Fan Fiction Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=gvK6MpO1U1Q
A te, che sei ancora in grado di amare,
proprio come lo sono
anch’io.
Part I
Chapter I
Se questa è vita
“Il sentimento
più forte e più antico dell’animo umano è la paura,
e la paura più
grande è quella dell’ignoto.”
H. P.
Lovecraft
Era bloccata con cinghie di cuoio ad una branda con il telaio in acciaio.
Le cinghie sopra il torace premevano brutalmente, facendola talvolta respirare
a fatica. Era stesa sulla schiena e le mani erano bloccate all’altezza
dei fianchi.
Ormai aveva compreso che ribellarsi
avrebbe solo peggiorato la sua situazione, e sarebbe di nuovo finita lì.
Teneva gli occhi chiusi, sapeva
già che se li avesse aperti, si sarebbe ritrovata nel buio totale.
L’unica fonte di luce era una debole striscia che filtrava attraverso una
porta.
Insieme al nauseabondo odore della sua
pipì, sentiva anche una debole esalazione di melma. Non ne aveva la
certezza, però era sicura che quel posto si trovasse sottoterra. Ogni
volta che tentava la fuga, finiva lì, legata ed affamata. Puzzava, e non
vedeva l’ora di potersi fare una doccia.
Era sempre sull’attenti, infatti tendeva un orecchio per cogliere il
rumore di passi che avrebbe indicato che lui stava arrivando. In altre
condizioni l’avrebbe lasciata lì per qualche altro giorno, a
rimuginare sui suoi errori, ma quella volta era diverso.
Non aveva la minima idea di che giorno o di che mese fosse, o di quanto tempo
fosse passato da quando era stata costretta a vivere così disumanamente.
Un urlo improvviso e straziante la indusse ad aprire gli occhi. Sembravano le
grida di un bambino le quali erano rimbombate all’interno di quel posto ancora sconosciuto per lei, nonostante
ci fosse stata così tante volte. Ma dopo un paio di secondi non sapeva se
si fosse trattato di un’illusione oppure se l’urlo fosse stato
reale.
Sentì un nodo alla gola e chiuse
gli occhi, lasciando che le lacrime le rigassero il volto sporco e
cominciò a singhiozzare silenziosamente.
Voltò appena il capo,
sfregandosi il naso sporco di muco sulla spalla. Sudava: quella stanza era
calda e soffocante. Indossava una semplice canottiera bianca da uomo che le
si era arrotolata
sotto il corpo. Spostando l’anca riuscì ad afferrare
l’indumento fra l’indice ed il medio e a tirarlo giù da una
parte poco alla volta. Ripeté il procedimento con l’altra mano. Ma la camicia aveva ancora una fastidiosa
piega sotto l’osso sacro e aderiva alle ferite non ancora del tutto
cicatrizzate che portava sulla schiena e sul sedere. Ogni volta che compiva un
minimo movimento, le sembrava di essere accoltellata numerose volte.
Quella mattina aveva tentato di
fuggire, ed era stata punita per questo. Le rimbombarono nella mente le sue
suppliche, i suoi pianti di dolore e le sue urla, mentre quel mostro rideva
sadicamente, divertito dalla scena, mentre agitava quella frusta, colpendola
spietatamente sulla schiena. Era riuscita a contare venti frustate, ma sapeva
che le ferite che le erano state inflitte erano di più. Farle del male e
sentirla soffrire lo eccitava sessualmente, risvegliando il suo lato sadico.
Come se non fosse bastato,
l’aveva tirata per i lunghi capelli rossi, aveva inserito
l’erezione tra le calde natiche della ragazza, per poi penetrarla con una
tale bestialità da farle lanciare un urlo fortissimo, disumano.
Così potente che non si capacitò neanche che fosse uscito dal
proprio corpo.
Odiava il sesso anale e lui lo sapeva,
per questo lo usava come un modo per punirla.
La giovane, nell’essere
violentata in tal modo e nell’essere stata costretta a stare a gattoni, si era sentita un
animale, un lurido animale.
All’improvviso non era più
spaventata, al contrario sentiva accumularsi dentro di sé una rabbia
violenta. Strinse i pugni, mentre i muscoli delle braccia si tesero, anche se
ogni loro movimento era bloccato dalle cinghie.
Lui era l’animale, lui era la bestia.
Ma non poteva negare di essere anche
tormentata dai suoi stessi pensieri che si trasformavano costantemente in
sgradevoli fantasie su ciò che le sarebbe successo. Odiava la sua
impotenza coatta. Per quanto cercasse di concentrarsi su qualcos’altro
per far passare il tempo e reprimere il pensiero della sua attuale situazione,
l’angoscia riusciva comunque a filtrare.
In quei tempi aveva scoperto che il
migliore metodo per allontanare le paure e i problemi consisteva nel
fantasticare o nel ricordare qualcosa che le desse una sensazione di coraggio o
di forza, che la incitasse ad andare avanti.
Immaginò il volto di suo padre
mentre urlava agli elicotteri e ai poliziotti vicino a lui di cercarla,
perché sentiva che i giornali e la televisione si stessero sbagliando, e
che la sua amata figlia fosse ancora viva. I poliziotti
si sparpagliarono e gli elicotteri sparirono, mentre sul viso dell’uomo
apparve un’espressione serena e sicura, perché sapeva che
l’avrebbe riabbracciata e nessuno le avrebbe più fatto del male.
Doveva essersi assopita, perché
non si era resa conto dei passi che si avvicinavano sempre di più alla sua stanza,
ma quando sentì la porta aprirsi di scatto si svegliò
immediatamente, e la luce l’abbagliò per qualche secondo.
Sapeva che sarebbe venuto. La figura si
avvicinò a lei lentamente, mentre la ragazza voltò lo sguardo
dalla parte opposta mentre si sentiva mancare il fiato dalla paura. Nella sua
mente ritornarono nuovamente a galla le immagini di quella mattina.
Cominciò a tremare e a battere i denti per il terrore quando
sentì i suoi guanti di pelle neri poggiarsi sulla sua gamba.
«Hai paura? È così brutto
stare con me?»,
domandò all’improvviso, facendola sussultare.
Sì, la risposta era certamente sì ad entrambe le domande, ma ormai
conosceva fin troppo bene i vari disturbi psicologici di quel ragazzo, tra i
quali la bipolarità e la schizofrenia, e dirgli ciò che veramente
pensava di lui probabilmente gli avrebbe causato un improvviso sbalzo
d’umore e lo avrebbe fatto impazzire dall’ira, e questo avrebbe
solamente portato ad un’altra punizione.
Rabbrividì al pensiero, mentre lo sentì sospirare e slegarla da
quelle fastidiose cinghie.
Appena poté si mise a sedere
sulla branda, massaggiandosi i polsi doloranti. Anche la schiena e l’ano
le dolevano, ma preferì ignorare il loro bruciore davanti a lui. Non
voleva dargli l’ennesima soddisfazione.
In un attimo fu circondata dalle sue
braccia. Odorava di sangue; quale povero innocente aveva ammazzato, questa
volta? «Oh, amore.
Sei tu che mi costringi a trattarti così», detestava essere chiamata così,
specialmente da un mostro simile. Lei non era l’amore di nessuno.
Le passò una mano tra i lunghi
capelli rossi, come per confortarla, per poi sciogliersi da
quell’abbraccio.
«Potrei farmi un bagno, per
favore?», chiese semplicemente, con lo sguardo rivolto verso il basso e
la voce tremolante. Quasi non si riconobbe nelle sue parole, nel suo tono e nei
suoi gesti. La sua personalità ed i suoi modi di fare erano radicalmente
cambiati da quando aveva iniziato a vivere in quella maniera. Aveva imparato
che rispondere agli insulti, lamentarsi, provocare, usare linguaggi forti,
disobbedire o esprimere una propria opinione l’avrebbe solo portata ad un mucchio di guai.
Giorno dopo giorno,
dopo incessanti torture fisiche o psicologiche, questo concetto si era ben
istaurato nel suo cervello.
Lui la squadrò, passandosi le
dita sulla maschera da cannibale, come per riflettere.
«Va bene, ma solo se usi il
bagnoschiuma alla vaniglia», acconsentì, aiutandola ad alzarsi
dalla branda, avvicinandola a sé. Chiuse l’occhio sinistro a causa
dei suoi tic. «Lo sai quanto mi fai impazzire quando hai quell’odore».
La giovane si umettò le labbra a
quelle parole, ingoiando tutto il veleno che gli avrebbe sputato addosso in
quel momento.
Ti odio con tutta me stessa, Toby Erin Rogers.
Si lasciò trasportare fuori da
quella stanza e sperò di non metterci mai più piede al suo interno.
Avanzò, cercando di stare al suo passo e zoppicando appena. Il capo era
rivolto verso il basso e sembrò evitare qualsiasi cosa che avesse un
riflesso. Attraversarono un lungo e stretto corridoio, pieno di porte chiuse e
di specchi e senza finestre. Salirono delle scale a chioccola,
e la ragazza si ritrovò direttamente di fronte alla porta del bagno.
«Vuoi che entri con te?»,
le domandò, carezzandole la guancia, mentre il suo sguardo cadde sui
seni prosperosi della ragazza, la quale sbarrò gli occhi, terrorizzata.
«Non spetta a me una scelta del
genere», rispose vaga, cercando di risultare tranquilla e nascondendo le mani
tremanti dietro la schiena.
Voleva ancora abusare di lei? Non gli
era bastata la punizione che le aveva afflitto quella mattina? Magari le
avrebbe chiesto qualcosa di leggero, come fargli un fellatio ed ingoiare il suo sperma.
Non poteva esagerare, lui
lo sapeva. Non sarebbe stata nelle condizioni di fare qualcosa di brutale fino
a quando non avrebbe…
Si morse il labbro inferiore, odiava
ricordarselo.
«Vai da sola», la scelta di Toby le fece tirare un sospiro
di sollievo. «Ma dopo ti voglio nella mia camera».
Annuì, anche se un po’
titubante. Cercò di farsi coraggio, e lo baciò esitante sulla
guancia, sperando che potesse apprezzare quel gesto. Poi si rifugiò nel
bagno, chiudendo la porta alle sue spalle.
Fu allora che fu costretta a rivederla
a causa dell’enorme specchio che si estendeva dall’altra parte
della stanza. Era almeno una settimana che evitava di guardare il proprio
riflesso.
Lei era sempre lì, ed era diventata
ancora più grossa.
Fin da quando era bambina era ossessionata dal suo aspetto
esteriore ed era sempre stata attenta a non esagerare con il cibo e a mangiare
sempre sano. La sola idea di ingrassare e perdere il suo bel fisico la
pietrificava.
Ma in quell’istante giurò che
avrebbe pagato purché quello fosse grasso.
Purtroppo però non si trattava
di ciccia.
Bensì di gravidanza.
Si portò una mano alla bocca,
cercando di trattenere i singhiozzi dell’ennesimo pianto isterico. Non
riusciva ancora ad accettare quell’orribile situazione.
Non riusciva ad ammettere che stava
aspettando un figlio da quel mostro.
Cosa
avrebbe detto suo padre se l’avesse vista
in quello stato?
E sua madre, che ormai non vedeva da
anni?
Barcollò come un’ubriaca,
aggrappandosi ai bordi della vasca. La mano tremante aprì il rubinetto
della vasca, iniziando a far scorrere l’acqua.
Era sola. La verità è che
nessuno sarebbe venuto in suo soccorso perché la credevano morta.
Per il mondo Anastasia Hamilton era stata assassinata nel genocidio
compiuto a Denver il sei ottobre duemilatredici.
Nessuno sapeva che era ancora viva, e
che passava i giorni a pregare, sperando che la sua vita e quella del suo
bambino fossero risparmiate da quell’orrore.
Note dell’autrice: Okay, premetto che la mia intenzione iniziale non era di
scrivere qualcosa di così crudo e angst, però le
parole si sono scritte da sole ed ecco qua!
Tra l’altro guardando sul FanDom delle CreepyPasta,
su YouTube e
cose varie (?) ho notato (ormai da anni) che la gente tende ad “ammorbidirle”, rendendoli
meno folli e lasciandoli vivere più come persone “normali”.
Invece io sono qui per buttare
quest’idea e tirar fuori tutta la loro anormalità, la loro follia,
la loro mancanza di empatia, il loro lato peggiore che nessuno può
aggiustare.
Da come penso abbiate notato, i
protagonisti di questa storia sono Ticci Toby ed Anastasia Hamilton,
Tra l’altro questa Fan Fiction
sarà un’alternanza tra “passato” e
“presente”. Ovvero spiegherò anche come ha fatto la nostra
povera protagonista a cacciarsi in questa situazione.
Riguardo all’altra FF ad OC che sto scrivendo, per tutti coloro
che partecipano: state tranquilli! Le continuerò simultaneamente.
Il sei ottobre duemilatredici NON
è stato commesso nessun genocidio a Denver, è opera della mia fantasia.
I prestavolto dell’immagine sono Karin Gallen e VultureImagination (on DeaviantArt).
Eeee basta, penso. Spero vi sia piaciuta, se
vi va lasciate una recensione, mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensate!
Semplicemente,
Coffee Pie.