli avessi bollito la mamma), in secondo luogo perché magari il tasso del suo colesterolo sarebbe stato un bel po’ più al di sotto del livello di guardia.

Il problema stava nel fatto che era un americano di quelli very. E, in quanto tale, incline a consumare junk food, per rendere onore agli antenati. Pellegrini che se avessero scoperto le gioie del fritto, forse avrebbero risparmiato agli Stati Uniti un sacco di stronzate… perché sterminati dalle coronarie. Con buona pace dei nativi.

Considerazioni tutt’altro che consone per un appostamento.

Faceva freddo. Un freddo da morire in Ungheria.

Avesse saputo di trovare tanta difficoltà d’espressione in una lingua dove forse nemmeno le parolacce sono intuibili, si sarebbe procurato un vocabolario.

O quantomeno avrebbe chiesto alla giovane Hill di dargli un paio di dritte sul lessico.

Il fatto che Fury se la fosse scelta giovane, gli fece rivalutare il vecchio volpone.

Il fatto che avesse pensato a una simile porcata, gli fece prendere appunto mentale di fare ammenda.

Il fatto che fossero passati cinque anni e non fosse più un cazzone scanzonato che non doveva rendere conto a nessuno, non faceva certo di lui una persona tanto diversa.

Se non per la disciplina.

Ancora guardava Star Wars. Almeno un paio di volte l’anno.

Ancora si concedeva serate alcoliche. O lussureggianti lussuriosi festeggiamenti prima di una missione.

Ma, ancora peggio, si dimenticava di mettere la canotta di lana, sotto la divisa.

La neve svolazzava leggiadra, in turbini scomposti, nemmeno si fossero trovato nella cazzo di steppa.

L’obiettivo era stato individuato a qualche chilometro da Budapest. Fuori città, nei pressi di un bosco che, a chiamarlo a gran voce, uno scenario meno inquietante non ci sarebbero riusciti...

O quello o la Transilvania.

Per come soffiava il vento, fra le piante, a ululare come banshee nella brughiera, per un attimo si chiese se non ne sarebbe saltata fuori una. Quella o un lupo mannaro. Insomma, non si fosse capito dal contesto, Clint continuava a pensare di essere finito in un film horror di dubbio gusto.

E agì di conseguenza.

“Vieni a giocare con noi, Danny?” sussurrò mentre di nuovo il fischio del vento si portava via, impertinente, la citazione.

Le mani strette attorno all’arco, la freccia puntata a un target immaginario.

Forse sarebbe stato giusto, a onor di cronaca, ragionare sul fatto che Clint si trovasse appollaiato come un gufo su un albero, a pochi metri da terra, mentre seguiva da almeno un’ora le impronte insanguinate che lo avrebbero condotto dal suo obiettivo. Già braccato, ferito, rallentato.

Sarebbe stato un gioco da ragazzi.

Prima che facesse giorno, sarebbe tornato a casa. A mangiare gulasch ungherese. Per colazione.

 

Ma lei saltò fuori che non era ancora l’alba.

Una macchia nera e rossa in quello scenario bianco morte.

Scoccò la prima freccia che la prese di striscio.

Con la seconda balzò giù dall’albero a tenerla sottomira.

La terza…

La terza non riuscì a scoccarla mai.

Quei capelli. Quel viso.
La chiamavano Vedova Nera, ma quando se la ritrovò di fronte, a pochi passi di distanza, tutto pensò fuorché a un ragno.

 

“Nat…” gli sfuggì dalle labbra, mentre il cuore perdeva un battito e lo stomaco si contraeva sordo e traditore.

E no, non per il pensiero del Gulasch che lo aspettava in albergo.

 

___

*cominciamo

** piccolina

 

Note:

No, non siamo ancora alla fine. In realtà manca ancora qualche capitolo. Perché, come detto precedentemente, la storia fa veramente un po’ quello che vuole lei. E quindi ora ci ritroviamo qui, al limite del prologo. E a doverlo spiegare. Le traduzioni dal russo, al solito arrivano dal traduttore di google. Per cui se sono sbagliate è colpa sua. No, il russo ancora non lo parlo.
Ringraziamenti a tutti quanti manifestano il loro apprezzamento alla storia, alla socia e beta che sempre supporta e sopporta e a tutti gli altri. Anche tu, che leggi silente, grazie.

Non mi resta che rimandare alla prossima, bye!

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


CAPITOLO 17 

 

If you could see yourself now, baby,
It's not my fault, you used to be so in control.
You're going to roll right over this one.

(Bang and Blame – R.E.M) 

 

“Nat… sono Clint. Clint Barton.”

“Non conosco… Clint Barton. Non conosco… Nat.”

 

Ma lui conosceva lei. E la conosceva bene. Vedova Nera. Era così che l’avevano ribattezzata?

Era così che la usavano? Un nome in codice per una persona con delle abilità specifiche.

 

“Che ti hanno fatto?”

 

Era convinto di averla persa per sempre. Che si fosse sbagliato? Che non fosse lei? Ma quel viso e quello sguardo. Quegli occhi… che adesso vibravano di una furia che non riusciva a riconoscerle, ma rilucevano della stessa identica determinazione.

Occhi che non aveva scordato e che probabilmente non avrebbe scordato mai.

 

“Uccidimi. Rapido.”

“Non voglio… ucciderti, Nat.”

 

Il compito che era stato chiamato a svolgere ora entrava decisamente in contrasto con la sua mera volontà.

Uccidere. No, non lo avrebbe fatto. Nemmeno per lo SHIELD. Doveva capire. Doveva…

 

“Allora, cosa vuoi… ?”

“Sapere che ti è successo. Ti credevo… morta.”

“No, non sono… morta.”

 

E quello gli sembrava, ora, piuttosto evidente.

Dovevano aver usato tutti i loro mezzi. Dovevano averla rianimata di quella fama per cui lo SHIELD, l’FBI e la Polizia l’aveva cercata, anni prima. Per quegli atroci esperimenti che avevano popolato i suoi incubi, dal giorno in cui lo avevano messo al corrente del terribile segreto della ragazzina.

Dovevano averla riplasmata secondo le loro disumane, assurde necessità.

 

“Tu… tu sei morto.”

 

Tecnicamente… no. Ma Natalia era stata sicuramente programmata per fargli il culo. Questo lo aveva compreso da come gli si era scagliata contro, in modo del tutto meccanico.

La vide compiere un balzo straordinario per le condizioni penose in cui l’aveva trovata.

Si trovò le sue cosce attorno al collo senza nemmeno avere la forza di provare, quantomeno, a minacciarla con l’arco.

Cazzo.

“Ho un t-terribile deja-vu!” articolò del tutto in contrasto con la drammaticità della situazione.

La differenza stava nel fatto che, adesso, in quella particolarissima occasione, il sangue che scorreva dalla sua gamba martoriata, scivolava in rivoli scomposti anche sulla sua faccia e sul suo collo.

Cercò di liberarsi, trovandosi a divincolarsi dalla presa mostruosamente forte dei suoi muscoli.

Quadricipiti da sballo, quello glielo concedeva.

Cadde al suolo, mentre il colpo veniva attutito dalla neve ancora fresca. Se non altro sarebbe stata una morte piuttosto teatrale.

Alzò una mano, cercando di reagire, mentre il respiro veniva sempre meno. Andò a cercare la sua gamba, la sua ferita e, quando ebbe la mano sufficientemente imbrattata di sangue – nello squarcio dei pantaloni di lei – trovò il punto giusto su cui stringere la presa, per rigirare il coltello, per l’appunto, nella piaga.

Mai proverbio fu più concreto di così.

La sentì emettere un gemito strozzato, soffocato dal dolore, e quando la sentì allentare la morsa, si diede un esausto slancio, sufficiente a liberarsi.

Si ritrovò carponi, alla ricerca di aria, mentre si allontanava da lei almeno di qualche passo per impedirle di ritentare con l’impresa omicida.

Quella cosa delle cosce. Se mai avesse avuto un dubbio che fosse Natalia… proprio la sua Natalia, con quella mossa lo aveva sedato per sempre.

“N-non sei cambiata così tanto…” si trovò ad articolare, mentre si voltava per poter parare una qualsiasi controffensiva.

Si rimise in piedi, vagamente barcollante, quando non la sentì rispondere.

Che fosse un altro modo per trarlo in inganno?

La macchia di sangue sulla neve andava ingrossandosi in modo straordinariamente veloce.

I capelli di lei, sparsi tutt’attorno, a fare da contorno a quell’incarnato bianco, così pallido da confondersi con il manto candido dello scenario.

“Nat…” esalò mentre il respiro, ora reattivo, si addensava in una nuvola di fronte alle sue labbra.

Si rese conto troppo tardi che lei, invece, non ne aveva nessuno a condensarsi di fronte alle proprie.

E anche che... perderla, per due volte in una vita, sarebbe stato troppo anche per lui.

La raccolse da terra che sembrava una bambola senza vita.

Aveva poco tempo. Non esisteva piano d’estrazione per una missione simile… Fury era stato specifico a riguardo.

Perciò se la caricò saldamente fra le braccia e cominciò a correre.

Correre come fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto in vita.

 

*

 

Riaprì gli occhi che aveva il rumore dei macchinari nelle orecchie. Un suono costante, meccanico.

Elettrodi che le stavano monitorando il cuore. E tubi. Tubi che le uscivano dalla gola... e un po' da tutte le parti.

Il panico cominciò a serpeggiarle nello stomaco violento e nauseante.

Non ancora.

Non di nuovo.

Credeva di essere riuscita a scappare. Credeva di essere riuscita a far perdere le sue tracce.

Credeva di essersi liberata di Ivan, di tutte quelle persone che l’avevano ridotta ad una macchina da guerra. E invece era ancora lì, attaccata a dei cavi. Ad un macchinario, pronta ad essere di nuovo cancellata, riprogrammata.

Guardò a destra e poi a sinistra. Il locale era asettico e deserto.

I sensi intorpiditi, ma abbastanza reattivi da permetterle di muovere gli arti.

Si rimise a sedere, ignorando il capogiro.

Si liberò del respiratore. Prese a strapparsi flebo ed elettrodi con violenza, frenesia. Scalciò  il lenzuolo e cercò di mettere un piede a terra, prima che il dolore, sferzante e feroce non le strappasse un grido strozzato.

Rovinò a terra senza poter far niente per frenare la caduta. Un braccio, disperatamente artigliato al materasso, per cercare di limitare i danni.

Doveva scappare, doveva andarsene.

La macchina accanto a lei cominciò a produrre un suono sordo, febbrile, rivelatore.

“Taci…” sibilò cercando di rimettersi in piedi, con scarsi risultati. Le gambe non sembravano rispondere bene ai suoi comandi.

Perciò prese a strisciare sul pavimento, con i gomiti, afferrando con le mani tutto ciò che le permettesse di trascinarsi su quell’anonimo pavimento di linoleum chiaro.

La vestina che si arricciava sotto lei, e quel braccialetto identificativo…

Un momento… non le avevano mai messo un braccialetto identificativo. Non era nel loro stile. Non certo quello di lasciare tracce dei soggetti che erano soliti torturare. Psicologicamente, fisicamente.

Percepì dei passi in corsa, prima di avere il tempo di nascondersi. La porta della stanza si aprì di schianto.

Un uomo. Vestito da… infermiere.

Gli fece perdere l’equilibrio che ancora la stava cercando sul letto ormai vuoto. Lo vide boccheggiare al suolo, sorpreso da quel fagotto che gli era letteralmente rotolato addosso, mentre lei si affaticava a sovrastarlo sull’ampia schiena, con tutta la forza rimasta.

A serrargli un braccio alla gola, e stringere… stringere.

“Che cazzo sta succedendo qui?” si sentì trascinare via con una forza tale da non riuscire a contrastarla.

Scalciò per quanto le permettessero le gambe doloranti, per trovarsi fra le braccia di un omone scuro. L’occhio costretto dietro a una benda.

Un cazzo di… pirata?

Non si fece ripetere l’intimazione una seconda volta che riprese a scalciare a dimenarsi come una gatta in un sacco.

“Muovetevi!” le sue mani graffiavano, schiaffeggiavano; i piedi si agitavano, la schiena che scricchiolava sotto sforzo mentre il dolore alla gamba la faceva precipitare pericolosamente vicino all’incoscienza.

“Signore! Le serve aiuto?”

“Per niente! Mi sto divertendo come un matto qui! Muovete il culo, porca puttana!”

Si sentì afferrare da più mani e il bruciore alla base del collo suggerirle che l’avevano appena punta con un ago.

“No!” gridò prima di avvertire la frenesia delle sue braccia venir meno, il dolore alla gamba attutirsi, il capogiro farsi più intenso.

La conosceva fin troppo bene quella sensazione. La conosceva talmente bene che in pochi istanti si sentì trascinare di nuovo su quel letto, lottando disperatamente per non perdere conoscenza, per restare, se non altro, vigile.

“Vi avevo detto di tenerla sotto stretta sorveglianza!”

“E c-così abbiamo fatto, signore!”

“Ma sul serio? E quello che è appena successo come diavolo lo chiamate?”

“Una… svista?”

“Una svista!”
“E’ stata rapida, signore, troppo rapida.”

“Non mi pare che lo SHIELD arruoli persone lente.”

“Signore…”

“Fuori da qui.”

“Ma…”

“Adesso.”

 

Lo SHIELD. Una sigla. Servizi segreti. Sicurezza nazionale. Dunque non si trattava della Red Room. Non gli uomini da cui era scappata ad averla… intrappolata di nuovo.

Lo SHIELD era un’altra cosa. Avevo imparato a conoscerli dai file e dossier che le avevano fornito negli anni del suo addestramento. O almeno… l’addestramento che avevano riservato alla neo-nata Natuska.

Natuska… già. Ma non era quello il suo vero nome, giusto? Il suo vero nome era…

 

“Natalia Romanova, mh?”

Il pirata tutto nero aveva parlato di nuovo. La sua voce, una nebulosa di suoni ovattati. Non riusciva a metterlo a fuoco, non era che una macchia scura su uno sfondo opaco.

Natalia Romanova.

Forse.

Il nome stimolava alcuni ricettori.

“Lo so che sei in grado di capirmi, puoi anche non fingere di chiudere gli occhi, ragazzina.”

Vaglielo a spiegare che, gli occhi chiusi, li teneva perché le girava troppo la testa. Però forse giocava in suo favore il fatto di sembrare una… dura. Una che sapeva il fatto suo.

“Chi lo avrebbe mai detto che saresti sbucata fuori di nuovo, dopo tanti anni…”

L’uomo sembrava conoscerla, così come sembrava conoscerla l’arciere che…

L’arciere.

Aveva quasi dimenticato l’arciere.

Che l’aveva chiamata Nat. E che sembrava trattarla con una familiarità fuori dal comune. Che la credeva… morta.

Sì, morta come le era capitato di dover simulare almeno una decina di volte, dacché ricordasse.

Perché, per quanto si fossero permessi di giocare con il suo cervello, sapeva di aver vestito una quantità indefinita di identità. E di essere stata costretta a rimuoverle. In toto. O quasi.

Di ognuna di esse, Natuska ne era certa, aveva conservato qualcosa. Qualcosa di prezioso, qualcosa che, un giorno, sperava le avrebbe permesso di tornare o quantomeno cominciare ad essere ciò che era veramente.

Perciò… che cosa aveva conservato… di Natalia? Natalia Romanova?

Forse qualcosa di più prezioso di un nome.

“Immagino dovremo darti ancora un po’ di tempo per ambientarti.”

Cercò disperatamente di seguirlo con lo sguardo, prima che un gruppo di uomini vestiti di bianco la circondassero.
Si sentì legare i polsi. E le caviglie.

E poi precipitò in quella nebulosa che la stava aspettando da un pezzo.

 

*

 

“Gargantuesco. Ho vinto.”

Clint osservava la parola sullo Scarabeo senza credere ai propri occhi.

“Hai imbrogliato, cazzo se hai imbrogliato! Non esiste quella parola! Non si è mai sentita!”

“Solo perché tu non l’hai mai sentita, non significa che non esista.”

L’agente Coulson stava diligentemente sistemando i tasselli con le lettere in un sacchetto.

“Gargan… dai, che cazzo significa?”

“Appetito smisurato. Da Gargantua. Conosci il romanzo, Gargantua e Pantagruel, no?”

“Oh, certo, ho anche i dvd del film a casa.”

Non conosceva il termine gargangrottesco e doveva conoscere anche il romanzo?

L’uomo gli rivolse uno sguardo divertito.
“Bè, comunque la partita è finita. Dovremmo tornare a lavorare, sai…”

“Sarà anche finita ma io non mi fido. Non credere che non andrò a cercare sul vocabolario, stasera.”

“Spero proprio che tu lo faccia.”

“Certo che lo faccio. Sbugiardarti è la mia missione.”

Aveva scrutato Coulson come a smascherare, con uno sguardo, la sua menzogna, ma quello continuava a restituirgli il sorriso pacato, gentile e vagamente a presa di culo di sempre.

Praticamente lo stesso sguardo con cui simulava ogni stato d’animo.

Stronzo.

Si era rimesso in piedi, frustrato, pronto a un'interminabile sessione di archiviazione assieme a uno degli stagisti: il direttore Fury non aveva particolarmente apprezzato la sua iniziativa di riportare in vita il soggetto che era stato chiamato a eliminare. Aveva però dovuto convenire con lui che, data la straordinarietà della faccenda, nessun altro, al suo posto, avrebbe fatto il contrario.

Il soggetto era sia la Vedova Nera – assassina, spia di livello internazionale – che… Natalia Romanova.

Lo stesso soggetto di studio che, almeno cinque anni prima, aveva sottratto tutti i file ricchi di informazioni che SHIELD ed FBI stavano racimolando sulla Red Room… il progetto che vedeva coinvolte ragazzine minorenni, trasformate in macchine da guerra.

Natalia Romanova sembrava essere deceduta nel tentativo di recupero. Ma di fatto non era stato così.

Il progetto doveva aver cambiato forma.

E la ragazzina era finita di nuovo loro fra i piedi con nuove, inquietanti modalità.

 

Era cresciuta. Diavolo se era cresciuta. Della ragazzina con i tratti acerbi, adolescenziali non era rimasto un bel niente. O almeno, non qualcosa di visibile ad un primo impatto.

Non per quello che gli era stato dato di capire almeno, fra il panico pre-morte e tutto il sangue che si era trovato addosso.

L’avevano recuperata per il rotto della cuffia. Erano riusciti a non farla morire… di nuovo.

Dopo tutte le minacce che Clint aveva loro rivolto, con tanto di colorite e originali varietà.

Si era pentito di aver preso a male parole gli infermieri, ma ehi, non era da tutti i giorni ritrovare qualcuno che credevi morto… in procinto di morire, di nuovo.
Aveva atteso tutta la notte e metà della mattina successiva, fuori dalla sala operatoria e poi quella di rianimazione… prima di venir trovato, praticamente svenuto di fame e sonno, sulle scomodissime seggioline del reparto della clinica privata dello SHIELD.

Coulson lo aveva costretto a tornare alla base, con la scusa, più o meno plausibile, di una sfuriata del direttore (Fury, un nome che se si fosse fatto cambiare o meno per onorare il suo irascibile carattere, non era dato sapere). Direttore che sì, aveva espresso il suo più sincero, orbo disappunto ma che alla fine lo aveva liquidato con un richiamo e una punizione d’ufficio.

Nemmeno un ringraziamento per aver portato loro la risoluzione di un caso che durava da almeno cinque anni. Se non altro non era stato licenziato per negligenza. O spedito, chessò, al polo nord a controllare la tratta clandestina del salmone essiccato.

 

Era ancora intento a sbaraccare il tavolo su cui aveva intrapreso la sua gargantuesca sessione di scarabeo con Coulson che la giovane, rampante, severissima, agente Maria Hill si era affacciata alla porta della saletta ricreativa.

“Il direttore Fury vuole che lo raggiungi in ufficio”, gli si rivolse direttamente.

“Non ho fatto niente!” Si premurò di anticiparla. “Era la mia pausa pranzo.” E con gli occhi andò a indicare l’orologio che scandiva, impietoso, i secondi. Era in anticipo di quasi tre minuti sulla scadenza.

“Questo lo so, Barton.”

“Da quando mi tieni così sotto stretta sorveglianza, agente Hill?”

“Ufficio. Fury.”

La Hill non era sempre incline ai suoi sprazzi di gigioneria violenta.

Lanciò a Coulson il sacchetto dei tasselli e si strinse nelle spalle.

“Augurami buona fortuna.”

“Buona fortuna.”

Clint si finse scioccato.

“Non posso credere che tu lo abbia fatto veramente. Porta male! Sai cosa dicevano al circo dove lavoravo?”

“No, cosa dicevano?”

“In culo alla…”

“Barton. Il direttore ti sta aspettando.”

… balena.

“Ci sono, ci sono…” si preoccupò di seguire la donna lungo il corridoio, decidendo che forse sarebbe stato meglio tacere o quantomeno obbedire prontamente, affinché quell’ansiolitica tortura terminasse il più rapidamente possibile.

 

 

“Sono nei guai?” non poté però fare a meno di indagare, contravvenendo a tutti i suoi buoni propositi.

“Più del solito?” ribatté lei con una rapidissima occhiata, sopra la spalla. Era una punta di divertimento quella che aveva avvertito nel suo tono di voce? Allora la scintilla dell’ironia esisteva anche nell’agente Hill.

“In una scala da uno a… gargantuesco…” adesso la sua missione sarebbe stata infilare quella parola in ogni frase, per testarne la credibilità e l’efficacia, “… quanto sono nei guai?”

La Hill non sembrò cogliere la citazione. Forse Coulson l’aveva davvero preso per il culo.

“Non sei nei guai, Barton.” disse fermandosi alla fine del lungo, lunghissimo corridoio.

… e gli aveva appena aperto galantemente la porta dell’ufficio del direttore o si stava sbagliando?

“Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere per me…” si sentì in dovere di sottolineare con tanto di mano sul cuore.

“E’ per qualcosa che riguarda la Vedova Nera.”

Quella frase e il tono definitivo della donna gli fecero perdere completamente la voglia di scherzare. E saltare un battito cardiaco. Per gradire.

“E’ successo... qualcosa?” tentennò sulla frase e si maledì per questo.

“Niente che tu non possa aspettare di sentire dal direttore.”

Aspettare. Aveva già aspettato abbastanza. Anche dopo le più insistenti richieste di poterle fare visita.

Era arrivato il momento di chiudere con le attese.

Lanciò alla collega uno sguardo duro.

Inforcò la porta dell’ufficio di Fury più rapidamente di quanto avesse mai fatto.

 

*

 

Riaprì gli occhi che ancora aveva nelle orecchie il rumore di quel macchinario infernale.

Se non altro non aveva più tubi infilati in gola. O elettrodi ovunque.

Solo un’innocente flebo a sostare al suo fianco, a lasciar scivolare quella soluzione salina giù per le vene.

I polsi erano ancora legati. Le caviglie no. Dovevano aver convenuto sul fatto che, a seguito della ferita, non doveva essere ancora troppo facile per lei usare le gambe; forse non sapevano quanto fossero nel torto.

“Che errore fatale.”

Trasalì quando la voce la raggiunse. Voltò il capo così rapidamente che per poco non si slogò il collo o… qualcosa di simile.

Come era possibile non si fosse accorta che c’era qualcuno, seduto accanto a lei?

E che quel qualcuno fosse…
“Ciao.”

L’arciere. Il tizio di Budapest. Quello che…

“Dicevo che sono proprio degli imbecilli. I polsi sì, e le gambe no? Forse dovrei istruirli sul fatto che sono le tue armi migliori.”

Si stupì nell’ascoltarlo con un misto di curiosità e terrore.

“O sbaglio? Quella cosa delle cosce… pazzesca.” Le stava sorridendo. E non era un sorriso di quelli fasulli o di circostanza. Era un sorriso che gli arrivava agli occhi e… la sensazione che le diede fu del tutto inaspettata e, ancora, piuttosto intimorente.

“Non so se te l’avevo mai detto. Ma questa cosa… delle cosce, woah, l'ho sempre trovata pazzesca, sai?”

Sempre? Questo stava a significare che glielo aveva visto fare almeno un’altra volta, prima di… Budapest? Perché a livello temporale ancora non sapeva dire quanto tempo fosse trascorso dacchè era arrivata lì, in quella stanza… d’ospedale.

Rimase in silenzio cercando di comprendere se quello non fosse solo un modo piuttosto originale di guadagnarsi la sua fiducia, qualsiasi cosa significasse, qualsiasi cosa volesse estorcerle, qualsiasi cosa volesse guadagnare da quello strampalato colloquio.

Se la conosceva davvero, doveva anche sapere quanto sarebbe stato arduo farla parlare.

Probabilmente non aveva davvero idea di con chi aveva a che fare.

Lo vide smorzare il sorriso, come se mantenerlo fosse ora un peso insopportabile. E ancora una volta non riuscì a dire se si trattasse o meno di un atteggiamento fasullo.

“Nat…”

Il nome le procurò una scossa brutale allo stomaco. Il modo in cui… si permetteva di pronunciarlo.

“Non ti ricordi proprio un bel niente, non è così?”

Che cosa avrebbe dovuto ricordare? I suoi occhi da cane bastonato?

“Sono… Clint. Barton. Ma questo te lo avevo già detto a Budapest, mi pare.”

Certo. Lo ricordava. Lo ricordava e la insospettiva.

Continuò a propendere per il silenzio, sebbene mille domande avessero già preso ad affastellarsi nel suo cervello in moto.

Doveva capire dove volesse andare a parare. Doveva comprendere quale fosse il suo obiettivo.

Ma quello che ottenne fu solo uno sguardo che sembrava... triste. A meno che non fosse solo marcia compassione.

Non sapeva che farsene della compassione.

“E' stato cinque anni fa. A New York. Ci siamo conosciuti... cinque anni fa.” aveva parlato e risposto a una delle domande che lei non aveva posto, senza dover essere imboccato.

“E avevi perso la memoria. Proprio come ora.”

Proprio come ora. No, lei non aveva perso la memoria. Lei era semplicemente stata riprogrammata.

Riprogrammata: avrebbe voluto dirglielo per metterlo a tacere una volta per tutte.

Lo sentì sospirare e allungare le gambe, sotto al suo letto.

“Lo SHIELD mi ha chiesto di venire qui a parlare con te. Il Direttore Fury... sì, insomma, il pirata... mi ha chiesto di venire qui a parlare con te, nello specifico, ma lo sanno tutti quanti che io faccio schifo... con gli interrogatori. Per questo di solito ci mandano Coulson, capito?”

Di tutto quello che stava dicendo, aveva solo capito che il Direttore Fury era il tizio con la benda nera sull'occhio.

“Ho accettato solo perché... mi avrebbero finalmente permesso di vederti.”

E nel dirlo, ancora sembrava più sincero di quanto non fossero mai state tante persone, prima di lui.

“Bè, adesso ti ho vista e se non altro... so che stai bene”, aveva preso a scrutarla, incerto, “... credo.”

Lo guardò passarsi una mano fra i capelli. Capelli biondi, tagliati corti, un po' spettinati.

Ritirare le gambe, rimettersi in piedi. Con quella postura da cane abbattuto, quella ruga sulla fronte a invecchiargli i tratti, probabilmente prima del tempo, così come lo sguardo, di un vissuto insolito, o il colore turbolento di quegli occhi grigi.

Non sembrava davvero intenzionato a domandarle niente. A non chiederle... niente.

Una tattica talmente singolare che non le suggerì proprio nessuna soluzione a riguardo.

E allora cos'era quel dolore costante alla base dello sterno? Quel piccolo dolore, inquantificabile in termini pratici, che aveva preso a tormentarla da quando se lo era ritrovato di fronte?

Cinque anni prima. Che cosa era successo cinque anni prima?

Lo aveva truffato? Derubato? Ferito? Sedotto?

O la somma di tutto insieme?

Non erano affari suoi. Non era il tempo di scontare piccole, assurde vendette personali.

Ma quel dolore assurdo. Assurdo e minuscolo, alla base dello sterno.

“Bè... immagino che ci rivedremo, Nat.”

Lo sentì esplodere violento, fino a procurargli uno scatto d'ira non richiesto.

“Non mi chiamo Nat.” le sue parole vibrarono instabili, incoerenti con il silenzio protratto fino a quel momento.

Lo vide sgranare gli occhi e puntarglieli di nuovo contro. Quegli occhi grigi, che immaginò improvvisamente azzurri, nelle giornate serene, verdi in quelle di sole...

“Io sono la Vedova Nera.” la voce di nuovo roca, raschiata. Una sfida, una dichiarazione di guerra.

Non sapeva un bel niente di lei. Perché doveva agire come se invece le fosse amico?

“Me l'hanno detto”, sembrò tentennare, prima di rivolgerle di nuovo quel sorriso un po' strano, ma sincero. “Un nome ad effetto. Anche se continuo a preferire Nat, se non ti dispiace.”

“Ho detto che non mi chiamo...”

“Lo so quello che hai detto. Non sono mica sordo. Non più... almeno.”

Si accigliò a quella confidenza.

“Non ricordi nemmeno questo?” le suggerì speranzoso.

“Rimuovo tutto ciò che non è necessario.” adesso sì che aveva parlato per affondare. Perché non la sopportava più quell'aria di supponenza. Perché lei, la Vedova Nera, era quella che di solito conosceva tutto del suo avversario... e non il contrario.

Il contrario la faceva sentire esposta. Vulnerabile. E nessuno mai avrebbe dovuto permettersi di farla sentire a quel modo. A maggior ragione non un uomo dall'aria stralunata e quel sorriso... triste.

“Lo so che sei spaventata...” lo sentì dire e quella fetta di orgoglio ancora attiva le fece ribollire il sangue nelle vene.

“Tu non sai niente...” sibilò innervosita, agitando le mani strette nelle cinghie.

“Non hai bisogno di comportarti così con me. Non hai bisogno di fare la dura...”

“Smettila.”

“Io ti conosco, Nat.”

Il modo in cui pronunciava quel nome. Quel suo nome...

“Smettila!” aveva gridato stavolta. Aveva strattonato le cinghie con una tale violenza, da strappare l'ago della flebo.

“Non sai niente! Non sei... niente per me! Niente!”

Niente.

Niente come si sentiva lei in quel momento. Niente. Come tutto quello a cui l'avevano sempre abituata.

“Niente! Niente! Niente!”

Nemmeno si rese conto della porta della stanza che si apriva di nuovo. E di nuovo quei camici bianchi che la assalivano.

“Ehi! Ma che modi sono! Non fatele... non, ehi! Brutti stronzi, che-”

gli insulti che l'arciere riservò agli infermieri si persero di nuovo in quella nebulosa di...

Niente... era ancora il nome che più si addiceva al contesto.

___

 

Note:

Et voilà, la nostra Nat non ricorda un bel niente. Bene? Male? Sicuramente frustrante. E tremendamente deprimente per Clint. Se non altro ora la fanciulla è al sicuro. Più o meno. E lo SHIELD non sembra intenzionato a lasciarsela sfuggire.
Almeno…
Al solito ringraziamenti a tutti: alla mia beta sclerosocia (che ti frego, perché è un termine bellissimo) ai lettori, ai commentatori e tutti gli altri e scappo in ritiro per uno dei miei distensivi week-end nella bella Firenze. Per cui vi saluto, valige alla mano, e abbandono il piovoso (emmobbastaveramente però!) nord Italia, alla prossima!

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


CAPITOLO 18

 

There's no logic here today
Do as you got to, go your own way
I said that's right
Time's short your life's your own
And in the end
We are just
Dust ‘n Bones

(Dust n’ Bones – Guns n’ Roses) 

 

Era almeno la decima testata che dava al vetro della finestra.

E ancora non se ne sentiva rinfrancato.

Forse gli ci sarebbe voluto più di un trauma cranico per sedare l’agitazione.

Si fermò così, la fronte spiaccicata alla superficie gelida, a guardare le gocce di pioggia che scivolavano gioiose, in rivoli scomposti. Mentre il suo respiro ne appannava il vetro.

Con un dito cominciò a scrivere qualcosa.

In pochi istanti, la scritta: SHIELD sucks, apparve in tutto il suo blasfemo splendore.

La porta ebbe la malaugurata idea di aprirsi in quel preciso istante, ad opera gloriosamente terminata.

“Barton.”

Clint si volse di scatto, coprendo l’abominio con  la schiena, solo per trovarsi a fronteggiare Coulson.

“Ehi… che succede?” simulare non gli era mai riuscito granché bene.

“Lo sai che succede.” Lo vide passarsi le dita sugli occhi, a massaggiarsi le palpebre, come se gli fosse finito addosso un peso fin troppo gravoso.

Clint si voltò appena per poter constatare che almeno la scritta era evaporata. Forse non si riferiva a quello.

“In realtà speravo che mi illuminassi tu. Sono rinchiuso qui da un’ora.”

“Un’ora e un quarto.”

“Ah vedi? Da qui non avrei saputo dirlo…” si era andato a sedere su una delle seggiole girevoli e aveva compiuto mezzo giro su se stesso, le mani ben piantate sui braccioli.

“Spero tu abbia avuto il tempo per ragionare su quello che hai fatto.”

Clint gli riservò un’occhiata improvvisamente ostile che però non durò a lungo.

“Certo. E rammaricarmi di non aver usato un paio di quelle tecniche che ho imparato in palestra il mese scorso.”

“Barton, sono serio…”

“Anche io.”

“Clint.”

Il fatto che lo avesse chiamato per nome lo aveva ammonito, definitivamente. Coulson non lo chiamava quasi mai per nome. E quando lo faceva era sempre per ragioni… poco piacevoli.

“Hai preso a pugni tre infermieri e un dottore.”

“Quattro contro uno, mica male, no?” a testimonianza del fatto, giusto un livido sullo zigomo.

L’occhiata di Coulson avrebbe raggelato un ghiacciolo, ma Clint stavolta non si lasciò intimorire.

“Le stavano facendo male. Che altro avrei dovuto fare?” si accalorò. Le immagini di Natalia ancora ben impresse nel cervello.

Quel: niente, niente, niente, ad aleggiare per la stanza, e gli infermieri che cercavano di tenerla ferma, mentre lei urlava e si dimenava e…

“Stavano solo facendo il loro lavoro.”

“Usare la forza bruta con una ragazzina legata ed indifesa? Gran bel lavoro.”

“Una ragazzina indifesa? Tutti i file che ci rimandano a lei la definiscono tutt’altro che una ragazzina… men che meno indifesa. E tu… dovresti saperlo. Meglio di chiunque altro.”

Clint non poté far altro che zittirsi. Su quello non poteva certo dargli torto.

Solo che…

“Proprio perché lo so, non sono riuscito ad agire… razionalmente.”

Sentì Coulson sospirare e raggiungere la finestra.

Clint si voltò a sbirciarlo, sperando non sospirasse tanto da far appannare il vetro.

Priorità.

“Fury ha deciso di sottoporla ad alcuni test.”

Clint adesso era scattato in piedi.

Test. Come quelli che le avevano fatto passare l’inferno alla Red Room?

“Fury è pazzo.”

“Attento a come parli Barton.”

“Ma che cazzo ha nella testa?”

“Barton…” l’uomo gli si era avvicinato con aria tutt’altro che ostile, “dobbiamo capire con chi abbiamo a che fare. E quanto è rimasto danneggiato il suo cervello. Non sarà niente di invasivo.”

“Niente di invasivo, certo. Quanto un catetere infilato su per il…”

“Barton. E’ una procedura. La ragazza non sta bene, te ne sei reso conto anche tu. Nemmeno ti riconosce… eppure lo sappiamo entrambi quanto tempo avete passato assieme.”

Quella constatazione gli procurò una dolorosa contrazione allo stomaco.

Non si ricordava di lui. Non più. Non il minimo barlume di coscienza in quegli occhi così freddi, glaciali. Gli stessi occhi che le aveva visto quella sera del vicolo… cinque anni prima.

Cancellata.

“E’ per il suo bene. E per il… nostro.”

“Soprattutto per il vostro…” ribatté Clint, cercando di impedire a Coulson o chiunque altro di capire quanto gli risultasse dolorosa la faccenda. “Non hai visto che riflessi?” stemperò. O almeno ci provò.

Coulson, se non altro, sorrise.

“Lo so che è difficile, ma quello che ti chiedo, ora, è di lasciar fare a noi.”

“Perché, ho scelta?” Vide l’uomo scuotere la testa a conferma della sua tesi. “E allora vedete di fare un buon lavoro. Sono sempre stato convinto che lo SHIELD non le avrebbe fatto alcun male.”

“E non gliene farà.”

Clint si concesse un sospiro. Di tutte le persone che aveva conosciuto in tutta la sua vita, Coulson era l’unico a non avergli mai mentito. Questo... doveva pur voler dire qualcosa, no?

“Io però adesso che faccio?”

“Ah, il direttore Fury dice che hai ancora un sacco di lavoro d’archivio.”

“Ma se ho quasi finito?”

“L’archivio centrale.”

“Stai scherzando, vero?”

“Per niente.”

“Ma sai quanto è grosso l’archivio centrale?”

“Inizia a rimboccarti le maniche.”

“Fury è pazzo.”

“Barton.”

 

*

 

Si massaggiò i polsi mentre le toglievano le cinghie e gli elettrodi dalla testa.

Era la terza volta, quella settimana, che le propinavano quel trattamento. E un sacco di domande. Domande su tutto. Domande alle quali non aveva risposto o risposto elusivamente, tanto da guadagnarsi un cambio d’agente al giorno, per esaurimento.

Se ancora non avevano capito con chi avessero a che fare, non era un problema suo.

Non aveva intenzione di collaborare. Non fino a quando non le sarebbero venuti incontro con qualche mossa intelligente che le facesse pensare che poteva valerne la pena.

Per ora si erano limitati a dimostrare una scarsa credibilità… lo SHIELD l’aveva grandemente delusa.

Il fatto che però non l’avessero sottoposta a trattamenti invasivi, le accese il seppur minimo barlume di speranza: forse sarebbe riuscita a cavarsela e, a lungo andare, ad andarsene da lì. Appena fosse tornata in forze. Non appena in pieno possesso di tutte le sue capacità.

O forse anche prima.

La porta della saletta si aprì per rivelare l’arrivo di una donna.

L’unica presenza costante di quell’assurdo teatrino. L’agente Maria Hill. O così almeno diceva di chiamarsi.

“Signorina Romanova.”

Romanova. Continuava a insistere su quel nome. Su un nome che non le apparteneva o che, se anche ne fosse stata investita una volta, ora non significava più niente.

Non più di quel Nat con cui l’arciere si era incaponito di chiamarla.

L’arciere. Ogni tanto pensava ancora a lui.

L’unico ad avere l’aria di conoscerla. E conoscerla veramente. Non come esperimento da laboratorio. Non come il nome in un database, ma di una conoscenza intima, profonda, personale. Tanto da scatenarle delle scariche emotive non richiesta in sua presenza, o anche solo… a sentirlo pronunciare il suo nome. Quello stupido, stupidissimo nome.

“Non ci sono grandi miglioramenti, a quanto mi dicono.” La sue parole, sempre con quel tono definitivo. Non ci sarebbero stati miglioramenti per un bel po’.

“L’agente Mills mi ha detto che ancora si rifiuta di collaborare.”

“L’agente Mills non è rimasto abbastanza a lungo per permettermi di farlo.” Una delle frasi più lunghe che avesse detto da giorni.

L’agente Hill non risultò particolarmente sorpresa. Sistemò la cartellina sulla scrivania e si avvicinò al lettino a cui era ancora legata, almeno per i piedi.

Aveva l’aria di chi aveva inteso l’allusione.

“Non amiamo i giochetti, qui.” Le rispose con aria severa.

Le ricordava tanto una sfinge. Di quelle alle quali non riesci ad estorcere mezza emozione.

In qualche angolo remoto della propria mente, però, doveva ammettere di ammirare l’agente Hill. Non sembrava molto più vecchia di lei, ma abbastanza preparata da meritarsi una posizione di spicco nell’organizzazione, per quanto le fosse dato di intuire. Il fatto che fosse una costante, le suggeriva che fosse responsabile del caso. O quantomeno un supervisore.

“Avevate paura che ve lo mangiassi, l’agente Mills?” le era uscito del tutto non preventivato, ma piuttosto efficace. Se lei si permetteva di parlarle con condiscendenza, allora le avrebbe dato qualcosa di concreto per cui farlo.

La donna si limitò a lanciarle uno sguardo di sufficienza.

“L’agente Mills è un professionista, come tutti, qui dentro.”

“Ah… davvero?” alluse di nuovo. “Mi era parso di intuire fosse piuttosto interessato a sbirciarmi sotto il camice, mentre mi legava le caviglie. Gran professionista.”

Il sopracciglio della donna era schizzato in alto senza poterselo impedire. Natuska registrò quel gesto.

“Ma dopotutto è solo un uomo, non è così?” la osservò muoversi per la stanza a recuperare delle scartoffie abbandonate. Fingeva di ignorarla, ma sapeva che la stava tenendo d’occhio. Forse perché aveva ancora in serbo delle domande per lei o dio solo sapeva cosa.

“Credete che mandare qui una donna mi sia d’intralcio?”

“Non crediamo nulla, signorina Romanova. Prima capirà che qui nessuno intende farle del male, prima riusciremo ad aprire un dialogo proficuo.”

“Chi vi dice che abbia intenzione di aprire un… dialogo?”

“Dovrebbe suggerirglielo il buonsenso.”

“Chi vi dice che ne abbia… di buonsenso?”

L’agente era tornata a fronteggiarla.

“Signorina Romanova che ci creda o meno la conosciamo. Meglio di quanto creda. E siamo perfettamente consapevoli delle sue capacità e al servizio di chi… fossero. Quello di cui vogliamo accertarci qui, in questa sede, sono le sue condizioni di salute. Se i test fisici e psicologici cui è stata sottoposta per tutti questi anni abbiano compromesso irreversibilmente le sua capacità cognitive.”

“Se sapete già tutto perché tutte quelle domande, allora?”

La donna parve esitare.

“Per approfondire il caso e arrivare a chiuderlo, definitivamente. Per questo ci auspichiamo una sua collaborazione.”
Natuska sbuffò una risata.

“Ed io cosa ci guadagno, da tutta questa storia?”

La Hill non l’aveva mai guardata così seriamente.

“Ha evitato persino il carcere, in virtù delle sue condizioni fisiche e psicologiche. Non le sembra di averci già guadagnato abbastanza?”

Abbastanza? Abbastanza cosa? Un lettino? Delle cinghie? Un ambiente ostile?

“Avreste dovuto lasciarmi morire”, esalò allora, “nessun guadagno sarebbe stato migliore di quello.”

“L’agente Barton aveva dei buoni motivi per non farlo.”

L’agente Barton.

L’arciere.

Lo stesso arciere a cui avevano permesso di farle visita. Lo stesso uomo che aveva preso a pugni gli infermieri, prima che la sedassero, di nuovo.

“Non so chi sia…” si trovò a mormorare, mentre la testa si sforzava, disperatamente, di trovare anche un seppur minimo indizio che le suggerisse di averlo già conosciuto.

E non solo per il modo in cui la faceva sentire quando pronunciava il suo nome.

“Signorina Romanova…”

“Non mi chiamo… Romanova.” Fece ora, più incerta.

“Credo che per oggi sia sufficiente così… le consiglio di riposare, domani sarà un’altra lunga giornata.”

Ma Natuska non la stava più ascoltando. Quando la Hill si prodigò a legarle di nuovo i polsi, tenne i muscoli contratti e si preparò alla lunga nottata.

 

Alle undici e un quarto i corridoi erano deserti e tutto innaturalmente silenzioso. Solo la sagoma scura di una guardia o di un agente dietro la porta a vetri zigrinati a fare la ronda, di fronte alla stanza che stava occupando: a volte si rimetteva in piedi, per sgranchirsi le gambe, a volte sedeva.

Inspirò a fondo e prese a muovere lentamente le gambe sotto le lenzuola, per quanto le concedessero quelle maledette cinghie. A rianimarle dal torpore dei troppi giorni inattivi.

Fece lo stesso con i polsi, cominciando lentamente, pazientemente a farli roteare.

Non c’era fretta, l’aver tenuto contratti muscoli e nervi, al momento dell’aggancio adesso le aveva dato la possibilità di tenerli allentati, e non le fu difficile, dopo una serie di interminabili minuti, piegare abbastanza il polso da permetterle di sganciare le cinghie. Ne bastava una soltanto...

Represse un moto di trionfo quando il primo polso fu liberato.

Il resto fu tutto in discesa.

Si premurò di restare ben ferma sotto le lenzuola, prima di emettere un grido strozzato.

La porta si spalancò, come da copione, il secondo successivo.

“Che cazzo succede?”

L’agente Mills. Il professionista.

“Salve.” Lo accolse lasciva, prima di sedere rapida come una molla e scagliarglisi addosso, senza lasciargli nemmeno il tempo di mettere mano alla sua arma o di proferir verbo.

 

Lo trovò un’infermiera un paio di ore dopo. A terra, privo di sensi. Con addosso solo calzini e mutande.

 

*

Clint si era svegliato, accartocciato sul divano, di nuovo, nel bel mezzo della notte. Non una sconvolgente novità. Fra la vendita di un set di coltelli dalla lama affilatissima e quella di un attrezzo per sciogliere il grasso, aveva tirato tardi, ancora una volta.

Si era perso mezzo film in seconda serata.

Davano Ben Hur sul secondo canale. E nonostante la buona volontà di colmare, finalmente, quella mostruosa lacuna, non era comunque riuscito ad arrivare più in là del primo tempo.

Eppure era uno dei film preferiti di Coulson. Doveva scendere a patti, una volta per tutte, con il fatto che lui e Coulson avevano una concezione ben diversa di cultura… pop.

Quella del collega era troppo classica, troppo sofisticata. Ricolma di concetti complicati e dialoghi potenti. Quella di Clint invece si bilanciava fra il godimento assoluto di un inseguimento e una sana scazzottata, condita di dialoghi brillanti e meno verbosi.

Erano diversi. Ma questo non faceva di certo venir meno la sua stima per il collega. Al punto da spingerlo a guardarsi Ben Hur, quando sull’ABC davano le repliche di Twin Peaks.

Si stiracchiò per bene, il collo incriccato. Forse era davvero arrivato il momento di andare a dormire in un letto vero. Nonostante si fosse reso conto di aver bisogno di un rapido cambio di reti: se si muoveva troppo il cigolio diventava inquietante. E, per quanto lusinghiero, per le allusioni ai vicini, affatto conciliante… per il suo fresco riposo.

Il pomeriggio passato a sistemar archivi poi non era stato granché d’aiuto. Forse poteva usarla come scusa ufficiale per non essere riuscito ad arrivare alla fine della pellicola.

Coulson non gli avrebbe creduto mai. Non dopo quella volta che, dopo una missione di quattro giorni in Guatemala, era riuscito a vedersi l’intera trilogia di Indiana Jones per riprendersi dall’astinenza da tv.

Recuperò uno dei cuscini che erano miseramente crollati a terra e spense la tv, nel dondolio di un sedere che tutto aveva bisogno, fuorché di sciogliersi.

Si grattò una spalla, superò il corridoio, sbadigliò copiosamente nel riflesso dello specchio del bagno e si fermò di fronte al water per pisciare.

Nemmeno il tempo di lavarsi per bene le mani che i suoi sensi di falco entrarono in azione, uno dopo l’altro.

Fra lo zampillio dell’acqua e il riflesso di uno specchio sbeccato si trovò ad avvertire la canna di una pistola puntata esattamente fra le scapole.

Dannato Ben Hur! Se non si fosse fatto rincoglionire dal continuo ciarlare di sua maestà Charlton Heston avrebbe sedato immediatamente quell’intrusione.

Sospirò con aria teatrale.

“Seriamente?” domandò senza darsi nemmeno la pena di capire chi fosse. Una mossa rapida e gli afferrò il braccio che reggeva l’arma; strinse talmente forte che questo fu costretto a mollare la presa per evitare di vederselo spezzare.

Lo scaraventò contro il muro antistante con una forza tale che ne sentì il busco contraccolpo. Ma non prima di sentirsi falciare entrambe le gambe e finire a scivolare sul pavimento del bagno a un passo dallo spigolo della doccia.

“Merda!” le mani cercarono di artigliare le piastrelle scivolose per tirarsi su, ma un ginocchio, dritto sul petto e le mani ancora bagnate, gli impedirono qualsiasi mossa.

“Non voglio farti del male.” Sibilò una voce, dietro una divisa troppo larga dello… SHIELD?

“Chi cazzo, s-sei… ?”

“Non lo so. Dimmelo tu, visto che sembri saperlo meglio di me.” Una voce di donna.

Il berretto che le teneva nascosti i capelli cadde a terra, liberando una chioma fulva che gli piovve in faccia come uno schiaffo.

“Agente Barton.”

Si trovò a trattenere malamente il fiato quando riconobbe quel viso, ma soprattutto quegli occhi, che in quel momento, di glaciale, non avevano proprio un bel niente.

 

*

 

Non era sicura fosse normale. Non del tutto. Non sicura che dovesse trovare tanto familiare… essere seduta al bancone della cucina di un perfetto sconosciuto, con una tazza di caffè fumante fra le mani.

Addosso la divisa troppo grossa di quel bestione di Mills. Le maniche arrotolate più volte per impedire che le coprissero anche le mani.

Eppure sì, insomma... ci si trovava a suo agio. Nonostante gli sguardi continui e vagamente intimidatori che l’arciere continuava a mandarle.

Nonostante non conoscesse che il suo nome.

Nome che le aveva permesso di fare delle ricerche. E di trovare il suo appartamento a Brooklyn.  Un gioco da ragazzi.

“Ripetimi un po’ come hai fatto ad arrivare qui.”

“Sono scappata.”

“Questo… mi sembra evidente. Mi chiedo solo dove tu abbia trovato quella divisa.”

“La guardia che doveva tenermi sotto controllo.”

Lo sentì sbuffare una risata.

“Questo significa che c’è un agente dello SHIELD nudo, in giro?”

“Precisamente.”

“Chi?”

“Mills.”

La risata di Clint le risultò poco appropriata, ma vagamente… divertente.

Si decise a prendere un sorso di caffè. E fece una smorfia. No, non le piaceva. Il sapore però le risultò anche quello, fin troppo familiare. Non tanto per la bevanda in sé, più per una questione di… marca. Una pessima marca, se glielo avessero chiesto.

Osservava l’uomo cercando di trovare qualcosa, qualsiasi cosa che le consentisse di riportare alla memoria qualche dettaglio sul suo conto, ma fino a quel momento, a parte la sensazione di familiarità che di per sé l’aveva tranquillizzata, non riusciva a percepire altro.

“Lo sai che dovrei chiamare lo SHIELD? E riportarti indietro?”

Gli lanciò uno sguardo allusivo: non ci sarebbe riuscito a meno che lei non glielo avesse permesso. Chissà come, dal suo tono, intuì che lo sapesse perfettamente anche lui.

“Perché non sei scappata? Per davvero, voglio dire. Perché sei venuta… da me?”

La domanda le sembrò così superficiale che per qualche istante fu sul punto di non rispondergli nemmeno, ma poi cedette. Aveva bisogno di essere pratica. E rapida. Se fossero stati sulle sue tracce o lui avesse avuto intenzione di fare mosse azzardate, non avrebbe avuto molto tempo.

“Perché sei l’unica persona che sembra conoscermi. Per davvero.” Dovette aggiungere sul finale, per evitare un’altra ovvia puntualizzazione.

Lo vide sospirare e di nuovo rivolgerle quello sguardo triste, che nascondeva un tormento che non riusciva… a concepire. Non ancora, almeno.

“E' vero.” Le sue parole si sciolsero con i suoi dubbi. Le sembrarono sincere. Così come lo erano state il giorno in cui era venuto a trovarla in ospedale. Solo che allora non era pronta.

Adesso invece… aveva bisogno di sapere. Aveva lasciato macerare il dubbio tanto da ammorbarlo.

“Cinque anni fa. Hai detto che ci siamo incontrati cinque anni fa. Che cosa facevo in quel periodo?”

Clint si avvicinò appena, attirando a sé la sedia che le stava di fronte.

“Bè…” l’aspettativa crebbe per tutto il tempo in cui Barton si attardò a prendere posto. “Niente di più di quello che stai facendo adesso. Avevi perso la memoria, anche allora.”

Si accigliò considerando appropriata quella constatazione. Quante volte l’avevano cancellata? Potevano essere dieci, come cento. Non se ne sarebbe ricordata comunque.

“Solo che in più vomitavi.”

“Che cosa?” adesso era confusa.

“Sì, vomitavi. Parecchio spesso anche. I primi tempi.”

“Di che cosa stai parlando?”

“Del… niente.”

“Non hai risposto alla mia domanda.”

“Ti ho risposto. Avevi perso la memoria… e… SHIELD, FBI e gentaglia russa ti… stavano cercando. Te e un cazzo di floppy pieno di informazioni. Una cosa che devi avergli sottratto… prima che ti trovassi in quel vicolo.”

“Quale vicolo?”

“Il vicolo…” esitò, e poi spazientito: “oh, un vicolo! Dietro a un pub. Te ne stavi lì, con un coltello fra le mani e un ragazzetto morto ai piedi.” Sembrò accigliarsi.

“Vai avanti.”

“E non sembravi stare troppo bene. A malapena ricordavi il tuo nome.”

“Quale nome?” insistette incalzante.

“Natalia.”

“Perché mi chiami, Nat, allora?”

“Natalia era… troppo lungo”, stronfiò sbrigativamente. “Senti, sembra un interrogatorio, non -”

“E’ un interrogatorio.” puntualizzò seccamente. Non era niente altro che quello. Non poteva essere altro che quello.

“Ah”, in quell'unica sillaba avvertì, senza troppo sforzo, tutta la delusione. “Sentivi per caso la mancanza dei polizieschi?” stava ancora blaterando di stupidaggini senza senso.

“In che rapporti eravamo?” proseguì.

“… o magari delle maratone di fantascienza…”

“Che è successo dopo il vicolo?”

“… sai che ho ancora tutti i fumetti di Batman?”

“Mi stai ascoltando?”

“E quel cazzo di dvd di Titanic… che ho consumato.”

“Non stai rispondendo alle mie-”

“Titanic. Salti tu, salto io, ricordi?”

Salti tu... salto io.

Natuska avvertì immediatamente un formicolio alla base della nuca. Che andò a propagarsi per le scapole e avvampare in una spirale su per le spalle, per la gola, ad animarle il petto in uno strappo imprevisto.

“C-che hai detto?” si sentì pronunciare con una voce che non riconobbe come propria.

Lo vide scrutarla, con tutt’altra espressione ora.

“Salti tu… salto io.”

Salti tu, salto io.

 

Un precipizio.

L’impatto con l’acqua.

 

Scansò la sedia con una forza tale che fece barcollare la tazza ancora colma di caffè.

“C-che hai detto… ?” la voce le fremeva in modo incontrollato, la pelle ricoperta di brividi.

“Nat…”

Un vago tremore alle gambe.

“Non pronunciare il mio nome.”

“Nat.”

“Non pronunciare così il mio nome!”

Barton si era rimesso in piedi, e fece per raggiungerla ma lei fu più veloce e si allontanò con un gesto d’ammonimento.

“C-chi sei?”

“Clint. Solo… Clint.”

Quel suo sguardo triste, così triste.

E adesso che diavolo era quel pizzicore agli occhi?

Le Vedova Nera non era stata addestrata a piangere. Ivan non le aveva insegnato a piangere, semmai il contrario. Ivan le aveva insegnato a trattenere le emozioni. Tutte quante...

E adesso usciva questo tizio che con due parole era stato in grado di procurarle quello scompiglio del tutto irrazionale.

Natalia.

Aveva detto che all'epoca si chiamava Natalia.

Era quello che avrebbe dovuto conservare di quell'identità?

Natuska non era altro che l'involucro momentaneo, quello che si era guadagnato la libertà, quello che stava sperimentando la confusione.

Ma Natalia.

Cosa era stata... Natalia?

Natalia era stata dolore e lacrime? Era questo che le suggerivano gli occhi tristi dell'arciere.

Improvvisamente non fu più sicura di volerlo scoprire.

“Che cosa era Natalia?” mormorò seguendo più una riflessione che l'intenzione di iniziare un dialogo.

“Natalia non lo so.” lo sentì dire e fece scattare di nuovo lo sguardo su di lui. “Però Nat era mia amica.”

Amica.

“Io non ho mai avuto amici...”

“Questo solo perché non te lo ricordi.” le stava sorridendo adesso. Di quel sorriso assurdo, triste e sincero allo stesso tempo. “E in ogni caso io parlavo di Nat. Tu chi sei?”

Era una domanda a trabocchetto? Non aveva la lucidità giusta per... analizzarla.

“Non... lo so.” rispose allora, sincera, per una volta tanto.

Lo vide annuire, come a prenderne atto.

“Forse allora è arrivato il momento di deciderlo, non credi?”

Decidere... chi essere? Lei... che non aveva potuto farlo mai.

Avrebbe potuto restare Natuska per sempre. O tornare a vestire i panni di Natalia, fra le lacrime e il dolore, oppure...

Nemmeno si era accorta di star trattenendo il fiato.

 

Oppure.

 

---

 

Note:

Qualcosa si smuove nella coscienza della nostra Vedova Nera. Saranno stati gli occhi tristi di Clint, i suoi riferimenti al loro vissuto o altro? La storia si sta avviando alla conclusione. Ebbene sì, dopo questo, ancora due capitoli e sarà finita. Per come era partita, direi che sono soddisfatta di averla conclusa. E come si concluderà, lo saprete presto.
Per il resto… ringraziamenti conclusivi a tutti, alla socia/beta e… ci sentiamo per il prossimo capitolo!

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


CAPITOLO 19

 

She said fine and in thirty seconds time she said, I want to live like common people
I want to do whatever common people do, I want to sleep with common people
I want to sleep with common people like you.
Well what else could I do - I said I'll see what I can do.

(Common People - Pulp)

 

Caffè.

Gli ci sarebbe voluto molto più caffè.

La sua vista di Falco cominciava a vacillare su quell’ammasso di fogli sparsi.

Odiava la burocrazia. La stupida burocrazia. Insomma, lui era un uomo d’azione. Avesse voluto lavorare in un ufficio avrebbe aspirato a un posto d’impiegato.

Avrebbe continuato a studiare. Per dire.

E invece, a quanto pare, sbolognare la stupida burocrazia è uno dei compiti a cui lo SHIELD non ti prepara. Non immediatamente.

Prima ti imbocca con false promesse di una vita d’azione e badassery e poi te lo mette nel culo con un paio di cavilli da sbrigare. Tipo redigere i rapporti di una missione appena conclusa.

Che se non te li cavi d’impiccio in corso d’opera, come è consigliabile fare (come Coulson o come la Hill, si premuravano sempre di ribadire), allora ti tocca sbrigartela al rientro. Quando l’unico desiderio è cadere su un letto e morire. Non… letteralmente. Ma insomma. Per dare l’idea.

 

Clint cercava di capire come sistemare quei due o tre dettagli che non gli tornavano. Che, insomma, vaglielo a spiegare che era stata l’ennesima iniziativa personale a salvar la missione, senza farla sembrare negligenza.

Non era granché bravo con le parole.

Ancora indeciso se usare il termine incompetenti o smisurate teste di cazzo, trasalì quando un’ombra oscura gli finì sotto al naso a ostruire la visuale.

“Barton.”

Natasha era saltata sul tavolo. Le gambe incrociate, gli anfibi ad accartocciare i documenti sparsi su tutta la scrivania.

“Cristo santo!” Si era lasciato andare, scivolando all’indietro sulla sedia con le rotelle, “Un'entrata in scena meno teatrale sarebbe stata gradita ugualmente.”

“Che stai facendo?” aveva preso in mano un paio di fogli e la fotografia di uno dei sospetti.

“Lavoro. Giù il culo dalla mia scrivania.”

“Che tipo di lavoro?” La sentì replicare, mentre scrutava imperturbabile tutti i documenti come ad assorbirne le informazioni.

“Uno che non ti riguarda.” Le strappò i fogli di mano, scatenando il suo disappunto.

“Ancora nei guai con la relazione?”

“Le mie relazioni vanno benissimo.”

“Le tue relazioni fanno schifo.”

E Clint dovette fare uno sforzo per capire a che tipo di relazione si riferisse. In entrambi i casi non sbagliava affatto.

“Continuano a non essere affari tuoi.” Prese a sistemare i documenti con un po’ troppa foga. Il fatto che già non gli andasse di farlo, si aggravava con quell’insistenza non richiesta.

Natasha… così lo SHIELD aveva americanizzato il suo nome.

Così lo SHIELD le aveva dato una nuova identità.

Bazzicava da quelle parti da quasi un anno. Un intero anno dalla decisione di prendere in mano la sua vita e riplasmarla.

Il reintegro non era stato immediato. La trafila non di facile sviluppo.

Clint aveva dovuto convincere la commissione. Fury aveva dovuto convincere la commissione. Ma alla fine lo SHIELD si era preso in carico la vita di una ex ragazzina prodigio, dalle qualità intellettive e fisiche ben al di sopra della media della maggior parte degli agenti dell’organizzazione.

I risultati dei suoi test si erano rivelati, come da copione, straordinari e la ragazza aveva guadagnato un nuovo lavoro, una nuova… famiglia.

Clint, di contro, aveva dovuto combattere per mesi con la frustrazione di veder falliti tutti i suoi tentativi di vederle sorgere dentro la consapevolezza del loro precedente incontro.

Quando aveva capito che sarebbe stato sempre un niente di fatto, aveva deciso di non farle pressione. Di ricominciare da capo.

Natasha sembrava aver apprezzato gli sforzi perché Clint, assieme a pochissimi altri, era l’unica persona con cui sembrava interagire con familiarità. O interagire. Punto.

Quella di ficcare il naso, invece, era una delle libertà che si era presa… da subito.

“E’ questa?” aveva recuperato il foglio scritto a mano e pieno di cancellature che nemmeno un tema scritto in brutta grafia, ed era scesa dalla scrivania.

“Non-” Clint allargò le braccia, frustrato. “Ridammelo.”

“Io cambierei un po’ la forma.”

“Che forma?”

“Tipo qui. Non credo che la parola: stronzeggiare esista nel vocabolario ufficiale.”

“Non ho scritto stronzeggiare.”

“A me sembra ci sia scritto stronzeggiare.”

“Fra sembrare ed essere c’è una bella differenza. Non è colpa mia se hai scarse doti interpretative.”

“Sei tu che scrivi da schifo.”

“Ma come cazzo ti permetti? Ridammelo.” Si era alzato in piedi.

“Anche qui: il soggetto si è allontanato per un centinaio di metri prima di grufolare per la discesa. Grufolare?”

“Hai letto male.”

“E’ scritto in stampatello.”

“Ridammelo.”

Natasha aveva preso a girare per la stanza con la sua relazione in mano. Un modo meschino per passare il tempo.

“E ancora: non è stata iniziativa personale ma una decisione dettata dalla scarsa capacità di giudizio del colleghi.” Lesse, mentre Clint cercava di strapparle i fogli e lei si arrampicava su un’altra scrivania. “Praticamente stai dando a tutti di incompetenti.”

“La vuoi finire?!” era saltato anche lui sulla scrivania, stivali d’ordinanza e tutto il resto, le mani che cercavano di strapparle il verbale che gli aveva sottratto.

“Sganciali”

“Non fare il violento”

“E tu non fare la stronza.” La guardò saltare su un’altra scrivania.

La rincorsa in bilico su tutte le scrivanie dell’ufficio fu pressoché scontata.

“Aiuto. Aiuto. L’agente Barton è impazzito.” Esclamò lei con un tono così glaciale da risultare comico nel contesto.

Clint fece una brusca virata e spiccò un balzo che lo fece atterrare di fronte a lei. Le agganciò un braccio mentre con l’altra mano cercava di liberare i fogli dalla sua presa ad artiglio.

“Dammeli”

“E’ tutto quello che sai fare? Usare la forza bruta?”

“Rivoglio solo i miei… fogli.”

“Chiedi per favore.” Continuava a sventagliare il braccio, ad impedirgli di recuperarli.

“Col cazzo.”

“Peccato, la gente sottovaluta la gentilezza.”

“Natasha.”

“Barton.”

Aveva avvicinato il viso al suo, e schioccato un bacio, a tanto così dalla sua bocca, che lo fece trasalire.

“Merda.” La presa si allentò senza previsione e Natasha fu di nuovo libera.

La vide saltare giù dalla scrivania e lanciargli uno sguardo di trionfo.

Sapeva sempre come colpire, la stronza. Il suo unico, letale punto debole.

Quando la porta dell’ufficio si aprì Clint era ancora in piedi su una della scrivanie.

L’agente Hill gli lanciò uno sguardo severo e perplesso allo stesso tempo.

“Che cosa stai facendo lì?”

Clint scoccò uno sguardo a Natasha che aveva sistemato il foglio della relazione proprio lì, dove lo aveva preso.

“Ahm…” si umettò le labbra, in evidente, imbarazzo: “Capitano, mio capitano?”

La Hill non sembrò afferrare la citazione. Non del film, almeno.

 

*

 

“Il direttore Fury vi vuole nel suo ufficio.”

Una sola frase e se ne era uscita ad aprir loro la strada.

Barton sembrava avere l’aria di chi ne avesse combinata un’altra delle sue. Forse temeva per il ritardo nel redigere il rapporto: si fosse preso più tempo ad analizzare il direttore, forse si sarebbe reso conto che a Fury non importava nulla delle relazioni. Era Coulson quello fissato.

Evitò di dirglielo, godendosi quell’espressione di contrito cordoglio, la vittoria in pugno per l’ennesima volta.

All’inizio non era stata del tutto sicura di sapere perché l’agente Barton le piacesse così tanto. Escluso il fatto che si era rifiutato di prendersi la sua vita, dandole una ben nota possibilità di redenzione. Escluso il debito che sentiva di avere nei suoi confronti. In ogni caso avrebbe potuto evitare di farselo piacere: invece la sua compagnia le era congeniale. E non faticava a credere, non più almeno, che ci fosse stato un pregresso coinvolgimento emotivo nei suoi confronti.

Ancora la guardava con quegli occhi colmi di frustrazione e malinconia.

E le sue intenzioni, del tutto sincere, confidenziali, trasparivano da qualsiasi gesto nei suoi confronti.

Per quello non le era risultato difficile entrare in sintonia con lui. Che fosse una delle poche, pochissime persone di cui sembrava fidarsi, veniva da sé.

Lui e il direttore Fury.

Che l’aveva guidata attraverso la sua formazione nemmeno fosse lui il suo supervisore.

Aveva nei confronti dell’organizzazione tutta, un debito di gratitudine che ben difficilmente sarebbe riuscita a estinguere.

All’inizio aveva preso in modo pessimo la notizia: anche il solo pensiero di essere in debito con qualcuno le dava alla testa. Poi, lentamente, si era abituata all’idea e convinta che mantenere una buona condotta, sarebbe stato il modo più semplice e meno doloroso di ripagare… quella fiducia.

L’unico neo dell’intera faccenda era stata la mancanza di azione.

Lezioni, esercitazioni, test, tutte cose di cui aveva capito fin dall’inizio di poter fare a meno, ma che l’avevano obbligata a eseguire.

In un anno non aveva fatto altro che spendere le proprie energie sulla… teoria.

E poteva ben dire, adesso, di averne avuto abbastanza.

La noia. La noia era la parte peggiore di tutta quella faccenda.

Veder partire Clint per l’ennesima missione faceva crescere in lei il desiderio di impegnarsi per essere notata. In pochi mesi era diventata uno degli agenti più preparati dell’intero distretto.

Ed ora… il fatto che Fury li avesse chiamati a raccolta, accese in lei, in qualche modo… la speranza?

“Agente Barton, agente… Romanoff.”

Romanoff. Il suo nuovo nome non le dispiaceva. Ne amava il suono, amava il fatto che spezzasse con il suo passato senza però darle la possibilità di dimenticarlo.

Qualcosa di concreto. Per tenere i piedi ben piantati per terra.

“Barton… ho sentito che è rientrato ieri mattina.”

Clint sembrò muoversi un po’ nervosamente sul posto. Non che fosse visibile, ma ormai aveva imparato a riconoscere i segnali: era a disagio.

“Ahm, sì, signore…” lo sentì rispondere. Sperò si fermasse lì. E invece… “Se è per la relazione le posso assicurare che…”

“Relazione?”

“… che è tutta colpa della Romanoff.”

“Che cosa?” Natasha.

“Come… ?” Fury.

“Chi?” Clint.

“Che cosa c’entra la relazione?” il direttore lo aveva osservato con il suo unico, letale occhio scuro.

“Niente.” L'arciere si affrettò a liquidare l’argomento.

“Bene. Dunque posso finire di parlare o ha bisogno di altro tempo per elaborare una dichiarazione del tutto fuori luogo?”

“Può parlare.”

“Grazie per la concessione.”

Natasha si sforzò di trattenere una risata.

“Credo che la formazione dell’agente Romanoff sia alfine giunta alla sua degna conclusione.”

Adesso la voglia di ridere stava lentamente mutando in qualcosa di più complesso. E meno divertente. Più euforico, forse. “E che sia arrivato il momento di concretizzare i frutti della sua permanenza qui.”

Euforico senz’ombra di dubbio. Dall’esterno non v’era però che una tiepida reazione di sorpresa.

“La trovo un’idea… geniale, direttore.” Intervenne Barton, non meno sorpreso ma decisamente più incline a dimostrare il suo appoggio ed entusiasmo. Gliene fu immediatamente grata.

“Oh, grazie di nuovo, Barton.” Il sarcasmo nella voce di Fury sembrò decisamente meno duro di quello a cui tutti erano abituati, “Quindi suppongo che nominarla suo personale supervisore, in virtù della prossima missione a cui andrete a partecipare, sarà per lei motivo d’orgoglio.”

“Cert-  che?”

“Supervisore. E partner nella prossima missione che ho intenzione di affidarvi.”

Porse a loro le cartelline e Natasha riuscì a immaginare quanto Barton fosse rimasto spiazzato dalla notizia, anche solo dal modo in cui aveva preso a stringere i documenti.

Lei, di contro, cominciò a sentir fremere le mani alla sola idea che avrebbe finalmente potuto entrare in azione.

“Avremo modo di discuterne i dettagli più tardi, prima voglio che analizziate insieme tutto il materiale che vi ho fornito.”

“Ma signore…”

“Qualche obiezione da sollevare a riguardo, agente Barton?”

Natasha gli lanciò uno sguardo in tralice. Che stava facendo? Voleva avanzare una protesta? Avrebbe preferito non lavorare con lei? Era da poco allo SHIELD ma era una dannata professionista. Lui lo sapeva! Persino meglio di Fury. E…

“Niente. Mi chiedevo solo… se questo mi esonera dal finire la relazione sull’ultima missione.”

Natasha adesso lo stava guardando come se fosse completamente pazzo. O assolutamente geniale.

“Mi aspetto di trovarlo sulla mia scrivania, entro domani mattina, agente.”

“Ovviamente.”

“Potete andare.”

 

Quando furono usciti, a malapena riuscì a trattenere il buon umore. Era da tempo che non si sentiva veramente eccitata per qualcosa, il pensiero dell’anticipazione adrenalinica. Fossero anche solo andati a cercare il gatto della zia di Fury, disperso nel gran canyon. Tutto, purchè fuori da quelle quattro mura che, con la loro austerità, le si stavano ormai stringendo addosso da troppo tempo.

“Se mi dai un aiuto con la relazione ti pago.” Articolò Clint, lanciandole uno sguardo strano.

Si fermò poco oltre la soglia a studiarlo attentamente a verificare la veridicità della sua affermazione.

“E’ tutto ciò che hai da dire… a riguardo?”

Perché sì, insomma… aveva parlato di supervisori e Natasha sapeva perfettamente quanto Clint amasse lavorare da solo.

O meglio… era convinta di sapere… quanto gli piacesse lavorare da solo.

Non glielo aveva già detto?

In un’altra vita… forse.

“Che altro?” la guardò sinceramente perplesso. “Oh, congratulazioni?”

Le porse allora la mano.

E rimase a guardarla un po’ troppo a lungo quella mano.

Congratulazioni.

Se non fosse stato per lui non sarebbe mai arrivata fino a quel punto. Non all’abbandono totale, completo di quel passato che l’aveva umiliata, annullata.

Esitò, cercando di ignorare lo sguardo che lui le stava rivolgendo. Lo stesso. Sempre lo stesso sguardo. Un’accusa mai dichiarata. Una mestizia mai disciolta.

Quello sguardo che era in grado di farle dubitare di qualsiasi cosa, di farla sentire impotente, di attivare tutte le sue più nascoste fragilità.

Alzò la sua, di mano, e gliela strinse, prima con una e poi a coprirgliela anche con l’altra.

“Ti giuro che ci sto provando, Clint.”

Lo sentì irrigidirsi, ma non mollò la presa. Non questa volta, non adesso che era lei a cercare un punto d’incontro. Un contatto. Quando glielo aveva rifiutato così tante volte.

“Lo so…” lo sentì rispondere, “Non devi giustificarti.”

E invece era convinta fosse necessario farlo eccome. Sapeva ancora leggere abbastanza bene la gente per capire quanto ancora si sentisse ferito da quell’inconsapevole tradimento.

Ci sarebbe arrivata, prima o poi.

“Salti tu salto io… no?”

Clint sorrise a quell’uscita.

“Esatto. Magari con un paracadute stavolta.”

“Grazie.” Mormorò solo, prima di tornare a guadarlo.

E in quel ringraziamento si agitava tutto ciò che le provocò, finalmente, un sorriso.

 

*

 

Quando Clint aveva detto a Barney che aveva da fare, non mentiva.

Quando Barney, altrettanto innocentemente, si era andato a prendere una tazza di caffè, nel suo angolo cucina, decidendo che Clint gonfiava le cose… non mentiva.

Il fatto era che nessuno dei due mentiva. Il problema stava nel capire che era il giorno prima di un’importante missione e Barney non era gradito. Mentre il caffè non era granché gradito a Barney.

“Si può sapere che problema hai?”

“No, che problema hai tu. Sono venuto qui da Washington e nemmeno riesci a offrirmi un letto per stanotte.”
“Perché sarò fuori dagli Stati Uniti, entro stanotte.”

Barney fece un gesto vago con la mano, mentre si ingollava un po’ del suo caffè, senza zucchero.

“Dovrei metterci della panna.”

“Non ce l’ho la panna.”

“Dovresti comprare… della panna.”

“Perché non ci vai tu a comprarla?”

Barney gli sorrise con l’aria di uno che sa esattamente che, se mai avesse messo il naso fuori casa, non vi avrebbe fatto più ritorno, e non certo per iniziativa personale.

“Ho un fratello stronzo.”

“Barney.”

“No, seriamente, stronzo forte, eh. Cos’è? Adesso che lavori per lo SHIELD non hai più tempo di star dietro a un compatriota?”

“Ma quale compatriota!”

“Vabbè un compatriota fratello.”

“Barney… ti ho solo detto che non ho tempo, devo… lavorare.”

“Parti? Per dove?”

“Per il mare dei cazzi miei.”

“Quanta finezza. Frequentare Fury ti ha cambiato.”

“Che ne sai di Fury?”

“Ne so abbastanza per dire che non mi piace.”

“A me piace.” In determinati giorni. A fasi alterne. “Non posso ospitarti. Sarà per la prossima volta. C’è un Bed and Breakfast niente male a un solo isolato da qui.”

“Se devo andare a dormire da un’altra parte preferisco starmene a Manhattan.”

Clint gli scoccò uno sguardo perplesso.

“Perdonatemi, vostra maestà.”

“Non credo di aver afferrato da che parte di mondo vai a finire stavolta.”

Clint chiuse il borsone che stava preparando. Ci aveva infilato dentro la roba alla rinfusa. Come al solito. Tanto non avrebbe usato un bel niente. Se stava cercando di fregarlo aveva poco da sperare.

“Barney… io fra poco esco.”

“Anche io.”

Erano passati cinque anni. Aveva cambiato vita. Ma Barney ancora non aveva finito di rompere le palle. Le sue incursioni erano ricorrenti e Clint non era del tutto convinto si trattasse di mere gite di piacere. Il fatto era che, secondo lui, ancora lo stava tenendo d'occhio. In un modo tutto suo. Non era certo che lo avrebbe mai ritenuto una persona responsabile… e forse nemmeno Clint, ne era poi tanto sicuro.

Sì, gli faceva piacere. Il fatto che finalmente fossero arrivati a un punto d’incontro sulla natura delle loro divergenze, lo aveva messo in condizioni di apprezzare maggiormente la sua presenza. Il fatto era che, si sentiva in colpa, perché ancora taceva a Barney delle cose. E questo lo metteva in una condizione di disagio nei suoi confronti.

Cosa gli taceva?

Bè, in primis…

Quando sentì suonare alla porta, trasalì per la sorpresa. E se Barney intese qualcosa di oscuro in quel comportamento non lo diede a vedere.

Solo lo guardava perplesso per il fatto che non si fosse mosso dal divano.

“Bè? Non vai ad aprire?”

“Saranno i testimoni di Geova.”

“Oppure no.”

“Oppure un rappresentante di enciclopedie. Non mi viene a trovare mai nessuno.”

“Magari questa è un’eccezione.”

“Magari no. E poi se devo partire, tanto vale fingere di non essere in casa.”

“Se lo dici tu…” adesso però sì che lo stava guardando con sospetto. Clint non era mai stato un grande attore.

Il campanello non suonò una seconda volta, e se per caso avesse sperato fosse stato davvero un testimone di Geova o un rappresentante… la sua aspettativa venne smontata, pezzo per pezzo da un evento inaspettato.

“Barton?”

Natasha? La voce di Natasha dalla finestra della sua camera da letto.

Dannate scale esterne!

“Cos’è?” Barney si era rimesso in piedi e abbandonato, più che volentieri – ne era più che certo – la sua tazza di caffè nero.

“Niente!” Clint si era precipitato alla porta della sua camera richiudendola di schianto, mentre Natasha gli veniva incontro.

“Ma era una donna!”

“Dove?”

“In camera tua!”

“In… ? Ma cosa dici? Sarà stato un gatto.”

“Un gatto che ti chiama per nome?”

“Tecnicamente era un cognome. E poi… evidentemente è un gatto molto dotato.”

“Clint…”

“Barney?”

“Ti entra una donna dalla finestra e me la nascondi. O è una cosa seria. O è una pazza.”

“E’ una pazza.” Colse al volo l’occasione. “Mi tormenta. Da mesi. Non sai la sofferenza.”

“Non credo che la soluzione sia quella di chiuderla in camera.”

“Oh, ma tu non la conosci…”

“BARTON!” la voce dietro alla porta ora era accompagnata da pugni piuttosto vigorosi.

“Visto? E’ pazza.” Sibilò con la schiena appoggiata alla superficie, mentre Natasha cercava di aprire.

Barney non ne sembrò per nulla convinto.

“Barton, se non apri la porta te la distruggo.”

E di nuovo Clint mimò la parola: pazza.

“Barton! Mi vuoi spiegare che significa? Dobbiamo partire!”

Natasha e la sua boccaccia da… epiteto volgare che però si pentì immediatamente di aver formulato. Perché non era sessista.

“Clint, questa cosa sta diventando ridicola. Lasciala entrare.”

“No, Barney. Questa cosa non è ridicola. E’ complicata. E proprio perché lo è, devo chiederti per favore… di andartene.”

“Sei serio?”

“Mai stato più serio di così.” E sfoggiò la sua espressione più professionale. Quasi credibile, dopo anni di esercitazioni.

“Già bè…” sembrò sul punto di cedere, “Tanto non mi volevi qui.”

“Non è che non ti volevo…” lo guardò recuperare giacca e borsone.

“Non sono offeso. Solo un tantino scoraggiato. Insomma…”

“Mi dispiace Barney.”

“BARTON!”

“Me ne vado.” E poi guardando la porta, “arrivederci signorina di cui non scoprirò mai il nome! E’ stato un piacere non conoscerla!”

Il silenzio dall’altra parte sembrò decretare che Natasha aveva subodorato qualcosa.

Clint guardò Barney inforcare l’uscio, salutare e uscire di scena.

Tirò un sospiro di sollievo, accasciandosi contro la porta della camera da letto.

Se non fosse stato ancora abbastanza chiaro: Clint non aveva mai rivelato a Barney il ritorno di Natalia. Natasha. Insomma… Nat. Era quello il punto cruciale del suo senso di colpa nei confronti del fratello. Ma non poteva certo mettere nei casini Natasha, no? O a repentaglio il segreto professionale dello SHIELD.

Sentì un rumore ovattato dietro alla porta, come se anche la ragazza si fosse messa a sedere dall’altro lato, provata da quella performance del tutto inaspettata.

“Era tuo fratello… ?” la sentì domandare, un po’ di rammarico nel tono. Non le aveva mai parlato troppo spesso di Barney e mai nello specifico.

“Già…”

“Scusa.”

“Non è colpa tua.”

E di certo non lo era, ma se non avesse avuto quel pessimo vizio di scalare pareti nemmeno fosse Manolo. O Spiderman.

“Barton...”

“Dimmi…”

“Vuoi levarti dalla porta?”

“Ah, sì. Scusa…”

Si era appena messo in piedi che si propagò un gran fracasso nella stanza accanto. Un tonfo, un mezzo grido, una voce.

Ma che diavolo?

“Nikita?”

C’era solo una persona che chiamava così Natasha. E quella persona era…

“No!”

 

___

 

Note:

Un capitolo che mi sono divertita tanto a scrivere che ricalca un po’ quelli dell’inizio. L’assurdo trio si è ricompattato e ci accompagnerà alla fine della storia!

La citazione del ‘Capitano mio Capitano’, avrete capito, arriva direttamente dal film “L’attimo Fuggente” un film che ho amato così tanto e a cui dovevo dar credito almeno nelle note. Invece la citazione della canzone dei Pulp non arriva perché penso che Clint sia da annoverare fra i Common People, ma perché l’ascoltavo mentre scrivevo il capitolo. E l’ho trovata azzeccata.

Niente altro da aggiungere di importante, se non che il prossimo è l’ultimo capitolo e dovremo salutare tutti. Ed io voi. Ma lo faccio meglio quando ci risentiamo. Per ora solo i ringraziamenti di rito a chi mi segue, alla mia superbeta sclerosocia (adoooro), e alla prossima, ultima volta!

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


CAPITOLO 20

 

Your light's reflected now, reflected from afar
we were but stones, your light made us stars

(Light Years – Pearl Jam) 

 

Si era rimessa in piedi ad una velocità straordinaria.

Aveva annusato il pericolo nel momento in cui quell’ombra nera era entrata nel suo campo visivo.

Un uomo stava scavalcando il davanzale.

Quale razza di pervertito entra nelle case altrui, passando per la finestra della camera da letto?

A parte lei. Ma lei non era una pervertita, mentre quell’uomo, con quella mole e quella faccia… che tanto assomigliava a Clint. Ma che non era Clint. Aveva i capelli rossi…

“Nikita?”

“No!” la voce di Clint, prima che facesse irruzione nella stanza, la mise in una situazione del tutto precaria. Avrebbe anche attaccato il tizio, ma l’istinto e l’intervento del collega le suggerirono che sarebbe stato opportuno valutare la soluzione in modo più approfondito.

“Ma non eri morta?” blaterò il tizio che assomigliava a Clint, ma non era Clint e aveva i capelli rossi. E poi rivolto… a Clint: “Ma non era morta?”

“E’ complicato.” L’uomo le sembrò cauto con le spiegazioni e Natasha capì di essere di troppo, in quella stanza. Per molteplici e svariati motivi.

“Ecco perché non volevi farmela incontrare!”

Barney.

La soluzione avrebbe dovuto palesarsi immediatamente. Quell’uomo era Barney. Il fratello di Clint.

“Che diavolo ci fa qui?”

“Te l’ho detto… è complicato.”

“Oh, bello mio, qui ci sono così tante di quelle cose da spiegare che…”

“Potreste non parlare fra di voi come se io non fossi qui?” si frappose Natasha, prima di essere costretta ad assistere a uno scambio di battute al vetriolo.

Barney le aveva puntato lo sguardo addosso. Uno lungo, diretto, penetrante, carico di rimprovero.

Rimprovero di cui non fu per nulla sicura di aver individuato la natura.

“Giusto… perché non me lo dici tu che cosa sta succedendo… Nikita.”

Nikita.

Nikita non era l’eroina di quel film di Luc Besson?

Clint l’aveva costretta a vedere alcune pellicole. Quella era piuttosto interessante. Un po’ inverosimile ma…

Nikita.

Dovette scacciare una pessima sensazione allo stomaco.

“Nat, non sei costretta a dirgli un bel niente. Anzi sei moralmente obbligata… a non dirgli un bel niente.”

Forse aveva ragione. Se era vero che Barney lavorava per l’FBI e l’aveva conosciuta…

Clint le aveva raccontato tutta la storia. Omettendo particolari che aveva sempre sostenuto fossero irrilevanti ma… il quadro generale dello svolgimento del loro incontro lo aveva.

“Arrivati a questo punto sarebbe più pericoloso non dirglielo, non credi?” gli si rivolse, lanciandogli uno sguardo piuttosto esplicito. Insomma, se non gli avessero dato sufficienti giustificazioni, questo gli avrebbe dato il pretesto di indagare. Di divulgare il segreto e distruggere la nuova immagine guadagnata.

Cose che le importavano sì, ma adesso era un tantino più preoccupata a gestire quella pessima sensazione. Sempre lì, sempre presente.

Una sensazione di déjà-vu che andava man mano concretizzandosi in un malessere fisico.

 “Ti fidi di lui, Barton?” ebbe però la forza di chiedergli, mentre la mano andava a finire sullo stomaco.

L’arciere le rivolse uno sguardo indeciso.

“Dipende.”

“Ma come dipende?” Barney aveva avanzato una protesta piuttosto pertinente. Era o non era suo fratello? Le aveva raccontato delle divergenze ma…

Che diavolo era, adesso, quella sensazione di nausea?

“Non lo so: quanta intenzione hai di divulgare il segreto?”

“Ne ho tutte le intenzioni.”

“Eccoti la risposta.”

Natasha sospirò come se si trovasse ad avere a che fare con due bambini. Poi cominciò il mal di testa.

“Non se gli dicessimo che sto collaborando.” Le uscì un po’ stentato. Le tempie pulsavano.

“Con chi? Con lo SHIELD?”

Natasha e Clint rimasero in silenzio e Barney si trovò a far vagare lo sguardo prima su uno e poi sull’altra… attonito.

“Mi state prendendo per il culo. Ma da quanto?”

“Barney…”

“E’ lei la partner con cui devi partire?”

E Natasha voleva spiegargli che sì, era lei e che non avrebbe dovuto far rapporto a nessuno perché lo SHIELD si era preso cura di lei, fino a forgiarne un agente che…

Ancora quella sensazione di déjà-vu.

 

Barney era improvvisamente legato a un termosifone.

E Clint era sul divano.

E le stava parlando di un certo…

 

“Chi è Novicov?” domandò dal niente, interrompendo la diatriba fra i fratelli.

“Che hai detto?”

“Chi è… Novicov?” le era uscito con un rantolo.

“Natasha stai bene?”

“Non lo so.”

“E’ sbiancata.”

 

Un ciccione con la maglia di Capitan America.

 

“Nat?”

 

Una spiaggia assolata… della California.

 

“Nat!”

Era caduta sulle ginocchia.

 

“Salti tu, salto io…”

Un bacio.

Le grida.

La caduta.

Aghi.

Niente.

 

*

 

“Cristo santo, è svenuta!” Barney sembrava essere lì giusto per sottolineare l’ovvio.

“Dammi una mano, sta male!” anche Clint però non scherzava.

“Certo, certo.”

Avevano preso Natasha per le gambe e per le braccia e trascinata sul letto.

“Nat… Nat…” le dava dei colpetti sul viso che non sembrarono produrre alcun risultato. Era pallida come il lenzuolo e tremava.

“Dobbiamo chiamare un’ambulanza.”

“Sì, giusto…” Clint si era appena reso conto di non essere in grado di agire in modo razionale.

Barney era volato in salotto alla ricerca del telefono.

“Nat…” quando la vide aprire gli occhi, sentì il gelo del panico dissiparsi appena. “Ehi…”

Lo sguardo di lei era ciò che di più sperso avesse mai avuto modo di constatare.

“Clint…”

“Sì, proprio io. Mi hai fatto prendere un colpo, che è successo?” le scostò i capelli dal viso. “Sei caduta a terra come un sacco di patate.”

Sapeva di non aver usato il tono greve che si conviene a certi tipi di situazione, ma il contesto gli pareva già abbastanza preoccupante di suo per condirlo di dramma verbale.

“Ho… un…” la vide umettarsi le labbra, la voce strascicata.

“Non importa, stai tranquilla. Barney è andato a chiamare un’ambulanza.”

“No…”

“No? Sei appena svenuta. E noi Barton, per quanto straordinari, non siamo medici.”

Lei gli aveva afferrato il colletto della camicia e strattonato appena nella sua direzione.

“No.”

La voce di Barney arrivò dalla stanza accanto: “Perché non c’è linea? L’hai pagata la bolletta del telefono?”

Come no? Era arrivata. L’aveva appoggiata sul tavolino all’ingresso e… lì era rimasta.

Ops.

Guardò Natasha con espressione costernata.

“Scusa. Ti ci portiamo noi all’ospedale.”

Di nuovo la vide scuotere la testa.

“Clint…”

Sì, Clint. Di nuovo. Doveva essere davvero a pezzi per lasciarsi sfuggire di chiamarlo per nome. Non era abituato a sentirsi chiamare per nome. Non più da quando…

“Nat?”

Una sensazione.

Una speranza.

E poi le vide dipingersi nello sguardo quell’espressione di consapevolezza che aveva cercato per mesi.

E per un lungo attimo sembrò non volerci credere affatto.

“Dimmi che non sta succedendo adesso…”

Le lacrime che vide formarsi nei suoi occhi furono una risposta piuttosto eloquente. E si sentì stringere lo stomaco da un'agitazione che non era certo di saper quantificare. Non sul momento almeno.

“No, ti prego. Non con Barney nell’altra stanza…” sembrò stronfiare, mentre una risata gli riaffiorava dal petto, incontrollabile, a fare da incoerente contrasto.

“Mi dispiace.” La sentì articolare, la mano ancora artigliata alla sua camicia le lacrime che scivolavano lungo le sue guance.

Due reazioni totalmente opposte: ma Clint non ci poteva fare niente se la tensione sbloccata in tutti quei mesi si era concretizzata in un’esplosione di rumorose risate.

“Se dici a q-qualcuno che ho pianto t-ti faccio fuori.”

“Finiscila.” La sedò all’istante, mentre lei si aggrappava a lui per rimettersi seduta e poi finiva fra le sue braccia, affondando il viso nel suo petto.

“Ehi, ho detto che non c’è lin-” Barney, “Oh, ma per l’amor del cielo! La pomiciata dell’epilogo no!”

Clint rise più forte, mentre si godeva un abbraccio atteso sei anni.

 

 

***

 

Epilogo

 

 

Una volta era convinto che fossero i soldi… a far muovere il mondo.

Ma le cose erano cambiate un po’ dall’ultima volta che si era trovato a formulare quell’equazione.

E le convinzioni erano cambiate.

Non i soldi, ma le persone. Sono quelle che fanno muovere il mondo.

In modo disarticolato, incoerente, piuttosto autodistruttivo, ma sono quelle che lo mettono in condizione di girare.

A parte bè… la forza ellittica, ma per spiegarla sarebbe servito un cazzo di scienziato e Clint, fino a prova contraria era solo un agente operativo dello SHIELD. E la forza ellittica gli serviva solo a comprendere le azioni acrobatiche delle cosce di Natasha.

Ma… sì.

Le persone.

Clint aveva conosciuto diverse persone, nel corso della sua esistenza. Alcune di queste tutt’altro che piacevoli: violente, bugiarde, criptiche.

E poi c’era stato un tempo in cui ne aveva trovata una che aveva assunto tutte e tre le caratteristiche in contemporanea e, inaspettatamente, invece di suscitargli sdegno e disgusto, aveva preso ad affezionarcisi.

Tanto che alla fine era diventata una delle persone a cui avrebbe affidato – ad occhi chiusi – la propria vita, per giunta…

 

“Clint.” Una batosta alla nuca che per poco non lo fece sbattere con la fronte sul cruscotto dell’auto.

“Ma sei scema?”

“Ti eri di nuovo imbambolato.”

“Non è vero.”

“Sì che è vero. Con quella faccia così.” E Natasha si prodigò in quell’espressione statica e terrificante che Clint sfoggiava durante le consultazioni private con il proprio cervello.

“Quella è la tua faccia terrificante, non la mia.”

“Occhi sull’obiettivo.”

“Certo.” Abbassò lo sguardo.

“Non le mie tette…” altra batosta.

“Dai!”

“Agente Barton, lei non sta prendendo sul serio la missione.”

“Più serio di così?”

“Non parlo della tua faccia.”

Sospirò qualcosa di poco elegante: “E’ che odio gli appostamenti.”

“Lo so. Pensa al dopo.”

“Dopo ci sarà come minimo una sparatoria.”

“No. Dopo.”

“E poi un inseguimento.”

“Clint…”

“Oh e una rocambolesca fuga che ci condurrà all’infermeria.”

“Mi arrendo.”

“A concludersi con una lavata di capo di Fury, che-”

Gli aveva tappato la bocca. Con una mano.

“E infine i festeggiamenti.”

“’o ‘ai che efe’isco ‘esteggiae ‘ima.”*

“Lo so.” Gli si era arrampicata addosso, scavalcando cambio e freno a mano. Il volante a comprimerle la schiena.

Clint non era del tutto sicuro di capire che cosa sarebbe successo. Ma ci si lasciò cadere, prima ancora di capire che stava già precipitando.

Si trovò le labbra di Natasha sulle proprie e non ebbe proprio niente da protestare a riguardo.

Che indecenza. Erano in missione dopotutto!

Ci mise, giustamente, più entusiasmo.

Quanto le sue mani erano ormai state un po’ dappertutto su di lei, Natasha gli lasciò andare le labbra, osservandolo con quello sguardo un po’ terribile che sempre gli riservava prima che accadesse qualcosa di… interessante.

“Ma questo non è un vero festeggiamento.” Protestò lui un po’ deluso dalla mancanza assoluta di esaltazione.

Lei sorrise. Un po’ a presa di culo, se proprio doveva dirla tutta. Ma forse era solo un’impressione.

“Infatti è una copertura.” Disse, e gli fece cenno di guardare fuori dal finestrino, alla sua sinistra.

Un paio di uomini che parevano occhieggiarli con l’imbarazzo di chi ha beccato due amanti a piccioneggiare in macchina. E uno dei due che rispondeva esattamente alla descrizione fornitogli da Coulson: “Levati, guido io.”

“La macchina è mia.”

“La macchina è dello SHIELD. Muovi il culo, Barton.”

“Hai rotto le palle con queste manie di protagonismo.” Trasalì quando, spostandosi ricevette una sberla sul culo.

“Maniaca.”

“Lagnoso.”

“Gargantuesca!”

“Che cosa?”

Nemmeno il tempo di godersi la soddisfazione di una citazione colta che…

Il primo sparò frantumò il vetro del cruscotto.

“Woah!”

Il secondo e il terzo si schiantarono sulle lamiere della macchina.

Bastò uno sguardo e un sorriso sghembo a capire quello che sarebbe successo dopo.

“Salti tu, salto io?”

Sfoderarono le armi e spalancarono le portiere della macchina.

 

Le persone fanno muovere il mondo.

I proiettili li fanno muovere le teste di cazzo.

Ma solo Natasha… sapeva piegare le leggi della fisica.

Era sempre stato un piacere… vederle fare quella cosa delle cosce.

 

“BARTON! Un po’ di collaborazione, per Dio!”

 

Ops.

 

End.

___

 

*Lo sai che preferisco festeggiare prima.

 

Note:
E ci siamo. Davvero stavolta. La storia è finita. Kaputt. Sono triste ma felice, un po’ come quando arrivai a concludere Cinque Centesimi. Lasci qualcosa che ti ha accompagnato (e fatto dannare) per settimane, ma sei soddisfatta di aver potuto scrivere la parola: fine.

Che dire… innanzitutto che è stata una storia piuttosto travagliata. Come ho forse già spiegato mi ci sono dannata l’anima per capire in che direzione dovevo spingere il racconto, ma alla fine sono arrivata a delle soluzioni che non mi hanno del tutto delusa. Anzi, alla fine mi ci sono proprio divertita. Una storia “leggera”, una storia che non ha mai avuto pretese e che mi ha aiutato ad attraversare l’estate e il delirio pre-Avengers: Age of Ultron, con più tranquillità.

La canzone dell’incipit, come avrete capito, è quella che da anche nome alla fan fiction. Una canzone che mi ha folgorata. Testo e musica. Per il prologo e l’idea della trama.
Ma arriviamo ai ringraziamenti: alla mia super beta, socia, compare di deliri, amica Serena, perché lo sa lei. Per tutte le chiacchiere, le sedute psicologiche di supporto, per la sopportazione, gli scleri più o meno sani, lo spaccio di fotografie e notizie che creano scompensi (di Jeremy Renner soprattutto, perché quell’uomo è la morte, sotto troppi punti di vista – lo dovevo dichiarare al mondo, scusate), in vacanza, prima di un esame… e chi più ne ha più ne metta. Insomma. GRAZIE.

E poi grazie a chiunque abbia speso il suo tempo a leggere questa storiella, e in particolar modo a chi è stato così carino da lasciarmi un parere e vado ad elencare: Ledy Leggy, Hermione Weasley, DalamarF16, Frau Blucher (nitrito di cavallo, scusami, non è colpa mia!), BlackMoody, Alwaysmiling_, missgenius, monica 97, fireslight. GRAZIE a voi! Se ho dimenticato qualcuno me ne scuso, ma sono un’umana un po’ distratta.

Infine non mi resta che aggiungere che, sebbene ultimamente la vena creativa si sia un po’ smorzata, nel calderone sta bollendo un’altra storia, in parte scritta, in parte no. E, come preannunciato, sarà una storia un po’ corale che vedrà coinvolti davvero tutti i nostri Vendicatori… e non solo, una fanfiction un po’… molto AU. Un AU che, non voglio anticipare troppo, ma ha a che fare con le mie letture estive, un telefilm che va molto di moda ultimamente e un’atmosfera tutt’altro che rassicurante. Perciò sì, qualcosa che si discosta molto dalle atmosfere, più o meno leggere di questa. Ma ne riparleremo più avanti, se sarà il caso.

Giusto per non perdere l’abitudine poi, suggerimenti di lettura per l’autunno: cliccate su Ride On, della mia amica Hermione Weasley, perché se vi piacciono le storie sporche e cattive, non ne rimarrete delusi.

Non mi resta che salutarvi e rimandarvi con grande agitazione di braccia alla prossima. Bye bye!

E.

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