Pieces

di daisyssins
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Goodmorning Norwest ***
Capitolo 2: *** How's your dad? ***
Capitolo 3: *** It goes of your life. ***
Capitolo 4: *** Anxiety ***
Capitolo 5: *** Same old place, new friend. ***
Capitolo 6: *** Some nights. ***
Capitolo 7: *** Breakaway ***
Capitolo 8: *** Not fine at all. ***
Capitolo 9: *** Should've been here. ***
Capitolo 10: *** Try to Forget. ***
Capitolo 11: *** In love with the wrong person. ***
Capitolo 12: *** 12. Game Over ***
Capitolo 13: *** 13. Comatose ***



Capitolo 1
*** Goodmorning Norwest ***


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1.Goodmorning Norwest


Nessun ragazzo ama la scuola, e Phillis Turner non faceva eccezione.
Era una diciassettenne come tante, di media statura, albina da parte di madre, dai capelli biondo platino corti e rasati su un lato. Lei, il Norwest, lo odiava. Odiava quella scuola per signorini bene, per ricchi sfondati ed altezzosi; odiava le materie, tutte a parte letteratura – l’unica materia con un minimo di sentimento, a suo dire; odiava i suoi studenti, tutti stereotipati, che rendevano il Norwest una scuola molto in stile ‘liceo americano’. Le sue giornate le passava con Lucy, l’unica ragazza capace di distinguersi da quella massa di ‘copia e incolla’ che erano gli allievi del College.
Quell’anno avrebbe cominciato il penultimo anno di liceo, e già ancor prima di cominciare la sua voglia di vivere era scesa sotto il livello dello zero. Quella mattina si era preparata con poca cura, premurandosi solo di piastrare i suoi corti capelli altrimenti indomabili e gonfi, senza neanche preoccuparsi di truccarsi più di tanto per rendersi presentabile. E per chi, poi? Non c’era nessuno per cui valesse la pena sforzarsi, in quella scuola.
Alle 7:50 in punto fu pronta, prese la propria tracolla, infilò un paio di Vans a fiori che richiamavano il motivo della sua maglia ed uscì dall’abitazione, dopo aver avvisato sua madre di non aspettarla per cena. Avrebbe passato la sua prima serata con Lucy, a cercare di farsi forza per rendere la monotonia del grigio un po’ più colorata.
Arrivò a scuola esattamente un quarto d’ora più tardi, dieci minuti prima del suono della campanella che indicava l’inizio delle lezioni. Individuò ben presto una chioma tinta di un arancione scuro non meglio definito, fiondandosi poi a passo spedito nella sua direzione.
“Lucy!” la chiamò quando fu a poca distanza da lei, non riuscendo comunque a farsi sentire a causa del caos che dominava il cortile. Un’altra cosa che Phillis non sopportava era il caos, il disordine, già ce n’era abbastanza nella sua vita senza aggiungercene altro.
Si fermò, incamerò quanta più aria le riuscisse e “Lucinda Enriqua Perez, vuoi fermarti per l’amor del cielo?” sbottò, facendo girare alcune teste nella sua direzione. Non risparmiò loro delle occhiate infuocate, prima di tornare a dedicare l’attenzione alla propria migliore amica, che la osservava come a volerla scannare.
“Prova a rifarlo e sei morta” le intimò a denti stretti Lucy, avvicinandosi. Phillis accennò uno sguardo dispiaciuto, al quale la rossa non poté far altro che rispondere con un sorriso.
Si sciolse in un sospiro e “Mi sei mancata, scimmia” disse giocosamente, prima di stringerla in un caloroso abbraccio. Phillis ricambiò, e mentre affondava il proprio viso tra i capelli mossi e scompigliati dell’amica, i suoi occhi furono catturati da un guizzo, una chioma bionda tenuta su in un ciuffo impeccabile che lei conosceva fin troppo bene. Si irrigidì tutta e questo Lucy lo notò, perché si scostò dall’abbraccio per seguire lo sguardo dell’amica, e cercare di capire il motivo di tanto nervosismo. Lo notò quasi subito, e dalle sue labbra fini sfuggì un sospiro stanco.
“Non darci troppo peso, Phillis” le consigliò stancamente, scompigliando i capelli dell’amica. La bionda si riscosse e guardò nella sua direzione, poi annuì lentamente. Non rispose perché sapeva che, se lo avesse fatto, la sua risposta sarebbe stata spiacevole per entrambe. Ma le sembrava quasi impossibile non dare “troppo peso” ad una persona come Luke Hemmings, perché certe persone, quando ti entrano dentro, non è che tu possa farci un granché. Lei lo odiava, non aveva mai odiato tanto una persona quanto lui, sapeva chi era, aveva paura di lui, una fottuta paura, perché le ricordava tutto quello da cui stava scappando.
Le due ragazze si avviarono all’interno dell’edificio, dividendosi per poter raggiungere ognuna il proprio armadietto.
Phillis lasciò alcuni libri per le ore successive, tenendo con sé solo il blocco dei fogli A4, il set di matite ed il libro di storia dell’arte. Anche quella materia le andava abbastanza bene, almeno non era senz’anima come le altre. Perché lei così definiva la scuola, un posto senz’anima, dove i professori insegnano solo per portare a casa lo stipendio, dove tu ascolti e fai finta di seguire solo per poter avere quel voto in più che ti permetterà di superare l’anno scolastico, senza alla fine acquisire niente di veramente importante, a livello morale.
Chiuse il proprio armadietto con uno scatto secco e poi raggiunse nuovamente Lucy, già pronta ad aspettarla.
“Cos’hai alla prima ora?” le chiese, appoggiandosi con le spalle contro il muro, mentre aspettavano che la campanella suonasse a decretare l’inizio della loro tortura.
“Storia dell’arte, mi è andata bene” rispose la bionda, scrollando le spalle. “Tu?” domandò poi all’amica, che assunse immediatamente un’espressione affranta.
“Filosofia… che ho fatto di male per meritarmi questa tortura alla prima ora?” sospirò scuotendo la testa. Phillis scoppiò a ridere, perché era a conoscenza dell’odio che scorreva tra la sua amica e quella materia – e che era ricambiato anche dall’insegnante – ma poi le strinse una spalla come a infonderle coraggio, sempre sorridendo.
“Dai, pensa che poteva andare peggio. Potevi avere l’ora di algebra” cercò di consolarla.
“Quella ce l’ho subito dopo!” scoppiò la rossa, guardando l’amica con gli occhi teatralmente sgranati. “Cazzo, se non mi suicido dopo questa, dovranno come minimo farmi santa” sbuffò poi, rimettendosi in sesto al suono della campanella. Phillis la guardò con un misto di comprensione e compassione, dividendosi poi da lei poco prima di raggiungere l’aula di storia dell’arte.
“Ci vediamo a pranzo!” si salutarono le due amiche, e quella semplice frase di rito per entrambe ebbe un significato particolare.
Come a dire ‘cerca di sopravvivere a queste quattro ore’.






“Perché non ho dei poteri sovrannaturali? Adesso potrei tranquillamente scomparire senza essere notata da nessuno”.
I pensieri di Phillis vertevano più o meno tutti in quella direzione, mentre cercava di tenere gli occhi aperti e seguire con un minimo di attenzione la lezione di francese. Anche se apprezzava le lingue, solitamente, quella la odiava, così come odiava la Francia ed i suoi abitanti. C’era stata solo una volta con i suoi genitori, quando aveva dieci anni ed era troppo piccola per saper parlare quell’odiosa lingua che era il francese, ed era stata un’esperienza che aveva preferito archiviare e dimenticare. Cominciò a picchiettare con la matita sull’eserciziario, mentre il suo sguardo correva fuori dalla finestra. Quell’aula dava sulla palestra, motivo per cui era sempre invasa dai rumori: ogni tanto, quando si distraeva, puntava gli occhi sui ragazzi impegnati negli esercizi e si sentiva più che fortunata. Qualsiasi corso potesse star seguendo, niente poteva essere peggio di educazione fisica. Il suo sguardo fu catturato in particolare da una figura alta e longilinea, i cui capelli biondi, catturati dal sole, mandavano insoliti riflessi. Distolse lo sguardo immediatamente, portandolo nuovamente sulla matita con la quale, adesso, aveva preso a disegnare ghirigori immaginari su una pagina a caso.
“Turner!” urlò improvvisamente la Valentini, facendola sobbalzare. La donna – una quarantenne zitella ed insoddisfatta della propria vita – la fissava duramente, con le braccia incrociate.
“Sì?” rispose svogliatamente Phillis, ricambiando il suo sguardo. Se pensava che temesse lei o la sua stupida materia, beh, aveva decisamente sbagliato persona.
“Perché si stava distraendo?” sbraitò la professoressa.
Phillis si strinse nelle spalle. “Non mi stavo distraendo”.
“Mi dica di cosa stavamo parlando, dunque”.
“Non lo so” rispose tranquillamente la ragazza.
La donna diventò paonazza e “Lo vede? Si stava distraendo!” esclamò, con una voce acuta che innervosì Phillis più di qualsiasi altra cosa.
“Non è colpa mia se la sua materia è noiosa e la sua voce è peggio di una purga!” sbuffò alterandosi. La professoressa strabuzzò gli occhi, aprendo la bocca come per rispondere qualcosa, poi però la richiuse di colpo.
“Fuori, Turner, fino alla fine dell’ora. Non accetto l’insolenza dai miei alunni. Per ora se la cava con una nota disciplinare, ma la prossima volta fila dritto dal preside!”.
La ragazza sbuffò, alzando gli occhi al cielo, ma l’unica cosa a cui riusciva a pensare era ‘almeno sfuggo a questa tortura’. Dopo aver raccattato le proprie cose, attraversò con passo spedito la classe, sbattendosi poco dopo la porta alle spalle.
Si avviò verso la classe di Storia, dove sapeva che avrebbe trovato l’amica, alla quale avrebbe chiesto di uscire. Non appena arrivò, però, notò con rammarico che i ragazzi erano chini su dei fogli, intenti a scrivere qualcosa, chi con aria affranta, chi sicuro di sé, chi un po’ incerto ma non intimorito.
‘Test a sorpresa il primo giorno? Davvero? Wow, professor Collins, non ti facevo così bastardo!’ pensò la ragazza, abbandonando anche quel corridoio con aria sconfitta. Il professor Collins di solito era uno dei professori più ben voluti, e non solo perché aveva trent’anni, occhi azzurri e un sorriso da urlo. Sapeva insegnare bene e, qualche volta, nei rari momenti in cui Phillis era riuscita a concentrarsi nella sua materia, era riuscita anche a trovare interessante la Storia. Però ogni tanto tirava dei colpi bassi che mandavano nel panico la maggior parte degli alunni come, appunto, un compito in classe a sorpresa il primo giorno di scuola.
Phillis si diresse verso il bagno delle ragazze, osservando poi l’orario sull’orologio digitale da parete. Le 11:45. Avrebbe dovuto aspettare mezz’ora da sola.
Senza sapere neanche bene come, quasi come se i propri piedi si fossero mossi da soli contro la sua volontà, si ritrovò seduta sui gradoni della palestra ad osservare gli sforzi di quei poveri malcapitati del corso di educazione fisica. Lei fortunatamente – ma sfortunatamente sotto un altro punto di vista – aveva avuto l’esonero da quel corso dal secondo anno di superiori, a causa di problemi fisici.
Il suo sguardo intercettò il gruppo delle cheerleader, che comunque non avrebbero mai potuto scappare alla temuta ora di educazione fisica: guardò con un piacere quasi sadico le loro facce concentrate e sofferenti, trattenendosi a stento dal ridere. Uno spettacolo del genere, si disse, la ripagava di tutti gli anni di prese in giro.
Il sorriso le si spense sulle labbra quando di nuovo il suo sguardo catturò la figura di Luke Hemmings, ora impegnato a fare una serie di flessioni. Nonostante dentro di sé qualcosa le stesse dando della stupida per essere andata proprio lì, in quella palestra, non poté fare a meno di pensare che Luke era oggettivamente bello. Osservava la sua espressione concentrata, i muscoli delle braccia appena accennati sotto sforzo, e non riusciva a staccare lo sguardo, come se i suoi occhi venissero attratti a lui da una forza superiore.
A risvegliarla ci pensò il suono della campanella, che fu accolto da tutti gli studenti presenti come una benedizione. Riscuotendosi dal torpore momentaneo che l’aveva presa, Phillis si alzò, raccogliendo la propria borsa prima di avviarsi verso l’uscita della palestra. Prima di allontanarsi definitivamente da essa, la ragazza si voltò e, per un attimo, l’azzurro dei suoi occhi chiari si incatenò a quello più scuro degli occhi di qualcun altro, l’ultima persona dalla quale avrebbe voluto farsi notare.






“Sei una stupida, Phillis!” ripeté Lucy per la millesima volta, mentre entrambe ricevevano la porzione quotidiana di quello che le cuoche della mensa definivano cibo, e andavano a sedersi ad uno dei tavoli liberi.
“Lucy, puoi stare zitta per favore? Grazie, mi fa male la testa” borbottò la bionda in risposta, lasciando cadere la tracolla ai propri piedi. Lucy per tutta risposta alzò gli occhi al cielo, versandosi un bicchiere d’acqua.
“Dico solo la verità. È il primo giorno di scuola e già hai ottenuto una nota disciplinare, credo sia un record vero e proprio!”.
“Se devi farmi la paternale me ne vado, Lu. Io una madre ce l’ho già” sbuffò Phillis irritata, avvicinando poi agli occhi un cucchiaio pieno di quella cosa che veniva definito passato di verdure.
“Secondo te divento radioattiva, se ne assaggio un po’?” domandò poi, avvicinando lo stesso cucchiaio al naso, e ritirandolo disgustata. “Dio, senti come puzza! Ma perché vogliono avvelenarci, in questa scuola?” sbottò poi, lasciando cadere il cucchiaio nella ciotola, senza azzardarsi a prendere neanche un goccio di quel passato. Prese una fetta di pane secco e duro e cominciò a sbocconcellarla svogliatamente, appoggiando la testa al palmo aperto della mano.
Lucy, più coraggiosa, chiuse gli occhi e mandò giù un intera cucchiata di minestra.
“Non è così male…” tentò, ma si corresse sotto lo sguardo scettico dell’amica. “Okay, è male e basta, senza il così” si arrese, allontanando anche lei il vassoio, disgustata. Gli occhi della rossa poi furono catturati da un movimento fulmineo verso il fondo della mensa, un movimento che la fece congelare sul posto.
“Okay, okay. Ora non ti spaventare e non ti allarmare Phillis, ma… Luke Hemmings ti sta fissando”.







Hello people!
Allora... non ho mai saputo bene cosa scrivere negli spazi autrice. lol
Di solito sono una che parla parecchio, ma dopo un capitolo così lungo non credo sia il caso di dilungarmi anche io. Vi amo già se siete riusciti ad arrivare fino alla fine di questo capitolo! HAHAHAHh purtroppo sono così, quando mi viene una storia in mente devo scriverla così come la sto immaginando, anche se questo significa uscirmene con dei capitoli di questa portata :') Spero che con questo inizio io sia riuscita ad incuriosirvi almeno un po', so che per il momento non accade nulla di eclatante, ma già dal prossimo capitolo gli eventi ed i personaggi prenderanno forma c:
Quuuindi... io vado e, boh, se vi andasse di farmi sapere cosa ne pensate ne sarei felice!
Ciao e a presto, si spera(:

-Daisyssins.

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Capitolo 2
*** How's your dad? ***


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2. How's your dad?


Phillis ordinò i libri nel suo armadietto, prima di avviarsi nell’aula in disuso del secondo piano. Aveva dovuto salutare Lucy, accordandosi con lei per vedersi quella sera stessa a casa della rossa. Lei, a differenza della sua amica, avrebbe dovuto passare ancora un’ora nel suo inferno personale. Le era stato chiesto dal professore di scienze applicate di prendere parte ad un progetto di recupero, in cui ogni alunno più portato in una materia specifica avrebbe avuto l’opportunità di aiutare qualcuno di meno abile. Lei, in quella che loro chiamavano “opportunità”, ci vedeva solo un bello schifo: prendere parte al progetto avrebbe significato perdere ogni giorno un’ora in più degli altri a scuola, in un’aula polverosa, ad insegnare ad un ipotetico ragazzo meno “abile” concetti di cui, con tutta probabilità, non gli interessava pressappoco nulla. La ragazza sospirò di stanchezza, portando automaticamente gli anulari a stropicciare gli occhi; poi, dopo aver imprecato mentalmente per l’ennesima volta, si decise a varcare la porta dell’aula buia. Era ancora vuota, nonostante lei avesse tardato di cinque minuti, il che la diceva lunga sulla voglia di chiunque fosse il suo ‘allievo’ di passare quell’ora con lei e le scienze applicate.
Si avvicinò alla finestra dopo aver posato la tracolla sulla cattedra, dando le spalle alla porta per poter osservare il cortile esterno. C’era ancora qualcuno che perdeva tempo davanti alla scuola, gente a gruppetti che chiacchierava, rideva e scherzava spensierata. Tanto la scuola, per loro, era finita, e prima di 24 ore non avrebbero rimesso piede lì dentro. Phillis sbuffò e pensò che anche lei, in un altro momento, sarebbe stata lì sotto il sole in compagnia di Lucy; diede uno sguardo al solito muretto accanto alle scale dove erano solite sedersi, e notò che era comunque occupato. Conosceva le quattro figure sedute lì, a far dondolare le gambe svogliatamente, come se tutto ciò che succedeva attorno a loro non li toccasse davvero. Conosceva i capelli blu e neri di Michael Clifford, le immancabili bandane di Ashton Irwin, i sorrisi di Calum Hood. L’unica persona di cui non sapeva nulla, e della quale comunque non avrebbe voluto sapere nulla, era Luke Hemmings. Quasi calamitato dallo sguardo insistente di Phillis - il cui cuore aveva perso un battito, per poi ricominciare la sua corsa sfrenata – il ragazzo alzò la testa e in quel momento la vide. La bionda si scostò immediatamente dalla finestra, avvicinandosi alla cattedra per appoggiarsi ad essa con i palmi aperti delle mani. Prese un profondo respiro e chiuse automaticamente gli occhi per calmarsi, dandosi mentalmente della stupida. Erano passati anni da quell’evento, era solo una bambina all’epoca e probabilmente Hemmings neanche ricordava quel giorno, e di sicuro neanche sapeva che lei fosse lì. Era certo che, se mai fosse riuscito a leggere il panico che invadeva la ragazza ogni volta che i loro occhi si incontravano anche per sbaglio, avrebbe pensato di lei che fosse pazza. Ma cosa poteva farci lei, se ogni volta che la figura del biondo le si parava davanti, i ricordi la annientavano completamente? Era sempre stata così, Phillis: una ragazza normale, nella media, forse un tantino troppo orgogliosa o spavalda, ma capace di farsi buttare giù dai fantasmi del passato. Soprattutto quando quei fantasmi ti si presentavano davanti in carne ed ossa continuamente, in un continuo promemoria.
Solo quando fu sicura di essersi calmata la ragazza si allontanò dalla cattedra, tornando a volgere lo sguardo al cortile al di là della finestra. Il muretto, notò, adesso era vuoto. Passarono pochi attimi prima che la porta dell’aula cigolasse, e dei passi annunciarono una nuova presenza nell’aula. Phillis non si voltò nemmeno a guardare chi fosse lo sfigato a cui avrebbe dovuto dare una mano, partendo già in quarta.
“Non so chi tu sia, ma una cosa la so di sicuro: io non piaccio a te, e di certo tu non piaci a me” iniziò perentoria, con un tono autoritario che non credeva le appartenesse. “Però, siamo comunque costretti a passare quest’ora giornaliera insieme, con il risultato – si spera – che tu non venga bocciato. Quindi…” fece una pausa, voltandosi finalmente verso il suo interlocutore, e quando alzò lo sguardo restò impietrita. Si congelò sul posto lì, seduta stante, sentendo il coraggio venirle tristemente meno. E Luke Hemmings era lì, che la guardava con quel sorrisetto spavaldo, il sorriso di chi la sa lunga sul proprio avversario. Un po’ come un predatore sicuro di sé che osserva la sua preda, giocando con lei come il gatto col topo.
“Vai avanti, ti ascolto. Mi piaceva il tuo discorso, era molto… Io sono qui e tu sei lì, per intenderci” la canzonò ironicamente, inarcando le sopracciglia. E Phillis avrebbe voluto ribattere che no, non si erano intesi affatto, che se voleva parlare per enigmi avrebbe potuto instaurare un dialogo con la professoressa di filosofia, non con lei, che lì era per insegnargli le scienze applicate. Ma non disse niente di tutto ciò: si limitò a guardare il ragazzo con occhi sbarrati e un’aria che, probabilmente, risultava parecchio ridicola.
“Allora? Hai perso la voce, ragazzina?” rincarò la dose lui, in un autentico sfottò che sembrò rianimare Phillis. La bionda infatti arrossì vistosamente per la rabbia, gonfiando le guance, e “Non chiamarmi ragazzina” sibilò.
Luke alzò le mani, chinando la testa. “Mi scusi, prof. Allora? Cominciamo?” chiese sempre con quel velo di ironia a coprirgli la voce, sedendosi sul banco a gambe incrociate.
Phillis sospirò affranta, ma cercò di rianimarsi e di riprendere il controllo di sé. Non doveva pensare a chi avesse realmente di fronte, doveva scollegare la testa e basta, o almeno spegnere per un po’ i ricordi, e ritrovare la solita spavalderia che la caratterizzava. Si avvicinò a grandi passi al biondo seduto a gambe conserte sul banco, puntando poi un indice contro il suo petto.
“Ascoltami bene bamboccio, perché non ripeterò due volte quello che sto per dirti. Io non sono qui per perdere tempo perché, visto che mi costringono a restare a scuola per queste cavolo di ripetizioni, tanto vale provarci anziché girarsi i pollici. A me non piace restare con le mani in mano o non portare a termine un compito, e, dal momento che sei qui, immagino che anche da parte tua non ti entusiasmi troppo l’idea di essere bocciato.” Si fermò un attimo ed osservò la smorfia comparsa sul viso del ragazzo nel sentire quelle parole, poi riprese. “Quindi adesso scendi dal banco, ti siedi composto, ascolti me che chiacchiero di cose di cui ti sbatte il cazzo per un’ora e poi sarai libero di fare quello che vuoi con chi vuoi. Poi, domani, ti presenti in orario e ripeti questo teatrino, cercando di impegnarti almeno il minimo indispensabile. Ci siamo chiariti?”
Luke rimase impassibile alle sue parole, fermo come una statua di marmo, al punto da farle credere che si fosse incantato. Poi, con un guizzo impercettibile, le sue labbra si piegarono verso l’alto in un sorriso un po’ meno intriso di ironia.
“Però. Sembri sempre così timida, impaurita dalla tua stessa ombra, chi lo avrebbe mai detto Turner?” ragionò, quasi tra sé e sé. Poi stese le gambe, si alzò dal banco e, sotto gli occhi sbalorditi della ragazza – che di sicuro non si aspettava che le sue parole avessero effetto – si sedette come una persona normale in maniera composta, incrociando le caviglie sotto la sedia. Quando sorrise di nuovo, ogni traccia di ironia era scomparsa dal suo viso.
“Ah, un’altra cosa. Come sta tuo padre?
E, a quelle parole, la bionda si sentì gelare sul posto.
Sotto gli occhi inquisitori di Luke, si chiese cosa davvero lui sapesse.




Quando quella sera si diresse verso casa Perez, dopo aver noleggiato un DVD in videoteca (The Amazing Spiderman, uno dei film più amati da entrambe), Phillis poteva dirsi stanca morta. Era passata da casa propria solo per munirsi del ricambio e dei libri per il giorno dopo, trovandola ovviamente deserta. Suo padre era via da tempo e sua madre era presumibilmente a lavoro, nonostante il suo non fosse un vero e proprio lavoro, dato che non ne aveva realmente bisogno, ma bensì più un modo di occupare la giornata. I soldi che portava a casa suo padre mensilmente erano abbastanza da poter mollare tutto e vivere di rendita per minimo dieci anni, e Phillis più volte si era chiesta come facesse. Ma quando aveva provato a domandare qualcosa a sua madre sul lavoro di suo padre, lei aveva liquidato la faccenda spiegandole che faceva parte di una qualche importante associazione, ed era anche un pezzo grosso, quindi doveva stare via per parecchio tempo, ma in compenso guadagnava per tre. Eppure Phillis era sempre stata brava a leggere le persone, quindi era consapevole del nervosismo di sua madre, quando si trattava di parlare dell’impiego del padre. Inoltre, si era sempre chiesta a cosa servissero spie, telecamere e antifurto ovunque, in una villa situata esattamente al centro di una città importante come Sydney. Ma nonostante questo la ragazza era capace di riconoscere una causa persa quando se la ritrovava davanti, quindi aveva lasciato correre ed era andata, anche se con molto disappunto, avanti. Quello era il motivo principale per cui con la propria famiglia non aveva buoni rapporti: perché, appunto, una famiglia vera e propria non c’era.
Phillis scacciò quei pensieri, avvicinandosi con passi sempre più frettolosi alla casa dell’amica, un’abitazione ben più modesta della sua, ma decisamente più accogliente. Bussò poco dopo, e non dovette aspettare molto prima che la porta venisse spalancata, mostrando il viso sorridente della sorella minore di Lucy.
“Philly! Sei arrivata!” esclamò felice, attaccandosi alle gambe della ragazza che, ridendo, si abbassò per farle una carezza sulla testolina riccia. Phillis aveva sempre adorato Abigail, quella bambina così allegra e spontanea, che a soli quattro anni era un vero turbine di energia.
“Abbie! Non stringerla così forte che me la sciupi, già è abbastanza magra” una nuova voce si unì a quella della bambina, seguita poco dopo dalla figura della signora Perez. “Io lo dico che in quella scuola vi fanno mangiare troppo poco! Come stai Phillis?”.
“Molto bene, grazie Margaret. E tu?” chiese a sua volta. Aveva un rapporto informale con i genitori di Lucy perché li conosceva da tutta una vita, l’avevano vista crescere e, a volte, aveva davvero sentito più vicini Margaret e Daniél Perez dei suoi genitori biologici.
La donna le si avvicinò per stringerla in un abbraccio caloroso, mentre le rispondeva.
“Si va avanti, piccola. Come sta tua madre?”.
“Bene anche lei, adesso è tutta presa da un nuovo corso di yoga al quale si è iscritta, mi chiedo solo quanto durerà”.
“Phillis!”
La bionda si voltò contemporaneamente all’arrivo dell’amica all’ingresso, che corse da lei per abbracciarla.
“Dai, andiamo su” incitò poi quest’ultima con un sorriso, dopo aver fatto un cenno alla madre e aver scompigliato i capelli della sorella. Le due ragazze salirono al piano di sopra e si catapultarono nella stanza di Lucy, una stanza che ormai conoscevano fin troppo bene. Aveva le pareti rosa chiaro completamente tappezzate da foto, ritratti, quadri e poster; il letto bianco era disfatto, e il tappeto di una tonalità più scura di rosa era già invaso di snack. Per la stanza risuonavano le note di “This Love”, una canzone fin troppo nota ad entrambe, che era stata l’inizio del loro amore per i Maroon5.
“Tu devi raccontarmi cos’hai fatto a scuola. A chi hai dovuto dare ripetizioni? Con il culo rotto che hai, scommetto a Trevor del corso di spagnolo!” esclamò la rossa, sedendosi a gambe incrociate sul tappeto. Phillis si liberò della borsa e della giacca di jeans e poi la imitò, scuotendo la testa.
“No, non sono capitata con Trevor” rispose.
“Eppure lui è davvero pessimo in scienze applicate!”
“Sarà, ma non è a lui che devo dare ripetizioni”.
Lucy si fermò un attimo sovrappensiero, mordicchiandosi il labbro inferiore.
“Ci sono! Madison di letteratura latina?”
“Nemmeno, ma ci sei vicina”. Dopotutto, il corso era giusto.
La rossa aggrottò la fronte. “E allora chi?”
“Hemmings… di letteratura latina, hai presente?” rispose con una vocina Phillis, senza perdere però il suo sarcasmo, abbassando lo sguardo sulle proprie dita che si divertivano a torturarsi tra loro. L’aria si appesantì di botto, e la bionda si chiese per quanto ancora avrebbe dovuto reggere il peso degli occhi scuri di Lucy su di sé.
“Dio, Phillis, mi dispiace” mormorò la rossa, avvolgendola nelle sue braccia esili. Phillis scrollò le spalle, per quanto le fosse possibile.
“No, non fa niente, devo solo far finta di nulla”. Sminuì la faccenda con le sue parole, e non riferì neanche la fatidica domanda che Luke le aveva posto. Per qualche motivo imprecisato, sentiva di avere paura di quelle parole, e si era auto convinta che se non le avesse ripetute ad alta voce, prima o poi sarebbero scomparse dalla sua memoria. Inoltre odiava farsi condizionare così, si era già fatta rovinare abbastanza l’infanzia da quel ragazzo senza fare nulla, non poteva permettersi di far scorrere anche l’adolescenza in quel modo. Decise semplicemente di far finta di niente, di godersi la serata con l’amica, di sentirsi una ragazza normale anche lei per una volta perché, in quel momento, la normalità era ciò che le mancava di più.




Hey guys!
... No, okay.lol
Sono negata con il cominciare gli spazi autrice, perdonatemi.
E scusatemi anche per l'attesa! Ma chi ti caga  no, cioè, saranno anche solo cinque giorni, ma per me sono tanti. Li ho spesi quasi tutti in revisione del capitolo, che era pronto circa da un paio di giorni, ma non volevo postarlo senza prima averlo controllato... solo che insomma, il tempo per controllare non c'era.ewe Chiedo venia!
Comunque torniamo a noi. Non è che accada molto, a parte una scena di vita famigliare a casa di Lucy, però concentriamoci sull'inizio del capitolo. Un piccolo botta e risposta tra Phillis e Luke, lui è il solito e lei non ci sta, non vuole sottostare ai suoi giochetti. Però perché quella frase l'ha turbata tanto? Avete qualche idea? Dai fatemi sapere!!
Intanto ringrazio cliffordsjuliet e Letizia25 per le recensioni - alle quali corro a rispondere uwu - e chiunque abbia seguito/preferito/ricordato questa storia.
A presto - credo ahahah giuro che non farò mai aspettare troppo.u.u

- Daisyssins

 

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Capitolo 3
*** It goes of your life. ***


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It goes of your life.


Luke tornò a casa che erano ormai le sette di sera passate, sfiancato dalla giornata di duro allenamento.
Michael poteva essere uno dei suoi migliori amici ma, quando si trattava di farli sgobbare, non risparmiava nessuno. Li aveva spinti allo strenuo delle forze, facendoli correre per quelle che a Luke parvero ore, obbligandoli a sostenere decine di flessioni, sfiancandoli con quanti più addominali riuscissero a fare. E, quando erano ormai al punto di non riuscire a muovere un solo muscolo, aveva cominciato l’allenamento vero e proprio.
Luke aveva dovuto ignorare la stanchezza ed il bruciore che sentiva agli arti, ed impegnarsi nel prendere a calci e pugni un vecchio sacco da boxe che, quella sera, proprio non voleva saperne di smuoversi anche solo di qualche centimetro.
“Luke, si può sapere che ti prende?” aveva quasi urlato Michael, avvicinandosi. Il biondo gli aveva lanciato un’occhiata in cagnesco, senza rispondere. L’amico sapeva quanto lo facesse innervosire quel suo atteggiamento da generale di guerra. Era in sere come quelle – si era ritrovato a pensare Luke – che la vera natura di Michael veniva a galla. Sembrava uno psicopatico, con gli occhi fuori dalle orbite e la voce sempre più alta di un’ottava, con un rimprovero pronto sulle labbra per ognuno di loro. Michael era abituato a quel genere di cose, suo padre aveva ingaggiato un’ex marine per addestrarlo sin da quando aveva sei anni, ormai il suo corpo non sapeva neanche più cosa fosse, la stanchezza. Luke si era chiesto, spesso e volentieri, se Michael fosse davvero invulnerabile come sembrava. Lui, dal canto suo, non lo era per niente.
Quella sera aveva girato il viso per sottrarlo allo sguardo da spiritato dell’amico, puntando gli occhi sul pavimento sudicio della palestra, dove sputò pochi attimi dopo per cacciare tutto il proprio nervosismo.
“Niente” aveva risposto con una scrollata di spalle, puntando le proprie braccia sui fianchi ossuti.
Michael aveva riso, ma era una risata brutta, da pazzo.
“Niente? Sai cos’è niente? Niente è quello che stai combinando tu stasera. Svegliati Luke! Non siamo qui a perdere tempo! Cos’è, sei distratto?”.
Luke scosse la testa senza rispondere, e Michael tornò alla carica.
“No, bene, non sei distratto. E allora muoviti!” urlò più forte di prima, un attimo prima che il biondo scaricasse tutta la propria rabbia sul sacco da boxe, desiderando, in quel momento, di poterla scaricare sul suo amico.
Tornò a casa due ore dopo, chiedendosi come davvero fosse riuscito a muovere le proprie gambe per quel kilometro che separava la propria abitazione dalla palestra.
Fece scattare le chiavi nella serratura, e pochi attimi dopo la porta di casa si aprì con un cigolio, introducendo il ragazzo in un atrio buio, illuminato solo dalla luce che penetrava dalle finestre del salotto, poco più avanti.
“Sono a casa” annunciò, anche se, con il poco fiato che gli era rimasto, probabilmente nessuno l’avrebbe sentito. E infatti così fu, e quando fece il proprio ingresso nel salotto, vide sua madre trasalire rumorosamente, per poi accasciarsi nuovamente contro una poltrona quando mise a fuoco la sua figura.
“Ah. Sei tu” disse solamente, aggiustandosi gli occhiali sul naso diritto e riprendendo a rammendare quella che, notò, era una camicia nera. Un indumento che conosceva troppo bene, e che avrebbe preferito non vedere.
Luke annuì con lo sguardo basso, poi lasciò cadere il proprio borsone accanto al divano.
“Lui non c’è?” chiese.
Liz Hemmings ebbe uno scatto, poi “No. È ancora a lavoro” rispose. “Togli quel coso sudicio da lì, ti ho detto che non lo voglio nel mio salotto”.
Luke alzò gli occhi al cielo ma poi fece come gli era stato chiesto.
Si caricò il borsone sulla spalla e, senza aggiungere altro, si incamminò verso la propria stanza. Chiuse la porta alle proprie spalle con un gesto secco, si sedette pesantemente sul proprio letto e, dopo aver acceso il portatile, si prese la testa fra le mani.
Lui quella vita non la voleva.
Non ci era nato, per fare quelle cose.
Sognava di addormentarsi e svegliarsi nel corpo di qualcun altro, o quantomeno ritrovarsi una vita diversa, dove a diciassette anni puoi comportarti come un adolescente normale, senza dover sostenere il peso di scheletri nell’armadio da tenere sempre sotto controllo, con il rischio che, a lasciar loro troppo spazio, prendano il sopravvento su di te.
Sognava di cambiare ma non sapeva neanche da dove cominciare, perché era così che era cresciuto, così che suo padre gli aveva insegnato. E sua madre ogni sera lo guardava sempre con disgusto, perché suo figlio stava diventando, man mano, la fotocopia dell’uomo del quale un tempo era stata innamorata, ma che ora disprezzava.
Luke Hemmings non era cattivo, come molti erano portati a credere.
Ma doveva esserlo per fare sì che nessuno gli si avvicinasse, nessuno ficcasse il naso nei suoi affari.
Dopo aver preso un paio di respiri profondi, il ragazzo prese il portatile, posandoselo sulle gambe. Perse tempo girovagando tra i social network, cercando di raggiungere quel livello tale di stanchezza che ti fa posare la testa sul cuscino e dormire senza pensieri.
La sua attenzione fu catturata da una notifica in particolare, una nuova immagine del profilo postata da Phillis C. Turner. C’era lei, la Turner, con un sorriso a trentadue denti, mentre si dondolava più in alto possibile su un altalena in legno ridipinta di rosso.
Rimase a fissare quella foto per minuti che gli parvero interminabili, mentre un leggero sorriso gli colorava le labbra.
Immaginò quella ragazza mentre si dondolava sempre più in alto, dandosi lo slancio con le sue gambe lunghe. Immaginò la sua risata, i suoi occhi chiari stringersi, le sopracciglia inarcarsi, e gli venne naturale sorridere a sua volta. Poi, quasi per caso, il suo sguardo si concentrò meglio sul cognome della ragazza. Turner.
Spense di scatto il portatile, mentre ogni traccia di ilarità scivolava via dal suo viso. Non doveva mai dimenticare che, per quanto quella ragazza sembrasse innocente, la mela non cadeva mai troppo lontana dall’albero.
 
 
 
 
“Phillis, svegliati, siamo in ritardo!” urlò Lucy, prima di investire l’amica con una cuscinata in pieno viso. Phillis scattò a sedere e si guardò intorno frastornata, prima di mettere a fuoco l’amica in preda ad una crisi isterica.
Si alzò lentamente, stirando i muscoli indolenziti, e ancora mezza addormentata sfilò dalla propria borsa i vestiti di ricambio che aveva portato la sera prima.
“Sai quanto me ne importa…” sbuffò poi, sfilandosi il pigiama per indossare un paio di jeans neri ed una maglia viola, insieme alle sue solite All Star del medesimo colore.
“Tu sei matta se pensi che oggi io prenderò anche parte alla lezione della prima ora” dichiarò poi, mentre Lucy passava a scurirsi le ciglia chiarissime con una dose più che abbondante di mascara.
“Oh no, tu ci sarai mia cara!” rispose l’amica, con la voce un po’ distorta a causa della smorfia che aveva assunto per truccarsi. “Ho bisogno di te, nel caso quella di psicologia decidesse di interrogarmi”.
“Non ti interrogherà” ribatté Phillis sbadigliando.
“Ma se lo facesse? No, non esiste, tu entri con me”.
“Sì, contaci”
“Infatti è quello che sto facendo. Le amiche si vedono nel momento del bisogno!”
“E questa dove l’hai letta, su TeenFashion o cosa?”
“Sì, esatto, quello della scorsa settimana. L’inserto sul make up estivo era troppo carino!”
Phillis alzò gli occhi al cielo, ridacchiando. “Sei un caso perso, Lucy. Comunque io psicologia alla prima ora non riesco ad affrontarla, accettalo” riprese.
“Dai Phil, fallo per me! Che ti costa sederti e fare finta di seguire? Non hai mai fatto tante storie… non è che sarà l’influenza di Hemmings?”
Lucy portò una mano a tapparsi la bocca un attimo dopo aver pronunciato quell’esatta frase, voltandosi ad occhi spalancati verso l’amica. Era fatta così, lei, neanche se ne rendeva conto. Diceva tutto quello che le passava per la testa, dava aria alla bocca e, semplicemente, non aveva filtri. Era una persona molto schietta, al punto che, a volte, poteva risultare offensiva.
“Scusami Phil, davvero, non volevo…” mormorò dispiaciuta, abbassando la mano. La bionda si strinse nelle spalle, indossando un sorriso di circostanza.
“Nessun problema” affermò. “E comunque, tu sei matta se credi che la professoressa mi lascerà stare in un angolo a fare i comodi miei” aggiunse poco dopo, afferrando il proprio zaino.
Lucy a quella frase esultò, mentre si affrettava a seguire l’amica, perché poteva voler dire solo una cosa: quella battaglia l’aveva vinta lei.
 
 
 
 
 
L’ultima campanella di quella giornata era suonata e, adesso, Phillis era preda del nervosismo più totale.
Il non aver incontrato Luke Hemmings neanche una volta, in quella giornata, aveva favorito il suo umore tranquillo per le sei ore che erano trascorse. L’unica volta che l’ansia aveva fatto capolino era stata durante la pausa pranzo, appena prima di entrare in mensa e appurare che lì, di Hemmings o dei suoi amici, neanche a parlarne.
La ragazza aveva sospirato di sollievo prima di seguire di buon grado Lucy – che aveva cominciato a ciarlare di ogni singola lezione frequentata quel giorno – in fila per il pranzo. Aveva accettato la propria razione di pasticcio di maccheroni senza fiatare, ritrovandosi però come al solito quasi digiuna alla fine della pausa. Aveva salutato Lucy prima di avviarsi verso l’aula nella quale avrebbe affrontato le restanti due ore, quelle di filosofia, perché lei e l’amica si separavano in quel momento. Dopo l’ultima ora, la rossa sarebbe tornata tranquillamente a casa, mentre Phillis aveva l’inconveniente delle ripetizioni da affrontare.
Si era diretta verso la classe di filosofia dopo aver abbracciato l’amica, mentre un leggero strato di ansia iniziava ad impossessarsi di lei, messaggero di ciò che sarebbe arrivato alla fine di quelle ore scolastiche.
Verso le due meno dieci aveva chiesto di uscire dalla classe e si era rintanata nel bagno, infilandosi le cuffiette e sedendosi contro una vecchia sedia in legno scheggiato lasciata lì a marcire.
Le note di “Pieces” dei Sum41 si erano diffuse nella sua mente, riuscendo a tranquillizzarla almeno in parte. Aveva passato quei dieci minuti a canticchiare, cercando di rilassarsi, almeno fin quando la campanella non suonò, decretando la gioia di molti e la paura di una sola persona.
La ragazza si lasciò sfuggire un sospiro, prima di avviarsi alla solita aula in disuso del secondo piano.
Tranquilla, Phil. Tranquilla. Niente paura.
Erano le parole che, come un mantra, si ripeteva nella testa.
Ma come poteva imporre al proprio stomaco di non rivoltarsi, all’ansia di non accanirsi contro di lei?
Si diede mentalmente della stupida, arrivando al secondo piano e avvicinandosi con un’aria da funerale alla classe, quando un rumore dal bagno dei ragazzi la fece bloccare.
Lei voleva allontanarsi, lo giura, ma i piedi presero da sé la decisione di avvicinarsi quanto bastava per osservare la scena.
“Mi hai stufato, Clifford”.
Quella voce.
Luke Hemmings era lì, con le mani tra i capelli, ad urlare come se in quella scuola fosse stato presente solo lui. E Michael Clifford lo osservava con le sopracciglia inarcate, in un’espressione annoiata che – Phillis poté constatare – innervosiva parecchio il biondo.
Hemmings prese a macinare i metri in quel piccolo bagno, camminando avanti e indietro.
“Non devi dimenticare chi è che comanda qui, Mike” ribadì il ragazzo. “Sei il mio migliore amico, ma ci sono cose più importanti dell’amicizia”.
“Oh, io lo so” si decise a rispondere Michael. “Ed è proprio per questo che mi comporto così. Non puoi permetterti di essere mediocre, Luke. Ne va della tua vita”.
Probabilmente in quel momento Phillis si lasciò scappare un verso spaventato, lasciò che parte della paura che le attanagliava lo stomaco si manifestasse, ma non se ne accorse. Seppe solo che sentì la propria bocca spalancarsi istintivamente, mentre due paia di occhi si posarono su di lei.





Hi!
Non dirò molto di questo capitolo, perché ho cominciato a scriverlo ieri sera e l'ho finito oggi e nonostante questo non mi piace.lol
Però stiamo, piano piano, entrando nel caro Angst di cui la storia è piena, e chiedo scusa se vi sto confondendo le idee ma presto - più o meno ahah - arriveranno dei chiarimenti!
Io ringrazio Letizia25 e cliffordsjuliet che hanno recensito lo scorso capitolo, e chiunque segua o preferisca(:
Alla prossima!

-Daisyssins

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Capitolo 4
*** Anxiety ***


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Anxiety.


Indietreggiò lentamente, fin quando non rischiò quasi di inciampare.
Aveva coperto le labbra con una mano, di scatto, come se avesse potuto cambiare qualcosa. Il danno era stato fatto. Senza una parola, si era voltata ed aveva cominciato a correre, e sentiva i loro passi alle spalle, le loro voci chiamarla, ma non le importava. Erano suoni di sottofondo, quelli, le giungevano ovattati. Tutto quello che percepiva davvero, in quel momento, era il battito fin troppo veloce del suo cuore, o il rumore che le sue All Star producevano contro il pavimento sporco dell’edificio.
Non dovresti avere paura, si diceva.
Non ce n’è motivo.
Eppure il tono di Luke era così arrabbiato, e quello di Michael così stanco, esasperato… le aveva fatto accapponare la pelle quella voce così stanca, che aveva invecchiato di mille anni il ragazzo dai capelli tinti. Quei due si comportavano come se sulle proprie spalle gravasse un peso insormontabile, troppo pesante per due diciassettenni, ma che erano comunque costretti a portare. Una sensazione che, ora come ora, la bionda conosceva fin troppo bene.
Phillis sentì il proprio respiro cominciare a farsi più affannoso, ma si fermò solo quando fu lontana dall’edificio scolastico. Sentì chiaramente le gambe cominciare a cederle, e si bloccò. Si sedette sui gradini di un palazzo, portandosi una mano al petto che, per come le bruciava, sembrava compresso da un macigno. Cercò di obbligare i propri polmoni deliranti ad incamerare l’aria che cercava disperatamente di mandar loro attraverso le labbra spalancate, ma non ne vollero sapere di collaborare. Si appoggiò con la schiena al portone freddo del palazzo e chiuse gli occhi, provando a tranquillizzarsi, cercando di riprendere il controllo della situazione, ma non ci riuscì.
Era abituata a crisi di quel genere solo che, prima di allora, non si era mai ritrovata ad affrontarle da sola. Cercò affannosamente nella propria borsa il familiare tubetto di plastica grigio, lo stappò con mani tremanti, ma era vuoto. La paura di perdere il controllo si impossessò di lei, forte come era stata poche volte, intanto che il respiro andava via via affievolendosi e la vista si macchiava di chiazze nere mentre, lentamente, perdeva i sensi.





“Mi senti?”
Furono le prime parole che Phillis riuscì a captare non appena, sbattendo più volte le ciglia, riuscì ad aprire gli occhi. La luce del giorno la ferì, obbligandola a richiudere velocemente le palpebre.
“Dove sono?” chiese con voce flebile, passandosi gli anulari sugli occhi chiusi, che però si sforzò di aprire pochi attimi dopo. Mise a fuoco lo stesso palazzo dove ricordava di essersi fermata, e si accorse di essere sdraiata sugli stessi scalini in pietra fredda, ma la sua testa non era adagiata contro il marmo scuro. Si mise a sedere, notando di essere appoggiata a qualcun altro, probabilmente la persona che l’aveva ritrovata in quelle condizioni. Quando mise a fuoco la figura, però, pensò che forse sarebbe stato meglio se lui l’avesse lasciata lì per terra a sbrigarsela da sola. Perché, anche se non era Hemmings o Clifford, Calum Hood era comunque l’ultima persona sulla faccia della terra da cui avrebbe mai accettato un aiuto. Provò ad alzarsi, ma le gambe instabili e tremolanti non erano d’accordo con la sua idea di fuggire, perché la costrinsero a sedersi nuovamente per terra. Le braccia di Calum la circondarono lentamente, sostenendola.
“Sai, credo sia meglio se per ora resti qui” commentò il ragazzo imperturbabile.
Phillis si liberò dalla sua presa, senza però rispondere.
“Oh, comunque tranquilla, non c’è bisogno che tu mi ringrazi” aggiunse dopo poco con sarcasmo, inarcando le sopracciglia.
“Grazie” sputò fuori Phillis acidamente, incrociando le braccia. “Ora posso andare?”
“Se proprio ci tieni” annuì Calum, così la bionda riprovò ad alzarsi, notando con piacere che le gambe riuscissero a sostenerla. Prima di andarsene, però, si decise a degnare di un’occhiata il moro seduto accanto a lei, che la osservava incuriosito.
“Perché mi hai aiutata? Potevi benissimo lasciarmi lì” disse.
“Avevi appena avuto un attacco di panico, Phillis Turner. Non sono una bestia, non potevo lasciarti lì e arrivederci”.
“Come sai il mio nome?”
“So talmente tante cose di te che neanche puoi immaginare, Turner. Ma sbaglio o dovevi andare?”
La bionda sembrò risvegliarsi. Scese lentamente gli scalini, prima di cominciare ad avviarsi sulla strada di casa con un passo un po’ malfermo. Prima di allontanarsi, però, si voltò nuovamente verso il ragazzo.
“Ti ringrazio, Calum Hood”.
E stavolta era seria.





Una stanza dalle pareti color blu notte.
Un soffitto costellato di stelline fluorescenti che, al buio, emanavano una luce soffusa che si diffondeva per tutta la stanza. Le aveva fatte attaccare quando era piccola e, a distanza di anni, alcune stelle erano cadute, altre avevano perso la luminescenza.
Ma nonostante questo, avevano ancora il potere di calmarla.
Il soffitto era alto, lontano da Phillis, stesa sul proprio letto.
Le ricordava il cielo notturno, quel cielo a cui sentiva di appartenere, di cui era innamorata, al quale aveva affidato tutti i propri segreti. Il cielo era tutto ciò in cui Phillis credeva.
Andrò oltre le stelle”, era il suo motto da più o meno tutta una vita.
Da piccola desiderava superare le stelle per poter esplorare l’universo.
Adesso, dopo anni, il suo desiderio era solo quello di superare il visibile, il conosciuto, e scoprire un mondo diverso. Un mondo senza preoccupazioni, magari? Forse era impossibile, ma i sogni erano l’unica cosa che non potevano toglierle, quindi Phillis se li teneva stretti. Sospirando, si rigirò nel letto, cercando di trovare una posizione che favorisse quel sonno che, ora come ora, non si decideva ad arrivare e darle sollievo.
Le tempie le pulsavano, la testa sembrava in procinto di scoppiare.
Era tornata a casa verso le quattro, e ad attenderla c’era stata sua madre. L’aveva guardata dall’alto in basso, notando come sembrasse sgualcita, mal ridotta. Poi i suoi occhi chiari, identici a quelli della figlia, si erano piantati sul viso della ragazza. Era pallido, l’unica macchia di colore era data dalle occhiaie violacee intorno agli occhi.
“Che ti è successo?” le aveva chiesto senza troppi preamboli, scostandosi per permetterle di entrare in casa. Phillis l’aveva fatto e, senza rispondere, si era diretta verso la cucina. La madre l’aveva seguita continuando a fissarla imperterrita, pretendendo in silenzio la sua risposta. Perché, nonostante molte volte lei se ne dimenticasse volutamente, era comunque una madre; perché quella ragazzetta dai capelli biondicci che scavava nella scatolina dei farmaci era comunque sua figlia, e perché lei l’istinto materno, anche se ben nascosto, ce l’aveva comunque.
Nonostante ciò capì la situazione anche senza il bisogno di risposte non appena vide Phillis sfilare dalla scatola un tubo in plastica grigia che le era estremamente familiare.
“Mirtazapina?” pronunciò scandendo bene le lettere, ma a bassa voce, come se quella parola fosse stata un tabù. Phillis annuì e, sempre senza rispondere, fece scivolare nel palmo della mano una pillola, che poi mandò giù con l’aiuto di un bicchiere d’acqua. La madre le si avvicinò, e per una volta aveva perso la sua espressione altezzosa.
“È successo di nuovo?” chiese alla figlia, anche se la risposta le sembrava ovvia. La ragazza annuì nuovamente, voltandosi ed appoggiandosi con la schiena al piano della cucina, un bicchiere tra le mani.
“Oh, Philly…” aveva sospirato, usando quel nomignolo con cui la appellava solo quando era davvero preoccupata. “Non so più cosa fare, davvero. La terapia non funziona e…” cercò di dire, ma la bionda la bloccò, interrompendola a metà frase.
“Dov’è papà?” chiese.
Lo sguardo dispiaciuto della madre fu una risposta sufficiente.
“Ecco, esattamente” mormorò a denti stretti, prima di posare il bicchiere sul bancone e, senza aggiungere una parola, salire di corsa verso la propria camera.
Phillis aveva sbattuto la porta della stanza senza troppe cerimonie, prima di tuffarsi sul letto, rivolgendo lo sguardo al soffitto altissimo.
Nella sua mente, mentre cercava di calmarsi, viaggiava libera la solita frase.
Andrò oltre le stelle.





Buongiorno**
Oggi questo sarà uno spazio autrice piuttosto allegro perché, oddio, 8 recensioni allo scorso capitolo! Io non so davvero come ringraziarvi, e stasera risponderò a tutti.u.u
Inoltre passerò dalle storie di chi mi ha chiesto un parere, don't worry.uwu volevo rispondere e passare ora, ma mia sorella reclama il pc per un problema scolastico, so... :c
Ma bando alle ciance, e veniamo a noi. :'3
Non saprei cosa dire, ehm.. detto sinceramente questo capitolo non piace molto neanche a me(?). Cioè, le cose DOVEVANO andare così perché nella mia testa è tutto pianificato, solo che  la stesura del capitolo non è che mi convinca tanto.
Beh, nulla, that's all folks!
Vi ringrazio ancora immensamente cjdhffjhj spero di rivedervi!
Baci, Ida.x





Ps: Qui ( https://www.youtube.com/watch?v=vDjiY7tFH8U&feature=youtu.be ) potete guardare il trailer. Ringrazio cliffordsjuliet per averlo postato sul suo canale:3

 

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Capitolo 5
*** Same old place, new friend. ***


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Same old place, new friend.


Erano le 22:30 ed erano passati tre giorni da quando Phillis era uscita di casa l’ultima volta. Sua madre reagiva sempre così ai suoi attacchi di panico: entrava in ansia, diventava apprensiva e la chiudeva in casa fin quando non era certa che non ci sarebbe ricaduta, poi tornava ad essere distaccata come al solito.
Quella volta non fece differenza.
Phillis stava seduta a gambe conserte sul proprio letto, fissando un punto imprecisato del muro blu ricoperto da foto, poster e frasi di canzoni.
Il suo sguardo si fermò su una scritta sull’anta destra del suo armadio, proveniente da una delle sue canzoni preferite.

Sometimes is so crazy that nothing can save me, but it’s the only thing that I have”.

A volte sembra così strano che nulla possa salvarmi, ma è l’unica cosa che ho”.


Quelle parole avevano sempre lo stesso effetto su di lei.
Come pugnali, le ricordavano che tanto da quella merda in cui si ritrovava non ne sarebbe mai scappata. La causa scatenante era anche l’unica cosa che avrebbe potuto aiutarla ad uscirne, ma se la persona artefice di tutto non c’era, lei non avrebbe potuto fare comunque nulla per migliorare la situazione.
“Fanculo tutto” sbottò a denti stretti, lasciandosi cadere di schiena sul letto.
Lo sguardo le cadde sulla sveglia digitale accanto a lei che, in quel momento, segnava le 22:45. Un’idea le percorse la mente veloce come un lampo, ma fu abbastanza perché Phillis prendesse la sua decisione. Si affacciò dalla propria camera per dare uno sguardo in quella della madre, appurando che già dormiva. Ritornò nella propria stanza per indossare velocemente dei leggins neri, un maxipull viola e la giacca di pelle nera insieme alle All Star viola, come suo solito.
Scese silenziosamente le scale, per poi afferrare cellulare e portafogli dal mobile dell’ingresso, premurandosi anche di lasciare una scritta su un post-it così, nel caso in cui sua madre si fosse svegliata e avesse avuto l’idea di controllare che fosse in camera.
“Sono uscita. Non chiamarmi, rientro quando ho voglia, torna a dormire”.
Chiuse lentamente la porta alle sue spalle e poi, una volta fuori, corse per tutto il cortile fino al cancello, che scavalcò perché avrebbe prodotto troppo caos se avesse azionato il congegno elettronico che lo apriva.
Srotolò gli auricolari che aveva avvolto attorno al cellulare per poi infilarli nelle orecchie, lasciando che le note di “Fall for You” dei Secondhand Serenade la accompagnassero per le strade buie di Sydney. Non aveva una meta precisa, ma una mezza idea di dove andare la aveva. C’era un parco a tre isolati da casa sua, non era molto grande e, soprattutto, di sera era altamente sconsigliabile la frequentazione, ma a lei piaceva comunque perché era silenzioso e pulito. Lo raggiunse dopo pochi minuti ed entrò dal cancello posteriore, raggiungendo quello che era sempre stato il suo nascondiglio, un angolo un po’ nascosto dal resto del parco.
Era una panchina di pietra posizionata accanto ad un tavolino, di pietra anch’esso, nascosta dalla visuale delle persone da alcuni cespugli. Solo chi, come Phillis, aveva esplorato ogni anfratto di quel parco poteva conoscerne l’ubicazione.
La ragazza raggiunse la panchina e vi si sdraiò di schiena, puntando lo sguardo al cielo semi celato da un albero di quelli sempreverdi, che anche in inverno non perdeva le sue foglie. Quell’albero era una delle tante cose che le facevano piacere quel posto, le dava un’idea di vita, di forza, di qualcosa che non si ferma davanti a niente.
Quella sera non si vedevano le stelle, la luna era in parte coperta, ma nonostante questo il cielo continuava a sembrarle bellissimo. Aveva il potere di tranquillizzarla e farle dimenticare tutto almeno per un po’.
Le canzoni trasmesse dal suo cellulare si susseguivano senza sosta, cullandola, mentre lasciava che le note prendessero il posto di qualsiasi pensiero aleggiasse nella sua mente.
La scuola, suo padre, sua madre, Hemmings, Clifford, Hood, Lucy, le ripetizioni, le crisi… niente di tutto questo esisteva, in quel momento c’era solo lei e la sua musica, e le stelle lontane che per diciassette anni di vita erano state tutto ciò che aveva vegliato su di lei.
Dopo pochi minuti che furono sufficienti a calmarla, Phillis si mise seduta sulla panchina, portando le ginocchia al petto per poi appoggiarci il mento sopra. Sfilò dalla tasca della giacca un pacchetto di Camel, ne prese una e la accese con un accendino azzurro. Non fumava, di solito, motivo per cui quello stesso pacchetto giaceva nella tasca della giacca di pelle da mesi; nonostante questo ogni tanto le piaceva sentire quel sapore amarognolo in bocca, accompagnato dalla sensazione familiare del tabacco che le bruciava in gola. Le sue labbra screpolate a causa del freddo si chiusero attorno al filtro della sigaretta, aspirando senza fretta. Passarono pochi attimi prima che la ragazza le schiudesse nuovamente, lasciando fuoriuscire una nuvoletta di fumo bianco e nocivo.
“Non dovresti fumare, lo sai. Vero Turner?”
Phillis sobbalzò, voltando il viso in direzione della voce e scorgendo la figura di Calum Hood, che si avvicinava con le mani nelle tasche. Alzò gli occhi al cielo, riportando la sigaretta alle labbra.
“E chi lo ha deciso, tu?” ribatté.
“Sì, esatto” ridacchiò lui, come se avesse appena pronunciato la più esilarante delle battute.
Era davvero strano, Calum Hood. Phillis ancora si chiedeva perché, nonostante tutto, si ostinasse a non lasciarla in pace ma, soprattutto, perché fosse stato gentile con lei alcuni giorni prima.
Lo aveva ringraziato, era tornata a casa, e di sicuro non si sarebbe aspettata di aprire il computer e ritrovare un messaggio da parte di un utente che non faceva parte della sua lista di amici, rispondente al nome di Calum T. Hood, che le chiedeva come stesse. In quegli ultimi giorni di reclusione avevano parlato molto, o comunque abbastanza perché la ragazza appurasse che, tutto sommato, Calum non era male. Ma nonostante questo non riusciva ad abbandonare quell’ansia di fondo che la prendeva ogni volta che era a contatto con uno qualsiasi degli amici di Hemmings.
“Come mai sei qui?” si decise a chiedere Phillis dopo un po’, cambiando argomento.
Calum si strinse nelle spalle. “Potrei rivolgerti la stessa domanda”.
“Ma io l’ho chiesto per prima”
“Ed io non ho intenzione di rispondere” affermò il ragazzo, in modo leggermente freddo. “Mi dispiace, Phillis, ma non voglio mentirti, quindi non fare domande alle quali non posso rispondere” aggiunse poi, addolcendo il tono.
Nessuna risposta da parte della ragazza, che si limitò a sbuffare, ruotando gli occhi al cielo, e cacciando un ultimo tiro dalla sigaretta prima di spegnerla sotto la punta delle All Star.
“Sei da sola?” domandò poi lui, dopo qualche attimo di silenzio.
“Non ho intenzione di rispondere” lo scimmiottò lei, enfatizzando il suo tono distaccato. Ma poi, che domande erano? Le sembrava abbastanza ovvia la risposta, visto che quel parco, a parte loro due, era pressoché vuoto.
“Non fai ridere” sbuffò Calum, dandole una spinta che avrebbe voluto essere leggera, ma che finì con il farla cadere per terra con un gemito di dolore.
“Ma sei idiota?!” sbottò la ragazza, rialzandosi con una smorfia. Calum scoppiò a ridere senza riuscire a trattenersi, piegandosi in due e mantenendosi la pancia.
“Oddio Phillis, la tua faccia… avresti dovuto vederla” riuscì a dire tra una risata e l’altra.
“Non sei divertente” borbottò la bionda, sedendosi dopo aver dato alcune botte ai leggins per ripulirsi dalla polvere. Passarono alcuni minuti in cui Phillis incenerì più volte Calum con lo sguardo, mentre lui era troppo impegnato a ridere per rendersene effettivamente conto. Si riprese poco dopo, col fiatone per le troppe risate, accorgendosi dello sguardo contrariato che Phillis gli stava puntando contro.
“Non è colpa mia se basta toccarti per farti cadere” si difese con un sorrisetto.
“Ma piantala! Piuttosto, tu invece? Sei con qualcuno?” cambiò argomento Phillis.
Calum le lanciò un’occhiata obliqua, poi annuì.
“Sì, sono con…”
“Calum! Ma che diavolo, dove sei finito?”
Phillis si congelò sul posto, sentendo quella voce.
Calum se ne rese conto e le prese una mano tra le proprie, stringendola per darle coraggio. La bionda rivolse gli occhi chiari in quelli più scuri del ragazzo, e Calum la vide per la prima volta così com’era, priva di barriere, senza i suoi soliti scudi. Lesse tutto il panico negli occhi della ragazza e si chiese cosa fosse successo davvero, per quale motivo lei avesse così tanta paura di Luke.
Perché magari era vero che lui non era proprio una bravissima persona, ma questo Phillis non poteva saperlo. O forse sì? Mentre si perdeva nei meandri degli occhi chiari di quella nuova, improbabile amica, Calum si chiese se la Turner non sapesse realmente qualcosa. Dopotutto, non doveva mai dimenticare di chi era figlia. Eppure dubitava che avesse acquisito qualche informazione attraverso suo padre, era praticamente impossibile.
Il ragazzo tornò con i piedi per terra quando la figura di Luke si palesò a loro, comparendo da dietro l’albero sempreverde. Quando i suoi occhi misero a fuoco la figura della Turner, ci volle poco perché le sue labbra si stendessero in un ghigno divertito, mentre incrociava le braccia.
“Ora capisco perché ti attardavi tanto. Ma se proprio ci tieni la tua amichetta può venire di là con noi” disse, passandosi la lingua sulle labbra sottili.
Phillis si agitò sul posto. “No, io…” tentò di dire, ma il biondo la bloccò con un gesto della mano.
“La mia non era una domanda, Turner” chiarì, per poi fare dietro front e tornare da dove era venuto. Ovviamente, si aspettava che lo seguissero.
Calum si alzò e tese la mano a Phillis, che però lo guardava con gli occhi spalancati, senza dire nulla.
“Vieni?” le chiese, indicando con un cenno la direzione appena presa dal biondo.
Phillis non rispose, di sicuro non avrebbe voluto andare con loro, ma d’altra parte aveva anche paura. Si chiese dov’era finita tutta la sua spavalderia e a cosa le servisse essere così sfacciata, se poi quando si trovava a fare i conti con l’egocentrismo di un ragazzo come tanti non sapeva neanche far valere la sua volontà. Nonostante ciò si alzò e afferrò la mano di Calum, stringendogliela quasi a bloccare la circolazione del sangue. Il ragazzo non fece una piega, e insieme raggiunsero un angolo un po’ più illuminato del parco, grazie alla vicinanza con un lampione che, dalla strada, illuminava fiocamente anche quel tratto di prato.
Phillis poté distinguere presto la figura di Michael Clifford seduto con la schiena contro un albero, quella di Ashton Irwin sdraiato con le braccia sotto la testa e, appena un po’ distaccato dai due, Luke, intento a scrivere qualcosa in fretta e furia sul cellulare.
“Chi non muore si rivede. Che fine avevi fatto, Calum?” domandò Clifford appena si avvicinarono, inarcando un sopracciglio.
“Che, non vedi? Aveva di meglio da fare” commentò Irwin divertito, ridendo poi da solo per la propria frase, con una risata acuta e decisamente inquietante.
Michael si alzò e si avvicinò alla bionda, con un sorriso che probabilmente avrebbe voluto sembrare amichevole, ma che in quel momento servì solo a far schizzare la sua ansia a mille.
“Michael Clifford” disse, porgendo la mano che Phillis strinse con poca decisione.
Lo so, avrebbe voluto rispondere. Però tacque.
“A questo punto uno potrebbe aspettarsi una risposta, sai com’è…” aggiunse Michael poco dopo ironicamente, appurando che la ragazza non aveva intenzione di rispondere.
Phillis aprì la bocca per dire che, se fosse stato per lei, a quest’ora sarebbe stata ancora da sola su quella panchina nascosta dove Calum l’aveva trovata, quindi non vedeva perché avrebbe dovuto trovare interesse nel dirgli il proprio nome; la voce, però, non voleva saperne di uscire, e lei non aveva neanche troppa voglia di instaurare la discussione con un tipo del genere, non ne aveva le forze. Deglutì, prima di “Phillis Turner” rispondere flebilmente, mantenendo però uno sguardo indifferente.
“Hey Phillis, io sono Ashton!” si presentò il ragazzo dai capelli ricci, ancora steso per terra, rivolgendole un cenno ed un sorriso.
So anche questo.
La bionda annuì e ricambiò il sorriso increspando appena le labbra, prima di spostarsi dalla sua postazione dietro Calum per prendere posto di fianco a lui. I suoi movimenti erano più sciolti, ora, e meno nervosi: per il momento sembrava andare tutto bene, e la paura stava scemando in qualcosa di diverso. Adesso, tutto ciò che sentiva era determinazione.
Non doveva importarle chi fossero quei ragazzi, o perché avesse sempre cercato di evitarli come la peste: infondo, erano solo persone normali.
Era quasi riuscita a convincersi quando Luke decise di onorarli della propria presenza, avvicinandosi con le mani nelle tasche.
“Non vi dispiace se vi rubo Phillis per dieci minuti, vero ragazzi? Andiamo a farci un giro”.





Hey there!
Okay, sono una frana, è ufficiale.
Ho presentato questo capitolo un po' lunghetto - deheheh, ce l'ho fatta! - che però spero non vi abbia annoiato, nel quale inizia a formarsi un po' il rapporto che Phillis ha con Calum :)
Inoltre entrano in scena per pochi attimi Mike - che già abbiamo incontrato - e Ashton.
Lui per il momento non ha un ruolo fondamentale ma... beh, per come son fatta io, nessun personaggio verrà lasciato indietro, credetemi.
Passo con i ringraziamenti per tutti voi che avete recensito e che, davvero, mi avete resa felicissima! Non so come ringraziarvi, davvero, credo di volervi bene!
Mi scuso anche per aver finito così il capitolo, solo una settimana di pazienza e si vedrà come andranno le cose.çç
Ora vado che sto morendo per il nervosismo, sono a casa per un filone e sono da sola ma per qualche arcano motivo ho paura. Ciao!
Ida.x



PS: Come sempre potete guardare il trailer della storia qui: Trailer "Pieces" - 5SoS FanFiction [ITA]

 

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Capitolo 6
*** Some nights. ***


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Some nights.


Ci sono sere che sono sempre un po’ più fredde.
Sere in cui stringerti in una giacca non basterà, in cui il freddo non lo senti fuori, ma dentro.
Sono le stesse sere in cui una semplice parola può ferire, in cui la canzone di sempre, quella che ami e le cui parole sono capaci di descriverti a pieno, fa male.
E quella era una di quelle sere per Phillis, mentre camminava per le strade solitarie di Sydney al fianco di Luke.
Lui correva avanti, i suoi passi erano più lunghi, non la aspettava.
Lei si affrettava ma alla fine, anche con l’affanno, non riusciva mai ad affiancarlo. Era sempre un passo indietro, lei.
Riconosceva la strada che stavano percorrendo perché era la stessa che avrebbe imboccato per tornare a casa, e questo era il pensiero cui si aggrappava per infondersi sicurezza. Perché, quando si trattava di Luke Hemmings, era proprio quello che le mancava: la sicurezza, la spavalderia, la sfacciataggine; insomma, tutte quelle cose che solitamente la caratterizzavano.
Avrebbe voluto affiancarlo, fermarlo, riuscire ad imporsi almeno un po’. Avrebbe voluto dire qualcosa e invece stava zitta, che con le persone come Luke c’era poco da fare, il silenzio era la via migliore. Perché bastava pochissimo – una semplice frase, una parola, anche un solo respiro – a spezzare l’equilibrio già precario che era andato formandosi man mano, mentre il vento della sera di Sydney s’infilava fin sotto le ossa della ragazza e le faceva rimpiangere di essere uscita di casa.
Nonostante questo si ritrovò a cercare dappertutto dentro sé il coraggio di parlare, lo trovò, prese un respiro profondo prima di far vibrare le proprie corde vocali.
“Dove stiamo andando?” domandò.
Lui ebbe un fremito e poi si girò, rivolgendole un’occhiata sorpresa – probabilmente per il fatto che proprio lei avesse deciso di spezzare il silenzio - che però fu bravo a mascherare, assumendo nuovamente la consueta maschera indifferente.
“A casa” rispose, riprendendo a camminare.
“A casa?” ripeté la ragazza, confusa.
Luke annuì e “Sì, a casa” rispose ovvio. “Che, non capisci? Mi era parso di capire che tu fossi un piccolo genio” la canzonò poi. I suoi occhi guizzarono fulminei sulla figura longilinea della ragazza dietro di sé; fu un attimo, ma bastò perché riuscisse a vedere la rabbia che le chiazzava di rosso le guance chiare. Pensò che gli piaceva stuzzicarla, perché quello era il suo punto debole, l’unico modo in cui poteva farla reagire e uscire dal suo guscio: pungolarla nell’orgoglio.
“Beh, di sicuro siamo tutti dei geni in confronto a te, Hemmings” ribatté lei acidamente. “Ma quello che intendevo è… a casa di chi?”.
Luke distese le labbra in un ghigno canzonatorio.
“A casa tua, ovviamente. Ma se preferisci puoi venire da me” commentò maliziosamente.
Phillis non raccolse la provocazione, decisa almeno per una volta ad essere la più matura tra i due.
“Perché mi stai riaccompagnando a casa?” chiese asciutta, mentre imboccavano esattamente la sua via.
“Perché non mi va che tu stia in giro a quest’ora. E poi, perché non mi andava che stessi ancora con Calum” ammise Luke a bassa voce.
Phillis si arrestò di colpo, spalancando gli occhi.
“Tu… sei un completo idiota. Te l’hanno mai detto, Hemmings?”
“Attenta a come parli ragazzina”
La ragazza scosse la testa incredula. “Tutto questo non ha senso” mormorò poi.
Per una volta toccò a Luke assumere un’espressione perplessa, che bastò – anche se per pochi attimi – ad aprire uno scorcio sui suoi pensieri.
“Cosa non avrebbe senso, esattamente?” chiese, inarcando le sopracciglia.
“Tutto questo” ripeté la ragazza, indicando prima sé stessa e poi Luke, fermo davanti a lei. “Il fatto che siamo qui a parlare, il fatto che tu mi stia riaccompagnando a casa… ma anche il fatto che io senta di poter considerare Calum quasi un amico, o il fatto che questo ti faccia innervosire. Non sto capendo più niente, Luke. Che senso ha? E perché poi a te dovrebbe dare fastidio?”
Per la prima volta in quella serata le labbra di Luke si dipinsero in un sorriso, che non era uno dei suoi soliti ghigni sarcastici e canzonatori, era un sorriso vero e proprio.
“Cos’hai da sorridere adesso?” chiese Phillis perplessa.
“Niente. Mi hai chiamato Luke” fu la risposta che ottenne, prima che il biondo riprendesse a camminare, obbligandola nuovamente ad affrettare il passo.
“Tu sei matto, Hemmings” sospirò la ragazza sconfitta, lasciando perdere il suo proposito di ottenere delle risposte dal biondo. Lui si arrestò solo un attimo quando giunse davanti al portone dell’abitazione della ragazza, rivolgendole un’occhiata indecifrabile.
“Notte, Turner” disse poi con freddezza prima di allontanarsi.
Ecco un’altra cosa che non ha senso, pensò Phillis. Cosa diavolo gli è preso adesso?
Rimase lì ferma ed imbambolata a fissarlo, con la stessa confusione che, quella sera, aveva deciso di piantare in lei le sue tende.
“Notte anche a te Luke Hemmings” mormorò poi, quando Luke era ormai troppo lontano per riuscire anche solo a percepire le sue parole, prima di arrampicarsi sul cancello e percorrere il cortile quasi di corsa fino alla porta di casa.





Ore 8:05, cortile del Norwest Christian College.
Se qualcuno avesse osservato un po’ più attentamente Phillis, quella mattina, avrebbe detto che stesse cercando di anticiparsi sul tempo, cominciando a prepararsi per la festa di Halloween che si sarebbe tenuta nella palestra della scuola di lì ad un mese. Perché, quella mattina, il viso della ragazza era stanco e anche più pallido del solito, e i suoi occhi chiari erano contornati da borse e occhiaie violacee che neanche l’intero tubetto di correttore era riuscito a coprire del tutto. Non si era neanche data la pena di truccarsi, perché non avrebbe cambiato nulla. I segni della nottata sarebbero stati visibili anche sotto un chilo di cerone.
Se ne stava seduta sul solito muretto, con le cuffie nelle orecchie come d’abitudine, aspettando che le parole di “Fluorescent Adolescent” riuscissero a svegliarla, a darle quell’energia che quella mattina sembrava essere morta e sepolta.
Improvvisamente, si sentì sfilare una cuffia, mentre qualcuno che si sedeva accanto a lei ne prendeva possesso.
“Mhh… gli Arctic Monkeys sono quello che ci vuole per darti una svegliata, se devi affrontare un lunedì al Norwest” dichiarò Lucy con un sorriso.
Sorriso che però si spense, quando mise a fuoco meglio il viso di Phillis. Prese a guardarla con un’espressione tra il perplesso e il preoccupato, senza premurarsi di non sembrare sfacciata.
“Che c’è?” domandò la bionda.
Lucy si mordicchiò un labbro dipinto di rosso – come di rito, ogni lunedì mattina – scegliendo con cura le parole da pronunciare, prima di parlare.
“Cos’hai, Phil?” le chiese poi automaticamente.
Phillis sospirò e “Non lo so” rispose sincera, stropicciandosi gli occhi con gli anulari. “Ho sonno, credo”.
La rossa alzò gli occhi al cielo. “Questo lo vedo. Ma c’è qualcosa che non va” replicò un po’ polemica.
Phillis non fu sorpresa dal tono dell’amica, né tantomeno da quella frase, che non era stata una domanda bensì un’affermazione. Lucy sapeva che ci fosse qualcosa di storto, non chiedeva, semplicemente affermava. Solo che Phillis non era sicura di conoscere la risposta.
“Non so neanche questo, se devo dire la verità” sospirò. “Stanno succedendo… sai, tante piccole cose, che però mi incasinano la testa”
“E queste piccole cose rispondono al nome di Luke Hemmings?”
“Forse” ammise Phillis. Non era una bugia ma neanche una verità, perché quel ‘forse’ stava semplicemente a sostituire un’altra parola più piccola, composta da due lettere che, se le avesse accostate, avrebbero svelato la verità di tutto il suo nervosismo.
Lucy se ne accorse, ma non ribatté, e Phillis gliene fu grata. Non era certa che sarebbe sopravvissuta ad un interrogatorio, quella mattina.




Letteratura non era così male, dopotutto.
A Phillis piaceva, e la professoressa poteva andare.
Ma, quella mattina, la voglia di concentrarsi non c’era proprio: mentre ascoltava senza prestare attenzione il chiacchiericcio sommesso dell’insegnante che parlava di una qualche ballata ottocentesca, si ritrovò a pensare che mai come allora il banco le era sembrato così comodo ed invitante. Le sarebbe bastato poggiarci la testa per pochi attimi, chiudere gli occhi, riposarsi. Ma sapeva che – anche se fosse stato possibile – non ci sarebbe riuscita.
Perché lei, nonostante tutto, era una ragazza, e i complessi mentali era impossibile non farseli. Ed era impossibile anche non pensare a Luke, al suo comportamento incoerente, con quella sua espressione sempre un po’ ironica, come se volesse farti capire che lui non ti avrebbe mai preso sul serio. E forse era proprio così, e il loro breve dialogo della sera prima lo aveva dimostrato.
Eppure c’erano così tante cose che Phillis non si spiegava… innanzitutto, perché la sua amicizia con Calum lo avrebbe dovuto infastidire? Perché l’aveva accompagnata, poi? Avrebbe potuto benissimo lasciarla andare da sola. E perché, non appena l’aveva lasciata davanti casa, era diventato d’un tratto anche più freddo e distaccato del solito?
Un piccolo sospiro sfuggì alle labbra della ragazza quando si rese conto che, effettivamente, non era sicura che avrebbe trovato risposta a quei quesiti.
La seconda e terza ora le passò con matematica, la quarta con spagnolo. Era passata bene la mattinata, tutto sommato, se non fosse stato che adesso si sentiva più stanca di quanto potesse anche solo accettare.
Al suono della campanella non seguì la massa di studenti che si dirigevano verso la mensa; piuttosto, preferì uscire fuori al cortile e sedersi sugli scalini in pietra, cellulare in mano, cuffie nelle orecchie come suo solito.
Desiderava solo estraniarsi dal mondo per un po’ e, magari, riuscire a recuperare quel minimo di energia che l’avrebbe aiutata a resistere altre due ore in quel posto.
I suoi piani furono mandati in fumo, però, quando qualcuno la affiancò e senza troppe cerimonie le sfilò le cuffie dalle orecchie, pretendendo la sua attenzione.
“A che gioco stai giocando?” la voce di Ashton Irwin fu un soffio, appena udibile, ma lei la percepì con estrema chiarezza. Eppure stranamente non ne ebbe paura.
Inarcò svogliatamente un sopracciglio e “Che intendi?” chiese, prendendo poi a mordicchiarsi le labbra screpolate.
“Lo sai benissimo, Phillis” replicò il ragazzo senza mezzi termini.
“Allora mi dispiace deludere le tue aspettative, Ashton, perché non capisco di cosa tu stia parlando”.
Il riccio portò una mano a scompigliarsi i capelli, puntando i propri occhi verdi lontano, verso i cancelli del Norwest.
Poi esalò un respiro e “Luke” fu l’unica cosa che disse. Phillis si irrigidì sul posto.
“Io non sto giocando proprio a niente che riguardi lui” affermò duramente.
“Sì, certo. E ieri sera, allora?”
“Mi ha riaccompagnata a casa perché…” Phillis si interruppe un attimo. Avrebbe dovuto dirgli la verità? D’altronde, ciò in cui avrebbe cacciato Hemmings con la propria sincerità non era affar suo, quindi perché no. “Perché gli dava fastidio che stessi con Calum”
Stavolta fu il turno di Ashton, di irrigidirsi per la sorpresa.
“Te lo ha detto lui?” domandò. La ragazza si limitò ad annuire.
“Merda” imprecò il riccio, alzandosi in piedi con uno scatto.
“Ashton” lo richiamò Phillis. Lui si bloccò, per poi puntare le proprie iridi verdastre in quelle azzurre della ragazza. “Perché dovrebbe essere un problema?” domandò poi.
Lui non le rispose, si limitò a lanciarle uno sguardo enigmatico prima di scrollare le spalle, per poi voltarsi e correre all’interno dell’edificio scolastico.
Phillis abbassò la testa e chiuse gli occhi, esausta.
Non sarebbe mai riuscita a capire quei ragazzi.



Hei there!
E anche con EFP che dà problemi, sono riuscita ad aggiornare in tempo!
Davvero, per una volta sono fiera di me stessa, non capita spesso. ahahah Se devo essere sincera, non so bene cosa dire su questo capitolo... se non che l'ho scritto un po' di tempo fa ma l'ho modificato in questi giorni, che io non sto passando molto bene e quindi il capitolo è, come me, a tratti triste, a tratti un po' caotico.
Spero comunque che vi possa piacere! (: e spero di rivedere anche qui chi allo scorso capitolo s'è scomodato tanto per darmi il proprio parere sulla mia storia.
Ringrazio sel_direction, Noemi1496, McPaola, Eavan, Straightandfast, xhimmelx, Tommo_Nello, cliffordsjuliet, aliconsumate, willbefearless, S_V_A_G, Letizia25 e _D r e a m e r.
Giuro, neanche immaginate quanto mi renda felice leggere ciò che scrivete!
Bene, anche per oggi è tutto (?) ahahah scusatemi, ci rivediamo la settimana prossima!
Baci, Ida. x


Ah, ps: ho creato un account facebook ed uno di twitter, vi lascio i link! (:
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Capitolo 7
*** Breakaway ***


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Breakaway.



 
Indifferenza.
Era questo ciò che, guardandosi in giro, Luke vedeva. Solo completa, beata indifferenza che gli bruciava gli occhi, gli riempiva la testa e cancellava ogni colore. Lui non sapeva come fare, per essere totalmente indifferente. Poteva sembrarlo, ma il più delle volte non gli riusciva neanche tanto bene, che lui le emozioni ce le aveva, non era mica un automa.
Lui poteva ancora dire di provare qualcosa.
Vedeva le persone scorrergli attorno, portare avanti le proprie vite con gesti meccanici, di routine, senza mai scocciarsi. Senza mai pensare che, magari, qualcosa per migliorare la situazione c’era e doveva essere fatto. Si accontentavano tutti di un tenore di vita mediocre, nella media, e così lasciavano che scorressero gli anni.
Luke si chiedeva come si sarebbero sentiti nel momento in cui, guardandosi alle spalle, avrebbero capito di aver sprecato anni interi a non fare nulla, a rimanere nell’ordinario. Lui, dal canto suo, non aveva molta scelta.
Era stato costretto in una vita che non sentiva come sua, a prendere scelte che non avrebbe mai voluto prendere, compiendo azioni che non avrebbe mai voluto compiere. Aveva scoperto cosa fosse la rabbia, lui. La utilizzava come strumento di protezione, ci si nascondeva dietro, la usava contro le persone come fosse stata un’arma.
Non si fidava di nessuno, teneva tutti lontani così.
Le persone erano troppo cieche per rendersi conto del fatto che Luke aveva solo paura, e lui dal canto suo si convinceva che non era un problema. Non aveva bisogno degli altri, fintanto che c’erano Calum, Ashton e – nonostante tutto – Michael.
Eppure, qualcuno che si ribellava all’indifferenza come lui c’era.
Lo aveva capito quella mattina, quando uscendo di corsa da scuola aveva urtato Phillis Turner per errore. Lei non gli aveva risposto male come suo solito, non gli aveva ricambiato il favore con una spinta che comunque non lo avrebbe smosso.
Anzi, non si era neanche mossa di lì, ferma sul terzo gradino della scuola, intenta ad osservare avanti a sé come se avesse visto un miraggio.
Incurante della gente che le camminava intorno, degli sguardi perplessi degli studenti, intenti a sospirare per la ritrovata libertà, dopo sei ore di strazio.
Luke si era fermato poco lontano da lei, la aveva osservata.
Aveva seguito il suo sguardo e – quando aveva intercettato l’oggetto del suo sgomento – aveva sentito il sangue gelarsi nelle vene.
Perché Andrew Turner era lì, in piedi, con quell’aria un po’ indolente che sempre l’aveva caratterizzato; i capelli brizzolati erano ricci e scompigliati sulla fronte, il naso aveva lo stesso taglio di quello della figlia, così come il suo essere così alto, caratteristica che Phillis aveva ereditato.
Quell’uomo, all’apparenza tanto comune, gli aveva insegnato cosa significasse avere paura. E non una paura futile, come quella di un bimbo che non sa nuotare quando si trova davanti alla grandezza del mare; una paura sottile, graffiante, quasi palpabile, come quella di un uomo davanti ad un coltello che minaccia la sua vita. A causa sua aveva scoperto come ci si sentiva, ad avere paura non per sé stessi, quanto per la vita delle persone a cui vuoi bene.
Anche se questo era prima. Prima che Luke diventasse quello che era, prima che perdesse la fiducia, prima che le persone a cui credeva importasse qualcosa di lui svanissero nel nulla, come figure di fumo.
Prima che quell’affetto per il quale tanto aveva temuto, marcisse dentro di lui, facendo nascere la rabbia, l’odio.
In quel momento, però, il problema era un altro. Nonostante la paura Luke non riusciva a distogliere lo sguardo dalla figura di Phillis. Se ne stava lì immobile e, diamine, quanto avrebbe voluto che facesse qualcosa. Qualsiasi cosa. Che si arrabbiasse, magari. Ma anche che sorridesse e corresse ad abbracciare quell’uomo che lui odiava, non gli importava. Gli sarebbe andato bene.
Reagisci, cazzo!” avrebbe voluto gridarle, e poi scuoterla, farla risvegliare da quello stato di trance in cui sembrava essere caduta. E invece no, se ne stava seduto lì con Michael vicino che cercava di captare ogni suo minimo pensiero, e la osservava stare ferma e non reagire.
Lui l’aveva capito, ormai, che la paura era il punto debole della Turner. Così come la rabbia era il motore che riusciva a farla reagire, che la svegliava. Gli piaceva osservarla quando si arrabbiava, mentre gonfiava le guance infastidita e poi dava aria alla bocca rispondendo con frasi dure, magari. Era comunque qualcosa.
Poi, dopo minuti interi passati in silenzio, la ragazza scattò di lato e corse fuori dall’uscita posteriore della scuola, allontanandosi da lui, ma anche da suo padre.
“Merda” esalò Michael, quando vide l’uomo darsi da fare per seguirla. “Secondo te perché è tornato?”
“Di sicuro non per una visita di piacere” gli rispose Luke, che con lo sguardo seguiva ancora la figura di Andrew Turner.
“E la ragazza? Che cazzo le viene, di scappare così?”
Luke si strinse nelle spalle. “Ed io cosa ne so? Non è che me ne freghi chissà quanto”.
Michael riconobbe la bugia, ma non disse niente. Annuì, scrollando le spalle.
“Andiamo al Buco? Ashton e Calum sono già lì” propose svogliatamente.
Luke non rispose, si limitò ad aggiustarsi lo zaino su una spalla e superare l’amico, camminando verso il cancello principale della scuola.
 
 

Phillis non capiva quello sentiva.
Non riusciva a mettere in ordine le emozioni, non riusciva a districarsi, a trovare una via d’uscita in quel labirinto di sensazioni contorte ed ingarbugliate.
C’era stata la sorpresa, una punta di felicità, la speranza che il padre fosse tornato per restare. Poi il pensiero di tutti quei mesi passati da sola, con una madre che riempiva il vuoto dovuto alla mancanza del marito con una persona diversa ogni sera, si fece sentire.
Così era arrivata la rabbia. La rabbia, la tristezza, il dolore, la delusione. E infine la paura.
La paura di sentire di nuovo quel vuoto, quella solitudine che aveva provato quando suo padre se ne era andato di nuovo, alcuni mesi prima. Tutto quello che chiedeva era qualcuno che restasse nella sua vita. Le sembrava di vivere in una stazione, con persone che vanno e che vengono ma senza mai fermarsi più del dovuto. E poi c’era lei, ferma ed in piedi in quella stazione, senza la possibilità né la forza di andare via.
Era l’unica che rimaneva, lei. Ma a volte quella situazione le stava stretta.
Scappare le era sembrata l’unica via di uscita ma, in quel momento, non ne era più tanto sicura.
Si fermò solo quando i polmoni cominciarono a bruciarle, guardandosi intorno. Era una delle strade principali di Sydney, quella. Neanche troppo lontana da casa sua. Eppure “casa” in quel momento era l’ultimo posto dove sentiva di volersi rifugiare.
Si calcò il cappuccio grigio della felpa in testa, poi cominciò a camminare, stavolta con un passo più tranquillo. Il cielo sopra di lei era plumbeo, il vento sferzava. Le sembrava impossibile, ma anche la giornata si adattava al suo umore.
Prese a girovagare senza una meta fino al momento in cui non sentì dei passi alle sue spalle, che si interruppero quando anche lei si fermò. Diede un’occhiata veloce dietro di sé, senza voltarsi davvero.
C’era solo una persona, un uomo avvolto in un distinto impermeabile scuro, con un paio di Ray-Ban neri che coprivano i suoi occhi, ed un cappello grigio calcato in testa. Guardava le vetrine di un ristorante con un apparente e vivido interesse, senza degnarla di troppe attenzioni. Ma, appena riprese a camminare, Phillis ne fu sicura: quell’uomo seguiva lei. Perché anche i passi alle sue spalle ripresero con nonchalance, scandendo un’andatura tranquilla, sicura.
Si guardò intorno considerando l’idea di entrare in qualche negozio, ma pensò che sarebbe stato l’equivalente di chiudersi in trappola, quindi continuò a camminare e fare finta di nulla. Prese il cellulare e cominciò a scorrere i messaggi inviati, per avere qualcosa da fare, fin quando lo schermo non si illuminò, mostrandole che un nuovo messaggio effettivamente c’era.
 
23/09/2014 14:45
Gira a destra dopo il parcheggio.
 
 
Il mittente era un numero non salvato in rubrica, che comunque non le diceva nulla.
Eppure nel leggere quella frase riuscì a sentire una sola voce nella propria mente, che scandiva le parole soffermandosi troppo a lungo sulle vocali, a causa di un difetto di pronuncia.
 
 
23/09/2014 14:47
Hemmings?
 
 
 
Rispose frettolosamente, mordicchiandosi le labbra nell’attesa di una risposta.
 
 
 
23/09/2014 14:48
Già. Fai come ti ho detto e non ti girare. Per nessuna ragione al mondo, d’accordo?
 
 
 
Phillis lesse velocemente quel messaggio e ne rimase confusa. Cosa voleva dire, “non ti girare”? Luke sapeva chi era che la stava seguendo? Cosa diamine c’entrava lui con tutto quello?
Mentre rifletteva però, i passi dell’uomo alle sue spalle si sentirono nuovamente, più chiari di prima. Si era avvicinato. Un’altra occhiata furtiva rivelò alla ragazza un bagliore, proveniente dalla cintura dello sconosciuto che era visibile, ora che si era sfilato l’impermeabile. La paura che prima le solleticava lo stomaco ruggì dentro di lei, imponente, chiedendole di farsi sentire. Avrebbe voluto urlare, le gambe le tremavano, sentiva i polmoni cominciare a bruciarle.
Non ora” si ammonì da sola, quasi implorante. “Non qui”.
Non ci pensò due volte, non appena ebbe superato il parcheggio, a svoltare a destra.
Prima che potesse fare qualsiasi cosa una mano la afferrò, trascinandola via dalla strada principale, mentre un’altra andò a coprirle la bocca.
“Non urlare, sono io” sussurrò una voce familiare. Phillis sentì la paura scemare, per la prima volta in presenza di Luke, mentre alcune lacrime già cominciavano a formarsi dietro agli occhi, chiedendo di uscire e dare libero sfogo a tutto il suo nervosismo. Per una volta si concesse di mostrarsi debole e scoppiò in un singhiozzo, che subito però fu attutito dalla mano del ragazzo.
“Shh” la ammonì lui, appiattendosi contro il muro. Sentirono i passi dello sconosciuto fermarsi poco prima del vicolo in cui si erano nascosti, per poi procedere un po’ più insicuri e superarlo, fino a scomparire del tutto.
“Luke…” sussurrò la ragazza. Non sapeva perché, ma pronunciare quel nome le diede sicurezza. Si permise di lasciar scappare un altro singhiozzo, e subito dopo si ritrovò con il viso premuto sul petto del ragazzo, mentre le sue braccia la tenevano stretta contro di sé.
Fu un abbraccio breve, ma sentito da entrambe le parti.
Da parte di Luke, che se doveva scegliere tra dolore e indifferenza, proprio non sapeva quale scelta fare.
Da parte di Phillis, che si chiese che senso avesse avuto provare paura di un ragazzo per tanti anni, quando le cose da temere erano altre.
 



Hei people,
eccomi qui. Sono in ritardo di un giorno, e non posso fare altro che scusarmi. Purtroppo per me sono stati giorni davvero brutti, e questo si ripercuote sul capitolo. E' intriso di una minima parte di ciò che sto provando, quindi ci tengo particolarmente, anche se probabilmente non piacerà molto.
Si inizia ad entrare nel vivo dei capitoli, però, e vediamo anche per la prima volta il padre di Phillis in carne ed ossa, anche se è solo una comparsa - per il momento.
In futuro... chissà.
Passo con i ringraziamenti a chi ha recensito, ovvero Straightandfast, Noemi1946, McPaola, xhimmelx, Letizia25, _D r e a m e r, Eavan, aliconsumate, willbefearless, S_V_A_G, Tommo_Nello. Grazie infinite per il continuo supporto che mi date! Risponderò a tutti entro stasera, giuro. Ringrazio anche chi legge silenziosamente, chi ricorda/preferisce/segue "Pieces", mi rende davvero felice vedere quei numeretti aumentare ogni volta un po' di più.
Vi prometto che la settimana prossima ci vedremo giovedì, sarò puntuale.
Alla prossima!
Ida. x



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Capitolo 8
*** Not fine at all. ***


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Not fine at all.

Il nostro umore è come una scala cromatica.
Ad emozioni positive, come la felicità, la gioia, l’allegria, assegniamo colori forti, vivaci: rosso, giallo, verde, azzurro.
Per le sensazioni negative, invece, ci viene naturale pensare a colori cupi e smorti: nero per il dolore, per la tristezza, grigio per l’apatia.
Se Phillis avesse dovuto dare un colore al suo umore in quel momento, avrebbe detto di essere una via di mezzo, in bilico tra un colore acceso ed uno scuro. Perché aveva sempre quella strana sensazione addosso, la sensazione di chi sa che qualcosa sta per andare storto, ma comunque non sa cosa, quindi cerca di far finta di nulla e di ingoiare il nodo che stringe la gola, che non fa respirare bene.
Si era ritrovata quasi per caso con la mano unita a quella di Luke, che la sfiorava delicatamente, quasi pensasse che si sarebbe potuta rompere sotto una presa un po’ più forte. Camminavano e non dicevano niente, loro, che di parole ce ne erano state e anche troppe, ma a cosa servivano in quel momento, se a loro andava bene stare così? In silenzio, con tanti punti interrogativi, tante domande sospese tra loro per le quali ci sarebbe stato un momento. Ma non era quello. Ora, quello era il momento di fare finta che i problemi non esistessero.
Dopo alcuni minuti passati in silenzio, Luke fece una cosa che sorprese totalmente Phillis. Sciolse la presa dalla sua mano e le passò un braccio attorno alle spalle, avvicinandola quasi impercettibilmente a sé. Ghignò nel sentire la ragazza irrigidirsi.
"Hai paura?" le chiese, sempre con quel tono provocatorio capace di far perdere la pazienza a chiunque.
Phillis prese un respiro e “No” rispose. “O almeno, non di te” ammise quella piccola verità con una tale decisione che anche Luke ne fu sorpreso.
Abbassò il viso verso quello di Phillis, che anche se era alta non lo avrebbe mai raggiunto, e rimasero per un po’ così, a scrutarsi. Si guardavano dentro, quei due, ormai era un fatto personale: non avrebbero abbassato lo sguardo. Phillis pensò che avrebbe potuto andare avanti così per anni, con le iridi incastrate in quelle di Luke, e ad ogni sguardo ci avrebbe scovato qualcosa di diverso: dalla paura, alla rabbia, all’odio, la strafottenza, e in minima parte l’apatia, quell’apatia che – inconsciamente – entrambi temevano.
Poi, quando proprio lei cominciò a chiedersi se mai si sarebbe interrotto, quel contatto tra i loro occhi, Luke abbassò lo sguardo ridendo tra sé.
“Che hai da ridere?” sbuffò Phillis. Di solito era piuttosto brava a capire le persone; con Luke però questo suo talento non era mai servito a nulla, e la cosa la innervosiva non poco.
“Niente”. Si strinse nelle spalle Luke, con un sorrisetto angelico che sembrava essere una sfida aperta.
La ragazza ruotò gli occhi al cielo, innervosita ma decisa a lasciar cadere la questione, ché altrimenti si sarebbe potuto anche far notte.
Fu in quel momento che, però “Sei strana. E sei bellissima” sussurrò lui, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
La ragazza sbottò in una risata sarcastica e “E tu sei matto” rispose divertita.
“Io sarò anche matto, ma tu resti strana. E bellissima” decretò lui perentorio, ponendo fine al discorso. Phillis scosse la testa ma non disse nulla, troppo impegnata a cercare di dare un senso alla confusione che aveva in mente. I pensieri si accavallavano tra di loro, insieme a scene degli anni passati, mescolate con altre di quegli ultimi giorni.
Perché lei e Luke non erano mai stati niente, neanche conoscenti, figuriamoci amici. Lei aveva sempre avuto paura, legata ad un ricordo che invece avrebbe fatto bene a lasciare andare, e lui si era lasciato accecare dai pregiudizi, guardando disgustato quella ragazza che, nella forma del viso e nel portamento, portava il marchio della persona che lo aveva reso il mostro che era. Quindi lei non avrebbe dovuto sentirsi così, nello stare vicino a Luke; non avrebbe dovuto neanche esserci, quella vicinanza, non aveva senso visto che fino a quel momento le loro interazioni si erano limitate a frasi provocatorie, litigi e discorsi che alla fine erano solo riusciti a creare ancora più confusione in lei.
Eppure, in quel momento e con il braccio di Luke ancora intorno alle spalle ad infonderle calore, pensò che proprio tanto poi non le dispiaceva. Che c’erano mille motivi per allontanarsi, ma lei ne avrebbe potuti trovare mille e uno per non muoversi di un millimetro.
“Sediamoci qui” asserì Luke dopo un po’, fermandosi.
Phillis si risvegliò dai propri pensieri e si guardò intorno. Erano al porto, riconosceva quella zona perché da bambina amava andarci con suo padre. A distanza di anni, ci tornava sempre quando aveva bisogno di fare chiarezza. Le sembrava quasi ironico il fatto che Luke avesse deciso di portarla proprio lì, in quel momento.
Lui fece come aveva detto, sedendosi a gambe incrociate sul cemento duro della banchina, e tirando accanto a sé anche lei.
Il posto era pressoché vuoto, a quell’ora. C’erano solo loro ed un’altra coppia di ragazzi, troppo impegnati a dichiararsi amore eterno per accorgersi della loro presenza scomoda. Lei aveva una massa di capelli ricci e informi, rosso fuoco; lui non si scorgeva bene, ma quando si scostò, pochi attimi dopo, Phillis poté vedere il suo viso. Spalancò gli occhi incredula, mentre riconosceva quel sorriso allegro, quegli occhi verdi incastonati in un viso perennemente abbronzato. Sentì chiaramente qualcosa che le si spezzava dentro, che scivolava via con un rumore sordo, lasciando vuoto uno spazio preciso. Lo spazio che fino a quel momento aveva occupato quel nome. Austin.
Non si rese conto di star piangendo fin quando non sentì il sapore salato delle lacrime sulle labbra screpolate, che sembravano fuoco, per come bruciavano.
“Luke, scusa, devo andare” scattò su la ragazza. Ignorò bellamente lo sguardo interrogativo del biondo, si rifiutò di incontrare ancora una volta i suoi occhi tempestosi. Semplicemente, si allontanò da quel posto correndo, sentendo di aver lasciato sé stessa in quel porto illuminato dal sole.


Continuò a camminare a testa bassa, e le lacrime non cercava più di frenarle. E chi se ne frega se lei odiava piangere perché la faceva sentire debole, in quel momento era l’unica cosa che le riusciva di fare, perché si sentiva male, ma male davvero. Pensò ai mesi interi passati ad aspettare, aspettare e sperare, che tanto Austin sarebbe tornato. Non l’aveva lasciata, lui, e mai lo avrebbe fatto: questo diceva. Sarebbe tornato presto, il tempo di mettere da parte i soldi per un biglietto. Un anno, massimo due, e si sarebbero rivisti. E lei pensava che sì, un anno è molto, troppo tempo, ma per Austin ce l’avrebbe fatta. Non voleva altro, le bastava sapere che nonostante tutto lui l’amava.
Erano stati insieme per quattro anni. Quattro fottutissimi anni, in cui le sue erano state le uniche labbra che l’avevano baciata, in cui i suoi sorrisi le avevano fatto capire cosa significava sentire le “farfalle nello stomaco”, in cui lei aveva creduto di avere il mondo in mano. Poteva fare tutto, se Austin era lì con lei.
E lui c’era stato. Per quattro anni c’era stato davvero, e avevano festeggiato mesiversari e eventi importanti insieme, per quattro anni erano stati una cosa sola. Poi c’era stato il trasferimento. Il padre di Austin aveva deciso di cambiare casa dopo la morte della moglie, e così erano andati via. A Los Angeles, lontano da Sydney. Lontano da lei. Avevano continuato a sentirsi per mesi, nonostante fosse difficile a causa del fuso orario: videochiamate, telefonate, sms. Qualsiasi cosa pur di restare in contatto.
Poi le videochiamate erano diminuite, così come le telefonate e gli sms, fino al momento in cui erano scomparse del tutto, e Phillis si era sentita sprofondare. Ma si era ripetuta che andava bene così, che con lo studio e la squadra di basket da portare avanti era ovvio che non riuscissero più a sentirsi come prima. Ma lei lo amava e avrebbe continuato a farlo, nonostante tutto.
Per questo, forse, adesso faceva così male. Perché aveva modellato la propria vita accanto alla sua, per quattro anni in cui ogni singolo attimo l’avevano vissuto insieme: e adesso si sentiva come se le fosse stata strappata brutalmente una parte di sé, bruciava, faceva male, e il vuoto che aveva lasciato era fin troppo presente. Quel vuoto urlava la sua mancanza. E l’eco di quell’urlo risuonava dentro di lei, dentro il suo cuore mutilato, costretto a separarsi, spezzandosi. Ma sarebbe andato bene anche così? Sarebbe bastato, un cuore a metà?
E intanto lei continuava a camminare, macinava metri su metri, incapace di fermarsi. Le persone probabilmente si sarebbero chieste cosa avesse da correre, quella ragazzina con l’aria da disperata, ma non gliene fregava.
Non le importava più di niente, adesso che era a pezzi, adesso che non mostrarsi debole era impossibile. E quel nome continuava ad occuparle la mente, “Austin”, quelle sei fottute lettere che sembravano graffiarla.
Si fermò dopo mezz’ora che camminava, su una panchina scrostata di un parco anonimo che probabilmente non aveva mai visitato. Si rannicchiò portando le gambe al petto per poi cingerle con le braccia, appoggiando il mento sulle ginocchia. E Austin era lì con lei, e i ricordi che con rammarico non avrebbe potuto lasciare andare si scomponevano dietro i suoi occhi chiusi, gabbia di tante lacrime che non riusciva più a fermare. Loro continuavano la loro corsa spietata sulle sue guance, imperterrite, andando a morire sulla stoffa scambiata del jeans, leggermente usurata sulle ginocchia.
Passò ore intere così, ferma su quella panchina.
Non avrebbe dovuto stare da sola, pensò.
Dopo l’episodio di poche ore prima, avrebbe dovuto avere paura.
E invece stare sola era proprio quello che voleva. Qualsiasi cosa le fosse successa in quel momento, l’avrebbe accettata passivamente, senza la forza di ribellarsi.
Le chiamate sul suo cellulare si susseguirono imperterrite; smettevano per qualche secondo al massimo, poi ricominciavano. Prese seriamente in considerazione l’idea di spegnere quell’aggeggio infernale, e l’avrebbe fatto, se la lista di chiamate perse non avesse attirato la sua attenzione in maniera così vistosa.
22 chiamate perse, di cui nove di sua madre, sette di suo padre, sei di Lucy.
Prese in considerazione solo queste ultime, e decise di cliccare “chiama”.
Quattro squilli, come al solito, poi la voce preoccupata dell’amica le perforò un timpano.
Maldicìon, Phillis, spero che tu abbia una scusa abbastanza convincente per cui non hai risposto alle mie chiamate, perché davvero, dire che sono arrabbiata è….”
“Lucy”. La voce di Phillis, ridotta ormai ad un sussurro, riuscì a fermare il fiume di parole della spagnola.
“Phillis, cos’hai?”
La bionda riuscì quasi a sorridere. Dopo tanti anni ancora non riusciva a capacitarsi di come Lucy riuscisse ad essere così empatica e volubile. Era passata dalla rabbia omicida alla preoccupazione in pochi attimi, nel percepire il dolore nascosto nella voce vibrante dell’amica, anche attraverso una sola parola.
“Austin” le rispose. E non servì altro perché Lucy capisse. Sospirò sonoramente, dispiaciuta.
“Cosa ha combinato stavolta?”. Stavolta. Era quello il punto: lei e Austin avevano litigato spesso per sciocchezze, litigi che però si erano risolti in ventiquattro ore massimo, per poi vederli tornare più uniti di prima. Il problema era che stavolta non era così semplice: stavolta non sarebbe tornato tutto come prima.
“Lui… è tornato. È tornato, e non ne sapevo niente. Avrei continuato a credere che fosse a Los Angeles, se non lo avessi incontrato oggi al porto… e non era solo”.
Bastò poco a Lucy per capire il vero significato di quell’ultima precisazione, e ancor più in fretta arrivò la sua imprecazione in spagnolo, come al solito quando era arrabbiata.
Hijo de puta! Phil, ascolta. Probabilmente io non posso capire come ti senti, ma una cosa la so: non devi stare da sola, non adesso. Adesso l’unica cosa di cui hai bisogno è distrarti… okay?”. Phillis annuì, anche se era consapevole che l’amica non l’avrebbe vista.
“Dove sei?”.
La ragazza si guardò intorno. Non lo sapeva, dove l’avevano portata i suoi passi. Era in un parco, che dava su dei campetti da calcio tenuti decisamente male.
“In un parco, credo sia abbastanza lontano da casa mia. È vicino a dei campetti da calcio rovinati”.
“Conosco la zona. Poi mi spiegherai come ci sei arrivata, dieci minuti e sono lì”.
La chiamata si interruppe così, e Phillis stavolta lo spense davvero, il cellulare. Non voleva che le persone la cercassero, non voleva vedere il nome di sua madre – o peggio, di suo padre – lampeggiare su quello schermo, perché sapeva che non sarebbe riuscita ad ignorarli. Ed ora, l’ultima cosa di cui aveva bisogno era di sentirsi urlare contro.
Con un sospiro, abbandonò la testa contro la panchina, il viso rivolto verso il cielo. Aveva cominciato a piovere, poche gocce leggere che però si infilavano ovunque facendoti rabbrividire fin dentro le ossa.
Phillis se le lasciò scorrere sul viso, con il desiderio che quelle gocce fini riuscissero a cancellare almeno un po’ quello che aveva dentro, lavando via – insieme al suo dolore – anche i ricordi dai quali non sarebbe mai potuta scappare, perché lei non stava bene per niente.




Hello people.
Ciao e scusatemi. Non lo so neanche io dove l'ho trovata, la forza di postare un capitolo così. Così deprimente, magari. Ma "così" è sufficiente a descriverlo. E' anche abbastanza lungo, spero non sia un problema. Scusatemi ma ho voluto incentrarlo soprattutto su Phillis, ne avevo bisogno, ché lei sono io e ciò che ho scritto l'ho vissuto in prima persona. Motivo per cui a questo capitolo ci tengo anche più del solito. Ho deciso di concluderlo - come avrete notato - con le parole di "Amnesia", perché non riuscivo a vedere conclusione migliore.
La smetto, ringrazio come sempre chi ha recensito: McPaola, xhimmelx, straightandfast, aliconsumate, S_V_A_G, ohwowlovely, _D r e a m e r, Letizia25, willbefearless. Ormai non so neanche più come ringraziarvi, giuro. Stasera risponderò a tutte! Ringrazio ancora chi segue, ricorda o preferisce questa storia, supportandomi silenziosamente.
Ora vado, però anche voi lettori silenziosi, fatevi sentire ogni tanto! :) Giuro che non mangio ahahah
Ci vediamo la settimana prossima, bye. x

 
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Capitolo 9
*** Should've been here. ***


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Should've been here.

Quella sera, Phillis tornò a casa accompagnata dalle chiacchiere insensate di Lucy, che cercava in tutti i modi di distrarla.
Parlava, l’amica, perché solo questo le veniva in mente di fare; cercava di coprire con le proprie parole tranquillizzanti il caos di pensieri che si annidava nella mente di Phillis, senza lasciarle scampo.
Ma, prima o poi, alle proprie paure bisogna far fronte.
E per Phillis questo momento arrivò  quando non appena entrò in casa fu colpita da uno schiaffo talmente forte da girarle il viso, da farle mancare il respiro per qualche momento.
“Potrei dirti di tutto, arrabbiata come sono, ma mi trattengo. Uno schiaffo solo è molto meno di quello che meriti, ma io le mani con te non me le sporco. L’ho sempre saputo che saresti stata una delusione”
Una delusione. Chissà perché, quelle parole non la sorprendevano più di tanto. Lo aveva capito anni addietro che qualsiasi cosa avrebbe fatto  non sarebbe mai stata capace di andare bene, di sentirsi giusta. All’altezza delle aspettative. Si strinse nelle spalle, guardò negli occhi sua madre, quella madre che mai come allora le era sembrata così diversa da lei.
“Austin è tornato” pronunciò poi lapidaria, prima di allontanarsi senza aspettare ulteriormente lasciando sua madre lì, da sola in quell’ingresso, con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto.
Si passò le mani sul viso stancamente, dirigendosi verso il salotto.
“Phillis. Possiamo parlare un attimo?”.
Suo padre. Aveva quasi dimenticato che era tornato, rimuovendo anche la fuga di quella mattina da scuola, il pedinamento, Luke. Aveva rimosso tutto quello che era successo prima. Phillis si arrestò nell’atto di salire le scale, tornando sui propri passi. Suo padre era lì, seduto sul divano chiaro del soggiorno, un quotidiano aperto sulle gambe accavallate. Sembrava che quei mesi non gli fossero mai passati addosso, che lui non si fosse mai mosso di lì. Eppure quei mesi c’erano stati. Così come c’era stata la sua assenza, si era sentita, Phillis l’aveva percepita chiaramente. Certe volte ciò che ci manca è più presente di ciò che c’è, e lei lo sapeva: aveva dato per scontato la presenza di suo padre, come qualcosa di ovvio, che dovesse esserci per forza; era andata avanti così, gli aveva voluto bene, Phillis lo ricordava. Così come ricordava il momento – non molti anni addietro – in cui aveva capito che niente dura per sempre, niente resta immutato. Così il suo affetto per suo padre si era presto consumato, insieme al rispetto che provava per quell’uomo che, da cinque anni a quella parte, l’aveva abbandonata.
Si fermò, Phillis, e cercò disperatamente in sé il coraggio di guardare negli occhi quell’uomo; lo fece, ed il suo cuore subì un’altra pugnalata, l’ennesima. Si chiese distrattamente a quanti colpi avrebbe potuto resistere il suo organo vitale, prima di fermare la propria corsa. A quanto pareva, fin troppi.
“Perché sei scappata, stamattina?”
“Non sono scappata. Ho preso una via secondaria”.
Suo padre abbassò gli occhi sulle proprie scarpe, rise con sarcasmo. “Certo che non sei scappata. Ti sei solo allontanata a passo veloce, giusto? Ma la domanda resta quella”.
La ragazza scrollò le spalle, abbassando lo sguardo.
“Forse non mi andava di vederti. Dopo tanti mesi, forse avevo paura.”
“Di cosa?”. La domanda del padre risuonò preoccupata, quasi ansiosa, come se temesse la risposta.
Phillis sospirò e “Di guardarti negli occhi e non riconoscerti” parlò flebilmente.
Poté scorgere chiaramente la tensione annidarsi dietro gli occhi di suo padre, che sospirò pesantemente. Portò una mano a scompigliare i capelli già disordinati di loro, un gesto che – Phillis poté ricordare – era solito compiere quando era nervoso. C’erano tante cose che avevano caratterizzato suo padre, e che adesso non sapeva nemmeno se valessero più. Avrebbe voluto chiederglielo. Sapere se aveva ancora la stessa risata, allegra e un po’ singhiozzante, o se il fumo delle sigarette che non si decideva ad abbandonare l’aveva cambiata. Avrebbe voluto sapere se era ancora pistacchio e fragola, il suo frappè preferito, gli stessi gusti che amava anche lei. Avrebbe voluto chiedergli se suonava ancora la chitarra, se componeva ancora canzoni per lei, anche se era lontano, anche se lei comunque non avrebbe potuto più ascoltarle. Avrebbe voluto sapere se durante i giorni umidi gli faceva ancora male il ginocchio al quale si operò tanti anni prima.
C’erano così tante cose che avrebbe voluto chiedere a suo padre, e che probabilmente non gli avrebbe chiesto mai. Stette in silenzio, Phillis, con lo sguardo basso ed uno strano peso sul petto, ad aspettare che fosse proprio lui a rompere quel silenzio.
E, dopo alcuni attimi, suo padre lo fece per davvero.
“Tua madre non intendeva dire davvero quelle cose, sai. È solo nervosa. Ti vuole bene, tanto.”
Phillis annuì. “Certo. Certo che mi vuole bene, è mia madre”.
Pronunciò quelle parole nelle quali non credeva neanche lei, le pronunciò in maniera consapevole, convincente. Sarebbe quasi potuta sembrare sincera, agli occhi di qualcuno che non la conosceva bene. Qualcuno come suo padre.
“Già. Ovvio che lo sai, la conosci meglio di me. Sai com’è fatta. È solo preoccupata. Le passerà presto, vedrai”.
“Sì. Ora scusami, sono stanca. Vado di sopra, non aspettatemi per la cena”.
E, detto ciò, Phillis si allontanò, lasciandosi alle spalle suo padre e tutti i ricordi che portava con sé.


Solita camera dalle pareti blu notte.
Solita ragazza dai capelli chiari, solito corpo sottile, solito letto bianco.
Solite parole di una solita canzone, che però questa volta fanno male, un po’ più del solito. Perché a volte “Torn”, di Natalie Imbruglia, è semplicemente troppo.
Perché Phillis stava male, aveva pianto tanto, quel pomeriggio. Così tanto che adesso era esausta di cacciare lacrime su lacrime, così tanto che ormai non le riusciva neanche più, di piangere.
Sembrava una disperata. Se ne stava raggomitolata in posizione su quel letto da ore senza far nulla. Fissava la parete e continuava ad ascoltare a ripetizione quella canzone, alternandola solo ogni tanto con “Breakeven” degli Script.
Perché ci sono cose che non sai esprimere, a volte, sensazioni troppo forti e troppo sconvolgenti perché tu riesca a scegliere le parole da usare per descriverle. Era in momenti come quelli che Phillis schiacciava il tasto “play” sul suo cellulare, e lasciava che la musica parlasse al posto suo.
Il problema era che lei l’avrebbe perdonato, Austin.
Che le sarebbe bastato guardare quegli occhi che conosceva tanto bene e sentirlo dire che era tutto un malinteso, che lui l’amava. Le sarebbero andate bene anche le parole, questo era il problema.
Se era di Austin che si trattava, lei si sarebbe lasciata fregare ancora, una volta in più.
Era immersa nel silenzio da ore, e neanche i suoi genitori avevano pensato a disturbarla: non c’era stata sua madre che le faceva pressioni affinché non saltasse la cena, e neanche suo padre che le ricordasse che erano pochi, i momenti in cui potevano stare insieme. C’era stata solo lei e quella stanza che sembrava essersi impregnata di tutto ciò che provava. Si sentiva quasi apatica, in un certo senso, privata di ogni emozione.
Ogni singola cosa avesse provato fino a quel momento era scomparsa, l’aveva abbandonata per andare a saturare l’aria di quella stanza scura. Si era quasi abituata a quel silenzio, motivo per cui sobbalzò, quando le note di “Romeo and Juliet” risuonarono per la stanza, avvisandola di una nuova chiamata.
Phillis si portò il cellulare all’orecchio senza premurarsi di controllare chi avrebbe trovato, dall’altro capo del telefono.
“Pronto?”. La sua voce risuonava quasi rauca, dopo tante ore passate in silenzio.
“Phillis, sono Cal.”
“Cal… Calum?”
Il ragazzo, dall’altra parte, rise.
“Quanti altri Cal conosci, di preciso?”
“Sì, è molto divertente. Cosa c’è, Calum?”
“Niente. Cioè, non è proprio niente. Stasera siamo all’inaugurazione di un nuovo locale. Vuoi venire?”
Phillis si morse una guancia, sovrappensiero. Se le faceva quella domanda, probabilmente significava che Luke non gli aveva parlato di ciò che era successo quella mattina. Luke. Al solo pensiero degli occhi perplessi e un po’ delusi del ragazzo, Phillis sentì una dolorosa morsa allo stomaco.
“Non credo sia una buona idea” rispose dopo un po’.
“E dai, Phillis, che palle. Sarà divertente!”
La ragazza ci provò, a prendere in considerazione l’idea. Però lei non ce la faceva, ecco tutto. Aveva bisogno di stare da sola. Probabilmente i suoi genitori non le avrebbero permesso di uscire. A lei, però, non importava più di tanto di ciò che le era concesso o meno di fare.
“A che ora sarebbe, questa inaugurazione?”
E Calum, dall’altra parte del telefono, esultò.





23/09/2014 21:45
Sono all’inizio del viale.
Cal.



Phillis lanciò velocemente un’occhiata allo specchio, rendendosi conto di aver fatto – tutto sommato – un buon lavoro. Le occhiaie erano state nascoste da una passata di correttore, così come gli occhi rossi, che erano stati coperti da una linea di eyeliner scuro.
Aveva indossato una maglia dell’Hard Rock che le aveva portato suo padre da Budapest due anni prima. Ovviamente, non ricordandosi la taglia le aveva portato una maglia un po’ troppo larga, ma a lei piaceva. Ci si nascondeva dentro.
Si aggiustò la felpa scura, annodò i lacci delle Vans, poi lanciò un’occhiata alla finestra. Dopo aver chiuso a chiave la porta della camera, si diresse verso di essa. Era abituata ad usarla per uscire di nascosto quando veniva messa in punizione. Aveva cominciato alcuni anni prima, quando già suo padre c’era e non c’era: aspettava il momento in cui era certa che la madre si fosse addormentata, poi scendeva dal balcone, appoggiandosi con un piede sulla tubatura che percorreva la facciata della villa, con l’altro sulla portafinestra del balcone della sala degli ospiti.
Anche quella volta non fece differenza: scese con pochi agili movimenti, cercando di fare il minimo rumore possibile; poi, come suo solito, scavalcò il cancello di casa e corse letteralmente via.
Faceva freddo, il vento penetrava attraverso la felpa slacciata, aveva la pelle d’oca, ma continuò a correre finché la casa non scomparve dietro le sue spalle, mentre davanti ai suoi occhi, man mano che andava avanti, si faceva più nitida la figura di un’auto nera.
Calum era lì, appoggiato contro una portiera a guardare verso la via fino a pochi attimi prima vuota, la strada dove adesso c’era lei.
“Andiamo” sentenziò appena lo vide.
Non c’era bisogno di convenevoli, non ne aveva il tempo. Voleva solo allontanarsi il più possibile e, magari, per quella sera dimenticare tutto, anche il suo nome.
Il ragazzo la guardò male. “Ciao, eh”.
“Scusa Cal, ciao” fece lei sbrigativa. “Ora muoviamoci, ti prego” .
Calum la guardò negli occhi interrogativo, e si bloccò per pochi istanti, sufficienti a fargli capire che – decisamente – c’era qualcosa che non andava.
Perché aveva sempre visto tante cose, negli occhi di Phillis: fastidio se veniva presa in giro, divertimento davanti alle sue battute scadenti, alle quali di solito nessuno – tranne lei - rideva; felicità quando la campanella suonava, e lei si ritrovava sul muretto fuori della scuola con Lucy; ansia, quando c’era Luke nei paraggi, a volte anche paura.
Ma quel dolore sordo, quella richiesta muta che i suoi occhi esprimevano di dimenticare, di stare bene… Non avrebbe dovuto esserci. Per la prima volta, rimase incastrato nel ghiaccio che erano gli occhi della ragazza e si sentì congelato.
“Allora, andiamo?”
Calum scosse la testa e tornò con i piedi per terra. Annuì alla richiesta impaziente della ragazza, prendendo posto e mettendo in moto l’auto, per poi immettersi nel tranquillizzante traffico di una serata a Sydney.


Bonsoir.
Non so perché saluto in francese, dal momento che - tecnicamente - io sarei quella che non sopporta quella lingua, ma tralasciamo.
Sono piuttosto felice di star riuscendo ad aggiornare in tempo ultimamente, nonostante probabilmente a volte sarebbe meglio se io non lo facessi e basta. E questa, credo si sia capito, è una di quelle volte. Perché è un capitolo estremamente di passaggio, questo, e perché non accade nulla di eclatante. Perché il più delle volte mi fa innervosire postare capitoli così, solo che spesso servono come "ponti" tra un avvenimento e un altro, durante la storia, quindi credo di dovermi mettere l'anima in pace.
E' anche più scialbo del solito e, oddio, per questo mi scuso davvero tanto. >.>
Dal prossimo capitolo la storia si riprenderà, lo giuro. (':
Passo ai ringraziamenti per chi ha recensito, le 10 splendide persone a cui voglio un mondo di bene, e che ogni volta mi fanno sorridere un po' di più: Letizia25, xhimmelx, McPaola, Noemi1496, S_V_A_G, Straightandfast, Eavan, aliconsumate, ohwowlovely, willbefearless.
Vorrei avere il tempo di rispondere a tutte adesso, ma purtroppo la fisica mi chiama, ed io devo rispondere mio malgrado.
Anche per stavolta ho concluso, quindi nulla, ci rivediamo giovedì!
Ida. x


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Capitolo 10
*** Try to Forget. ***


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10. Try to Forget


Il locale era esattamente come ci si aspetta che sia un pub per ragazzi nel centro di Sydney: musica, fumo, alcol. Era così banale da sembrare quasi scontato ma, effettivamente, quello era esattamente ciò di cui Phillis aveva bisogno. Si sforzò di fare un sorriso a Calum, lasciò che l’amico le stringesse la mano, sperando che almeno quel gesto le desse la forza necessaria ad entrare e, per una sera, dimenticare.
Il moro la guidò tra i corpi sudati delle persone, che si affollavano al bar o in pista. Poche erano sedute attorno ai tavolini, sui divanetti in pelle bianca. Tra queste, c’era il gruppo che loro cercavano.
“Hey, ragazzi.” Salutò Calum tutti con un cenno, spingendo Phillis avanti a sé. Il primo a notarla fu Ashton, che sorrise a trentadue denti.
“Ma guarda chi c’è, la piccola Turner! Cosa ci fa qui una ragazzina?” la prese in giro, sapendo di irritarla. Lo avevano capito tutti, ormai, che fare leva sul suo orgoglio era il modo per “accendere” Phillis; quella sera, però, lei non rispose. I suoi occhi rimasero vacui mentre ricambiava il saluto, le labbra non si sforzarono più di tanto di piegarsi in un sorriso. La bionda fece scorrere lo sguardo sui presenti e, non appena i suoi occhi si fermarono in quelli di Luke, sentì davvero che sarebbe potuta anche morire lì e adesso, in quell’istante.
Era arrabbiato. Lo vedeva, percepiva la fredda accusa dietro lo scudo azzurro del suo sguardo impenetrabile, che però lei aveva imparato a scavalcare. Era fondamentalmente lì il problema di Luke, lì, in quegli occhi così azzurri e così freddi: era lì il suo scudo, lì la sua protezione. E una volta che superavi quel muro, che riuscivi a leggere più in profondità… nessuno avrebbe più potuto impedirti di farlo.
Fu lui stesso a distogliere lo sguardo, pochi attimi dopo, perché non ce l’avrebbe fatta a fingere anche davanti ai suoi amici, perché, per una sera, sarebbe stato solo un ragazzo normale.
Non salutò Phillis, non fece niente di simile. Si limitò a spostare l’attenzione su Michael che, dopo un cenno alla ragazza, aveva ripreso a discutere con Ashton di qualcosa che, con tutta probabilità, a Luke non interessava.
Mentre Phillis si sedeva, però, anche lui riuscì a notare il guizzo sul viso del suo amico, il nervosismo palpabile di Michael. Lo sapeva anche lui. Turner era in città, e loro stavano giocando con il fuoco.
Solo che, quella volta, il fuoco non era rosso vivo, non ti bruciava: per una volta il fuoco aveva il colore del ghiaccio, e ti congelava con una sola occhiata. Quel fuoco che portava il nome della ragazza seduta tra di loro.
“Io vado a prendermi da bere.” Annunciò Calum pochi attimi dopo. “Volete qualcosa?”
Phillis si alzò, affiancando il moro. “Vengo anche io”.
“Noi siamo apposto. Abbiamo appena ordinato” parlò Ashton per tutti, prima di tornare alla conversazione. La serata stava prendendo la piega di una purga, aveva effetto tranquillante, ma non era quello l’effetto che Phillis cercava.
Lei aveva bisogno di caos, caos che colora i pensieri, che li cancella; caos che ti occupa la mente, caos che ti slega dai tuoi obblighi, caos che prende il sopravvento su di te. Aveva bisogno di quel caos che le avrebbe permesso, per quella sera, di ballare senza un motivo, di cantare perché sì, di fare tutto e niente semplicemente in base al proprio gusto. Aveva bisogno di sentirsi viva.
“Cosa vi porto, ragazzi?” il barman, un uomo sulla trentina affascinante e brizzolato, rivolse loro l’attenzione dopo dieci minuti di attesa. I suoi occhi, però, erano fissi su Phillis in un modo che lei avrebbe giudicato inquietante, se ci avesse fatto caso.
“Per me una Tennent’s” ordinò Calum. “E per lei…”
“Un tris di vodka e red bull” completò Phillis.
Il moro le lanciò un’occhiata preoccupata. “Ma hai almeno mangiato qualcosa?”
“Anche se non fosse?” Phillis scrollò le spalle. “Più mi farà male, meglio mi sentirò” sputò fuori affranta, senza rendersi conto di star lasciando involontariamente trapelare più di quanto realmente volesse. Calum osservò la figura minuta e longilinea dell’amica, e si chiese davvero cosa potesse essere successo per spegnerla così totalmente e improvvisamente, dall’oggi al domani. Non riusciva a collegare con nulla quella situazione, se non con il ritorno di Andrew Turner.
La ragione principale dei loro problemi.
La ragione per cui Luke era così com’era.
La ragione per cui, prima o poi, anche Phillis sarebbe diventata come lui: un fiore appassito. Forse il più bello di tutto il giardino, certo, ma comunque appassito e privo di vita. Così morto che neanche la bella stagione lo avrebbe risvegliato.
Arrivò la sua birra a distoglierlo dai suoi pensieri, e nel tempo che il barman la stappò e gliela consegnò, Phillis aveva già buttato giù metà del suo drink.
“Non è abbastanza” mormorò tra sé e sé la bionda.
Calum inarcò le sopracciglia. “Che stai dicendo, Phillis?”
La ragazza spalancò gli occhi, come se si fosse ricordata improvvisamente di non essere sola, poi scosse la testa. “Niente. Niente di importante” mormorò con una scrollata di spalle, prima di finire il suo drink.
“Posso averne un altro?” urlò al barman, che per tutta risposta le fece un cenno di assenso. Phillis ridacchiò ed appoggiò il viso al palmo aperto della mano, con il gomito appoggiato contro il bancone.
“Hai in mente di andare in coma etilico, oggi?”
“Se la fai lunga, Cal! Sono solo due drink” la ragazza si difese mettendo su un ridicolo broncio. Il moro alzò gli occhi al cielo, sbuffando.
“Senti, Phil. Io detesto fare la parte di quello serio, non mi riesce nemmeno bene. Ma non capisco che cazzo hai, anche se forse un’idea ce l’ho, visto che sei arrivata e Luke neanche ti ha salutata. Solo non capisco cosa…”
“Okay, okay, alt.” Phillis si affrettò a bloccare il fiume di parole dell’amico, portando l’indice affusolato sulle sue labbra. “Respira. Anche se non sembrerebbe, Cal, io un padre già ce l’ho.” Il viso della ragazza si contorse in una smorfia, mentre pronunciava quelle parole nelle quali, nonostante tutto, non credeva neanche lei.
Arrivò anche il suo secondo drink, e anche quello, come il primo, sparì in un baleno.
“Sai che ti dico? Fai come vuoi. Io non ci resto qui a guardarti mentre compi una cazzata del genere” e, detto ciò, sbatté la bottiglia di birra sul bancone e senza un’altra parola si allontanò. Phillis sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Avrebbe voluto che Calum capisse ma, ovviamente, lui non poteva capire.
E lei di sicuro non avrebbe saputo spiegare.
Come si spiegava ad una persona nata cieca il calore del sole, o l’azzurro del mare?
Come si spiegava ad un sordo la bellezza della musica, o il suono di una risata?
Come si spiegava il sentirsi a pezzi, a chi un cuore ce lo aveva ancora integro, saldo nel petto?
Lei non lo sapeva. Non avrebbe mai saputo dare voce a quei sentimenti perché, semplicemente, le parole non sarebbero bastate. E poteva spiegare la felicità, poteva spiegare la gioia, la tristezza: ma il caos che sentiva in testa, e il vuoto che sentiva nel petto, quelli non avrebbe saputo spiegarli mai.
I drink si susseguivano uno dopo l’altro e, finalmente, era riuscita ad ottenere l’effetto desiderato: disconnettere i pensieri, staccare la spina, lasciare la presa sulla realtà. Sarebbe andata avanti in quel modo, se un paio di braccia magre ma forti non l’avessero trascinata via di lì, caricandola in spalla di peso.
“Luke? Luke, mollami!” urlò la bionda infastidita, la voce resa più acuta a causa dell’alcol. Il ragazzo non diede segno di averla sentita: continuò a camminare spedito verso l’uscita posteriore del locale, fin quando non si trovarono in un vicolo illuminato male, totalmente spoglio a parte qualche cassonetto, e completamente vuoto.
“Mettimi giù!” ripeté Phillis, stavolta più debolmente, continuando però a scalciare e dimenarsi. E fu in quel momento che Luke sembrò decidere di darle ascolto, perché si arrestò di colpo e la adagiò sui gradini un po’ sudici e sicuramente freddi davanti all’entrata posteriore del locale.
Non appena Phillis cercò di mettersi in piedi, tentando maldestramente di allontanarsi, il ragazzo la congelò con un’occhiata, bloccandola lì al suo posto.
“Mi spieghi che cazzo ti è preso?” sbottò duramente, senza guardarla in faccia. Forse, semplicemente, non ce l’avrebbe fatta a guardare i suoi occhi chiari e vederli privi del solito spirito guerrigliero.
Forse aveva paura di quel vuoto che si stava impossessando di Phillis. Forse, ma tanto lui non l’avrebbe ammesso mai.
“Che cazzo mi è preso quando?” ribatté la ragazza accavallando tra loro le parole, trascinandole come solo un ubriaco può fare.
Luke sospirò, passandosi una mano sul viso pallido. “Oggi…”
Phillis scoppiò a ridere e “Austin è tornato, sai, Luke?” e rise di nuovo. Non notò la mascella del biondo irrigidirsi, non notò i suoi pugni stringersi.
“Chi è Austin?”
“Austin è… il mio ragazzo? Non lo so, dimmelo tu Luke. Si era trasferito in America con suo padre… e poi oggi l’ho rivisto! Ma non è tornato da me, no. “ Phillis fece una pausa, continuando a ridere. “Era con una ragazza… era bella, sai? Con i capelli rossi. E tu sai cosa si dice delle rosse, vero? Cioè, io lo capisco comunque, eh. Tanti anni a costruire un rapporto… ma va bene, va bene. Chi preferirebbe una come me ad una rossa come quella?” e, all’improvviso, le sue risate si trasformarono in singhiozzi. Le lacrime ripresero a scendere sul viso della ragazza, mentre le sue spalle venivano scosse dai singhiozzi. Luke le si sedette vicino e, un po’ incerto, circondò le spalle minute della ragazza con un braccio.
“Phillis. Ascoltami.” Le parlò con un tono tranquillo, come si fa con i bambini molto piccoli. Cercò di non far trasparire tutta la sua frustrazione, il risentimento, e neanche quell’altra cosa, un sentimento che neanche lui aveva ancora definito del tutto. “Non so chi sia Austin, e non so cosa sia successo. Ma tu… sei bellissima. Dovresti vederti quando ti arrabbi e ti fai tutta rossa, e stringi le labbra. O quando ridi e arricci il naso, e ti si forma una fossetta all’angolo destro delle labbra. O anche adesso, mentre piangi. Sei sempre così bella…”
Probabilmente Luke avrebbe continuato il discorso, se non fosse stato per Phillis che, in quel momento, bloccò il suo flusso di parole con le proprie labbra. Successe tutto in un attimo, così velocemente che Luke neanche se ne accorse. Così velocemente che neanche Phillis riuscì a collegare ciò che stava facendo. Tenne il viso del biondo fermo tra le mani, mentre le loro labbra continuavano a muoversi insieme e le loro lingue continuavano a cercarsi, a scoprirsi, ad urlare in un grido senza parole quel sentimento che entrambi si rifiutavano di accettare.


**

... Sì, sono davvero io.
Dopo tanto tempo ho ripreso a scrivere Pieces, chissà perché, poi? Avevo bisogno dello stato d'animo giusto, dico io. "Pieces" è una storia che segue moltissimo il mio stato d'animo, e negli ultimi tempi davvero non riuscivo a scrivere, mi veniva un groppo in gola se pensavo a questa fanfiction, e a ciò che mi aveva dettato i suoi capitoli, alle emozioni che me l'avevano ispirata, per così dire. Però adesso ci sono. Ci sono di nuovo e, prometto solennemente, non voglio abbandonarla.
Spero solo voi possiate scusarmi.çç
Grazie a chi c'è sempre stato, a chi si è interessato, a chi non mi ha ancora abbandonata ma anche a chi l'ha fatto. Grazie a chiunque abbia mai incontrato - anche solo casualmente - Pieces.
Alla prossima, Ida.x

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Capitolo 11
*** In love with the wrong person. ***


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11. In love with the wrong person


Sentiva la testa come annebbiata.
E forse era merito dell’alcool, forse del bacio, ma Phillis quella sera riuscì nel suo intento. Si allontanò dal viso del biondo con un sorriso, cercando di ignorare la testa che già un po’ pulsava.
“Sai, Luke…” biascicò. “Fa ridere questa situazione.”
Il biondo inarcò le sopracciglia, ma non smise di sorridere, come lei. “E perché?”
Phillis scrollò le spalle. “Perché io avevo paura di te… mi ricordo la prima volta che ti vidi, avevo dieci anni. Tu neanche ci facesti caso alla mia presenza, secondo me”.
Luke si irrigidii immediatamente, ripensando ad alcuni avvenimenti di quando anche lui era solo un bambino. “Quando mi vedesti per la prima volta?” domandò. E non ci sarebbe stato scudo capace di celare il leggero tremito della sua voce.
Phillis sospirò, portandosi due dita alle tempie. Era fastidioso ricordare, con quel dolore incessante alla testa. “Ero con mio padre, avevo avuto i complimenti della maestra e come premio lui mi portò a prendere un gelato, quello da due gusti con tanto di panna e noccioline. Era una gelateria che faceva angolo con l’entrata di un parco, era un po’ lontano dal centro ma noi ci andavamo sempre perché mio padre diceva che gli ricordava quando era bambino. Lui abitava lì, in periferia. Mentre tornavamo a casa sentimmo un rumore: solo dopo, ripensandoci, capii che era il rumore di uno sparo. Mi ricordo l’espressione sul viso di mio padre: lui non aveva paura, sembrava quasi… abituato a quel suono. No, la sua espressione non era spaventata: era arrabbiata. Si inginocchiò davanti a me e mi chiese di andare di nuovo in gelateria, di aspettarlo lì dentro al sicuro. Io non ubbidii. Aspettai che si allontanasse di poco e poi cominciai a seguirlo, piano, un passo alla volta. Fu allora che ti vidi. Eri in questo vicolo sudicio, che piangevi come un matto, e c’era qualcuno steso contro il muro della strada. Quello che non dimenticherò mai, però, fu il petto di quell’uomo, completamente zuppo di sangue. E le tue mani… Merda, Luke, lorde di sangue fino al gomito. Poi urlai, e mio padre si rese conto che ero lì. Non mi aveva mai picchiato, ma quel giorno ebbi il mio primo schiaffo. Per tutto il viaggio di ritorno a casa non spiccicò parola. Poi arrivammo, papà salutò la mamma, si sedette sul divano e fece finta di niente. Solo io non ci riuscii. Non ho mai dimenticato quella scena. Ed è stupido, lo so, ma appena ti ho rivisto mi sono scattati tipo, cento campanelli d’allarme. È per questo che avevo paura di te. È così strano pensare che adesso, invece, tu sia l’unico con cui mi sento ancora al sicuro.”
Luke abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Tremavano, le teneva salde contro le proprie gambe, ma il tremolio era evidente. Avrebbe dovuto dirle che no, con lui non era al sicuro; che si stavano cacciando in un guaio più grande di loro, e che avrebbe fatto bene ad andarsene, a tirarsi fuori da tutta quella situazione ora che non era ancora troppo tardi. Avrebbe dovuto dirlo, probabilmente, ma non ci riuscii. Tenne lo sguardo basso e le spalle inarcate, con le labbra tirate in una linea sottile.
“Era mio zio” disse poi, a bassa voce.
La ragazza lo guardò, confusa, e lui riprese.
“L’uomo che vedesti lì per terra… era mio zio. Il fratello di mia madre. Era come un secondo padre, per me. Da quando è morto le cose in famiglia sono precipitate: i miei genitori non si guardano neanche più in faccia, e mia madre mi detesta. Ha paura che io diventi come mio padre.” Le parole gli sfuggirono dalle labbra sottili come un fiume in piena, senza che lui potesse far nulla per fermarle: Phillis si ritrovò improvvisamente catapultata nella vita di Luke, e mai come allora lo sentì vicino. Erano solo due ragazzini che, in un modo o nell’altro, erano stati costretti a crescere troppo in fretta. Erano uguali da far schifo, loro, ma diversi in un piccolo particolare fondamentale: Phillis aveva compiuto da sé le sue scelte, avrebbe potuto cambiare idea e tornare indietro da un momento all’altro.
Luke no. Le decisioni più importanti le aveva prese qualcun altro per lui, e ormai era troppo tardi per tornare indietro.
“Mi dispiace Luke…” sospirò la bionda, cercando di sfiorare il ragazzo, che tremò quasi sotto il suo tocco.
Luke scrollò le spalle. “Tanto, domani mattina questo sarà solo un sogno per te.”

**




Casa Turner era sempre così fottutamente silenziosa.
C’era quel cancello, quell’enorme barriera in metallo grigio scuro, che circondava l’intera abitazione, il suo giardino, il cortile.
“Serve a tenere fuori i cattivi”, le diceva sua madre quando era piccola.
A volte, però, si era chiesta se non fosse il contrario. I cattivi non erano quelli che venivano chiusi fuori dal cancello: i veri mostri erano bloccati all’interno.
Lo aveva capito quando aveva guardato negli occhi di sua madre e, per la prima volta, ci aveva visto la tristezza, quella vera. In quei momenti guardava quella donna e Dio solo sapeva se non avrebbe voluto urlarle contro e farla smuovere, ma si tratteneva. Che non ce l’aveva mai vista tanta tristezza, negli occhi di sua madre, però la capiva. La loro famiglia a brandelli probabilmente pesava più a lei che a Phillis stessa. Lei ci si era abituata. Faceva solo un po’ male, ogni giorno un po’ di più, ma ci si era abituata. Sua madre no. Era dura vedere la persona che ami scivolarti via dalle mani, scomparire sempre lentamente senza poter fare nulla per tenerla accanto a te. Era il rapporto che avevano sua madre e suo padre. Ogni volta che lui tornava la speranza riprendeva a cantare, a dire “sì, magari questa è la volta buona. Magari ricominciamo”. Ma era come aspettare di riavere indietro qualcosa portato via dal mare: magari un giorno, fra chissà quanto tempo, le onde ti restituiranno un pezzo, ma non sarà mai l’oggetto che hai perso. Quello non lo riavrai più indietro.
 
“Phillis?” la testa di sua madre fece capolino dalla porta, affacciandosi appena. I capelli chiari erano legati in una treccia sul lato, sembrava più giovane.
“Dimmi.” La risposta meccanica e disinteressata arrivò quasi subito. Non aveva più parlato con sua madre dal pomeriggio precedente, ma neanche le andava troppo. Meno la vedeva, di solito, e meglio si sentiva.
La donna sospirò prima di entrare definitivamente, chiudendosi la porta alle spalle. Osservò il corpo magro di sua figlia, accovacciato sul letto con lo sguardo puntato al soffitto; quel soffitto fatto di stelle, alcune anche spente, altre cadute prima che la ragazza riuscisse anche solo ad esprimere un desiderio.
Guardò quella figlia che aveva sempre sentito distante, e vide per la prima volta con chiarezza le dimensioni del muro d’incomprensione che, negli anni, era stato eretto dalle mille discussioni che si erano frapposte tra loro. Lo vide per la prima volta, e per la prima volta decise che avrebbe provato a superarlo. Avrebbe distrutto il muro, per sua figlia.
“Tesoro, dobbiamo parlare” esalò lentamente, andandosi a sedere sul letto accanto alla ragazza che, dal suo canto, continuava a non guardarla.
Phillis si lasciò scappare una risatina sarcastica. “Di cosa vorresti parlare, esattamente?” ribatté cinicamente. Strizzò gli occhi non appena un’improvvisa ed acuta fitta le trapassò la testa, portandosi di scatto due dita alle tempie. Avrebbe continuato a maledirsi per tutta la vita, per la cazzata della sera prima. Anche perché, da quando l’alcool aveva cominciato a fare effetto, lei non ricordava nulla. Una cosa, però, la ricordava. Ma sperava di sbagliarsi con tutta sé stessa.
La madre sospirò passandosi una mano sul viso, era stanca, segnata, ma pur sempre bella. “Mi dispiace. Mi dispiace per ieri, per le parole che ti ho rivolto. Io ti voglio bene, sai. È che a volte mi fai arrabbiare. Ti vedo commettere i miei stessi errori e questa cosa mi fa innervosire, allora mi allontano ancora di più da te invece che starti accanto. Credevo che se non te ne avessi parlato, tu non avresti commesso gli errori che avevo fatto io. E invece li ripeti tutti e siamo di nuovo punto e da capo.”
Phillis si mise a sedere, guardando finalmente negli occhi sua madre, confusa.
“Dimmi solo una cosa, mamma.” La interruppe lentamente. “Sposare papà… è stato un errore anche quello?”
Aveva colto nel segno.
Aveva una strana abilità, Phillis, nel toccare le corde più dolenti, i nervi scoperti delle persone: e di solito lo faceva con brutalità totale, senza alcuna cura. Era convinta che sbattere le cose in faccia in un unico colpo, fosse meglio che indorare la pillola e parlare attraverso perifrasi. La verità o la si diceva così com’era, – pensava – o non la si diceva per niente.
Fu sua madre a distogliere lo sguardo, a quel punto. Lo portò su una foto di parecchi anni prima, incorniciata ed in bella mostra su una mensola: ritraeva lei, Phillis ed il padre quando ancora erano una famiglia. Le fece male.
“Non è stato un errore sposare tuo padre, Phillis. Lo è stato innamorarmi della persona sbagliata, e poi avergli anche dato il potere di ferirmi. L’errore più grande di tutti, però, è stato non averlo tenuto vicino a me quando ne avevo la possibilità.”
La bionda sentì che il respiro le si bloccava in gola, non appena sua madre finì di parlare. Le parole da lei appena pronunciate vibrarono nell’aria, si bloccarono lì, nello spazio tra i loro corpi, quello spazio così piccolo ma separato da tanti anni di lontananza.
“Innamorarsi della persona sbagliata”.
Phillis guardò sua madre, e nei suoi occhi lesse il rammarico.
La donna, dal canto suo, scrutò le iridi chiare della figlia e sospirò: era troppo tardi per dirle di non commettere il suo stesso errore.

**

Hello there!
Sono tornata di giovedì con l'aggiornamento settimanale perché il giovedì è sempre stato il mio giorno, quindi ho pensato di riprendere le vecchie abitudini. (:
Okay, cosa posso dire del capitolo? Mh... ad essere sincera non lo so neanche io. E' abbastanza noioso, lo ammetto, per questo motivo non l'ho allungato ancora di più e ho deciso di terminarlo così. Mi sembrava la fine che meritava, mi sembrava che ci stesse bene.
L'unica cosa che mi sento di commentare è la parte iniziale: vi ho fatto penare un po' (okay, forse più di un po' ahah) ma finalmente sappiamo i "precedenti" tra Phillis e Luke. Ho voluto svelare così il motivo della paura iniziale della bionda, e spero che nessuno sia stato troppo deluso.
Detto ciò ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo, ovvero S_V_A_G, Uncool_Princess, McPaola, Lizzie_Lannister, oak, willbefearless, Fifi_97 e Letizia25.
Mi fate felice.çwç
Alla prossima!
Ida.x

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Capitolo 12
*** 12. Game Over ***


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12. Game Over

 

Tornare a scuola, dopo gli eventi delle ultime giornate, era surreale.
Trovarsi circondata dalle stesse persone, gli stessi volti di sempre - conosciuti ma non troppo – era il ritorno alla routine più brusco che Phillis potesse immaginare ma, nonostante questo, per una volta si sentì grata.
Aveva bisogno di normalità nelle sue giornate, di monotonia, per poter rimettere in ordine i propri pensieri e per poter capire cosa provava, nei confronti di chi.
Aveva visto Luke, quel giorno. Era sui gradini della scuola, c’era Ashton con lui: le aveva sorriso, e per la prima volta nella sua vita quel sorriso l’aveva fatta star bene, l’aveva sollevata dalle ansie. Lo stesso sorriso che mai lui le aveva rivolto e che, comunque, pochi mesi prima l’avrebbe semplicemente terrorizzata. Phillis aveva ricambiato, rivolgendogli un cenno della mano, ma non si era fermata. Anche Luke era uno dei tanti punti interrogativi della sua vita. Anche su di lui sentiva di dover fare chiarezza al più presto, prima che la testa le scoppiasse: e, ultimamente, la bionda si era sentita come se la cosa sarebbe dovuta accadere da un momento all’altro, a causa di tutte le novità, gli alti e bassi e le informazioni che aveva dovuto accumulare e metabolizzare in poco tempo.
Scorse da lontano la chioma rossa di Lucy, all’entrata, ma decise appositamente di evitarla: non le piaceva tenere nascoste cose alla sua migliore amica, che si trattasse di sciocchezze o eventi importanti, ma proprio non ce l’avrebbe fatta, quel giorno, a spiegarle cosa era accaduto – e d’altra parte come fare, se neanche lei lo aveva ancora capito bene? Come fare a spiegare a Lucy il suo dissidio interiore, il caos dei suoi pensieri e quello ancora più intricato dei suoi sentimenti, se era lei la prima a non riuscire a capirlo?
Anziché decidersi ad entrare, quindi, la ragazza puntò al cortile sul retro della scuola, più che decisa a nascondersi lì, almeno per tutta la durata delle prime lezioni di quella giornata. La routine le faceva bene, sì, ma sentirsi obbligata a dover fingere concentrazione, magari dover anche rispondere a domande – o peggio, ad un’interrogazione – quel giorno sarebbe stato semplicemente impensabile.
Si sedette sul marciapiede sporco, i piedi affondati nell’erba delle aiuole abbastanza alta a coprirla fino alle ginocchia. Se fosse arrivato qualcuno avrebbe potuto semplicemente nascondersi lì, stendersi tra i fili verdi e sporchi di smog, e nessuno l’avrebbe notata: d’altra parte, l’erba lì non veniva mai tagliata, così come nulla in quell’edificio era mai stato curato. La bionda rivolse uno sguardo alle mura grigie, sporche e scrostate, e sentì con chiarezza il peso di un macigno posarsi sul suo stomaco.
Tutto, lì, era grigio. Tutto era sporco, consumato, tutto era privo di vita. Era privo di anima, come era solita pensare lì. Phillis si chiese distrattamente se, passando tanto tempo tra quelle mura, avrebbe perso anche lei la sua anima: si chiese nuovamente se, piuttosto, un’anima la avesse.
Se l’aveva, beh, era stata messa a dura prova dai colpi di quelle giornate.
Suo padre era tornato per restare: aveva detto questo, la sera prima, dopo che sua madre l’aveva convinta a scendere per la cena e “mangiare almeno un po’”; non se ne sarebbe andato, prometteva, e Phillis avrebbe voluto crederci, ma non sapeva come fare e in più ormai non era più abituata a fidarsi delle persone. A sperare di potersi tenere qualcuno vicino, aveva scoperto, si finiva solo col perderlo nei modi peggiori. Perciò aveva annuito, tenendo lo sguardo basso senza rispondere nulla, ché tanto di parole non ne aveva, e avrebbe potuto solo ripetere qualche frase scontata. Aveva finito la sua cena in silenzio, era salita nella sua stanza e poi, sul suo letto, aveva fatto qualcosa che odiava, ma che nell’ultimo periodo era capitato troppo spesso: raggomitolata sulle coperte sfatte, aveva pianto. Perché era stanca, forse, o perché la sua armatura si stava lentamente frantumando; perché nulla, nella sua vita, aveva più un senso, e perché lei semplicemente avrebbe potuto essere una ragazza come le altre. Avrebbe voluto capire di più se stessa, la sua famiglia, sapere cos’era che faceva suo padre, perché per tutto quel tempo era stato costretto a stare lontano da casa. Avrebbe voluto capire anche i sentimenti, come funzionava quello strano meccanismo di emozioni e farfalle e poi groppi in gola e macigni che, ultimamente, aveva scagliato contro di lei i suoi colpi peggiori. E l’aveva colta impreparata, inesperta, e la sua armatura di cinismo e sarcasmo iniziava a vacillare. Non era mai stata messa così tanto alla prova, non era fatta per così tante battaglie.
Phillis strappò un ciuffo d’erba sporca, ci giocò sovrappensiero, prima di lasciarlo volare via.
Si concentrò sulla seconda, grande incognita delle sue giornate.
Luke.
“Un nome, una garanzia” aveva pensato con amarezza, sorridendo tra sé e scuotendo la testa. Perché non aveva alcun senso che, da un giorno all’altro, la paura che provava nei confronti di quel ragazzo – una paura istintiva, irrazionale ma senz’altro motivata – si fosse trasformata in qualcosa di indefinito, qualcosa che non sapeva comprendere. Quante cose che non capiva, e in mezzo a tutto quel caos c’era lei.
Lei che, era vero, da Luke era sempre stata terrorizzata.
L’avevano terrorizzata i suoi occhi azzurri, così glaciali, così indifferenti.
L’avevano terrorizzata le sue mani bianche, da pianista, che però nei suoi ricordi erano ancora sporche, zuppe di sangue.
L’avevano terrorizzata i suoi discorsi con Michael, le sue risate sarcastiche, il suo carattere altalenante e il suo cinismo – così diverso da quello della ragazza, così tremendamente definitivo.
Infine, l’aveva terrorizzata più di ogni altra cosa il mettere in ordine alcuni tasselli del puzzle, che l’avevano portata a rendersi conto che, per un motivo o per un altro, Luke sicuramente conosceva suo padre. Non si era mai fermata a riflettere su quel particolare, talmente importante che si era data mentalmente dell’idiota almeno un centinaio di volte, nell’ultima ora. Non aveva mai riflettuto sulla presenza di suo padre in quel vicolo, tanti anni prima, il giorno in cui lo zio di Luke era morto.
Non si era mai fermata a riflettere neanche sul comportamento freddo del ragazzo, quella notte in cui, riaccompagnandola a casa, era diventato glaciale dopo aver lanciato un solo sguardo alla sua abitazione.
Appiattendosi per terra, tra l’erba, sentendo dei passi avvicinarsi, un singolo, semplice pensiero si fermò nella mente della ragazza: non sapeva cosa suo padre c’entrasse con la morte di quell’uomo, tanti anni prima, né che legame corresse tra lui e gli Hemmings; nonostante questo, era intenzionata a scoprirlo.
E lo avrebbe fatto a modo suo.

 

**

Luke camminava a passo svelto, le mani infilate nelle tasche della felpa grigia, il cappuccio ben calato sul viso.
Aveva salutato Calum e Michael, dandosi appuntamento con quest’ultimo per l’allenamento, quella sera. Nessuno dei due sapeva cosa aveva intenzione di fare, in quelle ore che lo dividevano dall’allenamento serale, e forse era meglio così: forse avrebbero provato a fermarlo, forse gli avrebbero fatto notare che era una pazzia.
E fermarsi a riflettere era l’ultima cosa di cui Luke aveva bisogno.
Ciò che stava per fare andava fatto, per tanti motivi che fino a quel momento non erano mai stati abbastanza validi: mancava il carburante, l’energia, quel qualcosa capace di smuovere la sua coscienza, di fargli desiderare di cambiare le cose per poter ottenere qualcosa di diverso, qualcosa di più.
Mancava quel qualcosa che era Phillis Turner.
Luke non aveva dimenticato chi era il padre della ragazza, e neanche la sua diffidenza nei confronti di Phillis era completamente scemata; ma quel bacio, quell’unico bacio e la fiducia totale che lei gli aveva – inconsciamente – dimostrato quella sera, raccontandogli ricordi del suo passato, erano bastati perché qualcosa, dentro di lui, prendesse vita.
Aveva riacceso i suoi colori, la Turner, e neanche lo sapeva. Gli stava ridando la voglia di prendersi ciò che gli spettava, ciò per cui un normale diciassettenne non avrebbe dovuto lottare, perché diritto inalienabile. Una vita normale. Amici, scuola, amore.
Era affetto quello che provava per la ragazzina, sicuramente, e non sapeva neanche perché, ma non era bravo a gestire se stesso e i propri sentimenti, quindi preferiva non interrogarsi.
Mentre svoltava nel vicolo sporco, con il forte odore di candeggina che gli penetrava nelle narici e i mattoni rossi dei palazzi che gli riempivano la vista, Luke si sentì nuovamente motivato. Stava facendo la cosa giusta, stava scegliendo – per una volta – se stesso.
“Hemmings. Che sorpresa, ragazzo”.
Luke si voltò di scatto, preso in contropiede, e l’uomo alle sue spalle ostentò un sorrisetto divertito.
“Signor Clifford” rispose il biondo con un cenno, mantenendo la voce dura nonostante il cuore avesse preso a battergli più veloce.
Se Michael, nella sua manifestazione più reale, era un invasato, suo padre era anche peggio. Aveva occhi verde slavato, chiarissimi, da automa. Si muoveva come un automa, parlava con voce bassa, scattante. Un automa. Non sembrava una persona umana, non trasmetteva umanità.
“Qual buon vento ti porta qui?”
Luke strinse impercettibilmente le labbra. “Si tratta di Andrew Turner, signore”
L’espressione dell’uomo mutò repentinamente. I suoi occhi si assottigliarono, la vena sulla tempia ebbe un guizzo.
“Cosa cazzo è successo?”
Aveva parlato a voce bassa, ma la rabbia di quella singola frase bastò perché il ragazzo si sentisse attanagliare dalla paura. Nonostante questo, si costrinse a mantenere un tono di voce normale mentre rispondeva.
“Ho solo bisogno di… una risposta, signore”
L’uomo lo squadrò, diffidente.
“Probabilmente – si disse Luke – si starà chiedendo se spararmi qui e ora o aspettare almeno di sentire cosa voglio”. Passarono alcuni attimi, poi il padre di Michael annuì. Poteva chiedere.
“Tutto questo… tutto questo finirebbe, se lui venisse sbattuto dentro, giusto?”
“Tutto questo cosa, Hemmings? Vai al punto.”
“Tutto, signore. La faida. Gli omicidi, le ronde notturne… tutto” ripeté Luke, costringendosi a mantenere il proprio sguardo di ghiaccio negli occhi dell’uomo.
Sembrò soppesare a lungo la domanda, ponderando fino all’ultima virgola la sua risposta. Luke non era neanche sicuro che l’avrebbe avuta, una risposta, ma doveva quanto meno sperarci.
“Tutto questo finirebbe, sì. C’è altro?”
Il ragazzo scosse la testa. “No, signore”
“Bene allora. Torna da dove sei venuto”
E, voltategli le spalle, Clifford si allontanò velocemente, scomparendo nella seconda porta a sinistra di un anonimo palazzo. Un palazzo che Luke, però, conosceva fin troppo bene.
Si avviò nuovamente sui propri passi, con una strana sensazione al petto e una nuova consapevolezza, l’abbozzo di un’idea che premeva contro la sua mente per essere notata.
Prima che potesse dire qualsiasi cosa, però, dalla strada principale venne un rumore estremamente noto alle orecchie del ragazzo: fece appena in tempo a correre, uscire dal vicolo, e l’immagine che gli si parò davanti agli occhi gli gelò il sangue nelle vene.
Phillis Turner era lì, di fronte a lui: i grandi occhi erano sgranati, la bocca aperta in una muta esclamazione. Posò lo sguardo sul ragazzo, le iridi velate di tristezza, prima di scivolare lentamente a terra, sbattendo sul marciapiede con un rumore sordo.
Le sue piccole mani, fino ad un attimo prima premute con forza contro il costato, ricaddero ai suoi fianchi.
Le sue piccole, pallide mani, erano sporche di sangue.



 


Hei there.
Non preoccupatevi: se vi state chiedendo in che modo, dopo tanti anni, io abbia l'ardire e la pretesa di tornare qui, con un nuovo capitolo, sappiate che è la stessa domanda che mi sto ponendo io.
Però negli ultimi mesi ho letto e riletto Pieces, e mi sono resa conto che questa storia - per quanto iniziata tre anni fa, da una me diversa e scritta in balìa di sentimenti diversi - meritava la sua conclusione. Conclusione che, tra l'altro, ho sempre saputo quale sarebbe stata, quale sarebbe dovuta essere.
Non spero che ci siate ancora, non spero che non l'abbiate abbandonata: è più comprensibile farlo, dopo due anni di pausa.
Se però Phillis e Luke vi erano mancanti, se Pieces è stata nei vostri pensieri... beh, eccoli qui una volta di più. Si spera che tornino presto, di nuovo.
Come vi ho già scritto su, in ogni caso, io sono cambiata: probabilmente noterete differenze nel modo di scrivere, di esprimermi, ma dietro tutto questo ci sono io, e trovo... realistico, che la storia si evolva insieme a me.
Wow, da quanto non scrivevo un angolo autrice.
Beh, direi che questo è quanto. Vi chiedo ancora scusa ma, soprattutto, grazie. Grazie a chi c'è stato, a chi c'è ancora, a chi ci sarà anche in futuro.
Grazie.
Ida, x

 

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Capitolo 13
*** 13. Comatose ***


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13. Comatose

«Non ti macchiare mai del sangue di qualcun altro, Luke. Non farlo mai. Dal sangue non ti lavi più, diventa un po’ anche colpa tua»
Suo padre gli aveva ripetuto quel mantra per tutta la vita, sin da quando Luke era piccolo e lui tornava a casa con qualche ferita, che la moglie curava senza fiatare, in silenzio, gli occhi bassi e pieni di amarezza per il mostro che aveva davanti e che, un tempo, era stato l’uomo che aveva amato.
La prima volta che Luke si fece seriamente male si ritrovò da solo, contro una ferita da arma da taglio che non aveva idea di come medicare.
«Non puoi aiutarlo, Liz» il signor Hemmings aveva fermato la moglie, spaventata come mai prima di allora. «Non puoi aiutarlo, perché deve imparare a cavarsela da solo. Ché il suo sangue è un affare suo, deve imparare a conviverci»
Ci aveva messo mesi. Il taglio, abbastanza profondo, per poco non prese infezione: la ferita ci metteva molto, a guarire, e Luke aveva convissuto con un dolore tremendo ogni volta che si piegava, e il costato martoriato gli faceva venire voglia di urlare.
Poi, pian piano, il taglio si era rimarginato. Era stato un processo lungo e doloroso, ma quella che un tempo era stata una ferita sanguinante, dai bordi frastagliati sporchi di rosso scuro, era pian piano diventata solo una cicatrice rosea e lunga, a ricordargli la prima volta che si era trovato da solo.
Non aveva mai neanche aiutato i suoi amici, nemmeno Ashton, e Ashton per lui era come un fratello. Col sangue degli altri non bisognava mischiarcisi.
Ma quel giorno, lì per terra, non era Ashton, e nemmeno suo padre: non c’era una persona addestrata da tutta la vita a cavarsela in ogni situazione, ad evitare gli ospedali come una peste. Lì per terra, con gli occhi chiusi e la maglia che andava man mano macchiandosi sempre più di rosso, c’era Phillis Turner.
Luke non ci dovette pensare neanche un attimo. Semplicemente corse da lei, verso il suo corpo – solitamente già bianchissimo, niveo – che andava assumendo un colorito sempre più smorto, meno sano. Meno vivo.
«Cazzo, Phillis, cosa cazzo hai fatto!» urlò il ragazzo, piegandosi in ginocchio contro il corpo della Turner. La sollevò, la posò contro di sé, le portò due dita contro il collo: il battito c’era, ma era lentissimo.
Estrasse il cellulare più velocemente che poté, componendo il numero del pronto soccorso.
Stava infrangendo una seconda regola: niente ospedali, mai. Negli ospedali c’era troppa burocrazia, troppi documenti da firmare, dichiarazioni da rilasciare.
Negli ospedali chiedevano troppe spiegazioni, informazioni, e quelli come loro, di dare informazioni, proprio non potevano preoccuparsi.
Niente ospedali.
«Pronto?»
«Pronto, c’è stata una sparatoria... Una ragazza è stata ferita, c’è bisogno di un’ambulanza!»
La voce non gli aveva mai tremato così tanto.
Niente ospedali, dicevano.
Se la Turner fosse morta, una parte di lui se ne sarebbe andata con lei.

 

**

Una stanza fredda, asettica.
Lucy aveva sempre odiato il bianco degli ospedali. Le trasmetteva solo disagio, paura, la terribile sensazione della morte imminente: le strisciava addosso, sulla pelle, e poi le si incastrava tra le ossa.
Era la paura della morte che, anche quel giorno, era rimasta incastonata in lei, nei suoi polmoni alla disperata ricerca di aria.
Non sapeva come ci fosse finita, Phillis, lì.
Non sapeva cosa cazzo fosse successo alla sua amica, non sapeva perché lei, una ragazzina, si fosse ritrovata su un letto di un ospedale, dopo aver subito
l’estrazione di una pallottola. Un colpo di arma da fuoco che, tre giorni prima, aveva gettato la sua amica in un coma profondo. L’operazione era andata bene, avevano detto i medici, ma la ragazza aveva perso davvero molto sangue.
Alcuni ce la fanno comunque, a volte.
Alcuni ci riescono, a trovare la forza di svegliarsi, convivere con la paura, con il ricordo di quel momento, il rumore dello sparo nelle orecchie. La consapevolezza di quanto la propria vita sia stata appesa ad un filo, quegli ultimi attimi prima di perdere i sensi.
Sì, alcuni ci riescono.
Altri, semplicemente, non hanno la forza. Non si capisce cosa sia, magari la paura, magari debolezza fisica, ma altri non si svegliano mai. Potrebbero continuare a vivere attaccati a delle macchine praticamente per sempre.
Però Phillis era forte, Lucy lo sapeva. Non era il tipo da non trovare la forza, lei.
Era una che combatteva, una tosta, con le sue risate acute, le sue battute ciniche, la sua sfacciataggine. E se proprio si fosse sentita stanca, così stanca da non voler andare avanti, sarebbe stata Lucy la sua forza.
Era per questo che ogni giorno, dopo scuola, si sarebbe recata in ospedale. Studiava con i libri in bilico sulle gambe, seduta su una poltroncina accanto al letto dell’amica, dalla quale si alzava solo quando arrivava la madre di Phillis.
Allora si allontanava.
Adelaide ed Andrew Turner però non si presentavano molto spesso.
Il padre, soprattutto, in quei tre giorni si era visto solo una volta, e per meno di un’ora. Lucy lo aveva incontrato qualche altra volta, andando a casa Turner, ma – nonostante per lei fosse poco più che uno sconosciuto – mai le aveva messo tanta soggezione come quel giorno all’ospedale.
Gli occhi erano da spiritato, fissavano la figlia su un lettino d’ospedale quasi come non la vedessero davvero. Quasi a non volerci credere. La rabbia folle che Lucy aveva scorto dietro quello sguardo gelido l’aveva terrorizzata.
La signora Turner l’aveva vista quel pomeriggio, anche se per poco tempo, e anche la sera prima e il giorno in cui Phillis era stata portata in ospedale.
Salvata da uno sconosciuto, dicevano. Un numero anonimo, una voce di ragazzo. Terrorizzato, sembrava. Se avessero aperto le indagini, sicuramente il ragazzo sarebbe stato il primo che avrebbero cercato di rintracciare.
Adelaide Turner era stata seduta sul letto, accanto alla figlia, e Lucy si era allontanata quando aveva visto alcune lacrime scorrerle sul viso.
Sapeva che quella donna non era mai stata una grande madre, per Phillis. Lo sapeva benissimo, lei, la migliore amica, ma davanti a quel dolore così totalizzante da annullare tutto il resto, le era mancato il fiato.
Era uscita dalla stanza con un peso sul petto, osservando la donna – così simile a sua figlia, con quei capelli biondissimi, serici, il portamento severo – chinarsi sulla bionda, inerme, e posarle un bacio sulla fronte. Non baciava mai la figlia, lei.
Ma quel giorno lo fece.
E lo avrebbe fatto anche in seguito, e l’avrebbe abbracciata, le sarebbe stata vicina.
Il dolore che aveva stampato in faccia sembrava così forte da riuscire a far crollare l’intero ospedale. Così forte da risvegliare sua figlia dal coma.
«Tu sei Lucy, giusto?»
La rossa si voltò di scatto.
I suoi occhi scuri misero a fuoco la persona che le aveva parlato, e impietrì involontariamente, all’istante.
Non era lei, quella che aveva paura di Luke Hemmings e del suo gruppo. E Calum Hood non le aveva mai fatto niente di male, ma come aveva saputo che Phillis era lì, in quell’ospedale? E soprattutto, cosa gliene importava, a lui, di Phillis? La rossa non riusciva a credere che fosse un caso, la sua presenza lì. Non riusciva a fare quadrare quel terribile cerchio che era quell’assurda situazione.
Eppure ne aveva fatti quadrare, di cerchi, primo fra tutti proprio Phillis.
«Calum Hood. Cosa ci fai qui?» rispose stancamente, ma senza alcuna traccia di accusa nella sua voce. Forse era davvero un caso.
Il ragazzo si strinse nelle spalle, e «A scuola le voci girano in fretta» spiegò. «Lei era mia amica»
Lucy avrebbe voluto crederci. Calum sembrava sincero, il suo sguardo era venato di profonda preoccupazione, le labbra strette in un’unica linea diritta. Avrebbe voluto crederci, ma come fare, conoscendo Phillis e il terrore naturale che nutriva per quei ragazzi?
«Davvero?»
«Davvero. Non sai quante cose possono cambiare, in poche settimane, non lo immagini nemmeno»
La ragazza si morse un labbro, trattenendo un moto di rabbia. Avrebbe voluto sbottare contro quel mare di assurdità che il moro era stato capace di produrre in una sola frase, avrebbe voluto scaricare un po’ della rabbia e della paura che covava dentro di sé, e lui sembrava il capro espiatorio perfetto. Nonostante questo, si trattenne. Non era sua la colpa di ciò che era successo. Forse c’era davvero qualcosa che Phillis non le aveva raccontato, anche se il pensiero la feriva.
«Aiutami a capire, allora. Aiutami a farlo, davvero, perché altrimenti impazzirò»
E involontariamente, la natura di Lucy ebbe ancora una volta il sopravvento sulla sua razionalità.
Istintivamente si stava fidando di lui, uno sconosciuto, e dell’anima che aveva colto dietro i suoi occhi. Si stava fidando di Calum Hood.

**

Una mattina, neanche tanti anni prima, Luke Hemmings aveva visto suo padre venire sparato.
Era alla Centrale. Era lì con Michael, un Michael ancora normale, uno che non gli urlava contro se non riusciva a fare cinquecento flessioni in dieci minuti.
Suo padre era entrato di colpo, la porta si era spalancata. L’uomo aveva rivolto appena uno sguardo alla stanza, aveva individuato Luke e «Portatelo via» aveva detto, prima di perdere i sensi. Luke non ricordava altro, di quel giorno, perché le braccia forti dell’amico lo avevano allontanato. Avevano passato il resto della serata ad allenarsi, per tenere occupata la mente, nonostante Michael sapesse e Luke no. Nonostante quello lì, steso sulle scale della Centrale, era il signor Hemmings, e non il padre di Michael.
Colpito anche lui dalle pallottole di un’arma da fuoco. Questo era ciò che era capitato.
C’era stato il signor Hood, però, che di professione – ufficialmente – era uno stimato chirurgo: c’era stato lui a rimuovere con precisione quei pezzi di metallo dal corpo dell’uomo, mentre questo si imponeva di non urlare.
Anche senza ospedale, ce l’aveva fatta. Era quello che Luke si sarebbe sentito rinfacciare per il resto della serata.
«Hai idea di cosa cazzo hai combinato, eh? Ne hai la più pallida idea?» Michael era livido, gli occhi fuori dalle orbite, la voce più alta di un’ottava mentre gridava, fuori di sé.
Luke non rispose.
«Ti ho fatto una domanda, stronzo»
«Ed io non ho intenzione di ripetere ancora la stessa cosa»
Michael gli lanciò uno sguardo che probabilmente sarebbe anche riuscito ad incenerirlo lì, sul posto, in quel momento. «Sei nella merda, Hemmings, e stavolta ci sei da solo. Non credere che ne uscirai così facilmente» sputò fuori con cattiveria, le mani che tremavano.
Cattiveria.
Era questo, ciò che Michael era capace di dare.
Cattiveria, e rabbia, e odio. Rancore verso il mondo. Non era molto vasta, la sua gamma di emozioni, eppure Luke gli aveva sempre voluto bene. Erano amici. Lo erano sempre stati, almeno fino a quel momento. Ma ora l’odio di Michael riempiva quella stanza, scoppiava, tremava e con lui anche le sue braccia tremavano convulse, quasi che il ragazzo ne avesse perso il controllo.
«Non voglio uscirne facilmente, Michael, io me ne vado»
Lo aveva detto.
Era stata una giornata come tante, per loro della Centrale. Loro lo sapevano, come andavano le cose. Era un giorno normale. Fino a quel momento.
«Tu… cosa?»
Ma, un attimo dopo, Luke gli aveva già dato le spalle.


**

Hei there.
Sono tornata con un giorno di anticipo, lo so, ma non credo domani avrò tempo di postare e quindi eccomi qui.
Non avete idea di quanto sia strano, dopo due anni, parlarvi ancora di Phillis e Luke. Loro sono il mio grigio, sono quella parte di me che ho superato, ma che non andrà mai via del tutto. Mi era mancato raccontarvi di loro. Mi era mancato raccontarvi di me.
Giusto un piccolo appunto: ho inserito il pov di Lucy perché credevo andasse fatto, perché l'avevo messa troppo da parte, negli ultimi capitoli, ma lei è la mia migliore amica, ed io la adoro, e dovevo darle il suo spazio.
E, beh... that's all for today.
Spero apprezzerete,
Ida. x

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