With you everything makes sense

di _Even
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vista ***
Capitolo 2: *** Udito #1 ***
Capitolo 3: *** Udito #2 ***
Capitolo 4: *** Termopercezione ***
Capitolo 5: *** Gusto ***
Capitolo 6: *** Equilibrio ***
Capitolo 7: *** Tatto #1 ***
Capitolo 8: *** Proprioricezione ***
Capitolo 9: *** Tatto #2 ***
Capitolo 10: *** Dolore ***
Capitolo 11: *** Olfatto ***
Capitolo 12: *** Sesto senso ***
Capitolo 13: *** Senso ***



Capitolo 1
*** Vista ***


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Vista [La vista è uno dei cinque sensi; precisamente, è quello mediante il quale è possibile percepire gli stimoli luminosi e, quindi, la figura, il colore, le misure e la posizione degli oggetti. Tale percezione avviene per mezzo degli occhi.]

 

Marco’s POV

 
Eravamo davvero un bel quadretto, non c’è che dire.
Sono serio: se fossi stato un tizio qualunque, uno sconosciuto che passando di lì avesse assistito alla scena, probabilmente mi sarei sbellicato dalle risate. Purtroppo per me, non andò così.
Ma andiamo con ordine.
Qualche giorno prima, la mia manager aveva ricevuto una chiamata dagli studios di X Factor, il noto talent show che, oltre a una miriade di altri artisti, aveva lanciato anche il sottoscritto. Quel giorno ci trovavamo insieme a casa mia, io e Marta, e l’isteria generale era scattata nell’immediato. Lei parlava al telefono concitata e io seguivo soltanto a grandi linee la conversazione, ma eravamo entrambi entusiasti come bambini: pareva mi avessero richiamato al programma per una collaborazione agli Home Visit. In poche parole, avrei assistito uno dei giudici nella decisione finale, per quanto riguardava i concorrenti da mandare al programma in prima serata. Ero talmente elettrizzato che lottai contro l’impulso di mettermi a saltellare come una dodicenne e, d’altronde, la stessa Marta aveva un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Mi aveva fissato un incontro con il giudice che mi aveva voluto al suo fianco in questa scelta, per discutere su alcuni punti fondamentali.
Alla fine, Marta aveva cordialmente salutato con un “Grazie e arrivederla”, aveva chiuso la comunicazione telefonica e, con mia grande sorpresa, aveva iniziato a imprecare come una camionista in menopausa. Dopo aver sparato un’immensa sfilza di parolacce, alcune delle quali nemmeno sapevo che esistessero, si era degnata di comunicarmi il nome di colui che aveva richiesto i miei servigi.
Mika.

Oh, mio Dio.
Mika. Uno degli artisti più celebri degli ultimi anni, nonché uno dei miei idoli, nonché modello a cui mi ero ispirato negli anni prima e dopo il successo di X Factor.
Ripetei quel nome nella mia mente un paio di volte.
Mika. Notizia più bella non poteva esistere.
In quel momento avevo avuto ancor più voglia di saltare come una dodicenne impazzita.
Mika, santo cielo, lui fra tutti quanti! Aveva scelto proprio me, Marco Mengoni, fra mille artisti italiani, non potevo crederci! Mi sembrava un sogno. Mentre io scoppiavo di felicità al punto che neanche mi rendevo conto di cosa mi accadesse intorno, Marta stava maledicendo me e lui.
Non che fosse scontenta per l’occasione che mi era stata data, certo che no. Ma si chiedeva, perché proprio Mika? Non poteva essere Morgan, disse, che era stato il mio giudice nella terza edizione? Non poteva essere Elio, disse, che era un grande professionista? Non poteva essere Simona?
A quel punto la interruppi, chiedendole cosa avesse contro Mika.
Lei mi rispose, in modo molto maturo, che semplicemente le stava antipatico a pelle. Atteggiamento incredibilmente professionale.
Nonostante questo, sosteneva che un’apparizione come supporto di un giudice (a prescindere da chi egli fosse) al talent show che mi aveva lanciato nel mondo della musica fosse una grande strategia di marketing, pertanto accettò di buon grado. Io, che di marketing non me ne intendevo (e ringraziavo Dio che Marta si occupasse di queste cose), sapevo soltanto che avrei preferito mangiare vetro piuttosto che rinunciare a un’opportunità come quella.
Ero su di giri come un bambino all’Acqua Park.
E così, il fatidico giorno arrivò e io non avrei potuto essere più felice.
Già. Peccato che, lungo il tragitto in auto dal mio appartamento agli studios, Marta avesse deciso di divertirsi a imprecare contro quello che lei riteneva uno “spilungone fighetto con la puzza sotto il naso”, ossia Mika. La qual cosa, ovviamente, detta in modo decisamente più colorito e meno sobrio, finì per intaccare la mia aura di positività.
Detto in poche parole, prima di entrare nell’auto stavo una favola e dopo esserci entrato stavo uno schifo. Mi mise addosso una tale ansia, una tale agitazione e un tale tutto quanto che, arrivati agli studios, ero messo così male da desiderare sul serio un bel pezzo di vetro da sgranocchiare.
Una volta entrati nell’edificio principale, però, anche Marta ammutolì. Non scambiammo una parola quando entrammo, né quando percorremmo i corridoi scortati da uno stagista e venimmo lasciati di fronte all’ingresso di una sala conferenze. Fissammo la porta, in legno chiaro e intarsiata in acciaio, che ci avrebbe condotti alla stanza in cui io e Mika ci saremmo incontrati (sotto la supervisione di Marta e di altri collaboratori, ovvio) per parlare di alcune cose riguardanti il giorno degli Home Visit.
Immobili, io e lei, di fronte a quella porta. I nostri sguardi caddero sulla maniglia, senza che nessuno di noi due si decidesse ad afferrarla e abbassarla per entrare.
Stavo per incontrare un idolo, un grande cantante, una grandissima persona ed ero nervoso come una scolaretta. Pensavo di sapere cosa aspettarmi e invece scoprii di non averne la più pallida idea. Mi avrebbe parlato in italiano o in inglese? Gli avrei fatto buona impressione? Saremmo riusciti a collaborare alla pari o il divario tra di noi avrebbe influito sulla nostra resa? Gli sarei piaciuto? Mi avrebbe detestato?
Avevo voglia di ingoiare una granata.
Mi voltai verso Marta, agitato, e in risposta mi lanciò un’occhiata che emanava sicurezza e che mi spinse a essere, o perlomeno fingere di esserlo, deciso.
Così serrai gli occhi e spalancai la porta in un unico colpo secco, come quando si strappa via un cerotto.
Inutile dire che lo spaventai a morte.
Era seduto a una scrivania che si trovava al centro della stanza e stava maneggiando alcune scartoffie: quando entrai con tanta irruenza saltò praticamente in aria e non riuscì a trattenere un sussulto e strinse i fogli di carta così forte da stropicciarli, parandoli di fronte a sé come uno scudo.
Come dicevo, saremmo stati esilaranti visti da fuori. Ma purtroppo ero stato io a spaventarlo, a rischio di sembrare un maleducato o, peggio, un povero pazzo, così entrai senza dire una parola e mi sedetti di fronte a lui, senza mai guardarlo dritto in faccia. Fu soltanto quando Marta prese posto accanto a me che notai che nella sala non c’era nessun altro all’infuori di noi e lui.
Presi quasi nell’immediato a torturarmi l’unghia del pollice con i denti, mentre la mia gamba tremava sotto il tavolo senza che io riuscissi a fermarla. Marta dal canto suo, dondolava avanti e indietro come fosse stata una psicotica, e poi c’era lui, che riordinava fogli che mi parevano già perfettamente impilati.
Nessuno parlava, nessuno faceva niente di concreto né di interessante.
Sembravamo una piccola comunità di recupero per svitati nevrotici.
E io, povero ebete col cervello in rigor mortis, tenni gli occhi bassi, puntati in un primo momento sulla scrivania di vetro. Poi, però, li spostai per caso sulle mani di Mika.
Guardandole, mi accorsi che erano grandi, ma grandi davvero. Indubbiamente eleganti, come quelle di un pianista o di un direttore d’orchestra. Come facesse anche solo con il corpo a emanare il concetto di musica, non lo sapevo. Tutto ciò che riuscivo a pensare, mentre lo guardavo prendere e spostare quelle pagine da un punto all’altro del tavolo, era che lo invidiavo non poco per questo.
Improvvisamente, Marta mi colpì da sotto il tavolo, lanciandomi uno sguardo ammonitore. Rinsavii all’istante: il modo in cui lo stavo fissando doveva essere piuttosto inquietante, per non dire totalmente privo di professionalità. Tenere gli occhi incollati sulla gente famosa era più un comportamento da teenager in calore che da collega alla pari. Ma quanto riuscivo a essere idiota?
Resomi conto della mia figuraccia e del tutto incapace di scusarmi con lui senza fare la figura dell’inetto, vagai con lo sguardo per il resto della stanza, fingendo indifferenza.
Questo finché i miei occhi caddero sul volto di Mika. Più precisamente, mi soffermai sulla mascella, perfettamente cesellata, e sul collo elegante, sul quale spiccavano due nei vicini tra loro, paralleli l’uno all’altro, in modo preciso. Una leggera barba iniziava a spuntargli sul mento e sulle guance. Dannazione a lui. Se avesse potuto prestarmi un po’ della sua perfezione, avrei volentieri…
Riabbassai nuovamente lo sguardo, intimidito dai miei stessi pensieri. Non era una novità che io tendessi a paragonarmi a ogni uomo incontrassi, sentendomi sempre e immancabilmente inferiore, ma da qui a utilizzare termini come “perfetto” ne passava di acqua sotto i ponti.
Potevo ammettere con una certa tranquillità che Mika fosse un bell’uomo, di certo più bello di quanto io sarei stato mai, ma “perfezione” era qualcosa da attribuire a ben altro, a qualcosa che ti lascia senza fiato e senza parole.
Fu questo che pensai, prima che quasi involontariamente i miei occhi venissero spinti a osservargli la bocca. Sapevo che ogni qualvolta la apriva, la gente impazziva: il pubblico si emozionava per le sue canzoni, oppure rideva per le cose buffe che diceva, ma in ogni caso restava incantato a osservare quelle labbra piccole e sottili dall’inconfondibile forma a cuore. Mi ritrovai ancora una volta a invidiarlo senza ritegno.
I miei occhi, pertanto, si concentrarono sul suo naso che, constatai, era molto “francese” (per quanto, una volta che l’ebbi pensato, ritenni questa mia opinione infinitamente ridicola). Era risaputa la particolare predisposizione di Mika ad arricciarlo quando era divertito o, più semplicemente, rideva. Sapevo per certo che quel naso arricciato, oltre alle immancabili fossette, erano due delle cose che facevano impazzire i fan, più di qualsiasi altra qualità fisica avesse.
Poteva anche levarsi la maglietta durante i live e le ragazzine sarebbero esplose in un tripudio di urla, occhi lucidi e braccia protese verso la sua figura slanciata; ma se voleva davvero conquistare il cuore di ogni singola persona tra il pubblico, gli bastava sorridere e tutti l’avrebbero amato.

Certo, come se non fosse già abbastanza amato da tutti.
Con la coda dell’occhio, scorsi Marta che si voltava verso di me e sapevo che stava per colpirmi di nuovo. Me lo meritavo, ovviamente, perché ero tornato a fissarlo e questo era stato davvero sciocco da parte mia.
Ma prima che potessi distogliere lo sguardo, o farmi colpire da Marta, o rendermi minimamente conto di ciò che stava accadendo, i miei stupidi occhi proseguirono da soli la loro folle corsa e incontrarono quelli di Mika.
Solo che, nello stesso momento, quelli di Mika incontrarono i miei.
E ci ritrovammo a guardarci negli occhi.
I suoi erano perfetti.
Sì, quando lo pensai, ritenni che fosse il termine più appropriato, forse l’unico adatto a definirli. Perfetti.
Esternamente splendidi: le ciglia scure facevano da cornici alle iridi color nocciola, in parte screziate di verde, dal contorno scuro come terra bruciata; le pupille parevano brillare di luce propria; la forma tondeggiante li faceva apparire ancora più grandi di quanto non fossero già.
Ma quegli occhi, io, non mi limitai di certo a guardarli. No.
Erano così limpidi, così sinceri e puri, che arrivai a leggervi dentro.
La cosa più assurda è che vi lessi, incredibile a dirsi, ansia. Mi riuscì difficile crederlo visto che, tra i due, ero io a dover essere quello nervoso ed emozionato. Invece sembrava quasi che fosse lui, e non io, a essere di fronte a una star internazionale pluripremiata. Potei scorgere, però, anche un minimo accenno di curiosità, la stessa che anch’io nutrivo nei suoi confronti: non a caso, poco prima avevo preso a studiarlo in ogni suo dettaglio. Ci leggevo, in quegli occhi, le stesse domande che mi ero fatto anch’io su di lui. Pazzesco, per non dire comico.
Istintivamente sorrisi.
Ma accadde una cosa molto buffa.
Lui sorrise a sua volta, nello stesso istante.
Nel vedere questo, il mio sorriso si ampliò e anche il suo, simultaneamente, e mi veniva da ridere, perché sembravamo due idioti allo specchio. Eppure stava accadendo di più, ci stavamo intendendo alla perfezione senza spiccicare parola: tutta quella situazione era assurda e ci sentivamo entrambi dei perfetti imbecilli, ma capii di non doverlo temere e lui capì di non dover temere me. Ci saremmo aiutati a vicenda a superare quell’iniziale tensione e a rendere quella situazione il più normale possibile.
In quel momento ebbi la certezza che sarebbe andato tutto benone.
Nel frattempo mi accorsi vagamente che Marta mi aveva colpito da sotto il tavolo e che ci stava osservando, per capire che cosa ci fosse preso. Mi dispiacque per lei, perché sapevo che non ci sarebbe mai arrivata.
Era semplicemente scattata l’intesa, a prima vista, tra me e lui.
Non distolsi lo sguardo. Avrei dovuto, chiaramente, perché erano passati diversi secondi e nessuna persona sana di mente avrebbe aspettato così tanto prima di interrompere uno contatto visivo. Ma ci trovavamo così bene, occhi negli occhi, che ci sembrò il peggiore dei crimini smettere.
E così non smettemmo.

A incontro finito, avevamo chiarito i punti fondamentali della nostra linea.
Dalle concorrenti non volevamo semplicemente uno sfoggio di bravura perché di brave, disse lui, ce ne sono a migliaia. Lui voleva qualcuna che fosse interessante, che potesse arrivare al cuore del pubblico e, perché no, anche allo stomaco. Quello lo dissi io, però, perché ero dell’opinione che la musica dovesse prenderti per le viscere, e lui si trovò perfettamente d’accordo nonostante il modo grezzo con cui espressi quella mia teoria.
Come location aveva proposto un casale (che, scoprii in seguito, più che un casale era una reggia in miniatura) a Dublino, in Irlanda. Io andavo pazzo per l’Irlanda, ma cercai comunque di mostrare nonchalance, come Marta mi aveva suggerito di fare, dicendo che, sì, Dublino sarebbe stata una scelta niente affatto male. Ma non riuscii a nascondere del tutto il mio folle entusiasmo e sembrai un esagitato di prima categoria.
Forse non avevo fatto la figura migliore della mia vita, ma non mi importava granché perché io e Mika stavamo andando alla grande. Per tutto il tempo non staccammo mai gli occhi l’uno dall’altro e questo, pazzesco solo a pensarci, ci mise stranamente a nostro agio.
Io, che soltanto quella mattina avevo lo stomaco aggrovigliato per la paura, adesso mi stavo trovando talmente bene che il tempo passò senza che me ne accorgessi, grazie a quello sguardo rassicurante, vivace e brillante che per fortuna era ancora saldamente ancorato al mio.
Poco prima di uscire dalla sala conferenze, Mika mi disse di chiamarlo Michael, perché era così che gli amici lo chiamavano. Il che stava a significare che già mi considerava un amico o che, più semplicemente, mi aveva preso in simpatia. Non avrei potuto chiedere di meglio.
La porta si richiuse, l’incontro finì e, dagli occhi vivaci e brillanti di Mika (o meglio, Michael), piombai in quelli color ghiaccio di Marta.
In quel momento non ne avevano solo il colore, ma anche lo stesso calore. Erano gelidi.
Parte del tepore e della tranquillità che avevo acquisito poco prima andarono dissolvendosi mentre l’ombra tutt’altro velata della disapprovazione di Marta si profilava di fronte a me. Non sapevo cosa avessi fatto esattamente per irritarla, sapevo solo che era irritata, eccome. Si voltò e mi precedette, camminando a passo di marcia.
Mi ritrovai a fissare la sua vaporosa chioma bionda che si scuoteva a ogni passo, mentre cercavo inutilmente di raggiungerla per capire cosa le avessi fatto. Non era come se lei non avesse affatto parlato durante l’incontro, anzi, avevo sentito chiaramente la sua voce intervenire in più di un’occasione.
Ma, a pensarci bene, non avevo posato lo sguardo su di lei neppure per un istante nel corso del colloquio. Oh, e con tutta probabilità nemmeno Michael lo aveva fatto.
Capii da solo, alla fine, e non mi stupii che fosse furiosa: lei era la mia manager, l’esperta in questo campo nonché la persona che aveva reso possibile questa collaborazione e noi, per tutta risposta, l’avevamo ignorata totalmente, come fosse stata invisibile. Che bel modo di esprimere gratitudine.
Cercai di raggiungerla, per chiederle scusa, così accelerai il passo e quando fui abbastanza vicino le posai la mano su una spalla. Si girò, i suoi riccioli frustarono l’aria, mi rivolse lo stesso sguardo glaciale di prima. Tentai di iniziare a parlare, per potermi scusare a nome di entrambi e spiegarle tutto.
Marta, però, preferì rovinare tutto con un velenoso: «Non ti facevo così, sai? Pensavo che tu, alle scemenze come le cose “a prima vista”, non ci credessi.»
Prima che potessi chiederle cosa intendesse esattamente, però, lei si voltò di nuovo e tornò a fare finta che io non esistessi come, mi doleva ammettere, noi avevamo fatto con lei.
Sapevo che lo scopo di quella battutaccia assolutamente fuori luogo era unicamente quello di ferirmi. Eppure, mentre mi trascinavo lungo il corridoio a qualche passo di distanza dalla mia manager, ebbi il forte impulso di tornare di là e cercare di nuovo il conforto che avevo tratto dagli occhi di Michael.
E per un attimo, ci pensai sul serio.
Mi fermai, mi voltai e individuai nuovamente la sala conferenze. Quella rassicurante porta in legno chiaro e intarsiata di acciaio. Lui era lì e i suoi occhi dal potere calmante erano lì con lui.
La fissai per non so quanto tempo e, dopo, feci quello che dovevo fare.
Mi riscossi, tornai a seguire Marta e, nel silenzio più totale, tornammo a casa.
 

 

 

 

 

La soffitta dell’autrice:
Oddio, voglio infilare la testa in un sacchetto di plastica e morire.
Ma salve! Eccomi qui con, ebbene sì, una long. Più che una long, è una raccolta di OS su loro due (ma quanto li amo?) ciascuna basata su uno dei sensi che, in teoria, sarebbero cinque, ma in realtà sono molti di più. Quindi verranno raccontati soltanto alcuni episodi della loro storia, come questo. Ho associato la vista al concetto di primo incontro e di intesa a prima vista, come avrete potuto notare. E niente, spero che vi piaccia.
Torno a flagellarmi, scusate. Alla prossima!
Ringrazio la mia beta, nonché suggeritrice di titoli, comeunangeloallinferno94. Te se ama, bella ♥

Baci,

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Capitolo 2
*** Udito #1 ***


Udito [L’udito è il primo dei sensi a svilupparsi nel feto e a favorire il contatto con l'ambiente esterno. Il sistema comprende sia gli organi sensoriali (orecchie, organi preposti alla percezione e alla traduzione del suono), sia le parti uditive del sistema sensoriale.]

 
 

Mika’s POV

 

«Pronto?»
«Hi Marco!»
«Cazzo» e attaccò.
Questa fu ufficialmente la peggiore telefonata della mia vita.
Parlo sul serio: durante il nostro primo e unico incontro, io e Marco ci eravamo scambiati i numeri di telefono, per chiamarci “per qualsiasi evenienza”. Così ci eravamo detti.
Così quella mattina avevo deciso di chiamarlo, ma di certo non potevo prevedere che lui mi avrebbe risposto in quel modo –credo che nessuno avrebbe potuto prepararmi a questo. Avrei pensato di aver sbagliato numero, se la sua voce non fosse stata così riconoscibile. Sì, si trattava decisamente di Marco.
Armandomi di coraggio, ricomposi il numero e lo richiamai. Rispose solo al terzo squillo.
«Pronto?» la sua voce era titubante.
«Ehm… hi Marco?»
Pausa.
«Marco?» ritentai.
«Ok, che cosa è successo?» sbottò. «È saltato il viaggio a Dublino? Ti ha forse chiamato Marta? Che cosa ti ha detto?!»
Stavolta fui io ad ammutolire. Non lo feci per maleducazione, ma perché mi stavo trattenendo dallo scoppiare a ridere, il che sarebbe stato estremamente indelicato da parte mia. Il punto era che, per quanto cercassi di placarmi nella mia mente, il mio corpo non voleva saperne di reprimere le risa.
Presi un profondo respiro e gli chiesi: «Chi è Marta?»
«La mia manager… non cambiare discorso! Che cosa è successo?»
«Perché deva essere succeduto qualcosa?» gli chiesi.
«Beh, perché tu hai detto di chiamarci per qualsiasi evenienza e se mi chiami vuol dire che… che è successo qualcosa!»
Non ce la feci più.
Scoppiai a ridere. Sapevo che probabilmente sembravo il più grande cafone del mondo, ma come potevo fare altrimenti? Ecco perché prima mi aveva risposto al telefono in quel modo assurdo, perché aveva paura che ci fosse qualcosa che non andava. Che soggetto!
«Sono scusa» cercai di dire. «Sono scusa tanto se io ride, ma non ha succeduto niente, stai tranquillo.»
Mi ripresi dalla mia crisi di ridarella e allora, dall’altro capo del telefono, sentii qualcosa di strano. Sembravano singhiozzi, lievemente ovattati, come se Marco si stesse coprendo la bocca con la mano.
«Marco, stai tu ok?» gli chiesi.
E poi fu lui a scoppiare a ridere. Rimasi ad ascoltare la sua risata: sguaiata, acuta e nasale, con brevi intervalli in cui lo sentivo boccheggiare per riprendere fiato. Era la cosa più rozza che avessi mai sentito in vita mia e, lasciatemelo dire, non sembrava affatto un cantante mentre rideva.
Lo adorai.
«Perché tu ride?» dovetti chiedergli, quando si fu calmato.
«“Sono scusa”? Si dice: chiedo scusa. Ma quanto la paghi la tua insegnate di italiano?» mi prese in giro, continuando a ridacchiare.
Storsi il naso. «Io ancora imparo, non posso parlare italiano perfecto!»
Smise di ridere all’improvviso, così come aveva iniziato, e io mi ritrovai in un attimo ad ascoltare il più perfetto silenzio, interrotto solo dai crepitii metallici del telefono.
Dopo un po’, domandò con un certo imbarazzo: «Allora scusa, perché mi hai chiamato?»
«Io volevo sentire te» ammisi.
«Me?»
«No, tua manager» lo presi in giro. «Sì, te.»
«Ah, bene. E perché?»
«Io penso che tu mi è simpatico» dissi semplicemente «E poi, se noi deviamo lavorare insieme, a Dublino, io vuole conoscere te meglio.»
«Sì, però…» esitò, poi si interruppe.
Lo incoraggiai: «Però?»
«Però…» sospirò. «Niente. È solo che si dice “dobbiamo”, non deviamo.»
Chissà perché, non ne ero del tutto convinto che il suo “però” fosse dovuto al mio pessimo italiano, ciononostante non intendevo insistere per sapere cosa ci fosse sotto –ammesso che ci fosse qualcosa sotto. Non volevo rovinare quella conversazione per nulla al mondo: era da tempo che non mi divertivo così.
«Allora, dime» cambiai discorso. «Che tu sta facendo?»
«Io sto… niente» incespicò. «Sono a casa mia. Ehm, con Marta, che mi fissa perché si chiede cosa ci stiamo dicendo. Oh, e ti saluta.»
Ops.
Ops mille volte.
Non avevo minimamente preso in considerazione la possibilità che avrei potuto interromperlo in un momento un po’, come dire, delicato.
Voglio dire, solo un idiota non avrebbe fatto caso al modo in cui lei lo fissava durante il nostro incontro e, inutile dirlo, avevo già messo in conto la possibilità che lei potesse essere più di una manager per lui.
Ora capivo il perché di tutta quell’agitazione, si stavano dando da fare! Si stavano dando da fare e io li avevo interrotti, che guastafeste che dovevo sembrargli.
«Ora io capisco!» sghignazzai. «Sono scusa, anzi no, chiedo scusa perché io ha interr… interro… oh insomma, ha stop voi due! Continuate, io saluto te.»
Lui non colse subito che avevo capito cosa stavano facendo: «Inter… cosa? Interro… interrotti? Oh, no aspetta, interrotti
«Marta e tu stava per… no? Oh ok, chiedo scusa! Bye Marco!»
Lo sentii urlare qualcosa mentre staccavo la chiamata. Non capii cosa e non volli saperlo: era con la sua ragazza, giusto?
Che dire? Tra uomini potevamo capirci e il tempo per l’amore si concede a tutti. Speravo solo che lei non lo tenesse troppo a lungo imprigionato tra le lenzuola.
Anzi, speravo proprio di sì. Meritiamo tutti una persona che non vorremmo mai lasciasse il nostro letto, no?

 
«Pronto?»
«Vedi che ti sei sbagliato, ti sei fatto un’idea che…»
«Marco?»
«Sì?»
«Hi!» lo salutai, prima di ogni altra cosa.
Cominciò a incespicare e a parlare velocemente. «Ehm, sì, hi, ciao, certo. Comunque, ti ricordi ieri quanto mi hai telefonato e poi hai detto quella cosa su me e Marta? Che io… lei… noi… sì. Ecco, volevo dirti che non è assolutamente come pensi.»
Scossi la testa. «Lei no è tua girlfriend?»
«Assolutamente no» esclamò, con voce acuta «Non stavamo facendo quello che tu pensi, capito?»
«Capito, capito» ridacchiai. «Non è bisogno che tu ripete me. Io ti crede.»
Tirò un sospiro di sollievo. «Menomale. No, perché, sai, c’è gente che viene da me e mi fa “Ma quindi tu e Marta state insieme?”, e io gli dico “No, ma proprio no”, e poi loro “Non ci credo, è una donna così bella”, e io: “Ma va? Non me n’ero mai accorto, pensa te!”»
«Marco?»
«Sì?»
«Calma tu!» sogghignai. «Tu parla veloce troppo e io no capisco una parola.»
«Hai ragione» si placò. Poi inspirò ed espirò profondamente, in modo quasi teatrale, e tornò a parlare come un normale essere umano. «Ricominciamo daccapo: sono calmo. Ciao, come stai?»
«Ciao Calmo, io sono Michael» scherzai. «Sto beno.»
«Che battuta pessima!»
«Battuta? Che cosa è battuta?»
Ci pensò su un attimo: «Una battuta è una… una joke! Ecco, la tua joke era brutta.»
«Ah, sì?» mi finsi offeso. «So io porto mio cane a Dublino e non porto tu.»
«Non hai senso dell’umorismo.»
«Mio cane ama mie jokes. No dice che sono brutte.»
Fece schioccare la lingua, fingendosi contrariato. «Non vorrei deluderla, signor Penniman, ma il suo cane è di fatto un cane. Quindi non parla.»
«Meglio che Melachi no parla, così no dice che mie jokes sono brutte.»
«Ma sono brutte.»
«Tu sei brutto.»
«Il tuo cane è brutto.»
«Io no ti porta a Dublino.»
«No, ok, scherzavo! Il tuo cane è bellissimo.»
Non so per quanto tempo continuammo su questa linea, l’uno rimbeccando l’altro ed entrambi trattenendo inutilmente le risate.
Cambiammo argomento in seguito, lo cambiammo diverse volte, parlammo un po’ di tutto e ogni tanto lui se ne usciva con quel: “Il tuo cane è brutto”. Benché la cosa non fossa esilarante, mi faceva ridere come un matto ogni santa volta.
Parlammo di qualsiasi cosa ci venisse in mente, perlopiù stupidaggini. Oroscopo, animali domestici, come preferivamo trascorrere le vacanze. Gli chiesi addirittura di insegnarmi le parolacce in italiano, un giorno, e lui mi disse che non l’avrebbe mai fatto, perché poi io ne avrei abusato e lui non poteva permetterlo.
Quando parlava a briglia sciolta, esattamente come quando rideva, Marco non sembrava affatto un cantante, tanto era verace. Quando, poi, si dimenticava che fossi un cantante anch’io, allora si trasformava nel tipo di persona che preferivo: naturale, semplice, genuina. L’avrei tenuto al telefono per ore discutendo delle più assurde sciocchezze, pur di continuare a parlare.
Non sapevo ancora che tipo fosse esattamente, non lo conoscevo abbastanza da poter dire che persona fosse. Sapevo solo che era il primo vero amico che riuscivo ad avere in Italia e che avevo una voglia matta di imparare a conoscerlo.

 
«Hi, Marco!»
«Voglio morire.»
«Tu smetti di rispondere me questo modo!» lo rimproverai. Perché tutte le volte che gli telefonavo doveva fare certe sparate? Non volevo certo ridergli in faccia ogni santa volta che ci chiamavamo ma, cavoli, lui non mi rendeva la vita facile.
«Hai ragione» convenne, la voce tesa come una corda di violino. «È solo che, sì, insomma, domani partiamo per Dublino. Cioè, Dublino in Irlanda.»
«No, Marco, Dublino in Norvegia» scherzai.
«Non prendermi in giro! Ho una crisi di nervi.»
«Marco, che cosa tu ha adesso? Perché tu vuole morire?» cambiai argomento, perché anche se la tentazione di continuare a prendere in giro il mio futuro collega era forte, non avevo intenzione di farlo.
Sbuffò un paio di volte, prima di rispondere, farfugliando: «Non lo so. È che non ho mai fatto una cosa come questa, sai, gli Home Visit. Ho paura che, capisci, una volta che saremo lì a Dublino, in quel casale e dovremo giudicare le ragazze, io non saprò cosa dire o cosa fare e sembrerò un cretino. Ho paura di sembrare un pivello o di fare delle scelte sbagliate, oppure di mettermi a dire cavolate…»
«... come tu fai ora» conclusi per lui. 
«Che cosa?»
Scossi la testa. Se queste erano le sue preoccupazioni, beh… sapevo che sarei risultato scortese e c’era il rischio che lui mi prendesse in antipatia, eppure non potei trattenermi dal rimproverarlo. «Chiedo scusa, tu dice che ha paura di dire cavolate, ma tu sta dicendo ora. Tu ha paura? Ok, però io ha choosato te per Home Visit e tu ora no ti fida più di me, tu no ti fida di mia choice. Tu sai perché io ha choosato te?»
«Perché sei un masochista?»
«No, no sono masochista» affermai, con tono meno duro di prima. Non intendevo certo attaccarlo, soltanto fargli capire quanto si stesse sbagliando. «Io lo ha fatto perché tu è quello che io cerco in una persona che canta in mia squadra. Tu sei ragazzo giovane, tu sei cantante bravo e ha talento incredibile, e piace tanto a gente perché… perché tu sei tu. No fa finta, mai. Se io vuole ragazze in mia squadra, io le vuole così.»
Dall’altra parte, sentii il silenzio più totale.
Temetti di averlo offeso in qualche modo: non ero solito elargire ramanzine o complimenti di sorta, ma era anche vero che non avevo mai incontrato una persona così incline al nervosismo come lo era lui. Aveva una tale paura di fare un passo falso, di dare un’impressione sbagliata di sé, che sentii il bisogno di dargli una mano per quanto potessi farlo. Non sapevo nemmeno se potessi farlo.
«Michael?» mi richiamò, con voce flebile.
«Sì?»
«Sono emozionato e agitato come se io fossi il concorrente, invece che il giudice» ammise infine, con una piccola risata nervosa. «Non ho mai fatto una cosa del genere, per me è come un salto nel buio.»
Sorrisi e, in qualche modo, seppi che Marco stava facendo altrettanto all’altro capo del telefono. «Marco, io pensa che… l’emozione è cosa bellissima, e che agitazione è ancora più bella. Quindi tu deve stare bene anche se ha la emozione e la agitazione, ok? Tu pensa che io e te domani parte e che abbiamo divertimento a Dublino e stop. Pensa solo a questo.»
«Va bene» tirò un sospiro. «Ehm, e grazie. Non so chi te la fa fare a sopportarmi ma, insomma, grazie.»
«No dice “grazie”, tu dice solo “Michael, domani io e te va a Dublino e no pensa a Home Visit”» scherzai.
Lui rise e, imitando la mia voce e il mio orrido accento, ripeté esattamente ciò che gli avevo detto. Poi aggiunse: «Posso farti una domanda?»
«Yes, tu può.»
«Prima io ti ho dato del masochista e tu hai capito cosa significa… però non sai come si dice choice in italiano? In che modo stai imparando la nostra lingua?»
Il suo tono colava insinuazioni. Nessuna meraviglia se arrossii come una bambinetta. «Noi dice “masochista” in stesso modo anche in Londra e in Parigi, solo un poco diverso. Per questo io so» spiegai.
«Non ci credo nemmeno se me lo giuri in inglese e pure in francese. Tu ti fai insegnare le zozzerie dalla tua insegnante di italiano!»
«Io ho paura di chiedere cosa significa “zazzere”.»
«È “zozzerie” e, sì, è meglio che tu non lo sappia.»
Scoppiai a ridere e soltanto allora gettai uno sguardo all’orologio. «Marco, forse è meglio che io e te va a dormire presto. Domani parte.»
«Sì, già, dovremmo» il suo tono era riflessivo. «Potremmo anche andare a dormire alle otto di sera come i vecchietti. Oppure…»
Non mi piaceva affatto il modo in cui mi si stava rivolgendo per tentarmi, perché era evidente che stava per farmi una proposta di cui mi sarei pentito. Questo non mi impedì di incitarlo a continuare: «Oppure?»
«Oppure possiamo continuare a parlare, andare a dormire quando cavolo ci pare e poi farci due ore e mezza di sonno in aereo, domattina. Che ne dici?»
Mi toccò scegliere tra una delle due opzioni e fu proprio ciò che feci.
Inutile dirlo, scelsi la seconda.
Da quella sera e da ciò che ne conseguì, appresi due cose.
La prima era che seguire i consigli di Marco era altamente nocivo.
Perché per parlare con lui al telefono mi privai di un’ora e mezza di sonno che, per quanto possa sembrare un’inezia, mi pesò molto quando dovetti svegliarmi alle cinque del mattino per andare all’aeroporto.
La seconda era che, per quanto potessi provare ad addormentarmi in aereo, non ci sarei mai, mai riuscito.
Infatti, scoprii che Marco russava come un trattore.
 

Quando il telefono dell’albergo squillò, non ebbi la minima esitazione nell’alzare la cornetta e portarmela all’orecchio, perché sapevo perfettamente chi c’era dall’altra parte.
«Hi Marco!»
«I'm not just deaf and dumb, staring at the sun!» cantò a squarciagola Marco, così forte da stordirmi.
«Oh, che giornata Michael, che giornata! Sono felice che sia finita, ma è stato tutto così bello, splendido, una figata pazzesca!»
«Tu no ha bisogno di chiamarmi» gli ricordai. «Tu è in camera accanto alla mia, poteva venire qui.»
«Sì, ma non avrei potuto urlarti nelle orecchie questo magistrale pezzo degli U2, caro il mio signor giudice» trillò, zelante.
Era una gioia sentirlo così contento. Alla fine, nonostante le sue inutili angosce, si era rivelato la spalla migliore che potessi desiderare: deciso ma conciliante, divertente con le ragazze e anche con me, senza per questo perdersi in inutili idiozie. In poche parole, era andato alla grande.
«Allora, ti piace nostre tre ragazze di squadra?»

«Le adoro, tutte e tre» affermò, senza perdere l’entusiasmo. «Gaia è la mia preferita, ma non dirlo a nessuno o ti prendo per il collo.»
«Io tiene il tuo segreto» risi. «Marco, però tu oggi mi ha copiato.»
«Cosa?»
«Quando noi ha incontrato ragazze e tu ha detto loro “Oh, emozione è bella, ma agitazione è ancora meglio”, io ti aveva detto queste cose ieri. Tu è un copione.»
Non mi rispose.
Sentii per l’ennesima volta il silenzio dall’altra parte e cominciai a pensare che fosse uno dei suoi infiniti vizi. Che adorassi i suoi vizi, poi, quella era un’altra faccenda.
«Marco?» lo chiamai. Nessuna risposta. «Marco?» ripetei.
Iniziavo leggermente a preoccuparmi. Non ce n’era motivo, ovvio, ma quel silenzio era innaturale e mi dava un senso appena accennato di disagio.
«Marco?!»                                        
All’improvviso, fuori dalla mia porta, udii chiaramente la voce di Marco che cantava: «I'm not just deaf and dumb, staring at the sun!»

Scossi la testa. Marco era un idiota, un emerito e gigantesco idiota. Gli risposi di rimando: «Not the only one who’d rather go blind!»
«Ma lo sai che sei proprio bravo? Potresti fare il cantante!» urlò da fuori la porta.
«Tu sei scemo!»
«Sì, ok, come ti pare. Ora mi fai entrare?»
E così feci.
Ma non mi limitai a farlo entrare nella mia stanza, no. A pigiare su una maniglia son buoni tutti.
Ciò che io feci fu aprire la porta non più a un cantante che ammiravo molto, o a un mio collega: aprii la porta a un mio amico, forse il mio primo vero amico da quando mi ero trasferito in Italia e, così come lui mi aveva detto, finalmente lo lasciai entrare.
Nella mia camera così come nella mia vita.

 

 

 

 To be continued…

 

 

 


La soffitta dell’autrice:
ODIATEMI PURE. Io lo farei.
Lo so che sono in abissale ritardo, ma questo capitolo mi è uscito così lungo che… dovrò dividerlo in due. Non perché trovo che l’udito sia un senso più importante degli altri, ma semplicemente è fondamentale per loro. Cioè, sono cantanti, l’udito è tutta la loro vita e se devono costruire qualcosa di importante come un’amicizia deve partire da lì, no?
Quindi, perdonatemi ancora per il ritardo e spero vi piaccia la prima parte del capitolo, la seconda arriverà a breve (spero). Ringrazio come sempre la mia beta, comeunangeloallinferno94. TE SE AMA.

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Capitolo 3
*** Udito #2 ***


Udito [L’udito è il primo dei sensi a svilupparsi nel feto e a favorire il contatto con l'ambiente esterno. Il sistema comprende sia gli organi sensoriali (orecchie, organi preposti alla percezione e alla traduzione del suono), sia le parti uditive del sistema sensoriale.]

Marco’s POV

 
«Shit
«Merda.»
Lui scoppiò a ridere.
«Smettila» lo zittii. «E ripeti dopo di me: merda.»
«Merda!»
Tenni il telefono tra la spalla e l’orecchio e mi misi ad applaudire in modo che Michael sentisse dall’altra parte. «Bravo, bravo. Poi che abbiamo?»
«Asshole
«Stronzo.»
Rise ancora una volta. Non riusciva proprio a fare il serio?
«Mi hai pregato tu di insegnarti l’astrusa e insidiosa arte delle parolacce» gli ricordai. «Quindi adesso prendila seriamente.»
Sbuffò sonoramente «Io ti ha pregato per settimane e allora tu insegna. Forza, ripeta la parola.»
«Sei l’allievo peggiore che io abbia mai avuto, lo sai?»
«Scusa me, a quante altre persone tu ha insegnato parolacce?»
Ovviamente aveva ragione, ma non mi andava di dargliela vinta. Così sospirai, come se fossi stato sfinito. «Basta, continuiamo la prossima volta, giovane allievo.»
«No, no, no, ti pleaso! Continua!»
«Michael, mi sembri un bambino di cinque anni.»
Lui per tutta risposta ridacchiò, il che significava che era totalmente d’accordo con me.
Erano passate alcune settimane dagli Home Visit di Dublino e ormai era diventata un’abitudine quella di parlare con lui al telefono tutti i giorni: vedersi non era minimamente possibile, visto che io avevo il tour e lui era impegnato tra X Factor e le lezioni di italiano. Comunque trovavamo sempre il tempo per chiamarci, nonostante quel tour mi stesse facendo impazzire… ed era proprio questo il motivo per cui mi imponevo di ritagliarmi sempre un attimo di tempo per lui. Era l’unico momento della giornata in cui potevo rilassarmi e lasciar andare la tensione accumulata, era lenitivo.
Certo, dopo tutto il tempo speso a parlare solo e unicamente per via telefonica, ammettevo che la voglia di rivederlo era tanta, anzi tantissima. Non che mi lamentassi, anzi, tutt’altro: sarei rimasto ore ed ore a conversare con lui al telefono, anche se sbagliava almeno tre parole per frase e a volte mi rifilava delle parole in altre lingue. Forse erano proprio queste piccole cose che lo rendevano ancor più interessante di quanto già non fosse.
«Io è bambino di cinque anni, Marco» ribatté. Poi, con il tono più infantile che gli avessi mai sentito usare, prese a lamentarsi: «Marco, tu manca! Quando è che torna tu?»
«Non te lo posso dire» lo presi in giro. «È una sorpresa.»
«Per favore, Marco, ti pleaso!» ripeté.
«Puoi pleasarmi quanto vuoi, ma non te lo dirò mai» affermai, ma mi lasciai sfuggire una piccola risata.
In realtà morivo dalla voglia di dirglielo, ma volevo farlo stare sulle spine ancora per un po’.
«Se tu non mi dice questo» mi minacciò. «io chiama Marta e le dice che tu legge suoi SMS su suo telefono.»
«Oh, non oseresti mai!»
«Invece yes
Ero abbastanza sicuro che non l’avrebbe fatto, voglio dire, si trattava di Michael, la persona più buona che avessi mai conosciuto. Però, riflettei, oltre a essere la più buona del mondo, era anche la più imprevedibile. Quindi non sapevo fino a che punto mentisse.
Seppi che era il momento di finirla con quella piccola recita e di dargli finalmente la notizia.
«Va bene» mi arresi. «Signor Michael Holbrook Penniman Junior, le comunico ufficialmente che…» e qui feci una pausa molto teatrale, per farlo stare ancora di più con il fiato sospeso. Alla fine esclamai: «Dopodomani ritorno a Milano!»
Lo sentii trasalire e la cosa non poté che riempirmi di soddisfazione: una volta tanto, ero stato io a sorprendere lui. Ben fatto, Marco!
«Ma… ma io pensavo che tu deva stare ancora in tour per tanto tempo!»
Mi affrettai a rispondere: «No! Cioè, sì. Insomma, pensavo di dover tornare più tardi per via di alcuni problemi, ma oggi lo staff mi ha detto che è tutto risolto e quindi…» ripresi fiato. «Finalmente torno a casa!»
Mi odiai per via del mio perenne vizio di tartagliare come un idiota e di parlare a velocità supersonica. Speravo che Michael avesse capito almeno la metà delle cose che gli avevo detto.
«Marco, è… è…» iniziò lui, senza però concludere.
Le cose erano due: o non gli faceva piacere che io ritornassi con così poco preavviso, oppure lo avevo infettato con la mia immensa idiozia e adesso anche lui si sarebbe messo a incespicare come uno stupido, come facevo sempre io.
«È…?» lo incoraggiai a continuare.
All’improvviso sbottò: «Marco, c’est magnifique! Je ne peux pas croire que je vais rencontrer vous à nouveau et visitez vous tous les jours et que tu peux voir ma maison à Milan et je…»
«Michael!»
«Che cosa c’è?»
«Che caspita hai detto, si può sapere? Di tutto ‘sto discorso ho capito solo “Marco”» lo fermai.
Mi chiedevo se fosse contento o meno del mio ritorno anche se, con la mia tendenza a pensare negativo, mi venne più facile ipotizzare che mi avesse appena rifilato una sfilza di insulti in francese. Forse erano parolacce che ancora in italiano non aveva imparato.
Attesi con ansia la sua risposta.
«Oh, tu ha ragione, Marco. È solo che… io è so felice per questo! Io è felice tanto e ho parlato ma non ho pensato a lingua» rise di sé stesso, non senza una certa vergogna. «Scusa me se io ha parlato in francese. Sono stupido tanto.»
Bene, era così felice del mio ritorno che si era dimenticato di selezionare “italiano” dal suo vastissimo menu di lingue che probabilmente aveva nel cervello. Era felicissimo, talmente tanto che aveva parlato nella prima lingua che gli passava per la testa.
E si definiva stupido?
Proprio non lo capivo quel matto, ma di una cosa ero certo: non aveva sparato una sfilza di insulti e la cosa mi stava più che bene. Anzi, mi mandava su di giri.
«Stupido? Altro che stupido, sei super-poliglotta: sei intelligentissimo!» gli risposi, in preda all’entusiasmo. «Anzi, se fai sempre così va a finire che m’imparo pure un po’ di francese.»
«Marco?»
«Yes?» lo imitai.
«Grazie.»
Pronunciò quel “grazie” in un soffio, come se fosse una parola fragile, come se avesse paura di frantumarla nel dirla troppo forte.
«Grazie di cosa?»
Lo udii prendere il respiro e poi rilasciarlo. «Grazie perché tu no fa sentire me stupido quando io parla o fa cose silly. Io ora mi sente un po’… come dicete voi? Ah, sì, intelligente.»
«Ma tu sei intelligente» sottolineai.
«Lascia finire!» mi fermò. «Tu sai, gente dice che me è strano, da sempre, ma… Io no mi sente stupido, no mi sente strano, no mi sente un freak quando io è con te. Io sto così normale quando noi due parla, ecco perché grazie. Oh, Marco, tu è mio grande amico, io adoro!»
Non me lo meritavo affatto.
Sapevo bene che il suo discorso si riferiva a un passato non troppo recente, a quando le persone lo prendevano in giro per la sua dislessia, o per il suo essere eccentrico.
Eppure non sentivo di meritare fino in fondo i suoi ringraziamenti: era talmente facile volergli bene e non ci voleva mica una laurea per capire che –non esagero– era un vero e proprio genio. Non avevo fatto niente di speciale.
Tuttavia, tutto ciò che riuscii a ribattere fu: «Adoro? Che è, la marca di un profumo?»
«Profumo è J’adore, scemo!» rise di me. «Va bene, ok: per ti ringraziare, quando tu torna io te insegna francese.»
Esultai. «Perfetto, nel momento in cui rimetto piede a Milano mi fiondo a casa tua e mi fai lezione.»
«Me lo promessi?»
«Cosa?»
«Nel moment che tu arriva qui a Milano viene qui da me e io ti insegna francese» sentenziò. «Me lo promessi?»
Avrei avuto almeno una decina di buone ragioni per cui avrei dovuto accuratamente evitare di “promessarglielo”.
A conclusione di uno dei tour più sfiancanti della mia carriera, sarei stato stanco morto e di certo Marta avrebbe insistito che io filassi a casa a riposare, il che sarebbe stato esattamente il mio programma visto che, all’infuori del palcoscenico, ero una persona alquanto pigra. Nel caso in cui mi fossi sentito abbastanza in forze, comunque avrei dovuto concentrarmi su ben altro: organizzazione di eventi, pianificazione di un possibile lancio del mio disco in Spagna, aggiornamento dei social…
«Te lo promesso» lo presi in giro. «Non appena arrivo, mi precipito da te.»
… e ovviamente fui così cretino da ignorare bellamente tutto quanto pur di rivedere il mio amico. Chi ero io per dare a Mika del bambino, quando io stesso mi comportavo come un cinquenne che non vede l’ora di andare a casa del suo compagno di scuola?
Tra bambini quali noi eravamo, però, ci intendemmo alla perfezione, così rimanemmo d’accordo: una volta tornato a Milano, sarei andato a trovarlo quel giorno stesso.
L’avrei fatto per un motivo e uno soltanto, ossia perché mi era mancato immensamente. Ma questo non glielo dissi, non al telefono almeno, gliel’avrei detto di persona dopodomani. Quando ci saremmo rivisti. 

I due giorni erano passati, io ero arrivato a Milano in mattinata insieme a Marta e nel corso della giornata avevo atteso il momento giusto per poter fare un salto da Michael.
Purtroppo non avrei potuto neanche volendo: era capitato il più orribile, spiacevole e difficile degli imprevisti ed ero bloccato in casa. Non sarei potuto uscire per nulla al mondo, tantomeno per andare da lui.
Erano quasi le undici di sera quando ricevetti la sua telefonata e sapevo che non me la sarei cavata con poco, ma risposi ugualmente.
«Pronto?»
«Grazie mille, Marco» disse freddamente.
Ci mancava solo questo. «Non è il momento.»
«Se tu no voleva venire a mia casa, tu mi diceva ieri. Io ti ha aspettato tutto il giorno anche se io ha avuto impegni.»
Aveva tutte le ragioni per essere arrabbiato, ovviamente: gli avevo dato buca senza neanche avvisarlo, era normale che manifestasse tutta la sua (giustificata) irritazione. Mi sarebbe parso strano il contrario.
Ma ora, proprio ora, non era il momento.
«Sì, hai ragione e mi dispiace, ma abbiamo avuto un problema» ammisi.
Il suo tono era velenoso: «Chi, tu e tua girlfriend
«Michael, ti prego…»
Marta, che fino ad allora era rimasta in disparte, capì che stavo parlando con lui e saltò in aria. «Passamelo!»
«Marta, non adesso» la fermai.
Ma lei non volle sentire ragioni. Mi strappò il telefono di mano e, beh, io la lasciai fare. Non avevo abbastanza energie per lottare contro la sua caparbietà.
Lo attaccò fin da subito: «Senti, tu, Mika. Non me ne frega niente se ti girano o meno, per colpa tua siamo nei guai fino al collo.»
Mi venne da piangere. Non era giusto che lo trattasse così, ma visto ciò che era successo non potei biasimarla per essere così furiosa.
Lei proseguì, con lo stesso tono isterico: «Oggi ci ha chiamati il nostro ufficio stampa, perché in un sito di gossip parlavano giusto di te. E sai che cosa dicevano? Che tu e Marco ve la fate!»
«Adesso basta» tentai di intervenire.                                          
«Marco, lasciami fare il mio fottuto lavoro!» mi rimise al mio posto, poi tornò a parlare con Michael. «Sì, è come dire che state insieme. Per colpa tua e di quegli Home Visit di merda ora tutti pensano che voi due avete una storia. Ho provato a chiamare gli amministratori di quei siti, chiedendogli di pubblicare una ritrattazione, visto che non è affatto vero che tra voi due c’è qualcosa, e loro sai che mi hanno risposto? “Il signor Mengoni ha forse qualcosa da nascondere?” Questo vuol dire che tu devi risolvere questa cazzo di faccenda!»
Marta si fermò e io mi premetti forte le nocche sul labbro, per evitare di piangere.
Non era una novità che la mia sessualità fosse argomento chiacchierato, ma come avrei mai potuto pensare che la mia amicizia con Michael potesse essere subito fraintesa e trasformata in qualcos’altro da degli idioti qualunque?
Mi sentii avvampare e mi tremarono le mani per il nervosismo.
Sentii la voce di Michael dall’altra parte del telefono parlare in modo concitato, poi Marta lo schernì: «Ah, sì? Voglio proprio vedere. Come ti pare. Te lo passo.»
E mi porse il telefono.
Lo afferrai immediatamente.
«Michael? Mi dispiace, io…»
«È tutto bene, Marco. Ora io capisco» sembrava più rilassato adesso. «Ho promesso a tua manager che ci pensa io.»
«Io non volevo darti buca, solo che…»
Mi interruppe di nuovo: «Tu viene da me domani, questa volta davvero, ed è come se niente è successo, ok? Non si preoccupa per stupidi siti di gossip: ci penso io.»
«Ok» gli risposi appena, sull’orlo delle lacrime.
Come sarebbe riuscito a smontare una voce del genere senza insospettire nessuno? Con una notizia come quella, i maniaci del pettegolezzo avrebbero potuto marciarci sopra per mesi e ne avremmo risentito entrambi, era solo questione di tempo. Allora come avrebbe fatto lui?
Non lo sapevo, ma decisi di fidarmi.
«Perfecto. Bye Marco» e staccò la chiamata.
Rimasi a fissare il telefono per non so quanto tempo, come per chiedere a quell’aggeggio senza vita se Michael ce l’avrebbe fatta a tirarci fuori da quella situazione infernale.
«Che ha detto?» Marta mi riportò alla realtà.
Alzai le spalle. «Che ci pensa lui.»
«L’ha detto anche a me, ma non ne sono affatto convinta. Non mi fido di lui.»
Sollevai la testa di scatto e le risposi a tono. «Io invece mi fido di lui. È mio amico e se ha detto che ci penserà lui, vedrai, manterrà la parola.»









La soffitta dell'autrice:
Ok, ciao gente splendida! Come state, vi sono mancata?
*una palla di fieno viene trasportata dal vento*
Sì, va bene, abbiamo concluso con l'udito, ora possiamo passare al senso successivo, uno di quesi sensi "non convenzionali".
Ma prima, ringrazio la mia mitica beta comeunangeloallinferno94. Sei una FIGATA TOTALE. 
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e anche quelli che semplicemente hanno dato una sbirciata... e vi aspetto tutti nel prossimo capitolo.

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Capitolo 4
*** Termopercezione ***


Termopercezione [La termopercezione è ciò che ci permette di sentire le temperature dell’ambiente circostante, grazie ai recettori nella pelle, e le temperature del nostro stesso corpo, grazie ai recettori interni al corpo.]

 
Mika’s POV

 “Altro che Marco Mengoni: Mika è fidanzato da sette anni!”

 
Questo diceva il titolo dell'articolo. Già. Quel giorno sul web non si parlava d’altro che della mia più recente intervista, nonché la più importante tra tutte quelle che avevo rilasciato.
Avevo dichiarato di essere felicemente impegnato da ben sette anni con un uomo ed elencavo tutto ciò che volevo dalla mia vita con lui: matrimonio, figli, un legame per la vita.
Io, tappato in casa per via di un terribile temporale che aveva bloccato mezza Milano, con indosso il maglione più soffice e caldo che avevo e i riscaldamenti al massimo –per combattere quel freddo innaturale che il maltempo portava con sé–, la rilessi almeno cento volte.
Il mio fidanzato, Andy, era impazzito di gioia quando glielo avevo detto. Era stufo che tutti mi ritenessero single, quando invece noi due avevamo una relazione così longeva e non aveva fatto che ripetermi quanto fosse felice e quanto non vedesse l’ora di rivedermi per stringermi e baciarmi e, insomma, altre cose da fidanzati.
Quello che avevo accuratamente evitato di dire, però, era il motivo per cui ero uscito allo scoperto.
Ossia, per Marco. Per far tacere tutte le voci su noi due. Gli avevo dato la mia parola che avrei risolto la questione e l’avevo fatto, così ora nessuno si sarebbe più azzardato a dire una parola sulla nostra “presunta relazione”. Per il pubblico, oramai, ero quello fidanzato.
Era a questo che stavo pensando quando bussarono alla porta.
Sussultai. Non poteva essere Marco, no? Fuori c’era un tempaccio, Marta non gli avrebbe mai concesso di uscire di casa, per evitare mal di gola, raffreddore, influenza. Non poteva in alcun modo essere lui.
Bussarono di nuovo.
«A’ Michael, apri ‘sta porta che me sto a congelà!»
Sì, era senza ombra di dubbio Marco.
Mi precipitai ad aprirgli e me lo ritrovai di fronte bagnato fradicio, dalla testa ai piedi, con le braccia spalancate e un sorriso estatico sul volto.
«Marpione che non sei altro! Perché non me ne hai mai parlato?»
«Entra, now!» lo intimai, spingendolo in casa. Era completamente pazzo a beccarsi il più grande acquazzone della stagione!
Marco richiuse la porta dietro di sé, poi si levò la giacca completamente zuppa e si passò una mano tra i capelli, ora piatti e gocciolanti. «Fa un freddo cane là fuori.»
Scossi la testa. Sapevo che la colpa era mia, che ero stato io a dirgli di venire, per farsi perdonare di avermi dato buca l’ultima volta. Ma di certo non volevo che si riducesse in quello stato pur di passare a trovarmi. «No era bisogno che tu viene. Ora tu ti amala con questo tempo.»
Lui mi guardò come se fossi impazzito. «Come avrei mai potuto perdere l’occasione di farti le mie congratulazioni?» mi diede una gomitata scherzosa sull’avambraccio. «Sette anni, eh? E bravo il nostro Michael! Dimmi, lui come si chiama?»
Sorrisi. Era così tipicamente da Marco tutto questo. «Andrew.»
«Wow, forte, come il tuo cameraman!» constatò distrattamente. Contai fino a tre prima che il suo volto divenisse di colpo consapevole: «Oh, aspetta. Tu stai con il tuo cameraman? Ma è una figata pazzesca!»
Annuii. Mio cameraman, nonché grande amore della mia vita, Andy era esattamente l’opposto di come sembrava: se all’apparenza poteva apparire come un fighetto londinese con la puzza sotto il naso, dentro era la persona più semplice e spensierata che avessi mai conosciuto. Lo amavo alla follia e il sentimento, lo sapevo, era totalmente ricambiato.
In quel momento, però, la cosa perdeva di importanza alla luce del fatto che Marco era fradicio e che rischiava di beccarsi una polmonite coi fiocchi se non si fosse asciugato all’istante.
Gli scompigliai i capelli, che schizzarono acqua ovunque.
«Sembra mio cane quanto fa il bagno» lo presi in giro.
Lui sbuffò. «Michael, sei proprio fissato con il tuo cane.»
«Tu deve asciugare o tu te amala» lo ammonii.
«Hai ragione, non puoi capire che freddo fa là fuori… Ce l’hai un phon?»
«Certo, io te lo prendo subito» gli indicai il corridoio. «Tu va in mia camera, in seconda porta alla sinistra.»
«Perché devo andare in camera tua?»
Quanto era scemo quel ragazzo? «Perché tu non può stare con tuoi vestiti bagnati, quindi tu mette miei fino a che tuoi sono asciugati.»
Eluse le mie preoccupazioni con un gesto della mano. «Mi asciugo tutto con il phon, non c’è bisogno che mi presti i tuoi vestiti.»
Lo squadrai dalla testa ai piedi: era zuppo ovunque, e per ovunque intendevo ovunque. I vestiti gli aderivano addosso quasi come una seconda pelle. Nell’osservarlo, mi balzarono all’occhio un paio di cose a cui non avevo mai fatto caso, per esempio che aveva le spalle notevolmente larghe, o che il suo torace era ben definito. Un fisico notevole: probabilmente era tutta la palestra che faceva.
Forse in casa faceva davvero troppo caldo, perché mi sentii avvampare appena.
«Per asciugare te, io deve prendere cento phon» gli feci notare.
Scoppiò a ridere, arrendendosi. «Come dici tu, Michael. Seconda porta a sinistra hai detto?»
«Yes. Io ti prende phon e arriva.»
Mentre si allontanava, diretto verso la mia stanza, mi colse una consapevolezza sciocca e improvvisa, che però mi lasciò comunque spiazzato. Eravamo amici e certe cose, in un amico, sono strane da notare.
Eppure, quel giorno per la prima volta mi accorsi che Marco era davvero un bel ragazzo.
 

Oddio, ero un idiota.
Un idiota con i controfiocchi, aggiungerei. Stavo lì, con il phon in mano, di fronte alla porta della mia stanza da letto, senza avere il coraggio di entrare. Rischiavo di ritrovarmi davanti a un Marco seminudo e, per qualche motivo, la cosa mi metteva a disagio. Probabilmente dipendeva dal fatto che sapevo quanto lui fosse pudico e non volevo metterlo in imbarazzo.
«Marco, io ha portato phon!» mi annunciai, così se fosse stato davvero seminudo avrebbe avuto il tempo di infilarsi qualcosa addosso prima che aprissi la porta.
Infine entrai e lo vidi, in jeans e nient’altro, con i capelli ancora umidi, scandagliare il mio armadio alla ricerca di un maglione da indossare. Non sembrò scomporsi più di tanto in mia presenza.
Dovevo abbassare quei dannati riscaldamenti. Iniziava a fare davvero troppo caldo.
«Perché i tuoi maglioni devono essere tutti così sgargianti?» mi rimproverò. «Uno nero non ce l’hai?»
Avanzò verso di me per prendere il phon e quando glielo porsi, avvertii chiaramente il calore salire sulle mie guance.
Va bene, evidentemente ero più pudico di quanto non pensassi, visto che mi sentivo in soggezione di fronte a un ragazzo a torso nudo.
Mi sedetti sul letto mentre lui si asciugava i capelli. Attraverso i vestiti mi era parso semplicemente magro, ma adesso che avevo modo di vederlo senza maglietta potevo constatare che il suo fisico era anche asciutto e tonico.
Distolsi educatamente lo sguardo, poggiando il mento su una mano e mi stupii di quanto, a dispetto delle mie guance roventi, le mie mani fossero gelide.
«Ok, ho fatto» annunciò Marco, restituendomi il phon. Poi tornò alla selezione del maglione.
La sua schiena nuda era proprio di fronte a me e, benché mi sforzassi, non riuscii a resistere alla tentazione che il suo corpo mi offriva.
Ossia quella di fare dispetti.
La mia attività preferita.
Pertanto mi avvicinai di soppiatto a lui e premetti forte i palmi delle mani, che sapevo essere fredde come il ghiaccio, sulla sua tiepida schiena, che immediatamente si inarcò.
L’urlo che gli fuoriuscì dalle labbra era più adatto a una sedicenne che a un uomo grande e grosso come lui.
«Sei un bastardo!» mi urlò, voltandosi.
Scoppiai a ridere e continuai a cercare nuovi punti in cui toccarlo e dargli l’orribile sensazione delle dita gelide sulla pelle calda. Fu una lotta senza esclusione di colpi, in cui lui cercava di sfuggirmi ma, non essendo abbastanza agile, finiva sempre per farsi beccare e imprecava contro di me.
Alla fine riuscì ad afferrarmi i polsi e ad allontanarmi da lui, con il più bello dei sorrisi stampato in volto, gli occhi lucidi e le gote rosse.
Restammo in quel modo per un po’. Anche quando finimmo di ridere.
Ci guardammo, rossi in viso, io bloccato dalle sue mani forti.
Capii solo allora che Marco non era semplicemente bello. Possedeva quel tipo di bellezza pericolosa che ti fa scattare un campanello d’allarme nel cervello, soprattutto se sei fidanzato.
Mi schiarii la voce. «Marco?»
Lui non mi lasciò andare come pensai che avrebbe fatto. «Dimmi pure.»
“Ora devi andare”. Questa era la frase che avrei dovuto dirgli, per conservare un minimo di lucidità. «Ti va di restare per cena?» fu invece la frase che gli dissi. «Io cucino.»
«Ok, va bene!» accettò e solo allora mollò la presa. «Che prepari di buono?»
Ci pensai su un attimo. «Io imparato a fare la pasta alla marciana.»
Marco si mise a braccia conserte, guardandomi come se fossi il peggiore dei peccatori. «Casomai» tuonò «è “pasta all’amatriciana”. E se non la cucinerai al meglio i miei antenati laziali si rivolteranno nella tomba.»
«Allora è meglio che io va» finsi di inchinarmi a lui (o ai suoi antenati laziali) e uscii dalla stanza.
Ma prima passai dal bagno.
Dovetti sciacquarmi il viso con acqua fredda, freddissima. Perché mi rifiutavo di pensare che il calore che sentivo alle guance fosse da attribuire a una ragione che non fossero i riscaldamenti troppo alti.
 

«Marco, cena è prontata!» lo chiamai dalla cucina.
Posai i due piatti di pasta fumante sul tavolo e attesi che lui mi raggiungesse.
Quando mise piede in cucina, però, mi accorsi che era rimasto così come l’avevo lasciato. Non nudo, bensì con il viso rosso e gli occhi lucidi. Si strofinò le braccia come se avesse freddo, eppure i riscaldamenti erano alti. Anche troppo.
«Te sente bene?» gli chiesi prontamente.
«Certo» rispose lui, forse un po’ troppo in fretta perché potesse essere convincente.
Dannazione a Marco. Proprio nel giorno del secondo Diluvio Universale doveva decidere di venirmi a trovare? A piedi e senza neanche un cavolo di ombrello, per di più? Avrei dovuto immaginarlo che si sarebbe ammalato.
Mangiammo in un tenue silenzio, io ogni tanto scrutavo Marco e più lo guardavo, più me ne convincevo: aveva la febbre, senza ombra di dubbio. A volte, pensando di non essere visto, si sfiorava le tempie per controllare se fossero calde o meno e, a giudicare dalla sua reazione, dovevano essere bollenti.
Finimmo di mangiare e lui commentò la mia pasta dicendo che era ottima, ma che mi avrebbe insegnato un paio di trucchi per renderla più saporita, come suo padre (che lui definì “il re dell’amatriciana”) gli aveva insegnato.
Poi afferrò i piatti e li portò verso il lavello.
«Tu non fa!» lo fermai. «No, io lavo piatti, non tu.»
«Tu hai cucinato e io sparecchio e lavo, è equo» ribatté, ostinato.
Gli tolsi i piatti sporchi di mano e gli passai una mano sulla fronte. Bollente, come sospettavo.
Abbassò lo sguardo. «È solo influenza, niente di che.»
«Tu ora ti siede su divano e aspetta, io lavo piatti.»
Forse troppo debole per insistere ancora, mi ringraziò e andò verso il soggiorno.
Lavai tutto a velocità supersonica –avevo fretta, volevo andare a vedere come stava quel piccolo idiota– e, quando finii, mi affrettai a raggiungere il salone.
Lo spettacolo che mi si proiettò davanti non mi piacque affatto.
Marco era accasciato sul mio divano, probabilmente addormentato, e tremava nel sonno. Il suo viso era in fiamme e batteva i denti.
Quello era un febbrone, altro che influenza! Non sapevo cosa fare, avrei dovuto misurargli la febbre, ma dove diavolo avevo messo il termometro? Era ancora in valigia, forse, sempre che non me lo fossi dimenticato a Londra.
Controllai l’ora: le dieci di sera. Con una pioggia torrenziale. Ergo, nessuna possibilità di chiamargli un taxi, né di riaccompagnarlo a casa visto che anche io, come lui, ero sprovvisto di autovettura.
Che cosa dovevo fare? Che cosa avrei dovuto fare?
In preda a un lieve panico feci l’unica cosa che mi parve sensata in quel momento: mi precipitai a prendere una coperta e a stenderla su di lui. Attesi qualche minuto, ma il tremore non accennava a passare. Ne presi un’altra e stavolta sembrò aiutarlo un po’ di più, perché passò da un vero e proprio tremore a dei brividi appena accennati.
Decisi di provare a svegliarlo.
«Marco?» lo chiamai.
Nessuna risposta.
Gli scossi la spalla: «Marco, ti sveglia?»
Alla fine aprì appena gli occhi, lucidi e rossi, e mi fissò per un po’. «Michael?» disse con un filo di voce. «Mi sono addormentato, scusa.»
Tentò di alzarsi, ma gli posai le mani sulle spalle. «Tu no ti sposti de qua.»
A quel punto ero sicuro che se ne sarebbe uscito con una delle sue proteste, cose del tipo “Ma io sto bene” oppure “Devo proprio tornare a casa”, come faceva sempre.
«Ho freddo» mugugnò invece, rannicchiandosi sul divano.
Se non protestava, la faccenda doveva essere davvero seria.
Tutt’a un tratto, mi venne in mente che io stavo indossando il maglione più caldo che avevo a disposizione e che di certo, se l’avesse indossato, avrebbe potuto aiutarlo a stare un po’ meglio.
Mi sedetti accanto a lui. «Marco, questo sweater è molto caldo, tu può…»
Lui si sollevò leggermente e pensai che volesse alzarsi in piedi. Invece si gettò addosso al mio maglione, affondandovi il volto e le mani.
Mi correggo. Si gettò sul mio petto.

Campanello d’allarme, pensai. Campanello d’allarme.
Tentai di scostarlo delicatamente da me, perché non era il caso che mi stesse così addosso, ma il modo in cui cercava il calore del mio stupido maglione, in preda ai brividi, mi causò una dolce fitta allo stomaco. Era tenero. Sì, decisamente tenero.
A quel punto non potei fare a meno di passare le braccia attorno al suo corpo e strofinarlo, in modo da riscaldarlo. Pian piano i brividi diminuirono fino a cessare del tutto e, quando ciò avvenne, Marco era già addormentato da un pezzo.
Io rimasi lì, a osservarlo.
Non andava affatto bene.
Sentivo le sue dita gelide sfiorarmi appena il collo e allora percepii chiaramente il calore insinuarsi nelle mie guance, nelle mie mani.
E nel mio cuore.
Passò molto tempo prima che riuscissi a prendere sonno, ancora stretto a Marco su quel divano.
Il giorno in cui avevo annunciato al mondo di essere felicemente innamorato del mio compagno da anni e anni avrebbe dovuto essere il giorno più bello della mia vita, e invece si rivelò il più orribile di tutti.
Perché in un’uggiosa sera di ottobre, mentre la pioggia batteva sui vetri della finestra e in casa faceva fin troppo caldo, io fui colto dalla più imprevedibile delle verità.
Provavo qualcosa per Marco Mengoni.

 
Quando mi svegliai, ero stravaccato sul divano nella peggior imitazione di una stella marina, con braccia e gambe spalancate. Marco non c’era.
Scattai a sedere e mi guardai intorno: sul tavolino c’era il suo cellulare e le sue scarpe erano ai piedi del divano, quindi era ancora qui.
Mi chiesi se si sentisse meglio, se la febbre gli fosse passata, che ore fossero.
Fuori dalla finestra c’era luce, quindi era giorno, e pareva che finalmente avesse smesso di piovere, benché il cielo fosse ancora grigio.
«Michael!»
Mi voltai immediatamente.
Marco mi salutò, con il suo solito sorriso raggiante. Indossava i suoi vestiti, ora asciutti, il suo volto era tornato del solito colorito e sembrava stare decisamente meglio.
Lo stesso non si poteva dire di me, che invece avevo le guance in fiamme e non stavo per niente bene, ora che, come il peggiore dei liceali, capivo di essermi preso una cotta per il mio amico.
Io, cantante di successo, fidanzato da tempo immemore, mi ero preso una sbandata per un mio amico, altro cantante di successo, probabilmente non interessato agli uomini.
Ero nei guai.
Si sedette sul divano e si infilò le scarpe. «Senti, mi dispiace se stanotte ti ho usato come… cuscino? Materasso? Entrambe le cose?» scherzò, per nascondere l’imbarazzo. «Non era mia intenzione, scusami.»
«Non se preoccupare» risposi.
Ero io a dovermi preoccupare, non lui! Ero io quello con un fidanzato gelosissimo e fedelissimo che non aveva mai neanche pensato a un altro in sette anni di relazione. Ero io quello che si stava invaghendo di lui. Ero io…
«È che il tuo maglione è così caldo!» si giustificò ancora. «Non lo so che mi è preso, ti giuro. Cioè, potevo chiederti semplicemente “Ehi, mi presti quel maglione?” e invece no, mi ci sono aggrappato tipo koala e poi mi sono addormentato e, insomma, scusami ancora.»
Si passò una mano sulle labbra, cosa che, avevo notato, faceva quando era nervoso.
«È tutto ok, davvero» lo tranquillizzai.
Raccattò le sue cose in tutta fretta e mi salutò. «Ok, allora ci vediamo, ok? Grazie per l’amatriciana e per tutto il resto.»
Si avviò verso la porta.
Pensai di fermarlo.
Lui uscì e io rimasi lì attonito come un perfetto imbecille.
Oddio, che stavo facendo?
«Marco, aspetta!»
Spalancai la porta e feci qualche passo fuori: lui era lì che mi fissava come se fossi stato un povero pazzo.
Aveva centrato il punto: ero un povero pazzo senza speranza.
Perché non era da me innamorarmi delle persone da un giorno all’altro, ma forse Marco faceva eccezione. O forse ero io, idiota, che non mi ero reso conto che lui mi piaceva già da un po’? No, che andavo a pensare? Ero già fidanzato!
Ero davvero formidabile. Formidabile a essere un cretino.
Marco mi raggiunse: «Che c’è? Mi sono dimenticato qualcosa da te?»
«No, è che…»
Cosa potevo dirgli? Che scusa potevo inventare?
Perché l’avevo richiamato indietro?

Pensa, cervello bacato, pensa!
E poi, l’illuminazione.
Certo, ecco cosa avrebbe potuto tirarmi fuori dai guai!
«In week-end c’è party a studios di X Factor, noi festeggia prima puntata di programma» spiegai velocemente. «Tu viene.»
Scosse la testa: «Non sono stato invitato.»
«No, no: tu viene» insistei. «Come mio ospito. Please
Sgranò gli occhi e spalancò la bocca. «Ma io non c’entro niente con il programma!»
«Invece sì» gli feci notare. «Tu ha aiutato me in scelta di ragazze di squadra. Tu viene, a ragazze fa piacere. A me fa piacere.»
Mi ripetei almeno cento volte che Marco era mio amico, mio amico e basta, così come io ero suo amico e basta. Tra amici ci può essere solo amicizia e nient’altro, semplice.
«Sì.»
Sollevai lo sguardo. «Che cosa?»
«Sì, certo che ci vengo» esclamò, poi si avvicinò e mi strinse in un abbraccio che mi parve fin troppo breve. «Grazie, sei il migliore!»
«No, Marco, grazie a te.»
Fece per andarsene, ma poi ci ripensò e si voltò.
Mi diede due baci sulle guance, tipico saluto italiano di congedo. Solo allora se ne andò.
Rimasi lì, imbambolato. Le sue labbra erano tiepide, ma avevano reso le mie guance tutto un fuoco e, a contatto con l’aria frizzantina che c’era fuori, mi sentii come dentro a un forno.
Non andava bene.
Rientrato in casa, afferrai il telefono. Dovevo chiamare Andy, dirgli quanto mi mancava e ricordargli quanto lo amavo.
E avrei fatto bene a ricordarmelo anch’io.

 

 

La soffitta dell’autrice:
Buongiorno bei passerotti!
Ok, lo so, sono in ritardo abissale. Ma mi sono rifatta con un capitolo che è notevolmente più lungo dei precedenti.
Le cose si mettono “male” per i nostri due patatoni (-cit. Fedez) e, che dire?
Da questo momento in avanti le cose si muoveranno molto velocemente: i sensi non sono molti e vorrei riuscire a toccare uno a uno i punti salienti della loro storia, quindi non mi dilungherò troppo d’ora in poi.
Ergo, preparatevi a scariche di feels l’una dopo l’altra senza pause.
Io vi ho avvertiti.
Come al solito ringrazio la mia meravigliosa, fantastica, sensazionale beta comeunangeloallinferno94. Te se ama, baby
Mi sono già dilungata troppo
Baci.

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Capitolo 5
*** Gusto ***


Gusto [Il gusto è uno dei sensi, i cui recettori sono le gemme gustative presenti nelle papille gustative della lingua, nel palato molle, nella faringe, nelle guance e nell'epiglottide.]

 
Marco’s POV
 

Stavo per morire.
Sarei stramazzato al suolo lì, sul pavimento di casa mia, con la mia manager come unica testimone del mio imminente decesso.
Camminavo avanti e indietro, misurando a grandi passi il pavimento del soggiorno di casa mia mentre Marta, pigramente seduta sul divano, tracannava una birra. Stavo per avere una crisi di nervi.
«Marco, non ti agitare» sbuffò Marta. «È solo una festa agli studios, mica stai andando al patibolo.»
«Una festa agli studios di X Factor, ti ricordo» la corressi.

Una festa agli studios di X Factor alla quale mi ha invitato Michael, aggiunsi nella mia mente.
Mi risistemai la giacca, abbottonandomela e sbottonandomela almeno tre volte di seguito: stavo aspettando che passassero a prendermi appositamente gli autisti scelti dal programma per portarmi agli studios. A dirla tutta, del party non me ne importava niente. Ci andavo solo perché lui mi aveva invitato.
Teso come una corda di violino, cercai istintivamente il pacchetto di sigarette nella tasca dei jeans, salvo poi ricordare che avevo deciso di proposito di non fumare, quella sera. Doveva essere tutto perfetto. Io dovevo essere perfetto (o quantomeno accettabile). Pertanto decisi di sfogare il mio nervosismo in altro modo e dirottai su un pacchetto di chewing-gum, dal quale estrassi una gomma che mi infilai subito in bocca.
La bruciante freschezza della menta mi invase immediatamente il palato e danzò sulla mia lingua, facendomi sentire le labbra gelide quando iniziai a masticare freneticamente. Non era come le sigarette, ma almeno la mia bocca non sapeva di nicotina, e impediva all’ansia di crescere in modo esponenziale.
«Non è che sei così nervoso perché a questa festa del cavolo ti ci ha invitato Mika, vero?» insinuò Marta.
Mi irrigidii. Colpito e affondato in pieno.
Per lei ero un libro aperto, quindi capiva alla perfezione il modo in cui mi sentivo.
Peccato che il primo a non capirlo fossi io.
Non sapevo quando fosse successo con esattezza, ma da un po’ di tempo iniziavo a sentirmi strano quando si trattava di Michael: posavo lo sguardo su di lui e non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso neppure volendo, arrossivo come una ninfetta quando mi toccava, contavo le ore nell’attesa di risentirlo e, quando avevo l’occasione di parlare con lui, sentivo sempre un dolce sfarfallio nello stomaco.
E volevo essere perfetto quella sera, perché volevo apparire perfetto ai suoi occhi.
Ovviamente, eravamo amici e questo era fuori di dubbio. Il problema era proprio questo: non riuscivo a capire se questa forte amicizia che mi legava a lui si stesse trasformando per me in… altro. In qualcosa di più. Ero confuso e non poco.
Masticai la gomma con forza. «Marta, ti prego, non ti ci mettere anche tu.»
«Cosa stai combinando, Marco?»
«Non lo so, va bene?» sbottai. «Non chiedermelo, perché non ci capisco niente, quindi non saprei cosa risponderti!»
La sentii sospirare, poi si avvicinò a me e iniziò a lisciarmi le spalline della giacca. Mi arrivò alle labbra il suo fiato caldo e amaro di birra.
«Posso chiarirti io le idee, se vuoi» disse e seppi che stava per arrivarmi una bella paternale. «Lui è Mika. Capito?»
La gomma da masticare stava pian piano perdendo sapore, diventando dura e dal retrogusto acre: su questo mi concentrai, evitando sistematicamente di porre la mia attenzione su di lei. Non mi piaceva la piega che voleva dare al discorso.
Marta proseguì ugualmente. «Qualsiasi cosa tu possa volere da lui, non la otterrai. Se anche volesse farsi qualcun altro in assenza del suo fidanzatino londinese, di certo non andrebbe con il primo che passa.»
«Il primo che passa sarei io?» chiesi, retorico.
Conoscevo perfettamente la risposta.
«Pensi che io sia cretina, Marco?» rise amaramente. «L’ho capito che ‘sto Mika ti fa scatenare gli ormoni, e mi va bene. Ma non puoi pensare seriamente che tra voi due possa nascere qualcosa. Potrebbe avere chiunque, santo cielo, in qualunque paese del mondo. Perché dovrebbe volere te?»

Perché dovrebbe volere te?
La verità di quelle parole mi trafisse come una stilettata e seppi che aveva ragione. Michael e io eravamo amici, punto e basta, non dovevo confondere il nostro solido legame con qualcosa di più. Che cosa andavo a pensare? Ancora una volta, Marta era riuscita a fare chiarezza, e a dissolvere ogni mio dubbio.
Sì, certo. Chi volevo prendere in giro?
Ero ancora più confuso di prima.
I miei pensieri vennero interrotti dal suono di un clacson. Sapevo cosa stava a significare. Erano venuti a prendermi per portarmi al party agli studios.
All’improvviso, non avevo più tanta voglia di andarci. Non avevo neanche più voglia di essere perfetto, a dirla tutta.
«Forza, è ora» disse Marta, dandomi delle pacche sulle spalle. «Vai, divertiti e non pensare a lui.»
La stinsi in un veloce abbraccio e uscii di casa. Mi sarei divertito. Non avrei pensato a lui. Marta aveva ragione e avrei dovuto fare come diceva lei.
Prima di entrare in macchina sputai la cicca per terra: ormai era diventata dura, aspra e insapore.
In pratica, come mi sentivo io in quel preciso istante.

 
«Marco!»
Dannazione.
L’autista aveva parcheggiato ed io ero sceso dalla macchina ma, non appena avevo messo piede a terra, mi ero sentito chiamare.
E la voce era quella inconfondibile di Michael.
Mi voltai e lo vidi, bello da mozzare il fiato in un elegante completo in fantasia tartan scozzese, che avanzava verso di me. Il suo sorriso era raggiante e al sol vederlo mi venne l’impulso di fumare venti sigarette tutte in una volta dal nervosismo.
«Marco, io ti aspettava!» disse, raggiungendomi e abbracciandomi di slancio.

Perché dovrebbe volere te?, pensai, per qualche strana ragione. Sentivo quella frase dal gusto agro tremare sulle mie labbra, come se fossi sul punto di dirgliela io stesso.
Marco, non fare l’idiota, non è successo niente di che, comportati come al solito.
Mi divincolai dal suo abbraccio e tentai una battuta: «Mi hai aspettato? E dove, qui nel parcheggio?»
«Sì.»
Lo guardai negli occhi, cercando un accenno di ironia che però non trovai: non stava scherzando. Indicai l’enorme edificio alle nostre spalle.
«Scusa, là dentro c’è una festa e tu resti tutto il tempo fuori ad aspettare ‘sto povero deficiente?» chiesi, incredulo, indicando me stavolta.
«Sì» rispose di nuovo, con una piccola risata. «Io no entra se tu no ci sei, se no io ha noia e basta.»

Perché dovrebbe volere te? Perché dovrebbe volere te?, dovetti ripetermi. Avrei potuto sciogliermi per quanto era dolce. Come avrei fatto a non pensare a lui tutta la sera, dopo che mi aveva detto queste cose?
Mi prese a braccetto. «Dai, noi entra perché noi è tardi.»
Il mio cuore prese a bestemmiare nel momento in cui le nostre braccia entrarono in contatto. Mi imposi la calma e, con un sorriso, entrammo.
Venni trascinato all’interno degli studios: luci soffuse, musica alta ma non troppo, gente raggruppata in grandi e piccoli capannelli, un diffuso chiacchiericcio, sorrisi falsi e veri cipigli. Michael mi tenne saldamente mentre facevamo il nostro ingresso. Era come essere all’interno di un enorme bicchiere di champagne: frizzante e colmo di bollicine che risalivano impazzite scontrandosi l’una all’altra. Il tutto, nonostante le occhiate della gente che ci fissava, era delizioso. Strano a dirsi, mi piaceva.
«Marco!»
Mi voltai: a chiamarmi era stata Simona la quale, fasciata in un abito verde mela, venne verso di me con zelo, zampettando sui suoi tacchi vertiginosi. Mi afferrò il volto, schioccandomi due baci sulle guance, e poi mi strinse a sé. Più precisamente al suo decolleté, cosicché mi ritrovai la faccia premuta sui suoi abbondanti seni. Alquanto imbarazzante, non c’è che dire.
Quando mi staccai da lei, con la coda dell’occhio vidi Michael che se la rideva e scossi la testa, pensando a tutte le battute che avrebbe fatto al riguardo.
«Caro, non sai quanto sono felice di vederti.» trillò Simona. «Ma guarda come ti sei fatto gnocco!»
Ringraziai, non senza un certo impaccio, e le risposi che ovviamente lei rimaneva splendida come al solito, che non dimostrava più di trent’anni, e che eleganza! Parlammo per un po’ del più e del meno, infine lei se ne andò, accomiatandosi con un: «Godetevi la festa, voi due piccioncini!» e lasciandoci lì.
Inutile dire che quella frase mi mandò in panne il cervello.
Volevo ingoiare una ghigliottina intera.
Perché piccioncini? Che cosa stava a significare quel termine? Forse intendeva che io e Michael eravamo carini insieme o, più semplicemente, aveva fatto un’inappropriata scelta di vocaboli? Oggi tutto il mondo sembrava cospirare contro di me.
«Ti ha piaciuto il giro?» Michael mi diede una pacca sulla schiena.
Trattenni un sussulto. Perché mi toccava sempre? Rendeva molto più difficile ripetermi Perché dovrebbe volere te? «Giro?» chiesi.
«Su… come dite voi? Le molgonfiere di Simona!»
Fu più forte di me: scoppiai a ridere, sia per il paragone assurdo che per lo strafalcione. «Non puoi capire, Michael! In mezzo a quelle tette c’è Narnia, Hogwarts e pure il bosco dei Cento Acri, guarda.»
Mi seguì a ruota nel mio attacco di risa isteriche. Le persone si voltavano verso di noi guardandoci male e probabilmente si chiedevano quali pasticche esilaranti avessimo preso prima di venire lì, ma non ci importava. Ci stavamo divertendo troppo.
«Marco» sghignazzò con le lacrime agli occhi per le risate «Quindi a tu piace lei? Oh, lei è così bionda, matura, sensuosa
Feci segno di no con il dito, cercando di riprendere fiato. «No grazie, non mi piacciono quelle troppo sensuose
«No piace bionda, matura e sensuosa come Simona? Allora come?»
«A me piace alto, riccio e libanese!»
Merda. Cos’avevo fatto?!
Smisi immediatamente di ridere. Non volevo dirlo, non era mia intenzione, ma mi era scappato: tra le risate e la complicità, in quell’atmosfera che era tipicamente nostra, per un attimo eravamo tornati a essere solo Marco e Michael e, quando ero con lui, ero sempre sincero su tutto.
Lo guardai e lui guardò me, un tenue sorriso stava abbandonando lentamente le sue labbra, come se si chiedesse se stessi scherzando o meno.

Perché dovrebbe volere te? Ero stato un idiota.
Sospirai e tentai un sorriso forzato: «Io vado a prendere da bere. Vuoi qualcosa?»
«No» biascicò, confuso. Poi si riprese e mi disse: «Marco, wait…»
«Ci metto due secondi, giuro!» e mi immersi di nuovo in quell’effervescente bicchiere di champagne. Una volta arrivato al bancone dei cocktail, ordinai un Irish coffee e lì mi dovetti fermare per riprendere fiato. L’agitazione mi stava uccidendo.
Che mi stava succedendo? Michael non mi piaceva, non in quel senso, ne ero sicuro. Quasi sicuro, perlomeno. Forse mi ero fatto talmente tanto condizionare dalle parole di Marta che adesso mi mettevo a rimuginare su ogni singolo gesto di Michael.

Perché dovrebbe volere te?, ripetei come un mantra. Perché dovrebbe volere te? Perché dovrebbe volere te?
«Dolci ricordi d’Irlanda?»
Oh, no.
Questa non ci voleva proprio.
Sollevai lo sguardo sul cocktail che il cameriere mi aveva appena piazzato sotto il naso. Per quanto riguardava quella voce, amara come l’aceto e stantia come il pane secco, non ebbi bisogno di voltarmi per sapere a chi apparteneva.
Marco Castoldi. In arte, Morgan.
Era stato il mio giudice quando ero a X Factor e avevamo avuto alcuni screzi negli anni passati. Bastava un suo sibilo o un suo sorriso e io mi sentivo in soggezione come uno scolaro di fronte al maestro più severo.
Alla fine mi girai verso di lui. Scoprii che Marco aveva la capacità di non invecchiare, ma di fermentare come il vino: si vedeva che il tempo era passato, ma al contempo sembrava non essere cambiato affatto.
«Marco Mengoni» pronunciò il mio nome trascinando le vocali ed enfatizzando alcune lettere, come se mi stesse presentando formalmente a qualcuno.
«Marco Castoldi» provai a imitarlo. Non ci riuscii.
Presi una sorsata di Irish coffe e gustai golosamente la dolcezza della panna. Non ero solito ubriacarmi, ma l’alcol mi faceva sembrare tutto più accettabile e speravo che la sua magia potesse funzionare anche stasera, visto che le cose sembravano andare di male in peggio.
«Che piacere rivederti.» proseguì con voce zuccherosa. «Allora, come ci è arrivato qui il nostro caro Marco Mengoni?»
Mi schiarii la voce. «Mi hanno invitato.»
«Oh, giusto, giusto! Sei qui con Michael, vero?»
Per poco non mi strozzai con il cocktail. Michael? Non aveva detto che solo gli amici potevano chiamarlo in quel modo? Ok, in realtà era abbastanza logico: Michael e Marco erano colleghi, quindi era ovvio che si chiamassero per nome. Io stesso non lo chiamavo più Morgan da anni e immagino che le cose tra loro funzionassero più o meno allo stesso modo.
Mi stava venendo la nausea e non seppi se era il cocktail, la presenza di Marco oppure sentire qualcun altro che chiamava il mio Michael per nome.

Mio? No. Non dovevo neanche provare a pensarci. Perché dovrebbe volere te?
Continuai a bere e presto la dolcezza della panna si dissolse, lasciando spazio al forte amaro del caffè corretto. La qual cosa, pensai, era comica, poiché perfettamente inerente alla situazione: lui poteva anche fare lo zuccheroso, ma se non l’avessi sorseggiato con cautela avrei svelato fin da subito l’amaro che si celava al di sotto.
«Lo sai che Michael mi ha chiesto di te giusto qualche giorno fa?» biascicò.
Ebbi un colpo al cuore. Michael che chiedeva di me ad altri? Non aveva senso. Eravamo amici e lui conosceva ogni cosa di me. Perché chiedere ad altri?
«Cosa ti ha chiesto?»
Il suo tono divenne mieloso e mi ignorò del tutto: «Che favola di party! Le feste agli studios sono psichedeliche, non trovi? Dovrebbero invitarti sempre a queste serate.»
Non lo capivo mai quando parlava in quel modo così contorto, era sempre stata la mia croce. Pertanto ribattei con un semplice: «Perché?»
Lui si finse sbalordito. «Ma come perché? Sei il Marco Mengoni, vincitore della terza edizione del talent, di Sanremo e degli European Music Awards, il giovane più promettente d’Italia nonché l’orgoglio del programma! Dovresti essere sempre tenuto in alta considerazione dai magnacci dello show biz.»
Mi stava palesemente prendendo in giro e lo sapevamo entrambi.
«Oh, bando alle ciance» riprese a parlare. «E brindiamo al successo. Al tuo, ovvio, che ha superato di gran lunga il mio. Chapeau, Marco.»
E sollevai il bicchiere nella sua direzione, prendendo un sorso consistente. L’amaro del caffè venne quasi soffocato dal piacevole bruciore del whisky e, per un attimo, scordai del tutto quello sgradevole incontro.
«E, ovviamente, un brindisi al suo di successo» si voltò «che supera di gran lunga il tuo e il mio messi insieme. Inutile cercare di batterlo, sarà sempre un passo avanti a noi, quel mattacchione.»
Seguii la direzione del suo sguardo e beccai Michael intento a ballare insieme a Valentina, una delle ragazze della sua squadra. La trascinò in un folle casquet e, per un attimo, desiderai ardentemente essere lì con lui.
Solo dopo un po’ notai che Marco aveva spostato la sua attenzione da Michael a me. Sul volto aveva l’espressione più subdola che gli avessi mai visto, il che fu abbastanza per mettermi in agitazione.
«Attento, Marco Mengoni» la sua voce, da mielosa, era divenuta stucchevole. «Uno come lui, da uno come te, può volere una cosa soltanto… e se ti conosco bene, come credo, gliela fornirai su un piatto d’argento. Sempre che tu non l’abbia già fatto.»
«Di che stai parlando?» sbattei una mano sul bancone.
Ebbi una vaga sensazione di déjà-vu. La conversazione che avevo avuto con Marta poco prima mi aveva lasciato lo stesso amaro in bocca, la stessa sensazione che qualcun altro ne sapesse più di me, sui miei stessi sentimenti.
Forse ero io l’unico stupido a non capire.
Marco prese il mio Irish coffee, vuotò il bicchiere e si congedò con un ossequioso: «Marco Mengoni.»
Mi lasciò lì. Imbambolato. Confuso. Mi morsi le labbra, che sapevano di whisky e caffè, mentre con lo sguardo cercai Michael.
Lui si stava divertendo con Gaia, Valentina e Violetta, quadretto adorabile al quale si aggiunse anche Marco. Michael lo abbracciò, baciandogli entrambe le guance con trasporto e invitandolo a ballare con loro.
Un sapore nuovo e detestabile mi si presentò di colpo in gola. Un nodo serrato che sapeva di rimpianti e gelosia.
Continuai a guardarlo ed ebbi la conferma che Marta aveva ragione, come sempre. Perché dovrebbe volere me? Era così felice, così ben voluto dalla gente. Sì, noi due eravamo amici, ma non avremmo mai potuto essere nulla di più, per il semplice fatto che lui avrebbe potuto avere ogni singola persona di quella stanza con uno schiocco di dita. Un amico in più o in meno non faceva certo la differenza.
Fu questo che pensai, mentre gli occhi mi pungevano e la vista mi si annebbiava, e mi morsi forte le labbra per non piangere, tanto che preso avvertii il sapore metallico del sangue in bocca.
Fu questo che pensai, quando sgattaiolai via da lì senza voltarmi indietro.

 
Ero innamorato di Michael.
Dopo una corsa folle via dagli studios, ero giunto in un vicolo buio e isolato e lì mi ero abbandonato alle lacrime, così come alla pura e semplice verità.
Come avevo fatto a essere così stupido? Lo avevano capito tutti quanti, molto prima di me. Lo aveva capito Marta e lo aveva capito anche Marco. Perfino Simona ci era arrivata, con l’unica differenza che lei non riusciva a vedere quello che invece sembrava chiaro a tutti.
Io non ero abbastanza per Michael.
Non ero abbastanza e non lo sarei mai stato: lui non mi avrebbe mai voluto e, se per caso fosse stato così stupido da essere attratto da me, sarei stato buono solo per una scopata e nulla di più. Affondai il volto nelle mani, dandomi dello stupido e dell’illuso.

Perché dovrebbe volere me?
«Marco!»
Cazzo.
Michael mi aveva trovato.
Non tentai di scappare da lui, sarebbe stato sciocco da parte mia, solo mi asciugai le lacrime per non dargli la soddisfazione di vedermi piangere. Sentii i suoi passi dietro di me e, quando mi raggiunse, mi fece voltare con un prepotente strattone.
Era furente.
«Che tu fa, Marco?» urlò. «Io invita tu e ora tu va via, no dice niente, te trova qui e festa è poco iniziata, e tu me fa scapare così per cercare te!»
Capii solo a grandi linee ciò che intendeva dire: aveva mollato il party per venirmi a cercare ed era arrabbiato per questo.
«E chi te l’ha chiesto?» risposi, cercando di essere il più duro e amaro possibile.
Lui sembrò ferito e quasi mi dispiacque. Poi pensai di essermi innamorato di lui e tornai a essere arrabbiato, non con Michael, bensì con me stesso.
Lui non demorse: «Che tu ha?»
Non riuscii a trattenermi oltre. «Hai chiesto di me a Morgan?»
Lo vidi impallidire e sgranare gli occhi, il che poteva significare una sola cosa: colpevole. Allora Marco aveva ragione. Chissà perché, saperlo mi diede un’intima, profonda e dolorosa soddisfazione. «Cosa gli hai chiesto?»
Scosse la testa. «Marco, questo no cambia che…»
«Cosa gli hai chiesto?» ripetei, con tono più aspro possibile.
«Senti me, tu no…»
Non ce la feci più e gridai: «Dimmelo!»
«Se tu è gay!» sbottò.
Trattenni il fiato. Gay. Anche lui con quella maledetta etichetta.
Michael, il mio amico, colui di cui mi fidavo di più, l’uomo di cui ero innamorato, mio malgrado, andava in giro a chiedere se mi piacessero o meno gli uomini. Pensavo che per lui non contasse e sapere che invece mi sbagliavo mi fece male. Da morire.
«E bravo, Mika» lo schernii, seppur con le lacrime agli occhi. «Tu che dici sempre che ci dobbiamo accettare per quelli che siamo, che non importa se siamo etero, gay, bisex o che so io, proprio tu mi fai questo?»
Sospirò e venne verso di me.
Mi allontanai bruscamente. «Non mi toccare, mi fai schifo!»
«Marco, please
La sua voce era così dolce, così morbida e rassicurante. Dannazione a lui. Non meritava la mia confusione né le mie lacrime, figuriamoci il mio amore.
Eppure era tutto ciò che gli stavo dando.
Piangevo per lui, ero confuso a causa sua. Mi stavo innamorando di lui.
«Tu mi fai schifo!» ripetei. «Mi fai vomitare, giuro! Fai tanto il moralista del cazzo e poi non hai neanche le palle per chiedermi certe cose di persona? Pensavo che tu mi volessi bene, ma evidentemente mi sbagliavo. Logico, d’altronde chi potrebbe mai volermi bene? Perché mai? Perché dovresti volere me?»
«Marco, stop!»
Mi prese il volto tra le mani e io mi bloccai del tutto.
L’avevo detto davvero? Sì, l’avevo detto. Ma ormai che differenza faceva? Le mani di Michael mi trasmettevano calore e conforto e, sì, avrei dovuto staccarmi da lui, ma non lo feci. Stavo così bene che non ne ebbi il coraggio. Lo osservai e il suo volto era una maschera di apprensione.
«Ho paura» mormorò.
Paura? E di cosa doveva avere paura, lui? Non era lui a essersi innamorato di un uomo fidanzato. Non era lui che non riusciva a nascondere i propri sentimenti alla gente, neanche volendo. Non era lui che stava piangendo come una fontana davanti all’uomo per cui si era preso una sbandata.
«E di cosa?» chiesi, con voce rotta.
«Marco…» esitò.
No.
No, non poteva essere.

Perché dovrebbe volere te? Era ciò che mi ero ripetuto tutto il tempo, tanto da convincermene. Lui non sarebbe mai stato innamorato di me come io lo ero di lui. Vidi i suoi occhi lucidi come i miei, le labbra tumide e il tremore delle sue mani, e mi dissi che non potevano dipendere da me.
Si inumidì le labbra prima di parlare. «Io no posso. Così no posso.»
Il mio cuore smise di battere per un secondo e mi si bloccò il respiro: mi sentii morire. Non voleva me, dovevo smettere di illudermi. Non poteva volere me.
«Cosa non puoi?» fu quello che dissi. O che iniziai a dire. Ma non riuscii a finire.
Perché lui mi attirò a sé e premette le sue labbra sulle mie, nel più innocente e bisognoso dei baci.
Mi scoppiò la testa in quel tripudio di sapori.
Le sue labbra erano aspre e fresche, come frutta esotica, in netto contrasto con l’amarezza dolciastra delle mie. Fu amaro quel bacio, sì. Amaro perché sapevamo di non potercelo permettere, che non avremmo dovuto, che era sbagliato. Salato, inoltre, per via delle mie lacrime che non ne volevano proprio sapere di fermarsi e, dispettose, si infiltrarono tra le nostre labbra. Ma quanto fu dolce lui ad asciugarmi le guance con i pollici, senza mai separare la sua bocca dalla mia. Sentivo il cervello esplodermi, il cuore accelerare i propri battiti e il corpo percorso dai più bei brividi mai sperimentati sulla mia pelle. Era vertiginoso, era splendido, avrei voluto che non finisse mai. Stavo assaggiando il frutto proibito e lo sapevo, era un sapore forte e pericoloso al quale non mi sarei mai dovuto avvicinare. Ma non mi importava, non in quel momento. Ero troppo felice e colmo di gioia anche solo per pensare.
Contro ogni previsione, lui voleva me.

 

 

 

 

La soffitta dell’autrice:
Ehilà.
Come state? Vi sono mancata?
Questo è il capitolo più lungo che io abbia mai scritto e sapete una cosa? Non me ne frega niente perché è stato riscritto talmente tante volte che sono troppo contenta di averlo finito!
Ebbene sì, se nello scorso capitolo avevamo visto la termo percezione collegata all’infatuazione, qui vediamo come il gusto sia collegato all’innamoramento. È stato difficilissimo lavorare con questo senso, ma alla fine qualcosa ne è venuto fuori.
Ringrazio come al solito la mia meravigliosa beta, comeunangeloallinferno94. Sei insuperabile. Ti adoro.
Beh, che dire se non… alla prossima!

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Capitolo 6
*** Equilibrio ***


Equilibrio [Nel corpo umano l'equilibrio è un insieme di aggiustamenti automatici ed inconsci che ci permettono, contrastando la forza di gravità, di mantenere una posizione o di non cadere durante l'esecuzione di un gesto.]

 
Mika’s POV

 
«Marco Mengoni?!»
«Non urlare, Yaz. Ti sento benissimo» ribattei.
Perché pensavo che chiamare mia sorella Yasmine quella sera mi sarebbe stato di conforto? Non faceva che ripetere quel nome da un minuto buono ormai, in preda allo shock, ogni volta alzando di più la voce.
Avrei mentito se le avessi detto che ero confuso, perché in realtà non lo ero neanche un po’: al contrario, da quando la notte prima avevo baciato Marco, tutto era diventato chiaro nella mia mente.
Benché amassi Andy più della mia stessa vita, mi ero innamorato anche di lui e non c’erano dubbi al riguardo. La situazione, inutile dirlo, non era così semplice.
Dopo il bacio, Marco si era placato e aveva smesso di piangere, ma nei suoi occhi leggevo il panico più totale. Lo avevo stretto forte a me e allora lui aveva cominciato a chiedermi, quasi ossessivamente, se io volessi lui, ma proprio lui. Era stato talmente liberatorio dirgli che, sì, nonostante fossi già fidanzato, io lo volevo disperatamente. Gli sfuggì addirittura una piccola risata.
Mi aveva chiesto di riaccompagnarlo a casa, cosa che feci e, una volta arrivati di fronte alla palazzina, era scoppiato di nuovo in lacrime. Con il terrore dipinto in volto, Marco aveva pronunciato con sgomento una singola parola. Andy.
Poi mi aveva abbracciato di nuovo. Il suo non fu un vero abbraccio, quanto più un aggrapparsi a me, come a uno spuntone di roccia, per timore di cadere nel vuoto. E io l’avevo sorretto, carezzandogli i capelli e assicurandogli che sarebbe andato tutto bene, che non l’avrei lasciato solo e che insieme avremmo trovato una soluzione.
La sua risposta? “Temo di essermi innamorato di te”. Una frase che non lasciava spazio all’immaginazione: non esiste soluzione, all’amore. Ci eravamo baciati prima di salutarci e Marco, non più preso alla sprovvista, aveva avuto la forza di ricambiarmi. I suoi baci erano come sorsate d’acqua fresca, dopo aver passato giorni di arsura totale: erano rigeneranti, rinvigorenti e, soprattutto, ne avevo bisogno. 
«Mick, in che pasticcio ti sei cacciato?» mi rimproverò Yasmine, quasi materna. «Non puoi andare a baciare gente a destra e a manca, ti devo ricordare io che a Londra c’è Andy che aspetta il tuo ritorno?»
Sospirai. Come dimenticarlo? «Parli come se lo avessi tradito.»
«L’hai fatto.»
«No» ribattei, fermo sulla mia posizione. «Se avessi avuto una storiella di una notte con un tizio, allora sì che l’avrei tradito. Con Marco invece è diverso. Credo di essermi innamorato di lui.»
«Sei in Italia da meno di tre mesi, quanto tempo hai avuto per innamorarti di lui? Te lo dico io: zero. Non sai niente di lui, praticamente siete estranei. Vuoi tradire Andy con uno che nemmeno conosci?»
Vacillai per un secondo.
Io sapevo di conoscere Marco, esattamente come lui conosceva me. Ovvio, sette anni di relazione non potevano essere paragonati a quel breve lasso di tempo, ma nel mio cuore le due cose si equivalevano. Mi sentivo in bilico sull’ago di una bilancia.
«Yaz, non è così semplice» provai a spiegare. «Andy è tutto per me, tutto, è la mia casa, è la mia famiglia, è il mio rifugio e lo sarà sempre. Ma anche Marco lo è. Quando sto con lui sono sempre felice e mi sento al sicuro e, oh, ho il cuore che mi va a mille. Tu come lo chiami questo?»
«Tradimento, bello e buono!» mi sgridò. «Mick, non costringermi a essere drastica.»
«Che intendi dire?»
«Chiudi questa storia con Marco prima di farla cominciare, o lo dirò ad Andy.»
Oh, no.
Barcollai e dovetti reggermi alla parete dietro di me per non cadere a terra, malfermo com’ero sulle gambe. Sentii il cuore sprofondare in un baratro e una lieve brama di pianto pervadermi.
«Yaz, non puoi farmi questo» la implorai, con un filo di voce.
Mugugnò, come se la cosa pesasse anche a lei. «Lo faccio per te, Mick. Non posso vederti perdere l’unica cosa bella che hai al mondo, ossia Andy, per un italiano qualsiasi.»
«Se tu conoscessi Marco, non parleresti così» protestai.
La sentii trasalire all’altro capo del telefono e perfino io mi stupii della mia reazione: da quando in qua difendevo così strenuamente una persona che non fosse il mio Andrew?
«Mick, lascialo. O dovrò pensarci io» e chiuse la telefonata.
«Yaz, aspetta!»
Ma ormai aveva attaccato. Non potevo crederci.
Lottai contro l’impulso di prendere a calci il muro, sapendo che non mi avrebbe fatto sentire meglio. Non riuscii a rimettermi in piedi, così mi lasciai scivolare lungo la parete e mi accasciai sul pavimento.
Cosa stavo facendo? Io amavo Andy e lui amava me. Eravamo un “per sempre” e lo sapevano tutti quanti, ormai. Ma il solo pensiero di lasciare Marco (nonostante non avessimo una vera e propria relazione) mi faceva salire le lacrime agli occhi. Non potevo rinunciare a lui, ma sarebbe stata la cosa giusta. Per il bene di tutti.
Se la mia adorata Yaz arrivava a minacciarmi, voleva dire che stavo proprio sbagliando tutto.
Il campanello suonò.
Mi feci forza e cercai di sorreggermi da solo, riacquistando da me il mio baricentro. Una volta che mi sentii sicuro, avanzai verso la porta e controllai dallo spioncino.
Era Marco, e non aveva un bell’aspetto.
Aprii immediatamente e lo feci entrare in casa.
«Che tu fa qui?» gli chiesi, preoccupato.
Lui si voltò verso di me, con gli occhi lucidi e un sorriso tirato in volto. Aveva le guance innaturalmente rosse.
«Mi ha riso in faccia» biascicò. «Non mi voleva credere quando le ho detto che tu volevi me.»
Il suo aspetto, la sua voce… Oddio, aveva bevuto? Sapevo per certo che lui reggeva benissimo l’alcol –o almeno, così mi aveva detto.
Nel dubbio, domandai titubante: «Marco, tu è ubriaco?»
Scosse la testa e avanzò verso di me, barcollando. «Brillo, mai ubriaco. Avevo della vodka in casa e…»
«Chi tu ha riso in faccia?» lo interruppi.
Lui ridacchiò. «Ho del riso in faccia? Ma come cavolo parli?» Poi, dopo essersi ripreso, continuò farfugliando. «Comunque è stata Marta. Sai, le ho detto che io e te ci siamo baciati e… sai che tu sapevi di frutta, tipo pompelmo? Oh, insomma, allora lei ha riso e ha detto che non era possibile, perché tu vuoi soltanto qualcuno da scopare, e che se volevi farti uno l’avevi già fatto.»
Ero confuso. Che c’entrava il baciare con lo scopare? Perché avremmo dovuto spazzare a terra solo perché ci eravamo baciati? Marta era proprio strana.
«Scopare?» chiesi.
Lui si allontanò, con passo pericolante, e scoppiò a ridere. Non era la sua solita risata, però: era stridula e disperata, al limite dello sgradevole. Quando si voltò, però, la sua espressione era seria.
«Vuol dire sbattere, trombare, fottere, capito?» gli sfuggì un singulto. «To fuck, Michael. To fuck
Oh. Ora tutto aveva più senso.
La manager di Marco pensava che io da lui volessi soltanto una sveltina e, a giudicare dal modo in cui aveva reagito, lui doveva averle creduto. Mi dispiacque profondamente, era solo colpa mia: se avessi tenuto a bada i miei impulsi e non lo avessi baciato, non l’avrei reso così vulnerabile, esposto alle cattiverie di Marta. Dovevo rimediare, restituirgli la serenità di cui l’avevo privato.
«Chiedo scusa» ammisi, sperando che nella sua ebbrezza mi capisse. «Forse io no doveva baciare te, forse io e te no doveva cadere in amore come noi ha fatto. Ma tu ha di sapere che quando io è con te, mi sente così bene…»
Scoppiò di nuovo a ridere.
«Cadere in amore? Oh, ma che cazzo significa? È una cosa tua inglese, forse, in Italia non lo diciamo così» disse, strascicando le parole. «Sei proprio stupido.»
Mi ferì. Mi ferì profondamente.
Era brillo, ok, ma si stava comportando proprio da stronzo e se lo stava facendo la colpa non era tutta dell’alcol. Stavo cercando di aprirgli il mio cuore, di fargli capire che per lui provavo qualcosa, e lui? Mi prendeva in giro?
Marco era fatto così, passava da un estremo all’altro: era timoroso o era spavaldo, era passivo o era aggressivo e, in quel caso, era lucido oppure era sbronzo. Non aveva alcun tipo di equilibrio, ed era un lato di lui che non mi piaceva per niente.
Presi un profondo respiro e lo afferrai per le spalle. «Tu ha bisogno di caffè.»
Ridacchiò. «Caffè? No, io ho bisogno che tu mi dica che mi vuoi scopare e basta.»
Lo lasciai andare di colpo. Fu come se mi avessero tirato uno schiaffo, forte e in pieno viso. Chi era quel ragazzo che avevo di fronte? Di certo non il Marco di cui mi ero innamorato, quella creatura dolce e spontanea alla quale avevo confidato ogni mio segreto e che, pensavo, avesse fatto altrettanto con me.
Forse Yaz aveva ragione e io non lo conoscevo così bene come pensavo. Mi mancavano i punti oscuri, i difetti più nascosti, i lati subdoli del suo carattere, quelli che io ero stato così sciocco da ignorare. Forse avevo pensato che non ne avesse.
Un po’ come Andrew. Lui non aveva né aveva mai avuto lati subdoli.
«Avanti, Mika» continuò. «Sarà tutto più facile dopo. Dillo, di’ che vuoi soltanto sbattermi contro un muro e poi lasciarmi qui, in Italia, e dimenticarti di me. Una cosa al volo e via, non ci si pensa più!»
«Torna a casa» gli dissi, senza badare al tono. Tornai verso l’ingresso, aprii la porta e mi rivolsi nuovamente a lui: «Tu torna a casa, tu ha bevuto troppo.»
«Pensi di essere il primo?» sembrò arrabbiato, anzi, deluso. «Pensi che nessuno lo abbia mai fatto? Dico, pensi che nessuno mi abbia mai rifilato cazzate come “Ti amo” solo per fottermi a dovere e poi scomparire? Lo farai anche tu. Lo fate sempre.»
Ne avevo avuto abbastanza di questa scenata.
Così facendo, faceva male a me e anche a se stesso. Io avevo già i miei problemi, non potevo farmi carico anche dei suoi: un peso, quando è eccessivo, sbilancia.
«Marco, vattene» gli ordinai.
Lui, però, era sordo a ogni comando. Ringhiò: «Forza, avanti. Sarebbe meglio. Anche Marta l’ha detto: se devi andarci a letto, vacci subito prima che ritornino a parlare di voi due. Se dicono che stiamo insieme, tu sei rovinato. E se la gente scopre che sono un frocio come te, sono rovinato pure io.»
«Marco go away!» urlai.
La mia mano stringeva forte la maniglia, tanto che iniziarono a farmi male le dita.
La vista mi si appannò, colpa delle lacrime che mi sforzai di ricacciare indietro ma che, ormai, sembravano prossime a uscire.
«Non lo sai? Se ci beccano a baciarci come ieri, sei finito! Tu, il tuo fidanzatino a Londra, perfino la tua carriera! E pure la mia.»
Stava piangendo anche lui? Difficile dirlo. Udivo la sua voce rotta, ma le motivazioni potevano andare dalla rabbia all’alcol, senza che c’entrassero per forza le lacrime.
«La mia reputazione si fotte insieme alla tua, l’hai capito? Se tu non vuoi nient’altro che una botta e via da me va bene, basta che la facciamo finita» proseguì, con voce lamentosa. «Non ci arrivi, razza di idiota?»
Mi si mozzò il respiro.

Idiota.
Era l’unica persona al mondo che ancora non mi aveva definito tale. Qualcosa dentro di me si ruppe e cadde in un milione di frammenti, forse era il mio cuore. Che delusione, non potevo credere di essermi sbagliato tanto su di lui.
Le lacrime sgorgarono presto dai miei occhi e scesero sulle mie guance. «Io no vuole più vedere te.»
Lui si passò una mano tra i capelli. «No? Allora me ne vado via.»
Aveva mosso appena un passo verso la porta.
Inciampò in uno dei tappeti, uno dei miei preferiti, dai caldi colori estivi. Roteò le braccia in aria, cercando di recuperare l’equilibrio.
Io non intendevo fare nulla per aiutarlo. Che cadesse pure, pensai. Il mio corpo, però, sembrò in disaccordo, visto che subito mi protesi verso di lui per arrestare il suo capitombolo.
Non ce la feci.
Lui era troppo massiccio e io non abbastanza forte.
Franammo insieme. Lui crollò in ginocchio, strisciando sul pavimento i palmi delle mani. Io lo strinsi forte in vita e sbattei l’anca e il ginocchio per terra.
Per un attimo mi dimenticai della lite e della rabbia e, allarmato, gli chiesi: «Marco, are you ok?»
Percepii i brevi, irregolari movimenti delle sue spalle che tremavano sotto di me. Cercai di capire se stesse piangendo e, sinceramente, mi lasciò basito vedere che in realtà stava ridendo. Ma la sua risata aveva poco a che fare con il divertimento.
«Più chiaro di così…» bisbigliò, quasi più a se stesso che a me.
Ero stanco. Stanco di lui e di quella discussione odiosa di cui avrei fatto volentieri a meno. «Che cosa, Marco?»
Si voltò il capo verso di me, guardandomi di sbieco.
«Se cado io, tu vieni giù con me, Penniman.»
Era troppo.
A lui non importava niente di me, né di quello che stavo passando: gli interessava solo non perdere la sua preziosa reputazione, così la sua manager (che poteva anche sposare, per quanto mi riguardava) avrebbe dormito sonni tranquilli. Pensava che a me importasse quanto a lui? Che sapessero pure che il grande Mika se la faceva con un altro mentre aveva una relazione, avrebbe fatto male ma non sarebbe stata di certo la fine del mondo. Avrei soltanto voluto che Marco capisse.
Evidentemente, mi ero fatto delle illusioni su di noi.
Anzi, su di me e lui. Non saremmo mai stati un noi.
Mi alzai, lasciandolo accasciato a terra, e filai dritto in camera. Che facesse ciò che gli pareva, non mi importava e non era più affare mio.
Non mi cambiai nemmeno: mi limitai a levarmi scarpe e cintura e a infilarmi subito sotto le coperte e lì, finalmente, potei dare sfogo a tutte le lacrime che non avevo voluto versare di fronte a lui.
Mi addormentai quasi subito, con la sensazione di essere stato spinto sull’orlo di un precipizio e di aver dimenticato come si vola.
Ero alla ricerca disperata di un appiglio. Ma di appigli, purtroppo, non ne avrei trovati.
 

Mi svegliai.
Marco fu il mio primo pensiero. La rabbia per la scenata di ieri sera mi invase di nuovo, ma la preoccupazione sopraffece ogni cosa.
Lo avevo lasciato solo, ubriaco e confuso, nel salotto di casa mia. Non mi ero nemmeno accertato che si fosse alzato da terra! Che razza di irresponsabile e ripugnante essere avrebbe…?
«Michael?»
Mi rigirai di scatto nel letto. Marco era lì, in piedi, si torceva le mani nell’attesa. Alla luce del mattino, parve incredibilmente fragile e tormentato. Mi stropicciai gli occhi, così da metterlo a fuoco al meglio, e allora notai che aveva i vestiti stropicciati e gli occhi rossi e gonfi. Inutile negarlo: eravamo l’uno lo specchio dell’altro.
«Marco» mugugnai. «Dove ha tu dormito?»
«Oh, ehm, sul divano» spiegò, con una flebile vocina che non gli si addiceva per niente. «Dopo che te ne sei andato, ho chiuso la porta di casa tua, ho spento le luci e mi sono disteso un attimo sul divano. E poi, beh, mi sono addormentato.»
Mi misi a sedere sul letto.
Aspettai.
Lui si morse le labbra e abbassò la testa. «Michael, io volevo chiederti scusa.»
Annuii. Era il minimo che lui potesse fare, così attesi a braccia conserte che continuasse a parlare. Ok, probabilmente non gli stavo rendendo il compito facile, avrei dovuto? Se non ricordavo male, mi aveva dato dello stupido e pensava che da lui volessi una notte e basta. Non sapevo nemmeno se volessi perdonarlo o meno.
Prese un bel fiato: «Ero brillo ieri sera, ma ricordo tutto quanto. Io non volevo, te lo giuro, non volevo dire quello che ho detto. Non penso che tu voglia da me soltanto un… sì, insomma, quello. So che non sei il tipo.»
«Perché tu ha detto, allora?»
Si grattò lievemente la testa, come per riordinare i pensieri. «Ieri ho parlato con Marta. Le ho detto del bacio, le ho detto che provo qualcosa per te, che forse ti amo. Lei ha detto che non era possibile che tu provassi lo stesso, che dopo aver ottenuto quello che volevi, mi avresti lasciato» fece una pausa. «Mi ha detto che dovevo chiudere questa storia e che, se non volevo farlo per me, dovevo farlo per te, perché se io fossi stato così stupido da farci scoprire tu avresti perso tutto.»
Mi dovetti ripetere almeno cento volte di rimanere impassibile: non dovevo esitare, dovevo dimostrarmi fermo ai suoi occhi. Eppure era difficile. Non l’aveva fatto per cattiveria, né per semplice sconsideratezza. C’era un’intensa e profonda tristezza dietro al suo gesto insensato (nonché imperdonabile).

E poi, ha detto che forse mi ama.
«Ho sbagliato e ti chiedo scusa» proseguì, concitato, nel penoso tentativo di convincermi a perdonarlo. «Non penso davvero che tu sia idiota, anzi, lo sai che sei la persona più intelligente che io conosca. Mi dispiace se ti ho detto quelle cose, non te le meritavi.»
Sospirai. «Questo è tutto?»
Mi guardò implorante e rispose: «Sì.»
Potevo percepire dalla sua voce il nodo che gli ostruiva la gola, ma mi imposi di non cedere. La delusione era ancora viva e bruciante. Certo, morivo dalla voglia di stringerlo a me, dargli un bacio tra i capelli, dirgli che lo perdonavo, ma non l’avrei fatto. Non avrei perso la mia dignità per un uomo che probabilmente non la meritava.
Questo mi dissi, mentre lo fissavo, distaccato.
Ma poi ci fu un movimento.
Impercettibile, quasi invisibile.
Marco, ancora lì in piedi, ancora con il volto contrito, aveva subito un cambiamento lieve quanto un battito di ciglia: le spalle lievemente più incurvate, le labbra più strette, gli occhi più lucidi. Accadde tutto in una volta. Ma fu abbastanza. Aveva capito che non ero incline a lasciare correre la questione, aveva capito che mi avrebbe perso.
Là, di fronte a me, avevo un uomo disperato per amore.
«Ti prego» mormorò. «Michael, per favore.»
Deglutii. Non dovevo cadere nella sua rete, non dovevo, non se lo meritava. Resistetti e mi ripetei “Se cadi, ti farai male. Se cadi ti farai male”.
Oh, per favore.
Chi volevo prendere in giro?
Avevo bisogno di sentire il vuoto sotto di me, avevo bisogno di precipitare dentro di lui.
Avevo bisogno di perdere l’equilibrio e rischiare.
Avevo bisogno di Marco.
Così caddi, come si cade in amore.
Mi scostai per lasciargli un po’ di spazio sotto le coperte, nelle quali lui si fiondò senza esitazione. Quando si fu coricato, adagiai la testa sul suo petto e lui mi strinse a sé, imprigionandomi tra le sue braccia forti e rassicuranti. Mi sentii improvvisamente meglio, più leggero, sollevato. Non mi ero reso conto di quanto avessi bisogno di perdonarlo finché non mi ero ritrovato stretto a lui.
Stavo cadendo, ma non avevo più paura, perché c’era Marco a sorreggermi.
«Non fare così mai più, tu hai capito?» lo rimproverai, cingendogli il busto a mia volta.
Lui premette le labbra sulla mia testa. «Mai più, promesso.»
Gli credei. Gli cedei.
Rimanemmo in quel modo per un po’, io cullato dal suo respiro ritmico, il suo petto che si alzava e si riabbassava. Ogni tanto si avvolgeva una ciocca dei miei capelli attorno al dito e, tutte le volte, avvertivo un dolce brivido.
«Sono stato proprio un cretino» disse dopo un po’ «Sai che cadere in amore è proprio un modo di dire bellissimo? Lo adoro.»
Sorrisi. «Sì, tu è stato molto cretino.»
Marco fece una piccola risata, che sentii amplificata dalla sua cassa toracica. Era bello, mi dava una sensazione di completezza. Mio.
Già, mio? Era così che io lo sentivo, mio, ma per Marco era lo stesso? Io speravo in un noi, ma era ciò che voleva anche lui? Il bisogno di saperlo mi attanagliava.
«Noi possiamo provare» gli dissi pertanto, esitante.
«A essere cretini?»
«No, intelligentone» lo presi in giro. «A cadere in amore. Insieme. Io e te.»
Sollevai la testa e osservai ogni sua reazione.
C’era confusione e terrore nel suo volto, ma non solo. Vidi anche il suo sorriso, ampio e spontaneo, reso ancora più bello dal fatto che i suoi occhi brillavano. Quello era il mio Marco.
«Io e te, insieme» ripetei.
Finse di pensarci su. «Tu sei fidanzato, io sono uno sciocco ragazzo che finge di non essere omosessuale. Ha l’aria della relazione perfetta.»
Scossi la testa. «Tu è completamente cretino»
Era spaventato, eppure entusiasta, glielo leggevo in faccia. E lo ero anch’io. Sapevamo davvero quello che stavamo facendo? Non ne ero sicuro, e chissà se insieme avremmo funzionato davvero, a lungo termine. Eravamo in costante pericolo, eravamo noi stessi il pericolo, era evidente. Una parte di me urlava “Non farlo!”
Ma seppi, mentre io mi allungavo per baciarlo e lui mi tirava a sé con le mani che gli tremavano a causa del timore e dell’emozione, che in quel momento non desideravo altro dalla vita che perdere l’equilibrio e precipitare senza sosta, insieme a Marco.
 

 

 

 

 

La soffitta dell’autrice:
Cciao! (Sì, con due c, come lo dice Mika a Marco. Quanto son teneri).
Vi sto viziando troppo, due capitoli in meno di sette giorni. Ma che ci posso fare se ero particolarmente ispirata?
Dunque, questo è un capitolo di necessaria transizione, nonché uno dei più rischiosi. C’è travaglio, cambiamento, lasciare il vecchio da parte per andare incontro a un’incognita (qualcuno direbbe “per andare incontro a Nuovi Futuri”).
Il prossimo sarà un capitolo leggermente più leggero. Probabilmente.
Ma con me non c’è mai niente di sicuro.
Ringrazio come sempre la mia meravigliosa, adorabile, insostituibile e cucciolosa comeunangeloallinferno94. ♥
Alla prossima!

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Capitolo 7
*** Tatto #1 ***


Tatto [Il tatto o sensibilità tattile rende l'uomo e gli animali capaci di rilevare con una straordinaria precisione, la presenza di stimoli dovuti al contatto della superficie cutanea con oggetti esterni.]

 
Marco’s POV

 
Un mese.
Era trascorso un mese esatto. Un mese da quando avevo partecipato a quel party assurdo, un mese da quando io e Michael ci eravamo baciati, come due giovani sciocchi e sconsiderati. Un mese che era scivolato come sabbia tra le dita, da quando avevo capito di essere perdutamente innamorato di lui.
Un mese dopo mi ritrovavo, guarda caso, proprio nei camerini di X Factor. Sarei stato ospite del programma, nonché quinto giudice per la seconda parte della serata. E io, come al solito, ero in preda a una crisi di nervi.
Stavo lottando contro la cravatta nera che avevo deciso di indossare: la stoffa setosa sfuggiva dalle mie mani, che già tremavano per conto loro, e il nodo non voleva proprio saperne di reggere, così fui costretto a rifarmelo daccapo una, due, tre volte. Anche di più. L’ho già detto che ero nervoso?
Non che la mia ansia fosse immotivata.
Quella sera avrei dovuto cantare di fronte a Michael e sedere accanto a lui al tavolo della giuria come se nulla fosse. Sarebbe stato un inferno.
Non esisteva un modo carino per dirlo. Io e Michael, dopo tanto dibattere, eravamo giunti a una risoluzione, dolorosa eppure necessaria: non potevamo stare insieme. C’erano troppe complicazioni, ostacoli insormontabili, pericoli inevitabili, persone che rischiavano di restare ferite a causa del nostro egoismo. Pur provando attrazione reciproca, fummo costretti a separarci. Non poteva andare diversamente, e lo sapevamo entrambi.
O almeno, questa era la versione dei fatti che avevamo deciso di dare a Marta e a Yasmine.
Sì, lo so, mentire è sbagliato e le bugie non si dicono, eccetera, ma che altro avremmo dovuto fare? Michael riceveva pressione da sua sorella, io ne ricevevo dalla mia manager, noi non avevamo la benché minima intenzione di separarci e così, proprio come una coppia rispettabile, avevamo preso una decisione di comune accordo.
Ossia, nascondere la nostra relazione a tutti e far credere che qualunque cosa ci fosse stato tra di noi, ormai era finito.
Immaginavo che per Michael ingannare la sua famiglia e il suo fidanzato dovesse essere straziante e mi sentivo in colpa per questo ma, che Dio mi perdoni, mi bastava il fremito che sentivo quando le sue labbra si posavano sulle mie per dimenticarmi di tutto, anche delle difficoltà. Anche del senso di colpevolezza.
Ma quella sera, a X Factor, come mi sarei dovuto comportare? Come avrei fatto a restare calmo? Come avrei fatto a stargli vicino senza stringerlo e baciarlo? Anche solo guardarlo senza sbavare sulla sua immancabile perfezione sarebbe stata un’impresa. Avevo paura che qualcuno potesse beccarmi mentre lo fissavo come un allupato. Avevo paura che qualcuno capisse quanta voglia e quanto bisogno avessi di toccarlo.
Anche adesso sentivo come un tremore lungo le dita, tanto avvertivo il desiderio, forte, palpabile, di averlo vicino e di poterlo anche solo sfiorare.

Toc toc!
Chi era che bussava nel bel mezzo della mia crisi di nervi?
«È aperto» sbraitai, per farmi sentire da fuori la porta.
«Posso entro?»
Quell’italiano sgrammaticato era inconfondibile. «Michael!»
Mi voltai verso di lui, che spiccava nella sua sobria eleganza e che mi sorrideva come se non mi vedesse da tre anni, invece che da poche ore. Poche ore in cui avevamo sentito il disperato bisogno l’uno dell’altro: eravamo proprio senza speranza.
Subito si precipitò ad abbracciarmi, sicché il prurito che sentivo alle mani si placò, finalmente. Gli cinsi la vita e per un attimo chiusi gli occhi, affondando il volto nell’incavo del suo collo: le sue braccia mi avvolgevano con forza e dolcezza, come se non volessero più lasciarmi andare, e avvertivo il movimento ritmico del suo respiro. La sua pelle era talmente liscia e invitante contro la mia bocca che non potei fare a meno di baciarla, saggiandone la morbidezza. Marco Mengoni in quei momenti non esisteva: tra le sue braccia, ero sempre e solo Marco. Per questo amavo starci. Per questo odiavo lasciarle.
Si staccò lievemente da me, pur continuando a tenere le mani sulle mie spalle: «Come tu ti sente? Pronto per la performance?»
Scossi la testa. «Neanche un po’. Sono terrorizzato.»
Il suo sguardo era a metà tra il curioso e il divertito, e cadde inevitabilmente sul nodo osceno che avevo fatto alla mia cravatta. Si lasciò sfuggire un sorriso, ragion per cui lo odiai, e mi afferrò le mani, portandole all’altezza del collo.
«Marco, Marco, Marco» mi rimproverò come un maestrino. Dispiegò la cravatta e, tenendomi ancora saldamente per le mani, guidò le mie dita passo dopo passo nella realizzazione di un nodo decente. Mi sentii un impedito, ma il suo tocco era talmente delicato, eppure pieno di un’inspiegabile sicurezza, che lo lasciai fare.
Nel frattempo, continuò a parlare: «Tu ha cantato su palchi di Italia tutta. Tu ha cantato anche a Ariston, e tu ha vinciato. Perché tu ha paura ora?»
«Non c’entra l’esibizione. È che ho paura di farci scoprire» ammisi, puntando lo sguardo sui movimenti accurati che lui, o meglio, noi compivamo assieme. «Di tradirmi con un gesto, o una parola di troppo, oppure con uno sguardo.»
Quando la cravatta fu annodata, invece di lasciarmi andare, Michael rinvigorì la presa.
«Ci sarà io» sorrise. «Io ti aiuta. Se tu guarda me in modo strano, io no ti guarda. Se tu dice cosa strana, io dico cosa la più strana. Capito?»
Non risposi subito, ero scettico. Temevo comunque di rovinare tutto, visto che la mia idiozia era proverbiale.
All’improvviso, Michael premette le mie mani sul suo petto: erano intrappolate. Da una parte c’era il suo torace piatto, potei sentire il calore che irradiava da sotto la camicia, le mie dita avvertirono chiaramente il battito irregolare del suo cuore, una musica che potevo percepire al tatto. Dall’altra parte invece c’erano le sue, di mani. Strinsero più forte le mie, come per dirmi di stare tranquillo, come per farmi capire che mi avrebbe protetto lui, che non dovevo aver paura finché lui fosse stato al mio fianco. Che ero al sicuro.
Si avvicinò al mio orecchio e sussurrò: «Andrà tutto bene, Marco.»
Sentire il suo fiato, caldo e leggero, sfiorare il mio orecchio mi fece percepire un brivido talmente intenso che fu come essere attraversati di colpo da una scossa elettrica, che attraversò il mio intero corpo in un lampo.
Michael lo percepì e, pertanto, si fece ancora più vicino a me. Non indietreggiai, né mi scostai, il mio corpo era in tensione, in attesa della sua prossima mossa.
«E se tu è nervoso» concluse «ci pensa me.»
Risi, sia per il suo italiano che per il suo fiato che mi solleticava la pelle.
Chiusi gli occhi e presto avvertii le sue labbra carezzare il punto sensibile tra il collo e l’orecchio. Mi morsi forte le labbra, nel vano tentativo di trattenere un gemito, il quale mi sfuggì ugualmente dalla gola. La sua bocca scese a esplorare il mio collo, una zona estremamente sensibile per me: involontariamente, feci per ritrarmi da lui e sottrarre le mie mani alla sua presa ferrea. Lì per lì le trattenne tra le sue, poi le lasciò andare. Una volta libero mi aggrappai alle sue spalle, così esili eppure così invitanti, e lo tirai verso di me per dargli campo libero. Certo, se così pensava di rilassarmi era fuori strada, ma lo lasciai fare. Come dire di no a un simile trattamento?
La sua bocca compì il percorso a ritroso, dalla base del collo fino alla mandibola. Tremai sotto il suo tocco volutamente lento e leggero, diabolico eppure paradisiaco, un meraviglioso supplizio che avrei desiderato non finisse mai e che cessasse all’istante. Era tutto nuovo per me, che ero in totale balia del suo volere: lui mi insegnava l’amore e io imparavo senza perdere neanche un secondo.
A un certo punto le sue mani si intrufolarono tra la giacca che indossavo e la mia camicia e presero ad accarezzarmi la schiena, mentre ancora le sue labbra cercavano nuovi posti in cui baciarmi e farmi fremere. Un pesante sospiro si librò dalle mie labbra, riempiendo Michael di soddisfazione. Pensava davvero di rilassarmi facendo così, ignaro di quanto invece mi stesse stuzzicando. Poco dopo, il dolce tocco della sua bocca venne sostituito da quello più consistente dei suoi denti. Strinsi talmente forte le sue spalle che dopo un po’ le mani presero a formicolarmi, ma che altro avrei potuto fare? Se da una parte mi accarezzava con delicatezza, dall’altra morsicava la mia pelle con il deliberato intento di farmi impazzire, donandomi due sensazioni contrastanti. Mi dimenai in risposta a quella piacevole tortura. Sul mio corpo si alternava una gamma di esperienze meravigliose, tutte completamente nuove. Non ero estraneo al piacere, ma lo ero all’affetto. E quello, benché rischiasse di farmi perdere la ragione, era il modo di Michael di dare affetto.
E io lo amavo.
Amavo lui.

Click!
Un piccolo rumore alle nostre spalle mi fece voltare repentinamente.
Cosa diavolo era stato?
«Che cosa tu hai?» mi chiese.
Non gli risposi, invece mi guardai intorno. Non c’era niente di insolito, niente di strano, la porta era perfettamente chiusa e ogni cosa era al suo posto. Mi accorsi di star respirando affannosamente soltanto quando Michael mi posò una mano sul petto, per calmarmi. Mi voltai verso di lui, tirando un sospiro di sollievo.
«Niente, mi era sembrato che qualcuno avesse aperto la porta.»

E magari avrebbe potuto beccarci in flagranti, aggiunsi terrorizzato tra me e me.
Fu come se Michael mi avesse appena letto nel pensiero, perché mi prese il volto tra le mani e mi rivolse uno dei suoi sorrisi più belli.
«Tu sei troppo teso, Marco» disse. «Stai calmo. Noi siamo al sicuro.»
Annuii, imbarazzato. Stavo diventando paranoico? Lui pensava che lo stessi diventando? O che lo fossi già? Non ci capivo più niente.
Eravamo talmente vicini che sentivo le sue ciglia sfiorarmi le guance, il suo naso scontrarsi con il mio. Il suo respiro lambiva le mie labbra, invitandole a schiudersi lievemente. Come un segnale di via libera. E fu quel che feci. Bramavo la sua bocca come un peccatore brama la confessione, con la stessa spasmodica smania.
Così annullammo ogni distanza. Percepii la tensione e il nervosismo abbandonarmi, come un peso che si sollevava dalle mie spalle. Le sue labbra si mossero leggermente sulle mie, io ricambiai. Come era possibile provare qualcosa di così liberatorio e così vincolante al tempo stesso? Ogni volta che mi baciava, sentivo di non averne mai abbastanza, di volerne sempre di più. Ogni santa volta, ogni singolo bacio, sembrava essere più intimo e profondo di quello precedente. Ogni volta, forse greve del ricordo del nostro primo e improbabile bacio, sentivo di amarlo di più.
Il bacio divenne pian piano più urgente e intenso, un contatto tanto morbido quanto umido, tanto delicato quanto impetuoso. La sua bocca premuta sulla mia era così incredibilmente soffice che non seppi resistere alla tentazione di passarvi sopra la lingua.
Michael sorrise a quel gesto e si staccò lievemente da me, per poi parlare sulle mie labbra: «So, stai meglio?»
Scossi la testa. Stavo meglio? Non lo sapevo. Era difficile pensare con lucidità, dopo i suoi baci. «No. Sì. Non proprio. Mi sento meglio, è vero, però ho ancora l’ansia.»
«Marco, io ti vuole beno» sghignazzò «ma se ancora no ti ha passato ansia con mio bacio e mie caresses, cosa io deve fare per fare stare te bene, ti deve incintare
Fu più forte di me: scoppiai a ridere. Ma ridere per davvero, tanto da farmi venire le lacrime agli occhi. Risi forte e così facendo riuscii in parte a scaricare lo stress e la paura. Ancora una volta, grazie a Michael. Ero sempre e comunque teso come una corda di violino, ma Michael, da bravo musicista, sapeva sempre come toccare le mie corde per scioglierle a dovere. Anche stavolta.
 

Il buonumore, purtroppo, scomparve quando salii sul palco per cantare. Vidi le telecamere puntate tutte su di me, lo sguardo attento e beffardo dei giudici, il sorriso inquisitore di Marco Castoldi. Michael che mi guardava come fossi un estraneo, impeccabile nel fingere che io non fossi nessuno per lui. Non ressi a tutto questo e alla fine crollai, steccando come un principiante. Cazzo. Il mio primo istinto fu quello di gettare il microfono a terra e lasciare il palco. Ma sarebbe stato del tutto inappropriato, così cercai istintivamente Michael con lo sguardo. I suoi occhi, ora diversi, mi incitarono ad andare avanti nonostante tutto, cosa che feci senza lasciar trasparire la mia angoscia. Quel contatto visivo era la mia salvezza.
Finii comunque l’esibizione riscuotendo una certa approvazione da parte del pubblico e, prima che sedessi al tavolo della giuria, ci fu una pausa pubblicitaria.
Michael fece per venire verso di me, con l’intento di congratularsi, ma Morgan fu più veloce e lo precedette. Mi raggiunse, posandomi una mano dietro la schiena: fu come essere sfiorati da un serpente, un tocco gelido e viscido che presagiva un’iniezione di veleno.
«Marco Mengoni» sogghignò «sei stato proprio eccellente. Peccato per quella piccola sbavatura sul finale, ma di certo non se ne sarà accorto nessun altro, vero?»
Assentii, benché non fossi d’accordo: era stata una stonatura bella e buona, anche i sassi se ne sarebbero accorti, e lui lo sapeva. La sensazione pungente e al contempo rovente delle lacrime, che minacciavano di uscire dai miei occhi, si impadronì di me.
«Marco, tu ha stato meraviglioso!» esclamò Michael, affiancandoci. «Ho ragione, Marco Morgan?»
Marco Morgan, come lo chiamava lui, si esibì in un sorriso di approvazione.
Michael continuò: «Tu sai, io ancora ricorda brano che tu hai assegnato lui, in puntata che io è venuto in 2009. Lui cantava My baby just cares for me di Nina Simone. Ma che performance extraordinaria. È vero?»
«Quando era dei miei, tutte le sue performance erano extraordinarie» replicò Morgan. «Non tolleravo imperfezioni. Questo te lo ricordi, Marco Mengoni?»
Annuii di nuovo, infastidito dal fatto che mi chiamasse sempre per nome e cognome.
«Beh, sai, ultimamente ce ne sono di cose che ti sfuggono, Marco Mengoni» ghignò. «Il controllo vocale, per esempio. Quella barba incolta da clochard che ti porti addosso, per esempio. Le porte del tuo camerino socchiuse. Per esempio.»
Finse un inchino e si congedò.

Le porte del tuo camerino socchiuse.
Mi impietrii.
Per un attimo, mi sembrò che tutto intorno a me iniziasse a vorticare e feci istintivamente per aggrapparmi a Michael. Ma mi scostai quasi subito: non dovevo toccarlo, non potevo. Non in pubblico.
Ero nel panico.
Marco ci aveva visti. Ci aveva beccati in pieno. Il rumore che avevo sentito era probabilmente lui che richiudeva la porta con cura. Bastardo.
Lui sapeva. Sapeva tutto e per di più mi detestava, ed ero più che sicuro che l’unica cosa che lo avrebbe trattenuto dall’usare quel segreto contro di me potesse essere l’amicizia che lo legava a Michael. Non ci avrei messo comunque la mano sul fuoco. Il solo fatto che sapesse di noi mi bastava a farmi raggelare il sangue nelle vene.
Non lo sapevano mia madre e la mia migliore amica. Non lo sapevano i fratelli di Michael. E quel viscido bastardo invece sì? Mi sentii arrabbiato, spaventato, atterrito.
Mi venne ancora una volta da piangere.
«Marco…» sussurrò Michael, con un filo di voce.
Ma non poté dire nient’altro.
La pausa pubblicitaria ormai era finita, e noi dovemmo prendere posto e restare lì come due perfetti idioti a fingere di essere semplici colleghi, invece che amanti.
Le mie mani tremavano ancora a causa del nervosismo. Imprecai tra me e me. Quella serata diventava sempre più insopportabile.
Continuai a pensare a Marco per tutto il tempo.
Mentre Alessandro parlava, però, a un certo punto sentii qualcosa che mi sfiorava. Abbassai appena lo sguardo: era la mano di Michael che cercava la mia da sotto il tavolo dei giudici.
Sul momento ritrassi la mano, per paura che qualcuno potesse vederci. Poi gettai un’occhiata tutt’intorno per controllare che nessuno ci stesse fissando, e solo allora mi accinsi a intrecciare le mie dita alle sue.
In quel contatto ritrovai un po’ di pace. Fu come un incantesimo: dimenticai la stecca, dimenticai il terrore infusomi da “Marco Morgan”, il tremore cessò. Mi bastava soltanto sentirlo accanto a me, in qualche modo.
Strinse forte la mia mano e io feci altrettanto. Con quel piccolo, meraviglioso gesto, Michael sembrava volermi dire che sarebbe andato tutto bene, perché lui era al mio fianco. Sentii il suo calore irradiarsi dentro di me, la sua morbidezza accogliermi e confortarmi e, anche quando le nostre mani cominciarono a diventare umide e appiccicaticce, continuai a tenerlo stretto.
Quello che contava era poterlo toccare, anche solo in quel modo, nell’ombra e di nascosto. Mi ridonò il sorriso e la serenità che sembravano ormai perduti, e benché ancora sentissi la paura strisciarmi infida sulla schiena, non era che piccola cosa se confrontata alla splendida sensazione della sua pelle contro la mia.
Accarezzai il dorso della sua mano con il pollice, e mi sfuggì un sorriso quando lo sentii sussultare al mio tocco. Mi diede un piccolo scossone, come per intimarmi a smetterla. Inutile dire che io continuai a farlo. Stavamo parlando, ma semplicemente toccandoci.

Stai meglio?
Forse un po’.
Bene, allora finiscila. Sono sul posto di lavoro, così mi distrai.
Come dici? Distraimi di più? Va bene, lo farò.
Marco, vaffanculo.
Ti amo anch’io.

 
Altra pausa pubblicitaria. Controllavo sempre che, tra uno stacco e l’altro, “Marco Morgan” non andasse a parlare con nessuno di “sospetto”. O meglio, con nessuno al quale potesse interessare chi mi portavo in camerino. Alle volte lo vidi scrutarmi e sorridere in modo volutamente subdolo, per testare la mia reazione (che, inutile dirlo, era di panico puro).
Questo sfiancante teatrino si ripeté più volte, per grande sdegno di Michael.
«Ok, così no va beno» sbottò dopo un po’, per poi chiamare a gran voce: «Marco Morgan!»

Cosa stava facendo?
Marco venne verso di noi con passo sicuro, studiato, come se si aspettasse di essere convocato nel nostro piccolo conclave di amanti segreti. Alla fine giunse a noi trasudando finta innocenza. «Cosa c’è?»
«Per favore, Marco Morgan, dici a Marco Mengoni che tu no parla di quello che tu ha visto in sua dressing room, o lui sviene di paura» chiese, con un mezzo sorriso che gli incurvava la bocca.
Marco Morgan ridacchiò e mi si avvicinò ancora di più, per parlarmi all’orecchio.
Incredibile come facessero lui e Michael a essere amici. La vicinanza con Marco mi infondeva gelo puro e un profuso malessere. Come un bambino con la sua mamma, volevo stringere di nuovo la mano di Michael che mi faceva sentire tanto al sicuro.
«Marco Mengoni» cominciò. «Non me ne frega niente di te già quando non siamo costretti a collaborare. Ora come ora voglio limitare i nostri contatti al minimo. Quindi, figurati quanto mi importa di andare a dire in giro che ti sbatti Mika. Sarò più chiaro: non parlerò semplicemente perché non me ne può fregar di meno.»
E, detto questo, mi strinse in un abbraccio.
Proprio così. Un abbraccio, il più falso e ributtante che avessi mai ricevuto. Un gesto d’affetto che avrebbe fatto impallidire Giuda Iscariota in persona e io, che non ero Gesù Cristo, fui costretto a ricambiare per amore della decenza. E per amore di Michael.
Venimmo fotografati a ripetizione e soltanto dopo che i flash cessarono ci separammo. Mi sentivo sporco. Sudicio.
Fu allora che Michael posò una mano sulla mia spalla.
«Ehi, io e te facciamo una foto insieme?» mi propose, così, dal nulla.
Trattenni il respiro, sorpreso dalla sua richiesta, così si affrettò a ripetere: «Ti pleaso! Quando capita di nuovo che io e te facciamo foto in pubblico?»
Aveva ragione. Aveva perfettamente ragione. Perché permettere a un tizio qualunque di rovinarci la serata? Avevo Michael, il resto non contava.
Così chiamammo un fotografo, ci mettemmo in posa (e cercammo di fare la posa più stupida che ci venne in mente. Così, perché ci andava di fare gli idioti) e quello scattò. La foto nel complesso era buffa e divertente, l’avrei riguardata volentieri per tutto il tempo.
Michael aveva ragione.
Quella sera potevamo stare insieme, parlare e scherzare, fianco a fianco, davanti a tutti quanti e nessuno avrebbe fiatato perché avrebbe pensato “Sono solo colleghi”. E perché no, anche farci fotografare in tutta libertà. Quando mai ci sarebbe ricapitata un’opportunità del genere?
Così, passai il resto della serata a fare ciò che non ero ancora del tutto capace di fare, ma sentivo che avrei imparato presto, con un ottimo maestro accanto a me.
Ossia cogliere l’attimo.
Finché non avessi imparato, però, avrei continuato a fare ciò che invece sapevo fare meglio: placare la mia ansia sempre presente e, nel frattempo, stringere forte la mano di Michael, in segreto.
 

 

 

 

La soffitta dell’autrice:
Sono imperdonabile, ne convengo.
Oltre due settimane di attesa per un capitoletto così insulso. Mi farò perdonare, lo prometto.
Dunque. Anche il tatto sarà diviso in due parti. Ho scelto questo momento in particolare (Marco ospite a X Factor) perché beh, è lì che l’attrazione che c’è tra loro era sotto gli occhi di tutti. No? Spero che l’abbiate notato e che abbiate fangirlato con me.
Un piccolo spoiler per farmi perdonare?
Il prossimo capitolo sarà associato al senso più strano e difficile di cui mi toccherà scrivere. E avrà un rating particolare. Che non è il giallo, non è l’arancione e di certo non è assolutamente il verde.
No comment (se non un ringraziamento alla mia favolosa beta, comeunangeloallinferno94, che adoro con tutta me stessa!)
Vi voglio bene.

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Capitolo 8
*** Proprioricezione ***


Proprioricezione [La propriocezione è la capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei propri muscoli, anche senza il supporto della vista.]

 
Marco’s POV

 
«Michael, smettila!»
Lui rise di gusto. Io lo ignorai bellamente, tornando a leggere.
Sì, ne convengo, è assurdo: chi è che, trovandosi insieme al ragazzo che ama, a casa sua per di più, si metterebbe a leggere senza prestargli la benché minima attenzione?
In mia difesa, posso dire che avevo i miei buoni motivi.
Poco prima, io e Michael ci stavamo, come dire, accomodando sul divano. Nel senso che io ero accomodato sul divano e lui era accomodato sopra di me. Eravamo partiti da un semplice bacio, entrambi seduti, composti e ordinati e, non so come, eravamo finiti in quel modo: la lingua di Michael che esplorava deliziosamente la mia bocca, le mie mani che gli spettinavano i capelli, i miei vestiti stropicciati e sollevati, in modo che Michael potesse avere libero accesso ai miei fianchi e alla mia schiena, quel tanto che bastava per farmi impazzire a dovere.
E la mia mente, inutile dirlo, che viaggiava alla velocità della luce.
I neuroni e gli ormoni facevano a gara, dentro il mio corpo, per arrivare primi in un luogo indefinito del mio cuore.
Viaggiavano, correvano come pazzi, toccando spazi della mia memoria che erano ormai logori e impolverati. Non ero tipo da una botta e via: per me il sesso non poteva essere separato da un profondo sentimento d’amore nei confronti della persona che si aveva di fronte. O sotto, o sopra, o in qualunque posizione. Il problema era proprio che non avevo una relazione da molto tempo. Il che, in poche parole, stava a significare che non andavo a letto con qualcuno da mesi. Ok, da un anno e qualche mese.
Va bene, da un anno e dodici mesi. Circa.
Insomma, quei quasi due anni di astinenza forzata mi avevano lasciato un relativo amaro in bocca. Non ero dipendente dal sesso, voglio dire, non è che ne avessi bisogno per vivere. Per me era più importante l’amore. E non amavo qualcuno da tanto, troppo tempo.
Ora, però, c’erano Michael, il suo affetto genuino e il suo erotismo giocoso. C’ero io e due anni di solitudine che gravavano su di me. C’eravamo noi e un impulso istintivo che cercavamo di risvegliare e al contempo di non risvegliare. E mi piaceva, quanto mi piaceva.
Questo stavo pensando quando, all’improvviso, lo sentii parlare.
«Secondo te io deve cambiare colore di pareti?» disse.
Per un attimo, lo fissai sconcertato, quasi pensando che quella frase fosse frutto della mia fantasia.
Io mi stavo struggendo, chiedendomi se lasciarmi andare o no a una sfrenata passione a lungo trattenuta, e lui? Pensava a ridipingere le pareti. Nessuna meraviglia se mi indignai, anche se più che arrabbiato con Michael mi sentii, come dire, sconfortato. Dovevo avere davvero il sex appeal di un’acciuga se lui pensava al colore dei muri mentre amoreggiavamo.
E questo spiega perché poi mi ero alzato, avevo preso il primo libro che mi era capitato sotto mano e avevo cominciato a leggere per fargli dispetto. Michael pensava ad altro mentre stavamo insieme? Bene, l’avrei fatto anch’io.
«Chiedo scusa, Marco» si scusò, con un sorriso imbarazzato e divertito. «Io no voleva.»
Ma non lo ascoltai, concentrandomi piuttosto sulla lettura di… il Simposio di Platone? No, un momento, Michael aveva difficoltà a leggere eppure aveva letto il Simposio, mentre io non ero mai andato oltre Il giornalino di Gian Burrasca?
Quell’uomo era pieno di sorprese.
Così mi misi a leggere, il che fu abbastanza difficile, visto che Michael continuava a strusciarsi a me come un gattino, in cerca di attenzioni.
Ed ero tentato, davvero, di dargliele. Perché avere Michael Holbrook Penniman Jr. che faceva le fusa in quel modo così invitante apposta per me era qualcosa da non lasciarsi sfuggire, e mi faceva letteralmente ribollire il sangue nelle vene.
Ma si era distratto mentre ci baciavamo e per questo andava punito.
Iniziò a lasciarmi dei baci sulla spalla da sopra la maglietta, cosa che io mi sforzai di ignorare, focalizzando la mia attenzione sulle parole stampate sul libro. Dopo un po’ si stufò e incominciò a strofinarmi la punta del naso contro il collo, sapendo quanto fossi sensibile. Il suo tocco mi provocò un brivido involontario. Io non ci badai, ma lui se ne accorse (ovviamente) e prese a soffiare sulla mia pelle.
Fu lì che gli ordinai di smetterla.
Per tutta risposta, lui ridacchiò. «Cosa tu legge?» mi chiese, cingendomi la vita. La mia schiena si scontrò con il suo petto. Resta indifferente Marco. Indifferenza. 
«Il Simposio di Platone.»
«Tu vuole legge in alta voce per me?»
Lo guardai per un momento. Quegli occhioni spalancati e quel sorriso tutto denti e fossette con il quale sperava di intenerirmi non mi convinceva, ma cedei per il semplice fatto che mi avesse chiesto di leggere per lui. Era una cosa romantica, infondo, una cosa da innamorati di altri tempi.
«Va bene» mi schiarii la gola e cominciai. «L’androgino era un’unità per figura e per nome. Aveva quattro mani e tante gambe quante mani, e due volti su un collo arrotondato del tutto uguali. E aveva un’unica testa, per ambedue i visi rivolti in senso opposto, e quattro orecchie e due organi genitali.»
Mi interruppi bruscamente, per un secondo: le labbra di Michael, leggere come farfalle, si erano andate a posare nell’incavo del mio collo, sfiorandolo e baciandolo con un sorriso che percepivo chiaro sulla mia pelle.
Avrei dovuto capire che aveva qualcosa in mente: lo stava facendo di proposito, voleva vedere quanto avrei resistito alle sue provocazioni.
Indispettito, continuai a leggere, non volevo dargliela vinta: «Zeus e gli altri dèi, invidiosi della loro perfezione, tennero un consiglio per decidere cosa fare» la mia voce era incerta e tremolava, a causa dei brividi che il suo tocco mi forniva. Maledetto Michael. «Al fine, Zeus disse: “Io li taglierò ciascuno in due, cosicché essi saranno più deboli e più utili a noi, perché diventeranno maggiori di numero.»
E qui, mio malgrado, sospirai, perché i suoi baci erano sempre più umidi e lenti e si era anche messo a succhiare piccoli lembi di pelle, come un bambino goloso. Le sue mani, per giunta, presero ad accarezzarmi l’addome in maniera lenta, sensuale. Mi morsi le labbra. Non era più un semplice stuzzicare, il suo: quello era piacere, ma piacere vero, quello che ti fa arricciare le dita dei piedi e spalancare la bocca senza avere neanche forza per urlare.
«Dopo aver detto questo tagliò gli uomini in due. Allora, dopo che l’originaria natura umana fu divisa in due, ciascuna metà, desiderando fortemente l’altra metà che era sua, tendeva a raggiungerla.»
E lì ci fermammo entrambi. La voce mi morì in gola, la sua bocca cessò il suo percorso, rimanendo ferma lì dov’era. Le sue mani si erano bloccate proprio sopra la cintura, che era una specie di limite invalicabile. Le parole impresse nero su bianco sopra quelle pagine sembravano parlare di noi. E le sue mani sul mio corpo tracciavano un percorso pericoloso da concludere.
Adesso avevamo una scelta.
Potevamo sapere cosa dicevano quelle pagine dopo quella frase, e lui poteva oltrepassare la mia cintura e noi potevamo esplorare un territorio pressoché vergine per noi due, come coppia. Oppure potevamo restare divisi, nel dubbio, bramando qualcosa che non sarebbe avvenuto.
Mi voltai lievemente a guardarlo, e nei suoi occhi vidi la mia stessa incertezza, mista a una scintilla di desiderio. Sì, desiderio, per me. Chi l’avrebbe mai detto.
Sospirai. Scegliemmo.
Tornai a leggere. «E gettandosi attorno le braccia, e stringendosi forte l’una all’altra, desiderando fortemente di fondersi insieme, morivano di fame. Perché ciascuna delle parti non voleva fare nulla separata dall’altra.»
Desiderare.
Fondersi insieme.
Diventare una cosa sola.
Suonava tanto come fare l’amore.
Michael afferrò il libro con mano tremante e lo richiuse. Quella stessa mano, poi, la portò sulla mia bocca. Io ero ancora voltato di spalle e sentivo il suo respiro irregolare dietro la nuca. Le sue dita mi carezzarono le labbra, ogni tanto inumidendosi sulla punta della lingua, la quale ben presto si unì a tutto il resto, cosicché presi a leccare i suoi polpastrelli. La mano che ancora teneva sul mio addome mi strinse più forte, insinuandosi sotto la mia maglietta, quel tanto che bastava per arrivare alla fibbia della mia cintura.
E slacciarla.
Come un capriolo spaventato dal leone, girai la testa e lo fissai una seconda volta. Lui, con gli occhi predatori, lui che sapeva come si toccava un uomo, di fronte a me, che non sfioravo carne viva da due anni.
Deglutii. «Andiamo in camera.»
Più che andare verso la sua stanza, ci lanciammo in una vera e propria corsa per giungervi. Arrivati, sbattemmo la porta e la camera piombò nel buio più totale.
«Aspetta, accendo luce» sussurrò lui.
Ma io lo cercai con la mano e lo fermai. «No. Niente luce.» Certe cose hanno bisogno del buio per essere perfette.
Lui neanche mi rispose: si limitò a seguire il percorso della mia pelle. La mano, poi il braccio. La spalla, il collo, il mio viso, la mia bocca. Mi trovò e prese a baciarmi, con la voracità di un animale eppure con quella gentilezza che di lui tanto amavo.
Le mie mani scivolarono sulla sua schiena, afferrando i lembi della sua maglia. Era tutto diverso per me: non avevo mai spogliato nessuno, se non la mia prima ragazza, e solo in occasione della nostra prima volta. Dopo di lei, tutte le altre volte io mi ero spogliato per conto mio e lui (perché dopo ero stato solo con uomini) per conto suo.
Michael fremeva sotto le mie dita, in tensione, in attesa solo di una mia mossa. Era una tentazione irresistibile. Così gli sfilai il maglione, e lui fece altrettanto con me. Lanciammo gli indumenti sul pavimento, forse anche calpestandoli, non ci importava.
Indietreggiai fino a incontrare il letto, sul quale mi gettai. Lui finì di slacciarmi la cintura e mi tolse i pantaloni, ancora abbottonati, con un unico movimento preciso. Attesi un minuto che finisse di spogliarsi a sua volta, e poi si gettò su di me. Avevamo indosso solo i boxer.
Il suo corpo nudo schiacciato sul mio era morbido e bollente. La sensazione più bella del mondo. Fu abbastanza per strapparmi un gemito.
La luce dei lampioni filtrava appena dalle persiane socchiuse, riuscivo a malapena a distinguere le ombre, per il resto dovetti affidarmi a Michael. Le sue labbra, prima incollate alle mie, iniziarono un percorso tutto loro lungo il mio corpo. Esplorarono l’angolo della bocca, la mascella, e poi ovviamente il collo. Come un bimbo giocoso, conosceva il mio punto debole e ci si avventava con malizia: prima la sua bocca lo sfiorò appena, poi diede qualche bacio nei punti che sapeva ancor più sensibili degli altri, per poi morderli e infine scendere sulla clavicola.
Non feci che ansimare e trattenere invano gli spasmi mentre le sue mani, serrate attorno ai miei fianchi, li accarezzavano in su e in giù. Era un movimento studiato e sadico, poiché mi spingeva a dimenare il bacino e, quindi, a strusciarmi contro di lui, rendendo la situazione ancora più rovente di quanto già non fosse. Avvertivo la sua erezione, presente e rigonfia, spingere contro la mia.
Dopo qualche minuto, quando le sue labbra finirono di esplorarmi il petto, ero già entrato nel suo ritmo provocante, tanto che la mia pelle tremava un attimo prima che lui vi posasse le labbra, e i nostri bacini spingevano l’uno contro l’altro.
Il suo respiro era caldo e affannato, un riflesso del mio. Non avrei saputo dire chi era più in estasi. In un primo momento avrei detto io, che stavo subendo il più dolce ed eccitante dei trattamenti. Ma dal modo in cui si avventava su di me e gemeva di piacere ogniqualvolta mi sentiva tremare sotto di lui, avrei detto Michael.
Circondai la sua vita con le gambe. Sospirò il mio nome in modo tanto sensuale che la mia reazione fu spontanea. Non ne potevo più.
Cercai di abbassargli i boxer con le caviglie e, strano a dirsi, ci riuscii. Sollevai il bacino, in modo che lui potesse fare altrettanto. In un minuto, ci ritrovammo entrambi nudi, pelle contro pelle.
All’improvviso, premette un dito sulle mie labbra, come per farle dischiudere, cosa che feci: introdusse l’indice e il medio nella mia bocca e io, per tutta risposta, li avvolsi con la lingua.
Avevo capito perfettamente le sue intenzioni.
Tremavo leggermente a causa della paura e nella mia mente un coretto insistente ripeteva: due anni, due anni, due anni, due anni.
Michael era più esperto di quanto io non fossi, e più avvezzo all’amore di quanto io non sarei mai stato. Temevo di non essere alla sua altezza, che fare l’amore con me non gli sarebbe piaciuto e…
I miei pensieri vennero interrotti quando introdusse un dito, lubrificato di saliva, nella mia apertura. I muscoli delle mie gambe si tesero tutti in una volta, emisi un urlo strozzato e gettai la testa all’indietro.
Se facevo così già da adesso, non osavo pensare al dopo.
I suoi movimenti erano gentili e delicati, era evidente che mi credeva inesperto o qualcosa del genere. Cielo, forse mi credeva addirittura vergine! Mi mossi verso di lui, incitandolo silenziosamente a fare più in fretta. Introdusse il secondo dito e la mia mente si annebbiò.
Piacere. Fame. Avidità. Godere.
Non volevo che questo. Non volevo che Michael.
Volevo fondermi con lui. Essere tutt’uno con lui.
Non resistevo oltre.
Balbettai: «M-Michael.»
Lui si fermò. In un attimo, ebbi la consapevolezza che aveva gli occhi puntati su di me. Non che mi vedesse in quel buio, ma sapevo che il suo sguardo era rivolto verso di me. Ne avevo la certezza.
Michael capì. Non ci voleva certo un genio: la mia voce trasudava desiderio, era facile capire cosa volessi.
Ma come potevo prevedere cosa accadde dopo?
Ero andato a letto con altre persone in passato.
Sapevo cosa fosse il sesso.
Quando Michael sfilò le dita da me, però, capii che stava per accadere qualcosa di diverso.
Mi allacciai a lui, reggendomi alle sue spalle. Le sue mani si piantarono salde sul letto, proprio vicino alle mie orecchie. Il mio bacino si inarcò.
Michael entrò dentro di me.
Ed ebbi la perfetta percezione di noi.
Gemetti forte. I miei lombi vennero pervasi dal dolore come il resto del mio corpo lo fu dal piacere più intenso che avessi mai provato. Conficcai le mie unghie nelle sue spalle e analogamente lo sentii artigliare le lenzuola.
Era come vederlo, ma a occhi chiusi e senza luce.
Lui si spinse dentro di me, i muscoli delle sue gambe che si contraevano e rilasciavano ritmicamente la tensione, lo sforzo era palpabile eppure quasi nullo se comparato al piacere che provavamo.
Era ritmo, era musica, all’unisono: a ogni mio urlo riuscivo a sentirlo boccheggiare, il suo respiro che mi rubava l’aria e me la restituiva.
E l’estasi, la pienezza, le vertigini che provammo furono come pura energia che fluiva da lui a me alla velocità della luce: lui ne donava a me, e farlo lo rendeva eccitabile come lo ero io. La perfezione.
Un solo corpo.
Un unico piacere.
Iniziai a gridare quando sentii il suo membro scivolare fuori e dentro le mie carni. Ciò che mi stava donando era l’apice del suo amore, quell’arte che lui immancabilmente non faceva che insegnarmi. Ogni mio urlo di piacere ne ricevette uno in risposta: Michael godeva nel far godere, in un’ebbrezza suprema che toccava gli angoli più remoti del mio cuore.
Lo tirai verso di me, mi inarcai con il busto e infine raggiunsi le sue labbra, appropriandomene: le baciai, le succhiai avidamente, vi lasciai dei morsi feroci e vi sfogai il piacere come un animale. E sentire i suoi ringhi di puro godimento nella mia bocca non fece che aggravare la situazione.
Ben presto, del dolore non rimase alcuna traccia.
Il suo petto aderì perfettamente al mio, il nostro corpo che si muoveva sempre più veloce, i nostri gemiti sempre più alti e graffiati, il nostro piacere sempre più intenso.
Sfortunatamente, una metà del nostro corpo aveva due anni di vuoto alle spalle, due anni che si riversarono senza che io potessi fare nulla per fermarli.
Così, spalancando gli occhi, urlando più forte di prima, venni contro di lui. Sconvolgente.
Mi accasciai sulle lenzuola, Michael cercò disperatamente di raggiungere il culmine del piacere a sua volta. Continuò a spingere, potente, veloce, preciso. Io respirai con affanno, cercando di riprendere fiato. Ero madido di sudore, accaldato, svuotato.
E felice, totalmente e pienamente. Sorrisi e gioii del buio che ci avvolgeva. Certe cose hanno bisogno del buio per essere perfette.
Alla fine si riversò dentro di me, con un adorabile gemito acuto, e crollò al mio fianco.
Non mi cercò con le mani, non mi strinse a sé. Semplicemente, uscì dal mio corpo e si distese a pancia in giù sulle lenzuola. Nel giro di pochi secondi era già addormentato.
Io rimasi lì, inerme in quel mare di sensazioni contrastanti.
Non aveva detto una parola, né uno sguardo nel buio, niente. Forse non gli era piaciuto, e io, da bravo codardo, non mi ero fatto avanti per chiederglielo o, più semplicemente, per rivolgergli un gesto d’affetto. Ma ero come in trance.
Non ero mai stato felice in quel modo: soddisfatto, appagato, esausto nell’accezione più positiva del termine. Le altre volte in cui ero stato con qualcuno quasi scomparivano se paragonate a quella notte d’amore con Michael.
Ma per lui era lo stesso? Era altrettanto felice, altrettanto appagato? O, più probabilmente, gli era tornato in mente Andy? La nostra era già una relazione clandestina di per sé, ci eravamo spinti ancora oltre e, si sa, per molte coppie il tradimento non è tale finché non diventa un tradimento carnale. Ora era ufficiale: il suo Andrew era stato tradito sotto tutti i punti di vista.
Avrei dovuto sentirmi in colpa per lui, eppure non accadde. No. Il mio corpo e la mia mente dovevano ancora mettersi d’accordo su quale sensazione, tra il benessere e la confusione, dovesse avere la precedenza.
Nel dubbio, caddi addormentato accanto a Michael.
 

Mi svegliai di soprassalto, nella stessa posizione in cui mi ero addormentato.
La luce che filtrava dalle tapparelle era di un nero lattiginoso, lo stesso che precede l’alba: saranno state le cinque del mattino o giù di lì.
Mi voltai verso Michael, ma non riuscii a distinguere nulla, se non la sua silhouette coperta dalle lenzuola e i suoi ricci, un improbabile ammasso scompigliato che in altre circostanze mi avrebbe fatto sorridere.
Ma in quel momento, pensai solo di dover tornare a casa mia.
Forse, se fossi rimasto lì, avrebbe potuto trovarmi invadente: d’altronde, l’unica volta in cui mi ero fermato a dormire da lui era stato quando mi ero beccato quel febbrone da manuale. E quella volta mi aveva tenuto stretto tutta la notte.
Mi imposi di non pensarci. Il punto era che, da quando ci eravamo “messi insieme”, non avevamo mai diviso il letto, neanche per sbaglio. E se non mi avesse voluto lì al suo risveglio?
Così, immerso nei miei pensieri, mi alzai e cercai a tentoni i miei indumenti per la stanza. Pantaloni, boxer, maglia… dove erano finite le scarpe? Ah, eccole. Mi infilai i boxer e cercai la cintura, così da raccattare le mie cose tutte in una volta.
«Marco.»
Mi girai di scatto. Michael si era messo a sedere sul letto. Accese l’abat-jour che stava sul comodino: un fascio di luce illuminò il suo volto, ancora assonnato, i suoi occhioni mi scrutavano delusi, gli tremava addirittura il labbro inferiore. Era palesemente dispiaciuto.
«Marco, tu va via?» chiese, con voce lamentosa.
Guardai i vestiti che avevo in mano con colpevolezza: alcuni non erano nemmeno i miei, nella fretta avevo preso una delle sue scarpe e i suoi jeans. Almeno mi ero messo le mutande giuste.
Non ebbi il coraggio di dirgli che, sì, andare via era proprio ciò che stavo facendo. Aveva un’aria talmente sconfortata che non ebbi cuore per essere sincero fino in fondo. Così gli rivolsi un mezzo sorriso e mentii.
«No, stavo rimettendo un po’ a posto. Mi ero addormentato sui tuoi pantaloni.»
Lui scosse la testa e tese le braccia verso di me.
«No fa niente, ora viene qui» mi pregò. «Ieri mi ho addormentato e io non ti ho neanche dato un hug
Sorrisi.
Come riusciva sempre a cavarsela con la sua infinita dolcezza? E come faceva quest’ultima a convivere con la parte più selvaggia di lui, la stessa che avevo avuto modo di conoscere quella notte? Non avevo tutte le risposte, però sapevo che tutto ciò che volevo, dal momento in cui avevamo smesso di essere un sol corpo, era di tornare a essere un sol corpo.
Tornai nel letto e lui mi avvolse immediatamente tra le sue braccia. Non gli chiesi di Andy, non ne ebbi il coraggio, e poi temevo di rovinare tutto: era un momento talmente magico, quello che avevo sperato soltanto nei miei sogni più segreti e sdolcinati. Sì, ero un melenso di prima categoria, ma non l’avrei mai confidato a nessuno. Forse soltanto a Michael.
«Come stai?» mi chiese, guardandomi con quei suoi occhi furbi e al contempo giocosi. «Ti fa male?»
Con la massima serietà, gli risposi: «Credo che tu mi abbia messo incinto stanotte.»
Lui mi guardò per circa due secondi senza battere ciglio, prima di esplodere in una sonora risata. Mi tirò uno schiaffo sul petto.
«Tu rovina miei romantici momenti, Marco» mi rimproverò.
«Andiamo, Michael, come vuoi che stia?» mi accucciai contro di lui, che mi strinse più forte. «Stanotte ho fatto l’amore con l’uomo che amo. Secondo te come sta uno che…»
Mi bloccai. Michael si era impietrito di botto non appena avevo pronunciato le parole “uomo che amo”. Mi morsi il labbro inferiore, e mi sarei morso volentieri anche la lingua: in più di un mese di relazione non ci eravamo mai detti di amarci. Certo, c’erano stati tanti “Ti adoro”, parecchi “Sei la mia vita” e sì, perfino qualche “Sei mio”. Ma mai neanche un singolo “ti amo”. Io non glielo avevo mai detto e nemmeno lui lo aveva detto a me: davo per scontato che per Michael ci fosse un solo amore, ed era Andy. Io non ero che, appunto, un amante. La differenza tra amore e amante sta nel fatto che nel secondo, in realtà, di amore ce n’è ben poco. C’è la passione.
Avevo varcato una soglia proibita.
Mi corressi: «Insomma, sei stato davvero fantastico stanotte.»
«Marco.»
«Sì?»
«Ti amo.»

Aspetta, come?
Dovevo aver sentito male. Forse era talmente tanta la mia voglia di udire quelle parole che…
«Ti amo» ripeté.
E mi diede un bacio. Minuscolo, a fior di labbra, come per mettere un punto esclamativo alla fine della frase.
Oh, non era possibile che stesse accadendo a me. Eppure era così.
Istintivamente chiusi gli occhi. Certe cose hanno bisogno del buio per essere perfette.
«Ti amo» e un altro bacio. «Ti amo» e un altro bacio ancora. «Ti amo» e l’ennesimo bacio si posò sulle mie labbra.
Non seppi per quanto tempo Michael continuò ad alternare baci e parole. Forse secondi, forse minuti. Non gli chiesi mai di fermarsi, questo è certo.
Il cuore mi batteva all’impazzata, ben presto avvertii le guance avvampare, così come la punta delle orecchie e, inutile dirlo, un piccolo nodo mi si formò in gola, a causa dell’immensa e indescrivibile felicità che provavo nel sentire e risentire quelle parole.
L’unica cosa che sapevo con certezza era che, finalmente, riuscivo a sentirmi di nuovo una cosa sola con lui. Perché adesso tra di noi c’era un amore condiviso e manifesto, un amore che poteva renderci due metà di un solo intero.
Come androgini, noi eravamo.
Anzi, no, eravamo riusciti a superarli.
Perché noi ci eravamo già fusi insieme, e saremmo rimasti tali.
Inseparabili.
 

 

 

 

 La soffitta dell’autrice:
Rieccomi qua! Stavolta sono stata puntuale, vogliatemi bene.
Va bene, è stato ufficialmente il senso più difficile con il quale mi sia mai toccato lavorare. Dopo questa, posso fare di tutto.
Allora, bella gente… ho fatto un paio di calcoletti. Siamo in discesa.
Con “discesa” non intendo dire che la fanfic sta per finire, ma che mancano meno capitoli di quanti io ne abbia già scritti. Eh, già.
Vi ho mai detto che vi voglio bene? Ecco, ve ne voglio.
Ringrazio come al solito la mia adorata beta, comeunangeloallinferno94 ♥
E io vi aspetto alla prossima, finalmente ritornerà il caro vecchio tatto! (Spoiler)

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Capitolo 9
*** Tatto #2 ***


Tatto [Il tatto o sensibilità tattile rende l'uomo e gli animali capaci di rilevare con una straordinaria precisione, la presenza di stimoli dovuti al contatto della superficie cutanea con oggetti esterni.]

 
Mika’s POV

 
Caldo. Delicato. Morbido.
Questo fu il mio risveglio, quella mattina.
Ero disteso a pancia in giù e, nel momento in cui il mio cervello si liberò di quell’opprimente nebbia da sonno che mi impediva si pensare lucidamente, iniziai a macchinare.

Oggi è il giorno della finale, fu il primo e fulmineo pensiero che mi colpì la mente. Già, era arrivato il momento tanto atteso: la finale di X Factor. Quasi non mi sembrava vero, pareva passato un secolo da quando mi ero trasferito in Italia per iniziare quella nuova impresa e questa era già volta al termine. La mia piccola, meravigliosa Violetta si sarebbe certamente guadagnata un posto sul podio, ne ero più che convinto, ma dovevamo essere preparati al meglio e questo significava provare giorno e notte.
Quegli assillanti pensieri, tuttavia, vennero completamente spazzati via quando la mia mente riuscì a registrare una sensazione, come dicevo, calda, delicata e morbida che mi solleticava la schiena.
Sorrisi.
Marco.
Beh, svegliarsi con Marco Mengoni al tuo fianco –come mamma l’ha fatto, per di più– che ti ricopre minuziosamente le scapole di baci non è cosa da tutti. E io, sì, mi ritenevo ufficialmente un uomo più che fortunato.
Ma il problema era un altro.
Non sapevo ancora per quanto sarei stato così fortunato.
X Factor quella sera sarebbe volto al termine, e presto sarei dovuto tornare a casa e separarmi da Marco, andando incontro alla vita che avevo momentaneamente messo in stand-by per godermi quella piccola avventura. Però non avevo ancora definito nulla, né tempi né date, e noi vivevamo la nostra relazione come se il tempo a nostra disposizione fosse infinito. Senza pensare al dopo ed evitando, per quanto sbagliato fosse, di toccare quel tasto dolente, per non corrodere e bruciare quel tanto che ci restava da passare insieme.
Quel momento ne era un esempio perfetto.
Quando lui iniziò a passare le sue labbra fresche e soffici sulla spina dorsale avvertii un brivido scuotermi la pelle. Continuai a fingere di dormire: nulla mi avrebbe sottratto a quel paradiso.
«Michael» cantilenò la sua voce. «Svegliati.»

Col cavolo, pensai in risposta. Se svegliarsi equivaleva a interrompere quel trattamento, beh, allora sarei diventato una mummia. Non mi sarei mosso per nulla al mondo.
Marco continuò a parlare, il suo fiato si infrangeva contro la mia pelle: «Abbiamo le prove con Violetta stamattina, te ne sei dimenticato?»
Sorrisi a quell’abbiamo. Già noi avevamo le prove: il grande cantante Marco Mengoni avrebbe affiancato la mia Violetta nella finale, duettando insieme a lei sulle note de L’essenziale. In tutta sincerità, non ero convinto al cento per cento di quella scelta, perché entrambi erano due artisti fatti e finiti, ma erano completamente agli antipodi per stile e potenzialità vocali. Ciononostante, non avrei mai voluto nessuno che non fosse Marco: per me quella finale era importantissima, e tutti vorremmo avere la persona che amiamo al nostro fianco nei momenti importanti, giusto? Anche se questo avrebbe comportato qualche rischio. Ma dei rischi, ormai, avevamo fatto la nostra ragione di vita.
«Forza, sorgi e splendi» mi incoraggiò e, per sottolineare il concetto, premette a lungo le sue labbra proprio al centro della mia schiena.
Non mi mossi.
Per tutta risposta, Marco continuò, rendendo i baci lenti, bagnati, schioccanti. Mio malgrado, mi conosceva abbastanza bene da sapere che a quei baci non potevo proprio resistere. Mi concentrai per restare fermo, immobile, ma pareva che il mio corpo avesse vita propria, perché dei piccoli spasmi di piacere invasero i miei muscoli, costringendomi a dimenarmi sotto il tocco di Marco. No, mi rifiutavo di dargliela vinta.
La sua bocca giunse alle fossette della mia schiena. Strinsi i denti, chiedendomi cosa avesse in mente, e la risposta non tardò ad arrivare: una pioggia di minuscoli e umidi baci si riversò in quel punto preciso, provocandomi un’ondata di piacere. Gemetti senza riuscire a controllarmi.
Dannazione a Marco.
«Ma buongiorno» rise, trionfante, e finalmente si staccò, tornando a distendersi.

Bastardo. Attesi un secondo.
Ne attesi due.
Rotolai repentinamente su me stesso e lo inchiodai sotto di me, bloccando il suo bacino tra le mie gambe. Lui rise dalla sorpresa.
«Buongiorno» risposi, cercando di rendere la mia voce più roca possibile.
Sapevo bene che effetto avesse quel tono su Marco: puro afrodisiaco. Infatti sorrise in risposta, mordicchiandosi appena l’interno del labbro, come faceva sempre quando qualcosa lo rendeva nervoso o eccitabile.
«Tu è bambino cattivo.» Posai le mie mani sui suoi fianchi. La sua pelle era così calda, ti invitava proprio a toccarla, passarvi le dita, saggiarne la consistenza… Ma pensai di poter aspettare, infondo da un po’ di tempo a questa parte ne “saggiavo la consistenza” quasi tutte le notti.
«Non sai quanto» mi rispose lui.
Poi, con un colpo di reni, mi spinse in avanti, cosicché io ricaddi sul letto e lui si mise su di me, tenendomi per i polsi. Inutile dire quanto tutto questo fosse dannatamente eccitante.
I suoi movimenti erano impacciati, incerti, e questo gli conferiva una sensualità tutta loro. La sua stretta intorno ai miei polsi era un po’ troppo forte, ma non ci badai, perché lui si avvicinò a me e prese a parlarmi soffiando sulle mie labbra, come io avevo fatto tante altre volte con lui:
«Ora ci alziamo e andiamo agli studios. Stasera c’è la finale e dobbiamo essere perfetti» concluse, con un tono talmente normale che quasi non sembrava che fossimo nudi l’uno sopra l’altro.
«Noi deve proprio?» soffiai a mia volta. Lo vidi tentennare e bramare le mie labbra per un momento. Sorrisi: stava imparando alla perfezione l’arte dell’amore, ma in certe cose restava sempre il solito, adorabile imbranato. Ragion per cui era un piacere stuzzicarlo.
«Sì, dobbiamo» si sforzò di dire, infine. «Per Violetta.»
«Ah, ecco: tu preferisce lei a me» lo presi in giro.
Non appena finii di parlare, lui premette le sue labbra sulle mie e mi baciò. Piano, inizialmente, con dolcezza, ma dopo un po’ prendemmo a baciarci sul serio e l’atmosfera si infiammò. Mi persi in quel contatto totale: i nostri corpi nudi, le nostre labbra, le sue mani che bloccavano le mie… era tutto così meravigliosamente erotico che non so con quale forza riuscimmo a staccarci l’uno dall’altro.
Ma così accadde, lui si alzò da me, un distacco netto, come quando si strappa un cerotto. Io rimasi per un secondo in quella posizione e lo guardai.
C’era qualcosa di diverso in Marco, quella mattina.
Non avrei saputo dire cosa, se i suoi movimenti o il suo sguardo, o quel cercare di dominarmi per poi staccarsi da me così all’improvviso. Era come se non sapesse neppure lui cosa fare, a cosa aggrapparsi. C’era un fondo di malcelata angoscia in quei gesti. Come se non fosse insicuro di Dio solo sa cosa.
Come se ci fosse qualcosa di sbagliato.
«Ti amo, Marco» mi uscì di bocca.
Lui si voltò con un sorriso tenero, quasi imbarazzato. «Anch’io, Michael. Ed è una gran bella fregatura amarci così tanto quando abbiamo impegni, non trovi?»
Scoppiai a ridere e mi avventai su di lui, per lasciagli un altro bacio. Diamine, se aveva ragione.
 

«L’amore non è… non segue i… le logiche…»
«Stop!» urlai.
La musica cessò, Marco si bloccò e Violetta insieme a lui.
Le prove erano cominciate ormai da un po’ e stavano andando benissimo: entrambi si muovevano sul palco come se fossero nati per cantare insieme, e la cosa mi riempiva di orgoglio su tutti i fronti. Quando Marco cantava, mi guardava costantemente e avevo scoperto che quel contatto visivo lo aiutava a concentrarsi. E immergermi nei suoi occhi scuri come la terra bruciata era ipnotico. Ora capivo perché lo chiamavano, per l’appunto, contatto visivo: perché significava letteralmente toccarsi a distanza.
Ciò che non avevo previsto, però, era che Marco si confondesse sul proprio testo. Cosa diamine gli stava succedendo?
Violetta gli mise una mano sul braccio e la cosa lo fece voltare verso di lei, che stava lì in un atteggiamento a metà tra la sorella minore e la maestrina.
«Marco, hai sbagliato il tuo testo» gli fece notare, con un pizzico di confusione nella voce.
Subito intervenni: «Ok, facciamo pausa. Noi prova dopo tra dieci minuti.»
Marco ringraziò educatamente e scappò dietro le quinte, come se avesse fretta di fare qualcosa. Lo seguii, cercando di non lasciar trasparire la mia fretta, e vidi che mi aspettava davanti alle porte del mio camerino.
Entrammo (e stavolta chiudemmo la porta a chiave), poi lui prese una sedia e vi si accasciò, nascondendo il volto tra le mani.
«Marco, che ti ha preso?»
Scosse la testa. «Non riesco a guardarti negli occhi mentre canto quella parte.»
Mi inginocchiai di fronte a lui, prendendogli le mani e allontanandogliene dal volto. «Perché?»
Lasciò andare un pesante sospiro, che mi lambì con delicata forza la pelle. «Non mi hai visto? Mi sono inceppato.»
Aveva qualcosa, e non ci voleva certo un genio per capirlo. Ma, in tutta sincerità, avevo quasi paura di sapere cosa.
Gli presi il mento tra le mani, come per incitarlo a continuare. «Marco.»
«So che abbiamo sempre cercato di evitare l’argomento, perché non avremmo fatto che ferirci» sbottò. «Ma poco prima, quando stavo per cantare, dell’amore che non segue le logiche… ho pensato a cosa accadrà dopo stasera a noi due.»
Mi raggelai. Per un attimo valutai l’idea di scostare le mie mani da Marco, perché invece di toccare un nervo scoperto, l’aveva letteralmente colpito e non potei fare a meno di sentirmi urtato. Ma rimasi lì, fermo, perché avevo un dannato bisogno di sentirlo e di tenermi ancorato a lui in qualche modo.
Lui continuò e la sua voce assunse una sfumatura di disperazione: «È contro le logiche, sì, ma non voglio perdere quello che abbiamo, non lo sopporterei. Ho toccato l’amore con mano, grazie a te, non posso tornare indietro né posso farne a meno. Ho scelto di amarti, Michael, e non cambierò idea.»
Mi avvicinai ancora di più a lui. Sapevo perfettamente come sarebbe finito questo discorso, l’avevo già previsto e quanto avrei voluto che non finisse così.
Mi avrebbe chiesto di restare, ne ero certo. Me l’avrebbe chiesto e avrebbe fatto male da morire. Non perché non volessi, anzi, tutto il contrario.
Avrebbe fatto male proprio perché io morivo dalla voglia di rimanere lì, in Italia, di rifugiarmi tra le sue braccia e restarci fino alla fine, senza bisogno di mangiare, bere o respirare, ma solo di amarlo e chiudermi a mia volta nel suo amore.
Il solo pensiero mi fece venir voglia di piangere.
C’era qualcosa di infinitamente sbagliato in tutto questo.

Toc toc!
Sobbalzammo. Chi era adesso?
«Mika? Sono io, Violetta. Possiamo parlare?»
Tirai un sospiro di sollievo e mi alzai, carezzando la guancia di Marco.
«Dopo noi parla» gli promisi.
Poi andai ad aprire e lasciai che Violetta entrasse e che vedesse che c’era anche Marco là dentro. Lui non si scompose, anzi, esibì un sorriso e la cosa mi sorprese: di solito era pessimo nel nascondere le sue emozioni.
«Oh, Marco» si sorprese Violetta, strabuzzando gli occhi. «Ehm, ciao.»
«Ciao!» rispose Marco, con un’enfasi eccessiva che mi fece ridacchiare. Eccolo lì, il mio piccolo sciocco che non sapeva fingere.
Violetta filò a sedere sul divanetto blu che si trovata nel camerino, Marco si spostò con la sedia così da guardarla in faccia e io presi posto al suo fianco, le nostre ginocchia e i nostri gomiti si sfioravano appena.
Non sapevo perché, ma tutta la scena mi fece venire in mente due genitori sul punto di fare una bella paternale alla figlia adolescente ribelle.
«Che c’è, Violetta?» le chiesi.
Lei ci guardò, mordicchiandosi il labbro inferiore, finché non si decise a parlare: «Non ce la posso fare. Non me la sento di cantare L’essenziale stasera, non sono…» sbuffò. «Non sono alla sua altezza, va bene?»
E lì indicò Marco con fare accusatorio, come se essere un talento di eccezionale bravura fosse una colpa.
«Ma no è vero» replicai.
«E invece sì!» si intestardì lei. «Insomma, l’hai sentito anche tu vero? Non sono brava come lui. Se duetteremo insieme, si sentirà la differenza abissale che c’è tra di noi e io farò la figura della principiante davanti a tutti quanti.»
Si mise a braccia conserte, con il broncio. Stavo per farle una bella lavata di testa.
«Stai scherzando» mi precedette Marco.
Mi voltai verso di lui, in attesa. Cosa aveva in mente?
Continuò. «Scusa, chi si è inceppato prima con il testo della propria canzone? E chi è che ha stonato l’ultima volta che è venuto come ospite? Proprio ‘sto deficiente del sottoscritto!» le sorrise. «Che io sappia, tu non hai mai scordato il testo di una canzone, né hai mai stonato fin ora.»
«Sì, ma…»
«No, niente ma» la interruppe. «Vuoi stare qui? Vuoi diventare una cantante? Vuoi vivere di musica?»
«Più di ogni altra cosa» ammise.
Lui le posò una mano sulla spalla e la guardò, incoraggiante. «E allora vai su quel palco e rubami la scena come solo tu sai fare. Sei pronta, Violetta, ed è ora che tu te ne accorga. Cogli l’attimo, afferralo e aggrappatici con le unghie e con i denti, non permettere a un idiota qualsiasi di portartelo via.»
Come descrivere il sorriso di Violetta in quel momento? Dire “raggiante” sarebbe stato riduttivo, ma la parola “contagioso” sarebbe stata quanto mai adatta. Si alzò in piedi, abbracciandoci entrambi e ringraziandoci di cuore.
Marco si batté una mano sul ginocchio: «Su, basta adesso, torniamo a provare!»
E lì si alzò e fece per andare verso la porta. Violetta si schiarì la voce.
«Tu vai, Marco» disse. «Io devo dire una cosa a Mika e arrivo subito.»
Lui salutò e ci lasciò da soli. Sentii lo sguardo da maestrina di Violetta su di me.
«Che tu mi vuole dire?» le chiesi.
Lei mi tirò verso di sé e si avvicinò al mio orecchio, poggiandovi le labbra.
«Solo un consiglio: invitalo a cena, non aspetta altro.»
Trattenni il fiato istintivamente. «Che cosa?» chiesi, ostentando ingenuità.
«Non venirmi a dire che non te ne sei accorto» mi canzonò. «Si capisce dal modo in cui ti guarda e cerca sempre di toccarti che Marco non ha occhi che per te.»
Stupido Marco.
Stupido che non era altro! Quei maledetti sguardi, quello sfiorarsi di gomiti e quant’altro ci aveva traditi, di nuovo. Mi maledissi cento volte. Per qualche motivo, ogni volta che entravamo in un camerino, venivamo inesorabilmente beccati.
«Violetta, io ho fidanzato» ricordai, più a me stesso che a lei. «E poi, Marco e io è solo amici.»
Lei fece spallucce. «Se anche ti piacesse, cosa ci sarebbe di male a uscire con lui?»
«Io. Ho. Fidanzato.» le ripetei, più chiaramente possibile.
«Sì, l’ho capito, e se uscissi con Marco a sua insaputa secondo te sarebbe un tradimento» sbuffò. «Però sarebbe un tradimento.»
La presi per le spalle e la scostai da me, fissandola. Non riuscivo a capire. «Cosa tu vuole dire?»
Evitò il mio sguardo mentre parlava. «Supponiamo che lui ti piaccia, e che tu voglia davvero andare a cena con lui. Se tu lo facessi, sarebbe un tradimento verso il tuo ragazzo, ok, ma se tu non lo facessi, pur volendo, sarebbe un tradimento verso te stesso, non credi?»
Serrai le mie mani attorno alle sue spalle, tanto che le nocche mi divennero livide.
Non potevo credere alle mie orecchie.
«Violetta» sospirai. «Sfortunamente no è così facile in amore.»
Lei si staccò da me e con un sorriso, andò verso la porta: «Invece sì che lo è. Si tratta di scelte: devi solo decidere quale tradimento non puoi sopportare in alcun modo, se verso il tuo fidanzato o verso il tuo cuore. E qualunque scelta prenderai, sarà comunque giusta se ti porterà la felicità. Ovviamente, parlo per ipotesi.»
E, detto questo, uscì, lasciandomi un enorme vuoto dentro.
Un vuoto che venne presto riempito da una consapevolezza nuova. Si trattava solo di scelte. Scelte che sarebbero state giuste, se mi avessero reso felice.
Ora, col senno di poi, dovevo solo capire se la mia scelta fosse sbagliata o meno.
 

Marco non mi guardò mentre cantava dell’amore che non segue le logiche.
Le lacrime scorrevano, calde e leggere, sulle mie guance.

Era talmente nervoso, forse anche più nervoso di Violetta.
E stringevo forte la stoffa ruvida della camicia di Marco tra le dita.

Lo salutai platealmente con lo stesso “Ciao” stupido ed enfatico con il quale lui aveva salutato Violetta poco prima, in camerino.
E le sue mani mi strofinavano la schiena, cercando di farmi calmare.
Mi aveva perfino risposto a tono, imitando la mia imitazione. Divertente!
E io mi davo dell’idiota non una, ma cento volte.

Ed era stato perfetto e favoloso e anche incantevole. Era stato una scelta perfetta.
Lui era stata una scelta sbagliata. La più sbagliata che avessi mai fatto, per quanto riguardava il programma almeno.
Violetta era arrivata terza.
Terza. A un passo dal podio, ma all’ombra del podio stesso.
Avrebbe dovuto vincere. Se lo meritava, aveva lavorato sodo per arrivare in finale e trionfare e io? Cosa avevo fatto?
L’avevo fatta duettare con Marco, un cantante eccezionale, ma troppo diverso da lei. Alla fine, le differenze messe in luce in quella performance erano state superiori ai punti di forza, e la mia Violetta non aveva ricevuto il premio che tanto si meritava per un mio errore.
Mi ero ostinato a volere Marco per quella serata, anche se per Violetta non era una buona scelta, e ne avevo pagato le conseguenze. Era colpa mia. Le avevo strappato io la vittoria dalle mani. Non me lo sarei mai perdonato.
Era notte, quando tornammo a casa mia. Marco mi aveva seguito, sapendo che avevo bisogno di uno sfogo e infatti mi ero messo a frignare sulla sua spalla come il peggiore dei piagnucoloni. Provai a smettere, ma senza riuscirci. Comunque lui rimase lì a consolarmi, ad accarezzarmi per tranquillizzarmi, ad ascoltarmi mentre sproloquiavo in inglese, a volte, o in francese. Mi uscì perfino qualche parola in arabo. Il senso di colpa mi stava facendo impazzire.
Quando lui mi portò in camera da letto, un pensiero arpionò la mia mente, graffiandomi e facendomi male: Marco era una scelta sbagliata. Lo era sempre stato. Era un uomo meraviglioso, incredibile, perfetto, ma c’era qualcosa di totalmente sbagliato. E stavolta la cosa andava ben oltre la performance di quella sera.
I miei stessi pensieri mi scioccarono, gettandomi nello sconforto. Marco era così buono, così dolce con me. Come mi saltava in mente che potesse essere sbagliato? Non c’era nulla di sbagliato in lui. Ero davvero troppo stanco e tutt’altro che lucido.
Quella notte non facemmo l’amore, non ne avevo la benché minima voglia. Marco non si oppose, anzi, mi tenne semplicemente stretto a sé, il mio volto premuto contro il suo petto, le sue braccia che mi avvolgevano in modo così rassicurante, le sue mani gentili che stringevano il mio corpo. Grazie al suo abbraccio e al suo conforto, smisi di piangere e mi addormentai, cullato dal suo tenue respiro, come un bambino.
Ma, prima che piombassi nel sonno, la parola “sbagliato” si ripeté come una nenia nella mia mente. Anzi, le parole “scelta sbagliata”, inevitabilmente riferite a lui.
Non era Marco a essere sbagliato. Non era Marco, né il suo amore, né la sua dolcezza a essere sbagliati. Lui aveva fatto tutto per bene, eppure era come se ci fosse un pezzo mancante di un puzzle che non riuscivo a ricomporre.
Solo il giorno dopo, al mio risveglio, ancora avviluppato a lui, lo trovai.
Ciò che era stato sbagliato non era stato sceglierlo, anzi, quella era stata una delle cose più giuste che avessi mai fatto.
Era stato sbagliato, però.
Perché alle parole “scelta sbagliata”, nella mia mente, erano comparse altre parole, nuove e più taglienti. E quelle parole, che urlavano il nome di Marco, erano: “seconda scelta”.

 

 

 

 

La soffitta dell’autrice:
Ok, odiatemi pure.
Volevo dire: salve! Avete gradito il capitolo?
Bene, perché sappiate che i sensi si stanno esaurendo sempre di più, e il prossimo sarà l’ultimo senso puramente non convenzionale che avremo a nostra disposizione.
Bene, spero che non abbiate sofferto troppo, perché nel prossimo capitolo sì che c’è da soffrire.
Ops, ma quanto parlo…
NE APPROFITTO PER RINGRAZIARVI! La fanfic è tra le 20 più popolari! Certo, è un piccolo posticino all'ultimo gradino, però sono così felice... grazie a tutti, vi voglio bene lettorini miei ♥ ♥ ♥

Ringrazio la mia mitica beta comeunangeloallinferno94, sempre presente (e favolosa)!
Alla prossima!

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Capitolo 10
*** Dolore ***


Dolore [Il dolore rappresenta il mezzo con cui l'organismo segnala un danno: è un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tessutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno.]

 
Mika’s POV

 
«Marco, smettila!» cercai di dire, tra le risate.
Ma lui ovviamente non mi ascoltò, sarebbe stato troppo facile.
Il mattino seguente la finale, greve della delusione causata dalla sconfitta di Violetta e del pensiero delle parole “seconda scelta”, che ancora mi arpionavano la mente come un uncino affilato, mi sentivo uno straccio.
Marco, dal canto suo, aveva cercato in tutti i modi di tirarmi su: mi aveva portato la colazione a letto, completa di caffè, biscotti e graffe con la panna (“fatte in casa” aveva detto lui, ma ero convinto che venissero dritte dritte dalla pasticceria dietro l’angolo), non aveva fatto che chiedermi se mi servisse qualcosa e, una volta distesi sul mio divano, mi aveva ricoperto di baci e carezze finché non gli avevo rivolto un flebile sorriso. Quando si metteva in testa qualcosa, Marco era davvero testardo. E io amavo quel lato di lui. Amavo tutto di lui, amavo lui.
Ma allora perché la mia mente continuava a tornare fastidiosamente su quelle dolorose parole, “seconda scelta”?
Forse tutto quel tempo lontano da Andy cominciava a pesarmi sulle spalle? O forse, più semplicemente, mi ero stancato di Marco?
Non appena mi fui posto quella domanda, posai i miei occhi su di lui: bastò uno sguardo e mi sentii come il primo giorno in cui avevo capito di esserne innamorato. No, non era decisamente quello il problema.
Eppure mi sentivo come se quella nostra relazione fosse un carico, una zavorra, un bagaglio talmente pesante da anchilosarmi braccia e polsi: era bello, anzi bellissimo, ma il suo peso rischiava di schiacciarmi.
«Michael?» mi richiamò lui.
Fu come ridestarsi all’improvviso, il suo sguardo era preoccupato: avevo smesso di sorridere e me ne accorsi soltanto dopo. I miei pensieri mi avevano trascinato sul fondo di un baratro e Marco stava disperatamente cercando di farmi riemergere.
«Ehm, yes?» chiesi, fingendo innocenza. Non doveva capire cosa mi stesse passando per la testa.
Lui mugugnò in risposta, non del tutto convinto ed evidentemente scontento che avessi smesso di sorridere. Così, all’improvviso, mi posò una mano sulla pancia e iniziò a farmi il solletico. Saltai letteralmente in aria, lì lo soffrivo da morire! Scoppiai a ridere e mi dimenai e a quel punto lo implorai di smetterla, ma non ci fu verso. Marco ci aveva preso gusto, ormai, nel muovere quelle dita malefiche ovunque e più io cercavo di divincolarmi più lui proseguiva con la sua tortura.
E, per un momento, mi sembrò che ogni cosa tornasse al suo posto.
Fu uno dei nostri momenti normali, giocosi, spensierati. Marco che mi dava fastidio e io che, ridendo come un bambino, cercavo di farlo smettere: per un attimo tornammo noi, amici, amanti, complici, e fu tutto perfetto. Per circa un secondo.
Poi qualcuno suonò il campanello.
Marco si sollevò di scatto e si alzò dal divano, nel modo in cui una gazzella scapperebbe da un leone. Andai immediatamente a vedere chi fosse dallo spioncino e mi rilassai quando vidi che era soltanto Marco, o meglio, Marco Morgan.
Mi voltai e gli rivolsi un sorriso rassicurante: «Qui è solo Morgan.»
Solo allora Marco si rilassò e si risedette sul divano, con gli occhi spalancati e timorosi. Il suo spavento mi fece tenerezza.
Aprii la porta: Marco Morgan teneva le braccia spalancante, come per coprire qualcosa dietro di sé, il suo trench che fungeva quasi da mantello mi fece ridere.
«Hi!» lo salutai.
Lui gettò un’occhiata alle mie spalle. «Michael so che è un momentaccio perché vedo che ti stavi comodamente accomodando –e fai con comodo– con il tuo amante, ma posso disturbare questo vostro idillio di passione?» mi chiese tutto d’un fiato. Qualunque cosa avesse detto, l’aveva fatto in modo esilarante.
«Che tu ha?»
In quel momento, scorsi dietro di lui una massa di capelli biondi e voluminosi: era evidentemente una donna, ma non riuscii a vederla da dietro il trench. Sapevo solo che Marco Morgan non era solo.
Infine, annunciò con entusiasmo: «Ho conosciuto la donna, Michael.»
Oh, quella sì che era una notizia!
«Tu ha una donna?» ripetei, con un sorriso estatico. Finalmente! Era proprio ora che quel brontolone trovasse l’anima gemella, ci avevo sempre sperato.
«Non una donna, ma la donna» mi corresse, con quel pizzico di adorabile presunzione che lo contraddistingueva. «Petrarca l’avrebbe definita “l’essere angelicato”, poiché ha davvero i capei d’oro in mille dolci nodi che aveva la sua Laura. Ma la donna in questione ha la forza d’animo d’un toro, la caparbietà di un mulo e una raccomandazione lunga quanto un’opera di Bach.»
«Ok, questa messinscena mi ha stancata!»
La figura dai capelli biondi che stava dietro di lui lo spinse con foga ed entrò a passo di marcia in casa mia.
Marco saltò in piedi e il suo volto era una maschera di sgomento puro, esattamente come il mio.
«Marta?» mormorò con un filo di voce.
Lei fece una corsa fino a raggiungerlo e lo spintonò con forza, tanto da farlo vacillare per un momento.
«Sei un bastardo!» gli urlò. «Mi hai detto che era finita tra di voi. Mi hai rifilato solo un mucchio di balle!»
Marco scosse la testa. «Marta, ascoltami, tu non capisci…»
«No, sei tu che non capisci!» continuò lei, furiosa.
A quel punto dovetti intervenire e mi misi tra loro due, per evitare che la cosa degenerasse: «Marta, aspetta, tu spiega perché tu è qui.»
«Credo di poter spiegare io» intervenne Marco Morgan.
A quel punto tutti ci voltammo verso di lui.
«Come dice?»
Cosa c’entrava lui in tutto questo?
Scosse la testa. «Nulla di personale, Mika, non era mirato a far del male a te.»

Mika? Da quando in qua mi chiamava Mika? Lui mi aveva sempre chiamato Michael, così come facevano tutti i miei amici e come faceva anche Marco. Mi chiamava Mika soltanto in trasmissione. Che cosa stava succedendo?
Marco Morgan sospirò e iniziò a parlare: «Mettiamola così: per caso, mi sono ritrovato su questo apparecchio tecnologico che voi giovani chiamate smartphone, una foto di due personaggi molto celebri che si scambiano effusioni in un camerino.»
Sentii Marco trasalire alle mie spalle.
No, non poteva essere.
Forse, pensai cercando di tranquillizzarmi, non stava parlando di noi due, forse si riferiva a qualcun altro. Nel giro di un attimo, mi trovai patetico da solo.
«Avrei tanto voluto utilizzarla in qualche modo, ma non potevo» proseguì lui. «Tu e Marco Mengoni eravate talmente invischiati con X Factor che, se quella foto fosse saltata fuori, sareste affondati entrambi e di conseguenza sarebbe affondato anche il programma, il che avrebbe portato anche all’affondare del sottoscritto. Così ho taciuto fino a oggi.
«Ma, per l’appunto, stamani mi sono presentato non alla porta di un giornale scandalistico, come avrei benissimo potuto fare, bensì ai cancelli della Sony, e lì ho trovato la signorina Marta Donà, la raccomandatissima nipote di Celentano.»
Posai automaticamente lo sguardo su di lei, che digrignò i denti come un cane rabbioso. Era più che evidente il disprezzo che provava nei confronti di quell’uomo.
«Come dicevo, la signorina Marta Donà nipote di Celentano ha compreso perfettamente il valore della foto in mio possesso. Ne ha compreso il valore in tutti i sensi.»
«Cosa vuoi dire?» chiese Marco a un certo punto, con ingenuità.
A quella frase, Marta esplose. «L’abbiamo dovuto pagare, idiota che non sei altro, e anche profumatamente. La Sony è stata costretta a sborsare una cifra assurda perché tu non riesci a tenertelo nelle mutande.»
«Don’t you dare!» sbottai, contro Marta.
Era la donna più rude che avessi mai conosciuto e per di più se la stava prendendo con Marco, che non c’entrava niente in tutto questo.
Ma quando Marta si voltò verso di me e mi sussurrò a mezza voce la cifra che la Sony aveva dovuto pagare per il silenzio di Marco Morgan, sbiancai.
Valeva così tanto il nostro segreto?
Il nostro amore era arrivato ad avere addirittura un prezzo?
Evidentemente sì.
Mi sentii come se mi avessero sfregiato e gettato del sale sulla carne viva: era doloroso, bruciava come l’inferno e non c’era alcuna possibilità di far passare quell’orrenda sensazione. Un vero e proprio supplizio.
«Mi sento di troppo adesso, ero venuto solo a dirvi questo» dichiarò Marco Morgan, con un inchino studiato. «Mi congedo.»
Poi, uno per uno, ci salutò con un gesto di commiato. «Marco Mengoni. Marta Donà nipote di Celentano. Mika.»
«Aspetta» cercai di fermarlo, prima che andasse via.
Pretendevo una spiegazione. Eravamo stati amici durante tutti quei mesi, gli avevo voluto bene, ma bene veramente, ed ero convinto che anche lui me ne volesse. Avevo perlomeno bisogno di quella conferma.
Doveva dirmi che eravamo davvero amici e che non me l’ero inventato io.
Lui sollevò lo sguardo, nel quale scorsi un fondo di pura amarezza. «Non è per te, Mika, tu sei soltanto una vittima in una guerra molto più grande di te. L’uomo contro il Dio Denaro è destinato a perdere.»
E, detto questo, chiuse la porta e se ne andò.
Marta crollò sul divano e si prese il volto tra le mani.
Non potei negarlo, ci sentivamo tutti esattamente come lei.
Istintivamente andai verso Marco, gli cinsi le spalle con un braccio: tremava e non poco, il suo volto era una maschera di terrore. Le sue più grandi paure si erano realizzate, e anche le mie.
Marco cercò di posare una mano sulla spalla di Marta, ma lei lo scostò violentemente.
«Per colpa tua ho dovuto contrattare con quell’essere schifoso, non sperare nel mio perdono» poi sollevò la testa di scatto e puntò i suoi occhi gelidi su di me. «Mika.»
«Sì?»
«Te ne devi andare. Devi tornare a casa tua.»
A quel punto, dovetti trattenere una mezza risata.
Uno dei miei migliori amici, che in realtà non era mai stato tale, aveva appena venduto la mia relazione con Marco alla sua stessa casa discografica pur di non far sapere al mondo che avevamo una storia, pur di nascondere a tutti che io ero un traditore e che a Marco piacevano gli uomini. Avevo già avuto la mia buona dose di batoste per quel giorno, senza che lei mi ordinasse di andare via.
«Io non lo farò» le risposi, pertanto.
Lei si alzò in piedi, per fronteggiarmi. Era più bassa di me, ma ciò che le mancava in altezza lo compensava in fierezza, tanto da farmi sentire in soggezione.
«È evidente che di Marco e della sua carriera non ti importa niente, o te ne saresti già andato da un pezzo. Perciò mi costringi a ricordarti un paio di cosette» cominciò, in tono duro.
«Che intendi dire?» chiese Marco.
Marta neanche si prese il disturbo di voltarsi verso di lui, tenendosi concentrata su di me. «Volete far finta di amarvi? Ve lo concedo. Marco Castoldi manterrà il segreto, che bella cosa, ma indovinate un po’? Non è l’unico a sapere di voi due, lo so per certo. Finché tu resterai qui, sarete troppo esposti. E quando vi scopriranno, perché accadrà prima o poi, come pensi che reagirà la tua famiglia? Saranno fieri di te quando scopriranno che sei un bugiardo? E il tuo fidanzato? Pensi che ti perdonerà, che ti riaccoglierà a braccia aperte? Te lo dico io: no. Non ti rivolgeranno più la parola, ti odieranno tutti. Sarai felice allora? Ne sarà valsa la pena?»
La mia famiglia.
Andy.
Non avevo mai pensato di far del male a loro.
Mi venne da piangere. Seriamente e senza possibilità di trattenere le lacrime, scoppiai in un vero e proprio pianto.

Pensi che saranno fieri di te quando capiranno che sei un bugiardo?
Era troppo per me.
Troppo tutto insieme.
Tutto ciò che avevo sempre cercato di reprimere ed evitare si stava riversando su di me come una valanga e io non ero abbastanza forte per fermarla. Non avevo mai fatto i conti con questa parte della verità.
Io volevo amare Marco.
Ma non a quel prezzo.
Tutta la sofferenza che stavamo patendo entrambi e che avremmo patito in futuro, tutto il male che rischiavamo di fare ad altre persone, era troppo.
La mia famiglia non mi avrebbe più rivolto la parola. Andy non ne avrebbe più voluto sapere di me.
Il solo pensiero mi fece piangere più forte.
Marco era confuso, spaesato, disperato, come un bimbo che vede i suoi genitori litigare. Fece per abbracciarmi ma lo scostai da me. Mi rivolsi a Marta.
Non avrei mai pronunciato una frase più dolorosa di quella.
«Due giorni» dissi, trattenendo i singhiozzi. «In due giorni io torna a Parigi.»
Marco ci guardò, con occhi sgranati e colmi di angoscia. «Aspettate, niente decisioni affrettate. Deve esserci una soluzione alternativa, giusto?»
Ma Marta, dura e profondamente segnata dalla delusione per le bugie di Marco, si limitò a prenderlo per un braccio e a procedere a passo di marcia verso la porta. «Vieni, dobbiamo parlare.»
«Io non me ne vado da qui» protestò.
Ma lei non volle sentire ragioni. «Tu te ne vai da questa casa immediatamente, Marco.»
«Io non me ne vado» ripeté, più forte.
«Marco, va con lei.»
Si voltarono entrambi verso di me. L’avevo detto davvero? Sì, l’avevo fatto.
Ma avevo bisogno di restare da solo. Era tutto troppo per me e, sinceramente, non volevo vedere nessuno e parlare con nessuno.
Avevo bisogno di riprendere le redini di una vita che avevo lasciato andare da troppo tempo. Dovevo ritrovare me stesso e, per farlo, dovevo stare lontano da Marco, almeno per un po’.
Lui mi guardò con occhi imploranti, sperando di aver capito male. «Michael, io non…»
«No» per la prima volta in vita mia, gli parlai con tono di comando. «Va via.»
Lo guardai dritto in viso.
Nei suoi occhi morì qualcosa.
Potei vederlo chiaramente.
C’era una luce, un ardore, una fiamma viva in lui che si era spenta nel momento in cui avevo finito di parlare. Erano rimaste solo le ceneri fumanti. Un secondo e dentro Marco erano calate le tenebre. Tenebre che presto si riempirono di lacrime, facendomi sentire tremendamente in colpa.
Capii immediatamente cosa dovevo fare: prenderlo per un polso, tirarlo verso di me, stringerlo tra le mie braccia e non lasciarlo andare, cercare una soluzione insieme, consolarci a vicenda per l’orribile momento che eravamo stati costretti a passare.
Sì, avrei dovuto farlo.
Fui sul punto di farlo.
Ma non lo feci.
Invece li osservai, inerte, mentre lasciavano di casa mia, Marco che ancora mi guardava supplicante, come se un filo invisibile lo tenesse ancorato a me.
Fu straziante.
Chiusi la porta e il filo fu reciso.

 
La notte prima della mia partenza, attesi l’arrivo di Marco.
Non ci eravamo né visti né sentiti dal momento in cui l’avevo praticamente cacciato di casa, ma sapevo che sarebbe venuto.
Perché era ciò che faceva Marco. Esserci sempre, venire quando ne avevo bisogno, e quando ne aveva bisogno anche lui.
La verità, però, era che in quei giorni avevo avuto tempo di riflettere.
Mi vergognavo ad ammetterlo, ma la discussione con Marta, invece di gettarmi nello sconforto, mi aveva levato un gran peso dalle spalle: non avevo dovuto fare nulla per sciogliere quel dubbio che mi attanagliava la mente, il dubbio della “seconda scelta”, il dubbio che ci fosse qualcosa di sbagliato nella relazione tra me e Marco. Potevo crogiolarmi tranquillamente nella sicurezza del fatto che era stata Marta a mettermi con le spalle al muro, obbligandomi a tornare a casa per la sicurezza di entrambi.
Ero stato un vigliacco e lo sapevo, ma non sarei tornato indietro. Finalmente, le cose sembravano più facili che mai.
Per questo, quando Marco bussò e io andai ad aprirgli e lo trovai in lacrime, come temevo, la prima cosa che feci fu baciarlo, con forza, impeto e disperazione.
Perché glielo dovevo.
Perché stavo facendo una cosa orribile e a pagarne le conseguenze sarebbe stato lui.
Questo pensai, quando lo condussi in camera senza mai staccarmi dalle sue labbra, scivolando sulla parete come ombre.
Per questo, quando lui mi gettò sul letto e si mise su di me, sovrastandomi, non feci nulla per oppormi. Anzi, tacitamente lo ringraziai per aver preso lui il comando per la prima volta da quando stavamo insieme: non avrei avuto il coraggio di farlo io. Come riuscii a fare l’amore con lui, dopo quello che gli avevo fatto, non lo seppi mai.
Così, fummo entrambi nudi, pelle contro pelle, respiro su respiro. Mi afferrò per i fianchi e, con un movimento deciso, mi fece girare. Mi posizionai meglio, per facilitargli il compito il più possibile, la sua presa divenne più salda.
E poi entrò dentro di me.
Urlai.
I miei lombi furono preda del dolore, bruciante, forte e penetrante come non ne provavo ormai da tanto tempo. La sua presenza era rude e ingombrante e quando diede la prima spinta la vista mi si appannò e dovetti trattenermi dal piangere a causa del dolore. Alla seconda spinta, fui sul punto di chiedergli di smetterla.
Alla terza spinta, tutto cambiò.
Percepii un’intensa ondata di piacere che mi invase violentemente le membra. Gemetti e la mia pelle iniziò a fremere, tanto che mi ritrovai ad ansimare senza nemmeno rendermene conto.
Ma poi, fu ancora dolore.
E dopo il dolore, ancora il piacere.
Marco non riusciva a dosare la sua forza e lo sentii più di una volta singhiozzare alle mie spalle, quando mi sentiva ringhiare perché mi faceva male. Era disperato e questa sua disperazione lo portò a darmi gioia e sofferenza al tempo stesso, come se il dolore e il piacere facessero a gara per primeggiare.
Inaspettatamente, negli ultimi momenti di estasi, fu il piacere a vincere sul resto.
Mi bastò quell’attimo per capire che, se non fosse stato così afflitto a causa mia, Marco sarebbe stato un amante perfetto.
Ma non l’avrei scoperto mai.
Gridai di piacere e venni, senza fiato. Lui non ci mise che pochi secondi a raggiungermi.
Crollai sul letto e cercai la posizione più confortevole possibile, visto che ancora il mio corpo risentiva del duro trattamento di Marco. Quando la trovai, subito lui si aggrappò a me e scoppiò a piangere.
«Ti prego, non andartene» bisbigliò al mio orecchio, con voce rotta.
Oh, no.
No, non quel discorso.
Pensavo che ormai fosse un pericolo scampato visto che sarei partito l’indomani mattina, pensavo che si fosse rassegnato. Non avrei dovuto scartare a priori quella possibilità.
«Marco, io no può e tu lo sa.»
«Ma perché no?» continuò, con voce lamentosa. «Qual è il problema? La mia carriera? Che si fotta. Se non posso avere te, non voglio niente.»
«No dire sciocchezze» lo ammonii, sapendo che era il dolore a parlare in sua vece, in quel momento.
Le sue labbra tremarono. «Vengo a Parigi con te.»
«No» replicai, fermo. Mi spezzò il cuore vederlo così, disposto a tutto pur di avermi, e forse in altre circostanze avrei fatto anch’io in quel modo, pur di tenere con me la persona che amavo. La sua testardaggine, il suo amore, il suo abbraccio: mi sarebbe mancato tutto. Ormai faceva talmente parte di me che rendermene conto mi straziò.
«Ma io…»
«Marco, tu no può venire» stavolta fu a me che si spezzò la voce.
Lui non demorse. «Qual è il problema? La tua famiglia? Andy? Glielo spiegheremo, gli spiegheremo tutto. So che dopo quasi otto anni non è facile lasciare una persona, ma io sarò al tuo fianco.»
Lo fulminai con lo sguardo. Lui si zittì.
Non poteva parlare sul serio.
Dovevo aver capito male. Non mi stava chiedendo davvero di lasciare il mio fidanzato, l’uomo che amavo da anni, nonché la mia casa, il mio rifugio, il mio per sempre. Non per lui. Non poteva essere così egoista.
«Marco» cercai di non lasciar trasparire il mio turbamento. «Io no vuole lasciare Andy.»
«Sì, lo so che non vuoi ferirlo e non vuoi fargli del male…»
Lo interruppi, iniziando a irritarmi. «No, tu non hai capito.»
«Sì che ho capito» insisté «e ti ho già detto che io ti starò accanto quando accadrà.»
«Marco, stop!» sbraitai. Stava rendendo la situazione più difficile per entrambi, e non potei tollerarlo oltre. «Io ama Andrew più di ogne altra cosa, io no lo vuole lasciare, io no lascia lui solo per te!»
Trattenni il respiro.
Cosa avevo detto?         
Cosa avevo fatto?
Gli avevo praticamente fatto capire che amavo più Andy che lui, il che non era assolutamente vero. Tra i due, in realtà, l'egoista ero io.
Avevo perso di vista la situazione. Avevo perso di vista tutto: pur di non assumermi le mie responsabilità, pur di fuggire dalle conseguenze delle mie azioni, avevo realizzato il mio terrore più grande. Avevo fatto del male a Marco.
I suoi occhi pieni di lacrime, i suoi singhiozzi, l’espressione dilaniata sul suo volto mi trafissero come una stilettata, causandomi un indescrivibile malessere.
«No, Marco, io no voleva dire questo» mi affrettai a dire.
Ma seppi che era troppo tardi: il danno era fatto.
Lui scosse la testa e si allontanò da me, come se non volesse neanche toccarmi.
«Fai schifo.»
«Marco, ascolta» cominciai a dire.
«No, tu ascolta» sibilò. «Per te è facile. Torni a casa dalla tua famiglia, dal tuo fidanzatino, circondato dall’amore e dall’affetto e ti sarà facile dimenticarmi. Ma io? A me ci pensi? Io non ho nessuno. La mia famiglia non c’è, Marta ora mi odia. Non ho nessun altro, se non te. Se tu te ne vai, ti porti via il mio mondo con te, perché tu sei tutto il mio mondo. E di me che ne sarà? Ci hai mai pensato?»
Lo fissai, scioccato.
No, non ci avevo mai pensato.
Non avevo pensato a lui neanche una volta, in tutto quel trambusto. Avevo dato per scontato che sarebbe stato bene. Soltanto in quel momento la possibilità che ciò sarebbe potuto non accadere si profilò, infida e silenziosa, lacerandomi il cuore.
«Oh, Marco» feci per abbracciarlo.
Lui mi spintonò e le lacrime traboccarono dai suoi occhi.
«Aveva ragione Marta» disse, semplicemente.
«Cosa?» chiesi, confuso.
«Dovevi fottermi e poi andare via. Sarebbe stato meglio.»
E si alzò, raccattando i suoi vestiti, dandomi forse il tempo di capire quanto stessi sbagliando, dandomi una chance di spiegargli che aveva torto a pensare questo.
Ma rimasi lì, fermo, a guardarlo mentre se ne andava.
Uscì dalla stanza senza voltarsi indietro. Non feci nulla per impedirglielo.
Afferrai un cuscino con violenza, sul punto di prenderlo a pugni per sfogare la rabbia, ma non lo feci: sapevo che non mi sarebbe servito a niente.
Era tutta colpa mia, solo e unicamente colpa mia.
Così lo strinsi a me, come se fosse stato il corpo di Marco, e piansi lacrime amare sulla federa, fingendo che fosse la sua spalla. Nessun tenero abbraccio, però, nessuna parola di conforto.
Soltanto vuoto intorno a me e una consapevolezza.
Che era unicamente colpa mia. Per quanto cercassi di condividere la responsabilità di ciò che avevo fatto con Marco, sapevo bene che aveva ragione: io gli avevo chiesto di cadere in amore insieme, io avevo iniziato a nutrire i primi dubbi, io sarei partito lasciandolo in Italia, completamente da solo.
Esattamente come avevo previsto, eravamo caduti in amore.
Ma non insieme.
Era come se io avessi spinto Marco oltre il precipizio e avessi assistito alla sua caduta.
Non gli porsi nemmeno una mano per aggrapparsi a me.
Semplicemente, mi misi in salvo dall’impatto.
Al riparo dal dolore.
 

 

 

  

 

La soffitta dell’autrice:
Ma salve. Scusate l’abissale ritardo di ben due settimane, ma tra la scuola e l’accademia ho trovato tempo solo adesso. Perdonatemi!
Ok, è giunto il momento di dirvi che i sensi sono quasi finiti, il prossimo sarà l’ultimo tra i sensi ufficialmente riconosciuti come tali, ed è uno di quelli che tutti siamo abituati a conoscere.
Se questo capitolo vi ha fatto soffrire, consolatevi guardando il sesto live di X Factor. E se non vi ha fatto male, guardatelo lo stesso. Perché vi obbligo.
Ringrazio come al solito la mia mitica, meravigliosa beta comeunangeloallinferno94, cosa farei senza di lei?
Mi dileguo, e alla prossima!

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Capitolo 11
*** Olfatto ***


Olfatto [L'olfatto o odorato è uno dei sensi specifici e rende possibile, tramite i chemocettori, la percezione della concentrazione, della qualità e dell'identità di molecole volatili e di gas presenti nell'aria.]

 

Marco’s POV

 
Inspira. Espira.
Ucciditi di nicotina, che assorbisca le tue paure e i tuoi stupidi desideri.
Lasciai che il fumo della sigaretta fuoriuscisse dalle mie labbra.
Ero un tale stupido, mi vergognavo di me stesso.
Non ero riuscito ad allontanarmi da lui.
Ero stato coraggioso, sì. L’avevo insultato per bene, me ne ero andato dopo essermelo fatto, sbattendo la porta, certo. Tutto molto bello. Peccato che, una volta fuori da casa sua, io non fossi riuscito a muovere più di un passo.
Ero crollato accasciandomi sull’uscio, come frastornato. Dovetti mettermi a sedere e, una volta che il mio corpo ebbe toccato il gelido pavimento, scoppiai a piangere. La sua partenza, le cose che mi aveva detto, quello che io gli avevo fatto… era tutto troppo per me. Pertanto, avevo subito preso le mie sigarette e le avevo fumate tutte, l’una dopo l’altra, per tutta la notte, nella vana speranza di trovare una via di fuga da me stesso.
Arrivò l’alba. Il foyer era ormai invaso da una fitta nebbiolina di fumo, un pacchetto di sigarette vuoto era accasciato ai miei piedi, pieno di cenere. Che fossi a dir poco distrutto era un fatto compiuto. Il problema era che, minuto per minuto, lo diventavo sempre di più.
Qualche ora fa, Michael aveva fatto una scelta: il suo fidanzato invece che me, la sua vecchia vita invece di quella che avremmo potuto costruire insieme. Dopo avermi illuso per mesi, alla fine mi aveva rifilato un bel “grazie e arrivederci”. Nessuna meraviglia se piansi tutta la notte come un poppante.
Aveva confermato i miei più grandi timori, ossia che io per lui non fossi che un po’ di sano divertimento, che da me non cercasse che un’avventura. Che io per lui non fossi niente. Che la mia presenza nella sua vita non contasse.
Tuttavia, benché stessi cercando da ore di stordirmi a suon di tabacco, e benché ormai quell’odore acre e penetrante avesse impregnato le mie vesti e la mia pelle come fossero spugne, la mia mente si rifiutava di cedere del tutto. Come uno sciocco sentivo, o forse lo speravo soltanto, che lui provasse per me esattamente ciò che io provavo per lui. Avevamo diviso gioie e dolori, paure, risate, lacrime, letto. Tante essenze, quelle, che goccia per goccia si mescolavano come infusi e creavano qualcosa di unico che sapeva di amore. E, per quanto mi sforzassi di rievocare quelle sue dure e aspre parole e di convincermi che Michael fosse contento di essersi sbarazzato di me, desiderai con una certa cattiveria che in realtà fosse triste e sconsolato anche lui. Pregai tutta la notte per quel miracolo.
Era l’alba quando sentii dei rumori provenire dall’interno della casa. Solo allora mi resi conto di quanto la notte, fuori dalle braccia di Michael, facesse schifo.
Lì fuori puzzava di polvere e cenere di tabacco, lo stesso con il quale avevo riempito il mio corpo per evitare di impazzire del tutto. Era l’odore che avrei dato alla galera, a un’auto in panne che ha finito di bruciare, a una casa abbandonata.
Mi faceva sentire dimenticato, oppresso.
Non avevo mai fatto caso a che odore ci fosse, invece, dentro casa di Michael. La prima volta che ci ero andato, lo ricordavo bene, fu nel bel mezzo di un acquazzone, quindi la mia memoria difettosa avrebbe senz’altro detto pioggia.
Ma no. Era un aroma più dolceamaro, più orientale, senz’altro più accogliente. Un ambiente che rievocava quello dell’harem di un principe indiano.
Già, proprio come un principe.
All’improvviso, la porta si aprì dietro di me.
Per poco non caddi dentro casa.
«Marco!» esclamò.
Tra le mille sfumature della sua voce, tra la sorpresa e la paura, una punta di esultanza.
Certo. Ovviamente. Si era aspettato che io rimanessi lì come un povero idiota ad aspettare lui. Perché era ciò che avevo sempre fatto: corrergli dietro come un cagnolino.
Mi alzai in piedi, raccogliendo il pacchetto vuoto di sigarette, pronto a rispondergli che me ne stavo giusto andando, così non l’avrei disturbato oltre.
Ma quando mi voltai per fronteggiarlo e vidi che aveva il naso e gli occhi rossi, come se avesse pianto tutta la notte, e un indecifrabile sorriso sul volto, le parole mi morirono in gola.
Il mio problema era questo. A Michael non ero mai riuscito a resistere, né da collega, né da amico, né da amante. Se mai avevo desiderato qualcosa nella vita, era lui. Se mai avevo avuto bisogno, un bisogno disperato, di qualcosa, era lui. Se mai avevo avuto bisogno di illudermi che qualcuno avesse potuto piangere tutta la notte per me, quel qualcuno era lui.
Ma Michael era troppo per me e ormai era chiaro anche ai miei occhi.
Lasciai da parte i pensieri e annusai l’aria. Finalmente un odore familiare che invase e scaldò le mie narici.
«Hai messo a fare il caffè?»
«Ehm, sì» rispose, impacciato e frettoloso. «Tu ne vuole?»
No. «Sì.» Ti detesto e me ne voglio andare. «Mi piacerebbe. Posso entrare?»
Annuì e si fece da parte per lasciarmi entrare. Ero talmente patetico che mi stomacai da solo.
Nella sua casa portai la mia nuvola di fumo, che soffocò per un attimo quell’aroma che conoscevo bene –fiori freschi, ne ero quasi certo. Adorava ricoprire ogni superficie libera di piccoli bouquet– misto al caffè americano appena fatto. Il tutto risultava amarognolo e vagamente nauseante, mi fece girare la testa. Trasalii quando notai che tutti i sopramobili, così come le cianfrusaglie che Michael lasciava sempre ovunque, da bravo disordinato qual era, erano scomparse. Stipate in valigia, probabilmente. La sera prima non ci avevo fatto caso, troppo preso dalla foga dell’amore. Rimanevano soltanto i mobili, il fumo e il caffè. Che tristezza.
Andai in cucina e mi accasciai su una sedia senza neanche rivolgergli un sorriso o uno sguardo. Lui fece lo stesso. Lo sentii tossicchiare un paio di volte a causa dell’odore di nicotina, che lo aveva sempre infastidito, e poi entrare in cucina per versare il caffè in due tazze e porgermene una.
Sollevai lo sguardo e soltanto allora notai una specie di sigaretta lunga e stretta che stava al centro del tavolo della cucina su un appoggio, in verticale. Emanava fumo, un fumo che sapeva di legno.
«Incenso» mi spiegò, senza che io gli chiedessi nulla, forse captando la mia curiosità. «Tu sa, incenso può calmare.»
Sorseggiai quel caffè disgustoso oltre ogni immaginazione e poi ribattei, sperando di essere tagliente: «E tu da quando in qua sei un esperto di incenso?»
«Da quando io ha bisogno di calmare me» borbottò, tutto d’un fiato.
Poi posò gli occhi su di me.
Come se il motivo della sua mancanza di calma fossi io.
Oh, sì, certo. Adesso che aveva capito che Marco Mengoni non era più a sua completa disposizione, doveva fare qualcosa per riprenderselo, giusto? La cosa mi nauseava.
Non finii neanche il caffè, mi alzai e feci per andarmene, quando Michael mi richiamò.
«Marco, wait
Per qualche strana ragione, mi voltai.
Sembrò impacciato quando riprese a parlarmi: «Tu ha lasciato qui delle tue cose. Io le ha messe tutte su letto di là mia camera se tu le vuole.»
Ah, ecco. Non stavo levando abbastanza il disturbo, dovevo farlo meglio. Ogni traccia di me doveva sparire. Bene, l’avrei accontentato.
Filai in camera da letto, che ritrovai perfettamente ordinata e spoglia –le valigie come unica nota stonata in quell’asettico vuoto– come se nulla fosse accaduto quella notte, in quella stanza maledetta. Sul letto, una mia camicia bianca, uno spazzolino e una boccetta mezza vuota di colonia.
Mi salirono le lacrime agli occhi. Era il mio piccolo kit per quando restavo a dormire da lui. Ossia, quasi tutte le notti.
Raccattai le mie cose, cercando di deglutire quel gigantesco groppo alla gola, e tentai di scacciare dalla mia mente il suo adorabile faccino che mi diceva quando adorasse l’idea di ritrovarmi accanto a sé la mattina, al suo risveglio. Quando il nostro sesso aleggiava attorno a noi in maniera più blanda rispetto alla notte, quando i nostri fiati erano terribili e non ce ne importava un fico secco, anzi, ne ridevamo. Quando la mia pelle sapeva della sua e profumava come la sua, e mi sentivo parte di lui ed era la sensazione più bella del mondo.
Il telefono di casa cominciò a squillare e soltanto allora mi ridestai. Asciugai le lacrime che, inevitabilmente, mi erano scese sulle guance e tornai di là.
La suoneria mi spaccava i timpani, eppure Michael non sembrava intenzionato a rispondere. Nel corridoio c’era un telefono, una luce lampeggiante mi invitava a sollevare la cornetta e a rispondere. Non avrei dovuto farlo. Infondo, era la sua privacy.
Eppure mi guardai intorno per controllare che Michael non spuntasse e, facendo meno rumore possibile, mi portai la cornetta all’orecchio.
«Hi Mika! It’s Andy here, are you ready to come back home?»
Riattaccai immediatamente.
Avevo capito tutto. Tutto quanto mi era perfettamente chiaro.
Mika.
Andy.
Tornare a casa. Nessun posto per me.
Tornai da lui in cucina, con tutte le mie cose strette al petto e le lacrime di nuovo pronte a traboccare dai miei occhi. Piangevo sempre a causa sua. Lo odiai.
Avrei potuto dirgli molte cose, fargli tante domande, rinfacciargli parecchi dei suoi sbagli, tuttavia l’unica frase che mi uscì di bocca fu:
«Perché Andy ti chiama Mika?»
Sussultò, come se l’avessi spaventato, e mi guardò.
Oh, no.
Di nuovo quel naso rosso, quegli occhi lucidi, ed erano lacrime quelle che gli vedevo luccicare sul volto? Oh, povero il mio tesoro.
No, Marco, nessuna pietà stavolta, mi imposi. Presi fiato. «Per quale motivo Andy ti chiama Mika?»
«Che tu vuole dire?» mi chiese, confuso, con un filo di voce. Ecco perché non aveva risposto al telefono.
Ero nervoso, talmente tanto che quasi potei sentire quell’olezzo tipico di bruciato uscirmi dalle tempie per quanto ero furioso, sul punto di esplodere.
«Ho risposto al telefono» ammisi. «Era Andy, che ti chiedeva se eri pronto a tornare a casa. Ti ha chiamato Mika. Io ti ho sempre chiamato Michael, perché pensavo che Mika fosse il tuo nome d’arte e ti infastidisse essere chiamato così. Allora perché Andy lo fa?»
Lui non si scompose più di tanto. Era quasi come se si aspettasse quel mio gesto sconsiderato. «Tutta mia famiglia chiama Mika da sempre, ecco perché lui chiama Mika anche.»
Oh, ecco perché. Era perfettamente logico, come avevo fatto a non pensarci prima?
«Giusto» risposi, sprezzante. «Giusto. Lui fa parte della famiglia. Io invece ti ho sempre chiamato Michael, come ti chiamano gli amici, perché io non faccio parte di un emerito cazzo, giusto?»
Si alzò dalla sedia e mi venne incontro. «Questo è falso.»
«Gli amici ti chiamano così!» sbottai. «Perfino Morgan ti chiamava così! Pensavo che Mika fosse solo il tuo nome d’arte, ora scopro che invece è il nome con cui ti chiamano le persone a cui tieni di più al mondo e io non sono fra queste, vero?»
«Marco, calmo» mi disse, la sua voce era più vellutata adesso. «No è importante.»
«Per me sì!»
«Marco, stop, è solo nome» fece, con un flebile sorriso. «Il modo che tu mi chiama no cambia chi io sono e cosa io provo per te.»
Senza senso.
Le sue parole erano così vuote e senza senso.
Mi venne in mente un verso di Romeo e Giulietta. “Ciò che chiamiamo rosa con un altro nome conserverebbe il suo dolce profumo”. Era evidente che Shakespeare non aveva mai conosciuto Michael: c’era una sottile linea di demarcazione tra chi considerava importante e chi no, e questa dipendeva dal suo nome.
Per me lui era Michael. Ero al di qua di quella stupida linea.
«Bene, sai che ti dico allora?» dissi, fermo. «Che comunque tu ti faccia chiamare, resti sempre uno stronzo.»
Feci per andarmene.
Ma non potei.
Perché lui mi afferrò per un braccio, mi strattonò e mi fece voltare.
Tutto quello che avevo in mano cadde per terra.
Michael mi abbracciò. Mi strinse a sé, più forte che mai, mi imprigionò letteralmente tra le sue esili braccia come se non volesse mai più lasciarmi andare.
Si sentì un crack secco, seguito da un odore intenso, penetrante e sgradevole di colonia concentrata. La boccetta doveva essersi rotta, ma non mi importava.
Perché avevo bisogno di fuggire. E l’unico posto in cui avrei desiderato farlo erano proprio le braccia di Michael.
Mi maledissi, mi maledissi cento volte per avergli ceduto per l’ennesima volta, per non essere riuscito di nuovo a resistergli. Ma ero vincolato a lui. Come un filo che mi teneva ancorato al suo cuore, che avevo provato a recidere in tutti i modi, ma ogni volta si riformava dentro di me.
Era una musica troppo bella, un profumo troppo forte, un dolore troppo intenso, un amore troppo grande.
Mi aggrappai a lui, strinsi forte la stoffa della sua maglia tra le dita e premetti forte il volto sull’incavo della sua spalla. Inutile dire che scoppiai a piangere ma, e la cosa mi sorprese, lui fece altrettanto. Gli dispiaceva per davvero andarsene. Per un attimo, mi sentii uno sciocco per averne dubitato.
Posai il naso sul suo collo e, per evitare di restare soffocato dalla mia colonia appestante, inspirai forte il suo profumo. Lo feci di nuovo, e poi ancora e ancora per imprimerlo nella memoria. Era l’odore naturale della sua pelle.
Sapeva di agrumi e di sapone delicato, a tratti ricordava il detersivo per piatti e la cosa mi fece quasi ridere. Agrumi, sapone, bucato appena fatto, di quando annusi le lenzuola e ci immergi la faccia perché sanno di pulito e, sì, c’era anche un po’ di miele. Era un profumo fresco, dolce e leggero. Il profumo che mi aveva accompagnato nei giorni di risate e nelle notti di urla. Non volevo perderlo. Non potevo perderlo.
«Ti amo» mi sussurrò all’orecchio. «Io ti amo, ti amo Andy, io ti…»
Mi bloccai e lui fece altrettanto.
Scosse la testa e mi abbracciò più forte, mi chiese perdono almeno dieci volte, perché sapeva perfettamente cosa stavo per fare.
Mi staccai da lui e lo guardai. Forse, dal mio volto trapelava la mia delusione, perché i suoi occhi divennero nuovamente umidi. Risi. Risi amaramente, risi e piansi al tempo stesso come un matto, come un malato d’amore.
«Mi hai appena chiamato Andy» constatai «e ancora dici di amarmi?»
Strinse i denti e mi guardò, disperato.
«Marco, per favore, io ti amo» mi implorò. «No essere arrabbiato con me. Io ti amo. No volermi male, Marco, io no vuole scegliere tra lui e te.»
Era spaventato e angosciato come un bambino. Non voleva restare, né mi chiedeva di seguirlo. Non voleva che io ce l’avessi con lui, semplice. La rabbia si dissolse e sparì all’improvviso, rimase solo una triste pietà e il gelo nel cuore.
Mi allungai verso di lui e baciai le sue labbra, di cui ero sempre assetato. Non mi bastavano mai. Mi cinse la vita con le braccia e premette la sua bocca sulla mia, con urgenza e amore. Tanto, tantissimo amore.
Poi ci separammo.
Una volta per tutte.
Raccolsi le mie cose da terra, la boccetta rotta di colonia e tutto il resto.
Poi lo guardai e dissi ciò che avrei sempre dovuto dirgli: «Hai già scelto, Michael. Hai scelto Andy, e hai fatto bene. D’altronde, perché dovresti volere me?»
«Ma…»
«Fammi solo un favore: non tornare, mai più. Anzi, torna per amarmi o non tornare affatto.»
Aprii la porta e me ne andai.
Corsi, corsi veloce, via da quella casa, via da quella vita.
Non mi voltai mai più indietro.
L’aria gelida mi penetrò nelle narici con violenza, gli occhi mi divennero lucidi e finsi che fosse per il freddo. Finsi con me stesso.
Volevo tornare indietro e dirgli che lo amavo anch’io. Volevo implorarlo di scegliere me.
Ma non feci nulla di tutto ciò. Era così che doveva essere.
Inspirai forte l’aria fatta di nuvole e smog, una brezza malsana come il mio cuore.
«Addio, Michael.»
E me ne andai.
Verso un mondo vuoto.
 

Mika’s POV

 
L’avevo lasciato andare.
Marco era andato via e io non l’avrei mai più rivisto. Ero sotto shock.
E, come se non bastasse, il suo odore impestava la mia dannatissima casa.
Non avrei ripulito la chiazza di liquido concentrato. Che senso aveva farlo se non sarei tornato mai più in quella dimora?
Andai in cucina e spensi l’incenso. Nulla avrebbe potuto calmare un cuore spezzato. E poi, quel mix di aromi mi faceva venire da vomitare.
Andai in bagno, mi sciacquai il viso. Tra due ore avevo l’aereo e non volevo arrivare a casa sembrando uno zombie. Se avessero visto anche solo una traccia di pianto sul mio volto, Andy e mia madre avrebbero iniziato a fare domande, domande alle quali non sarei riuscito a rispondere. O, almeno, non sarei riuscito a rispondere senza sciogliermi in lacrime un’altra volta.
Ma il bagno era pregno di quella stessa colonia forte e speziata che Marco aveva sparso così generosamente sul pavimento.
Andai in camera, sentendomi inerte e privo di energie, e mi gettai sul letto.
Non avrei dovuto farlo.
Spalancai gli occhi: fu come rivivere quei mesi tutti insieme, all’improvviso. Sul nostro letto c’erano ancora le tracce del profumo di Marco, il suo odore selvaggiamente maschio, quello del nostro sesso e del nostro sudore. L’odore del caffè che gli portavo la mattina appena svegli e con cui lui macchiava regolarmente le coperte. L’odore della sua colonia speziata, forte e vellutata. Il profumo chimico e dolciastro del suo shampoo misto a quello del mio bagnoschiuma. L’odore delle lacrime che stavo versando in quel preciso istante.
Il profumo dell’amore perduto.
Cosa avevo fatto?
Io amavo Marco, lui era mio così come io ero suo. Allora perché lo avevo lasciato andare? Volevo stringerlo a me e sentire quei profumi su di lui invece che su una stupida trapunta.
Pensava, forse, che io non lo volessi più? Che mi fosse solo servito a scaldarmi il letto la notte? Avevo cercato di fargli capire che non era così, che io lo amavo più di quanto pensasse. Ma la paura di perderlo mi aveva bloccato e avevo fatto un casino, come al solito.
Non riuscivo mai a combinarne una giusta.
Era stata tutta colpa mia. Avevo rovinato la vita a Marco.
Io l’avevo baciato. Io gli avevo proposto di cadere in amore insieme. Io avevo nutrito i primi dubbi. Io avevo deciso di lasciarlo. Io gli avevo detto che non lo amavo quanto Andy. Io l’avevo chiamato con un altro nome.
Io ero stato il tarlo del male che lo aveva lacerato dall’interno.
Odiai me stesso per tutto quello che gli avevo fatto.
Odiavo me stesso per aver amato.
Per questo piansi, piansi e ancora dolorosamente piansi sul nostro amore finito. Una semplice storia che sa di bugia.
Un segreto mai svelato.
 

Io e Andy eravamo già d’accordo. Non sarebbe venuto all’aeroporto, ci saremmo visti direttamente a casa. Arrivato sull’uscio, feci resistenza contro l’impulso di precipitarmi dentro per farmi abbracciare e coccolare dal mio fidanzato. Non lo meritavo affatto e lo sapevo.
Ma poggiai la mano sul pomello, inserii la chiave nella toppa e la girai, aprendo la porta. Finalmente a casa mia.
Mi guardai intorno. «Andy, ci sei?»
Sentii il rumore di un oggetto che cadeva a terra, forse una scodella o una padella. Melachi, il nostro cane, si mise istintivamente ad abbaiare e mi raggiunse trotterellando. Sorrisi mentre la accarezzavo. La mia era una casa rumorosa e mi era mancato tutto quel chiasso. Tra me e Marco il più rumoroso ero io, perché lui…
No, non dovevo pensare a Marco, era il passato.
«Mika!»
Andy spuntò dalla cucina e mi venne incontro. Si fiondò tra le mie braccia e io lo strinsi forte, ricoprendo di baci ogni centimetro del suo volto.
Il suo profumo era quello del legno d’acero, misto a fragole e pane appena sfornato. Era il profumo di casa, un profumo di cui avevo un estremo bisogno.
Marco era caffè e tabacco, forte e invasivo. Andy era un dolce piatto fatto in casa. Per un attimo, pensai, preferivo il forte caffè e l’importuno tabacco.
Dio, già mi mancava il profumo di Marco. Ero messo male.
Andy premette le sue labbra sulle mie con foga e mi lasciai trascinare nel suo bacio. Mi era mancato da morire, ma meno di tutte le altre volte in cui ero stato via.
«Oh, amore mio» iniziò a dire sulle mie labbra, con voce rotta dalla commozione. «Non andare più via per così tanto tempo, intesi?»
«Intesi, amore» risposi, ed ero sincero.
Poi, come un cane che non riconosce il suo padrone, Andy fiutò qualcosa che non gli garbò. Vidi il suo adorabile visino contrarsi in una smorfia di disgusto.
«Amore, cos’è questa puzza nauseabonda?»
Sollevai un lembo della mia maglietta e la annusai. Non sentivo nessun cattivo odore. «Che dici?»
«Sembra una specie di roba speziata andata a male» spiegò, sprezzante.
Oh, giusto: la colonia di Marco.
Non pensavo che mi sarebbe rimasta addosso per tutto quel tempo. Dannazione a lui, perché doveva essere così invadente, perché doveva aggrapparsi a me anche quando non era lì per farlo? Era ancora avvinto a me come edera.
Eccola, la mia prima bugia rifilata a Andy a meno di due minuti dal mio ritorno. Che triste record.
«Il tizio che era seduto vicino a me in aereo aveva praticamente fatto il bagno nella colonia» scherzai. «Mi ha contagiato!»
Andy rise della mia finta disavventura e mi cinse il collo con le braccia.
«Povero amore» cantilenò. «Hai decisamente bisogno di un bagno.»
Il suo tono era basso e voluttuoso, sottinteso era che il bagno non l’avrei fatto da solo. Dopo tutti quei mesi, riuscì comunque a smuovere qualcosa sotto il mio ombelico.
«Anche subito, amore mio» sorrisi.
«Perfetto, così ti levo di dosso quest’odore orrendo» commentò.
Mi impietrii.
Una voce nella mia mente urlò disperata. No! Non farlo. È l’ultima cosa che ti resta di lui, conservalo il più possibile!
Fu così che io e Andy ci infilammo nella vasca da bagno. Per tentarmi a dovere, prese una spugna e la passò su ogni centimetro del mio corpo. Dalla punta dei capelli alle dita dei piedi, fui lavato e strigliato dalle amorevoli mani di Andy.
Piansi ancora tanto quel giorno, gocce che si disperdevano nell’acqua, lacrime che, mentendogli ancora, definii di commozione. Perché avevo sentito tanto la sua mancanza, perché finalmente ero a casa.
Ma mentre mi asciugavo e Andy mi baciava la schiena, non avvertii né amore, né passione, né commozione. Soltanto, pregai che quell’acqua rimasta sul mio corpo di non svanisse così presto.
Quando fui asciutto, anche l’ultima traccia di Marco evaporò dal mio corpo.
La sua essenza scomparve.
Così come ogni prova tangibile che avesse mai fatto parte della mia vita.
Era finita.
Stavolta è finita davvero.

 

 

 

 

La soffitta dell’autrice:
Ebbene sì, stavolta è finita davvero. Perché i sensi sono finiti.
I sensi sono finiti ma la storia no.
Perché, sì, c’è ancora quel qualcosa che manca, no? Quel piccolo non so che… che serve a completare le storie, no? Avete capito?
Bene, mentre voi ci pensate, io mi scuso per il ritardo abissale e vi do appuntamento al prossimo capitolo (che inizierò seduta stante a scrivere). Sapete che vi adoro tutti vero? Soprattutto la mia beta comeunangeloallinferno94, che adoro più di ogni altra cosa.
Bene, mi dileguo, e alla prossima!

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Capitolo 12
*** Sesto senso ***


Sesto senso [Il sesto senso è ciò che ci permette di percepire e anticipare che qualcosa sta per accadere, e di conseguenza essere pronti per reagire in modo adeguato.]

 
Marco’s POV

 Three months later…

 
Michael.
Quella mattina mi svegliai, in un posto che non era casa mia, in un letto che non era il mio e con un nome che mi risuonava in testa, un nome al quale fingevo di non pensare da tempo ma che, in realtà, mi accompagnava costantemente giorno e notte.
Negli ultimi tempi avevo sempre cercato di arginare il pensiero, ma quella volta si presentò di prepotenza dentro il mio cervello e non ci fu verso di mandarlo via. Perché doveva tornare a tormentarmi? La mia vita stava andando avanti alla perfezione senza di lui.
Stavo lavorando al mio nuovo album, vivevo tra casa e studio, scrivevo canzoni su canzoni e finalmente avevo recuperato il mio rapporto con Marta. Infatti la casa in cui mi ero svegliato era proprio la sua, e il letto era una brandina che lei aveva messo nella sua stanza per le volte in cui, come la sera precedente, lavoravamo fino a tarda notte e io non avevo le forze per tornare a casa mia. Birra, sigarette e risate erano le nostre più fidate compagne di lavoro oltre, chiaramente, alla mia ispirazione.
Quindi tutto andava alla perfezione, no?
Già. Alla perfezione.
Oh, ma a chi volevo darla a bere? Pensavo a lui tutti i giorni, ogni volta che avevo voglia di raccontargli qualcosa, o che mi veniva in mente un particolare della nostra storia che mi andava di ricordare con una risata, o quando semplicemente avevo voglia di baciarlo. Normale che tutti i miei testi, non ancora pronti e a mio parere non particolarmente riusciti, fossero ancora intrisi di quella melanconica nostalgia che mi portavo dietro da mesi ormai.
Perché, per quanto ci provassi, non riuscivo a dimenticarlo.
Non pronunciavo mai il suo nome, né ad alta voce né tra i miei pensieri, eppure era sempre, costantemente lì, mi perseguitava. Nelle mie canzoni, a volte fingevo che avesse scelto di amarmi, a volte mi abbandonavo alla cruda realtà, altre volte immaginavo cosa sarebbe potuto accadere se… Se.
Avevo scoperto che era tornato in Italia, per ben due volte, era stato perfino ospite in un programma televisivo. Ovviamente tutto questo lo avevo scoperto soltanto quando lui se n’era già andato. Marta era molto attenta al tipo di informazioni da far trapelare, nel vano tentativo di non turbarmi durante la mia fase “creativa”.
Ma non era colpa di Marta, assolutamente. Era colpa sua.

Torna per amarmi o non tornare affatto, gli avevo detto. Come prevedibile, era tornato, ma senza amarmi. Senza neanche avvisarmi che sarebbe venuto. Per fortuna ero completamente immerso nel lavoro, altrimenti chissà, magari mi sarebbe saltato il grillo di andarlo a trovare, cosa del tutto sbagliata e impensabile. Se avesse voluto vedermi, sarebbe venuto da me, no? 
Ma perché proprio oggi mi ero messo a rimuginare sulla nostra storia? Non ce n’era motivo.
Scrollai le spalle, mi alzai dal letto e mi recai nella cucina di casa Donà, dove sapevo che Marta mi avrebbe preparato non una sana e nutriente colazione, bensì quantità industriali di caffè.
Era seduta sul divano e, quando mi vide arrivare, si voltò e mi fece un sorriso. Neanche a dirlo, aveva un thermos di caffè in mano.
«A qualcuno piace dormire» mi prese in giro, indicando l’orologio. Erano le nove e mezza passate, quindi era tardissimo per i suoi standard.
«A qualcuno piace iniettarsi la caffeina per endovena» le risposi a tono, facendola ridacchiare.
«Forza pigrone, bevi e mettiamoci al lavoro» disse, riempiendomi la tazzina del thermos e porgendomela. «Ancora non mi convince del tutto la canzone che mi hai fatto ascoltare ieri.»
La raggiunsi e mi sedetti accanto a lei. «Non ti piace?»
Ci pensò su. «Non è che non mi piaccia, anzi è molto bella, solo che dobbiamo fare degli aggiustamenti. Quel “lotto per amore” non mi convince, troppo sdolcinato: dici che sei un guerriero, dovresti lottare per…»
«Onore?» completai io, proponendo quella nuova parola in sostituzione di “amore”, troppo melensa ai suoi occhi.
Asserì, soddisfatta. «Lotto per onore, lotterò per questo, mi piace!»
Così bevvi una sorsata di caffè e presi il foglio con su scritto il testo, per modificarlo.
«Io vado a farmi un espresso, tu intanto lavoraci su» fece lei, alzandosi dal divano. Il mio caffè normale, per lei, era “roba da femminucce”. Comprensibile che fosse sempre un po’ schizzata, vista la quantità giornaliera di caffeina che ingurgitava.
Quando si diresse in cucina e scomparve alla mia vista, però, notai che aveva distrattamente lasciato sul divano il suo cellulare.

Ops. Che disdetta.
Va bene, un uomo adulto dovrebbe avere di meglio da fare che spiare i messaggi sul telefono della propria amica. Ma non potevo farci niente, mi piaceva troppo leggerli: Marta riusciva a mandare al diavolo le persone come nessun altro e, al contempo, a scrivere le più zuccherose smancerie quando si trattava del suo ragazzo. Era uno spasso unico. E poi, la mania di spiare i suoi messaggi era stata una delle prima cose imbarazzanti che avevo detto di me a Mich…
No, non ci dovevo pensare, non lo dovevo nominare.
Perché proprio quel giorno mi ero fissato con lui? Basta.
Nel tentativo di distrarmi, presi il telefono di Marta, digitai il codice d’accesso (che conoscevo a memoria, ma lei non lo sapeva) e mi immersi nelle conversazioni con il suo fidanzatino, una roba piena di cuori e nomignoli affettuosi che mi facevano venire le carie ai denti. E poi era il mio “lotto per amore” a essere troppo sdolcinato? Ridicola.
Poi passai a una conversazione più recente con un organizzatore di eventi che richiedeva la mia presenza in un locale e bla bla bla. Questioni tecniche e di marketing, che noia.
Così andai ancora oltre.
C’era un numero che non era segnato in rubrica e l’ultimo messaggio inviato diceva semplicemente Please.
Non sapevo perché ma questa cosa mi mise tanta curiosità. Appena sotto c’erano i messaggi della mamma di Marta e immaginai che una corrispondenza tra una signora di mezza età che non sa usare il T9 e una figlia che va sempre di fretta fosse più divertente.
Eppure fu su quel Please che posai il dito.
Era come se una parte di me mi dicesse che in quella semplice parola avrei trovato qualcosa di più di quanto mi aspettassi. Qualcosa mi impose di leggere.
Feci scorrere i messaggi finché non giunsi al primo che quel numero misterioso le aveva inviato.
E mi si gelò il sangue nelle vene.

>Marta, sono Mika. Io ha bisogno de te. Tu ha per caso il numero di Marco?
Il messaggio risaliva al sette di gennaio, il giorno prima che tornasse in Italia per la prima volta.
Non aveva senso. Perché Michael chiedeva a Marta se aveva il mio numero? Perché l’aveva contattata? E perché io non ne avevo mai saputo niente?
Lo sapevo che dovevo leggere quella conversazione, me lo sentivo.
Marta aveva risposto.
>Sì, ce l’ho. Che vuoi?
>Tu puoi dare suo numero a me?
>No.
>Marta, please, io ho dovuto cancellare perché aveva paura che Andy scopriva messaggi e telefono numero.
Strinsi i denti. Anche io avevo cancellato il suo, solo per tentare di dimenticarlo più in fretta. Certo, infatti aveva funzionato così bene.
>E quindi? Adesso perché lo rivuoi?
>Io domani torno in Italia, deva parlare con lui.

Uno stacco. I messaggi ripartivano dal giorno dopo, sempre da lui.
>Ciao Marta, io sono ancora Mika. Io è qui in Milano adesso, io deva parlare con Marco. Dai il numero a me?
>Lui non vuole che io te lo dia.
>Perché?
>Perché non ti vuole né vedere né sentire, perché non gli va di essere un pupazzo che tu possa scoparti e abbandonare a tuo piacimento.
>Ok, io no sa cosa pupazo significa, ma io no vuole scopare e abbandonare lui.
>L’hai già fatto.
>Ora è in sua casa? Io ho bisogna di parlare con Marco.
>No. Adesso è a casa mia. Sta dormendo e non voglio disturbarlo.
E qui la conversazione finiva. Ma ecco un altro messaggio risalente, e qui mi balzò il cuore in gola, all’altro ieri. Lessi, con le mani che mi tremavano e il respiro mozzo.
>Ciao, io ancora Mika. Io è in Italia con la mia family. Please, io ha di parlare con Marco.
>Impara l’italiano e dopo scrivimi, grazie.
>Io no riesco a mangia e a dorme se io no gli parla. Ti please.
>E perché dovrebbe importarmi?
>No voglio dividere voi due, so che ora state insieme e se Marco è felice, io è felice. Però gli deva parlare.
>Di cosa? Di come tu e il tuo fidanzato siete carini insieme? No, grazie.
>Io gli deva dire delle cose. Marta, please, fai che noi parla. Dai il suo numero me!
>Ciao, Mika. Stammi bene.
>Please.
E con questo era finita la conversazione.
Sentii un urlo: «Marco, che stai facendo?»
Marta era tornata, e mi aveva beccato con il suo cellulare, le dita tremanti, gli occhi pieni di lacrime e mi stavo mordendo le labbra talmente forte che temetti di essermele spolpate. Non che la cosa mi importasse.
Lei mi raggiunse e mi strappò il cellulare di mano.
Quando posò i suoi occhi sullo schermo, però, la sua espressione mutò, passando dalla rabbia allo sgomento e poi ancora cambiò, divenendo colpevolezza.
Sospirò scuotendo la testa. «Marco, lasciami spiegare.»
«Gli avevo detto di tornare solo se avesse voluto amarmi» le confessai, riuscendo a malapena a parlare. «Michael era tornato, mi voleva vedere e tu lo hai allontanato.»
Nella mia mente risuonavano le sue parole. Aveva usato parole come “bisogno” e “devo”, come se l’urgenza di vedermi fosse diventata soffocante. Non riesco a mangiare e a dormire se non gli parlo, aveva scritto. Mi si strinse il cuore al solo pensiero.
«L’ho fatto per il bene di entrambi. Tu stai bene qui e lui e il suo fidanzatino staranno bene ovunque siano» commentò. «Dovresti solo ringraziarmi.»
Non ci vidi più.
Mi alzai di scatto dal divano e mi parai di fronte a lei, la affrontai. Marta arretrò di qualche passo, spaventata dall’impeto dei miei movimenti.
«Gli hai fatto credere che io e te stiamo insieme» alzai la voce. «Non glielo hai detto, certo, ma glielo hai lasciato intendere piuttosto bene.»
«Dovevo allontanarlo in qualche modo, no?» la sua voce era più incerta, stavolta non si limitava a spiegare, ma stava cercando di convincermi della bontà delle sue azioni. «Era diventato opprimente, con tutti quei messaggi, le chiamate…»
Dentro di me scattò qualcosa, come una molla troppo a lungo trattenuta, e divenni una furia. La presi per le spalle e le urlai in faccia: «Michael ti ha chiamato e tu non mi hai detto niente?»
«Marco, lasciami!» era quasi spaventata.
Feci come aveva detto, vergognandomi di me stesso. Marta non aveva scuse per ciò che aveva fatto, ma metterle paura non era certo una soluzione, avevo sbagliato.
Ma Michael mi amava ancora, mi cercava disperatamente da mesi e Marta mi aveva privato di quell’unica speranza alla quale, per paura, non ero mai riuscito ad aggrapparmi del tutto: il pensiero che lui potesse provare ancora qualcosa per me. Non era possibile in alcun modo, questo mi ero sempre detto, che lui pensasse ancora a me, pur avendo Andy e la sua famiglia accanto. Ma i fatti mi avevano smentito.
Non potevo certo starmene con le mani in mano.
Fu come un lampo.
Mi sentii percorrere da un brivido di pura adrenalina.
Afferrai la giacca e aprii la porta, senza neanche pensarci su neanche per un secondo.
«Marco, che stai facendo?» fece Marta. Non le rivolsi neanche uno sguardo.
«Vado a cercarlo.»
Fece una risatina di scherno. «E cosa vuoi fare, setacciare tutta Milano? Non riuscirai mai a trovarlo prima che se ne sia andato.»
«Non ce ne sarà bisogno» feci, laconico.
Sapevo esattamente dove trovarlo. Quella catena che teneva ancorati i nostri cuori vibrava e mi avrebbe condotto dritto a lui. Me lo sentivo nelle ossa.
In me era rinata una luce di speranza.
Avevo appena messo un piede fuori dall’uscio, quando mi sentii strattonare.
«Marco, aspetta.»
Quando mi girai, vidi Marta con gli occhi colmi di contrizione e inquietudine, due emozioni che non mostrava volentieri. Avevo fretta, sì, ma pensai che, se non altro, dovevo sentire cosa avesse da dire in sua discolpa.
«Non ho mai voluto farti del male, lo sai che l’ho fatto solo per proteggerti. Tu lo sai che l’ho fatto solo perché ti voglio bene.»
Era talmente sincera mentre lo diceva che non riuscii a trattenere un moto di tenerezza per la mia cara amica. Oh, al diavolo. Perché dovevo volerle così maledettamente bene anch’io? Le schioccai un bacio sulla fronte, per farle capire che nonostante tutto l’avrei perdonata. Tra tutte le persone che mi avevano fatto del male, lei era l’unica che l’aveva fatto con le migliori intenzioni. Quasi mi dispiacque non avercela con lei. Forse, la speranza aveva cancellato in me anche la rabbia.
«Lo so, Marta. Ora scusami, ma vado a recuperare la mia vita.»
 

Mentre correvo per le strade, e sapevo esattamente dove andare a pescarlo, sentii qualcosa di strano nel petto.
Una sensazione indefinibile che mi guidava verso di lui, che mi stava liberando di tutte le catene con le quali avevo tenuto imprigionato il mio cuore per tutto quel tempo. Già immaginavo il sollievo sul suo volto quando gli avrei detto che Marta aveva mentito, che io e lei non stavamo insieme, che non l’avevo dimenticato e che non l’avrei mai fatto. Stavo gettando al vento tutti quei mesi di sofferenza in cui avevo cercato di convincermi che la nostra storia mi aveva portato solo guai. Adesso volevo solo lui.
Avevo un tale bisogno di lui che faceva quasi male.
Io stavo male, e stava male anche lui. Per un attimo, fui così folle da convincermi che il mio malessere dipendesse dal fatto che anche lui era stato male in tutti quei mesi, neanche fossimo indissolubilmente vincolati da un legame, anche a distanza.
Mi arrestai, finalmente ero arrivato dove dovevo arrivare.
Un vicoletto quasi deserto di Milano, zeppo di dolci ricordi. Io correvo anche quella volta, ma allora Michael mi inseguiva. Io lo avevo insultato e lui, per tutta risposta, mi aveva rubato un bacio. Il nostro primo bacio. L’inizio della nostra folle storia d’amore.
Se lo conoscevo come pensavo, l’avrei trovato lì. Amava qualunque cosa avesse per lui un significato importante, che fosse doloroso o meno. E io desideravo con tutto il cuore di essere una di quelle cose importanti.
Giunto in quel vicolo, iniziai a guardarmi intorno. Non lo vidi subito, ma non mi rassegnai. Poco più avanti scorsi una bottega, un deliziosi bistrot con i tavolini sul marciapiede. Osservai con attenzione, volto per volto, finché non lo trovai.

È lui.
Mi si bloccò il respiro.
Era seduto a uno dei tavoli.
Vidi la sua testa riccioluta.
La sua altezza inconfondibile.
Il suo sorriso tutto denti e fossette.
Un paio di enormi occhiali da sole con cui copriva i suoi meravigliosi occhi.
E un ragazzo alto e dinoccolato seduto al tavolo con lui. Un ragazzo che non era Andy.
No, non poteva essere. Sgranai gli occhi.
Quello era il nostro posto, il luogo del nostro primo bacio. Il luogo in cui lo avevo assaggiato per la prima volta. Non poteva aver già trovato un altro da portare lì. Il ragazzo ridacchiava a ogni parola che usciva dalla bocca di Michael e lo guardava incantato.
Qualcosa dentro di me si ruppe, dilaniato dal dubbio e dall’amarezza. Mi sentii preso in giro: ero venuto lì, con il cuore gonfio di speranza, già fantasticando sul momento in cui tutto sarebbe tornato a posto tra di noi, e Michael? Era talmente felice con quel ragazzo, e forse io ero il più egoista degli innamorati se la sua gioia mi fece tanto male, se paragonata al mio sconforto. Pensavo davvero che sarebbe rimasto lì ad aspettarmi tutta la vita senza cercare altri? Perché dovrebbe volere me?
Non ci pensai un secondo di più.
Mi voltai e corsi via, il viso già prontamente rigato di lacrime che versavo sempre, immancabilmente per colpa sua.
Ma non feci che pochi passi prima di andarmi a scontrare con una persona.
Aprii gli occhi e cercai di metterla a fuoco. Era una donna, molto particolare: viso raffinato, occhi azzurri e un adorabile cappottino rosso che esaltava la sua figura esile. Mi scrutò per qualche secondo.
«Marco Mengoni?» chiese, con un accento che non riuscii a identificare.
Annuii. «Sorry» farfugliai. «No time for autografi, sorry
Lei però mi afferrò una mano, non senza una certa invadenza, e mi trattenne dalla mia fuga.
«Why are you crying?» mi chiese.
Perché stai piangendo?
Oh, per favore.
Odiavo quando le fan diventavano troppo ficcanaso. Se erano straniere ancora peggio, visto che con l’inglese avevo qualche difficoltà e dire loro di lasciarmi in pace risultava ancora più difficile. «Nothing.»
Lei guardò oltre, al bistrot con i tavolini. Per un attimo, tirai un sospiro di sollievo: se avesse visto e riconosciuto il grande e splendido Mika avrebbe di sicuro preferito andare da lui, invece che restare qui a tormentare me.
Invece spostò di nuovo lo sguardo su di me, parve anche divertita.
Sfacciata, mi asciugò una lacrima dal volto, con una gentilezza che mi bloccò dallo scostare in malo modo la sua mano. «Oh, I know. You cry for love
Sgranai gli occhi. Ero davvero così trasparente? Come aveva fatto a capire che piangevo per amore?
Il suo divertimento non era denigratorio, anzi, era quasi materno. Sembrava rincuorata dalla mia sofferenza, per quanto quel pensiero fosse strano.
Era ammiccante, il suo sorriso divenne più ampio.
«You have to love him very much if you’re crying for him
Devi amarlo proprio tanto se piangi per lui.
Perché parlava di un lui? Chi si credeva di essere per supporre che il mio amore fosse un lui senza nemmeno conoscermi? Benché non fosse che una semplice supposizione, in quel momento mi parve un affronto.
Feci per allontanarmi, ma lei scoppiò in una risata argentina che mi confuse ancora di più.
«Come here! Nice to meet you, Marco» mi porse la mano e, benché non avessi la più pallida idea di cosa avesse detto, gliela strinsi. «My name is Yasmine.»
Yasmine?
Come Yasmine Penniman?
Mi raggelai di botto. Non poteva essere la sorella, vero?
Non poteva essere la stessa persona che aveva detto a Michael di lasciarmi, minacciandolo di dire tutto al suo fidanzato se non l’avesse fatto. Lei non sarebbe mai stata così gentile con me.
No, mi convinsi che non poteva essere quella Yasmine.
Indicò il tavolino. «And those are my brothers.
Mika, you know him, and Fortuné.»
Oh, no.
Era sua sorella.                                 
E il ragazzo seduto insieme a Michael era suo fratello.
Mi voltai verso di loro e soltanto allora notai quanto in realtà si somigliassero: il fisico magro eppure imponente, i capelli scuri e riccioluti e l’amabile, inconfondibile sorriso dei Penniman. Erano praticamente identici. Quanto ero stato cieco, come avevo fatto a non capirlo subito?
Sentii pian piano la gelosia abbandonarmi (perché di gelosia si era trattato), anche se qualcosa dentro di me rimase spezzato. Per un attimo era tornato il terrore, quella cupa certezza che Michael fosse troppo per me, che presto avrebbe trovato un altro amante che fosse alla sua altezza e che mi avrebbe abbandonato come aveva già fatto in passato.
Ero sempre stato convinto di non essere abbastanza.
Soltanto in quel momento fui capace di vedermi da fuori: un patetico ragazzo che non riesce a rassegnarsi di fronte all’evidenza dei fatti. Ero corso qui aggrappandomi all’illusione che tutto sarebbe andato per il verso giusto, ma mi sbagliavo. Era e sarebbe stato comunque più felice senza di me di quanto lo fosse stato con me.
Cosa avevo io da dargli? Cosa potevo offrirgli che già non avesse? L’amore, l’affetto, il calore, le risate e la felicità: erano tutte cose che possedeva già in abbondanza.
Io potevo causargli solo altro dolore.
Forse, il meglio che potessi fare era sparire.
Yasmine colse i miei dubbi. Non aprì bocca, eppure seppi che aveva capito tutto. Nei suoi occhi color ghiaccio scorsi la stessa affettuosa caparbietà di Marta, lo stesso spirito di una persona che crede di sapere cosa è meglio per te, a ragione o no.
Infatti fece un cenno verso i due fratelli, salutandoli.
Fortuné la salutò calorosamente, e Michael cominciò a fare altrettanto.
Ma non vidi nient’altro.
Perché ero un dannato idiota che ostinatamente si fidava delle sensazioni e dell’istinto, più che della logica. Perché ero un maledetto codardo che aveva paura di essere rifiutato ancora una volta. Perché non ne avevo mai combinata una giusta.
Perché, nonostante tutto, sentivo che il mio posto era tra le sue braccia.
Ma il suo posto era tra le mie?
Pertanto, feci la cosa più stupida, insensata, irrazionale che potessi fare.
Scappai.

 

 

 

La soffitta dell’autrice:
BUON NATALE!!!
Non uccidetemi.
Questo doveva essere l’ultimo capitolo, ma stava venendo fuori troppo lungo, così ho dovuto dividerlo in due parti. Spero che la seconda arrivi al più presto.
Passate un Natale felice (ringrazio comeunangeloallinferno94 come al solito, cosa farei senza di lei?) e… a prestissimo!
Ah, e comunque è vero che inizialmente il "Lotto per amore" di Guerriero doveva essere un "Lotto per onore". Tanti biscotti a tutti quanti ♥


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Capitolo 13
*** Senso ***


Senso [Il senso è la facoltà di "sentire", cioè di percepire l'azione di oggetti interni al corpo o esterni ad esso. È la consapevolezza di ciò che avviene sentendo.]

 
Mika’s POV

 
Un infarto
, fu la prima cosa che pensai in quel momento.
C’erano tutti i segnali: il mio cuore perse un battito, il fiato mi venne a mancare e mi sentii improvvisamente stordito. Ma sapevo benissimo che quei sintomi non erano causati da un qualche malfunzionamento all’interno del mio corpo, no.
Avevo appena guardato di fronte a me.
E avevo visto Marco.
Accanto a mia sorella Yasmine.
Non ebbi neanche il tempo di chiedermi cosa ci facesse con mia sorella, o di valutare l’opzione che la mia reazione fosse dovuta a una causa diversa dall’arresto cardiaco, che io e Marco ci ritrovammo a fissarci. Occhi negli occhi, potenti come uno sparo dritto al cuore che mi mozzò il respiro. E poi, all’improvviso, lui scappò. Proprio così, scappò via.
E io mi ritrovai seduto, a fissare il vuoto, paralizzato dallo shock. Non ero preparato, mi aveva colto alla sprovvista. Il mio cervello mandava impulsi al mio corpo, implorava il mio cuore già provato di alzarmi e andargli dietro.
Dopo un attimo che parve infinito, mi lanciai al suo inseguimento.
Non ebbi che quel breve istante per riflettere che subito mi ritrovai, ancora una volta, a misurare a grandi passi le strade di quel vicoletto freddo e isolato che conoscevo fin troppo bene. Nella mia mente, una litania persistente ripeteva il suo nome. Marco, Marco, Marco. Ti prego, pensai, fa che riesca a raggiungerlo.
Annaspai nel bisogno di arrivare a lui, di poterlo toccare, faceva quasi male quanto lo desiderassi, e il mio petto, il mio petto era in piena esplosione, uno scoppio continuo che presto si propagò fino ai miei occhi, così che un velo di lacrime li ricoprì.
Qualcosa mi diceva che non avrei dovuto rincorrerlo. Stava scappando, probabilmente da me, e il solo pensiero mi straziò il cuore. Per un secondo comandai alle mie gambe di cedere, ma non ne vollero sapere di fermarsi, perché non era ciò che volevo in realtà: l’avrei rincorso fino in capo al mondo pur di poterlo rivedere anche solo per un istante, per riuscire a dirgli tutto ciò che non ero mai stato capace di confessargli.
Dovevo. Ne avevo talmente bisogno da star male. Non ce la facevo più.
Corsi ancora, mi spinsi ben oltre i miei limiti, finché non mi ritrovai la gola secca, la vista appannata e i muscoli irrigiditi dallo sforzo. Il mio petto bruciava e implorava aria.
Fu allora che lo raggiunsi.
Mi allungai il più possibile, fino a toccare la stoffa ruvida e morbida della sua giacca e, non appena l’ebbi a portata di mano, la strattonai verso di me. Colto di sorpresa, Marco non poté evitare di farsi trascinare all’indietro, allora lo presi per un braccio e lo inchiodai al muro.

Gli sfuggì un urlo, forse di sorpresa, o forse di dolore. Mi sentii morire nel timore di avergli fatto male, di essere stato troppo violento.
«Marco, sta bene?» gli chiesi senza pensare, tanto ero spaventato.

Neanche mi rispose, si limitò a dimenarsi e a cercare di sfuggire alla mia presa. «Lasciami.»
«No Marco, aspetta, io …»
«Ti ho detto di lasciarmi!» strillò, furioso. Tentai di far incrociare di nuovo i nostri sguardi, ma i suoi occhi continuavano a fuggire da parte a parte. Il pensiero che potesse non sopportare la mia vista mi inferse una stilettata in pieno petto, ma non demorsi. Non potevo.
Finalmente Marco era lì, davanti a me, dopo tutto quel tempo passato a sperare di rincontrarlo, era accaduto. La gioia e il dolore si contendevano il posto nel mio fragile cuore, che sentii pronto a spezzarsi da un momento all’altro.
«Aspetta, please» provai a convincerlo.
Sembrò che gli avessi detto di andare al diavolo.
Sollevò la testa di scatto, riuscendo a divincolarsi, premette le mani sul mio petto e mi spintonò con forza, ringhiando: «Vattene.»
Arretrai involontariamente di qualche passo e per un istante vacillai pericolosamente, prima di riprendere prontamente l’equilibrio.
Sotto i miei occhi, Marco cambiò repentinamente: mi guardò e tese automaticamente la mano per arrestare la mia caduta. Quando però si rese conto di ciò che stava facendo, ossia cercare di aiutarmi, si ritrasse all’improvviso e trasalì, come se si fosse appena scottato.
Inutile dirlo, comprendevo appieno quella sensazione.
Ciononostante, mi risentii e non poco. Il petto ancora mi doleva per la violenza di quel gesto, e non mi riferivo soltanto alla spinta. Il fatto di volermi allontanare in tutti i modi, anche a costo di farmi male, non era un gesto da Marco.
Era cambiato, e non ci voleva certo un genio per capirlo. Il Marco che conoscevo non avrebbe mai fatto una cosa del genere, neanche contro la persona che odiava di più al mondo.
Mi venne da piangere. Quanto avevo sperato in quel momento? Quante volte mi ero ritrovato a sognarlo, nella veglia così come nel sonno? Nella mia immaginazione, lui era felice di rivedermi, ma nella realtà i suoi occhi erano vacui e timorosi, come se avesse paura di qualcosa. E non voleva neanche che io lo toccassi. Gli facevo schifo.
«Scusa» esalò, con un filo di voce.
Scossi la testa. Anche io l’avevo spinto contro il muro prima e gli avevo fatto male, eravamo pari. «Tu scusa.»
Rimase lì di fronte a me per un secondo, boccheggiando in cerca di parole da dire. Poi, come se quel singolo vocabolo gli pesasse, ripeté: «Scusa.»
E corse di nuovo via.
Stavolta, però, fui abbastanza rapido da trattenerlo per un polso.
Non l’avrei lasciato andare di nuovo.
Di nuovo cercò di liberarsi dalla mia stretta, furiosamente. «Ti prego, lasciami andare» mi supplicò, al limite della disperazione.
Volevo piangere. Quanto era giusto trattenerlo contro la sua volontà per il mio egoismo? Cosa dovevo fare? Se non gli avessi detto la verità, se non avessi dato voce al mio silenzio, me ne sarei pentito per il resto della vita. Ma vederlo agitarsi come un animale in gabbia per colpa mia era straziante. Non sapevo cosa fare.
Alla fine, in preda al panico, dissi l’unica cosa che mi venne in mente. «Ascolta me.»
«Non voglio» strepitò.
Insistei, con la voce che mi si spezzava. «Tu ascolta me ora e poi tu può andare per sempre e io e te no vede mai più, ok? Però ascolta, ti pleaso
I suoi movimenti si fecero pian piano più mansueti. Il mio cuore si strinse in una morsa d’acciaio nell’attesa che decidesse cosa fare. Se cerca ancora di scappare, pensai stringendo forte i denti, non lo trattengo oltre.
Invece Marco si girò, facendomi mollare la presa. I suoi occhi, il suo viso, esattamente come la sua voce, erano imploranti. Non capivo, non riuscivo a capire il perché di quell’espressione, o di quell’emozione. Cosa mi stava chiedendo, implicitamente? Avevo perso del tutto la capacità di comprenderlo?
O forse non l’avevo mai avuta?
«Parla» fece, stringendosi nelle braccia e tenendo le distanze. «In fretta.»
D’istinto feci per avvicinarmi, ma mi arrestai. Ero terrorizzato: un gesto inconsulto, una parola di troppo, potevano farlo allontanare da me. Avevo un’unica possibilità per fargli capire cosa sentivo per lui. Non potevo sprecarla. Tic toc, tic toc, il tempo scorreva.
Eppure, per quanto ci provassi, le parole non mi uscivano fuori di bocca. Provai a visualizzarle nella mia mente, ma mi apparvero confuse e tutte sbagliate, come se nessuna di esse fosse adatta.
Marco mi guardava, in attesa. Se avessi detto troppo, se ne sarebbe andato. Se non avessi detto nulla, se ne sarebbe andato.
Mi sentii perso.
Presi un bel fiato e, tremando dall’angoscia, tentai semplicemente di far fuoriuscire la verità che serbavo dentro di me, che avevo tenuta segreta per troppo tempo.
«Io sa che tu è uomo fidanzato ora, e io è felice se tu è felice» cominciai, sincero. «Ma tu mi ha detto che io no tornava se io no ti amava. Io è qui ora, e tu sa perché.»
Scosse la testa.
«Sì che lo sa» riattaccai. «Io ti amo, Marco. Forse tu no ama me più, forse tu pensa che io ha solo sexo da te, ma no è vero. Io ti amava prima e ti amo ora. Sì, io è stato stupido, perché io lasciato qui te, però io ti amo. E poi tu ora è felice no?»
«Felice?» mi interruppe.
Fece una risata, che suonò falsa e stridente alle mie orecchie.
Ecco la mia paura più grande realizzarsi davanti ai miei occhi: Marco non voleva ascoltarmi. Ciò che avevo da dirgli, ciò che avevo nel cuore non gli interessava più. Io non gli interessavo più.
Anzi, peggio, forse non mi amava più.
Avrei dovuto capire che mi aveva dimenticato quando Marta mi aveva detto che stavano insieme, e invece no! Io stupido, illuso, ostinato e malato d’amore avevo sperato invano che le cose potessero tornare come prima. Ero venuto fin lì, con il cuore gonfio di illusioni, da bravo idiota quale ero. Era logico che non mi volesse più, ci sarebbe arrivato chiunque, ma non io. Perché ero uno stupido che non capiva mai quando era il momento di fermarsi, che non capiva quando abbastanza era abbastanza. Mi sentii talmente umiliato.
Marco, però, non aveva ancora finito.
«Felice? Tu non hai la più pallida idea di come io mi sia sentito in questi mesi!» mi urlò praticamente in faccia, facendosi più vicino. Eppure mi era sembrato che volesse tenermi a distanza, poco fa.
«Marco» lo richiamai.
«No! Ora tu mi ascolti» si impose, con il tono di chi non ammette repliche. «Per tutto questo tempo sono stato malissimo. Mi hai capito? Malissimo. Non ho fatto che pensarti e mortificarmi perché mi dicevo sempre che avevi fatto bene a scegliere Andy, perché io non ero alla tua altezza e non avrei fatto altro che rovinarti la vita.»
Non fece che indicarmi mentre parlava, come se mi stesse accusando. Anzi, era proprio ciò che stava facendo. Di fronte alla sua rabbia mi sentii minuscolo, impotente, quasi spaventato da quanto quelle parole fossero vere. Avrei voluto fare qualcosa per calmarlo, ma non sapevo cosa, e ancora una volta mi sentii completamente smarrito. Avevo solo voglia di scoppiare a piangere e implorare il suo perdono per qualunque cosa gli avessi fatto, scioccamente, egoisticamente.

Marco vide le lacrime che si affacciavano dai miei occhi, e seppi che le aveva viste perché fece una pausa prima di continuare a parlare. «Non ho mai saputo che eri venuto in Italia prima di stamattina.»
Mi impietrii e sgranai gli occhi. «Mai?»
Scosse la testa. «Marta me l’ha tenuto nascosto. Ma quando l’ho scoperto sono subito corso in questo vicolo, non so perché ma sapevo che ti avrei trovato qui» un sorriso indugiò sulle sue labbra, prima di spegnersi, come una tremula fiammella. «Mi ero illuso che tutto potesse tornare come prima. Che sciocchezza.»
Abbassai lo sguardo. Non ebbi il coraggio di spiccicare una parola, non ero nemmeno sicuro di voler sapere come continuava quel discorso. Un sapore amaro e pungente mi invase la gola, poi le labbra e salì fino a impregnarmi le narici, fino a giungere ai miei occhi e a farmi piangere, benché non volessi. Presto le lacrime corsero lungo le mie guance. Non volevo, ma come trattenermi?
Mi era mancato, come l’aria che respiravo.
In tutti quei mesi non avevo fatto che desiderarlo. La notte lo avevo cercato al mio fianco, di giorno lo avevo cercato per le strade sperando, chissà, che avesse perdonato tutti i miei sbagli e che fosse venuto per ricominciare. Il vuoto che aveva lasciato nel mio cuore faceva male, era un dolore lancinante che mi impediva di vivere serenamente la mia vita.
Certo, io amavo Andy, lo amavo con tutto il cuore, ma non potevo vivere senza Marco. Con Andy la mia vita era piena, sì.
Ma senza Marco non aveva il benché minimo senso.
«Marco» provai a richiamarlo di nuovo.
Ma lui non ascoltò. Ormai aveva iniziato a parlare e non si sarebbe fermato nemmeno di fronte al mio dolore. Io mi ero forse fermato di fronte al suo quando mi aveva implorato di restare? No, e ora lui era sordo alle mie suppliche.
«Io non voglio che noi torniamo come prima» disse, con fermezza.

Dolore.
Non il dolore invasivo e bruciante di una scottatura.
Non il dolore pulsante e perpetuo di una contusione.
Un dolore sordo, intenso, vuoto fu quello che sentii. Il dolore di un crack, di un cuore che va in frantumi. Il dolore di chi non sente più niente dentro, se non il freddo del nulla.
Mi venne a mancare il fiato, così intensamente e così improvvisamente che tutto intorno a me per un attimo vorticò. Presi una gigantesca boccata d’aria per eliminare quella sensazione di chiusura che provavo alla base della gola e, così facendo, liberai un singhiozzo involontario.
«Perché?» gli chiesi, con un filo di voce.
Non mi importava se mi stavo dimostrando debole, non mi importava se il tempo che stavo spendendo per aggrapparmi a lui con le unghie e con i denti era tempo sprecato.
Io lo amavo da morire, e forse il problema era che non ero capace di rinunciare a lui.
Come lui aveva fatto già da tempo con me.
Sospirò. «Perché non facciamo che ferirci a vicenda, e poi non hai bisogno di me, seriamente. Voglio dire, hai Andy, le tue sorelle, tuo fratello, tua madre, a cosa ti servo io?»
Mi morsi forte il labbro. Non poteva dirlo sul serio, non poteva credere di essere un mero riempitivo nella mia vita.
Scosse la testa e abbassò lo sguardo. «È molto meglio se stiamo lontani.»
«Meglio per chi?» feci a un certo punto, al limite della sopportazione.
«Meglio per te» sbottò.
E mi guardò.
Ci ritrovammo di nuovo occhi negli occhi, i suoi erano pieni di lacrime proprio come i miei, la sua bocca tumida e tremante come la mia. Quel contatto visivo mi penetrò nel profondo ancora una volta. Eravamo talmente simili in quel momento. Uno specchio perfetto.
«Tu non capisci, va bene?» si giustificò. «Ora tu credi di volermi, ma prima o poi ti passerà, vedrai. Lo sai che non porto a niente di buono. Che cosa ho io da darti? Menzogne, sofferenza, una seconda scelta di cui presto o tardi ti stancherai? Non ti conviene, fidati.»
Improvvisamente, sentii le labbra secche e la gola arsa, il fiato che a malapena entrava e usciva. Non potevo crederci: voleva proteggermi da se stesso? Era questo che stava cercando di dirmi? Per questo era scappato?
«Io no mi stanca di te» lo rassicurai.
Alzò gli occhi al cielo. «Sì invece, è già successo.»
Scossi la testa, sempre più forte. No, no, no! Non poteva essere. Se la sua incertezza fosse dipesa da me sarei riuscito a convincerlo, a fargli capire che ero cambiato e che sarei cambiato ancora se solo lui me l’avesse chiesto. Ma era da Marco che dipendeva. Era Marco a sentirsi insicuro di se stesso, di noi. Pensava di non potermi dare felicità, quando invece la mia felicità era lui.
«No è successo» replicai. «Io no mi può stancare mai de te. Io ti amo.»
Emise un gemito frustrato, come se non sopportasse di sentire quelle tre semplici parole e, come faceva sempre quando era agitato, iniziò a straparlare. «Sì invece, ti stancherai e sai che ti dico? Farai bene, e io non potrò mai biasimarti. Io faccio stancare tutti quanti, perché sono uno stupido, un illuso, un tale fallimento che non so fare bene neanche l’amante! Neanche gli amici so scegliermi, visto che Marta mi ha allontanato da te anche quando volevo incontrarti, e ti ha fatto credere che io e lei stavamo insieme anche se non è vero. E io sono talmente patetico che non riesco a smettere di essere innamorato di te neppure volendo anche se ci ho provato per tutti questi fottuti mesi!»
«Marco, stop!» gli urlai.
Rabbrividii.
Era tutto così simile all’ultima volta, eppure totalmente diverso al tempo stesso, tanto da farmi quasi paura. Io ero terrorizzato, Marco vomitava tutti i suoi sentimenti senza riuscire a trattenersi, io avevo una voglia matta di baciarlo.
Stavolta, però, non sarei stato così egoista da pensare soltanto a me e alla mia felicità.
No, stavolta al primo posto avrei messo Marco.
Cercai di registrare tutte quelle informazioni in una volta.
Marco e Marta non stavano insieme per davvero.
Marco mi amava ancora.
Marco non voleva che stessimo insieme perché non si reputava alla mia altezza, anche se sinceramente sentivo che era tutto il contrario. Ero forse io a non essere degno di quell’uomo meraviglioso.

Marco mi ama ancora.
Come un incantesimo, i pezzi del mio cuore si ricomposero tutti in una volta e il mio petto riprese a pulsare forte d’amore per lui. Mi sentii vivo.
Cercai i suoi occhi, ormai traboccanti di lacrime. «Marco, guarda a me.»
Lui agitò le braccia di fronte a sé. «Dimentica quello che ti ho detto, ti prego» farfugliò. «Non ha senso.»
«With you everything makes sense» ribattei.
Non sapevo come si dicesse in italiano, ma era vero. Con lui tutto aveva senso.
Sollevò il capo e, dimentico delle lacrime e della situazione, mi guardò stupefatto.
Non ne ero certo, ma forse avevo ancora una possibilità, non potevo sprecarla.
Forse non era tutto perduto.
Mossi un passo verso Marco, che istintivamente si ritrasse. Mi bloccai.
«Io e te può recomenciare» iniziai a dire, con cautela. «Se tu vuole, io vuole tanto, io ti amo e io ti promesso che io può essere migliore lover... no. No più lover. Io può essere migliore love che prima.»
Fece vigorosamente cenno di no con il capo. «No, te l’ho già detto, non voglio che…»
«Io ti promette che no è come prima» lo interruppi. «Io sta con te più che io può, io ti dice sempre, sempre verità. Ti fa stare bene sempre, ti amo tutti giorni e tu no è seconda scelta mai. Tu è mio senso.»
«Cosa?» chiese, confuso dalla mia ultima affermazione.
Ero un po’ confuso anch’io, ma il cuore mi palpitava così forte da rendermi difficile persino pensare.
«Io vuole dire che» presi un profondo respiro. «Io ti amo, tu me ama, noi vuole stare insieme. È tutto molto chiaro, no c’è niente da capire.» 
Si morsicò le labbra, mi fissò con gli occhi spalancati, sembravano infiniti tanto erano profondi. Passammo non so quanto tempo a fissarci, entrambi in lacrime.
Ora non c’erano trucchi, non c’erano maschere o fraintendimenti.
Eravamo nudi, esposti. Io, lui e i nostri sentimenti. Carte in tavola, ma senza possibilità di barare. Qualunque scelta avremmo fatto, non avremmo potuto dare la colpa a nessuno, né al destino, né agli altri, né agli eventi o a chissà cosa. Io e Marco. Nient’altro.
Ero così in tensione da tremare: le mani, le labbra, le ciglia, le gambe. Ero tutto un intenso ed enorme brivido.
Ero in bilico su uno spuntone di roccia, con Marco.
Potevamo cadere e farci male, sentendo il brivido del volo mano nella mano. Oppure potevamo restare al di qua del limite, del rischio, dell’amore.
Sì. Potevamo, come non potevamo, cadere in amore.
«Ho paura» mi confessò, con voce flebile.
«Anch’io» ammisi.
Marco puntò i suoi occhi in basso, come se si stesse guardando i piedi. Così era, capii nel momento in cui mosse un passo verso di me.
Spalancai la bocca, incredulo. Stava accadendo, non stavo sognando, vero?
Rimasi fermo, immobile, una statua di sale. Avevo il terrore di muovermi e metterlo in fuga, perciò rimasi dov’ero e lasciai che Marco mi raggiungesse.
Alla fine giunse di fronte a me.
I nostri sguardi si incrociarono il tempo di un sospiro.
Poi Marco crollò. Si gettò sul mio petto e si aggrappò letteralmente a me, prendendomi alla sprovvista. Lo fissai, sconcertato dal suo gesto: averlo di nuovo su di me fu una sensazione talmente forte che, mi sembrò incredibile, piansi e risi al tempo stesso. Avvertii i sussulti ritmici delle sue spalle e capii che stava singhiozzando, così lo avvolsi tra le mie braccia e lo strinsi, tanto forte che per un attimo temetti di avergli fatto male.
Esisteva forse una sensazione più bella, appagante, liberatoria?
No. Impossibile.
Affondai il volto nei suoi capelli morbidi e inspirai forte, l’odore chimico e dolciastro del suo shampoo permeò le mie narici. Il suo corpo era caldo e fremeva, come se stessi abbracciando energia in movimento, vita pura che stringevo a me.
Marco parlò tra i singhiozzi, tartagliando come suo solito: «Non lasciarmi più da solo.»
Sorrisi, con il cuore che si faceva talmente leggero da spiccare il volo da sé.
«Mai più amore. Ora è tutto bene.»
Poi lui si sollevò e, meravigliandomi, posò le sue labbra sulle mie con impeto.
Mi sentii improvvisamente vivo. Le sue labbra sapevano di caffè, esattamente come la prima volta, e io le assaporai completamente da cima a fondo. Mi era mancata quella sua bocca famelica dal sapore amaro e al contempo salato, per via di tutte le lacrime versate, e la cosa mi mandò in estasi perché anche la prima volta era così. Mosse le sue labbra freneticamente, mille brividi si spansero su ogni centimetro del mio corpo. Ci baciammo a lungo, come per recuperare il tempo perso. Come avevo fatto a privarmene per tutto quel tempo? Come avevo osato anche solo pensare che avrei potuto farne a meno? Lo sentii sorridere nel bacio, e di riflesso lo feci anch’io.

Ora è tutto bene. Ogni cosa era tornata al suo posto
E ci credevo veramente.
Sarebbe andato tutto bene. E avremmo anche sofferto, questo lo sapevamo benissimo, ma perfino il dolore di una caduta sarebbe parso più dolce insieme a Marco.
Il mio mondo aveva ripreso colore e calore, vita, speranza, gioia.
Il mio mondo aveva ripreso l’amore.
Anzi, aveva di nuovo senso.
 

Yasmine’s POV
 

La vidi prima che lei vedesse me.
I capelli biondo grano, l’incedere taurino, gli occhi gelidi e furenti. Esattamente come me l’aveva descritta Mika.
Le andai incontro sbarrandole la strada. Mi disse qualcosa in italiano, parlandomi duramente, e fece per scansarmi.
«Tu sei miss Marta Donà?» le domandai, in inglese.
Mi fissò come se le avessi chiesto se aveva dei tentacoli al posto delle giunture.
«Sì, sono io» mi rispose. La sua voce era dura e vagamente indolente, come il suo aspetto.
«Sono Yasmine Penniman, piacere» le tesi la mano e lei fece per stringermela, finché non le dissi il cognome. Allora si ritrasse e parve infervorarsi.
«Yasmine Penniman? Cioè, sei la sorella di Mika?»
«Sì, sono io!»
Imprecò. Forse non ero esattamente un asso in italiano, ma sapevo riconoscere un’imprecazione quando la sentivo.
«Stai cercando mio fratello, miss Marta?»
Annuì frettolosamente, evidentemente era una che non perdeva tempo.
Mika mi aveva detto le precise parole da usare nel caso l’avessi incontrata, e io non ne avrei detta né una di più né una di meno.
«Mi ha detto di dirti che lui e Marco sono tornati insieme, che sono molto felici e che niente di quello che tu farai o dirai potrà cambiare qualcosa. E ha aggiunto, e cito testualmente, alla faccia tua
Sgranò gli occhi e fece un’espressione talmente furibonda che mi ricordò mia madre quando scoprì che avevo mollato l’università per iscrivermi a un corso di pittura, disegno e scultura. Qualcosa alla Mostro di Loch Ness.
Lanciò un urlo frustrato. «Cosa significa, che sono tornati insieme?»
«Insieme. Hai presente? Baci, abbracci, tante carezze in parti del corpo che sarebbe molto sconveniente nominare…»
Lanciò un altro urlo, più forte del precedente. Non fosse stata così arrabbiata, mi sarei complimentata per l’estensione da soprano.
«Lei lo sapeva? Li ha visti? Perché non li ha fermati?» cominciò a sparare domande su domande.
La guardai dolcemente. «Perché non sono affari nostri, miss Marta. Ci ho messo un po’ a capirlo, ma alla fine sono giunta alla conclusione che sono due uomini adulti e vaccinati. Che facciano i loro errori, se devono. È la loro vita, no?»
Mi guardò come se volesse prendermi a schiaffi, ma sapevo perfettamente che non l’avrebbe fatto: era pur sempre una signora, per l’amor del cielo.
«Yasmine» iniziò, cercando di mantenere la calma. «Cosa le fa pensare che sia una buona idea lasciare che suo fratello, un uomo fidanzato, vada in giro per il mondo a cercare altri boxer in cui infilarsi?»
Le sorrisi spontaneamente. «Io ritengo che sia giunto il momento.»
«Il momento di cosa?»
«Di farti una vita tua.»
E, detto questo, uscii di scena. Più tardi, avrei scoperto che lei non si era presentata a casa di Marco come avevo sospettato. Che progresso.
 

Mika’s POV
 

L’appartamento di Marco era piccolo e disordinato, lo adoravo.
Eravamo rimasti lì per tutto il giorno, più che altro a parlare di ciò che ci era successo in quei mesi di lontananza. Con il pensiero sempre rivolto l’uno all’altro, avevamo avvertito un comune senso di vuoto, un’amarezza perenne. Avevamo scritto canzoni per consolarci, avevamo ritrovato amicizie che però non avevano sopperito alla mancanza. Avevamo pianto per amore, io forse più di Marco e la cosa lo fece ridere, visto che, disse così, in genere il piagnone della coppia era lui.
A quel punto l’avevo guardato e avevo sorriso. Ci aveva appena definiti una coppia, o avevo sentito male?
Marco era arrossito e, oh, quanto era bello, aveva fatto un sorriso a trentadue denti che mi aveva fatto venir voglia di baciarlo fino allo sfinimento. E così fu.
Parlammo, scherzammo, un paio di volte andammo vicini alle lacrime, ci confortammo a vicenda e ci baciammo, moltissimo. Lo feci ridere e potei nuovamente ascoltare quella risata così sguaiata e verace che mi faceva impazzire e, per un bel po’, non facemmo che stringerci e baciarci, talvolta concedendoci delle carezze dolci e proibite insieme, tali da farci sospirare e desiderare che calasse la notte. Capii che era arrivata soltanto quando il buio divenne così intenso da impedirmi di distinguere i lineamenti del suo volto.
«Vado a accende luce» mi proposi.
Ma Marco mi inchiodò sotto di sé e tornò a torturare le mie labbra e a consumarle di baci, cosicché non ebbi più la forza di respingerlo. Non diceva sempre che per essere perfette, le cose avevano bisogno del buio?
Le sue mani mi toccavano dappertutto, facendomi perdere il senno, dopo un po’ le sentii strofinarsi contro il mio collo e sulle mie guancie, erano gelide e lui cercava dolcemente il mio tepore. Posò le sue labbra sul mio orecchio.
«Sei così caldo» sussurrò, facendomi avvampare.
Non potevo resistere oltre.
Mi sollevai e gli afferrai le mani, poi lo trasportai in camera da letto. Ancora ricordavo dov’era.
Marco si lasciò guidare in modo talmente amabile, finché non inciampò in qualcosa. Non avrei saputo dire cosa, il suo appartamento era tutto un caos. Perse l’equilibrio e fece per cadere, ma fui abbastanza pronto da afferrarlo e tenerlo saldamente tra le mie braccia. Sorrisi, pensando che non era la prima volta.
«Preso.»
Sollevatosi, Marco iniziò a baciarmi, con foga e impeto, finché non arrivammo in camera e lui mi gettò sul materasso. Si mise su di me: la poca luce che filtrava dalle tapparelle mi permise di scorgere il suo viso, le sue mani forti sui miei fianchi esili, il suo sguardo, incerto e innamorato, che scavò dentro di me fino a strapparmi il cuore dal petto. Mi levò la maglia e i pantaloni così velocemente che non ebbi nemmeno il tempo di posare le mani sui suoi indumenti, che mi premurai di sfilare con tutta calma dopo che lui ebbe spogliato me. Poi passai ai boxer, che calai facendo attenzione a percorrere le sue gambe con le dita. Lo sentii gemere e pensai che un suono più eccitante non fosse mai esistito. Quando fu lui a levarmeli, per poco non me li strappò via di dosso.
Tra poco saremmo stati di nuovo una cosa sola, e il mio intero corpo era in tensione all’idea. C’era qualcosa di speciale quella notte, qualcosa che non saremmo mai stati capaci di replicare. Me lo sentivo.
Mi preparò frettolosamente, tanta era la smania che avevamo. Poi mi guardò, come per pormi una domanda. L’ultima volta che avevamo fatto l’amore in quel modo mi aveva fatto male ed era terrorizzato al pensiero di farlo ancora, ma io annuii in risposta: mi fidavo di lui.
Così Marco entrò dentro di me.
Il dolore era penetrante, ma fu ben poca cosa se paragonato al piacere. Non era affatto come l’ultima volta. Mi diede giusto il tempo di abituarmi alla sua presenza, e subito iniziò a spingersi nelle mie carni, incollando le sue labbra alle mie.
Fu pura vertigine che fece vorticare ogni cosa intorno a me, fin da subito cominciai a gemere e a stringere forte quelle braccia, che a loro volta strinsero forte me.
Dov’era finito il mio Marco dolce e impacciato?
I suoi movimenti erano selvaggi, forti, impetuosi. Boccheggiai, facendo separare le nostre labbra, e lui ne approfittò per scendere sul mio collo e prendere a leccarlo vigorosamente. Lanciai un piccolo urlo. Era una sensazione estrema: ero totalmente in balia del suo volere, del suo istinto animale. Quello era il suo modo di fare l’amore. E mi inebriava.
Si avvicinò fino a far aderire i nostri petti, le sue mani scesero a esplorarmi con frenesia le cosce e i glutei. Marco non si preoccupava di essere eccessivo o volgare, e non lo era. Era passionale come non avrei mai immaginato potesse essere. Il suo corpo da freddo divenne caldo, quasi bollente, ben presto mi ritrovai circondato da lui: confortato ed eccitato insieme, non mi era mai accaduto prima.
Iniziò a gemere dolcemente il mio nome. Il mio nome completo, mi chiamò Michael. Sulle sue labbra, divenne pura melodia. Mi sollevai fino a baciare la sua spalla e la sua clavicola e lo sentii tremare e fremere su di me.
Volevo parlare, dirgli qualcosa, ma ero talmente preso dal piacere che non riuscii a non urlare, ancora e ancora, la mia bocca era piena del suo nome come le mie narici lo erano dell’odore naturale della sua pelle, così forte e virile da stordirmi. Quello che aveva impregnato le mie coperte fino all’ultimo secondo del nostro passato.
Quando alla fine si spinse dentro di me, facendomi venire con un urlo violento, e gli graffiai la pelle nell’estasi dell’orgasmo, mi accasciai sul letto, madido di sudore.
Ripresi fiato qualche secondo, mentre ancora Marco cercava di arrivare al culmine a sua volta. Quando ciò avvenne e lui si riversò caldo dentro di me, gli presi il volto tra le mani costringendolo a guardarmi, i suoi occhi puntati su di me erano così belli. Quelli non erano cambiati di una virgola.
«Tu può chiamare Mika» ansimai, rivolgendogli un sorriso.
Ricambiò. Da quando eravamo tornati a casa sua, non aveva fatto altro che sorridere e il mio cuore era sul punto di scoppiare. Quanto era bello. Quanto lo amavo.
«Mi piace chiamarti Michael» sollevò le spalle. «Ormai ci ho fatto l’abitudine.»
Semplice. Con Marco era tutto così semplice, e al tempo stesso così complicato. Delle folli montagne russe, questo era l’amore con lui.
Marco si distese sul letto. Immediatamente poggiai la mia testa sul suo petto e lui mi avvolse tra le sue braccia così confortanti. Sapeva quanto adorassi stare in quel modo.
«Io ricorda ancora prima volta che tu chiamato Michael» tracciai dei cerchi sul suo petto.
«Davvero?»
Annuii. «Tu ha detto così piano, come se è cosa segreta mio nome.»
«Mi sentivo speciale, sai?» posò le sue labbra sulla mia fronte. «Come se io fossi l’unico amico che avevi sulla faccia della terra, l’unico che poteva chiamarti così.»
Mi sollevai e gli schioccai un bacio. «Io ti amo, Marco.»
«Anche io ti amo.»
Restammo in quel modo per un po’, ero quasi sul punto di addormentarmi, pago e sfinito, nella piena orgia dei sensi, ma tenuto sveglio dai ricordi.
L’odore di Marco, il nostro stare occhi negli occhi, il sapore delle sue labbra… tante cose di quel giorno mi avevano portato indietro nel tempo. Era come se avessimo ripercorso la nostra storia d’amore, negli insignificanti particolari che l’avevano composta. Dal momento in cui ci eravamo innamorati a prima vista fino a quando il suo odore era scivolato via dalla mia pelle, avevamo e avremmo rivissuto tutto.
Perché noi eravamo questo. Vivevamo di piccoli istanti e brevi momenti che parevano senza senso, tanto erano piccoli e apparentemente senza importanza. Eppure per noi ce l’avevano, un senso. Noi eravamo in quello sguardo d’intesa, in quella parola detta sottovoce ed eravamo in quell’aroma di caffè. Eravamo nel dolore più intenso, nel profumo più forte e nella caduta che ci aveva colti di sorpresa. Eravamo nelle notti statiche, il gelo nelle mani e il calore sulle guance. Eravamo noi in ogni cosa, eravamo vita. Eravamo amore.

E questo non aveva mai avuto senso per nessuno. Per nessuno tranne che per noi.

Ma ora, ora eravamo pronti a ricominciare. Nuovi sapori, nuovi dolori, nuovi sguardi, nuove sensazioni. Nuovi futuri.
Potevamo farlo. E stavolta Marco non sarebbe stata la mia seconda scelta, né la prima: Marco sarebbe stata la mia scelta, l’unica possibile. Avrei scelto l’amore.
Perché con lui, l’amore aveva senso. Anzi, con lui l’amore era un senso.
«Michael?» mi chiamò dopo un po’.
Mugugnai, aveva interrotto il filo dei miei pensieri. «Sì?»
«Se tu fossi un guerriero, per cosa lotteresti?»
Aggrottai la fronte: era una domanda bizzarra. Che idee si faceva venire in mente quel matto, in piena notte, dopo aver fatto l’amore?
Il mio Marco poteva avere un aspetto diverso, una diversa attitudine, poteva fare ciò che voleva. Ma restava sempre il solito, piccolo, adorabile sciocco di cui sarei sempre stato pazzamente innamorato.
«Io lotterei per amore» risposi, senza esitazione.
Annuì, parve soddisfatto.
«Già» rispose, e prese ad accarezzarmi i capelli.
Quel movimento ritmico, il suo respiro regolare, mi cullarono fino a condurmi dolcemente nel mondo dei sogni. Anche Marco, a modo suo, era la mia casa, il mio rifugio, il mio sempre che mi faceva sentire al sicuro. Io amo quest’uomo.
«Per amore» udii prima di addormentarmi. «Piace anche a me.»

 

 

 

La soffitta dell’autrice:
L’ultima soffitta dell’autrice.
Già, ABBIAMO FINITO GENTE! Scusate il mio ritardo di quasi un mese, ma ho dovuto riscrivere il capitolo tre volte perché volevo che fosse perfetto, e tra le vacanze, la scuola, un’influenza da manuale e altre varietà… oh beh, l’importante è che sia finita.
Ho iniziato questa fanfic all’incirca quattro o cinque mesi fa, con il terrore che non avrei avuto la costanza di continuare. Invece ce l’ho fatta, e sono abbastanza orgogliosa di me stessa.
Il mondo ha bisogno dei Mirco.
Ringrazio i miei recensori più fedeli: _Lollipop_96; ayumi_L; xtizianosveins; Life In Fangirl Motion; Michaels e tutti coloro che hanno recensito a tratti. Vi voglio bene.
Grazie a chi l’ha messa tra le seguite, tra i preferiti e chi più ne ha più ne metta.
Infine, il grazie più grande va alla mia favolosa beta la mia comeunangeloallinferno94. Sei un marshmallow

Quindi, alla prossima fanfic. Vi adoro tutti. Baci

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