He was young, in the frost.

di Part of the Masterplan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The white part of my eyeballs illuminate. ***
Capitolo 2: *** I bet that you look good on the dancefloor. ***



Capitolo 1
*** The white part of my eyeballs illuminate. ***


Ebbene sì, non ho resistito e ho deciso di provare a scrivere il passato. Spero che il mio ennesimo espermento funzioni, o almeno vi piaccia un po'.
L'idea è quella di scrivere ogni capitolo basandomi sulle tracce di Whatever People Say I Am, That's What I'm Not
ma per ora l'idea è ancora abbastanza nebulosa e aggrovigliata e devo sciolgere la matassa dei pensieri per vedere come svilupparla.
Le mie uniche long parlano di Oasis, quindi devo ancora prendere le misure con questa novità.
Ringrazio con il cuore già da ora chi c'è, chi passa anche solo per una lettura veloce, chi mi supporta e chi mi ha messo in testa quest'idea.
Grazie a ognuno di voi.

Ah, e ovviamente: tanti auguri Alex Turner. Non potevo che iniziare questa long proprio oggi.
Con affetto, Part of the Masterplan.

 


 
“Buon primo giorno, tesoro.”
“Grazie, mamma.”
Chiudo dietro di me la portiera della macchina con un suono secco, lascio che il mio sguardo indugi un attimo in più sui miei stivaletti neri che calpestano l’asfalto ghiaioso. Al tre alza lo sguardo e, diamine, muovi il culo.
Inspiro. Uno.
Espiro. Due.
Lascio che l’aria sfugga dalle mie labbra. Tre.
Davanti a me, in una mattina che non si è premurata di lasciar filtrare dalla coltre grigia di nuvole nemmeno un raggio di sole, la Stocksbridge High School mi aspetta nei suoi cupi mattoni rossi e le alte finestre dai profili bianchi. Non so davvero cosa aspettarmi e nella mia testa si affollano mille pensieri diversi che sembrano correre e inciamparsi nel vociare concitato di gruppetti di ragazze e ragazzi fuori dalla scuola. Mentre mi avvicino all’entrata, tenendo tra le mani la mia cartellina con il documenti per finalizzare la mia iscrizione qui, contraggo nervosamente le spalle, sperando di rendermi più piccola di quel che sono. Indifferenza, di questo ho bisogno. Necessito che tutti coloro che mi stanno intorno mi siano totalmente indifferenti e non inizino a puntarmi con l’indice o a guardarmi di traverso.
Incamero più aria possibile tra i polmoni e inizio la mia sfilata tra ragazzi e ragazze di ogni età: ci sono quelli del primo anno, li vedi laggiù in un posto un po’ riparato dagli occhi indiscreti con i pantaloni troppo a vita alta, e quelli dell’ultimo, che al centro dell’attenzione di tutti osservano con prepotente noncuranza tutto ciò che li circonda e scherzano tra loro alzando la voce. In mezzo, tra i due estremi, immagino ci siano i miei futuri compagni di classe, sedicenni con qualche passione nella vita, tormenti sentimentali e sogni un po’ più grandi del dovuto. Penso spesso che a sedici anni ci sia ancora consentito sognare come quando eravamo bambini, ma con un po’ più di realismo. Buon dio, tesoro, non dire a scuola che vuoi diventare un astronauta, se proprio devi, dì che vuoi fare il pilota di aerei. O l’astrofisico. D’yer wanna be a spaceman? It’s still not too late. Sorrido tra me e me delle mie associazioni mentali. Se mi chiedono cosa voglio fare da grande, non devo rispondere Virginia Woolf. Magari la giornalista, perché poi la scrittrice sembra un po’ troppo snob. Devo solo non dare nell’occhio e – “Scusa!” un tizio con i capelli scuri e ricci, la corporatura tutt’altro che esile e una felpa grigio scuro sopra la divisa – gli abitanti di Sheffield si vestono abbinati con il colore del cielo? – mi piomba addosso, spinto da un altro idiota con i capelli rossi.
“Figurati.” accenno un sorriso imbarazzato bramando di raggiungere il prima possibile il grande portone d’entrata.
“Ehi, tu!” la voce, dopo un attimo di esitazione, mi chiama. Mi volto lentamente, pregando ogni divinità possibile di evitare un teatrino imbarazzante come accade nei film “Sei nuova?”
“Mmm, sì.” mugugno.
“Ah,” alza la testa in segno di approvazione, rivolgendosi ai suoi amici “benvenuta, allora.”
Entro nell’atrio della scuola, un arioso corridoio dal pavimento lucido si estende davanti a me, sulla sua superficie le ombre delle finestre disegnano strane geometrie scure. Lungo tutta la parete, decine e decine di armadietti dalle ante colorate.
“Ti serve qualcosa?” una donnina magra con voluminosi capelli rossi si avvicina a me, zoppicando appena. Immagino che lei sia Annabel, la bidella che la mia vicina di casa – ex studentessa in questa scuola – mi ha inquadrato come “tizia rossa che cammina male”. A dire il vero la mia vicina di casa mi ha fornito identikit su parecchie figure chiave di questo posto, “tanto per orientarti” ha detto scrollando le spalle e inzuppando un biscotto al burro per metà nel the.
“Sono una nuova studentessa… Mi chiamo Beth Connell, arrivo da Manchester…”
Annabel alza teatralmente le mani al cielo per poi giungerle davanti a sé con un applauso “Ma certo! La nuova studentessa da Manchester! Io sono Annabel, vieni, seguimi. Puoi lasciare i documenti in segreteria” spiega mentre inizia a camminare per un più stretto corridoio laterale su cui si aprono numerose porte di uffici “e poi ti accoglierà il docente della tua prima ora, che se non vado errata è il professor Ginley.”
Per fortuna Annabel mi dà le spalle e non può vedere la fulmina espressione di terrore che mi si dipinge sul volto. La mia vicina di casa mi ha anche derisa quando ha saputo che tra i miei professori c’era il signore Ginley. “In bocca al lupo!” ha ridacchiato pulendosi le mani dal biscotto ormai terminato “Io non ce l’avevo, ma dicono che sia uno dei più stronzi.”
Dopo aver lasciato la mia cartellina a una segretaria occhialuta dai capelli di un biondo sbiadito, Annabel mi fa strada verso quella che ho capito essere l’aula professori. Lì, più o meno al centro della sala, un foglio in mano e l’altra tra i capelli rossastri, staziona il temuto Signor Ginley che, richiamato dalla bidella, scuote il capo come risvegliato da un pensiero che lo stava assorbendo troppo a fondo. Il suo sguardo, dapprima severo, sembra rilassarsi alla mia vista. “Buongiorno, signorina…”
“Connell.” sorrido.
“Connell, giusto. Scusi, ero impegnato a decifrare cosa ci fosse scritto qui.” solleva il foglio in aria per poi lasciarlo ricadere sul tavolo di legno scuro intagliato “E’ pronta per il suo primo giorno di lezioni?”
“Sì, direi di sì.”
“Ne sono sicuro.” si abbassa a raccogliere la sua ventiquattro ore e mi indica il corridoio “Venga, dirigiamoci pure in classe.” La campanella è suonata da qualche minuto e ora l’intera struttura che prima sembrava affogare nel silenzio, è investita da un trambusto sommesso di libri, zaini e risa.
“Oggi è il primo giorno dopo le vacanze natalizie, quindi non si stupisca, solitamente non c’è tutto questo rumore.”
Scrollo le spalle. “Oh, capisco.”
“Mi dica, che scuola frequentava a Manchester?” mi indica l’aula che dobbiamo raggiungere, fuori dalla quale un gruppetto di ragazzi si fionda dopo aver visto il professore procedere verso di loro.
“L’Altrincham Grammar School.”
Sposta lo sguardo su di me, sorpreso. “Una delle migliori scuole di Manchester. Complimenti. Ho visto i suoi voti ed erano ottimi.”
“Mi piaceva la mia scuola.”
“Spero si trovi a suo agio qui. Prometto che farò del mio meglio per non fargliela rimpiangere.” sorride educatamente, entrando in classe quasi con un balzo. Era una minaccia o una frase gentile?
“Buongiorno!” esordisce con tono vispo.
La risposta non lo è altrettanto.
Davanti a me una quindicina di ragazzi e ragazze sono seduti al loro banco, un libro e un quaderno, l’astuccio e la divisa con i colori della scuola. In fondo all’aula, con sorpresa, c’è il ragazzo che mi ha travolta all’entrata. Quando si accorge di me, alza due dita e mi sorride, poi si avvicina all’orecchio del suo compagno di banco sussurrandogli qualcosa. Quello, impegnato a scarabocchiare con la matita l’ultima pagina del libro di letteratura, rivolge lo sguardo a me, distrattamente. Ha due grandi occhi scuri e la pelle chiara. Sorride appena, quasi una fulminea smorfia che si smorza non appena la matita tocca nuovamente il foglio e riprende a scrivere. Chissà cosa poi.
Magari vuole diventare Edgar Allan Poe e allora il mio sogno di diventare la Woolf non sarebbe poi così fuori luogo.
Vedo quello che sarà il mio banco, una solitaria isola vicino alla finestra posta diagonalmente rispetto a quel bambino cresciuto dell’ultima fila.
“Prima di iniziare, vi presento – aspettate un attimo.” si interrompe, il viso assume un’aria buffa “Oggi è il 6 gennaio. Sbaglio o è il compleanno di uno di voi?”
Tutti si voltano verso i due, ridacchiando.
“Helders o Turner?”
Il riccio indica con entrambe le mani il futuro scrittore. “Turner, sir.”
Sorrido. Non so se è per la pronuncia del cognome, T’ner, o per l’indifferenza che il ragazzo in questione finge, quasi ritraendosi, nonostante il viso che ormai si è tinto di rosso lo tradisca.
“Perfetto! Turner, è fortunato! Oggi invece di interrogarla, le ho portato un’ospite speciale!”
Turner fa oscillare lo sguardo tra me e il professore.
“Turner, sorrida! Ragazzi, questa è Beth Connell, la vostra nuova compagna, di Manchester. Per piacere, facciamola sentire a suo agio.”
Un “Ciao, Beth.” non troppo convinto, ma neanche eccessivamente ostico, mi accoglie nella stanza dalle pareti color panna.
“Prenda pure posto.” mi indica il banco vuoto verso il quale mi dirigo, gli occhi delle ragazze in prima fila seguono attentamente i miei movimenti.
“Ah, Turner, buon compleanno. Per oggi si rilassi, la interrogherò un altro giorno.”
Thank you, sir.”
Mi volto, a cercare le labbra da cui questo accento diverso dal mio, un po’ strambo, eppure dolce e in qualche modo familiare, proviene. Troppo impegnato a scrivere su quel libro, o un impareggiabile secchione, o qualcuno che ha qualche buona storia da raccontare.
“Signorina Connell, sa,” riprende il professore disponendo sulla cattedra una stilografica e il libro di testo “in questa classe i due signori là dietro le potrebbero dare filo da torcere. Turner scrive molto bene ed Helders è il migliore in francese.”
“Sono imbattibile, Beth!” esclama, suscitando una risata collettiva e qualche commento acido in seconda fila.
“Sarà interessante.” sorrido.
Il signor Ginley ridacchia, prima di guardare verso il riccio. “Helders, la signorina Connell è troppo dolce ed educata per dirle che sua mamma è francese. Calmi la sua intraprendenza.”
Una risata ancora più forte anima la stanza, cerco con lo sguardo Helders che scuote la testa come dopo aver perso una partita cruciale per la vittoria del campionato.
 
La campanella suona con un trillo deciso, accompagnata dal quasi simultaneo rumore dei libri chiusi e infilati negli zaini. Qualcuno sbadiglia, qualcun altro si affretta verso la porta con urgenza.
In fondo al mio, di zaino, c’è il quaderno su cui scarabocchio qualche idea, i miei pensieri, pezzi di canzoni.
Sovrappensiero, raggiungo anche io la porta, alzando lo sguardo in tempo prima di finire contro Turner, che a testa bassa armeggia con la chiusura del casco della moto. Sorride, teso, e mi fa segno di precederlo nell’uscita.
“Grazie e… Auguri.”
Thank you.”
In lui sorridono gli occhi, non le labbra, ne sono abbastanza sicura.
“Al, che cazz – ” Helders mi si para davanti, cercando oltre le mie spalle il suo amico. Mi chiedo perché debba sempre attentare alla mia incolumità con la sua grazia da ippopotamo “Oh, scusa, Beth. Non volevo.”
“Non fa niente.”
“Ah, comunque,” mi ferma, costringendomi a voltarmi “io sono Matt e lui è Alex.”
“Piacere di conoscervi.” sorrido.
“Torni a casa da sola?”
Annuisco, quasi a dire Tu che ne pensi?
“Vuoi un passaggio? Abbiamo la moto e…”
“No, grazie, Matt. Andrò a piedi, mi piace camminare.”
Alex mi guarda, come impassibile. Qualcosa nei suoi occhi, però, si muove. C’è qualcosa. Forse mi sta sorridendo.
“Come preferisci. Sappi che se vuoi essere scortata, beh, ci offriamo noi!”
Don’t be a dickhead, Matt. Lasciala in pace.” commenta l’altro con una manata sulla spalla.
“A domani.”
“A domani.” risponde uno dei due.
L’altro, manco a dirlo, alza il mento sussurrando un “Bye.”
Alex, Alex Turner. 

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Capitolo 2
*** I bet that you look good on the dancefloor. ***


Piego la testa a destra e sinistra, contemplando i prodotti confezionati della macchinetta davanti a me. Di cosa ho voglia? Forse di biscotti al cioccolato. Joaquin, il panettiere di fronte alla scuola di Manchester, preparava una coppia di biscotti per me e le mie compagne ogni mattina. Ma i tempi del grigio della mia città natale sono – relativamente – lontani e mi ritrovo davanti a questa dannata macchinetta a dover scegliere la mia colazione. High Green, Sheffield. Niente panetteria davanti alla scuola.
Vada per i biscotti al cioccolato, digito svogliatamente il codice A5 sulla pulsantiera che emette due bip-bip. La molla meccanica che stringe il mio pacchetto blu di biscotti, però, ha deciso che questa mattina la colazione mi sarà negata. Il secondo ostacolo in poche ore, contando che il primo sono stati i miei genitori. Sbuffo, appoggiando fiaccamente una mano sul vetro. “Per favore” sussurro implorante “ho fame”.
“Perché non hai fiducia nei tuoi compagni?” una voce alle mie spalle mi fa sobbalzare e di fianco a me spunta una testa di capelli ricci e scuri che scrolla le spalle “Spostati, che alla macchinetta piacciono le maniere forti”. Con una spallata sul fianco delle macchinetta vedo i miei biscotti cadere sgraziatamente e un sorriso sul viso di Matt “Non c’è di che” e si allontana verso il suo gruppetto di amici. Afferro il pacchetto e mi dirigo verso il corridoio, sedendomi sul davanzale della finestra e prestando attenzione al fatto che la gonna della divisa non mostri più del dovuto. Questa mattina, come ogni mattina, sono scesa in cucina per la mia razione di energia quotidiana. Sfregandomi le mani, mi sono seduta davanti alla mia tazza di the e mia madre è arrivata di gran carriera, con i capelli legati approssimativamente sulla nuca “Beth, tesoro, questa mattina la torta è finita.”
“Cosa vorrebbe dire che la torta è finita.”
“Che stamattina tuo padre incontrerà i fornitori e ha mangiato l’ultima fetta di torta, convinto che avessimo avanzato i muffin… Che non abbiamo avanzato.”
“Quindi cosa mangio?”
“C’è la ciambella di Gwyneth, se vuoi.”
“Gwyneth la nuova apprendista pasticcera?”
Ha annuito “Sì, esatto!”
“No, grazie” ho spinto in direzione opposta il vassoio.
“Ma è buonissima!”
“Grazie, ma non mi fido. Non è che solo perché state pensando di assumerla, allora devo ingerire i suoi esperimenti prima di andare a scuola. Tanto più quando ho una prova di letteratura. Grazie mamma, è come se avessi accettato, io ora devo andare.”
E così si è esaurita la mia colazione quotidiana.
Davanti a me sfila un gruppo di ragazzine del primo anno. Poco dopo, Helders e Turner trascinano i piedi lungo il corridoio. Il primo mi vede, raggiungendomi baldanzoso.
“Stavo pensando…” inizia indicandomi con il dito “che dato che ho fatto sì che tu mangiassi i tuoi biscotti, dovresti sentirti in debito.”
“Mi sento in debito. Ne vuoi uno?” allungo il pacchetto verso di loro.
“Nah. Vieni a vederci, stasera.”
“Matt, ma che…” Alex gli mette una mano sulla spalla con sguardo interrogativo.
“Temo di essermi persa qualche passaggio” sorrido educatamente “dovrei venire a vederti fare cosa? Prendere a spallate oggetti?”
“No, simpaticona,” mi apostrofa “io, Turner e altri due amici abbiamo un gruppo. Siamo bravi! Stasera suoniamo qualcosa nel mio garage, i miei sono fuori città. Dovresti passare.”
“Non so nemmeno dove abiti.”
“Ah, non è difficile. Verrà a prenderti Chloe, lei sa dove abito. Voi andate d’accordo, no?”
Annuisco, sgranocchiando il mio biscotto.
“Bene, allora ci vedremo questa sera.”
“Che musica fate?” domando, fermandoli nella loro passerella a metà del corridoio.
“Roba che ti piace sicuramente, northerner” mi indica con l’indice paffuto il mio creditore.
La campanella sta per suonare, e mentre con un saltino scendo dalla mia postazione rialzata, Chloe mi raggiunge accelerando il passo “Beth!”
Mi volto, pulendomi le labbra dalle briciole scure “Ciao, Chloe.”
“Ho visto che parlavi con Matt e Alex… Verrai stasera? Passo a prenderti?”
“Verrei volentieri” sorrido infilando un canestro millimetrico con la carta dei biscotti.
“Penso che tu faccia bene. Poi ci saranno anche dei nostri amici che non vengono qui a scuola… Conoscerai un po’ di persone nuove! Passo da te alle nove e mezza, non vestirti elegante che il garage di Helders è tutto tranne che un posto chic” ridacchia.
 
Questa mattina evidentemente una congiuntura astrale ha fatto sì che dopo non aver potuto fare colazione, io ora debba anche perdere il pullman che dovrebbe riportarmi a casa. Per quanto io acceleri il passo, lo vedo allontanarsi da me con uno sbuffo grigiastro e raggiungo la fermata per inerzia, con le gambe che accennano a una corsa e la sola voglia di imprecare. Ma che cazzo ho fatto di male?
Il rumore martellante del motore di una moto da cross si avvicina alle mie spalle e sembra decelerare man mano. Sbuffo, voltandomi e riconoscendo il taglio di due occhi a me familiari, il viso coperto dal casco integrale. Si ferma davanti a me, poggiando un piede a terra e mostrandosi, con un timido sorriso, il casco tirato su.
“Il pullman…”
“Già” puntualizzo, sventolando la mano in aria “aspetterò il prossimo.”
“Se… Se ti accompagnassi io? Se ti fidi, ovviamente” arrossisce, abbassando lo sguardo.
Vorrei essere capace di ponderare idee e pensieri, ma davanti a certi occhi non ci riesco. “Mi salveresti la giornata” sorrido. Il suo sguardo sembra illuminarsi istantaneamente e raggiunge con le dita il casco, togliendoselo “Non ho un altro casco, tienilo tu il mio.”
“Sei sicuro? Cioè… Per me non è un problema se il casco lo tieni tu” cerco di spiegare gesticolando. Dio, quanti anni ho? Voglio fare la scrittrice e non riesco neanche a finire una frase di senso compiuto. Parlo a monosillabi, ma da quando parlo a monosillabi?
“Oh, no. No, no. Devi tenerlo tu” me lo allunga, inclinando appena la moto. Assecondo i suoi movimenti e salgo, le gambe unite e penzolanti dallo stesso lato della moto: un altro svantaggio da aggiungere alla divisa scolastica, la gonna. Mi infilo il casco e lo stringo adeguatamente sotto il mento. In quasi un mese di scuola non abbiamo mai parlato e adesso – giusto il tempo che giri la chiave – mi ritroverò abbracciata a lui.
“Dove?”
“Wortley Road.”
“Davvero?” domanda sorpreso, voltandosi di profilo. Mi stai prendendo per il culo, Turner?
“Sì… Perché?”
“Io vivo in Angram Road… Siamo vicini.”
“Oh” sorrido. Mi piace il modo in cui parla e trascina le parole o ne mozza le sillabe.
“Pronta?” mi chiede.
“Pronta.”
Mette in moto, controlla che non arrivino macchine e si immette sulla strada, con una calma decisione nella guida. Infonde tranquillità. La pioggia grigia di Sheffield ha impregnato il suolo e i fili d’erba che giacciono ricurvi sotto il peso dell’acqua, è febbraio inoltrato, fa freddo e l’aria sembra tagliarmi le gambe. Tremo appena e quando Alex, dopo essersi fermato a un semaforo, accelera, stringo le mani al suo petto con più decisione, i capelli scuri che si muovono. Sento il battito del suo cuore, appena sopra le mie mani giunte, e anche questo mi infonde una pace che non riesco a descrivere. Vedendo passarmi vicino nuovi posti di questo angolo di Inghilterra che è casa mia – chissà fino a quando – prendo pian piano coscienza di quante cose vorrei chiedergli, di quanto desidererei conoscerlo meglio, più a fondo. Qual è il suo scrittore preferito? Meglio la prosa o la poesia? Cosa vuole fare da grande? Oasis o Blur? Beatles o Stones? Pulp o Suede?
E’ un ottimo studente, e mi sembra anche un bravo ragazzo.
Dopo un paio di incroci, raggiungiamo la rotonda che precede Wortley Road e da lontano, gli indico dove fermarsi. “Lì va bene, grazie.”
Segue diligentemente le indicazioni e rallenta piano, avvicinandosi al marciapiede. Scendo con un balzo e, ferma davanti a lui, mi tolgo il casco, dal quale i miei capelli biondi si riversano scompostamente. Un risolino spontaneo gli scappa dalle labbra, riprendendo il casco.
“Grazie, davvero, hai migliorato questa giornata.”
“Aspetta questa stasera per dirlo, potresti pentirtene” ironizza infilandosi la mano tra i capelli.
“Sono certa di no” asserisco “Ci vediamo stasera, allora.”
“A più tardi, buon pomeriggio, Beth.”  
E’ una parola che suona così bene, tra le sue labbra. Mi piace come parla, ma quando pronuncia il mio nome, ancora di più. Mi saluta sventolando la mano e riparte, mentre io mi avvio verso casa, le scarpe che ticchettano sull’asfalto bagnato.
 
“Ciao, Chloe!” mi chiudo il cancello di casa alle spalle e stringo la mia nuova amica in un abbraccio.
“Sei pronta?” mi sorride.
“A dire il vero sono un po’ nervosa… Non conosco praticamente nessuno.”
“Conosci me, Matt e Alex. Ci saranno anche un paio di nostri compagni di classe. E poi non preoccuparti, sono tutte persone a posto. Sperando che non ci sia Lauren” storce le labbra, calciando lontano una pietra.
“Chi è Lauren?” mi stringo nel cappotto.
“Una tizia della nostra scuola… Non sai di lei e Alex?”
Ora sono io a voler prendere a calci un sasso. Peccato che ci sia solo qualche mozzicone solitario, sul marciapiede. Non so perché la mia reazione – ben nascosta, o almeno spero – sia così forte e viscerale. Mi sembra di aver percepito qualcosa in Alex e, senza diritto alcuno, ne sono gelosa.
“No. A dire il vero non so niente.”
“Allora te lo spiego brevemente” si sfrega le mani “Lei e Alex si sono frequentati per qualche mese… E lei l’ha lasciato, e in molti dicono che l’abbia anche tradito, con un ragazzo dell’ultimo anno. I maligni, a cui io sono portata a credere” un sorriso malizioso “sostengono che l’abbia fatto perché lui ha la macchina ed è conosciuto a scuola.”
“Che cosa squallida” mi lascio sfuggire, con tono piatto.
“Già. E’ la stessa cosa che ho detto io.”
Da lontano sentiamo provenire musica e voci che si sovrappongono e il viso di Chloe si rischiara “Eccoli, i casinisti!” esclama indicando un cancello poco più avanti verso il quale ci dirigiamo. Percorriamo il vialetto di entrata e suoniamo alla porta, dopo poco viene ad aprirci un ragazzo più alto di noi, con un viso paffuto e le guance arrossate dall’alcol. Ha una felpa grigia e dopo averci osservate e aver riconosciuto Chloe, ci saluta calorosamente.
“Hello, girlies! Vi stavamo aspettando!” si fa da parte per lasciarci entrare, allungando la mano verso di me “Noi non ci conosciamo, io sono Andy. Tu devi essere la ragazza di Manchester.”
“Sì, sono Beth” stringo la sua mano sudata.
“E’ un piacere conoscerti. Andate pure di là, ci sono gli altri.”
Nel salotto circa quindici persone – in piedi, sedute sul divano, sedute per terra o sulle scale – parlano e scherzano tra loro, un bicchiere o una bottiglia in mano. Come anticipato da Chloe ci sono alcuni nostri compagni di classe che mi salutano subito, con dolcezza, come se essere fuori da quella classe ci ponesse in una situazione più distesa, in cui lasciarsi andare un po’ di più. Ci sono anche volti non noti, come Tess e Diana, due sorelle amiche del padrone di casa e Jamie, un ragazzo più grande di noi di un anno dal viso simpatico e due grandi occhioni chiari che suona nel gruppo di Alex, Matt e Andy.
“Eccovi qua!” Matt ci accoglie allegro, saltellando vicino a noi “Lasciatemi i cappotti, li porto di sopra. E voi andate in cucina a prendere subito due birre, che tra poco iniziamo!”
Seguo Chloe lungo il corridoio che si affaccia sulla cucina che ha tende a scacchi bianchi e rossi e un bancone centrale su cui sono disposti cibo e bevande. Anche qui c’è un gruppetto di persone dietro al quale, ben nascosto e appoggiato al ripiano vicino al lavello, c’è Alex, felpa blu oceano e i capelli scompigliati. Gioca con l’etichetta della sua bottiglia di birra, completamente estraniato dal resto del mondo. Afferro un bicchiere, ci verso della birra e mentre Chloe si intrattiene a parlare con un tale di nome Tom – il ragazzo per il quale ha una cotta di dimensioni spropositate – mi avvicino ad Alex silenziosamente. Alza il volto e vedendomi, sorride spontaneamente. “Ciao, scusa io…”
“Eri pensieroso. Ciao anche a te” mi appoggio accanto a lui, le braccia conserte e il bicchiere a fior di labbra. Percepisco il suo sguardo con la coda dell’occhio “Sei nervoso?”
Scolla le spalle “Come sempre, ti direbbe Matt.”
“Ma tu come ti senti?”
“Nervoso” ride, per poi bere un generoso sorso dalla bottiglia, gli occhioni attenti a captare ogni movimento nella sala.
“Farete canzoni vostre?”
Scuote la testa “Stasera solo cover e una nostra canzone. Ma ci stiamo lavorando seriamente.”
“Allora quando avrete un cd, ne voglio una copia.”
“Autografata” sorride, voltandosi verso di me e lasciando perdere il resto dei presenti. L’alcol lo rende apparentemente più sicuro di sé, o almeno gli fa dimenticare quella paralizzante timidezza.
“Scrivi tu le canzoni?”
Annuisce, serio “Mmm, sì. Sono il quello che gioca a fare lo scrittore nel gruppo” lo sguardo che ritorna all’etichetta martoriata.
“Al!” l’urlo di Matt sovrasta le voci dei presenti e la sua mano in aria ne richiama l’attenzione. Seguiamo gli ordini del padrone di casa e lo troviamo sulla porta del garage a salutare tutti i suoi amici. Quando gli arrivo davanti, preceduta da Alex e di fianco a Chloe, mi ferma appoggiandomi una mano sulla spalla. Mi guarda e con tono solenne mi chiede “Devo chiedertelo, prima di farti entrare: Oasis o Blur?”
Intercetto lo sguardo divertito di Alex, qualche passo davanti a me, che scuote la testa. Mi porto l’indice al labbro “Mmm, Radiohead, no!?”
Alex e Chloe scoppiano a ridere, Matt mi guarda ancora più serio, il volto preoccupato “Mi stai prendendo per il culo, vero?”
“Sì, Matt. Lo sto facendo.”
Scrolla le spalle unendosi alla risata e mi permette di entrare nel garage di casa Helders, in cui gli strumenti sono già pronti e Andy e Jamie si trovano già alla loro postazione.
Alex si avvicina al microfono, tirandosi sulla testa il cappuccio della felpa fino agli occhi, tra le dita ha già un plettro azzurro e si abbassa a prendere la chitarra elettrica.
“This one’s Take it or Leave it by The Strokes” sussurra nel microfono.
“E’ così timido” commenta dolcemente Chloe, piegando la testa di lato “ma è davvero bravo.”
 
Leave me alone
I'm in control
I'm in control
And girls lie too much
And boys act too tough
Enough is enough
 
Ha una bella voce e ancora una volta mi piace come pronuncia le parole, come gli scivolano tra le labbra, come le soppesa o le scaglia contro il microfono. Non guarda mai di fronte a sé, ma sempre verso la chitarra, in basso. E’ totalmente concentrato sulle sue dita sulle corde e su nient’altro, come in un mondo totalmente a parte in cui noi non dobbiamo mettere piede.
Qualcuno urla incoraggiandoli e un’ovazione accoglie il termine della prima canzone. Guardandomi intorno mi rendo conto della bellezza della musica, che rende un garage di Sheffield come Glastonbury.
This is…” si passa una mano tra i capelli nervosamente “this is for the Oasis’ fans. I know there’s some Mancunian northerner over there” ridacchia indicando verso di noi.
“Presente” sorrido, alzando a mezz’aria la mano. Quando cerco il suo sguardo, stranamente lo trovo. Tra i presenti, i suoi occhi sono fissi nei miei, con imbarazzo forse, ma ci sono. E sono belli.
E’ come se creasse un mondo tra me e lui, in cui si nasconde parzialmente dietro al microfono e non posso che riconoscere la canzone tratta da uno dei miei album preferiti.
 
I think I've got a feeling I've lost inside
I think I'm gonna take me away and hide
I'm thinking of things that I just can't abide
I know the roads down which your life will drive
I find the key that lets you slip inside
Kiss the girl, she's not behind the door
But you know I think I recognize your face
But I've never seen you before
 
Chloe mi passa una bottiglia di birra e ci scateniamo a ballare con i ragazzi intorno a noi, qualcuno va ad abbracciare Andy che si dimena ridendo e lasciando andare indietro la testa. Io e le ragazze ci stringiamo in un abbraccio, mentre urlo le parole della canzone mi volto verso il microfono e i suoi occhi sono lì a guardarmi, un attimo soltanto, prima di spostarsi a un punto lassù, a cercare chissà cosa.
Ridiamo, cantiamo, ci abbracciamo e saltiamo tutti insieme sulle cover degli Strokes prima di arrivare al termine della scaletta.
Alex inizia con l’intro e Chloe, spostando indietro la chioma di capelli scuri e sventolando le mani davanti al volto accaldato, mi dice “Questa è una loro canzone”.
 
Lady, where has your love gone?
I was looking but can't find it anywhere
They always offer when there's loads of love around
But, when you're short of some, it's nowhere to be found
 
Mentre procede con il testo, mi soffermo a pensare alle parole che ha appena cantato, mentre i ragazzi accanto a me riprendono a saltellare e urlare e io cerco mentalmente di fermare il tempo. Più lo guardo, più lo ascolto, più non faccio che pensare a quanto vorrei conoscerlo meglio, per sapere da dove arrivano queste idee, da dove proviene quest’ispirazione che a me sembra tanto matura e profonda da poterci scrivere libri.
L’esibizione termina e il casino aumenta esponenzialmente, con ragazzi che saltellano fino alla batteria ricoprendo i ragazzi di complimenti e abbracci fraterni. Matt con un urlo dittatoriale ci indirizza tutti nuovamente in casa, dato che la temperatura si è fatta soffocante, e così, su di giri e con un po’ di birra in circolo, ritorniamo in salotto.
Mi siedo sul bracciolo della poltrona accanto a Chloe che fissa insistentemente Tom “E’ così bello…” commenta con aria sognante.
“Sei proprio cotta, eh?”
“Mmm, mmm” ride, annuendo.
Tess ci raggiunge, i capelli raccolti e una bottiglietta d’acqua tra le mani. Mi sorride “Mi piace un sacco come sei vestita.”
“Uh,” mi guardo “non è niente di speciale.”
“Già,” Chloe afferra l’orlo della mia maglietta “ma a me questo look punk piace.”
Ringrazio le ragazze e mi guardo intorno, intercettando due occhi scuri che mi osservano. Appena li incontro, si spostano a Jamie fulmineamente. Sorrido tra me e me e mi alzo, raggiungendo la porta. “Te ne vai?” domanda allarmata Chloe.
“Oh, no! Voglio solo prendere un po’ d’aria.”
Mi richiudo la porta alle spalle, mentre Matt ha messo nell’impianto stereo (What’s the story) Morning Glory? e sono ricominciati i cori sguaiati. A qualche metro da me, vicino al cancello, tre ragazzi più grandi stanno preparando una canna e l’odore forte mi pizzica le narici. Non faccio altro che sorridere, come un’idiota, con l’adrenalina di questo concerto di provincia ancora nelle vene. La mia musica, quella per la quale ho consumato cassette e cd-rom e ho sempre voluto imparare a suonare la chitarra, questa sera ci ha uniti tutti.
Mi siedo sullo scalino più basso e sento che la porta di casa si apre e si richiude rapidamente. Tre passi accanto a me e una figura magra che mi si siede accanto. “Posso?”
Annuisco, sorpresa “Certo! Complimenti per stasera… Siete bravissimi.”
“Oh,” il viso rivolto a terra “grazie mille.”
“Come immaginavo, non mi sono pentita di essere venuta, anzi.”
“Abbiamo fatto bene gli Oasis?”
“Assolutamente sì,” ammetto “e mi avete fatto pensare a quanto anche un garage di Sheffield grazie alla musica e alla compagnia giusta possa sembrare Glastonbury.”
“Quando suoneremo a Glastonbury allora ti dedicherò un’altra canzone” molleggia con le gambe.
“Una canzone degli Oasis?”
“Mmm, potrei provarci. Quale vuoi?” ride.
Don’t look back in anger, ovviamente.”
“Me ne ricorderò” si porta una mano al petto come a onorare la promessa.
“Mi è piaciuta la vostra canzone, l’hai scritta tu?”
“Sì.. Sì, io… L’ho scritta io.”
“E’ bella. Non solo per la melodia… Intendo per le parole. Per me le parole sono fondamentali e tu le sai usare così bene…”
“Sei la prima che mi dice una cosa del genere.”
“Sai, oggi mentre eravamo in moto pensavo a casa mia. A Manchester, intendo. Poi pensavo a casa mia, qua, a Sheffield. Pensavo a tante cose a dire il vero, mi manca il panettiere che ci preparava i biscotti davanti a scuola e mi mancano i derby della Premier League a insultare quelli dello United. Però oggi è uno dei primi giorni dopo molto tempo che ho il coraggio di chiamare Sheffield ‘casa’. E non so perché sto facendo questo monologo, ma tu mi sembri una persona capace di ascoltare e di capire. Io mi fido delle parole scritte, mi fido di come uno scrive. Mi fido di te.”
“Tu scrivi molto bene, immagino. Lo capisco da come parli. Io neanche tra… Tra vent’anni riuscirei a parlare così.”
“Ah, ma è la birra che fa effetto” rido.
“Che cosa vuoi fare da grande?” mi domanda, appoggiando il mento sul gomito e osservandomi dal basso.
“Dipende. Cosa vuoi che ti risponda? Vuoi che ti dica cosa vorrei fare davvero, o cosa dico a tutti che vorrei fare?”
“Entrambe le cose.”
“Per tutti farò la giornalista. Io vorrei diventare una scrittrice. E tu?”
“Per tutti farò l’insegnante di letteratura inglese. Ma vorrei diventare una rockstar.”
“Ti piace la letteratura?”
“Moltissimo,” annuisce “ma non riuscirei a fare lo scrittore. E’ troppo poco immediato, un modo di scrivere che non mi appartiene.”
“Per me funziona al contrario, non riuscirei a scrivere una canzone. Per questo mi affascinano l’ispirazione e la creatività dei cantautori.”
Guardiamo lontano, nel freddo della notte di Sheffield.
“E se diventassimo una rockstar e una scrittrice?” mi chiede, curioso, come se avessi una sfera di cristallo in cui prevedere il futuro.
“Beh, in quel caso, ci vediamo a Glastonbury.”

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