La Lega delle Straordinarie Gentildonne

di Ser Balzo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il fuoco arriva a Pemberley ***
Capitolo 2: *** Private Eyre ***
Capitolo 3: *** Sic Semper Tyrannis, miserabile screanzato ***



Capitolo 1
*** Il fuoco arriva a Pemberley ***


 

 

“- E mi dica, come sarebbe il mondo senza le donne?

- Terribilmente noioso, mio caro signore.”

 




 

1.
Il fuoco arriva a Pemberley


 

 

 

Quando Elizabeth Darcy si svegliò, quella fredda notte di ottobre, non fu stupita di non trovare suo marito nel letto accanto a se’. 
Da qualche tempo, infatti, il signor Darcy era diventato scostante e pensieroso. Una coltre di nubi temporalesche era perennemente sospesa sopra il suo volto, deformandone i bei lineamenti e spegnendone lo sguardo. Passava interi pomeriggi assorto nella sua poltrona, le mani intrecciate davanti al volto; ogni tanto si alzava e vagava per il salotto, gli occhi stanchi ridotti a due fessure.
Elizabeth aveva più volte tentato di sondare la cortina fumosa che avvolgeva la mente di suo marito: era piuttosto brava nel capirlo, e ne era sempre stata soddisfatta.
Ma il signor Darcy evitava di avere qualsivoglia apertura nei suoi confronti; era evasivo, distante, se non proprio seccato della presenza della moglie e delle sue domande. Prese a saltare i pasti, evitare i ricevimenti; smise persino di accompagnare Elizabeth nelle loro tradizionali passeggiate al tramonto.
La signora Darcy sopportava  i duri colpi che l’atteggiamento del marito infliggeva al suo cuore con stoica determinazione: sebbene la sua arguzia non fosse stata sufficiente per scoprire cosa tormentava il suo sposo, era bastevole per comprendere che il signor Darcy non si comportava così per capriccio o per un imperscrutabile mutamento d’animo. Qualcosa lo preoccupava: qualcosa di oscuro e misterioso, ed Elizabeth non poteva che averne paura.
Passò mesi interi ad interrogarsi, facendo appello a tutto il suo intelletto e il suo intuito. Arrivò addirittura ad introdursi nello studio del marito, alla ricerca di qualsiasi indizio che potesse esserle utile; ma niente e nessuno sembrava minacciare il signor  Darcy. E questo non faceva che aumentare le sue pene.
Fu un periodo travagliato e oscuro, e sembrò durare secoli interi. Ma proprio quella notte di ottobre,  fredda e buia come solo le notti inglesi sanno essere, le risposte che Elizabeth aveva a lungo cercato, inseguito e disperatamente desiderato finalmente giunsero. Accompagnate dal chiasso di una porta spalancata e dal volto preoccupato di suo marito. 
«Elizabeth, vieni con me. Adesso.»
«William, cosa...»
«Adesso, Lizzie. Non c’è un secondo da perdere.»
Incuriosita dallo strano evolversi degli eventi e preoccupata dal tono di voce e dall’espressione del marito, Elizabeth scese dal letto e prese la mano che il signor Darcy le offriva. Venne letteralmente trascinata fuori dalla camera, scalza e in vestaglia.
«Che sta succedendo?»
«Non ora, Lizzie. Per favore.»
«No, William!» Elizabeth puntò i piedi, arrestando la corsa sua e del marito. «Sono mesi che non ottengo altro che borbottii e musi lunghi. Voglio delle risposte, e non mi muoverò finché non le avrò ricevute.»
Darcy fulminò la moglie con lo sguardo. «Maledizione, Elizabeth! Saranno qui da un momento all’altro.»
«Chi? Chi sarà qui, William?» rispose Elizabeth, fiera, impettita e decisa a non cedere neanche un pollice di terreno.
Darcy fece un profondo sospiro, poi pronunciò una singola parola.
«Wickham.»
Una fitta di panico colpì Elizabeth alla sprovvista. Suo marito aveva pronunciato il nome del suo vecchio amico d’infanzia con un tono che si riserva soltanto ad un nemico spietato e mortale. Era Wickham la causa dei suoi turbamenti, ora ne era certa. 
Era stato, è, e sarà sempre Wickham. 
«Sarà qui a momenti. Lui... non ti deve vedere.»
«Ma...»
«Ti prego, Lizzie, fidati di me.»
Riluttante, Elizabeth si arrese. Si lasciò trascinare da suo marito, che la condusse fino all’ultimo piano della tenuta. Arrivato alla fine del corridoio, Darcy abbassò un candeliere appeso al muro. Una porticina segreta si aprì con uno scatto.
Elizabeth non credeva ai propri occhi. «Una stanza segreta! Da quando abbiamo una stanza segreta?»
«Entra, presto. Qui sarai al sicuro.»
Elizabeth stava per replicare, quando vide con quanta angoscia il signor Darcy la stava guardando. Sentì il suo cuore sprofondare mentre avvampava di tenerezza.
«William, ti prego... vieni con me.»
Il signor Darcy la guardò disperatamente e intensamente, come un vecchio lupo di mare che osservi impotente la propria amata goletta sprofondare nell’oceano.
«Io... Dio sa quanto lo vorrei, Elizabeth. Se potessi strappare via il corpo dall’anima, quello che rappresento da quello che sono, e lasciare soltanto il cuore pulsante e l’anima nuda, allora non esiterei neanche un istante. Ma non posso, non posso sottrarmi al mio dovere. Il destino dell’Inghilterra è in pericolo... tu sei in pericolo. E finché avrò vita, non posso permettere che questo accada.»
«Fitz...»
«Ti prego, Elizabeth, ora ascoltami.» Darcy tirò fuori un oggetto dalla tasca e lo mise in mano ad Elizabeth «Se non torno entro domattina, va’ all’Old Dempsey Inn, a Londra. e ordina tre pinte di Locksley ben fermentato. Quando verrà il momento, pronuncia le parole “sic semper tyrannis”
«Ma... perché?»
«Perché sei l’unica persona su questa terra a cui affiderei tranquillamente la mia vita.»
In quell’istante, al pianterreno si udì uno schianto spaventoso.
«Sono loro» disse Darcy in un sussurro. «Addio, Elizabeth. Perdonami, se puoi.» E detto ciò, afferrò sua moglie e le diede un lungo bacio appassionato. Poi si voltò, uscì e chiuse la porticina dietro di se’.
Elizabeth si appoggiò ad una parete, e scivolando finì a terra. Attese, con il cuore in gola e la mente in fiamme, in attesa del ritorno del signor Darcy; ad ogni minuto che passava, lunghe spine affondavano sempre di più nel suo cuore. Era impotente, rinchiusa come una bestia in gabbia. Pianse a lungo, poi scivolò in un inquieto torpore. Immagini terribili le balenarono in mente, rosse e fumanti come il sangue appena versato.
Alla fine, qualcosa la svegliò. Ma non era suo marito.
Era il puzzo acre del fumo.
Tossendo, aprì la porticina. E una violenta fiammata rischiò di arrostirla viva.
La casa era in fiamme. Le tende, gli infissi, le porte, tutto bruciava, mentre dense volute di fumo scuro nascondevano il soffitto. 
Elizabeth corse alle scale. Una pesante trave si staccò dal soffitto e cadde a qualche metro dalla sua testa. Coprendosi la bocca con un fazzoletto, Elizabeth scese i gradini il più velocemente possibile. L’incendio era ormai in fase avanzata: per Pemberley ormai non c’era più speranza. 
Schivando le fiamme e le macerie carbonizzate, Elizabeth giunse al primo piano. Ma lì si interrompeva la sua corsa: le scale erano completamente crollate. La via era bloccata.
Elizabeth si guardò intorno freneticamente, alla ricerca di una via d’uscita. Nella sua mente balenò l’immagine di un paio di frondosi cespugli. Li aveva piantati lei stessa, un anno prima... proprio sotto le finestre del primo piano.
Il corridoio era invaso dai detriti e dal fuoco: Elizabeth si infilò nella prima porta alla sua sinistra, attraversò la stanza e spalancò una porta comunicante. Braci e scintille si riversarono nella camera, costringendo Elizabeth ad un balzo all’indietro. La stanza successiva era impraticabile.
Anche lì, la via era bloccata.
Elizabeth si vide perduta. Corse alla finestra: l’altezza non era molta, ma neanche sufficiente. Se si fosse buttata, molto probabilmente non sarebbe sopravvissuta.
Con un ruggito poderoso, le fiamme fecero il loro ingresso nella stanza, lambendo le succulenti coperte di lino del letto. Non c’era molto più tempo, ormai.
Elizabeth si guardò intorno, disperata. Poi lo sguardo gli cadde sul letto che ormai cominciava a prendere fuoco e un lume si accese nella sua mente.
Con uno scatto, afferrò le coperte e le tirò a se’, sottraendole dalla fame atavica delle fiamme. Le strappò, ricavandone delle striscie abbastanza spesse e le legò insieme. Poi fissò un capo alla maniglia della finestra e gettò la sua fune improvvisata dal davanzale.
Elizabeth guardò di sotto, poi nella stanza. Prese un bel respirò, afferrò saldamente la corda e si calò giù dalla finestra.
Lo sbalzo di temperatura fra la stanza rovente e il gelido esterno la fece rabbrividire. Cominciò a scendere, prima molto lentamente, poi una volta presa fiducia sempre più veloce. La terra si avvicinava sempre di più, e con essa la salvezza. 
Era a tre quarti circa del tragitto quando si udì un rumore terribile. 
Con un sonoro strappo, la corda di fortuna si ruppe. 
Elizabeth galleggiò senza peso per qualche istante, poi precipitò nel vuoto, sempre più veloce.


«Miss Darcy? Miss Darcy? Mi sentite?»
Elizabeth aprì gli occhi, confusa. La voce che la chiamava le sembrava distante migliaia di miglia.

«Oh, sia ringraziato il cielo, siete viva!»
La signora Mills, la governante, vegliava su di lei. Elizabeth si alzò a sedere. Era sul prato, davanti all’ingresso di Pemberley. O almeno, quello che ne rimaneva.
La casa era stata rasa al suolo dall’incendio. Della magnifica villa che aveva servito i Darcy per generazioni non rimaneva che una serie di monconi spezzati e annichiliti dal fuoco. Il fumo si levava alto e denso, oscurando il sole del mattino.
«Una disgrazia, Miss, una disgrazia! Eppure non avrei mai creduto che dei soldati del Re...»
Elizabeth le strinse il polso. «Aiutatemi ad alzarmi, signora Mills.» La testa le girava, e si dovette sostenere alla governante per non cadere. «Bene, signorina Mills. Ora raccontatemi cosa è successo.»
La governante, una donna massiccia senza collo che avrebbe potuto tenere per le corna un toro infuriato e metterlo con la schiena a terra, tremava come una foglia. «Sono giunti allo scoccare della mezzanotte. Bussavano insistentemente e con violenza. Ero piuttosto preoccupata, vista l’ora, così ho dato un’occhiata da una finestra: quando ho visto le uniformi mi sono tranquillizzata. Ho pensato che volessero ospitalità o del cibo, così sono andata ad aprire. Ma appena ho rimosso il chiavistello le porte si sono spalancate: un ufficiale a cavallo è entrato al trotto nell’ingresso, sissignora, seguito da una ventina di uomini. Sono finita schiacciata tra l’anta di destra e il muro; per questo non mi hanno visto.
«Ero lì schiacciata, dicevo, e pregavo tutti i santi perché proteggessero me, il signor Darcy e voi, Miss. Ed ecco che spunta proprio lui, il signor Darcy: aveva il fuoco negli occhi e una sciabola in mano! Per un attimo ho creduto di avere le traveggole. Ma, signora, che splendida visione! Il signor Darcy affrontava da solo tutti quegli uomini. Una furia tremenda pervadeva il suo volto: era così maestoso e terrificante che ho avuto paura per quei disgraziati che avevano osato mettersi contro di lui!
«Comunque sia, Darcy ha sollevato la spada, puntandola contro l’ufficiale. “È ora di finirla, una volta per tutte. Incrocia la spada con me, e muori” ha detto. Ma l’altro ha riso  - proprio così, un’orribile risata - e ha detto “non sei cambiato, Fitz. Sempre il più ingenuo”. Poi un soldato - maledetto vigliacco - lo ha colpito alle spalle; con un grido, il signor Darcy si è accasciato a terra. Due uomini lo hanno afferrato e trascinato via. L’ufficiale ha urlato “bruciate tutto!” ed è uscito al galoppo. Io ho approfittato della confusione per sgattaiolare via, e mi sono nascosta nel frutteto. Poi da lontano ho visto vossignoria scendere dalla finestra e cadere. Vi ho soccorso, mentre ho mandato il signor Murray a chiedere aiuto. Quando sono giunti i soccorsi, la casa era ormai perduta.»
Elizabeth ascoltò tutto il racconto senza fiatare. «Molto bene, signora Mills. Vi siete comportata egregiamente. Io...» Si voltò, distogliendo lo sguardo dalle macerie che un tempo erano state la sua casa. William era scomparso, la sua casa era bruciata. Non era rimasto più nulla, se non...
“Se non torno entro domattina, va’ all’Old Dempsey Inn, e ordina tre pinte di Locksley ben fermentato.”
Ripescò dalle pieghe del vestito l’oggetto che Darcy le aveva affidato prima di scomparire. Era una moneta, una corona d’argento, con tre buchi posizionati a formare i vertici ideali di un triangolo. Non c’erano altri segni particolari, o strane scritte. Con una punta di ironia che sorprese anche lei stessa, pensò che il destino aveva decisamente il senso dell’umorismo se l’unica cosa che le aveva permesso di salvare dall’incendio era un soldo bucato.
Elizabeth rigirò la moneta fra le dita, più volte. Poi, con voce calma, disse: «Prepara la carrozza. Vado a Londra.»
La signora Mills la guardò stralunata. «Ma come, Miss! E perché?»
Sic semper tyrannis.
«Hanno rapito mio marito. Me lo vado a riprendere.»



















L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: ho ideato questo sistema per scaricarmi la testa dalle nuove storie che continuano a spuntare come funghi velenosi, distogliendomi dai doveri e dallo studio. Scrivo un capitolo, lo metto come one shot e poi se il tempo e l'ispirazione mi sono favorevoli lo continuo.
Comunque sia, questa storia nasce da due libri che ho avuto il piacere di leggere ultimamente: Orgoglio e Pregiudizio Jane Eyre. Roba lontana dai miei soliti gusti (neanche un'ammazzatina piccina picciò), ma ne è decisamente valsa la pena. Le protagoniste di questi due libri sono dei gran diavolo di personaggi: ben costruite, ottimamente caratterizzate, sono una meraviglia della letteratura. E sopratutto, potrebbero stare bene in qualunque contesto.
Mettete alla signora Bennet o a miss Jane una toga o un paio di jeans, e non perderanno un minimo del loro fascino.
Non poteva passare molto tempo prima che decidessi di maltrattarle con uno dei miei bizzarri omaggi.
L'idea che sta alla base di La lega delle straordinarie gentildonne è abbastanza semplice: prendere l'idea del fumetto/film a cui il titolo è ispirato, plagiarla spudoratamente e volgerla in chiave femminile: un supergruppo di madamigelle che risolvono casi e altre meraviglie. Un po' come affidare una storia su un club del libro ad Agatha Christie.
Cosa può fare la lega delle straordinarie gentildonne? A parte litigare e spettegolare, volete dire?
La risposta è semplice, signori miei. Tutto quanto.

Come sempre, fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo di prova. Se il plauso del pubblico e la mia singhiozzante creatività si amalgamano come si deve, potrei tornare da queste parti prima del previsto.

A presto, allora, e tanti cari saluti dal vostro amichevole torturatore di classici di quartiere!


P.S. la citazione all'inizio capitolo è senza fonte perchè l'ho letta da qualche parte ma non ricordo di chi fosse. L'ho cercata senza speranza su internet, in lungo e in largo. Se sapete chi è l'autore, segnalatemelo! 

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Capitolo 2
*** Private Eyre ***





2.

Private Eyre

 

 

“Se si fosse sempre  buoni e e obbedienti verso quelli che sono 
crudeli e ingiusti, i cattivi avrebbero il sopravvento: non 
avrebbero mai paura e diventerebbero sempre peggiori.
Quando ci colpiscono senza ragione, dovremmo agire colpendo 
ancora più forte; sono certa che dovremmo: tanto forte da
insegnare a chi ci ha colpito a non colpirci più."

- Jane           

 

 

 

 

 

Il numero quarantadue di Fayrmonton Road era stato, ai suoi tempi d’oro, una modesta villetta a due piani. Niente di esclusivo, ma certamente meglio dei palazzi fatiscenti che dominavano il circondario. Ora che però il tempo e l’incuria avevano stabilito il loro dominio indiscusso sulla proprietà, della graziosa abitazione restava soltanto la squisitezza delle decorazioni sull’architrave della porta d’ingresso e sotto le finestre, anch’essa però profondamente intaccata dalle intemperie e dall’incessante degrado.
Come sempre, la quiete era quasi assoluta: la vita mondana della città si svolgeva da ben altra parte, e nessuno passava da quelle parti a quell’ora così tarda della notte.
O almeno, nessuno dotato di buone intenzioni.
Due ombre erano ritte davanti al cancelletto d’ingresso della villetta. Sebbene intabarrate nei loro pesanti mantelli, le loro figure erano inconfondibilmente esili: fatto che attestava forse una giovane età, sicuramente una nutrizione non del tutto sufficiente e probabilmente l’appartenenza alla categoria a cui il senso comune ha dall’alba dei tempi donato l’appellativo di “gentil sesso”.
Una delle due ombre si chinò in avanti, afferrando le sbarre del cancelletto e sbirciando all’interno del giardino incolto che separava la strada dalla vecchia casa.
«È più carina, di giorno» sentenziò l’altra, in una melodiosa voce di giovane ragazza.
«È una schifosa catapecchia» ribatté la prima ombra, il cui tono era più tagliente, ma senza dubbio appartenente anch’esso ad una fanciulla. «E se l’intuito non m’inganna, anche questo cancelletto è in linea con il resto della proprietà.»
«Jane…»
«Che c’è?»
«Credo che qualcuno ci stia seguendo.»
Il corpo della ragazza si immobilizzò, attraversato da un brivido incontrollabile. Fu solo un istante, però: in men che non si dica, la giovane donna chiamata Jane riuscì a riprendere il controllo delle proprie facoltà. «Ne sei sicura?» mormorò, mentre continuava a spiare il giardino.
«Ragionevolmente convinta.»
Jane sospirò. «Probabilmente è un vagabondo…»
«…o peggio.»
Jane tolse le mani dalle sbarre e si girò verso la sua interlocutrice.
«La vuoi piantare? Sbaglio, o dici sempre che il Signore veglia su di noi?»
«Assolutamente.»
«Ecco.»
«Ma se possibile, è meglio non…»
Facendo svolazzare i lembi del mantello, Jane si girò, si piegò all’indietro come una molla che si carica e sferrò una violenta spallata al cancelletto, che protestò gemendo e si aprì di qualche centimetro.
«…forzargli la mano…» 
Un’altra spallata, accompagnata da un grugnito, e il cancelletto si spalancò completamente.
«…ancora una volta.»
La ragazza emise un gemito di dolore, massaggiandosi la spalla dolorante. «Ricordami di non farlo mai più. Stavi dicendo qualcosa, Helen?»
«Niente di particolare… vacue parole riguardo agli anni di Purgatorio guadagnati rispettando le leggi dell’Uomo.»
«Non stiamo facendo niente di male.»
«Non so quanto Scotland Yard sarebbe d’accordo.»
«Puoi tornare a casa, se vuoi» ribatté acida Jane.
«Jane Eyre, in nome di Nostro Signore» esclamò Helen piccata, i pugni sui fianchi e l’aria battagliera «vorresti farmi perdere tutto il divertimento?» 

Più che ad un giardino, l’appezzamento di terra davanti alla villetta somigliava piuttosto ad un piccolo bosco selvaggio: il terreno era costellato di cespugli, felci, erbacce, carcasse di quelli che un tempo dovevano essere stati alberi da frutto e un paio di grossi e silenti abeti.
«È qui, me lo sento» disse Jane, decisa.
«Non sarebbe male chiudere il caso» affermò Helen. «Non amo il denaro, ma evitare che ci sbattano fuori di casa sarebbe l’ideale.»
«Stasera stessa saremo dal signor Groovesnore e riscuoteremo il nostro compenso» confermò Jane. «Forza, diamoci da fare: io controllo la parte sinistra, tu quella destra. Ci incontriamo sul retro della casa.»
Non appena la sua compare si fu allontanata tra le frasche, la sicurezza di Jane cominciò ad incrinarsi. Il giardino era piuttosto grande, e il loro obiettivo era instancabile e sfuggente.
Se non lo prendiamo stanotte, sparirà per sempre.
Era una notte di luna piena, quindi il giardino non era completamente immerso nelle tenebre. Jane aguzzò la vista, cercando di fare il meno rumore possibile mentre avanzava.
Il silenzio era quasi completo. Non c’era un filo di vento a far muovere le piante, ne’ alcun animale che potesse strisciare o zampettare fra l’erba.
Questo posto non mi piace.
Jane provò l’impulso di andare via da lì, adducendo una qualsiasi scusa, e riprovare un’altra volta. Ma, come aveva detto Helen, avevano disperatamente bisogno di soldi. Il signor Groovesnore era il primo cliente dopo mesi, e non potevano permettersi di fallire.
Forse avrei dovuto fare l’istitutrice. Sempre meglio che inventarsi un mestiere.
Non si accorse neanche di essere uscita dalla macchia intricata del giardino. Quando si trovò davanti il muro scrostato della villa, fu sul punto di andarci a sbattere.
Che profonda acutezza, miss Eyre. Non c’è da stupirsi se per sopravvivere raccatti avanzi da una lurida taverna.
Un profondo senso di spossatezza e malinconia la assalì. Si appoggiò con una mano al muro di pietra, ansimando.
Forza, Jane. Una cosa alla volta. Una cosa alla volta. Non lasciare che il mondo vinca. Non farlo. Mai.
Inspirò profondamente, staccandosi dalla parete fredda.
Una cosa alla volta, Jane. Una cosa alla volta.
Doveva trovare quello che stava cercando. Una volta risolto quel problema, sarebbe passata al successivo.
Così ti voglio, ragazza. Una cosa alla volta.
Poi i suoi occhi notarono, a qualche metro davanti a lei, una piccola finestrella al livello del terreno. In teoria doveva esserci un’anta orizzontale a schermare l’interno, probabilmente la cantina, dalle intemperie… ma l’anta non c’era. 
L’eccitazione sì infilò nel solco scavato dall’angoscia qualche istante prima, e la assalì in maniera così potente che si dovette trattenere per non farsi sfuggire un gridolino di gioia.
E in quel momento si rese conto perché non poteva essere da nessun’altra parte se non lì.
Sei mio.

Le vie del Signore sono infinite.
Helen non riusciva a pensare nient’altro che spiegasse la sua presenza lì, in quel luogo e a quell’ora della notte. Aveva sempre pensato di essere destinata a servire Dio, non a smanacciare tra gli arbusti.
Forse è anche questo un modo di servirLo.
Quando Jane le aveva proposto di trasferirsi a Londra “in cerca di opportunità”, Helen aveva pronto un ti ringrazio, ma temo che non sia la mia strada, fermo, cortese e accuratamente preparato, già scritto sulle labbra. Ma quella frase non era mai uscita dalla sua bocca.
Perché no, aveva risposto.
Perché no?
Quella notte, ancora una volta, nonostante Londra avesse fatto tutto quanto era in suo potere per darle numerosi suggerimenti in proposito, non era riuscita a darsi una risposta.
Era talmente immersa nei suoi pensieri che non si accorse di non stare seguendo più il percorso che si era prestabilita. Si stava dirigendo dritta verso un cespuglio spinoso quando qualcosa le tirò indietro il cappuccio, scoprendo una cascata di capelli ramati ingabbiati in una rigorosa treccia. Helen si girò di scatto, il cuore in gola.
Nessuno.
La ragazza rimase in apnea, scrutando le ombre; poi sollevò lo sguardo e vide chi era stato a tirarle quel simpatico scherzo: un lungo, secco e contorto ramo.
Fortunatamente Jane non è qui, o mi avrebbe preso in giro per tutto il resto del mese.
Helen si era appena rimessa il cappuccio in testa, sollevata, quando si accorse di cosa c’era dietro il ramo. Vecchia e silente, la facciata della villetta era un muro di densa e totale oscurità.
Buffo, non mi ricordavo di aver dato le spalle alla villa. Questo giardino è dannatamente intricato. Fu proprio quando stava per rimettersi al lavoro che Helen notò un ultimo, piccolo particolare nella facciata della casa.
Accanto al comignolo, inconfondibile nella sua silhouette ritagliata dalla luce della luna, qualcuno la stava osservando.

 

Se non fosse stato per i pallidi raggi lunari che filtravano dalla finestrella rotta, Jane sarebbe stata impossibilitata a orientarsi nella cantina.
Quella dove si era appena calata era una stanza dalla pianta quadrata, stipata di scaffali disposti in rigidi intervalli che sfioravano il soffitto basso, dalle cui volte a botte erano caduti numerosi mattoni. O almeno, così era la parte che la luce riusciva a raggiungere.
Cercando di non fare il minimo rumore, Jane si accostò ad uno degli scaffali. Allineati sugli scaffali, un vasto campionario di quelli che parevano rottami di metalli di varia natura giacevano coperti di polvere. 
Incuriosito, lo sguardo di Jane cadde su una piccola ruota dentata. Doveva essere piuttosto vecchia, dato che la superficie era irregolare e ammaccata, e dallo strato di polvere che la circondava sembrava stare lì da molto tempo.
Inutile ferraglia.
Senza riflettere su quello che stava facendo, Jane prese la piccola ruota e se la mise in tasca.
In quel momento, qualcosa si mosse.
Jane, presa alla sprovvista, soffocò un’esclamazione di sorpresa tappandosi violentemente la bocca. Poi vide da dove proveniva il rumore, e un ghigno di soddisfazione comparve sul suo volto.
Ti ho preso.
Quatta quatta, avanzando come un giovane felino, la ragazza si diresse alla sua sinistra, lì dove le pareti della cantina formavano un angolo retto. Una grossa cesta di vimini, in piedi sopra una pila di piastrelle di coccio, sembrava sfidarla nella sua stoica e inossidabile immobilità.
Jane trattene il respiro, i piedi che si posavano sul pavimento umido con la leggerezza di petali di rosa. 
Sei stato bravo, lo ammetto. Ma io sono più furba di te.
Due metri. Un metro e mezzo. Un metro.
La cesta era immobile. L’aria era immobile. Anche il tempo sembrava essersi fermato.
Quando fu ad un passo di distanza, Jane ebbe la netta sensazione che l’intero creato stesse trattenendo il fiato.
Ora.
Fu più rapida di un falco in picchiata. Si avventò contro la cesta e tuffò le braccia nella grande cavità oscura.
E le sue mani strinsero qualcosa di morbido.
Scacco matto, vecchio mio.
Con la delicatezza che il suo organismo travolto dall’adrenalina poteva consentire, Jane Eyre trasse dalla cesta di vimini il suo obiettivo.
Un magnifico, enorme e morbidissimo esemplare di gatto siamese.
«Eccoti qua, signor Tuttle» disse Jane con il tono di una madre amorevole che trova il figlio con le mani nella marmellata «ci hai fatto penare, lo sai sì? Il signor Groovesnore era molto in pensiero per te.»
Per tutta risposta, il gatto emise un sordo miagolio di resa.
«Lo so: onestamente, non stento a credere che tu sia voluto fuggire. Ma che ci vuoi fare, vecchio mio? È la vita.»
«Jane? Jane?»
La ragazza sorrise al sentire la voce di Helen. «L’abbiamo preso, Helen! Ce l’abbiamo fatta!» Raggiante, tornò alla finestrella rotta, dalla quale sbucava il volto tondo della sua amica. Alcune ciocche ribelli erano sfuggite alla rigida treccia e scintillavano alla luce della luna, ma il volto era completamente in ombra.
«Jane, c’è qualcuno sul tetto.»
Il vivo terrore con cui queste parole furono pronunciate spense qualunque entusiasmo in Jane, soffocato da una marea montante di panico irrazionale.
«Cosa…»
«Andiamo via, ti prego!»
Jane non se lo fece ripetere due volte. Senza alcun riguardo nei confronti della povera bestia, scagliò il gatto fra le braccia di Helen, si issò sulla finestrella e arrancando riuscì ad uscire rapidamente dalla cantina.
«È ancora lì?»
«Non lo so e non mi interessa! Andiamo via, adesso!»
Jane non aveva mai visto la sua amica così spaventata: la sua profonda fede la rendeva sempre tranquilla e sicura di se’. Improvvisamente, sentì una morsa potente stringerle il petto, togliendole il respiro.
«Smettila, dannazione!» 
Helen spalancò gli occhi, mentre le gote avvampavano di vergogna. Jane si sentì improvvisamente in colpa, e solo in quel momento si rese conto di quanta rabbia avesse messo in quelle parole.
«Helen, io…»
Un tonfo sordo, proprio alle loro spalle. 
«Non importa» esclamò Helen, afferrando la mano di Jane. «Andiamo via. Ti prego.»
Ancora una volta, Jane non se lo fece ripetere. Si tuffò nel giardino, seguendo la corsa forsennata di Helen, incespicando in mezzo ai cespugli, graffiandosi tra i rami aguzzi, lasciandosi alle spalle la villa oscura e chiunque, o qualunque cosa, fosse in agguato tra le tenebre.


«Sono spiacente, signorina Eyre, ma il signor Groovesnore si è appena coricato. Abbiate la compiacenza di ripassare domattina.»
«È quello che avremmo fatto, ma domattina il signor Groovesnore parte per affari, e noi non possiamo aspettare che ritorni.»
«Il signor Groovesnore ha espressamente richiesto di non essere disturbato dopo che si è ritirato nelle sue stanze.»
«Beh, il signor Groovesnore capirà, dannazione!»
«Desolata, ma non posso aiutarvi. Signorina Eyre, signorina Burns, arrivederci.»
Jane aprì la bocca per replicare, rubizza in volto, ma Helen le mise una mano sulla spalla e si rivolse all’arcigna governante che si frapponeva fra loro e il loro sudato compenso.
«Signora Fogg, perdonate la mia amica: ha molto a cuore il signor Groovesnore, e sa che non può partire serenamente senza aver rivisto il suo fedele compagno. Non ci permetteremmo mai di disturbare a quest’ora della notte, se non fosse che il signor Groovesnore stesso ci ha pregati di venire a riferirgli qualunque progresso nella nostra indagine, a qualsivoglia ora della giorno o della notte. Voi sapete quanto ami il signor Tuttle meglio di me.»
L’anziana donna le rivolse uno sguardo carico di diffidenza, ma la mano che stava chiudendo la porta di casa Groovesnore si fermò.
Helen non perse tempo ad infilarsi nel pertugio che era riuscita ad aprire. «È con noi da neanche un’ora, eppure ci è bastato per comprendere perché il signor Groovesnore lo ami così teneramente: è una creatura straordinaria, di rara grazia e affettuosità. Il signor Groovesnore lo considera alla pari di un figlio, e onestamente non vedo come potrebbe essere altrimenti. Lei sa, mia cara signora Fogg, quanto forte sia l’amore nei confronti di un figlio: Nostro Signore ama noi tutti, voi amate vostro figlio Joshua e il signor Groove ama il signor Tuttle.
«Signora Fogg, so che siete una brava donna, perciò so che rispondere a questa domanda con cuore aperto e sincero: se venissero a bussare alla vostra porta portandovi vostro figlio che ormai ritenevate perduto per sempre, scaccereste forse chi è venuto a darvi la buona novella? Li sgridereste per l’ora tarda, oppure correreste da Joshua per abbracciarlo?»
La governante non si aspettava un simile discorso, e non riuscì a restare indifferente di fronte al tono caldo e compassionevole della giovane fanciulla. «Io…» balbettò.
«Se avete timore dell’ira del vostro padrone» continuò Helen, avanzando di qualche passo «cosa che, vi assicuro, non dovete temere -  ci annunceremo da sole, affermando di avervi ingannata a causa dell’incrollabile e commovente senso del dovere che provate nei suoi confronti.» Sul volto della ragazza compare un sorriso tenero e affettuoso. «Io tengo a voi, signora Fogg: siete stata sempre cortese e gentile con noi. Se ritenete che non è il caso di svegliare il signor Groovesnore, noi toglieremo il disturbo; ma in caso contrario, nulla ci renderebbe più felici che restituire la gioia nel cuore di un uomo triste.»
La signora Fogg non rispose. Rimase a fissare quella ragazza dal volto piatto e tondo e dagli occhi piccoli ma pieni di luce, mentre dentro di lei infuriava una lotta silente e senza quartiere.
Jane tratteneva il fiato; Helen continuava a sorridere; persino il signor Tuttle sembrava attendere con ansia il verdetto della donna.
E alla fine, la governante del signor Groovesnore prese una decisione.
«Mi dispiace, non posso aiutarvi.»
E chiuse la porta in faccia alle due ragazze.

«Io non ci credo! Quella viscida, vecchia, disgustosa bal…»
«Abbiamo il gatto, Jane: è questo quello che importa. Quando il signor Groovesnore tornerà, glielo porteremo e otterremo il nostro compenso.»
«Sarà troppo tardi! Il signor Grogg minaccia di buttarci fuori già da due settimane…»
«Sono certa che una volta che gli avremo esposto la situazione comprenderà. Meglio avere denaro in ritardo che non averlo affatto.»
«Spero che tu abbia ragione, Helen.»
«E poi, il signor Tuttle è così morbido…»
«Leva quella bestia dal tavolo. Adesso.»
Erano quasi le quattro di notte, stando a quanto segnava il vecchio orologio ammaccato di Helen. A parte le due ragazze e il loro degno compare felino, nessun altro cliente si trovava nella vecchia locanda in quel momento.
Canticchiando sommessamente una vecchia aria marinaresca, Joey Dobb, il proprietario della locanda, sbucò dalle cucine portando con se’ due piatti di legno.
«Ecco a voi, mie graziose fanciulle» disse affabile, posando i piatti davanti ad Helen e Jane «trippa e cavolo bollito, come piace a voi.»
«Potresti evitare il finale sarcastico?» disse Jane tagliente, osservando la propria cena con assai poco entusiasmo.
«Lo farei se voi mi pagaste, miss Eyre.»
«Hai ragione, perdonami» replicò la ragazza, mettendosi le mani sulle tempie e strizzando le palpebre. «Sei già fin troppo gentile ad offrirci gli avanzi della giornata.»
«Se voi arrivaste ad un’ora consona, potrei provare anche a conservare qualcosa di più buono» disse il locandiere, stropicciandosi le mani «ma se voi continuate a cenare quando le brave persone si alzano dal letto…»
«L’ultima volta siamo venute alle nove e mezza» ribatté Jane con cipiglio spavaldo.
«E la volta prima siete arrivate alle cinque. E la volta ancora prima alle tre. E la volta ancora prima…»
«Va bene, va bene» lo interruppe Jane, alzando le mani in segno di resa. «Ma non è colpa nostra se il lavoro ci costringe a fare le ore piccole.»
«A tal proposito, immagino che il vostro amico faccia parte dell’ultimo intricato caso a cui state lavorando…»
«Lui è il caso, caro Joey» disse Helen, accarezzando il felino acciambellato sulle sue gambe. Per tutta risposta, l’animale emise un ronzio di fusa piuttosto sentito. «Ad essere onesta, mi si spezza il cuore a riportarlo al signor Groovesnore. È così affettuoso…»
«Noi ridaremo quel dannato coso al suo proprietario, a costo di tirarglielo dalla finestra.»
A queste parole, il gatto spalancò gli occhi incredibilmente azzurri e drizzò le orecchie, pronto alla fuga.
«Oh no, va tutto bene» disse Helen amorevole. «Lascia stare zia Jane, mister Tuttle. Lei è un po’…»
«Un po’ cosa?»
«…singolare
«Ah, io sarei singolare, miss Burns? Sbaglio o qualche ora fa stavate cercando di corrompere un’anziana signora facendo leva sui suoi sentimenti?»
«Mi limitavo ad esporre la verità» rispose Helen, fin troppo compita. «Date a Cesare quel che è di Cesare…»
«Non fare la suora con me, Helen Burns. Agli altri puoi darla a bere, ma so fin troppo bene quanto sotto sotto tu sia una inclassificabile fara…»
Jane si interruppe di colpo, gli occhi spalancati che fissavano qualcosa al di sopra della spalla di Helen. Stupita e incuriosita, l’amica si girò.
«Uh.»
Sulla soglia della locanda c’era qualcuno. Era completamente ammantato in un pesante mantello da viaggio, e un grade cappuccio gli nascondeva il volto.
«Mi scusi, buonuomo» disse la figura, rivolta a Joey Dobb «è questo l’Old Dempsey Inn?»
Il locandiere, stupito quanto le due ragazze di sentire una voce di donna provenire da sotto il cappuccio, avanzò timoroso, stropicciandosi le mani più vigorosamente che mai.
«Esattamente, ma’am. Posso esservi d’aiuto?»
«Credo proprio di sì.»
La sconosciuta si tolse il cappuccio. Le luci delle candele proiettarono le loro ombre su un volto sottile, illuminato da due occhi castani vivaci ed estremamente intelligenti.
«Mi servono tre pinte di Locksley ben fermentato.»
Il locandiere impallidì per qualche istante, poi si inchinò con deferenza e mostro con un gesto della mano il retro della locanda.. 
«Prego, da questa parte.»
La donna avanzò, troppo impettita per non mostrare di essere a disagio, facendo frusciare il mantello sul pavimento lurido. Jane la osservò passare accanto a loro senza il minimo segno di essersi accorta della presenza delle due ragazze e la seguì con lo sguardo finché non scomparve dalla sala, diretta alla cantina della locanda.
Quando riportò i suoi occhi su Helen, sapeva già cosa stava per dire.
«Jane, in qualità di amica, ti sconsiglio vivamente di mettere in atto quello che stai pensando. Immagino ricordi cos’è successo l’ultima volta che abbiamo provato a seguire un Locksley ben fermentato…»
«Helen…»
La ragazza dai capelli rossi alzò un dito, in un gesto che sanciva in modo chiaro e inequivocabile il suo desiderio di non essere interrotta. Jane - la stessa Jane che giusto due giorni prima aveva contrattato per un’ora e tre quarti il prezzo di due libbre di carne secca con un corpulento droghiere con un passato da furiere nell’esercito - assisté impotente allo spettacolo della sua bocca che si chiudeva come per magia.
«… dicevo, ricordi cos’é successo, e personalmente non gradisco che mi si punti un coltello alla gola più di due volte in una giornata. Senza contare che ci andremmo a cacciare in un groviglio di rovi la cui complessità va ben oltre la nostra abilità di districarlo e perderemmo giorni preziosi che potrebbero essere spesi alla ricerca di qualche altro distinto gentiluomo in cerca di animali o oggetti scomparsi…» La ragazza afferrò un pezzo di cavolo bollito, se lo ficcò in bocca, masticò con classe ed eleganza e mandò giù senza fare il minimo rumore. «Ah, il cavolo di mastro Dobb… mi chiedo come faccia a dargli questa sfumatura di straccio lurido. Ci vuole abilità» aggiunse, spingendo leggermente il piatto lontano da se’, per poi appoggiare i gomiti sul tavolo e intrecciare le dita.
«Come amica, dunque, ti sconsiglio vivamente di seguire quella donna. Ma come amica avrei dovuto anche sconsigliarti di andare a tentare la fortuna nella nostra amata capitale per sfamare i tuoi appetiti di giustizia e libertà, perciò parlerò come tua socia e co-fondatrice della nostra folle impresa: quella donna probabilmente non è di queste parti, probabilmente ha una villa in campagna, una comoda rendita e la cosa più rischiosa che ha fatto in vita sua è mettere le mani su uno scapolo in possesso di un solido patrimonio… e ancora più probabilmente, non ha la minima idea di come funzionino le cose in questa città: senza qualcuno a farle da guida, Londra se la mangerà in un attimo e sputerà le sue ossa lucide prima che spunti l’alba. Perciò, cara Jane, forse è il caso che ci affrettiamo, perché la porta della cantina di mastro Dobb ha una tripla serratura a quattro mandate, e dopo che è stata chiusa l’unico modo di aprirla é farla saltare in aria.»


















L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Sembrava impossibile, ma ce l'abbiamo fatta. (naa naaa naaa naranaaaa)
Probabilmente l'attendevate, molto probabilmente no, ma in ogni caso ecco qui un nuovo capitolo della nostra mirabolante centrifuga che prende classici intramontabili e li trasforma in un telefilm di scarsa qualità. Dopo aver bistrattato  i poveri signori Darcy, la vittima del giorno è nientepopodimenoche la tenace e indipendente Jane Eyre, insieme alla sua degna collega Helen Burns. Sì, la cara Helen in teoria stira miseramente da brava martire cristiana, ma quelle due insieme formavano una coppia troppo fantastica perché non decidessi di giocare a fare Dio e resuscitare personaggi per i miei perversi scopi: Jane è fiera, testarda, idealista e passionale, mentre Helen è tranquilla, saggia, umile, con quel velo di distaccata ironia che solo i personaggi comprimari possono avere: una strana centrifuga tra Calvin e Hobbes e Sherlock e Watson (sì, avete letto bene). In parole povere: io le adoro.

In questo universo parallelo dove giovani Whickam sfondano le porte di Pemberley a cavallo e con una scorta di sgherri, anche la timeline della nostra cara Jane non poteva che subire qualche "piccola" modifichina: invece di rimanere a fare da insegnante nel convento dove è stata educata, Jane convince la povera Helen, che non è morta e che quindi non ha potuto insegnare alla sua cara amica l'arte di essere n'attimino umili e e farselapijàbbene, che è giunto il momento di fare le cose in grande e di andare a Londra a cercare fortuna, e una volta lì di trovare di che sopravvivere nel modo più assurdo e inverosimile che esista: fare le detective private. Lo so, ho qualche problema, ma prima di essere internato non posso fare a meno di dire che Jane Eyre come detective/vigilantessa sgangherata paladina del bene è tipo troppo una figata. Ecco.
Insomma, spero vi faccia piacere questa robba quissù; e se temete che qualche altra vostra eroina del secolo decimonono possa venire maltrattata e buttata nel fango... fate bene, perché abbiamo appena cominciato.

Alla prossima dunque, Locksley ben fermentato per tutti e tante care cose!






 

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Capitolo 3
*** Sic Semper Tyrannis, miserabile screanzato ***


3.

Sic Semper Tyrannis, miserabile screanzato

 

 

 

 



Quando Lizzie aveva cominciato a discendere le scale che portavano al seminterrato dell’Old Dempsey Inn, si era figurata la cantina della locanda come un luogo umido, freddo, chiuso da una porta arrugginita: quando vide comparire quest’ultima ai piedi delle scale,  perfettamente corrispondente all'immagine mentale che aveva di essa, non poté fare a meno di congratularsi con se stessa per il proprio acume. 

Grazie al cielo non ho preso niente da mangiare. Lì dentro non può che—

Con sua grande sorpresa, l’uomo ignorò bellamente la porta sgangherata, lasciandola alla propria sinistra e dirigendosi verso un enorme armadio che occupava tutta una parete della stanza.

E tanti cari saluti alla mia pronta arguzia.

Stava per chiedere all’uomo cosa stesse succedendo, ma una vocina – che somigliava vagamente a quella di suo marito – le disse restare in silenzio.

Molte volte, cara Elizabeth, un silenzio al posto giusto può essere più convincente di mille parole. Che di norma era il suo commento quando lei attaccava a conversare mentre lui era ancora intento a leggere i giornali.

Non preoccupatevi, caro Fitzwilliam: non pretendo così tanto da voi, era di norma la sua risposta. Al che lui la guardava, faceva un piccolo sorriso, lasciava andare i giornali e si metteva ad ascoltarla. 

Questo, almeno, prima che smettesse di presentarsi a colazione.

Un schiocco attraversò la stanza, facendola riemergere di colpo dai suoi ricordi. L’uomo doveva aver tirato una leva o premuto un bottone, perché le due metà dell’armadio si aprirono come i battenti di una porta: dietro di essi c'era una porta circolare d’acciaio, chiusa da una maniglia che ricordava la ruota di un piccolo carro.

Senza dire una parola, mastro Dobb tirò fuori tre chiavi, una dopo l’altra, e le girò dentro tre serrature che si aprivano sul lato destro della porta; una volta fatto afferrò la maniglia e cominciò a ruotarla, in un miscuglio di grugniti e cigolii. Lizzie si avvicinò, cercando di sembrare quando più a suo agio possibile.

Con un ultimo ringhio, mastro Dobb tirò a sé la maniglia, facendo aprire la porta. Lizzie notò che era spessa quasi quanto una mano, dalla punta delle dita alla linea del polso.  

«Prego, madam. Dopo di lei.»

 

 

«Non ci credo!»

Jane si lasciò andare ad una violenta serie di improperi, talmente volgari che Helen fu costretta a tapparsi le orecchie. 

«Un secondo, solo un secondo e ce l’avremmo fatta! Giusto oggi quel caprone bastardo doveva fare le corse!»

«Jane…»

Jane inclinò verso di sé una piccola sedia accanto all’armadio. Il passaggio segreto si aprì, rivelando la porta rotonda corazzata.

«…te l’ho detto, non possiamo aprirla.»

«Lo so, lo so!» Jane si strofinò le mani sulle guance, come se in questo modo potesse ungere gli ingranaggi del suo cervello. «Stammi a sentire: se non possiamo sfondare la porta…»

«Torniamo indietro?»

«…possiamo sfondare tutto quello che c’è intorno.»

Jane la guardò allibita. «Vuoi far saltare in aria la locanda?»

«Non è necessario» mormorò Jane, cominciando a guardarsi intorno. «Mi basta un… ha!» 

Jane si avventò su una massa indistinta di ciarpame accumulata sotto le scale e ne tirò fuori una cassetta della frutta. La poggiò a terra e prese a sparpagliarne il contenuto sul pavimento, come fosse una talpa che ha fretta di scavarsi la propria tana.

«Jane, cosa…» disse Helen, costretta ad un passo di lato per evitare di ricevere un vecchio ferro da stiro arrugginito sui piedi. «…che stai facendo?»

«Dove sei, dove sei… eccola!» 

Trionfante, Jane si rialzò in piedi e mostrò ad Helen una sfera di metallo scuro, grande quanto le sue mani messe a coppa, dalla cui cima spuntava quello che pareva un piccolo pezzo di spago.

«Che cosa… buon Dio, ma è una granata?»

Jane annuì, gli occhi che le brillavano di una luce molto poco raccomandabile. «Te lo ricordi tre settimane fa quel tipo che sosteneva di aver combattuto a Badajoz e blaterava di aver raccolto una palla di cannone ancora rovente e di averla tirata in testa ad un capitano francese? Non aveva soldi per pagarsi da bere, così ha offerto questa in pegno.»

«Jane, no.»

«La piazziamo alla base del muro, al lato della porta, la accendiamo e poi scappiamo su per le scale. Ci vorrà un attimo…»

«Io non credo che—»

«Dunque, sì, ci sarà un bel botto, ma non poi un così gran botto. Non credo che qualcuno—»

«Stai zitta un secondo, che diamine!»

Jane si bloccò, colpita – e forse anche un po’ spaventata – da quello scatto improvviso. Anche Helen parve dello stesso avviso, perché impallidì, buttò lo sguardo a terra e fece un lento e profondo respiro. «Perdonami» mormorò poi, riportando gli occhi su di lei. «Ma non abbiamo molto tempo.»

«Lo so» rispose Jane, in un mugolio che mescolava scuse e risentimento.

«Quello che volevo dire» continuò Helen, cercando di assumere un tono tranquillo e assertivo, «è che non credo che la bomba servirà allo scopo: per reggere una porta di quel genere, ci vuole un muro altrettanto spesso.»

«E quindi?»

«E quindi accanirsi su quella porta non serve… soprattutto perché noi sappiamo dove conduce.»

«Mi fa molto piacere, ma per arrivare a dove conduce dobbiamo comunque passarci, per la maledetta…» Gli occhi di Jane si dilatarono, mentre comprendeva appieno il senso delle parole di Helen. «…oh no. Non il Tamigi. Non di nuovo

 

 

Mastro Dobb non aveva detto una parola da quando si era chiuso la porta alle spalle. Avanzava nella galleria strascicando appena il piede destro e emettendo, a intervalli di cui Lizzie poteva quasi tracciare la regolarità, dei sordi mugugni – che in certe occasioni sembravano quasi tramutarsi in sofferenti mugolii.

Lizzie si chiese se per caso quella gamba non nascondesse una qualche ferita di guerra. Sebbene non fosse granché informata sugli accadimenti del mondo, sapeva che Londra – e in misura seppur minore, anche il resto dell’Inghilterra – pullulava di soldati rientrati dalla guerra contro la Francia, e che ora si ritrovavano senza impiego. 

O peggio.

Una volta aveva visto il figlio dei signori Belcroft nel giardino di Pemberley. Era la prima volta che lo incontrava da quando era tornato dalla Spagna: fino a quel momento, i suoi genitori lo avevano sempre tenuto in casa. Arthur Belcroft era un bellissimo giovane, alto e biondo, splendido nella sua uniforme verde scuro da ufficiale dei Fucilieri: quando aveva riconosciuto in lui la figura curva, dall’andatura ondeggiante e dallo sguardo spento che vagava senza meta nella sua proprietà, aveva pensato ad un’allucinazione. Poco dopo, però, era comparso il signor Belcroft, prendendo per le braccia il proprio figlio come fosse un bambino; e profondendosi in sentite e angosciose scuse per “il ragazzo che si era allontanato” se l’era portato via. 

Mentre parlava, neanche una volta il signor Belcroft era riuscito a guardarla in faccia. 

Non l’aveva mai raccontato a nessuno.

Neanche a William.

Sentì il bisogno immediato di fare conversazione, per alleggerire almeno un poco il macigno che quel ricordo aveva depositato sul suo petto: purtroppo per lei, il luogo e il contesto non erano certo dei migliori.

Ma neanche dei peggiori. Rispetto alla cena a casa Foster dello scorso settembre, qui sotto è una vera delizia... 

Passò accanto all’ennesima torcia appesa al muro. Prima che potesse pensare alcunché, la sua bocca decise di muoversi per conto suo.

«Ditemi, signore: come fate per la manutenzione di queste torce? Suppongo che prima o poi si spengano: avete qualcuno di specifico che attenda alla bisogna?»

Il signor Dobbs girò la testa verso di lei, scoccandole un’occhiata quantomai perplessa.

«Non ne ho idea, madam. Raramente vengo qui sotto.»

«Oh. capisco.» Lizzie rimase qualche momento in silenzio, poi non riuscì nuovamente a trattenersi. «E come le vanno gli affari, caro signore? Una volta ho sentito dire dal signor Hirst che il prezzo del pane pare aumentato… spero che per voi non sia un problema.»

«Già, pare aumentato» ribatté mastro Dobbs, senza aggiungere altro.

Lizzie non riuscì a capire se nelle parole dell’uomo ci fosse una sfumatura di dileggio, ma era abbastanza accorta da intuire che non aveva voglia di proseguire la conversazione. Continuarono così il loro viaggio in silenzio, mentre Lizzie cominciava a chiedersi quando sarebbe finita – e sopratutto dove – quella galleria che pareva non terminare mai.

La risposta le venne dopo una brusca svolta a sinistra e una repentina inclinazione verso il basso del terreno. Lizzie vide le pareti farsi umide, la fila di torce interrompersi e la galleria finalmente concludersi di fronte ad una porta di ferro corroso dall’umidità, con una finestrella ad altezza uomo chiusa da una sbarra di metallo.

Mastro Dobb bussò alla porta una volta, poi di nuovo, poi due e infine tre volte. Attesero per così tanto tempo che Lizzie stava per prendere e tornare indietro, quando con uno scatto e un guaito metallico la finestrella si aprì, lasciando intravedere degli occhi umani.

«Un Locksley ben fermentato» disse mastro Dobb.

«Fate vedere.»

Dobbs si voltò e fece cenno a Lizzie di avvicinarsi.

Al vedere la donna avvicinarsi, gli occhi dell’uomo divennero due fessure. «Cosa volete? Non è posto per voi questo, madam

«Sono d’accordo.» Lizzie tirò fuori la moneta che le aveva dato suo marito e la sollevò all’altezza della finestrella. «Ora mi fate entrare, così posso andarmene da questo antro terribilmente umido il prima possibile?»

Lo sguardo dell’uomo passò più volte da Lizzie alla moneta. «Spiacente, signora. Avete sbagliato persona» disse infine. Con la spietatezza di una ghigliottina, la finestrella si chiuse. 

Eh no.

«Non provateci nemmeno!» esclamò Lizzie, abbattendo un pugno sulla porta. Lasciandosi scappare un’esclamazione di dolore, prese ad agitare la mano offesa, mentre sentiva la rabbia aumentare sempre di più.  «Sic semper tyrannis, miserabile screanzato!»

Il suo urlo rimbombò nelle pareti strette della galleria. Lizzie attendeva, le gote arrossate e il fiato grosso. Dietro di lei, mastro Dobb era intento a chiedersi quale tiro barbino avesse per sbaglio giocato al mondo per essere diventato in cambio una calamita per donzelle ben poco timorate di Dio.

Un altro scatto venne dalla porta, questa volta più in basso. Con fatica e stridore di cardini, l’uscio si dischiuse.

«Prego» disse una voce diversa da quella che le aveva rifiutato l’ingresso. «Entrate.»

 

 

Il locale era ampio e dal soffitto basso, intervallato da travi di legno e colonne di mattoni. Diverse lanterne – niente torce, notò Lizzie sentendosi un po’ sciocca – ammantavano tutto di una luce tenue e inquieta. L’uomo che le aveva aperto la porta – in quella luce incerta, Lizzie riuscì a distinguere soltanto una matassa di capelli scuri – la condusse in mezzo alla stanza, dove tre tavolacci erano stati uniti insieme per poter dispiegare sopra di essi un gran numero di mappe e carte. Alla sua destra, Lizzie vide gli occhi di colui che le aveva negato l’accesso a quella specie di cripta fissarla con immutata ostilità.

«Signore.»

Attorno ai tavoli c’erano una mezza dozzina di persone. Al suono della voce, i loro occhi si sollevarono dalle carte; quando si accorsero della presenza di Lizzie, ammutolirono.

«Che significa» disse la figura al centro del gruppo, un uomo di una sessantina d’anni con il volto butterato e una spruzzata di capelli argentei in testa.

«Ha presentato l’obolo e pronunciato le parole.»

 L’uomo la scrutò in silenzio. Lizzie aveva l’impressione che un trapano le si fosse poggiato sulla fronte e che, lentamente, qualcuno lo stesse mettendo in moto.

«Chi vi ha detto come entrare?»

«Mio marito» disse Lizzie. «Fitzwilliam Darcy.»

«Mai sentito nominare. Ma in ogni caso, sapere come si chiami per me è inutile: ognuno qui conosce solo lo stretto indispensabile di ciascun altro. In questo luogo i nomi sono pericolosi, madam

Lizzie annaspò, avvertendo il muro compatto che l’uomo aveva eretto di fronte alla sua necessità di avere informazioni. «Allora forse avete sentito parlare di George Wickham.»

L’uomo dai capelli argentei non fece una mossa, ma Lizzie vide chiaramente alcuni dei suoi compari scambiarsi delle occhiate. «Se non vi interessa di mio marito, forse vi interessa di lui.»

L’uomo era immobile, ma Lizzie poteva percepire la sua mente al lavoro. «Che cosa sapete di George Wickham?» 

«Che è un farabutto, principalmente» rispose Lizzie, poggiando le mani sul tavolo e sperando che questo desse al suo uditorio l’illusione che sapesse quello che stava facendo. «Che è subdolo, manipolatore e un gran vigliacco, e che due notti orsono ha fatto irruzione nella mia casa e ha rapito mio marito – il quale mi ha dato la moneta, mi ha riferito i vostri arguti codici e mi ha detto di venire qui. Dunque suppongo che a questo punto sia quantomeno irrilevante continuare a nascondervi dietro le vostre ombre, signori: ditemi che ne è stato di mio marito e dove si trova, e io toglierò il disturbo per non tornare mai più.»

A quel punto, un forte rumore fece sussultare tutti quanti i presenti: una vecchia scaffalatura alle spalle dell’uomo dai capelli d’argento cadde pesantemente a terra, portandosi dietro due giovani figure che avevano avuto la pessima idea di appoggiarvici il proprio peso.

Tutti gli uomini nel sotterraneo estrassero le proprie armi.

«Complimenti!» disse una delle due. «Davvero un’ottima mossa!»

«Oh, piantala, Jane!» rispose l’altra. «Sai quante volte hai perso tu l’equilibrio e io non ti ho detto niente?»

«Questo lo chiami perdere l’equilibrio?»

«E comunque tu mi hai pestato il piede!»

«Perché se non ti pesto i piedi tu non ti muovi neanche se viene a chiamarti il Signore in persona!»

«Non osare scomodare l’Onnipotente per queste quisquilie o giuro che—»

«Silenzio!» gridò l’uomo dai capelli grigi. «Alzatevi lentamente. Molto lentamente.»

Spazzolandosi i vestiti – o meglio, solo la metà superiore, visto che le gonne erano zuppe d’acqua come se le due avessero deciso di fare il bagno in una fontana –, Jane e Helen scesero dallo scaffale schiantato e sollevarono le mani, ritrovandosi circondate da una selva di pistole, moschetti, sciabole e pugnali. 

Scrutando i loro volti, un giovane dai capelli rossi spalancò gli occhi. «Helen?»

«Ciao Henry» disse Helen, con un sorriso di scuse.

Gli altri si voltarono verso il giovane. «Henry?»

Jane le pestò di nuovo il piede, questa volta con sentimento.

«Ahia!»

«Lo sai che non devi fare nomi, per la miseria!»

«…oh cielo, è vero.»

«Vi avevo detto di non farvi più rivedere» disse Capelli d’Argento. «Mastro Dobb ha garantito per voi, ma questa volta—»

«Questa volta garantisco io» disse Lizzie.

Capelli d’Argento la fulminò con uno sguardo ostile. «Madam, chiunque voi siate—»

«Il mio nome è Elizabeth Darcy» lo interruppe nuovamente Lizzie. «Sapete già quali sono le mie intenzioni. E se non avete intenzione di aiutarmi a trovare mio marito – ebbene, me la caverò da sola. Voi due» aggiunse rivolta alle ragazze. «Venite con me.»

«Credete davvero di potervene andare via così?» disse Capelli d’Argento.

«Perché no?» rispose Lizzie. «Temete che vada a riferire a chissà chi dei vostri affari qui sotto? Nessuno mi crederebbe. E in caso ci fosse qualcuno che vi cerca… se io e queste due fanciulle siamo riuscite a trovarvi, forse dovreste riconsiderare la vostra abilità nel celarvi alla vista di chicchessia.» E detto ciò, fece cenno ad Helen e Jane di seguirla e si avviò verso la porta.

«Mrs Darcy.»

Elizabeth si girò. Alla luce delle lanterne, il volto di Capelli d’Argento sembrava scavato nel granito.

«Se vostro marito è ancora vivo, non cercatelo. Potreste finire in un gioco molto più grande di me e di voi.»

«È questo il problema, caro signore» rispose Lizzie. «Ci sono già dentro.»

 

 

«Posso dirvelo, madam? Siete stata veramente forte lì dentro.»

«Oh, beh... temo non si sia servito a molto; ma vi ringrazio.»

Scortata da Jane e Helen, che si erano offerte di accompagnarla fuori dal rifugio sotterraneo – la via dell’andata era impraticabile, visto che a quell’ora mastro Dobb doveva aver ripercorso tutta la strada fatta per poi richiudersi la porta corazzata alle spalle – Lizzie avanzava a fatica nel terreno, che si faceva ad ogni passo sempre più umido e limaccioso.

Se non altro, ora ho qualcuno con cui parlare.

Poco ma sicuro, due fanciulle come quelle non le aveva mai viste. Anche la più tranquilla, la ragazza con i capelli rossi che aveva detto di chiamarsi Helen, non era lontanamente paragonabile alla sua amica Charlotte – o anche a una personalità a lei più simile come Georgiana.

«Come conoscete questi luoghi?» chiese, evitando per un pelo di affondare tutto lo stivaletto sinistro in una pozza d’acqua.

«Siamo clienti affezionate di mastro Dobb» disse Jane.

«Ha una scorza rude, ma è un brav’uomo» aggiunse Helen.

«Non siete il primo Locksley ben fermentato che passa dalla locanda.»

«Capisco» disse Lizzie, anche se in realtà non è che comprendesse poi così tanto. 

«Ci abbiamo messo un po’ a capire come funzionava il tutto» disse Jane. «Poi una mattina abbiamo rubato le chiavi di mastro Dobb—»

Helen emise una sorta di squittio indignato. «Non le abbiamo rubate…»

«Ah no? Se non erro siete stata proprio voi, miss Burns, a sfilargliele dalla cintura con i vostri ferri da maglia…»

«Le abbiamo solo prese in prestito, ecco.»

«Non so se il buon Gesù se la berrà, questa.»

«Dunque» le interruppe Lizzie, temendo che potessero continuare all’infinito. «In questo modo avete scoperto il rifugio.»

«In una certa maniera» rispose Jane. «Abbiamo aperto il passaggio, ma senza una guida lì sotto avremmo sicuramente finito per perderci. Sapevamo che i Locksley entravano ma non uscivano dalla porta della locanda: all’inizio pensavamo ne usassero una di servizio, ma poi abbiamo capito che l’uscita del passaggio doveva essere da qualche altra parte, molto lontano dall’Old Dempsey Inn

Lizzie era decisamente stupita dall’intraprendenza e dall’arguzia delle due giovani donne: sotto quelle chiome scarmigliate dovevano nascondersi delle teste davvero niente male. «E come avete fatto a trovarla? Londra è piuttosto grande.»

«Infatti davamo la partita ormai per persa… finché Helen non ha accalappiato il giovane Henry.»

«Io non ho accalappiato nessuno» chiarì Helen, indignata. «Henry cercava semplicemente un’anima affine con cui condividere le sue meditazioni sul Salmo quarantaquattro… smettila di guardarmi a quel modo, di grazia.»

«Fatto sta» proseguì Jane, continuando a fissare Helen con la necessaria dose di sarcasmo, «che il povero Henry pensava di avere a che fare con una sciocca sguattera baciapile, così le dava appuntamento… proprio qui.»

L’acqua ormai arrivava alle caviglie, ma a una decina di metri la galleria si interrompeva, aprendosi su una piccola spiaggia fangosa, oltre la quale le acque scure del Tamigi avanzavano pigre e minacciose.

Come se l’avesse realizzato solo in quel momento, Lizzie sollevò l’orlo della gonna del vestito: una striscia nera bordava l’abito come una decorazione di sartoria.

«Oh, quello è il minimo» commentò Jane. «Fortunatamente non vi è ancora toccato di passeggiare nelle fogne.»

«Un tempo ci si poteva fare il bagno, nel Tamigi» disse Helen, con nostalgia.

«Un tempo quando.»

«Beh, non lo so. Ma sicuro un tempo si poteva.»

«Forse il giorno della Creazione. Un minuto dopo questo fiume già puzzava di m—»

«Jane.» 

«Va bene, va bene…»

«Mi permetto di dissentire» si insinuò nella conversazione Lizzie. «Non ritengo sia stata questione di tempo: sono convinta fosse proprio nelle intenzioni del buon Dio far sì che il Tamigi puzzasse, da sempre e per sempre, di incontestabile merda.»

Helen e Jane si fermarono a guardarla, meravigliate e prese alla sprovvista da quell’oscenità uscita dalla bocca di una simile donna.

«Oh» disse Lizzie, rendendosi conto di quello che aveva detto. «Chiedo venia.» prese la gonna con pollice e indice di entrambe le mani e proseguì impettita, fuori dalla galleria. «Vedete cosa succede a trascorrere troppo tempo nell’East End...»

 

 

Mrs Darcy non aveva tutti i torti, pensava Jane mentre la suddetta, lei e Helen risalivano le scale che dalla fetida spiaggia portavano su una – non molto meno fetida, a dire la verità – piccola strada, dominata dal fantasma di una fabbrica ormai in disuso. Troppo tempo nell’East End e diventi qualcos’altro: ti confondi con le pareti luride delle catapecchie, impari a cambiare strada quando incroci un certo sguardo, sparisci tra la folla di mendicanti e poveracci. Diventi tutt’uno con il fango – e con le creature che lo abitano.

Ecco perché, nonostante gli stivaletti inzaccherati e l’abito sporco, la nuova Locksley ben fermentata spiccava come uno schizzo di vernice bianca in una miniera di carbone: riaccompagnarla alla locanda senza farle capitare nulla poteva essere potenzialmente complicato.

«Helen» disse alla sua partner, avvicinandosi per non farsi sentire da Elizabeth. «Dobbiamo pensare a come tornare all’Old Dempsey Inn. Pensi che Fagin sia disponibile per farci da scorta?»

«Non so» le rispose Helen. «Credo stia ancora aspettando la seconda metà del pagamento dell’altra volta.»

«Diamine, è vero. Beh senti, la signora qui sembra piuttosto ben fornita di quattrini. Se gli promettiamo il doppio—»

«Signor Milford, da questa parte!»

Helen e Jane si girarono verso Lizzie, spaventate da quelle parole esclamate così dal nulla. Videro la donna avanzare verso una carrozza, il cui cocchiere le fece un cenno di saluto.

«Tutto bene, Mrs Darcy?» chiese il cocchiere, preoccupato di vedere la sua signora sbucare dal Tamigi con la gonna inzaccherata di fango.

«Ragionevolmente, signor Milford, ragionevolmente: sono viva e in salute, ma desidero quantomai abbandonare questo posto. Ma voi come avete fatto a trovarci?»

«Il locandiere, Mrs Darcy: mi ha detto lui dove andare.»

«In fondo avevate ragione, signorine» disse Lizzie rivolta a Jane e Helen. «Il signor Dobbs ha un cuore d’oro, a quanto pare.»

«Un galantuomo d’altri tempi» disse Jane, con un sarcasmo che non poteva fare a meno di piegarsi di fronte all’evidenza dei fatti.

«Sarà mio piacere ringrazierlo debitamente. Ora però salite: non credo di aver mai avuto tanto bisogno di un cambio d’abito.»

«Non così in fretta, madam

La nuca di Jane fu attraversata da una scossa. Helen strinse i pugni, la mascella contratta che tremava impercettibilmente.

Sulla strada, cinque uomini bloccavano il passaggio. Nessuno di loro li aveva sentiti arrivare.

«Vorremmo discutere con voi di certi avvenimenti, Mrs Darcy. Sarebbe il caso che ci seguiste.»

«Chi siete?» disse Lizzie, una mano aggrappata alla maniglia dello sportello della carrozza, come se solo con la forza della propria stretta potesse far partire la vettura e fuggire via di lì. «E come fate a sapere il mio nome?»

«Sappiamo molte cose, Mrs Darcy. E sappiamo che lei vuole conoscerne altrettante. Una congiunzione di intenti non indifferente, non trovate?» 

Jane notò che Helen cercava di richiamare la sua attenzione. Teneva il braccio dritto lungo il corpo, la mano chiusa a pugno. Aprì la mano e agitò le dita, poi le chiuse tutte tranne il pollice, che girò a indicare le proprie spalle.

Altri cinque. Dietro di noi.

«Ora basta» intimò il cocchiere, tirando fuori da un vano del sedile una pistola. «Spostatevi, o sarò costretto ad usarla.»

L’uomo che aveva parlato fino a quel momento sospirò, come se stesse assistendo ad uno spettacolo teatrale di scarsa qualità. Poi, con un movimento così fluido da sembrare quasi sovrannaturale, estrasse una pistola dalle falde del cappotto e sparò al cocchiere.

Lizzie si lasciò scappare un grido, mentre il corpo dell’uomo si afflosciava sul sedile e la pistola cadeva a terra, il tonfo dell’arma ancora coperto dall’eco dello sparo. 

«Non avrei voluto, Mrs Darcy. Ma come ritengo avrete ormai capito, la vostra è una situazione che non concede mezze misure.»

Il volto di Lizzie aveva perso qualunque colore. «Va bene» disse, cercando di non far sentire quanto le tremasse la voce. «Verrò con voi. Ma vi prego, lasciate andare le ragazze: non hanno niente a che vedere con questa storia.»

«Oh, Mrs Darcy» le rispose l’uomo. «Cosa vi avevo detto riguardo alle mezze misure?»

Jane indietreggiò verso destra, fino sbattere la propria spalla contro quella di Helen. Sentì le dita di lei cercare le sue, e gliele strinse con tutta la forza di cui era capace.

«Uccidetele.»

Nei tre secondi che seguirono, Jane registrò una serie di accadimenti talmente rapidi che la sua mente non riuscì a separarli uno dall’altro – finendo per fonderli in un’unica girandola di luci, odori ed emozioni. Per prima cosa, vide l’individuo più a sinistra – un tipo incredibilmente magro con due occhi enormi che parevano strappati ad un pesce morto – dischiudere la bocca e sorriderle in modo spaventoso con una chiostra di denti gialli e spaccati; poi lo osservò avanzare verso di lei, estraendo un lungo coltellaccio arrugginito dalla cintura; infine, rimase a guardare impotente mentre una freccia gli compariva improvvisamente dentro la testa, facendogli roteare gli occhi e consentendogli solo un altro paio di passi prima di lasciarlo cadere a faccia in giù sulla strada.

«Ma cosa—»

Altri due stramazzarono a terra, falciati da una mano invisibile ed estremamente precisa. Il tizio che aveva parlato a Lizzie estrasse un’altra pistola, la puntò verso il tetto della fabbrica in rovina dall’altra parte della strada e premette il grilletto: per tutta risposta, una freccia lo trafisse alla coscia. Con un ringhio di sfida, l’uomo riuscì a restare in piedi, mentre con la calma glaciale di un fante ben addestrato prendeva una cartuccia dalla tasca del cappotto e strappava con i denti un’estremità dell’involucro di carta; non ebbe però il tempo di ricaricare la propria pistola, perché qualcosa di estremamente agile e pericoloso piombò su di lui dall’alto, facendolo cadere a terra e sbattendogli violentemente la nuca sul terreno.

«Jane!»

Il grido di Helen fece ruotare Jane con rapidità animalesca. Avvertì qualcosa mordergli l’avambraccio, inciampò sul terreno sconnesso e cadde malamente di schiena, convinta di doversi proteggere dall’attacco di un cane da guardia: davanti a lei, però, c’era un ometto tarchiato che stringeva convulsamente una mannaia, sul cui filo brillava cupamente quello che doveva essere il suo sangue.

Nel vedere il suo viso contorto dal furore dello scontro, Jane fece qualcosa che mai avrebbe ritenuto possibile in una situazione come quella: sconvolta dall'adrenalina, scoppiò a ridere. 

L’ometto stava per calare la mannaia su di lei, ma quella reazione così improbabile lo colse di sorpresa. Esitò giusto per un momento, ma fu sufficiente: l’ombra assassina superò con un balzo Jane e passò oltre l’uomo, facendo balenare l’acciaio ricurvo di una sciabola sul suo collo. Spinto dalla forza del colpo, l’uomo andò a sbattere la schiena sulla carrozza, proprio accanto a Lizzie, la gola tagliata come se fosse stata di carta velina.

Dei dieci uomini che avevano circondato la carrozza, ne restavano solo quattro. Uno di loro provò ad attaccare l’ombra con un affondo di una grossa spada da cavalleria; lei evitò agilmente il colpo, si portò al suo fianco e gli affondò la sciabola proprio sotto le costole, infilando e ritraendo la lama con la rapidità di uno scorpione. Mentre l’uomo cadeva in ginocchio, gli altri tre decisero di averne avuto abbastanza: rapidi come erano giunti, rinfoderarono le armi e si dileguarono.

Con uno svolazzo della lama, l’ombra appoggiò la sciabola sulla spalla della sua ultima preda – che in tutto quel trambusto non aveva ancora avuto il tempo di rovinare a terra ed esalare l’ultimo respiro – la ripulì dal sangue con due gesti fluidi e la rinfoderò con la naturalezza di una dea della guerra.

Lizzie osservò con disgusto l’ometto accanto a lei scivolare a terra, il collo lordo di sangue e lo sguardo ormai spento. Sollevò lo sguardo verso l’ombra, e vide che aveva le fattezze di una donna olivastra dai folti capelli corvini; sulla punta del naso alla greca, solo una piccola macchia di sangue si permetteva di contaminare il rigore del ponte che dritto e implacabile scendeva dalle sopracciglia alla bocca. 

«Bontà e misericordia» mormorò Lizzie. «Ma voi chi siete?»

«Il mio nome è Haydée» disse la donna, una remota traccia di francese nel suo inglese impeccabile. «E temo, Mrs Darcy, che voi siate in guerra.»








L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Ho sempre voluto continuare questa storia, ma ci è voluta l'azione combinata della mia ragazza e dell'insuperabile Dira perché le Straordinarie Gentildonne ritornassero nuovamente a far danni: a loro due il merito (o il terribile biasimo) di avermi fatto continuare questo attentato alla letteratura ottocentesca. 
Molto probabilmente Haydée (che, per chi non lo sapesse, è una principessa greca che ne il Conte di Montecristo finirà per diventare la moglie del suddetto) è un po' over-powered, visto che è una macchina da guerra supergnocca con – addirittura – l'accentino francese. Ma sapete cosa? Lei se lo merita. Perché sì.
E come ha giustamente detto, per la signora Darcy e relativa compagnia le cose sembrano farsi decisamente complicate: a Londra pare esserci in atto una guerra segreta. E in guerra, si sa, la cosa fondamentale è fare squadra.
(Oltre che sopravvivere, ma questa è un'altra fanfy.)
Se dopo ancora cinque anni siete qui a continuare questa storia, devo proprio dirvelo: non vi merito. A tutti gli altri: probabilmente non vi merito lo stesso, ma sono comunque un sacco contento che siate qui.
Tante care cose, alla prossima e sic semper tyrannis, miserabile screanzato!

 

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