Quando piangono le stelle

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***
Capitolo 18: *** 18. ***
Capitolo 19: *** 19. ***
Capitolo 20: *** 20. ***
Capitolo 21: *** 21. ***
Capitolo 22: *** 22. ***
Capitolo 23: *** 23. ***
Capitolo 24: *** 24. ***
Capitolo 25: *** 25. ***
Capitolo 26: *** 26. ***
Capitolo 27: *** 27. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


1.

 
Piove. 
Ma non
piove e basta, due gocce così, tanto per rovinarti la passeggiata. Piove. Che Dio la manda giù. Uno scroscio rabbioso e improvviso e sfrenato. Come lo sfogo di una persona pacifica ad anni di angherie.
Piove. Con raffiche di vento che ti schiaffeggiano il viso. Inzuppandoti, come fossi un biscotto al burro, di quelli che si gustano con il tè delle cinque. Facendoti aderire i vestiti addosso, insinuandosi nello scollo della camicia e delle scarpe, ricordandoti di parti del tuo corpo che dai per assodate. O che ritieni al riparo -
in salvo - dallo scroscio furioso che ti ha sorpreso mentre, fidandoti del tiepido sole di Aprile, hai deciso di fare una passeggiata per le strade del quartiere vicino. 

«Non possiamo restarcene qui.» Seiya si stringe nella giacca ormai zuppa in un tentativo disperato di smetterla di gocciolare sul pavimento del negozio di dischi che è apparso come un miraggio all'orizzonte. «È mezzora che stiamo fermi come stoccafissi senza comprare nulla.»
«Tu cosa proponi?», gli chiede Shun, i capelli incollati alla fronte. «Casa tua è lontana!»
«Quante storie per un po' d'acqua!», e  lo sguardo di Hyoga è di quelli che congela all’istante. «C'è un nuovo locale più avanti, aspetteremo lì che spiova.»
«D’accordo. Ma paghi tu. Se ce ne fossimo andati quando l'ho suggerito io, adesso non…»
Seiya sbuffa e sfreccia via, sotto l'acqua, pur di non sorbirsi l'ennesima ramanzina. Shun scuote la testa, alza il cappuccio della felpa e lo segue. Hyoga chiude la fila.

È un'atmosfera calda e rilassante quella che li accoglie qualche metro più in là – un isolato appena, quanto basta per inzupparsi ancora un po’. Il locale profuma di tè e legno di cedro. Li accoglie una cameriera, un grembiule immacolato su una divisa verde acqua, dalla gonna stretta in vita. Indica loro un tavolo davanti ad una grande finestra che si affaccia sulla strada, l’acqua che scroscia sui vetri senza posa.

C’è una calda luce arancione, riflettuta e amplificata dai grandi specchi anticati sulle pareti che, insieme all'arredamento di legno, contribuiscono a ricordare un bistrot parigino. O l’idea platonica di un bistrot. Dietro al bancone, il barista sta lucidando i bicchieri con un panno per poi sistemarli a testa all'ingiù in una rastrelliera. Mazzi di basilico ed origano essiccato pendono alle spalle dell'uomo seduto alla cassa, che sfoglia distratto una rivista di motori.

«Bel posto», commenta sottovoce Shun, quasi intimorito dall'ambiente elegante.
«Già... Forse un po' troppo caro per le nostre... cioè le
 tue tasche, vero Seiya?»
Seiya ignora Hyoga e la sua ironia e arraffa uno dei menù che aspettavano sul tavolo. Impallidendo.
«Ma che... ?»
Poi mostra il menù agli altri due: è scritto in una lingua straniera.
«Francese», sentenzia Hyoga dopo un'occhiata veloce e l'umore di Seiya vira verso il pessimismo cupo. Si guardano attorno per capire il tenore economico degli altri avventori, accorgendosi di essere gli unici clienti.
 

Strano. Saranno le sei e il fortunale è stato troppo improvviso e inaspettato perché la gente abbia deciso di non uscire per tutto il pomeriggio.
«È ancora presto», dice Shun.
«O è
troppo presto e hanno aperto da poco», ribatte Hyoga, mentre una cameriera vestita di giallo dalla testa ai piedi appare dal nulla con un blocco ed una matita tra le mani. Gialli.
«I signori desiderano?»
«Un menù in giapponese, tanto per cominciare...»
La ragazza fissa Seiya con aria perplessa. «Non ne abbiamo. Tutti i menù del
Divertissement sono in francese.»
«E se io non lo parlassi, il francese?»
«
Monsieur, è un vezzo del nostro locale», spiega lei con l'aria di chi pensa non è un problema che mi riguardi, bello.
«E io come faccio a capire che c'è scritto sopra? Che cosa è questa roba, queste...
 escargòt a la...
«
Escargot à la provençal», sentenzia lei.«Lumache stufate in guazzetto. Erbe di Provenza, sugo, aglio e peperoncino. Ma oggi non le abbiamo, dommage...», aggiunge serafica mentre la faccia di Seiya passa dal rosso indignazione al giallo sto per vomitare. «Comunque, per mangiare dovrete attendere mezzora, il tempo che apra la cucina...»
«Può portarci tre caffè?»
Lei inarca un sopracciglio, che a Hyoga ricorda quell'abitudine che Camus sfoggiava quando non capiva cosa stessero facendo i suoi allievi – ossia tutti i giorni – e domanda:«Come? Tostatura semplice o doppia? Corretti? Con la panna? Lunghi? Espressi?».


I tre si scambiano uno sguardo disperato. Lei elimina una piega inesistente dalla gonna a ruota e si sistema il grembiule candido.
«Tre caffè normali», le risponde Seiya, con il tono di chi non sa se ha scelto il pacco a sorpresa giusto.
«Espressi o lunghi? Al vetro o in tazza grande?»
«Senta...», ruggisce Seiya prima che Hyoga concluda quello stillicidio rispondendole: «Tre espressi in tazza grande, per favore.».
«Arrivano!», dice lei – anche se quelle parole risuonano più come un
 "alla buon'ora!" – e si allontana in una nuvola di essenza alla vaniglia scribacchiando qualcosa sul notes giallo. 
Seiya tamburella nervosamente l'indice destro sul legno di cedro del tavolo, l’umore che ha raggiunto i dintorni del pessimismo sfrenato,  fino a quando la cameriera gialla non posa  davanti a loro le tazze di porcellana bianca con il caffè.

Squisito.
Un attimo di pace, una bolla ovattata dove rifugiarsi, lontano dalla pioggia che scroscia, dai vestiti bagnati e dalle lumache in guazzetto.
La magia, in una tazza di porcellana bianca.


«Visti i prezzi, e la cucina, se rimediassimo una cena a casa mia?»
Shun e Hyoga si guardano dubbiosi.
«Ho dei surgelati, in frigorifero.»
«Allora si può fare», dice Shun  e Hyoga torna a godersi il suo caffè.

Escono dopo una buona mezz'ora, quando il cielo è pulito e l'aria frizzante. Si vedono meglio anche le costellazioni; quelle estive iniziano a salire verso lo zenit e il Cigno declina a sud.
«Ha rinfrescato, eh?», dice Shun stringendosi nella felpa ancora umida.
«Possiamo fare una corsa fino a casa per scaldarci.»
 
«Per me non fa poi così tanto freddo...»
«Hyoga, sei veramente degno del nome che porti!», gli risponde Seiya avviandosi.



«Hyoga? Ehi, Hyoga? Ci sei? Terra chiama Principe Azzurro... Principe Azzurro ci ricevi?»

La voce di Seiya lo strappò ai ricordi e lo riportò al caldo di metà Luglio.
La luce del tramonto andava spegnendosi sulla sabbia tiepida, gli scogli artificiali e le barche addormentate. I pochi gabbiani si attardavano volando in cerchio sull'acqua scura prima di tornare al nido per la notte.
Il caldo torrido del giorno si era mutato nell'afa che avrebbe accompagnato un'altra notte di mezz'estate. Il ventilatore oscillava la testa metallica da sinistra a destra al ritmo costante del ronzio del motore stanco, mentre la campanella appesa alla finestra tintinnava seguendo lo spostamento dell'aria.
Un'automobile sfrecciò lungo la strada deserta, invadendo la sera con musica pompata a tutto volume prima di svoltare verso Omori, in direzione dell'insegna rossa che lampeggiava a sud. Forse l'automobile era diretta al Divertissement.

Beati loro. «Dicevi, scusa? Ero sovrappensiero...»
«Ce ne siamo accorti... Ce la fai a non pensare alle gonnelle per un momento? Stavamo parlando della proposta di Saori.»
«Quello che corre dietro alle gonnelle sei tu, Seiya, non io...»
«Io?!»
«…che cosa volete che le risponda?», proseguì Hyoga, imperterrito. «Picche.»
«Picche?», chiese Shun, seduto sul pavimento.
«Significa che le dirò di no. Mi sembra superfluo aggiungere altro.» Pausa. «Voi che intenzioni avete?»
«Di rispondere come te, Hyoga», intervenne Shiryu dalla poltrona, i lunghissimi capelli corvini legati in una coda dietro la schiena. «Anche se non credo che concorderemo tutti su questo punto.»
«Alludi a Jabu, vero?», gli domandò Shun.
«Esatto», rispose l’altro accavallando le gambe.
«Perché dite questo? Insomma, anche Jabu...»
«Soprattutto Jabu, Seiya. Soprattutto. Lo sai anche tu che se solo Saori glielo chiedesse, andrebbe a prendere la Luna e gliel'incarterebbe con un bel fiocco.» Perché, vuoi farmi credere che tu non faresti lo stesso, per lei, Shiryu?, pensò Seiya fissandolo. «Jabu accetterà. Sicuro come il sole sorge ad Est.»
«È quello che pensa anche Ikki», commentò Shun osservando un punto davanti a sé.
«In base a che?», gli chiese Seiya, le mani ai fianchi e l'aria perplessa.
«Galoppa, cavallino!», disse Hyoga dal davanzale. «Hai dimenticato? Ti sembra che non l'accontenterebbe anche adesso?» 
«Ma è passata una vita da allora!», rispose Seiya allargando le braccia. «Non è vero, Shiryu? »
«La penso come Hyoga. Jabu accetterà, così come Ban. Lo conosco poco, ma ho visto i suoi occhi brillare man mano che Saori andava avanti.»
«No! Non ci posso credere! Ma…»
«Scusa, ma a te che importa?»

Seiya si voltò verso la finestra: Hyoga guardava la chiazza nera all'orizzonte, dov'era il mare.
«Prego? Non ho capito…»
Hyoga sospirò e  ricambiò lo sguardo di Seiya. «No, io non ho capito, Seiya. Non ho capito perché ti scaldi tanto. Che t'importa delle loro decisioni? Riguardano te? No. Riguardano solo ed unicamente loro. Saori ci ha pregato di pensare come singole persone, e non come gruppo.»
«Ma noi siamo un gruppo!», protestò Seiya, che quella sera doveva essere in vena di polemiche.
«Formato prima di tutto da delle singole persone. Io ho fatto la mia scelta e tu la tua, e credo valga lo stesso per gli altri. La cosa realmente importante è che la decisione del singolo non sia imposta a tutti noi.»
Seiya fece per ribattere quando Hyoga indurì lo sguardo, mentre Shun e Shiryu drizzarono le antenne per intervenire in caso quei due fossero giunti alle mani. Seiya vide nell'azzurro ghiaccio dell'altro che non era il caso di proseguire oltre.
«È una discussione che non ha senso. Jabu accetterà, se non altro per avere una rivincita nella vita», concluse Hyoga tornando a guardare fuori. «E se non mi credi, basterà aspettare il compleanno di Saori.»

Seiya rimase a bocca aperta.
«Rivincita?», disse.
«Jabu si è sempre sentito inferiore a noi… Per non esserci stato, quando ce n’era bisogno. Non erano ancora pronti per Atene e Saori li mandò ad addestrarsi ancora dai loro maestri, ricordi?» Shiryu si passò una mano tra i capelli. «E Jabu questo non l'ha mai sopportato. E tu lo sai…»
«Ma io…»
«Nessuno di noi ha mai trattato Jabu come se fosse inferiore a noi, Seiya. È una sua convinzione, non la realtà», gli disse Shun.
Tuttavia, Seiya si chiese se non avesse fatto qualcosa per confermare le paranoie – il senso d’inadeguatezza – di Jabu. Che non andassero d'amore e d'accordo non era certo un mistero: Seiya trovava il Saint dell'Unicorno insicuro quando non era il caso di esserlo e troppo sicuro delle proprie capacità quando invece la prudenza avrebbe dovuto prevalere sull'orgoglio. Ed era un tipo fin troppo suscettibile per i suoi gusti.
Davvero non l'ho mai trattato da inferiore?, si chiedeva, fissando il pavimento tra i propri piedi.
La stanza piombò in un silenzio irreale, rotto dal monotono ronzio del ventilatore e dal suono della risacca che proveniva dalla finestra. Restarono così, persi ognuno nei propri pensieri, finché Shiryu non decise di risollevare le sorti della serata.
«Hanno aperto un nuovo take-away, all’angolo. Pizza per cena?»





Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:

Omori è un quartiere di Ōta, uno dei distretti di Tokyo, dove ha sede, tra le altre, la Toho University.

Hyoga si scrive con gli ideogrammi di 'roccia' e 'ghiaccio'
 
 
Lettera aperta a te, Amico Lettore.
Evito di darti un nome, anche perché se lo facessi sarebbe ridicolo e tu potresti offenderti, Ermenegildo.

Questa storia era on line dall’8 Novembre 2013, ma poiché io sono una scimmia ammaestrata – ammaestrata
male, aggiungerei – per eliminare la precedente introduzione (troppo pomposa, dai retta a me) ho cancellato tutta la storia. Per intero. Sette capitoli e tutte le recensioni. Rischiando il collasso e gemendo come una bestia ferita fino a quando non mi sono assicurata di avere una copia di tutto quanto avessi pubblicato finora. (Sì, prima che tu me lo chieda: ho visto l’avviso di eliminazione totale ed irrimediabile, ma io ho anche il dito più veloce del West. Perché non ci facciamo mancare nulla.)

Ti chiedo scusa, Amico Lettore, così chiedo scusa a quel manipolo di eroi che l’aveva letta, commentata, inserita tra le storie preferite/seguite/ricordate. Chiedo scusa sui ceci e sui cocci, ma vi è capitata un’autrice problematica. Si dice che se mille scimmie battessero a macchina contemporaneamente premendo i tasti a caso, una riuscirebbe a scrivere l’opera omnia di Shakespeare. Ecco. Io sono l’altra. Quella a destra, due posti più in là.

Questa è la versione definitiva della mia primissima incursione nel fandom di Saint Seiya. La storia originale s’intitola “Il rimpianto di una stella cadente”, e la puoi trovare qui. La lascio on-line, e perché le sono affezionata, e per una sorta di precauzione. Mi piace avere un punto di partenza, e penso piaccia un po' a tutti, no?
Questa, però, è la versione definitiva, perché il mio stile s’è evoluto (non che ci volesse poi molto…) e quella storia, con tutte le sue ingenuità, è come un vecchio paio di scarpe sfondate (le mie sono quelle con la stella all’interno di un cerchio bianco, preferibilmente nere), comodissime da indossare, ma impresentabili altrove.

La trama è cambiata: qualche giravolta l’ho eliminata, ho limato il limabile ed ho inserito dei tasselli in più, che all’epoca non avevo ben chiari in mente. Anche perché Saint Seiya, nell’anno di grazia 2000 era qualcosa di geologicamente definito.
Lost Canvas? Next Dimension? Omega?
Pura fantascienza. Si guardava alla trasposizione del capitolo Inferno come a qualcosa di irrealizzabile. Lettera morta.

Sicché: se vuoi andarti a sbirciare quella storia, mentre mando avanti la versione 2.0, fai pure, Amico Lettore. E se vuoi farmi sapere cosa ne pensi, sentiti libero di. Pomodori a destra e carote a sinistra, grazie.
Intanto accomodati dove più ti pare e goditi il viaggio.
Perché lo
jotunn è sempre lo jotunn. Adesso come dieci… undici anni fa.

Acque pacate e dolci risate finché non ci rincontreremo.



Licenza Creative Commons
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Capitolo 2
*** 2. ***


2.
 
 
Hyoga aveva aperto gli occhi, ma il resto del suo corpo stava ancora avviluppato tra le calde braccia di Morfeo. Osservava il cielo – più chiaro ad Est, più fosco ad Ovest – mentre un refolo di aria frizzante gli solleticava la pelle. Non sarebbe durata. Hyoga aveva sentito quel formicolio serpeggiargli sul collo, come elettricità statica, e non si sarebbe fatto illusioni: avrebbe fatto molto, molto caldo.
 
Ho dato buca a Shun, pensò – realizzò – osservando le fronde degli alberi brillare di un verde pieno e soddisfatto. Si voltò verso la radiosveglia. Il quadrante segnava le sette in punto, e a quell’ora chissà dov’era andato a cacciarsi Shun, in quale angolo dello sconfinato parco di Kido Manor si era avventurato durante la sua ora mattutina di corsa, e l’idea di raggiungerlo – di andarlo a cercare – provocò in Hyoga una sensazione di fastidio.
 
Si stropicciò gli occhi, stiracchiò braccia e gambe e si diresse in bagno ciabattando. Si sciacquò il viso con l’acqua fredda, preparandosi alla giornata che l’avrebbe atteso. Quali erano gli impegni?
Nessuno, si rispose, sciacquando via il sapone. Nulla di che.
 
E se te ne tornassi in Siberia?
 
Hyoga non seppe dire come nacque quel pensiero, ma nacque. Venne fuori dal brodo di idee e concetti che si affastellavano e ribollivano sul fondo della sua coscienza intorpidita e rimase lì, a galleggiare in superficie.
 
Tornare a casa…
 
Gli sembrò un pensiero assurdo, fino a quando lo sguardo non gli cadde sulla cicatrice che lo Scarlet Needle di Milo gli aveva lasciato per ricordo.
 
Fai conto che tu ti sia preso delle… delle ferie? Ecco, sì. Un mese di ferie arretrate. Te le meriti, dopo tutto, questo leggeva nell’espressione del suo doppio.
 
Tornare in Siberia.
L’idea lo solleticò non poco. La situazione era sotto controllo: Poseidone era stato nuovamente soggiogato a metà Marzo e da allora Julian Solo aveva perso ogni ricordo del suo reame sotto i Sette Mari e della sua natura divina. Saga era solo un cupo ricordo, come l’ombra di un incubo che si dirada al risveglio. Era passato meno di un anno dai giorni della Guerra Galattica, ma gli sembrò che ne fossero passati dieci.
 
All’improvviso avvertì le spalle farsi pesanti. Stanche. Sì, doveva tornare a casa, solo per un po’. Magari fino al compleanno di Saori. Un mese, anche qualcosa di meno. Giusto il tempo di staccare la spina.
 
«E ferie siano!», concesse al suo riflesso con aria soddisfatta. Se avranno bisogno di me, sapranno dove venirmi a cercare, si disse abbandonando sul lavabo l’asciugamano. Dopo tutto, Shiryu non era partito per Goro-Oh due settimane prima?
 
Tornerà tra poco… e io sarò libero di starmene per i fatti miei per un po’, pensò tra una flessione e l’altra sulla moquette davanti al letto. E poi, in Siberia non è rimasto nessuno…
 
Si fermò al centesimo piegamento, corse sotto la doccia e lasciò che l’acqua pensasse al resto.  Avrebbe messo le sue cose nella sacca da viaggio. Un bagaglio leggero e l’Armatura, così da viaggiare con comodità. Poi sarebbe sceso a fare colazione, e più tardi avrebbe avvisato Saori della sua partenza. Era giovedì, e come ogni giovedì Saori avrebbe sellato il suo purosangue nero e si sarebbe persa in una di quelle galoppate che tanto preoccupavano Tatsumi. Non l’avrebbe incontrata prima delle dieci. Tanto valeva godersi la doccia.

 
A Shun piaceva correre di mattina presto, quando il sole creava un’intricata ragnatela di luce tra le fronde dei platani. Era quello il momento della giornata che preferiva, perché riusciva ad estraniarsi da tutto e tutti senza doversi preoccupare di stemperare il carattere di nessuno.
 
Correre assieme a Hyoga era come correre da soli. Il Cigno andava avanti – aveva il passo più veloce – e restava anche lui in silenzio, perso nei propri pensieri. Con Seiya, invece, era una chiacchiera continua, o, in alternativa, un’eterna competizione. «Vediamo chi è più veloce», oppure, «Chi arriva ultimo alla quercia abbattuta è un bradipo zoppo!», erano frasi che Seiya ripeteva con una frequenza quasi ossessiva.
 
Shiryu non amava correre,era parte dell’allenamento e poco più, mentre con Ikki si sentiva lui stesso in dovere di intavolare un discorso. Non era ancora riuscito a mitigare il senso di colpa causatogli dal fatto che il fratello avesse preso il suo posto. Si sentiva ancora responsabile per il peggiorare del suo carattere chiuso e scontroso, e cercava di coinvolgerlo in attività comuni. E poi, lui adorava Ikki.
«Ikki è speciale!», erano le tre parole che Shun usava per descrivere il fratello maggiore agli altri. Oh, negli anni era riuscito ad articolare un pensiero più complesso del trittico soggetto- copula - predicato nominale, ma il succo era sempre quello.
 Ikki è speciale.
 
Shun passò davanti a Kido Manor e osservò il sole. Era ancora presto. E sarebbe stato un delitto non godere di quell’aria fresca ancora un po’. Sorrise e partì per un altro giro di corsa. Avrebbe seguito il perimetro dell’edificio e poi svoltato a sinistra, per quel sentiero che andava infittendosi verso nord. Tatsumi ripeteva sempre che sarebbe stato il caso di diradare un poco gli alberi, per creare una passeggiata o qualcosa di simile. Meglio godersi quel lato del parco fin tanto che c’è.
 
 

Le porte si aprono scivolando silenziose sui cardini.
È bastata qualche goccia d’olio, pensa. Al Vecchio piaceva un certo gusto per il teatro. Linguaggio forbito – pomposo – e gesti misurati, una ritualità di azioni quasi liturgiche. E il piacere infantile di sbalordire i propri ospiti, sia che fossero visitatori – delegati, ambasciatori, messi – sia che fossero i propri subordinati.
 
La prima volta che l’Ipocrita vi ha messo piede è rimasto a bocca aperta, perso ad osservare quel lungo corridoio che non finiva mai, ma poi – alla sesta volta – ha capito il trucco. Il punto di fuga. La finestra alle spalle della scrivania del Sommo Sion – del Vecchio – è posta in alto. E le librerie di pesante e scuro legno di noce, zeppe di libri e pergamene e altra carta stipata e rilegata, abbracciano le pareti ai due lati dello stretto corridoio fino al soffitto, creando, di fatto, un budello che mette in cornice la scrivania del Sacerdote, un mastodonte di legno grosso quanto un altare.
 
All’Ipocrita piaceva osservare tutti quei libroni. Era curioso. Di leggerli. Di saperne di più su Athena e sul Santuario, perché l’Ipocrita era ipocrita, non era scemo. L’Ipocrita sapeva che al Sommo Sion piaceva centellinare le informazioni, lasciando il proprio auditorio con un’insoddisfatta curiosità che lo avrebbe portato a stargli accanto, ancora, pronto a cogliere altre preziose spiegazioni alle sue domande. E l’Ipocrita voleva sapere.
 
Perché erano rimasti in vita solo due dei precedenti Santi di Athena?
Com’era possibile?
Cos’era successo agli altri?
Sarebbe accaduto anche a loro?
E questa Athena, che tipo era?
 
Una povera fessa, se aveva deciso di reincarnarsi come una poppante ai piedi della sua stessa statua – sia mai che qualcuno possa confonderla con una neonata comune! – ma doveva aspettarsi altro? E se sì, cosa?

Perché se una cosa l’Ipocrita l’aveva imparata a furia di sentire il Vecchio cianciare era che gli dei sono parecchio permalosi. Suscettibili. Vendicativi. Non è razza con cui scherzare, quella che abita sulla cima dell’Olimpo. È gente da prendere sul serio. Specialmente se, come vuole fare lui, vuoi prenderla in giro. Ingannarla. E perché un inganno riesca bene, non devi forse conoscere a menadito la tua vittima?
 
Certo che sì.
 
Ecco perché lui, ogni mattina, apre le porte della Biblioteca che fu di Sion e controlla i volumi. La scusa ufficiale – che serve sempre, perché anche quando sei il Grande Sacerdote di Athena devi avere una spiegazione da dare all’imbecille di turno che ti domanda «Che fate, Santità?» e a cui tu non puoi rispondere per le rime – è comprendere perché le stelle si stiano allineando con così tanta lentezza. Lui l’ha scoperto per caso, afferrando gli ultimi mormorii insensati del Vecchio. Non parlava di vendette, non lanciava maledizioni su di lui, ma lo avvertiva.

«Le stelle… sono lente…», ha detto, prima di rendere l’anima e togliersi dai piedi, e lui, appena ha avuto un attimo di pace, si è immerso nella lettura di tutti quei libri, libretti e libroni. Scoprendo che la mania di Sion di far tenere dei diari ai Santi di Athena inviati in missione non è farina del suo sacco, ma di quello del suo predecessore. Sage, o una cosa simile. E ci sono buone probabilità che anche questo Sage abbia portato avanti un costume che risaliva a chissà quando. Ai vecchi piacciono le tradizioni, giusto?
 
E benedette siano le tradizioni, pensa. Sorridendo, mentre le dita afferrano un pesante tomo che risale a due, tre guerre sacre prima, o forse anche più. Perché in quel tomo lui ha scoperto qualcosa. La chiave del suo successo. Quella che gli permetterà di presentarsi davanti ad Ade con un potenza di fuoco amplificata. Maggiorata. E che forse gli consentirà di arrivare ad un accordo col dio dell’Oltretomba.
 
Sempre ammesso che si svegli, ovvio. Per quel che blaterava il Vecchio, il sigillo di Athena dura duecentocinquanta anni, o giù di lì. Lui ha tutto il tempo di trovare il modo di ottenere una proroga, ed è intenzionato ad ottenerla. Costi quel che costi.
Ma prima, si dice, accomodandosi sull’ottomana di velluto rosso che troneggia accanto alla finestra dello studio del Sacerdote, avrò bisogno di un’altra dozzina di pezzi da disporre sulla scacchiera.
 
 

Le dita correvano veloci sui tasti bianchi e neri. Sonata in La maggiore K. 331 di Mozart, meglio nota come Marcia Turca. L’ideale per una giornata estiva che prometteva di essere calda e assolata. La galoppata era durata troppo poco. Si era alzata all’alba ed era scesa a sellare personalmente il suo adorato César. «Stabilisci un legame profondo con il tuo cavallo», era stata la prima lezione che le aveva impartito il maestro d’equitazione che le aveva affiancato il nonno. César era stato il suo ultimo regalo.
 
Come le era apparso enorme quel puledrino tutto pelle e ossa dai grandi occhi neri e la coda sempre in movimento! Il nonno le aveva consigliato di portarsi delle zollette di zucchero per fare amicizia. Saori ricordava ancora come si fosse avvicinata al cavallo, tenendo l’abito del nonno stretto in una manina e le zollette ben visibili nell’altra. Anche César si era avvicinato, poi l’aveva annusata curioso e aveva preso lo zucchero con i denti. Saori aveva avuto un sussulto per la sorpresa e la strana sensazione: il muso del cavallino era caldissimo ed umido, diversamente da come se lo aspettava.
 
Le signorine ben educate posseggono dei gatti di razza, o in alternativa dei cani tascabili. Lei aveva gusti più elitari. Lei aveva César. Quando montava in sella si sentiva una cosa sola con il suo cavallo. Libera. Come se fosse un centauro.
 
È questo il tuo lascito, Aiolos?, pensò seguendo le note sullo spartito. O sarà per via dell’Ascendente? Chissà qual è? Possibile che il nonno non abbia mai fatto stilare il mio Piano Astrale?
Ripromettendosi di chiedere all’Ufficio Astronomico del Santuario, Saori chiuse l’ultima battuta e si voltò. Hyoga la stava ascoltando placidamente seduto in poltrona, almeno in apparenza: non le era sfuggito l’impercettibile fremito che attraversava il mignolo destro del ragazzo.
 
«Piaciuto?»
«Molto…»
Di poche parole, come sempre, pensò lei sorridendogli. «Di cosa volevi parlarmi, Hyoga?»
«Volevo avvisarla che me ne vado.»
Saori lo fissò come se avesse parlato in arabo. «Come?»
«Me ne vado. Torno in Siberia…», scandì lentamente Hyoga. E qualcosa dentro Saori vibrò.
 
NO. Digli di no!, urlò il suo sesto senso.
Sciocchezze! Non fare la bambina viziata!, si disse prima di rispondergli: «Certo.».
Che altro avrebbe dovuto dirgli? No, ho bisogno che tu stia qui per proteggermi da eventuali nemici?
Siamo in pace, adesso; che t’aspettavi, Saori? Che restassero sempre con te? Non essere sciocca! Avete deciso di provare a vivere come tutte le persone normali, giusto? Non è forse questo il motivo per cui ti sei impuntata a vivere a Tokyo, invece che al Santuario, procurando una quasi crisi isterica al povero Mu?
 
Fissava Hyoga e si diceva che sì, la legge è uguale per tutti, specialmente per quei poveri ragazzi che avevano sputato sangue sin da quando erano stati a mala pena grandi per reggersi in piedi. Ma allora perché era così difficile dirgli che poteva andare dove l’avrebbero portato i suoi piedi?
 
«Certo, Hyoga, vai pure. Un po’ di relax ti farà bene… Quando hai intenzione di partire? Domani, dopodomani…»
«Oggi stesso. Se per lei va bene», si affrettò ad aggiungere Hyoga. «Ho bisogno di stare da solo per un po’, e sapere che ci sono gli altri qui con lei, mi tranquillizza…»

Ti tranquillizza? Mi affideresti a loro, Hyoga? Ti fidi? Già, adesso che non ci sono problemi, puoi andartene… da me, vero?, si disse Saori triste.
«Parti pure tranquillo, Hyoga. Semmai ci dovessero essere dei problemi…»
«Saprete dove trovarmi, milady», annuì avvicinandosi a lei. «Mi dia la sua benedizione, dea Athena», le disse baciandole la mano sinistra con atto di sottomissione. E di nuovo, quella voce dentro di lei che le urlava di non permettere che si allontanasse.

Il Nord è buio… Il Nord è cupo… Tienilo con te, tienilo con te! Tienilo…
Dominio, Saori!, si ordinò mentre Hyoga attendeva un suo cenno per imboccare quella porta e sparire dalla sua vita, anche solo per una manciata di giorni. «Vai pure. La mia benedizione è con te. Gnothi s’autòn.»
 
Hyoga si alzò.
«Aspetta… » Lo fermò prima che le desse le spalle. «Prima che tu parta vorrei sapere la tua risposta alla proposta che vi ho fatto.»
«Il termine ultimo non era il due di Settembre, il giorno successivo al suo compleanno?»
«Sì, ma… »
«La prego di attendere fino a quel giorno. Se vado in Siberia è anche pensare a questa opportunità.»
Anche? «Hyoga…», e se non dovessi tornare?, pensò, senza trovare il coraggio di dirglielo.
 
Lui sospirò.
«Milady, posso dirle come la vedo adesso. Avrei voluto esprimere il mio parere assieme a tutti gli altri, ma visto che ci tiene tanto, l’accontento. No. La mia risposta è  no.»
«Lo supponevo.» Bene, Saori, allora non resterai delusa quando solo Jabu e gli altri ti diranno di sì, pensò osservandola stringere di poco le labbra. «Non riuscite a…»
«No», l’interruppe Hyoga. «Almeno, io no. Non riesco a perdonare quell’uomo. Non ce la faccio. È vero, abbiamo sconfitto Saga e Poseidon, ma non è prendendo il cognome Kido che… sì, insomma che potrò dimenticare un’infanzia… come la mia…»
«Capisco.»

Hyoga contrasse i denti e poi li rilasciò. Capisci? Tu… capisci? Cos’è che capisci, in nome di tutti i Santi del Cielo?! Dimmelo, Saori, perché non vedo come sia possibile! Tu sei cresciuta nella bambagia e negli agi, mentre io e mia madre… mia madre…
 
«E sincerità per sincerità, in questo modo a me sembra di essere comperato come un mulo al mercato!»
«Hyoga, che dici? Voi siete i figli di Mitsumasa Kido!»
«Non pronunci quel nome, milady», l’avvertì, con il Cosmo in subbuglio e la voce che tradiva un certo nervosismo. «Il mio cognome è quello di mia madre. Non mi chiamerò mai Hyoga Mitsumasaëvič Kido. Mai. Io sono Hyoga Andrevič Popov. Mi dispiace, ma ho rimosso il volto di mio padre. Quell’uomo mi trattò come un cane… peggio di un cane, quando avevo otto anni e avevo appena perso mia madre.»
Saori abbassò lo sguardo ai suoi piedi.
«Perdona la mia mancanza di tatto, Hyoga.»
«Non ha nulla di cui farsi perdonare, milady. Nulla.» Eccetto la tua bellezza.
 
Hyoga stesso si stupì di quel pensiero: da quando provava certi sentimenti? Per lei, lei! Certo, Saori era bella, bellissima, come una bambola di fine porcellana. La pelle chiara, gli occhi dolci e neri, il viso dall’ovale perfetto, le labbra rosate,  ma non aveva mai suscitato in loro, in lui, certe… sensazioni. Lei era Athena. Athena! La loro dea. A volte aveva la delicatezza di un panzer lanciato contro un campo di soffioni, ma le perdonavano questo lato del suo carattere. La rendeva umana. Non si era incarnata per comprendere meglio gli uomini? Ecco, c’era riuscita.
 
«Se non le dispiace, andrei a preparare i bagagli.» Pausa. «E a prendere l’Armatura del Cigno.»
Saori annuì e lo vide uscire dalla stanza e oltre la porta di ciliegio.
È fatta, è partito. Tornerà… sì, lui tornerà. Da me,  si disse dirigendosi alla finestra.


Perché si sentiva così? Perché si sentiva come se i suoi Saint la stessero abbandonando per sempre?
Shiryu, non appena poteva, volava a Goro-Oh. Il vecchio Doko si era rivelato un preziosissimo alleato durante i momenti più bui, ma Saori non era così ingenua da ignorare l’altra presenza che calamitava Shiryu su quelle montagne.
Shunrei.
Lei era stata i suoi occhi e la sua forza quando lui più ne aveva avuto bisogno. Gli dava sicurezza, lei così piccola ed esile. Il calmo e riflessivo Dragone mostrava le zanne se solo qualcuno osava sfiorare la sua Shunrei. Acqua cheta rompe il ponte, diceva Nanny Emma, e quella ragazza era la prova vivente di questo vecchio adagio.
 
Ikki… Oh, beh, lui era il figliol prodigo per antonomasia. In realtà Saori sapeva perfettamente che tornava all’Isola della Regina Morta, per ritemprare le forze e starsene da solo. Tutti quanti sapevano dove poter trovare Ikki quando non era a Tokyo, ma nessuno osava andare a disturbarlo, a meno che non fosse questione di vita o di morte. Lo stesso Shun temeva di violare lo spazio vitale del fratello, spazio di cui Ikki si era sempre mostrato geloso.
 
Shun non si muoveva mai. Come se non pensasse agli amici sull’Isola di Andromeda, vicino le coste africane dell’Oceano Indiano.
E poi c’era lui. Seiya. Il rassicurante Seiya. Il testardo Seiya. Talmente testardo da non voler vedere più in là del suo naso. Da quell’orecchio non voleva proprio sentirci; lei, invece, aveva capito tutto.  L’aveva capito quando lui si era girato all’ultimo istante per evitare che la Freccia d’Oro colpisse Shaina.
 
Saori li aveva sentiti, aveva sentito i loro Cosmi vicini. Uniti. Era nella Colonna Portante, sommersa dalle acque di tutti gli oceani e prossima alla morte, ma li aveva sentiti, i loro sentimenti, sfolgorare come i vetri colorati di un rosone colpito dal sole di mezzogiorno.
Li percepiva allora e li percepiva anche adesso, caotici come nuvole vorticose di fumo denso che si andavano disperdendo nel vento forte.

Dalla finestra aperta sul parco entrò una farfalla dalle ali blu. Volteggiò con grazia, finendo per posarsi sulla mano che Saori le aveva avvicinato istintivamente. Sembrava avesse delle trine al posto delle ali.
Sono solo mie paure?, si chiese osservando meglio l’insetto alla calda luce del sole.

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Capitolo 3
*** 3. ***


3.
 
 

 
«Che cosa significa Hyoga se n’è andato
Seiya guardava Shun nella poltrona preferita di Shiryu, le braccia conserte e il viso basso sulle ginocchia allineate.
«Quello che vuol dire, Seiya. Ieri canticchiava allegro facendo colazione, e a pranzo era già sul treno per Sapporo.»
«Così, all’improvviso?»
«Così, all’improvviso…», ripeté Shun svogliato.
«Ma perché? Se è partito così, senza salutare…»
«Con l’Armatura dietro…»
«Che sia andato in missione?»
Shun scosse la testa. «No. Saori ce l’avrebbe detto. È tornato in Siberia.»
«Ah, ma quando torna, mi sente! Andarsene così, ma non si salutano i fra…» Seiya si fermò, la parola ancora in bocca. Shun lo fissò. «… gli amici?», concluse a mezza bocca.
«Anche per me è difficile credere che voi siate miei fratelli…»
«Difficile. Difficile. Ah, adesso è difficile, vero? Ma durante tutte le battaglie che abbiamo affrontato vi faceva comodo sapere di avere dei fratelli, vero?»
«Seiya…»
«Seiya un corno!» Lo sollevò dalla poltrona tenendolo per lo scollo della polo. Istintivamente, Shun gli piazzò una mano sul polso e rimasero a fissarsi.
«Ascoltami… Voi siete i miei fratelli, e vi amo quasi quanto amo Ikki», disse Shun guardandolo dritto negli occhi. «Ma sto razionalizzando solo adesso che questo implica avere Mitsumasa Kido come padre! Anche io odio quello che ci ha fatto quell’uomo, come ha trattato nostra madre e come l’ha ingannata. Quando morì, io ero in fasce. Lei disse a Ikki che saremmo stati bene con i nonni. Che ci avrebbero cresciuti. Ma lui ci portò via da casa loro, e Dio solo sa che fine abbiano fatto.»
Seiya lasciò la presa.
«Si ricordò di noi solo quando gli tornammo comodi. E pensa a Hyoga. Lui venne con sua madre sotto ordine, sì ordine, di Kido. Se non fosse stato per quel viaggio, la madre di Hyoga forse sarebbe ancora viva.»
«Ah è vero! Morì…»
Shun annuì.
«Durante la traversata, un iceberg aprì una falla nella stiva della nave. Non era una nave da viaggio, ma trasportava merci. In piena guerra fredda non era possibile uscire dall’Unione Sovietica tanto facilmente. E il resto lo sai. E adesso sai anche perché Hyoga era così contrario alla proposta di Saori.»
Seiya cadde a sedere sul proprio letto a gambe aperte, in uno SBOFF di protesta da parte dal materasso.
«Certo. Tutti noi ne abbiamo passati di momenti tristi.»
«Già…», commentò Shun restandosene in piedi. «Tu hai perso le tracce di tua sorella, io e Ikki siamo stati separati, e anche Shiryu avrà avuto dei problemi. Lui non ne parla, ma…»
Seiya sospirò.
«Basta, se non esco esplodo! Andiamo a bere qualcosa?»


Il Divertissement aveva aperto da poco.
Il locale era ancora immerso nella quiete che avrebbe preceduto la bolgia del sabato sera. Si accomodarono allo stesso tavolo della prima volta e chiesero del caffè prima ancora che la cameriera in giallo aprisse bocca, ma stavolta non era lei. Non era la stessa che li aveva serviti la volta precedente, ma una timida ragazzina delle superiori, con la divisa che l’aspettava a fine turno nello spogliatoio.
«Due caffè, allora… Uno in tazza grande.»
«E uno corretto», aggiunse Shun appoggiato allo schienale imbottito.
Lei sparì e rimasero in silenzio a fissare il viavai abbronzato di chi rientrava dalla spiaggia.
Ripresero a parlare quando i loro caffè erano ormai tiepidi.
«Sto pensando anch’io di andarmene. Solo per un po’, s’intende.»
«Vai a cercare Ikki?»
«No. Ho deciso di rispettare i suoi tempi. Voglio tornare all’Isola di Andromeda. Voglio andare a trovare il mio maestro.»
«Ma non…»
Shun lo guardò, poi capì.
«Hai ragione. Faccio ancora fatica ad abituarmi all’idea che sia morto. Vedere la sua tomba mi aiuterà, spero.»
Seiya mormorò qualcosa dando una sorsata al caffè. «Sarò sincero, ma anche io pensavo di allontanarmi…»
«Torni in Grecia?»
Annuì. «Devo parlare con Marin. Non so se sia lei mia sorella, e non posso permettermi di campare con questo peso sul cuore. Non dopo che sono quasi morto per colpa di… come si chiamava quel disgraziato?»
«Kaça?»
«Mah, può essere. Non so. Non importa, adesso. Devo saperlo. Devo sapere se Marin e Seika sono la stessa persona. Devo sapere se ho ritrovato mia sorella, o se devo rimettermi a cercarla in lungo e in largo. Tu mi capisci, vero?»
«Certo, ti capisco perfettamente. Però, scusami se te lo dico, ma se tu usassi i soldi della Fondazione…»
«No!»
La manata data da Seiya fece girare le cameriere che stavano controllando le ultime cose prima che la fiumana del sabato sera riempisse la sala.
«No…», riprese con tono più pacato Pegaso. «Già una volta Saori mi fregò con questa storia. Combatti nella Guerra Galattica, la trasmetteranno in mondovisione e sicuramente tua sorella ti vedrà. Anzi, se vinci il torneo, ti prometto che metterò tutti gli uomini della Fondazione sulle sue tracce! E com’è andata a finire?»
«Abbiamo salvato il mondo. E dunque anche lei.» Che potrebbe anche essere mia sorella, adesso che ci penso,  rifletté Shun. «Qualcosa per lei l’hai fatto, dopo tutto.»
«Sì, diciamo che siamo stati impegnati. Ma adesso, che non devo più scalare gradinate di marmo o tuffarmi sotto gli Oceani…»
«…negli Oceani », lo corresse Shun.
«Adesso, dicevo, voglio trovare mia sorella. Da solo. E non voglio che quell’uomo sia ancora legato a noi.»
«Capisco… Allora, buona fortuna!», gli augurò Shun che non capiva, non capiva affatto quale piega avrebbe preso il fiume in piena del destino che minacciava di portarseli via uno dopo l’altro.


 
 
E anche Agosto se n’è andato, pensò posando il rossetto sulla consolle. Oggi compi quattordici anni, Saori. Buon compleanno.
Tatsumi aveva organizzato un party in piena regola, a cui avrebbe partecipato tutta la Tokyo che contava e il Jet-Set internazionale.
Quattordici anni.
Tatsumi voleva fosse una sorpresa, ma lei aveva visto la grande decorazione di ghiaccio artico che era stata modellata a forma di rami d’ulivo intrecciati e che avrebbe troneggiato al centro del Salone delle feste di Villa Fujimi, la residenza privata in cui si tenevano gli eventi mondani organizzati dalla famiglia Kido.

Villa Fujimi, dedicata alla madre del vecchio Mitsumasa, le piaceva. Era una casa in stile georgiano, con le colonne bianche che si allargavano attorno all’ingresso principale e una grande aiuola di rose rarissime di un cupo blu notte.
Quando il nonno era ancora vivo vi passavano l’intera estate, e il suo compleanno coincideva quasi sempre con il rientro a Villa Kido. «Così conserverai un bel ricordo dell’estate, piccola mia», le diceva il nonno mentre la limousine nera si allontanava da quella casa per rientrare a Kido Manor.
Sciocca!, si disse asciugandosi le lacrime con un fazzolettino di carta. Non vorrai rovinare il trucco?

Saori sospirò. Aveva più volte ordinato a Tatsumi di non esagerare con le stravaganze, ma di organizzare una festa sobria. Sobria. Non era stato lui quello che aveva commentato acidamente la festa per il compleanno di Julian Solo come una ridicola ed esagerata esibizione di lusso sfrenato, del tutto stonata per il compleanno di un ragazzino di soli sedici anni?
Saori sapeva che quel party aveva una doppia valenza: la festa per il compleanno della rampolla ufficiale - almeno per poco - di una delle più grandi famiglie dell’Estremo Oriente e la risposta mondana alla famiglia Solo, da sempre amica e rivale dei Kido.
Saori sperava che Tatsumi non avesse previsto anche uno spettacolo pirotecnico, ma in cuor suo sapeva che la torta sarebbe arrivata in un tripudio di luci colorate che avrebbero tinteggiato il cielo di rosso, giallo, verde e bianco.

Coraggio, è quasi finita. Domani. Aspetta ancora domani e poi saprai, si disse pensando unicamente all’appuntamento che aveva per le undici del mattino a Villa Kido. Domani avrebbe saputo quali e quanti figli illegittimi di Mitsumasa Kido avrebbero accettato il riconoscimento legale da parte sua.
Sciocco come pensiero, specie a pochi minuti dalla sua entrata in scena nel Salone Azzurro, mentre l’orchestra jazz avrebbe eseguito un pezzo di Sinatra; ma Saori sapeva che a suo nonno quell’idea sarebbe andata a genio.

Si voltò ad osservare la fotografia che la guardava da dentro una preziosa cornice d’argento cesellato. Mitsumasa Kido era un uomo dall’aria austera e seriosa, ma quando rideva i suoi occhi assomigliavano a due virgole rovesciate, e dal suo viso scaturiva una luce interiore tale da fargli cambiare completamente espressione. Suo nonno sorrideva sempre. Perché a lei piaceva vederlo sorridere. Prima del suo arrivo nell’esistenza sregolata di quell’uomo di mezz’età, le foto ed i quadri ufficiali lo ritraevano serio, composto ed ingessato nel kimono nero che usava quando non trattava affari o riceveva ospiti importanti. Allora Mitsumasa tirava fuori dall’armadio uno dei suoi completi blu, tagliati su misura da un sarto francese, le sue scarpe di manifattura italiana, il Rolex d’acciaio e si accendeva un sigaro puzzolente.
Quando Saori sentiva quell’odore si rinchiudeva nella sua stanza e non voleva vedere il nonno fino a quando non si era lavato da capo a piedi.
E lui obbediva, lui l’ultimo dei Kido!

Proveniva da una famiglia di wako che scorrazzavano nel Mar Interno durante il Quindicesimo secolo, depredando le navi dei mercanti che tornavano cariche di ori e sete dalla Cina.
«Lavoravamo per lo Shogun in persona, mia piccola Saori…», le aveva detto con orgoglio, omettendole gli aspetti meno edificanti della faccenda. Non le aveva mai confessato che quel lavoravamo implicasse il saccheggio delle navi per conto dello stesso Shogun.
Poi era scoppiata la guerra civile, e i pirati si erano improvvisati mercanti d’armi. Quindi la Pace Tokugawa, il Rinnovamento Meiji e la corsa alla modernizzazione avevano visto la famiglia Kido conquistare un ruolo da protagonista nell’economia mondiale, e Mitsumasa aveva seguito le orme del padre e del nonno perseguendo un politica di assorbimento dei pesci piccoli fino a quando la Fondazione Grado non era diventata uno dei gruppi finanziari più potenti dell’Estremo Oriente. E lei era l’erede ufficiale di tutto quell’Impero, lei, che avrebbe dovuto, invece, sedere sul Trono Sacro in Grecia.

Saori guardava il proprio riflesso allo specchio ben sapendo che non avrebbe potuto continuare a vivere come Saori Kido ancora per molto tempo. Sapeva che il suo posto non era in quel lussuoso palazzo degli inizi del Novecento, né nel più maestoso Kido Manor, ma nel Sancta Sanctorum da cui avrebbe guidato le sue schiere contro Ade.

Deciditi!, le diceva la sua immagine allo specchio. L’immagine di Athena.
Saori aveva scoperto di essere la reincarnazione di una dea dalla bocca di suo nonno. Una confessione fatta sul letto di morte, mentre quell’uomo stringeva le sue dita tra le proprie, mentre nella stanza aleggiava il puzzo di malattia e medicinale misto all’olezzo che si porta appresso la morte. Saori aveva creduto di potersi abituare all’idea. Di poter gestire la situazione. Né, d’altro canto, avrebbe potuto sedersi sul lettino di uno psicanalista e confessargli quali fossero i motivi del suo malessere. «Sono una dea, dottore.» Quale medico le avrebbe creduto e si sarebbe risparmiato una telefonata al più vicino manicomio?
Nessuno.

Così Saori aveva tenuto quel segreto dentro di sé, esternandolo attraverso gli strumenti che aveva a disposizione. Era una dea, giusto? Ed una dea non è forse qualcosa di molto, molto simile ad una principessa? 
Certo che sì. Ed ecco apparire il diadema. Ecco il linguaggio ricercato. Ecco i vestiti da principessa – da torta alla panna, come aveva sentito dire a Ikki, tempo prima.
La battaglia contro Saga le aveva messo davanti agli occhi la verità in tutta la sua crudezza. Quello stillicidio di morti aveva scalfito la superficie di un lago ghiacciato. Soltanto quando la freccia di Tramy le si era piantata in pieno petto, a pochi centimetri dal cuore Saori aveva capito che il tempo dei giochi e delle stravaganze era finito. Ma quella bambina che galoppava in sella a César e che sognava di innamorarsi, sposarsi ed avere dei figli, non era mai scomparsa del tutto. Viveva, da qualche parte dentro di lei. Portando una goccia di umanità all’anima adamantina della dea. E riemergendo quando la sua divina coscienza le rammentava quali fossero i suoi reali doveri. Che avevano l’oscuro e minaccioso nome di Fato e a cui Saori, no, non voleva sottostare. Anche a costo di battibeccare con una dea. Cosa avrebbe potuto farle, Athena? Trasformarla in un ragno? No, Athena non avrebbe fatto nulla di tutto ciò perché Saori era parte di Athena, e questo le dava un potere inimmaginabile.

Non ci riesco!, si disse allontanandosi dalla specchiera. Ho quattordici anni. Voglio provare a vivere come se fossi una ragazza normale; capisci, Athena?

No, non capisco. Non ricordi più quello che hai promesso ai Bronze Saint dopo la battaglia contro Saga? Hai dimenticato che hai promesso a quei ragazzi di assumerti le tue responsabilità?


Quando sarà il momento, Athena, lo farò. Non prima, non adesso. Adesso voglio solo vivere come i normali e comuni esseri umani. Loro. Ed io. Se io mi ritirassi, loro capirebbero che c’è qualcosa che non va, e allora…

Certo… capisco…

No, tu non capisci! Io non sono solo la tua reincarnazione! Io sono una ragazza di quattordici anni. Oh, per te è tutto così facile, ma io… è come se fossi divisa in due. Una parte sa quali siano i miei obblighi, i miei doveri, il perché io sia nata; ma Saori… Saori vuole vivere! Vivere! Innamorarsi! Correre al galoppo sul suo César. Ridere. Passare pomeriggi interi per negozi. Scrivere, cantare, cucinare… Saori vuole una vita normale.

E non hai avuto tutto questo, per quattordici anni? Pensa a come sarebbe stato se tu fossi rimasta al Santuario!

Taci! Che cosa ho avuto? Sono sempre restata qui, lontana da tutto e tutti, una principessa in una torre di vetro che vedeva il mondo andare avanti senza di lei, mentre i suoi vicini le sfilavano accanto. Non ho amici. Non ho una vita normale. Non mi sono mai innamorata!

Sai che non puoi…

Sì, lo so. So tutto, Athena. Ma sappi che mi pesa, mi pesa da morire. Mi sembra di essere viva a metà.

Saori si portò le mani alle tempie.

Sai cosa è più giusto fare, Saori. Gnoti s’autòn, e lo spirito di Athena l’abbandonò.

Saori era stanca.

Gnoti s’autòn, conosci te stesso.

Più passava il tempo, e più la natura divina premeva per far assopire e inglobare Saori. Questa era l’eredità lasciatale da Saga, questa era la sua croce. Sapeva che la voce della coscienza aveva ragione, ma Saori era sempre stata una ragazza ostinata. Si sarebbe arresa solo quando sarebbe stato impossibile ritardare quel momento. Saori sarebbe morta e Athena avrebbe preso il pieno possesso del suo corpo.

È così che deve finire? Così, con la parte umana prigioniera di quella divina? Incapace di ribellarmi? Dovrò guardare che il massacro si compia senza poter far nulla? E sia, se così dev’essere, sarà. Ma non stasera, non adesso!, si disse tornando a fissare il proprio riflesso sorriderle. Va bene, un giorno Athena si sveglierà del tutto, ma per il momento può attendere.



Rientrò nella sua stanza poco prima delle tre.
Era stanca, alticcia e i piedi le avevano fatto male subito, appena era scesa nel salone.
Le décolletés di Ferragamo erano state le prime ad essere abbandonate, scalzate via sul velluto e lasciate dietro le spalle. Via le mille forcine che le infilzavano la testa, via la spilla, via gli orecchini che pesavano una tonnellata. E via anche quell’accenno di trucco che sotto le luci del salone le si era attaccato alla pelle.
Era stata una serata lunga e impegnativa: tutte quelle facce da chiamare con il nome giusto, tutte quelle mani da stringere, quei sorrisi da fare, le idiozie sulla sua bellezza da ascoltare…
Se non altro, nessuno aveva sollevato l’argomento del fiasco colossale che era stata la Guerra Galattica; se l’anno precedente facevano a gara pur di inanellare frasi di circostanza sull’imminente torneo, quest’anno sembrava che non fosse mai esistita. Saori pensò distrattamente che avrebbe dovuto rinunciare alla sua uscita settimanale con César, se avesse voluto presentarsi all’incontro con i suoi Saint sufficientemente lucida.
Potrò sempre farla dopo… spero.

Bussarono alla porta.
«Milady, sono Kaori. Tatsumi mi ha pregato di portarle una tisana per dormire.»
Tipico di Tatsumi insistere anche quando lei aveva più volte detto di no. Una tisana rilassante… Male non farà, pensò dicendole: «Entra pure.».
Kaori apparve con un vassoio d’argento tra le mani guantate e un sorriso dolce sulle labbra. Era stata assunta all’inizio dell’estate, e vantava un curriculum professionale di tutto rispetto. A Saori piaceva quella mezzosangue dai modi cortesi. Era speciale. Kaori sapeva fare sempre la cosa giusta al momento giusto. Con lei si sentiva come quando era con Doko o con Shaka. Tranquilla. Kaori posò il vassoio e le porse la tisana già filtrata e dolcificata.
«Grazie… Sei stata molto gentile a restare fino a tardi…»
«Per così poco, milady. Sono la sua cameriera personale, e stasera aveva bisogno di me. E poi, confesso che mi piace spiare le feste dell’alta società. Come quando mia madre lavorava e mi portava con sé. Ricordo che mi nascondevo sulle scale di servizio e osservavo quelle belle signore in quegli abiti fruscianti… Un sogno.»
Saori sorrise.
«Se posso fare altro per lei, milady…»
Ci pensò su e poi le chiese: «Potresti farmi un massaggio? Di quelli al cuoio capelluto che riattivano la circolazione…».
Kaori sorrise, disse: «Ma certo» e si pose alle sue spalle. Le spazzolò lentamente i capelli, cento colpi per lucidarglieli, e poi iniziò il massaggio vero e proprio. E Saori rinacque. Le dita di Kaori compivano dei cerchi lenti lenti sulla sua pelle ispessita, le unghie corte la graffiavano appena, riattivando la circolazione.
Fronte, nuca, tempie… e Saori sospirò, mentre la tisana tra le dita le trasmetteva un senso di tranquillità. Kaori sapeva sempre cosa fare. Saori diede due sorsate e si assopì.



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note: Eccoci puntuali con un altro capitolo. Innanzitutto, grazie. Di aver accolto la storia, di volerla seguire lo stesso e di venire a dare una sbirciatina. Grazie per aver letto fin qui. Di cuore.

I wako erano i pirati che infestavano le acque del Mar della Cina nel Seicento, sotto ordine diretto (ma non ufficiale) dello Shogun (l'Imperatore, all'epoca, se la passava maluccio). Un po' come i corsari, insomma. Grossomodo. Suppergiù.

Ed ecco l'eredità di Saga. Da una parte abbiamo Saori, la ragazza che ha sempre creduto di essere normale (ricchissima, viziatissima, con un parco macchine da infarto ed un guardaroba fornitissimo, pur se inquietante) fino alla morte del nonno, che rappresenta l'umanità di Athena; e poi c'è Athena. La dea. Che spinge perché cessino queste stranezze umane e si inizi ad aspettare Ade con l'elmo sulla testa e lo scudo imbracciato.

A venerdì prossimo!

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Capitolo 4
*** 4. ***


4.
 



Mentre l’auto sfrecciava sulla litoranea, e la sua preziosissima passeggera dormiva beata, non poteva non chiedersi come mai stesse filando tutto alla perfezione.

Un po’ troppo alla perfezione.

Infiltrarsi in casa Kido era stato semplice. Uscirne con la principessina in spalla, come un sacco di patate, era stato divertente. Più complesso era stato sbarazzarsi del cadavere della vera Kaori Shibayaki, ma grazie al cielo il mercato clandestino degli organi era ancora fiorente e attivo. Una ragazza sana e robusta come Kaori si era rivelata una gallina dalle uova d’oro e i soldi ricavati dalla vendita del suo cadavere l’aspettavano su un conto sicuro. Avrebbe potuto comperarsi una bella moto e tornarsene a casa. Oppure lasciarli fruttare. La moto l’allettava, e tanto, ma alla fine optò per la seconda ipotesi: non avrebbe potuto fare quel lavoro per sempre ed era ora di mettere da parte qualche soldo per i momenti di magra, che – era pronta a scommettere la testa della principessina addormentata al suo fianco – l’aspettavano dietro l’angolo.

Controllò negli specchietti un’altra volta: niente. Non la stavano seguendo. Possibile?
Meglio così, si disse sterzando ed imboccando una serie di tornanti che l’avrebbero condotta al porto.
Estrasse il biglietto dalla tasca della giacca di pelle nera.
Molo 27. Magazzino 12. Ore sei del mattino.
Non sono neanche le cinque, si disse scalando in terza.
Avrebbe consegnato al suo cliente la merce e se ne sarebbe andata di corsa a prendere il primo aereo per Parigi. Qualcosa le diceva che non avrebbe potuto mettere piede in Giappone per almeno un paio d’anni.
Vedeva già i titoli dei giornali.
Saori Kido rapita dalla sua cameriera. Cameriera che sarebbe stata trovata morta in un fosso mesi dopo, ormai irriconoscibile, la faccia probabilmente scarnificata dai ratti di fogna, dai cani affamati o da dio solo sa cos’altro. Doveva solo acquistare una ragazza ammazzata durante uno snuff movie, lasciare che il tempo facesse la sua parte e regalare a quella povera infelice un oggetto personale di Kaori. Nessuno sarebbe risalito a lei.
Tutto si sarebbe incastrato alla perfezione. Come un meccanismo ad orologeria.
Ma allora cos’era quella sensazione che le sussurrava che no, un paio di dentini non s’incastravano affatto nei loro anditi e che avrebbe fatto meglio a non abbassare la guardia e mantenersi vigile e pronta a saltare per evitare di lasciarci le chiappe, e anche qualcos’altro?

Apparve all’uscita dall’ultima curva.
Una figura d’oro, un uomo, l’aspettava in fondo alla strada sterrata dove aveva deciso di lasciare l’auto e proseguire a piedi con la principessina chiusa in una cassa. Il vantaggio di essere alte neanche un metro e sessanta.
Sapeva che chiunque fosse era lì per un motivo. Riprendersi Saori Kido. 
Spinse l’acceleratore a tavoletta: l’avrebbe investito. Ormai era in ballo, una morte in più che avrebbe cambiato? Niente. O meglio: quel ragazzo che vide con chiarezza man mano che l’auto macinava sempre più in fretta la strada sotto le ruote, si stava mettendo tra lei e il suo pagamento. Tra lei e tutti quei bei soldini che avrebbero confortato la sua vecchiaia.
Non poteva permetterlo, non dopo tutto quello che aveva fatto, non dopo tre mesi passati a fare da serva a quella cretina che dormiva placida accanto a lei.
Stiamo scherzando?, si chiese inserendo la quinta e preparandosi e veder decollare quel pagliaccio, vestito come un antico romano, che aveva deciso di romperle le uova nel paniere.
«Fai bye, bye con la manina…», disse, pregustandosi lo schianto del corpo sul parabrezza.
Peccato, quella Rover le piaceva.

Invece, quell’impiccione saltò via all’ultimo momento.
«Che cosa?», quasi gridò scalando velocemente fino in terza e rischiando di ribaltarsi. L’auto fece un testa-coda e si ritrovò ad illuminare la strada per cui era scesa. Il tizio era scomparso.
«Me lo sono sognato?»
Lo schianto che colpì il tetto dell’auto e il foro nella lamiera le dissero che no, non si era affatto sbagliata.
C’era qualcuno che l’aveva seguita. Ma chi poteva essere? Batman in trasferta? Spiderman? O solo un fenomeno da baraccone che non aspettava altro che essere crivellato dalla sua fedele Betsy, la Smith & Wesson ereditata da suo zio?

Estrasse l’arma dalla fondina ed esplose una raffica di colpi nello squarcio. Quando l’ultima eco si spense, svuotò il caricatore, ne prese un altro dal cruscotto e scese. Nessuno.
«Avanti, sono stanca e non ho voglia di scherzare. Esci fuori e facciamola finita.»
Un rumore alla sua destra. Si girò e sparò un paio di colpi in quella direzione.
«Vieni. Fuori!» ringhiò, tenendosi con le mani i capelli che le scivolavano sulla fronte. La sua voce si perse nel vento. «Oh, ma bravo… Non è leale! Esci fuori se sei un uomo!»
Niente.
Perse la pazienza. Controllò che la sua preda fosse ancora al suo posto. C’era. Saori dormiva ancora come un angioletto, ma quelle ciglia si muovevano un po’ troppo per i suoi gusti: presto, molto presto, l’azione del sonnifero avrebbe iniziato a scemare.
Eppure le avevo dato una dose da cavalli!, pensò lei chiudendo le portiere e tornando ad osservare la strada. Rimettersi in viaggio sarebbe stata la cosa più sensata da fare, ma era meglio non correre rischi. Quel tizio era stato capace di sfondare il tetto di un’auto; le avrebbe dato altre rogne, e non le andava di correre rischi adesso, ad un passo dall’intascare quel bel gruzzoletto.
Si sarebbe sbarazzata dell’impiccione inscatolato, avrebbe messo Saori dentro la cassa, l’avrebbe chiusa alla bell’e meglio e l’avrebbe trasportata lungo il molo 27, così com’era nei piani.
O non mi chiamo più Candice Kotobuki!, si disse facendo scattare la chiusura dell’automobile ed uscendo a caccia del suo uomo.

Ferito, l’aveva ferito quasi sicuramente. Poteva essere illeso? Dopo una raffica di proiettili calibro .44? Niente, nell’aria c’era solo l’odore del mare e del petrolio scaricato dalle cisterne.
Niente sangue.
«Adesso facciamo un bel gioco, amico… Io conto fino a tre; se per allora non tiri fuori il tuo visino dal buio, ti giuro che prendo la bambolina e le faccio saltare le cervella… E credimi, lo faccio! »
Nessun rumore.
«Bene, cowboy… », proseguì Candice aprendo la portiera dal lato di Saori e puntandole la Magnum alla tempia. «Uno… Due… e…»
Un dolore improvviso, come una fitta lancinante, la colpì alla mano.
Poi, un fuoco doloroso iniziò ad investirle pian piano tutti i centri nervosi, come tessere del domino che cadono. Candice abbassò il braccio destro, che pulsava impazzito e le sembrava addirittura si fosse gonfiato.
«Oh… you…», e biascicò qualcosa che non fermò l’altro dal crivellarla di colpi. Spalle, addome, braccia e gambe: sei colpi in tutto, simile a punture di spillo, ma che le scendevano giù, in profondità, sotto la pelle, fino a colpire i centri nervosi, paralizzandoli. Ormai faceva fatica a respirare. A parlare. A vedere. Candice scivolò a terra contorcendosi come una serpe.
A quel punto, l’uomo si avvicinò. Ignorò completamente la donna stesa a terra e si chinò sulla ragazza che dormiva sul sedile.
«Come sta?», gli chiese una voce rimasta in disparte.
«Bene, grazie al Cielo. Dorme.»
«Ok, pensateci voi. Io devo scambiare due parole con quest’altra tizia.»

 
L’aria è così carica d’umidità che le sembra di camminare dentro un acquerello. I contorni dei monti, sfumati all’orizzonte, l’erba soffice sotto i piedi e quel filo di nebbia che avvolge il paesaggio. Shān shuǐ, montagne e acqua, lo chiamano. Sta andando a casa del drago. Sta andando sul Monte Lu. Segue Shunrei lungo il sentiero che la porterà da Doko. La ragazza cammina senza alcun rumore, la lunga treccia scura che le pende sulla schiena come una decorazione. Come un mantello. Non è felice della situazione, ma sopporta. Vorrebbe essere a chilometri da lì, al capezzale di Shiryu, ma sa che non può. Quando lei le ha chiesto se volesse tornare con loro in Giappone, Shunrei ha sorriso, paziente e gentile come le acque del ruscello alla base della cascata del Drago, e poi le ha detto: «Grazie. Ma non posso lasciare Roshi.».
Saori capisce che non la vorrebbe lì. Che per lei, la sua presenza è foriera di guai. Avrebbe avuto tutto il diritto di sbattere la porta in faccia a lei e a Jabu. Eppure non l’ha fatto. Eppure li ha accolti. Eppure li sta guidando verso il luogo dove il vecchio Doko spende le sue giornate meditando davanti alla cascata.
 
L’acqua rimbomba. Scende a valle, scrosciando, muggendo, rombando. Incessante. Dall’inizio dei tempi. E Doko sembra essere un tutt’uno con le rocce, l’acqua e il paesaggio. È una figuretta che emerge dalla nebbia. Un cappello di paglia sulla testa, il corpo nella posizione del loto, le mani in grembo. Shunrei gli ha portato una coperta e un thermos con del tè. Ha fatto freddo, stanotte. E ne farà ancora fino a quando il sole non uscirà dalle nuvole. Se uscirà. Il cielo è grigio. Potrebbe anche piovere. Marzo sa essere ancora più incostante e capriccioso, qui.
Jabu resta indietro di un paio di passi. Rispettoso. Sa che quello è un momento tutto per Saori e il vecchio Libra, ma i suoi piedi si fanno di piombo quando scorge un’altra figura accanto a Doko. Più alta, più sottile e che emana il brillio dell’oro. Pone una mano sul polso di Saori. La trattiene. Shunrei avanza. Parlotta con il vecchio Doko e gli avvolge la coperta sulle spalle incurvate dagli anni. Athena sa che sono più di duecentocinquanta. Saori lo scopre adesso. L’altra figura resta immobile, accanto a Libra, tanto che potrebbe sembrare un fantoccio fermo di fronte alla cascata.
 
Vado avanti io, dicono gli occhi scuri dell’Unicorno. Che si frappone tra lei e la cascata ed avanza. Arriva quasi alle spalle di Libra, cinque passi di cortesia, e si annuncia. E annuncia anche lei. Le fa ancora strano sentirsi chiamare Athena. Come se qualcuno la chiamasse architetto o ingegnere. Doko si volta e lei lo vede. Per la prima volta. I loro occhi si rincontrano dopo quanto? Duecentoquarantatré anni, le risponde Athena. E Saori sa. Di un’altra sé, della sua battaglia e della sua scomparsa. E dei doni terribili fatti a Doko e Sion.
 
«Quanto tempo», sente dire al Venerabile Libra. La sua voce sa di foglie di tè e della carta dei vecchi volumi. La carta dei rotoli. Pergamena inspessita dal tempo. Saori riconosce quella voce. Nonostante tutto. Athena le ricorda quando lo ascoltava al Santuario, quasi trecento anni prima. Quando aveva una voce solare e aperta e franca. Quando scherzava, per strapparle un sorriso e ammazzare il tedio dei pomeriggi d’estate. Quando battibeccava con Sion. Quando le raccontava del posto da dove veniva lui.
Così bello che sembra uscito da un dipinto, le aveva detto. E lei gli aveva chiesto di poterlo visitare. Certo, aveva risposto lui. Quando questa guerra sarà finita.
 
«Ho mantenuto la mia promessa», dice Doko. «Anche se è stata lei a venire a trovare me, e anche se non potrò essere un provetto Cicerone, dati gli acciacchi dell’età…»
Scherza ancora. Sotto quella scorza inspessita dal tempo è rimasto lo stesso diciottenne di una volta. Può scorgere ciò che resta dei suoi occhi castani e dolci, pronti ad infiammarsi per difendere la giustizia, dei capelli folti e scarmigliati, del mento volitivo e del sorriso sincero e rassicurante. Quello di un vecchio amico. Quello di un fratello maggiore. Quello di un maestro.
Che cosa ti ho fatto?, si chiede accorgendosi che la sua vista è più nebbiosa di prima. Lacrime. Che le scendono lungo una guancia. Tira su col naso, come una bambina piccola. L’altra figura si alza, Jabu non la perde di vista. E poi torna a guardare lei. Impotente. Sente Doko ridere.
«Venga, Athena. Il tempo è prezioso.»


È opinione comune che oltre una certa età il tempo sia condanna e tedio. La vita si ripropone sempre uguale a se stessa, giorno dopo giorno, ora dopo ora, momento dopo momento. Come gocce nella pioggia. Non è così. Quando hai superato la lunghezza di tre vite umane, ti accorgi ancora di più di quanto ogni singolo secondo sia importante. Riesci a cogliere il divino nell’umano. E ti godi ogni momento gustandoti il fondo del bicchiere. Come se fosse l’ultimo. Perché non sai quanta vita ti resta ancora. Quante albe. Quante notti stellate. Quanto fiato. E il risveglio di Ade si avvicina sempre di più, come un treno in corsa nella notte.

I piedi di Saori obbediscono, con Jabu che le porge il braccio senza perdere d’occhio l’altra figura. Che si è seduta, accanto a Doko. Immota, come le acqua del fondo della cascata. Saori si avvicina. Si inginocchia davanti a Doko, come se fossero sul tatami, i talloni sotto al sedere, in quella posa che solo gli orientali riescono a trovare comoda senza rimetterci le capsule articolari delle ginocchia, come le aveva detto Agapios Solo qualche anno prima.
«Come stai, amico mio?», domanda perdendosi in quegli occhi dolci, enormi sul viso segnato dalle rughe come quello di una testuggine.
«Bene.» È una risposta soddisfatta, quella di Doko. Come se avesse appena bevuto un vino denso e corposo. Fruttato. «Voi?»
Saori sa che è inutile chiedergli di passare al tu. Non l’ha mai fatto, per quante volte la sua altra lei glielo abbia chiesto, e non comincerà a farlo adesso. Le abitudini sono dure a morire, giusto? «Bene, grazie», risponde con un sorriso ed un cenno del capo.
«Spero non sia stato difficile arrivare fin quassù.»
«Il cammino dentro la foresta non è lungo se si ama chi si va a trovare.»
Gli occhi di Doko risplendono compiaciuti.

Me ne sono ricordata, hai visto?, anche se non rammento il nome di chi mi abbia detto queste parole, o il suo viso. Solo una luce calda e splendente. E un profumo di… mele?

«Ben detto, Athena. Ben detto», e un sorriso si allarga sulle labbra raggrinzite. «Abbiamo molto di cui parlare…», dice il vecchio Libra. Ed è allora che Saori ha contezza della presenza dell’altra figura. Quella che tanto preoccupava Jabu.
Indossa un’armatura. Gli occhi di Saori si allargano dallo stupore nel riconoscerla. L’elmo a terra, il mantello drappeggiato oltre le spalle, lunghi capelli del colore delle notti indiane, che sanno di curcuma e sandalo. Occhi smeraldo su un viso color caffelatte che la scrutano. Curiosi. Timidi. Speranzosi.
«Si metta comoda, Athena. E anche tu, Unicorno, siediti», dice Doko facendo un cenno del capo a Shunrei. La ragazza versa il tè. In sottofondo, il ruggito liquido della cascata del Dragone. «Dobbiamo parlare.»
 
«Dove sono?»
Saori riaprì gli occhi a mille e mille chilometri e a cento e più giorni di distanza, sul soffitto panna della sua camera da letto a Villa Fujimi.
«Signorina… s’è svegliata!»
Seguì la voce, ancora un po’ intontita, e vide Tatsumi in lacrime fissarla con un’espressione tra il preoccupato e il sollevato. «Sta bene?»
«Sì, sto bene… ma cosa…» Poi li sentì. E si voltò alla sua destra. «Aiolia?»
Lui annuì.
«Ma cosa… »
«Oh, milady! Aiolia l’ha salvata! Se non fosse stato per lui…», iniziò a dire Tatsumi quando uno sguardo fermo di Aiolia lo fece desistere dal proseguire.
«Sal… salvata?»
Aiolia annuì.
«Adesso è al sicuro, non si preoccupi. Riposi, ne ha bisogno…»
«Ma… Io… devo vedere…» È qui. È qui, vero?
«Riposi adesso. Penseremo a tutto più tardi, non si preoccupi.»
Saori si specchiò nello sguardo profondo del Leone, e sorrise.
«D’accordo. E grazie, Aiolia…», rispose prima di riassopirsi lentamente.
Quando fu sicuro che si fosse addormentata, il Gold Saint del Leone fece cenno a Tatsumi di seguirlo fuori dalla stanza.
«Ma se…»
«Ci sono io, adesso. Non le accadrà nulla», promise in un sussurro Aiolia osservandola riposare tra le lenzuola candide. «Usciamo, devi spiegarmi alcune cose.»
Tatsumi chiuse la porta dietro di sé e sospirò. Si vedeva lontano un miglio che fremeva dalla voglia di sfogarsi con qualcuno.
«Grazie…», sussurrò cercando di mantenere la calma, le mani strette attorno alla maniglia d’ottone dorato. «Se non ci fossi stato tu… »
«Dove sono i Bronze Saint?», gli chiese Aiolia poco prima di vedere quell’uomo burbero e tanto amante dell’etichetta rigirarsi come una bestia ferita.
«Non parlarmi di quei dieci mentecatti! Dove sono andati? Ah, ma a farsi i fatti loro, ovvio! Ikki sarà rimasto con noi una settimana a dire tanto, ma su quel fannullone non ho mai fatto affidamento! Irresponsabile era da piccolo, e tale è rimasto quand’è cresciuto! E poi Ban e Ichi. Nachi se n’è andato verso la metà di Giugno. Poi ci si è messo Shiryu, che è volato in Cina a fine Luglio, e non dimentichiamo Hyoga, che è sparito ai primi di Agosto. Gli altri se ne sono andati tutti più o meno assieme nella prima metà dello scorso mese..»
«Tutti insieme?», lo interruppe Aiolia.
«Sì, Aiolia. Tutti assieme. Oh, io lo dicevo alla signorina di non lasciarli partire, ma lo sai anche tu com’è fatta, no?  Lasciali stare, tanto gli altri stanno per tornare… Aiolia, ti basti questo! Seiya e Shun dovevano star via quattro giorni, sono passate due settimane abbondanti e di loro non c’è traccia.»
«Perché non siete tornati ad Atene? Perché non avete avvisato il Santuario? I patti erano chiari, mi sembra. Ci saremmo precipitati qui subito.»
«Non voleva… non voleva disturbarvi», disse Tatsumi.
Aiolia scosse la testa. «E poi cos’è successo?», chiese. Perché c'era dell'altro. Molto altro, ci avrebbe scommesso la testa.
Il Leone fissò un punto imprecisato del pavimento sotto i suoi piedi, e la sua espressione si rabbuiava man mano che Tatsumi proseguiva il suo racconto. Un bubbolio in lontananza riempì il silenzio della notte.




Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:

Aggiornamento di giovedì. Edizione speciale, in vista del ponte dell'Immacolata. Non vi ci abituate!
Saori è rapita - tanto per cambiare! - ma non dallo sgherro dell'ennesima divinità che s'è svegliata con la luna di traverso. Parrebbe una professionista, questa Candice, anche se temo che la sua carriera subirà una brusca frenata.

Gli snuff movie sono poco più che una leggenda metropolitana. In pratica, si tratta di una morte (vera) ripresa in diretta. Un'esecuzione messa in atto al solo scopo di fissare sulla pellicola una delle due cose (la morte e l'orgasmo)  che, secondo Bazin, non si dovrebbero riprodurre in quanto eventi unici, nella storia di una vita, e che verrebbero annullati dal semplice riavvolgimento della bobina (all'epoca non c'era ancora il testo Rewind.). A tutt'oggi non si hanno tracce di snuff movie propriamente detti, ossia di morti causate al solo scopo di registrarne la diretta. E ringraziamo Dio, aggiungo io.

Shān shuǐ, (lett. montagne e acqua) è uno dei picchi intorno al Monte Lu, nell Cina sud orientale. Noi lo conosciamo come Rozan, o come i misteriosi Cinque Picchi dove si rifugia Shiryu appena ne ha l'opportunità.

«Il cammino dentro la foresta non è lungo se si ama chi si va a trovare» è un proverbio africano. Perché mai lo conoscesse Kardia resta un mistero. L'avrà appreso in uno dei suoi viaggi?

Al solito, grazie per esservi affacciati. Ci vediamo venerdì prossimo.
Baci
F

 

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Capitolo 5
*** 5. ***


5.
 



«Guarda, guarda chi abbiamo qui… Quattro conigli che non sanno neppure quand’è il momento di restarsene rintanati sotto terra!»
La voce di Milo era fredda e tagliente. Li squadrò uno per uno prima di sibilare: «Tornatevene da dove siete venuti.».
«Starai scherzando, spero!», tuonò Jabu.
«Sarai anche un Santo d’Oro, ma i tuoi modi non mi piacciono, amico», disse Geki avanzando di un passo, le mani che fremevano. Voleva avere notizie di Saori – di Athena – e quel pupazzo inscatolato gli stava facendo perdere tempo.
Gli altri optarono per un colpevole quanto prudente silenzio. Solo Shun suggerì loro: «Calmatevi», ma lo ignorarono. Geki avanzò di un altro passo ancora verso Milo, incurante della mano di Andromeda stretta attorno al proprio polso.
Lo Scorpione era davanti alla pesante scrivania di mogano che era appartenuta al defunto Mitsumasa Kido. Il ritratto del patriarca sembrava fissare rancoroso i propri figli dalla parete alle spalle del Santo, che guardava con interesse un globo terrestre in legno levigato, posto accanto alla scrivania. Milo scrutava coi suoi occhi azzurri i confini dell’Europa, in un chiaro color avana, che spiccavano sul marrone chiaro con cui erano indicati i mari e gli oceani. Era come se i Santi di Bronzo non ci fossero, o avessero già tolto il disturbo uscendo da questa storia una volta per tutte.
«Sto parlando con te!», disse Geki, ma la sua mano non arrivò mai a sfiorare il copri spalla dell’Armatura d’Oro. A Milo bastò fare un semplice passo laterale, uno soltanto, per allontanarsi quella pulce di dosso.
Lo Scorpione lo fissò. «Non hai capito le mie parole?», domandò, ma quello che l’Orsa Maggiore scambiò per derisione era invece pura sincerità. Milo voleva sapere se fosse stato chiaro a sufficienza prima di dover passare alle maniere forti.
«Ho capito benissimo!», ruggì Geki, prima che qualcosa lo colpisse al ginocchio sinistro. Cadde a terra, tenendosi la parte con entrambe le mani, mentre un dolore bruciante si irradiava lungo tutta la gamba. Shun sussultò e poi, con un coraggio che non credeva di possedere, fissò Milo con una muta domanda nello sguardo: «Ce n’era proprio bisogno?». E la risposta che vide baluginare nell’azzurro acceso degli occhi dello Scorpione gli fece capire che quello era solo l’inizio.
«Non lo ripeterò una seconda volta», disse Milo con aria annoiata. «Andatevene.»
«No.» Seiya avanzò verso di lui, e Milo si chiese se quel ragazzo fosse ottuso o semplicemente masochista. Davvero non ti ricordi quanto possano fare male le mie punture, moccioso? Devo forse rinfrescarti la memoria? «Io da qui non me ne vado. Noi da qui non ce ne andiamo.»
«Noi?», lo canzonò Milo con un sorriso beffardo. Sì, quel ragazzo lo divertiva. Era cocciuto, stupido ed impulsivo. Proprio quello di cui aveva bisogno lo Scorpione per sfogare la rabbia che faticava a trattenere nelle sue mani. Anche con quel bestione che adesso se ne stava riverso a terra – Per una singola puntura! – lo Scarlet Needle era partito da solo. In automatico. E Milo si domandò quanto tempo ancora avrebbe resistito prima di passarli da parte a parte. Ancora e ancora e ancora. Fino a sentire le braccia stanche e le spalle spossate.
«Noi», ripeté Seiya, con il tono di chi sa di camminare su una china molto pericolosa. Di chi è molto incosciente o molto stupido. O tutte e due le cose assieme. «Vogliamo vedere Saori. Vogliamo vedere Athena.»
Le mani di Milo scattarono. Afferrarono lo scollo della maglia di Seiya e lo sollevarono, portandoselo davanti al viso. «Vogliamo? Lor signori vorrebbero vedere Athena?», domandò lo Scorpione soffiando in faccia a quel ragazzino sconsiderato. Seiya ebbe una sensazione di vertigine. Possibile che sia velenoso fino a tal punto?, si chiese.
«Milo…», e Shiryu si ritrovò a terra, travolto da Seiya. Milo gliel’aveva lanciato contro come se fosse stato una bambola di pezza o un cumulo di stracci. Quando il Dragone alzò gli occhi, vide la figura dello Scorpione sovrastarlo, l’artiglio risplendere di rosso ed uno sguardo omicida serpeggiare sul volto del Santo. Come all’Ottava Casa, pensò il ragazzo. E il suo corpo gli ricordò con precisione quasi chirurgica quanto facesse male avere uno scambio di opinioni con Milo.
«Vi ho detto di andarvene. Non mi avete dato ascolto. Ve l’ho ripetuto. E non mi avete dato ascolto, ancora una volta. E in più, pretendete di vedere Athena? Lo capite che non siete nella posizione di pretendere nulla?!»
La voce dello Scorpione era un sibilo d’avvertimento, come quello di un serpente a sonagli che risuona tra le rocce del deserto.
«Dimmi, prode Shiryu, dov’eri quando Athena era in pericolo? Dov’eri quando quella donna la drogava e la rapiva per portarla chissà dove?»
Shiryu tacque. Abbassò lo sguardo, ma Milo non gli concesse quartiere. Afferrò il colletto della sua casacca e lo strattonò.
«Sto parlando con te, signorino.»
«Ero in Cina. Ero a Goro-Oh.»
Milo lo lasciò andare. Disgustato. Si guardò attorno, sincerandosi che tutti lo stessero fissando, poi disse: «Ve lo ripeto per l’ultima volta. Poi passerò ai fatti. Andatevene. Avete abbandonato Athena. L’avete lasciata sola. Non siete degni di essere chiamati Santi. Non siete degni di essere chiamati uomini. Non m’importa che lei vi abbia dato il permesso. Avete fallito. Avete gettato discredito su voi e sui vostri maestri. Per non parlare di tutti coloro che vi hanno riconosciuto dei Santi, a cominciare da me. A cominciare da Aiolos. Lasciate le vostre armature in questa stanza e sparite.». Ed uscì, senza guardarsi indietro.
«Aspetta! Voglio parlare con Aiolia!», disse Seiya alzandosi per rincorrerlo. So che c’è. Ho sentito il suo Cosmo! L’avrebbe fermato, l’avrebbe fatto ragionare e si sarebbero chiariti. Anche a costo di fare a pugni. Ma quando Seiya uscì dalla stanza, Milo era sparito.
 

 Saori Kido aprì gli occhi e il suo sguardo si fissò sul soffitto panna della sua camera da letto. Si mise a sedere e vide che, accanto alla porta, il Leone stava vegliando sul suo sonno.
«Ha riposato bene, dea Athena?»
 La calda e rassicurante voce di Aiolia fece nascere un sorriso sul volto di Saori. «Benissimo, grazie. Ma non dirmi che sei rimasto per tutto il tempo qui, Aiolia.»
«Sono stato dov'era il mio posto, al fianco della mia dea», rispose il Leone.
«Non ce n'era bisogno. Grazie.»
Non ce n’era bisogno?! «Athena, stanotte qualcuno ha tentato di rapirla. E questo può voler dire che, chiunque sia il nemico, è riuscito ad arrivare a lei quel tanto che gli è bastato per allungare una mano e prenderla.» Come un fiore di campo da aggiustarsi all’occhiello. «E a tal proposito, credo sia opportuno che si trasferisca al Santuario, in modo da poterla difendere al meglio.» Saori tentò di protestare, ma Aiolia proseguì, imperterrito, senza concederle di parlare. «Dea Athena, il Suo volere per me è legge, ma mi vedo costretto ad insistere. Qui non è sufficientemente protetta!», continuò il Leone.
«Non dire così! Seiya e gli altri saranno con me come sempre!», ribatté la ragazza facendo per alzarsi dal letto, ma nel farlo sentì lo stomaco dolerle e le ginocchia venirle meno. Aiolia la sorresse prontamente e la adagiò sui cuscini, con un espressione preoccupata sul volto.
«Qui non è al sicuro, torniamo al Santuario», continuò imperterrito, ma due dita d'avorio si posarono sulla sua bocca.
«Io ho sempre avuto fiducia nei Saint di Bronzo. Sia durante gli attacchi del Sacerdote, sia durante le battaglie al Santuario, sia durante la mia prigionia ad Atlantide», continuò decisa Athena, fissando il Leone con un espressione ferma e dolce.
«Io posso capirla, mia Signora, ma dove erano i suoi Saint l’altra notte?», chiese il ragazzo, sapendo di toccare un tasto dolente.
«Godevano la loro gioventù, Aiolia. Io stessa avevo dato loro il permesso di allontanarsi, quindi non sono affatto da biasimare!», rispose la ragazza alzando fieramente il capo.
È veramente la Dea della Guerra… Il cipiglio con cui mi ha risposto non lascia dubbi, osservò Aiolia tra sé e sé. «Ma allora perché non avete avvisato il Santuario?», le domandò.
Perché volevo dimenticare di essere Athena, pensò Saori. Perché volevo avere quattordici anni, per una volta nella vita. «Non volevo…»
«…creare disturbo? », l’interruppe il Leone.
Saori annuì, con lentezza.
Aiolia sospirò.
«Dea Athena… noi siamo nati per proteggerla. Per lei ci butteremmo nel fuoco, spianeremmo montagne e riempiremmo i mari. Ma se noi non siamo al suo fianco per proteggerla, che scopo ha la nostra esistenza?»
Saori fissò Aiolia negli occhi. Non c’era scampo, non c’era salvezza. I giorni spensierati dell’infanzia erano finiti, forse per sempre. Era ora di abbracciare il proprio destino, con il sorriso sulle labbra. Era Athena e lo sarebbe stata. Fino alla morte.
«Perdonami, Aiolia. Ma a volte anche le dee hanno quattordici anni», disse con un sorriso che non coinvolse lo sguardo. E Aiolia se ne accorse. «Hai ragione tu. È meglio tornare al Santuario. Lì, il nemico non potrà infiltrarsi. E non metterò in pericolo nessun altro. »
È troppo facile, pensò il Leone, preparandosi a quello che Athena avrebbe tirato fuori dal cilindro. Perché l’avrebbe fatto. Ne era sicuro. «Partiremo non appena si sarà rimessa, Athena.»
«Notizie su chi possa essere il nostro nemico?», domandò la ragazza guardando la finestra. Le tende erano tirate, ma uno spiraglio di luce passava attraverso i lembi di velluto scuro.
«Stiamo ancora indagando» Stiamo?, si chiese Saori, ma prima che potesse domandare chi fosse venuto con lui, Aiolia aggiunse: «Mi sono permesso di far dare una strigliata ai Santi di Bronzo.».
Lo supponevo. «Perché? Hanno agito col mio permesso!»
«L’hanno lasciata sola», disse Aiolia. Come se stesse spiegando ad una bambina cocciuta che il sole si chiama così e non asfodelio. «Se non fossimo arrivati in tempo…»
Aiolia non terminò la frase, lasciando che i sottintesi galleggiassero a mezz’aria. Il sole aveva scacciato gli incubi e i brutti sogni, ma quella quiete non sarebbe durata per sempre.
«Ti prego, Aiolia, non essere troppo duro con quei ragazzi; mi sento così responsabile nei loro confronti.»
«Milady, sono dei Santi», le ricordò. E se sapesse quanta fatica ci è costato impedire a Tatsumi di strozzarli…
«No, Aiolia, non è questo. Ho un debito di gratitudine eterno verso quei ragazzi...»
«Non capisco», disse lui inginocchiandosi ai piedi del letto.
«Sai che tuo fratello Aiolos mi affidò al vecchio Mitsumasa Kido in punto di morte?»
«Sì, milady, ma questo cosa c'entra?», chiese il Leone.
«Mitsumasa Kido era che il padre naturale di quei ragazzi. Non esitò a sacrificare i propri figli pur di creare dei Santi che difendessero me.»
«Per questo erano così affiatati», commentò ad alta voce Aiolia. Il suo sguardo incrociò quello di Saori, che attendeva una risposta alla domanda lasciata in sospeso.
«Dea Athena vorrei ricordarle che la sofferenza è legata a doppio filo alla vita di noi Santi», aggiunse il Leone, lo sguardo profondo negli occhi di Saori. «Purtroppo, la sofferenza è una zavorra da cui è impossibile staccarsi. Questo vale per me, come per Milo, Shaka, Mu, così come per tutti i Santi che servono la propria Dea. Dai tempi del Mito. E i Santi di Bronzo non fanno eccezione. Sanno cosa significa essere dei guerrieri devoti ad Athena, lo avevano solo dimenticato.»
Saori lo fissò preoccupata.
«Stia tranquilla, avevano bisogno che il loro orgoglio guerriero riaffiorasse in superficie», la tranquillizzò con un sorriso.
«Capisco... Spero tu non abbia esagerato.»
«Non si preoccupi, milady. Se ne è occupato Milo.» Io sarei stato molto più severo. «Seiya, Shun e Shiryu andavano un po' strapazzati, mentre Ikki e gli altri andavano solo riportati al presente», continuò il ragazzo.
«E Hyoga?», chiese Athena, mentre sentiva una punta d’ansia crescerle nel petto.
Aiolia abbassò lo sguardo e prese tempo, come a voler soppesare le parole; dopo pochi istanti rialzò il capo e incontrando gli occhi di Saori rispose: «Hyoga non c'era, milady».
 

La secchiata risvegliò Candice mozzandole il respiro e richiamandola dal sonno senza sogni in cui era scivolata da mezzora. L’acqua era ghiacciata. Il suo carceriere gliel’aveva rovesciata sulla testa ciondolante e china sul busto, come se lei fosse tornata a casa molto sporca e avesse bisogno di lavarsi.
Ha messo anche dei cubetti, lo stronzo, si disse alzando un occhio sulla figura che la sovrastava, una mano sul fianco e il secchio ancora nell’altra. La luce di una lampadina, nuda su di un filo penzolante nel buio, proveniva da dietro la testa dell’uomo. Non vuol farsi riconoscere, pensò Candice. E sorrise. Era ricominciato un nuovo round. Il sesto? Il settimo, se si considerava il veloce scambio di opinioni che avevano avuto fuori città, la notte scorsa. Candice era sicura di aver sentito due uomini parlare, ne era certa, nonostante tutto il suo corpo pulsasse impazzito. Una voce le era parsa più premurosa, l’altra dura come l’acciaio. Ed era quella che era capitata a lei.
Hai vinto un biglietto per Norimberga, Candy cara. Non sei contenta?
Lui doveva essere un tipo testardo. Uno di quelli che non si accontentano di un no come risposta. E anche un po’ fissato, a dirla tutta. Le domande erano state sempre le stesse, ogni volta. Negli ultimi tre colloqui si era divertito a cambiare l’ordine, il tono ed il ritmo, ma la sostanza era rimasta la stessa.
«Chi ti manda?»
«Chi sei?»
 «Come hai fatto ad introdurti qui?»
Logico. Candice era abituata ad avere a che fare con gli interrogatori. Polsi legati, caviglie intorpidite incatenate alle gambe delle sedie, mozziconi di sigaretta spenti sulla pelle delle braccia. Del collo. Del viso. Per scaldare l’atmosfera.
Lui non si era ancora acceso una sigaretta. Finora. C’era un odore stantio nell’aria. Umido. Qualcosa che prima lei non aveva sentito. Quel bastardo doveva esserci andato giù pesante con quello che le aveva iniettato sotto pelle. A pensarci bene, le era rimasto poco dei suoi cinque sensi: tatto – la pelle d’oca che le increspava il corpo, i capelli fradici e gocciolanti – il gusto – il sapore metallico del sangue e qualcosa di amaro, come una boccata di fiele – e udito. La vista era appannata, come se stesse osservando qualcosa da sotto il pelo dell’acqua. E ora stava tornando l’olfatto.
Sentì il tizio posare il secchio a terra, prendere una sedia, accomodarvisi a cavalcioni e mordere qualcosa. L’odore zuccherino le rivelò che si trattava di una mela, e a Candice venne fame. L’uomo masticò con lentezza il boccone, poi stappò una bottiglia, bevve un sorso generoso di vino, a giudicare dall’odore fruttato,  e si concesse un «Ah» di soddisfazione.
«1973. Ottima annata, sai?», le disse.
Candice intuì che stava cambiando strategia. Adesso si divertiva ad impersonare il poliziotto buono. Non gliene offrì un sorso, né gliene promise un bicchiere, in cambio di informazioni. Tappò la bottiglia, la posò a terra, accanto a sé, e tornò a fissarla.
Candice socchiuse gli occhi. Quella maledetta lampadina le feriva la vista, ancora debole e un po’ appannata, impedendole di mettere a fuoco il suo nemico. Sapeva che era alto. Che era forte e massiccio. E aveva i capelli lunghi, ammesso che quelli fossero capelli e non un collo di pelliccia. E il suo accento era liquido, come se le parole nella sua bocca danzassero sulla lingua e sul palato. Lei si chiese a che gioco potesse mai giocare quel tizio. Volevano informazioni, questo era ovvio, o l’avrebbero uccisa all’istante, ma niente e nessuno le avrebbe garantito una via d’uscita dalla porta sul retro, sana e salva e sulle sue gambe. Anzi.
«Voglio solo sapere chi ti manda. Chi ti ha incaricato di rapire… Saori Kido», disse l’uomo, mentre la sedia sotto di lui scricchiolava in modo preoccupante. «Poi potrai andartene dove più ti aggraderà.»
Aggraderà?, pensò Candice. In un altro momento avrebbe inarcato un sopracciglio, come faceva quel vulcaniano alto e magro che guardava in tv quando era bambina; adesso si limitò a ridere, anche se quello che uscì dalle sue labbra fu una specie di rantolo scomposto.
«Mi prendi per un’ingenua?», chiese con la testa rivolta al pavimento. C’era del mattonato, con della polvere sopra. «Sappiamo tutti e due come finirà questa storia.» Con un paio di scarpette di cemento per la sottoscritta, pensò.
«Davvero? E allora dimmi, come finirà? Perché io non ne ho la più pallida idea.»
La replica dell’uomo gli era arrivata pacata, calma e sinceramente incuriosita.
Candice sospirò. E va bene, tesoro. Vengo a vedere il tuo gioco.
«Io non posso dirti il nome del mio committente. E tu non puoi lasciarmi andare via senza, giusto?»
«Giusto.»
«Siamo in una situazione di stallo, amico. Perché a me non conviene parlare.»
«E perché mai?», domandò lui, arretrando sulla sedia per osservarla meglio.
«Questioni professionali», ribatté lei. «Se si spargesse la voce che io canto con facilità, avrei finito di lavorare. Sarei inaffidabile. E chi affiderebbe un lavoro delicato ad una persona inaffidabile?»
«Nessuno», concesse lui.
«Esatto. Senza contare che il mio committente potrebbe non gradire la cosa. E potrebbe volere risolvere la questione a modo suo.» Candice prese fiato. La sete le stava arrochendo la gola, ma mai e poi mai avrebbe implorato per avere da bere. «Come vedi, a me non conviene parlare. Conviene stare zitta.»
L’uomo tacque. Ragionò per qualche minuto sulle ultime parole dette da Candice e poi ribatté:«Io credo che la tua carriera sia già bruciata. Perché non penso che il tuo committente ti crederà se e quando gli dirai che ti abbiamo lasciato andare via, libera come un cardellino.»
Questa volta fu Candice a tacere. Alzò la testa, scoccando al suo carceriere uno sguardo di fuoco, qualcosa che gli facesse capire che, se ne fosse stata in grado, gli avrebbe cavato gli occhi molto, molto volentieri.
«Quindi?», ringhiò. «Io canto, voi mi lasciate andare e poi?»
«Poi sono fatti tuoi.» Candice non credette alle sue orecchie. Quel tizio pensava davvero che avrebbe accettato, che avrebbe creduto a questa promessa cui non avrebbe abboccato neppure un bambino? «La tua vita non mi riguarda. Puoi anche farti suora, per quel che me ne importa. Tu stai lontana da Saori Kido e andremo tutti d’accordo. Intesi? E adesso, fuori i nomi.»
Candice rise. Di cuore, di pancia, fino a che la gola non le fece male. Lui le si avvicinò, le alzò il mento di malagrazia verso di sé e le chiese: «Fai fare una risata anche a me, vuoi?».
La sua presa era forte, decisa. Come un paio di tenaglie.
Candice ricordò che quando era poco più che una bambina suo fratello Sousuke giocava a stuzzicare i granchi dentro le vasche del pescivendolo del quartiere. Fino a quando una granseola non s’era attaccata a quel ditino grassoccio con tutta la forza spaventosa delle sue chele, e suo fratello non aveva iniziato a correre su e giù per  il mercato nel tentativo di liberarsi di quel mostro, che se ne restava attaccato alla sua mano con stoica ed indefessa convinzione. Potrebbe spaccarmi la mascella con un solo movimento del polso, pensò Candice smettendo di ridere.
«Vuoi sapere un segreto, tesoro?», gli chiese, stendendo le labbra in un sorriso. «Non li so i nomi…»
«Non sai il nome di chi ti ha assunto?»
«No. Certe cose si fanno con discrezione.»


 
Ta paidia hrJan edo ajhna thn AJhna se sena.
AIOROS

 
 Ragazzi che siete qui giunti affido a voi Athena.
 Aiolos.

Se quell’iscrizione incisa sulle pareti della Nona Casa li aveva rinfrancati durante il massacro che era stata la Battaglia del Santuario, adesso quello stesso manipolo di parole bruciava come se fosse fatto di fuoco. Liquido. Che colava lento, nell’anima. Nel profondo. E ancora più giù. In un colpo solo avevano tradito il Santo del Sagittario – che aveva riposto in loro tutta la propria fiducia ancor prima che nascessero – Saori che aveva sempre creduto in loro – e i loro maestri e amici – che li avevano resi uomini in anni di duri addestramenti e lotte massacranti.
Seiya si era lasciato scivolare a terra come se un pugno ben assestato gli avesse tagliato il respiro. Alzò lo sguardo febbricitante per cercare i suoi compagni, ma scoprì che avevano tutti la sua stessa espressione stralunata.
Geki si teneva ancora la gamba dolorante, il viso contratto in una smorfia.
Shiryu non aveva il coraggio di staccare gli occhi dal pavimento di marmo ai suoi piedi. Ikki era di nuovo alla finestra, nel suo tipico atteggiamento da sbruffone, ma il suo sguardo sembrava preoccupato. Shun, a poca distanza da Geki, non sapeva come aiutare il compagno – l’amico? Il fratello? – mentre Jabu, le braccia conserte fremeva di rabbia.
Ichi e Nachi, la schiena appoggiata alla parete, se ne stavano con le mani sprofondate nelle tasche, l’aria meditabonda e corrucciata. Ban era a capo chino gli occhi rossi. Seiya rimase a specchiarsi sulla superficie che sapeva di cera d’api. La voce di Milo gli rimbombava ancora nelle orecchie.

Avete gettato discredito su voi e sui vostri maestri. Per non parlare di tutti coloro che vi hanno riconosciuto dei Santi, a cominciare da me. A cominciare da Aiolos.

«No… no… no!»
Seiya alzò la testa di scatto, fissò la porta e il suo Cosmo ribollì.
«No, non è così! Anche a costo di morire, ma rimedierò. Rimedierò!», proseguì come in delirio.
 «E come ?», gli chiese Shiryu con voce atona. «Come? Spiegalo anche a me se ti riesce.»
«Diciamoglielo! Diciamo a Milo che si sbaglia! Diciamolo a Saori! Noi abbiamo rischiato innumerevoli volte la vita per lei... per Lei... Noi siamo dei Santi!»
«Dirglielo? Tutto qui? È questo il tuo geniale piano?», chiese Jabu.
«Ma…»
«Finiscila! Invece di dire maseforse dimmi qualcosa che abbia senso!» Jabu lo fissò a muso duro.
«Non lo sai come fare, vero? Già, perché forse sai che non stiamo parlando di una sveglia rotta o di un bottone staccato. Forse non te ne sei reso conto, ma abbiamo gettato del fango anche sui nostri maestri.»
«Avanti, Jabu, adesso…»
«Piantala!» Shiryu aveva parlato come se la voce avesse dovuto esplodergli nel petto pur di uscire fuori. «Non hai sentito le parole di Milo? Sei diventato anche sordo?»
La voce, ora flebile e profonda del Dragone fece alzare la testa a Ban come in un cenno d'assenso.
«Noi non abbiamo saputo proteggere colei cui abbiamo giurato di dedicare la nostra vita... Non abbiamo mantenuto una promessa... Siamo solo stati capaci di deludere la fiducia riposta in noi da Saori e dai nostri maestri... Di tutti coloro che hanno creduto in noi...»
«Sì, ma siamo ancora in tempo per rimediare!», ribatté Seiya con un lampo di volontà negli occhi scuri.
«Rimediare? Rimediare! RIMEDIARE?!», tuonò Shiryu. Il Santo di Pegasus ebbe paura dello sguardo dell'amico di tante battaglie: raramente aveva visto quegli occhi assumere un colore così cupo. «Ma ti senti quando parli, o apri la bocca solo per farle prendere aria? Non stiamo parlando di una sveglia che si è rotta o di un bottone staccato, quante volte te lo devo ripetere?!», proseguì il Dragone con un fremito nella voce. Quindi, come sconfitto e demotivato, riabbassò il viso e si pose una mano sugli occhi.
«Ma noi...»
«Noi, cosa? Noi cosa!?»
«Avanti, Shiryu, finché c’è vita… »
«C’è speranza? È questo quello che c’è, Seiya? Ma speranza di cosa? Di cosa?! Ma non te ne rendi conto? Io, l’unico allievo di Libra, lo deludo e getto del disonore sul suo nome. Immagino già quello che staranno dicendo tutti al Santuario…  Bell’allievo ha tirato su, il vecchio Doko! Proprio un bel campione! Per non parlare di Shura… si starà rivoltando nella tomba… e dire che mi aveva affidato Excalibur per proteggere Athena… Come posso ripresentarmi davanti ad Athena? Ma che razza di uomo sono, io?! Dimmelo! Che razza di uomo è quello che…»

CIAFF

Shiryu si specchiò sul pavimento, una guancia che bruciava.
«Abbiamo finito di giocare alle donnette isteriche?»
La voce di Ikki gli giunse lontana, ovattata dalla rabbia che sentiva montare dentro di lui.
«Sei impazzito?»
«Fratello…», provò ad inserirsi Shun, ma un’occhiataccia della Fenice lo immobilizzò. Stanne. Fuori, gridarono a lui e agli altri gli occhi di Ikki, due pozze di fuoco azzurro che guizzavano pericolose.
«Alzati… non vedi come ti sei ridotto? Adesso sì che il tuo maestro dovrebbe vergognarsi di te! Alzati!»
«Lascia fuori il mio maestro da questa storia!», ringhiò Shiryu alzandosi.
«Presuntuoso.»
«Come, prego?»
«Hai capito bene: presuntuoso. Presuntuoso. Presuntuoso!», scandì Ikki alzando la voce.  «Ma chi ti credi di essere, eh?! Ti è stato appena detto che ti hanno perdonato, che ci hanno perdonato e tu? Vuoi che ti ammazzino? Vuoi che ti stacchino la testa e innaffino la tua armatura col tuo sangue per purificarla?»
«Potrebbe essere un’idea…»
«Giudice, Giuria e Carnefice… Tutto in te, vero Shiryu? Oh, tu te ne freghi che. Te ne freghi di aver fatto una cazzata cosmica, ma che Athena ti abbia perdonato, vero? Che Athena si sia dimostrata così benevola, vero? Indossare l’Armatura del tuo maestro ti ha dato alla testa?»
Il diretto di Shiryu partì senza che lui potesse farci nulla, come se fosse un pupazzo caricato a molla. Ikki riuscì appena a scansarsi e a farsi sfiorare dalle nocche del Dragone, serrandogli la mano nella sua.
«Ma bene, allora le abbiamo, le palle! Se è così, invece che star qui a frignare, perché non ci spremiamo le meningi e non troviamo qualcosa da fare, eh?»
«Cosa, fratello?», domandò Shun.
«Chiedere perdono a Saori, ad esempio… Credevo foste voi quelli più avvezzi al cerimoniale, non io. Avanti, andiamo a fare atto di pentimento. È il minimo, dopo quello che è successo…»
Ed uscì dalla stanza, seguito dai suoi fratelli. Quando Seiya richiuse la porta, un grido di donna riecheggiò per i corridoi di Villa Fujimi.
 
 
«Non mi piace», e Aiolia non seppe dire se Milo stesse parlando della situazione generale, del riassunto che aveva appena concluso o del mappamondo che faceva bella mostra di sé nella biblioteca, accanto all’imponente libreria di noce carica di volumi. Edizioni preziose. Rilegate in pelle nei toni del verde bottiglia, rosso cremisi e blu notte. Lo Scorpione ebbe un senso di déjà vu, ma sbatté le palpebre e svanì, così com’era apparso. Come nebbia al sole. «Non mi piace davvero.»
«Quindi? Tu che dici conviene fare?», domandò il Leone, per capire a quale delle ipotesi ventilate si stesse riferendo il compagno. Sempre che, nella testa di Milo, non si stesse alludendo ad una nuova, imprevista variabile.
«Tornare al Santuario. E tornarci subito.» Lo Scorpione fece vagare lo sguardo sul mappamondo, gli occhi azzurri incatenati ai confini geografici riportati con estrema precisione. «E cercare di capirci qualcosa, una volta arrivati. Ma lì. In casa nostra. Non qui.»
«Non ti fidi, eh?»
«Perché? Tu lo faresti?», ribatté.
«No.»
«Appunto.» Stavolta i suoi occhi cercarono la grande macchia ocra della Cina. Il Maestro è in meditazione. Ma tu guarda il caso, ma tu guarda le coincidenze! «Voglio controllare i registri del Sacerdote. Quelli di Sion. Perché dubito che Saga abbia lasciato scritto qualcosa.»
«Non lo escluderei», disse Aiolia, e Milo si voltò. Finalmente, pensò il Leone. «Potrebbe aver pensato ad una sorta di giustificazione del proprio operato. O magari, la sua parte benevola, potrebbe aver scritto qualcosa a riguardo. Per i posteri.»
«Ci sono troppi condizionali per i miei gusti.» Milo si allontanò dalla parete e si avvicinò alla finestra. Le tende erano tirate e la luce del sole filtrava attraverso uno spiraglio che lo Scorpione provvide ad eliminare con un gesto deciso del polso. «E poi, c’è un’altra faccenda che non mi piace.»
«Quale? Che fine abbia fatto il Cigno?»
«Sì. E no», rispose.
Hyoga non si era ancora presentato. Tutti i Bronze Saint erano andati a rifugiarsi in luoghi cancellati dalle rotte umane, sì, ma Hyoga e Shiryu erano allo stesso tempo i più vicini a Tokyo. E come mai, allora, il Dragone era arrivato subito, e il Cigno no? E come mai Seiya era arrivato dall’altra parte dell’Eurasia, e lui no?
«Almeno, non alludevo a questo.»
«E a cosa, allora?»
Milo allargò le braccia in un rumore metallico, come a dire: «Non ci arrivi da te?». E poi lo disse: «Non ci arrivi da te?».
Aiolia aggrottò le sopracciglia. «Stai suggerendo che…»
«Sì. Sto ipotizzando che l’assenza dei ragazzi e il rapimento di Athena siano collegati.»
«Mi sembra palese, non avrebbero mai tentato di rapirla con loro presenti.» O forse sì?, si chiese il Leone.
«Esatto.»
«Ma?» Perché c’era un ma nel ragionamento di Milo. Grosso come l’Ottava Casa, se non di più.
«Ma se la loro improvvisa voglia di libertà non fosse stato un fatto naturale?»
Aiolia si accomodò contro la spalliera del divano. L’armatura cominciava ad essere pesante. Quanto tempo era che non se la toglieva? Un giorno? Due? Tre, si rispose tornando a guardare Milo. Anche a lui doveva pesare il fatto di indossare la propria corazza da più di quarantotto ore. Aveva tutta l’aria di chi ha bisogno di una doccia calda o di qualche ora di buon sonno. O di entrambe le cose.
«Continua.»
«Ho iniziato a pensarci questa mattina, quando abbiamo parlato con… come si chiamava il primo che è arrivato? Ah, sì», e schioccò le dita. «Il Leone Minore. Ban, Ben o quel che è. E la pulce nell’orecchio me l’ha messa proprio lui. Tu una buona memoria, migliore della mia. Cos’è che ha detto di preciso
«Ha detto che erano stanchi. Che volevano godersi la loro gioventù...» Milo lo invitò a proseguire con un cenno della mano. «… dopo tante battaglie
«Esatto, Aiolia! Al momento ero troppo impegnato a non crivellarlo di colpi, ma poi, ripensandoci, mi sono chiesto: quali battaglie?»
Fu allora che sentirono l’urlo.
 

«Trovato nulla?», chiese Shiryu. Gli altri lo stavano aspettando al punto convenuto, davanti il ritratto del vecchio Kido che accoglieva, burbero e severo, i visitatori nell’atrio della villa. Mancavano Seiya, Ikki, Jabu e Geki.
«Nulla», rispose Andromeda. «Hai visto Ikki?»
Shiryu scosse la testa. «No. Ci siamo separati quasi subito. Seiya? Jabu?»
«Li conosci», disse Nachi con un sorrisetto. «Jabu voleva correre da Saori. Seiya voleva correre da Saori. Era palese. Fremevano.»
«Quei due si punzecchiano in continuazione, ma poi sono più simili di quanto vogliano ammettere», disse Ichi. «Jabu è andato al capezzale di Saori, con Geki.»
«Geki?»
«Ha fatto qualche passo, ma non ce la faceva a camminare. È andato da Athena, a vegliarla. È più utile lì», disse Ichi, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni e l’aria preoccupata. «Certo che sa essere… incisivo, quel Milo.»
«Purtroppo…», commentò il Dragone. «Scommetto che Seiya non ha osato farsi rivedere da Aiolia, giusto?»
Shun annuì. «Almeno fino a quando non avrebbe capito cosa stesse accadendo, ha detto. Ha detto anche che sarebbe andato a fare un altro giro perché questa storia non lo convinceva.»
«Non convince neppure me», commentò Shiryu. Shun diede un cenno d’assenso col capo.
Tacquero, chiedendosi ognuno cosa stesse accadendo. Stavano agendo come Santi, ovvio. E stavano per mettersi in caccia di qualunque cosa rappresentasse un pericolo per Saori. Per Athena. E si sentivano vivi. Dopo tanto, troppo tempo. Come se solo la battaglia ed il pericolo potessero giustificare la loro esistenza. Il loro ruolo nell’ordine naturale delle cose. Non c’era bisogno di parlarne. Ce l’avevano scritto in faccia. Tutti loro, e Shiryu avrebbe potuto scommettere che anche Geki e Jabu stavano provando le stesse emozioni. Come se si fossero risvegliati da un lunghissimo torpore.
Shiryu alzò lo sguardo al secondo piano, dove si trovavano le stanze di Saori. Stava per piovere, uno di quei diluvi dove sembra che il cielo voglia rovesciarti addosso tutta l’acqua dell’universo. Per pulirti. Forse ne hai bisogno. Forse sei sporco. Forse sono i tuoi pensieri ad essere sporchi. E Shiryu si dispiacque di vedere come adesso la vecchia casa del maestro gli apparisse un nido di luce calda e accogliente, un grembo in cui rifugiarsi, mentre fino a ventiquattrore prima era quasi… Quasi una prigione.
«Facciamo un altro giro di ronda?», propose il Dragone. Ma fatti pochi passi, la porta si spalancò, ed entrò Ikki, con un fagotto tra le braccia.
Shun fece un passo avanti, il sorriso sulle labbra che si smorzò alla vista del cadavere che Ikki trasportava. Una giovane donna. Bagnata dalla testa ai piedi, da cui proveniva un forte odore di… Gallina bruciata?
«Fratello?»
«È una lunga storia. E la racconterò una volta sola», disse la Fenice avanzando. «Andiamo a parlare con Milo. E poi con Saori.»



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:
Aggiornamento di Mercoledì, contenti?

Milo si occupa di dare una bella strigliata ai Santi di Bronzo. Perché c'è pure lui, mica solo Aiolia. Eccheddiamine! Diciamo che Aiolia, con la scusa del montare la guardia al capezzale di Athena, lascia tutto sulle spalle di Milo. Il quale lo vedo più propenso a gestire un interrogatorio, di Aiolia. Cioè, Aiolia è l'eroe, il paladino, quello fesso buono, la cui bontà è portata ad esempio. Non ha la stoffa del carceriere. Milo, sì.

Che abbiano davvero ragione loro e che la fregola il desiderio dei Santi di Bronzo di starsene per i fatti propri non fosse così genuino come sembrava?
Chissà...

Appuntamento alla prossima settimana. Intanto, fate i bravi.

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Capitolo 6
*** 6. ***


6.
 



Candice fissava le rastrelliere di faggio piene di bottiglie verde scuro e le grandi botti di rovere, ormai in disuso, addossate alla parete nord, chiazzata da un alone di muffa che si allargava tra il soffitto e le due pareti sottostanti.
Se le avessero detto che quel vantaggiosissimo affare si sarebbe risolto con lei inseguita da un tizio capace di aprire un foro in nel tettuccio di un’automobile e legata ed intontita come se le fosse passato sopra un tir, non ci avrebbe mai creduto. Era pressoché certa che il suo committente le avesse taciuto qualche dettaglio: qualche piccola dimenticanza, distrazione, omissione. Sono cose che capitano. Sono gli inconvenienti del mestiere. Qualcosa salta sempre fuori dal cilindro, che tu lo voglia o no. O che tu abbia preso tutte le precauzioni di questo mondo e dell’altro. Ma questo era troppo.
Candice si maledisse per aver guardato l’assegno – l’importo – prima di aver sentito tutta la storia. Sei milioni di dollari. Una cifra che avrebbe fatto perdere la testa anche al più serio dei professionisti. Idiota. Guarda come ti sei ridotta, si disse, maledicendo la propria avidità e saggiando la resistenza delle corde. Quello strano tipo dai capelli lunghi non aveva l’aria del boyscout, ma sapeva il fatto suo per quel che riguardava corde, nodi e affini. E adesso, legata al sostegno di una botte grande tre volte lei, era costretta ad ammettere che quel herre Lås  non aveva tutte le rotelle a posto e che tutto, nella sua persona, lasciava supporre che fosse così.

Il suo committente aveva un sorriso da faina. Un pazzo, ecco cos’era, si disse. E che genere di lavoro possono richiedere i pazzi?
L’uomo era magro come un lampione, con un ampio sorriso, falso e brillante come una moneta di cioccolato, e una strana propensione per i toni del rosso. Sembrava che si fosse tuffato nella tavolozza di Tiziano prima di uscire di casa. L’aveva attesa seduto al tavolino di un Fuglen – con le tovaglie rosse – aveva ordinato un succo d’arancia rossa e le aveva fornito le istruzioni e l’assegno in una busta color carminio. Sul momento aveva pensato ad un vezzo, un po’ pittoresco forse – ma il Natale non tira fuori il peggio dalle persone?, si era detta – ma era qualcosa di normale rispetto ai veri desideri di quell’uomo dal volto incavato e gli zigomi sporgenti.
«È uno scherzo?», gli aveva chiesto.
«No», aveva risposto lui. E quel baluginio che aveva visto sul fondo dei suoi occhi – verdi e chiari da sembrare due cocci aguzzi di bottiglia in controluce – non le avevano regalato un interminabile brivido lungo la schiena?
«Metà adesso, metà alla fine del lavoro», aveva detto lui, sorseggiando la sua aranciata con fare distratto. «Qual è la sua risposta, min kjære frøken?»
Purtroppo per lei, aveva risposto di sì.

Candice sentì la porta aprirsi ed imprecò. Possibile che fosse già ora di un altro round? Chi avrebbe trovato, adesso? Il poliziotto buono? Quello cattivo? Oppure quello che era con loro sulla spiaggia e che non si era ancora degnato di scendere laggiù? Che cosa avrebbe dovuto aspettarsi, da quello lì?
Due piedini, avviluppati in due anonime scarpette bianche, apparvero in cima alle scale di legno. Calze bianche coprenti, merletto candido sull’orlo della gonna nera, grembiule inamidato. Una delle cameriere, pensò Candice. Che diamine scendeva a fare una della servitù, lì sotto? Non certo per portarle da mangiare o da bere. Volevano forse esprimerle il loro punto di vista sulla questione?
Quando la ragazza scese le scale e si fermò a pochi passi da lei, Candice riconobbe Satsuki. Era stata assunta qualche mese prima di lei. Aveva un carattere sensibile e qualsiasi cosa facesse, dall’asciugare una tazza al porgere il giornale, i suoi modi erano sempre impeccabili. Candice la detestava. Detestava il suo colore di capelli così smorto e banale, il suo perenne sorriso e quel vezzo di coprirsi la bocca con la mano quando rideva. Molte, troppe volte Candice aveva frenato l’impulso di prenderle la testa ed infilargliela nell’acquario tropicale dello studio blu, al piano terra, e di tenercela dentro fino a quando non avesse smesso di agitarsi. E di ridere. Una volta per tutte.
Che voleva quella piccola scema, adesso? Dirgliene quattro perché aveva osato rapire la sua amata padroncina?
Le rivolse un sorriso sarcastico.
«È già l’orario delle visite?», chiese, stanca. La posizione in cui l’aveva legata il suo carceriere non era delle più comode.
Satsuki estrasse un coltello da cucina dalla tasca della gonna.
Non scherziamo! «Sa… Satsuki… Satsuki… ferma! Ferma! Ascoltami!!», provò a dirle, specchiandosi sulla lama. Aveva le pupille dilatate. Il coltello calò e Candice chiuse gli occhi.

ZAC

Le corde caddero a terra in un tonfo pesante e bagnato. Satsuki posò a terra il coltello e lo spinse via con un piede, mandandolo a finire sotto la rastrelliera più vicina.
«Perché?», chiese Candice massaggiandosi i polsi.
«Perché non la sopporto», rispose Satsuki. Con lo stesso tono piatto con cui avrebbe risposto se le avessero domandato se gradisse di più le fragole o le albicocche. «La signorina, intendo. Vieni. Conosco un modo per scappare.»
Candice le afferrò un polso. «Non hai paura di essere scoperta?»
Satsuki fece segno di no con la testa. «Tu sei una che non parla. L’ho sentito dire da quello coi capelli lunghi. Non parlerai nemmeno stavolta. Non ti conviene. E in più, ho preso le mie precauzioni.»
Sarebbero?, le chiese lo sguardo di Candice.
«Ho disabilitato le telecamere interne della villa. Nessuno ha visto me scendere qui e nessuno vedrà te scappare da qui.»
Detto questo si voltò e si diresse verso il fondo della cantina. Candice raccolse il coltello – avrebbe sempre potuto farle comodo un’arma – e si decise a seguirla.
 

Tatsumi fissava le fronde degli alberi tingere di verde il panorama fuori dalle finestre delle stanze di Saori. Le mani erano sagomate attorno all’impugnatura della shinai, la presa ben salda, gli avambracci tesi.  Non pensava avrebbe ritirato fuori il do, il tare  ed i kote. Pensava che non ce ne sarebbe stato più bisogno. Pensava che quei ragazzi avrebbero difeso Athena. Ad ogni costo.
Per fortuna che il padrone non è qui.
«Io ho fiducia in loro», gli aveva detto il vecchio Kido guardando i bambini allenarsi.  L’oncologo gli aveva appena diagnosticato il male che l’avrebbe portato alla tomba, e sapeva che non avrebbe rivisto i suoi figli tornare con le corazze indosso. Saori era venuta con lui; osservava annoiata i suoi coetanei nuotare nella piscina olimpionica con dei pesi attaccati a polsi e caviglie. Era palese che il suo corpicino fosse lì, col suo bel vestito di velluto blu dal colletto bianco e le scarpette di vernice, ma la sua testolina era rimasta alla casa delle bambole nella stanza dei giocattoli. «Io. Ho fiducia. In loro.»
Tatsumi non avrebbe saputo dire allora su quali basi il vecchio Kido poggiasse quella convinzione. Si era limitato ad annuire e a dargli ragione, addolcendogli gli ultimi anni di vita. Kido aveva sollevato lo sguardo e si era goduto il calore di un raggio di sole. Quella sarebbe stata una delle ultime volte che avrebbe visto il cielo e sentito il piacevole sussurrare delle fronde mentre la piccola Saori pensava a dove sistemare il salotto. Piano terra o primo piano, accanto allo studio?
Lei era la ragione di vita di quell’uomo. Quella piccola trovatella sbucata dal terreno come una pianta riusciva a risvegliare una luce interiore che illuminava il vecchio tycoon. Lo rendeva radioso. Tatsumi non aveva creduto nemmeno per un attimo alla storia della neonata affidatagli da un Santo morente. Aveva annuito, aveva accettato formalmente le spiegazioni del vecchio Mitsumasa, ma, dentro di sé, aveva preferito credere che quella neonata sorridente fosse l’ennesimo frutto di una delle tante relazioni in cui il suo padrone era solito inciampare. Se quell’uomo aveva una debolezza, questa erano le donne.
Quante ne erano entrate ed uscite dal suo letto? C’era stata l’étoile del Bol'šoj, Natassja dalla pelle di neve e dai capelli d’oro, l’unica che era stato ad un passo dal portare all’altare. Le moglie dei suoi rivali. Le mogli dei suoi soci. Le figlie di entrambi. O semplici ragazze, in cui vedeva brillare qualcosa di raro. Qualcosa di prezioso. Sumire, Nadeshiko, Akiko, Sakura, Ai, Natsumi…

Mitsumasa aveva stile. Aveva classe. E nonostante l’età sapeva come fare breccia nel cuore delle donne, ed entrare nei loro letti senza colpo ferire. Prendendosi cura dei figli che seminava in giro. Pagando i conti, senza riconoscerne nessuno. Tatsumi sapeva che Mitsumasa Kido viveva come se pensasse di essere eterno, senza soffermarsi a pensare a chi avrebbe ereditato il suo patrimonio, dopo di lui. Non aveva fratelli. Non aveva più moglie. Non aveva più figli. Era rimasto solo lui del clan dei Kido, e Tatsumi sapeva che, prima o poi, avrebbe messo la testa a posto sposando la rampolla di questa o quella zaibatsu, e messo su famiglia.
Doveva solo decidere se sarebbe stato più redditizio legarsi a Fujimi Mitsui o ad Ayumi Mitsubishi. Ma poi era tornato da quel viaggio in Grecia con un fagottino rosa ed uno scrigno d’oro massiccio e gli aveva raccontato quella storia inverosimile.
«Diremo che è la figlia di mio figlio Mei,», gli aveva spiegato alla fine del suo racconto, dimenticandosi che Mei era morto da più di un anno. Ed era scapolo. «Mi sono già messo in contatto con i miei avvocati per il riconoscimento», e Tatsumi aveva compreso che chiunque fosse stata la madre di quella creatura, Kido doveva averla amata moltissimo. Più di sua moglie Akane, più di Sumire, più di Sakura, più di Natassja.


Tatsumi avrebbe capito solo qualche tempo dopo la dipartita di Kido quanto quella ragazzina fosse speciale.
Saori aveva voluto un coniglietto per Natale. Bianco, soffice, con gli occhietti rossi e la coda a batuffolo. Identico alla descrizione del Bianconiglio di cui Mitsumasa gli aveva letto in quel libro per bambini. L’aveva chiamato PonPon. Lo curava. Lo nutriva. Puliva la sua gabbietta, aiutata da Shiori. Giocava con lui. Dormiva con lui. Fino al giorno in cui PonPon non s’era sentito bene, ed era stato necessario chiamare il veterinario. Che era entrato nella stanza, aveva aperto la gabbietta di PonPon e l’aveva sollevato. Con la massima cura. Ma il coniglietto s’era spaventato al punto tale da tentare la fuga da quella presa estranea.
Chi era, quello? Che voleva da lui? Forse papparselo con un bel contorno di patate al forno?
Così PonPon aveva fatto quello che molti suoi simili fanno quando sono terrorizzati. Scalciano. Per sottrarsi al predatore. Ma PonPon aveva dato un colpo con le zampe posteriori in una direzione, e aveva mosso le anteriori in quella opposta. Spezzandosi da solo la spina dorsale.
«Mi dispiace. Purtroppo capita, con i conigli», si era giustificato un mortificatissimo veterinario, ed era apparso chiaro quale fosse l’unica soluzione per alleviare le sofferenze di quella creatura.
Il difficile era stato convincere Saori.
«Voglio stare un po’ con PonPon… prima…», aveva detto, le lacrime impigliate nelle ciglia scure. E l’avevano accontentata. Con che cuore avrebbero potuto dirle di no, impedendole di accarezzare un’ultima volta il suo adorato coniglietto?
Ma quando il giorno seguente il veterinario era tornato, Saori rideva. Potevano sentire il suono argentino della sua voce tintinnare nel corridoio, oltre la porta bianca a doppio battente, come una campanella che oscilla nell’aria calda di Luglio. Tatsumi aveva bussato ed aveva aperto la porta, preoccupato per la sanità mentale della sua padroncina. Prima aveva perso suo nonno, adesso il coniglietto, e il brav’uomo pensava che la bambina fosse entrata a buon diritto nel club delle Lepri Marzoline. Invece, per poco rischiò di non entrarvi lui.
PonPon stava bene. Pon Pon correva. PonPon saltava per la stanza come solo un coniglio può fare, giocando con la sua padroncina. In perfetta salute.
«Dottore, PonPon è guarito! Visto, Tatsumi?», lo aveva accolto Saori andandogli incontro, l’espressione raggiante e gli occhi allargati dalla felicità. E lui non aveva saputo cosa ribattere.
Il veterinario aveva insistito per visitare l’animaletto, incredulo nel vederlo in perfetta salute, gli occhi vispi ed il pelo lucido; ma non aveva potuto far altro che constatare come il coniglietto fosse incolume. Come se la sua spina dorsale non si fosse mai e poi mai spezzata.
«Beh, in alcuni casi può succedere…», aveva detto l’uomo accomiatandosi, raccontando quella bugia a se stesso per primo, perché no, era davvero troppo credere che una bambina potesse compiere dei miracoli. Impossibile, certo. Ma quando cresci una dea, la distinzione tra possibile ed impossibile diviene più labile di quella tra cielo e mare in una tersa giornata di sole. E Tatsumi l’aveva imparato, toccando quasi con mano.

Si concesse uno sbuffo, qualcosa a metà tra il sospiro e il colpo di tosse.
«Tatsumi? Hai sentito?!»
Sentito cosa?, avrebbe voluto rispondere alla sua padroncina, ma non ne ebbe il tempo. Bussarono alla porta e lei si alzò dalla poltrona in cui s’era accomodata, uno scialle sulle spalle ed un libro aperto per ingannare il tempo. Tatsumi andò ad aprire col bokken in una mano e la maschera nell’altra. C’erano Aiolia, Jabu e Geki.
«Tutto bene?», domandò il Leone, sorpassando Tatsumi senza tanti complimenti.
«Io sto bene», rispose Saori. «Cos’è stato quell’urlo?»
«Non lo sappiamo, ancora.» Aiolia diede un colpo d’occhio alla stanza ed osservò l’esterno dalle finestre. «Unicorno, Orsa. Restate con Athena. Anche tu, Tatsumi. Noi andiamo a vedere che succede», disse all'ospite. Che lo seguì sotto lo sguardo di un allibito Geki.

 
Scivolarono per le cucine deserte. In silenzio. Come due fantasmi. Passarono tra i banchi di lavoro in acciaio cromato, così lucido e brillante da potercisi specchiare, i fuochi spenti, le padelle appese, il frigorifero a doppia porta che ronzava placido in un angolo, l’isola centrale dove Tetsuya, il capocuoco, controllava personalmente l’aspetto dei piatti destinati alla principessina prima di affidarli ai vassoi delle cameriere.
Candice non si azzardò ad aprire bocca per chiederle dove fossero finiti tutti. L’orologio che aveva visto segnava le undici passate, e sapeva per esperienza che a quell’ora c’era un gran viavai per preparare il pranzo per la signorina Kido.
Forse Tatsumi ha concesso a tutti la giornata libera, pensò. Aveva senso. Qualcuno avrebbe potuto sentirla gridare. E chiamare la polizia. Certo, l’avrebbero arrestata all’istante e avrebbe dovuto prendere in considerazione l’eventualità di essere raggiunta dal suo cliente in carcere – tramite un caffè corretto o roba del genere – ma come avrebbero spiegato quelli di Kido Manor la sua presenza in cantina, legata come un salame, e le torture cui l’aveva sottoposta il suo pittoresco carceriere?
Satsuki aveva un passo svelto, nonostante di solito camminasse con più lentezza. Sarà l’ansia di essere scoperta?, pensava Candice, seguendola. Il comportamento di quella ragazzina era spiazzante. Di tutto il personale coinvolto nella macchina di Kido Manor, lei era la meno adatta a ribellarsi in quel modo. Satsuki era pavida, opportunista e poco sagace. Era la classica persona debole che sceglieva di stare con chi fosse più forte di lei, e forse era stata un membro del coro della ragazza più popolare della scuola. Una delle tante persone che vivono di luce riflessa, che non hanno il coraggio di splendere da sole, ma che diventano furiose se si toglie loro la propria fonte di luce, se qualcuno minaccia di schizzare col fango il potente che le difende. E lei, Candice Kotobuki, mezzosangue infiltrata che fino a pochi istanti prima si trovava legata ad una sedia tra bottiglie vecchie di cinquant’anni, tutto era tranne qualcuno di potente.
Satsuki aprì la porta che dava accesso ai passaggi per la servitù. Il ferro dei cardini cigolò, un urlo nel silenzio spettrale delle cucine, ma la ragazza non si lasciò intimidire. Si affacciò, facendole segno di restare dietro l’angolo.
«Via libera», le disse invitandola a seguirla. La villa sembrava abbandonata e non sentirono le voci degli ospiti attraverso le intercapedini sottili. Candice non vi badò molto. La sua mente era concentrata sul trovare un modo per raggiungere l’aeroporto senza un soldo in tasca, salire su un aereo e andarsene dal Giappone al più presto, possibilmente viva e vegeta. Al resto, alle scuse da rifilare al suo cliente e a come tenere i soldi versati sul suo conto, avrebbe pensato dopo, una volta al sicuro.
Satsuki si arrestò.
«Da qui in avanti proseguirai da sola», le disse aprendole la porta sul giardino, quella che usavano per i fornitori. «Non andare da quella parte, ma gira a destra. Lì c’è un angolo cieco, non ci sono telecamere», le spiegò indicandole la strada.
«E come la mettiamo con la ghirlanda di filo elettrificato?»
«È lì per bellezza. Ma anche se fosse ancora attiva, è collegata al sistema d’allarme. Spento lui, spenta lei. Tieni. Da parte del resto dei ragazzi», le disse porgendole una busta.
«Perché?», chiese Candice. Aveva contato un bel gruzzoletto in biglietti di piccolo taglio, sufficiente per raggiungere l’aeroporto in taxi e pagarsi un volo per Los Angeles.
«Perché non la sopporto. Perché lei è viziata e coccolata e ottiene tutto quello che vuole senza nemmeno aprire bocca. Perché io devo spaccarmi la schiena e farle da serva. Perché tu hai avuto il coraggio di fare quello che tutti noi sogniamo, ma… hai capito, no? Ti basta?»
Candice annuì. Alla fine, era una rivincita della classe operaia sui padroni che la sfruttavano e vessavano. Con buona pace di Marx.
«A buon rendere», le disse, prima di mettersi a correre nella direzione che le aveva indicato.
Quando Candice sparì nel fitto degli alberi, Satsuki si concesse un sorriso soddisfatto. Una mezzaluna simile ad uno squarcio le arricciò le labbra. Poi chiuse gli occhi e scivolò a terra contro l’edera che cresceva sul muro della villa.

 
Mano a mano che la costruzione bianca s’allontanava alle sue spalle, nascosta dalle fronde scure dei platani, un palpabile senso di disagio si andava impadronendo di Ikki. Passo dopo passo.
Qualcuno aveva sferrato loro un attacco, e questo voleva dire solo una cosa: erano di nuovo in guerra. Nuove battaglie, nuovi nemici, nuovi pericoli che minacciavano Athena e la pace nel mondo. E tutto questo non aveva forse riscaldato il sangue della Fenice, che si era destata dal suo sonno seguendo l’odore ed il profumo che solo guerra si porta dietro?

Sì.

Il sangue di Ikki ribolliva e chiedeva una cosa soltanto: sentire ancora l’adrenalina pompare nelle vene impetuosa come il vento nel deserto, roboante come un fiume di lava. Calda. Come la vita.
Oh, la pace è bella. È preziosa, come un cristallo purissimo che brilla nell’oscurità, ma quando si vive con il sapore della battaglia sulle labbra è impossibile abituarsi ad un’esistenza tranquilla. Esistenza senza uno scopo, si diceva perlustrando il parco. Sentiva che anche Seiya e gli altri provavano le sue stesse sensazioni, l’adrenalina che scorreva nelle vene, il sangue che pulsava come un tamburo impazzito, il cuore che pompava ossigeno sempre più veloce e la voglia, il desiderio, la necessità di battersi che correva elettrica sulla pelle. Persino Shun, anche se non l’avrebbe mai ammesso. E si sentiva così anche Shiryu.
Erano in pace, ma era possibile sentirsi vivi solo in quei momenti?

Sì.

Con una punta di rimorso che avvelenava quella gioia di sentirsi utili. Di aver trovato uno scopo per cui vivere.
Forse era questo che voleva risvegliare in loro Milo? Beh, c’era riuscito. Non ho chiesto io di diventare un Santo!, avrebbe voluto ribattere Shun alle accuse mosse dallo Scorpione. Ikki gliel’aveva letto negli occhi.
Nessuno di noi lo ha chiesto, Shun, ma possiamo farlo ora. Ora saremo veramente liberi di decidere se usare la nostra forza per una causa giusta.
Si affacciò alla sua mente il dolce viso di Esmeralda. Non era anche per lei che s’era trasformato in una Fenice ed era volato via da quell’isola di roccia e lava?

Sì.

Esmeralda gli aveva insegnato con la sua innocenza il valore di una vita, la bellezza della corolla rossa di un fiore che cresce nel deserto. Athena gli aveva mostrato come mettere la sua forza al servizio del bene, e gli aveva fatto sentire la dolcezza del perdono. E la potenza della speranza, che piega i fiumi, spiana i monti e compie i miracoli. Attraverso di lei. Per lei. E per tutte le altre Esmeralda del mondo. Quelle che nessuno amava. Quelle che nessuno difendeva. Quelle che nessuno salvava. L’avrebbe fatto lui. Avrebbe riportato la speranza anche a loro. Ovunque ce ne fosse stato bisogno.
Ikki sentì i microcosmi dei suoi fratelli guizzare nel palazzo e all’interno del parco, e smise di preoccuparsi. Era finito il tempo delle riflessioni. Era il tempo di agire. E al più presto. Cominciando col trovare chi aveva urlato a quel modo. Roba da ghiacciarti il sangue nelle vene.

Si accorse di essere tornato verso la villa, ritrovandosi nella zona di servizio, quella usata dal personale e dai fornitori. E fu allora che la vide. Una cameriera. Tremava come una foglia, addossata all’edera che cresceva sul muro. Si avvicinò a lei in tre passi, e le si accosciò accanto.
«Che è successo? Stai bene?»
Lei gli piazzò addosso due occhi così disperati e impauriti che Ikki per poco non perse l’equilibrio.
«Oh…oh… Kaori… Kaori è scappata!», gli disse. Tremando.
«Ti ha fatto del male?» Lei fece segno di no con la testa. «Dov’è andata?»
La ragazza allungò una mano tremolante verso il parco. «Di là. Io ho avuto così paura…»
«C’era qualcuno, con lei?», le chiese alzandosi.
La cameriera annuì. «Un uomo. Alto e magro. Vestito di rosso.»
«Dai l’allarme, svelta!», le gridò, scattando all’inseguimento, senza avere modo di vedere come le labbra della ragazza si arricciassero in un sorriso compiaciuto.

 
Candice arrivò al muro di cinta.
Era alto, bisognoso di una verniciata e con ancora la ghirlanda di filo elettrificato in cima. Tatsumi l’aveva fatto rimuovere da quasi tutto il perimetro, ma aveva dimenticato quel tratto, vai a sapere il perché. Forse sarebbe costato troppo?, si chiese con una punta di sarcasmo. Decise che non le importava.
«Vediamo un po’», disse raccogliendo un sasso e lanciandolo contro il filo. Sfrigolò come una patatina immersa nell’olio bollente e ricadde al suolo. Bruciacchiato.
«Figlia di puttana», esclamò. Per fortuna la sua esperienza l’aveva convinta a fare una prova. Così. Tanto per essere sicuri.
«E meno male…», mormorò Candice tra i denti, cercando un punto da cui poter scavalcare la recinzione. Lo vide. Un ramo di un grosso platano faceva al caso suo. Sporgeva oltre il muro, ad un metro, un metro e mezzo di distanza dal filo elettrificato.
Dovrei farcela, pensò saggiando la corteccia dell’albero per arrampicarsi. Era sempre stata brava a salire sugli alberi. Per scappare alla cinghia di suo padre. Per recuperare i gattini. Per allontanarsi dal mondo.
Usò il coltello per puntellarsi. Salì rapidamente e raggiunse il ramo. Lo afferrò, abbracciandolo anche con le gambe ed avanzò, strisciando, per paura di cadere e rompersi qualcosa. O finire arrosto come un gamberetto.
Il ramo era robusto, ma anche molto largo ed era difficile da abbracciare con una presa salda. Candice avanzava lentamente, le orecchie tese ad ascoltare qualsiasi rumore provenisse dalla villa. Nulla.
Avanzava ed ascoltava, avanzava ed ascoltava, avanzava ed ascoltava.
Il ramo si affacciava su una strada secondaria che correva attorno al perimetro della proprietà. Ancora qualche metro e sarebbe saltata giù, per poi allontanarsi in tutta fretta.
La fretta è cattiva consigliera, ripeteva sempre sua sorella Nancy, ma prima se ne fosse andata, meglio sarebbe stato. Per lei.
Le facevano male le braccia. Non sapeva quanto avrebbe retto, ancora, e tutto grazie alle solerti cure di quel pazzo che sembrava uscito da un complesso rock. E non faceva certo i salti di gioia all’idea di ricevere un’altra dose di quella schifezza che le avevano iniettato, di qualunque cosa si trattasse. E se il suo carceriere avesse deciso di passare alle maniere forti, stavolta?
Candice si spinse oltre, tenendo le gambe ben lontane dal filo elettrificato che sembrava aspettarla a braccia aperte. O a fauci spalancate.
«Ferma!», le gridò un voce. Una voce maschile. Una voce che proveniva dalla direzione in cui si trovavano i suoi piedi. Dalla villa. «Fermati! È pericoloso!»
Fermarmi? Fossi matta, pensò Candice velocizzando l’andatura.
Ikki – perché sua era la voce – raggiunse il ramo in tre balzi e si trovò a pochi passi da lei.
«Vuoi morire?», le gridò ancora, ma lei continuò a strisciare più veloce. Si sdraiò e le agguantò una caviglia.
«Lasciami! Lasciami, bastardo!», gridò lei, scalciando.
«No», rispose Ikki tentando di non mollare la presa e di non cadere entrambi sul filo spinato. Ricordava ancora molto bene quanto si fosse fatto male da bambino cercando di scavalcarlo per raggiungere Shun. Era svenuto per quanto? Un’ora? Due? Qualunque fosse la risposta giusta, non era intenzionato a ripetere l’esperienza.
Ma fu Candice a lasciare la presa. Fu come se qualcosa – o qualcuno? – le staccasse a forza le mani dal ramo. Come se fosse una bambola nelle mani di una bambina. Una bambina gigantesca ed invisibile.
Candice cadde, scalciando un’ultima volta – se per rabbia o per un riflesso condizionato questo Ikki non seppe dirlo – liberandosi dalla presa del suo inseguitore, che non poté far altro che stringere l’aria. E guardarla cadere.
Candice impattò contro la rete elettrificata. Il suo corpo si contorse. I capelli si arricciarono e mandarono del fumo nerastro. La bocca si spalancò. Le braccia e le gambe si mossero impazzite. Atterrò ormai cadavere in una posa scomposta ai piedi del platano, come una bambola vecchia e sporca gettata via da una bambina capricciosa. Una bambina invisibile e gigantesca.



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:
Ultimo aggiornamento pre-natalizio (e forse anche ultimo dell'anno. Vedremo. Forse, ho detto.) di questa storia. Consideratelo il mio regalo di Natale per voi (#checculo, eh?). Fate i bravi, nel mentre, riposatevi e siate felici. Ne abbiamo tutti bisogno. E ora, sotto con le note!

Fuglen è una catena di caffè di Oslo, con sede anche a Tokyo. Il suo logo è un uccello in volo su sfondo rosso.

Herre Lås: Signor Lås, in norvegese. Lås (pron. ‘los’) significa serratura.

Min kjære frøken, significa “mia cara signorina” in norvegese.

Shinai: la spada di bambù che si usa nel kendo.

Dō : il corpetto che si usa nel kendo.

Tare: fascia di metallo che si usa come protezione del punto vita e dell’inguine nel kendo. Si posiziona al di sotto del do.

Kote: i guanti che servono a coprire anche l’avambraccio dalle stoccate della shinai.

Bol'šoj : il celebre tempio del balletto russo, situato a due passi dal Cremlino, nel cuore di Mosca.

Natassja:  Ipocoristico di Natalija (=Natalia, nome dato alle bambine che nascevano il giorno di Natale), è la madre di Hyoga e l’ho resa l’étoile del Bol'šoj, ma mi tocca ammettere che non è farina del mio sacco! Lessi questa cosa in una fic inglese, qualche anno fa, ma purtroppo al momento non rammento il nome dell’autrice o il titolo dell’opera. Se qualcuno fosse a conoscenza dell’uno e/o dell’altro, mi facesse un fischio e provvederò a dare a Cesare quel che è di Cesare.

Zaibatsu: sono le compagnie finanziarie (holding) giapponesi che sorsero nel paese allorquando la Pace Tokugawa prima ed il Rinnovamento Meiji poi costrinsero le casate feudali ad un continuo ammodernamento. Alla fine della Seconda Guerra mondiale le zaibatsu furono riconvertite, ma de facto mai smantellate del tutto. È un termine usato dagli occidentali, in Giappone si usa all’interno di un discorsi sull’argomento storico della questione. L’ho messo in bocca a Tatsumi per conferire un carattere nostalgico ai suoi pensieri.
 
Ho riciclato Mei come il figlio (morto morto morto) e legittimo erede di Mitsumasa Kido. Se nell’anime si dice che lui è il nonno di Saori, di chi diamine è figlia questa bambina?!

Per tutte le Esmeralda del mondo: courtesy of Keiko. 

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Capitolo 7
*** 7. ***


7.
 




«Non si muoverà», disse Ichi, stanco.
«Lo so», ribatté Nachi. «C’è un cadavere in cantina», disse il Colonnello, pallido come un cencio. Eppure non riusciva a staccare gli occhi dal lenzuolo bianco steso sul pavimento della cantina, come se il corpo – il cadavere – al di sotto avesse potuto alzarsi da un momento all’altro ed andarsene a spasso per la villa. In un certo senso, ironico e cinico assieme, Nachi avrebbe preferito quel fuori programma alla veglia silenziosa cui l’aveva relegato lo Scorpione: sarebbe stato strano, e assurdo ed incredibile, sì. Ma sarebbe stato più normale. Quando combatti a mani nude contro quei mostri che compaiono nei miti e nelle favole, quando proteggi con la tua vita divinità saltate fuori dalla mitologia greca, uno zombie è quasi normale amministrazione. È qualcosa che riesci a concepire senza grandi sforzi. E a sconfiggere. E lui avrebbe saputo cosa fare. Un sonoro e potente Dead Howling avrebbe dilaniato anche il più coriaceo dei Ritornanti, ma così… così…
Bevve il caffè che gli aveva portato Ichi, seduto due gradini più in alto.
«Novità?», chiese.
«A parte le bestemmie dello Scorpione?», rispose l’Idra strappando ad entrambi un sorriso forzato. Skatà assumeva tutt’altro sapore in bocca ad un greco verace come Milo. «Ancora nulla. A quest’ora Aiolia avrà dato la notizia ad Athena.»
Nachi aggrottò le sopracciglia. «Cosa dovremo aspettarci, stavolta?»
Ichi si strinse nelle spalle. «Non essere melodrammatico», disse, prima di bere l’ultima sorsata di caffè. «Non è detto che una qualche divinità si sia svegliata col desiderio di mettersi la Terra sulla mensola del camino come soprammobile. Forse, la questione è molto più prosaica di quanto pensiamo.»
«Tu dici», ribatté il Lupo, perplesso.
«Sai quanti zeri ha il conto corrente di Milady? No, non ti affaticare. Sono tanti. Troppi. E per come gira il mondo, è normale che certa gente rapisca ricche ereditiere...»
Nachi soppesò le parole del compagno, fissando il lenzuolo che spiccava candido tra le botti di rovere e le rastrelliere impolverate. Sì, messa così aveva senso, ma qualcosa, forse il Lupo che dormiva dentro di lui, gli suggeriva di non abbassare la guardia; chi arrivava ad uccidere un sicario era qualcuno da non prendere sotto gamba. Anzi.
«Conviene andare», disse Ichi controllando l’ora. Si alzò, si spolverò i pantaloni e si accorse che Nachi fissava quella chiazza bianca senza riuscire a staccarsi. «Coraggio», gli disse posandogli una mano sulla spalla. «Non andrà da nessuna parte.»
Non ne sarei così certo, pensò – sperò? – il Lupo alzandosi e seguendo il compagno al piano superiore. Se Milo aveva ordinato loro di controllare il cadavere di Candice non era stato solo per un eccesso di premura, ma forse perché lo Scorpione temeva che sì, Candice avrebbe potuto attentare alla vita di milady anche da morta.
Nachi lasciò la luce accesa, come se quella sotto al lenzuolo fosse una bambina che ha paura del buio ed uscì.
La porta della cantina si richiuse con un sinistro scricchiolio.

 
Il Guerriero arriva per ultimo. Indossa solo lo scudo, il cimiero ed i calzari, sporchi di sangue e della polvere che si leva dai campi di battaglia. Forse s’è perso, come un monello che rincorre un aquilone, pensa la Fanciulla sotto le fronde ombrose dell’ulivo saraceno che svetta alle spalle della fucina del Fabbro.
È stata una sua premura attenderlo lì. Sa che tra i due non corre buon sangue, ma non è per questioni legate all’alcova profanata del Fabbro che il Guerriero non vuole farsi vedere dall’altro, quanto per i segni che reca sul volto, sul collo e sulle spalle. Segni rabbiosi, ciechi e violenti come solo l’Amore, la bellissima moglie del Fabbro, sa assestare. E se il vigore del Guerriero potrebbe resistere al potente martello del Fabbro, il suo orgoglio non sopravvivrebbe alle risate che quello zoppo irsuto si farebbe alla sue spalle. E forse anche in sua presenza.
Il Guerriero si toglie l’elmo, rivelando una massa di corti riccioli bruni. Si asciuga il sudore su un avambraccio, pone lo scudo accanto a sé e si accomoda vicino alla Fanciulla.
«Ti ho fatto attendere, vero?»
«Non importa», ribatte lei, ed è vero perché l’attesa, con l’eternità davanti a te, non ha poi questo gran peso. È solo un presente che si fonde nel presente.
Il Guerriero ridacchia. Scuote la testa e alza lo sguardo ardente al cielo, come se gli pesasse da morire sedersi accanto a lei.
C’è tanto di quel sangue da far scorrere, vero?
«Sorella, sono sicuro che il Padre, la Madre e gli altri avranno già provveduto alla tua dote nel migliore dei modi.»

La Fanciulla annuisce. Il Padre ha messo le stelle al suo comando. La Madre le ha donato la comprensione e la pazienza. Il Fabbro sta forgiando nella sua fucina il suo corpo, che l’Amore le ha promesso di rendere leggiadro come la nebbia di un mattino d’inverno e radioso come un fiore a primavera. Il Citaredo le ha fornito una voce melodiosa e la Cacciatrice un arco dalla mira infallibile. Il Pensiero, sorridendo, le ha promesso la velocità della luce. Lo Straniero, occhi profondi con cui sondare gli uomini. Il Mare, un cavallo alato. La Terra, il dono dell’attesa.

«Io non ho nulla da darti, se non questo», le confessa il Guerriero, senza avere timore di coprire le proprie vergogne. Le porge il grande scudo che gli riparava il fianco sinistro. È sporco, tinto di rosso, sbeccato, con delle punte di freccia conficcate sul legno sbiadito dagli urti e dal sole. «Il Fabbro saprà cosa farne. Ma voglio darti anche un consiglio, che spero ti sia più prezioso di qualsiasi lancia o scudo.»
La Fanciulla annuisce. «Dimmi pure, fratello.»
«Ti capiterà di combattere. Contro di me, contro l’Amore, contro il Mare. Non importa. Combatterai, e non solo contro lo Sconosciuto. So che il Padre ha messo al tuo servizio le stelle, giusto?»
«Giusto. Il Fabbro terminerà le corazze quanto prima.»
Il Guerriero fa una smorfia che gli disegna un sorriso sghembo sulle belle labbra. «Allora, sorella, converrà che tu chieda al Fabbro di creare delle altre corazze. Delle corazze da donna.»
La Fanciulla sbatte le palpebre. «Impossibile. Sono quasi finite e…»
Lui l’interrompe, con un gesto della mano chiazzata di terra e sangue. «Chiedi che ne modifichi alcune. E poi chiedigli altre corazze.
Femminili. Perché, e ti parlo da uomo, noi bramiamo lo scontro fisico, il cozzare delle lance e le grida della battaglia. Ma non c’è onore nel vincere contro una donna. Noi andiamo fieri dei lividi e delle cicatrici che ci procuriamo in battaglia. Ma queste», ed indica i segni delle unghiate di Amore, «gridano quanto siamo impotenti noi maschi contro voi donne.».

 
Saori aveva deciso di restarsene in disparte, dentro di sé, mentre il rapporto dello Scorpione si addentrava per sentieri irti di vetri e sassi aguzzi su cui non avrebbe voluto passeggiare. China, le ginocchia al petto e i capelli sparsi a cascata, Saori stava piangendo sul fondo del pozzo della sua anima. Per Candice. Perché si fidava di lei. E perché il suo lato umano, con una punta di egoismo, non voleva che tutto quell’orrore ricominciasse. Le morti, le stragi, le uccisioni che avevano costellato il suo cammino come Athena macchiavano le sue mani, perché anche se non era stata lei a versare tutto quel sangue, Saori sapeva che la sua stessa esistenza ne era la causa.
Quando era cominciato tutto? Quando Shura aveva ferito a morte Aiolos, o forse prima, ai tempi del mito?
Quando sarebbe finito tutto?
Mai, questa era la risposta. Ma Saori non era disposta ad accettarla.

Athena era venuta avanti. Aveva lasciato che la sua parte umana piangesse il fato che l’attendeva, perché nell’immediato futuro non avrebbe avuto tempo per crucciarsi del proprio destino. Qualcosa aveva attraversato il cosmo divino facendolo increspare come un refolo di vento sulla pelle accaldata mentre Candice tentava di fuggire dalla villa e precipitava sul filo elettrificato. Qualcosa che aveva il sapore metallico del sangue, qualcosa che lei era stata chiamata a gestire affinché non degenerasse, fagocitando e rivoltando se stessa.
Una nuova guerra si avvicinava a passo sostenuto; all’orizzonte Athena intravedeva già il brillare delle lance e delle corazze degli eserciti schierati. Non c’era più molto tempo, ormai, e il nemico, chiunque fosse, sarebbe piombato loro addosso senza ricambiare la cortesia delle presentazioni. Che Saori piangesse nella bolla del suo dolore, e che Athena salvasse i suoi Santi e l’umanità. Era finito il tempo delle risate e della pace, e cominciava il tempo della guerra.

Non si fermerà soltanto perché questo è il tuo volere, Saori. Si fermerà solo se tu lo fermerai. Se interverrai a difesa degli uomini che abbiamo giurato di proteggere. 

Saori piangeva, sorda ai richiami e alle responsabilità del proprio compito, come se, isolandosi, avesse potuto scansare il calice pieno di fiele che Athena le stava porgendo. E i suoi paladini, Milo ed Aiolia, attendevano solo una sua parola, pronti a far esplodere il proprio cosmo per lei. Athena sospirò.
«Torniamo al Santuario», disse allo Scorpione. «Avvisa gli altri che si preparino.»
 
 
Il déjà vu è una sensazione straniante. È come se il cervello si fermasse per un istante. Come se perdesse un colpo – o noi prendessimo una botta in testa. È quella sensazione di aver già vissuto un fatto, un evento, una situazione; è quell’attimo di contezza che rompe la percezione dello scorrere del tempo, congela i secondi cristallizzandoli nella memoria e ci strappa dall’oggi, spingendo le nostre radici più a fondo nel tessuto della realtà.
Viviamo come sempre, non avendo coscienza se siamo davvero noi o, piuttosto, un sogno di qualcun altro – un genio, un diavolo, un dio non importa – o se stiamo sognando noi stessi mentre viviamo.
Dicono che il déjà vu sia un meccanismo della mente, una sorta di difesa. Ma difesa da chi? Da cosa? Dal mostro sotto al nostro letto? Da quelli che abitano tra le pieghe della realtà? O dal più pericoloso di tutti, quello che si nasconde nel nostro subconscio?
Il cervello è il computer più sofisticato che esista, e come tale è abituato a processare e catalogare dati e informazioni anche quando la nostra attenzione è dirottata su qualcos’altro. Anche quando riposa. Il cielo è blu, il fuoco scotta, il tè è buono. Ma a volte la mente sente il bisogno di resettare se stessa. Per riavviarsi. Perché qualche ingranaggio compie un giro a vuoto. E così si sveglia di soprassalto, come faremmo noi se qualcuno ci destasse all’improvviso da un sonno profondo.

Seiya si sentiva così, confuso e spaventato e disorientato, come quando Marin gli versava sulla testa secchiate di acqua ghiacciata. Quella che aveva davanti era l’Armatura dei Gemelli. L’Armatura di Saga, e Seiya la rammentava molto bene. Aveva avuto modo di imprimersi nella mente i suoi fregi e la forma di quella corazza durante lo scontro interminabile che l’aveva visto frapporsi al potentissimo Saga, e per mesi, dopo quella sera, aveva sognato il loro scontro, rivivendo ogni impatto, ogni pugno, ogni calcio con spietata nitidezza. L’aveva colpita non ricordava più nemmeno lui quante volte, ed era sempre stato come se la stesse spolverando con un panno di seta, nonostante il Pegasus Ryuseiken fosse piombato ancora e ancora e ancora su quel metallo splendente nonostante le sue braccia urlassero pietà, e Saga ridesse dei suoi sforzi.
Eppure, quello non era Saga. Non poteva esserlo. A meno che i morti non abbiano deciso di uscire dalle tombe e andarsene a fare una passeggiata, pensò il ragazzo cercando spiegazioni nello sguardo azzurro carico di Milo. Aiolia non c’era, ma anche se fosse stato presente, non avrebbe osato incrociare i suoi occhi con quelli del Leone. L’avrebbe fulminato vivo, e stavolta non ci sarebbe stato nessun Kassios a fargli da scudo.

Ad indossare l’Armatura dei Gemelli era una donna. Una donna senza maschera.
«Milo… Milo che succede?», domandò, sentendosi un perfetto cretino.
«È una lunga storia.» Milo liquidò la questione e si diresse alla scrivania che era appartenuta a Kido. Incrociò le braccia in un clang metallico pieno di stanchezza e nervosismo.
«Io vorrei sentirla», proseguì Seiya, meritandosi un’occhiataccia da parte dello Scorpione. Non ne hai avuto abbastanza?, saettarono gli occhi di Milo, ma Seiya l’ignorò. «Che. Significa?», chiese, scandendo le parole ed indicando l’Armatura dei Gemelli con un cenno della spalla.
«Te l’ho detto», ripeté lo Scorpione lasciando che la stanchezza e il nervosismo gli colorassero la voce.«È una lunga storia. Tra poco Athena scenderà tra di noi e potrai sentirla dalla sua voce. Intanto», e Milo stese un dito per placare l’irruenza di Pegaso, «preparatevi alla partenza. Si torna al Santuario. Ordini di Athena.»


 
Il vento non soffia in Siberia.
Dio ha risparmiato quelle zone dal soffio ghiacciato. La Siberia è una terra piatta, che si estende per chilometri e chilometri fin dove lo sguardo arriva e anche oltre. Non sembra nemmeno che la Terra sia piatta, osservandola dalla Siberia. Avanzare per l’altopiano è come avanzare nel deserto, senza punti di riferimento, in un giorno che muta in eterno crepuscolo con la lentezza dello stillicidio.
La Siberia è uno stato dell’anima.
La puoi ritrovare ovunque, quando meno te l’aspetti. È una terra aspra e forte, che forgia caratteri e persone, che accompagna la sua gente come il ricordo di una nenia o il sapore della zuppa di grano cotto. La Siberia è vicina, e non fa freddo quando la porti nel cuore. Ti sembra di tornare a casa, di riscoprire un ricordo sepolto dalla neve in ogni curva della strada, in ogni cespuglio, in ogni volo di cigni, in ogni piega della corteccia delle betulle. La Siberia non ti abbandona, ma resta con te, anche quando la vita ti sballotta da una parte all’altra. La Siberia è alienazione e riscoperta di se stessi. Si impazzisce perché si prova orrore di ciò che si trova guardandosi dentro. Affrontando il demone più terribile di tutti. Quello che sonnecchia sul fondo della nostra anima. E che si sveglierà non con squilli di trombe, ma con dolci e lusinganti sussurri, piano, dolcemente, con un soffio di vento gentile che gioca con un fiore di tarassaco.
Comme un dandelion.
 

«E questo è tutto.»
Era stata Athena a parlare. Athena – non Saori, tuttora eclissata nel suo dolore – aveva raccontato loro di Candice e della sua fuga. Del fatto che Candice fosse riuscita a liberarsi dalle cime con cui l’aveva legata Milo. Dell’elettricità ripristinata sul vecchio filo spinato in disuso. Della registrazione delle telecamere di sicurezza, che la ritraevano mentre sgattaiolava per i corridoi deserti di Villa Kido. Da sola, nonostante Ikki avesse detto di aver incontrato una delle cameriere, mezza morta di paura accanto all’ingresso per i fornitori. Neppure incrociare lo sguardo di Seiya era riuscita a strapparla dalla sua apatia, ma non c’era tempo per baloccarsi con i sentimenti di una ragazza di quattordici anni. I suoi guerrieri avevano delle domande e quelle domande esigevano delle risposte, che lei doveva fornire loro, e se non l’avesse fatto Saori, ebbene ci avrebbe pensato Athena.

Mi stai lasciando campo libero? Sappi che me lo prenderò. Sappi che muoverò i tuoi ragazzi, i nostri ragazzi, e li condurrò in battaglia. Li difenderò. Ma è giusto che scendano in campo. Che siano preparati. Che sappiano cosa li attende. Tu cosa farai, Saori?

«Saori…»

Seiya. Ti sta chiamando, Saori. Non vuoi rispondere alla sua voce? Vuoi lasciarlo davvero a me? Vuoi abbandonare Seiya e gli altri al loro destino?

Qualcosa si mosse nel profondo dell’animo di Saori. Come un’increspatura sottile, di un sasso lanciato a pelo dell’acqua. Athena sorrise. Saori stava risalendo. Avrebbe seguito la voce di Seiya perché, nonostante l’amore di Athena veda tutti i suoi santi allo stesso modo, Seiya era speciale. Seiya aveva quel qualcosa in più che riusciva a smuoverla. Anche quando la tentazione di lasciarsi scivolare giù era la più dolce delle promesse.

Gnothi s’autòn, Saori.
Sta' zitta, Athena!


«Dimmi, Seiya.»
Saori era tornata. Sorrideva al suo Pegaso, una curva stanca delle labbra rosate, certo; ma era pur sempre un inizio. Con te andrei in capo al mondo, le aveva detto, appena lo scorso anno, quando si era rivelata a lui come Athena, inondando l’appartamento sopra la rimessa della darsena con un cosmo caldo e dorato. Saori sapeva che quelle parole erano vere anche adesso, soprattutto adesso, per Seiya e per gli altri. L’avrebbero seguita anche all’Inferno se solo avesse schioccato le dita. Un sorriso era il minimo che potesse riservare loro, visto ciò che si profilava all’orizzonte.
«Chi è il nemico, stavolta?»
«Non lo so», ripeté. «Ad essere sincera, non so se ci sia davvero un nemico in agguato», aggiunse ignorando le proteste di Athena. «La mia è una precauzione. Preferisco ritirarmi al Santuario, così da far stare voi più sicuri, ed attendere notizie. Se qualcuno sta attentando alla pace, lo scopriremo e lo sconfiggeremo. Se quello che è successo nei giorni scorsi si rivelerà essere un caso isolato, tutto tornerà come prima.»
Seiya annuì, ma si vedeva che qualcosa non lo convinceva del tutto. Seiya sapeva che le preoccupazioni di Athena erano più che fondate, altrimenti Saori non avrebbe mai acconsentito a trasferirsi al Santuario. Avrebbe atteso lì, a Kido Manor, gli sviluppi della faccenda. Ci stiamo raccontando una pietosa bugia, dissero gli occhi scuri di Pegasus. Saori stornò lo sguardo.

«Non so gli altri», s’intromise il Drago fissando Gemini, «ma io fatico ad accettare questa… novità».
«Novità?», ripeté la diretta interessata. Piegò la testa da un lato, come un cagnolino dubbioso, e lo fissò di rimando. «Dal mio punto di vista sei tu la novità, ragazzo…»
«Non volevo essere polemico.»
«Ma lo sei stato.»
Aiolia fece un passo avanti. Gemini stese le labbra in un sorriso conciliante.
«Ci sono cose che il tuo maestro non ti ha raccontato, suppongo…»
«Il mio Maestro?» Shiryu aggrottò le sopracciglia.
E non solo una, pensò Gemini. «L’ordine a cui appartengo è vecchio di millenni. Si racconta che fu un suggerimento di Zeus. O di Ares, forse. Esistono altre dodici armature d’oro. Esistono dodici donne che le vestono. E che proteggono voi maschietti quando le cose si fanno pesanti.»
«Perché non siete intervenute durante… durante l’incidente di Saga?», domandò Shun, facendo ricorso a tutta la propria diplomazia.
«Perché, chiedi?» Gemini si strinse nelle spalle. «Ordini del Sacerdote.»
«Ordini del Sacerdote? Milo, Aiolia, voi ne sapevate nulla?», chiese Seiya, dimenticando il pudore che gli aveva impedito di rivolgere lo sguardo e la parola al Santo del Leone.
Aiolia tacque. Milo rispose: «L’abbiamo scoperto solo l’altra sera, quando abbiamo sventato il rapimento. Ce la siamo trovata davanti.».
«Io la conoscevo», disse Jabu. Gli occhi dei presenti si catapultarono su di lui. «L’incontrammo a Goro Oh, mentre voi eravate in coma, dopo la battaglia contro Poseidone.»
«Saori, è vero?»
Saori annuì.
«Sì, Seiya. È vero.»
Gemini si fece avanti.
«Il mio ordine vive all’ombra del Santuario. Se fossimo degli atomi, noi saremmo come degli elettroni e i Gold Saint dei protoni. Noi scendiamo in campo quando divinità come Afrodite, Hera o Artemide decidono di attentare alla pace. Perché le loro seguaci sono donne. Noi aspettiamo, nascoste, un attacco che forse avverrà, forse no. Io ero sicura che la dea Athena sapesse della nostra esistenza, ed attendevo, paziente, che venisse il nostro momento. Forse non ci sarebbe mai stato bisogno di rivelarmi, forse sì. Non lo sapevo allora e non lo so oggi. Ma qualcosa ha cominciato a girare storto quando il Sacerdote… quando Saga è caduto e la dea non ci ha cercate. Non ci ha contattate. Mai. Neppure per sbaglio. Eppure, ero sicura che avesse sentito il mio cosmo, e quello delle mie compagne, anche solo come un ronzio di disturbo in sottofondo. Così, ho preso il coraggio a due mani e mi sono mostrata al Venerabile Libra. Forse ho sbagliato. Ma adesso Athena sa della nostra esistenza.»
«Quante siete?», domandò Nachi, le mani in tasca.
«In teoria, dodici. In pratica, quante siamo lo sapeva solo Saga.»
«Saga?»
«Lui ha agito come Sacerdote. Che potesse o non potesse, ma l’ha fatto. Lui ha ricreato il nostro ordine, lui ci ha affidato ai nostri Maestri. Perché, non lo sappiamo. Tutto ciò che so lo devo ad un continuo confronto con la mia esperienza e con le conoscenze del Venerabile Libra. Stiamo mettendo insieme i pezzi di un puzzle senza conoscere il disegno da riprodurre.»
«Ragion di più per tornare al Santuario», disse Ikki. Era rimasto all’impiedi, accanto alla finestra, lo sguardo a vagare sul mare verde che si stendeva oltre le tende, ma non aveva perso una sola parola. «I predecessori di Saga avranno lasciato qualcosa di scritto, no?»
Gemini annuì. «È probabile. Ma capirete, che una simile ricerca è qualcosa di difficile e di complicato, e la Biblioteca del Sacerdote è qualcosa di sconfinato. Potrebbero volerci degli anni. E non abbiamo la certezza che Saga non abbia distrutto alcuni manoscritti.»
«Tornare è la nostra priorità. Al Santuario dirimeremo ogni dubbio.» La voce di Athena riempì la stanza, impedendo che quella conversazione proseguisse oltre. «All’appello manca il Cigno. Occorrerà che qualcuno vada a chiamarlo», disse. Come se stesse parlando di un monello che avesse saltato le lezioni o si fosse dimenticato di scendere a giocare in cortile. «Ci sono volontari?»

 



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:

C'è sempre un regaluccio che se ne resta sotto l'albero dopo l'orgia di carte scartate (e distrutte) e di spago colorato del 25 Dicembre, giusto? Ecco, questo capitoletto è il mio regaluccio di Natale, tutto per voi. Contenti, eh?
Mi scuso per aver fatto parlare il povero Ichi come se fosse uscito da un noir di infima categoria, ma dopo quello che gli è successo in Omega, non credo s'inalbererà. O forse sì. Pazienza.

Mi rendo conto che il discorso del Guerriero possa sembrare un po' pericoloso di questi tempi, perché purtroppo esistono uomini che picchiano le donne, e sempre esisteranno; ma gli uomini che picchiano le donne, e tutte le altre creature che non possono difendersi, dai bambini agli animali, non sono uomini.

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Capitolo 8
*** 8. ***


8.
 



In questa vita si fa chiamare Luke. È un nome breve. Facile da pronunciare. Semplice da ricordare. Di poche pretese. Che passa inosservato. E questo può essere un gran bel vantaggio, pensa, osservandolo arrivare con la coda dell’occhio.
Il Viandante, padre di una figliolanza davvero ragguardevole, lo attende sotto un faggio slanciato dello
Skogskyrkogården, le spalle ricurve ed il viso segnato dall’età e dalle preoccupazioni.
Quand’è che è diventato così vecchio?, si sta chiedendo Luke. Prendendosi un istante, uno soltanto, per osservare il Viandante senza che il Viandante se ne accorga. Sì. Il vecchio cacciatore è stanco, ma le sue spalle non cedono. Non vogliono cedere, pensa l’altro. Ma se potessero…
Luke ha un aspetto giovane, come sempre. Magro. Slanciato. Occhi vivaci e capelli colore del carbone. È sempre lui, il Fuoco. Anche se adesso assomiglia ad un ragazzo che tenta di farsi passare per uomo e bere una sorsata di birra, pensa il Viandante, osservando l’ombra scura che Luke sfoggia sul mento spigoloso.
Il Fuoco si avvicina, tre passi alle sue spalle, in segno di rispetto.
«Aspetti da molto?», si sente chiedere il Viandante.  
Quella domanda è pleonastica. Luke sa di essere puntualissimo; è il Vecchio ad essere arrivato in anticipo. Per osservare senza essere visto. Nonostante il luogo lo abbia scelto lui.
Incontrarsi in un cimitero, sta pensando il Fuoco, il capo chino e non in segno di rispetto.
Il Viandante sorride, sotto la folta barba bianca. Luke è un tipo pericoloso. Un tipo che è bene avere come nemico, piuttosto che come amico. E tenerselo stretto stretto. Per averlo sempre sott’occhio. Ed evitare che combini guai più seri del previsto.
Non puoi contenere uno come lui. Puoi solo prevenire che faccia danni grossi e costruirgli un cerchio di pietre dove continui a borbottare, come un fuoco da campo, e non divampare, divenendo un incendio e portandosi appresso tutto il bosco. Perché il fuoco è leggero come una chiacchiera e veloce come il pensiero. Prima che tu te ne sia accorto, è passato oltre, coinvolgendo altri rami, altri alberi, altri boschi nella sua autodistruzione.
No, uno come Luke non puoi permetterti di lasciarlo troppo libero. Devi tenergli la mente occupata e le mani al lavoro. Così da evitare che pensi troppo alle sue faccende. E che lavori per te. Perché Luke è un male necessario. Uno che si sporca le mani al posto tuo. Uno che risolve i problemi. E lui ne ha uno grosso che gli incurva le spalle. Molto grosso. Suo figlio. Così troppo simile a lui, con il sangue che scorre caldo nelle sue vene, da non rappresentare un grattacapo. Perché i genitori sono gli stessi, a qualsiasi Mondo essi appartengano: un figlio che assomiglia al proprio vecchio è un segnale di continuità, un ponte tra il passato ed il futuro. Ma un figlio deve essere migliore dell’albero da cui proviene. Più forte. Più robusto. Capace di andare avanti da solo. Alleviando le preoccupazioni del padre. Ed è in queste situazioni che può far comodo l’aiuto di gente come Luke. A patto di farle credere di star correndo a briglia sciolta per sentieri che solo loro conoscono, quando, invece, l’unica strada che possono prendere è quella che tu hai disegnato per loro. Anche rischiando che escano fuori dal seminato.
«Sono appena arrivato», risponde il Viandante, appoggiato al suo bastone.
«Incontrarsi in un cimitero a
Midsommer. Pittoresco», commenta Luke guardandosi attorno, un sorriso strafottente che non abbandonerà mai quelle labbra sottili, nemmeno al momento della resa dei conti. Morirà sorridendo, il Fuoco. Facendosi beffe di tutto e tutti. Perdendosi in una vampata di furore fino ad abbracciare le stelle. Perché lui è fatto così.
«Fa caldo, oggi», replica il Viandante, avvicinandosi ad una panchina di pietra sotto un pioppo svettante, il bastone come unico compagno. «Vieni. Si discorre meglio, all’ombra…»
 
«Dobbiamo parlare.»
Marin aveva una Bibbia nel primo cassetto del canterano. Era vecchia, con gli angolo sgualciti e pieni di orecchie e l’oro dei cavalieri cancellato dall’uso. Apparteneva alla vecchia nonnina di Rodrio, Maria. Gliel’avevano regalata i figli per il suo ultimo compleanno. E anche se Maria sapeva a malapena leggere, rincorrendo le parole con il dito come fanno i bambini delle elementari, quella vecchia Bibbia dalla copertina nera era il suo tesoro più prezioso. Pope Agathias, suo nipote, gliel’aveva data con gioia, covando, dietro lo sguardo nerissimo, la segreta certezza che la lettura di quelle vecchie storie avrebbe portato frutto.  «A lei non serve più», aveva detto a Marin, mentre il sole si nascondeva dietro le montagne. Non aveva aggiunto altro, limitandosi a fissare lo sguardo inespressivo della maschera d’argento.
Marin aveva chiesto il permesso al Sacerdote di poter educare Seiya insegnandogli anche le storie di un popolo che veniva dal deserto e che nulla aveva da spartire con l’oriente da cui provenivano loro o con la dea Athena. «Tutto fa brodo», diceva Marin, smorzando le proteste di Seiya, che non ne voleva sapere di ricordare altre storie e altri miti. Ma quelle storie e quei miti avrebbero potuto rivelarsi utili, un giorno. E avrebbe fatto comodo ad entrambi avere qualcosa da leggere, nelle sere di pioggia. Marin si sarebbe limitata ai libri storici, e Seiya non avrebbe toccato il Nuovo Testamento, per evitare confusione nella mente del suo allievo. E Saga, che quel giorno si doveva essere alzato dal letto col piede giusto, le aveva detto di sì.
Una delle storie che più affascinavano Seiya era quella delle possenti mura di Gerico, che erano venute giù – prese per stanchezza, forse – al suono della tromba di Giosuè. E Marin, a quel punto, gli aveva spiegato che, per quanto ciclopiche siano tutte le mura, anche quelle che ergiamo per difenderci diventano leggere come carta quando abbiamo la coscienza sporca. E sporca, sporchissima era la coscienza di Seiya, o almeno così la percepiva lui. 
E adesso Aiolia gli si era avvicinato – guardando da tutt’altra parte – e gli aveva detto – gli aveva sussurrato – quelle due parole.
«Dobbiamo parlare.»
Ed il tono era di quelli che non ammettevano né repliche, né dilazioni.
Seiya aveva annuito, un cenno distratto delle spalle, ed aveva atteso qualche secondo prima di seguire Aiolia all’esterno di Kido Manor.
Il Leone lo aspettava sotto un albero, il viso rivolto al possente tronco che si stagliava in tutta la sua magnificenza verso il cielo, i rami frondosi tesi a toccare quello scampolo d’azzurro oltre le foglie verdeggianti.
«Aiolia, io…»
Aiolia si voltò. E Seiya dimenticò come si facesse a parlare. La lingua si seccò. La bocca si chiuse con uno scatto secco. La mascella s’irrigidì. Non riusciva a decifrare lo sguardo dell’amico – del modello. Gli avrebbe fatto un’altra lavata di testa? Seiya sperò – pregò – che l’avesse chiamato in disparte per un confronto. Da uomo a uomo. Perché sentiva di doverlo avere, anche se non intuiva che alla base di quella convinzione vi fosse un suo bisogno, una sua esigenza, più che una oggettiva necessità. Come se un rimprovero di Aiolia avesse avuto il potere di risanare lo strappo che si era venuto a creare tra di loro.
Ma Aiolia taceva. Lo scrutava con i suoi occhi verdi, facendolo sentire ancora di più un verme. Seiya si sarebbe nascosto volentieri sotto terra. Strisciando, come un lombrico. Poi Aiolia abbozzò un sorriso – mezzo sorriso – e Seiya tornò a respirare.
«Sono contento che tu sia qui.»
«Io…»
«Vieni. Passeggiamo.»
 
«Ragazzi», sospira il Fuoco. «Ti volti un istante e loro sono già cresciuti.»
Il Viandante annuisce. Ha ragione. Solo fino a poco tempo fa suo figlio era un ragazzo che giocava a fare la voce grossa nel cortile di casa, saltando da un’avventura all’altra, l’argento vivo addosso e una pletora di compagni al suo fianco. E adesso è un uomo. Amato dalle donne e dai suoi amici. Per il suo carattere gioviale, cordiale e sempre pronto al motto, allo scherzo, alla bevuta o alla risata. Ma suo figlio è anche molto, molto impulsivo. E finché sei un ragazzo puoi permetterti di passare dalle parole alle vie di fatto. Si chiude sempre un occhio di fronte alla veemenza di un giovane. È sangue caldo,  furioso e roboante. Che scorre in fretta nelle vene; non come quello dei vecchi, che rallenta il suo percorso per ingannare la Nascosta. E sperare che la sua scopa ti risparmi, credendoti già morto.
No, l’irruenza è un lusso che un uomo non può permettersi. E quando si cresce, quando si diventa adulti, i giochi dei ragazzi vanno riposti in un baule e lasciati riposare in pace. Per tornare poi a guardarli. Più avanti. Quando avrai passato a tuo figlio la tua eredità e tu potrai baloccarti con i ricordi. E spendere una lacrima furtiva per qualcosa che non tornerà più indietro.
Il Viandante posa entrambe le mani sul pomo del suo bastone. Una testa di cavallo, in avorio, finemente lavorato, la criniera che ondeggia al vento.
«Vero», dice, all’altro o a se stesso non importa. «E i tuoi ragazzi?»

Il Fuoco si stringe nelle spalle. Come a dire: «Non li sento da un po’», e il Viandante sa che al Fuoco non interessa come stiano i suoi figli. «Sono diverso da te. Lo sai», aggiunge. Tanto per far sentire il suono della propria voce. «È per questo che ti capisco così bene, paparino…»
Il Viandante lancia all’altro uno sguardo severo, l’iride azzurra che splende sotto al cappellaccio afflosciato che cela la brutta ferita che gli ha portato via l’altro occhio. «Una ferita di guerra», ha sempre ripetuto lui a tutti coloro che avessero sufficiente coraggio – o scelleratezza, che poi sono la stessa cosa – da domandargli cosa mai gli fosse accaduto di così terribile; ma il Fuoco sa che il Viandante non racconta mai tutta la verità. Ne racconta solo una parte, abbellita ed edulcorata a proprio uso e consumo; e riserva la verità solo a coloro che lo stanno a sentire con orecchie spalancate e cuore saldo. Perché spesso quello che il Viandante ha da dire non sono parole di miele e vino. Tutt’altro.
Il Viandante ha perso quell’occhio in battaglia è vero, ma contro un nemico ben più terribile di quelli che la sua casa si è trovata ad affrontare nel corso degli anni. Una battaglia contro se stesso. La più feroce di tutte. Ed il prezzo è stato caro. Carissimo. «Ma ne è valsa la pena», ripete sempre il Viandante, alla fine del suo racconto. Come a voler chiudere quelle parole in uno scrigno e passare oltre. Recitando un incantesimo. E poi sono io quello di cui non ci si può fidare, pensa il Fuoco. Prima di alzare entrambe le mani, i palmi rivolti al suo compagno, e aggiungere: «Pardonnez-moi. Sono stato spiacevole…».
«Tu sei quel che sei», ribatte il Viandante. E non c’è acredine nelle sue parole. Solo la mera constatazione dei fatti.
«Ed è per questo che hai bisogno di me», ribatte il Fuoco. «Non dirmelo.
Adesso sono stato spiacevole.»
Il Viandante scuote la testa.
«Dimmi. Tu cosa faresti al mio posto?», domanda il Viandante. Osservando una coppia di corvi passeggiare davanti alla panchina, spettatori silenziosi di quel patto.


«Sarò sincero. La faccenda non mi piace», disse Aiolia. E Seiya drizzò le antenne. «Non mi piace affatto.»
«Spiegati meglio.»
«Tutta la faccenda puzza, Seiya. C’è qualcosa di poco chiaro in quanto è accaduto e in quanto sta accadendo qui.»
Seiya annuì.
«E sei proprio tu quello che stona.»
«Io?»
Aiolia annuì. «Vedi?», disse. Indicandolo. «Il vecchio Seiya avrebbe fatto una battuta. Avrebbe detto qualcosa come E te ne accorgi adesso che sono una campana? Invece, tu no. Tu, no. E non può essere solo un caso di coscienza sporca.»
«Potrei essere cresciuto», suggerì Seiya, ma Aiolia scosse la testa.
«Un legno ritorto non sarà mai diritto», disse. «Anche quando avrà cinquant’anni.»
Ammesso di arrivarci, a cinquant’anni. E a quel pensiero Seiya s’immobilizzò. Come un gatto davanti ai fari di un’automobile. Quando mai si era fermato a far simili ragionamenti? A pensare al futuro? O a chiedersi se mai avrebbe raggiunto una certa età? Lui viveva istante dopo istante, come un libro che si sfoglia tra indice e pollice. Pagina dopo pagina. Questo sono io?, si chiese Seiya, gli occhi castani così smarginati e confusi e smarriti che Aiolia ne ebbe quasi pietà.
«Ecco», disse il Leone, abbassando lo sguardo.
«Stai dicendo che…»
«Non lo so», l’interruppe Aiolia. «Ma quello che so è che uno», e stese l’indice di fronte a Seiya, «qualcosa non quadra in quello che sta succedendo qui. La cameriera che Ikki ha detto di aver visto è in ospedale per un’appendicite. Due, chiunque ci sia dietro al rapimento non vuole lasciare testimoni, o non avrebbe eliminato il sicario. Chiediamoci perché. Tre, chiunque ci sia dietro tutta questa storia, ha aspettato che ve ne andaste. Chi prima, chi dopo. Quattro, te ne sei andato persino tu.»
«Anche io, Aiolia.»
«No, Seiya. Persino tu.» Aiolia si avvicinò ad un castagno e raccolse un riccio caduto dal ramo prima del tempo. Il guscio era socchiuso e si poteva vedere il verde immaturo della castagna far capolino tra gli aghi acuminati. «Tu sei disposto a farti ammazzare per Athena. Ti ho visto fare cose ai limiti dell’umana capacità. Tu sei il tipo di persona che insiste e insiste e insiste fino a quando non ottiene quel che vuole. L’ho visto qui a Tokyo. L’ho visto al Santuario. Tu non avresti mai e poi mai lasciato Athena da sola.»
«E gli altri, allora? Shiryu, Hyoga, Shun… Loro non sono come me?»
No, pensò Aiolia. Invece disse: «Abbassa la voce.».
Seiya si guardò attorno. «Credi che…»
«Te l’ho già detto. Non lo so quello che credo. Ecco perché stiamo parlando in greco.»
«Perdonami, ma noi parliamo sempre in greco. Non credo che Marin ti abbia insegnato il giapponese. O sbaglio?»
Aiolia si irrigidì.
«Forse Milo si sbaglia. Forse hai preso davvero una botta in testa…»
«Milo?»
«È stato lui ad avermi messo la pulce nell’orecchio. Ha detto che Ban si è giustificato adducendo le tante battaglie che ha combattuto. Ma, correggimi se sbaglio, durante gli scontri con i Santi d’Argento eravate solo in quattro, al massimo in cinque, giusto?»
«Giusto.»
«E Ban era con voi?»
«No.»
«Appunto…»

Il Fuoco sorride. Aspettava quel momento come la fiamma attende la vampata d’aria per schioccare nel focolare e far prendere uno spavento alla massaia.
«Dipende. Dimmi di più. C’è qualcosa che al tuo ragazzo stia a cuore?», gli domanda a sua volta il Fuoco. Che sa che c’è sì qualcosa pronta a legare con lacci tanto leggeri quanto potenti il cuore indomito di un ragazzo; ma vuole che sia il Viandante – che sia
suo padre – ad indicargliela; che sia la sua voce a scegliere il destriero per il proprio figlio. A decretare la fine del ragazzo. Del fuoco dei suoi stessi lombi.
«Questa è l’anima del commercio», scherza sempre il Fuoco. «Il committente chiede, ed io eseguo.»

Il Viandante lo sa. Lo ha sempre saputo che il Fuoco avrebbe preteso che si sporcasse anche lui l’anima. Liberando quel pensiero viscido, dandogli le ali e permettendogli di librarsi in volo. Ciononostante, il vecchio esita. L’altro aspetta. Sa che cadrà da solo nella ragnatela che ha intessuto con le proprie mani. Deve solo prendersi il tempo che gli occorre. E loro, di tempo, ne hanno molto. Moltissimo. Fino alla fine del mondo.
«Qualcosa ci sarebbe», dice il Viandante. Fissando uno dei suoi corvi negli occhi. Ed aprendo la danza delle spade.



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:

Buon 2015 a tutti voi! Avete cominciato bene l'anno nuovo? Avete mangiato le lenticchie e brindato ai dodici mesi che abbiamo davanti? Bravi! E ora, sotto con le note.
Lo Skogskyrkogården (Il Cimitero del Bosco) è un cimitero monumentale che sorge a sud di Stoccolma, patrimonio dell'Unesco dal 1994. Esiste una pagina web dello Skogskyrkogården da visitare qualora voleste farvi un'idea di come un cimitero possa essere anche un luogo d'aggregazione e cultura, e non solo di lutto e cordoglio.

La storia delle mura di Gerico è descritta nel Libro di Giosuè. Non so se gli ortodossi releghino la lettura dei testi sacri alla casta sacerdotale, oppure no, ma mi faceva piacere immaginare questa vecchiettina con il fazzolettone nero in testa e la sua Bibbia tra le mani rugose.

Chi sono il Fuoco, il Viandante e suo figlio? La risposta nelle prossime puntate!

E grazie, di cuore, per la gentilezza e l'affetto con cui seguite le mie storie! Purtroppo non ho molto tempo né testa per rispondere alle vostre recensioni (ho avuto un lutto in famiglia e sto attraversando giornate di fuoco!), ma abbiate pazienza. Tornerò. Anche se questa pare più una minaccia...
Alla prossima!

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Capitolo 9
*** 9. ***


9.
 



Genki si sarebbe perso.
La Siberia vera e propria era lontana, un altopiano piatto come una tavola da stiro che se ne era rimasto chilometri e chilometri indietro, ad osservarlo avanzare verso la banchisa polare. Quello che Shun vedeva davanti a sé era un’accecante distesa bianca, che si andava sfumando con il grigio del cielo all’orizzonte. Il jet della Fondazione l’aveva lasciato molto più a sud, ed era tornato a Tokyo, abbandonandolo al suo destino. Alla sua Cerca.
Sì, Genki si sarebbe perso, pensava Shun avanzando, il freddo vento del nord come compagno. Aveva scelto di offrirsi volontario. Aveva insistito per andare, in barba alle proteste di Genki.
«Tu? Non farmi ridere. Gli inverni sanno essere rigidi anche sulle Montagne Rocciose, sai? Non resisteresti un solo minuto, lassù», aveva replicato l’Orsa, desideroso di rendersi utile, il sorriso sghembo e quell’aria spavalda che metteva su per convincere chi aveva davanti che no, lui non aveva paura, quando era vero invece il contrario.
«Probabile», aveva risposto lui. Placido. Calmo. Tranquillo. «Ma io ho le mie catene.» E loro avrebbero trovato il Cigno, come un lupo avrebbe fiutato la preda. Era quella l’attitudine con cui occorreva guardare a Hyoga. Così da trovarlo. Così da stanarlo. Così da ricondurlo indietro. Ovunque fosse. Pure in capo al mondo.
Posto più inospitale non credo esista, pensava Shun avanzando in tutto quel bianco. In quell’eterno crepuscolo che faceva perdere l’orientamento. Il senso della misura. A Kohbotek, l’ultimo avamposto della civiltà prima dell’immane distesa ghiacciata, non vedevano Hyoga da mesi.
«Dalla scorsa primavera, quando è andato a trovare sua madre», aveva detto quel donnone imponente, con i capelli biondi legati sulla nuca e due guance rubizze. Maša, si chiamava. E nel suo sguardo, Shun aveva letto qualcosa. Una richiesta di aiuto, anche se lui, sulle prime, non era riuscito a capire di che genere. Qualcosa che riguardava Hyoga? Il villaggio? Chiedere non avrebbe portato a nulla di buono, almeno sulle prime. Così Andromeda si era limitato all’essenziale: le indicazioni per raggiungere Hyoga. Poi avrebbero sistemato anche quella faccenda. Ammesso che Hyoga non vi fosse immerso fino al collo.
«Cammina per un’ora, un’ora e mezza, in quella direzione», aveva detto Maša. E l’indice tremolante della donna aveva confermato le ipotesi di Shun. Stava succedendo qualcosa, laggiù. Qualcosa di poco piacevole. E Andromeda era pronto a scommettere che Hyoga ne fosse caduto vittima. Che sta succedendo, quassù?, si chiese avanzando. Ancora. E ancora. Nonostante fossero quasi due ore e mezzo che camminava nella direzione indicatagli. Che Maša lo stesse inviando dove si trovava Hyoga e non a casa sua?
Shun si fermò. Il vento attorno a lui sembrava ridere dei suoi dubbi.
Che cosa avrebbe dovuto fare? Proseguire fino a quando non avesse trovato Hyoga – la sua preda – oppure tornare indietro e chiedere spiegazioni? Ma a chi? Ad una donna terrorizzata che sarebbe capace di negare anche che il sole sorge ad est?
Poi vide la catena muoversi. E percepì lui stesso qualcosa. Un’ondata di energia potentissima che per poco non lo centrò in pieno. Shun scartò a sinistra, l’onda d’urto proseguì la sua corsa indisturbata lungo il vettore che aveva deciso di occupare e si perse in lontananza, oltre la banchina ghiacciata, svanendo alla vista. Ma che diamine?, pensò il ragazzo, prima di voltarsi.
C’era una sagoma, di fronte a lui; la tenue luce del sole alle spalle ne offuscava i tratti. Aveva un mantello che svolazzava nel vento, una maschera sul viso ed un cosmo familiare.
«Shun! Cosa ci fai qui?» chiese la figura. Una donna, pensò Shun, prima di guadagnare una posizione difensiva. Una donna Santo, si disse, riconoscendo lo stesso tono metallico che riempiva la voce di June.
«Marin?», disse, incredulo, trattenendo a sé le catene. «Perché mi hai attaccato?!»
«Perché ti chiamavo da mezz’ora, ma non mi rispondevi.» La donna sembrò squadrarlo dalla testa ai piedi. «Tu non dovresti essere qui», disse avvicinandosi. «Cosa sei venuto a fare?»
«Sono in missione per conto di Athena.»
«Che genere di missione?»
Quanta curiosità! «Sto cercando il Santo del Cigno.»
«Il Santo del Cigno? Allora la notizia è arrivata ad Atena?»
«Quale notizia?»
La donna tacque e lo fissò. «Non lo sai?»
«So, cosa
«Immaginavo…» Marin si voltò, come ad ascoltare qualcosa nel vento. «È una storia lunga», rispose lei.
«Ho tutto il tempo di ascoltarla.»
«Seguimi. Sta arrivando una tempesta e non è il caso di restare a chiacchierare qui fuori», disse lei, prima di voltarsi e prendere a correre verso Ovest.

 
Re Åkon aspetta sprofondato nella sua poltrona, le mani intrecciate a sorreggere il mento stanco. Ebba è appena scivolata dietro le pesanti porte dei suoi appartamenti e adesso sarà arrivata a metà corridoio. Può vederla sfilare in silenzio, il capo chino e la gonna frusciante, e fermarsi davanti alla porta di suo figlio. Bussare. Attendere qualche istante e poi farsi coraggio ed entrare. Lukas è quasi un uomo, ormai, e potrebbe avere compagnia, a quest’ora della sera. Una collega di Ebba, ad esempio. Qualcuna che gli scaldi il letto e sgusci via ad un suo cenno. O che lo aspetti senza troppi musi lunghi, tenendogli in caldo l’alcova con la promessa di riprendere il discorso dal punto in cui si erano interrotti.
Åkon sa che non sarà così, e che anche suo figlio ne è consapevole. Se suo padre l’ha mandato a chiamare ad un’ora così tarda, il motivo deve essere serio. Hanno condiviso molte chiacchierate davanti al camino, loro due. Racconti di battute di caccia, o di scaramucce coi vicini sorseggiando del liquore alla luce delle fiamme. Åkon ha raccontato ai suoi figli molte storie davanti al camino, quand’erano piccoli. Storie di re, di eroi e di dei. E le storie dei loro antenati, che hanno reso il loro piccolo regno prospero e fiorente. Almeno fino all’arrivo degli uomini del Nord.
Åkon non spreca più né fiato né pensiero in maledizioni verso quella gente. Sono guerrieri, loro. Guerrieri che scendono da quello sperone maledetto quando hanno sete di sangue. O quando esigono il loro tributo.
Un tributo iniquo, pensa Åkon stringendo tra di loro le vecchie dita in una presa stanca. E tutto a causa di una guerra combattuta secoli addietro, prima che i loro antenati prendessero il mare alla volta di saccheggi più cospicui e redditizi. Åkon ha sperato che il mite Balder avesse più buonsenso dei suoi predecessori, ma anche lui lo ha tradito. Anche lui, una volta preso il posto di suo padre, ha mostrato la sua vera natura; quella di una serpe, una serpe con quell’assurdo copricapo di cui va tanto fiero ma che a lui ricorda una caffettiera floscia.
«Thor ci ha lasciati», gli ha scritto con quella sua grafia spigolosa e fredda. «Sono sicuro che il Padre Odino lo avrà già accolto nel Valhalla, e che adesso egli siede alla Sua mensa, il corno pieno di idromele», ha aggiunto, come se questo potesse essergli di consolazione. Come se suo figlio si chiamasse davvero Thor.
Il nome di suo figlio era Torsten. E all’età di dodici anni Åkon l’ha inviato da quei pomposi arroganti bastardi come tributo. Come suo padre aveva fatto con suo fratello Axel anni prima. Il primogenito spetta ad Odino, questo dice il trattato di pace, mentre la principessa avrebbe sposato uno di loro.
Peccato che la stirpe reale non produca più principesse da generazioni, pensa Åkon. Una sfortuna molto, molto conveniente, si dice, mentre le fiamme guizzano nel camino ed il suo fegato gli regala una fitta dolorosa.
Torsten è morto, chissà come e chissà dove; questo Balder non gliel’ha scritto, ma lui sa che non è successo su un campo di battaglia. Magari qualcuno l’ha spinto in un crepaccio. O gli ha conficcato un pugnale nella schiena. Oppure, qualche goccia di veleno è caduta nella sua coppa. Åkon sa che la morte del suo primogenito non è stata casuale, no. Non è stata casuale affatto, ma non può permettersi di piangerlo, perché quei cani stanno per portargli via anche l’altro suo figlio. Lukas. Il terzogenito. Quello che avrebbe dovuto ereditare il trono e compiere quella stessa, dolorosa scelta una volta divenuto padre. Quello che no, non si aspetta di dover partire per Asgard e non fare mai più ritorno.
«E il regno, padre?!», gli chiederà. Gli occhi allargati dalla rabbia. La mascella serrata in una morsa. E Åkon non sa cosa rispondergli. Thorsten non c’è più. Bror è morto bambino, falciato dalla leucemia. Gli è rimasto solo Lukas, ma sembra che questo non tocchi il cuore di pietra di Asgard.
«Aspettiamo Lukas a braccia aperte», gli ha mandato a dire Balder.
Almeno ha avuto la delicatezza di non chiamarlo Loke. Non ancora, pensa Åkon.
Che dovrebbe fare, alla sua età? Avere un altro figlio? Se solo Annika non fosse svanita assieme a Yngve, avrebbe potuto riconoscere quel bastardello e inviare lui, a quei cani rabbiosi, e tenersi a casa Torsten. E Lukas. Che è intelligente. Scaltro. E fin da piccolo ha dato segno di vedere più in là dei suoi coetanei. Lukas è
nato per la vita politica. Per stringere nuovi patti e nuove alleanze, ed è proprio questo che Asgard vuole impedire. Che la preda si liberi della tagliola in cui è caduta. Se solo Åkon avesse avuto maggior intraprendenza, avrebbe rotto lui stesso il patto che li lega a quei cani. Anche a costo di restarci, sul campo di battaglia, ed entrare nel Valhalla assieme ad una bella e bionda Valchiria. Ma Åkon non è come Lukas, o com’era suo fratello Axel. Il sangue di un re deve scorrere con meno impeto e foga di quello di un guerriero. Deve pensare ai suoi sudditi. Ai suoi doveri. Il cuore di un re sa sopportare un giogo, per quanto pesante esso sia. Ma Åkon si chiede per quanto tempo ancora il suo cuore resisterà. Se resisterà. E se riuscirà a convincere Lukas ad accettare il suo destino. Qualunque esso sia.
 
«Godheim?»
Marin annuì. Aggiunse un altro ciocco al fuoco e si voltò. «Sì. Godheim. Forse tu la conosci come Asgard.»
Shun l’aveva seguita in una corsa a perdifiato lungo la distesa ghiacciata. Si erano fermati solo quando avevano raggiunto una casupola dal tetto scuro, che si ergeva solitaria nel bianco più assoluto, ed avevano imboccato la porta in un unico movimento. Come foglie sospinte da un capriccio del vento. Avevano trovato un fuoco ad attenderli. Un fuoco vivace e scoppiettante che ardeva nel camino, e Andromeda era rimasto a fissare quelle fiamme mentre Marin sprangava l’uscio e gli porgeva una coperta per scaldarsi. E poi lei aveva iniziato a raccontare. Spalancandogli le porte di un mondo nuovo di zecca.
Il Santuario stava andando avanti. Si stavano rimpolpando le fila delle schiere di Athena assegnando le armature rimaste vacanti. Addestrando nuove reclute. Perché presto ci sarebbe stato un altro giro di giostra. O forse no. «Ma al Santuario vogliono essere preparati», aveva detto lei. Indicando il proprio scrigno, che li osservava, muto e vuoto, da sopra una sedia dal pagliericcio sfondato.
 «Asgard.» La coperta sulla testa, Shun si lasciò scivolare quel nome sulla punta della lingua come se fosse stato una zolletta di zucchero. «Se non sbaglio, era la dimora degli dei nella mitologia norrena. Il loro mondo. Connesso al nostro, Midgard, tramite…»
«…il Bifrost.» Marin annuì di nuovo. «Vedo che hai studiato.»
La donna si chinò e scostò la brace con un pezzo di legno, rivelando qualcosa di argentato al di sotto. L’esaminò con un colpo d’occhio, e quindi rimise a posto la cenere.
Shun pensò che vi fosse qualcosa di strano. Di azzardato, quantomeno. Cefeo aveva insegnato loro ad accendere il fuoco con due legnetti in una lontana serata di Novembre. Ed era stato molto, molto chiaro al riguardo.
«Il fuoco non va mai sottovalutato, ma sempre controllato», aveva detto osservando i suoi allievi attorno a lui. «Se si spegne, vi toccherà riaccenderlo. Ma se vi scappa di mano...»
Cefeo non aveva aggiunto altro, lasciando che quel sottinteso aleggiasse sulle loro teste come una nuvola densa di pioggia.
No, il fuoco non lo puoi sottovalutare. Né è credibile che qualcuno lasci la propria casa con il fuoco che scoppietta allegro nel camino. A meno che non conti di rientrare subito, pensò Andromeda, osservando il filo di fumo grigio incamminarsi lungo la canna fumaria. Ma la casupola dove Marin l’aveva condotto era troppo lontano dal luogo del loro incontro per credere che lei avesse percepito il suo cosmo e avesse deciso di uscire a dare un’occhiata. Fuori, il vento ululava contro il tetto infilandosi negli interstizi delle tegole, come se minacciasse di scoperchiare quella casupola con un gesto stizzito. Le finestre erano chiuse e le imposte sprangate dall’interno.
«Reggerà», disse la voce metallica della donna, cogliendo Shun con il naso all’insù, a fissare le pesanti travi a vista che si intersecavano sopra le loro teste. «È solo una bufera. Al vento piace fare la voce grossa, da queste parti.»
«Hyoga diceva che il vento non soffia in Siberia.»
«Perché il Buran non è un vento», rispose lei, le spalle al camino. No? E cosa sarebbe, di grazia?, pensò Shun. «È il grido dei morti in battaglia, che si perde nelle pianure congelate», concluse lei, come se gli avesse letto nel pensiero. E in quel momento un ciocco nel camino schioccò.
«Quando soffia il Buran, c’è aria di guai.»
Shun rabbrividì. «Capisco…», disse, quand’era vero che no, non capiva affatto né perché Marin amasse tanto indulgere in certi particolari, né cosa ci facesse lei, lassù, in quel posto dimenticato dagli dei e dagli uomini.
Shun abbracciò con lo sguardo l’isbà in cui si trovavano e poi posò gli occhi su di lei. Come a chiederle:«E questa casa?».
«Siamo in un rifugio del Santuario. Apparteneva all’Acquario, credo.  Noi siamo solo di passaggio. Tieni», e con un movimento fulmineo Marin gli passò qualcosa da sotto la brace. Un involto argentato. Un involto rovente. Le sue mani impiegarono qualche secondo per registrarne il calore. Poi le sue dita divennero più chiare e sentì le loro estremità pizzicare.
«È una patata ripiena», disse, armeggiando con un involto simile al suo. «Stavo aspettando che fossero pronte quando ho percepito il tuo cosmo e sono uscita. Ne ho solo due. Ce le spartiremo.» Poi si voltò verso il fuoco, calò la maschera ed scartò la propria.
Shun tacque. Tenne quell’involto tra le dita per riacquistare sensibilità.
«Posso chiederti cosa c’entra Hyoga con Asgard?»
«Gli asgardiani non se ne stanno lassù per sport», disse lei, a bocca piena. Deglutì e poi riprese:«Gofheim non è solo il regno degli dei. Come noi abbiamo il Santuario, loro hanno un avamposto nella roccia. Lo chiamano Asgard. Come la dimora degli dei.».
«Quindi?»
«Quindi?», ripeté lei. «Davvero non lo sai?»
Non lo so, pensò Andromeda. E poi lo disse:«Non lo so.».
«Lo dicevo.» Terminò di mangiare e si rimise la maschera sul viso. «Asgard è un avamposto oltre Capo Nord. Sorge in cima ad una montagnola rocciosa che si eleva su delle gole aguzze. Un posto non esattamente piacevole.»
«Quindi suppongo che abbiano un compito. Una missione…»
«Supponi bene», disse lei. «Sorvegliano che il passaggio collega Midgard a Jötunneim resti così com’è. Chiuso.»
«Jö…»
«Jö. Tun. Neim», scandì lei. «Il regno dei giganti di ghiaccio, banditi da Midgard dal Padre Odino.»
«E Hyoga cosa c’entra con tutta questa storia?», chiese Shun. Cominciava a perdere la pazienza. Fuori il vento infuriava sempre di più e lui doveva trovare Hyoga, perché qualcosa – il suo sesto senso o l’inquietudine che serpeggiava lungo l’acciaio delle sue catene – gli suggeriva che il Cigno fosse nei guai.
«Qualcuno di Asgard si è fatto vivo al Santuario. A detta sua, pare che Hyoga abbia fatto un casino niente male. Mu si è messo di traverso, perché i panni sporchi si lavano in famiglia, e ha inviato me. Ma occorre trovare Hyoga prima che lo trovino loro.»
«Per questo mi hai attaccato, prima?» Lei annuì.
«Non ti ho attaccato. Quello era un tentativo di farti reagire.»
«Reagire?»
«Non mi rispondevi. Avanzavi nel vento come un fantasma. E se è vero quello che suppone Shaka...»
«Cosa suppone Shaka?»
«Che qualcosa, o qualcuno, vi abbia offuscato la mente», disse Marin, lo sguardo severo della maschera fermo in quello di Shun.
Lo stesso pensiero di Aiolia, si disse Shun. «Capisco. Temi che anche Hyoga…»
Marin annuì.
«Forse. O forse no. Hai per caso notato in lui qualcosa di strano, l’ultima volta che l’hai visto?»
Shun tacque. E qualcosa dentro di lui suonò.
Sì, l’ultima volta che aveva visto Hyoga gli era parso che qualcosa non andasse. Che qualcosa stonasse in lui. Lo rivide, quel giorno di Agosto, seduto al tavolo della colazione ad imburrare fette di pane tostato una dietro l’altra. Hyoga canticchiava.
L’unica volta in cui Shun l’aveva visto cantare era stato a fine Maggio, quando erano andati al Karaoke per festeggiare il compleanno di Genki. Hyoga aveva preso – o meglio: strappato - il microfono a Seiya straziando i loro timpani con vecchie canzoni popolari. Ovviamente in russo. Solo che in quell’occasione Hyoga era sbronzo oltre ogni decenza, più di un irlandese il giorno di San Patrizio.
«E di che cosa lo starebbero accusando?», chiese Shun. Serio. Serissimo. Una luce scura in fondo agli occhi blu e un’increspatura sulla superficie placida del suo cosmo. Stava per scatenarsi una tempesta, nei dintorni della Nebulosa. Una tempesta di proporzioni gigantesche.
Un lampo attraversò lo sguardo della donna. Il riflesso del fuoco, decise Shun, lo stesso che riverberava sulla sua maschera dorata, perdendosi in lingue rossastre lungo la linea degli zigomi.
«Non ci arrivi? Lo accusano di aver rotto il sigillo di Jötunneim.»
 
«Mamma, perché la neve si scioglie quando cade in acqua?»
Natassia fatica a trattenere suo figlio oltre il parapetto della banchina. A volte ha l’impressione che quel bambino dal viso d’angelo sia attratto dall’acqua, neanche fosse un pesce che tenta di tornare nel suo ambiente naturale.
Hyoga si sporge ancora per afferrare un fiocco di neve, la manina inguantata che pende nell’aria ghiacciata e la lingua arrotolata tra le labbra.
Natassia riesce a malapena a tenerlo per la spalla. Ha paura di perdere quel bambino, come un cappello che il vento dispettoso porta a passeggio nell’aria, o una moneta che cade dalla tasca bucata di un cappotto. E Hyoga ci sta mettendo del suo per scivolare nell’acqua ghiacciata. E anche se lui sapesse nuotare, cosa che non gli ha ancora insegnato, lo shock termico lo ucciderebbe.
E poi? Che facciamo, poi? Che cosa porto a tuo padre? Un ghiacciolo?
«Hyoga, vieni via», gli dice. Con voce amorevole. Nascondendo la paura in fondo alla gola. Per Natassia è stato un miracolo riuscire a portare a termine la gravidanza. A tenersi quel bambino dentro la pancia e a impedirgli di sgusciare via prima del tempo. E se Hyoga non avesse lottato con tutto se stesso per nascere, Natassia sa che adesso lui sarebbe ancora dentro di lei. Al sicuro. Dove non potrebbe perderlo. Mai e poi mai.
«Mamma, perché la neve si scioglie quando cade in acqua?»
Glielo ripete. Come se lei fosse sorda. O non l’avesse sentito.

Non lo so, vorrebbe dirgli. Perché la fisica non è mai stato il suo forte, e ai bambini piacciono le spiegazioni semplici. Facili. Qualcosa che dica loro che le cose accadono perché è così che deve andare. Per una qualche misteriosa legge superiore, che loro non capiscono, ma che deve essere la stessa che li fa stare al mondo. Che fa sorgere il sole. O cadere la neve quando è inverno.
«Perché l’acqua è meno fredda della neve», gli dice Natassia.
Hyoga la fissa, con quei suoi occhi azzurri, come se lei gli avesse rivelato la magia più fantastica del mondo. Ma c’è una punta di delusione, nel suo sguardo.
«E sul ghiaccio?», le chiede.
«Sul ghiaccio?» Natassia ci pensa su, mentre il vento soffia più forte alle loro spalle. «Sì, sul ghiaccio la neve resiste.»
Hyoga sorride, le labbra arricciate all’insù. «Allora, se il mare ghiaccia, la neve non si scioglie?»
«Esatto», gli dice. Sistemandogli il cappuccio sulla testa. «Ma deve fare molto più freddo di così, perché il mare si ghiacci del tutto.»
«Allora speriamo che faccia più freddo!», dice Hyoga.

Speriamo di no, pensa Natassia. Non adesso che stiamo per salpare. «Magari quando saremo arrivati, chissà…», dice Natassia. Pregando, dentro di sé, che il clima si mitighi un pochino. E che Dio li protegga durante quella traversata. «Ti ricordi quello che ti ho detto?»
«Sì», annuisce. Portandosi una mano sul petto, dove pende il crocifisso che lei gli ha nascosto sotto le maglie. «Non devo salire sul ponte e devo stare vicino a te.»
«Bravo, il mio ometto…», e gli accarezza il viso, mentre il vento soffia più forte.
La sirena del mercantile suona, rompendo il silenzio del porto ed interrompendo lo stridio dei gabbiani. «Vieni, Hyoga. Dobbiamo andare», dice Natassia. Prendendo la borsa in spalla e suo figlio per la mano. I marinai non l’aspetteranno in eterno.

Che Dio ci aiuti. Che Dio ci aiuti.


 
«Non puoi averlo detto sul serio.»
«Te lo ripeto, se vuoi. Fin tanto che dura la purga, Hyoga è al sicuro», rispose Marin.
«Il nemico viene da Asgard, non dai Caraibi!», protestò Shun.
«Ma Hyoga conosce questi luoghi come le sue tasche», ribatté lei, le braccia incrociate. «E se da Asgard hanno mandato qualcuno a cercarlo, questo qualcuno avrà sufficiente buon senso di starsene al riparo anche lui. A meno che non voglia rischiare di perdersi, ovvio. Certo, ci farebbe un favore, ma sarebbe davvero stupido, non credi?»
«Ma Hyoga…»
«Hyoga non si allontanerà dal buco in cui s’è rifugiato, credimi.» Lei aggiunse un altro ceppo al fuoco e tornò a scaldarsi le mani e i piedi. «Sempre ammesso che sia davvero qui. E l’asgardiano non sarà così sciocco da torcergli un capello. Non a casa sua. A meno che non voglia scatenare una guerra con Atene.»
Shun si avvicinò alle fiamme. «Credi che sia vero quello che....»
«A questo mondo tutto è possibile. Per cui, sì, è possibile che gli asgardiani stiano accusando ingiustamente il Cigno. Per avere un casus belli, hai presente? Ma questo potremo saperlo solo se e quando avremo trovato Hyoga e avremo fatto quattro chiacchiere con lui.»
«Tu cosa pensi, Marin?»
Lei si voltò. Shun osservò il proprio riflesso distorto sull’argento della maschera.
«Quando sei in missione il tuo giudizio è sospeso, Shun. Io voglio capire che sta succedendo. Capire se sia stato Hyoga e perché l’abbia fatto. Se anche lui abbia la mente offuscata. Perché se davvero il sigillo di Jötunneim è spezzato, siamo nella merda. Fino al collo. Perché io non ho la più pallida idea di come si possa sistemare una cosa del genere. Capisci? C’è molto di più in ballo di una bella amicizia. E poi, è una questione di principio.»
«Principio?»
Lei annuì, i capelli rossi sulle spalle accompagnarono il movimento della testa.
«A te non darebbe fastidio se qualcuno venisse a scavare nel giardino della tua casa, o a cacciare sul tuo tetto?»
Shun ci pensò su, ma non riuscì a trovare una risposta. Sapeva che sì – che forse – in un altro momento, magari in situazioni differenti, gli avrebbe dato fastidio; ma adesso non ne aveva la certezza. Adesso era troppo preoccupato per Hyoga perché il suo cervello si perdesse in questioni di proprietà privata o di educazione.
«I panni sporchi si lavano in famiglia, Shun. E prima troveremo Hyoga, meglio sarà. Ma per il momento, possiamo solo aspettare.»
E sperare che sia lui a venire da noi?, pensò Shun. E come se qualcuno gli avesse letto nel pensiero, bussarono alla porta. Dapprima il rumore si confuse nel soffio del vento. Ma poi riprese. Più forte. Più ritmato. Tum. Tum. Tum. Tu-Tum. Tum. Shun e Marin si scambiarono un’occhiata, poi lei si alzò, facendogli cenno che le coprisse le spalle, ed andò ad aprire. Non chiese chi fosse alla porta e la aprì – la spalancò, pensò Shun.
Il vento si insinuò nella casupola. Le fiammelle guizzarono verso l’alto, ravvivate da tutta quell’aria. Shun si coprì istintivamente il viso con un braccio. Marin richiuse la porta. Quando Shun tornò a guardare la compagna vide che Hyoga la stava abbracciando.
La sovrastava di quasi mezza testa. Teneva le mani affondate nei capelli di Marin, stringendosela al petto quasi fossero passati secoli dal loro ultimo incontro. Marin… e Hyoga?, pensò Shun, alzandosi in piedi. Le catene tintinnarono. Hyoga si staccò da Marin e le disse qualcosa in russo. Qualcosa che Shun non capì. Poi si accorse di lui, e Shun pensò che se si potesse uccidere con lo sguardo quello di Hyoga l’avrebbe lasciato stecchito al suolo. All’istante.
«Che ci fa lui, qui?», disse Hyoga. Ricorrendo al giapponese, così da fargli capire che non era il benvenuto.
«Sono venuto a cercarti per ordine di Athena», gli disse Shun. C’erano parecchie cose che non quadravano in quella scena. Hyoga si era frapposto tra lui e Marin. Come a volerla proteggere. Difendere. Da me?, si chiese Andromeda, prima di aggiungere: «Athena ti vuole al Santuario.».
Hyoga lo guardò perplesso. Come se no, non capisse di cosa Shun gli stesse parlando.
«Che ti dicevo?», ma Shun non seppe dire se Marin parlasse a lui o a Hyoga. L’Aquila avanzò verso il camino e aggiunse un paio di ceppi al fuoco. «Accidenti. Se si dovesse spegnere sarebbe un guaio», disse. Come se il focolare fosse la cosa più importante sulla faccia della terra, al momento.
«Marin?», la chiamò Shun. Restando con lo sguardo fisso su Hyoga. Che adesso sembrava imbambolato. Come se stesse cercando di riemergere dal fondo della sua coscienza, un fondo viscido e limaccioso che minacciava di riacciuffarlo e spingerlo giù. Ancora più in fondo.
La catena di difesa iniziò a serpeggiare. Piano, piano, piano. E poi sempre più nervosa, mentre quella d’attacco si volse in direzione del camino. In direzione delle fiamme. In direzione di Marin. La punta conica sembrò fissare la maschera d’argento dell’Aquila, quasi fosse un cobra che fronteggia una mangusta. E poi scattò. Dritta al volto di Marin, facendole saltare via la maschera e strappandole un grido. Anche Hyoga scattò. E afferrò Shun per una spalla.
«Cosa hai fatto?! Come hai osato?!», gli chiese. Agguantandolo per il collo. «Ti ha dato di volta il cervello?!»
«La catena…» È partita da sola! C’è un nemico, qui!, avrebbe voluto dirgli Shun, ma Hyoga non gliene diede il tempo. Le mani del Cigno strinsero, strinsero, strinsero e l’ultima cosa che Shun vide fu un volto femminile sorridergli. Che non era più quello di Marin, ma quella di una donna dai capelli lunghi, lisci e biondi. «Buon viaggio», gli disse una voce femminile. Poi tutto divenne scuro e i sensi lo abbandonarono. E Shun scivolò giù. Nel buio.



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:
Asgard, Midgard e Jötunneim sono tre dei Nove Mondi collegati tramite l'Yggdrasil (=lett: destriero di Odino, dove destriero è una kenning da intendersi per forca ), il frassino magico nato dalle ossa del gigante Ymir; si tratta, rispettivamente, del Mondo degli Asi, il Mondo degli Uomini e il Mondo dei Giganti di Ghiaccio e di Roccia. Il fiume Iving divide Asgard e Midgard da Jötunneim.

Il Valhala è il palazzo di Odino, che accoglie tutti coloro che sono morti in battaglia. Coloro che sono morti in singolar tenzone vanno, invece, nel palazzo di Freya.

Balder è il dio splendente la cui morte dà inizio al Ragnarǫk (lett. il destino degli dei), la fine del mondo per la mitologia norrena. In questa storia Balder è il Celebrante di Odino visto nel secondo film, L'Ardente Scontro degli Dei, primo doppiaggio (credo a causa dei suoi capelli bianchi, come quelli del dio). Nel mio headcanon quella Asgard si trova su uno sperduto cucuzzolo in Norvegia, ed oltre ad avere una predilezione quasi bigotta nell'onomastica della sua gente, è retta da Balder come Gran Sacerdote e Officiante del dio Odino. Una volta preso il posto del padre, l'officiante in capo ne prende anche il titolo, Dolvar. Che è poi come chiamano il supermegacicciobombo cattivone del secondo film, nel secondo doppiaggio.

Non credo ci sia altro da aggiungere. Qualora avessi dato per scontato qualcosa, fate un fischio!

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Capitolo 10
*** 10. ***


10.
 



 
La guancia di Shiryu era ancora arrossata.
«Di’, non ti converrebbe…»
«Mi sono già sciacquato la faccia», lo interruppe il Drago. «Passerà.»
«Il Venerabile Libra come sta?»
«Bene, grazie.»
Milo annuì. «Tu non ne sapevi nulla, di loro? Il Maestro non ti ha detto nulla?»
«Nulla di nulla», rispose Shiryu, lo sguardo corrucciato.
Il Maestro non gli aveva raccontato nulla, ma non era questo ad innervosirlo. Non era la prima volta che il vecchio Libra taceva, ometteva, dimenticava di fornire alcuni particolari al suo allievo. Non era malizia, la sua. Era fatto così. Credeva sinceramente che si dovesse pervenire da soli alla sostanza delle cose. Capirle. Attraverso i propri occhi. «Ogni cosa al momento giusto», ripeteva sempre, fissando qualcosa oltre lo scroscio rombante della cascata.
Shiryu preferiva quel modo di approcciarsi alla vita rispetto alle menzogne e al far leva sui sentimenti umani. Come quando il vecchio mentore aveva finto di essere in fin di vita. Shiryu aveva provato un sollievo incredibile nel saperlo in ottima salute, ma quella leggerezza di spirito era durata poco. Una rabbia, cieca e cocente, si era impadronita di lui. Ed aveva preteso un confronto con il suo Maestro. Un chiarimento. «Altrimenti non potrò più guardarvi in faccia», gli aveva detto, osservando lo sguardo placido del vecchio Libra allargarsi dallo stupore. Il ragazzo stava crescendo. Il ragazzo stava cambiando voce. Il ragazzo stava diventando uomo.
«E sia», gli aveva detto, con quel sorriso sfuggente sulle labbra grinzose. «Parliamo.»
No, non era la reticenza di Libra ad innervosirlo. Quello che regalava a Shiryu un serpeggiante senso di pericolo lungo la spina dorsale era la possibilità che qualcuno si stesse divertendo a giocare con loro. Come fossero bambole. E la presenza di una nuova casta di guerrieri – di guerriere, si corresse – spuntata fuori dal nulla come il ciuffo di una carota, poteva leggersi come un tentativo di depistare le acque. Oppure no? Era questa la domanda cui Shiryu non riusciva a rispondere. Era questo ad innervosirlo.
«Capisco.» Milo osservò un punto all’orizzonte, poi disse: «Tieni gli occhi aperti, Dragone. Qualcosa mi dice che tutta questa sciarada serviva ad arrivare ad Athena. Il nemico non voleva voi. Voleva lei. E far allontanare il Cigno. Voi eravate solo…»
«… un diversivo?» Lo Scorpione annuì. Shiryu si sentì sollevato, ma anche inquieto. Sollevato perché era come se qualcuno avesse allontanato dal suo collo il filo di una scure; inquieto perché non riusciva a mettere a fuoco cosa potesse volere dal Cigno un eventuale nemico. «Perché Hyoga?»
«Non ne ho idea», rispose Milo. «Davvero. Non lo so. Forse è una pista sbagliata. Forse l’assenza di Hyoga non c’entra. Non direttamente, almeno. Il problema è che non sappiamo chi sia il nemico e quali siano i suoi schemi mentali. Come pensa. Come agisce. È questo a mandarci in confusione.»
Shiryu annuì. «Ci sarà pure qualcos’altro che possiamo fare?»
«Proteggere. Athena.» Milo scandì quelle due parole come se gli stesse rivelando il segreto dell’universo. «Lei viene prima di tutto. Una volta messa lei al sicuro, ci occuperemo di Hyoga.»
Il Dragone scambiò un lungo ed eloquente sguardo con lo Scorpione. E nell’azzurro mare degli occhi di Milo Shiryu lesse che sì, lo Scorpione non avrebbe avuto pace fino a quando non avesse ritrovato il Cigno. Glielo devo, lampeggiarono gli occhi di Milo. Perché Camus era mio amico.
Shiryu annuì.
«Vado a vedere a che punto sono i preparativi per la partenza», disse Milo. «Prima arriveremo al Santuario, e meglio sarà.»
«D’accordo», disse e rimase ad osservare Milo allontanarsi lungo la penombra del corridoio. Poi si voltò. Anche lui aveva qualcosa da fare. Ed era meglio togliersi il dente subito. Prima che facesse troppo male.
 

«Ti capiterà di combattere. Credo», le dice lui. Accendendosi una sigaretta mentre l’aroma del caffè sale ad incontrare la salsedine che profuma l’aria ed il sole è appena sopra al filo azzurro dell’orizzonte. «Combattere uomini. Esseri umani, dico. Perché gli dei non sono fessi. Tutt’altro. Gli dei tengono il loro corpo divino da conto. E usano i nostri, di carne e sangue, come ospiti. Così i loro non si sciupano.»
Lei lo ascolta, prendendo due tazzine spaiate e riempiendole di caffè.
«Si credono furbi, si credono», dice lui, in mutande, i gomiti poggiati sulla tovaglia di plastica verdina. «Ma in realtà…»
Lei reagisce. Con la stessa naturalezza di una spalla consumata. «In realtà?»
«In realtà, non sanno che ci fanno un favore. Perché solo un deicida può ammazzare un dio. Ma ciascun essere umano può accopparne un altro.»
Lei annuisce. Porgendogli la tazzina colma.
«E sai qual è la cosa più buffa?»
«No, Maestro. Qual è?»
«Che agli dei
piace vivere come esseri umani», risponde lui. Scrollando la cenere sulla tovaglia. Mancando il posacenere. Perché quel colore verde morto lo innervosisce. Ma non ha alcuna intenzione di andarne a comperare un’altra. «Facile. Che hanno da perdere? E poi, vuoi mettere la prospettiva di gustarsi un briciolo di umanità, una tantum
Lei annuisce. Rigirando il proprio caffè con un movimento stanco.
«Si credono furbi. Astuti. Ma hanno fatto i conti senza l’oste. Hanno fatto i conti senza
me

In un angolo della sua mente lei si chiede sottovoce per quanto tempo ancora andrà avanti con il suo sproloquio. Perché se il buongiorno si vede dal mattino, si intuisce che piega prenderà la giornata da quanto a lui piaccia chiacchierare appena sveglio. Piace monologare, in realtà, visto che se al suo posto ci fosse un attaccapanni a lui andrebbe bene lo stesso. Se lui chiacchiera – se lui monologa – significa che s’è alzato col piede giusto. Che non le farà sputare sangue, non più del dovuto, almeno. E più chiacchiera, garrulo come un fringuello a primavera, meglio sarà. Per lei. Ma se invece si siede al tavolo e tace, c’è aria di guai.

Così lei lo ascolta, con un orecchio ben aperto, ché l’altro non funziona. C’è ancora, attaccato alla sua testa. Ma il timpano è quasi andato. Acqua di mare. Un’infezione mai curata come si deve. «Meglio», le ha detto lui. «Così dimostrerai che si può essere Santi di Athena anche con un orecchio solo.» E poi ha riso. Come se si stesse raccontando la barzelletta più divertente del mondo. Come sta facendo adesso, seduto al tavolo della cucina, in mutande, la sigaretta sorta tra i denti e la tazzina di caffè fumante tra le mani.

«Sai chi ho scoperto si è incarnato di recente?»
Non saprei. Babbo Natale?, vorrebbe chiedergli, ma non osa tanto. Perché sa che lui si fermerebbe, come se qualcuno l’avesse congelato, la fisserebbe e poi riprenderebbe a ridere. Tenendole la testa sotto al pelo dell’acqua fino a quando lei non avrebbe smesso di dimenarsi.
«Chi?», gli domanda, invece. Dimostrandogli di sapere qual è il proprio posto.
«Ade.»
E sgancia così quella bomba da un miliardo di megatoni, con la stessa grazia di una ballerina che attraversa il palcoscenico nel suo vaporosissimo tutù.
«È uno scherzo», ribatte. Pentendosene l’istante successivo. Perché lui non è un suo amico. Lui è il suo Maestro. È Dio che cammina sulla terra. E anche se così non fosse, così deve essere, per lei. E non parli ad un dio come se fosse tuo fratello, giusto?
«Tu dici?», le risponde, infatti. Con quel suo sorriso da tagliola. Luccicante. Di quelli che ti invitano a infilare la testa sotto la lama. Un secondo solo. Che male farà? Ma lei lo sa che fa male. Molto male. E che la ghigliottina cadrà sul suo collo all’improvviso. Mentre si trova per caso con la testa sotto la lama. Così. Per vedere l’effetto che fa, per dirla con Jannacci.


 
Ikki alzò lo sguardo. Di fronte a lui c’era Shiryu, le mani nelle tasche dei pantaloni e l’aria stanca.
«Fa male?», gli chiese Ikki. Fissando la guancia arrossata dell’altro.
Shiryu scosse la testa. «Ti devo un favore», disse. E Ikki sorrise. Il possente Dragone che china la testa?, pensò. Ma poi decise di tenersi quella considerazione per sé e si alzò.
«A buon rendere», disse. Ma Shiryu non diede segno di volersene andare tanto presto. «C’è qualcos’altro?», gli chiese.
«Ti vedo preoccupato», soffiò fuori il Dragone. «Shun sa badare a se stesso.»
«Questo lo so», rispose Ikki.
«E allora perché quel muso lungo?»
«Perché quando si tratta di Hyoga, Shun non ragiona», disse Ikki. Digrignando i denti.
«Pensi che possa fare una qualche sciocchezza?»
«No, non lo penso», ammise Ikki. « Ne sono sicuro.»
Si diresse alla finestra, dando le spalle all’altro, e osservò il panorama. Sempre gli stessi alberi, con le loro bellissime fronde verdi e lussureggianti, ma Ikki non si sentiva tranquillo.
«Quando c’è di mezzo Hyoga, Shun non ragiona.» E questo l’hai già detto, pensò il Dragone, immobile alle sue spalle. «Tutti noi crediamo che sia Shun il più…»
L’aggettivo che avevano in mente era debole, ma nessuno dei due riuscì a pronunciarlo. Perché non era così. Perché Shun non era debole. Non più, almeno. Andromeda era cresciuto. Aveva imparato a indurire il suo cuore e a far tacere la gentilezza della propria anima. Per difendere i deboli. Gli innocenti. La giustizia. Se stesso. Athena.
No, Shun non era un debole. Non più.
«Ma?», chiese Shiryu. Invintando l’altro a continuare il suo discorso.
«Shun crede che sia Hyoga il più vulnerabile.»
«Hyoga?», ma dentro di sé Shiryu seppe che l’altro aveva ragione. Che Shun aveva ragione.
«Hyoga», ripeté Ikki. «Noi siamo stati fortunati, rispetto a lui...»
«Fortunati?»
Cos’è, sei diventato un disco rotto? «Noi non abbiamo visto nostra madre morire davanti ai nostri occhi. Giusto?»

Shiryu rimase congelato da quel pensiero. Sapeva che Hyoga aveva assistito all’inabissamento della nave su cui viaggiavano lui e sua madre. Sapeva che lei era rimasta a bordo. Perché non c’era posto sulla scialuppa di salvataggio. Perché aveva dovuto scegliere. Tra la sua vita. E quella di suo figlio. Shiryu si era chiesto che razza di uomini fossero quelli che avevano potuto lasciar morire una donna. Come fossero riusciti a guardarsi allo specchio, dopo. Con quale stomaco. Con quale coraggio. Ma adesso, mentre attendevano che il jet tornasse indietro e li accompagnasse al Santuario, adesso Shiryu riusciva a mettere a fuoco un’altra cosa. Un altro particolare della faccenda. Il punto di vista di Hyoga. Che aveva visto la madre sorridergli dal ponte della nave, prima di voltarsi ed andare ad abbracciare il proprio destino.

«Giusto», disse il Dragone.
«C’è una forte amicizia tra Shun e Hyoga. Shun…», e Ikki si fermò. Come per riordinare le idee, «Shun pensa a tutti voi come ai suoi fratelli. Anche se è difficile per lui ammetterlo.»
«Capisco. Ci vuol bene come fratelli, ma è un’idea dura da mandare giù.»
«Esatto. E sai bene grazie a chi», disse Ikki. Indicando con la spalla il ritratto del patriarca, l’ennesimo, che li guardava dalla parete accanto alla finestra. Indossava un kimono scuro e sedeva ritto e fiero, la piccola Saori una nuvola rosa alla sua destra. «Ciò nonostante, Shun è Shun. E sai bene anche tu quanto lo addolori veder soffrire un fratello.»
Shiryu annuì. Annuì perché ricordava bene come e quanto Shun avesse patito quando Ikki li aveva attaccati. Quanto si fosse sentito responsabile.
«E Shun ha visto Hyoga inerme, durante la scalata del Santuario. Alla Terza Casa, contro Gemini. Hyoga era svenuto. Era andato giù. Come un cencio. E quando Shun l’ha visto andare alla deriva, non ha saputo perdonarselo.»
«Quindi è per questo che ha risvegliato Hyoga rischiando la vita?»
«Non solo, Shiryu. Non solo», rispose Ikki, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni. «L’ha fatto perché andava fatto. Perché lui poteva farlo. E tornasse indietro, lo rifarebbe ancora.» Pausa. «Adesso capisci perché sono preoccupato?»
«Perché a Hyoga è successo qualcosa.»
Ikki annuì. «Esatto. Altrimenti lui sarebbe qui, adesso. Assieme a noi.»

Shiryu non gli chiese perché mai, allora, non si fosse opposto alla decisione di Shun di partire. Perché non avesse appoggiato Genki. O perché non fosse andato lui stesso. Shiryu sapeva che Ikki e Shun stavano ricostruendo un rapporto. Pezzo dopo pezzo. Mattone dopo mattone. E un rapporto è come un muro. Non si tiene insieme solo con la forza di volontà. Ma con la fiducia, che va stesa ad ogni strato, con generosità sempre maggiore. E la fiducia costa. Specie quando ti costringe a startene da parte. Per dimostrare a tuo fratello che ti fidi delle sue capacità, del suo giudizio, della sua forza. E per dimostrare a te stesso che lui è cresciuto. Che è grande, adesso. E che puoi abbassare il livello di apprensione nei suoi confronti.

«Se c’è qualcuno che può trovare Hyoga, quello è Shun», disse Shiryu.
«Speriamo che lo trovi vivo, allora», ribatté Ikki, mentre una nuvola rapida oscurava il sole.
 

Il neonato dorme.
Nel suo lettino candido, di legno, dalle sbarre alte. La porta della stanza è accostata, uno strofinaccio legato attorno alla maniglia cosicché non sbatta. E circoli un po’ d’aria per la casa.
Fuori, le cicale intonano la loro melodia d’archi. Un refolo di vento gonfia placido la tendina rosa legata ad un lato della finestra.


Il neonato dorme.
Il suo respiro è appena udibile nel silenzio irreale di quel primo pomeriggio. Il lenzuolo sopra il suo corpicino si alza e si abbassa ad intervalli regolari. Lenti. Tranquillizzanti. Il pugnetto chiuso, accanto al cuscino, il nasino all’insù, le ciglia che descrivono un’ombra lunga e scura sulle guance paffute. Quasi ti viene voglia di stenderti, lì, accanto a lui. E riposare.


Il neonato dorme nella culla.
La casina delle api lo sorveglia e l’orsacchiotto, ai piedi del lettino, sembra quasi fissarla. E chiederle perché. E dirle che non è costretta a farlo. Che è ancora in tempo. Che può andarsene. Girare sui tacchi, uscire dalla finestra socchiusa e sparire. Prima che sia troppo tardi.

Ma lei sa che non può. Perché lui è con lei. Alle sue spalle. A vegliare. Ad osservare. A sincerarsi che sì, lei faccia quel che c’è da fare. E se non se ne occuperà lei, ci penserà Lui.

Il neonato dorme.
Dall’altra stanza arriva ovattata la voce di Nico. «Quello dei Gabbiani. Quello di
Din Don», come le ha detto Lui. Senza perdere tempo a spiegarle chi fossero questi gabbiani che fanno din don nemmeno fossero serpenti a sonagli. Nico canta. Con la sua voce sgraziata. Parla di sentieri, di sogni, di mattini da inventarsi. Di promesse, scambiate piano piano. Mano nella mano. Tutta roba che per lei è arabo, ma che è più allettante del motivo per cui si trova lì. Davanti a quel lettino.

«Allora? Cosa stiamo aspettando?», le domanda Lui. Accanto a lei. Seccato, quasi. Di aspettare che lei si decida e faccia quel che c’è da fare. Deve solo posare l’indice sulla fronte del neonato. E poi, sarà tutto finito. E poi, si incamminerà per la sua strada. Tornerà a casa, in un certo senso. E avrà scongiurato una guerra sacra. La Guerra Sacra. Quella per cui tutti loro sono nati. Milioni di vite risparmiate, questo le ha detto lui. Sangue che se ne resterà al proprio posto, senza insozzare il terreno. Spose, madri e figli accanto ai loro mariti e padri e figli e fratelli. Una minaccia spazzata via. In un battito di ciglia.
«Maestro, sei sicuro?», vorrebbe chiedergli. Ma non ce la fa. L’orrore che lui le sta proponendo, novello serpente dalla pelle azzurra come i suoi occhi, le congela il fiato in gola. Riesce solo ad ansimare, il respiro mozzato. Le mani tremano. Un rivolo di sudore le corre lungo la schiena.
«Ehi», le dice. E lei si riprende. Proprio prima che il suo cervellino arrivi a formulare la domanda che le avrebbe permesso di sottrarsi a quell’orrore. E lui lo sa, così come sa che lei non stava per chiedersi «Perché, allora, non ci pensi tu?», perché la risposta sarebbe stata semplice. Perché lui non ama sporcarsi le mani, se questo comporta dei rischi. E gli piace poter fare la ruota come un pavone che scende nell’aia. E c’è un gusto maggiore nel farsi bello col sudore della fronte altrui. Un gusto più dolce. Come quello dell’esotica maracuja che tanto va di moda in questa estate delle Olimpiadi. Con quell’aquilotto col cilindro a stelle e strisce che lui trova ridicolo tanto quanto l’orso con lo sguardo omicida.
No, non è quella la domanda pericolosa.
«Perché non c’è nessuno a difenderlo, allora?», questo dovrebbe chiedergli. Perché questo sì che aprirebbe nuovi scenari. Nuovi squarci e punti di vista sulla questione. Possibile che non ci sia nessuno ad aspettare Ade? Che questo dio non abbia adepti, sacerdoti, guerrieri e seguaci pronti a difenderlo? Come pensa di combattere Athena, allora? E invece no. Invece lei non chiede. Si lascia cogliere alla sprovvista. Come un terzino dalle caviglie molli. Che non sarà mai in grado di stoppare l’avversario. E far partire il contropiede.

Una spinta. Solo un piccola spinta e sarà fatta. Questo le serve. E lui è ben disposto ad aiutarla. È a questo che servono i maestri, dopotutto.
«Guarda che non abbiamo tutto il giorno…», le dice. Lo sguardo corrucciato. Severo. La butta sul dovere. Sulla responsabilità. Perché le botte, con lei, non servono. Non ha paura. E dopo quello che è successo è come se cerchi di farsi ammazzare da lui. Perché lei lo sa che è colpa sua, quello che è successo. Lo sa eccome. Ma lui non sarà così magnanimo da accontentarla. Certo, gli piacerebbe. Ma sarebbe una questione momentanea. Un guizzo. Una fiammata. E lei poi avrebbe la pace, mentre a lui non resterebbe nulla. Neppure un pugno di mosche. Quindi no, non le farà questa cortesia. Anzi.
«Allora?», e lei avanza. Verso quel lettino. Fissa il neonato che dorme beato, la pancia all’aria e i pugnetti chiusi. E non le vede le somiglianze. Non le vede, neppure se gridano la verità. Ad alta voce. Ma nessuno ascolta mai chi grida. Non fa comodo. Perché la verità è uno schiaffo a mano aperta in piena guancia. La verità è scomoda. Perché ti costringe a vedere. Molto più piacevole è la parola sussurrata. A mezza bocca. Buttata lì, quasi per caso. Che mette radici profonde come la gramigna. O la calunnia. Perché siamo più disposti ad ascoltare un segreto, una confidenza. Ci fa sentire diversi. Speciali. Unici. E non grida, la confidenza. È un sussurro che si perde nell’aria confortevole della chiacchiera, della confessione. Del pericolo scampato. Spingendoti, invece, nel baratro. E senza che tu nemmeno te ne renda conto.
Lei si sporge oltre il recinto di legno candido e allunga un dito. La punta del suo indice sfrigola di un alone rosato quando si posa sulla fronte del marmocchio. E alle sue spalle, lui sorride.

 

«Ti ha fatto del male?»
Hyoga teneva il suo volto tra le mani come se fosse la cosa più fragile e preziosa dell’intero universo.
«Mi dispiace. Mi dispiace. Non avrei creduto che… che arrivasse a tanto
C’era sincero rammarico nella sua voce. Se avesse potuto, avrebbe resuscitato Andromeda e lo avrebbe ammazzato di nuovo. Sotto i suoi stessi occhi. Ancora e ancora e ancora.
«Non è colpa tua», gli disse. Posandogli una mano sul polso. Quel contatto stava iniziando a darle sui nervi. Era meglio tagliare corto con tutte quelle smancerie. Non avevano molto tempo da sprecare. «Ma adesso dobbiamo andare.»
E dove?, gli chiedeva il suo sguardo. Confuso e smarginato.
«Verrà qualcun altro, quando non lo vedranno tornare», gli spiegò. Quasi canticchiando. Lasciando che la sua coscienza tornasse a dormire sul fondo della sua anima.
«Lasceremo detto al villaggio…»
«Come credi che lui sia arrivato quassù?», gli chiese. Indicando Shun, riverso a terra, la testa rovesciata all’indietro e le catene abbandonate accanto a lui in una veglia silenziosa. «No. Non possiamo fidarci di quella gente, tesoro. È loro alleata, ricordatelo sempre.»
«Allora… allora li abbatterò. Uno dopo l’altro. Sono fatti così. Uno contro uno. Non attaccano mai in massa.»
«No. Non è una soluzione.»
«Ma…»
«Smettila di fare i capricci!»
«Posso difenderti, adesso… Sono forte, adesso. Per favore…»
Un sospiro. Il crepitio del fuoco. Il vento urlava contro le imposte e il tetto.
«Lo so, amor mio. Lo so. Ma tu sei la cosa più preziosa che ho. E non voglio correre rischi inutili. Ce ne andremo via. Torneremo a Mosca. Lì sarà molto più difficile trovarti. E potremo stare insieme. In pace.»
Lui la fissò. Le fiamme che ardevano nel camino mandavano riverberi deliziosi sul suo viso e nei suoi occhi. Chiari. Come ruscelli di montagna.
«Farai quello che ti dico, Hyoga?»
«E lui?», le chiese. «Lo lasciamo qui?»
«No. Va fatto sparire. Che credano pure che si sia perso nella bufera. Meglio non correre rischi.» Hyoga annuì. «Puoi occupartene tu, tesoro? Mamma deve pensare.»

 
La cosa che preferisce di più della Valle dell’Ade è il suo cielo.
A molti fa paura. A lui invece piace. È come uno di quei bei tramonti ruggenti, con le nuvole cariche di ricco porpora, regale oro e fiammante arancione. Quando il cielo sembra prendere fuoco. E a lui piacerebbe appiccare un bell’incendio a quella cupola azzurra che si confonde col mare all’orizzonte. Per vedere di nascosto l’effetto che fa, come direbbe Jannacci.
Lei trema, accanto a lui, una piccola sfera luminosa tra le mani. L’anima.
«Lasciala andare», le dice. E lei esegue. L’anima brilla. Una luce azzurrissima ed intensa. Piena di vita. Ancora per poco.
«Perché non si incammina con le altre, Maestro?», gli chiede lei. Terrorizzata. E questo gli mitiga un po’ le cose.
«Succede sempre così coi bambini», le dice. «Devono capire cosa sia loro successo. C’è da capirli. Un momento sono vivi e l’attimo dopo…
zac
Restano a fissarla, come se fosse una lucciola troppo cresciuta che chiama la sua compagna. Sua madre. Ma sua madre non può sentirlo. Sua madre non ci ha mai sentito da quell’orecchio. Testarda come un mulo. Lo è sempre stata, Michela. Anche quando lui le ha detto di disfarsene.
Diceva che non era suo. Che era di Gerlando. Ed in certo senso era nella casa di Gerlando che quella creaturina era stata concepita. Nel suo letto. Dentro sua moglie. Mentre lui,
povirazzo, tribolava con le reti ed il pescato che non è mai abbastanza,  lei si avvinghiava ad altri fianchi, si sorreggeva ad altre spalle, cercava altre labbra. Pregando. Che un’ondata più furiosa si portasse via barca e pescatore. Lasciandola libera. Ché lei aveva altro, adesso. Un amante bello e forte e fresco. Come la rosa rossa che lui le portava ad ogni incontro. E che finiva nella pattumiera non appena Gerlando attraccava al porticciolo.
Ma poi era successo. Per caso, diceva, in una notte di tempesta ché Gerlando non era uscito per il mare troppo mosso. Ma lui non le ha creduto. La verità è un’altra. Michela si era affezionata a lui. E credeva di poter trovare una soluzione, lei, con quel suo cervello da gallina che si ritrova. Certo, Gerlando non avrebbe sospettato. Di figli che nascono settimini è pieno il mondo. A chi tocca, tocca. E nemmeno il paese avrebbe parlato. Certo, al circolo e nei caffè si sarebbe conversato dell’ennesimo cornuto, finché un altro non fosse apparso all’orizzonte. Additandolo al suo passaggio, quando la domenica la famiglia si sarebbe presentata a messa tirata a lucido.
Lei non gli avrebbe mai chiesto nulla, diceva. Ma un figlio è un figlio. E una mela non cade lontano dall’albero. E se un bel giorno qualcuno si fosse accorto che quella era una pera? E se quel qualcuno fosse stato Saga?
No, meglio non rischiare.
«Maestro….»
«Lascia. Ci penso io», le dice. Avvolgendo quella lucciola azzurra tra le mani. «Torna indietro.»
«Ma…»
Lui si volta ad incrociare il suo sguardo. E mentre la fulmina, lì, sul posto, minacciandola di spedire anche lei oltre il ciglio del burrone, lui si chiede perché le donne siano sempre così testarde. Perché quel fottuto cromosoma X sia così cocciuto e insista. Sempre. Finendo per trovare i guai che tanto cerca.
Lei annuisce. E sparisce, in una nuvola tra il rosa e il viola, lasciandolo da solo. Finalmente. E finalmente lui si incammina, il vento caldo dell’Ade che gli gonfia il mantello alle spalle. Ha indossato la sua armatura. Gli è sembrata una cosa giusta. Un abbigliamento necessario. Per se stesso, ché Michela non l’ha visto e quella lucciola non ha neppure contezza di se stessa, quindi figuriamoci!

Le anime si avvicinano, in file ordinate e silenziose. Un mormorio sommesso, un anelito di speranza per l’ultimo viaggio. Lui sfila accanto a loro. Vivo tra i morti. Percorrendo un sentiero tutto suo. Come una marcia trionfale, mentre quella piccola fiammella brucia, arde, splende. Con tutta la forza che gli è rimasta. Per implorare che i suoi piedi si fermino. Che non la buttino giù. Perché lui vuole vivere. A dispetto di tutto e tutti. Anche suo. Ma lui non è un pincopallino qualsiasi. Lui è suo padre. Ed è per questo che non lo ascolta. Ed è per questo che i suoi piedi non si fermano. Ma avanzano. Perché quando vivi fianco a fianco con la morte sai quanto la vita sia preziosa. Dolce. Come il vino più prelibato. E può dare alla testa. Anche dopo sole poche gocce, com’è successo alla lucciola. A Francesco. Così l’ha chiamato Michela. Come il santo di Assisi. Raccontandosi una bugia, ché quella creatura non sarebbe mai stata un Santo. Perché lui non l’avrebbe mai permesso.

«Ci siamo,
picciriddo», dice. La lucciola brilla impazzita. E lui pensa che Michela s’è sbagliata. Che un essere così testardo non può che essere femmina. Perché adesso vuole che vada via. Adesso che i suoi piedi si sono fermati sul ciglio del burrone ed i suoi occhi stanno scrutando giù. Nell’abisso.
«Non fa male, sai?», gli dice. Mentendo. Perché lui non ha la più pallida idea se faccia male, oppure no. Perché nessuno è mai tornato indietro per raccontare com’è. Cosa si prova. E i mormorii disperati delle anime che si gettano nel pozzo, uno dopo l’altro, non aiutano la piccola lucciola a smorzare la sua aura. Anzi, brilla. Ancora più forte. Colla disperazione più cupa e nera. E lui teme che qualcosa possa risvegliarsi in quell’anima al capolinea. Il Cosmo. E allora sì che sarebbero cazzi. Perché potrebbe sgusciargli via dalle mani. Come un palloncino che s’invola verso il cielo, infischiandosene del bambino che strilla, laggiù, col naso all’insù e i pugni spalancati. Quindi si deve spicciare. Deve fare presto. Deve fare alla svelta. Prima che quell’anima cocciuta se ne torni da dove è venuta.

Non mormora un «mi dispiace» di circostanza. Si guarda intorno. Per vedere se Quell’Altra l’ha seguito. Se qualcuno lo stia osservando. Perché Michela è una madre, e una madre sarebbe capace di infilarsi lì sotto pur di riprendersi la sua creatura. Ma Michela non c’è. Ma Quell’Altra non c’è. Sono soli. Lui e suo figlio. Che brilla disperato. Cercando di muoverlo a pietà. Senza sapere che è proprio quello che suo padre vuole. Sentirsi onnipotente, mentre qualcuno lo supplica di risparmiarlo. Perché in quel momento lui è arbitro della vita e della morte degli esseri umani. Ed è la sua droga. Quella che lo spinge, lo pressa e lo costringe ad accumulare testa sulle pareti della sua casa. Come fossero trofei di caccia. I suoi.
Ma questo la lucciola non può saperlo. Né mai lo saprà. Perché ogni bel gioco dura poco. Poi stanca. E quelle preci luminose stanno iniziando ad innervosirlo, come le luminarie di Natale, quelle ad intermittenza che inquinano le sere di Dicembre. E che lo costringono a chiudere gli occhi. O a dischiudere le mani. Facendo scivolare via quella lucciola, come fosse un fiocco di neve che scende nel buio della notte di Dicembre, quando l’anno cambia nome, cambia pelle ma tutto resta sostanzialmente uguale.

E la lucciola cade. Brillando disperata, senza trovare la forza di sollevarsi e di tornare indietro. Verso la luce. Verso la vita.
Forse, dopo tutto, quel figlio era di Gerlando, e non suo. Perché suo figlio, la strada verso la luce l’avrebbe trovata. Anche a costo di fare a pezzi suo padre.
Lui si stringe nelle spalle. Gira sui tacchi e torna indietro. Scendendo canticchiando per la collina, il respiro caldo dell’Ade che gli gonfia il mantello e gli accarezza i capelli.

 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:
Di giovedì, come gli gnocchi al sugo. Ma anche quelli con burro e salvia hanno il loro perché, sapete?

Nico è... era il cantante del gruppo beat I gabbiani, nonché interprete della sigla finale dello sceneggiato Il Segno del Comando, Cento Campane, canzone conosciuta dal refrain come Din Don. Ha avuto un secondo momento di furore negli anni '80, incidendo Amarsi, canzone usata come sigla di Sentieri, teleromanzo - come si diceva all'epoca - trasmesso nel primissimo pomeriggio. Se siete incuriositi, trovate Cento Campane qui (ma da romana vi suggerisco l'interpretazione di Lando Fiorini. Almeno non ammazza il dialetto) e Amarsi qui. A vostro rischio e pericolo.

La vicenda di Michela e Gerlando è liberamente ispirata alla canzone Pescatore di Pierangelo Bertoli (con Fiorella Mannoia). Capitolo canterino, questo, mentre Andromeda passa un bruttissimo quarto d'ora.

Death Mask mi ha preso la mano portandomi a passeggio per la Valle dell'Ade (che mi piacerà sempre più di Yomitsu Hirasaka). E io gliel'ho lasciato fare. Spero non vi dispiaccia.

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Capitolo 11
*** 11. ***


11.

 

 
Il vento soffiava rabbioso, sferzando il tetto dell’izbà sperduta nel bianco più accecante, ma la donna al suo interno non sembrava curarsene. Le mani tese davanti al focolare e i piedi gelati, dava le spalle alla porta, le sopracciglia corrugate.
La situazione si va complicando, pensava. Cercando nelle fiamme guizzanti una risposta. Un’indicazione. Un suggerimento. Cosa fare. Cosa non fare. Oramai aveva quasi finito i frutti di Idunn. L’unica soluzione praticabile era tornare indietro. Andare lontano. E nascondersi. Dove loro non li avrebbero trovati. Dove non li avrebbero cercati. Doveva non lasciare tracce. Lukas non ne sarebbe stato contento, no, ma era Lukas lo stratega, e Lukas avrebbe anche potuto prevedere una simile eventualità. Pensarci. E magari, se lui mi avesse dato l’ordine prima, adesso non mi troverei in questa situazione, pensava.
Avrebbe dovuto eliminarlo subito. Appena conquistata la sua fiducia. Affogarlo. Tenendogli la testa sott’acqua. Oppure nel sonno. Un cuscino premuto sul viso e via. Ma Lukas era stato chiaro. «Aspetta nuovi ordini, Lorelei.» E Lorelei aveva aspettato. Finendo per fare da balia a quel moccioso. Finendo per ritrovarsi in trappola. Col fiato dei cani di Athena sul collo.
Al diavolo, pensò. Sarebbero partiti subito. L’avrebbe fatto sparire strada facendo. Qualora la situazione si fosse fatta impraticabile. Lukas se ne sarebbe fatto una ragione. Devi lasciare andare la zavorra se non vuoi schiantarti contro le montagne, giusto? E le ali del Cigno erano spezzate, oramai. Non avrebbero più potuto sollevarlo. E sostenerlo nel suo volo verso casa.
Nemmeno è buono per il brodo, si disse Lorelei massaggiandosi le tempie. Era stanca. Il fuoco non le parlava più. Si limitava a scoppiettare annoiato nel ventre del camino, un filo di fumo che usciva dal comignolo. Anche quello era rischioso. E se Andromeda non avesse fatto quel viaggio da solo? E se là fuori ci fosse stato qualcuno che stava aspettando solo una sua mossa falsa – che lei abbassasse la guardia, ad esempio – per calarle addosso e spezzarle l’osso del collo? No. Doveva spengere quel fuoco, e doveva farlo subito. Anche se quelle fiamme le erano di conforto. Anche se quelle fiamme erano il simulacro del suo Signore. Anche se la loro vista serviva a infonderle coraggio. E la convinzione che sì, ce l’avrebbe fatta. Perché il suo Signore vegliava su di lei.
Di malavoglia, Lorelei tolse un ceppo dal fuoco e lo posò lontano dalle fiamme. E uno. Afferrò un altro pezzo con l’attizzatoio quando bussarono alla porta. Doveva essere Hyoga. Aveva fatto presto. Era uscito portandosi Andromeda in spalle, come un sacco di farina, nemmeno mezzora prima.
«Lo seppellisco dietro casa», aveva detto. Nemmeno stesse parlando del gatto, o del canarino, ma a lei andava bene così. La neve avrebbe conservato il cadavere e avrebbe confuso i loro inseguitori sui tempi. Concedendo loro un po’ di vantaggio. Qualche giorno appena, se fossero stati fortunati.
Bussarono ancora e Lorelei abbandonò il ciocco al suo destino e andò ad aprire, l’attizzatoio in mano. Bussarono con più forza e lei si chiese cosa stesse succedendo là fuori.
Perché era così scosso? Possibile che li avessero già trovati?
No. Avrei sentito il rumore della battaglia, si rispose.
Possibile che la vista di Andromeda lo stesse risvegliando dal torpore in cui lei lo teneva?
Canterò quella canzone, allora, si disse. Spalancando la porta. Le fiamme guizzarono verso l’alto, sdegnate, ma Lorelei non le vide. Lorelei finì riversa al suolo, la schiena sul pavimento e un rivolo di sangue fece capolino dall’angolo delle labbra. L’attizzatoio le sfuggì di mano ed uscì da questa storia finendo sotto un canterano, nell’angolo più lontano della stanza.
Una figura intabarrata entrò, chiudendosi la porta alle spalle. Avanzò di un paio di passi, sovrastandola, le braccia lungo il corpo.
«Dov’è?», chiese, la voce attutita da una sciarpa.
«Dov’è, chi?», chiese Lorelei di rimando. Arretrando sul pavimento. Alzandosi in piedi. E digrignando i denti.
Allora era vero. Allora Andromeda non era venuto da solo, lassù. Aveva lasciato qualcuno di guardia a Kohbotek. Qualcuno che aveva seguito i suoi passi quando non l’aveva visto tornare. Doveva essere stata Maša ad avvisarli. Quella maledetta impicciona. Ucciderle i cani non era bastato. Avrebbe dovuto radere al suolo l’intero villaggio, e invece no. Lukas diceva sempre che la gente terrorizzata è più utile di quella morta. Che la gente impaurita è qualcuno che ha trovato una motivazione sufficiente per ingoiare la dignità e fare quanto richiesto. Dannazione, pensò. Pulendosi il rivolo di sangue sul dorso della mano. Pazienza. Si sarebbe liberata di quest’altro seccatore e poi avrebbero fatto una puntatina al villaggio. Per prendere le provviste per il viaggio. E radere al suolo quella manciata di casupole che si tenevano assieme per scommessa e fede. E quello che solleticava Lorelei era che ci avrebbe pensato Hyoga. Ridendo. Cercando il suo sorrido, con quello sguardo luccicante e terribile che solo i bambini hanno. Quando giocano. Quando ridono. Quando guardano la loro adorata mammina.
«Il Santo del Cigno», ripeté la voce. Una voce di donna. Ma senza il filtro metallico della maschera. «Dov’è?»
«Non ti riguarda.»
«Sì, che mi riguarda», disse la donna allentando la sciarpa davanti al viso. Una voce di ragazza. Della stessa età del Cigno. Forse. O forse no. «Lui è roba mia.»

 
L’orso polare lo osserva stanco. Svogliato. Nel cuore ha le distese ghiacciate in cui è nato. Dove l’orizzonte non esiste. Dove il mondo è diviso in due. Liquido e solido. Bianco e nero, come il naso che si copre quando caccia. Per evitare che le foche lo vedano, in quel mare candido, e si diano alla fuga. E lui resti a bocca asciutta.

L’orso polare se ne resta ammollo, aspettando la carità di qualche sardina di straforo. Ma lui ha già finito tutte le sardine. Ne porta sempre poche. Perché i guardiani lo conoscono, ormai. E lo controllano. E gli chiedono cosa ci sia nel suo sacchetto. Noccioline per le scimmie? Mele per gli ippopotami? Zuccherini per le zebre? E non lo sa che non si devono nutrire gli animali? Così lui porta poche sardine. Che se è fortunato e ai cancelli trova la ragazza coi capelli sempre legati, può farle gli occhi dolci. E sperare che conceda uno strappo alla regola, a lui e all’orso.

L’orso polare lo guarda. Come a chiedergli cosa ci sia di così interessante da guardare. Se si senta fiero nell’osservare la sua condizione miserabile. Così quello che lui può fare è guardarsi intorno. E abbassarsi. E protendere una mano verso l’acqua. È troppo calda per l’orso polare. Di almeno cinque o sei gradi. Così espande il suo Cosmo. Freddo. Intenso. E l’acqua risponde. E l’orso lo sente. Lo sguardo cambia. E si tuffa. E diventa un piacere immergersi. Ritrovare il clima di casa. Anche se casa è lontano e questo stato di grazia durerà per poco.

L’orso polare riemerge con la testa e le orecchie. Orecchie piccole, piccole e tonde e occhi grandi. E scuri. E profondi. Che lo ringraziano. Per quel piccolo miracolo imprevisto.
«Dovere», mormora lui. In russo. Ché tanto gli animali non sono come i cristiani. Parlano tutti lo stesso linguaggio universale, senza perdersi nell’intricato mondo delle lingue e dei dialetti.

E l’orso scompare sotto il pelo dell’acqua e lui si allontana dalla ringhiera. Non c’è nessuno a quell’ora calda del giorno. Sono tutti a godersi il fresco nei caffè. O sulle spiagge, a rincorrere una tintarella che detesteranno appena rientrati in città. E anche lui vorrebbe un angolino d’ombra. Dove sedersi a riposare. E a pensare. A tutto e a niente. E sentirsi straniero in una terra straniera. Per sfuggire alla gentilezza di Shun. Che ha capito tutto. Le sue ferite e le sue verità. Le sue debolezze, nascoste dietro un velo di ghiaccio, spesso abbastanza da scoraggiare eventuali seccatori, ma non a sufficienza da nascondere le sue cicatrici a chi voglia fermarsi ad osservare quell’acqua congelata.

C’è una panchina, di marmo bianco, sotto un salice. Il posto perfetto per due innamorati. O per chi vuole starsene da solo. E magari approfittare delle fronde cadenti per sdraiarsi sul marmo e schiacciare un pisolino. Venti minuti appena. Quanto basta per alleviare la solitudine ed ammazzare il tempo, senza che lui ammazzi te.
Ma Hyoga non sa che non raggiungerà mai quella panchina. Il suo posto speciale. Come se quella panchina e quel salice appartenessero a lui e a nessun altro, né prima, né dopo. Non ci arriverà perché una ragazza inciampa tra lui e la sua strada. Una ragazza dai capelli lunghi. E biondi. Con un sacchetto di carta tra le braccia. E l’aria stupita di chi si chiede come mai la terra si stia avvicinando al proprio viso così velocemente. E senza preavviso.
Hyoga scatta. Ed afferra la ragazza per le braccia, impedendole di cadere. E di spalmare il suo bel musetto sul lastricato infuocato dal sole.
«Va tutto bene?», le chiede. Rimettendola in piedi. Come se fosse una bambola di carta.
Lei annuisce. Spaesata. Come se si fosse svegliata adesso da un lungo sonno ad occhi aperti. O se qualcuno le avesse piombato le ali, obbligandola a guardare per terra.
«Devo avere inciampato in qualcosa…», dice. Guardandosi intorno, alla ricerca della radice che spunta dal terreno. O del mattonato sconnesso che le ha tirato quel brutto scherzo. Ma la pavimentazione è perfetta. Liscia. Come se l’avessero appena stesa e tirato via il foglio di plastica. «Le mie mele!»

Il sacchetto è a terra. Hyoga glielo raccoglie, assieme alle due mele che sono rotolate fuori dalla carta scura.
«Eccolo.» Glielo porge. «Volevi darle agli ippopotami?»
Lei lo guarda come se l’avesse colta in castagna. «No… io…», balbetta. Scuotendo la testa con troppo vigore.
Lui si porta un dito davanti alle labbra e le fa l’occhiolino. «Tranquilla. Manterrò il segreto», le dice. E si allontana, salutandola con un cenno della mano. Quando la sua voce lo ferma, la gamba a mezz’aria. Hyoga posa il piede a terra e si volta.
«Aspetta», ripete lei, mentre le sue mani frugano nella busta di carta. «Tieni», gli dice. Porgendogli una mela. La buccia di un lucido verde brillante. Il picciolo marrone scuro. «Per ringraziarti. Non è caduta. E sono già lavate. Non vorrei che agli ippopotami venisse il mal di pancia…»
«Allora avevo ragione…»
Lei arrossisce. «Tieni», gli dice. Allungando quella mela verso di lui. Che ride. E la afferra. E le dice: «Grazie!», prima di andarsene per la propria strada, una mano in tasca e nell’altra una mela appetitosa che non chiede altro che essere morsa. E scrocchiare acidula contro la lingua e il palato.

 

«Cosa sta succedendo qui?»
Hyoga era apparso all’improvviso, assieme ad un freddo refolo di vento. Le stava fissando dalla soglia, una cappa gettata senza cura sulle spalle, e mai come in quel momento Lorelei fu felice di vedere il suo viso.
«Scappa, Tesoro mio! Scappa, mio amato ometto!», gli gridò in russo, gli occhi smarginati dal terrore, una nenia congelata in gola, pronta a prendere corpo per spedire quell’ospite inattesa e il suo prigioniero all’inferno. Si sarebbero ammazzati a vicenda e lei sarebbe stata libera di andarsene da quella landa desolata una volta per tutte.
«Maledetta!», gridò Hyoga, lanciandosi contro la donna che teneva Lorelei sollevata da terra, la presa ben salda sullo scollo della maglia. L’intrusa lasciò andare Lorelei come se fosse stato uno straccio sporco e si voltò verso di lui. Hyoga registrò un sopracciglio sollevarsi perplesso. Come faceva qualcuno di sua conoscenza quando non capiva cosa stesse passando nella testa dei suoi allievi. Quel gesto… io lo conosco. Questo pensiero rallentò di un battito il ritmo dei suoi piedi ed il suo slancio. E il nemico ne approfittò. Fece perno sulla caviglia destra e se lo sfilò di dosso. Come un matador nell’arena.
«Sei tu il Cigno?», gli chiese, le braccia lungo i fianchi. Come per essere sicura di non sbagliare persona.
Hyoga ringhiò. Lorelei si rialzò, traballante.
«Scappa, amore mio!», ripeté, ma stavolta la voce dolorante non era una farsa.
Hyoga le si parò davanti, le mani basse e l’aria truce.
«Sei tu, sì o no?»
«Attacca! Attaccala!», gridò Lorelei aizzandolo, al colmo della disperazione, prima di intonare una melodia a bassa voce.
Hyoga scattò, come un pupazzo caricato a molla, le punte delle dita ingemmate da un velo di ghiaccio sottile.
La donna sorrise. Attese che Hyoga le fu vicino abbastanza e allungò un dito. Uno solo. C’era un alone sulla punta. Rosa e viola allo stesso tempo. La donna toccò Hyoga sulla fronte e le gambe del ragazzo si fecero di burro, come fosse diventato all’improvviso una bambola di stracci. Lei lo sorresse per le braccia, accompagnando il movimento del corpo, gli posò le mani sulla schiena e lo depose sul pavimento in posizione fetale.
«Dove eravamo rimaste, mia cara?»


Suo padre è irremovibile. «Devi partire», gli dice, ma a Lukas di lasciare il trono vacante non va. Perché lasciare il trono vacante significa che Asgard potrebbe reclamarlo alla morte di suo padre.
Allora, tanto vale cederlo subito, no?
No, Lukas non vuole partire. Lukas sa che c’è un’altra via. Che >deve esserci. Anche a costo di macchiarsi di omicidio.

Omicidio?

Gli tremano i polsi. Lo stomaco è ghiacciato. La vista annebbiata. E deve sedersi. Perché le orecchie ronzano. Ronzano mentre suo padre alza la voce. E gli grida contro che se è davvero un uomo allora dovrà trovare la forza, il coraggio, le palle di fare quello che va fatto. Partire. Servire quei cani rognosi. Per il bene del regno. Dei sudditi. Della famiglia.

Parricidio.

Suo padre grida. Grida, rosso in viso, lo sguardo ora alle sue mani, ora alla faccia. E lui non vuole starlo a sentire. Perché quello che lui gli sta proponendo è assurdo. Insensato.
«Non avete ancora trovato Yngve?», gli chiede. Alzando lo sguardo sul vecchio genitore. Per la prima volta Lukas vede quanto suo padre si sia incanutito. Quanto le sue spalle si siano fatte fragili. I capelli chiari spruzzati di cenere grigia. Le vene bluastre sotto gli occhi, cerchiati dal pianto e dalle preoccupazioni. Quanto potrà resistere suo padre prima che Asgard invii un sicario ad affondare la lama nel suo cuore? Un mese? Due? Sempre se il sicario non è già a palazzo. E non si sta nascondendo in mezzo a loro. Aspettando da chissà quanto tempo l’occasione propizia per agire. Ed annettere domini asgardiani quello sperduto reame da fiaba.


Regicidio.

«Yngve? Il diavolo se lo porti, lui e sua madre!», sbotta il vecchio genitore. «Se avessi trovato quel bastardo avrei spedito lui al posto di Torsten, tu cosa dici?!»
Uno in meno pensa Lukas. Attendendo il momento propizio. Al diavolo. Se qualcuno dovrà pensarci sarà lui. Lui e nessun altro.
«Rassegnati. Potrò guadagnare un po’ di tempo. Una manciata di giorni per il lutto, nulla di più. Goditela, finché puoi. Fotti fino a scoppiare. Ingravida una qualche serva, non mi importa. Lascia un erede a questo paese.»
«Cosicché dovrà partire lui quando accopperanno me?»
«Non essere sciocco! Abbiamo bisogno di tempo. E tuo figlio ce lo darà. A me per battere a tappeto tutta la Svezia e stanare quel bastardo dal buco in cui s’è nascosto. E a te per rinegoziare il trattato. Per dare a noi l’occasione di studiare bene quel maledetto pezzo di carta. E trovare una scappatoia. E adesso va’. Va’ e datti da fare, se sei un uomo!»
«Ho un’idea migliore», dice Lukas. Arrivandogli alle spalle. Cingendogli il collo con le mani. E stringendo, stringendo, stringendo le dita e le palpebre con tutta la disperazione che ha in corpo. Per non vedere sulla parete l’ombra di suo padre piegarsi all’indietro, allungare le mani verso il suo viso e cercare di respirare. Nonostante tutto.
Lukas chiude le orecchie. Concentrandosi sul crepitare allegro e schioppettate del fuoco nel camino – che gli sembra quasi ridere, come un bambino davanti ad uno spettacolo di marionette - per non sentire il suono strozzato di suo padre che sviene tra le sue dita. Il corpo si accascia sul pavimento. È solo svenuto. E questo è un bene. Un omicidio gli avrebbe fatto perdere il trono, ma un suicidio… un suicidio è un’altra cosa. Un suicidio non è una sua responsabilità. È colpa di suo padre, non sua. Così Lukas si avvicina alla finestra che si affaccia sul fossato. La spalanca. Ci sono delle rocce, che si aggrappano alle mura del castello come cozze affastellate sugli scogli. Studia la prospettiva migliore e assaggia la direzione del vento alzando un dito al cielo. Poi torna da suo padre. Il volo sulle rocce coprirà i segni delle sue dita sul collo
.

Meglio così. Meglio così.

Lukas solleva il corpo del vecchio re e lo trascina alla finestra. Lo fa sporgere oltre al davanzale di porfido scuro e prende fiato. Il cuore romba impazzito. Il sudore gli imperla la fronte. Quanto diamine è ingrassato, suo padre? Poi gli afferra le gambe e prende ancora fiato. Gli tremano le mani.

No. Non adesso. Non adesso, perdio!

Poi, qualcosa accade. L’aria cambia. Lukas cambia. E poi, un’ultima spinta e il corpo del sovrano cade nel vuoto. Con un plonf finale di carne maciullata. A Lukas resta una scarpa nelle mani, mentre i gabbiani stridono e il vento gli scompiglia i capelli. La lascia sul davanzale. Poi getta di sotto anche quella. Si guarda intorno. A caccia di qualsiasi segno di colluttazione. Non ce ne sono. Liscia la guida di velluto rosso su cui ha trascinato il corpo del vecchio re e si affaccia. Sgomento. Tirando fuori lo sguardo più incredulo del proprio repertorio. Si asciuga il sudore dalla fronte. Si pettina i capelli osservandosi sui vetri. Poi prende fiato e corre fuori dalla stanza. Gridando. Chiamando aiuto. Con tutto il fiato che ha in gola.

 
Il cielo era color melanzana. E grigio. E rosso vermiglio. I colori di una colonna di fumo, pensò Shun sbattendo le palpebre. Gli girava la testa. Gli faceva male il collo. La gola bruciava. Avrò dormito un’altra volta con la bocca aperta, si disse, la testa che doleva. Sì, doveva essersi preso un bel raffreddore per essersi addormentato a guardare le stelle, con June accanto. Ma poi ricordò. La Siberia. Marin. Hyoga. E le mani del Cigno. Che si stringevano attorno al suo collo. Shun si portò le mani alla gola per istinto. Era indolenzita. Faceva fatica a deglutire. E un intenso brivido gli increspò la pelle. Si mise a sedere e si guardò attorno.

Dove diamine sono finito?, pensò. Sembrava che qualcuno si fosse divertito ad appiccare un incendio al cielo. Era seduto su della sabbia nerissima. Di quella composta da ciottoli neri. Sabbia di residui vulcanici?, si chiese, saggiandone la grana irregolare tra le dita. Era fredda e spigolosa al tatto. E soffiava un vento caldo. Caldo e intenso, ma non c’era odore di bruciato nell’aria. Shun ne tracciò la provenienza. Arrivava da quella sorta di montagna in lontananza. Assomigliava al cratere di un vulcano, o, in alternativa, ad un grosso termitaio. C’erano dei filari che s’arrampicavano lungo i fianchi della montagna. Cipressi, forse. O qualche altro tipo di strana vegetazione. L’incendio doveva essere oltre quel crinale, allora. Ma poi Shun si accorse di un particolare. I filari si muovevano. Quelli non erano alberi. Erano delle persone. File e file di persone che avanzavano verso quell’altura, grigia e massiccia e imponente, e dopo poco anche i piedi di Shun si sentirono come guidati in quella direzione.

Che posto è questo?, si chiese, avanzando piano piano, un piede leva e l’altro metti. La catena accanto a lui sembrava morta. La scosse, facendola tintinnare nel vento, ma nulla più, come se lo spirito che animava le sue armi avesse raggiunto la più completa atarassia. E poi ricordò.
Avevano avuto modo di parlare delle loro esperienze, alla fine delle battaglie. E Shiryu aveva raccontato loro di essersi trovato nella Valle dell’Ade dopo aver ricevuto il colpo di Death Mask. Il Dragone l’aveva descritto come un paesaggio atroce. Con fuochi fatui che galleggiavano tutt’attorno e un cielo dal colore innaturale. «E la disperazione… Talmente profonda e talmente radicata fin nelle rocce che non potevi non abbatterti anche tu, una volta finito lì sotto», aveva aggiunto Shiryu. Guardando qualcosa all’orizzonte, un puntolino lontano, forse la vela di una barca che si gonfiava nel vento, pronta a rientrare in porto.

E adesso che faccio?, si chiese. La Catena non rispondeva ed era quindi impossibile provare ad usarla per tracciare la rotta da seguire. Ma anche ammesso che la Catena avesse funzionato, come sarebbe tornato indietro? Camminando?
Shun si sentì perso. Abbandonato. Come se una forza soverchiante lo stesse schiacciando. Quando Cefeo l’aveva legato allo scoglio per la prova finale, il mare gli aveva fatto assaggiare le sue onde potenti, vigorose, impetuose. Ma allora era stata questione di un attimo, un momento in cui i marosi avevano sommerso lo scoglio e la vittima sacrificale con lui. Un’azione decisa e forte, mentre adesso… adesso era come se qualcosa, o qualcuno, gli stesse sussurrando all’orecchio che era inutile. Che tanto valeva lasciar perdere e accodarsi agli altri. Che non c’era speranza. Ed era questo ad atterrire Shun e a congelargli il fiato in gola.

Ma poi lo vide. In un attimo. Sfilò accanto a lui, qualche passo più in basso, in fila, tra un uomo ed una bambina. Hyoga. Che ci sta facendo qui?, si chiese, prima di seguirlo. Di mettersi a correre a perdifiato. Per raggiungere Hyoga. E trascinarlo indietro, anche di peso, se necessario. E trovare una soluzione. In due l’avrebbero pur escogitato un sistema per tornare indietro, no?
Ma Shun mosse pochi passi quando qualcosa lo agguantò per un polso. Si voltò. E vide una ragazza accanto a lui. Era giovane. Della loro stessa età. O forse qualcosa in meno. Una gran massa di capelli rossi. Gli occhi verdi. E un’armatura d’Oro che brillava in tutta quella disperazione.
«E tu che ci fai qui?»




Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:

Happy Birthday, Hyoga!!
E siccome sono una persona buona, gli ho regalato un giro nella Valle dell'Ade. Con amici come me non s'abbisogna di nemici, vero?

Le mele di Idunn erano i frutti che la dea Idunn, moglie di Bragi, dio della poesia, offriva agli Aesir ogni giorno affinché se ne cibassero e non invecchiassero mai.

Lorelei è un personaggio della mitologia germanica. Era un'ondina che abitava lungo il Reno, e con la sua voce soave e il suo bellissimo aspetto attirava i marinai a sfracellarsi contro il suo scoglio. Ad essere oneste, esiste un personaggio dei fumetti di casa Marvel che si chiama Lorelei, ed è la sorella di Amora, l'Incantatrice - che prende il ruolo di Idunn dando dalle sue manine le mele agli asgardiani. Visto che in origine questa storia era un blando cross-over con la Asgard della Casa delle Idee Altrui - corsivi miei - sono sicura che chiuderete un occhio, nevvero?

Alla prossima settimana!

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Capitolo 12
*** 12. ***


12.

 

 

 

Le guglie della chiesa di Saint Jean-Baptiste si stagliano aguzze contro il cielo come a voler punzecchiare le chiappe delle nuvole. Nuvole grigie, livide e cariche di pioggia che si ammassano minacciose sui tetti e non hanno alcuna intenzione di passare oltre e regalare a Belleville una giornata soleggiata. Anzi.
Rémy ha altri pensieri in testa, stamattina, molto più cupi e neri e pesanti delle nuvole o del cielo d’acciaio. Sfila davanti alla chiesa – il segno della croce che parte in automatico – e svolta poco più avanti, per una stradina stretta e tortuosa. La percorre in silenzio, mentre la città si deve ancora svegliare, le mani nelle tasche, un berretto in testa ed il bavero del cappotto sollevato. Maman Louise è già alla finestra, collo scialle sulle spalle e il suo sorriso sdentato. E il bocchino di bachelite grigia stretto tra le dita.
«Ti stavo aspettando!», gli dice – gli grida – la voce grassa di fumo che rimbalza sulle facciate dei palazzi e i fiori esposti in cerca di un raggio di sole. «Sali, la colazione è pronta.»
Rémy imbocca il portone di legno verde scuro ed entra. Attraversa il cortile deserto. Un soriano incrocia la sua strada, la coda ritta a pennacchio. Salgono assieme le scale di marmo scivoloso, si fermano al secondo piano e Rémy suona il campanello, mentre il gatto gli si struscia sul fondo dei calzoni.
«Entra, ragazzo», gli dice maman Louise in una cacofonia di pendagli che le tintinnano dai polsi. Lo precede in cucina ciabattando, avvolta nella sua vestaglia a fiori che sembra quasi il tendone di un circo. Rémy si chiude la porta alle spalle e la segue. Il gatto gli trotterella accanto e poi va ad infilarsi nella cesta dei giornali, accanto alla stufa.
«Croissant, caffè, burro, latte caldo e zucchero», dice maman Louise, indicandoglieli uno per uno sul tavolo, sopra una tovaglia azzurra che ha visto tempi migliori. «Dovrebbe esserci anche del pane nel sacchetto. Niente crêpe. Ho dimenticato di comprare le uova. Che testa, eh? Dai, che si raffredda. Siediti e mangia, su!»
«Maman…»
«
Zut zut», dice la donna. Scacciando le rimostranze di Rémy assieme ad uno nuvola di fumo. «Maman Louise sa sempre tutto, ricordi?»
«Ho lo stomaco chiuso, maman…»
«Mangia, Rémy. Mangia.» Gli indica la sedia. Lei si rimette alla finestra, e se non avesse un età indefinibile, Rémy la paragonerebbe a Raperonzolo che sta per calare le trecce al suo principe. Una Raperonzolo in sovrappeso, grandi cerchi d’oro alle orecchie e qualche spruzzata di nero nella chioma grigia. «Parleremo dopo. A pancia piena il mondo appare meno triste.»
E Rémy ubbidisce. Scosta la sedia, si accomoda e afferra un croissant ancora caldo. «Buon appetito», mormora. Scoprendo che il suo stomaco no, non è poi così chiuso come credeva fosse.
Alla finestra, maman Louise fuma la sua sigaretta osservando le case di Belleville sbadigliare e stropicciarsi gli occhi assonnati.

 

«Io non vengo»
La voce di acciaio inossidabile, lo sguardo che non ammetteva repliche, Ikki aveva detto quelle tre parole fermo al centro della stanza. Saori non era riuscita a guardarlo in viso. Non ce l’aveva fatta. Aveva sentito anche lei la fiamma vitale di Shun svanire, spegnendosi a poco a poco come la candela abbandonata a se stessa. E aveva temuto il peggio.
«Non andare da solo, almeno», riuscì a dire – ad implorare? – al Santo della Fenice. «Non voglio…», perdere anche te, ma la voce di Athena le suggerì di non dare fiato e corpo a quel pensiero. Il cosmo di Shun era sparito, ma questo non significava che fosse per forza caduto, giusto?

C’è sempre speranza, Saori, le ricordò la voce di Athena, sussurrandole nel cuore sibillina e melliflua. Dovresti saperlo meglio di chiunque altro.

«No, vado da solo», replicò Ikki. «Gli altri mi rallenterebbero.»
«Non mi sembra prudente», e lo sguardo della Fenice divenne incendio liquido. Lo Scorpione non vi badò. «Se dovesse succedere qualcosa anche a te?»
«A me?!», replicò Ikki a muso duro, ma Milo non perse il suo aplomb.
«A te, sì.» Lo Scorpione piegò la testa da un lato. «Poi che faremmo? Manderemmo un altro Santo, e poi un altro e poi un altro ancora, fino a finirli tutti?»
«Vengo io con te», e Shiryu avanzò di un passo.
«Ha ragione Milo. In due vi coprirete le spalle a vicenda. Non ci hai pensato?», gli chiese Seiya.
Sì, Ikki sapeva che era più prudente avere dei rinforzi, ma non voleva mettere nessun altro nei guai. Hyoga era sparito. Shun era sparito. E ad Ikki tremavano i polsi alla sola idea che un altro dei suoi fratelli potesse essere inghiottito dal nulla. C’era qualcosa, lassù. Qualcosa di poco chiaro stava accadendo in Siberia ed il suo sesto senso gli gridava che non era nulla di piacevole. Affatto. Ma Ikki sentiva che era sua precisa responsabilità risolvere la questione. Qualunque essa fosse. E doveva farlo contando sulle sue sole forze. Non è così che agiscono i fratelli maggiori?
«Non dirmi che la Fenice è così orgogliosa da non ammettere di aver bisogno di una mano…»
Gemini aveva parlato fissandosi le unghie. Accanto a lei, Jabu trasalì. E la guardò con la coda dell’occhio, pronto ad intercettare Ikki. Nella mente dell’Unicorno, Ikki si sarebbe lanciato contro di lei con la stessa foga e la stessa velocità di una locomotiva impazzita. E una rissa era l’ultima cosa di cui avessero bisogno.
Ikki reagì.
«Cosa hai detto?!», le chiese, a muso duro, il tono di voce del vulcano che sta per scagliare le sue ceneri e i suoi lapilli verso il cielo.
«Non dirmi che la Fenice…»
«Basta così!»
Saori – Athena – zittì entrambi, lo sguardo severo della madre che riprende i suoi figli per l’ultima volta prima di passare ai fatti. «Idra, Lupo. Accompagnerete la Fenice nella sua missione di recupero. Gli altri verranno con me al Santuario.»
Ikki fece per replicare, per spiegare le sue ragioni quando Tatsumi bussò alla porta e si affacciò nella stanza.
«Volevo avvertirla che il jet è pronto al decollo, signorina.»
«C’è stato un cambio di programma, Tatsumi», rispose Saori continuando a fissare ora Ikki ora Gemini. «Abbiamo bisogno di un altro jet.»

La luce delle candele balugina sul volto di maman Louise. Rémy si chiede da quanto tempo sapesse del suo arrivo. E se la preoccupazione che intravede nella ragnatela di rughe che le circonda gli occhi abbia qualcosa a che fare con la sua situazione. Coi suoi crucci.
«Non sei il centro del mondo, bambino mio», gli dice la donna mescolando il mazzo dei tarocchi. «E se ti stai chiedendo cosa ne so, ce l’hai scritto in faccia, tesoro. Adesso, vuoi fare un bel respiro profondo e lasciar uscire tutta quella merda che hai nel cuore?»
Rémy storna lo sguardo. Incrocia la fotografia di Coralie, la sorella di maman Louise, uno di quei formati boudoir in voga agli inizi del secolo. Era bella, Coralie. In quella foto ha vent’anni, l’aria spensierata di chi ha tutta la vita davanti ed un mazzetto di verbene sulla spalla. Ed una posa un po’ leziosa, a dirla tutta, ma Rémy non ci bada. Non chiede a maman da quanto tempo è che non si sentono. Per non deconcentrarla, certo. E perché Rémy ha bisogno che uno dei due sia lucido, in questo momento. E non è lui quello che posa le carte sul tavolo e ordina: «Taglia. Con la mano sinistra. E niente gambe incrociate.».
Rémy ubbidisce.
Maman Louise riprende il mazzo e volta le carte una ad una, disponendole a croce davanti a sé.
«Non mi chiedi…»
«No», risponde lei. Secca. «Prima vediamo le cose serie, e poi le stronzate.»
Posa il mazzo ed osserva le dieci carte davanti a sé. Increspa le labbra, il rossetto rosso scuro onnipresente, e tambureggia con le unghie sul tavolo.
«La Torre. È incazzata, bambino mio. Tu hai fatto il tuo dovere. E lei lo sa.»
«Favoloso!», ribatte Rèmy, dando una manata sul tavolo. La fiamma delle candele traballa. Maman Louise gli lancia un’occhiataccia. «E allora me lo dici perché se n’è andata?!»
«Perché? Tesoro mio, non dirmi che hai fatto tutta questa strada solo per capire una cosa così ovvia!» Maman Louise posa un gomito sulla tovaglia rosso scuro. I pendagli ai suoi polsi tintinnano. «È incazzata, Rémy…»
«Questo lo so!»
«… e c’è una profonda differenza tra sapere, capire ed accettare. Sono tre gradini di una scala a pioli. Non puoi balzare dall’uno all’altro senza battere ciglio. Non se sei nelle sue condizioni.»
Rémy sbianca. «Quali… quali condizioni?»
«Non te ne sei accorto?»
«No.»
Maman Louise sospira. «L’Imperatrice, l’Imperatore e il Sole. Françoise è incinta, Rémy. Ecco perché è scappata. Ecco perché non ti ha aspettato per cavarti gli occhi. Ecco perché ha messo quanta più strada possibile tra te e sua figlia…»
«Figlia?»
«… perché ha paura che tu le porti via anche lei. Una madre ha lo stesso istinto di una gatta. Certe cose una madre le sente, bambino mio…»
Rémy deglutisce a vuoto. Una figlia.
Occazzocazzocazzo, pensa.«Anche lei…»
«La Papessa. Serviamo tutti Athena, tesoro mio. Tu, io, Etienne, tua figlia ed anche Françoise. Abbiamo tutti un ruolo nel grande disegno. Ma te l’ho detto. Tra sapere, capire ed accettare c’è di mezzo una vita intera. E forse nemmeno basta.»
Maman Louise dà un’altra tirata alla sigaretta abbandonata nel posacenere di cristallo accanto a sé. Un regalo di Françoise. Raccoglie le carte, ricompone il mazzo e riprende a mescolarlo.
«Adesso, dimmi. Cosa vuoi sapere, Rémy?»

«Quando sei caduto, ragazzo? Lo sai?»
«Tu sarai caduta. Dal seggiolone», avrebbe risposto Seiya, ma Seiya non c’era. C’era solo Shun davanti a quella ragazza sbucata dal nulla. E Shun no, non riusciva ad afferrare quello che lei gli stava chiedendo. Capiva che la ragazza dai capelli rossi stava alludendo ad un altro significato del termine caduto, ma Shun non riusciva – o non voleva? – comprendere quale. Era come se la sua mente rifiutasse di mettere a fuoco quel particolare. Per non pensarci. Perché faceva paura. Una paura dannata, di quelle che sciolgono le gambe e mozzano il respiro. E che ci costringono a voltare la testa dall’altra parte.
«Capisci quello che ti sto dicendo?»
La ragazza, però, non aveva alcuna intenzione di lasciarglielo fare. Era come se volesse illuminare gli angoli bui della sua coscienza, uno per uno. Come se gli stesse facendo un favore. Gli stesse tendendo una mano. A modo suo, ovvio.
«Allora? Non possiamo stare qui tutto il giorno!»
«Non so di cosa parli», le rispose Shun. Decise che non aveva tempo da spendere in discussioni che lo atterrivano. Non mentre Hyoga proseguiva la sua marcia verso quella collina sullo sfondo. Shun non era sicuro di dove fosse – e dentro di sé pregava che non fosse davvero la Valle dell’Ade di cui gli aveva accennato Shiryu – ma sapeva che più Hyoga si sarebbe tenuto lontano da quella collina, meglio sarebbe stato per lui.
«Io devo salvare Hyoga!»
La ragazza aggrottò la fronte.
«Chi?»
«Hyoga! », le disse – le urlò – superandola e lanciandosi all’inseguimento del Santo del Cigno. E poi accadde qualcosa che lasciò Shun completamente sbigottito. Si sentì tirare per un polso, ma le dita della ragazza non si erano chiuse attorno al bracciale della sua armatura. Stavano tenendo saldamente una delle sue catene. Quella d’attacco, la punta conica che dondolava stanca oltre il pugno chiuso della ragazza coi capelli rossi.
Shun guardò prima le sue catene, poi lei. «Com’è possibile che tu… che tu riesca ad impugnare la mia catena senza ferirti?», le chiese.
«Perché questa non è la tua catena», rispose lei. «Le tue catene sono assieme al tuo corpo. Sulla Terra. Sul piano materiale. Queste», proseguì alzando di poco il pugno, «sono una proiezione della tua anima.»
«Una… proiezione?»
Lei annuì. «L’anima è una cosa viva. Una cosa viva che immagazzina informazioni. Ricordi. Emozioni. Hai presente l’immagine di noi che abbiamo nella mente?» La testa di Shun andò su e giù un paio di volte. Lentamente. «Ecco. Quella è l’anima. E la tua anima ci dice cos’è successo quando sei caduto. L’hai fatto indossando la tua armatura. Per questo ne ha creato… una copia.»
«Un’idea… un’idea platonica?»
«Precisamente», disse lei indicandolo. «Qui arrivano solo in pochi con le proprie gambe. Tutti gli altri sono solo anime.»
Pausa.
«E tu non fai eccezione.»
Shun cadde sulle ginocchia, un braccio sospeso a mezz’aria, come un burattino a cui hanno tagliato tutti i fili, tranne uno.
«Io… io…»
«Mi dispiace», disse lei, lasciando andare la sua catena. Il braccio di Shun si abbassò senza cura. «A volte succede. Che lo shock della morte sia tale da rimuovere il fatto, dico. Le anime erranti nascono così. E non è mai una bella cosa.»
Si sfilò il diadema dalla testa e si accosciò davanti a lui.
«Senti. Io ho un lavoretto da sistemare. Poi torno qui e risolviamo il problema. Ok?»
«Ma tu…»
«Io sono l’eccezione, tesoro.» Lo guardò con occhi tristi. Tristi e seri. «Io sono rimasta la sola che può arrivare quaggiù da viva.»
Poi lei si alzò, con un rumore metallico, e gli disse: «Aspettami qui.». E si avviò per la sua strada. Shun non la seguì con lo sguardo. Rimase a fissare la terra sotto di sé, affondandovi le mani, come se quel contatto potesse aiutarlo.

Come poteva essere morto – caduto – se sentiva quella terra violacea sotto i polpastrelli e la linea delle unghie? Com’è possibile?, si chiedeva. Cercando di restare ancorato a quella domanda, come se quell’osservazione fosse la sua unica possibilità di salvezza. La luce che guida la barca al sicuro nel porto.

Ricapitoliamo, si disse. Imponendosi di restare lucido. Lucido e concentrato. Sono morto. Sono morto, ma non ancora trapassato, perché Hyoga mi ha ucciso. Mi ha strangolato.

Shun si portò le mani al collo. Un brivido gli percorse la schiena. E Andromeda si trovò a rimettere quel poco che aveva mangiato a colazione, la paura che gli aveva reso lo stomaco un pezzo di piombo. Un pezzo di piombo congelato.

Sto vomitando, si disse, in una piega del suo cervello, assecondando le contrazioni che gli strizzavano il busto e la gola. Ma come posso farlo se sono morto?

Si pulì la bocca e alzò la testa, in cerca di aria buona. Scoprendo – con orrore – che aria laggiù non ce n’era. Affatto.

Poi sentì un rumore alle sue spalle, dei passi prima ed un tonfo poi, come di qualcosa che cade. Un sacco lasciato andare. Una zavorra che tocca terra. Shun si voltò. E vide Hyoga, il viso adagiato al suolo e l’espressione atarassica dei defunti. E la salvezza del Cigno tornò prepotentemente ad occupare tutta l’attenzione di Andromeda.

«Hyoga!!», gridò. Avvicinandosi a lui a carponi.
«Ehi, ehi, ehi», disse la ragazza frapponendosi tra di loro.
Shun si alzò in piedi. Barcollò. Riguadagnò una posizione eretta con uno sforzo sovrumano. E la fissò truce. «Spostati. Devo aiutare Hyoga.»
Lei indietreggiò. E alzò le mani.
«Chi?»
«Hyoga. Il Santo del Cigno.»
Lei sbatté le palpebre. Lo fissò. Si voltò a fissare Hyoga. Tornò con lo sguardo su Shun. «Lui?», gli chiese.
«Lui», disse Shun. «Non voglio farti del male, ma…»
«Farmi del male? Tu?» La ragazza lo scrutò. «No. Non dirmi che hai rimesso…»
Si avvicinò a Shun e guardò oltre la sua spalla.
«Guarda che casino… Ehi, che roba è questa?», chiese, indicando a Shun qualcosa che strisciava sul terreno violaceo. Un grosso verme. O qualcosa di simile. Qualcosa che lei schiacciò col tacco del suo stivale. «Questo non va bene. Non va bene per niente. Ehi, che stai facendo?»
Shun l’aveva ignorata e si era avvicinato a Hyoga, chinandosi sul compagno per sincerarsi delle sue condizioni.
«Dimmi che possiamo salvare almeno lui.» Non era una richiesta. Sembrava più un ordine.
«Lui è fuori pericolo», disse, le mani sui fianchi e l’espressione di chi sta per provare un mal di testa allucinante. «Senti. Nella tua storia non mi sono chiari alcuni passaggi. Un bel po’ di passaggi, ad essere sincera. Che ne diresti di sederci e di raccontarmi tutto per filo e per segno?»
Si sedette sulla prima roccia utile ed accavallò le gambe. Gli indicò di fare altrettanto con un gesto della mano ed un sorriso.
«E Hyoga?»
«Lui adesso sta meglio di me e di te messi assieme…»
«Non… non si rialzerà ed andrà…»
«No. Il Cigno non farà niente di tutto questo.», disse lei. «Consideralo come un palloncino legato ad un polso. Non mi scapperà via, tranquillo. E adesso, me la vuoi raccontare la tua storia, sì o no?»

 

«Allora, io vado.» I capelli di Rémy sono legati in una coda distratta sulla nuca. Avrebbero bisogno di una bella sforbiciata. La barba non gli dona. È ispida. Lo fa assomigliare ad un tricheco, ma a lui non importa.
«Pierre apre tra mezz’ora», gli dice maman Louise. «Perché non ci fai un salto?»
«Non sono dell’umore giusto, maman.»
«Se Françoise ti vedesse conciato così scapperebbe a gambe levate!»
Rémy scuote la testa. «Dovrei prima trovarla…»
«Giusto. Dovresti prima
trovarla…»
Rémy la fissa. Serio. Serissimo. La punta delle dita sfrigola di rosso. Gli occhi di maman si assottigliano. Come quelli di un gatto che s’è appena pappato il passerotto fingendosi morto. Le labbra si arricciano all’insù e Rémy non sa se mandarla al diavolo, gettarla fuori dalla finestra o schioccarle un bacio in fronte.
Le spalle si rilassano. Le lucine rosse si affievoliscono. E anche Rémy adesso sorride, con la stessa smorfia di chi pensa
Ok, stavolta mi hai gabbato. Alza le mani e scuote la testa.
«A che ora apre Pierre?»
«Alle otto in punto.»
«Perfetto», dice Rémy dando un colpo d’occhio all’orologio sull’
étagère. «Ho il tempo di fumarmi una sigaretta, allora.»
Maman annuisce.
«Grazie di tutto, maman…»
«Figurati, tesoro. Figurati.» Maman Louise si stringe nel suo scialle in un tintinnio sommesso. «Quando vuoi, sai sempre dove trovarmi.»
Rémy la saluta alzando una mano e sparisce per la scale, l’aria da cane bastonato, quella che aveva quand'è arrivato e che gli incurvava le spalle e lo invecchiava di almeno dieci anni, è solo un ricordo. Maman Louise chiude la porta e torna ciabattando in cucina. Si affaccia alla finestra e segue la schiena di Rémy allontanarsi per la strada e tornare davanti alla chiesa. Le campane battono le sette e mezzo.
Maman Louise chiude le imposte e si siede al tavolo della cucina.
«Puoi uscire. Se n’è andato.»
Si sente un tramestio. Una porta si apre, i cardini che protestano. Passi nel corridoio. Timidi. Paurosi. Poi una ragazza si affaccia dalla porta della cucina, le dita attorno allo stipite che avrebbe bisogno di una bella riverniciata. Ha gli occhi lucidi.
«È ridotto ad uno straccio, Fanchon… Adesso non metterti a frignare», le dice maman Louise, ma lei è più veloce delle sue parole ed inizia a piangere. Come una bambina piccola, le mani davanti al viso. Maman Louise sospira. E si alza.
«Su, su, adesso basta», le dice avvicinandosi, e cingendole la vita con un braccio e accompagnandola alla sedia su cui Rémy ha fatto colazione. «Non fa bene al tuo bambino, tutto questo.»
«Ma io…»
«Ma io, ma io…» Maman Louise sbuffa, le mani sui fianchi. «Ma tu devi mettere un po’ di sale in zucca, ragazza mia. Lo sai che è pericoloso per te venire qui. Eppure! Ma lo sai che ti succede se Alain ti trova? Antoine non oserebbe toccarti, ma Alain sì! E tu sai quello che fa Alain alle ragazze che gli sono scappate, vero?»
«Non m’importa», piange lei.
«Non t’importa! Cosa devo sentire! Di primo mattino, poi! E del tuo bambino non t’importa? Vuoi finire sfregiata e ad arrabattarti sul marciapiede?»
Françoise piange. Disperata. Ancora più forte, le lacrime che le ricadono in grembo a bagnare la stoffa a fiori arancioni del suo vestito.
«Su, su. Adesso basta. Asciugati il viso e parliamo. Da donna a donna.»
«Mi ha spezzato il cuore, maman!»
«Lo so, angelo mio. Lo so.»
«E allora perché gli avete detto
quelle cose
«Perché sono vere!»
Uno schiaffo inaspettato avrebbe fatto meno male. Avrebbe bruciato di meno. Françoise si irrigidisce e poi tira su col naso.
«Ma che ti aspettavi? Sapevi chi fosse Rémy. A che mondo appartenesse. I suoi doveri. No?»
Françoise tace. Sì che li conosceva, ma non pensava – non poteva immaginare – quanto potessero essere duri. Crudeli. Spietati.
«Lui conosceva te ed il mondo da cui vieni.»
«Ma io non ho preso quella strada!», ribatte. Seria. Serissima. «Perché lui…»
«Perché lui no? Perché questo è il suo destino. Ed il tuo, probabilmente, è quello di sfornargli altri due o tre marmocchi.»
«Perché se li prenda Athena?!»
«Un frutto non cade lontano dall’albero che l’ha generato, piccina mia.»
«Ma Etienne! Etienne è solo un bambino…»
«Lo so. Per questo avreste dovuto ragionarne, voi due. Parlarne. Discuterne. Fino a non poterne più. Qui ha sbagliato Rémy. In toto. E come donna e come madre, sono con te. Ma tu hai sbagliato a ficcare la testa sotto la sabbia e ad illuderti che questo momento non sarebbe mai arrivato.»
Françoise tace. Si porta una mano sul ventre. Una ciocca di capelli le scivola sullo sprone dell’abito.
«Maman… maman voi come avete capito che?»
Maman Louise alza un sopracciglio.
«Faccia sbattuta. Occhiaie. Pochissimo appetito. Nausea. Non riesci a tenere nello stomaco nemmeno l’acqua che bevi. Insomma, Fanchon. Io non sono un uomo.»
Françoise posa i gomiti sul tavolo e prende tra le mani la tazza di Rémy.
«Sai, maman? Io lo amo… nonostante tutto…» Sospira. «Oh... Sono un mostro…»
«Che sciocchezze. Certo che lo ami. Ci mancherebbe! È che adesso sei solo furiosa, ecco tutto. E devi capire se c’è spazio di manovra per voi. Se lui non s’è spinto troppo oltre, capisci?»
Sospira. «Maman… maman quello che avete letto nelle carte è tutto vero?»
Maman Louise si avvicina alla finestra. Spalanca le imposte, monta un’altra sigaretta sul suo bocchino e la accende.
«Sì e no, piccina. Sì e no.»
Françoise piega la testa da un lato.
«Quello che è stato è stato. Ecco perché vedo che lì dentro c’è una signorinella.» Maman Louise indica Françoise con un dito. «Ma il futuro è tutto da scrivere. Le carte ti danno delle… delle indicazioni, ecco. Il futuro te lo fai da te, ricordi?»
Françoise si guarda il palmo della mano sinistra. Rémy ha una cicatrice che lo attraversa per tutta la lunghezza, dalla base del medio fin quasi al polso.
«Maman mi aveva detto che sarei potuto diventare il Santo del Capricorno. Ci pensi? Io un Santo d’Oro! Ma quella è roba da spagnoli. Così, siccome il mio destino non mi piaceva, ho preso il rasoio e
zac!», le ha detto Rémy, quando lei gli ha chiesto come si fosse procurato quella brutta cicatrice.
«Ma…»
«Non lo so, Fanchon. Non lo so. Si serve Athena in molti modi, sai?» Maman prende un’altra boccata di fumo e la libera nell’aria frizzante del mattino. «Rémy è andato da Pierre. Perché con quella barba sembra un tricheco. Perché non lo aspetti davanti alla bottega e ne parlate per bene, voi due? Eh?»
Fanchon si asciuga il viso sul dorso della mano.
«Forse… perché no?…», dice. Alzandosi dalla sedia con lentezza. Uscendo dalla cucina. La zip degli stivali rompe il silenzio della mattina. Una volta. Due. La porta d’ingresso si apre e si chiude. Il gatto si stiracchia nella cesta.
«Brava, la mia ragazza», commenta maman Louise fissando qualcosa nel cielo d’acciaio.
Se continua così, nevicherà, pensa. Osservando la testa bionda di Françoise apparire in strada, due piani più in basso. Rémy è tornato. L'aspetta di fronte al portone, la sigaretta tra le dita e quel cappellaccio in testa. E lei gli corre incontro. E con un sorriso maman Louise li osserva abbracciarsi. Perché i ragazzi che si amano non ci sono per nessuno. Chiude la finestra. Ciabatta fino all’ingresso, raccatta le chiavi dell’appartamento al piano di sotto e lo posa sull’étagère. Così parleranno con calma. Dopo, si dice. Ridacchiando.
«Beata gioventù», mormora il donnone. È quasi ora di prepararsi. I clienti arriveranno a breve, e lei non si è ancora né vestita, né pettinata. E le serve tempo per truccarsi e stendere per bene il kôhl sotto le ciglia. E pensare a quello che ha visto
davvero in quelle carte. E che no, non le è piaciuto per niente.

 

«Adesso capisco tutto. Anche perché non ti sei scomposto nel vedermi.»
La ragazza aveva detto di chiamarsi Coralie. Ed aveva indicato la massa di capelli rossi come se questo avesse dovuto significare qualcosa. Aveva ascoltato il racconto di Shun senza battere ciglio, osservandolo attenta, come se stesse registrando tutto nella mente. Parola per parola.
«Quando sono arrivata nella casupola non ho visto il tuo corpo. Idee su dove possa essere finito?»
Shun scosse la testa. «Non ne ho idea. Potremmo chiederlo a Hyoga…»
«No. Lui deve restare addormentato. Non sta bene.»
«Quindi?»
Lei prese fiato e poi sospirò. «Quello che ti ha detto quella tizia è vero. In parte, almeno. Qualcuno è arrivato al Santuario, nei giorni scorsi, informandoci che il Santo del Cigno aveva rimosso il sigillo di Jo… Jotunqualcosa
«E perché hanno mandato te?»
«Perché ero l’unica disponibile. L'Ariete sta spulciando la Biblioteca del Sacerdote, e pare che Saga abbia fatto un gran casino, lassù. La Vergine sta contrattando con l’asgardiano per decidere dove si svolgerà il processo. Sai, vogliono comunque sentire la sua versione prima di darlo in pasto a chicchessia. Toro, Scorpione e Leone sono in missione. Così hanno mandato me. Ma se qui c’era davvero un asgardiano, allora…»
«Allora?»
«Allora o vogliono usare il Cigno come casus belli per attaccare il Santuario, oppure… oppure c’è una guerra intestina su, ad Asgard. E serviva loro un capro espiatorio.»
«Ma a che pro?»
«Per sviare l’attenzione. Depistare. E intanto, andare avanti coi propri progetti.» Lei si tolse il diadema. «Questo spiegherebbe anche perché abbiano attaccato Athena. Qualunque sia il movente, stanno mettendo in atto una strategia articolata.»
«Quindi?»
«Quindi, io adesso porto te ed il Cigno nel mondo dei vivi. Lo sveglio. Gli racconto quello che è successo e mi faccio dire dove diamine sia il tuo corpo. Ti ci infilo dentro a forza, promesso. Però, tu devi farmi un piacere.»
«Sarebbe?»
«Non una parola su quello che ci siamo detti noi due. Deve restare tra te e me.»
«Perché?»
«Perché la Vergine aveva il sospetto che qualcosa non stesse andando per il verso giusto. Che ci fosse un meccanismo che gira a vuoto, hai presente? E se davvero il Cigno ha fatto quello che tu hai detto, potrebbe essere ancora sotto l’effetto di quella schifezza che gli hanno dato. La stessa che tu hai rimesso poco fa. Il tuo amico potrebbe essere pericoloso. Per se stesso e per gli altri. E tu non mi sembri in grado di difenderti. Per cui, io ti ricaccio nel tuo corpo, e poi ce ne andiamo. Lo porto via, mentre tu ti riprendi.»
«Ma se le cose stanno davvero come pensa Shaka, allora potresti aver bisogno di un aiuto. Hyoga potrebbe aver bisogno di aiuto!»
«Sì», disse lei. «Ma che aiuto puoi darmi tu, più morto che vivo?»
Shun tacque e la fissò stupito. Come se lei gli avesse dato uno schiaffo senza preavviso. Sentì le guance imporporarsi. E bruciare. Come se davvero lei avesse stampato cinque dita sul suo viso.
«E tu cosa faresti se…?»
«Se dovesse di nuovo dare di matto, dici? Lo spedirei di nuovo quaggiù senza tante cerimonie», disse lei. Fredda. Distaccata. Come se stesse parlando di una bambola di pezza o di una giacca da mandare in lavanderia, e non di una persona. «E ce lo terrei fino a quando non fosse rinsavito.»
Shun guardò Hyoga, appoggiato con la schiena contro ad una roccia, la testa reclinata verso il busto. Dormiva. Forse. O forse no. Andromeda si disse che non potevano restare oltre. Non andava bene. Non era sano.
«A breve arriveranno i Mastini. Sono i mostri che si aggirano nelle ombre e si nutrono di coloro che vagano lungo l'orlo della Bocca dell'Ade. Dobbiamo spicciarci. Ho la tua parola, Andromeda?»
Shun annuì. «Hai la mia parola», disse. E le tese la mano. Lei gliela strinse e sorrise. Soddisfatta. Si sistemò il diadema e si fregò le mani.
«Puoi espandere il tuo cosmo?»
«Sì.»
«Fallo. Farà schifo, ti avverto. Ti verrà da rimettere, come hai fatto adesso. Evita. Lo dico per il tuo bene. E adesso aiutami a sollevarlo. Il tuo amico pesa un accidente, sai?»
Shun si passò un braccio di Hyoga dietro al collo e la ragazza fece altrettanto. «Stammi vicino», disse lei, prima di iniziare ad espandere il suo, di cosmo. Shun la imitò. Il cosmo di Andromedà sfavillò, come se ne fosse andato della sua vita. Come aveva fatto alla Settima Casa per risvegliare Hyoga. Si vede che è nel mio karma, pensò. Poi tutto divenne bianco. Li avvolse una luce accecante e lui si sentì svanire in tutto quel bianco purissimo.






Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:

Ancora un flashback, siore e siori, nell'autunno 1971! Rémy ve l'ho presentato qui e qui. Per chi ancora non lo conoscesse, lui è il Santo d'Argento della Costellazione di Boote. Nonché padre di Camus (tranquilli, stiamo sempre parlando del mio headcanon!).
Fanchon è uno dei diminituvi di Françoise. Nonché la madre di Etienne (quella che lui chama semplicemente Maman.). Per il passato di questa creatura mi sono rifatta a La dernière dance di Sen e alla sua Francine (altro diminutivo di Françoise), per creare una sorta di legame nei secoli. Trovate la sua storia qui. Pubblico con il benestare dell'autrice.
Nella mia testa il Santuario ha agenti sparsi in tutto il mondo. Una sorta di occhi ed orecchie di Athena. Maman Louise - oltre ad essere una marca di formaggi! - è una di loro. Maman Louise fa la cartomante/astrologa/medium nel quartiere di Belleville, XX arrondissement, a nordest di Parigi. Maman Louise non gioca pulito. Nemmeno un po'. È una grandissima lestofante - in senso buono- ma può essere altrimenti, quando servi Athena - nota imbrogliona?
Ovviamente, il bocchino è quell'affare lungo e sottile che le donne usavano per fumare le sigarette senza che queste impuzzolissero le loro dita o ingiallissero i loro denti. Mi sembrava superfluo rammentarlo, ma di questi tempi non si sa mai.

La scena in cui Rémy si taglia la Linea del Destino è una citazione di Corto Maltese. Vedi alla voce, Hugo Pratt, Una Ballata del Mare Salato, 1967.

Intanto, nella Valle dell'Ade, Shun scopre che qualcuno sta ordendo un complotto ai danni di Athena. E che Hyoga ci è andato di mezzo. Riuscirà il Santo di Andromeda a tornare indietro dalla morte per aiutare il suo amico ancora una volta? Dovrebbe farsi un abbonamento, dite voi? In effetti...
Appuntamento tra sette giorni - giorno più, giorno meno - per un altro capitolo. E adesso scusate, ma mi aspettano gli gnocchi!

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Capitolo 13
*** 13. ***


13.

 

Il viaggiatore che si fosse smarrito durante la purga starebbe passando un bruttissimo momento. In mezzo a tutto quel bianco accecante, col vento che gli sputa in faccia la neve, dispererebbe di tornare indietro vivo. Maledirebbe se stesso per essersi allontanato così tanto dalla sua base, e per averlo fatto da solo. E tra sé e sé si chiederebbe perché abbia scelto quella meta sconsiderata invece delle solite due settimane a Gabicce, Diamante o Ladispoli. Per far colpo sulla collega della scrivania a fianco? Quella che se la fa col capufficio sotto gli occhi di tutti, legittimi consorti esclusi?
Si darebbe dell’idiota, del pazzo, dello scriteriato, e forse qualcosa di più pesate, che non è il caso di ripetere qui. Ma continuerebbe ad avanzare. A muoversi, scongiurando così il rischio di diventare un pupazzo di neve. Prima o poi un posto al caldo lo trovo, penserebbe, un piede metti e l’altro leva. E con questa speranza nel cuore proseguirebbe nella sua ricerca disperata, finendo per stancarsi. E fermarsi, stremato, a riposare. Solo cinque minuti, si direbbe, consapevole di starsi raccontando una bugia. Ma i piedi gli farebbero male. Le gambe intirizzite protesterebbero con dei crampi. Le dita brucerebbero per il freddo. E tutto quel vento gli avrebbe spaccato la pelle attorno agli occhi. Solo cinque minuti, penserebbe. Senza volersi accorgere che i minuti sono diventati dieci, poi quindici, poi venti. E che il cumulo di neve sul suo corpo è aumentato in modo preoccupante…

Ora, se noi potessimo aiutare questo sventurato? Facendogli apparire all’orizzonte un posto al chiuso. Una certa casetta, ad esempio. Di legno. Un piano unico. Il tetto a spiovente coperto di neve bianchissima, come la glassa sulle torte. Un filo di fumo che esce dal comignolo a bucare il cielo d’acciaio.
Allora, che farebbe?
Sbatterebbe le palpebre.
Si strofinerebbe gli occhi.
Si metterebbe a ridere.
E poi inizierebbe a correre verso la salvezza, che domande!
Dovrebbe solo raggiungere quella casa e bussare. Si farebbe capire. Un po’ d’inglese lo masticano tutti. E se così non fosse, basta parlare lentamente. E fare gesti. Tutti capiscono i gesti. E poi che cosa mai potrebbe volere uno straniero che bussa alla tua porta nel bel mezzo della bufera? Una tazza di farina?
Così pensando, il nostro eroe raggiungerebbe la casupola col cuore rinfrancato e, arrivato all’uscio, picchierebbe contro il legno scuro con tutta la forza che gli è rimasta in corpo – e credetemi quando vi dico che la disperazione tira fuori il duecento percento del potenziale umano.
Non verrebbe nessuno ad aprire. E il suo cuore si scorerebbe. Magari dormono e non l’hanno sentito. E allora batterebbe più forte e l’uscio cederebbe, spalancandosi su un’unica stanza, con una porta sul fondo ed un camino acceso. Ed è su quelle fiamme che si calamiterebbero i suoi occhi. Non vedrebbe altro che il fuoco scoppiettare nel camino e caracollerebbe all’interno, senza attendere un invito, un cenno, una parola dal padrone di casa. Non noterebbe la sua assenza. Non subito, almeno. Tenderebbe le mani verso le fiamme e si godrebbe il loro calore irradiarsi piano piano al resto del corpo.
Solo dopo aver ripreso un po’ di colore si guarderebbe intorno. E allora vedrebbe. Il tavolo rovesciato. Una sedia dal pagliericcio sfondato. Un sacchetto a terra, con delle mele in fuga. E poi i corpi. Un ragazzo, sdraiato in un angolo, una coperta sulle spalle e lo sguardo sereno di chi sta facendo il più stupendo dei sogni. Quello eterno. E poi la donna. Gettata a terra, come una cosa sporca e maleodorante. Lunghissimi capelli biondi. Occhi spalancati sull’orrore. Mani ad artigliare l’aria.
Il nostro amico avrebbe una ridda spiacevolissima di pensieri ad affollargli la mente. Dove sono finito? Cos’è successo qui? Sono sulla scena di un delitto? E se chi ha fatto questo macello tornasse? O se arrivasse la polizia? E se accusassero me di questo casino?
Così il nostro amico indietreggerebbe. Piano. Piano. Attento a non toccare nulla. A non lasciare tracce. Impronte digitali. Non è mai piacevole trovarsi la polizia alla porta. Specie se sei in un paese straniero. Anche se tu non hai fatto nulla di male. Specialmente se non hai fatto nulla di male. E a lui non va di finire in qualche carcere sovietico a fare da fidanzata al bullo del braccio. Proprio no.
Così imboccherebbe la porta dalla quale è entrato col cuore gonfio di speranza e si lascerebbe quella casa maledetta alle spalle. Lo dicevo, io, che non poteva essere vero! Che era troppo bello per essere vero, si direbbe tornando per la strada da cui è arrivato. E non vedrebbe una ragazza apparire dal nulla in quella casupola maledetta, atterrando con grazia sul pavimento di legno – tap – con due curiosi palloncini stretti nella mano. Una mano che riluce come l’oro. E non la vedrebbe avvicinarsi al ragazzo con la coperta sulle spalle e spingergli addosso il palloncino bianco – simile ad un fuoco fatuo – e farglielo entrare nel busto. E non vedrebbe lui svegliarsi, lo sguardo confuso e imbambolato, e fissarla perplesso, e lei gli dirgli: «Coraggio, Alëša Popovič. Abbiamo un lavoro da fare.».

 

«Lois, cara…»
Apostolos lo riconosci dal suo profumo. Intenso, avvolgente, speziato. Nauseante, dopo un po’. Come quei fiori tropicali che ti stordiscono con il loro aroma. Apostolos ha stordito lei. Con i suoi modi. La sua gentilezza. I suoi occhi scuri, così simili ai suoi.
È arrivato dal nulla, dopo la Restaurazione. Così la chiamano tutti. Restaurazione, e anche se la casta d’Oro non ama quel nome, la gente lo continua a bisbigliare nei corridoi e nei vicoli e nelle case. Restaurazione. Con buona pace degli eroici paladini che si sono fatti menare per il naso da un loro compagno.
C’è stato bisogno di fare ordine, dopo. Pulizia. Di capire chi, come, cosa e quando. E il primo passo è stato esaminare la Biblioteca del Sacerdote. E scoprire che Saga aveva fatto un gran bel casino, lì dentro. Magari sentiva avvicinarsi la fine del suo regno e ha voluto occultare le prove? Oppure è stato per un moto di umanissima stizza, di rabbia nel vedere quattro –
cinque – mocciosi mandargli in fumo tredici anni di lavoro nell’arco di una sola giornata? Sia come sia, Saga lì dentro ha fatto un bel casino. E il secondo passo è stato chiamare qualcuno da fuori. Infischiandosene del detto che i panni sporchi si lavano in famiglia. Apostolos è arrivato a Rodrio una mattina di fine Ottobre con lo stretto indispensabile sotto braccio e un sorriso aperto e cordiale. «Mi dispiace, il mio posto toccava a te», le ha anche detto subito dopo essersi presentato.
Lei si è stratta nelle spalle e gli ha mostrato il delirio che lo aspettava. «Abbiamo un lavoro da fare, qui. Mettiamoci all’opera.»
Apostolos doveva fermarsi una settimana. Sono passati sei mesi. Sei mesi in cui le si è avvicinato. Hanno fatto conoscenza. L’ha convinta ad abbassare le sue difese. Piano piano. Giorno dopo giorno. E Lois
voleva cedere. Voleva potersi confidare con qualcuno. Piangere su una spalla amica. Sfogarsi. Perché anche per lei quella giornata maledetta è stata una catastrofe. La fine del suo piccolo mondo di cristallo. Un sogno infranto. Un cassetto con la chiave spezzata.
«Lois, cara…»
Lo odia. Odia quando lui la chiama
cara o amica mia, perché quelle parole sono false. Perché quelle parole stillano veleno ad ogni sillaba. Odia il suo sorriso, simile alla smorfia di un serpente. Ed odia se stessa per aver visto qualcosa di lui nei tratti di Apostolos.
«Cosa c’è?»
Quasi abbaia. Sottovoce. Ché nessuno si accorga di quello che è successo, lì dentro. Dei loro dissapori. Altrimenti, chiederebbero.
Come mai? Andavate così tanto d’accordo, voi due… Ma lei non potrebbe dire tutta la verità. Che lui la ricatta. Perché lui conosce il suo segreto, e se Apostolos lo conosce è stato perché lei è stata così ingenua – così stupida – da fidarsi. E rivelarglielo. Mostrandogli quei quattro quaderni che aveva preso in prestito dalla Biblioteca del Sacerdote. Per leggerli, nelle sere in cui fuori impazza la pioggia o quando Deneb Algedi splende fulgida contro il cielo nero. E ritrovare un po’ di lui, in quella grafia spigolosa e nervosa, e sentirlo più vicino.
«So che non è regolare, però…», gli ha detto, le guance rosse.
«Però possiamo trovare un accomodamento», ha ribattuto lui. Ed è stato allora che Lois ha visto i suoi occhi scintillare nel buio. Come una tagliola illuminata da un raggio di luna.
No, non può rivelare i motivi dell’odio che nutre per Apostolos. Perché la sbatterebbero fuori. E chi se la prenderebbe una che non ha un pezzo di carta – perché è stata così stupida da non volerlo prendere e da aspettare che lui si decidesse ad accorgersi di lei, degli sguardi che gli lanciava e del suo sentimento a senso unico che sarebbe bastato per tutti e due?
Nessuno. Così Lois va avanti. E stringe i denti. E spera che ad Apostolos scoppi una vena, prima o poi. O che la giustizia divina lo raggiunga.
Se è caduto lui, perché questa specie di iena è ancora viva?, si chiede sfogliando un elenco fitto fitto di nomi e date.
Apostolos sorride. E a lei monta la nausea.
«Prendo questi», le dice. Mostrandole una colonnetta di quaderni dalle costolette scure. Come se fossero dei romanzi da prendere in prestito alla biblioteca comunale.

Cosa dovrei dirti?, pensa Lois lanciando un’occhiata distratta a quella manciata abbondante di diari. Annuisce. Meno sa e meglio sarà, questa è la sua politica. E se qualcuno dovesse scoprire che Apostolos ha sottratto del materiale dalla Biblioteca del Sacerdote, lei potrà sempre dire di non essersene accorta. La accuseranno di negligenza. Una nota di biasimo e via. Ma non perderà di certo il posto per questo. Annuisce, distratta. Come se la faccenda non la riguardasse. Come se parlare con Apostolos fosse uno spreco, di fiato e di tempo. E torna ad occuparsi della sua lista. I resoconti del Santo della Lira sono catalogati come Lyr, ma si interrompono bruscamente nel 1985. Strano, pensa lei. Eppure non risulta né morto, né disperso. Lois tambureggia con il fondo della matita sulla carta ingiallita. Scribacchia qualcosa su un foglio – appunti da ricontrollare – e passa al prossimo nome. Non si è accorta che Apostolos è uscito, lasciandola da sola.

 

«Com’è possibile?»
La voce del Santo dell’Ofiuco era acciaio affilato. Le mani sui fianchi, Shaina osservava Lois mostrandole una lista di nomi e date. Appunti da ricontrollare, c’era scritto sopra, con la calligrafia elegante e chiara di Lois. Eppure la bibliotecaria continuava a stringersi nelle spalle.
«La situazione in cui versava la Biblioteca…»
«Cazzate!»
Shaina avanzò di un passo e sbatté il foglio sul legno lucido della scrivania. Appoggiò entrambe le braccia e sovrastò Lois, seduta al suo posto, i capelli legati e una matita appuntita tra le mani. Accanto a lei, una tazza verde scuro piena di altre matite, tutte temperate con la medesima solerzia.
«Qui mancano dei resoconti, Lois…», le disse Shaina, la maschera d’argento ben calcata sul viso. «Boöte. Capricorno. Acquario. Gemelli. Reticolo. Lira. Volpetta. Ora, io mi chiedo, anzi, ti chiedo.» Pausa. «Hai una vaga idea di dove siano finiti, Lois cara?»
La maschera dell’Ofiuco la fissava col suo sguardo cieco. E Lois si sentì all’improvviso messa a nudo. Cosa avrebbe dovuto fare? Cosa avrebbe potuto dire, per salvarsi? Dare la colpa ad Apostolos, certo. Era lui ad essere sparito, qualche mese prima. Ad essersi allontanato per pressanti motivi personali. Una madre o un padre sul letto di morte capitano a tutti, prima o poi. Peccato che sembrava essere Apostolos quello morto. Quello che non era mai e poi mai arrivato al Santuario, ma se ne era rimasto sotto terra, sotto una pesante lapide di marmo del cimitero di Patrasso.
«Allora?»
Lois sospirò. Muoia Sansone con tutti i Filistei, pensò. Posò gli occhiali sulle pagine che stava esaminando, si massaggiò le tempie e si concesse un sospiro. «Shaina, davvero. Non lo so.»
L’Ofiuco rimase al suo posto. Una belva pronta a scattare. E a bere il mio sangue, pensò Lois, ma si impose di restare calma. Di non farle annusare la sua paura. «Seguimi», le disse, camuffando quell’ordine con un’esortazione, un bisogno, una necessità. Si diresse ad una porta, nascosta dietro un pesante tendaggio amaranto. Prese una chiave dal mazzo che portava alla cintura, una chiave dalla testa lavorata, d’ottone, di quelle che si usavano una volta nei palazzi nobiliari e che adesso fanno bella mostra di sé dalle serrature degli armadi. La girò nella toppa ed aprì la porta.
Shaina si avvicinò.
Una quantità indecente di rotoli, pergamene e quaderni occupava la stanza. Qualcuno si era preso la briga di dividerli in gruppi, separandoli dagli altri tramite dei cordini di stoffa stesi sul pavimento. Pavimento polveroso, su cui nessuno aveva posato il piede da qualche tempo. Due o tre mesi, almeno, pensò Shaina prima di riportare lo sguardo della maschera su Lois.
«Apostolos lavorava qui dentro. Da solo. Ordine suo. Il capo era lui», le disse Lois smorzando ogni polemica sul nascere. «Io dovevo catalogare quegli altri documenti», aggiunse indicando le librerie alle loro spalle e le carte sparse sulla scrivania. «Era quello il mio compito. Ogni tanto Apostolos mi affidava altro materiale, ma non abbiamo mai lavorato davvero insieme. Lui aveva suddiviso i documenti in ordine di priorità. C’erano cose di cui potevo occuparmi io, e cose di cui doveva occuparsi solo lui. Per mille ragioni.»
«Dammene una.»
«Lui aveva superato Paleografia Greca con il massimo dei voti. Io no.»
Shaina tacque. Spostò lo sguardo della maschera da Lois alla stanza e di nuovo a Lois.
«Stai dicendo che i documenti che mancano potrebbero trovarsi lì dentro?», le chiese, indicando la stanza con un gesto del pollice.
«Potrebbero.»
«Oppure?»
Lois si strinse nelle spalle. Quant’era dolce, la vendetta… «Ogni tanto Apostolos si portava del lavoro a casa. Diceva che non sarebbe riuscito a chiudere occhio se prima non avesse decifrato quel documento. A pensarci, mi sembra la spiegazione più logica.»
Shaina si fermò a riflettere sulle sue parole. «Se così fosse… se a questi documenti lavorava solo Apostolos, allora perché hai la chiave di questa stanza?»
«Ne esistono due copie, in realtà. Una ce l’ho io, l’altra Apostolos.» Pausa. «Avete provato a…»
«Già fatto. Abbiamo setacciato la sua abitazione da cima a fondo, ma niente. Se davvero lui ha sottratto quei volumi, se li è portati appresso…»
C’era livore nella voce di Shaina. Stizza. L’orgoglioso Santo dell’Ofiuco non amava essere presa in giro. Non amava essere tradita. Lois sorrise.
«Lasciami la lista. Controllerò io se quei documenti siano qui dentro», disse, conciliante.
«Ricopiala. L’originale serve a noi.»
Lois annuì.
«Sai», disse Shaina tornando a posare lo sguardo della maschera su di lei, «avrei preferito una maggiore attenzione da parte tua.»
Avreste potuto affidare a me la direzione della Biblioteca, allora! Ma Lois non glielo disse. Non poteva, no. Altrimenti avrebbero sospettato di lei. Avrebbero creduto che stesse infangando la reputazione di un uomo assente. Di qualcuno che non poteva difendersi. Un bell’impiccio, la presunzione d’innocenza. Quando non ci tocca da vicino, s’intende.
«Ho solo eseguito degli ordini», rispose Lois. Pacata. «Apostolos è il mio superiore. Apostolos ne sa più di me. Ho ritenuto logico fare ciò che…»
«Stronzate. Lo so io e lo sai tu.» Shaina si allontanò e Lois richiuse la porta. «Avresti potuto accorgertene che qualcosa non andava.»
Lois tornò alla sua postazione, prese un foglio e ricopiò la lista di nominativi. Shaina taceva. Taceva e pensava. Devo fare presto, si disse Lois, gli occhi e le dita che danzavano inseguendo lettere e nomi.
«Mi dispiace», le disse, porgendole la lista. «È una situazione incresciosa. Forse hai ragione tu. Forse avrei potuto accorgermene. Ma per farlo, non avrei dovuto fidarmi di lui. E lui non mi ha mai dato motivi per non. Sì, aveva delle stranezze, ma chi non ne ha, a questo mondo?», aggiunse.
«Non fidarti mai di nessuno», le disse Shaina avvicinandosi all’uscita.
«Strano. Credevo che con il ritorno di Athena i giorni di incertezza fossero finiti…», ribatté, ma Shaina era già passata nel corridoio che conduceva alla Tredicesima Casa.
Lois sospirò.
Sì, avrebbe dovuto capire che le intenzioni di Apostolos fossero profondamente diverse dalle sue. Che non se ne tornava a casa con quei resoconti sotto al braccio per avere qualcosa da leggere prima di addormentarsi. Pazienza, si disse. Cosa fatta capo ha. E questa svolta aveva i suoi vantaggi. Per prima cosa, avrebbe potuto riportare indietro i resoconti del Nobile Shura che aveva preso in prestito. Sarebbero saltati fuori da uno di quei mucchi lasciati da Apostolos. Ma doveva fare presto. Doveva portarli domani mattina. Uno per volta. E doveva nasconderli in un posto più sicuro della cassa sotto al suo letto. Magari, in questo momento Shaina stava già firmando un ordine di perquisizione.
Adesso smettila!, si disse. Doveva restare calma. E ragionare. Senza farsi prendere la mano da quei telefilm che vedeva la sera, consumando la cena davanti alla tv. Sì, avrebbe riportato i diari del Capricorno alla Biblioteca e li avrebbe infilati a casaccio in quei mucchi. Tutti assieme, avrebbe destato sospetti. Un paio al giorno, e ce l’avrebbe fatta.
Ma prima, si disse, devo capire cosa diamine c’è in quei benedetti mucchietti. Con quale criterio li ha creati.
La pendola alle sue spalle batté il mezzogiorno. L’ora di pranzo si avvicinava. Lois guardò la borsa che aveva lasciato accanto alla scrivania. Panini al pollo e una limonata. E a lei era sempre piaciuto mangiare mentre leggeva.
Diamoci da fare, si disse, prendendo il pranzo e facendo girare la chiave nella toppa.

«Presto! Da questa parte!»
Lukas spalanca la porta, lo sguardo più terrorizzato del suo repertorio a colorargli gli occhi. Deve convincere le sue labbra a restarsene piegate verso il basso, e a non arricciarsi all’insù. È soddisfatto, certo. Ha fatto più lui, in cinque minuti, che suo padre in una vita intera. E non dovrà partire per quel buco ghiacciato che è Asgard, adesso che è lui l’erede al trono. Ma quando lo sguardo verde chiaro di Lukas si sposta sulla finestra – finestra che lui si è premurato di lasciare spalancata perché nessun suicida torna indietro a richiuderla – la sua bocca si spalanca. Per lo stupore. Per la paura. Per l’orrore.
Re Åkon è al suo posto. Seduto alla sua scrivania, delle carte tra le mani e gli occhiali dalla montatura dorata e tonda in punta di naso. Solleva appena lo sguardo oltre le lenti, le sopracciglia cispose che si corrugano. Come a chiedere loro conto e ragione di quell’ingresso poco ortodosso.
Lukas è congelato sulla soglia, la maniglia stretta attorno alle nocche sbiancate. Il consigliere Andreas e il Capitano delle Guardie Sven sbirciano nella stanza oltre le sue spalle.
«Maestà?», senta chiedere la voce di Andreas, vicinissima all’orecchio destro.
«Maestà, tutto bene?»
Re Åkon li osserva. Muto.
«Maestà?», chiede Sven, spostando di peso Lukas. «Perdonate l’intrusione, sire, ma il principe ci aveva detto…»
«Vi aveva detto?»
«Ci aveva detto che avevate commesso una… una sciocchezza», risponde Andreas per tutti e due, un moto di stizza nei confronti di Lukas per la figura da idiota appena rimediata.
«Capisco.» Re Åkon si sfila gli occhiali ed alza la testa. «Vogliate scusare mio figlio, signori. Il principe Lukas è ancora scosso per le gravi vicende che stanno toccando il nostro regno. Non era sua intenzione.»
«Comprendiamo, Vostra Maestà», risponde Andreas. Sven si limita a rivolgere un’occhiataccia all’indirizzo di Lukas.
«Lasciateci soli», sospira il sovrano.
«Col vostro permesso», dice Andreas, e con un inchino lui e Sven lasciano la stanza. Lukas stringe ancora la maniglia tra le dita.
«Cos’hai da guardare, figliolo? Non hai mai visto tuo padre al lavoro?»
Gli occhi di Lukas sono prati smarginati di stupore. «No. Non è possibile.» Neppure si è accorto di aver mormorato quelle parole.
«Che brutta cera che hai, figliolo. Si direbbe che tu abbia visto un fantasma…»
C’è ironia nella voce di suo padre. Ma a Lukas non sembra proprio la voce di suo padre. No, il vecchio re Åkon non ha mai avuto tutta questa sicurezza. Tutta questa arroganza. No, quello non è suo padre, ma un vile impostore. Qualcuno che vuole mettersi tra lui ed il trono che gli spetta di diritto. Qualcuno da fare volare giù dalla finestra. Subito.
Lukas chiude la porta e raggiunge la scrivania con ampie falcate. Ampie e nervose e rabbiose. Sbatte le braccia sul piano di mogano e sibila: «Tu non sei mio padre.».
«Errore, figliolo. Errore», ribatte re Åkon. O il tizio che si spaccia per tale. Il suo impostore. «
Io sono tuo padre, Lukas.»
«Cazzate.»
Re Åkon sorride, una smorfia ferina che quasi gli deturpa i lineamenti. E lo ringiovanisce di almeno vent’anni. «Tu non sei uscito fuori dai lombi di Åkon, figlio di Kristian figlio di Elof figlio di Lars. Tu sei uscito fuori dai miei. Io ti concepii dentro tua madre. Io. Con le sue sembianze.»
«Cazzate!» Stavolta è un ringhio basso quello che esce dalla gola di Lukas, il verso del cane che sta per azzannare alla gola l’intruso, il ladro, il malfattore.
«Tu non sei mio padre. E io lo proverò!
«E come, di grazia? Mostrando loro il cadavere del re sfracellato sulle rocce? E chi mai ce l’avrà buttato il re sulle rocce, eh? Dimmelo tu, figliolo!»
Re Åkon non c’era più. Mano a mano che l’uomo parlava, il suo corpo mutava aspetto, come un blocco di creta nelle mani di un vasaio. Quello che Lukas fronteggia adesso è un uomo giovane. Alto, slanciato, mani sottili, lineamenti affilati. Capelli neri, lunghi sulle spalle. E occhi chiari. Chiarissimi. Verdi, come ruscelli di montagna. Scintillanti, come cocci aguzzi di bottiglia in controluce.
«Chi sei, tu?», domanda. Arretrando con il busto, come se la scrivania, all’improvviso, scottasse. Lukas non si è accorto delle fiamme nel camino, che ora guizzano allegre attorno ai ceppi, desiderose di correre lungo i tappeti, le tende, i mobili del castello. E di portarselo dietro. In un’enorme vampata furiosa.
«Te l’ho già detto, sciocco ragazzo», risponde l’uomo, adagiando la schiena contro la poltrona. «Io sono tuo padre, Lukas…»

 

 

Alexis le stava mostrando una cassa.
«L’abbiamo trovata sotto al letto.»
Seduta al tavolo della cucina, Shaina si voltò pensando Bingo! C’era un lucchetto sulla serratura. «Apritela», disse. E Alexis eseguì. Il lucchetto saltò dopo un paio di colpi di spada. Alexis scoperchiò la cassa. Shaina si avvicinò.
C’erano dei libri all’interno. Romanzi tascabili. Storie di amori passionali tra l’innocua fanciulla e l’aitante maschietto ritratti in copertina. Storielle che chiunque poteva acquistare per poche dracme giù a Rodrio. Shaina ne prese un paio e li sfogliò, sperando che quelle pagine le regalassero un indizio. Un appunto. Una fotografia. Qualcosa. Poi l’occhio le cadde sul fondo della cassa. Un fondo marrone scuro. Un fondo di pelle. Shaina estrasse tutti i volumi abbandonandoli sul pavimento e ne trasse fuori dei quaderni. I resoconti del Santo del Capricorno. Sotto la maschera si lasciò sfuggire una smorfia. Aveva sperato che Lois fosse estranea a tutta quella faccenda. Che fosse innocente. Che Apostolos si sbagliasse.
«Erano amici col Santo del Capricorno?», le aveva chiesto una sera, mentre fuori pioveva e Luglio diventava Agosto.
«Chi?»
«Lois», aveva risposto lui. Come se fosse la cosa più normale del mondo.  «Sai, quella ragazza mi preoccupa. Non ha una vita sociale. Sempre col naso su quei documenti e solo sui suoi…».
«Nessuno di noi ha una vita sociale, Apostolos», gli aveva risposto lei. Non le erano mai interessati i pettegolezzi. Li trovava stupidi ed infantili. Perché la voce del popolo non è la voce di Dio. La voce del popolo è quella del gregge che bela dietro alla pecora più grossa. A quella che ha messo in giro la voce. E difficilmente un pettegolezzo nasce se non per infangare qualcuno. Per metterlo nei pasticci. «Siamo Santi. Non impiegati.»
«Voi, forse. Io e Lois, no. E non vorrei che per lei fosse impossibile voltare pagina, dopo aver frequentato uno come il Capricorno.»
«Chiedile di uscire», aveva risposto secca Shaina.
Apostolos si era schermato dietro un sorriso. «Chi? Io? Sono sposato, lo sai…», ed avevano cambiato argomento, ma la pulce nell’orecchio era ormai entrata.
Shaina si alzò, prese i quaderni e li posò sul tavolo della cucina.
«Portatemi Lois», disse. Percepì i talloni di Alexis schioccare e sentì i suoi passi allontanarsi. Aprì un diario a caso ed iniziò a leggere. Resoconti di missioni. Pagine e pagine fitte di nomi e date. Abbandonò le imprese di Shura sul tavolo. Si alzò, raccattò un romanzo a caso – quello con un muscolosissimo ragazzo dai capelli castano scuro in copertina – e si sedette a leggere.

 

È sera.
La luna si nasconde dietro le nuvole come una cortigiana civettuola. Per fare loro un dispetto forse, ché a camminare al buio su quelle strade c’è il rischio di mettere un piede in fallo e lasciarci una caviglia. Shaina non ha grossi problemi. Lei conosce quelle strade come le sue tasche, eppure vorrebbe avere la luce della luna a confortarla durante il cammino.
Seiya la sta aspettando. È arrivato al Santuario come una di quelle ventate impetuose ed improvvise che gonfiavano le lenzuola stese ad asciugare sul terrazzo di sua nonna, a Roma, e che scompigliano cuori e capelli. Shaina sa per quale motivo è andato a cercarla, lo stesso che ha spinto Aiolia ad affacciarsi al gineceo una manciata di settimane prima. Marin. È sparita senza lasciare traccia, senza spiegazioni, senza un perché. Qualcuno ha iniziato a  mormorare frasi incresciose. A parlare di tradimento. Diserzione. Athena non s’è pronunciata, e dentro di Shaina s’è fatto strada un sentimento viscido e strisciante e indecente.
Se al posto di Marin ci fosse stato Seiya… Ma s’è imposta di non finirlo neppure, quel ragionamento. Di lasciarlo lì, a macerare sul fondo della coscienza. Perché, si dice, nessuno di noi c’era quando lei ha avuto bisogno. Perché, si dice, solo Seiya e gli altri si sono schierati dalla sua parte, quando ne ha avuto bisogno. E perché Seiya è Seiya. E se le altre aspiranti guerriere del Santuario gli hanno lanciato occhiate deluse – se l’aspettavano più alto, più bello, più forte, questo fantomatico Santo di Pegaso – se Athena – se Saori – nutrisse un sentimento diverso per Seiya – un sentimento umano, carnale, indecente – lei non gliene farebbe una colpa. Lei la capirebbe. Perché Seiya è Seiya. Perché le basta solo scorgere una zazzera castana perché il suo cuore batta a tremila e minacci di schizzarle fuori dal petto. Perché i suoi occhi sono dolci, e scuri e profondi. Perché la sua voce la fa fremere. Perché la sua pelle è calda e profumata. E darebbe mezzo mondo per accarezzargli le spalle ancora una volta. Una sola. Anche a costo di assaggiare di nuovo i colpi di Aiolia.
Però Seiya è Seiya. E sa essere sfuggente. E crudele, nella sua innocenza. Lui non si rende conto di quanto le costi incontrarlo adesso. Non si rende conto di quanto la faccia soffrire il vederlo per parlare di un’altra donna. Per parlare di tutt’altro, che non di loro due.
«Non posso permettere che tu ti sacrifichi per me», le ha detto, invertendo le posizioni con un colpo di reni. E lei, stretta al suo petto mentre la freccia del Sagittario tornava indietro, ha dato un significato ben preciso a quella manciata di parole. Ma poi, col passare del tempo e lo scivolare delle stagioni le une nelle altre, Shaina ha cominciato a pensare che nei silenzi di Seiya vi fosse nascosto un altro significato. Meno piacevole e più pragmatico. Altrimenti, perché non farsi vivo prima?
Per non ferire i tuoi sentimenti. Per non doverti dire «Scusami, ma io amo un’altra. Possiamo restare amici, se vuoi…».
Shaina si morde il labbro inferiore. Le gambe si arrestano. Quello laggiù è davvero Seiya. Non si è accorto di lei, o finge di. E lei gliene è grata. Ricaccia indietro le lacrime. Tira sul col naso. Ingoia l’orgoglio e mette a tacere il cuore, lo stomaco è un ammasso ghiacciato di ferro e altri metalli sciolti. E riprende a camminare, elegante, sinuosa, altera. Mettendo forse un po’ troppa civetteria nell’ancheggiare dei fianchi.

Lui è qui per Marin, vero. Ma puoi sempre ricordargli cos’è che si sta perdendo…

 

Seiya guardava oltre il proprio riflesso sul finestrino del jet della Fondazione. C’era una nuvola, sotto di lui, che aveva una forma curiosa. La testa di un serpente. Larga e piatta, come quella di un cobra. E si disse che l’ultima volta era stato un vigliacco. Un idiota. Che aveva avuto paura. Lei non l’aveva incalzato, non l’aveva pressato, non gli si era gettata ai piedi. Aveva accettato di incontrarlo, sì, davanti alla fontana nel muro, come la chiama la gente di Rodrio. Ma non si era trattenuta che lo stretto necessario, il tempo per comunicargli che no, lei Marin non la vedeva da un pezzo, per poi riguadagnare la strada verso il gineceo. Lasciandolo a fissare la sua schiena allontanarsi nel buio. E a chiedersi se quella scollatura posteriore fosse sempre stata così profonda e seducente.
Non si è neppure tolta la maschera, pensò, come se  con quel gesto lei gli avesse fatto un torto. Una ripicca. Seiya incrociò le braccia e abbandonò la guancia contro il poggiatesta, gli occhi fermi a fissare la testa di quel cobra di nuvole.
Avrei dovuto strappargliela io, pensò, il sangue che rombava nelle vene all’idea di lasciarla senza parole. Di stupirla. Avrebbe dovuto afferrarle un polso, farla voltare e…
Una fitta al basso ventre gli impose di calmarsi. Sì, avrebbe rivisto Shaina. Ma cosa le avrebbe detto? Lei si aspettava qualcosa, da lui. Una sua mossa, in un verso o nell’altro. Per tre volte gli aveva ripetuto che lo amava. Stupendolo. Terrorizzandolo. E aprendosi una strada nel suo cuore. Piano piano. Aveva percepito la sua presenza mentre era in coma. L’aveva sentita vicina, a leggergli qualcosa in una lingua che no, lui non conosceva, ma che si sposava alla perfezione con il suo accento musicale. Ora, toccava a lui. Seiya lo sapeva. Lo sentiva. Glielo diceva l’istinto, ché lui no, non se l’era sentita di confidarsi con i suoi amici – coi suoi fratelli – su quella questione. Era una situazione che un uomo avrebbe dovuto affrontare da solo. Invece lui aveva scelto di nascondersi dietro Marin. Forse era per questo che lei era rimasta sulle sue. Fredda. Come se incontrarlo fosse una questione di cortesia, e non di sincero afflato.
La prossima volta, Shaina. La prossima volta parleremo per bene, io e te.
E con quella promessa fatta a se stesso, con il cobra di nuvole come testimone, Seiya chiuse gli occhi. Un attimo, uno solo. Per riposare. Scivolando senza accorgersene tra le braccia di Morfeo.

 

«Pardonnémuà?!»
Isaac la fissa perplesso, sopracciglio sollevato d'ordinanza, producendosi in un’imitazione del suo maestro. Un’interpretazione, a dire la verità, ché Camus ha sempre quell’accento ballerino e quella erre arrotata in qualsiasi lingua lui parli, in russo come in greco, e che ad Isaac non viene così bene.
Lei ridacchia, le mani davanti alla bocca.
«Che te ne pare?», le chiede.
«Uguale!», gli dice, gli occhi che scintillano birichini.
«Modestamente», ribatte Isaac, passandosi un dito sotto al naso, come a mimare dei baffi. «Anzi, no.
ModestamOnte», ripete, il mento all’insù e le spalle dritte.
Lei tace.
«Avete fatto gli
eserscizi, lesoNfant?», aggiunge, lo sguardo severo che Camus gli rivolge quando si tratta di qualcosa legato all’addestramento. Cioè sempre. «Hai di nuovo dormito troppo, nespà
Il viso di lei è cereo, ma Isaac l’ignora. Pensa che stavolta sì, stavolta è riuscito a rendere l’anima del suo maestro nella sua imitazione. «Cosa devo fare con tè, eh,
monamì
«Isaac…»
«Zitta, che mi deconcentri…»
«Ehm…»
«Coco, ti ho detto di…»
«Io non sono Coco,
mon ami…»
Isaac si volta. Piano, piano, pianissimo. Alle spalle c’è Camus. Una mano sul fianco, un braccio accanto al busto, i capelli liscissimi e l’espressione di chi no, non ha gradito affatto l’omaggio.
«Ma… maestro…», balbetta il ragazzo, sentendosi piccolo piccolo.
Camus sorride. «La conosci la storia della gazza che ha vestito le piume del pavone?», gli chiede. Spiazzandolo.
«N… No…»
«No? Davvero? Eppure ve l’ho letta l’altra sera. Dormivi, forse?», gli chiede.
«No. Certo che no, maestro!»
Camus fissa ora lui ora lei, poi torna con lo sguardo su Isaac. «Immaginavo. Vorresti essere così gentile da raccontarla a Coco, allora?»
«Ce… certo, maestro!»
«Perfetto. I piatti sono nell’acquaio. Le scope nel ripostiglio. La legna da spaccare è fuori. Sapete cosa dovete fare», dice Camus guadagnando la poltrona davanti al camino scoppiettante.
Isaac trattiene uno sbuffo tra le labbra ed esce. Comincerà dalla legna. Il sole tramonta presto e di spaccare ceppi quando fuori è buio – e si gela – non se ne parla proprio. La porta sbatte e Camus si volta.
«Che stai aspettando?» Glielo dice in greco, ché prima lei lo imparerà, meglio sarà.
«
Moi aussi
«
Toi aussi
Lei sbuffa. Gonfia le guance come un pesce palla e pesta un piede a terra.
Lui solleva il sopracciglio, in quel modo che significa guai in arrivo, così simile al sorriso pericoloso di Rémy. E lei capisce. E gira sui tacchi ed esce ad aiutare Isaac.
Camus scivola in poltrona, un buon libro tra le mani e un sorriso soddisfatto ad arricciargli le labbra.




Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:
La purga non è un lassativo, ma come i russi chiamano la bufera che si accompagna al Buran, il vento freddo che ha dato origine alle parole italiane burrasca e buriana.

Alëša Popovič è uno dei bugatyr, l'eroe dei racconti russi.

Per quanto assurdo possa sembrare, Lois non è solo il nome della moglie di Clark Kent aka Superman, ma anche un personaggio biblico. Si tratta della nonna di Timoteo, che San Paolo cita nell'omonima epistola (Seconda Epistola a Timoteo, 1, 15). Il nome è greco (da loion, "migliore"), ma iniziò a diffondersi dopo la Riforma Protestante. Da noi esiste la variante Loide.

Non ce l'ho fatta. La nerdaccia che sonnecchia dentro di me mi ha fatto citare Lord Fener (scusate, ma per me è difficilissimo chiamarlo Dart Vader!) durante il suo showdown con quel minchiardo di Luke Skywalker. Scusate. Ad ogni modo, Empire strikes back, 1980.

Ho cercato di riprodurre la parlata di Camus in bocca ad Isaac. Ovviamente sembra di sentir parlare l'Ispettore Clouseau della Sûreté, me ne rendo conto. O Lupin III sotto acido. Siate comprensivi, suvvia.

La Gazza vestita colle penne del pavone è una favola di Fedro, Gragulus superbus et pavo fiaba ripresa da Jean de la Fontaine (Libro IV - IX), che ha dato luogo all'omonimo modo di dire, almeno oltralpe. Vi lascio la fiaba in traduzione nelle note.
Si narra che una Gazza,
trovate un giorno d'un Pavon le penne,
con arte intorno a sé le accomodò.
A far mostra di sé quindi la pazza,
con aria di persona alta e solenne,
per il cortile e tra i Pavoni andò.
Ma conosciuta a un tratto, ecco la fischiano,
l'insultano, l'incalzan, la berteggiano,
la beccan, la spennacchian... Mezza morta
fra le sue pari allor scappa la misera,
che in faccia ora le chiudono la porta.
Oh quante son le Gazze come questa
al mondo che le altrui penne si vestono,
che de' plagiari formano la casta!
Potrei scaldarmi contro lor la testa,
ma ciò che ho detto basta.


Noi ci vediamo la prossima settimana! E adesso, caffè per tutti!

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Capitolo 14
*** 14 ***


14.

 
«Ricapitolando… Questa qui», disse la ragazza indicando il cadavere della donna bionda abbandonato dall’altra parte della stanza, «ti ha giocato un bello scherzetto. Ti ha fatto il lavaggio del cervello. Come, non lo so. Ma lo ha fatto. Quindi, tutto quello che è successo in questi ultimi mesi, tutte le azioni che hai commesso, non sono imputabili a te. Non eri… com’è che si dice? Ah, sì. Non eri capace di intendere e di volere. Capisci?»
Hyoga no, non capiva. Non capiva chi fosse quella sconosciuta dai capelli rossi. Non capiva perché indossasse un’armatura d’oro, ma non la maschera. Non capiva cosa gli stesse raccontando – una storia ai limiti della fantascienza, di sicuro – e perché.
Non capiva dove diamine fosse – un capanno di pesca abbandonato?
Non capiva cosa fosse quella piccola luce rosa che fluttuava al polso della ragazza – un fuoco fatuo? Un’emanazione del suo Cosmo? Un piccolo effetto speciale, un vezzo di qualche tipo?
E, per ultimo, non capiva perché gli girasse la testa a quel modo e perché la sua gola assomigliasse ad una distesa di carta vetrata. Fissava i capelli biondi sparsi sul pavimento di legno scuro, come se potesse cavare da loro una qualche risposta sensata, o fare mente locale su cosa fosse successo. Spiccavano contro il fondo polveroso, come alghe di oro zecchino abbandonate dalla marea sugli scogli. Come fossero una cosa morta. Erano una cosa morta. Represse un conato di nausea, ma non riuscì a staccare gli occhi da quella nuca pallida e abbandonata. Come se dormisse.

«Ora, io non so da quant’è che va avanti questa storia. Settimane, forse mesi. Tu ricordi di aver mai incontrato quella donna?»
Hyoga mormorò qualcosa. Qualcosa come: «Non lo so. Non vedo il suo viso». Qualcosa cui lei rispose:«Giusto…», schioccando le dita e dirigendosi verso la donna – verso il cadavere. La voltò aiutandosi con un piede e Hyoga si ritrovò a fissare due occhi azzurrissimi spalancati sull’orrore e due labbra socchiuse. Come per scoccare un bacio. O per chiedere, stupite, perché. Indietreggiò sul pavimento. Voltò il capo. Abbassò lo sguardo.
«No», disse. «Non l’ho mai vista.»
La sentì rivoltare la donna – il cadavere – dall’altra parte e tornare verso di lui.
«Ascolta», gli disse, accucciandoglisi di fronte, «sei sicuro di non averla mai vista?»
Assomigliava a mia madre… «Quante volte te lo devo ripetere?!» La voce di Hyoga era un ringhio basso e rombante. La stava avvertendo di non tirare troppo la corda. «No. Non l’ho mai vista.»
«Ok», disse lei, ma qualcosa nella sua voce suggerì a Hyoga che la questione non era finita lì. «Dovevo esserne sicura, tu capisci…»
No. Non capisco!, pensò il Cigno, scoccandole un’occhiata eloquente.
«Il viaggetto che hai fatto ha spezzato l’incantesimo, chiamiamolo così. Però ti ci vorrà un po’ per espellere tutta la merda che quella lì ti ha dato…»
«Sei stata tu?», le chiese.
«No. È stato Babbo Natale», rispose lei. Silenzio. «In realtà, ha fatto tutto da sola. S’è sentita braccata e ha caricato a testa bassa. Contro il mio dito», e gli mostrò l’indice della mano destra, sfavillante di una nebbiolina tra il rosa ed il viola. «Questo si chiama suicidio, a casa mia.»
«Avremmo potuto interrogarla…»
«E secondo te perché s’è uccisa?»
«Per paura?»
Lei annuì. «Esatto. Ma non di noi. Paura di quelli che l’hanno inviata qui. Ti aveva perso, ormai. La missione era compressa e lei con essa.» Si alzò e si sgranchì le gambe in un clang. «Non ha avuto altra scelta…»

Hyoga tornò a guardarsi le mani. Non ha avuto altra scelta. La stessa vile combriccola di parole che gli avevano rifilato i marinai dopo averlo tratto in salvo. Per indorargli la pillola. E per lavarsi la coscienza. Sua madre non aveva avuto altra scelta che quella di sacrificarsi. Per lui. Affinché lui vivesse. E diventasse un uomo. Hyoga si domandò se non fosse una casualità che la sua aguzzina fosse bionda. Se non l’avessero scelta apposta. Possibile. Plausibile. Probabile. Restava da chiedersi perché. Perché lui, tra tutti i Santi di Athena. C’era un piano prestabilito dietro quella scelta – un disegno che lui non riusciva a vedere – oppure si trattava dell’ennesimo capriccio del Fato?
«Avanti, non abbiamo molto tempo», disse lei, strappandolo alle sue elucubrazioni. «Dobbiamo tornare indietro il prima possibile, e siccome abbiamo tanta strada da fare, direi di darci una mossa. Non credi?»
«E lei?»
«Giusto…»
La ragazza si avvicinò alla donna – al cadavere – e la osservò, un dito sotto al mento. «Hai una pala, una vanga o qualcosa del genere? Credo ci servirà…»
«Vuoi seppellirla?»
«Certo che sì», disse lei. «Un minimo di rispetto, che diamine!»
Si chinò e prese a frugare tra i vestiti della donna.
«Che stai facendo?»
Hyoga si alzò. Si alzò e la fissò. La testa gli girava ancora, ma il senso di nausea sembrava aver allentato la sua morsa.
«Cerco qualcosa da poter usare come prova. Per dire che l’abbiamo… sconfitta. E anche per sapere chi fosse questa persona. Chi te l’abbia inviata. Non si sa mai.»
«Non credo abbia i documenti con sé…»
«Risparmiami il tuo sarcasmo, vuoi?» Trovò un ciondolo al collo della donna. Un medaglione portafoto. Lo aprì e vi guardò all’interno. Poi lo richiuse. «Non possiamo toglierglielo…», disse, sistemando quel monile sotto lo scollo dell’abito. Le sfilò un anello. Una specie di vera nuziale, con un rubino incastonato tra due serpenti. «Prenderemo questa», disse, infilandoselo al medio.
«Allora, questa pala?»

Hyoga si guardò attorno, spaesato. «Non è casa mia, questa. Non so se vi sia una pala o un badile, o.»
«Capisco», disse lei. Aggiunse un altro ceppo al fuoco e si alzò. «Allora sarà il caso di dare un’occhiata in giro. Dobbiamo anche trovare il tuo amico.»
«Il mio… amico?»
Lei aprì la porta alla sinistra del camino e si affacciò. «Quello che era venuto qui, poco prima di me. Che sfortuna, se solo ci fossimo incontrati prima… Sai mica dove l’ha messo?»
«Di che stai parlando?» Hyoga si voltò nella sua direzione e mosse un paio di passi incerti.
«Non ricordi?», chiese lei, continuando a rovistare. «Forse è qui. Dietro quest’altra porta.»
La sentì forzare del legno vecchio e gonfio d’umidità, che protestò con uno scricchiolio acuto, e poi emettere un verso di disgusto.
«Macché! È solo una latrina male in arnese!», disse, chiudendo la porta con un gesto secco e tornando nella stanza principale. «E il tuo amico non c’è…»
«Ci sto capendo meno di prima», protestò Hyoga, massaggiandosi le tempie, una coperta infeltrita gettata di malagrazia sulle spalle. «Chi sarebbe questo mio amico?»
Lei gli piazzò gli occhi nei suoi e aggrottò le sopracciglia. «A me ha detto di essere tuo amico.»
«Ma chi? Quando? Dove?»
«Prima. Nella Valle dell’Ade. Ha detto di chiamarsi… di chiamarsi…»
Lei si mordicchiò le labbra e guardò a terra, la fronte corrugata alla ricerca di quell’informazione preziosa.
«Descrivimelo», e Hyoga non si accorse di aver quasi abbaiato quella parola.
«Carino. Lineamenti delicati. Occhioni blu. E armatura rosa.»
«Shun…», soffiò fuori, gli occhi allargati dalla paura. «Cosa gli hai fatto?!», e avanzò di un passo verso di lei, i pugni stretti e la mascella serrata.
«Io?», chiese lei, alzando le mani. «Io l’ho salvato. Tu l’hai spedito laggiù. Con le tue manine, caro…»
«Cosa?!» Hyoga avanzò di un altro passo, il cosmo in subbuglio. «Non dire eresie! Non potrei mai e poi mai torcere un capello ad un amico!»
Lei scosse la testa. «Proprio non ricordi?»

«Io…», e Hyoga ebbe un lampo. Un’immagine. E Hyoga ricordò. Qualcuno era entrato nella stanza. Qualcuno stava aggredendo una donna. Stava aggredendo sua madre. «Mamma…»
«Dimmi cosa vedi. Descrivemelo», e Hyoga seguì la sua voce. E glielo disse. Qualcuno di grosso, di grosso ed armato e pericoloso, era entrato nella casupola mentre lui non c’era. Ed era arrivato appena in tempo per vedere questo sconosciuto attaccare sua madre con… con una catena. E lui era scattato. E l’aveva difesa. E…
«La sua anima è qui», gli disse lei. Mostrandogli la piccola luce rosa, il palloncino legato al suo polso. Hyoga fissò prima quella luce – quel fuoco fatuo – e poi lei. «È la sua anima. Ma non può restare così. Dobbiamo rimetterla nel suo corpo. Ma prima, dobbiamo trovarlo, questo corpo.»
Hyoga annuì.
«Bene. Allora, la domanda resta. Dove hai messo il corpo del tuo amico Shun?»
«Non…», lo so!, ma Hyoga si accorse di stare mentendo. Si accorse che invece sì, lo sapeva dov’era Shun. Lo sapeva perché ce l’aveva messo lui. Nel terreno. Dietro la casa. Hyoga rivisse la scena con precisione quasi chirurgica. La neve spalata via con una vanga. La terra scavata. E l’espressione serafica di Shun. Quella di chi sta facendo il più bello dei sogni. Quello eterno. E poi altra terra. Sul suo viso. E neve, sporca di terriccio. E vide se stesso, appoggiato al manico della vanga, asciugarsi la fronte prima di osservare il suo lavoro. E sorridere. Soddisfatto.
Oh mio Dio…


Il cielo è grigio. Acciaio durissimo e freddo. E piove. Ma è normale, laggiù, che a Novembre piova. Su questo, almeno, è stato sincero. «È tempo suo, piccirì», le ha detto appena arrivati a Catania, con quella saggezza popolare e bonaria che gliel’ha fatto stare subito simpatico. È stata l’unica volta in cui l’ha chiamata piccirì. È stata l’unica volta in cui lei l’ha trovato simpatico.

Piove.
Lui non c’è. Etienne è ripartito la settimana scorsa. Ha ancora qualche spicciolo incastrato sotto al loro scoglio. Quello basso e piatto lungo la litoranea. Quello dove lui le ha fatto infilare la mano, il secondo giorno. Quello dove un granchio le si è attaccato così forte al pollice da farle temere per un lungo, terribile momento, che gliel’avrebbe staccato. Che sarebbe caduto sulla sabbia. Come una cosa morta. Invece, gliel’ha solo rotto. E lei si è sentita fortunata. Magari non la ragazza più fortunata sulla faccia del pianeta, ma quasi.

Piove.
Il sacchetto di caldarroste le regala un piacevole tepore nella tasca della giacchetta di lana. Ne mangiucchierà una per una, strada facendo, abbandonando il sacchetto prima che finiscano le case e tenendo in mano le ultime. Alle bucce penserà il vento.

Piove.
In riva al mare il cielo di Novembre sa essere ancora più severo, mentre il vento spazza la spiaggia e spacca le mani. E la pioggia che scende in gocce grosse come proiettili ti si insinua fin dentro le ossa. Nell’anima. Come se dovesse durare per sempre. E le si chiede come si possa stare accoccolati ad ascoltare il mare con un tempo da lupi come quello. «È una canzonetta estiva», le ha detto Salvo, allungandole il sacchetto di caldarroste, canticchiando la melodia a colpi di
mmmmh mhhh. «Si vede che qualcuno aveva ancora voglia di mare.»

Piove.
Ed è da dietro la falda rossa dell’ombrello che appare lui. Si ferma, le gambe che si sono fatte di piombo all’improvviso. Senza avere la decenza di avvertire. Un Santo di Athena lo riconosci al volo. Anche senza l’armatura. Lui ha uno scrigno enorme. D’Oro. Portato su un solo spallaccio, nemmeno fosse lo zainetto di un liceale. La guarda. Accigliato.
La maschera. Già, pensa lei. Avvicinandosi. Mica può restare ferma come un merluzzo. Quella è casa sua, dopo tutto. Così si avvicina.

Piove.
«Sto cercando il Santo del Cancro.» Ha una voce profonda. Particolarissima. Non è un greco. Non è italiano. Non è francese.
«Da dove vieni?», vorrebbe chiedergli, prima ancora di sapere come si chiami. «Il maestro non c’è», dice invece.
Un sacchetto di carta tra le dita arrossate. L’aroma delle caldarroste che si mischia alla salsedine. Trema come un fuscello. Chi è questo tizio? Cosa vuole, adesso?
Lui fa un passo avanti e la squadra. Severo.

«Cosa ci fai tu qui?»
«Ci vivo, qui.» Pausa. «Il maestro non c’è.»
E basta. Lei non sa dove sia. Dove diamine si sia arrampicato. E, anzi, spera che non ritorni. Che sparisca, come un pezzetto di legno mangiato dalla marea. Una pia speranza. Un’illusione. Ma si concede il gusto di coltivarla. Di sperare che lui le faccia questa cortesia. Anche se sa che mai e poi mai creperà. E che anzi, tornerà a darle il tormento. Anche dalla tomba

Questo l’ho capito, sbuffano i suoi occhi. È alto. Più alto di lei. Lineamenti affilati. Occhi verde scuro. Seri. Profondi. Pericolosi. «Fa niente. Tornerò.»
«Caldarrosta?»
Lui osserva quel sacchetto sgualcito come se potesse esplodere da un momento all’altro.
«Oggi fa freddo», insiste lei.
«La prossima volta», dice. E a quelle parole le esplode nel cuore un calore più intenso delle caldarroste nella tasca della giacca.



Hyoga scavava senza sosta. Affondava le mani in quel manto bianchissimo e duro, sollevando cumuli di neve con la stessa foga di un cane che sotto la terra ghiacciata ha fiutato un osso succulento da sgranocchiare. Un osso nascosto da qualcun altro, per una giornata di pioggia. Quell’immagine attraversò la mente di Hyoga come una cometa che rischiara la notte di Agosto. Lui si impose di non rincorrere la sua scia luminosa. Di lasciarlo andare per la sua strada. E di concentrarsi su Shun.

C’era un bastone conficcato nella neve, alle spalle della capanna. Una vanga male in arnese. Il suo manico, indifferente e ritto nel terreno come un palo attorno a cui far crescere le rose, in primavera – o una piccola, tenera piantina di pomodori – aveva della neve fresca attorno all’impugnatura sbeccata. Era qualcosa che assomigliava ad una croce, almeno nelle intenzioni, perché lui e sua madre – la donna che lui aveva scambiato per sua madre – avevano fretta. Dovevano partire. E non aveva avuto tempo di abbozzare una lapide, seppure provvisoria. E gli era sembrato scortese non segnalare in alcun modo la tomba di un nemico. Non gli era sembrato giusto. Hyoga rivide se stesso voltarsi mentre tornava indietro, soddisfatto di fronte a quel piccolo gesto di pietà per un nemico tanto stupido da essersela andata a cercare. Volle prendersi a calci da solo. Con forza, rabbia e rancore. Fino a farsi sputare le viscere. Vinse quell’impulso e scavò. Trattenne una bestemmia e scavò. Strinse i denti e scavò. Ancora. Di più. Più a fondo. Fino a sentirsi le dita bruciare. Fino a tingere di rosso la neve. Fino ad urtare qualcosa.

La ragazza col palloncino rosa – con l’anima di Shun! – era accanto a lui.
«L’hai trovato?!», gridò, per sovrastare il fischio del vento. Teneva le mani strette a coppa attorno a quella lucina – all’anima di Shun! – e gli faceva da schermo col proprio corpo, così da impedire alla neve di fioccare ancora. Si intravedeva una fioca luminescenza attorno alle sue dita pulsare sempre più disperata. Come se stesse gettando la spugna.
Non azzardati!, pensò Hyoga. Aumentando la velocità delle sue mani. Poi la sentì dire: «Ci siamo. Sta rispondendo.». Avvicinò il globo di luce – il fuoco fatuo – al terreno e questo cominciò a brillare con maggiore intensità. A riprendere fiato. Hyoga continuò a scavare e scavare e scavare fino a quando non riuscì ad estrarre qualcosa da sotto la terra.
«Usa la vanga. Usala come leva», disse la ragazza, indicandogli l’arnese che Hyoga aveva divelto dal terreno e lanciato contro il muro della casa, ma Hyoga non l’ascoltò. Tirò fuori Shun dal terreno, nemmeno fosse stato una rapa gigantesca e lo riversò su un fianco.

«Presto… presto!», disse Hyoga.
Lei avvicinò l’anima – il palloncino – al corpo di Shun. L’alone rosato svanì nel petto di Andromeda, per poi sgusciare via. Lei lo riprese al volo, tra le mani strette a coppa, e scosse la testa.
«Che succede?», le chiese. Terrorizzato.
«È troppo freddo», disse lei, chinandosi. «Il corpo deve avere la giusta temperatura, o l’anima sguscerà via di nuovo.»
Hyoga sospirò, ansimò e si deterse il sudore dalla fronte.
«Portiamolo dentro.»
«Ti do una mano», disse lei, mentre il vento soffiava sulle loro teste. Ma lui s’era già messo Shun in spalla, come un sacco di farina, e stava tornando indietro. Come se lei non esistesse.
Gli diede quattro passi di vantaggio. Lui ne compì sette. Lei lo raggiunse, l’anima del Santo di Andromeda che ondeggiava nel vento, e si chiuse la porta alle spalle.
Shun era livido. E Hyoga si sentì annaspare.

«Aiutami», disse lei inginocchiandosi. «Togligli la corazza.»
Gli incastri che tenevano assieme l’armatura di Shun erano congelati. Hyoga li fece saltare uno per uno, come fossero stati bottoni sullo sprone di una camicia. Pazienza. Avrebbe versato lui il sangue necessario per riparare Andromeda, ma prima doveva salvare il Santo. Per le corazze c’è sempre tempo, si disse, liberando l’amico dal peso degli schinieri. Lo afferrò sotto le ascelle e lo trascinò davanti al camino. Aggiunse alcuni ceppi al fuoco e soffiò per ravvivare le fiamme.

«Dobbiamo rianimarlo», disse lei posandogli due dita sotto la mascella.
«Non dirmi che…»
Certo che sì!, gli dissero i suoi occhi. «Conviene sempre prima riscaldarli», replicò, invece, reclinando all’indietro il collo di Shun. Frizionò il corpo, poi chiuse le mani una sull’altra e le posò sul petto di Shun. «Io spingo. Tu soffia.»
«Non sarebbe meglio il contrario?»
«Sei un maschietto. Hai una maggiore capacità polmonare, tu.» Pausa. «Non devi baciarlo. Basta mettere le mani a coppa attorno alla bocca aperta e soffiare. E ricordati di tappargli il naso.»
Hyoga annuì. Dischiuse con delicatezza le labbra di Shun facendole ruotare indice e pollice - come se stesse aprendo un portamonete - ed infilò un dito tra i denti per aprirgli la bocca. Chiuse una mano attorno alle sue labbra e poi annuì.

«Dai il tempo.»
«Ok. Uno, due, tre, quattro, cinque.»
Hyoga si chinò su Shun, gli tapò le narici e gli soffiò in corpo tutta l’aria che aveva nei polmoni.
«Uno, due, tre, quattro, cinque.»
«Uno, due, tre, quattro, cinque.»
«Uno, due, tre, quattro, cinque.»
«Uno, due, tre, quattro, cinque.»

Al sesto tentativo il fuoco fatuo – l’anima di Shun – reagì. Splendette con maggiore convinzione e di propria sponte fluttuò tra le dita delle ragazza e svanì dentro il petto di Shun.
«Hai visto?», le chiese Hyoga.
Lei annuì. Gli posò due dita appena sotto la mascella e chiuse gli occhi.
«È debolissimo», disse, continuando a tenergli una mano sul petto, all’altezza del cuore. «Adesso tutto dipende da lui», aggiunse, scostando le dita dal collo. «È un tipo testardo?»
«Abbastanza», rispose Hyoga.
«Ok. Diamogli una mano, vuoi?», disse. Si alzò, gli passò la coperta e Hyoga vi avvolse Shun. La sentì tornare nell’altra stanza e rovistare tra le masserizie.
«Ho trovato questi», e gli mostrò una tinozza di legno e un paiolo.
«Che dovremmo farci?», le chiese lui.
«Mettere ammollo il tuo amico. Dentro dell’acqua calda. Pensi di potermi procurare un po’ di neve?»
«Non si mette in acqua calda chi è assiderato.»
Lei chinò la testa da una parte. «No?», chiese.
«No», replicò lui.
«E allora, che si fa?»
«Lo si avvolge in panni caldi. Gli si copre la testa. Lo si riscalda col calore umano, se serve. Ma non lo si mette nel brodo come fosse un’aragosta.»
Lei annuì. «Non abbiamo vestiti asciutti, né berretti. Che facciamo?»

Hyoga si passò una mano sul viso. «Lo portiamo a Kohbotek», disse.
«Quanto dista da qui?»
«Non so nemmeno dove sia, qui
«Se Kohbotek è l’ultimo avamposto della civiltà, non è molto lontano. Dovrei farcela in pochi minuti…»
«Vengo con te.»
«Per chi mi hai preso, per un traghetto?», e la mascella di Hyoga si irrigidì. «Riesco a malapena a trasportare lui. Tu barcolli. Non riusciresti mai a starmi dietro.»
«Io sto bene!»
«Cazzate! Sei appena tornato dall’aldilà, non puoi stare bene! E io non posso portare indietro un cadavere!»
«Questo è un mio problema», disse Hyoga, avvolgendo la coperta attorno a Shun.
«No, è un mio problema!»
«E poi, tu non parli russo. O sbaglio?»
Lei si morse le labbra.
«Non sbagli», disse. «Ma tu non puoi correre…»
«… alla velocità della luce, lo so. Lo so.»
«Non puoi correre veloce quanto me. Non andiamo sempre alla velocità della luce. Per cosa ci hai preso? Ghepardi? La velocità della luce la si usa in battaglia.»
«Anche questa è una battaglia!»

Il fuoco schioccò nel camino.
«Senti», sospirò lei. «Facciamo così. Adesso riscaldiamo il tuo amico il più possibile. Poi io me lo metto in spalla e vado avanti. Corro più veloce che posso. Tu mi raggiungi. Ma devi promettermi di mettere sotto i denti qualcosa, intanto.»
«E cosa?», le chiese lui, sarcastico.
«Quelle andranno benissimo», disse lei, indicando le mele cadute sul pavimento. «Hai bisogno di zuccheri, o non riuscirai a fare nulla. E mi toccherà venirti a cercare nella tormenta. Abbiamo avuto tutti una giornata pesante, e non è ancora finita. Risparmiacelo, vuoi?»

Hyoga fissò il volto di Shun. Annuì.
«Avviciniamolo al fuoco», disse, spostandolo con delicatezza e posizionandolo su un fianco. Lei lo aiutò, poi spaccò la tinozza e ne gettò i pezzi al fuoco, che accettò grato quello spuntino fuori programma.
Hyoga si posizionò alle spalle di Shun. Si sdraiò dietro di lui e lo abbracciò.  Il suo corpo gli avrebbe fornito il calore di cui aveva bisogno. Come nella Settima Casa, pensò. Non si azzardò ad espandere il proprio cosmo, però.
«Mangia», gli disse lei, porgendogli una mela. Hyoga si puntellò su un gomito e l’addentò. Lei prese il paiolo ed uscì a raccogliere un po' di neve. «Sarà acqua calda, ma ci riscalderà», disse lei, rientrando e fissando la pentola al gancio.
«Potremmo metterci i torsoli della mela per dare un po' di sapore», propose Hyoga.
«Facciamo che te ne frego una e ce la mettiamo intera....», disse lei.
«Non ho ben afferrato il tuo nome.»
«Coralie», disse. «Puoi chiamarmi Coco, se per te è più facile. Lui è?»
«Shun.»
«Shun», ripeté. Poi tacquero. Hyoga addentò la mela e tornò a fissare le fiamme. Lei sistemò la coperta attorno a Shun e sedette accanto a loro, davanti al fuoco.
Fuori soffiava il vento.


«Hai i capelli di tua madre. Gli occhi, però, li hai presi da me.»
Lo sconosciuto occupa la poltrona del re con noncuranza. Le gambe accavallate, il mento appoggiato sul dorso della mano, riserva a Lukas lo stesso sguardo di chi cerca una somiglianza sul viso di una persona. Lukas si sente osservato. Passato ai raggi X, quasi. O da parte a parte. Come se fosse fatto di vetro.
«Era bella, sai? Tua madre, dico.» Lo sconosciuto – quello che gli ha appena rivelato di essere suo padre – sorride. Una smorfia di tenerezza che, però, su di lui assume una connotazione inquietante. «Si chiamava Freya. Come la dea. Divertente, vero? Mah, che vuoi farci? Tutte le principesse reali di Asgard si chiamano Freya…»
Lukas apre le orecchie. Sì, sua madre si chiamava Freya. Ma è anche vero che sì, tutte le principesse reali si sono sempre chiamate così. Freya. Come la dea dell’amore. Della bellezza. Della fertilità.
«Logico. Freya appartiene a Vanheim, dopo tutto.»
Lo sconosciuto – suo padre – prosegue col proprio monologo. Senza dar segno di curarsi del proprio pubblico.
«Era una ribelle. Una romantica. E un’amante eccezionale. Con tutto il rispetto», aggiunge lo sconosciuto quando si accorge che Lukas ha serrato i pugni. «E tu le assomigli. Moltissimo.»
Lukas non si lascia abbindolare. Sì, lui è quello dei tre principi che assomiglia di più a sua madre. Capelli biondo cenere, occhi verde chiarissimo, pelle d’alabastro. Ma questo lo sanno tutti, nel regno. Basta aver visto re Åkon e la defunta regina Freya.
«Ti abbiamo concepito in una sera di tempesta. Freya era bellissima con i suoi capelli d’oro zecchino sparsi sul cuscino. Deliziosa… Con rispetto parlando, ovviamente…»
«Cosa vuoi?»
È un ringhio basso quello che esce rombando dalla gola di Lukas. Il borbottio di una bestia impaurita che si fa più grande per convincere l’avversario che, tra i due, quello più forte è lui. Che non è il caso di insistere. Che avrà la peggio. Anche se è tutta una finta. Un bluff. Il tentativo disperato di portarti a casa il piatto quando in mano hai cinque carte spaiate.

«Conoscere mio figlio», ribatte il Tizio. Serafico. Come se quella fosse la cosa più normale del mondo. «E da quello che vedo, buon sangue non mente.»
Il tizio sorride. Il lampo della tagliola nel bosco che abbaglia la volpe poco prima di scattare. Il tizio si alza. Con molta, moltissima calma. Colla sua camicia rosso scuro, i suoi pantaloni a sigaretta, le scarpe lucide e i suoi capelli. Neri. Lunghi fino alle spalle, che gli incorniciano il volto magro e affilato. Gli dà le spalle, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni, e si avvicina alla finestra. La apre – la spalanca – e si affaccia, il vento che gli accarezza la pelle e il velluto della sua giacca nera.
«È un bel volo, eh?» dice. Guardando in basso, le mani sul davanzale interno. Lukas sa che basterebbe poco. Molto poco. Una spinta. Più energica di quella data a suo padre. Più veloce. E tutto sarebbe finito. Qualcuno diceva che gli omicidi sono come i passi. Tutto sta nel compiere il primo. Il resto, vien da sé, e Lukas non è atterrito all’idea di concedere un bis, questa sera.
È lui che se l’è andata a cercare, si dice. Fissando la schiena del tizio. Rilassata. Le spalle scese. Inermi.
«Quanto saranno? Due, trecento metri? Fino alle rocce sul fondo dico…»

Lukas lo sapeva, ma adesso l’ha dimenticato. Adesso non gli importa. Adesso sa solo che sì, è un bel volo. E che…
«Sai cosa mi piace di te, figliolo? Che non ti arrendi», dice il tizio, voltandosi verso di lui. Sorride, da sopra la spalla, e Lukas è costretto ad ammettere che sì, che qualcosa nello sguardo di quell’uomo molto simile alla luce che brilla nei suoi, di occhi, quando qualcosa lo diverte. «Però ti manca la fantasia. L’immaginazione. La creatività.»
Il tizio si stacca dal davanzale – la finestra resta aperta alle sue spalle – e avanza verso di Lukas, le braccia allargate in un abbraccio.
«Va bene
pensare», gli dice. Toccandogli le tempie. «Va benissimo. Ma devi evolvere il tuo pensiero. E spesso, non puoi usare due volte lo stesso sistema. Non si usa lo stesso trucco una seconda volta, Lukas. Mai. In nessun motivo. Perché un trucco svelato non piace più. Ha perso la magia, la sua allure. È brutto. Triste. Patetico. Capisci?»

Lukas si ritrova ad annuire, un braccio del tizio attorno alle sue spalle. Come farebbe un padre che racconta a suo figlio come vanno le cose della vita. Come gira il mondo.
«Non puoi buttare due cadaveri dalla finestra, figliolo. Uno è un incidente, una disgrazia. Due sono un omicidio. Capisci?»
Il tizio lo accompagna alla finestra. «Guarda, Lukas», gli dice, mostrandogli il panorama e descrivendo un arco col suo braccio. «Guarda, figliolo. Questo è il mondo.»
Lukas irrigidisce le gambe. Cerca appigli. Una mano si serra alle tende. Sposta il peso del corpo sui talloni, come a frenare una prossima caduta.
«Non ho intenzione di buttarti di sotto, Lukas», gli dice il tizio, restando impassibile. Sorride, lo sguardo perso ad osservare chissà cosa oltre al panorama, al nero della notte e delle stelle che brillano fredde e lontane sulle loro teste. «Sono
tuo padre, dopo tutto…»
«Cosa vuoi da me?»

Il tizio ride. Di cuore. Lukas non si accorge che alle loro spalle le fiamme nel camino rispondono alla sua allegria, danzando sui ceppi.
«L’ho sempre saputo che eri un ragazzo sveglio», dice. «Cosa voglio da te? Darti quello che meriti. Un futuro migliore. Più consono al tuo rango. Tu sai chi sono io, vero?»
E Lukas si specchia nei suoi occhi. E Lukas
sa. Lukas vede. Che è tutto vero. Sua madre da ragazza. Sua madre incinta di lui scaldarsi le mani al fuoco, le fiamme che le accarezzano la pelle. E il tizio, accanto a lei, testimone silenzioso, osservare mentre lui veniva al mondo. Mentre lei rendeva l’anima. Mentre gridava: «Mio Signore! Lukas, mio Signore!» e la sua mano ricadeva inerte sulle lenzuola rosse di sangue. E lui che accarezzava la guancia di suo figlio. E che se lo metteva sulle ginocchia.

«Tu… tu sei L…»
«Taci! Quel nome non è fatto per i mortali», gli dice, posandogli un dito sulle labbra. «Io sono tuo padre. Ciò ti basti.»
Lukas annuisce. Annuisce mentre un profondo senso di vertigine lo rende leggero. Come se lui stesso fosse aria calda che vuole salire in alto, ed abbandonare il freddo ed il gelo del suo regno.
«Il tuo nome lo ha scelto lei. Lo ha
gridato. Con tutto il fiato che aveva in gola. Le è sempre piaciuto. Diceva che fosse giusto così. I figli ereditano il nome dai padri, dopotutto, no?» Il tizio – suo padre – torna a sorridere. «Ti piace questo luogo, Lukas?»

E Lukas annuisce. Di nuovo. Perché sì, quello è il luogo dov’è cresciuto. Dov’è nato. La sua terra, dove affondano le sue radici.
«Sì», dice – soffia fuori – osservando il profilo della torre di sinistra stagliarsi contro la luna. Come a volerla pungere. Per dispetto. «Non voglio partire…»
«Lo capisco. Anch’io sono un esule in terra straniera, sai? Ma, ciò nonostante, a volte bisogna fare ciò che si
deve e non ciò che si vuole
«Ma io…»
«Ma tu?»
«Io voglio restare. Voglio governare questo regno. È un mio
diritto
«Un tuo
diritto? Davvero?» Lukas annuisce. «Ma tu non sei figlio di re Åkon, figliolo. Sei mio figlio. Che ti rende…»
«Un semidio?»
«Piano con le parole, ragazzo. Piano. Le parole sono importanti, sai? Sono potenti incantesimi, se usate come si deve. Per questo non le puoi sparare fuori dalla tua bocca come se fossero le cartucce di una mitragliatrice.» Il tizio sorride. La sua mano si stringe con maggior forza attorno alla spalla di Lukas. «Hai molti fratelli e sorelle sparsi per il mondo, Lukas. Ma quelli che conosci tu, quelli che popolano i racconti delle vecchie leggende e delle antiche religioni, no. Non sono tuoi fratelli e sorelle. Loro sono ad un livello superiore, figliolo. Loro sono
dei
«E io?», gli chiedono gli occhi spalancati di Lukas. Gli occhi del bambino che viene lasciato indietro dai compagni, che non riceve il dolce dopo cena, come i suoi fratelli e sorelle.
«Per te ho altro in serbo, figliolo. Qualcosa che tu, piccolo essere umano, apprezzerai di certo. L’immortalità può essere una gran seccatura, sai? Ma per quello c’è sempre tempo…»
«Hai… hai trovato un modo per permettermi di tenere il trono?», gli chiede Lukas. Fissando la luna splendere argentea nel cielo.
«Lukas, Lukas, Lukas… Io ti offro il mondo e tu mi parli di salsicce!» Il tizio ha un’aria delusa. Un tono di voce sconfortato.
«Il… mondo?»
«Esatto. Ma il mondo non è una caramella che puoi metterti in tasca alla mattina, appena sveglio. No, non funziona così. Te lo devi lavorare, il mondo. E devi distrarre i tuoi rivali. Che sono tanti. E invidiosi. E stupidi. Devi mostrare loro un’esca. Un abbaglio. Uno zimbello da seguire. Mentre tu ti occupi di altro.»
«Per questo devo andare ad Asgard?»
Suo padre annuisce.
«Esatto, ragazzo. Devi andare ad Asgard e lavorare per me dall’interno.»
«E tu?»
«Io? Io resterò qui e governerò Vanheim come re Åkon. Voglio vivere un paio d’anni come un essere umano. Sarà divertente, vedrai. E poi devo avere un posto dove poter pensare. Lontano da sguardi indiscreti, tu capisci?»
«E poi?»
«Tempo al tempo, Lukas. Ti manderò a chiamare quando sarà il momento di entrare in scena. Ma adesso non parliamo di questo. Abbiamo tutta la notte davanti. Per chiarirci e per conoscerci. Per chiacchierare. Godiamoci la luna, adesso. Dimmi, non è bellissima, stasera?»








Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:
Aggiornamento di giovedì, come un bel piatto di gnocchi.
C'è tantissima carne al fuoco in questo capitolo, per cui vediamo di fare ordine.

Mi piace essere il più accurata possibile in quello che scrivo, ragion per cui, mi documento. Mi informo. Faccio ricerche. Ma la pratica, come si suol dire, val ben più della grammatica. Specie in campo medico. Sotto coi disclaimer, dunque!
Il massaggio cardiaco fa parte del cosiddetto BLS - Basic Life Support - una serie di manovre di primo soccorso che tutti dovrebbero essere in grado di eseguire all'occorrenza. È utile seguire un corso per conoscere queste manovre ed eseguirle correttamente, prima di improvvisare; tutti gli ospedali delle grandi città organizzano corsi di primo soccorso all'interno delle loro strutture. Sono gratuiti e possono sempre tornare utili, nella vita.
Ovviamente, trattandosi di finzione, mi sono concessa delle libertà. Il massaggio cardiaco serve a mantenere in vita l'infortunato fino a quando non arrivano i soccorsi ed il personale medico specializzato ed addestrato. Un massaggio cardiaco salva una vita, sì, ma è impensabile che una persona colpita da un infarto, ad esempio, si rimetta in piedi dopo un massaggio. Fantascienza. Letteratura pura. E come tale deve essere considerata la descrizione delle manovre di rianimazione presenti in questo capitolo. Patti chiari, amicizia lunga.

Stessa cosa dicasi per i soccorsi da prestare in caso di assideramento. Mai mettere qualcuno di assiderato a bagno nell'acqua calda. Mai. Anche qui, lasciate perdere la letteratura e copritelo, piuttosto. E se frequentate le montagne durante la stagione fredda, seguire un corso di primo soccorso sulla neve male non farà. Anzi.

E parlando di posti innevati, Freya e suo fratello Freyr non sono Asi. La mitologia norrena comprende due specie di divinità, gli Asi (divinità guerriere) che vivono ad Asgard e i Vani (divinità legate al culto della terra), che abitano le pianuire di Vanheim. Secondo le leggende, vi furono due guerre tra Asi e Vani, e alla fine dell'ultima i Vani inviarono ad Asgard alcune divinità come scambio in seguito ad un trattato di pace: Freya (l'amore e la bellezza), Freyr (fertilità), Ullr (l'inverno) e Njordr (il mare).

Ho avuto modo di apprendere dalle opere della bravisisma Callie Stephanides che era uso tra i vichinghi riconoscere la propria figliolanza posandola sulle proprie ginocchia. Non so se quest'uso fosse stato tramandato da Tacito o da un altro autore della classicità. Da Callie l'ho appreso e lei cito come mia fonte.

Non ho resistito. Nel 2004 sulle pagine di Amazing Spiderman (#503 e #504) L'Uomo Ragno va in giro con una certa gentile personcina a risolvere un problemuccio che riguarda la di lui figliola (della gentile personcina, non dell'Uomo Ragno). Non ho resistito e ho dotato Voi-Sapete-Chi di una discendenza terrena. Ma gli ho tolto corna dorate e abiti verdi e gialli, giurin giurello.

E prima di affondare la forchetta nel mio piatto di gnocchi, una comunicazione di servizio. Purtroppo ho una fastidiosa tendinite al polso e devo tenerlo a riposo. Cercherò di essere il più puntuale possibile con gli aggiornamenti - basta copiare ed incollare da word - ma per qualche giorno non potrò rispondere ai vostri commenti. Sappiate, però, che li leggo tutti. E che vi sono grata per l'affetto con cui state seguendo quest'avventura. Alla prossima! Ci conto.

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Capitolo 15
*** 15 ***


15.

 

 

Il buongiorno si vede dal mattino. O almeno, così dicono. Lei ne è convinta, almeno in parte. Ogni mattina riesce a svegliarsi poco prima dell’alba. Resta sdraiata, le orecchie tese ad ascoltare quello che le sussurra l’aria per prepararsi di conseguenza. Una bella giornata la si accetta a braccia aperte. Una storta la si raddrizza. O almeno ci si prova.
Che tempo farà?
Soffierà burrasca? Vento di maestrale? Scirocco? Ma soprattutto, quello che lei si chiede è chi dei due arriverà. Quello calmo, pacato, riflessivo – e la sua sarà una giornata di chiacchiere e lezioni teoriche ed interrogazioni sulle costellazioni estinte e i miti – oppure l’altro, quello che ama la lotta, che espande il suo cosmo in maniera prodigiosa, che le ha lussato un polso per gioco e che lei seguirebbe anche in capo al mondo?
Sì, il suo maestro incute ammirazione e rispetto senza neppure aprire bocca. Una presenza scenica impressionante. Sembra quasi di respirare la stessa aria che consuma le stelle, lassù nel cielo. Ma l’altro –
ma Lui – è meglio. Ha carisma, Lui. È forte, Lui. Così forte da sbriciolare le stelle come fossero una pietra pomice sotto il tacco dei suoi stivali. Con quella luce negli occhi, quello scintillio che accomuna il martire ed il suicida, quello splendore caldo e avvolgente della fiamma che sale verso il cielo. Una vampata, dritta a ghermire il cuore pulsante di una stella che danza.
Sì, ci si diverte di più quando c’è Lui nei paraggi. Lui sa quello che vuole dalla vita. Dominare il mondo. E ha tutte le intenzioni di mettersi la Terra in tasca, come fosse un sasso colorato o una biglia di vetro. Lui è forte e non fa nulla per nasconderlo. Perché dovrebbe? Non è mica una malattia di cui vergognarsi. È qualcosa di cui andare fieri, piuttosto, sfilando tra la gente. A testa alta. Athena lo ha scelto proprio in virtù della sua forza e Athena non sbaglia, giusto?

Giusto, si dice – si risponde – stiracchiandosi pian pianino. Affina l’udito, annusa l’aria come farebbe un segugio in cerca della preda, ma niente. Non capisce chi si presenterà, oggi, né se si presenterà qualcuno. Non sarebbe la prima volta che si dimentica di lei. Lui e l’altro sono molto, molto impegnati, ché Athena sceglie con cura i suoi Santi ed affida loro missioni su missioni ai quattro angoli della Terra. E il suo è quello più impegnato di tutti.
Forse oggi non verrà nessuno.
O quella porta si sarebbe già aperta, si dice, mettendosi a sedere sulle lenzuola ruvide. C’è un po’ di maretta, in questi giorno, al Santuario. Il Capricorno ha fatto una solenne fesseria e Lui gli ha sguinzagliato dietro il Leone. Sospira. Maschi…
Fuori il cielo si sta tingendo di lilla. Si prospetta un’altra giornata calda. Caldissima. Si trattiene i capelli con le dita, una smorfia a piegarle le labbra. Forse è tutto un trucco. Forse apparirà quello calmo e pacato. O forse Lui irromperà nel momento più cretino della giornata – mentre si lava i denti, ad esempio. Vedremo, pensa, mettendo un piede a terra e recuperando un elastico di spugna. Ma intanto, sarà meglio ripassare l’elenco delle costellazioni estinte – diciannove – prima di colazione. Per le scazzottate c’è sempre tempo.
Posa le mani sulle assi di legno, puntella i piedi ed irrigidisce i muscoli della schiena. «Ape, Arco e Freccia, Argo, Cancro Minore, Capretti, Cerbero, Civetta, Corde, Freccia Australe, Gatto, Iadi, Ippocampo, Oca, Pleiadi, Ragno, Rondine, Tartaruga, Triangoli, Vendemmiatore…»

Il tetto della casa non c’era più. Nessuno aveva più spalato la neve dal tetto o davanti alla porta d’ingresso, e le assi avevano finito col cedere e con lo schiantarsi all’interno, trasformando quella casa in una tomba.
Ikki fissava quell’ammasso di neve e legna ad occhi sbarrati, le mani che tremavano e la bocca socchiusa. Accanto a lui, Ichi si guardava attorno, cercando qualcosa chino sul terreno. Orme, probabilmente, o qualcosa di simile, che rivelasse loro gli ultimi movimenti attorno a quella casa. Idra scosse la testa, il ciuffo argento ne seguì il movimento, e si rialzò.
«Niente», disse. «La neve ha coperto eventuali tracce. Per quel che ne so, potrebbe essere passato qualcuno ieri come non essersi vista anima viva da secoli.»
Nachi annuì. «Vado a controllare», disse, facendo un gesto in direzione di Ikki. «Per scrupolo», aggiunse.
«Vengo con te», disse la Fenice, ma la mano di Ichi si posò salda sul suo polso sinistro.
«Meglio andarci cauti», gli spiegò l’Idra. «Meno peso mettiamo su quelle assi e meno pericolo ci sarà.»
«Ma Shun…»
«… potrebbe essere lì sotto. Come potrebbe non esserci. Ma nel caso in cui, meglio non rischiare di schiacciarlo. Non sei d’accordo?»
Ikki guardò la casupola dritta davanti a loro. La porta e le finestre sulla facciata principale sembravano occhi spalancati sul vuoto ed una bocca aperta in un grido muto. Sentì lo stomaco diventare ancora più freddo. Strinse denti e mascella. Abbassò il braccio, ma Ichi non lo lasciò andare.
«Non credo che siano lì», disse, socchiudendo gli occhi.
«Non c’è bisogno di indorarmi la pillola!», protestò Ikki.
«Non ti sto indorando un bel niente!», ribatté Ichi. «Guarda, piuttosto. Questa bicocca sembra abbandonata a se stessa, e da tempo pure. Se qualcuno vi si fosse rifugiato, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stato liberare il tetto dalla neve. Prima lezione. La neve non perdona.»
Ikki osservò Nachi arrampicarsi pian piano lungo il muro della casa ed affacciarsi all’interno. Sì, quello che diceva Ichi aveva un senso, ma…
«Questo è un ragionamento che può fare chi si è addestrato in un clima rigido come te.»
«E come Hyoga», replicò Ichi. «Qui fa un freddo boia, ma nemmeno in Finlandia si scherza, sai? Quindi, fidati. Se Hyoga è davvero tornato in Siberia, non credi che avrà avuto una maggiore cura di casa sua? Quel tetto è venuto giù da un bel pezzo, dai retta a un cretino.»
Ikki annuì, ma non era del tutto convinto. Si sarebbe tranquillizzato solo quando avrebbe visto coi suoi occhi che no, lì sotto non c’era Shun. Non prima.
Nachi sparì oltre il profilo della casa e sentirono un tramestio provenire dall’interno. Videro la neve alzarsi, come se un cane stesse scavando una buca profonda sollevando la terra oltre le zampe. Poi il Lupo riapparve, con qualche spruzzata di bianco sull’armatura e un’espressione perplessa.
«Il tetto è crollato a causa della neve…»
«Ma?»
Il Lupo sospirò. «Ma dentro è un unico tappeto bianco. Troppo denso e stratificato perché possa essere successo nelle ultime ventiquattro ore.»
«E se…»
«Ikki, no. Shun qui non c’è. Lì dentro la neve è diventata un ammasso di ghiaccio, come te lo devo dire?»
Ikki si liberò del polso di Ichi ed avanzò verso la casupola.
«Ehi!», protestò l’Idra.
«Lascialo andare», gli disse il Lupo. «Non ci crederà fino a quando non l’avrà visto con i suoi occhi. Speriamo solo non si rompa l’osso del collo.»
«Quel bambino… come si chiamava?»
«Jacov?», suggerì il Lupo.
«Lui. Da quant’è che non vede Hyoga?»
«Dall’anno scorso, ha detto», rispose Nachi.
«Quindi significa che Hyoga è partito per la Siberia, ma che qui non è mai arrivato
«O magari non l’ha visto quel ragazzino…»
«No.» Ichi scosse la testa e Nachi si chiese se non gli si fosse congelato anche il cervello. «Se è arrivato qui, sarà di sicuro passato al villaggio.»
«A fare un saluto? Hyoga voleva stare da solo, questo ha detto milady. Ricordi?»
«Sì, ma senza provviste non si campa. Ammettiamo che abbia pescato e che la dispensa fosse piena di lattine e carne essiccata… Un salto al più vicino villaggio lo fai. Sempre. Specie se riapri una casa dopo quanto? Sei, sette mesi? Un anno?»
Nachi annuì.
«Il mistero s’infittisce», disse Ichi, grattandosi il mento. Nachi gli lanciò un’occhiata sghemba. «Snoopy. Mai sentito? Non li leggevi i fumetti, in Liberia?»
«No.»
«Male!» Nachi non commentò. «Che avrei dovuto dire? Spazio, ultima Frontiera
«Lascia perdere. Recuperiamo Ikki, piuttosto e torniamo indietro a Kohobotek. Lì sapranno sicuramente dirci qualcosa…»

 

Il buongiorno si vede dal mattino, pensò Masami sciacquando le tazze nel piccolo lavabo sul retro del jet. Il mal di testa era passato. Solo, da un po’ di tempo, le sembrava che la chiamasse una voce. In continuazione. Ma se si girava, non c’era nessuno. Era sola. Oppure le dicevano che no, non avevano aperto bocca, loro. «Sicura di stare bene, Masami-kun?», le aveva chiesto Furihata, il copilota, prima di salire a bordo. «Hai una brutta cera…»
Masami si concesse un rapido sguardo nello specchietto posto all’interno dell’armadietto dei viveri. Sì, aveva una brutta cera, ma niente che un po’ di correttore ed una passata di cipria non potessero sistemare. Finisco qui e vado in bagno, si disse.
Il Falcon 900 era un aereo progettato per viaggi a lungo raggio e dotato di tutti i comfort per i dieci passeggeri presenti a bordo, ospiti della ricchissima Saori Kido. Lei era l’assistente di volo del personale riservato che era stato acquistato assieme all'aereo, e nel suo contratto spiccavano un paio di clausole che la obbligavano ad essere discreta - leggi: a non fare caso alle persone di cui la signorina si circondava, fossero anche fotomodelli dentro scatole di sardine di taglia extralarge - e ad essere sempre pronta a decollare, a qualunque ora del giorno e della notte.
Questo significava due cose: non avere orari fissi – perché anche se la giovane Kido era ancora troppo piccola per andare a folleggiare in quota assieme ai suoi amici, poteva sempre avere il capriccio di andare a fare shopping a Londra o Parigi appena alzata – e vivere con una valigia sempre pronta sotto al letto. Just in case, come si diceva dall’altra parte del Pacifico.
Sua sorella Asami l’aveva presa in giro, chiamandola “La ragazza con la valigia”, ma quando a fine mese Masami le aveva mostrato il suo estratto conto con lo stipendio appena versato, il colorito di Asami-chan era diventato verde bile. E poi, quel lavoro le aveva permesso di conoscere Tetsuya. E si erano divertiti parecchio, loro due. Niente preoccupazioni, niente legami e un po’ di sano ed eccitante sesso ad alta quota, col pilota automatico inserito e i passeggeri profondamente addormentati. Ma un bel giorno, Tetsuya le aveva detto che era venuto il momento di darci un taglio. Che sua moglie – la stessa donna che non lo capiva, che non lo considerava e che probabilmente lo tradiva con il vicino di casa mentre lui era in volo – aspettava un bambino.
«È stato bello», le aveva detto dandole la schiena, abbottonandosi la camicia mentre osservava il panorama dalla finestra dell’albergo. «Possiamo restare amici. Mi passi la cravatta?»
Masami gli aveva detto che sì, certo, sarebbero rimasti amici senz’altro; ma l’avrebbe strozzato più che volentieri con il suo foulard o gli avrebbe piantato i tacchi delle sue décolleté negli occhi. Si era sentita tradita e umiliata ed offesa. Non si aspettava che Tetsuya lasciasse sua moglie per lei – né era questo ciò che lei voleva, no; Masami desiderava semplicemente uscire a testa alta da quella situazione. Essere lei, quella che se ne andava. I suoi genitori le avevano combinato un incontro con un giovanotto di qualche anno più giovane. Un ingegnere, un medico o un promettente avvocato. «Un buon partito», le aveva detto sua madre per telefono. Qualcuno che le avrebbe permesso di vivere agiatamente senza una valigia pronta sotto al letto. Qualcuno che lei avrebbe accettato dopo un numero ragionevole di incontri, abbastanza da non sembrare troppo disperata da aggrapparsi al primo che passa pur di non restare zitella e sufficienti per non apparire troppo fredda e distaccata. E questo a Masami stava bene. Ma avrebbe voluto essere lei a dire a Tetsuya che era meglio chiudere lì la questione. Lui si sarebbe fatto spostare altrove, per stare più tempo possibile vicino a sua moglie, e lei avrebbe continuato a volare fino al giorno delle sue nozze. Invece, così era lei a dover ingoiare il rospo e a lavorare gomito a gomito con il suo ex – anche se tra loro non c’era stato nulla che potesse qualificarli in quel modo.  Tetsuya era gentile e cortese, come sempre. Molto professionale. E questo le dava ancor più fastidio, perché Masami sapeva che le voci sulla loro rottura erano volate di bocca in bocca più rapide di una freccia. O Furihata non avrebbe fatto commenti sul suo aspetto, quello di una donna abbandonata che piangeva accanto al telefono. E qualcosa le diceva che Tetsuya si comportava così perché era pronto a tornare alla carica. Le gravidanze sono un periodo difficile. E spesso le donne non sono in vena di intimità, specie se, come credeva – come malignava – Masami, il bambino non era di Tetsuya, ma del fantomatico vicino. E cosa c’è di meglio dell’amante abbandonata per spendere qualche ora di relax a diecimila metri di quota senza l’assillo delle nausee, del mal di schiena e di una persona accanto a te che assomiglia più ad un dirigibile che alla donna che hai sposato?
Era stato Tetsuya stesso ad avvertirla, subito dopo mezzogiorno. Sayuri, la segretaria, era malata, così le aveva telefonato lui. E il mal di testa di Masami era peggiorato, assieme al suo umore. Aveva ingoiato un cachet, mentre Tetsuya parlava. Un volo in Grecia, con scalo di due ore a Doha. Perché la signorina Saori voleva passare un po’ di tempo laggiù coi suoi amici. «Atene è splendida in questo periodo», le aveva detto Tetsuya prima di riagganciare, con un tono così idiota e mellifluo che Masami si era domandata cosa ci avesse trovato in lui di tanto interessante.
Avrei fatto meglio a dare una chance a Furihata, pensò, rimettendo a posto le tazze. Il campanello suonò. Masami si asciugò le mani e si armò del suo migliore sorriso prima di rientrare in cabina. Sperò che non la stesse chiamando Saori, ma uno dei suoi amici, magari quello alto e bruno che sembrava uscito fuori da un complesso rock e con un sorriso mozzafiato. E con il quale non le sarebbe dispiaciuto fare un certo tipo di discorso, più tardi, mentre il resto della compagnia dormiva della grossa. Con buona pace di Tetsuya.

 

«Insisti?!»
Shaina sbatté un pugno sul tavolo della cucina. Il cucchiaino nella tazzina tintinnò. Accanto a lei, le lunghe gambe accavallate, il Venerabile Mu la osservava con un’espressione indecifrabile. Un abbozzo di sorriso e lo sguardo gentile di sempre, ma qualcosa suggerì a Lois di non abbassare la guardia. Non era Shaina, quella da cui guardarsi, no. Can che abbaia non morde, dopo tutto. Ma il cane che non abbaia, cos’è che fa?
Morde.
Lois strinse la mascella.
«Non è come sembra», disse – ripeté.
«Abbiamo trovato questi resoconti sotto al tuo letto, nascosti in una cassa », e la voce di Shaina si accordò al tamburellare delle sue unghie sulla tovaglia incerata. «Ora, dimmi, Lois… che ci facevano questi documenti riservati lì sotto?»
Silenzio.
Lois non poteva rivelarle perché avesse preso in prestito quei diari. Non poteva rivelare il motivo innocente per cui l’aveva fatto. Non davanti al Venerabile Mu.
«Allora?» La voce di Shaina la richiamò all’ordine.
Silenzio.
«Non abbiamo tutto il giorno, Lois. O collabori, o…»
«Posso chiedere perché vi siete introdotti in casa mia senza permesso?» Attaccare era la soluzione. Per prendere tempo. Doveva imbastire una scusa credibile, qualcosa che provasse la sua innocenza ma che, allo stesso tempo, preservasse il suo segreto. I suoi sentimenti. Non poteva certo pensare di divulgarli ai quattro venti. L’avrebbero derisa. Si sarebbero presi gioco di lei. Erano soli, in quella cucina – nella sua cucina – ma Lois sapeva che fuori dalla porta i soldati erano tutti orecchie, pronti a carpire ogni singola sillaba per poi spiattellarle in giro, davanti ad un po’ di vino, come tante lavandaie pettegole. No, non poteva assolutamente rivelare perché avesse portato a casa i resoconti del Venerabile Shura. E rigirare la frittata era l’unica opzione disponibile. Per il momento, almeno.
«Le domande le faccio io.» Shaina non si era lasciata incantare. Probabilmente, hanno già provato questa tattica, con lei. I suoi allievi, forse, pensò Lois corrugando la fronte. E forse l’Ofiuco si era alzata col piede sbagliato, quella mattina, perché riprese a tamburellare con le unghie sulla tovaglia e ripeté: «Cosa ci facevano sotto il tuo letto i resoconti del Santo del Capricorno?».
«Dai, su. Dicci la verità, così la facciamo finita», sembrava suggerirle lo sguardo dell’Ariete. Lois sgranò gli occhi. Giravano delle storie, sul Santo dell’Ariete. Storie diverse da quelle che si raccontavano sugli altri. Pareva che riuscisse a teletrasportarsi, lui. Che leggesse nella mente delle persone, lui. E Lois, specchiandosi in quegli occhi dolci, si chiese se, per caso, il Venerabile Mu non si stesse facendo un giretto nella sua testa. E da quanto tempo andasse avanti la passeggiata.
«Venerabile Mu… voi…»
Mu sbatté le palpebre un paio di volte, poi Lois lo sentì dire: «Io, cosa?».
Mi stai leggendo nella mente, bastardo?!, pensò Lois guardandolo dritto negli occhi. Mu piegò la testa alla sua sinistra, di poco, quel tanto che bastò ad una ciocca di capelli per scivolargli su una spalla. Ma tacque. Che faccia da poker!, pensò Lois stringendo le labbra.
«Non vuoi parlare?», le chiese la voce di Shaina. «Ok, mi vedo costretta a farti ostracizzare.»
La testa di Lois tornò a fissare l’Ofiuco come se fosse caricata a molla.
«Come?», chiese. Con un filo di voce spezzata.
«Non mi lasci altra scelta», le disse Shaina, guardandola da sotto in su, seduta sulla sedia della cucina – della sua cucina – con le gambe accavallate. «Abbiamo rinvenuto del materiale riservato in casa tua. Sotto il tuo letto. Sapientemente nascosto sotto dei romanzetti d’amore», Che scommetto tu avrai letto, vero?, pensò Lois regalandole il peggiore dei suoi sorrisi, «Questo si chiama furto, Lois. Ed il furto è un reato che prevede pene severe, qui. Hai dodici ore per fare fagotto ed andartene. Lasceremo due soldati qui fuori, per evitare che tu commetta qualche sciocchezza…»
«No!»
«Mi dispiace, Lois», ripeté Shaina, col tono di chi pensa che in fondo no, non gli dispiace affatto, «ma non mi lasci altra scelta.».
E come marionette animate da una mano sapiente, Mu e Shaina si alzarono insieme con un movimento fluido e armonioso. In perfetta sincronia.
«Aspettate! Aspettate, vi prego!» Lois afferrò il braccio sinistro dell’Ariete. Il quale la guardò da sopra la spalla. «Voi… voi avete letto nella mia mente, vero, Nobile Mu?»
L’Ariete rimase a fissarla per qualche istante, con quella sua espressione indecifrabile e distaccata. Poi scosse la testa e disse:«No. Non sarebbe stato corretto.». E Lois seppe che le stava dicendo la verità.
«E allora, fatelo!»
«Sei impazzita!?», esclamò – strillò – Shaina. Mu le fece un cenno con la testa, zittendola. Lo sguardo dell’Ariete si fece più attento. Più interessato.
«Perché?», le chiese.
«Perché… Perché non posso… parlare…»
«C’è forse qualcuno che ti minaccia?», le chiese lui, con quel suo accento impossibile.
«No. Ma si tratta di una questione… riservata. E so che a voi, Venerabile Mu, posso affidare questo mio segreto…»
Mu e Shaina si scambiarono uno sguardo. Era quello che aspettavano, pensò Lois. Era caduta nel loro tranello, vero, ma almeno avrebbe mantenuto i suoi sentimenti al riparo dalle chiacchiere dei pettegoli di Rodrio.
«Quello che mi chiedi non è convenzionale», disse Mu, ma Lois sapeva che l’avrebbe accontentata. Sempre se non ha già letto nella mia mente ed ha deciso di voler scandagliare più a fondo, pensò, mentre annuiva al Santo dell’Ariete.
«Non ve lo starei chiedendo se non fosse indispensabile», disse. E se tu non sapessi che io sono innocente, o quantomeno innocua, non staremmo avendo questa conversazione, giusto?
«Sarà doloroso», l’avvertì Mu. «Te la senti lo stesso?»
Lois annuì.
«Va bene», le disse. Lois lasciò andare la presa.
«Vi lasciò soli.» Shaina uscì dalla cucina, come se quella fosse la sua battuta di congedo.
Mu non rispose. Ripeté:«Va bene», ponendole le dita sulle tempie. Erano fresche. Fresche e ruvide sui polpastrelli. Le cuticole erano rovinate. Forse se le mangiava. Lois non poté impedirsi di arrossire pensando che quella era la prima volta che un Santo d’Oro le sfiorava la pelle. Quante volte aveva visto le sue mani e si era chiesta come dovesse essere sentirle correre lungo la schiena o scivolare sul collo? Quante notti aveva sognato che Lui s’infilasse nel suo letto e la inchiodasse sul materasso, facendola sua alla luce dei lampi? Quante volte aveva desiderato sentire la sua pelle…
«Adesso svuota la mente da tutti i tuoi pensieri.»
Lois sfarfallò le ciglia. Mu aveva un sorriso indecifrabile. Oddio, non avrà mica?, pensò lei. Il sorriso dell’Ariete si accentuò. Rispondendole di sì.
«Avanti, Lois. Chiudi gli occhi.»

 

Milo osservava il panorama.
C’era un mare di luci, sotto di loro, come una spicciolata di piccoli fuochi d’avvistamento – o di incoraggiamento – sparsi a terra per fare compagnia ai naviganti che attraversavano il cielo di notte. E farli sentire meno soli. Uno spicchio della sua visuale era saldamente occupata dall’ala, e dentro di sé si ripromise che a Doha si sarebbe seduto qualche fila più avanti e si sarebbe goduto il panorama senza quella fastidiosa presenza.
Spostò lo sguardo dal blu della notte al riflesso della fila opposta alla sua. Gemini sedeva composta sul sedile reclinato, le braccia in grembo ed una mascherina a coprirle il viso. Avevano parlottato un po’, strada facendo. Le si era seduto vicino, un bicchiere di vino tra le mani, ed avevano fatto conoscenza. Quattro chiacchiere di mera cortesia, con cui lo Scorpione aveva tentato di mettere a fuoco quella ragazza, sfoderando il più pericoloso dei suoi sorrisi, quello che mieteva più vittime tra le esponenti del gentil sesso; ma lei aveva resistito. Lo aveva guardato atarassica, con quei suoi grandi occhi verde smeraldo sulla carnagione caffellatte. Aveva conversato amabilmente. Aveva riso alle sue battute. Ma non aveva raccontato di sé che lo stretto necessario. Veniva dallo Sri Lanka. Ceylon. «Quell’isoletta a sud dell’India, hai presente?» Non rammentava chi fossero i suoi genitori. Era sempre vissuta per strada. Mendicando. Rubacchiando. Arrabattandosi. Fino a quando non l’avevano portata al Santuario. Chi era stato? Un ragazzo. Aveva un’urna rossa in mezzo alla fronte e i capelli corti. Non le aveva detto il suo nome, né quello della sua costellazione. Lei non l’aveva più rivisto. Il suo maestro? Aveva appeso l’armatura al chiodo parecchio tempo prima, ma lei non sapeva quale fosse. Non amava parlare del suo passato e diventava molto, molto pericoloso quando lo si stuzzicava. Perché non erano intervenute? «Ordini del Sacerdote», gli aveva ripetuto, con la stessa leggerezza con cui si commenterebbe l’ultimo successo musicale. «Noi dobbiamo farci vive solo all’avvento di Ade. Non prima», e Milo aveva capito che non avrebbe ricavato null’altro, da lei, nemmeno estraendoglielo con delle tenaglie arroventate.
«Non vedo l’ora di arrivare. Inizio a dare di matto, qua dentro.»
La voce di Aiolia strappò Milo ai suoi pensieri. Il Leone si era accomodato davanti a lui ed aveva steso le gambe in un clang metallico.
«Ti rifarai sotto a Doha?»
«No», rispose lo Scorpione stiracchiando le braccia. Sì, l’armatura era diventata un fardello, più che un conforto. Il diadema dello Scorpione era posato sulle sue ginocchia, ma era quello l’unico peso di cui si era potuto disfare. Lo stesso aveva fatto Aiolia, che adesso giocherellava con il proprio diadema rigirandoselo tra le mani. «Non si sbottonerà oltre.»
«Che peccato, vero?»
Milo ghignò. «Già. Non ho capito quanti anni abbia, però…»
«Troppo pochi», ribatté Aiolia.
«Tu dici? Varrebbe la pena di chiederglielo…»
«Non mi sembra un comportamento corretto…»
«Oh, ma sentitelo!», e Milo fece un gesto con la mano, come a scacciare una mosca fastidiosa. «In guerra e in amore è tutto concesso.»
«Anche infilarti nel letto del nemico?»
«Ma se non ti ci infili, come lo sai che quello è il nemico? E se fosse un’amica
Aiolia si lasciò scappare un sorriso e scosse la testa. «Allora, che idea ti sei fatto?»
«Non saprei. La sua logica riflette molto la politica del Santuario durante la reggenza di Saga, così come l’ha definita lei. Reggenza, non usurpazione o qualche altro termine meno lusinghiero. Reggenza. Come se Saga, in un certo qual modo, fosse stato autorizzato dalla piega degli eventi a fare quel che aveva fatto.»
E?, gli chiese Aiolia con lo sguardo.
«Quando le ho chiesto cosa intendesse, senza andare troppo per il sottile, lei si è stretta nelle spalle e mi ha detto…  che usare reggenza serve a scaricare in parte la responsabilità di tutti noi. Che abbiamo obbedito alle sue regole, credendolo il Sommo Sion. Solo che lei non ha mai visto il Sacerdote in vita sua, e quindi, in un certo senso, è giustificata. Voi del Santuario che scusa avete?, mi ha chiesto.»
E tu non le hai cavato gli occhi? «Potrebbe essere una posa. Questa sua aggressività, dico. Magari si sente sotto pressione…»
«Oppure no. Per questo non vedo l’ora di atterrare ad Atene e vederci chiaro, in questa storia. Non mi tornano troppe cose.»
«Tipo?»
«Tipo, al Santuario si tiene nota di tutto. Lo sai anche tu, no?» Aiolia annuì. «Ecco, io vorrei sapere chi sia stato ad addestrare queste tizie. Quante ce ne siano. In vita, dico. E con l’armatura assegnata. Saga lo avrà tenuto scritto da qualche parte, non credi?»
«E se avesse distrutto tutto?»
«Non ci credo. Non è possibile. Lo so io e lo sai… tu.» La voce di Milo si spense, affievolendosi come una candela dallo stoppino troppo corto. «Athena? Athena?! Cosa c’entra adesso Athena?! È una pura e semplice questione tra maestro e allievo. Maestro e allievo. Lo so io e lo sai tu.» La voce di Camus, con quel tono ballerino e le erre ingoiate e le adenoidi sul punto di esplodere gli riempì la mente con chirurgica e dolorosa perizia. Strinse la mascella e tornò a guardare fuori. Le lacrime stavano per fare capolino e lui non poteva – non voleva – farsi vedere. Per pudore. Per orgoglio. E per un’altra mezza dozzina di motivi che Aiolia comprese all’istante. Il Leone fissò lo smeraldo al centro del proprio diadema, poi disse – poi bisbigliò: «Saga ha combattuto fino all’ultimo respiro. Anche volendo, non avrebbe avuto tempo e modo di distruggere quei documenti.».
«Appunto», annuì Milo ricacciando indietro le lacrime e la rabbia. «Se avesse appiccato il fuoco a quei documenti, avrebbe incendiato mezzo Santuario. Invece no. Non è stato il suicidio del gerarca messo alle strette, il suo. No.»
Aiolia si voltò alla sua sinistra.
«Avete bisogno di qualcosa?», chiese loro l’assistente di volo. Aiolia pensò che si dovesse proibire ai giapponesi di parlare in inglese. Non che i greci avessero una pronuncia migliore, ma l’inglese, in bocca ad un giapponese, diventava qualcosa di ancora più astruso e contorto. Spezzettato. Maltrattato. Indecifrabile.
L’hostess sorrise. Più a Milo che a lui ed il Leone subodorò puzza di guai.
«Un caffè, per favore. Decaffeinato», le chiese Milo, con una pronuncia creativa. Lei intese. Come, Aiolia non seppe dirlo, ma accadde. Lei sorrise, replicò con un «I’ll be back in a moment», o qualcosa del genere e si allontanò.
«Quanti anni avrà secondo te?», si sentì chiedere da Milo.
Boh? Ventitré? Venticinque al massimo?, pensò Aiolia. «Non vorrai…»
«Certo che voglio! Che domande mi fai?» Milo si alzò. Aiolia allungò le gambe.
«No. Non ci pensare nemmeno.»
«Troppo tardi. Ci ho già pensato.»
«Non ti faccio passare.»
Milo sorrise, una smorfia pericolosa e accattivante, e Aiolia poté intuire come facesse a farsele cadere tutte nel letto.
«Devo andare in bagno. Non vuoi che io la faccia qui, vero, micio?»
«Sei in missione», gli ricordò Aiolia, nel vano tentativo che questo contasse qualcosa, per Milo.
«Sono bloccato su questo coso volante, vorrai dire. Avanti, Aiolia. Che può succederci, quassù? Chi potrebbe mai attaccarci?», disse lo Scorpione guadagnando il corridoio centrale e dirigendosi verso la coda dell’aereo armato del suo migliore sorriso e delle peggiori intenzioni possibili.
Aiolia lo vide scomparire dietro al separé e si stese sul sedile. Mancavano ancora due ore prima dell’arrivo a Doha. Meglio dormire un po’.






Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:
Il caro Masami ci ricorda che le costellazioni sono ottantotto, e che quindi dobbiamo aspettarci altrettanti Santi preposti alla difesa di Athena e della Terra. Il problema sta nel fatto che le costellazioni sono diventate ottantotto solo tra il 1922 ed il 1930, quando l'UAI, l'Unione Astronomica Internazionale, decise di fare ordine in quel delirio che era diventato il cielo.

Il criterio è il seguente:
- le dodici costellazioni dello Zodiaco
- le trentasei costellazioni di Tolomeo, diventate trentotto per lo smembramento della Nave Argo da parte di Lacaille (e sto progettando un modo per unire il vero Lacaille all'allievo di El Cid. La Teshirogi non è scema. Anzi. E se mi serve questi assist, non posso non raccoglierli, giusto?!)
- altre trentotto costellazioni moderne, raggruppate dal 1600 in poi, per lo più nell'emisfero australe.

Per posizione, le costellazioni sono 18 boreali (emisfero nord), 34 equatoriali  e 36 australi (emisfero sud).

Esistono, poi, delle costellazioni cadute in disuso, perché assimilate da costellazioni più grandi e più semplici da riconoscere (considerate che l'inquinamento luminoso è andato incrementandosi vieppiù nel corso dei secoli). Tra queste, ho eradicato cose improponibili come Lo Scettro di Brandeburgo (vabbé), ed ho tenuto quelle che hanno una qualche attinenza mitologica, o che si possono far rientrare nel meccanismo della catasteria, anche spingendo.
Ne ho individuate diciannove, che sono quelle elencate nel primo paragrafo. Se andiamo a vedere, il povero Cerbero c'è, eccome. E il caro Dante pesta come un addannato con le sue palle chiodate, nonostante i suoi amici lo sfottano a riguardo. Se non ci credete, date un'occhiata qui...
Se poi volete farvi una cultura sulla storia delle costellazioni, buttate uno sguardo qui.

Non ho resistito. Ho collegato la maretta che c'è al Santuario descritta nel primo flashback con quanto sta accadendo in Episode G Assassin. Il caro Okada deve imparare a fare tavole meno illegibili e voglio proprio vedere come gestirà lo sfasamento temporale tra la fine di Episode G (1979) e quanto accade in quest'altro capitolo (1980?). Perché posso capire che Shura sia incappato nel TARDIS e abbia fatto un viaggetto ai giorni nostri, ma Aiolia? Come ha fatto a seguirlo? La porta era rimasta aperta? Ad ogni modo, vedere Shura con gli occhiali mi ha stesa.
E non potevo non citare Star Trek, questa settimana. Ci ha lasciato venerdì scorso Leonard Nimoy, il Signor Spock della serie classica citato ogni tre per due nei primi capitoli.  “Every life comes to an end when time demands it. Loss of life is to be mourned, but only if the life was wasted”.

In Giappone è ancora costume che i genitori arrangino i matrimoni dei figli. Accade nell'alta borghesia, quanto nella medio bassa. Fino a pochi anni fa una ragazza di venticinque, trent'anni non ancora sposata era additata come una zitella irrecuperabile. A metà degli anni ottanta avere venticinque anni ed essere single era considerato come camminare sull'orlo di quel baratro che si chiama solitudine eterna. La cara Masami ringrazia. E sì, Masami può essere anche un nome femminile. Dipende da come lo si scrive. Non ne ho idea, quindi passo. Facciamo in hiragana e amen?

​I suffissi -chan e -kun si usano per i bambini e le ragazze il primo, e per i maschietti il secondo; ma è altresì possibile rivolgersi a qualcuno usando il suffisso -kun in ambito lavorativo, anche se si tratta di una ragazza. In linea di massima, -kun è meno formale di -san e meno stretto di -chan.

Il ricordo della voce di Camus potete trovarlo qui.

In tutto ciò, grazie di cuore a JudithLovesJane per i consigli (utilissimi come il pane!) e a tutti voi per l'affetto con cui seguite questa storia e per la puntualità con cui accorrete ad ogni nuovo capitolo. Grazie. Di cuore. Alla prossima puntata, allora. Ci conto!!

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Capitolo 16
*** 16. ***


16.

 

 


Dicono di chiamarsi Lung e Ullr, e sono una coppia così male assortita da sembrare uscita fuori dalla mente stanca di un autore di commediole slapstick fuori tempo massimo. Enorme e massiccio – e con una gran voglia di menare le mani che gli scorre sotto pelle – il primo; snello e agile – e più sciolto di parlantina – il secondo. Lo aspettano sul molo, avvolti in pesanti tabarri scuri e abiti complicati che spuntano da sotto le decorazioni di pelliccia. Il vento soffia severo, increspando il mare color del ghiaccio.

Suo padre l’ha avvertito circa quello che lo avrebbe aspettato, una volta sceso dalla nave. Con le fattezze di Re Åkon, gli ha messo una mano sulla spalla destra e gli ha detto:«Vieni. Passeggiamo.». Lukas l’ha seguito, il colbacco ben calcato in testa.
«Ti attende un regno, ad Asgard, figliolo», gli ha detto suo padre, avvolto nel suo mantello bordato d’ermellino. «Ma non credere che ti sarà graziosamente porto su un cuscino di velluto. Nossignore. Dovrai
prendertelo. Acchiapparlo. Ghermirlo tra le dita. Sarà difficile, ma non sarai solo. Avrai seguaci. Gente che ti seguirà ciecamente. Che ti obbedirà senza battere ciglio. Gente che userai come fondamenta del tuo nuovo regno. Perché nelle tue vene scorre il mio sangue. Ricordatelo, figliolo.»

I due inviati sorridono di malavoglia.
«Lukas di Vanheim?», chiedono, più per proforma che per sincera curiosità, mentre il fiato diventa fumo nell’aria di ghiaccio. Certo che è lui, Lukas di Vanheim. Chi altri potrebbe mai spingersi fino ad Asgard se non costretto? Chi altri, se non lui?
«Sono io», risponde, lo sguardo di vetro che si sposta dall’uno all’altro per capire che intenzioni abbiano nei suoi confronti. Arriverà vivo ad Asgard o perirà strada facendo, magari cadendo in qualche crepaccio com’è successo a suo fratello Torsten? Lukas se lo chiede, ma le espressioni del suo comitato di benvenuto sono indecifrabili. Può solo seguirli sul 4x4 nero che li aspetta alla fine del molo col motore acceso.
«Da questa parte, prego», gli dice il più basso dei due – «Ullr. Come l’Inverno.» – precedendolo. Lung chiude la fila, un sorriso poco piacevole che gli incurva appena le labbra secche. L’autista li aspetta dentro, oltre i finestrini fumé. Le mani, protette da un paio di guanti di pelle nera –
da assassino, pensa Lukas – stringono con finta calma lo sterzo.
«Ancora un po’ su quel dannato molo e mi si gelavano le palle…», dice il bestione. E ride, come se avesse sentito la più spassosa delle barzellette. Ullr apre lo sportello. Lukas sale a bordo e prende posto accanto al finestrino. L’interno è caldo e confortevole. Ullr gli porge una coperta da stendere sulle gambe.
«Per il freddo», gli dice.
Lung sale a sua volta e si siede davanti, accanto all’autista, il fuoristrada ondeggia, e lo sportello si chiude. Il motore borbotta in sottofondo, come un gatto che fa le fusa. Poi l’autista ingrana la prima e la vettura si muove.
Il viaggio inizia e mentre si lascia alle spalle Vanheim e le sue raffinatezze, Lukas non può fare a meno di chiedersi cosa lo aspetterà una volta arrivato ad Asgard. Sempre ammesso che la vettura non si fermi strada facendo, magari  in mezzo al bosco, e spuntino fuori i coltelli.



«Mi serve vivo
Legno scuro.
«Deve testimoniare al processo!»
Un po’ di polvere negli interstizi.
«Se me l’ammazzi, che gli riporto indietro? Un cadavere?!»
Qualche goccia di sangue scuro. Caldo. Denso. Il sapore metallico nella bocca. Il suo sangue.
Hyoga sbatté le palpebre un paio di volte, ma la sensazione di avere la nebbia nella testa non passò. Si mise in ginocchio. Ikki c’era andato pesante. Il suo pugno lo aveva colpito in piena faccia e l’aveva steso. Era caduto come un sacco di farina, o una camicia che il vento ha strappato dal filo prima di abbandonare sul prato.
Me la sono cercata, si disse il Cigno, voltandosi a fronteggiare l’ira della Fenice. Credendosi in grado di fronteggiare il rancore di Ikki, ma il colore cupissimo che aveva invaso lo sguardo della Fenice lo stupì. Se durante la sua rocambolesca entrata in scena sul ring della Galaxian War Ikki era un concentrato di livido rancore in cerca di vendetta e appagamento, lo spettacolo che gli stava riservando adesso il fratello maggiore era qualcosa che andava oltre. Era una promessa, quella che colorava lo sguardo furente di Ikki, una promessa per cui Hyoga no, non era pronto.
Hyoga aprì la bocca, poi la richiuse. Seppe che sarebbe stato tutto inutile, seppe che Ikki no, non avrebbe ascoltato una singola parola e seppe che, in fondo, se lo meritava quel trattamento.
«Alzati.»
«No.»
Coralie si era frapposta fra lui e la Fenice, le mani sui fianchi.
«Spostati…»
«Mi stai minacciando?»
«Non ce l’ho con te…»
«E vorrei anche vedere!»
«… ma con lui.»
«Questo lo capisco», disse lei.
«Tu capisci? C’è mio fratello su quel letto!» Indicò l’ammasso di coperte sotto cui Shun dormiva, il viso cereo di chi è scampato all’assideramento per miracolo.

«Siete stati fortunati. Ancora poco e…»
La voce del dottor Alëša era rimasta sospesa a mezz’aria. Una coperta sulla testa, una tazza di brodo caldo tra le mani e una mezzora prima, Hyoga aveva sentito il cuore fermarsi improvvisamente.
Il medico non se l’era sentita di sbilanciarsi. Shun aveva passato un bruttissimo quarto d’ora, ed era ancora presto per tirare il fiato. E poi erano arrivati Ikki e gli altri. E sì, Hyoga sentiva di meritare in pieno i pugni di Ikki. L’avrebbe lasciato sfogare. Non avrebbe reagito, né li avrebbe schivati. Si sarebbe lasciato pestare come un sacco di sabbia. Così, forse, mi tornerà anche la memoria, pensò, per addolcirsi la pillola.

Coralie fece un gesto vago, come a dire che non era la salute di Andromeda quella di cui preoccuparsi, adesso.
«Credimi. Capisco come ti senti. Lo capisco davvero. Ma non posso permetterti di torcergli anche un solo capello. Mi serve sano. Mi serve vivo
Il piede sinistro di Ikki scivolò in avanti. Hyoga si alzò.
«Andiamo a discuterne fuori…», disse il Cigno.
«È la prima cosa sensata che sento, qui dentro», ribatté la Fenice.
«Aspettate… Parliamone con calma…»
«Sono calmissimo», replicò Ikki, scoccando un’occhiata a Nachi che mise fine alle rimostranze del Lupo. Il quale alzò le mani e si diresse dall’altra parte della stanza.
«No che non lo sei!», ribatté Ichi. «Non lo sei per via di Shun.»
Ikki strinse la mascella.
«Voglio sapere cos’è successo a mio fratello. Voglio sapere cosa hai fatto a mio fratello. E voglio sentirlo dalla tua voce, Hyoga. Penso che tu me lo deva. Non credi?»
Hyoga annuì.
«Siete sordi o cosa?!» Coralie pestò un piede a terra, sollevando uno sbuffo di polvere. «Attento, Fenice. Questa è un’insubordinazione bella e buona!»
Ikki le scoccò uno sguardo, come se la vedesse per la prima volta.
«Non so da dove tu salti fuori, ragazza, ma lascia che ti spieghi una cosa. Io», disse rivolgendo un pollice verso il proprio petto, «prendo ordini solo da Athena.».
E a volte nemmeno da lei, disse lo sguardo di Nachi. Alle spalle di Ikki, il Lupo scosse la testa, facendole segno di lasciarli perdere.
Coralie sbuffò. «Vi do dieci minuti», disse.
«Sì, mamma», la sfotté Ikki sfilandole accanto. Hyoga gli si accodò. La porta si richiuse con un suono secco, lasciandoli assieme a Shun, addormentato sotto una distesa di coperte.
«Ma… non li fermate?!», domandò Ichi incredulo. «Lo ammazzerà, ne siete consapevoli?»
«Dieci minuti», disse Coralie incrociando le braccia in un clang dorato. «Non può ammazzarmelo, in dieci minuti, giusto?»
«Io non ne sarei così sicuro…», borbottò Nachi, fissando il panorama di neve e ghiaccio oltre la finestra.
Coralie si strinse nelle spalle.
«Senti… ma si può sapere che cos’è questa storia del processo?», le domandò Ichi. Lei lo fissò, poi si sedette sul letto, ai piedi di Shun.
«Qualcuno ha fatto un casino immenso e Hyoga c’è andato di mezzo», rispose lei. «Che ne direste di spiegarmi come mai non vi siete stupiti nel trovarvi di fronte me, piuttosto?»


Il viaggio sembra non finire mai. La coperta sulle ginocchia è di un tepore fin troppo rassicurante, fin troppo pericoloso. I due uomini non parlano. Ullr osserva il paesaggio innevato sfilare oltre il finestrino. Accanto all’autista, Lung tiene le braccia conserte e le palpebre abbassate. Sembra dormire, ma Lukas ha deciso di non fidarsi. Di non abbassare la guardia. Già una volta s’è scoperto a ciondolare la testa, vincendo a fatica il sonno. Non lo hanno attaccato, ma non intende dare loro un’altra occasione. Se solo il paesaggio fosse meno monotono…
La vettura si ferma, senza preavviso. Lung solleva le palpebre con lentezza. Si volta verso di loro, scambia uno sguardo d’intesa con Ullr, poi scende con un gesto fluido. Circumnaviga il fuoristrada e apre lo sportello posteriore. E gli dice –
gli sibila: «Fuori.».
Lukas stringe la mascella. Ci siamo. Vogliono farlo sparire prima che arrivi a palazzo, ammazzandolo come un cane per poi seppellire il suo cadavere sotto la neve. Se l’aspettava. Per questo ha nascosto un pugnale sotto la pelliccia. Se dovrà crepare, venderà cara la pelle.
Scende, affondando nella neve fino a metà polpaccio.

Questo non era previsto.
Lung ride, sguaiatamente, come un marinaio che entra in un postribolo dopo sei mesi al largo. Lukas è in posizione di svantaggio, e lo sa bene. Lui non conosce quella zona. Loro sì. Come le loro tasche. Ullr scende dalla vettura e li raggiunge. Lukas si rialza. Raggiunge il pugnale alla cintura, una mano sotto la pelliccia.
I tre uomini si fissano. Lukas è appena consapevole della presenza dell’autista, il quale è sceso dalla vettura e si è unito ai due, una mano sul pezzo che porta infilato nella fondina ascellare. Interverrà solo nel malaugurato caso in cui la faccenda si complichi. Si fumerà una sigaretta, per ammazzare il tempo, mentre loro ammazzano lui. Farà finta di guardare altrove, le orecchie ben chiuse a qualsiasi suono proverrà dal loro scambio di opinioni. Meglio stringere le dita attorno all’elsa e stare pronti a sguainare la lama.
Ma quando Lukas sgancia la sicura del suo pugnale, accade qualcosa di imprevisto. Ullr e Lung e l’autista gli si inginocchiano davanti, il capo chino e l’espressione deferente.
«I tuoi umili servi ti salutano, o Figlio del Fuoco. Bentornato a casa, Signore.»
Lukas riprende a respirare, ma le dita non abbandonano l’elsa del pugnale.

E se fosse tutto un trucco?, si chiede.
«Voi… voi
sapete?», domanda. Guardingo.
È Ullr a rispondere. «Sì, mio Signore. Vostra madre era la sacerdotessa del culto del Fuoco. Siamo rimasti in pochi, Signore. In pochissimi. Ma vi abbiamo atteso. Abbiamo atteso il vostro ritorno con fiducia. Ora, assieme a voi, potremo finalmente compiere il Destino degli Dei.»
La neve cade a terra, rompendo il silenzio irreale del bosco. Un paio di gazze fendono l’aria immobile col loro verso, frullando le ali verso il grigio del cielo. Lukas non nasconde un sorriso.
Suo padre è stato di parola.

 
«E questo è tutto.»
Mu incrociò le braccia e chiuse gli occhi. Il tè verde emanava un profumo fresco ed appena acre, un sottile filo di fumo che si sollevava in alto in una calma irreale.
Nessuno osava rompere quel silenzio fragile e prezioso come un cristallo di ghiaccio, una bolla di pace in cui riflettere. In cui pensare. Shaina fremeva. Voleva commentare il rapporto di Mu, voleva dire qualcosa, lo si percepiva dal moto nervoso del suo mignolo sinistro. Fremeva, l’unghia laccata di viola scuro che sfiorava veloce il cotone fresco di bucato della tovaglia candida. Eppure tacque. Pensando, rimuginando, cercando di mettere assieme le tessere del mosaico. Un mosaico che si tingeva del caldo riflesso del sole al tramonto, un bel cielo astratto declinato in un bouquet di toni che andavano dal violetto appena accennato all’orizzonte, al rosso del fondo, al caldo oro delle nuvole. Occorreva trovare – percepire, intuire – quale fosse il disegno e poi, da lì, tentare di ricostruire l’immagine per intero. E loro non avevano che tessere spaiate, incoerenti, a contrasto.
Apostolos aveva sottratto alcuni resoconti. Resoconti delle missioni che il Sacerdote aveva affidato ai suoi Santi. La domanda che attraversava la mente di Shaina era: perché? C’era un collegamento, tra quelle missioni, una sorta di filo rosso che univa in maniera sotterranea tutto quanto quello che era accaduto in quegli anni?
Possibile, anzi, molto probabile; Kanon non aveva dimostrato loro che tutto, dall’assassinio del Sommo Sion fino al risveglio di Nettuno, era stato meticolosamente programmato, passo dopo passo?
Oh, sì, malgrado Shaina avesse sempre sospettato che Kanon si fosse trovato nel posto giusto al momento giusto. Che tutto fosse stato un capriccio divino e che il gemello di Saga vi si fosse trovato in mezzo per caso, come qualcuno di passaggio che viene coinvolto in una rissa. E che riesce a galleggiare in quel mare di calci e pugni e sputi, cercando di restarne al margine, incassandone il meno possibile.

Ma quale legame poteva esserci tra Santi così diversi tra loro? Ed era questa la domanda che occupava il cogitare di Shaka, seduto tra Ofiuco e Ariete, le braccia incrociate e gli occhi chiusi. Il delicato giallo zafferano del suo dhoti kurta metteva in risalto il biondo zecchino dei suoi capelli, lunghi e lisci oltre le spalle, che il vento della sera incipiente accarezzava appena, sfiorandoli in punta di dita.
Shaka era convinto che fosse quello il quesito cui si dovesse rispondere, prima di ogni altro per dividere le tessere del mosaico. Occorreva trovare un legame tra i Santi coinvolti, non tra le missioni. Perché, se fosse stata solo una questione di missioni interlacciate, Apostolos avrebbe sottratto i resoconti specifici, non tutti. Poteva essere un tentativo di depistaggio, il prendere tutti i diari delle missioni? Shaka non lo credeva.
Apostolos aveva avuto tutto il tempo per vagliare quei resoconti, per isolare quelli che gli occorrevano – quelli che gli avevano richiesto – e sottrarli, senza che nessuno se ne accorgesse. Un lavoro che doveva avergli richiesto tempo. Ed era questo a non quadrare, perché una missione d’infiltrazione deve risolversi in fretta. Il prima possibile. Perché portarli via tutti, allora? Perché chi aveva richiesto quei resoconti voleva conoscere ad un più ampio spettro quei Santi e la loro vita, le loro missioni, il loro servizio. No, se un depistaggio c’era era stato commesso nell’accomunare alcuni Santi a quelli realmente al centro dell’interesse di Apostolos e dei suoi committenti. Per questo dovevano capire quale legame intercorresse tra gli autori dei vari diari, quale fosse il filo rosso che li collegava, in modo da escludere i Santi che non avevano nulla a che fare con loro e i cui diari Apostolos aveva sottratto.

Ma per consegnarli a chi?, si chiedeva Mu dell’Ariete. Chi mai poteva avere interesse a conoscere quei Santi e le loro missioni? Era un nemico interno alle schiere di Athena, l’ennesima serpe in seno pronta ad uscire dalla cesta per mordere l’incauto che l’avesse scoperchiata, o il nemico proveniva dall’esercito di un’altra divinità? Che fosse quella la strategia che Ade aveva ideato per questo secolo? Il suo maestro, il Sommo Sion – e che il suo spirito possa conoscere la pace e ricongiungersi al Tutto – gli aveva raccontato cos’era successo durante la precedente Guerra Sacra. Come aveva agito Ade, quello che avevano pianificato gli dei gemelli, come Pandora si fosse alacremente spesa per realizzare quella distorta utopia che incurvava le labbra del fratello di Athena quand’era apparso nel cielo sopra al Santuario. Per questa ragione Mu faticava a vedere una così sottile strategia nel modo di agire di Ade. Ade amava armarsi, prepararsi e scendere in campo aperto. Per dimostrare alla Fanciulla come si dovrebbe combattere, per mostrarle che lo Sconosciuto, no, non guarda in faccia le sue vittime, ma le coglie. Come fiori da appuntarsi alla giacca. Come corolle da intrecciare in una ghirlanda, o nelle corone degli sposi. E lo Sconosciuto ama cogliere i suoi fiori uno per uno, scegliendo chi tenere e chi, invece, lasciare tra l’erba.

«Perché non gli piace la sfumatura di quei petali, forse. O per uno scherzo del Destino, vallo a sapere.»
Il Sommo Sion ci scherzava su, ma i suoi occhi ed il suo tono si facevano molto, molto seri quando rammentava gli avvenimenti del passato. Quando riviveva lo stillicidio che aveva falciato via i suoi compagni, uno dopo l’altro, lasciando soltanto lui e Doko della Bilancia come traghettatori del Santuario verso il futuro.
«Torneranno tutti, Mu. I miei compagni, dico.» Il Sommo Sion gli aveva scompigliato i capelli con un gesto paterno, ma i suoi occhi erano rivolti a scrutare il cielo per osservarne la forma delle nuvole. «Torneranno, perché l’hanno giurato, ma io non riuscirò a combattere con loro. Sono troppo vecchio, oramai. E loro non mi riconosceranno, ché sono andati avanti e io sono rimasto lo stesso. E allora dovrai farlo tu, per me. Dovrai prendere tu il posto che fu mio, accanto a loro. Capisci, Mu?»
E se Mu, all’epoca, non era riuscito a seguire per intero il ragionamento del Sommo Sion – e a dire il vero gli era sembrato che il vecchio sacerdote volesse a scaricargli sulle spalle un barile di piombo – adesso sì, adesso capiva. C’è sempre un disegno, nel gioco degli dei, un’immagine fissa che si ripete, cambiando alcuni particolari, di volta in volta. Come fosse un gioco di società, o un gioco da tavolo, con la plancia sempre uguale a se stessa e i soldatini del medesimo colore. Una specie di Risiko, dove al posto della Jacuzia e dell’Europa Meridionale, delle armate rossa, blu e nera vi fossero loro. La Terra ed i Santi e gli Spectre.
Mu sospirò, alzando il viso verso l’alto. Il cielo era mutato. Era scesa la sera.


«Per quanto tempo ancora devo tenere quest’affare sulla testa?»
Alza lo sguardo alla sveglia. La gallinella sta beccando il terreno al ritmo dei secondi, tac tac tac, mentre i pulcini, fissi nel disegno sullo sfondo, sembrano osservarla come fosse impazzita.
«Mezz’ora.»
«Era mezz’ora anche cinque minuti fa», protesta l’altra, la carta argentata avvolta attorno ai capelli e un broncio ad incurvarle le labbra.
«No, erano trentacinque minuti», ribatte. «Una mezzoretta.»
L’altra sbuffa. «Odio aspettare.»

«Haste makes waste. Waste makes sorry. So, do not be in a hurry», ribatte.
«Tradotto?»
«La fretta è una cattiva consigliera», replica, mentre la lima di cartone scorre sull’unghia, disegnando una mandorla il più possibile perfetta. Crescono storte. Verso l’esterno. Sarebbe più facile limarle dando loro una forma quadrata, ma quando gliel’ha proposto si è sentita rispondere che le unghie quadrate non vanno di moda in quello spicchio di mondo, e lei si è adattata. Ci vorrà un po’ di lavoro, è vero; ma i lavori di precisione sono quelli che svuotano la mente del superfluo. A volte ci si incarta perché si ripetono sempre gli stessi passaggi logici. E diventa pesante, a lungo andare, questa routine. Ecco perché è meglio passare ad altro. Glielo ha insegnato Lui. Quando il cervello va in tilt, è il caso di fare qualche altra cosa. Un differente tipo di esercizio, completamente diverso, cosicché la mente segua altri binari ed il subconscio sbrogli la matassa. E le dia una forma nuova. I gomitoli rotolano meglio sul pavimento, giusto?
«Sarà», ribatte l’altra, con un tempismo che le fa credere, per un attimo soltanto, che abbia delle capacità telepatiche.
O forse sono solo io ad essere suscettibile?, si chiede. «Ma mi annoio a non fare niente.»
«Ti ho portato da leggere, mi pare», le dice indicando con il pollice una fila di libri accatastati sul tavolo.
«Non posso. Non adesso. Ho bisogno del dizionario.»
«Ma non sei madrelingua, galletta?»
«Sì. Ma tra lo scritto ed il parlato ce ne corre. Mi tocca affidarmi al greco, ma mi serve comunque il dizionario vicino. E a stare ferma qui mi sembra di impazzire!»
«E che vorresti fare, sentiamo? Correre laggiù e distribuire calci e pugni come una trottola impazzita?»
«Potrebbe essere un’idea…»
«Un’idea cretina!», le ribatte, passando ad occuparsi dell’anulare. «E tieni morbido questo dito! Sto faticando come una dannata!»
Un mugugno, un qualcosa di non molto chiaro e il dito si rilassa.
«Non capisco perché stiamo perdendo tempo in questo modo», si sente dire.
«Perché dobbiamo far sbollire la rabbia, prima di fare qualsiasi cosa», le risponde.
«Ma la rabbia…»
«…è una bomba ad orologeria. Così com’è, almeno. Ti serve calma e logica per fare quello che ci siamo ripromesse di fare. E io non intendo portarmi appresso qualcuno pronto ad esplodere da un momento all’altro.»
Nella stanza torna il silenzio, interrotto dal ticchettio del collo della gallinella che va su e giù, su e giù, su e giù…
La lima scorre sull’unghia. Avrebbe bisogno di una bella sfoltita alle cuticole, ma la sua mano trema troppo. Potrebbe tagliarla, e se la tagliasse…
No, non va bene. Deve guadagnarsi la sua fiducia, ed in questo momento lei è come un animale ferito. Un cane sottratto ai combattimenti clandestini. E una bestia incattivita non la ferisci, mai, nemmeno per errore. O diventa diffidente. Devi invece fartela amica, guadagnarti la sua fiducia e allora, ma solo allora, lei sarà disposta a seguirti, a difenderti, a buttarsi nel fuoco per te. E pazienza se questo richiederà del tempo. Di quello, ne hanno a sufficienza, ché Athena, adesso, è impegnata a rimettere assieme i cocci del suo piccolo mondo di cristallo e colonne bianchissime. Senza sapere – senza sospettare – che qualcun altro sta per calarle addosso, come un falco che ha avvistato la preda e si lancia in picchiata. No, adesso Athena è impegnata, anche se ancora non lo sa, e in troppi galli a cantare non si fa mai giorno. Meglio aspettare. Meglio accumulare quel tempo prezioso come se fossero fascine di legna per l’inverno. E più tempo avrà, più sarà divertente elaborare una strategia per sgretolare tutto quel marmo sotto le dita. Come fosse una pietra pomice o un pezzetto di gesso caduto dalla lavagna. È questa la parte migliore del gioco dello stratega. Il tempo. Gustarselo, secondo dopo secondo, come un vino da assaporare con lentezza. E nessuna persona sana di mente berrebbe un vino rosso senza averlo prima fatto decantare un po’.
«Ma è proprio necessario?»
Alza gli occhi, in cerca di una risposta. Perché no, non  ha capito a cosa alluda l’altra.
«Scusami?»
«I capelli, dico.»
«Non è un po’ tardi per ripensarci?»
«Io non volevo! Tu mi hai costretta!»
«Bugia», le dice, riprendendosi ad occuparsi dell’anulare. «Lo so io e lo sai tu. Nessuno può costringerti a fare qualcosa che non vuoi. A patto di non usare la forza bruta, ma non mi pare che io ti abbia legata ed imbavagliata e.»
L’altra guarda le ciotole ed il pennello ed il vasetto di yogurt abbandonati nell’acquaio.
«Non verranno più via, vero?», le chiede, guardandosi la punta delle dita della mano sinistra. «Le macchie, dico.»
«Basterà un po’ di dentifricio e qualche goccia di limone.»
«Mmhhh…», mugugna sospettosa. «Che poi è pure brutto, l’henné!»
«Non è brutto. Non ti piace. Sono due cose diverse.»
«No che non lo sono!»
«Sì che lo sono!» Le piazza gli occhi dritti nei suoi, incatenandole lo sguardo color verde edera in quello di smeraldo che spicca sul suo viso, a contrasto con la sua carnagione scura. «Una cosa che non ti piace non è sbagliata a priori. Semplicemente, non ti piace. Non la capisci. Ecco tutto.»
«La fai facile…»
«Perché
è facile. Bisogna soltanto avere un briciolo di umiltà ed ammettere che quella cosa non la capiamo. Tu comprendi la teoria delle stringhe? No, vero? Ma questo non significa che sia sbagliata perché tu, nella tua abissale arroganza, non ammetti di non capirne nulla di astrofisica.»
L’altra tace, scoccandole un’occhiata di fuoco. Lei sorride, e riprende il suo lavoro di limatura.
«Ma che facciamo se escono troppo scuri?»

Ma non sputi mai? «Scuri? Ne dubito. Al massimo il colore viene fuori troppo ricco, ma ci abbiamo messo yogurt a sufficienza per darti solo un leggero riflesso. Niente di troppo intenso. Qualcosa che ti faccia apparire diversa, ma non troppo. Devi sempre lasciare il dubbio.»
«Se lo dici tu…»
«Sì, lo dico io», taglia corto. «E adesso lasciami finire. Intanto, perché non scegli che colore vuoi?»
«Già fatto», dice, ed allunga una mano verso una boccetta nera. «Questo.»
«Come siamo
à la page…»
«Sono in lutto, idiota.»
Sorride, le labbra strette in una smorfia simile ad un brutto taglio, ad una ferita slabbrata.
«Non si adatta con i dettagli della tua corazza…»
«Dettagli, appunto.»
Tace. Si guardano, mentre il tempo scorre e fuori il cielo piove con rabbia e violenza, ingrossando il mare. L’odore della salsedine è come un mantello che non le abbandona. Non puoi scacciarla via, lei c’è. Come una musica ossessiva, o un brutto ricordo.
«Ok, visto che non riesci a stare zitta, che ne dici di ripassare il piano?»
L’altra sussulta.
«Beh? Che c’è?»
«È che…»
«Che?»
Prende fiato, il labbro inferiore che trema. «Che l’ultima volta che qualcuno ha usato quest’espressione, poi c’è scappato il morto. Tre morti…» China la testa e le spalle si muovono, seguendo l’onda dei singhiozzi sommessi e trattenuti in gola.

Così la smetterai di cianciare, una buona volta.
Lei riprende a limarle le unghie. Il ticchettio della sveglia riempie il loro silenzio, mentre fuori, indisturbata, cade la pioggia.



Il mal di testa proprio non voleva saperne di lasciarla in pace.
Masami si massaggiava le tempie, esausta. Ancora un paio d’orette e sarebbero atterrati ad Atene. Sbrigate tutte le formalità, avrebbe afferrato il suo bagaglio e sarebbe sbarcata il più velocemente possibile. Tetsuya avrebbe provato a braccarla, magari in albergo, ma lei si sarebbe chiusa in camera ed avrebbe usato la scusa più vecchia del mondo.
«Ho mal di testa, amore», gli avrebbe detto, omettendo quel nomignolo che non avevano mai usato e che, visto come si erano evoluti i rapporti tra di loro, era oramai fuori luogo. Con Tetsuya avrebbe funzionato. Peccato che il cantante rock inscatolato dentro una latta per sardine taglia extralarge – Milo, aveva detto di chiamarsi – da quell’orecchio non ci sentisse. O non ci volesse sentire.
«Conosco un ottimo rimedio per il mal di testa», continuava a sussurrarle all’orecchio. Il suo alito caldo, che poche ore prima le aveva regalato un brivido intenso lungo il collo – prima che quella guastafeste della signorina Kido si svegliasse e la chiamasse in cabina per un bicchiere di acqua tonica con una fettina di limone – adesso le risultava pesante, appiccicoso, disgustoso. Voleva toglierselo di dosso, nemmeno fosse un paio di collant sudati. Voleva sbatterlo sul pavimento dell’aereo, e possibilmente incassargli quella testa spettinata tra gli strati di metallo, lì dove non l’avrebbe più tirata fuori tanto facilmente.
«No. E poi la signorina è sveglia», gli ripeté, allontanando la mano di lui dal suo fianco.
«Faremo piano, vedrai…», le disse, insistendo. Masami strinse le labbra.
«Ti. Ho. Detto. Di. No», e scandì parola per parola con un tono di voce simile ad un ringhio basso. «Vuoi tornartene di là in cabina, ragazzo?»
«Ragazzo? Ma se siamo quasi coetanei…»
Le regalò un sorriso abbagliante, da pubblicità, e se lui avesse tentato quella carta in un altro momento, Masami l’avrebbe baciato con trasporto. Al diavolo tutto. Coetanei. E forse era vero e forse no, ma quella parola – coetanei – l’aveva fatta sentire fresca e pulita, e non una donna costretta ad accettare il marito che i suoi genitori le avevano trovato – le avevano rimediato – per non affrontare il futuro da sola, per salire in corsa su quel treno e non restarsene a guardarlo allontanarsi sui binari, i piedi ben piantati sulla banchina.
Ma quello era un momento no, forse il più brutto e cupo e duro della breve vita di Masami. Più di quando ricevette la telefonata che l’avvisava che l’automobile su cui viaggiava Hiroshi, il suo ragazzo al liceo, era caduta in un crepaccio, poco fuori città. Perché Asanuma, che era al volante, era ubriaco fradicio ed era andato lungo in curva, sfondando il guard-rail.
Lui tornò alla carica, accarezzandole la schiena con un dito. E Masami decise di averne abbastanza. Gli afferrò il dito e piegò all’indietro con tutta la forza di cui era capace. L’osso si spezzò. Il ragazzo lanciò un grido e ritirò la mano, guardando prima il suo dito e poi il viso di Masami, per domandarle se, per caso, fosse impazzita. Ma quando lo sguardo di mare di lui incrociò quello di Masami, il suo bel viso abbronzato perse colore.
«Ma che diamine…», riuscì a dire, prima che un’onda d’energia purissima e incontrollata lo sbalzasse via, oltre il separé, spedendolo disteso sulla moquette beige.
L’aereo sobbalzò.
Fino a pochi istanti prima, Aiolia osservava il panorama dal finestrino del jet privato della Fondazione Grado e quelle nuvole che sembravano essere così soffici e bianche da ricordargli l’ovatta. Seiya guardava anche lui fuori dal finestrino le nuvole facendo un baccano tremendo, cercando di trascinare con sé il Dragone. Per far sorridere Saori – per far sorridere Athena.
Come potessero gli altri dormire così profondamente, nonostante tutto quel baccano, restava un mistero. E come Seiya fosse stato più volte salvato dall'armatura del Sagittario restava un vero e proprio enigma.
Aiolia aveva sentito dire che le anime dei Saint sono solite reincarnarsi in altri Saint; se fosse stato vero, Seiya sarebbe potuto essere una reincarnazione di suo fratello Aioros? Probabilmente l'unico a poter sciogliere quel quesito era Shaka, colui che parlava con il Buddha da quando era nato. E anche se probabilmente Shaka gli avrebbe che risposto che il passato è il passato e che ha valore soltanto in relazione a quel dato momento storico, Aiolia si era riproposto di parlargliene appena ne avesse avuta l'occasione.
Ma poi Milo era atterrato ai suoi piedi, come se qualcuno di molto grosso e molto esasperato l’avesse centrato con un diretto sotto la mascella.
Aiolia si alzò e si avvicinò al compagno. Era svenuto.
«Che succede?», domandò allarmata Athena.
«Resti seduta, per favore», le consigliò Nadia, parandosi di fronte a lei come uno scudo.
Quello che sembrava inizialmente un semplice vuoto d'aria si trasformò in qualcosa di più serio. L'aereo, come manovrato da una forza invisibile, iniziò a perdere quota sempre più velocemente. Si accesero le luci rosse ed i segnali di emergenza. Scesero le mascherine per l’ossigeno.
Gli altoparlanti vibrarono.

«Qui è il comandante che parla. Stiamo affrontando una forte turbolenza. Prego i signori passeggeri di rimanere seduti e con le cinture allacciate, grazie.»

All'improvviso un cosmo smisurato riempì l’intero velivolo, partendo dalla coda. Masami apparve da dietro il separé. Sorrise. E disse: «Ho detto di no».
«È lei la fonte di quest’emanazione cosmica portentosa», disse Saori fissando il bel viso dell’hostess, ora deformato da un sentimento duro e denso, come una macchia di petrolio che galleggia sul mare. Odio, livore, rancore, frustrazione. E qualcos’altro che aveva il colore del divertimento crudele, lo stesso che spinge i bambini a catturare le farfalle per poi staccare loro le ali, una ad una.
«Chi sei?», le chiese Aiolia, alzandosi.
«Chi sono?»
Masami sbatté le palpebre. Perplessa. «Masami. Masami Nonomiya», avrebbe voluto rispondere, ma qualcosa, dentro di lei, spense l’interruttore, e la coscienza di Masami si accasciò sul fondo della sua anima e scivolò via. Nel buio, denso, cupo e nero come una chiazza di inchiostro.
«Tu, misera nullità, osi chiedermi chi sono io?», disse la voce di Masami. Una voce stridula e acuta, come unghie che graffiano l’ardesia delle lavagne. E poi rise, buttando la testa all’indietro, il cappellino dell’uniforme appeso ai suoi capelli grazie alla sola testardaggine delle forcine. Intanto l’aereo scendeva a velocità sempre più elevata.
«Dobbiamo fare qualcosa!» Pegaso esplose come una bomba. «Se continua così finiremo molto, molto male!»
Questo lo so, pensò Aiolia.
«Seiya, Shiryu. Voi pensate a Milo. Mia Signora», disse il Leone avvicinandosi al sedile su cui si trovava Saori. «Venga con me.»
Le porse il braccio, ma Saori scosse la testa.
«È pericoloso», insistette il Leone, il cosmo in subbuglio, pronto a caricarsela in spalla a forza e a saltare giù dall’aereo appena possibile, appena questo avesse raggiunto un’altezza ragionevole.
Saori slacciò la sua cintura e si alzò. Fece un gesto con la mano, ché il Leone si tranquillizzasse ed attendesse.
«Dobbiamo pensare anche ai civili, Aiolia», disse Athena, sfilando tra i sedili di pregiatissima pelle di vitello color avana. Sorrise. «Adesso basta», disse alla creatura che aveva davanti, la stessa che aveva preso possesso del corpo di Masami e che aveva steso al tappeto Milo come fosse fatto di carta velina. «Ci sono persone che non potrebbero salvarsi, qui, se l’aereo precipitasse in mare. Discutiamone con calma. A terra.»
«No», rispose l’essere che era dentro Masami. Con lo stesso tono di voce di un bambino capriccioso che ha tirato fuori l’argenteria e si diverte a rovesciare l’intero servizio di posate sul pavimento, ancora e ancora e ancora. Cucchiaini da dolce e coltelli da pesce inclusi.
«Tu non impari mai, vero, Athena?»
La voce di Masami proruppe in un’altra risata agghiacciante, che si propagò all'interno del mezzo e fece gelare il sangue nelle vene dei presenti. Poi ci fu un lampo e tutto scomparve in quel mare di luce abbacinante. E poi fu lo schianto e la paura e le urla e le bestemmie e l’acqua. Fredda, immensa, avviluppante, ovunque. Il jet s'inabissò nelle acque placide del Mediterraneo meridionale. In superficie, un cappellino galleggiò sopra una chiazza di nafta, s’impregnò d’acqua e colò a picco anche lui, tra lo stridio dei gabbiani in caccia.
 




Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:
Stavolta ho davvero pochissime cose da dire, se non che avevo dimenticato quanto la musica di Joe Hisaishi sapesse essere una vera e propria boccata d'ossigeno, quando si scrive. Sarà il caso di ricominciare con le care, vecchie abitudini di una volta. Alla prossima!!

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Capitolo 17
*** 17. ***


17.

 

 

La ragazza entra senza fare rumore, in punta di piedi, come se temesse di svegliare qualcuno coi suoi passi.
E chi?, si chiede lui. I morti?
Abbassa scalpello e martelletto e le rivolge un’occhiata interrogativa.
«Così… è ancora intera…»
Sfiora con la punta delle dita il metallo freddo del coprispalla destro. Quello sinistro è esploso ed è per puro miracolo che i pezzi si sono ricompattati tra di loro.
Un mosaico, ecco cos’è, pensa, mentre le dita della ragazza indugiano su quel pezzo di metallo senza padrone.
«La sto riparando», le dice.
«Per chi?», gli chiede lei. «C’è già un nuovo Santo che…»
Scuote la testa.
«No. Non ancora, almeno.» Regala un'occhiata fugace ai pezzi sparsi sul suo tavolo, poi storna lo sguardo da quell’ammasso di ferro –
da quel cadavere. «Lo faccio per lui.»
Lei resta in silenzio, l’indice che segue la linea delle crepe più vistose.
«Sì, capisco», dice. «Vanitoso com’era, gli avrebbe fatto piacere che la sua corazza fosse sempre a posto…»
Sion distende le labbra in un sorriso triste. Sì, lui andava davvero fiero della sua bella armatura lucente. Annuisce.
«Cosa posso fare per te?»
Lei lo guarda come se avesse iniziato a sputare fuoco all’improvviso.
«Come?»
«Cosa posso fare per te?», le ripete. Con calma. Con pazienza. Sono tutti stremati. Tutti a pezzi. Perché la guerra sacra non ha mietuto vittime solo sul campo di battaglia. Ha preteso un esoso salario anche da chi è rimasto. E lui lo sa bene. Queste pietre, queste strade, le Dodici Case, la Meridiana, il Trono di Sage prima ed Hakurei dopo, la statua della Dea; tutto questo non riecheggia di voci, suoni, presenze e colori quando il sole cala oltre i colli e il vento tra gli ulivi canta la sua canzone?
«Indicarmi la via per raggiungere la Death Queen Island», gli dice. «Ero anche io a pezzi, sai? Ma poi, con calma e pazienza, ho sistemato ogni singola scheggia. Almeno credo.»

«Si trova a poche miglia da Bali, in Indonesia.»
«Indo...»
«Indie Orientali», replica lui.
«Così
lontano

Sei sicura di voler partire?, le chiede lo sguardo del nuovo Sacerdote.
«Ce la farò!», gli dice, con un sorriso ed un impeto ed una convinzione tale che a Sion si allarga il cuore.
Annuisce, perché non si fida della propria voce, in questo momento.
«Parto domani, allora», prosegue lei, come continuando un discorso nella propria testa. «Death Queen Island non sarà il paradiso, ma è casa mia, dopotutto.» Sorride e il suo dito indice trova la forza per separarsi dal coprispalle ammaccato. «E poi, devo mantenere la promessa che gli ho fatto.»
Sion non sa nulla di questa storia. Aggrotta le sopracciglia, poi si dice che non sono fatti suoi e le parole della ragazza, in un greco sporcato dall’accento veneziano, si perdono nell’aria.
«Posso donarti un po’ del mio sangue? Per l’armatura. Vorrei che ci fosse… un po’ di me… in lei. Per ripagarlo di tutto.»
«Sei sicura?» Stavolta dà corpo a quella domanda. Lei annuisce. Lui le porge un coltello. «Me ne bastano poche gocce…»
«No. Te ne darò quanto te ne occorre.»
«I due terzi del tuo corpo», le dice. Lei sbianca. Lui sorride. «Non sopravvivresti, credi a me. Non ci sono grandi riparazioni, oltre questa. Me lo farò bastare.»
Lei tentenna.
«Non premere la lama con troppa forza, o ti resterà una cicatrice…»
«Non importa», dice lei, incidendosi la pelle morbida dell’interno del polso con un taglio orizzontale. Il sangue ruscella in scie rosso rubino sul metallo. Sion sospira. Non ne verserà troppo, così.
Meglio, si dice. «Però… dovrei chiederti un favore.»
«Dimmi pure.»
Lei sorride.
«Mi sono sempre chiesta il perché di quei segni», dice, alludendo alla placca del pettorale. «Ci sono delle piccole rientranze in corrispondenza di questi… fregi.»
«Credo sia una sorta di decorazione», azzarda Sion, che non s’è mai domandato nulla al riguardo.
«Lo immaginavo. Ma mi chiedevo, non è che si potrebbe dargli un tocco di colore?»
«Sulle decorazioni?!» Stavolta è lui a regalarle uno sguardo perplesso.
Lei annuisce. «Sì. Come una goccia di smalto. Una cosa a contrasto.»
Sion piega la testa da un lato.
«A lui avrebbe fatto piacere», dice e lui sa che lei ha ragione.
«Penso non ci siano problemi», commenta Sion. «Hai già un colore in mente?»
«Blu», soffia fuori all’istante.
«Certo. Come i suoi occhi.»
«No», e muove la testa da destra a sinistra un paio di volte. «Lui aveva un’aura blu mare.»
Un blu che sapeva di rovescio. «Pensi si possa fare?»
Sion sorride. «Farò il possibile», le assicura, mentre il sangue cade goccia a goccia sul metallo scheggiato.
L’elmo del Sacerdote li osserva muto in un angolo, un raggio di sole che splende sull’oro levigato.

 

Ikki uscì sbattendosi la porta alle spalle. I suoi piedi affondarono nelle neve fresca mentre girava attorno all’edificio, il polso del cigno stretto nella mano destra. Un filo di fumo nero saliva verso il cielo grigio. Imboccarono un vicolo semideserto e la Fenice sbatté con violenza le spalle di Hyoga contro il muro.
Si guardò attorno, poi scoccò i suoi occhi blu in quelli del Cigno. Si avvicinò a pochi centimetri dal viso di Hyoga. E gli chiese: «Adesso che siamo da soli, vorresti spiegarmi cos’è successo?».
Hyoga sbatté le palpebre.
«Non vuoi cambiarmi i connotati?»
«Anche. Ma adesso rispondi alla mia domanda», lo interruppe la Fenice. «E non azzardarti a dirmi che non lo sai o che non te lo ricordi. Con me non attacca.»
«Ma è così», protestò Hyoga, le mani di Ikki attorno alle sue spalle e una luce pericolosa negli occhi del fratello maggiore.
«No, che non è così!»
«Vuoi saperlo meglio di me?»
Ikki ghignò. «Sai come funziona la manipolazione mentale?», gli chiese.
«Vedi… vivi quello che non…»
Ikki sospirò. «Non ti ho chiesto cosa si provi. Ti ho chiesto se sai come funziona.»
Hyoga scosse la testa.
«Immaginavo», disse la Fenice. «La manipolazione mentale ti incasina il cervello. E fin qui c’eri arrivato da solo. Quello che non sai è che basta premere uno specifico tsubo, ed il cervello fa tutto da sé. Vomita le tue paure più profonde dritte dritte nell’anima. Tutto quello che hai messo sotto al tappeto, il cervello te lo serve lì. Su un piatto d’argento.»
Quindi?, gli chiese lo sguardo di cielo di Hyoga.
«Quindi», proseguì Ikki, «mentre sei vittima dell’illusione non capisci cosa stia accadendo. Succede e basta. È il dopo che mi interessa.»
«Perché?»
«Perché il cervello è uno stronzo di prima categoria, ecco perché.» Ikki allentò la presa sulle spalle di Hyoga, ma non ritrasse le mani. «È come avere a che fare con un motore che fa le bizze, ma che ritorna efficiente appena gli hai cambiato le candele, o gli hai rabboccato la coppa dell’olio. Come se non fosse successo nulla.»
Ma io non mi sento così, pensò Hyoga. E poi lo disse: «Ma io non mi sento così.».
«E ti sei mai sentito così, dopo le mie cure?»
Hyoga aggrottò le sopracciglia. Ikki gli regalò un sorriso sghembo. Tornò indietro col pensiero allo scorso anno, quando l’altro, in pieno delirio d’onnipotenza, aveva lanciato loro quella sfida alle pendici del Fuji. Quando il Fantasma Diabolico l’aveva colpito in pieno e lui aveva rivisto sua madre, sul letto pieno di fiori, col vestito che danzava assieme alle onde del mare e ai pesci che le facevano compagnia; fino a quando lei non si era alzata di scatto, mostrandogli non più il bel viso delicato, ma la carne scavata dalla putrefazione ed un occhio che pendeva dall’orbita vuota come qualcosa di non più necessario. No, non gli era successo di provare un simile ottundimento, anzi. S’era sentito bello sveglio e lucido, dopo. Smarrito, terrorizzato ed incazzato nero, ma lucido. Presente a se stesso e non un rimbambito con la nebbia nel cervello che si chiede in continuazione se sia sveglio oppure se stia facendo un lungo, interminabile sogno.
«No», soffiò fuori Hyoga. La presa di Ikki divenne più calda. Più fraterna.
«Immaginavo.» La voce della Fenice assomigliava più ad un maglio di ferro che pesta sull’incudine, ma le sue dita rimasero rilassate. «Vedo due possibili scenari. O chi ti ha scombussolato il cervello ha poteri superiori alle umane capacità, oppure abbiamo a che fare con una vecchia conoscenza. E questo può voler dire solo una cosa…»
«Saga?»
Ikki scosse la testa. «No. Saga è bell’e morto. Lasciamolo riposare in pace. Mi riferivo a quell’altro. A Kanon.»
«Tu pensi che…»
«Non penso nulla, al momento. Solo, non escludo nulla. Mi lascio aperta ogni singola possibilità, almeno fino a quando non avrò ristretto il campo.»
«Non lo so», disse Hyoga. «S’è preso il tridente di Poseidone in pieno petto, dopo tutto.»
«Quindi?» Ikki inarcò il sopracciglio destro. «Fatti, non parole. Crederò ad un suo ravvedimento se e quando lo vedrò. Non prima. E se stai pensando Da che pulpito viene la predica!, ti ricordo che ho visto quanto fango possa ingollare una persona se e quando gli fa comodo. Kanon era messo alle strette e ha fatto una scelta di campo. Magari per salvarsi la pellaccia, che ne sai?»
Hyoga abbassò lo sguardo e la presa di Ikki tornò a stringere.
«Reagisci!» Lo strattonò. «Hyoga, reagisci. Tu non sei» mio fratello «Shun. Tu sei più forte di lui.»
«Shun è forte, Ikki. Forse più di tutti noi messi assieme», mormorò il Cigno.
«Vero. Ma adesso ho bisogno che tu torni in te. Che tiri fuori le palle. Perché siamo nei casini fino al collo.»
«Ho un gran mal di testa…»
«Fattelo passare», ruggì la Fenice. Afferrò Hyoga per il bavero della giacca e se lo portò vicino. «Non ti permetterò di startene qui a giocare all’eroe languido. Non lo accetto. Dimostrami che non sei una femminuccia e reagisci, avanti!»
Hyoga annaspò. Distolse lo sguardo, contrasse la mascella. Sta per crollare, si disse Ikki, riconoscendo i segni inequivocabili di un pianto incipiente.
«Non ricordi nulla, Hyoga? Di quello che hai fatto da quando hai lasciato Tokyo fino a…» Fino a quando non hai quasi ammazzato Shun? « …fino a ieri? In un mese succedono una marea di cose. Non dirmi che non te ne ricordi neppure una?!»
Hyoga scosse la testa. «No!», esclamò, provando a liberarsi, le mani strette attorno ai polsi di Ikki. «Ho solo dei flash. Delle immagini incoerenti.»
«Descrivimele.»
«La casa del maestro. Lo zoo e un orso polare. Una zuppa di grano e birra. Delle mele.»
«Continua.»
«Una donna dai capelli biondi. Mia madre.» E come potevi sbagliarti? «Credo di essere tornato alla casa del maestro, appena arrivato…»
«No», gli disse Ikki. «È il primo posto dove abbiamo guardato, ma il tetto era sfondato per la troppa neve e nessuno ti ha visto in paese, prima di oggi.»
«Come fai a dirlo?»
«Abbiamo parlato con quel tuo amico. Quel ragazzino.»
«Jacov?»
«Lui. Non ti vede da almeno un anno, a detta sua.»
Si scambiarono uno sguardo lunghissimo. Poi Ikki disse: «I dieci minuti stanno per scadere. Prima che arrivi Quella, stammi a sentire. Tutta questa storia puzza di bruciato come Cartagine dopo il passaggio dei Romani. Tieni gli occhi aperti, Hyoga. Non fidarti. Non lasciarti fregare.»
E la Fenice aprì le dita. Il tessuto ruvido della giacca di Hyoga gli scivolò via e abbassò il braccio.
«Non ce l’hai con me per… per quello che ho fatto a Shun?»
«Certo che sì. Ma non eri in te. O non l’avresti mai sfiorato.»
«Quindi finisce tutto qui?»
«Nemmeno per sogno!» Ikki si portò le mani ai fianchi e gli scoccò un’occhiata che avrebbe incenerito la banchisa polare per intero. «No che non finisce qui. Ne riparleremo quando sarai guarito. Adesso, aggrappati al tuo senso di colpa e tira forte. Usalo per tornare il vecchio Hyoga. E tieni gli occhi bene aperti. Intesi?»
«Intesi.»
Un mezzo sorriso si delineò sulle labbra di Ikki. «Avanti», disse. «Rientriamo», ma nell’istante successivo qualcosa cambiò. Un’esplosione cosmica di proporzioni immani invase i loro corpi e li attraversò come una scarica elettrica disumana. Si sentirono vibrare, come palme sotto l’impeto di un uragano impazzito che vuole sferzarle fino a spezzarne i fusti svettanti.
Ikki si piegò sulle ginocchia, Hyoga cadde a terra. Una distesa di rabbia e terrore accecante si impadronì di loro, riempiendo i loro cosmi fino a farli traboccare. E poi tutto svanì, lasciandosi alle spalle una sottile increspatura, come quando il vento freddo accarezza la pelle. Il risveglio brusco da un incubo terrificante.
«Hai…?»
«Sì…»
Si scambiarono uno sguardo allucinato, smarrito, attonito. Poi si alzarono e corsero dentro casa, come se avessero il fiato caldo del diavolo sulla pelle del collo.

 

«Questi sono da parte del Sacerdote.»
Deposita delle pergamene arrotolate sulla tovaglia all’uncinetto che copre un tavolino a tre piedi, accanto ad un mazzetto di tarocchi dagli angoli lisi. Le porge un biglietto. Le dita deformate dall’artrite afferrano quella carta come gli artigli di un rapace.
Una civetta, pensa lui, come quella che lo ha accompagnato svolazzando e che aspetta sul tetto di quella casa sbilenca in fondo al paese. Il sigillo di ceralacca salta. Gli occhi azzurri della donna corrono veloci sul biglietto vergato a mano dal Sommo Sion. Si lecca appena le labbra secche, in punta di lingua.
«Quando tornerai?», gli chiede, un fazzolettone nero a proteggerle la testa piena di riccioli freschi di parrucchiere.
«Tra due settimane.»
La donna annuisce.
«Sta bene», dice, «quando tornerai sarà tutto pronto.»
Lui annuisce.
Lei sorride.
«Sei in licenza?», chiede.
«Sì», soffia fuori lui, rigido come un palo in quel salottino pieno di ninnoli e centrini all’uncinetto color ecru. «Domani è il mio compleanno», le confessa, non sa nemmeno lui perché.
Il sorriso sdentato della vecchietta si allarga. Si fa più caldo, coinvolgendo gli occhi malandrini.
«Tanti auguri, mio buon Cid.»
«No, vi prego. Non chiamatemi così…»
La donna ride, un suono simile a della carta ingiallita dal tempo che fruscia tra le dita callose. C’è qualcosa di pericoloso, in quella risata. Qualcosa che lui ha già sentito, un campanello che gli tintinna nella mente quando lei produce quei “ah ah ah!” che gli suonano molto familiari. Troppo. Anche se non sa dirsi perché.
«Immagino ti ci chiamino tutti, vero?»

No, vorrebbe dirle lui. Ma lascia cadere il discorso. Deve partire. Orreaga è lontana e teme che questa vecchietta voglia invitarlo a fermarsi a pranzo, anche se sono solo le nove del mattino. Non c’è solitudine, quando si è soli, ma i suoi denti aguzzi sanno farsi sentire quando si incontra qualcuno. Quando c’è la possibilità di interrompere quella solitudine. Di scambiare una parola con un altro essere umano. Come affondano nella carne e la straziano per bene…
La vecchietta sorride.
«Dove sei diretto?»
«Orreaga», risponde lui. «Un villaggio dei Pirenei al confine con la Francia, dove…»
«…inizia il Cammino. Lo so. L’ho fatto una volta, sai? Con mio marito, appena sposati. Per chiedere la grazia di avere un figlio, così lui non sarebbe partito per la Grande Guerra. Ma niente. I figli sono venuti, ma dopo, però. Tanti. Quando non erano più così necessari…»
Ridacchia, e lui sorride per pura cortesia.
«Attento a quello che desideri, ragazzo mio, perché potresti ottenerlo», gli dice – lo ammonisce – con lo stesso tono che doveva usare la Pizia, secoli addietro, seduta sul suo tripode nel Santuario di Delfi. Lui si ritrova ad annuire.
«Me ne ricorderò», le dice. Posa una mano sullo spallaccio dello scrigno che porta in spalla. Muove un piede all’indietro.
«Non è che passeresti per la Sicilia, tante volte?»
Lui sgrana gli occhi. «Sicilia?» Il tono è quello di chi pensa «Ma anche no!», ma che per educazione e rispetto dei capelli bianchi che ha di fronte non si azzarda ad esprimere quel concetto ad alta voce.
«Dovrei dare questo a mio nipote», gli dice, imperterrita, come se lui fosse una spalla di un duo comico collaudato. Gli mostra un pacchetto avvolto nella carta sottile delle farmacie. «Ha l’otite. Se non la cura, rischia di diventare sordo.
Famm’ u piaceri, ci puoi passare tu?»
Si ritrova quel pacchetto tra le dita, non sa come nemmeno lui.
«Grazie», dice la vecchina, gli occhi che brillano come due acquemarine nella vetrina di un gioielliere. «Però abbisogni della cartina, ché quello è storto
comm nu’ capu ri bacara. Non vorrei tu ti perdessi…»
Pure?, pensa lui.
«Ci metto un secondo. Siediti pure», dice la vecchina arraffando le pergamene e ciabattando per il corridoio stretto come un budello. «Gradisci un caffè, ragazzo?»



«Qualcuno ha fatto il lavaggio del cervello a Hyoga?»
Lei si mise un dito davanti alle labbra, poi ribatté un: «Così pare».
«Ma non è possibile!», protestò Ichi. «No, ti dico che c’è un errore!»
«Non dirlo a me. Dillo al processo», commentò lei stringendosi nelle spalle.
Aveva ricominciato a fioccare la neve dal cielo di acciaio irreale, pesante come un mantello di metallo. Nachi guardava tutto quel mondo bianco a perdita d’occhio oltre la finestra e pensava. Ichi aveva ragione a ritenere impossibile che Hyoga, proprio Hyoga, avesse potuto compiere le azioni di cui l’accusavano. Lui, così calmo, freddo e razionale poteva aver rimosso un sigillo sacro come si toglie una gomma americana da sotto la suola delle scarpe? No. Certo che no. Eppure… eppure… eppure. Non aveva sentito dire che Hyoga si comportava stranamente, negli ultimi tempi, prima di sparirsene in Siberia dall’oggi al domani? Non l’aveva sentito sussurrare per i corridoi freddi di Kido Manor dalle voci di Seiya e Shun, mentre Pegaso e Andromeda si guardavano attorno guardinghi come due congiurati che devono decidere chi dei due affonderà la lama nel cuore della vittima?
«Ok, direi che i dieci minuti sono finiti.»
Lei si alzò dal letto in un clang. E poi accadde. Restarono tutti e tre senza fiato, gli occhi sgranati e smarriti e confusi. No, non potevano aver sentito quello che credevano di aver sentito. Era impossibile. Eppure, non avevano ancora i brividi che correvano lungo la schiena, quelli lunghi ed intensi che solo la paura sa regalare? Non sentivano il loro cosmo battere e levare come un piccolo maremoto in un bicchiere? E che fine aveva fatto il microcosmo di Athena? Com’era possibile che fosse evaporato così, come neve al sole?
«Ma… cosa è successo?», chiese Ichi sgomento. Dentro di sé, l’Idra sapeva cosa fosse successo. Qualcosa di brutto. Qualcosa di molto, molto brutto, ai danni di Athena; pur tuttavia non se la sentiva di dare corpo a quel pensiero, viscido e strisciante. Faceva troppa paura. «Il… il cosmo di Athena…»
«È esploso e poi…», disse Cancer. Si portò le mani alle tempie e scosse la testa. «Dobbiamo tornare», disse, più a se stessa che agli altri, quando la porta si aprì – si spalancò – ed Ikki e Hyoga caracollarono nella stanza.
Avete sentito?!, gridava il loro sguardo. Impaurito, perduto e smarrito. Come quello di un bambino nella folla che si chiede che fine abbia fatto la mano della mamma. Quando l’abbia lasciata andare. Eppure era lì, fino ad un attimo fa. Dov’è andata? Com’è possibile che sia sparita?
«Cerchiamo di restare calmi», disse il Cancro, prendendo la situazione in mano. «Dobbiamo tornare indietro, ma non possiamo farlo tutti assieme.»
«Perché?», le chiese Ikki.
«Perché tuo fratello non può ancora muoversi», rispose lei, piegando le labbra all’ingiù. «E perché se è davvero successo quello che temiamo, voglio prima capire cosa ne è del Santuario e solo dopo farvi rientrare. Abbiamo bisogno di un piano B. Voi sarete il piano B.»
«Potremmo esserti d’aiuto. Non ci hai pensato?»
«Sarete di maggior aiuto vivi
«Siamo vivi.»
«Per quanto tempo ancora, Fenice? Eh? Ti sei accorto che è il microcosmo di Athena quello che è sparito? Hai pensato che forse siamo in guerra?» Fu come se Ikki avesse ricevuto una secchiata d’acqua ghiacciata in pieno viso. «Come facciamo se il Santuario è stato spazzato via?»
«Non dirlo!», esclamò Hyoga.
«Certo che lo dico. Dobbiamo essere preparati al peggio. Avete sentito tutti, no? Non aspettiamoci un picnic tra le viole. Qui la situazione s’è fatta seria e bisogna agire con i nervi saldi.»
«Adesso non facciamoci prendere dal panico. Magari non è successo niente. Niente di serio, intendo», disse Ichi, sapendo di starsi raccontando una bugia.
Il Cancro gli lanciò uno sguardo indecifrabile.
«Spera per il meglio ma preparati al peggio», aggiunse lei, con un tono duro. «Non piace neppure a me, ma la situazione è questa. Hyoga ed io torneremo col jet della fondazione. Lui è ancora debole e non ce la farebbe a starmi dietro. Voi aspettate qui il ritorno del jet. Se non riceverete notizie entro ventiquattro ore, diramate l’allarme generale. Intesi?»
Ikki strinse i pugni e la mascella. Fremeva di rabbia, la Fenice. Voleva andare a vedere cosa fosse successo. Voleva farlo coi suoi occhi. Non poteva lasciarli soli. Cos’era successo l’ultima volta che li aveva lasciati andare da soli?
Che Shiryu ci ha rimesso la vista per salvare tutti quanti, si disse la Fenice, le labbra serrate tra i denti.
«Ventiquattro ore, Ikki. Il tempo di arrivare laggiù e vedere cos’è successo. Puoi concedermele?»
Nachi posò una mano sulla spalla di Ikki.
«Ventiquattro ore», gli disse – gli promise – il Lupo.
«Indossa la tua corazza», disse il Cancro al Cigno. Poi si voltò verso gli altri e aggiunse: «Io vado a dare un’occhiata nella Valle dell’Ade. Per sicurezza.».
Annuirono.
«Dicci, ma… tu pensi di che potrebbero…», chiese Nachi.
«Non lo so», ribatté lei. «Non so più cos’è che abbia un senso e cosa no. Voi attenetevi al piano e nessuno si farà male.» E svanì in uno schiocco di dita, lasciandoli da soli, con un groppo in gola e la sensazione, viscida e strisciante, di essere soli e sperduti, come naufraghi aggrappati ad un pezzetto di legno a galleggiare nell’immensità dell’Oceano, in balia della corrente. In attesa dell’onda perfetta.
«Io non ho alcuna intenzione di restare qui.»
«Certo che no», disse il Lupo, le braccia conserte e un’espressione paziente sul viso.
«Ma allora perché?!», chiese Ikki.
«Perché si prendono più mosche col miele che con l’aceto», disse Nachi. Fuori fioccava a piena potenza. Un mare bianco in cui annegare, senza fare rumore, senza lasciare traccia.

 

La mano di Saori è morbida. Delicata. Soffice. Fa piacere stringere le sue piccole, fragili dita. Gli dà sicurezza. Buffo. È lui quello che dovrebbe tranquillizzare lei. Invece è l’esatto contrario. Saori sorride, passeggiando in giardino. Il sole del primo pomeriggio inonda l’erba e le rose rampicanti sul pergolato bianco. Un giardino di luce, pensa Seiya, sorridendole di rimando.
Una passeggiata, questo ci vuole. Un attimo di pace, tempo sospeso rubato alle guerre, alle lotte, ai colpi di stato. Un momento sgraffignato sottobanco, come la marmellata di ciliegie che trafugava dalle cucine quando nessuno lo vedeva. Aveva un sapore speciale. In primis, perché affondava il cucchiaio e lo ritirava su bello colmo, non come quel velo anemico che spalmavano sulle fette di pane la domenica mattina –
avessimo dovuto abituarci a tutto quel lusso! – e in secundis perché gustava quella marmellata fino all’ultimo boccone. Da solo. Senza l’ansia che qualcuno – quel bestione di Genki, ad esempio – gli scippasse la fetta di pane mentre era distratto. Oh, il vecchio Zucca Pelata sarebbe andato su tutte le furie notando che era sparito un altro vasetto di marmellata, oh sì. Ed era questo a rendere quelle cucchiaiate solitarie quanto di più simile all’ambrosia si potesse concepire. Per un bambino di cinque anni, ovvio.
Forse dovrebbero procurarsi della marmellata e sparire nel parco per un po’. Solo loro due, i cucchiai e la marmellata di ciliegie. O di pesche, o di albicocche, o. Oppure un bel vasetto di crema alle nocciole. Sì. È una bella idea. Seiya sta per proporre il suo piano a Saori, quando si alza il vento. I suoi lunghissimi capelli le accarezzano il viso, e lui si chiede quanto ci impieghi, ogni volta, ad asciugarseli e pettinarseli. Per non parlare della messa in piega.
Saori sorride, piegando la testa di lato. Il suo segreto – il suo super potere – non è tanto essere Athena, quanto far sembrare ogni cosa facile. Semplice. Naturale. Come respirare.
«Vieni, Seiya», gli dice. La voce gli arriva ovattata. Forse ha un po’ di otite. Forse deve imparare ad usare l’asciugacapelli, adesso che sta per entrare l’autunno. Miho glielo dice sempre. «Ché poi ti viene il raffreddore!», e mette su quel broncio da mammina offesa che lo fa sorridere. Certe volte Seiya si chiede se lei lo veda come uno dei tanti bambini dell’orfanotrofio. Come Akira, Makoto, Tetsuya. E sotto sotto, Seiya un po’ bambino è rimasto. Impulsivo, testardo, incosciente. Il classico tipo che prima tira un pugno e poi chiede perché. Anche se ha salvato il mondo un paio di volte. Ma questo non cambia il carattere, giusto?

Giusto.
Saori lo conduce verso il pergolato delle rose. Lui trema, ma si sforza di sorridere. Odia quei fiori. Li ha sempre detestati. Li trova appariscenti, sfarzosi, superflui. Dopo la sua disavventura con la scalinata di Aphrodite, li trova anche pericolosi. E si chiede perché mai le donne siano così attratte da quei petali dalla fragranza così pervasiva ed avvolgente.
Ci sono dei boccioli attorno alle spine. Saori li osserva con un’aria sognante ed eccitata.
«Mi chiedo… mi chiedo di che colore saranno. Secondo te?»
Seiya non ne ha la più pallida idea. Di che colore dovrebbero essere, le rose? Rosse, rosa o bianche. Come quelle di Aphrodite. O nere, come quelle di
Sainte Foy che erano diventate la fissazione di Seika. Seiya non sa decidersi. Esclude il nero. Saori non ha gusti così barocchi.
«Rosse», spara, con l’espressione di chi non sa se ha scelto il pacco giusto. «Tu?»
«Non saprei.» Saori tentenna. È quasi una rarità vederla titubare, non essere sicura al cento per cento di qualcosa, che sia un paio di scarpette o quale sia la forchetta giusta con cui mangiare il pesce. Seiya sorride.
«Tu che non sai qualcosa?», le chiede. Lei gli regala una linguaccia. «
Mademoiselle Saori! Misericordia!», esclama lui, scimmiottando la signorina Rottenmeyer. E strappandole una risata.
È così bella quando ride, pensa Seiya, godendosi la vista del suo viso distendersi e allontanare tutte le preoccupazioni che gravano su quelle spallucce da uccellino. È fragile, Saori, anche se è così testarda da non volerlo ammettere. Da non poterlo ammettere, perché essere Athena è un lavoro a tempo pieno, una responsabilità che non si può accantonare mai. Nemmeno se lo si volesse con tutto il cuore.
E Shaina è gelosa di lei, pensa Seiya. Il vento accarezza l’erba verdissima, e qualcosa cambia nello sguardo di Saori. Il momento è passato. Tocca tornare dentro, alla vita di tutti i giorni, ed essere di nuovo non più Seiya e Saori, ma Pegaso e Athena. Pazienza. Ci saranno altri momenti così, si dice lui. Se lo promette. Glielo promette. Col cuore e con l’anima. Perché per un Santo non c’è niente di più bello che vedere la propria dea nella sua raggiante serenità. Se solo Shaina lo capisse…
Ed è un’ombra, stavolta, quella che accarezza Saori scivolando sui suoi lunghi capelli, come una nuvola rapida che vuol farle un dispetto passando davanti al sole.
«Ho fiducia in te, Seiya. Sempre.»
Il tono di Saori lo mette in allarme.
«E io ne ho in te, Mia Signora», le dice. Perché anche Seiya, il testardo, impulsivo, sanguigno Seiya sa come ci si rapporta ad Athena. Con umiltà. Con devozione. Ma quando nessuno li vede. Quando è più importante.
Saori –
Athena – sorride.
«Trovami!» Ed è un ordine quello che proviene dalle labbra di Saori. Un comando. Un compito sacro.
Seiya sente l’impulso di inginocchiarsi, ma resiste. Non vuole lasciarle la mano. Ha paura che se aprisse le dita lei scivolerebbe via, come una farfalla libera di volarsene di fiore in fiore con le sue ali scintillanti illuminate dal sole. Stringe la presa, ma qualcosa è cambiato, e quando Seiya abbassa lo sguardo si accorge che è un’altra mano, quella che è avviluppata nella sua. Un polso maschile. Rigido. Forte. Nervoso. Con delle piccole cicatrici sul dorso. Il polso di Milo.
«Ma cosa?»
«Non lasciarlo andare!»
È la voce di Athena –
la voce di Saori – che glielo comanda. E Seiya ubbidisce. Si issa lo Scorpione su una spalla. È svenuto. E pesante. «Milo», lo chiama, ma Milo no, non risponde. La sua testa ciondola sul petto di Seiya, i capelli simili ad alghe appena pescate. Ed è proprio un’alga quella che adesso sfiora la chioma riccioluta dello Scorpione. Si ferma in cima alla sua testa, molle e viscida, e quando Seiya esclama un «eh?» si accorge che tutto attorno a lui è diventato improvvisamente azzurro e umido e freddo.
Sono sott’acqua. La luce del sole gli arriva filtrata, una sfera sfocata e lontana, così come la percepiva ad Atlantide.

Ma che cazz…
E sono bolle quelle che escono dalle labbra di Seiya. Ossigeno in forma liquida che sale verso l’alto, verso il sole, verso la salvezza. Milo gli scivola addosso. Lo solleva e se lo mette meglio contro il petto, prima di iniziare a nuotare. Lì sotto affogheranno. I polmoni iniziano a fargli male. Fa freddo. E Milo è svenuto. Seiya dà un paio di bracciate e batte le gambe. Ha le scarpe da ginnastica ai piedi. Non fanno presa. Gli sembra di annaspare – sta annaspando – e di andare all’indietro. Come fosse un gambero. I vestiti bagnati sono pesanti. Lo trascinano giù. Se continua così moriranno in due. Deve lasciare andare Milo. È pesantissimo. Colpa della corazza, certo - quand'è che è apparsa?. Che non aiuta il suo Santo. Come se fosse morta pure lei. Ma Seiya non ce la fa. Non ha il coraggio di abbandonare un uomo svenuto al suo destino. E Athena gli ha detto di non lasciarlo andare, giusto?
Qualcosa succederà, si dice Seiya, e con una fede incrollabile riprende a battere gambe e braccia – le gambe ed un braccio, ché con l’altro sorregge Milo – nella speranza che succeda davvero qualcosa. Che la spinta di Archimede li riporti a galla, anche se con quella corazza addosso è un’utopia. Seiya nuota, Seiya annaspa, Seiya combatte. Ma è tutto inutile.
Sto perdendo le forze.
E Milo scivola giù, verso il basso, verso il fondo del mare che improvvisamente s’è aperto sotto i piedi di Seiya. Il giardino di luce, le rose rampicanti e Saori non ci sono più. Seiya si guarda intorno, afferrando Milo per un polso con la forza della disperazione. Athena, aiutami!, grida il suo Cosmo, espandendosi azzurro in quell’inferno liquido. Ma Athena non risponde. Ed è una forza estranea, come una mano gigantesca, quella che gli si piazza dietro la schiena e lo spinge in alto, verso l’aria, verso la luce. Una mano fatta di acqua e cosmo divino. Poseidone. Il Signore dei Cavalli lo sta salvando e Seiya non si spiega perché. Si lascia trascinare – non può fare altro – e appoggia la schiena contro il palmo liquido che lo sta sospingendo. Si rilassa. E la sua mano molla la presa. Il polso di Milo scivola via e Seiya fa appena in tempo ad osservare lo Scorpione cadere verso il fondo del mare, senza emettere un lamento. Senza accorgersene.
«No! Milo!!», esclama Seiya, allungando le sue dita nel vano tentativo di afferrare per i capelli il compagno. Ma la mano di Poseidone è più veloce, più impetuosa e più distratta, forse, e non si accorge di quel guerriero che cola a picco, come un’ancora gettata alla fonda. E le dita di Seiya si ritrovano a stringere l’acqua, mentre una forza sovrumana ed annichilente lo trascina via. Verso la luce.

«Milo!»
Seiya si svegliò di soprassalto, balzando sul letto. La luce del tramonto che filtrava dalle persiane accostate gli ferì gli occhi. Confuso, la sensazione di smarrimento e paura che lascia dietro di sé un brutto sogno, socchiuse gli occhi e si guardò intorno. Si trovava in una stanza con altri tre letti. Vuoti. Arredamento spartano. Due letti per lato, un tavolino tondo nel mezzo, pareti intonacate, la finestra socchiusa sulla parete opposta alla porta.
Dove diamine sono?, si chiese, le mani sul viso. Fuori, oltre le stecche di legno consumato, i rumori della giornata declinavano verso un mite mormorio. Un cane abbaiava imperterrito. Forse l’avevano chiuso fuori. Forse s’era intestardito a voler catturare un gatto, che magari l’osservava al sicuro, con quell’espressione pigra ed indolente e anche un po’ scocciata che i gatti hanno quando osservano il mondo attorno a loro, come se potessero mettersi il mondo in tasca da un momento all’altro.
Cautamente, la testa ancora ovattata, Seiya mise un piede a terra. Il freddo del pavimento fu una bella scossa. Era nudo, sotto le lenzuola. Qualcuno si era preso la briga di fasciargli un polso e la testa. Non aveva niente di rotto, almeno ad un controllo sommario, e anche le costole stavano a posto. O adesso starei boccheggiando dal dolore, si disse scostando il lenzuolo e poggiando entrambi i piedi a terra.
Fu in quel momento – nell’istante immediatamente successivo, a voler essere onesti – che la porta si aprì – si spalancò – e nel riquadro di legno scuro apparve Shaina con delle bende nelle mani. Seiya rimase congelato. Si rannicchiò istintivamente e portò una mano a coprirsi il pube. Shaina entrò e lasciò la porta socchiusa.
«Non si bussa?», chiese lui, cercando di  con la mano libera di afferrare il lenzuolo.
«Dormivi. Ti ho sentito gridare e sono venuta a vedere che stesse succedendo», ribatté Shaina posando le bende pulite sul tavolino. Poi gli diede le spalle. «Copriti», sibilò, le braccia incrociate al petto. Seiya non se lo fece ripetere due volte. Sgusciò sotto il lenzuolo e se lo tirò fin quasi sullo stomaco.
«Fatto», disse, sentendosi una scolaretta con le trecce scarmigliate e le guance in fiamme.
Shaina si voltò e l’espressione indifferente della maschera lo fece sentire ancora più nudo di quello che era. Come se quegli occhi vuoti stessero guardando oltre la pelle e la carne. «Come ti senti?», chiese.
Come un perfetto coglione, pensò lui. «Confuso», disse invece.
«Hai battuto la testa e ti hanno portato all’infermeria del Santuario», disse lei avvicinandosi alla finestra e spalancando le imposte.
«Cosa è successo, Shaina?»
Lei rimase ad osservare qualcosa, fuori da quella stanza, lasciando che il vento di levante giocasse con i suoi capelli e lenisse il caldo della giornata.
«Il vostro aereo è colato a picco nel bel mezzo del Mediterraneo», disse lei, dopo aver raccolto le idee.
Seiya agghiacciò. «L’aereo?», chiese, e nell’istante successivo la sua mente fu inondata da flash incoerenti. Lui che ridacchiava cercando di coinvolgere Saori. Lui che le indicava le isolette sotto di loro. Milo steso sul pavimento. L’hostess. Saori. E poi…
«L’aereo…», mormorò. Quindi non era stato solo un sogno, quello che aveva appena fatto. «Saori? Milo?», chiese, alzando la testa verso Shaina.
Lei abbandonò la finestra e si avvicinò al suo capezzale. «Stai fermo. Ti cambio le bende.»
Lui le agguantò un polso. «Cos’è successo, Shaina?»
«Te l’ho detto. Hai battuto la testa. Il dottore ha detto che devi stare a riposo…»
«Non quello», l’interruppe lui, piazzandole gli occhi scuri in quelli vacui della maschera. Sapeva che lei lo stava guardando. Che percepiva il suo cosmo, come se quell’affare che aveva sul viso non esistesse. O fosse poco più che un paio di occhiali da sole. «Cos’è successo a Saori.»
La sentì irrigidirsi sotto le sue dita. Tirò via il braccio. Lui la trattenne.
«Shaina…»
«Smettila!»
Lei si liberò. Urtò con il fianco il tavolino. Le bende caddero a terra.
«Non sappiamo dove sia.»
«Che cosa?!»
«Sei nudo, Seiya…»
«Che significa che non avete idea di dove sia?», proseguì lui.
Shaina si sedette sul letto accanto al suo. Si lasciò cadere sulle lenzuola pulite, china in avanti, le mani a dondolare nel vuoto. «Vi ha salvati Poseidone», disse, un sussurro appena percettibile nella calma irreale di quella stanza. «Vi ha sollevati dalle acque del Mediterraneo e vi ha disposti sul promontorio di Imerovigli.»
«I…me…»
«I. Me. Ro. Vi. Gli», scandì lei. «Il Balcone dell’Egeo. La parte più chic e tranquilla di Santorini. È stato cortese, a modo suo…»
«E qui…»
«Vi hanno trasportato Mu e Shaka, con l’aiuto di Kiki. Ma non avrebbero mai fatto in tempo se Poseidone non...»
«E Saori non c’era?»
«E Athena non c’era. Né lei, né Milo», rispose. «Poseidone vi ha lasciati ad asciugare come tante conchiglie sulla spiaggia, ma di lei non c’era più traccia. Come se fosse… scomparsa. Come se non fosse mai salita a bordo di quel jet.»
«Non è possibile!», esclamò Seiya. Saori non era mai salita a bordo del jet? «Ma se stavo scherzando con lei prima che tutto…» precipitasse?
«Poseidone non mente.»
«No? Stiamo parlando dello stesso Poseidone?»
«Sì. Stiamo parlando dello stesso Poseidone.» Shaina alzò la testa e gli piazzò gli occhi della maschera addosso. «E prima che tu possa dire assurdità, no, non l’ha rapita lui. Shaka ha incontrato Sorrento e Julian Solo. Li stavano aspettando, vegliando su di voi. Era affranto, disperato e…»
«Balle!», disse Seiya, i pugni chiusi e l’espressione feroce. «Se non l’ha presa lui, allora…»

«Trovami!»

Seiya sgranò gli occhi, la frase lasciata a metà. Shaina parlava, ma lui sentiva appena la sua voce, come un’eco, un rumore di fondo, una scarica elettrostatica tra le onde radio.
«Dobbiamo trovare Saori!», disse.
Shaina piegò la testa da un lato.
«Non hai sentito una sola parola di quello che ho detto, vero?» Sospirò. «Dobbiamo rassegnarci, Seiya. Saori e Milo sono...»
«No.»
«…morti.»
«No! NO! Non dirlo mai. Nemmeno per scherzo. Saori è viva. Io lo so!»
Shaina si alzò e si sedette sul letto accanto a lui. Gli prese il viso tra le mani. «Seiya, il suo cosmo non c’è più. Il cosmo di Milo non c’è più. So che è dura. È difficile. Ma…»
«Ma cosa, Shaina?» Lo sguardo di Seiya era acciaio nerissimo. Si liberò dalla sua presa e le tenne i polsi stretti tra le mani. Per prudenza. «Certo. Per te è tutto più facile adesso che Saori non c’è più, vero?»

CIAFF

 

Un dolore secco, questo sentì Seiya. La sensazione di bruciore arrivò in un secondo momento, quando girò la testa verso Shaina. La sua maschera lo fissava inespressiva, ma le spalle dell’Ofiuco tremavano.
«Come osi? Come osi dire… anche solo pensare una cosa del genere?», gridò lei alzandosi. «Ma per chi mi hai preso? Credi forse che io sia così meschina? Guarda che lei era Athena anche per me
«Shaina, io…»
«Shaina un cazzo!»
E se ne andò, sbattendosi la porta alle spalle, il ticchettio dei suoi tacchi simili a colpi di mitragliatrice con cui uccidere il pavimento.

 

Il legnetto di liquirizia ha un sapore tutto suo. È diverso dalle stringhe che si vendono all’alimentari, nere e lucide come bisce. È più aspro. Più vero, in un certo senso. Meno zuccheroso. L’unica controindicazione sono i pezzi di corteccia che ti restano incastrati tra i denti. Quelli li odia. Da morire. Però il sapore della liquirizia val bene un po’ di lavorio di filo interdentale.
Il gabbiano la fissa coi suoi occhietti rossi e malvagi.
«Smamma», gli sibila, posando a terra un sacchetto. Il legnetto rotola tra i denti. «Non c’è trippa per gatti, figuriamoci per te», aggiunge aprendo l’incarto. Ma il gabbiano non molla. Si avvicina. Forse attirato dalle frattaglie, forse attirato dal miagolio incessante, lo sguardo fisso su di lei, le ali ripiegate dietro la schiena.
«Smamma! Sei sordo o cosa?», ripete, facendo un ampio gesto con il braccio. Per tutta risposta il gabbiano apre le ali e le frulla in aria.
«Dovrei restarne impressionata?», gli chiede, un sopracciglio sollevato e le mani sulla carta del sacchetto.
Il gabbiano non si scompone e zampetta verso di lei. Come a chiedere se c’è qualcosa anche per lui.
«Dopo», cede lei, allontanando la bestia con un gesto della mano. Come se stesse scostando via i piccioni del parco, e non un predatore del mare, una bestia grossa una volta e mezzo i pennuti trullanti e tubanti dalla livrea grigia che zampettano tra le panchine come tanti banchieri pigri.
Ma il gabbiano è una bestia intelligente e testarda. E non lo rabbonisci con un «dopo, dopo». Anzi. Se trova un varco, una fessura in cui infilare il becco, non te lo scrolli più di dosso. E così il gabbiano si fa più vicino. Socchiude gli occhietti rossi. E da una prima beccata. Manca la sua mano di pochissimo.
«Ehi! Che modi sono?», lo apostrofa, con un tono da maestrina che la bestiaccia infame davanti a lei non può capire. «Dovrei farti arrosto, dovrei!», ma quella è una minaccia a cui non crede né lei che l’ha pronunciata, né il gabbiano che l’ascolta. Forse è stato lui a papparsi uno dei micetti, forse no; ma anche se fosse, lei non ce la fa ad odiare quella bestia. È una legge di natura. Questo lo capisce, ché tra gli animali non c’è il concetto di malvagità. Il predatore mangia la preda. Ma la preda non bruca forse l’erba? È un circolo. Una catena. E il gattino, predatore beta e per di più cucciolo, era troppo debole e inesperto per sopravvivere all’attacco di un predatore alfa come il gabbiano.
«Era buono? Sì?», gli chiede, fissando con aria truce quegli occhietti rosso rubino. «Sono contenta per te. Ma lui non si tocca», dice, dando le spalle al gabbiano e scartando il sacchetto quel tanto che basta per estrarne i fegatini. Glieli ha dati Salvo, il macellaio. Gratis. «Il tuo micio si leccherà i baffi», le ha detto allungandole il sacchetto. Ne lancia due al gabbiano, che li afferra al volo nel becco e frulla le ali poco distante.
«Ingozzati», gli dice, aprendo la botola di legno. Il miagolio s’è fatto insopportabile. Due occhietti verde smeraldo la fissano nel buio. «Vieni, su», dice prima di infilare una mano nel buco e tirarne fuori un gattino nero tutto pelle e ossa.
«Miau!»
La creaturina, smarrita e confusa, si abbranca alle sue dita con le unghiette affilate.
«Ecco, ecco», gli dice mettendolo giù. Ha fame, e questo è un buon segno. Il gattino si avventa sui fegatini affondandovi i dentini aguzzi, mentre lei tiene d’occhio Jonathan Livingstone. O un suo parente più prossimo. E pensa a come fare. È riuscita a piazzare gli altri fratellini, chi dalla cugina della panettiera, chi all’edicolante, ma lui non lo vuole nessuno. «Perché è nero», le ha detto Tonio, come se una sciocchezza simile potesse costituire una scusa valida. Avrebbe capito di più se il gattino fosse stato malato, ma invece è vispo e sano come un pesce, come le ha assicurato l’amica di Tonio che li ha visitati.
«La gente è proprio strana, eh?», dice accarezzando la testolina del gattino. Che emette un ringhio basso, un verso molto simile ad un avvertimento. «E tu non sei da meno», gli dice, tornando ad occuparsi del gabbiano. Che s’è rifatto sotto.
Forse quei fegatini sono davvero appetitosi, dopo tutto.
Lei sospira. Non può continuare così. Le è andata bene che il suo maestro fosse lontano, a spaccarsi la testa chissà dove, ma non durerà a lungo. Lui tornerà. E se questo giovanotto sarà ancora in giro, vincerà un biglietto per il mare aperto, senza pinne, fucile ed occhiali. Le si gela il sangue nelle vene al solo pensiero.
«No! Mai!», esclama, fissando il gabbiano, che le scocca uno sguardo confuso – uno sguardo malvagio e confuso – ruotando la testolina bianca prima a destra e poi a sinistra.
«Parli coi gabbiani?»
Sgrana gli occhi. La bocca si socchiude a culo di gallina, come direbbe Tonio. Il legnetto di liquirizia cade sulla sabbia. C’è qualcuno alle sua spalle. Qualcuno che non ha sentito arrivare. Ovvio che no. Il vento soffia, il mare sta muggendo e tutta quella salsedine le sta dando la nausea. E lui è stato sufficientemente bravo da coprire i suoi passi, dopo tutto.
Si gira, di scatto. Non è il suo maestro. È il Santo senza nome, quello che è apparso dal nulla a Novembre. La fissa perplesso, lo scrigno d’Oro sulle spalle come fosse uno zainetto.
«Tu?»
Lui si avvicina, le lunghe gambe che colmano la distanza in poche falcate.
«Io», dice. «Il tuo maestro?»
«Non c’è», risponde lei, restando inginocchiata a coprire col suo corpo il gattino. Il gabbiano li fissa ma non si avvicina. Forse ritiene che due esseri umani siano troppo, per lui.
«Non c’è», ripete lui, quando il gattino miagola con tutta la forza che ha in corpo. Le regala un’occhiata perplessa.
«Che stai facendo?», le chiede, ma lei non lo sente. Si è girata alle sue spalle. Il micio ha finito la porzione di fegatini che gli ha dato, ma ne vuole ancora. Adesso.
«Accidenti!» Lo prende in braccio e mette su l’espressione più contrita ed innocente del suo repertorio quando gli piazza gli occhi nei suoi. «Io… lui…»
«Tu sei un essere umano. Lui è un gatto», dice lui, incrociando le braccia. «È tuo?»
«Sì. Cioè, no.»
«O è tuo o non è tuo.»
«È un orfanello», gli spiega lei. «Mamma gatta è finita sotto una macchina, così me ne sono presa cura io. Li ho svezzati e sverminati, ma non mi riesce di trovare una casa a questo signorino. Perché è nero.»
Lui la guarda come se le fosse spuntata una seconda testa.
«Sì, è una cosa da pazzi, vero? Come se il colore fosse un motivo sufficiente per. La gente è razzista non solo con le persone, ma anche con gli animali.»
«Il tuo maestro lo sa?»
Lei gela sul posto, presa in contropiede. Gli occhi sgranati gli dicono – gli confessano – che no, il suo maestro non lo sa. Ovvio che non lo sa. Altrimenti quel gatto affamato adesso starebbe miagolando in fondo al mare.
«È… È successo mentre lui era fuori. Per questo volevo risolvere la situazione prima del suo rientro.» Silenzio. «Glielo dirai?»
«Non vedo come. Lui non c’è e sono sicuro che non ti ha lasciato detto dov’è che andasse, vero?»
Lei annuisce. Lui si inginocchia davanti a lei. Lo scrigno borbotta un suono metallico.
«Quanto ha?», le chiede.
«Non… lo… so…», ribatte lei. Sente che le guance le si stanno scaldando. Che il cuore batte all’impazzata. Lui non sembra essersi accorto di niente. La fissa con quel suo sguardo tagliente, poi abbassa gli occhi verde scuro sul gattino.
«È svezzato», ripete a se stesso, dando un’occhiata al sacchetto coi fegatini.
«Sì, sì.» La sua testa fa su e giù un paio di volte. «Perché lo chiedi?»
«Perché forse questo giovanotto potrebbe risolvermi un problema…»
Lei sgrana gli occhi. «Cioè?», chiede. Allontanando il gattino dalle sue mani.
«Ho bisogno di un regalo per mia zia.»
«Tua zia?»
Lui la fissa come a dire: «Mia zia. Problemi?», poi annuisce. «Che c’è? Non sei contenta? Guarda che mia zia ama tantissimo gli animali. Starà bene con lei.»
«Sì. Sì, lo immagino. È che non me l’aspettavo.»
«La vita è fatta così», chiosa lui con un tono di voce che glielo fa sembrare subito saggio. Adulto.«Allora? Me lo dai o no, questo gatto?»
A malincuore, lei deposita il gattino nelle mani di lui.
«Però. È pesante.»
«Lo porti così? Non ti serve un trasportino, o qualcosa del genere?»
«No. Ma se hai qualcosa con cui avvolgerlo… non so, una pezza di lana andrebbe bene.»
Lei annuisce. Si alza in piedi, gli dice: «Aspettami qui» e corre via.
Il gattino protesta con veemenza. Ha ancora fame, ma è meglio se non mangia. Potrebbe vomitare strada facendo. O farsela sotto. E quindi addosso a lui. E presentarsi a casa con una chiazza di pipì – o peggio – sul cappotto non è proprio il massimo. Si chiede se a Jimena piacerà questo gattino pelle e ossa. Javier borbotterà. Dirà che quella palla di pelo e pulci la distrarrà dall’addestramento – e lui si sente di dargli ragione – ma il mese scorso c’è stato Natale, e lui non s’è fatto vedere nemmeno per sbaglio. E tra pochi giorni è il compleanno di Jimena. E prendersi cura di un animale significa assumersi una responsabilità, dopo tutto. Significa crescere. Alle brutte, ci penserà Lupe a sfamare questo giovanotto. Così Jimena continuerà ad allenarsi e Lupe si sentirà meno sola.
Due piccioni con una fava, pensa, osservando lo sguardo azzurro del gattino. Che miagola a pieni polmoni, la mascella che rischia di disarticolarsi e cadere a terra.
«Ecco qui.»
La ragazza è tornata. Gli porge un maglioncino di lana giallo sole.
Lui si alza. «Intendevo una pezzuola che non usi più.».
«È diventato troppo piccolo per me», gli dice accarezzando la testa del gattino. «Ah, prima che me ne dimentichi! La scorsa volta il mio maestro mi ha rimproverato per non essermi fatta dire chi era passato a cercarlo.»
«Mi dispiace.»
Lei si stringe nelle spalle. «Non importa», dice, gli occhi fissi sul gattino.
«Starà bene», le assicura lui. «Gli hai dato un nome?»
«Carbone.» Lui ripete quel nome un paio di volte. Per imprimerselo nella memoria. «Posso esserti utile io, oppure devi proprio parlare con il mio maestro?»
«In realtà, dovevo solo consegnargli questo», dice, cavando fuori dalla tasca del cappotto un pacchetto avvolto nella carta sottile delle farmacie. «Me l’ha dato la vecchia Agata. Credo sia un antibiotico, o qualcosa del genere. Di solito non faccio il corriere, io. Ma per lei ho fatto un’eccezione.»
Le affida il pacchetto nelle mani, come se fosse una cosa preziosa. Poi avvolge il gattino con grande cura nel maglioncino giallo sole. «Grazie», le dice.
«Grazie a te», risponde lei. «Aspetta, i fegatini», ma quando si volta la busta non c’è più. Ce l’ha il gabbiano, stretta nel becco, mentre si allontana indisturbato verso gli scogli.
«Ladro matricolato! Quella roba non era per te!», strilla, e pesta un piede sulla sabbia umida.
«Colpa mia che non l’ho controllato!», dice lui, e l’espressione del viso di lei si rilassa un po’. «Adesso devo scappare. Ancora grazie,
gaviota!», e svanisce via, in un lampo di luce. Un istante prima c’era, lo scrigno sulle spalle come fosse uno zainetto; l’istante dopo lei è da sola sulla spiaggia a chiedersi se il gattino starà davvero bene; perché il suo cuore batta così forte; e che diamine significhi adesso gaviota. Non le sembra greco. Affatto. Si gratta la testa, un’espressione perplessa sul viso. Il gabbiano ha abbandonato il sacchetto di carta alle cure del vento e se ne va passeggiando sugli scogli per smaltire il pasto fuori programma.


«Stella?»
Una mano scese ad accarezzarle la guancia. Sollevò le palpebre piano, pianissimo. Aveva mal di testa. Odiava svegliarsi col mal di testa. La mettevano di cattivo umore per tutta la giornata e quand’era di cattivo umore le riusciva difficile controllarsi e mostrarsi educata e cortese. Mugugnò qualcosa, una protesta debole che l’altro, il proprietario della voce che l’aveva chiamata, ignorò.
«Su, pigrona! Il sole è già sorto da un pezzo!»
No, voglio dormire. Stavo facendo un bellissimo sogno.
Sentì le tende scorrere e il calore del sole accarezzarle la pelle delle spalle. Tintinnio di posate e bicchieri e un peso che fece affondare il materasso accanto a lei.
«Stella? Amore?», la chiamò, accarezzandole la spalla in punta di dita.
Lei chiuse gli occhi. Lui le depositò un bacio tra i capelli.
«Avanti, amore…», disse lui, paziente, come se stesse parlando con una bambina testarda. «Abbiamo un sacco di cose da fare, oggi. Non possiamo starcene tutto il giorno a letto…»
Perché no?, si domandò lei, sbirciandolo da sotto le ciglia.
Lui le sorrise, un lampo accecante di denti bianchissimi, da pubblicità. Dimostrava a mala pena vent’anni, o poco più, i lineamenti spigolosi e magri che lo rendevano l’uomo più affascinante su cui lei avesse mai posato lo sguardo. Arrossì.
«Non volevi fare una passeggiata a cavallo?», le chiese, gli occhi verde chiaro che brillavano come laghetti di montagna colpiti dal sole. Come pezzi di vetro in controluce.
«Una passeggiata a cavallo?» Si sollevò a sedere, il lenzuolo di raso grigio perla le ricadde in grembo. Un refolo di vento le increspò la pelle. «Che freddo…»
Lui rise. «Sana aria svedese», le disse, drappeggiandole una vestaglia sulle spalle nude. «Questa camicia da notte ti sta d’incanto, ma forse è un po’ troppo leggera, per questa stagione…»
Abbassò gli occhi sul proprio busto, incontrando una pregiata seta color avorio, con degli inserti di pizzo sullo scollo e due spalline sottili sottili. Un indumento raffinato. Da luna di miele. Sbatté le palpebre. Gli scoccò uno sguardo confuso.
«Sei così bella…», disse lui, accarezzandole una guancia. Poi si morse le labbra e si alzò. «Ti ho portato la colazione», le disse, dandole le spalle. Lei si strinse nella vestaglia arrossendo.
Lui si avvicinò ad un tavolino, coperto da una tovaglia di lino candido, e scoperchio un vassoio d’argento. «Pancakes alla zucca. Pane tostato. Burro. Marmellata di more. Succo di mela. Caffè.» Le sorrise di nuovo.«Helga ha preparato tutto questo per te. Spero tu abbia fame.»
Il suo stomaco borbottò. Lei arrossì. Lui eruppe in una risata di cuore.
«Vieni, Stella», le disse, porgendole la mano.
Lei scese dal letto. Infilò le pantofole e strinse la vestaglia in vita con un nodo. Lui le scostò la sedia.
«Mi sento così… confusa…»
«È il jet-lag, amore mio», le disse, accomodandosi di fronte a lei. «Vedrai che ti abituerai subito.»
«Ho fatto un sogno strano», disse lei, afferrando una fetta di pane.
«Davvero? Raccontamelo!» Lui sorrideva, la stessa espressione di un bambino di fronte ad una montagna di caramelle.
«Viaggiavo su un jet. Assieme ad altri ragazzi…»
«Come, come? Devo essere geloso?»
«Scusami?»
«Beh, se la mia bellissima fidanzata mi dice di aver sognato di viaggiare assieme ad altri ragazzi, io mi ingelosisco. Sarò pure svedese, ma sono fatto di carne e sangue anche io, cosa credi?»
La mia fidanzata?, pensò lei, fissandolo incredula.
«Tesoro? Non ti ricordi chi sono?»
No, pensò lei. Che era davvero confusa. Stella, la chiamava lui, ma lei non seppe dire se quello fosse un vezzeggiativo o, piuttosto, il suo nome. Non se lo sentiva addosso. Non lo sentiva suo.
Lui piegò la testa da un lato, come un cagnolino perplesso, strappandole un sorriso. Non si sentiva in pericolo. Si sentiva bene. Protetta. Al sicuro. Lui allungò la mano sulla tovaglia, stringendole appena le dita. Com’era caldo, il suo tocco. Com’era avvolgente.
«Amore, sono io. Luke. Il tuo fidanzato… Ci siamo conosciuti al compleanno di Julian Solo, lo scorso Marzo. Ci ha presentati lui. È stato un colpo di fulmine reciproco. Ci sposeremo appena compirai ventun’anni, tra tre anni. Volevi conoscere la Svezia e ti ho portata qui, appena possibile. Non ti ricordi più?»
Stella sgranò gli occhi e a quelle parole tutto si fece più chiaro nella sua mente. La nebbia del sonno si diradò, pian piano, lasciando il posto ad un caldo e luminoso raggio di sole. Un raggio di sole alto e slanciato, dal sorriso splendente, gli occhi verde chiaro ed i capelli corvini lunghi fino alle spalle.
Lei sorrise. Era tutto a posto.
«Scusami. Il jet lag gioca davvero dei brutti scherzi…»
«Uhm», disse lui, poco convinto, accarezzandole l’interno del polso con il pollice. «Mi avevi quasi convinto», soffiò fuori, un po’ imbronciato.
«Scusami…»
«Non importa», le disse con una voce calda e bassa, provocandole un dolce languore. «Ma adesso mangiamo, o la colazione si fredderà. E chi la sente, Helga, poi?»
Le lasciò la mano e lei provò freddo.
«Caffè, tesoro?»
«Sì, grazie», disse, mentre lui le riempiva la tazzina. C’era qualcosa in lui, nei suoi gesti, che la metteva a suo agio. Una quotidianità che, però, era intaccata da un dubbio. Possibile che non ricordasse nulla del viaggio? Da Tokyo a Stoccolma sono parecchie ore di volo; e allora perché non rammentava un solo, singolo momento passato in volo?
«È colpa della tua amnesia», le disse, come se le avesse letto nella mente.
Lei sgranò gli occhi e socchiuse appena le labbra.
«La mia… amnesia
Lui posò thermos e tazzine.
«Hai avuto un incidente, il mese scorso. Eri in auto con un’amica. Nadja. Stavate tornando da una festa, ma lei aveva bevuto troppo e…»
Stella rivide alcuni flash nella sua mente. Immagini incoerenti, come osservare la corolla di un fiore attraverso un caleidoscopio. Nadja. Una ragazza dalla pelle caffellatte e gli occhi verde smeraldo. Caschetto sempre fresco di piastra. Rossetto rosa acceso. Una passione smodata per la velocità e per il tè.
«Il vero tè è quello di Ceylon», mormorò Stella, gli occhi appannati dalle lacrime. Dentro di sé seppe che Nadja non ce l’aveva fatta. Non c’era più. E non avrebbe potuto bere più il suo adorato tè di Ceylon con una punta di limone e niente zucchero.
Lui la raggiunse – sentì il rumore della sedia e dei suoi passi – e le cinse la testa con le braccia.
«Sei stata in coma pochi giorni, ma da quel momento hai delle perdite di memoria. Hai rimosso l’evento nella sua interezza, ma continui ad avere… dei momenti di buio. Come una puntina del giradischi che salta, hai presente?»
Lei annuì. Si asciugò gli occhi. Lui le depose un bacio sui capelli.
«Va tutto bene, Stella. Va tutto bene. Ci sono io con te, adesso…»
«Grazie, Luke», mormorò lei contro la sua camicia candida. Profumava di bucato steso al sole.
«Adesso mangiamo.» Lei annuì. Lui sorrise e tornò al suo posto. «E più tardi ci aspetta una bella cavalcata per il parco. C’è un sentiero che vorrei mostrarti. Si gode una vista mozzafiato, da lassù. Potremmo portarci dei panini e mangiare fuori, se ti va. È una così bella giornata. Ah, e poi stasera prendiamo la barca e raggiungiamo alcuni amici per cena. Conosco un ristorante che fa una fisksoppa da urlo. Che ne pensi?»
«Mi sembra uno splendido programma», rispose lei, addentando una fetta di pane tostato.
«Meraviglioso», sospirò lui. «Vuoi del succo di mela, amore? Lo producono in una fattoria nei dintorni. Provalo. È strepitoso…»






Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Capitolo lunghetto, con un sacco di cose da dire. Iniziamo? Pronti... via!!

L'amratura di Death Mask ha delle decorazioni in blu sul busto. Quella di Manigoldo, no. Ha solo delle incisioni nello stesso, identico punto. E siccome io mi perdo dietro a codeste quisquilie, non ho avuto pace fino a quando non ho trovato una soluzione. Non che ci volesse 'sta scienza, d'accordo. Ma ho messo un altro tassello al puzzle.

La Death Queen Island è un luogo immaginario inventato da Kurumada (che doveva avere tipo tre in Geografia, ma sorvoliamo). La maschera di Guilty, la stessa che Gioca recupera a Venezia grazie a Manigoldo, è assimilabile alle repparesentazioni del dio indonesiano Rangda, un demone femminile che mangia i bambini e guida le armate del male contro quelle del bene, capitanate da Barong. Sicché, l'isola della Regina Nera non deve distare poi tanto da Bali.

Gli tsubo sono i punti di pressione su cui la medicina cinese agisce tramite pressione. Sono disseminati su tutta l'epidermide, e come ci ha insegnato Kenshiro (お前はもう死んでいる。), premendo il giusto punto di pressione, si ottengono diversi risultati, a volte catastrofici, a volte benefici (e no, aver ridato la voce a Lynn non è un risultato positivo). Ho immaginato che piuttosto che attraversare (e friggere) il cervello dell'avversario, il Fantasma Diabolico si limiti a premere un punto che agisce sul lobo frontale, determinando così una serie di visioni ossessive. Magari questa genialata è descritta da qualche parte. In tal caso, fate un fischio.

Mio buon Cid è l'ennesimo epiteto esornativo per determinare Rodrigo Diaz de Vivar, aka El Cid Campeador nell'omonimo Cantar.

Non ce l'ho fatta a lasciare Nonna Agata fuori da questo carrozzone ambulante. Mi ci sono affezionata, sicché ve la cuccate anche qui, lei e il paesino di Scilla. Famm’ u piaceri, significa fammi questa cortesia. Storto in calabrese significa stupido, cocciuto. bacara è il pene. Storto comm nu’ capu ri bacara non credo che a questo punto abbia necessità di spiegazioni ulteriori...

Il Giardino di Luce è il titolo di due episodi della serei Shojo Kakumei Utena (rispettivamente Preludio e Finale), che vedono per protagonista Miki Kaworu e il complesso legame con quella sciroccata di sua sorella Kozue. È un'immagine che adoro e non resisto: devo piazzarla ove possibile, quando possibile, appena mi è possibile. Portate pazienza.
La Signorina Rottenmeyer è l'istitutrice di Clara Sesemann in Heidi, la cui versione a cartoni animati risale al 1974.
La rosa nera di Sainte Foy (ché a casa mia Saint Fois non esiste) è una rosa che infesta i miei incubi da quand'ero una mocciosetta della seconda elementare. Appaiono in Il Tulipano Nero (La Se-ne no Hoshi, 1975) nell'episodio in cui la giovane fioraia Simone aiuta Maria Antonietta a vincere una gara di bellezza contro una certa Madame Catherine (o una roba del genere) fornendole, appunto, queste rose nerissime da appuntare sulla gonna dell'abito. Per vendicarsi, Madame Catherine fa accoppare i genitori di Simone (gli unici fiorai a Parigi ad aver trovato quelle rose). Il 4 Luglio c'è la Rivoluzione! (sic!)
Sainte Foy è una giovanissima martire perita durante le persecuzioni di Diocleziano (303 d. C.), la cui abbazia si trova in Francia, lungo il Cammino di Santiago.

Imerovigli (in onore di Sen) è un delizioso paesino di Santorini, arroccato su un promontorio a trecento metri sulla caldera (sommersa) del vulcano che esplose secoli orsono e... vabbé, la storia la sapete. Le sue case bianchissime e la vista che si gode dalle sue finestre le hanno valso il nome di "Terrazza dell'Egeo" o "Balcone del Mediterreaneo". Ovviamente, non essendoci una spiaggia, Poseidone ha deposto i corpi sollevati dalle acque sugli scogli. Non stiamo a cavillare.

Jimena appare in Deep Blue Eyes. Javier e Lupe, invece, li trovate in Quando Cantano le Spade.
Gaviota significa gabbiano in spagnolo.

Non mi sembra manchi altro. Ah, sì. La fisksoppa è una zuppa a base di merluzzo, salmone e gamberi, insaporita con aneto e panna acida. Una squisitezza. E mentre Stella e Luke fanno colazione, io vado a gustarmi un fumante piatto di gnocchi al sugo. Buon appetito! E se siete arrivati vivi fino a qui non temete: ne ho serbato un piatto in caldo anche per voi!

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Capitolo 18
*** 18. ***


18.




«Quanto mi sei mancata!»
Aiolia affondò il viso nell’incavo tra il collo e la spalla. I suoi capelli profumavano di vento, alloro e salsedine. La strinse a sé con tutta la disperazione di cui era capace, come se lei potesse evaporargli tra le braccia da un momento all’altro.
«Adesso sono qui», gli disse, sfiorandogli il viso. E lui si tranquillizzò.
«Credevo di impazzire», mormorò lui, sfiorandole la pelle col proprio fiato. Lei gli cinse la testa con le mani, accarezzandogli i capelli. Lo tenne stretto a sé, cullandolo, quasi. Senza parlare, senza fiatare. Solo i loro respiri, i battiti dei loro cuori, il loro cosmo in sottofondo, pacato, come il mare che batte e leva contro la sabbia dorata. E lui si perse in lei, nel suo abbraccio, lasciando che tutta la tristezza che gli appesantiva il cuore salisse a galla, come meduse attratte dalla luna splendente nel cielo della notte.
Lui sollevò il viso per incontrare i suoi occhi. Le sfilò la maschera in punta di dita e la abbandonò sul pavimento. Lei non protestò.
Rimasero abbracciati stretti, sotto un lenzuolo di cotone a fantasia, le mani di lei a tracciare movimenti circolari sul suo collo, per alleviare la sua angoscia, il suo dolore, il suo smarrimento. Per sopportare quel peso in due. O almeno, provarci.

 
«Puoi ripetere, per favore?»
Sapeva che questo giorno sarebbe arrivato. Lo ha sempre saputo. Eppure è lo stesso fastidioso sentirsi porre quella domanda, in cui le uniche parole francesi si limitano ad un
s’il te plaît – pronunciato male, per giunta – che galleggia in un greco ballerino. Troppe lingue tutte assieme, si dice. Francese, italiano, greco. Quando si è piccoli si apprendono subito, ché il cervello dei bambini è dotato di un’elasticità quasi prodigiosa. Ma parlare correttamente una lingua è come curare una pianta di ciclamini. Se non la si annaffia, muore. Se non le si dona la giusta esposizione, appassisce. E lui è pronto a scommettere che laggiù non si riesce a sintonizzare la tv su Antenne 2 nemmeno per i cartoni animati del mercoledì mattina o per Motus. E anche se si potesse, quel bastardo di un rital non glielo permetterebbe, pensa, prima di chiederle: «Cos’è che non hai capito?». Ovviamente alla sua velocità. Ovviamente in francese.
Lei aggrotta le sopracciglia.
«Tre quarti dell’ultima frase», risponde. Ovviamente in greco.
«Cosa non hai capito?»
«Le parole», dice. E quel
les mots sussurrato nel vento, guardando altrove tranne che nei suoi occhi, gli fa serrare la mascella.
«In che lingua pensi, tu?», le chiede, la mani sprofondate nelle tasche, le spalle abbandonate nella giacca di velluto a coste blu notte.
«In francese. A volte», gli confida lei.
«A volte?», chiede. «Perché a volte?»
«Perché a volte non so come si dice una cosa, in francese.»
Lui annuisce, fissando il mare. «Niente che non si possa sistemare», le dice, con quel sorriso bastardo che a Rémy veniva così bene e che su di lui è solo un pallido riflesso.
«Dici?» Lo guarda da sotto in su, il piede destro nascosto dietro al sinistro, le mani dietro la schiena.
Lui apre lo zaino e le porge un pacchetto dalla carta azzurro chiaro.
«Per te.»
«Ma… è il
tuo compleanno. E io non ti ho fatto niente…» Lo dice con la voce imbarazzata. Mortificata.
Lui sorride. «Questo è il tuo regalo di Natale.»
«Non ti ho fatto neppure quello…»
«Perché i bambini non fanno regali. Li ricevono», e prima che lei possa protestare e ribattere che no, non è più una bambina, lui aggiunge:«E un uomo accetta regali solo dalla sua fidanzata. O da sua moglie. Non da sua sorella.».
Lo guarda sospettosa, gli occhi ridotti a fessura.

«Est-ce que tu es en train de te moquer de moi, toi
Sorride. Qualcosa lo ricordi, allora. «Mais bien sûr que non», le dice. «Scartalo, avanti.»
Lei obbedisce. Il pacchetto pesa. Il nastro blu si scioglie e lo tiene nella destra, mentre le sue dita strappano la carta. Un pezzetto appena.
«Porta sfortuna non farlo», gli spiega, incrociando la sua espressione dubbiosa. Poi i suoi occhi si sgranano nel leggere il titolo. Glieli piazza in faccia con una domanda muta a galleggiare in quel mare verde edera: «Sei impazzito?».
«
Il Conte di Montecristo?», chiede invece.
«In versione originale», le conferma lui.
«E come faccio?»
«Come fai a fare che? A leggere? Non sai leggere?»
«Certo che so leggere!», ribatte lei. Piccata. «Ma come faccio se non conosco le parole?»
«Prova a leggere.»
«Ma…»
«Prova. A. Leggere.»
Lei apre il volume alla prima pagina. I suoi occhi rincorrono le parole. Lui le dice: «Ad alta voce», e lei obbedisce.

«Le 24 février 1815, la vigie de Notre-Dame de la Garde signala le trois-mâts le Pharaon, venant de Smyrne, Trieste et Naples. Comme d’habitude, un pilote côtier partit aussitôt du port, rasa le château d’If, et alla aborder le navire entre le cap de Morgion et l’île de Rion.»
Nemmeno mezza liaison, pensa. Poi le chiede: «C’è qualcosa che non capisci?»
«Cos’è un
trois-mâts ?»
«Un tipo d’imbarcazione. Una nave a tre alberi.»
«Ok. Ma che succede se non so una parola e tu non ci sei?»
«Non hai un vocabolario?» La sua testa va da destra a sinistra un paio di volte.
«C’è una biblioteca, in paese?»
«Sì.»
«Puoi andarci?»
«Sì. Posso fare quello che mi pare. Il mio maestro ha altri allievi da formare, adesso.»
«Capisco.»
«Sarebbe più facile se io potessi tornare a casa, però.»
«Il mio allievo non è ancora pronto», le dice.
«Non capisco», gli dice.
«Cosa?»
«Perché tu non l’abbia rispedito da dov’è venuto dopo quello che è successo!»
«Perché è stato un incidente», le dice. «Sono cose che capitano. Purtroppo.»
Lei non sembra credergli. Come se lui le stia propinando una medicina amarissima assicurandole che no, non fa poi così schifo, ma che anzi, è addirittura dolce. Ma no, dolce non lo è per niente, quella cucchiaiata di bugie, densa come uno sciroppo contro la tosse, e amarissimo come e più del fiele. Perché lui stesso non crede alla storia dell’incidente. Perché deve ancora capire cosa stessero facendo, quei due, in acqua. In quella zona, in pieno inverno. Fosse stata primavera, avrebbe capito, avrebbe
creduto alla storia della pesca, ma d’inverno? Con la dispensa piena? Quali pesci avrebbero mai potuto sperare di acciuffare?
«Se lo dici tu…»
«Ti ho mai raccontato bugie?», le chiede. Sapendo di starle mentendo un’altra volta. Sollevandole il mento con un dito.
Assomigli a nostra madre. Tantissimo.
«No», soffia fuori lei, distogliendo lo sguardo e piazzandolo sulla sabbia umida.
«Aspetta ancora qualche mese. Poi tornerai a casa.»
«Promesso?»
«Promesso.»
Lei sorride. Un sorriso triste, ma si sforza di credergli. Aspetteranno. Una manciata di mesi ancora e si lasceranno alle spalle l’esperienza desolante della Sicilia, lei, e dell’insegnamento, lui, e se ne torneranno in Siberia. Insieme. Ad aspettare che quel disgraziato di Rémy salti fuori, prima o poi. Il difficile per l’Acquario sarà raccontare tutto a Milo senza farsi cavare gli occhi, ma pazienza. Lo Scorpione gli toglierà il saluto per qualche tempo – e anche a ragione, ché fratelli e sorelle non spuntano fuori dal nulla come monete abbandonate nelle tasche dei pantaloni – ma poi faranno pace. E finirà di sentirsi in colpa con Milo per quella piccola omissione.
Un’omissione di un metro e sessanta dai capelli castani. Chiamala piccola, si dice.
«Perché il
Montecristo? Perché non i Moschettieri
Lui le sfila il volume dalle mani. È un’edizione economica che risale alla fine degli anni Sessanta. «Piaceva a nostra madre. Lo teneva sul comodino, accanto al bicchiere con l’acqua. Nel caso si fosse svegliata di notte, sai. Lo leggeva e rileggeva. Appena aveva cinque minuti tutti per sé, tuffava il naso in questa storia.» Fa scorrere le pagine sotto il pollice destro. Come un gioco di prestigio. Lei lo guarda ipnotizzata. «Mi farebbe piacere che lo leggessi tu, vent’anni dopo. Consideralo una sorta di eredità.»
«Eredità?»
«C’è chi ha perle e rubini. Tu hai Dumas. E credimi», le dice, spiazzandola con lo stesso sguardo misterioso che sapeva fare Rémy, «Dumas è un gioiello senza tempo.».
Lei sbatte le palpebre. Lui le porge il romanzo dalla copertina un po’ consumata. C’è una fotografia. La riproduzione di un quadro. Un uomo con i capelli tra le mani e lo sguardo abbacinato che fissa lo spettatore. L’immagine di uno che non sa più dove sbattere la testa.
«Quello è
Il disperato di Courbet», le spiega. «Un dipinto coevo al romanzo. Devo dire che si sposa alla perfezione con la storia.»
«È la storia di uno che dà di matto?», gli chiede lei, sospettosa.
«Dà di matto? Oh, no. Assolutamente no.» Lui sorride. «È una storia di vendetta. Vendetta, giustizia, perdono e misericordia. C’è quest’uomo, un marinaio di nome Edmond Dantès, che ama, ricambiato, Mércedès, una bella ragazza spagnola…»



«Athena è viva.»
La videro pallida in viso. Forse troppo, perché si trattasse di una recita. E se davvero così fosse, sarebbe proprio brava, si disse Nachi. Annuendo.
«Sei sicura?», le chiese il Lupo, ricevendo in cambio un’occhiataccia.
«Sì. Sono sicura.»
«Come puoi esserlo?»
Ikki la fissava accanto al letto di Shun, le mani sui fianchi, l’impazienza nella voce.
«Era lì sotto», disse.
«E adesso dov’è?», insistette la Fenice.
Lei si strinse nelle spalle. «Non lo so.»
«Non lo sai?! Come sarebbe a dire che non lo sai?!»
Lei prese fiato, poi disse:«Ho percepito il cosmo di Athena, lì sotto. Si stava avvicinando pericolosamente al bordo dell’Ade.»
I ragazzi si scambiarono uno sguardo perplesso, poi tornarono a fissarla.
«Il bordo dell’Ade?», chiese Ichi.
«L’accesso all’Ade avviene tramite una Valle. Tu la percorri, fino ad una specie di», formicaio, «montagna. Una sorta di vulcano, con un cratere in cima. Se cadi oltre quel cratere sei spacciato. Athena era lì. Sono riuscita a trascinarla via appena in tempo.»
«Sì, ma adesso dov’è?»
Hyoga sembrava aver riacquistato colore ed una maggiore contezza.
«Non. Lo. So.» Lei si tolse il diadema e si massaggiò le tempie. «La stavo riaccompagnando indietro. Un’anima lascia sempre una scia del suo passaggio. Come il filo di un palloncino. O di una ragnatela. Ma quando stavamo per tornare, qualcosa ha preso lei e ha respinto indietro me. A momenti ci finivo io, nel cratere…»
«Qualcosa
«Un cosmo immenso. Potentissimo. Sconfinato.» Pausa. «Il cosmo di un dio.»
«Sei sicura che quella fosse Athena?», le chiese Ikki.
«Conosco il suo viso», rispose lei. «Hanno trasmesso gli incontri della Guerra Galattica in tutto il mondo, sai?»
«Quindi, conosci anche i nostri…»
«Quindi anche i vostri. Meno del suo, ma sì. Sei fotogenico, sai?», disse all’Idra. «Un Santo di Athena lo riconosci in mezzo alla folla. Come un faro nella notte. Ecco, il cosmo di Athena è come una supernova che brilla in una stanza buia.»
«Athena è viva», disse Hyoga. «Ma allora perché non percepisco il suo cosmo?»
«Non ne ho la più pallida idea», ammise lei. Con semplicità. «Direi che è il caso di darsi una mossa e tornare a casa, no?»
Il Cigno annuì.
«Sapete cosa fare», disse lei, calzando nuovamente il diadema.
«Conosci te stesso.»
«E niente in eccesso», risposero lei e Hyoga, in un coretto stanco.
«Ventiquattro ore», disse Ikki. «Non un minuto di più.»
«Ventiquattro ore», ripeté lei. «Non un minuto di meno.»
Poi si diresse verso la porta, la aprì e disse – abbaiò – a Hyoga: «Andiamo.».
Hyoga scambiò uno sguardo fugace con Ikki e Nachi, poi la seguì, scivolando lungo il corridoio.
Ichi richiuse la porta.
Attesero. Quando furono sicuri che quei due avessero lasciato l’abitazione del medico e forse anche il paese, Ichi chiese agli altri due: «Quanto vantaggio gli diamo?».


Il mare è una distesa azzurro acciaio appena increspata dalle onde bianchicce.
Non piove, ma la luce che filtra dalle nuvole di piombo fa rimpiangere uno scroscio come si deve, uno di quelli pieni di lampi, fulmini e tuoni che sembra che il cielo si spacchi in due. Perché ne ha le tasche piene di tutti quei razzi, palloni sonda e satelliti che l’uomo spedisce in orbita e no, non ha la minima voglia di fare la fine del mare. Gli è bastato il buco che hanno fatto allo strato di ozono, come se avessero lasciato una pentola calda sulla tovaglia di filet della nonna. Quindi, grazie, ma no, grazie.
Però non piove. Non ancora. Lei sa che manca poco. Si sentirà in cielo un gran boato, come quando sparano i fuochi d’artificio per il santo patrono. Un suono sordo, a richiamare l’attenzione verso l’alto; una gragnola di luci che lei sbircia appollaiata dalla pineta – ché di pagare duemila lire alla pro loco non le va affatto – e un altro gran botto alla fine, per dire al pubblico, pagante e non, che la festa è finita, andassero in pace e grazie per aver preso parte allo spettacolo.

Ma ancora non piove. E pure se Lui s’è nascosto chissà dove, i suoi esercizi sono sempre lì. Le imposte sbilenche dalle assi spaccate cascano e pendono sui cardini cigolanti. Il legno verde scuro – lei sa che era verde scuro, ma a vederlo adesso sembra più un improbabile punto di cane che fugge smorto – ha bisogno di essere raddrizzato, scartavetrato e ridipinto. Per bene. Mano di coppale inclusa. La versione della casa del
dai la cera togli la cera. Con lei nei panni di Daniel-san. È pur sempre la sua allieva, giusto? Giusto. Ché il maestro ha qualcosa di più interessante da fare. Tipo spaccarsi le corna sugli scogli o in qualche scarpata, uscendo lungo in curva – ma lei sa di non essere così fortunata.
La vernice – un solo secchio di vernice, «E vedi di fartelo bastare» – è diluita al punto da avere la stessa consistenza del latte marcio annacquato. Odia quell’odore. Le ha regalato un’emicrania coi controfiocchi e il cielo nero come il sugo delle seppie non aiuta. Sarebbe saggio aspettare una bella giornata di sole. La primavera, magari, ché fare un lavoro simile a Febbraio significa buttare tempo e soldi dalla finestra; ma il suo maestro doveva essere altrove quando lassù distribuivano la saggezza, purtroppo. E se le persiane non saranno a posto per quando tornerà – se e quando si degnerà di farsi vivo – saranno dolori. Per lei, ovvio. Pioggia o non pioggia. Così l’unica cosa da fare è lavorare dentro casa, sui fogli di giornale stesi su tutto il pavimento. Scartavetrare la vernice sbeccata. Salvare le stecche con un po’ di stucco per legno. O cera d’api. E poi passare alla parte estetica.

Due imposte sono pronte per la mano finale di coppale. Due hanno la vernice ancora fresca. Quelle che ha appena adagiato sul giornale sono le prossime in lista. Gliene mancano un altro paio, più l’imposta singola della finestra del bagno, e deve lavorare con la porta d’ingresso aperta, per non morire avvelenata da tutta quella puzza. Il fazzoletto attorno al naso, come quello di un bandito pronto ad assaltare la diligenza, non serve più a molto. E fa un freddo cane, in mezzo a quella corrente.
Mi ci vorrebbe una sciarpa, pensa. Guardando la porta spalancata sul giardino mentre in sottofondo il ragazzo nato ai bordi di periferia canta la sua canzone, e lei si perde appresso a quelle parole che escono dalla radiolina rossa. Non le capisce. Cioè, le capisce, ma non comprende il senso degli accostamenti proposti – anche se qualcosa in quella canzone le ha arpionato lo stomaco e non ha alcuna intenzione di lasciarlo andare. Cosa diamine significa quanta gente giovane va via? Che diamine è la gente giovane? I ragazzi, d’accordo. Ma non c’era un altro modo per chiamarli?, pensa, senza accorgersi di muovere la testa a tempo e di stare canticchiando appresso alla voce nasale del cantante romano.

«L’ennesimo bel faccino per far comprare dischi alle ragazzine», così l’ha liquidato il suo maestro spegnendo il televisore assieme alla sigaretta nel posacenere. Lei lo capisce sempre meno. Lui ne dice peste e corna di quella manifestazione: è vecchia. Superata. Insulsa. Che tanto che lo fanno a fare, vincono sempre i soliti due o tre pezzi che parlano d’amore? – e questo non è da meno. Eppure lo segue. A spizzichi e bocconi, ma segue tutte le puntate con lo stesso zelo delle vecchiette sotto al casco per la messa in piega nel salone di Fabrizio, in paese. E…
«Etcì!»
«Salute!»

Sbatte le palpebre. E lui appare. Prima non c’era e adesso c’è. Come nelle fiabe. Scuote la testa. No, non sta sognando. Lui c’è, lo scrigno sulle spalle come uno zainetto, un cappotto sformato ed un paio di occhiali da sole che hanno visto tempi migliori. Resta a fissarlo, una mano sul fazzoletto e l’espressione più perplessa e beota del suo repertorio.
Lui sorride. «Fammi indovinare», le dice, le braccia conserte e l’aria stanca. «Lui non c’è, vero?»
Lei si stringe nelle spalle, come a ribattere: «E quando mai lo trovi, quello?», poi si alza. Abbassa il fazzoletto, spegne la radio e gli si avvicina, facendogli cenno di restare sulla soglia.
«Sto riverniciando le imposte», dice, abbracciando con un gesto della mano l’appartamento alle sue spalle e le persiane e la carta del giornale sul pavimento. L’aria odora di vernice mista a rena bagnata. «Non vorrei ti sporcassi.»
«L’otite ti è passata?», le chiede.
«Sì, grazie.»
«La vecchia Agata ne sarà contenta.»
«Sei passato solo per…»
«No», le dice, fermando le sue parole con un cenno del mento. «Ma devo fermarmi dalla vecchia Agata, tornando indietro. E lei vorrà avere tue notizie. Meglio essere preparati.»
Lei lo guarda come se fosse appena sbarcato da Marte. «Ok. Ringraziala da parte mia. E grazie per essere passato.» Pausa. «Ma non vuoi proprio dirmi perché cercavi il mio maestro, la volta scorsa?»
«La volta scorsa sono passato per fare un favore alla vecchia Agata.»
«La volta prima ancora, intendevo.»
Lui scaccia l’aria con un gesto. «Lui già sa.» E sparisce. C’è e non c’è. Come nelle fiabe.

Lui saprà pure. Io, no, pensa lei. Restando in silenzio, mentre il suono della risacca sale dal mare. Un bubbolio lontano. Poi, la pioggia.


Sua madre diceva che a volte un amico ti rende un servizio migliore restando in disparte, fuori dalle tue faccende. Facendosi i fatti propri. Non ficcando il naso in questioni che non li riguardano. E se una persona ha un briciolo di giudizio, un pizzico di buonsenso, tace. Non rischia di fare la figura dello stupido. Non parla – spesso a vanvera – di cose che non conosce. Perché c’è la possibilità concreta di fare danni ancora più gravi. Perché certi cocci li deve rincollare chi li ha creati, senza che nessun’altro si metta di mezzo. Neppure per passare la colla. Neppure quando si hanno tutte le migliori intenzioni possibili, di questo mondo e dall’altro. La strada che porta all’inferno non è forse lastricata di buone intenzioni? Certo che sì. Ma la gente è spesso stupida. E per curiosità, per stare al centro dell’attenzione o anche solo per salire sul carro dei vincitori, ficca il naso dove non dovrebbe. Finendo per lasciarci le penne.
 
Shaina sapeva che Marin sarebbe tornata, prima o poi, e non solo per quello che era successo. Una simile disgrazia avrebbe richiamato tutti al Santuario. Figliola prodiga compresa. Ma c’era qualcos’altro ad appesantire le spalle di Marin, e non si trattava della disperazione che aveva abbacinato Aiolia e l’aveva steso, come il diretto di un peso massimo sulla mascella di un pugile mingherlino. Si trattava di Seiya, e Shaina era pronta a scommetterci tutti i capelli che aveva in testa che Marin voleva fare un certo discorsetto con lei.
«Chi non muore si rivede…»
Marin non raccolse. «Posso entrare?», le chiese, dall’uscio della casupola.
«Solo a patto che non si parli di Seiya. E che ti levi quell’affare dal viso.»
Marin annuì e si tolse da sé la maschera. Shaina le fece un gesto, e l’altra entrò. La raggiunse al tavolo e si sedette di fronte a lei.
«Vuoi qualcosa da bere?», le chiese.
«Acqua fresca, per favore. Non ricordavo quanto facesse caldo quassù a settembre…»
Shaina scostò la sedia e si alzò. Aprì il rubinetto e fece scorrere l’acqua. «Non l’hai trovata, vero?»
Non si doveva non parlare di Seiya?, pensò Marin. Sorridendo. Poi rispose:«No. Non riesco a trovarla da nessuna parte.»
«Immagino.» Shaina prese la caraffa di coccio e la riempì. «Dove l’hai cercata?»
«Ovunque. Efeso, Eleusi, Delfi, Sparta, Nasso, Cipro, Feneo, Samo. Mi manca solo Olimpia. Athena mi aveva chiesto di escludere che fosse negli altri santuari. Ammesso che sia arrivata fin qui, è possibile che qualcun altro l’abbia soccorsa ed addestrata.»
«Ha senso. Magari ha perso la memoria e non ricorda più né chi è, né perché si trovi qui… Sarebbe una bella rogna…» Silenzio. «Marin?»
Shaina si voltò. Lo sguardo di Marin era fisso sul tascabile che stava leggendo prima del suo arrivo, e che aveva abbandonato sul tavolo, con l’immagine dell’aitante ragazzotto dai capelli castani in copertina rivolta verso il legno.
«E questo?», le chiese. Senza alcun bisogno di specificare, alludere o indicare altro.
«È una prova.»
«Prova? Prova di che
Shaina posò di malagrazia la caraffa, aggiunse due bicchieri spaiati e si lasciò cadere sulla sedia.
«Te la ricordi Lois?»
«La bibliotecaria?»
«Lei.» Marin versò da bere.«Abbiamo scoperto che aveva sottratto alcuni resoconti dalla Biblioteca del Sacerdote. Li teneva nascosti in una cassa sotto al letto. Sotto questo genere di… romanzi
«E perché uno di questi… romanzi si trova in casa tua?»
«Per curiosità.»
Tacquero, occhi negli occhi. Poi Marin scosse la testa. «Perché Lois avrebbe sottratto dei resoconti dalla Biblioteca?»
«Per diletto personale.»
«Prego?»
«Diletto. Personale.» Shaina sorrise. «Ha preso solo quelli del Capricorno. E tutti questi romanzi hanno un caliente spagnolo come protagonista maschile. Io ho fatto due più due. Tu?»
«Pure.» Marin lanciò un’ultima, fugace occhiata alla costola del romanzo, prima di sentire la voce di Shaina chiederle:«Vuoi leggerlo anche tu, per caso?».
«No, grazie», ribatté l’Aquila. L’altra fece cadere uno strofinaccio sul libro.
«Sono successe un po’ di cose nel frattempo…»
«Immagino…»
«Hai già visto Aiolia?»
«Vengo dalla Quinta Casa.»
«Allora sai.»
«No. Non so un bel niente. Vuoi aggiornarmi tu?»

E Shaina l’accontentò. Le raccontò tutto quello che era accaduto negli ultimi giorni al Santuario, dall’invio di Scorpione e Leone a Tokyo, alla scomparsa del Cigno, alla scoperta del furto di resoconti dalla Biblioteca del Sacerdote, alla sparizione di Athena dalla faccia della Terra.

«E poi ci sarebbe un’altra novità…»
«Sì. L’ho vista», ed il tono di Marin era quello di chi commenta la nascita della nuova giraffa allo zoo. «Quando…?»
«Quando è apparsa, dici?» Marin annuì. «A Tokyo. Ma a detta di Jabu, Saori l’aveva già incontrata in Cina, qualche mese fa.»
«Senza dire niente a nessuno.»
«Com’è nel suo stile», commentò Shaina con un sospiro. «Ecco perché ci ha ordinato di consultare la Biblioteca. Ecco perché ci siamo accorti che mancavano alcuni resoconti.»
«Ma chi li ha presi?»
«Qualcuno che li riteneva preziosi, utili, indispensabili. Li ha cercati. Dobbiamo solo capire che nesso ci sia.»
«Non c’è?»
«Apparentemente, no. Ma sono sicura che invece ci sia. E sia anche in bella vista. Basterebbe solo sapere se esista un legame tra questi Santi. E quale sia.»
«Non c’è una specie di registro anagrafico? Qualcosa che tenga conto di chi sia il Santo in questione? Da dove arrivi. Chi siano, magari, i suoi genitori. Possibile che Saga non avesse nulla del genere?»
«Non so cosa dirti. La Biblioteca è rimasta chiusa per un bel pezzo, tra una cosa e l’altra. E quando l’abbiamo aperta…»
«Quando l’avete aperta?»
«Sembrava di stare al mercato.» Shaina si riempì un bicchiere e bevve tutto d’un fiato. «Libri rotti. Fogli sparsi. Pergamene. Resoconti accatastati alla bell’e meglio. Qualcuno aveva fatto delle ricerche e aveva tenuto tutto a portata di mano.»
«Pronto a ricominciare il giorno dopo?»
«Esatto. Solo che non c’è stato più alcun giorno dopo…»

 
Il gatto ronfa beato sullo zerbino davanti alla porta. La tenda di perline è legata con un nodo e accostata da una parte.
«Con tutto il vento che c’è oggi, mi stava mandando al manicomio», gli dice la vecchia Agata. Senza che lui apra bocca. Gli fa cenno di seguirlo all’interno, ignorando il gatto e ciabattando fino in cucina.
«Caffè?», si sente chiedere, e lui sa che quello è piuttosto un ordine, che una domanda cortese.
«Sì, grazie», le dice. Anche se lui detesta quello fatto con la moka. Non sopporta quel retrogusto bruciato che prende il caffè lasciato a sobbollire sul fornello.
Paese che vai, usanza che trovi, si dice. Restandosene in piedi in mezzo al corridoio, come un merluzzo appena estratto dal surgelatore.
La vecchina armeggia con la caffettiera, accende il gas e torna ad occuparsi di lui. Sorride. «Come sta?»
Non ha bisogno di aggiungere altro. Lui sa.
«Bene. L’otite è passata.»
Il sorriso della donna si allarga in quell’intrico di rughe, illuminando i suoi occhi azzurrissimi.
«Che bella notizia!», esclama, in un suono di carta appallottolata. «Grazie per essere passato a vedere come stava.»
«Di nulla», le dice. «Sono pronte le carte per il Sacerdote?»
Il sorriso della donna assume un luccichio pericoloso, come una tagliola che spunta nell’erba alta.
«Certo che sì», gli dice. «Sono pronte da un pezzo. Non capisco perché il sacerdote insista per farmi rifare i calcoli tutti gli anni…»
«Perché si fida di voi.»
«Certo. Si capisce», dice la donna, scacciando una mosca dispettosa. Si allontana nel corridoio. La sente muoversi in un fruscio di carte e poi la vede tornare indietro, piccolina nel suo abito nero a fiori arancioni. «Ecco le tue carte. Comunque sia, puoi dire pure al Sacerdote che le stelle si stanno allineando con molta, molta lentezza, questa volta.»
«Immagino non abbiate un margine di…»
«Certo che no. Le stelle sono precise, ma non sono cronometri.» Lo fissa severa. Poi aggiunge: «Si parla di una manciata di anni. Forse cinque, forse dieci. Lo Sconosciuto non si risveglierà durante gli anni Ottanta. Per cui, goditela finché puoi, ragazzo mio.»

Sta per chiederle se ne è davvero sicura, ma tace. Cinque anni. Forse dieci. Se sarà abbastanza fortunato. Gli tremano le vene dei polsi. Javier gli ha sempre detto di stare attento alla vecchia Agata, che non sta bene conoscere il proprio futuro, che certe cose è bene non saperle, mai, in nessun caso. Perché le giornate che ti sconvolgono la vita iniziano come tutte le altre. Nello stesso identico modo. Col sole che sorge. E se una giornata sarà stata bella, brutta, storta, particolare, disastrosa o sconvolgente, lo si saprà solo a sera. Quando sarà finita e poseremo la testa sul cuscino. «Ed è un bene che sia così», conclude la voce di Javier nella sua testa, con quel suo accento tamburellante per cui Lupe lo prende ancora in giro. Però, aver saputo che avrà ancora cinque anni –
o forse dieci! – davanti a sé, gli rinfranca lo spirito. Ci sono tante cose che si possono fare in cinque anni– forse dieci!. Tante possibilità. Tanti passi che prima nemmeno si concedeva il lusso di prendere in considerazione. Alazne, ad esempio. Alazne. È il suo viso, quello che vede nel suo cuore. Chiaramente, lentiggini incluse. Alazne che gioca col gattino nero – perché Jimena è allergica al pelo dei gatti – e che lo aspetta sui Pirenei, novella Penelope dal sorriso sincero e fiducioso. Alazne che ha diritto ad essere felice con qualcun altro che non sappia di sangue e morte e guerra. Ma a cui lui vuole chiedere qualcosa in più, adesso che sa di avere qualche respiro che gli avanza. Una richiesta egoista, certo. Ma ogni innamorato è egoista, a modo suo.
Nonna Agata sorride.

«Siediti. Sta uscendo il caffè», gli dice, tornandosene in cucina e lasciandolo coi suoi pensieri. Nemmeno si accorge di aver preso una sedia e di esservisi lasciato cadere, lo sguardo perso ad osservare i propri piedi senza vederli chiaramente, mentre dalla radio gli arriva la voce scanzonata di Nino Ferrer e della sua
Agata.


«Si è addormentata.»
Luke entrò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle. Si sfilò la cravatta e la abbandonò sul pavimento. Il fuoco ardeva allegro nel caminetto. Gli avrebbe fatto compagnia, stanotte, mentre avrebbe assestato gli ultimi dettagli alla sua strategia.
Lukas aspettava accanto al carrello con i liquori come un bravo cagnolino attende il padrone con le pantofole tra i denti.
«Cognac?», chiese. Afferrando due bicchieri panciuti.
«E cognac sia», gli disse – gli concesse, lasciandosi scivolare in poltrona.
Il liquore ambrato scese contro il vetro. Assumendo dei riflessi meravigliosi alla luce delle fiamme. Lukas gli porse il suo bicchiere.
«Skål!», disse. Entusiasta.
«Skål», rispose lui.
Il vetro tintinnò. Il cognac scese morbido in gola.
Lukas lo osservò piegando la testa di lato.
«Qualcosa non va, padre?»
«No, figliolo, no. Pensavo.»
«A cosa? Se posso chiedere…», gli disse. Accomodandosi sul bracciolo.
«Fammi la cortesia. Siediti come un essere umano.» Gli indicò la poltrona di fronte alla sua. Lukas si alzò ed eseguì. Bravo bambino.
«A cosa pensavi, padre?»
Luke si strinse nelle spalle.
«Al piano.»
Lukas gli scoccò un’occhiata accigliata. Cos’ha che non va, il piano? L’hai ideato tu, padre. È perfetto, sotto ogni punto di vista, questo gridava l’espressione sperduta di quel figlio ritrovato, con lo stesso colore dei suoi occhi. Verdi. Come cocci aguzzi di bottiglia in controluce.
«Il piano è perfetto. Non c’è niente che non va. Solo…»
«Solo?»
«Pensavo. Non ti andrebbe di mettere un po’ di pepe alla faccenda?»
Ancora?, pensò Lukas. E lui capiva tutta quella sua reticenza. Era solo un umano, dopotutto. Un povero, piccolo, insulso, patetico umano invitato alla mensa degli dei. Per lui era già abbastanza ritrovarsi ad essere parte del piano. Non riusciva ad immaginare che si potesse fare un piccolo passo in più. Non ce la faceva, poverino. Gli faceva quasi tenerezza.
«Ma se tu non vuoi…»
«No, no. Assolutamente no, padre.»
Perché Lukas era pur sempre un ragazzo. E come tutti i ragazzi, moriva dalla voglia di accattivarsi le simpatie di suo padre, del suo vero padre, dell’uomo che l’aveva gettato in questo mondo di carne e sangue attraverso il ventre di sua madre.  Lukas voleva essere come lui. Moriva dalla voglia di assomigliare il più possibile a suo padre. Renderlo felice e fiero di sé. E come poteva lui, suo padre, negargli questa gioia?
«Cosa avresti in mente di fare?»
Luke si alzò. Aprì un cassetto e ne trasse fuori un astuccio di velluto blu notte. Si accomodò e lo porse al figlio.
«Che roba è?», disse Lukas osservando una collana dalle perle rosso sangue.
«Diaspro rosso», gli spiegò Luke, dando fondo al proprio bicchiere. «Ce l’aveva al collo la nostra principessa quando l’ho… abbracciata
«Non l’avevo mai visto in questa forma…»
«È particolare, dobbiamo rendergliene atto.»
«E in che modo vorresti usare questa collana?», chiese Lukas, osservando le pietre in controluce.
«Hai una persona fidata?»
«Sì. Non dobbiamo che scegliere tra i tuoi sudditi e…»
«No. Loro non si toccano. Loro possono servirci. Non si sa mai.»
«E allora non capisco a chi tu possa alludere.»
Luke si strinse nelle spalle. Devo proprio spiegarti tutto, eh, figliolo? «Non conosci nessuno di talmente disperato da ubbidirti ciecamente, senza fare stupide domande?»
Lukas ci pensò su, corrugando le sopracciglia. Qualcuno di disperato. Qualcuno che avrebbe smosso mari e monti se messo nella condizione psicologica giusta. Qualcuno di fragile. Una donna. Una ragazzina innamorata. Siv. Sorrise.
«Sì, padre. Credo di avere proprio la persona che fa al caso nostro.»
«Perfetto!», esclamò Luke dandogli una pacca sul ginocchio. «Allora versami un altro goccio e stammi bene a sentire, figliolo. La notte è ancora giovane.»



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Questo capitolo ha forse meno senso degli altri. È nato in un momento non semplice. Anzi. La vita ci toglie la sedia da sotto le chiappe senza avere la decenza di avvisare. Dommage, mes amis, ma gli aggiornamenti seguiranno un andamento ancora più altalenante del solito. Non dipende dalla mia volontà, purtroppo. Spero portiate pazienza.

Le note di oggi sono ridotte all'osso. Giusto l'essenziale, per non affogare in quel mare ostico che può essere il francese. E perché Dumas è Dumas.

S'il te plaît significa letteralmente "se ti piace", ma è usato alla stessa stregua del please inglese.

In Francia c'era un rientro mattutino settimanale, cosicché i genitori potessero occuparsi dell'educazione religiosa dei propri figli (la Francia è uno stato laico). Nel 1972 passò dal giovedì al mercoledì. E di mercoledì Antenne2 (l'odierna France 2) trasmetteva i cartoni animati per i più piccoli, dalle otto e mezzo del mattino fino alle undici, quando iniziavano Les Z'Amours (una specie di Gioco delle Coppie) e poi Motus.

Rital è come i francesi chiamano gli italiani (e gli immigrati di origine italiana), incapaci, a detta loro, di arrotare correttamente le erre. È un termine gergale e non propriamente lusinghiero. Evitatelo.

Est-ce que tu es en train de te moquer de moi, toi significa Mi stai prendendo in giro?

Mais bien sûr que non significa Certo che no!.

Il 24 febbraio 1815 la vedetta della Madonna della Guardia dette il segnale della nave a tre-alberi il Faraone, che veniva da Smirne, Trieste e Napoli. Com'è d'uso, un pilota costiere [sic] partì subito dal porto, passò vicino al Castello d'If e salì a bordo del naviglio fra il capo di Morgiou e l'isola di Rion. (Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo,traduzione di Emilio Franceschini, RCS Libri, 1998.

La formula greca γνῶθι σεαυτόν (gnothi s'autòn, conosci te stesso) si ritrova incisa sulle pareti del tempio di Apollo a Delfi, ed è un'esortazione per l' uomo a riconoscere i propri limiti, evitando in tal modo di peccare di ὕβϱις (ubris, traducibile con tracotanza, anche se il ventaglio semantico di questa parola è molto, molto ampio).
La locuzione μηδὲν ἄγαν (meden aghan, nulla in eccesso), attribuita a Solone di Atene, uno dei Sette Saggi, è un'altra incisione che si trova all'interno del tempio di Apollo a Delfi, e che, come la precedente, esorta a vivere con moderazione.

Come ho avuto modo di accennare durante Misteri Eleusini, nel mio headcanon ogni divinità ha un suo personalissimo Santuario, che funziona e va avanti a prescindere dal fatto che il padrone di casa sia vigile e attivo, o che abbia voglia di mettersi la terra in tasca come se fosse una moneta raccolta per la strada.
Le accoppiate sono:
Artemide --> Efeso
Apollo --> Delfi
Ares --> Sparta
Demetra --> Eleusi
Dioniso --> Nasso (anche se il dio ha una specie di corte itinerante)
Afrodite --> Cipro
Era --> Samo
Ermes --> Feneo
Poseidone --> Atlantide
Zeus --> Olimpia (vabbé, questo era scontato...)

Agata è una canzone di Nino Ferrer del 1969.

Skål è l'equivalente svedese del nostro cin-cin.

Se vi avesse incuriosito Alzane, e voleste conoscerla meglio, potrete ritrovarla da bambina in Quando cantano le spade.

Qualora avessi tralasciato qualcosa, o non vi tornassero un paio di dettagli, non esitate a farmi un fischio. Grazie per essere passati e alla prossima!!

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Capitolo 19
*** 19. ***


19.




La Luna piena spicca nell’azzurro del cielo mattutino, tonda tonda come un bottone d’argento su una giacca di velluto. La carrozzina, un modello inglese dalla culla blu e le ruote grandi, pesa un accidenti, ma il dondolio sul marciapiede la fa dormire. Sonnecchiare, è il termine giusto. Le palpebre sono abbassate e la boccuccia è dischiusa, ma Françoise ha imparato presto che se la manina è chiusa a pugno – sempre la sinistra, poi! – allora si dorme della grossa e lei le augura di fare i sogni più meravigliosi e splendenti dell’universo; ma se i ditini sono solo parzialmente rivolti verso il palmo, Coralie è sveglia.
Fa finta di dormire, la lazzarona, come il gatto di Maman Louise quando si acciambella nella cesta. Pensi che lui ronfi della grossa, le zampine a cuscino e gli occhi chiusi, ma è solo una farsa. Le orecchie non si perdono un solo movimento e basta un rumore appena accennato – il fruscio particolare della carta con cui il salumiere avvolge le salsicce, ad esempio – per spalancare i fanali color agata e materializzarsi alle sue spalle. Facendole prendere un colpo.
Quei due si sono coalizzati. E Françoise è pronta a scommettere che il gatto deve averle insegnato due o tre cosette mentre ronfava a contatto col pancione, durante la gravidanza. Perché a Coralie l’idea di dormire non passa neppure per l’anticamera del suo cervellino. Riposare? E perché? Ha dormito per nove lunghi mesi, e adesso vuole recuperare il tempo perduto. Tutto. Peccato che Françoise voglia dormire, di notte, quando fa più fresco e l’afa di fine Luglio è qualcosa di sopportabile, con un ventilatore allato.


Coralie non concorda. Piange. Grida, spaccando in due la notte ed il suo silenzio con strilli che arrivano fino in Paradiso, e forse anche oltre. Perché vuole la sua mamma. Vuole starle addosso. Ma fa anche caldo. E la pelle di Françoise è spesso sudata. E appiccicosa. E quella di Coralie non è da meno, con buona pace del talco e della pomata alla pasta di zinco con cui la unge ad ogni cambio del pannolino – ogni tre ore, in pratica. Così Coralie piagnucola, fino a quando la sua testolina rossa non crolla di scatto sulle clavicole di Françoise. Che non può limitarsi a tenersela contro, seduta nella poltrona di vimini davanti alla finestra. Nossignore! Deve camminare, passeggiando avanti e indietro per la stanza. Cullandola. Mormorando una qualche canzoncina, cui Françoise sostituisce le parole con mugugni sempre più disperati man mano che la stanchezza prende il sopravvento.

«Se continui così ci cacceranno», le dice, nell’assurda convinzione che i neonati capiscano tutto quello che i genitori dicono loro – o almeno, questo diceva quel manuale che ha letto tre volte durante la gravidanza; ma deve trattarsi di una panzana perché Coralie non l’ascolta. E piange. Chi mai potrebbe protestare perché la bambina piange? Un pazzo, ecco chi. Quindi lei piange. E guai a chi le dice qualcosa a riguardo. Sa piangere ancora più forte, lei.
«Testarda come suo padre», le saluta Maman Louise al loro rientro, la sigaretta accesa e l’aria stanca, fissando la neonata dritto nelle palle degli occhi. «Io la notte voglio riposare, sai?»
«Maman, non credo che lei ti veda ancora», le ribatte ogni volta Françoise, ricevendo in cambio un cenno distratto.
«Figuriamoci! Questa furfantella ci vede benissimo, dai retta a me! Non avreste dovuto chiamarla come quella scavezzacollo di mia sorella. Scegliere un nome del genere significa andarseli a cercare, i guai…»
Françoise non ha il coraggio di dirle che le hanno messo quel nome per via dei capelli della bambina. Rossi. Anarchici come una piccola colonia di corallo. E scarmigliati come quelli di Rémy. Coralie è tutta suo padre.
Gli mancava solo la barba di tre giorni sul mento, pensa Françoise, sbirciando il movimento delle dita di sua figlia. Si stanno chiudendo. Perché ci stiamo avvicinando alla scalinata, pensa sorridendo.

Puerpere e neonati hanno un posto tutto loro, come le coppiette di fidanzatini che si danno appuntamento davanti alla
loro panchina, nemmeno vi avessero piazzato una targa col nome sul legno sbeccato. Il posto di Françoise e Coralie è la panchina di sinistra in cima alla scalinata che porta a rue du Paradis. Françoise l’ha scoperto per caso la settimana scorsa, quando è uscita di casa dopo una notte di pianti e dondolii tra le braccia. L’ha messa nella carrozzina – dono delle ragazze per la bambolina, come la chiamano loro – ed è uscita in strada, alle cinque del mattino, negli occhi l’aria allucinata e disperata che solo una madre insonne può sfoggiare senza sembrare una donna sull’orlo di una crisi di nervi. E Coralie s’è placata. S’è fermata alla panchina di sinistra – quella di destra aveva la vernice fresca – e si è lasciata cadere sul legno sbeccato.
È cominciata così, la loro routine. Perché prima di partorire Coralie, Françoise credeva che sì, i neonati fossero diversi, ma che, sotto sotto, fratelli e sorelle si assomigliassero. Grosso, grosso errore. Coralie è l’esatto opposto di Etienne. Tanto era calmo e tranquillo lui, tanto assomiglia ad un’invasata lei. Tanto dormiva lui, tanto è insonne lei.
Giorno? Notte? Ma son quisquilie, queste!, sembrano dire i suoi sorrisi malandrini.
Françoise non vede l’ora che Rémy torni a casa. Così gli appiopperà sua figlia, almeno per un po’. E magari riuscirà a farsi uno di quei sonni ininterrotti che oramai sono solo un pallido, sbiadito ricordo.



L’ospite inaspettato suona alla porta sempre quando sei di pessimo umore. O hai deciso che è ora di dedicarti alle faccende domestiche e per cercare quel calzino disperso sotto al divano hai tirato fuori una piantagione di boli di peli e polvere. Oppure sei appena uscito dalla vasca da bagno – o vi sei immerso fino al collo – e non puoi fingere che no, non ci sei, perché hai lasciato lo stereo acceso ad un volume improbabile; o, peggio ancora, stavi canticchiando. Quindi ti tocca accogliere l’ospite con tutta l’educazione di cui sei capace, e ce ne vuole tanta per non fargli sentire che sì, per te lui è come una tegola che ti è caduta all’improvviso tra capo e collo. Magari di spigolo.
Però gli ospiti inattesi non sono tutti uguali. Ad alcuni non si può dire di no. Ma li si deve accogliere. Con le braccia il più possibile aperte. Perché non si può fare altrimenti – non è concesso. Perché sei in debito con loro. E perché sono venute a chiederti di saldare il conto che hai lasciato pendente.

Non disse nulla. Non fiatò. Riconobbe il suo cosmo avvicinarsi a volo radente sulle onde che increspavano appena il mare, come se volesse fare loro il solletico. Non aveva una bella cera. Né lui doveva avere un aspetto migliore, ma dopo quello che aveva sentito, dopo l’immensa esplosione che aveva squarciato in due il suo, di cosmo, lasciandolo boccheggiante a terra, lo sguardo sgranato a domandare al cielo cosa fosse appena successo, sarebbe stato strano il contrario.
Così attese. Perché l’altro non era venuto a mani vuote.
E lui ricordò. Un lampo. Un pensiero veloce e luminosissimo, come la scia di una cometa che rischiara la notte senza stelle. Suo fratello gli aveva raccontato una cosa, anni addietro, così tanti che quel ricordo non gli sembrò neppure più suo, ma un episodio accaduto ad un altro. Un amico. Un compagno. Un fratello, appunto.
«Quando vai a trovare qualcuno, devi bussare coi piedi».
Vasilios diceva che il Cancro ripeteva questa frase come se stesse snocciolando agli altri il segreto dell’origine dell’universo. E quando lui gli aveva chiesto spiegazioni – perché gli pareva sinceramente improbabile che un invitato prendesse a calci l’uscio di qualcun altro per farsi aprire – Saga gli aveva spiegato che quel modo di dire così smargiasso e ferino stava a significare che non ci si presenta a casa del prossimo a mani vuote. E il suo ospite – inatteso come una tegola che ti cade tra capo e collo. Di spigolo – portava in dono un presente niente male. Un uomo. Svenuto. Mezzo affogato. Centoottanta e rotti centimetri d’altezza inscatolati dentro l’oro zecchino che rifulgeva tra le alghe ed i lunghi capelli bagnati del Santo.

Quanto sei cresciuto, pensò, rivedendo in quel viso pallido – Athena fa' che sia solo svenuto! – il marmocchio che anni prima aveva gabbato spacciandosi per suo fratello e raccontandogli una sequela di balle cui sia lui che il suo compagno – ormai tra i più – avevano creduto con tutta la genuina ingenuità di cui sono capaci i bambini. Sirena compresa, vero?, pensò. Alzando gli occhi su quella che era appena atterrata davanti all’uscio della casupola in cui si era ritirato. Per pensare. A cosa fare della sua vita, da quel momento in poi. A come riscattare le proprie colpe. A come lavare via il sangue che gli macchiava le mani, a cominciare da quello che suo fratello aveva sparso e aveva fatto grondare – per colpa sua – fino a quello che lui stesso aveva fatto scorrere. E quello dell’altro marmocchio non macchiava forse le sue dita?
Certo che sì. Per via collaterale, forse. Ma sì.

«Non sono qui per farti del male.» Provaci pure, pensò, osservando la Sirena deporre sulla sabbia il suo prezioso carico. «Sono qui per consegnarti quest'uomo.»
«Fai il fattorino, adesso?»
Un fremito di furia attraversò le iridi di sangue della sirena. Strinse il suo flauto d’oro tra le dita, per non serrarle attorno al suo collo, ma poi desistette. Rilassò le nocche e scosse la testa.
«Obbedisco agli ordini. Come ogni bravo soldato dovrebbe fare.»
«Non sei un soldato. Sei un Generale. O sbaglio?»
«Non sbagli. E sono anche l’unico rimasto.» La sirena si alzò. E lo fissò. «E sappiamo bene entrambi a chi dobbiamo la cortesia, jawohl
Alzò le mani. «Perché sei qui?», gli chiese.
«Te l’ho appena detto. Il mio Signore ha salvato quest’uomo dalle acque. E vuole che tu lo rimetta in sesto.»
«Io non prendo ordini dal tuo signore.»
«Lo so bene. Così come lo sa lui. Ma è un ordine di Athena, questo. E il mio Signore», e il suo accento rigido si premurò di scandire bene queste ultime parole, «sa che seguirai la volontà della tua dea. Tu le appartieni, adesso. Le sei sempre appartenuto. O sbaglio, forse?».
«Non sbagli. Appartengo ad Athena, adesso. Ma quest’uomo…»
«È un servo di Athena. È un tuo compagno. Ed è ferito.»
Rise. Scosse la testa poi disse: «Non è un mio compagno. Mi ucciderà non appena avrà abbastanza forze per farlo.».
«Questo è un tuo problema.»
«Davvero?»
«Davvero. Chi semina vento, raccoglie tempesta.»
«Siamo diventati filosofi?»
«Ho poca pazienza e poco tempo. E così anche tu. Si sta avvicinando una guerra. Non dirmi che non hai sentito…»
«Certo che ho sentito!», e non gli importò che la paura, il nervosismo e l’emozione gli colorassero la voce fino ad incrinargliela. Lasciò correre il suo cuore. Al diavolo tutto, non aveva più una maschera da indossare. Athena l’aveva reso libero. E quella che portava, laggiù, sul fondo del mare, era caduta proprio grazie al canto della sirena.
«Se dunque hai percepito cos’è successo», riprese l’altro,«prenditi cura di quest’uomo.».
«E Athena dov’è? Cos’è successo?»
«La tua Signora viaggiava assieme a quest’uomo. Il mio Signore lo ha salvato. Ha salvato tutti. Ma ha deciso di isolare lui.»
«Perché?»
«Per precauzione.»
«Per precauzione?» Spostò lo sguardo sui lunghissimi capelli bagnati, come alghe di un colore improbabile gettate a riva dalla tempesta.
«Serve un piano B. Qualcuno che resti nascosto, che si finga morto. Perché gli eventi siano maturi. A volte, per curare una malattia occorre lasciare che peggiori. Altrimenti è tutto inutile.»
Ok, non ci sto capendo un cazzo, pensò, prima di domandargli:«E Athena dov’è?».
«Al sicuro.»
«Al Santuario?»
«No», rispose la sirena, fissando le nuvole sopra la sua testa. «Non è al Santuario. Ma è dove lei voleva essere. Fidati del mio Signore. Lui ha a cuore la salute della tua Signora. In un modo che neppure tu immagini.»
Ne dubito, pensò. «Ne dubito fortemente», replicò.
La sirena si strinse nella sua Scaglia. «Se non ti fidi di me o del mio Signore, sono sicuro che ti fiderai della tua Dea, allora…» Quindi sbatté le sue ali e tornò da dove era venuta, sfiorando appena il pelo dell’acqua come se volesse fare il solletico alle onde che splendevano cristalline nella quiete del primo mattino.


Il cielo è terso e chiarissimo. Farà caldo anche oggi. Lei non se ne stupisce. È la canicola, dopotutto. È tempo suo. Ma le clienti si lamentano del caldo nel boudoir. È una cappa avvolgente. E le candele e l’incenso e le persiane chiuse – serrate – non aiutano. Ma a lei quella roba serve. Serve per tenere lontano i morti. Perché non abbandonino coloro che si rivolgono a lei e decidano di sistemarsi in casa sua. Sulle sue, di spalle. Lei, di rogne, ne ha fin troppe.
Se si parla di mettere in comunicazione i vivi con i morti – di agire come una centralinista, in pratica – va bene. I clienti pagano per questo, e pagano profumatamente. Ma i morti no. I morti non pagano. Ti si appollaiano sulla spalla come tanti avvoltoi che aspettano che la preda sia spolpata con comodo dal predatore di turno, o che l’animale ferito sia così debole da non opporre resistenza alcuna ai loro rostri affilati; e parlano. Tutto il tempo. Delle loro catene. Dei loro crucci terreni. Di mogli ossessive e mariti infedeli. Di corna. Separazioni. Soldi. Gelosie. Perché sono morto io e lei no? E non la pagano per sentire tutte quelle sciocchezze. E la deconcentrano. Le fanno perdere il filo dei suoi discorsi. E deve sembrare una creatura in grado di squarciare il velo e vedere al di là dello stato materiale delle cose, non una povera pazza che dovrebbe starsene in una stanzetta del più vicino manicomio.
È la voce di sua sorella a sbrogliare le matasse che i suoi clienti le portano. Coralie le dice tutto. Quello che i questuanti hanno davvero nel cuore, e che nascondono dietro domande sciocche o incomplete. Quello che sussurrano i tarocchi, fermi nella loro immobilità. Quello che fanno i viventi, quando sono convinti che nessuno li stia osservando. Quello che aspetta tutti loro, un po’ più in là, oltre la curva dell’orizzonte.


Maman Louise libera una boccata generosa di fumo. I braccialetti tintinnano. Coralie stamattina non c’è. Che abbia seguito Fanchon e sua figlia per la passeggiata?
No. Lei detesta i neonati, si dice Maman Louise. Pensando che lo spirito di sua sorella è un po’ troppo inquieto, ultimamente. Coralie ha cominciato ad essere evasiva da un po’ di tempo. Svampita lo è sempre stata. Svampita e leziosa e all’inizio Maman Louise ha pensato si trattasse di paturnie passeggere, di una posa, di una noia mortale che avviluppava il fantasma di sua sorella, e non ha dato troppo peso alla cosa. Ma Coralie è cambiata. Da quando è nata la bambina. No, si dice Maman Louise. Coralie è cambiata prima. Da quando Fanchon e Rémy si sono trasferiti al piano di sotto? Da quando…
Rémy. Lui è la chiave. Coralie è cambiata dall’autunno scorso. Da quando Rémy ha bussato alla sua porta in cerca di Fanchon e… e io gli ho letto le carte!
Maman Louise spalanca gli occhi. Le carte, certo. Non ha visto qualcosa di poco chiaro, in quella lettura, per i suoi gusti? E quando le ha chiesto una mano, cosa le ha risposto Coralie?

«Un uomo giunge di fronte a due porte, ciascuna sorvegliata da un guardiano. Una delle porte conduce alla salvezza, l'altra a morte certa. Dei due guardiani, si sa che uno risponde sempre in modo veritiero alle domande che gli vengono rivolte, e che l'altro mente sempre; ma non si sa quale sia il guardiano sincero e quale il bugiardo. All'uomo viene concesso di fare una sola domanda, a uno solo dei guardiani. Come può l'uomo individuare la porta che conduce alla salvezza?»

La stessa cosa che le ha ripetuto quando ha tirato le carte per la piccolina.
Maman Louise socchiude gli occhi. Sua sorella non c’è, e chissà dove è andata a rintanarsi. Sul fondo dell’armadio? Sotto al letto? Nello stanzino delle scope? Sbuffa. Giocare a nascondino con un fantasma è qualcosa di impossibile. Meglio vederci chiaro una volta per tutte.
Abbandona il bocchino nel posacenere. Si toglie anelli e braccialetti. Afferra il mazzo di tarocchi. Prende un bel respiro ed inizia a mischiare le carte, nel cuore i volti di Rémy, di Fanchon e della piccola Coralie. Con sua sorella farà i conti più tardi.



Il pergolato del Kallistê rifulgeva nel sole del primo pomeriggio. Faceva ancora caldo, ai piedi dell’Acropoli, ma la cappa d’afa dell’estate aveva allentato la stretta quel tanto che serviva per respirare. Il gatto sonnecchiava sulle cassette di plastica. Aiolia non sapeva dire come si chiamasse. Lo aveva sempre visto lì, e Milo non si era mai premurato di colmare questa sua lacuna. Né tantomeno lui aveva mai chiesto lumi al riguardo. Perché avrebbe dovuto? I gatti vanno e vengono, come il vento e le maree. E allora perché adesso stava tergiversando sul nome del gatto come se fosse una questione di capitale importanza?
Per vigliaccheria. Pura e semplice. Perché esistono medicine amare come e più del fiele che bisogna essere disposti ad ingoiare per primi, se le si vuole somministrare agli altri. Per sapere che sì, fanno male; ma curano. E che se il medico pietoso ha fatto la piaga purulenta è perché lui per primo non ha avuto il coraggio di sorbire la sua medicina fino all’ultima goccia.
Aiolia non era sceso ad Atene per una gita di piacere, per bere il retsina all’ombra del pergolato di limoni o per chiacchierare con Kostas davanti ad un caffè. Aiolia era lì per consegnare una brutta notizia. Qualcosa che avrebbe spezzato quell’angolo di perfetta normalità, quella bolla in cui Milo aveva sempre tenuto – rinchiuso – i suoi cari. Ma dovevano sapere. Dovevano sapere o avrebbero atteso invano affacciati alla finestra colui che non sarebbe tornato mai più. Aiolia si chiedeva se fosse giusto – e se lo chiedeva adesso che i passi si erano fatti più pesanti ed il cuore suonava come piombo.
Aspettare non è morire un poco alla volta?
Sì e no, avrebbe detto Aiolos. Perché l’animo umano comprende da sé le cose che non gli vengono dette. Le sente, in fondo al cuore, come un peso che ti zavorra l’esistenza. E morire aspettando, con la paura che no, non si farà attempo a vedere tornare qualcuno perché il buon Dio ci reclamerà a sé prima, è un’angoscia indicibile.
Via il dente, via il dolore?, si domandò Aiolia. Fissando il girotondo delle nuvole bianchissime nel cielo di un azzurro struggente. Era una giornata così bella. Così perfetta. Se solo piovesse, pensò Aiolia. Se solo piovesse…

«Non è necessario che lo faccia tu. Posso pensarci io», gli aveva detto Mu, ma ad Aiolia non era sembrato giusto scaricargli quel peso sulle spalle. Se c’era una cosa che la battaglia del Santuario aveva insegnato a tutti loro è che le persone non spuntano dal terreno, come piante selvatiche. Le persone hanno radici, legami, affetti. La loro vita appartiene ad Athena, ma il bagaglio personale che ognuno di loro si porta dentro appartiene a chi hanno amato e conosciuto. Non ad Athena. Ecco perché quando la polvere si era posata ed era caduta anche l’ultima goccia di pioggia, era arrivato il momento di conoscersi.
«Ho una madre.»
«Ho una nonna ed uno zio.»
«Ho un paio di amici.»
«Non ho più nessuno.»
Per sapere se vi fosse qualcuno a cui portare la triste notizia, un giorno o l’altro. Il più tardi possibile.

«No. Devo farlo io», aveva detto Aiolia a Mu, senza trovare il coraggio di guardarlo negli occhi. Fissando qualcosa, oltre l’orizzonte. «Glielo devo. Capisci?», perché per ricevere certe notizie serve un volto amico. Qualcuno che provi quello che stai provando tu, pur se in misura infinitesimale. Qualcuno che comprenda e sia partecipe del tuo dolore. Non un estraneo, e Mu, per quanto diplomatico e compassionevole sapesse essere, era una faccia sconosciuta. E Kostas e Melpomenê avrebbero potuto riporre vane speranze nelle sue parole. Non era greco, lui. Magari aveva capito male. Magari si era confuso. Magari Milo era vivo da qualche parte e magari…
Per questo doveva pensarci Aiolia. Per questo voleva pensarci Aiolia. Perché Milo, per quanto diverso potesse essere da lui, era un amico. Capace di farti perdere le staffe in un battito di ciglia, ma leale fino alla morte. E anche oltre.

Ma adesso che il Kallistê lo fissava con aria indolente, chiedendogli cosa fosse venuto a fare laggiù, Aiolia avrebbe voluto essere lontano chilometri dal suo pergolato. Avrebbe voluto potersi scambiare di posto con Milo. Esserci finito lui, sul fondo del mare a fare compagnia ai pesci, per non dover dare quella notizia così dolorosa a Kostas. E alla vecchia Melpomenê.
La quale gli era uscita incontro, tra le mani una scopa di saggina con cui spazzare il terrazzo prima di stendere sui tavoli delle tovaglie bianche e blu. Non ce ne sarebbe stato bisogno, ché la stagione inoltrata rendeva improbabile l’arrivo di nuovi clienti. Tuttavia, lei era uscita. Fissandolo, coi suoi occhi azzurri e penetranti – così come erano quelli di Milo – abbandonando la scopa a ridosso del muro e avvicinandoglisi. Le mani nelle mani, le labbra tese e strette, negli occhi la muta domanda – la pia speranza – che lui no, non fosse lì per dirle quello che lei credeva – che lei temeva, che lei sapeva – che era venuto a dirle.
Aiolia si ritrovò senza parole nelle tasche. Si era preparato un discorso strada facendo, ma credeva – sperava – che l’avrebbe riferito a Kostas, per filo e per segno, e che poi lui avrebbe trovato il modo e la maniera di renderne partecipe sua madre. Invece il destino aveva deciso diversamente, e tutto quello che poté dire Aiolia fu un: «Venga, nonnina. Sediamoci», scortando la vecchia Melpomenê sotto il pergolato e facendola accomodare sotto uno dei limoni che suo marito aveva piantato, anni addietro, prima di guardarla negli occhi e di raccontarle, seppure a grandi linee, che suo nipote non c’era più.
 

La panchina è libera.
Françoise parcheggia la carrozzina accanto a sé, verso la scalinata. È pericoloso e dovrebbe dare retta a Maman Louise e sistemarla verso la strada, ma Françoise non si sente sicura. Perché lì la carrozzina starebbe nell’angolo cieco. E non vedrebbe eventuali malintenzionati pronti a chinarsi sulla sua bambina e portargliela via.
Quando l’ha detto a Maman Louise, lei l’ha squadrata come si fissa qualcuno che esce in costume da bagno sotto la pioggia torrenziale di Novembre.
«Chi mai dovrebbe prendersi la briga di rapire tua figlia, Fanchon?», le ha chiesto, sinceramente sconcertata. Lei s’è morsa le labbra e le ha risposto con delle scuse a caso. Di matti ce ne sono tanti per le strade. Non si sa mai, di questi tempi, e via di seguito; ma la verità è un’altra, ed entrambe la conoscono anche se nessuna ha avuto il coraggio di chiamarla col suo nome. Athena.
Françoise è terrorizzata all’idea di perdere anche sua figlia. Athena s’è presa Etienne, perché non dovrebbe volere
anche Coralie? Teme che le mani di Athena possano allungarsi sulla carrozzina per ghermire la sua bambina e strappargliela via. Per dispetto.
Perché io non gliel’ho data, pensa, sistemandosi la stoffa del vestito. Non ha affidato sua figlia ad Athena. Non l’ha affidata a nessuno. Non vede perché avrebbe dovuto farlo. Non c’è l’angelo custode per queste cose? Sì che c’è. Se sei cattolica, certo che c’è. C’è anche la preghiera da recitare alla sera, in ginocchio al capezzale, le mani giunte e gli occhi chiusi. Ma Françoise non è mai stata una gran credente. E Rémy non è cattolico. E non è nemmeno un ugonotto, come sua madre etichettava i Riformati. Rémy crede in altro. Crede in qualcosa che affonda le sue radici nella superstizione, nel mondo pagano degli dei greci e romani. Crede in Athena.

Françoise sa che c’è qualcosa di vero, in tutta quella faccenda. Françoise ha visto quello che sa fare Rémy. I suoi poteri. Le sue capacità. Glieli ha mostrati lui, anni addietro. Tante piccole lucine che sfrigolavano sulla punta delle sue dita. «Hai da accendere?», le aveva chiesto, con quella sua barbetta accennata e l’aria vissuta di un giornale stazzonato dal vento. E quando lei aveva detto di no, lui aveva sorriso e le aveva risposto: «Immaginavo», prima di dare inizio allo spettacolo.

La vita è dannatamente sexy quando profuma di pericolo – come solo le cose proibite sanno essere – ma quando si è giovani e spensierati, e l’adrenalina  scorre nelle vene è come una droga, è piacevole vivere un brivido in più; ma arriva un momento nella vita in cui il fiato va lasciato nei polmoni e non in gola. Quando si ha una famiglia, quando si hanno due bambini bisogna mettere la testa a posto. Lui le ha detto che non sarà un Santo in eterno. Che altri continueranno la battaglia, al posto suo. Che sta pensando di appendere al chiodo l’armatura e di cominciare a fare il padre. Perché è arrivata l’ora di crescere.


Françoise lo spera con tutto il cuore. Ma ci crederà se e quando lo vedrà accadere. Perché Rémy doveva starle accanto per la nascita della bambina. Il Sacerdote gliel’aveva accordato, giusto?
Giusto.
Ma poi è sopraggiunta l’ennesima crisi, l’ennesimo casino da sistemare ai confini del mondo conosciuto. E chi è partito nemmeno ventiquattr’ore dopo la nascita di sua figlia? Aristoteles? Antonio? Alessio? Vassili? Insomma, qualcuno che non avesse un figlio nato da poco?
Nossignore.
«Rémy è la persona giusta», si è giustificato Aristoteles con quel suo sorriso sghembo, prima di sparire chissà dove assieme al suo uomo e lasciarla sola con quel demonio sotto forma di neonata.
Françoise pensa che Athena – ammesso che esista davvero Athena – sappia cosa le stia passando per la testa. Conosca il suo piano. Sottrarle Rémy passo passo. Con dolcezza. Senza strepiti e liti e grida. Mostrandogli cosa significhi essere padre. Avere una famiglia. Qualcuno che ti aspetta a casa, la sera. Qualcuno che aspetta
te. Che si prodiga per te. E che ti butta le braccia al collo quando torni.

Coralie sarà la sua arma segreta. Françoise si pente di non aver messo in atto prima questa strategia, ma era giovane ed inesperta, con l’animo ricolmo di quell’assurda convinzione per cui le cose sarebbero andate a posto senza sforzo alcuno da parte sua. Come per magia. Invece no. Athena ha preteso Etienne. E Rémy gliel’ha dato. Immolandolo alla causa della Fanciulla, qualunque essa sia. Ma stavolta le cose andranno diversamente. Stavolta Françoise lavorerà di sponda. Piano piano. Senza dare troppa importanza ad Athena e a tutto quel carrozzone multicolore che ruota attorno al Santuario. Coralie la aiuterà, perché Rémy è pazzo di sua figlia. Le è bastato osservare la sua reazione davanti alla culla per capire che i tempi sono ormai maturi.

«È scesa dal cielo in groppa ad una stella cadente», le ha detto Rémy accarezzandole la fronte sudata, perso ad osservare la curva del nasino di sua figlia. Non era più un Santo, ma un
uomo. Un padre in un’anonima camerata d’ospedale, tra altri letti occupati da altre coppie e altri piccini in arrivo. Lontano da Athena, dal Santuario e da tutte quelle follie.
«Quale?», gli ha chiesto, un sorriso stanco all’angolo delle labbra secche.
«Non lo so», le ha detto lui. Gli tremavano le mani.
Quant’è che non fumi?, avrebbe voluto chiedergli. «Sta passando lo sciame delle Capricornidi in questi giorni...», sulle labbra l’orgoglio di un padre che spera il migliore dei futuri possibili per la sua bambina. Magari con una bella armatura d’oro sulle spalle.
Sciame delle Capricornidi un corno, pensa Françoise sospirando e scalciando la ghiaia. Un sassolino rimbalza contro un lampione producendo un TING argentino contro il metallo e ruzzolando via scalino dopo scalino. Françoise sgrana gli occhi. Si congela sul posto. E solo dopo che il sassolino ha finito la sua sequenza di capitomboli, lei trova il coraggio di allungare il collo e sbirciare oltre la capotte della carrozzina. La manina è ancora chiusa a pugno. Scampato pericolo, si dice. Regalandosi un sospiro.

Lo spazzino comunale si avvicina con la ramazza in pugno. Le fa un cenno col berretto. Lo saluta e tira fuori il libro dalla borsa. Il Conte di Montecristo. Un volume erto e spesso, «buono per schiacciarci le cimici», secondo Maman Louise, ma che a lei piace da matti. Non riesce a staccare gli occhi da quelle pagine, da quelle righe piene di gente che si alza d’impeto e crolla affranta, che sviene, che aggrotta le sopracciglia, che trasale, che bestemmia, che geme. C’è qualcosa nella penna del Dumas padre che la cattura, la ipnotizza la trascina lungo le rocambolesche – e per certi versi quasi impossibili – avventure di Edmond, e lei è ben felice di andare alla deriva. Coralie dorme della grossa. Françoise legge, mentre Belleville si stropiccia gli occhioni assonnati.
 

Un soffitto azzurro. Una stanza immersa nel ronzio di ventilatori che avevano visto tempi migliori. Lo sciabordio del mare, in lontananza. Cotone ruvido sulla pelle. Le ossa a pezzi. Nella testa, la festosa confusione di una grancassa impazzita. Si sforzò di mettersi a sedere. Il cuscino alle sue spalle sbuffò. 
La stanza si affacciava sul mare, almeno a giudicare dall’azzurrità che s'intravedeva dalla finestra aperta; le pareti bianchissime gli comunicarono subito una sensazione di freschezza. Oltre al letto, ad una sedia abbandonata in un angolo e ad un armadio male in arnese, la stanza era vuota. Spoglia. Come se fosse un rifugio provvisorio, un luogo in cui passare la notte, di tanto in tanto. O un posto in cui riorganizzarsi. E tornare a casa. Ovunque fosse casa.

Si portò le mani davanti agli occhi. Erano fasciate. Con bende improvvisate – un vecchio lenzuolo ridotto a strisce sottili – ma pulite. Era sudato. E nudo, sotto al lenzuolo, con altre fasciature lungo le gambe e il busto. Portò le mani alla testa. C’erano bende anche lì.
Domanda da un milione di dollari. Dove sono finito?, pensò, mentre provava a poggiare un piede sul pavimento. Era freddo. Ritrasse il piede e riprovò con maggiore cura. La testa gli girava immensamente. Meglio fare piano. Portò entrambi i piedi a terra, e provò a ricordare qualcosa. Un volto, un viso, una parola, un indizio qualsiasi che gli spiegasse – o quantomeno gli suggerisse – che diamine gli fosse successo.
C’era una ragazza con lui. Un’orientale. Una... hostess. Uno dei suoi sogni preferiti. Una bella hostess dalla pelle di porcellana con cui spassarsela un po’ a diecimila metri di quota.
Ma allora perché le bende?, pensò. Va bene tutto, va bene anche un po’ di veemenza, a volte, ma le bende?

Si alzò. Piano. Pianissimo. Aggrappandosi alla testiera del letto dalle volute d’ottone opaco. Raccattò il lenzuolo e se lo annodò in vita, non per un improvviso pudore – lui che in casa sua girava nudo come un verme? – ma perché non gli aggradava l’idea di trovarsi con le vergogne all’aria in territorio ostile. O quantomeno sconosciuto. 
Tese l’orecchio. Oltre la porta socchiusa, alle spalle del letto, non volava una mosca. Silenzio più assoluto. Strano, pensò. Aveva fatto rumore alzandosi. Le molle avevano protestato. Il lenzuolo aveva frusciato. La testiera d’ottone aveva cigolato. Eppure, non s’era affacciato nessuno.

Quindi o mi trovo da solo, oppure chi mi aspetta dall’altra parte non ha buone intenzioni, concluse. Mettendosi in guardia. Piegò il busto in avanti, pronto a difendersi. Non poteva restare in attesa in eterno, giusto? Strinse la maniglia tra le dita e aprì la porta. C’era un’altra stanza, con un tavolaccio, un acquaio vecchio ma pulito, una cucina economica con una catasta di legno affianco, un’altra finestra senza tende, una porta più stretta ed una tinozza piena di acqua calda. Acqua calda saponata.
Sbattendo le palpebre, si avvicinò passo passo, il lenzuolo alle sue spalle come uno strascico segue la sposa. L’acqua era calda e invitante e lui si sentì improvvisamente sporco. Ed ebbe una gran voglia di scivolare dentro quella tinozza ed insaponarsi per bene e sciacquare via tutta la stanchezza e la confusione che gli ottenebravano la mente.
Quasi quasi, pensò, avvicinandosi alla porta d’ingresso – chiusa – e tenendo d’occhio la tinozza, come se avesse potuto vomitare sul pavimento qualcosa di strano da un momento all’altro.
Fuori era una bella giornata di sole. Il mare faceva sentire forte la sua voce, così come il vento. Doveva aver piovuto da poco, però. L’aria era pulita e carica di umidità, ma in cielo c’erano pochissime nuvole, che solcavano rapide l’azzurro sopra la sua testa come veloci golette col vento in poppa. Poi sentì qualcosa. Un rumore, come di stoffa sull’acciaio. Proveniva alla sua destra. Lì dove doveva trovarsi l’altra stanzetta, quasi sicuramente il bagno. O qualcosa di molto più spartano.
Incastrò un sasso tra lo stipite e la porta, così da non restare chiuso fuori al primo colpo di vento, e avanzò verso il rumore, un bastone tra le mani per ogni evenienza. Il fruscio si manteneva costante, un vai e vieni come la marea. Qualcuno stava lucidando qualcosa. Qualcosa di molto prezioso, a giudicare dalla cura che metteva in quel lavoro, passando alacremente la pezza ed alitando fiato caldo sul metallo.
«Ecco fatto», sentì dire nel vento. E quella voce gli regalò uno spiacevole senso di déjà-vu. L’aveva già sentita, in vita sua. Nel recente passato. Certo, modificata, filtrata, arrochita. Ma conosceva quella voce. Eccome. Non gli aveva provocato la pelle d’oca sulle braccia?
Chi sei?, si chiese, svoltando l’angolo. E restando a bocca aperta.

A terra, sparpagliati su un lenzuolo, c’erano i pezzi che componevano la sua armatura. Il diadema, gli spallacci, la corazza, gli schinieri. E un bracciale. Brillavano come e più del sole, nemmeno fossero appena usciti dalla fucina di Efesto. Accanto a loro c’erano alcune pezzuole di lana cotta e infeltrita che sapeva dimostrarsi ancora utilissima nelle mani dell’uomo che, di spalle, proseguiva nel suo lavoro con costante alacrità. Lavoro che lui odiava e detestava sin da quand’era un marmocchio. Quante volte Aristoteles l’aveva spedito di gran carriera a lucidare la sua armatura fino a farla diventare splendente come e più delle stelle?
Innumerevoli, si disse. Avanzando a passo più sostenuto, il bastone ben saldo nelle mani.
«Che stai facendo?», chiese. Quell’uomo aveva una fisionomia familiare, con quei capelli lunghi legati in una coda distratta sulla nuca. Come li portava Saga prima che desse di matto, pensò. L’uomo si irrigidì e, abbandonando per un momento la lucidatura del bracciale sinistro, si voltò. «Ma tu… tu sei…»
«Ti sei svegliato?», gli chiese, schermandosi gli occhi con l’avambraccio destro. «C’è dell’acqua calda, in casa. Ho pensato volessi darti una rinfrescata. Fai pure con comodo.»
«Ma… tu non…»
«Non sono morto, dici?» Annuì. «No. Non sono morto. Sono vivo e vegeto e ho tutta l’intenzione di restarlo.»
«Non contarci!»
Abbandonò il bastone a terra ed espanse il proprio cosmo. Antares rispose, scaricando sulle sue spalle un potere micidiale ed impetuoso, come un mare in tempesta. L’acqua si increspò. Il cielo si scurì. L’unghia destra brillò di scarlatto.
«Vuoi che ti si riaprano le ferite?», si sentì chiedere, ma non si fermò.
L’uomo si alzò e ripose il bracciale accanto agli altri pezzi. Lo fronteggiò, le braccia rilassate e le gambe divaricate. Lo scrutò, per intuirne le intenzioni, poi piegò la testa da un alto, come fanno i cani quando non capiscono cosa voglia il padrone da loro, e si strinse nelle spalle.
«Cocciuto di un greco cocciuto», mormorò, prima che la cuspide scattasse e lo colpisse una volta, due, tre senza che opporle resistenza alcuna. Poi lo Scorpione vacillò e caddero entrambi in ginocchio. Ripresero fiato, la bocca spalancata in cerca di ossigeno da respirare che non bruciasse in gola. Poi, boccheggiando, l’altro si avvicinò.
«Stammi lontano!», ringhiò Milo. Sferrando un pugno che andò a vuoto. «Non osare avvicinarti.»
«Sei a casa mia», ribatte l’altro. Come se questo fosse di una qualche rilevanza. «E non ti reggi in piedi. Non costringermi a sprecare due giorni di cure. O ti calmi o ti butto a mare. Quindi. A te la scelta. Vogliamo parlarne da persone civili o vuoi farti un tuffo dove l’acqua è più blu?»
 

L’Imperatrice. La Morte. La Temperanza. La Luna. Il Diavolo. La Torre. L’Imperatore. La Papessa. Il Matto. Il Giudizio.

Maman Louise tamburella le unghie sulla tovaglia di velluto. Dovrebbe cambiare lo smalto. Si è sbeccato in punta. Non può certo recitare la parte della veggente con le unghie in quelle condizioni. A volte si chiede, in un angolo della sua testa, perché le streghe, le fattucchiere, le cartomanti e le medium debbano sfoggiare artigli rossi come il sangue. Passi la voce bassa e roca – e in quello le sigarette aiutano – il kajal attorno agli occhi che regala un’allure di mistero e fascino e. Passino i capelli ricci, ché un tocco appena di zingaresco non guasta mai. Ma le unghie?
Maman Louise sospira. E scuote la testa. Si sta deconcentrando. Colpa di Coralie. Che sta sussurrando quelle scempiaggini al suo orecchio, invece che illuminarle la smazzata delle carte.


L’Imperatrice. La Morte. La Temperanza. La Luna. Il Diavolo. La Torre. L’Imperatore. La Papessa. Il Matto. Il Giudizio.

C’è qualcosa di poco piacevole nell’aria. Qualcosa di radicale. Per la piccina?, si chiede Maman Louise. Ne sarà vittima o carnefice? Ma ora Coralie tace. A quella come ad altre domande che riguardano la piccina, Etienne, Fanchon e Rémy.
«Coralie!»
Maman Louise sta gridando. Con tanto di manata sul tavolo. I braccialetti tintinnano per protesta, ma Coralie non si smuove di un millimetro.
«Abbi almeno la decenza di farmi vedere il tuo brutto muso!»
«No», si sente rispondere. Nemmeno avesse a che fare con una bambina di tre anni che pesta i piedi perché non vuole mangiare la verdura cotta.
«Coralie», dice Maman Louise, con il tono di voce dolce e comprensivo che si usa per convincere i bambini ad aprire la bocca e ad ingoiare la medicina, «non vuoi davvero aiutarmi?».
«Non hai bisogno di me.»
«Sì, invece. Ne ho bisogno. Non capisco cosa mi dicono le carte, e si tratta della piccina. L’hanno chiamata come te…»
«No. L’hanno chiamata come il corallo che ha nei capelli, non come me. E se anche fosse, non avrebbero dovuto. Questo nome porta guai.»
«Sciocchezze. Perché piuttosto non mi aiuti con questa lettura?»
Una risata da monella, irriverente e leziosa, che gela il sangue nelle vene di Maman Louise, poi Coralie aggiunge: «Non hai bisogno di me, per quello. Non vuoi vedere la realtà che ti si para davanti agli occhi, sorellina.»
«Coralie, dico sul serio. Non capisco. Il Diavolo e la Torre?»
«Il Diavolo genererà la Torre. Sono consequenziali. Non è difficile.» Coralie sbuffa. «Perché non mi lasci andare, Loulou?»
«Non posso. Io…»
«Non
vuoi, questa è la verità. Non vuoi perché hai bisogno di me. Non vuoi perché tu da sola non vali una scarpa bucata. Non vuoi lasciarmi libera di andarmene da Jules perché sei gelosa. Lui mi sta aspettando! Lo capisci?»
«Jules è morto da un pezzo, Coco! Lui non ti ha mai aspettato. Per lui eri una bambina, non una donna. Lui aveva occhi solo per Fantine, altrimenti tu non ti saresti mai appesa alle travi del soffitto. Non ricordi?»
«Adesso capisci perché non avrebbero mai dovuto chiamarla come me?».

Ma prima che Maman Louise possa dire qualsiasi cosa, sua sorella non c’è più. È andata a nascondersi da qualche parte, tra i tubi di quella vecchia casa e le ragnatele così simili ai merletti che sognava sullo scollo del suo abito da sposa, con un bouquet di gigli e lillà tra le mani, per attraversare la navata della chiesa al braccio di Jules. Il telefono buca il silenzio immobile della mattina. Stizzito.
Stupida ragazzina, pensa Maman Louise alzandosi e ciabattando per andare a rispondere.
 «Pronto?»
Speriamo non sia qualcuno che chiama per disdire, pensa – prega. Ci sono le bollette da pagare ed il conto in farmacia diventa sempre più importante. Con un bebè in casa è normale. Peccato che l’assegno del Santuario sia andato perso, questo mese, si dice.«Chi parla?»
«Maman Louise, sono io. Yvette.»
«Yvette? Cara, come stai? Che si dice?»
«Il solito, Maman. Ma non ho tempo per chiacchierare. Ti sto chiamando di straforo.»
«Stai ricevendo? A quest’ora?»
«Sì. Il mio cliente dorme ancora, così sono sgattaiolata di sotto. Il telefono era libero e così…»
«Yvette, sai che casa mia è sempre aperta…»
«Sì, lo so. Lo so, Maman. Ma finché il fisico regge, voglio guadagnarmi la pagnotta. È un modo onesto per campare, no?»
Più di quanto credi, bimba mia, pensa Maman Louise. «Comunque. Chiamo per dare un’informazione a Fanchon. Facesse attenzione.»
«Perché?» Il cuore di Maman Louise schizza alle stelle. «Che succede, Yvette?»
«Succede che Alain ha saputo dove si nasconde Françoise. Gliel’ha detto quella stronza di Elodie. Ha dato di matto, tu non t’immagini, tanto da spedirla in ospedale! Adesso devo riattaccare. Dille di fare attenzione. Hai capito, Maman? Maman? Ehi, Maman? Ci sei? Pronto? Pronto?!»



Il vento soffiava, come a voler spettinare le onde. Il mare sbatteva contro gli scogli, spruzzando di candida spuma i sassolini grigi che costituivano la spiaggia. Kanon lo osservava con una postura rilassata – le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni – ma i suoi occhi restavano vigili. E attenti. Aveva ricevuto tre cuspidi. Due in pieno petto, la terza sul braccio sinistro. Gli facevano male, certo. Aveva la fronte imperlata di sudore. Eppure Kanon non si lamentava, né si contorceva a terra dal dolore.
«Vedo che stai meglio», gli disse accovacciandoglisi di fronte con cautela, come si fa con un cane rabbioso. «Sei rimasto svenuto a lungo, sai?»
«Quanto tempo?», ringhiò Milo.
Kanon sorrise. «Ritenta. E magari chiedimelo con più grazia. Staremmo stipulando un armistizio, ricordi?»
«Lo stiamo facendo?», replicò. Afferrando il bastone e facendovi leva per alzarsi.
«C’è sempre l’opzione mare, ricordi?», e indicò con il pollice un punto imprecisato alle proprie spalle.
Sempre meglio che avere a che fare con te, pensò Milo, fulminandolo con lo sguardo. «Io la chiamerei più pace armata…», disse, sputando le parole tra i denti.
Kanon si alzò. «E pace armata sia. Non pretendo che tu ti fidi di me. Sarebbe assurdo.»
«Siamo d’accordo su qualcosa, allora!»

Milo fissò le spalle rilassate di Kanon, chiedendosi quanto potesse fidarsi di lui. Fino a che punto. Aveva sentito dire che si era erto a difesa di Athena all’ultimo minuto, prendendosi il tridente di Poseidone in pieno petto; ma se in quel gesto disperato Hyoga vi aveva visto un tentativo di fare ammenda – lui, che infiniti lutti addusse agli Achei – lo Scorpione aveva sospeso il proprio giudizio. Perché vedeva quell’azione eroica per quello che era. Un gesto disperato. «Chissà», aveva detto. Non aveva avuto modo di conoscere davvero Saga, figuriamoci il suo doppio. Ovviamente malvagio. Come se Saga sia stato una passeggiata tra i fiori, pensò. E poi si disse che sì, in effetti avere a che fare con Saga era stato come passeggiare in un bel campo fiorito, pieno di rossi papaveri, candide margherite e bisce nascoste tra l’erba alta. O il souvenir di una vacca, come avrebbe detto suo zio Stavros. E loro vi erano caduti dentro con entrambi i piedi.

«Athena mi ha salvato. E levati quell’espressione dal viso, grazie. A Capo Sounion e ad Atlantide. Lei mi ha dato la possibilità di fare la cosa giusta, per una volta nella vita. E non ho intenzione di sprecarla.» Kanon sollevò la canottiera oltre le spalle e se la sfilò, mostrandogli la cicatrice che gli decorava il petto. «Forse questo non cambierà niente. Ma volevo mostrartelo lo stesso.» Sfiorò con le dita la ferita. Tre grossi fori d’entrata, simili a graffi slabbrati. Chi gli aveva estratto il tridente dal petto non l’aveva fatto con cautela. Aveva tirato via l’arma. Perché gli facesse male. Perché rammentasse quel dolore. Nei secoli dei secoli.
«Hai ragione. Non cambia niente», disse Milo.
«Immaginavo. Cambierà mai?»
«No. Non fino a quando non avremo sistemato la faccenda. A modo mio.»
«Sta bene. Dovevo sentirtelo dire», ribatté l’altro, abbandonando la canotta a terra. «Rimettiti. Poi ne riparleremo. Per ora, limitiamoci a collaborare. Puoi farlo?»
«Non ne sono sicuro. Ma prometto di provarci.»
«Non esiste provarci. O fai, o non fai.»
«Non sfidare la fortuna.»

Gli mostrò i palmi delle mani. Un gesto che gli diceva che non aveva niente da nascondere. «Ascolta. Quando questa storia sarà finita, mi passerai da parte a parte. Non opporrò resistenza. Hai la mia parola.»
«Che vale quanto un pezzo di carta igienica usata…»
«Vero. Ma dovrai fartela bastare. E poi, pensaci. Eri più morto che vivo quando ti ho raccolto. Mi sarebbe bastato buttarti a mare. Invece no. Sono stato una brava crocerossina. Non merito forse il beneficio del dubbio?»
L’espressione del suo viso, a metà tra la franchezza spudorata e la verità indifesa, era di quelle che avrebbero convinto un cane affamato a cedergli l’osso che stava rosicchiando.
«Forse. Dipende da te.»
«Certo. Non mi perderai d’occhio, tu. Lo so, lo so.»
«Sfotti?»
«No. Non ne ho la minima intenzione. Non è divertente.» Si stiracchiò le braccia; poi, come proseguendo un discorso interrotto, aggiunse: «Sei rimasto incosciente due o tre giorni. Una sirena ti ha trovato sulla spiaggia e ti ha portato qui. A casa mia», aggiustandosi la massa informe di capelli che scendeva oltre le sue spalle.
«Una… sirena
«Sorrento della Sirena. Uno dei Generali di Poseidone. Quello che ha messo a mal partito Aldebaran.»
«Che c’entra adesso Poseidone?»
«Ne so quanto te.» Sembrava sincero. «È apparso subito dopo l’esplosione e ti ha scodellato qui.»
«Dov’è qui? L’isola di Kanon suppongo.»
«Supponi male. Sei ad Eschati.»
«Dove?»
L’altro sbuffò e abbandonò l’impresa di legarsi i capelli per bene. Si ravviò un ciuffo dietro l’orecchio poi disse: «Es.Cha.Ti. Un paio di scogli troppo cresciuti a sud di Thera.»
«Thera?!» Sgranò gli occhi. Così a sud? Che diamine ci faceva lì? E soprattutto, come c'era finito?
«L'aereo su cui viaggiavate è precipitato in mare aperto. Poseidone ha salvato tutti quanti. Non so cosa diamine sia successo, ma se crediamo a quello che mi ha detto Sorrento, fa tutto parte del piano di Athena.»
«So che suona ridicolo, ma tant’è. In tutta sincerità… tu ti fidi
«Io non so cosa pensare.» Incrociò le braccia. «È vero che Julian Solo ha a cuore la salvezza di Saori Kido. Ma qui stiamo parlando di Poseidone e di Athena.»
«Ma Saori Kido è Athena.»
«Ma Julian Solo non è Poseidone.»
«Touché

«Sai una cosa buffa?» Silenzio. «Ho ragione di credere che Poseidone sospetti l’esistenza di una talpa all’interno del Santuario.»
E lo trovi buffo?! «Chi?»
«Sorrento non me l’ha detto. Ma mi ha detto che Poseidone ti ha volontariamente separato dagli altri. Per precauzione
«Che tipo di precauzione?»
«Non saprei», rispose, tornando a fissare il mare. «Forse solo per far sapere a qualcuno che c’è una talpa nel giardino. Magari alla talpa stessa. O magari no.»
«Credi che io…!»
«Non so cosa credere. Per me, potresti essere stato benissimo tu. Oppure no. Come vedi, siamo nella stessa barca.»
«Io non credo.»
«Sta scendendo la sera», disse Kanon. Spiazzandolo. «Converrà partire domani, appena farà giorno.»
«E intanto che facciamo? Prendiamo il tè?»
«Intanto aspettiamo che la tua armatura sia pronta. Era messa male, e mi sono preso la briga di darle una pulita. Un lavaggio con tutti i crismi. L’acqua di mare sa essere tremenda, sai?»
Milo si passò una mano sugli occhi.
«Immagino che le parole che tu stia cercando siano grazie e Kanon. Sbaglio?»
«Saranno delle lunghissime giornate…»
«Concordo. Intanto che aspettiamo che arrivi il vecchio Stavros…»
«E adesso chi è il vecchio Stavros
Kanon lo guardò come se gli fosse spuntata una seconda testa.
«Stavros Kalatzakis.»
«E chi diamine è?»
«È il decano dei pescatori di Thera. Lo chiamano il Greco Volante. Dovresti vederlo, ha novant’anni suonati, ma sembra un ragazzino!»
«E che c’entra con noi?»
«C’entra che viene ogni settimana a vendermi quello che pesca.»
«Il pesce, suppongo.»
«Sì. Ma la frase viene a vendermi il pesce mi suonava malissimo.»
«In effetti…»
«Ci darà un passaggio lui. La mia barchetta è troppo piccola e tu non sei ancora in forze per correre al Santuario di gran carriera. Quindi…»
«Aspettiamo Stavros. Ho capito. E poi?»
«Mangiamo. Io ho fame. Tu?»
Un brontolio selvaggio rispose al posto di Milo.
«Immaginavo. L’acqua sarà ancora calda. Mentre preparo qualcosa da mangiare perché non ti fai un bagno e non mi racconti per filo e per segno le ultime novità?»
«Così prepariamo una strategia?»
«Ovvio. Il manipolatore sono io.» Kanon raccolse la canottiera, si diresse verso casa e Milo lo seguì. «Allora non sei tutto muscoli e niente cervello, come dicono.»
«Chi lo dice?»
«Le malelingue.»
«E immagino che anche le voci sul tuo conto non siano vere, giusto?»
«Oh, no. È tutto verissimo.»
 

A stare con Rémy anche Françoise ha sviluppato una specie di sesto senso. O qualcosa che gli assomiglia tantissimo. O forse sarà l’essere madre ad averle affinato l’intuito animale. Chi può dirlo? Fatto sta che non appena percepisce qualcosa di poco piacevole, come una nota di sottofondo sbagliata nel vento, Françoise alza lo sguardo. E Alain è lì. Davanti a lei. Armato delle peggiori intenzioni possibili e del suo completo di sartoria color grigio antracite.
«Buongiorno, mia cara», le dice. Con quel sorriso come una tagliola, la barba appena fatta e l'aria riposata.
Alain è sempre stato un mistero, per lei. Non ha mai capito perché le ragazze ci cascassero sempre – perché ci volessero cascare – e come diamine facesse ad essere sempre impeccabile.
Non sono neppure le sette del mattino. E tu sei arrivato qui fresco come una rosa.
«Sei sempre bellissima, sai?»
Françoise si alza.
«No. No, ti prego», le dice. Scivolandole accanto, sulla panchina, tra lei e la carrozzina. «Non alzarti per me, tesoro. Cosa stavi leggendo?»
«Il Montecristo.»

Françoise sa che dovrebbe andarsene. Prendere Coralie e scappare. Hubert e Xavier saranno nei paraggi, ma se lei gridasse, con tutto il fiato che ha in gola – e ci sono momenti un cui una cincia è capace di trasformarsi in un aquila incazzata – riuscirebbe ad attirare l’attenzione di qualcuno. Se la caverebbe con un paio di ceffoni, ma finirebbe tutto lì. Un buon pronostico, insomma. Ma Françoise scopre con orrore che ha
paura di Alain. Una paura micidiale che le piomba lo stomaco, le chiude la gola e le fa diventare le gambe di gelatina.

Rémy! Dove sei, Rémy?!

«Il Montecristo. Già. Non sei un tipo da Colette, tu. Non lo sei mai stata», le dice, afferrandole una ciocca di capelli tra le dita e saggiandone il colore alla luce del sole. «I tuoi capelli mi hanno sempre fatto impazzire, sai, Fanchon?»
«Non chiamarmi così…»
«Biondi. Fini. Lisci… Devono essere una meraviglia, sparsi sul cuscino. Ci verranno delle parrucche strepitose, sai?» La mano di Alain si serra. E tira. Il polso si gira, portandosi dietro la testa di Françoise. «Te li raserò personalmente, Colombella. Tranquilla, farò un buon lavoro. Vedrai. Ti lascerò la testa liscia liscia, come quella di un neonato. E a tal proposito…»
La voce di Alain è fredda, come un pezzo di vetro tra le dita che non si scalda mai. Fredda e distaccata. Come se stesse parlando di argomenti faceti, anche quando ha deciso di ammazzare senza battere ciglio le persone che gli stanno antipatiche. O l’hanno fatto incazzare.

«E così questa sarebbe tua figlia…»
Françoise non può vedere Alain sbirciare oltre la capotte della carrozzina. Afferra il suo polso, ma lui lo ruota ancora. Facendole ancora più male.
«Lasciala stare!»
«Certo. Come no?», dice. Poi qualcuno afferra Françoise per le spalle. Hubert e Xavier, senza dubbio. Alain lascia la presa, facendosi scivolare i capelli di Françoise tra le dita. «Secondo te ho fatto tutta questa strada per niente?»
Hubert e Xavier la sollevano, e le tengono le braccia dietro la schiena. Ridacchiando.
«Alain non fare cazzate…», e uno schiaffo, di quelli a mano aperta, si stampa sulla guancia sinistra di Françoise. Il mondo esplode in un lampo bianco. Sbatte le palpebre, intontita. Le fischia l’orecchio.
«
Tu non fare cazzate, bellezza. Ne hai fatte fin troppe. Guardati! Guarda come sei ridotta. Chi la vuole più una che ha passato due gravidanze? Non mi sei più utile, tesoro, se non per lavoretti di straforo. Ho un compratore, tuttavia. Uno che vorrebbe una donna bianca nel suo harem. È un vero peccato che tu finisca laggiù, tesoro. Ma io devo rientrare dei soldi che ho prestato a tua madre. Capisci?»
«Li hai riavuti. Tutti! Fino all’ultimo centesimo!»
Un altro schiaffo, stavolta a destra.
«Non costringermi a farti del male.» Alain le parla come se stesse trattando con una bambina capricciosa. «Non costringermi a cambiarti i connotati. Voglio che resti così. Bellissima. Non vendo merce ammaccata, io. Ne va della mia reputazione.»

Hubert e Xavier ridono. Sguaiati. Come se avessero sentito la più spassosa delle barzellette. Alain si sporge oltre la capotte. «Rossa malpelo», sorride. «Tutta suo padre.»
«Alain! Lasciala stare. Prendi me, ma lascia stare la bambina!»
«Altrimenti che fai?
Mi picchi? O chiami quel bifolco del tuo uomo?» Alain si guarda intorno, come a cercare Rémy. «Mh, io non lo vedo. Non è che il nostro amico ha tagliato la corda? Pensaci, Fanchon. Chi la vuole una donna con una pupetta al seguito? Non puoi certo portartela appresso, no? Va bene finire in un harem. Ma a tutto c’è un limite, no?»
«Sei un bastardo!» Sente il fiato di Hubert sui capelli. Le mani di Xavier la stringono, facendole male. «Lasciala andare!»
«Come vuoi, principessa…» E la mano di Alain spinge la carrozzina. Quel poco che serve per farla cadere giù. Ruzzolando per gli scalini, con Coralie al suo interno.

«No!»
Françoise urla. Con quanto fiato ha in gola, mentre Hubert, alle sue spalle, ride. E allora lei trova tutto il coraggio e la forza necessari per dare una testata all’indietro. E colpire uno dei suoi aguzzini sul naso. Hubert lascia la presa, come se la pelle di Françoise si fosse fatta di fuoco. Xavier è colto alla sprovvista e allenta le dita. Françoise scatta in avanti e supera Alain, lanciandosi all’inseguimento della carrozzina. Che sta scendendo gradino dopo gradino, dritta dritta in strada. Dove iniziano a passare le automobili e gli autobus. E il tram. Françoise sente Coralie piangere. Terrorizzata. E anche se lei prova, con ogni fibra del suo essere, ad allungarsi il più possibile per afferrare il manubrio della carrozzina, non ci riesce. Nemmeno saltando i gradini a due a due.
E mentre la strada si fa sempre più vicina, ed i clacson delle automobili riempiono l’aria della mattina, Françoise si ritrova a pregare.


Athena, salvala! Salvala, ti prego! Salvala, e sarà tua! Non mi metterò più in mezzo. Crederò in te. Te lo giuro. Ma ti prego. Salvala!

Con un ultimo paio di balzelloni, la carrozzina si lascia la scalinata alle spalle ed impegna la strada. Attraversa sulle strisce pedonali filando sulle elegantissime ruote in gomma color ecrù, tra scampanellate di clacson e stridio di pneumatici sull’asfalto, mentre Françoise le corre dietro, il cuore che pulsa impazzito nelle orecchie ed il fiato in gola. La carrozzina si ribalta. Una ruota gira a vuoto, chiedendosi che fine abbia fatto la strada, mentre il sole si riflette sui raggi di metallo accartocciato. Poi, lo schianto. E quindi, il silenzio.


 
 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Siete quasi arrivati alla fine. Tenete duro. Mancano le note finali e poi scatta il sospirato "tana libera tutti!". Promesso.

Thera è l'isola di Santorini (in onore di Sen, che domani compie gli anni). Eschati è uno sputazzo disabitato a sud dell'isola. Ci ho fatto approdare uno svenuto Milo. E Kanon non sarà certo Nausicaä dalle bianche braccia, ma poteva andargli peggio, al nostro Scorpione.

Ho voluto variare un poco l'entrata in scena di Kanon, dopo la sua redenzione. La scelta di Kurumada mi era parsa una figata a sedici anni. Con qualche lustro in più sul groppone, la trovo una spremuta di testosterone gratuito. Non ce la faccio.

Tornano in scena Kostas, Melpomenê ed il Kallistê. Chi fosse curioso e volessere conoscere questo luogo e i suoi abitanti può affacciarsi qui, qui, qui, e qui.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Al solito, vi ringrazio per essere passati, per aver letto, per aver commentato, per non aver commentato, e per essere arrivati sin qui. Il prossimo capitolo arriverà in data da destinarsi. Non ho ancora scollinato, ma s'inizia a pedalare con meno fatica. Almeno spero.
Intanto, non ce lo beviamo un caffettino come si deve?

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Capitolo 20
*** 20. ***


20.




«La prima posizione è quella dell’oplita. Sai chi erano gli opliti?»
«No.»
Un sospiro trattenuto, uno sguardo penetrante e l’espressione di chi pensa
Ok, devo cominciare proprio dall’ABC. Camus sbatte le palpebre – lui che non le sbatte quasi mai, e questo inquieta non poco il piccoletto appena arrivato dal Giappone – poi si rivolge a lui. E gli chiede – e gli ordina: «Spiegaglielo.».
Così Isaac, il mento sollevato e le mani sui fianchi, sciorina la lezione al compagno. Quella stessa che Camus gli ha fatto entrare in testa a suon di pazienza e legnate.
«Gli opliti erano la fanteria pesante nell’Antica Grecia. Avevano uno scudo di metallo, grande, con cui proteggevano il corpo. Si dice che le nostre armature derivino dalle loro.»
«No. Non
si dice.» La voce di Camus fende in due il vento. «È così.»
«Giusto, Maestro.» Isaac ha chinato la testa. Un gesto istintivo, quasi si aspettasse uno scappellotto o una tirata d’orecchie.
«Mostragli la prima posizione.»
Isaac annuisce. Poi divarica le gambe e si sposta di tre quarti. Allarga le braccia –
come fossero ali – e le raccoglie al petto. La sinistra resta ferma, a proteggere cuore e milza. La destra si stende all’indietro, pronta a scattare per colpire l’avversario.
«Questo è lo scudo», dice Camus. Facendo scorrere le dita sull’avambraccio sinistro di Isaac. «Con questo, pari i colpi. Con questo, difendi gli organi vitali. Piega di più la schiena, Isaac.»
«Sissignore!»
«Questa», prosegue Camus, girando attorno all’allievo in posizione e toccandogli il braccio destro, «è la lancia. Con questa attacchi. Colpisci. Hai capito?»
Il piccoletto annuisce.
«Adesso guarda i piedi», gli dice Camus e gli occhi azzurri di Hyoga scendono sulle caviglie di Isaac. «Cosa vedi?»
«I piedi», vorrebbe rispondere Hyoga, ma l’istinto gli dice di non fermarsi alle apparenze. Perché Camus non è uno che va tanto per il sottile. Ed è capace di afferrarlo per la collottola, come si fa coi gatti, e di avvicinargli la faccia ai piedi di Isaac. Perché veda meglio.
«I piedi», dice Hyoga. Poi aggrotta le sopracciglia e aggiunge: «Il peso del corpo. È sbilanciato sulla punta di piedi.».
«
Bravo!» Camus annuisce. Quasi stupito dallo spirito di osservazione del nuovo arrivato. «Sai perché dovete combattere in punta di piedi?»
La testa di Hyoga va da destra a sinistra un paio di volte.
«Isaac?»
«Perché lo stile di combattimento dei Santi deriva da quello degli opliti. E gli opliti in battaglia avanzavano ordinati al suono dei flauti.»
«Flauti?», domanda Hyoga. Perplesso. «Ma non è una cosa
da femmine
Il viso di Isaac perde colore. Non può perdere la posizione – Camus non gliel’ha ancora concesso – né può scuotere la testa. Così sgrana gli occhi. Come ad avvisare Hyoga di non avventurarsi in quel discorso. Mai. Per nessuna ragione al mondo. E di tornare indietro, finché è ancora in tempo.
«
Femmine?» La voce di Camus testimonia che è troppo tardi. Ma Hyoga non deve essersene accorto, perché ignora il tono glaciale con cui il Maestro gli si è rivolto – e la vena che si sta gonfiando sulla tempia di Camus – e prosegue: «Sì. È come se stesse facendo un balletto. E il balletto non è una cosa da femmine?».
«Esistono anche ballerini. Maschi.»
«Per modo di dire», ribatte Hyoga, le braccia lungo i fianchi e l’espressione più innocente di questa terra.
L’agnello che controlla se nella bocca del lupo c’è una carie, pensa Isaac. Che già s’immagina Camus afferrarlo per il collo ed incassarlo nel ghiaccio in tre, due, uno…
«Isaac», e Isaac obbedisce. E colpisce Hyoga con la punta del piede destro. Una spazzata laterale che lo prende al fianco e lo fa cadere – lo fa ruzzolare – qualche passo più in là.
 «Ti sei trattenuto.» È un rimprovero, quello di Camus. Che avanza verso Hyoga, gli si inginocchia di fronte, e gli dice: «Non conta essere maschi o essere femmine. In battaglia conta essere più forti del tuo avversario. E a volte si è più forti con l’agilità, che con i pugni. Chi è massiccio è anche lento. E nel tempo che lui impiega per sferrare un solo calcio, tu puoi mitragliarlo di colpi. Fanno più male dieci calci consecutivi di uno ben piazzato. Perché non sempre spezzi le ossa al primo tentativo. Anzi…».
Quindi Camus si rialza e torna da Isaac.
«Lasciando da parte l’origine storica, spiegagli
perché vi faccio combattere sulla punta dei piedi. Come foste delle ballerine
Isaac sa che Camus l’ha fatto apposta. Per prendersi una rivincita su quell’allievo che gli ha dato, nemmeno poi tanto implicitamente, della femminuccia.
«Perché siamo più leggeri, così.»
«E?»
«E perché se dobbiamo essere imbattibili sul ghiaccio, dobbiamo sapere combattere in posizione svantaggiata su neve e ghiaccio. In punta di piedi.»
«Come se?»
«Come se avessimo il suono dei flauti nelle orecchie.»



«Corri! Non fermarti per nessuna ragione al mondo!»
«No. Dobbiamo combattere!»
«No. È quello che vuole il nemico!»
Il vento attorno a loro fischiava come se piovessero pallottole. Non erano Ichi e Nachi. Non stavano facendo un po’ di teatro, come aveva pensato all’inizio. Era qualcun altro, armato delle peggiori intenzioni possibili. Li stavano inseguendo. E avevano iniziato a mitragliarli con colpi sempre più ravvicinati. Non avevano intenzione di ucciderli, non subito, almeno. Giocavano, come un gatto che si trastulla con un topolino di pezza. Rimpallandoselo tra le zampe per poi lasciarlo a terra. Aspettando un suo movimento, uno qualsiasi, per ricominciare a divertirsi con lui.
Hyoga non si sentiva un topolino. Hyoga era il Cigno. Ed un cigno avrebbe avuto ragione del più grassoccio dei gatti con una bella beccata data come si deve. Un colpo sulla testa, per far prendere aria alla segatura, come avrebbe detto Camus.
Eppure correva. Obbediva. Era quello il piano, no? Stare agli ordini per vedere come si sarebbe evoluta la faccenda. Per scoprire quali carte avesse in mano quest’invasata caduta dal cielo come una tegola verniciata d’oro. I ragazzi dovevano trovarsi a poca distanza. Se si fossero fermati, avrebbero preso il nemico tra due fuochi. Una bella manovra a tenaglia. Avrebbero solo dovuto resistere. E allora perché correre via?
«Io dico che dobbiamo combattere. Potrebbe essere l’occasione per…»
«Chiedere lumi?»
«Sì.»
«E tu ti fideresti del nemico?»
Un colpo sollevò un metro di neve fresca vicino ai loro piedi. Troppo vicino. Per i gusti di entrambi. Hyoga si pose davanti a lei. «Non credo potremo scappare in eterno.»
«Io no. Tu sì.»
«Non esiste. Non lascio sola una donna…»
«Una donna?» Gli afferrò una ciocca di capelli e tirò. Verso di sé. Hyoga reclinò la testa all’indietro, esponendo il collo al soffio del vento. Lei avvicinò la bocca al suo orecchio quindi sussurrò: «Non sono una donna. Sono un Santo di Athena. Come te. Non ti conviene fare due volte quest’errore, bel faccino.»
Tirò ancora, e Hyoga sentì il cuoio capelluto protestare con scariche di dolore. Come di aghi piantati sottopelle. Quindi lo lasciò andare e si pose davanti a lui.
«Corri.»
«Scordatelo! Resto a darti una mano!»
Lei stese il braccio destro per impedirgli di superarla. «Corri, ho detto. Vai a nord e non voltarti indietro.»
«A nord? Ma l’aereo…»
«Sono dei civili. Non possiamo rischiare che catturino anche loro», replicò lei. «Se colpissero l’aereo? Ci hai pensato?»
«Quindi che facciamo?»
«Continua a correre. Io me ne porto dietro il più possibile. Poi ti raggiungo.» Hyoga esitò. «Tranquillo. Avviso io gli altri.»
«Gli altri?»
«Come giocatore di poker fai schifo. Lasciatelo dire.» Indietreggiò, e un altro colpo si conficcò a poca distanza da loro, sollevando un altro sbuffo di neve. «So che ci stanno seguendo. Sareste stati dei cretini a non farlo.»
Piegò il busto in avanti, il braccio sinistro a coprire il cuore e la milza, ed il destro pronto a colpire. La prima posizione. Quella dell’oplita.
«Vai. Non fermarti per nessuna ragione al mondo. E cerca di non farti ammazzare!», gridò lei, prima di scattare in avanti, lanciandosi contro il nemico come un masso scagliato da una catapulta. Hyoga la vide sparire tra cumuli di neve fresca sollevata da terra. Poi iniziarono le grida.


«Balder… pardon, il Sommo Dolvar non è un problema. Ma non fidarti di Midgard, mio signore.»
Ullr guarda dritto davanti a sé, come se gli stesse mostrando solo i camminamenti di pietra di Asgard e non i nemici della loro causa. Il vento soffia gelido sulle loro teste, incanalandosi nelle gole rocciose. Lukas segue il piccoletto cercando di ignorare quel suono spettrale che sta chiamando il suo nome. Con la voce di suo padre. Con la voce di Torsten.

«Perché?»
È una domanda logica e lecita. Se non ci si può fidare di qualcuno, deve esserci un motivo. Uno serio, o Ullr non gliel’avrebbe additato. Avrebbe sottinteso, insinuato, omesso. Indicandoglielo, è come se avesse tracciato una riga sulla fronte di Midgard. Con un evidenziatore giallo sole.

«Non è dei nostri», e se Ullr intenda l’appartenenza ad Asgard o alla causa, non è chiaro. Non ancora.
«Non è dei nostri?»
Ullr si ferma al limite estremo dei camminamenti. Il vento soffia sulla vallata e sui loro colli di pelliccia, ma c’è uno sprazzo di sole e di calore su quelle pietre grigie. Un posto ideale per fermarsi e mostrare al nuovo venuto – Loki, come l’ha battezzato il Sommo Dolvar –i confini settentrionali del regno con ampi gesti. E fare quattro chiacchiere, al riparo da orecchie indiscrete.

«Sai perché Midgard indossa sempre la maschera?»
«Una ferita di guerra?»
Ullr ride sotto i baffi. Poi scuote la testa e fissa uno sperone di roccia simile ad un dente aguzzo. Come quello di un lupo.
«Niente di tutto ciò. Non è né menomato, né incredibilmente brutto. » Pausa. «Midgard indossa la maschera per un voto.»
«Un voto?»
Esiste ancora gente che pronuncia i voti?, si chiede, affascinato dallo sperone di roccia che si staglia verso l’altro. Come a voler azzannare le nuvole. «Come si chiama quella roccia? Ha un nome?»
«Non proprio. Noi lo chiamiamo Dente del Lupo.»
«Dente del Lupo» Lukas si lascia scivolare quelle parole sulla punta della lingua. Le assapora. Sanno di terra e sangue. Gli piacciono. Annuisce. «Parlavi di un voto, giusto?»
«Qualcosa del genere.»


Ullr ama la teatralità. I discorsi sibillini. Il detto ed il non detto che si annidano nelle ombre delle parole stesse. Il problema è il suo pubblico. Lukas non è un rozzo montanaro che puoi abbagliare con un paio di paroloni altisonanti, o due frasi gettate via con distrazione ed il peso della rivelazione incredibile che si nasconde dietro la prossima virgola. Frasi fatte. Sospensioni sceniche. Trucchetti che con lui non attaccano. Che non possono attaccare, perché Lukas ha visto l’originale all’opera. E per quanto Ullr sia bravo a tenere viva l’attenzione su di sé, e possa vantare una presenza scenica impressionante a dispetto della bassa statura, non è che un pallido riflesso. E nessuno potrebbe mai paragonare il freddo bagliore della Luna con l’abbagliante splendore del Sole, giusto?

«Raccontami tutto.» Possibilmente senza troppi giri di parole, ché qui si gela.
«È arrivato all’alba di una mattina di primavera. Ha bussato alle porte di Asgard e noi l’abbiamo accolto. È stato Balder. Suo padre era sul letto di morte, o quello straniero non sarebbe mai entrato qui. Non avrebbe mai corrotto la nostra città.»
Lukas tace. Tace perché c’è una solenne beffa nella sua situazione. Non c’è nessuno più asgardiano di lui – sua padre non è forse un dio? Sua madre non era forse una principessa di sangue reale? – eppure agli occhi di quella gente è lui, lo straniero. Quello accolto –
sottratto – da Vanheim come bottino di guerra. Un cavallo di Troia.
«E?»
Ullr prende una pausa ad effetto. Poi continua a raccontare: «Devi sapere, mio signore, che siamo un popolo pacifico.»
«Pacifico?»
«Sulla carta, s’intende», ed il sorriso di Ullr scintilla come una tagliola nell’erba. «Accogliamo chiunque decida di lasciarsi alle spalle la sua vecchia vita, ma siamo nemici giurati degli assassini e dei ladri. Vedi quello?» Gli indica una sorta di pendio scosceso, qualche metro più in basso del Dente del Lupo. È irto di sassi aguzzi e pietre taglienti. Dev’essere scivolosissimo. Il luogo ideale da cui far cadere bambini malformati o vecchi malandati.
«È il sentiero di sangue», continua Ullr. «Lì è dove eseguiamo le condanne. A chi ruba, viene tagliata una mano nella pubblica piazza. A chi uccide, spetta quello», ed indica il sentiero con un gesto distratto della spalla.
«Quindi?», domanda Lukas, che si sta perdendo dietro tutte quelle ellissi e quei salti logici.
«Quando è arrivato, Midgard era impiastricciato di sangue e fango fin sopra alle orecchie. Ha detto che non era suo. Che si era difeso. Che i parenti della sua donna si erano messi in mezzo. E che l’avrebbero ucciso, se non si fosse difeso.»
«E Balder gli ha creduto?»
«E Balder gli ha creduto», replica Ullr, incrociando le braccia sul parapetto di pietra. «Così lo abbiamo accolto e lui si è buttato alle spalle la sua vecchia vita.»
«Come siamo magnanimi», commenta Lukas, lo sguardo incollato al Dente del Lupo.
«Non proprio.» Ullr sorride. Come un bravo attore che regge uno spettacolo intero sulle proprie spalle. «Abbiamo inviato qualcuno a controllare che vi fosse una corrispondenza tra le parole di Midgard e la realtà. Abbiamo trovato la ragazza e lei ha confermato le sue parole.»
«E che sarebbe successo nel caso in cui…»
«Quello.» E Ullr gli indica il Sentiero.
Lukas annuisce. «Hai ancora l’indirizzo della ragazza?»
Ullr lo guarda come se lo vedesse per la prima volta. «Mio signore?»
«Hai ancora l’indirizzo della ragazza?», ripete. Simulando una calma che non prova.
«Sì. Ha sposato un altro, ma vive ancora nello stesso villaggio. Credo.»
«
Credo non è abbastanza», e Lukas tamburella le dita sulla pietra grigia. «Manda qualcuno di fidato a controllare. Che la tengano d’occhio. Intesi?»
«Intesi, mio signore. Ma posso chiederti perché tanto accanimento? Abbiamo tante bellissime donne pronte a…»
Lukas alza una mano, come a chiedere silenzio. Lo sa. Ci sono bellissime ragazze dalla pelle di neve e i capelli color dell’oro zecchino tra quelle vecchie mura di pietra. Alcune, le puttane di corte, le ha già conosciute. Altre, le seguaci del culto, aspettano solo di poterglisi avvicinare. Ma è la piccola, tenera e fresca Freya, quella che lui vorrebbe trovare tra le lenzuola. È lei la principessa reale. Quella che gli sarebbe spettata di diritto se solo Torsten non fosse accidentalmente morto.
«Lo so. Ci sono moltissimi frutti in questo giardino. Ma sai come si dice?
Servo d'altri si fa, chi dice il suo segreto a chi nol sa.»


«E questo è quanto.»
Milo osservava il proprio alluce sinistro sgocciolare sul pavimento. Non entrava nella tinozza. Si era dovuto sedere nell’acqua calda fino alla vita, le ginocchia piegate e le caviglie incrociate, e adesso non ne poteva più. Aveva allungato le gambe sul bordo ed era scivolato dentro l’acqua fino al petto, le mani che sfioravano il pavimento. Non si era sentito così bene da giorni.
Di spalle, Kanon affettava pomodori ascoltando il suo racconto. Non poteva vedere l’espressione del viso del suo ospite, ma la rigidità delle spalle gli suggeriva che quello che aveva sentito non gli era piaciuto. Nemmeno un po’. Il corpo non mente, diceva Aristoteles, ma Milo si chiedeva se per caso Kanon non costituisse l’eccezione alla regola.
Attese qualche minuto, osservando con aria distratta la trina che il sapone aveva formato sulla superficie dell’acqua, poi gli chiese: «Commenti?».
Kanon posò il coltello. Azionò la pompa un paio di volte e si sciacquò le mani.
«Vuoi il parere del mastermind o del», Santo, «guerriero?»

Kanon sapeva di non potersi considerare un Santo a tutti gli effetti. Non era stato ordinato, lui. Non aveva giurato sulla statua di Athena. Era solo stato perdonato dalla dea, ma Milo – e forse anche gli altri – avrebbero voluto qualcosa di più solenne di una pacca sulla spalla ed un cazziatone amichevole. L’Espiazione. Un percorso che l’avrebbe ricondotto allo status di Santo con lentezza. E difficoltà. Molte difficoltà. E Kanon non sapeva ancora se desiderava essere un Santo. Da ragazzino, voleva l’armatura dei Gemelli, ma per toglierla a Vasilios. Per essere lui a primeggiare sul fratello. Almeno per una volta nella vita. Ma adesso che Vasilios non c’era più, adesso che non era più un ragazzino dispettoso dal cervello sempre in movimento, la faccenda assumeva tutt’altro aspetto. Tutt’altro sapore. Quello della saccarina, quando il dolce è passato e sale a galla l’amaro. E il possesso dell’armatura era qualcosa di più del poter sfoggiare un gagliardetto sulla giacca e sfilare tra la folla per attirarsi gli sguardi delle belle ragazze. L’aveva fatto, da ragazzino. Approfittando di un momento di distrazione di suo fratello. Non se n’era accorto nessuno. E l’armatura si era lasciata indossare da lui. Forse stavolta potrebbe avere qualcosa da ridire, pensò Kanon, asciugandosi le mani su uno strofinaccio liso.

«Entrambe. Quella del manipolatore e quella del guerriero», ribatté Milo. Come da copione.
Kanon prese il pane e lo strizzò. Lo spezzettò nella ciotola che conteneva i pomodori, quindi prese delle olive e le face sgocciolare dalla salamoia.
«C’è una cosa che non mi torna. Come un meccanismo che gira a vuoto.»
«Quale?»
«Il sicario. Perché diamine l’hanno uccisa?»
«Perché sapeva troppo», ribatté Milo.
«Giusto. E se stessimo parlando di un malvivente qualsiasi, anche io la chiuderei qui. Il sicario è bruciato. Meglio toglierlo di mezzo. Ma non abbiamo a che fare con un’organizzazione criminale, di quelle saltate fuori dai romanzi o dagli sceneggiati televisivi.»
«Per la cameriera, vero?»
«Per la cameriera e per l’hostess. Qui abbiamo a che fare con un dio.»
«Quale?»
«Non lo so. Ed è questo che non mi torna. L’ingranaggio che gira a vuoto.»
«Spiegati meglio.»
Kanon versò l’olio d’oliva sui pomodori e aggiunse una presa generosa di sale. Spezzettò un paio di foglie di basilico e coprì l’insalatiera.
«Agli dei piace farsi riconoscere.»

La semplicità con cui Kanon diede corpo a quella frase lasciò Milo spiazzato. È vero, pensò lo Scorpione, stornando lo sguardo dalla schiena dell’altro e portandolo sull’acqua saponata che nascondeva il suo corpo. E lo lasciava tuttavia esposto. Agli dei piace farsi riconoscere. Piace sentire il proprio nome rimbalzare nell’aria. E vedere l’effetto che produce sui visi del proprio pubblico. Ma stavolta nessuno si era preoccupato di fare le relative presentazioni. Anzi. Si giocava a nascondino dietro cortine di fumo sempre più spesso e denso. Per non farsi riconoscere. Come una seppia che tenta la fuga, lasciando dietro di sé solo una nuvola nera.

«Quindi, mi stai dicendo che se non abbiamo a che fare con una divinità, cosa della quale dubito profondamente…»
«Abbiamo a che fare con qualcuno che non gradisce rivelare il proprio nome. O le proprie intenzioni. E che non vuole passare come un dio. Altrimenti avrebbe inviato un suo sottoposto e fine della questione. Invece no. Invece si prende la briga di assoldare un sicario e il disturbo di farlo fuori quando non gli serve più. Questa è la stranezza. È come se non ce ne fosse bisogno, capisci? Come se fosse tutto esplicito. Chiaro. Lampante. E fossimo noi a non rendercene conto.»
«Mi sembra di girare a vuoto in un labirinto.» Milo reclinò la testa all’indietro e si portò le mani a coprirsi gli occhi.
«Perché agli occhi degli dei siamo topi nel labirinto», disse Kanon, avvicinandosi all’uscio. Lo aprì e si appoggiò allo stipite per osservare il cielo e le nuvole rapide che si andavano tingendo di rosa.
«Anche agli occhi di Athena?», si sentì chiedere. Non si voltò. Infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e tacque. Sì, anche agli occhi di Athena, pensò. Con la differenza che abbiamo deciso di entrare nel suo labirinto di nostra sponte.
«Esci dalla vasca», disse invece. «E asciugati. Si cena tra poco.»
«Non hai risposto alla mia domanda», gli fece notare Milo. Immobile nell’acqua, un’espressione di sfida a colorargli lo sguardo.
«C’è tempo. Non c’è molto da fare, quaggiù, se non conversare. O leggere, ma dubito che ti piaccia quello che piace a me. Non dirmi che hai intenzione di passare la serata in silenzio?»
«Potrebbe essere un’idea.»
«Un’idea cretina», ribatté Kanon. «Dobbiamo parlare. Ed analizzare tutte le sfumature possibili dell’altra faccenda. E dobbiamo farlo stasera. Lontano da occhi ed orecchie indiscreti. Stavros è un povero diavolo. Ma meno sa e meglio sarà per tutti quanti.»


«Tua sorella mi ha detto che dovevi parlarmi.»

Lo chiamano il Guardiano perché osserva il mondo coi suoi occhi. Nulla sfugge al suo sguardo di stella che si posa su valli, monti, pianure e sulle strade percorse dagli uomini e dalle balene, o al suo orecchio, che sente l’erba crescere a leghe di distanza. E vede. Dalla marachella del bambino ai danni della maestra – e della povera rana grassoccia che si ritroverà a breve chiusa nel cassetto – ai peccati più seri degli adulti, che ammazzano, mentono e rubano come se bevessero idromele da ampi corni orlati di schiuma.
E ascolta. Le promesse sussurrate al chiaro di luna ed il piano derelitto dei banditi. Nessun male sfugge alla sua ronda. È un parte di un giuramento che ha sentito qualche tempo fa – giorni? Ore? Minuti? Cosa cambia, quando davanti a te hai l’eternità?! – e gli è piaciuto. Era il gioco di due bambini ed un anello trovato nelle patatine, ma quelle parole hanno risuonato di solennità e fede alle sue orecchie e al Guardiano sono piaciute. Così come gli è piaciuto qualcos’altro.


«Ti ho mandato a chiamare perché il Viandante è in viaggio per le Terre degli Uomini.»

Il Viandante non gli ha chiesto di tenere d’occhio il Fuoco. Non ce n’è stato bisogno. «Vado», ha detto, prima di incamminarsi sul Ponte, e il Guardiano in quell’unica parola ha visto e sentito quanto c’era da vedere e sentire. E anche se il Viandante non avesse fiatato, lui avrebbe controllato lo stesso le azioni di quello scellerato del Fuoco. Che crede di non essere visto. Dimenticandosi di quel sottile filo di fumo che si alza leggero leggero, a segnalare che qualcosa non va, prima che divampi l’incendio.

Al Guardiano non piace il Fuoco. Perché quello che ha sulla lingua non corrisponde a quanto ha nel cuore. Perché è cattivo, meschino ed invidioso. Perché il Guardiano
sa. Sua sorella, l’Acqua, gli ha confermato le sue visioni. Lui ucciderà il Fuoco ed il Fuoco ucciderà lui, quando calerà il Crepuscolo. E il Guardiano non poteva chiedere di meglio. Fosse stato per lui, il Fuoco non avrebbe mai e poi mai messo piede nel Recinto. Ma il Viandante pensa che è bene tenersi stretti gli amici ed ancor più stretti i nemici. Ed un male necessario può rivelarsi un vantaggio da tenere ben saldo tra le mani per sottrarlo al nemico, almeno fin quando non cambia il vento.
Ma il Guardiano ha visto. Qualcosa non va. Stavolta il Fuoco s’è spinto troppo oltre, anche per i gusti del Viandante – o non gli avrebbe mai chiesto di controllare le mosse dello
jǫtunn – ed è bene che qualcuno lo fermi. Prima che sia troppo tardi. E quel qualcuno non può che essere lui. Il Tuono. Il figlio prediletto del Viandante.

«È cosa grave?»
«Nulla per cui suonare
Gjallarhorn. Ma sappi, o principe, che sta accadendo qualcosa, su Midgard. Qualcosa di cui è bene che tu sia informato.»

Il Tuono aggrotta le sopracciglia. Un’espressione arcigna e burbera simile a quella di suo padre, ma più pericolosa. Perché il Tuono ancora non conosce il senso della misura. Ancora non sa limitare le sue emozioni, come il cuore di un bambino che passa in un battito di ciglia dall’odio più feroce all’amore più incondizionato. Se il Guardiano conosce il Viandante come crede – e lo conosce bene – è tutto organizzato. Serve qualcosa di serio. Una minaccia che sia percepita come tale e che induca il Tuono a comportarsi come un uomo e non come un ragazzo con un accenno di peluria sul volto. E c’è lo zampino del Fuoco. Su richiesta del Viandante, ché è a lui che il Tuono deve dimostrare di essere cresciuto. Ma il Fuoco ha la brutta abitudine di strafare, nella migliore delle ipotesi. Come in questo caso. Il Guardiano dubita che il Viandante gli abbia concesso un sì ampio spazio di manovra. Sarebbe da irresponsabili. Da incoscienti. Da folli. Stanno per soffiare venti di guerra su Midgard. Uno scontro tra divinità. Una variabile imprevista che potrebbe assottigliare entrambi gli schieramenti. Sangue divino a ruscellare su Midgard. Sangue di Asi. Sangue di Olimpi.
Il Guardiano sospira, ché a volte il Viandante non riesce ad imbrigliare la sua natura. A volte si annoia, nelle alte sale del suo palazzo. A volte vuole sentire il sangue scorrergli ruggente nelle vene, un pallido riflesso della sua gioventù, quando il mondo era ancora ingenuo e puro.


«È lui?»
«Sì, mio principe. Si tratta del Fuoco.»

 
«Il registro anagrafico?»
Lois sbatté le palpebre. In piedi, come una scolaretta davanti alla commissione d’esame, si sentì d’un tratto molto stupida. Aveva preparato il caffè. Lo aveva versato nelle tazzine di porcellana bianca, ognuna accomodata sul suo piattino, e aveva sistemato tutto su un piccolo vassoio coi manici in argento. Mancava solo la zuccheriera, ma quella l’aspettava sul tavolo. Non c’entrava. Chissà perché non c’è mai posto per una zuccheriera sui vassoio dei tête-à-tête, si domandò prima di sbattere le ciglia un’altra volta.
«Ho capito bene?»
«Hai capito benissimo.»

Marin dell’Aquila l’osservava seduta sulla sedia della sua cucina come se si fosse accomodata su una poltrona di velluto rosso. Aveva le gambe accavallate e la sua maschera d’argento aveva la stessa espressione indecifrabile che la mandava in bestia. Potrebbe anche togliersela. In fondo, siamo tra donne!, pensò Lois, posando il vassoio sul tavolo e distribuendo le tazzine.
Lois non conosceva la sua ospite se non per sentito dire. Il suo nome era rimbalzato tra i corridoi del Santuario non appena il suo allievo, Seiya, aveva conquistato la corazza di Pegaso. Un giapponese aveva vinto un’armatura greca. «Inconcepibile! Avrà usato qualche trucco!», mormoravano scandalizzati. Lois non vedeva cosa ci fosse di strano. Il Santo dei Pesci non veniva forse dalla Svezia? E quello del Cancro non era italiano? Per non parlare del Toro, che arrivava da una fazenda di caffè e della Vergine, anche se nel caso di Shaka lei stessa aveva faticato a credere che un ragazzo alto, biondo e chiaro come la luna arrivasse dall’India misteriosa. Era rimasta delusa, quando gliel’avevano additato. Lei s’immaginava tutt’altro. Un bel principe dalla pelle scura che profumava di sandalo e gli occhi messi in evidenza da una sottile linea di kajal, ad esempio.

«Grazie», disse Marin, accettando la tazzina e riportando l’attenzione di Lois su di sé. Si raccontavano molte storie sul Santo dell’Aquila, ma lei non aveva mai avuto modo di osservarla da vicino. Era una persona normale, a dispetto delle voci che la ritraevano come brutta, sgraziata e deforme. Coi capelli di stoppa e le gambe storte, come ridacchiavano tra loro i soldati che facevano la guardia alla Biblioteca.
Nella sua ingenuità, Lois si chiedeva come avesse fatto un simile mostriciattolo ad accaparrarsi un fusto come il Santo del Leone, motivo delle chiacchiere delle Attendenti e del resto delle ancelle del Santuario circa la guerriera dai capelli rossi. Un patto col diavolo, sicuramente, avevano concordato prima di tornare ognuna ai propri compiti, ma a vedersela adesso, seduta al tavolo della sua cucina mentre si rigirava una tazzina di caffè rovente tra le dita, Lois suppose che sotto quella maschera si celasse il viso di uno schianto di ragazza.
Certa gente ha tutte le fortune, pensò. Il Leone era vivo. Il Leone ricambiava i sentimenti di questa Marin, a detta delle voci, e si sa, vox populi, vox Dei. Non sempre, ovvio; ma spesso e volentieri, sì.

Lois si accomodò e porse la zuccheriera alla sua ospite. «Quanto zucchero? Uno?»
Marin sembrò guardarla dubbiosa. Poi annuì, e le versò un cucchiaino raso.
«Perché vuoi sapere del registro anagrafico?», chiese Lois. Fissando lo sguardo inespressivo della maschera di Marin.
«Per una missione che mi ha affidato la dea Athena.»
«Ma il cosmo della dea non è svanito?», chiese Lois.
«E tu cosa ne sai?»
«Non si fa che parlare d’altro. Le notizie volano e anche chi è agli arresti domiciliari come me viene a sapere certe cose…»
«Capisco.» Pausa. «Ho bisogno di sapere se c’è un registro anagrafico. Qualcosa. Athena mi ha chiesto di cercarle una persona e…»
«E suppongo non c’entri nulla con i diari spariti, vero? Quelli che mi accusate di avere trafugato, dico…»

Sotto la maschera, Marin si morse le labbra. Lois non era stupida. Era stata ingenua, forse, e viveva nel suo mondo a tinte rosa acceso, ma il suo cervello lavorava nel modo giusto. La domanda era: quanto poteva fidarsi di lei? Marin decise di provare il tutto per tutto.
«Perché stiamo provando a mettere assieme i pezzi del puzzle», rispose l’Aquila, con semplicità. Lois non le era sembrata sulla difensiva. Timida, forse, ché non capita tutti i giorni di ricevere un Santo d’Argento a casa tua. Ma la sua reticenza era da imputare a questo, più che all’accusa che le pendeva sulla testa. Accusa di cui sembrava prontissima a parlare. Per dare la sua versione dei fatti. Per cercare qualcuno che l’ascoltasse. E che le credesse. Era una ragazza gentile in un mondo che mangia e fotte, tutto qui.
Forse la riteneva meno pericolosa di Shaina. Meno autoritaria. Sotto la maschera, Marin sorrise. Shaina passava per quella che urlava e strillava, pronta ad ottenere a suon di ceffoni quello che voleva. Chi mena per primo, mena due volte, ma Marin era di tutt’altro avviso. Chi grida, chi alza la voce è come una rana che si gonfia per sembrare più grossa agli occhi del bue che rumina placido lì accanto. Peccato che alla fine della storia la rana scoppi, si disse l’Aquila, che sarebbe ben presto rimasta senza voce se avesse gridato ogni qual volta che Seiya ne combinava una delle sue.

«Quindi, la storia della persona scomparsa era una frottola?»
«Assolutamente no.»
Lois non parve crederle. Marin sospirò e si tolse la maschera.
«Scusami. Ma quest’affare è scomodissimo. E non vorrei che il caffè si freddi…»
«Figurati. Siamo tra donne», disse Lois. E sì, quella Marin era davvero uno schianto di ragazza. Il Leone aveva scelto bene. E chi la dipingeva come un mostro con il viso messo insieme con la sparachiodi, parlava per invidia. Pura e semplice.
«Grazie», e Marin diede una prima sorsata al suo caffè.
Squisito.
«Ne avevo bisogno», si lasciò sfuggire. Doveva farsi passare per una persona innocua. Si prendono più mosche col miele che con l’aceto, giusto? L’Aquila riportò il suo sguardo sincero su Lois. «Non te lo chiederei se non fosse davvero importante, Lois. Esiste un registro anagrafico del Santuario?»
Lois tamburellò le dita sulla tovaglia.
«Sì. Qualcosa del genere c’è. Ma è scritto a mano. Dal Sommo Sion in persona.»
«Qualcosa per cui serve un occhio esperto, suppongo.»
«Supponi bene.»
«Ho bisogno del tuo aiuto, Lois.»
«E perché mai? Perché so leggere la grafia del Sommo Sion?»
«Perché tu sai raccapezzarti meglio di me in mezzo alle scartoffie.»
Lois sorrise e sorseggiò il suo caffè. «Vero. Verissimo. Sono l’unica che può aiutarvi. Oddio, ci sarebbe anche Apostolos, ma pare sia diventato uccel di bosco. Era il mio superiore, sai? Lo hanno taaanto voluto ed ecco il risultato. E prima che tu pensi che io l’abbia fatto fuori, no, non è andata così. Ho sognato di farlo, lo ammetto. Tante e tante volte. Ma tra il dire ed il fare, c’è di mezzo il mare. Ma c’è un problema.»
«Quale?»
«Una cosetta chiamata orgoglio», rispose Lois posando la tazzina sul piattino. «Il mio. Prima mi accusate di aver rubato dei documenti e adesso mi chiedete di aiutarvi?»
«È un modo per riabilitare il tuo nome», disse Marin.
«E non potrei depistare le indagini? Si dice così, giusto? Depistare
«Credo si dica così, sì. Potresti insabbiare tutto, è vero. Ma voglio fidarmi di te.»
«E perché mai? Sentiamo?»
Marin prese fiato e strinse le labbra. Devi giocarti il tutto per tutto. E devi farlo adesso.
«Sarò sincera, Lois. Potrei fregarmene di te e andare io stessa a cercare quel documento in mezzo a quella bolgia infernale che è la Biblioteca. Ci sono stata. L’ho vista. Ed ho capito che non ce l’avrei mai fatta. Senza di te ci metteremmo dei mesi. Con te sarebbe robetta di poco. Uno o due giorni al massimo. Senza contare che noi potremmo fare dei grossi danni, lì dentro. Alcuni manoscritti potrebbero andare accidentalmente persi. E io non credo che questo ti farebbe piacere.»
Aveva calcato la mano, è vero. Aveva bluffato. Ma doveva colpirla sul vivo. Era una bibliotecaria. Una bibliotecaria che amava il suo lavoro, giusto?
Il viso di Lois si irrigidì, ma niente di più.
«Francamente, me ne infischio», disse.
Sì. E domani è un altro giorno, pensò Marin. Scosse il capo. E si preparò alla stoccata finale. «Pensavo che una donna innamorata del Santo del Capricorno fosse migliore di così…»
Il viso di Lois divenne livido di rabbia. Strinse i pungi e si alzò in piedi, come se la sua sedia avesse preso a scottare all’improvviso. «Chi te l’ha detto?»
«Nessuno», rispose Marin. «Ma a casa tua sono stati ritrovati soltanto i resoconti di Shura…»
«Non chamarlo così!»
«…e io sono una donna, Lois. Una donna che sa cosa significa amare un Santo d’Oro. Che sa quanto possa essere dura, certe volte. Quanto sia difficile essere alla loro altezza. Ecco perché sono venuta a parlare con te. Pensavo potessimo trovare un punto di contatto. Capirci. Mi sono sbagliata», e la maschera di Marin  tornò al suo posto.
«E immagino che adesso la mia posizione si complicherà, giusto?»
«Non ne ho idea», disse Marin. «Ti ho porto una mano. Tu l’hai rifiutata. Chi pensi che ti aiuterà, adesso, Lois? Shura? Sono sicura che lui l’avrebbe fatto. Ma lui non può.»
«Lo so da me!», e Lois sbatté i pugni sul tavolo, gli occhi arrossati.
La ceramica protestò. Aveva comprato quel tête-à-tête pensando a lui. Aveva linee pulite, essenziali. L’unico vezzo era l’impugnatura delle tazzine, una greca d’acciaio che abbracciava la porcellana a mezza altezza e che proseguiva poi nei manici. Gli sarebbero piaciute. Aveva in mente di usarle per portargli il caffè a letto, la mattina. Sarebbe stato il loro piccolo rito mattutino. La vita era ingiusta. Dannatamente ingiusta, pensò, asciugandosi le lacrime. Non voleva farsi vedere in quello stato. Non da lei.
«Ma se vi aiuto, che succede?»
«Ci sarà comunque un processo a tuo carico. Ma la tua collaborazione potrebbe alleggerire di molto la tua situazione.»
«Degradata ad usciere, ma non sbattuta fuori?», domandò Lois, mormorando.
«Non posso sbilanciarmi. Ti farei una promessa che non potrei mantenere. Pensaci, Lois. Io tornerò qui tra un’ora.»
«Un’ora?»
«Un’ora. Grazie per il caffè. Era squisito», disse, scostando la sedia ed uscendo dalla cucina, lasciando Lois a tenersi la testa tra le mani.


«Sono rossi!!»
Si porta le mani alla bocca, spalancata in una O di stupore, disperazione, smarrimento. E ha ragione. I suoi capelli sono di un bel rosso acceso. Che le sta anche bene, a volerla dire tutta. Ma non si aspettavano quel risultato così prodigioso. Nessuna delle due.
«Hai visto?! Sono
rossi
Lo vedo, vorrebbe dirle. Ma tace e si avvicina. Le scompiglia i capelli umidi, dando un’occhiata al cuoio capelluto. «Hai rispettato le proporzioni?»
«Certo che sì!», e la velocità con cui le fornisce questa risposta sta a significare l’esatto contrario. «Ho seguito le indicazioni che
tu mi hai dato. Mi sono fidata. E guarda tu che risultato!»
«Si vede che hai una base rossa», ribatte, osservandole i capelli in controluce. L’henné ha preso benissimo.
Forse anche troppo, si dice. Chiedendole:«E lo yogurt? Ne hai messo quanto te ne ho detto?».
«Certo che sì!»
«Sicura? Non è che per caso nei hai messo una cucchiaiata di meno...», 
perché te la sei infilata in bocca?
«Sicura. Ne ho messo un vasetto intero.»
«Di quelli piccoli?»
«Di quelli
medi. Da duecentocinquanta grammi.»
Adesso capisco tutto, si dice, abbandonando la ciocca di capelli e portandosi le mani sui fianchi. «Tranquilla. Basteranno un paio di lavaggi e il colore si assesterà.»
«Tranquilla un corno! Come faccio ad uscire di casa?!»
«Piove», ribatte lei, indicando la finestra alle sue spalle. «Dove vuoi andare con un tempaccio del genere?»
«Lontano da te!»
Un sospiro. Le spalle che si sollevano. Le mostra i palmi delle mani. Un gesto che le dice che non ha niente da nascondere. Come le ha insegnato Lui. «Ragioniamoci su. Vuoi?»
«Non c’è niente di cui ragionare! Ci sono solo io con i capelli rosso Ferrari!»
«Vero. Ma pensaci. Non è un bene, questo?»
«No che non lo è. Non lo è sotto ogni punto di vista.»
«Sbagli. Con quel colore di capelli sarà difficile che ti riconoscano. Perché è
particolare
«
Particolare a casa mia significa strambo.»
«Lui aveva i capelli rossi?»
«Lui, chi?»
«Lo sai chi.
Etié
«
Etienne. No, li aveva scuri. Era Rémy ad averli rossi… ma non così…»
Lo dicevo, io, pensa. Trattenendo un sospiro. «Suppongo che chi conosceva questo Rémy sia oramai tra i più. E anche se fosse, tu non assomigli a vostra madre?»
«Così diceva Etienne.»
«Prendiamolo per buono. Un colore del genere ti proteggerà. Non ti riconoscerà nessuno. E anche se fosse, dovrebbero avere delle prove, prima di puntare il dito.»
«A questo mondo prima si punta il dito e poi si forniscono le prove!»
«Vero. Ma se queste prove alla fine non ci sono chi ha puntato il dito passa per calunniatore.» Pausa. «E queste prove non ci sono, vero? Non vi ha visto nessuno assieme, vero?»
«Chi ci ha visto assieme è morto.»
«Perfetto!», esclama. Meritandosi un’occhiataccia. «Fai conto di essere un agente segreto. Una specie di 007. Ti stai infiltrando. Ricordatelo. E se qualcuno dovesse fare domande, tu nega. Sempre.»
«La fai facile, tu.»
«Perché
è facile. Ti ricordo che siamo nella stessa barca. Quindi, non mi conviene fregarti. Ci hai pensato?» 
Ripesca nella memoria l’espressione del viso di lui, a metà tra la franchezza spudorata e la verità indifesa; una di quelle che avrebbero convinto un cane affamato a cedergli l’osso che stava rosicchiando. E infatti lei cede. Afferra un asciugamano e si dirige di gran carriera verso il bagno.
«Dove vai, adesso?», le chiede.
«A lavarmi i capelli. Voglio proprio vedere quanto scaricherà il colore!», e sparisce dietro la porta a vetri smerigliati. Lasciandola da sola, con un sorriso soddisfatto sulle labbra.

Adesso ci vuole proprio un bel tè come si deve, pensa. E non sarà un tè di Ceylon, ma pazienza. Se lo farà bastare. Perché anche il corpo ha delle necessità. E occorre assecondarle. O finirà per ammutinarsi. E ricongiungersi alla mente, seguendo il suo pianto. Meglio distrarlo, si dice, accendendo il fornello del gas. Non esce nulla. La bombola dev’essere vuota, pensa. Si stringe nelle spalle. Schiocca le dita ed il fuoco divampa allegro sotto al bollitore. Chi fa da sé, fa per tre.
 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Capitolo di passaggio. Dal prossimo cominciano i pestaggi furiosi. Promesso.

Gli opliti erano la fanteria dell'antica Grecia, base per la temibile falange macedone e per l'altrettanto tremenda legione romana. Non ho la più pallida idea di quale sia la corretta posizione delle braccia nelle arti marziali. È una mia licenza poetica, prendetela come tale. E sì, gli opliti spartani marciavano ordinati al suono dei flauti, nonstante la loro divinità tutelare fosse Ares. (Secondo voi quanti opliti salteranno fuori prossimamente? Si accettano scommesse!)

E mentre qui sta per scatenarsi l'ennesimo temporale estivo, io vado a farmi un caffè. Chi si unisce?

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Capitolo 21
*** 21. ***


21.




Il vento ha spazzato via le nuvole e adesso fa dondolare con dolcezza le fronde degli alberi, mentre le arriva il mormorio del mare, dolce, placido, tranquillo. Come una ninna nanna. La luna, tonda e gonfia in cielo, si stropiccia gli occhioni mentre il sole se ne sta andando ad illuminare altri giorni ed altre vite. Fotinê si attarda ancora per un istante ad osservare il panorama al tramonto, la Torre Bianca che spicca all’orizzonte, poi chiude bene la finestra e tira le tende.
Si affaccia sul lettino a controllare che i suoi due ometti dormano tranquilli. Sembrano due ballerini impegnati in una coreografia: lo stesso braccino alzato – il sinistro – la stessa gambina piegata – la destra – le labbra socchiuse nello stesso, identico modo. Solo i visi sono voltati in direzione opposta, come a guardare due sogni diversissimi tra di loro.
Non fate scherzi. Intesi?
È tutto pronto. Ha tolto lo specchio. Ha eliminato ogni oggetto metallico – ha bendato la maniglia della finestra con del nastro di velluto rosso. Ha scelto i nomi dei padrini, a dispetto di chi le consigliava di rivolgersi ai due Gemelli. Ha fede – una fede incrollabile – che l’ascolteranno, nonostante le vecchie beghe. Eppure, un’ansia sottile le serpeggia nello stomaco.

Cosa dovrebbe andare storto?, si chiede.
Nulla. Lei sarà all’ingresso, sul divano, un libro per compagnia e un piatto di pollo coi peperoni in grembo. Molte sue amiche pagherebbero oro per passare una notte intera senza il pianto o il lamento dei loro bambini; lei esita. Si è appena abituata ad avere attorno quei due gnomi, eppure è così difficile staccarsi da quel lettino bianco dalle sponde alte. Le mancano già. Ma l’orologio corre. Sbuccia i minuti con una velocità impressionante. Fra poco sarà buio. E se non si decide, perderà l’attimo e tanti saluti.

Forse sarebbe meglio, pensa. Dopo tutto, è il 1958. E quello che sta facendo è roba da isolani. Non sarebbe il caso di darci un taglio ed uscire da questo medioevo di superstizioni una volta per tutte, magari cominciando con loro? Sì. Però una strana paura l’assale. Una paura irrazionale.

E se succedesse qualcosa di male ai miei piccoli?

Le tremano le vene dei polsi. Lei è sola. E Ioannis non ci metterebbe molto a prendere un’altra donna che gli scaldi il letto e rassetti la casa, almeno fino a quando il mare non si prenderà lui, una volta o un’altra. E allora? Che succederebbe ai suoi piccoli, allora?
Una morsa gelata le serra lo stomaco. Stringe le labbra fino a farle diventare livide, poi si scuote. Meglio rimandare ad un’altra volta l’uscita dal medioevo. Fotinê sorride.
Andrà tutto bene, si dice, accarezzando le schiene dei suoi bambini. Andrà tutto bene.
Poi si fa forza. Dà un bacio sulla fronte ai suoi piccoli, rimbocca loro il lenzuolino, e controlla la stanza per l’ultima volta.
Poi esce, e si chiude la porta alle spalle.
Nella stanza calano il buio ed il silenzio più assoluto.

Per qualche minuto non succede nulla. Poi si va formando un leggero chiarore sopra il lettino, come una lucciola che cresce sempre di più, sempre di più fino a planare dolcemente sul pavimento. I bambini dormono. Non sembrano essersi accorti di nulla.
Tre mani scheletriche si avvicinano alle sponde. Le afferrano. Tre visi si affacciano dal buio e scrutano i due neonati. Sono tre donne. Hanno un’età indefinibile, e capelli d’argento che spuntano oltre l’orlo del cappuccio nero, e occhi dello stesso colore delle stelle.
Le tre donne si guardano. Poi insieme chiedono: «Chi parla per questi bambini?».
«Io.»
«È la Fanciulla a rispondere», dicono le donne, e dall’altra parte del letto avanza una figura femminile. L’egida sulle spalle, lancia e scudo impugnati e l’elmo a coprirle la fronte. Gli occhi scintillano dello stesso riverbero dell’acciaio. «E l’altro dov’è?», chiedono le tre donne in un’unica voce.
«Non c’è nessun altro», replica la Fanciulla. «Questi bambini mi appartengono.»
«La loro madre te ne ha affidato uno solo, questo qui», replicano le donne, indicando il bambino che dorme a sinistra. «L’altro appartiene al Mare.»
«Questi bambini mi appartengono», ripete la Fanciulla con semplicità.
Le tre donne si guardano perplesse. «Stai scherzando con il fuoco, Fanciulla», la ammoniscono.
«Ne sono consapevole, Sorelle. Ma è necessario che io parli per questo bambino perché il Mare non c’è. Il Mare non può intercedere per lui.»
«Il Mare potrebbe richiedertelo, un giorno o l’altro. Ne sei consapevole?»
«Sì.»
«E sei davvero disposta ad accettarlo?»
«Sì.»
Le Tre Sorelle si scambiano un altro lunghissimo sguardo. Poi quella al centro dischiude le labbra. «Così sia.» La donna alla sua destra tira fuori un fuso da sotto al mantello, una conocchia con un filo splendente e luminoso come l’oro liquido. Quella alla sua sinistra, invece, le mostra un paio di forbici del colore della notte.
«Ascolta, Fanciulla. Con il cuore e con la mente.»
«Ascolto», replica lei, posando lancia e scudo e prendendo tra le braccia il bambino che il Mare le chiederà indietro, prima o poi.
La donna al centro sorride. «Possiamo cominciare le contrattazioni…»



Non tutti i fogli del calendario sono uguali. Ci sono giornate e giornate.
Quelle importanti sono appuntamenti che prendiamo con il destino, punti fissi ed immutabili nel tempo. Una nascita. Un anniversario. Un matrimonio. La laurea. Il primo giorno di scuola. L’investitura ufficiale. Sono qualcosa che cerchiamo di ottenere. Sono qualcosa che noi vogliamo segnare sull’affresco della nostra vita con un bel punto rosso, o una strisciata di evidenziatore giallo sole. Qualcosa che non vogliamo dimenticare, che spicchi nel tessuto della nostra esistenza. Giornate che ci fa piacere ricordare nei momenti in cui ne abbiamo più bisogno. Per solitudine, nostalgia o semplice noia.
Le giornate strane, invece, sono diverse.
Ti cadono in testa come tegole dispettose. Quelle storte le riconosci subito, appena apri gli occhi, o quasi. Hai quella sensazione antipatica – come un formicolio sotto la pelle– e il tuo sesto senso ti dice che è meglio marcare visita e starsene a letto. E di solito, ha ragione lui. Ma le giornate strane non le distingui dalle altre appena ti svegli, ma solo dopo. Solo a sera, quando abbandoni distrutto la testa sul cuscino. Solo quando sono esplose come fuochi d’artificio nella notte e hanno già fatto il loro lavoro. Scombussolarti le carte, ad esempio. O cambiarti la vita. In un battito di ciglia.
Zio Kostas glielo aveva ripetuto, e così aveva fatto Aristoteles durante gli anni dell’addestramento: il buongiorno si vede dal mattino. Ma al mattino piace tenersi gli assi ben nascosti nella manica. Eppure, nonostante fosse immerso nel vortice fino al collo, Milo avrebbe compreso la reale portata degli eventi che stava vivendo solo più tardi, quando a sera avrebbe sprofondato la sua testa sul cuscino del suo letto all’Ottava Casa.

Kanon l’aveva mandato a dormire sul pavimento, una coperta vissuta e le mani a cuscino. «Il letto è mio. Fossi una bella ragazza, te l’avrei ceduto volentieri, o magari l’avremmo diviso. Ma non sei una bella ragazza…», gli aveva detto. «E visto che hai tutta l’intenzione di andarti a fare ammazzare, puoi anche dormire sul pavimento, no?»
Milo non aveva replicato. Aveva afferrato – aveva strappato – la coperta dalle mani di Kanon e senza dire una mezza parola si era steso a terra, accanto alla porta, schiena al suo ospite. Ospite che aveva tenuto accesa la candela fino a tardi, tra il fruscio delle pagine ingiallite e la risacca del mare.
Ho le ossa a pezzi, pensò lo Scorpione stiracchiandosi. Il cielo era rosa. La brezza spirava dal mare come ad invitarlo a muoversi. A fare il suo dovere. Kanon gli aveva detto che era stato Poseidone a salvarlo. Perché avesse scelto lui, Milo non sapeva dirlo; però si chiedeva come mai il dio dei sette mari, Ennosigeo, non fosse intervenuto lui stesso nella questione. Era una faccenda tra divinità, giusto? Perché allora, tirarsi indietro? Perché Athena voleva essere il cavallo di Troia? Ma che bisogno c’è?, si chiese Milo scaldandosi al sole come una lucertola.
«Sei già in piedi?»
Alle sue spalle, Kanon aveva l’aria di chi ha passato una nottata poco piacevole, di quelle in cui il letto diventa una graticola in cui rigirarsi fino all’alba. Milo si concesse un sorrisetto.
«Che c’è?», gli chiese Kanon, aggrottando le sopracciglia.
Se Atene piange, Sparta non ride, pensò lo Scorpione. «Nulla, nulla», si affrettò a rispondere. «Quando arriverà il tuo amico?»
«Sarà qui tra mezz’ora», replicò Kanon osservando il cielo per capire che ore fossero. «Mi vesto», disse chiudendo la porta.
Milo lo seguì, spalancò la porta e lo fronteggiò sulla soglia, braccia incrociate e sguardo fermo. «Credevo di essere stato chiaro.»
«Credevo di esserlo stato anch’io», ribatté Kanon disfacendo il letto e arrotolando il materasso.
«Tu resti qui.»
«E questo chi lo dice?»
«Io.»
«E tu chi saresti?»
«Un Santo di Athena.»
«E dunque?», chiese Kanon, affondando lo sguardo in quello di Milo. «Un Santo di Athena può decidere della mia vita?»
«Se tu fossi una minaccia, sì.»
«E dimmi, Scorpione… Questo eremita che se ne sta solo e ramingo su uno scoglio troppo cresciuto in mezzo all’Egeo, rappresenta forse una minaccia per te?»
«Dimmelo tu…»
«Te l’ho già detto, ragazzo…»
«Non chiamarmi ragazzo…»
«E perché non dovrei? Ti stai comportando come un bambino a cui hanno morso la merenda. Vuoi essere trattato da uomo? Allora smettila di fare il moccioso e usa il cervello», disse Kanon, picchiettandosi con un dito le tempie.
«Sto usando il cervello!», puntualizzò Milo.
«No. Stai ragionando coi piedi.» Kanon si liberò dei vestiti e li lasciò cadere sul pavimento. Li allontanò con il piede e prese degli abiti puliti. «Quanto tempo è passato dal vostro viaggetto ad Atlantide?»
«Atlantide? Che c’entra adesso Atlantide, fottuto pazzo?!»
«Hai sbagliato fratello. Io sono quello sano.» Kanon si legò i capelli in una coda distratta e si infilò le scarpe. «Te lo dico io. Cinque mesi e mezzo. Ora, se avessi rappresentato davvero una minaccia, vi sareste fatti vivi molto, molto tempo prima. Magari quand’ero ancora ferito e boccheggiante. Invece no. Invece avete fatto finta che io non esistessi. Avete volutamente ignorato il mio microcosmo. E non dirmi che non l’hai mai percepito perché non ci credo.»

Milo tacque. Sì, l’aveva sentito quel microcosmo lontano e distante, troppo familiare per non poterlo riconoscere, troppo pericoloso per non intervenire. Ma anche Athena l’aveva riconosciuto, e non aveva detto nulla. Così Milo di Scorpio aveva commesso lo stesso errore: aveva scelto la via più facile. Aveva spento il cervello e aveva seguito la corrente, senza esternare i suoi dubbi, le sue perplessità, i suoi timori. E con chi avrebbe potuto parlarne? Camus non c’era più, e aveva letto negli occhi dei suoi compagni lo stesso sentimento che agitava il suo cosmo. Parlarne avrebbe significato scoperchiare una pentola in ebollizione, pronta a rovesciare sulla loro fragile quiete quanta più schiuma e quanto più veleno possibile. Così Milo aveva deciso di lasciare quel microcosmo a vegetare, lontano dal tempio, lontano da Athena, lontano da lui. Se ne sarebbero occupati più avanti, quando la loro vita non sarebbe stata tanto fragile e delicata da esplodere in mille pezzi al primo soffio di vento.

«Quindi?», chiese Milo.
Kanon sorrise. «Stai evitando di rispondere?», chiese a sua volta, le mani sui fianchi ed un’espressione divertita.
«Ti ho fatto una domanda.»
«Anch’io», ribatté Kanon. «Ma hai ragione. Torniamo al punto. Io vengo con te. Voglio capire cosa sta succedendo, e voglio farlo coi miei occhi.»
«Perché Poseidone ha schioccato le dita?»
«Perché c’è bisogno di me. Perché Athena ha bisogno di me. Lei mi ha salvato e mi ha dato un’altra possibilità. E non me la farò strappare di mano. Nemmeno da te.»
«Sei senza armatura.»
«Credi che per me sia un problema?»
«Hai assaggiato la mia medicina. Se ne vuoi ancora, non hai che da dirlo.»
«Ieri mi sono lasciato punzecchiare. O non mi avresti mai ascoltato. Perché sei fatto così. Quindi, sei sicuro di non essere tu quello che vuole assaggiare la mia, di medicina?»
«Mi stai minacciando?»
«Ti sto avvisando», replicò Kanon raccogliendo i vestiti da terra. «Non metterti sulla mia strada.»

Milo tacque. Lo fissò affaccendarsi per casa come se dovessero partire per una gita di breve durata, uno o due giorni o poco più. Un’innocente bugia che ogni Santo si raccontava prima di andare in missione, per dirsi che no, non sarebbe stata quella l’ultima, che ci sarebbe stato un ritorno, e che sarebbe stato piacevole rincasare e trovare un ambiente in ordine e sprofondare su di un letto pronto ad accoglierlo, invece che tra lenzuola sfatte e impolverate.
«Te lo chiederò per l’ultima volta. Che intenzioni hai?»
A Milo non interessava sapere se e quanto il ravvedimento di Kanon fosse genuino e autentico. Erano cose che non lo riguardavano. Ma quello che davvero gli importava, quello che doveva sapere davvero, era cosa frullasse nella mente del fratello minore di Saga. Che intenzioni aveva quell’uomo? Poteva rivelarsi una bomba pronta ed esplodere in qualsiasi momento, e il Cielo sapeva quanto avrebbero fatto volentieri a meno di un’altra tegola tra capo e collo. Ma lo Scorpione si chiedeva se non fosse, piuttosto, un azzardo maggiore lasciarlo lì, da solo, lontano dagli occhi, libero di agire indisturbato, senza alcun controllo.
Kanon l’avrebbe rassicurato. Gli avrebbe detto quello che lui voleva sentirsi dire, qualche bella storiella strappalacrime sul mondo in cui l’amore di Athena gli aveva salvato la vita e portato uno sprazzo di luce nel suo cupo mondo di peccatore; ma Milo voleva sentire quelle parole. Aveva bisogno di sentirgliele dire, perché poi avrebbe avuto tutt’altro sapore affondare Antares nelle sue carni una volta, due, tre, fino ad ammazzarlo.
«La mia vita appartiene ad Athena. Voglio solo rendermi utile», rispose Kanon, con una semplicità che lasciò Milo spiazzato. Era sincero. Sembrava sincero. E lo Scorpione decise di credergli.
«E in che modo ti renderesti utile? Giocando a fare l'eroe?»
«Possiamo essere tutti eroi, ragazzo. Ma stai tranquillo. Io lo farò a modo mio.»
«Cioè?»
Kanon si toccò le tempie. «Usando il cervello.»


«Sai perché nessuno di noi ha un gatto, come animale sacro?»
«Per non inimicarci i Nubiani?»
«I Nubiani!!» Scoppia a ridere con fragore, gli occhi chiusi e la testa reclinata all’indietro, fino quasi a rivaleggiare con il chiasso metallico che arriva dalla sua fucina. «I Nubiani», dice. Asciugandosi le lacrime tra le ciglia e liberando un lembo di pelle dal sudore e dalla fuliggine. È brunita e solcata da rughe profonde, come il cuoio ciancicato dei vecchi calzari: logori e sfatti, ma ancora affidabili. Osserva il cielo sulle loro teste, poi aggiunge: «No, Fanciulla. Non è per inimicarci i Nubiani. Ti svelo un segreto, anzi due. Il primo, è che ai Nubiani non importa nulla di ciò che si fa qui. Possiamo vivere in pace ed armonia, oppure scannarci come cani rabbiosi, per loro è lo stesso. Almeno, fino a quando uno di noi non azzannerà le loro chiappette glabre.»
«E il secondo?»
«Il secondo, è che non ci prendiamo coi gatti. Tutto qui.»

Tutto qui? Possibile?, si dice la Fanciulla. La quale non ha mai perso il sonno sul perché nessun vivente abbia associato il gatto ad uno di loro. «Perché sono troppo indipendenti?»
«Sì e no. Sai come si dice, vero? Il gatto ama il pesce, ma non ama bagnarsi le zampe. E poi i gatti appartengono a loro stessi. Non puoi forzarli, non puoi richiedere loro l’assenso al sacrificio. E poi, non ha senso riprendersi un dono, non ti pare?»

La Fanciulla lo guarda come se gli fosse spuntata una seconda testa.
«Non lo sai? Abbiamo creato il gatto per permettere ai mortali di accarezzare la tigre.»
«Pensavo fosse solo un modo di dire.»
«Nient’affatto!» La grosse e callose dita del Fabbro si stringono attorno alle sue ginocchia. «Li ho forgiati io. Con queste stesse mani. Altrimenti, chi sarebbe rimasto a nutrirci, tutti presi com’erano da quelle bestie? Modestamente, ho fatto un buon lavoro, no?»

Le fa l’occhiolino, e poi sorride. Nella Fucina, i lavori proseguono al solito ritmo, in un batti e leva di acciaio e vapore e mantici e fuoco liquido.
«Le altre armature saranno pronte al più presto», le dice il Fabbro, come proseguendo un discorso mai interrotto nella sua testa. «Quel moccioso ti ha dato un buon consiglio, una volta tanto», dice, guardando qualcosa all’orizzonte. Sorride, come se gli costasse elargire un complimento al Guerriero. Al suo rivale per i favori dell’Amore.
«Spero non ti dispiaccia.»
«Sapere che anche quel bell’imbusto passa dei momenti poco piacevoli con mia moglie? Starai scherzando, spero!»

Il sorriso si allarga ancora di più. Il Fabbro non è bello come il Citaredo o come il Mare. Forse lo è stato un tempo, prima che suo padre lo scagliasse sulla Terra alla vista di quella gambetta storta e corta. Ma il Fabbro ha qualcosa, oltre la barba incolta, la pelle simile a cuoio e le sopracciglia cispose, qualcosa che gli brilla sul fondo dello sguardo di cenere. Qualcosa che affascina la Fanciulla, perché la Fanciulla non riesce a dare un nome a quella luce. Brillante ironia? Pungente sarcasmo? Saggezza?
«Però, devo dire che il suo regalo è stato molto astuto. Accorto. Vedi, le donne sono creature davvero pericolose. Con tutto il rispetto…» Lei annuisce e lui prosegue. «Vogliono essere protette e tutto il resto, salvo poi tirare fuori gli artigli quando noi maschi meno ce lo aspettiamo. Guarda la Cacciatrice. Sai di quella brutta storia a Gargafia, vero?»
«So.»

Gargafia. La Cacciatrice e le sue ancelle che rincorrono un cervo. Il sole. Il caldo. Un bagno fuori programma. Un cacciatore di passaggio. Un cacciatore incauto. Che guarda ciò che non dovrebbe. E riceve la giusta punizione.
«Detta tra noi, anche io avrei dato una sbirciatina. Siamo uomini. Siamo fatti di carne. E quando sentiamo delle voci femminili ridere e scherzare, spegniamo il cervello.» Il Fabbro sorride e ignora lo sguardo di rimprovero che la Fanciulla gli lancia. «Ma la Cacciatrice non è poi tanto diversa dall’Amore, dalla Madre o dalla Terra. Solo che lei, almeno, ha il coraggio di andare fino in fondo e imbracciare l’arco.»
«Cosa vuoi dirmi, Fabbro?»
«Che l’arma migliore da usare contro una donna è un’altra donna.»

 

«Aspetta!»
L’afferrò per un polso e l’attirò a sé, facendola girare su se stessa. Lei lo colpì al volto, come previsto, ma lui la lasciò fare. Se lo meritava, quello schiaffo. Era stato inopportuno. Spiacevole. Un vero stronzo. Ma non pensava veramente quello che aveva detto. Gli era scappato, ecco, sì. Scappato. C’era da capirlo, in fondo. Si era appena riavuto da una brutta avventura, aveva fatto un sogno pazzesco e lei gli aveva detto che Milo e Saori – e Athena – erano…
L’aveva odiata. Detestata. Perché gli era parso che lei stesse facendo a pezzi le sue certezze, una per una, sbriciolandole sotto il tacco delle sue scarpe. Invece lei non voleva che s’illudesse, questo Seiya l’aveva capito. Ora, però, era arrivato il momento in cui toccava a Shaina ascoltare quello che lui aveva da dirle. Che Athena non era morta. Che anche se potava sembrare pazzesco, per lui non lo era. Perché lo sentiva, così come percepiva le ossa del polso di Shaina tra le dita.

Un altro schiaffo arrivò. La guancia di Seiya bruciò come se si fosse scottato con l’acqua incandescente. Lei lo graffiò e si divincolò, come una gatta rabbiosa, ma lui mantenne la presa.
«Lasciami andare!»
«Non voglio farti del male», le disse, abbassandole con delicatezza le mani e fissando la maschera.
«E cosa vorresti, sentiamo!»
«Parlare. Vorrei che tu mi stessi a sentire. Cinque minuti. Chiedo troppo?»
La maschera di Shaina lo fissò, inespressiva e muta, con quelle decorazioni viola scuro a contrasto col lucore freddo dell’argento.
«Shaina?», la chiamò.
«Non ho tempo da perdere e non voglio sentire altre assurdità.»
«Ti prego. Ascoltami. Te ne supplico. È tutto il giorno che ti cerco…»
«Ho avuto da fare. Cosa credi, che qui la vita si sia fermata? Ci sono nuove reclute da formare, armature da assegnare, casini da sistemare…»
«Ed è per questo che te ne sei rimasta tutta la mattina dentro al gineceo?»

Un secondo schiaffo lo colpì in pieno viso.
«E adesso cos’ho fatto?»
«Chiamalo gineceo un’altra volta e ti cavo gli occhi», sibilò Shaina, e Seiya capì che quella non era una minaccia. Era una promessa. «Si chiama Campo d’Addestramento Femminile. Campo. D’Addestramento. Femminile. Intesi, muso giallo
«Non offendere…»
«Hai cominciato tu.»
«Ok. Non volevo. Chiedo scusa. È che qui tutti lo chiamano così…»
«Tutti i maschi lo chiamano così, vorrai dire. Pensavo che Marin ti avesse spiegato la differenza con un gineceo vero e proprio…»
«Sì. Sì, l’ha fatto. Scusami ancora.»
Shaina liberò anche l’altro polso e incrociò le braccia al petto. «Allora?»
«Volevo chiederti scusa.»
«Per cosa?»
«Per averti detto quelle cose. Io non le pensavo davvero.»
«Ma dimmi! Perché esiste un modo di pensare le cose per davvero ed uno per finta?»
«Ero arrabbiato, Shaina. Non volevo ferirti.»
«Eppure l’hai fatto.»
«Lo so. E me ne dispiace.»
«Ok. Scuse accettate. Io adesso ho da fare…»
«No, aspetta!»
Le afferrò il polso sinistro e lei reagì come se la sua mano scottasse.
«Lasciami andare, Seiya.»
«Non ho finito.»
«Lasciami. Andare.»
«Lo farò solo quando mi prometterai che mi starai a sentire.»
«Che altro devi dirmi di così importante?!»
«Riguarda Athena.»
«E ti pareva», mormorò Shaina scuotendo la testa. «Stasera c’è una riunione nell’arena centrale.»
«Ho bisogno di parlarne con te.»
«Per affondare il coltello nella piaga?», gli chiese. Le sue spalle tremavano. La sua voce era sul punto di cedere. Seiya poteva percepire la sua mascella serrata, i suoi occhi tristi, le sue sopracciglia aggrottate dietro quella maschera inespressiva.
«Perché so che tu mi capirai. Posso parlare con il Santo dell’Ofiuco, per piacere?»
«Cinque minuti, non uno di più.»
«Non qui. Ho bisogno di discrezione.»
«Ho capito. Seguimi.»

Si liberò della sua presa e lo precedette ad ampie falcate lungo una strada in discesa che costeggiava il perimetro del campo d’addestramento femminile. Seiya la seguì senza battere ciglio, le mani sprofondate nelle tasche dei jeans, il cervello impegnato a scegliere con cura le parole da dirle. Vedeva la sua schiena dritta e fiera precederlo. E si chiese, ad un tratto, se la sua armatura fosse sempre stata così scollata, oltre le spalle. E perché non me ne sono mai accorto?, si disse, senza accorgersi che stavano varcando i cancelli del Kerameikos, il cimitero del Santuario. Stava ancora fissando la sua schiena, e provando una fitta di gelosia alla bocca dello stomaco, quando Shaina si fermò. Pose le mani sui fianchi e sospirò. Si inginocchiò davanti ad una lapide – una croce sbozzata infilata nel terreno -  si segnò e mormorò una breve preghiera.
Seiya sbirciò oltre la sua spalla e trasalì nel leggere il nome inciso sulla croce a colpi di coltello. Cassios. Questo è un colpo basso, pensò, stringendo le labbra ed i pugni. Questo è un colpo davvero basso.

Shaina si voltò, la maschera sul viso. Lo scrutò da dietro quell’affare che Seiya trovava irritante, e poi si alzò. «Sono tutta orecchie»  gli disse.
«Proprio qui?», le chiese lui.
«Non credo avrai il coraggio di mentirmi, davanti alla sua tomba», e Shaina indicò col pollice la croce alle sue spalle. «Allora? Cosa volevi dirmi con tanta urgenza?»
Seiya sospirò. «Non ti fidi proprio di me, vero?»
«No.»
«Nonostante tutto?»
«Nonostante tutto, cosa? Io sono quella che s’è fatta avanti. Che s’è presa non so più quanti colpi sulla schiena per difendere te. Tu cos’hai fatto? Ti sei preso la freccia del Sagittario in petto. Anzi, no. Nemmeno quello, visto che quella volta t’ha fatto da scudo il Drago.»
«Shaina, ti prego…»
«Ti prego, cosa?» Shaina si portò le mani sui fianchi. «Tu vieni da me solo quando ne hai bisogno, Seiya. Credi che non l’abbia capito?! Anche adesso, anche qui, davanti alla tomba di Cassios, tu sei venuto da me perché sai che sono l’unica deficiente disposta a starti ad ascoltare!»
Le spalle di Shaina tremarono. Lei si strinse e gli voltò la schiena. «Dimmi quello che hai da dire e facciamola finita.» Voleva fare la dura e rifugiarsi dietro la corazza con cui proteggeva il suo cuore; ma c’era una crepa profonda, in quel muro che aveva imparato ad erigere tra sé ed il mondo, e a Seiya non sfuggì che la sua voce era rotta dal pianto che stentava a trattenere nei polmoni.
Le si avvicinò. La abbracciò. E le sussurrò qualcosa all’orecchio.
Shaina rimase congelata. I suoi muscoli si sciolsero. Abbassò la testa.
«Bastardo», mormorò. «Non c’è bisogno di…»
«Sono sincero.» La voltò e le sfilò con delicatezza la maschera. Lei abbassò il viso. «Guardami, Shaina.»
«No, non possiamo. Lo sai.»
«Guardami.»
«Se qualcuno dovesse scoprirci, passeremmo dei guai…»
«Ho già visto il tuo volto, per errore. Mi hai fatto vedere i sorci verdi, ricordi?»
Lei annuì, con un risolino in sottofondo.
«Adesso voglio vedere i tuoi occhi. Non m’importa di nulla, voglio solo parlarti occhi negli occhi. Voglio che tu veda che io sono sincero…»
Lei sollevò appena lo sguardo, quel tanto che bastò per scorgere il caldo marrone scuro degli occhi di Seiya. Lui sorrise e a lei sembrò che mille fuochi d’artificio le stessero esplodendo nel petto.
«Ecco. Così va meglio.» Le sollevò il mento con due dita, delicatamente.
«Dimmelo ancora. Se non è una balla per…»
Glielo sussurrò all’orecchio. Poi si staccò un poco da lei e le disse: «Dobbiamo parlare, Shaina. Di noi due. Per capire. Ma non possiamo farlo fino a quando ci sarà questa spada di Damocle sulle nostre teste.»
«Athena?»
Lui annuì. «È viva, Shaina. Lo so. L’ho sognato.»
«Anch’io l’ho sognata stanotte, Seiya. Ma purtroppo…»
«No, non capisci. Ascoltami. L’ho sognata prima che tu venissi a svegliarmi. E prima che tu mi dicessi che lei e Milo sono…»
Lei gli accarezzò il viso. «Va tutto bene, Seiya. Va tutto bene.»
«Non era un sogno. Athena mi stava parlando perché Athena è viva!»
«Seiya…»
«Lo senti anche tu il suo microcosmo, sì o no?»
Shaina sospirò. «Sì. Sì, lo percepisco anch’io. Ma questo non significa nulla.»
«Come sarebbe a dire?», domandò lui.
«Il cosmo di un dio non è come il cosmo di un uomo. Quando quelli come me e te muoiono, resta un briciolo di cosmo dietro di loro. Un’ombra, un odore appena. Ma per gli dei è diverso. Il loro cosmo è così ampio e vasto che occorrono mesi e forse anche anni prima che si dissolva del tutto.»
«Sei sempre così ottimista, tu…»
«Cerco di essere razionale, Seiya. Quello che senti potrebbe essere una pista sfumata, capisci?»
«Potrebbe. Ma potrebbe essere anche la vera pista. E sarebbe sciocco lasciare che si raffreddi, no?»
«Seiya…»
«Siamo cavalieri della speranza, sì o no?»
«Sì», soffiò fuori lei. «Ma tu sei disposto a mettere in conto che la speranza potrebbe già essere morta?»
Seiya annuì. «Sì. Ma se non ci proviamo neppure, è morta ancor prima di cominciare.»
 

«I vestiti invernali! Hai preso i vestiti invernali?»
Maman Louise non riesce a staccare gli occhi da Françoise. Non riesce a rassegnarsi all’idea di lasciarla andare via perché qualcosa le gonfia il suo vecchio cuore malato. Un senso di paura e angoscia che stanotte non l’ha lasciata dormire e che le ha regalato qualche capello bianco in più.
«Compreremo qualcosa lì, maman. A Roma non fa poi così freddo…» Il trucco non riesce a coprire quel brutto alone bluastro sotto l’occhio, dove la mano di Alain l’aveva schiaffeggiata. Eppure, Françoise sorride. «Staremo bene, Maman. Te lo prometto.»
«Massì, massì, lo so. Giovanna e Cristina sono mie amiche. Le conosco. Sono un po’ bislacche, ma sono persone a posto. Lì Alain non ti troverà mai, stai tranquilla.»
«Lo so. Rémy dice che è meglio così, ma ho paura. Per lui, Maman. Non vorrei che facesse qualche sciocchezza.»
«In che senso, bambina mia?»

Françoise sospira. Coralie si è addormentata al suo seno, le manine strette a pugno e le ciglia che proiettano un’ombra scura e lunga sulle guance paffute. Lo spavento dei giorni scorsi sembra passato, ma di notte, quando tutto tace, la piccina si sveglia piangendo disperata, come quando la carrozzina filava giù per la discesa, gradino dopo gradino. E allora Françoise se la stringe al cuore. Per darle coraggio, per darsi coraggio. Per dirsi che è stato solo un bruttissimo sogno, che è tutto finito e che non succederà più.
«Non vorrei che desse una lezione ad Alain, Maman…»
Maman Louise la guarda come se le fosse spuntata una seconda testa. «E se anche fosse?», le chiede, dando una manata e facendo tintinnare i braccialetti che porta al polso. «A quel maiale starebbe proprio bene una bella lezione come Dio comanda!»
«Rémy non può. Rémy è un Santo. Rémy non può avere guai con la legge per colpa di Alain. Non me lo perdonerei mai, Maman…»
«Ma Rémy non viene con te?»
Françoise sorride, una smorfia amara che le arriccia le labbra. «Sì che viene con me. Ma non può restare sempre con me. La conosci anche tu la canzone. Prima o poi si allontanerà per questa o quella missione. E magari, tornando a casa, potrebbe prendere la strada più lunga.»
«Capisco.»

La sigaretta abbandona un altro po’ di cenere che cade in strada. Sì, Rémy sarebbe capacissimo di farlo. E anzi, Maman Louise si chiede se non lo stia già facendo adesso, mentre Françoise sta allattando Coralie e lui dovrebbe essere sceso a comprare i pannolini in farmacia.
Ci sta mettendo troppo, pensa, dando un’occhiata fugace all’orologio. E il bordello di Alain si trova ad un tiro di schioppo dalla Collina. Non è che quel cretino… ?, pensa Maman Louise guardando in strada, sperando di veder sbucare la sua zazzera rossa da un momento all’altro. Ma Rémy non si vede. Ed è passata quasi un’ora. E Maman capisce. Maman sa. Una questione tra uomini, anche se uno è poco più che un porco vestito con abiti eleganti e i capelli impomatati. Françoise non deve sapere. Françoise non deve capire.
«Perché non ti fai un riposino, bambina mia?»
Françoise si volta e la scruta. «No, non possiamo. Rémy sarà qui a momenti, e…»
«Suvvia. Cosa vuoi che sia una mezz’ora in più o in meno. Vai a stenderti. E poi non vorrai mica che la piccina ti vomiti in macchina, vero?»
«No…» Françoise guarda sua figlia e quei pugnetti chiusi. Coralie soffre il mal d’auto. E se sarà un’avventura guidare fino a Roma con lei che piange e strepita, farlo mentre ha il latte nella pancia sarà un inferno. E Maman Louise lo sa. Françoise accarezza i capelli di sua figlia. La fede le brilla all’anulare sinistro.
«Dammi retta, bambina mia. Andate a farvi un riposino, ché ne avete bisogno tutt’e due. Ti sveglio io non appena arriva Rémy…»
«Va bene. Mezz’ora, però… Non di più, o si farà tardi.»
«Promesso…», le dice Maman Louise con un sorriso, Françoise si alza, si stacca la figlia dal seno, si sistema la camicetta e si dirige verso la camera da letto. Solo quando sente la porta chiudersi la donna torna a fissare la strada con un’espressione preoccupata, il bocchino con un mozzicone spento tra le dita.

«Coco, tu sai dov’è Rémy, vero?», sussurra accendendosi un’altra sigaretta e liberando in aria un’altra boccata di fumo.
Ma Coralie non risponde. Probabilmente starà gingillandosi con i pizzi ingrigiti del suo vestito da sposa, o giocando tra le travi del soffitto con altri fantasmi, altri sogni, altre chimere. O magari è impegnata a fare chissà cos’altro. Magari a dare manforte a quell’altro incosciente.
Così Maman Louise si toglie i braccialetti, spegne con rabbia la sigaretta nel posacenere e si allontana dalla finestra. Dischiude appena la porta della camera da letto. Françoise e Coralie sono crollate sfinite sul letto, l’una accanto all’altra, con il gatto sdraiato ai loro piedi. Ha capito che la piccina se ne va. A Maman Louise fa tenerezza quando socchiude i suoi occhi d’agata e sembra dirle che ci pensa lui, a vegliare sul loro sonno. La donna richiude la porta e va a socchiudere quella di casa, mettendo lo zerbino a fare da zeppa. Se le cose sono andate come crede – e come sotto sotto spera – Rémy tornerà a casa insanguinato e sporco. E non deve farsi vedere in quello stato da Françoise, no. Deve sistemarsi. Rendersi presentabile. Gli servirà un bel bagno. Dei vestiti puliti. E due dita di cognac.

Diamoci da fare, si dice Maman Louise mentre l’orologio batte le undici.
 
 

 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Vi avevo promesso i pestaggi, ma ancora nisba. Abbiate pazienza, per i cazzotti che fendono in due il cielo ed i calci che sconquassano la terra occerre avere la testa libera sul serio.
Sotto con le note!
Secondo la mia amica Sen, in Grecia è consuetudine affidare i neonati agli dei. La neomamma decide chi tra i dodici sarà il padrino della creatura che porta in grembo. È una scelta di pancia, più che di testa, e solo lei ha l'ultima parola a riguardo.
La quinta o la settima sera dalla nascita del bambino, la mamma pone il pargoletto in una stanza buia, senza spiragli di luce, senza specchi, né metalli e lo affida alla divinità prescelta. Poi esce dalla stanza e vi rientra la mattina seguente.
Secondo la leggenda, le Moire appaiono davanti alla culla e filano il suo destino sotto lo sguardo della divinità chiamata in causa, che cerca di intercedere per il suo protetto.
Fotinê, la madre di Vasiollios/Saga e Viktoras/Kanon ha affidato ad Athena il primo e a Poseidone il secondo. Solo che Poseidone se ne dorme della grossa nell'urna in cui Athena lo sigillò, secoli prima. E quindi lei può reclamare come sua la reincarnazione di Defteros. Athena bara, signore mie. Senza pudore alcuno.
Questa tradizione è più sentita nelle isole, che sulla terraferma, e trova il suo corrispettivo anche nell'antica Roma: sapete che il prototipo della fata madrina si trova nelle Parche che, così come le Moire, apparivano al capezzale del neonato con fuso, conocchia e forbici in pugno?

La Collina cui fa riferimento Maman Louise è Montmartre, detta anche La Butte, la Collinetta.

Il Kerameikos è una necropoli nel cuore di Atene, a due passi dal Partenone. Da lì partiva la Via Sacra che portava ad Eleusi, ed era il quartiere dei ceramisti e dei vasai, dove potevi ordinare anche la lapide per la tomba di tua moglie, tuo figlio o tuo marito. Un po' come San Lorenzo a Roma, che sorge attorno al cimitero del Verano. Nel mio headcanon, il kerameikos è anche il cimitero all'interno del Santuario di Athena.

Mi serve davvero un buon caffè. Chi mi fa compagnia?  

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Capitolo 22
*** 22. ***


22.




«Mi avete mandato a chiamare, Santità?»
 A capo chino, Yannick dell’Altare attende, un ginocchio piegato e il mantello drappeggiato sulle spalle, ignaro della spada di Damocle che pende sulla sua testa. 
Sion tentenna qualche minuto prima di rispondere. Posso farlo? Posso davvero farlo?, si domanda il Sacerdote, le mani vecchie e stanche a stringere i braccioli dello scranno. Poi i dubbi svaniscono – devono svanire – ché oramai indietro non si torna. Oramai è fatta, non si cambia idea. Anche perché Yannick non crederà mai che l’abbia convocato per discutere del tempo o facezie simili.
Avanti. Per Athena. Sempre e solo per Athena.
«Sì, Yannick dell’Altare», e Sion vede le spalle di Yannick irrigidirsi. Brutto segno, se qualcuno ti chiama col tuo nome celeste completo. C’è puzza di ufficialità. E l’ufficialità comporta serietà. E la serietà porta con sé i guai. «Ho necessità di parlare con te.»
«Vi ascolto, Santità.»
«È una giornata troppo bella per restare chiusi qui dentro. Vieni. Passeggiamo.»
Un fruscio pesante, le mani sui braccioli che lo sollevano a fatica, quella vecchia ernia che protesta con troppa veemenza, e il vecchio Sion raccoglie parte della sua veste e s’incammina verso la terrazza che si apre alle spalle della Sala del Sacerdote. Il rumore metallico alle sue spalle gli conferma che Yannick lo sta seguendo. Sion si concede un sorriso.
Fuori la giornata non è poi così bella come Sion aveva visto al mattino. Il cielo ha fatto in tempo ad annuvolarsi, concedendo qualche sparuto sprazzo di sereno. Forse è meglio così. A Sion sarebbe piaciuto avere un bel cielo limpido e terso, come palcoscenico, ma una luce netta avrebbe reso affilati i contorni delle sue parole. Troppo. Meglio, allora, concedersi un attimo di requie, un perimetro più mutevole; ché, d’altro canto, quelle di Sion non sono certezze, non ancora. Sono
supposizioni. Sensazioni, a volerla dire tutta. E quindi, potrebbe essersi sbagliato. Potrebbero essere solo paure, le sue, le insensatezze di un vecchio giunto al capolinea che s’inventa ombre e fantasmi pur di trovare un senso – un’utilità – alla sua vita. Presto, qualcuno raccoglierà il suo elmo, così come il Sommo Hakurei l’ha raccolto da quelle del Sommo Sage prima di affidarlo a lui, tanti anni fa. Troppi, per una vita umana. Pochi, per chi ha dovuto reggere il fortino per una vita intera e, adesso, vorrebbe fare qualcosa. Ma chi ne ha più la forza?, si chiede Sion, nel cuore il sapore amaro del rimpianto, mentre poggia le mani sulla balaustra di marmo bianchissimo.
Sasha amava questo posto. Non era raro trovarla quassù, lo scettro di Nike per compagnia, ad abbracciare con lo sguardo il panorama mozzafiato. O a lasciar vagare la mente verso percorsi e curve nella memoria.

Che nostalgia, si dice Sion, una fitta di rimpianto che gli chiude la gola. Una vita intera spesa ad aspettare. Una vita intera a giustificarsi con i fantasmi dei suoi compagni, con quelle dodici Case che lo guardano, mute, mentre il vento vi passa in mezzo e risuona delle loro voci, delle loro…
«Santità?»
Sion sbatte le palpebre. È successo di nuovo. Si è lasciato andare ai ricordi, invece che concentrarsi sul presente. È stanco, Sion. Tanto stanco. Forse, quello che vuole è soltanto togliersi quell’elmo dalla testa e tornare a combattere. Un’ultima volta.

Ma se riesco a malapena a stringere una forchetta tra le dita?
Serra i pugni, ignorando le proteste delle sue nocche. Alle sue spalle, Yannick attende, da chissà quanto, che lui gli spieghi il perché di tutto questo mistero. Sion si fa coraggio, ché condividere una bevanda amara non è mai piacevole. Non si vorrebbe berla, questa è la verità, non trascinare qualcun altro con sé. 

Smettila di cincischiare.
«Voglio affidarti una missione di vitale importanza, Yannick dell’Altare», dice, senza voltarsi, il vento che accarezza i suoi lunghi capelli come faceva sua madre, tanti e tanti anni prima, quando Athena ancora non si era affacciata nella sua esistenza e l’aveva reclamato come suo.

 
«Abbiamo perso le tracce.»
Ichi si alzò. Nachi era alle sue spalle, nel vento che soffiava sulla neve fresca, e lo fissava. In attesa.
«Si sono divisi», proseguì Ichi. «Laggiù. Hanno preso direzioni diverse e noi abbiamo scelto quella sbagliata.»
«Una falsa pista.»
«Falsa pista? Non so se l’hai notato, ma queste impronte spariscono nel nulla. Proprio qui», e l’Idra indicò al compagno il punto d’arresto delle tracce che avevano seguito.
«L’ho visto», ribatté il Lupo, pacato. «Ed è appunto per questo che mi sembra strano.»
«Spiegati meglio.»
«È un vecchio trucco per confondere i predatori. Cammini all’indietro», e Nachi ripercorse qualche passo senza voltarsi, come fosse stato un gambero extra-extra-large, «e aspetti. Lo fanno i conigli.».
«I conigli?»
«Sissignore. Ma anche i predatori camminano all’indietro per far credere alle prede che se ne sono andati. E invece…»
Ichi stornò lo sguardo sul compagno e lo posò sulle impronte. E si accorse di una cosa. C’era un’unica fila di passi, che affondava nella neve. E loro erano in due. Per cui, avrebbe dovuto esserci un’altra serie di impronte che correvano parallele alle sue. E invece no. «È un altro trucco anche questo?», chiese, indicando i piedi di Nachi. «Cos’è, per risparmiare energie?»
«Anche», ribatté l’altro. «I lupi fanno così.»
«I lupi fanno così.»
«Sissignore. Il maschio alfa apre la strada. Gli altri, mettono le zampe esattamente dove le ha messe lui….»
«…per fare meno fatica.»
«No. Non solo. Primo, il maschio alfa si prende la responsabilità del gruppo. E quindi, se una zampa si romperà, sarà la sua, non quella degli altri lupi. Secondo, eventuali altri predatori vedranno una sola fila di orme. E s’immagineranno che ci sia un solo lupo, magari robusto, quando invece…»
Silenzio.
«Quando invece… che
«Quando invece ci sarà un branco intero!»
«Ok. Ma siccome noi non siamo lupi…»
«Tu non lo sei. Io, sì. E tu ti sei preso la responsabilità di battere il terreno. Di essere il maschio alfa.»
Ichi socchiuse gli occhi. Il maschio alfa. Sì, gli era piaciuta, quella definizione. Sì, aveva colpito nel segno. Ho fatto bene, si disse Nachi, stornando lo sguardo dal compagno e lasciandolo vagare tutt’attorno. Erano in campo aperto. Un eventuale pericolo sarebbe potuto arrivare da qualsiasi parte, certo, ma questo avrebbe consentito all’avversario solo il vantaggio della sorpresa. Si sarebbero visti a vicenda. L’importante era sopravvivere al primo colpo. Il resto, si sarebbe giocato ad armi pari. Forse.
«Il maschio alfa…», mormorò intanto Ichi, grattandosi il mento, le labbra incurvate all’insù. «Il maschio alfa…», disse ancora. E non si accorse della mano che era spuntata dal terreno fino a quando questa non gli si strinse attorno alla caviglia e lo buttò a terra.
Lo sapevo!, si disse Nachi, accorrendo al salvataggio.
Ichi tempestava di calci e pugni la mano spuntata dalla neve, ma quella non mollava la presa. «E lasciami, dannazione!», strillava l’Idra, la voce più acuta del solito.
«Alzati, svelto!», gridò il Lupo, quando i suoi occhi notarono qualcosa. Il bagliore dell’oro, sotto la neve. E lo smalto nero sulle unghie della mano che stringeva la caviglia di Ichi. «Aspetta!»
«Aspetta cosa? Le presentazioni?»
«Guarda il guanto d’arme! Non vedi?», e solo allora Ichi notò lo sfolgorio dell’oro attorno a quelle dita.
«Ah!» disse – strillò – l’Idra.
«Aiutami», ordinò Nachi, assumendo il ruolo di maschio alfa. Afferrò l’avambraccio avvolto nell’oro e tirò. «È bloccata», disse. «Che aspetti, la carrozza? Mi aiuti sì o no?», abbaiò all’indirizzo di Ichi. Il quale si scosse. Si mise seduto, piegò un ginocchio ed afferrò il braccio al posto di Nachi.
Il Lupo iniziò a spalare via la neve a mani nude.
«È incastrata», disse. «Non tirare fino a quando non te lo dico io.»
«Ok», disse Ichi, ma sia lui che il Lupo avevano capito che la faccenda si era fatta grossa per davvero. Se quella mano corrispondeva al Santo del Cancro – al Santo del Cancro donna – che fine aveva fatto Hyoga? Che è successo, dannazione?, pensava Ichi, osservando il proprio riflesso sul bracciale dorato.
«Prova!»
Nachi aveva liberato un braccio ed era quasi arrivato alla testa. Ichi ubbidì. Tirò. Niente. Tirò una seconda volta, e qualcosa si smosse.
«Ha aperto gli occhi!», disse Nachi e Ichi tirò ancora una volta. La liberarono con uno strattone. Il corpo scivolò via. Nachi le liberò la bocca dalla neve e le chiese: «Stai bene? Puoi respirare?».
Lei annuì. Sputò del fango rossastro. Pelle bianca come la neve e labbra rosse come il sangue, ripeté Nachi, nella sua testa. Djamila amava la favola di Biancaneve, lei, scura come l’ebano e dai denti candidi come il latte. Chissà perché, pensò, aiutando il Cancro a mettersi seduta, mentre l’Idra allentava la presa sulla propria caviglia.
«Lasciami! Lasciami, adesso! Vuoi?!», strillò Ichi, per superare il fischio del vento. Lei gli scoccò un’occhiata curiosa, come se lo vedesse per la prima volta in vita sua. «La caviglia», disse Ichi, indicando il proprio piede. «Vuoi lasciarmi andare? Mi stai facendo male…»
Lei portò lo sguardo dall’Idra al proprio polso destro un paio di volte, poi dischiuse le dita.
«Chi ti ha ridotto così?», le domandò il Lupo.
«Dov’è?», chiese lei, ancora intontita. Si guardò intorno, le palpebre socchiuse e l’aria di chi ha passato un bruttissimo quarto d’ora.
«Chi?»
«Coso. Popoff.»
Ichi e Nachi si scambiarono uno sguardo.
«Chi ti ha attaccato si chiama Popoff?», le chiese l’Idra.
«Ma no!», protestò il Cancro, schermandosi gli occhi con una mano. «Il Cigno. Come si chiama?»
«Hyoga.»
«Hyoga, Popoff. Siamo lì.» Ma anche no, pensò Nachi, guardandosi attorno. «Non è con voi?»
«Ma non era con te?», gli chiese Ichi, massaggiandosi la caviglia.
«Ci hanno inseguito. Ci siamo divisi. Lui è andato avanti, io me ne sono portati dietro il più possibile.»
«Il più possibile?», chiese Nachi, guardandosi attorno. Le tracce finivano in quel punto. In quel punto esatto. Anche ammesso che il nemico avesse camminato all’indietro, dopo averla sepolta, che fine avevano fatto gli altri? E perché non c’erano segni di lotta, tutto attorno, ma solo l’accecante biancore della neve?
Il Lupo abbassò lo sguardo sul viso della ragazza, la bocca socchiusa per esprimere ad alta voce le proprie perplessità, quando incontrò i suoi occhi. Vigili. Duri. Affilati. Gli occhi di un predatore, si disse Nachi. Allarmato. Lei sorrise.
«Chapeau», disse – sussurrò – appena. «Ma è troppo tardi!»
Nachi volle gridare: «È una trappola!», per avvertire Ichi, ma lei non glielo permise. Il dito indice del Cancro si posò sulla sua fronte, come al rallentatore. Poi tutto divenne viola, e Nachi cadde dentro un pozzo profondissimo, vorticante, che sembrava non avere mai fine.


«Rinunciare all’armatura?!»
Il viso di Yannick è terreo. Le parole del Sacerdote lo hanno centrato in pieno, come una secchiata d’acqua gelata in pieno agosto.
«Per… perché? Ho fatto qualcosa di sbagliato, Santità?»
«No, Yannick. Il tuo stato di servizio è encomiabile.»
«E allora,
perché?!»
Yannick s’è alzato. È schizzato all’impiedi come un pupazzo caricato a molla, i pugni stretti e l’espressione smarginata. Sion lo sente, alle sue spalle, e ne ha una gran pena.
«C’è un
daimon che s’aggira per queste mura, Yannick.»
Il Sommo Sion ha parlato in francese. E questo lascia Yannick ancora più interdetto.
Che bisogno c’è?, dicono i suoi occhi, quando Sion si volta ad incontrarli.
«Perché?»
«Non lo so, il perché.»
«No, Santità. Perché stiamo parlando in francese?», domanda Yannick, la testa piegata da un lato, come un cane che non ha capito cosa voglia esattamente il suo padrone, da lui.
«Perché quando c’è un
daimon nei paraggi, anche i muri hanno orecchie.»
«E voi sperate che non conosca il francese?»
«Lasciami questa speranza, Yannick. Vuoi?», chiede Sion, tornando a guardare i prati verdissimi che si stagliano all’orizzonte. Tra poco l’erba avvizzirà, s’ingiallirà e si seccherà. Arriverà un altro autunno, colla sua tavolozza di rossi e ori e poi il grigio inverno silenzioso. E Sion si chiede se lui sarà ancora lì, quando le cime dei monti che proteggono il Santuario s’imbiancheranno di neve.
«Santità, se è vero che c’è un
daimon…»
«Ho bisogno che tu lavori per me, Yannick.»
Sion riprende il filo del discorso che ha provato tante volte nella sua mente. Perché sta per proporre a Yannick una missione pericolosa. Molto pericolosa. E lui ha bisogno che l’Altare accetti, ad occhi chiusi, con la stessa incoscienza dell’agnello portato al sacrificio, che scuote la testa per liberarsi del riso che il sacerdote lancia contro il suo vello inumidito. Senza sapere – senza sospettare – che dentro al paniere tra le mani del Sacerdote l’aspetta la lama che reciderà la sua vita e verserà il suo sangue.
«E in che modo, Santità?»
«Come esterno.»
Yannick sbatte le palpebre un paio di volte.
«Non dovremmo, invece, stanare questo
daimon ed eradicarlo dal Santuario?», suggerisce.
Sion scuote la testa.
«È un
daimon, Yannick, non un dio. Non è fedele a se stesso. Non sappiamo quale forma prenderà, come cambieranno i suoi piani. Non siamo dei, Yannick. Siamo mortali. E l’unica cosa che possiamo fare è prevenire le sue mosse. Giocare d’anticipo. Come se questa fosse una partita a scacchi. Capisci?»
«Capisco.»
«Ho bisogno che tu sia una doppia regina, Yannick. Sai come funziona, vero?»
«Sì, Santità.»
«Bene. Sto per scegliere il mio successore.»
«Chi avete in mente, Santità?»
«Questo non posso rivelartelo. Mi spiace.»
«Comprendo», dice Yannick, anche se Sion sa che il giovane bretone lo comprende fino ad un certo punto.
«Il
daimon colpirà non appena la dea si manifesterà ai piedi della sua statua.» Sion si concede una piccola pausa. Centellina le informazioni, se vuoi che il tuo pubblico sia attento alle tue parole, diceva il nobile Hakurei. Rivelati, ma a poco a poco. Come fa una donna quando si spoglia, diceva, e lui ci provava in tutti i modi a non arrossire a quelle parole. Adesso Sion sorride, sotto l’elmo che appartenne al suo maestro. «Non so cosa farà, ma so che colpirà. Se gli dei ci assistono, riusciremo a venirne fuori. Ma se le cose dovessero andare male, ho bisogno che tu sia pronto a fornire tutto l’aiuto possibile al nuovo Sacerdote.»
«E come potrò farlo, se sarò spogliato dell’Armatura!», protesta Yannick, pestando un piede a terra.
«Non ho mai detto che ti avrei spogliato dell’Armatura.»
«Avete detto che avrei dovuto ritirarmi, Santità. Non è la stessa cosa?»
«Dipende.»
«Dipende… da cosa?»
«Dal fatto che tu stia recitando una parte, oppure no.»
Yannick sbatte le palpebre. Scuote la testa. Poi si lascia andare ad un sospiro.
«Ho capito. Vi prego, Santità, raccontatemi il vostro piano. Fin nei minimi dettagli, per favore.»
«Significa che accetti la missione prima ancora di sapere cosa comporterà?»
«
Semper fidelis, Santità. È il motto della mia gente.»
«I bretoni, giusto?»
«Non proprio. Casa mia è Saint Malo. E io sono prima
malouin, dopo bretone e francese se avanza.»
«Capisco», mormora il Sacerdote, prima di aprire la bocca e iniziare a raccontare.


 
Ma non ti vergogni ad averla lasciata andare da sola?
La voce della sua coscienza assomigliava in maniera preoccupante a quella di Isaac. Camus non si sarebbe posto troppi dilemmi. La visione del suo maestro era che, donna o non donna, un guerriero resta un guerriero. Ma Isaac non la pensava così. Per Isaac le donne andavano protette, sempre e comunque.
«Sono più fragili di noi. Più deboli. Una donna non riuscirà mai a mettere nei suoi calci e nei suoi pugni la stessa potenza di un uomo. È un dato di natura», diceva, nel suo accento stranissimo, con un tono che non ammetteva discussioni. Hyoga si era chiesto cosa ne sapesse lui delle donne guerriero. Perché lo sapesse. Ne aveva forse incontrate, strada facendo? No, perché Isaac gli aveva detto che era stato un uomo ad accompagnarlo da Camus. Un bifolco. Non una donna. Così, quando Hyoga aveva chiesto al proprio maestro se esistessero anche donne guerriero, aveva visto qualcosa attraversare lo sguardo severo di Camus.
«Certo che esistono. Perché lo trovi strano?», gli aveva chiesto l’Acquario, un dito tra le pagine del Montecristo e gli occhiali da lettura in punta di naso.
«Perché non le ho mai viste», aveva ribattuto Hyoga, le maniche della maglia arrotolate e la pelle gocciolante di sapone per le stoviglie.
«Non hai mai visto nemmeno le giraffe. Eppure, quelle sai che esistono», aveva insistito Camus, librando il dito dalla presa delle pagine.
«Ma le giraffe le ho viste alla tv. Assieme alla mamma», aveva detto Hyoga, mordendosi la lingua subito dopo. Sua madre era un argomento tabù, con Camus. Vietato parlarne. Vietatissimo. Lo deconcentrava dal suo addestramento, diceva lui, così Hyoga si era adeguato e non pronunciava mai il nome di sua madre davanti al suo maestro. Pensava a lei, sì, giorno e notte, quando non ne poteva più di tutto quel freddo, dei calci e dell’acqua ghiacciata; ma non faceva mai il suo nome, nemmeno tra i denti, per paura che Camus lo sentisse e rincarasse la dose.
«Capisco», aveva detto Camus chiudendo il pesante volume e posandolo sul tavolo. «Ma allora, è molto strano che tu ti sia posto questa domanda. Chi ti ha parlato delle donne guerriero, Hyoga?»
E lui aveva taciuto. O meglio, ci aveva provato. Aveva tirato in ballo qualcosa di molto confuso, come l’eventualità che potessero esistere dei guerrieri donna, spiegazioni che Camus aveva ascoltato con un sopracciglio sollevato ed un’espressione indecifrabile sul viso che puzzava di piombo lontano un miglio.
«Dov’è Isaac?», gli aveva domandato, ponendo fine a quello stillicidio. 
«A spaccare la legna, maestro», aveva risposto, sistemando i piatti sullo sgocciolatoio.
«Vallo a chiamare. Partiamo per un allenamento speciale, lui ed io. Tu bada alla casa. E spala la neve. Intesi?»
«Intesi», aveva replicato Hyoga.
Erano rientrati dopo tre giorni, e l’espressione di Isaac era rancorosa. Non gli aveva parlato per due settimane di fila, nemmeno per chiedergli di passargli il sale. Era successo qualcosa, durante quell’addestramento speciale, ma Isaac non gli aveva mai spiegato la faccenda nei dettagli, né gli aveva mai confermato se fosse stato a causa sua che Camus l’aveva trascinato fuori in pieno dicembre, il cielo come tetto ed una serie di pelli di foca per riscaldarsi.
«Un guerriero è un guerriero», aveva detto Camus un paio di giorni dopo il loro rientro alla base, aprendo la sessione mattutina dell'addestramento. «Uomo o donna che sia. Invece di baloccarvi con simili sciocchezze, pensate al vostro avversario. Ché una donna non vi risparmierà. Non avrà paura di voi. Ma vi caverà gli occhi. Alla prima occasione che le si presenterà.»
Eppure, Hyoga non si sentiva a posto con la propria coscienza. L’aveva lasciata andare da sola. Era una, contro chissà quanti. Questa era la vera follia. Sì, lei era un Santo d’Oro. Come Camus. Come Milo. Sapeva badare a se stessa. Ma era un elemento solo. Non era onnipotente.
Che razza di uomo sei?, tuonò la voce di Isaac nella sua testa.
Hyoga si fermò. Si voltò. Strinse pugni e denti e tornò indietro. Di corsa. Volando, quasi, sulla neve fresca.
Uno che non lascia indietro un compagno, si rispose. E a Hyoga sembrò quasi di percepire il viso del suo vecchio compagno annuire soddisfatto.

 
«Il Santo dell’Altare ha rinunciato al suo voto.»
Aiolos e Saga gli rivolgono uno sguardo perplesso. Poi il Sagittario chiede: «Perché, Santità?».
Non ci crede, e questo Sion se l’aspettava. Yannick è stata la prima persona che s’è presa cura di lui e che l’ha addestrato a diventare un Santo di Athena. Rémy di Boote gliel’ha scodellato senza colpo ferire e il Santuario senza Yannick è qualcosa di inconcepibile, per la mente di Aiolos. È l’indifferenza di Saga, a lasciare il Sacerdote sul chi vive. Gemini e Altare condividono lo stesso rispetto per il protocollo ed il cerimoniale. Le regole, l’iter, tante piccole minuzie che, ai loro occhi, acquistano lo stesso valore delle pietre angolari su cui si fonda il Santuario stesso. Il Santo dell’Altare è il braccio destro del Sacerdote, da che mondo è mondo, e Sion ne ha visti sfilare quattro, di Santi dell’Altare, prima che le stelle chiamassero Yannick. Ma Saga non ha negli occhi la stessa vecchiezza che colora quelli di Sion. Allora, perché non si scompone? Perché non chiede? Perché, anzi, questa notizia lo rende quasi
felice?
«Questioni personali», risponde Sion.
«È… è
malato?», insiste Aiolos, la preoccupazione sul volto.
Il sacerdote annuisce.
«Non posso rivelarvi di più. Per rispetto nei suoi confronti. Yannick ha preferito così. Arriverà un nuovo Santo dell’Altare. E se non dovesse arrivare, voi ricoprirete questo ruolo. Siete i soli a cui io possa chiedere un simile compito. Posso contare sulla vostra collaborazione?»
«Sì, Santità», rispondono ad una voce sola Sagittarius e Gemini.
«Per oggi è tutto. Andate», dice loro Sion, accompagnando le sue parole con un gesto della mano. Li osserva uscire dalla Sala delle Udienze e richiudersi il pesante portone a doppio battente alle spalle. Solo allora, Sion si rilassa sullo scranno, appoggia la testa e rilascia un sospiro.
«Athena, aiutaci», mormora tra le labbra secche, il cuore scosso dall’incertezza. La partita è cominciata. Lui, quando uscirà di scena?


 
Le catene danzavano nell’aria gelida.
Ikki osservava suo fratello con uno sguardo preoccupato Dovresti startene a letto, dicevano i suoi occhi – diceva ogni fibra del suo essere – ma Shun era stato irremovibile. Stavano succedendo troppe cose tutte assieme, e lui non se ne sarebbe rimasto zitto e buono a letto, nossignore.
«Aspettatevi i problemi e mangiateli a colazione», diceva il suo maestro, e se da un lato Ikki si sentiva di sposare quest’atteggiamento ad occhi chiusi, dall’altro c’era Shun di mezzo. E Ikki sapeva quanto diventasse poco razionale quando si trattava di suo fratello minore. Era cresciuto, sì. E la risolutezza che aveva visto negli occhi di Shun, al suo risveglio, l’aveva piacevolmente sorpreso; ma, allo stesso tempo, si era sentito meno indispensabile del solito. E questo, invece di liberargli le ali dalle catene della responsabilità, gli aveva piombato il cuore.
I cosmi di Ichi e Nachi erano spariti meno di mezz’ora prima. Ikki li aveva sentiti spegnersi di colpo, come quando si soffia sulla fiamma di una candela e resta solo il fumo. Il cosmo di Hyoga era ancora sano e salvo, mentre era sparito quello d’oro.
«La cosa non mi piaceva prima e non mi piace adesso», aveva detto la Fenice prima di lanciarsi all’inseguimento, seguito a ruota da Shun. E adesso, nel bel mezzo del nulla, l’Armatura di Andromeda li stava aiutando a capirci qualcosa, di tutta quella sciarada.
Le catene si muovevano come se fossero una cosa viva. Serpeggiando, in onde fatte di anelli metallici che avevano un movimento ritmico. Come un tracciato cardiaco, o le onde del mare. Shun stava al centro, le palpebre abbassate, in ascolto. Le sue catene gli stavano parlando, in una lingua che capivano solo loro, fatta di clang clang e silenzi di metallo. A Ikki sembrò di essere quasi di troppo. Poi la catena dalla punta triangolare alzò la testa – alzò l’estremità a triangolo – e questa prese a puntare dritto davanti a sé, come il cobra che osserva la mangusta prima di sputarle il veleno negli occhi.
Shun dischiuse le palpebre.
«Di qua», disse, mettendosi a correre nella direzione che la catena gli stava indicando. Ikki lo seguì. Qualche centinaia di metri più in là, c’era un cumulo di neve fresca alto una ventina di centimetri che bucava l’orizzonte, e niente che giustificasse un simile rialzo. Nessun albero. Nessun tronco caduto. E la catena puntava proprio verso quel cumulo.
«Vai, bella!», esclamò Shun e le punte della Catena di Andromeda si infilarono sotto la neve, producendo uno sboff attutito.
«Che succede?», chiese Ikki, fermo accanto a lui.
«La catena. Ha trovato qualcosa», disse Shun, mentre gli anelli scivolavano attorno al suo braccio come fossero le spire di un boa.
«Fa sempre così?»
«Così, come? Non capisco.»
«Comunicate, voi due?», domandò Ikki. «Perché la tua catena sembra proprio viva
«È viva», replicò Shun. Poi gli anelli della catena si immobilizzarono. «Ci siamo!», esclamò Shun e diede uno strattone all’indietro. Due corpi sbucarono da sotto il cumulo di neve. Erano quelli di Ichi e Nachi. Immobili.
«Fra… fratello?», mormorò Shun, gli occhi sgranati. E in quell’istante Ikki capì che no, suo fratello non era andato da nessuna parte. Era sempre lì, accanto a lui, pronto a stringere la sua mano qualora ne avesse avuto bisogno.
«Aiutami. Presto!», disse Ikki. Si chinò sul primo dei due – Nachi – e infilò l’indice sotto al mento. «C’è battito. Debolissimo. Ma c’è.»
«Anche qui», disse Shun. Poi si accorse che Ichi stava riaprendo gli occhi. «Ehi, come stai? Tutto bene? Riesci a sentirmi?»
«Hyo… ga…», mormorò l’Idra, le labbra bluastre.
«Hyoga? Che è successo a Hyoga?!», domandò Shun, gli occhi allargati dall’apprensione.
«È in peri…co…lo…»
E Ichi svenne, lasciando Ikki e Shun a guardarsi negli occhi, persi in quel bianco accecante che sembrava quasi ridere di loro.

 
 

 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Ochei, forse non siamo ancora ai pestaggi veri e propri, ma possiamo accontentarci, no?

Yannick dell'Altare fa parte del mio headcanon. La Teshirogi ci ha spiegato che il Santo dell'Altare è il braccio destro del Sacerdote. Ora, io non so voi, ma tra la versione dell’anime e il casino fatto nell’edizione italiana (ok, i copioni arrivavano lacunosi, ma queste non sono lacune, sono trafori grossi quanto quello del Fréjus), io non ho ancora capito se Arles/Ares o chi per lui esistesse davvero e Saga si fosse sostituito a lui – e quindi il Sacerdote era morto; ma allora perché Marin si stupisce di trovare il corpo del Sacerdote sull’Altura delle Stelle? Di cosa è stupita? Che il Sacerdote sia morto, che quel cadavere sia giovane o che il cadavere sia sull’Altura? – o se ci sia stata una mezza chilata di confusione sparsa nel reparto copioni.
Ad ogni modo, Yannick dell’Altare viene da Saint Malo, nella regione francese della Bretagna. Coi bretoni non si scherza, specie coi malouin. Semper Fidelis è uno dei motti di Saint Malo. L’altro, quello recitato da Yannick, è la sua versione più popolare.

Aspettatevi i problemi e mangiateli a colazione è una frase che appartiene ad Alfred A. Montapert.

La distinzione tra daimon e theos necessiterebbe di più spazio. Ridotta in parole povere, gli antichi greci indicavano come daimon le forze soprannaturali a metà strada tra l'umano ed il divino propriamente detto (theos); ma, quando non potevano dare un nome all'entità soprannaturale che era intervenuta nella loro vita, gli uomini la indicavano come daimon, anche quando, in realtà, si trattava di un theos, come fa Ulisse quando rivela a Nausicaä che non sa quale sia stato il daimon che l'abbia fatto approdare sulle spiagge di Schia. Oddio, non ci volesse molto a cpaire che si trattasse di Athena, ma suvvia. Non cerchiamo il pelo nell'ouvo.

Al prossimo aggiornamento!
Nella speranza che io mi ricordi come si fa a scrivere, ça va sans dire.

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Capitolo 23
*** 23. ***


23.




Le braccia lungo i fianchi, l’espressione stanca e qualche ruga attorno agli occhi, il ragazzo resta sulla soglia, lo sguardo speranzoso del cane ubbidiente che attende un cenno del padrone per poter respirare.
Fa caldo, oggi. Un caldo infernale, e giugno è appena iniziato. La Polvere di Stelle resta attaccata alle dita e non sull’Oricalco. È uno spreco, di tempo e di materiali. Converrà lavorare di notte. Alla luce delle lanterne e poi dare gli ultimi tocchi all’alba, quando la luce è pura e assoluta e tutto il mondo sembra nuovo di zecca.
Il ragazzo è una statua di sale. Sion non lo conosce. Ha un aspetto familiare, ma non sa dire quale sia il suo nome, o se, piuttosto, non lo stia confondendo con uno degli abitanti di Rodrio.
Posa lo scalpello, si asciuga il sudore dalla fronte e gli chiede: «Mi passeresti la lima?».
Il ragazzo sembra riaversi.
«Quale?», chiede, afferrandone un paio.
«Quella a grana più fine», gli risponde Sion, indicandogli l’unica lasciata sul tavolo. Un tintinnare sordo, un fruscio e poi la lima giusta appare nel campo visivo del Santo dell’Ariete. «Grazie», dice, afferrando lo strumento dalle mani tremanti del ragazzo.
Lo sente schiarirsi la voce con un colpo di tosse. Si volta.
«Nobile Sion.» Gli occhi del ragazzo sono fissi sul bracciale sinistro dell’armatura del Capricorno, le labbra ridotte ad una linea dura e la mascella serrata. Si arrotola le maniche sugli avambracci. «Permettetemi di…»
Sion gli posa una mano sui polsi. Tremano.
«Non ce n’è bisogno», dice. È venuta una donna, per El Cid. Gli occhi bassi, la pelle diafana, il ventre rotondo. «Non ci sono grosse riparazioni da fare. Ha riportato solo qualche graffio. Il suo proprietario la trattava con cura.»
«Lo so.» Il ragazzo abbassa lo sguardo sui suoi piedi. Se Sion l’avesse schiaffeggiato, gli avrebbe fatto meno male. «Non passava sera che non ne controllasse giunture e cerniere. E poi noi dovevamo lucidarla fino a che lui non poteva specchiarcisi sopra. Me lo rammento bene…»
Sion annuisce. Gli lascia andare il polso e si volta. Ha bisogno di un momento, quel ragazzo dall’aspetto simile ad un cane randagio. Uno di quelli che è scappato, un bel giorno, per correre appresso ad un uccello o seguendo l’impeto del momento, e che gironzola attorno, in cerca di una sua strada.
Si serve Athena in molti modi, diceva il suo maestro. Combattendo, certo. Ma anche aspettando il suo ritorno. E preparando il necessario per quando ci ritroveremo, faccia a faccia, ancora una volta.
«Parto», esordisce il ragazzo, strappando Sion alle proprie elucubrazioni. «Mi imbarco per i mari del Sud.»
Bizzarro. Sembra quasi che tutti lo vogliano abbandonare, e lasciarlo da solo con quella ferraglia silenziosa e un Santuario in macerie.
«Accompagno uno studioso francese. Lacaille, si chiama. S’è messo in testa di disegnare una mappa delle stelle del sud. Gli do una mano.»
Sion tace. Chi meglio di un Santo di Athena conosce le stelle e come si siano disposte nella volta celeste?
«So che adesso siete voi, il Sacerdote di Athena.»
Sion non si è ancora abituato a quel titolo. Gli cade male addosso, come se fosse un vestito smesso da qualcun altro che non si adatta alle sue spalle, alla lunghezza delle sue braccia, al colore pallido della sua carnagione.
«È così», dice, dopo qualche secondo di incertezza. «Ma tu non sei un Santo di Athena…»
Non c’è livore nelle sue parole, e il ragazzo se ne accorge. È solo una mera constatazione. Niente più.
«No. Mi è mancato il coraggio per compiere l’ultimo passo», ammette con sincerità. «Ma il mio cuore è rimasto fedele alla Dea.»

Sion lo osserva, come a dirgli di proseguire.
Il ragazzo sembra cercare le parole giuste nelle tasche sformate. È come se avesse provato quel discorso più e più volte, ma ora, a metterlo in scena, scricchiola.
Le cose non vanno mai come ce le siamo immaginate, pensa Sion, che non avrebbe mai sperato, nemmeno nei suoi sogni più proibiti, di sopravvivere ai suoi compagni. Anzi. Qualcosa, dentro di lui, sapeva che sarebbe stato uno dei primi a cadere, prima ancora di Albafica, di Manigoldo, di El Cid, così da non sperare più di sopravvivere. Un sentimento vigliacco quanto umano. Ma un guerriero certi pensieri non può permetterseli. Un guerriero deve puntare alla battaglia, a spargere il sangue del nemico sul terreno prima che tocchi a lui tingere il mondo di rosso, evitando di chiedersi se la prossima missione sarà l’ultima.
«Santità», dice. Trattenendo respiro e parole tra i denti. Poi prende coraggio e si lancia. «Santità, datemi la vostra benedizione.».

La mia cosa?
Sion osserva la testa del ragazzo, che, in ginocchio, pende dalle sue labbra. Dargli la sua benedizione. Ancora non si è abituato. Il primo istinto è stato quello di rimpallarlo al Sacerdote. Un sorriso amaro piega le labbra di Sion, ché le abitudini sono dure a morire, specie quando sei un bravo soldatino obbediente e sempre sull’attenti.
«Spiegami perché dovrei, visto che non sei un Santo di Athena…»
«Una volta il Sommo Sysiphos mi disse che si serve Athena in molti modi.»

Touché.
«Forse sarebbe stato il caso di venirmene a parlare prima. Non credi?», ribatte, con un’inflessione troppo severa. Lo vede sussultare. «Ad ogni modo, spiegami in cosa consisterebbe il tuo apporto.»
«Aiutare
monsieur Lacaille a trascrivere le corrette coordinate delle stelle. C’è una mappa da tracciare, Santità, e mi piacerebbe che fosse Athena ad indicare agli uomini le costellazioni. Dopotutto, è a lei che appartengono, giusto?»
«Forse l’umanità dovrebbe sbrigarsela da sola», borbotta Sion, osservando la grana della lima in controluce. È fina, sì; ma per ultimare il suo lavoro gli occorre qualcosa di più sottile ancora. Un velo di sabbia appena.
«Forse sì, Santità…»
Sion sospira.
«O forse no. Forse ad Athena farebbe piacere indicare le stelle agli uomini.» Il viso sorridente di Sasha si affaccia alla mente di Sion, assieme alla fragranza di fiori d’angelo del suo braccialetto. «Sarebbe bizzarro se questo tuo studioso le nominasse in maniera… poco coerente col mito. Giusto?»

Il ragazzo torna a respirare. Le spalle si rilassano, i muscoli del collo si ammorbidiscono. «È quello che ho pensato Santità», dice. Sollevando la testa e regalandogli uno sguardo sereno e colmo di speranza.
«Però dobbiamo usare prudenza. Qualche accorgimento.»
«Potete fidarvi di me, Santità. Io non…»
Due dita di Sion si pongono sulla fronte del ragazzo. «Come ti chiami, figliolo?»
«Pa…» Deglutisce. «Pakia, Santità.»
«Io ti riconosco servo di Athena e come tale ti impongo il vincolo della
Sigé, Pakia. Non rivelerai nulla del Santuario. Nulla. Né un nome, né una mezza parola, neppure una confidenza. Nulla, intesi?»
«Intesi, Santità.»
Non c’è bisogno di illustrargli le conseguenze del suo gesto. C’è una fiamma ardente e sincera, nel suo animo. Sion prega che possa aiutarlo. I polpastrelli sporchi di Polvere di Stelle e limatura di Oricalco si staccano dalla fronte di Pakia.
«Adesso vai», gli dice. «Hai una missione che ti aspetta, giusto?»
Pakia tentenna. «La nave parte domani mattina. Ho giusto il tempo di badare ad un paio di commissioni.»

E allora che diamine aspetti?, vorrebbe chiedergli Sion.
Pakia si alza in piedi. «Santità, per favore. Permettetemi di aiutare», dice. Mostrandogli le vene del polso destro.
«Ti assicuro che la corazza del Capricorno è a posto. El Cid era molto scrupoloso e…»
«Lo so», ribatte Pakia, con una serenità che, adesso, lo ringiovanisce di almeno dieci anni. «Ma le corazze dei miei compagni non sono state altrettanto fortunate. È per loro, che vorrei donare il mio sangue. Noi quattro saremmo dovuti essere la Nave Argo. Vele, Timone, Poppa e Bussola. Vorrei che una parte di me riposasse dentro quelle corazze. Potete accontentarmi, Santità?»
Le vene azzurre tracciano una scia ben visibile sulla pelle morbida del polso.
Sion lo accontenta. Il sangue ruscella in una coppa di cristallo, nell’aria immobile del Santuario.
«Ecco fatto», dice Sion, legandogli stretta una benda. «Però…»
«Però?»
Lo sguardo di Pakia è incuriosito, quello di Sion tranquillo come un cielo estivo.
«Quando tornerai voglio che mi racconti per filo e per segno cosa hai visto laggiù.»
«
Se tornerò…»
«Tornerai. Non vuoi vedere le corazze dei tuoi compagni restaurate?»
Pakia annuisce. «Certo, Santità.»
«Visto che ti avanza tempo, passami quel paio di tenaglie. Abbiamo un bel po’ di lavoro da fare, qui…»




La sera stava scendendo a velocità impressionante.
Presto il buio avrebbe avvolto il cielo e il freddo avrebbe iniziato a fare sul serio. Hyoga velocizzò l’andatura. Attraversando un bosco di betulle si era imposto di non rompere il silenzio ovattato scandito dalla neve che i rami esausti lasciavano scivolare a terra in un tonfo; ma quell’assenza di vita lo preoccupava. Non c’erano segni di battaglia, a terra, né orme sulla neve. Strano, considerando che, poco più di un’ora prima, l’aria fischiava di colpi d’avvertimento, bordate per rompere il ghiaccio e la noia, o poco più.
Dov’erano finiti tutti?
La Siberia se li era ingoiati tutti neppure fossero tartine extra-large?
Concentrati, si impose il Cigno. Si fermò in mezzo a quattro alberi disposti a croce. Chiuse gli occhi. Espanse il proprio cosmo. Nulla.
«Coralie!», chiamò, lasciando che il vento portasse quelle tre sillabe a spasso per l’aria fredda. «Ichi! Nachi!»
Niente. Nessuna risposta.
Hyoga si guardò attorno, quando il vento gli portò un tintinnio. E vide una sagoma, in lontananza. Poco più bassa di lui, i capelli che danzavano nell’aria, i coprispalle a spiovente dell’armatura.
«Andromeda?», si chiese Hyoga, spalancando gli occhi azzurri, la voce ridotta ad un sussurro nel vento. No, non poteva essere lui. L’hai quasi ammazzato. E l’hai seppellito ancora vivo sotto terra. L’hai lasciato a Kohobotek, mezzo assiderato. Ora, come può essere qui, davanti a te, senza Ikki?, si disse, portandosi nella posizione dell’oplita. Ma poi la figura si avvicinò, piano piano, e sì, il suo aspetto era quello di Shun. Senza ombra di alcun dubbio.

Le catene di Andromeda guizzarono come fruste nella sua direzione, affondando nella neve fresca, davanti ai suoi piedi.
«Shun…», mormorò Hyoga, il braccio destro abbassato di un’inezia. Quel poco che sarebbe bastato a Camus per riprenderlo, e sollecitarlo ad assumere una corretta posizione, ché il nemico, no, non ti fa la cortesia di attendere, lui attacca e basta e spera di farti trovare pronto quando i suoi pugni ti colpiranno al petto, al volto, allo stomaco.
Ma Shun non lo riprese. Tacque. Aveva un sorriso stanco sul viso, l’espressione provata di chi si sarebbe risparmiato volentieri una passeggiata in mezzo alla tormenta. Fece un passo avanti, e Hyoga indietreggiò.
«Sei qui», disse, l’espressione indecifrabile del gatto che fronteggia un grosso cane rabbioso.
«Shun!», gridò il Cigno, per sovrastare il fischio del vento che gli sferzava la faccia e giocava coi lunghi capelli di Andromeda. Come stai? Non ti ho fatto troppo male, vero? Non avercela con me. Non ero io, Shun. Davvero. Io… «Che ci fai qui?»
«Sono venuto a cercarti», gli rispose Andromeda, le catene che tintinnavano tra le mani.
«Ma dovresti stare a letto! A riposo! Tu…»
«Sto bene», tagliò corto Shun, i capelli che svolazzavano sul viso. «E c’è bisogno di me. Tu hai bisogno di me.»
«Io sto bene, Shun. Ci sono Ichi e Nachi, con me.»

Shun scosse la testa. «Li abbiamo trovati Ikki ed io. Sotto la neve. Mezzi morti dal freddo.»
«Cosa?»
«Il medico del tuo villaggio si sta occupando di loro. Ci raggiungeranno appena possibile.» Pausa. «Ikki è qui attorno. Ci siamo divisi per cercarti meglio», disse Shun, facendo per voltarsi e tornare da dove era venuto. «Vieni, dobbiamo ricongiungerci.»
«E Coralie?», domandò Hyoga, bloccando l’altro a metà strada.
«Non è con te?»
«No! Ci siamo… divisi ad un certo punto.»
«Perché?»
«Qualcuno ci stava attaccando. E allora lei è rimasta ad occuparsi di loro.»
«Questa faccenda non mi piace», disse Shun. «Ricongiungiamoci con Ikki. Poi decideremo il da farsi.»
«Ci eravamo dati un altro appuntamento», disse Hyoga, guardandosi attorno.
«Dove?», chiese Shun.
«A Nord. Per non mettere in pericolo l’equipaggio.»
«A Nord. Un po’ vago…» Andromeda sospirò. «Troviamo Ikki. Poi decideremo.»
«E se lei fosse…»
Shun  gli regalò uno sguardo indecifrabile. «Coi se e coi ma non si fa la storia, Hyoga. Dobbiamo avere fiducia. In noi stessi, e nei nostri compagni. Come al Santuario», disse, dandogli la schiena ed incamminandosi per la strada da cui era venuto. «Vieni, o devo trascinarti in catene?», gli chiese continuando ad avanzare nella neve e nel vento.
Riluttante, Hyoga lo seguì. Avrebbero trovato Ikki, si sarebbero chiariti e poi si sarebbero riorganizzati. «Arrivo.»
 


La luce è ancora accesa.
La sigaretta che ha acceso per ammazzare il tempo è quasi consumata. I mozziconi a terra sono già tre. Davanti ai suoi occhi, oltre alle fronde dell’albero che Gaizka piantò quando sposò Ana, c’è un tappeto di stelle, ma lui non se la sente di affacciarsi. Il cielo stellato può dare sensazioni sgradevoli. È paradossale, ma è così. Se si fissa il cielo stellato, si può arrivare a convincersi di poter allungare le dita e cogliere quelle stelle, assieme ai sogni. E lui si chiede se si meriti un desiderio come quello che luccica, caldo e dorato, oltre quella finestra.
Cinque anni. Forse dieci. La vecchia Agata non ha mai sbagliato un colpo. Il Sacerdote le crede. Ciecamente. Perché non dovrebbe farlo lui? Però, Ruy si chiede lo stesso se sia giusto quello che il suo cuore lo sta spingendo a fare.

Javier ha capito che dev’esserci qualcosa dietro al suo ritorno, ma non ha fatto domande. Gli ha solo chiesto se avesse vinto alla lotteria, per avere tutte queste licenze in un colpo solo, ma si è fatto bastare delle scuse raffazzonate che non avrebbero convinto nemmeno lo scemo del villaggio.
Licenze arretrate. Come se un Santo di Athena avesse diritto ad un tot di giorni all’anno, nemmeno fosse un soldatino che ogni tanto appende il suo bel fucile al chiodo.

Che sto facendo?, si chiede, abbandonando l’ultima sigaretta al suo destino, gli occhi che non riescono a staccarsi dal primo piano dell’Emporio di Orreaga. Non può restare lì in eterno. Qualcuno potrebbe passare. Qualcuno potrebbe vederlo. E farsi due risate, alle sue spalle. E se si affacciasse Nahia? O Andeka?

Ciao Ruy, che ci fai di bello sotto casa mia?
Aspetto tua figlia.

Ma anche ammesso che Andeka non gli stacchi le palle a morsi, cosa le direbbe?
Ho cinque anni, forse dieci, prima che la mia vita esploda?

Una storia con la data di scadenza…
Scuote la testa, infila le mani nelle tasche dei calzoni, la sciarpa allentata sulle spalle. Un’ultima occhiata alla costruzione di mattoni giallo ocra, la frustrazione che monta come un’onda di marea che minaccia di portarsi appresso navi, scogli, porto e linea di costa, e fa per girare sui tacchi, quando la finestra si apre. Uno spiraglio appena, ma sufficiente perché un gattino vi passi attraverso. Punta i suoi occhietti scintillanti su di lui, annusa l’aria e poi libera un «Miao!» così squillante da rompere il silenzio della notte con la stessa grazia di una fucilata.
«Carbone! Vieni qui!»

Ruy si ritira nell’ombra. Per prudenza.
La finestra si spalanca e Alazne si affaccia sul davanzale, un braccio ad afferrare, invano, la coda del gattino, che scarta le sue dita, salta sul ramo più vicino dell’albero e zampetta indifferente sulla corteccia, gli occhi puntati su di lui.
«Miao!»

E adesso?, si domanda, mentre il gattino inizia la sua discesa. Pianta le unghie, si puntella, ma qualcosa – il suo sederotto ben pasciuto – lo sbilancia.
«No!»
La voce di Alazne è uno strillo soffocato. 
E lui si ritrova ad arrampicarsi sull’albero, nemmeno fosse uno di quei pompieri che appaiono nelle pellicole americane. Il gattino protesta. Miagola, ma lui riesce ad afferrarlo e a portarlo in salvo.
«Ruy?»
Gli occhi di Alazne sono così sgranati che minacciano di cadere dalle orbite e rotolare a terra, come biglie extra-large.
«Fammi posto, scricciolo», sussurra, quanto basta perché lei si ritragga dal davanzale.
Un piccolo salto, ed il gattino torna a zampettare sul pavimento della stanza di Alazne. Come se niente fosse.
«Menomale…» Alazne sospira, le mani che ancora tremano. «Se gli fosse successo qualcosa…»
«Che ci fa lui, qui?»
Ruy la osserva, appollaiato sul davanzale, la sciarpa allentata.
«Lupe è da sua sorella», gli spiega. «Così gli bado io.»
«Ah.»
«Credevo di aver chiuso la finestra. Davvero. Forse il legno s’è gonfiato e…»

Ruy non l’ascolta. La osserva, piccola e bionda, nella stanzetta che occupa da quand’era alta poco più che un soldo di cacio. Il letto, dalla testiera con volute d’ottone da cui penzola un rosario di madreperla, ospita una serie di orsacchiotti, peluche e bambole di pezza. Sulla scrivania, ingombra di libri, spicca un portapenne color rosa confetto. Il manichino da sarta, nell’angolo, sfoggia un bizzarro cappello azzurro ed diversi fili di perle colorate.

È ancora una ragazzina, si dice Ruy. E all’improvviso si dice che no, non può. Non sarebbe giusto. Anche se quella stella, quel desiderio, brilla nel cielo con un’intensità tale da fare male. Basta stringere i denti, abbassare lo sguardo e tornare indietro e…
«Ruy?»
«Cosa?»
L’ha colto in contropiede. Lei piega la testa di lato, una ciocca che sfugge dalla coda allentata e scivola sullo sprone del maglione ai ferri.
«Che ci facevi da queste parti? Non riesci a dormire?»
Tace. Le regala uno sguardo allarmato. Bella domanda, ché lui non s’è preparato nulla, nessun discorso da dirle. Ha solo seguito il cuore ed è uscito nella sera, le sigarette in tasca la sciarpa sul viso ed un cappottaccio che ha visto tempi migliori.

E adesso? Adesso che mi invento?
«Più o meno», le dice. Facendo per girare sui tacchi e tornarsene alla baita di Javier. Si vede che le cose non devono andare così.
«Quando riparti?»
La voce di lei lo ferma a metà strada.
«Presto», le dice, ché stavolta è riuscito a sgraffignare davvero poco tempo. «Presto», ripete, come a voler risultare convincente alle sue stesse orecchie più che a quelle di Alazne.
«Ah», mormora lei, le dita intrecciate e lo sguardo abbassato. «È che io… insomma… speravo che…»
«Che?»
I suoi occhi sono un pugno allo stomaco, di quelli che strappano il fiato dai polmoni e mandano al tappeto senza appello.
«Che ti saresti fermato per un po’. Non ti si vede mai.» Sospiro. «Lo so, lo so. Tu hai i tuoi doveri da Santo e va bene. Ma io… io vorrei…»
Le sue mani agiscono prima che lui stesso se ne accorga. Le cinge il viso tra le dita, con la stessa delicatezza con cui si maneggia un cristallo fragilissimo, e si porta a pochi centimetri dal suo viso.
«Adesso sono qui.»


 

Maša scoccò loro un’occhiata severa, poi uscì dalla stanza a grandi passi e si richiuse la porta alle spalle con un suono secco e duro.
Ikki tacque. Guardò Ichi e Nachi, distesi sotto una montagna di coperte come lo era stato suo fratello fino a poche ore prima.
«Se solo ce ne fossimo accorti prima…», mormorò Shun.
«Che cosa avremmo potuto fare?», domandò Ikki. Stanco. «Se non chiedi aiuto, è difficile intervenire.»
«Però… avremmo potuto…»
Ikki scosse la testa. «Questo discorso non ci porterà da nessuna parte, Shun. Lo sai. Evitiamo di spendere tempo ed energie in discussioni sterili.»
Shun fece per ribattere che non era d’accordo, quando il dottor Alëša diede un colpo di tosse, ripose il fonendoscopio nella borsa di pelle e si voltò. La sedia cigolò. L’uomo rivolse loro un sorriso timido.
«Se la caveranno. Potete stare tranquilli», disse, in un inglese stentato, ma comprensibile. Sorrise, le mani nelle tasche dei pantaloni stazzonati.
«Grazie al cielo», mormorò Shun. 

Scese il silenzio nella stanza. Alëša si avvicinò al caminetto e osservò il fuoco. «Mi spiace. Maša ha reagito male», disse l’uomo, sfilandosi gli occhiali dal naso. Avevano una montatura antiquata e le lenti erano grandi, spesse e opache. «Non è cattiva. È solo un po’ Kikimora. Ma non ditele che ve l’ho detto, eh. Mi tirerebbe il collo.»
«Una… cosa?»
«Kikimora
«E che cos’è?», chiese Ikki, le sopracciglia aggrottate.
«Non so come si dice nella vostra lingua. Si tratta di una… strega, credo. Qualcuno che brontola sempre, da mattina a sera. Ma non è cattiva. Solo… Kikimora, ecco.»
«Posso chiederle una cosa, dottore?»
Alëša annuì.
«Da quanto tempo va avanti questa storia?»
L’uomo guardò le fiamme, poi si strinse nelle spalle. «Non te lo so dire. Io mi occupo di diversi villaggi. Sto qualche giorno qua, qualche giorno là. È arrivata una donna che li ha terrorizzati. Il villaggio doveva dire che Hyoga non si era visto da queste parti, altrimenti…»
«Altrimenti?» Lo sguardo di Ikki era quello di chi si sta avvicinando alla verità, piano piano, e si ritrova con il desiderio – con la smania – di mettersi a correre. Come se la verità potesse sfuggirgli di mano.
«Altrimenti avrebbero distrutto anche le altre case. La prima è stata quella del vecchio Kolja. Per dare un esempio. Quando sono rientrato, la casa non c’era più, e Kolja era morto dallo spavento, poveretto…»
«Hyoga non era con lei? Sicuro?»

Alëša annuì.
«Sicuro, purtroppo. Hyoga non avrebbe mai permesso una cosa del genere.» Si strinse nelle spalle, poi aggiunse: «Te l’ho detto. Maša è una kikimora, ma le kikimore non mentono. Mai.»
Shun scoccò uno sguardo al fratello. «Dobbiamo trovarlo. Subito», disse Andromeda.
Ikki annuì. Ichi e Nachi dormivano saporitamente, al calduccio.
«Va bene. Andiamo», disse. «Dottore, potrebbe riferire loro un messaggio?»
«Sicuro!»
Ikki si avvicinò. Posò una mano sulla spalla dell’uomo, che si ritrasse, spaventato forse dalla cicatrice che decorava la fronte del Santo della Fenice.
Si avvicinò al suo orecchio e mormorò qualche parola.
«Ha capito?», chiese. Alëša annuì.
«Ho capito», disse. «Glielo dirò non appena si svegliano.»
«Perfetto. Ci conto.»
«Senti. Puoi fare lo stesso con Hyoga, da parte mia?»
«Sicuro.»
L’uomo si avvicinò all’orecchio e mormorò una parola, secca nonostante suonasse come un arrotolarsi della lingua su se stessa. Una parola che profumava di sigarette e vodka a buon mercato.
«Durak?», ripeté Ikki. «Che significa?»
«Hyoga capirà.»

 

«Mio signore. È arrivata la vostra ospite.»
Occorrerà rivedere il protocollo. Gli piace la cerimoniosità con cui i suoi sottoposti si rivolgono a lui. La adora. Lo fa sentire onnipotente. Importante. Temibile. Ma a volte è superflua. Come adesso, in questo konditori decorato nei toni del rosso.
Fuglen. Suo padre va matto per il loro caffè e la torta alle mandorle. «Devi provarla. È stre-pi-to-sa», ma suo padre non è obbiettivo, in certi casi.
Dategli qualcosa di rosso, e vi rivolterà il mondo, pensa rigirando il cucchiaino di legno nel suo caffè.

Lukas solleva appena lo sguardo. Oltre il viso sorridente di Ullr, c’è lei. Una ragazza. Capelli lisci e neri, aria spaurita, abbigliamento di taglie sbagliate – troppo grande il cappotto, troppo piccola la gonna – le dita strette attorno alla tracolla della borsa. Ha la pelle screpolata e il naso rosso. Non è truccata, ma Lukas non fatica ad immaginare come doveva essere qualche anno addietro, quando dalla sua aveva la freschezza dei vent’anni, un amore nel cuore e un fisico più snello e longilineo.
Mangiare per dimenticare. Che solenne fesseria, pensa, rivolgendo un sorriso discreto alla sua ospite e ripiegando il giornale.
«Prego, prego», le dice, indicandole la sedia imbottita davanti a lui. Si alza. Ullr sgrana gli occhi. È cavalleria, nient’altro. Suo padre – quello che lui credeva essere suo padre – lo ha educato così e certe abitudini sono dure a morire. E qualcosa – il sesto senso, diciamo – gli suggerisce che non dispiacerebbero neppure al suo padre biologico.
«Grazie per essere venuta», le dice. Ignorando il tonfo con cui lei è caduta sulla sedia. Si guarda intorno. Spaesata, l’aria confusa di chi non ha mai messo il naso fuori dal suo villaggio.
«Caffè?», le chiede. Per catturare la sua attenzione. Perché la smetta di guardarsi attorno come se il mondo attorno a lei fosse nuovo di zecca, con la plastica ancora attaccata. «Una fetta di torta?»
«Ca…» Le esce un suono stridulo. Si schiarisce la voce con un paio di colpi di tosse, poi pronuncia un: «Caffè. Grazie.», che in un altro momento – e con una dozzina di chili in meno – gliel’avrebbe fatta sembrare deliziosa. Un bocconcino da assaporare in punta di lingua. Come un cioccolatino dopo il caffè.


Lancia un’occhiata a Ullr, che annuisce ed esegue. Torna ad osservare il bel viso della donna che si trova di fronte. Cecilia, si chiama. Occhi azzurri – abbrutiti da due profonde occhiaie – che gli chiedono cosa voglia uno come lui da una come lei. Non ci conosciamo. Perché se ci conoscessimo, io non sarei ridotta così. Questo gli sta dicendo il suo sguardo. Con una sicurezza che contrasta con la sua postura. Siede sul bordo della sedia, le gambe piegate di lato e il cappotto ancora indosso. Sta valutando l’opzione di alzarsi di corsa, prima che Ullr sia di ritorno col suo caffè, imboccare la porta e dileguarsi tra la gente. Non le correrà mica appresso, giusto? E poi, anche ammesso, lui dovrà superare il tavolo. Lei no. Lei ha la porta a due passi. Deve solo trovare il coraggio di alzarsi ed andarsene, prima che…
«Il suo caffè.»
Sobbalza sulla sedia, come se qualcuno l’avesse centrata in pieno con una secchiata d’acqua gelida. Ullr le posa la tazzina davanti. Il cucchiaino tintinna sul piattino di porcellana bianca. Essenziale. Minimalista. Poi Ullr le fa un piccolo inchino e sparisce, tirando le tende alle sue spalle.
Lei si guarda intorno. Spaventatissima.

Piccola, ingenua creatura, pensa Lukas, ripiegando con cura il tovagliolo. Poi ripesca il sorriso delle grandi occasioni, un’espressione che la faccia sentire a proprio agio e le chiede: «Zucchero?», porgendole una zuccheriera ben panciuta.
Lei continua a fremere. Lui si sta stancando di quel gioco, ma si costringe a proseguire. Posa la zuccheriera, poi le dice: «Spero che il viaggio sia stato piacevole.».
«Piacevolissimo», ribatte lei. «Ma non ho molto tempo da dedicarle. Il treno parte tra meno di un’ora.»

Bugiarda, pensa lui. «Capisco. Ma se mi darà ascolto, Cecilia, non avrà bisogno di salire su quel treno…»
Lo guarda come se si fosse messo a sputare fuoco dalla bocca. «Non credo di aver capito.»
«Ha capito benissimo, mia cara», ribatte, il sorriso luccicante della tagliola nell’erba alta. «Suo marito non sarà più un problema.»

Cecilia fa per alzarsi. Scosta la sedia con rumore, la borsa le scivola dalla spalla. Il caffè nella tazzina beccheggia, il cucchiaino tintinna.
Ullr non si affaccia. Non ce n’è bisogno. «Si sieda», le dice lui. Congelandola sul posto. «Sono un amico di Sven.»
Cecilia sgrana gli occhi. «Sven?», chiede. Quasi sussurrando quel nome. Le ginocchia le cedono. Piomba sulla sedia con un tonfo sordo, uno
sboff del cappotto attorno alle spalle. «Sven, ha detto?»
Lui annuisce. «Sono un suo amico. Lukas. Sven sta bene.»
A Cecilia manca l’aria. «Io… io…»
«Non deve dirmi nulla. So tutto. Sven mi ha raccontato a grandi linee cos’è successo. Mi ha chiesto di controllare che lei stesse bene… ma se posso essere sincero, Cecilia, lei non sta bene. Affatto.»
Si muove sulla sedia. «No, io…»
«Non menta. Lars non è qui. Lars non può farle alcun male.»
«Io…», biascica. Poi scoppia a piangere fragorosamente, il viso dietro alle mani screpolate. Ha le unghie irregolari. Alcune morse a pelle, altre testardamente allungate oltre ogni logica. «Lars… Lars…»
«Lars è un buon uomo, ma non è Sven. Giusto?»
Cecilia annuisce. «Ultimamente le cose non vanno bene. Dopo quell’incedente alla segheria, Lars non può più lavorare. E i soldi per mangiare sono sempre meno…»

Ma sono abbastanza per quella birraccia scadente che si scola da mattina a sera, pensa Lukas. «Così ha preso a picchiarti. Giusto?»
Cecilia fissa lo sguardo sul grembo, poi annuisce. E dice: «Sì.».
Lui scuote la testa, come da copione. «Sven ti sta aspettando, Cecilia. Ha riparato in un posto sicuro. Manchi solo tu. E non è giusto che tu viva questa vita di stenti. Che Lars ti picchi. Sven ti aspetta. Non vuoi essere felice, Cecilia?»


 

«Dove hai detto che vi siete separati?»
Il vento fischiava, sulla pelle e tra i capelli e sulla superficie levigata dell’armatura del Cigno. Shun taceva, le catene che danzavano nel valzer di aria ghiacciata. Andromeda sembrava un bambino sperduto dentro la sua armatura. Un bambino che ha lasciato andare la mano della mamma e che adesso si guarda attorno, chiedendosi dove sia finito il suo unico punto di riferimento.
«Shun?»
«Eh?» Andromeda si riprese. Sbatté le palpebre e gli rivolse un’occhiata dubbiosa.
«Stai bene?»
«Sì. Sì, io… Sto bene. Solo… ho bisogno di un po’ di tempo… Il dottore… come si chiama…»
«Alëša.»
«Alëša. Dice che il freddo mi ha un po’ bloccato il cervello, ma passerà. Starmene sepolto sotto la neve per Dio solo sa quanto, non è proprio una passeggiata di salute…»
«Shun, io…»
Shun scosse la testa. «Non adesso, Hyoga. Ne parleremo quando la faccenda sarà conclusa.»
Hyoga sospirò, annuì e mostrò i palmi delle mani al compagno. Mi arrendo, gli stava dicendo. Mi arrendo. «Va bene. Benissimo.» Pausa. «Troviamo Ikki.»
Shun concordò. «Dovrebbe essere da queste parti. Credo…»
«Credo? Shun, credo è un po’ poco. Devi esserne sicuro, altrimenti rischiamo di…»
«…morire assiderati?», lo interruppe Shun. «Già dato. Non mi interessa un altro giro di giostra, grazie.»
Hyoga strinse i denti. «Non dovevamo parlarne una volta al sicuro, Shun?»
«Sicuro.»
«E allora perché, in nome del Cielo, non fai che ritirare fuori questa faccenda?»
Shun si strinse nelle spalle. «Perché forse sono stanco. Molto stanco.»
«Ok. Va bene. Parliamone e facciamola finita.»
«Non qui. Non in mezzo alla tormenta, se non ti spiace.»
«E allora concedimi un po’ di tregua, vuoi?!»

Shun taceva, Hyoga gli rivolgeva uno sguardo di fuoco azzurro. Il vento fischiava sulle loro teste, sempre più forte e sempre più arrabbiato, come se volesse portare a galla tutti i rancori che si annidavano sul fondo delle loro anime.
«Cerchiamo Ikki», disse Shun, guardandosi attorno in quel bianco che spadroneggiava attorno a loro degradando nel grigio, all’orizzonte. «Schiena contro schiena.»
«Schiena contro schiena.»
Hyoga socchiuse gli occhi, cercando qualcosa, qualsiasi cosa che potesse assomigliare ad una sagoma. Quella di Ikki. Poi, improvviso, gli venne un pensiero. «Puoi usare le catene per localizzare tuo fratello. Giusto?»
Shun tacque.
«Shun?»
Silenzio.
Hyoga temette che si fosse sentito male. Era pallido, santo Cielo. Pallidissimo. Io lo sapevo che avrebbe dovuto restare a riposare ancora un po’!
«SHUN!», gridò, ma il suo fu un gemito strozzato che si perse nell’aria gelida.
Qualcosa si era serrato attorno al suo collo, stringendo, stringendo, stringendo, come se quella carne e quelle ossa fossero un tubetto di dentifricio da spremere fino in fondo. Si portò le mani alla gola, per liberarsi e tornare a respirare, ma quando le sue dita sfiorarono il metallo contro la pelle del suo collo, Hyoga ebbe la conferma che sperava di non avere, mai e poi mai, per nessuna ragione. Quella che lo strava strangolando era la catena di Andromeda.

«Shu…n…»
Il metallo era rigido, resistente e scivoloso allo stesso tempo. E più Hyoga cercava di divincolarsi, più Shun stringeva, stringeva, stringeva…
Mentre il respiro veniva meno, un pensiero lucido e preciso attraversò la mente di Hyoga.
Morirò. Qui. In questo bianco accecante. E nessuno lo saprà.
Shun diede un altro strattone e l’osso del collo di Hyoga produsse un rumore sinistro.
«Pe…»rché?, avrebbe voluto chiedergli. Per capire. Comprendere. Se Shun avesse voluto avere uno scambio d’opinioni con lui, Hyoga non si sarebbe di certo tirato indietro. Nossignore. Anzi. Il suo corpo sarebbe stato un sacco di sabbia su cui Shun prima – e Ikki poi – avrebbe potuto scaricare tutta la frustrazione e la tensione del caso. Ogni. Santa. Volta. Anche a costo di costringere il Santo di Andromeda a prenderlo a pugni fino a quando non gli fossero cadute le braccia dalla stanchezza.
Un altro strattone, ancora più forte.
«Avanti. È un attimo. Poi sarà tutto finito.»
La voce di Shun aveva sussurrato quelle parole, eppure c’era qualcosa di duro e spietato, nella sua inflessione. Come se la faccenda non lo riguardasse poi così tanto.
«Si può sapere quanto vuoi metterci a morire?! Non ho mica tutto il giorno, io…», e fu allora che Hyoga capì che no, non si trattava di Shun, ma di qualcun altro. Qualcuno che era dannatamente bravo a recitare la sua parte, e a trovare qualcosa così simile alle Catene di Andromeda da fare spavento.

Hyoga le conosceva. Lo avevano salvato più di una volta, quando i Santi d’Argento li avevano attaccati poco fuori città, ed erano finiti a dondolare nel vuoto di un crepaccio. E quando aveva riportato indietro il corpo esanime di Shun, dalla Settima all’Ottava Casa, Hyoga aveva sentito sotto le dita la consistenza di quegli anelli, la loro resistenza e la loro durezza. Ed aveva sperato, dal profondo del cuore, che anche il Santo di Andromeda possedesse la medesima tempra.
Un altro strattone. Hyoga reclinò la testa all’indietro e socchiuse gli occhi.
La punta triangolare della Catena d’Attacco lo fissava con lo stesso atteggiamento del cobra alle prese colla mangusta. Oltre quel triangolo c’era Shun, a sovrastarlo. Shun dallo sguardo gentile, Shun dall’animo sensibile, Shun dalla generosità sconfinata. Eppure, quelli non erano il viso delicato e lo sguardo limpido che Hyoga aveva imparato a conoscere.
Hyoga avrebbe dovuto reagire. Avrebbe dovuto colpirlo. Batterlo. Eppure, Hyoga sentiva che non avrebbe potuto levare un dito sull’avversario. Mai. In nessun caso. Neppure a costo della vita.
Non ce la faccio… Non ce la faccio… Non ce la…



«Non ce la faccio!»
Crolla sulle ginocchia. Esausto, colle nocche sbucciate e sanguinanti e il fiato corto che si condensa in fumo davanti alle sue labbra secche. Mamma ci avrebbe passato sopra quel burro che sapeva di fragola e gli tingeva le labbra di rosa. E avrebbero riso, insieme. Ma mamma è da qualche parte sotto il ghiaccio spesso una decina di metri. Davanti a lui c’è solo una distesa bianca e grigia. Alle sue spalle, gli occhi di Camus si stanno scavando uno spazio tra le sue scapole.
«Alzati.»
«No! Non ce la faccio!», protesta. Le nocche bruciano. Spezzare gli atomi. Che assurdità! Nessuno può riuscire in una cosa del genere. Nessuno. Nemmeno Camus. E se ha tanta voglia di vedere quel pezzo di ghiaccio andare in frantumi, perché non lo fa con le sue stesse mani?


Perché non può. Perché è tutto un trucco. Un gioco di prestigio, pensa Hyoga, il sudore che gli scivola lungo le tempie e le guance, e cade a terra, scavando piccoli fori sulla neve.
«Sono esausto!», aggiunge, la voce che si perde nell’aria immobile.
Sente Camus sospirare. «Non avresti la forza di protestare.» Passi che si avvicinano, attutiti. «Alzati. Non costringermi a tirarti su di peso.»
Non sarebbe bello. Affatto. Hyoga lo sa per esperienza, ma è davvero stanco. E davvero non ce la fa più. Non può continuare a picchiare ancora quella roccia congelata, non oggi. Domani, forse. Domani, chissà. Ma oggi la stanchezza di Hyoga ha raggiunto la misura.
«
Alors
Ma, ciononostante, Hyoga si solleva da terra. Piega un ginocchio, poi l’altro, quindi si ritrova in piedi, le gambe malferme e traballanti che gli chiedono se tutto quel freddo non gli abbia dato alla testa, ché loro no, non si muoveranno se non per tornare a casa. Eppure, Hyoga è in piedi. Barcollante peggio di Oleg dopo una sbronza delle sue. Ma in piedi.

Camus gli lancia un’occhiata indecifrabile, poi si avvicina all’obbiettivo che non è riuscito ad abbattere. «C’eri quasi», dice. Sfiorando appena la roccia, con la punta dell’indice. E quella va in pezzi, una granatina estiva di quelle che gli preparava la mamma, nei giorni felici in cui suo padre non esisteva.
«Ma…», protesta, regalando a Camus un’espressione meravigliata.
«È colpa tua», gli dice il suo maestro. «Un Santo di Athena non pensa fesserie come
Io non ce la faccio, o Non posso farcela. Un pensiero del genere significa spalancare le porte alla sconfitta. E la sconfitta significa?»
«Morte.»

Lo vede annuire, con la coda dell’occhio.
Camus gli ha ripetuto quel concetto più e più volte, accompagnandolo con una sonora dose di legnate. Ma forse non gli è entrato nella zucca a sufficienza, perché a Hyoga non importa poi molto della morte.
«Se muoio, posso andare dalla mia mamma!», gli ha ribattuto una volta, alzando la voce e gettando a terra uno strofinaccio liso. E Camus ha sorriso, lo ha trascinato con sé e lo ha tenuto colla testa all’ingiù nell’acqua ghiacciata. A quaranta sotto zero. E allora sì che Hyoga ha avuto paura. Da morire, appunto. Si è anche detto che sarebbe stata questione di un attimo e via, poi si sarebbe ricongiunto colla mamma, come nelle fiabe. Ma quell’attimo non finiva mai. E sua mamma non arrivava a prenderlo. E Hyoga s’è chiesto, in un angolo della sua mente – un angolino piccolo piccolo – se le cose sarebbero davvero andate come aveva sperato. Perché Camus lo sollevava e lo rituffava in acqua, nemmeno l’avesse scambiato per una bustina da tè. Non si decideva a farla finita, nossignore. E la paura di Hyoga era cresciuta fino a quando non si era arreso e aveva iniziato a lottare. Per vivere.

«I nemici non sono fermi e immobili, come queste rocce. I nemici contrattaccano. E più sei debole, più ti mostri debole, più loro infieriscono», dice Camus, riportandolo al presente, tra la neve fredda e dura sotto i piedi e il cielo di un grigio desolante. «Sei venuto qui con le tue gambe…»
«Mi ci hanno spedito», protesta il ragazzino. Interrompendolo. «Fosse stato per me…»
Camus scuote la testa. «Tutti noi abbiamo un destino, Hyoga.» Pausa. «Una strada da compiere, quale che sia. Forse questa non è la tua strada. D’accordo. Puoi decidere di arrenderti, qui e adesso. Ti rispedirò da dove sei venuto. Senza problemi.»
Hyoga gli lancia un’occhiata speranzosa. «Davvero?»
«Te l’ho già detto una volta, mi pare.» Camus si volta e piazza i suoi occhi severi su di lui. «Se ti avesse inviato qui il Santuario, non sarei stato così tenero. Ma sono disposto a fare un’eccezione. Voglio vedere fino a dove arriverai.»
«All’armatura del Cigno.»
«No», e la testa di Camus va da destra a sinistra. «Non arriverai da nessuna parte, non con questo spirito. L’Armatura vuole qualcuno con le idee chiare. Athena vuole qualcuno con le idee chiare. E tu non mi sembri affatto la persona adatta. Quindi, puoi scegliere. O ti metti l’anima in pace e torni da dove sei venuto. Oppure…»
«Oppure?»
«Oppure mi dimostri coi fatti che mi sto sbagliando. Non ti importa che io pensi che tua madre abbia sacrificato la sua vita per uno smidollato simile?»
«Io non sono uno smidollato!»

Hyoga non s’è accorto di avere gridato, i pugni stretti e le guance rosse di rabbia. Sta fremendo, dalla punta dei piedi alla cima dei capelli. Se Camus non fosse più alto e più grosso di lui, gli sarebbe già saltato al collo e si starebbero accapigliando, come succede ogni tanto con Isaac.
«Davvero?», ripete Camus, gli occhi ridotti a due fessure.
«Davvero!!»
«
Acta, non verba. Dimostramelo. Voglio i fatti, Hyoga. A parole sono buoni tutti…»
Hyoga ringhia basso, la mascella serrata e i pugni chiusi.
«E come?»
Camus sorride, la stessa smorfia ferina che metteva su Rémy quando qualcuno cadeva nella tagliola di propria sponte. Con tutte e due le zampe.
«Quella roccia laggiù», dice, indicandogli col pollice un pinnacolo alle sue spalle, alto il doppio e spesso il triplo di quello che ha appena sbriciolato come fosse un biscotto. «Distruggila. E guai a te se ti sento dire ancora una
connerie come Non ce la faccio. Intesi?»



Non ce la faccio…

Nella realtà, Camus non era mai stato così affabile ed accondiscendente. Anzi, lo aveva sempre considerato un pezzo di ghiaccio ambulante, qualcuno che non s’era mai preoccupato di nulla e di nessuno. Lo aveva addestrato per scommessa. Perché qualcuno, in alto, gli aveva ordinato di fare così e lui aveva obbedito, da bravo soldatino efficiente. Ma Hyoga aveva toccato con mano quanto le apparenze potessero ingannare, ché a Camus importava, sì, di qualcuno. Di lui. Dell’unico allievo rimastogli.
«Un ragazzino talmente smidollato da non reagire e salvarsi la vita…»
Sì, Camus avrebbe detto una cosa simile, pensò Hyoga. Poi qualcosa si ruppe, ma non fu il suo collo. La stretta della catena si allentò e lui cadde a faccia all’ingiù nella neve. Era fresca, un sollievo sulla pelle arrossata. Si sollevò da terra e si voltò.
Alle sue spalle, Coralie stava fronteggiando il suo avversario, la cui forma cambiava ad intermittenza. Un attimo era Shun, l’istante successivo una figura massiccia dall’armatura blu scuro ed i capelli biondi. Impugnava uno strumento musicale. Una lira, una cetra, o qualcosa di simile, le cui corde avevano avvolto il Cigno come avrebbe fatto la tela del ragno attorno alla preda.
«Sei vivo?», chiese Coralie.
Hyoga provò ad aprire bocca, ma parlare era impossibile. Gli bruciava la gola, e la lingua aveva raggiunto dimensioni preoccupanti. Prese una manciata di neve e la ingoiò. Meglio.
«Sei vivo», disse lei, le mani sui fianchi e le spalle rilassate. «Restalo per i prossimi cinque minuti, okay?» Poi riportò l’attenzione sull’avversario di Hyoga. Che reagì. Pizzicò le corde del suo strumento – meno di un accordo – e il collo del Cigno si ritrovò un’altra volta immobilizzato da quei fili duri come l’acciaio e affilati come rasoi.
«Un altro passo e l’ammazzo. L’ammazzo, capito?! Ti giuro che l’ammazzo!»
«Fallo. Avanti. Voglio proprio vedere…»
«Non mi credi?», chiese l’uomo, dando una piccola stretta di polso.
«No.» Lei sollevò il dito indice. Una leggera nebbiolina rosa e viola – un alone appena percettibile – apparve sul suo polpastrello. «Non sono questi i tuoi ordini, o l’avresti già ucciso. Lui ti serve vivo. La domanda è perché
«Niente di personale», ribatté. E fece per pizzicare ancora il suo strumento, forse per l’ultima volta, quando si sentì uno SNAP riempire il silenzio assordante. Una corda si era spezzata e s’era arricciata attorno al pirolo, ricoperta di un sottile strato di ghiaccio. Impalpabile, nemmeno fosse zucchero a velo.

«Ma che diamine?» L’uomo si voltò, allarmato.
Hyoga era riuscito ad espandere il suo cosmo. Aveva piegato un ginocchio, poi l’altro, quindi si era ritrovato in piedi, le gambe malferme e traballanti che gli chiedevano se tutto quel freddo non gli avesse dato alla testa, ché loro no, non si sarebbero mosse, se non per tornare a casa. Gocce di sangue macchiavano la neve di rosso. Eppure, era in piedi. Il Cigno era in piedi. Dolorante, stanco e barcollante, come Oleg dopo una sbronza delle sue. Ma in piedi.
Il Cigno espanse il proprio cosmo ed un sottile strato di brina avviluppò le altre corde, veloce, come se stesse pattinandovi sopra.
«Dannazione!», biascicò l’uomo, richiamando a sé le corde del suo strumento, che reagirono come se fossero state vive.
Hyoga si voltò. Allontanò i rimasugli delle corde dal collo e le lasciò cadere a terra. «Stanne fuori», disse, fissando il suo avversario.
«Sicuro», ribatté Coralie, facendosi indietro di un passo.
«Mi hai spezzato una corda», disse l’uomo, e per un secondo Hyoga si chiese se gli avrebbe chiesto di pagare i danni; ma l’altro portò indietro la gamba destra e strinse a sé il proprio strumento. «Credi di riuscire a sconfiggermi, paperotto?»
Hyoga non rispose. Assunse la prima posizione e squadrò il proprio avversario. Era massiccio, ma non imponente. La classica persona che non si sa se conviene scavalcarla o girarle attorno. Lo fissava con uno sguardo affilato, le labbra ridotte ad una linea dura.
«Chi sei? Che volete da me?»
«Te l’ho detto, paperotto», ribatté lui, indicando con un cenno la decorazione a forma di cigno sul diadema di Hyoga. «Devi morire. Niente di personale.»
«Vedremo.»
L’uomo sospirò. «Lo so, lo so. Venderai cara la pelle, vero?»
«Deve. O l’ammazzo io…»
L’uomo scoccò uno sguardo a Coralie e sorrise.
«Vedi, paperetto?», disse, indicando la ragazza alle sue spalle. «In un modo o nell’altro, devi morire. Quale scegli?»
«Nessuno dei due.»

E Hyoga disegnò la seconda posizione. La croce.
Vincere è una questione di volontà, diceva Camus, di cosmo che ruggisce nelle vene, assieme al sangue e all’orgoglio. Io sono il Cigno, digrignò tra i denti Hyoga, richiamando a sé il potere della sua stella guida, un turbine di energia fredda che montava, piano piano, come una tempesta in avvicinamento.Una di quelle accecanti, dove non si distingue la destra dalla sinistra.
Io non indietreggerò, si disse, gli occhi socchiusi e la mascella serrata. Di più. Più in basso. Ancora un po’. Oltre.
Deneb ruggì. Il potere delle stelle confluì nei suoi pugni e nelle sue braccia, ingrossando il suo Cosmo di un’energia spaventosa. Ingestibile, quasi.
Freddo. Ancora. Di più.
Il suo cuore rallentò i battiti. Imperturbabile. Il mondo attorno a lui era un turbine impazzito di bianco, eppure Hyoga non se ne diede pensiero. Non lo riguardava. Pugno destro chiuso. Pugno sinistro ad accompagnare. Braccia tese, sopra la testa, ad accogliere il potere delle energie fredde e farlo fluire dentro di sé. Come un orcio che si riempie d’acqua. Gambe divaricate. Ginocchia appena flesse. Talloni ben piantati a terra.
Maestro, questo lo dedico a voi!
E la Polvere di Diamanti si librò nell’aria, schizzando in avanti e avvolgendo l’uomo nell’armatura blu notte in un cristallo trasparente.
Hyoga abbassò spalle e braccia. Stanco. Stanchissimo. Si ritrovò col fiato corto, a fissare il terreno a pochi centimetri di distanza, le mani affondate nella neve fresca.

Questa giornata non finisce più...
Rumore attutito di passi e giunture metalliche, e Coralie si avvicinò al nemico. Squadrò il cristallo di neve extra-large, le mani sui fianchi, e poi diede un colpo con le nocche sulla superficie.
«Stupefacente…», disse. Il suo viso era sinceramente stupito, come quello di una bambina che assiste ad un gioco di prestigio. «Peccato che non sapremo mai chi fosse il mandante…»
«Ne arriveranno altri», disse Hyoga, tra un respiro ansimato e l’altro.
«Faremo meglio a spicciarci, allora», ribatté Coralie, allontanandosi dal cristallo. Si avvicinò e lo sovrastò.
Hyoga vide la sua mano spuntare nel suo campo visivo.
«Andiamo?»
Hyoga afferrò quelle cinque dita smaltate di nero e si alzò.
«Andiamo.»
Lo sguardo di lei si fece serio.
«Vorrei evitare altri brutti incontri e raggiungere il Santuario in sicurezza.  Conosco una scorciatoia, se vuoi.»
«E perché non l’hai proposta prima?»
Lei sgranò gli occhi. «Perché è massacrante. E io per prima l’eviterei, se non fosse assolutamente necessario. Ma ho il timore… ho la certezza, che questi signori continueranno ad inviarci chissà quanti altri cani da caccia. Lo so io, e lo sai tu.»
«Quindi, che proponi?»
«Passare per la Valle della Morte», disse. Restando a fissarlo, come a voler scorgere sul suo viso qualcosa. Una reazione di qualunque tipo. Hyoga si limitò ad inarcare un sopracciglio. «Posso usarla per spostarmi nello spazio. È molto pratico, se conosci un paio di trucchi. Ma devo avvisarti che sarà massacrante. Te la senti di provarci?»
Hyoga sospirò, le mani sui fianchi. «E gli altri?»
«Loro vogliono te, non i tuoi compagni.»
Il Cigno stornò lo sguardo dal suo viso all’orizzonte, lì dove il bianco della Siberia e il grigio del cielo si tendevano la mano, sfumando in un non colore nebbioso.
«Proviamoci», lo esortò lei. «Se non te la senti, però…»
Non me la sento? «Proviamoci», disse Hyoga. «Dimmi cosa devo fare.»
Lei sorrise, e a lui sembrò più giovane, quasi.
«Dammi la mano, ed espandi il tuo Cosmo. Più che puoi. Intesi?»
«Intesi.»
«Farà schifo. Ti verrà da vomitare. Ma tu non lasciare andare le mie dita. Mai. Per nessun motivo al mondo.»
Hyoga annuì. Lei gli strinse la mano in una morsa ferma e sollevò il suo indice destro. C’era una nebbiolina viola che vorticava nello spazio tra le unghie e la pelle.
«Chiudi gli occhi, Hyoga», disse lei. Poi tutto divenne viola e Hyoga si sentì come sollevato di peso, da una mano gigantesca. I suoi piedi si staccarono da terra, la sua testa divenne leggera e l’aria ancora più impalpabile. Poi qualcosa lo risucchiò in basso, come se un amo gli avesse arpionato l’ombelico, e Hyoga cadde, nel buio e nel silenzio più assoluto.





Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Cominciamo a picchiarci!! Avevate perso le speranze, vero?

Pakia appare nell'anime di Lost Canvas, ed è l'allievo di El Cid che fugge dal Santuario prima di giurare fedeltà. Lo salva Sisifo, ricordando ad un El Cid fin troppo pronto a passare il suo ex allievo a fil di spada, che Athena si serve in molti modi
Lacaille è lo studioso che, per primo, tracciò la mappa dell’Emisfero Australe, dando i natali a costellazioni come La Macchina Pneumatica, l’Orologio, eccetera eccetera. Kurumada, però, ci dice che queste costellazioni pacchiane – essù, sono pacchiane! – esistono dai tempi del mito. E siccome io sono abilissima a spararmi delle seghe mentali dei dilemmi clamorosi, e chiudere le voragini che Kurumada si lascia dietro, ecco fatto. La Teshirogi non può lanciarmi certi assist e pensare che io non li colga, no?

Nel mio headcanon, la Sigé è un obbligo che il Sacerdote impone ai Santi di Athena. Sigé in greco significa silenzio. Ho introdotto questo concetto qui.
Sempre nel mio headcanon, il Santo del Cancro può utilizzare il Sekishiki Meikaiha per raggiungere la Valle della Morte col proprio corpo e transitarvi per raggiungere un’altra destinazione. Come se fosse una specie di stargate. Comodo, no?

La kikimora è una figura del folklore russo. Si tratta di uno spirito dall’aspetto femminile, che abita nelle case ed è molto chiassosa. Dire a qualcuno che è una kikimora, equivale a darle della vecchia brontolona, di quelle sempre pronte a borbottare per qualsiasi cosa.

In tutto ciò, ieri ho festeggiato i miei primi tredici anni su EFP; la prima storia che pubblicai fu proprio la prima versione di Quando piovono le stelle, e mi sembrava carino aggiornare in quest'occasione... ma grazie a Windows 10 posso affacciarmi soltanto oggi (grazie, Bill Gates!). Grazie mille, a tutti voi, per questi anni tra alti e bassi e tante soddisfazioni. E adesso, bando alle ciance e si stappino le bottiglie e si librino i lieti calici!!

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Capitolo 24
*** 24. ***


24.




 
Di un viaggio non è importante l’approdo, quanto il tragitto. Quanto accade strada facendo. È quello, a cambiarti, ad aggiungere un pezzetto in più alla tua personalità, alla tua storia. Si chiama esperienza, ricordi?
E, se ben ricordi, durante un viaggio è bene fermarsi, di tanto in tanto. Un attimo soltanto, per sbrigare delle necessità di varia natura e urgenza. Magari c’è bisogno di andare lì dove nessun altro può andare al posto nostro, o di fumarsi una sigaretta, o mangiare un boccone. Cinque minuti e basta, il tempo di controllare il percorso, sia mai fossimo finiti fuori strada.
Ma se c’è qualcosa che l’uomo non ha ancora imparato è che l’umanità ha inventato il tempo, ma ne è anche diventata schiava e succube. Perché il tempo, così come lo abbiamo ingabbiato, non esiste. E siamo diventati noi gli schiavi del tempo, che, ridendo di noi e delle nostre nevrosi, ci fa la linguaccia e scivola via, dispettoso come il refolo di vento che scompiglia cravatte e cuori.
Avevano ragione gli antichi greci. Il tempo non è fatto di quando – ieri, oggi, domani – ma di come. L’azione è finita, compiuta, oppure no? E si può davvero raccontare qualcosa che si sta sviluppando sotto i nostri stessi occhi?
Chi lo sa?
A volte, ci si deve semplicemente fermare per chiedersi anche queste cose. Per un momento ancora. E quando ci rimettiamo in moto, ci accorgiamo che è passato molto più dei cinque minuti scarsi che ci eravamo ritagliati, o che avevamo preventivato. Il tempo è uno stronzo, sissignore.
Anche la strada non è più la stessa che avevamo tracciato all’inizio del nostro viaggio. E la strada di questa storia – le strade di questa storia – si biforca, si moltiplica, nel tempo e nello spazio, come i rami frondosi di un platano sul Lungotevere di Roma; o quelli magri ed affilati di un frassino di Göteborg.
Al buio, tutti gli alberi sono grigi.
E allora, avanti, Quattro Gatti. Andiamo a dare un’occhiata alla cartina, uno sguardo a volo d’uccello. Sarebbe un bel problema se ci fossimo perduti, strada facendo…


 
«Questo posto è fantastico», disse Stella, la mano stretta in quella di Luke e lo sguardo a vagare sulle casette e i giardini attorno a loro. «Sembra di essere in un quadro.»
Luke rise. «Sì. Tantolunden fa quest’effetto a chi lo vede per la prima volta.»
Avanzarono sotto i rami di un tiglio che faceva bella mostra di sé accanto ad una casa azzurro carico. Le foglie stavano virando verso l’oro ed alcune avevano già abbandonato i rami creando un tappeto sulle radici. Stella camminava controvoglia, come se non volesse perdere neppure uno scorcio di quel posto uscito dritto dritto da un libro di fiabe, ed imprimerselo bene nella memoria.
«E menomale che non ti ho portato qui a Natale!», disse Luke ridacchiando.
«Ma Luke, è…»
«…tutto così favoloso!», l’interruppe lui.  «Lo so, tesoro. Lo so.»
«Fai così perché tu ci sei abituato», protestò Stella mettendogli il broncio.
«Forse», concesse lui, mettendole un braccio intorno alle spalle. «Questo posto è magico, hai ragione, e questo è il periodo dell’anno in cui lo preferisco. I colori sono più ricchi, non è vero? Altro che a Midsommar
«Midsommar?» L’attenzione di Stella abbandonò i giardini e le casette colorate e si concentrò su Luke. «Cos’è?»
«La Festa di Mezza Estate», rispose lui. «Dopo il Natale, è la Festa per noi svedesi. Oddio, ci sarebbe anche Santa Lucia, ma…»
«Quando cade?»
«Il ventiquattro di giugno.»
Stella aggrottò le sopracciglia.
«Che c’è? Ti è tornato in mente qualcosa?»
«No.» Pausa. «Non ne sono sicura.»
«Parlamene.»
«No, Luke, io…»
«Stella, cos’ha detto il dottore?»
«Non me lo ricordo.»
Luke le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, poi le disse: «Quando ti viene in mente qualcosa, devi parlarne a chi ti sta vicino.». Pausa. «La memoria è come un puzzle, Stella. Se vuoi conoscere chi eri, devi chiedere l’aiuto degli altri, perché loro possono dirti come disporre quelle che per te sono delle tessere incoerenti…»
«Sì. L’ho capito. Così posso trovare il tassello mancante.»
Luke annuì. «Esatto. Da sola potresti non riconoscerlo.»
Stella stornò lo sguardo.
«No. Non abbassare gli occhi. Guardami, Stella. Guardami e dimmi cosa ti passa per la testa.»
Il vento accarezzò le fronde degli alberi, come se stesse facendo loro il solletico. Stella ebbe la spiacevole sensazione che stessero parlando di lei e che il loro non fosse un discorso piacevole.
«Quella festa. Mid…»
«Midsommar
«Midsommar», ripetè lei, scimmiottando la pronuncia di Luke. «Il ventiquattro di giugno. Questa data mi dice qualcosa, ma non so cosa.»
«Forse, è perché te ne ho parlato.»
«No. Non è quel genere di ricordo», ribatté lei, le mani in quelle di Luke e il mento sollevato. «Non riesco a capire se mi sia familiare la festa, oppure la data. Io non sono venuta qui per Midsommar, vero?»
«No, fiorellino. Questa è la tua prima volta in Svezia.»
Stella piegò la testa da un lato. «Strano. Eppure, questa data mi dice qualcosa…»
Luke si strinse nelle spalle. «Sarà per via delle fotografie.»
«Quali fotografie?»
Le afferrò una ciocca di capelli e la fece scorrere tra le dita, come a saggiarne la morbidezza. «Quelle che ti ho mandato per posta a fine giugno. Prima dell’incidente.» Pausa. «Sono sicuro che si tratti di questo. È un buon segno, dopo tutto. Anzi, sai che facciamo oggi? Scatteremo una marea di foto, così ti resterà il ricordo di questa giornata.»
«È un pensiero gentile, ma non abbiamo una macchina fotografica», gli fece notare lei.
«Bruna ha una polaroid», disse Luke. «Useremo la sua. Con una giornata così bella sarebbe un delitto non approfittarne.»
 
 
Il cielo era viola. Il viola cupo e sanguinario dei lividi che si rimarginano con lentezza esasperante. Non tirava un alito di vento. Tutto l’ambiente sembrava trattenere il fiato in attesa dell’inevitabile, qualcosa che Hyoga non riusciva a mettere a fuoco con certezza. Forse era solo una sua impressione?
Forse. Ma era tangibile e reale a sufficienza per fargli decidere di restare coi sensi in allerta.
C’erano file di esseri umani, all’orizzonte, anime che si muovevano verso una specie di rilievo che incombeva minaccioso sullo sfondo. Avanzavano come quiete, operose ed ordinate formiche che tornavano al nido. Sulla schiena non trasportavano le provviste raccolte in giro, per i giorni di pioggia, eppure le loro spalle erano curve e stanche. Stanno trasportando loro stessi, pensò Hyoga, e quell’idea gli diede le vertigini.
Un ginocchio cedette e si ritrovò accosciato ad osservare quello spettacolo lugubre. Quelle anime trasportavano la loro vita, i loro peccati, le loro speranze verso una sorta di… pozzo.
Il pozzo delle anime.
Hyoga deglutì a vuoto. Camus aveva raccontato loro questa leggenda in una delle tante sere in cui la neve cadeva così fitta che era impossibile vedere al di là del proprio naso. Isaac ascoltava con interesse, convinto che, presto o tardi, il loro maestro li avrebbe interrogati al riguardo. Hyoga, invece, era intimorito da quei discorsi. Li trovava strampalati. Blasfemi, perfino.
Se si crede alla reincarnazione, diceva Camus, le anime tornano in vita, dopo la morte.
Ma come?, aveva protestato lui. Le anime non vanno in paradiso o all’inferno?
«No», aveva replicato Camus, come se si aspettasse quell’obiezione. «Finiscono tutte in un pozzo.»
Un pozzo. Come se fosse la soluzione più logica. Dall’acqua veniamo e all’acqua torniamo, aveva chiarito Camus, spiegando loro che quel pozzo era il passaggio per il regno dell’Aldilà. E che, prima di un altro giro di giostra, le anime si fermavano a bere le acque del Lete. Il bicchiere della staffa, l’aveva definito Isaac, e invece di rifilargli un’occhiataccia – Camus detestava che qualcuno riducesse in farsa le sue lezioni – Camus aveva annuito e aveva detto: «Sì. In un certo senso.».
Hyoga aveva ascoltato con perplessità quel racconto. Ciò che il suo maestro andava dicendo era l’esatto opposto di quello che gli aveva insegnato sua madre, la sera, colle tende tirate e la candela accesa, nel segreto della camera da letto. Si nasceva, si moriva e si veniva giudicati per le proprie azioni. Quindi, a seconda di quello che si era combinato in vita, si finiva all’inferno, tra i diavoli e mille, atroci tormenti, oppure in paradiso, a godere dell’amore di Dio per l’eternità.
Esistono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia, gli aveva risposto Camus; e, col tempo, Hyoga aveva imparato che la realtà delle cose è molto più complessa e sfaccettata di quanto si creda. Ma accettare quelle sfaccettature era una cosa; toccarle con mano, ritrovarcisi nel bel mezzo era tutt’altra faccenda, qualcosa che Hyoga faticava ancora ad accettare.
Distolse lo sguardo da quella montagnola cupa – un formicaio, un vulcano? – e si guardò attorno.
Era solo.
 
 
Viggo scoppiò in una risata fragorosa, dando delle manate sul tavolo in un protestare tintinnante di posate e bicchieri. Accanto a lui, Freja prese un sorso di vino con aria annoiata, come se le costasse una gran fatica vivere, mentre Axel, alla sinistra di Viggo, commentò la battuta con un: «English, please.».
Viggo borbottò qualcosa in svedese stringendosi nelle spalle e si voltò nella direzione di Stella. Le sorrise, fece un gesto – come a volersi togliere il cappello – e proruppe in un’altra risata sguaiata.
Luke gli scoccò un’occhiata indecifrabile, posò il proprio bicchiere e, ricorrendo all’inglese, chiese a Freja: «Allora, come va la tua tesi?».
Il viso di Freja si illuminò. All’improvviso non era più così difficile vivere. «Procede», rispose con un sorriso smagliante. «Mi manca l’ultimo capitolo, e poi la discussione.»
Luke si voltò verso Stella e le spiegò: «Freja sta scrivendo una…».
«Tesi sperimentale», declamò lei, con la testa ben eretta e le spalle distese, come se stesse scandendo il proprio titolo nobiliare.
«Indovina su quale argomento?», le chiese Luke.
Stella rispose: «Non saprei», mettendoci la giusta dose di indifferenza. Freja non le piaceva, e la cosa era reciproca. Inoltre, quel tono d’acciaio che la biondissima padrona di casa usava quando si rivolgeva a lei – quando Luke la costringeva a rivolgersi a lei – le sembrava inaccettabile. Ignorando Freja e cercando lo sguardo dolce di Bruna, Stella pensò che non potessero esistere due sorelle così diverse. Se la prima era alta, bionda, pallidissima e algidamente altezzosa, sua sorella era il suo esatto opposto: capelli nerissimi e ricci, occhi nocciola, aspetto formoso, alla mano, Bruna si era subito prodigata per mettere Stella a proprio agio e farla sentire una di loro. Freja, no. Freja remava contro ed era stata più che felice quando Stella aveva stornato lo sguardo alla finestra per ammirare gli alberi dei meli attorno alla loro casetta. I rami erano carichi di frutti tondi e dorati che non chiedevano che essere colti e assaporati.
Stella decise che non le importava alcunché della tesi di Freja, così chiese a Bruna: «È difficile curare i meli?».
Bruna sorrise, come se non le dispiacesse mettere sua sorella all’angolo, una volta tanto.
«No. In realtà sono degli alberi resistenti e sopportano bene le gelate», rispose. «Basta avere l’accortezza di eliminare i parassiti e di coprire le radici in inverno.»
«Radici profonde non gelano.»
«Conosci Tolkien, Stella?», le chiese Axel incuriosito, sollevando il proprio bicchiere.
La testa di Stella andò da destra a sinistra un paio di volte. «No. Mi è venuta così, non sapevo fosse un suo verso. Chi era? Un poeta?»
«In un certo senso», rispose Axel con un sorrisetto.
«Tolkien era un filologo inglese», le spiegò Bruna rovistando tra i libri che occupavano ogni angolo possibile e immaginabile di quella casetta rosso fiamma con le finestre bianco gesso. Persino sotto al sedile incastrato nel vano della finestra trovavano posto delle nicchie in cui ospitare libri e cataloghi. «Il verso che hai citato si trova ne Il Signore degli Anelli…»
«Libro primo, La Compagnia dell’Anello.»
«Lo so, Axel. Grazie», rispose Bruna sfogliando un tomo voluminoso. «Aspetta un secondo, Stella…»
Freja sospirò.

«Non tutto quel ch'è oro brilla,
Né gli erranti sono perduti;
Il vecchio ch'è forte non s'aggrinza,
Le radici profonde non gelano.
Dalle ceneri rinascerà un fuoco
,
L'ombra sprigionerà una scintilla;
Nuova sarà la lama ora rotta,
E re quei ch'è senza corona

Axel applaudì, Viggo si accodò e Luke levò il bicchiere. Risero e Freja abbassò il capo in segno di ringraziamento. Le punte asimmetriche del suo caschetto sfiorarono il legno robusto del tavolo da pranzo. Stella li fissava come se fossero appena sbarcati da Marte.
«È un passo molto famoso de La Compagnia dell’Anello. È una profezia», le spiegò Bruna, chiudendo il libro. «Dà al lettore un’anteprima di quello che accadrà nel corso del romanzo stesso.»
«Capisco. Questo Tolkien è il vostro autore preferito?»
«Sì e no», rispose Axel. «Diciamo che tutti noi abbiamo studiato Tolkien, in un modo o nell’altro.»
«Io sono filologa, Axel un anglista e Freja sta per laurearsi linguista», le spiegò Bruna. «Tolkien è stato un percorso obbligato.»
Ma allora perché lei lo conosceva? Stella tacque. Avrebbe avuto modo di chiedere lumi a Luke, più tardi. Non le andava di mostrarsi debole, davanti a quelle persone. Forse, era solo un autore molto popolare.
«E Viggo? Di che si occupa?» Stella lo chiese guardando Viggo dritto negli occhi. Quel ragazzo era la classica mosca nel latte: se Luke, Bruna, Freja e Axel appartenevano allo stesso milieu, Viggo no. Sembrava che qualcuno l’avesse recapitato per errore davanti alla casa di Freja e Bruna. Non si era sprecato a parlare in inglese, o almeno a provarci. Stella era certa che parlasse solo svedese, e vedere Axel tradurgli la sua domanda confermò la sua ipotesi. Viggo sbiancò, come se quell’innocua – ma un po’ scortese – domanda minacciasse di rivelare chissà quale segreto inconfessabile.
«Viggo è un macellaio», rispose Luke. «La sua famiglia gestisce un banco di carne nell’Östermalms Saluhall, il mercato storico di Stoccolma sin dalla sua apertura.»
Stella annuì. Aveva senso. Se ti occupi di carne, non sei obbligato ad allargare i tuoi orizzonti culturali, pensò.
Questo è un pensiero classista, la riprese una voce maschile. Qualcosa risuonò dentro di lei. Quella voce… l’aveva riconosciuta, ma non riusciva a stabilire a chi appartenesse. A qualcuno di a lei molto caro, a giudicare dal calore che le si era sprigionato nel petto e dal battito accelerato del suo cuore; ma come si chiamava questo qualcuno? Seiji? Sei? Seichiro? Seiy…
«La carne che abbiamo mangiato a pranzo viene dalla sua bottega.» La voce di Luke spezzò la sua concentrazione, riportandola nella casetta di Tantolunden.  «Carne di renna di prima qualità. Buona, vero?»
«Buonissima», rispose Stella, e il nome che stava cercando le scivolò via dalle labbra, come una carezza di vento. «Come si dice grazie in svedese?»
«Dank
«Dank, Viggo.»
Viggo arrossì e borbottò qualcosa in risposta.
Luke rise di cuore, poi si alzò e andò ad accomodarsi accanto a lei. «Dice che non c’è di che», tradusse indicando Viggo e mettendole un braccio attorno alle spalle. «Allora, Freja, ci stavi raccontando della tua tesi…»

 
«Questo è quanto.»
Shiryu si domandò cosa ci stesse facendo, in quella casupola rovente. Cosa ci stessero facendo tutti, assiepati dove capitava – chi su una sedia, chi sul pavimento, chi appollaiato sul bordo di una branda coperta da un vecchio lenzuolo. Seiya aveva appena raccontato loro qualcosa di incredibile. Qualcosa che, in un altro momento, qualsiasi persona dotata di buon senso avrebbe liquidato con un sorriso cortese ed un’alzata di spalle, prima di lasciare quell’antro soffocante senza dire nemmeno mezza parola.
Invece, erano tutti lì. Tutti in religioso silenzio a scrutare, a sondare gli occhi scuri di Seiya nella penombra irreale della tarda mattinata di Rodrio. Tutti a cercare un appiglio, una speranza, un gancio in mezzo al cielo.
Anche gli altri erano nelle sue stesse condizioni – disperate – e se fino a poche ore prima questa consapevolezza non era riuscita a lenire l’angoscia che gli stava mangiando il cuore, adesso il trovarsi tutti assieme come un manipolo di congiurati che borbottano tra loro per decidere chi dovrà affondare la lama nel petto della vittima, adesso tutto questo gli era di conforto. Adesso non si sentiva più solo.
Seiya lo fissava. Aveva passato in rassegna gli altri con lo sguardo, ma poi i suoi occhi si erano piantati in quelli di Shiryu. In attesa. Di un suo commento. Di una sua parola. Come se io potessi in qualche modo fermarti, pensò il Drago, riuscendo a reprimere un sorriso.
«Che ne pensi?», gli domandò Pegaso. E Shiryu alzò le mani.
«Penso? Non penso nulla», rispose, con una sincerità che lasciò spiazzato lui stesso per primo. «Non lo so, Seiya. Non so davvero cosa pensare.»
«Ma credi alle mie parole, Shiryu?», insistette Seiya.
Ho bisogno che mi creda almeno tu. Che non mi lasci da solo in questa pazzia. Questo gridavano gli occhi scuri di Pegaso; ma Shiryu aveva paura, troppa paura di sperare che sì, Seiya avesse ragione. Che Athena fosse ancora viva. Perché io non la sento?, si domandò il Drago, incrociando le dita. Perché non la percepisco?
«Mettiamo il caso che sì, io ti creda…» Seiya sospirò. Sotto al tavolo, le sue dita strinsero quelle di Shaina, seduta alla sua destra. «Supponiamo, anche solo per ipotesi, che Poseidone voglia fare una chiacchierata con noi senza provare ad affogarci. Poi?»
«Si va a salvare Athena», disse Jabu. L’Unicorno regalò al Drago uno sguardo indecifrabile. «È così che funziona, no? Athena è nei pasticci e noi la si salva. Sbaglio?»
«No. Non sbagli», replicò pacato Shiryu. «Ma se Athena fosse davvero viva, non dovremmo parlarne anche coi Santi d’Oro?» Il suo sguardo andò da Pegaso all’Unicorno e viceversa un paio di volte.
«Bah!», replicò Jabu scrollando le spalle. «Quelli si stanno comportando come un branco di galline senza testa. Andiamo, parliamo con Poseidone e poi decidiamo. Che abbiamo da perdere?»
Tutto, pensò il Drago. Shiryu alzò le mani, dichiarandosi sconfitto. «Suppongo che se anche non fossi d’accordo, voi due andreste lo stesso, vero?», chiese, conoscendo già da sé quale sarebbe stata la risposta.
Jabu e Seiya sorrisero all’unisono, in una sintonia così perfetta che, in un angolino della sua mente, Shiryu ebbe la certezza che quei due sarebbero stati amici per la pelle se solo il destino non ci avesse messo lo zampino. Se solo non ci fosse stata di mezzo Saori.
«Supponi bene», replicò Seiya. Jabu annuì.
«Ok, allora», disse.
«Ok, allora… cosa?», domandò Seiya.
«Vengo con voi.»
«Ok. Chi resta?»
«Come, chi resta?», domandò Geki. «Non penserete di lasciarmi qui, vero?»
«Qualcuno dovrà pur rimanere», disse Shaina. «Non possiamo allontanarci in massa. Se ne accorgerebbero subito. E io non voglio farmi ammazzare per niente.»
«Non è per niente. È per Athena!», replicò Geki, il ginocchio dondolante nel vuoto.
«Calma», disse l’Ofiuco da dietro la maschera. «Siamo tutt’ora nel campo delle supposizioni. Non abbiamo prove, ricordi?», aggiunse.
«Shaina!», tuonò Seiya, anche se alle orecchie della ragazza quella parola risuonò come un «Traditrice!».
«Ha ragione lei», intervenne Jabu. «È solo un’ipotesi, Seiya. Veniamo con te per verificarla
Seiya corrugò la fronte. «Che problema hai, Jabu?»
Jabu stirò le labbra in un sorriso stanco. «Che problema ho? Sono profondamente incazzato. Athena si fida al punto da chiedere a te di cercarla. A te. Non a me. A te. Ma va bene. Lo accetto. Nessun problema. Athena avrà i suoi motivi e io obbedisco. Ma prova a metterti nei miei panni. Tu ti fideresti ciecamente se i ruoli fossero invertiti? Se fossi io a dire a te che Athena mi ha ordinato di cercarla? Mi crederesti allo stesso modo, con la stessa convinzione, Seiya, o non ti lasceresti un margine di dubbio? Rispondimi. Sinceramente.»
Seiya tacque. Fissò Jabu negli occhi, poi stornò lo sguardo e rispose: «No.». E poi aggiunse: «Niente di personale.».
L’Unicorno si adagiò sullo schienale. Il legno scricchiolò.
«Appunto. Quindi, io propongo di andare, fare quel che c’è da fare e poi, solo poi, decidere.»
Shaina sciolse le proprie dita dalla presa di Seiya e si alzò.
«Io devo andare», disse. «Avete tempo fino alle sette di stasera, quando ci sarà l’assemblea. Dopodiché, non potrò più fare finta di niente. E adesso, scusate, ma il dovere chiama.»
Si allontanò a grandi passi, la schiena dritta e la fusciacca che ondeggiava ad ogni passo. Chiuse la porta dietro di sé e i ragazzi sentirono il ticchettio dei suoi tacchi sfumare sulle pietre che lastricavano il Santuario.
«Che donna», disse Jabu, un sorriso eloquente dipinto sulle labbra. Non le aveva staccato gli occhi di dosso mentre lei usciva di scena – forse ancheggiando più del dovuto, pensò il Dragone – ed era chiaro che Seiya non aveva gradito. Affatto.
«Torniamo alla missione, piuttosto…», replicò Pegaso alzandosi.
«Quasi quasi, un giorno o l’altro le chiedo di uscire…», proseguì Jabu sovrappensiero, come continuando un discorso che aveva avuto luogo nella sua mente.
«Scusami?», chiese Seiya, inarcando un sopracciglio. Ed il sorriso indisponente di Jabu confermò a Shiryu che sì, l’Unicorno si stava divertendo un mondo a stuzzicare Seiya.
«Shaina. Ha carattere, la ragazza. Penso proprio che quando tutta questa storia sarà finita, le chiederò di uscire, sì…»
Seiya tacque. Si morse le labbra, poi disse: «Ok. Ma mettiti in fila. Pare che il suo uomo sia un tipo molto geloso...».
«È un bene che non lo sia io, allora…»
Seiya ignorò il sorrisetto di scherno che Jabu gli rivolse, aprì un cassetto, ne tirò fuori una mappa e la stese sul tavolo. Afferrò una matita, ne inumidì la punta e fece un segno sulla cartina, all’altezza di Rodrio.
«Qui c’è il Santuario. Noi dovremo arrivare quaggiù…»
 
 
«Le avventure di Odisseo non si sono svolte nel Mediterraneo, ma nel Baltico», disse Freja accavallando una gamba e mostrando una caviglia nivea. «Durante l’Età del Bronzo, i Dori scesero in Grecia dal nord, portandosi dietro il proprio patrimonio genetico e le proprie leggende. E, nel tempo, ai luoghi originali si sono sovrapposti quelli in cui le i Dori si erano stabilitie. Questa teoria spiegherebbe cose che in quel laghetto che è il Mediterraneo sono improbabili.»
«Ad esempio?»
Lo sguardo di Stella era impassibile e la sua espressione era quella di chi si predispone ad una lunga, lunghissima dissertazione. Una di quelle destinate ad essere infruttuose, perché l’altro non dà sponda ad eventuali critiche, perplessità o richieste di ulteriori delucidazioni. Freja la guardava come si guarda una macchia su una poltrona, eppure, Stella sembrava come rinvigorita.
Vuoi davvero dimostrarmi che io ho torto e tu ragione, mocciosa?, dardeggiavano gli occhi verdissimi di Freja.
Certo che sì, risposero quelli di Stella.
«La geografia. Già nell’antichità si era confutata la tesi dell’ambientazione mediterranea. Ogigia si trova a cinque giorni di navigazione dalla Britannia, giusto?»
«Giusto.»
«Ma se Ogigia fosse al di qua dello Stretto di Gibilterra, occorrerebbero ben più di cinque giorni per raggiungere la Britannia. Devi costeggiare Spagna, Portogallo e Francia, prima di arrivare anche solo ad intravedere la Manica. È più probabile che si tratti delle Isole Fær Øer e che poi, da lì, in due settimane, abbia raggiunto il regno dei Feaci, sulle coste della Norvegia.»
«Norvegia. Freddino, per giocare dormire nudi sulla spiaggia in attesa che una principessina ti trovi seguendo la sua palla, no?»
«Pensa all’ambiente che trova. Coste rocciose, alberi a profusione, maree che invadono il letto dei fiumi, risalendo verso l’interno.»
«Ma questo…»
«Senza contare che lo Stretto di Messina non genera certo tre vortici al dì, capaci di inghiottire una nave. No, no, quello è il maelström, che si forma verso le Lofoten, altroché.»
«Ma si forma due volte al giorno. Non tre», ribatté Stella. Non gliel’avrebbe data vinta, nossignore.
«E i nomi?», rilanciò Freja. «Non si riesce ancora a collocare Dulichio nello Ionio. Invece, qui nel Baltico, Langeland corrisponde perfettamente a Dulichio, e per la descrizione e per il nome. Isola lunga. Dulichio. Langeland. Più lampante di così!»
«Per quello si potrebbe scomodare l’Indoeuropeo. È la radice comune di quasi tutte le lingue parlate in Europa, o sbaglio?»
«Freja, arrenditi», intervenne Luke posando una mano sulla spalla di Stella. «Con Stella non la spunti. Questa signorina ha sempre avuto un debole per il nostro Odisseo.»
«E chi non ce l’ha?», sghignazzò Axel. «Voglio dire, pensiamo a tutte le donne che s’è fatto nel suo viaggetto… senza offesa, signore.»
«Così lo fai passare per un puttaniere!», scattò Freja.
«Luke, cos’è un puttaniere?», gli chiese Stella.
«Uno come Milos», rispose Luke. «L’ex fidanzato di Nadja, ricordi?»
Stella socchiuse gli occhi. Milos. Sì, quel nome le diceva qualcosa, ma non riusciva a mettere a fuoco quel particolare. «No, non me lo ricordo.»
«Meglio così, non è un ricordo piacevole», disse Luke, versandole dell’altro sidro. «Una donna in ogni porto. E spesso, anche più di una contemporaneamente. Nadja lo odiava. Ma oramai, fiorellino, è acqua passata.»
«Odisseo non era un puttaniere. Era un uomo astuto. Uno che usava il cervello, non quello che aveva tra le gambe», ribatté Freja stizzita.
Stella pensò che Odisseo doveva piacerle molto. In ballo c’era qualcosa in più di una semplice tesi di laurea, per quanto sperimentale questa potesse essere. Era curioso aver trovato qualcosa che la accomunasse a Freja. Stella non sapeva dire in che modo, ma sentiva che quella storia le apparteneva in maniera viscerale. Come se fosse un pezzo importante del suo passato. Forse aveva ragione Luke. Forse aveva sempre avuto un debole per quel marinaio vagabondo che aveva solcato in lungo e in largo il Mediterraneo – laghetto i miei stivali!, avrebbe ribattuto Julian.
Ricordo appena che faccia abbiano i miei genitori, ma ricordo l’Odissea per filo e per segno, pensò la ragazza sorbendo un altro sorso di sidro. Le amnesie sono eventi davvero bizzarri.
«Sì, sì, hai ragione tu.» Axel ribatteva a Freja, facendo un gesto con la mano come a scacciare una mosca fastidiosa. «Sappiamo tutti che se Troia è caduta è stato per lo stratagemma del cavallo…»
«No», rispose Freja. «Troia non cadde solo per quel motivo.»
«Ah no? E perché cadde, allora? Sentiamo!»
«Perché nella confusione generale Odisseo e Diomede ne approfittarono per trafugare il Palladio.»
Stella sussultò. «Il Palladio?»
«Sì. Il Palladio.» Freja portò il suo sguardo su di lei. «La statua di Athena che proteggeva la città.»
Stella cercò lo sguardo di Luke. Si sentiva strana. Stava accadendo qualcosa, nel suo cervellino e pensava che, forse, chissà, parlandogliene, lui l’avrebbe aiutata a rimettere assieme i pezzi. Gliel’aveva promesso. Ma quando si voltò, Luke stava guardando Freja, incuriosito.
«Eleno aveva predetto che Troia sarebbe caduta solo quando, tra le altre cose, i Greci fossero riusciti a trafugare la statua di Athena dalla città. E così avvenne.»
«Tutto questo disturbo per una statua?», commentò Axel.
«Se quello è il tuo obbiettivo, sì», rispose Luke, lo sguardo improvvisamente serio. «E se vuoi raggiungere il tuo obbiettivo, non c’è niente di meglio che distrarre l’attenzione del tuo avversario. Non credi?» Riempì il bicchiere di Stella e sollevò il proprio. «Signore e signori, qui s’impone un brindisi. All’ingegno di Odisseo e alla tesi di Freja!»
 
 
«Allora ci siamo. Si va in scena.»
Seiya afferrò una mela, la buccia rossa screziata di giallo, e se la lucidò contro la maglia. La addentò, ne gustò la polpa zuccherina schiacciandola colla lingua contro il palato e disse: «Sì.». Poi aggiunse: «Dovresti provarle. Sono de-li-zio-se.».
«Magari più tardi.»
«Carpe diem», replicò lui. «Cogli l’attimo, quando si presenta l’occasione. Potrebbe non ricapitarti una seconda volta», e le scoccò un’occhiata indecifrabile.
«A chi lo stai dicendo?»
«Scusa?»
«A chi lo stai dicendo?», ripeté lei. «A me, o a te stesso?»
Un lampo attraversò lo sguardo di Seiya, scaldando le sue iridi castane. «Chi lo sa?», disse stringendosi nelle spalle. «Dopo potresti non avere il tempo di gustartela, questa mela.»
«Tu dici?»
«Sì. Lo dico», rispose lui. «Potresti dover correre, dopo. E mangiare correndo è alquanto scomodo, non ti pare?»
Le si avvicinò e le porse la mela. Shaina la prese e le sue dita sfiorarono quelle di Seiya e una piccola, deliziosa scarica elettrica le corse lungo i polpastrelli. Abbassò lo sguardo sulla mela.
«Mi stai regalando una mela morsa?», volle chiedergli, ma quando sollevò il viso, Seiya si era fatto più vicino.
«Che fai? Sei impazzito?», sibilò lei.
Seiya si limitò a sorridere, arricciando appena le labbra, come se volesse darle un bacio.
«Sto per partire», disse.
«Buon… buon viaggio», azzardò lei, dandosi della stupida quando lui aggrottò le sopracciglia.
«Non vado in vacanza, Shaina. Sto partendo in missione», le fece notare. Shaina si chiese da quando la voce di Seiya era così bassa e calda. «Quindi, dovresti dirmi…»
«Silenzio.
«Dovresti dirmi?»
«Co…sa?»
Seiya sospirò. «Okay. Fai conto che io abbia indossato la mia armatura e che sia qui, davanti a te, con l’elmo tra le mani. Sto partendo in missione. E cosa si dice a chi parte in missione?»
«Co… conosci te stesso», sussurrò Shaina, le guance in fiamme contro il metallo freddo della maschera.
Seiya sorrise, e a lei esplose una salva di fuochi d’artificio nel cuore. Si avvicinò al suo orecchio e rispose: «E niente in eccesso», con una voce così seducente che Shaina sentì le ginocchia sciogliersi. Non partire. Non partire. Resta qui. Con me.
Lui la sostenne tenendola per un gomito. Le sorrise, poi disse: «Fai attenzione, d'accordo?», prima di accarezzarle la pelle, infilare le mani nelle tasche dei jeans e andarsene via, lasciandola ad osservare la sua schiena che si allontanava.
Non appena Seiya sparì dietro un paio di lecci, Shaina si ricordò di respirare. Come se si fosse spezzato un potente incantesimo, sbatté le palpebre e si passò una mano tra i capelli. Seiya non c’era più, lei sentiva un freddo tremendo, la mela era tra le sue dita. Shaina percepì uno sguardo persistente trapassarle la schiena. Si voltò. Alle sue spalle, Gemini la guardava con aria indifferente.
Guardona, pensò Shaina.
Gemini sollevò un sopracciglio, poi disse: «Vedo che Pegaso si è ripreso.».
«La gramigna non muore mai.».
Gemini abbozzò un sorriso. «Gramigna?», ripeté.
«È un modo di dire», ribatté Shaina.
«Non è molto lusinghiero nei confronti del salvatore della Patria», commentò l’altra. «O forse al fiero Santo dell’Ofiuco brucia un po’ avere una cotta per un Santo di Bronzo?»
Le dita di Shaina si strinsero attorno alla mela e questa esplose con un suono liquido. Abbassò lo sguardo, soffermandosi sulla propria mano come se la vedesse per la prima volta.
«Non ci sono più le mele di una volta», commentò Nadja osservando le sue dita.
«Se permetti», e Shaina si diresse verso il campo di addestramento femminile, lasciando i pezzi di mela sul terreno e Gemini a fissare la sua schiena.
Shaina si trovò a ringraziare la propria maschera. Se non l’avesse avuta indosso, Gemini avrebbe notato lo sguardo assassino che le aveva sbarrato gli occhi e la sua mascella irrigidirsi. Stronza, pensò. Le sarebbe piaciuto mangiare una mela che le aveva regalato Seiya. Anche se era stata morsa. Proprio perché lui l’aveva addentata. C’era qualcosa, in quel gesto infantile, che Shaina non riusciva ad afferrare, un sottinteso che le sfuggiva.
Ti stai facendo troppi castelli in aria, le disse la sua coscienza, prendendo in prestito la voce di Marin, e Shaina si disse che sì, aveva ragione. Forse aveva ragione. O forse aveva torto – torto marcio – la cara, saggia Marin.
Ripensò a quello che Seiya le aveva sussurrato prima, al Kerameikos, e le sue guance presero fuoco di nuovo.
Piccolo stupido! Vedi di non farti ammazzare!
Entrò nella sua casupola, si sfilò la maschera e azionò la pompa dell’acqua per lavarsi la mano dai residui di mela. Si sciacquò il viso. Mancava ancora qualche ora alle sette di sera. Mezza giornata. Il romanzo che aveva sequestrato a Lois occhieggiava sul tavolo.
Si strinse nelle spalle. Solo qualche pagina, si disse, scostando la sedia e lasciandovisi cadere. Solo qualche pagina.


 
Il giardino che circondava la casa di Freja era un tripudio di rosso e oro. Le fronde dei meli circondavano la casetta color rosso fuoco dalle finestre bianche. Piccole siepi di vischio ornavano il perimetro del giardino. Un tavolo di ciliegio ed una panca aspettavano solo che qualcuno si sedesse sotto un melo stracarico di frutti.
«Questo posto è stupendo», disse Stella accomodandosi. «Non pensavo esistesse nulla del genere.»
«Tantolunden fa questo effetto ai turisti», disse Bruna prendendo posto accanto a lei.
«Lo ha detto anche Luke, quando siamo arrivati.»
Bruna sorrise, e avvicinò la bottiglia del sidro al bicchiere di Stella.
«No, grazie», rispose la ragazza, coprendo il proprio bicchiere con la mano.
«Oh, avanti. Ci si può divertire senza bere, ma perché rischiare? E poi, lo dice anche il detto, no? Una mela al giorno, toglie il medico di torno», disse Bruna, scostando le dita dell’altra e versandole altro sidro. «Brindiamo. A Tantolunden e alla nostra amicizia.»
«A Tantolunden e alla nostra amicizia», ripeté Stella.
«Buono, vero? Lo facciamo noi, con queste mele qui.»
«È buonissimo, ma questo è l’ultimo bicchiere.»
Bruna rise. «Ti abituerai. Qui in Svezia il succo di mela è un’istituzione, come il tè per gli inglesi. Freja lo corregge con un goccio di vino bianco frizzante.»
«Ecco perché mi sento la testa così leggera…»
«Oddio, ti abbiamo fatto ubriacare!»
Scoppiarono a ridere, come due bambine, aiutate anche dal sidro che avevano bevuto per quasi tutta la giornata. Poi Stella notò l’anello d’argento all’anulare sinistro di Bruna.
«Sei fidanzata?», le chiese.
Bruna sbatté le ciglia, guardò prima Stella, poi la sua mano, e infine disse: «In un certo senso.».
Stella tacque. Poi, vedendo che Bruna non proseguiva, chiese: «È Axel?».
Sapeva che certe cose non si fanno, che scavare nell’intimità delle persone è come infilare le mani nel loro cuore; eppure, Stella non era riuscita ad impedirsi di chiedere. Certo che era Axel; doveva essere Axel. Non poteva essere Viggo, erano troppo diversi, lui e Bruna. Però, Stella voleva lo stesso una conferma. Il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce, dopotutto.
Gli occhi di Bruna dardeggiarono, poi, con un tono gelido, la ragazza disse: «No. Quest’anello testimonia un voto fatto anni addietro. Rimarrò vergine fino al matrimonio.».
«Ah!» Stella arrossì. «Scusami, non volevo essere indiscreta.»
«Nessun problema», la rassicurò Bruna, anche se il suo tono testimoniava l’esatto opposto. «La mia è una famiglia molto religiosa. Per me e per Freja è stato naturale compiere questa scelta.»
Accarezzò distrattamente l’ambra incastonata al centro dell’anello.
«È molto bello.»
«Quest’anello si chiama Sköldenring. Anello dello Scudo», tradusse Bruna, «e può togliertelo solo tuo marito, la sera delle nozze. Quando mi hai chiesto se fosse un anello di fidanzamento non ci sei andata lontano. Un anello di fidanzamento indica che hai votato la tua vita e la tua virtù a qualcuno. Fidanzamento ha la stessa radice di fiducia, dopotutto. La differenza è che io ancora non so chi sarà il mio fidanzato. Tu, invece, sì.»
«Capisco», commentò Stella, tuffando il naso nel suo bicchiere.
Bruna le sorrise.
«Sono contenta di averti conosciuto», disse. «Luke ci ha parlato così tanto di te che morivo dalla voglia di incontrarti di persona.»
«Spero di non averti deluso.»
«Sei esattamente come t’immaginavo!», commentò Bruna, dandole di gomito. «Sono felice che Luke abbia scelto te.»
Voltò lo sguardo in direzione della casa. Nel riquadro della finestra Luke e Axel parlottavano tra loro, mentre Viggo annuiva.
«E poi, grazie a te, siamo riusciti a staccare Freja dai libri per una giornata! Te ne sono infinitamente grata. Mia sorella è una perfezionista e s’è rinchiusa qui per scrivere la sua tesi.»
«Forse Freja non la pensa così. Non credo di esserle molto simpatica.»
«È solo gelosa. Lei è molto affezionata a Luke, tutto qui.»
«Tutti voi gli volete un gran bene.»
«Lo adoriamo. È stato un po’ il fratello maggiore di tutti noi.»
«Come vi siete conosciuti?»
«Qui», disse Bruna, allargando le braccia, come a voler raccogliere tutto il parco in quel gesto. «Il nonno di Axel aveva una casetta oltre quel larice laggiù, e lo zio di Viggo, invece, una dall’altro capo del parco. Lui è vegetariano. In una famiglia di macellai è peggio che essere una pecora nera!»
«E Luke?»
«Veniva a giocare da queste parti. In realtà, ci veniva per dipingere e noi gli rompevamo gli stivali in ogni modo possibile e immaginabile.»
«Davvero?»
«Sì. Era un tipo paziente.»
Bruna sorrise tra sé e sé, lo sguardo perso tra i ricordi e le assi sbeccate del tavolo.
«Una volta», iniziò a raccontare, «Axel sgattaiolò alle sue spalle, zitto zitto, gli si avvicinò e gli gridò “buh!!” con quanto fiato aveva in gola. Luke spiccò un salto prodigioso, uno di quelli che ti porta sulla Luna in dieci secondi, hai presente?»
«Luke?»
«Sissignore. Era così buffo. Peccato che nel salto avesse spalmato tutta la sua tavolozza sulla tela. Un bel guaio, lavorava a quel quadro da un sacco di tempo. Così ha rincorso Axel fino alla casetta di suo nonno, gli ha abbassato i calzoni e l’ha sculacciato per benino fino a quando il nonno di Axel non è uscito per vedere chi stesse scannando suo nipote.»
«E poi?», domandò Stella, stringendosi tra le braccia. Si stava alzando il vento, ma non voleva rientrare, non prima di aver sentito come andava a finire quella storia.
«E poi il nonno di Axel gli ha dato il resto!»
Risero entrambe, Stella provando una genuina simpatia per Axel, e Bruna assaporando il gusto agrodolce dei ricordi.
«Non deve averla presa bene…»
«No. Era furioso. Aveva lavorato a quel quadro per giorni. Ed era anche bello sai? Era una veduta del parco, con quegli alberi in primo piano.» Bruna indicò coppia di alberi che facevano bella mostra nel giardino. «Le mele di Idunn», aggiunse, come se questo dovesse significare qualcosa.
Stella fissò l’albero. Niente. Nessun campanello, nessuna lucina.
Buio pesto.
«Tua nonna?», tentò. Parlando con Bruna sentiva che la ragazza cercava di aiutarla in qualche modo, come se tutti i loro discorsi fossero dei tentativi di scalfire il muro dell’amnesia che regalava a Stella la sgradevole sensazione di stare galleggiando nel vuoto. O di essere un personaggio di un racconto, qualcuno senza radici, senza legami, senza passato, soltanto il segmento che il regista decide di illuminare.
Tutto il resto, è ombra.
Tutto il resto è noia.
Stella sbatté le palpebre. Aspetta, chi cantava questa canzone?
Bruna la strappò ai suoi pensieri.
«No, no. Mia nonna si chiama Annikafiore.» Rise. «Ma fu grazie a Idunn se questi meli si salvarono.»
«Adesso mi racconti tutta la storia», commentò Stella.
«Subito dopo la guerra, mio nonno ottenne questo lotto ad un prezzo di favore purché si occupasse del giardino, e vi trapiantò quei due meli dalla fattoria che aveva appena fuori città», spiegò Bruna. «Quando i nazisti occuparono la Svezia e saccheggiarono le fattorie, nessuno toccò quegli alberi.»
«Come mai?»
Bruna rise. «Mio nonno era filologo, come me, ma era anche una gran carogna. Tutti conoscevano la passione dei nazisti per le reliquie germaniche, così li convinse che si trattavano degli alberi di Idunn, e nessuno toccò i suoi meli.»
Stella alzò lo sguardo ai rami carichi di frutti.
«Ma chi è questa Idunn?»
«Nella mitologia scandinava, Idunn era la moglie di Bragi, il dio della poesia. Si diceva che avesse un giardino in cui crescevano delle mele magiche che garantivano agli dei l’eterna giovinezza.»
«E l’immortalità?», chiese Stella.
Bruna sorrise. «La mitologia scandinava è particolare. La fine arriva per tutti, anche per gli dei.»
«Ah, il crepuscolo degli dei.»
«Quello è Wagner. La traduzione corretta è Destino degli dei. Quello che attende tutti, mortali e divinità. Quindi, a che ti serve l’immortalità se tanto, prima o poi, dovrai morire? È uno spreco di risorse. Meglio mantenersi giovani e forti, no?»
Bruna le sorrise, ma Stella non le si accodò. «È una visione pessimistica del Destino.»
«No. Il Destino è il Destino», rispose Bruna. «Ka
«Ka? Sempre Tolkien?»
«No, Stephen King. Hai mai letto i suoi romanzi del ciclo della Torre Nera
«No. È la prima volta che ne sento parlare.»
«Leggili, sono stupendi! Te li presterei volentieri, ma ho l’edizione in svedese. Luke, però, dovrebbe avere quella originale.»
«Okay. Ma che c’entra col discorso delle mele di Idunn?», chiese Stella, l’espressione confusa. «Non ti seguo.»
«C’entra, c’entra», rispose Bruna con fare sibillino. «Il Ka è il destino, quello a cui non si sfugge. È un archetipo comune a molte culture. C’è il Ragnarok per Asgard, Tyche per l’Olimpo e il Ka per Roland il Pistolero. Ma è sempre la stessa storia.»
«D’accordo, ma come si ricollega tutto questo colle mele di Idunn?»
«Perché anche le mele sono un archetipo.» Bruna si alzò e raggiunse il melo che suo nonno aveva piantato lì più di quarant’anni prima, ne colse un frutto e se lo rigirò tra le dita come a saggiarne la perfetta rotondità. «La mela è il frutto per eccellenza. Per una mela, Adamo ed Eva furono scacciati dall’Eden. Le mele di Idunn garantivano l’eterna giovinezza e la salute degli Asi e dei Vani. Una mela d’oro scatena la Guerra di Troia e una rossa come il sangue avvelena Biancaneve.»
«È vero», commentò Stella, rapita. «Adesso che mi ci fai pensare…»
Bruna si strinse nelle spalle. «È tutto sotto i nostri occhi. Il trucco è sapere dove guardare e cosa cercare.» Le lanciò la mela. Stella la prese al volo. «Assaggiala. Sono buonissime.»
«Senza lavarla?»
«Non usiamo pesticidi», rispose Bruna, infilando le mani nelle tasche dei jeans. «Assaggiala e dimmi se non è deliziosa.»
Stella si lasciò convincere. Spolverò la mela sulla manica del suo abito, poi l’addentò. Squisita. La polpa era soda e zuccherina e la buccia aveva un profumo intenso e avvolgente. Chiuse gli occhi e masticò il boccone sprofondando in un vero e proprio abbraccio multisensoriale.
«Allora?», chiese Bruna.
«Squisita», mugolò Stella, a bocca piena.
«Che ti avevo detto?», ribatté l’altra. «Questa è tutta roba genuina. Usiamo la buccia per aromatizzare il sidro e creare dei pot-pourri, e la polpa per il sidro, le marmellate e le torte di mele.»
«Devono essere squisite!»
«E lo sono. Freja ha le mani d’oro, quando si tratta delle mele.» Bruna la raggiunse. «Però adesso sarà meglio rientrare. È sceso il crepuscolo.»


«Questa donna dice di avere un messaggio urgente per il Santuario, signore.»
Ban fissava la straniera con aria perplessa. Venticinque anni portati male, capelli arruffati, troppa carne sulle ossa minute e negli occhi la volontà di mettere al più presto quanta più strada possibile tra lei e quel posto.
Ambasciator non porta pene, di solito. Ma stavolta sembrava proprio che la donna fosse consapevole della portata della sua ambasceria.
«È cosa seria, dice. Io non sapevo se fosse il caso di scomodare le alte sfere, sicché mi rimetto a voi, signore.»
Nella testa di Ban si formarono due pensieri, brillanti come diamanti contro il velluto nero. Il primo era che la lingua parlata al Santuario era antiquata, un greco vecchio e polveroso che alle sue orecchie sembrava provenire da un altro tempo, quando pepli, chitoni e coturni erano all’ultima moda.
Il secondo, invece, riguardava quanto aveva detto quel soldato semplice di cui non rammentava il nome – erano tutti uguali per lui, tutta marmaglia che ingrossava l’esercito di Athena non avendo trovato niente di meglio da fare nella vita.
Non volevo disturbare i Santi d’Oro, così ho chiamato te.
È un’offesa?
, si domandò. Poi Ban si disse che no, non lo era. Il soldato aveva ragionato seguendo gli schemi mentali di chi vive in una gerarchia: aveva seguito la catena del comando e aveva avvisato chi stava sopra di lui in grado. E loro, abituati a lavorare da soli, come un branco di cani selvatici, facevano fatica a capire certe sottigliezze che invece questa marmaglia dava per scontate.
Se ti avessi scavalcato, poi tu me l’avresti fatta pagare, gli stavano dicendo gli occhi del soldato.
«Signore?»
Ban si riprese e annuì. «Ben fatto…»
«Sakis.»
«Sakis. Giusto. Ben fatto, Sakis. Ora, lasciaci. Parlerò io con questa donna e…»
«Signore», lo interruppe Sakis, «mi scusi se insisto, ma è cosa grave. Grave assai», ribadì e solo in quel momento Ban si accorse che quell’uomo aveva superato la trentina da un pezzo. E che il suo sguardo non era allarmato perché stava parlando con un suo superiore, un ragazzetto di tredici anni, nossignore, ma perché il messaggio della donna doveva essere davvero fondamentale. Di vitale importanza. Ma cosa avrebbe dovuto fare, lui? Ascoltare il messaggio della donna e poi correre dritto filato da Mu o da Shaka?
Ban si voltò verso la donna. La quale, in un inglese secco e dai suoni spezzettati, mormorò che veniva da Asgard e che era lì in veste di ambasciatrice. Ban annuì e la donna aprì la borsa che portava a tracolla, estraendone un sacchetto di velluto rosso, legato da un nastrino. Glielo porse. Pesava. Ban slegò il nodo che teneva chiuso quell’involto e vi guardò dentro. E il mondo intorno a lui cominciò a girare all’impazzata.
Sentì appena la donna mormorare qualcosa. Delle scuse, delle… condoglianze, ecco, sì. Condoglianze. Il suo signore era dispiaciuto e porgeva al Santuario le sue condoglianze più sincere.
Il battito del cuore di Ban gli inondò le orecchie, poi il Leone Minore gridò:«Sakis!», pallido in volto e le mani tremanti.
«Sissignore!»
«Sakis, corri ad avvisare il Nobile Mu o il Nobile Shaka e di’ loro di venire qui subito!»
Sakis annuì, schioccò i talloni e si allontanò di corsa, lasciando Ban e la misteriosa mabasciatrice a pochi passi oltre l’emporio di Agathê.
«Io vado», disse la donna nel suo inglese elementare e fece per muovere un passo quando la mano di Ban si chiuse sul suo polso, paralizzandola.
«No. Abbiamo bisogno di alcune informazioni che solo tu puoi darci», scandì Ban, parola per parola, cercando aria buona da respirare.
«Io non so niente!», strillò lei, prima di divincolarsi e di gridargli qualcosa che Ban non capì.
«Desolato, ma tu non vai proprio da nessuna parte...»

 
«Sei stata bene?»
L’abitacolo della Volvo di Luke era caldo e confortevole. Stella si sfilò le scarpe e si massaggiò i piedi. «Benissimo.»
«Sono contento», disse Luke mentre Tantolunden scompariva nello specchietto retrovisore e l’automobile s’immetteva nel traffico serale. «Ci tenevo che tu e i ragazzi andaste d’accordo.»
«Sono molto simpatici. E sono stati molto carini nei miei confronti.»
«Tranne Freja», disse Luke. «Devi scusarla, tende ad essere iperprotettiva, ma vedrai che quando vi sarete conosciute meglio diventerete ottime amiche.»
Sì, e stanotte nevicherà blu.
Non sarebbe mai successo. Freja la detestava, altroché, e Stella sapeva che quella di accattivarsi le sue simpatie era una battaglia persa in partenza, ma preferì che Luke cullasse questa sua convinzione.
«Ne sono sicura», mentì Stella guardando la città illuminata sfilare oltre il finestrino. «Scommetto che è simpatica come sua sorella.»
«Scommessa persa.» Luke si fermò ad un semaforo e si voltò verso di lei, un alone rosso ad illuminargli il viso. «Bruna è estroversa, Freja introversa. Bruna ama chiacchierare, Freja ascoltare. È una brava ragazza, ma devi apprezzarla per quella che è.»
«Ho capito.»
Il semaforo divenne verde e la Volvo riprese la marcia.
«Di che avete parlato, tu e Bruna? Siete state via un’eternità…»
«Cose da donne», rispose Stella. «Cos’è, sei geloso?»
«No, no», rispose lui. «Se posso guardare, va tutto bene…»
«Luke!!»
«Scherzavo, scherzavo…»
«È uno scherzo cretino», ribatté lei accoccolandosi sul sedile, i piedi sotto al corpo.
«Hai ragione. Ti chiedo scusa.»
La Volvo superò una serie di incroci prima che Luke le chiese se avesse ancora freddo. «Avete preso un po’ d’umidità in giardino. Sicura di stare bene, fiorellino?»
«Sì, sto bene», lo rassicurò Stella. «Quei meli sono bellissimi. E ci sono tutte quelle siepi deliziose attorno alla casa.»
«Ti piacciono?» Stella annuì. «Sono siepi di vischio.»
«Non l’avevo mai visto così.»
«È molto popolare in Svezia. Si crede protegga dalla sfortuna e dalla malattia. Ce n’è una siepe in quasi tutti i giardini.»
«Scommetto che Bruna avrà una storia da raccontarmi anche sul vischio.» Luke rise. «Non ridere. C’è stato un momento, oggi, in cui mi sono sentita davvero strana.»
«Definisci strana.»
«Non lo so. Forse sono solo mie sensazioni. Parlare in inglese per tutta una giornata può essere stancante.»
«Non mi stai dicendo tutto, Stella», la rimproverò lui, collo stesso tono che usava suo nonno quando smascherava le sue frottole. Stella rivide il suo volto rugoso contrarsi in uno sguardo serio e accigliato, ma qualcosa, in quel ricordo, stonava. Suo nonno non la chiamava Stella. Suo nonno la chiamava S…
«Stella? Stella, mi stai ascoltando?»
«Sì, Luke. Scusami, sono molto stanca.»
«Posso immaginarlo», disse lui. «Ma puoi dirmi cosa c’è che non va, amore mio?»
«Non c’è niente che non va.»
«Avanti, Stella, non ricominciamo. Dimmelo.»
«Dirti, cosa?»
«Qualcosa non è andato per il verso giusto.» Pausa. «Io credo di averlo capito, ma gradirei che tu me lo dicessi.»
«No, Luke, davvero», si schernì lei.
«E invece no.» Luke scalò in terza, poi in seconda e la Volvo imboccò una stradina a destra. «Ma siccome è una questione di fiducia e di rispetto, vorrei che me lo dicessi tu, e che non dovessi cavarti le parole di bocca. Questo mi ferisce, Stella, sappilo.»
«Non reagire così.»
«E come dovrei reagire?» Pausa. «Tu non ti fidi di me!»
Luke aveva tirato fuori l’artiglieria pesante. L’aveva colpita e l’aveva affondata. Il semaforo in fondo alla strada divenne giallo. Luke scalò le marce e la vettura si fermò sulla linea d’arresto.
«No, Luke. Non è questo.»
«E allora cos’è, tesoro?» La luce rossa del semaforo proiettava un alone minaccioso sul suo volto. «Dimmelo.»
Stella tacque. Il semaforo divenne verde e qualcuno sventagliò i fari alle loro spalle. Luke distolse lo sguardo e mise in moto.
«Sono… sono i tuoi amici, Luke», mormorò Stella guardando le luci della città.
«Pensavo ti piacessero.»
«Sì. Mi piacciono. Ma tutti quei discorsi che abbiamo fatto nel pomeriggio… Mi sono sentita strana perché mi risultavano familiari.»
«Davvero?»
«Sì, davvero.»
Le labbra di Luke si curvarono all’insù. «Ma è meraviglioso!» Si voltò verso di lei e le coprì la mano sinistra con la propria. «Amore, che bella notizia!»
Stella arrossì. Quelle cinque dita avvolgevano le sue, il palmo di Luke era caldo e rassicurante, come una coperta sulle spalle o il fuoco scoppiettante di un camino in una fredda sera di gennaio. Le dispiacque quando lui ritirò la mano per azionare la leva del cambio.
«Una bella notizia?», chiese, titubante.
«Sì! Tu sei sempre stata una grande appassionata dell’Odissea.»
«L’hai detto anche oggi. Eppure…»
«Quando ci siamo conosciuti, alla festa di compleanno di Julian, abbiamo passato quasi tutta la sera a chiacchierare in giardino. O meglio, tu mi hai raccontato tutta l’Odissea, io ascoltavo. Ricordi?»
Stella assottigliò lo sguardo. Il compleanno di Julian Solo era stato in marzo, ed era stata una serata piacevole. L’aria era tiepida, la villa di Glyfada era illuminata e strapiena di persone. L’orchestra suonava, la fontana in giardino disegnava giochi d’acqua e la luna splendeva in cielo così grande e vicina e luminosa da dare l’impressione di poter allungare la mano e prenderla, come fosse un fiore di campo. E il sorriso di Luke, il suo sguardo impossibile in cui immergersi per non riaffiorare più, mentre lei gli raccontava di Odisseo, Circe, Nausicaä, Calypso…
«Per questo ho chiesto ai ragazzi di darmi una mano. Freja sta scrivendo la tesi proprio sull’Odissea.» Le sfiorò la mano colla sua. «Qualcosa», disse accarezzandole la testa, «si sta muovendo in questo cervellino. Ecco perché ti sei sentita strana.».
«Dici?»
«Oh, sì. O. Acca. Esse. I.»
Si fermarono all’ennesimo semaforo rosso e Luke ne approfittò per scoccarle un bacio tra i capelli. L’aroma della sua acqua di colonia avvolse Stella in un abbraccio che le tolse il respiro.
«Dobbiamo festeggiare, tesoro», le disse guardandola negli occhi. «Domani andiamo per negozi e ti compro qualcosa di speciale.»
«Quanto speciale?», chiese lei.
Lui ridacchiò, il semaforo divenne verde e si rimisero in moto. «Lo deciderai tu.»
«Quel paio di scarpette che ho visto in centro eiri pomeriggio sono abbastanza speciali?»
«Quali? Quelle rosso ciliegia così sexy da meritarsi il centro della vetrina?»
«Quelle», ridacchiò Stella.
«Oh, sì», e il sorriso di Luke fece sciogliere Stella fin nelle viscere. «Ma quelle scarpe sono così sexy che avrai bisogno del porto d’armi, tesoro…»
«Troppo?»
«Niente è troppo per la mia regina», commentò Luke svoltando per una stradina stretta e tortuosa, ma Stella non era più con lui.
La mia regina.
La mia regina.
La mia regina.

Al viso magro di Luke se ne sovrappose un altro; più infantile, forse, ma che fece tintinnare una distesa di campanellini nell’animo di Stella mentre gli occhi verdissimi di Luke mutavano in un caldo marrone, e un nome diverso saliva alle labbra di Stella. Sa… Shi… Su… Se…
Luke le batté la mano su un ginocchio e quel volto misterioso ripiombò nel dimenticatoio, catapultato indietro anni luce dal sorriso splendente del suo fidanzato. «Non vedo l’ora di dirlo ai ragazzi!»
«C’è un’altra cosa, Luke.»
Lui sbatté le palpebre, intimorito. Stella strinse le labbra. Mi è uscita più dura di quanto avrei voluto, pensò.
«Cosa, pavoncella mia?»
«Viggo. Mi guardava in maniera strana.»
«Strana?»
«Sì. Sembrava che fossi io, il Palladio.»
Luke scoppiò in una risata di cuore, come se lei gli avesse appena raccontato la più formidabile delle barzellette.
«Non ci trovo nulla da ridere», lo sgridò lei. «Mi fissava come se fossi un animale raro.»
«Scusami, amore, è che l’inglese di Viggo lascia molto a desiderare e ha fatto una fatica pazzesca a seguire i nostri discorsi.»
«Mi fissava», protestò lei.
«È perché sei bellissima», le spiegò Luke. «Ho spiegato ai ragazzi la tua situazione. Sono sicuro che Viggo volesse solo vedere se i nostri discorsi facessero suonare qualche campanello, tutto qui. Ma se ti dà così fastidio, scambierò due parole con lui.»
«Te ne sarei davvero grata.»
«Ma certo, tesoro. Adesso non pensiamoci più. Sei così bella, quando sorridi…»





Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Torno ad aggiornare questa storia dopo una pausa indecente, lo so, ma per farmi perdonare ecco a voi un bel capitolo corposo.
Troppo, dite?
In effetti, non posso darvi torto, ma sappiate che mi sono messa una mano sulla coscienza e quello che state leggendo è solo la metà di quanto avevo preventivato. Contenti, vero?

La tesi dell'Odissea ambientata nel Baltico non è mia, ma appartiene a Felice Vinci, che l'ha illustrata nel suo saggio Omero nel Baltico. Le origine nordiche dell'Odissea e dell'Iliade, Roma, Palombi editore, 1995. La tesi è quella di cui parla Freja, confutata dagli esperti per le stesse motivazioni addotte da Stella. 

Tantolunden esiste davvero ed è un posto delizioso che ho conosciuto grazie a Diario Nordico. Le casette sono poco più che capanni, ma siamo pur sempre in un racconto di fantasia, no? 

Tutto il resto è noia è una canzone di Franco Califano del 1977. Mi sono lasciata prendere la mano anche qui, ché Stella... pardon, Saori, nel 1977 era già al sicuro in Giappone, e quindi difficilmente poteva aver sentito qualcuno canticchiare questa canzone nei corridoi in penombra del Santuario. Voi chiudete un occhio, vero?

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Capitolo 25
*** 25. ***


25.




 


Il bello del rientrare alla base sono le quarantotto ore che il Sacerdote concede in premio all’eroico Santo dopo che questi gli ha presentato un primo rapporto. Uscito dalle porte a doppio battente della Sala delle Udienze, costui ha diritto ad un ragionevole lasso di tempo per rimettere insieme le idee e procedere a stilare un rapporto scritto che andrà a far parte degli Annali.
Per i posteri, s’intende, anche se Aristoteles non comprende fino in fondo questa fissazione - quest’ossessione - del Sommo Sion per la memoria – si vocifera che il sant’uomo abbia più di cento anni, ma neppure questa è una giustificazione soddisfacente, per Aristoteles – e i documenti pieni di polvere e muffa che ammassa nella propria libreria; tuttavia, ci sono momenti in cui i pallini di un vecchio cadono a fagiolo.
Quarantotto ore, pensa, solleticando quella manciata di lettere sulla punta della lingua. Quarantotto ore da spendere nelle taverne, tra le lenzuola di Dorcas o di Klio – o con tutt’e due – oppure a pescare. Ha solo l’imbarazzo della scelta, eppure Aristoteles ha le idee ben chiare: ozio totale. E anche il Sacerdote se lo immagina, convinto che il Santo di Athena passerà gli ultimi quarantacinque minuti a sue disposizione per redigere due righe confuse su quanto accaduto, magari finendo di scrivere il proprio rapporto in anticamera.
Pazienza. Il vecchio Sion è un uomo di mondo, dopotutto, pensa Aristoteles, aggiungendo tra sé e sé che se a quella gatta selvatica di Doina sono passate le paturnie, forse forse potrebbe spenderle tra le sue, di lenzuola, quella piccola licenza ufficiosa.
Sì, e quando mai quella si lascerebbe convincere ad uscire dal Santuario con me, pensa Aristoteles, la sacca da marinaio sulle spalle e l’armatura avvolta in modo da non destare sospetti.
Se non fosse stato per lei, e per i suoi ripetuti tentativi di strappargli le palle a morsi - e se non fosse stato per la tendenza congenita di Aristoteles di correre appresso ad ogni gonnella che gli passa sotto al naso – il Sacerdote non l’avrebbe spedito in Nuova Zelanda con una sonora pedata e l’obbligo di restarvi sei mesi per capire se, tante volte, il Bigfoot non si fosse trasferito nell’emisfero australe.
Così, tanto per ammazzare il tempo.
Peccato che non solo non vi fosse alcun Bigfoot o un qualche suo cugino zoticone – quattro ragazzotti troppo pieni di birra valgono? -, ma che il Sommo Sion lo sapesse eccome. Ma, spedendolo dall’altra parte del mondo – letteralmente –, il Sommo Sion ha preso due piccioni con una fava, salvando la pace del Santuario e la propria sanità mentale. Ecco perché ad Aristoteles piace il Vecchio. È un uomo di mondo. E a lui basteranno davvero cinque minuti per stilare il suo rapporto.
Stavolta potrò anche far asciugare l’inchiostro, pensa, ignaro del fatto che, non appena svolterà l’angolo, incapperà in qualcosa – in qualcuno – che gli manderà a gambe all’aria tutti i suoi progetti. Presenti e futuri.
C’è una ragazza, sul marciapiede. Una ragazza con un vestito bianco che sta armeggiando con una bicicletta – bianca – una di quelle col portapacchi e il cestino anteriore. Bianchi anch’essi. I piedi di Aristoteles si muovono da soli. Sente la propria voce chiedere: «Serve una mano?», prima di darsi del cretino da solo. Ovvio, che le serva una mano.
E infatti lei si volta a guardarlo, gli piazza due occhi color cobalto nei suoi e gli dice: «Eh. Magari!».
«Cos’è successo?»
«La catena. S’è sganciata e...»
«Fammi vedere.»
La situazione è chiarissima: non si è solo sganciata la catena, si sono anche rotti due o tre denti. Non c’è proprio modo di rimetterla a posto, se non sostituendola, ma dove lo trovi un negozio di biciclette aperto di domenica?
Così, dopo aver armeggiato per un po’ ed essersi lordato le mani, Aristoteles getta la spugna e le dice – e le sospira - «Non c’è niente da fare. La catena è rotta, temo dovrai cambiarla…».
«Questo lo so», risponde lei, pulendosi il lubrificante dalle mani con un fazzoletto. «Il problema vero è la ruota», e, seguendo il dito di lei, Aristoteles si accorge della foratura.
«Ah», dice. Come un perfetto cretino.
«Dev’essere successo quando s’è rotta la catena», dice lei. «Oppure, devo aver bucato strada facendo e non me ne sono accorta.»
«Possibile», si limita a constatare lui. «Ti toccherà lasciarla qui, legata ad un palo della luce. Hai la catena ed il lucchetto?»
Lei ride, un suono franco e argentino. «Sì, certo. E sai quante ne ritrovo, domani? Dieci!»
Scuote la testa, i riccioli neri scappano dalla coda di cavallo sulla nuca. Aristoteles resiste all’impulso di riacchiapparne un paio e passarglieli dietro l’orecchio.
«Ho provato a chiamare mio fratello, per venirmi a prendere, ma non è in casa. È in campagna da certi amici.» Sbuffa. «No, mi toccherà trascinarmela dietro…»
«Abiti lontano?»
Aristoteles vorrebbe mordersi la lingua.

Che diavolo ti salta in mente? Devi rientrare al Santuario, ricordi?!

Non posso certo abbandonarla qui! Che figura ci farei?!
«No, non molto. A Plaka.» Lei lo fissa perplessa. «Ma con quella, a farmi da zavorra, potrei metterci anche mezza giornata…»
Questo è un colpo basso. Recitare il ruolo della damigella in difficoltà senza dichiararlo apertamente.
Chapeau, pensa Aristoteles.
«Ti aiuto io!»
«No. Non se ne parla nemmeno», si schermisce lei. «Mi hai già aiutato fermandoti a vedere che stava succedendo. Non posso chiederti di spingerla fino a casa mia!»
«E perché no?», rilancia lui. «E poi, a voler essere pignoli, sono
io che mi sono offerto di aiutarti.»
Ecco. L’ha detto. S’è fregato colle sue stesse mani, ma che scelta aveva? S’è infilato nella tela del ragno per vedere se era poi vero che fosse appiccicosa ed è rimasto invischiato.
La prossima volta imparo a tenere la bocca chiusa.
La ragazza ci pensa su. Si morde il labbro inferiore e lui teme che possa fregarlo in chissà quale altra maniera, quando lei dice: «D’accordo. Ma ti fermi a cena.».
No. Non se ne parla nemmeno. Devi trovarti a ottanta chilometri a nord di Atene entro le sei del pomeriggio, gli intima il suo cervello, mentre la sua voce risponde: «Va bene. Affare fatto.».
«Perfetto, allora! Affare fatto. Puoi aspettare un attimo solo? Il tempo di fare un colpo di telefono a mia madre e dirle che abbiamo un ospite a cena…», dice, indicando la cabina telefonica dall’altra parte della strada. Non aspetta risposta, anzi, rilancia con un: «Come hai detto ti chiami?».

Non te l’ho detto. «Aristoteles.» Pausa. «E tu?»
«Nausicaä.»

 

Stavros Kalatzakis, il Greco Volante, era l’uomo più vecchio che Milo avesse mai visto. 
A voler essere precisi, si disse lo Scorpione, non è solo vecchio.
È incartapecorito
Magro, ossuto, la pelle scurita dal sole e cotta dalla salsedine, era difficile inquadrare quell’uomo e dargli un’età. Basarsi sui capelli d’argento, con testarde spruzzate di nero, sarebbe stato un errore: secondo Kanon aveva novant’anni suonati, ma c’era qualcosa di particolare, nello sguardo di quell’uomo intento a masticare tabacco come se ne andasse della rotazione stessa della Terra attorno al proprio asse; una luce che lo rendeva più giovane di quanto suggerito dal suo aspetto.
Non si giudica un libro dalla copertina, diceva Aristoteles. 
Magari è solo il luccichio del mare, pensò Milo.
Stavros non batté ciglio trovandoselo davanti, accanto a Kanon, con l’armatura dello Scorpione indossata e lucente come se stesse per sfilare in parata davanti ad Athena; o, se lo fece, Milo non se ne accorse. Il pescatore accostò a quello scoglio troppo cresciuto la sua barchetta bianca e azzurro carico, salutò Kanon con un cenno del mento e fece loro segno di salire a bordo. Obbedirono. A poppa c’erano delle cassette di polistirolo vuote.
«Sedetevi», borbottò Stavros sopra il rumore del motore, «oggi il mare s’è svegliato col culo scoperto.».
La barca oscillò mentre Kanon e Milo rovesciavano un paio di cassette per usarle come sedili e Stavros invertiva la rotta, riportando la barca in mare aperto. Nessuno osò fiatare per un’ora abbondante.
Milo cercò gli occhi di Kanon, ma ciò che vide nello sguardo dell’altro era di difficile interpretazione. Forse c’era qualcosa che neppure Kanon comprendeva. O che faticava a mettere a fuoco. Si stavano affacciando entrambi su un panorama poco ameno, guardandolo da due diversi punti d’osservazione. Milo decise di concentrarsi sul proprio. Avrebbero trovato il tempo e l’occasione di avere un piccolo conciliabolo, tra di loro. Meglio arrivarci colle idee chiare.
Stavros era venuto senza pesce.
Stavros non si era stupito di trovarsi davanti un Santo di Athena in armatura.
Stavros li stava portando da qualcuno.
Altro che decano dei pescatori. Il servizio taxi del Santuario, pensò Milo, decidendo di rimandare tutte le domande a più tardi, quando si sarebbero trovati coi piedi ben piantati per terra.
«Soffri il mal di mare?», gli chiese Kanon, un sussurro appena sopra il borbottio del motore e il vento sulla pelle.
È un po’ tardi per pensarci, si disse Milo, facendo un gesto con la mano, come a dire che andava tutto bene.
«Dove siamo diretti?»
«Le isole più vicine sono Christiana e Askania, ma indovina un po’?»
«Non dirmelo. Sono disabitate.»
«Esatto. Per cui la più vicina resta Thera.»
«Poteva andarci peggio.»
Kanon annuì, poi distolse lo sguardo e sprofondò nei suoi pensieri. Milo decise di godersi il viaggio, lo sciabordio delle onde contro lo scafo sbeccato della barca e il pizzicore sbarazzino della salsedine sulla pelle. Qualcuno li stava attendendo alla fine del viaggio, e se Kanon non aveva un piano B pronto all’uso – eventualità improbabile – peggio per lui. Milo aveva intenzione di arrivare preparato a quell’incontro. Estote parati, diceva Aristoteles, è questo l’unico modo per salvare le chiappe
Un gabbiano andò loro incontro, le ali bianche spiegate al vento. Atterrò a poppa, annusando la scia dei pesci sulle assi e le cassette di polistirolo. Gli occhi rossi incontrarono quelli di Milo, poi la bestia socchiuse le palpebre e si accovacciò tra di loro, come se fosse un uccello addomesticato. Scroccava un passaggio, senza aver paura di mostrarsi debole, pigro o stanco, e Milo trovò la sua schiettezza così sincera che quell’uccello dallo sguardo crudele gli venne quasi in simpatia.
Anche i predatori devono tirare il fiato, pensò Milo, mentre la barca bianca e blu su cui viaggiava attraversava l’azzurra luccicanza del mar Egeo.
Kanon taceva.
Milo suppose che lo stesse ignorando, che non volesse che Stavros ascoltasse il loro conciliabolo, ma poi si disse che quelle erano sue paranoie. Kanon stava dialogando con il mare, un botta e risposta di sguardi e onde, una gara a…
A chi ha gli occhi più blu, pensò Milo e lo sguardo gli si allargò mentre un ricordo si faceva strada nella sua mente, un ricordo di qualche anno prima, quando il mondo era più facile e non c’era spazio per le ombre. Era tutto bianco e blu. Il blu del cielo, il blu del mare, il blu degli occhi di Saga.
Milo si ricordò di respirare.
Saga.
I suoi muscoli s’irrigidirono, un rivolo di sudore freddo gli ruscellò dalle tempie e sulla nuca. 
Saga.
La sirena. La spia ad Atlantide. La missiva del Santuario. E la risata del Sacerdote oltre le porte a doppio battente del suo studio.
Figlio di puttana, pensò Milo. Figlio di puttana.
Camus ripeteva sempre che si uccide prima con il cuore, poi con lo sguardo e solo all’ultimo con le mani. Si uccide col cuore, diceva, con quel suo accento impossibile, con le adenoidi sempre sul punto di esplodere e la lingua che si arrotolava – che si contorceva – ad ogni erre che incontrava sul suo cammino.
Uccidere con il cuore.
Camus andava matto per una serie di romanzi su di un pistolero, e la cosa era ridicola considerando quanto fosse celere a liquidare l’allegra cialtronaggine a stelle e strisce con un «Les Ricains!» di esasperata pazienza.
Eppure, gli piaceva la storia del pistolero che mirava con gli occhi, sparava con la mente e uccideva con il cuore. Milo aveva già ucciso in passato. Con le mani – oh, com’era bravo a colpire, ancora e ancora e ancora, fino a lasciare l’avversario sul terreno e a sentirsi le spalle stanche – e con gli occhi – e se i suoi sguardi avessero davvero potuto uccidere, Kanon sarebbe caduto morto stecchito in fondo all’Egeo almeno da dieci minuti – ma con il cuore?
Come si fa ad uccidere qualcuno con il cuore?, rimuginava lo Scorpione colto da un’improvvisa vertigine, mentre Kanon ignorava le sue occhiatacce assassine, tutto preso com’era dal suo dialogo con quell’acqua che andava e veniva, e andava e veniva, sempre inquieta, sempre in movimento, sempre pronta a parlare con chiunque fosse disposto a starla ad ascoltare. Il mare è di tutti, non ha confini, se ne frega dei nomi con cui gli uomini lo chiamano, lo delimitano, lo. Il mare è di tutti, sì. Ma Kanon aveva con l’acqua una sorta di affinità elettiva con cui era impossibile competere.
Questa conversazione non mi riguarda, si disse Milo, lasciando l’altro al suo personale dialogo, e immergendosi nelle proprie elucubrazioni. Qualcosa non quadrava in tutta quella storia, e Stavros, zitto zitto, li stava portando da qualcuno. E chiunque fosse, questo qualcuno, Milo non era disposto a concedergli un vantaggio di alcun tipo.

 
«I collegamenti sono interrotti.»
La voce di Kostas è buffa al telefono. Gracchia, come se fosse uscita da uno dei vecchi dischi della mamma, o quella di un pupazzo meccanico.
«Ci toccherà fermarci qui fino a quando non smetterà di piovere.»
Kostas non è felice. Non è felice di essere dovuto andare al funerale di zia Urania, non è felice di avere a che fare coi parenti del ramo materno e non è felice di averla dovuta lasciare a casa, da sola, a badare al ristorante. Ristorante che resta comunque chiuso – chi è che se ne va a mangiare fuori, con il Diluvio Universale parte seconda che affligge l’Attica da tre giorni? -, ma a Kostas è ben altro che preme.

«Mi raccomando, chiudi bene porte e finestre», le raccomanda. «E non aprire agli sconosciuti.» Pausa. «Intesi?»
Nausicaä solleva gli occhi al soffitto.
«Intesi?!»
«Sì. Intesi», ripete. Come se non ci arrivasse da sola. Come se suo fratello non gli avesse raccontato la favola di Biancaneve fino alla nausea.
Perché Biancaneve è morta?
Perché ha dato un morso alla mela avvelenata?
«Nossignore», replicherebbe Kostas. «Perché ha disobbedito ai buoni nani e ha aperto la porta ad una sconosciuta! La mela è un fatto puramente secondario.»
Logica inoppugnabile. Peccato che i malintenzionati non girino con un cartello appeso al collo, pensa Nausicaä giocherellando col braccialetto di filo con su ricamato il proprio nome.
Peccato che Kostas non alluda proprio a tutti, tutti, tutti i malintenzionati, ma ad uno solo. Un energumeno di un metro e ottantacinque, i capelli ricci, lo sguardo strafottente e una cicatrice sul mento. Ed il brutto di vizio di parlare attaccando le parole le une alle altre.
«Isolani…», biascicherebbe Kostas al riguardo, prima di sputare in un angolo.
«Fa freddo, lì?», chiede Nausicaä, la cornetta incastrata tra la spalla e l’orecchio. Vorrebbe domandare a suo fratello cos’è che non lo convince di Ari, se la cicatrice, il suo modo di parlare o qualcos’altro, ma, sapendo che quella domanda spalancherebbe una porta che è bene resti chiusa – almeno per qualche tempo -, decide di glissare. «Qui si gela.»
«Siamo in febbraio», ribatte lui, ben intenzionato a non mollare l’osso. «Piove, fa freddo e…»
«Speriamo passi presto, allora!», risponde lei, conscia del fatto che le previsioni del tempo prevedono un peggioramento. «Questa pioggia mette addosso una certa malinconia…»
«Ho io la soluzione!» La voce di Kostas ha quella sfumatura metallica che non le piace. «Perché non ammazzi il tempo spolverando le mensole e i bicchieri?»
«Ma è tantissima roba!», protesta lei. «E poi ci saranno due dita di polvere!»
«E chi ce l’ha il tempo di spolverare per bene? Ma, visto che il ristorante è chiuso, perché non ne approfittiamo?»
«Perché io non ne approfitto, semmai!», lo rimbecca lei, le dita strette attorno alla cornetta e le sopracciglia aggrottate. «Sai quanto detesto spolverare!»
«E tu sai quanto io odi i funerali!», ribatte Kostas. «E poi, si dice sai quanto io detesti spolverare.»
«Stai scherzando?»
«Nossignore. Direi che siamo pari e patta, sorellina», e prima che lei possa replicare qualcosa, Kostas chiude di scatto la comunicazione lasciandola ad ascoltare il tututututututututu monocorde del telefono.
Nausicaä digrigna i denti, sbuffa e sbatte la cornetta sulla forcella. «Non è colpa mia, se soffro il mal di mare!», sbotta, sistemandosi i capelli dietro le orecchie. Ci mancava anche questa, adesso. Spolverare tutte le mensole e i relativi ammennicoli. Finirò per l’anno prossimo, se mi dice bene, pensa lei, sbuffando come una locomotiva lanciata a tutta velocità. Quasi quasi mi ammutino, si dice, ché la vita non è fatta per passarla con lo straccio in mano; ma poi pensa che, col tempo da lupi che sta stringendo la città, non è che abbia poi molte alternative allettanti. E Ari di certo non metterà il naso fuori dalla sua tana, con tutta quell’acqua che sta venendo giù. Figuriamoci! Anche uno zuccone come lui, sa quand’è il caso di restarsene all’asciutto. Però, Nausicaä si chiede per quale motivo non l’abbia chiamata.
Avrà trovato occupato? Kostas sa essere davvero logorroico, quando non è lui a dover pagare le bollette, pensa Nausicaä arrendendosi. E sia. Si legherà un paio di strofinacci attorno ai capelli, tirerà giù tutti quei maledetti ninnoli e ninnolini, spolvererà tutto, spazzerà tutta la stanza e poi si regalerà un bel bagno. Uno di quelli caldi e senza fine, magari con una manciata di Sali al bergamotto nella vasca e qualche candela accesa qua e là.
E sta ancora pensando a come premiarsi – a come indorarsi la pillola – quando bussano alla porta.
Sulle prime, le pare di esserseli immaginati quei colpi. Un’imposta che sbatacchia al soffio del vento, o qualcosa che ruzzola giù per la strada. Ma poi i colpi riprendono, troppo rapidi e troppo cadenzati per essere solo il capriccio del temporale.
«Siamo chiusi!», grida, per l’irritazione e per superare lo scroscio della pioggia, ma non devono averla sentita, perché continuano a bussare come se volessero abbattere coi pugni la porta azzurro carico della taverna.
«Perché la gente non legge mai i cartelli?», si chiede lei, abbandonando lo strofinaccio in un angolo e dirigendosi a grandi passi verso l’ingresso del ristorante.
I colpi acquistano intensità.
«Arrivo, arrivo!», grida, stavolta innervosita da tutta quell’insistenza.  «Siamo chiusi. CHIUSI. In che lingua devo scriverlo?»
Un lampo illumina alle spalle la figura che si staglia nel riquadro della porta, sovrastandola colla sua mole. E lei si dà della stupida. Spalancare la porta senza prima guardare chi ci sia al di là. E meno male che ti ho raccontato la favola di Biancaneve fino alla nausea, sente borbottare la voce di Kostas. Poi, mentre ancora si sta chiedendo di che morte morirà – la strangolerà? L’accoltellerà? La? – la figura caracolla dentro, rivoli d’acqua a scorrergli sul cappellaccio, sulla mantella fradicia e sugli stivali. Si appoggia colle mani ad un tavolo, si lascia cadere di peso su una sedia – che protesta con un crac stizzito – e si libera del cappello.
«Dio, che tempaccio!»
Raccontami qualcosa che non so, pensa Nausicaä, le dita ancora strette attorno alla maniglia della porta.
«Aristoteles?», chiede. Non sa se essere più stupita o felice. Richiude la porta di scatto e si avvicina a lui. «Che ci fai qui?»
«Che ci faccio qui?» La squadra da sotto in su, come se le fosse spuntata una seconda testa. «Avevamo un appuntamento, o sbaglio?»
«No, no. Ma sta diluviando e…»
«Ecco perché sono venuto qui, invece che al solito posto. Ma che è successo? Dov’è tuo fratello? Dove sono tutti?», domanda, guardandosi attorno con fare spaesato.
«Al funerale di zia Urania. È… Era la sorella di mia madre.»
«Ah. Adesso capisco perché siete chiusi per lutto. Per un attimo m’era preso un colpo… Condoglianze.»
Lei si stringe nelle spalle.
«Zia Urania era malata. Meglio così, ha detto mamma. Ma adesso levati di dosso quella roba, o ti prenderai un malanno!»
«Me lo sono già preso», ribatte lui disfandosi della mantella. «Non avresti qualcosa di caldo?»
«Certo. Ti preparo subito un bel bagno…»
«Eh? No, no, non se ne parla. Devo partire tra meno di due ore.»
«Tutti i collegamenti via mare sono interrotti, e i treni circolano a singhiozzo.»
«Ah.»
«Levati quella roba di dosso», ripete lei, paziente, recuperando qualche straccio con cui asciugare il pavimento. Se Aristoteles non fosse stanco morto, troverebbe la situazione deliziosa. «Non credo andrai proprio da nessuna parte.»
Una sentenza. Così, Aristoteles si arrende. Si libera degli stivali, del maglione fradicio, della camicia ormai zuppa e si friziona i capelli con l’asciugamano che gli ha dato Nausicaä. Poi la guarda e le dice: «Proprio un bel casino…».
Lei annuisce.
«Potevi chiamarmi. Ci saremmo visti un’altra volta.»
«Te l’ho detto. Devo partire in missione», le ripete lui, paziente. Le ha spiegato a grandi linee della sia vita – fatte le debite omissioni, s’intende – e lei non ha mai chiesto di saperne di più. Essere una Bond girl in salsa tzatziki è sexy solo fino a quando si mantengono delle zone d’ombra, no?
«Sarà una cosa breve?»
«Non lo so. Davvero.» L’asciugamano sulle spalle, le scocca un’occhiata indecifrabile. «Due settimane. Tre al massimo. Almeno spero.»
Lei si stringe nelle spalle. «Portami un regalino», gli dice, appoggiata di schiena allo stipite della porta.
«Certo» le garantisce lui. Poi, come ricordandosi all’improvviso di qualcosa – qualcosa di importante, a giudicare da quanto ha sgranato gli occhi – si batte una mano sulla fronte, abbandona l’asciugamano e si mette a frugare nelle tasche della mantella. «Speriamo non si sia rovinato», dice, estraendo un pacchettino dall’aria spaurita e scalcagnata.
Quando si volta verso di lei, la trova a fissarlo con curiosità. «È per te», le dice. «Mi dispiace, ma con tutta quest’acqua…»
Le porge una scatolina dall’aspetto inequivocabile. Fa un rumore strano. Lei se lo rigira tra le dita, perplessa, nemmeno potesse scoppiarle tra le mani da un momento all’altro.
«Non morde. Tranquilla.»
Lei si sente una perfetta cretina. Sorride e si avventa sulla carta, che cede senza opporre troppa resistenza. Non è un anello, e nemmeno un braccialetto. Nella scatolina blu notte c’è un orologio d’argento, dal quadrante ovale di un bel blu cobalto e i numeri bianco perla.
«Ti piace?», le domanda lui, visibilmente confuso. «Non sto insinuando che arrivi sempre tardi, eh! È che l’ho visto e ho pensato a te e…»
«È bellissimo», dice lei.
Aristoteles riprende a respirare. «Tanti auguri!»
«Ma tu che ne sai?»
«Me l’ha detto un uccellino.»
«Chi?»
«Non si rivelano le fonti», le dice lui, sollevando l’indice.
È stata Melpomenê, la madre di Nausicaä, e se Kostas detesta Aristoteles dal profondo del cuore, la vedova Kalatzakis lo ha preso in simpatia. Perché ad Aristoteles piace il Kallistê. Gli piace la limonata che Melpomenê prepara con gli stessi limoni che ombreggiano la veranda della taverna. Quelli che ha piantato il marito di Melpomenê – uno per Kostas, uno per Nausicaä – prima di crepare sui monti appena fuori Atene.
«Grazie», mormora Nausicaä. «Mettimelo tu.»
E Aristoteles le si avvicina, slaccia il cinturino di metallo e lo allaccia attorno al polso della ragazza.
«Buon compleanno», le dice – le sussurra – tenendosi per sé un «Buon San Valentino» che sarebbe superfluo. Inopportuno. Le cose più belle sono quelle che non si dicono, che restano lì, in bilico sulla punta della lingua. E Aristoteles certe cose non può permettersele. Quando la tua vita appartiene ad Athena non hai più un momento per te. Non sai quando finirà, né se la prossima missione sarà l’ultima. Non si può tenere il piede in due scarpe. Aristoteles non appartiene al mondo di Nausicaä. Lei vive dentro una vetrina luccicante e lui può solo avvicinarsi e posare per un attimo – uno soltanto – le sue dita sul vetro pulitissimo che lo separa da lei, prima di riprendere il proprio cammino per le strade più buie e tortuose.
Nausicaä arrossisce. Avrà capito? Sorride, si alza sulla punta dei suoi piedini deliziosi e gli scocca un bacio mozzafiato.
«Grazie», sussurra, sorridendogli da sotto le ciglia scure. «Ma adesso devi proprio farti quel bagno caldo.»
«No, davvero», protesta lui. È già finito?, chiedono i suoi occhi. «Devo andare, io…»
«Fuori diluvia. I traghetti sono fermi. Tu non vai proprio da nessuna parte.»
«Ma non posso restare!»
«E perché?»
Aristoteles alza gli occhi al soffitto, come a raccogliere pazienza. «Perché sono un uomo, ecco perché», sbuffa, le mani sui fianchi - per sicurezza – e un sorriso stanco.
«Tranquillo. Te ne andrai domani mattina, prima dell’alba», ribatte lei. «E poi, stai tranquillo. Non ho alcuna intenzione di diventare un’altra tacca sul tuo bancone», e prima che lui possa replicare che no, lei non è una tacca, Nausicaä si volta e sale le scale, lasciandolo con un’espressione da pesce appena pescato che si chiede dove diamine sia finita tutta l’acqua.
Fuori, pensa lui, decidendosi a seguirla, l’armatura, la sacca da marinaio, il cappellaccio e la mantella abbandonati accanto ad una sedia. Aspetteranno.
 




 
Una ragazza li aspettava sul molo.
Una gamba a dondolare nel vuoto, l’altra come cuscino, fissava il volo dei gabbiani con aria assorta. La sirena della barca ruppe il silenzio del porticciolo, e lei si riscosse dai suoi pensieri. Si schermò gli occhi con un braccio e sorrise, una fila di denti bianchissimi ad illuminarle il viso. Stavros accostò e le lanciò un cavo di ormeggio che lei legò alla bitta in due mosse. 
Sua nipote, pensò Milo, notando come il loro profilo fosse lo stesso.
L’armatura brillava al sole, e se in un’altra occasione lo Scorpione avrebbe tratto conforto da quel riverbero dorato, adesso si sentiva a disagio. Fuori tempo massimo. Come un eroe uscito da un libro di leggende dimenticato sugli scaffali a prendere polvere, di quelli antichi e spessi di cui il Sommo Sion amava circondarsi. E il fatto che né Stavros né la ragazza avessero battuto ciglio vedendolo così bardato, acuiva questa sensazione di straniamento.
Un pesce fuor d’acqua, ecco cos’era, di quelli che boccheggiano e danno colpi con la coda chiedendosi dove sia finita tutta l’acqua. Con tutto il rispetto, Aphrodite, pensò Milo. E la voce di Aphrodite – Avanti. Non sai davvero fare di meglio? – gli risuonò nella testa con una precisione tale da fargli accapponare la pelle lungo le braccia.
«Fatto buon viaggio?», domandò la ragazza sorridendo, le mani sui fianchi e l’espressione rilassata.
«Al solito», rispose Stavros, il borbottio del motore che copriva la voce. «Abbiamo ospiti a pranzo», le disse, armeggiando con le cassette piene di pesci che lei gli porgeva. «Falli accomodare. Vado a vendere questi a Imerovigli e torno.»
E fu in quel momento che Milo si ricordò di avere una voce.
«Un momento. Dove siamo?», chiese, rivolgendosi a Stavros.
Il vecchio pescatore lo fissò come se fosse appena sbarcato da Marte e rispose: «Therasia. Quella è Agia Eirênê», indicando con un dito storto le case bianchissime attorno al porticciolo.
«Andiamo», disse Kanon, saltando giù dalla barca e avvicinandosi alla ragazza.
«No, noi andiamo con lui. Dobbiamo tornare ad Atene!», protestò lo Scorpione, scuro in volto.
Stavros gli scoccò uno sguardo truce.
«Se aspetto un altro po’, questo pesce non sarà buono nemmeno per la zuppa. Scendi e parlate di quello che dovete parlare, e lasciami fare il mio lavoro. Grazie.»
Milo sbatté le palpebre, poi percepì un cosmo caldo, ampio, sereno. Un cosmo d’oro. Non proveniva da Kanon, no, né dalle ossa secche di Stavros. Apparteneva alla ragazza, che aspettava sul pontile, imperturbabile, le mani sui fianchi ed un accenno di sorriso sulle labbra.
«Sei una di loro?», chiese Milo.
«Virgo. Athina», rispose, lo sguardo serio. E in quel momento Milo capì perché né lei, né Stavros avessero battuto ciglio di fronte ad un Santo di Athena nella sua sfolgorante armatura. «Da questa parte», aggiunse la ragazza, avviandosi verso il manipolo di case bianco calce che sembrava aspettarli con la pigra indifferenza dei gatti stesi al sole.
Kanon la seguì e a Milo non rimase che scendere dalla barca di Stavros, mormorare un «grazie» a mezza bocca all’indirizzo del pescatore ed accodarsi.
«Tu lo sapevi», sibilò a Kanon. Non era una domanda.
«Sapevo, cosa
«Di lei.»
«È la prima volta che la vedo.»
Ma davvero? «Ma sapevi che sarebbe stata presente. Giusto?»
«L’ho dato per scontato. Che qualcuno mi controllasse, dico. Stiamo pur sempre parlando di Athena», e Kanon si toccò le tempie con un dito.
Questa me la paghi, si disse Milo, mettendo in conto al gemello di Saga anche quest’ennesimo colpo di teatro.
Il percorso durò qualche minuto. Athina raggiunse una casa all’estremità dal villaggio, distante un centinaio di metri dall’ultima abitazione, aprì la porta azzurro carico ed entrò. Kanon la seguì e Milo chiuse la fila.
All’interno faceva fresco. La luce che filtrava dalle persiane accostate era sufficiente a mostrare un ambiente spartano, con un armadio massiccio a troneggiare su un lato, e un tavolo addossato alla parete opposta. Una tenda a righe verticali bianche e blu separava la stanza da un’ambiente più piccolo – quasi certamente la cucina – mentre una scala di legno scuro portava al piano superiore. L’unica nota femminile era data da un mazzolino di fiori rosa acceso, in un vaso al centro del tavolo.
«Accomodatevi», disse la ragazza indicando loro le sedie spaiate attorno al tavolo, prima di sparire dietro la tenda a righe.
Kanon si lascò cadere su una sedia verde scuro, Milo rimase all’impiedi.
«Che aspetti?» si sentì chiedere lo Scorpione.
«Voglio capire quello che sta succedendo», ringhiò basso Milo, mentre oltre la tendina si sentiva l’acciottolio di stoviglie ed una porta che si apriva e si richiudeva con un suono attutito. Athina rientrò nella stanza poco dopo, tra le mani un vassoio con una brocca di terracotta e tre bicchieri.
«Avrete sete», disse con semplicità, posando il proprio carico sul legno grezzo del tavolo.  Socchiuse le persiane e spostò il vaso coi fiori rosa acceso sul davanzale. Poi versò l’acqua nei bicchieri e ne porse loro uno a testa. C’erano delle fettine sottili di limone e qualche fogliolina di menta a galleggiare nell’acqua. E, guardando quel bicchiere, Milo si sentì la bocca riarsa, come se avesse appena attraversato il Sahara.
«Grazie», disse Kanon, prima di accostare le labbra al bicchiere e dare una sorsata generosa.
 Milo lo osservò. Prima ti siedi, prima inizieremo a parlare, prima potremo tornare al Santuario. Questo diceva la postura di Kanon, quella di un uomo paziente che sta per ricondurre alla ragione un monello riottoso. Milo strinse i denti ed in un clang metallico capitolò. Scostò una sedia e vi si lasciò cadere di malagrazia, un gomito sullo schienale a denotare impazienza. Fretta.
Afferrò un bicchiere e lo vuotò in un sorso.
«Grazie.»
Athina si accomodò e posò le braccia sul tavolo. «Mi spiace conoscervi in queste circostanze», disse, le parole attaccate le une alle altre.
«Dispiace anche a noi», ribatté Milo, pompando all’estremo il proprio dialetto, senza nascondere un sorrisetto spocchioso.
Isolani, pensò Kanon, trincerandosi dietro un’espressione atarassica.
«Sapete di noi donne?», chiese Athina.
«Oh sì», ribatté Milo. «Io, per esperienza diretta. Lui l’ho informato per sommi capi», aggiunse, indicando Kanon con un cenno del mento.
«Capisco», ribatté lei.
«Allora, questo ci permette di arrivare al sodo. Quante altre tue compagne salteranno fuori dal cilindro?»
«Sono anche le tue compagne, Scorpio», ribatté pacata Athina. «E se devo essere sincera, non lo so.»
«Non lo sai.»
«No, non lo so. In teoria, siamo dodici. In pratica, non so quante di noi abbiano ricevuto la chiamata.»
«La chiamata?»
«Sì. La mia maestra usava questo termine.»
«E possiamo sapere il nome del tuo maestro… della tua maestra, scusami, o è per caso coperto dalla sigé
«No, certo che no», replicò Athina. «La mia maestra era Asta, Santo d’Argento della Costellazione della Chioma di Berenice.»
«La generazione…»
«di mezzo. O generazione perduta. Sì.»
Athina concluse la frase di Kanon al posto suo. I due rimasero a fissarsi.
«Devi dirmi qualcosa, Kanon?», domandò Milo accavallando le gambe. «Perché io sono qui che aspetto di sentire tuuuuutto quello che sai, mio caro.»
«Quanto tempo abbiamo?» Kanon lo chiese ad Athina, l’espressione preoccupata di chi sa di essersi spinto troppo a largo, fidandosi delle acque calme e placide.
«Tutto quello di cui abbiamo bisogno», rispose lei, andando con lo sguardo dall’uno all’altro.
«Perfetto, ce lo faremo bastare», disse Milo guadagnando una posizione più comoda. Avvicinò la sedia al tavolo, si versò un altro bicchiere d’acqua e poi chiese: «Volete iniziare a raccontare, oppure devo inoltrare richiesta in carta bollata?».
 

A maggio il mondo è bello. Tutto nuovo. Invitante. Sprizza gioia da tutti i pori. E c’è quell’aria frizzante che invita a fare una passeggiata prima che arrivi l’estate e la città si trasformi in un forno ventilato brulicante di turisti. Così Nausicaä quella bella mattina – è il sedici del mese – si è alzata, si è vestita, ha pettinato i suoi lunghi capelli e si è passata un filo di lucidalabbra. Ha sorriso allo specchio, gli occhi un po’ cerchiati di stanchezza, come se si fosse appena ripresa da una malattia. Una di quelle lunghe e debilitanti, che ti costringono a letto per giorni. Mesi, nel suo caso. Sei.
Però, oggi Nausicaä s’è svegliata sentendosi bene. Stava bene. Ha mandato un bacio alla ragazza che la osservava dall’altra parte dello specchio ed è uscita dalla stanza.
«Vado a fare una passeggiata», ha detto a sua madre. Le è arrivata una risposta dalla cucina, lei non ci ha badato. «Non prendo le chiavi», ha aggiunto, prima di varcare la soglia ed uscire nel sole della mattina ateniese.
«Che bella giornata» ha detto – ha sospirato – prima di incamminarsi verso la città, le ruote del passeggino che a cigolare sulla discesa che porta a Plaka. E cammina cammina, Nausicaä si ferma in un posto che non conosce. Fuori città. In campagna. Che ore saranno?, si chiede, lanciando uno sguardo al polso. L’orologio non c’è. Poi ricorda di averlo accarezzato e lasciato sul canterano, accanto allo specchio.
Il sole sta tramontando. Saranno le sette? O le otto? Nausicaä scopre che non le importa. Milos dorme. S’è arreso. Alla fame, al sonno, all’essersela fatta addosso due, tre volte, senza che nessuno si preoccupasse di cambiargli il pannolino.
C’è un ponte, davanti a loro. Sotto, un volo di qualche metro su un fiume che scorre placido verso il mare. E Nausicaä è così stanca. E Milos è così bello, quando dorme. Sembra un bambolotto, ma più bello di quelli con cui giocava da bambina. Ha gli occhi azzurri – azzurrissimi – e le guance tonde e rosse come un paio di melucce. Puzza un po’ – e lei non si è portata dietro alcun ricambio – ma è tanto carino. Magari dormisse sempre così. Tranquillo. Arreso. Zitto. Per sempre.
Così Nausicaä avanza sul ponte, piano piano, le ruote del passeggino che cigolano stanche. Lei non le ascolta. Si ferma esattamente a metà della passerella. Prende in braccio suo figlio, gli accarezza i capelli e si avvicina al parapetto. È un muricciolo basso, a secco, dal cornicione largo abbastanza per salirvi sopra a cavalcioni, le gambe a penzolare nel vuoto, magari con una bibita tra le mani. Una lattina d’aranciata, per esempio. O del tè freddo.
Vi posa Milo, sale anche lei, si mette all’impiedi e prende il suo bambino in braccio. Non s’è svegliato. Meglio così. Non si accorgerà di nulla.
«Scusa», gli dice, accarezzandogli la testa riccioluta. «Scusami», gli sussurra all’orecchio. La sua pelle profuma di latte e talco. «Adesso passa tutto.»
Il vento della sera giocherella coi suoi capelli legati in una coda e le gonfia l’orlo del vestito. Le porta dei profumi caldi, di sale, mirto e zagare, l’alito dello Zefiro trasuda gioia di vivere e allegria in ogni refolo, ma Nausicaä non l’ascolta. Guarda all’orizzonte, senza vedere lo strapiombo sopra cui si stende quel ponte solitario. Non vede niente.
Chiude gli occhi. Prende fiato. E poi spicca il volo. Niente di troppo complicato o coreografico. Le basta fare un solo, semplice passo in avanti. Al resto, penserà la gravità. Basta lasciarsi cadere nel vuoto, il dolce peso di Milo tra le braccia e una scarpa che se ne resta rovesciata sul parapetto, mentre prima l’aria e poi l’acqua accolgono madre e figlio in un abbraccio confortante. Una carezza sulla pelle accaldata, e poi un tonfo liquido. L’acqua le fa il solletico sulle cosce.
Le maniche del vestito di Nausicaa si gonfiano, la gonna rosso ciliegia sale a scoprire le gambe come un paracadute che si gonfia al contrario. Fa freddo, sì, ma è solo un attimo. Mentre la coscienza sfuma – lei è accaldata e l’acqua è fredda e il suo fisico è provato – una mano le appare davanti. Una mano gigantesca, fatta d’acqua.
«Lascialo andare.»
Nausicaä si guarda attorno, cercando a chi possa appartenere quella voce. La luce del sole morente le arriva filtrata, una sfera sfocata e lontana, sopra la sua testa.
Ma cosa?
E sono bolle quelle che escono dalle sue labbra. Ossigeno in forma liquida che sale verso l’alto, verso il sole, verso la salvezza. Milo gli scivola contro il busto, come se l’acqua cercasse di separarli.
No. Lui è mio, protesta tra sé e sé Nausicaä, colle poche forze rimastele. Lo solleva e se lo sistema meglio contro il petto, come se lui fosse un tesoro preziosissimo, o la chiave d’accesso ad un mondo meraviglioso. Un mondo senza dolore, senza ansie, senza preoccupazioni. Un mondo in cui lei non ha paura di prenderlo in braccio, di cambiarlo, di dargli da mangiare. Un posto dove lui non piange. Un posto dove dormire per sempre. Nausicaä si lascia andare. Ha le scarpe da ginnastica ai piedi. I vestiti bagnati si fanno pesanti. Li trascinano giù.
«Se continua così morirete in due. Lascialo andare», ripete la voce, ma lei non vuole saperne, anche se il corpicino di Milo è diventato pesantissimo. Colpa della salopette di jeans, che s’è inzuppata, e del pannolino e.
Ma Nausicaä non ce la fa. Non ha il coraggio di abbandonare suo figlio. Che gli succederà, senza di me?, protesta, i polmoni che iniziano a bruciare e chiedono di tornare a respirare ossigeno in forma gassosa.
«Vivrà», le risponde la voce, tonante come il mare in burrasca. No. Non voglio andarmene da sola, insiste lei, in un ultimo impeto di volontà.
«Lascialo, ho detto.»
Non è una domanda. E le mani di Nausicaä si allentano, e Milo le scivola via dalle braccia, tra tutte quelle bolle che corrono verso l’alto.
Allora è vero. I neonati sanno nuotare, pensa Nausicaä mentre un fuoco liquido s’impossessa dei suoi polmoni e una mano gigantesca – una mano fatta d’acqua – accoglie Milo nel proprio palmo, e lo solleva verso l’alto, verso la luce, verso la salvezza.
E Nausicaä scivola giù, verso il basso, verso il fondo del mare che improvvisamente s’è aperto sotto i suoi piedi. Il ponte di pietra, il pergolato di limoni, il vento di maggio e Milo non ci sono più. Si guarda intorno, allungando in vano un braccio per afferrare suo figlio con la forza della disperazione. 
Chiunque tu sia, aiutami!, grida in una pletora di piccole bolle che salgono anch’esse verso la superficie. Ma Dio non le risponde. Ed è una forza estranea, come una mano gigantesca, quella che le si piazza all’altezza dello stomaco e la spinge verso il basso, verso il letto di un fiume che non le sembrava poi così profondo.
«Hai scelto», tuona quella voce possente, mentre la mente della ragazza si riempie di immagini incoerenti. Una spiaggia a mezzodì, col sole che riverbera allegro sulle onde. Una striscia di rena morbida, tagliata a scimitarra. C’è un cavallo che le viene incontro. Bianco come la luna, la criniera candida a veleggiare nella brezza che sale da ponente. Ha gli occhi neri, occhi grandi e dolci, in cui lei vede riflessa se stessa.
Portami con te, pensa Nausicaä, ma il cavallo sbatte appena le palpebre e la supera, andando al galoppo e lasciandosela alle spalle, come un relitto che il mare ha riportato a galla.
No, aspetta, pensa, ma qualcosa la sospinge indietro. Come una mano forte, una mano d’uomo. Una mano fatta di acqua e cosmo divino. Poseidone. Il Signore dei Sette Mari sta salvando il suo bambino e Nausicaä non si spiega il perché. Vorrebbe dibattersi, lottare, invece di colare a picco, come un’ancora gettata alla fonda. Ma quel fiumiciattolo, che sembrava scorrere placido verso l’Egeo è solcato da correnti impetuose. E Nausicaä si arrende. E se la sua mano molla la presa, quella di Poseidone è più veloce, più impetuosa e più distratta, forse, e le dita di Nausicaä si ritrovano a stringere l’acqua, mentre una forza sovrumana ed annichilente la trascina via.

 
Il soldato si chiamava Daniel e, nonostante gli anni passati all’ombra del Palladio, era più inglese di un piatto di fish’n’chips annaffiato da una pinta di birra chiara. «Sto eseguendo un ordine, signore», rispose, scattando sull’attenti, un palo al posto della spina dorsale e il martello ancora stretto nella mano destra.
«Ordine? Ordine di chi?», domandò Genki paonazzo.
«Del Nobile Gemini», rispose Daniel, come se fosse ovvio. Guardava il Santo dell’Orsa Maggiore come se fosse appena sbarcato da Marte, o da più lontano ancora. Una delle lune di Giove, ad esempio.
Il Nobile Gemini non aveva fatto in tempo ad avvisare gli altri. Non si era lanciata all’inseguimento, subito dopo avergli abbaiato di dare l’allarme?
Certo che sì, anche se a Daniel suonava strano che proprio Seiya di Pegasus, il paladino, il difensore indefesso di Athena, avesse dato di matto e si fosse dato alla macchia. Ma se le voci che circolavano all’ombra dei colonnati erano vere, se realmente era arrivata al Santuario la testa di Athena, allora, forse, non era poi un’ipotesi così campata per aria che Seiya di Pegasus avesse deciso di rompere gli indugi e pretendere quantomeno una spiegazione. Un nome. Una testa infilzata sulla picca più lunga.
«Il Drago e l’Unicorno gli sono corsi appresso per riportarlo indietro», gli aveva abbaiato Gemini, col suo marcato accento delle colonie. «Vado ad aiutarli. Tu dai l’allarme», e Daniel aveva obbedito all’istante, pestando a più non posso la campana col martello, fino a quando l’Orsa Maggiore non era apparso alle sue spalle chiedendogli conto e ragione del proprio comportamento.
No, il Santo dell’Orsa Maggiore non doveva saperne nulla.
«Il Santo di Pegaso ha disertato e il Santo dei Gemelli si è lanciato al suo inseguimento.»
Tombola, pensò Genki. Il dado era tratto. Ora dovevano solo attendere che il piano di Seiya andasse a buon fine. Athena, aiutaci, pregò Genki osservando uno stormo d’uccelli bucare l’azzurro del cielo.
«Continuo, signore?», si sentì chiedere dal soldato.
Genki abbassò lo sguardo su di lui. Scosse la testa.
«No. Ormai è tardi.» Pausa. «Io vado. C’è una riunione d’emergenza all’Arena», e, così dicendo, si avviò zoppicando verso la Scalinata delle Dodici Case.
 
 
 
«Ho un figlio.»
Aristoteles si lascia crollare sulla branda, le molle che protestano con un cigolio lamentoso. Avrebbero bisogno di un po’ d’olio, pensa Rémy, voltando la pagina de I tre Moschettieri con un dito, mentre l’altro, le mani nelle mani, osserva con sguardo perso la polvere sul pavimento.
«Ho un figlio», ripete e Rémy sa che deve voltarsi. L’altro ha un’espressione stravolta, come se qualcuno o qualcosa gli fosse passato sopra. Una mandria di elefanti, per esempio.
Un figlio. Rémy pensa che non c’è nulla di cui stupirsi. 
Succede, se non te ne lasci scappare nemmeno una, pensa, incrociando le caviglie e lasciando da parte il romanzo. «Io. Ma ci pensi?»
«Congratulazioni!», esclama, ché è questo che si fa in simili circostanze. Ci si rallegra, anche se si vorrebbe scappare a gambe levate fino ai confini della terra e oltre. Ma scappare non serve. Sì, in taluni casi la fuga è l’unica possibilità che ti resta, ma quando diventi padre puoi scappare quanto ti pare e piace, fino a consumare le suole delle scarpe. Un figlio è qualcosa che rimane. Che ti lega. C’è.

Scappare non serve. Puoi decidere – devi decidere – se ignorarlo o accettarlo, ma, anche in quel caso, si tratta di far finta che l’elefante nel tuo salotto non solo non esista, ma non si stia mangiando le tendine o la carta da parati.
Aristoteles ha lo sguardo bovino di chi ha appena ricevuto una mazzata tra capo e collo, e nemmeno contempla le possibilità a sua disposizione. Vuole solo mettere quanta più strada possibile tra sé e quella notizia terrificante. 
Ma se ha trovato il modo di raggiungerti fino al Santuario, dove pensi scappare, vecchio mio?

Così Rémy sistema il segnalibro, posa i Moschettieri e si alza.
«Un maschietto, eh?»
Scosta il baule ai piedi del suo letto, sposta l’asse ballerina del pavimento e ne tira fuori una bottiglia a metà di cognac.
«Notizie simili vanno festeggiate!», dice Rémy, trovando due bicchieri – spaiati – e riempendoli fino all’orlo.
Sì, una sbronza è quello che ci vuole. Non risolverà niente, ma l’alcol mette in corpo un’audacia impensabile. E la vita fa meno paura, dopo, quando riemergi dall’obnubilamento che ti regala un’inciuccata con tutti i crismi.
Aristoteles guarda con sospetto il bicchiere che ha di fronte, nemmeno fosse una provetta fumante e puzzolente.


«Congratulazioni, mon vieux!», gli dice Rémy. «Dobbiamo brindare!»
«Brindare?» Aristoteles osserva quel liquido ambrato come se fosse un oggetto sconosciuto e pericoloso.
«Sei diventato padre, sì o no?»
Aristoteles è terrorizzato, e Rémy lo capisce. C’è passato anche lui, qualche anno avanti, quando Fanchon gli ha detto di aspettare un pupetto. Notizie come queste ti cambiano la vita, c’è poco da fare. Hai voglia a dire «Congratulazioni!» e assestare pacche sulle spalle, quando i brindisi sono finiti restano la mamma ed il papà ad occuparsi di quei cosini urlanti. Niente più dormite fino a tardi, niente più libertà, niente più fughe romantiche. 
C’è bisogno di una bella sbronza, adesso, pensa Rémy, ficcando il bicchiere tra le dita di Aristoteles.
«Bevi, Ari.»
«Non hai capito…»
«Sì, invece», ribatte Rémy, «per questo ti dico che devi bere. Avanti», lo incita stringendogli le dita attorno alla ceramica del bicchiere. Aristoteles ubbidisce. «Brindiamo! A tuo figlio!!», e fa tintinnare i loro bicchieri, prima di prendere una sorsata.
Aristoteles lo fissa. Poi tracanna il cognac tutto d’un fiato.
«Allora. Come lo chiamerai?», chiede Rémy, ché è questo che si fa. Bisboccia. Sapere di essere diventato padre è una notizia terrificante, sissignore.
Con le donne sorridi, ti mostri felice – e forse lo sei, sotto sotto – ma la verità è che vorresti metterti ad urlare; e lo faresti, se solo quelle due paroline – «Sono incinta» –  non ti avessero risucchiato tutta l’aria dai polmoni. Ecco perché, dopo, ti trascini al più vicino bar e alzi il gomito oltre ogni decenza. Tu hai dato coraggio a lei, ti sei dimostrato forte, responsabile, la roccia a cui aggrapparsi. Ma a cosa ti aggrappi, tu?
Al coraggio che riposa nel fondo del bicchiere, alle volte.
«Milo.» Pausa. «La madre lo ha chiamato Milo.»
Lo ha chiamato. Quindi è già nato. «Quanto ha?»
«Sei anni.»

Cazzo. «E tu non…»
Aristoteles gli mostra il bicchiere e Rémy lo riempie; il cognac scivola in gola in un’unica sorsata.
«No.» Pausa. «Non lo sapevo. Di avere un figlio. Che lei fosse rimasta incinta…» È come se cercasse di convincere Rémy, e di riflesso se stesso, della propria innocenza.
«Ma perché s’è fatta viva solo adesso?»
Non è questa la domanda, ma è meglio procedere per gradi e avvicinarsi piano piano al nocciolo della questione. Se una donna vuole, ti raggiunge fino in capo al mondo, ma l’indirizzo di Aristoteles non è poi così semplice da reperire. E anche se Aristoteles fosse stato così imbecille da lasciarsi scappare il segreto che riposa dietro il muro dell’emporio di Rodrio, Panagiotis avrebbe negato fino alla morte e oltre. Quindi, il discorso diventa non tanto perché questa donna si sia rifatta viva dopo sei anni, quanto come diamine abbia fatto a trovarlo.

Aristoteles ridacchia.
«Bella battuta», dice, prima di passarsi una mano sul volto.
«Quale battuta?»
«Non si è 
rifatta viva lei», risponde Aristoteles. «L’ho scoperto io. Per caso.»
«Okay.» Rémy si siede sul bordo della propria branda e incrocia le gambe. «Spiegami.»
Aristoteles ci pensa su, come se avesse perso le parole e se le stesse cercando nelle tasche sformate dei calzoni; poi socchiude le labbra e dice: «Ti ricordi il mese scorso, quando il Sacerdote mi ha spedito ad Atene ad occuparmi di una certa faccenda?».
«Sì, e allora?»
«Allora, sono sceso a Plaka. In una certa stradina che arriva proprio ai piedi dell’Areopago.»
«E?»
«E io conoscevo quella maledetta strada. E la conosci anche tu. Lì, ci abitava lei.»
«Lei, chi?»
«Nausicaä.»


«Cosa c’entra la Generazione Perduta in tutta questa storia?»
La domanda di Milo cadde nel vuoto. Attese che l’uno o l’altra rispondessero, che gli fornissero una spiegazione, ma nessuno parlò. Allora Milo s’appoggiò allo schienale e incrociò le braccia. Ho tutto il tempo del mondo, pensò lo Scorpione, anche se era vero l’esatto opposto. Era accaduto qualcosa ad Athena, qualcosa che aveva attutito il suo cosmo splendente; Milo non riusciva a percepirla e questo, a dispetto del racconto di Kanon e della tranquillità con cui quest’ultimo si comportava, gli stava logorando l’anima.
Questa Athina era in combutta con Poseidone, oppure…
La ragazza ricambiò il suo sguardo. Milo optò per quell’oppure.
«La Generazione Perduta», disse Kanon, «è quella dei Santi d’Argento che abbiamo conosciuto da bambini. Boote, Altare, Reticolo, Ofiuco… Te li ricordi?»
«Sì», soffiò Milo. Erano caduti in servizio, si diceva. Uno dopo l’altro. Come mosche, si mormorava tra i corridoi del Santuario, nelle ombre che si allungavano tra le colonne che resistevano al tempo e alla storia.
«Bene. Forse non sono tutti finiti al creatore», aggiunse Kanon fissando Athina.
«No. La mia maestra è viva e vegeta, ma ha appeso la maschera al chiodo, se così si può dire.»
«E degli altri, che ne sappiamo?»
Athina si strinse nelle spalle. «Nulla. Almeno io. So, però, che lei aveva il vincolo della sigé per quanto riguarda il mio caso. È possibile che sia successo lo stesso per chi ha addestrato le altre.»
«Le altre?», domandò Milo.
«Dodici segni, per dodici armature. Sarebbe stato stupido credere che ci fossi solo io», rispose la ragazza. «In più, non hai battuto ciglio quando ti ho rivelato chi sono. Né tu, né lui», disse, indicando Kanon. «Quindi, l’unica spiegazione possibile è che voi abbiate conosciuto un’altra mia compagna. Chi?»
«Gemini», soffiò Milo.
«Gemini», ripeté Athina.
«Chi altri sapeva di te? Di voi?», domandò Kanon.
«Poche persone. Oltre alla mia maestra, Rémy di Boote, Aristoteles di...»
«Aristoteles?», sibilò Milo.
«Sì», rispose lei. «L’hai conosciuto?»
«Era» mio padre «il mio maestro. Non mi ha mai parlato di te.».
«Sigé», rispose Athina. «Ma sul perché anche lui fosse implicato in questa missione, non saprei davvero dirlo.»
«Tutto questo non ha senso», commentò Milo.
«Concordo», gli fece eco Athina.
«Okay. Procediamo con metodo», propose Kanon.
«Ossia?», chiese Milo.
«Ordine e pulizia. Facciamo ordine e puliamo il campo da tutte le ipotesi inutili.»
Gli altri due lo fissarono, poi annuirono. Non ho perso il mio tocco, pensò Kanon trattenendo un sorriso.
«Quello che sappiamo è che la Generazione Perduta era legata dalla sigé ad un progetto. Tu», disse, indicando Athina, «sai qualcosa che noi non sappiamo.».
«So che il Sacerdote ha imposto la sigé alla mia maestra.»
Il Sacerdote. Saga, pensò Kanon, assottigliando gli occhi. Lo sguardo di Milo gli stava trapassando il cranio. «Il Sacerdote», ripeté, come sovrappensiero. «È possibile che il Sacerdote volesse mantenere il riserbo sul tuo addestramento e che Aristoteles fosse coinvolto in qualche modo in questa missione. Magari, avrebbe dovuto addestrare qualcuno a sua volta.»
«No», disse Milo. «Non ne avrebbe avuto il tempo materiale.»
«Potrebbe aver addestrato qualcuno, dopo aver badato a te», obbiettò Kanon. «Non tutti sono teste dure, sai?»
Milo incassò. «Certo. Ma Aristoteles è stato tra i primi a cadere in servizio», replicò lo Scorpione. Quand’era stato? Quand’è che Aristoteles aveva lasciato il Santuario per non fare più ritorno? Il 1981? O poco prima? «Quindi, se ha addestrato qualcuno, deve averlo fatto prima di badare a me. Ma questo dipende…»
«Dipende, da che?»
«Da quale sia stato il Sacerdote che ha legato Aristoteles e gli altri con la sigè.» E sorrise. «Il Sommo Sion? Oppure, Saga?»
Kanon incassò a sua volta, poi ribatté: «Touché».
«A questo posso rispondere io», s’intromise Athina, il bicchiere vuoto tra le dita.
«Puoi?»
«Sì. Posso. Perché me l’ha spiegato Athena stessa.»
«Cosa?», replicarono in coro.
Athina si disse che quei due avrebbero formato una coppia artistica perfetta. Meglio degli Wham!, pensò. Sorrise, li guardò, e disse: «Athena è stata qui.».
«Quando?», chiese Milo.
«Qui?», domandò Kanon.
«È venuta lo scorso agosto. Sola. Faceva un caldo disumano, uno di quelli in cui sudi anche solo a pensare. È sbarcata qui col suo bel vestito bianco, fresca come una rosa, e mi ha detto che era un piacere conoscermi.»
«E tu?», chiese Milo. Kanon pendeva dalle sue labbra, incapace di spiccicare mezza parola.
«Io?!» Athina sgranò gli occhi. «E chi se l’aspettava?! Io stavo verniciando le imposte e lei si è presentata a sorpresa, come se fosse passata a trovare una vecchia amica.»
«E?», l’incalzò Milo, deciso a farle vuotare il sacco.
«E lei mi ha confidato che Gemini si era fatta avanti. Era uscita allo scoperto. Io non ne sapevo nulla. Né so che faccia abbia, questa Gemini, figuriamoci! Così, lei ha voluto sentire la mia storia. La mia versione dei fatti, potremmo dire. E io gliel’ho fornita.»
«Ripeticela.» Era un ordine, quello; Kanon lo sapeva bene, ma se ne infischiò. Non c’era tempo per i convenevoli.
«Non ho mai parlato con Gemini. Non abbiamo mai concordato di farci avanti. Il mio ordine era di aspettare sino a quando Athena stessa non mi avesse mandato a chiamare. Forse non sarebbe mai accaduto. Io dovevo solo attendere.»
Si alzò, andò in cucina e riempì la brocca con dell'acqua fresca. Tornò dai suoi ospiti, riempì i loro bicchieri, poi bevve.
«Il Sacerdote… Saga», si corresse Athina, «ha deciso di ricreare il cenacolo femminile. E siccome, dopo il tradimento di Aiolos, non ci si poteva più fidare di nessuno…»
«Ha imposto a tutti la sigé», concluse Milo con una smorfia.
«Esatto», disse Athina, annuendo.
«E la sigé delle donne. E la sigé dei bronzetti…» Milo scosse la testa. «La reggenza di Saga è stata piena di segreti più di un film di James Bond!»
«La reggenza di Saga?», domandò Kanon. Perplesso.
«Sì», gli rispose Milo, facendo un gesto con la mano, come a scacciare una mosca fastidiosa dal pane. «È così che l’ha definita Gemini. Reggen… Oh, cazzo!»
Milo cercò con lo sguardo Kanon. E si accorse come anche lui fosse arrivato alle sue stesse conclusioni.
«No», disse Kanon, allungando una mano davanti a sé, a proteggersi da quell’ipotesi. «No. Non è possibile.»
«Sì che lo è. E lo sai anche tu.» Milo decise che non gli avrebbe concesso quartiere. «Era tuo fratello, dopotutto. E una mela non cade troppo lontano dall’albero, giusto?»
Kanon inspirò a fondo un paio di volte, poi disse: «Sì. Ne sarebbe stato capace», concluse. «Ma nemmeno Saga avrebbe potuto trovarsi nello stesso posto contemporaneamente!»
«Lui, no. Ma il Sacerdote, sì.»
 





Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Che la vita sia una stronza credo di avervelo detto non so più quante volte. Ad ogni modo, il capitolo è qui. Buona lettura.

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Capitolo 26
*** 26. ***


26.



 


«L’uomo sogna?»
Lo chiederà col naso rivolto all’insù, ad osservare quella stellata magnificente come si fa con le vecchie foto di famiglia, quando proviamo a riconoscere in quei tratti e in quei vestiti fuori moda un volto amico, un’impressione, una luce.
«Certo che sogna.» Lei osserverà il suo profilo tagliare la notte come una lama candida. «Proprio
tu lo chiedi?»
Sorriderà, le belle labbra che si arcueranno verso le guance.
«Non era una domanda vera e propria. Era più una…»
«Una domanda retorica?»
Lui farà un gesto con la mano. «Più o meno», dirà, nascondendo dietro la lingua le parole che non riuscirà a trovare. «Era più una constatazione.»
«E?»
Lei non mollerà. Nossignore. Lo osserverà da dietro le ciglia scurissime, gli occhi di stella fissi sul bersaglio. Sarà lui la sua preda, adesso. E i suoi artigli non lo abbandoneranno fino a quando non gli avranno ghermito il cuore e l’anima, in uno svolazzare di piume.
«E mi chiedevo di chi fosse la colpa», dirà lui, in un sospiro.
«La colpa?»
Annuirà, mentre volgerà lo sguardo ad incontrare il suo.
«La colpa, sì. Gli uomini sono convinti di essere stati creati da noi, no? Quindi, siamo noi ad aver dato loro la capacità di sognare.»
«Ed è una cosa brutta?», domanderà lei, le dita che gli accarezzeranno piano i capelli. Neri, nerissimi. Come le ali dei corvi.
«No. Non per me. Ma al sogno segue il bisogno. E l’uomo non conosce il senso della misura, quando si tratta di desiderare.»
«La colpa è delle stelle», dirà lei, alzando il viso ad osservare la Via Lattea che si spande sopra le loro teste. «Desiderio significa questo. Qualcosa che viene dalle stelle.»
«Ecco perché sono così splendenti», mormorerà lui, le dita magre che incateneranno le sue in un abbraccio delicato come le ali di una farfalla.
Lei sorriderà. «Te l’ho detto. È colpa delle stelle», ripeterà lei. «È sempre colpa loro.»
«Così è facile, però», obbietterà lui, acciuffando una ciocca dispettosa che scenderà oltre la spalla candida di lei.
«Facile?»
«Certo», dirà lui, sollevandosi dalle sue ginocchia e portandosi a meri centimetri dal suo viso di porcellana. «Perché così significa che è colpa 
loro, se anche 
tu hai dei desideri…»
«Io?», domanderà lei. Scoprendosi intrappolata nella tela argentea del ragno. Che le sorriderà, dall’altra parte della sua trappola. E lei scoprirà qualcosa di seducente, in quegli occhi di fuoco e in quei denti regolari che fanno appena capolino oltre le labbra. Come quando si fissa lo sguardo di una tigre, oltre le sbarre robuste delle gabbie dello zoo.
«Tu», ribatterà lui, sfiorandole la punta del naso con un polpastrello. «Avanti. Tutti hanno un desiderio che si agita in fondo al cuore. Come un’increspatura sull’acqua di un pozzo, hai presente?»
Lei annuirà, lo sguardo fisso nei suoi occhi. Verdi. Verdissimi. Come cocci di bottiglia in controluce. 
Mi taglierò, penserà lei; per poi scoprire che non le importerà. E che ha sempre saputo che sarebbe successo, prima e poi. Lo aveva messo in conto, anni prima. Se giochi col fuoco, rischi di bruciarti, ha sempre detto lui. Vero e sincero. In maniera dolorosa; ché fa male, la verità, quando esce dalle labbra di un bugiardo: non la distingui dalle falsità che quelle labbra pronunciano, a getto continuo. Cosa è vero e cosa, invece, una fandonia? Non lo capisci, fino a quando non ci sbatti il naso - come quando sbatti contro un vetro. È duro e freddo. Ma trasparente come la verità; la stessa che, adesso, risuonerà nelle sue parole, come lo schiocco improvviso della legna nel camino.
«Brava ragazza», le dirà lui. Allontanandosi appena, e regalandole una sensazione spiacevole di vuoto. E freddo. «Però hai ragione. È colpa loro. Sissignore. Tutta questa luce ti mette in testa strani pensieri…»
«Vuoi condividerli?», domanderà lei. Per cortesia, certo; ma anche per curiosità. Quella stessa che l’ha portata a ficcare il suo nasino ovunque, ché una volta smosse le sue deliziose celluline grigie no, non c’è modo di chetarle, se non assecondandole. E lui lo ha sempre saputo. Ed è per questo che le sorriderà. E le dirà: «Certo. Con te condividerei tutto, lo sai. Anche questa notte.».
Lei arrossirà appena, un leggero alone sulle guance che la renderà ancor più desiderabile.
Lui si farà più vicino. Le prenderà il mento, in punta di dita, come se fosse fatta di cristallo e potesse incrinarsi al minimo tocco.
«Avevi gli occhi neri, la prima volta che ci siamo incontrati», le dirà. «Adesso sono verdi.»
Lei sosterrà il suo sguardo. «È il colore delle foglie dell'ulivo.»
«Certo. L'immaginavo», dirà lui, prima che il mondo si fermi. Per un istante, uno soltanto. Ma se lo faranno bastare.
«Tutto qui?», domanderà lei, un'aria sbarazzina ad alleggerirle le spalle.
«Oh, no», replicherà lui. «Oh. No.»
«E allora, cosa...»
«Sai, mi sono chiesto...»
«Dimmi...»
«Posso farti una domanda scomoda?», le chiederà, e lei annuirà. 
Ormai sei in ballo e devi ballare, tesoro. «Come hai fatto a ritrovare la strada di casa?»
Lei assottiglierà lo sguardo. Avrà capito quello che lui le ha chiesto. Lo avrà capito eccome. Solo che lei stessa non lo saprà dire. O meglio; qualcosa saprà, anche se sarà poco. Qualche frammento appena, raccolto mettendo assieme dai racconti del nonno, quelli di Tatsumi e gli scritti che hanno ritrovato nella biblioteca del Sacerdote. Poche righe, vergate con mano incerta da Sion su un foglio di carta ingiallito, nascosto in un doppio fondo. Qualcosa che la Provvidenza, o chi per lei, ha salvato dallo sguardo malato della cosa che dormiva dentro di Saga.
«Non ne sono sicura nemmeno io», si sentirà dire - il vento che porterà lontano quelle parole. Vorrà riacchiapparle e fare finta di non averle mai dette, ma sarà troppo tardi. Saranno sgusciate via e saranno arrivate alle sue orecchie. E a quel punto, saranno vere. Reali. Come la sua mano sulle sue ginocchia.
«In che senso?», domanderà lui. Spingendola sempre più al centro della sua tela. Piombandole addosso, come fa il ragno con una mosca che è riuscita a liberare un’ala dalla sua trina mortale.
«Nel senso che ho solo dei frammenti, non una storia vera. Dei fotogrammi, ecco.»
Lui si stringerà nelle spalle. «E che problema c’è?» Lei lo scruterà, come se gli fosse spuntata una seconda testa. «Ti ho chiesto una storia. Non m’importa che sia vera. Mi importa che sia la
tua verità», e lo dirà con un tono di voce così arrendevole che lei cederà. E penserà che sì, ha ragione. Sarà una storia, quella che vuole, ma non gli importerà che le cose siano andate davvero così come lei le racconterà.
«Quelle lassù», dice, puntando il dito sopra Orione, «sono tanti piccoli soli. E se brillano, è perché stanno morendo, mentre danzano nell’oscurità dell’universo. È questa, la magia del racconto, Fanciulla. Far credere che l’impossibile sia possibile. La verità è tutta un’altra faccenda.»
E lui stornerà lo sguardo da lei, fissandolo ad osservare qualcos’altro. La linea azzurra dell’orizzonte, ad esempio. O il passeggiare nell’erba alta di una volpe curiosa, chi lo sa?
Un velo di tristezza le stringerà il cuore in una morsa gelida mentre contemplerà la cintura di Orione. Rabbrividirà. 
È colpa del vento, si dirà. Raccontandosi una pietosa bugia.
«Gli dei hanno desideri?»
Lo chiederà al vento, al vento e alle sue spalle nella camicia bordeaux. Il rosso gli dona, ma lei non glielo dirà mai. La sua vanità è pericolosa, e sarà bene che non divampi senza controllo.
Ma non è quello che stai facendo, adesso?, si sentirà chiedere in un angolo della sua mente, da una voce antica, che risuonerà di un accento duro e musicale al tempo stesso. Come la danza delle spade.
«Lo chiedi a me?», la canzonerà lui. Sorridendo.
«Lo chiedo a te perché tu puoi capirmi», e i suoi occhi verdissimi si faranno attenti.
< «Ah. Ho capito», dirà lui. Mostrandole i palmi delle mani, come a dirle che è innocuo, come un pulcino appena uscito dall’uovo. «Stai iniziando a raccontare…»
Lei annuirà, una ciocca che le ricadrà sullo sprone del vestito bianco latte; lui si sistemerà col capo sulle sue ginocchia, gli occhi fissi alle stelle e le mani incrociate sul petto.
«Prego, tesoro. Sono tutto orecchie…»
E lei riderà, un suono argentino che si perderà nel concerto d’archi dei grilli e nello stormire delle fronde e dell’erba pettinata in punta di dita dal vento. Gli accarezzerà la curva del mento con le mani, scoprendo una ruvidezza inaspettata, e poi prenderà a raccontare.
«Era una notte buia e tempestosa…»




 
 
Ogni tanto, senza una scadenza precisa, Il Sacerdote aveva l’abitudine di entrare in meditazione per comprendere quali sarebbero potute essere le prossime mosse sulla scacchiera.
Sii sempre tre passi davanti al tuo avversario, ripeteva dall’alto del suo trono massiccio – il trono di Athena – e per questo il sant’uomo si rinchiudeva nelle proprie stanze. Roba di poco tempo. Mezza giornata al massimo. Ma poi, gradatamente, il Sacerdote aveva iniziato ad allungare i tempi. Prima mezza giornata, poi un giorno. Un giorno e mezzo. Due, tre e così via. E se qualcuno aveva la malaugurata idea di ficcanasare, anche solo per accertarsi che il pover’uomo non fosse passato a miglior vita nel frattempo, semplicemente spariva. O non se ne avevano più tracce, e qualcuno spargeva la voce che il tizio in questione aveva disertato. Oppure il Sacerdote - Saga -  mostrava la sua testa, additandolo come traditore. O come spia di Ade. In un clima simile, la gente tendeva a stare lontana dalla Tredicesima Casa.  Spesso morivano anche persone che non c’entravano nulla. Danni collaterali. Quindi, tutto il personale di servizio si guardava bene dall’avvicinarsi troppo al Sommo Sion… pardon, a Saga di Gemini.
Che poteva starsene rinchiuso nei suoi appartamenti a meditare a lungo. Molto a lungo. Anche per cento giorni di fila. Più di tre mesi. Il tempo necessario e sufficiente per istruire qualcuno di capace. Di sveglio. E per maneggiare l’immenso potere di Gemini senza fartelo esplodere tra le mani – e senza annichilire te stesso nel mentre – devi essere più che sveglio. E hai bisogno di un mentore che abbia sperimentato sulla propria pelle cosa significhi essere Gemini. E che sia sopravvissuto.
Così, piano piano, Saga aveva iniziato ad assentarsi dal Santuario sempre più spesso, nascondendosi dietro le pesanti porte della Sala del Sacerdote. E in quel lasso di tempo, Saga di Gemini istruiva con pazienza un’anima: a rispondere al richiamo delle stelle, a ricreare l’energia del Big Bang dentro di sé e a scomporre la materia schioccando le dita.
«Stronzate!», e il pugno destro di Kanon si abbatté sul tavolo.
«Sacrosanta verità», ribatté Milo. «Io l’ho visto. Con questi occhi.»
«No. Non è possibile», e con un tono che non ammetteva repliche, Kanon sfidò Milo a provarci lo stesso. Avanti, ragazzino. Fai del tuo peggio.
Ma Milo non raccolse. Si strinse nelle spalle, in un clang di disapprovazione da parte della sua armatura – le cinghie. L’avevo detto io, che sono troppo lente, pensò Kanon – e replicò: «Sì che lo è.». Pausa. «Lo è e lo sai anche tu. Solo che, per qualche ragione che mi sfugge, non vuoi ammetterlo…»
«Non abbiamo prove che…»
«Saga», disse Milo. Come a suggerire che quel nome stesso fosse la prova. Quella con la P maiuscola. «Tuo fratello era capace di smuovere le umane e divine cose solo schioccando le dita. E lo sai.» Pausa. «Davvero non ti basta?»
Kanon si passò una mano davanti al viso, come a invocare pazienza o per stornare lo sguardo da un’ipotesi troppo assurda per sprecare il proprio tempo.
«Ma perché? Perché avrebbe dovuto essere proprio mio fratello ad addestrare Gemini?», obiettò Kanon. Quello stronzo. Quello. Stronzo.
«Mezzi, movente ed opportunità.»
«Questo non è un romanzo giallo!», protestò Kanon scostando la sedia. Si alzò, si allontanò dal tavolo e posò entrambe le mani sul davanzale della finestra. I fiori rosso scarlatto all’interno del vaso sembravano chiazze di sangue fresco. Quello stronzo. Quello. Stronzo.
«Negare l’evidenza non serve», disse Milo. E Kanon s’infuriò.
«Quale evidenza?», sbottò. «Quale. Cazzo. Di. Evidenza?»
«Siamo ancora nel campo delle ipotesi», si intromise Athina, le mani sul legno scuro del tavolo. «Ma Saga potrebbe -  ripeto: potrebbe - essere stato in grado di farlo. Dopotutto, ha passato tredici anni nell’ombra a manovrare i fili.»
«Io ci vedo delle interessanti analogie...», commentò Milo con un sorriso sardonico. Uno di quelli che attirano i pugni come i fiori fanno con le api e il miele con gli orsi. A Kanon non piacque quella battuta. Digrignò i denti in segno di avvertimento, ma Milo lo ignorò. «Checcè, Kanon? Geloso dei successi di tuo fratello?»
A quel punto, Kanon perse le staffe. Abbandonò la finestra e il vaso di fiori, si avvicinò a Milo e lo sollevò di peso, portandoselo a pochi centimetri dal viso.
«Smettila.»
«Colpito e affondato», mormorò lo Scorpione; era consapevole di stare scherzando con il fuoco, ma gli piaceva, oh se gli piaceva, vedere la maschera di atarassia di Kanon sgretolarsi e andare in pezzi come un vetro centrato da una pallonata. Lo faceva sentire meno solo. Lo faceva sentire meno fragile. Meno stupido.
Si stavano fidando ancora una volta della persona sbagliata?
Forse. Ma per accertarsene, occorreva sgomberare il campo da tutti i sé e tutti i ma e fare luce; una luce abbagliante che scacciasse tutte le ombre, anche le più insignificanti, anche a costo di rivelare i segreti più reconditi e privati delle persone. E bisognava farlo adesso, mentre l'attenzione generale era sviata da loro. Un morto e un fantasma. Una coppia improbabile di spazzini solerti, ma questo passava il convento; e da qualche parte bisognava pur cominciare, no?
«Non sfidare la fortuna», lo ammonì Kanon.
«Non la sto sfidando», gli rispose Milo, una mano attorno al polso dell’altro. «Sto solo mettendo le cose in chiaro.» Pausa. «Sei o non sei geloso di tuo fratello?»
«Falla. Finita.»
«Perché?» Lo sguardo di Milo era sincero. «A me servi tu. Devo capire come ragionava Saga.»
«Io non sono Saga!»
«Quindi, Kanon, rispondi a questa semplice domanda.» Eri tu quello che io e Camus abbiamo incontrato a Capo Sounion quella volta di tanti anni fa? «Saga avrebbe potuto assentarsi per addestrare qualcuno?»
«Lo sai anche tu. Al Santuario il cosmo di Athena impedisce...»
«No, no, no, no», disse Milo, abbassando la mano di Kanon dal proprio collo. «Non è questa la risposta giusta. E lo sai anche tu.»
Kanon lo guardò con un’espressione smarrita, come se l’altro si stesse esprimendo in arabo.
«Il cosmo di Athena non era presente in quei giorni. Ricordi? Per tredici anni, il cosmo di Athena non ha toccato una sola, singola pietra del Santuario.»
«Non c’ero. Non posso saperlo.» Bugiardo, lampeggiarono gli occhi di Milo. Kanon non raccolse. «E comunque...»
«Oh, avanti! Ci sono mille modi per sgattaiolare fuori dal Santuario e andartene dove ti pare, quando ti pare e se ti pare. E sono sicuro che tu e Saga li conoscevate tutti ben prima che io, Aiolia e Camus ne sospettassimo l’esistenza. Sbaglio?»
Kanon sbuffò. «No. Non sbagli.»
«Alla buon’ora!», esclamò Milo raggiante. «Quindi, la mia teoria potrebbe essere possibile, se non probabile. Giusto?»
«Giusto.» Kanon strinse i pugni. Quello stronzo. Quello. Stronzo. «Dio. Mio.»
Athina si alzò.
«Qual è il problema? Quello vero, intendo.»
«Il problema vero è che mio fratello aveva due personalità distinte e separate. Una buona da fare schifo e l’altra malvagia da fare spavento.»
«E per dirlo lui...»
«Okay», disse lei, interrompendo sul nascere l’ennesimo scontro di testosterone. Maschi. Quando fu sicura di avere l’attenzione di entrambi, proseguì: «Ho afferrato il concetto. Quindi?».
«Quindi, ammesso e non concesso che l’ipotesi di Milo sia corretta...»
«E lo è», s’intromise il diretto interessato, fissandosi le unghie.
«Ammesso e non concesso», proseguì Kanon, ignorando le provocazioni dello Scorpione, «non sappiamo quale delle due personalità abbia addestrato Gemini. La buona? La malvagia? Entrambe?».
«La Reggenza di Saga…, l’ha definita Gemini. Mi pare chiaro quale sia il suo punto di vista.»
«La Reggenza di Saga…» Kanon alzò le mani. Quello stronzo. Quello stronzo. Quello. Stronzo. «Ma perché?»
«Per avere una propria pedina all’interno…»
«No, non intendevo quello. Intendevo perché Gemini starebbe facendo quello che sta facendo. È questo a lasciarmi perplesso.»
Milo si strinse nuovamente nelle spalle, e un’altra volta l’armatura protestò con un clang. «Siamo qui per scoprirlo. L’unica cosa che sappiamo è che Athena non si è fidata sulla parola.» Pausa. «Senza offesa, s’intende», aggiunse, rivolgendosi ad Athina.
«Nessuna offesa», rispose lei. «Io avrei fatto lo stesso.»
«E avresti fatto bene», replicò Kanon. Spostò lo sguardo verso la finestra. Nella quiete della tarda mattinata, la macchia verde che tinteggiava il panorama assomigliava ad una pennellata rabbiosa.
«Tuo fratello sapeva essere carismatico. Lo ammetto», disse Milo. «C’è da chiedersi quante altre… compagne abbia reclutato nel corso degli anni. E se i suoi bracci destri sapessero. O se non l’abbiano aiutato in qualche modo…»
«Chi?»
«Cancro, Capricorno e Pesci.» Milo si aiutò con le dita. «Erano abbastanza grandi da essere coinvolti da Saga, ma sufficientemente piccoli per essere manipolati. Fino a che punto, non saprei dirtelo, ma…»
«Così non caveremo un ragno dal buco», disse Kanon. «Sono solo supposizioni. È questo, il problema. Dobbiamo trovare delle prove certe. Delle tracce. E l’unico posto dove possiamo cercarle è al Santuario. Nella Biblioteca del Sacerdote.»
Milo e Athina si scambiarono uno sguardo confuso.
«Perché tu pensi…», disse la ragazza, ma Kanon l’interruppe.
«No, non lo penso. Lo so», disse Kanon picchiettandosi la tempia destra. «Saga ha richiesto i diari delle missioni, giusto?», domandò, fissando i suoi occhi in quelli azzurro scuro di Milo.
«Sì. Sì, l’ha fatto.»
«Quindi è presumibile che abbia continuato a redigere gli Annali, come compito del Sacerdote.»
«Perché?», domandò Athina.
«Perché Saga era fatto così», rispose Kanon, con una sincerità che stupì lui stesso per primo. «Era compito del Sacerdote. E una volta diventato Sacerdote, quel compito è diventato un suo preciso dovere.»
Milo annuì. Aiolia non era forse arrivato alle stesse conclusioni?
Sì. Brutto gattaccio spelacchiato.
«Concordo», disse Milo. «Sarebbe stato strano se, dopo quanto successo, il Sacerdote non avesse stretto il controllo.» L’armatura dello Scorpione diede il proprio contributo alla discussione con un sordo clang.
Athina annuì. «Sono le stesse conclusioni a cui è giunta Athena.»
Due paia di occhi si catapultarono su di lei, quattro biglie azzurro e bianco in procinto di cadere a terra e ruzzolare sul pavimento, sparendo chissà dove. Sotto il letto, il canterano, l’armadio. O nella tana del topolino che da qualche tempo sgraffignava qualcosa da mangiare dalla dispensa.
«Ve l’ho detto. Athena è stata qui ad agosto. Ed era arrivata alle vostre stesse conclusioni.»
«E ce lo dici solo adesso?!»
Un altro coro. Un’altra perfetta sintonia tra quei due ragazzi che profumavano di sabbia e iodio. Altro che gli Wham!
«Stiamo parlando di Athena, non dell’ultima delle sprovvedute.»
Touché, pensò Milo. «Ma perchè tutta questa sciarada?», insistette lo Scorpione.
«Mettetevi nei mie panni», rispose lei, con un’espressione così spontanea che a Milo fece quasi tenerezza. Tienitelo nei pantaloni!, gli urlò la sua coscienza, prendendo in prestito la voce petulante di Aiolia. «Io non conosco voi. Voi non conoscete me. E dopo tutto il delirio che è successo l’anno scorso, se permettete, ci vado coi piedi di piombo. Un passo dopo l’altro.»
«Non posso darle torto», disse Kanon, quasi un sospiro, meritandosi un’occhiataccia da parte di Milo. «Però, toglimi una curiosità. Come ha fatto Athena a trovarti?»
«Gemini.»
«E lei come...»
«Athena mi ha detto che Gemini le aveva raccontato di una sorta di… lista. Un elenco di quanti il Sacerdote… Saga, aveva coinvolto in questa missione.»
«Dove c’è una missione...»
«C’è sempre un resoconto.»
Ancora la sintonia. Ancora la certezza che quei due avrebbero formato una coppia formidabile, come Starsky&Hutch. Forse ancora migliore. Se solo la smettessero di ringhiarsi contro come cani rabbiosi attorno a un osso, pensò lei.
«Così non caveremo un ragno dal buco», disse Kanon. «Sono solo supposizioni. È questo, il problema. Dobbiamo trovare delle prove certe. Delle tracce. E l’unico posto dove possiamo cercarle è al Santuario. Nella Biblioteca del Sacerdote.»
«Ecco spiegato perché Athena avesse una fretta del diavolo di rientrare al Santuario.»
«Ma qualcuno gliel’ha impedito...»
«È il caso di dare un nome a questo qualcuno», disse Kanon, «e smascherarlo prima che faccia altri danni.».
«Gemini», suggerì Milo, prima che un’occhiataccia dell’altro lo facesse sentire stupido.
«E l’aereo?», l’incalzò Kanon. «Quello che è successo non era farina del sacco di Gemini. Non poteva esserlo. Quello che è successo è stato l’intervento di un dio. Un dio che non vuole farsi riconoscere.»
«E le due cose sono collegate...»
«Non necessariamente», rispose Kanon. «Potrebbe anche essere che ci siano in atto due corsi d’azione. Uno da parte di Gemini, e l’alto da parte di questo dio… timido o reticente che sia.»
«Sarebbe un bel casino», commentò Athina, sedendosi ed accavallando le gambe. «Un casino immenso...»
«Più della morte di Athena?», domandò Milo.
«Poseidone ti ha salvato», gli ricordò Kanon. Stramaledetta sirena. Stramaledettissima sirena, pensò. Ché la sua vita – il suo esilio – sarebbe potuta continuare a trascorrere tranquilla e beata, i giorni uguali gli uni agli altri, scanditi dal levare del sole e da quello della marea; senza questa tegola extra-large cadutagli di spigolo tra capo e collo. E invece, no. Invece, Sorrento – invece Poseidone – s’era premurato di tirarcelo dentro per il collo. Perché non c’è requie per i Santi di Athena. E perché è sempre meglio tenere sott’occhio gli elementi problematici.
Stramaledettissima sirena.
«Forse la situazione non è così nera come appare.»
«Dici? Perché a me, Kanon, sembra di brancolare nel buio!»
«Brancoliamo in due.»
«In tre», s’intromise Athina. «Io ci sono dentro fino al collo, tanto quanto voi.»
Li fissò a lungo, prima l’uno, poi l’altro. Testardi. Greci. Maschi. Non si doveva abbassare ad uno scontro di forza, con loro. Avrebbe sortito l’effetto contrario. Avrebbe dovuto giocare le proprie carte usando il ragionamento. La logica. Amavano pensare, giusto? Athina represse un sorrisetto e si preparò all’affondo.
«Sono una vostra compagna», ricordò loro. «Quindi, se andate da qualche parte, io vengo con voi.»
«Potresti essere in combutta con Gemini.»
«Potrei», concesse lei. Milo si accigliò. Oh, tu ti accigli, caro. E io cosa dovrei dire? Speravo fossi più sveglio… «Ma se così fosse, non sarebbe meglio tenermi sott’occhio?»
«Giusto. Ma Gemini ci ha fregato proprio in questo modo.»
«Confido sul fatto che mi marcherete stretto. Sarebbe increscioso cadere due volte nello stesso tranello, giusto?»
«Vero.»
Kanon era stanco. Stanco di tutte quelle novità, stanco di fare da balia a due mocciosi che sprecavano il tempo battibeccando come galline per un granello di mais. Non c’era tempo per quelle stronzate. Se quei due avessero voluto azzuffarsi come gatti in calore, facessero pure; non era qualcosa che interessasse a Kanon. Concludere la missione, quello sì che era affare suo. E prima l’avessero risolta, meglio sarebbe stato per tutti. Quindi, bambini, state zitti. Papà deve pensare. «Non ci resta che prendere armi e bagagli e partire per il Santuario.»
«Preparo le mie cose», disse lei alzandosi. «Ci facciamo dare un passaggio da mio nonno non appena rientra.»
«Tra quanto dovrebbe tornare tuo nonno?», domandò Milo.
Athina lanciò uno sguardo all’orologio che portava al polso. «Non molto. Un’ora. Due al massimo, ma non credo che troverà ressa al mercato», rispose. «A quest’ora, non ci sarà nessuno.»
Milo annuì. Si alzò, nell’ennesimo clang della sua armatura, e aprì la bocca per dire qualcosa, ma lei lo interruppe.
«Scusa se te lo faccio notare, ma la tua armatura fa un suono poco piacevole.»
Lo so da me, pensò Milo, che sentì la propria voce dire: «Sì, lo so da me. Grazie.».
«Volevo dire che la tua armatura avrebbe bisogno di una controllatina alle giunture, oltre che di una stretta alle cinghie.»
«Peccato che Mu dell’Ariete non sia qui. Magari gli chiederò di dare un’occhiata alla mia ragazza», ribatté Milo toccandosi il rubino al centro del petto. Sempre ammesso che Mu non sia in eremitaggio chissà dove e per Dio solo sa quale astruso motivo. «Sempre se ne avremo il tempo, s’intende…»
«Ho un po’ di grasso, se vuoi. Potresti usarlo per le tue giunture, intanto. Sempre se…»
«Accetta», s’intromise Kanon, e Milo fu sul punto di rifiutare. Per mera ripicca. Chi diamine si credeva di essere, quello lì? La sua balia? Ma poi qualcosa – la voce del buonsenso, forse – gli sussurrò all’orecchio che sarebbe stata un’ottima idea. Avrebbe potuto fare un minimo di manutenzione, quel tanto che bastava perché la sua armatura fosse operativa, ed ammazzare l’attesa. Magari chiacchierando del più e del meno, così da farsi un’idea, seppure approssimativa, di che razza di persona avessero davanti. E Kanon, nel frattempo, avrebbe ideato una strategia. Qualcosa che avrebbe permesso loro di pararsi le chiappe, alla bisogna. Come avrebbe fatto Saga. Buon sangue non mente.
Così Milo si ritrovò a sospirare e a dire: «Accetto. Grazie».




 
 
«Athena… Sounia?» Agapios Solo annuisce. «E dov’è?»
«E dove vuoi che sia? A Capo Sounio. Accanto al tempiodi Poseidone.»
Accanto. Lo dice come se fosse la cosa più logica del mondo.
«Ma non erano nemici giurati?»
«Nemici giurati.» Pausa. «Che paroloni!», e Agapios decapita il suo sigaro con un toc, di quelli senza appello.
«Paroloni? E la disputa dell’Attica, allora?»
«L’hai detto. Disputa.» Prima boccata. «Hanno avuto un diverbio. Una scaramuccia. In famiglia, capita. Specie quando si vive in tanti sotto lo stesso tetto.»
«E allora Odisseo che acceca il figlio di Poseidone?»
Agapios sbuffa.
«E l’appalto in California?»
«Quello che ho vinto il mese scorso?»
«Quello che mi hai scippato, vorrai dire», e se gli sguardi potessero uccidere, Mitsumasa sarebbe morto e risorto una, due, tre volte. Almeno. «Hai proposto un prezzo stracciato. Ridicolo. Dovrei sentirmi offeso!»
«La California è più vicina al Giappone, che alla Grecia. È ovvio che la mia proposta sarebbe stata più bassa della tua.» Mitsumasa si stringe nelle spalle. «Se ci pensi, ti ho fatto un favore.»
«Un favore? Che scherzo di pessimo gusto!», ribatte Agapios. «Di’ la verità, piuttosto! Di’ che lo fai per i begli occhi della figlia del Generale Ross!»
Mitsumasa gli mostra i palmi delle mani, come a dirgli che sì, l’ha colto in castagna e che non ha più nulla da nascondere.
«Suvvia. Non arrabbiarti così. Sai che ti fa male alla salute.»
Per tutta risposta, Agapios gli sventola di fronte il suo sigaro.
Mitsumasa non si scompone.
«Cubano?», chiede.
Agapios ghigna.
«Toscano», risponde. «Ne ho acquistate due confezioni il mese scorso a Siena. Vuoi favorire?»
Non di prima mattina. «Più tardi ti farò compagnia volentieri. Adesso, parlami di questo tempio di Athena Sonia, per favore.»
«Macché Sonia e Sonia. Sempre quello hai in mente! Sounia. Athena Sounia.»
Pausa. «Ti ho incuriosito, eh?»
Mitsumasa si stringe nelle spalle. Come a dire che sì, è vero. Colto in castagna un’altra volta. Come se tu non lo sapessi, vecchio mio.
«Pericle fece costruire due tempi, a Capo Sounio. Uno, lo dedicò ad Athena. L’altro, a Poseidone. Così da non scontentare nessuno dei due.»
«Ho capito.»
«E allora cos’è che non ti torna?»
«Poseidone. Non è Athena la patrona della città? Perché dedicare un tempio anche a Poseidone?»
«Perché Atene è sul mare. Sarebbe stato sciocco non cercare anche la protezione di Poseidone. Non credi?»
«E Athena non ne era gelosa?» Santo Cielo. Ne parlo come se fossero persone reali e non favolette per bambini.
«Macché!», e il sigaro di Agapios finisce sul posacenere di finissimo cristallo boemo. «Athena è la dea della saggezza, e nessuno meglio di lei sa che, a volte, occorre scendere a compromessi coi propri… rivali
Mitsumasa gli regala uno sguardo indecifrabile. «Touché», dice, alzando le mani, stavolta in segno di resa.
«Mio nonno buonanima diceva che i tuoi nemici ti conoscono meglio dei tuoi amici.»
«Concordo.» Mitsumasa attende che il caffè alla greca sul tavolino da fumo raggiunga una temperatura accettabile. «E dimmi. Si può visitare questo tempio?»
«No.»
«No?» Bugiardo! «E queste foto, allora?»
«Le ho scattate la settimana scorsa.»
«Ok. Riformulo la domanda. Posso?» Agapios annuisce. «Come hai fatto a visitare questo tempio?»
L’altro ghigna. «Ho i miei buoni contatti alla Soprintendenza Archeologica. Sai com’è, tra una rilevazione marina e l’altra, salta sempre fuori qualcosa di antico, e così…»
Mitsumasa sfoglia le fotografie una dopo l’altra, poi chiede: «E cosa dovrei fare, semmai volessi visitare queste rovine? A chi dovrei chiedere?».
«Alle persone giuste, suppongo.»
«E suppongo tu sia uno dei pochi eletti…»
«Supponi bene.»
Va bene. Vengo a vedere il piatto. «Così come suppongo che ti interesserebbe vincere l’appalto in Italia…»
«L’appalto in Italia. Amico caro, tu sei un solenne figlio di buonadonna. Salvando tua madre, s’intende», e Agapios Solo ridacchia compiaciuto, come se avesse appena ascoltato la barzelletta più divertente del mondo. «No, quella storia è una fregatura colossale. Finché in Italia pioveranno bombe, io mi terrò lontano.»
«L’immaginavo.» Pausa. «Ma ci sarà pure qualcosa che…»
«Sarò a New York il mese prossimo. Per una serata di beneficenza, o roba del genere. La figlia del Generale Ross non avrebbe un’amica da presentarmi? Una carina almeno quanto lei, s’intende.»
«E tua moglie?» Mitsumasa si guarda intorno, come se Vassilissa fosse dietro la porta, pronta ad entrare nella veranda e a spaccare loro qualcosa sulla testa. Una padella, ad esempio. O il pesante posacenere di cristallo che troneggia sul tavolino da fumo.
«Quello è un problema mio.»
«No, diventerà anche mio, non appena Vassilissa saprà che…»
«Quante storie! Voglio solo avere un’accompagnatrice carina che mi rallegri una serata noiosissima! Alla mia età non ci tengo a impelagarmi con le ragazze giovani. Ti succhiano solo sangue ed energie. Sono uno stress, credi a me.» Altra boccata. «È chiedere troppo?»
«Suppongo di no.»
«Bene. L’ho sempre detto che eri una persona ragionevole, tu. Allora, questa amica?»
«Credo si possa combinare», dice Mitsumasa. «Ma dovrei…»
«Perfetto», e Agapios Solo alza una mano. «Sei un uomo di parola, Kido-san. Mi fido. Quando vorresti visitare il tempio?»
«Domani?», risponde, con la stessa incertezza del concorrente di un quiz a premi che non sa se ha scelto la scatola giusta. «Se non hai impegni, ovvio.»
Agapios lo guarda come se gli fosse spuntata una seconda testa.
«No, grazie. Mi è bastato un giro di giostra. Certi posti si apprezzano di più senza nessuno attorno. Fidati. Non capita tutti i giorni di poter visitare un tempio chiuso al pubblico. Qui ad Atene, poi, è una rarità.»
Mitsumasa annuisce.
«D’accordo, allora. Devo ricordarmi di acquistare qualche rullino fotografico.»
«Giapponesi. Voi e la vostra mania di fotografare ogni cosa
«Una fotografia non scattata è un ricordo che non c’è.»
«Perle di saggezza orientale?»
«No. Lo slogan della Kodak.»
Agapios scoppia a ridere di cuore e Mitsumasa gli si accoda, in una mattinata così tranquilla e serena da sembrare uscita da un libro illustrato, uno di quelli per ragazzi, dove il sole illumina un mondo semplice e le vicende si concludono puntualmente con il rassicurante E vissero per sempre felici e contenti.
«Chiederò a Ioannis di procurartene qualcuno. Quanti te ne servono?»
«Tre, quattro. Quanti ne riesce a trovare. Me li farò bastare.»
«Perfetto. Vado a fare un paio di telefonate e vediamo che mi rispondono», dice Agapios, prima di aggiungere: «Che sciocco! Domani è domenica. E non credo proprio che ci faranno questo favore. Lunedì ti andrebbe bene?»
«Benissimo. Domani, potrei andare all’Acropoli.».
«Non ci sei ancora stato?»
«No. Troppa folla.»
«Vacci presto, dammi retta. Eviterai la calca e il caldo, e ti godrai il Partenone screziato di rosa e oro.»
«L’immagino, ma proprio non ce la faccio ad alzarmi all’alba.»
Il vecchio armatore ridacchia.
«L’uomo propone e Dio dispone. Magari gli dei vogliono che tu non vada all’Acropoli, ma al tempio di Athena Sounia…», dice, sibillino, alzandosi dalla sedia in midollino.
«Crederò agli dei se e quando ne incontrerò uno», ribatte Mitsumasa Kido, sorridendo, prima di scottarsi la lingua col caffè.
Agapios sorride. Abbandona il suo sigaro nel posacenere e chiosa: «Non mi fa fumare in casa, quell’arpia. Se vuoi approfittarne, i sigari sono qui», e si allontana nel suo completo bianco gesso, in un tintinnare di chiavi che gli gonfiano le tasche dei pantaloni.
Mitsumasa sorseggia il suo caffè – amaro e robusto, con quel retrogusto di bruciato che gli ricorda certi whisky torbati – osservando una nuvola solcare rapida lo struggente cielo di Atene. E intanto pensa alle parole da usare per chiedere a Betty di presentare un’amica ad Agapios. Speriamo non mi faccia fare brutte figure, si dice, allungando la mano e decapitando un toscano con un colpo netto. Toc.




 
 
«Poseidone ci sta aspettando»
Seiya era stato irremovibile e Jabu aveva visto qualcosa nei suoi occhi che l’aveva convinto a seguirlo in quella missione suicida. Era la stessa luce che brillava nello sguardo dei santi, o in quello dei martiri. Un dio aveva parlato e Seiya era stato scelto come suo portavoce. Come profeta. Un profeta in jeans e maglietta e scarpe da tennis. Al diavolo tutto - i loro recenti trascorsi; il fatto che Poseidone, tecnicamente, ancora dormiva rinchiuso nell’anfora; il fatto che ad aspettarli non ci fosse Athena -: se Poseidone si era scomodato a salvarli doveva esserci un motivo. Quale fosse, Jabu non sapeva dirlo, e così neppure Seiya o Shiryu; era per conoscerlo - per mettere le cose in chiaro - che avevano disertato e si stavano recando ad incontrarlo. Solo dopo aver sentito la versione di Poseidone, avrebbero preso una decisione. Per quanto lo riguardava, Jabu era aperto ad ogni proposta ragionevole e sensata che consentisse loro di riportare Saori - Athena - al Santuario sana e salva. Abito da principessa incluso.
«Scusami se te lo chiedo…»
La voce di Jabu era quasi un sussurro. Aveva perso quella sicurezza che si colorava di incertezza, sul fondo di vocali strozzate e lemmi pronunciati con troppa velocità. Era serio, pacato, posato. Senza l’ansia di doversi dimostrare quello giusto al momento giusto. Senza essere in eterna competizione con Seiya, che correva davanti a loro, tutto preso dalla propria meta. Poseidone li stava aspettando, ne era certissimo; e Shiryu aveva preso per buona quell’idea. Sì, il dio del mare li aveva salvati. Aveva sentito anche lui il suo potere, terribile e abbacinante, mentre il suo corpo risaliva verso la terraferma e la sua coscienza riacquistava contezza di sé. Un cosmo smisurato li aveva raccolti. Un cosmo che sapeva di acqua di mare, dello zolfo che si respira vicino ai vulcani, e della terra smossa. Quello non era un cosmo normale. Quello era il cosmo di un dio.
«Dimmi pure.»
Lo incuriosiva, Jabu. Non erano mai riusciti a conoscersi per davvero, sempre impegnati, loro cinque, fianco a fianco contro il nemico di turno. Che tipo di persona era, suo fratello? Come si comportava, nella vita di tutti i giorni? Era qualcuno di cui ti saresti potuto fidare, sul campo di battaglia?
«Come funziona?»
Shiryu lo fissò come se gli fosse spuntata una seconda testa. Rallentò la propria andatura e chiese: «Come, scusa?».
Jabu saltò un fosso, quindi, una volta atterrato dalla parte opposta si voltò e disse: «Come funziona. Pur ammettendo che ci fosse lo zampino di Poseidone dietro il nostro salvataggio, che succederà adesso?».
E Shiryu fu costretto a rispondere: «Non lo so. Improvviseremo.».
Jabu sgranò gli occhi. «Sul serio? E come? Arriverà qualcuno ad indicarci la strada, oppure andremo sotto casa Solo e suoneremo il campanello? Scusi signora, Julian può scendere a giocare?» Pausa. «Ti prego, dimmi che non andremo a…»
«Non lo so», replicò Shiryu. «Sorrento della Sirena è rimasto accanto a Julian Solo. Se siamo fortunati, lo troveremo e parleremo con lui.»
«Altrimenti?», domandò Jabu. Shiryu gli scoccò un’occhiata truce. «Non lo sto chiedendo per rompere le palle. Lo sto chiedendo perché mi piace avere un piano alternativo. Sai, qualora qualcosa vada storto…»
Shiryu seguì lo sguardo di Jabu, scoprendolo a fissare la schiena di Seiya. Jabu aveva ragione. Con Seiya occorreva pensare a tutti gli aspetti collaterali. Lui correva davanti a loro convinto che avrebbero trovato il Signore dei Cavalli pronto ad accoglierli a braccia aperte, e magari aveva ragione lui; magari Poseidone li stava davvero aspettando, e magari avrebbe chiesto loro perché ci avessero messo così tanto prima di scendere dalle montagne ed andare a parlare con lui.
Ma se così non fosse stato?
Se la coscienza di Poseidone si fosse di nuovo assopita, e quel provvidenziale risveglio non fosse stato che un timido sprazzo di volontà?
Che cosa avrebbero fatto, loro, a quel punto?
Setacceremo tutta la terra palmo a palmo, semmai ve ne fosse bisogno, si rispose il Drago. Saori aveva parlato. Saori aveva ordinato a Seiya di trovarla, e loro avrebbero obbedito.
«Altrimenti suoneremo il campanello di casa Solo», rispose Shiryu, aumentando la propria andatura. Occorreva avere fede, per lavorare fianco a fianco con Seiya. E la Fede, quella con la maiuscola, non è certezza di cose che si sperano, e dimostrazione di cose che non si vedono? «Abbi fede, Jabu.» Abbine tu anche per me.
L’Unicorno scosse la testa. Agire per fede era qualcosa che un tipo pragmatico come Jabu poteva anche capire - la Fede era un’opzione come un’altra, al punto in cui si trovavano - ma la Fede era qualcosa di troppo astratto ed impalpabile per affidarvisi anima e corpo e tentare di salvare un dio. O una dea.
O forse Athena aveva avuto una svolta mistica e, dopo essersi incarnata in un corpo fatto di carne e sangue, aveva deciso di metterli alla prova come Dio aveva fatto con Abramo?
Avrebbero trovato un ariete da sacrificare al posto di Isacco?
A Grace - «Amazing Grace, please» - sarebbe piaciuto quel paragone. Sissignore. Le avrebbe fatto brillare gli occhi e battere le mani, ma Grace era fatta così. Una cristiana rinata era molto sensibile a certi tasti; anche servendo Athena. Alla faccia del Primo Comandamento.
«Ci sono più cose in cielo e in terra eccetera eccetera», liquidava la questione Grace. E forse aveva ragione lei; così come aveva ragione Seiya a correre a perdifiato verso l’orizzonte, certo che avrebbe incontrato Poseidone.
Chi cerca trova, recitava il Libro dei Proverbi; la domanda che rimbalzava nella testa di Jabu era: cosa troveremo alla fine del sentiero? E non sapeva dire se quanto avrebbe trovato gli sarebbe piaciuto, ché gli dei - tutti. Nessuno escluso - raramente elargiscono bei doni ai mortali. Anzi. E se - e quando - gli dei - tutti. Nessuno escluso - iniziano a farsi desiderare dai mortali, hanno in serbo qualcosa di molto, molto problematico.
Una boccata di fiele. Una coltellata nella schiena. E Jabu temeva che chiunque fosse stato a rapire Athena - sempre ammesso che Saori fosse ancora viva e  quelle di Seiya non fossero le farneticazioni di un pazzo - avesse trovato in Poseidone un complice. Un sodale. Tu ti becchi la ragazza, io il mondo.
Così, con questi ragionamenti tutt’altro che allegri, Jabu correva accanto a Drago e Pegaso, cercando il proprio posto in una dinamica di coppia già rodata. Seiya scattava avanti - più veloce e più impavido - e Shiryu gli copriva le spalle, nemmeno fossero stelle di un sistema binario. Jabu li osservava a poca distanza; qualora qualcuno li avesse attaccati lui sarebbe potuto intervenire. Forse. Ma chiunque fosse a seguire i loro passi - Jabu percepiva uno sguardo da rapace fisso tra le sue scapole. All’altezza del cuore -, non aveva intenzione di fargli la cortesia di permettergli di prenderli tutti e tre in un colpo solo.
E infatti anche il Drago se ne accorse.
«Dobbiamo dividerci.»
Shiryu non era mai stato così irremovibile. Neppure durante la scalata alle Dodici Case, quando la corsa contro il tempo, in cui Saga li aveva ingabbiati, aveva generato non pochi scoramenti ad ogni fiammella della Meridiana che si andava spegnendo.
«Adesso.»
«Continuiamo ancora un po’.»
Seiya correva. Non voleva sentirci da quell’orecchio, non voleva abbandonarli nelle grinfie di chiunque li stesse tallonando.
«No!», gridò Shiryu, arrestandosi all’istante. «Non erano questi i patti.»
Jabu si fermò a metà strada tra i due, incerto. Sì, Shiryu aveva ragione - «Shiryu ha sempre ragione», aveva sentito dire a Hyoga la scorsa primavera - e di sicuro il Santuario non aveva sguinzagliato loro dietro i soldati semplici, o le reclute: avrebbero messo a mal partito i primi e i secondi avrebbero avuto un’occasione d’oro per darsi alla macchia. Né Mu e Shaka si sarebbero fidati di Shaina o Ban: sarebbe stato come affidare una macelleria ad un branco di gatti randagi. Quindi, chi li stava tallonando era un bel pezzo da novanta e presto li avrebbe acciuffati tutti e tre; restava solo da scoprire chi tra Mu, Shaka e Aldebaran avesse assunto l’incarico.
Jabu sperava che fosse il Santo del Toro: Aldebaran li avrebbe raggiunti, li avrebbe ascoltati, avrebbe concesso loro un po’ di tempo per spiegarsi - tempo che avrebbe permesso a Seiya di raggiungere Thera e parlare a tu per tu con Poseidone -; Mu, e soprattutto Shaka, non sarebbero stati così clementi e comprensivi.
Ma c’era un altro Santo che avrebbe potuto lanciarsi all'inseguimento. Gemini. E il cosmo che Jabu sentiva avvicinarsi come un treno in corsa era vasto, profondo e potente come un cosmo d’Oro, ma non apparteneva a nessuno di sua conoscenza. Purtroppo.
«Ha ragione», disse - sospirò - Jabu, le mani sui fianchi e l’espressione rassegnata. «Tu vai avanti, prima che sia troppo tardi.»
Seiya tentennò.
«Non è né Mu, né Shaka, né Aldebaran. E nemmeno Shaina», aggiunse Shiryu.
«Per questo non voglio lasciarvi!», replicò Seiya stizzito. «Stiamo parlando di Gemini. E quella tizia non sarà Saga, ma...»
«Ci falcierebbe tutti assieme», replicò Shiryu. «E noi non possiamo permettercelo.»
Seiya sbatté le palpebre, sperimentando un déjà-vu poco piacevole: un tardo pomeriggio dello scorso autunno, col sole che era appena sceso oltre l’orizzonte ed Excalibur che aveva tranciato il piazzale davanti la Decima Casa.
«Come al Santuario...»
«Come al Santuario.» Shiryu annuì e posò una mano sul coprispalle di Pegasus. «Io resto indietro. Voi andate avanti.»
«Perché non facciamo il contrario, per una volta?», propose Seiya. «Perché non posso restare io e voi...»
«Perché Athena ha parlato a te. Perchè Poseidone sta aspettando te.» Lo sguardo di Shiryu si addolcì un poco. «O non ti fidi di noi?»
«Non è questo! E lo sai!»
«E allora cos’è?», chiese Jabu.
Seiya si morse le labbra.
«Avanti. Non abbiamo tempo per chiacchierare ancora», disse Shiryu voltando Seiya come se fosse una bambola. «Andate.»
E Seiya abbassò la testa. Annuì e riprese a correre verso la propria meta.
«Fai attenzione!», gli gridò Jabu prima di lanciarsi appresso a Seiya e lasciarlo da solo alle porte di Atene.
E in quel momento, come nelle migliori tradizioni – o come in certe pellicole americane dalla buona sceneggiatura – i timpani di Shiryu, Jabu e Seiya percepirono qualcosa. Un suono, limpido e un po’ freddo. Il canto melodioso di un flauto che riempiva colla sua voce caratteristica il silenzio del primo mattino e li accoglieva come si fa con un vecchio amico che non si vede da tanto, troppo tempo.
Seiya si era fermato, come centrato da una secchiata d’acqua gelida, e fiutava l’aria come un cane. Shiryu li raggiunse, guardandosi attorno accigliato. Jabu schiuse le labbra per parlare, ma le parole gli rimasero stoicamente ancorate alla lingua. Conosceva la melodia che quel flauto traverso stava producendo. Gli era nota. Grace la canticchiava, ogni tanto, quand’era di buonumore. Qualcuno stava riproducendo un inno sacro affidandosi alla sola voce del flauto. E Jabu non rimpiangeva l’assenza degli archi. Dei timpani. Del pianoforte o del coro. Anzi, sentiva dentro la propria testa le parole che i cantori avrebbero pronunciato, dagli acuti degli alti e dei tenori ai timbri più profondi di bassi e contralti.
Amici, non questi suoni!
Una pace immensa avvolse Jabu. Chiunque stesse suonando quella melodia veniva in pace, di questo l’Unicorno era certissimo. Così abbassò braccia e spalle e le proprie difese e si lasciò circondare da quelle note, come una coperta calda in un giorno di pioggia.




 
 
 
I templi greci sono un po’ come i castelli della Loira: quando ne hai visto uno, li hai visti tutti, ma guai a lasciarti scappare una considerazione del genere coi diretti interessati. Ché quelli, i greci, non te lo perdoneranno mai. Se la legheranno al dito e si terranno pronti a rinfacciartela alla prima occasione, riuscendo ad infilare la questione in tutt’altro genere di argomenti.
Così, Mitsumasa Kido decide di tenersi per sé ciò che realmente pensa del tempio di Atena Sounia e di raccontare ad Agapios qualche frase di circostanza. Scatta una fotografia dietro l’altra alle colonne doriche che hanno resistito al tempo, al vento e al sole impietoso dell’Attica. Colonne che non sono poi tanto diverse da quelle del Partenone o del Santuario di Apollo a Delfi o della Valle dei Templi di Agrigento, dall’altra parte dello Ionio. Le stesse scanalature, la stessa entasi, probabilmente lo stesso marmo candido lavorato a colpi di scalpello e bestemmie sotto il sole del Mediterraneo. Certo, qui c’è meno ressa, meno turisti che sciamano fra le rovine arrampicandosi, scattando fotografie, chiacchierando di tutto, tranne che di quello che stanno osservando; meno cicaleccio, che fa assomigliare l’Acropoli ad una succursale della Torre di Babele.
Si sente il mare, pensa Mitsumasa tra uno scatto e l’altro. E il vento, che soffia gentile e che profuma di salsedine e di iodio. E qualche gatto in amore, che si nasconde tra i cespugli e i capitelli caduti.
No, aspetta, si dice Mitsumasa tendendo l’orecchio. Quello non è un miagolio di una gatta in calore che chiama il suo compagno, no. È qualcosa di diverso. È troppo disperato, troppo monocorde, e i gatti sono maestri nel modellare il tono del proprio verso.
No, questo è il vagito di un bambino, si dice Mitsumasa, la macchina fotografica stretta tra le dita. Così si mette in ascolto, per localizzare da dove arrivi quel pianto. È vicino. Molto vicino. Ma cosa diamine ci fa un bambino qui?, si chiede, seguendo il richiamo come ipnotizzato, passo passo, dirigendosi verso una macchia di vegetazione che circonda una colonna caduta.
C’è urgenza, in quel vagito. Disperazione. E i passi di Mitsumasa si fanno più svelti. Non è normale che un neonato si trovi lì. Il sito è chiuso. Lui stesso è riuscito ad entrare dopo che Agapios ha passato mezzo pomeriggio al telefono, con questo o quell’assessore, per richiedere il permesso alla Soprintendenza. Come ci è finito questo bambino, qui? È da solo? E i suoi genitori dove sono? L’avranno abbandonato? O forse rapito?
Mitsumasa teme il peggio e con molta circospezione si avvicina, mentre il vagito si fa più impellente. Il grido disperato di una donna, pensa, in un angolo della sua mente, prima di affacciarsi oltre il rudere della colonna caduta.
C’è un ragazzo. Un adolescente, ferito e sanguinante, che stringe al petto una neonata. Il primo impulso di Mitsumasa è un’ipotesi vigliacca: girare sui tacchi e mettere quanta più strada possibile tra lui e quella scena piena di sangue.
Conosce quella sensazione, quella morsa che gli serra viscere e testicoli in una presa imperiosa: è l’istinto di sopravvivenza, lo stesso che sta sussurrando al suo cuore «Scappa o muori»; e questo vorrebbe fare lui. Scappare. E di corsa pure.

Ma poi qualcosa – il soffio dispettoso del vento, forse? – cambia l’atmosfera e Mitsumasa perde l’attimo. E il ragazzo socchiude appena gli occhi e si accorge della sua presenza. E sussurra: «L’uomo della Provvidenza.».
Mitsumasa non è certo di quello che ha sentito. Il ragazzo parla un dialetto tutto suo, è stremato e deve avere la vista annebbiata. Gira attorno alla colonna, si china di fronte a lui e gli chiede: «Cosa è successo?», scandendo le parole con molta, molta lentezza.
«Sono stato tradito», risponde lui, tra un respiro affannato ed un sospiro.
Tradito? Quelli che il ragazzo ha sul corpo sono tagli, lunghi e profondi come quelli che si lascia dietro una spada, e se Mitsumasa non sapesse che è un’ipotesi improbabile, penserebbe di essere finito sul set di un qualche peplum fuori tempo massimo.
Solo che nessuno grida: «STOP! STOP! Che ci fa quel tizio in scena? Cacciatelo!», o qualcosa del genere. C’è solo un ragazzo ferito a morte, una neonata che strilla con tutto il fiato che ha in corpo e una cassa d’oro zecchino, sporca di sangue e terriccio, ma troppo lucida per poter essere finta e troppo grande per poter essere vera.
In che guaio mi sono cacciato?, si chiede Mitsumasa, mentre il ragazzo, con uno sforzo, si mette a sedere, la bambina stretta al petto come se fosse la cosa più preziosa della Terra.
«Ma… ma tu chi sei? E questa bambina?», chiede Mitsumasa.
Il ragazzo sorride. «Questa bambina è Athena. La dea Athena.»
Athena?!, pensa Mitsumasa.
«Si è reincarnata… dopo duecentocinquant’anni per… proteggere l’umanità», continua il ragazzo con la voce sempre più flebile per la stanchezza. «I suoi nemici si sono infiltrati… nel Santuario… e hanno provato ad ucciderla. Ma io… l’ho difesa», aggiunge, come a volersi scusare di una qualche sua mancanza, di non essere riuscito a fare di più.
Ma cos’altro avresti dovuto fare?, pensa Mitsumasa, prima di rassicurarlo dicendogli: «Adesso va tutto bene», cosicché non getti la spugna e resista un altro po’. L’automobile che Agapios gli ha messo a disposizione lo aspetta fuori del sito archeologico. C’è un telefono a bordo, e, se non cincischieranno oltre, Mitsumasa è certo che forse – forse – riusciranno a raggiungere in tempo il primo ospedale. Lì si occuperanno del ragazzo e della bambina. E poi sporgerà denuncia alla polizia, e…
Al ragazzo tremano le labbra – labbra bluastre e gonfie – e gli mette la bambina tra le braccia. Mitsumasa la prende, e lei smette di piangere. Lo guarda, coi suoi grandi occhioni scuri, come a studiarlo per bene. Non è possibile. È troppo piccola perché riesca a vedermi per bene.
È bagnata. Avrà fame. Eppure, il suo sguardo si concentra sul viso di Mitsumasa e gli rivolge un sorriso smarginato. E lui sente che è perduto.
«Le affido… Athena…»
Tu cosa? Cos’hai detto?, pensa Mitsumasa, riuscendo a staccare lo sguardo dal volto della bambina; ma quando riporta gli occhi sul ragazzo scopre che è svenuto, ed è scivolato all’indietro, la testa abbandonata sull’erba fresca e tenera.
«Ehi. Ehi. Fatti coraggio», lo chiama; ma, per quanto lo scuota per un ginocchio, il ragazzo non dà segni di ripresa, e resta con gli occhi rivolti in alto, come a guardare lo spettacolo più bello del mondo, naufragando nel celeste struggente del cielo appena fuori Atene.
«Andato», mormora Mitsumasa, ritrovandosi a cullare la bambina in modo quasi automatico. E adesso che faccio?, pensa, guardandosi in giro. È solo, tra colonne che si ergono silenziose a strapiombo sul mare, il vento che soffia sull’erba in una mattina pura e spietata.
«Idee?», chiede alla bambina, come se questa potesse rispondergli. Lei lo guarda, coi suoi occhi grandi e scuri, e sorride. «D’accordo, d’accordo. Una cosa per volta», le dice Mitsumasa, cullandola.
Tornerà all’automobile, chiamerà Agapios Solo, e lui lo aiuterà ad uscirne fuori. Stanno per piovergli sulla testa una marea di grattacapi. C’è da avvisare la polizia, sistemare il cadavere di quel povero ragazzino, avvisare la famiglia della bambina…
Agapios non me lo perdonerà mai, pensa, mentre in un angolino della sua mente si chiede che fine farà quella piccina. Tornerà dai suoi genitori, ovvio; ma se non li avesse? Se fosse rimasta orfana, per un qualche scherzo del destino? Magari, ecco sì, magari quel ragazzino era il fratello maggiore di questa piccina. L’auto su cui viaggiavano assieme ai loro genitori è uscita di strada e lui è riuscito appena ad estrarre se stesso e la sorellina dalle lamiere contorte della vettura. Delirava. È l’unica spiegazione possibile.
Ma il suo cervello ricorda a Mitsumasa che non hanno visto incidenti, strada facendo, né segni di frenata o guard-rail divelti. Niente di niente. Sì, Athena è un nome ancora usato in Grecia, specie ad Atene. Non si chiama così anche una delle cameriere di Agapios?
Sì. Certo che sì.
Occhi nerissimi e pelle d’ambra.
Ma la scatola, allora? Come la spieghi, quella?, si sente chiedere Mitsumasa dalla propria coscienza.
Ma prima che possa anche solo fornire un’ipotesi, o almeno provarci, sente, alle sue spalle, un ordine tassativo.
«Lascia andare la bambina.»




 
 
Seiya e Shiryu avevano alzato la testa, come a voler vedere chi fosse quel suonatore prodigioso. Abbiamo mandato il mondo a farsi fottere per un po’. Cinque minuti appena, diceva la loro postura: braccia lungo il corpo, spalle rilassate, ginocchia flesse. Non si aspettavano l’assalto di un nemico. Non c’era alcuna possibilità che un avversario piombasse loro addosso come un’aquila sulla schiena di una lepre. Sarebbe stato come credere che il mondo avesse smesso di girare attorno al sole e se ne fosse andato a pattinare sugli anelli di Saturno. Così, tanto per fare qualcosa di nuovo.
Un ultimo trillo, un’ultima, lunghissima nota e il silenzio abbracciò l’alba sulle campagne a nord di Atene. Jabu sbatté le palpebre, come se qualcuno lo avesse appena chiamato da un sogno ad occhi aperti, e si guardò attorno. Non era successo loro niente - non ancora. Erano tutti e tre sani, salvi e stralunati, e si guardavano l’uno con l’altro in cerca di una spiegazione. Poi Jabu notò una figura in lontananza e disse: «Lassù», indicandola ai compagni. La sua gola assomigliava ad una spianata di carta vetrata, e ciò che produsse fu un suono di unghie sulla lavagna. Ciononostante, Seiya e Shiryu si voltarono nella direzione indicata.
«Chi diamine è?» chiese l’Unicorno, lo sguardo allargato e i sensi tesi; la gente non si mette sui rami a suonare musica di primo mattino, giusto?
«È il nostro Cicerone», replicò Shiryu, la mascella rigida, ché sì, erano in pace – armata, ma pur sempre pace –; tuttavia Shiryu preferiva non fidarsi ciecamente di un nemico, pur se ex, ché nella personale visione del Drago un nemico restava sempre qualcuno da cui guardarsi le spalle. «Sorrento della Sirena.»
Seduto su un robusto ramo di pino marittimo, le gambe a dondolare nell’aria come se fosse a cavallo di una staccionata, un uomo li osservava. Aveva un aspetto spettrale, come un’apparizione uscita da un romanzo gotico; i capelli al vento e una cravatta al collo, Sorrento della Sirena, abbassò il flauto e sorrise loro, un cenno con la mano per salutarli. Quindi scese dal ramo – si lasciò cadere, pensò Shiryu – e atterrò poco distante, lo strumento tra le dita. Seiya e gli altri lo raggiunsero in un attimo.
«Sorrento!», esclamò Seiya. «Che piacere!». Ed era sincero, Shiryu lo sapeva. Diamine, Seiya sarebbe stato felice di ritrovare persino Saga.
«Sono felice di vedere che state bene», disse Sorrento, spaziando con lo sguardo fermo da Pegaso al Drago. Si soffermò su Jabu, lo squadrò e poi disse: «Mi spiace solo che le circostanze non siano delle migliori.».
Era un tipo strano, questo Sorrento, pensò Jabu. Più che un essere umano fatto e finito, assomigliava ad un manichino appena scappato dalla vetrina principale di una boutique del centro, o dalle pagine di una rivista per gentiluomini di un certo livello - di quelli che dissertano di tauromachia e arte sorseggiando brandy d’annata in un club londinese frequentato dalla buona società. Cappotto color canna di fucile, completo blu scuro e scarpe abbinate, cravatta grigio chiaro al collo, stringeva tra le dita un flauto traverso d’oro, l’espressione serafica di chi sta facendo una passeggiata. Sorrise, e qualcosa - lo sguardo da rapace in quel viso gentile - suggerì a Jabu di non abbassare la guardia. Quello non era un manichino o un dandy o un bambolotto troppo cresciuto. Quello era un Generale degli Abissi di Poseidone. Uno che non era il caso di sottovalutare se si voleva tenere la propria testa attaccata al collo.
«Grazie per averci salvato», disse Shiryu, porgendogli la mano. Toccava a lui il ruolo di custode delle buone maniere. Sorrento la strinse, e la sua presa era salda.
«Non dovete ringraziare me, ma il mio Signore», si schermì. «Per conto mio, è stato un piacere. Anche se in passato siamo stati avversari, sono contento di avervi potuto dare una mano.»
Il suo sguardo si fermò su Jabu e l’Unicorno sussultò. Sì, questi sono gli occhi di un predatore. Lo sguardo cupido di un gabbiano.
«Mi dispiace conoscerti in simili circostanze», gli disse Sorrento, guardandolo dritto nelle palle degli occhi. E Jabu seppe che era sincero, come solo un predatore sa essere. Ti uccido perché ho fame. Niente di personale. E Jabu si scoprì ad annuire.
«Succede. Grazie lo stesso per l’aiuto che ci state dando, tu e il tuo Signore», rispose. Perché Sorrento era lì per aiutarli, giusto?
«Dovere. Quello che sta succedendo riguarda tutti noi.»
«In che senso?» Seiya sembrava attentissimo, adesso: esauriti i convenevoli di rito - diamine, Sorrento li aveva salvati, giusto? - ascoltava il nuovo arrivato con le orecchie ben aperte e gli occhi smarginati, un passo in avanti, con Pegasus pronta ad assecondare i suoi movimenti come una coppia ben collaudata si prepara a scendere sulla pista da ballo.
«Nel senso...»
Sorrento tacque. Parve soppesare le proprie parole per qualche minuto, come chi non padroneggia una lingua alla perfezione sceglie con cura cosa dire, onde evitare spiacevoli equivoci.
«Nel senso che chiunque abbia rapito Athena non si fermerà qui. La sua agenda è molto più fitta di quanto ci piaccia credere.»
«E chi sarebbe...» questo simpaticone?, avrebbe voluto chiedere Seiya. Jabu percepiva già il suono di quelle parole rompere la calma del primo mattino, ma Sorrento lo interruppe.
«Non lo so.» Pausa. «Il mio Signore non me l’ha detto.»
E Jabu vide che era sincero.
Con buona probabilità, Poseidone sapeva - o aveva intuito - quale fosse l’identità del loro avversario; ma il Signore dei Cavalli teneva per sé questa informazione per rivelarla al momento opportuno. Come quando si aspetta a mostrare l’asso che ci regala il poker. Agli dei piace un coup de théâtre qua è là, Jabu. Si divertono così. La voce di Grace era così vivida da fare male. Fosse colpa di Sorrento?
«Ma venite. Il mio Signore vi sta aspettando.»
Shiryu annuì. «Dove dobbiamo recarci?»
«Nel punto in cui il mio Signore vi ha ripescato», rispose. «Vi sta aspettando da qualche giorno, ad essere sincero.»
Seiya sorrise e lanciò uno sguardo pieno di trionfo all’indirizzo di Jabu.
Te l’avevo detto!
Jabu si scoprì a sollevare le mani, mostrandogli i palmi, come a dargli ragione. Touché, marmocchio.
«Allora sarà il caso di andare.»
Sì, a Shiryu riusciva bene il ruolo di voce della coscienza. Pure troppo.
«Un'automobile ci sta aspettando poco distante. Vi sono venuto incontro per salutarvi.» E per parlare in privato, aggiunse il suo sguardo. Gli altri tre annuirono. «Ma forse sarebbe meglio che toglieste le vostre armature.»
«Perché?», chiese Seiya. Gli occhi di Jabu si ridussero a due fessure.
«Perché il mio Signore vuole incontrarvi in un posto pubblico. Un bar a Imerovigli», spiegò Sorrento. «Meglio non destare troppo l’attenzione. Sapete come si dice, no?»
«No. Come si dice?», chiese Jabu.
Sorrento rivolse il suo viso sull’Unicorno. «È difficile notare quello che vedi tutti i giorni.» Pausa. «Così bardati attirereste un po’ troppe attenzioni. E noi siamo carbonari. Non ci servono attenzioni.»
Seiya scambiò uno sguardo coi suoi amici, quindi disse: «Va bene. Ma dove…» riponiamo le nostre corazze?, chiesero gli occhi di Pegaso.
Il Generale di Poseidone alzò una mano, come a chiedere scusa per l’interruzione. «Troverete dei vestiti nel bagagliaio dell’auto. Spero di aver indovinato i vostri gusti e le vostre taglie. Una barca ci sta aspettando al Pireo. Dovremmo raggiungere Thera verso la fine della mattinata. Ma venite, non abbiamo troppo tempo da perdere, e al mio Signore non piace aspettare», e così dicendo voltò loro le spalle e si diresse verso il limitare della macchia mediterranea, seguito come un’ombra da Seiya.
«Dovevo chiedertelo. Parlo di prima», disse Jabu fissando la schiena di Sorrento e il completo dall’ottima linea sartoriale. «Lo sai.»
«Lo so», rispose Shiryu. «Basta avere Fede.»
«Non abbiamo altra scelta, temo», disse Jabu accodandosi.




 
 
Mitsumasa sbatte le palpebre. Chi ha parlato? Non erano soli?
Alza lo sguardo con cautela. Davanti a lui, un piede sopra un capitello caduto, c’è un uomo. Indossa un mantello grigio e stazzonato, lungo quasi fino ai piedi, e lo osserva con l’espressione più ostile che Mitsumasa abbia mai visto. Un cane a cui hanno sottratto l’osso, pensa. O una lupa che protegge i suoi cuccioli.
«Lascia. Andare. La. Bambina.»
Il tizio fa un passo avanti, scavalcando il capitello. Indossa una specie di parastinchi di cuoio sulle gambe; Mitsumasa è riuscito a scorgerli appena. Deve appartenere allo stesso mondo del ragazzo. Un mondo in cui lui è cascato con entrambi i piedi.
«Non sono stato io. Ho trovato questo ragazzo in fin di vita. Non sono riuscito ad aiutarlo», dice, sentendosi uno stupido l’istante successivo.
L’uomo avanza verso di lui e lancia uno sguardo al ragazzo. Si china. Esamina le sue ferite a colpo d’occhio, e poi dice: «No, certo che no. Questi», aggiunge, indicando i tagli sul corpo del ragazzo, «sono i souvenir che si lascia dietro la Spada Sacra.».
La che?, pensa Mitsumasa.
«Povero Aiolos», mormora lo sconosciuto, passando una mano sul viso del ragazzo e abbassandogli le palpebre. Recita una preghiera a mezza bocca, come se stesse ripescando le parole nei meandri della memoria, poi lo fissa nuovamente.
«È… è sua figlia?», chiede Mitsumasa. Sì, deve essere la spiegazione più logica. Questa è sua figlia e lui vuole solo riprendersela, si dice, stringendosi al petto la bambina.
«No», risponde l’uomo, in un greco macchiato di francese. «Quella bambina è molto più importante.»
«Cosa c’è di più importante di un figlio?!», sbotta Mitsumasa.
Quelle parole sono come sale su una ferita aperta. È ancora fresco l’incenso bruciato per suo figlio Mei, è ancora straziante il vuoto che quella vita spezzata troppo presto gli ha causato. No, quest’uomo non è il padre della neonata.
«Quella bambina non è una bambina come tutte le altre. Quella», risponde l’uomo, indicando il fagottino tra le braccia di Mitsumasa, «è Athena. La nostra dea. Capisce?»
E Mitsumasa si dice che sì, capisce. Capisce benissimo. È finito ad avere a che fare con una setta di pazzi fanatici.
«Avanti. La dia a me», ripete l’altro, e sebbene Mitsumasa vorrebbe consegnargli la piccina e chiudere la questione – non le faranno del male. È la loro dea, no? –, senta la propria voce rispondere con un «No» così secco e duro da risuonare come un rintocco di morte.
«No?», chiede l’uomo, come a sincerarsi di aver capito bene, prima di passare ai fatti.
«No. Il ragazzo l’ha affidata a me», ribatte Mitsumasa, come se questo avesse un senso logico e non si riducesse ad un litigio tra bambini.
«L’ha affidata a lei perché non c’era nessun altro.»
Touché. «La Provvidenza opera in vari modi», risponde Mitsumasa. Lui, che non crede in niente e in nessuno se non in sé stesso. La Provvidenza, il Destino, il Fato, il Karma sono per Mitsumasa degli alibi che gli esseri umani utilizzano per mascherare le proprie mancanze, le proprie viltà e i propri fallimenti.
Allora perché l’hai tirata in ballo? Perché mascherarsi dietro il volere di un bene superiore?
Perché io non voglio dargliela, si risponde Mitsumasa, la macchina fotografica al collo e la neonata tra le braccia.
«La Provvidenza», mormora l’uomo. «E potrei sapere il nome della persona che la Provvidenza avrebbe scelto?»
«Mitsumasa Kido», risponde; poi infila una mano nella tasca della giacca e ne cava fuori un cartoncino bianco che porge all’uomo. «È il mio biglietto da visita», aggiunge, con lo stesso tono con cui è abituato ad affrontare le persone. Non c’è esitazione nella sua voce, adesso. È in un territorio che conosce e anche se quell’uomo – che sembra appena scappato dalle pagine di un romanzetto distopico – non avrà mai sentito parlare di lui o della sua Fondazione, poco importa.
Mitsumasa è abituato a vendere se stesso e a conquistare la fiducia dei suoi interlocutori. Ci vorrà qualche scambio di battute in più, ma è certo di portare a casa il risultato.
L’uomo si rigira tra le dita il biglietto da visita. Ha la pelle screpolata di chi lavora a mani nude, senza curarsi del vento, del sole e delle intemperie, e alcuni tagli sui polpastrelli; eppure tratta quel rettangolo di carta di ottima grammatura come se fosse abituato a maneggiarne di migliori.
«Lei è giapponese», dice, come soppesando tra sé e sé quest’informazione.
Qualcosa, nello sguardo dell’uomo, cambia.
«Sì», risponde Mitsumasa, mostrando la macchina fotografica appesa al suo collo. «Ma la nostra società…», si espande in mezzo mondo, vorrebbe aggiungere, ma non riesce a terminare la frase. L’uomo lo interrompe con un gesto secco.
«In Giappone…», ripete, come se questo avesse un’importanza cruciale. Vitale, quasi.
«Sì. La mia società ha sede a Tokyo», risponde.
«E dove alloggia, qui ad Atene? A che albergo è sceso?»
«Sono ospite presso amici.»
«Chi?»
Mitsumasa sbatte le palpebre. Non vuole coinvolgere ulteriormente Agapios in questa faccenda. Non sarebbe giusto. E non è sicuro che questa gente non possa rivalersi su Agapios, in qualunque momento. Eppure, sente la sua voce rispondere: «Agapios Solo.», più incrinata che se fosse tornato ad essere uno scolaretto intimorito al cospetto del suo precettore - e quello di Mitsumasa, il signor Kamafuchi, era la quintessenza della severità e dell’educazione impartita a suon di bacchettate sulle nocche. «Della Solo…»
«Non importa», dice l’uomo. «So chi è. Fino a quando ha intenzione di trattenersi qui?»
«Intende al tempio, o…»
«O.»
«Sono appena arrivato», risponde. «Contavo di trattenermi per un’altra settimana, almeno…»
«No. È troppo pericoloso», ribatte l’uomo. «Deve andarsene. Subito. Il prima possibile.»
«Ma… ma perché?»
«Perché la bambina è in pericolo!» La voce dell’uomo si alza di un’ottava, come se fosse superfluo ribadire l’ovvio per l’ennesima volta.
«Ma… ma si può sapere lei chi è?»
«Sono un Santo di Athena.»
«E… e lui… era?»
«Un Santo, come me. Ma il potere di questo povero ragazzo era superiore al mio.» L’uomo rivolge uno sguardo al cadavere e sputa a terra. «Era appena stato nominato suo tutore.»
Tutore? Ma se era un bambino lui stesso?! «E lo hanno ucciso?»
«Sta succedendo qualcosa di strano, nel nostro mondo. Hanno cercato di uccidere la bambina, e lui l’ha difesa. A costo della vita.»
Pausa.
L’uomo si china a raccogliere la cassa e se la pone in spalla come se fosse lo zainetto di un turista.
«Non ho fatto in tempo, dannazione. Ero dall’altra parte del Paese e ho sentito troppo tardi il suo grido d’aiuto. Ma adesso, è meglio andarsene. Il sangue del ragazzo ha lasciato una pista sin troppo semplice da seguire, e qui pullulerà presto di segugi, corvi e avvoltoi.»
Altra pausa.
«Lei non c’entra con questa storia», gli dice, come a volersi sincerare che Mitsumasa capisca in quale impresa si sta per imbarcare e che andrà avanti, fino in fondo. Nonostante tutto e tutti. «Dia a me la bambina. È ancora in tempo per tirarsi indietro.»
«I Kido hanno una sola parola», risponde Mitsumasa.
«Potrebbero tentare di uccidere questa bambina. E lei e la sua famiglia potreste andarci di mezzo, se ne rende conto?»
Mitsumasa annuisce. «Non è un problema. Sono rimasto da solo», dice, la fronte imperlata di sudore, e non per il sole che si va facendo sempre più alto nel cielo ateniese. «Mi spieghi chi mai potrebbe volere la morte di questa creaturina. Chi è mai questa bambina? Chi è veramente
«La dea Athena», risponde l’uomo. Come se fosse perfettamente logico che una divinità del mito non solo esistesse, ma si togliesse lo schiribizzo di farsi una passeggiata tra i mortali, di tanto in tanto. Per ammazzare il tempo, prima che lui ammazzi te.
D’altronde, l’eternità dev’essere un bell’impiccio, dopo un po’, si dice Mitsumasa, mentre osserva l’uomo rivolgere alla neonata che dorme tra le sue braccia uno sguardo pieno della stessa devozione dei santi che compaiono nelle pale d’altare.
«E lei è l’uomo che Tyche ha scelto per proteggerla.»




 
 
Milo si riteneva una persona flessibile. Non aveva senso, secondo lo Scorpione, incaponirsi su un tracciato e non cambiare strada all’occorrenza. Che succede se si imbocca una strada senza uscita? Si resta fermi a prendere a testate il muro finché non cade?
Oh, Aiolia lo avrebbe fatto. Sicuro come il sole sorge ad Est. Ma avrebbe avuto senso perdere tempo ed energie per qualcosa che si sarebbe potuto evitare tornando sui propri passi e scegliendo un tragitto alternativo?
Non per Milo. Assolutamente no.
Ma a Milo non piaceva che i suoi passi cambiassero strada senza che nessuno avesse chiesto il suo parere. O lo avesse graziosamente avvisato prima di imbroccare un altro percorso, come stava facendo la barca di Stavros.  Milo non conosceva molto Thera. Troppi turisti, troppa folla da aprile ad ottobre inoltrato. E troppe dracme da spendere per campare, a suo insindacabile giudizio. Tuttavia, Milo era sicurissimo che la rotta su cui navigava la barca di Stavros non fosse quella migliore per raggiungere l’imbarco dei traghetti.
Se il suo senso dell’orientamento non si era preso una bella e lunga vacanza senza avvisare – variabile che poteva essersi effettivamente verificata: le cose giravano per il verso storto, da un po’ di tempo a questa parte, nella vita dello Scorpione –, Atene era nella direzione opposta a quella che avevano intrapreso loro quattro, stipati come sardine su una barca che minacciava di affondare al prossimo miglio.
Ticchettava il proprio indice sulla placca che proteggeva il ginocchio destro, attendendo il momento giusto per sbottare e chiedere a Stavros conto e ragione delle sue azioni.
Kanon gli scoccò uno sguardo indecifrabile.
Mi girano le palle, risposero gli occhi dello Scorpione. Incrociò lo sguardo di un gabbiano che stava scroccando un passaggio verso la terraferma - forse lo stesso che avevano incontrato quella mattina? Un suo parente? Chissà… -, poi fissò la schiena di Stavros e chiese ad alta voce: «Si può sapere dove stiamo andando? Atene è dall’altra parte.».
Stavros non rispose, non subito. Si voltò, squadrò lo Scorpione dall’alto in basso e gli disse: «Non avrai intenzione di andartene in giro così, vero?».
Milo sbatté le palpebre. Come, scusa? «Sono in missione per conto di Atena», rispose.
«Lo so io e lo sai tu», disse Stavros. «Ma la gente comune non lo sa. E forse è meglio nascondersi tra la folla, quando vuoi passare inosservato, no?»
Non faceva una grinza, tuttavia… «Viaggio leggero, io.»
Stavros si strinse nelle spalle. «Sono sicuro che la persona che vi sta aspettando si occuperà di questa faccenda.»
La persona che ci sta aspettando?
E poi Kanon diede voce ai pensieri di Milo. «Come sarebbe a dire? Chi ci sta aspettando?», disse – quasi gridò, per sovrastare il fracasso del motore.
«Non ne ho la più pallida idea», ribatté Stavros. «So solo che è uno come voi.»
«Prego?»
«Uno come voi», ripeté Stavros, scandendo quasi le parole. Fissò Milo, poi spiegò: «Uno come te e l’amico tuo. Ma differente.».
«In che senso differente, nonno?», chiese Athina.
«Più… sobrio. Più educato, ecco.» E Stavros tornò ad occuparsi della navigazione, lasciandoli a guardarsi l’uno con l’altro.
«Spiegaci che sta succedendo», le disse – le ordinò – Kanon.
«Ne so quanto voi», replicò lei, gli occhi sgranati e l’espressione di un bambino perso tra la folla. «Magari uno dei nostri ci sta aspettando da qualche parte…»
«Piano. Uno dei nostri, semmai», puntualizzò Milo. Era inviperito e non si preoccupava di farlo notare.
«Sono coinvolta anche io in questa storia, nel caso l’avessi dimenticato…», ribatté Athina.
Adesso li sbatto testa a testa, pensò Kanon, prima di esclamare: «Silenzio.».
Gli altri due lo fissarono increduli. Sì, vi sto trattando come marmocchi. Crescete e vi tratterò da adulti, sibilarono gli occhi di Kanon. «Qualcuno ci sta aspettando», ricapitolò l’ex Generale del Mare. «Se è un amico, bene. Ma se si tratta di un nemico…»
«Estote parati», dissero Milo e Athina in sincrono, e Kanon suppose come dovesse sentirsi un maestro circondato dai propri allievi.
Bravi bambini. Dopo vi compro il gelato.
La barca di Stavros virò a destra ed entrò in un’insenatura naturale. Davanti a loro c’era una piccola spiaggia deserta, con un porticciolo male in arnese e quattro persone che li attendevano, le mani in tasca e la postura da pesce fuor d’acqua tipica dei Santi di Athena senza armatura.
«Ma quelli…», disse Milo alzandosi in piedi. Il gabbiano gli gridò qualcosa di stizzito nella propria lingua. La barca beccheggiò pericolosamente. «Seiya?! Seiya!! Shiryu!»
«Siediti, imbecille!», tuonò Stavros. «Questa barca mi serve per campare, sai?!»
«Ragazzi!», esclamò Milo, le mani a coppa attorno alla bocca e l’espressione di un bambino davanti ad una montagna di dolciumi. Il gabbiano ne ebbe abbastanza e spiccò il volo. Kanon e Athina si voltarono ad osservare.
Dalla spiaggia si alzò un coro di voci di saluto, poi tre figure si staccarono e corsero loro incontro, percorrendo il pontile traballante con molta cautela. La quarta rimase in attesa sulla spiaggia, come a voler dare loro il tempo per salutarsi. Per ritrovarsi.
Stavros manovrò la barca e si avvicinò al pontile. Gettò una corda ad uno dei tre, un ragazzo dai capelli lunghi e scuri, che la fissò alla bell’e meglio attorno ad un palo di legno mezzo marcito che spuntava dall’acqua alla fine del pontile.
«Signori, capolinea!», disse Stavros voltandosi verso i propri passeggeri, la voce a tentare di sovrastare il fracasso del motore. Abbracciò Athina e le disse: «Stai attenta, piccola mia».
Lei arrossì, un riverbero che si perse nell’oro dell’armatura di Virgo, e lo strinse per un istante o due; poi, a malincuore, gli sussurrò qualcosa all’orecchio, gli scoccò un bacio in fronte e scese, la sacca che portava in spalla stretta con foga.
Quando Milo e Kanon fecero per seguirla, Stavros bloccò loro la strada.
«Un momento ancora, voi due», disse il vecchio pescatore con la voce arrochita dal tabacco. Fece loro un cenno con l’indice tutto storto e i due si avvicinarono. «Quella è mia nipote», disse l’uomo. Fuori i gabbiani lanciavano il loro grido, a pelo dell’acqua, come un gioioso coro di benvenuto. O sarebbero stati degli psicopompi un po’ sui generis? «L’unica persona al mondo che mi è rimasta. Se succede qualcosa a voi, verrò a farvi visita ogni domenica», e non c’era bisogno di specificare il luogo del loro ipotetico rendez-vous. Milo non faticò ad immaginarselo dentro un vestito nero dal taglio antiquato ma dignitoso, ed un paio di fiori rossi tra le mani rugose. Uno per lui. Uno per Kanon. «Ma se succede qualcosa a lei...»
Stavros non terminò la propria frase. Non c’era bisogno di specificare gli estremi della propria minaccia, bastava la determinazione che piombava gli occhi dell’uomo. Sarebbe stato capace di battere la terra intera palmo a palmo fino a che non li avesse trovati. E poi li avrebbe infilati vivi nel cunicolo più buio del culo dell’inferno. E Milo non faticò ad immaginarsi anche questa scena.
Kanon annuì. Batté una mano sulla spalla di Stavros, disse: «Arrivederci. E grazie per tutto il pesce», quindi scese.
Da solo a solo con Stavros, Milo non potè che dirgli: «Hai la mia parola», sputare per tre volte sul pavimento della barca e scendere, sentendosi addosso gli occhi di Stavros, dritto al centro della schiena.
Stavros si fece ritirare la cima da Athina, fece un gesto di saluto e manovrò la barca verso il mare aperto per tornare a casa, ed uscire da questa storia.
Quelle erano questioni che non lo riguardavano. E meno ne avesse saputo, più saporitamente avrebbe dormito di notte.
«Dico bene, Vassili?»
Stavros lanciò uno sguardo al gabbiano che si era seduto sul tettino che copriva il posto di guida. La bestia lo fissò coi suoi occhi scuri come la notte senza stelle, sbatté le palpebre e si accoccolò come se fosse nel suo nido. Come faceva suo figlio Vassili quando uscivano per mare, tanti e tanti anni prima.
Tranquillo, Vassili. La tua ragazza è in buone mani, pensò Stavros, manovrando la barra del timone e dirigendosi verso casa.
Nelle strade ci si perde; in cielo e in mare, no.
 
 





Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:
Lo so.
Lo so, mi davate per morta. E invece, come diceva Shaina qualche capitolo fa, la gramigna non muore mai.

È stato un periodo difficile e complicato per tutti. Chi più, chi meno, abbiamo una nuova tacca - e forse più di una - che ci marchia la pelle. Succede. La vita sa fare veramente schifo, ma come si diceva in un film di tanti - troppi - anni fa, non può piovere per sempre. E, sempre per citare la saggezza spicciola, per essere felici occorre saper imparare a ballare sotto la pioggia. Io sono una pessima ballerina, va detto: pesto i piedi come se non ci fosse un domani - tranquilli, li hanno pestati anche a me! - ma l’importante è ballare. Tanto, non c’è una giuria. E  pure se ci fosse, me lo permettete un veracissimo ‘sti cazzi?
Tranquilli, mi laverò la bocca col spaone, più tardi. Dopo il caffè.
Intanto, vi lascio con due piccole noticine, piccine picciò.

La prima: ho deciso di prendere “La Strada di Casa” e di inserirla in questa storia. Come avrebbe dovuto essere sin dall'inizio. Il tema di base è lo stesso, lo sto sviscerando qui. Non avrebbe senso creare un patetico doppione, e per cosa, poi? I prossimi flashback avrebbero trattato lo stesso momento; tanto vale prendere e accorpare tutta la carne disponibile per la grigliata. Chi è così scemo da fare uno stufato con  tagli da grigliata?

Stiano tranquilli i Quattro Gatti che hanno letto, seguito e commentato “La Strada di Casa”: ho salvato le vostre recensioni! Grazie di cuore.


La seconda: durante il primo lockdown, quello di Marzo, ho ricevuto una mail in cui una ragazza mi contattava per farmi sapere cosa ne pensasse di questa storia e come questi capitoli l’avessero aiutata a riempire le ore passate in casa durante la scorsa primavera.
Ricevere questa mail mi ha scaldato il cuore. Sono stata felicissima di poter fare compagnia a tutti coloro che hanno aperto EFP e si sono messi a leggere le mie storie. Siete stati tantissimi - lo vedo dalle visualizzazioni! - e mi ha fatto davvero piacere. Poiché questa ragazza ha scelto un approccio privato, trovo sia giusto rispettare il suo desiderio di anonimato; volevo solo dire a tutti voi che se mi sono decisa a rimettere mano a questa storia - e a ricominciare a camminare, un passo dopo l’altro - è merito suo. Grazie. Di cuore.
E grazie di cuore al mio angelo custode che, in spirito alcolico, mi ha dato una grossa mano per il betaggio. Grazie. Sui ceci e sui cocci - rigorosamente verdi, rigorosamente di bottiglia.
E già che mi ci trovo, Buone Feste!
E mi raccomando: siate coscienziosi!

 

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Capitolo 27
*** 27. ***


27.



 

Kanon sogghignava. Stretto al suo collo, Seiya stava abbrancato a Milo come un naufrago stringe un relitto a cui aggrapparsi in cerca di salvezza.
«Io lo sapevo!», disse – urlò – Seiya, lo sguardo fisso in quelli di Milo, mentre il pontile sotto ai loro piedi scricchiolava pericolosamente. «Nessuno ha voluto credermi, nessuno, ma io. Lo. Sapevo!»
L’Unicorno alzò gli occhi al cielo; sì, Seiya avrebbe fatto notare fino alla fine dei tempi quel piccolo particolare – centottantasette centimetri per ottantotto chili. Non occorreva un indovino per saperlo, bastava conoscere Seiya. E l’Unicorno sembrava aver bisogno di tutta la pazienza di questo mondo. E dell’altro. Per cominciare.
«Okay, grazie, grazie di cuore, ma se volessi lasciarmi respirare…», disse Milo, liberandosi della stretta di Seiya e posando entrambe le mani sulle sue spalle. Così. Per sicurezza. «Sono felice di sapere che state tutti bene», disse, cercando di riportare l’ordine.
Shiryu annuì. «Siamo un po’ ammaccati, ma stiamo bene», disse. Poi i suoi occhi si posarono sui nuovi arrivati, due conigli usciti fuori da un cilindro.
Abracadabra, pensò Milo. E poi: Dove sono finite le vostre armature?

Era pronto a scommetterci il collo che le cose erano andate secondo la prassi, ossia: Seiya era riuscito a sgattaiolare dal Santuario e quegli altri due lo avevano seguito per evitare guai più grossi. Restava solo da capire se e quando un Santo d’Argento – Shaina? – o, peggio ancora, d’Oro – Aiolia? – sarebbe apparso per riportarli indietro per un orecchio, come monelli bizzosi.
Ma c’era un particolare stonato in tutta la faccenda, e no, non era la mancata presenza di Shaina, Aiolia o Aldebaran. Nossignore. Quando un dio decide di giocare a dadi con te, è consigliabile che i pezzi da novanta restino a difendere il fortino. A ragionare. Il problema stava nel fatto che un Santo di Athena si porta sempre dietro l’Armatura. È come una moglie, una fidanzata, un’amante gelosa. Un Santo se la porta sempre appresso. Specie quando parte al salvataggio di Athena. Loro tre, no. Polo, camicie, jeans e scarpe da tennis. Tre adolescenti a spasso su una spiaggia solitaria invece di stare in classe, a scaldare il banco. Quindi, si chiedeva lo Scorpione, mentre Seiya iniziava ad approcciarsi a Kanon come se si fossero separati la sera prima alla fine di una cena in una trattoria fronte mare; quindi, che fine hanno fatto le vostre armature? E, cosa più importante, che ci facevano loro tre su quella spiaggia?


Così, Milo decise di risolvere una cosa alla volta. Prima diresse tutti quanti in un luogo più sicuro di quel pontile male in arnese, poi fece le presentazioni.
«Virgo Athina», disse indicandola con un cenno del mento. «Lui, lo conoscete già.»
«Ti sei salvato», disse Seiya. Come se fosse quella la sua battuta d’entrata. Poi sorrise. «Mi fa piacere.»
Kanon annuì e rimase in silenzio.
«Dove sono le vostre armature?», chiese Milo. Il più alto in grado sono io, si ripeté, ben intenzionato a non lasciarsi scavalcare. Se e quando Kanon sarebbe rientrato a pieno titolo nella schiera di Athena, non lo riguardava; al momento, Kanon era solo un consulente esterno, e Milo era ben intenzionato a lasciare che le cose rimanessero tali. Non si sa mai, concluse. «E come avete fatto a…»
«Merito suo», disse l’Unicorno. Tanto per non fare tappezzeria. Si era voltato verso il loro deus ex machina, che aspettava con discrezione, appoggiato al baule della sua vettura, blu e lucida – questo era quanto Milo avrebbe saputo dire di quella automobile: era blu e lucida. Ma Camus, no. Camus avrebbe saputo elencare casa, modello, cilindrata e anno di produzione, e questo pensiero gli procurò una stretta al cuore. Sorrento aspettava, un completo di cotone con le maniche arrotolate e lo sguardo fisso sul mare, ma i sensi all’erta.
Ovvio, pensò Milo.
Ecco un altro problema di cui occuparsi. Sorrento della Sirena. Il suo salvatore. Che lo aveva depositato come un pacco – o un neonato extra large – sulla soglia di Kanon. Nonostante tutto.
E l’aria puzzava di piombo. C’era una resa dei conti prossima ad andare in scena e a Milo non interessava fare da arbitro. O da paciere. Avrebbero anche potuto saltarsi alla gola e risolvere la questione una volta per tutte, lì, su quella spiaggia. Lui non sarebbe intervenuto. Non erano affari suoi.
Ma se i loro contrasti – i contrasti di chiunque di loro – avessero in qualche modo interferito con la loro missione – ritrovare Athena sana e salva, e riportarla indietro, al Santuario – allora sì, che la faccenda lo avrebbe riguardato. Eccome. E non sarebbe stata una cosa piacevole.

Milo lasciò la spalla di Seiya e si avvicinò a Sorrento. Il quale, eseguendo una perfetta coreografia, si staccò dalla vettura e si voltò nella sua direzione, un sorriso franco e piacevole.
«Grazie per avermi salvato», disse Milo, porgendo la mano destra.
Sorrento ricambiò la stretta.
«È stato un piacere», e Milo sentì una genuina sincerità nelle sue parole. Sì, gli piaceva quel ragazzo in completo estivo su una spiaggia deserta di Thera.
«Vedo che ti sei ripreso. Ne sono contento», disse Sorrento. «Anche il mio Signore lo sarà. E a tal proposito…»
Si diresse verso il baule dell’auto. Fece scattare la serratura e si fece da parte, invitando Milo a dare un’occhiata. All’interno c’erano degli abiti, ripiegati con cura, ancora dentro la busta di cellophane. Qualcuno aveva avuto la delicatezza di rimuovere i cartellini.
«Spero di aver indovinato la taglia.» Sorrento lo esaminò dalla testa ai piedi, come a sincerarsi delle proprie scelte.
Milo gli rivolse un sorriso incerto.
«Il mio Signore vi aspetta. In un locale di Thera. In pubblico.», sottolineò. «Non è il caso di presentarsi in armatura, vero?»
Vero. Verissimo. Milo sbatté le palpebre e annuì. Eccolo qui, il deus ex machina. In completo color carta da zucchero e i mocassini da barca ai piedi, ma questo passava il convento. E Milo no, non era certo nella posizione di storcere il naso.
«Il mio Signore ama pensare a tutto», continuò Sorrento, tirando fuori dal bagagliaio della vettura una giacca e una camicia. «Il diavolo è nei dettagli, dopotutto…»
«Giustissimo», convenne Milo. Sì, Sorrento gli piaceva. Era un bene averlo come alleato. Fino alla prossima volta. «Sarà il caso di cambiarsi.»
«Concordo. Al mio Signore non piace aspettare» E a chi piace?, pensò Milo, armeggiando con i legacci dei coprispalle. «Purtroppo non avevo avuto notizia della presenza di…»
«Ha voluto accompagnarmi.» Io l’avrei lasciato volentieri su quello scoglio troppo cresciuto, ma…
«Io mi riferivo a lei», lo interruppe Sorrento, con uno sguardo divertito. Sapeva che Kanon si sarebbe unito al gruppo. E forse il suo Signore aveva dato precise istruzioni al riguardo. Lasciarlo nelle retrovie, ad esempio, come un gatto randagio a cui si allungano gli avanzi, nel cortile dietro casa. «Voi Santi di Athena! Avete sempre un asso nella manica», e si lasciò andare ad una risata franca. Scosse la testa. «Cambiati pure dietro l’auto. Io vado a fare conoscenza.»



Quando il concerto finisce i bambini restano sempre in trance, come se fossero ancora incantati dal suono del suo flauto. Sorrento non può fare a meno di sorridere guardando quei visetti e quegli sguardi che pian piano si allargano, non appena i loro cervellini si accorgono che lo spettacolo è finito.

Dov’è finita quella bella musica?, domandano i loro occhi smarginati, mentre qualcosa, dentro di loro – l’anima, pensa Sorrento – ne chiede ancora, ancora, ancora.

«Grazie a tutti», e con queste parole lui rompe l’incantesimo con cui li ha tenuti tranquilli per un paio d’ore. Certo, non hanno risolto i loro problemi, ma per quel breve lasso di tempo sono spariti. E il suo Signore è contento. Questo conta per lui. Vedere Julian sorridere. Tutto il resto sono questioni di lana caprina.

Qualche bambino chiede – ordina – «Ancora!», come se quella musica gli fosse tutt’ad un tratto necessaria – e questo rende Sorrento molto, molto orgoglioso come ogni musicista che si rispetti -; e il suo Signore li accontenterà. Li accontenta sempre. Ma c’è una procedura da rispettare, un cerimoniale, per così dire, ché Julian sarà anche un filantropo ed un benefattore, ma Poseidone ama il rispetto che si cela nelle piccole cose. Nelle giuste distanze. 

E Sorrento esegue. Sorride ai marmocchi – ché non può impedirsi di provare un po’ di sana soddisfazione – e cerca con lo sguardo il suo Signore, che annuirà, forse più soddisfatto di lui, e concederà un bis – o un tris – al pubblico. E poi a sera, davanti ad una bistecca al sangue, lo prenderà un po’ in giro, paragonandolo al Pifferaio di Hamelin. O ad una sirena. «Ma non quelle mezzo donna e mezzo pesce, nossignore», dirà. Come sempre. «Le vere sirene sono quelle del Mediterraneo. Uccelli con volto di donna e voce letale. Terrore di tutti i marinai. Tranne Odisseo, s’intende.»

E a quelle parole il cuore di Sorrento si stringerà un pochino – appena appena –; ma lo divertirà l’antipatia che il suo Signore tuttora prova per Odisseo. Anche nei panni costosi di Julian Solo, miliardario, filantropo e giramondo.

Quando si dice avere il dente avvelenato, pensa Sorrento, cercandolo con lo sguardo. Ed è in quel momento che il sorriso evapora, la mascella si serra e le dita stringono il flauto con tanta forza da fargli sbiancare le nocche.

Il suo Signore non lo sta guardando.

Forse il suo Signore non si è goduto una sola nota del concerto, con buona pace dei suoi polmoni, perché lo sguardo del suo Signore è perso ad osservare il bel viso di una ragazza. Lunghi capelli lisci, abito bianchissimo oltre il polpaccio, borsa a tracolla e sandali di cuoio. Una ragazza come tante ne puoi incontrare per le strade di Roma in un pomeriggio di inizio settembre, quando l’aria è ancora calda e sembra che l’autunno sia ancora molto lontano.

Quella ragazza è la padrona di casa. Che li ha raggiunti per pura cortesia sul sagrato della chiesa di periferia dove si è appena esibito. E quando lei ricambia lo sguardo di Sorrento – forse è stato troppo intenso e fastidioso e inopportuno? – sono occhi da rapace quelli che lo inchiodano sul posto. Occhi di civetta. E all’improvviso Sorrento sa come deve sentirsi un topolino mentre cerca di fuggire da quegli artigli mortali.

Mi strazierà, pensa, avvicinandosi al suo Signore, i bambini che si scostano al suo passaggio. Pazienza.

 

«Julian», gli dice – lo chiama -, «i nostri piccoli ospiti chiedono un bis. Li accontentiamo?».

Ad un ascoltatore distratto quella richiesta potrebbe sembrare un gioco tra amici, una commedia ben rodata; ma la ragazza dai lunghi capelli, l’abito bianco e la borsa a tracolla non è distratta. Mai. Non può permetterselo. Lei è sempre tre o quattro passi avanti, e Sorrento teme – e Sorrento sa – che la sua presenza non porterà niente di buono, per il suo Signore.

Non c’era una tregua in atto?, pensa, gli occhi sul viso distratto di Julian, ché non osa ricambiare lo sguardo di Athena. Non si può. Non è contemplabile che un uomo sfidi un dio. E se quegli scalmanati dei Santi di Athena sono abituati a sconvolgere tutte le regole di questo mondo e dell’altro – e, a parti invertite, anche Sorrento avrebbe rivoltato ogni angolo del cielo e della terra pur di salvare il suo Signore –, la Sirena sa qual è il proprio posto. E sa che non è saggio scherzare con gli dei e trattarli da pari a pari. Non è consigliabile.

«Ah.»

Julian sembra appena sceso da un altro pianeta. Plutone, forse. O forse un po’ più in là. Lo guarda prima come se la cosa non lo riguardasse, e poi come se non fosse compito suo decidere se concedere o meno questo benedetto bis — e non può dargli torto. Ma i marmocchi pigolano «Ancora, ancora, ancora» in un incessante stillicidio che mette ben presto a dura prova la scarsa pazienza del suo Signore. Il mare è lontano, una quindicina di chilometri almeno – tanti per i pendolari, una bazzecola per Poseidone –, e a Sorrento non piace l’idea della faglia che si aprirebbe al centro della città, portandosi appresso il Colosseo e mezza Roma.

«Li accontentiamo?», gli domanda, incalzandolo appena, quel tanto che basta per fargli credere di essere stato lui a decidere. Kanon agiva così. Sorrento lo ha capito troppo tardi. E Julian – non Poseidon, Julian – sembra essere vulnerabile a questo tipo di moina.

Julian sbatte le palpebre un paio di volte, confuso. Poi lancia uno sguardo ai marmocchi – che ora stanno pregando direttamente lui, e non più il musicista – e un sorriso incerto gli increspa le labbra.

«Signorina, signorina!» Qualcuno ha cominciato a pregare lei, e Julian sembra sollevato. «Signorina, per favore!»

Lei sorride ai bambini, e cerca Julian con lo sguardo. «Mi farebbe piacere ascoltare un altro bis», dice, lo sguardo di civetta che scivola via e si fissa in quello di Sorrento. «Se fosse possibile…»

«Ma certamente!» Julian è garrulo come un fringuello a primavera. «Torsten, lei è Saori, una mia amica d’infanzia.»

Sorrento annuisce, come da copione. «Torsten Schmerling.» Un piccolo inchino formale, e sorride. «Piacere.»

«Piacere mio», e lui sa che è sincera. Non è qui per combattere, no; ma quale che sia il motivo della sua apparizione a Roma, in un pomeriggio di fine estate, a Sorrento non piace trovarsela davanti. Soffiano venti di guerra, lo percepisce con una chiarezza quasi chirurgica. E lui farà di tutto perché non lambiscano il suo Signore.

«Vorrebbe ascoltare qualcosa di specifico?», le domanda. Tirandola in ballo come a dirle che la terrà d’occhio. Athena o non Athena. E lei lo sa. Se l’aspetta. Sarebbe stupido il contrario. Ed Athena è molte, moltissime cose; ma è tutto, fuorché stupida.

Anzi.

Lei sorride. Nicchia. Si ritrae. 

«Non saprei…» Pausa. «Purtroppo, mi vengono in mente solo brani per orchestra.»

«Lascia fare a Torsten», s’intromette Julian. Come un oste che suggerisce il vino – quello della casa, ovvio – ai propri avventori. Poi, rivolto a lui, dice: «Stupiscici.».

Non è una richiesta.

Così Sorrento, da bravo soldatino, annuisce, sorride al suo pubblico speciale, e torna sul sagrato della chiesa, tra gli «Urrà!» dei bambini, gli sguardi incuriositi degli anziani – seduti sulle panchine di pietra o affacciati alle finestre dei palazzi prospicienti – e la soddisfazione del suo Signore.

Sa già come andrà a finire.
Un ristorantino nella zona, quattro chiacchiere in amicizia e quel vino dolce che scende giù come acqua fresca. E una passeggiata per le strade deserte, l’eco dei loro passi sul porfido che lastrica ogni viuzza di questa città, per smaltire la cena e prolungare la serata il più possibile. E quando la luna piena splenderà alle loro spalle, e lui li seguirà a debita distanza, lei sgancerà la sua bomba.

E il mio Signore dirà di sì.

Julian o Poseidon, poco importa.
Lui le dirà di sì. E lei lo sa, altrimenti non si sarebbe presa il disturbo di attraversare l’Asia per una passeggiata tra amici.

Va bene, Athena, pensa Sorrento avvicinando le labbra al proprio strumento. Vengo a vedere il tuo gioco.

«A regazzì, facce sciòn sciòn!», grida qualcuno dal pubblico. E quando lui piega la testa da un lato, come un cane che non ha capito cosa voglia da lui il suo amato padrone, la piazza intona il brano. E lui adesso sì, che lo riconosce. “Sean Sean”. Ennio Morricone. Giù la testa. E gli pare che calzi più che a pennello. Che sia perfetto. Divinamente perfetto.

«Agli ordini», ribatte, e prima di mettersi a suonare lancia uno sguardo perfido ad Athena. Campo e controcampo. Come in un film di Sergio Leone.

Sì, nell’aria c’è odore di piombo.

Giù la testa, Torsten. Tieni giù la testa.


 

«Lui resta qui.»

Sorrento portò l’attenzione sulla presenza di Kanon solo quando Milo si presentò agli altri con indosso degli abiti civili: completo color crema di limone, mocassini da barca e cravatta blu. Aveva arrotolato le maniche della giacca, con la fodera giallo sole in bella vista.

Eccola lì, la rogna, la bomba pronta ad esplodere portandosi appresso tutta la linea di costa. Il tono di Sorrento – acciaio puro – evitò commenti da parte di Seiya sulla mise di Milo, ma lo Scorpione si ritrovò, suo malgrado, costretto a fare un passo avanti. Kanon si era irrigidito. La mascella. Le spalle. I pugni serrati. Gli occhi che mandavano lampi, tuoni e fulmini. Era chiaro che, nonostante tutti i buoni propositi, era pronto a scannarsi con Sorrento e a sistemare i vecchi dissapori una volta per tutte. Ma se pure Milo poteva capire le ragioni di Sorrento – e in un altro momento, in un altro tempo, forse glielo avrebbe anche tenuto fermo, Kanon –, si ritrovò a pensare che, al posto di Kanon, anche il suo autocontrollo sarebbe finito alle ortiche in uno schiocco di dita. Quale Santo di Athena si farebbe mettere da parte?, gli soffiò nell’anima la voce di Camus. Nessuno, gli rispose, in uno sbuffo. Perché, come al solito, Camus aveva ragione. Anche da morto.

Lo sentì sorridere, come avrebbe fatto se fosse stato ancora in vita. Sotto i baffi, quando nessuno vedeva, quando era più importante. Milo sbuffò. Non era certo quello il momento per una resa dei conti in perfetto stile Far West.

«E questo chi lo dice?», chiese Kanon.

Appunto, pensò Milo facendo un altro passo avanti. «Ci date un momento?», e prese Kanon sottobraccio, portandoselo sul pontile.

«Se pensi che io me ne resti qui, ti sbagli di grosso!», disse Kanon ad alta voce, liberandosi dalla sua stretta. E poi aggiunse: «Ma come ti sei conciato?!».

«All’ultima moda», ribatté Milo. Le sue mani presero i lembi della giacca e si lasciò ammirare. «Non ti piace?»

«Non è il mio genere», rispose spiccio l’altro. «Ma non cambiare discorso!»

«Hai cominciato tu», ritorse Milo. «Senti, a me non piace l’idea di prendermi un caffè con Poseidone, ma è quello che c’è da fare e io lo farò. E se hai tutto il cervello che millanti di avere», e Milo si picchiettò la tempia destra con un dito, «allora capirai da te che non abbiamo tempo da sprecare in beghe da cortile!»

Kanon sorrise, un accenno appena di denti bianchissimi. Spalle rivolte al pubblico, sussurrò: «Bene. Sorrento deve credere che io non sia un pericolo per il suo Signore.».

«Il suo Signore?», sibilò Milo.

«Poseidone», spiegò Kanon. «Sorrento non perderà il sonno appresso alle nostre disgrazie. Ma se c’è una sola, singola possibilità che Poseidone sia sfiorato dai nostri casini, sta’ tranquillo che non farà prigionieri.» Pausa. «Tu non faresti lo stesso?»

«Certo che sì», confessò lo Scorpione.

«Appunto. Un po’ di teatro non guasterà. Tu mi ricacci a cuccia e lui si sentirà sollevato», sibilò. Poi, a beneficio del suo pubblico, aggiunse, in un tono di voce più alto: «Senti…».

«No, senti tu…», lo interruppe Milo, dandogli corda. La corda con cui impiccarsi all’albero più alto. «Io e un paio di ragazzini andremo a parlare con Poseidone. Deve dirci qualcosa ed è il caso di starlo a sentire. No?»

Silenzio.

«Tu starai qui, a tenere d’occhio la signorina. Tu e Seiya…»

«Starai scherzando?!» tuonò Kanon, e Milo vide tutte le teste voltarsi nella loro direzione. Spudoratamente.

«Se mi porto Pegaso dietro, non caverò un ragno dal buco. Inizierà a tempestare Poseidone di domande e non voglio correre rischi.»

«Rischi?»

«Che a Poseidone si tappi una vena», rispose Milo. «È un rischio che io non voglio correre. Sai com’è…»

«Comprensibile. Ma…»

«Avrai modo e tempo di parlare con Poseidone», continuò Milo, andando a braccio. «Se e quando lui vorrà. Adesso non è il momento. O Poseidone avrebbe richiesto di parlare con te

Kanon tacque. Alzò la testa e si lasciò andare ad un sospiro profondo.

«Segui il generale. L’unica sua vera decisione autonoma è stata distruggere la propria colonna per salvare Poseidone», disse Kanon, dandogli un’informazione ben precisa circa il loro anfitrione: Sorrento era un bravo soldatino obbediente, ma non aveva la stoffa del generale. Un generale sa prendere decisioni, anche – soprattutto – scomode. Un generale non ha paura di essere autonomo. Ma Sorrento era troppo schiacciato dalla presenza di Poseidone, troppo intimorito per fare di testa propria e aggiungere sale alla minestra.

Sospirò ancora una volta e alzò le mani, in segno di resa. «D’accordo», sputò quella parola tra i denti come fosse ripiena di fiele. «D’accordo. Ma non farti fregare.»

 

Si chiama Takumaru Tatsumi. E se gli sguardi potessero uccidere, il giovane Julian Solo sarebbe stato incenerito più e più volte. Atomizzato, a voler essere pignoli. Lo detesta, e non ne fa mistero. Digrigna i denti quando, due tavoli più in là, lui fa una battuta e lei ride. Di gusto. Quasi fino alle lacrime.

Un padre che spia il primo appuntamento della figlia, pensa Sorrento, sorseggiando un bicchiere di vino bianco. Le fettuccine al ragù erano deliziose. E sì, forse il taverniere aveva ragione a caldeggiare un buon rosso corposo - quello della casa, ovvio - da sorbire con il primo. Ma a Sorrento il vino rosso piace. E, impegnato com’è a sorvegliare - con discrezione - il suo Signore e ad evitare che questo chaperon bizzoso gli tiri il collo, non se lo sarebbe goduto. Gli sarebbe andato di traverso. E al suo tavolo c’è già una persona nervosa.

Meglio evitare.

«Guardalo lì, come si pavoneggia!», sputa tra i denti Tatsumi. «Senza offesa, ma…»

«Capisco», dice Sorrento, annuendo. «Il mio Signore sa essere un po’... impetuoso.» 

È la parola più gentile che ha trovato per descrivere lo slancio cieco e furioso che fa muovere Julian quando ha deciso di fare qualcosa. Ma Tatsumi non sembra essere dello stesso avviso.

«Impetuoso?», chiede infatti, gli occhi strabuzzati quasi come se stesse avendo un infarto. «La prima volta che l’ha vista le ha chiesto di sposarlo. Sposarlo. Sedici anni, lui. Tredici appena, lei. Ma ci rendiamo conto?!»

Sorrento non può nascondere un sorriso. 

«In effetti», gli concede, mostrandogli i palmi delle mani. Ma non si spingerà oltre. Nossignore. E Tatsumi lo sa. «Credo abbia imparato la lezione», aggiunge sorseggiando il vino.

«Poseidon, forse», ribatte Tatsumi. S’è intestardito a mantenere il punto. La sua piccola battaglia in un mondo in cui le persone spaccano gli atomi schioccando le dita. «Julian? Lui non credo proprio.»

E sì, ha ragione lui. Julian è come la marea, che batte e leva senza sosta contro gli scogli. Lui ha tutto il tempo del mondo. Prima o poi, quelle rocce cederanno. Si smusseranno, si arrotonderanno, ma non si piegheranno. 

E forse è proprio la piccola, innocente Saori, lo scoglio capace di arginare il mare. Sta conversando con lui come fossero due vecchi amici - troppo vicini per essere solo compagni, troppo lontani per essere due fidanzati -, il piccolo scoglio che cede un po’ di sé al mare. Che non si accorge - che non si vuole accorgere - della trappola in cui sta per cadere.

Le donne sono un mistero più insondabile delle profondità oceaniche, sentenzia Sorrento tra sé e sé.

«Tutta questa storia non porterà niente di buono.»

Tatsumi ha bevuto troppo. È evidente dal colorito improbabile che ha assunto il suo viso, dalle parole che si lascia sfuggire, dalle occhiate che Saori gli rivolge da sopra l’orlo del proprio bicchiere. Cocacola. Una bibita gassata, zucchero e bollicine. Si addice di più ad un’adolescente della birra - delle birre - di Julian. Che dimostrerà anche diciotto anni, ma dovrebbe comunque restare sobrio, in un momento come questo.

Sorrento le sorride, come a dirle che va tutto bene. Julian pende dalle sue labbra e non è un tipo che ama essere messo in attesa. Un lampo negli occhi di Saori, come a volerlo ringraziare, e torna a tuffarsi nello sguardo di mare.

Tatsumi ha ragione, della ragione che solo il dono di Dioniso concede.

Tutta questa storia non porterà niente di buono.

 

Julian Solo li aspettava in un bar in cima ad una salita, su di una terrazzina affacciata sull’azzurra immensità dell’Egeo, spruzzata del bianco delle case e delle nuvole. Guardava l’orizzonte, lì dove cielo e mare sfumavano l’uno nell’altro, in un dialogo silenzioso e personalissimo. Come se si stesse esaminando allo specchio, una domenica mattina, prima di radersi, l’acqua calda nel lavandino, la schiuma da barba a portata di mano e la radio accesa in sottofondo.

Una cameriera - occhi neri, labbra morbide e capelli raccolti - li accolse come fossero clienti abituali, e indicò loro la macchia di luce assoluta in fondo al corridoio. «Benvenuti. Accomodatevi. Vi sta aspettando.»

E Milo obbedì.

Percorse il corridoio con Jabu e Seiya alle calcagna - Shiryu si era offerto di aspettare al posto di Pegaso, insieme a Kanon e Athina. «Dobbiamo parlare», aveva detto il Drago, e Milo aveva colto al volo l’occasione. 

Il mare scintillava in lontananza, come le scaglie di un pesce. Una cosa viva.

Julian si concesse un sorso d’acqua prima di voltarsi. Sorrise loro, mentre il mare gonfiava le onde e brillava e salutava a sua volta.

«Salve», disse. Una voce fresca, da adolescente. Quello che sarebbe potuto essere Milo - o Seiya, o Jabu o Shiryu - se Athena non li avessi reclamati a sé. «Accomodatevi, accomodatevi. Si sta così bene, qui…»

E con un cenno distratto indicò loro le sedie vuote attorno al tavolino, tornando ad osservare il mare. Obbedirono. La cameriera si materializzò alle loro spalle, armata di taccuino e matita.

«Cosa vi porto?»

«Portaci qualcosa di fresco, Dimi», rispose Julian. «Non ci vediamo da un sacco di tempo», e con queste parole tornò al suo dialogo silenzioso con il mare. Come se loro non fossero mai entrati in scena. Milo attese e, con sua somma sorpresa, anche Seiya si adeguò e tacque. Jabu aveva la prodigiosa abilità di fondersi con l’ambiente circostante. Come un ninja.

Dimi tornò. Lasciò sul tavolo una caraffa d’acqua, una di limonata, quattro bicchieri, e sparì in punta di piedi.

Solo a questo punto Julian tornò a quella terrazza bianco calce e ai suoi ospiti.

«Vi trovo bene», disse. Cortesie borghesi, certo. Ma da qualche parte bisognava pur cominciare. Il suo sguardo si soffermò su Jabu. «Non credo ci conosciamo.»

«Non ne abbiamo avuto l’occasione.»

Julian annuì. Sorrise a Seiya. «Non sei cambiato di una virgola», commentò, come se stesse esaminando un magnifico esemplare ad una fiera equestre. Pur se alato, un cavallo resta sempre un cavallo, si disse Milo. E lesse, negli occhi di Julian, un pizzico di rimorso. Come se avesse voluto aver creato lui quell'animale meraviglioso. Come se non avesse voluto regalarlo ad Athena. Un dono di resa, forse. Di stima. Amicizia. O chissà cos’altro. Perché lei era e sempre sarebbe rimasta la Fanciulla, intatta e incorrotta; e Milo sapeva che non c’è cosa che ingolosisce di più un maschio - mortale o divino che sia - di una fanciulla da conquistare. Un fiore raro da cogliere per ornarsi il bavero della giacca.

Poi Julian si soffermò su di lui e sorrise. «Ti sei fatto grande», disse; e nello sguardo dello Scorpione venne a galla l’idea che il giovane Solo avesse picchiato molto, molto forte la testa durante l’ultima scaramuccia con Athena.

«A Dio piacendo», ribatté, guardingo, ché no, non immaginava a cosa stesse alludendo. «Grazie per avermi salvato», si ritrovò a dire per la seconda volta, ché, se Sorrento era entrato in scena, lo si doveva a lui. Al suo interesse.

Julian fece un gesto distratto, come a scacciare una mosca fastidiosa. 

«Fa tutto parte del piano», disse, lo sguardo serio, troppo serio per un adolescente alle soglie della maggiore età. «Facciamo tutti parte di un piano più grande di noi. E la saggezza sta nel saper riconoscere quello che Tyche ha deciso per noi. Uomini o dei.»

E allora capirono, se mai ve ne fosse stato bisogno, che quello seduto al tavolino di un bar qualunque, affacciato su un panorama da cartolina, era non più Julian Solo, ma Poseidone. Il dio dei Mari. Il Signore dei Cavalli. Ennosigeo.

Milo strinse i pugni sulle ginocchia. Seiya si irrigidì sulla sedia. Solo Jabu rimase tranquillo, come se fosse la cosa più normale del mondo prendere un caffè con un dio.

«Non vi affogherò», ridacchiò tra sé e sé, un suono basso, come un gorgoglio divertito in fondo alla voce, ora più adulta. Più matura. La voce di un uomo. «Abbiamo un piano da portare a termine.»

E il Sigillo di Athena non ti trattiene dal restare in silenzio, ma non ti permette di andartene a spasso come Poseidone, pensò Milo.

Julian si staccò dallo schienale, disse: «Riempite i bicchieri. Non abbiamo tutto il pomeriggio, e Athena ha bisogno di noi.».

Quel noi suonò stonato alle orecchie di Milo, ma lo Scorpione si trattenne. Seiya, no. Seiya, invece, aggrottò le sopracciglia e ripeté: «Noi?», mentre Jabu riempiva i bicchieri di limonata.

«Noi.» Julian - Poseidone, o tutt’e due - non si scompose. «Noi siamo i partigiani. Athena la spia infiltrata.»

«Starai scherzando…» sbottò Seiya. Milo lo trattenne, piazzandogli una mano su un ginocchio.

«Non ho il tempo di scherzare», ribatté Poseidone. E il tono basso della sua voce li stava avvisando. No, il Signore dei Mari non era affatto in vena di scherzare. E no, al Signore dei Cavalli non andava a genio di trovarsi con gli ex nemici - gli invasori di Atlantide, gli assedianti, i distruttori delle Colonne dei Sette Mari e della città di Orricalco -, tanto quanto non andava a genio a loro. Ma, come aveva detto lui stesso all’inizio del loro incontro, quella era la parte che Tyche - o Ananche? - aveva loro riservato. E, come non si può tagliare un’onda, era superfluo opporsi al destino, giusto?

Giusto, si rispose Milo.

«Divino Poseidone…»

Altro gesto, come a dire “dacci un taglio”. «Julian», disse. «Athena… sarò franco con voi. Più di quanto lo sarei con i miei uomini».

Li fissò, uno per uno, mentre Jabu rimetteva a posto la caraffa di limonata. Poi, quando fu certo di avere la loro più totale e completa attenzione, Julian - Poseidone, o tutti e due - cominciò a raccontare.

 

«Ho ricevuto una visita.»

Saori butta lì questa informazione con la stessa grazia di una ballerina che attraversa il palcoscenico nel suo vaporosissimo tutù.
Saori ha ricevuto una visita. Non da una persona comune o da un suo sottoposto, saltato fuori da chissà quale pertugio. Ha ricevuto una visita da uno della loro stessa razza.

«Chi?», chiede Poseidone, il gorgolio delle correnti sottomarine che sale a galla.

«Il Viandante», soffia Saori, assaggiando un sorso di lemoncocco nella sera che profuma ancora d’estate. «Squisito!»

«Quando è successo?»

Il tono è quello di un amante preoccupato. Forse qualcosa di Julian - il palpitare lontano d’una scaglia lucente - sta galleggiando nell’anima del dio, si chiede Saori.

«Poco dopo il mio compleanno», gli risponde. «È apparso una sera alla mia finestra. Un po’ come Babbo Natale, ma in anticipo.»

«Non scherzare. Non è il caso.»

Lui la guida attraverso una strada secondaria, passando sotto ad un barbacane finemente lavorato e ad una lanterna dalla luce gialla. Una strada fiabesca. La guida verso la piazza che si apre in fondo, una fontana che zampilla giochi d’acqua nella serata settembrina, tra giovani liceali che indugiano fumandosi una sigaretta, godendosi gli scampoli dell’estate.

«Perché?», chiede lei. «La storia delle calze piene di dolciumi è una sua idea, dopotutto…»

Le labbra di Julian sorridono, Poseidone scuote la testa, i loro passi rimbombano bassi sul marciapiede.

«Vieni, sediamoci qui», le dice, strizzandole l’occhio e indicandole il bordo della vasca. «Come due vecchi amici.» 

E quando lei si accomoda sul marmo bianco, tra altre coppie come loro e comitive di amici muniti di sigarette o bicchieri, lui si toglie la giacca e gliela drappeggia sulle spalle. Il profumo del suo dopobarba l’avvolge. Una fragranza marina. Acqua. Sale. Vento. 

«Raccontami tutto», le dice, facendosi più vicino, il tono di un amante preoccupato. «Raccontami tutto. Per filo e per segno.»

Saori prende un altro sorso della sua bevanda, la assapora in punta di lingua e la ingoia. Poi comincia a raccontare. Della visita del Viandante. Del suo avvertimento. Della sua profezia. 

«Un paio di respiri d’eternità più tardi di quanto previsto. A cavallo dei millenni, forse. Ma avverrà. Arriverà nella tua casa. Come un ladro nella notte. E scorrerà il sangue sul candido marmo. Questo ho visto. Questo posso dirti.»

E poi del Fuoco, che se ne va a spasso per la Terra. Dell’apparizione di un’altra casta. Delle perplessità di Libra e delle incongruenze di Virgo. Del fatto che a Saori - ad Athena. O a tutt’e due - non piaccia affatto essere tirata in ballo per la manica del vestito. Di come non gradisca che gli altri trattino la sua giurisdizione come il proprio salotto. O il cortile in cui far pisciare il cane.

Saori racconta e Julian ascolta. 

Quando le parole sono finite, la piazza si è svuotata e le bevande sono ormai a temperatura ambiente. Il chiosco sarà ormai chiuso, pensa Julian dal fondo umido della propria coscienza. Pazienza. Poseidone ha ben altri pensieri a cui badare, ché la Fanciulla ha ragione: a nessuno verrebbe in mente di vietare l’accesso alla Terra, ché la Terra non è esclusiva proprietà degli Olimpi. E a nessuno sano di mente andrebbe di scatenare una guerra per queste scemenze, neppure a quella testacalda del Guerriero. Però la Fanciulla è nel giusto quando paragona la Terra al cortile in cui portare a passeggio il proprio cane, senza degnarsi di raccogliere quei maleodoranti souvenir che la povera bestia lascia tra le azalee e il prato all’inglese. La mente di Julian forma una parola. Condominio. E mostra a Poseidone di cosa si tratti. Il dio degli Abissi afferra il concetto, e sì, calza a pennello. 

Il Viandante ha sguinzagliato il Fuoco sulla Terra per i propri porci comodi - qualcosa che ha a che fare con quel bamboccio del Tuono; il Mare ne è sicuro. Vorrà che gli dimostri di essere un uomo, pensa. Desiderio logico. Ogni padre che si rispetti vuole accertarsi di aver seminato bene. Di aver tirato su qualcuno che può andare avanti sulle proprie gambe. Ed essere padre a sua volta. Scrollandosi di dosso una responsabilità enorme, come si fa con un sacco pieno di mattoni.

Ma quando si arriva a questo punto, ogni padre sa che deve farsi da parte e abdicare al proprio ruolo. Il Viandante lascerà che suo figlio segga sul trono dei Nove Mondi?

Poseidone ne dubita.
Anche se non perde occasione per qualche sgambata estemporanea, il Viandante non ha alcuna intenzione di rinunciare alle sue prerogative. Alle proprie funzioni. O non ci sarebbe più spazio per lui, conclude il Mare, pervenendo alle stesse conclusioni della Fanciulla.

«Immagino tu abbia un piano.»

Lo dice per buona creanza. Lui sa che lei ha già un piano. E lei sa che lui sa. E c’è una parte anche per lui, in questa sciarada. Altrimenti, Saori non sarebbe mai apparsa a Roma. Lui lo sa. Ma la buona creanza mantiene sani i rapporti. Li mantiene civili. Così lui chiede, pur conoscendo già la risposta.

Lei, infatti, sorride.

«Puoi giurarci.» Una smorfia ferina le incurva le belle labbra. «Le beghe del Viandante non mi interessano. I panni sporchi si lavano in famiglia, no? »

«Sagge parole», concede il Mare. «Quindi?»

«Quindi, voglio fargli passare la voglia di giocare un’altra volta questo tiro mancino.» Pausa. «Dobbiamo mandare un segnale. Tracciare una linea, un confine. Altrimenti, la prossima volta qualcun altro potrebbe avere la stessa, disgraziata idea. E a me non va a genio di dover riparare agli errori altrui. Vogliono la mia testa? Si accomodino pure. Io li aspetterò, a braccia aperte. Ma la cosa finisce qui.»

Il Mare la invita a continuare.

«In che modo?»

«Semplice», risponde lei. E forse semplice lo è davvero, ad avere il suo stesso punto di vista sulle cose. La sua stessa prospettiva. «Voglio rubare il Fuoco.»

 

Julian versò un altro bicchiere di limonata, a rinfrancarsi la gola riarsa dalle troppe chiacchiere. Non era abituato ad avere più di tre o quattro scambi di battute con Sorrento; ma il Mare doveva parlare, doveva fornire loro quanti più dettagli possibile, prima che il sigillo di Athena rinchiudesse il suo spirito nell’anfora per chissà quanto altro tempo ancora. Al Mare piaceva sentire il calore del sole, il profumo della salsedine, il tocco ruvido delle stoffe e il freddo del vetro. Gli piaceva essere vivo. E voleva assaporare quelle sensazioni fino all’ultimo momento possibile. All’ultimo respiro.

Quando ritenne che i Santi di Athena avessero avuto il tempo necessario e sufficiente per elaborare tutte le informazioni che aveva rovesciato sulle loro teste come una mareggiata improvvisa, Julian - Poseidone, o tutt’e due - li squadrò da capo a piedi. Il novellino stava soppesando anche le virgole del suo racconto, mentre Pegaso fremeva per parlare. Fosse stato un cavallo, la coda si sarebbe mossa, le narici si sarebbero allargate e gli occhi sarebbero andati da una parte all’altra, in attesa di scattare. Ecco perché gli piacevano i cavalli: non li puoi imbrigliare, come il mare, ma solo cavalcarli e assecondare il loro spirito, come si fa con le onde - con i cavalloni. Prevedere il loro comportamento. E agire di conseguenza.

Il silenzio e la calma di Pegaso sconcertavano Julian, che si attendeva tutt’altra reazione; ma l’attenzione del Mare era tutta per lo Scorpione.

La prima volta che ti ho salvato eri un moccioso che aveva un disperato bisogno di un pannolino pulito e di una madre sana di mente. Uno si distrae un attimo e guarda che succede. Guarda come sei cresciuto.

Le labbra di Julian sorrisero, come avrebbero fatto quelle di Kostas. Milo aggrottò le sopracciglia, perplesso. Fece per aprire bocca - e magari chiedere spiegazioni - , ma Julian lo frenò. «Ne riparleremo», tagliò corto. «È una promessa. Quando tutto questo sarà finito, vienimi a cercare, e, se io sarò ancora me stesso, ti racconterò tutto. Per filo e per segno.»

Lo Scorpione fece per ribattere qualcosa, ma Pegaso lo bruciò sul tempo.

«Hai scelto Milo per una ragione.»

«Certamente», rispose la voce di Julian, più bassa di un paio di ottave; più piena. «Athena mi ha chiesto di… preservare uno di voi. E io ho scelto lui.»

«Sì, ma perché?»

«Questo non riguarda te. Riguarda lo Scorpione. E me», rispose Poseidone. Coi cavalli bisognava dimostrarsi sempre in controllo, altrimenti ti avrebbero portato dove dicevano loro, e non dove dicevi tu. E Poseidone questo lo sapeva per esperienza. E chiudeva un occhio, quando gli Achei sacrificavano dei cavalli di legno, invece di quelli in carne e ossa, ché alle volte era un vero peccato dover affogare quelle bestie meravigliose. Meglio lasciarle correre libere. Meglio valeva che fossero ambasciatori del mare, un regalo ad una vecchia amante troppo presa dalla maternità per ricordarsi di essere ancora - da qualche parte sotto quelle vecchie sottane - una donna, e non solo una madre. 

«E adesso», aggiunse, dando una stretta leggera alle redini, «non è il momento adatto per affrontare questo discorso.».

«Quindi Athena sapeva di...»

Niente, era più forte di lui. Seiya - Pegaso - doveva discutere e combattere; non si sarebbe fatto domare tanto facilmente. Questo, Poseidone lo sapeva; ma, almeno, adesso aveva distolto lo sguardo per rivolgerlo dove aggradava al Mare.

«Kanon?» Julian non ebbe problemi a pronunciare quel nome. «Certamente. Anche lui fa parte del disegno di Tyche; ma i dettagli in mio possesso si fermano a questo punto.»

«Quindi, è tutto qui?», insistette Seiya. «Non ci credo!»

Si alzò di scatto, la sedia che cadde alle sue spalle, fissando Julian - Poseidone, o tutt’e due - con aria di sfida. 

«Certo che no. Non è tutto qui e non può essere tutto qui», rispose Julian, con una calma che stupì lui per primo. Ma funzionò, perché Pegaso perse parte della sua bellicosità e, incalzato dallo Scorpione, raccolse la sedia e vi si accomodò. Fremendo; ma era pur sempre un inizio. «Questa è solo la mia parte. Il mio ruolo. Io sono l’aiutante magico, non l’eroe. Quelli siete voi. E la principessa da salvare è Athena.» Pausa. «Chi sia l’antagonista ve l’ho appena rivelato. Adesso sta a voi mettere assieme i pezzi di questo rompicapo.»

Si concesse una risata, come se qualcuno avesse appena raccontato la barzelletta più divertente del mondo. E quando portò lo sguardo sui propri ospiti, non si stupì delle loro espressioni sconcertate. Come se stessero parlando con un invasato, e non con un dio. 

Ma c’è poi tanta differenza?, si chiese il Mare, aggiungendo: «Se vi fermate a pensare un momento, noterete che ci sono due costanti, in Athena. La prima, è il suo amore viscerale per i cavalli di Troia. E la seconda…» 

«È il suo desiderio di vivere come una persona normale», concluse Jabu.

Le labbra di Julian si arricciarono all’insù. Soddisfatte. E bravo il Novellino.«Con un conto in banca da capogiro, ma sì. Questo è il suo più grande desiderio. E anche il suo tallone d’Achille.»

Milo strinse i denti. «Pensate che il Fuoco…»

«Ti ho già detto di darmi del tu», gli rammentò Julian, stornando lo sguardo verso il panorama. «E sì, Athena potrebbe avere dei problemi. E sì, il Fuoco potrebbe approfittarne, e darle del filo da torcere, una volta tanto. E sapete perché? Perché quei due sono fatti della stessa pasta.»

«Ma se le cose stanno così, perché non l’hai fermata?» I pugni di Pegaso erano di nuovo stretti, le caviglie pronte a dare la spinta necessaria ad alzarsi, un’altra volta.

«Perché la conosci anche tu», rispose Julian, come se stessero parlando di una compagna di scuola o di un’amica in comune. «Quando si mette in testa una cosa, è più cocciuta di un mulo.» 

Si concesse un sospiro, scosse la testa e proseguì:«Sbaglio, Pegaso?».

«No. Ma tutta questa faccenda è una pazzia», ribatté Seiya. «Avresti dovuto…»

«Rinchiuderla da qualche parte?», lo stuzzicò Julian. «Oh, mi sarebbe piaciuto. Mi sarebbe piaciuto moltissimo, ma l’ultima volta che ci ho provato non è andata a finire bene.» Pausa. «E poi, chi avrebbe fermato il Fuoco?»

«Non mi torna una cosa», si intromise il Novellino, braccia incrociate e sguardo pensoso. «Chi è il Fuoco? Non mi risulta che sia un dio, ma una dea.»

«Per una volta dobbiamo cercare più a nord», rispose lo Scorpione.  «Ad Asgard. Dove il Fuoco è un dio e si chiama…»

«Non pronunceremo quel nome qui.» Affilato come una ghigliottina, il tono di voce di Julian - Poseidone, o tutt’e due - lo gelò sul posto. Come se quelle quattro lettere potessero insudiciare il momento, i loro vestiti, le loro anime. «Non è appropriato. Ma sì, hai visto giusto. E avete un aereo per Stoccolma tra poche ore.»

«No», protestò Seiya. «Dobbiamo tornare al Santuario, avvisare gli altri…»

Julian lo fissò, come a volergli sondare l’anima. Sbatté le palpebre un paio di volte, poi disse: «Secondo te, perché la tua Signora ha chiesto il mio aiuto?». Silenzio. Seiya si limitò a stringere i pugni sulle ginocchia. Lo sapeva, lo aveva capito da sé; eppure, voleva stornare lo sguardo da quel panorama poco piacevole. 

«C’è un infiltrato al Santuario.»

Seiya lo sputò tra i denti, come fosse veleno. Faceva male. Sapeva di fiele. Ma le migliori medicine non sono anche le più amare? Certo che sì, si rispose il Mare, scoprendosi quasi soddisfatto di poter rifilare una lezione a quel cavallo difficile da domare. Un pensiero meschino per un dio, senza dubbio; eppure, era così bello assaggiare i risvolti dell’essere un mortale, anche solo per una manciata di ore.

«Altrimenti non sareste sgattaiolati via per incontrarmi di soppiatto», rincarò la dose Julian. Si voltò verso Milo e aggiunse: «Il Fuoco ha fatto la sua mossa. Altro non so. La vostra Signora non ha ritenuto opportuno confidarmelo. Quello che mi limito a riferirvi è che la vostra è una missione in incognito. Sotto copertura. Dovete salvare Athena. E dovete farlo da soli. Non ti ha forse detto di trovarla?»

Seiya rimase di stucco, occhi smarginati e bocca socchiusa. «E tu come…»

Julian si concesse un sorriso compiaciuto, quello dell’attore navigato che sa di aver fatto colpo sul proprio pubblico. «La conosco bene», gli spiegò, con il tono paziente che si usa con gli allievi duri di comprendonio. Così come lei conosce me. Così come io conosco te, pensò. «Alla tua Signora piacciono gli indovinelli, i travestimenti e le sciarade. Tutte cose che inducono a pensare. E qual è il gioco che ti costringe a pensare? Te lo dico io. Gli scacchi.»

«Quindi, Athena…»

«Sta giocando a scacchi con il Fuoco. Lo sta tenendo occupato, dandovi il tempo di riorganizzarvi. Le partite possono durare anche ore. Giorni. Ma, fossi in voi, non cincischierei troppo. Il Fuoco non ama giocare pulito. »


 





Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:
...mi verrebbe da chiedere a chi piaccia giocare pulito, ma questo farebbe di me una brutta, bruttissima persona, più di quanto io già non sia - e in questo sono bravissima. Credetemi.
Mi davate per morta. Lo so. E invece, come diceva Shaina qualche capitolo fa, la gramigna non muore mai. Ma a questo dovreste essere abituati.

Questo capitolo, a dire il vero, ha atteso talmente tanto che a momenti... non ci pensiamo. Credetemi, è meglio così.
I panni sporchi si lavano in famiglia. Che sia di sangue blu o plebea non cambia.
Sì, ho avuto - e sto avendo - delle beghe di condominio. Spero non si rifletta troppo in questo capitolo!
Il lemoncocco è una specialità dell'estate romana: si tratta di una bibita composta da limonata, spremuta di cocco e una manciata di misteriosissimi ingredienti, ricetta custodita gelosamente. Se passate a Roma d'estate ritenetevi moralmente obbligati ad assaggiarla.
Saori a Roma ve l'avevo già mostrata qui, tanto perché la mia smania di completezza sia soddisfatta e la smetta di infestare le mie notti.
E grazie di cuore al mio angelo custode, Sherry Vernet, che, in spirito alcolico, mi ha dato una grossa mano per il betaggio. Grazie. Sui ceci e sui cocci - rigorosamente verdi, rigorosamente di bottiglia.
E già che mi ci trovo, Buone Feste!
E mi raccomando: siate coscienziosi!

 

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