This is my fucking life.

di Female_Weezy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Courtney. ***
Capitolo 2: *** Anne Maria. ***
Capitolo 3: *** Gwen. ***
Capitolo 4: *** Dawn. ***
Capitolo 5: *** Heather. ***
Capitolo 6: *** L'incontro ***
Capitolo 7: *** Soldi ***



Capitolo 1
*** Courtney. ***


“Aspettati sempre il peggio dalle persone, non rimarrai deluso”.


Courtney Barlow, 18 anni, ex studentessa universitaria.
Altezza media, pelle caramellata, capelli castani lisci e morbidi, acconciati in un caschetto ordinato, due grandi occhi neri da gatta, naso all’insù con qualche lentiggine, fisico snello e formoso, origini ispaniche.
Questa ragazza, seppure abbia un carattere acido e competitivo, si sa dimostrare dolce e comprensiva, ma la competizione aveva sempre mascherato questo suo lato.
Fino a quando si ritrovò a vivere per strada.
Come?
Così.


Alla festa per la consegna del diploma del liceo, Courtney fu la prima ad essere chiamata sul palco ed oltre alla consegna le venne fatto un gran discorso su quanto fosse stata una studentessa diligente, intelligente e rispettosa delle regole. Lei fu onorata ed orgogliosa di sentire quelle parole, ma quelli più interessati a sentirle furono i suoi genitori, una coppia rigida e all’antica che faceva di tutto pur di far primeggiare la figlia.
Così subito dopo Courtney venne iscritta all’università di legge e i suoi genitori le fecero leggere il programma intero durante l’estate, e non le fu permesso nessun divertimento. Courtney  tutto questo lo fece per i genitori ma non se ne rendeva conto che tutto ciò danneggiava se stessa, e si sfogava con altre persone che ovviamente non fossero i suoi genitori, per questo era sempre sola. Nonostante avesse un IPhone 5s di ultima generazione quasi nessuno la cercava, e lei ci soffriva molto.
Anche lei voleva andare in giro con le amiche per i centri, le vie, i negozi, i parchi, i ristoranti, le discoteche e chi più ne ha più ne metta. Ma purtroppo non aveva nessuno. Il suo enorme stress veniva sfogato con urla ed ordini al primo malcapitato che trovava, e nonostante fosse una bellissima ragazza,tutti la evitavano.
Così, dopo un’estate passata sui libri senza che ce ne fosse bisogno, Courtney entrò alla sua università, dove alloggiava cinque giorni su sette, tutti incentrati nello studio più intenso.
“Tesoro siamo veramente fieri di te” disse sua madre prima di scaricarla davanti a quell’istituto vecchio e deprimente
“E immagino che continuerai a farlo” le disse suo padre con una punta ben accennata di amarezza. “Vogliamo che tu sia all’altezza di portare il nostro cognome, la nostra famiglia sta più in alto di tutte, e immagino che lo sai bene”.
“Certo, me lo ripeti in continuazione” rispose lei. Suo padre giudice e la madre dottore, non ebbe molte scelte.
Dopo che i genitori ripartirono a bordo della loro macchina super lussuosa, Courtney entrò nell’istituto.
Le venne affidata una camera singola, si lamentò di questo, ma non ci fu niente da fare. Almeno lì voleva trovare gente con cui fare amicizia. Il primo giorno fu incentrato sulle presentazioni, e, quello seguente, senza troppi se e ma, cominciarono immediatamente le lezioni. I banchi erano divisi uno a uno e Courtney pensò che fu costretta a stare sola nella vita. Alla fine dei primi cinque giorni, Courtney attese l’autobus per andare a casa, stanchissima, come se fosse la fine della scuola, da quanto aveva studiato.
“Non vedo l’ora di farmi una dormita … ma perché sono costretta a questa vita…” si chiese, mettendosi le mani tra i capelli.
Molto probabilmente Courtney si pentì di quella frase, perché un ragazzo lì vicino l’ebbe notata e sentita.
“Immagino che tu per dire questo ed essere sommersa dai libri sia una studentessa dell’università qui di fronte”.
A parlare fu stato un ragazzo dall’aspetto indubbiamente punk, cresta verde fluo e abiti neri trasandati. A Courtney però colpirono gli occhi, azzurro ghiaccio, sprecati per un simile individuo.
In poche parole, Courtney evitò in ogni modo possibile quel ragazzo, ma lui la corteggiò in un modo mai visto, prendendola spesso in giro per il suo stile di vita, e lei ovviamente rispose con calci e schiaffi. Ma nonostante l’acidità di Courtney, il ragazzo insistette nel corteggiarla, fino a quando smise di prenderla in giro, e divenne dolce, dandole soprannomi come “Principessa”, scrivendole messaggi amorosi del buongiorno e della buonanotte, e Courtney lentamente iniziò ad assecondarlo, non rendendosene nemmeno conto. 
Ormai arrivò a metà anno scolastico, Courtney ogni pomeriggio usciva di nascosto con Duncan, trascurando i complicati studi e i suoi voti scesero sempre più lentamente, ottenendo le prime insufficienze della sua vita. I professori le chiesero cosa fosse quel calo, lei rispose che era solo un periodo di stanchezza, e che sarebbe finito presto. Ovviamente non fu così.
Era ormai aprile, un sabato sera, e Courtney disse ai suoi che sarebbe rimasta a dormire dalla sua compagna di stanza. In realtà andò in discoteca con Duncan, ballarono e bevvero tutta la notte, fino a quando l’alcool arrivò al cervello dell’ispanica, non abituata, si dimenava nel suo stretto minidress  nero, fin quando non arrivò alle labbra di Duncan , un intreccio di lingua che continuò fino a quando il ragazzo non le chiese di se avesse le chiavi della sua stanza. Courtney ridendo senza contegno le tirò fuori dalla pochette paiettata bianca, subito dopo Duncan la caricò nell’auto, diretti all’università.
Ogni sera stava un guardiano all’interno. Duncan bussò e disse che doveva portare in camera la ragazza, perché stava malissimo e aveva bisogno di dormire dato che i genitori non erano disponibili. Dopo aver verificato che la ragazza fosse una studentessa, l’uomo li fece passare, anche se in realtà se ne fregava altamente di ciò che sarebbe successo.
La mattina dopo Courtney si svegliò nuda, il lenzuolo della sua stanza sporco di bianco e rosso, e, soprattutto, sola. Vide i suoi abiti sparsi a terra, ma non vide quelli di Duncan. La ragazza si ricordò bene che stava con lui, ma dopo l’uscita dal locale non ricordava più nulla. Prese l’iphone e gli scrisse.
Passarono uno, due, tre giorni e ancora nessuna risposta. Tre, quattro, cinque giorni, nulla. Sei, sette, zero risposte. Non stava nemmeno più alla fermata ad aspettarla il fine settimana. La ragazza era fumante di rabbia e piena di delusioni. Prese il telefono e gli riscrisse. “Duncan ma perché non rispondi? Posso sapere cos’hai, dove sei, perché sei sparito?” Passò un’altra settimana e ancora niente. Durante quella settimana Courtney ebbe dei terribili sbalzi allo stomaco, e, ricordandosi di quel bianco sulle lenzuola, fu improvvisamente colta dal panico. “Stai calma” si ripeteva “Non può essere successo”. Ma non si auto convinceva, così andò in farmacia e prese un test di gravidanza, “Giusto per confermare le mie noie” si disse, ma dopo averlo fatto voleva morire. Positivo.
Per un mese Courtney rimase in silenzio, pianse tutte le sere e non aveva le forze di studiare. Ebbe l’insufficienza in quasi tutte le materie e non potette più uscirne. Ovviamente i suoi non lo sapevano. Perse ogni briciolo della sua determinazione e competizione, consumata dalla stanchezza e dall’ansia.
Mancava una settimana alla fine della scuola, Courtney ormai era praticamente bocciata, e, per quello che sarebbe stato il suo penultimo sabato, prese l’autobus, decisa a raccontare tutta la verità ai suoi genitori. Pensava che i suoi l’avrebbero capita ed aiutata. Purtroppo si sbagliava.
Li fece sedere sul divano, lei in piedi davanti a loro e parlò, parlò senza porsi un limite, raccontando per filo e per segno. Era incinta e bocciata, certo, non sarebbe stato il massimo per un genitore, ma si aspettava almeno un minimo di comprensione.
Ad un certo punto, dopo il silenzio assoluto, la madre iniziò ad urlare, urlò cose tremende alla figlia, le disse chiaro e tondo che era una zoccola fallita. Suo padre le urlò anche di peggio, che lei era una bestemmia per la loro famiglia, le mollò un ceffone in faccia e le urlò di nuovo che lei e il suo sgorbio maledetto erano morti per loro due. Dopodichè lei e la sua valigia furono sbattute fuori di casa, specificandole di non farsi vedere mai più.
Nessun parente la voleva e non aveva amici. Era praticamente sola e finita. A due mesi di gravidanza, si ritrovò a dormire sotto i ponti. Nella sua valigia aveva una coperta, due paia di jeans e quattro magliette, una bottiglietta d’acqua, un pacco di patatine, le cuffiette, l’iphone, il ricarica batterie dell’iphone, mascara, matita per gli occhi, e 40 dollari. Nessuna di queste cose sarebbe durata a lungo per far vivere lei e suo figlio.
I primi giorni Courtney fu spaventata perchè non ebbe idea di dove andare. Vagò per la città finchè, stremata dalla stanchezza, si accasciò sul retro di una discoteca,nascosta in mezzo ai bidoni, tirando fuori dalla valigia la coperta, coprendo istintivamente la pancia. Il locale era aperto e anche se la musica era assordante per lei e le venivano in mente troppi brutti ricordi, la ragazza si addormentò distrutta.
Si svegliò che erano circa le sei, e, per non farsi trovare, si alzò e riprese a vagare senza meta.
Quell'atto divenne la routine quotidiana, si addormentava tardi nel suo nascondiglio e si alzava presto, camminava per la città e comprava cibo da poco per non morire di fame. Quando i suoi soldi finirono, Courtney si ridusse nella miseria più totale, costringendosi a rubare per vivere.
La sua più grande botta di fortuna sicuramente fu quando riuscì ad intrufolarsi nel locale e a rubare 150 $ dal guardaroba mentre la ragazza addetta era andata un secondo a prendersi un drink. Con quelli ci mangiò tre settimane, e tutt'oggi non si fu mai stata ritenuta così fortunata.
Courtney dormiva poche ore per notte, si lavava ai bagni pubblici, e fortunatamente non pativa troppo il freddo perchè era ormai quasi agosto. A parte i ragazzi che vomitavano ubriachi lì in giro non ebbe troppi problemi, ma si allontanava quando gli spacciatori si avvicinavano al suo nascondiglio per vendere.
A ormai cinque mesi di gravidanza, Courtney decise a mettere da parte l'orgoglio e si decise a farsi aiutare dai servizi sociali, perchè ormai non poteva più rubare per mangiare. Erano tipo le tre del mattino, quando la ragazza si alzò dalla strada sudicia e, con la coperta sulle spalle, si decise a cercare da qualche parte un centro sociale, sperando che l'aiutassero.
Fu quel giorno quello che Courtney ritenne "Il giorno più orribile della sua vita". Mentre si affrettava ad attraversare la strada, apparentemente vuota, non fece in tempo a voltarsi che un'auto la colpì in pieno, facendola cadere al suolo e svenire.
Dopo non si sa quanto tempo, Courtney si risvegliò su un letto di ospedale, con la maschera dell'ossigeno e la flebo attaccata. La ragazza si spaventò molto, ma un'infermiera la calmò con fatica e le spiegò tutto, cercando di avere più tatto possibile.
Le raccontò che fu stato un miracolo il fatto che sia riuscita a sopravvivere, ma non potevano vivere entrambi, perchè i miracoli non accadono a tutti... il bambino di Courtney era morto all'impatto con la grossa automobile.


***

La ragazza dopo un mese di permanenza all'ospedale uscì, distrutta più di prima. Nessuno della sua famiglia ebbe avuto l'idea di sapere qualcosa di lei, ma Courtney li aveva già dimenticati, i suoi familiari.
Era ancora senza casa, camminava di nuovo per le strade,fino a quando non si sedette ad un tavolino di un bar chiuso. Qualcuno dimenticò un giornale su quel tavolino.
Guardò gli annunci.
"23esima strada, condominio 9, appartamento n.5, ultimo rimasto, Toronto periferia città. Affitto poco costoso."
In un intero testo, le uniche parole che Courtney lesse furono quelle.
"Speriamo che non sia già occupato" si disse, mentre arrotolando il giornale sotto il braccio, si incamminò nella notte.

ANGOLO ME
Hola.
Come avete visto e/o letto ho ripostato la storia, dato che prima l'avevo cancellata perchè non se la cagava nessuno  aveva troppe poche recensioni.
Ho già pronti gli altri due capitoli, caccatemi C:
Ah, inoltre oggi è il mio compleanno ( yeeee ) che non festeggierò perchè sto male, tanto per cambiare.
Regalatemi una recensione dai :3
Ciauuu :)

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Capitolo 2
*** Anne Maria. ***


“Ciò che non ti uccide ti fortifica.”
 
Anne Maria Karkanis, 18 anni,ex studentessa di istituto estetico ed ex prostituta. 
Piuttosto bassa, pelle abbronzata, capelli castani scuri lunghi e mossi, il suo vanto, due grandi occhi neri sempre truccati, labbra rosa, fisico formoso, origini italiane.
 Seppure anche questa ragazza sia orgogliosa e vanitosa, è caduta molto in basso per salvare ciò che aveva di più caro.
Come?
Così.

“Mamma, sono tornata” Anne Maria era appena tornata a casa da scuola, un istituto estetico dove se la cavava alla grande. La ragazza viveva in una casa poco ben ridotta nelle periferie di Toronto, con la madre Francesca Sorrentino, ex Karkanis , dopo che suo padre era scappato dopo la nascita del suo fratellino, attualmente di tre anni, che viveva in Italia dai nonni materni, perché non riuscivano a mantenersi. Insomma, quel giorno, dopo aver buttato la borsa nell’ingresso, trovò la madre con le mani tra i capelli, seduta al tavolo. Anne Maria ebbe un brivido, pensava che i fogli li mandavano la banca. Avevano l’ipoteca sulla casa, Francesca doveva pagare i debiti che suo marito le aveva lasciato, e dopo milioni di prestiti alla banca le avevano ipotecato la casa. Anne Maria sapeva che non avevano i soldi per pagarla, potevano perdere la casa, potevano ritrovarsi in mezzo alla strada. La ragazza cercava di non pensarci, si impegnava nei suoi studi di moda ed estetica, seppure la scuola non faceva per lei, il suo obbiettivo era quello di diventare la make-up artist più famosa del Canada. Era un meccanismo di difesa, cercava in tutti modi di concentrarsi su rossetti ed eyeliner per non pensare alla sua grave situazione. “Mamma,cosa sono quelli?” chiese riferendosi ai fogli. “Niente, niente” le rispose la donna, prendendo i fogli e nascondendoseli nel cappotto di pelliccia finta. “Esco.” Le disse solamente dopo averla lasciata a casa da sola. La ragazza era molto preoccupata,  la loro situazione economica era pessima, tutta colpa di quell’uomo che tre anni fa le aveva lasciate sole. Sperava ogni giorno che morisse. Alla fine però non era morto lui. Passarono giorni e ogni volta che Anne Maria tornava a casa da scuola, la madre usciva, senza darle spiegazioni. Non le parlava più, Anne Maria considerava sua madre il suo modello, ed invece ora si stava appassendo come un fiore. Una sera, mentre Anne Maria fumava sul balcone di casa, sentì la porta sbattere, sua madre salire le scale molto velocemente mentre emetteva dei singhiozzi soffocati. L’ansia dell’italo-americana era salita alle stelle, voleva sapere cosa turbava così tanto la madre. Avevano già troppi problemi, si disse, non potevano aggiungersene altri. E invece si sbagliava. Si tolse le zeppe per non fare rumore, e salendo le scale riusciva a sentire la voce della madre dalla porta della camera, parlava al telefono con sua nonna.
“E insomma.. è confermato. Aiutami mamma, ho paura. Non voglio morire.”
La ragazza sentì un colpo al cuore. Cos’era quella storia?
La donna stette zitta per qualche secondo, poi rispose:
“Devo stare molto in ospedale, più cure avrò più le probabilità di morire si abbasseranno..  ci sto il più possibile, ma non voglio far insospettire Anne Maria.. “
Sua nonna parlò ancora, mentre sua madre era tra le lacrime.
“So che devo dirglielo, ma come faccio? N-non ci riesco”
“So già tutto” disse la ragazza facendo voltare la madre. Non era il modo migliore, ma almeno si sarebbe risparmiata molte spiegazioni. La madre lasciò cadere il telefono, chiamare in Italia costava, e loro non avevano certo soldi da spendere.
Le due ragazze si guardarono negli occhi a lungo, finendo per scoppiare a piangere entrambe, abbracciandosi.
Due giorno dopo la madre fu ricoverata in ospedale, lasciando sola Anne Maria. “Ti prometto che ce la faremo” le disse con gli occhi lucidi prima di essere portata via.
Anne Maria non riusciva più a concentrarsi sui suoi studi, i suoi vestiti venivano male e l’eyeliner era storto. Quando tornava a casa piangeva e non mangiava, subito dopo essere tornata a casa dall’ospedale. Saltava la scuola a volte, perché rimaneva fino a tarda notte in ospedale, e cercava di rincuorare la madre dicendole quante belle creazioni era riuscita a fare , ma non sempre era vero.
Dopo qualche settimana la situazione non era certo migliorata, Anne Maria aveva deciso di smettere di piangere, e di cercare una soluzione. Doveva trovare dei soldi, doveva trovare un lavoro. Ma ancora era solo all’ultimo anno di scuola superiore, e anche se avesse trovato un lavoro non avrebbe mai guadagnato tanti soldi in tempo. La ragazza pensò al modo più facile per trovare dei soldi e l’unica idea che le venne era quello che diventò in seguito. Anne Maria si prostituiva in segreto, ma la ragazza anche se si era ridotta male, non avrebbe mai venduto il suo corpo –perfetto, a detto suo- ad un qualsiasi vecchiaccio schifoso, grasso, bavoso e voglioso. Assolutamente, preferiva rasarsi a zero piuttosto che questo.
Così la ragazza andava nei locali più fuori città che poteva, per non farsi vedere dalle ragazze e dai ragazzi che conosceva, e si concedeva a dei ragazzi della sua età, minimo sedici anni e massimo venticinque. Ovunque andava la ragazza aveva fortuna, certo, era bella e aveva un fisico desiderabile, ma anche se andava con un modello si sentiva vuota. Sapeva che ci ciò che faceva era vergognoso, ma non aveva altra scelta. Quella sera era appena uscita da un bagno con un ragazzo diciassettenne, alto più di lei, biondo, magro con gli occhi verdi, che dopo averla pagata le offrì un pasticca. Lei la prese e la ingoiò senza pensarci, anzi, l’unica cosa che pensò era che per poco avrebbe dimenticato tutto quello schifo.
Si svegliò la mattina seguente appoggiata ad un muretto, il cervello le scoppiava e si alzò con fatica. Era lunedì, erano le tre e mezza, aveva saltato la scuola, era in ritardo per andare in ospedale. Si era drogata con dell’ LSD la sera precedente, ma il male più forte fu quando vide una famiglia composta da quattro persone camminare felice e contenta per il viale. Quattro. Come un tempo erano loro. Erano. “Basta” si disse la ragazza “Quei tempi non esistono più, basta”. Abbassò lo sguardo quando passarono davanti a lei, la madre di quella famiglia fece cambiare strada al resto della famiglia per non farla vedere ai bambini. In effetti era proprio mal ridotta, i capelli sporchi, il trucco colato, la pelle secca, il top a fascia viola macchiato di alcool e la minigonna in latex nero mezza rotta.
Poco dopo si diresse verso casa, si lavò, mise dei vestiti decenti e corse verso l’ospedale a trovare la madre. Quella sera le chiese quanto costasse l’intervento per rimuovere il suo tumore. Quando sentì la cifra Anne Maria sbiancò. Trenta mila dollari. Lei ne aveva fatti cinquecento più o meno.
“Mamma io ti salverò, te lo giuro” sua madre si limitò ad abbracciarla senza ribattere, sapeva che era impossibile per lei trovare quei soldi, ma voleva farglielo credere, almeno non avrebbe sofferto troppo. Anne Maria ormai andava a scuola un volta a settimana, se era fortunata, perché passava tutte le sere a lavorare. Più prendeva e meglio era. Ogni sera si allontanava sempre di più dalla città, per paura di essere riconosciuta. Una volta amava andare in discoteca,era un divertimento, ora è un lavoro. Un lavoro ignobile, vuoto. Aveva già fatto sesso prima di tutto questo, ma era troppo per lei. Ma il pensiero che riavrebbe avuto viva la madre la confortava. Dopo aver “accontentato” un sedicenne, un diciannovenne, un ventenne ed un diciottenne, Anne Maria uscì sfinita. Trecentocinquanta euro, mai fatta una somma tanto alta. Era arrivata a duemila dollari. Ancora troppo poco.
 
Dopo tre mesi, Anne Maria riuscì a guadagnare la somma giusta, non avrebbe toccato un ragazzo per i prossimi duemila anni, ma ora era veramnte felice. Andò a scuola e per la prima volta dopo tanto tempo seguì la lezione, anche se ormai era bocciata per le assenze ingiustificate. Quel pomeriggio corse all’ospedale e, facendosi strada tra infermieri e dottori, corse nella camera della madre.
“Mamma, mamma!” urlò, ma si zittì quando entrando vide medici tutti intorno al letto.
“Signorina,esca.” Le disse un’infermiera “Adesso.”
“Ma non pensarci neanche! Spostati” urlò scansando bruscamente la ragazza, e, spingendo via anche i dottori si avvicinò al letto.
“Mamma guarda!Ho la somma sufficiente, ce la puoi fare!”
Non ottenne nessuna risposta dalla donna, immobile sul letto ad occhi chiusi.
“Mamma ascoltami!” urlò di nuovo
“A-Anne Maria.. dove hai trovato tutti quei soldi?”
“Non è importante” la interruppe “Guarda ora sei salva!”
La donna sorrise stanca e disse: “Anne, ormai è troppo tardi. Sto morendo”
Anne Maria si sentì morire pure lei. “No!” urlò tra le lacrime.
“Anne Maria, ascoltami. Tu sei una ragazza bella ed indipendente,te la caverai benissimo anche da sola” le disse sorridendo
“No, mamma, no. Morirò con te” urlò la ragazza accasciandosi a terra tra le lacrime.
“Non dirlo neanche per scherzo. Con quei puoi pagare l’ipoteca e vivrai benissimo. Diventerai la make-up artist più famosa del mondo, e io guarderò da lassù i tuoi progressi. Ricorda sempre che ti voglio un bene dell’anima, e assicurati che tuo fratello stia bene. Addio Anne.”
Dopo queste ultime parole, la donna chiuse gli occhi e la vita abbandonò il suo corpo, mentre Anne Maria urlava e piangeva.


***
 
Anne Maria si stava dirigendo verso un certo appartamento che aveva letto su un giornale del bar dell’ospedale. Non sarebbe mai tornata in quella casa, che se la prendano pure, disse. Non tornò neanche a scuola, non aveva la forza di mettersi a disegnare vestiti senza che sua madre le possa dire quanto siano belli. Aveva parecchi soldi, poteva comprarsi tranquillamente quella catapecchia che stava a qualche chilometro da casa sua.  "23esima strada, condominio 9, appartamento n.5, ultimo rimasto, Toronto periferia città. Affitto poco costoso." Disse leggendo con un sopracciglio alzato.
“Speriamo che non sia già occupato.” Esclamò “Non posso sopportare altre gente”.
 
ANGOLO ME
Ehy a tutti
Ho finito lo scritto di recupero di matematica, oddio che liberazione.
Vabbè, comunque, volevo ringraziarvi tutti per le recensioni, per chi l'ha letta,chi l'ha aggiunta ovunqueee ecc. (?)
Spero continuiate  :)
Ciauuu

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Capitolo 3
*** Gwen. ***


“Le guerre scritte nei polsi”.

Gwendolyne “Gwen” Fahlenbock, 17 anni, studentessa di liceo artistico.
Altezza media, pelle cadaverica, capelli neri mechati di blu acconciati in un caschetto spettinato, grandi occhi neri truccati di un nero pesante,labbra blu di rossetto, fisico un tempo magro, ora anoressico, stile dark.
Una ragazza dal carattere forte e scorbutico, ma la società di oggi le ha fatto perdere questo carattere, trasformandola in un’autolesionista e vittima di bullismo.

Come?
Così.

Perché Gwen non aveva amici? Forse perché era strana e dark? Forse perché era silenziosa? Forse perché amava la solitudine e odiava le persone? Forse perché aveva scelto l’artistico perché amava davvero disegnare e non perché in un liceo “si ha più probabilità di diventare popolari?”
Si, molto probabilmente per questo, dato che se non sei come la società ti vuole sei una merda emarginata.  Gwen era sempre stata presa di mira per lo stile, e il modo di fare. La ragazza all’inizio rispondeva con insulti e pugni, infatti, dopo aver lanciato un destro sul naso di Missy Williams, la capo cheerleader, le ragazze lasciavano in pace, non sempre, ma almeno nella maggior parte dei casi.
Coi maschi, soprattutto armadi giocatori di rugbry era più difficile. La ragazza veniva presa a pugni nei bagni e lasciata lì sanguinante, solo perché era diversa.
Col tempo si era trasformata in un’acida ragazza scorbutica e introversa. Più evitava la gente e meglio stava, ma non era così facile. Le prese in giro, le sparlate alle spalle, i pugni, i calci, il sangue, i graffi, gli insulti gratuiti.
Gwen apparentemente sembrava che se ne fregasse, data la testa alta che portava e la dignità che cercava di mantenere, ma  appena arrivava a casa si chiudeva in camera, si levava quel felpone nero tre volte la sua taglia, senza scritte, numeri o abbellimenti vari, e, dopo aver preso il temperino della matita degli occhi levava la lametta e la conficcava nel polso bianco, lasciando strisce di sangue.
Il dolore la faceva piangere, ma poi non lo sentiva nemmeno più, il male le impediva di pensare alla sua orribile condizione.
Ormai erano tre anni che andava avanti così, pugno dopo calcio, presa in giro dopo insulto, la ragazza aveva ormai le braccia completamente piene di cicatrici, dai polsi a poco prime delle spalle, le gambe dalle caviglie alle cosce, e ora si lacerava anche la pancia scheletrica. Eh si, perché Gwen era anche anoressica. “Sei un’obesa di merda” “Una palla di lardo del cazzo, dimagrisci invece di fare la grossa” e altre frasi varie,Gwen per dimostrare il contrario mangiava, si ficcava due dita in gola e poi vomitava, a volte si rifiutava di mangiare,inoltre si era tolta da tutti i social network, e almeno un po’ così era meglio.
Ma la decisione di andarsene successe in un giorno particolare.
Quella mattina Gwen si svegliò, ricacciando indietro le lacrime, al pensiero di un’altra giornata di merda, ma alla fine si alzò, camminando a testa bassa come uno zombie, e si diresse in bagno. Dopo essersi tolta il pigiama si osservò per un attimo nello specchio, vedendo braccia, gambe e stomaco lacerati. Il suo ventre era un ammasso di ossa, così come il resto del corpo, impressionante.
Quella mattina optò per un felpone taglia L grigio, sembrava da uomo, e dei jeans abbastanza larghi e gli scarponi neri. Si truccò alla bell’e meglio coprendo tutta la palpebra superiore di ombretto nero e mettendosi uno strato enorme di matita in quella inferiore.
Prese la cartella nera e corse fuori, non mangiando e ignorando i suoi, tanto, secondo lei, loro nemmeno si ricordavano di avere una figlia, si limitavano a farle trovare il pranzo pronto e basta.
Mai una parola d’affetto, mai andati oltre il “ciao”, della sua condizione orribile non sapevano niente sebbene era evidente dato che la sua faccia era coperta in parte da lividi viola, non sapevano niente della sua vita , se usciva non le chiedevano dove andava e quando tornava, indifferenza pura, menefreghismo totale.
Gwen aveva capito di essere un errore, si era sempre sentita di troppo in quella casa sebbene fosse la sua.
Si lanciò le cuffie nelle orecchie e camminò fino al liceo, entrò, ed ovviamente era la prima ad essere in classe. Non che fosse una secchiona. Andava male in tutte le materie a parte disegno e storia dell’arte, era la migliore, portata per il disegno, sarebbe potuta diventare un’artista.
Dopo che la classe si iniziò a riempire, andarono in palestra per educazione fisica, e la prof nemmeno si arrabbiava più vedendo Gwen per i corridoi che disegnava rifiutandosi a gran voce di cambiarsi con le altre e fare lezione.
Mezz’ora dopo passarono un gruppo di ragazze in felpine di gran moda e leggins neri, che la squadrarono e ad una di loro scappò una risata. Gwen alzò gli occhi e disse “Qualche problema?” quelle filarono dritto, le stupide bamboccie non erano un problema troppo grosso per lei.
Non quando l’ora finì e, Tony Black, uno dei più “famosi” della scuola e capitano della squadra di basket, la prese per le spalle e la sbattè al muro: “ Fahlenbock, sempre a saltare ginnastica? Hai paura che possiamo scandalizzarci vedendo il tuo grasso?” Gwen quasi rise, ma preferì rispondere
“A te che cazzo te ne frega, Black?” quell’altro in risposta le mollò un pugno nello stomaco, sapeva benissimo che era anoressica, ma torturarla psicologicamente era una goduria.
“Adesso te la facciamo fare noi una lezione di ginnastica, stupida troia” Gwen si spaventò seriamente, per la prima volta. Metà della squadra di basket stava negli spogliatoi, non troppo vestiti, mentre aspettavano Tony con Gwen.
In pratica le saltarono tutti addosso, e questa volta fu quasi fatale per la ragazza, quasi non respirava più dalle botte che stava ricevendo. Quando si sentì un livido umano, gli altri smisero di picchiarla e le divaricarono le gambe, e con la coda nell’occhio ( ormai pesti) vide uno di loro con l’iphone in mano che stava registrando.
Quando sentì uno strattone ai jeans Gwen si spaventò per davvero, e , con il poco di forza che le rimaneva, sferrò un calcio nella faccia di colui che aveva sopra, e gli altri ragazzi, presi dal panico andarono a vedere dove l’avesse colpito, e Gwen ne approfittò per strisciare fuori.
Si chiuse a  chiave nel bagno dello sgabuzzino del bidello, rimanendoci quasi due ore, mentre cercava di disinfettarsi e curarsi quelle botte atroci.
Ancora una volta la vita l’aveva fottuta, non perché l’avevano pestata a sangue, ma perché quella era la volta buona che lasciava questo mondo di merda. E invece no. Altro tempo, altra sofferenza.
Anche se era la quarta ora Gwen  uscì di nascosto dallo stanzino e prendendo l’uscita di emergenza scappò fuori dalla scuola, tanto nessuno si sarebbe accorto di lei, se non se ne erano accorti in due ore.
Corse fuori, e, dopo aver corso a caso per le strade della città, raggiunse la periferia, e, stremata, si accasciò sul ponte. Guardò in basso, c’erano vari metri che la dividevano da quell’acqua agitata, per via del vento, e bassa.
Perché non buttarsi? L’avrebbe fatta finita. Addio scuola, genitori, dolore, sangue, vomito, sofferenza, persone.
L’idea la eccitava follemente, ma sentì la paura quando si mise in piedi sul ponte. Decise di non pensarci, chiudere gli occhi e saltare.
Mancava poco alla fine, quando una folata di vento le fece arrivare qualcosa in faccia, e stavolta non era un oggetto pesante. Un giornale, abbastanza sudicio.
Si chiese il motivo di tutto ciò, quando una scritta catturò la sua attenzione : "23esima strada, condominio 9, appartamento n.5, ultimo rimasto, Toronto periferia città. Affitto poco costoso."
Decise di prendere in considerazione l’idea, e tornò a casa. Ovviamente i suoi non c’erano, e arrivarono la sera verso le 22.


Sua madre aprì la porta della sua camera, mentre Gwen ritagliava il giornale con l’indirizzo.
“Ah, sei qui.” Disse la donna vedendola.
“Si.” Rispose, e la madre richiuse la porta della camera.
“Si, addio, mamma, se così posso chiamarti” pensò la ragazza, tirando fuori da sotto il letto una fune, fatta di lenzuoli legati tra di loro.
Non sarebbe andata a scuola la mattina seguente, sua madre non l’avrebbe trovata in camera, così come non avrebbe trovato qualche centinaio di dollari che tenevano da parte per le loro stupide vacanze.
“Addio. Addio a tutti, merde!” urlò Gwen, mentre correva di nuovo verso la periferia con uno zaino in spalla e l’indirizzo della casa in mano.
 

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Capitolo 4
*** Dawn. ***


“Solo i più forti fanno i conti con la solitudine, gli altri la riempiono con chiunque.”
 
Dawn Medrek, 17 anni, studentessa di istituto biologico.
Bassa, pelle pallida, capelli biondi lunghissimi, occhi azzurro ghiaccio, fisico magro e fragile, voce limpida e dolce.
Una ragazza pura e gentile verso il prossimo, un animo incontaminato , non provava mai nessun sentimento negativo, l’odio non sapeva neppure cos’era. Eppure anche lei ha sofferto.

Come?

Così.

Dawn si era appena svegliata, e si stiracchiò tra i suoi copertoni verde prato e le lenzuola azzurre. Era una ragazze diversa dalle altre, che non pensava minimamente ai trucchi e ai vestiti, il suo interesse maggiore era la natura. Era intelligente, carina , dolce, eppure era sola.
Come mai?
Il motivo era che Dawn era nata con una particolare caratteristica. Leggeva le anime delle persone, e riusciva a capire gli animali come se le stessero parlando. All’inizio la gente non ci credeva, scherzando dicevano che poteva fare la chiromante da grande.
Ma quando la videro all’opera tutti rimasero shoccati , la ragazza sembrava leggesse loro nella mente. Per questo la ragazza veniva evitata da chiunque. Pensavano fosse una strega. Avevano timore di lei.
E lei odiava questa situazione. Voleva essere amica con tutti, fare paura è l’ultima cosa che voleva. Eppure era così. Nemmeno la sbeffeggiavano, veniva proprio ignorata. Non la guardavano in faccia, e se proprio erano costretti a parlarle, rispondevano a monosillabi senza guardarla. Odiava essere così, odiava il suo “potere”, anche se le era immensamente utile.
Lei era stata adottata, e le venne svelato al suo dodicesimo compleanno. Ci rimase malissimo ed era tristissima, poi decise di chiedere a sua”madre” la sua storia. Che stupida, pensò, era così evidente.  Sua mamma aveva degli esplosivi ricci color carota e due grandi occhi nocciola, era alta e magra, suo padre aveva i capelli corvini e gli occhi neri, alto e un po’ in carne. Lei, con i capelli biondi chiarissimi, gli occhi color ghiaccio, bassa e fragile, non assomigliava proprio a nessuno.
Sua madre le raccontò che l’avevano trovata nella casetta di legno di un parco giochi. La donna, che all’epoca aveva venticinque anni, le spiegò l’orrore che provò vendendo una bambina con i capelli albini avvolta in due panni bianchi durante una serata di novembre. Piangeva, ma era un pianto flebile, come la sua voce. Aveva sempre avuto quella vocina tenera e bassa. Insomma, vedendo la neonata la portò fuori dalla casetta e la portò a casa, il vento soffiava gelido e il corpo della bambina non era per nulla caldo. Quando la donna tornò a casa, trovò il marito mentre accendeva un bel fuoco scoppiettante nel caminetto. Quando vide la moglie con il fagottino, rimase spiazzato, poi si fece raccontare tutto. La donna raccontò, per filo e per segno, mentre si sedette davanti al fuoco e il corpo della piccola si riscaldava. Dopo aver passato l’intera notte a parlare di cosa ne avrebbero fatto della bambina, mentre lei dormiva sul divanoletto , decisero di tenerla. Avevano bisogno di felicità nella loro famiglia. Venne registrata all’anagrafe come Dawn Medrek, cognome del padre adottivo, e la chiamarono Dawn, come la “nonna”, e come il sole pallido all’alba nei paesi nordici.
La giovane Dawn si era intristita tantissimo, già c’erano le persone che la giudicavano come una strega, ora ci mancava solo sapere che quella non era la sua vera famiglia. Perché i suoi genitori l’avevano abbandonata? Non la volevano? Non potevano tenerla? Era un errore, non andava bene per la sua famiglia?
Tutt’ora non trovava risposte, inoltre era sola e senza amici, tutti terrorizzati da lei, come se fosse stata una serial killer. Certo, poteva sempre contare sui suoi genitori adottivi, eppure si sentiva così sola.
E soffriva tutta questa solitudine. Non era sbagliata. O lo credeva lei, dato che nessuno la voleva?
Alla fine, quella mattina, nonostante fossero le cinque e mezza, si alzò , si infilò un maglione verde, una gonna di jeans lunga fino al ginocchio, una pesante calzamaglia viola e delle scarpe chiuse nere, in modo da non sentire freddo.
Uscì di casa senza dire nulla, era ancora freddo, era una mattina di settembre e il cielo non era né troppo buoi né troppo chiaro, e mentre camminava per le strade deserte, trovò un uccellino caduto dal nido, era grandicello, ma non riusciva a volare. La ragazza intenerita lo prese subito, il suo amore per la flora e la fauna era qualcosa di stupendo. Non riuscì a vedere il nido, allora lo portò a casa, non prima di aver preso da terra il giornale che stava cercando da tempo.
Erano le sei di mattina, aveva un’ora di tempo. Medicò l’ala del passerotto, e dopo avergli applicato una benda, iniziò a preparare dei borsoni pieni di libri, vestiti, e kit di soccorso vari. Dopo aver riempito due borsoni, prese un foglio di carta lilla e con una penna scrisse:

“Cara mamma e carò papà,
perdonatemi se vi abbandono, dopo tutto quello che voi avete fatto per me, dopo avermi accolto nella vostra  splendida famiglia.
Non penso che riuscirò mai a ringraziarvi a sufficienza, voi mi avete salvato la vita.
Ma ho deciso di andarmene , perché non riesco a continuare a vivere in questa città. Vengo ingiustamente discriminata e sono sola. Io ho un dono, e non smetterò di usarlo perché non sta bene agli altri.
Con i soldi tenuti da parte ho deciso di andare a vivere in un appartamento in periferia, non è troppo lontano, verrò  a trovarvi spesso. Non so cosa fare con la scuola.
Ho la mia coltura, ma la mia missione è salvare il mondo dall’egoismo umano, la natura deve vivere, e io farò di tutto per fare in modo che ciò accada.
Ah, e accudite il passerotto che ho trovato stamattina, mi raccomando, vi farà ricordare di me.
A presto,
Dawn.”

 
Dopo aver scritto la lettera la ragazza uscì di casa e con in mano i due borsoni si avviò alla fermata dell’autobus.

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Capitolo 5
*** Heather. ***


Heather Wilson, 18 anni, ex studentessa di liceo ed ex drogata.

Alta, pelle chiara,capelli neri lunghi e lisci, occhi leggermente  a mandorla grigi, fisico magro, origini asiatiche.
Una mente diabolica, un cuore di pietra, senza pietà, la paura fatta persona del liceo. Solo la popolarità ed il successo contavano per lei, nient’altro.
Poi finì nel mondo della droga.

Come?
Così.

Heather Wilson, colei che comandava, colei che era imponente, se ti mettevi contro di lei eri finito. In titolo di ragazza più popolare della scuola, aveva chiunque ai suoi ordini. La sua popolarità era dovuta ad una bellezza orientale, un carattere di ferro, un cuore di pietra, un’intelligenza elevata e i soldi.
Era piena di amiche, che facevano tutto quello che lei voleva, quando era impreparata poteva sempre contare sull’aiuto di qualche secchione che le faceva i compiti o le verifiche, aveva i ragazzi più belli ai piedi, partecipava alle feste più esclusive e aveva i vestiti più belli di tutti.
Se ti prendeva di mira e ti scherniva, dovevi cambiare paese, o saresti stato una vittima per tutta la durata del liceo.
La ragazza aveva tutto e si sentiva perfetta. Non finchè iniziò quel periodo.
Come al solito a ricreazione Heather camminava per i corridoi circondata da ragazza, ovvero delle sue “amiche” che avevano la fortuna di non essere odiate, o almeno non troppo, da lei, e come camminava guardava male chiunque le capitasse a tiro. I poveracci si nascondevano, in preda al panico, pensando di essere stati presi di mira dalla Calcolatrice. In realtà ormai Heather lo faceva per divertimento, sogghignando alla vista di tutti quegli sfigati mangiarsi le unghie fino all’osso all’idea della loro vita finita.
Appena arrivata in mensa si sedette al suo tavolo esclusivo, ovvero il suo preferito, e nessuno osava avvicinarsi. Si accomodò a capotavola, tirando fuori l’Iphone 6, e ignorando i vari messaggi. “Tiffany, corri a prendermi un’insalata” disse Heather, rivolta ad un’amica dai lunghi capelli biondi. “Ma Heather… ho i soldi solo per la mia di insalata e..” “Vorrà dire che oggi salterai il pasto, tesoro!” esclamò Heather guardando la bionda dritta negli occhi, facendo in modo che si alzasse subito.
Questo era un classico episodio scolastico. Ma una sera, mentre era nella discoteca più IN di Toronto, Gold Luxury, Heather si avvicinò ad uno dei ragazzi più belli della sua scuola, Brian Brooks, un giocatore di football dai capelli biondi lucenti, l’abbronzatura perfetta, gli occhi verdi, un fisico muscoloso e un cervello equivalente ad una prugna secca.
“Ciao, Brian” si avvicinò sorniona la ragazza avvolta nel suo stretto minidress rosso fuoco.
“Ehy Heather” si voltò lui “Che bello vederti stasera. Posso offrirti da bere?”
“Certo, perché no” rispose la ragazza senza pensarci due volte. Dopo aver bevuto un Long Island e mezzo, aver ballato al centro della pista sotto gli occhi di tutti, il mascara colato per il sudore, Brian si avvicinò ad Heather “Che ne dici di appartarci in un posto più tranquillo?”
“Certo Brian” ridacchiò l’asiatica.
Dopo averla portata con il motorino in un grande campo, Brian salutò altre persone, sforzando la vista Heather si accorse che erano altri ragazzi della sua scuola, Justin Hoffman, Seth Williams, Mark Jhonson e altri, tutti belli, popolari ed idioti. Erano accampati con delle tende e un grande fuoco nel mezzo del campo, c’erano anche tavoli con sopra bottiglie di ogni genere di alcolico. Aveva notato altri ragazzi incappucciati, ma non ci badò subito.
C’erano anche delle ragazze, alcune le conosceva, erano della sua scuola, non popolari come lei ovviamente, ma avevano la fama di essere delle grandi puttane. Infatti erano in shorts cortissimi e canottierina o minidress troppo corti e stretti perfino per Heather. Le altre non le conosceva, ma anche loro erano vestite poco, per non dire svestite.
“Heather vuoi?” le chiese Brian improvvisamente facendo prendere un colpo alla ragazza.
“Cos’è?” chiese, guardando della polvere bianca in un sacchetto.
“Zucchero” rispose sogghignando una ragazza vicino a loro, con dei lunghi capelli rosso fuoco, trucco eccessivo, un neo vicino al labbro, numerosi tatuaggi sulle braccia, vestita con hot pants di jeans e una t shirt di Bob Marley.
“Credi di essere divertente?!” la attaccò Heather, ma Brian la fermò.
“Calmati Heather, Naomi scherzava solamente, so che sai cos’è”.
“Cocaina? E allora?” chiese Heather, cercando di nascondere un nuovo sentimento per lei.
Disagio. Di solito era lei a mettere a disagio la gente. E scoprì che non era per nulla piacevole.
“C-certo che voglio” rispose la ragazza incerta, non poteva passare per debole.
“Perfetto!Naomi preparaci delle strisce, offro io” rise il ragazzo, ma Heather voleva solo tirargli un pugno e scappare, ma non poteva.
La ragazza liberò un tavolo dalla bottiglie vuote sollevandolo e vennero fuori sei strisce perfette bianche.
Il ragazzo le infilò dei soldi negli hot pants, dopodiché la ragazza se ne andò,lanciando uno sguardo di scherno ad Heather.
Il resto della serata Heather lo passò a drogarsi contro la sua volontà, della serie “Se non lo faccio, penseranno che sono una sfigata,e io non posso permetterlo”.
La mattina dopo Heather si trovò sdraiata in mezzo all’erba insieme ad altra gente.
La voce non perse tempo, in poco meno di una settimana  in tutta la scuola si vociferava “Heather Wilson è una drogata” “La Wilson si droga, hai sentito?!” “Cosa non si fa per attirare l’attenzione… e non è semplice erba, ma proprio cocaina,crack, cose del genere…”
Ma dopo un po’ Heather non badava più alle voci, non rispondeva alle odiosi ed insistenti domande su Ask, Heather usufruiva dei soldi dei suoi per comprare la droga, ne stava diventando lentamente dipendente.
A scuola non ci andava più, era sparita dalla circolazione. La Wilson andava in quel campo a drogarsi.
Ma una cosa una sera le fece cambiare idea.
Una sera, mentre raccoglieva da delle casse sacchetti di plastica con cristalli di crack, sentì delle urla.
Corse e vide una sua amica, Karen, che le uscivano flotti di sangue dal naso, le si erano rotti vari capillari, al naso aveva una specie di schiuma, un misto tra coca e sangue. Il top a fascia fucsia era macchiato di sangue e lei strillava. Iniziò a correre come un’indemoniata senza motivo, mentre altre ragazze la rincorrevano per fermarla. Vicino a quel campo c’era un fiume e lei, drogata ed impazzita, corse fin lì. Ma mentre urlava e correva, inciampò in uno dei massi sulla riva del fiume, e, cadendo fin troppo velocemente, sbattè la faccia contro un sasso enorme e appuntito. Non si alzava più, e il sasso era completamente rosso. Tutti iniziarono a gridare, ma Heather rimase proprio scioccata, perché lei aveva visto bene, non era drogata.
Scappò via, entrò in casa, e si chiuse in camera. Rimase sotto shock quattro mesi, incapace di scacciare quel ricordo dalla mente. Aveva paura che potesse succedere anche a lei. In quei quattro mesi andò di usa volontà in un centro per tossici. Ne uscì sana, almeno credeva. Ancora, anche se poco, sentiva quella voglia immensa di polvere bianca.

Un mattino di settembre, l’asiatica stava camminando per le strade di Toronto. Si stava  dirigendo verso quell’appartamento, che aveva letto in un certo giornale.
Doveva cambiare aria, doveva dimenticare, doveva smettere.
 
 

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Capitolo 6
*** L'incontro ***


Ero appena arrivata davanti alla porta del mio nuovo appartamento, non era proprio in ottime condizioni ma non mi lamentavo. Ero così emozionata che non stavo più nella pelle!
 L’aprì lentamente, e, appena misi piede all’interno spalancai la bocca scioccata. A parte che l’appartamento era in condizioni molto più peggiori di quello che mi aspettassi, trovai sedute sul divano a forma di ferro di cavallo altre quattro ragazze, che già mi sembravano nervose, appena mi videro s’infuriarono .
“Un’altra? Ma cos’è, affittano a tutto il mondo ‘sto cesso di appartamento!” urlò una ragazza dai capelli lunghi e neri, con gli occhi leggermente a mandorla.
“E’ meglio che ve ne andiate tutte, è mio!” urlò un’altra con i capelli cotonati e un trucco un po’ eccessivo seppur perfetto.
“Ma chi me l’ha fatto fare? Non dovevo vivere in pace lontano da tutti?!” sbraitò un’ispanica con una grossa coperta sulle spalle.
L’ultima ragazza, una dark, si limitò a grugnire a guardarci tutte malissimo.
Dopo lo sfogo, tutte mi osservarono da capo a piedi e mi chiesero :”Non mi dire che abiti anche tu qui.”
“Emh… si.” Risposi io, sperando di non causare le urla di quelle ragazze.
“Ma veramente il proprietario aveva affittato questo schifo a ME!” urlò l’ispanica.
“Non credo proprio!” urlarono l’asiatica e la truccata.
“Se permettete” si alzò la dark “Questa casa è mia.”
Mentre tutte si urlavano addosso,io accennai timidamente:
“Emh… magari il proprietario ha pensato che, dato che tutte e cinque saremmo venute a vivere qui, fossimo insieme”
“O magari ci ha imbrogliate, così invece di prendere un solo affitto, ne prende cinque!” gridò l’asiatica.
“Già si vedeva dalla faccia che quel vecchio ubriacone che viveva in un buco era un pezzo di merda…” ringhiò la dark.
“Comunque, che ci piaccia o no, ora viviamo tutte insieme” concluse l’ispanica “Che ne dite di presentarci, ignorando le iniziali urla?”
“Va bene” dissero le ragazze, e ci sedemmo sul divano non troppo stabile.
“Courtney.”
“Heather.”
“Anne Maria.”
“Gwen.”
“Dawn.”
“Ok.”
“Ok.”
Dopo  queste  presentazioni  non troppo lunghe, e dopo circa un minuto di silenzio, parlai.
“Ragazze, so che siete venute tutte qui per un motivo… per abbandonare la vostra vita, che vi ha causato molte sofferenze.. o sbaglio?”
“E tu come fai a saperlo?!” gridò quasi Anne Maria.
“Ho intuito” mentì “Anche io sono qui per questo motivo.”
Nessuna di loro parlò per qualche secondo, poi Courtney disse:
“Eccome. I miei genitori mi hanno costretto a fare tutto quello che volevano loro, e per una volta che ho trasgredito le regole sono rimasta tradita dal mio “ragazzo”, abbandonata dalla mia famiglia e incinta.”
“Non mi pare che tu abbia il pancione” osservò di nuovo Anne Maria
“L’ho perso. Una macchina mi è venuta addosso una notte. Vivevo per strada, perché la mia famiglia ora mi odia, perché non sono come vogliono loro.”
Disse abbassando la testa con voce rotta e stringendo le unghie nei ginocchi.
“Io” parlò Anne Maria “mi sono prostituita perché mia mamma aveva un tumore, e non avevo soldi per curarlo, oltre la casa ipotecata. Quando ho raggiunto la somma era troppo tardi, è morta. Quel lurido di mio padre non so dove sia, e ho un fratello in Italia.”
Dopo altro silenzio, parlò Gwen.
“Sono stata vittima di bullismo. Insulti, prese per il culo, pugni , calci , vomito. Ho resistito tre anni e un po’, poi ho detto “basta”, perché per colpa loro sono diventata una cazzo di bulimica e autolesionista. I miei se ne fregavano. Sono scappata.”
Lasciai parlare Heather.
“io avevo il tuo esatto problema opposto. Ero una delle più popolari della scuola, e la popolarità mi aveva accecato al punto di diventare la più temuta della scuola. Era bello per me, ma non sapevo di essere diventata un mostro senza cuore, e me ne sono accorta dopo essere rimasta sola. Mi sono data alla droga e all’alcool, tanto a nessuno importava, ero sola.”
Tutte mi guardarono, aspettando la mia storia.
“Io sono stata adottata, ma non è questo il problema. Ho un dono, so leggere l’anima della gente e comunicare con gli animali, per questo sapevo perché eravate qui. Nessuno mi parlava per questo, pensavano fossi pazza, ero completamente sola.”
Ci fu altro silenzio, poi Courtney parlò:
“Beh… se siamo qui siamo qui per ricominciare, no? Non pensiamo al passato. Guardiamo avanti”
“In fondo c’è una cosa che ci accomuna… la solitudine.” Dissi
“Ha ragione.” Esclamò Gwen riferendosi a me.
“E allora basta pensarci, anche se sarà difficile! “ si alzò Heather
“Già! Ora che ci conosciamo, sistemiamoci, la vita va avanti.” Concluse Anne Maria sorridendo.

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Capitolo 7
*** Soldi ***


L’appartamento era una vera catapecchia. Porta sganghera, muri crepati color grigio topo, una finestra in ogni stanza, rotta. Pavimenti sporchi, camere microscopiche.
Come il resto dell’appartamento: una cucina lunga tre metri e larga uno, una sala piccola dove stava il divano a ferro di cavallo, e davanti un mobile vecchio come il cucco su cui stava un televisore sicuramente rotto, un bagno che non osavo andare a vedere, e quattro camere da letto un po’ più grandi della cucina. Una aveva due letti.
“Allora, dato che è abbastanza tardi direi di andare a dormire… domani vedremo cosa fare” annunciai, e le altre mi sembrarono d’accordo. Ora però c’era il problema delle camere: chi sarebbe andato in quella doppia?
“Emh… Gwen… posso dormire con te?” chiese Dawn timidamente, quella ragazzina faceva tenerezza.
Gwen la guardò stupita, poi accettò, limitandosi ad annuire.
Alla fine io, Heather e Anne Maria avevamo le altre tre camere. Entrai nella stanza, c’era un letto sganghero, nient’altro.
Con estrema delicatezza mi stesi. Non dormivo in un letto da mesi. Anche se era mezzo rotto e non troppo comodo, era troppo bello per essere vero. Tsk, chi si aspettava che Courtney Barlow sarebbe stata entusiasta di dormire in un letto rotto e scomodo.
Pensai prima di addormentarmi. Pensai alla mia nuova vita, mi sarei cercata un lavoro, ed avrei condiviso la casa con le altre ragazze finchè non sarei riuscita a farmi una nuova vita.
Poi, anche se avevamo promesso di non farlo, pensai al passato. Più di tutti pensai al mio bambino, chissà come sarebbe stato, a chi avrebbe assomigliato, che nome gli avrei dato, se fosse stato maschio o femmina.
I miei genitori non mi cercavano, nemmeno Duncan. Doppiamente tradita.
Mi rigirai nel letto finchè non mi addormentai.
 
La mattina seguente, mi alzai alle undici, mai svegliata così tardi. Mi alzai e camminai fino alla sala, dove trovai Dawn seduta sul balconcino a gambe incrociate. Cercai di camminare il più silenziosamente possibile, ma appena mossi il primo passo, la biondina parlò.
“Ben svegliata Courtney” mi salutò lei senza nemmeno girarsi nella mia direzione.
“B-buongiorno Dawn” le risposi cercando di stare calma. “Non c’è motivo per cui tu ti debba preoccupare, ho semplicemente sentito la tua presenza.”
“Capisco” risposi incerta “C’è la colazione? Dove sono le altre?”
“Dormono tutte, io sono in piedi dalle sei. E non c’è cibo, infatti sono scesa nel bar qua di fronte e ho preso un caffelatte. Puoi andarci se vuoi.”
Cercai di mascherare il mio imbarazzo, ma lei se ne accorse magicamente. “Oddio scusa è vero, dimenticavo che tu non hai soldi. Te li presto se vuoi.”
“Non c’è bisogno che ti disturbi.” “Ma scherzi? Prendi cinque dollari, tieni il resto”
La ragazzina si alzò e me li consegnò direttamente sul palmo della mano. Mi sorrise e io ricambiai.
Ma poi mi guardai nello specchio crepato che stava appeso vicino al mobile della televisione. Ero orribile. Avevo delle occhiaie gonfie, i capelli schifosi, ero vestita con una copertona di lana verde militare addosso e sotto dei jeans da buttare e una t-shirt tutta bianca che avevo rubato al mercato.
“Non posso uscire conciata così”. Lei non parlò, evidentemente era un modo carino per dire che avevo ragione.
“Ti presto i miei vestiti se vuoi
“Lascia stare, semmai ci andrò dopo. Grazie mille lo stesso”
“Figurati” mi rispose, ma io già mi stavo dirigendo verso le altre camere. Non so perché, ma volevo controllare le altre.
La porta della camera di Gwen e Dawn era aperta, mi affacciai e vidi Gwen che dormiva con la coperta fino alle orecchie. Sorrisi, pensando al fatto che quando si risveglierà non sarà costretta ad andare a scuola.
La porta di Heather era chiusa a chiave, quindi evitai. Anne Maria invece dormiva tutta rannicchiata in un angolino del letto, evidentemente essendo abituata a divederlo con qualcuno non le era passato quel modo di fare.
Mezz’ora dopo Heather si alzò, un’ora dopo anche Anne Maria e Gwen . Non ci parlammo, fin quando Anne Maria piagnucolò :”Ma non c’è cibo in questa casa??”
“Ragazze, se dobbiamo vivere insieme è il caso che ci sistemiamo economicamente.” Disse Heather con una punta ben accennata di irritazione.
“Ma la signorina qua non aveva trentamila dollari?” intervenne Gwen riferendosi ad Anne Maria.
“Diciamo che… avevo trentamila dollari” rispose lei.
“COSA?!” urlammo tutte,sconvolte.
“Gran parte l’ho spedita in Italia dai miei nonni e mio fratello. Anche loro sono in una situazione poco bella, e dovevo aiutarli. Sai tesoro, sono pensionati con un bambino piccolo, e non è che c’hanno tutto ‘sto patrimonio di pensione!” urlò in faccia a Gwen.
“Okay calmiamoci!” intervenni “Anne Maria, quanto ti è rimasto più o meno?”
“Diciamo, una cosa come quindicimila dollari…”
“E sono tutti sul tuo conto bancario?”
“Esattamente.”
“Beh, non è che quei soldi saranno infiniti, quindi io proporrei di cercarci un lavoro” parlò Dawn.
“Hai ragione.”
“Ma che ragione e ragione? Abbiamo un sacco di soldi contando anche i miei, quelli della darkettona e della fatina! Qua l’unica senza un centesimo sei tu!” urlò Heather accanendosi su di me.
“Ah si? Bene allora vacci tu a dormire per terra, senza un tetto, senza niente e nessuno! Ah scusa, dimenticavo, tu sei troppo chic per fare cose del genere, scusami!” dissi sbraitando in faccia a quella troia.
“La volete smettere!” urlò Dawn, e noi tutte ci ammutolimmo, scioccate dal grido della ragazza.
“Ma insomma! Pensate di concludere qualcosa così?” Dawn aveva perso la pazienza, incredibile ma vero.
Dopo qualche minuto di silenzio, Dawn riparlò:
“Penso che se innanzi tutto comprassimo questo appartamento ci risparmieremo molti problemi, in fondo, come ha detto Heather, abbiamo un sacco di soldi!”
L’asiatica stava per replicare, ma l’occhiataccia che tutte noi le lanciammo bastò a farla tacere.
“Io non chiamo quel vecchio ubriacone” disse Gwen riferendosi al proprietario dell’appartamento. “Mi sa tanto di vecchio pazzo maniaco alcolizzato”.
“Perché non ci facciamo parlare Heather?” proposi sarcastica, ma lei mi uccise con lo sguardo.
“Ci pensiamo dopo” ci zittì Gwen “Dobbiamo anche chiamare un idraulico… non so se avete visto il bagno.”
“Visto Heather? Abbiamo un sacco di spese. Un lavoro non farà male a nessuno!” replicò Dawn allegra, ma Heather la guardò come si guarda un verme.
“Allora, quanti soldi abbiamo?” intervenne Anne Maria per non scatenare una guerra.
Dopo brevi calcoli, annunciai : “Siamo a quota sedicimila e cento dollari.”
“Qualcuno chiami l’idraulico!” urlò Heather schifata alla vista del bagno.
 
Qualche ora dopo, l’idraulico finì il suo lavoro. Io non mi ero azzardata ad andare a vedere il bagno, ma a giudicare dalla faccia delle ragazze doveva essere una cosa disgustosa.
“Fanno cinquemila dollari.” Urlò l’uomo che mi fece saltare per lo spavento.
“Cinquemila?!” esclamai.
“Senta, non so ha visto il bagno prima che io ci mettessi mano, ok? E in cinque ore non ho mai sistemato così bene un catorcio di bagno come quello.”
Sbuffando porsi i soldi all’uomo che se ne andò. Dawn voleva sistemare tutta la casa, ma io le avevo detto che per ora sarebbe stato meglio aggiustare solo l’indispensabile.
Ci voleva un nuovo gas e forno, un’antenna satellitare e una lavatrice nuova … quindi avevamo parecchio da spendere.
……
Una settimana dopo, tra grida isteriche, soldi che se ne andavano e stress generale, avevamo una casa che sfiorava i limiti della  decenza.
Tra trecento dollari di lavatrice, settecento per forno e gas, e i cento dollari per sistemare la televisione, ben poco c’era rimasto. Inoltre volevamo comprare l’appartamento, cosa che ora era impossibile, c’erano rimasti mille dollari e un po’.
“E il peggio che il lavoro non sarebbe finito qui” disse Gwen riferendosi alle camere, alle porte e alle finestre.
“Ragazze, ci penseremo più avanti ok?” la zittì Heather estremamente irritata.
“Dai basta, andiamo a dormire ora, domani io esco presto, che voglio cercare un lavoro” annunciai alle altre mentre me ne andavo in stanza.

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