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Nonostante
il suo lavoro lo portasse a viaggiare abbastanza, Louis Tomlinson
non era portato per i viaggi troppo lunghi: la nave gli faceva venire il mal di
mare, mentre il treno non gli consentiva di dormire adeguatamente, con quelle
sue poltroncine scomode e la possibilità che ci fosse sempre lì in agguato
qualcuno che potesse attaccar bottone, privandolo del suo bisogno di sonno.
Quella
volta invece, nonostante le premesse fossero state fosche (due giorni in treno
e appena uno in carrozza), riuscì a mantenere desta la sua attenzione, grazie
al libro che si era portato (Anna
Karenina, il romanzo del russo Lev Tolstoj) e ad un libro informativo sulla scuola in cui stava per andare
ad insegnare, il college maschile Watkins.
Il
posto, prometteva la guida, era molto esclusivo; tanto per citare qualcuno,
pareva che i figli del Primo Ministro Carpenter avessero ricevuto lì la loro
istruzione prima di passare a Oxford, nonché figli di
banchieri, giuristi, imprenditori della nostra cara, ammirevole Inghilterra.
Ciò che Louis notò immediatamente era che i nomi degli studenti non erano mai
menzionati, ma solo quelli delle onorevolissime
famiglie.
L’Istituto
era stato fondato nel 1840, quando, a soli ventuno anni, la Regina Vittoria
aveva deciso che era arrivato il momento di dimostrare il suo impegno
costruendo una nuova scuola per i figli dei suoi amici del Partito Liberale. Da
lì in poi, la scuola aveva ospitato solo rampolli delle famiglie più facoltose,
arrivando fino ai giorni attuali sfornando sempre più generazioni che aiutavano
il nostro bellissimo paese nella sua
crescita economica e sociale.
Certo, peccato che mentre il
Paese cresce economicamente e socialmente, abbiamo
ancora la metà dei bambini che lavora nelle fabbriche a battere il ferro o sui
tetti delle case a spazzare i camini, pensò Louis, con una nota
di sarcasmo mista a dispiacere. Quando aveva iniziato a fare l’insegnante,
aveva avuto idee brillanti su come esportare l’insegnamento al di fuori delle
scuole d’élite: scuola pubblica a disposizione di
tutti (specialmente degli indigenti) supportata da sistemi di aiuto sociale
diffuso, in modo che anche le classi più povere avrebbero potuto beneficiare di
una cosa importante come l’istruzione. Aveva anche scritto delle lettere, ma
dopo la terza risposta che conteneva un cortese rifiuto, aveva perso la
speranza. Tanto, aveva detto a sé stesso mentre chiudeva la lettera nel cassetto della sua
scrivania, non sarò certo io a cambiare
questo mondo.
Così
aveva continuato sterilmente il suo mestiere, insegnando in vari college
londinesi, fino a quando gli era arrivata una lettera di convocazione dal
Watkins.
Non
avendo altra alternativa, aveva accettato il posto,
rispondendo alla lettera ed accettando le cinquanta sterline anticipate
mensili.
Ed eccomi qui, a raggiungere
questo magnifico posto. Chissà se questa non sia la volta buona che ottengo il
posto fisso, pensò, chiudendo gli occhi e appoggiando la
testa al sedile. Il viaggio sarebbe durato ancora un paio d’ore. In futuro,
Louis avrebbe desiderato non addormentarsi mai, bensì scendere dal treno e
prenderne un altro per tornare indietro. Oppure ancora desiderò di aver
rifiutato l’incarico proposto in quella lettera, aspettando qualcosa di meglio
di ciò che sarebbe dovuto andare ad affrontare.
Louis
pensò: che buon profumo questo tè. Sul
tavolino, in mezzo alle due tazze vuote, c’era la teiera in porcellana con il
suo contenuto fumante, dell’ottimo tè verde.
-
Servitevi pure, professor Tomlinson – lo esortò gentilmente il preside, il professor Ernest Umbridge, sorridendogli appena. Louis si servì riempiendo
un po’ più della metà la tazza, e infilandovi dentro una zolletta di zucchero ed una fettina di limone.
-
Per me niente limone – dichiarò il preside come declinando
un invito immaginario di Louis – Preferisco il latte. –
disse, e dopo aver riempito un po’ di tè, lo allungò
con il latte, senza zucchero. Nonostante non l’avesse messo,
usò ugualmente il cucchiaino per girare il contenuto della tazza.
-
Allora, professor Tomlinson – esordì il preside
– lasciatemi dire che sono contento che abbiate accettato il nostro
invito. –
-
Sono io che debbo ringraziare voi, professor Umbridge. Avrei solo una curiosità, e sarei grato se voi
poteste levarmela. –
-
Chiedete, e vi risponderò, professore. –
-
Perché proprio io? –
Il
professor Umbridge continuò a girare il cucchiaino
nella tazza ancora per qualche minuto, durante il quale Louis s’immaginò chissà
quale tipo di risposta gli avrebbe dato il vecchio. Poi, il silenzio fu rotto.
-
Semplicemente perché oggigiorno è difficile trovare dei validi insegnanti. Voi
avete delle ottime referenze, nonostante la vostra giovane età… Perdonatemi,
volete ricordarmi quanti anni avete? –
-
Ventidue, signore. –
Umbridge alzò lievemente le
sopracciglia in un’espressione di sorpresa – Già. Siete davvero giovane,
rispetto alla maggioranza del corpo docente. In genere non si diventa
insegnanti prima dei trent’anni, ma noi siamo lieti di avere un’altra eccezione
in questo nostro istituto. –
Louis
preferì non approfondire tale affermazione, limitandosi ad annuire ed a sorseggiare un po’ del suo tè.
-
Più specificamente, vi abbiamo convocato perché il vostro predecessore, il
professor Denker, è, per sua fortuna, finalmente
andato in pensione. – fece un’altra pausa, questa volta più breve,
durante la quale sorseggiò un altro po’ di tè alterato con latte.
-
Fino ad oggi le sue mansioni sono state coperte dalla professoressa Rigg, ma lei ha già due classi da gestire e dunque sarebbe
stato troppo assegnarle anche la sua, professor Tomlinson.
Anche perché, dovete sapere, che la professoressa Rigg,
come il professor Denker, andrà in pensione fra
qualche anno.
-
Capisco – disse Louis, annuendo.
-
Così, vista la vostra giovane età, abbiamo pensato che
avreste potuto aiutarci nell’insegnamento dell’inglese al posto del professor Denker, e, allo stesso tempo, prendervi cura delle altre
due classi della professoressa Rigg. –
-
Capisco – ripeté Louis, posando la tazzina – Debbo
quindi supporre che potrebbe trattarsi di un incarico a carattere permanente?
–
-
Più che permanente, professor Tomlinson. –
aggiunse il professor Umbridge – In qualità di insegnante della nostra scuola, voi avrete un
alloggio di vostra competenza ed un ottimo stipendio, superiore alla media
generale – Inarcò le sopracciglia, sporgendosi un po’ di più verso il suo
interlocutore – Oh, e naturalmente… avere insegnato in una scuola così
prestigiosa, è un ottimo lasciapassare per qualunque altro istituto di pari
grado. –
Louis
ammezzò un sorriso. Certo, la prospettiva di trovarsi con qualche soldo in più
non gli dispiaceva, ma dentro di lui continuava a farsi
strada il ricordo di quel giorno a Londra, quando, appena laureato, vide con
suo padre dei bambini che chiedevano l’elemosina…
…in
particolare quella bambina.
Vestiva
di stracci e i suoi capelli erano sudici, ma i suoi occhi erano puliti. I più
begli occhi azzurri che Louis avesse mai visto.
…una moneta, signore.
Soltanto una moneta. Vi prego, signore…
la sua voce sembrava quella di
un angelo. Così dolce, carezzevole… immaginò che cosa sarebbe potuta diventare
quella bambina dopo un adeguato percorso scolastico. Con una voce così, forse
avrebbe potuto provare a cantare. Fu questo il pensiero che Louis fece mentre,
lontano dallo sguardo del padre, tirava fuori una sterlina d’argento e la
regalava alla bambina.
Tieni, piccola. E buona
fortuna. Le disse Louis, sorridendole dolcemente. La bambina guardò
la moneta nella sua piccola mano e ringraziò il suo benefattore, tante e tante
volte… e Louis tornò da suo padre, che per fortuna non aveva visto suo figlio
intrattenere rapporti con gente del ceto disagiato.
La scuola per tutti è
soltanto un’utopia…?
-
Allora, che ne dite, professor Tomlinson?
–
la domanda lo fece ritornare
con i piedi per terra e al presente. Guardò negli occhi il suo interlocutore e,
senza pensarci ulteriormente, rispose – Sì. Per me va bene. –
Ne seguì una stretta di mano ed
un Benvenuto all’Istituto Watkins da
parte del professor Umbrdige. Tutto ciò, mentre fuori
il tempo si rannuvolava di fosche nuvole nere. Da lì a poco si sarebbe
scatenato un altro temporale. E questa volta si preannunciava molto pesante.
Il
refettorio era una grande sala alla quale si accedeva da un corridoio
secondario che partiva dall’atrio principale e si snodava a “L” fino alla fine.
Era lì che ogni colazione, pranzo e cena si riunivano tutti, insegnanti e
studenti. Le tavole erano organizzate in file discontinue perpendicolari alla
tavolata principale, quella dove mangiavano insegnanti
e Preside (sovente questo non si faceva nemmeno vedere, perché preferiva
consumare i suoi pasti in ufficio, se aveva del lavoro da sbrigare).
-
Permesso – disse Louis, con il vassoio in mano, accomodandosi in un posto
centrale, l’unico rimasto vuoto.
Gli
altri insegnanti lo guardarono come se si fosse calato i pantaloni ed avesse mostrato il suo sedere a tutta la platea degli
studenti, mentre lui si era già accomodato a consumare la sua zuppa d’avena.
Era abbastanza affamato.
-
Oh ohoh – udì una risata. Era quella di uno dei
suoi colleghi più anziani, un tipo calvo con la barbetta nera e gli occhialini
sul naso – A quanto pare abbiamo un nuovo preside,
oggi. –
-
Ah ah – rise un’altra,
una professoressa magrissima che sembrava essere più matura per la cassa da
morto che per la pensione – Lupus
in fabula, caro professor Tremont. –
dichiarò, tornando ad imburrare una fetta di pane.
Intervenne
un altro del consesso. Questo era un professore cicciottello, che Louis avrebbe
ricordato in futuro per il suo buffissimo taglio di capelli: una frangetta di
capelli rossicci impeccabilmente pettinata a coprire la fronte, ed un paio di baffoni dello stesso colore. Louis si sarebbe
aspettato di sentire chissà che voce tonante uscire da quella bocca, invece…
-
Temo, giovanotto, che vi siate seduto sullo scranno
del nostro Preside, il Professor Ernest Umbridge.
– disse, con una voce fievole e quasi dimessa.
Louis
si guardò intorno, vedendo solo i suoi colleghi che lo squadravano
attentamente: per un momento si sentì come catapultato indietro nel tempo,
quando aveva ricevuto cento nerbate dal suo insegnante di filosofia per averlo
contraddetto pubblicamente a lezione.
-
Io… Vi chiedo di scusarmi, colleghi. – disse
soltanto Louis, alzandosi e tirando su il suo vassoio. Udì una delle
professoresse ridere e canzonare a bassa voce la parola che aveva usato (Colleghi. Oh, Oh, Oh.), mentre gli altri ridacchiavano insieme a lei.Decise saggiamente di non raccogliere
la velata provocazione e si guardò intorno per cercarsi un altro posto.
A
ben vedere, altri posti c’erano, ma erano tra gli studenti. Probabilmente
alcuni che non si erano sentiti bene e non sarebbero nemmeno andati a lezione.
-
Psst! Ehi tu! –
Louis
si sentì chiamare da una voce giovane. Immaginò che fosse stato chiamato da uno
dei ragazzi, ma quando si girò, si sorprese nel vedere che la voce proveniva
dal tavolo degli insegnanti: un ragazzo robusto con la barbetta e gli occhiali
lo stava invitando a sedersi. A vederlo, poteva avere
poco più della sua età. Si avvicinò.
-
Grazie – disse, poggiando il vassoio sul tavolo e accomodandosi alla
svelta – Vi devo un posto a tavola, signore. –
-
Ah, sciocchezze – ribatté quello, porgendogli la mano con un sorriso
– Sono Stephen Robbins. –
Poco
convinto, Louis gliela strinse – Louis Tomlinson.
Lieto di … conoscervi. –
-
Dammi pure del tu, non sono così vecchio da meritarmi
il “voi”. Ho appena ventinove anni. –
Louis
si risparmiò di dirgli che declinare le persone con il “voi” era il costume da
questa parte di mondo, almeno da un migliaio d’anni. Gli
domandò invece che cosa insegnasse.
-
Sono professore di storia dell’arte. –
-
E… sei inglese? –
-
Diciamo di sì, anche se ho origini italiane. Conosci l’Italia, Louis? –
-
Ne ho sentito parlare. Non se la passano molto bene, di questi tempi, laggiù, a
quanto sembra. –
-
Così dice mia nonna quando manda lettere a mia mamma. Adesso
sembra che stiano cercando di occupare dei territori stranieri in Africa
– Stephen scosse la testa – Forse un tentativo di imitare noi
inglesi nella colonizzazione. –
-
Già. Forse. – concluse Louis, ricominciando a
mangiare la sua zuppa d’avena, ora ancor più affamato.
-
A quanto ho capito – disse Stephen mentre masticava – Tu sei il
fortunato successore del Professor Denker, giusto?
–
-
Precisamente. Perché? –
Stephen
fece una risatina scuotendo la testa. – Niente. Semplice curiosità. Ma… se vuoi accettare un consiglio, amico mio… tieni gli
occhi bene aperti. –
-
Perché? –
-
Hmh. Lo scoprirai molto presto. Non posso anticiparti
nulla. – disse Stephen, e mise via il suo piatto nel vassoio, finendo di
bere la sua acqua – Ora è tardi, devo andare a preparare la lezione. Se
hai bisogno di me, sono nell’aula d’arte. Ciao! –
-
C…ciao – lo salutò Louis mentre il giovane
professore si alzava e andava a riporre il vassoio con le stoviglie sporche su
un ripiano mobile. Mentre Stephen si allontanava, Louis fece correre il suo
sguardo sulla platea di ragazzi: chissà quali di questi sarebbero stati i suoi
allievi?
Subito
dopo la colazione, gli era venuto in mente che non sapeva dove andare.
C’era
almeno una ventina di aule nell’istituto, e bussare a ognuna delle porte per
trovare la sua, non sarebbe stato molto professionale, specie dopo il
divertente quid pro quo di cui era
stato protagonista durante la colazione. Farsi trovare in giro a cercare la
propria aula col lanternino era tassativamente da escludere. Certo però che
quello era un bel trattamento: salutare un insegnante senza nemmeno dirgli a
quale aula era assegnato. Si chiese se per caso quella fosse un’usanza
dell’Istituto Watkins.
Senza
sapere cosa fare né dove andare, per guadagnare un po’ di tempo tirò fuori i
suoi libri di testo dalla borsa e si mise a controllare se li aveva tutti. Non
era un comportamento professionale nemmeno quello, ma era sempre meglio di
stare lì in piedi come un idiota ad aspettare la manna del cielo.
Mentre era lì che sistemava le sue
carabattole, nella solitudine più totale, dietro di lui, nel corridoio
adiacente, si profilò un’ombra. Non era facile distinguere se fosse solo
un’ombra oppure una persona in ombra, fatto sta che se
ne stava lì a fissarlo mentre era di schiena, impegnato a chiudere la sua
borsa. Lentamente, la figura nera avanzò verso di lui, nel silenzio più totale…
-
Buongiorno – lo salutò una voce, facendolo
trasalire. Si voltò. Dietro di lui, un ragazzo biondo vestito con un elegante
completo di velluto blu lo guardava timidamente.
-
Buongiorno a voi – ricambiò il saluto Louis, sentendosi improvvisamente molto, molto stupido. Era lì che perdeva tempo mentre quasi sicuramente i suoi allievi erano già seduti ai
propri posti ad aspettarlo.
-
Voi siete il nuovo insegnante di letteratura inglese, suppongo? –
-
Sì, sono io. Stavo giusto andando a… -
-
La vostra aula si trova all’ultimo piano, in fondo a sinistra nel corridoio
– dichiarò il ragazzo, come se Louis gliel’avesse chiesto.
-
Oh, grazie. Lo sapevo già… - buttò lì Louis.
-
Dite sul serio? Allora forse qualcosa è cambiato in questo istituto. Ci
volevano le dimissioni del professor Denker per… -.
Louis
sollevò un sopracciglio.
-
Scusatemi – si affrettò il ragazzo biondo – Intendevo dire che
spesso il professor Umbridge dimentica di comunicare
ai novellini a quali classi sono assegnati. –
-
Che cosa stavate dicendo a proposito del Professor Denker…?
–
-
Nulla d’importante – dichiarò il biondo, porgendogli la mano #8211; Sono
NiallHoran, docente di
filosofia. Lieto di fare la vostra conoscenza, professor…? –
-
Tomlinson. Louis Tomlinson.
Sono il nuovo docente di letteratura inglese. –
Niall sorrise. Anche se non
aveva detto nulla, Louis capì che il ragazzo era sollevato nel vedere un'altra
persona giovane.
-
Posso chiedervi come mai non vi ho conosciuto prima a colazione, professor Horan? –
-
Oh, diciamo che non mi sentivo troppo bene, così ho dovuto saltare la
colazione. –
-
Capisco. – Louis guardò l’orologio da taschino, facendo quasi un salto
nel vedere l’ora. Le nove erano passate da un pezzo.
-
Vi chiedo scusa – disse, allontanandosi verso le scale – ora devo proprio
scappare, i miei nuovi allievi mi aspettano. –
Il
professor Horan annuì, e salutò con un cenno del capo
– Arrivederci a presto, professore. –
*****
Louis
arrivò al terzo piano dell’istituto trafelato, per aver corso gli scalini due a
due rischiando addirittura d’inciampare.
Il
corridoio del terzo piano era scarsamente illuminato dalle applique a gas
applicate alle pareti, rendendo l’atmosfera vagamene sinistra. Le porte delle
aule qui erano tutte chiuse. Immaginò che i suoi colleghi fossero già al lavoro
con i ragazzi. Poco più avanti, udì un sonoro schiocco che aveva imparato
troppo bene a conoscere: il suono di una pagaia dritta sul sedere di qualcuno,
unito ai suoi lamenti. Il povero ragazzo faceva “Ahi!” ad
ogni schiocco, e chissà da quanto tempo stava andando avanti. Louis sospirò,
quindi raggiunse velocemente la porta dell’aula che gli aveva indicato il
professor Horan.
Un
brivido di freddo gli corse lungo la schiena. Non era la prima volta che gli
succedeva ciò, in passato era già stato preda di accessi nevrotici di quel
genere: in quelle occasioni la classe si era comportata bene per i primi
giorni, poi lentamente era stato preso di mira dai suoi stessi allievi,
ottenendo solo disubbidienza e non riuscendo a ottenere alcun risultato in un
anno.
Ogni
volta che gli venivano i brividi lungo la schiena, era segno di un cattivo
presagio.
Sciocchezze! La carriera di
un insegnante si gioca tutta sull’imprinting, Louis. L’imprinting, capisci?
Gli
vennero in mente le parole del suo docente di pedagogia, severo ma competente,
che il primo giorno parlò alla classe spiegando il meccanismo dell’Imprinting.
L’Imprinting è quella
dinamica che si svolge nei primi momenti dell’insegnamento a una nuova classe.
L’impatto che il docente deve dare la prima volta. Tutto si gioca durante quei
primi momenti: se l’insegnante da’ l’impressione di essere fermo e risoluto,
avrà obbedienza e riuscirà a gestire anche classi di grandi dimensioni.
Diversamente, fallirà.
Ora,
a distanza di qualche anno, Louis se ne stava lì con la mano pronta ad aprire
la porta, ma senza ancora toccarla.
L’abbassò.
Disse
a sé stesso che non doveva preoccuparsi troppo. Era lì
per quel nuovo lavoro, e doveva mettercela tutta per non fallire, altrimenti ne
sarebbe andato della sua futura carriera. Insegnare al College Watkins era un
prestigio importante, allora s’immaginò che orrore dovesse essere venire cacciati da lì.
Prese
un bel respiro, dicendo ancora a sé stesso di
rilassarsi, sebbene le circostanze non glielo permettessero, quindi posò la
mano sulla maniglia della porta e…
Noooo!!!
Vide
un ragazzo che si lasciava cadere dalla finestra. I compagni che urlavano e si
affacciavano a loro volta. Egli stesso che correva al parapetto e vedeva più in
giù il corpo sfracellato al suolo del povero ragazzo, riverso in una pozza di
sangue che gli usciva direttamente dalla testa.
Improvvisamente,
si riebbe, accorgendosi di essere entrato nell’aula.
Si
guardò intorno, vedendo solo i suoi allievi che, seduti composti ai banchi,
attendevano la presentazione del professore. Li guardò
uno per uno, cercando di memorizzare bene i volti, quindi lentamente avanzò
verso la cattedra, dove poggiò la sua borsa.
Li guardò ancora per un
momento, quindi cercò di rimettersi nei panni del suo ruolo, ovvero quello di
un insegnante che entra per la prima volta nel suo nuovo istituto.
-
Buongiorno a tutti – salutò, serio. – Sono
il professor Louis Tomlinson, il vostro nuovo docente
di letteratura inglese. – disse, e si voltò per scrivere alla lavagna il proprio nome, mentre la platea restava in
silenzio. Il ticchettare del gessetto lo considerava un potente rilassante: era
lui che aveva il comando, ed il gessetto ne era il
testimone.
-
Prima di cominciare, cari signori – esordì, mentre si girava e
raccoglieva la pagaia dal tavolo, gesto che fece trasalire uno dei suoi ragazzi
(un ragazzo castano, seduto in fondo, nelle ultime
file) – Voglio che siano chiare due cose: la prima, è che io voglio
necessariamente attenzione da parte vostra. Lo studio della letteratura inglese
richiede molta passione e attenzione. Non posso aiutarvi direttamente sulla
prima, però vi prometto che farò del mio meglio per cercare di aiutarvi a
sviluppare la seconda – continuò, tenendo la pagaia con la mano destra e
battendola delicatamente sulla mano sinistra.
-
La seconda cosa che voglio dirvi… è che io non approvo i metodi di punizione
corporale che sembrano essere così di moda nelle scuole del Regno. Però… vi
sconsiglio vivamente di considerarmi una mammoletta o una fetta di pudding, perché ciò potrebbe andare a vostro discapito.
Perciò facciamo un patto: io non vi punirò mai
corporalmente, ma voi dovrete fare del vostro meglio per non darmi mai delle
seccature. Siamo d’accordo? –
Louis
attese una qualche reazione, che non ci fu. Esattamente ciò che si aspettava.
-
Benissimo. Chi tace acconsente. – disse, sedendosi e mettendo la pagaia
sotto la cattedra – Ora, signori, vi pregherei di prendere il vostro
libro di testo e di aprirlo a pagina tre. Cominceremo con l’introduzione allo
studio della letteratura… -
Mentre
apriva il suo libro, notò che il ragazzo in fondo all’aula, era da solo.
Sembrava tremasse, eppure non era così freddo nell’aula. Si domandò se
intervenire o meno. Decise che era meglio lasciar perdere, e di intervenire solo se si fosse
verificato qualcosa di più reale di una semplice impressione.
Più
avanti, si sarebbe maledetto per non aver seguito il suo istinto.
Le
lezioni con le sue classi erano state abbastanza fruttuose. I ragazzi gli
sembravano svegli e con tanta voglia di fare, forse anche un po’ troppa. Per
testare la loro preparazione, Louis gli aveva posto una domanda su William
Shakespeare, e tra le tante mani alzate, era riuscito a trovare proprio uno che
gli rispose in maniera esatta. Si era dunque compiaciuto che non fossero digiuni
della sua materia, almeno avrebbe fatto meno fatica a portarli al traguardo
verso l’università.
Terminate
le lezioni, c’era stato il pranzo. Questa volta non aveva fatto figuracce, in quanto Niall e Stephen gli avevano tenuto un posto ai
margini della tavolata degli altri insegnanti, che confabulavano tra loro senza
nemmeno degnare i tre giovanotti di uno sguardo. Uno solo di questi aveva
rivolto lo sguardo verso di loro, un professore alto e con il naso rosso da
avvinazzato. Aveva guardato sdegnosamente Louis e poi era tornato a confabulare
con gli altri colleghi. Eh sì, decisamente non tirava
una buona aria per i giovani, lì al Watkins.
-
Non è mai tirata una buona aria, qui per me – stava dicendo Stephen,
mentre, seduto su una poltrona accanto al camino della Salone Jonathan Watkins,
reggeva nella mano destra un bicchiere di Brandy.
-
Nemmeno per me, se vi fa piacere saperlo – soggiunse Niall, seduto su
un’altra poltroncina. Di fronte a lui c’era Louis, che lo
guardò preoccupato.
-
Niall, così rischi di spaventare il nostro nuovo collega – l’ammonì
scherzosamente Stephen, giocherellando con il brandy nel bicchiere.
Louis
ridacchiò, scuotendo la testa – ci vuole ben altro per spaventare me,
Stephen. –
-
Oh oh, un cuore coraggioso. E dicci, che cosa ti
spaventerebbe a tal punto da convincerti a lasciare la scuola? –
Alla
domanda, Louis abbassò lo sguardo. Sulle prime, Niall pensò che Stephen avesse
esagerato un po’, ma poi si riebbe quando vide Louis che rispondeva con calma:
-
Non lo so. Forse potrebbe spaventarmi la minaccia di non riuscire più a trovare
un lavoro come insegnante in tutto il Regno Unito. –
-
Ah-ha. Capisco. – replicò Stephen, annuendo.
-
No, aspetta – intervenne Niall alzando una mano, con una nota di passione
che rivelò a Louis le sue origini irlandesi – non penserai mica di
cavartela così a buon mercato, vero Stephen? –
-
Che cos’intendi, Niall?
-
Voglio che, per correttezza, tu risponda alla stessa domanda che hai fatto a
Louis. Che cosa spaventerebbe te più di ogni altra cosa, tanto da farti
decidere di fare le valigie e andartene da questo
istituto? –
Mentre
Stephen rispondeva, Louis notò che Niall lo stava fissando con insistenza,
forse aspettando una risposta coerente con i suoi pensieri. Così, dopo un arf mah boh, Stephen confezionò la sua
risposta.
-
Una cosa che mi farebbe paura veramente tanto da decidermi di fare le valigie e
lasciare questo istituto potrebbe essere… perdere completamente la ragione, per
un motivo o per l’altro. –
-
Ti farebbe paura perdere la ragione? – lo incalzò
Niall.
-
Sì – confermò Stephen, posando il bicchiere di brandy sul tavolino
– Voglio dire… incominciare ad avere allucinazioni… comportamenti
inconsueti… vedere cose che non ci sono, insomma. Avrei paura di essere
internato in un manicomio. –
Niall
sorrise, abbastanza soddisfatto della risposta.
-
Ci sono dei motivi per i quali in questa scuola potrebbero far internare
qualcuno? –
I
due colleghi giovani lo guardarono come se avesse appena bestemmiato. Aveva
buttato lì la domanda, ma capì di aver toccato un argomento sensibile. Quello,
e ciò che aveva detto Niall quella mattina, gli misero una pulce nell’orecchio.
-
Per esempio, Louis…? Che cosa potrebbe esserci? –
-
Non lo so. Perché non me lo dite voi? –
Stephen
e Niall si guardarono per una frazione di secondo, poi uno
scosse la testa e l’altro rispose.
-
Non lo sappiamo nemmeno noi. Che cosa potrebbe esserci qui al Watkins Institute
di così spaventoso da spedire qualcuno al manicomio? –
La
domanda rimase sospesa a metà quando i tre si avvidero di un ragazzo che stazionava proprio alle spalle di Louis. Stephen alzò lo
sguardo, mentre Niall quasi saltò sulla sedia per lo spavento.
-
Professor Tomlinson – disse solamente.
Louis
si voltò, e quando lo fece si trovò faccia a faccia
con il ragazzo che aveva visto quella mattina, bianco come un cencio. Si alzò,
guardando negli occhi il ragazzo: erano spenti e vitrei, come quelli di un
morto. Louis gli agitò due dita davanti, chiedendogli se stesse bene, ma la
risposta che ottenne lo fece rabbrividire.
-
Sei stato un bambino cattivo, Louis. Molto cattivo. Molto cattivo… -
Mentre
il brusio della sala si acquietava, Louis rimase a fissare il ragazzo negli
occhi, il quale lo guardava con un’espressione spiritata.
-
Sean! Sean Cortland! Che stai facendo?!? – una
voce si levò dalla platea. Era la voce del Preside Umbridge. A quel richiamo, il
ragazzo incominciò a tremare da capo a piedi, in preda ad una crisi epilettica.
Louis
lo afferrò per impedirgli di cadere e sbattere la
testa sul pavimento, mentre il povero ragazzo continuava a tremare e a
schiumare saliva dalla bocca.
-
Oh mio dio! – esclamò Niall, allontanandosi.
-
Presto, chiamate un dottore! – invocò Louis, tenendo la mano al povero
Cortland.
*****
Il
dottore, un uomo magro con la barba bianca ed i
capelli dello stesso colore, uscì dall’infermeria circa una mezz’ora dopo che
il ragazzo vi era stato portato d’urgenza a braccio da Stephen e Louis. Accanto
a loro c’erano il Preside Umbridge e la professoressa Rigg, che aveva visto
tutto l’accaduto.
-
Allora, dottor McAuliffe? Come sta il ragazzo? – domandò l’Umbridge.
Il
medico sospirò, annuendo – Gli ho somministrato un sedativo. Adesso si è
calmato. Una crisi epilettica in piena regola, direi. Che voi sappiate, il
ragazzo soffre di problemi al sistema nervoso? –
Louis
osservò che nel rispondere, il professor Umbridge e la professoressa Rigg si
scambiarono uno sguardo, come per mettersi d’accordo sulla risposta.
-
Non siamo a conoscenza di ciò, dottore. –
Distorcendo
la bocca, il dottore guardò da un’altra parte, enunciando la sua prognosi.
-
Gli diamo una settimana di riposo almeno. Dopodiché, vi esorterei a richiamarmi
per un controllo. – Si voltò di nuovo verso il preside e la professoressa
– Potete farlo, vero? –
-
Oh, senz’altro. –
-
Bene. – annuì l’anziano dottor McAuliffe – Avete avvertito la
famiglia del ragazzo? –
-
Se ne sta occupando la nostra segreteria – fu costretto ad ammettere
seccamente l’Umbridge. Louis immaginò che non fosse cosa che conferisse
prestigio lo svegliare una famiglia alle otto e mezzo di sera per comunicare
che il figlio era ricoverato in un’infermeria.
-
Eccellente – si complimentò il dottore chiudendo la sua borsa. –
Ora devo andare, ma non esitate a richiamarmi se dovessero esserci altri
problemi. –
-
Non mancheremo. –
Louis
osservò il dottor McAuliffe allontanarsi nel corridoio che portava all’atrio
principale, scortato dal Professor Umbridge e dalla professoressa Rigg, che
camminava tutta impettita e con un’espressione di sgomento dipinta in volto.
Poi si voltò a guardare la porta dell’infermeria.
-
Be’, che c’è? – domandò Stephen.
-
Quel ragazzo… ha detto delle cose che… -
-
Che cose? –
Gli
venne la pelle d’oca. Possibile che il ragazzo… Ma no, cosa andava a pensare?
Sicuramente doveva essersi trattato di un’allucinazione dovuta allo stato di
emozione del momento… non poteva aver certo pronunciato quelle parole esatte.
-
Niente, non importa. Stephen? –
-
Sì? –
-
C’è rimasto ancora un po’ di quel brandy, di là? –
Stephen
sorrise. – Quanto ne vuoi, amico mio. –
-
Grazie. Sento di averne bisogno, questa sera. –
-
Eh, come ti capisco – disse il professore d’arte prendendolo
amichevolmente per il braccio – A volte un insegnante ne ha proprio
bisogno. –
-
Già… - disse Louis, ancora mezzo frastornato. Mentre Stephen lo accompagnava
alzò lo sguardo. Posato sopra la porta che dava sul corridoio est del piano
terra, c’era un grande specchio che aveva la funzione di amplificare la fioca
luce dell’illuminazione a gas: rifletteva, prendendoli dall’alto, tutti i
soggetti presenti nel corridoio. In quel momento c’erano
Stephen, Louis e…
…Un
ragazzo vestito con una divisa del college lacerata e consunta che stazionava davanti alla porta dell’infermeria. Grondava
acqua, come se fosse appena caduto in una cisterna d’acqua. Il viso era
cinereo, ma i suoi occhi erano vivi e vitali: erano occhi
disperati cerchiati di fuoco. Occhi arrabbiati. Occhi… spaventosi.
-
Stephen! – esclamò Louis, voltandosi immediatamente, tanto che per poco
non fece inciampare il collega.
-
Che cosa…? –
-
L’hai… l’hai visto anche tu? –
-
Visto, che cosa? –
-
Quel- ... quel ragazzo! – Louis indicò alla sua destra guardando negli
occhi Stephen. Questi guardò e poi voltò lentamente la testa verso la direzione
indicata da Louis.
-
Qui non c’è nessuno, Louis. – dichiarò,
lentamente.
Ora,
anche Louis aveva voltato lo sguardo. Stephen aveva ragione. Oltre a loro, in
quel corridoio non c’era proprio nessuno.
-
Stephen, io … voglio dire … - si guardò intorno, sollevando la testa e
indicando lo specchio – L’ho visto lì! Grondava acqua, ed era come… come
un morto vivente! –
Per
un momento, a Louis sembrò che Stephen fosse trasalito. Fece una lunga pausa,
come se fosse spaventato.
Poi,
poco dopo, parlò. – quello specchio è vecchissimo. Avrà sicuramente una
cinquantina d’anni. È sporco e riflette male. Probabilmente hai solo visto un
falso riflesso. – tagliò corto il collega, avviandosi verso la porta.
– Che fai, vieni o resti qui? –
Sospirando
e guardandosi alle spalle, Louis si voltò e seguì Stephen, chiudendo la porta.
Intanto,
una figura nera grondante acqua li aveva osservati uscire.
Il
suo respiro affannoso mentre cercava di confondersi con i pochi stracci che
avevano. Nel suo petto, il cuore che batteva all’impazzata per la paura, che si
mescolava all’odore del suo sudore rendendolo una preda molto facile da
stanare.
Ancora
non sapeva perché era nato in quella famiglia. Forse, si diceva, i bambini
cattivi meritano di nascere in famiglie così, per cui non ci sarebbe stata
lacrima valsa a toglierlo per sempre da quell’orribile posto.
Sarebbe
morto lì, pensava, ogni volta che il patrigno aveva una delle sue crisi
post-sbronza. Sperava solo che succedesse il più presto possibile.
Sei stato un bambino cattivo,
Louisie… Molto cattivo…
La
sua voce impastata dall’alcool era quasi divertente. Ciò che non era divertente
era essere stanati e riempiti di cinghiate sulla schiena. Poteva vederlo
benissimo, dal suo nascondiglio: barcollava, con la cintura di cuoio in mano,
guardando in ogni possibile anfratto della casa. In tutti quei posti dove stava
guardando, Louis ci era già stato, ma era stato stanato abbastanza in fretta.
L’armadio era stato, fino a quel momento, più sicuro.
Fino
a quel momento.
Con
la testa fece capolino, per vedere se poteva uscire del tutto. Non lo vide.
Tirando
un sospiro di sollievo, decise che avrebbe atteso
ancora un po’, per buona misura.
Ma
ad un tratto, le ante dell’armadio si aprirono di
scatto. Il cuore di Louis balzò avanti di tremila battiti al
secondo, mentre veniva tirato fuori talmente forte che gli sembrò di sentire il
braccio destro staccarsi dal corpo.
Piccolo bastardo, volevi fare
il furbo, eh? Te la faccio passare io, la voglia!
E
lo buttava sul pavimento, incominciando a cinghiarlo di brutto sulla schiena.
Ahi! Ah! Ahi! Ahi! Ahi!!!
-
No! Basta, ti prego!!! –
Si
risvegliò nel letto del suo alloggio, madido di sudore e con un dolore alla
schiena. Inoltre, respirava affannosamente, quasi a fatica. Era stato un
incubo. Soltanto un incubo. Un incubo figlio del passato.
Cercò
di riprendere il ritmo del suo cuore impazzito andando in bagno e sciacquandosi
il viso. L’acqua fredda lo riportò molto bene alla
realtà, anche se…
…la
schiena gli faceva male.
Tornò
in camera, dove c’era un armadio con ante a specchio, uno esterno e l’altro
interno, in modo che se fossero state aperte entrambe, si poteva vedere se il
vestito cadeva bene anche visto da dietro. Solo che lui non indossava alcun
vestito. Portava solo la sua sottoveste di flanella. La sbottonò e l’abbassò,
guardando nello specchio.
Ciò
che vide riflesso, lo terrorizzò.
La
sua schiena era costellata di graffi e lividi, alcuni di questi ancora
insanguinati. Si portò una mano alla bocca, cercando di calmarsi, ma c’era ben
poco da stare calmi: quelle ferite dovevano essere scomparse da almeno una quindicina
d’anni! Come mai erano ancora lì???
*****
Entrando
a scuola, notò qualcosa d’insolito: uno strano odore di fumo. Così, anziché
recarsi al refettorio per la colazione, decise di seguire quella traccia.
S’inoltrò per il corridoio Ovest, riuscendo a scoprire da dove veniva l’odore
sgradevole.
-
Stephen – mormorò, guardando nella porta.
Il
professore di storia dell’arte mise via immediatamente il sigaro che stava
fumando, salvo poi accorgersi che non era nessuno di particolarmente
pericoloso.
-
Ah, sei tu. Buongiorno – salutò, agitando la mano e sorridendogli.
-
Buongiorno a te – rispose Louis – Non credevo
tu fossi avvezzo a certe attività. –
Stephen
tirò un’altra boccata dal sigaro e rimirò la punta dalla brace bruciacchiata
– Non che lo sia. Avevo smesso sette anni fa, quando avevo la tua età.
Però oggi ne avevo bisogno. –
-
Capisco – disse Louis, guardandosi intorno. L’aula di arte era piena di
cavalletti, sculture e dipinti. Alcuni di questi erano esposti appesi alle
pareti, mentre altri rimanevano sui cavalletti.
-
Guarda pure se c’è qualcosa che t’interessa – l’invitò Stephen, spegnendo
ciò che rimaneva del sigaro sulla finestra.
Louis
guardò uno di questi dipinti: un paesaggio. Ritraeva la veduta panoramica di
una città, dalla quale svettava una cupola con in cima
una guglia.
-
Molto bello, questo. Che cos’è? –
-
Quella è una veduta della città di Torino, in Italia. Città d’origine della mia
famiglia. È molto vicina alla Francia, dove sono stato. Guarda questo. –
Stephen
gli indicò un dipinto dove si vedeva, di tre quarti, una veduta della Torre
Eiffel, con un tipico Café
parigino nelle vicinanze e delle persone intente a passeggiare.
-
Molto bello – disse Louis, con un sorriso – Li hai fatti tu?
–
Sorridendo,
Stephen annuì. – Nel tempo libero mi piace imbrattare tele. Mi rilassa.
–
Louis
si guardò ancora una volta intorno. Accanto alla lavagna, c’era qualcosa che
attirò la sua attenzione. Una tela coperta.
-
E quella? – domandò Louis indicando il dipinto celato.
Stephen
si voltò verso la direzione indicata – Oh, quella. Niente d’importante,
solo un quadro che non mi piace e che penso distruggerò. –
-
Posso vederlo? –
-
Beh… - farfugliò Stephen, con una punta d’imbarazzo – Se proprio ci
tieni… -
Stephen
tirò il telo stando bene attento a non far collassare il cavalletto, mentre
Louis osservava. Quando il velo fu tolto, Louis aggrottò la fronte.
La
pittura raffigurava una veduta in prospettiva accidentale dell’Istituto. Le
finestre erano illuminate, quindi si poteva supporre che fossero le ultime luci
del giorno o le primissime dell’alba. Attaccato alla struttura principale, si
poteva vedere bene il blocco, separato dal cortile (non visibile nel quadro)
che ospitava i dormitori dei ragazzi e la cupola a vetrate che ospitava la
biblioteca. Il dipinto in sé era minuzioso e dettagliato, quasi come una
fotografia. Però c’era qualcosa che non andava. Mentre i suoi occhi correvano
qua e là per il dipinto, Louis avvertiva uno strano senso di disagio, una
sgradevole e macabra sensazione.
-
Quando… in che circostanze l’hai dipinto? –
-
Circa cinque anni fa. Ricordo che ero appena arrivato in questo istituto, e
feci un sogno. Era così vivido e realistico che mi mise quasi paura. Al
risveglio, presi la tela e mi misi a dipingere ciò che avevo visto. –
-
Beh, devo dire che sei riuscito a infondere bene la paura che devi aver provato
per quel sogno. Questo dipinto mi mette i brividi, perdonami la sincerità.
–
-
Nessun problema – rispose Stephen, ricoprendo il quadro – Mette
paura anche a me. Per questo lo tengo coperto. –
-
E perché non te ne liberi? –
-
Non lo so. Forse perché non mi viene mai in mente. Eheheh!
–
Louis
ridacchiò a sua volta, inconsciamente allontanandosi da quel quadro. Anche se
coperto, non gli piaceva per niente. Sperò con tutto il cuore che Stephen se ne
sarebbe disfatto, alla fine.
-
Oh, com’è tardi – disse a un certo punto Louis – Devo assolutamente
andare in aula. –
-
Come? Non vieni a fare colazione? –
-
Stamani ho poco appetito. E poi preparerò meglio la lezione, a stomaco vuoto.
Ciao! –
Dall’incidente
con Sean Cortland passarono alcuni giorni. Il ragazzo
fu riammesso in classe e Louis fu ben felice di riaverlo al suo posto. Aveva
deciso che prima o poi ci avrebbe parlato, per capire
esattamente se ci fosse qualche cosa che non andava. Lo vedeva lì, seduto al
suo posto a studiare, solo come un cane. A volte rimaneva in biblioteca fino a
tardi, a leggere testi di Algebra. Le occasioni per Louis di parlare con lui
c’erano, ma chissà come mai, non ci riusciva.
Il
tempo atmosferico, poi, non aiutava certo a scaldare gli animi: per la metà di
ottobre il cielo sopra l’Inghilterra aveva aperto i rubinetti della pioggia e
non sembrava volerli chiudere. La maggior parte degli
studenti così era costretta a rimanere in camera a studiare dopo le lezioni
oppure al massimo nel Salone Watkins a fare conversazione. Dal canto suo, Louis
sperava che quei poveri (si fa per dire) ragazzi avessero qualcos’altro di più
divertente da fare prima che arrivasse Natale con le vacanze.
*****
L’orologio
della torre suonò le cinque e mezza. Louis distolse lo
sguardo dai compiti in classe che stava correggendo e tirò fuori l’orologio da
taschino. Puntualità svizzera, pensò, rimettendolo al suo posto e riprendendo
in mano la penna stilografica.
Aveva
quasi finito di correggerli tutti, quando arrivò all’ultimo. Quello di Sean Cortland. Lo prese in mano e lo esaminò,
notando subito la bella grafia. Iniziò a leggere. Prima il
titolo: Descrivete in forma di saggio
breve, la poetica di Charles John Hoffman Dickens.
Poi,
immediatamente dopo, lo svolgimento.
Nella trattazione della
letteratura inglese, non possiamo non soffermarci su uno dei suoi autori più
illustri, Charles Dickens. Di lui si sa che era uN
GRANDISSIMO FiglIO di PUTTANA cHeViolENTavVa i ragAZZinIcOMemE, chEmeriTEReB…bbb….be dIessERE UCCISO IMPICCATO
BRUCIATO SUL ROGO!!!!!!
Louis
sgranò gli occhi: la bella grafia si era trasformata sotto i suoi occhi in una
scrittura terrificante, piena di errori e vergata con rabbia sul foglio
giallino. Inoltre, da blu era passata a rossa. Rosso sangue, del quale il foglio
aveva iniziato a grondare. Sembrava come se stesse scrivendo da sé.
cIaOPROFEssOrE, soNo Io cHE TI parLO, ti PiacERebBefiCCarMI il tuo COSO nel MIO CULO?!? SiETedeIPoRCituTTTTTiQuaNTiviUccIDErò, vIucciDerO’ TUTTI!!!!
-
No!!! – Louis appallottolò il tema di Cortland e lo gettò fuori dalla porta, quindi si alzò di
scatto e rimase lì a guardarlo. Continuava a grondare sangue anche
appallottolato.
Poi,
improvvisamente, si mise a rotolare nel corridoio.
Louis
avanzò verso la porta, facendo prima capolino e poi sporgendosi sempre di più: la
pallotta di carta era scomparsa. Non si vedeva più.
In
compenso, erano rimaste tracce di sangue.
Louis
incominciò a seguirle. Il cuore gli batteva forte nel petto, tanta era la
sensazione di smarrimento. Gli sembrò addirittura che
il corridoio fosse diventato molto più grande: le porte erano altissime, e la
luce che filtrava dalle vetrate del vano scale sembrava lontanissima.
Procedette
in quella direzione, avvertendo ad ogni passo un brivido lungo la schiena. Si
sentiva osservato. Una sensazione che gli veniva spesso, quando c’era troppo
silenzio. L’aveva già sperimentata da piccolo, quando, nel silenzio della sua
biblioteca, mentre leggeva i capolavori della letteratura di cui era fornita la
biblioteca dei suoi genitori adottivi, si sentiva osservato da qualcuno. Ogni
rumore, ogni piccolo scricchiolio bastava a farlo sobbalzare. Se poi per caso
si spegneva anche il lume, era spacciato: non riusciva più ad
uscirne.
Temeva
sempre che dalle tenebre potesse sbucare suo padre a dargliele di santa
ragione. Ciò ovviamente non sarebbe mai stato possibile, visto
che era morto, ma in tenera età Louis aveva già una fantasia molto
fervida, che gli faceva vedere cose dove non c’erano, specialmente se erano
spaventose.
La
traccia portava ad una porta a doppio battente.
I
gabinetti del terzo piano.
Allungò
la mano sulla maniglia, ma si bloccò di colpo.
Una
scarica di adrenalina lo percosse violentemente per tutto il corpo, quando udì
una voce.
No…. La prego, professor Denker, La prego… non mi costringa
a…
I
capelli gli si drizzarono sulla testa, mentre al di là della
porta la conversazione continuava.
Oh, non fare così… lo sai
benissimo che hai bisogno di essere promosso… ed io ti
promuoverò… ma abbiamo un patto, e tu lo rispetterai…
Louis
spalancò la bocca, coprendosela contemporaneamente con la mano sinistra. Anche
se la porta era chiusa, i suoi occhi azzurri erano sgranati in un urlo di muto
terrore, e vedevano ancora una volta ciò che non avrebbero voluto vedere.
Improvvisamente,
la sua paura si tramutò in rabbia, e con tutte le sue forze spalancò la porta,
entrando di scatto nel locale.
-
Togligli immediatamente le mani di dosso, bastardo!!!
– urlò, con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
Fuori
intanto, la pioggia stava aumentando, rischiarando il cielo con fortissimi
lampi. Uno di questi illuminò il volto di uno degli insegnanti, un ometto basso
e grassoccio con i baffetti e la testa pelata, che con il fallo ancora in mano,
stava portando a termine le sue funzioni corporali in uno dei vespasiani.
Con
il dito ancora puntato e il piede destro in avanti, Louis passò in pochi
secondi dalla rabbia allo stupore, dallo stupore alla
vergogna, e infine… dalla vergogna alla paura della reazione del professore.
Il
professore ebbe quasi le sue stesse reazioni. Prima stupore,
poi vergogna, ed infine… rabbia.
-
Ma che diavolo significa??? Siete forse impazzito?!?
– strillò il professore basso e grassoccio, sistemandosi velocemente le
vergogne nella patta. Quando rialzò lo sguardo, Louis notò che era diventato
paonazzo dalla rabbia, gli occhi porcini mandavano lampi di furore da dietro le
lenti degli occhialini che portava sul naso.
-
Stavate… che cosa?!? – lo incalzò
l’ometto, sempre più furente.
-
…S-Stavo p-p-provando la b-battuta della mia nuova commedia di fine anno. Un
capolavoro. S-Sarei l-lieto s-se… se ve-veniste a v-vederla. – balbettò Louis,
portandosi una mano dietro la testa. Non sapeva nemmeno lui che cos’aveva detto
né perché.
A
quella risposta, l’ometto sgranò gli occhi, digrignando i denti eguardandolo malissimo.
Louis
abbozzò un sorriso, ma già sapeva di essersi cacciato in un guaio.
All’indomani
della figuraccia con l’ometto, che, avrebbe imparato più tardi, si chiamava Reginald M. Baskerville, Louis fu convocato con urgenza dal
Preside.
Tuttavia
Umbridge non lo ricevette subito. Lo fece attendere
nel salottino adiacente l’ufficio vero e proprio, dove
qualche giorno prima, al suo arrivo, avevano consumato il tè delle cinque di
benvenuto.
L’attesa di Louis fu snervante. Seduto,
sentiva le mani ghiacciate per la poca affluenza di sangue, e le gambe gli
tremavano, così come tutto il corpo. Finora quel posto non si era rivelato il
massimo della vita, d’accordo, ma la prospettiva di perderlo era molto brutta:
come già aveva pensato in precedenza, se essere assunti presso una scuola così prestigiosa era un ottimo elemento da inserire nel proprio
curriculum vitae, venirne cacciati, per giunta per una condotta poco
professionale, era una prospettiva molto fosca.
Dal
suo arrivo nella saletta d’attesa, i minuti erano trascorsi molto in fretta,
tra uno squillo del telefono della segreteria adiacente e il ticchettare
dell’orologio a pendolo, oltre ovviamente alla speranza di Louis che il Preside
cambiasse idea e archiviasse la sua idea di riceverlo.
Purtroppo
per Louis, la sua speranza fu vana: pochi secondi dopo che udì lo scatto del
ricevitore che era posato dalla segretaria, quest’ultima uscì dal suo ufficio e
annunciò a Louis che poteva entrare.
Lui
si alzò a fatica dalla poltroncina, e si trascinò fino alla porta dell’ufficio
del Preside.
Bussò.
*****
-
Avanti. – dichiarò Umbridge, mettendo via dei
fogli in una cartelletta che rimise a posto sulla sua scrivania.
Timidamente,
Louis entrò, chiudendosi piano la porta alle spalle. Umbridge
lo squadrò da capo a piedi con espressione neutra, gesto che a Louis mise ancor
più ansia addosso.
-
Prego, professor Tomlinson – disse, tendendo la
mano verso la sedia – Accomodatevi. –
Louis
attraversò l’ufficio, dove aleggiava un vago odore di
stantio, umidità e vecchi libri dei quali erano rifornite le due librerie in un
angolo, dove c’era anche un tavolo per la consultazione: la piccola biblioteca
del Preside. Il caminetto era acceso, e forse era l’unica cosa che mandava un
buon profumo, in quella stanza: l’odore della legna bruciata gli era sempre
piaciuto. Uno dei ciocchi scoppiettò al suo passaggio, producendo un suono
simile a uno sparo. Louis si sedette, teso come una corda di violino.
Il
processo stava per avere inizio.
Umbridge congiunse le mani
intrecciando le dita, e si sporse di più per guardare meglio
Louis. Il suo viso era una maschera di rimprovero. Louis abbassò lo sguardo,
sentendosi di nuovo come un bambino al cospetto di un adulto al quale aveva
mancato di rispetto.
-
Mi è giunta voce, professor Tomlinson –
incominciò il Preside – che voi abbiate fatto irruzione in uno dei bagni
della nostra scuola, ed abbiate urlato a squarciagola
di… togliere-le-mani-di-dosso a
qualcuno di non meglio specificato, proprio mentre il nostro professore di
matematica, Reginald Baskerville, stava facendo
utilizzo del vespasiano – gli occhi azzurri di Umbridge
scintillarono per un momento, mentre si sporgeva ancora di più verso Louis
– è vero? –
In
quel momento, nella testa di Louis era sceso il buio più totale. Sapeva
esattamente di aver fatto ciò che aveva appena detto il Preside, ma non sapeva perché. Ricordava di aver sentito
qualcuno che invocava il suo predecessore, il professor Denker,
di non costringerlo a fare qualcosa…
-
Sì, sir. – rispose Louis, a bassa voce.
-
Non ho sentito bene. –
-
Sì, Sir. – ripeté Louis, a voce un po’ più alta.
Umbridge annuì, sempre
guardando Louis. Questi stava per aggiungere di aver sentito il professor Denker che diceva qualcosa ad un
allievo, ma si guardò bene dal farlo: già era abbastanza nei guai, meglio non
aggiungere bagnato al bagnato.
-
Devo dirvi, professor Tomlinson, che il vostro gesto
mi ha lasciato piuttosto sorpreso. Com’è possibile che un giovane con le vostre
referenze, che ha insegnato addirittura adIslington, possa aver compiuto un simile gesto? –
Il
cervello di Louis a quella domanda, si lanciò alla ricerca di possibili
spiegazioni. Ma i suoi neuroni, nel buio che c’era
nella sua mente, erano come bambini disperati alla ricerca di un lume con cui
illuminare l’ambiente.
-
Io… ero… n-nervoso, Sir. –
A
quella risposta, Umbridge sollevò un sopracciglio,
perplesso.
-
Ho creduto di aver sentito due ragazzi che stavano facendo a botte –
disse, lì per lì – e sono entrato subito per intervenire. –
-
Il Professor Baskerville mi ha detto che gli avevate fornito una
giustificazione differente, sul momento. –
Louis
tacque, abbassando lo sguardo. In quel preciso momento sperò che il pavimento
si fosse trasformato in un buco nero, inghiottendolo per non dover più
sopportare quella vergogna.
Il
preside si allontanò, si alzò dalla poltrona e andò ad
uno scaffale dietro di sé. Prese un quaderno rilegato, ma nel farlo, fece scivolare via un libriccino rilegato in pelle, che si
aprì quasi ai piedi di Louis. Ciò ridestò la sua attenzione. Un diario.
Umbridge si chinò a
raccoglierlo in maniera fulminea, e se lo mise in tasca senza nemmeno scusarsi.
Quindi si sedette al suo posto e aprì il registro,
annotandovi qualcosa con la penna.
-
Potete andare, ora. Ma che non si ripeta mai più una cosa del genere, professor
Tomlinson – lo ammonì,
guardandolo severamente.
-
Certo Sir. Non dubitate. – rispose, chinandosi più volte in segno di
rispetto. Poi uscì dall’ufficio.
Per
tutti i giorni che seguirono, Louis ebbe modo di vedere che gli studenti del
Watkins erano parecchio sotto pressione.
A
differenza sua, che aveva stretto un patto con le sue classi (la sua e le due
della Professoressa Rigg, con la quale in seguito avrebbe
avuto un velenoso colloquio circa la bontà di questo o quel metodo educativo),
gli altri insegnanti, con esclusione di Stephen e Niall,
avevano fatto della punizione corporale e dell’altezzosità un cavallo di
battaglia.
A
volte era capitato a passare accanto alle altre aule, e aveva sentito una
professoressa che urlava come una matta, un sermone sull’educazione, roba da
far accapponare la pelle. Lì per lì aveva ritenuto giuste le sue parole, perché
effettivamente la disciplina è ciò che vi
farà grandi, ma avrebbe volentieri spalancato la porta di quell’aula per
dire la sua, ovvero: c’è modo e modo di ottenere l’attenzione da parte di una platea.
Perché
in fondo si riduceva tutto lì. Louis sapeva di essere troppo giovane e acerbo
per capire che i professori anziani si comportavano così per due buoni (si fa
per dire) motivi: il primo, perché così mantenevano
sempre vispa l’attenzione degli allievi; il secondo, perché l’insegnamento
cambia le persone. Se i primi tempi sei una fetta di
pudding, con l’andare del tempo inizi ad indurirti peggio di una lastra
d’acciaio, perché l’insegnamento porta a questo. È come un orologio che
ticchetta sempre più veloce verso il “settore rosso”, è come una clessidra che
perde grammi di sabbia ogni secondo, dove ogni granello rappresenta la tua
pazienza. Presto o tardi finisce.
Alla
fine, trattare male gli allievi è una corazza. Una corazza che difende i
professori dai discenti e da possibili ribellioni. Perché gli insegnanti sono i
primi ad avere paura di loro.
Louis
avrebbe ripensato a tutte queste cose nel buio della sua stanza, rannicchiato
su se stesso, il giorno che Sean Cortland decise di
farla finita per sempre.
*****
La
seconda domenica di Novembre il cielo era stato clemente; non al punto da
regalare il sole, ma abbastanza da tenere le nuvole all’asciutto. Come ogni
autunno, il cielo era plumbeo, e visto che al College
quasi tutti erano usciti, compreso il Preside, anche Louis aveva deciso di
prendersi una giornata libera.
La
prima persona che aveva incontrato era stata Stephen, che stava caricando una
valigia sulla sua autovettura, una carretta senza tetto nera e con un grande
volante.
-
Ciao, Louis – lo salutò, con la sua consueta
cordialità.
-
Buongiorno a te, Stephen. Sei mattiniero oggi? –
-
Già! Devo partire. –
-
Dove vai? –
-
Vado dai miei genitori e dalla mia fidanzata. È un po’ di tempo che non mi
vedono, saranno in pensiero sicuramente. Tornerò questa sera. –
-
Capisco. –
-
Ehi, mi è venuta un’idea – disse Stephen, aprendo lo sportello –
Perché non vieni con me? –
Louis
lì per lì fece per dirgli di sì, ma poi ritornò sui suoi passi.
-
Magari un’altra volta, Stephen – disse – Oggi non me la sento, ho
bisogno di rimanere qui. –
Con
un sorriso, Stephen annuì e chiuse lo sportello, poi andò velocemente verso il
muso della vettura. Si chinò e girò la manovella che avviava il motore.
All’inizio annaspò, ma con il secondo tentativo andò in moto con un gran
fragore e odore di carburante bruciato che usciva dal tubo di scappamento.
Stephen
quindi montò sul sedile e salutò Louis mentre si avviava. Louis lo guardò andare via, quindi vide qualcun altro uscire
dall’istituto. Sorrise felicemente quando vide che era Niall.
*****
L’istituto
non era lontanissimo da Londra, però per arrivarci bisognava come minimo
prendere un treno, allungando notevolmente i tempi a disposizione. La stazione
più vicina dove prenderlo era quella di ChestnutCastle, un ridente paesino a valle, avamposto per i
rifornimenti del College e alcune volte meta di studenti e insegnanti in libera
uscita.
Camminando
insieme a Niall, Louis si stupì nel vedere come la
vita andasse avanti in maniera così armonica durante la domenica: i viottoli di
ChestnutCastle erano
popolati di gente che passeggiava sui vialetti in pietra, entrava nei negozi e
faceva compere. E poi i bambini, che saltellavano e correvano felici,
nonostante il cielo plumbeo. Ma la cosa che più
piacque a Louis fu il sentire l’odore delle castagne sulla brace di un
venditore ambulante alle porte del paese. Per un attimo pensò di essere in un piccolo
paradiso.
-
Mi piace qui – dichiarò Niall con un sorriso.
– Quando è domenica, qui è una festa. Guarda quanti bambini! –
-
Stavo pensando la stessa cosa – rispose Louis, sorridendo a sua volta e
lasciando correre gli occhi sui bambini che giocavano a rincorrersi –
Davvero molto bello. –
-
Lo apprezzeresti di più se non fossi appena arrivato all’Istituto. –
-
Perdonami, cosa vuoi dire? –
-
Voglio dire che, per quanto mi riguarda, ogni volta che esco da quel posto, mi
sento molto meglio. Qui sto veramente bene. – dichiarò Niall, tutto d’un fiato. Era come
se si fosse liberato di un fardello, pronunciando quella frase. Louis
l’osservò.
Gli occhi di Niall
incontrarono quelli di Louis – Scusami. Non volevo dire… sai, a volte io
parlo troppo. E non dovrei essere così ingrato nei
confronti del College. Dopotutto, è un posto dove vivere e lavorare. –
-
Non devi giustificarti Niall. Io non ne parlerò con nessuno. –
Nialllo
guardò intensamente. – Promesso? –
Louis
annuì. – Te lo prometto. Hai la mia parola d’onore. –
-
G… grazie – mormorò Niall, andando a sedersi su
una panchina lì vicino. Louis prese posto accanto a
lui.
Il
parco era frequentato da poca gente. C’erano alcuni bambini e qualche adulto,
ma per il resto, tutto intorno a loro era una distesa di foglie morte. Louis
guardò Niall. Gli sembrò
pallido, troppo pallido. E aveva un’espressione tormentata. Incuriosito, gli
chiese se per caso ci fosse qualcosa che non andava.
-
Oh, Louis… - sospirò Niall – Io… io non so come...
come dirti ciò che ho in mente. È-è.. una cosa
complicata. –
-
Prova a dirmi ciò che pensi. – lo incitò Louis,
dolcemente.
Con
un sospiro, Niall prese coraggio e ci
provò.
-
Si tratta dell’Istituto. Forse sono io ad avere una strana sensazione, ma… non
mi sento a mio agio. –
Louis
avrebbe voluto dirgli che condivideva perfettamente il suo sentimento, ma lo
tenne per se e lasciò andare avanti Niall nel suo
sfogo.
-
…Vedi… c’è una cosa che tu non sai. Onestamente non so se dirtela. –
-Dimmela, ti
prego. Ho bisogno di sapere cosa ti turba. –
Niall annuì. – Il… il
professor Denker. Che cosa ti hanno detto a proposito
di lui? –
-
Umbridge mi ha detto che era stato pensionato.
–
-
E invece no. Quella è una menzogna. – rispose Niall,
asciutto.
-
Come? E quale sarebbe la verità? –
-
Quella che adesso ti racconterò. -
Louis
annuì, e si preparò ad ascoltare.
-
Denker era un professore abbastanza terribile, ma
sapeva insegnare. Purtroppo però era anche attratto sessualmente dai suoi
allievi. Così, con la promessa di promuoverli, intratteneva rapporti sessuali
con loro.
-
L’Istituto ha degli standard molto elevati nella selezione dei suoi docenti. È
tollerata la tirannia, ma l’abuso di potere per ottenere favori sessuali non è
assolutamente tollerato.
-
Denker era riuscito a passarla liscia per molti anni,
sfruttando i corpi di quei poveri ragazzi… finché un giorno, precisamente verso
la fine di Agosto di quest’anno, qualcuno ha avuto la bella idea di mandare una
lettera anonima al Preside Umbridge, scrivendoci
dentro il conto di tutte le porcate che Denker
faceva, e invitandolo a presentarsi in un certo posto ad
una certa ora: per la precisione, ai bagni del terzo piano. –
Niall fece una pausa,
avvicinandosi sempre di più a Louis, che intanto aveva incominciato a tremare.
Immaginava già che cosa Niall gli avrebbe detto.
-
Così, Denker fu scoperto in flagrante, mentre era in
atteggiamenti intimi con uno dei suoi studenti. Non aveva chiuso a chiave
perché ignorava che Umbridge fosse stato informato da
qualcuno con una lettera. Credeva che se ne fosse andato a casa. Invece no.
-
Seguì un’inchiesta formale interna, durante la quale venne fuori che la sua
vittima preferita era uno dei tuoi studenti, Louis. –
-
Chi…? –
-
Sean Cortland. –
Louis
fece un salto sulla panchina dov’era seduto.
-
Oh, Gesù. –
Niall annuì, grave. –
Denker fu rimosso dall’insegnamento al College
Watkins. Gli diedero ventiquattro ore di tempo per andarsene. E lui… - si
bloccò, mordicchiandosi il labbro e irrigidendosi.
Louis
gli prese la mano, cingendogli le spalle con un braccio.
-
Lui… Denker si suicidò. S’impiccò nella biblioteca.
Lo trovarono il giorno successivo. Non lasciò nulla di scritto, ma non servì:
tutti pensarono che lo avesse fatto per il rimorso e la vergogna di essere
stato scoperto. –
Così
tutto tornava. In qualche modo, lui aveva davvero sentito qualcuno invocare
pietà al Professor Denker, quel pomeriggio… ironia
della sorte che in quello stesso momento ci fosse anche un certo Professor Baskerville ad usare il bagno, però non c’era alcun dubbio.
Il resoconto di Niall gli aveva aperto un po’ gli
occhi. E la cosa non era per niente piacevole.
-
Infine… ci sono io. –
-
Tu…? Che cosa vuoi dire? –
-
Voglio dire che al Watkins sto male, Louis. Non mi sento mai a mio agio: sento come se lì i muri avessero orecchie, vedo i quadri che
sembrano muovere gli occhi… sento voci che non vorrei sentire… e faccio strani
sogni. –
-
Che sogni fai, Niall? –
-
Non… non lo so. So solo che non sono bei sogni. Sono sogni inquietanti,
terribili. In uno mi vedo in una biblioteca che prende fuoco… in un altro mi
vedo allo specchio che ho la pelle ustionata… - Niall
scosse la testa, incominciando a singhiozzare.
Louis
lo prese teneramente a sé, cullandolo. Aveva addosso un buon profumo di
colonia.
-
Era da tanto tempo che desideravo parlarne con qualcuno, Louis… tanto tempo.
–
-
Adesso ci sono qui io. Non hai più nulla da temere. – disse, e gli baciò la fronte.
Nialllo
guardò negli occhi, e fece una cosa che non aveva mai fatto prima: avvicinò le
sue labbra e lo baciò dolcemente. Louis chiuse gli occhi, avvertendo la sua
dolcezza, quindi gli carezzò i capelli e rispose al
suo bacio.
Restarono lì, a scambiarsi
tenerezze, fino a pomeriggio inoltrato, quando iniziò a fare buio e dovettero
tornare all’Istituto.
*****
Appena
entrato nella scuola insieme a Niall, Louis fu
pervaso da una brutta sensazione. Ebbe un capogiro, come se il mondo gli si
fosse rivoltato contro per un secondo. Nell’atrio principale non c’era nessuno.
Nemmeno nei corridoi. Non una voce, un passo. Il posto sembrava deserto.
-
Forse sono tutti a cena – mormorò Niall, leggermente seccato alla prospettiva di dover
entrare in refettorio dopo tutti gli altri.
Poi,
poco a poco, la brutta sensazione passò. Louis si distese, pensando che forse
gli altri erano tutti in refettorio a cenare, essendo le otto passate. Ci
sarebbero andati anche loro, magari insieme.
-
Beh, forse allora è meglio raggiungerli, non trovi? –
Niall annuì, e si avviò nel
corridoio ovest.
Louis
fece per seguirlo, quando un rumore attirò la sua attenzione.
Una
porta che si apriva dall’altro corridoio. Si voltò, vedendo di nuovo la figura
che aveva visto la sera in cui Sean Cortland era
stato ricoverato in infermeria.
Il
ragazzo dai vestiti lacerati aveva un colorito cinereo e i capelli incollati
alla fronte. Grondava acqua, e puntava il dito verso Louis.
Louis
si sentì accapponare la pelle, un brivido gli corse lungo la schiena, ma
ugualmente trovò il coraggio di alzare i tacchi e correre in quella direzione.
Quando
varcò la soglia del corridoio, si trovò di fronte Sean Cortland,
che, con andatura barcollante, si teneva la pancia.
-
Sean! Sean! Che cos’hai? – domandò, con tono calmo ma allo stesso tempo
spaventato a morte.
-
Ho… ho visto… -
-
Cosa??? Che cosa hai visto?!? –
-
La… la morte. – mormorò il ragazzo con gli ultimi sprazzi di vitalità.
Poi chiuse gli occhi e si accasciò a terra.
Spaventato
più che mai, Louis si inginocchiò su di lui, lo scosse
e sentì l’odore di detergente per pavimenti che proveniva dalla sua bocca.
Quando si mise a chiamare aiuto, ebbe una fortissima sensazione di Dejà-vu.
*****
Circa
un’ora dopo, Louis, Niall, Umbridge
e il Dottor McAuliffe erano di nuovo attorno al
lettino dell’infermeria, con il dottor McAuliffe che
scuoteva la testa e si toglieva lo stetoscopio.
-
Il ragazzo è morto – dichiarò il medico – avvelenamento da soda
caustica. –
Poi,
il medico si allontanò, e con lui anche Umbridge, che
guardò cupamente sia Niallche
Louis. Questi rimase a guardare il corpo esangue di Sean Cortland
disteso sul lettino, pensando, per la prima volta, che il suicidio del ragazzo
fosse solo l’ennesimo di una lunga serie.
Normalmente,
durante la notte l’Istituto Watkins dormiva. Alle nove in punto veniva suonata la campana finale, che segnalava il rientro
immediato degli studenti ai propri dormitori, situati in un altro blocco
rispetto alla scuola, una struttura bellissima che ricordava un albergo, data
anche la presenza di una reception, dove al posto del concierge c’era un custode,
l’anziano signor Donovan.
Questi
era un arzillo scozzese settantenne (era del 1840, lo stesso anno in cui fu
aperta la scuola) molto ligio al suo dovere. Sorvegliava i ragazzi, dava
indicazioni, ogni tanto parlava. Se però qualcuno avesse scommesso che anche la
sua capacità di osservazione era pari al suo eloquio, avrebbe perso: il vecchio
scozzese era più attento e sveglio di una tagliola per lupi piazzata su di un
prato verde, e forse ugualmente dannoso. Non si sapeva bene come, né perché, ma
conosceva tutto di tutti, cosa facevano, come, quando, quante volte. Oltre al
Preside Umbridge (e forse alla sua segretaria) era
l’unico a possedere tutte le chiavi delle serrature dell’Istituto Watkins. Ed
era l’unico, finora, che aveva visto cosa c’era dietro ad ogni porta. Spesso ci
era stato costretto da segnalazioni dei ragazzi, che accusavano di sentire
degli strani rumori provenire da alcune stanze vuote, o addirittura dalle
mansarde. Essendo lui l’unico sorvegliante, i doveri d’ispezione gli
competevano, così come gli competeva il dovere di
mandare al diavolo quei mocciosi quando lo svegliavano dai suoi sonnellini per
fargli controllare un accidenti di scantinato infestato solo da quelle
bestiacce che chiamano Topi.
In
settant’anni di vita e almeno quarantaquattro di servizio all’Istituto Watkins,
aveva visto stranezze e prodigi di ogni genere. Aveva assistito al passaggio di
consegne di ben cinque presidi, fino a quando era arrivato quel dannato Preside
Umbridge, con il suo bel corredo di radici sotto il culo, che gli aveva permesso di rimanere inchiodato alla
poltrona per un ventennio, mentre i ragazzi crescevano e diventavano Pari
d’Inghilterra e i suoi capelli s’incanutivano.
Lo
avrebbe giurato di fronte a Dio Onnipotente, che quel maledetto figlio di
puttana era maledettamente bravo nel fare il suo mestiere. Con lui sì che i
ragazzi rigavano dritti, e certe volte anche i professori. Troppo dritti,
forse, perché potessero seguirlo.
Ci si poteva scommettere.
Ora
c’era stato quest’accidente con quel professore di letteratura, Arthur Denker (Dio lo
benedica ovunque sia in questo momento, aggiungeva sempre Donovan alzando
un bicchiere di vino alla taverna di ChestnutCastle dov’era solito pranzare e fare bisboccia con alcuni
suoi amici – Dio benedica lui e le
sterline che mi largiva per essere cieco, sordo e muto riguardo ai suoi sollazzi
con gli studenti era invece la frase che pensava mentre beveva il suddetto
vino), il quale era stato finalmente scoperto mentre rubava la marmellata dalla
dispensa.
Aveva
trovato lui il cadavere durante un giro d’ispezione negli appartamenti dei
docenti. Sul momento si era grattato la testa piena di
capelli bianchi e poi si era accarezzato la barba. Poi aveva imprecato.
-
Maledizione, e adesso chi arrotonderà il mio stipendio così bene come faceva
lui?!? –
Davvero
una gran perdita.
In
compenso, avrebbe potuto provare a ricattare qualche altro insegnante con le
mutande sporche (e in quella scuola sembravano essere pochi quelli con le
mutande pulite… forse quel damerino biondo irlandese di nome Horan e quell’altro damerino moro che si faceva chiamare Tomlinson erano ancora puliti, ma gli avrebbe dato ancora
qualche mese, poi si sarebbero sporcati anche loro), ma non era nel suo stile.
Farsi corrompere per lui andava bene. Ricattare invece era sbagliato.
Anche
se di persone ricattabili – pardòn – con
le mutande sporche, lì in mezzo ce n’erano. Per esempio, c’era
quell’altro damerino più grosso di nome Stephen Robbins, il professore di
storia dell’arte. Ragazzi, se solo avessero saputo di lui…
Ma in fondo, a lui cosa
importava? La vita di Jedediah Donovan era una vita
piccola, fatta di scope, chiavi, piccole e grandi riparazioni domestiche e
serate in osteria. E anche ciò che sapeva sui suoi custoditi, non era
importante. Faceva parte di un altro mondo, il mondo
del College Watkins, dove tutti i rampolli dell’alta borghesia inglese venivano
a studiare, personalmente sovvenzionato con i soldi della Regina; un mondo in
cui sapere qualcosa di più non serviva a nulla se non a farti sbattere fuori. E
lui, per quanto piccola fosse la sua vita, non poteva permettersi di perderla.
Neanche
per tutto l’oro del mondo.
*****
Mentre
tutto il College dormiva, qualcuno era ancora sveglio.
Stephen
era seduto alla sua poltrona, con il blocchetto da disegno e il carboncino in
mano. Sudava, nonostante la finestra della stanza fosse aperta.
Guardò
ancora una volta lo schizzo, assumendo un’espressione preoccupata. Era come se
avesse visto sul foglio qualcosa che non gli apparteneva veramente. Qualcosa
che aveva impresso durante uno stato d’incoscienza.
Lentamente
appoggiò i bozzetti alla sua scrivania, tenendosi la testa tra le mani. Scosse
la testa, cercando di mantenere la calma.
Era
più difficile di quanto pensasse. Cercò tastoni nella luce del lume un sigaro. Lo trovò e lo accese alla fiamma della candela che teneva
sulla scrivania, tirando una grande boccata.
Forse sto solo perdendo il
mio tempo. Non so davvero cosa ci faccio ancora qui. Mi converrebbe preparare
la valigia, mettere in moto la mia Mercedes e partire. Andarmene, sparire per
sempre. Magari tornare in Italia e fare il soldato. Ma
no, no, no. Non potrei mai sopravvivere. Qui non sto bene, ma lì potrei anche
non vivere più… Oh, mio dio. Mio dio…
Fumò
ancora un po’, guardando dalla finestra. Quella notte la luna era piena,
visibilissima. Ogni tanto qualche nuvola la oscurava, ma era ugualmente bella.
Stephen
poggiò il mozzicone di sigaro sul posacenere, quindi aprì il cassetto. Prese la
candela, avvicinandola. Era ancora lì. Presto o tardi, avrebbe potuto
servirgli, lo sapeva. Per ora si limitava ad insegnare
ciò che aveva imparato sull’arte e l’architettura, ad aggirarsi per i corridoi
con quella sensazione di disagio che forse provava anche Louis… ad immaginarsi
in quel quadro che aveva dipinto e che teneva nascosto nella sua aula per la
paura di averlo in camera…
I
suoi occhi gli caddero sul bozzetto che aveva disegnato. Lo prese in mano, lo guardò ancora una volta.
Sospirò.
-
Perdonami. – disse, e avvicinò i fogli alla fiamma della candela,
bruciando il disegno.
Due
giorni dopo la morte di Sean Cortland, la scuola
ricominciò a partire come sempre. Gli insegnanti facevano colazione, si
alzavano dopo un’oretta ed entravano in classe insieme agli studenti. Tutti,
nessuno escluso. Anche Louis suo malgrado dovette continuare
a fare così, benché nella sua testa continuasse a frullargli il
pensiero che non poteva essersi trattato di una morte per cause personali.
Louis
aveva maturato questa convinzione anche grazie alla conversazione avuta con l’ispettore
Christopher Martin, di Scotland Yard.
Nonostante
le obiezioni del Preside affinché gli interrogatori di tutti i soggetti che
erano entrati in contatto con Sean Cortland fossero
condotte nella Sala Watkins, l’ispettore Martin oppose
che era molto meglio se i soggetti venissero interrogati da lui stesso
singolarmente, nell’ufficio della segreteria. E così si fece, con evidente
stato di malcontento di Umbridge, che volle essere il
primo ad essere interrogato, e, dopo essere uscito
circa una ventina di minuti dopo, si chiuse nel suo ufficio, probabilmente a
farsi passare la rabbia di essere stato comandato nella sua scuola.
Quando
venne il turno di Louis, l’ispettore Martin, seduto alla scrivania della
signorina Pemberton, la segretaria del Preside, lo
fece accomodare sulla poltrona di fronte alla scrivania.
-
Buongiorno – salutò l’ispettore Martin, con tono ed espressione composti
– Prego, accomodatevi. –
Accanto
a lui c’erano un agente in divisa e un altro seduto con dei fogli e una penna.
L’agente in piedi consultò una cartelletta.
-
Sir Louis William Tomlinson – dichiarò ad alta
voce – Nato a Doncaster, South Yorksire, il 24 Dicembre 1888, compare di fronte all’ispettore Sir Christopher
John Martin per la prima deposizione testimoniale, alla presenza dell’agente
scelto Jonathan Madison e del qui presente aiutante Scott Ferguson. –
Non
avendo mai preso parte a un interrogatorio di polizia, Louis avvertì la pelle
d’oca nel sentirne il tono altisonante e ufficiale. In più, lo sguardo fisso
dell’ispettore Martin su di lui era imbarazzante. Probabilmente il segugio
guardava così tutti i sospettati di omicidio, per cogliere ogni più piccolo
particolare rivelatore di una bugia.
-
Avete scritto, Madison? – domandò Martin, senza
staccare gli occhi di dosso da Louis.
-
Sì Sir. – rispose l’agente, anche lui continuando a scrivere.
-
Bene. Sir Tomlinson, posso chiedervi che grado
occupate in questo istituto? –
-
Insegnante di letteratura – rispose prontamente Louis.
-
il giovane Cortland era un vostro allievo? –
-
Sì Sir. – rispose Louis, senza annuire.
-
Avete mai notato qualcosa di strano, nel comportamento del ragazzo, durante le
lezioni o fuori? –
-
Perdonatemi – disse Louis – che cos’intendete per strano? –
Martin
sollevò le sopracciglia, e per un momento Louis si sentì disteso – Beh,
comportamenti inconsueti… eccessiva emotività… qualunque cosa che a voi non sia
sembrata normale. –
Louis
pensò su un momento. – Era un ragazzo piuttosto solitario. Che io
ricordi, non l’ho mai visto parlare con altri studenti, né con gli insegnanti.
Durante le mie lezioni non partecipava attivamente, ma posso dire che non ha
mai dato problemi. –
-
Ne siete proprio sicuro? –
-
Sì. –
Martin
prese un foglio accanto a sé.
-
Da questa deposizione del Preside Umbridge risulta
che due settimane fa, il ragazzo fosse stato preda di
una crisi epilettica, e che si fosse avvicinato a voi, chiamandovi per nome.
–
-
Oh – rispose Louis, dandosi dell’idiota per aver dimenticato quel
particolare – Sì, è vero. Il ragazzo si era avvicinato a me chiamandomi
per nome, poi quando il Preside Umbridgelo ha richiamato, il ragazzo si è accasciato al suolo.
–
-
Capisco – rispose solo Martin, rimettendo via il foglio.
Louis
guardò prima Martin, poi i due agenti. Pensò che forse potevano aiutarlo.
-
Posso farvi una domanda, ispettore? –
-
Certamente. –
-
Ecco, io… vorrei sapere se in questa scuola ci sono stati altri casi come
questo, in passato. –
Uno
dei due agenti sussultò, come se gli avessero trafitto uno stiletto dietro la
schiena. Louis lo notò, e anche Martin, che lo guardò
tranquillamente ma con aria minacciosa. Immaginò che qualunque cosa fosse
uscita dalla bocca di Martin, non sarebbe stata tutta la verità.
-
Risponderò alla vostra domanda se voi mi scuserete e mi permetterete di farvene
un’altra: perché vorreste sapere una cosa del genere, Professor Tomlinson? –
-
Come docente di un istituto di avviamento universitario, ho interesse a
conoscere la mentalità dei giovani, e in questo senso mi chiedevo se fosse
possibile capire se il disagio giovanile dipende dalle istituzioni oppure da
altri fattori. Nulla di più. – buttò lì Louis.
Martin
l’osservò attentamente. Dentro Louis si fece strada
uno strano senso d’inquietudine.
-
lasciatemi dire, professor Tomlinson
– iniziò Martin dopo una lunga pausa – che il vostro interesse per
i giovani è lecito e meritevole di interesse – una pausa. – ma se mi concedete l’ardire di dirlo, non vedo come per voi
sapere quanti altri casi di suicidio si siano verificati (se, si sono verificati) in questa scuola possa esservi d’aiuto nel
soddisfarlo. –
Louis
avvampò. L’ispettore gli aveva detto, in poche parole, di farsi gli affari
suoi.
-
Vi chiedo scusa se ho fatto una domanda poco pertinente – disse poi Louis,
chinando il capo – Ero solo interessato a capire se potevano esserci
delle ragioni collegate a questo luogo, tutto qui. –
-
Voi conoscete i giovani meglio di quanto li conosca io, Professor Tomlinson, ma concorderete senz’altro con me se vi dicessi
che all’età del signor Cortland certe cose passano
nella testa quasi ogni minuto. C’è chi riesce a resistervi, e chi invece non vi
resiste. Cose che possono succedere, ma delle quali
noi non possiamo ritenerci del tutto responsabili. – concluse
Martin, aggiungendo un sorriso. L’unico che Louis gli aveva visto fare
dall’inizio del loro colloquio.
-
Bene – ripeté l’ispettore – Se non c’è altro, vi lascio tornare
alle vostre occupazioni. Addio, Sir Tomlinson.
–
-
Addio, ispettore Martin – disse Louis, alzandosi dalla sedia e prendendo
la porta.
*****
Più
tardi, Louis si maledisse per non aver mai cercato di parlare a Cortland. Era fin troppo evidente che il ragazzo aveva
qualcosa di strano. Chiaro e limpido come la luce del sole. Eppure lui, forse
per paura inconscia, non si era mai avvicinato a chiedergli cosa ci fosse che
non andava. Ovviamente non poteva sapere se parlandogli
avrebbe scongiurato la sua morte, ma quantomeno in questo momento sarebbe stato
parecchi passi più avanti.
Il
giardino dell’istituto era pieno di alberi, quasi tutti spogli. Le foglie
coprivano il terreno conferendogli un colorito vermiglio scuro, come sangue
rappreso. Qua e là spuntavano alcune strutture, come panchine in marmo anch’esse ricoperte di foglie, busti di personaggi
illustri della scuola e…
Campane.
Delle
campane rosse montate su delle strutture in legno,
collegate a una corda che, se tirata, avrebbe mosso il meccanismo basculante,
facendole suonare. Louis aveva girato intorno all’istituto, contandone una per
ogni vertice. Si domandò a cosa potessero servire.
Con
ancora nella testa la domanda che aveva fatto all’ispettore Martin, e alla luce
di ciò che gli aveva detto Niall, stava incominciando
a formulare le sue prime teorie.
A
quanto ne sapeva fino ad ora, i suicidi ufficiali erano due: il Professor Denker e il suo allievo prediletto, Sean Cortland. Il primo abusava sessualmente del secondo, e,
dopo esser stato scoperto dal Preside grazie ad una lettera anonima, si era
tolto la vita. Poi era toccato all’allievo prediletto, che si era tolto la vita
due giorni prima.
Ora,
le domande erano fondamentalmente due.
Chi
aveva inviato quella lettera al Preside?
E
perché Sean Cortland si era tolto la vita, proprio
bevendo della soda caustica?
Guardò
l’istituto da lontano. In mezzo agli alberi appariva una costruzione di mattoni
come tante altre, simile a un ospedale o a un normalissimo maniero. A quell’ora
del mattino, guardandolo dall’esterno, i corridoi erano quasi al buio, era
difficile capire chi ci fosse dentro. Louis ne osservò
la facciata: tutta in mattoni rossi, con la scalinata che portava al portico
principale, le alte finestre che illuminavano i corridoi est e ovest del primo,
secondo e terzo piano, la bandiera dell’Unione che sventolava pigra alla brezza
di inizio Novembre.
Gli tornò in mente un altro
dettaglio: il dipinto che aveva visto nell’aula di Stephen. Benché l’istituto
fosse stato costruito con mattoni rossi, Stephen l’aveva dipinto tutto in nero.
Perché?
Mentre
cercava di dare risposta alle domande che gli affollavano la mente, guardò
verso la finestra del terzo piano, nel corridoio dove c’era la sua aula. Sgranò
gli occhi quando vide una figura che stazionava dietro
la finestra.
Era
un ragazzo, che lo guardava da dietro il vetro, con espressione neutra. Louis lo fissò attentamente, avvicinandosi… il ragazzo non si
muoveva, rimaneva lì a fissarlo dall’alto.
Il
gracchiare di un corvo che si era posato sulla panchina di marmo lo fece
trasalire. Riportò lo sguardo sulla finestra del terzo piano, ma il ragazzo era
scomparso. Louis riguardò il corvo.
-
Tante grazie – disse al volatile.
Per
tutta risposta, il corvo gracchiò ancora una volta, poi svolazzò via.
*****
Seguì
un sentiero a ovest della scuola. Anche qui i soliti busti e panchine in marmo su tappeto di foglie morte, ma in più c’era il
rumore di sottofondo di un ruscello.
Giunse
in una radura, con un laghetto a pochi passi. Intorno a lui, nel boschetto, si
stava formando la nebbia. Louis avvertì anche un po’ più di freddo. Si avvicinò
al laghetto, osservandone le acque scure. Sembrava una colata di nero, con
qualche alga qua e là nel fondale.
Louis
guardò meglio, ma più che alghe e buio, non vide.
Fece
per girare i tacchi e tornare indietro, quando a un tratto notò qualcosa nel
fondo. Socchiuse gli occhi per avere una visuale migliore (a ventidue anni la
vista stava incominciando a calargli), e vide che le acque in fondo si stavano
agitando.
Si
sporse un po’ di più per cercare di vedere meglio, incontrando il suo riflesso
nell’acqua. La barbetta sul mento gli conferiva un aspetto molto maturo, e i
suoi occhi azzurri facevano ancora il loro dovere, nonostante le pochissime
diottrie che gli mancavano. L’acqua intanto aveva smesso di agitarsi nel
fondale, ma accanto a lui, nel riflesso, l’immagine di un ragazzo biondo dal colorito
cinereo si affacciò.
Louis
cacciò un urlo, rischiando quasi di finire in acqua. Non ci
finì grazie al pronto intervento di Stephen, che lo acchiappò per una spalla.
-
Cazzo – imprecò Louis, con il cuore che gli batteva a mille.
-
Ci è mancato poco che non ti facessi un bel bagno, Louis – commentò
ironicamente Stephen.
-
Già – mormorò Louis rialzandosi e allontanandosi dalla sponda, facendo
finta di spolverarsi la manica della giacca – Che ci fai
qui? –
-
Ero qui a fare due passi. Ho visto che ti aggiravi come un’anima in pena e ho
pensato di venire a salutarti. – rispose il giovane professore d’arte,
sorridendo.
-
Un pensiero molto carino – commentò Louis, guardando il laghetto, poi
domandò – Sei stato interrogato anche tu? –
Stephen
annuì. – Già. Ho detto tutto ciò che sapevo, e cioè niente. –
-
Toglimi una curiosità, Stephen – disse Louis.
-
Tutto quello che vuoi, amico. –
-
Che tu sappia, in questa scuola ci sono stati altri casi analoghi a quello di
Sean Cortland? –
La
domanda fece sussultare leggermente Stephen. Si guardò intorno, quindi si
avvicinò a Louis e quasi sussurrò.
-
Perché vuoi saperlo? –
consapevole di
non trovarsi più di fronte ad un ispettore di polizia, Louis rispose senza
filtri - Perché devo saperlo. O non riuscirò più a vivere. –
Stephen
l’osservò per un momento, quindi tirò un sospiro di preoccupazione.
-
Non so se faccio bene a dirtelo – disse –
Ma la risposta è sì. Da quando sono arrivato io, cioè cinque anni fa, tre
studenti si sono tolti la vita in circostanze misteriose. –
Louis
spalancò la bocca alle parole del collega, che lo guardava con aria grave.
-
Stai scherzando, vero? –
Stephen
scosse la testa. – No, purtroppo. È tutto vero. –
A
quella risposta, Louis tornò a guardare il laghetto. Era lì, come una bestia
dormiente, pericolosa se si fosse svegliata. Poi guardò verso est, dove c’era l’istituto.
Con i suoi pennoni e la struttura, anch’essa sembrava una bestia dormiente,
solo che questa aveva appena iniziato a svegliarsi.
Per
arrivare alla biblioteca di Londra, Louis si alzò alle cinque del mattino. Non
fece nemmeno colazione, andò direttamente alla stazione di ChestnutCastle, accompagnato in automobile da Stephen.
-
Sei proprio sicuro di volerlo fare? – gli aveva domandato Stephen mentre
guidava.
-
Sicurissimo. Sono convinto che ci sia qualcosa che non va in quella scuola, e
voglio scoprire che cosa. –
Stephen
non disse niente, continuando a condurre l’auto giù per i tornanti, procedendo
con calma. Il treno di Louis sarebbe partito solo fra un’ora. Avevano tutto il
tempo di arrivare.
Quando
giunsero a ChestnutCastle,
gli abitanti del luogo erano già svegli, ma non c’era l’attività che c’era
domenica, quando Louis era stato con Niall: la
cittadina ancora dormiva, e i primi negozianti stavano preparando le loro
mercanzie da vendere più tardi, durante il mercato del mattino.
-
Siamo quasi arrivati – dichiarò Stephen, sterzando in una stradina di
mattoni rossi. Proprio come quelli della scuola.
Louis
notò che oltre alla stazione, a ChestnutCastle c’era anche una chiesa. Non era piccolissima, ma
doveva risalire come minimo a due secoli prima. Ma non
fu tanto la chiesa a colpirlo, quanto il piccolo cimitero lì accanto.
All’entrata, sulla volta del portale, c’era una scritta in latino.
Ego
Sum Resurrectio Et Vita
Giunti
alla stazione, Louis scese dall’auto.
-
Sei proprio sicuro di non volermi accompagnare anche fino a Londra? –
domandò a Stephen.
Il
ragazzo tirò fuori una sigaretta bruna e la accese mentre rispondeva –
Sì, sono sicuro. Non sono certo che ciò che stai facendo sia consono al
regolamento, ma… se proprio vuoi farlo… non sarò certo io a impedirtelo.
– Stephen tirò una boccata di fumo. – Tu piuttosto. Sei proprio
sicuro di voler fare una cosa del genere? –
-
Sto solo andando a vedere cosa posso trovare. Nulla di più. –
-
D’accordo, ma… una volta trovato qualcosa… che cosa potrai fare? –
Louis
scrollò le spalle – Non lo so. A qualcosa penserò. –
-
Come vuoi – disse Stephen – Meglio che vada, ora. Devo tornare a
scuola a correggere dei compiti. –
-
D’accordo. Se qualcuno dovesse chiedere di me, io sono andato dai miei parenti.
–
-
Va bene – rispose Stephen – riguardati. Ci vediamo più tardi.
–
Louis
salutò Stephen che era ripartito a bordo della sua auto, in una nuvola di fumo
di scarico bluastro. Il treno non era ancora arrivato, quindi l’aspettò seduto
su una panchina lì accanto.
*****
Anche quel giorno, Londra era piena di
gente. Appena uscito dalla stazione, per poco non fu schiacciato dalle ruote di
una carrozza, il cui portantino l’apostrofò a male parole, con accento
marcatamente scozzese. Louis si tolse il cappello e si scusò, riprendendo la
sua strada verso la biblioteca.
A
quanto ricordasse la biblioteca doveva avere un’emeroteca al suo interno. Non
aveva in mente quasi nulla, aveva solo bisogno di raccogliere informazioni.
*****
Al
bancone della reception c’era un anziano signore barbuto, dal naso rossiccio e
lucido come le sue guance, che catalogava libri. Louis si avvicinò al bancone,
ma questi non lo degnò neanche di uno sguardo.
Continuava a prendere libri e ad annotarne i dati su un grosso registro.
-
Chiedo scusa – chiamò Louis.
Nessuna
risposta. L’uomo continuava a fare il suo lavoro.
-
Scusatemi – riprovò Louis, anche stavolta senza nessun effetto.
Allora
Louis vide che lì accanto c’era una campanella simile a quella che c’era negli
alberghi. Louis la suonò, e come per magia, l’impiegato alzò lo sguardo su di
lui. I suoi occhi porcini lo guardarono con sorpresa, come se non l’avessero
mai visto prima.
-
Buongiorno, giovanotto! Posso aiutarvi? – domandò a Louis, con la voce un
po’ troppo alta.
-
Sì, sto cercando l’emeroteca. –
Il
vecchio si sporse un po’, portando la mano all’orecchio per amplificare il
suono – Come avete detto??? –
-
Ho detto che sto cercando l’emeroteca! –
-
E’ questa la biblioteca! –
-
No, non avete capito! – rispose Louis, alzando anche lui un po’ la voce,
imbarazzato – Sto cercando l’e-me-ro-te-ca! –
Poco
dopo una porta si aprì dall’ufficio retrostante la reception. Ne uscì un uomo sulla cinquantina, con i capelli pettinati
perfettamente all’indietro ed un vestito di tutto punto. Portava i baffetti e
sorrideva.
-
Haggis, ci penso io con il signore. Torna pure al tuo
lavoro. – disse all’impiegato, avvicinandosi molto al suo orecchio.
L’impiegato barbuto annuì e tornò a fare il suo lavoro.
-
Scusatelo Sir, il nostro Haggis è sordo come una
campana. –
-
Ho visto. – mormorò Louis, guardando negli occhi il signore distinto.
-
Come posso aiutarvi, sir? –
-
Sto cercando l’emeroteca. –
*****
Poco
dopo Louis fu accompagnato dal signore distinto in una sala alta e grande. Qui,
in grandi faldoni, erano conservati parecchi giornali, approssimativamente
datati fino agli ultimi tre secoli. Osservò l’uomo salire su una scaletta e
tirare giù un grande tomo, che portò a Louis quasi con fatica.
-
Ecco a voi. Qui abbiamo la cronaca del 1840. Se aveste bisogno di
qualcos’altro, potete servirvi da solo. Avete con voi dei guanti? –
-
Sì, certo – rispose Louis, tirando fuori i suoi guanti di velluto.
-
Benissimo. Vi raccomando di usarli mentre sfogliate le pagine… Sapete, non
vogliamo che i giornali si rovinino – disse, aggiungendo un cortese
sorriso.
-
Farò molta attenzione, ve lo prometto. –
-
Vi ringrazio Sir. Ora, se volete scusarmi, torno alle
mie occupazioni. – disse l’uomo, chinando leggermente il capo e girando i
tacchi.
Che tipo,
pensò Louis, mentre si metteva seduto a tavolino a spulciare la raccolta di
periodici.
*****
Passarono
cinque ore.
Per
cinque ore Louis spulciò i giornali, cercando notizie che riguardassero
l’Istituto Watkins. Munito di taccuino, aveva annotato tutti i riferimenti che
potevano essere interessanti. Qualcosa aveva trovato.
La
scuola era stata istituita nel 1840 per volere della Regina Vittoria (come
d’altronde aveva già letto sull’opuscolo informativo che gli avevano mandato per
posta insieme all’invito d’immissione in ruolo); da quell’anno e per tanti
altri anni, l’Istituto aveva avviato all’università quasi
tutti i Pari d’Inghilterra, contribuendo alla formazione del Regno. C’erano
sempre state buone notizie sull’Istituto Watkins: inaugurazioni, assunzioni di
nuovo personale, cambi di presidenza. Ecco, forse era molto frequente il cambio
delle presidenze. In quel momento gli venne in mente Umbridge.
Chissà se anche lui sapeva che molti dei suoi colleghi erano stati rimossi
prima della scadenza del loro mandato?
Niente di niente,
pensò Louis chiudendo l’ennesimo faldone e guardando il prossimo che lo
aspettava. Sbatté le palpebre, strofinandosi gli occhi con due dita. Erano
quasi le quattro del pomeriggio e lui non aveva trovato quasi niente.
Oltretutto, cominciava ad aver fame.
Senza
nemmeno comandare le sue azioni, prese l’ultimo faldone e l’aprì. I giornali di
quest’ultimo erano datati 1890.
Sfogliò
distrattamente le pagine, con gli occhi che gli si chiudevano, quando
all’improvviso…
…Per
poco non lasciava perdere una notizia così importante.
Si avvicinò di più per leggere meglio.
Tragico incendio
scoppia nell’Istituto Watkins
L’istituto maschile di avviamento
universitario divorato dalle fiamme
Un
brivido gli corse lungo la schiena. Lesse l’articolo.
Stanotte, verso le due del
mattino, l’Istituto
maschile per l’avviamento universitario Jonathan Watkins è stato oggetto di un
incendio che lo ha parzialmente divorato. Fortunatamente
gli studenti sono riusciti ad uscire indenni dalla
struttura, allertati dall’odore di fumo. L’incendio, sviluppatosi nei locali
del seminterrato, dalle prime rilevazioni di Scotland Yard risulterebbe
essere di natura dolosa: sarebbero stati infatti trovati dagli agenti
due bottiglie annerite sepolte sotto una montagna di cenere, molto
probabilmente carta utilizzata allo scopo di propagare le fiamme. La polizia ha
inoltre dichiarato che quello non era l’unico punto d’origine: sono infatti stati rinvenuti altri due ordigni di quel genere,
rispettivamente nei locali del refettorio e della biblioteca, punto centrale
dell’Istituto. Qui, inoltre, è stato rinvenuto il
cadavere di un ragazzo, impiccato ad una ringhiera del ballatoio. Il nome del
ragazzo, a quanto risulta dai registri ufficiali, era
Elijah Pickford, diciotto anni. Si suppone sia stato
lui il piromane che ha provocato l’incendio.
Louis
lesse e rilesse l’articolo, per non rischiare di perdere dettagli importanti.
Annotò tutto sul suo taccuino, mentre la stanchezza e la fame passavano in
secondo piano. Guardò lo scaffale dove erano presenti tre posti vuoti: rimanevano gli altri anni accanto. Aveva appena incominciato
a scavare nella fossa dell’Istituto Watkins. La terra era dura, ma Louis era un
ottimo picconatore. Elijah Pickford era stata la prima vittima, il primo cadavere. Alzandosi e
andando verso lo scaffale, Louis ebbe la sensazione fortissima che i cadaveri
sarebbero stati più di uno.
Aveva
solo incominciato a scavare. Presto gli altri sarebbero saltati fuori.
Durante
il viaggio di ritorno, sul treno che l’avrebbe riportato a ChestnutCastle, rilesse tutti i nomi che aveva
trovato sui giornali posteriori all’edizione del 1890. Come aveva intuito, in
quella scuola c’erano stati altri casi di morte per suicidio, e i giornali,
seppur con la nota omertà che contraddistinguevano la stampa britannica verso i
fatti che coinvolgevano proprietà della Regina, di quegli eventi ne avevano riportato
l’essenziale.
Nel
1895, vale a dire cinque anni dopo l’incendio provocato dal suicida Elijah Pickford, era stato trovato in camera sua, suicida con lo
stesso modus, il giovane Robert Hayden, di appena diciotto anni.
Ed
era uno.
Due
anni dopo invece era toccato a Jack Knight, che si era reciso le vene nel bagno
del dormitorio, durante una lezione. Lui aveva solo diciassette anni.
Suo
coetaneo, ma con modus differente, era stato Thomas Xavier Rice, che si era
tolto la vita gettandosi dalla finestra del corridoio del terzo piano. Questo
era accaduto tre anni dopo.
Cinque
anni dopo invece, era toccato a Gerald Holmes, diciottenne anch’egli,
avvelenatosi con la stessa modalità che aveva scelto
Sean Cortland: bevendo un composto chimico venefico.
L’anno
successivo, durante la notte di Capodanno, era stata la volta del diciottenne
Justin Taylor, che si era gettato nella tromba delle scale dal terzo piano.
Nel 1909 ci fu un mistero nella tragedia.
Se tutti i precedenti casi erano stati archiviati dalla polizia come morte per
suicidio, questo invece presentava dei coni d’ombra. La vittima, NathanielEllsworth, era stata
trovata distesa supina sul bordo del laghetto nel parco dell’Istituto, con la
testa immersa nell’acqua. Fin da principio la polizia aveva dubitato che si
trattasse di un suicidio, bensì di un omicidio. Il caso Ellsworth
quindi non era stato frettolosamente archiviato come suicidio.
E
poi, in ultimo, c’era stato il suicidio di Sean Cortland,
l’unico al quale Louis aveva assistito direttamente. Stando a quanto aveva
scoperto dai giornali dei vari anni, c’erano stati diversi suicidi, cominciando
dal 1890, anno in cui scoppiò un tragico incendio con una sola vittima, tal
Elijah Pickford.
Nella
sua mente cominciarono a insinuarsi delle ipotesi, che andavano dalla semplice
fatalità alla preordinazione occulta.
Da
bambino aveva sentito spesso storie riguardanti
fantasmi che infestavano case e manieri dell’antica Londra. Spesso erano storie
romantiche nella loro soprannaturalità, ma altrettanto spesso si trattava di
storie che facevano drizzare i capelli sulla testa: ad esempio Louis aveva
sentito di quest’ospedale che prima era una prigione dove venivano
eseguite condanne a morte, che a sentire i medici, era infestato dagli spettri
dei condannati che apparivano di notte, terrorizzando i pazienti. Storie alle
quali Louis aveva sempre creduto troppo poco per mancanza di validi elementi
probatori. Scrisse una nota sul taccuino: cercare
libri di occultismo e di parapsicologia.
Alzò
lo sguardo dal taccuino e guardò dal finestrino la campagna inglese immersa nel
paesaggio autunnale. Il cielo color piombo annunciava pioggia, ma per il
momento non era scesa nemmeno una goccia. C’era solo nebbia. Un gran nebbione
che si stava addensando sempre di più.
*****
Giunto
all’Istituto su una carrozza, scese velocemente e pagò quanto dovuto al
cocchiere, che ringraziò togliendosi il cappello e tornandosene da dove era
venuto.
In
quel momento Louis non aveva in mente nulla, solo di andarsene in camera a
pensare, quando a un tratto vide un volto che non aveva mai visto prima.
Nell’atrio,
seduto su una panca con un libro in mano, c’era un ragazzo. Aveva i capelli
ricci e le gambe molto lunghe, accavallate con compostezza mentre leggeva un
libro che Louis conosceva fin troppo bene: Anna
Karenina,
di Lev Tolstoj.
Nel
momento in cui si accorse di essere osservato, il ragazzo alzò lo sguardo,
incontrando quello di Louis. Gli occhi del ragazzo erano di un blu chiarissimo.
Il suo viso era perfetto, così come le sue labbra. In quel momento, Louis ebbe
una vampata di calore.
Arrossì
violentemente, mentre nel suo cervello ogni tentativo di proferire parola era fallace:
troppi pensieri in una volta sola, e troppi di questi non erano consoni a un
insegnante nei confronti di uno studente. Così, sfidando l’etichetta che imponeva
l’educazione di salutare, prese il corridoio verso il cortile e si avviò
velocemente verso i suoi appartamenti.
Fuori,
l’aria fresca sembrò riportarlo alla realtà. Quando arrivò al dormitorio, però,
trovò un altro ragazzo ad aspettarlo.
-
Niall! – esclamò, aprendo la porta a doppio
battente – Che cosa ci fai qui? –
Il
biondo professore di filosofia prima lo guardò e poi
si allontanò verso le scale.
-
Vieni – disse – voglio farti vedere una cosa. –
Senza
fare domande, Louis si avvicinò alle scale, salendo i gradini lentamente.
Niallstazionava
nel corridoio, aspettandolo come un cucciolo aspetta il proprio padrone.
-
Dove stai andando? –
Louis
salì gli ultimi gradini e Niall entrò in una stanza
lì accanto. Doveva essere la sua. Louis si avvicinò a quella porta, e
lentamente l’aprì, entrando.
La
stanza era immersa nel buio, eccezion fatta per alcuni spiragli di luce che
filtravano dalle imposte chiuse. Niall sembrava
essere scomparso, ma doveva essere lì da qualche parte.
-
Niall? – chiamò Louis, e nel buio vide
baluginare la luce di un fiammifero.
Poco
dopo apparve Niall che reggeva un lume. Solo che… non
aveva più i vestiti.
Il
giovane professore di filosofia si era denudato completamente, ed aveva posato il lume sulla scrivania, avvicinandosi
sempre di più a Louis.
Louis
chiuse la porta tenendo gli occhi fissi su quelli di Niall,
pensando che non aveva mai visto creatura più bella.
Niall prese una mano di
Louis e se la passò sul petto glabro. La sua pelle era morbida e priva
d’imperfezioni, tanto che Louis si eccitò visibilmente.
-
Ho paura a dormire da solo questa notte – disse Niall,
abbracciando Louis e baciandogli il collo all’altezza dell’orecchio sinistro
– Resteresti insieme a me? –
Louis
abbracciò a sua volta Niall, accarezzandogli i
capelli e combattendo contro la sua mano che voleva toccargli il sedere.
-
Sì – rispose soltanto, mentre Niall prendeva la
sua mano e se la portava sul sedere, dando modo a Louis di fare ciò che voleva.
*****
Nel
frattempo, chiuso nel suo ufficio, il Preside Umbridge
stava aggiornando un libretto… o meglio, un diario. Il diario che Louis aveva
visto quando era stato convocato a seguito della figuraccia con il professor
Baskerville. Nel caminetto, il fuoco scoppiettava, spandendo nell’aria
quell’odore di fumo che tanto piaceva a Umbridge.
Posò la penna, rilesse ciò che aveva scritto fino a quel momento e corrugò la
fronte, sospirando ampiamente.
Si
alzò dalla scrivania e andò verso una credenza che conteneva, fra i libri, un
vassoio di liquori. Il vecchio Umbridge non era
avvezzo a certi piaceri di bassa moralità, ma ogni tanto gli piaceva concedersi
un goccio di Whisky, stanti le sue origini scozzesi. Prese un bicchiere e si
versò due dita di liquore.
Il
dolce liquido fu una carezza per la sua gola infiammata, ma prima di tutto per
la sua mente troppo affaticata, nella quale girava, a ciclo continuo, una sola
domanda:
Quanti, ancora?
Camminò
verso il caminetto, dove erano posati alcuni oggetti, tra i quali un orologio,
una vecchia fotografia incorniciata e dei ninnoli di ottone. Appeso alla
parete, in modo da riflettere la luce, c’era uno specchio. Umbridge
vi si riflesse, guardandosi bene in faccia. Se l’avessero visto dei suoi
colleghi, la prima cosa che gli avrebbero detto
sarebbe sicuramente stata: Salve, vecchio
mio. Mi permettete di essere insolente? Vorrei dirvi che non avete una bella
cera. Vi converrebbe un po’ di riposo, se accettate il mio consiglio.
Rise
amaramente. Forse era l’unica cosa fare in una situazione come quella. C’era
soltanto da sperare che con Sean Cortland le cose
fossero finite lì, almeno per quell’anno.
E
poi?
E
poi… chissà. Forse avrebbe continuato a insegnare in quell’istituto, oppure si
sarebbe dato alla scrittura a tempo pieno. Ah, com’era ardua la scelta, in
bilico tra il mollare tutto domani stesso e continuare nella sua opera di
reggenza di un istituto, sopportandone i costi e traendone benefici, primo fra tutti quello di formare sempre più nuovi individui
capaci di portare avanti il nostro Glorioso paese.
Quella
era la sua missione. E l’avrebbe portata a termine, ad ogni costo.
Perso
nei suoi pensieri, a un tratto si sentì di non essere più solo nel suo ufficio.
Guardò nello specchio, accorgendosi che dietro di lui, di spalle, era presente
un ragazzo. Si girò di scatto, ma il ragazzo era ormai scomparso. Senza riflettere,Umbridge afferrò un
attizzatoio dal camino, brandendolo come una spada.
-
Chi c’è? Venite fuori! – disse, senza troppa convinzione.
Nessuna
risposta. Si guardò intorno, con il sudore che stava cominciando a imperlargli
la fronte.
Si
avvicinò velocemente alla porta, girando il pomello che comandava la chiusura
del lucchetto, sprangandosi dentro. Ansimava, mentre cercava di controllare le
sue emozioni. Andò all’armadietto dove teneva i liquori, sempre tenendo fisso lo sguardo sulla porta, e si versò altre due
dita di Whisky, che ingollò molto velocemente. Il liquore gli
bruciò la gola e lo stomaco, ma lo stordì abbastanza da mantenergli viva quel
poco di sanità mentale che gli era rimasta.
Barcollando,
andò alla finestra, poggiando una mano sul vetro. Vide il suo volto nel
riflesso, ma poi questo cambiò e assunse le fattezze di un ragazzo con il viso
sfigurato, che gli urlò in faccia.
Umbridge saltò dalla paura,
barcollando all’indietro e inciampando sui suoi stessi piedi. Il bicchiere che
stringeva nella mano destra andò a versare il suo contenuto sul tappeto,
spandendo nell’aria un gradevole odore di Whisky. Umbridge
si girò sul fianco, tenendosi le mani sulla zazzera di capelli bianchi,
cercando di proteggersi da quelle visioni.
-
No… andatevene. Andatevene via! – gemette, tappandosi le orecchie.
Non
serviva a nulla.
I
ragazzi avevano cominciato a parlare, e Umbridge non
sapeva quando avrebbero smesso.
La
notte insieme a Niall era stata un’esperienza
magnifica. Sveglio nell’ombra, Louis se ne stava disteso sul letto a
contemplare il profilo di Niall che, di spalle, gli
dormiva accanto. Sorrise compiaciuto. Il biondo docente di filosofia era un
ottimo amante, sicuramente non nuovo a certe avventure, nonostante la sua
parvenza di ragazzo innocente e pudico. Gli venne
fatto di pensare che sicuramente anche lui poteva aver avuto la sua parte di
divertimenti con qualche studente dell’istituto, ma sicuramente si sarebbe
trattato solo di uno sfizio innocente e non di una malattia morbosa come quella
che, ipotizzava, fosse parte del suo predecessore, Denker.
Carezzò
dolcemente il suo profilo. La pelle delle braccia era liscia e candida. Qua e
là presentava qualche neo, ma ciò non gli toglieva
alcun valore: Niall era un bellissimo ragazzo, e
Louis sperava con tutto il cuore che gli avrebbe concesso un’altra notte
d’amore.
Restò
lì a guardarlo dormire, fino a quando non cominciò a chiudere gli occhi,
sprofondando in un lungo sonno.
*****
I
suoi occhi guardavano nel corridoio. Era impensabile che ci fossero ancora così
tanti studenti in giro a quell’ora. Che diavolo ci facevano? Sarebbero già
dovuti essere a letto. Vide uno di loro che armeggiava con dei fiammiferi,
facendosi bello con gli altri. Istintivamente, si rifugiò dietro una colonna,
sperando con tutto se stesso di non essere visto.
Si
girò. Dietro di lui c’era uno strano quadro. Un quadro raffigurante l’istituto,
con la differenza che i colori erano sbagliati: l’istituto era costruito in
mattoni rossi, ma nella pittura era raffigurato tutto nero. Una nera cattedrale
dell’apprendimento, dove forse più di uno aveva sacrificato la propria vita…
Improvvisamente il quadro prendeva fuoco, e lui si sentiva preso da qualcosa.
Qualcosa che gli stava lentamente togliendo il respiro.
Louis
si svegliò di soprassalto. La sensazione che gli mancasse il respiro era stata
fortissima, quasi reale. Ansimava, cercando di riportare il cuore a ritmi
normali, poiché batteva come impazzito. Aveva avuto un incubo in piena regola.
Cercò tastoni i fiammiferi per accendere il lume sul comodino. Una volta fatta
luce, si accorse che Niall non era più accanto a lui.
Si guardò intorno nella stanza, tenendo il lume in mano, ma non vide nessuno.
Però…
…la
porta era socchiusa.
L’aprì
completamente, uscendo in corridoio vestito solo dei mutandoni.
Il
legno delle assi del pavimento scricchiolò sotto il suo peso, ma più in là
c’era qualcun altro che lo stava facendo scricchiolare.
Stagliato
in controluce della finestra del corridoio principale, Louis vide Niall che camminava verso il bagno, lentamente, come se
fosse in trance. Rabbrividì.
Aiutandosi
con il lume, Louis camminò nel corridoio, senza perdere di vista Niall. Sperò di non aver fatto troppo rumore, non voleva
assolutamente svegliare gli altri insegnanti.
A
quell’ora della notte, l’istituto sembrava un posto irreale. Il silenzio
sembrava avvolgerlo come una coltre, e la pochissima luce delle candele (ai
dormitori non era stato installato l’impianto a gas, per cui c’erano solo le
candele) dava a tutto l’ambiente un aspetto
inquietante.
Camminò
in punta di piedi, cercando di fare meno rumore possibile, fino ad arrivare
alla porta del bagno. L’aprì lentamente, facendo prima capolino e poi
illuminando l’ambiente.
Il
bagno dei dormitori era una lunga stanza con dei lavandini completi di specchi
e i gabinetti alle spalle, debitamente chiusi dalle pareti in
legno scuro. Se Niall fosse stato lì, sicuramente
avrebbe visto i suoi piedi da sotto la parete di legno che circondava i
gabinetti, ma quando si accovacciò per vedere se fosse lì, non lo vide.
Niall era scomparso.
Louis
si grattò i capelli, senza capire. Appoggiò il lume a una mensola poggia-sapone
e si avvicinò nell’angolo accanto alla fila dei gabinetti, tastando la parete e
il pavimento con i piedi: voleva vedere se per caso c’era un passaggio segreto.
Non
trovò nessun passaggio segreto, ovviamente. Quando concluse
che forse era stato attirato in una trappola, era già troppo tardi.
Un
brivido di freddo lo colse, mentre la temperatura intorno a lui si abbassava
lentamente. Sbuffò con la bocca, provocando una nuvola di fiato condensato. Con
la coda dell’occhio guardò negli specchi, accorgendosi di una figura dietro di
lui.
Il
terrore gli montò dentro come una mano che artigliò il
suo cuore, ma quando provò a cacciare un urlo, si ritrovò delle mani
insanguinate che cercarono di soffocarlo.
Dimenandosi,
cercava di colpire l’aggressore. Una gomitata andò a vuoto; un calcio sferrato
dietro di sé non riuscì nel suo intento. Poco dopo si accorse di stare
combattendo da solo contro una stretta che si era già dissolta.
Tastandosi
il collo, cercando di riportare il suo cuore a battiti normali (per la seconda
volta quella notte), riprese il lume e con orrore vide ciò che c’era nel bagno.
Scritte.
Il
pavimento, le piastrelle, le pareti in compensato, i lavandini e gli specchi
erano coperti di scritte di sangue, che dicevano una sola parola.
Help
Persino
il soffitto era tappezzato da quella parola, “Aiuto”, vergata da un tratto
deciso ed impaurito. Louis si allontanò camminando all’indietro,
cercando tastoni il pomello della porta, che aprì e richiuse immediatamente
quando fu di nuovo fuori in corridoio. Tremava dalla testa ai piedi.
Velocemente, si allontanò dai gabinetti e tornò alla porta della sua stanza. Gettò
un’ultima occhiata ai bagni dov’era appena stato: alle prime luci dell’alba, un
ragazzo castano con la divisa del college stazionava
lì accanto alla porta, reggendo un rasoio nella mano sinistra e mostrando il
polso destro tagliato.
La
prima cosa che Louis notò quando arrivò al refettorio, era che Stephen non
c’era. Una cosa piuttosto strana, poiché il giorno precedente non gli aveva
mostrato i sintomi di un’influenza o chissà cosa: era improbabile che si fosse
dato malato.
Non
sapendo nemmeno bene lui perché lo volesse vedere, forse perché temeva il
peggio.
Camminando
in fretta, Louis raggiunse l’aula di storia dell’arte, ma nemmeno lì Stephen
c’era. Però, al suo posto… c’era qualcos’altro.
Poggiato
sulla cattedra, Louis vide un quadernetto rosso. Lo sfiorò con le dita, quindi
lo prese in mano, incuriosito. Si guardò intorno, per
assicurarsi che non ci fosse nessuno. Chiuse la porta e si mise a leggerlo.
12 settembre 1905.
Non posso credere abbiano accettato la
mia candidatura. Adesso sono anch’io docente in questo istituto. E’ stata dura,
ma alla fine ce l’ho fatta. Grazie, Papà, per aver
parlato a chi dovevi parlare.
Louis
sgranò gli occhi nel leggere quelle righe. A quanto pareva, il fatto che
Stephen lavorasse lì non era tanto fortuna di essere
un bravo insegnante, quanto era piuttosto fortuna di essere nato nella famiglia
giusta. Continuò a leggere.
15 Settembre 1905.
Gli studenti sono tutti molto
disciplinati. I miei colleghi però sono molto freddi. Forse gli sono antipatico?
Chissà se anche loro si sentivano così, quando erano al mio posto.
Ventiquattrenni alla loro prima esperienza di lavoro: come si sarebbero sentiti
se qualunque loro collega avesse riservato loro il
trattamento che riservano a me?
Sfogliò
ancora le pagine. La maggior parte erano lamentazioni di un insegnante
schiacciato dalla noia e dalla routine dell’insegnare e di andare a trovare la
famiglia e la fidanzata quasi ogni weekend. Un ruolo, quello di figlio, che non
gli si addiceva, stando a quanto scriveva in quelle righe.
Ad un certo punto, Louis si
fermò su una pagina. Era datata Settembre 1909.
Un
anno prima.
Mi ha fissato ancora una volta. Non so
perché lo faccia. Mi fissa e abbassa lo sguardo, come una ragazza. E io sento qualcosa! Oh mio dio. Che cosa mi sta succedendo?
Non mi era mai successo prima, eppure di ragazzi ne vedo così tanti, da quattro
anni a questa parte!
Louis
era esterrefatto. Spalancò leggermente la bocca, mentre andava a leggere
un’altra pagina.
E’ rimasto in aula dopo la lezione. Io
gli ho chiesto perché non fosse andato a riposare o a studiare insieme agli altri, e lui mi ha guardato timidamente. Abbiamo
parlato a lungo, mi ha spiegato di essere molto interessato alle correnti
dell’impressionismo e dell’arte antica. Sono rimasto sbalordito dalle sue
conoscenze nel campo dell’architettura. Nathaniel mi
affascina. È un ragazzo intelligentissimo.
Il
nome citato da Stephen nel suo diario gli fece correre un brivido lungo la
schiena. Nathaniel. Era il ragazzo del quale si sospettava
l’omicidio.
Mentre
teneva in mano quel libretto, Louis ebbe un terribile presentimento.
Sfogliò
ancora più velocemente le pagine.
È stata una notte fantastica. Nathaniel mi ha soddisfatto più di quanto non sia mai
riuscita Elizabeth. Ho fatto l’amore con lui. Con uno
studente. Satana mi ha preso per il pisello e me l’ha infilato direttamente nel
deretano di Nathaniel. Un allievo! Oh mio dio. Se si
venisse a sapere, sarei rovinato. Spero che nessuno leggerà mai queste righe.
Il
brutto presentimento di Louis si trasformò in una sensazione di orrore quando
sfogliò ancora le pagine e lesse un’altra nota.
Che cos’ho fatto. Che cos’ho fatto. Nathaniel mi chiedeva di andarcene insieme, di fuggire.
Soltanto io e lui. In Italia, negli Stati Uniti, in capo al mondo! Erano giorni
che me lo chiedeva, e io continuavo a rimandare la
decisione. Lui piangeva, veniva da me e diceva che non voleva più stare qui. Ha
detto di aver visto delle ombre. Ombre che lo terrorizzavano di notte, ombre che volevano ucciderlo.
Il
tratto dell’inchiostro diventava sempre più incerto e bislungo, come se a
Stephen stesse tremando la mano mentre scriveva.
M_____i ha____ Min____accciatO! Ha dett_____ o che se
non – oh mio dio – se no___n lo portavo
via, lui___ andava a dir______etu___tto
della__ nostra RELAZIONE___!!!
E ALLORA IO___
Non… non ricordo… più nulla.
Ricordo solo che ce
l’avevo tra le braccia___ ma lui non respirava già più. Eravamo accanto
al laghetto. Lui era morto. Sono stato____
A
quel punto le memorie di Stephen s’interrompevano
bruscamente. Non c’era più nulla per altre cinque o dieci pagine, fino a che
non si arrivava a Settembre 1910. Qui Stephen descriveva come aveva incontrato
Louis e dello strano comportamento di Cortland. Inoltre…
Nathaniel. Ti ho visto in un sogno. Eravamo davanti la scuola, che non sembrava più la stessa. Era tutta nera,
come dopo un incendio. Sapevo perché eri venuto. Sapevo che cosa volevi da me. Dentro
di me ero diviso: volevo rifuggirti, e invece non potevo fare a meno di
seguirti, perché eri il mio destino. Lo sei sempre stato. Forse se ti avessi
dato retta prima, se fossimo scappati insieme, io e te,
in capo al Mondo, adesso non mi sentirei così. Invece sapevo che una volta ti
avessi seguito, non avrei trovato nulla di buono, dove stavamo per andare, ma
io sapevo di voler restare con te. Ho disegnato il tuo volto dopo essermi svegliato.
Perdonami, piccolo. Perdonami. Ti ho sacrificato in nome di che cosa? Non lo so
più nemmeno io. Ti prego, perdonami… perdonami…
perdonami.
Perso nei deliri letterari di
Stephen, Louis non si avvide di una presenza alle sue spalle.
-
Professore? –
Louis
trasalì, quasi facendo volare il libretto di Stephen. Lo rimise frettolosamente
sulla cattedra, mentre si girava e vedeva chi l’aveva chiamato. Era il ragazzo
che aveva visto seduto il giorno precedente quando era tornato da Londra.
-
Sì? – domandò Louis, cercando di dominare la sensazione di vergogna mista
a paura che si era impadronita di lui. È soltanto uno dei
tuoi allievi, Louis. Non è Stephen. Calmati.
-
Chiedo scusa se vi ho spaventato – cominciò il ragazzo – Il mio
nome è Styles. Harry Styles.
–
-
Lieto di fare la vostra conoscenza, Harry. Ditemi, non dovreste essere in
refettorio a fare colazione? –
-
Non ho molta fame – dichiarò il ragazzo – e poi volevo conoscervi.
–
-
Ah sì? E perché? –
-
Mi è stato detto che voi siete un grande ammiratore dell’autore russo Lev Tolstoj. –
L’inizio
di quella conversazione sembrò a Louis al tempo stesso frivolo e profondo. Quel
ragazzo l’aveva sorpreso a curiosare tra il materiale di un collega insegnante,
eppure non sembrava per nulla sorpreso. Anzi, gli stava addirittura parlando di
letteratura.
-
Chiunque sia stato, vi ha informato bene. Sono un suo ammiratore, condivido molto
del suo pensiero. –
-
Già, potrei dire la stessa cosa. Volevo chiedervi se per caso era previsto nel
vostro corso un accenno al grande scrittore. –
-
Sono dolente di dovervi informare, Harry, che il mio corso tratta di
letteratura inglese, non russa. E poi, stando alle ultime pubblicazioni,
l’autore è ancora vivente. –
Un
ghigno si dipinse sul volto di Harry. Louis non seppe decifrare se fosse di
scherno oppure di sfida.
-
Non lo sarà ancora per molto, credetemi. –
Louis
sollevò un sopracciglio perplesso.
-
Cos’intendete dire? –
-
Non importa. – replicò Harry, avvicinandosi un po’ di più a Louis.
-
Quando siete arrivato qui, Harry? –
-
Due giorni fa. Ma è come se ci fossi sempre stato. –
a un tratto il ragazzo si girò, sentendo che arrivava qualcuno. Velocemente,
prese la mano di Louis e vi pose un foglietto. Poi si girò e si allontanò verso
la porta secondaria dell’aula, scomparendo nel corridoio senza nemmeno
salutarlo.
Mentre
Louis contemplava la fuga di Harry, la porta principale si apriva, rivelando la
figura di Stephen e Niall. Louis fu lesto a mettere
via il foglietto in una tasca della giacca, benché Harry non gliel’avesse
detto.
-
Louis – esordì Stephen – ti abbiamo cercato dappertutto. Cosa ci
fai nella mia aula? –
-
Stavo solo dando un’occhiata alle opere d’arte. È
consentito, vero? –
-
Sotto la mia supervisione, sì. –
A
quella precisazione, Louis avvampò, quindi Niall si
avvicinò al giovane professore con cui aveva passato la notte.
Louis
guardò Stephen, che lo guardava con astio.
-
Ti chiedo scusa, Stephen. Non succederà mai più. –
Stephen
annuì, riprendendo un po’ della sua espressione normale.
-
Va bene, non preoccuparti. – disse, e tirò fuori una chiave con la quale
chiudere la porta. La infilò nella toppa e la girò. La
serratura scattò con un fiero Tlac!
-
Non chiudi anche l’altra porta? – domandò Niall.
Louis lo guardò.
-
Non c’è bisogno. Quella porta non la apro mai, è sempre chiusa a chiave.
–
I
capelli di Louis gli si drizzarono sulla testa. Allora come aveva fatto Harry
a…?
-
Sbrighiamoci, o resteremo a stomaco vuoto. – dichiarò Stephen, avviandosi
verso il refettorio. Louis guardò Niall, che gli sorrise.
-
Direi che io e te ne abbiamo bisogno più di lui. Tu
cosa ne dici? –
-
Dico che sono d’accordo con te – replicò Louis, ammezzando un sorriso. Niall annuì e si avviò anche lui verso il refettorio. Louis
si limitò a seguirlo.
Benché
la sua notte fosse stata movimentata, date le recenti scoperte, Louis era
riuscito a mangiare solo una mela. Mentre era seduto là, al tavolo insieme a Niall e Stephen, sentiva lo sguardo di quest’ultimo
addosso, pesante come un sacco di farina sulla schiena. Per tutto il tempo
della colazione, Stephen aveva parlato poco, per lo più con Niall,
evitando quasi di rivolgergli la parola. Rigirando il cucchiaio nella sua zuppa
d’avena, Louis pensò che forse avrebbe fatto meglio a non prendere in mano quel
maledetto quaderno, ma ancor di più pensò che avrebbe fatto molto meglio a non
entrare in quella maledetta aula.
*****
Più
tardi, quando entrò nella sua aula, Louis sospirò di sollievo. Si era salutato
con Niall e Stephen, e pensò che forse per quel
giorno non avrebbe più voluto rivederli. Dentro di sé però stava pensando a
cosa fare con riferimento all’accaduto con Stephen. Il ragazzo si era rivelato
un po’ troppo ostile nei suoi confronti, nonostante le sue scuse. Cercò di non
pensarci e di concentrarsi sul lavoro. Quel giorno i suoi studenti avrebbero
dovuto affrontare un altro compito in classe.
Mentre
i ragazzi lavoravano ai compiti, Louis tirò fuori lentamente il biglietto che
gli aveva lasciato Harry. Lo aprì, rivelando una
calligrafia morbida e ben precisa.
Incontriamoci alla radura del Sepolcro,
a mezzanotte. H. S.
Louis
lesse e rilesse più volte il biglietto, chiedendosi che cosa intendesse Harry
con “La radura del Sepolcro”. Fece mente locale, e ricordò che nel giardino erano presenti diverse statue, tra cui una costruzione che
sembrava davvero un sepolcro.
Che cosa mai vorrà dirmi? Pensò
Louis, mentre il primo dei suoi allievi consegnava i compiti. Con destrezza,
Louis fece scomparire il biglietto nella manica della giacca, sorridendo al suo
allievo e mettendo via il compito da correggere.
*****
L’esterno
della scuola era poco illuminato. Le uniche fonti di luce sulle quali aveva
potuto contare Louis erano quelle della luce della luna e quella di una
lanterna con dentro una candela, che aveva trovato nella sua stanza. Di notte
il boschetto intorno la scuola risuonava del canto dei
grilli e dei predatori notturni. Mentre camminava, si prese uno spavento per
due occhi nel buio, grandi come due lune in miniatura ma parecchio inquietanti:
un gufo che se ne stava appollaiato sul ramo di un albero.
Tirò
un sospiro di sollievo quando vide, poco lontano, una
radura dove spiccava una costruzione cubica: il sepolcro.
Si
avvicinò cauto alla costruzione, guardandosi intorno per capire se Harry fosse già
lì ad aspettarlo. Da quel punto, guardare verso il bosco metteva davvero paura:
gli alberi infittivano il buio, facendo sembrare il luogo una
stanza senza uscita a cielo aperto. Nel buio spiccavano gli occhi di altri
animali notturni, che lampeggiavano nell’oscurità, rendendo ancor più irreale
l’atmosfera.
Solo
in quel momento Louis realizzò l’eventualità più terribile: che il ragazzo non
sarebbe arrivato. Oppure che sarebbe arrivato e magari gli avesse giocato uno
scherzo. E in quella circostanza, chi l’avrebbe spiegato adUmbridge? Ma il problema non
era quello. Il problema era un altro. Era che per una regola non scritta,
studenti ed insegnanti non potevano incontrarsi al di
fuori delle lezioni. Louis conosceva benissimo quella regola (che peraltro non
aveva mai infranto), ma inspiegabilmente quella sera aveva deciso di
infrangere. Si sedette sul sepolcro. Il marmo freddo fu come una punta di
spillo sul suo sedere, nonostante i pantaloni e le mutande,
ma cercò di non pensarci.
Gli
venne da pensare a suo padre. Pensò a quando tendeva la mano per ricevere
l’elemosina, per le strade di Londra, con solo un giornale a proteggergli il sedere
dal marciapiede innevato. Pensò a quando il vecchio si ubriacava troppo e lo
picchiava di brutto. Pensò al giorno in cui suo padre morì, e lui preso
in adozione da una signora che gli aveva fatto l’elemosina più di una volta…
Anche
allora faceva così freddo.
Faceva
freddo come adesso, nonostante fosse soltanto novembre.
-
Professor Tomlinson? –
Perso
nei meandri dei suoi pensieri, Louis non si era accorto della presenza accanto
a sé. Harry era lì, a gambe accavallate, che lo osservava tranquillamente, come
durante un pic-nic.
Louis
mascherò un gemito di sorpresa con un colpo di tosse. Harry, che non era un
ignorante, piegò le labbra in un sorrisetto di scherno, tipico di chi la sa
lunga.
-
Sono lieto che abbiate accettato il mio invito, Professore. –
-
Prima di ringraziarvi, Harry, vorrei chiedervi il
perché di questo incontro al buio. –
Louis
guardò attentamente Harry, notando che gli occhi del ragazzo, così magnetici e
belli, erano anche innaturalmente verdi. Anche alla fioca luce della candela,
sembravano brillare di luce propria. E non solo questo vorrei
sapere da te, pensò Louis.
-
Diciamo che sono un vostro ammiratore. Mi è stato detto che venite da Islington. Un istituto che non passa inosservato,
nell’ambiente dell’istruzione. –
-
Ho esperito lì il mio praticantato come insegnante, all’inizio. Poi sono stato
assunto in ruolo. Ma non vorrei parlare di questo,
adesso. Vorrei sapere il vero motivo di questo nostro colloquio. –
Harry
si avvicinò un po’ di più, dando modo a Louis di sentire il suo profumo.
L’essenza era dolce, un misto di cannella e altre spezie orientali. Per un
momento Louis pensò che forse i genitori di Harry potevano essere (o essere
stati) dei colonizzatori dell’India. Gli prese la mano nella sua, e la carezzò.
Gliela guardò con attenzione, poi spostò lo sguardo di nuovo su di lui. Quegli
occhi verdi brillanti lo fissavano, mentre la sua bocca proferiva parole che
gli gelavano il sangue nelle vene.
-
Credo di conoscervi molto bene Professor Tomlinson.
Per i primi anni della vostra vita avete provato sulla vostra pelle l’orrore di
come può essere trattato un bambino che non è altro che una merce per chi lo ha messo al mondo… vi siete seduto al freddo per cercare
di racimolare quei pochi soldi che consentivano a vostro padre di coltivare il
suo stomachevole quanto inossidabile sodalizio con l’alcool. Avete pianto e
gridato senza che nessuno accogliesse le vostre preghiere quando vostro padre
si ubriacava troppo e non sapeva con chi prendersela quando vedeva quanto era
miserabile la sua vita. Poi, come per magia, il giorno del vostro compleanno,
vostro padre cadde dalle scale e si ruppe l’osso del collo. Voi tornaste a
mendicare, non sapendo bene il come né il perché… e trovaste quella che poi
sarebbe stata vostra madre, che vi accolse come un figlio nella sua famiglia.
Siete cresciuto… avete avuto la fortuna di avere
un’istruzione. Avete imparato a pensare. E finora, i vostri pensieri vi hanno
condotto per mano verso un’ideale: quello di poter liberalizzare l’istruzione
che a voi era stata a un tempo negata, ma che poi la fortuna vi ha portato. Per
questo avete deciso di diventare un insegnante: per condividere con altri
bambini sfortunati come voi la capacità di pensare. Un’ideale irrealizzabile,
ma per il quale voi credete fermamente, e dareste la
vita affinché fosse realizzato. Dico bene? –
Louis
era sconvolto. Si sentiva come se il ragazzo avesse aperto una finestra nel suo
cervello e stesse sbirciando tutti i suoi pensieri, uno per uno. La sua mano
era ancora in quella di Harry, tenuta molto leggermente. Avrebbe voluto
ritrarla e scappare via, ma per qualche strano motivo non riusciva. Si sentiva come
bloccato. No, era più giusto dire che era come … ipnotizzato.
-
Non c’è bisogno che diciate nulla. I vostri occhi
parlano per voi. Io vi capisco, Professor Tomlinson…
Ma provo anche tanta pena per voi. –
Louis
aprì la bocca per dire qualcosa, ma le prime parole non gli uscirono.
-
Q-questo… è… oltraggioso, da parte vostra. –
Harry
lo guardò con quel sorriso di chi la sa lunga, dove
Louis lesse soltanto un messaggio: e cosa
ci sarebbe di oltraggioso nel capire una persona e dire parola per parola ciò
che pensa? È una capacità che non tutti hanno, quindi non la definirei
oltraggiosa, quanto piuttosto… incredibile.
L’altra
mano di Harry andò a posarsi sulla sua guancia. Era fredda, e le sue dita
affusolate. Gli accarezzarono il mento e la barba, per poi ritornare sulla
guancia.
-
Voi avete di fronte una grande missione, Professor Tomlinson.
Voi avete tutti gli strumenti per portare avanti il vostro ideale – senza
che se ne fosse accorto, Harry si era avvicinato all’orecchio di Louis. Poteva
sentire le sue labbra soffici lambirgli il lobo.
-
E potete cominciare da qui. Da Watkins. Dovrete solo accettare il mio aiuto.
–
Louis
si sentiva ancora ipnotizzato. La voce di Harry era dolce come una carezza per
la sua anima, ma qualcosa dentro di sé gli gridava di stare attento: quel
ragazzo nascondeva in sé qualcosa che mandava in fibrillazione il suo sesto
senso.
-
Non dovrete avere paura di me, Professor Tomlinson.
Io vi guiderò nella vostra missione. –
Nel
torpore generale dettato dalla presenza di Harry, Louis riuscì a trovare un
briciolo di lucidità.
-
Chi… chi sei tu? –
Harry
sorrise dolcemente, quindi chiuse gli occhi e si avvicinò.
Le
sue labbra sfiorarono quelle di Louis in un caldo e appassionato bacio.
-
Un amico. L’unico amico che tu possa mai avere qui. – rispose Harry, e
riprese a baciarlo con passione.
Alle
quattro del mattino, mentre gli animali notturni erano sui rami coi loro occhi fiammeggianti, mentre il vento soffiava tra
gli alberi, Harry era disteso sul sepolcro, nudo. Sopra di lui, Louis gli baciava
il corpo partendo dalle labbra e scendendo verso il collo, per poi finire con
una sua perversione personale, la quale prevedeva di porre le labbra a contatto
con le parti intime del suo amante. Poteva sentire i piedi di Harry sulla sua
schiena che fremevano ad ogni tocco della sua lingua,
e contemporaneamente sentiva il suo membro diventare della stessa consistenza
del marmo, pronto per ciò che avrebbe dovuto fare dopo…
Minimamente
preoccupato di ciò che stava facendo, Louis penetrò più volte ed a fondo il giovane Harry, che senza la divisa era un
giovane adulto come tanti altri… come d’altronde, lui era un uomo come tanti
altri senza i suoi abiti da docente.
La cosa più bella era sentire Harry chiedere
ancora di più, cercarlo con le mani e sentirlo avvolgersi con desiderio al suo
corpo. Era un amante eccezionale, forse anche più di Niall.
Quando
finalmente Louis raggiunse l’orgasmo, una civetta cantò poco lontano da loro.
Harry si beò di piacere nel sentirsi posseduto da Louis, il quale lo guardò ancora una volta, prima di baciarlo con passione,
ad occhi chiusi.
Quando
li riaprì, Louis si ritrovò nel suo letto, al
dormitorio. Il canto della civetta si era trasformato nel grido del gallo che
annunciava l’alba. La notte era passata.
Louis
si guardò più volte intorno, non vedendo alcuna traccia di Harry. Aprì la
bocca, portandosi una mano alla barba sotto il mento...
-
Ma…? Come ho… come ho fatto a…? –
Guardò
in basso, verso il suo bassoventre, e infilò una mano sotto la coperta. Era
bagnato. Aveva sentito parlare di episodi del genere in trattati di un medico boemo di nome Freud, ma mai prima d’ora aveva
provato nulla di simile: un sogno così maledettamente realistico.
Non può essere stato un
sogno. Io sono sicuro di essere uscito ieri sera. Sono andato verso il bosco,
ed ho incontrato Harry. Ci dev’essere una spiegazione logica a…
Si
mosse. Sotto di lui c’era qualcosa di secco. Tolse la coperta. I suoi piedi
erano bagnati e c’erano delle foglie appiccicate.
-
Non è stato un sogno – dichiarò, a bocca aperta.
Mentre
s’interrogava ancora su quanto accaduto durante la notte, Louis ripensò ad Harry. Al suo corpo sinuoso e perfetto; Ai suoi occhi
verdi brillanti. Ai suoi capelli ricci e disordinati, che erano una cosa
alquanto bizzarra per i canoni di quell’epoca e soprattutto di quell’istituto.
Si domandava se Umbridge gli avesse mai contestato
una cosa del genere. Probabilmente no, visto che sembrava lo studente più
tranquillo del mondo, anche se dire tranquillo sarebbe
stato troppo prudente: era piuttosto… arrogante.
Sì, arrogante. Già nei primi momenti in cui l’aveva visto, aveva tenuto le mani
nelle tasche della giacca, una cosa vista con malocchio dai perbenisti, ma che
Louis aveva interpretato come un in
questo posto posso fare ciò che voglio, sono immune a qualunque richiamo da
parte dell’ordine costituito. E forse era così.
Oh,
e non dimentichiamoci dell’altro dettaglio fondamentale: quando Stephen l’aveva
beccato a ficcanasare nell’aula di arte, Harry se n’era andato in tutta fretta (che abbia presagito
l’arrivo di Stephen? Aveva pensato Louis in un secondo momento), oltretutto passando per una porta che Stephen aveva dichiarato,
essere chiusa. Com’era stato possibile? Tra le tante possibilità, poteva
esserci quella di un errore di Stephen, che credeva la porta fosse chiusa
quando invece non lo era. Se invece si guardavano altre possibilità, restava
solo il soprannaturale.
Dirigendosi
in fretta verso l’istituto nel sentiero che attraversava il cortile, vide dei
movimenti sospetti sotto il portico del chiostro: il Preside Umbridge, camminando alla svelta, si stava dirigendo alla
chiesa privata dell’Istituto. Insospettito da tale andatura, Louis lo seguì discretamente, nascondendosi dietro a dei cespugli
lì intorno. Giunto al portone, Umbridge entrò. Louis entrò
poco dopo.
All’esterno,
la chiesa era una costruzione in stile gotico, con il rosone centrale di vetri
colorati, che raffigurava Gesù Cristo con la mano destra alzata, nell’atto di
impartire una qualche benedizione. Dentro, constava di una navata centrale e di
due corridoi laterali, più stretti. Nella navata centrale erano disposte, in
file ordinate, le panche che ospitavano gli studenti durante le funzioni della
domenica. Illuminato dalle candele e dal profumo d’incenso, l’ambiente aveva
l’aura di misticità che emanano tutte le chiese. Louis scorse Umbridge andare verso l’altare, mettendosi in ginocchio su
una delle panchine. Per non farsi notare sfruttò gli angoli in ombra della
navata destra, dov’era più vicino a Umbridge. Camminò
rasente al muro, cercando di farsi illuminare il meno possibile. Scelse un
nascondiglio dietro ad un altare poco lontano da dove sedeva il vecchio
Preside. Da lì riusciva a vedere quasi tutto della scena, anche se i
protagonisti gli davano le spalle. Anche l’acustica era abbastanza buona: Louis
poteva sentire Umbridge mentre pregava a bassa voce,
con un’intonazione abbastanza nervosa. Pareva stesse tremando dentro di sé.
Poco
dopo, lo raggiunse il prete della chiesa, un uomo tondo, con gli occhialini e i
capelli corti pettinati a coprirgli la fronte. Prese una sedia e si sedette di
fronte al Preside. Louis aprì bene le orecchie.
-
Sia lodato Gesù Cristo, Ernest. –
-
Sempre e così sia, John. –
-
Come stai? –
-
Abbastanza bene. –
-
Ti ho visto arrivare in fretta dalla finestra di casa mia – esordì il
porporato – è successo qualcosa? –
-
Non c’è giorno che passi all’istituto senza che veda succedere qualcosa, John. –
Ora Louis ne era convinto: la voce di Umbridge
tremava.
-
Che cosa è successo questa volta? –
Louis
ascoltò attentamente che cos’aveva da dire Umbridge.
Questi però non parlò subito. Fece una lunga pausa prima di rispondere.
-
S-sono …sono ancora lì. – disse Umbridge, quasi
tutto d’un fiato, guardandosi intorno per paura che
qualcuno lo sentisse.
Il
reverendo John gli posò una mano sulla spalla,
avvicinandosi un po’ di più al suo orecchio.
-
Chi erano? –
Ancora
un’altra pausa da parte di Umbridge. Louis immaginò
che il Preside stesse scegliendo accuratamente le parole da dire, cercandole
nel calderone di pensieri della sua mente.
-
Era… quel ragazzo. Thomas. –
Il
Reverendo sospirò ampiamente. – Thomas Xavier Rice? –
-
Dannazione, sì! Quello che si gettò dalla finestra. Oh, che Dio mi assista.
–
-
Sei sicuro che non fosse una tua proiezione mentale, Ernest? –
Louis
vide Umbridge che si girava verso il reverendo,
fulminandolo con lo sguardo.
-
No, John, no. Non era una mia proiezione mentale. L’ho visto sul serio. Era lì
fuori. Quando si suicidò, tu non vedesti com’era ridotto. Era atterrato con il
viso sulla pietra. Aveva il volto sfigurato, diamine! – la voce di Umbridge si fece stridula verso le ultime sillabe, a far
trasparire tutto il nervoso che aveva dentro.
-
Era lui. Ne sono sicuro. – Umbridge distolse lo
sguardo, portandosi una mano agli occhi.
-
Ernest – disse il reverendo accarezzandogli la spalla sinistra – Tu
sai che io non ti giudico un visionario, ma penso che questa storia ti stia
logorando. Forse dovresti considerare l’idea di prenderti un periodo di riposo.
–
A
quel punto, Umbridge fece una cosa inaspettata:
afferrò il polso del Reverendo John e lo guardò negli
occhi. Anche se non poteva vederlo in volto, Louis sapeva che Umbridge provava terrore. Terrore misto a disperazione, il
sentimento peggiore che un essere umano possa provare.
-
Un periodo di riposo sarebbe l’anticamera verso il mio allontanamento da questo
istituto, John. Come cazzofai a non capirlo? Tutti quelli che sono venuti qui prima di me, vedevano le stesse cose che vedo io adesso.
Si sono lasciati convincere da altri cialtroni che gli dicevano di prendersi un
periodo di riposo, dopodiché sono stati destituiti senza troppi complimenti.
John, tu non sai cosa vuol dire per me questo istituto – fece una pausa,
continuando a guardare fisso negli occhi il reverendo – questo posto è la
mia vita. Lo dirigo da più di dieci anni, e nessuno me lo porterà via. Nessuno.
Nemmeno Dio Onnipotente in persona. –
- Ernest, bisogna saper riconoscere i
propri limiti – disse a quel punto il reverendo – Tu sei capace di
riconoscere i tuoi limiti? –
-
Io non ho limiti, John. Sappilo. Stare qui mi costa molto caro. Ho bisogno di
un conforto spirituale, perché non posso farci assolutamente nulla. In fondo…
nei dieci comandamenti non ce n’è uno che vieta di non parlare. Non è così? –
-
Non dire falsa testimonianza, Ernest.
È l’ottavo. –
Umbridge si mise a piangere. –
Non è colpa mia, John! Non è colpa mia! Non posso farci niente! Posso solo
stare lì a guardare. –
-
E hai intenzione di stare a guardare ancora per molto, Ernest? –
Mentre
singhiozzava, Umbridge disse delle cose che fecero
ulteriormente gelare il sangue nelle vene di Louis.
-
Almeno fino a che la sua sete di vendetta non si sarà placata. –
-
E quando la sua sete di vendetta si placherà? –
-
Non lo so, John. Non lo so. –
Restarono
in silenzio entrambi, il reverendo e il preside, a guardare uno il pavimento e
l’altro la luce delle candele sull’altare, in un silenzio carico di presagi e
paura, fino a che Umbridge non lo ruppe.
-
Assolvimi, John. Ancora una volta. Ti supplico. –
Ben
consapevole che non sarebbe servito a nulla chiedergli se Umbridge
fosse davvero pentito di ciò che stava facendo, John sospirò ampiamente, sollevando
la mano destra con l’indice e il medio alzato, facendo il segno della croce sul
capo chino del suo fedele.
-Ego teabsolvo, in nomine Patris et Filii et SpiritusSancti. –
-
Così sia, John. Grazie. –
Così,
Umbridge si alzò e Louis lo
seguì con lo sguardo fino al portone d’ingresso, che si aprì e si richiuse. Il
Reverendo John si allontanò verso una porta lì vicino, presumibilmente
tornandosene alla canonica, e Louis sgattaiolò via dal suo nascondiglio. Poco
dopo, si fermò, girandosi verso l’altare. Qui, la croce di legno sembrava
chiamarlo. Si avvicinò lentamente, camminando come in trance, raggiungendo la
navata principale, in mezzo alle due file di panchine. S’inginocchiò riverente,
come un cavaliere che sta per ricevere l’ordinazione da parte della Chiesa.
-
Nostro signore, aiutami a capire cosa succede in questo posto. Fa che non muoia
più nessuno… ma soprattutto… fai finire questa carneficina di studenti, se di
ciò stava parlando Umbridge. Così sia. –
Questo posto è impregnato di
malvagità e dolore, figliolo. Soltanto una folgore di luce potrebbe mondarlo
dai peccati che vi sono stati commessi e che si commetteranno.
Louis
avvertì un brivido di freddo lungo la schiena. Aveva sentito distintamente
quella voce, non se l’era immaginata. Era stata come un sussurro che proveniva
dall’alto. Guardò in alto, ma non vide nessuno. Vide solo le volute della
chiesa che s’incrociavano a formare la volta. Intorno a sé non c’era più
nessuno. Era solo. Completamente solo.
Continuando
a fissare la croce sull’altare, si alzò e si allontanò alla svelta, uscendo
dalla chiesa, chiedendo mentalmente aiuto a Dio su come fare.
Con
la testa piena della conversazione che aveva sentito, la domanda di Louis ora era
Cosa
faccio?
La
strada verso il ritorno ai dormitori era il sentiero che aveva percorso prima,
con il terreno leggermente molle a causa delle piogge che si erano succedute
nei giorni precedenti. Dunque, ora aveva qualche
elemento in più: gli studenti morti che si aggiravano per i corridoi della
scuola sotto forma di spettri, Stephen che nascondeva un delitto, e il preside Umbridge che sapeva qualcosa e non voleva parlare, timoroso
di perdere il posto.
Camminava
barcollando leggermente, nel pensiero però di darsi un tono quando fosse
arrivato nei pressi dei dormitori: non voleva che altri lo vedessero in quelle
condizioni.
Improvvisamente,
la scuola con i suoi mattoni rossi gli tolse il fiato: con quei lunghi corridoi
dalle alte volte, gli specchi che riflettevano la poca luce che passava, le
porte di legno che nascondevano segreti. Il pensiero gli
mozzò il fiato.
Devo… devo
andarmene da qui. Sì. Faccio la valigia e me la squaglio. Sarà una fuga
all’inglese, senza lasciare alcuna traccia.
Armato
di questo pensiero, Louis pensò di tornare in camera sua, fare i bagagli e
andarsene con il primo treno per Londra. Avanzò convinto, ma una volta mosso il
primo passo, si bloccò.
Certo, fai pure, gli
disse la voce di se stesso dal profondo della mente, poi quando al prossimo colloquio di lavoro per diventare insegnante ti
chiederanno perché sei scappato da Watkins, tu cosa gli risponderai? “Vede
signore, avevo paura dei fantasmi e sono scappato via”? Che figura ci faresti?
No, amico mio, è meglio se ci pensi bene prima di fare una stupidaggine del
genere.
-
Ma non so che diavolo fare! – piagnucolò Louis,
appoggiandosi ad un albero.
Scosse
la testa mestamente, non sapendo davvero cosa fare. Si guardò intorno, come un
bambino che cerca aiuto. Più che una persona, vide del fumo arrivare da
lontano, dal paesino di ChestnutCastle.
-
Oh, signore. Dammi la forza. – disse, e s’incamminò verso il sentiero che
portava fuori dal circondario dell’istituto.
*****
A
ChestnutCastle c’era una taverna, la “Locanda del Lupo Nero”. Louis vi entrò quasi per caso, non sapendo bene dove altro andare
a pensare.
Come
fu entrato, fu investito dall’aria pesante di fumo e dall’odore dei liquori.
Gli avventori là erano pochi. Qualche spazzacamini con
il suo giovane aiutante che si riposava dopo la giornata faticosa, un cocchiere
che si rinfrancava lo spirito tra una corsa e l’altra e…
…Una
persona che aveva già visto. Un ometto grassoccio, dai
capelli bianchi, con un cappello sulla testa e un cappotto con lo stemma
dell’Istituto Watkins cucito sul braccio. L’ometto era seduto da solo a
un tavolo, davanti ad una brocca e un bicchiere di vino. Guardava il bicchiere
come se stesse aspettando che da esso saltasse fuori qualcosa. Louis lo guardò ancora per un attimo, quando fu distolto dai suoi
pensieri dal taverniere.
-
Ehi giovanotto – esordì il taverniere, un omone alto e dalle spalle
larghe con i baffi neri – Non sei un po’ troppo giovane per entrare in un posto come questo? –
Louis
fece per aprire bocca, quando ad un tratto, udì una
voce.
-
Lascialo in pace,McMutton.
Altrimenti ci rimetto il posto. –
La
voce che aveva parlato era quella dell’ometto coi
capelli bianchi seduto al tavolo da solo. Guardava ancora il suo bicchiere,
segno che non si era girato nemmeno quando il taverniere aveva salutato Louis.
-
Ah ah – rise il
taverniere – Questo giovanotto è tuo amico? –
-
E’ uno di quelli che mi pagano lo stipendio – ribatté l’ometto.
-
Accontentalo,McMutton.
– lo incalzò l’ometto dai capelli bianchi,
ancora senza staccare gli occhi dal suo bicchiere di vino.
-
Come vuoi. Sarai servito presto. Jenna! Un tè al signorino! –
Visto che ormai era lì, gli
sembrò corretto avvicinarsi e ringraziare l’uomo.
-
Buongiorno – esordì quando fu accanto al tavolo dell’uomo –
Permettete una parola? –
-
Le parole costano, figliolo – rispose l’uomo, in quell’atteggiamento
arrogante di non guardare mai fuori dal campo visivo del suo bicchiere.
Louis
tirò fuori il portafogli e mise una sterlina sotto gli occhi dell’uomo, che,
dopo qualche secondo, la intascò e alzò finalmente lo
sguardo. I suoi occhi erano castani e porcini, ed il
suo sguardo era sveglio.
-
Bene. Che cosa vuoi? –
-
Mi chiamo… -
-
So già come ti chiami, non sono nato ieri. Sei Louis Tomlinson,
il nuovo professore di letteratura giù al Watkins. –
-
…Esattamente. E voi siete…? –
-
Jedediah Donovan. Sono il custode di quel postribolo
imperiale maschile di nome Jonathan Watkins. –
-
Come lo avete chiamato? –
-
Per dio, giovanotto. Siediti, o mi toccherà alzare la voce se non mi senti.
–
Louis
si sedette di fronte al vecchio, che sogghignava divertito.
-
Sbaglio o avete usato la parola “Postribolo” riferendovi al Watkins? –
-
Ah, non farci caso. Ogni tanto mi scappa qualche parola che non dovrei dire,
porca puttana. Ecco, l’ho fatto di nuovo, accidenti. –
-
Non datevene pensiero. La cosa non mi urta. – ribatté Louis, memore di
quando il suo primo padre bestemmiava a ruota libera con lui presente.
-
Già. Hai notato come sono tutti impegnati a farsi gli affari propri, in quel
posto? Sembra che non ci sia posto migliore dove ci si possa divertire. –
-
Che cosa intendete? –
-
Intendo che non sai in che posto sei finito,
giovanotto. –
Per
la verità Louis lo sapeva. Lo aveva imparato giusto quella mattina quando aveva
sentito preside e cappellano parlare di come tutte le disgrazie di quella
scuola fossero a conoscenza di entrambi e di come nessuno
faceva niente per evitarle. Louis sospirò, annuendo.
-
E’ meglio che stai attento – disse Jedediah Donovan – Ho visto
troppe cose strane in quel posto, e non saresti il primo che fa le valigie e
scappa via. –
-
Veramente avevo già intenzione di farlo. – rispose Louis, guardandosi
intorno come un ladro.
-
Ah sì? Allora non c’è altra persona sulla faccia della terra che ti possa dire quanto fai bene più del sottoscritto, amico. –
Louis
guardò il vecchio che calò un sorso di vino dal bicchiere con la rapidità di un
falco che acchiappa un topolino in mezzo all’erba. Poi, con il bicchiere vuoto
in mano, tirò fuori la sterlina che gli aveva dato Louis e urlò al taverniere
– Ehi, McMutton! Vieni qui
a prenderti questa, se hai il coraggio! –
Il
taverniere arrivò e acchiappò la sterlina dalla mano di Donovan, il quale
sorrideva sornione.
-
Vedo che ogni tanto paghi i conti arretrati, vecchio rompiscatole. – lo apostrofò il taverniere ficcandosi la moneta nella tasca
del grembiule.
-
Certo che sì. Tu intanto portami un’altra brocca di questo – gli disse,
porgendogli la brocca vuota.
-
In arrivo. E anche il tuo tè è in arrivo, giovanotto. –
Louis
tornò a guardare il vecchio custode della scuola.
-
Sentite, Donovan – esordì, e il vecchio si girò
a guardarlo. – Posso offrirvi qualcosa di più di una sterlina, se mi
raccontate quel che sapete riguardo all’istituto. –
-
Ah sì? E quanto vorresti darmi? –
-
Vi offro dieci sterline. Dieci sterline per raccontarmi tutto ciò che sapete. –
Senza
neanche pensarci due volte, il vecchio tese la mano e Louis vi mise sopra dieci
monete da una sterlina.
-
Sapevo che mi saresti stato simpatico fin da subito, damerino – disse il
vecchio – Bene, se vuoi sapere qualcosa di interessante,
apri bene le orecchie… -
-
Sì signore. –
Il
taverniere portò dunque il vino. Servitosi un bicchiere, Donovan ne bevve un
sorso e incominciò a parlare. Louis lo ascoltò attentamente.
…nel 1866 avevo ventisei anni
e una famiglia da mantenere. Vivevamo a ShoreditchStreet, vicino alla fabbrica di scarpe. Mio padre aveva
lavorato là finché non era morto, appena un anno prima che nascesse Cecil, il
mio primogenito. Io avevo lavorato insieme a lui per
dieci anni, in quella dannata fabbrica a mettere insieme pezzi con cui fare le
scarpe. Era un brav’uomo, mio padre. Posso dire che se la intendeva molto con
Mister Bloom, il padrone della fabbrica. Perché ti sto dicendo ciò, figliolo?
Beh, perché è un po’ grazie a lui se io adesso sono lì al Watkins.
Mio padre era morto cadendo
in una vasca per il trattamento delle pelli. Non ti dico com’era ridotto il suo
corpo dopo il bagno in quei liquami chimici. Mister Bloom rimase parecchio
sconvolto da tale improvviso evento: aveva appena perso il suo migliore
operaio, e non l’avrebbe mai pianto abbastanza.
Mister Bloom (che Nostro
Signore l’abbia sempre in gloria, ovunque egli sia in questo momento), era una
persona con il senso della giustizia. Non so se suo figlio che è subentrato
alla dirigenza della fabbrica sia allo stesso livello di suo padre, ma lui… lui
era un uomo che sapeva premiare il merito. E mio padre era da
tempo nei suoi progetti.
Un giorno mi
chiamò nel suo ufficio. “Dobbiamo parlare del tuo futuro, giovanotto”, mi
disse, con aria grave, tanto che io provai addirittura un po’ di paura. Credevo
di aver fatto qualcosa che non andava bene, e che il buon Mister Bloom stesse
per mettermi alla porta.
In un certo senso mi mise
alla porta, ma non perché avevo fatto qualcosa di male.
“Sai, Jed”
mi disse con quella sua voce tranquilla “Prima che tuo
padre morisse, io avevo in mente per lui uno scatto di carriera. Volevo farlo
diventare capo reparto. Tuo padre aveva una capacità non indifferente nell’organizzare
il suo lavoro e quello dei colleghi. Purtroppo, come sappiamo tutti e due, lui ora non c’è più, ed io non posso dare a te
il posto che avevo in mente per lui. Tu sei un bravo ragazzo, Jed, ma non hai la stessa testa di tuo padre.”
Al pensiero che stava per
licenziarmi e che avrei dovuto arrangiarmi per sfamare i miei quattro figli e
mia moglie, mi venne un brivido. Ma mi passò
immediatamente quando ascoltai il resto del discorso.
“C’è questo mio carissimo
amico” mi fa, abbassando la voce come se stesse per rivelarmi un segreto “che
fa il preside presso un istituto di avviamento universitario, l’Istituto
maschile Jonathan Watkins… Lo conosci?”
Capirai. Ragazzo, io a
quell’epoca non sapevo cosa c’era al di fuori del ridente quartiere diShoreditch, quindi buttai lì un
“sì” molto stentato.
“Bene. Questo mio amico dice che ha bisogno di
un custode per la scuola. È un lavoro di tutto riposo, e soprattutto ben
pagato. E inoltre, avrai una casa tutta tua nei locali
dei dormitori. Che ne dici?”
Gli dissi che ne avrei
parlato con mia moglie. Lei, a ventidue anni e con un altro figlio in grembo,
non aveva altro a cui pensare che a come mettere
insieme il pranzo con la cena e a pagare l’affitto della mansarda che
occupavamo. Quindi, senza pensarci due volte, mi disse
di accettare.
Così, un giorno di primavera
ci trasferimmo lì al Jonathan Watkins. All’inizio ci
parve un sogno che si realizzava. Eravamo abituati a quei posti bui e sudici
che trovi nei bassifondi di Londra, mentre dove eravamo ora, c’erano solo
pavimenti puliti e muri immacolati. Quadri, libri… aule. E cibo. Finalmente mia
moglie non avrebbe più dovuto preoccuparsi su come
mettere insieme il pranzo con la cena.
Ma io non sapevo che da lì a poco sarei
rimasto solo.
Il nascituro che aveva mia moglie
in grembo nacque morto. E si portò via anche mia moglie, poveretta, quando lo
diede alla luce. Entrambi volarono in cielo lo stesso giorno, ed io rimasi solo
a badare agli altri quattro.
Ah, figliolo. Tu non sai che
dolore mi fa il cuore ogni volta che ripenso a quando i miei figli se ne
andarono… uno per uno.
Cecil, il mio primogenito,
aveva l’abitudine di andare a passeggiare nel bosco quando non aveva niente da
fare. Ogni tanto portava anche i suoi tre fratellini, verso quei sentieri
scoscesi che portano alle colline. Io mi fidavo di Cecil, e sapevo che non era
uno sprovveduto… ma purtroppo un giorno…
…Un giorno lo vidi in
lontananza. Camminava barcollando, come se si fosse preso una sbornia di quelle
forti. Io corsi da lui e lo guardai. Aveva gli occhi vitrei. Sulla sua gamba,
due circoletti dai quali usciva del sangue. Era stato morso da una vipera.
Mi cadde fra le braccia, con
sempre meno energie. Non ebbi nemmeno il tempo di portarlo all’infermeria
dell’istituto, perché era già morto.
Patrick e Joseph invece
ebbero la sorte più tragica. Un padre che fa anche il custode è spesso
indaffarato con i suoi mestieri. In quei giorni ero impegnato a pulire tutte le
finestre dell’istituto. Qualche volta facevo anche gli straordinari, per
cercare di finire prima. Patrick e Joseph erano rimasti in casa. Avevo
tassativamente proibito loro di uscire, se non quando fossi arrivato io. Ma loro non mi dettero ascolto, e uscirono ugualmente. S’incamminarono
verso il sentiero che porta al laghetto, dove trovarono la morte ad attenderli.
Caddero nel laghetto (non so
se tutti e due nello stesso momento o se uno era
caduto e l’altro aveva tentato di salvarlo), e morirono annegati. Li trovarono
due studenti che passavano di là.
L’ultima a morire fu Elizabeth, la mia unica figlia femmina. Se per gli altri
tre fu un incidente, per mia figlia ebbi l’impressione che non lo fosse.
Stavo riparando una
mattonella spostata nel refettorio, quando udii uno strillo che lacerò il
silenzio. Di solito proibivo tassativamente ai miei figli di salire le scale
fino ai piani superiori: avevo paura che potessero cadere e farsi male, ma da
quando udii quel grido, non ebbi più a preoccuparmene.
Corsi verso l’atrio, da dove
era venuto l’urlo, e lì trovai mia figlia riversa in
una pozza di sangue, con la faccia che toccava il pavimento. Guardai in alto, e
dal parapetto del terzo piano, mi parve di scorgere un’ombra che si allontanava
in fretta. Corsi su per le scale, ma arrivato al terzo piano non trovai
nessuno.
Così, ero rimasto solo.
Passarono gli anni. Tra una
riparazione e l’altra, la pulizia degli ambienti e quant’altro, passarono vent’anni.
Vent’anni durante i quali di
orrori ne vidi tanti, non fosse bastato l’orrore di
perdere una moglie e cinque figli.
Sai figliolo, io ho sempre
pensato che i ricchi avessero sempre tutto, che potessero
permettersi tutto quello che volevano, con un solo schiocco di dita. E pensavo
che gente del genere non dovesse avere problemi. Mi bastava pensare al signor
Bloom, che era anche lui ricco (nonostante non fosse un aristocratico), e che
ogni tanto gli piaceva bere un bicchiere di troppo. Ma credimi figliolo… che
Satana tentatore mi bruci il culo se capisco perché
certi uomini non preferiscono il bere ad altri vizietti parecchio discutibili.
C’erano questi uomini, qui.
Professori ai quali ogni tanto piaceva farsela coi
loro allievi. Avevano delle stanze a disposizione – parecchie stanze, nelle quali ogni tanto mi capitava di sbirciare. E,
diamine, cosa non vedevano questi occhi!
Ragazzi di appena diciotto
anni che si facevano sodomizzare dagli insegnanti, oppure il contrario, e poi
che uscivano piangendo perché non avevano avuto altro modo per alzare la loro
media dei voti…
Un giorno, uno di questi mi beccò a guardare. Ti dirò la
verità, non è che stessi proprio guardando. Ormai sapevo che cosa succedeva
sotto ai miei occhi, ma visto che non potevo farci
nulla e che il mio posto di custode era più prezioso di qualunque integrità
morale, tiravo dritto con la mia scopa e mi facevo i fatti miei.
Ma questo Denker
non lo sapeva. Credeva che avrei spifferato in giro che gli piaceva farselo
ciucciare dai giovani uomini che adescava, perciò pensò di comprare il mio
silenzio.
Così, ogni volta che lui era
in giro con qualche ragazzino e io ero lì con la scopa
in mano, anche se stavo guardando il pavimento o fuori dalla finestra, lui
arrivava lì, mi metteva in mano la banconota da dieci sterline e mi diceva
“Confido nella vostra discrezione, Signor Donovan.”
“Certo”, pensavo io, “e io confido che continuerai a farmi queste gentili offerte
ancora per tanto tempo.”
Conosco quell’espressione,
giovanotto. Pensi che io sia un cane, un avido spregevole individuo che non sa
far altro che lucrare sulla pelle di poveri ragazzi, non è così? Se lo pensi fai pure, non me ne importa niente. Alla mia veneranda
età, dopo aver perso moglie e figli, avere qualche soldo in più, se pure a
farne le spese è qualche studentello, penso che sia un risarcimento più che
equo. Non…
Se consoco
Elijah Pickford?
Un po’ di calma, ci stavo
arrivando.
Nel 1889 io ero abbastanza
ricco da potermi permettere una bevuta ogni sera, ma non certo una casa tutta
per me dove vivere di rendita, non so se mi spiego.
In una scuola, ogni due anni
si rinnovano i volti. Per me erano tutti quanti uguali, e lo sono ancora. È come
stare seduti una stazione mentre si aspetta il treno. Vedi tanta gente che
viene e che va, ma non conosci nulla sul loro conto, stai semplicemente lì ad
aspettare.
Un giorno, però, feci
conoscenza con uno di loro. Era l’autunno 1889.
Il ragazzo se ne stava lì
seduto a frignare come un vitello. Gli porsi un fazzoletto pulito e lo incitai
a parlare.
“Mi chiamo Elijah Pickford”
Da allora parlammo parecchie
volte, io ed il ragazzo. Non si trovava bene a scuola,
i compagni lo avevano preso di mira, e ogni tanto qualche professore di cui ti
dicevo poco fa, si divertiva con lui. Era figlio di non ricordo quale contessa
o baronessa, la quale era stata internata in manicomio per stregoneria.
Lui si trovava al Watkins per
decisione del Tribunale, non avendo altri posti dove andare.
I professori erano molto
severi con lui (la prima volta che ci parlammo era stato
sbattuto fuori dall’aula), ed era parecchio triste. In un certo senso mi faceva
pena. E in un cert’altro senso, lo sentivo come il figlio che non avevo avuto
l’opportunità di crescere… per questo cercavo di consolarlo come potevo.
Di lui ricordo poco, salvo
che portava sempre al collo una specie di ciondolo d’argento. Doveva essere un
portaritratti, perché ogni tanto lo vedevo che lo guardava e poi lo richiudeva.
Questo è un particolare che
ricordo, perché non ce l’aveva più il giorno che fu
trovato morto impiccato al ballatoio della biblioteca, il giorno dell’incendio
che per poco non distrusse il mio unico posto di lavoro.
Erano circa le tre del
mattino, quando fui svegliato da un’orda urlante di studenti. Erano tutti
affacciati a guardare l’istituto dalle finestre: era illuminato di quella luce
giallastra-arancione che veniva da sotto, dal seminterrato.
Mi precipitai immediatamente
all’istituto, venendo investito dalla coltre di fumo. Lì vicino c’erano i bagni
e un bel po’ di secchi d’acqua. Io e alcuni professori facemmo la catena umana
per riempire i secchi e gettare l’acqua sui focolai, in modo da spegnere
l’incendio.
Non so quale santo ci aiutò da lassù, ma in ogni caso riuscimmo a spegnere l’incendio.
Purtroppo nel seminterrato erano custoditi i vecchi documenti dell’istituto, e
una buona parte di essi finì distrutta dalle fiamme. L’unica vittima di quella
notte fu Elijah Pickford, che fu trovato impiccato in
biblioteca, accanto ad un barattolo di vetro contenente uno strano liquido.
Scotland Yard attribuì a lui l’incendio, e chiuse frettolosamente il caso.
Da quel giorno, nonostante
sono contento che non l’abbia mai fatto, mi chiedo sempre: ma perché appiccare
l’incendio prima nel seminterrato, poi piazzare un ordigno incendiario in
refettorio e infine andarsene in biblioteca ad
impiccarsi? Credimi figliolo, non lo capirò mai.
Per cinque anni da quella
tragica notte, tutto andò bene, fino a quando incominciarono le morti per
suicidio.
Non conoscevo nessuno di quei
poveri ragazzi, se non di vista, ma puoi credermi sulla parola, figliolo, non
sembravano per niente dei ragazzi in condizioni di suicidarsi. I presidi che
c’erano allora furono destituiti immediatamente, ti dico immediatamente perché.
La scuola è retta da un
preside. Nel nostro caso è quel bavoso leccapiedi di Ernest Umbridge.
Il nostro Umbridge deve rendere conto del suo operato ad un sovrintendente all’istruzione, il quale
riferisce direttamente alla Camera dei Lord sul funzionamento degli istituti,
mi segui, ragazzo?
Bene. Vedo che sei sveglio.
Allora, come puoi immaginare fare il preside è un lavoro di grande
responsabilità, pagato profumatamente. Però è un mestiere, come tutti i mestieri, dove ci vuole cervello se vuoi continuare a farlo.
Ed Ernest Umbridge di cervello ne ha da vendere. Da
vendere caro.
Non certo come i suoi
colleghi che vent’anni fa l’hanno preceduto.
Circa una ventina d’anni fa, mi capitò di ascoltare una conversazione tra il preside di
allora, un certo professor Brown, ed il
Sovrintendente. Il nostro reggente scolastico aveva gli occhi fuori dalle
orbite, i capelli tutti spettinati e il fiato corto. Sembrava che avesse visto
la Regina Vittoria girare a sottane alzate a mostrare la passera a tutto
l’istituto.
Parlava con voce concitata, e
sembrava non sapesse nemmeno lui cosa stesse dicendo. Udii qualcosa a proposito
di “fantasmi” e “ragazzi suicidati”. Non vidi bene l’espressione del
sovrintendente, ma penso non fosse delle più allegre. Ci fu un’altra
mezz’oretta di chiacchiere dove il preside (oh, me
tapino) parlava e il sovrintendente annuiva, finché quest’ultimo se ne andò per
la sua strada salutando il preside.
Neanche due giorni dopo, il
preside rimise via le sue cose e se ne andò.
Come avevano fatto altri
quattro suoi colleghi.
Poi arrivò questo damerino
qui. Si chiamava Ernest Umbridge, e a guardarlo da
fuori non gli avresti dato due scellini. Se lo conoscevi meglio, capivi che era
più dritto di una freccia. Un uomo che faceva perfettamente gli interessi di
una scuola del Regno.
Io stesso ci ho avuto a che
fare, non molti mesi fa.
Come forse avrai già
imparato, ragazzo, tu sei stato assunto per tappare il buco lasciato da quel
maiale di Denker. Sì, quello che si sollazzava coi ragazzini e allungava un deca a me per mantenere la mia
discrezione.
Be’, mi credi se ti dico che io ho visto Denker
che, impiccato ad una trave del solaio, se lo menava tranquillamente
guardandomi negli occhi?
Ci vuole parecchio per
spaventare un vecchio come me, figliolo, ma puoi credermi sulla parola: in quel
momento ho avuto una fifa blu.
Sono corso dall’Umbridge e gli ho spiegato quanto avevo visto. Be’, vuoi
sapere come mi ha risposto?
“Signor Donovan, posso
chiedervi da quanto tempo non prendete un po’ di ferie?”
Io gli dico che non sono
impazzito, e lui mi risponde, tranquillo e beato:
“Il problema di molte
persone, signor Donovan, è che credono di vedere ciò che non c’è. E voi sapete
che fine fanno le persone che vedono cose che non ci
sono? Ve lo dico io: vanno a farsi un periodo di ferie in manicomio. Per cui, signor Donovan, vi sarei grato se consideraste bene
ciò che dite di aver visto. Potete andare, ora.”
Quel fottuto bastardo. Ancora
non so cosa mi ha trattenuto dal mollargli un pugno lì per lì.
Alla
fine del racconto, Donovan alzò lo sguardo e lo guardò
con quegli occhi chiari pieni di astio. Louis aveva ascoltato tutto quanto con
la pelle d’oca.
-
Ho capito. –
-
Credo che un po’ tutte le scuole del regno abbiano qualche cosa da nascondere
– disse poi il custode – ma credimi, giovanotto… il Watkins non ha
solo scheletri nell’armadio. Ha dei cadaveri in putrefazione che si stanno
risvegliando. -
-
Che cosa intendete dire? –
-
Intendo dire che quel posto è pericoloso. E se io fossi in te, giovanotto,
farei la mia valigia e me ne andrei il più lontano possibile. –
*****
Louis
non tornò subito all’istituto. mosso da non sapeva
nemmeno lui quali intenzioni, prese una carrozza da ChestnutCastle, e disse al conducente di andare a Londra.
*****
Sceso
dalla carrozza, Louis girovagò senza una meta precisa per le vie della città,
guardandosi intorno. Intorno a lui, tante persone ben vestite, che vagavano
come anime in pena.
Il
cielo grigio piombo minacciava pioggia, ancora una volta, come se già non fosse
bastata tutta quella dei mesi precedenti. Faceva solo più freddo. Passeggiando, Louis si ritrovò di fronte alla vetrina di un
negozio di orologi. C. H.
Ziegler, diceva l’insegna, Orologi
svizzeri nuovi e usati.
Entrò.
La
campanella posta sopra l’uscio tintinnò con fare allegro quando Louis entrò, e
tintinnò una seconda volta quando Louis chiuse la porta.
Dentro,
si ritrovò immerso in una miriade di orologi, di tutti i tipi. Quadranti che
scandivano ore e minuti, e soprattutto secondi, in un concerto di ticchettii
quasi inebriante. Ce n’erano dappertutto: appesi alle pareti,
nelle vetrine interne al negozio, negli scaffali… e di tutte le misure: grandi,
piccoli, piccolissimi. Louis si guardò intorno con la sensazione strana
di non trovarsi più nella realtà, bensì in un sogno. Non era più lui, era come
in un momento di passaggio fra il sonno e la veglia, quel momento dove ti
sembra che le cose più assurde siano reali e invece non lo sono.
Si
soffermò in particolare sugli orologi da taschino. Guardò con attenzione quegli
aggeggi che luccicavano dalla loro teca… erano tutti con lo sportellino aperto,
e segnavano tutti la stessa ora: le Undici e quarantacinque.
Sollevò
un sopracciglio perplesso. Guardò anche gli altri orologi, per caso, e vide che
segnavano anch’essi lo stesso orario.
Una
miriade di orologi che segnavano tutti lo stesso orario e che scandivano gli
stessi secondi.
Incredibile… pensò
dentro di sé, guardando tutti gli orologi che si inerpicavano
su per l’alto soffitto, come a guardarlo dall’alto verso il basso. A Louis
venne in mente un passo di un autore che non ricordava, ma che faceva
pressappoco così: Il tempo è al di sopra di ogni cosa, di ogni essere umano. Mai
aforisma fu più vero, pensò Louis, mentre si trovava in quel negozio.
-
Buongiorno – salutò un omino occhialuto dai capelli bianchi e i baffoni
dello stesso colore. – Posso esservi utile, signore? –
L’ometto
occhialuto portava una camicia pulitissima e dal colletto azzimato circondato
da un farfallino rosso, oltre ad un paio di pantaloni di peltro tenuti su da bretelle
nere. Louis non capì bene cosa gli aveva chiesto, ma gli
sembrò chiara una sola cosa: che l’uomo non era inglese.
-
Ehm, io… - strappato dall’incantesimo dei ticchettii, Louis aveva perso il filo
dei suoi pensieri.
-
Sì, lo so – cominciò l’uomo, come se Louis gli avesse chiesto qualcosa
– Stavate per dire che il mio negozio è come una specie di … ehm… come si
dice… -
-
…Incantesimo? –
-
Ja! Ehm, volevo dire sì, esattamente.
Incantesimo. – disse l’uomo, sorridendogli benevolo. A quel punto Louis
non ebbe più dubbi. L’uomo doveva essere tedesco. O svizzero.
-
Sì, è vero. Molto bello, le mie congratulazioni, signor…? –
-
Ziegler – rispose l’uomo – Karl… ehm… scusate… Charles Hans
Ziegler. È il mio nome. Posso fare qualcosa per voi, mio giovane amico? –
- Ehm… sì. Io volevo … volevo
sapere che giorno è oggi. –
L’omino
occhialuto spalancò gli occhi, come se Louis avesse detto un’eresia. Lo guardò per un bel po’ di tempo, finché non disse
-
Capperi, giovanotto! Questo è grave! Molto grave! Avete perso la cognizione del
tempo! –
Signor Ziegler,
avrebbe voluto dirgli Louis, Provate voi
a mantenere la cognizione del tempo venendo da un istituto dove succedono cose
incredibili, dove avete appena imparato che c’è un preside pazzo e dei colleghi
assassini di studenti e studenti fantasma che si aggirano
nelle stanze. Pensereste che sono così sbadato?
-
Venite con me – lo invitò Ziegler, sollevando
una mano verso l’alto a pugno chiuso e incitandolo con l’indice a seguirlo.
Lo
condusse in uno stanzino lungo dove c’erano altri orologi (quel posto era peggio di un magazzino!), con la differenza che questi
avevano, oltre all’ora, anche altre indicazioni. Ce n’era
uno con delle lune disegnate ed un altro con sopra i segni dello zodiaco, con
l’incisione di ogni periodo in cui cadevano. Un altro lì accanto era simile,
solo che portava una specie di visore che indicava il segno del Sagittario. Quindi siamo in Dicembre, pensò Louis.
-
Ecco – disse l’ometto, mostrandogli un orologio da taschino, tenendolo
per la catenina – Questo è il mio gioiello più prezioso. Un Ziegler 501, di ottima fattura. Guardate il quadrante,
giovanotto. Vedete? Oltre all’ora indica anche giorno, mese ed
anno in cui ci troviamo. –
Louis
lesse l’ora. Mezzogiorno sarebbe arrivato da lì a dieci minuti, ed anche la
data. 2 Dicembre 1910.
-
Aspettate – disse l’uomo – torniamo di là, ve lo faccio vedere
meglio. –
Tornati
nella saletta principale del negozio, il vecchietto armeggiò un po’ con la rotella
di carica, e a quel punto sorrise come un bambino a Louis, invitandolo ad
ascoltare.
-
Sentite. Sentite che bel ticchettio limpido. –
A
Louis pareva il normalissimo ticchettio meccanico di un orologio, ma non disse
nulla.
-
Sentito che bello? Con questo non perderete più la cognizione del tempo. Vi
piace? –
-
E’… è molto bello, signor Ziegler, ma… -
-
Sì? Cosa? –
Louis
stava per ribattere che non gli interessava comprare nulla, ma improvvisamente
il suo sguardo rimase fisso su di un orologio in particolare. Era una specie di
ciondolo d’argento, chiuso. Aveva la forma di una specie di medaglietta. Si
allontanò da Ziegler e lo guardò meglio da vicino.
-
Questo – disse Louis, quasi meccanicamente – Questo, che orologio
è? –
Il
vecchietto guardò la vetrina, cercando di capire quale orologio stesse
indicando Louis.
-
Oh, quello! – esclamò, aprendo il cassetto della vetrina e tirandolo
fuori – Questo è un orologio usato, giovanotto. Me lo
portò un signore che mi disse di essere stato un insegnante. –
Louis
avvertì un brivido lungo la schiena.
Senza
pensarci due volte, prese l’orologio e l’aprì.
-
Lo prendo – disse a quel punto Louis.
L’omino
sorrise e si avvicinò al registratore di cassa. Mentre stava per battere il
prezzo, si fermò. Guardò Louis con sguardo spaventato, come se stesse per
succedere qualcosa.
-
Tappatevi le orecchie! –
-
Cosa…? E perché? –
-
Fatelo!!!Meingott!!!– esclamò
l’uomo, tappandosele a sua volta.
Improvvisamente,
tutti gli orologi del negozio si misero a suonare. E fu un concerto di Drrrrrriiiiiin, Din, don, dan, Cucù! Cucù! Deng, deng, deng! Don, don, don! Tutti gli
orologi erano perfettamente sincronizzati, e arrivato il mezzogiorno, si erano messi a suonare tutti insieme. Con gli indici ficcati
in ciascun orecchio, Louis osservò gli orologi a cucù che suonavano con
l’uccellino che saltava fuori dalla finestrella, i pendoli che suonavano con il
loro tono grave, e gli orologi nella campana di vetro che suonavano il loro
dolce “Ding, ding, ding!”. Il tutto durò circa un minuto, che a Louis
parve un’eternità. Quando smisero di suonare, Louis
guardò l’uomo. Sorrideva.
-
Ah, i miei orologi… - disse, con lo sguardo trasognato di un padre che guarda i
propri figli giocare - …non potrei separarmene per nulla al mondo. –
-
Impressionante – rispose Louis, sorridendo a sua volta.
L’omino
registrò la transazione e il campanello del registratore di cassa tintinnò,
quindi porse a Louis l’orologio che aveva scelto.
*****
Fuori
dal negozio, Louis esaminò l’orologio che aveva appena acquistato. Lo
sportellino, leggermente concavo all’apertura, conteneva un vetrino rimovibile
con l’immagine di una donna. Portava i capelli raccolti, e guardava verso
l’osservatore con sguardo benevolo e dolce. Louis fece un sorriso, mosso a
tenerezza da tanta bontà. Poi spostò gli occhi sul quadrante dell’orologio. La
prima cosa che lo colpì fu che i numeri erano espressi
in cifre romane, non in cifre arabe. Ma ciò che lo
colpì di più fu che…
…le
lancette erano ferme.
La
lancetta più grande era ferma sul valore XII, mentre quella più piccola sul valore
III. Le tre. Com’era possibile? L’omino teneva sincronizzati tutti i suoi
orologi, tanto che avevano cantato tutti insieme
soltanto cinque minuti prima… e questo non si muoveva? Fece per tornare
indietro e chiedere spiegazioni al signor Ziegler, ma pensandoci meglio cambiò idea e tirò dritto per la sua strada.
*****
Girovagò
per quasi tre ore. La città di Londra non gli era mai piaciuta più di tanto,
eppure quel giorno sentiva che non voleva essere in altro posto che nella city.
Tornare all’istituto era diventata per lui una domanda lasciata in sospeso, alla
quale prima o poi avrebbe dovuto rispondere. Pensò che
avrebbe voluto sentire i suoi genitori. Purtroppo però sapeva bene che suo
padre, contrario alle nuove tecnologie, non si era fatto installare il telefono
in casa. Ciò non sarebbe stato possibile nemmeno volendo, dal
momento che la loro villa era troppo isolata, per cui non era ancora
stata raggiunta dai collegamenti telefonici. L’unico punto con il telefono che c’era,
lì da dove veniva, era un emporio con annessa taverna. Ma
né suo padre né sua madre avrebbero mai accettato di recarsi in quel posto per
telefonare, lo sapeva benissimo.
Eppure
la questione era troppo importante. Lasciare l’istituto o provare a risolvere
questa faccenda? La prima soluzione sarebbe significato fare una brutta figura
nei confronti della comunità docente inglese: una volta saputo che il giovane
Louis William Tomlinson aveva lasciato
silenziosamente il posto dove lavorava, non avrebbe più avuto speranze di
venire assunto da nessun’altra parte. Forse avrebbe potuto
campare scrivendo libri, o di rendita, ma era una prospettiva che non gli
piaceva. Doveva riuscire a tutti i costi ad avviare il suo progetto, quello
dell’insegnamento per tutti. Ma come poteva farlo se
non avrebbe più potuto insegnare?
Restava
dunque la seconda soluzione. Provare a risolvere qualcosa nell’istituto. La
soluzione numero due presentava una domanda fondamentale.
Come?
Non
lo sapeva. In quel momento desiderò che ci fosse Harry a consolarlo. Anche se
il ragazzo non gli era fondamentalmente molto
simpatico, pensò a lui come a una consolazione dagli affanni, visto come
l’aveva consolato quella notte sul sepolcro. Che cosa devo fare, Harry? Ti prego, aiutami.
Camminando
ancora, vide che era arrivato circa a Nord di Londra. Il freddo cominciava a
farsi pungente, tanto che dovette sollevarsi il bavero del cappotto per
contrastare i principi di un assideramento. Gli sarebbe servito un posto, dove
fermarsi a pensare, e magari anche mettere qualcosa nello stomaco. Cominciava
ad aver fame.
Scelse
una tavola calda lì vicino, gestita da uno scozzese. La lavagna fuori dal
locale annunciava che la specialità del giorno era haggis
con patate, il migliore, solo da Pete. Mentre era seduto al tavolo a pensare, arrivò la cameriera. Ordinò un sandwich e un po’
d’acqua.
Il
tavolo era posizionato trasversalmente alla vetrina.
Fuori, la gente passeggiava tranquilla, come se non avesse nessun problema.
Vide tre signore avanti con gli anni che confabulavano tra di loro all’angolo
della strada. Una di queste disse una cosa e le altre due si misero a ridere
compostamente, coprendosi la bocca con la mano. Un signore girava con una
valigetta e il bastone, molto probabilmente un uomo d’affari. Il suo cappello a
cilindro svettava in alto, mentre si avvicinava a un’automobile dov’era fermo
un autista ad aspettarlo, che gli apriva lo sportello e lo faceva accomodare.
Louis
allargò il campo di visuale e scorse una costruzione che già aveva visto in
precedenza: la biblioteca di Londra.
Mentre
guardava fuori, la cameriera gli porse il piatto con
il suo sandwich e una brocca d’acqua fresca.
*****
Finito
il pasto, Louis lasciò il dovuto sul tavolo e corse fuori, verso la biblioteca.
Alle porte d’ingresso, c’era il solito uomo che timbrava e catalogava i libri.
Decise di non perdere tempo con lui (sapeva che era sordo come una campana) e
di andare a cercare da solo. Stava per consultare il foglio affisso
all’ingresso, quando un uomo lo salutò.
-
Buon pomeriggio, Sir – lo salutò – Lieto
di rivedervi. –
Louis
riconobbe il bibliotecario che l’aveva aiutato durante la sua prima visita
all’emeroteca. Anche quel giorno era vestito impeccabilmente e i suoi capelli
erano pettinati all’indietro. Questa volta aveva anche un paio di baffetti ben
ordinati, e lo guardava sorridendogli gentilmente.
-
Buon pomeriggio a voi – ricambiò il saluto Louis – Stavo cercando
la sezione di scienze paranormali. –
-
Molto interessante, Sir. Seguitemi, prego. –
*****
Essendo
una scienza molto giovane, la parapsicologia, la biblioteca di Londra non aveva
molti volumi sull’argomento. C’erano più che altro trattati su trattati che
parlavano di manifestazioni psichiche nel tempo, con un linguaggio decisamente molto tecnico. Altri erano manuali che
trattavano di ricerca e modalità di osservazione dei
fenomeni paranormali. Louis sospirò ampiamente, mettendosi le mani nei capelli.
Quando stava per mettere via tutti i volumi ed
andarsene, gli si avvicinò un ragazzo.
-
Vi chiedo scusa, sir. Mi è sembrato di capire che voi state svolgendo una
qualche ricerca di tipo paranormale. Ho visto bene? –
Louis
lo guardò. Il ragazzo era biondo e aveva gli occhi
azzurri. Vestiva di un completo di velluto verde, con gilet e camicia. Al collo
portava un nastrino dello stesso colore. Poteva avere circa la sua età, se non
addirittura qualcosa in meno.
-
Direi di sì, avete visto bene. Chi siete? –
-
Oh, perdonate la mia villania, sir. Mi chiamo George Barnett,
e sono un ricercatore dell’SPR. – gli porse la
mano destra.
Louis
gliela strinse leggermente. - Louis Tomlinson,
docente di letteratura. Lieto di conoscervi. Avete detto SPR? Che cos’è? –
-
E’ l’acronimo di Società di Ricerche sul Paranormale. La società scientifica di
cui io faccio parte insieme a mio padre, Sir. Marcus Ezra Barnett.
La società è stata fondata nel 1882 da parte di un gruppo di scienziati
interessati a questi fenomeni. Dal 1885 abbiamo anche una sede negli Stati
Uniti d’America, a New York. –
-
Interessante – dichiarò Louis, guardando negli occhi il suo interlocutore
– E posso chiedervi perché vi siete interessato
alle mie letture, Sir? –
Sir
Barnett sorrise, mostrandogli due file di denti
perfetti. – Perché ho visto che v’interessavate alla materia. È così? –
-
Diciamo che cercavo nei libri delle risposte ad alcune domande che mi opprimono
già da qualche giorno. –
-
Sarebbe ardito da parte mia se vi chiedessi che domande sono queste? –
Louis
sospirò, abbassando lo sguardo. Si chiedeva se tutto ciò che aveva fatto fino a
quel momento non fosse stato un errore. Un grosso, immenso, grandissimo errore.
Forse lo era, anzi sicuramente. Si domandò se parlare dei problemi dell’Istituto
con un’altra persona, al di fuori di Donovan (che nonostante tutto non si era
raccomandato di non far trapelare nulla di ciò che succedeva all’istituto,
forse incoscientemente, forse in maniera del tutto cosciente), fosse una buona
idea.
No,
non lo era.
Ma ormai si era spinto fin
troppo oltre. E poi, doveva assolutamente trovare un punto d’inizio.
-
Be’, ecco Sir Barnett… io non so da dove cominciare…
-
-
Cominciate dall’inizio. – l’incitò – Sarà molto più semplice. –
Prima
che Louis avesse cominciato, George lo pregò di dargli
del tu, perché, disse, a quanto sembra
siamo coetanei.
E
così Louis narrò tutto ciò che sapeva. George lo ascoltava con espressione
assorta, facendo di tanto in tanto qualche domanda di approfondimento, e quando
Louis rispondeva, ci rifletteva un momento su e poi annuiva e lo incitava ad
andare avanti.
La
domanda ricorrente che gli aveva posto era stata: ci sono stati segni fisici di ciò che hai visto? Per esempio sangue,
acqua, fluidi corporei o di qualche altro tipo?
- Be’, non me ne sono mai accorto –
aveva risposto Louis, senza pensarci.
-
Pensaci meglio. Del sangue, o dell’acqua…? –
-
Nulla. –
George
lo guardò attentamente, tenendo le mani congiunte
davanti alle labbra, con gli indici che toccavano il labbro superiore. Dopo un
lungo silenzio, si pronunciò.
-
Caro Louis – esordì – a quanto mi pare di capire, il posto dove
lavori e vivi è oggetto di un’intensa attività di manifestazioni psichiche.
–
-
Così pare, George. Che cosa posso fare…? –
George
sospirò. Tamburellò con le dita sul tavolino del pub dove erano andati a
parlare, pensando a cosa si poteva fare. Poi, improvvisamente, dopo un’ultima
tamburellata, distese le dita e diede un leggero colpo
sulla tavola, attutito dal velluto verde.
-
Dovrei vedere il posto e fare qualche analisi. Pensi che sarebbe possibile?
–
Louis
sgranò gli occhi. George gli aveva davvero chiesto ciò che aveva appena
sentito?
-
C-come? – balbettò.
George
lo guardò negli occhi con espressione grave. –
Louis, so che ti sto chiedendo una cosa abbastanza onerosa in termini di
reputazione professionale, ma credimi: da quanto mi hai narrato, c’è bisogno di
fare qualche controllo in più. –
-
Perché? Pensi che ci potrebbe essere pericolo? –
George
alzò la mano, contemporaneamente chiudendo gli occhi, in segno di diniego.
-
Non ho assolutamente detto ciò. Neanche volendo potrei dire una cosa del
genere, poiché non ho alcun dato sul quale riferirmi. –
- George… la scuola non è mia. È retta da
un preside, il Professor Umbridge. La tua non sarebbe
una richiesta ufficiale. Che cosa direbbero se ci vedessero arrivare, a me e a
te, a girare per la scuola magari con un taccuino e una penna a fare
rilevazioni su una cosa che viene per giunta tenuta sotto silenzio da chi di
dovere? Ci hai pensato? –
-
Su quali basi, in nome di Dio? Sulla mia storia? Di quanto ti ho raccontato
poc’anzi ce n’è abbastanza da farmi radiare dall’ordine dei docenti dell’intero
Regno Unito! –
-
Perché, che cosa mi avresti raccontato? Hai solo detto che la scuola dove
lavori è infestata da fantasmi di ex-studenti. Nulla di compromettente. –
-
Forse non hai capito – ripeté Louis a bassa voce – che un’indagine
ufficiale mi metterebbe nei guai, poiché ho rivelato cose che non avrei dovuto
svelare! –
-
Hm-hm. Capisco. Allora mi sa che dovremo procedere altrimenti. –
Louis
lo guardò a bocca aperta. Improvvisamente si era
pentito di avergli raccontato tutto, ma stranamente aveva fiducia di quel
ragazzo. Non sembrava intenzionato a rovinargli la carriera, ma solo a saziare
la sua sete di curiosità per i fenomeni che gli aveva raccontato.
-
Ho bisogno di raccogliere informazioni – disse George - Tu non devi
preoccuparti. Sarà una cosa molto discreta, sia prima, che durante, che dopo. Fidati
di me. –
George
gli fece l’occhiolino e alzò il bicchiere di birra scura che aveva ordinato.
Louis prese il bicchiere con fare titubante, quindi rialzò lo sguardo e poi l’alzò,
avvicinandolo a quello del ragazzo e facendone tintinnare il vetro.
A
Londra, Louis aveva accompagnato George all’SPR.
Questi era sceso dalla carrozza ed aveva alzato il
pollice dal pugno chiuso, ammiccando e sorridendo allo stesso tempo. Doveva
essere un gesto americano, per dire che va tutto bene. Louis vi
replicò con un sorriso affettato e un cenno della mano.
Durante
il viaggio di ritorno si ripeté che ciò che aveva fatto era stato un colossale
sbaglio. Una volta appreso ciò che c’era da apprendere da Donovan, avrebbe
dovuto seguire il suo consiglio, cioè fare le valigie e andarsene prima
possibile.
Comunque fosse andata, avrebbe
fatto presto le valigie, ma almeno le avrebbe fatte con la coscienza a posto,
ovvero con in cuore il pensiero di aver fatto qualcosa per cercare di risolvere
le cose al Watkins.
Tornato
all’istituto, vide che Harry lo stava attendendo nella sala d’attesa, con il
libro di Tolstoj in mano, come la prima volta che lo incontrò.
-
Ciao – gli disse il ragazzo, alzandosi dalla panchina.
-
Ciao. Mi stavi aspettando? –
-
Sì… volevo stare un po’ con te. –
Louis
guardò Harry come ipnotizzato, mentre questi allungava la mano verso il
taschino della sua giacca…
-
Louis!!! –
la voce di Niall
richiamò Louis alla realtà, mentre si accorgeva di essere solo nell’atrio
principale. Si guardò intorno, ma di Harry non c’era traccia. Vide solo
un’ombra che si dileguava in fondo al corridoio e poi svoltava a sinistra, ma nulla di più.
-
Niall… - disse Louis. Si sentiva vagamente
frastornato.
-
Dov’eri finito? Ti ho cercato dappertutto, oggi! –
-
Ero andato a trovare i miei genitori – mentì spudoratamente.
Niall aveva lo sguardo di
un bambino sperduto. Sembrava anche lui frastornato.
-
Ho preso una decisione, Louis. –
-
Ah… sì? –
-
Sì. Me ne vado, Louis. –
Louis
spalancò gli occhi. – Perché? –
-
Non ce la faccio più. Non riesco più ad addormentarmi senza avere delle visioni
orrende. Qualcosa in questa scuola non mi lascia vivere. Non mi lascia più
respirare. Io me ne vado. –
Louis
lo guardò attentamente. Poi lo prese
per mano e lo condusse verso i dormitori, nella sua stanza.
Una
volta entrati, Louis accese due lumi e invitò Niall a
calmarsi, prendendogli le mani nelle sue e carezzandogliele dolcemente.
-
Non riesco più a dormire, Louis. Ho degli incubi
tremendi. Sogno questo posto che va a fuoco. Ragazzi che bruciano nelle aule,
e… e… -
Louis
guardava attentamente la sua espressione mentre gli raccontava i suoi incubi. Niall era terrorizzato.
-
..e… quel ragazzo. Quel ragazzo dagli occhi verdi.
Dice che gli ho rubato qualcosa, e mi intima di
ridargliela, ma io non so di cosa sta parlando, allora lui… lui… - Scoppiò a
piangere.
Mosso
da un amore profondo per il collega di filosofia, Louis lo abbracciò,
posandogli un dolce bacio sulla guancia bagnata dalle sue lacrime calde.
-
Niall – disse, ad un
certo punto. Niall continuava a piangere, ma lui
seguitò a parlargli nell’orecchio.
-
Questo posto ha molte cose che non vanno. Ma io ti
prometto che farò del mio meglio per risolverle. Se vuoi andare, io non ti fermerò, ma ti chiedo di restare ancora un po’. Ce ne
andremo insieme. – Si sciolse dall’abbraccio per guardarlo meglio negli
occhi. Quegli occhi chiari così profondi erano così dolci. Non erano magnetici
come quelli di Harry. Avevano una dolcezza unica, che Louis sapeva di non voler
perdere.
-
Ormai è troppo tardi. Ho già inviato la mia lettera di dimissioni. È sulla
scrivania della signorina Pemberton, in segreteria.
Il signor Umbridge la esaminerà domani. –
Domani…
…A morte! A morte! A morte il
figlio della strega!!!
Louis
rimase incantato per un momento, sentendo delle voci nella sua testa. Erano
voci sussurranti ma cariche di rabbia. Voci cariche d’odio, che si rivolgevano verso…
Il figlio della strega!!!
…Qualcuno.
Nialllo
guardò con gli occhi lucidi. – Louis? Ti senti bene? –
-
S-sì. Ho solo avuto un capogiro. Nulla di cui preoccuparsi. Sto bene. –
Si
guardarono negli occhi. Nialllo
baciò, pregandolo ancora una volta di permettergli di restare in camera insieme
a lui per la notte. A malavoglia, Louis acconsentì. Quella notte avrebbe dovuto
compiere una missione importante.
*****
Il
ticchettio della sveglia sul comodino era un suono ipnotico. Più di una volta
Louis era caduto nel sonno ascoltandolo, ma si era risvegliato dopo pochi
minuti. Prese l’orologio e lo avvicinò alla finestra,
cercando di leggere i numeri sul quadrante alla luce della luna.
Mezzanotte
era passata da poco.
Se
non andava errato, ormai tutto l’istituto doveva essere a nanna. Tranne lui
e...
Un
sassolino picchiettò contro la sua finestra. Era il segnale che aspettava.
Donovan
aveva indosso il suo normale abbigliamento da lavoro, più un cappotto pesante e
un cappellino da cacciatore. Solo che al posto del fucile brandiva un’accetta.
-
Ci siamo? – domandò il vecchio.
-
George sarà qui a momenti. Gli ho detto di fare il giro e raggiungerci qui nel
cortile – guardò verso il cancello che dava nel cortile. Era chiuso.
-
D’accordo – disse Donovan sottovoce, estraendo un mazzo di chiavi dalla
tasca del cappotto e dirigendosi verso il cancello. Frattanto, Louis lo seguì, cercando di nascondersi nell’ombra. Donovan infilò
la chiave nella serratura e girò molto lentamente, cercando di fare il meno
rumore possibile.
-
Sei sicuro che verrà? – domandò Donovan.
-
Spero di sì. – veramente, Louis sperava di no.
Sperava che tutto quello che si erano detti in quel
pub fosse stato un sogno. Ma la sua speranza si spense
quando vide baluginare nel buio, in lontananza, una lucina gialla.
Louis
guardò attentamente, e vide che era George. Aveva a tracolla un tascapane
rigonfio, e nella mano destra stringeva una specie di valigetta metallica.
-
Salute, signori. È qui il maniero infestato? – disse, allegramente.
-
Sì, è qui. Ma ti prego fai piano. Stiamo rischiando
grosso tutti e tre – sussurrò Louis.
-
Già – rafforzò Donovan.
-
Sarò più silenzioso di un ladro nella notte – rassicurò George –
Adesso mettiamoci al lavoro. -
Fatte
le dovute presentazioni, i tre entrarono nell’istituto. Donovan si era portato
tutti i mazzi delle chiavi, con la promessa fatta a Louis che se avessero
sentito avvicinarsi qualcuno, loro due sarebbero corsi a nascondersi e Donovan
sarebbe rimasto e avrebbe detto che gli era sembrato di sentire qualcuno
aggirarsi nell’istituto.
Dal
tascapane, George tirò fuori degli aggeggi metallici. Uno consisteva in una
specie di bastone estraibile con una specie di palla
metallica all’estremità. Il bastone era collegato a un cavo che andava dritto
alla valigetta, che in realtà era un altro aggeggio pieno di quadranti simili ad orologi, solo che questi non segnavano l’ora esatta,
bensì…
-
…questo è un misuratore di attività psicocinetica. –
-
Che cosa sarebbe a dire? – domandò Donovan.
-
Serve a misurare la quantità di energia psicocinetica di un ambiente. È il
brevetto di un collega di mio padre. È ancora in fase sperimentale. –
Accovacciato
sul suo misuratore, George premette un pulsante e sollevò l’asta.
-
Louis? Vuoi avvicinare il lume alla strumentazione, per favore? –
Louis
obbedì. Con i suoi stessi occhi vide che le lancette dei quadranti si erano
mosse. Sembravano dei manometri simili a quelli che si vedono sui treni o sulle
caldaie.
- Bene – commentò George, a bassa
voce. – Non sono venuto fin qui per niente. – guardando il
misuratore, orientava la sua asta di qua e di là, tanto che per poco Louis non
la ricevette in testa.
-
Certo, non è molto comodo fare queste rilevazioni al buio, ma … -
Louis
stava pensando a cos’avrebbe detto il preside se li avesse beccati, tutti e
tre, a fare certe cose. Come minimo lui e Donovan sarebbero stati sbattuti
fuori seduta stante. Rabbrividì al pensiero.
-
Uhm… - mormorò George – Da questa parte è più forte. –
Velocemente,
George prese la valigetta per il manico e si spostò verso il corridoio che
conduceva al refettorio. Poggiò il misuratore su un mobile lì vicino e osservò
i quadranti.
Louis
lo vide annuire e tirare fuori un taccuino dal tascapane, dove annotò qualcosa
a matita.
-
Proprio come pensavo. – dichiarò, tenendo col fiato sospeso sia Donovan che Louis.
Poco
dopo George riprese la valigetta e salì le scale verso il terzo piano. Anche
qui, si posizionò sotto una finestra e guardò i quadranti alla luce della luna.
-
Poffarbacco!!! – esclamò. Louis vide chiaramente
i suoi capelli biondi che gli si drizzavano sulla testa.
-
Cosa? –
-
Qui abbiamo un’attività molto intensa. Guardate. –
Louis
e Donovan guardarono i contatori. Le lancette erano spostate di molto verso destra. Non capendo nulla di certe diavolerie,
Louis si rifece ai manometri delle caldaie: se erano
spostati troppo verso destra, era un cattivo segno.
-
Che cos’è successo qui? – domandò George aprendo
la porta del bagno ed entrandovi.
-
Thomas Xavier Rice – dichiarò a un certo punto Donovan – Si gettò
dalla finestra del bagno nell’autunno del 1900. Era ridotto da far paura.
–
George
si avvicinò alla finestra. Incominciò a toccare la parete e il vetro.
-
Non troverà tracce di nulla, io e le inservienti puliamo tutti i giorni.
–
-
Voi potrete pulire solo lo sporco terreno – dichiarò George continuando
nel suo lavoro – Ma non potete pulire l’ectoplasma. –
-
Ecto…che? – Donovan sollevò un sopracciglio
perplesso.
-
Ectoplasma – ripeté Louis, forte delle sue conoscenze di greco e latino.
– letteralmente, significa “ciò che fuori ha forma”. Nella sua accezione
scientifica, è un fluido di natura sconosciuta, che si pensa sia una sostanza
che rilasciano i fantasmi nell’ambiente. –
-
Esattamente, mio caro amico. – dichiarò George, continuando a cercare. Si
fermò un attimo, quindi si chinò e guardò più attentamente. Infilò un dito
sotto il davanzale della finestra e fece un sorriso. Le sue dita erano umide di
una strana sostanza.
-
Eccolo qua – dichiarò, con una nota di trionfo nella voce.
-
Gesù cristo, cos’è quella roba? –
-
Ectoplasma, mio caro signor Donovan. Ora abbiamo le prove che qui c’è attività psocicinetica. Proseguiamo oltre. –
Il
marchingegno di George li condusse alla biblioteca. Per la verità c’erano un sacco di posti dove si poteva guardare, ma George,
come un cane da caccia, aveva puntato la biblioteca in quanto, secondo i suoi
strumenti, era sede di un’intensa attività.
-
Proprio come pensavo – dichiarò ad un certo
punto, guardando i macchinari – Guardate. Guardate anche voi. –
-
Santi numi – disse Louis, guardando gli strumenti: le lancette erano
spostate parecchio verso destra. Cattivissimo segno.
George
stava trascrivendo i dati sul suo taccuino. – Qui dev’essere successo
qualcosa di terribile. Confermate, signor Donovan?
–
-
Confermo. Qui è dove quel povero ragazzo, Elijah Pickford,
fu trovato impiccato. #8211;
-
Proprio come pensavo – disse George, mettendo via taccuino e matita.
Sospirò.
-
Che cosa puoi dirci, George? – gli domandò Louis.
George
guardò attentamente Louis prima di rispondere.
-
Amico mio… se vuoi il mio parere spassionato, ti dico che non c’è da stare
allegri. –
George
camminò tra le scrivanie e toccò gli scaffali.
-
Questo posto è carico. È carico come lo è una polveriera di polvere da sparo. –
-
Da quanto ho capito – proseguì, passeggiando intorno ai due – in
questo istituto ci sono state parecchie tragedie. Dunque, una tragedia,
umanamente parlando, può essere dimenticata. Ma, secondo gli studi che conduciamo, emozioni negative come
paura, rabbia, stress, dolore… tendono a lasciare tracce nel tempo. E qui, di
tracce, ce ne sono anche troppe. In più… -
-
In più…? – l’incalzò Louis.
Vide
George che teneva le mani sui fianchi e guardava attentamente intorno. Guardò
soprattutto il ballatoio dov’era stato trovato impiccato Pickford.
-
…C’è qualcosa che è già sveglio. Che non riesce a trovare pace. –
Louis
sollevò un sopracciglio. Una constatazione del genere lo faceva rabbrividire,
ma una domanda gli sorgeva spontanea.
-
Come lo hai capito? L’hai intuito dai tuoi strumenti? –
George
lo guardò attentamente prima di rispondergli.
-
E’ stato il mio sesto senso a dirmelo. Io possiedo
facoltà medianiche, Louis. E posso sentire chiaramente tutto il dolore che c’è
qui dentro. -
Donovan
sembrava nervoso. Si guardò intorno stringendo un po’ di più il manico
dell’accetta.
-
Non puoi dirci nient’altro? Che cosa può dare pace a questo… questa… cosa…?
–
George
sospirò, quindi si guardò intorno.
-
Signor Donovan, rimanga di guardia, per favore. Avete con voi qualcosa di
appuntito? –
Donovan
si frugò nelle tasche. Oltre alle cinquanta sterline
che gli aveva dato Louis per quell’incursione notturna, aveva anche dei chiodi.
-
Sì, ho qualche chiodo. –
-
Benissimo. Usateli per pungere le mie guance in caso io abbia delle
convulsioni. Louis, amico mio, dammi le tue mani, per favore. –
Louis
obbedì, e George gliele prese.
-
Ora concentrati, Louis. Chiudi gli occhi e resta in attesa. Cercherò di
stabilire un contatto. –
Chiusero
gli occhi nello stesso istante. Sulle prime Louis non avvertì nulla, ma poi
accadde qualcosa.
-
Louis… -
George
non c’era più. Era rimasto solo nella biblioteca, al centro di un gruppo di
ragazzi. Sapeva benissimo chi erano.
-
Thomas… Jack… Nathaniel… siete… siete voi. –
Fermalo, Louis.
Fermalo.
Solo tu sai come fermarlo.
Chiunque resti qui
Pericolo
Pericolo
Morte
Morte
MORTE!
-
Chi devo fermare??? Chi??? –
Le
voci si affievolirono fino a far udire solo il suono delle campane. Suonavano forte, mosse da chissà quali mani. Poi ci furono gli
spari.All’improvviso, la stanza si
riempì di fuoco.
-
Basta! Basta!!! –
Louis
si ritrovò tra le braccia George, in preda alle convulsioni.
-
Donovan! Presto! I chiodi! –
Donovan
accorse e punzecchiò una due, tre volte le guance di George con i chiodi.
Questi sembrò riprendere conoscenza e li guardò
entrambi. Tossì, con la saliva che gli colava giù dalle labbra, e si sedette
sul tappeto.
-
Santi numi – mormorò – Direi che sono stato qui abbastanza. Hai
visto qualche cosa, Louis? –
-
Sì – rispose, senza pensarci. – Ho visto. –
Però non so che cosa fare,
pensò, mentre George veniva rimesso in piedi e veniva
accompagnato all’uscita.
Rimasti
soli, Louis e Donovan si scambiarono un’occhiata. Entrambi ora sapevano che il
posto era infestato, ma non potevano farci molto. Louis guardò le mura
dell’istituto, che già prima gli sembravano inquietanti, mentre ora sembravano togliergli il respiro. Si avviarono verso i loro
letti, Donovan nel suo appartamento al pianterreno della palazzina dei
dormitori, e Louis salì le scale verso la sua stanza.
Arrivato
lì, vide che il letto era vuoto.
Niall non c’era più.
Non
gli aveva lasciato nessun biglietto, e Louis pensò che fosse tornato a dormire
in camera sua.
Beh, spero che la paura dei
fantasmi ti sia passata, Niall… comunque penso che
domani non sarà più un tuo problema, e nemmeno mio.
Pensò Louis, con l’idea di fare la valigia e andarsene sempre più chiara nella
mente.
Dopotutto
non era una cosa così brutta da fare. Una semplice lettera, quattro righe per
spiegare che se ne andava, e via. Non gli importava nemmeno di lasciare
scoperto un posto: la professoressa Rigg avrebbe istruito
i ragazzi sulla letteratura inglese, mentre lui se ne sarebbe andato insieme a Niall. Avrebbe scritto libri, impartito lezioni private,
oppure si sarebbe trasferito. Sì, perché no? Magari c’era
bisogno di gente come lui negli Stati Uniti, insegnanti di letteratura in erba
che non vedono l’ora di esportare la cultura britannica. L’unica certezza era
che avrebbe voluto avere Niall al suo fianco. Si
addormentò pensando alla faccia che avrebbe fatto Niall
appresa la notizia che anche lui stava per andarsene. Sorrise nell’ombra al
pensiero, mentre scivolava tra le braccia di Morfeo.
*****
Facciamo
un passo indietro.
Poco
prima, quando era arrivato George, o meglio, Sir George Ezra Barnett, studioso di fenomeni paranormali dell’SPR con il suo armamentario di apparecchiature
sofisticate, Louis e Donovan erano sicurissimi che la scuola fosse deserta,
com’era ovvio a quell’ora della notte. Purtroppo però, quella non era una
scuola come tutte le altre: in essa, l’aveva detto anche George, aleggiavano
presenze dall’aldilà in pena. Così, anche se non se n’erano accorti, durante le
loro operazioni erano guardati a vista da un’altra
persona.
Quando
avevano finito di fare il loro lavoro, questa presenza aveva
voluto balzare fuori dall’ombra e ammazzarli tutti e tre.
Non adesso.
Gli
aveva bisbigliato una voce. La presenza aveva cominciato a stringere le mani a
pugno, mentre le nocche diventavano bianche per lo sforzo.
Se agisci adesso, sarà tutto
inutile. Devi agire più tardi, con le prime luci dell’alba.
Quella
voce era così suadente. Era quella di una persona fidata. Una persona che aveva
conosciuto in gioventù, che non lo aveva mai trattato male.
Non sarai solo, ti aiuterò io… e qualcun altro.
Si
sentì carezzare la guancia da una mano gelida. Rabbrividì, ma riuscì anche a
calmarsi. Quando i tre se ne furono andati, sparì nell’ombra e andò a fare
quello che doveva fare.
La
prima persona esterna a entrare a scuola era sempre la Signorina Pemberton, la segretaria. A sessantasei anni suonati, era
ancora lì in quell’istituto, a servire come meglio poteva. Entrava in ufficio e
incominciava a smistare la posta in entrata, poi cominciava a redigere le
lettere della posta in uscita secondo le istruzioni del Preside e ogni tanto
riceveva qualche telefonata. In quel periodo, a ridosso delle festività
Natalizie, stava preparando i biglietti d’auguri, quindi se possibile arrivava
anche molto più presto del solito. Talvolta rimaneva anche fino a molto tardi
in ufficio, e se fosse dipeso da lei, sarebbe rimasta fino a notte inoltrata,
ma c’era sempre il Preside che la mandava via quando l’orologio a pendolo del
suo ufficio batteva le nove e mezza. D’altronde, a
casa non aveva nessuno ad aspettarla. L’Istituto Jonathan Watkins era tutto ciò
che aveva nella vita.
Arrivata
in ufficio, appese il cappotto all’appendiabiti, e si sedette alla scrivania
per cominciare la sua giornata. Come prima cosa quel giorno, avrebbe dovuto
chiamare l’emporio giù a ChestnutCastle
per far arrivare gli spazzacamini e ordinare un po’ di legna per i camini.
Anche quell’inverno si stava rivelando parecchio freddo, e le stanze più
grandi, vale a dire la Sala Watkins, la Biblioteca e il refettorio che non
avevano subito il fascino della modernizzazione con l’installazione di
termosifoni come le altre stanze, avevano bisogno di legna per essere
riscaldate a dovere. Nemmeno il Preside Umbridge
aveva voluto saperne di installare un termosifone nel suo ufficio. Diceva che
il camino gli andava benissimo, perché gli piaceva sentire l’odore della legna
bruciata e lo scoppiettio dei ciocchi nel fuoco. Così, ogni inverno, bisognava rifornirsi
bene. Mentre prendeva la cornetta per portarsela all’orecchio, le venne in
mente che forse avevano bisogno anche di carbone per la caldaia giù in cantina.
Guardò il calendario. Se i calcoli del Signor Donovan erano esatti, almeno fino
al 15 Dicembre potevano stare tranquilli. Valeva a dire per un’altra settimana.
Quando
Miss Pemberton si portò il telefono all’orecchio, si
bloccò.
Di
solito quando non c’era nessuno dall’altra parte che parlava, si sentiva un Tuuuuu
prolungato, che segnalava che il telefono era allacciato alla linea. Quella
mattina invece non si sentiva nulla.
Miss
Pemberton schiacciò una volta la staffa (il corno di
bue, come lo chiamava lei) che reggeva la cornetta, poi la rilasciò dopo
qualche secondo.
Non
cambiò nulla.
Ripeté l’operazione, schiacciando e
rilasciando più volte la staffa, aspettando di sentire il Tuuuu di linea libera, ma
nonostante i suoi sforzi, nulla accadde.
Si
alzò dalla poltrona e guardò l’apparecchio con un sopracciglio perplesso. Poi
si ricordò che aveva visto il Preside armeggiare con il filo qualche tempo
prima. Difatti, il telefono era collegato a una specie di scatolina attaccata
al muro, che andava fuori fino a connettersi con dei pali che si perdevano
verso ChestnutCastle, dove
arrivavano all’altro telefono, quello del Signor Yorkey,
titolare dell’emporio.
Miss
Pemberton girò attorno alla scrivania, guardò in
basso e vide che…
Santi numi!
Si
portò le mani alla bocca. Il volto le si contrasse in
una “O” di stupore, quando vide che il filo era stato tagliato. No, non era
stato tagliato di netto. Sembrava che qualcuno l’avesse strappato con forza, e
poi avesse ridotto la scatolina in cui s’infilava in briciole sotto il tacco
della scarpa.
-
Ma chi può aver…? Adesso come faccio? –
Miss
Pemberton uscì dal suo ufficio quasi di corsa, per
avvicinarsi alla porta dell’ufficio del Preside. Alzò il pugno per bussare, ma
si trattenne quando udì il preside che fischiettava un motivetto.
Con
il pugno sollevato nell’atto di bussare, la signorina Pemberton
si chiese se per caso il Preside fosse malato. Di solito non fischiettava mai,
era sempre troppo occupato a guardare con malocchio gli studenti e tutto il
mondo che aveva intorno. Sentirlo che fischiettava era stato per lei più o meno come per Bob Crachitt
sentire che il suo principale Scrooge era diventato
improvvisamente buono: una cosa incredibile.
Bussò.
Dall’altra parte il fischiettio s’interruppe per un secondo, poi la voce del
preside si fece udire.
-
Avanti! –
Miss
Pemberton entrò. Lo trovò di
spalle, alla sua scrivania, che continuava a fischiettare. Sembrava intento a…
pulire qualcosa.
-
Chiedo… chiedo scusa se vi ho disturbato, Professor Umbridge. –
-
Oh, Miss Pemberton! – esclamò il Preside
– Che piacere vedervi. Prego, accomodatevi! – disse, senza nemmeno
girarsi.
Titubante,
Miss Pemberton avanzò. I suoi passi sul tappeto erano
pesanti. Si sentiva come quella volta in cui lei e sua sorella si erano
avvicinate troppo alla cuccia di Warlock, il cane dei
loro vicini quando era bambina. C’era silenzio, e
quell’atmosfera di paura che sarebbe esplosa subito dopo, quando il cane uscì
impazzito dalla sua cuccia, pronto ad azzannare le due bambine.
-
Chiedo scusa – ripeté la Pemberton – Ma
credo che il mio telefono abbia qualche problema. Il filo è stato strappato, e…
-
Il
Preside sembrò non udirla. Continuava a lucidare quel… quella… cosa dietro la
scrivania. Ad un certo punto si girò, e Miss Pemberton poté vedere che cosa stava lucidando: La grande
spada che teneva appesa al camino. Doveva essere una spada di periodo
medioevale, a giudicare dalla fattura. Sembrava una di quelle che si vedevano nei libri di storia a proposito delle crociate. Il
Preside Umbridgela alzò e
andò vicino alla Pemberton. Questa restò immobile, ma
stranamente qualcosa dentro di lei le diceva che sarebbe stato meglio filare, e
alla svelta.
-
Come avete detto, Miss Pemberton?
– domandò il Preside, tenendo la spada nella mano destra e la lama con la
sinistra.
-
Ho… ho d-de-detto… c-che… Il mio… t-telefono… è… è…
r-rotto. –
-
Oh, ma davvero? Lo so. Sono stato io a romperlo. –
-
Che cosa…? V-voi? M-ma… p-perché? –
Umbridge rise. La Pemberton sentiva le gambe che le tremavano. Umbridge si girò di nuovo.
-
Perché si da il caso, mia cara Miss Pemberton, che qui, oggi, io sarò incoronato Preside Ad
Interim. –
Prima
che la Pemberton potesse chiedergli spiegazioni, Umbridge, rapido come un serpente, girò su sé stesso tendendo la spada davanti a sé. Un colpo secco, e
la testa di Miss Pemberton rotolò dietro al suo
corpo, che cadde prima in ginocchio e poi si accasciò a terra, inzuppando di
sangue il tappeto verde scuro dell’ufficio.
Con
la spada ancora macchiata di sangue, Umbridge guardò
il corpo decapitato della segretaria e fece un mezzo sorriso.
-
Sapete una cosa, Miss Pemberton? Il vostro impegno
era davvero lodevole, ma lasciatemi dire una cosa: il lavoro non è tutto, nella
vita. –
Rinfoderò
la spada nella guaina che aveva appesa al corpo,
quindi uscì dall’ufficio.
*****
Louis
si svegliò madido di sudore nel suo letto, dopo un brutto sogno. Guardò fuori
dalla finestra, erano le prime luci dell’alba. Il primo pensiero che gli venne
in mente fu
Niall!
Doveva
vederlo.
Si
vestì in fretta e corse verso la sua stanza. Bussò, ma non ottenne risposta.
Bussò ancora, ma niente. Allora provò ad aprire la porta.
Entrato,
il letto di Niall era vuoto, e lui non c’era. Non
c’erano nemmeno i suoi vestiti, ma la sua valigia era ancora lì al suo posto. Quindi non se n’era andato. Tirò un sospiro
di sollievo, ma allo stesso tempo era inquieto.
Il
sogno che aveva fatto riguardava lui.
Aveva
sognato di vederlo bruciare in un incendio.
Uscì
dalla sua stanza, andando verso l’istituto.
Arrivato
al portone d’entrata, fece per aprirlo, ma per un attimo, esitò. E per poco non
svenne dalla contentezza.
Niall era lì, oltre il
vetro, fermo davanti alla porta d’accesso all’istituto, nell’ingresso
principale.
-
Niall! – Urlò Louis, bussando ai vetri. Niall non si girò.
-
Niall! – Louis provò ad aprire la porta, ma non
riuscì. Sembrava bloccata.
-
Ma che diavolo…! –
Si
ricordò che la porta era ovviamente chiusa, perché il signor Donovan doveva
ancora aprire tutto, ma allora come aveva fatto Niall
a…?
Un
brivido gli corse lungo la schiena. A riprova del terrore che stava provando,
arrivò Harry, che si avvicinò al giovane insegnante di filosofia e gli disse
qualcosa all’orecchio. Nialllo
guardò, quindi Harry gli fece cenno di seguirlo.
Senza
sapere nulla, ma fidandosi del suo istinto, Louis sbatté entrambi i pugni sui
vetri.
-
NO!!! – urlò Louis con tutto il fiato che aveva
in gola – Non andare, Niall! È pericoloso!!! –
Il
signor Donovan apparve dalla stanza da letto. Era ancora in mutandoni, ed era
scalzo.
-
Che il diavolo ti porti, ragazzo! Stavo dormendo! – imprecò il custode
con il suo accento marcatamente scozzese. Ma gli bastò
incrociare gli occhi di Louis per capire che non era più tempo di dormire.
Prese
le chiavi, Louis e il signor Donovan si precipitarono alla porta d’ingresso.
Donovan aprì velocemente il portone e s’infilò le chiavi in tasca, correndo
verso l’ingresso.
Louis
corse più veloce di lui, girando a destra. Si fermò.
Il
pavimento era sporco di gocce di sangue.
-
Oh, Gesù santissimo – mormorò Donovan, nel vedere il pavimento sporco.
Entrambi allungarono lo sguardo, e videro la testa della Signorina Pemberton posata sul pavimento, con il sangue che le usciva
dalla bocca e gli occhi rivoltati all’insù.
-
Andate a chiamare Scotland Yard, signor Donovan. Presto! –
Donovan
corse verso l’ufficio della Pemberton, e Louis si
ritrovò da solo nel corridoio.
Si
guardò intorno, pensando a dove potessero essere andati Harry e Niall.
Fece
per avanzare verso il corridoio, quando dall’aula di Arte uscì fuori Stephen.
Teneva una mano nella tasca della giacca.
-
Louis. C’è qualcosa che non va? –
-
Stephen! Meno male che sei qui. Guarda, qualcuno ha ucciso la segretaria del
preside, e Niall… Niall è
scomparso. –
-
Davvero? – disse Stephen, sempre tenendo la mano in tasca. Louis lo guardò sorpreso.
Stephen
gli mise una mano sulla spalla.
-
Ascoltami, dovrei parlarti di una certa cosa... –
-
Di cosa…? –
-
Devo parlarti di Niall. –
Louis
fece per ascoltarlo, ma all’improvviso udì una voce nel suo cervello.
SCAPPA!!!
La
voce urlò con violenza dentro la sua testa, tanto che forse la
udì anche Stephen. Dalla sua tasca, partì un colpo.
Louis
schizzò via per il corridoio, ma si girò quel tanto che bastava
per vedere che Stephen impugnava una pistola nella mano destra, e che si stava
preparando a sparare di nuovo.
Mentre
correva, vide la porta dell’ingresso verso gli uffici del Preside e della
Signorina Pemberton.
Entrò
e chiuse la porta col chiavistello, ansimando per il terrore.
-
Donovan! Chiamate la polizia, presto! –
Al
posto della voce di Donovan, udì soltanto un gemito.
La
porta del corridoio cominciò a muoversi. Era Stephen che cercava di entrare.
Louis
scappò verso l’ufficio della Pemberton, e qui trovò
Donovan in fin di vita. Qualcuno l’aveva pugnalato con il tagliacarte.
-
Donovan! – esclamò Louis. Aveva le lacrime agli occhi.
-
Che cosa devo fare, Donovan? Che cosa devo fare?
–
Il
vecchio stava perdendo molto sangue. Parlava, ma stava lentamente morendo.
-
Sta… cercando…. Quel… quel suo… oggetto… il c…. c….
–
-
Cosa sta cercando? –
-
Il c……. -
Mentre
tentava di concludere la parola, dalla bocca di
Donovan sprizzò del sangue. Lo sguardo si fissò su un punto imprecisato nel
vuoto, quindi il vecchio esalò il suo ultimo respiro.
-
No, Donovan! –
Intanto,
la porta stava per cedere.
Louis
uscì nel corridoio, quindi entrò nell’ufficio del Preside. Anche qui chiuse
bene con il chiavistello e usò una picca per bloccare la porta. Si guardò
intorno. Era già stato nell’ufficio di Umbridge e gli
era sembrato un postaccio, ma per qualche ragione,
quel giorno gli sembrò più oscuro del solito.
Si
guardò intorno, cercando qualcosa con cui difendersi. Ricordava che ci fosse
una spada, sul caminetto, ma quando guardò, non c’era più. Si accontentò di un
attizzatoio. Lo tenne dritto davanti a sé, quindi si barricò dietro la scrivania.
Sul piano, c’era ancora il diario di Umbridge.
Louis
vi posò lo sguardo sopra e sfogliò velocemente le
pagine.
15 Luglio.
Mi è apparso ancora una
volta. Dice che non devo preoccuparmi di nulla, che tutto ciò è passeggero. Prima o poi si dissolverà come nebbia al sole.
Ma io continuo a vederli.
Non riesco più a fare niente
per trattenerli, prima o poi mi faranno impazzire. Se
ne stanno lì, mentre sono qui che lavoro, mentre sono in bagno, mentre vado a
letto. Vedo i loro occhi, vedo che me la faranno pagare…
Ma io continuo a fare il mio dovere. Perché io amo questa scuola, e dire ciò
che so mi comporterebbe il rischio di perderla. Oh… Dio, aiutami tu.
Louis
sfogliò ancora le pagine, con i brividi che salivano.
18 Settembre.
Continua a dire che non devo
preoccuparmi. Che sta cercando una cosa, che prima o poi
troverà, perché sa chi gliel’ha rubata mentre lo portavano via. “Neanche il
rispetto per i morti, hanno avuto”, mi ha detto. E lui
continuerà ad uccidere tutti quelli che ritiene
giusto, ma finché io terrò la bocca chiusa, nulla mi accadrà.
La
calligrafia di Umbridge era concitata, così come lo
erano i periodi che scriveva. Immaginò che scrivesse per togliersi dalla mente
il fardello di quei segreti, come una specie di esorcismo scacciapensieri…
20 Settembre.
Elijah dice che il nuovo
arrivato gli piace molto. Gli ho chiesto se aveva intenzione di ucciderlo, ma
mi ha soltanto risposto “Non lo farò, se non ce ne
sarà bisogno”.
Non sembra un pervertito come
Denker, anzi mi sembra un bravo insegnante,
nonostante la sua giovane età. La giovane età. Gli altri due professori giovani
qui sono Stephen Robbins e NiallHoran.
Uno che si è macchiato di un orrendo delitto, uccidendo quel povero ragazzo, NathanielEllsworth… e l’altro
che si fa sodomizzare da alcuni studenti. Che posto è mai diventato questo. A
volte penso che vorrei farla finita. Prendere la
pistola che ho nel cassetto e…
Lo
sguardo gli andò verso i cassetti della scrivania. Erano aperti, per fortuna.
Aprì il primo a destra e vi trovò una rivoltella. Con
molta cautela, provò ad aprirla, e vide che era carica. Poco più in fondo, nel
cassetto, trovò anche una scatola di proiettili. La prese e se la infilò nella giacca.
-
Vieni fuori, Louis! – urlò Stephen – Devo parlarti! –
-
Vai al diavolo, Stephen! – esclamò Louis, impugnando la pistola e
tendendola davanti a sé.
-
Che ti è successo? Una volta eravamo amici! –
-
Forse una volta, adesso non più! –
Louis
aprì la finestra e balzò giù, facendo un volo nell’erba. Camminò rasente l’edificio,
accorgendosi troppo tardi di una cosa.
Dal
seminterrato, proveniva del fumo.
E
anche dai piani superiori della scuola.
-
Oh, mio dio… - mormorò soltanto Louis, prima di rendersi conto che la scuola
stava per trasformarsi in un enorme rogo.
Dalle finestrelle che comunicavano con il
basamento della scuola, Louis vide del fumo che aleggiava nei locali.
L’incendio doveva essersi sviluppato nei sotterranei. Se non si fosse spento in
tempo, si sarebbe propagato per tutta la costruzione, compresi i dormitori, che
comunicavano con l’istituto per mezzo dei sotterranei.
Louis non sapeva cosa fare. Non sapeva se
Donovan era riuscito a chiamare i soccorsi prima di essere ucciso, ma da quanto
aveva intravisto, il telefono era fuori uso. Guardò ancora una volta la scuola,
chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare.
Vai a
svegliare tutti quanti, presto!
Louis si girò intorno, ma non vide
nessuno. Eppure era sicuro di aver sentito qualcuno parlare.
- Cosa? Che cosa…? –
Corri
ai dormitori! Devi svegliare tutti e farli fuggire!
Di nuovo quella voce di ragazzo che prima
gli aveva suggerito di scappare. Non sapeva perché, ma sentiva di potersi
fidare. Tenendo la pistola spianata, girò l’angolo e si ritrovò nello spiazzo
principale. Salì velocemente i gradini che lo separavano dal portone d’ingresso
e si aggrappò alla maniglia, che purtroppo girò a vuoto.
- Oh no! È chiusa! –
Svelto,
fai saltare la serratura!
- Come? –
Con
la pistola, dannazione!
Louis alzò la mano destra, dove impugnava
la pistola che aveva trovato nel cassetto della scrivania di Umbridge. La guardò con espressione spaventata: non avendo
mai maneggiato armi da fuoco, Louis si chiese come fare per sparare. Cercò
nella sua mente qualunque ricordo potesse essergli utile. Gli venne in mente
che una volta aveva visto suo padre usare la rivoltella, quando aveva avuto
paura che fossero entrati dei ladri in casa, ma in quell’occasione non aveva
sparato. Però gli aveva visto fare un gesto molto comprensibile. Con il pollice
aveva tirato indietro quella specie di martelletto posto sopra il calcio. Suo
padre gli aveva spiegato che si chiamava cane,
e che il cane serviva a far girare il tamburo che
avrebbe allineato la camera di scoppio che conteneva il proiettile con la
canna.
Molto lentamente, con la paura a fior di
pelle, Louis tirò il cane con il pollice. La rivoltella emise un fiero “Click!” e contemporaneamente il
grilletto si tirò all’indietro. Sono
pronta per fare fuoco, Sir, sembrava di avergli detto.
Louis si parò a distanza di sicurezza,
mirando alla serratura della porta. Non sapeva come né perché, ma gli sembrava
che il suo braccio fosse stato spostato da qualcuno, e che lo stesso qualcuno
glielo stesse tenendo ben saldo mentre tutto il suo corpo tremava.
- Signore, ti prego aiutami! –
Esclamò, e con l’indice tirò il grilletto della pistola, che sparò il suo colpo
con un “BANG!” che l’assordò
temporaneamente. Nonostante questo, la serratura era saltata, e la porta era
aperta.
Louis la spinse con il gomito, tenendo la
pistola con entrambe le mani.
Corse dritto verso il portone d’ingresso
del cortile, quindi verso i dormitori.
Parti
dal terzo piano, gli disse la voce, parla con calma e dì semplicemente loro di seguirti e di avvertire gli altri
nelle altre stanze. Al resto penserò io.
- Dov’è Niall?
– domandò Louis, guadagnando la porta del cortile e precipitandosi verso
i dormitori.
La voce non rispose.
Louis salì velocemente le scale fino al
terzo piano, arrivandovi trafelato. Iniziò a bussare a tutte le porte, sperando
che ci fossero ragazzi già svegli. Dalle porte uscirono gli studenti, alcuni
che facevano parte della sua classe.
- Professor Tomlinson?
– domandò uno di questi, un ragazzo dai capelli rossicci.
- Ragazzi, ascoltatemi – disse
Louis con molta calma – C’è un problema con la scuola. Seguitemi e… -
- Che genere di problema? – domandò
un altro ragazzo, quest’altro castano con i denti da coniglio.
- Non c’è tempo per spiegarvelo. Vi
prego, ragazzi, scendete giù, e mentre lo fate, avvisate i vostri colleghi
degli altri piani. Dite loro di seguirvi, e uscite nel cortile esterno. –
- Fuori fa freddo…! – protestò una
voce.
- Copritevi bene, ma non perdete tempo a
vestirvi. Mettete le scarpe e basta. Dovete assolutamente uscire dai dormitori.
Questo è un ordine! –
Louis alzò la voce, e i ragazzi finalmente
gli obbedirono. Ci furono dei borbottii d’incertezza, ma alla fine i ragazzi si
riunirono in massa e iniziarono a scendere le scale. Louis li
seguì, e vide che alcuni stavano bussando alle porte, chiamando fuori i
colleghi.
Louis tirò un sospiro di sollievo, quindi
li osservò andare verso l’atrio che separava i
dormitori dal cortile. Sostavano lì davanti alla
porta.
- Coraggio, ragazzi! Che cosa state
aspettando? –
- La porta è bloccata, Professor Tomlinson – disse il ragazzo di prima con i denti da
coniglio.
Louis spalancò la bocca.
- Fatemi passare – ordinò, e si
posizionò di fronte alle maniglie. Provò a girarle, ma non ci fu niente da
fare. Le porte erano bloccate.
- Allontanatevi,
ragazzi! – disse, mentre estraeva la pistola dalla tasca della giacca. I
ragazzi si allontanarono tappandosi le orecchie, e Louis ripeté le operazioni
che aveva fatto prima, sparando una seconda volta.
Questa volta però, oltre al botto e
all’odore di cordite che si spanse in una nuvola di fumo blu, altro non avvenne.
La porta rimase chiusa.
- Dannazione!!!
– imprecò Louis, tirando un calcio alla porta, che non si scompose di un
millimetro. Nel frattempo, dalla porticina che portava ai sotterranei,
incominciò a venire fuori del fumo.
- Che cos’è questo fumo?!?
–
- La scuola sta andando a fuoco!
Guardate! –
Uno degli studenti indicò verso la
finestra, da dove si vedeva la biblioteca che stava prendendo fuoco. Louis
rivolse lo sguardo in quella direzione, vedendo con orrore Niall
che sostava sul ballatoio con un cappio in mano.
- No!!! –
Urlò, dimenticandosi improvvisamente di tutto e di tutti. Corse verso i
sotterranei, mentre i ragazzi incominciavano ad agitarsi. Uno degli studenti gli
urlò di aspettare, ma nell’istante stesso in cui Louis udì quell’invocazione,
la porta dei sotterranei si chiuse dietro di sé. Provò a riaprirla, ma non ci
fu niente da fare. Era bloccata come quella dell’atrio.
E’ un
sortilegio. Non puoi aprirla, soltanto lui può.
Louis provò il desiderio di piangere. Si
portò le mani agli occhi e latrò come un cane per un momento.
Non
ti servirà piangere, piuttosto ascoltami. Siamo ancora in tempo per salvare Niall.
Louis aprì gli occhi, vedendo che in
fondo alle scale c’era qualcuno. Strizzò un po’ gli occhi per abituarli alla
penombra e cercare di dare un nome al volto che stava
vedendo: la figura in fondo alle scale era il ragazzo che vide quella sera in
cui Sean Cortland bevve la soda caustica. Non
gocciolava più acqua, ora aveva solo il colorito cinereo e gli abiti lacerati.
- Nathaniel… -
Seguimi.
Il ragazzo camminò a destra verso il
corridoio sotterraneo, e Louis lo seguì ad arma
spianata.
Nel corridoio faceva caldo. E c’era puzza
di fumo. Louis tossì, cercando di abbassarsi come meglio poteva per evitare di
morire soffocato. Dalla tasca dei pantaloni tirò fuori il suo fazzoletto, e se lo portò alla bocca ed al naso, cercando di filtrare il
fumo.
Stai
attento adesso, gli disse Nathaniel,
in questo corridoio c’è il focolaio.
Effettivamente, da quella porta a doppio
battente proveniva il fumo. Odore di carta e di carbone,
oltre che di combustibile. Louis dedusse che in quel corridoio da
qualche parte c’era la caldaia, e che chiunque fosse stato, avesse usato il
fuoco dell’impianto per appiccare l’incendio.
Louis provò a mettere la mano sulla maniglia,
ma questa scottava. Allora cercò qualcosa lì intorno con cui avvolgersi la
mano: uno straccio per spolverare. Lo avvolse intorno alla mano e girò la
maniglia, che si aprì rivelando il corridoio in fiamme.
*****
Intanto, a Londra, un’automobile guidata
dall’Ispettore Martin era lanciata a tutta velocità, mentre un aiutante girava
la manovella che azionava il motore della sirena,
facendo spostare velocemente carrozze, cavalli e calesse. Per la verità, data
la rumorosità del motore a scoppio (un potentissimo impianto a trentacinque
cavalli in dotazione a Scotland Yard), la sirena non sarebbe servita: chiunque
si sarebbe spostato sentendo quell’assordante boato.
Sul sedile posteriore, in mezzo a due
agenti, stava George Barnett. Il suo volto era
un’immagine a metà fra la preoccupazione e la soddisfazione. Finalmente, stava pensando,finalmente vedrò da vicino gli effetti di
una tempesta psicocinetica.
Mentre guidava, l’ispettore Martin si
chiedeva come si fosse lasciato convincere a fare una cosa del genere. Be’, era
facile: quando c’era stato da fermare quel pericoloso criminale di Jack lo
Squartatore, l’allora giovanissimo padre di George, aveva dato una mano alle
indagini. L’assassino non era mai stato catturato, però Scotland Yard non aveva
mai dimenticato l’aiuto di Sir Marcus Ezra Barnett.
Martin guardò George. Sembrava
preoccupato, ma allo stesso tempo trepidante. Mentre era arrivato in ufficio,
lì per lì non ci aveva fatto caso, essendo troppo impegnato a lavorare su delle
scartoffie riguardanti casi di omicidi e tentativi di rapina. Addirittura
Martin aveva pensato che lo stesse prendendo in giro,
dopo la storia che gli aveva raccontato, e quel giovane biondo con il suo
vestitino di velluto verde si sarebbe fatto una notte in cella se non avesse detto
di chi era figlio. In ogni caso, se era vero ciò che aveva detto sull’Istituto
Watkins, quel giorno ci sarebbero state molte vite da salvare.
*****
Dell’inferno Louis aveva visto soltanto
le miniature provenienti dalle letture della Divina Commedia di Dante Alighieri, quel poeta italiano che cantava
dell’amore per Beatrice e sembrava avesse dato agli italiani la lingua che
correntemente parlavano. Se lo immaginava come un
posto buio, dove regnava sovrano il dolore e la disperazione: nulla di neanche lontanamente
simile a ciò che stava vedendo in quel momento.
Le fiamme provenivano da una porta
aperta, dove c’era una caldaia. Chi aveva appiccato l’incendio aveva avuto cura
di ubriacare ben bene i muri di cherosene, tanto che le fiamme si erano
propagate anche sulle pareti. Le strutture di legno che sorreggevano i mattoni,
sarebbero presto state divorate dal fuoco, cedendo inesorabilmente.
Louis tossì, cercando di individuare Nathaniel. Non lo vide, quindi avanzò nel corridoio,
sperando di trovare l’uscita dai sotterranei.
Un tizzone ardente gli cadde vicinissimo,
e poi fu la volta di un’intera trave, che si staccò dal soffitto cadendogli
alle spalle. Louis urlò, correndo per il corridoio. Svoltò a sinistra. Lì,
c’erano le scale che salivano e una porta chiusa.
Salì velocemente le scale, ma a metà
gradinata, la porta si aprì, rivelando la figura di Stephen con la pistola in
mano.
Louis sgranò gli occhi. Stephen non
sembrava più lo stesso: aveva uno sguardo spiritato, come se fosse sotto
ipnosi. Sparò un colpo, che ferì di striscio il braccio di Louis.
- Ah! – gemette Louis, quasi
perdendo l’equilibrio. Se fosse caduto da lì, si sarebbe sicuramente rotto la
testa. Si aggrappò al corrimano. Scottava, ma era sempre meglio che cadere
all’indietro.
Si precipitò giù, ricordandosi troppo
tardi che non poteva ritornare nei sotterranei dei dormitori. La strada era
bloccata dalla trave incendiata.
- Louis…? – stava chiamando Stephen
– Coraggio, vieni fuori. Non ti faccio niente, voglio solo parlare.
–
Louis si rintanò nello stipite di una
porta. Stephen sparò un secondo colpo, quindi Louis tirò di nuovo il cane della
pistola e allineò un altro colpo.
- Sì, voglio fare un bel discorsetto con
te. Hai presente Niall? No? Be’, sappi che io l’ho
sempre tenuto d’occhio. È un opportunista, uno che non si fa scrupoli a
portarsi a letto chiunque voglia. –
Bang! Un
altro sparo risuonò nel corridoio, questa volta Louis riuscì a udire persino i
fischi del rimbalzo.
- E non gl’importa
che siano vecchi… giovani… studenti… colleghi! Lui se li porta a letto. E vuoi
sapere una cosa? Era riuscito a portare a letto anche me.
- Proprio così, mi ha portato a letto,
Louis! Perché tenessi la bocca chiusa sui passatempi che aveva con gli
studenti. –
- C’è, c’è stato, ci sarà un insegnante che non sia mai stato un pervertito, in
questo posto? –
- Oh, eccoti Louis… finalmente sento la
tua voce. Però non riesco a vederti… non è educato
nascondersi, non lo sai? Comunque forse uno c’è: è il professor Umbridge. Che cara persona. Pensa che ha
sempre fatto di tutto per proteggerci. Per non farci finire in mezzo ad
una strada. –
- Già, vi ha tenuti in una specie di
gabbia popolata da mostri e soggiogata da una maledizione… ma tanto a voi cosa
importava? A farne le spese erano i ragazzi. –
- Deduzione esatta, Sir Tomlinson! – esclamò, apparendogli di fronte.
Istintivamente, Louis sparò un colpo, che ferì Stephen ad
una spalla. Se non gli fosse tremata la mano all’ultimo secondo, forse lo
avrebbe centrato dritto al cuore.
- Bastardo!!!
– imprecò Stephen, sbattendo alla parete. Louis sgattaiolò fuori dal suo
nascondiglio, andando verso le scale. Stephen sparò un altro colpo, ma poi
Louis lo sentì urlare.
- Uaaaaaaaaaarrggghhhhhh!!!! –
Si girò. Vide il suo collega che stava
bruciando. I suoi vestiti stavano venendo divorati
dalle fiamme, e lo stesso il suo corpo. L’urto con il muro doveva avergli
bagnato i vestiti di cherosene, e a contatto con il fuoco, si erano accesi. Ed ora il professore di storia dell’arte giaceva
ginocchioni, con le fiamme che lo stavano divorando lentamente.
Louis scappò, arrivando alla porta.
Corse a perdifiato per il corridoio,
vedendo Nathaniel che gli indicava la porta della
biblioteca. Arrivato, Louis l’aprì e velocemente entrò.
Qui, vide che i libri erano stati tutti
accatastati in enormi montagne. Sulla ringhiera del ballatoio, c’era appeso un
cappio, al quale era legato, sostenuto da una scala, Niall.
Il giovane professore di filosofia
piangeva, con le mani legate dietro la schiena e il cappio intorno al collo. Se
la scala avesse ceduto o fosse stata spostata, Niall
sarebbe morto soffocato.
- Louis… - piagnucolò.
- Niall!
Aspettami, vengo a salvart… -
Attento
alle spalle!!!
Non fece in tempo a finire la frase, che
la voce di Nathaniel per poco non gli fece esplodere
il cervello. Dietro di lui, il Preside Umbridge
brandiva una spada, che calò pesantemente contro Louis.
Louis si scansò, evitando per un soffio
che la lama gli staccasse un orecchio. Rotolò accanto ad una pila di libri,
quindi cercò di rialzarsi e affrontare Umbridge con
la pistola. Non riuscendo a rialzarsi, sparò da
seduto. Il colpo mancò Umbridge, che balzò con l’arma
impugnata, cercando di tagliarlo in due.
- Professor Umbridge,
svegliatevi!!! Siete vittima di un sortilegio! –
Nei suoi occhi Louis vide una luce
malvagia. Era come se il suo volto avesse perso ogni fattezza umana: ora non
c’era più il professor Umbridge con lui, ma solo un
mostro senza sentimenti.
Louis si nascose dietro una libreria,
cercando la scatoletta con i proiettili. La trovò. Fece scattare il meccanismo
che apriva il tamburo e s’infilò cinque proiettili in bocca.
- Vieni fuori, e combatti da uomo!
– berciò Umbridge, calando la spada sulle
librerie. Louis scappò, nascondendosi dietro un’altra scaffalatura.
- Tu non sai quanto ho fatto
per questa scuola. Non lo puoi neanche lontanamente immaginare. Non riuscirai a
portare degli intrusi qui dentro. Non
riuscirai a portarmela viaaaaaa!!!!
–
l’urlo
del Preside fu raggelante. Infilando i proiettili uno alla
volta nel tamburo, Louis ricaricò la pistola, richiudendola con destrezza. Umbridge era di spalle, e Louis gli sparò.
Il colpo lo
centrò ad un polmone, tanto che Umbridge fece un
“Oh!” di sorpresa, cadendo in avanti.
- V… vigliacco! Alle…
alle spalle…! –
Louis gli andò vicino con la pistola puntata.
- Non muovetevi. – disse, mentre Umbridge stava tentando di recuperare la spada. Louis la
calciò, tenendolo sempre sotto tiro. Umbridge fece
un’espressione spaventata mentre le sue labbra si riempivano di sangue.
Poi, incominciò a ridere.
- Che cos’avete da ridere? –
- Coraggio, figliolo, ammazzami. Non è
sempre questo ciò che hai desiderato? –
Allora Louis non vide più il suo Preside,
bensì suo padre. Quel vecchio ubriacone del suo padre naturale. Accanto a lui,
persino una bottiglia di whisky aperta. Lo guardava con quegli occhi cerchiati
di rosso, e quell’espressione gufesca e cattiva. Louis
continuò a tenerlo sotto tiro, ma la mano gli tremava.
- L’ultima volta non ti è riuscito bene,
uccidermi… sei stato maldestro, a mettere quella cordicella sulle scale… sono
caduto e mi sono rotto l’osso del collo. Ma non mi hai
ucciso abbastanza. –
La mano di Louis tremò ancor di più
mentre stringeva saldamente il calcio nella mano. – S..stai… zitto! – gli intimò.
- Ora sono tornato, figlio mio… e ti
prometto che staremo insieme per sempre. E sempre. E sempre. –
- Basta!!!
– urlò Louis, sparando uno, due, tre, quattro colpi alla figura sotto di
sé, chiudendo gli occhi. Quando li riaprì, vide che il
corpo era quello del Preside.
Un paio di mani si misero ad applaudire
lentamente.
Louis si voltò. Dietro di lui, Harry sorrideva
divertito mentre batteva le mani.
- Bravo, Louis. Molto bravo. –
- Harry… o forse dovrei chiamarti Elijah?
–
Il ragazzo incrociò le braccia sul petto.
– Chiamami come preferisci. Elijah… oppure Harry. L’importante è che tu
sappia chi sono. –
- Sì… Lo so chi sei… Qualunque sia il tuo
nome… sei un ragazzo che non ha mai provato la felicità nella sua breve vita. –
disse Louis.
Harry lo fissò
intensamente senza dire una parola per un lunghissimo tempo. Poi sospirò.
- Già, forse. È tutta acqua passata
quella che ho in corpo. Però… le ferite non si cancellano. Ma
forse oggi riuscirò a pareggiare i conti. –
Detto ciò, Harry allargò le braccia e
chiuse gli occhi. Istantaneamente, le pile di libri accatastati incominciarono
a fumare, prendendo fuoco sotto gli occhi attoniti di Louis.
Padre Elton annusò l’odore di bruciato
mentre stava dicendo le sue orazioni del mattino nella canonica. Saltò giù
dall’inginocchiatoio e andò alla finestra a vedere. Sconvolto, si portò le mani
alle guance.
L’Istituto Jonathan Watkins, per il quale
si occupava di curare la pulizia delle anime degli
studenti e degli insegnanti, aveva iniziato a prendere fuoco. A giudicare
dall’intensità delle fiamme, il focolaio doveva essere il sotterraneo, dove,
pensò Elton, doveva essere scoppiata la caldaia.
- Oh, mio Signore! – esclamò,
facendosi subito il segno della croce, e ripensando immediatamente a ciò che
gli aveva detto Umbridge per tutti quegli anni. Non
poteva essere semplicemente stato un incidente all’impianto di riscaldamento.
Elton sapeva che cosa era in atto in quella scuola, da quando ci fu il primo
rogo, nell’ormai lontano 1890.
- Gli spiriti si stanno risvegliando. È
giunto il momento della battaglia tra le forze del bene e quelle del male.
–
Padre Elton allora entrò in chiesa, e
s’inginocchiò di fronte all’altare per pregare.
Dopo qualche minuto, udì dietro di lui
uno scricchiolio. Si voltò, ma non vide nessuno. Ritornò alle sue preghiere,
quando una mano che gli si posò sulla spalla lo fece
letteralmente sbiancare. La mano era insanguinata, e gli occhi del ragazzo lo
guardavano imploranti.
Era Jack Knight, lo studente che si era
tagliato le vene.
Aiutateci
Padre, disse Jack. Elton si voltò, e vide che il ragazzo non
era solo. Con lui c’erano anche altri due fantasmi: C’erano Robert Hayden e
Gerald Holmes.
- Ah! – esclamò il porporato
gettandosi la mano al petto. Strinse forte il crocefisso di legno che teneva
sulla tonaca, poi chiuse gli occhi e vide soltanto il buio.
*****
Quando la macchina della polizia giunse a
ChestnutCastle a sirena
spiegata, i suoi occupanti, vale a dire l’Ispettore Martin, George Barnett e l’assistente, trovarono
gli abitanti in fibrillazione: sulla piazza principale, alcune donne e bambini
erano fermi a guardare l’Istituto Watkins che in lontananza stava prendendo
fuoco. Due donne si girarono e sorrisero di sollievo. Una di queste gridò
– Dio sia lodato! È arrivata la polizia! –
I maschi intanto stavano preparando un
carro pieno di grandi botti d’acqua con l’intento di trasportarle sulla collina
dove sorgeva la scuola, nel tentativo di spegnere le fiamme. I cavalli però
erano nervosi. Nitrivano e scalpitavano come ossessionati, nonostante i
tentativi di calmarli dei rispettivi padroni.
- Fermi, state fermi!!!
– gridò un uomo munito di frustino, cercando di calmarli.
- Prova a dar loro una carota, forse si calmeranno – disse un altro.
- Gliene ho già date
quattro, ma non ne vogliono sapere! –
- Gli animali sentono le presenze
soprannaturali – mormorò George, dal sedile posteriore dell’automobile.
Martin si girò a guardarlo, tenendo la mano sul volante. Il ragazzo aveva
l’espressione assorta.
- Che avete detto? – chiese Martin.
- Che forse non siamo venuti qui per niente, Ispettore. Gli animali sentono le presenze
soprannaturali. Non è una coincidenza che i cavalli non vogliano saperne di
salire lassù. –
Martin gettò un’occhiata alle bestie da
tiro, che nitrivano impaurite e cercavano di sottrarsi alla spaventosa
spedizione.
- Che cosa facciamo Ispettore? –
domandò l’assistente.
Per un bel po’, Martin non rispose.
Guardò prima i due carri con sopra le botti, poi smontò dall’auto e guardò
dietro di essa. Poi guardò di nuovo i carri.
George e l’assistente lo osservarono
avvicinarsi agli uomini.
- Signori – disse, con pacatezza
– Ho bisogno di una corda molto robusta. Possibilmente una catena. Potete
procurarmela? –
- Certo, signore! – esclamò uno di
questi, un uomo magro con la camicia e i calzoni tenuti su da delle bretelle.
– Ehi Joe! Senti se Bob ha delle catene, in
bottega! –
Joe
doveva essere suo figlio, un ragazzino di circa quattordici anni, che corse
velocemente verso la bottega del fabbro.
- Molto bene. Adesso avrei bisogno di
un’altra automobile. Qualcuno di lor Signori ne possiede una? –
Gli uomini che erano lì intorno si guardarono
l’un l’altro, ma nessuno rispose. Martin dedusse che in quel paese era già
tanto se sapevano leggere e scrivere, quindi figurarsi se potevano aver imparato
a guidare un’automobile.
- Io, Sir. – disse una voce. Martin
si girò, e vide un uomo con il camice bianco che teneva le mani in tasca.
- Il Dottor McAuliffe
ne possiede una! – esclamò uno degli uomini.
- Precisamente, Sir. Ora, se voleste
essere così gentile da spiegarmi come posso aiutarvi, ve né sarò molto grato.
–
- Molto bene, dottore. Prestatemi
orecchio, ve lo spiegherò. –
Intanto George era sceso giù dall’auto
senza farsi vedere dagli altri, troppo impegnati ad ascoltare Martin. Con la
sua attrezzatura a tracolla, incominciò a correre per il sentiero che portava
su fino all’Istituto Watkins.
*****
L’atmosfera intorno a Louis era diventata
liquida. Oltre al caldo, che gli stava procurando il sudore sulla fronte, si
sentiva come se tutto intorno a sé stesse per
sciogliersi. Le pile di libri ardevano vivacemente di un fuoco che, lo sapeva,
non si sarebbe spento tanto presto. Dai candelabri a gas si sprigionavano
fiammate alte, come se qualcuno avesse aperto troppo il rubinetto che regolava
l’afflusso del gas in cantina. Louis guardò Niall,
che era lì, sospeso tra le fiamme e il vuoto, tenuto su solo dalla scala che
aveva sotto i piedi. Piangeva. Un solo movimento falso sarebbe bastato a far
precipitare la scala e impiccarlo come un salame.
Harry gli stava di fronte, a non più di
quattro metri di distanza, a guardarlo con espressione divertita.
- Harry – disse Louis, tenendo la
pistola puntata – Ti prego, cerchiamo di trattare. Lascialo andare e
prendi me. Non ti chiedo nient’altro. Lascialo andare ed io resterò con te.
–
Ignorando deliberatamente la proposta,
Harry lo fissò ed iniziò a parlare.
- Vent’anni fa – disse –
Vent’anni fa io ero al posto del tuo amichetto Niall. L’unica differenza era che non c’era nessuno a
trattare per la mia liberazione. C’erano solo loro, che mi volevano morto.
–
- “Loro” chi? – domandò Louis.
Harry avanzò. Louis continuò a tenergli
la pistola puntata. Sparò un colpo. Poi un altro. Poi un altro ancora. Ma Harry era ancora in piedi. Louis continuò a tenergli
l’arma puntata contro, ma Harry, come se non avesse sentito nulla,
gliel’abbassò con un delicato gesto della mano.
- Guardami – disse Harry, guardandolo intensamente negli occhi. – Guardami bene,
e saprai tutto ciò che c’è da sapere. –
Louis lo guardò,
mentre Harry gli portava le mani alle guance. Anche in quel momento di massima
tensione, con l’edificio in fiamme, Louis riusciva a provare attrazione per
quel ragazzo ed i suoi occhi verdi ammalianti. Cercò
di sottrarsi a quello sguardo magnetico, a quegli occhi brillanti, ma non
riuscì. Intanto, le mani di Harry avevano incominciato ad accarezzarlo sulla
fronte e sul viso, chiudendogli gli occhi. Lentamente, Louis si sentì
trasportato in una dimensione diversa, in un’altra epoca…
…camminava
con i libri premuti contro il petto e gli occhi bassi. Non sapeva il perché si
trovava lì, né il come ci fosse arrivato. Ricordava solo che doveva essere
sfuggito a un linciaggio di gruppo.
Gli
uomini di cui aveva memoria erano tutti armati: chi teneva un forcone, chi una
torcia… chi brandiva asce e accette. Ricordava che erano arrivati
all’improvviso in una notte senza luna, mentre lui e sua madre dormivano. Erano
stati svegliati all’improvviso dalla folla che li portava via insieme a altre
donne ed altri bambini e ragazzi. Non sapeva perché.
Sapeva solo che mamma e le sue amiche erano belle, e che spesso si dilettavano a fare dei giochi di magia: da quelle pentole
venivano fuori tutti i colori dell’arcobaleno, insieme con profumi inebrianti.
Come potevano delle donne così essere malvagie?
Frammenti
di ricordi, che si confondevano nella sua testa mentre attraversava i corridoi,
spinto dai mormorii dei suoi compagni e degli insegnanti: “il
figlio della strega, il bastardo del peccato… il figlio del diavolo” lo
chiamavano.
E di
nuovo la sua mente riandava a quella notte. Quella notte in cui vide sua madre
che veniva legata e imbavagliata, portata sulla
pubblica piazza e bruciata insieme ad altre. Si udì urlare, correre verso il
rogo allestito e cercare di gettarsi tra le fiamme per salvarla, ma venendo bloccato da qualcuno. Un agente di polizia, che lo portò via e lo sbatté in una cella.
Poi
ricordò il processo, e la decisione di mandarlo a scuola all’Istituto Watkins.
L’unico che avrebbe potuto ospitarlo. Gli altri, a sentire il magistrato, non
avevano voluto accoglierlo.
I
suoi sogni erano sempre tormentati. Rivedeva ogni notte quella notte maledetta in cui gli strapparono sua madre. E ogni
giorno che si svegliava, si trovava di fronte a quegli sporchi personaggi che
lo circondavano: i suoi compagni di classe e quei professori cattivi e
meschini.
Veniva punito se parlava troppo forte… veniva
punito se non si vestiva bene… se non sapeva la lezione del giorno… se non si
puliva bene le scarpe.
Tutti
questi perché li sapeva… quello che gli sfuggiva, il più importante, era il
perché a volte gli uomini si comportavano così.
E poi
c’era quel custode, Donovan. Che gli diceva di non
abbattersi, di resistere ancora un altro anno e poi sarebbe stato libero.
Libero di andarsene, libero di esplorare il mondo.
Anche se cercava di consolarlo, si capiva fin troppo bene che era lui il primo
ad aver bisogno di consolazione. era un uomo
tormentato, povero Donovan. Aveva perso moglie e figli ed era rimasto solo
anch’egli, a badare a quell’istituto ed alla sua gente
schifosa.
Una
notte, “Loro” aprirono di scatto la porta della stanza
dove dormiva: erano cinque, tutti incappucciati. Lo legarono, imbavagliarono e
portarono via. Vide alcuni ragazzi che uscivano dalle loro stanze, ma una voce
tonante ordinava loro di tornare a dormire.
I
cinque lo portarono via, nella biblioteca. Qui, sul ballatoio avevano allestito
una forca con un cappio. Gli misero il cappio intorno al collo, quindi lui
incominciò ad urlare. Quando gli tolsero il bavaglio,
stava ancora urlando a squarciagola.
- è
inutile che urli, non ti sentirà nessuno – disse uno di questi. Gli guardò il ciondolo che aveva sul collo, lo aprì e glielo
strappò.
-
Lascialo!!! È mio!!! – strepitò.
Quello
non l’ascoltò. Si ficcò in tasca il ciondolo, aprì un libro e si mise a
recitare delle preghiere, mentre gli altri quattro si preparavano a buttarlo
giù dal ballatoio. Guardò giù, vedendo il vuoto della biblioteca, e pronunciò
delle parole sottovoce.
- In
nome di Satana, io vi maledico, tutti quanti voi che occupate questo posto.
Sarete per sempre perseguitati dalla mia maledizione
per la vostra cattiveria. Possiate voi bruciare nell’inferno che voi stessi avete
creato!!!! –
Pronunciata
la maledizione, si udì un rombo assordante. Le candele spente si incendiarono, e le torce che avevano gli esseri
incappucciati diedero fuoco ai libri. Lui cadde giù, con il cappio che gli tirò il collo spezzandoglielo.
Non
morì subito. Giusto il tempo di vedere che gli uomini si erano tolti il
cappuccio, rivelando la loro identità:
il Professor Denker.
Il
professor Baskerville.
La
professoressa Rigg.
Il
professor Brown.
Il
professor Umbridge.
Louis si riebbe dallo stato di trance in
cui l’aveva portato Harry, ansimando a fondo. Harry, di fronte a lui, piangeva.
- Mi hanno ucciso perché ero il figlio
della strega, Louis! È stato orribile! Ma oggi
pareggerò finalmente il conto. Tutti. Tutti voi che siete qui, morirete insieme
a me. –
Addolorato, Louis guardò Harry. Benché
accecato dall’odio, il ragazzo gli aveva toccato il cuore con i suoi ricordi.
Anziché cercare di fermarlo, lo accarezzò. Harry si
ritrasse in un primo momento, scappando via, verso la scala che reggeva Niall.
- Non avvicinarti! – gli intimò
– O il tuo amichetto finisce appeso! –
Louis allora si fermò, gettando la
pistola. Alzò le mani, e guardò Harry con espressione triste.
- Che cosa c’è? Ti ha fatto male sentire
la mia storia? –
- Sì. E tu… tu mi hai fatto molta pena,
Elijah… Io… io vorrei solo aiutarti. –
- Nessuno può
aiutarmi. Nessuno, Louis. Nessuno. –
- Io posso aiutarti. –
- E come? -
Tenendo la sinistra sollevata, Louis infilò
la mano destra nella tasca della giacca.
Ciò che vide uscire da quella tasca,
lasciò di stucco Harry.
*****
Intanto fuori, George Barnett
si teneva a distanza di sicurezza con il suo apparecchio. Mentre l’edificio
bruciava, lui si esaltava nel vedere gli aghi dei quadranti schizzare verso
destra, segno che l’attività psicocinetica era ai massimi livelli.
Esaltato anche lui ai massimi livelli,
posò delicatamente l’asta di rilevazione e caricò la macchina fotografica. La
puntò sull’istituto in fiamme e poi sul portone d’ingresso. Qui, rimase
sbigottito nel vedere quattro ragazzi che stavano in piedi a guardarlo.
George abbassò l’apparecchio per guardare
con i suoi occhi, ma i quattro ragazzi erano scomparsi. Poi, nella sua testa,
udì una voce.
I
ragazzi sono ancora vivi, nell’accesso ai dormitori. Corri a salvarli, presto.
- Chi ha parlato? –
Guarda
nella macchina fotografica, disse un’altra voce.
George obbedì, e vide che di fronte a
lui, vicinissimi, c’erano i quattro ragazzi di prima. A bocca aperta, George
premette il bottone di scatto, ricaricò, poi scattò ancora.
Vai
ad aprire la porta dei dormitori, gli disse ancora una voce.
- S… sì. – rispose soltanto George,
lasciando la sua attrezzatura e correndo verso il cortile.
Le fiamme avevano già raggiunto il
dormitorio, e il fumo nero usciva da quasi tutte le finestre. Solo quelle
dell’atrio sembravano non fumare.
- Aiuto! Aiuto!!!
–
- Resistete, vi
salverò io! – urlò George, precipitandosi a cercare di aprire la porta,
le cui maniglie erano bloccate.
- La porta è bloccata! Cercate qualcosa
con cui rompere i vetri, presto! –
George allora si guardò intorno, quindi
vide un’accetta piantata in un tronco lì vicino. La prese e menò un pesante
colpo alle vetrate accanto alla porta, che andarono in frantumi dopo un paio di
colpi. Picchiò ancora un po’ per assicurarsi di aver rimosso bene i vetri,
quindi spalancò le finestre, ed a quel punto i ragazzi
incominciarono a scavalcarle. George li aiutò a
scendere dalla finestra, poi si sporse e guardò dentro.
- No, sir. Siamo usciti tutti! –
rispose un ragazzo, che fuggì via uscendo dal cortile.
A quel punto, sorridendo,
George si spolverò le mani, battendole leggermente. Mentre stava per andarsene,
un’invocazione d’aiuto attirò la sua attenzione.
Immediatamente si voltò e trovò la porta
dei dormitori spalancata (strano, pensò, credevo fosse
chiusa), e vi entrò dentro. La voce continuò a gridare aiuto. Cercando di
capire da dove provenisse, George entrò in una porta. A giudicare da ciò che
aveva intorno, capì di trovarsi nell’appartamento del custode. Qui c’erano
diversi oggetti, tra cui sul camino una doppietta da caccia. L’aprì, vide che era scarica e cercò le cartucce. Le trovò nel
cassetto di uno scrittoio lì vicino al camino. Caricò l’arma e uscì
dall’appartamento.
- Aiuto! – disse la voce.
- Calmatevi, ora siete al sicuro. –
Improvvisamente, una porta si aprì, e da
lì venne fuori un individuo alto e dal volto sfigurato, con i vestiti
bruciacchiati. L’uomo sembrava un arrosto umano, ma nonostante questo camminava
e muoveva le braccia con disinvoltura.
- Ha’e…èttoBa’haaardoooo!! – urlò il figuro, avvicinandosi sempre di più a
George.
Il ragazzo stava cercando di capire chi
fosse quell’individuo, e perché fosse ancora vivo nonostante tutte le ustioni
che aveva sul corpo. La faccia non era più riconoscibile, sputava sangue dalla
bocca e un occhio gli era esploso. Più in giù, dove una volta doveva esserci
stato lo stomaco, si vedevano le costole sporche di sangue misto a fumo nero. L’uomo
era morto, eppure parlava.
- H…IU’hido!!! – urlò di nuovo il morto vivente, quindi
George alzò la doppietta e gliela puntò contro. A differenza di Louis, George
aveva avuto occasione di partecipare a battute di caccia quando era ancora un
ragazzino. Premette il grilletto e dalle due bocche dell'arma partì una scarica di pallettoni in una fiammata che colpì in
pieno volto l’individuo urlante, che andò a schiantarsi sul muro.
Per gesto automatico, George aprì il
fucile e fece saltar via i bossoli esplosi dalle
camere di scoppio, inserendone altri due. Richiuse il fucile, quindi andò a constatare se l’individuo fosse finalmente morto.
Non era neanche tanto vicino, che l’uomo
che doveva esser morto una seconda volta si mosse, cercando di alzarsi.
- Gesù! – imprecò George,
allontanandosi in fretta. Quando provò ad uscire, la
porta gli si chiuse davanti. Provò a scappare dalla finestra, ma anche questa
si richiuse. George era in trappola.
Il morto vivente intanto si era rialzato,
e guardava George con l’espressione minacciosa del suo unico occhio rimasto.
George deglutì, quindi alzò il fucile e si preparò a far fuoco di nuovo.
Oh
signore, ti prego, aiutami. Che diavolo sta succedendo a questo posto??
L’Ispettore Martin si accorse della
mancanza di George quando il carro che trasportava le botti fu fissato alla sua
automobile. Si guardò intorno, ma non lo vide tra la gente. Dovrò fare quattro chiacchiere con Sir Barnett quando questa storia finirà, pensò, mentre
girava la pesante manovella che avviava il motore dell’automobile. Il dottor McAuliffe, una volta fissato il secondo carro, saltò
velocemente al posto di guida ed urlò – Avanti!
Andiamo a salvare quei poveri ragazzi! –
I due veicoli si mossero quasi
contemporaneamente, muovendo i carri che trasportavano le quattro botti
d’acqua, due per carro. Spero che non sia
troppo tardi, pensò Martin, mentre guidava l’auto su per il sentiero che
conduceva al Watkins.
*****
George Barnett
nella sua vita aveva visto un po’ di tutto: case infestate, fantasmi che si
materializzavano in edifici abbandonati, piagnistei di anime in pena. Nulla di
lontanamente paragonabile a quello che stava vedendo quel giorno: un mostro che
una volta doveva essere stato un umano che gli stava dando la caccia per i
corridoi di un edificio in fiamme.
Non potendo uscire dalla porta
principale, George era riuscito (non sapeva nemmeno come) a guadagnare le
scale, ed aveva incominciato a salire su per i
gradini. Fermarsi subito al primo piano era una pessima idea: già al piano
terra i locali stavano venendo divorati dalle fiamme, e
in breve anche il primo piano si sarebbe trasformato in un rogo. Rimanevano il
secondo… e il terzo.
Velocemente, George raggiunse il terzo
piano, dove il fumo lo faceva da padrone: i locali erano tutti affumicati,
tanto che lui tossì violentemente una volta arrivato su.
Si abbassò, cercando di respirare quanto più possibile aria pulita, ma non era
facile. Udì un rumore violento: l’energumeno non-morto stava salendo le scale
in gran fretta.
George si guardò intorno, cercando di
capire cosa poteva fare. Riuscire a pensare in una situazione come quella era
un esercizio difficile per chiunque. Ansimante, guardò le porte aperte delle
stanze, ne scelse una e tastò dietro il pomello per vedere se ci fosse la
chiave. C’era!
La prese e si acquattò dietro la porta.
Lo zombie (che
in realtà era Stephen), arrivò al terzo piano. Anch’egli si guardò intorno,
digrignando quel che era rimasto dei suoi denti. Camminò a grandi falcate verso
la fine del corridoio, incominciando a guardare in tutte le stanze.
Ti troverò, bastardo. E ti
farò pentire di esserti intromesso. Questo è un affare tra Louis e… Lui.
George sentì lo scricchiolio delle assi
del pavimento farsi sempre più vicino, fino a che non sentì che l’energumeno
stava entrando nella stanza. Armò uno dei cani del fucile, e lo
puntò davanti a sé. Vide l’energumeno di schiena, che faceva per girarsi.
Senza aspettare che lo vedesse, George
tirò il grilletto di sinistra, e da una bocca partì un’altra scarica di
pallettoni che abbatté il mostro. Velocemente sgattaiolò via dal suo
nascondiglio dietro la porta, ma questa si richiuse prima che lui riuscisse a
uscire, imprigionandolo una seconda volta.
- No!!! –
urlò George, con la mano sulla maniglia, tirandola e girandola per cercare di
aprire la porta, senza ottenere risultato.
Si voltò. Il non-morto era lì che stava
per rialzarsi. Con la pelle d’oca dalla paura, George alzò di nuovo il fucile,
gemendo per la disperazione. L’individuo ghignava, e mentre avanzava
tendeva le mani.
George schiacciò una seconda volta il
grilletto, impallinandolo una terza volta. Quello rimase giù una trentina di
secondi, ma poi ricominciò a muoversi, pronto ad alzarsi nuovamente.
Urlando, George incominciò a tempestare
la porta di pugni e calci, sperando che prima o poi
cedesse. Intanto il mostro si era giàrialzato, ed aveva già le mani
pronte a chiudersi sul suo collo.
- Oh, no!!!
No!!! No!!!! Noooooooo!!!! -
*****
Ancora nella biblioteca, con Niall nel rischio di finire impiccato ed
Harry che lo guardava attonito, Louis tirò fuori dalla tasca l’orologio che
aveva comprato dal negozio Ziegler. Harry lo fissava in contemplazione, quasi
imbambolato. Si avvicinò lentamente a Louis, ma questi ritrasse velocemente la
mano.
- Dammelo! – gli ordinò, quasi
ringhiando.
Per nulla spaventato, Louis gli rispose
– Prima devi lasciar andare Niall. –
- Prima dammi quel ciondolo! È mio!
–
- Mi prometti che lascerai andare Niall? –
Harry digrignò i denti.
- Guardalo – disse Louis, con una
calma invidiabile – Guardalo bene in faccia. Sta soffrendo, proprio come
te quel giorno. Non ti ha fatto niente, perché ce l’hai
con lui? Lascialo andare. È me che vuoi, non lui. Non è così? –
Colpito nel vivo, Harry guardò intensamente
Louis. In quell’istante, Louis poté vedere tutta la tristezza che emanavano quegli occhi così verdi. Se in un primo momento
aveva provato sensualità e dolcezza, ora in quello sguardo vedeva solo il nero
di una vita passata nell’infelicità, della quale quegli occhi erano stati
testimoni involontari.
Senza Louis aggiungesse altro, Harry tese
una mano verso Niall e il nodo che legava i suoi
polsi si sciolse, così che lui poté riprendere l’uso delle mani.
Contemporaneamente si sciolse anche il nodo che teneva il cappio attaccato al
ballatoio. Niall barcollò sulla scala, cercando di
evitare la pericolosa caduta.
Istintivamente, Louis scattò in avanti, e
per fortuna riuscì a parare la caduta di Niall, che gli rovinò addosso facendolo atterrare con il sedere sul
pavimento.
- Ouch! –
esclamò Louis, con Niall in braccio.
- Louis! – Niall
piangeva. Lo baciò sulle guance e poi sulle labbra.
– Ti prego portami via da qui! –
Ma
Louis non lo stava ascoltando. Stava guardando Harry mentre contemplava
l’orologio che aveva comprato al negozio Ziegler. Lo teneva con entrambe le
mani a coppa, come si terrebbe un uccellino ferito. Una lacrima scivolò dai
suoi occhi, e allora l’orologio incominciò a suonare una melodia.
♫♪♩♬♫♪♩♬♫♪♩♬♫♪♩♬♫♪♩♬♫♪♩
Louis
si alzò, lasciando Niall in ginocchio dietro di sé, e
andò vicino a Harry.
L’orologio suonava ancora quella melodia
così dolce, che alle orecchie di Louis sembrava una musica celestiale. Guardò
il quadrante. La lancetta dei secondi aveva ricominciato a scandire il tempo, diversamente
da quando l’aveva comprato lui.
- L’ultimo… l’ultimo ricordo che avevo di
mia mamma… - mormorò Harry, mentre le fiamme
continuavano a divorare tutto.
- E’ tuo, Harry. Conservalo gelosamente.
–
Harry guardò intensamente Louis. Aveva
gli occhi lucidi, e se Harry non gli avesse preso la mano nella sua,
sicuramente sarebbe scoppiato a piangere.
- L… Louis? – piagnucolò Niall. Nello stesso momento vide il corpo del Preside Umbridge. Dal taschino della sua giacca spuntava fuori un
libretto, una specie di diario.
Niall
prese velocemente il libretto e se lo mise in tasca. Poi vide che la porta
d’ingresso della biblioteca si apriva, rivelando il corridoio e un getto
d’acqua che entrava dalle finestre esplose. Corse in
quella direzione, ma prima si guardò indietro per capire che intenzioni aveva
Louis. Questi se ne stava lì, in ginocchio, da solo. Harry era scomparso.
- Louis... – disse Niall, in piedi accanto a lui – Vieni, dobbiamo
andarcene da qui. –
Louis non si mosse. Guardava verso il
basso, verso qualcosa che Niall non riusciva a
vedere.
- Louis! – lo scosse, ma egli non
dava segno di risposta. – Vieni, andiamocene, presto! –
Non
può venire con te. È già con Lui.
Niall
trasalì nel sentire quella voce, ma decise di non attendere oltre, e corse verso
il corridoio.
Louis rimase lì dov’era ancora un po’,
poi si accasciò lentamente a terra, e lì chiuse gli occhi.
*****
Contemporaneamente, George stava provando
l’ebbrezza di venire strozzato come una gallina da un
essere soprannaturale. Mentre pregava con tutto sé
stesso che lo zombie smettesse di strozzarlo, le sue preghiere furono esaudite.
Lo zombie si
fermò e incominciò ad allentare la stretta, quindi si allontanò da George e si
accasciò al muro, incominciando a prendere fuoco.
- Uuuuu’aaaaaahhhhh!!! – ululò, mentre ciò che restava delle sue carni
prendeva fuoco, insieme con quel poco di vestiti. George uscì velocemente dalla
porta, corse nel corridoio mentre il soffitto crollava, e scese le scale alla
stessa velocità. In due minuti fu fuori dall’edificio e raggiunse il cortile
quindi il giardino antistante l’edificio, dove
l’Ispettore Martin, il suo assistente e altri uomini correvano di qua e di là
con dei secchi d’acqua in mano cercando di spegnere le fiamme.
Cercò con gli occhi Louis, ma non lo trovò. In compenso vide gli studenti che aveva tirato fuori poco prima dall’atrio dei dormitori, che
se ne stavano riuniti in crocchio accanto ad un altro ragazzo, biondo.
- Dov’è Louis…? – mormorò George, voltandosi
verso l’istituto, ormai quasi completamente invaso dalle fiamme. Alla vista di
ciò, provò una stretta al cuore. Chiuse una mano a pugno e se la portò al
petto, abbassando lo sguardo.
Incendio distrugge
l’Istituto maschile di avviamento universitario Jonathan Watkins
Accorsi
sul posto, l’Ispettore Martin di Scotland Yard e gli abitanti di ChestnutCastle, non hanno potuto
fare nulla per evitare il propagarsi delle fiamme
Non si è potuto fare nulla per fermare
l’incendio che ha completamente divorato uno fra i più prestigiosi
istituti di avviamento universitario del nostro Paese, il Jonathan Watkins. A
vent’anni di distanza dall’ultimo incendio dove perì uno studente, la tragedia
si è ripetuta, questa volta portandosi via un giovane insegnante di
letteratura, tale Louis William Tomlinson. […]
The
INDEPENDENT
L’istituto
maschile Jonathan Watkins distrutto da un incendio di origine dolosa
Il preside dell’istituto, Ernest Umbridge,
ha agito con premeditazione
Non
sarebbe stato un guasto agli impianti di riscaldamento
dell’istituto la causa dell’incendio che ha divorato il Watkins, bensì l’atto
sconsiderato del suo preside Ernest Umbridge, il
quale, coadiuvato da uno degli insegnanti, tale Stephen Robbins, docente di
storia dell’arte, ha messo in atto il folle gesto. I due avrebbero prima ucciso nel sonno i colleghi insegnanti,
Umbridge trafiggendoli con una spada, mentre Robbins
sparando loro alla testa. Quindi
i due avrebbero appiccato l’incendio in preda a un delirio allucinatorio. Le
spiegazioni del folle gesto emergono chiaramente dal diario di Umbridge, consegnato alle autorità dall’unico insegnante
sopravvissuto, Niall James Horan,
docente di filosofia che alloggiava nella palazzina dei dormitori degli
studenti. Dagli scritti del diario emerge una personalità disturbata e
pericolosa, nonché colpevole del primo episodio che
avvenne nel 1890, insieme ad altri quattro degli insegnanti da lui stesso
assassinati. […]
Rogo all’Istituto Watkins: morto giovane
insegnante di letteratura
Il corpo del docente era
accasciato in biblioteca
Si tratta del professor Louis William Tomlinson, unica vittima dell’incendio. Secondo la
ricostruzione fornita dal collega NiallHoran, l’insegnante avrebbe ingaggiato una lotta all’ultimo
sangue con il Preside Umbridge, nella
quale avrebbe avuto la peggio. Particolari in cronaca. […]
Londra, qualche tempo dopo.
- …e
con questo, cari colleghi, ho concluso. Vi ringrazio
infinitamente per essere intervenuti a questo simposio. Grazie di cuore, spero
di rivedervi presto. –
Un
lungo applauso salutò la fine della conferenza di George, il quale s’inchinò e
scomparve dietro le quinte dell’auditorium, raggiunto
immediatamente dai colleghi dell’SPR e da altri membri della comunità
scientifica. Le gambe gli tremavano e sentiva gli occhi chiudersi per la
stanchezza, ma cercava di non darlo troppo a vedere mentre stringeva mani e
salutava persone. Tra queste, lo raggiunse un ragazzo, che George riconobbe
immediatamente.
- Niall. Che piacere rivedervi! – esclamò, togliendosi
il cappello e salutandolo con un lieve inchino.
- Il
piacere è tutto mio – replicò Niall –
Sentite, posso rubarvi un po’ di tempo? –
-
Certamente, tutto il tempo che volete. –
*****
Nell’ufficio
di George c’erano molti libri. Diverse fotografie e ritagli di giornale, nonché alcune fotografie particolari che mostravano
fantasmi. George stava versando del tè nella tazza di Niall.
-
Gradite del latte o del limone? –
-
Latte, grazie. –
George
versò del latte nella tazza. Niall lo prese e
incominciò a girare il cucchiaino.
- Vi
chiedo scusa se non mi sono fatto sentire più spesso, ma ultimamente ho avuto
parecchio lavoro da fare, sapete. – si giustificò George. Niall annuì e sorseggiò un piccolo sorso del suo tè.
- Non
preoccupatevi. –
- Voi
come state? Avete ottenuto quel lavoro che mi dicevate? –
-
Proprio così. Incomincerò la prossima settimana. –
- Me ne
rallegro per voi. – rispose George, sorridendo.
- Sono
contento, anche se non vi nascondo che per me, tornare in una biblioteca dopo
ciò che ho passato qualche mese fa, mi fa ancora uno strano effetto. –
George
annuì – So come vi sentite, purtroppo. –
- E’
proprio per questo che sono venuto qui, George. Voi
siete un parapsicologo, avrete certamente una spiegazione per quello che è
accaduto. –
Niall posò la
tazza e si mise a guardare George. I suoi occhi erano gonfi di lacrime, come se
da un momento all’altro avesse potuto mettersi a piangere. Imbarazzato, per
cercare di prendere tempo, George si mise a sistemarsi il farfallino, mentre
dentro di sé pesava bene le parole da usare.
-
Vedete, Niall… gli eventi negativi sono connotati da
emozioni negative: paura, rabbia, dolore… e quando
accadono, spesso lasciano delle tracce sottilissime nella realtà. In
quell’istituto erano accadute cose molto brutte. E voi lo sapevate. A volte
certe cose possono anche essere pericolose. –
- Così
pericolose da portarmi via Louis… - mormorò Niall. George assunse un’espressione grave, ma non replicò.
Niall
abbassò gli occhi e George vide una lacrima sgorgare
dai suoi occhi. Senza scomporsi, tirò fuori un
fazzoletto dal taschino della giacca e glielo porse.
-
Grazie. –
- Non
c’è di che. Mi dispiace per quello che state passando, ma credetemi:
Sicuramente ora Louis sta bene. E’ in un posto migliore. -
Lo
sguardo di Niall incontrò quello di George, che si piegò
in un sorriso pieno di comprensione.
-
George. –
- Sì?
–
- Prima
di scappare via dall’Istituto, quel giorno, ho sentito una voce nella mia testa
che mi diceva che Louis è con lui. Ma chi era? E che cosa voleva dire? –
George
guardò per un momento Niall, in una lunga pausa. Poi
si avvicinò alla scrivania e tirò fuori una fotografia, e la porse a Niall.
Niall la
prese in mano e un’espressione stupita gli si dipinse sul volto nel vedere
quattro ragazzi eterei, con la divisa dell’istituto, che si stagliavano di
fronte alla porta d’ingresso del Watkins. Alzò lo sguardo verso George, che
annuì grave.
- Erano
loro. Alcune delle vittime della follia di Elijah Pickford. –
- E… e
voi come potete dire ciò? –
Sempre
dalla scrivania, George tirò fuori una cartelletta rilegata, con dentro un
mucchio di carta.
- Sono
alcuni degli appunti di Louis. Li ho trafugati dopo che l’incendio è stato
spento. Alcuni fogli erano bruciacchiati, ho dovuto ricostruire tutto quanto. –
- Che
cosa avreste intenzione di farne? –
George
fece spallucce e un sorrisetto triste, quindi sospirò e scosse la testa.
- Non
lo so. Potrei scriverci un libro… oppure potrei fare ulteriori
ricerche. Ma vi dico in tutta onestà, che ora come ora
non so cosa farci. Penso che li terrò nel mio cassetto
ancora per un po’, in attesa di tempi migliori. -
Niall
ammezzò un sorriso. Tirò fuori un fazzoletto, e si asciugò le lacrime,
alzandosi dalla poltrona per andarsene a casa.
- Ora
devo andare, George. Addio. –
-
Addio, Niall. È stato un piacere rivedervi. Volete
che vi accompagni? –
- Non
c’è bisogno, grazie. Conosco la strada. –
Pochi
minuti dopo che Niall se ne fu andato, George guardò
dalla finestra. Niall era lì, appena uscito dalla
sede dell’SPR. Allora George aprì il suo fascicolo,
tirando fuori una delle foto che aveva nascosto a tutti. Essa ritraeva Louis,
di profilo, di fronte ad un altro ragazzo dai capelli
ricci. Si tenevano la mano.
Elijah ha preso anche te, Louis. Scusami se
non l’ho detto a Niall, ma quell’istituto non è un bel posto per lui. Non lo è mai
stato. Spero solo tu stia bene, adesso.
*****
Louis
aprì lentamente gli occhi, ritrovandosi in un posto dalle suppellettili buie,
rischiarato solo qua e là da pozzi di luce diafana che gettavano macchie di luce sul pavimento. Di fronte a lui, in piedi, c’era Harry.
- H…
Harry… - mormorò Louis, aprendo completamente gli occhi e tirandosi a sedere.
- Ciao
– gli disse l’altro. Aveva un’espressione dolce, di comprensione. Gli
porse la mano.
Louis
la prese e si tirò su. Si guardò ancora intorno, e
senza nemmeno una domanda, immediatamente capì che cosa gli era successo e dove
si trovava.
-
Benvenuto nel mio posto – disse Harry, sorridendo dolcemente.
Harry
gli prese la mano, e lo condusse nel corridoio, dove c’erano gli altri ragazzi
ad aspettarlo.
Thomas,
Sean, Nathaniel, Jack, Gerald e Justin erano lì ad
aspettarli. Ad aspettare solo lui. Louis li guardò
tutti e sei, poi si avvicinò a Nathaniel.
- Nathaniel… - mormorò - …Sei… sei stato molto gentile ad
aiutarmi. –
- Non
volevo che Elijah commettesse una carneficina – disse, guardandolo di
sbieco – Poteva andare bene finché ci ammazzava uno per uno spingendoci a
suicidarci, ma non avremmo tollerato una strage da parte sua. –
A quell’appunto,
Louis guardò Harry/Elijah, che fece un sorrisetto di
chi la sa lunga.
-
Benvenuto fra noi, professore – salutò anche Justin.
-
Grazie, ragazzi. Grazie. –
- Louis,
non stai dimenticando qualcosa? –
Louis
si voltò verso Harry. – Che cosa? –
Dalla
tasca della giacca, Harry tirò fuori un libro e glielo porse.
- Oh,
Harry… - Louis si commosse – Il mio romanzo. Anna Karenina. Lo hai salvato. –
- L’ho
custodito gelosamente per tutto questo tempo. Sono stato bravo? –
Louis gli sorrise, con un’espressione piena di gratitudine. A Harry
bastò come risposta, quindi fece un cenno agli altri ragazzi, che Louis
interpretò come un Toglietevi di torno.
I
ragazzi si allontanarono fino a scomparire, lasciandoli soli.
- Non
credi che meriti un premio per aver conservato il tuo libro? –
- Certo
– disse Louis – Avvicinati. –
Harry gli si avvicinò, e Louis lo prese dolcemente a sé,
cingendogli i fianchi con le braccia. Si guardarono negli occhi.
Louis
sapeva di non appartenere più al mondo terreno, così come sapeva di esser
diventato un fantasma, proprio come i ragazzi, proprio come Harry, che lo
guardava con quei suoi scintillanti occhi verdi. Gli
carezzò i capelli ricci, adorando la loro morbidezza, quindi chiuse gli occhi e
lo baciò dolcemente sulle labbra.
Fu un
bacio lungo ed intenso, a suggellare che ormai Harry
era finalmente felice, nel suo mondo con il suo orologio… ed il suo Louis. E
Louis era altrettanto felice.
Dopo le riprese, Louis, Niall
e Harry cercano Notty, nella sua grande, immensa,
mastodontica, incredibile villa nella bassa emiliana…
Louis: Nottyyyy?
Dove sei?
Niall: Quiii… Nottynottynottynotty! ^_^
Harry: Nottyyyy?!? Qui è il tuo Chihuahua dai lunghi capelli ricci! Su, fai
il bravo e vieni a salutarmiiii!
***Louis e Niall
guardano male Harry, in sottofondo si odono risate finte stile Sit-com***
Harry: Be’, che c’è? Quando siamo in
intimità, mi chiama sempre così ^-^
Niall:
Lasciamo perdere. =_=” Louis? Dove abbiamo già
cercato?
***Louis consulta il suo iPhone***
Louis: Stando a Google Maps,
abbiamo già cercato in salotto, in camera da letto e
in cucina… poi anche nel giardino, nella sua garçonniere…
Niall: intendi
dire dove ci sono i suoi ragazzi? O.O
Louis: lui la chiama così, in realtà è lo
sgabuzzino delle scope…
*** Risate in sottofondo ***
Louis: non abbiamo ancora guardato il suo
studio!!! Corriamo là, presto!
*** i tre corrono e spariscono
dall’inquadratura ***
*** Si apre una porta, dalla quale entrano
Louis, Niall e Harry. Lo studio è parecchio in
disordine, ci sono scatoloni dappertutto, uno
scheletro appeso al soffitto, una statua di Freddie
Krueger e un poster di IT, oltre ad una libreria piena zeppa di libri di
Stephen King. Sulla scrivania, alcune macchinine, una macchina per scrivere ed un mucchio di fogli. ***
Niall: wow,
così questo è lo studio di Notty? Carino… Cos’è? Un barocco-tragico-piemontese?
Harry: No! Ò_o
Niall: e
cos’è, allora?
*** Harry scorge, appoggiata a un muro, una
poltrona a forma di water. ***
Harry: è tragico e basta.
*** risate a crepapelle in sottofondo,
qualcuno applaude ***
Louis:
Ehi, guardate qui! Ho trovato qualcosa!
Niall: Cosa?
O_O Tracce di Notty?
Harry: Ma figurati, Niall…!
Lui si pulisce sempre, dopo!
*** altre risate a crepapelle in sottofondo,
altri applausi ***
Louis: Più o meno…
guarda qui!
*** Louis estrae dal portapenne un vibratore
***
Harry: Ah! Ecco dov’era finito!
*** risate a crepapelle mentre Harry prende
l’oggetto fallico, e mentre Louis e Niall lo guardano
male >_> ***
Niall: …
lascia guardare me. Ehi! Guardate qui...! Sembra che stesse
scrivendo una nuova fan-fiction…
*** Niall sfoglia
le pagine gialle dattiloscritte, mentre il suo viso si allarga di
preoccupazione ***
Niall: Oh, mio
dio…!
Louis: Che cosa c’è? O_O
Niall:
guardate qua…
*** Niall mostra
migliaia di pagine dattiloscritte che ripetono una sola frase: “TANTI
CAPITOLI E POCHE RECENSIONI FANNO DI NOTTY UN RAGAZZO CATTIVO” ***
Harry: …. O.O!!!
Louis: Oh, mio dio… O.O!
Niall: E’
impazzito!!!
Harry: Impazzito? Non potrebbe aver per
sbaglio cliccato troppe volte copia-e-incolla?
*** Risate a crepapelle in sottofondo ***
Louis: Oh no!!
Guardate qua, ragazzi, è terribile! È una lettera di Notty!
Niall: che
cosa scrive?
Louis: Miei cari attori nonché
amici, vi scrivo questa mia per informarvi che, dato il tracollo verticale che
abbiamo appena avuto in termini di recensioni (tradotto per Harry: un fiasco
pazzesco) …
Harry: Che dolce, mi pensa sempre ^-^
Niall: Meglio
che non commento. Va’ avanti, Louis!
Louis: …ho deciso, nel pieno delle mie
facoltà mentali, di … O_O
Niall: Di…? O.O
Harry: Di…???O____o
Louis: di…. O_O
Niall: Di…? O.O
Harry: Di?!?
Louis: ….di ….togliermi…la… vita….!!! :OOOO
Harry+Niall: Oh Noooooooooooooo!!!!:OOOOOOO
Harry: Senza nemmeno darmi un’ultima botta
d’addio!!!Ç_ç
Louis+Niall: Senza
nemmeno pagarci l’onorario!!!! >____<!!!!
*** Risate a crepapelle in sottofondo ***
*** Notty appare da
una porta insieme ad un signore anziano con gli
occhiali e dal viso spaventoso ***
Notty:
Ragazzi! O_o Si può sapere che cavolo ci fate nel mio
ufficio?
Niall: Noi?!? Che cosa ci fai tu, piuttosto!
Notty: E’ il
mio ufficio, nel caso ti fosse sfuggito. >_>
Niall: Ops! Già, vero ^.^” eheh.
Harry: Notty!!!Ç_ç dimmi che sei tu e che non
sei uno zombie!
Notty: o.O ? Harry,
Si può sapere che cos’hai fumato questa volta?
Harry: Niente che non fosse umano, anche se
non era tuo! >_<
*** Risate a crepapelle in sottofondo, più
applausi. ***
Louis: Che cosa significa questa?!? *Louis gli sventaglia di fronte la lettera*
Notty: Oh…?
Questa? È la mia lettera d’addio.
Louis: Quindi… fai … sul serio?
Notty:
Assolutamente. Non ce la faccio più, voglio farla
finita. Dico, avete visto che tracollo con quella fan-fiction? Meno della metà
di 100 recensioni! Addirittura una che ha creduto fosse il plagio de “L’attimo
fuggente”… Bah! Ragazzi, non ci siamo per niente! Abbiamo speso più di quanto
abbiamo incassato, per cui io con la scrittura, la chiudo qui! Appendo la
macchina per scrivere al chiodo, voi fate un po’ quel che volete! Nel frattempo
mi ammazzo!
Louis+Niall+Harry: nooooo!!:O
Notty: Cosa
“no”?
Niall: Non
ammazzarti! Sarebbe uno spreco!
*** Nottyprende fuori una rivoltella e la punta contro i tre ragazzi
***
Notty: e di
cosa?
Louis: di pallottole….
*** risate in sottofondo ***
*** Notty s’infila
una sigaretta in bocca, quindi punta la bocca della
pistola alla sigaretta e scaturisce una fiamma. Tira una boccata, poi mette via
la pistola-accendino ***
Notty: Ma
siete deficienti? >_> E perché cazzo dovrei
ammazzarmi? Per darla vinta a quelli che vorrebbero cacare sulla mia tomba?
Nossignori!
Louis: Però è vero che la storia è stata un flop…
Notty: Questo
lo so, signor Louis Imbecille Tomlinson Patentato…
non c’è bisogno che me lo ricordi. Lo ammetto, questa volta ho fatto un po’ le
cose a cazzo di cane, ma sfiderei chiunque a fare qualcosa per bene con tutto
il daffare che ho! Lavoro, studio, studio e lavoro… Tsk! Beati voi che non avete un cazzo da fare, nella vita…!
Harry: Beato me? T_T non cerco
altro, nella vita!
*** Risate a crepapelle in sottofondo, altri
applausi ***
Louis: Lui chi sarebbe? * indicando l’uomo
alto e con la faccia spaventosa *
Notty:
ragazzi, mi sorprende che non l’abbiate riconosciuto! Ma
è Stephen King, il Re dell’Horror! *.*
Stephen_King: Hey, ragazzi! ;) come butta?
Niall: e…
perché l’hai portato qui?
Notty: A dire la verità ci è venuto. Ha letto le mie storie e…
Louis: Gli sono piaciute???
*.*
Notty: ….No, a dire il vero gli hanno fatto schifo e ha detto che le
avrebbe volentieri usate come carta igienica, ma siccome sono il suo Fan Numero
1….476938963896893 milioni, ha deciso di darmi una possibilità.
Harry: e cioè? O.O
Stephen_King: Un bel
corso di scrittura dell’orrore!
Notty: Proprio
così! Quindi ragazzi, rimanete qui intorno, potreste servirmi
ancora! ;)
Harry: Slurp! *ç*
con vero piacere, Nottolino caro!
Notty:
Benissimo. Ora fuori dalle palle, che io e il Re dobbiamo lavorare!
Niall+Louis: Ehi!
Non puoi mandarci via così! >_< ci devi ancora i soldi dell’ultimo
ingaggio!
Harry: Più gli arretrati! C: ma io accetto
anche pagamenti in natura! *ç*
*** risate in sottofondo ***
*** Notty tira
fuori una valigetta e la apre di fronte ai tre ***
Notty: Questi bastano?
Niall: Cazzo,
sì! *ç*
Louis: Ehi, un momento! >_< da dove li
hai presi?
Notty: Oh,
sono solo l’anticipo di un contratto per una prossima fan-fiction.
Harry: Che fan-fiction? O.O
Notty: Quella a cui io e questo signore dobbiamo lavorare se mi fate la
grazia di levarvi dalle palle!!!
*** I tre prendono i
soldi e si dileguano dalla porta, ringraziando Notty
***
Louis: Yu-huu!! *ç* Siamo ricchi! Se Notty
lavora con un genio come Stephen King, i soldi fioriranno a palate!!!
Niall:
finalmente potrò comprarmi una macchina nuova!!! *o*
Harry: Finalmente potrò corrompere tutti quei
maschioni di Playboy!!! *çççççç*
*** Risate in sottofondo fortissime, più
applausi ***
*** Intanto, nell’ufficio di Notty … ***
Notty: Se ne
sono andati, puoi toglierti la maschera.
*** Stephen King si toglie la maschera e viene rivelata la figura di HitoshiKinomiya ***
Notty: Grazie
per il favore, amico mio…!
Hitoshi: Prego,
ma… puoi spiegarmi il perché di questa messinscena?
*** Notty scruta
dalla finestra il tramonto ***
Notty: Eh, mio
caro Hitoshi… è passato del tempo da quando eri il
mio assistente, ma vedo che non hai imparato nulla di me…
Hitoshi: …? O.O
Notty: La
fan-fiction è stata un fiasco totale, ma visto che non
me la sentivo di addossare ai ragazzi la responsabilità (sono stati loro a
propormi il soggetto di “The College”), voglio almeno far credere loro che per
la prossima, avranno del materiale di cui fidarsi ^^ tutto qui.
Hitoshi: ah… è
solo per questo?
*** Silenzio da parte di Notty.
Ad un certo punto si gira lentamente e va accanto a Hitoshi, mettendogli una mano sulla spalla ***
Notty: Ma no,
idiota! Ti sto prendendo per il culo!! XD La storia a
me è piaciuta, loro sono stati bravi ad interpretarla
e io ne farò ancora tante altre! Non mi fermerà mai nessuno!
Hitoshi: XD …. Sei
un bastardo. Non sei cambiato di una virgola.
Notty: hahahah! XD Nemmeno tu. Magari potrei riprenderti a
lavorare per me, che ne dici?
Hitoshi: Certo,
però a me dovrai dare i soldi veri, non la carta straccia colorata che hai dato
a quei tre poveri disgraziati poco fa!!! *ride*
Notty: hahahahhahahah!
*** mega-risate di sottofondo, più applausi
finali, fermo-immagine su Notty e Hitoshi
che ridono ***