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Autore: Sheep01    07/07/2014    5 recensioni
“Ehi tu…” un’eco nel candido nulla in cui stava affogando. “Dico a te… ragazzina…”
Fu il rumore del proprio cuore pulsante a riportarla alla ragione. Alla pseudo lucidità.
La bocca ancora impastata, le membra gelide, tremanti. Quando sentì il lieve tocco dello sconosciuto su di sé, scattò in lei qualcosa di antico, furibondo, letale. [...]
La lama affondò in qualcosa di… rigido. I suoi occhi misero a fuoco un bauletto. Nero. E poi, rialzando il tiro, a scrutare un paio di occhi grigio azzurro.
“Woah, ma che razza di ringraziamento sarebbe, questo?”
[Clintasha pre-SHIELD, pre-Avengers]
Genere: Azione, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Occhio di Falco, la Vedova Nera e tutti i personaggi citati non mi appartengono, ma sono proprietà di Marvel e Disney. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

 

 

***

 

Prologo

 

Cristalli di ghiaccio danzavano in vortici, sospinti dal vento.

Tracce rosse a delineare il percorso.

Gli ricordavano tanti piccoli rubini, sparsi sul gelido manto immacolato della neve.

E poi c’era lei. Una gamba che stillava sangue. L’incarnato a riprendere lo stesso pallido colore di quello scenario di morte. Ai piedi di una betulla. Lo sguardo ostile, allarmato, ma dai tratti ancora decisi. Determinati.

 

“Nat…”

 

Quindici passi. Poco più. Era certo di non poterla mancare.

La sua mano era ferma. Il dardo puntato. Lo sguardo incredulo, ardente, diretto all’improbabile obiettivo.

“Nat, sono io.”

Non una risposta. Non un solo cenno di identificazione.

“Nat… sono Clint. Clint Barton.”

“Non conosco… Clint Barton. Non conosco… Nat.”

In uno sguardo aveva capito quanto fosse sincera. Quello stesso sguardo che credeva di aver imparato a riconoscere, tanto tempo prima.

“Che ti hanno fatto?”

Poteva avvertire, distinto, il rumore del proprio cuore. Un groviglio allo stomaco, indefinibile, brutale.

E quel ritmo, pulsante, nei timpani? Era l’unico a percepirlo?

“Uccidimi. Rapido.”

“Non voglio… ucciderti, Nat.” La voce a insistere su quel nome. Quello stesso nome che aveva pronunciato così tante volte. Come a rimarcarlo. A riportarlo alla mente di colei che per prima non avrebbe dovuto dimenticarlo.

“Allora, cosa vuoi… ?”

Davvero non lo riconosceva? Era cambiato così tanto? Era cambiata lei… così tanto?

“Sapere che ti è successo. Ti credevo… morta.”

La donna – sì, adesso era davvero una donna - lo osservava insospettita. Faceva fatica a reggersi in piedi. Le mani, ora artigliate a quella corteccia pallida e inconsistente, la guidavano. Le gambe che tremavano un po’ per il freddo, un po’ per la debolezza.

“No, non sono… morta”, un sussurro, impalpabile a confondersi con il rumore insistente del vento. Quel vento gelido che intirizziva le ossa, intorpidiva i sensi. “Tu… tu sei morto.”

Clint non comprese il peso di quelle parole finché non vide il suo viso trasformarsi, come fosse una maschera.

La smorfia della donna che diveniva un ghigno, furente, ferino. In quello che intuì il preludio di un ultimo, disperato tentativo.

Natalia si lanciò su di lui con la furia di un animale.

Clint non riuscì a scoccare quella maledetta freccia.

 

***

 

CAPITOLO 1

 

“Dieci, venti, trenta, quaranta…”

Cinquanta, sessanta, settanta…

Banconote da dieci, da cento.

Soldi. Fanno muovere il mondo.

Non è così che dicono? Per qualcuno i soldi sono una conquista, la definizione di uno status sociale. Per altri… i soldi sono mera necessità. Sopravvivenza.

Quando non hai niente da perdere poi, sei quasi disposto a tutto, pur di ottenerli.

A tutto.

A rubare.

A uccidere... (forse).

Se ti ritrovi investito di un sacrosanto dono del quale non puoi o non vuoi ringraziare nessun altro – se non allenamenti feroci, abrasioni e tagli sulle dita, e in buona parte madre natura, per quell’occhio di falco che ti permette di vedere meglio da una certa distanza – ti senti in diritto di usufruirne.

A modo tuo.

… cento, duecento, trecento, quattrocento, cinquecento, seicento…

Non gli piaceva essere definito cecchino. Ma di fatto… era un po’ quello che era chiamato a fare su commissione. La sua mira poteva essere sfruttata in qualsiasi frangente.  Gli piaceva definirsi un atleta, un artista, più che un ladro, un truffatore o uno pseudo assassino. A richiesta usava qualsiasi tipo di arma, certo, ma era con arco e frecce – attrezzi ben più che collaudati, dal paleolitico in poi - in cui la sua arte trovava la sublimazione. Lo pensavano un eccentrico.

Se avessero conosciuto i suoi trascorsi o spulciato gli archivi dei giornali che richiamavano a spettacoli circensi, avrebbero certo scorto il suo nome. O il suo pseudonimo. Stella nascente del circo, arciere dalla mira infallibile. Successivamente fuggiasco, per necessità.

… settecento, ottocento…

“Meno trecento… per i danni.”

Clint rialzò la testa da quella scarica di fruscianti banconote.
“Quali danni?”

“Il camioncino.”

“Che ha il camioncino?”

“È esploso.”

L’alito dell’argentino gli aveva accarezzato le narici, nauseandolo. In realtà era un po’ tutto il complesso, di quell’uomo, a nausearlo. A cominciare da quei baffi che parevano posticci, luridi di grasso di maiale o qualsiasi altra bestia avesse appena finito di sbranare. I capelli giallognoli, impomatati con qualcosa dall’aroma dolciastro, che faceva fatica a definire.

Non erano passati gli anni della brillantina? O forse aveva viaggiato nel tempo senza nemmeno essersene reso conto.

Si sentiva ancora giusto un tantino frastornato.

Un occhio era pesto e gonfio. Ci vedeva appena da quella fessura tumefatta e sulla bocca aveva un taglio che bruciava come l’inferno, ogni volta che la sua lingua si ostinava ad andare a stuzzicare proprio lì.

“Avevi detto che non ti importava del camioncino.”

“Avevo anche detto di volere un’operazione pulita e discreta, Occhio di Falco.”

Clint cercò di non ribattere sul fatto che in ogni caso il suo lavoro lo aveva fatto, e lo aveva portato a termine nelle modalità più consone all’operazione, rimettendoci anche la faccia, letteralmente, ma rimase in silenzio.

La volta scorsa una parola di troppo gli era costata un calcio in culo. E una costola rotta.

E i due omoni di colore che troneggiavano, adesso, alle sue spalle, non erano poi così rassicuranti. E comunque non era il caso di prolungare troppo le trattative: la musica in quel localaccio fetente gli stava facendo esplodere il cervello.

Fece una smorfia. O forse credette solo di farla. A giudicare dallo stato delle cose, i suoi muscoli facciali avevano qualche difficoltà a muoversi agilmente, non senza provocare un dolore diffuso su tutto il perimetro del viso.

Strinse le mani su quel mucchietto di soldi.

Ne aveva bisogno. Come si ha bisogno dell’aria per respirare.

Non era nelle condizioni adatte per andare a procacciarsi il cibo in altro modo. E poi aveva ancora la fedina penale pulita. Perché rischiare con un furtarello in qualche discount?

Lo sapevano tutti che finire in gabbia per una stronzata simile era più facile che per aver occultato un cadavere.

Perciò si morse la lingua. Che per la cronaca pulsava quanto tutto il resto. Non era sicuro di ricordare il momento esatto dell’impatto o le modalità dell’incidente (di percorso), ma la sua faccia sul cruscotto e la fronte che aveva crepato il parabrezza, ricordavano piuttosto chiaramente il dolore.

Il resto, adesso, era una nebulosa di ricordi più o meno confusi. Era più concentrato sui soldi. Avrebbe avuto modo più tardi di fare la stima dei danni. E in caso, di dar fuori di testa.

 

Uscì dal locale che il buio era già calato. L’olezzo della spazzatura ammassata sul retro lo investì come uno schiaffo. Capì solo in quel momento di quanto fosse stanco. E debilitato. Le note della musica che pulsava sommessa, all’interno, scandiva il suo mal di testa.

Gli veniva un po’ da vomitare, ma per decenza magari si sarebbe astenuto dal dare anche quel degradante spettacolo di sé.

Si caricò sulle spalle il bauletto che conteneva arco e frecce. Non era consigliabile mostrarlo in giro. Fingere che fosse la custodia di uno strumento particolarmente grosso avrebbe persino giustificato il suo ambiguo andirivieni da locali più o meno malfamati della zona.

Un musicista. Dopotutto gli piaceva cantare… sotto la doccia, più che altro.

Abbozzò un motivetto a fior di labbra, mentre cercava di capire da che parte andare. Aveva persino i soldi per concedersi un taxi. Per una volta tanto, avrebbe potuto fare il signore, che diamine!

Si frugò nelle tasche dei pantaloni, cacciandone fuori un paio di occhiali da sole, assieme alle banconote.

“Aw, merda…” una delle lenti era irrimediabilmente scheggiata. Li aveva pagati un casino, perché ci teneva particolarmente ad avere i filtri UVA. La vista era la sua più fedele (e tristemente unica) alleata. Doveva prendersene cura come fosse una bambina.

Se li infilò comunque, avrebbero migliorato il suo aspetto. Nessun tassista si sarebbe fermato con cortesia per dare passaggio a un tizio dall’apparenza (e non solo) tutt’altro che raccomandabile, che puzzava e aveva per di più un viso da far paura al mostro di Frankenstein.  Con più cicatrici e tumefazioni… del mostro di Frankenstein.

Era quasi convinto a trascinarsi sulla strada, per chiedere quel famoso passaggio, magari sventolando la mazzetta, giusto per giocarsela un po', quando finalmente realizzò quella sensazione che aveva solo percepito, fra nausea, mal di testa, disappunto per gli occhiali scheggiati: qualcuno lo stava spiando. Oppure si stava facendo semplicemente i cazzi suoi, nell’ombra, ma di fatto era lì a fargli compagnia. Da qualche parte.

Alzò lo sguardo, puntandolo esattamente dove le sue percezioni lo guidavano.

Un movimento gli suggerì che quel qualcuno si era accorto di lui.

“Ehi amico…” la voce era quella di un ragazzo. Poco più giovane di lui, forse.

Amico… di chi? Non aveva amici, lui. Era abbastanza patetico?

Aguzzò la vista, vedendolo finalmente emergere dalle tenebre. Se ne stava seduto su un vecchio computer smesso. Fermo lì ad arrugginire da mesi.

“Hai mica da accendere?” gli domandò con indolenza. L’aria era poco incline al dialogo. Una felpa e un cappuccio rossi. Niente che suggerisse qualcosa di buono.

Si limitò a scuotere la testa, non fumava… non lo aveva mai fatto. Okay, forse solo una volta. E forse non era nemmeno una sigaretta. E suo padre se ne era accorto. E lo aveva riempito di botte…

Divagazioni a parte, non fece in tempo a nascondere il suo bottino nella tasca dei pantaloni che se lo sentì, letteralmente, sfilare di mano.

Rimase lì, come un allocco a seguire con lo sguardo quel flash rosso incappucciato che se ne andava dalla parte opposta del vicolo… con il suo guadagno della serata.

“Pezzo di merda.” Boccheggiò, per un istante, talmente incredulo da risultare quasi comico nella postura, gli occhiali gli erano scivolati dal naso, scoprendo di nuovo quell’occhio tumefatto, tutt’altro che sexy. Come poteva esser stato così incredibilmente, ingenuamente… stronzo?

Panico e irritazione lo investirono all’improvviso, come una botta di adrenalina. E si lanciò all’inseguimento.

Arco e frecce sobbalzavano dolorosamente, avvolti in quel pesante bauletto, sulla sua spina dorsale.

Cappuccio rosso aveva saltato una recinzione per finire nel vicolo adiacente. Clint non fu da meno, se non per i pantaloni che rimasero miseramente agganciati a un ferro puntuto. Li strattonò con violenza, sentendo lo schiocco dello strappo sul polpaccio. E anche i suoi jeans preferiti erano andati a farsi fottere, tanto per gradire.

Avrebbe sempre potuto peggiorare, comunque… avrebbe potuto piovere.

Per dire.

 

*

 

Alzò lo sguardo verso il cielo, quando sentì il mormorio di un tuono, lontano. Non era che un borbottio sommesso, ma l’odore, nell’aria, era cambiato. Presto avrebbe piovuto. Di questo era certa.

Abbassò lo sguardo sulle sue mani, le sue braccia, tremavano ancora. Era sicura che prima o dopo avrebbero smesso di farlo. Così come il mondo aveva smesso di vorticarle ferocemente attorno.

Le ci era voluto un po’ per capire dove si trovava.

Il perché fosse finita in un vicolo, insanguinata, indolenzita e confusa era una soluzione a cui ancora non era riuscita ad arrivare.

Aveva freddo. E a giudicare dal gorgoglio del suo stomaco, aveva persino fame.

Le orecchie fischiavano come avesse avuto un calo di pressione. La maglietta era larga, strappata, aveva perso una scarpa da ginnastica. Qualcosa era andato storto solo… non riusciva a capire cosa o perché.

Alzò una mano ancora stretta attorno al manico di un coltello.

Si ritrovò a specchiarsi nel bagliore della lama insanguinata, cogliendo solo vaghi stralci del proprio riflesso. Capelli rossi… labbra piene, viso acerbo ma… da ciò che riusciva a scorgere, non sembrava avere un bell’aspetto. Qualcosa di caldo le scivolò lungo la tempia, ricadendo in una goccia vermiglia sulla punta bianca della sua unica Converse.

 

“Ci rivediamo all’alba, Natalia.”

 

Una voce. Un volto.

Un soffio di coscienza, in quel dedalo di confusione.

Rialzò lo sguardo, trovando il cadavere di un ragazzo a pochi passi di distanza. Sdraiato scompostamente a terra. Un braccio piegato sotto il torace, come a contenere il dolore ormai per sempre estinto.

Gli era rovinato addosso. Questo… questo lo ricordava. Era saltato giù dal muretto.

Saltato giù dal muretto e non era riuscita a scansarlo.

Lei aveva picchiato la testa, molto forte ma…

Scorse quella scura macchia oleosa che andava ingrandendosi sull’asfalto, attorno al torace del cadavere: doveva averlo colpito. Colpito e affondato.

Sparpagliati attorno a lui, un numero imprecisato di banconote da dieci e da cento… dollari.

Dollari. Dunque era in… America.

America. Stati Uniti. Stati Uniti… nel distretto di…

Era sicura di essere sulla strada giusta per raggiungere una soluzione, quando la vista le si offuscò, di nuovo, in un’esplosione di cristalli di luce; un fischio pacato, latente tuonò all’improvviso nel suo cervello, annientandola.

Il coltello le sfuggì di mano.

Le ginocchia cedettero, facendola rovinare al suolo.

La nausea la invase come una marea. Fu vinta da una serie di conati di vomito che la costrinsero a piegarsi e a rimettere bile.

La stanchezza, l’odore del sangue, della pioggia, il rumore del tuono sommesso, furono rapidamente accantonati, dimenticati.

Una tabula rasa.

Rimase a fare i conti con il suo malessere fisico e le percezioni ovattate a lungo, prima che cominciasse a piovere.

 

“Ehi tu…” un’eco nel candido nulla in cui stava affogando.

“Dico a te… ragazzina…”

Fu il rumore del proprio cuore pulsante a riportarla alla ragione. Alla pseudo lucidità.

La bocca ancora impastata, le membra gelide, tremanti.

Quando sentì il lieve tocco dello sconosciuto su di sé, scattò in lei qualcosa di antico, furibondo, letale.

Le mani trovarono il coltello che aveva abbandonato, le dita si strinsero sul manico, le ossa, i muscoli risposero uno ad uno a dei comandi istintivi, mai dimenticati, sempre all’erta.

Fu in piedi ancora prima di smaltire i postumi dello stordimento.

La lama affondò in qualcosa di… rigido.

I suoi occhi misero a fuoco un bauletto. Nero.

E poi, rialzando il tiro, a scrutare un paio di occhi grigio azzurro.

“Woah, ma che razza di ringraziamento sarebbe, questo?” si scostò con una rapidità tale che le fece perdere l’equilibrio, di nuovo. “La prossima volta mi faccio i cazzi miei e tanti saluti.”

La pioggerellina fastidiosa le aveva appiccicato ciocche di capelli al viso. Lo scrutava in terrore d'ubriaca, fra i capelli fradici, mentre l'uomo si infilava le bretelle di quello che sembrava un grosso strumento musicale. Forse un sassofono, forse… no.

“Sei stata tu?” lo vide indicare il ragazzo a terra. Era morto.

Era… stata lei?

Probabile.

Non riusciva a ricordarlo. Qualche meccanismo doveva essersi irrimediabilmente inceppato nella sua testa.

Ebbe come la sensazione che non fosse nemmeno la prima volta.

“Ti ha fatto del male?”

Non disse nulla, non fece… nulla.

Lo sconosciuto continuava a guardarla, ora vagamente spazientito.

“Vaffanculo, non ho tempo da perdere con queste stronzate.” Lo sentì borbottare, mentre infilava in tasca una mazzetta umidiccia di… soldi? O forse solo cartacce.

O forse solo…

La nausea la colse di nuovo impreparata.

Una nuova scarica di bile. La gola era talmente irritata dallo sforzo da strappargli una serie di colpi di tosse in rapida sequenza. Una combinazione tutt’altro che gradevole.

“Sei fatta?” lo sentì di nuovo domandare.

Le si avvicinò, titubante.

“Ho detto: sei.fat.ta?” scandì.

Di nuovo non rispose.

Fatta significava drogata. Forse lo era. Non lo ricordava. Non lo sapeva.

Si asciugò il viso, le labbra. La mano era sporca di sangue. Sangue che aveva raccolto direttamente dalla sua tempia.

“Quanti anni hai… dodici?” era un tono di compatimento o di rimprovero?

In ogni caso non aveva una risposta a quella domanda.

Voleva chiudere gli occhi e dormire. Accantonare il dolore, la paura, la rabbia. Ma forse sarebbe morta lì, in quel vicolo, accanto al cadavere di quel… ragazzo con la felpa rossa.

“Cazzo, dovrei chiamare un’ambulanza…”

Un’ambulanza. Per la testa? Forse anche per la nausea.

“Come ti chiami me lo sai dire?”

Le era di nuovo accanto, non prima di aver allontanato con un calcio il coltello con cui lo aveva quasi colpito, prima.

Come si chiamava?

Non sapeva nemmeno quello.

Poi un lampo.

E un tuono.

 

“Ci rivediamo all’alba, Natalia.”

 

Rialzò lo sguardo e lo fissò a lungo, negli occhi.

“Natalia… ?” esalò, prima di essere investita da un nuovo, tremendo conato di vomito.

 

*

 

Natalia, a quanto pareva gli aveva appena vomitato sulle scarpe. L’unica cosa a cui teneva di più dopo il suo arco e delle sue frecce, più degli occhiali, comunque. Più del denaro.

Ci aveva messo una vita a trovarne un paio di quella particolare sfumatura di viola. Sembrava una cosa un po’ da fissati ma… chi non ha le sue piccole manie, scagli la prima pietra.

Scrollò quella schifezza giallognola aiutato dalla pioggerellina fastidiosa.

Forse avrebbe solo dovuto andarsene. Prima che arrivasse qualcuno, e gli desse anche la colpa della tragedia appena consumata nel vicolo.

Lo avrebbero creduto un omicida. Un tampinatore di ragazzine drogate. Il serial killer di ragazzini... ladri.

“Senti... io ti chiamo un'ambulanza e poi... poi ti arrangi, mh?”

Era veramente un pezzo di merda. Ma di quelli veri. Di quelli che leggi sul giornale o vedi in tv e dici: macchepezzodimmerda bastardo, perché l'ha lasciata lì?

Sì, facile a dirsi quando te ne stai seduto sul tuo divano, le mani sprofondate nei pantaloni... o in una ciotola di patatine al formaggio. O tutti e due.

Ma prova a essere tu, quello stronzo.

Prova a essere tu quello che deve fare una scelta.

Non faceva un lavoro onesto. O pulito. Non era una persona onesta... né pulita.

E quella ragazzina, per dio, era una drogata e forse pure un'assassina. Cioè, forse aveva solo fatto valere il suo diritto all'autodifesa, però il cappuccio rosso era morto e lei... e lei stava svenendo.

Stava svenendo?

“Ehi, Natolia... Natuzza... come cavolo hai detto che ti chiami.”

Le era finito vicino per l'ennesima volta. Bianca come un cencio. Aveva le labbra viola. E gli occhi le si erano irrimediabilmente ribaltati all'indietro.

“Porco cazzo, Natalina!”

Non che volesse farsi prendere dal panico ma... se non era quello il momento di farsi prendere dal panico, quando lo sarebbe stato?

Le diede uno schiaffo. Non successe nulla.

Poi un altro.

Niente di nuovo.

Respirava?

Avvicinò il viso al suo. Pareva di sì, ma il rantolo del respiro si confondeva con quello della pioggia.

Si rimise dritto, le mani ancorate sui fianchi.

E adesso che cosa avrebbe dovuto fare, in quanto stronzo da giornale o tv?

Fosse stato un eroe da film l'avrebbe salvata, ma forse aveva un'immagine di sé troppo negativa per calarsi nell’immedesimazione di quello scenario.

In tutto quel teatrino di sentimenti contrastanti risuonò la sirena di una macchina della polizia.

Lo stronzo pezzo di merda se la sarebbe data a gambe.

 

E Clint lo fece, alla grande.

Ma non prima di essersi caricato la ragazzina sulle spalle, per sparire in quel vicolo grondante oscurità.

 

___

 

Note:

Torno con una nuova storia a capitoli che nasce da un’idea che mi ronzava in testa da un po’.

E ronzava è la parola chiave, perché il rumore era così fastidioso da non permettermi di pensare con lucidità alla sua stesura. Il percorso è stato lungo e travagliato ma alla fine ho trovato la via e ho sedato il ronzio, sparandoci su decibel di musica.
La fanfiction nasce dalla semplice idea del primo vero incontro fra Occhio di Falco e la Vedova Nera. Stavolta affidandomi però alla versione dei fumetti. Dove il nostro arciere perde la testa per questa ladra che, solo in seguito, scoprirà essere una spia russa.

Ecco, diciamo che ho preso davvero solo l’idea. Soprattutto per la traccia e il background, come forse si intuisce da questo primo capitolo. Domandandomi cosa sarebbe successo se Clint e Natasha si fossero incontrati prima che lo SHIELD e gli Avengers tutti entrassero a giocare un ruolo fondamentale nella loro vita. Entrambi a gestire delle esistenze tutt’altro che semplici: incasinati, giovani e tremendamente irresponsabili.

Entreranno in gioco anche altri personaggi, in seguito. Uno fra tutti un personaggio che io amo molto, e del tutto legato al nostro Clint (e no, non sto parlando di Coulson). La storia è presumibilmente da collocare verso la metà/fine degli anni ’90. Insomma un bel periodo tamarro.
Per il resto… vedremo cosa succederà.

Nel frattempo ringraziamenti di rito a Sere, perché, credetemi se dico che ha assistito a tutte le mutazioni possibili e immaginabili di questa storia e l’ha sempre sostenuta più di me. Perciò grazie. Giuro che la finisco, sono a buon punto. E la finisco pure prima dell’altra, quella seria. Quella tremenda XD
Sperando di aver stuzzicato un minimo la curiosità… rimando alla prossima.

Salutazioni attutti!

  
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