Ekaterina. La fuggitiva.

di Luna_R
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Elena. ***
Capitolo 3: *** Potere e diritti. ***
Capitolo 4: *** Ekaterina. ***
Capitolo 5: *** Affinità. ***
Capitolo 6: *** La fuggitiva. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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Ekaterina. Prologo.



La finestra era aperta alle spalle del suo aguzzino, riuscì a scorgere dal limbo della sofferenza, una striscia del mare di Odessa e fu felice di morire guardando per l'ultima volta, qualcosa che le ricordasse casa sua.

Era sciocco pensarci.

Era sciocco non provare una parvenza di paura.

Era sciocco patriottismo e vana speranza di essere appartenuta veramente a qualcosa.

I suoi genitori l'avevano venduta. Così, tutto era cominciato. E così, tutto stava per finire.

Era sciocco, sì.

Era sciocco avere diciassette anni e trovarsi sul punto di morte.



"Dì le tue ultime preghiere."



Udì, prima che il boato di uno sparo, risucchiò la sua vita in un secondo.



Fine.



NDA:

Ho per la testa questa storia da un pò.

Se in voi ho instillato una goccia di curiosità, seguitemi in questa avventura.

Un grazie a chi lascerà un commento.

Un altro a chi curioserà fra le mie storie in trepida attesa di valutazione.

Lunaedreamy

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Capitolo 2
*** Elena. ***


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Elena. Capitolo 1.



Le luci al neon le attraversarono le pupille scintillando negli occhi bistrati di nero fumo.

C'era il ghiaccio eppure il fuoco in quegli occhi, azzurri come un cielo al mattino, caldi come la fiamma.

Il corpo sinuoso scivolava sul palo da lap dance di uno squallido locale della Brianza, mentre la musica assordante dalle casse, si confondeva in un cocktail di stordimento e alcool in tutta la sala; c'era pienone, come tutti i venerdì quella era la serata di punta di una settimana a fasi alterne. Gli uomini si sentivano più rilassati, manger con la ventiquattro ore poggiata ai piedi dei tavoli come i ragazzini con gli zaini a scuola, operai con inguardabili camicie dal doppio colletto. Tutti con il medesimo scopo; sesso. Con gli occhi, con la bocca o il resto.. non faceva differenza.

E non la faceva nemmeno per lei, ballerina sul palco e intrattenitrice dietro le quinte.

Era la ragazza più in voga del Paradise, una vera bellezza in forme bombastiche, che madre natura le aveva abbondantemente conferito e con la quale si dimenava, sbattendo le ciglia folte sul viso angelico. Era la più bella e lo sapeva, non tentava nemmeno più di nasconderlo vestita -o meglio, svestita- di striminziti completini intimi -quando non volavano via dopo lo show- e il sorriso cinico, che le sporcava le labbra carnose.

Provava un senso di delirio e onnipotenza, così stagliata in alto, flessuosa al ritmo di musica forte; quegli occhi addosso la mandavano in estasi, ma non era certo un'esibizionista, una che aveva scelto quella vita per il puro piacere del sesso -una ninfomane per farla breve- bensì, come quasi la metà delle donne che calcavo quel palco e le stanze barocche del club, quella vita le era caduta addosso nel momento peggiore della sua vita, quando tutto sembrava perduto e d'improvviso si apre una porta oltre il buio; vi si era gettata, consapelvolmente, per vivere, sopravvivere.

Perchè al mondo c'era davvero qualcosa di peggiore e distruttivo, che sculettare su un palco in guepiere o vendersi ad ogni sorta di uomo; quella cosa.. era la morte. E lei voleva disperatamente vivere. Vivere.

Era approdata al Paradise sette anni prima, con un'identità che non era la sua e minorenne.. per una che decide di cambiare nazione, vita e trovarsi un'occupazione; alla stazione di Ancona aveva fatto la conoscenza di un tale di professione manager, amico di Marcello proprietario del club, che vedendola vagare con una valigia di quelle uscite da un film degli anni cinquanta, con la scusa di aiutarla, l'aveva abbordata riempiendola di complimenti.

"Ti te see proprio bonn", le aveva detto.

Lei aveva scosso la testa e con una pronuncia dell'est aveva storpiato una risposta. "Engleesh." English.

Così l'uomo le aveva parlato in inglese fino al piazzale della stazione e poi ancora fino alla macchina -convincedola che una con il corpo come il suo poteva ambire nel lavorare in televisione e che l'avrebbe indirizzata lui in un posto dove stare fin tanto che non le avrebbe procurato qualche provino- ma al solo pensiero di finire in una televisione nazionale e forse europea, era inorridita voltando completazione direzione. L'uomo l'aveva raggiunta chidendole scusa, che forse le stava mettendo troppa pressione. "Hai gli occhi tanto belli. Mi ricordi mia sorella. E' morta di leucemia quando era piccola; sognava di fare l'etoile. Sai cos'è no?" Si era giustificato.

Sì che lo sapeva. Era una ballerina, ad Odessa. Prima che i suoi genitori si trasformassero negli orchi di tutte le fiabe, l'avevano fatta studiare, ballare persino, educata secondo gli usi e le arti ucraine per poi diventare donna.

Poi era arrivato un inverno freddo e anche la fame. Suo padre, banchiere con la fissa degli investimenti, aveva perso tutto quello che c'era da perdere e non solo; aveva stretto accordi con i più malfamati esponenti della Solncevskaja bratva o brigata del sole e quando questi si erano visti derubati dei loro introiti, in un agguato d'avvertimento avevano colpito a fucilate sua madre costringendola su una sedia a rotelle per il resto della vita.

Il messaggio era chiaro, ma suo padre quei soldi non li aveva e si era trasformato giorno dopo giorno in un uomo orrendo, spietato, cinico; una sera, la sera più buia di tutta la sua esistenza, in un bordello fuori città fra fiumi di vodka e mani vincenti di poker, aveva avuto la fortuna di accattivarsi e stringere un patto con uno dei figli di un boss maggiore, promettendogli la sua unica figlia come sposa e la totale disponibilità in tutto ciò che riguardava i suoi traffici illeciti. Il matrimonio gli avrebbe concesso l'intoccabilità e il risanamento dei debiti, l'alleanza gli permetteva di vivere.

Sua madre non si oppose, se è questo che vi state chiedendo; ombra della donna forte che era stata si lasciò annientare dalla sua invalidità chiudendosi a riccio e in un silenzio profondo. Non fiatò nemmeno quando a quindici anni, la vide percorrere il ballatoio della loro casa nel quartiere popolare dove erano finiti dopo la perdita dei soldi, in un abito da sposa troppo sensuale e sfarzoso per una ragazzina di quella età. Se ne era stata zitta, in quello sguardo assente e velato privo di lacrime per quella figlia incontro all'ignoto e rubata all'età in cui le ragazzine devono vivere i primi batticuore con i loro coetanei e non sposarsi con delinquenti più grandi.

E non devono essere vendute, perché questo era accaduto.

Il giorno del matrimonio Alexsander Barajev, figlio di Mikhael Barajev detto anche “il ribaltabileladro della legge dell'organizacija si presentò a casa sua nel pieno dei preparativi, con l'equivalente del suo peso in chili d'oro stipato in borse di finissima pelle scura; le aveva gettate ai piedi di suo padre a cui erano brillati gli occhi alla sola vista, per poi farsi strada con prepotenza, fino alla stanza dove alcune cugine la stavano aiutando a prepararsi.

Una di queste scattò in avanti, coprendola alla sua vista me egli la scaraventò in angolo con un malrovescio.

Da oggi in poi tu sarai mia. E farai esattamente tutto ciò che è in tuo potere per obbedirmi.

L'aveva poi guardata, con occhi bramosi indugiando sul collo latteo e il solco fra i seni strizzato in un bustino velato che lasciava ben poco spazio all'immaginazione e alla pudicizia.

Spero ti piaccia.” Aveva riposto lei, addolcendo la paura di quell'irruenza, con voce tenue e ingenua.

Mi piace di più quando mi viene risposto sì ad una domanda.“ Poi aveva fatto cenno ad uno scagnozzo di avvicinarsi facendosi porgere un astuccio di pesante velluto rosso. “Manca ancora qualcosa. Devi risaltare, devi essere la creatura più bella che Odessa abbia mai avuto; tutti dovranno guardarti, uomini e donne senza alcuna distinzione, ti invidieranno desiderando essere al tuo posto.”

Deglutì, quando le sue mani le circondarono il collo con una cascata di gocce di diamanti incastonati in un collier pesante quanto la sua testa e il fiato morì sulle labbra, quando con quelle stesse mani la tirò verso la sua bocca, tirandole i capelli.

Ricordava ancora quella lingua spugnosa sbatterle contro i denti, la saliva che si accumulava e lui che la baciava senza castità e pudore per quel pubblico che avevano intorno, con le mani che vagano nella gonna ampia del vestito e s'insinuavano nel corpetto, intorno al seno. Era il suo primo bacio. Si sentì morire e si sentì in trappola.

Quello, fu l'inizio della fine.

Ed anche l'ultima volta che vide sua madre la muta e suo padre, l'orco.



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Con una spaccata che lasciava ben poco spazio all'immaginazione, chiuse il numero della serata.

Le banconote svolazzavano dall'alto e sulla sua testa come i lustrini che erano piombati dal soffitto.

Era mezzanotte. Riusciva a sentire l'orologio della torre nella cittadina in lontananza nonostante la bolgia da eccitazione e gli epiteti con la quale gli uomini affamati le chiedevano di restare.

Qualcuno di loro sarebbe stato accontentato, ma per scoprirlo doveva rivestirsi e attendere al bancone che fioccassero le proposte; spesso non erano nemmeno considerabili per il suo standard, ma ormai riusciva a capire cosa cercava davvero un uomo da quell'incontro, con un solo sguardo.

C'erano state notti costosissime passate a parlare e notti in cui aveva regalato una passione sfrenata.

Quello era l'aspetto più seccante del lavoro.

Vestire i panni di manager di se stessa, giocando a rimpiattino con perfetti sconosciuti.

Ma ogni notte era diversa dall'altra e questo eccitava e nutriva la curiosità più di quanto non riusciva a fare il pensiero di scopare a comando. Di certo non aveva una vita noiosa.

E avrebbe preferito pernsarlo ancora a lungo, di avere una vita di cui parlare, perchè quella sera i suoi incubi peggiori, la raggiunsero.



«Elena c'è un tizio che ti cerca.»


Una ragazza del club attirò la sua attenzione entrando in camerino; si faceva chiamare Mercedes, ma i più l'avevano ribattezzata "War Machine" e questo lasciava ben intendere sulle sue prestazioni. Aveva una sensualissima voce roca e quella sera agitava un collare che le scendeva sul seno scoperto.

«Chi è?»

«Non lo ha detto. E' sul retro che chiede di una ragazza con una tua foto in mano.»

«Gli hai detto che sono quì?» Domandò schiva, sulla difensiva.

«Con chi pensi di parlare, bella?» Rispose quella in tono scherzoso ma duro; afferrò il frustino dalla sua consolle ed Elena pensò che obbiettivamente il sadomaso era una pratica che le si addiceva. «Non si tradiscono i segreti delle sorelle.»

La ridicola storia della sorellanza, già pensò.

Una cazzata da cameratismo che non sopportava, dopo aver visto colleghe scannarsi a colpi di stiletto per denaro o favori. Nel club vigeva una sola regola universale applicabile a chiunque di loro volesse farne parte; vendere il prodotto, non importava come o secondo quale propria etica o morale, bisognava produrre introiti e che questi venissero dai drink fatti scorrere a fiume o dalle prestazioni private non importava, il guadagno si doveva vedere.

E non si parlava certo di spiccioli.

Marcello una volta in un delirio da coca l'aveva accompagnata in uno scantinato di cui ignorava persino l'esistenza, quasi pregandola, di aiutarlo a smazzettare, aveva detto; difronte alla montagna di denaro che se ne stava accatastata in mucchi su di un tavolo, capì alla svelta il significato della parola. Marcello la obbligò a non ripeterla mai più.

Quel giorno capì che di lei si fidava e che l'avrebbe protetta, anche se la rivoltella sul tavolo sulla quale era posata la sua mano nervosa mentre muoveva frenetica la sua sui soldi, le faceva credere qualsiasi cosa.

Il giro di affari intorno al sesso era una cosa quantificabile certo, ma che faceva tremare i polsi, lo sapeva bene.

E sebbene fosse una favorita, era perfettamente a conoscenza della regola suprema e che non doveva dimenticarsene mai.

Se non eri nella scala dei più forti te ne andavi, semplice.

E non poteva permettersi questo lusso.

«Grazie!» Le urlò dietro Mercedes agitando ancora il collare.

Se ne era andata via sbattendo la porta e non l'aveva nemmeno ringraziata. «Ekaterina.» Pronunciò dal nulla.

Si fermò, il sangue via via più lento, a ghiacciarle la pelle. «Ha detto che ti chiami così. Bel nome, cazzo!»

Scosse il capo, voltandosi. Gli occhi ardevano. «Mi chiamo Elena.»

Quella capì e sorrise maliziosa. «Certo.»


Il club aveva delle stanze per le prestazioni private di ogni tipo e fantasia; orgie, scambi di coppia, sesso sadomaso, lesbo, gay non perchè si volessero fare delle distinzioni, ma perchè ognuna era creata ad arte per far si che l'esperienza, così Marcello solerte chiamare le porcate, risultasse indimenticabile ma anche amabile e goduriosa nello svolgerla. Non era quindi difficile trovare svariato materiale per ogni esperienza ma anche stile per ogni ambiente; essenziale, quasi primitivo per il sadomaso, soffuso e tenebroso per gli scambi di coppia fino ad arrivare al buio più totale e ad ogni sorta di divano o letto, in quella per le orgie.

Il tutto era collocato al primo piano; un intero piano dedicato alle fantasie.

Poi c'era il secondo, gli uffici in cui operavano Marcello e la sua squadra.

Il terzo e il quarto, le camere private delle ragazze.

Lei abitava nella sua stanza, nel senso che era una vera e propria casa.

Entrare nelle grazie del capo le era valsa quella che a tutti gli effetti era una vera e propria suite; era successo molto prima della camera dei soldi, in verità l'uomo si era fatto intenerire dai suoi occhi puliti non appena l'aveva vista arrivare, sulla station vagon del manager. Minorenne, sicuramente vergine, scappata da chissà quale cazzo di paese dell'est martoriato dalla fame -lo aveva sentito dire all'altro- si merita la stanza più confortevole che ho per quello che le lascierò fare.

Il manager si era fatto una grossa risata proponendogli di lasciare fare prima a lui qualcosina, ma quello lo aveva mandato a cagare e lei ne fu felice perchè era brutto e grasso.

Anche se lei.. non era vergine.

Ma questa storia la tenne lontana da quel mondo per tutto un anno, fino alla maturità, Marcello le aveva insegnato a fare drink e lavorava al bar nelle sere delle esibizioni; quando intuì il giro di guadagno che c'era dietro gli spogliarelli si propose per prima. Il resto, fu una naturale conseguenza del lavoro.

Ma non era la sete di denaro a muovere il suo corpo. Non quella che starete pensando, almeno.

I soldi erano un mezzo per comprare il silenzio.

E il silenzio era tutto ciò che le serviva. A qualsiasi prezzo.


C'era davvero un uomo sul retro, a fare domande.

Si morse il labbro, squadrando la figura dal parapetto della finestra sul corridoio degli uffici; bassa statura, un cappello di lana calato su capelli corti e quella foto fra le mani. Era immobile e fumava una sigaretta muovendo solo gli occhi a destra e sinistra su qualsiasi movimento fortuito.

Per una frazione di secondo alzò il capo; Elena arretrò in fretta con il cuore a mille in gola. Cazzo, pensò.

Salì automaticamente tutte le rampe di scale fino alla sua stanza dove vi si chiuse dentro, a doppia mandata più chiavistello. Qualcuno bussò alla porta poco dopo.

Impossibile, pensò afferrando il taglia carte da un cassetto in salotto.

Sfilò lo spioncino. Era Marcello.

Aprì ma lasciò che entrasse da solo per portarsi ancora alla finestra.

«Chi è quel tipo che sta facendo domande, lo conosci?»

In certe situazioni l'uomo aveva il pieno possesso del controllo; ed era impensabile il contrario, visto il flusso di uomini al quale di certo non chiedeva un referto psicologico per entrare nel club. In questo si faceva scudo con la sorveglianza, ragazzi prestati dalle scuole di arti marziali per lo più o di boxe.

«Non lo so. Ma ha una mia foto, dicono.»

«Sei tu, ma non lo sei veramente.» Le rispose criptico. «Non ho nessuna Ekaterina Murjel fra le mie fila.» Si avvicinò, guardando giù. Non c'era più, se n'era andato. «Dico ai ragazzi di non farlo avvicinare una seconda volta, ma tu prima o poi mi devi raccontare da chi stai scappando.»

«Dalla fame.» Gli rispose dura.

«La fame non ha gambe per camminare.»

E capì di non avere più una copertura. Credeva di avere gli occhi spalancati, addirittura terrorizzati ma li tenne fermi in quelli di Marcello, senza indugiare. «Non puoi buttarmi fuori da quì, ti convengo più di quanto tu convieni a me.»

«Questo è vero. Oggi. Ma domani potrei trovare una Elena che mi costa meno e non da noie.»

«Puoi trovare tutte le Elena che vuoi, ma nessuna Elena sarei io.» Ribattè, sicura.

Marcello si passò la lingua sul labbro, avvicinandola a se con forza; non erano mai stati tanto vicini prima di allora.

La portò con se vicino alla porta, che chiuse con un calcio, per poi spingerla delicatamente contro.

«Marcello..» Borbottò quando vide avvicinare la bocca alla sua. «Niente sesso con il capo.»

L'uomo scosse il capo come fosse stordito da quelle parole; si allontanò di scatto, quasi vergognandosi.

«Io..» E sembrò piccolo, piccolo e vunerabile. «Non voglio rogne. Chiunque sia, tienilo lontano da quì.»

«Va bene.» Disse ad alta voce per sembrare credibile.

Si spostò per permettergli di passare, quello attraversò l'uscio con un aurea funerea.



Era nei guai.



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L'aria umida della sera le attraversava le narici e bruciava.

Doveva trovare quel maledetto e scoprire chi fosse; dopo quello che era successo, Marcello avrebbe fatto qualsiasi cosa per togliersela da torno, ne era certa; il loro fragile rapporto di fiducia era stato minato dalle pulsione che andava ben oltre, la protezione che si era immaginata.

«Dovevo lasciare che mi baciasse.» Si rimproverò ad alta voce.

Entrò nell'unico pub sulla statale, un pò defilata in cerca di quel maledetto cappello di lana.

Lo trovò sul fondo, ma quello che credeva un uomo, senza l'ingombrante protezione del cappotto, era un corpo allenato da donna che attendeva il suo turno per una birra. Si sentì improvvisamente più forte e incazzata.

Rilassò le spalle e le passò di fianco, stringendole la mano intorno al braccio più forte che poteva.

Quella sobalzò, Elena la trascinò verso i bagni e ci si chiuse dentro.

«Chi cazzo sei?» Rimbrottò, spingendola all'angolo fra il water e la parete fredda.

Non rispose, si tolse il cappello, spettinando dei corti capelli scuri come il carbone. «Perchè fai domande? Cos'è quella foto che hai?» Continuò minacciosa. «Ti ammazzo se non parli!»

«Marishka.» Proferì quella con gli occhi lucidi. «Sono Marishka, non ti ricordi di me?»

D'improvviso gli occhi di Elena si allargarono di spavento ed incredulità.

«La bambina.» Sussurrò, come se quel nome avesse spalancato un abisso. «Come sta la bambina?»

«Cresce ed è forte.. e bella.» Elena non riuscì a trattenersi e i suoi occhi si colmarono di lacrime, la donna allungò una mano verso la sua spalla e quel calore sciolse del tutto il suo cuore in singulti. «Ti ho trovata.» L'abbracciò e la lasciò fare fino a che si calmò.

«Perchè sei qui?» Chiese in tono asciutto, quando fu più calma.

«Sei in pericolo. Lui è sulle tue tracce, pedino ogni sua mossa. Per te, come mi hai chiesto.»

«Non ti ho chiesto questo.» La rabbonì, immaginando il suo viso latteo grigio morte. «Eppure non ti ho mai ringraziata.»

«Ho fatto una promessa, ricordi?» Le sistemò i capelli dietro gli orecchi, accarezzandole il viso come una madre. «Ha degli agganci quì, una persona che gestisce molti soldi con cui parla di mettersi in affari. Non so come abbia fatto ma è saltato fuori il tuo nome in questi giri ed ha subito messo una taglia per chi ti trovasse.»

Elena strinse forte gli occhi, espirando pesantemente. «Immagino siano legati alla prostituzione questi affari.»

«E' questo quello che fai quì?» Azzardò la donna ignorando il suo commento.

«Perlopiù.» Rispose senza candore.

Marishka annuì debolmente, chiaramente sconvolta. «Quel giorno avrei voluto che il cervello saltato in aria, fosse stato suo.»

«Anche io, credimi. Ma è troppo furbo per sporcarsi le mani.» Un ghigno le increspò le labbra, inspirò ancora una volta stringendo la donna per le spalle. «Hai qualche nome? Un riferimento?»

«Non so altro.»

La ragazza annuì. «Adesso è meglio se prendi il primo aereo e te ne vai.» Si frugò nelle tasche del cappotto e vi tirò fuori delle banconote da cento euro che le infilò nella mano gelida.«Probabilmente se tu sei arrivata a me anche lui ci arriverà presto.» Si sfilò frettolosamente la catenina d'oro che aveva appesa al collo e gliela diede. «Penso sempre a lei, questo devi dirle.»

«Lo sa. Mi chiede spesso di te, le dico sempre che tu tornerai a prenderla.»

Elena annuì, ma non rispose, liberò la sicura della porta e fece cenno con il capo di uscire; restò qualche attimo a fissare Marishka mentre s'infilava in un'uscita secondaria per poi coprirsi a sua volta il capo con la sciarpa, guardarsi attorno circospetta e guadagnare l'uscita principale a passo spedito.



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Tre settimane dopo, il Lambro rigettò sulla sponda il cadavere di una donna dai capelli scuri come il carbone.


Fine.


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Capitolo 3
*** Potere e diritti. ***


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Potere e diritti. Capitolo 3




Il periodo fra Natale e Capodanno risultava sempre un momento di magra, per le casse del club.

Chi lo sa che a Natale oltre ad essere più buoni, i clienti non si imponessero di essere anche dei fedeli cristiani.

E si capisce.. andare a puttane non fa molto Natale.

Tutto rientrava nella norma il primo weekend dopo Capodanno, perchè le ragazze la notte della befana si agghindavano come delle megere in autoreggenti a rete, da far rizzare i peli anche ai più casti e bruciare in una sola notte, tutti i buoni propositi per il nuovo anno. Era un periodo di penitenza e autogiustificazioni, così magari capitava il cliente che aveva solo voglia di sfogarsi dopo la strapazzata familiare dalla quale evidentemente non ne era uscito, se non a pezzi.

Elena era stressata in questo periodo e malinconica.

Dormiva abbracciata a un coniglio di peluche rosa e contava i giorni persi con gli occhi liquidi; per lei quei giorni equivalevano a soldi mancanti che non poteva investire nella causa più importante fra tutte. La libertà. Perciò si alzava di malumore e un pò defilata se ne stava al bar, di sera, aspettando di essere notata e poi scelta.

Ultimamente, dopo la venuta di Marishka, s'era aggiunta anche la paura; si guardava attorno come se cercasse in ogni ombra una sagoma distinta, ogni passo era seguito da uno sguardo attento, ogni mossa sottoposta allo scanner acuto dei suoi occhi cobalto. Non era tranquilla, ovunque andasse portava con se un'energia scura, al punto da far voltare chiunque quando entrava in una stanza.

Marcello era strano. E dopotutto sarebbe stato strano il contrario; aveva cercato di baciarla e forse di più, aveva messo a nudo la sua fragilità e rotto quel filo sottile che separava i loro ruoli, sempre così ben definiti, chiari.

Era successo solo una volta da quando era lì e se la ricordava bene.

La ragazza dell'epoca c'era rimasta, ed era impazzita di dolore quando Marcello l'aveva cacciata via, sbraitando che il figlio non era suo e che lei fosse solo una puttana che bramava i suoi soldi; la favola che tutti avevano creduto possibile, consumata fra le mura del club come un romanzo di altri tempi, era stata spazzata via con tutta la freddezza e la cattiveria che un uomo può solo arrivare ad immaginare. Quella ragazza andò via a testa alta, ma pochi giorni dopo giunse notizia che era stata ricoverata d'urgenza per un tentativo di aborto clandestino e non ce l'aveva fatta. Quando le infermiere in punto di morte le chiesero perchè lo aveva fatto, disse che era meglio morta, piuttosto che con in grembo il figlio di un bastardo.

E così fu. Ma non era stata tanto furba, aveva sempre pensato; non v'era consolazione nella morte e lei lo sapeva bene, perchè nel suo ventre s'era nutrito un seme ben peggiore, ma anzichè crogiolarsi in una fuga facile, aveva deciso di lottare, restare e vivere finchè giustizia non fosse fatta.


Guardò l'orologio, scrollandosi di dosso la stanchezza; erano le cinque passate e il locale mano a mano sempre più vuoto.

Gli uomini della security passavano a prendere l'ultimo o forse il primo caffè della giornata e gli toccava questa ultima incombenza, prima di poter mettere via i soldi dell'incasso e tornarsene in stanza.

I due uomini furono rapidi come sempre, le lasciarono la mancia sul bancone e la ringraziarono come tutte le mattine di quelle lunghe settimane passate al bar; fu cordiale come sempre, ma andati via indossò la consueta maschera di cera.

Marcello spuntò da una delle porte principali che dai corridoi esterni portavano alla sala, il cuore del club.

Era scuro in volto. Non disse nulla, passandole dietro le spalle e trafficando con le bottiglie di alcolici in mostra sui ripiani di vetro; udì chiaramente il rumore denso del liquido scivolare nel bicchiere e poi un sospiro pieno.

"Cristo." Imprecò, gettando in un angolo il silenzio. Adesso si era girato e sentiva i suoi occhi dietro alle spalle.

Si voltò anch'ella, piano, guardando con commiserazione il bicchiere di whisky pieno per metà stretto nella sua mano.

Il volto si contrasse in una smorfia. "Quegli occhi sembrano sempre giudicarti.." Biascicò.

Elena non rispose, limitandosi a gettargli accanto il bossolo con il denaro.

"Ti sei persa la lingua?" Continuò pungente, spostandosi da un piede all'altro. "Fuori c'era un pattuglia della polizia che ha fatto un sacco di domande ai miei uomini. Ultimamente quì arriva un sacco di gente, che fa domande."

Alzò gli occhi al cielo, le sembrava di stare ad ascoltare un ragazzino petulante. Si spostò cercando di abbandonare il bancone, ma la sua voce ruvida la perseguitò. "Quella tizia che era qui per te. Il Lambro se l'è portata via."

Marishka, pensò in allarme. Era morta? Deglutì e fu difficile sembrare impassibile.

"Sarà la solita storia di clochard ubriaconi che cadono nel fiume."

"E' quello che ho risposto. Ma un conto è convicencere loro, un altro convincere me."

"E da quando il tuo ruolo è quello di investigatore?" Chiese con sufficenza.

"Mi sembra lecito fare qualche domanda, data la situazione."

"Data la situazione? Mi sembra ti abbiano lasciato andare." Sorrise sarcastica. "Senza contare che la pattuglia è in zona una sera sì e l'altra pure, ma che quì non siano mai entrati. Sei praticamente intoccabile." Avrebbe voluto chiedere di chi fossero le mani che lo proteggevano, ma il suo sguardo ferino, socchiuso, le rizzò i peli sulle braccia.

Meditò di cercarsi seriamente un altro posto dove stare, mentre guadagnava l'uscita, lasciandolo con una risposta appesa alle labbra.

Sali le scale ad una ad una senza un pensiero.

Arrivata alla sua stanza, crollò.

Marishka probabilmente era morta. Sentiva la gelida paura che si cela nella morte, quando ti investe e cadde in terra, piangendo contro il pavimento duro della stanza.



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Si ricordò di avere un contatto di un suo cliente che era primario all'ospedale dove presumibilmente era finita Marishka.

Si infilò nella berlina che aveva acquistato con i primi guadagni anni prima e sfrecciò, senza neanche pensarci troppo, verso l'ospedale fuori città, quello grande e plurinominato.

L'uomo l'accompagnò fino all'obitorio senza fare domande, avvisandola dei due piantoni che erano sul piano.

Lo ringraziò come ci si ringrazia fra amici, con un forte abbraccio e condoglianze.

C'era silenzio e si stupì di aver notato una cosa tanto stupida; si infilò nell'ascensore che dava al seminterrato e quando le porte si aprirono, un uomo dai grandi occhi chiari e il distintivo da poliziotto appeso al taschino, l'accolse con una smorfia di sorpresa. Lo oltrepassò senza dire nulla, cercò l'infermiere che gli aveva indicato il primario e si addentrò nei meandri scuri del locale.

"Sarò nell'ufficio in fondo al corridoio, quando ha fatto la prego di avvisarmi."

Elena annuì ed entrò nella stanza.

Il freddo innaturale l'avvolse come una coperta ghiacciata e il rumore delle ventole incassate al soffito rimandarono un odore acre; la pareti bianche erano coperte di mattonelle smaltate ad eccezione di quella alla sua destra, dove invece facevano bella mostra una decina di sportelli d'acciaio.

Uno era aperto e il suo tavolaccio di ferro completamente in fuori per tutta la lunghezza; un corpo piccolo e una zazzera di capelli scuri cacciarono infondo alla gola lacrime pungenti.


"La conosceva?" Una voce alle sue spalle la fece sobbalzare.

Si asciugò di fretta le lacrime e si voltò. "Sono una tirocinante." Era rimasta d'accordo così con il primario, quando le aveva consegnato il camice bianco da indossare e i dovuti strumenti di precauzione. Si spostò la mascherina dalla bocca, riconoscendo in quell'uomo il poliziotto all'ascensore.

"Ho dimenticato queste." Disse lui quasi giustificandosi, stringendo un paio di chiavi nel palmo.

"Non voglio fare figuracce con gli anziani." Proseguì lei, quando vide che se ne stava andando. "Il colore e il gonfiore mi indica una morte per annegamento ma.. ci sono strani segni sul polso."

L'uomo le si avvicinò; sotto i raggi della lampada ad ultravioletti sembrò più giovane di quello che aveva creduto.

E sorrise all'angolo della bocca, quasi a schernirla. "Vuole sapere come è morta?"

Annuì con occhi ingenui. "Ma non ha letto il referto?"

"Gliel'ho detto, non voglio fare la pivella." Poi sospirò. "Credo che questo lavoro non faccia per me. Mi affeziono a tutti. E non è molto positiva come cosa." Si morse il labbro e sorrise, pregando che mister occhi di ghiaccio si sciogliesse un pò. Era davvero affiscinante, a guardarlo ancora meglio.

Scosse il capo, era stanca cominciava a farneticare.

"E' stata legata per i polsi, dietro la schiena. Ci sono ancora i lividi per i calci che le hanno sferrato, se fosse una del mestiere li avrebbe notati subito." La sua voce così improvvisamente ferma, la destabilizzò.

"Io veramente.."

"Prima che la cosa si faccia davvero seria, le consiglio di dirmi chi è veramente." Proseguì senza espressioni, toccandosi impercettibilmente la fondina appesa in vita.

Aveva pochi secondi per decidere che fare. L'istinto le diceva "scappa".

Prevalse la ragione, stupendosi di avere ancora lucidità e con grande fermezza, rispose. "L'ho conosciuta in un bar, mi ha colpito per la sua generosità e la voglia di vivere. Quando ho saputo che era morta ho sentito il dovere di essere quì."

"Perchè?"

"Pietà? Non so, ho avuto come l'impressione che fosse una donna sola."

"Che lavoro fa?"

Lo guardò con aria di sfida. "Mi sta interrogando?"

"Vuole un permesso scritto?"

"Faccio la ballerina." Disse con reticenza. L'uomo inarcò il sopracciglio. "Ha finito con le domande?"

"Non ancora." Replicò lui. "Le ha detto da dove veniva? Qualche particolare che l'ha colpita, non so una confidenza."

Guardò l'uomo e quegli occhi chiari improvvisamente cupi, sotto le sopracciglia aggrottate ed un lampo di furbizia le accese lo sguardo. "Queste confidenze resteranno fra me e lei?"

L'uomo aprì le braccia e si guardò intorno, tornando a lei con sguardo intelligente; a parte la povera donna, nessuno avrebbe saputo.

"Arrivava dall'est Europa, probabilmente Ucraina, Bulgaria non glielo ho chiesto, ma parlava spesso del mare che vedeva affacciata da casa sua e come era scappata dalla povertà. Le chiesi se aveva qualcuno quì, un appoggio, ma ha negato, forse era appena arrivata, non so nemmeno questo. Si sentiva perseguitata mi ha detto, ma non ha aggiunto altro. Non l'ho più vista, fino ad oggi."

L'uomo socchiuse gli occhi. "Non credo mi abbia raccontato tutto, ma prenderò per buono quel poco che dice." Le fece strada verso l'uscita, Elena guardò un ultima volta la donna, prima di voltarsi. "Di lei invece, cosa mi dice?" Insistè, scortandola fino alla sala dove l'infermiere li guardò scocciati, posando il cruciverba sulla scrivania.

A passi svelti si diresse verso l'ascensore che l'avrebbe riportata alla luce, con il poliziotto alle costole che attendeva una risposta. "Non c'è nulla di interessante da sapere sul mio conto."

"Lo lasci dire a me."

"Le ho fatto delle confidenze, è contro il suo potere e diritto chiedermi oltre."

L'uomo schioccò la lingua sinceramente colpito. "Sembra molto sicura di se."

Lo guardò di sottecchi. "Questo è una sua opinione personale."

L'ascensore suonò l'arrivo, l'uomo inforcò gli occhiali da sole, prima di lasciarsi andare ad un sorrisetto.

"Che intende fare adesso? Intendo dire con la donna. C'è la probabilità che io possa concederle grazie al mio potere il diritto di poterle offrire una degna sepoltura."

Elena s'arrestò. "Lei è molto scaltro, se lo faccia dire."

"Abbiamo qualcosa in comune, vede?" Replicò lui. "Allora, accetta?"

"Accetto ad una condizione." Rispose.

"Sarebbe?"

"La raggiungerò io in questura nei prossimi giorni. Arrivederci.."

"Ispettore Colonna." Biascicò lui.

Elena annuì con il capo, allungò il passo e raggiunse la sua berlina senza voltarsi.



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"Ci ha messo un secolo." Migliaccio, suo collega da qualche mese, lo redarguì non appena rientrò nella volante.

"Ho fatto uno strano incontro." Gli passò le chiavi e guardò nel parcheggiò dell'ospedale come se cercasse qualcosa. "Segui quella macchina." Disse perentorio; Migiaccio eseguì l'ordine,

"Devo estendere l'ordine ad altre pattuglie?"

Negò con il capo. "Stiamo defilati."

L'auto che stavano tenendo d'occhio sfrecciò di lato a pochi metri dalla loro postazione ma Migliaccio riuscì comunque a notare nelle fattezze una donna al volante; si girò verso il collega e lo guardò sornione. "Comprendo,ispettore." Disse.

"Migliaccio non mi far pentire della scelta di averti voluto con me." Diede cenno d'avanzare e poi riprese. "Quella donna era al cospetto del cadavere del Lambro e interrogandola ha mostrato incertezza. Temo sappia di più e in qualche modo mi ha fatto capire di essere in pericolo, anche se mostra molta reticenza sul suo conto."

Migliaccio tornò serio. "Crede che sia legata alla banda dell'est?"

"Credo sappia molto di più di ciò che racconta. Ma non si fida."

Migliaccio capì che l'ispettore era nervoso e non chiese altro; aveva imparato a rispettare i malumori di quell'uomo, suo capo da poco meno di un anno e da voci del comando "persona dal passato travagliato", ma lo rispettava perchè invece s'era rivelato un brav'uomo che si faceva gli affari suoi e in più sapeva che c'era da fidarsi, al momento giusto avrebbe tirato fuori la verità.

Sfilarono lungo l'autostrada, un paio di macchine di scarto e il capo via via sempre più agitato, dal momento che la berlina aveva ingranato una velocità più sostenuta.

"Avviso la pattuglia più in prossimità, ed esco al prossimo paese sulla provinciale. La riprendiamo e se pure si accorge degli altri, può pensare sia un giro di ricognizione. Che dice capo?"

L'uomo si toccò il mento. "E' una buona idea, ma credimi è troppo furba." Annuì come se confermasse il pensiero nella sua testa e parlò. "Vediamo dove esce, noi usciremo subito dopo e nel frattempo allerteremo la pattuglia in prossimità."

"Va bene." Concluse Migliaccio e il silenzio calò sulle loro teste.



"Quella strada porta solo da una parte." Disse laconico Migliaccio, mezzora dopo e fermi lungo statale.

La pattuglia di sostegno l'aveva vista imboccare una via secondaria, molto famosa e inconfondibile.

"Al paradise di Marcello Moretti." Rispose fra i denti l'altro.

"Zona rossa, capo. Dobbiamo tornare indietro."

Quello non rispose ma aprì di forza la portiera e prese una boccata di aria fredda.

Il castigo della sua vita era stato finire in quel luogo dove la giustizia aveva un codice personale e s'adattava ai soldi che vestivano le persone d'infamità e vergogna; lui così lungimirante, lui così devoto al suo lavoro adesso si trovava a leccare le scarpe o scartare i potenti dello squallore. Tremava e quel tremore lo sfinì, fino a farlo piegare in due per i conati.

Non era questa la vita che voleva, non era questa la giustizia in cui credeva.



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Aprì gli occhi dopo ore interminabili di sonno, lacrime e incubi.

Gli schiamazzi delle ragazze fuori alla porta della stanza, la destò completamente; guardò l'orologio. Erano le otto di sera e aveva dormito un pomeriggio intero. S'infilò sotto la doccia e uscì con i capelli completamente fradici, mentre s'apprestava a scendere nei camerini da basso, dove l'attendevano frustini e completini osè.

Che notte sarebbe stata quella! Interminabile.

Il suo umore era nero come il carico di trucco che aveva aggiunto ai suoi occhi, così accesi e spiccati in quel fumo; dipinse le labbra di rosso, strizzò il seno in un corsetto dello stesso colore e indossando le autoreggenti di rete con un'occhiata distratta nello specchio, si disse pronta.

Era venerdì. Il suo numero da solista, la solita esibizione che la esaltava e osannava come diamante del Paradise.

Marcello era al bar che la fissò con i suoi occhi d'aquila non appena, con un sorriso smagliante, entrò in sala annunciata a gran voce dal deejey di turno; salì sul palco con leggiadria, accennando una ruota dinnanzi al palo che terminò con una spaccata. Tutti applaudirono eccitati.

Prese il respiro e si tuffò in qualcosa che vagamente le ricordava i tempi in cui da bambina e in tutù, ballava per la sua maestra che la deliziava con complimenti e frasi di speranza sul suo talento, aggrappandosi a quella meravigliosa sensazione d'innocenza, mentre agitava i capelli, quella sera ricci selvaggi e sciolti sulle spalle, in un gioco tutt'altro che innocente.

Si contorceva lungo il palo come una pantera sinuosa in un perfetto e cadenzato ritmo che altro non era che un ballo studiato e preparato dopo molte ore di esercizi che le portavano via parecchie ore del giorno, con un insegnante che Marcello aveva voluto affinchè i loro corpi corpi fossero formati e statuari, desiderabili.

Lui era fermo dove l'aveva lasciato e la guardava, la guardava come se volesse spogliarla.

Lo accontentò, con foga di rabbia e della sua infelicità, Si strappò di getto il corsetto con una sola mano, un gesto rapido e preciso, guardandolo leccandosi le labbra. Non lo guardava veramente, guardava solo nella sua frustrazione, nell'infelicità che quel miserabile uomo rappresentava e godeva nel sentire fin là la sua piccolezza.

La musicà cessò, il suo seno morbido s'alzava e s'abbassava al ritmo del respiro affannato, increspato sulle sue belle labbra; sorrideva ad un pubblico muto, estasiato, fino a quando qualcuno grido "Sposami!" e un ululato da branco si levò dalla sala, sciogliendo gli animi in subbuglio.

Si rivestì e in fretta, sapeva che sarebbe stata una notte produttiva.

Indossò un baby doll chiaro che risaltava la sua carnagione lattea e la rendesse più innocente, dopo lo spettacolo che aveva offerto e con passo felpato s'avvicinò al bancone del bar, dove fioccò la prima proposta prima ancora di poter mettere le mani su un flute di champagne.

"La voglio a qualsiasi costo!" Strepitò l'uomo all'orecchio di Marcello, un discreto brizzolato dall'aria di possedere il mondo, con belle mani curate e vestito di gran classe.

Marcello la guardò professionale, l'ombra dello spettatore svanita nei liquidi occhi neri; bastava un solo cenno di sguardi fra loro per capire fin dove volevano e potevano spingersi, a volte accompagnati da una ritualità di gesti che avevano imparato per "comunicare". Una condizione voleva che le ragazze in fase di contrattazione restassero in silenzio.

Ma questo silenzio era fittizio, in realtà avevano un gran potere decisionale.

Elena non scartò l'uomo, piegando due volte la testa di lato. Marcello annuì accondiscendente.

Si passò la mano fra una ciocca di capelli scura girando due volte il dito nella stessa, poi abbassò lo sguardo verso la sua mano aperta appoggiata alla coscia che indicava chiaramente un cinque.

"Trentamila." Propose Marcello, senza inflessione.

Elena guizzò lo sguardo, ma rise in direzione dell'uomo brizzolato, con un sorriso melenso.

Quello si allentò la cravatta, allungando una mano sulla coscia della giovane.

La ragazza finse di graffiarlo soffiando come una gatta pericolosa e quello la ritirò spaventato ma presto gasato, da quell'aggressività. "Va bene! Va bene!" Urlò quello eccitato; Marcello sorrise arcigno, Elena lo guardò soddisfatto.

"Lei ora va a prepararsi. Quando sarà pronta una delle mie accompagnatrici verrà a prenderti."

"E sono tutte come lei?" Chiese quello visibimente fuori dai pantaloni di già.

Marcello fissò Elena negli occhi con ardore e una punta di malinconia. "Lei è il diamante."

La ragazza fece un leggero inchino e sparì verso il corridoio; l'uomo aveva richiesto un semplice intrattenimento a due, ma dato lo stato d'euforia da coca e alcool in cui vigeva, Marcello le aveva consigliato una stanza a più incontri.

Non aveva obbiettato, sarebbero stati loro due comunque, "il marchese" come l'aveva soprannominato, appariva davvero sovraeccitato e con pochi colpi in canna.

"Non ti avrei mai data a lui per meno di quella cifra." Rispose Marcello, sorridendo nella stanza pronta.

"Non avrei mai accettato per meno." Rispose lei sicura, mentre ungeva le gambe con un olio dorato.

Marcello aggrottò la fronte. "Allora perchè mi ha fatto segno..."

"Volevo metterti alla prova." Disse Elena tirandosi su, mostrando il corpo statuario.

Era bella da mozzare il fiato, lo sapeva e vedeva il volto dell'uomo confermare questa immagine mentre il suo fiato si faceva corto e le pupille si dilatavano. "Una volta ero la tua preferita, adesso non fai che puntare i tuoi occhi dubbiosi su di me. Ero curiosa di conoscere il prezzo del mio valore, Marcello." Sorrise da perfetta ingenua, piegando leggermente il capo da un lato, deliziosa bambina che non era più.

L'uomo fece un piccolo passo verso di lei, accarezzandole la guancia; non vi era odio ne spavento nelle sue pupille ma forse l'ombra di un sentimento forte. Elena piegò un pò di più il capo accogliendo quella carezza, ma ebbe l'accortezza di ritirarsi non appena il sentore di guai la mise in guardia stavolta. "Sono un diamante. Preziosa." Disse a voce alta, spezzando l'incantesimo. "Ora lo so." Marcello ritirò la mano e annuì, andandosene in silenzio.

Bene, pensò, rimasta sola. Se vuoi la guerra, serviti pure.



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Il marchese più ubriaco di quando era entrato e bianco spavento, se ne andò dopo un'ora.

Elena fu raggiunta da una delle ragazze di sala che davano una mano nella gestione degli appuntamenti. "Che pollo. Ti ha fatto un bel favore." Disse la giovane, passandogli un sacchetto di velluto blu. "Te lo manda Marcello."

"Teatrale non trovi?" Rispose lei, sorridendo. "Le care vecchie buste sono ormai obsolete per le nostre percentuali."

La ragazza si strinse nelle spalle. "Veramente solo a te riserva questo trattamento."

"Perchè sono una veterana." Rispose guardandola di sbieco; le mancava solo la gelosia di qualche ragazzina con le smanie d'apparire. "E proprio perchè lo sono, so come riconoscere un pollo ubriaco e ricco da un pollo e basta. La fortuna c'entra poco in questo mestiere." Contò alla spicciolata i soldi e fece per uscire.

"Veramente ci sarebbe un altro di quei polli che ti aspettano."

"Al bar?" La ragazza annuì.

Insieme si portarono al piano di sotto, verso la pista. Quando il ragazzo appoggiato al bancone fu sul raggio della sua vista, impallidì. "Che hai?" Disse l'altra inorridita.

Migliaccio era di profilo che scuoteva il ghiaccio sul fondo del suo drink.

"Guardalo." Disse lei, con prontezza. "Ha l'aria di uno che non sa nemmeno dove si trova; da le spalle alla sala, tiene la testa bassa. E quel cappello da teenager fa ribrezzo. Quello è un pacco, io non vado. Digli questo a Marcello."

"A dire la verità il tizio ha tirato basso ma Marcello pensava tu riuscissi a intrattenerlo in qualche modo."

"Se ci tiene tanto, che se lo scopasse lui." Sorrise sarcastica e girò i tacchi per andarsene.


Fine.


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Capitolo 4
*** Ekaterina. ***


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Ekaterina

(La fuggitiva)



Ekaterina. Capitolo 4





"E' una femmina! E' una femmina!"

Era appena spuntato il giorno, quando Emily emise il primo, tenero, vagito sul mondo.

Ekaterina era stremata, sedici anni e un corpo tonico non potevano racchiudere tutto il dolore di un parto prematuro.

La notte prima era in finestra ad immaginare il volto della sua bambina, fra migliaia di immagini che riportavano al ricordo della sua famiglia e l'attimo dopo, era impegnata a tirar su il suo esaltato e ubriaco marito dalle scale che separavano il soggiorno dalle camere padronali, con in corso la rottura delle acque.

Lui le aveva urlato addosso. "Mi hai macchiato le scarpe!" Il suo alito infernale sapeva di vodka e sambuca.

"Sto per partorire, Alexsander." Aveva risposto, troppo calma per essere una ragazzina che sta diventando madre.

Voleva quel figlio, lo aveva voluto dal primo istante in cui aveva scoperto d'attenderlo, un mese dopo il matrimonio; Alexsader era un uomo violento, despota della malavita ucraina, un assassino e un vile, ma il dono di occuparsi di una creatura uscita fuori dal suo grembo, annullava tutto il dolore che quell'unione aveva portato nella sua vita.

Per un pò appena saputo fosse incinta, l'aveva lasciata in pace; sapeva che avrebbe cercato consolazione da qualche altra parte, ma questo non le importava. L'aveva comprata, non avrebbe avuto mai il suo amore.

Le cose si erano fatte difficili quando la sua pancia si era fatta più prominente, per proteggere la creatura nel suo ventre quando la pazzia si impossessava del suo animo, era divenuta scostante per necessità, lontana, al punto da rifiutare anche solo la sua presenza nella stessa stanza e questo lo aveva reso, se possibile, ancora più violento nel suo ricriminare attenzioni.

Quella sera l'aveva colpita. "Non mi piace che mi rispondi."

Uno schiaffo, un solo schiaffo le aveva fatto perdere l'equilibrio e scivolare dagli ultimi cinque scalini che la separavano dal pavimento. Non era una grande altezza, ma fu una grande paura, la paura di perdere suo figlio, figlio del quale non sapeva ancora il sesso per superstizione, ne conosceva il volto tanto sognato.

Chiuse gli occhi per la disperazione appena toccato terra, ma subito li riaprì; con tutta la forza di cui necessitava fece leva sulle braccia per tirarsi su per poi sfilare dai pantaloni dell'uomo semisvenuto e riverso sulla scalinata, le chiavi della macchina. Con foga aveva spalancato il portone blindato e ordinato al primo scagnozzo a tiro, di portarla in ospedale quasi minacciandolo a morte.

Perciò sì, era stremata ma anche felice di poter stringere fra le braccia la sua bambina.

Era nata femmina. Quasi urlando aveva pronunciato il suo nome all'infermiera che l'aveva portata via per lavarla.

Quella era tornata con un sorriso dolce e con una carezza gliela aveva adagiata al petto.

"Puoi dirglielo tu stessa, adesso."

Era paffutella, di un bellissimo colore rosa nonostante la sofferenza e la prematurità di circa quattro settimane.

"Ben arrivata, Emily. Spero che il viaggio non sia stato doloroso, accidenti quanta fretta che avevi amore mio." Sorrise alla neonata che quasi come un miracolo, smise di piangere appena udita la sua voce.

L'infermiera le mise una mano sulla spalla. "Dobbiamo portarla in incubatrice, adesso." La sua voce era dolce come il suo aspetto minuto, dai folti capelli neri e gli orecchi a punta da folletto.

"Starà bene?" Chiese con la voce rotta dall'emozione del distacco.

"E' ancora piccolina e sotto peso, la prassi richiede molta attenzione e cautela in questo caso, passata la notte ti sapremo dare notizie certe." La guardò incupirsi, nella solitudine della sala parto vuota e le si intenerì il cuore. "Passerò io stessa a tenerti informata, ora cerca di riposare." Sussurrò, infrangendo le regole.

Ekaterina la guardò piena di gratitudine, baciò la fronte della bambina giurandole che sarebbe stata bene e gliela passò.

"Se hai bisogno di me, diciamo fra un'ora, suona il campanello. Mi chiamo Marishka." E le strizzò l'occhiolino.


Si svegliò nel suo letto, in piedi infondo alla stanza, Alexsander la fissava con il suo sguardo duro e glaciale.

C'erano anche altre persone, qualcuno tossì, si accorse di sua suocera e il mazzo di fiori troppo grande che stringeva al petto; rose bianche e rosse, di un nauseante profumo artificiale e costoso che non capiva fossero i fiori stessi oppure lei, vestita di tutto punto in un tailleur Dior che le stringeva il punto vita fino a farla sanguinare.

La donna si piegò a sfiorarle la guancia impercettibilmente con la sua. "Congratulazioni." Disse in un forte accento russo, duro come le sue labbra rosso lacca. "Che nome grazioso, Emily. Mi sarebbe piaciuto averlo saputo prima, per un dono personale, ma per questo avremo tempo, suppongo."

Ekaterina si tirò su. "La bambina è nata prematura, come ti avranno certamente informata, ma il suo nome è stato una scelta ponderata, nome del quale Alexsander era pienamente a conoscenza."

Quella rise scioccamente. "Ma tu sai come sono gli uomini Barajev; pistole e vodka. Nomi? Per quelli ci sono le donne."

Pistole e vodka erano i soli uomini che meritava di conoscere pensò, trattenendosi da insultare la madre di suo marito proprio in un giorno così importante.

"Me ne ricorderò." Disse semplicemente, guardando intensamente Alexsander.

Quello fece cenno bruscamente alla madre e i suoi scagnozzi di uscire.

Ekaterina strinse i pugni, tirandosi su ancora meglio, quasi con un piedi fuori dal letto.

L'uomo le si avvicinò, cauto e incerto; tutto questo era insolito, ma tenne alta la guardia.

Quando furono vicini, lui accennò un sorriso. "E' piccola, ma ha già tutti i capelli dei Barajev." Sembrava emozionato nel pronunciare quelle parole ma non emise fiato. Lo guardava come si guarda un leone dormire. "Ho dato disposizione che le venga apposto accanto anche il nome di mia madre, Katia, e più tardi verrano dei miei uomini a farti firmare dei documenti per una pratica che richiede una certa urgenza."

"Quale pratica?!" Chiese angosciata.

"Il test del dna." Rispose serafico.

Ekaterina scosse il capo, sorridendo sarcastica. "Di chi cazzo pensi sia figlia?"

"Non mi piace il tuo modo parlarmi, penso dovrebbe esserti entrato in testa." Disse contraendo la mascella. "Non costringermi ad estorcerti quella firma."

Ekaterina scivolò completamente dal letto, balzando in piedi. "Potevi ammazzarla!" Gridò fra i denti. "Cinque scalini in più e lei sarebbe morta.. e ti preoccupi di estorcermi una firma?" Lo guardò truce, con un mezzo sorriso assassino. "Vorrei non fosse figlia tua, non avesse la tua merda di sangue, ma per sua sfortuna gli sei toccato tu come padre." Si sentì viva e forte, di colpo tutte le fatiche del parto sembravano solletico e adrenalina. "Sparisci!"

Alexsander strinse i pugni fino a graffiarsi i palmi della mano che usò per stringerle il volto in una morsa.

Sentiva chiaramente l'odore del suo sangue.

"Mi disprezzi per quello che sono, ma devi a me tutto quello che hai! Sicuramente quel pezzente di tuo padre t'avrebbe uccisa, pur di non sfamare un'altra bocca."

"Potevi lasciarmi morire." Sentenziò fiera. "Non è vita questa che mi offri."

"Hai tutto quello che ogni donna desidera."

"Tu mi hai comprata!"

Alexsander oscillò sotto il peso delle accuse. "Non sai ciò che ti sarebbe capitato, se t'avessi lasciato in mano a quei sudici." Scosse il capo velocemente, quasi a scacciare via ogni ricordo. "Io.. non potevo permetterlo." Aggiunse stretto fra i denti, quasi ferito. Si passò nervoso la mano fra i capelli e quando alzò nuovamente il viso, i suoi occhi erano grandi e spaventati; per la prima volta, quegli occhi rivelavano davvero cosa stesse provando.

"Perchè tu sei un signore, invece." Ekaterina schioccò la lingua, spazzando via ogni sentimento. "Mia figlia non porterà mai il nome di tua madre e se ti azzardi a farlo ti rovinerò con le mie stesse mani." Vide le sue pupille farsi sempre più strette e la consueta sfumatura di cattiveria, colorare l'azzurro dei suoi occhi. "Adesso vattene, devo riposare prima di dimostrare il valore della mia innocenza."

Non le disse nulla, ma la fissò fino a lasciare la stanza, senza voltare mai le spalle.

Quel giorno, fu l'inizio della faida del loro matrimonio.

Ma Alexsander Barajev, non mise il nome di sua madre alla bambina.



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Un tuono squarciò la quiete del mattino, un brivido freddo corse lungo le braccia nude.

Si alzò a chiudere la finestra spalancata dal vento e tornò a vestirsi con meticolosità e concentrazione.

I corridoi del club erano vuoti. Le signore addette alle pulizie avevano appena terminato il turno, sentiva le loro voci rauche dal fondo delle scale; le sembrava di essere osservata, o meglio si sentiva in difetto, come una ladra.

Marcello dormiva. La sua stanza ai piani intermedi, era piantonata da un bestione che si faceva chiamare bulldog.

Che fantasia, pensava ogni volta che incrociava i suoi occhi scrutatatori; decise che era meglio non farsi notare quella mattina, perciò si infilò nell'ascensore e con un colpo alla chioma più ribelle di sempre, entrò in macchina.

Era stranamente nervosa, l'ispettore Colonna in qualche modo tirava fuori il suo lato debole e la sua posizione evocava senza alcun dubbio uno strano istinto di arrendevolezza, protezione.

L'aveva visto solo mezza volta, eppure quei suoi occhi cristallini, la pietà con la quale aveva ceduto o quasi sicuramente finto di credere alle sue bugie, lo rendevano umano, non solo uno sbirro.

Ma il bunismo doveva sparire in fretta; l'aveva fatta seguire.


"L'ispettore non può ricerverla, adesso. La prego di accomodarsi."

Una donna in divisa le parlò dal vetro del gabiotto; si guardò attorno, erano appena le otto del mattino e non c'era nessuno nella sala d'attesa, i telefoni muti rendevano l'aria della questura addormentata. Chissà cosa era andata a pensare. "No ho tempo d'aspettare il suo caffè, vorrei vederlo adesso."

La donna sorrise a mezza bocca, agguantando la cornetta.

In quell'istante Migliaccio apparì all'ingresso, con una matassa informe in testa e lo sguardo ancora stropicciato dal sonno. Lo fulminò. "Seguo lui, tanto mi conosce." Disse alla donna che schizzò fuori dal gabiotto.

"Aspetti!" Ma era troppo tardi, Elena era già al braccio dell'uomo, che con un'alzata pacifica di mano, calmò la collega dall'altra parte del corridoio.

"Non voglio svegliarla con le mie chiacchiere, mi dica solo qual'è l'ufficio del capo."

Migliaccio la guardò perplesso, poi riconobbe il sorriso perfetto di quella strana presenza, sotto sembianze di donna; era stato al Paradise convinto di vederla mutare in spogliarellista ma la sua fantasia era svanita affogata in un pessimo cocktail. Colonna gli aveva dato una strigliata di quelle da fargli temere il posto. Ma lei quella sera non era lì. O era a fare altro, aveva risposto. Ad un certo punto non capì dove finisse la sua rabbia per il comportamento poco consono per una divisa e dove cominciasse quella nell'apprendere l'ultima amara verità.

"Si volti verso destra." Pronunciò con tono sarcastico; una stanza chiudeva il corridoio con una facciata a tutta parete.

Elena lo sorpassò senza dire nulla e a grandi falcate si portò in quella direzione.

Migliaccio s'apprestò a farsi un caffè, in odore di guai.


"Punto primo." Spalancò la porta senza bussare e la richiuse con vigore. "Non mi piace essere seguita, come interrogata senza ragione alcuna o spiata." Lui alzò appena gli occhi, se ne stava seduto sul bordo esterno della scrivania con un taccuino e una penna in mano, rivolto alla finestra; aveva il classico aspetto da poliziotto in borghese, un pò più moderno, con la camicia azzurra arrotolata sugli avambracci e il jeans slavato sorretto dalle bretelle strette in tinta con tutto il resto.

"I punti sono tre." Rispose con un filo di voce, rivolgendole ora un sorriso e la sua attenzione.

Elena si tolse la giacca e l'abbandonò sulla sedia accanto alle sue gambe, vicina quel tanto da guardarlo bene in viso. "Uno o tre, sono tremendamente infastidita. Cosa non ha chiaro del concetto abuso di potere?" Incrociò le braccia al petto, sul golf di cashmire che le fasciava il busto e aspettò. Lui non disse nulla, quindi proseguì. "Mi è parso di capire che lei sia un uomo intelligente, le ho fatto delle confidenze a titolo gratuito e lei mi ha promesso altro, perchè andare oltre?"

"Si sieda." Disse perentorio, il guizzo di freddezza e lucidità di quegli uomini abituati a dare ordini.

"Resto in piedi, se non le dispiace."

"Mi dispiace." Rispose in un tono arrendevole, prendendo posto alla sua poltrona. "Stare in una posizione seduta abbatte le natuali difese che porgiamo verso un interlocutore.. scomodo." Indicò la sedia con il palmo aperto come se volesse accompagnarla e sorrise. "Può stare tranquilla, la sua supposizione sulla mia persona non è sbagliata. Non ho nessuna intenzione di venire meno al nostro tacito accordo, anzi, vorrei proprio renderlo ufficiale, sempre fra di noi, ovvio."

"Questo non la discosta dal venire meno ai tre punti menzionati."

"Assolutamente." Pronunciò scandendo bene la parola. "Ma sa che le dico? Fuori da quì, le offro un caffè." Non attese risposta, chiamò Migliaccio al suo interno e dopo poche e chiare parole -non mi deve disturbare nessuno- si infilò la giacca ed aprì la porta del suo ufficio. Elena lo guardò inebetita, seguendo il suo avanzare con fare circospetto.


"La sua macchina." Fuori s'era alzato un gran vento freddo del nord ma almeno era smesso di piovere.

Colonna aspettava che le indicasse il punto in cui aveva parcheggiato.

"Sa..dovrebbe inserire un per picere o un grazie ogni tanto, nelle sue frasi." La donna tolse la sicura alla berlina proprio davanti ai loro occhi, godendosi lo sguardo di ammirazione dell'uomo.

"Una ballerina di punta a quanto vedo."

"Questo è un terribile clichè." Ribattè sicura. "Non può misurare la mia fortuna solo in base al mio lavoro. Non è che una parte di quello che vede. E ha cominciato a fare domande prima del caffè promesso."

"Ottima risposta." E si toccò il mento pensieroso. "Fermiamoci all'autogrill fuori città."

"Mi deve una domanda, comunque." Elena non aveva nessuna intenzione di mollare, doveva capire verso quale pista portava la morte della povera Marishka. "Quale persona può accanirsi contro un'altra così minuta e indefesa, pestandola a morte e offendendo il suo corpo abbandonandolo alla corrente?"

"Una persona vile." Rispose di getto l'ispettore.

Elena guardò fissa la strada, stringendo il volante fino a farsi dolere le nocche; Colonna lo notò e sospirò una domanda muta, fino a quando l'autogrill non comparve dietro la fila di alberi della piazzola in cui sorgeva.

S'appartarono ad un tavolo lontano dalla bolgia del centro locale, Colonna ordinò la colazione per due persone e quando tornò a sedersi la inchiodò ad uno sguardo senza repliche.

"Da chi si nasconde?"

Il cappuccino le scottò le labbra e anche quella richiesta. "Potrei farle la stessa domanda, ispettore." Si asciugò la bocca e tornò a respirare normalmente, indicando il vuoto intorno a loro.

"Non posso aiutarla se non si fida di me." La sorprese e questa era una novità.

"Aiuto? Non mi sembra d'averlo chiesto. Sono abbastanza forte da cavarmela da sola."

"Questo è chiaro, ma sono sicuro che una pallottola può abbatterla come chiunque altro."

Quel commento le serrò la gola. Conosceva bene il boato di uno sparo.

"Non vedo questo cosa c'entri con la morte di quella donna, ispettore."

"Ah, no?!" Chiese sarcastico. Posò di stizza la tazzina sul piattino e strusciò la sedia più vicino alla sua posizione. "Smettiamola di giocare, va bene? Anzitutto, io mi chiamo Leonardo, forse per lei conoscere il mio nome è irrilevante ma è un primo passo per costruire una reciproca fiducia."

"Il mio nome è Elena." Si strinsero la mano. "E sono sicura non ci crederai o lo cercherai in qualche archivio."

"Ti lascio il beneficio del dubbio e il consiglio di smetterla di guardare film polizzeschi di terzo ordine; il tuo nome l'ho cercato prima di questo colloquio, ovviamente."

Elena serrò la mascella. "Giochi sporco, Leonardo."

L'uomo sortì l'effetto del suo nome sulle sue labbra carnose, come un flash di un ricordo piacevole e lontano. "E' il mio lavoro, ma ho promesso. Facciamo così, inizio io da una storia." Finì di sorseggiare il caffè, allontanando la tazzina da loro per poter accorciare ancora di più le distanze. "C'è una donna che è stata picchiata selvaggiamente per vendetta e tutto l'iter della scena del crimine, porta verso un codice mafioso dell'est Europa. Poi c'è un'altra donna, fa la ballerina al Paradise di Marcello Moretti, noto ai più come piccolo mafioso locale e.. fermami se la storia ti sembra familiare.. questa donna elude la legge introducendosi in una camera mortuaria con un prestesto, salvo poi scoprirsi amica della vittima.."

Elano fermò il flusso delle sue parole con la mano. "Pensate sia complice dell'assassino?"

"Possiamo pensare tutto, ma questa ipotesi non è ancora al vaglio delle autorità competenti., e cioè me."

La donna abbassò lo sguardo, sospirando. "Non è stato Marcello. Quella sera era al club, posso testimoniarlo." Vide Leonardo guardarla dispiaciuto e incuriosito salvo poi tornare rigido e in ascolto. "Non che lo voglia più di tanto ma se il fine è la verità.. so è che era impaurita, qualcuno la pedinava mi ha detto. Le ho dato dei soldi per lasciare il paese, poi più nulla fino alla sua morte."

"Questa donna.. si prostituiva?" Domandò a bruciapelo.

"No." Rispose sicura, diretta, troppo.

Stavolta fu Leonardo ad abbassare lo sguardo. "Tu.." Lo rialzò, Elena rimase immobile, senza respiro.

"Sono una ballerina, Leonardo."

"Certo." Abbozzò lui, sorvolando la domanda troppo personale e la risposta altrettanto evidente. "I soldi non sono stati trovati, forse si voleva inscenare un tentativo di rapina, ma si è aperta una nuova casistica di omicidi di prostitute nella zona di Lambrugo, tutti fedeli al solito codice e più o meno la stessa brutalità. Diciamo che su questo aspetto della vicenda le autorità sono informate e.. impegnate."

"Chiaro." Rispose lei, cupa. "Non so dirti se Marcello c'entri qualcosa, ma posso dirti con certezza che collaborerò, se la mia sicurezza personale venisse a mancare. In caso contrario, Moretti resta il mio capo."

Sembrò nuovamente deluso, ma non levò lo sguardo dai suoi occhi neanche un minuto.

"Sarebbe ora che quel tizio pagasse i suoi debiti con la giustizia. E lo so, questo è una opinione personale."

Elena rise. "Sarebbe come sperare in un mondo senza più guerre."

"Non credi sia possibile?"

"Leonardo.. smettiamola di giocare." Si alzò, rivestendosi della giacca. "Devo tornare."

L'uomo si alzò di scatto, afferrandogli la mano. "Eppure sento che anche stavolta non sei stata sincera."

La sua voce accorata e il suo tocco protettivo la spaventarono.

"Quando passi il tempo a guardarti le spalle, quando i migliori amici che ti sei fatta nella vita si chiamano solitudine e speranza.. beh può succedere di trasformarti tu stessa in una bugia. Leonardo tu cerchi in me qualcosa che forse devi trovare dentro di te." Sgusciò via dalla sua mano e proseguì. "Quando potrò dare una degna sepoltura a quella donna?"

"Mercoledì prossimo, al cimitero comunale." Sussurrò.

Lei annuì compita e prese a camminare verso l'uscita.


L'ispettore Colonna rimase lì, ai piedi del tavolo appartato, con la mano a mezzaria a guardarla andare via.

Erano bastate poche e semplici parole di una donna fredda, pericolosa ma allo stesso tempo di una non chiara complessità e fragilità, per gettarlo nuovamente nello sconforto della sua frustrazione.

Ordinò un Martini liscio. Erano dieci mesi che non toccava alcool, mai come adesso gli sembravano nulla.

Restò così, una mattinata seduto al tavolo di un autogrill fra il cellulare che squillava impazzito, Migliaccio che aveva preso a cercarlo con una finta ronda e quel bicchiere pieno e calmo come la sua determinazione.

Non lo toccò e quando fu chiaro a se stesso di essere ancora forte, si portò la giacca alle spalle e se ne andò.



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Mercoledì arrivò in un soffio.

Tirò fuori dall'armadio l'unico tubino nero che possedeva, comprato in occasione di un vecchio carnevale in cui aveva inscenato una strega sexy e rise per dieci minuti al folle pensiero.

Marishka l'aspettava, meritava i suoi abiti migliori.

Quella donna era stata definita amica, dall'ispettore Leonardo Colonna, per lei era stata forse più la madre che aveva perduto, una complice, una speranza.

Aveva perso anche lei, ma sapeva che non s'era fatto ancora il tempo d'arrendersi, contro ogni probabilità il destino avrebbe avuto pane per i suoi denti, perchè Elena era forte, Elena era coraggiosa.

Inforcò gli occhiali e chiamò un taxi, in meno di mezzora sarebbe stata lì.


Sospinto e accarezzato dal vento, si compì l'ultimo viaggio della donna.

Elena mormorava le sue preghiere strette fra le labbra mosse impercettibilmente, gli occhi lucidi mentre coglieva ogni attimo, ogni particolare. Leonardo Colonna era stato di parola, destinando un posto speciale dove farla riposare, all'ombra di un pino solitario. Le erano sempre piaciuti i pini, alberi immensi, forti e simbolo della terra.. sì, ne sarebbe stata felice. La lapide riportava solo un'iniziale, una piccola emme in corsivo elegante e la o di Odessa, la loro casa. Elena restò da sola e in silenzio oltre il tramonto, il mazzo di rose rosse oscillava al ritmo del vento, stretto fra le sue mani; doveva dirle addio, doveva posarlo per lei ma questo significava mettere la parola fine.




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"Ekaterina!" La voce squillante dell'infermiera fu un richiamo a voltarsi. "Hai dimenticato questo!"

Sventolava fra le mani il golf rosa che aveva tessuto per la piccola Emily, ormai affezionata alla loro storia, al suo viso di ragazzina stanca e giovane, al profondo dolore che aveva compreso e coccolato.

"Ti ringrazio Marishka, non so come ho fatto a dimenticarlo." Si era scusata scuotendo il capo più volte.

"Non ti preoccupare." Disse in quel tono dolce e familiare che le apparteneva. Poi si guardò attorno, come se cercasse qualcuno che sapevano bene entrambe non ci fosse; si era confidata Ekaterina, e non era rimasta stupita dalla consapevolezza che aveva messo quella donna nel curarle non solo il fisico, ma anche l'anima.

Non c'era bisogno di spiegare ciò che era evidente. "C'è anche questo numero che devi portare con te." Le mise fra le mani un bigliettino di carta stropicciato e le strinse affettuosamente. "E' il numero delle mie sorelle, puoi chiamarlo a qualsiasi ora, per qualsiasi cosa tu abbia bisogno. Mi troverai lì, sempre mi troverai bambina."

Lo aveva afferrato con gratitudine. "Non mi avevi detto che avevi delle sorelle, Marishka."

La donna sorrise. "E' un ordine di consorelle a dire il vero. Sono una laica al servizio di Dio." Bisbigliò.

"E come può un servo di Dio credere nella medicina?"

"In quella ci credono i medici, bambina. Il mio mestiere è confortare i malati."

Ed era proprio questo, guardandola. L'abbracciò forte, baciandola sulle guance. "Grazie."

Si erano salutate certe che si sarebbero riviste prima di quanto fosse necessario, Ekaterina strinse la mano piccola della neonata e insieme a lei si tuffò nella sera grigia e rosa di Odessa al tramonto.



"Arrivederci."


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Capitolo 5
*** Affinità. ***


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Ekaterina

(La fuggitiva)






Nel cominciare il prossimo capitolo,

ci tenevo a ringraziare coloro che hanno inserito la mia storia fra le seguite.

E davvero chiunque abbia speso un minuto della propria giornata nel leggerla.

Adesso sarei davvero felice se qualcuno mi lasciasse un parere oggettivo, per chiudere il cerchio.

Vi aspetto dunque lettori!

Un saluto, Lunaedreamy.


Affinità. Capitolo 5





La bufera cessò, così come era cominciata, portando via con se i venti freddi del nord.

Qualcosa era cambiata. Elena percepiva nell'aria una strana quiete, il silenzio ambito e una nuova energia che la faceva apparire molto serena e determinata. La vita era un continuo rinnovarsi, come chiunque altro aveva fatto della resilenza un'arma infallibile per andare avanti e contro ogni previsione, era nata in lei la speranza.

War Machine guardava il suo riflesso nello specchio, ammiccando di tanto in tanto o sparando battute sconce per farla ridere, con il risultato che quella sera ci mise un quarto d'ora per passarsi un pò di rossetto sulle labbra.

"Stasera cosa abbiamo sul menù?" Chiese sarcasticamente.

Alzò gli occhi al cielo e si issò. "Un vergine e degli amici premurosi."

War Machine emise uno strano fischio contraendo il volto in una smorfia. "Non ti invidio per niente."

"Perchè non hai visto il tizio che ti ha rifilato Marcello." Replicò divertita. "Per quello non ti servono nemmeno gli auguri." La donna scosse il capo dapreggiandosi addosso un coprispalle piumato.

"Stasera mi concedo un pò di noia. Usciamo insieme o resti quì a fare la simpatica?"

Elena le passò un braccio intorno alla spalla e si portarono fuori. "Fammi gli auguri." Berciò dinnazi alla camera per gli incontri singoli.

"Tanti auguri." Rispose divertita. "Non strapazzarlo troppo."

Elena la fulminò con lo sguardo e quella proseguì ancheggiando lungo il corridoio; capì che era arrivata a destinazione e che aveva fatto la conoscenza del suo cliente perchè tutto a un tratto, nel silenzio del corridioio, si udirono epiteti in uno strano mix di lingua latino-americana. Rise e spinse in avanti la porta di ingresso.



Il ragazzo era seduto sul bordo del letto, in attesa. Trepidante attesa, quasi nervosa.

Aveva grandi occhi blu spalancati e quasì sussultò nel vederla. Elena sussultò a sua volta. Mio Dio, pensò.

Era giovane, forse la sua età o qualcosa di meno, ma la cosa che la sorprese è quanto fosse inaspettatamente bello; non che la casistica richiedesse sistematicamente uomini brutti, ma almeno mediocri e raramente aitanti come quello che le si presentava in quella occasione così particolare.

Vergine e bel fusto, uno strano connubio, era abituata decisamente ad altro.

Ripassò mentalmente la descrizione passata da Marcello -aveva saltato la trafila del bar perchè quello in teoria era il suo giorno libero ma dopo la buca di una delle ragazze si era fatta avanti dato la piega noiosa che aveva preso la serata- e non ricordava avesse accennato a regalo per i diciotto anni o addio al celibato perciò aveva davanti a se un enigmatico caso di giovane uomo vergine e bello e detta così.. cominciava a risultare un pò pesante.

"Ciao." Inspirò, cercando di apparire distesa. "Sono Elena, la principessa di Troia."

Recitò la sua frase di benvenuto con il sorriso malizioso di chi sa cosa intende, quello dal sapore di mille promesse, che restò però senza seguito, dato che il ragazzo alzò un sopracciglio perplesso.

"A me non sembri una principessa." Esordì con pieno candore nel tono di voce.

Elena strabuzzò gli occhi, interdetta. "E a me non sembri un diciottenne." Rispose piccata, riacquistando lucidità.

Il ragazzo schizzò in piedi, "Perchè non ho diciotto anni!" Prese a camminare nervoso su se stesso, lei seguì attentamente ogni movimento, quando si fermò e alzò gli occhi nei suoi, si diresse verso il piccolo bancone bar.

Ogni stanza ne aveva uno e per quanto odiasse il fetido odore di alcool nella bocca umana, benedisse il fatto che ci fosse; questo lo aveva imparato da Marcello, sciogliere la tensione mostrando al cliente dei gesti metodici, confidenziali come offrire un drink, cercare un primo contatto, instaurare fiducia, perchè per quanto tutti fossero attratti dal sesso e dalle sue varianti più o meno pericolose, non tutti riuscivano poi ad arrivare fino in fondo.

E questo ragazzo le sembrava, minuto dopo minuto, proprio uno di quei casi.

Si piegò lentamente mostrando con tutta la sensualità che possedeva la gamba lunga e magra fasciata dalle autoreggenti chiare e voltò nuovamente il capo nella sua direzione. "Whisky?" Pronunciò con dolcezza.

Il ragazzo annuì appena, il groppo in gola evidente.

Con molta calma lasciò che la guardasse preparare i due bicchieri, agitando sfacciatamente ed eroticamente i seni baldanzosi stretti nel corsetto bianco e i lunghi capelli scuri sulle spalle, cercando di tanto in tanto la sua attenzione; quando il rituale terminò, lo avvicinò porgendogli il bicchiere.

Diede per prima un assaggio, invogliando il ragazzo a fare altrettanto; il tocco gelido del ghiaccio, lo calmò.

"Come se fosse impossibile essere vergine a ventiquattro anni." Commentò fra se e se spezzando il silenzio.

"E' impossibile che tu sia cattolico in questo mondo perverso." Gli rispose, ferma. "Non è impossibile che tu sia vergine, se fossi di un altro pianeta."

Risero all'unisono, Elena posò il bicchiere sul pavimento e si sedette.

Il ragazzo sorseggiò ancora, sedendole accanto.

Era parecchio bello, constatò ancora, fissandolo negli occhi blu. "Come ti senti?" Chiese.

"Meglio."

"Voglio che tu sappia che questo spazio è fatto per farti sentire a tuo agio. Ogni richiesta che farai sarà dettata solo ed esclusivamente dal tuo volere e dal tuo piacere. Possiamo parlare del tempo, di te, dei tuoi interessi. O possiamo sfruttare l'ora che i tuoi amici ti hanno regalato. A tal proprosito ho una serie di regole.."

Il ragazzo la interruppe. "Mi hanno dato un'ora?" Chiese quasi infastidito. "Questa la loro valutazione? Vado alla grande direi.."

Elena sorrise. "Immagino che invece loro siano pieni di racconti di stoccate che neanche uno schermidore.." Il suo volto tradì una smorfia sarcastica. "Alcuni maschi parlano più di quanto concludono. Pensiamo a noi, ti va?" Il ragazzo annuì. "Partendo dal presupposto che io non sono una principessa e che tu non sei un diciottenne, possiamo continuare a stercene così, rilassati.. senza pressioni." Si lasciò cadere all'indietro, fra le morbide coperte di raso. "Magari se vuoi puoi dirmi il tuo nome."

"Mi chiamo Guido Andrea." Rispose stendendosi su un fianco.

"Molto aristocratico."

"Sei molto profonda." Disse, per finire in un mucchio di risate quando Elena lo guardò maliziosa. "Non ti fai scappare i dettagli eh?!"

"Mai! Quindi ci ho preso. Sei anche ricco."

"Anche?!" Le fece eco.

Elena si sdraiò sul fianco fino ad essere perfettamente allineata al suo volto. "Sei molto bello, giovane, vergine ed anche ricco. Una categoria di donne quì dentro impazzirebbe per te. Mi chiedo cosa ci faccia io quì."

Guido schioccò la lingua. "Non sono per tutte, evidentemente."

"Non ti offendere, era un complimento. C'è una concorrenza spietata quando si tratta di bei fustacchioni ricchi."

Il ragazzo scivolò all'indietro, pesantemente. "Se te lo fossi chiesta, questo è il motivo per cui sono vergine."

"Naa. Non credo tu sia spaventato da questa tipologia di donne. Penso c'entri di più una madre opprimente o un conflitto padre-competitore.. ma io non sono una psicologa, fra le altre cose."

"No, direi di no." Disse lui sorridendo sarcastico.

"Sei molto sgarbato con queste risposte." Finse dispiacere, abbandonandosi nuovamente con la schiena all'indietro. "Allora, ci ho preso anche stavolta?!"

Guido si portò una mano sugli occhi, il resto del volto scoperto, era vestito di un bellissimo sorriso spontaneo; Elena desiderò baciarlo e questo desiderio la imbarazzò molto. Non le capitava da tempo di confrontarsi con un cliente coetaneo, ma considerò che i turbamenti che provava fossero normale attrazione fisica fra giovani della stessa generazione e a giudicare dalla complessità dello splendido individuo che le giaceva accanto, anche degli stessi vissuti.

"Pensa che ho la fortuna di avere entrambi i casi. Sono il figlio maschio primogenito di una dinastia che ha avuto solo donne negli ultimi venti anni e mio padre è a capo della Franciolli, azienda che ha assorbito quando aveva ventitre anni. Sono indietro di un anno nella sua personale tabella da primatista del cazzo e studio giurisprudenza, tanto per fargli un dispetto." Rispose dopo un pò.

Franciolli, pensò Elena. La Brianza era sovrastata da questo nome. E lei era sovrastata dal rampollo della grappa a quanto pare. Accidenti, che confusione! Non era abituata nemmeno a questo, i clienti in genere si sfogavano parando di vite sessuali insoddisfacenti o lavori precari. I ricchi tacevano. Ma Guido proseguì, dileguando i pensieri.

"E comunque neanche io dovrei essere quì. E credo nemmeno il futuro sposo che siamo venuti a festeggiare.. mi avevano detto fosse una tranquilla festa fra amici, quando mi hanno tirato in mezzo, non ho avuto le palle per tirarmi indietro."

"Se lo avessi fatto sarebbe stato peggio." Ammise rammaricata. "Ma possiamo rimediare e mettere fine alle chiacchiere di questi stronzetti." Si tirò su e con molta attenzione si sfilò gli slip, porgendoli nella sua direzione.

"Oddio ti prego no. E' davvero umiliante come cosa."

Elena sbuffò. "E allora mi arrendo!" Alzò le mani in segno di resa e si stese dandogli la schiena.

Si trovò a sorridere del grado di intensità, del tutto sbagliato e assolutamente vietato dal regolamento, del suo coinvolgimento verso quel cliente così bizzarro e pensò che era arrivato esattamente nel momento giusto, in questo stato un pò di oblio in cui versava, senza lacrime e tragedie.

Guido la sorprese. Protese la mano verso il suo fianco, aggrappandovi ma senza alcuna inflessione carnale, quanto più un tocco delicato e delizioso, una testimonianza di presenza. Restò immobile, ad assorbire quel calore così estraneo eppure confidenziale, quasi già conosciuto, senza dire o fare alcuna cosa potesse spezzare quel flusso di piacere.

Aveva scopato tante volte, ed era riuscita ad arrivare al piacere altrettante, ma l'appagamento di quel momento le valeva tutte messe insieme. Non era un discorso puritano e non avrebbe rinnegato ciò che aveva fatto o stava facendo per vivere, solo una piccola ricompensa e l'illusione di essere toccata dopo molto tempo, dalla purezza nella sua forma più grezza.



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Migliaccio abitava in una desolata ma silenziosa zona di periferia, un manipolo di ville costeggiate da colline e alberi, su una strada senza uscita. Lui e sua moglie Marina lo aspettavano a cena per le nove.

Era in anticipo di mezzora.

Questo vizio non lo avrebbe mai abbondonato e questo vizio era diventato negli anni quasi una mania; non era preoccupazione per il traffico o il tempo, era protezione, un vizio di forma che non era riuscito più a togliersi ma che tanto tempo prima, lo aveva salvato.

Restò in auto con la radio accesa e lasciò che i minuti scorressero su vecchie notizie del weekend calcistico appena trascorso, quando il cancello automatico si aprì; Migliaccio sull'uscio, smanacciava il gesto d'entrare.

"Fa sempre così." Disse sorridendo alla moglie in casa. "In anticipo su tutto, ma è una brava persona. Hai messo su l'acqua per la pasta?"

La donna annuì, accarezzandogli la guancia. "Non essere teso, ho pensato a tutto."

Leonardo salì la piccola rampa di scale fino alla porta e porse alla signora un vassoio di dolci; la donna lo ringraziò invitandolo in sala da pranzo. "Mio marito mi parla spesso di lei, dice che è un buongustaio. Ho origini terrone anche io, la capisco."

"A giudicare dai profumi so già che sarà un'ottima cena, ma ti prego Marina, stasera diamoci del tu."

Silvio spuntò alle spalle della moglie, prendendo posto. "Ancora pochi minuti e cominciamo, capo."

"Silvio, il tu." Sibilò, per poi sorridere al suo sottoposto. "Aspettiamo qualcun'altro?"

Guardò velocemente alla tavola; apparecchiata in grande stile per quattro, tovaglia, bicchiere e posate color acquamarina e un piccolo bouquet di fiori bianchi al centro, vino bianco e bevande analcoliche.

"Francesca, la ragazza del tabacchi." Migliaccio sorrise sornione e Leonardo lo incenerì.

Il campanello suonò poco dopo e Marina lasciò la stanza in balia di fulmini e saette.

"Questo è un agguato, sappilo." Bisbigliò una volta rimasti soli.

"Non volevo metterti in imbarazzo. Avevo capito che fra voi due ci fosse qualcosa."

Un paio di notti di sesso bollente e ancora.. notti di sesso. Già, solo quello. Forse era abbastanza, pensò Leonardo.

Quando la ragazza entrò nella stanza entrambi si alzarono dalla sedia per salutarla; indossava una minigonna coi tacchi e portava i capelli sciolti, morbidi sulle punte, in mano trasportava un pacchettino di una nota pasticceria del centro e porgendolo a Marina, guardò Leonardo sorridendo. "E' un piacere rivederti."

In realtà si vedevano quasi tutti i giorni, il tabacchi era attiguo al bar accanto alla caserma ma i suoi occhi vispi e maliziosi sapevano bene dove andare a parare; non l'aveva più cercata per quel qualcosa che avevano in comune.

Glissando ogni accusa, le strinse la mano nella sua, baciandola sul dorso. "Anche per me."


Come previsto Marina si rivelò un'ottima cuoca e nonostante il tranello, la serata scivolò giù piacevolmente.

Francesca era una bella ragazza, allegra, divertente fuori dagli schemi della seduzione; il suo problema era quello, era pieno di amiche, perchè quando il gioco cominciava a farsi serio, ingranava la retromarcia a velocità folle.

Non era stato sempre così, sulla soglia dei suoi trentatrè anni; aveva amato ed era stato amato, ma quell'amore gli aveva lasciato addosso una cicatrice che non s'era più rimarginata e il peso di alcune battaglie perse, che solo con grande forza di volontà, stava imparando a combattere oggi. A volte si fermava a pensare a una Francesca, o una Ludovica che sia, a quale fra quelle donne sarebbe stata in grado di cambiarlo, arrivando alla conclusione che per arrivare ad un cambiamento doveva lui stesso desiderare di cambiare e per ora, non era così.

La sua solitudine si era cucita così perfettamente addosso, da non sentire la necessità di sporgliarsene.

"Migliaccio mi raccontava che vieni da Napoli. Come è stato lavorare in una realtà così diversa da quella in cui ti trovi ora?" Chiese Francesca a metà fra il secondo e il dolce. Leonardo si pulì l'angolo della bocca e riflettendo un pò su, sorrise e si versò dell'acqua; Francesca seguì attentamente la sua scelta e i suoi occhi si accesero.

Ricordava molto bene le fugaci notti sbronze che avevano passato insieme, appena conosciuti un anno prima; di lui sapeva ben poco e poco voleva saperne, quegli occhi di ghiaccio e tormentati raccontavano molto più di quello che lui stesso ammetteva e le bottiglie vuote accanto al comodino raccontavano verità che forse era meglio tacere, per un uomo come lui.

Si erano fatti compagnia, avevano fatto del buon sesso e Leonardo era un uomo colto e interessante, quel vizietto non sporcava l'idea che si era fatta di lui, trovarsi in sua compagnia dopo molto tempo e constare che non aveva toccato alcool per tutta la cena, la rendeva contenta.

"Avventuroso. Complicato. Bellissimo." Rispose fermamente. "Ma il mio lavoro è fatto di traferte, ed ora eccomi quà, nell'ordinaria Brianza piena di gatte da pelare che al confronto di prima, sembrano Baghdad."

Marina rise e Francesca s'accigliò. "Ho sentito dire che state seguendo una pista per le prostitute uccise."

Leonado guardò Silvio di soppiatto. "Certi colleghi parlano troppo fra un caffè e l'altro."

"Non si parla di lavoro, ricevuto." Francesca sorrise e si alzò. "Marina ti aiuto a sparecchiare."

"No stai pure lì, mi aiuta Silvio, così prepariamo un buon caffè."

L'uomo guardò la moglie con complicità e la seguì in cucina.


"Credevo non fosse stata tua la scelta di venire quì." Sussurrò Francesca una volta soli.

Leonardo spalancò gli occhi, cercando di ricordare cosa le avesse raccontato fra i fumi e i fiumi di acool.

S'affacciarono altri ricordi.




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Napoli


"Un altro bacio."

"Roberta, devo andare.."

"Solo uno. Piccolo. E dove vai sempre di corsa!"

La ragazza bruna scivolò dal letto seminuda, il viso pieno di lentiggini appiccicato al suo; gli era volata in braccio come al solito. Sembrava una bambina mentre reclamava un altro bacio del buongiorno.

La baciò e lei sorrise appagata. Era un incanto ed era veramente tardi, la tangenziale intansata, gli avrebbe fatto rimpiangere quel momento. "Ora vado. Ho preso l'accappatoio e il bagnoschiuma, non passerò per casa stasera, quindi non ti dimenticare l'appuntamento con gli altri alle otto e mezza. Pizza o quello che ti pare."

"Va bene." Biascicò lei, rimettendo piede in terra. "Otto e mezza, pizza. Ma come mai una rimpatriata? Adele e Gianluca sono un anno che non li vediamo, si sposano forse?"

Leonardo sorrise. "Eh si, mi sa che vogliono darci questa notizia."

"Evviva.." Rispose senza troppe inflessioni, diregendosi in bagno. "Meglio che mi do una sistemata, oggi sarò via tutto il giorno con Tiziana, per il progetto della casa nuova. Il tuo capo la tratta da vero stronzo."

Leonardo restò a fissarla tirarsi su i capelli, con il suo bel profilo mediterraneo; incazzata era ancora più bella.

"Il potere genera onnipotenza, lo sai."

"Lo so." Ribattè certa, una strana venatura nella voce. "Tu quando farai tua questa filosofia?"

Stava spingendo per la sua promozione quasi fosse una coach impazzita.

Non parlava altro da sei mesi, da quando le aveva comunicato che c'erano alte probabilità lo facessero ispettore. Aveva organizzato cene con il questore e sua moglie, vernissage, aperitivi, con il risultato che si era accaparrata la loro fiducia e simpatia e pure la ristrutturazione di un appartamento in pieno centro.

"Sono incorruttibile." Rispose serio. L'avvicinò e la strinse a se. "Incorruttibilmente pazzo di te. A stasera." E la baciò sulla bocca ancora sporca di dentifricio, con un sorriso fanciullesco.

La porta di casa si chiuse in un tonfo.

Roberta fissò lo specchio intensamente e maliziosa afferrò il cellulare nascosto accanto alla trousse.

Compose velocemente un numero. Rispose una voce roca.

"Buongiorno.." Soffiò melensa e proseguì la conversazione come se gli impegni fuori, potessero aspettare in eterno.


Giulio non era in ufficio, aveva pensato alle parole di Roberta come se le avesse pronunciate la prima volta e finalmente si era deciso ad affrontare il discorso con lui; tanto per chiarire a che punto fosse la trattativa e l'esame per la promozione, che aveva svolto poco tempo prima. Se tutto sarebbe andato come i piani, avrebbe occupato una comoda poltrona in questura e scongiurato, almeno per un bel pò, imminenti trasferimenti.

In realtà i piani erano molto più ampii e per nulla dati al caso.

Quella sera stessa avrebbe chiesto a Roberta di diventare sua moglie. L'amozione gli attanagliava la gola, ma sapeva che non poteva più aspettare, l'amava troppo per iniziare dei nuovi progetti di vita, senza quello più importante, al momento; creare una famiglia con lei. Il resto, lo avrebbe scelto il destino.

E quello scelse, lanciando in aria la sua moneta.

Quel pomeriggio passò molto velocemente, nel solito tram tram metropolitano fatto di rapine, violenze domestiche, furti e quanto più una città potesse offrire. Rientrò in ufficio per delle segnalazioni e guardò rapidamente all'orologio.

Erano le sei, avrebbe fatto una veloce doccia in caserma e confermato la presenza degli amici, con un giro di telefonate. Alle sei e un quarto era già sotto al getto d'acqua bollente.

Sereno, appagato.


Roberta era a casa, guardava nervosa l'orario, chi aspettava era in ritardo e se c'era una cosa che odiava davvero, era aspettare. Il suo tailleur scuro era appeso alla gruccia, dove lo aveva lasciato la mattina.

Quella stronza non ha avuto neanche il buon gusto di scusarsi, pensò quando il trillo del campanello scolorì la rabbia.

"Sei arrivato.." Disse, accogliendo l'ospite e richiudendosi la porta alle spalle.

Quando il mondo fu fuori, aprì adagio la vestaglia, scoprendo il corpo tonico, nudo e desideroso.

L'uomo soffiò un ringhio glutturale dalla bocca, portandosi avidamente le mani sulla cintura dei pantaloni.

"Si è slogata una caviglia al corso di pilates. Con quello che mi è costato, finirà per non tornarci più." Fece scivolare i pantaloni lungo le gambe e con un gesto secco, tolse via il resto degli indumenti.

La prese a se come un animale agguanta una preda, scaraventandola sullo schienale del divano.

La stronza è pure bugiarda. Noie sul lavoro, certo. Roberta si leccò le labbra, guardandolo fisso oltre le sue spalle.

La penetrò con rabbia e lei gracidò.

"Fottimi." Disse. "Non pensare a lei. Fottimi."

L'uomo iniziò le sue spinte domato dalla foga, dalla lussuria e una certa volgarità.

Affondò i suoi colpi a suoni di epiteti e Roberta gemeva e rideva come se fosse le parole più dolci del mondo.

Si girò velocemente e lo accolse nuovamente arrampicandosi alle sue spalle, stringendo i suoi capelli brizzolati, che profumavano di mare, fra le mani. Sentiva il volto in fiamme e provava un desiderio per quell'uomo così diverso dal suo compagno, che certe emozioni la sconvolgevano per quanto intense. L'orgasmo arrivò in fretta.

Giulio si spostò e le rovesciò i suoi fluidi sulla gamba.

Aprì di fretta gli occhi. Un rumore sul fondo così diverso dai loro respiri.

La visuale era il seno nudo di Roberta e la porta alle sue spalle.

"Leonardo." Gli sentì pronunciare.

Roberta ancora in braccio e stordita dal sesso, lo guardò truce. "Leonardo?!"

Il volto di Giulio era bianco come uno straccio, allora capì, si voltò lentamente, la paura stampata sul bel volto mediterraneo. Guardò l'orologio. Erano le sette.

Era tutto sbagliato; Leonardo, i suoi amici sul pianerottolo che guardavano la scena basiti di lei e il questore nudi, con ancora i postumi dell'orgasmo stampati sui volti. Qualcuno andò via, scongiurando una tragedia.

Era tutto sbagliato. Anche le sue lacrime.

Poi la furia di Leonardo abbattersi su Giulio, con due cazzotti che lo stramazzarono al pavimento e non contento una scarica di calci, alla quale l'uomo riverso in terra cercava di rimediare stringendosi su se stesso.

"Così lo ammazzi!" Riuscì a dire Roberta, afferrando la vestaglia per ricoprirsi, nel tentativo di fermarlo.

Alcuni ragazzi entrarono in casa, cercando di aiutarla a tirarlo via.

Fu tutto inutile. Giulio venne portato via da un'ambulanza, due costole rotte e una frattura al setto nasale; Leonardo fu allontanato dai colleghi, portato in questura in stato di fermo.

Voleva farle una sorpresa, ma la sorpresa l'avevano fatta a lui. Erano mesi che organizzava la cosa, con la complicità degli amici, una richiesta di matrimonio plateale certo, ma vera, che nasceva dal profondo del suo cuore.

Da quel giorno, cominciò a temere gli imprevisti, le sorprese stesse.

Da quel giorno si scatenò una vera e propria psicosi per gli anticipi.

Come se aspettasse ancora di aprire quella porta e trovare davanti a se quella scena.

Una catastrofe imminente.

Da quel giorno la sua vità cambiò e tutto il male che riuscì a provare per quella violazione di animo e fiducia, l'acool lo curò con un finto oblio caldo e un vizio chiamato alcolismo.




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Aria. Mancava l'aria. Buttò giù il suo bicchiere d'acqua, mentre Francesca abbassò lo sguardo sulla tavola.

Credette di esser stata invadente. "Tu mi incuriosisci molto, scusa."

Leonardo si sforzò di dirle qualcosa. "Tu sei una brava ragazza, davvero, non credevo di piacerti o interessarti, sono un coglione."

"Sta tranquillo. E' stato solo sesso anche per me." Ribattè decisa. "E sono felice di vederti sereno." Gli strinse affettuosamente la mano, guardando verso il corridoio. "Quei due non tornano più, fa una battuta stupida così che io possa ridere come una stupida, almeno pensano che siamo vivi."

L'uomo la guardò intensamente. "Sei davvero interessante, ero serio prima." Poi si avvicinò al suo orecchio. "Ho pestato di botte il capo questore che ho trovato a fottersi mia moglie, in casa mia. L'ho quasi ammazzato. Sono stato mandato quì appena ricevuta la promozione, non mi ha denunciato per il tacito accordo di non farmi più vedere."

Tornò al suo posto, sorridendo gelido.

Francesca alzò un sopracciglio. "Divertente, sapevo che eri pazzo." E lo lasciò appeso al dubbio se avesse accettato o solamente sorvolato, i piccoli particolari della sua confessione. "Andiamo via?!" Si guardarono con desiderio malcelato e si sciolsero in una risata, però sincera e di gusto.

Marina e Silvio tornarono con i caffè che sorseggiarono in fretta e furia.

"La scorto fino in città, meglio se andiamo."

Migliaccio annuì ben felice e Marina li ringraziò per i dolci. "A presto."

Si chiuse il cancello automatico alle loro spalle e si aprì dinnanzi a loro una notte, fatta di quel qualcosa che certe persone trovano in comune, senza giudizi, pressioni, rimpianti, come se la vita fosse racchiusa in quei momenti e in quegli attimi. Tutta là. Preziosa, unica, irripetibile.

Leonardo accarezzò il corpo di Francesca tutta la notte e tutta la notte non disse una parola.

Francesca giocò a fare l'amore e parlò al posto suo,

Alcune persone non hanno nulla in comune. Ma la stretta affinità, può far diventare quel niente, tutto.




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Lo squillo del telefono sul comodino, la gettò nello spavento.

Elena aprì gli occhi impiegando qualche secondo a capire dove fosse; un braccio le cingeva la pancia.

"Oh.." Sussultò, voltandosi. Guido aprì gli occhi, inquadrandola. "Abbiamo dormito parecchio."

Il telefono continuò a squillare, afferrò la cornetta controvoglia. "Si."

Marcello rispose rispose dall'altro capo. "Tutto bene?"

Erano lì da almeno cinque ore. "Preoccupato?"

"I suoi compagni sono andati via ridendo."

"E allora? Vuoi chiamare i suoi genitori?" Guardò il ragazzo che si alzò, mimando il bagno in lontananza. "Pagherà tutte le ore, stai sereno." E agganciò senza troppe remore. Si alzò in direzione della porta del bagno e bussò delicatamente. "Se vuoi fare una doccia, hai tutto ciò che ti serve." Guido aprì la porta; si era sciaquato il viso e stringeva in mano l'asciugamano. Non si accorse subito che era nudo, ma vide bene la sua mano protesa a palmo aperto, che la invitava a seguirlo. Si scambiarono uno sguardo intenso, Elena sussultò, ma quella mano rimase ferma a mezzaria.

"Se accetto, nulla sarà più come prima."

Guido non rispose, ma si avventò sulla sua bocca, premendola forte contro la sua; Elena schizzò indietro ma sorrise, tirandolo a se, fuori dal bagno e di nuovo nella stanza. "Devi sentire tutto quello che il tuo corpo ti dice. Ma rispetta le mie regole; niente baci." Guido provò a baciarla ancora, Elena lo spinse dolcemente sul letto.

Salì a calvalcioni su di lui e lo guidò a spogliarla e accarezzarla, da manuale, come un insegnante; Guido la guardava bramoso ma attento, seguendo le forme del suo corpo, imprimendole nella mente. Si fermò ai seni, li sfiorò senza toccarli veramente, intimidito.

"Lasciati andare.." Sussurò Elena, guidando la mano con la sua.

Guido ubbidì e si tirò sù, dapprima impacciato, poi sempre più curioso, fino a che la donna lo lasciò fare, gettando le braccia all'indietro; i seni si aprirono al suo viso, con le labbra li saggiò, ridendo della sua stessa timidezza.

Sazio scese fra il solco e la pancia, facendo scivolare Elena sulla schiena, quasi fino a salirle sopra; torturò il suo collo con dei morsi ritmici e delicati, tirando le braccia della ragazza in sù, oltre il capo.

Si sentiva forte, beato, ed eccitato come non lo era stato mai.

Elena teneva gli occhi aperti, vigili, i ruoli totalmente capovolti.

Indicò il cassetto alla sua destra quando capì che era pronto; il ragazzo annuì diligentemente, passando alla scoperta del prossimo passo con gioia e curiosità.

Con i denti strappò la bustina del condom che aveva trovato e con sicurezza lo posizionò; la donna annuì e si guardarono ancora, Elena si tirò su e furono l'uno difronte all'altra, spogli dei loro pregiudizi, senza catene.

"Sdraiati." Disse con voce roca.

"Voglio sentire tutto." Rispose lui.

"Abbiamo l'intero giorno.. sdraiati." Sorrise e Guido si lasciò andare, sdraiandosi.

Elena guidò la penetrazione con lentezza disarmante, augurando fuori d'artificio per quel giovane bramoso, con le gambe strette intorno al bacino e le bocce vicine a sfiorarsi; scivolò su di lui che la teneva imprigionata per i fianchi, con le sue mani piccole e delicate, ogni tanto la mordicchiava sul mento, ridendo appagato o gemendo a seconda dell'intensità delle risalite della ragazza. Il ritmo lento-veloce, squassò Elena con un orgasmo inaspettato e violento.

Guido osservò impressionato il suo volto in estasi, la ragazza aprì velocemente gli occhi.

"Come ti senti?" Chiese.

"Mai stato meglio."

La tirò al suo fianco e attese che il suo respiro tornasse regolare; con un colpo di reni si posizionò su di lei, sistemando fra le sue gambe schiuse, il bacino. La penetrò ancora, stavolta stoccando un colpo dalla rapidità glaciale, seguito da altri affondi della stessa intensità. Elena gemeva ad occhi aperti, provocandolo, mordendosi il labbro succoso, invogliandolo a spingere sempre di più forte; tirò in alto le gambe fino alle sue spalle, dove si posò, completamente rannicchiata e in balia della sua possenza e delle sue stoccate.

Guido raggiunse il piacere in un boato di gridolii eccitati ed eccitanti, mantenendo il ritmo fino alla fine.

Quando spalancò gli occhi, Elena rise.

"Non crollare proprio ora, in bagno, forza!"

Il ragazzo prese il respiro e scese dal letto; le gambe erano cedevoli ma sentiva un'assurdo fuoco nelle vene.

"Andiamo." Disse fermamente, prendendo Elena per mano.

Aveva ragione, niente sarebbe stato più come prima.



L'ultimo bottone della camicia restò aperto, mentre guardava Elena rivestirsi e prendere le sue cose.

La donna era incredibilmente seria e concentrata, mentre passava le mani fra i capelli, sistemandoli.

Non sapeva dire che ore fossero o quanto tempo erano rimasti lì, sapeva solo che era incredibilmente euforico, in quella stanza che a guardarla bene, era davvero pacchiana e molto disco club anni ottanta, con tutti quei neon soffusi.

Non era più vergine.

Si trovarono a guardarsi, sull'uscio. "Ho una frase fatta per questo momento, ma non la userò."

"Se è come quella d'entrata, lascia stare."

"Questo è carattere. Ricordalo e non farti schiacciare da nessuno."

Guido la trattenne. "Non ti ho mai vista in città."

"Ci sono delle regole Guido.." Rispose schiva.

"E' tornata la principessa di Troia."

Elena rise. "Bravo, vai a fare incazzare papino, adesso. Scommetto non si divertirà quando saprà di dover spuntare questa voce, dalla sua tabella da primatista del cazzo." Gli fece l'occhiolino, ed aprì la porta.

Distacchi brevi, sempre. Questa una delle regole, ma chissà perchè, si guardò indietro prima di andare via.




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La luce del sole inondava la stanza facendola apparire sbiadita.

Era pieno giorno, non avrebbe chiuso occhio, lo sapeva, raramente riusciva a dormire dopo mezzogiorno.

Si lasciò cadere sul letto e guardò fuori. Cielo terso, una rarità.

Quasi automaticamente chiuse gli occhi, lasciandosi trasportare dal silenzio e rimase a fluttuare nell'oblio.

Marcello la ridestò bussando alla porta. Riconosceva subito il suo tocco; burbero e ostentato.

"E' aperto." Biascicò con la faccia sul cuscino.

Lui aprì silenziosamente, era ben vestito, il viso rasato e profumato. "Dovresti chiuderla sempre."

"Sei troppo paranoico. A parte te non vedo altri molestatori in giro." Si sentiva stranamente cordiale e spiritosa.

"Sei felice." Berciò lui, un tono ostico, la infastidì. "Vedo che le ripetute attività notturne ti hanno giovato all'umore.. e non solo. Sei bellissima stamattina."

"Arriva al dunque." Disse indossando la faccia di bronzo consueta.

"Te le ricordi le regole, vero?"

"Come dimenticarle." Sorrise sghemba.

"Beh quel tizio, il ragazzino di stanotte.." Sottolineò la frase con malcelato disappunto "..ti vuole come accompagnatrice ai suoi eventi."

Elena non tradì la minima emozione. "Hai accettato?" Rispose fredda.

"Mi ha lasciato cinquantamila motivi per accettare." Mimò un cinque con la mano.

La ragazza sorrise, inchiodandolo con lo sguardo. "Allora di cosa ti preoccupi? Regole? Abbiamo appurato che sono una formalità, quando applicate a te. Stila un contratto e fammelo avere domani, adesso voglio dormire."

Marcello restò seduto sul bordo del letto a riflettere. "Ti hanno vista insieme all'ispettore Colonna."

Sapeva sarebbe successo, non credeva dopo così tanto tempo. "Credevo di aver perso la mia patente e così me lo sono arruffianato un pò, per continuare a farmi i cazzi miei." Sorrise apertamente, quel sorriso che sapeva, era la sua debolezza. "Dovresti dire ai tuoi spioni di farsene altrettanti dei loro." Marcello annuì e s'alzò, sapeva che non sarebbe bastato, ma era il piccolo prezzo messo in conto, per la sua amica Marishka. "Per quanto riguarda noi due, questo favorirà non poco la tua posizione ambigua riguardo a questo posto.. se la parola ambigua bastasse. Anche se non ne hai certo bisogno, a quanto vedo dai frequenti andirivieni di personaggi assai bizzarri, godi già di protezione. O forse hai qualcosaltro da nascondere, che ti preoccupi delle mie frequentazioni?" Prima che le rispondesse, azzardò. "Sì lo so che non vuoi casini, ma non sono una sprovveduta anzi, ti ho tirato fuori dai guai quando ne avevi bisogno. Ti sei scordato ancora quanto valgo per te, eh? Quei cinquantamila potrebbero ricordartelo."

Il volto dell'uomo si chiazzò di venature rossastre, divampate dal collo come rami di un albero.

Lo aveva fatto incazzare.

Marcello tornò sui suoi passi e si arrampicò sul letto, sgusciandole contro il volto; Elena già pronta, si era issata con il busto e le gambe quasi fuori dal letto.

"Fino a quando farai parte di questa giostra, io avrò il pieno controllo di te!" Ringhiò.

Eccola la vera natura da capo branco, la forza del leone e la sua possessività.

Non abbassò le difese, anzi protese ancor di più il volto verso il suo, gli occhi accecati di rabbia.

"Puoi avermi comprato e credere di vendermi come e più ti piace, ma io apparterrò solo e per sempre a me stessa." Balzò in avanti, spingendolo oltre il bordo. "Sei lacerato dal senso di colpa, che ti culla fra odio e amore, mi desideri e mi disprezzi con la stessa intensità, perchè non sai quanto ti disprezzo io!"

Marcello la tirò giù per le spalle, improvvisamente; quella forza improvvisa la terrorizzò, ma reagì colpendolo alle gambe con dei calci. L'uomo la sovrastò completamente, schivando i colpi. Le era sopra, l'aveva immobilizzata mentre cingeva i suoi polsi al di sopra della testa, riusciva a sentire indistintamente il calore del suo corpo oltre la sottile stoffa della vestaglia che indossava. "Sei una stronza! Mi mandi fuori di testa. E non voglio farti del male!"

Elena sentiva la gola bruciare, gli occhi velati. "Che cazzo vuoi, allora?"

"Il tuo rispetto." Gemette.

"Mi hai tolta dalla strada, eppure mi hai fatto crescere quì. Di che rispetto parli?" Chinò il capo fra i suoi capelli, sconvolto dalla durezza delle sue parole. "Vuoi scoparmi? Fallo adesso, vedi dove può arrivare la tua depravazione." Lo incitò, strusciando le gambe sul suo membro, gli occhi sempre più rossi. Marcello la bloccò, lo sguardo da pazzo, eccitato e triste, sconvolto. "Non sei migliore di altri."

Quell'ultima frase fu come un campanello che lo ridestò; le lasciò andare i polsi e veloce si tirò su.

Era viva, sentiva i polmoni gonfiarsi d'aria, eppure non riusciva a muoversi dalla paura.

Le lacrime le solcarono le guance, Marcello sempre più sconvolto, immobile, la fissava senza riuscire a dire nulla.

Quando fu calma, tornò anche egli a respirare.

"Gira una foto di una ragazza che ti somiglia, dicono che qualcuno la sta cercando e che quel qualcuno sia disposto a sborsare un'ingente somma di denaro, purchè le venga consegnata. Ti sono stato addosso e ti ho tenuta quì, perchè é il solo posto in cui posso proteggerti. Solo ora capisco che è anche quello in cui rischio d'ucciderti. Vattene adesso, prima che ci ripensi."

Elena si alzò in piedi tentando di replicare, ma la testa vacillò, perse i sensi e svenne.



Rinsavì sentendo delle mani che le tastavano la fronte.

War Machine era tesa su di lei a rinfrescarle il volto. "Credevo fossi morta."

Si stirò e notò che era nella sua stanza. Dei ricordi sbiaditi si confusero con il sole accecante del giorno.

"Che è successo?"

"Sei svenuta e hai dormito un giorno intero. Il verginello ti ha spompata, oppure cominci a cedere terreno."

Le labbra di Elena si contrassero in una smorfia, tentando di ridire, un martello alla tempia le ordinò di non farlo.

Non era stato un sogno dunque, quei ricordi erano pura realtà. Rabbrividì. "Marcello dov'è?"

Mercedes sospirò. "E' da ieri che non si vede. Mi sembra una casa di cura questa, mica un bordello."

"Smettila di farmi ridere, ti prego sto soffrendo."

La donna annuì e fece per alzarsi. "Fatti una doccia e mangia qualcosa, ti hanno segnato il giorno libero."

La situazione cominciava a farsi pesante. I suoi occhi vagarono dall'armadio alle finestre, poi al bagno.

Doveva andarsene.. non avrebbe avuto una seconda possibilità.

"Ah.. Mercedes, aspetta."

"Sono quì, dimmi."

"Grazie." Era il suo addio e l'altra chissà come, lo capì.

"Quelle come noi sono le più indifese, la fuori. Sta attenta. Mi stai simpatica, nonostante quella lingua velenosa."

Elena rise ancora,nonostante tutto. "Addio War Machine."

"Adios pincesa de Troia."

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Capitolo 6
*** La fuggitiva. ***


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Ekaterina

(La fuggitiva)




La fuggitiva. Capitolo 6




"Prendetela! Non deve scappare, prendetela!"


Saltò in macchina con gli occhi pieni di lacrime.

Alexsander le corse dietro affannato, il petto nudo e i pantaloni slacciati.

Emily, nell'ovetto, piangeva disperata. Non aveva il tempo di assicurarla, perciò con una mano afferrò il volante e con l'altra la teneva salda al sedile. Il tirapiedi di Alexsander, le si parò davanti tentando di fermare la sua corsa, accellerò verde d'ira, costringendolo a ripiegare su un fianco e caracollare in terra.

Sprangò il cancello automatico con il Dodge antiproiettili che era riuscita a individuare, fortunatamente appena tirato fuori dalle rimesse per il piacere di Barajev e delle sue scorribande fra i monti ucraini del fine settimana, creando un foro in cui passò senza intoppi, ripendo mentalmente di restare calma ed essere lucida.

Controllò lo specchietto retrevisore, sapeva che era questioni di attimi prima che qualcuno, lo stesso Alexsander se fosse stato altrettando lucido da tirarsi su i pantaloni, si lanciasse all'inseguimento; la guancia dove aveva ricevuto il malrovescio, iniziava ad arrossarsi.


Si era ribellata.

Aveva rovesciato le carte in tavola e come un leonessa chiusa in gabbia per troppo tempo, aveva mostrato al pubblico pagante il suo ringhio; c'era ancora, era lì, era stata calcolatrice e subdola e alla fine c'era riuscita, non senza qualche intoppo, un guancia dolorante, ma ora era lì con la sua bambina a cercare la via di fuga.

Aveva rubato una lista di nomi e cognomi qualche tempo prima, ed era saltato fuori che quella lista fosse di vitale importanza per Barajev, dei contatti punitivi, gente che gli doveva dei soldi, deliquenti con debiti, strozzini a loro volta, mercenari.. e lei l'aveva rubata. Ne aveva fatto delle copie e le aveva spedite ad ogni singolo nome con un avvertimento; morte. Capì che i messaggi erano arrivati a destinazione perchè Alexsander si faceva di giorno in giorno sempre più cupo, nervoso, indossando in viso una maschera che non gli aveva mai visto prima; la paura.

Era incredibile vederlo così piccolo, frustrato, inutile.

Fra loro era sceso il gelo, non la toccava ne si occupava della bambina, così che nei sempre più frequenti momenti di solitudine, era riuscita ad escogitare un piano di fuga che comprendesse l'espatrio nel minor tempo possibile.

Tutto stava filando liscio, Alex era via da qualche giorno e non le aveva lasciato nessuno dei suoi tirapiedi addosso, quando rincasò la notte prima della fuga, sporco di sangue e con degli evidenti segni di collutazione sul corpo.

Uno dei contatti alla quale aveva destinato il messaggio, fedele scagnozzo insospettito dalla missiva ritenendola fosse una prova di fiducia del criminale nei suoi confronti, per paura d'essere tormentato a vita, si era autocostituito con Barajev, mostrandogli il reperto; non c'era voluto molto tempo perchè Alexsander arrivasse a lei quale fautrice e ringraziò l'amico per la fedeltà piantandogli una pallottola in fronte.

Ekaterina aveva capito tutto, appena udite le sue grida nel cortile.

I suoi occhi di ghiaccio vibravano fiamme nelle pupille, le sue mani tremanti stringevano la pistola, il suo animo grigio gridava vendetta; si era accorta di lui e si era nascosta in una delle stanze al pian terreno ma Emily aveva pianto, smacherando il nascondiglio.

"Viaggio improvviso?" Aveva detto con quel tono di voce piatto e mellifluo, mirando alla sacca a tracolla.

"Ho in braccio Emily, non fare cazzate."

"Dammi la bambina." Le aveva ordinato inflessibile.

"Mai."

"Non ti farò nulla se me la dai." Insistè, posando lentamente la pistola ai suoi piedi; Ekaterina inarcò il sopracciglio e sputò in terra, sfidandolo. "Questo non dovevi farlo." Aggiunse in fine l'uomo, con il volto rattrappito d'odio.

Con una mano si era sfliato la cintura e l'aveva scagliata contro il suo braccio nudo; il dolore della cinghiata si fece da subito prepotente e per un attimo, chiudendosi a riccio, aveva dato le spalle; Alexsander le si era avventato contro, strappandogli la bambina dalle mani e lasciandola in terra, dove giaceva la pistola, prendendo a spogliarsi.

"Brutto bastardo, lasciami stare!" Gridò, immobilizzata dalla sua morsa.

Per tutta risposta e con una risata perfida le aveva rifilato un malrovescio, scaraventandola contro il pavimento.

La paura per quello che le avrebbe fatto l'annientò e lui ebbe tutto il tempo di montarle addosso nuovamente stringendo la cintura in mano; guardò la sua bambina contorcersi sul pavimento, lontano da lei, e urlò più forte che potè.

"Dovevi solo ubbidire, Ekaterina. Solo ubbidire. Ubbidiscimi ora e giuro che non farà tanto male."

Vide la pazzia infondo alle sue pupille, vide la cattiveria, vide la morte.

Ma vide anche la speranza. Alexsander si sdraiò su di lei, attorcigliandole la cintura intorno al collo.

"Farò quello che vuoi." Disse con voce rotta e flebile.

I suoi occhi guizzarono. "Oh si che lo farai." Sembrò cambiasse idea, levò la cintura dal collo spostandosi leggermente per legarle le mani, ma liberando una delle braccia da sotto il peso delle sue ginocchia, le lasciò tempo e istinto di graffiargli una guancia, con tutta la foga che poté. Gridò come un ragazzino, il sangue già in superficie.

La colpì in pieno viso ma nel farlo, liberò anche l'altro braccio.

Ekaterina capì che quella era la sua ultima possibilità; afferrò la cintura che aveva lasciato cadere per tastarsi il viso e affondò il gancio della stessa contro il collo di Alexsander, che nello schivare il colpo, si tirò indietro sbloccandole anche le gambe.

Si alzò come una gatta infuriata e senza pensare due volte, corse incontro alla bambina, l'afferrò e scappò via.

L'uomo strepitò, lento nel rialzarsi forse per le precedenti collutazioni, regalandole così, attimi preziosi per la rincorsa alla libertà.

Quella follia, quella cattiveria, l'avevano salvata.



Guardò ancora nello specchietto, afferrò il cellulare, rigettando alle spalle i terribili attimi d'angoscia passati.

Una voce femminile le rispose concitata.

"Marishka sono io. Alexsander mi ha scoperta e non sono riuscita a portare con me la borsa con i documenti, sto raggiungendo la statale, ti prego vedamoci al casolare sulle colline. Piano b."

Non avrebbe mai voluto ci fosse un piano B, ma in quel momento era necessario; riagganciò malamente il cellulare gettandolo dal finestrino verso i campi, affondò il piede sull'accelleratore e proseguì dritta fino a destinazione.

Quando arrivò, la donna minuta era li ad aspettarla.

"Prendila tu." Esordì, indicando la bambina. "Quando sarò sistemata, tornerò a prenderla."

I suoi occhi erano annegati di lacrime; non avrebbe mai permesso che qualcuno gliela strappasse via, ma non poteva rischiare che le accadesse qualcosa costringendola, così piccola, alla traversata dell'Adriatico -nuovo mezzo di ripiego nel lasciare Odessa, ora che non aveva i documenti con se- o peggio rischiare che le trovasse prefigurando il suo futuro in mano a quell'assassino. Quest'ultima opzione, le diede una botta allo stomaco.

Doveva salutarla. Non v'era più tempo, lo aveva capito, guardando il sole al centro esatto del cielo.

"Ma.."

"Niente ma. Le tue consorelle si prenderanno cura di lei. Io troverò il modo di arrivare al porto entro sera."

"Dove andrai esattamente?" Chiese quella in apprensione.

"Non posso dirtelo. Dio non voglia arrivino a te e ti costringano a farsi dire tutto." Le accarezzò la guancia al terribile pensiero che quella donna così buona, morisse a causa sua. "Si chiamerà Dorotea, dono di Dio, alle tue consorelle dovrebbe piacere. Promettimi che salverai la mia bambina, ti prego."

Quella unnuì e smise di fare domande. "Te lo prometto. Sulla mia vita."

Ekaterina inspirò così forte che Emily rise ascoltando quel suono. Le baciò dolcemente la fronte e abbracciò forte Marishka. "Dille che l'ho amata dal primo istante che l'ho vista e che quando tornerò, staremo persempre insieme."

Si asciugò le lacrime con il dorso della mano e le allontanò dolcemente da lei. "Va.. adesso va."

La donna annuì, voltando le spalle in silenzio.


Rimasta sola s'accasciò sulle sue stesse gambe, il volto piegato fra le mani, in un pianto disperato.

Non si accorse dei passi silenziosi alle sue spalle, ma udì chiaramente il rumore della rivoltella contro la sua nuca.

Sussultò, l'ombra dell'uomo che la teneva sotto tiro le passò accanto, fino a trovarsela davanti.

"Quella macchina.. ho sempre detto al capo di non usarla durante un inseguimento. Non puoi farla sparire."

Rise mostrando denti rancidi, sistemandosi sulle gambe per eseguire l'ordine d'esecuzione.

La finestra era aperta alle spalle del suo aguzzino, riuscì a scorgere dal limbo della sofferenza, una striscia del mare di Odessa e fu felice di morire guardando per l'ultima volta, qualcosa che le ricordasse casa sua.

Era sciocco pensarci.

Era sciocco non provare una parvenza di paura.

Era sciocco patriottismo e vana speranza di essere appartenuta veramente a qualcosa.

I suoi genitori l'avevano venduta. Così, tutto era cominciato. E così, tutto stava per finire.

Era sciocco, sì.

Era sciocco avere diciassette anni e trovarsi sul punto di morte.



"Dì le tue ultime preghiere."



Udì, prima che il boato di uno sparo, risucchiò la sua vita in un secondo.

Cadde a terra, terrorizzata, agitandosi e tremando come una foglia; una macchia di sangue andava allargandosi sotto ai suoi occhi sbarrati. Una macchia di sangue proveniente dal corpo rigido difronte al suo.

Non sono morta, pensò ancora più spaventata.

"Non sono morta!" Esalò, voltandosi.

Marishka era in piedi accanto all'entrata, le braccia ancora protese in avanti con una pistola fumante fra le mani.

"L'ho sentito arrivare, appena assicurato la bambina in auto." Pronunciò con labbra serrate. "Hai la via libera."

Ekaterina si alzò. "Mi hai salvato la vita due volte."

"Te ne devi andare subito. Non sei più al sicuro quì."

Annuì sconvolta. "Taglierò per i campi. Non mi vedranno."

"Prendi questi. In macchina ho un camice da lavoro." La donna si tolse la maglietta e il giubbino, porgendoglieli.

La ragazza si spogliò delle sue vesti, gettandole in terra con stizza e indossando le nuove.

"Non so come ringraziarti."

"Tieni in salvo la tua vita."

"Lo farò."

E dopo un'ultima occhiata, corse fuori verso i campi, verso la libertà.



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Stringeva quel biglietto da visita come se d'un tratto potesse sparire dalle sue mani.

La visuale era confusa, anche se la strada percorsa era piuttosto familiare; nella sua testa un grande vortice le stava risucchiando i pensieri, l'ansia graffiava già nel fondo nella gola, il piede tremante appena appoggiato sull'acceleratore indicavano lo stato di smarrimento in cui versava.

Aveva preparato la valigia con il cuore in tumulto, il Paradise era stata la sua casa in quei lunghi sette anni.

Lì si era trasformata nella persona che non credeva di diventare ma era diventata anche molto forte.

Marcello l'aveva tradita o forse voleva tradirla, chi lo sa, quel dolore lancinante che sentiva dentro al petto era la chiara e netta sensazione d'abbandono che conosceva bene, essendo stata venduta da chi l'aveva messa al mondo, ma era anche la spia salva vita che la costringeva a guardare in faccia la realtà e preservare la sue esistenza.

Non si erano incrociati, il suo avviso molto chiaro, perciò era fuggita via.. non senza prima garantirsi un pò di sopravvivenza; il contatto che Guido aveva lasciato alla reception, il biglietto da visita con le sue generalità, adesso ce l'aveva lei, stretto fra le mani, insieme al cellulare.

Ed era proprio la sua voce, quella che rispose dall'altro capo.

"Elena.. sei tu?"

Abbozzò un sì tetro e fugace, trattenendo un pianto colmo di speranza. "Puoi aiutarmi?" Chiese.

"Dove sei? Ti sento malissimo."

"Credo di essere sotto casa tua." Biascicò. "Sono in strada, accanto il gabbiotto della vigilanza."

Guidò sospirò. "Arrivo subito."

L'indirizzo corrispondeva ad un cancello di ferro imponente, sul finire di una strada alberata, un cancello con delle mura molto alte, dalla quale oltre, si intravedeva il profilo del tetto di una villa; il tizio di guardia la fissò, quando il cancello si aprì e un ciuffo biondo apparve, si rilassò all'istante.

Guido le venne incontro, vestito casual, la camicia sbottonata e il jeans slavato con i mocassini chiari; più lo guardava avvicinarsi, più la sua estrazione borghese le sbatteva in faccia la realtà dei fatti. Aveva passato con quel ragazzo forse la notte più intima di tutta la sua vita, si era presa la sua verginità, ma quel viso così pulito, quel sorriso così sincero, la presero alla bocca dello stomaco, facendola sentire sporca.

Illividì e accese di nuovo il motore della macchina.

Guido intuì le sua intenzione e con uno scatto, bloccò la partenza infilando la mano nell'abitacolo, sul volante.

"Non scappare." Disse perentorio.

"Siamo troppo diversi." Esalò Elena.

"Hai bisogno di aiuto e hai chiamato me. Non senti questa grande differenza, dopotutto."

Mollò il volante e tirò indietro la schiena contro il sedile. "Ho paura."

"Elena di che cosa? Di chi?" Si protese verso l'abitacolo, incoraggiandola a parlare.

Lo fissò a lungo prima di parlare. Era chiaro che si fidava di lui, era chiaro che provava verso quel giovane un sentimento puro del quale non conosceva un nome ma che la terrorizzava; non era mai stata guardata con quegli occhi, non era mai stata il "pensiero" di qualcuno, tutto questo era nuovo e scioccante.

"Il mio nome è Ekaterina Murjel e vengo da Odessa, Ucraina. Ho una figlia di sette anni che non vedo da quando era poco più che una neonata. L'uomo che ho sposato all'età di quindici anni è sulle mie tracce perchè vuole uccidermi." Prese un respiro profondo, il viso di Guido era una statua, ma profondo nello sguardo. "Ed io sono a quì per chiederti di aiutarmi ma ho paura perchè tu sei così limpido, pulito. Non avevo capito chi fossi veramente se non vedendoti uscire da quel cancello."

"E' solo un cancello." Bofonchiò Guido, sorridendole. Girò intorno all'auto e si accomodò sul sedile passeggero; fece cenno all'uomo che li osservava di aprirlo e si voltò verso Elena. "Metti in moto, il resto me lo racconti di fronte una buona tazza di caffè."

"Hai sentito quello che ti ho detto?"

"Parola per parola. Adesso vai." Insistè incoraggiandola.

Elena ingranò la prima ed imboccò cautamente il viale di ghiaia circondato da un giardino di finissima erba rasata e aiule di azalee viola e bianche; la proprietà, qualche migliaia d'ettari non seppe giudicare bene, si aprì alla sua vista come un ventaglio. Un delicato cespuglio di ibisco lilla ne percorreva tutta la cinta muraria e si perdeva dietro la villa sullo sfondo, bassa e a due piani, con un grande portico che celava le vetrate ampie dell'ingresso.

Il ragazzo indicò di svoltare verso destra dove terminava la ghiaia e nasceva un percorso fatto di pietra lavica che portava ad una costruzione più isolata e leggemente rialzata, rispetto all'altra. Dallo specchietto retrovisore si accorse di aver lasciato una piscina a forma di goccia, nascosta da alcune roccie e cascate stile paradiso perduto, alle spalle.

Si voltò a guardarlo truce. "E scommetto che quella è solo una piscina?"

"Esattamente." Rispose Guido laconico. "Quella è solo una villa." Proseguì indicando il paesaggio intorno a loro. "E quest'altra, solo la dependace in cui vivo. Come vedi.. solo dettagli."

"Si certo. Dettagli." Elena guardò velocemente in giro, quando accostò accanto alla porta d'entrata. "I tuoi genitori.. non ci sono? Li hai descritti come due.."

"Rompicoglioni? Si, proprio così. Ma attualmente infestano un lussuoso resort delle Maldive dove si ritirano due volte l'anno per dimostrare al loro manipolo di amici ricchi di essere altrettanto ricchi, trendy e sopratutto felici. Che schifo."

Elena rise. "Adesso sei tu l'ipocrita."

"Mi era parso di capire che fossi dalla mia parte." La invitò ad entrare, seguendola subito dopo.

La dependance era piccola e accogliente, moderna nello stile, grandi pavimenti grigio scuro e mobili bianchi, vetrate che davano sul bel portico con eleganti elementi da giardino, soffitto di travi a vista smaltate.

C'era un discreto disordine tipico maschile e tipico dei ragazzi della loro età, parecchi capi formali sparsi sulle sedie del bancone cucina di cui lui si accorse e che si apprestò a riordinare e portare via in una sala attigua che immaginò fosse la camera da letto.

"Caffè o preferisci altro?" Le chiese di ritorno.

Elena sospirò. "Vorrei qualcosa di forte."

Guido attraversò la sala principale fino ad arrivare alla parete attrezzata, dove con una leggera pressione delle dita aprì un'anta che nascondeva una riserva di gran vini e liquori; afferrò un paio di bottiglie, poi trafficò in cucina voltandosi infine con lo shaker fra le mani sorridendo.

"Un'altra delle cose finite nella lista da primatista del cazzo di mio padre." Versò il preparato in due coppe e sorrise ancora. "E' un'arte che mi ha sempre appassionato."

Elena lo ringraziò portandosi la coppa alle labbra. "Sono stupita."

"Lo so." Le rispose demoralizzato. "La mia immagine mi tradisce ancora una volta,"

La ragazza lo fissò torva. "Veramente sei tu che ti affossi senza alcuna ragione." Posò il bicchiere sul tavolo bianco e perfetto della cucina e rise. "Bello, ricco e anche barman. Questo ti aiuterebbe con le ragazze, non dimenticare di dirlo al primo appuntamento. E non dimenticare di aggiungere la vodka.. fa meno cocktail di classe, ma ti assicuro che mette tutti a proprio agio."

"Ah si? Sei un'esperta?"

"Qualche migliaia di consumazioni al club mi rendono esperta?" Chiese divertita.

"Direi di si." Annuì. Poi la guardò, lasciando il bicchiere in sospeso. "Se vuoi metterti comoda, ti mostro dov'è il bagno." I pensieri angoscianti tornarono a tormentarla, Guido se ne accorse, stringendole la mano. "Quì sei al sicuro davvero, puoi rimanere quanto vuoi, ma dovrai spiegarmi bene l'intera faccenda se vuoi che ti aiuti."

Elena annuì e dopo aver ingollato quanto restava dell'alcolico, tutto d'un fiato, raccontò la storia dall'inizio, da quando era una ragazzina che amava ballare sulle punte ad Odessa fino a diventare la stripdancer di un club a luci rosse. Parlò di Marishka, di Leonardo e Marcello, della sua intoccabilità e del probabile invischiamento di quest'ultimo circa il suo ritrovamento, per conto del folle Barajev. Parlò delle sue paure, prima fra tutte di non riabbracciare mai più sua figlia Emily o Dorotea non sapeva più neanche come si chiamasse, così tanto che il corpo venne squassato da singhiozzi che Guido curò con altro alcool, stavolta non dimenticando la vodka, stordendola a tal punto che ad un tratto si rese conto di essere a letto.

Si agitò, tastando le coperte intorno a lei e quando lo trovò, vigile e fermo a vegliare sul suo sonno, si strinse forte alla sua camicia, trovando il suo caldo abbraccio. "Sono quì." Le bisbigliò fra i capelli. "Non vado da nessuna parte."

"Mi aiuterai?" Chiese, inspirando il suo odore così buono e rassicurante.

"Ho già chiamato il tuo amico, Leonardo, ci sono delle novità."

Elena aprì gli occhi spaventata. "Che cosa hai fatto?" Si tirò su, pallida in viso.

Guido la fissò negli occhi. "In qualità di tuo avvocato -forse ho dimenticato di dirti che mi occupo di scienze umane, sociali e gestionali- ho il diritto di sapere lo sviluppo delle indagini. Per quanto riguarda la bambina c'è molto altro da scoprire ma ho già preso contatto con qualche istituzione clericale e orfanotrofi di Odessa e dintorni ma come puoi ben immaginare di lavoro dietro ce n'è abbastanza e la piccola potrebbe essere finita ovunque, tanto più che la donna che vi ha aiutate non mi sembrava una sprovveduta da farla ritrovare. Dovrai darmi tutti i contatti che ti ricordi, numeri di telefono, tutto ciò che riguarda Marishka, se vogliamo arrivare alla bambina in tempi brevi."

Elena annuiva senza capire, il cervello in estasi. "C-come faremo poi a..?"

"Di questo non devi preoccuparti ora, una volta individuata non manderemo in fumo il sacrificio al quale ti sei sottoposta per tenerla al sicuro, per la mera fretta. Dobbiamo agire cautamente e con astuzia. In tal caso ho già preso contatti anche con un'amica dei servizi sociali, se serve a tranquillizzarti per il futuro. Purtroppo non è abbastanza Elena te lo dico con sincerità, sarà difficile, ma intanto possiamo tenere quello stronzo lontano da voi."

Poi s'azzittò, guardandola indeciso.

"Che c'è, perchè mi guardi così?"

"L'ispettore Colonna mi ha detto che trovandosi in territorio italiano c'è un'alta probabilità che possano prenderlo per processarlo secondo le nostre leggi. Stavolta c'è la possibilità che tu possa ricevere un'identità legale alternativa, trattandosi di un soggetto altamente pericoloso e legato alla mafia internazionale, quindi anche questo non sarà un problema come vedi."

Elena alzò un sopracciglio. "Quindi gli hai detto la verità circa la mia identità?"

"E' un poliziotto, credi non lo sapesse? E da me non un fiato in più ma ritengo oppurtuno, in quanto tuo avvocato, mettere in chiaro la totale e reciproca fiducia che ci vedrà cooperare. Nel miglior modo possibile, spero."

Elena sospirò, straiandosi di nuovo. "Come ti ho raccontato ho usato Colonna per farmi da scudo contro Alexsander, senza però affrontare la questione apertamente. Volevo mi raccontasse tutto, non riuscivo a fidarmi completamente di lui. Ne di chiunque altro se proprio vogliamo dirla tutta. Ma di te sì. Tu mi hai mostrato chi sei senza vergogna."

Guido si toccò il mento. "Possiamo fidarci di lui." Sorrise e scosse il capo. "Un pò scorbutico certo, ma ha mostrato un interesse sincero, quasi oltre il compassionevole senso umano, quando ha capito che parlavo di te. E questo caso, risolvere questo caso, apporterà alla sua carriera un'impronta importante." La donna annuì, ma il suo sguardo si perse sulla sua fronte corrugata. Guido annuì a sua volta. "Non gli ho detto dove ti trovi, vuole incontrarti solo se anche tu sei d'accordo e con cautela; Alexsander Barajev è in Italia, Elena. Ha fatto affari con la mala Brenta, giri di droga e prostituzione, i servizi segreti sono sulle sue tracce e si hanno prove concrete che abbia avuto ripetuti contatti con Marcello Moretti per un grosso affare, ergo anche Colonna vuole mantenere riserbo."

Le si sdraiò di fianco, guardandola profondamente negli occhi, lasciandole il tempo di metabolizzare le sue parole.

Elena prese a respirare affannosamente, il petto si gonfiava e si svuotava ad un ritmo frenetico, che Guido temette le scoppiasse il cuore da un momento all'altro; le accarezzava la schiena senza fiatare, incatenando i loro sguardi, l'unica arma che possedeva al momento per farla tranquillizzare.

Era spaventata, il viso pallido dal quale schizzavano fuori i suoi occhi cinerei, la bocca contratta.. un angelo ferito che aveva disperatamente voglia di baciare. E la baciò, avvicinandosi piano, cercando il suo consenso, dal momento che in quelle pupille, attraverso il terrore, leggeva di cosa era fatta la sua paura e tremò egli stesso.

Non era riuscito a togliersela dalla testa, da quando il Paradise si era fatto sempre più piccolo alle sue spalle il giorno in cui ci aveva messo piede, sapeva che non l'avrebbe dimenticata tanto facilmente.

Aveva sperato ogni giorno in una telefonata da parte di Moretti. "Sì, accetto." Immaginando queste parole.

Il consenso ad averla per se. Anche se significava comprare il suo tempo.. tutto, pur di strapparla alla realtà della quale si circondava; non aveva mai fatto sesso con una donna prima di allora e non sapeva nulla delle donne in generale ma non riusciva ad accettare che una ragazza tanto intelligente, dolce e carismatica come Elena, accettasse bonariamente quella vita così dissimile da ogni tratto che la riguardava.

Le aveva letto negli occhi, nei gesti del corpo, le sue movenze.

Voleva essere salvata. Gridava silenziosamente.

E non si era sbagliato, perchè adesso era lì fra le sue braccia, a chidergli di fare ciò per cui si era ossessionato fino ad allora. Lo avrebbe fatto. E non cercava ragioni.

Voleva salvare quell'angelo ferito.



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Migliaccio bussò alla porta d'ufficio del capo con due bicchieri colmi di caffè.

Sarebbe stata una lunga mattinata, quella. E l'avrebbero segnata sul calendario, ne era certo.

L'intoccabile Marcello Moretti, appariva meno intoccabile di sempre, oppure era stata la caparbietà di Leonardo di rivoltare il sistema -dopo l'assassinio di un esponente della politica locale si era fatto portavoce di legalità- fatto sta che dopo velate minacce dall'alto di lasciarlo in pace, tutto a un tratto Moretti appariva come un'aringa in un mare di squali. Un'aringa solitaria, perduta.

La mafia ucraina era alle sue calcagna, dai tabulati telefonici e le intercettazioni era saltato fuori un grosso giro d'affari legato alla criminalità organizzata di prostituzione, droga e rachet, un giro finito male, qualche intoppo, forse lo stesso Moretti e la sua ambizione da piccolo "imprenditore" locale lo avevano portato a pestare i piedi ad Alexsander Barajev, noto esponente della Solncevskaja bratva attualmente a piede libero in Italia.

Questo significava una sola cosa; arresto immediato, prima di vederlo sparire alla volta di qualche meta esotica e lontana, dove sarebbe divenuto irraggiungibile per chiunque, persino Barajev.

"L'hanno trovato?" Chiese Leonardo con una faccia stravolta, da poche ore di sonno.

"La pattuglia di ronda è tornata dal club a mani vuote. Quelli della speciale, idem. Non c'è traccia al momento." Rispose Migliaccio intuendo già la sua smorfia di disapprovazione. Odiava quel ghigno, come odiava deluderlo. "Sono stati allertati i maggiori areoporti, dogane. Lo troveremo capo, sono sicuro che lo troveremo."

Leonardo sospirò, tornando a quel fotomontaggio stampato che ritraeva la foto di Barejev in un distrubutore di benzina; la fissava torvo, preoccupato, quasi cercasse in quella faccia slavata la risposta alle sue domande:

Che fosse lui il vile dalla quale stava scappando Elena?

Perchè la ragazza aveva ingaggiato un avvocato?

E sopratutto, cosa legava Elena-Ekaterina Murjel- ucraina di Odessa, a quel giro losco?

Odiava non avere risposte. Era sempre stato così.. impaziente, frenetico, desideroso di verità.

Ma c'era di più; non riusciva a togliersi quello sguardo tormentato dalla testa.

Si erano tenuti sporadicamente in contatto, dopo il funerale, più che altro per tenerla aggiornata sull'andamento delle indagini proprio come da accordo, poi c'era stata la sua tresca con Francesca, il muto silenzio reciproco fatto di prudenza, paura del giudizio.. tutto fino ad allora, alla bomba esplosa e alla verità piano-piano venuta a galla.

Sembrava un grande quadro incompleto e a quel quadro mancavano tocchi che solo lei poteva aggiungere, ma aveva promesso d'incontrarla solo quando sarebbe stata pronta e capiva che qualsiasi risposta gli fosse tornata indietro, doveva prepararsi al peggio. Non era di difficile intuizione data la sua presentazione; ballerina nel club di Marcello Moretti, il magnaccia travestito da imprenditore che aveva infestato il nord con i suoi festini a luci rosse quando era stato solo un giovane figlio di papà, fino ad insozzarlo con la scalata odierna di attività illegali del suo locale.

Si chiedeva dove fosse finita, ora che non risiedeva più lì, fino a sentirsi quasi preoccupato per lei.

Il suo avvocato era stato chiaro, non glielo avrebbe rivelato e lui non poteva avvelersi di un diritto non suo.

Non era una testimone, per lo meno non ancora, non era un'indagata.

Ma forse..

"Sta pensando alla Murjel non è così?" Migliaccio lo riportò indietro dai pensieri.

"E' la chiave di svolta di questo caso, ne sono quasi sicuro." Affermò, sorseggiando dal bicchiere.

"Capo, parliamo di un uomo pericoloso, la piaga dell'est Europa osarei dire, come può arrivare a pensare che ci sia una donna dietro la sua barbaria omicida? Mi spiego meglio, avrebbe trucidato quelle donne, per arrivare a una soltanto?" Ogni parola detta, nell'eco della sua stessa voce, appariva come una realtà un pò meno improbabile. "Lei crede sia arrivato al Moretti perchè a conoscenza della protezione che garantiva alla donna?"

"Sono quasi sicuro che sia così. Voglio sapere perchè. E senza Moretti non posso saperlo."

"Ci sarebbe sempre la Murjel da interrogare.."

Si guardarono consci dei segreti che nascondevano i quali non potevano più far finta di non considerare.

"Non mi istigare." Rispose Leonardo tracannando il caffè come fosse vodka. "Ho dato la mia parola di tenerla fuori al momento. Ma sto pensando di mettere alle armi tutto il Brenta, pur di cacciarla fuori dalla tana di quell'avvocato da strapazzo. Ha ventiquattro anni, ti rendi conto?"

Miliaccio rise dietro il bicchiere. Leonardo Colonna era un uomo molto controllato, lucido, perfettamente padrone delle sue emozioni; davanti a quella donna diventava un ragazzino.. un ragazzino geloso. Un ragazzino.. alla prima cotta. Chiuse gli occhi e inspirò forte. Li riaprì e lui era lì che si tormentava il labbro, mentre gli occhi vagavano ancora su quella foto dai pixel sgranati. "Cazzo, Colonna in che guaio ti stai andando a cacciare?"

"Che hai da fissarmi?" Gli chiese freddamente, alzando gli occhi dal tavolo.

Non poteva essere diretto, anche se da amico, da uomo che lo rispettava al di là delle loro posizioni, avrebbe voluto. Come dirgli che si sentiva uno scemo in quel momento, per aver creduto che c'entrasse davvero un probabibile ritorno a Napoli, in pompa magna e nelle nuovi veste di eroe?

Aveva creduto che dietro quei furenti occhi di ghiaccio si nascondesse l'ambizione per una carriera tutta in salita, fino a quel momento, il suo riscatto nel mondo delle forze dell'ordine e agli occhi di chi lo giudicava solo un ribelle dalle mano facile, che spaccava la faccia ai superiori, uno che dava noie.

E invece dentro quegli occhi.. la sagoma di una donna.

"Forse ha ragione lei. Meglio non tormentarla." Disse fingendo un sorriso.

Leonardo lo guardò sottecchi, prese la foto e la infilò malamente in una cartellina.

"Certo che ho ragione." Parlò e Migliaccio finalmente tornò a respirare. "Sono il capo."

Gli sembrò che sorridesse, la testa già altrove, ma restò a guardarlo fino a quando non si rimise capochino su altri file, lasciandolo completamente in silenzio. Il suo cellulare vibrò, il volto affascinante di Francesca coprì tutto lo schermo, Leonardo con gesto secco annullò la chiamata e tornò su di lui.

"Ma ancora quà stai?" Chiese.

"Non mi ha congedato, capo."

"Vai, ma torna con due caffè." Scosse il capo, brandendo la cornetta del telefono fisso. Dalla voce che replicò dall'altro capo della cornetta, capì che era in contatto con qualche collega. "Non raccontare nulla a Francesca." Disse ancora, coprendo la cornetta con la mano.

Sembrava una minaccia e anche un'ammissione.

Migliaccio sospirò e pensò che era venuto il momento di delegare qualche affare alla nuova recluta; chiuse la porta e lo lasciò lì, con una penna stretta fra le labbra, il capo verso la finestra mentre pensava a chissà cosa.



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La schiena nuda di Elena, riluceva al baluginio fioco della lampada.

Guido era estasiato, totalmente infettato dal suo odore, dalla sua presenza.

Avevano fatto l'amore, stavolta. Ed era stato qualcosa di molto forte, diverso dalla prima e non solo perchè quella volta si era presentato inesperto e impacciato, c'era stata come una sorta di elevatura nel loro rapporto, se così poteva chiamarlo. Era il suo avvocato, ma era anche il suo amante. Qualcosa era cambiato.

Sorrise e si alzò, lasciandola riposare.

Il pc in sala trillò. Mosse il mouse per tornare alla schermata desktop ed aprì la mail.

I suoi contatti iniziavano a produrre qualcosa; scorse velocemente alcuni file di posta, captando parole chiave e annotando numeri e nomi su un taccuino quando una mano delicata gli accarezzò le spalle.

Si voltò. Elena era alle sue spalle. "Ti sei riposata?" Domandò.

"Qualcuno mi ha fatto fare gli straordinari." Rispose guardando lo schermo del pc. "Novità?"

"Nulla di particolarmente eclatante." Le baciò la mano e la invitò a sedersi sulle sue gambe. Elena acconsentì, girando intorno alla sedia. "Devi stare tranquilla, qualcosa verrà fuori, devi solo avere pazienza e lucidità. Al resto ci penso io, va bene?" Si protese verso le sue labbra ma la donna schivò quel bacio con un'innata naturalezza.

"Forse dovremmo parlare del nostro rapporto non lavorativo." Azzardò, guardolo negli occhi.

Guido socchiuse le palpebre. "Ero insicuro sulla sua definizione. Grazie per averla trovata per me."

"Sei proprio un avvocato." E rise, appoggiando distrattamente le mani sul suo petto nudo e definito. "Allora, il nostro rapporto non lavorativo ha bisogno di regole."

Guido strappò un foglio e scrisse la parola baci con una X sopra. "Niente baci. Peccato, sono un bravo baciatore a dispetto della mia scarsa esperienza sessuale."

Eena gli strappò la penna dalle mani e scrisse. "No ironia sessuale. Il sesso si fa, non se ne parla."

"Questa regola mi piace." Guido riprese la penna. "Fiducia?!" Elena annuì.

"Libertà reciproca." Ordinò poi.

Il ragazzo alzò un sopracciglio. "La libertà pone diversi aspetti interessanti."

Elena sgranò gli occhi. "Giuro che non volevo trasformarti in un pervertito. Ma se serve a far ampliare la tua esperienza sessuale.." Risero in coro, ma azzittandosi l'aria si fece pesante.

"Un giorno te ne andrai. E può essere anche domani, va bene. Non ti costringerei mai a restare." Le passò una mano fra i capelli mossi e lucidi, sorridendo. "Nel frattempo potrei prendermi cura di te e tu.. fare di me quello che vuoi." Concluse con una risata argentina ed Elena ebbe una gran voglia di baciarlo.

Era bellissimo; un ragazzo divertente, intelligente, socialmente attivo.. e con un gran bel fisico.

Si sentiva molto attratta da lui, innegabilmente attratta. O forse era la figura del salvatore, ancora non lo sapeva, ma doveva pensarci su, decidere cosa fare di questo bellissimo salvatore. Intanto l'idea di farsi proteggere da lui non era affatto male ed era sicura ne sarebbe stato capace, in cambio avrebbe levigato le sue paure di non essere abbastanza e fatto nascere la farfalla rinchiusa nel suo bozzolo.

"Perchè sorridi in quel modo?" Le chiese a pochi centimetri dalla sua bocca.

"Perchè pensavo a te come a una crisalide." Guido fu sul punto di replicare, ma Elena si posò sulle sue labbra, suggellandole con un bacio. "Piccola clausola sui baci; sì, nei momenti intimi. Dopotutto qualsiasi regola ha margine di flessibilità ma.. tu non te ne approfitterai."

Guido le morse il labbro, negando il controllo di sè, Elena impazzì e gli montò a cavalcioni, togliendo via la vestaglia, rimase nuda fra le sue braccia; con entrambe le mani fece scivolare un pò la tuta dai suoi fianchi e con un gesto rude gli liberò il pene dagli slip. "Voglio baciarti.." Soffiò sulle labbra del ragazzo che si protese verso di lei, ma la donna scivolò dalle sue gambe fino al pavimento, facendosi spazio fra le sue cosce. Guido seguì la scena con stupore e lei rise maliziosa e non disse null'altro, beandosi dei gemiti, che di li a poco, il ragazzo liberò nell'aria.



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"Quello ha tutta l'aria di essere un mandato, capo."

"Perchè lo è." Leonardo si passò la lingua sui denti, beandosi del senso di soddisfazione che provava.

"Gioca sporco per uno che fa promesse." Silvio sentiva montare la preoccupazione per le scelte dell'uomo, ora dopo ora, sapeva che non si sarebbe tirato indietro nel fargli da spalla e questo se possibile lo preoccupava ancora di più. "Come mai questo cambio repentino d'idea?" Chiese cercando di apparire interessato ma non terrorizzato.

"Smettila di cagarti addosso." Rispose quello stizzito. "Ho capito che genere di idee ti passano per la testa. Vuoi la verità?" Chiuse la porta dell'ufficio con un calcio e lo trascinò vicino alla finestra, lontano dal corridoio e dai quei muri di cartone. Migliaccio ammutolito non potè fare altro che annuire con il capo. "Voglio chiudere questo ciclo e voglio farlo quì e ora. Per anni sono stato trattato come un delinquente e sai che ti dico? Forse lo sono, ho spaccato la faccia ad un superiore e se tornassi indietro lo farei di nuovo, perchè vedi Silvio, sotto questa divisa c'è un uomo. E l'uomo sbaglia, paga i suoi errori e poi si rimette in carreggiata. Sempre più spesso vedo molte divise perseverare in questi sbagli e questo non sono io. Ecco ciò per cui lotto oggi, ecco perchè sto sul cazzo a più di una persona. Ma io i miei errori li ho pagati tutti, anzi li sto ancora pagando, eppure non ho perso di vista i valori che mi hanno insegnato indossando questa divisa. Se vuoi farti togliere da questo caso, se non la pensi come me, io ti comprendo. Ci vuole il coraggio per cambiare le cose, ed io non sono quì in giudizio di nessuno."

Migliaccio lo guardò corrucciato, come se non dovesse neanche rispondere a quell'offesa; scosse un pò il capo e Leonardo lo colpì affettuosamente sulla spalla, grato per rinnovargli la sua tacita fiducia.

Eppure non riuscì a trattenersi. "Quella donna non c'entra proprio nulla?"

Leonardo sorrise sghembo, le mani sui fianchi, totalmente arrendevole. "Le donne indifese sono il mio punto debole."

Migliacciò insistè. "Lei lo ha capito che la Murjel è tutto fuorchè indifesa, vero?"

"Cosa vuoi sentirti dire, Silvio?" Replicò senza inflessione.

"Che cercherà di anteporre il movente di questa operazione nei confronti della donna, anzichè gli ormoni." Leonardo spalancò la bocca e sventolò le ciglia ripetutamente. Migliaccio lo guardò truce. "Quella faccia non attacca con me, capo."

"Mi farò una doccia fredda semmai i miei ormoni impazzissero alla sua vista."

"Neanche la sua ironia attacca."

Leonardo sbuffò. "Quando verrà il momento, ti ordino di fermarmi anche con la forza, se fossi incapace di farlo da solo."

I duei uomini si guardarono, Silvio socchiuse gli occhi e allungò la mano verso l'altro. "Questa la registro però."

Colonna abbozzò un sorriso sarcastico e ricambiò la stretta. "C'è dell'altro che non ti torna?" Quando lesse il nome di Francesca nei suoi enormi occhi castani, alzò gli occhi al cielo. "Francesca non c'entra niente con questa storia, teniamola fuori. E' una situazione che possiamo gestire entrambi, da adulti. E mi scoccia doverlo sottolineare."

"Lei e mia moglie sono amiche." Tentò di giustificarsi l'altro con un tono di voce flemmatico.

Leonardo prese possesso nuovamente della sua sedia. "Migliaccio torna a lavorare!" Gracidò divertito. "Ti pagano per questo, forza siediti!" E l'altro ubbidì frastornato, sedendosi al suo posto.



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