Gott ist tot und wir haben ihn getötet.

di Princess Of Marshmallows
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Se questa è vita ***
Capitolo 2: *** Memorie infrante ***
Capitolo 3: *** Insopprimibile ronzio ***
Capitolo 4: *** L'invito ***
Capitolo 5: *** La casa di vetro ***
Capitolo 6: *** Incontri forzati ***
Capitolo 7: *** Dietro la maschera ***
Capitolo 8: *** Non ho mai ***



Capitolo 1
*** Se questa è vita ***


Fan Fiction Trailer: https://www

Fan Fiction Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=gvK6MpO1U1Q

Chapter I

A te, che sei ancora in grado di amare,

proprio come lo sono anch’io.


 





Part I

Part I

Chapter I

Se questa è vita


 

“Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto

“Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto.”

H. P. Lovecraft

 

 

Era bloccata con cinghie di cuoio ad una branda con il telaio in acciaio. Le cinghie sopra il torace premevano brutalmente, facendola talvolta respirare a fatica. Era stesa sulla schiena e le mani erano bloccate all’altezza dei fianchi.

Ormai aveva compreso che ribellarsi avrebbe solo peggiorato la sua situazione, e sarebbe di nuovo finita lì.

Teneva gli occhi chiusi, sapeva già che se li avesse aperti, si sarebbe ritrovata nel buio totale. L’unica fonte di luce era una debole striscia che filtrava attraverso una porta.

Insieme al nauseabondo odore della sua pipì, sentiva anche una debole esalazione di melma. Non ne aveva la certezza, però era sicura che quel posto si trovasse sottoterra. Ogni volta che tentava la fuga, finiva lì, legata ed affamata. Puzzava, e non vedeva l’ora di potersi fare una doccia.

Era sempre sull’attenti, infatti tendeva un orecchio per cogliere il rumore di passi che avrebbe indicato che lui stava arrivando. In altre condizioni l’avrebbe lasciata lì per qualche altro giorno, a rimuginare sui suoi errori, ma quella volta era diverso. Non aveva la minima idea di che giorno o di che mese fosse, o di quanto tempo fosse passato da quando era stata costretta a vivere così disumanamente. Un urlo improvviso e straziante la indusse ad aprire gli occhi. Sembravano le grida di un bambino le quali erano rimbombate all’interno di quel posto ancora sconosciuto per lei, nonostante ci fosse stata così tante volte. Ma dopo un paio di secondi non sapeva se si fosse trattato di un’illusione oppure se l’urlo fosse stato reale.

Sentì un nodo alla gola e chiuse gli occhi, lasciando che le lacrime le rigassero il volto sporco e cominciò a singhiozzare silenziosamente.

Voltò appena il capo, sfregandosi il naso sporco di muco sulla spalla. Sudava: quella stanza era calda e soffocante. Indossava una semplice canottiera bianca da uomo che le si era arrotolata sotto il corpo. Spostando l’anca riuscì ad afferrare l’indumento fra l’indice ed il medio e a tirarlo giù da una parte poco alla volta. Ripeté il procedimento con l’altra mano. Ma la camicia aveva ancora una fastidiosa piega sotto l’osso sacro e aderiva alle ferite non ancora del tutto cicatrizzate che portava sulla schiena e sul sedere. Ogni volta che compiva un minimo movimento, le sembrava di essere accoltellata numerose volte.

Quella mattina aveva tentato di fuggire, ed era stata punita per questo. Le rimbombarono nella mente le sue suppliche, i suoi pianti di dolore e le sue urla, mentre quel mostro rideva sadicamente, divertito dalla scena, mentre agitava quella frusta, colpendola spietatamente sulla schiena. Era riuscita a contare venti frustate, ma sapeva che le ferite che le erano state inflitte erano di più. Farle del male e sentirla soffrire lo eccitava sessualmente, risvegliando il suo lato sadico.

Come se non fosse bastato, l’aveva tirata per i lunghi capelli rossi, aveva inserito l’erezione tra le calde natiche della ragazza, per poi penetrarla con una tale bestialità da farle lanciare un urlo fortissimo, disumano. Così potente che non si capacitò neanche che fosse uscito dal proprio corpo.

Odiava il sesso anale e lui lo sapeva, per questo lo usava come un modo per punirla.

La giovane, nell’essere violentata in tal modo e nell’essere stata costretta a stare a gattoni, si era sentita un animale, un lurido animale.

All’improvviso non era più spaventata, al contrario sentiva accumularsi dentro di sé una rabbia violenta. Strinse i pugni, mentre i muscoli delle braccia si tesero, anche se ogni loro movimento era bloccato dalle cinghie.

Lui era l’animale, lui era la bestia.

Ma non poteva negare di essere anche tormentata dai suoi stessi pensieri che si trasformavano costantemente in sgradevoli fantasie su ciò che le sarebbe successo. Odiava la sua impotenza coatta. Per quanto cercasse di concentrarsi su qualcos’altro per far passare il tempo e reprimere il pensiero della sua attuale situazione, l’angoscia riusciva comunque a filtrare.

In quei tempi aveva scoperto che il migliore metodo per allontanare le paure e i problemi consisteva nel fantasticare o nel ricordare qualcosa che le desse una sensazione di coraggio o di forza, che la incitasse ad andare avanti.

Immaginò il volto di suo padre mentre urlava agli elicotteri e ai poliziotti vicino a lui di cercarla, perché sentiva che i giornali e la televisione si stessero sbagliando, e che la sua amata figlia fosse ancora viva. I poliziotti si sparpagliarono e gli elicotteri sparirono, mentre sul viso dell’uomo apparve un’espressione serena e sicura, perché sapeva che l’avrebbe riabbracciata e nessuno le avrebbe più fatto del male.

Doveva essersi assopita, perché non si era resa conto dei passi che si avvicinavano sempre di più alla sua stanza, ma quando sentì la porta aprirsi di scatto si svegliò immediatamente, e la luce l’abbagliò per qualche secondo.

Sapeva che sarebbe venuto. La figura si avvicinò a lei lentamente, mentre la ragazza voltò lo sguardo dalla parte opposta mentre si sentiva mancare il fiato dalla paura. Nella sua mente ritornarono nuovamente a galla le immagini di quella mattina. Cominciò a tremare e a battere i denti per il terrore quando sentì i suoi guanti di pelle neri poggiarsi sulla sua gamba.

«Hai paura? È così brutto stare con me?», domandò all’improvviso, facendola sussultare.

, la risposta era certamente sì ad entrambe le domande, ma ormai conosceva fin troppo bene i vari disturbi psicologici di quel ragazzo, tra i quali la bipolarità e la schizofrenia, e dirgli ciò che veramente pensava di lui probabilmente gli avrebbe causato un improvviso sbalzo d’umore e lo avrebbe fatto impazzire dall’ira, e questo avrebbe solamente portato ad un’altra punizione. Rabbrividì al pensiero, mentre lo sentì sospirare e slegarla da quelle fastidiose cinghie.

Appena poté si mise a sedere sulla branda, massaggiandosi i polsi doloranti. Anche la schiena e l’ano le dolevano, ma preferì ignorare il loro bruciore davanti a lui. Non voleva dargli l’ennesima soddisfazione.

In un attimo fu circondata dalle sue braccia. Odorava di sangue; quale povero innocente aveva ammazzato, questa volta? «Oh, amore. Sei tu che mi costringi a trattarti così», detestava essere chiamata così, specialmente da un mostro simile. Lei non era l’amore di nessuno.

Le passò una mano tra i lunghi capelli rossi, come per confortarla, per poi sciogliersi da quell’abbraccio.

«Potrei farmi un bagno, per favore?», chiese semplicemente, con lo sguardo rivolto verso il basso e la voce tremolante. Quasi non si riconobbe nelle sue parole, nel suo tono e nei suoi gesti. La sua personalità ed i suoi modi di fare erano radicalmente cambiati da quando aveva iniziato a vivere in quella maniera. Aveva imparato che rispondere agli insulti, lamentarsi, provocare, usare linguaggi forti, disobbedire o esprimere una propria opinione l’avrebbe solo portata ad un mucchio di guai.

Giorno dopo giorno, dopo incessanti torture fisiche o psicologiche, questo concetto si era ben istaurato nel suo cervello.

Lui la squadrò, passandosi le dita sulla maschera da cannibale, come per riflettere.

«Va bene, ma solo se usi il bagnoschiuma alla vaniglia», acconsentì, aiutandola ad alzarsi dalla branda, avvicinandola a sé. Chiuse l’occhio sinistro a causa dei suoi tic. «Lo sai quanto mi fai impazzire quando hai quell’odore».

La giovane si umettò le labbra a quelle parole, ingoiando tutto il veleno che gli avrebbe sputato addosso in quel momento.

Ti odio con tutta me stessa, Toby Erin Rogers.

Si lasciò trasportare fuori da quella stanza e sperò di non metterci mai più piede al suo interno. Avanzò, cercando di stare al suo passo e zoppicando appena. Il capo era rivolto verso il basso e sembrò evitare qualsiasi cosa che avesse un riflesso. Attraversarono un lungo e stretto corridoio, pieno di porte chiuse e di specchi e senza finestre. Salirono delle scale a chioccola, e la ragazza si ritrovò direttamente di fronte alla porta del bagno.

«Vuoi che entri con te?», le domandò, carezzandole la guancia, mentre il suo sguardo cadde sui seni prosperosi della ragazza, la quale sbarrò gli occhi, terrorizzata.

«Non spetta a me una scelta del genere», rispose vaga, cercando di risultare tranquilla e nascondendo le mani tremanti dietro la schiena.

Voleva ancora abusare di lei? Non gli era bastata la punizione che le aveva afflitto quella mattina? Magari le avrebbe chiesto qualcosa di leggero, come fargli un fellatio ed ingoiare il suo sperma. Non poteva esagerare, lui lo sapeva. Non sarebbe stata nelle condizioni di fare qualcosa di brutale fino a quando non avrebbe…

Si morse il labbro inferiore, odiava ricordarselo.

«Vai da sola», la scelta di Toby le fece tirare un sospiro di sollievo. «Ma dopo ti voglio nella mia camera».

Annuì, anche se un po’ titubante. Cercò di farsi coraggio, e lo baciò esitante sulla guancia, sperando che potesse apprezzare quel gesto. Poi si rifugiò nel bagno, chiudendo la porta alle sue spalle.

Fu allora che fu costretta a rivederla a causa dell’enorme specchio che si estendeva dall’altra parte della stanza. Era almeno una settimana che evitava di guardare il proprio riflesso.

Lei era sempre lì, ed era diventata ancora più grossa.

Fin da quando era bambina era ossessionata dal suo aspetto esteriore ed era sempre stata attenta a non esagerare con il cibo e a mangiare sempre sano. La sola idea di ingrassare e perdere il suo bel fisico la pietrificava.

Ma in quell’istante giurò che avrebbe pagato purché quello fosse grasso.

Purtroppo però non si trattava di ciccia.

Bensì di gravidanza.

Si portò una mano alla bocca, cercando di trattenere i singhiozzi dell’ennesimo pianto isterico. Non riusciva ancora ad accettare quell’orribile situazione.

Non riusciva ad ammettere che stava aspettando un figlio da quel mostro.

Cosa avrebbe detto suo padre se l’avesse vista in quello stato?

E sua madre, che ormai non vedeva da anni?

Barcollò come un’ubriaca, aggrappandosi ai bordi della vasca. La mano tremante aprì il rubinetto della vasca, iniziando a far scorrere l’acqua.

Era sola. La verità è che nessuno sarebbe venuto in suo soccorso perché la credevano morta.

Per il mondo Anastasia Hamilton era stata assassinata nel genocidio compiuto a Denver il sei ottobre duemilatredici.

Nessuno sapeva che era ancora viva, e che passava i giorni a pregare, sperando che la sua vita e quella del suo bambino fossero risparmiate da quell’orrore.

 

 

 

Note dell’autrice: Okay, premetto che la mia intenzione iniziale non era di scrivere qualcosa di così crudo e angst, però le parole si sono scritte da sole ed ecco qua!

Tra l’altro guardando sul FanDom delle CreepyPasta, su YouTube e cose varie (?) ho notato (ormai da anni) che la gente tende ad “ammorbidirle”, rendendoli meno folli e lasciandoli vivere più come persone “normali”.

Invece io sono qui per buttare quest’idea e tirar fuori tutta la loro anormalità, la loro follia, la loro mancanza di empatia, il loro lato peggiore che nessuno può aggiustare.

Da come penso abbiate notato, i protagonisti di questa storia sono Ticci Toby ed Anastasia Hamilton, la mia OC. Ci saranno altre CreepyPasta che spunteranno nel corso della storia, e fidatevi, se state già pensando che Toby sia crudele, non avete visto ancora niente!

Tra l’altro questa Fan Fiction sarà un’alternanza tra “passato” e “presente”. Ovvero spiegherò anche come ha fatto la nostra povera protagonista a cacciarsi in questa situazione.

Riguardo all’altra FF ad OC che sto scrivendo, per tutti coloro che partecipano: state tranquilli! Le continuerò simultaneamente.

Il sei ottobre duemilatredici NON è stato commesso nessun genocidio a Denver, è opera della mia fantasia.

I prestavolto dell’immagine sono Karin Gallen e VultureImagination (on DeaviantArt).

Eeee basta, penso. Spero vi sia piaciuta, se vi va lasciate una recensione, mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensate!

Semplicemente,

Coffee Pie.

 

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Capitolo 2
*** Memorie infrante ***


La pupilla era dilatata, l’occhio scrutava, il naso tirava

 

Part I

Chapter II

Memorie infrante


 

“Il ricordo avrebbe dovuto riempire il tempo, ma rendeva il tempo un buco da riempire.”

Jonathan Safran Foer

 

 

La pupilla era dilatata, l’occhio scrutava, il naso tirava. La sua mente stava viaggiando: era un acquario infestato da sostanze tossiche. Le pareti potevano anche essere lucide e trasparenti, ma rimaneva pur sempre una prigione. Per gli squali come lei ancora di più. Le malignità erano peggio di un pugno allo stomaco, soprattutto quando erano vere.

Anastasia appena aprì ask.fm dal cellulare notò che era presente la notifica di una nuova domanda. Alzò gli occhi al cielo: sapeva benissimo che era la stessa persona che la stava tormentando nelle ultime due ore con delle futili domande in anonimo. O meglio, più che domande, ingiurie.

Tua madre è un’attrice, no? Perché non prendi la sua stessa strada e diventi la protagonista di un nuovo film? Ho già il titolo:la ragazza che sussurrava ai cadaveri’. Anzi, ancora meglio:la troia che sussurrava ai cadaveri’, che ti si addice di più”.

La ragazza digrignò i denti dalla rabbia, per poi cancellare la domanda senza esitazione.

Era arrivata da quindici minuti all’Old Denver’s Tales ed era già strafatta. Aveva cominciato a tirare coca qualche ora fa, poco dopo aver letto il primo di una lunga fila di spietati messaggi da parte di quell’anonimo.

Era passato un anno da quel giorno per lei delicatissimo, e a quanto pare non era l’unica a saperlo. Ciò che tormentava maggiormente la giovane era dovuto al fatto che lo aveva rivelato solo alle persone a lei più care, ed i messaggi che continuava ad inviarle quell’anonimo i quali cancellava categoricamente potevano significare solo due cose: o qualcuno era andato a spifferarlo in giro, oppure uno di loro era soltanto uno sporco traditore. Aggrottò le sopracciglia al solo pensiero.

Anastasia notò una sagoma lungo il marciapiede avvicinarsi sempre di più: non le ci volle molto per realizzare che si trattava di Diane Courtney Hannon, la sola persona la quale – probabilmente – avrebbe potuto definire sua vera amica.

«Ehi, faccia da schiaffi», la salutò questa, presumibilmente divertita dal fatto che l’altra stesse barcollando con tanto di ultimo modello di iPhone tra le mani e che avesse un’espressione da totale rincoglionita.

Anastasia non fece in tempo a ricambiare il saluto che il telefono vibrò. Un altro messaggio da Ask: “Che poi, vogliamo parlare delle tue performance con gli amanti degli incesti? Ti sei fatta padre e figlio. Ahahah, che triangolo! Sei peggio di una dinamite”.

Si era ripromessa di non rispondere a quegli insulti, ma quell’anonimo stava davvero esagerando. Le dita cominciarono quasi a digitare le parole automaticamente: “La dinamite te la ficco nel culo, così magari ti esplode. Non ti azzardare più a scrivere qualcosa su di me. Tu non sai niente della mia vita, non eri presente durante quegli avvenimenti e non sai com’è andata. Tranquillizzati: quando uscirà fuori chi sei, farò sparire te e la tua identità dalla circolazione. Ricordati che sono la figlia di Philippe Hamilton. Guardati le spalle, pezzo di merda!”.

Appena pubblicò la risposta, la giovane fece un lungo respiro, socchiudendo gli occhi per qualche secondo.

«Tutto bene?», domandò cauta Diane.

«A parte qualche povero sfigato che non sa che fare la sera», la rossa incrociò lo sguardo dell’altra e si bloccò per un attimo, per poi terminare la frase. «Direi normale».

«Che cazzo significa “normale”? Hai fatto i conti con il passato?».

«Con il passato ho già chiuso da un bel po’ di tempo».

«E allora qual è il problema?».

«Nessuno».

«Io non riesco proprio a capirti!», esclamò Diane, visibilmente esasperata, tirando l’amica per un braccio e lasciandola di fronte ad una delle finestre principali del pub, dove potevano intravedere i loro riflessi. «Guardati! Lavori come modella, hai delle tette da paura, i capelli fino al culo, sei una strafica. Di che cazzo ti preoccupi, mica l’ho capito, sai?», fece una pausa, per poi concludere: «Al tuo posto me ne sarei approfittata di un corpo del genere e sarei piena di miliardi».

Anastasia – anche se tentata – non cedette a quell’indefinita provocazione, mentre continuava a bloccare e sbloccare instancabilmente la schermata dell’iPhone.

«Poi non mi hai mai raccontato cosa è successo con quello lì. Me lo vuoi dire adesso? Era il tuo ragazzo, no?», insistette Diane, che sembrava non voler mollare la presa.

«Non era il mio ragazzo», quasi urlò infastidita. «Smettila di tormentarmi con questa storia, non ne voglio più sentire parlare fino alla fine dei miei giorni».

L’amica si era addentrata in un terreno minato, nella sfumatura più fragile dell’anima della ragazza, ma era troppo orgogliosa per chiederle scusa. «Bella, ma chittesencula! Sei te che stai facendo la depressa, mica io!», e si voltò dall’altra parte, fingendo di rispondere ad un messaggio inesistente.

Anastasia si accese l’ennesima sigaretta, la quarta nelle ultime due ore, e gliela porse in segno di pace. Dopo una breve esitazione Diane l’accettò, per poi scambiarsi con l’altra un vago sorrisetto complice.

All’interno del locale – non molto distante dalle due – Malcolm Wilford era seduto al tavolo di legno, circondato dal suo branco, con quel suo solito sguardo impassibile e quel ghigno di chi la sa lunga. Tra i denti stringeva una sigaretta e nella mano sinistra un Sex On The Beach.

«Ana, quanto mi fa impazzire», sussurrò Diane all’amica, la quale alzò un sopracciglio e si voltò appena verso di lui, per poi rigirarsi con un’espressione approssimativamente nauseata.

«Ma insomma, guardalo bene!», Anastasia tirò fuori la lingua, per poi portarsi un dito alla bocca e chinarsi appena, mimando un conato di vomito. «È stato in carcere minorile, è storto, pieno di tatuaggi, così strafatto che non si ricorda più come si chiama. Qua sono io quella che non capisce te».

«Ti sembrerà strano, ma io, te e quel coglione ci assomigliamo. Abbiamo l’anima nera, colma di peccati e di colpe. Siamo tre demoni dell’oscurità».

Aveva pronunciato quelle parole con un tono così serio che la rossa non poté fare a meno di scoppiarle a ridere in faccia. «Non ti sei ancora fumata niente e già cominci a dire cazzate?».

Anastasia disprezzava Malcolm, e neanche troppo segretamente. Non poteva accettare che uno così grezzo potesse avvicinarsi a lei o alla sua migliore amica, e non riusciva proprio a comprendere come quest’ultima avesse potuto starci insieme per quasi un anno.

Diane le ripeteva sempre che tra loro due ormai c’era solo sesso, ma ad Anastasia non sembrava una giustificazione sufficiente. Diane non era mai stata particolarmente bella, però aveva quell’aria da indipendente alternativa e rivoluzionaria che riusciva a far cadere chiunque ai suoi piedi. Con Malcolm tuttavia era diverso, tra loro due scorreva una fratellanza di sangue la quale andava oltre il senso comune ed erompeva ogni volta che i loro giovani occhi si incrociavano.

«Didì, sei una fata!», esclamò lui avvicinandosi al duo con entrambe le mani inserite nelle tasche in modo trasandato e il capo leggermente inclinato da un lato. Senza che le due se ne fossero accorte, il ragazzo le aveva raggiunte sulla porta del pub.

«E tu un perfetto serial killer, Mal», rispose Diane soffocando una risata.

«Che fate? Vi unite al gruppo?».

«Preferisco lasciar perdere. Tu e i tuoi amici siete pericolosi», i due si scambiarono un’occhiata che Anastasia non riuscì ad intendere.

«Bello ‘sto tatuaggio», commentò lui indicando l’avambraccio di Diane. «È nuovo?».

«I’m on top of the world», lesse lei mostrando la scritta.

«Sì Didì, tu fai tanto la fica, ma chi te li ha fatti conoscere gli Imagine Dragons?», rivendicò con orgoglio il ragazzo.

Diane accennò un mezzo sorriso rimanendo in silenzio, attendendo meticolosamente che il ragazzo ricominciasse a parlare. «Ma la tua amica sta sempre zitta? Ah giusto, ha due tette che parlano al suo posto!», e rise sguaiato, mentre Anastasia si limitò a portarsi le mani ai fianchi e a roteare gli occhi seccata.

«Dài, invece di dire cazzate, tornatene dai tuoi amici», la giovane lo spinse prima che la rossa potesse rispondere alla provocazione, e questo indietreggiò di qualche passo.

«Se mi levo di torno, cosa ho in cambio?», domandò malizioso, passandosi la lingua sulle labbra.

«Vattene, prima che ti picchi», cercò di sembrare autoritaria e seria, ma non riuscì a trattenere una risata divertita.

«Il solito pompino?», urlò lui allontanandosi.

Diane alzò il dito medio.

«Ti amo, Didì!», gridò il ragazzo mentre si sedette nuovamente al medesimo tavolo dove risiedeva il suo gruppo.

Malcolm la amava veramente. A modo suo, ma la amava. E Anastasia lo aveva intuito da tempo. Entrambi sapevano che l’altro flirtava con altre persone, ma questo per loro non era un problema. Si incontravano poche volte, non si scrivevano mai. Di tanto in tanto si chiudevano in casa e si sfogavano con l’aspra tenerezza di due animali. E questo univa due anime più di mille parole.

Anastasia tirò un sospiro di sollievo, contenta che quel grezzo si fosse allontanato; si infilò le mani nelle tasche degli shorts di jeans, poggiò la nuca sul muro e guardò in alto, osservando il cielo stellato. Una lieve brezza estiva alitò su di lei, e la ragazza chiuse gli occhi, risucchiando quell’attimo di serenità e cercando di farlo durare il più a lungo possibile, di renderlo suo.

«Vai da lui», sussurrò quasi impercettibilmente. L’amica si voltò, confusa.

«Cosa?».

«Non fare finta di non capire, vai da lui. Da Malcolm», Diane fissò la rossa con un’espressione mista tra lo sconvolto e il perplesso. Anastasia sospirò amaramente, e cercò di trattenere le lacrime.

«Allora non era la solita infatuazione superficiale. Lo sapevo, l’ho sempre saputo».

«Vedi Diane, la differenza tra il tuo amore e il mio, è che tu hai una possibilità di essere felice».

 

 

Il colpo decisivo costrinse Anastasia ad aprire gli occhi e ad affrontare ancora la realtà: le immagini di Diane, di Malcolm e del suo vecchio locale preferito si sgretolarono rapidamente, lasciando spazio ad un bagno buio ed angusto. La lampadina era rotta oramai da un tempo indefinito e un timido raggio di luce lunare arrivava da una finestrella dal vetro rotto. Sul soffitto una chiazza ingiallita dall’umidità le ricordò che anche l’acqua lasciava un segno.

Era seduta sulla tazza del gabinetto con le gambe divaricate. La bestia aveva appena eiaculato dentro di lei e sentì il suo sperma invaderla. L’unico suono all’interno del bagno erano i loro ansimi, i quali echeggiavano appena in quella stanza così spartana e anonima.

Toby era sempre eccitato prima di dover compiere un omicidio, e sentiva uno smisurato bisogno di scaricare la tensione. E quello era il sistema più efficace che conoscesse.

Una volta terminato il rito, sfilò il membro con discreta lentezza e si passò le mani tra i capelli scuri, inspirando profondamente. Guardò la sua amata: era così bella con quegli occhi stanchi, le guance rosse per la fatica e le labbra semiaperte. Vederla così passiva e sottomessa a lui lo riempì di soddisfazione; finalmente aveva smesso con tutti quei frigni, quelle lacrime, quella sua continua opposizione e quel futile desiderio di ribellarsi. Toby si sentiva appagato e compiaciuto. In una vita piena di maltrattamenti e di abusi finalmente era stato lui ad imporre il suo dominio su qualcuno.

Eppure il benessere che provava in quell’istante lasciò presto spazio ad un’altra sensazione, qualcosa simile ad una mancanza. Si strinse nelle spalle e alzò il capo, osservando il proprio riflesso sullo specchio. Si sentiva perso, confuso, non capiva: aveva tutto ciò che desiderava. Che cosa mancava nella sua vita per permettergli di raggiungere l’apice della felicità? Da cosa era angosciato? A cosa ambiva?

Lanciò un’occhiata veloce alla ragazza, ancora immobile sulla tazza del gabinetto. Forse non era riuscito a scaricare al completo la tensione. Forse quella sera l’aveva trattata con troppa leggerezza.

Cercò di convincersi delle ultime ipotesi. Ebbe un tic, ed il collo scricchiolò. «Avanti, pulisci dove hai sporcato», alzò il tono di voce, come per farsi rispettare.

Anastasia sembrò comprendere le parole di lui e si alzò dalla tazza, mentre con uno sguardo vuoto, assente e privo di luce fissava un punto indefinito della parete. Si inginocchio e aprì la bocca come un automa. Un brivido di piacere percosse di nuovo il corpo di Toby, il quale alzò la testa. Le mani viaggiavano sulla parete alla ricerca di un appiglio. Rantolò.

«Mio Dio, sei così brava. Si vede che sei un’esperta e che non sono il primo a cui lo fai. Però adesso sei mia, tutta mia», sibilò a denti stretti, e, notando la mancanza di reazione da parte di Anastasia, non poté fare a meno di ridere sguaiatamente. Il successo, la vittoria, il potere. Niente valeva come possedere la carne. Fu l’istinto del gorilla, in quel momento, a guidarlo. Le strinse la nuca tra le mani, la prese per i capelli e la tirò a sé. La ragazza lo lasciò fare, accettò la sua parte e la recitò alla perfezione.

Toby osservò nuovamente il suo riflesso e sullo specchio lurido comparve un ghigno famelico. Adesso era davvero pronto per uccidere.

 

 

 

Note dell’autrice: Già, eccomi qua con il secondo capitolo di questa Fan Fiction. So che ci ho messo tanto, troppo tempo per aggiornare, ma a livello scolastico è stato un periodo difficile perché ho dovuto recuperare in diverse materie. Sì, se ve lo state chiedendo, sono una di quelle studentesse che durante il primo quadrimestre non fa un cavolo, e poi all’inizio del secondo fa una corsa olimpionica per recuperare.

La pigrizia prima di tutto, ricordatevi ragazzi! (?)

Ovviamente sto scherzando e vi consiglio di non seguire mai il mio esempio, soprattutto se frequentate un liceo come la sottoscritta. çç

Bando alle ciance! Allora, il primo capitolo è stato diviso in due parti: la prima, la quale è un ricordo di Anastasia, e la seconda, che si svolge nel presente.

Ho voluto provare a vederla un po’ dal punto di vista di Toby nella seconda parte. Ammetto che è stato complesso entrare nella mente di uno psicopatico, ma ho fatto del mio meglio e spero che voi abbiate gradito. Tra l'altro ci tenevo a ringraziare Autieri ed il suo splendido romanzo, il quale mi ha molto aiutata nel trovare ispirazione per questo capitolo.

Da come potete vedere, Anastasia è sempre meno lucida…è un bene o un male?

Old Denver’s Tales” non è un pub o comunque un luogo realmente esistente.

C’est tout, je pense.

À la prochain chapitre~

Au revoir~

Coffee Pie.

E…sì, mi sento molto francese in questo momento.

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Capitolo 3
*** Insopprimibile ronzio ***


L’uomo era uno e nessuno

Avviso: Anche se l’ho inserito nel primo capitolo, volevo avvisarvi che recentemente ho creato il trailer della Fan Fiction. E’ il mio primo video, quindi non è un granché, però spero comunque che vi piaccia!
Ecco a voi il Link se vi interessa:

https://www.youtube.com/watch?v=gvK6MpO1U1Q

 

 

 

 

Part I

Chapter III

Insopprimibile ronzio

 

 

Chi è stato torturato rimane torturato. Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l'abominio dell'annullamento non si estingue mai. La fiducia nell'umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più.

Jean Améry

 

 

L’uomo era uno e nessuno.

Portava da anni la sua faccia appiccicata alla testa e la sua ombra cucita ai piedi e ancora non era riuscito a capire quale delle due pesasse di più. Qualche volta provava l’impulso irrefrenabile di staccarle e appenderle ad un chiodo e restare lì, seduto a terra, come un burattino al quale una mano pietosa aveva staccato i fili.

A volte la fatica cancellava tutto e non concedeva la possibilità di capire che l’unico modo valido di seguire la ragione era abbandonarsi ad una corsa sfrenata sul cammino della follia. La vita era un continuo inseguirsi di facce, ombre e voci, persone che non si ponevano nemmeno la domanda e accettavano passivamente una vita senza risposte per la noia o il dolore del viaggio, accontentandosi di spedire qualche stupida cartolina ogni tanto.

C’era pace dove si trovava, era presente un lieve venticello notturno che urtava contro i rami spogli, poche erano chiome di abeti che danzavano e dei gufi che emettevano il loro monotono verso, formando insieme una melodia naturale che avrebbe potuto portare un senso di serenità ed armonia anche all’animo più corrotto.

Toby si appoggiò al solido tronco di un abete e pensò che tutti gli esseri umani erano inutili.

Di fronte a lui, ad una ventina di metri di distanza, camminando insieme mano nella mano a passo lento c’erano due persone, un uomo ed una donna.

Nella luce soffusa lei era sottile e dolce come la malinconia, aveva i capelli neri e due occhi color ghiaccio, talmente luminosi da poter attirare l’attenzione di chiunque. Lui aveva occhi solo per la sua bellezza in quell’istante e le sussurrava in continuazione all’orecchio, al fine che la sua voce non rimbombasse all’interno di quella foresta e svegliasse qualche scoiattolo in letargo. Si diedero un casto bacio e lei rise alle parole del compagno, rovesciando la testa all’indietro o nascondendo il viso nell’incavo della spalla.

Poco fa lei aveva udito un rumore, e si era voltata di scatto, notando un’anziana infreddolita puzzola tra i cespugli. Gli occhi della giovane donna incrociarono quelli dell’animale, ma quelli di lei erano passati indifferenti dinanzi all’adorabile muso dell’altra, come sul resto del mondo che la circondava. Era tornata a regalare il miracolo di quegli occhi all’uomo che era con lei e che la ricambiava con lo stesso sguardo, impermeabile ad ogni messaggio esterno al di fuori della sua presenza. Due luminose fedi dorate splendevano sui loro anulari.

Erano giovani, sposati, felici.

Toby, ancora appoggiato sul medesimo tronco, pensò che presto sarebbero morti.

 

Quella notte qualcosa si era spento nel cervello di Anastasia, come se una delle manovelle avesse all’improvviso smesso di girare.

Era di nuovo finita in quel ripostiglio fin troppo ristretto, luogo in cui aveva passato i primi tre mesi della sua prigionia, senza poter uscire. Aveva provato più volte a fracassare la porta di cemento blindata, ma con scarsi risultati.

Aveva soprannominato quel ripostiglio la scatola, date le sue modeste dimensioni. Avrebbe potuto essere l’incubo di ogni claustrofobico: era alta solo centoventi centimetri, infatti per muoversi al suo interno era costretta a gattonare. Neanche la larghezza della stanza era particolarmente generosa: orizzontalmente era lunga centottanta centimetri da una parte e novanta centimetri dall’altra.

Riusciva tuttora a credere a stento di essere riuscita a passare così tanto tempo in quell’agghiacciante camera. Toby ultimamente la rinchiudeva là dentro quando doveva lavorare. E ogni volta la ragazza temeva che non sarebbe più tornato, considerato che – se gli fosse successo qualcosa di grave – lei sarebbe morta nel giro di pochi giorni.

Tese l’orecchio, disperata, nella speranza che tornasse. Niente. Era stata di nuovo totalmente tagliata fuori dal mondo esterno. Attraverso le crepe dei pannelli di legno non penetrava alcun suono e non filtrava nemmeno un po’ di luce. L’aria puzzava di muffa e si posava sulla ragazza come un sottile strato di umidità che non riusciva a togliersi di dosso. L’unico rumore che le teneva compagnia erano le interferenze di una vecchia televisione di quindici pollici. Tuttavia in quel luogo sembrava non prendere alcun canale e Toby fin dal primo giorno della sua prigionia le aveva proibito di spegnerlo, quindi era costretta ad udire costantemente quel suono, mentre all’interno dello schermo della televisione strisce e bianche e nere si alternavano e si dislocavano continuamente, come se stessero quasi danzando.

Bzzzzzzzzzzzzz

Quel rumore era una vera e propria tortura: dal primo giorno quel ronzio riempì giorno e notte la sua piccolissima stanza, fino a diventare talmente irreale e stridulo da farle premere le mani sulle orecchie per non sentirlo. Quando il televisore si surriscaldava, cominciava a puzzare e lo schermo diventava totalmente nero per qualche secondo. Allora quel suono stridulo rallentava e subentrava un rumore nuovo.

Toc. Toc. Toc.

E poi il ronzio ricominciava.

In alcuni giorni il rumore assillante riempiva non solo ogni angolo della stanza, ma anche tutti quelli all’interno della testa di Anastasia.

Un altro fattore del suo turbamento era una luce artificiale accesa ventiquattro ore su ventiquattro che Toby aveva installato durante il terzo giorno dal suo rapimento. All’inizio la ragazza pensava fosse qualcosa di positivo, dato che la scatola diventava completamente buia senza di essa, e di conseguenza credeva che si sarebbe rivelata una sicurezza e le avrebbe donato il coraggio necessario per affrontare quell’ingiusta situazione. Tuttavia quella luce persistente e abbagliante si svelò quasi altrettanto orribile. Le dolevano spesso gli occhi e la mise in uno stato di veglia dalla quale non riusciva ad uscirne: anche quando si tirava la coperta sulla testa per attenuare il chiarore, il suo sonno era inquieto e leggero. La paura e la luce abbagliante non le concedevano qualcosa di più di un leggero dormiveglia, dal quale si scuoteva con la sensazione che fosse pieno giorno. Ma nella luce artificiale di quello scantinato chiusa ermeticamente, non c’era più alcuna differenza tra il giorno e la notte.

Anastasia non era a conoscenza che esporre i prigionieri alla luce artificiale continua era un metodo di tortura diffuso: le piante deperiscono quando sono esposte costantemente alla luce, gli animali muoiono. Per gli uomini era una tortura perfida, più efficace della violenza fisica: il bioritmo e lo schema del sonno ne sono così alterati che il suo corpo, per la profonda spossatezza, reagì come paralizzato e, già dopo un paio di giorni, il cervello non funziona più bene e perde alcune delle sue capacità. Altrettanto terribile ed efficace era la tortura per mezzo di un trattamento con ultrasuoni permanente e di esposizione a rumori ai quali non ci si può sottrarre. Come quello ronzante e stridulo di un televisore.

Ma mentre prima la ragazza trovava quella situazione inumana ed inammissibile, in quel breve istante, non molto tempo dopo che uno dei fili all’interno del suo cervello si fosse spezzato, una frase rimbombò all’interno della sua anima.

Forse è giusto così.

Era regredita interiormente. La mentalità dell’adolescente di diciassette anni ritornò allo stadio di una bambina di quattro o cinque anni che accettava il mondo intorno a sé così come le si presentasse; per la quale i punti di riferimento necessari per provare una sensazione di normalità non erano dati dalla comprensione logica della realtà, bensì dai piccoli rituali del quotidiano. Per non crollare completamente. La sua situazione era così estranea a tutto ciò che si potesse prevedere che, inconsciamente quanto lentamente, si ritirò in quello stadio: si sentì piccola, in balia di qualcun altro e libera da ogni responsabilità. La persona che l’aveva rinchiusa in quella prigione era l’unico adulto presente e, di conseguenza, colui investito di autorità e che avrebbe sempre saputo cosa fare.

Quella regressione intuitiva allo stadio comportamentale di un bambino piccolo fu il primo cambiamento importante del suo inconscio. Fu il disperato tentativo di creare una piccola isola familiare in una situazione senza via d’uscita.

L’involuzione mentale della ex-modella era dovuta principalmente a come Toby era solito a comportarsi con lei: le sbucciava le arance e gliele infilava in bocca, spicchio dopo spicchio, come se la ragazza non fosse capace di mangiare in maniera autonoma. Una volta gli domandò una gomma da masticare, ma questo gliela negò, per paura che potesse restare soffocata. La sera le costringeva ad aprire la bocca e le puliva i denti come se non sapesse neanche reggere uno spazzolino. Ogni due settimane le afferrava bruscamente i polsi e le caviglie, la teneva ben ferma e le tagliava le unghie ed una volta al mese le faceva la ceretta.

Si sentiva regredita, come se il serial killer le avesse tolto l’ultimo rimasuglio di dignità che, in quella situazione, cercava di conservare. Allo stesso tempo sapeva di essere stata lei stessa a voler inconsapevolmente mettersi in quello stadio che le assicurava un certo grado di protezione. Perché già dal primo giorno le era toccato sperimentare quanto Toby, nella sua paranoia, oscillasse tra il trattarla come se fosse troppo piccola oppure troppo indipendente.

 

Toby squadrò i due cadaveri con sguardo disinteressato: le loro interiora formavano una scia sulla candida neve, sulla quale i loro occhi – ormai fuori dalle orbite – erano leggermente affondati.

Il ragazzo osservò i bulbi oculari di lei e si chinò appena, sfiorandoli con la punta dei guanti neri. Era stata davvero una bella donna, e quegli occhi color ghiaccio splendidi quanto rari erano indescrivibilmente incantevoli. Ebbe l’istinto di raccoglierli e conservarseli, ma successivamente si arrestò, rimproverandosi mentalmente: possedeva già una splendida creatura la quale stava impazientemente aspettando il suo ritorno. Percepì il suo compiacere gli occhi di un’altra donna come una forma di tradimento.

Si tolse gli spessi occhiali, strofinando concitatamente la manica della sua felpa grigia sulle rotonde lenti arancioni, le quali si erano appannate a causa del clima invernale.

Esaminò nuovamente il cadavere della giovane donna, soffermandosi sul cappotto grigio di pelliccia imbrattato dal suo stesso sangue. Senza pensarci troppo, la sollevò tirandola per l’avambraccio e le sfilò l’indumento, per poi lasciarla capitombolare con noncuranza.

Non voglio che la mia piccola si ammali. Con questo starà al caldo.

Il suo sguardo cadde sul salma di lui e gli venne quasi spontaneo aggrottare le sopracciglia, mentre sentiva una smisurata sensazione di collera invadere ogni centimetro delle sue ossa.

Che cosa aveva di così speciale? Come era riuscito a conquistare quella donna? A farla ridere? Ad essere felice?

Perché Anastasia non si comporta allo stesso modo?

Inspirò profondamente, cercando di resistere ad ogni impulso violento; ebbe un tic e le sue braccia si contrassero più del solito.

«Invece di contemplare su quei cadaveri, pensa ad un modo efficace per sbarazzartene», una voce fin troppo fastidiosamente familiare gli accattonò la pelle e il castano serrò i denti, premendoli con brutale forza sul palato al fine di non perdere totalmente il controllo. Si voltò, incrociando per l’ennesima volta la figura di quel ragazzo qualche anno più grande rispetto a lui. Toby si alzò di scatto, avvicinandosi minacciosamente all’altro, per poi bloccarsi a pochi metri di distanza. Nonostante all’uno fosse stato severamente proibito ferire l’altro, entrambi ardevano al solo pensiero di poter trasgredire a quella piccola regola imposta dal loro patrono. Tuttavia infrangerla avrebbe portato a brutali conseguenze, ed entrambi tenevano molto alla loro nomea.

«Perché non lo fai tu? O forse l’ex-pupillo non vuole sporcarsi le mani?», lo provocò, sperando in una reazione violenta da pare dell’altro. Probabilmente, se non avesse portato quella maschera bianca, avrebbe potuto vedere i suoi occhi spazientiti ridursi a due fessure. Aveva toccato il suo punto debole, e ne era perfettamente a conoscenza.

«Credo che tu sappia meglio di me quanto la polizia degli Stati Uniti sia efficiente. Basta un piccolo errore e quelli ci scoprono», si guardò attorno, come se avesse paura che qualcuno li stesse osservando. Successivamente si voltò verso un Toby seccato e riprese a parlare. «E comunque, sei tu quello con i guanti qui. La polizia troverebbe tracce del mio DNA sui loro corpi».

L’altro si limitò a sospirare infastidito. Non era mai riuscito ad andare d’accordo con Masky: ogni volta finivano sempre in un dibattito o comunque in una conversazione poco piacevole. La loro avversione era dovuta al loro capo. Entrambi erano incondizionatamente devoti a lui, e di conseguenza desideravano sempre accontentarlo e ricevere la sua approvazione; questo loro obbiettivo in comune li aveva portati ad una forte rivalità e a competizioni giornaliere.

Il Capo aveva proibito a Masky di fare del male a Toby e viceversa. Eppure entrambi sembravano attendere impazientemente di cogliere l’attimo che li avrebbe permesso di squarciarsi a vicenda.

Ma l’attesa li stava rendendo sempre più iracondi.

 

Bzzzzzzz

Anastasia fissò infastidita il televisore. Anelava a spegnerlo, ma allo stesso tempo era terrorizzata all’idea di qualche punizione. Tra l’altro quel giorno la pancia le doleva più del solito, e non poteva fare a meno di domandarsi se stesse succedendo qualcosa al bambino. Sapeva già che quella creatura non sarebbe riuscita a vivere per molto dopo il parto o – ancora peggio – sarebbe morta dentro di lei a causa del mal nutrimento. Questo era forse il motivo principale per cui cercava di prendere le distanze e non affezionarsi troppo.

«Ehi, moccioso, sai per caso come si fa a diventare coraggiosi?», domandò ad alta voce, anche se probabilmente la domanda era rivolta più a stessa che al bambino.

Il coraggio era probabilmente una dote che non avrebbe mai posseduto, al contrario ricordava che fin dalla tenera età era stata una bambina codarda, ma soprattutto vigliacca.

Se fosse stata coraggiosa avrebbe tentato più volte di fuggire dalla sua prigionia o avrebbe mostrato continui segni di ribellione, senza temere le punizioni del suo rapitore. Anche in quell’istante, invece di restare rannicchiata su stessa, avrebbe già escogitato un nuovo piano per la fuga.

O ancora, se fosse stata coraggiosa si sarebbe suicidata già da tempo, eppure era troppo codarda anche per affrontare la paura e il dolore della morte.

«Ma io non sono coraggiosa», sussurrò a denti stretti, stringendosi nelle spalle e chiudendo gli occhi. L’unica cosa da fare era aspettare distaccatamente che qualcosa sarebbe cambiato, prima o poi.

Dopotutto non è poi così male stare con lui, una volta che ti abitui.

Anastasia sorrise. Non era un sorriso speranzoso o raggiante, ma nemmeno amareggiato o forzato.

Era un sorriso e basta.

 

Bzzzzzzzzzzz

 

 

 

 

Note dell’autrice: Eccomi! Non riesco a crederci, sono riuscita a rispettare i tempi che mi ero imposta, è un grande passo per me, considerata la mia eterna pigrizia, yay!

Ecco a voi il terzo capitolo di questa Fan Fiction!

Diciamo che questo è più un capitolo di “passaggio” per comprendere meglio i personaggi di Toby e di Anastasia e – da come possiamo vedere – la psicologia di quest’ultima va pian piano peggiorando.

Per scrivere i suoi pensieri ho dovuto fare diverse ricerche e mi sono dovuta adattare a storie di persone che hanno subìto realmente la prigionia, ma non ho disubbidito a nessuna delle regole imposte da EFP.

Nei prossimi due o tre capitoli si ritornerà al passato, e…no, non dico nient’altro.

Visto che ci sono, volevo ringraziare xmaliksmilk per il banner e diverse persone…

In primis, ringrazio KillerxPenguen_93, AnonimaKim, Goshikkudoru, Amekita, Petronela_Madness, Neko_chan14, Thedaughterofsatan, CrazySmile28, mysterydoragon, lovinfaber, BabyScaryDoll_01, laragazzadisabbia e Rosa Hagane per essere stati così gentili da recensire la mia storia.

Inoltre ringrazio AnonimaKim, CrazySmile28, laragazzadisabbia, Neko_chan14, Nightmare Bloody e Thedaughterofsatan per aver inserito la mia storia tra le preferite.

Ci tenevo inoltre a ringraziare BabyScaryDoll_01, CrazySmile28, Goshikkudoru, lovinfaber, Miss Blue, mysterydoragon e _silence_ per averla inserita tra le seguite.

Insomma, ringrazio tutte queste persone per il meraviglioso supporto che mi stanno dando e un piccolo grazie va anche a “chi legge la storia e basta” e continuerà a farlo!

Okay, dopo queste commuoventi (no) note dell’autrice, me ne vado, che è meglio, ahahah.

Au revoir,

Coffee Pie.

 

 

 

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Capitolo 4
*** L'invito ***


Correva

 

 

 

 

Part I

Chapter IV

L’invito

 

 

Ti piaccia allora darmi retta se dico che so creare stranezze.”

The Knick

 

 

Correva.

Correva nel bosco rischiarato dalla luna, tra rami che le strappavano i vestiti mentre inciampava in mezzo alle felci, le braccia frustate dai rovi.

Il respiro le feriva la gola, le faceva male. Era tutta dolorante.

Però continuava a correre. Sì, questo poteva farlo.

Quando correva in palestra aveva sempre le auricolari nelle orecchie, una playlist movimentata già pronta che le arrivava fino al cervello, distogliendo i suoi pensieri dalle preoccupazioni giornaliere. Erano le canzoni a decidere il ritmo che doveva prendere nella corsa, o le frustrazioni da calpestare sotto ogni passo contro il tapis roulant.

Ma stavolta c’era un’unica parola, un unico pensiero che le batteva dentro.

Macchina. Macchina. Macchina.

Doveva arrivare là. Doveva arrivare all’autostrada prima che…

E poi eccola lì, una nera serpe di asfalto al chiarore della luna, mentre le giungeva il rombo di un motore che si avvicinava e le righe bianche risplendevano, talmente vivide da ferirle gli occhi, i tronchi degli alberi neri come squarci contro la luce.

Che fosse troppo tardi?

Si sforzò di andare avanti per gli ultimi trenta metri, incespicando nei tronchi caduti, con il cuore che le batteva forte come un tamburo.

Macchina.

Sì, era troppo tardi, la macchina era troppo vicina, non sarebbe riuscita fermarla.

Si buttò a terra, le braccia tese.

«No!».

 

Le doleva dappertutto, tutto la sconvolgeva: la luce negli occhi, la corsa sfrenata. Odore di sangue nelle narici, mani appiccicose di sangue.

«Signorina Hamilton?».

La voce fece strada, flebile, in mezzo a una nebbia di dolore. Cercò di scuotere la testa ma le sue labbra non volevano saperne di formulare parole.

«Signorina Hamilton, è al sicuro, si trova in ospedale. Ora La sottoporremo ad una TAC».

Era una donna, e parlava con calma e chiarezza. La sua voce le stava stridendo le orecchie.

«C’è qualcuno che vorrebbe avvisare?».

Provò nuovamente a fare segno di no.

«Non si muova così», pronunciò queste parole con un tono discretamente severo. «Lei è ferita alla testa».

«Ana», sussurrò la ragazza.

«Vuole che telefoniamo ad Ana? Chi è Ana?».

«Sono io…È così che mi chiamo. Anastasia, Ana.».

«D’accordo, Ana», fece una breve pausa; la ragazza sentì un suono di fogli, come se la donna stesse sfogliando qualcosa. «Lei possiede sedici anni ed è la figlia del petroliere Philippe Hamilton e dell’attrice Hannah Whiting, conferma?».

Annuì debolmente. Sentire i nomi dei suoi genitori la rassicurò e l’agitò al tempo stesso. Non voleva che la vedessero in questo stato. Non voleva vedere nessuno.

«Perfetto. Ora cerchi di rilassarsi. Non sentirà male».

E invece sentiva male eccome. Tutto le faceva male.

Cos’era successo?

Che cosa aveva combinato?

 

~

 

Appena alzata si rese conto che era una giornata perfetta per una corsa nel parco invece che della solita palestra. Il sole filtrava attraverso l’enorme finestra, illuminando d’oro le lenzuola. Sentiva il profumo della pioggia di fine agosto che era caduta durante la notte e intanto osservava le foglie dei platani sulla strada che avevano assunto un bel color rame. Chiuse gli occhi e fece un po’ di stretching, prestando orecchio al ronzio dell’aria condizionata e ai rumori del traffico intanto che i suoi muscoli si preparavano alla giornata.

Il rituale della mattina era ormai sempre lo stesso da almeno un paio di settimane: forse aveva a che fare con il fatto di vivere in una famiglia molto ricca: faceva esattamente quel che aveva programmato, senza interruzioni esterne, senza che il suo fratellino di sette anni venisse a disturbarla in camera perché voleva giocare con il computer, dato che nella sua ne possedeva già tre, senza che il suo gatto tossisse una palla di pelo sul pavimento, perché c’era sempre qualche cameriera o maggiordomo pronto a pulire al suo posto. Sapeva perfettamente che ciò che lasciava sulla scrivania la sera prima lo ritrovava al proprio posto – nella credenza – il mattino dopo. Aveva il controllo dei suoi oggetti.

O forse aveva a che fare con il fatto che suo padre lavorasse fuori città e qualche volta oltreoceano. Spesso, data la mancanza del padre, le giornate estive finivano facilmente per scivolare informi, indistinte, mentre lei – Anastasia Hamilton – si ritrovava alle cinque del pomeriggio a fare colazione, scambiando due parole con suo fratello o la sua matrigna, oppure andava a dormire alle sette di mattina, dopo un’intera notte trascorsa fuori casa. Non c’era nessuno che la sgridasse o che le dicesse che era sbagliato comportarsi in tal modo, per questo motivo aveva scelto di crearsi una routine, uno stile di vita abbastanza sano. Se suo padre non poteva badare a lei, allora l’avrebbe fatto da sola.

Da un paio di settimane le sue giornate incominciavano così: alle sette e mezzo il maggiordomo accendeva tutta l’aria condizionata presente in casa, e quel rumore la svegliava. Dava un’occhiata al telefono, giusto per capire se durante la notte non ci fosse stata la fine del mondo e poi restava a letto ancora un po’, sentiva il rumore delle unghie di Muffin – il suo gatto – che raschiavano contro la sua porta, desideroso di entrare in camera.

Alle otto accendeva la radio, sempre sul telegiornale. Emergeva dal suo caldo letto, per poi stiracchiarsi il più possibile e dirigersi con sguardo assonnato in cucina, con la radio tra le mani, borbottando alla prima cameriera che passava di prepararle un caffè con due cucchiaini di zucchero, come sempre.

Di solito, quando avevano appena finito di dare le notizie principali, il caffè era pronto nella caraffa; a quel punto lo versava in una tazza, riempiendola fino all’orlo, accompagnato da un goccio di latte. Aggiungeva insieme una fetta biscottata spalmata di confettura di lamponi, senza burro perché non voleva assolutamente ingrassare. Quello che accadeva dopo dipendeva dal suo umore: se si sentiva energica, si faceva una doccia fredda e andava in palestra a correre oppure usciva con qualcuno, altrimenti rimaneva a casa, passando la mattinata tra selfie e social network.

Ma quella giornata era bellissima e Anastasia non vedeva l’ora di uscire, di sentire il fruscio delle foglie sotto le sue corverse e quel fresco venticello di fine estate sul viso. Alla doccia ci avrebbe pensato dopo.

Si infilò una maglietta, dei leggins neri, delle calze e le scarpe che aveva lasciato vicino alla porta della sua stanza. Poi scese a piedi i tre piani della propria villa e percorse il giardino, il quale la separava dalla strada, tuffandosi così nel mondo.

Al ritorno era accaldata, sudata e piacevolmente stanca. Appena entrata non salutò nessuno e si infilò sotto la doccia e ci rimase per più di un quarto d’ora, rimuginando sulle cose che aveva da fare: in primis la spesa online, perché voleva assolutamente comprare un vestito Chanel che aveva visto addosso ad una cantante che seguiva su Instagram, magari mentre si fumava una sigaretta. Subito dopo doveva aprire la sua posta elettronica per controllare se le avessero chiesto di partecipare a qualche servizio fotografico o a qualche sfilata importante… ed infine doveva rispondere ai messaggi che le erano arrivati su Whatsapp. Ogni volta che doveva aprire quell’applicazione sentiva sempre una strana ansia addosso. Non avrebbe saputo spiegarsi nemmeno lei il motivo, ma dall’anno scorso ogni volta che doveva aprirla, aveva uno smisurato timore di ricevere una notizia altrettanto brutta e dolorosa come quella.

La malinconia che provava si trasformò presto in qualcosa di peggio: un ricordo, un flashback. Perché doveva essere così difficile dimenticarsi di quel messaggio?

 

“Probabilmente non ce la faceva più a restare in questo mondo, ma almeno il paradiso adesso ha un nuovo angelo.

Mi dispiace, Anastasia.

Ma grazie di tutto”.

 

No, no, no!

Ormai era passato poco più di un anno: doveva farsene una ragione, non aveva senso pensarci ancora e mettersi a piangere, altrimenti sarebbe stata male per tutto il giorno.

Chiuse gli occhi, fece un respiro profondo e contò fino a dieci, quindici, venti. Quando li riaprì quel giorno era solo un ricordo lontano.

Si concentrò nuovamente su Whatsapp, per poi cliccare sull’icona con una determinazione un po’ troppo eccessiva.

Tra tutti i messaggi, ci fu solo uno che attirò la sua attenzione. Anastasia assunse un’espressione stranita: era stata aggiunta in un nuovo gruppo.

 

“Compleanno di Malcolm!!!!

 

Malcolm? Non conosceva nessun Malcolm. Tranne quell’idiota che piaceva a Diane.

Ma non poteva essere lui, non avevano mai alcun tipo di rapporto, avranno avuto una conversazione pacifica sì e no due o tre volte in tutta la loro vita. Perché mai avrebbe dovuto essere stata invitata al suo compleanno?

Per un attimo il suo dito sfiorò “abbandona il gruppo”.

Ma alla fine la curiosità ebbe la meglio e aprì il messaggio.

 

SALVE A TUTTI!!!

Per chi non mi conoscesse mi chiamo Ashley, e sono la migliore amica di Malcolm dai tempi delle scuole medie. Ma sono anche – udite udite – colei che è stata incaricata di organizzare il suo 22esimo compleanno e di conseguenza sarò io a vedere come fargli passare un compleanno DAVVERO FANTASTICO!!! Ho fatto due chiacchiere con Malcolm e lui non desidera fare una festa come gli altri anni, fatta in qualche pub a bere birra con più di cinquanta persone, perciò ci concederemo qualcosa di più “raffinato” e tranquillo: un fine settimana via da casa, dalle parti dei suoi vecchi luoghi preferiti, alias quelli della sua ex scuola superiore… Anche se credo che qualche fuori programma fatto di alcol e di fumo ci sarà di sicuro!!

Il fine settimana deciso da Malcolm è quello del 27-29 settembre. (Il suo compleanno è il 28!!)

So che si tratta di un preavviso MOLTO  breve, il fatto è che non avevamo molta scelta, tra impegni di lavoro, le festività e via dicendo. Per favore, rispondete il prima possibile e datemi conferma.

Baci e abbracci, non vedo l’ora di rivedere i vecchi amici e conoscerne di nuovi!!!!!

Ash xoxo”.

 

Anastasia restò lì, a fissare lo schermo a disagio, mentre si rosicchiava un’unghia laccata di viola nel  tentativo di capirci qualcosa.

Osservò la lista dei partecipanti: i numeri erano tutti sconosciuti ad eccezione di Diane Courtney Hannon, la sua migliore amica.

E questo tagliava la testa al toro: doveva trattarsi per forza di Malcolm Wilford. E lei sapeva – o almeno le pareva di ricordare – che Diane le avesse raccontato che Malcolm, durante il suo periodo alle superiori, amasse passare le giornate tra i boschi e tra la natura.

Ma perché? Perché Malcolm Wilford l’aveva invitata al suo compleanno?

Poteva trattarsi di un errore? Che questa Ashley avesse preso dei numeri di cellulare a caso dalla rubrica di lui e avesse creato un gruppo con quest’ultimi?

Solo diciassette persone, però… ciò significava che l’invito non avrebbe mai potuto essere uno sbaglio.

Anastasia rimase a fissare lo schermo per un altro po’, come se i pixel potessero fornire una risposta alle domande che le si agitavano inquiete nelle viscere. Era quasi pentita di non aver abbandonato il gruppo senza leggere quello stupido messaggio.

Improvvisamente sentì l’impulso di alzarsi: scaraventò il cellulare sul letto, si diresse alla porta e poi tornò indietro e rimase a fissare lo schermo.

Malcolm Wilford. Perché proprio io? Perché mi inviti ad un compleanno tra amici stretti e non mi hai mai invitata agli altri compleanni, dove se non veniva metà Denver non eri contento?

Ebbe l’impulso di domandarlo a questa Ashley, ma il suo cervello respinse subito l’idea.

C’era solo una persona che poteva sapere.

Si sedette. Dopodiché, prima di cambiare idea, digitò in tutta fretta un messaggio.

 

Ehi Diane. Non so se tu abbia letto, ma devo ammettere che mi ha stupito un po’ vedere il mio nome sull’elenco degli invitati al ventiduesimo compleanno di Malcolm. L’idea di andarci non mi entusiasma granché, non conosco nessuno. Tu ci vai?

 

Quindi si mise in attesa di una risposta.

Nelle ore successive cercò di non pensarci. Uscì dalla sua villa, intenta a viziarsi comprandosi qualcosa da Prada al fine di distrarsi, ma il messaggio di Ashley continuava a ronzarle in testa, fastidioso come un’afta sulla punta della lingua che ogni tanto procura una fitta dolorosa, come un’unghia rotta che non si riesce a smettere di tormentare. Il messaggio era ormai scomparso dalla schermata di Whatsapp, spinto sempre più in basso dai nuovi arrivi, ma Anastasia intuiva ancora la sua presenza. Questo sì che era un intoppo al regolare svolgimento della routine quotidiana.

Rispondi! implorava Diane nella sua testa mentre si provava gli abiti firmati nei camerini, chiedeva consigli alle commesse o semplicemente si osservava allo specchio. Ma non sapeva cosa avrebbe voluto che Diane rispondesse.

E infine, dopo quattro lunghissime ore, mentre cenava sorbendosi i commenti del suo fratellino riguardo qualche nuovo videogame, stava scorrendo sovrappensiero i Tweet del suo cellulare quando vide lampeggiare l’icona di un nuovo messaggio su Whatsapp.

Era di Diane.

Finalmente si era connessa.

Ingollò una sorsata di succo alla mela e respirò profondamente.

 

Ehilà Ana! Scusami se non ti ho risposto prima, ma stavo ascoltando mia madre suonare il pianoforte, lo sai quanto è brava.

Cazzo, a dirla tutta è l’ultima cosa che mi andrebbe di fare. Mal mi aveva già parlato del suo compleanno qualche tempo fa ma speravo di scampare questa volta. Con lui non va molto bene in questo periodo, è strano, pensa sempre a qualcosa. Boh.

Non so perché ti abbia invitata sinceramente, non l’ha mai fatto! Per lui non sei proprio Miss Simpatia. (Anche se mi ha confessato più volte che una botta te la darebbe volentieri ahahahahah) Magari glielo chiedo in uno di questi giorni.

E tu che fai, ci vai? Facciamo un patto? Se io vado, vieni anche tu. Non mi va di stare sola con Mal in questi tempi”.

 

Anastasia continuò a bere il suo succo, gli occhi fissi sullo schermo del cellulare e il pollice destro sospeso sulla tastiera dell’iPhone senza però decidersi a cliccarci sopra. Sperava che Diane avrebbe dato risposta ad almeno alcune delle domande che le ronzavano sempre più numerose in testa da qualche giorno. Dove avrebbero passato questo fatidico weekend? Perché invitarla per la prima volta ad un suo compleanno? Che stava succedendo tra Diane e Malcom? In che senso “strano”?

Ma perché tu e Malcolm… cominciò, per poi cancellare la frase. No, non poteva chiederglielo così a bruciapelo: equivaleva ad ammettere che non aveva la più pallida idea di cosa stesse succedendo.

Era sempre stata troppo orgogliosa per confessare la sua ignoranza, in qualsiasi avvenimento o materia. Detestava sentirsi in svantaggio.

Cercò di relegare delle domande in fondo alla mente, mentre si faceva la doccia e si vestiva. Ma quando riaprì la schermata dell’iPhone c’era un nuovo messaggio nel gruppo di Ashley.

Era un dispiaciuto “no, grazie” da parte di uno degli amici di Malcolm, per via di un certo matrimonio.

Ma c’era un secondo messaggio. Era di Ashley. Ma questo non era presente sul gruppo, le aveva inviato un messaggio privato.

 

Ciao Anastasia, scusa l’insistenza, ma mi stavo giusto domandando se avessi visto il mio messaggio sul gruppo, qualche ora fa. So che tu e Malcolm non siete in ottimi rapporti, però lui spera TANTO che tu possa esserci. Mi parla spesso di te, e so che vorrebbe instaurare un rapporto di amicizia. Non so cosa sia successo, ma credimi: sarebbe felicissimo se tu partecipassi… Parla spesso di te. Allora perché non dici di sì?! Renderesti completa la sua festa.

Ash xoxo”.

 

Avrebbe dovuto sentirsi in qualche maniera lusingata per il fatto che Malcolm desiderasse tanto la sua presenza e che Ashley si fosse data tanto da fare per rintracciarla. Ma non era così. Provava invece un rigurgito di fastidio, e si sentì invasa nella sua privacy. Si sentiva controllata, spiata. Oltre che completamente confusa e spaesata. E da quando Malcolm voleva “instaurare un rapporto di amicizia”? Perché parlava di lei alla sua migliore amica? E poi, chi la conosceva questa Ashley? Non ne aveva sentito mai parlare.

Spense il cellulare. Sentiva uno sterminato bisogno di fumare. Frugò in una delle borse e si accese una sigaretta. Ma, benché cercasse di concentrarsi su essa, scacciando con decisione dalla mente ogni pensiero relativo a quella festa, l’ultima frase di Ashley continuava ad aleggiare nell’aria, come un’eco irritante. Non so cosa sia successo. Sembrava la voce di una poppante lagnosa. Il volto della sedicenne assunse un’espressione piena di amarezza.

No, non lo sai. E quindi non cercare di ficcare il naso nel mio passato.

Le cose che Malcolm aveva detto a lei, a tutta la scuola, a tutta Denver, erano imperdonabili. Non potevano essere perdonate.

Per colpa sua aveva litigato molto con Diane, era costantemente arrabbiata con lei perché nonostante tutto ci stava ancora insieme.

Avrebbe potuto chiudere con lei, ma non ci riuscì mai, perché Diane era una vera amica, anzi, la sua migliore amica.

Lei era stata l’unica persona a rimanerle accanto per davvero durante quel periodo.

Le ritornò in mente quella volta in cui dormì nella camera da letto di Diane, una settimana esatta dopo quel giorno, ed Anastasia non poté fare a meno di rivedersi là, distesa a piangere nel letto, circondata dal corpo caldo della sua amica, che le sussurrava di dormire, mentre le accarezzava i capelli rossi. «Da oggi in poi ti proteggerà per sempre», le diceva, baciandole la fronte. Poi arrivò la notte, e durante uno dei tanti incubi aveva bagnato il letto. Appena se ne accorse scoppiò in lacrime dalla vergogna, non riusciva a capacitarsi che a quindici anni avesse fatto la pipì a letto, uno che non era il suo, poi. Pensava che Diane l’avrebbe presa in giro, ma invece ricordava che l’aveva stretta in un abbraccio e le aveva dato un suo vecchio peluche da coccolare, mentre si intrufolava furtiva nell’asciugatrice a prendere delle lenzuola pulite, per poi nascondere le altre nel cesto della biancheria sporca.

Udirono la voce assonnata di sua madre che dal corridoio chiedeva cosa fosse successo, e la rapida risposta di Diane: «Niente ma’, ho rovesciato il tè e adesso il letto di Ana è tutto bagnato. Torna a dormire, ci penso io».

Per un istante la rossa fece un salto nel tempo, ritrovandosi di nuovo nei panni di quella quindicenne spaventata. Poteva sentire nelle narici l’odore della sua stanza: l’aria viziata dal loro respiro notturno, la fragranza delle perle da bagno in un barattolo di vetro sul davanzale, il profumo delle lenzuola fresche di bucato.

«Non dirlo a nessuno», sussurrò Anastasia nascondendo il pigiama bagnato nella valigia mentre Diane rifaceva il letto con le lenzuola pulite. Lei scosse la testa.

«Certo che no, stupida».

E non lo fece mai.

Anastasia era ancora immersa nei ricordi quando un “ding” sommesso proveniente dal cellulare le annunciò la comparsa di un nuovo messaggio. Era di Diane.

Avrebbe voluto inviarle un messaggio vocale dove urlava che le voleva un bene dell’anima, che la ringraziava di essere un’amica così straordinaria, ma si trattenne. Probabilmente le avrebbe risposto con un “ma sei scema per caso?” e avrebbero riso insieme.

Scosse appena il capo, leggendo il messaggio.

 

Allora, che programmi hai? Ash mi sta addosso. Accetti il patto?”.

 

Si precipitò alla porta della sua camera, avvertendo l’idiozia di quel che stava per fare, poi tornò indietro e, prima di cambiare idea, digitò: “Ok, affare fatto”.

La risposta di Diane arrivò qualche minuto dopo.


Wow! Non prenderla per il verso sbagliato, ma devo dire che sono sorpresa che tu abbia accettato. In senso buono, eh! Allora d’accordo, andiamoci, e non azzardarti a tirarmi un bidone: ricorda che sono una fan accanita di CSI e Grey’s Anatomy, e conosco almeno tre modi per ucciderti senza lasciare traccia ahahah”.

 

Con un altro lungo respiro, aprì la chat del gruppo e scrisse:

 

Sarò davvero felice di partecipare alla festa. Ringrazia Malcolm da parte mia per aver pensato a me. Non vedo l’ora di conoscervi e di passare un po’ di tempo con gente nuova”.

 

Da quel momento i messaggi sul gruppo si susseguirono frequenti e veloci. Ci fu una raffica di desolati “no”, ognuno dei quali menzionava il preavviso troppo breve.

Vacanze all’estero…”.

Mi dispiace tanto, ma devo lavorare…”.

Funzione commemorativa di famiglia…”. A questo messaggio Anastasia non poté fare a meno di scrivere a Diane in chat privata: “Il funerale glielo do io, al prossimo che scrive nel gruppo, mi stanno riempiendo di notifiche”.

Purtroppo andrò a fare snorkeling in Cornovaglia!”, questa volta fu Diane a commentare: “Snorkeling? A fine settembre? Non poteva trovare una scusa migliore?”.

Anastasia stette un po’ su Facebook, e nel frattempo arrivarono altri rifiuti a causa di impegni presi in precedenza. Ma nel mezzo di tutto questo, qualcuno accettò.

Alla fine arrivò l’elenco dei partecipanti:

Malcolm Wilford

Ashley Dickinson

Felix Albert Burgress

Tyler McKibben

Diane Courtney Hannon

Anastasia Hamilton

Emily Crownover

Quest’ultimo nome sorprese sia Anastasia ché Diane: era una cheerleader del loro liceo, come faceva Malcolm a conoscerla? Diane si precipitò ad inviare un messaggio privato all’amica con scritto: “???”.

Anastasia rispose con un semplice “Boh”, per poi tornare a guardare la lista dei partecipanti. Solo sette persone. Non sembravano poi tante, per una persona gettonata come Malcolm. Però bisognava considerare che Ashley aveva scritto che quest’anno voleva una festa tranquilla e che il preavviso era davvero breve.

Era per questo che l’aveva invitata? Per fare numero in una festa di compleanno stile “gratta il fondo del barile”? Ma no, non era da Malcom, non era da Diane, non era dalla maggior parte di persone che conosceva, non era da lei. In questo si accomunavano, perché quelli come loro avrebbero invitato esattamente chi volevano alla loro festa suuuper esclusiva e aperta solo ad una manciata di fortunati.

Nei giorni successivi la ragazza scacciò i ricordi dalla mente ributtandosi nelle solite cose da fare. Ma puntualmente ritornavano quando meno se l’aspettava, durante lo shopping, in discoteca, a scuola, quando fumava, oppure nel bel mezzo della notte.

E allora perché? Malcolm, perché proprio io?

 

 

 

Note dell’autrice: Ehm. Sì, lo so. Pubblico questo capitolo con un ritardo spaventoso, ma meglio tardi che mai, no? Mi scuso con tutte le meravigliose (e pazienti) persone che seguono questa storia, cercherò di essere molto più costante nei prossimi aggiornamenti. Infatti ho già iniziato a scrivere il quinto capitolo.

Parlando della storia, questo capitolo si svolge completamente nel passato, lentamente ci stiamo avvicinando al rapimento di Anastasia.

In questo capitolo (che tra l’altro è uscito un po’ più lungo, ma meglio così!) il mio intento era quello di attirare la vostra attenzione ed incuriosirvi, sperando davvero di esserci riuscita! Ho dato solo un paio di letture superficiali, quindi se notate qualche errore, mi farebbe piacere saperlo, al fine di correggere.

Come sempre lasciate una recensione, riceverle è sempre un grande piacere e alimenta la mia voglia di scrivere!

Al prossimo capitolo,

Coffee Pie.

 

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Capitolo 5
*** La casa di vetro ***



Settembre passò spaventosamente in fretta

Part I

Chapter V

La casa di vetro

 

 

Sarà capitato anche a te di sentirti osservato, di voltarti e di constatare che effettivamente qualcuno ti stava guardando.”

Anonimo

 

 

Settembre passò spaventosamente in fretta. Anastasia fece del suo meglio per relegare l’intera faccenda in un angolino della mente e pensare solamente a divertirsi come suo solito, ma più il weekend si avvicinava, più faceva fatica. Restava fuori casa fino a tardi, si ubriacava fino a poter quasi raggiungere il coma etilico nella speranza di riuscire a dormire, ma non appena poggiava il capo sul cuscino i pensieri ritornavano. Malcolm Wilford. Dopo tutto quello che era successo. E se stesse per commettere uno sbaglio colossale?

Se non fosse stato per Diane si sarebbe certamente tirata indietro, ma, in un modo o nell’altro, giunto il ventisette settembre, eccola lì, con la valigia rosa shocking tra le mani mentre il suo autista personale la aiutava a scendere dalla macchina. Fu subito accolta da un freddo aspro mattino della periferia di Denver, con Diane al suo fianco intenta a fumarsi una sigaretta rollata a mano, brontolando mentre la rossa aveva appena terminato la sua e stava ordinando un caffè al chioschetto della stazione.

Quella sarebbe dovuta essere una mattinata allegra, spensierata, elettrizzante. Non avrebbero dovuto fare altro che parlare della festa e di quanto stratosferica sarebbe stata. Avrebbero dovuto informarsi meglio sui ragazzi presenti, cercarli su Facebook e vedere se fossero carini. Avrebbero dovuto scambiarsi pareri sui vestiti che indossavano in quel momento e su quelli che avrebbero indossato durante i giorni successivi, avrebbero dovuto chiedersi come attirare l’attenzione di tutti e fare le pazze. Come tutte le altre volte che dovevano andare a qualche evento.

Ma nulla tutto ciò avvenne. Era come se volessero sviare l’argomento. Tra le due era presente una tensione palpabile, ma nessuna delle due avrebbe saputo spiegarsi il motivo preciso.

Erano agitate e basta.

 

«Vuoi guidare tu?*», domandò Anastasia mentre gettavano le valigie nel bagagliaio della Mercedes noleggiata. Avrebbero potuto andarci nella sua – di macchina – ma la rossa ci teneva troppo e detestava portarla da qualche parte fuori città. Diane si strinse nelle spalle, per poi sbottare di colpo.

«Cazzo!», esclamò visibilmente innervosita, passandosi una mano tra i capelli corti e scuri. «Vedi, è che ‘sta festa mi sta stressando come non mai. Allora stamattina mi sono bevuta un po’ di gin tonico per calmarmi. Mi dispiace, Ana».

«Non c’è bisogno che ti dispiaccia», sistemò le gambe nel posto di guida, segretamente tranquillizzata dal fatto che non fosse l’unica a sentirsi così male per uno stupido compleanno. Chiuse con forza lo sportello e accese il motore. «Non avrei comunque voluto farmi scorazzare da te in ogni caso. La nostra guida è come un karaoke: il mio è epico, il tuo è solo imbarazzante o allarmante».

A quelle parole Diane scoppiò in una risata fragorosa. «Ma se quando canti sei stonata come una campana!».

«Una campana molto sexy», precisò Anastasia, ammirando il proprio nello specchietto retrovisore e facendosi l’occhiolino. L’amica roteò gli occhi, vagamente divertita dal narcisismo dell’amica.

«Comunque sì, effettivamente guidare non fa per me. Infatti di solito prendo il tram per andare in giro».

«Buon per te», disse la rossa non sapendo bene come rispondere.

Diane guardò fuori dal finestrino mentre l’altra inseriva la marcia. Fecero un breve giro a zigzag del parcheggio, prima di capire come uscirne.

Durante la guida la bruna notò che l’amica le stava lanciando occhiate in tralice, ed improvvisamente le indicò con un cenno della testa il navigatore satellitare.

«Accendi quell’aggeggio, per piacere, e inserisci il codice postale che ci ha dato Ashley. È la nostra unica speranza di uscire vive da Denver».

 

I cartelli segnaletici di vari paesini nei pressi di Denver balenavano fuori dal finestrino creando un’immagine quasi poetica, la strada si snodava come un nastro grigio su e giù dalle colline su cui brucavano le pecore. Il cielo era plumbeo e pesante, e le piccole costruzioni in pietra che a tratti sfilavano accanto alle due sembravano discretamente seminascoste, quasi si vergognassero di essere notate. Diane non doveva darle indicazioni – dato che ci stava pensando il navigatore – e siccome leggere in macchina le aveva sempre dato la nausea, chiuse gli occhi per tagliare fuori Anastasia ed il rumore della radio, rimanendo da sola nella sua testa con le domande le quali non riusciva a smettere di porsi.

Che cosa hai mente, Mal?

Perché hai deciso di festeggiare il tuo compleanno in un posto così lontano da tutto e da tutti? E con così poche persone? Come fai a conoscere Emily? Non ricordavo che vi foste mai conosciuti. Hai davvero invitato Anastasia per il motivo che mi hai scritto in chat? Ci hai pensato davvero?

Guardò la sua amica: chissà come avrebbe reagito quando Malcolm gliel’avrebbe detto. Sperava davvero che la prendesse bene. In fondo erano passati più di dieci anni. Ormai non avrebbe avuto senso arrabbiarsi con lui.

Mal, qual è il vero scopo di questa festa?

Immaginò il suo ex ragazzo che scuoteva la testa ammonendola di avere pazienza, di aspettare. Gli erano sempre piaciuti i segreti. Il suo passatempo preferito era scovare qualcosa su qualcuno e poi fargli cenno di tanto in tanto. Non divulgarlo, no, bensì limitarsi a dei velati riferimenti durante la conversazione, cenni talmente sfumati che solo il diretto interessato e lui avrebbero compreso. In modo da fargli capire che lui sapeva.

 

Si fermarono in un autogrill per il pranzo e una pausa sigaretta, dopodiché si rimisero in viaggio verso il bosco, dove le strade si trasformarono in sentieri di campagna e il cielo sopra le due amiche diventò immenso. Man mano che la carreggiata si restringeva, gli alberi sembravano farsi sempre più vicini sul manto d’erba ben rasata che ricopriva il terreno torboso, finché non se li ritrovarono direttamente al loro fianco, simili a sentinelle sul ciglio della strada, da cui li separava solo un sottile muretto di pietre a secco.

All’ingresso del bosco vero e proprio, la copertura del navigatore satellitare si affievolì, poi l’apparecchio smise di funzionare del tutto.

Anastasia cacciò uno strillo snervato, per poi corrugare la fronte e sbuffare: «Che palle».

«Aspetta un attimo, Ana», disse l’amica frugando nella borsa. «Ho stampato la piantina che mi ha inviato Ash via e-mail».

«Caspita, vorrà dire che ti nominerò Girl Scout dell’anno», ironizzò, ma la bruna colse una nota di sollievo nella sua voce. «Cosa c’è che non va nell’iPhone, comunque?».

«Ecco cosa c’è», le mostrò il proprio telefono che continuava a funzionare a tratti, impossibilitato a caricare le mappe da Google. «Scompaiono da un momento all’altro». Guardò le pagine stampate. La Casa di Vetro, c’era scritto nell’intestazione di ricerca. Stanebridge Road. «Okay, tra poco ci sarà una svolta a destra. Una curva e poi una svolta destra, deve essere vicinissima…», la traversa passò accanto alle due e Diane commentò, in un tono tutto sommato neutro: «Era quella, l’abbiamo mancata».

«Ma che cazzo di navigatore sei?», sbottò Anastasia.

«Cosa?».

«Dovresti indicarmi una svolta prima di arrivarci, sai», ribatté imitando la voce metallica del navigatore satellitare. «girare a sinistra tra – cinquanta – metri. Girare a sinistra tra – trenta – metri. Faccia inversione non appena sarà prudente, ha saltato la svolta».

«Beh, allora fa’ inversione non appena sarà prudente, bella mia, hai saltato la svolta».

«’Fanculo alla prudenza», Anastasia schiacciò con forza il pedale del freno e fece una nervosa inversione di marcia in tre manovre in corrispondenza di una curva successiva. Diane chiuse gli occhi, aggrappandosi al sedile, fino a ficcare le unghie al suo interno.

«Che cosa stavi dicendo a proposito del karaoke?».

«Ma dài, guarda che è una strada senza uscita. Non stava arrivando nessuno».

«A parte gli altri invitati alla festa», aprì gli occhi con una certa cautela e scoprì che stavano ripartendo a tutta birra nella direzione opposta.

«Okay, è qui. Sembra un viottolo di campagna, sulla cartina, ma Ash lo ha segnalato ben bene».

«È veramente un violottolo!».

Una brusca sterzata e l’auto attraversò sobbalzando il varco tra il fogliame, per poi cominciare ad inerpicarsi su per un sentiero accidentato e fangoso.

«Credo che il termine tecnico sia “strada sterrata”», disse Diane con un filo di voce, mentre Anastasia girava intorno ad una fossa piena di melma che aveva più le sembianze di un abbeveratoio per ippopotami, dopodiché svoltò di nuovo alla curva successiva. «Che sia questo il vialetto d’accesso? Sarà lungo quasi un chilometro».

Erano arrivate all’ultima pagina che la bruna aveva stampato, talmente grande, stavolta, che si trattava praticamente di una foto aerea, su cui non era contrassegnata nessuna casa.

«Se questo è il loro vialetto privato», disse Anastasia, con la voce che sobbalzava al rimo dei solchi sulla strada. «dovrebbero fargli un po’ di manutenzione, porca puttana. Se si rompe il telaio dell’auto noleggiata, io faccio causa a qualcuno. Non m’importa chi, ma col cazzo che pago i danni».

«Ma se tuo padre ti dà una paghetta di quindicimila dollari al mese! Eddai Ana, non fare la tirchia».

«Non sto facendo la tirchia!», strillò quella innervosita. Diane roteò gli occhi. «Nella vita bisogna sempre farsi rispettare. Se ti rompono qualcosa, la pagano loro. Chissenefrega se c’hai i soldi che ti escono dal culo».

Ed ecco che, superata l’ultima curva, scoprirono di essere arrivate. Anastasia superò uno stretto cancello, parcheggiò e spense il motore, poi scesero entrambe, fissando sbalordite la casa che si parava dinanzi.

Non sapevano bene cosa si aspettassero, ma di certo non quello. Un cottage dal tetto di paglia, magari, con tanto di travi in legno e soffitti bassi. Ciò che invece si ergeva in mezzo alla radura nel bosco era una straordinaria accozzaglia di vetro e acciaio che sembrava essere stata tirata su a casaccio da un bambino che si fosse stancato di giocare con i soliti mattoncini. Appariva così fuori posto che le due se ne restarono lì impalate a guardarla, a bocca aperta dallo stupore.

Quando la porta si aprì ebbero una fugace visione di luminosi capelli biondi e di qualche chilo di troppo, e provarono una sensazione di panico totale. Era tutto un errore, non sarebbero mai dovute venire, ma ormai era tardi per tornare indietro.

«Ehilà!!!», esclamò la figura con un tono da tre punti esclamativi, e allora compresero che non poteva che non poteva trattarsi che di Ashley. Si avvicinò alle ragazze, per poi urlare euforica: «Santo Cielo! È davvero fantastico vedervi qui! Voi dovreste essere…».

Spostò lo sguardo da Diane ad Anastasia, e scelse l’alternativa più facile: “la bella Anastasia”, con il viso fin troppo truccato per l’occasione, gli abiti scollati, i capelli lunghi e lucenti ed il corpo da modella. Diane alzò per qualche attimo gli occhi al cielo.

«Anastasia Hamilton, giusto?».

«In persona», confermò tenendole la mano. «Ma puoi chiamarmi anche Ana, se ti fa piacere», le regalò uno dei suoi sorrisi falsi migliori. «E tu dovresti essere Ashley, se non sbaglio».

«Certosamente!».

Anastasia lanciò a Diane un’occhiata come per sfidarla a non ridere, ed in effetti l’amica dovette trattenere una risata. Era impossibile credere che qualcuno dicesse davvero “certosamente”, perché in tal caso gli avrebbero fatto perdere l’abitudine a forza di cazzotti a scuola o a furia di sghignazzate all’università. Ma magari Ashley era fatta di un materiale più resistente.

La bionda strinse la mano ad Anastasia, per poi rivolgersi alla ragazza dai capelli bruni al suo fianco, accogliendola con un sorriso radioso.

«Oh mamma, allora tu devi essere per forza Didì!».

«Diane», rispose di riflesso.

«Diane?», aggrottò le sopracciglia, confusa.

«Il mio nome è Diane Courtney», soggiunse. «Mal è abituato a chiamarmi Didì, ma dalle altre persone, come ti avevo scritto via messaggio privato, preferisco solo Diane».

Nel suo profondo aveva sempre detestato essere Didì. Era un nome da animaletto domestico, che dava adito a prese in giro e strane rime. Didì via di qui, se ti scappa la pipì.

Didì era morto e sepolto da un pezzo – a meno che non riguardasse Malcolm – o almeno questo era quello che sperava.

«Oh, ma certo! Io ho una cugina che si chiama Diane! Noi la chiamiamo Diaz».

Diane cercò di nascondere un sussulto.

Diaz proprio no. Mai Diaz. Solo una persona, nella vita, l’aveva chiamata così.

La pausa si prolungò, finché Ashley non la interruppe con una risata un po’ fragile.

«Ah! Giusto. Okay. Beh, comunque vedrete che ci divertiremo un sacco! Mal non è ancora arrivato, ma in qualità di organizzatrice di questa festa mi è sembrato mio dover arrivare qui per prima ad accogliervi».

«Quali orrende torture hai in programma di infliggerci, dunque?», domandò Anastasia mentre trascinava la valigia oltre la soglia di casa. «Mutandine con la P di principiante? Boa di piume di struzzo? Cazzi di cioccolato?».

Ashley fece un risolino nervoso. Guardò la bruna, poi di nuovo la rossa, cercando di capire se stesse scherzando. Anastasia aveva un modo di porsi difficile da decifrare, per chi non la conosceva, e ricambiò il suo sguardo tutta seria: Diane si rese conto che l’amica si stava chiedendo se fosse il caso di aumentare la presa.

«Carina…ehm…la casa», disse Diane cercando di cambiare discorso, anche se in realtà “carina” non era l’aggettivo più adeguato. Nonostante gli alberi che fiancheggiavano l’edificio, il posto sembrava terribilmente esposto, e l’ampia vetrata della facciata era un invito a guardarci dentro a tutta la valle. Inquietante, l’aggettivo più adatto era decisamente inquietante. Si sfiorò le braccia, incerta. Si sentiva osservata, come se ci fosse qualcuno dietro agli alberi che la stesse spiando. Si domandò se anche la rossa sentisse la stessa sensazione.

«Vero che è graziosa?», ribatté raggiante Ashley, sollevata di trovarsi di nuovo in acque sicure. «In realtà è di mia zia, la usa per le vacanze, ma d’inverno non ci viene spesso…è troppo isolata», fece una breve pausa, per poi continuare. «Alle medie e soprattutto al liceo io e Mal passavamo sempre qui almeno due settimane, durante l’estate. Ci siamo divertiti un sacco, rimanevamo per molto tempo a fissare il bosco dalla vetrata. Beh, poi io mi sono dovuta trasferire a Boulder e non ci siamo più andati… Oh! Comunque il soggiorno è per di qua…», disse mentre attraversavano un atrio altissimo ed echeggiante che dava su un lungo stanzone dal soffitto basso, la cui parete opposta era interamente di vetro, rivolta verso il bosco.

Anastasia lanciò una veloce occhiata colma di insicurezza a Diane, la quale percepì alla perfezione e ricambiò. La rossa si sentiva eccessivamente denudata, in un posto del genere: un po’ come essere sul palcoscenico di un teatro, intenti a recitare la propria parte di fronte a una platea di occhi nascosti là fuori tra gli alberi. Con un brivido voltò la schiena al vetro, per poi guardarsi intorno. Nonostante i grandi e soffici divani, quel luogo sembrava stranamente spoglio, e dopo una decina di secondi comprese il perché. Non era solo l’assenza di disordine e l’arredo minimalista – due vasi sopra il caminetto, un unico dipinto di Turner appeso al muro – bensì il fatto che non ci fosse nemmeno un libro in tutta la stanza. Non dava proprio la sensazione di essere una villa per le vacanze: in qualsiasi altro posto fosse stata c’era sempre qualche vecchio volume di Dan Brown o di Agatha Christie. Questo posto ricordava più che altro uno show-room. O un palcoscenico, appunto.

«La linea telefonica fissa lì», Ashley indicò un telefono a disco dell’aria piuttosto vintage, che risultava curiosamente stonato in un ambiente così moderno. «Non c’è campo sui cellulari o sui computer, perciò usatelo pure».

Più che dal telefono, tuttavia, lo sguardo di Anastasia fu attirato da un oggetto che appariva ancora più fuori luogo: un fucile ben lucido appoggiato a dei sostegni di legno fissati sopra il muro sopra la mensola del caminetto. Sembrava quasi che fosse stato dimenticato da qualche cacciatore. Chissà se funzionava.

Rendendosi conto che Ashley stava ancora parlando, si sforzò di distogliere lo sguardo.

«…e al piano di sopra ci sono le camere da letto», terminò. «Volete una mano con i bagagli?».

«No, grazie, posso farcela da sola», rispose Diane, proprio mentre Anastasia sorrise beffarda e disse: «Beh, se proprio insisti…».

Ashley parve colta alla sprovvista ma, fattasi coraggio, prese l’enorme valigia a rotelle di Anastasia e cominciò a trascinarla su per gli scalini.

«Sei crudele», le sussurrò Diane, ricevendo in tutta risposta una semplice e divertita alzata di spalle.

 

«Come stavo dicendo», ansimò una volta svoltato l’angolo della prima rampa. «ci sono quattro stanze da letto. Ho pensato che io ed Emily ne occuperemo una, voi due un’altra e Malcolm e Felix un’altra ancora, savandisìr**».

«Savandisìr», le fece eco Anastasia tutta seria, mentre Diane era troppo impegnata per elaborare l’informazione che avrebbe dovuto condividere la stanza con una persona così disordinata come la sua amica; sperava fino all’ultimo che sarebbe riuscita ad ottenere una stanza tutta per sé.

«Perciò rimarrebbe soltanto Tyl – voglio dire Tyler – che se ne starebbe da solo. Siccome lui e il suo fidanzato hanno adottato da poco un bimbo di sei mesi, secondo me tra tutti noi è quello che ha più diritto ad una stanza tutta per sé!».

«Cosa? Non è che il marmocchio se lo porta dietro, vero?», Anastasia si mostrò sinceramente allarmata. Ashley si sganasciò dal ridere e poi si mise la mano sulla bocca, imbarazzata, per soffocare il rumore.

«No! È solo che, capite, magari avrà più bisogno di noi di una notte di riposo».

«Ah, meno male», Anastasia sbirciò dentro una delle stanze. «Qual è la nostra allora?».

«Le due sul retro sono le più grandi. Tu e Didì potete prendere quella a destra, se volete, ci sono due letti singoli. Nell’altra invece c’è un letto matrimoniale, però Mal ha detto che non ha problemi a condividerlo con Felix».

Si fermò ansimante sul pianerottolo ed indicò con un gesto una porta di legno chiaro sulla destra.

«Ecco qui».

Dentro erano presenti in bella mostra due lettini bianchi ed ordinati, accompagnati da una toeletta con specchiera, il tutto anonimo come in una camera d’albergo, e – giusto di fronte  ai letti – la solita raccapricciante parete di vetro rivolta a nord in direzione del bosco di pini. Qui era ancora più difficile da capire, questa faccenda del vetro. Poiché sul retro la casa era appoggiata su un terrapieno, non c’era la vista spettacolare che si godeva sul davanti. Anzi, l’effetto era più che mai claustrofobico: un muro verde scuro che si stava già sfumando verso la tenebra, ora che il sole era tramontato.

Ai lati stavano raccolte pesanti tende color crema, e le due dovettero frenare l’impulso di tirarle con uno strattone per coprire l’enorme distesa trasparente.

Dietro di loro Ashley lasciò cadere a terra con un tonfo la valigia di Anastasia. Diane si girò e la bionda le rivolse un sorriso luminosissimo che la fece apparire tutto ad un tratto quasi carina.

«Avete delle domande?».

«Sì», replicò Anastasia, visibilmente seccata da tutte quelle pareti di vetro. Perché si sentiva osservata? «Qui dentro si può fumare?».

Ashley assunse di colpo un’espressione dispiaciuta.

«Purtroppo mia zia non vuole che si fumi in casa. Però lì c’è un balcone», armeggiò per qualche istante con una porta scorrevole nella parete di vetro, riuscendo alla fine a spalancarla. «Puoi fumare qui, se vuoi».

«Buono a sapersi», si limitò a proferire Anastasia con tono altezzoso.

Dopo aver lottato di nuovo con la porta, Ashley la richiuse. Si raddrizzò, rossa in volto per lo sforzo, pulendosi le mani sui jeans.

«Perfetto! D’accordo, adesso vi lascio disfare i bagagli. Ci vediamo di sotto, sì?».

«Certosamente!», esclamò entusiasta Anastasia, e Diane cercò di coprirla con un: «Grazie!» a voce più alta del necessario, risultando stranamente aggressiva.

«Uhm, già. Okay», concluse Ashley incerta, poi indietreggiò verso la porta e uscì.

«Ana…», disse Diane in tono di avvertimento, mentre lei attraversava la stanza per guardare il bosco là fuori.

«Che c’è?», domandò girandosi appena, distratta. E poi soggiunse: «Dunque Malcolm, Felix e Tyler devono essere decisamente dei maniaci sessuali, a giudicare da quanto Ashley sia determinata a tenere separati i loro furibondi cromosomi di tipo Y dalle nostre delicate parti femminili».

Diane non poté fare a meno di sbuffare divertita. D’altronde era sempre così, con la rossa: riusciva sempre a farla franca in situazioni che per altri risulterebbero imperdonabili.

«Beh, senza contare che Tyler probabilmente è gay, non credi?», commentò Diane mentre trascinava la sua valigia, senza notare che lo sguardo dell’amica si era fatto improvvisamente serio. «È fidanzato con un uomo e hanno anche adottato un bambino, anche se Ash ha detto che l’ha messo nella camera singola perché–».

«Diane», la interruppe la rossa, con un tono di voce mediamente riflessivo. «Non lo trovi strano?».

«Cosa dovrei trovare strano?», domandò, cercando di far suonare la sua voce leggera ed indifferente.

Anastasia si passò le mani tra i capelli, scompigliandoseli. «Oh, insomma!», sbuffò. «Tutto! Tutto è strano!», esclamò, per poi iniziare a contare sulle mani. «Questa casa, gli alberi là fuori, il fucile nel soggiorno, quella cicciona di Ashley, l’improvvisa gentilezza di Wilford nei miei confronti, il fatto che Emily Crownover sia stata invitata a questa festa…voglio dire, Emily frequenta la nostra scuola, se avesse iniziato a frequentare uno come Malcolm Wilford si sarebbe venuto a sapere».

«Già. Quando stavamo insieme non mi ha mai accennato al fatto che fossero amici, quindi immagino che si siano conosciuti dopo che ci siamo lasciati», Diane sbatté la propria valigia sul letto, poi, pensando al beauty-case, usò più cautela nell’aprire la cerniera lampo. «Ma, voglio dire, Mal in fondo ha sempre conosciuto tanta gente, quindi il fatto che conoscesse Emily non mi scandalizza più di tanto».

Bugia numero uno, pensò Diane chiudendo gli occhi. Quando aveva visto il nome della cheerleader sulla lista degli invitati era rimasta sconvolta. Non aveva la minima idea di come, quando e dove si fossero conosciuti. Era convinta di sapere con chi uscisse, il suo ex.

«Senza dimenticarci della sua adorata migliore amica dai tempi delle medie Ashley Dickinson», Anastasia prese le scarpe da ginnastica – le quali si trovavano in cima alla sua valigia – che sistemò vicino alla porta; un piccolo, rassicurante segnale di “uscita di emergenza”. «Ma chi è questa? Ma chi se l’è mai cagata?», sbuffò, per poi guardarla negli occhi. «È stato strano che vi siate presentate, avreste dovuto già conoscervi», pausa. «Ma almeno Wilford ti ha mai parlato di lei, quando stavate insieme?».

Diane distolse lo sguardo, quasi intimorita da quegli occhi verdi investigativi. «Certo», sussurrò appena. Bugia numero due. Malcolm non ne aveva mai fatto parola – su Ashley Dickinson – solo poco dopo l’invito alla sua festa. Eppure era convinta di sapere tutto, del suo passato. «Ma non ci siamo mai conosciute semplicemente perché lei dopo il liceo si è trasferita a Boulder, tutto qui».

«Ad ogni modo, chissà perché siamo qui», si domandò Anastasia gettandosi all’indietro su uno dei lettini, per poi togliersi le scarpe con un calcio. «Non so tu, ma io al suo posto non avrei mai invitato una mia ex e una persona che mi sta antipatica alla mia festa. È assurdo, non trovi?».

Diane non replicò, non sapeva cosa dire.

Anastasia assunse uno sguardo pensieroso. Forse era il momento giusto per farle quella domanda. Quella che non aveva avuto il coraggio di scriverle via Whatsapp.

«Diane», cominciò. Per qualche motivo aveva un groppo in gola, e le si accelerò il battito cardiaco. «Diane, perché tu e Malcolm…».

Ma prima ancora che potesse finire la frase, la camera fu invasa dal rumore di forti colpi battuti sul portone di casa che riecheggiavano nel corridoio.

C’era qualcuno alla porta.

All’improvviso Anastasia capì che non era affatto sicura di essere pronta a ricevere risposta alle sue domande.

 

~

 

Anastasia voleva solo dormire, ma aveva delle luci sparate negli occhi. La visitarono e la sottoposero ad una TAC, poi le tolsero i vestiti, irrigiditi dal sangue secco.

Cos’è successo? Cosa ho combinato?

Venne trasportata su una barella lungo corridoi dalle luci abbassate per la notte, oltrepassando corsie di pazienti addormentati. Alcuni di loro si svegliavano al suo passaggio, e la ragazza intuì in quale stato si trovasse vedendo le loro espressioni di shock, il modo in cui giravano la faccia dall’altra parte come per evitare di posare lo sguardo su qualcosa di orribile o pietoso.

Le fecero domande a cui non sapeva rispondere, le dicevano cose che non riusciva a ricordare.

Poi alla fine la collegarono ad una macchina e la mollarono lì, confusa e intontita dai farmaci.

E comunque non era del tutto sola.

Si girò a fatica su un fianco e vide qualcosa che la sorprese attraverso la porta a vetri: una donna poliziotto pazientemente seduta su uno sgabello.

Le facevano la guardia, ma non sapeva il motivo.

Così rimase lì, sdraiata a fissare la finestrella di vetro rinforzato dietro la testa della poliziotta. Avrebbe voluto uscire per farle delle domande, ma non ne aveva il coraggio, in parte perché non era sicura le sue gambe sarebbero riuscita a reggerla per tutto il tragitto fino alla porta. Ma anche perché non era sicura che sarebbe riuscita a reggere le risposte.

Restò distesa per quello che le sembrò un tempo molto lungo ad ascoltare il ronzio del macchinario e il ticchettio della porta a siringa della morfina. Il dolore alla testa e alle gambe si attutì, diventò distante. E poi alla fine la giovane si addormentò.

 

C’era del sangue nel suo sogno: una chiazza di sangue che si allargava, imbrattandola tutta mentre la ragazza si inginocchiava nel tentativo di fermarla, ma non ci riusciva. Le stava inzuppando il pigiama, e sempre più velocemente si spandeva su tutto il pavimento di legno sbiancato…

Ed è a quel punto che Anastasia Hamilton si svegliò.

Per qualche secondo rimase immobile e basta, con il cuore che le batteva fortissimo e gli occhi che si stavano lentamente abituando alla soffusa illuminazione notturna della stanza. Aveva una sete moribonda e le faceva male la vescica.

C’era un bicchiere di plastica sul comodino giusto dietro la sua testa, e con un enorme sforzo riuscì ad allungare la mano e ad agganciare il bordo con un dito tremolante, per poi tirarlo verso sé.

L’acqua sapeva di plastica, ma in quel momento provò solo il sollievo di essersi dissetata. Bevette fino all’ultima goccia e poi lasciò ricadere la sua testa sul cuscino, provando una fitta acutissima che le fece vedere le stelle nella notte fioca.

Si accorse per la prima volta dei tubicini che sbucavano da sotto le lenzuola collegandola ad una sorta di monitor, il cui schermo guizzante spandeva ombre verdognole per tutta la stanza. Uno dei tubicini era legato ad un dito della sua mano sinistra, e quando la sollevò per guardarla notò con sorpresa che era insanguinata e graffiata, e che le sue unghie, che prima erano perfette laccate con dello smalto rosso semipermanente, adesso erano spezzate.

Anastasia chiuse gli occhi, cercando di ricordare.

Ricordava… ricordava una macchina… ricordava di essere inciampata in mezzo a vetri rotti… di aver perso una scarpa…

Sotto le lenzuola si strofinò i piedi: uno le doleva, sull’altro c’era una fasciatura. Quanto agli stinchi… si sentiva tirare la pelle da un grosso cerotto chirurgico sulla gamba.

Ma è solo quando si portò la mano sulla spalla, quella destra, che sussultò e abbassò lo sguardo. Vide sbucare dal camicione un enorme ematoma che le arrivava fino al braccio.

Dopo essere faticosamente riuscita a districare la spalla dalla scollatura, Anastasia vide una massa violacea che si diffondeva a raggiera da un centro scuro e gonfio appena l’ascella. Chissà cosa le aveva provocato un livido così strano, solo da una parte… Il ricordo svolazzava appena più in là della punta delle dita, rimanendo però testardamente fuori dalla sua portata.

Ho avuto un incidente? Un incidente d’auto? Sono stata…stuprata?

Fece scorrere dolorosamente la mano sotto il lenzuolo e si passò il palmo sul ventre, sui seni, sui fianchi. Aveva le braccia piene di tagli, ma il corpo sembrava a posto. Si portò la mano tra le gambe, dove palpò lo spessore simile ad un pannolone lì in mezzo, ma niente dolore. Niente ferite né contusioni all’interno delle cosce. Qualsiasi cosa fosse successa, non si trattava di violenza sessuale.

Tirò un sospiro di sollievo, rilassandosi e chiudendo gli occhi, stanca di cercare di ricordare, stanca di aver paura, e la pompa a siringa continuava a ticchettare e a ronzare e all’improvviso le sembrò che niente avesse più importanza.

Fu solo mentre stava scivolando nel sonno che le tornò in mente l’immagine di un fucile appeso al muro.

E tutto ad un tratto capì.

Il livido era dovuto al rinculo. In qualche punto del suo recente passato doveva aver sparato con un fucile…

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice: è anche questo capitolo è terminato, sono orgogliosa di me stessa!

In questo capitolo abbiamo conosciuto Ashley. Una tipa un po’ strana, non trovate? Ed Anastasia non ha resistito al prenderla un po’ per il culo. Tipico.

Finalmente Anastasia e Diane sono al compleanno di Malcolm Wilford, anche se nessuna delle due sembra particolarmente entusiasta.

La casa dove alloggeranno in questi tre giorni è particolarmente inquietante: è una casa di vetro, circondata dagli alberi, e le nostre amiche si sentono particolarmente osservate.

Anche Diane, però, sembra nascondere dei segreti, ed è rimasta sconvolta dal fatto che Malcolm non gli abbia mai parlato di Ashley o di Emily, compagna di scuola delle due ragazze.

E quel fucile? Parecchio inquietante, no?

E buh, credo di aver finito con i dubbi(?). Spero che abbiate apprezzato questo capitolo. Lasciate una recensione. Sono curiosa di scoprire cosa ne pensate, dato che ho fatto questo capitolo con tanto amore awaw.

Oh, una domanda: nel prossimo capitolo preferite ritornare alla prigionia di Anastasia (alias il presente) o volete restare un altro po’ nel passato, e scoprire chi ha suonato alla porta? Questa volta sono abbastanza indecisa, quindi lascio scegliere a voi.

Al prossimo capitolo!

Coffee Pie.

 

 

 

*Negli Stati Uniti la patente si può prendere già a sedici anni.

 

**Savandisìr è un termine molto elegante per dire “non c’era neanche bisogno di dirlo”, per esprimere scontatezza. È un termine anche molto inusuale e raro da sentire, per questo Anastasia la prende in giro.

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Capitolo 6
*** Incontri forzati ***


Anastasia e Diane si guardarono

Part I

Chapter VI

Incontri forzati

 

 

Durante la sua vita, un uomo incontra moltissime persone. Se cammina per la strada, in un brevissimo lasso di tempo può incontrare centinaia di persone che gli passano accanto. In ognuna di esse c'è vita. Il fatto di incrociarle è un evento che coinvolge tutta la nostra esistenza.

Black Jack

 

 

Anastasia e Diane si guardarono. Il cuore della prima tonfava all’interno del suo petto come l’eco impazzita dei colpi bussati alla porta, ma cercò di mantenere la calma.

Malcolm Wilford. Chissà perché voleva stringere un rapporto di amicizia con lei. Che fosse cambiato? E lei, era cambiata?

Deglutì.

Si udì il rumore dei passi di Ashley che echeggiavano nell’altro atrio, poi lo stridore metallico del pesante portone che veniva aperto, seguito da un brusio di voci.

Anastasia drizzò le orecchie. Non sembrava la voce di Malcolm. Probabilmente dovevano essere gli altri invitati.

«Oh, è arrivato Felix!», esclamò Diane. «È da tanto tempo che non ci vediamo, vado a salutarlo».

«Un attimo, cosa?», Anastasia le afferrò l’avambraccio la tirò con una discreta brutalità verso di sé. «Chi sarebbe Felix?».

«Come, “chi sarebbe”? È quel tipo che sta sempre appiccicato a Mal all’Old Denver’s Tales!».

La rossa mollò la presa, assumendo un’espressione pensierosa, e all’improvviso il suo viso gravò una smorfia quasi disgustata.

«Quel tizio strano che si è tinto i capelli di quell’azzurro orribile?».

«Io penso che i suoi capelli siano una figata. Comunque sì, è lui».

«Aspetta, quindi…».

Però la bruna era sparita, e stava già scendendo a grandi falcate i gradini. Si udì la sua voce fluttuare su per la tromba delle scale.

«Ehi, ma guarda chi c’è, Diane la mia geek-hipster preferita! Alla fine sei venuta».

Ehi, ma guarda chi c’è, Diane la mia geek-hipster preferita! Alla fine sei venuta. Non si trattava certo di Malcolm Wilford. Anastasia tirò un profondo respiro e seguì Diane giù nell’ingresso.

Per prima cosa vide il gruppetto dall’alto. Accanto al portone c’era un ragazzo di colore alto almeno due metri, con dei capelli afro abbastanza corti: Tyler McKibben, presumibilmente. Sorrideva e annuiva per qualcosa che Ashley gli aveva detto, ma nel frattempo stava distrattamente giocherellando con il touch screen del suo smartphone.

Il ragazzo di fianco a lui doveva essere per forza Felix Albert Burgress. Era appoggiato alla sua valigia Burberry, aveva i capelli tinti di azzurro e gli occhi del medesimo colore. Indossava una camicia di un bianco immacolato che di sicuro arrivava dalla tintoria – in casa non si potevano certo ottenere delle maniche dalla piega tanto perfetta – ed un paio di pantaloni grigi strappati che dovevano essere per forza di Paul Smith*, Anastasia lo capì all’istante. Notò successivamente che attorno al collo possedeva delle grandi cuffie gialle. Che fosse un appassionato di musica come Diane?

Udendo i suoi passi sulle scale, il ragazzo alzò lo sguardo e sorrise.

«Cavolo, Anastasia Hamilton in persona! Diane e Mal mi hanno parlato di te. Ti ho vista diverse volte al locale, ma a quanto pare non c’è stata mai occasione di presentarci. Comunque io sono Felix Albert Burgress, sicuramente hai sentito parlare di me».

«Felix, Felix, Felix…ehm, no, direi di no. Mai sentito nominare», si limitò a proferire la rossa in tono altezzoso, ricevendo un’occhiataccia da Diane, ma la ragazza la ignorò prontamente. Scese gli ultimi gradini e gli tese la mano, sorridendo ironica, quasi divertita nel vedere l’espressione del ragazzo diventare forzata.

Nonostante gli avesse spudoratamente mentito, il viso di quel ragazzo aveva qualcosa di incredibilmente familiare. Era sicura di averlo visto da qualche parte oltre che al suo pub preferito. Cercò di capire di cosa si trattasse mentre stringeva la sua mano, ma non ci riuscì. A quel punto si girò verso il ragazzo di colore. «E tu devi essere…Tyler?».

«Uhm, ciao, sì», alzò lo sguardo e le rivolse un sorriso nervoso. «Scusate, è solo che…ho lasciato il mio bimbo di sei mesi a casa con il mio fidanzato. È la prima volta che lo faccio, e veramente volevo telefonargli per sapere come vanno le cose. Qui non c’è campo?».

«Non proprio», rispose Ashley in tono di scusa. Era rossa in volto, anche se non si capiva se ciò fosse dovuto al nervosismo o all’entusiasmo. «Mi dispiace. A volte si riesce ad avere un po’ di campo in fondo al giardino oppure sui balconi, dipende dal tuo gestore. Però in soggiorno c’è un telefono fisso, ora te lo mostro».

Gli fece strada e Anastasia si girò nuovamente verso Felix. Aveva ancora la strana sensazione di averlo già visto da qualche altra parte…

«Dove hai conosciuto Wilford?», gli chiese fingendosi poco interessata, mentre si guardava le unghie laccate.

«Oh, beh, sai, l’ho conosciuto nel mio studio, all’incirca quattro mesi prima che si mettesse con Diane. Ad essere sinceri è stato un primo incontro parecchio bizzarro. Credevo che fosse venuto per chiedermi un appuntamento di lavoro, considerata la mia estrema bravura…», a quel punto Anastasia – approfittandosi del fatto che il ragazzo fosse girato – lanciò un’occhiata a Diane, per poi alzare il dito medio dietro le spalle di lui e sussurrare appena, ma facendo in modo che l’amica sentisse: “che pallone gonfiato di merda”. In tutta risposta Diane le lanciò un furioso cipiglio per poi ricomporsi vedendo l’espressione perplessa di lui.

«Scusaci. Continua, ti prego», disse Anastasia con tono serio.

«Comunque, è entrato nel mio studio con fare disinvolto, si è seduto di fronte a me spaparanzandosi e ha detto semplicemente “senti, bello, non è che hai qualche modella sexy da presentarmi?”. All’inizio ero praticamente rimasto sconvolto, ma mi piacque fin da subito la sua sfacciataggine», concluse, per poi ridere appena.

«Sei un modello?», domandò a quel punto la rossa.

«No, io fotografo i modelli».

Ad Anastasia faceva sempre uno strano effetto conoscere un fotografo di modelli. Si creava una sorta di cameratismo. Quasi un legame massonico. Chissà se uno scrittore provasse la stessa cosa, incontrando i suoi lettori, o se i registi e gli attori si scambiassero segretamente cenni del capo…

«Ana è una modella», si intromise Diane. Li squadrò entrambi come se stesse sguinzagliando due pesi gallo pronti a darsele di santa ragione sul ring.

«Oh, ma davvero?», Felix la guardò come se si accorgesse della bellezza della rossa solo in quel momento. «E sei una modella da passerella o da servizi fotografici?».

Uffa. Quella era la domanda che odiava di più. Parlare della sua carriera come modella non la metteva a suo agio. Aveva sempre lavorato per servizi fotografici, dove alla fine nelle riviste compariva sempre photoshoppata. Aveva domandato più volte di andare in qualche sfilata importante, ma era stata sempre rifiutata. Era come se volessero dirle “non sei abbastanza bella per andare su un palco”.

«Uhm…da servizi fotografici», rispose vaga.

«Davvero? Ma dài, allora qualche volta puoi posare per me!», all’improvviso il suo tono diventò pieno di entusiasmo e assunse un sorriso infantile, mostrando denti perfetti e di un bianco innaturale. La ragazza si domandò se per caso non se li fosse fatti incapsulare di ceramica.

«Allora?», insistette. Tutto quell’ardore finirono per far arrossire leggermente la modella.

«No, grazie. Ho già tanti fotografi eccellenti che lavorano per me», si limitò a rispondere con un tono di voce discretamente innervosito, voltandosi dall’altra parte.

«Se lo dici tu…ma vedrai, appena tiro fuori dalla valigia la mia macchina fotografica professionale e ti mostro le foto salvate, cambierai subito idea».

Anastasia stava per fare una battuta sarcastica quando si udì un “ding” dal soggiorno, dove Tyler stava mettendo giù il telefono. Felix si girò per guardare da dove provenisse quel suono, e qualcosa della sua testa, o nella sua espressione, fece capire alla rossa di colpo dove lo avesse già visto.

Foto. Ricordava di averlo già visto taggato in una foto di Facebook. Ma non ricordava chi gliel’avesse scattata, tantomeno il profilo dove fosse stata inserita. Doveva averla vista parecchi anni fa.

Stava ancora elaborando la novità quando Tyler tornò sorridendo.

«Oh, meno male, sono riuscito a parlare con Joseph. A casa tutto bene. Scusate se ero un po’ distratto…non ero mai stato via per la notte, prima d’ora, e in effetti è stato un po’ un salto nel buio. Non voglio dire che Joseph non possa farcela da solo, sono sicuro che se la caverà, però…oh, adesso basta, devo smetterla di annoiarvi. Tu sei Anastasia, giusto?».

«Passate nel soggiorno!», chiamò a gran voce Ashley dalla cucina. «Sto preparando il tè».

Il gruppo si trasferì obbediente nel posto detto dalla bionda, e Anastasia stette ad osservare Felix e Tyler che prendevano in esame l’enorme stanza con la sua lunga parete di vetro.

«La vista qui è proprio spettacolare, no?», commentò alla fine Felix.

«Già, perfetto per una fotografia», Diane guardò fuori dal bosco. Si stava facendo buio e, per effetto delle tenebre, sembrava che tutti gli alberi avessero fatto un passo insieme verso la casa, unendo le proprie cime per escludere il cielo. «Ci si sente un po’ esposti, non vi sembra? Credo che sia per l’assenza delle tende».

«Un po’ come quando ti si incastra la maglia nelle mutande!», disse inaspettatamente Tyler, che poi scoppiò a ridere.

«A me piace», soggiunse Felix. «Sembra di stare in un palcoscenico».

«E noi saremmo il pubblico?», domandò Tyler. «Allora questa produzione deve essere una gran barba. Gli attori sono piuttosto legnosi!», indicò con il dito gli alberi. «L’avete capita? Alberi, legno…».

«L’abbiamo capita», tagliò corto Anastasia, aspra. «Ma non credo fosse questo che Fabian intendeva dire, vero?».

«Felix», la corresse lui, con una punta di fastidio nella voce, mentre assottigliava gli occhi cercando di capire se la ragazza avesse sbagliato il suo nome appositamente per farlo innervosire. «Comunque sì, intendevo dire il contrario, gli attori siamo noi», si girò verso la parete di vetro. «Mentre il pubblico…il pubblico è là fuori. Forse nascosto dietro gli alberi».

Per qualche motivo le sue parole fecero rabbrividire la modella. Forse per via dei tronchi degli alberi, simili a muti guardiani nel buio sempre più fitto. O magari a causa della folata di freddo che Tyler e Felix si erano portati da fuori, e che aleggiava ancora nell’aria. Oppure era dovuto a quel “nascosto dietro gli alberi”. Che intendesse dire che tra gli alberi ci fossero delle persone desiderose di spiarli? In un caso o nell’altro, al momento di partire da Denver era ancora autunno, mentre in quel posto, più a nord, si aveva la sensazione che stesse arrivando all’improvviso l’inverno. Non era solo per i pini che escludevano la luce con le loro fitte fronde di aghi, né per l’aria frizzante con la sua promessa di gelo. Via via che la notte si avvicinava, la casa faceva sempre più l’effetto di una gabbia di vetro che spandeva ciecamente la sua luce nel crepuscolo, o di una lanterna in mezzo alle tenebre. Si immaginò un migliaio di falene che le giravano attorno, infreddolite e inesorabilmente attratte dal suo chiarore, salvo poi finire schiantate contro il vetro gelido ed inospitale.

«Ho freddo», disse la rossa per cambiare discorso.

«Anche io», concordò Diane sfregandosi le braccia.

Allora Anastasia ricominciò a parlare, più sicura. «Secondo voi si può mettere in funzione quella specie di stufa? È a gas?».

Tyler si inginocchiò di fronte all’aggeggio.

«A legna», armeggiò con la maniglia finché non si aprì di colpo uno sportello sul davanti. «Ne ho una simile a casa mia. Ash!», gridò per farsi sentire fino in cucina. «C’è qualche problema se accendiamo la stufa?».

«No, figurati!», gridò di rimando Ashley. «Ci sono delle esche per il fuoco sulla mensola del caminetto. Dentro un vaso. Se non ce la fate da soli, arrivo io tra un minuto».

Felix si avvicinò al caminetto e cominciò a sbirciare dentro i pochi vasi minimalisti, ma poi si fermò, gli occhi fissi sullo stesso oggetto che aveva fatto trasalire Anastasia poco tempo prima.

«Porca puttana!», era il fucile, appollaiato sui suoi sostegni di legno poco più sopra. «Che non abbiano mai sentito parlare di Čechov**, da queste parti?».

«Čechov?», domandò una voce dal corridoio. Era Ashley, che faceva lentamente il suo ingresso nel soggiorno con un vassoio in mano. «Il tizio russo? Non preoccupatevi, è caricato a salve***. Mia zia lo tiene lì per scacciare i conigli che si mangiano i bulbi e che scavano buche nel giardino. Gli spara addosso dalle porte-finestre».

«Una cosa un po’…texana, non vi pare?», commentò Felix, affrettandosi verso la bionda per aiutarla con il vassoio. «Vi dirò, non è che io non apprezzi uno stile di vita un po’ western, ma avere un fucile proprio davanti agli occhi è un po’ sconcertante per quelli di noi che preferiscono stare il più possibile alla larga dai pensieri morbosi».

«Capisco cosa vuoi dire», rispose Ashley. «Probabilmente mia zia dovrebbe tenerlo riposto in un armadietto o qualcosa del genere. Però apparteneva a mio nonno, perciò è una specie di cimelio di famiglia. E l’orto è giusto là fuori, oltre quelle porte – beh, per lo meno d’estate – quindi è più pratico averlo a portata di mano».

Tyler accese il fuoco, Ashley versò il tè e offrì i biscotti, e la conversazione si spostò su altri argomenti. Le multe quando metti la macchina in seconda fila, il costo degli affitti… se mettere il latte prima di versare il tè. Diane taceva, penosa.

«Un po’ di tè?».

Per qualche istante la bruna rimase immobile, senza risponderle. Poi Ashley la picchiettò sulla spalla.

«Vuoi un po’ di tè, Didì?».

«Diane», rispose. Si sforzò di sorriderle. «Comunque sì, grazie mille».

«E tu, Ana?», chiese alla rossa, che stava giocando con una ciocca di capelli.

Il viso della modella si corrugò in una smorfia nauseata. «Ehm…bleah. Senti, per caso hai del caffè? Avrei dovuto dirtelo prima, il tè mi fa abbastanza schifo».

Ashley assunse un’espressione desolata.

«Mi dispiace tanto. Forse ho…no. Non lo abbiamo. Probabilmente adesso è troppo tardi per poter comprare qualsiasi cosa: Denver si trova ad una quarantina di minuti e ormai i negozi saranno chiusi. Perdonami, davvero, il fatto è che pensavo a Mal, mentre facevo la spesa, e so che a lui il tè piace da matti…non ho proprio pensato che…».

«Ok, ho capito», la interruppe la rossa brusca. Prese la tazza offerta e ne bevve un sorso. Era ustionante e aveva il solito sapore disgustoso del tè…disgustoso come il latte bollito e la salsa rosa sopra il salmone.

«Il festeggiato dovrebbe arrivare tra poco», disse Ashley con un’occhiata all’orologio. «Volete che diamo un’occhiata alle attività in programma, in modo da sapere cosa ci aspetta?».

Annuirono tutti quanti e l’organizzatrice tirò fuori una lista. Diane percepì, più che udirlo, il sospirone di Anastasia.

«Dunque, Mal dovrebbe essere qui alle sei, ora in cui pensavo che potremmo berci qualcosina – ho dello champagne in frigo, e c’è anche l’occorrente per preparare dei mojito, dei margarita e via dicendo – e poi, anziché disturbarci a sederci a tavola per una cena vera e propria», quella notizia Anastasia si rabbuiò visibilmente. «Ho preso delle pizze e un po’ di salsine e stuzzichini, possiamo piazzarli lì sul tavolo e darci dentro. Nel frattempo si potrebbe fare qualche gioco per cominciare a conoscersi un po’. Mal sapete tutti chi è, ovvio, ma forse è meglio che prendiate confidenza anche tra di voi…giusto? Anzi, credo che sia meglio che ognuno inizi con una rapida presentazione di sé prima dell’arrivo di Mal, che ne dite?».

«Non sarebbe meglio aspettare Emily?», intervenne Diane. La modella cercò di nascondere un sussulto. Si era completamente scordata di lei, chissà perché era così in ritardo. Forse non riusciva a trovare la strada per arrivare, forse aveva avuto un piccolo contrattempo.

O forse…

Si girò, osservando per brevi istanti quegli enormi pini che sembravano quasi volerla attaccare da un momento all’altro. Si affrettò a rigirarsi.

No, no, no! Ma cosa diamine andava a pensare? Era tutta colpa di quella dannata casa e della dannata foresta che la circondava se stava diventando così paranoica! Emily sarebbe arrivata da un momento all’altro, ne era più che certa.

«Mh, a questo punto non serve più aspettarla. Su, su, cominciate! Poi lei si arrangerà».

Gli altri si guardarono tutti a vicenda come per farsi un’idea di chi avessero di fronte, domandandosi chi avrebbe avuto il coraggio di parlare per primo. Per la prima volta Anastasia si sforzò di capire quale ruolo avessero Felix, Tyler e Ashley nella vita di Malcolm, e non fu per niente facile.

Nel caso di Felix era abbastanza evidente: con i suoi abiti costosi ed il suo lavoro, non era difficile comprendere che cosa Malcolm cercasse da lui. Era un amante delle belle ragazze e voleva sempre conoscere gente nuova, gente interessante. E Felix probabilmente era una bella porta per chi desiderasse un’ampia vita sociale.

Ashley e Tyler erano più un mistero, al riguardo. Sembravano persone troppo buone per frequentare uno come Malcolm Wilford. Un accenno fatto da Tyler nei suoi messaggi precedenti sul gruppo di Whatsapp le aveva indotto a pensare che facesse l’avvocato, o forse il commercialista, e in effetti aveva vagamente l’aria di una persona che si sarebbe sentita più a suo agio in giacca e cravatta. Nonostante le scarpe ed il maglione firmati, i jeans che aveva indosso erano quelli che Anastasia avrebbe definito “stile papà”: di un blu anonimo, erano un modello che non donava affatto alla figura, sembravano quasi premaman****.

I jeans di Ashley erano invece di marca, ma sembravano più maschili che femminili ed era come se lei non si sentisse a suo agio nell’indossarli, e nel complesso sembrava che tutto il suo abbigliamento fosse stato acquistato ai saldi di fine stagione senza curarsi che valorizzassero il suo corpo. La rossa la osservò mentre si tirava goffamente giù la maglia nel tentativo di nascondere la morbida protuberanza grassoccia sopra la cintura troppo stretta dei pantaloni: era il genere di indumento che Malcolm avrebbe scelto per sé, però solo una persona crudele avrebbe potuto suggerirlo ad Ashley.

Nell’insieme, Ashley e Tyler rappresentavano uno strano contrasto con Felix. Era difficile immaginare il Malcolm che conosceva insieme all’uno o all’altra: che fossero solo amici della scuola superiore, rimasti in contatto anche in seguito per una sorta di inerzia? Conosceva quel tipo di amicizie: quelle che nascono verso l’inizio del tuo primo anno di liceo e poi, col passare del tempo, ti accorgi di non avere niente in comune a parte la condivisione delle stesse aule, e ciò nonostante continui, per qualche strano motivo, a scambiarti con i loro biglietti d’auguri e i “mi piace” su Facebook. Però bisognava dire che non scambiava veri dialoghi con Malcolm da all’incirca un anno. Chissà se adesso il Malcolm che non conosceva era quello amico di Ashley e Tyler?

Mentre osservava le persone sedute in cerchio si rese conto che loro facevano lo stesso con lei: soppesavano gli ospiti che non conoscevano e cercavano di conciliarli con l’immagine mentale che avevano di Malcolm Wilford. La modella sorprese Felix a fissarla con una curiosità che sembrava quasi sconfinare nell’attrazione, per poi abbassare di colpo gli occhi a terra. Nessuno voleva iniziare per primo. Il silenzio si prolungò a tal punto da rischiare di diventare decisamente scomodo.

«Comincio io», disse Tyler. Si passò una mano tra i capelli corti e giocherellò con una catenina che portava al collo, dove vi era infilata una piccolissima croce d’argento, di quelle che si ricevono in regalo ai battesimi. «Mi chiamo Tyler McKibben. All’università frequentavo alcuni corsi con Ashley e la incontravo spesso nei corridoi. È stata lei a farmi conoscere Malcolm. Questo inverno l’ha invitato a Boulder e ci siamo conosciuti per la prima volta. Si è creata subito una certa chimica tra di noi e abbiamo legato subito. Comunque credo di essere io il più grande tra di voi, ho ventisette anni. Felix, tu invece quanti anni hai?».

«Io ventidue», replicò il ragazzo, scuotendosi i capelli tinti.

«Allora sono l’anziano del gruppo. Sono omosessuale, ho un fidanzato e ho appena adottato un bambino, beh, è da tre settimane che sta nel nostro stesso tetto», fece una breve pausa, mentre Anastasia – dietro le sue spalle – strabuzzava gli occhi e mimava il gesto di strozzarsi da sola. Diane distolse lo sguardo, rifiutandosi di stare al gioco.

«Uhm…che altro? Vivo ancora a Boulder, faccio l’avvocato, però da quando è arrivato il mio angelo in casa mi sono preso una pausa; oggi sarà il mio fidanzato ad occuparsi di Lukas. Lukas è il nostro bimbo. È…oh, d’accordo, forse non avete voglia che io la faccia troppo lunga sull’argomento. Diciamo solo che è un bambino adorabile».

Un gran sorriso gli illuminò il volto alquanto preoccupato, e nelle sue guance si formarono due profonde fossette. Anastasia ebbe una fitta al cuore. Non si trattava del desiderio di un bambino tutto suo – non avrebbe voluto assolutamente restare incinta, per nessun motivo – bensì solo una strana invidia per quell’amore e quella felicità completa e senza complicazioni. Dovevano essere una famiglia davvero felice.

«Su, avanti, mostraci una foto», la esortò Diane. Tyler sorrise di nuovo con le sue fossette e tirò fuori lo smartphone.

«Vabbé, se proprio insistete… Ecco, in questa qui era appena arrivato a casa».

C’era l’immagine di lui seduto sui cuscini di un divano bianco. Aveva gli occhi lucidi ed emozionati e sorrideva felice verso il fagotto bianco tra le sue braccia.

Anastasia distolse lo sguardo, e notò Felix fare lo stesso.

«Qui invece c’è lui che mi sorride… Non era il primo sorriso che mi ha fatto, quello non sono riuscito a fotografarlo, ma siccome Joseph era a Dubai per lavoro, ho cercato di scattargli comunque una foto per potergliela inviare via Whatsapp. Quest’altra foto è più recente: solo che non si vede bene in faccia, si è messo la scodella in testa, che buffo!».

Era irriconoscibile, rispetto a quello della prima foto: qui si vedeva una creatura grassottella e ridente, il visetto paffuto semioscurato da una ciotola di plastica arancione e da chissà quale tipo di sbobba verdognola che gli colava giù per le guance rotonde.

«Buffo davvero!», esclamò Ashley. «Anche se è vostro figlio adottivo, in questa foto assomiglia stranamente a Joseph, non trovi?».

«Oddio santo», commentò Felix, divertito e inorridito al tempo stesso. «Benvenuti nella categoria dei genitori. Siete pregati di lasciare gli abiti da lavare a secco fuori dalla porta».

Tyler mise via il telefonino, con il sorriso ancora sulle labbra.

«Sì, in effetti funziona un po’ così. Però è incredibile quanto in fretta ci si abitui. Ora mi sembra normale controllarmi i capelli e i vestiti in cerca di grumi di pappa, prima di uscire. Comunque basta parlare di lui. Ho già abbastanza nostalgia di casa per conto mio, non vorrei aggravarla ancora di più. Perché non ci racconti qualcosa su di te, Diane? Da quello che so sei l’ex del festeggiato, ma nonostante ciò avete mantenuto ottimi rapporti», si voltò verso il punto in cui la bruna era seduta, accanto alla stufa, le braccia strette intorno alle ginocchia. «Ricordo di aver sentito la tua voce…forse qualche mese fa, mentre ero a telefono con Malcolm, non è vero? Oppure me lo sono immaginato?».

«No, hai ragione, infatti anche a me la tua voce all’inizio mi era sembrata vagamente familiare. Se non sbaglio è successo intorno agli inizi di maggio… Ti risulta?».

Tyler annuì.

«Per chi non lo sapesse, io sono Diane, l’ex di Mal e una compagna di classe di Anastasia Hamilton», indicò la sua amica con l’indice della mano destra, per poi continuare. «Ho diciotto anni e mi piacciono tante cose. La musica rock, la fotografia, i cortei, le rivoluzioni», dopo aver pronunciato l’ultima parola, le si illuminarono per un attimo gli occhi. «Ho incontrato Mal due anni fa, durante uno sciopero, ed è stato quasi amore a prima vista. Comunque, in teoria avrei dovuto finire il liceo l’anno scorso*****, ma sono stata bocciata il primo anno. Anche se…diciamo che sono stata bocciata perché ho avuto dei problemi personali. Sapete, sono nata e vissuta a Newark, in Ohio. Poi, dopo…l’esperienza, diciamo, del primo anno, io e la mia famiglia ci siamo trasferiti a Denver…».

Si passò le mani sul viso e Anastasia notò una leggera incrinatura nella sua corazza da ragazza alternativa e rivoluzionaria. Sapeva che il suo primo anno di liceo l’aveva colpita nel profondo, ma nonostante ciò non aveva mai voluto parlarne, se non per fare qualche battuta sul cibo. La rossa si era sentita spesso arrabbiata: era la sua migliore amica, no? E allora perché si ostinava a non raccontarle quell’episodio?

Ma d’altronde, la poteva comprendere da una parte. Nemmeno Diane conosceva tutta la sua storia. Nemmeno lei.

«Comunque», riprese con un sorriso forzato. «Ora tocca a te, Felix».

«Sì…», disse il ragazzo dai capelli tinti di blu con un’occhiata leggermente pensierosa. «Beh, tanto per cominciare, la prima cosa che dovete sapere di me è che mi chiamo Felix, non Fabian. Felix Albert Burgress. Ho origini tedesche e sono un fotografo, o meglio, un Fashion Photographer. Pur non godendo di immensa fama, ho fatto parecchi scatti importanti a dei modelli e ho vinto un paio di premi. Sono un grandissimo amante della musica, ma soprattutto della fotografia. Il mio fotografo preferito è probabilmente Robert Capa… Avete mai sentito parlare di lui?». Ci fu una pausa. Anastasia scosse subito la testa con fare menefreghista. Felix spostò gli occhi su tutti sperando in un cenno di assenso, finché il suo sguardo non si posò speranzoso su Diane. A malincuore, la bruna scrollò leggermente le spalle, provando un senso di vergogna.

Una fotografa che non conosce Robert Capa, chissà che figura di merda che ho fatto!, pensò mordicchiandosi il labbro inferiore.

Il ragazzo emise un piccolo sospiro. «Oh, beh, immagino che chi non abbia fatto un’accademia privata specializzata in fotografia, non faccia granché caso a chi abbia scattato una determinata foto. Comunque ho conosciuto Mal nel mio studio, è stato un incontro parecchio buffo a dire il vero, ma ci è voluto davvero poco per diventare inseparabili… Oh, già, la mia passione per la fotografia è nata a sei anni, quando vidi la famosa foto che scattò l’astronauta Michael Collins».

«Michael Collins», gli fece eco Ashley, annuendo tutta seria. Vista la precedente ammissione di ignoranza di Diane, pensò che poteva almeno fingere di conoscere quella foto, così annuì a sua volta, forse con un filo di entusiasmo di troppo, tanto è vero che le scivolò via il fermaglio per i capelli. Anastasia sbadigliò annoiata e si alzò per uscire dalla stanza senza dire una parola.

«Vediamo…ho ventidue anni e abito in un quartiere abbastanza grazioso di Denver… Ho un cane di nome Spartacus, Sparky per gli amici. È un labrador di due anni, assolutamente adorabile ma probabilmente non proprio l’ideale per un maniaco del lavoro come me che viaggia di continuo. Per fortuna ho una dogsitter eccezionale. Io sono vegetariano… Che altro dirvi? Oddio, non è terribile? Sto parlando di me da due minuti soltanto e ho già finito gli argomenti interessanti. Ah, sì, ho un tatuaggio sulla scapola. Tutto qui».

Dopo una trentina di secondi tornò Anastasia e si risedette al suo posto silenziosa. Aveva in mano la borsa del tabacco e si stava rollando una sigaretta con una mano sola.

Felix sorrise, per poi domandarle: «E tu, Ana, cosa ci racconti?».

Per qualche insondabile motivo – forse dovuto ai suoi grandi occhi azzurri che la fissavano, o per il suo sorriso allegro che sembrava genuinamente sincero – la rossa avvampò e le sfuggì di mano la sigaretta, cosicché si rovesciò un po’ di tabacco sul ginocchio. Dopo aver raccolto la sigaretta tra l’indice e il pollice, alzò lo sguardo notando gli occhi di tutti addosso, soprattutto quelli di Felix, che in quel momento trovò particolarmente affascinanti.

Si costrinse a parlare.

«Non ho molto da dire. Ho sedici anni, quasi diciassette. I miei genitori sono divorziati da quando ne avevo quattro. Mio padre è un petroliere americano e mia madre è un’attrice irlandese. Per questo ho i capelli rossi», si sforzò di ridere, nonostante non ci fosse niente di divertente nelle sue parole. «Io…uhm…ho conosciuto Malcolm grazie a Diane. Lui…».

Lui ha sparso voci false sulla persona che amavo.

Lui ha messo in cattiva luce la persona che amavo.

Lui è riuscito a far credere a tutta la città che la persona che amavo fosse un assassino.

Ed io non so perché sono qui.

Non so perché sono qui.

Deglutì il groppo che aveva in gola.

«Lui ed io…cioè, noi…ci siamo persi di vista dopo che si è lasciato con Diane, credo», si sentiva la faccia tutta rossa e calda, la stufa stava cominciando a buttar fuori calore sul serio. Si sistemò una ciocca di capelli dietro le orecchie, palpandosi il cuoio capelluto caldo e umido al di sotto. «Sono una modella, ho posato per molte riviste di moda e di bellezza. Il mio successo più grande è stato posare per la rivista Vanity Fair. Oh, sì, e anche per pubblicizzare il nuovo profumo di Dior. Mi piace molto fare shopping, rilassarmi e andare in discoteca».

«E riesci a mantenerti completamente solo facendo servizi fotografici?», Felix le diede una pacca amichevole sulla spalla. «Complimenti!»

Anastasia notò per un attimo il sorrisetto di Diane e i suoi occhi color caffè che si spostavano velocemente da lui a lei, e viceversa. Che li stesse vedendo come una possibile coppia? Ma cosa diamine le saltava in mente?

La sedicenne si affrettò a spostare lo sguardo di nuovo verso il fotografo. «Beh, non completamente. Vivo ancora con mio padre, che mi dà ancora la paghetta».

«E sentiamo, una bella ragazza come te avrà sicuramente un fidanzatino», intervenne all’improvviso Ashley, con il tono di una che stava parlando ad una bambina di tre anni. «O almeno, immagino che ti piaccia qualcuno, no?», fissò i suoi occhi chiari sulla modella, e questa si sentì arrossire. Che razza di domanda era, quella? Cosa gliene importava a lei della sua vita sentimentale? Sollevò di nuovo la mano per sistemarsi una ciocca, ma si fermò a metà. Se lo stava immaginando, oppure le era parso di scorgere una punta di malizia nei suoi occhi? Che fosse al corrente di qualcosa?

Si sforzò per qualche istante di trovare una risposta, ma non era sicura che non le sarebbe uscita di bocca una bugia bella e buona, come era solita a fare. L’amore era un tema davvero difficile per lei. Mentre annaspava in cerca di qualcosa da dire, in un silenzio che diventava sempre più scomodo a ogni secondo che passava, si rese di nuovo conto di quanto tutta quella situazione fosse sbagliata. Che diavolo ci stava facendo lei in quel posto? Perché stava festeggiando uno sporco bastardo come Malcolm Wilford? Malcolm Wilford!

«Credo che non tutti possiamo avere un lieto fine come Tyler», commentò alla fine Diane, interrompendo il silenzio e facendo cenno al ragazzo di colore. «O almeno, io in amore ho sempre avuto una sfiga da far paura».

Anastasia la guardò con gratitudine e l’amica le fece l’occhiolino.

«Ma ancora non capisco», commentò Ashley, insistente. «Se lavori come modella, sicuramente avrai tanti spasimanti dietro. Perché non mettersi con qualcuno?».

La rossa la guardò di nuovo, stavolta con freddezza. Perché non lasciava cadere l’argomento, accidenti a lei? Comunque non c’era niente da dire, almeno non senza avere l’aria da pazza.

«Non lo so. Forse non credo nell’amore e basta», rispose finalmente, cercando di mantenere un tono di voce piacevole, tuttavia si rese conto di quanto fosse tirato il suo sorriso. Poteva solo pregare che la sua espressione non fosse completamente finta come la sentiva lei.

«Quindi nessun fortunato nella tua vita?», domandò Tyler, con un sorriso sereno alquanto contagioso.

«Soltanto il mio gatto ciccione Muffin», il suo obbiettivo era di suscitare una risata, cosa che in effetti avvenne, ma si trattò di un riso esile e poco brillante, con una nota pietosa in sottofondo.

«E tu, Ashley?», domandò la modella, alzando un sopracciglio e cercò di trasformare la sua espressione infastidita in una falsamente curiosa. Ma come si era permessa di farle una domanda del genere davanti a tutti? «Parlaci un po’ di te», aggiunse con un tono estremamente mieloso.

Adesso tocca a me smerdarti, grassona di merda.

«Beh, io ho conosciuto Mal il primo anno delle scuole medie. Frequentavamo lo stesso corso di matematica. Quando entrai in classe lo trovai lì, seduto di fronte al professore, intento a succhiarsi una ciocca di capelli: avete presente quanto è buffo quando si attorciglia i suoi capelli neri sul dito e poi si mette a mordicchiarli? Tenerissimo».

Diane cercò di rammentare se il suo ex avesse mai fatto una cosa del genere. Sembrava proprio disgustoso. Le tornò alla mente un vago ricordo: Malcolm, davanti al cancello del suo liceo, ad aspettarla mentre si attorcigliava i capelli neri sul dito. Quindi magari era vero.

«Aveva indosso quel berretto nero…forse anche adesso ce l’ha, chissà come fa ad entrargli ancora? La mia testa si è molto ingigantita, dai tempi delle medie! Comunque mi avvicino per salutarlo e lui mi fa: “oh, carino il tuo foulard”, e da quel momento siamo diventati amici per la pelle, e lo siamo tuttora. È che io…insomma, lui è proprio fantastico, sapete? È stato sempre di grande ispirazione per me, di grande sostegno. Non sono in tanti che…», si interruppe, la voce strozzata, e con grande orrore Anastasia si accorse che aveva gli occhi lucidi. «Beh, lasciamo perdere. Scusatemi. Comunque Mal è la mia roccia, e farei qualsiasi cosa per lui. Davvero qualsiasi cosa. Perciò voglio che questo sia il miglior compleanno della storia, d’accordo? Voglio che sia perfetto. Significa tantissimo per me. È…è l’ultima cosa, diciamo, che posso fare per lui. Mi capite?».

Aveva le lacrime agli occhi e parlava con un’intensità tale da risultare quasi terrificante. Guardandosi attorno la modella si accorse che non era l’unica ad essere sorpresa: Felix sembrava decisamente allarmato, e le sopracciglia di Diane erano sparite sotto la sua frangetta volutamente scompigliata. Solo Tyler appariva del tutto imperturbabile, come se fosse normale mostrare questo livello di emotività parlando del proprio migliore amico.

«Guarda che sta per compiere ventiquattro anni, non per andare di nuovo in prigione», commentò secca Anastasia, ma Ashley non la sentì, oppure ignorò il suo commento, limitandosi a tossire e ad asciugarsi le lacrime.

«Scusate. Oddio, sono una tale sentimentalona! Guardate in che stato mi sono ridotta!».

«E…Ehm, comunque tu che cosa fai nella vita?», le domandò cortesemente Felix. Mentre lo diceva Anastasia si rese conto che Ashley aveva parlato solo di Malcolm, senza raccontare nulla di sé.

«Oh», la bionda abbassò lo sguardo a terra. «Beh, insomma, un po’ di questo e un po’ di quello. Io…mi sono presa un po’ di tempo dopo l’università. Non mi trovavo in una bella situazione. Mal è stato eccezionale. Quando io…beh, lasciamo stare. Il fatto è che lui è…voglio dire, è il miglior amico che si possa avere, sul serio. Oddio, ma perché mi comporto così?», si soffiò il naso e si alzò in piedi. «Qualcuno vuole dell’altro tè?».

Scossero tutti la testa e lei, ripreso in mano il vassoio, si diresse verso la cucina. Tyler tirò fuori il telefono e controllò nuovamente il segnale.

«Che stranezza, però», commentò la modella di punto in bianco.

«Che cosa?», Tyler alzò lo sguardo.

«Ashley e, aperte virgolette, il compleanno perfetto, chiuse virgolette», scandì Anastasia. «Non vi sembra che sia stata un po’ troppo…intensa?».

«Beh», fece Tyler. Lanciò uno sguardo fuori dalla porta che dava in cucina, e abbassò la voce. «Sentite, non so se dovrei raccontarvelo, ma non mi sembra nemmeno il caso di girarci troppo attorno. Ashley ha avuto una specie di esaurimento nervoso, il terzo anno di università. Non ho idea di cosa sia successo esattamente, fatto sta che ha abbandonato gli studi prima degli esami finali, e che io sappia non si è più laureata. Ecco perché è un po’, come dire, sensibile riguardo a quel periodo. In realtà non le piace parlarne».

«Ah, okay», rispose Anastasia. Però Diane sapeva a cosa stesse pensando. Ciò che aveva allarmato le due amiche non era stata la riservatezza di Ashley in merito a quanto era accaduto dopo l’università: quella era la parte meno bizzarra dell’intera faccenda. Era tutto il resto ad essere inquietante.

«Comunque, dov’è andata a finire questa Emily?», chiese all’improvviso Felix, mettendo entrambe le mani dietro la testa. Anche se lo disse in tono scherzoso, la frase che susseguì fece trasalire Anastasia Hamilton.

«Spero non sia stata ammazzata!»

 

 

 

 

 

Note dell’autrice: Finalmente. Finalmente. Dopo dieci, dieci pagine di Windows ho finito anche il sesto capitolo. Sono molto contenta del risultato, anche se sono abbastanza sicura di aver commesso qualche errorino qua e là, quindi in caso notaste qualche svista vi pregherei di avvisarmi.

Sinceramente non mi va di divulgarmi troppo, perché sono abbastanza stanca, però ammetto che mi piacerebbe tantissimo ricevere la vostra opinione su questo capitolo, perché ci ho messo davvero l’anima!

Bah, cosa sarà successo ad Emily Crownover?

Oh, e tanto per dircelo, spero che gli altri personaggi della casa(?) vi piacciano, o almeno vi incuriosiscano. Eheh, ma la sottoscritta non ha intenzione di spoilerare proprio un bel niente.

Aspetto con ansia i vostri pareri.

Au revoir,

Coffee Pie.

 

 

 

 

*Paul Smith: stilista britannico il quale vende capi firmati molto costosi.

** Čechov: “Il Fucile di Cechov” è la tecnica letteraria nella quale un elemento viene introdotto subito nella storia, e la cui funzione viene svelata solo in seguito. Una frase famosa è – appunto – questa: se nel primo capitolo dici che c'è un fucile appeso al muro, nel secondo o terzo capitolo devi assolutamente farlo sparare. Se il fucile non viene usato, non dovrebbe neanche starsene lì appeso.

***…caricato a salve: Lo sparo a salve può essere di due tipi: uno caratterizzato dalla struttura di un'intera pistola dalla canna otturata (in cui possono essere inserite cartucce fatte apposta per il modello di arma da fuoco), che dunque riproduce l'esplosione delle polveri interna alla pistola; il secondo (del quale è stata vietata la vendita a causa della pericolosità), caratterizzato invece da semplici proiettili progettati apposta per esplodere in microscopiche schegge appena fuoriusciti dalla canna (queste munizioni sono utilizzabili anche in pistole progettate per recare danno). Entrambi i tipi non sono in grado di danneggiare ed hanno solo la funzione di riprodurre il suono di una pistola "vera". (Wikipedia)

****premaman: intende dei jeans che di solito vengono usati dalle donne in gravidanza.

*****in teoria avrei dovuto finire il liceo l’anno scorso: in America la scuola superiore dura quattro anni, non cinque.

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Capitolo 7
*** Dietro la maschera ***


Part I

Part I

Chapter VII

Dietro la maschera

 

 

La confessione è sempre debolezza. L’anima solenne mantiene i propri segreti, e riceve la punizione in silenzio.

Dorothea Lynde Dix

 

 

«Ashley», disse Anastasia facendo capitolino dalla porta della cucina. La bionda stava mettendo le tazze nella lavastoviglie. «Hai notizie di Emily?».

«No, non ancora. E lo trovo un comportamento davvero maleducato», richiuse con forza lo sportello. «Che c’è? Posso darti una mano in qualcosa? Mi dispiace tanto per il caffè».

«Va bene così. Senti, poi mi stavo giusto chiedendo: a che ora avevi detto che doveva arrivare Malcolm?».

«Verso le sei, credo», alzò lo sguardo verso l’orologio appeso al muro della cucina. «Quindi abbiamo ancora un’ora e mezza da ammazzare».

«Okay, beh, volevo sapere se c’era tempo per una corsetta».

«Una corsetta?», parve stupita, e per un attimo era sembrata quasi allarmata. «Beh, immagino di sì…ma si sta facendo buio».

«Resterò nelle vicinanze. È solo che…», la rossa spostò il suo peso sull’altro piede, pensierosa. Non riusciva a spiegarselo bene a stessa, figuriamoci ad un’altra persona, fatto stava che aveva bisogno di uscire, di andare via.

Quella casa di vetro la stava opprimendo, più i secondi passavano, più sentiva il bisogno innaturale di correre. Quella situazione le sembrava talmente ridicola e irreale, aveva bisogno di starsene da sola con il gelido vento della foresta a riflettere su ciò che stesse accadendo, per prepararsi psicologicamente all’arrivo di Malcolm Wilford. Senza dimenticarsi di Emily: per qualche motivo a lei ancora più ignoto, era quasi convinta che la cheerleader della sua scuola fosse lì, da qualche parte, e sperava quasi di trovarla durante la sua corsa. Il suo ritardo era dovuto sicuramente a qualcosa, a qualche imprevisto. Forse si era persa. O forse…

«Il tempo ce l’hai, credo», disse Ashley, interrompendo l’orribile immagine che stava per formarsi all’interno del cervello della modella, e lanciò un’occhiata fuori dalla finestra, dove si stava già addensando il crepuscolo. «Però sarà meglio che tu faccia presto. Quando qui cala il buio, infatti, è veramente buio».

«Ci metterò poco, tranquilla. Qual è il percorso migliore?».

«Uhm…farai meglio a prendere il sentiero che scende giù dal bosco… Aspetta, vieni con me in soggiorno, te lo mostro».

Le due tornarono nella sala principale, dove Ashley le indicò dall’enorme finestra un solco ombreggiato in mezzo agli alberi. «Lo vedi quello? È un sentiero che conduce alla strada principale. Lì il terreno e più solido, c’è meno fango rispetto al vialetto d’accesso alla casa. Non dovrai fare altro che seguirlo finché non arrivi all’asfalto, ma poi se fossi in te svolterei a destra lungo la strada e tornerei su dal vialetto, perché nel frattempo si sarà fatto troppo buio per tornare dietro in mezzo al bosco, il sentiero non è recintato e potresti finire nella direzione sbagliata. Aspetta», disse frugando in un cassetto della cucina, da cui tirò fuori un aggeggio simile a un paio di bretelle mal piegate. «Prendila: è una torcia frontale».

Anastasia la ringraziò – nonostante trovasse quel coso orribile e completamente fuori moda – e salì in fretta nella sua stanza per infilarsi la tuta e le scarpe da ginnastica. Diane, sdraiata sul letto con lo sguardo rivolto al soffitto, stava ascoltando una canzone degli Imagine Dragons dal suo iPhone.

«Cosa mi racconti?», le domandò con aria di voler fare conversazione, togliendosi gli auricolari.

«Che quella Ashley è matta da legare. O meglio, è lunatica».

«Si tratta di un termine medico, dottoressa Hamilton?».

«Sì, viene dal latino, ed è collegato alla credenza pagana secondo la quale la pazzia era dovuta al fatto di essere stati investiti dalla luce della luna piena».

Diane scoppiò a ridere, mentre la rossa si toglieva i pantaloncini di jeans firmati e si infilava in fretta gli scaldamuscoli e la felpa.

«Sono una ragazza alquanto pittoresca, direi. Dove sono le mie scarpe da ginnastica?».

«Le ho messe sotto il letto. Beh, in fondo le persone si trasformano in lupi mannari, quando c’è la luna piena. È la stessa cosa, probabilmente. A proposito di pazzia, hai per caso intenzione di uscire?».

«Sì», la modella si chinò per guardare sotto il letto. Le scarpe erano lì, ma irraggiungibili. Si inginocchiò per recuperarle, cercandole a tentoni. La voce di Diane le risultò un po’ ovattata date le coperte: «Ehm…e perché?».

«Vediamo un po’», Anastasia uscì da sotto il letto e si mise a contare i motivi sulla punta delle dita. «Perché non ho mai avuto intenzione di venire qui, perché odio questa casa sperduta nel nulla dove non prende il cellulare manco ad invocare gli dei, perché Ashley è una possibile psicopatica, perché Tyler e la sua famiglia perfetta mi danno la nausea, perché Felix mi sta sul cazzo…oh, ho già detto che non ho mai avuto intenzione di venire qui?».

«Ehi, sei stata tu ad accettare la mia proposta, quindi adesso non prendertela con me», si mise subito sulla difensiva la bruna. «E poi fuori sta un cazzo di buio pesto».

«Non è buio pesto», guardò fuori dalla finestra mentre si allacciava le scarpe. Era abbastanza scuro, ma non del tutto. Il sole era tramontato ma il cielo era ancora limpido ed illuminato da un diffuso chiarore perlaceo ad ovest, e una luna bianca e rotonda stava sorgendo dagli alberi ad est. «Inoltre ci sarà la luna piena, perciò non sarà del tutto scuro nemmeno dopo il crepuscolo».

«Ahhhh», fece all’improvviso Diane, assumendo un’espressione divertita e spaparanzandosi sul letto. «Hai bisogno di riflettere sui tuoi sentimenti contrastanti per un certo Felix?».

«Cosa? No, no, no!», Anastasia scosse la testa, mentre Diane scoppiò a ridere. «L’ho appena conosciuto, quel coglione, e se vuoi un’opinione penso che sia…».

«…dannatamente attraente?», completò la frase l’amica.

«No! Non stavo per dire questo!».

«Ma lo pensi».

La rossa sospirò. «Va bene, è un fico da paura, e leggermente interessante», confessò portandosi le mani ai fianchi e alzando gli occhi al cielo. «Ma non ha niente a che fare con la mia voglia di uscire».

«Ne è davvero certa, cara Miss Anastasia “mi farei aprire come una scatoletta di tonno da un certo fotografo sexy dai capelli tinti di blu” Hamilton?».

«Sicurissima», fece un doppio nodo ai lacci e si rialzò in piedi. «Non continuare a rompere il cazzo, Diane. Ho veramente bisogno di uscire, altrimenti impazzisco, luna o non luna, fotografo o non fotografo».

«Ah. Te la stai cavando davvero così brutta?».

«No», ma in un certo senso era così, anche se non riusciva a spiegarsene il motivo. Non poteva dirle che cosa aveva provato all’idea che degli sconosciuti si fossero messi a frugare nel suo passato: era un po’ la stessa sensazione di quando le veniva stuzzicata una ferita che non era ancora guarita del tutto. Era stato uno sbaglio accettare quell’invito, adesso se ne rendeva conto. Però ormai era bloccata lì finché Diane non avesse deciso di andarsene.

«No, va tutto bene, ho solo voglia di uscire un po’. Adesso. Ci vediamo tra un’oretta».

Anastasia si diresse verso le scale, con la risata beffarda della bruna che la seguiva dietro la porta chiusa e le sue ultime parole le riecheggiarono nelle orecchie.

«Puoi correre quanto vuoi…tanto non riuscirai a fuggire!».

 

Una volta nel bosco la modella respirò una boccata d’aria pulita e frizzante e cominciò gli esercizi di riscaldamento. Si stirò le membra con la schiena rivolta nel garage, lo sguardo verso gli alberi. Il senso di minaccia quasi claustrofobico che aveva provato prima era sparito. Che fosse per via di tutto quel vetro…la sensazione che là fuori potesse esserci qualche malintenzionato intento a guardare dentro senza che loro lo sapessero? Oppure era strana l’atmosfera anonima delle stanze che le ricordava esperimenti da laboratorio, sale d’attesa ospedaliere?

Fuori, si rese conto, la sensazione di sentirsi osservata era sparita.

Cominciò a correre.

Era facile. Sì, facile. Niente domande, niente Emily, nessuno che punzecchiava o ficcanasava, solo l’aria pungente e profumata e l’elastico tonfo dei piedi sul tappeto di aghi di pino. Benché avesse piovuto parecchio, l’acqua non riusciva a ristagnare in questo terreno cedevole e drenante come invece faceva sul vialetto compatto e pieno di solchi, e c’erano poche pozzanghere, e men che meno lunghi tratti melmosi: solo chilometri di sentiero pulito e reso morbido da strati su strati di aghi caduti dalle migliaia di pini, sotto le suole di un paio di scarpe.

Per qualche motivo a lei incomprensibile, in quel momento le ritornò in mente sua nonna materna: quando Anastasia aveva appena sei anni le raccontò che, quando da bambina si arrabbiava con un’amica, scriveva con il gessetto il suo nome sotto le suole e continuava a scarpinare finché non si era cancellato del tutto. Intanto che il gesso si consumava, anche il suo risentimento sbiadiva sempre di più.

Quanto al lei, invece, aveva l’abitudine di ripetere mentalmente un mantra, e continuava a correre finché non riusciva più a sentirlo al di sopra del battito del suo cuore e dei suoi piedi.

Quella sera, pur non essendo arrabbiata con lui – o perlomeno, pur non essendolo più – sentiva il proprio cuore che scandiva il ritmo del suo nome: Malcolm, Malcolm, Malcolm.

Giù, sempre più giù in mezzo al bosco, continuò a correre tra le tenebre che si infittivano ed i suoni sommessi della notte. Vide pipistrelli scendere in picchiata nell’oscurità, e udì animali balzare fuori dalle tane. Una volpe attraversò in un lampo il sentiero davanti alla giovane e poi si fermò, superba ed arrogante, fiutando con il muso affusolato la scia del suo odore mentre la oltrepassava di corsa nella quiete dell’imbrunire.

Facile, sì, quella velocissima discesa simile ad un volo nel crepuscolo. E non aveva paura, nonostante l’oscurità. Lì fuori gli alberi non erano simili a spettatori silenziosi al di là del vetro, bensì amichevoli presenze che la accoglievano nel bosco, facendosi da parte rispettosi dinanzi ad Anastasia che correva, rapida e un po’ ansimante lungo il sentiero.

La sfida sarebbe stata il tratto in salita, quando sarebbe tornata indietro sul vialetto pieno di solchi e di fango, e sapeva di doverci arrivare prima che il buio diventasse così fitto da impedirle di vedere le buche. Perciò si mise a correre più in fretta, al limite delle proprie forze. Niente tempi da rispettare né obbiettivi da raggiungere, non conosceva nemmeno le distanze. Superò con un salto un tronco caduto e chiuse gli occhi per un istante – un folle istante nella luce sempre più fievole – fingendo di essere in volo, senza dover mai toccare terra.

 

Finalmente scorse la strada, un pallido serpente grigio nell’oscurità. All’uscita dal bosco udì il chiurlo sommesso di un gufo e seguì il consiglio di Ashley, svoltando a destra sull’asfalto. Poco dopo udì il rumore di un’automobile dietro di lei e si fermò, facendosi da parte sul ciglio della strada. Non voleva rischiare di essere investita, del resto chi era alla guida non poteva certo aspettarsi di imbattersi in un runner a quest’ora ed in un posto del genere.

L’auto si avvicinò rumorosa nel silenzio della sera, ed Anastasia se la ritrovò quasi addosso, rombante come una motosega. L’abbagliò con la luce accecante dei suoi fari, dopodiché sparì nel buio, la sua presenza segnalata solo dal rosso delle luci posteriori simili a due occhi iniettati di sangue, sempre più piccoli via via che si allontanavano.

Poiché il suo passaggio l’aveva lasciata lì, a sbattere le palpebre, semiaccecata, attese un po’ nella speranza che i suoi occhi si riabituassero all’oscurità, ma ora la notte sembrava infinitamente più nera di qualche minuto fa, e di colpo la modella ebbe paura di finire in un fosso sul ciglio della strada o di inciampare in un ramo. Si frugò in tasca alla ricerca della torcia di Ashley e se la agganciò in testa con una certa fatica. Se la sentiva strana addosso, troppo stretta e al tempo stesso abbastanza allentata da farle temere che potesse cadere a terra non appena avesse ripreso a correre. Ma almeno adesso riusciva a vedere il tratto d’asfalto davanti a sé, con le sue righe bianche sui lati che scintillavano sotto il fascio di luce.

Un’interruzione sulla destra le mostrò che era arrivata in prossimità della svolta, al che rallentò e girò l’angolo. Adesso Anastasia era davvero contenta della frontale e, anziché correre, avanzava più lentamente, girando cauta attorno alle pozze di fango ed evitando i solchi nei quali avrebbe potuto rompersi una caviglia. Ciò nonostante aveva le scarpe parecchio infangate e ad ogni passo le sembrava si trascinarsi dietro un mattone: pulirle sarebbe stata una bella impresa, al suo ritorno. Un vero schifo.

Cercò di ricordarsi la distanza da casa… sei o settecento metri, magari? Desiderò quasi di essere tornata indietro in mezzo al bosco, buio o non buio. Tuttavia, parecchio più in su, la rossa vide la casa simile al fato di un promontorio, con le sue pareti di vetro nudo che risplendevano dorate nella notte.

Il fango le risucchiava i piedi come se volesse trattenerla lì, al buio, perciò digrignò i denti e costrinse le proprie gambe stanche ad accelerare l’andatura. Era arrivata a metà percorso quando udì un rumore giù in basso, sulla strada principale. Un’auto che rallentava.

Non aveva un orologio e aveva lasciato il cellulare in casa, ma di certo non potevano essere già le sei, vero? Impossibile che avesse corso per un’ora, le era sembrato molto meno tempo.

E invece eccolo lì, il rumore del motore mentre l’auto svoltava nel vialetto e poi ancora il rombo quando la persona alla guida inserì una marcia più bassa per arrancare su per la salita, rimbalzando da una buca all’altra.

Anastasia si appiattì contro la siepe per lasciarla passare, schermandosi gli occhi contro il bagliore dei fari e sperando di non beccarsi schizzi di fango al suo passaggio, ma con sua grande sorpresa l’auto si fermò, con un’esalazione di gas di scarico simile ad una nube bianca contro la luna, dopodiché udì il ronzio di un finestrino elettrico e venne investita da una canzone degli Arctic Monkeys al massimo volume, subito abbassato.

La ragazza avanzò di un passo con il cuore che aveva ripreso a battere forte, come se avesse corso molto più in fretta del normale.

La torcia era regolata in modo da puntare a terra per illuminare il cammino, più che per chiacchierare con qualcuno al buio, e non riuscendo a tirarla su, se la sfilò dalla testa e puntò il suo fascio contro il viso del ragazzo dentro l’auto.

Non che ne avesse bisogno, però.

Sapeva già chi fosse.

Malcolm Wilford.

«Hamilton?», domandò, quasi incredulo. Con la luce dritta negli occhi, sbatté le ciglia e se li riparò con la mano. «Wow. Sei veramente tu? Non sapevo che… Cosa ci fai qui?».

Silenzio.

Per qualche istante Anastasia non capì cosa stesse succedendo. Che si fosse verificato un orribile errore? Era possibile che lui non l’avesse affatto invitata, che fosse stata solo una stupida idea di quella Ashley?

«Io…beh, insomma, il tuo compleanno», borbottò la rossa. «Per caso tu non…».

«Questo lo so, che cogliona che sei!», scoppiò a ridere, con una folata nervosa di fiato bianco nell’aria fredda. «Volevo dire: cosa ci fai qua fuori? Ti stai forse allenando per una spedizione polare o qualcosa del genere?».

«Stavo facendo una corsetta», rispose quella, cercando di farla sembrare la cosa più normale del mondo. «E poi non fa t-tanto freddo. Freschino, piuttosto», e invece era parecchio infreddolita, ora che stava ferma, e smentì le sue ultime parole rabbrividendo convulsamente.

«Forza, sali, ti do un passaggio su fino a casa», si sporse avanti e aprì lo sportello dalla parte del passeggero.

«Ho addosso…le scarpe che ho addosso, sono tutte infangate…».

«Non preoccuparti, è una macchina a noleggio. Adesso salta su, prima che ci congeliamo entrambi».

Anastasia girò attorno alla macchina e, una volta dentro, il calore prodotto dall’impianto di riscaldamento si diffuse di colpo nella felpa e negli scaldamuscoli freddi e impregnati di sudore. Siccome il fango le si era infilato addirittura nelle scarpe, adesso aveva le dita dei piedi immerse in quella sostanza viscida. La ragazza storse le labbra, aveva voglia di gridare per il disgusto.

Malcolm inserì di nuovo la marcia e mise a tacere Do I Wanna Know? con un colpetto del dito.

Il silenzio diventò tutto ad un tratto assordante.

«Dunque…», disse il ragazzo guardandola di sbieco nello specchietto retrovisore.

«Dunque…», gli fece eco prontamente lei. Per quanto ci provasse, nemmeno in quel momento riusciva ad apprezzare la compagnia di Malcolm. Perché doveva essere schiava del passato fino a tal punto? Perché non poteva guardare avanti e basta?

«È da tipo agosto che non ci si vede», scosse i capelli neri, tamburellando le dita sul volante. «Però caspita, cioè…mi fa piacere rivederti, Hamilton».

La ragazza non rispose.

Aveva solo voglia di chiedergli come mai si trovasse lì. Perché lei? Perché dopo tutto quello che era successo?

Perché? Perché? Perché?

Però non lo fece. Anastasia non aprì la bocca di un millimetro, limitandosi a starsene seduta con lo sguardo fisso alla casa via via che si avvicinavano.

«Mi fa davvero piacere rivederti», ripeté. «Allora, so che hai posato per Dior, ultimamente…giusto?».

«Sì», rispose. Le parole successive suonarono false e stonate, come se stesse mentendo, o raccontando storie a proposito di qualcun altro, un lontano parente, magari. «Sì, ho posato per Dior all’inizio di questo settembre».

«L’ho sentito dire, ho letto una tua intervista su una rivista di moda. Io sono…davvero contento per te. È straordinario, sai? Dovresti esserne orgogliosa».

«Ho posato insieme ad altre ragazze, quindi alla fine non è niente di così speciale», la frase le uscì di bocca con una bizzarra eco di amarezza, senza che ne avesse intenzione. Sapeva di essere bella, di essere sicura di sé e fortunata. E lavorava sodo pur di apparire ancora più bella agli occhi degli altri. Doveva essere orgogliosa di stessa, e infatti lo era. Lo era sempre stata.

«E tu invece?», riuscì a dire.

«Sono da poco diventato barista in una discoteca nel centro di Denver».

Discoteca, alcol e musica. Il lavoro perfetto per lui. Anastasia sorrise: un sorriso quasi autentico, non del tutto falso stavolta.

«Sono…molto felice», soggiunse lui piano. «E poi senti, anche se frequentiamo comitive diverse, possiamo dire che entrambi all’Old Denver’s Tales ne abbiamo viste e fatte di tutti i colori, non ti pare?», le lanciò un’occhiata nella spettrale luce verdognola proveniente dal cruscotto. «E chi se le scorda più tutte quelle ubriacature…le canne…quella volta in cui ero così strafatto che mi sono spogliato e ho ballato nudo sul bancone…».

«Quella volta in cui venisti buttato fuori a calci in culo dalla proprietaria…», ribatté Anastasia, e poi desiderò di non aver fatto un commento così sprezzante. Perché? Perché era così sulla difensiva?

Ma Malcolm si limitò a ridere.

«Che figura di merda! Sono sicuro che qualche stronzo ha ancora il video di me che ballo nudo».

«Chi lo sa?», sorrise vagamente la rossa alzando le spalle.

I due restarono in silenzio nell’ultimo tratto del vialetto, durante il quale Malcolm dovette guidare con ancora più cautela a causa dei solchi sempre più frequenti, e finalmente arrivarono sullo spazio ghiaioso davanti alla casa, dove il giovane parcheggiò con una manovra fluida tra l’auto a noleggio della rossa e la Land Rover di Ashley.

Malcolm spense il motore e per qualche istante rimasero seduti nella macchina buia a contemplare la casa, e le persone che se ne stavano in bella mostra al suo interno come attori su un palcoscenico, come aveva detto Felix. C’era Ashley tutta affaccendata in cucina, china sul forno, mentre Tyler era chino sul telefono nel salone. Felix invece guardava delle foto all’interno della propria macchina fotografica, sprofondato nel divano giusto di fronte alla grande vetrata. Diane non si vedeva da nessuna parte: molto probabilmente – con grande invidia da parte della rossa – era sul balcone a fumarsi una paglia.

Perché mi trovo qui? pensò di nuovo, stavolta in preda ad una sorta di agonia. Perché sono venuta?

A quel punto Malcolm si voltò verso di lei, il viso illuminato dalla luce dorata che usciva a fiotti dalla casa.

«Hamilton…», cominciò lui, proprio mentre la modella diceva: «Ascolta…».

«Che c’è?», domandò Malcolm. Lei scosse la testa.

«No, vai prima tu».

«Parla tu prima, davvero. Non era importante».

Tutto ad un tratto il cuore di Anastasia prese a battere velocemente e pensò all’unica domanda alla quale desiderasse una risposta in quel momento.

Ora o mai più.

«Perché, Wilford?», gli chiese di punto in bianco, e lui alzò gli occhi grigi, il viso pallido nell’oscurità.

«Perché cosa?».

«Perché mi trovo qui?».

«Oh, merda», abbassò lo sguardo sulle mani. «Sapevo che me lo avresti chiesto. Forse non mi crederesti, se ti dicessi per dimenticare il passato e diventare amici e tutto il resto».

La ragazza scosse la testa.

«Non è per quello, vero? Hai avuto un anno per rimediare, se proprio lo avessi voluto. Perché proprio ora?».

«Perché…», tirò un gran respiro, e quando Anastasia realizzò che fosse molto nervoso si stupì più che mai. Le sembrava quasi impossibile: non era mai accaduto che lui non avesse il pieno controllo di sé; era sempre stato bravo con le parole, forse persino più di lei. E Anastasia era già discretamente brava nel manipolare le persone.

«Perché…», ripeté, sfregiandosi le mani sudate una all’altra, osservandosele, come se la risposta fosse lì, da qualche parte tra la pellicina che si stava scorticando. Iniziò a torcersi le dita. «Perché ho pensato che meritavi di saperlo. Meritavi che te lo dicessi io, faccia a faccia. Ho promesso…ho promesso a me stesso che te lo avrei detto in faccia».

«Che cosa?», la modella si sporse in avanti.

Non era spaventata, solo perplessa. Aveva dimenticato le sue scarpe bagnate e luride, e il puzzo di sudore emanato dai propri indumenti. Ora non esisteva più niente, a parte il viso preoccupato di Malcolm, pieno di una nervosa vulnerabilità che la giovane non gli aveva mai visto prima d’ora.

«Giorno dopo giorno non posso fare a meno di sentirmi in colpa, perché sento come se sia iniziato tutto da me», proseguì. Si guardò le mani mentre Anastasia si limitava a fissarlo confusa. «Sai, neanche quando ero un bambino mi sono comportato bene. Ero cattivo, mi piaceva prendere in giro gli altri, quelli diversi da me e dai miei coetanei. Davo loro soprannomi crudeli, rubavo le loro merendine, sputavo addosso ai loro faccini innocenti e qualche volta li picchiavo. Così, per noia, Hamilton. Solo per noia».

«Dove vuoi arrivare, Wilford?», gli chiese, non riuscendo più a sopportare quella tensione. Non capiva cosa avesse a che fare tutto quello con lei. Cosa c’entrava con il suo passato da bulletto?

«Vedi, quando facevo la quarta elementare, mi accanii contro uno del primo anno. Era diventata la mia vittima preferita. Adoravo farlo star male e vederlo piangere. Sono stato crudele, gli ho rovinato la vita. È tutta colpa mia. Ero solo un bambino. Io…non potevo immaginare», si passò le mani sulla faccia. Aveva gli occhi lucidi e sembrava che stesse per piangere. Malcolm Wilford che si mostrava debole e vulnerabile. Diane non le avrebbe mai creduto.

«E chi sarebbe?», domandò, mentre sentiva il cuore accelerare nuovamente. Stette per qualche secondo in silenzio, per poi azzardare: «È…è per caso una persona che…conosco?».

Malcolm non rispose e per cercare di spezzare l’ansia Anastasia rise nervosamente.

«Sì, è una persona che conosci», confermò, guardandola finalmente negli occhi, nei quali la modella non scorse nemmeno un briciolo di allegria o spensieratezza, solo una sorta di ferrea determinazione, come se stesse per fare una cosa sgradevole ma assolutamente necessaria. «E quel bambino era Toby Erin Rogers».

 

 

 

 

 

Note dell’autrice: Buongiorno/Buonasera a tutti. Eccomi qui con il settimo – wow, non ci credo – capitolo di questa Long-Fic. Non so neanche da dove cominciare, sinceramente. Anche questo capitolo si svolge ancora nel passato, ma dal prossimo – o da quello ancora dopo – si ritorna nel presente. Di Emily ancora nessuna traccia, Anastasia sembra iniziare a provare una leggera infatuazione per Felix e finalmente abbiamo scoperto perché Malcolm ha voluto “invitare” la nostra protagonista al suo compleanno. E, a quanto pare, Anastasia conosceva Toby già prima del rapimento.

Lasciatemi una recensione e fatemi sapere cosa ne pensate, i vostri pareri sono fondamentali! E, nonostante non risponda qualche volta, sappiate che leggo sempre con infinito piacere tutte le meravigliose recensioni.

Credo che io qui abbia finito. Non so mai che cosa dire nelle “note dell’autrice”.

Au revoir,

S h y. (Quando la smetterò di cambiare nickname? Probabilmente mai.)

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Capitolo 8
*** Non ho mai ***


Part I
Chapter VIII
Non ho mai

 

 

Mi sentii in una specie di oblio. Sono sempre stato un grosso bevitore. Quando inizio, non mi fermo più. Mi piace bere perché è come stare in una specie di mondo di cartoni animati, dove tutto va bene. La vista è annebbiata e tutto e nulla hanno senso. È pazzesco… è come se fosse un tipo diverso di realtà e consapevolezza.”
Krist Novoselic

 

 

Per qualche attimo rimase a guardare Malcolm Wilford senza parole, sperando di non aver sentito bene.
«Cosa?».
«È… è Toby. Toby Erin Rogers. È lui il bambino con cui mi comportavo da bullo».
Anastasia non parlò. Restò immobile a guardare gli alberi sentinella, ad ascoltare il sangue che le ronzava e martellava nelle orecchie. Dentro di lei si stava accumulando una gran voglia di urlare, ma non la sfogò. La ricacciò indietro. Come era giusto che fosse.
Toby?
Malcolm e Toby?
«Ecco perché volevo che venissi», parlava in fretta, adesso, come se sapesse di non avere molto tempo, dato che lei sarebbe potuta benissimo schizzare fuori dall’auto da un momento all’altro. O ucciderlo seduta stante, magari. «Non volevo… Ho pensato che non fosse giusto dirtelo prima, sapevo che sarebbe stata troppo dura per te date le circostanze. Ma dato che ormai è passato più di un anno, e credo che tu ti stia riprendendo, ho pensato di dirtelo prima che tu lo potessi venirlo a sapere da qualcun altro».
«Ma…allora sei stato tu ad inventare quel soprannome, Ticci Toby!» la frase le uscì di bocca con la violenza di un’accusa. Per un secondo Malcolm la guardò senza capire, poi fece mente locale e la sua espressione cambiò, nello stesso momento in cui la rossa comprese il perché Wilford avesse detto tutte quelle cattiverie su Toby.
«Quindi è per questo che gli hai dato dell’assassino», disse con voce atona. «Perché ti sentivi in colpa, perché in un certo senso ti sentivi coinvolto in tutto questo. È stato un metodo autoconvincimento, diciamo. Giusto?».
Malcolm annuì, contrito.
«Non penso niente di quello che ho detto. Cercavo solo di difendermi dalla mia testa, devi credermi», disse in tono di supplica. Tese la mano calda verso quella di lei, intirizzita. «Didì mi ha praticamente obbligato a parlartene il prima possibile e…».
«Aspetta un minuto», Anastasia sottrasse bruscamente la mano. «Hai parlato di questo con Diane? Lei lo sapeva?».
Malcolm annuì e si portò le mani tra i capelli neri, mentre la ragazza si sentiva tradita più che mai.
«Hamilton… Io sono così…», si interruppe e trasse un profondo respiro, e la rossa ebbe la sensazione che stesse cercando di raccogliere i pensieri, in modo da poter decidere che cosa dire. Quando parlò di nuovo, lo fece con una sfumatura di sfida, e Anastasia rivide un barlume del Malcolm Wilford che ricordava: quello che partiva all’attacco, che avrebbe preferito combattere fino alla morte, piuttosto che subire un’accusa. «Ascolta, non ho intenzione di scusarmi, perché so di non aver fatto niente di male. Nessuno di noi ha fatto niente di male. Ma ti prego, mi daresti il tuo perdono?».
«Se non hai fatto niente di male», ribatté Anastasia incrociando le braccia e con il suo solito tono altezzoso. «allora perché ne hai bisogno?».
«Perché tu lo avevi reso felice. Cazzo, Hamilton, quel poveretto era innamorato perso di te!».
Era.
Registrarono entrambi, nello stesso istante, l’uso del passato, e la ragazza vide la sua reazione riflessa sul volto di Malcolm.
Anastasia si morsicò il labbro, così forte da farsi male, schiacciando sotto i denti la pelle morbida.
Io ti perdono. Dillo. Dillo!
«Io…».
Si udì un rumore nella casa: la porta si aprì, ed ecco comparire Ashley, in piedi nel riquadro di luce, con la mano sollevata a ripararsi gli occhi. Tutta protesa in avanti con la sua ciccia sembrava sul punto di ruzzolare a terra, nello sforzo di scrutare nelle tenebre, eppure Anastasia percepì in lei una sorta di eccitazione soppressa, come quella di una bambina prima di una festa di compleanno che da un momento all’altro sta per sconfinare nell’isteria.
«Ehiiiii?», gridò, a voce sorprendentemente alta nella quiete notturna. «Mal? Sei tu?».
Malcolm buttò fuori un respiro tremolante e aprì lo sportello.
«Ash-Ash!», gli tremava la voce, ma in modo quasi impercettibile. La rossa pensò, e non per la prima volta, che attore straordinario fosse. E per un’esperta in bugie e manipolazione come lei, era un gran bel complimento.
«Mal-Bear!», strillò Ashley, per poi catapultarsi giù dai gradini. «Oh mio dio, sei proprio tu! Ho sentito un rumore e ho pensato… ma poi non è comparso nessuno», venne incontro ai due incespicando sullo spazio davanti alla casa, i suoi passi silenziosi nelle pantofole a forma di coniglietto. Anastasia alla vista di queste fece del suo meglio per trattenersi dal mimare un conato di vomito. «Cosa ci facevi lì fuori al buio, sciocchino?».
«Stavo parlando con Hamilton», il ragazzo la indicò con un gesto. «Ci siamo scontrati mentre risaliva il vialetto».
«Non in senso letterale, spero! Oops!», si udì uno scricchiolio, nel momento in cui Ashley inciampò in qualcosa nel buio, per poi tirarsi su in ginocchio in fretta e furia. «Va tutto bene! È tutto a posto!», disse balzando goffamente in piedi mentre si dava una spolverata.
«Ehi, tranquilla!», Malcolm scoppiò a ridere e abbracciò l’amica. Poi le sussurrò all’orecchio qualcosa che la rossa non sentì, ed Ashley annuì. Anastasia si limitò ad aprire lo sportello e scese rigidamente dall’auto. Era stato un errore non percorrere a piedi quegli ultimi metri fino a casa: passando bruscamente dalla corsa alla posizione seduta, i muscoli si erano bloccati. E adesso faticava a raddrizzarsi.
«Tutto bene, Hamilton?», domandò Malcolm, che si era girato sentendola scendere. «Mi sembri un po’ zoppicante».
«Tutto okay», rispose con un tono leggero e guardò il ragazzo dritto negli occhi, con una punta di sfida. Come se volesse sfidarlo a chi sapesse fingere meglio e più a lungo. Toby. Toby. «Vuoi una mano con i bagagli?», un sorriso finto le si dipinse sul volto.
«Grazie, ma non ne ho molti», aprì di scatto il bagagliaio e ne estrasse una borsa con tracolla. «Forza Ash, adesso fammi vedere la mia stanza!».

Quando Anastasia salì a fatica l’ultimo gradino che portava alla sua camera, tenendo per i lacci le scarpe da ginnastica infangate, Diane ancora non si vedeva da nessuna parte. Dopo essersi sfilata i leggins e la felpa sudata, strisciò sotto il piumone in biancheria intima. E se ne restò a guardare la pozza di luce disegnata dalla lampada sul comodino.
Era stato uno sbaglio accettare quell’invito. Che cosa credeva?
Aveva passato così tanto tempo a cercare di dimenticare Toby, nel tentativo di costruire intorno a sé un bozzolo di sicurezza e di indipendenza. E sembrava finalmente esserci riuscita, ad ottenere di nuovo una vita senza troppi pensieri. Anzi, era proprio una vita fantastica. Era bella, aveva un lavoro perfetto per un’egocentrica come lei, viveva in una villa con un padre milionario, andava in discoteca quasi tutte le sere e spesso scopava con degli sconosciuti.
Non dipendeva da nessuno, da nessun punto di vista, emotivo, finanziario (certo, aveva la paghetta del padre, ma avrebbe potuto sopravvivere anche solo con i soldi che guadagnava) o di altro tipo. Proprio bene, cazzo, e tante grazie.
Ed ecco che adesso le succedeva questa cosa qui.
Il peggio era che non poteva dare la colpa a Malcolm Wilford. Purtroppo aveva ragione: lui non aveva fatto niente di male, non c’entrava nulla con tutta quella situazione. Non le doveva niente. Toby Erin Rogers era morto più di un anno fa, dopo aver assassinato suo padre.
No. Anastasia poteva dare la colpa solo a sé stessa. Per non aver voltato pagina. Per non essere stata in grado di farlo. Non aveva mai amato nessuno prima di conoscerlo, era sempre stata circondata da feste e persone superficiali – come lei, d’altronde – fino a quando non aveva incontrato lui e tutte le sue perfette imperfezioni.
Detestava Toby per il potere che aveva ancora su di lei. Detestava il fatto che, ogni volta che conosceva qualcuno, finiva per metterlo a confronto con lui, nella sua testa. L’ultima volta che aveva provato ad avere una relazione seria – sette mesi prima – si era svegliata di soprassalto nel cuore della notte, con il ragazzo che le teneva una mano sul petto.
«Stavi sognando», aveva detto. «Chi è Toby?», e, alla vista della faccia stravolta della rossa, si era rivestito in fretta e furia ed era uscito per sempre dalla sua vita. Ed Anastasia non si era nemmeno presa la briga di fargli un’ultima telefonata.
Odiava Toby e odiava sé stessa.
E poi sì, era perfettamente consapevole che ciò la rendeva la più grande sfigata del mondo: la quindicenne che conosce un ragazzo e, nonostante lui sia morto, lei continua ad esserne innamorata a tal punto da non riuscire più a far entrare nessun altro nella sua vita.
Nessuno lo sapeva meglio di lei. Se le fosse capitato di mettersi a parlare con una nella sua stessa situazione, in un bar, l’avrebbe probabilmente disprezzata o derisa.
Sentiva gli altri che ridevano e chiacchieravano, al piano di sotto, e l’odore di pizza fluttuò su dalle scale.
Adesso sarebbe scesa da loro e avrebbe chiacchierato e riso anche lei.
Invece si rannicchiò su sé stessa, le ginocchia contro il petto e gli occhi ben chiusi, e cacciò un urlo silenzioso dentro la sua testa.
Poi di raddrizzò e, malgrado le proteste dei suoi muscoli irrigiditi, mise da parte la coperta e raccolse un telo da bagno dalla cima del mucchio che Ashley aveva accuratamene impilato ai piedi di ogni letto.
Il bagno era sul pianerottolo. Chiuse la porta e lasciò cadere a terra l’asciugamano. Anche lì c’era un’altra di quelle grandi finestre senza tende che si affacciavano sul bosco. Era angolata in modo tale che, in pratica, nessuno avrebbe potuto guardare dentro a meno di non starsene appollaiato su un pino alto quindici metri, ma nel togliersi la biancheria intima dovette reprimere l’impulso di coprirsi il seno con le mani per nascondere la propria nudità agli occhi invisibili del buio.
Per qualche istante prese in considerazione l’idea di rivestirsi subito con indumenti puliti ma, data la stanchezza e gli schizzi di fango che l’avevano imbrattata da capo a piedi, sapeva che si sarebbe sentita meglio se si fosse fatta una doccia calda. Così si infilò nel box e girò la leva, stiracchiandosi piena di gratitudine non appena l’enorme soffione della doccia, dopo aver sputacchiato un paio di volte, la inondò con un potentissimo getto di acqua bollente.
Da quella posizione poteva guardare fuori dalla finestra, benché fosse troppo buio per vedere granché. La forte illuminazione del bagno trasformava la vetrata in una sorta di specchio e, a parte una pallida luna spettrale, tutto ciò che riusciva a vedere era il suo corpo riflesso sul vetro che si andava velocemente appannando via via che si insaponava. Che razza di persona doveva essere, comunque, la zia di Ashley? Quella era una casa per voyeur. Anzi, no: ai voyeur piaceva guardare. Qual era il contrario? Esibizionisti. Gente a cui piaceva essere vista.
Forse era diverso di giorno, quando la luce entrava abbondante. Ma in quel momento, al buio, era proprio l’opposto: si aveva la sensazione di trovarsi in una teca di vetro. O in una gabbia allo zoo. In un recinto per tigri, senza nemmeno un angolo dove nascondersi. Anastasia pensò agli animali in gabbia che camminavano nervosi avanti e indietro, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mentre la pazzia si impadroniva lentamente di loro.
Quando ebbe finito sgusciò cauta fuori dal box della doccia e si guardò allo specchio, dopo averlo ripulito dalla condensa.
Il viso che la fissò di rimando la impressionò. Sembrava appartenere ad una persona pronta al combattimento: il suo volto era pallido sotto la forte luce, gli occhi verdi e accusatori, circondata da ombre scure come se fosse stata malmenata.
Sospirò e tirò fuori il beauty-case. Siccome aveva perso tutta la voglia di truccarsi in quel momento, si limitò a mettere l’essenziale: mascara e rimmel. Non riusciva a trovare il fard, cosicché si ritrovò costretta a strofinarsi un po’ di rossetto sugli zigomi per attenuarne il pallore, e alla fine si infilò un paio di jeans aderenti ed una canotta grigia, che metteva in risalto il seno prosperoso.
Da qualche punto al pieno di sotto proveniva della musica. Era la sigla di una serie televisiva che faceva quando la rossa era solo una marmocchia: Oh, Happy Days. Oh, giorni felici. Che qualcuno volesse fare dell’ironia?
«Ana!», udì la voce di Ashley che la chiamava sopra le note della canzone che esortavano a ricominciare. «Ti va di venire giù a mangiare qualcosa? Perché dopo ce la spassiamo con l’alcol, e te lo sconsiglio vivamente a stomaco vuoto!».
«Arrivo!», gridò di rimando. Con un sospiro arrotolò la biancheria sporca nel telo da bagno e, dopo aver richiuso il beauty, aprì la porta, pronta ad affrontare il mondo.

 

«Non ho mai…», Malcolm era stravaccato sul sofà con i piedi sulle ginocchia di Felix mentre i riflessi del fuoco nel caminetto gli danzavano sul volto. Teneva un bicchierino in mano ed una fettina di lime nell’altra, soppesandoli come se fossero delle alternative. «Non ho mai… fatto parte del mile high club».
Calò il silenzio sulla cerchia, finché Ashley non esplose in una gran risata. Quindi, molto lentamente e con un’espressione sarcastica, Felix sollevò il bicchierino.
«Cin cin, cara!», bevve in un colpo solo e poi succhiò il lime con una smorfia.
«Oh, tu e la tua ex! Come si chiamava… Elisewin, giusto?», parlò Malcolm. Nonostante la nota di derisione, aveva un tono piuttosto bonario. «Scommetto che è successo in prima classe».
«In realtà era in business, però l’hai azzeccata», si riempì di nuovo il bicchiere e si guardò intorno. «Ma che succede? Sto bevendo da solo?».
«Cosa?», Tyler alzò lo sguardo dal suo telefono. «Scusate, siccome avevo una tacca di ricezione, ho pensato che fosse il caso di provare a chiamare Joseph, ma adesso è sparita di nuovo. Stavate giocando a “obbligo o verità”?».
«No, abbiamo cambiato gioco», rispose Felix con voce impastata. Doveva aver già pasticciato parecchio con varie sostanze e adesso cominciava a risentirne. «Stiamo giocando a “Non ho mai!”. E ho detto che invece io ho fatto parte del club di chi fa sesso in aereo».
«Oh, scusate», Tyler trangugiò distrattamente il bicchierino e si pulì le labbra. «Ecco qua. Senti, Ash, non è che posso usare di nuovo il telefono fisso?».
«No, no e no!», lo rimproverò Malcolm agitando il dito. «Guarda che non te la svigni così facilmente».
«Certo che no!», si intromise Ashley, indignata. «Adesso dicci come e quando, bello!».
«Durante la luna di miele con Joseph. Era un volo notturno, gli ho fatto un lavoretto di bocca nel gabinetto. Quello conta? E comunque ho appena bevuto».
«Beh, in tal caso è lui che è entrato a far parte del club, non tu», gli fece notare Felix con una strizzata d’occhio licenziosa e leggermente più rallentata del normale. «Ma siccome hai bevuto, facciamo che va bene così. Passiamo oltre! Okay, tocca a me. Non ho mai… cazzo, cos’è che non ho mai fatto? Oh, d’accordo: non ho mai praticato sport acquatici».
Ci fu una gran risata, nessuno bevve e Felix cacciò un lamento.
«No, ma sul serio?».
«Sport acquatici?», domandò Ashley, incerta. Con il bicchiere sospeso a mezz’aria, si guardò intorno, cercando di capire cosa ci fosse di tanto buffo. «Intendete dire le immersioni subacquee e cose del genere? Io sono andata in barca a vela, secondo voi conta?».
«No, tesoro», rispose Malcolm, per poi chinarsi a sussurrare qualcosa all’orecchio di Ashley, la cui espressione passò da scioccata a divertita, con una punta di disgusto.
«Non se ne parla proprio! È rivoltante!».
«Eddai», Felix cercò di incoraggiare i presenti, quasi supplichevole. «Confessate tutto allo zio Felix, tanto tutto quello che ci diremo qui non uscirà mai fuori, non c’è niente di cui vergognarsi».
Calò di nuovo il silenzio, interrotto dalla risata di Malcolm.
«Mi dispiace, fratello, ma mi sa che ti tocca bere!».
Felix si buttò giù il bicchierino, lo riempì di nuovo e poi si sdraiò sul sofà, la mano sugli occhi.
«Mannaggia, mi sta arrivando il conto dei miei anni trascorsi da ragazzaccio. Ho la testa che mi gira».
«Tocca a te, Hamilton», disse Malcolm dal divano, rosso in volto e con i capelli neri spettinati. «Sputa il rospo».
Lo stomaco della sedicenne fece una capriola.
Era arrivato il momento tanto temuto. Nell’ultimo giro di bevute aveva brancolato a fatica in una nebbia di tequila, champagne e rum, sforzandosi di trovare qualcosa da dire, ma ogni ricordo sembrava riportarla indietro a Toby. Ripensò a tutte le cose che non aveva mai fatto né detto. Chiuse gli occhi, mentre la stanza sbandava e ondeggiava intorno a lei.
Un conto era fare questo gioco insieme a degli amici che più o meno sapevano già tutto quello che c’era da dire, ben altro barcamenarsi tra questo imbarazzante mix di estranei e persone che non voleva che sapessero, ad eccezione di Diane. Non ho mai… cosa diavolo poteva dire?
Non ho mai capito perché ci siamo dovuti dire addio.
Non l’ho mai salvato.
Non l’ho mai dimenticato.
«Hamilton…», cantilenò Malcolm. «Su, dài, non vorrai mica che io ti metta in imbarazzo nel prossimo giro».
La ragazza si sentiva in bocca uno schifoso retrogusto di tequila e cocaina. Non poteva permettersi di bere di nuovo, altrimenti avrebbe vomitato.
Non ho mai conosciuto davvero Toby.
Perché ti ho lasciato andare via?
Amore. Mio unico vero amore.
«Non ho mai avuto un tatuaggio», buttò fuori tutto d’un fiato.
Sapeva di essere andata sul sicuro, con quell’affermazione, Diane ne aveva ben due.
Tuttavia, il primo a parlare però fu Felix.
«Merda…», si lamentò lui, ingollando la tequila. Ashley ridacchiò.
«Macché! Non crederai mica di cavartela così! Adesso faccelo vedere!».
Il fotografo sospirò e si sbottonò la camicia, rivelando un buon tratto di pettorali tonici e ancora un po’ abbronzati. Dopo essersi fatto scivolare una manica giù per la spalla, si girò a mostrarcelo. Si trattava di una scritta in corsivo che diceva Gabbia di matti.
«Ecco», si riabbottonò la camicia. «Adesso fatevi avanti, voialtri, non posso certo essere l’unico».
Diane non disse nulla, ma si limitò ad alzarsi la manica per mostrare il I’m on top of the world che possedeva sul braccio, per poi sollevare i jeans sulla caviglia, mostrando un uccello di qualche tipo tatuato lungo il tendine.
«Che cos’è, Didì?», Ashley si sporse in avanti per guardarlo meglio. «Un merlo?».
«Un falco», rispose la bruna. Senza aggiungere altro, si tirò giù i jeans e vuotò il bicchiere. «E voi che dite?».
Ashley scosse la testa.
«Troppo fifona!».
Malcolm invece, con un largo sorriso si sollevò a fatica dal divano. Si girò di schiena e si tirò su la camicia nera. Dal retro dei jeans spuntava come un lungo tubo ondeggiante che andava sempre più su.
«Una coda di un diavolo», sbuffò Anastasia, per niente sorpresa.
«Una follia di gioventù», spiegò Malcolm con un tocco di malinconia ironica. «Durante il mio viaggio ad Amsterdam in stato di ebbrezza quando avevo quindici anni».
«Quella coda sarà deliziosa, quando diventerai vecchio», commentò nuovamente la modella. «Se non altro servirà da freccia di segnalazione per il giovanotto che dovrà pulirti il culo all’ospizio».
«Così avrà qualcosa da guardare, poveretto», Malcolm si tirò giù la camicia ridendo e si buttò di nuovo sul divano. Poi si scolò il bicchierino. «Tyler?», gridò.
Ma l’uomo di colore aveva trascinato il telefono in corridoio, la sua ubicazione tradita solo dal filo a terra e dal suono basso e urgente della sua voce.
«…e ha bevuto dal biberon?», lo sentirono chiedere in corridoio. «Quanti decilitri?».
«’Fanculo», fu il commento deciso di Diane. «Uomo in mare. D’accordo. Io non ho mai… non ho mai… non ho mai…», spostò lo sguardo dagli altri all’amica dai capelli rossi, e ad un tratto quest’ultima vide dipingersi sul viso dell’altra un’espressione veramente maligna. Da ubriaca, Diane non era la persona più simpatica da avere affianco. «Non ho mai scopato con un andicappato!».
Una risata incerta fece il giro della stanza. Malcolm si strinse nelle spalle.
Poi i suoi occhi grigi, e quelli color caffè di Diane, si girarono entrambi verso la modella. Regnava un silenzio assoluto, interrotto solo da Florence and the Machine che raccontava di come il suo fidanzato fabbricasse casse da morto.
«Vaffanculo, Diane», ad Anastasia tremava la mano, mentre mandava giù l’ultimo goccio. Poi si alzò e si diresse in corridoio con le guance in fiamme, sentendosi tutto ad un tratto molto ma molto ubriaca.
«Puoi sempre dargli una banana spappolata, a colazione», stava dicendo Tyler. «Ma se gli dai dell’uva ricordati di tagliare i chicchi a metà e di eliminare i semini».
Gli passò accanto nella sua corsa verso le scale, seguita dalle domande disorientate di Ashley: «Cosa c’è? Cos’è successo?».
Arrivata sul pianerottolo, si precipitò in bagno e chiuse la porta dietro di lei. Poi si inginocchiò davanti al water e vomitò e vomitò finché non ebbe più nulla nello stomaco.
Oh, quanto era ubriaca. Abbastanza ubriaca da scendere di sotto e tirare un pugno in faccia a quella stronza di Diane, lei e quella sua mania di rimestare nel torbido. Okay, non conosceva tutta la storia di Toby e di quello che gli era capitato, però ne sapeva abbastanza da rendersi conto che stava mettendo la sua migliore amica in una posizione orribile.
Per un minuto li odiò tutti quanti: Diane per aver osato chiamarlo andicappato, Ashley e Felix per averla guardata con aria ebete mentre beveva. Odiava Malcolm per averla invitata alla sua stupida festa. E soprattutto odiava Toby per essere morto, innescando tutta quella concatenazione di eventi. Odiava perfino il povero, ignaro ed innocente Tyler, solo per il fatto che si trovasse lì.
Ebbe un altro conato, ma nel suo stomaco non era rimasto più nulla, a parte un orrendo sapore di tequila, che una volta in piedi sputò nel water. Poi tirò lo scarico e si guardò allo specchio per risciacquarsi la bocca e la faccia. Era pallidissima, gli zigomi chiazzati di rosso e imbrattati di rimmel.
«Hamilton?», bussarono alla porta. Riconobbe subito la voce di Malcolm e si portò le mani al viso.
«Un minuto!», la sua risposta fu brusca, come il ringhio di un animale che si doveva difendere.
«Hamilton, mi dispiace… Didì non avrebbe dovuto…».
Oh, vaffanculo, pensò. Lasciatemi in pace.
Si udì un brusio di voce sommesse fuori dalla porta, e la modella prese con le dita tremanti della carta igienica per cercare di pulirsi gli sbaffi di mascara.
Quanto era patetico tutto ciò. Le sembrava di essere tornata nel periodo scolastico nel quale era da poco morto Toby: i battibecchi maligni, i pettegolezzi simili a pugnalate dietro la schiena e tutto il resto. Aveva giurato a sé stessa che se li sarebbe lasciata alle spalle per sempre. E invece aveva commesso questo errore. Un errore davvero terrificante.
«Scusami, Ana», disse la voce di Diane, impastata dall’alcol ma con un sottofondo di vera preoccupazione, o almeno così le parve. «Non credevo… ti prego, esci da lì».
«Hamilton, ti prego», implorò Malcolm. «Su, dài, mi dispiace. Anche Didì è dispiaciuta».
La sedicenne tirò un profondo respiro e aprì la porta.
Stavano tutti e due in piedi lì fuori, con l’aria da cani bastonati nella forte luce proveniente dal bagno.
«Per favore, Hamilton», disse Malcolm prendendole la mano. «Torna giù di sotto».
«È tutto a posto», rispose. «Davvero. Però sono stanchissima, mi sono alzata alle sei stamattina».
«D’accordo…», il moro le lasciò a malincuore la mano. «Basta che tu adesso non ci tenga il muso».
Anastasia digrignò i denti a suo malgrado. Sta’ calma. Cerca di non fare tanto casino.
«No, non ho intenzione di “tenervi il muso”», disse, cercando di conservare un tono leggero. «Sono solo stanca. Ora mi lavo i denti. Ci vediamo domattina».
Li spinse da parte con una gomitata sufficientemente brusca, diretta in camera da letto per prendere il beauty-case, e quando tonò erano ancora lì, con Diane che batteva nervosamente il piede sul parquet.
«Allora fai sul serio?», domandò. «Ti stai tirando indietro? Porca troia, Ana, era solo uno scherzo. Da quando hai iniziato a fare la parte della depressa?».
Per un istante la rossa pensò a tutte le risposte che avrebbe potuto dare.
Non era stato uno scherzo. Lei sapeva benissimo quanto avesse fatto male, eppure aveva deliberatamente tirato Toby nell’unico posto e nell’unico momento in cui non avrebbe potuto tentare né di sfuggirgli, né di cancellarlo. Senza contare che a quanto pareva, dopo la confessione di Malcolm prima nella macchina, quella che considerava la sua “migliore amica” non era poi così sincera, a tal punto da non averle detto il vero motivo della sua presenza.
Forse nemmeno Diane era la brava amica che credeva di essere. Forse nemmeno lei.
Ma tanto a cosa sarebbe servito arrabbiarsi? Come un’idiota aveva abboccato all’amo, e adesso era andata in tilt come da copione. Ormai il danno era fatto.
«Non mi sto tirando indietro», replicò stancamente. «È l’una passata ed io sono in piedi dalle sei. Per favore. Voglio solo dormire un po’, davvero».
Mentre diceva quelle parole si rese conto che stava implorando, adducendo pretesti, tentando di assolvere sé stessa dal senso di colpa per essersi chiamata fuori. Per qualche motivo l’idea la innervosì. Nessuno degli invitati aveva più quattordici anni. Non dovevano mica starsene appiccicati come se fossero legati da un invisibile cordone ombelicale. Avevano preso strade separate ed erano tutti sopravvissuti. Il fatto di volersene andare a letto non avrebbe rovinato per sempre la festa di Malcolm, e non doveva giustificare la sua assenza come un prigioniero di Star Chamber.
Adesso che ci pensava, in altre occasioni avrebbe sbraitato e li avrebbe mandati tutti a fare in culo, facendo la parte della superiore altezzosa come suo solito. Eppure da quando aveva messo piede in quella casa di vetro si sentiva come indebolita, come una ragazzina spaventata. Il ché non era affatto da lei.
Quel posto le stava facendo uno strano effetto.
«Me ne vado a letto», ripeté.
Ci fu una pausa. Malcolm e Diane si guardarono a vicenda: «Okay», disse il primo.
Per qualche irrazionale motivo quell’unica parola la irritò più di tutto il resto: sapeva che in fondo stava solo accettando la sua decisione, ma la parola conteneva un’eco di “permesso accordato” che le fece accapponare i capelli. Non sono una schiavetta da comandare a proprio piacimento, figlio di puttana!
«’Notte», tagliò corto, e li spinse da parte per entrare in bagno.
Al di sopra dello scroscio dell’acqua del rubinetto e dello strofinio dello spazzolino da denti, li sentiva bisbigliare in corridoio, ma decise ugualmente di restarsene lì a togliersi i residui di mascara con insolita cura finché le loro voci non si affievolirono e non udì i loro passi allontanarsi sul parquet.
Buttò fuori il respiro, sbarazzandosi di un accumulo di tensione che non sapeva nemmeno di aver trattenuto, e sentì rilassarsi i muscoli delle spalle e del collo.
Perché? Perché da quando era entrata in quella casa le persone sembravano avere tutto quel potere sulla modella? E perché lei glielo stava permettendo?
Con un sospiro, ficcò dentifricio e spazzolino nel beauty-case e aprì la porta, per poi dirigersi verso la camera da letto a passi felpati. Fresca e silenziosa, era diversissima dal soggiorno surriscaldato. Udì fluttuare lungo le scale la voce di Lady Gaga, ma il suono si ridusse a semplici note di basso in sordina una volta che, richiusa la porta, si buttò a peso morto sul letto. Il sollievo fu indescrivibile. Ad occhi chiusi poteva immaginarsi di ritorno nella sua grande villa a Denver, mancava solo il rumore del traffico e dei clacson fuori dalla finestra.
Il desiderio di essere di nuovo lì era talmente forte che poteva quasi sentire sotto il palmo la morbidezza del suo vecchio piumone a fiori, e vedere la veneziana di vimini che ticchettava sommessamente contro la serranda.
Invece bussarono alla porta, e quando riaprì gli occhi si ritrovò davanti la vuota oscurità del bosco riflessa attraverso la parete di vetro.
Sospirò, e mentre raccoglieva le forze per rispondere, udì bussare di nuovo.
«Ana?».
Era Ashley. Stava lì fuori con le mani sui fianchi.
«Ana! Non posso credere che tu voglia fare questo a Mal!».
«Cosa?», si sentì calare addosso un’immensa stanchezza. «Che io voglia fare cosa? Andarmene a letto?».
«Ho fatto degli sforzi enormi per renderlo un week-end perfetto per Mal: guarda che ti uccido, anzi, ti faccio uccidere, se lo rovini già dalla prima sera!».
«Senti palla di lardo, io non sto rovinando un cazzo di niente. Sei tu che stai gonfiando esageratamente la faccenda. Voglio solo andare a dormire. Va bene?».
«No, non va affatto bene. Non ti permetterò di sabotare tutto quello per cui ho lavorato tanto!».
«Io voglio solo andare a dormire», ripeté la rossa come un mantra.
«Beh, allora vuol dire che ti stai comportando da… troia egoista», sbottò Ashley. Era tutta rossa in faccia, e pareva sull’orlo delle lacrime. «Mal… Mal è il migliore di tutti, chiaro? E si merita… si merita…», le tremolò il mento.
«Sì, vabbé», replicò Anastasia e, senza pensarci due volte, le sbatté la porta in faccia.
Per qualche istante continuò a sentirla ansimare lì fuori e pensò: se dovesse scoppiare in singhiozzi, sarebbe stata costretta ad uscire per scusarsi, anche per non fare per l’ennesima volta la parte della cattiva di fronte a delle persone.
Ma non andò così. Con chissà quale immenso sforzo, Ashley si diede una calmata e scese di sotto, lasciando la modella a sua volta molto prossima alle lacrime.

Non sapeva bene che ore fossero, quando Diane salì di sopra, sapeva solo che era tardi, tardissimo. Pur non essendo ancora addormentata, Anastasia finse di esserlo, rannicchiata sotto il piumone con il cuscino sopra la testa mentre lei si aggirava pesantemente per la stanza, facendo cadere flaconi di cosmetici e inciampando con la valigia.
«Sei sveglia?», sussurrò infilandosi nel lettino accanto a quello dell’amica.
La sedicenne pensò di ignorarla, ma poi sospirò e si girò verso di lei.
«No. Probabilmente perché tu hai preso a calci tutti gli oggetti che incontravi nel tuo cammino».
«Scusa», si rannicchiò a sua volta sotto le lenzuola, e l’altra scorse un luccichio dei suoi occhi mentre sbadigliava e sbatteva le palpebre, esausta. «Ascolta, mi dispiace per prima. Ti giuro che io non…».
«Non ha importanza», replicò Anastasia stancamente. «L’errore è stato mio. Ho reagito in maniera esagerata. È solo che ero esausta, e ubriaca». Nonostante il suo brutto carattere, la modella aveva ammesso le proprie colpe e aveva addirittura deciso che forse avrebbe chiesto scusa ad Ashley, il mattino dopo. Di chiunque fosse la colpa, in quella storia, di sicuro non era sua.
«No, sono stata io», ribatté la bruna. Giratasi sulla schiena si mise la mano sugli occhi. «Ho fatto la solita parte della scassacazzo. D’altra parte, sai, è passato più di un anno. Forse davo per scontato che…», si interruppe, ma l’amica sapeva cosa intendesse dire. A chiunque verrebbe da pensare che una persona normale avesse almeno un po’ superato l’accaduto in maniera sana, e voltato pagina.
«Lo so», disse con un sospiro. «Credi che non me ne renda conto? Sono patetica».
«Ana, ma cosa è successo? Perché è chiaro che è successo qualcosa. Non ci si comporta così, per una normale rottura sentimentale, o per… beh, hai capito».
«Non è successo niente. Io l’ho lasciato. Fine della storia».
«A me non l’hanno raccontata così», si girò di nuovo su un fianco, e percepì nell’oscurità il suo sguardo sul viso dell’altra. «Ho sentito dire che è stato lui a lasciarti».
«Beh, hai sentito male. L’ho lasciato io. Non mi sono più fatta sentire».
Faceva così male, far tornare a galla quei ricordi era come una tortura. Aveva voglia di domandargli di Malcolm, delle cose che le aveva detto in macchina, ma in quel momento non si sentiva coraggiosa abbastanza.
«Okay… però… senti, non te l’ho mai chiesto, ma per caso lui…».
Si fermò a metà. Anastasia poteva quasi sentire le sue rotelle celebrali che giravano frenetiche nel tentativo di formulare una frase potenzialmente insidiosa.
Restarono in silenzio per un po’.
«Oh, cazzo, non c’è modo di chiedertelo senza apparire indiscreta, però devo farlo proprio. Lui non ti avrà mica… non ti ha picchiata, vero?».
«Cosa?».
Questa non se l’aspettava.
«Oh, è chiaro che no, scusami», la bruna si rigirò sulla schiena.
«Senti, Didì».
«Diane».
«Oh cavolo, Wilford e Ashley devono avermi contagiata!».
«Comunque, ad essere sincera, il tuo modo di reagire dopo che vi eravate lasciati, prima che lui morisse… Non puoi stupirti se la gente si chiede…».
«La gente?».
«Ascolta, avevi quindici anni e fu una cosa piuttosto drammatica, tra te che avevi iniziato a reagire come un coniglietto spaventato e Lyra, la sorella di Toby, completamente a pezzi. Se ne è parlato parecchio alle tue spalle, va bene?».
«Oh, ma che cazzo!», alzò gli occhi al soffitto. Regnava un silenzio totale, a parte un ticchettio sommesso all’esterno, simile alla pioggia ma ancora più delicato. «Davvero la gente pensò questo?».
«Sì», replicò laconica Diane. «Direi che era la notizia più diffusa, tra le varie teorie. O anche che ti avesse trasmesso qualche malattia venerea, o che ti avesse messa incinta».
Oh, povero Toby. Dopo tutto quello che gli era successo, non si meritava pettegolezzi del genere.
«No», rispose alla fine. «No, Toby Erin Rogers non mi prese a botte, non mi trasmise alcuna malattia venerea, né mi mise incinta. E ti sarei grata se lo riferissi a chiunque ti facesse domande in proposito. Adesso buonanotte, mi metto a dormire».
«Va bene», concluse Diane con tono arreso. «Se non vuoi raccontarmelo, non andrò oltre. Comunque prima, Felix si è preoccupato tantissimo per te. Voleva andarti a parlare, ma era troppo ubriaco perfino per muoversi. Credo che tu gli piaccia, e secondo me stareste bene insieme. È davvero una brava persona».
«Non me ne sbatte il cazzo. Buonanotte».
Anastasia si girò su un fianco ad ascoltare il silenzio, il rumore del respiro esasperato dell’amica ed il leggero picchiettio là fuori.
E finalmente si addormentò.

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice: Volete sapere quante pagine ho scritto? Undici. Undici.
Vorrei come al solito ringraziare tutti coloro che hanno recensito, quelli che hanno inserito la storia tra le preferite, le seguite e…anche a tutti i lettori silenziosi.
Come avete potuto vedere in questo capitolo viene rivelato molto su Anastasia, e vedrete che prima o poi le cose si faranno più chiare, eheh.
Perdonate se non ho scritto tanto nelle “note dell’autrice” o nel caso trovaste qualche errore di battitura, ma dato che è arrivata l’estate, sono sempre fuori casa e sto facendo le ore piccole. Vogliate perdonarmi!
Eeee niente, spero di non avervi deluso, e aspetto as always le vostre opinioni.
Princess of Marshmallows. ( Avete visto? Ho cambiato di nuovo NickName! Il prossimo quale sarà? Sono aperte le scommesse.(?) )

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