La bizzarra avventura del manichino Verzetti e della vampiretta Carmilla

di Dzoro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** Tre ***
Capitolo 4: *** Quattro ***
Capitolo 5: *** Cinque ***
Capitolo 6: *** Sei ***
Capitolo 7: *** Sette ***
Capitolo 8: *** Otto ***
Capitolo 9: *** Nove ***
Capitolo 10: *** Dieci ***
Capitolo 11: *** Undici ***
Capitolo 12: *** Dodici ***
Capitolo 13: *** Tredici ***
Capitolo 14: *** Soundtrack ***
Capitolo 15: *** Quattordici ***
Capitolo 16: *** Quindici ***
Capitolo 17: *** Sedici ***



Capitolo 1
*** Uno ***


Uno
 
Le tapparelle lasciarono entrare la consueta luce pomeridiana rosso cupo: la lente solare doveva essere ancora attiva, il tramonto sarebbe giunto di lì a poco. Era ora di svegliarsi. Verzetti, aperta la finestra, ritornò al suo letto, mentre le giunture delle articolazioni scricchiolavano rumorosamente e dolorosamente. Olio di oliva, gli avevano detto una volta. Toglie il rumore e ti fa sentire come appena uscito dalla fabbrica, puoi fare i salti mortali con l’olio d’oliva. Peccato che trovarne una bottiglia era meno difficile solo di trovare i soldi per pagarla. I pipistrelli ovviamente non se ne facevano nulla, i grigi preferivano mangiare nelle loro mense puzzolenti, che si vociferava fossero stata la causa dell’estinzione dei cani nel 2045. Verzetti prendeva lì il suo olio lubrificante, olio da frittura usato, denso e grumoso. E gratis.
Ritornato al letto, lo tastò in cerca del suo braccio destro. Gli si staccava sempre mentre dormiva il braccio destro, sulla sua scatola c’era scritto “smontabile per una più facile pulizia”, che idea del cavolo. Lo trovò sotto il cuscino, Dio solo sa come fosse finito lì.
In cucina lo attendevano il flacone d’olio, che troneggiava nella sua untuosità appiccicosa sul tavolo, e un po’ di pubblicità infilate sotto la porta d’ingresso. Le lesse, subito dopo aver applicato un po’ dell’olio con un cucchiaio da cucina sulle giunture doloranti: “Maialini Lombardoni, pratici come un maialino, buoni come un sapiens!” gridava a gran voce il primo volantino, mostrando una mandria di porcellini allegri e saltellanti, evidentemente ignari di essere ormai l’unica fonte di sostentamento dei pipistrelli. Verzetti la accartocciò, producendo un crepitio elettronico mentre l’lcd supersottile si sgretolava tra le sue dita. La seconda era qualcosa sui diritti dei grigi, la terza, ironicamente, era il solito “aiutiamoli a casa loro” di un partito di pipistrelli di estrema destra. Se ne faceva un gran parlare ultimamente dei grigi, era come una moda scoppiata da poco. Era ironico di come perfino un invasione aliena fosse passata in secondo piano, solo per essere accaduta in concomitanza con la presa del potere dei pipistrelli. La quarta pubblicità era quella di un centro benessere per manichini, e non a caso fu quella su cui lui si soffermò più a lungo, anche perché il modello che si rilassava in un bagno di olio di cocco sul depliant era del suo stesso esemplare di produzione, secco e color beige, con la faccia lucida e perennemente sorridente. Verzetti non osò guardarlo fino alla fine, non voleva sapere quanto costasse. Gettò tutti i volantini a terra, e dalla sua bocca immobile uscì un sospiro:
- Ho bisogno di un lavoro.
Il telefono, appoggiato sul pavimento, squillò. Verzetti girò la testa di scatto, attese ancora due squilli, quindi si buttò a terra e alzò la cornetta:
- Clinica Verzetti, desidera?
- Sono Dracula Camarilla.-  nome da vampiro comune, già sentito e mai sentito prima.
- Di cosa ha bisogno?-
- Ho bisogno di un medico per… una mia parente.– c’era una certa inquietudine nella voce del pipistrello, come un tremolio – Ha tempo?-
- Un attimo, controllo la mia agenda…- Verzetti coprì con una mano la cornetta, e passò dieci secondi ad esultare silenziosamente, scuotendo il suo pugno chiuso – Sono libero. Di cosa ha bisogno?-
- Si tratta di mia figlia,- aveva decisamente una voce preoccupata. – Stanotte si è svegliata… come dire… beh, viva.
Varzetti, se avesse avuto degli occhi, li avrebbe strabuzzati.

 

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Capitolo 2
*** Due ***


Due
Verzetti trovò l’appartamento di Camarilla in un quartiere ancora devastato dai bombardamenti chimici dei Pipistrelli, ai tempi della guerra con i sapiens. Vedeva dalle finestre più alte dei palazzi pendere gli stendardi di qualche clan mutante, ricavati da lenzuola dipinte con bombolette di vernice spray. I bitorzoluti dovevano occupare per intero i piani superiori, magari insieme a qualche famiglia di grigi. Parcheggiò il suo Maggiolino blu davanti all’indirizzo comunicatogli dal cliente. Indossava già il camice bianco, e in mano reggeva la borsa di pelle di squalo terrestre con dentro i ferri. Sperò che Dracula Camarilla fosse soltanto il solito pipistrello rimbecillito dalla senilità secolare, e che la presunta resurrezione fosse soltanto un caso mal interpretato di etilite, malattia comune tra i pipistrelli, che si verifica quando bevono sangue di un mammifero con alcol in circolo, e che ha come sintomo rossori diffusi su tutta la pelle. Però aveva bisogno di soldi: avrebbe visitato la ragazza, avrebbe detto che era tutto a posto e quindi svuotato il portafoglio del gonzo.
Suonò al citofono, la porta si aprì immediatamente, e Verzetti scese le scale, fino alla porta di casa Camarilla. Gli aprì un Pipistrello calvo, con le orecchie leggermente appuntite e con delle gambe sottili assolutamente inadatte a sorreggere il resto del suo corpo, gonfio e rotondeggiante, fasciato da una tuta da ginnastica rossa.
- Grazie per essere venuto! Entri, mia figlia Carmilla è in camera sua, l’aspetta.
 Carmilla Camarilla. Un altro nome da pipistrello proletario. Verzetti si dovette chinare per entrare nello scantinato del suo cliente. Non era un Pipistrello benestante, di quelli con le case che si stendono per cunicoli e cunicoli sottoterra. Anzi, qui si trattava di un bilocale quasi a livello del suolo, con dei lucernari spalmati di pece per non far entrare la luce di giorno. Il che significava che la lente solare doveva coprire malissimo quella zona, il che significava che aveva trovato l’ennesimo paziente-pezzente, e che avrebbe dovuto scrollargli per bene il portafoglio. Passarono il salotto, dove su un tavolino di linoleum stavano alcune sacche di sangue di soia vuote, con i rimasugli raggrumati e marroni sul fondo del sacchetto di plastica. Accanto, invece, c’era un sacchetto di tela da cui spuntavano una scatoletta di dado granulare, della verdura rossa e oblunga e una scatola di cioccolatini al wafer e wasabi.
 - E’ da secoli che non ho più a che fare col cibo sapiens, ho raccattato quello che trovavo in giro – si scusò Dracula, ammucchiando fra le braccia tutto ciò che stava sul tavolo e gettandolo nel cestino – ma mi segua, per piacere.
 Passarono oltre, verso una porta chiusa.
 - Io è meglio che mi fermi qui. Non vorrei mai farle del male per sbaglio. Sa, sangue vero di sapiens non ne tocco da un po’. Dovrei proprio decidermi a prendere uno di quei maialini, non so se ne ha mai sentito parlare.
 - Vagamente.
 Con tutti quei discorsi da poveraccio, Verzetti si ripromise di chiedergli al più presto un anticipo, prima di vedere la sua paga finire in dadi da brodo e maialini da sangue. Il suo cliente gli aprì la porta. Entrò in una stanza arredata con vecchi mobili ikea. C’era anche una piccola bara, e accanto ad essa una bambola senza un occhio, un castoro di peluche e un criceto dentro una gabbietta a forma di cuore. La bara era aperta, e Carmilla, che non dimostrava più di otto anni standard, sedeva per terra vicino al coperchio: era ancora in camicia da giorno, e sotto un cappellino di lana viola si scorgevano chiaramente guance rosse e due begli occhi vispi, il che confermava l’ipotesi dell’etilite. Verzetti sorrise, sentendosi all’improvviso nella proverbiale botte di ferro. La bambina stava mangiando contemporaneamente un pacchetto di biscotti e della marmellata di brugni, una delle poche specialità dei grigi integrate nella cucina terrestre. Gli avevano detto che diluito nell’acqua era un’ottima colla per saldature. Se la paga non gli avesse permesso di cambiare quella famosa rotula, forse poteva provarci. La ragazzina aveva appena finito di spalmare altro brugno su un biscotto e lo inghiottì in un sol boccone. Aveva appetito. Poveretta, probabilmente avrebbe vomitato tutto una volta scoperto che era ancora un pipistrello.
- Ciao Carmilla.
La bambina emise un suono che poteva essere sia interpretato come un ciao che come la foga della masticazione.
- Sono il dottor Verzetti, come ti senti?
- Benissimo!- esclamò sorridente. Allegria, un altro chiaro segno di alcool in corpo.
- Ottimo piccola, che ne dici se ti sento il polso un attimo?
- Mh-mh.- rispose Carmilla, masticando il biscotto e porgendo il braccio al dottore. Verzetti lo prese tra le sue dita di polistirene. Con la coda dell’occhio, notò che Dracula stava sbirciando dalla soglia della porta. Verzetti rivolse a lui, ed era già pronto a dire tutto a posto, è assente, può tranquillizzarsi. E invece si gettò urlando contro una parete: era la prima volta in vita sua che sentiva un battito in un polso.

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Capitolo 3
*** Tre ***


Tre

- Porco brodo!- balbettò Verzetti, riprendendo il controllo.
- Sconvolgente, vero?- chiese Dracula, in lontananza. Verzetti, senza rispondere, gattonò fino alla sua borsa, e la frugò in cerca dello stetoscopio: lo trovò dentro la scatolina di cartone in cui lo aveva comprato, aperta solo una volta dopo l’acquisto. L’attrezzo era ricoperto di raganatele, e una famiglia di aracnidi dal corpo nero e arancione scappò a gambe levate non appena il coperchio venne alzato. Verzetti scrollò lo stetoscopio dai fili e dalla polvere, lo infilò nei due buchi auricolari sulle sue tempie e si avvicinò di nuovo alla bimba.
- P…posso?- le chiese.
Lei annuì, con l’espressione innocente e perplessa che fanno i bambini davanti ad un adulto che si comporta in modo strano. Verzetti appoggiò lo stetoscopio, e lo sentì di nuovo. I bum cadenzati della punta di un cuore che batte contro la cassa toracica di un essere umano vivo.
Verzetti si alzò di scatto, corse fuori dalla stanza e, appena raggiunto Dracula, lo agguantò per il bavero:
- Ma è viva!
- Beh, è quello che le ho detto al telefono. Incredibile, no? Mai vista una cosa del genere. Succede spesso, dottore? È curabile?
Verzetti balbettò qualche parola senza senso, in preda allo stupore: possibile che quell’idiota non capisse la gravità di quello che era successo?
- Curabile? Curabile?- gli gridò in faccia, scuotendolo come un sapiens avrebbe shakerato il suo martini.
- Cosa succede dottore? È grave?
- Sua figlia è tornata UMANA! Come ha fatto a procurarsi un modulo di regressione? Come l’ha pagato?-
Dracula fissò Verzetti con i suoi occhi ottusi e acquosi. Era evidente che non aveva idea di cosa stesse parlando. Lo mollò, e barcollò fino ad una sedia, sulla quale si accasciò senza forze.
- Dottore? Si sente bene?- chiese Dracula.
- Una favola.-
- Quindi… è malata, no? È il morbo di Cullen?- chiese, citando la più famosa malattia nel mondo dei pipistrelli.
- No, mi sembra che le sue capacità intellettive fossero nella norma. Brilla esposta alla luce?
- No, non penso…
- Allora non lo è.- Verzetti rispose per inerzia, la domanda era stupida, in una situazione normale non l’avrebbe nemmeno considerata. Si ricompose, cercò le parole, e infine disse:
- Lei sa che cos’è una Regressione?
- Vuol dire… tornare sapiens, no?
- Esatto. Di solito è appannaggio di qualche ricco eccentrico che ha voglia di bere sangue sapiens. È una procedura lunga, bisogna estrarre tutto il sangue dal corpo, immetterne di nuovo pulito, riavviare il cuore con un defibrillatore a pila atomica, e anche così si ottiene solo un surrogato di sapiens, non… non quello che si trova in quella stanza! Non è possibile che a sua figlia sia successo e basta!
- Beh… è successo.- rispose Dracula. Sorrise. Sorrise alzando le spalle, come a dire che si fa?
Verzetti guardò di nuovo l’ingresso della stanza: sentì la bambina, dall’altra parte, che canticchiava.
- Vado a parlarle. Devo aver sbagliato qualcosa, farò altri test.-
- Grazie mille! Le posso preparare un po’ d’olio caldo?
- Sì, va bene.
- Lo prende zuccherato?
- Due cucchiaini, macchiato con aceto.
Verzetti barcollò stordito attraverso l’ingresso della cameretta, come se ce l’avesse lui l’etilite. Chiuse la porta.
- Carmilla, senti…- iniziò a dire. La bambina lo guardò con le guance gonfie di biscotti, riuscendo ad assomigliare in modo impressionante al suo criceto.
- Hai fatto qualcosa di strano ultimamente? Mangiato qualcosa, bevuto sangue di mutante?- lo chiese, anche se l’ipotesi che la piccola Carmilla si fosse attaccata alla giugulare di un troll alto due metri era perlomeno improbabile.
Carmilla rise:
- Bere il fangue? Ah ah!- inghiottì il biscotto – Mica sono un vampiro!-
- Ma sì piccola, sì che lo sei!- Verzetti si sedette accanto a lei sul bordo della bara – Mi sa che sei confusa.-
- Non prendermi in giro! I Vampiri non esistono!- ride ancora lei. Verzetti rimase senza parole.
- Come dici?- fece. Poi, la parete esplose.

Ciao belli! Scusate la brevità dei capitoli, vi prometto che ne metto su un paio alla settimana almeno. Vedo che siete in tanti a seguire le brave gesta del dottor Verzetti, quindi domo arigato, che in giapponese vuol dire salsa di soia. Mettete la storia tra le seguite e restate mitici così come siete adesso!
Se avete suggerimenti, o qualcosa che vorreste vedere nella storia ditemelo pure! Inserirò qualsiasi cosa, a patto che non entri nella seguente lista:
  • partite di quidditch
  • mr. mime
  • cotechini
  • vostra nonna
​ed è tutto. Besos!
Dzoro
 

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Capitolo 4
*** Quattro ***


Quattro
Le micro cariche al plastico demolirono prima il lucernario oscurato, tramutandolo in una nuvola di sabbia incandescente. Poi l’onda d’urto piegò la parete fino al limite della sua resistenza elastica, e la tramutò in una pioggia di calcinacci fumanti. Verzetti protesse istintivamente la bambina col suo corpo. La afferrò, e finirono entrambi nella bara aperta, prima che l’onda d’urto degli esplosivi la scaraventasse contro il muro. Finirono entrambi per terra, con la bara che li copriva come un coperchio. Nel giro di pochi minuti, la stanza venne invasa da una decina di soldati granchio, che impugnavano enormi cilindri d’assalto in fibra di plastica con impugnatura da motosega, dotati di moduli esplosivi e mitragliatore integrato. Perlustrarono velocemente la stanza, poi uno di loro prese una grossa radio tattica, simile ad una cornetta di un vecchio telefono, e disse:
- Pulito, venga pure.
Dallo squarcio nella parete, da dietro la cortina di fumo e vapore giallo alzata dal plastico bruciato, emerse un ufficiale granchio alto almeno due metri. La sua armatura arancione era perfino più massiccia di quella dei suoi sottoposti, e la testa non era protetta dal tipico elmo piatto dei soldati della Vampire Assault Fighting Forces Allied, ma da un berretto militare sopra il quale spiccava una spilletta a forma di svastica. Le sue braccia terminavano in due massicce mech-chele. Il suo volto sembrava scolpito nel legno.
- In nome del Parlamento, questa unità abitativa è sotto il controllo dell’esercito.- tuonò.
La porta della cameretta si aprì: Dracula entrò con un vassoietto con sopra un bricchetto di olio caldo e una tazzina.
- Avevo finito l’aceto, sperò che vada comunque ben…- Dracula lasciò cadere tutto per la sorpresa, e lasciò che la mascella gli penzolasse fino al pavimento. L’ufficiale lo squadrò con i suoi occhi azzurro ghiaccio, e poi gli si avvicinò, finché il suo volto non distò più che una spanna da quello di Dracula.
- Dracula Camarilla?
- S…sì?
- Sono il tenente Augusto Italo Controcazzi. I nostri sensori hanno rivelato attività sapiens in questo appartamento. Abbiamo il sospetto che lei abbia eseguito una regressione non autorizzata su di un vampiro, che le ricordo essere un crimine perseguibile a norma di legge. Parliamo di una pena fino a quindici minuti di solarium, signor Camarilla.
Il volto di Dracula era ridotto ad un lenzuolo grondante di sudore freddo. Provò a parlare, ma riuscì solo a balbettare una cosa che assomigliava a pe-pe-pe-pe.
- Non mi sta aiutando, signor Camarilla.- ringhiò Controcazzi.
Verzetti, sotto la bara capovolta, mise una mano sulla bocca della bambina, e sussurrò:
- Qualsiasi cosa succeda, non ti muovere, non parlare. Resta ferma dove sei, se non vuoi finire sul menù di un parlamentare pipistrello.
La bambina rimase immobile.
- Dov’è il sapiens, Camarilla?- fece Controcazzi, schiacciando il suo naso contro quello di Dracula.
- Ma c…c… c’era davvero bi… bisogno di far saltare la parete?- chiese Dracula.
- C’È SEMPRE BISOGNO DI FAR SALTARE LE PARETI! È qui per collaborare o per insegnarmi a fare il mio lavoro? Oppure le è venuta voglia di farsi una bella abbronzatura?- concluse la frase digrignando i denti, con nel tono di voce una sfumatura di maligna crudeltà.
- Tenente!- gridò un soldato. Controcazzi si voltò.
- Cosa c’è?
- I sensori rilevano segni di vita qua sotto.
Varzetti si irrigidì.
- Che aspettate? Alzatela!- ordinò Controcazzi.

Grazie a tutti per il supporto, siete dei grandi! Vedo che ci sono già fan di Verzetti e Carmilla, ma purtroppo ancora nessuno del povero Dracula. E dire che speravo tanto di leggere una bella fanfic yaoi su di lui e Edward Cullen. Al primo che la scrive regalo dieci punti per griffondoro! Ciao!
Dzoro

 

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Capitolo 5
*** Cinque ***


Cinque

- È un circeto signore!- esclamò il soldato, estraendo la gabbietta a forma di cuore dalle macerie.
- MALEDIZIONE!- urlò Controcazzi, afferrando con la mech-chela l’unico pezzo rimasto in piedi del muro, glassato dal calore dell’esplosione in un cumulo di pasta vetrosa, e sbriciolandolo. Dopodiché prese da una tasca dell’armatura un tubetto d’alluminio di steroidi, ne ingoiò metà e stritolò nella morsa d’acciaio della sua chela meccanica il resto.
- Frugate tutto l’appartamento! Il sapiens non deve essere lontano!-
I soldati uscirono dalla stanza, Verzetti sentì distintamente i loro passi allontanarsi, e poi rumori di mobili ribaltati, cassetti aperti e porte sfondate a calci. Niente di strano, i vampiri della Vampire Assault Fighting Forces Allied non erano certo conosciuti per la loro delicatezza. Alzò leggermente la bara da terra: nella stanza era rimasto solo Dracula, che sembrava sul punto di scoppiare a piangere.
- Signor Camarilla!- sibilò Verzetti. Il pipistrello lo notò subito. Lanciò un occhiata di sbieco all’ingresso, mentre si sentiva Controcazzi urlare da lontano:
- Non vi hanno insegnato niente all’accademia? Dovete rompere tutte le bottiglie, non lasciate un coccio intero! E SFONDATELE QUELLE PORTE!-
Dracula si avvicinò alla bara:
- Ma cosa è successo? Sta bene? Dov’è Carmilla?-
- Babbo!- fece la bambina da sotto la bara.
- Oh, Carmillina, topolino mio! Non pensavo sarebbero arrivati così presto, che guaio…- Dracula si morse le dita, lanciando un'altra occhiata spaventata al soggiorno, mentre Controcazzi urlava:
- Sei un soldato, il tuo lavoro non è preoccuparti dei civili, è distruggere e rovinare tutto ciò che è bello!-
- Non ha colpa,- disse Verzetti. – Non avevo idea che il Parlamento prendesse certe misure di sicurezza contro i sapiens. Dobbiamo scappare, riesce a distrarli mentre io porto via la bambina?-
Dracula sussultò. Guardò ancora una volta l’ingresso, per assicurarsi che non stesse arrivando nessuno. Poi disse:
- Va bene.-
Dracula uscì dalla cameretta. Si sentì la sua voce, provenire dal salotto:
- Scusate, signori…-
Verzetti alzò la bara,prese la bambina per mano.
- Andiamocene!-
- Non prendiamo il signor castoro e il signor dentini?- Chiese Carmilla.
- Li torniamo a prendere dopo, dai, dai…- disse Verzetti.
Si alzarono entrambi e, in punta di piedi, si diressero fino allo squarcio nella parete.
- Cosa c’è, civile?- sbraitò Controcazzi.
- Mi chiedevo… ho del budino in frigo, non è che ne vorreste un po’?- Verzetti si immobilizzò, e si portò una mano alla faccia: Dio mio, non è riuscito a inventarsi nulla di meglio?
- Budino? DEL BUDINO?- urlò Controcazzi, e la sua voce fece tremare le pareti.
- N… non vi piace?- fece Dracula, balbettando in modo imbarazzante.
- Il budino è il mio dolce PREFERITO! SOLDATI! Budino per tutti, poi torniamo a distruggere tutto quello che è rimasto intero!-
Mentre i soldati esultavano, Verzetti tirò un sospiro di sollievo. In effetti i pipistrelli andavano matti per i dolci, un alto livello di zucchero nel sangue era come la cocaina per un sapiens. Ovviamente erano tutti dolci di sangue: sanguinaccio, budino di sangue, cookies con pepite al cioccolato di mestruo, cose del genere.
- Via, via!- fece alla bambina, ed entrambi uscirono dalla stanza.
La strada sembrava tranquilla, e il maggiolino era dove l’aveva lasciato. Trascinando la bambina per un braccio, aprì la portiera anteriore del passeggero, occupato da riviste e bricchetti di olio da bere in tetrapak, con le cannucce che gocciolavano ancora qualche stilla del denso liquido dorato.
Verzetti buttò tutto sui sedili di dietro e fece sedere la bimba. Poi si sedette anche lui, regolando con un riflesso condizionato lo specchietto retrovisore.
- Signor robot?- fece Carmilla.
- Sono un manichino, piccola, non un robot. Aspetta!- Verzetti allungò un braccio sul sedile di dietro: il panino allo sgnaulo lasciato dal suo ultimo cliente era ancora lì, avvolto nell’alluminio. Verzetti si ripromise di non operare più pazienti grigi, lasciavano dappertutto la loro sporcizia. Scartò il panino, lo buttò dal finestrino e fece un cappellino con la carta stagnola. Lo mise in testa a Carmilla, sopra il cappellino di lana viola.
- Così i loro sensori non possono rintracciarti. Andiamo, via!-
Avviò la macchina, e partirono in direzione di casa sua. Non sapeva dove avrebbe potuto portarla altrimenti.
- Signor robot, ma cosa sta succedendo? Dove siamo?-
- Stai tranquilla Carmilla, andrà tutto bene, troveremo una soluzione…
- Camilla.
- Eh?
- Tu lo dici strano, con la erre! Mi chiamo Camilla.
Verzetti guardò la bambina, senza sapere cosa pensare. Poi, qualcosa atterrò sul tetto della macchina. Il soffitto si schiacciò, arrivando a una spanna dalla testa di Verzetti. La macchina venne sollevata da terra. Verzetti si sporse dal finestrino: era una gru magnetica. Su tutta la superficie del braccio meccanico erano stati disegnati graffiti multicolore con una bomboletta spray, il che significava una cosa sola: mutanti.

Grazie a tutti voi che leggete, siete dei giganti. Mettete la storia tra le preferite, tra le seguite, segnalatela per le scelte, fatela leggere a vostra nonna, stampatela e mettetela nei bagni pubblici, aiutateci a spargere il verbo! Chiunque metta la storia tra le preferite avrà diritto ad una comparsa nella storia! Baciosi
Dzoro 

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Capitolo 6
*** Sei ***


Sei

Il maggiolino si staccò dal disco magnetico sopra il tetto di una palazzina, e vi precipitò sopra, distruggendo le sospensioni. Verzetti si ritrovò a nuotare nell’airbag senza quasi accorgersene. Appena riuscì a mettere da parte l’ingombrabnte pallone gonfiabile, gridò:
“Carmilla! Stai bene?”
“Penso che mi sono morsa la lingua.” Rispose la bambina, mugolando. Verzetti scese dalla macchina, arrivò alla portiera anteriore del passeggero e prese Carmilla in braccio.
“Presto, dobbiamo andare via, prima che… porco brodo!” Verzetti si immobilizzò. Intorno a loro si trovavano almeno una ventina di mutanti. La loro pelle era verdastra e ricoperta di bitorzoli carnosi, ed erano vestiti con armature ricavate da divise da hockey, vassoi e pentole da cucina e vere riproduzioni di corazze del dodicesimo secolo, probabilmente ordinate per corrispondenza. Impugnavano asce da pompiere, elettro-martelli ricavati da batterie per auto, maceti e lunghi fucili fionda. Indossavano bandoliere piene di bombattine, lattine di birra ripiene chiodi e nitroglicerina, il proiettile ideale per le loro fionde. Uno di loro, con una seconda faccia che gli cresceva al posto di un orecchio si avvicinò. I sensori olfattivi di Verzetti si fusero con uno sfrigolio, facendoli uscire due sbuffi di fumo arancione dal naso: sembrava che il mutante avesse appena masticato un cadavere ripieno d’aglio.
“Voi in terra Culo di Pietra! Culo di Pietra no ama strangeri!” disse con il suo pesante accento mutante, annunciando il nome della sua tribù.
“Io molto… sono molto dispiaciuto, non pensavo di violare il vostro territorio.” Balbettò Verzetti, stringendo in braccio la bambina.
Il mutante, e puntò un macete grosso come una tavola da skateboard contro la gola di ceramica di Verzetti:
“Voi ora viene con noi da capone, lui decide di vostra vita!”
Verzetti sussurrò un imprecazione. I Mutanti gli scortarono fino ad un buco del tetto, che scendeva di sotto con una scala fatta di macerie e calcinacci.
“Ma chi sono questi?” Chiese Carmilla.
“Zitta piccola, non è il caso di farli arrabbiare.” Sibilò Verzetti. Però era perplesso: come era possibile che una bambina che fino a quel momento era vissuta a neanche mezzo chilometro da un quartiere infestato da mutanti non sapesse cos’erano?
Arrivarono in una sala sorretta da piloni di cemento armato,  decorata con poster di gruppi heavy metal, lance con infilate sopra teste mummificate e torce hawaiane accese. Accanto ad un muro si trovava una enorme poltrona rossa, sopra la quale sedeva un enorme mutante. Era grasso e muscoloso, il suo petto nudo era ricoperto da una spessa peluria, e la sua mascella era grossa quasi il doppio della sua testa. Indossava una vestaglia da camera, decorata con dragoni dorati, e una pesante corona piena di gioielli di plastica. Ai suoi piedi si trovavano sacchetti di patatine vuoti, cosciotti di maiale spolpati e fusti di birra aperti come se fossero lattine. I mutanti scortarono Verzetti e Carmilla davanti a lui.
“Capone!” fece uno dei mutanti “noi trova questi strangeri che stavano curionasando attorno, noi ha preso loro con calamita preferita e portato da te.”
“Cosa curionasate in mio territorio?” tuono il capone, facendo tremare la pareti con i suoi otto sistemi di corde vocali mutanti, amplificati dalla sua laringe larga come un avambraccio.
“No, c’è un malinteso, non stavamo curionasando!” fece Verzetti, scuotendo la testa “Nobile capone, siamo solo di passaggio, vogliamo solo andare a casa!”
“Io non fida di strangeri plasticosi!” sbraitò il capone. Si alzò dalla sua sedia, prorompendo in un fragoroso rutto.
“Portateli alla fossa delle tartarughe.” Ordinò.
“Cosa? No-o-o, le tartarughe no!” strepitò Verzetti, mentre forti braccia mutanti afferravano lui e la ragazzina, e li portavano via.
 
“Basta, torniamo al lavoro adesso!” esclamò Controcazzi, pulendosi le labbra con il dorso della mech-chela, e buttando la scatoletta di budino alle sue spalle. La cucina di Dracula era costellata da centinaia di confezioni di budino vuote, e la truppa di soldati granchio era ancora al suo interno, intenta a succhiare dai loro cucchiaini.
“Era la mia riserva per un anno.” Si lamentò Dracula, demoralizzato.
“DOVRESTI ESSERE ORGOGLIOSO DI AVER RIFOCILLATO DEI SOLDATI!” gli urlò in faccia Controcazzi. “Non so proprio perché ti ho lasciato in vita.” Aggiunse poi malignamente, mettendogli intorno al collo la mech-chela aperta. La chiuse lentamente, Dracula ne sentì la superficie dentata tirargli la pelle del collo.
“Tenente!” fece uno dei soldati. Controcazzi si voltò verso di lui, lasciando libero Dracula.
“Che c’è, sottoposto? Non lo sai che odio quando vengo interrotto mentre abuso del mio potere?”
“Mi scusi, ma davanti alla casa poco fa c’era un autoveicolo. È scomparso, tenente! Forse il sapiens…”
“ANDIAMO, COSA STIAMO ASPETTANDO? DOBBIAMO INSEGUIRLO!”  urlò Controcazzi, colpendo e accartocciando con la sua mech-chela il frigo dietro di lui.

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Capitolo 7
*** Sette ***


Ecco a voi, in un unica soluzione, ben due capitoli, che vi voglio bene! 
Ringrazio tutti i recensori e i lettori, e vi invito come sempre a mandarmi idee, 
suggerimenti e perplessità, soprattutto idee per la storia!
Nel caso qualcuno si stia chiedendo com'è fatto un fucile fionda, guardate qui.
E questo è tutto, apriamo le danze!
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Sette

Verzetti si ritrovò nel giro di una manciata di secondi sotto l’ascella umida di un mutante, che lo trascinò fino alla porta di un ascensore. Un altro mutante chiamò l’ascensore, e quando le porte si aprirono svelarono una tromba vuota, con solo i cavi che penzolavano nel vuoto. Il mutante vi gettò dentro il manichino, che precipitò per una decina di metri urlando terrorizzato. Altre due braccia mutanti lo afferrarono dalla porta di due piani più in basso, e lo riportarono sulla terra ferma. Il piano in cui si trovavano adesso era del tutto privo del pavimento, se non per una sottile cornice che circondava una fossa piena dei detriti che una volta dovevano trovarsi sul pavimento crollato: calcinacci, vasche da bagno scrostate e mobili da ufficio in pezzi.
“Vola, colombello!” rise ottusamente il mutante, mentre gettava Verzetti nella fossa. Il manichino atterrò sul fondo di pancia.
“Ahia…” disse, provando a rialzarsi. Poi, Carmilla gli cadde sulla schiena.
“Ahi.” Ripetè Verzetti.
“Ti sei fatto male, signor robot?”
“Sono un manichino, non un robot.”
Un rumore metallico attirò l’attenzione di entrambi: in un angolo della fossa avvolto dall’oscurità si stava aprendo una gabbia. I calcinacci per terra iniziarono a tremare, poi ad alzarsi da terra in saltelli ritmati, al suono di quattro pesantissime zampe che procedevano nella loro direzione. Dall’oscurità della gabbia, comparve una tartaruga cornuta alta due metri.
“Una tartina!” fece Carmilla, indicando la bestia con il ditino.
“Stupidi colombiani, perché non hanno ascoltato le nazioni unite quando gli hanno detto che allevare tartarughe nutrendole con foglie di cocaina radioattiva non era una buona idea?” si lamentò Verzetti, alzandosi da terra. La tartaruga incedeva verso di loro, sbavando e fischiando. Cinque metri più in alto, una folla di mutanti ammirava lo spettacolo, urlando e incitando la tartaruga.
“Qual è la differenza tra un manichino e un robot?” chiese Carmilla.
“Piccola, questo non è decisamente il momento.” Rispose Verzetti, indietreggiando insieme alla bambina il più lontano che poteva dalla tartaruga, mentre questa incedeva verso di loro. Verzetti si vide la vita passargli davanti. L’infanzia passata nella vetrina del negozio di abbigliamento sportivo, l’adolescenza nel reparto intimo, poi l’università di medicina, la specializzazione in xeno-medicina, l’apertura della clinica privata, che poi era il salotto di casa sua. Non aveva vissuto, praticamente. Possibile che la sua vita dovesse finire così?
“No, aspetta!” si rispose Verzetti. Afferrò con entrambe le mani il cappellino di alluminio sulla testa di Carmilla, e glie lo tolse.
“Cosa fai, signor robot? Ci troveranno così!”
“Sì piccola,” rispose Verzetti “spero proprio di sì.”
La tartaruga era a un paio di metri da loro, sentirono il suo fetido alito di insalata marcia sempre più vicino. La tartaruga gli fissò con i suoi occhi arrossati, e poi ruggì: i due vennero investiti da un ondata di aria calda e umida, e i loro corpi si imperlarono di goccioline di saliva come un parabrezza sotto la pioggia.
“Iuto.” Mugolò Verzetti, stringendosi a Carmilla.
Poi, il soffitto esplose.

Tutti i presenti alzarono la testa, mentre un cilindro di cemento armato, reciso di netto con un perimetro di micro-cariche sagomate precipitava dal soffitto, e cascava davanti alla tartaruga, che si ritirò guaendo spaventata nell’ombra della sua gabbia. Sopra il cilindro si trovavano dieci soldati granchio, un maggiolino con le sospensioni distrutte e il tenente Controcazzi, con in mano due lancia-granate a tamburo.
“C’è sempre un muro da far saltare in aria.” Disse, con cipiglio marziale.
Verzetti emise un sospiro di sollievo, e ficcò di nuovo in testa il cappellino a Carmilla.
“Tenente, il segnale è scomparso! Era qui, ma non c’è più!” disse un soldato, consultando un monitor portatile installato sul polso dell’armatura.
“NON È POSSIBILE!” urlò Controcazzi, schiumando e sparando un paio di granate contro il soffitto, riducendo un gruppetto di mutanti ad una nuvola di sangue verde e brandelli di carne.
“Pipistrelli!” urlò uno dei mutanti al piano di sopra.
“Non avete nessun diritto, noi ha permesso per tenere tartaruga!” disse un altro, agitando un pugno contro i soldati.
“Avete il permesso di baciarmi il mio fondoschiena arancione, subumani!” Gli disse Controcazzi, puntandogli un lanciagranate contro. Subito, tutti gli altri soldati puntarono i loro cilindri tattici contro le balconate, e dalla loro cima emerse la canna forata di un mitragliatore. I mutanti caricarono i fucili-fionda, e li puntarono a loro volta contro di loro.
“Voi pipistrelli cagoni arroganti! Se non sparisce subito noi spara!”
“Sapete per cosa usiamo quei giocattolini che avete in mano nell’esercito? Per pulirci i denti.” Sogghignò Controcazzi.
Intanto Verzetti alzò una vasca da bagno rovesciata, che giaceva sotto un mucchietto di calcinacci:
“Presto, nascondiamoci qua sotto.”
“Ho come un senso di deja-vu.”
“Dai, veloce!”
Due enormi mani scostarono i mutanti sulla balconata, e il capone si affacciò sulla fossa. Brandiva una mazza ferrata, con la testa ricavata da una mina di prossimità sottomarina.
“Pipistrelli porcelli!” sbraitò “Noi ha regolare contratto di affitto, voi no può entrare!” e detto ciò, srotolò una lunga pergamena, che andò a terminare il suo srotolìo proprio davanti a Controcazzi. Lui digrignò i denti.
“Leggila tu, gli steroidi mi fanno vedere tutto sfuocato.” Ordinò ad un soldato. Il soldato granchio prese tra le dita il foglio, e iniziò a leggere:
“Il coinquilino eccetera eccetera si impegna eccetera… possesso di tartarughe giganti… rinunione condominiale due volte al mese… niente cani… tenente, manca una marca da bollo da novanta centesimi.”
“UCCIDETELI TUTTI!”
Nel giro di un istante, i muri vennero perforati da centinaia di proiettile mitragliatrice anticarro, alzando nuvole di polvere e chiazzando i muri di budella verdi di mutante. Subito le fionde a bombattine vennero fatte scattare, rispondendo al fuoco. La fossa si riempì di esplosioni. I chiodi della bombe andarono a conficcarsi nelle armature dei soldati granchio, riducendone più d’uno ad un puntaspilli vivente. Una finì nella fessura per la vista di uno dei soldati, ed esplose un secondo dopo, mandando pezzi di armatura insanguinata dappertutto. Il cappello piatto volò come un frisbi contro la vasca da bagno di Verzetti e Carmilla, conficcandosi nella ceramica a pochi centimetri dal sedere del manichino.
“Carmilla, forse è meglio spostarsi…” disse Verzetti, ed entrambi strisciarono verso un angolo della fossa, portando la vasca insieme a loro.
Il capone saltò nella fossa, facendo roteare la sua mazza. Colpì con una falciata un paio di soldati granchio, mandandoli a volare contro una parete. Controcazzi sorrise, mentre buttava a terra i lanciagranate e faceva uscire dagli scomparti a sportello della sua armatura le mech-chele. Il capone gli saltò addosso urlando, con la vestaglia che svolazzava alle sue spalle come un mantello, portando la mazza sopra la testa e abbattendola su di lui. Controcazzi incrociò le chele, e parò il colpo.
“Ti spiezzo, pipistrello!” gridò il capone.
“Stanotte berrò il tuo sangue, bestia, a costo di soffrire di herpes mutageno per mesi!” Controcazzi contrattaccò con un doppio affondo di chela, che il capone parò con l’impugnatura della mazza.
Intanto, sotto la vasca da bagno:
“Fammi dare un occhiata.”
Verzetti alzò leggermente la vasca, e fece un rapido punto della situazione: lo scontro era passato alle armi bianche, i pipistrelli lottavano contro i mutanti sguazzando fino alle caviglie in una palude di budella. I soldati granchio avevano estratto dal cilindro tattico i moduli a motosega, mentre i mutanti gli assalivano con le asce e i maceti. Le armi si scontravano alzando nubi di scintille e limatura di metallo, inondando la fossa di odore di bruciato e zolfo. Il duello tra il capone e Controcazzi era nel pieno del suo svolgimento. Il maggiolone era lì, dov’era caduto, con il bagagliaio ricperto di chiodi di bombattina infilzati, ma a parte quello sembrava intonso e, soprattutto, senza nessuno attorno.
“Le chiavi devono essere ancora nella toppa d’accensione.” Disse tra se Verzetti. ”Se solo ci fosse un uscita da questa fossa…”
“Mi scusi, signor robot?”
“Che c’è, piccola?”
“Cos’è questo?”
Verzetti si girò verso la bambina: in mano teneva uno dei lanciagranate di Controcazzi. Verzetti, se avesse potuto, sarebbe sbiancato:
“E quello come hai fatto a pre… ah, lascia stare, dai qua!”
Prese il lanciagranate, e aprì il tamburo: c’era ancora un colpo.
“Ottimo.”
In quel momento, qualcosa cadde sulla vasca. Poi, iniziò a spingerla in avanti. Poi indietro. Poi in avanti. Poi indietro. Verzetti guardò fuori: la tartaruga gigante si era issata sopra la vasca, e mentre la teneva ferma con le zampe anteriori, gli dava dei ritmati colpi pelvici.
“Oh signore! Fuori di qui Carmilla!” prese la bimba per una mano, e la portò fuori dal nascondiglio.
“La signora tartina si è innamorata della vasca!” disse sorridente Carmilla. Verzetti stava per farle notare che la sua posizione in quello sfortunato tentativo di coito la rendeva tutto tranne una signora, ma preferì urlare:
“Andiamocene!”
“Ma che CARINA!”
“Via ho detto!”
I due lasciarono la tartaruga a copulare con la vasca rovesciata, catapultandosi al maggiolino.
“Allacciati le cinture, piccola!” gridò Verzetti, sopra il rombo delle motoseghe e il rumore del metallo che scivolava contro il metallo. Con una mano girò la chiave, con l’altra impugnava il lanciagranate. Il motore del maggiolino rombò, e le ruote girarono, trascinando in una nuvola di scintille la macchina, che ormai senza le sospensioni procedeva a raso terra. Verzetti la diresse contro un muro abbastanza largo, e puntò contro di esso il lanciagranate:
“O la va o la spacca!” gridò. Carmilla si tappò le orecchie.
L’esplosione della granata aprì uno squarcio nei mattoni del muro, facendone schizzare da tutte le parti.
“Oddio, è stretto, è stretto-o-o!” urlò Verzetti. Il maggiolino uscì fuori per un pelo dal foro dell’esplosione, mentre le portiere si staccavano. Fece un breve salto, e atterrò su una strada asfaltata che procedeva in mezzo alle palazzine. I rumori della battaglia svanirono alle loro spalle, lasciando posto solo a quello del radiatore che si grattugiava contro l’asfalto.
“Oh Signore, oh Signore grazie!” ansimò Verzetti, accasciandosi sul volante, ma non togliendo il piede dall’acceleratore neanche per sbaglio. Ingranò la terza. Carmilla si voltò sullo schienale, osservando quello che si stavano lasciando alle spalle.
“Sei forte signor robot! Pensavo fossi solo un dottore.”
“Lo pensavo anch’io.” Rispose Verzetti, buttando il lanciagranate scarico fuori dal buco lasciato dalla portiera divelta.
“Oh-oh.” Disse Carmilla.
“Che cosa oh-oh?”
“La tartina ci sta inseguendo.”
Verzetti schiacciò l’acceleratore fino a farsi male al piede. Nello specchietto retrovisore si vedeva chiaramente la tartaruga cornuta gigante che li inseguiva, con la lingua a penzoloni di fuori.
“Ma è velocissima!” disse Carmilla.
“Saresti anche te velocissima se ti nutrissi esclusivamente di foglie di cocaina geneticamente modificata lunghe due metri! Tieniti forte!” Verzetti ingranò la quinta.
La tartaruga era quasi arrivata a leccare il bagagliaio della macchina, quando il maggiolino prese finalmente velocità. Riuscirono a distanziare la tartaruga di qualche metro, ma era ancora vicinissima: ne sentivano i passi scuotere l’asfalto.
“Veloce, signor robot, veloce!” strillò Carmilla.
“Sto andando più veloce che posso, è un miracolo che la macchina vada anco…” la frase di Verzetti venne interrotta da un sonoro clangore metallico. Gli occhi di Verzetti si spostarono sullo specchieto retrovisore, facendo in tempo a vedere il radiatore che rimbalzava lontano dalla macchina. Il maggiolino iniziò a frenare. La tartaruga gli saltò addosso.


 

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Capitolo 8
*** Otto ***


Otto

La tartaruga schiacciò con la sua enorme mole il tettuccio dell’auto, dando il colpo di grazia al vetro posteriore, che si sbriciolò sui sedili di dietro. Poi la spinse in avanti. Poi indietro. Poi in avanti.
Carmilla e Verzetti scesero dall’auto ormai inutilizzabile, e guardarono sconfortati la tartaruga mentre aveva la sua seconda avventura romantica quel giorno.
“Dev’essere tanto sola, povera Tartina.” Disse mogia Carmilla.
“Eri una buona macchina.” Mormorò altrettanto mogio Verzetti, mentre guardava il maggiolino appiattirsi sempre di più sotto gli impietosi colpi pelvici della tartaruga.
Si allontanarono a piedi, lasciandosi ben presto alle spalle i versetti acuti e soddisfatti dell’anfibio.
 
Il quartiere in cui si trovavano era stato ridotto dai bombardamenti chimici e dalla guerriglia che ne era seguita ad una landa deserta. Verzetti e Carmilla attraversarono un viale di palazzine sventrate dalle esplosioni, e arrivarono in un parco pubblico. Gli alberi erano ridotti a enormi mozziconi di fiammifero, in mezzo ai quali spuntavano qua e là pali di metallo e catene appartenuti probabilmente a delle altalene. Oltrepassarono un monumento: le statue erano state decapitate e imbrattate di graffiti. Usciti dal parco, procedettero in una strada piena di macchine abbandonate. Alcune, ancora in buone condizioni, sembravano semplicemente parcheggiate, e non quello che rimaneva di una guerra totale tra sapiens e pipistrelli.
“Signor Robot, cosa è successo alle persone di queste case?”
Carmilla si trovava in spalla a Verzetti, ancora nella sua camicia da giorno e con in testa ben calcato il cappellino di alluminio. Verzetti si era tolto il camice, rimanendo con il triplo stato della salute, canottiera, camicia e maglione, tutti e tre visibili nell’apertura del collo come tre fasi geologiche su un libro di scuola.
“Tuo papà non te l’ha mai raccontato?”
“No no.”
I due passarono accanto ad una piscina piena di ossa sapiens. Verzetti accelerò il passo.
“Sai, è stata la guerra. Non credo tu possa ricordartene, al tempo dovevi ancora venir clonata, probabilmente.”
“Clonacosa?”
“Clonata, dovevi ancora nascere. Sai come funziona, quando due pipistrelli si vogliono tanto bene prelevano una consistente massa di dna, di solito un ciuffo di capelli, la frullano in una clinica genetica e ne viene fuori un pipistrellino nuovo nuovo.”
“Ma non è vero!”
“Sì, probabilmente tuo papà ti ha detto che sei stata portata da un gargoyle, ma…”
“Non è vero, mia mamma mi ha detto che i bambini stanno nel pancione delle loro mamme tanto tanto, poi li tirano fuori. C’era anche una cicogna nella storia, ma non ho mai veramente capito cosa c’entrasse.”
“No, così nascono i sapiens.” Rise Verzetti.
“I cosa?”
“Gli umani! Sapiens uguale umano, pipistrello uguale vampiro! Non te l’hanno insegnato a scuola?”
“Ma io sono umana, non un vampiro!”
“Non dire quella parola, è scortese.”
“Non sono un vampiro.”
Verzetti tacque. Come faceva la bambina a saperlo? Possibile che la malattia influenzasse anche le sue capacità cognitive?
“Ho fame, signor robot.”
“Anch’io, porco brodo…” mugolò Verzetti. Cosa avrebbe dato per un bella bistecca di grasso di balena.
“Ho voglia di pizza e patatine!” trillò gioiosa la bambina.
“Non vorresti addentare un bel collo di maialino?”
“Bleah!”
“O un’insalatina leggera di emotofu?”
“Piantala scemo, non mangio quelle schifezze.”
“Dai Carmilla, io sto tentando di guarirti, ma tu devi fare uno sforzetto.”
“Camilla! Mi chiamo Camilla!”
Verzetti sospirò:
“Vabbè, lasciamo stare.”
In quel momento, i suoi sensori olfattivi ancora storditi dalla puzza di mutante, captarono una sensazione familiare. Puzza di frittura, mischiata ad un sottofondo acidognolo e penetrante, come carne marcia messa sotto aceto.
“Grigi!” esclamò Verzetti.
Cinque minuti dopo, ebbe la conferma di non essersi sbagliato. In un parcheggio, in mezzo alle macchine abbandonate, vide la carcassa di un astro-bus, una delle astronavi di qualità infima con le quali i grigi erano immigrati sulla terra cinquanta anni prima. Era a forma di frigorifero, con i fianchi che sembravano fatti di legno e lamiera ricoperti di oblò rotondi, e la coda piena di tubi, ognuno di una forma e una dimensione diversa, che nello spazio servivano da reattori. L’astronave era stata riconvertita in un edificio, ora che era vicino poteva vedere chiaramente una famigliola grigia che faceva colazione. Stava sorgendo il sole, il cielo stava già iniziando a riempirsi del bagliore rosso causato dal filtro della lente solare. Verzetti lanciò un occhiata a Carmilla, che ora camminava al suo fianco: stava bene, nessun segno di ustioni. Porco brodo, si disse tra se.
Vicino all’astrobus due grigi adulti stavano bevendo da tazzine di porcellana mentre guardavano la televisione, appoggiata storta su una cassa di plastica. I bambini stavano giocando a mangiarsi poco distante.
“Lo sta mangiando?” chiese stupita Carmilla. Uno dei grigi bambini aveva ingoiato per intero la testa del suo compagno di giochi, che si dibatteva tentando di sfuggirgli, mentre lui gli stringeva le sue fauci senza denti intorno al collo.
“È un loro gioco. Hanno un corpo estremamente elastico, potrebbero ingoiare una mucca. Quando lo fanno per gioco il grigio ingoiato viene… espulso subito dopo che l’altro ha finito di ingoiarlo.”
“Ma non gli fa male?”
“No, non ha gli enzimi necessari per digerirlo. Non guardare però, è maleducazione.” Concluse Verzetti, ricordando le lezioni di xeno-anatomia in università.
I due si inoltrarono nel quartiere grigio. Ora sugli edifici erano visibili enormi vesciche abitative, cascate di escrescenze carnose viola solcate da vene pulsanti, che scendevano lungo le facciate dei palazzi in lunghi grappoli. Ogni tanto, dalle loro aperture a forma di vagina, si vedeva un grigio strisciare fuori, ancora tutto viscido di muco protettivo. Quelli dei piani più alti si spiaccicavano sull’asfalto emettendo il suono di un uovo che cade per terra, poi si rialzavano, e rigeneravano il loro sistema osseo cartilaginoso mentre camminavano.
“Ma sono alieni?”
“Basta con questi termini politicamente scorretti, Carmilla!”
“E tu basta chiamarmi Carmilla!”
I due passarono accanto ad un sexy-shop, che trasmetteva su dei televisori in vetrina scene di rituali di accoppiamento grigi. Nei film le gambe dei grigi si erano tramutate in una selva di tentacoli, che si intrecciavano con quelli del partner, mentre le loro teste ovali si gonfiavano a dismisura.
“È un documentario?” chiese Carmilla.
“Non guardare, sei piccola.” Disse Verzetti, coprendole gli occhi mentre dalla bocca del grigio femmina del film fuoriuscivano delle grosse uova gelatinose color ambra, che partivano fluttuando verso il cielo, dirette verso una delle loro nebulose incubatrici. Nella vetrina, accanto ai televisori, si trovavano anche dei tentacoli gonfiabili e delle casse di banane di lattice. Verzetti aveva scritto una tesina sulle abitudini onaniste grigie con le casse di banane, e aveva passato molto tempo a esaminare filmati d’epoca, in cui sconcertati fruttivendoli sapiens si ritrovavano con un grigio che si trasformava nella sua forma da polipo sopra le loro bancarelle. Erano stati i primi avvistamenti alieni coperti dai media sapiens, quelli.
Oltrepassato il sexy-shop, arrivarono davanti ad un edificio di cemento circondato da aiuole appassite. Una volta doveva essere stato una scuola, ma ora da esso proveniva un odore molto familiare per Verzetti.
“È una mensa!” esclamò soddisfatto. “Entriamo, prendiamo qualcosa da mangiare.”
L’interno dell’edificio era tutto invaso da un organismo terraformante di qualità discount, che ricopriva le pareti e i pavimenti di matasse di tentacoli viola scuro appiccicosi e maleodoranti, ma così solidamente intrecciati tra loro da formare una superficie solida sulla quale era possibile camminare comodamente. Molti grigi si trovavano in fila, con in mano delle ciotole di plastica bianca a forma di lungo cilindro, davanti ad un bancone con sopra delle pentolone di alluminio, perfino più grosse dei grigi inservienti che vi rimestavano dentro con lunghi mestoli, che usavano per riempire di stufato i cilindri dei clienti. Anche lui e la bambina si misero in fila con due cilindri, trovati su una mensola fatta degli stessi tentacoli che ricoprivano la stanza.
“Prendi quello verde con dentro i grumi che si muovono un po’. Dovrebbe non causarti nessun tipo di paralisi facciale.” Consigliò Verzetti a Carmilla. Ormai si era arreso all’idea che la bambina aveva bisogno di cibo.
Arrivati davanti agli inservienti, Verzetti si mise ad scandire ad alta voce:
“Olio! O-li-o! Usato, grazie. Solo olio.”
Un grigio inserviente, dopo un attimo di incomprensione, sparì nella porta della cucina, e tornò con un flacone di detersivo pieno di olio esausto, che versò nel cilindro di un estasiato Verzetti. Carmilla fissò il suo stufato perplessa, mentre i grumi, effettivamente, si muovevano leggermente, cercando di fuggire dalle alte pareti del cilindro. Dopo un po’ parvero sgonfiarsi e immobilizzarsi. Verzetti notò la faccia disgustata della bambina:
“Dai, così almeno sei sicura che non sono surgelati.”
Verzetti pagò alla cassa con una manciata di gettoni forati, l’unico tipo di moneta che i grigi accettassero, ignorando completamente la valuta e il valore. Verzetti teneva a casa un trapano e una scorta di spiccioli per occasioni del genere.
Si sedettero ad un tavolo già occupato da molti grigi, che per mangiare inserivano completamente la loro testa allungata dentro il cilindro. Ogni tanto la tiravano fuori, ancora tutta deformata dallo stretto interno del cilindro, e la scuotevano tutta per scrollarsi dalle tracce di sugo di stufato. Era strano come nessuno lì dentro, o per le strade della città, parlasse. Tutti tenevano la bocca chiusa, emettendo di tanto in tanto un gorgoglio, o uno strano rumore, simile ad uno schiocco, quando arricciavano il naso.  
Verzetti si tastò il collo finché non trovò la levetta per l’apertura della bocca, che divise la sua faccia a metà orizzontalmente all’altezza della sua bocca immobile, rivelando il tubo di ingestione. Vi rovesciò dentro almeno mezzo litro d’olio, poi si pulì con una mano l’unto dalle labbra di ceramica, e lo dispose uniformemente sotto le ascelle, percependo immediatamente la piacevole sensazione di lubrificazione.
Carmilla afferrò uno dei grumi, immergendo il braccino nel cilindro, e dopo averlo fissato incerta, provò a dargli un morso.
“Sa tipo di pollo.” Disse, masticando.
“Le cozze da schiena di gojira danno questa impressione ai sapiens.” Disse Verzetti. Carmilla continuò a sbocconcellare il grumo.
“Quindi qual è la differenza tra un robot e un manichino?”
“Classica domanda da non-manichino.” Ridacchiò Verzetti. “Qual è la differenza tra un robot e un pallone da pallacanestro?”
“Mi sembra ci sia una differenza bella grossa!”
“C’è anche tra un manichino e un robot. Nessuno perderebbe tempo a spiegarti le differenze tra una palla e un robot, perché invece noi manichini veniamo sempre sommersi di queste domande inconcludenti?”
Carmilla sbuffò:
“Tu mi sembri proprio un robot, non prendermi in giro! I manichini rimangono fermi nelle vetrine, tu ti muovi!”
“È almeno da ottant’anni che i manichini si muovono, non fare la stup…” Verzetti si bloccò. Come faceva una bambina a sapere un dettaglio storico così preciso, di un tempo nel quale lei non era ancora nata? ”Carmilla? Tu sai in che anno siamo, vero?”
“Certo!” sorrise la bambina “Nel 2013!”
La faccia di Verzetti si chiuse di scatto.
“Carmilla,” balbettò, “siamo nel 2113.”
____________
Ta dan, coupe de theatre. Mi scuso se il capitolo era disgustoso, ma le cose disgustose mi fanno un sacco ridere, e volevo farvi conoscere questo spaccato di vita dei grigi. Grazie mille a tutti voi, miei venticinque lettori, siete grandi!
Dzoro
Ps:sto considerando di spostare la storia per qualche capitolo nella sezione Fantascienza, perchè la storia un po' fantascientifica è. Quindi non spaventatevi se la storia scomparirà dalla sezione per un po':)

 

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Capitolo 9
*** Nove ***


Nove

I due fuggiaschi trovarono una stazione di Autobus a mezzo chilometro dalla mensa, nel parcheggio di un centro commerciale abbandonato. Il primo autobus sarebbe partito al tramonto.
“Mi sa che dobbiamo aspettare. La strada tra questi quartieri periferici e la città passa per il deserto, da quelle parti è pieno di squali di terra, di giorno.” Spiegò Verzetti.
Avrebbe voluto fare molte altre domande alla bambina, ma Carmilla si addormentò non appena si sedettero su di una panchina, con la testolina appoggiata sulle sue ginocchia. Anche Verzetti, dopo qualche minuto passato a cercare di stare sveglio, finì per addormentarsi.
Si svegliarono che ormai il bagliore della lente solare era scomparso. Verzetti ritrovò il braccio che penzolava nella manica del maglione. Lo rimise a posto, e prese la bambina ancora addormentata in braccio.
Salirono sul primo autobus, destinazione Golconda.
Verzetti lasciò una manciata di gettoni forati su un sottovaso vicino al guidatore, un grigio di mezza età con un cappellino blu con la visiera. I sedili di pelliccia, polverosi e sciupati, erano già occupato da decine di grigi. Una famiglia di grigi aveva occupato per intero i primi sedili, e aveva tirato fuori crostate di brugno e salami di sgnaulo, con i quali si stava ingozzando allegramente, spargendo briciole dappertutto. Le membrane flessibili dei loro ventri erano gonfie di spigoli da tanto ingoiavano in fretta. I sedili posteriori erano invece invasi da una comitiva di bambini grigi, che producevano una raffica di schiocchi di naso divertiti davanti ad un loro compagno che stava ingoiando per intero un maialino, che grugniva strilli acuti in preda al panico. Verzetti e Carmilla si sedettero in due posti liberi verso il centro del veicolo. Carmilla continuava a dormire, con la testolina appoggiata contro il vetro, e un leggero filo di saliva che le colava dalla boccuccia aperta. Verzetti prese il suo fazzoletto sporco di olio dalla tasca e la asciugò. Quindi si mise composto, preparandosi alle ore di noioso viaggio in mezzo al deserto che li aspettavano.
 
La strada procedette a lungo in mezzo alla pianura polverosa del deserto, interrotta soltanto dai cactus e dalle pinne degli squali di terra addormentati che spuntavano da sotto la sabbia. Fecero la prima sosta dopo un ora e mezza circa, in una stazione di servizio in periferia di Golconda. Dal finestrino Verzetti vide un banchetto che vendeva cavie, ammassate in alti catini di plastica da bucato. Vicino si trovava una combriccola di pipistrelli dai tratti slavi e la pelle scura, vestiti con tute da ginnastica e giacche da completo abbinate a canottiere sporche e pantaloni a coste. Alcuni in loro avevano in mano delle cavie, e le succhiavano avidamente.
“Poverine!” Fece Carmilla all’improvviso. Verzetti sussultò: non si era accorto che si era svegliata.
“Le cavie, dici?”
“Sì.”
“Non ci si può far nulla, sono l’animale con maggior concentrazione di sangue per chilogrammo di peso. Non sono buoni come un maialino da latte, ma costano poco. Così almeno pensano i pipistrelli. Davvero non lo sapevi?”
“Che schifo.” Piagnucolò Carmilla.
L’autobus riprese a procedere, in mezzo a palazzine con i vetri oscurati da vernice e pece: erano già nella zona abitata dai pipistrelli. L’autobus venne superato da un gruppo di motociclisti, vestiti di giacche di cuoio con sopra cucito uno stemma argentato. Verzetti, data la distanza e la velocità, riuscì a scorgervi sopra due teste di lupo, ma era pieno di molti altri disegni, disposti in un intricato mosaico. Sulle loro teste rasate spuntavano manopole Riprogen di vecchia generazione, disposte in ordinate file. Era l’ultima moda tra brutallari e motociclisti, così come era una moda tra tutti i pipistrelli utilizzare la tecnologia per dar vita ad alcune leggende sapiens sulla loro razza. Uno dei motociclisti voltò la testa verso di lui: aveva due occhiali da sole rotondi dalla superficie dorata, e una lunga barba bionda che gli scendeva sul petto. Dopo un attimo di esitazione, accelerò e superò l’autobus insieme agli altri del suo gruppo.
 
Scesero dall’autobus in una fermata a due isolati di distanza dal condominio di Verzetti. Il quartiere era simile alle periferie devastate e infestate dai mutanti, ma qui le palazzine erano intere,  e qua e là sui balconi spuntavano piantine e parabole satellitari.
“Ora andremo a casa mia, lì cercheremo di capire perché la tua testolina ha tutti questi problemi, okay?”
“La tua testolina avrà dei problemi, io sto benissimo!” Carmilla fece una linguaccia al manichino. Verzetti sospirò.
Trovò il portinaio Alfonso seduto al bancone dell’ingresso. Come al suo solito leggeva un giornale, dietro al quale si nascondeva per intero. Verzetti non si ricordava nemmeno che faccia avesse.
“Buonanotte!” lo salutò.
“’gnotte.” Rispose Alfonso.
Carmilla e Verzetti salirono in ascensore, e Verzetti rimase confortato dalla vista dei tasti con i numeri illeggibili e la macchia di vomito lavata con la candeggina dalla moquette. Piccole cose che lo facevano sentire a casa. Arrivarono in men che non si dica sul pianerottolo in cemento armato a vista dove si trovava la porta in simil-mogano del suo appartamento.
“Scusa il disordine, sai, vivo da solo.” Si scusò con Carmilla, mentre girava la chiave. “Però vedrai che staremo comodi e potremo riposarci un po’.” Aprì la porta. Davanti a loro si trovavano due pipistrelli, un uomo e una donna. La donna era vestita di strisce di lattex nero, e teneva in mano un pungolo elettrico da bestiame. L’uomo era nudo, se non per degli slip rosa a cuoricini e un naso da maiale di plastica tenuto su da due cordini sul suo naso. Gattonava per terra, grugnendo.
“Maialaccio cattivaccio, vieni qua che ti meriti una bella sculacciata.” Rise la pipistrella, facendo schizzare scintille blu dalla cima del pungolo.
Grunf! No, per piacere! Grunf Grunf!” disse il “maiale”, gattonando via. Poi, entrambi si voltarono verso la porta aperta. Verzetti li fissava con la faccia aperta a metà, e tenendo per mano una perplessissima Carmilla.
“Scusate, sbagliato appartamento.” Disse Verzetti, chiudendo la porta.
L’ascensore era andato su un altro piano, scesero i sei piani di scale di corsa. Verzetti si piantò davanti ad Alfonso, sbattendo le mani sopra il linoleum del bancone.
“Hai affittato il mio appartamento!?” strillò fuori di se.
“Non paghi l’affitto da tre mesi. Era nei miei diritti.” Rispose Alfonso, voltando pagina, con voce calma e monotona.
“Ma… le mie cose?”
“Negli scatoloni. Gli ho messi per strada, fuori dall’ingresso.”
“Non c’era nessuno scatolone fuori dall’ingresso!”
“Allora li hanno rubati.” Alfonso voltò di nuovo pagina. Non aggiunse una sola parola. Verzetti rimase immobile davanti a lui, non riuscendo a capacitarsi che quello che aveva sentito potesse essere vero.
“Alfonso, ti prego, non puoi farmi questo, non puoi lasciarmi per strada, con una bambina piccola!”
“Non sono piccola, ho nove anni!” protestò Carmilla.
“Zitta cretina.” Le sibilò contro Verzetti.
“Certo che posso. Lo sto facendo.” Disse Alfonso, da dietro il giornale. Verzetti strinse la mani in due pugni nervosi e tremanti di rabbia, e puntò un dito contro Alfonso:
“Non finisce qui, hai capito sporco pipistrello figlio di una provetta?”
“Buona nottata anche a te.” Rispose Alfonso.
Verzetti prese di nuovo per mano Carmilla, ed uscirono dalla palazzina.
“Che si fa ora?” chiese la bambina. Verzetti non sapeva cosa fare. Ci pensò.
“Forse ho un idea.” Disse infine.
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Il link della settimana è un immagine di una manopola riprogen. Quelle dei motociclisti sono più piccole, e ne hanno piùdi una. Scoprirete osa sono fra qualche capitolo. Non smettete di scrivermi, adoro sapere cosa vorreste nella storia! E non smettete di leggere, ovviamente:) ciao! 
Dzoro

 

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Capitolo 10
*** Dieci ***


Finalmente diamo un occhiata da vicino alla civiltà dei pipistrelli, benvenuti a Golconda! Continuate a dirmi cosa vi piace, così ne metto di più, e cosa non vi piace, così ne metto di meno:) Ciao!
Dzoro
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Dieci

Verzetti scambiò velocemente di posto il cappellino di alluminio e quello di lana: il trucco dell’alluminio era conosciuto dalla maggior parte delle forze dell’ordine dei pipistrelli, non era saggio girare in quel modo.
“Ecco fatto. Andiamo.” Disse, prima di prendere la bambina per mano, e montare sulle scale mobili che spuntavano dal marciapiede, inabissandosi sotto terra. Le scale terminavano in una sala d’attesa circolare decorata con un grosso mosaico di tonalità rosso cupo, che mostrava un pipistrello in tenuta militare, con i canini nella bocca aperta bene in mostra, tanto che sembrava che ruggisse. Stringeva nella mano i capelli di una testa di sapiens, mentre questa gocciolava dal collo mozzato dentro un lago di sangue e membra amputate, nel quale il pipistrello sguazzava fino alle ginocchia. Nel cielo, anch’esso rosso sangue, volteggiavano angeli d’assalto, impegnati a sganciare bombe chimiche sulle città sapiens. Sotto il mosaico si trovava la biglietteria, e dall’altra parte della sala, oltre un pavimento di piastrelle bianche e nere, i tornelli che portavano alla metropolitana.
“Due per favore” fece Verzetti affacciandosi alla cassa, pagando con una delle sue ultime banconote. Ricevette in cambio due biglietti da una pipistrella di mezz’età vestita con una abito color topo.
“Signor robot, ma quindi queste persone sono tutte vampiri?” Chiese Carmilla, mentre attraversavano i tornelli. I loro biglietti vennero masticati dall’obliteratrice e restituiti sotto forma di coriandoli colorati dall’altra parte del tornello.
“Pipistrelli, chiamali pipistrelli per l’amor di Dio!” sibilò Verzetti a denti stretti, lanciando un occhiata spaventata a quattro Pipistrelli skinhead lì vicino, che bevevano cavie e ascoltavano musica hardcore da uno stereo portatile, seduti sopra degli scatoloni di cartone appiattiti sul pavimento dell’ampio corridoio che conduceva ai binari.
“Ma perché?” chiese incuriosita Carmilla, tenendo la boccuccia aperta.   
“È molto offensivo, è il nome che usavano i sapiens per chiamarli! Pipistrello è il nome originale.”
“Ma i pipistrelli sono degli animali! Dei topi volanti!” rise Carmilla.
“Gli animali pipistrelli si chiamano così perché sono simili ai… pipistrelli-pipistrelli. Non viceversa.”
“Ah.” Carmilla sembrò aver capito solo a metà, ma non chiese altro. “Quindi, sono tutti vamp…ipistrelli?”
“Sì.”
“Ma non sono immortali e bellissimi? Ne ho visti anche di vecchi, come la cassiera di prima.”
I due erano arrivati ai binari, in un ampio locale di marmo grigio, sorretto da colonne decorate con bassorilievi astratti e squadrati. Aspettarono dietro alla linea gialla prima delle rotaie.
“In realtà un pipistrello cresce fino ad avere un aspetto di un trentenne, quindi si può dire che invecchia. Però questo invecchiamento non è come quello degli umani, viene chiamato metamorfosi. All’inizio sembra che il pipistrello invecchi come un sapiens, poi la sua massa muscolare si espande innaturalmente, i suoi canini si fanno sempre più aguzzi, la sua pelle diventa sempre più tirata e pallida, i suoi occhi più grossi e gialli. Ad alcuni addirittura dicono che spuntino le ali! Ma è un processo che richiede secoli, e ormai ci sono cliniche che lo rallentano: i pipistrelli sono diventati troppo vanitosi per volersi trasformare in mostri.”
Sulle rotaie arrivò ululando un treno della metropolitana, simile a un convoglio di lattine squadrate color verde sporco. Le porte scorrevoli si aprirono di scatto, e i due le oltrepassarono, ritrovandosi in un vagone con dentro un paio di sacerdoti del culto di Caino, con il colletto bianco e l’abito talare; una fila di sedili era occupata da un gruppo di ragazze otrafu, con i loro gonnellini di pizzo, i bustini ricamati e gli ombrellini tenuti chiusi sulle spalle. I loro abiti erano ornati con nastrini e decorazioni color verde acceso, viola e blu elettrico, e le loro acconciature erano alte torri arzigogolate piene di spille, e tinte degli stessi colori delle decorazioni.
“È carnevale?”chiese Carmilla.
“No, è una moda.” Rispose verzetti.”Otranto Fusion, quest’anno i revival gotici vanno molto… Dobbiamo trovarti un vestito nuovo, tra l’altro, non pensi?”
“Io sono comoda.” Carmilla guardò compiaciuta la sua vaporosa camicia da giorno.
Le porte del vagone si chiusero violentemente, come una ghigliottina di vetro e gomma. Il treno riapartì.
“Non ne dubito, ma anche se i pipistrelli sono abituati alle stranezze, non possiamo tentare troppo la fortuna. Stiamo andando in un quartiere dove ci sono molti negozi di vestiti, sono sicuro che troveremo qualcosa.”
La fermata successiva salì un folto gruppo di pendolari, vampiri vestiti con abiti vecchi e lisi, che fissavano il pavimento mogi. Verzetti e Carmilla, schiacciati contro i loro sedili dalla calca, procedettero in silenzio fino alla loro fermata. Quando arrivarono, Verzetti prese per mano Carmilla, e si lasciò trascinare al flusso di folla fuori dal vagone. Attraversato il corridoio e i tornello alla fine di esso, giunsero in un’altra sala d’attesa circolare, decorata da statue color ottone di vampiri celebri, addossate alle pareti. Verzetti riconobbe la sagoma ingobbita di Varnie, i baffi ricurvi di Vlad Tepes e i lineamenti scarni e appuntiti di Max Shriek.
Salirono su una scala mobile, che s’innalzava verso la superficie. Lungo il nastro scorrevole spuntavano file di lampioncini dorati a forma di basilisco, che reggevano tra le fauci globi elettrici luminosi.
“Uau!” esclamò Carmilla, una volta che i gradini mobili li ebbero trasportati fino alla superficie: si trovavano in una larga piazza, circondata da palazzi di pietra grigia e vetrate nere, con le facciate decorate con gargolle, rosoni ricoperti di fregi e ampi bassorilievi che mostravano scene di battaglia tra esseri angelici e demoniaci. In cima ai palazzi, colossali insegne al neon inondavano la notte di luce. Maialini Lombardoni sono belli sono buoni! Cantava un altoparlante sotto l’immagine accecante di un maialino che ballava sulle due zampette posteriori, per poi improvvisamente rimanere decapitato e spruzzare sangue verso il cielo. Carmilla si stupì di constatare che il sangue non era parte dell’insegna, ma vero sangue spruzzato da grossi tubi, che terminava in una cascata nella piazza sottostante.
“Pubblicitari, cosa non si inventano.” Sogghignò Verzetti. Accanto all’insegna dei maialini, se ne trovava un'altra: lettere decorate da grazie appena accennate formavano la scritta Otranto, con la seconda o che conteneva dentro di se la figura dei fiori delle carte da gioco. Anche la Riprogen aveva affittato uno spazio pubblicitario: sotto la scritta del nome della ditta, era possibile leggere il loro slogan: dal 2060 riprogrammiamo il vostro dna.
In cielo, sopra le insegne, si scorgevano tappeti volanti e grifoni meccanici, che trasportavano i loro ricchi proprietari piroettando tra i tetti degli edifici.
“Che spettacolo, eh? Benvenuta a Golconda.” Disse Verzetti.
Usciti dalla piazza, i due si inserirono dentro il flusso di folla che occupava i marciapiedi di viale Murnau, la via più popolata e più alla moda di Golconda. Tra i due marciapiedi si trovavano quattro corsie, in cui sfrecciavano taxi bianchi modellati su macchine di lusso del secolo scorso. Carmilla notò anche diversi carri funebri, e una limousine con il tettuccio aperto, dal quale spuntavano alcune vampire in abiti da sera succinti, che si divertivano a lanciarsi tra di loro un maialino, dandogli ogni tanto un bacio, lasciando tracce di rossetto sulla sua cotenna rosata. Sui marciapiedi, accanto a loro, camminavano giovani vampiri yuppie, dentro completi eleganti neri dai riflessi viola metallizzato, che parlavano ininterrottamente dentro ai loro auricolari. Donne dell’alta società incedevano fiere, vestite con abiti aderenti di cuoio rosso con cuciture laterali vintage fatte a macchina. Le loro spalle erano coperte da mantellini bordeaux che gli arrivavano a metà schiena, e in testa portavano tricorni neri con bordature rosso metallizzato. Un gruppetto di ragazze di ritorno dalla discoteca barcollavano su tacchi vertiginosi, sotto probabile effetto di zucchero nel sangue, facendo ondeggiare le loro generose curve (chiaramente frutto da una clinica della Riprogen) dentro tubini aderenti decorati con spacchi che ricordavano le fantasie di un merletto. Ridendo, tentavano di far fermare un taxi, riuscendo perfino a distrarre dalle sue conversazioni di lavoro via auricolare alcuni yuppie. Poi, ogni tanto si scorgevano la corazza d’assalto di un soldato granchio, impegnato in una pattuglia. Al che Verzetti accelerava il passo, e cercava di frapporre qualche buon metro quadrato di folla tra lui e loro. Era sicuro di non essere stato visto da Controcazzi e i suoi uomini, ma non volle rischiare.
Dopo un po’ arrivarono ad un incrocio, e si fermarono per un attimo davanti ad un attraversamento pedonale, regolato da un semaforo color ottone, sorretto da un braccio metallico decorato di fregi fitoformi e putti alati. Carmilla fissò incuriosita una delle vie dell’incrocio, murata da una gabbia di metallo dentro alla quale era stata colata della schiuma a presa rapida.
“Che brutto! Ma cos’è?” chiese Carmilla.
“Un’amputazione. Si dice così quando tolgono un braccio ad un incrocio. Però è provvisorio, ci costruiranno una casa lì, probabilmente. Sai, le croci possono causare anche un attacco cardiaco ai pipistrelli, gli incroci di solito causano una fortissima nausea, a volte svenimenti. Parliamo sottovoce, mi raccomando.” Rispose Verzetti. Non voleva che qualche pipistrello la attorno si accorgesse che stava spiegando concetti così ovvi: anche uno sprovveduto avrebbe capito che la piccola era un sapiens. A tal proposito, si accorse di essersi ormai rassegnato al fatto che la bambina si comportava davvero come una sapiens del secolo passato, e non sapeva nulla della civiltà vampirica.
“Uau, come nei film! È vero che non si riflettono negli specchi?”
“No, è una bugia inventata da un venditore di specchiere Rumeno del quindicesimo secolo. I sapiens erano molto creduloni in quel periodo.”
“E muoiono con un paletto infilato nel cuore?”
“Chiunque morirebbe con un paletto infilato nel cuore.”
“E brillano ala luce?”
“Solo se hanno malattie veneree.”
Scattò il verde, la folla traghettò da un marciapiede all’altro.
Sopra i passanti incombevano, maestose ed accecanti, le vetrine e le insegne delle boutique. Carmilla non riusciva a staccare lo sguardo da esse. Una gioielleria esponeva in vetrina cascate di collane di oro bianco e rubini rossi. I negozi di mobili vendevano bare di ogni tipo, da quelle di nuova generazione con condizionatore e frigobar, a qualche rivisitazione dal gusto barocco della classica doppia-imbottitura-bordata-di-velluto-laccata-nera. Poi iniziarono i negozi di vestiti, e a Carmilla sfuggì un gemito eccitato.
“Signor robot! I manichini si muovono!”
“Che ti dicevo?” Sorrise Verzetti.
Nelle vetrine si trovavano formosi modelli di manichino femminile, o muscolosi modelli maschili, che indossavano le ultime novità in fatto di moda a Golconda, muovendosi e girandosi su se stessi in modo da mostrarle per bene ai passanti. Lo sguardo di Carmilla si incontrò con quello di una manichina, che indossava una folta pelliccia di volpe argentata, che lasciva scoperte due gambe affusolate, fasciate da pantaloni aderenti neri. La manichina notò il suo faccino con la bocca spalancata, e le fece un occhiolino.
“Muovono la faccia! Com’è che tu non muovi la faccia?” esclamò stupita Carmilla.
“Beh, io… sono un vecchio… un modello vecchio, ecco.” Ammise imbarazzato Verzetti, a capo chino.”Loro hanno delle protesi molto avanzate, le fanno con dei tessuti di proteine vegetali molto simili alla carne. Ormai i volti li fanno solo con quello, la ceramica di solito è utilizzata solo per le articolazioni e gli arti. Eccoci, siamo arrivati!”
Si fermarono davanti ad un vicoletto, che portava in una piazzola circondata da muri di mattoni, occupata da una decina di pipistrelli e pipistrelle. Gli uomini erano vestiti con giubbotti di cuoio, magliette a righe e a scacchi,e scarpe da ginnastica dalla suola altissima. In testa portavano alte creste, che terminavano in ciuffi affusolati. Le ragazze erano vestite gonne a vita alta ed abiti retrò di tonalità sgargianti abbinate con toni di grigio, e in testa portavano i capelli raccolti in elaborate pompadour, raccolti da cerchielli e  bandane colorate, scelte in tinta con rossetti dal colore acceso.
“Un'altra moda?” chiese Carmilla.
“Sì, questa risale perfino all’epoca del dominio sapiens.” Confermò Verzetti.
Uno dei lati della piazzola era occupato da un negozio, la vetrina del quale era sormontata da un’insegna disegnata a mano con colori accesi: Nekromantix.

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Capitolo 11
*** Undici ***


Undici

Dentro la vetrina si trovavano due manichini, un maschio ed una femmina, in mezzo ad un allestimento fatto di vecchi giornali, poster di gruppi punk e microfoni vintage dalla testa squadrata. “Lei è Samanta.” Disse Verzetti, indicando la ragazza ad una decina di metri dalla vetrina.”Eravamo compagni di fabbrica.”
Carmilla la guardò affascinata: la manichina era vestita con dei pantaloni corti a vita alta color rosa shocking, e una canottiera nera a pois, con un ampio spacco sulla sua schiena di ceramica. Le sue labbra erano rosso acceso, i capelli erano una complessa pompadour nera. Dopo un minuto, un cenno col capo e un largo sorriso gli fecero capire che si era accorta di loro. Si appoggiò con entrambe la mani alla vetrina, e le sue labbra modularono un muto ciao dall’altra parte del vetro. La videro scomparire di corsa dalla vetrina, ed un attimo dopo spuntare dalla porta del negozio. Si lanciò verso Verzetti, saltando dritta tra le sue braccia, e gli schioccò un bacio sulla superficie liscia della sua faccia di ceramica, lasciando uno stampo rosato.
“Virzì! Echhè, sei diventato un timidone che nun me vieni più a trovà?” rise con una voce cristallina, stranamente appesantita da un marcatissimo accento.
“Ciao Sammy!” Verzetti rise, senza riuscire a non sembrare leggermente imbarazzato. Sentì una sensazione calda e morbida premersi sotto il suo petto. Resosi conto di cosa si trattava, sussultò.
“Samanta, sei…” si lasciò sfuggire un’occhiata sulla scollatura della ragazza. “… bellissima.” Lei notò l’occhiata indiscreta, e scoppiò a ridere:
“Hai visto che zinne? Belle, no? Me sun fatta l’impianto! Tutta robba naturale, fatta cor seitan, mica silicone bello mio! So’ morbide, no?” disse ridendo,e  stringendosi ancora di più contro Verzetti.”Ma tu invece come te vesti? Me sembri un penzionato, mannaggiattè!”
“Ciao!” si intromise Carmilla in quel momento. Samanta la notò.
“Anvedi sto topolino! Ciao amo’, come te chiami?” disse, chinandosi verso la bambina.
“Camilla!”
“Camillina, ma ciao topo amo’! Io sò Samanta, senz’acca.”
“Senz’acca?”
“Nun se sente, nun se scrive, no? Oh, Virzì, tu e sto topolino restate un po’ qui, che stacco tra un quarto d’ora e annamo a fare due passetti. Così me racconti tutto, va bene?”
Mentre parlava, l’impianto facciale muoveva le labbra in un movimento non del tutto naturale, simile all’animazione labiale di un videogioco dell’inizio del ventunesimo secolo. Samanta corse indietro fino alla porta, e la videro ricomparire a tempo record in vetrina. Verzetti era ancora scioccato. Ormai gli impianti stavano diventando sempre più comuni tra i manichini. Improvvisamente, si sentì davvero un pensionato.
“È simpatica!” Rise Camilla. “Parla buffo!”
“Già, un difettuccio di fabbrica. Niente di grave.” Confermò Verzetti.
“Perché, ci sono anche difettucci gravi?”
Verzetti rimase un attimo in silenzio, prima di rispondere. La domanda aveva frugato in un posto del suo animo di ceramica e transistor dove di solito preferiva non frugare.
“Sì Carmilla.” Rispose semplicemente.
 
Samanta ricomparve in strada quattordici minuti dopo, vestita con una minigonna nera e una pelliccia, che nascondeva più o meno efficacemente un top sportivo. Non aveva più i capelli, erano pochi i manichini che se li facevano impiantare, solitamente il lavoro richiedeva di cambiarli spesso. Si muoveva leggera sulle giunture di ceramica, senza emettere nemmeno il più flebile scricchiolio, esalando invece soavi zaffate di olio di rosa e gelsomino.
“Ma lo sai che penzavo proprio a tte, l’altro giorno? Dicevo ma ‘ndo cacchio s’è cacciato er Verzetti, ed ecco che mi spunti fuori! Oh, mica sarai telepatico?”
“Vabbè, mi hai scoperto, non dirlo a nessuno.”
“Ah ah, Virzì, che simpatico che sei!” Rise Samanta, appoggiando una mano sul braccio del manichino. “Cosa sto pensando ora?”
“Che sono simpatico.”
“Abbeh, questa era facile!”
“Ora stai pensando a me nudo.”
“Non è vero!” rise Samanta.
“Samanta, per favore, basta, c’è una bambina, arrossisco!” continuò Verzetti, fingendosi scandalizzato.
“Eddaje, scemotto!”
Erano tornati a camminare su via Murnau, ora la folla era perfino più numerosa.
”Ma sei ancora dietro a fare il dottore per li griggi?” chiese Samanta.
“Beh, per tutti, aiuto chi ha bisogno…” mentre lo diceva, lanciò un occhiata a Carmilla. Quanto era vero.
“Ma tu mi devi sta’ attento! Quei griggi so pericolosi, l’altro giorno hanno trovato quello schifo dei grappolacci loro in un quartiere di pipistrelli. Che voglio dì, nun sò mica razzista, ma un po’ de schifetto me lo fanno quelli, no?”
“Non dirlo a me, siamo stati in una loro mensa ieri, non ti dico l’odore…”
“In una menza? Ma Virzì, te sei fumato ‘a capoccia? Tu nun ce devi andà in ‘sti postacci, mannaggiattè! E pure er topolino te ce porti dentro. Ma poi, sto topolino chi è? E che te la porti dietro in camicina da giorno?”
“Dobbiamo comprare dei vestiti!” esclamò Carmilla.
“E c’ha raggione!” disse Samanta.
“Certo, ma vedi, è una storia lunga, in pratica…” tentò di dire Verzetti, prima che Samanta si fermasse, e lo interrompesse:
“Vabbè, me la racconti dopo che semo arrivati.”
Verzetti alzò la testa, e immediatamente sobbalzò per lo stupore:
“Otranto? Lavori per Otranto?” esclamò. Si trovavano davanti alla vetrina drappeggiata di velluto color latte, decorata con il simbolo dei fiori dorato. Accanto alla vetrina si trovava un ingresso argentato, simile a quello di una cattedrale, con una vetrata color turchese e statue di ammiccanti angiolette che si muovevano animate da un estasi apparentemente tutt’altro che mistica. Era il negozio personale di Manfredi Otranto, l’inventore della moda otrafu. “Samanta… uau!” rise.
“Che figata, eh? Avevo zentito che cercavano una manichina, c’ho mandato er curriculum e dopo un mesetto m’hanno chiamato. E te pagano pure bene! Oh, me aspetti un attimo qua fori, che vado su in vetrina che mi mettono tutti ‘sti nastrini carucci e te faccio vedè?”
“Sì, volentieri!” rispose Verzetti. Ma subito si ricordò del vero motivo che l’aveva portato lì. “Però… senti. Volevo chiederti un favore.”
“Dimmi caro, dimmi!”
“In questi giorni sto facendo…” Passò il mezzo secondo necessario per inventare una balla, “…disinfestazione nel mio appartamento. Sai, si è rimepito di scutigere ultimamente. Non è che potresti ospitarmi? Per un po’? Solo qualche ora, finché non finiscono.”
Samanta, man mano che ascoltava, annuiva. Poi sgranò gli occhi, ed esclamò:
“Oddio, te hanno cacciato fuori de casa!”
“No! No, che dici, è solo la disinfestazione!” balbettò Verzetti, evitando lo sguardo di lei.
“Virzì, macché disinfestazione, che nun c’hai i sordi neanche pe’ comprarti un vestito decente! Ti hanno cacciato?” lo incalzò Samanta. Verzetti tacque, imbarazzato. Quella ragazza lo conosceva molto meglio di quanto immaginasse.
“Virzì, ma povero cocco!” Samanta abbracciò di nuovo stretto il manichino. La sensazione del seno di seitan contro il suo petto era davvero piacevole. Quando lo lasciò andare, gli mise qualcosa in mano: erano delle chiavi, tenute insieme da un portachiavi a forma di maialino Lombardoni.
“Tieni, va pure che qui ce devo sta’ fino a mattina tardi! Ti ricordi dov’è casa mia, no? Ch’abbiamo fatto la festa de capodanno.”
Verzetti se lo ricordava bene. Samanta era rimasta tutta la serata a pomiciare su un divano con un loro altro compagno di fabbrica, Stucchi. Verzetti lo odiava, quello Stucchi.
“Sì, ma… No, dai, forse è meglio se lasciamo stare. È stata un idea stupida, mi troverò un albergo e…”
“Macché albergo e albergo! Vai pure, ci vediamo lì stamattina! Okay? Dai, me fa piacere, sono lì da sola. Okay?”
Verzetti annuì:
“Va bene.”
Samanta sorrise, e gli schioccò un altro bacio sulla guancia, creando un immagine parallela del primo stampo di rossetto sull’altra guancia.
“Dai che ci vediamo dopo! E da’ un vestitino decente a sto topolino, sò sicura che trovi quarcosa nel mio armadio. Okay?”
“Okay. Grazie.” rispose Verzetti, annuendo.
Samanta, sorridendo, corse dentro il negozio. Verzetti fissò confuso e imbarazzato il mazzo di chiavi, che teneva ancora in mano. Sentì una gomitatina colpirlo nello sterno: era Carmilla, con un sorrisetto furbo stampato sulla faccia.
“Ti piace lei, eh?”
“Beh, sì, è un’amica. Ci conosciamo da anni.” disse Verzetti.
“Ma non fare il finto tonto, che eri lì a fare il brillante! Ciao babi, ti leggo nel pensiero.” Carmilla terminò la frase con una voce nasale, incredibilmente simile a quella di Verzetti.
“Piantala, se anche fosse vero?”
“Ma anche tu le piaci! Hai visto come faceva finta di trovare divertenti le tue battute cretine?”
“Faceva finta? Erano davvero divertenti!” si indignò Verzetti.
“Mah.”
Mah cosa? Non hai visto come rideva?”
“Ma è quello che ti ho detto io prima! Se non le piacessi non riderebbe a tutte le tue cretinate! Uffi, voi uomini non capite mai niente finché non ve lo sbattiamo in faccia.” Sospirò Carmilla.
“Ehi, non ho intenzione di farmi insegnare a vivere da una bambina di otto anni.” Disse Verzetti, accigliato.
“Ne ho nove!”
“È la stessa cosa.” Tagliò corto Verzetti.
Samanta spuntò in vetrina in quel momento. Indossava un abito da sera otrafu, molto diverso dalle gonnelline di pizzo dozzinali che le ragazzine seguaci di quella moda compravano nei discount gothic: le decorazioni erano fatte di velluto, e sembravano avere la forma e colori delle farfalle: erano un esplosione di sfumature di azzurro e blu, abbinate a piccoli tocchi di arancione. Il bustino e la gonna erano sorretti da stecche di ossa di balena, sottilmente scolpite al laser dalle abili mani degli stilisti di Otranto. In testa aveva una cuffietta blu elettrico, dal quale spuntavano due trecce bionde. Con una faccia fintamente ossequiosa, fece la riverenza ai due, alzando gli orli della gonnellina. Carmilla rise, e batté le mani, facendo scoppiare a ridere anche la manichina. Samanta li salutò scuotendo la mano.  
“Ce l’hai su un vassoio d’argento, Virzì.” Sussurrò Carmilla al manichino, con il suo consueto sorrisetto di chi la sa lunga.
“Sei una piccola impertinente e non ho intenzione di risponderti. Andiamo, su.” Sbuffò Verzetti, e si avviarono verso la metropolitana.

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Capitolo 12
*** Dodici ***


Dodici

Le scale mobili della metropolitana spuntarono in un quartiere residenziale non troppo distante dal centro, composto da edifici d’epoca con tetti di tegole blu e facciate bianche. I piani più alti, inutilizzabili dai vampiri durante il giorno, erano occupati da negozi di animali e di bare, i piani più bassi da appartamenti con le finestre oscurate. Verzetti trovò il portone di ingresso del condominio di Samanta, e lo aprì.
“Signor robot, ma Verzetti è il tuo nome?” chiese Carmilla.
“Certo che no, è il mio cognome.”
“E allora come ti chiami?”
“Fabio. Ma ormai c’è solo mia madre che mi chiama così.”
“Hai una mamma?”
“Se con mamma intendi un intelligenza artificiale da catena di assemblaggio robotizzata, sì. Mi manda delle cartoline ogni tanto, lavora in un impianto in Corea, ora.” Verzetti aprì.
Si ritrovarono in una sala con una rampa di scale e un ascensore con le porte in simil legno, e diversi sacchi della spazzatura azzurri sul pavimento. Chiamarono l’ascensore.
Tra rosa e fio-o-or, nasce l’amo-o-or, Fabio e Samanta si voglion sposar…” canticchiò Carmilla.
“Mi hai chiesto il mio nome solo per questo, vero?” sospirò Verzetti.
“Ovviamente!” sorrise Carmilla.
L’ascensore arrivò, svelando una pulsantiera con solo cinque piani sopra il livello del suolo, e ben dieci sottoterra. Verzetti premette per il quinto.
Lei dice sì, lui dice no, poi ci ripensa e dice di sì-ì-ì!” Continuò a canticchiare Carmilla.
 
La porta dell’appartamento si aprì senza problemi, rivelandolo uguale a come Verzetti si ricordava: ordinato e pulito come una pubblicità dell’Ikea, mobili di legno laccato bianco, divano in tinta, un tappeto di finta zebra e poster sulle pareti di vecchie foto di nudi femminili. Probabilmente erano modelle sapiens, Verzetti si chiese come Samanta se le fosse procurate. Dietro un bancone, con sopra dei bicchieri, un frullatore e un cestino pieno di noci, si trovavano un piccolo angolo cottura e un frigorifero. La stanza era illuminata dalla luce della luna, che filtrava da una larga vetrata che dava sul terrazzo dove Verzetti si ricordava di aver passato il peggior capodanno della sua vita. La porta della camera da letto era chiusa, e Verzetti decise che sarebbe rimasta così. Si sedette sul divano, scostando un piccolo laptop rosa appoggiato tra i cuscini.
“Ho un po’ fame.” Disse Carmilla.
“Prendi delle noci, non credo ci sia molto altro adatto ad un sapiens in casa.” Ecco, l’aveva detto. Ora perfino lui era ufficialmente convinto che Carmilla era umana.
La bambina trotterellò fino al bancone, e afferrò un paio di noci. Le premette tra di loro fra i palmi della mani, fino a che una delle due si aprì. Mentre la sgranocchiava, Verzetti si accasciò sul divano, gettando la testa all’indietro e guardando il soffitto.
“Quando potrò tornare da mamma e papà?” chiese Carmilla, finita la prima noce. Ne prese un'altra.
“Non appena avremo capito cosa sta succedendo.” Rispose Verzetti, tornando a sedersi composto. Strano, pensò. Non gli sembrava che Dracula vivesse con una donna, ma non era la prima volta che la bimba citava una madre. E non era nemmeno la cosa più strana, quella.
“Quindi dici che siamo nel 2013?” chiese a Carmilla.
“Certo! Sono nata nel 2004, ho nove anni, logico no?”
“Quindi… com’era il tuo mondo?” Verzetti si accorse di quanto suonasse strana quella frase mentre lo diceva. “Intendo dire, era come nei libri? I pipistrelli erano solo personaggi dei film, i grigi non erano ancora sbarcati, il logo di Facebook era blu anziché rosso?”
“Credo di sì.” Annuì Carmilla. “Ma, signor robot, se questo è il 2113, come dici tu, come abbiamo fatto io e papà ad arrivare qui? Con la macchina del tempo?” rise Carmilla. Non ci credeva, era evidente. E non nel senso che non ci voleva credere, non ci credeva proprio, se ne rifiutava, con la testardaggine di cui solo una bimba è capace.
“Carmilla, lo sai che tuo papà è un pipistrello, vero?”
“Ah ah, ma che dici? Papà una volta è svenuto al ristorante perché gli avevano portato una bistecca troppo al sangue.” Carmilla scoppiò a ridere, sputacchiando pezzetti di noce sulla superficie immacolata del bancone. Verzetti non faticò ad immaginarsi la scena, quel povero tonto di Dracula sembrava il protagonista ideale per una gag del genere, se fosse stato un sapiens.
“E tu ti chiami Camilla?”
“Sì, ma ormai mi sono abituata al modo strano che dici tu.”
“E tuo babbo come si chiama?”
“Mario!”
“E ti pareva.” Sospirò Verzetti. Mise le mani unite davanti alla faccia, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, e iniziò a riflettere. Doveva esserci stata una causa scatenante, un momento in cui erano iniziate tutte quelle stranezze.
“Carmilla, ti rendi conto che quello che sta succedendo è molto strano, vero?”
“Sì, però mi sto divertendo! A questo punto spero non sia davvero un sogno.” Verzetti desiderò tanto avere un po’ del suo ottimismo.
“Okay, ti ricordi quando è stata l’ultima volta che tutto era normale? In cui non c’era nessun pipistrello?”
Carmilla guardò perplessa Verzetti, infilandosi una noce in bocca. Masticò, guardando il soffitto. Ingoiò.
“Mi ricordo che ero al parco con i miei amici, e il signor castoro.”
“Chi?”
“Il mio castoro peluche! Poi sono tornata a casa, ho mangiato con la mamma e il papà, e ho preparato il the per me e il signor castoro, e i semini di girasole per il signor dentini. Abbiamo preso il the tutti insieme, poi sono andata a letto.”
“E poi?”
“Poi non riuscivo a dormire, e sono andata da papà… ecco! Lui però era tutto preoccupato, e ha detto che doveva chiamare un dottore, e poi… poi sei arrivato tu, signor robot.”
“Ottimo, ne capisco meno di prima.” Sospirò Verzetti, l’ennesima volta. Prese il laptop rosa, e lo aprì. Fu contento di constatare che Samanta non aveva ancora imparato a settare la password, lo schermo si accese subito sulla famigliare schermata di Windows 666.
“Io devo cercare due cose qui, tu perché non vedi di riposarti un po’?
“Non ho sonno. Posso esplorare la casa?”
“Mi prometti che non romperai nulla?”
“Perché voi adulti pensate sempre che i bambini non aspettino altro che rompere tutto quello che trovano?”
“Brava.” Rispose Verzetti, senza aver effettivamente sentito una sola parola. Ormai era concentrato sulla ricerca che stava facendo: viaggi nel tempo. Sentì appena il rumore della porta che si apriva e si richiudeva.
Iniziò ad aprire i risultati della ricerca. In pochi minuti venne assalito da centinaia di teorie e speculazioni pseudoscientifiche. Ci vollero ancora meno minuti, prima che venisse assalito dallo scoramento: a quanto pare la maggior parte degli scienziati negavano la possibilità di viaggio tra le epoche. Aprì una pagina in mezzo alla quale si trovava l’immagine di un piano tridimensionale, che si ripiegava su se stesso come un foglio di carta. I due lembi del foglio erano collegati da un tubicino curvo. Non capì di cosa si trattava, usava un linguaggio troppo per addetti ai lavori. Passò alla pagina di risultati successiva. Il primo risultato attirò subito la sua attenzione.
Viaggiare nel tempo è possibile, io ne sono la prova.” Mormorò tra se,leggendo. Cliccò sopra il link.
“Porco brodo.” Esclamò Verzetti: pagina non trovata. Tornò alla ricerca: l’articolo era su un sito di divulgazione scientifica. Capitava che quei siti venissero oscurati dal parlamento, aveva sentito che da poco c’era stato un duro giro di vite contro un gruppo di scienziati che aveva affermato che pipistrelli e sapiens derivassero dallo stesso ceppo evolutivo. Sotto il titolo in blu, si trovavano solo alcune parole tratte dall’articolo, e un nome: Niglio. Dottor B. Niglio. Verzetti googlò il suo nome, raggiungendo una pagina dell’elenco del telefono. Ne ricavò un indirizzo: abitava a Golconda. Verzetti esultò silenziosamente, per il primo colpo di fortuna di quelle 48 ore. Poi, qualcosa gli saltò addosso.

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Capitolo 13
*** Tredici ***


Tredici

“Sono un orso, ra-a-ar!” ruggì Carmilla, saltando addossò a Verzetti. Il manichino lanciò un gridolino spaventato, lasciò andare il computer e lo riafferrò prima che cadesse sul pavimento. La bambina indossava una tuta di peluche bianca e nera, che la copriva da capo a piedi. La testolina era avvolta da un cappuccio con due orecchiette rotonde.
“Sei un panda, più che altro… e che cavolo ti piglia, poi? Fammi venire un infarto, brava!”
“Ma io VOLEVO spaventarti!” Carmilla li fece la linguaccia. “E un panda non è per nulla spaventoso.”
“Ottimo, ci sei riuscita. Porco brodo.” Balbettò Verzetti, riprendendosi. “Ma dove hai trovato un costume da panda? Non ti sei tolta l’alluminio, vero?”
Carmilla scosse il capino, e tolse il cappuccio mostrando il cappellino lucente al suo solito posto.
“Il costume era di là, nell’armadio. Era l’unica cosa della mia taglia, ed è pure morbidissimissimo!” concluse, abbracciandosi teneramente.
Verzetti stava per dire qualcosa, quando la porta d’ingresso si aprì. Samanta entrò spingendo la porta con il sedere, mentre teneva tra le mani due sacchetti della spesa.
“Si può?” domandò.
“Accomodati!” esclamò Verzetti, riponendo e chiudendo di fretta il laptop sul divano.
“Ah Virzì, guarda che gentelmén che mi fai entrà in casa mia.” rise Samanta, fermandosi al bancone della cucina. Rovesciò nel cestino un sacchetto di noci, lasciandone sul fondo alcune che fece rotolare dentro il frullatore. Dal’altro sacchetto estrasse una confezione da sei di lattine di olio di fegato di merluzzo fermentato.
“State bene? Mi dispiace che nun c’ho ‘na cavietta da dar da mangiare ar topolino.” Disse Samanta, frullando le noci.
“Tranquilla, ha… già bevuto abbastanza sangue per oggi.” Disse Verzetti, lanciando un occhiata preoccupata alla bambina. Samanta aprì un minuscolo rubinetto su un lato del frullatore, rovesciando in un bicchiere l’olio ricavato dalle noci. Iniziò a sorseggiarlo.
“Arvedi te… che carina che sei!” esclamò, notando il costume di Carmilla.
“Grazie!” rispose Carmilla.”Posso tenerlo? Ti prego, ti prego, ti prego!”
“Ma certo che puoi, io nun me ne faccio nulla.” Disse Samanta.
“Yippi, grazie Sammy!” esultò Camilla. Poi si stropicciò gli occhietti: era stanca, si stava addormentando.
“Un attimo, cosa ci facevi con un costume da panda per bambini in casa?” chiese Verzetti.
“L’avevo ordinato per corrispondenza una volta che lavoravo in un club di Role-play. Nun se capiva mica sul sito che era per bambini. Di la c’ho anche quelli da infermiera porcella e da sora zozza.” Disse Samanta.
“Oh.” Disse Verzetti, ammutolendo.
Carmilla si addormentò sul divano qualche minuto più tardi. Samanta la coprì con una trapuntina decorata con disegni di coni gelato azzurri.
“È stanca, povero cucciolo. Ma chi è? Nun è che me la racconti ‘sta storiaccia lunga che me dicevi prima?” chiese Samanta sottovoce.
“Certo, andiamo di là a parlare, che sennò la svegliamo?” disse Verzetti.
“Per non svegliarla, eh?” disse Samanta, con un sorriso ironico. Verzetti non capì bene a cosa alludesse.
Samanta afferrò dal bancone le lattine:
“Goccetto?”
“Goccetto.” Annuì Verzetti.
Si sedettero entrambi sul letto di Samanta, un ampio talamo a una piazza e mezzo ricoperto di un piumone rosso. La stanza era arredata similmente al salotto, con pareti e mobili bianchi. Fu allora, mentre si sedevano sulla morbide superficie del materasso, che Verzetti si rese conto della mandrillata che aveva appena fatto senza rendersene conto: in effetti voleva soltanto raccontare la storia, non trovare un pretesto per portare entrambi in camera da letto. Beh, quel che è fatto è fatto, pensò, schiacciandosi un cinque mentale.
Samanta stappò il tappo di una delle lattine. Erano dei cubi schiacciati, dai bordi affusolati, con sopra l’immagine di un merluzzo sorridente.
“È roba buona, doppia fermentazione. Bevi, che so’ ancora caldine.” Disse a Verzetti. Il manichino si aprì anche lui una lattina, e quando il liquido ambrato scese lungo il suo canale di ingestione sentì un piacevole tepore scaldare le sue articolazioni di ceramica, e la fatica della notte trascorsa che lo abbandonava. Mancava meno di un ora all’alba, era da giorni che non si riposava come si deve.
“Ci voleva, grazie.” Disse. Samanta si stava già aprendo un'altra lattina.
“Buono, no? Te ricordi quanto ne abbiamo bevuto a quella rimpatriata di compagni di fabbrica due anni fa?”
“Mi ricordo di essermi risvegliato in mezzo al deserto, nessuno sapeva come ci fossi arrivato, tantomeno io.”
“Ah ah, ma dai!”
“Giuro, il peggior shock da iperfermentazione della mia vita.”
“E nun te lo ricordi della chitarra?”
“Chitarra?”
“Ma sì, prima, alla festa. Sei venuto da me co’ sta chitarretta e mi hai detto che vendevi canzoni in cambio de bacetti.”
Verzetti non si ricordava assolutamente, l’ultima immagine definita che gli era rimasta di quell’occasione era una pila di lattine vuote.
“Ero intonato?” farfugliò.
“No, ma eri tanto caruccio! Te ho pure pagato il bacetto come volevi.” Verzetti tacque.
“Nun te ricordi?” chiese Samanta, con un sorriso malinconico.
“Temo di no.”
“Sai che cosa ho pensato, quando te ho conosciuto?”
“Non lo so.”
“Che dovrebbero essercene de più di bravi ragazzi come te. De manichini che non te stanno a giudicà solo dalle misura delle tue protesi mammarie. Sai, di quelli che ce puoi parlare, stare bene inzieme… cose così.”
Verzetti si confortò nel non disporre di un impianto facciale, altrimenti avrebbe dovuto simulare il sorriso imbarazzato di quando si scopre di essere l’amico con cui si può parlare.
“Scusami, ho paura che quella sera avessi alzato il gomito.” Si schernì, tentando di cambiare argomento.
“Dai, che te scusi, le persone sono simpatiche quando alzano er gomito.” Rise Samanta. Si aprì la terza lattina, Verzetti era ancora alla prima.
“Mi sembra che tu stia diventando simpaticissima.” Le fece notare Verzetti.
“Visto che funziona?” rise Samanta, non notando l’ironia. Poi, si fece improvvisamente seria. Sbuffò dalle sue labbra semirigide. “Virzì, ma tu nun te devi vestì così, sembri uscito dar ricovero!”
“Stai cercando di denudarmi?” scherzò Verzetti.
“Sì.” Rispose Samanta, con sguardo serio e ubriachissimo. Verzetti ammutolì.
“Come?”
Samanta, senza rispondere, si sfilò il top, dando la conferma ultima a Verzetti che quell’impianto in seitan gli piaceva parecchio.
“Oh.” Riuscì a dire Verzetti. La manichina gattonò sul materasso fino a lui, e appoggiò le sue labbra semirigide su quelle di ceramica di Verzetti. Verzetti sentì la turbina posizionata nel suo bacino iniziare a roteare come il reattore di un caccia. Riuscì persino a sentirne il rumore.
“Pizzica.” Gli sussurrò Samanta.
“È elettricità statica accumulata nei circuiti facciali.” Disse Verzetti.
“Me piace. Baci bene.”
“Sì lo so, sono forte.”
“Scemotto.”
Le labbra si unirono di nuovo. Una mano di Samanta gli si appoggiò sulla gamba. Subito, la manichina si distanziò dal suo volto, con un espressione interdetta.
“Ma…” iniziò a dire.
“Ehm, mi dai due secondi? Avevo visto un distributore qua sotto.”
“Non ne hai uno con te? Ner portafogli?”
Verzetti non teneva cose del genere nel portafoglio dagli anni nell’università. Si alzò dal letto.
“No, torno subito.”
“Uff…” sbuffò Samanta, accasciandosi di schiena sul materasso. Verzetti corse fuori dalla porta, si vestì in fretta e furia, e si catapultò in ascensore.
In strada, si diresse di corsa verso la stradina dove ricordava esserci un distributore, dal quale era passato in occasione di quella sfortunata festa di capodanno di qualche anno prima. Mancava poco all’alba, il cielo stava passando dal blu scuro alla tinta rossastra della lente solare. Il vicolo era uno spazio di pochi metri, chiuso tra due pareti ricolme di condizionatori e finestre sbarrate con assi di legno. Dentro di esso si trovavano parcheggiati una decina di chopper, decorati con spuntoni acuminati e con i fanali scolpiti a forma di teschio. Accanto alle moto si trovavano molti pipistrelli vestiti di giacche di pelle. Verzetti riconobbe il simbolo sulle loro schiena: una spada conficcata in un teschio dai denti affilati, dalla quale spuntavano ali d’aquila, un cinturone di proiettili e due teste di lupo. Erano i motociclisti che aveva visto in autobus. Il pipistrello con la barba bionda lo fissava da dietro i suoi occhiali rotondi a specchio. E non passò neanche un secondo, che tutti i motociclisti smisero di parlare tra loro, e presero a guardare il manichino. Verzetti abbassò la testa e, appiattendosi contro il muro, passò oltre. Meglio lasciarli stare,  pensò. Si schiacciò contro il distributore, senza che la sensazione di avere decine di occhi indiscreti puntati su di lui lo abbandonasse. Il distributore era un cilindro che spuntava per metà dal muro di un negozio di parti di ricambio per manichini, ancora chiuso. Sulla facciata del cilindro si trovava un display nero, sul quale grossi pixel verde chiaro formavano l’immagine di un funghetto che ondeggiava allegramente, con sopra il gambo una faccia sorridente da fumetto giapponese. Non appena la fotocellula integrata percepì la presenza di Verzetti, partì una musichetta di tromba, e il funghetto prese a parlare:
“Benvenuto! Inserisci i soldi nell’apposita fessura e premi per il prodotto desiderato.”
Verzetti estrasse una banconota consunta dal portafoglio, la appiattì con perizia tra i palmi delle sue mani e la infilò in una fessura luminosa sotto il display.
“Seleziona il prodotto. Sono disponibili Samurai, Italian Standard, e Chocolate banana. Per Extralarge e Congobongo inserire un'altra banconota.”
Verzetti sentì qualche risatina provenire dalle sue spalle. Le ignorò e selezionò Standard, i soldi non bastavano per altro, ed era sicuro che il suo apparato di supporto pelvico di vecchia generazione non avrebbe potuto reggere niente di più voluminoso. Il pacchetto venne erogato da una bocchetta in fondo alla macchinetta.
“Grazie, torni a trovarci presto! E buon divertimento!” trillò il funghetto, facendo un occhiolino. Verzetti afferrò il pacchetto, con all’interno cinque impianti cilindrici, disposti in una fila ordinata. Mentre circumnavigava una seconda volta il gruppo di motociclisti, senti uno di essi dire alle sue spalle:
“Vai campione, farciscila per bene!” e subito tutti i pipistrelli scoppiarono a ridere. Verzetti chinò il capo e accelerò il passo.  
“Sono stufo di questi usa e getta, la prossima paga me ne compro uno permanente.” Borbottò, dirigendosi di nuovo verso il portone.
 
Samanta si era addormentata. Verzetti la trovò rincantucciata tra le coperte, che emetteva il placido ronzio tipico del motore di manichino in stand-by. Verzetti sentì il rombo della sua turbina farsi sempre più fioco, ed infine spegnersi.
“Cacchio.” Disse tra se, uscendo dalla stanza in punta di piedi, e accostando la porta con delicatezza.
“Che sfiga,che sfiga, che sfiga…” borbottò tra se. Si sarebbe messo a riposare vicino a Carmilla, anche se sapeva che non sarebbe riuscito a dormire. Sentì subito che faceva più freddo in salotto. La porta del terrazzo era aperta.
“Il dottor Verzetti, presumo.” Ghignò Controcazzi. Verzetti si irrigidì: il tenente troneggiava in mezzo alla stanza, sfiorando il soffitto con la testa. Tre soldati granchio minacciavano Carmilla con i clindri d’assalto, altri due si avvicinarono a lui, tenendolo sotto tiro.
____________
Bene, per ora può bastare così. Ho bisogno di un po' di tempo per ricaricare le batterie e organizzare le idee: ci sono molte altre bizzarre avventure in arrivo! Grazie a tutti quelli che stanno seguendo la storia: recensitela e segnalatela, è il modo migliore per sostenerla e farla andare avanti! Ci rivediamo a gennaio, non appena avrò finito di digerire le quantità di cibo indegne che mi aspettano in questi giorni :) a presto!
Dzoro

 

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Capitolo 14
*** Soundtrack ***


Salve a tutti, sono Dzoro, forse vi ricorderete di me per Solo per questa volta e… beh, poco altro in realtà. Come potete vedere la storia è in pausa, e questo perché al momento mi dedicherò al seguito di Angelo strano, una storia che scrissi ormai anni fa. Il seguito è tutta roba nuova, e quindi avrò bisogno ancora di un po’ di tempo per scriverlo, e purtroppo, dato che ho appena trovato un lavoro (yee!), le cose d’ora in poi potrebbero andare a rilento. Datemi un mesetto, e avrete nuove bizzarre avventure!
Nel frattempo, eccovi un piccolo bonus, la colonna sonora di Le Bizzarre avventure del manichino Verzetti e della vampiretta Carmilla, tutta rigorosamente punk ‘n roll. Enjoy!

Verzetti
Per il nostro dottore non posso che scegliere Got No Money, dei Guana Batz. Penso si spieghi da solo.
Carmilla
La piccola Carmilla ha bisogno di una canzone dolce e naif come lei. Quindi Sleep Tight dei The Creepshow e quello che ci vuole!
Controcazzi
Per un vampiro tutto muscoli imbottito di steroidi e perennemente arrabbiato, non posso che scegliere Crazy in the head dei Three bad jacks
Mutanti
Per una tribù di mostri un po’ mongoloidi andrà bene Monster Movie Fan, dei Nekromantix.
Samanta
Per una ragazza sofisticata e un po’ burina come Samanta sceglo Freaks In Uniforms degli Horrorpops.
 
Bene, questo è tutto. Se siete in astinenza da bizzarria potete provare questa mia altra storia, che però consiglio solo ai più grandi di voi, è per un pubblico (molto) maturo. Ci sentiamo presto!
Dzoro

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Capitolo 15
*** Quattordici ***


Quattordici

“Signor robot…” disse Carmilla, con le canne dei mitragliatori puntate contro le sue guanciotte e gli occhioni umidi. Verzetti pensò rapidamente a cosa dire. Riuscì a trattenere un come avete fatto a trovarci?, che era una dichiarazione di colpevolezza. Cosa succede, perché siete qui? Anche quello sarebbe suonato come lo spavento di un fuggiasco. Quindi optò per un:
“B-b-buonasera.”
Controcazzi si avvicinò fino a lui, finché non gli fu a mezzo centimetro dalla faccia.
“Fabio Verzetti, medico freelance, laureato in xeno-medicina all’università statale di Golconda nel 2109. Devo ricordarle cosa succede ai manichini fuorilegge?”
“Vengono… riciclati, no?” mugolò Verzetti.
“Ne facciamo vasi da notte!” Gli sbraitò in faccia il tenente. “Dimmi subito dov’è il sapiens, e cosa ci fai in compagnia della figlia di Dracula Camarilla.”
Questa era una buona notizia: Carmilla aveva ancora il cappellino di alluminio, loro non sapevano che era lei quello che stavano cercando.
“Sapiens? Quale sapiens?” disse Verzetti.
“Non fare questi giochetti con me, manichino. Abbiamo rivelato attività cerebrali sapiens ben due volte nelle ultime quarantott’ore. E in entrambe le occasioni tu ti trovavi nei paraggi.”
In mezzo al mare di gelida strizza in cui il manichino era appena sprofondato, fece capolino una scintilla di razionalità: come facevano a sapere che lui era stato presente? Non c’erano prove.
“Come potete dire che…” iniziò a balbettare.
“La tua macchina, Verzetti. L’abbiamo vista fuori dalla casa di Carmilla e nel luogo del secondo rivelamento del sapiens. Sappiamo che è tua, abbiamo confrontato la targa con la motorizzazione di Golconda. Ti assicuro che rovistare la carcassa di un veicolo ricoperto di sporcizia di tartaruga gigante non mette di buon umore, quindi PARLA!” la faccia di ceramica di Verzetti si imperlò di goccioline di saliva, quando Controcazzi gli sbraitò addosso.
“I…io…” farfugliò il manichino.
“Ma che succede?” disse Samanta. Era vestita con una vestaglia di spugna rosa, e sembrava ancora assonnata, a giudicare da come si stava sprimacciando la faccia. Quando vide i soldati si irrigidì.
“Non ti muovere, civile. Stai interferendo con un azione militare, e ringrazia il cielo che non ti arresti per occultamento di fuggitivo!” le disse Controcazzi, puntandole la mech-chela contro.
“Fuggiche? A Fabio, che cavolo sta succedendo? Chi siete? Cosa volete?” L’aveva chiamato per nome. Voleva dire che si stava arrabbiando.
“Zitta, ammasso di ceramica, non mi stuzzicare.”
“Ma ammàzzate, ammasso demmerda! Che cacchio ce fai in casa mia? Te prendo accalci atte e a tutti sti granchiacci de’ i mei cojoni!”
“Sammy, per favore, non farli arrabbia…” provò ad intromettersi Verzetti.
“MANCAMI ANCORA DI RISPETTO E TI SPEZZO COME UN FUSCELLO, APPENDIABITI!” le urlò contro Controcazzi, facendo sbattere i denti della chela.
“APPENDIABITI AMME? AFFETIDO! AMMERDA! MA PROVACI SORTANTO CHE TE FACCIO UN CU…”
“Stop, stop, stop!” gridò Verzetti, frapponendosi tra i due. “Basta, va bene! Ti dirò dov’è il sapiens.”
“Cosa? Virzì, ma de che sta’ a parlà?” Samanta, interdetta, abbassò il tono di voce. Controcazzi sogghignò:
“Bene. Dov’è?”
“Di sotto. L’ho nascosto in un negozio in strada.”
“Andiamo allora. Soldati, prendete la bambina e la manichina.”
“Cosa? No! Mollatemi!” Samanta riuscì ad infilare un dito in un occhio sotto la visiera di uno dei soldati e a colpirne un altro con un formidabile calcio tra le gambe, prima che i restanti la immobilizzassero. Carmilla, dopo essersi dimenata tra le mani dei soldati e aver dato una pedata in faccia ad uno di essi, si ritrovò immobilizzata sotto un braccio. Fuori dalla porta finestra, come Verzetti si aspettava, si trovava una caravella a levitazione. La nave color blu e oro ondeggiava sui suoi tre reattori a superconduttore quantico ad un metro dal terrazzo. Sotto la prua si trovava una gomena a forma di sirena, e le fiancate erano decorate con bassorilievi metallici di cavallucci marini, sopra i quali spuntavano le canne dorate di gatling anticarro. Vennero tutti caricati sopra, e portati in strada. Dovevano aver messo una mano sulla bocca di Samanta, Verzetti non ne sentiva più le urla. E se anche stava urlando, ora riusciva a sentire solo il rombo del suo motore, che consumava quantità industriali d’olio in preda all’agitazione. I suoi occhi si incollarono sul vicolo del distributore dal primo momento che smontarono a terra.
“La dentro.” Disse. Gli sembrò che passassero ore intere, ma non ci vollero che pochi secondi. Accompagnato dai passi pesanti delle armature dei soldati granchio, entrarono nel vicolo. Verzetti contò fino a tre. Poi urlò:
“Eccoli! Sono loro, prendeteli!”
Il manichino indicò il gruppo di motociclisti, che alzarono lo sguardo verso i soldati.
“Che cosa..?” domandò Controcazzi.
Diversi pipistrelli motociclisti, seduti di sbieco sui sellini delle loro moto, lasciarono cadere per terra le cavie che stavano succhiando e si alzarono, squadrando i nuovi arrivati.
“Forza, non volevate ammazzarli tutti? Fatelo, avanti! Sono loro, prendeteli!” strepitò Verzetti, additando ancora i motociclisti.
“Perché non venite qui e ci provate?” Disse un motociclista secco e calvo, scattando in piedi.
I soldati alzarono i cilindri tattici contro i motociclisti.
“Fermi, non sparate! Non vogliamo farvi niente!” disse Controcazzi, frapponendosi tra i due schieramenti.
“Forse vogliamo farvi qualcosa noi.” Disse il motociclista, facendo un passo in avanti.
Dall’ombra del vicolo incedette il pipistrello con la barba bionda e gli occhiali a specchio. Verzetti non l’aveva ancora visto in piedi: era alto almeno due metri e mezzo.
“Lo sapete come ci piacciono i granchi? Col burro fuso.”
“Modera il linguaggio, bestia. Tu e la tua banda non avete speranze contro di noi. E non ho voglia di sprecare piombo.” Disse Controcazzi. Una risata fragorosa come un tuono fece tremare le pareti del vicolo e l’asfalto sotto i loro piedi. Era stato il motociclista con la barba.
“La vuoi vedere una bestia, gamberetto?” ringhiò, con una voce da capodoglio. Le sue mani andarono ad afferrare le manopole riprogen sopra la sua testa. Le girò.
“Fuoco!” urlò Controcazzi, e Verzetti si stupì, quando vide un per la prima volta comparire sul volto del tenente una smorfia di paura.

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Capitolo 16
*** Quindici ***


Quindici

I proiettili delle mitragliatrici perforarono i corpi dei motociclisti, facendo esplodere sbuffi di sangue da pipistrello, nero e denso. Solo i giubbotti di pelle mostrarono i fori, la carne di rigenerò immediatamente. I pochi proiettili che raggiunsero la testa dei pipistrelli rimbalzarono contro le calotte metalliche sottocutanee, anche quelle augmentazioni Riprogen di vecchia generazione, ma ancora efficaci. Le manopole erano state girate, rilasciando mutageni rna-riprogrammatori nelle loro ipofisi: i vestiti dei motociclisti si squarciarono, mentre la loro massa muscolare si gonfiava come un palloncino, e la loro pelle lasciava uscire peli neri e spessi come gli aculei di un istrice. Sull’asfalto caddero e ticchettarono decine di denti, spinti fuori dalle gengive da zanne acuminate. La barba del motociclista con gli occhiali si allungò e si fuse con i peli del suo petto, la sua schiena si incurvò in avanti, l’addome si allungò.
“Passate alle granate incendiarie, idioti!” urlò Controcazzi. I soldati appoggiarono i cilindri e premettero alcuni bottoni sulla loro superficie, ma era già troppo tardi: i mannari gli saltarono addosso.
Il muso era l’incrocio tra un lupo, un orso e uno squalo, il modo in cui si muovevano era ormai più simile a quello di un quadrupede che di un umanoide. Si potevano ancora scorgere le manopole sulle loro teste. Il più grosso dei mannari aveva ancora i suoi occhialetti a specchio, incastrati sul muso.
Verzetti si ritrovò per terra, e gattonò tra gambe pelose e in armatura. La sua testa evitò per un soffio la suola di uno stivale corazzato.
“Carmilla! Sammy!” gridò.
“Signor robot!”
Carmilla si trovava insieme a Samanta, erano entrambe rannicchiate contro un muro, a pochi metri dalla mischia. Verzetti si alzò e corse verso di loro.
“Ragazze, state bene?”
Prima che avessero tempo di rispondere, le motoseghe iniziarono a rombare alle sue spalle. Un braccio di mannaro mozzato si spiaccicò contro il muro alle loro spalle.
“Cosa sta succedendo?” urlò Samanta.
“Dopo, dopo! Andiamocene!” Verzetti la prese per un polso. Correndo radenti al muro, si diressero verso i chopper parcheggiati. Dal cielo si sentì un urlo farsi sempre più vicino, prima che un soldato granchio si sfracellasse vicino a loro, con l’armatura che si infrangeva come il guscio di un uovo lasciato cadere dal decimo piano. Verzetti montò sul chopper più vicino, facendo sedere Carmilla sulla copertura di metallo sotto il manubrio, e mettendosi sul sellino. Samanta si sedette dietro di lui, premendo il petto contro la sua schiena. La battaglia alle loro spalle era diventata una cacofonia di catene di motosega imbizzarrite, urla, ringhi e ululati.
“Sei un tipo meno tranquillo de quello che sembri.” Gli urlò nell’orecchio Samanta, sedendosi.
“Me lo dicono spesso!” gridò Verzetti, girando la chiave di accensione. Verzetti sentì come se il sellino dovesse schizzargli via da sotto il sedere. La moto partì in impennata. Sfrecciò radente il muro staccando di netto uno specchietto retrovisore, lasciandosi alla spalle i mannari e i soldati, ancora impegnati a farsi a pezzi. Verzetti, con la coda dell’occhio, vide Controcazzi stringere le sue mech-chele intorno al collo i uno dei mannari. Capì che non si sarebbe liberato facilmente di lui.
Il chopper arrivò in strada, derapò lasciando una traccia nera, e partì a tutta velocità, avvolto dalla luce rosso scuro dell’alba.
“Dobbiamo andarcene il più lontano possibile!” disse Verzetti.
“Sempre dritto, la prossima vai a destra.” rispose Samanta.
“Non c’è il centro da quella parte?”
“Sì, annamo in un posticino che conosco io!”
“Okay!” Verzetti accelerò. Sentì le braccia di Samanta stringersi intorno al suo petto, e il petto di lei premere contro la sua schiena. Improvvisamente, mentre guidava il Chopper a tutta velocità, venne colto da un inaspettato attacco di autostima.
 
Controcazzi barcollò in avanti, appoggiandosi al muro per non cadere, ansimando.
“Bastardo.” Sibilò tra i denti. Lanciò un occhiata alle sue spalle: nessuno l’aveva seguito, ma sentiva ancora i rumori della battaglia. Probabilmente aveva perso tutti i suoi uomini.
“La prima volta che sono costretto a scappare dal nemico, ed è tutta colpa di quel maledetto manichino!” gridò, e colpì il muro con un colpo di chela, staccando una nuvola di calcinacci. Respirando affannosamente, tastò il suo avambraccio corazzato, finché con una leggera pressione non riuscì ad aprire uno sportello a scorrimento. Sotto di esso si trovava un pulsante, con sopra l’immagine di un piccolo uovo dorato, decorato con due alucce piumate. Lo premette.  

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Capitolo 17
*** Sedici ***


Sedici

L’uovo di metallo incandescente precipitò affossando l’asfalto del vicolo in una ammaccatura rigata di spaccature frastagliate che andava da un muro all’altro. L’uovo era ancora rosso per il calore, e le sue saldature scricchiolavano per l’improvviso raffreddamento in seguito al viaggio ad ipervelocità. Era un globo allungato e irregolare di metallo, coperto di tubi e indicatori analogici con le lancette che ondeggiavano frenetiche avanti e indietro. Sulla cima si aprì una spaccatura, poi si allargò percorrendo verso il basso tutta la superficie dell’uovo. Controcazzi ghignò.
“Vieni da papà.”
Due mani nodose spuntarono dall’apertura, e l’allargarono.
 
La moto sterzò dentro un largo viale, passando sotto un arco decorato di bassorilievi. La via era occupata da condomini con davanti giardinetti tutti prato inglese e petunie, qualche chiesa e molte saracinesche abbassate, il tutto affacciato su marciapiedi sui quali vagavano un po’ di pipistrelli giornambuli, che si proteggevano dai pochi raggi ultravioletti lasciati passare della lente solare con luco-impermeabili dai colori sgargianti o parasole color rosso opaco. Non c’erano macchine, Verzetti condusse la derapata fino ad andare contromano, poi tornò sulla sua corsia.
“Credo che li abbiamo seminati.” Disse.
Una raffica di Gatling si abbattè di fianco alla moto. I proiettili aprirono decine di fori neri sull’asfalto, e ridussero il parabrezza di un utilitaria parcheggiata lì vicino ad una nuvola di ghiaia vetrosa. Verzetti sterzò bruscamente, facendo sbandare la moto a destra e a sinistra. Samanta e Carmilla urlarono. Verzetti buttò uno sguardo dietro di se, e la prima cosa che vide furono le maestosi ali piumate. Controcazzi si ergeva sopra di uno scudo dorato, sopra il quale era stata installata una gatling dello stesso metallo tramite in treppiedi fissato con viti. Lo scudo era sorretto dal muscoloso braccio di un angelo da assalto, vestito di una semplice toga bianca, e con un viso immobilizzato in un placido sorriso, incorniciato da cascate di riccioli d’oro. La creatura era più grossa perfino del tenente, e lo sorreggeva sopra la sua schiena senza problemi, mentre le sue ali sbattevano ritmicamente, facendolo sfrecciare in aria come un razzo.
“Oh porco bro…” esclamò Verzetti, prima che Controcazzi riprendesse a sparare. Verzetti prese a girare forsennatamente il manubrio, muovendo la moto in un disordinato zig-zag, incastrato a malapena in mezzo alla pioggia di proiettili, con intorno a se pezzi di asfalto che schizzavano come se grandinasse e i serbatoi delle macchine parcheggiate che esplodevano in fiammate e schegge di metallo e vetro. I passanti si appiattivano rannicchiati contro gli edifici, lasciando cadere i loro ombrelli da sole, che prendevano il volo nei vortici di detriti sollevati dalla mitragliatrice. L’angelo ruggì, e il suo ruggito era a metà strada tra quello di un falco e l’acuto di un immenso coro gregoriano.
“Rallenta, ce ammazziamo qui!” urlò Samanta, stretta intorno alla sua vita fino quasi fargli male. Verzetti avrebbe voluto rispondere che in quel momento sarebbero morti in qualsiasi caso, ma riuscì solo ad urlare, con tutti i megahertz dei suoi altoparlanti.
Controcazzi sghignazzava, mentre la gatling consumava un proiettile dopo l’altro metri di nastro. Il suo dito rilasciò per un attimo il grilletto.
“Fermatevi in nome della fottuta legge!” disse. Non vide l’ombra nera e massiccia che stava saltando da un tetto all’altro degli edifici intorno a lui. Non la vide saltare contro di lui.
Verzetti continuò ad urlare almeno una decina di secondi dopo la fine degli spari. Quando si accorse che il rumore era cessato, lanciò un’altra occhiata dietro di se. Non vedeva più ne l’angelo ne Controcazzi.
“È scomparso?” disse, insicuro se fosse una domanda o un affermazione. Poi, riportò lo sguardo sulla strada davanti a se. Una massa indistinta di metallo, piume e pelo si sfracellò rimbalzando davanti a lui. Verzetti frenò di botto, facendo strisciare la ruota posteriore in una lunga sbandata e inchiodando la moto in mezzo alla strada.
Il mannaro con gli occhialini era aggrappato con le unghie al braccio dell’angelo, che lanciava gridi simili al movimento centrale di O Fortuna. Controcazzi si reggeva con una mano alla gatling mentre l’angelo si agitava in un volo disordinato per il cielo sopra la strada, sventolando la mech-chela del braccio libero contro il muso del mannaro, mancandolo sempre di poche spanne.
“Ma che stai a guardà? Nnamo!” gli gridò Samanta in un orecchio. Verzetti non se lo fece ripetere. Riaccese il motore, e si buttò in una corsa disperata.
“A destra, svolta a destra.” Disse Samanta, e Verzetti obbedì.
La strada che avevano imboccato era lastricata di piastre di porfido multicolore, e scortata da due file di statue neoclassiche, eroi greci che tendevano le loro membra virili, impegnati a decapitare meduse, donare il fuoco agli esseri umani e strangolare minotauri. Ogni statua era posizionata su piedistalli grossi come cabine del telefono, e oscuravano i bagliori rossi del sole con la loro massa slanciata. In fondo al viale, si vedeva un cancello di ferro battuto, le cui sbarre di metallo argentato terminavano in decorazioni floreali e intrichi ricurvi di rampicanti metalliche. Il cancello interrompeva una muraglia che sembrava fatta dei massi di una piramide egizia, colorati di tinta color mattone e coperti da un fitto rigoglio di muschio ed edera.
“Ma quello è il castello di…” disse Verzetti.
“Sì, sì, saremo al sicuro lì.”
“Di chi?” chiese Carmilla.
“Lo conosci di persona?” disse Verzetti, non sentendo la domanda della bimba.
“No.”
“Ma chi?” disse Carmilla.
“Ma come facciamo ad entrare?”
“Eppiantala con queste domande! Vai!” disse Samanta. Verzetti accelerò. Davanti a loro, il cancello si mosse sui cardini, spalancandosi lentamente.
La moto superò la soglia, sollevando una raffica di ciottoli bianchi da una larga strada che si arrampicava su per una collina ricoperta di erba tagliata fine, aiuole straripanti di fiori che alternavano il rosso a tinte di blu e viola scuro e alberi potati in modo che avessero la forma di busti maschili e femminili, che allungavano in preda all’estasi le loro braccia verso il cielo, incurvando la loro schiena di legno e foglie. La moto slittò sulla ghiaia e sbandò. Verzetti frenò di botto, ottenendo un testacoda di settecentoventi gradi. Si ritrovarono un attimo dopo immobili, irrigiditi sui sellini, sorpresi di essere vivi.
“Mi scappa la pipì.” Disse Carmilla.
L’angelo d’assalto precipitò ad una decina di metri da loro. L’essere alato rotolò, mollò la presa sullo scudo che si perse rotolando e rimbalzando nelle profondità del bosco. Uno degli alberi lì vicino tremò tutto. Le fronde iniziarono a scuotersi, e in una nube di foglioline verde lucido Controcazzi cadde con le gambe all’aria. Si alzò lentamente, ringhiando: non aveva più il cappello, il suo volto era ricoperto di tagli sanguinanti, i suoi occhi dilatati e rossi. Digrignava con tanta forza che sembrava che dovessero uscirgli fuori scintille dai denti.
“Sporco abbendiabiti.” Sibilò, zoppicando verso di loro. Azionò le mech-chele: una cadde in pezzi per terra, ma l’altra sbattè le sue tenaglie tra loro, pronta all’uso. Verzetti diede gas alla moto: il motore emise un mugolio come quello che fa un ubriaco quando si tenta di svegliarlo.
“Porco, porco…” disse, con le parole che gli uscivano dalla bocca a pezzetti.
Le fronde frusciarono, senza che ci fosse un filo di vento. Una figura discese dal cielo, atterrando ad una spanna da Controcazzi: la lama di un fioretto si piantò contro la gola del tenente. L’impugnatura di filamenti di argento intarsiato era ben stretta nel pugno di un manichino, vestito in panciotto e camicia. Sulla sua testa, come quella di Verzetti liscia e priva di impianti, si trovava una parrucca bionda con tanto di codino.
“Non mi pare di averla invitata, tenete Italo Controcazzi.” Disse il Manichino, facendo cascare le parole una dopo l’altra, con pacatezza e decisione.
“Tu lo sai che potrei procedere ad un’esecuzione seduta stante per quello che stai facendo.” Disse Controcazzi, con il volto contratto in una rigida maschera di rabbia.
“Ha un bella faccia tosta, per essere uno con una lama puntata alla gola. E nel pieno della violazione del confine di uno stato indipendente.”
“Sporco appendiab…” la lama premette sulla gola, interrompendo la frase.
“Potrei sgozzarti qui, e i tuoi soldati non potrebbero nemmeno venire a prendersi il tuo cadavere. Vattene via, e non provare a farti rivedere, o dovremo fare qualche chiacchiera con il Parlamento.”
Controcazzi tacque. Indietreggiò. L’angelo era a pochi passi di distanza, che si grattava la testa con il piede, lanciando dei gorgheggi soddisfatti. Prese a pulirsi i capelli, leccandosi il dorso della mano e passandoselo sui riccioli.
“Vieni, bestia!” gli sbraitò addosso Controcazzi, prendendolo per la collottola e trascinandolo verso l’uscita.
Il manichino con il panciotto si voltò verso Verzetti, Carmilla e Samanta.
“Samanta, che piacevole sorpresa. Fabio.”
“Non è possibile! Tu?” disse Verzetti.
“Chi-i-i?” disse Carmilla.
“Oh, salve piccola. Mi presento. Mi chiamo Antonio Stucchi, segretario personale di Manfredi Otranto. Benvenuti al castello di Otranto.” Disse il manichino. 

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E questo è tutto per ora. Speravo di poter riprendere la pubblicazione con una seconda parte completa, ma purtroppo i progetti per la testa sono tanti, e il tempo è poco. Vi ringrazio se siete arrivati fin qui, fatemi sentire la vostra voce se volete altre bizzarre avvanture. Alla prossima!

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