With you everything makes sense di _Even (/viewuser.php?uid=42509)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vista ***
Capitolo 2: *** Udito #1 ***
Capitolo 3: *** Udito #2 ***
Capitolo 4: *** Termopercezione ***
Capitolo 5: *** Gusto ***
Capitolo 6: *** Equilibrio ***
Capitolo 7: *** Tatto #1 ***
Capitolo 8: *** Proprioricezione ***
Capitolo 9: *** Tatto #2 ***
Capitolo 10: *** Dolore ***
Capitolo 11: *** Olfatto ***
Capitolo 12: *** Sesto senso ***
Capitolo 13: *** Senso ***
Capitolo 1 *** Vista ***
blublu
Vi•sta [La vista è
uno dei
cinque sensi;
precisamente, è quello mediante il quale è
possibile
percepire gli stimoli
luminosi e,
quindi, la figura, il colore, le misure e la posizione degli oggetti.
Tale
percezione avviene per mezzo degli occhi.]
Marco’s
POV
Eravamo davvero un bel
quadretto, non c’è che dire.
Sono serio: se fossi stato un
tizio qualunque, uno sconosciuto che passando di lì avesse
assistito alla
scena, probabilmente mi sarei sbellicato dalle risate. Purtroppo per
me, non
andò così.
Ma andiamo con ordine.
Qualche giorno prima, la mia
manager aveva ricevuto una chiamata dagli studios di X Factor, il noto
talent
show che, oltre a una miriade di altri artisti, aveva lanciato anche il
sottoscritto. Quel giorno ci trovavamo insieme a casa mia, io e Marta,
e l’isteria
generale era scattata nell’immediato. Lei parlava al telefono
concitata e io
seguivo soltanto a grandi linee la conversazione, ma eravamo entrambi
entusiasti come bambini: pareva mi avessero richiamato al programma per
una
collaborazione agli Home Visit. In poche parole, avrei assistito uno
dei
giudici nella decisione finale, per quanto riguardava i concorrenti da
mandare
al programma in prima serata. Ero talmente elettrizzato che lottai
contro
l’impulso di mettermi a saltellare come una dodicenne e,
d’altronde, la stessa
Marta aveva un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
Mi aveva fissato un
incontro con il giudice che mi aveva voluto al suo fianco in questa
scelta, per
discutere su alcuni punti fondamentali.
Alla fine, Marta aveva
cordialmente salutato con un “Grazie e
arrivederla”, aveva chiuso la
comunicazione telefonica e, con mia grande sorpresa, aveva iniziato a
imprecare
come una camionista in menopausa. Dopo aver sparato
un’immensa sfilza di
parolacce, alcune delle quali nemmeno sapevo che esistessero, si era
degnata di
comunicarmi il nome di colui che aveva richiesto i miei servigi.
Mika.
Oh,
mio Dio.
Mika. Uno degli artisti più celebri
degli ultimi anni, nonché uno dei miei idoli,
nonché modello a cui mi ero
ispirato negli anni prima e dopo il successo di X Factor.
Ripetei quel nome nella mia
mente un paio di volte.
Mika. Notizia più bella non
poteva esistere.
In quel momento avevo avuto
ancor più voglia di saltare come una dodicenne impazzita.
Mika, santo cielo, lui fra
tutti quanti! Aveva scelto proprio me, Marco Mengoni, fra mille artisti
italiani, non potevo crederci! Mi sembrava un sogno. Mentre io
scoppiavo di
felicità al punto che neanche mi rendevo conto di cosa mi
accadesse intorno,
Marta stava maledicendo me e lui.
Non che fosse scontenta per
l’occasione che mi era stata data, certo che no. Ma si
chiedeva, perché proprio
Mika? Non poteva essere Morgan, disse, che era stato il mio giudice
nella terza
edizione? Non poteva essere Elio, disse, che era un grande
professionista? Non poteva
essere Simona?
A quel punto la interruppi,
chiedendole cosa avesse contro Mika.
Lei mi rispose, in modo molto
maturo, che semplicemente le stava antipatico a pelle. Atteggiamento
incredibilmente professionale.
Nonostante questo, sosteneva
che un’apparizione come supporto di un giudice (a prescindere
da chi egli
fosse) al talent show che mi aveva lanciato nel mondo della musica
fosse una
grande strategia di marketing, pertanto accettò di buon
grado. Io, che di
marketing non me ne intendevo (e ringraziavo Dio che Marta si occupasse
di
queste cose), sapevo soltanto che avrei preferito mangiare vetro
piuttosto che
rinunciare a un’opportunità come quella.
Ero su di giri come un
bambino all’Acqua Park.
E così, il fatidico giorno
arrivò e io non avrei potuto essere più felice.
Già. Peccato che, lungo il
tragitto in auto dal mio appartamento agli studios, Marta avesse deciso
di
divertirsi a imprecare contro quello che lei riteneva uno
“spilungone fighetto
con la puzza sotto il naso”, ossia Mika. La qual cosa,
ovviamente, detta in
modo decisamente più colorito e meno sobrio, finì
per intaccare la mia aura di
positività.
Detto in poche parole, prima
di entrare nell’auto stavo una favola e dopo esserci entrato
stavo uno schifo.
Mi mise addosso una tale ansia, una tale agitazione e un tale tutto quanto che, arrivati agli studios,
ero messo così male da desiderare sul serio un bel pezzo di
vetro da
sgranocchiare.
Una volta entrati
nell’edificio principale, però, anche Marta
ammutolì. Non scambiammo una parola
quando entrammo, né quando percorremmo i corridoi scortati
da uno stagista e venimmo
lasciati di fronte all’ingresso di una sala conferenze.
Fissammo la porta, in
legno chiaro e intarsiata in acciaio, che ci avrebbe condotti alla
stanza in
cui io e Mika ci saremmo incontrati (sotto la supervisione di Marta e
di altri
collaboratori, ovvio) per parlare di alcune cose riguardanti il giorno
degli
Home Visit.
Immobili, io e lei, di fronte
a quella porta. I nostri sguardi caddero sulla maniglia, senza che
nessuno di
noi due si decidesse ad afferrarla e abbassarla per entrare.
Stavo per incontrare un
idolo, un grande cantante, una grandissima persona ed ero nervoso come
una
scolaretta. Pensavo di sapere cosa aspettarmi e invece scoprii di non
averne la
più pallida idea. Mi avrebbe parlato in italiano o in
inglese? Gli avrei fatto
buona impressione? Saremmo riusciti a collaborare alla pari o il
divario tra di
noi avrebbe influito sulla nostra resa? Gli sarei piaciuto? Mi avrebbe
detestato?
Avevo voglia di ingoiare una
granata.
Mi voltai verso Marta, agitato,
e in risposta mi lanciò un’occhiata che emanava
sicurezza e che mi spinse a
essere, o perlomeno fingere di esserlo, deciso.
Così serrai gli occhi e spalancai
la porta in un unico colpo secco, come quando si strappa via un cerotto.
Inutile dire che lo spaventai
a morte.
Era seduto a una scrivania
che si trovava al centro della stanza e stava maneggiando alcune
scartoffie:
quando entrai con tanta irruenza saltò praticamente in aria
e non riuscì a
trattenere un sussulto e strinse i fogli di carta così forte
da stropicciarli,
parandoli di fronte a sé come uno scudo.
Come dicevo, saremmo stati
esilaranti visti da fuori. Ma purtroppo ero stato io a spaventarlo, a
rischio di
sembrare un maleducato o, peggio, un povero pazzo, così
entrai senza dire una
parola e mi sedetti di fronte a lui, senza mai guardarlo dritto in
faccia. Fu
soltanto quando Marta prese posto accanto a me che notai che nella sala
non
c’era nessun altro all’infuori di noi e lui.
Presi quasi nell’immediato a torturarmi
l’unghia del pollice con i denti, mentre la mia gamba tremava
sotto il tavolo
senza che io riuscissi a fermarla. Marta dal canto suo, dondolava
avanti e
indietro come fosse stata una psicotica, e poi c’era lui, che
riordinava fogli
che mi parevano già perfettamente impilati.
Nessuno parlava, nessuno
faceva niente di concreto né di interessante.
Sembravamo una piccola
comunità di recupero per svitati nevrotici.
E io, povero ebete col
cervello in rigor mortis, tenni gli
occhi bassi, puntati in un primo momento sulla scrivania di vetro. Poi,
però,
li spostai per caso sulle mani di Mika.
Guardandole, mi accorsi che erano
grandi, ma grandi davvero. Indubbiamente eleganti, come quelle di un
pianista o
di un direttore d’orchestra. Come facesse anche solo con il
corpo a emanare il
concetto di musica, non lo sapevo. Tutto ciò che riuscivo a
pensare, mentre lo
guardavo prendere e spostare quelle pagine da un punto
all’altro del tavolo,
era che lo invidiavo non poco per questo.
Improvvisamente, Marta mi
colpì da sotto il tavolo, lanciandomi uno sguardo
ammonitore. Rinsavii
all’istante: il modo in cui lo stavo fissando doveva essere
piuttosto
inquietante, per non dire totalmente privo di
professionalità. Tenere gli occhi
incollati sulla gente famosa era più un comportamento da
teenager in calore che
da collega alla pari. Ma quanto riuscivo a essere idiota?
Resomi conto della mia
figuraccia e del tutto incapace di scusarmi con lui senza fare la
figura
dell’inetto, vagai con lo sguardo per il resto della stanza,
fingendo
indifferenza.
Questo finché i miei occhi
caddero sul volto di Mika. Più precisamente, mi soffermai
sulla mascella,
perfettamente cesellata, e sul collo elegante, sul quale spiccavano due
nei
vicini tra loro, paralleli l’uno all’altro, in modo
preciso. Una leggera barba
iniziava a spuntargli sul mento e sulle guance. Dannazione a lui. Se
avesse
potuto prestarmi un po’ della sua perfezione, avrei
volentieri…
Riabbassai nuovamente lo
sguardo, intimidito dai miei stessi pensieri. Non era una
novità che io
tendessi a paragonarmi a ogni uomo incontrassi, sentendomi sempre e
immancabilmente inferiore, ma da qui a utilizzare termini come
“perfetto” ne
passava di acqua sotto i ponti.
Potevo ammettere con una
certa tranquillità che Mika fosse un bell’uomo, di
certo più bello di quanto io
sarei stato mai, ma “perfezione” era qualcosa da
attribuire a ben altro, a
qualcosa che ti lascia senza fiato e senza parole.
Fu questo che pensai, prima
che quasi involontariamente i miei occhi venissero spinti a osservargli
la bocca.
Sapevo che ogni qualvolta la apriva, la gente impazziva: il pubblico si
emozionava per le sue canzoni, oppure rideva per le cose buffe che
diceva, ma
in ogni caso restava incantato a osservare quelle labbra piccole e
sottili
dall’inconfondibile forma a cuore. Mi ritrovai ancora una
volta a invidiarlo
senza ritegno.
I miei occhi, pertanto, si
concentrarono sul suo naso che, constatai, era molto
“francese” (per quanto,
una volta che l’ebbi pensato, ritenni questa mia opinione
infinitamente
ridicola). Era risaputa la particolare predisposizione di Mika ad
arricciarlo
quando era divertito o, più semplicemente, rideva. Sapevo
per certo che quel
naso arricciato, oltre alle immancabili fossette, erano due delle cose
che
facevano impazzire i fan, più di qualsiasi altra
qualità fisica avesse.
Poteva anche levarsi la
maglietta durante i live e le ragazzine sarebbero esplose in un
tripudio di
urla, occhi lucidi e braccia protese verso la sua figura slanciata; ma
se
voleva davvero conquistare il cuore di ogni singola persona tra il
pubblico,
gli bastava sorridere e tutti l’avrebbero amato.
Certo,
come se non fosse già abbastanza amato da
tutti.
Con la coda
dell’occhio, scorsi
Marta che si voltava verso di me e sapevo che stava per colpirmi di
nuovo. Me
lo meritavo, ovviamente, perché ero tornato a fissarlo e
questo era stato
davvero sciocco da parte mia.
Ma prima che potessi
distogliere lo sguardo, o farmi colpire da Marta, o rendermi
minimamente conto
di ciò che stava accadendo, i miei stupidi occhi
proseguirono da soli la loro
folle corsa e incontrarono quelli di Mika.
Solo che, nello stesso
momento, quelli di Mika incontrarono i miei.
E ci ritrovammo a guardarci
negli occhi.
I suoi erano perfetti.
Sì, quando lo pensai, ritenni
che fosse il termine più appropriato, forse
l’unico adatto a definirli. Perfetti.
Esternamente splendidi: le
ciglia scure facevano da cornici alle iridi color nocciola, in parte
screziate
di verde, dal contorno scuro come terra bruciata; le pupille parevano
brillare
di luce propria; la forma tondeggiante li faceva apparire ancora
più grandi di
quanto non fossero già.
Ma quegli occhi, io, non mi
limitai di certo a guardarli. No.
Erano così limpidi, così
sinceri e puri, che arrivai a leggervi dentro.
La cosa più assurda è che vi
lessi, incredibile a dirsi, ansia. Mi riuscì difficile
crederlo visto che, tra
i due, ero io a dover essere quello nervoso ed emozionato. Invece
sembrava
quasi che fosse lui, e non io, a essere di fronte a una star
internazionale
pluripremiata. Potei scorgere, però, anche un minimo accenno
di curiosità, la
stessa che anch’io nutrivo nei suoi confronti: non a caso,
poco prima avevo
preso a studiarlo in ogni suo dettaglio. Ci leggevo, in quegli occhi,
le stesse
domande che mi ero fatto anch’io su di lui. Pazzesco, per non
dire comico.
Istintivamente sorrisi.
Ma
accadde una cosa molto buffa.
Lui sorrise a sua volta, nello stesso istante.
Nel vedere questo, il mio
sorriso si ampliò e anche il suo, simultaneamente, e mi
veniva da ridere,
perché sembravamo due idioti allo specchio. Eppure stava
accadendo di più, ci
stavamo intendendo alla perfezione senza spiccicare parola: tutta
quella
situazione era assurda e ci sentivamo entrambi dei perfetti imbecilli,
ma capii
di non doverlo temere e lui capì di non dover temere me. Ci
saremmo aiutati a
vicenda a superare quell’iniziale tensione e a rendere quella
situazione il più
normale possibile.
In quel momento ebbi la
certezza che sarebbe andato tutto benone.
Nel frattempo mi accorsi
vagamente che Marta mi aveva colpito da sotto il tavolo e che ci stava
osservando, per capire che cosa ci fosse preso. Mi dispiacque per lei,
perché
sapevo che non ci sarebbe mai arrivata.
Era semplicemente scattata
l’intesa, a prima vista, tra me e lui.
Non distolsi lo sguardo.
Avrei dovuto, chiaramente, perché erano passati diversi
secondi e nessuna
persona sana di mente avrebbe aspettato così tanto prima di
interrompere uno
contatto visivo. Ma ci trovavamo così bene, occhi negli
occhi, che ci sembrò il
peggiore dei crimini smettere.
E così non smettemmo.
A incontro finito, avevamo
chiarito i punti fondamentali della nostra linea.
Dalle concorrenti non
volevamo semplicemente uno sfoggio di bravura perché di
brave, disse lui, ce ne
sono a migliaia. Lui voleva qualcuna che fosse interessante, che
potesse arrivare
al cuore del pubblico e, perché no, anche allo stomaco.
Quello lo dissi io,
però, perché ero dell’opinione che la
musica dovesse prenderti per le viscere,
e lui si trovò perfettamente d’accordo nonostante
il modo grezzo con cui
espressi quella mia teoria.
Come location aveva proposto
un casale (che, scoprii in seguito, più che un casale era
una reggia in
miniatura) a Dublino, in Irlanda. Io andavo pazzo per
l’Irlanda, ma cercai
comunque di mostrare nonchalance, come Marta mi aveva suggerito di
fare, dicendo
che, sì, Dublino sarebbe stata una scelta niente affatto
male. Ma non riuscii a
nascondere del tutto il mio folle entusiasmo e sembrai un esagitato di
prima
categoria.
Forse non avevo fatto la
figura migliore della mia vita, ma non mi importava granché
perché io e
Mika stavamo andando alla grande. Per tutto il tempo non staccammo mai
gli
occhi l’uno dall’altro e questo, pazzesco solo a
pensarci, ci mise stranamente
a nostro agio.
Io, che soltanto quella
mattina avevo lo stomaco aggrovigliato per la paura, adesso mi stavo
trovando
talmente bene che il tempo passò senza che me ne accorgessi,
grazie a quello
sguardo rassicurante, vivace e brillante che per fortuna era ancora
saldamente
ancorato al mio.
Poco prima di uscire dalla
sala conferenze, Mika mi disse di chiamarlo Michael, perché
era così che gli
amici lo chiamavano. Il che stava a significare che già mi
considerava un amico
o che, più semplicemente, mi aveva preso in simpatia. Non
avrei potuto chiedere
di meglio.
La porta si richiuse, l’incontro
finì e, dagli occhi vivaci e brillanti di Mika (o meglio,
Michael), piombai in
quelli color ghiaccio di Marta.
In quel momento non ne
avevano solo il colore, ma anche lo stesso calore. Erano gelidi.
Parte del tepore e della
tranquillità che avevo acquisito poco prima andarono
dissolvendosi mentre
l’ombra tutt’altro velata della disapprovazione di
Marta si profilava di fronte
a me. Non sapevo cosa avessi fatto esattamente per irritarla, sapevo
solo che
era irritata, eccome. Si voltò e mi precedette, camminando a
passo di marcia.
Mi ritrovai a fissare la sua vaporosa
chioma bionda che si scuoteva a ogni passo, mentre cercavo inutilmente
di
raggiungerla per capire cosa le avessi fatto. Non era come se lei non
avesse
affatto parlato durante l’incontro, anzi, avevo sentito
chiaramente la sua voce
intervenire in più di un’occasione.
Ma, a pensarci bene, non
avevo posato lo sguardo su di lei neppure per un istante nel corso del
colloquio. Oh, e con tutta probabilità nemmeno Michael lo
aveva fatto.
Capii da solo, alla fine, e
non mi stupii che fosse furiosa: lei era la mia manager,
l’esperta in questo
campo nonché la persona che aveva reso possibile questa
collaborazione e noi,
per tutta risposta, l’avevamo ignorata totalmente, come fosse
stata invisibile.
Che bel modo di esprimere gratitudine.
Cercai di raggiungerla, per chiederle
scusa, così accelerai il passo e quando fui abbastanza
vicino le posai la mano
su una spalla. Si girò, i suoi riccioli frustarono
l’aria, mi rivolse lo stesso
sguardo glaciale di prima. Tentai di iniziare a parlare, per potermi
scusare a
nome di entrambi e spiegarle tutto.
Marta, però, preferì rovinare
tutto con un velenoso: «Non ti facevo così, sai?
Pensavo che tu, alle scemenze
come le cose “a prima
vista”, non ci
credessi.»
Prima che potessi chiederle
cosa intendesse esattamente, però, lei si voltò
di nuovo e tornò a fare finta
che io non esistessi come, mi doleva ammettere, noi avevamo fatto con
lei.
Sapevo che lo scopo di quella
battutaccia assolutamente fuori luogo era unicamente quello di ferirmi.
Eppure,
mentre mi trascinavo lungo il corridoio a qualche passo di distanza
dalla mia
manager, ebbi il forte impulso di tornare di là e cercare di
nuovo il conforto
che avevo tratto dagli occhi di Michael.
E per un attimo, ci pensai sul
serio.
Mi fermai, mi voltai e
individuai nuovamente la sala conferenze. Quella rassicurante porta in
legno
chiaro e intarsiata di acciaio. Lui era lì e i suoi occhi
dal potere calmante
erano lì con lui.
La fissai per non so quanto
tempo e, dopo, feci quello che dovevo fare.
Mi riscossi, tornai a seguire
Marta e, nel silenzio più totale, tornammo a casa.
La soffitta
dell’autrice:
Oddio, voglio
infilare la testa in un sacchetto di
plastica e morire.
Ma salve!
Eccomi qui con, ebbene sì, una long. Più che
una long, è una raccolta di OS su loro due (ma quanto li
amo?) ciascuna basata
su uno dei sensi che, in teoria, sarebbero cinque, ma in
realtà sono molti di
più. Quindi verranno raccontati soltanto alcuni episodi
della loro storia, come
questo. Ho associato la vista al
concetto di primo
incontro
e di
intesa a prima vista, come avrete potuto notare. E niente, spero che vi
piaccia.
Torno a
flagellarmi, scusate. Alla prossima!
Ringrazio la mia beta, nonché suggeritrice di titoli,
comeunangeloallinferno94. Te se ama, bella ♥
Baci,
|
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Capitolo 2 *** Udito #1 ***
U•di•to [L’udito
è il primo dei sensi a
svilupparsi nel feto e a
favorire il contatto con
l'ambiente esterno. Il sistema comprende sia gli organi sensoriali (orecchie,
organi preposti alla percezione e alla traduzione del suono),
sia le parti uditive del sistema sensoriale.]
Mika’s
POV
«Pronto?»
«Hi Marco!»
«Cazzo» e attaccò.
Questa fu ufficialmente la
peggiore telefonata della mia vita.
Parlo sul serio: durante il
nostro primo e unico incontro, io e Marco ci eravamo scambiati i numeri
di
telefono, per chiamarci “per qualsiasi evenienza”.
Così ci eravamo detti.
Così quella mattina avevo
deciso di chiamarlo, ma di certo non potevo prevedere che lui mi
avrebbe
risposto in quel modo –credo che nessuno avrebbe potuto
prepararmi a questo.
Avrei pensato di aver sbagliato numero, se la sua voce non fosse stata
così
riconoscibile. Sì, si trattava decisamente di Marco.
Armandomi di coraggio,
ricomposi il numero e lo richiamai. Rispose solo al terzo squillo.
«Pronto?» la sua voce era
titubante.
«Ehm… hi
Marco?»
Pausa.
«Marco?» ritentai.
«Ok, che cosa è successo?»
sbottò. «È saltato il viaggio a
Dublino? Ti ha forse chiamato Marta? Che cosa
ti ha detto?!»
Stavolta fui io ad
ammutolire. Non lo feci per maleducazione, ma perché mi
stavo trattenendo dallo
scoppiare a ridere, il che sarebbe stato estremamente indelicato da
parte mia.
Il punto era che, per quanto cercassi di placarmi nella mia mente, il
mio corpo
non voleva saperne di reprimere le risa.
Presi un profondo respiro e
gli chiesi: «Chi è Marta?»
«La mia manager… non cambiare
discorso! Che cosa è successo?»
«Perché deva essere succeduto
qualcosa?» gli chiesi.
«Beh, perché tu hai detto di
chiamarci per qualsiasi evenienza e se mi chiami vuol dire
che… che è successo
qualcosa!»
Non ce la feci più.
Scoppiai a ridere. Sapevo che
probabilmente sembravo il più grande cafone del mondo, ma
come potevo fare
altrimenti? Ecco perché prima mi aveva risposto al telefono
in quel modo
assurdo, perché aveva paura che ci fosse qualcosa che non
andava. Che soggetto!
«Sono scusa» cercai di dire.
«Sono scusa tanto se io ride, ma non ha succeduto niente,
stai tranquillo.»
Mi ripresi dalla mia crisi di
ridarella e allora, dall’altro capo del telefono, sentii
qualcosa di strano. Sembravano
singhiozzi, lievemente ovattati, come se Marco si stesse coprendo la
bocca con
la mano.
«Marco, stai tu ok?» gli
chiesi.
E poi fu lui a scoppiare a
ridere. Rimasi ad ascoltare la sua risata: sguaiata, acuta e nasale,
con brevi
intervalli in cui lo sentivo boccheggiare per riprendere fiato. Era la
cosa più
rozza che avessi mai sentito in vita mia e, lasciatemelo dire, non
sembrava
affatto un cantante mentre rideva.
Lo adorai.
«Perché tu ride?» dovetti
chiedergli, quando si fu calmato.
«“Sono scusa”? Si dice:
chiedo scusa. Ma quanto la paghi la tua insegnate di
italiano?» mi prese in
giro, continuando a ridacchiare.
Storsi il naso. «Io ancora
imparo, non posso parlare italiano perfecto!»
Smise di ridere
all’improvviso, così come aveva iniziato, e io mi
ritrovai in un attimo ad
ascoltare il più perfetto silenzio, interrotto solo dai
crepitii metallici del
telefono.
Dopo un po’, domandò con un
certo imbarazzo: «Allora scusa, perché mi hai
chiamato?»
«Io volevo sentire te»
ammisi.
«Me?»
«No, tua manager» lo presi in
giro. «Sì, te.»
«Ah, bene. E perché?»
«Io penso che tu mi è simpatico»
dissi semplicemente «E poi, se noi deviamo lavorare insieme,
a Dublino, io vuole
conoscere te meglio.»
«Sì, però…»
esitò, poi si
interruppe.
Lo incoraggiai: «Però?»
«Però…» sospirò.
«Niente. È
solo che si dice “dobbiamo”, non deviamo.»
Chissà perché, non ne ero del
tutto convinto che il suo “però” fosse
dovuto al mio pessimo italiano, ciononostante
non intendevo insistere per sapere cosa ci fosse sotto
–ammesso che ci fosse
qualcosa sotto. Non volevo rovinare quella conversazione per nulla al
mondo:
era da tempo che non mi divertivo così.
«Allora, dime» cambiai
discorso. «Che tu sta facendo?»
«Io sto… niente» incespicò.
«Sono a casa mia. Ehm, con Marta, che mi fissa
perché si chiede cosa ci stiamo
dicendo. Oh, e ti saluta.»
Ops.
Ops mille volte.
Non avevo minimamente preso
in considerazione la possibilità che avrei potuto
interromperlo in un momento
un po’, come dire, delicato.
Voglio dire, solo un idiota
non avrebbe fatto caso al modo in cui lei lo fissava durante il nostro
incontro
e, inutile dirlo, avevo già messo in conto la
possibilità che lei potesse
essere più di una manager per lui.
Ora capivo il perché di tutta
quell’agitazione, si stavano dando da fare! Si stavano dando
da fare e io li
avevo interrotti, che guastafeste che dovevo sembrargli.
«Ora io capisco!»
sghignazzai. «Sono scusa, anzi no, chiedo
scusa perché io ha interr… interro… oh
insomma, ha stop voi due! Continuate, io
saluto te.»
Lui non colse subito che
avevo capito cosa stavano facendo: «Inter… cosa?
Interro… interrotti? Oh, no
aspetta, interrotti?»
«Marta e tu stava per… no? Oh
ok, chiedo scusa! Bye Marco!»
Lo sentii urlare qualcosa
mentre staccavo la chiamata. Non capii cosa e non volli saperlo: era
con la sua
ragazza, giusto?
Che dire? Tra uomini potevamo
capirci e il tempo per l’amore si concede a tutti. Speravo
solo che lei non lo
tenesse troppo a lungo imprigionato tra le lenzuola.
Anzi, speravo proprio di sì.
Meritiamo tutti una persona che non vorremmo mai lasciasse il nostro
letto, no?
«Pronto?»
«Vedi che ti sei sbagliato,
ti sei fatto un’idea che…»
«Marco?»
«Sì?»
«Hi!» lo salutai, prima di
ogni altra cosa.
Cominciò a incespicare e a
parlare velocemente. «Ehm, sì, hi, ciao, certo.
Comunque, ti ricordi ieri
quanto mi hai telefonato e poi hai detto quella cosa su me e Marta? Che
io…
lei… noi… sì. Ecco, volevo dirti che
non è assolutamente come pensi.»
Scossi la testa. «Lei no è
tua girlfriend?»
«Assolutamente no» esclamò,
con voce acuta «Non stavamo facendo quello che tu pensi,
capito?»
«Capito, capito» ridacchiai.
«Non è bisogno che tu ripete me. Io ti
crede.»
Tirò un sospiro di sollievo.
«Menomale. No, perché, sai,
c’è gente che viene da me e mi fa “Ma
quindi tu e
Marta state insieme?”, e io gli dico “No, ma
proprio no”, e poi loro “Non ci
credo, è una donna così bella”, e io:
“Ma va? Non me n’ero mai accorto, pensa
te!”»
«Marco?»
«Sì?»
«Calma tu!» sogghignai. «Tu
parla veloce troppo e io no capisco una parola.»
«Hai ragione» si placò. Poi
inspirò ed espirò profondamente, in modo quasi
teatrale, e tornò a parlare come
un normale essere umano. «Ricominciamo daccapo: sono calmo.
Ciao, come stai?»
«Ciao Calmo, io sono Michael»
scherzai. «Sto beno.»
«Che battuta pessima!»
«Battuta? Che cosa è
battuta?»
Ci pensò su un attimo: «Una
battuta è una… una joke!
Ecco, la tua
joke era brutta.»
«Ah, sì?» mi finsi offeso. «So io porto mio cane a Dublino e non
porto tu.»
«Non hai senso dell’umorismo.»
«Mio cane ama mie jokes.
No dice che sono brutte.»
Fece schioccare la lingua,
fingendosi contrariato. «Non vorrei deluderla, signor
Penniman, ma il suo cane
è di fatto un cane. Quindi non parla.»
«Meglio che Melachi no parla,
così no dice che mie jokes sono
brutte.»
«Ma sono
brutte.»
«Tu sei brutto.»
«Il tuo cane è brutto.»
«Io no ti porta a Dublino.»
«No, ok, scherzavo! Il tuo
cane è bellissimo.»
Non so per quanto tempo
continuammo su questa linea, l’uno rimbeccando
l’altro ed entrambi trattenendo
inutilmente le risate.
Cambiammo argomento in
seguito, lo cambiammo diverse volte, parlammo un po’ di tutto
e ogni tanto lui
se ne usciva con quel: “Il tuo cane è
brutto”. Benché la cosa non fossa
esilarante, mi faceva ridere come un matto ogni santa volta.
Parlammo di qualsiasi cosa ci
venisse in mente, perlopiù stupidaggini. Oroscopo, animali
domestici, come
preferivamo trascorrere le vacanze. Gli chiesi addirittura di
insegnarmi le
parolacce in italiano, un giorno, e lui mi disse che non
l’avrebbe mai fatto,
perché poi io ne avrei abusato e lui non poteva permetterlo.
Quando parlava a briglia
sciolta, esattamente come quando rideva, Marco non sembrava affatto un
cantante,
tanto era verace. Quando, poi, si dimenticava che fossi un cantante
anch’io,
allora si trasformava nel tipo di persona che preferivo: naturale,
semplice, genuina.
L’avrei tenuto al telefono per ore discutendo delle
più assurde sciocchezze,
pur di continuare a parlare.
Non sapevo ancora che tipo
fosse esattamente, non lo conoscevo abbastanza da poter dire che
persona fosse.
Sapevo solo che era il primo vero amico che riuscivo ad avere in Italia
e che
avevo una voglia matta di imparare a conoscerlo.
«Hi, Marco!»
«Voglio morire.»
«Tu smetti di rispondere me
questo modo!» lo rimproverai. Perché tutte le
volte che gli telefonavo doveva
fare certe sparate? Non volevo certo ridergli in faccia ogni santa
volta che ci
chiamavamo ma, cavoli, lui non mi rendeva la vita facile.
«Hai ragione» convenne, la
voce tesa come una corda di violino. «È solo che,
sì, insomma, domani partiamo
per Dublino. Cioè, Dublino in Irlanda.»
«No, Marco, Dublino in
Norvegia» scherzai.
«Non prendermi in giro! Ho
una crisi di nervi.»
«Marco, che cosa tu ha
adesso? Perché tu vuole morire?» cambiai
argomento, perché anche se la
tentazione di continuare a prendere in giro il mio futuro collega era
forte,
non avevo intenzione di farlo.
Sbuffò un paio di volte,
prima di rispondere, farfugliando: «Non lo so. È
che non ho mai fatto una cosa
come questa, sai, gli Home Visit. Ho paura che, capisci, una volta che
saremo
lì a Dublino, in quel casale e dovremo giudicare le ragazze,
io non saprò cosa
dire o cosa fare e sembrerò un cretino. Ho paura di sembrare
un pivello o di
fare delle scelte sbagliate, oppure di mettermi a dire
cavolate…»
«... come tu fai ora» conclusi per lui.
«Che cosa?»
Scossi la testa. Se queste erano le sue preoccupazioni, beh…
sapevo che
sarei risultato scortese e c’era il rischio che lui mi
prendesse in antipatia,
eppure non potei trattenermi dal rimproverarlo. «Chiedo
scusa, tu dice che ha
paura di dire cavolate, ma tu sta dicendo ora. Tu ha paura? Ok,
però io ha choosato te
per Home Visit e tu ora no
ti fida più di me, tu no ti fida di mia choice.
Tu sai perché io ha choosato
te?»
«Perché sei un masochista?»
«No, no sono masochista» affermai, con tono meno
duro di prima. Non
intendevo certo attaccarlo, soltanto fargli capire quanto si stesse
sbagliando.
«Io lo ha fatto perché tu è quello che
io cerco in una persona che canta in mia
squadra. Tu sei ragazzo giovane, tu sei cantante bravo e ha talento
incredibile,
e piace tanto a gente perché… perché
tu sei tu. No fa finta, mai. Se io vuole
ragazze in mia squadra, io le vuole così.»
Dall’altra parte, sentii il silenzio più totale.
Temetti di averlo offeso in qualche modo: non ero solito elargire
ramanzine o complimenti di sorta, ma era anche vero che non avevo mai
incontrato una persona così incline al nervosismo come lo
era lui. Aveva una
tale paura di fare un passo falso, di dare un’impressione
sbagliata di sé, che sentii
il bisogno di dargli una mano per quanto potessi farlo. Non sapevo
nemmeno se potessi farlo.
«Michael?» mi richiamò, con voce flebile.
«Sì?»
«Sono emozionato e agitato come se io fossi il concorrente,
invece che
il giudice» ammise infine, con una piccola risata nervosa.
«Non ho mai fatto
una cosa del genere, per me è come un salto nel
buio.»
Sorrisi e, in qualche modo, seppi che Marco stava facendo altrettanto
all’altro capo del telefono. «Marco, io pensa
che… l’emozione è cosa
bellissima, e che agitazione è ancora più bella.
Quindi tu deve stare bene
anche se ha la emozione e la agitazione, ok? Tu pensa che io e te
domani parte
e che abbiamo divertimento a Dublino e stop. Pensa solo a
questo.»
«Va bene» tirò un sospiro.
«Ehm, e grazie. Non so chi te la fa fare a
sopportarmi ma, insomma, grazie.»
«No dice “grazie”, tu dice solo
“Michael, domani io e te va a Dublino e
no pensa a Home Visit”» scherzai.
Lui rise e, imitando la mia voce e il mio orrido accento,
ripeté
esattamente ciò che gli avevo detto. Poi aggiunse:
«Posso farti una domanda?»
«Yes, tu
può.»
«Prima io ti ho dato del masochista e tu hai capito cosa
significa…
però non sai come si dice choice
in
italiano? In che modo stai imparando la nostra lingua?»
Il suo tono colava insinuazioni. Nessuna meraviglia se arrossii come
una bambinetta. «Noi dice “masochista” in
stesso modo anche in Londra e in
Parigi, solo un poco diverso. Per questo io so» spiegai.
«Non ci credo nemmeno se me lo giuri in inglese e pure in
francese. Tu
ti fai insegnare le zozzerie dalla tua insegnante di
italiano!»
«Io ho paura di chiedere cosa significa
“zazzere”.»
«È “zozzerie” e,
sì, è meglio che tu non lo sappia.»
Scoppiai a ridere e soltanto allora gettai uno sguardo
all’orologio.
«Marco, forse è meglio che io e te va a dormire
presto. Domani parte.»
«Sì, già, dovremmo» il suo
tono era riflessivo. «Potremmo anche andare
a dormire alle otto di sera come i vecchietti.
Oppure…»
Non mi piaceva affatto il modo in cui mi si stava rivolgendo per
tentarmi, perché era evidente
che
stava per farmi una proposta di cui mi sarei pentito. Questo non mi
impedì di
incitarlo a continuare: «Oppure?»
«Oppure possiamo continuare a parlare, andare a dormire
quando cavolo
ci pare e poi farci due ore e mezza di sonno in aereo, domattina. Che
ne dici?»
Mi toccò scegliere tra una delle due opzioni e fu proprio
ciò che feci.
Inutile dirlo, scelsi la seconda.
Da quella sera e da ciò che ne conseguì, appresi
due cose.
La prima era che seguire i consigli di Marco era altamente nocivo.
Perché per parlare con lui al telefono mi privai di
un’ora e mezza di
sonno che, per quanto possa sembrare un’inezia, mi
pesò molto quando dovetti
svegliarmi alle cinque del mattino per andare all’aeroporto.
La seconda era che, per quanto potessi provare ad addormentarmi in
aereo, non ci sarei mai, mai riuscito.
Infatti, scoprii che Marco russava come un trattore.
Quando il
telefono dell’albergo squillò, non ebbi la minima
esitazione
nell’alzare la cornetta e portarmela all’orecchio,
perché sapevo perfettamente
chi c’era dall’altra parte.
«Hi Marco!»
«I'm
not just deaf and dumb, staring at
the sun!»
cantò a squarciagola Marco,
così forte da stordirmi. «Oh,
che giornata Michael, che giornata! Sono felice che sia
finita, ma è stato tutto così bello, splendido,
una figata pazzesca!»
«Tu no ha bisogno di chiamarmi» gli ricordai.
«Tu è in
camera accanto alla mia, poteva venire qui.»
«Sì, ma non avrei potuto urlarti nelle orecchie
questo
magistrale pezzo degli U2, caro il mio signor giudice»
trillò, zelante.
Era una gioia sentirlo così contento. Alla fine, nonostante
le sue inutili angosce, si era rivelato la spalla migliore che potessi
desiderare: deciso ma conciliante, divertente con le ragazze e anche
con me,
senza per questo perdersi in inutili idiozie. In poche parole, era
andato alla
grande.
«Allora, ti piace nostre tre ragazze di squadra?»
«Le adoro, tutte
e tre» affermò, senza perdere
l’entusiasmo. «Gaia è la
mia preferita, ma non dirlo a nessuno o ti prendo per il
collo.»
«Io tiene il tuo segreto» risi. «Marco,
però tu oggi mi ha copiato.»
«Cosa?»
«Quando noi ha incontrato ragazze e tu ha detto loro
“Oh, emozione è
bella, ma agitazione è ancora meglio”, io ti aveva
detto queste cose ieri. Tu è
un copione.»
Non mi rispose.
Sentii per l’ennesima volta il silenzio dall’altra
parte e cominciai a
pensare che fosse uno dei suoi infiniti vizi. Che adorassi i suoi vizi,
poi, quella
era un’altra faccenda.
«Marco?» lo chiamai. Nessuna risposta.
«Marco?» ripetei.
Iniziavo leggermente a preoccuparmi. Non ce n’era motivo,
ovvio, ma
quel silenzio era innaturale e mi dava un senso appena accennato di
disagio.
«Marco?!»
All’improvviso, fuori dalla mia porta, udii chiaramente la
voce di
Marco che cantava: «I'm
not just deaf and dumb, staring at the sun!»
Scossi
la testa. Marco era un idiota, un emerito e
gigantesco idiota. Gli
risposi di rimando: «Not the only
one who’d rather go blind!»
«Ma lo sai che sei proprio bravo? Potresti fare il
cantante!» urlò da fuori la porta.
«Tu sei scemo!»
«Sì, ok, come ti pare. Ora mi fai
entrare?»
E così feci.
Ma non mi limitai a farlo entrare nella mia stanza,
no. A pigiare su una maniglia son buoni tutti.
Ciò che io feci fu aprire la porta non più a un
cantante che ammiravo molto, o a un mio collega: aprii la porta a un
mio amico,
forse il mio primo vero amico da quando mi ero trasferito in Italia e,
così
come lui mi aveva detto, finalmente lo lasciai entrare.
Nella mia camera così come nella mia vita.
To
be continued…
La
soffitta dell’autrice:
ODIATEMI PURE. Io lo farei.
Lo so che sono in abissale ritardo,
ma questo capitolo mi è uscito così lungo
che… dovrò dividerlo in due. Non
perché trovo che l’udito sia un senso
più importante degli altri, ma
semplicemente è fondamentale per loro. Cioè, sono
cantanti, l’udito
è tutta la loro vita e se devono
costruire qualcosa di importante come un’amicizia
deve partire da lì, no?
Quindi, perdonatemi ancora per il
ritardo e spero vi piaccia la prima parte del capitolo, la seconda
arriverà a
breve (spero). Ringrazio come sempre la mia beta, comeunangeloallinferno94. TE SE AMA.
|
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Capitolo 3 *** Udito #2 ***
U•di•to [L’udito
è il primo dei sensi a
svilupparsi nel feto e a
favorire il contatto con
l'ambiente esterno. Il sistema comprende sia gli organi sensoriali (orecchie,
organi preposti alla percezione e alla traduzione del suono),
sia le parti uditive del sistema sensoriale.]
Marco’s POV
«Shit.»
«Merda.»
Lui scoppiò a ridere.
«Smettila» lo zittii. «E
ripeti dopo di me: merda.»
«Merda!»
Tenni il telefono tra la
spalla e l’orecchio e mi misi ad applaudire in modo che
Michael sentisse
dall’altra parte. «Bravo, bravo. Poi che
abbiamo?»
«Asshole.»
«Stronzo.»
Rise ancora una volta. Non
riusciva proprio a fare il serio?
«Mi hai pregato tu di
insegnarti l’astrusa e insidiosa arte delle
parolacce» gli ricordai. «Quindi
adesso prendila seriamente.»
Sbuffò sonoramente «Io ti ha
pregato per settimane e allora tu insegna. Forza, ripeta la
parola.»
«Sei l’allievo peggiore che
io abbia mai avuto, lo sai?»
«Scusa me, a quante altre
persone tu ha insegnato parolacce?»
Ovviamente aveva ragione, ma
non mi andava di dargliela vinta. Così sospirai, come se
fossi stato sfinito.
«Basta, continuiamo la prossima volta, giovane
allievo.»
«No, no, no, ti pleaso!
Continua!»
«Michael, mi sembri un
bambino di cinque anni.»
Lui per tutta risposta
ridacchiò, il che significava che era totalmente
d’accordo con me.
Erano passate alcune
settimane dagli Home Visit di Dublino e ormai era diventata
un’abitudine quella
di parlare con lui al telefono tutti i giorni: vedersi non era
minimamente
possibile, visto che io avevo il tour e lui era impegnato tra X Factor
e le
lezioni di italiano. Comunque trovavamo sempre il tempo per chiamarci,
nonostante quel tour mi stesse facendo impazzire… ed era
proprio questo il
motivo per cui mi imponevo di ritagliarmi sempre un attimo di tempo per
lui.
Era l’unico momento della giornata in cui potevo rilassarmi e
lasciar andare la
tensione accumulata, era lenitivo.
Certo, dopo tutto il tempo
speso a parlare solo e unicamente per via telefonica, ammettevo che la
voglia
di rivederlo era tanta, anzi tantissima. Non che mi lamentassi, anzi,
tutt’altro: sarei rimasto ore ed ore a conversare con lui al
telefono, anche se
sbagliava almeno tre parole per frase e a volte mi rifilava delle
parole in
altre lingue. Forse erano proprio queste piccole cose che lo rendevano
ancor
più interessante di quanto già non fosse.
«Io è bambino di cinque anni,
Marco» ribatté. Poi, con il tono più
infantile che gli avessi mai sentito usare,
prese a lamentarsi: «Marco, tu manca! Quando è che
torna tu?»
«Non te lo posso dire» lo
presi in giro. «È una sorpresa.»
«Per favore, Marco, ti pleaso!»
ripeté.
«Puoi pleasarmi quanto
vuoi, ma non te lo dirò mai» affermai, ma mi
lasciai sfuggire una piccola risata.
In realtà morivo dalla voglia
di dirglielo, ma volevo farlo stare sulle spine ancora per un
po’.
«Se tu non mi dice questo» mi
minacciò. «io chiama Marta e le dice che tu legge
suoi SMS su suo telefono.»
«Oh, non oseresti mai!»
«Invece yes.»
Ero abbastanza sicuro che non
l’avrebbe fatto, voglio dire, si trattava di Michael, la
persona più buona che
avessi mai conosciuto. Però, riflettei, oltre a essere la
più buona del mondo, era
anche la più imprevedibile. Quindi non sapevo fino a che
punto mentisse.
Seppi che era il momento di
finirla con quella piccola recita e di dargli finalmente la notizia.
«Va bene» mi arresi. «Signor
Michael Holbrook Penniman Junior, le comunico ufficialmente
che…» e qui feci
una pausa molto teatrale, per farlo stare ancora di più con
il fiato sospeso.
Alla fine esclamai: «Dopodomani ritorno a Milano!»
Lo sentii trasalire e la cosa
non poté che riempirmi di soddisfazione: una volta tanto,
ero stato io a
sorprendere lui. Ben fatto, Marco!
«Ma… ma io pensavo che tu
deva stare ancora in tour per tanto tempo!»
Mi affrettai a rispondere: «No!
Cioè, sì. Insomma, pensavo di dover tornare
più tardi per via di alcuni
problemi, ma oggi lo staff mi ha detto che è tutto risolto e
quindi…» ripresi
fiato. «Finalmente torno a casa!»
Mi odiai per via del mio
perenne vizio di tartagliare come un idiota e di parlare a
velocità
supersonica. Speravo che Michael avesse capito almeno la
metà delle cose che
gli avevo detto.
«Marco, è…
è…» iniziò lui,
senza però concludere.
Le cose erano due: o non gli
faceva piacere che io ritornassi con così poco preavviso,
oppure lo avevo
infettato con la mia immensa idiozia e adesso anche lui si sarebbe
messo a
incespicare come uno stupido, come facevo sempre io.
«È…?» lo incoraggiai a
continuare.
All’improvviso sbottò: «Marco,
c’est magnifique! Je ne peux pas
croire que je vais rencontrer vous à nouveau et visitez vous
tous les jours et
que tu peux voir ma maison à Milan et je…»
«Michael!»
«Che cosa c’è?»
«Che caspita hai detto, si
può sapere? Di tutto ‘sto discorso ho capito solo
“Marco”» lo fermai.
Mi chiedevo se fosse contento
o meno del mio ritorno anche se, con la mia tendenza a pensare
negativo, mi
venne più facile ipotizzare che mi avesse appena rifilato
una sfilza di insulti
in francese. Forse erano parolacce che ancora in italiano non aveva
imparato.
Attesi con ansia la sua
risposta.
«Oh, tu ha ragione, Marco. È
solo che… io è so
felice per questo!
Io è felice tanto e ho parlato ma non ho pensato a
lingua» rise di sé stesso, non
senza una certa vergogna. «Scusa me se io ha parlato in
francese. Sono stupido
tanto.»
Bene, era così felice del mio
ritorno che si era dimenticato di selezionare
“italiano” dal suo vastissimo
menu di lingue che probabilmente aveva nel cervello. Era felicissimo,
talmente
tanto che aveva parlato nella prima lingua che gli passava per la testa.
E si definiva stupido?
Proprio non lo capivo quel
matto, ma di una cosa ero certo: non aveva sparato una sfilza di
insulti e la
cosa mi stava più che bene. Anzi, mi mandava su di giri.
«Stupido? Altro che stupido,
sei super-poliglotta: sei intelligentissimo!» gli risposi, in
preda
all’entusiasmo. «Anzi, se fai sempre
così va a finire che m’imparo pure un
po’
di francese.»
«Marco?»
«Yes?» lo imitai.
«Grazie.»
Pronunciò quel “grazie” in un
soffio, come se fosse una parola fragile, come se avesse paura di
frantumarla
nel dirla troppo forte.
«Grazie di cosa?»
Lo udii prendere il respiro e
poi rilasciarlo. «Grazie perché tu no fa sentire
me stupido quando io parla o
fa cose silly. Io ora mi sente un
po’… come dicete voi? Ah, sì,
intelligente.»
«Ma tu sei intelligente»
sottolineai.
«Lascia finire!» mi fermò. «Tu
sai, gente dice che me è strano, da sempre, ma…
Io no mi sente stupido, no mi
sente strano, no mi sente un freak
quando io è con te. Io sto così normale quando
noi due parla, ecco perché
grazie. Oh, Marco, tu è mio grande amico, io
adoro!»
Non me lo meritavo affatto.
Sapevo bene che il suo
discorso si riferiva a un passato non troppo recente, a quando le
persone lo
prendevano in giro per la sua dislessia, o per il suo essere eccentrico.
Eppure non sentivo di
meritare fino in fondo i suoi ringraziamenti: era talmente facile
volergli bene
e non ci voleva mica una laurea per capire che –non
esagero– era un vero e
proprio genio. Non avevo fatto niente di speciale.
Tuttavia, tutto ciò che
riuscii a ribattere fu: «Adoro?
Che è, la marca di un profumo?»
«Profumo è J’adore,
scemo!» rise di me. «Va bene,
ok: per ti ringraziare, quando tu torna io te insegna
francese.»
Esultai. «Perfetto, nel
momento in cui rimetto piede a Milano mi fiondo a casa tua e mi fai
lezione.»
«Me lo promessi?»
«Cosa?»
«Nel moment che tu arriva
qui a Milano viene qui da me e io ti insegna
francese» sentenziò. «Me lo
promessi?»
Avrei avuto almeno una decina
di buone ragioni per cui avrei dovuto accuratamente evitare di
“promessarglielo”.
A conclusione di uno dei tour
più sfiancanti della mia carriera, sarei stato stanco morto
e di certo Marta
avrebbe insistito che io filassi a casa a riposare, il che sarebbe
stato
esattamente il mio programma visto che, all’infuori del
palcoscenico, ero una
persona alquanto pigra. Nel caso in cui mi fossi sentito abbastanza in
forze,
comunque avrei dovuto concentrarmi su ben altro: organizzazione di
eventi,
pianificazione di un possibile lancio del mio disco in Spagna,
aggiornamento
dei social…
«Te lo promesso» lo presi in
giro. «Non appena arrivo, mi precipito da te.»
… e ovviamente fui così
cretino da ignorare bellamente tutto quanto pur di rivedere il mio
amico. Chi
ero io per dare a Mika del bambino, quando io stesso mi comportavo come
un
cinquenne che non vede l’ora di andare a casa del suo
compagno di scuola?
Tra bambini quali noi eravamo,
però, ci intendemmo alla perfezione, così
rimanemmo d’accordo: una volta
tornato a Milano, sarei andato a trovarlo quel giorno stesso.
L’avrei fatto per un motivo e
uno soltanto, ossia perché mi era mancato immensamente. Ma
questo non glielo
dissi, non al telefono almeno, gliel’avrei detto di persona
dopodomani. Quando
ci saremmo rivisti.
I due giorni erano passati,
io ero arrivato a Milano in mattinata insieme a Marta e nel corso della
giornata avevo atteso il momento giusto per poter fare un salto da
Michael.
Purtroppo non avrei potuto
neanche volendo: era capitato il più orribile, spiacevole e
difficile degli
imprevisti ed ero bloccato in casa. Non sarei potuto uscire per nulla
al mondo,
tantomeno per andare da lui.
Erano quasi le undici di sera
quando ricevetti la sua telefonata e sapevo che non me la sarei cavata
con
poco, ma risposi ugualmente.
«Pronto?»
«Grazie mille, Marco» disse
freddamente.
Ci mancava solo questo. «Non
è il momento.»
«Se tu no voleva venire a mia
casa, tu mi diceva ieri. Io ti ha aspettato tutto il giorno anche se io
ha
avuto impegni.»
Aveva tutte le ragioni per
essere arrabbiato, ovviamente: gli avevo dato buca senza neanche
avvisarlo, era
normale che manifestasse tutta la sua (giustificata) irritazione. Mi
sarebbe
parso strano il contrario.
Ma ora, proprio ora, non era
il momento.
«Sì, hai ragione e mi
dispiace, ma abbiamo avuto un problema» ammisi.
Il suo tono era velenoso:
«Chi, tu e tua girlfriend?»
«Michael, ti prego…»
Marta, che fino ad allora era
rimasta in disparte, capì che stavo parlando con lui e
saltò in aria.
«Passamelo!»
«Marta, non adesso» la
fermai.
Ma lei non volle sentire
ragioni. Mi strappò il telefono di mano e, beh, io la
lasciai fare. Non avevo
abbastanza energie per lottare contro la sua caparbietà.
Lo attaccò fin da subito:
«Senti, tu, Mika. Non me
ne frega
niente se ti girano o meno, per colpa tua siamo nei guai fino al
collo.»
Mi venne da piangere. Non era
giusto che lo trattasse così, ma visto ciò che
era successo non potei biasimarla
per essere così furiosa.
Lei proseguì, con lo stesso
tono isterico: «Oggi ci ha chiamati il nostro ufficio stampa,
perché in un sito
di gossip parlavano giusto di te. E sai che cosa dicevano? Che tu e
Marco ve la
fate!»
«Adesso
basta» tentai di intervenire.
«Marco, lasciami fare il mio
fottuto lavoro!» mi rimise al mio posto, poi tornò
a parlare con Michael. «Sì, è
come dire che state insieme. Per colpa tua e di quegli Home Visit di
merda ora
tutti pensano che voi due avete una storia.
Ho provato a chiamare gli amministratori di quei siti, chiedendogli di
pubblicare una ritrattazione, visto che non è affatto vero
che tra voi due c’è
qualcosa, e loro sai che mi hanno risposto? “Il signor
Mengoni ha forse
qualcosa da nascondere?” Questo vuol dire che tu
devi risolvere questa cazzo di faccenda!»
Marta si fermò e io mi
premetti forte le nocche sul labbro, per evitare di piangere.
Non era una novità che la mia
sessualità fosse argomento chiacchierato, ma come avrei mai
potuto pensare che
la mia amicizia con Michael potesse essere subito fraintesa e
trasformata in qualcos’altro
da degli idioti qualunque?
Mi sentii avvampare e mi tremarono
le mani per il nervosismo.
Sentii la voce di Michael
dall’altra parte del telefono parlare in modo concitato, poi
Marta lo schernì:
«Ah, sì? Voglio proprio vedere. Come ti pare. Te
lo passo.»
E mi porse il telefono.
Lo afferrai immediatamente.
«Michael? Mi dispiace, io…»
«È tutto bene, Marco. Ora io
capisco» sembrava più rilassato adesso.
«Ho promesso a tua manager che ci pensa
io.»
«Io non volevo darti buca,
solo che…»
Mi interruppe di nuovo: «Tu
viene da me domani, questa volta davvero, ed è come se
niente è successo, ok?
Non si preoccupa per stupidi siti di gossip: ci penso io.»
«Ok» gli risposi appena,
sull’orlo delle lacrime.
Come sarebbe riuscito a
smontare una voce del genere senza insospettire nessuno? Con una
notizia come
quella, i maniaci del pettegolezzo avrebbero potuto marciarci sopra per
mesi e
ne avremmo risentito entrambi, era solo questione di tempo. Allora come
avrebbe
fatto lui?
Non lo sapevo, ma decisi di
fidarmi.
«Perfecto. Bye Marco» e
staccò la chiamata.
Rimasi a fissare il telefono
per non so quanto tempo, come per chiedere a quell’aggeggio
senza vita se
Michael ce l’avrebbe fatta a tirarci fuori da quella
situazione infernale.
«Che ha detto?» Marta mi
riportò alla realtà.
Alzai le spalle. «Che ci
pensa lui.»
«L’ha detto anche a me, ma
non ne sono affatto convinta. Non mi fido di lui.»
Sollevai la testa di scatto e
le risposi a tono. «Io invece mi fido di lui. È
mio amico e se ha detto che ci
penserà lui, vedrai, manterrà la
parola.»
La soffitta dell'autrice:
Ok, ciao gente splendida! Come state, vi sono mancata?
*una palla di fieno viene trasportata dal vento*
Sì, va bene, abbiamo concluso con l'udito, ora possiamo
passare al senso successivo, uno di quesi sensi "non convenzionali".
Ma prima, ringrazio la mia mitica beta comeunangeloallinferno94. Sei
una FIGATA TOTALE.
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e anche quelli che
semplicemente hanno dato una sbirciata... e vi aspetto tutti nel
prossimo capitolo.
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Capitolo 4 *** Termopercezione ***
Ter•mo•per•ce•zio•ne [La
termopercezione è ciò che ci permette di sentire
le temperature dell’ambiente circostante, grazie ai recettori
nella pelle, e le
temperature del nostro stesso corpo, grazie ai recettori interni al
corpo.]
Mika’s POV
“Altro
che Marco Mengoni: Mika è fidanzato da sette
anni!”
Questo diceva il titolo dell'articolo. Già. Quel giorno
sul web non si parlava d’altro che della mia più
recente intervista, nonché la
più importante tra tutte quelle che avevo rilasciato.
Avevo dichiarato di essere
felicemente impegnato da ben sette anni con un uomo ed elencavo tutto
ciò che
volevo dalla mia vita con lui: matrimonio, figli, un legame per la vita.
Io, tappato in casa per via
di un terribile temporale che aveva bloccato mezza Milano, con indosso
il
maglione più soffice e caldo che avevo e i riscaldamenti al
massimo –per
combattere quel freddo innaturale che il maltempo portava con
sé–, la rilessi
almeno cento volte.
Il mio fidanzato, Andy, era
impazzito di gioia quando glielo avevo detto. Era stufo che tutti mi
ritenessero single, quando invece noi due avevamo una relazione
così longeva e
non aveva fatto che ripetermi quanto fosse felice e quanto non vedesse
l’ora di
rivedermi per stringermi e baciarmi e, insomma, altre cose da fidanzati.
Quello che avevo
accuratamente evitato di dire, però, era il motivo per
cui ero uscito allo
scoperto.
Ossia, per Marco. Per far
tacere tutte le voci su noi due. Gli avevo dato la mia parola che avrei
risolto
la questione e l’avevo fatto, così ora nessuno si
sarebbe più azzardato a dire
una parola sulla nostra “presunta relazione”. Per
il pubblico, oramai, ero
quello fidanzato.
Era a questo che stavo
pensando quando bussarono alla porta.
Sussultai. Non poteva essere Marco,
no? Fuori c’era un tempaccio, Marta non gli avrebbe mai
concesso di uscire di
casa, per evitare mal di gola, raffreddore, influenza. Non poteva in
alcun modo
essere lui.
Bussarono di nuovo.
«A’ Michael, apri ‘sta porta
che me sto a congelà!»
Sì, era senza ombra di dubbio
Marco.
Mi precipitai ad aprirgli e
me lo ritrovai di fronte bagnato fradicio, dalla testa ai piedi, con le
braccia
spalancate e un sorriso estatico sul volto.
«Marpione che non sei altro!
Perché non me ne hai mai parlato?»
«Entra, now!»
lo intimai, spingendolo in casa. Era completamente pazzo a
beccarsi il più grande acquazzone della stagione!
Marco richiuse la porta
dietro di sé, poi si levò la giacca completamente
zuppa e si passò una mano tra
i capelli, ora piatti e gocciolanti. «Fa un freddo cane
là fuori.»
Scossi la testa. Sapevo che
la colpa era mia, che ero stato io a dirgli di venire, per farsi
perdonare di
avermi dato buca l’ultima volta. Ma di certo non volevo che
si riducesse in
quello stato pur di passare a trovarmi. «No era bisogno che
tu viene. Ora tu ti
amala con questo tempo.»
Lui mi guardò come se fossi
impazzito. «Come avrei mai potuto perdere
l’occasione di farti le mie
congratulazioni?» mi diede una gomitata scherzosa
sull’avambraccio. «Sette
anni, eh? E bravo il nostro Michael! Dimmi, lui come si
chiama?»
Sorrisi. Era così tipicamente
da Marco tutto questo. «Andrew.»
«Wow, forte, come il tuo
cameraman!» constatò distrattamente. Contai fino a
tre prima che il suo volto
divenisse di colpo consapevole: «Oh, aspetta. Tu stai con il
tuo cameraman? Ma
è una figata pazzesca!»
Annuii. Mio cameraman, nonché
grande amore della mia vita, Andy era esattamente l’opposto
di come sembrava:
se all’apparenza poteva apparire come un fighetto londinese
con la puzza sotto
il naso, dentro era la persona più semplice e spensierata
che avessi mai
conosciuto. Lo amavo alla follia e il sentimento, lo sapevo, era
totalmente
ricambiato.
In quel momento, però, la
cosa perdeva di importanza alla luce del fatto che Marco era fradicio e
che
rischiava di beccarsi una polmonite coi fiocchi se non si fosse
asciugato
all’istante.
Gli scompigliai i capelli,
che schizzarono acqua ovunque.
«Sembra mio cane quanto fa il
bagno» lo presi in giro.
Lui sbuffò. «Michael, sei
proprio fissato con il tuo cane.»
«Tu deve asciugare o tu te
amala» lo ammonii.
«Hai ragione, non puoi capire
che freddo fa là fuori… Ce l’hai un
phon?»
«Certo, io te lo prendo
subito» gli indicai il corridoio. «Tu va in mia
camera, in seconda porta alla
sinistra.»
«Perché devo andare in camera
tua?»
Quanto era scemo quel
ragazzo? «Perché tu non può stare con
tuoi vestiti bagnati, quindi tu mette
miei fino a che tuoi sono asciugati.»
Eluse le mie preoccupazioni
con un gesto della mano. «Mi asciugo tutto con il phon, non
c’è bisogno che mi
presti i tuoi vestiti.»
Lo squadrai dalla testa ai
piedi: era zuppo ovunque, e per ovunque intendevo ovunque.
I vestiti gli aderivano addosso quasi come una seconda
pelle. Nell’osservarlo, mi balzarono all’occhio un
paio di cose a cui non avevo
mai fatto caso, per esempio che aveva le spalle notevolmente larghe, o
che il
suo torace era ben definito. Un fisico notevole: probabilmente era
tutta la
palestra che faceva.
Forse in casa faceva davvero
troppo caldo, perché mi sentii avvampare appena.
«Per asciugare te, io deve
prendere cento phon» gli
feci notare.
Scoppiò a ridere,
arrendendosi. «Come dici tu, Michael. Seconda porta a
sinistra hai detto?»
«Yes. Io ti prende phon e
arriva.»
Mentre si allontanava,
diretto verso la mia stanza, mi colse una consapevolezza sciocca e
improvvisa,
che però mi lasciò comunque spiazzato. Eravamo
amici e certe cose, in un amico,
sono strane da notare.
Eppure, quel giorno per la
prima volta mi accorsi che Marco era davvero un bel ragazzo.
Oddio, ero un idiota.
Un idiota con i
controfiocchi, aggiungerei. Stavo lì, con il phon in mano,
di fronte alla porta
della mia stanza da letto, senza avere il coraggio di entrare.
Rischiavo di
ritrovarmi davanti a un Marco seminudo e, per qualche motivo, la cosa
mi metteva
a disagio. Probabilmente dipendeva dal fatto che sapevo quanto lui
fosse pudico
e non volevo metterlo in imbarazzo.
«Marco, io ha portato phon!»
mi annunciai, così se fosse stato davvero seminudo avrebbe
avuto il tempo di
infilarsi qualcosa addosso prima che aprissi la porta.
Infine entrai e lo vidi, in
jeans e nient’altro, con
i capelli
ancora umidi, scandagliare il mio armadio alla ricerca di un maglione
da
indossare. Non sembrò scomporsi più di tanto in
mia presenza.
Dovevo abbassare quei dannati
riscaldamenti. Iniziava a fare davvero troppo
caldo.
«Perché i tuoi maglioni
devono essere tutti così sgargianti?» mi
rimproverò. «Uno nero non ce
l’hai?»
Avanzò verso di me per
prendere il phon e quando glielo porsi, avvertii chiaramente il calore
salire sulle
mie guance.
Va bene, evidentemente ero
più pudico di quanto non pensassi, visto che mi sentivo in
soggezione di fronte
a un ragazzo a torso nudo.
Mi sedetti sul letto mentre
lui si asciugava i capelli. Attraverso i vestiti mi era parso
semplicemente magro,
ma adesso che avevo modo di vederlo senza maglietta potevo constatare
che il
suo fisico era anche asciutto e tonico.
Distolsi educatamente lo
sguardo, poggiando il mento su una mano e mi stupii di quanto, a
dispetto delle
mie guance roventi, le mie mani fossero gelide.
«Ok, ho fatto» annunciò
Marco, restituendomi il phon. Poi tornò alla selezione del
maglione.
La sua schiena nuda era
proprio di fronte a me e, benché mi sforzassi, non riuscii a
resistere alla
tentazione che il suo corpo mi offriva.
Ossia quella di fare
dispetti.
La mia attività preferita.
Pertanto mi avvicinai di
soppiatto a lui e premetti forte i palmi delle mani, che sapevo essere
fredde
come il ghiaccio, sulla sua tiepida schiena, che immediatamente si
inarcò.
L’urlo che gli fuoriuscì
dalle labbra era più adatto a una sedicenne che a un uomo
grande e grosso come
lui.
«Sei un bastardo!» mi urlò,
voltandosi.
Scoppiai a ridere e continuai
a cercare nuovi punti in cui toccarlo e dargli l’orribile
sensazione delle dita
gelide sulla pelle calda. Fu una lotta senza esclusione di colpi, in
cui lui
cercava di sfuggirmi ma, non essendo abbastanza agile, finiva sempre
per farsi
beccare e imprecava contro di me.
Alla fine riuscì ad
afferrarmi i polsi e ad allontanarmi da lui, con il più
bello dei sorrisi
stampato in volto, gli occhi lucidi e le gote rosse.
Restammo in quel modo per un
po’. Anche quando finimmo di ridere.
Ci guardammo, rossi in viso,
io bloccato dalle sue mani forti.
Capii solo allora che Marco
non era semplicemente bello. Possedeva quel tipo di bellezza pericolosa
che ti
fa scattare un campanello d’allarme nel cervello, soprattutto
se sei fidanzato.
Mi schiarii la voce. «Marco?»
Lui non mi lasciò andare come
pensai che avrebbe fatto. «Dimmi pure.»
“Ora devi andare”. Questa era
la frase che avrei dovuto dirgli, per conservare un minimo di
lucidità. «Ti va
di restare per cena?» fu invece la frase che gli dissi.
«Io cucino.»
«Ok, va bene!» accettò e solo
allora mollò la presa. «Che prepari di
buono?»
Ci pensai su un attimo. «Io
imparato a fare la pasta alla marciana.»
Marco si mise a braccia
conserte, guardandomi come se fossi il peggiore dei peccatori.
«Casomai» tuonò
«è “pasta
all’amatriciana”. E se non la cucinerai al meglio i
miei antenati
laziali si rivolteranno nella tomba.»
«Allora è meglio che io va»
finsi di inchinarmi a lui (o ai suoi antenati laziali) e uscii dalla
stanza.
Ma prima passai dal bagno.
Dovetti sciacquarmi il viso
con acqua fredda, freddissima. Perché mi rifiutavo di
pensare che il calore che
sentivo alle guance fosse da attribuire a una ragione che non fossero i
riscaldamenti troppo alti.
«Marco, cena è
prontata!»
lo chiamai dalla cucina.
Posai i due piatti di pasta
fumante sul tavolo e attesi che lui mi raggiungesse.
Quando mise piede in cucina,
però, mi accorsi che era rimasto così come
l’avevo lasciato. Non nudo, bensì
con il viso rosso e gli occhi lucidi. Si strofinò le braccia
come se avesse
freddo, eppure i riscaldamenti erano alti. Anche
troppo.
«Te sente bene?» gli chiesi
prontamente.
«Certo» rispose lui, forse un
po’ troppo in fretta perché potesse essere
convincente.
Dannazione a Marco. Proprio
nel giorno del secondo Diluvio Universale doveva decidere di venirmi a
trovare?
A piedi e senza neanche un cavolo di ombrello, per di più?
Avrei dovuto
immaginarlo che si sarebbe ammalato.
Mangiammo in un tenue
silenzio, io ogni tanto scrutavo Marco e più lo guardavo,
più me ne convincevo:
aveva la febbre, senza ombra di dubbio. A volte, pensando di non essere
visto,
si sfiorava le tempie per controllare se fossero calde o meno e, a
giudicare
dalla sua reazione, dovevano essere bollenti.
Finimmo di mangiare e lui
commentò la mia pasta dicendo che era ottima, ma che mi
avrebbe insegnato un
paio di trucchi per renderla più saporita, come suo padre
(che lui definì “il
re dell’amatriciana”) gli aveva insegnato.
Poi afferrò i piatti e li portò
verso il lavello.
«Tu non fa!» lo fermai. «No,
io lavo piatti, non tu.»
«Tu hai cucinato e io
sparecchio e lavo, è equo» ribatté,
ostinato.
Gli tolsi i piatti sporchi di
mano e gli passai una mano sulla fronte. Bollente, come sospettavo.
Abbassò lo sguardo. «È solo influenza,
niente di che.»
«Tu ora ti siede su divano e
aspetta, io lavo piatti.»
Forse troppo debole per
insistere ancora, mi ringraziò e andò verso il
soggiorno.
Lavai tutto a velocità
supersonica –avevo fretta, volevo andare a vedere come stava
quel piccolo
idiota– e, quando finii, mi affrettai a raggiungere il salone.
Lo spettacolo che mi si
proiettò davanti non mi piacque affatto.
Marco era accasciato sul mio
divano, probabilmente addormentato, e tremava nel sonno. Il suo viso
era in fiamme
e batteva i denti.
Quello era un febbrone, altro
che influenza! Non sapevo cosa fare, avrei dovuto misurargli la febbre,
ma dove
diavolo avevo messo il termometro? Era ancora in valigia, forse, sempre
che non
me lo fossi dimenticato a Londra.
Controllai l’ora: le dieci di
sera. Con una pioggia torrenziale. Ergo, nessuna possibilità
di chiamargli un
taxi, né di riaccompagnarlo a casa visto che anche io, come
lui, ero sprovvisto
di autovettura.
Che cosa dovevo fare? Che
cosa avrei dovuto fare?
In preda a un lieve panico
feci l’unica cosa che mi parve sensata in quel momento: mi
precipitai a prendere
una coperta e a stenderla su di lui. Attesi qualche minuto, ma il
tremore non
accennava a passare. Ne presi un’altra e stavolta
sembrò aiutarlo un po’ di più,
perché passò da un vero e proprio tremore a dei
brividi appena accennati.
Decisi di provare a
svegliarlo.
«Marco?» lo chiamai.
Nessuna risposta.
Gli scossi la spalla: «Marco,
ti sveglia?»
Alla fine aprì appena gli
occhi, lucidi e rossi, e mi fissò per un po’.
«Michael?» disse con un filo di
voce. «Mi sono addormentato, scusa.»
Tentò di alzarsi, ma gli
posai le mani sulle spalle. «Tu no ti sposti de
qua.»
A quel punto ero sicuro che
se ne sarebbe uscito con una delle sue proteste, cose del tipo
“Ma io sto bene”
oppure “Devo proprio tornare a casa”, come faceva
sempre.
«Ho freddo» mugugnò invece,
rannicchiandosi sul divano.
Se non protestava, la
faccenda doveva essere davvero seria.
Tutt’a un tratto, mi venne in
mente che io stavo indossando il maglione più caldo che
avevo a disposizione e
che di certo, se l’avesse indossato, avrebbe potuto aiutarlo
a stare un po’
meglio.
Mi sedetti accanto a lui. «Marco,
questo sweater è molto
caldo, tu può…»
Lui si sollevò leggermente e
pensai che volesse alzarsi in piedi. Invece si gettò addosso
al mio maglione,
affondandovi il volto e le mani.
Mi correggo. Si gettò sul mio
petto.
Campanello
d’allarme, pensai. Campanello
d’allarme.
Tentai di scostarlo
delicatamente da me, perché non era il caso che mi stesse
così addosso, ma il
modo in cui cercava il calore del mio stupido maglione, in preda ai
brividi, mi
causò una dolce fitta allo stomaco. Era tenero.
Sì, decisamente tenero.
A quel punto non potei fare a
meno di passare le braccia attorno al suo corpo e strofinarlo, in modo
da
riscaldarlo. Pian piano i brividi diminuirono fino a cessare del tutto
e,
quando ciò avvenne, Marco era già addormentato da
un pezzo.
Io rimasi lì, a osservarlo.
Non andava affatto bene.
Sentivo le sue dita gelide
sfiorarmi appena il collo e allora percepii chiaramente il calore
insinuarsi
nelle mie guance, nelle mie mani.
E nel mio cuore.
Passò molto tempo prima che
riuscissi a prendere sonno, ancora stretto a Marco su quel divano.
Il giorno in cui avevo
annunciato al mondo di essere felicemente innamorato del mio compagno
da anni e
anni avrebbe dovuto essere il giorno più bello della mia
vita, e invece si
rivelò il più orribile di tutti.
Perché in un’uggiosa sera di
ottobre, mentre la pioggia batteva sui vetri della finestra e in casa
faceva fin
troppo caldo, io fui colto dalla più imprevedibile delle
verità.
Provavo qualcosa per Marco
Mengoni.
Quando mi svegliai, ero
stravaccato sul divano nella peggior imitazione di una stella marina,
con
braccia e gambe spalancate. Marco non c’era.
Scattai a sedere e mi guardai
intorno: sul tavolino c’era il suo cellulare e le sue scarpe
erano ai piedi del
divano, quindi era ancora qui.
Mi chiesi se si sentisse
meglio, se la febbre gli fosse passata, che ore fossero.
Fuori dalla finestra c’era
luce, quindi era giorno, e pareva che finalmente avesse smesso di
piovere,
benché il cielo fosse ancora grigio.
«Michael!»
Mi voltai immediatamente.
Marco mi salutò, con il suo
solito sorriso raggiante. Indossava i suoi vestiti, ora asciutti, il
suo volto
era tornato del solito colorito e sembrava stare decisamente meglio.
Lo stesso non si poteva dire
di me, che invece avevo le guance in fiamme e non stavo per niente
bene, ora
che, come il peggiore dei liceali, capivo di essermi preso una cotta
per il mio
amico.
Io, cantante di successo,
fidanzato da tempo immemore, mi ero preso una sbandata per un mio
amico, altro
cantante di successo, probabilmente non interessato agli uomini.
Ero nei guai.
Si sedette sul divano e si
infilò le scarpe. «Senti, mi dispiace se stanotte
ti ho usato come… cuscino?
Materasso? Entrambe le cose?» scherzò, per
nascondere l’imbarazzo. «Non era mia
intenzione, scusami.»
«Non se preoccupare» risposi.
Ero io a dovermi preoccupare,
non lui! Ero io quello con un fidanzato gelosissimo e fedelissimo che
non aveva
mai neanche pensato a un altro in sette anni di relazione. Ero io
quello che si
stava invaghendo di lui. Ero io…
«È che il tuo maglione è così
caldo!» si giustificò ancora.
«Non
lo so che mi è preso, ti giuro. Cioè, potevo
chiederti semplicemente “Ehi, mi
presti quel maglione?” e invece no, mi ci sono aggrappato
tipo koala e poi mi
sono addormentato e, insomma, scusami ancora.»
Si passò una mano sulle
labbra, cosa che, avevo notato, faceva quando era nervoso.
«È tutto ok, davvero» lo
tranquillizzai.
Raccattò le sue cose in tutta
fretta e mi salutò. «Ok, allora ci vediamo, ok?
Grazie per l’amatriciana e per
tutto il resto.»
Si avviò verso la porta.
Pensai di fermarlo.
Lui uscì e io rimasi lì attonito
come un perfetto imbecille.
Oddio, che stavo facendo?
«Marco, aspetta!»
Spalancai la porta e feci
qualche passo fuori: lui era lì che mi fissava come se fossi
stato un povero
pazzo.
Aveva centrato il punto: ero
un povero pazzo senza speranza.
Perché non era da me
innamorarmi delle persone da un giorno all’altro, ma forse
Marco faceva
eccezione. O forse ero io, idiota, che non mi ero reso conto che lui mi
piaceva
già da un po’? No, che andavo a pensare? Ero
già fidanzato!
Ero davvero formidabile.
Formidabile a essere un cretino.
Marco mi raggiunse: «Che c’è?
Mi sono dimenticato qualcosa da te?»
«No, è che…»
Cosa potevo dirgli? Che scusa
potevo inventare?
Perché l’avevo richiamato
indietro?
Pensa,
cervello bacato, pensa!
E poi,
l’illuminazione.
Certo, ecco cosa avrebbe
potuto tirarmi fuori dai guai!
«In week-end c’è party a
studios di X Factor, noi festeggia prima puntata di
programma» spiegai
velocemente. «Tu viene.»
Scosse la testa: «Non sono
stato invitato.»
«No, no: tu viene» insistei.
«Come mio ospito. Please?»
Sgranò gli occhi e spalancò
la bocca. «Ma io non c’entro niente con il
programma!»
«Invece sì» gli feci notare.
«Tu ha aiutato me in scelta di ragazze di squadra. Tu viene,
a ragazze fa
piacere. A me fa piacere.»
Mi ripetei almeno cento volte
che Marco era mio amico, mio amico e basta, così come io ero
suo amico e basta.
Tra amici ci può essere solo amicizia e
nient’altro, semplice.
«Sì.»
Sollevai lo sguardo. «Che
cosa?»
«Sì, certo che ci vengo»
esclamò, poi si avvicinò e mi strinse in un
abbraccio che mi parve fin troppo breve.
«Grazie, sei il migliore!»
«No, Marco, grazie a te.»
Fece per andarsene, ma poi ci
ripensò e si voltò.
Mi diede due baci sulle
guance, tipico saluto italiano di congedo. Solo allora se ne
andò.
Rimasi lì, imbambolato. Le
sue labbra erano tiepide, ma avevano reso le mie guance tutto un fuoco
e, a
contatto con l’aria frizzantina che c’era fuori, mi
sentii come dentro a un
forno.
Non andava bene.
Rientrato in casa, afferrai
il telefono. Dovevo chiamare Andy, dirgli quanto mi mancava e
ricordargli
quanto lo amavo.
E avrei fatto bene a
ricordarmelo anch’io.
La soffitta
dell’autrice:
Buongiorno bei
passerotti!
Ok, lo so,
sono in ritardo abissale. Ma mi sono
rifatta con un capitolo che è notevolmente più
lungo dei precedenti.
Le cose si
mettono “male” per i nostri due patatoni
(-cit. Fedez) e, che dire?
Da questo
momento in avanti le cose si muoveranno molto velocemente: i sensi
non sono molti e vorrei riuscire a toccare uno a uno i punti salienti
della
loro storia, quindi non mi dilungherò troppo d’ora
in poi.
Ergo,
preparatevi a scariche di feels l’una dopo
l’altra senza pause.
Io vi ho
avvertiti.
Come al solito
ringrazio la mia meravigliosa,
fantastica, sensazionale beta comeunangeloallinferno94. Te se ama, baby
Mi sono
già dilungata troppo
Baci.
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Capitolo 5 *** Gusto ***
Gus•to
[Il gusto è
uno dei sensi,
i cui recettori sono
le gemme gustative presenti nelle papille
gustative della lingua,
nel palato
molle,
nella faringe,
nelle guance e
nell'epiglottide.]
Marco’s POV
Stavo per morire.
Sarei stramazzato al suolo
lì, sul pavimento di casa mia, con la mia manager come unica
testimone del mio
imminente decesso.
Camminavo avanti e indietro,
misurando a grandi passi il pavimento del soggiorno di casa mia mentre
Marta,
pigramente seduta sul divano, tracannava una birra. Stavo per avere una
crisi
di nervi.
«Marco, non ti agitare»
sbuffò Marta. «È solo una festa agli
studios, mica stai andando al patibolo.»
«Una festa agli studios di X
Factor, ti ricordo» la corressi.
Una
festa agli studios di X Factor alla quale mi ha
invitato Michael,
aggiunsi nella mia
mente.
Mi risistemai la giacca,
abbottonandomela e sbottonandomela almeno tre volte di seguito: stavo
aspettando che passassero a prendermi appositamente gli autisti scelti
dal
programma per portarmi agli studios. A dirla tutta, del party non me ne
importava niente. Ci andavo solo perché lui
mi aveva invitato.
Teso come una corda di
violino, cercai istintivamente il pacchetto di sigarette nella tasca
dei jeans,
salvo poi ricordare che avevo deciso di proposito di non fumare, quella
sera.
Doveva essere tutto perfetto. Io
dovevo essere perfetto (o quantomeno accettabile). Pertanto decisi di
sfogare
il mio nervosismo in altro modo e dirottai su un pacchetto di
chewing-gum, dal
quale estrassi una gomma che mi infilai subito in bocca.
La bruciante freschezza della
menta mi invase immediatamente il palato e danzò sulla mia
lingua, facendomi
sentire le labbra gelide quando iniziai a masticare freneticamente. Non
era
come le sigarette, ma almeno la mia bocca non sapeva di nicotina, e
impediva
all’ansia di crescere in modo esponenziale.
«Non è che sei così nervoso
perché a questa festa del cavolo ti ci ha invitato Mika,
vero?» insinuò Marta.
Mi irrigidii. Colpito e
affondato in pieno.
Per lei ero un libro aperto,
quindi capiva alla perfezione il modo in cui mi sentivo.
Peccato che il primo a non
capirlo fossi io.
Non sapevo quando fosse
successo con esattezza, ma da un po’ di tempo iniziavo a
sentirmi strano quando
si trattava di Michael: posavo lo sguardo su di lui e non riuscivo a
staccargli
gli occhi di dosso neppure volendo, arrossivo come una ninfetta quando
mi toccava,
contavo le ore nell’attesa di risentirlo e, quando avevo
l’occasione di parlare
con lui, sentivo sempre un dolce sfarfallio nello stomaco.
E volevo essere perfetto
quella sera, perché volevo apparire perfetto ai suoi occhi.
Ovviamente, eravamo amici e
questo era fuori di dubbio. Il problema era proprio questo: non
riuscivo a
capire se questa forte amicizia che mi legava a lui si stesse
trasformando per
me in… altro. In qualcosa di più. Ero confuso e
non poco.
Masticai la gomma con forza.
«Marta, ti prego, non ti ci mettere anche tu.»
«Cosa
stai combinando, Marco?»
«Non lo so, va bene?»
sbottai. «Non chiedermelo, perché non ci capisco
niente, quindi non saprei cosa
risponderti!»
La sentii sospirare, poi si
avvicinò a me e iniziò a lisciarmi le spalline
della giacca. Mi arrivò alle
labbra il suo fiato caldo e amaro di birra.
«Posso chiarirti io le idee,
se vuoi» disse e seppi che stava per arrivarmi una bella
paternale. «Lui è Mika. Capito?»
La gomma da masticare stava
pian piano perdendo sapore, diventando dura e dal retrogusto acre: su
questo mi
concentrai, evitando sistematicamente di porre la mia attenzione su di
lei. Non
mi piaceva la piega che voleva dare al discorso.
Marta proseguì ugualmente. «Qualsiasi
cosa tu possa volere da lui, non la otterrai. Se anche volesse farsi
qualcun
altro in assenza del suo fidanzatino londinese, di certo non andrebbe
con il
primo che passa.»
«Il primo che passa sarei
io?» chiesi, retorico.
Conoscevo perfettamente la
risposta.
«Pensi che io sia cretina,
Marco?» rise amaramente. «L’ho capito che
‘sto Mika ti fa scatenare gli ormoni,
e mi va bene. Ma non puoi pensare seriamente che tra voi due possa
nascere
qualcosa. Potrebbe avere chiunque, santo cielo, in qualunque paese del
mondo.
Perché dovrebbe volere te?»
Perché
dovrebbe volere te?
La verità di
quelle parole mi
trafisse come una stilettata e seppi che aveva ragione. Michael e io
eravamo
amici, punto e basta, non dovevo confondere il nostro solido legame con
qualcosa di più. Che cosa andavo a pensare? Ancora una
volta, Marta era
riuscita a fare chiarezza, e a dissolvere ogni mio dubbio.
Sì, certo. Chi volevo
prendere in giro?
Ero ancora più confuso di
prima.
I miei pensieri vennero
interrotti dal suono di un clacson. Sapevo cosa stava a significare.
Erano
venuti a prendermi per portarmi al party agli studios.
All’improvviso, non avevo più
tanta voglia di andarci. Non avevo neanche più voglia di
essere perfetto, a
dirla tutta.
«Forza, è ora» disse Marta,
dandomi delle pacche sulle spalle. «Vai, divertiti e non
pensare a lui.»
La stinsi in un veloce
abbraccio e uscii di casa. Mi sarei divertito. Non avrei pensato a lui.
Marta
aveva ragione e avrei dovuto fare come diceva lei.
Prima di entrare in macchina
sputai la cicca per terra: ormai era diventata dura, aspra e insapore.
In pratica, come mi sentivo
io in quel preciso istante.
«Marco!»
Dannazione.
L’autista aveva parcheggiato ed
io ero sceso dalla macchina ma, non appena avevo messo piede a terra,
mi ero
sentito chiamare.
E la voce era quella inconfondibile
di Michael.
Mi voltai e lo vidi, bello da
mozzare il fiato in un elegante completo in fantasia tartan scozzese,
che
avanzava verso di me. Il suo sorriso era raggiante e al sol vederlo mi
venne
l’impulso di fumare venti sigarette tutte in una volta dal
nervosismo.
«Marco, io ti aspettava!» disse,
raggiungendomi e abbracciandomi di slancio.
Perché
dovrebbe volere te?, pensai, per qualche strana
ragione. Sentivo quella
frase dal gusto agro tremare sulle mie labbra, come se fossi sul punto
di
dirgliela io stesso.
Marco,
non fare l’idiota, non è successo niente di che,
comportati come al solito.
Mi divincolai dal suo
abbraccio e tentai una battuta: «Mi hai aspettato? E dove,
qui nel parcheggio?»
«Sì.»
Lo guardai negli occhi,
cercando un accenno di ironia che però non trovai: non stava
scherzando.
Indicai l’enorme edificio alle nostre spalle.
«Scusa, là dentro c’è una
festa e tu resti tutto il tempo fuori ad aspettare ‘sto
povero deficiente?»
chiesi, incredulo, indicando me stavolta.
«Sì» rispose di nuovo, con
una piccola risata. «Io no entra se tu no ci sei, se no io ha
noia e basta.»
Perché
dovrebbe volere te? Perché dovrebbe volere te?, dovetti ripetermi. Avrei potuto
sciogliermi per
quanto era dolce. Come avrei fatto a non pensare a lui tutta la sera,
dopo che
mi aveva detto queste cose?
Mi
prese a braccetto. «Dai, noi entra perché noi
è tardi.»
Il mio cuore prese a bestemmiare
nel momento in cui le nostre braccia entrarono in contatto. Mi imposi
la calma
e, con un sorriso, entrammo.
Venni trascinato all’interno
degli studios: luci soffuse, musica alta ma non troppo, gente
raggruppata in
grandi e piccoli capannelli, un diffuso chiacchiericcio, sorrisi falsi
e veri
cipigli. Michael mi tenne saldamente mentre facevamo il nostro
ingresso. Era
come essere all’interno di un enorme bicchiere di champagne:
frizzante e colmo
di bollicine che risalivano impazzite scontrandosi l’una
all’altra. Il tutto,
nonostante le occhiate della gente che ci fissava, era delizioso.
Strano a
dirsi, mi piaceva.
«Marco!»
Mi voltai: a chiamarmi era
stata Simona la quale, fasciata in un abito verde mela, venne verso di
me con
zelo, zampettando sui suoi tacchi vertiginosi. Mi afferrò il
volto,
schioccandomi due baci sulle guance, e poi mi strinse a sé.
Più precisamente al
suo decolleté, cosicché mi ritrovai la faccia
premuta sui suoi abbondanti seni.
Alquanto imbarazzante, non c’è che dire.
Quando mi staccai da lei, con
la coda dell’occhio vidi Michael che se la rideva e scossi la
testa, pensando a
tutte le battute che avrebbe fatto al riguardo.
«Caro, non sai quanto sono
felice di vederti.» trillò Simona. «Ma
guarda come ti sei fatto gnocco!»
Ringraziai, non senza un certo
impaccio, e le risposi che ovviamente lei rimaneva splendida come al
solito,
che non dimostrava più di trent’anni, e che
eleganza! Parlammo per un po’ del
più e del meno, infine lei se ne andò,
accomiatandosi con un: «Godetevi la
festa, voi due piccioncini!» e lasciandoci lì.
Inutile dire che quella frase
mi mandò in panne il cervello.
Volevo ingoiare una
ghigliottina intera.
Perché piccioncini? Che
cosa stava a significare quel termine? Forse
intendeva che io e Michael eravamo carini insieme o, più
semplicemente, aveva
fatto un’inappropriata scelta di vocaboli? Oggi tutto il
mondo sembrava
cospirare contro di me.
«Ti ha piaciuto il giro?» Michael
mi diede una pacca sulla schiena.
Trattenni un sussulto. Perché
mi toccava sempre? Rendeva molto più difficile ripetermi Perché dovrebbe volere te?
«Giro?» chiesi.
«Su…
come dite voi? Le molgonfiere di
Simona!»
Fu più forte di me: scoppiai
a ridere, sia per il paragone assurdo che per lo strafalcione.
«Non puoi
capire, Michael! In mezzo a quelle tette c’è
Narnia, Hogwarts e pure il bosco
dei Cento Acri, guarda.»
Mi seguì a ruota nel mio
attacco di risa isteriche. Le persone si voltavano verso di noi
guardandoci
male e probabilmente si chiedevano quali pasticche esilaranti avessimo
preso
prima di venire lì, ma non ci importava. Ci stavamo
divertendo troppo.
«Marco» sghignazzò con le
lacrime agli occhi per le risate «Quindi a tu piace lei? Oh,
lei è così bionda,
matura, sensuosa!»
Feci segno di no con il dito,
cercando di riprendere fiato. «No grazie, non mi piacciono
quelle troppo sensuose.»
«No
piace bionda, matura e sensuosa come
Simona? Allora come?»
«A me piace alto, riccio e
libanese!»
Merda. Cos’avevo fatto?!
Smisi immediatamente di
ridere. Non volevo dirlo, non era mia intenzione, ma mi era scappato:
tra le risate
e la complicità, in quell’atmosfera che era
tipicamente nostra, per un attimo
eravamo tornati a essere solo Marco e Michael e, quando ero con lui,
ero sempre
sincero su tutto.
Lo guardai e lui guardò me,
un tenue sorriso stava abbandonando lentamente le sue labbra, come se
si
chiedesse se stessi scherzando o meno.
Perché
dovrebbe volere te? Ero stato un idiota.
Sospirai e tentai un sorriso
forzato: «Io vado a prendere da bere. Vuoi
qualcosa?»
«No»
biascicò, confuso. Poi si riprese e mi disse:
«Marco, wait…»
«Ci metto due secondi,
giuro!» e mi immersi di nuovo in
quell’effervescente bicchiere di champagne. Una
volta arrivato al bancone dei cocktail, ordinai un Irish coffee e
lì mi dovetti
fermare per riprendere fiato. L’agitazione mi stava uccidendo.
Che mi stava succedendo?
Michael non mi piaceva, non in quel senso, ne ero sicuro. Quasi sicuro,
perlomeno. Forse mi ero fatto talmente tanto condizionare dalle parole
di Marta
che adesso mi mettevo a rimuginare su ogni singolo gesto di Michael.
Perché
dovrebbe volere te?, ripetei come un mantra. Perché dovrebbe volere te?
Perché dovrebbe volere te?
«Dolci ricordi d’Irlanda?»
Oh, no.
Questa non ci voleva proprio.
Sollevai lo sguardo sul
cocktail che il cameriere mi aveva appena piazzato sotto il naso. Per
quanto
riguardava quella voce, amara come l’aceto e stantia come il
pane secco, non
ebbi bisogno di voltarmi per sapere a chi apparteneva.
Marco Castoldi. In arte,
Morgan.
Era stato il mio giudice
quando ero a X Factor e avevamo avuto alcuni screzi negli anni passati.
Bastava
un suo sibilo o un suo sorriso e io mi sentivo in soggezione come uno
scolaro
di fronte al maestro più severo.
Alla fine mi girai verso di
lui. Scoprii che Marco aveva la capacità di non invecchiare,
ma di fermentare
come il vino: si vedeva che il tempo era passato, ma al contempo
sembrava non
essere cambiato affatto.
«Marco Mengoni» pronunciò il
mio nome trascinando le vocali ed enfatizzando alcune lettere, come se
mi
stesse presentando formalmente a qualcuno.
«Marco Castoldi» provai a
imitarlo. Non ci riuscii.
Presi una sorsata di Irish
coffe e gustai golosamente la dolcezza della panna. Non ero solito
ubriacarmi,
ma l’alcol mi faceva sembrare tutto più
accettabile e speravo che la sua magia
potesse funzionare anche stasera, visto che le cose sembravano andare
di male
in peggio.
«Che piacere rivederti.»
proseguì con voce zuccherosa. «Allora, come ci
è arrivato qui il nostro caro
Marco Mengoni?»
Mi schiarii la voce. «Mi
hanno invitato.»
«Oh, giusto, giusto! Sei qui
con Michael, vero?»
Per poco non mi strozzai con
il cocktail. Michael? Non aveva
detto
che solo gli amici potevano chiamarlo in quel modo? Ok, in
realtà era
abbastanza logico: Michael e Marco erano colleghi, quindi era ovvio che
si chiamassero
per nome. Io stesso non lo chiamavo più Morgan da anni e
immagino che le cose
tra loro funzionassero più o meno allo stesso modo.
Mi stava venendo la nausea e
non seppi se era il cocktail, la presenza di Marco oppure sentire
qualcun altro
che chiamava il mio Michael per nome.
Mio?
No.
Non
dovevo neanche provare a pensarci. Perché
dovrebbe volere te?
Continuai a bere e presto la
dolcezza della panna si dissolse, lasciando spazio al forte amaro del
caffè
corretto. La qual cosa, pensai, era comica, poiché
perfettamente inerente alla
situazione: lui poteva anche fare lo zuccheroso, ma se non
l’avessi sorseggiato
con cautela avrei svelato fin da subito l’amaro che si celava
al di sotto.
«Lo sai che Michael mi ha
chiesto di te giusto qualche giorno fa?» biascicò.
Ebbi un colpo al cuore.
Michael che chiedeva di me ad altri? Non aveva senso. Eravamo amici e
lui
conosceva ogni cosa di me. Perché chiedere ad altri?
«Cosa
ti ha chiesto?»
Il suo tono divenne mieloso e
mi ignorò del tutto: «Che favola di party! Le
feste agli studios sono
psichedeliche, non trovi? Dovrebbero invitarti sempre a queste
serate.»
Non lo capivo mai quando
parlava in quel modo così contorto, era sempre stata la mia
croce. Pertanto
ribattei con un semplice: «Perché?»
Lui si finse sbalordito. «Ma
come perché? Sei il Marco Mengoni, vincitore della terza
edizione del talent, di
Sanremo e degli European Music Awards, il giovane più
promettente d’Italia
nonché l’orgoglio del programma! Dovresti essere
sempre tenuto in alta
considerazione dai magnacci dello show biz.»
Mi stava palesemente
prendendo in giro e lo sapevamo entrambi.
«Oh, bando alle ciance»
riprese a parlare. «E brindiamo al successo. Al tuo, ovvio,
che ha superato di
gran lunga il mio. Chapeau,
Marco.»
E sollevai il bicchiere nella
sua direzione, prendendo un sorso consistente. L’amaro del
caffè venne quasi
soffocato dal piacevole bruciore del whisky e, per un attimo, scordai
del tutto
quello sgradevole incontro.
«E, ovviamente, un brindisi
al suo di successo» si
voltò «che
supera di gran lunga il tuo e il mio messi insieme. Inutile cercare di
batterlo, sarà sempre un passo avanti a noi, quel
mattacchione.»
Seguii la direzione del suo
sguardo e beccai Michael intento a ballare insieme a Valentina, una
delle
ragazze della sua squadra. La trascinò in un folle casquet
e, per un attimo,
desiderai ardentemente essere lì con lui.
Solo dopo un po’ notai che
Marco aveva spostato la sua attenzione da Michael a me. Sul volto aveva
l’espressione più subdola che gli avessi mai
visto, il che fu abbastanza per
mettermi in agitazione.
«Attento, Marco Mengoni» la
sua voce, da mielosa, era divenuta stucchevole. «Uno come
lui, da uno come te,
può volere una cosa soltanto… e se ti conosco
bene, come credo, gliela fornirai
su un piatto d’argento. Sempre che tu non l’abbia
già fatto.»
«Di che stai parlando?»
sbattei una mano sul bancone.
Ebbi una vaga sensazione di
déjà-vu. La conversazione che avevo avuto con
Marta poco prima mi aveva
lasciato lo stesso amaro in bocca, la stessa sensazione che qualcun
altro ne
sapesse più di me, sui miei stessi sentimenti.
Forse ero io l’unico stupido
a non capire.
Marco prese il mio Irish coffee,
vuotò il bicchiere e si congedò con un
ossequioso: «Marco Mengoni.»
Mi lasciò lì. Imbambolato.
Confuso. Mi morsi le labbra, che sapevano di whisky e caffè,
mentre con lo sguardo
cercai Michael.
Lui si stava divertendo con
Gaia, Valentina e Violetta, quadretto adorabile al quale si aggiunse
anche
Marco. Michael lo abbracciò, baciandogli entrambe le guance
con trasporto e
invitandolo a ballare con loro.
Un sapore nuovo e detestabile
mi si presentò di colpo in gola. Un nodo serrato che sapeva
di rimpianti e
gelosia.
Continuai a guardarlo ed ebbi
la conferma che Marta aveva ragione, come sempre. Perché
dovrebbe volere me? Era così felice,
così ben voluto dalla
gente. Sì, noi due eravamo amici, ma non avremmo mai potuto
essere nulla di
più, per il semplice fatto che lui avrebbe potuto avere ogni
singola persona di
quella stanza con uno schiocco di dita. Un amico in più o in
meno non faceva
certo la differenza.
Fu questo che pensai, mentre
gli occhi mi pungevano e la vista mi si annebbiava, e mi morsi forte le
labbra
per non piangere, tanto che preso avvertii il sapore metallico del
sangue in
bocca.
Fu questo che pensai, quando
sgattaiolai via da lì senza voltarmi indietro.
Ero innamorato di Michael.
Dopo una corsa folle via
dagli studios, ero giunto in un vicolo buio e isolato e lì
mi ero abbandonato
alle lacrime, così come alla pura e semplice
verità.
Come avevo fatto a essere
così stupido? Lo avevano capito tutti quanti, molto prima di
me. Lo aveva
capito Marta e lo aveva capito anche Marco. Perfino Simona ci era
arrivata, con
l’unica differenza che lei non riusciva a vedere quello che
invece sembrava
chiaro a tutti.
Io non ero abbastanza per
Michael.
Non ero abbastanza e non lo sarei
mai stato: lui non mi avrebbe mai voluto e, se per caso fosse stato
così
stupido da essere attratto da me, sarei stato buono solo per una
scopata e
nulla di più. Affondai il volto nelle mani, dandomi dello
stupido e
dell’illuso.
Perché
dovrebbe volere me?
«Marco!»
Cazzo.
Michael mi aveva trovato.
Non tentai di scappare da
lui, sarebbe stato sciocco da parte mia, solo mi asciugai le lacrime
per non
dargli la soddisfazione di vedermi piangere. Sentii i suoi passi dietro
di me
e, quando mi raggiunse, mi fece voltare con un prepotente strattone.
Era furente.
«Che tu fa, Marco?» urlò. «Io
invita tu e ora tu va via, no dice niente, te trova qui e festa
è poco
iniziata, e tu me fa scapare così per cercare te!»
Capii solo a grandi linee ciò
che intendeva dire: aveva mollato il party per venirmi a cercare ed era
arrabbiato per questo.
«E chi te l’ha chiesto?»
risposi, cercando di essere il più duro e amaro possibile.
Lui sembrò ferito e quasi mi
dispiacque. Poi pensai di essermi innamorato di lui e tornai a essere
arrabbiato, non con Michael, bensì con me stesso.
Lui
non demorse: «Che tu ha?»
Non riuscii a trattenermi
oltre. «Hai chiesto di me a Morgan?»
Lo vidi impallidire e
sgranare gli occhi, il che poteva significare una sola cosa: colpevole.
Allora
Marco aveva ragione. Chissà perché, saperlo mi
diede un’intima, profonda e
dolorosa soddisfazione. «Cosa gli hai chiesto?»
Scosse
la testa. «Marco, questo no cambia che…»
«Cosa gli hai chiesto?»
ripetei, con tono più aspro possibile.
«Senti me, tu no…»
Non ce la feci più e gridai:
«Dimmelo!»
«Se tu è gay!» sbottò.
Trattenni il fiato. Gay. Anche lui
con quella maledetta
etichetta.
Michael, il mio amico, colui
di cui mi fidavo di più, l’uomo di cui ero
innamorato, mio malgrado, andava in
giro a chiedere se mi piacessero o meno gli uomini. Pensavo che per lui
non
contasse e sapere che invece mi sbagliavo mi fece male. Da morire.
«E bravo, Mika»
lo schernii, seppur con le lacrime
agli occhi. «Tu che dici sempre che ci dobbiamo accettare per
quelli che siamo,
che non importa se siamo etero, gay, bisex o che so io, proprio tu mi
fai
questo?»
Sospirò e venne verso di me.
Mi
allontanai bruscamente. «Non mi toccare, mi fai
schifo!»
«Marco, please.»
La sua voce era così dolce,
così morbida e rassicurante. Dannazione a lui. Non meritava
la mia confusione
né le mie lacrime, figuriamoci il mio amore.
Eppure era tutto ciò che gli
stavo dando.
Piangevo per lui, ero confuso
a causa sua. Mi stavo innamorando di lui.
«Tu mi fai schifo!» ripetei.
«Mi fai vomitare, giuro! Fai tanto il moralista del cazzo e
poi non hai neanche
le palle per chiedermi certe cose di persona? Pensavo che tu mi volessi
bene,
ma evidentemente mi sbagliavo. Logico, d’altronde chi
potrebbe mai volermi bene?
Perché mai? Perché
dovresti volere me?»
«Marco,
stop!»
Mi prese il volto tra le mani
e io mi bloccai del tutto.
L’avevo detto davvero? Sì,
l’avevo detto. Ma ormai che differenza faceva? Le mani di
Michael mi
trasmettevano calore e conforto e, sì, avrei dovuto
staccarmi da lui, ma non lo
feci. Stavo così bene che non ne ebbi il coraggio. Lo
osservai e il suo volto
era una maschera di apprensione.
«Ho paura» mormorò.
Paura? E di cosa doveva avere
paura, lui? Non era lui a essersi innamorato di un uomo fidanzato. Non
era lui
che non riusciva a nascondere i propri sentimenti alla gente, neanche
volendo.
Non era lui che stava piangendo come una fontana davanti
all’uomo per cui si
era preso una sbandata.
«E di cosa?» chiesi, con voce
rotta.
«Marco…» esitò.
No.
No, non poteva essere.
Perché
dovrebbe volere te? Era ciò che mi ero
ripetuto tutto il tempo, tanto da
convincermene. Lui non sarebbe mai stato innamorato di me come io lo
ero di lui.
Vidi i suoi occhi lucidi come i miei, le labbra tumide e il tremore
delle sue
mani, e mi dissi che non potevano dipendere da me.
Si
inumidì le labbra prima di parlare. «Io no posso.
Così no posso.»
Il mio cuore smise di battere
per un secondo e mi si bloccò il respiro: mi sentii morire.
Non voleva me,
dovevo smettere di illudermi. Non poteva volere me.
«Cosa non puoi?» fu quello
che dissi. O che iniziai a dire. Ma non riuscii a finire.
Perché lui mi attirò a sé e premette
le sue labbra sulle mie, nel più innocente e bisognoso dei
baci.
Mi scoppiò la testa in quel
tripudio di sapori.
Le sue labbra erano aspre e
fresche, come frutta esotica, in netto contrasto con
l’amarezza dolciastra
delle mie. Fu amaro quel bacio, sì. Amaro perché
sapevamo di non potercelo
permettere, che non avremmo dovuto, che era sbagliato. Salato, inoltre,
per via
delle mie lacrime che non ne volevano proprio sapere di fermarsi e,
dispettose,
si infiltrarono tra le nostre labbra. Ma quanto fu dolce lui ad
asciugarmi le
guance con i pollici, senza mai separare la sua bocca dalla mia.
Sentivo il
cervello esplodermi, il cuore accelerare i propri battiti e il corpo
percorso
dai più bei brividi mai sperimentati sulla mia pelle. Era
vertiginoso, era
splendido, avrei voluto che non finisse mai. Stavo assaggiando il
frutto
proibito e lo sapevo, era un sapore forte e pericoloso al quale non mi
sarei
mai dovuto avvicinare. Ma non mi importava, non in quel momento. Ero
troppo
felice e colmo di gioia anche solo per pensare.
Contro ogni previsione, lui voleva me.
La soffitta
dell’autrice:
Ehilà.
Come state? Vi
sono mancata?
Questo
è il capitolo più lungo che io abbia mai scritto
e sapete una cosa? Non
me ne frega niente perché è stato riscritto
talmente tante volte che sono
troppo contenta di averlo finito!
Ebbene
sì, se nello scorso capitolo avevamo visto la termo percezione collegata
all’infatuazione, qui vediamo come il gusto sia collegato
all’innamoramento. È stato
difficilissimo
lavorare con questo senso, ma alla fine qualcosa ne è venuto
fuori.
Ringrazio come
al solito la mia meravigliosa beta,
comeunangeloallinferno94. Sei insuperabile. Ti adoro.
Beh, che dire
se non… alla prossima!
|
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Capitolo 6 *** Equilibrio ***
E•qui•li•brio [Nel
corpo
umano l'equilibrio è un insieme di aggiustamenti automatici
ed inconsci che ci
permettono, contrastando la forza di gravità, di mantenere
una posizione o di
non cadere durante l'esecuzione di un gesto.]
Mika’s
POV
«Marco Mengoni?!»
«Non urlare, Yaz. Ti sento
benissimo» ribattei.
Perché pensavo che chiamare
mia sorella Yasmine quella sera mi sarebbe stato di conforto? Non
faceva che
ripetere quel nome da un minuto buono ormai, in preda allo shock, ogni
volta
alzando di più la voce.
Avrei mentito se le avessi
detto che ero confuso, perché in realtà non lo
ero neanche un po’: al
contrario, da quando la notte prima avevo baciato Marco, tutto era
diventato
chiaro nella mia mente.
Benché amassi Andy più della mia
stessa vita, mi ero innamorato anche di lui e non c’erano
dubbi al riguardo. La
situazione, inutile dirlo, non era così semplice.
Dopo il bacio, Marco si era
placato e aveva smesso di piangere, ma nei suoi occhi leggevo il panico
più
totale. Lo avevo stretto forte a me e allora lui aveva cominciato a
chiedermi,
quasi ossessivamente, se io volessi lui, ma proprio lui. Era stato
talmente liberatorio
dirgli che, sì, nonostante fossi già fidanzato,
io lo volevo disperatamente. Gli
sfuggì addirittura una piccola risata.
Mi aveva chiesto di
riaccompagnarlo a casa, cosa che feci e, una volta arrivati di fronte
alla
palazzina, era scoppiato di nuovo in lacrime. Con il terrore dipinto in
volto,
Marco aveva pronunciato con sgomento una singola parola. Andy.
Poi mi aveva abbracciato di
nuovo. Il suo non fu un vero abbraccio, quanto più un
aggrapparsi a me, come a
uno spuntone di roccia, per timore di cadere nel vuoto. E io
l’avevo sorretto,
carezzandogli i capelli e assicurandogli che sarebbe andato tutto bene,
che non
l’avrei lasciato solo e che insieme avremmo trovato una
soluzione.
La sua risposta? “Temo di
essermi innamorato di te”. Una frase che non lasciava spazio
all’immaginazione:
non esiste soluzione, all’amore. Ci eravamo baciati prima di
salutarci e Marco,
non più preso alla sprovvista, aveva avuto la forza di
ricambiarmi. I suoi baci
erano come sorsate d’acqua fresca, dopo aver passato giorni
di arsura totale: erano
rigeneranti, rinvigorenti e, soprattutto, ne avevo bisogno.
«Mick, in che pasticcio ti sei
cacciato?» mi rimproverò Yasmine, quasi materna.
«Non puoi andare a baciare
gente a destra e a manca, ti devo ricordare io che a Londra
c’è Andy che
aspetta il tuo ritorno?»
Sospirai. Come dimenticarlo?
«Parli come se lo avessi tradito.»
«L’hai fatto.»
«No» ribattei, fermo sulla
mia posizione. «Se avessi avuto una storiella di una notte
con un tizio, allora
sì che l’avrei tradito. Con Marco invece
è diverso. Credo di essermi innamorato
di lui.»
«Sei in Italia da meno di tre
mesi, quanto tempo hai avuto per innamorarti di lui? Te lo dico io:
zero. Non
sai niente di lui, praticamente siete estranei. Vuoi tradire Andy con
uno che
nemmeno conosci?»
Vacillai per un secondo.
Io sapevo di conoscere Marco,
esattamente come lui conosceva me. Ovvio, sette anni di relazione non
potevano
essere paragonati a quel breve lasso di tempo, ma nel mio cuore le due
cose si
equivalevano. Mi sentivo in bilico sull’ago di una bilancia.
«Yaz, non è così semplice»
provai a spiegare. «Andy è tutto per me, tutto,
è la mia casa, è la mia
famiglia, è il mio rifugio e lo sarà sempre. Ma
anche Marco lo è. Quando sto
con lui sono sempre felice e mi sento al sicuro e, oh, ho il cuore che
mi va a
mille. Tu come lo chiami questo?»
«Tradimento, bello e buono!»
mi sgridò. «Mick, non costringermi a essere
drastica.»
«Che intendi dire?»
«Chiudi questa storia con
Marco prima di farla cominciare, o lo dirò ad
Andy.»
Oh, no.
Barcollai e dovetti reggermi
alla parete dietro di me per non cadere a terra, malfermo
com’ero sulle gambe.
Sentii il cuore sprofondare in un baratro e una lieve brama di pianto
pervadermi.
«Yaz, non puoi farmi questo»
la implorai, con un filo di voce.
Mugugnò, come se la cosa
pesasse anche a lei. «Lo faccio per te, Mick. Non posso
vederti perdere l’unica
cosa bella che hai al mondo, ossia Andy, per un italiano
qualsiasi.»
«Se tu conoscessi Marco, non parleresti
così» protestai.
La sentii trasalire all’altro
capo del telefono e perfino io mi stupii della mia reazione: da quando
in qua
difendevo così strenuamente una persona che non fosse il mio
Andrew?
«Mick, lascialo. O dovrò
pensarci io» e chiuse la telefonata.
«Yaz, aspetta!»
Ma ormai aveva attaccato. Non
potevo crederci.
Lottai contro l’impulso di
prendere a calci il muro, sapendo che non mi avrebbe fatto sentire
meglio. Non
riuscii a rimettermi in piedi, così mi lasciai scivolare
lungo la parete e mi
accasciai sul pavimento.
Cosa stavo facendo? Io amavo
Andy e lui amava me. Eravamo un “per sempre” e lo
sapevano tutti quanti, ormai.
Ma il solo pensiero di lasciare Marco (nonostante non avessimo una vera
e propria
relazione) mi faceva salire le lacrime agli occhi. Non potevo
rinunciare a lui,
ma sarebbe stata la cosa giusta. Per il bene di tutti.
Se la mia adorata Yaz
arrivava a minacciarmi, voleva dire che stavo proprio sbagliando tutto.
Il campanello suonò.
Mi
feci forza e cercai di sorreggermi da solo, riacquistando da me il mio
baricentro. Una volta che mi sentii sicuro, avanzai verso la porta e
controllai
dallo spioncino.
Era
Marco, e non aveva un bell’aspetto.
Aprii
immediatamente e lo feci entrare in casa.
«Che
tu fa qui?» gli chiesi, preoccupato.
Lui
si voltò verso di me, con gli occhi lucidi e un sorriso
tirato in volto. Aveva
le guance innaturalmente rosse.
«Mi
ha riso in faccia» biascicò. «Non mi
voleva credere quando le ho detto che tu
volevi me.»
Il
suo aspetto, la sua voce… Oddio, aveva bevuto? Sapevo per
certo che lui reggeva
benissimo l’alcol –o almeno, così mi
aveva detto.
Nel
dubbio, domandai titubante: «Marco, tu è
ubriaco?»
Scosse
la testa e avanzò verso di me, barcollando.
«Brillo, mai ubriaco. Avevo della
vodka in casa e…»
«Chi
tu ha riso in faccia?» lo interruppi.
Lui
ridacchiò. «Ho del riso in faccia? Ma come cavolo
parli?» Poi, dopo essersi
ripreso, continuò farfugliando. «Comunque
è stata Marta. Sai, le ho detto che
io e te ci siamo baciati e… sai che tu sapevi di frutta,
tipo pompelmo? Oh,
insomma, allora lei ha riso e ha detto che non era possibile,
perché tu vuoi
soltanto qualcuno da scopare, e che se volevi farti uno
l’avevi già fatto.»
Ero
confuso. Che c’entrava il baciare con lo scopare?
Perché avremmo dovuto
spazzare a terra solo perché ci eravamo baciati? Marta era
proprio strana.
«Scopare?»
chiesi.
Lui
si allontanò, con passo pericolante, e scoppiò a
ridere. Non era la sua solita
risata, però: era stridula e disperata, al limite dello
sgradevole. Quando si
voltò, però, la sua espressione era seria.
«Vuol
dire sbattere, trombare, fottere, capito?» gli
sfuggì un singulto. «To
fuck, Michael. To fuck.»
Oh.
Ora tutto aveva più senso.
La
manager di Marco pensava che io da lui volessi soltanto una sveltina e,
a
giudicare dal modo in cui aveva reagito, lui doveva averle creduto. Mi
dispiacque
profondamente, era solo colpa mia: se avessi tenuto a bada i miei
impulsi e non
lo avessi baciato, non l’avrei reso così
vulnerabile, esposto alle cattiverie
di Marta. Dovevo rimediare, restituirgli la serenità di cui
l’avevo privato.
«Chiedo
scusa» ammisi, sperando che nella sua ebbrezza mi capisse.
«Forse io no doveva
baciare te, forse io e te no doveva cadere in amore come noi ha fatto.
Ma tu ha
di sapere che quando io è con te, mi sente così
bene…»
Scoppiò
di nuovo a ridere.
«Cadere in amore? Oh, ma
che cazzo
significa? È una cosa tua inglese, forse, in Italia non lo
diciamo così» disse,
strascicando le parole. «Sei proprio stupido.»
Mi
ferì. Mi ferì profondamente.
Era
brillo, ok, ma si stava comportando proprio da stronzo e se lo stava
facendo la
colpa non era tutta dell’alcol. Stavo cercando di aprirgli il
mio cuore, di
fargli capire che per lui provavo qualcosa, e lui? Mi prendeva in giro?
Marco
era fatto così, passava da un estremo all’altro:
era timoroso o era spavaldo,
era passivo o era aggressivo e, in quel caso, era lucido oppure era
sbronzo.
Non aveva alcun tipo di equilibrio, ed era un lato di lui che non mi
piaceva
per niente.
Presi
un profondo respiro e lo afferrai per le spalle. «Tu ha
bisogno di caffè.»
Ridacchiò.
«Caffè? No, io ho bisogno che tu mi dica che mi
vuoi scopare e basta.»
Lo
lasciai andare di colpo. Fu come se mi avessero tirato uno schiaffo,
forte e in
pieno viso. Chi era quel ragazzo che avevo di fronte? Di certo non il
Marco di
cui mi ero innamorato, quella creatura dolce e spontanea alla quale
avevo
confidato ogni mio segreto e che, pensavo, avesse fatto altrettanto con
me.
Forse
Yaz aveva ragione e io non lo conoscevo così bene come
pensavo. Mi mancavano i
punti oscuri, i difetti più nascosti, i lati subdoli del suo
carattere, quelli
che io ero stato così sciocco da ignorare. Forse avevo
pensato che non ne
avesse.
Un
po’ come Andrew. Lui non aveva né aveva mai avuto
lati subdoli.
«Avanti,
Mika» continuò.
«Sarà tutto più
facile dopo. Dillo, di’ che vuoi soltanto sbattermi contro un
muro e poi
lasciarmi qui, in Italia, e dimenticarti di me. Una cosa al volo e via,
non ci
si pensa più!»
«Torna
a casa» gli dissi, senza badare al tono. Tornai verso
l’ingresso, aprii la
porta e mi rivolsi nuovamente a lui: «Tu torna a casa, tu ha
bevuto troppo.»
«Pensi
di essere il primo?» sembrò arrabbiato, anzi,
deluso. «Pensi che nessuno lo
abbia mai fatto? Dico, pensi che nessuno mi abbia mai rifilato cazzate
come “Ti
amo” solo per fottermi a dovere e poi scomparire? Lo farai
anche tu. Lo fate
sempre.»
Ne
avevo avuto abbastanza di questa scenata.
Così
facendo, faceva male a me e anche a se stesso. Io avevo già
i miei problemi,
non potevo farmi carico anche dei suoi: un peso, quando è
eccessivo, sbilancia.
«Marco,
vattene» gli ordinai.
Lui,
però, era sordo a ogni comando. Ringhiò:
«Forza, avanti. Sarebbe meglio. Anche
Marta l’ha detto: se devi andarci a letto, vacci subito prima
che ritornino a
parlare di voi due. Se dicono che stiamo insieme, tu sei rovinato. E se
la
gente scopre che sono un frocio come te, sono rovinato pure
io.»
«Marco
go away!» urlai.
La
mia mano stringeva forte la maniglia, tanto che iniziarono a farmi male
le
dita.
La
vista mi si appannò, colpa delle lacrime che mi sforzai di
ricacciare indietro
ma che, ormai, sembravano prossime a uscire.
«Non
lo sai? Se ci beccano a baciarci come ieri, sei finito! Tu, il tuo
fidanzatino
a Londra, perfino la tua carriera! E pure la mia.»
Stava
piangendo anche lui? Difficile dirlo. Udivo la sua voce rotta, ma le
motivazioni potevano andare dalla rabbia all’alcol, senza che
c’entrassero per
forza le lacrime.
«La
mia reputazione si fotte insieme alla tua, l’hai capito? Se
tu non vuoi
nient’altro che una botta e via da me va bene, basta che la
facciamo finita»
proseguì, con voce lamentosa. «Non ci arrivi,
razza di idiota?»
Mi
si mozzò il respiro.
Idiota.
Era
l’unica persona al mondo che ancora non mi aveva definito
tale. Qualcosa dentro
di me si ruppe e cadde in un milione di frammenti, forse era il mio
cuore. Che
delusione, non potevo credere di essermi sbagliato tanto su di lui.
Le
lacrime sgorgarono presto dai miei occhi e scesero sulle mie guance.
«Io no
vuole più vedere te.»
Lui
si passò una mano tra i capelli. «No? Allora me ne
vado via.»
Aveva
mosso appena un passo verso la porta.
Inciampò
in uno dei tappeti, uno dei miei preferiti, dai caldi colori estivi.
Roteò le
braccia in aria, cercando di recuperare l’equilibrio.
Io
non intendevo fare nulla per aiutarlo. Che cadesse pure, pensai. Il mio
corpo,
però, sembrò in disaccordo, visto che subito mi
protesi verso di lui per
arrestare il suo capitombolo.
Non
ce la feci.
Lui
era troppo massiccio e io non abbastanza forte.
Franammo
insieme. Lui crollò in ginocchio, strisciando sul pavimento
i palmi delle mani.
Io lo strinsi forte in vita e sbattei l’anca e il ginocchio
per terra.
Per
un attimo mi dimenticai della lite e della rabbia e, allarmato, gli
chiesi: «Marco,
are you ok?»
Percepii
i brevi, irregolari movimenti delle sue spalle che tremavano sotto di
me.
Cercai di capire se stesse piangendo e, sinceramente, mi
lasciò basito vedere
che in realtà stava ridendo. Ma la sua risata aveva poco a
che fare con il
divertimento.
«Più
chiaro di così…» bisbigliò,
quasi più a se stesso che a me.
Ero
stanco. Stanco di lui e di quella discussione odiosa di cui avrei fatto
volentieri a meno. «Che cosa, Marco?»
Si
voltò il capo verso di me, guardandomi di sbieco.
«Se
cado io, tu vieni giù con me, Penniman.»
Era
troppo.
A
lui non importava niente di me, né di quello che stavo
passando: gli
interessava solo non perdere la sua preziosa reputazione,
così la sua manager
(che poteva anche sposare, per quanto mi riguardava) avrebbe dormito
sonni
tranquilli. Pensava che a me importasse quanto a lui? Che sapessero
pure che il
grande Mika se la faceva con un altro mentre aveva una relazione,
avrebbe fatto male ma non sarebbe stata di certo la fine del mondo.
Avrei soltanto voluto che Marco capisse.
Evidentemente,
mi ero fatto delle illusioni su di noi.
Anzi,
su di me e lui. Non saremmo mai stati un noi.
Mi
alzai, lasciandolo accasciato a terra, e filai dritto in camera. Che
facesse
ciò che gli pareva, non mi importava e non era
più affare mio.
Non
mi cambiai nemmeno: mi limitai a levarmi scarpe e cintura e a infilarmi
subito
sotto le coperte e lì, finalmente, potei dare sfogo a tutte
le lacrime che non
avevo voluto versare di fronte a lui.
Mi
addormentai quasi subito, con la sensazione di essere stato spinto
sull’orlo di
un precipizio e di aver dimenticato come si vola.
Ero
alla ricerca disperata di un appiglio. Ma di appigli, purtroppo, non ne
avrei
trovati.
Mi
svegliai.
Marco
fu il mio primo pensiero. La rabbia per la scenata di ieri sera mi
invase di
nuovo, ma la preoccupazione sopraffece ogni cosa.
Lo avevo lasciato solo, ubriaco e confuso, nel salotto di casa mia. Non
mi ero
nemmeno accertato che si fosse alzato da terra! Che razza di
irresponsabile e
ripugnante essere avrebbe…?
«Michael?»
Mi
rigirai di scatto nel letto. Marco era lì, in piedi, si
torceva le mani
nell’attesa. Alla luce del mattino, parve incredibilmente
fragile e tormentato.
Mi stropicciai gli occhi, così da metterlo a fuoco al
meglio, e allora notai
che aveva i vestiti stropicciati e gli occhi rossi e gonfi. Inutile
negarlo:
eravamo l’uno lo specchio dell’altro.
«Marco»
mugugnai. «Dove ha tu dormito?»
«Oh,
ehm, sul divano» spiegò, con una flebile vocina
che non gli si addiceva per
niente. «Dopo che te ne sei andato, ho chiuso la porta di
casa tua, ho spento
le luci e mi sono disteso un attimo sul divano. E poi, beh, mi sono
addormentato.»
Mi
misi a sedere sul letto.
Aspettai.
Lui
si morse le labbra e abbassò la testa. «Michael,
io volevo chiederti scusa.»
Annuii.
Era il minimo che lui potesse fare, così attesi a braccia
conserte che
continuasse a parlare. Ok, probabilmente non gli stavo rendendo il
compito
facile, avrei dovuto? Se non ricordavo male, mi aveva
dato dello stupido e pensava che da lui
volessi una notte e basta. Non sapevo nemmeno se volessi perdonarlo o
meno.
Prese
un bel fiato: «Ero brillo ieri sera, ma ricordo tutto quanto.
Io non volevo, te
lo giuro, non volevo dire quello che ho detto. Non penso che tu voglia
da me
soltanto un… sì, insomma, quello. So che non sei
il tipo.»
«Perché
tu ha detto, allora?»
Si
grattò lievemente la testa, come per riordinare i pensieri.
«Ieri ho parlato
con Marta. Le ho detto del bacio, le ho detto che provo qualcosa per
te, che
forse ti amo. Lei ha detto che non era possibile che tu provassi lo
stesso, che
dopo aver ottenuto quello che volevi, mi avresti lasciato»
fece una pausa. «Mi
ha detto che dovevo chiudere questa storia e che, se non volevo farlo
per me,
dovevo farlo per te, perché se io fossi stato
così stupido da farci scoprire tu
avresti perso tutto.»
Mi
dovetti ripetere almeno cento volte di rimanere impassibile: non dovevo
esitare, dovevo dimostrarmi fermo ai suoi occhi. Eppure era difficile.
Non
l’aveva fatto per cattiveria, né per semplice
sconsideratezza. C’era un’intensa
e profonda tristezza dietro al suo gesto insensato (nonché
imperdonabile).
E
poi, ha detto che forse mi ama.
«Ho
sbagliato e ti chiedo scusa» proseguì, concitato,
nel penoso tentativo di
convincermi a perdonarlo. «Non penso davvero che tu sia
idiota, anzi, lo sai
che sei la persona più intelligente che io conosca. Mi
dispiace se ti ho detto
quelle cose, non te le meritavi.»
Sospirai.
«Questo è tutto?»
Mi
guardò implorante e rispose:
«Sì.»
Potevo
percepire dalla sua voce il nodo che gli ostruiva la gola, ma mi imposi
di non
cedere. La delusione era ancora viva e bruciante. Certo, morivo dalla
voglia di
stringerlo a me, dargli un bacio tra i capelli, dirgli che lo
perdonavo, ma non
l’avrei fatto. Non avrei perso la mia dignità per
un uomo che probabilmente non
la meritava.
Questo
mi dissi, mentre lo fissavo, distaccato.
Ma
poi ci fu un movimento.
Impercettibile,
quasi invisibile.
Marco,
ancora lì in piedi, ancora con il volto contrito, aveva
subito un cambiamento
lieve quanto un battito di ciglia: le spalle lievemente più
incurvate, le
labbra più strette, gli occhi più lucidi. Accadde
tutto in una volta. Ma fu
abbastanza. Aveva capito che non ero incline a lasciare correre la
questione,
aveva capito che mi avrebbe perso.
Là,
di fronte a me, avevo un uomo disperato per amore.
«Ti
prego» mormorò. «Michael, per
favore.»
Deglutii.
Non dovevo cadere nella sua rete, non dovevo, non se lo meritava.
Resistetti
e mi ripetei “Se cadi, ti farai male. Se cadi ti farai
male”.
Oh,
per favore.
Chi volevo prendere in giro?
Avevo
bisogno di sentire il vuoto sotto di me, avevo bisogno di precipitare
dentro di
lui.
Avevo
bisogno di perdere l’equilibrio e rischiare.
Avevo
bisogno di Marco.
Così
caddi, come si cade in amore.
Mi
scostai per lasciargli un po’ di spazio sotto le coperte,
nelle quali lui si
fiondò senza esitazione. Quando si fu coricato, adagiai la
testa sul suo petto
e lui mi strinse a sé, imprigionandomi tra le sue braccia
forti e rassicuranti.
Mi sentii improvvisamente meglio, più leggero, sollevato.
Non mi ero reso conto
di quanto avessi bisogno di perdonarlo finché non mi ero
ritrovato stretto a
lui.
Stavo
cadendo, ma non avevo più paura, perché
c’era Marco a sorreggermi.
«Non
fare così mai più, tu hai capito?» lo
rimproverai, cingendogli il busto a mia
volta.
Lui
premette le labbra sulla mia testa. «Mai più,
promesso.»
Gli
credei. Gli cedei.
Rimanemmo
in quel modo per un po’, io cullato dal suo respiro ritmico,
il suo petto che si
alzava e si riabbassava. Ogni tanto si avvolgeva una ciocca dei miei
capelli
attorno al dito e, tutte le volte, avvertivo un dolce brivido.
«Sono
stato proprio un cretino» disse dopo un po’
«Sai che cadere in amore
è proprio un modo di dire bellissimo? Lo adoro.»
Sorrisi.
«Sì, tu è stato molto
cretino.»
Marco
fece una piccola risata, che sentii amplificata dalla sua cassa
toracica. Era
bello, mi dava una sensazione di completezza. Mio.
Già,
mio? Era così che io lo sentivo, mio, ma per Marco era lo
stesso? Io speravo in
un noi, ma era ciò che voleva anche lui? Il bisogno di
saperlo mi attanagliava.
«Noi possiamo provare» gli dissi pertanto, esitante.
«A
essere cretini?»
«No,
intelligentone» lo presi in giro. «A cadere in
amore. Insieme. Io e te.»
Sollevai
la testa e osservai ogni sua reazione.
C’era
confusione e terrore nel suo volto, ma non solo. Vidi anche il suo
sorriso,
ampio e spontaneo, reso ancora più bello dal fatto che i
suoi occhi brillavano.
Quello era il mio Marco.
«Io
e te, insieme» ripetei.
Finse
di pensarci su. «Tu sei fidanzato, io sono uno sciocco
ragazzo che finge di non
essere omosessuale. Ha l’aria della relazione
perfetta.»
Scossi
la testa. «Tu è completamente cretino»
Era
spaventato, eppure entusiasta, glielo leggevo in faccia. E lo ero
anch’io. Sapevamo
davvero quello che stavamo facendo? Non ne ero sicuro, e
chissà se insieme
avremmo funzionato davvero, a lungo termine. Eravamo in costante
pericolo,
eravamo noi stessi il pericolo, era evidente. Una parte di me urlava
“Non
farlo!”
Ma
seppi, mentre io mi allungavo per baciarlo e lui mi tirava a
sé con le mani che
gli tremavano a causa del timore e dell’emozione, che in quel
momento non
desideravo altro dalla vita che perdere l’equilibrio e
precipitare senza sosta,
insieme a Marco.
La soffitta
dell’autrice:
Cciao!
(Sì, con due c, come lo dice Mika a Marco. Quanto
son teneri).
Vi sto
viziando troppo, due capitoli in meno di sette
giorni. Ma che ci posso fare se ero particolarmente ispirata?
Dunque, questo
è un capitolo di necessaria transizione, nonché
uno dei più
rischiosi. C’è travaglio, cambiamento, lasciare il
vecchio da parte per andare
incontro a un’incognita (qualcuno direbbe “per
andare incontro a Nuovi Futuri”).
Il prossimo
sarà un capitolo leggermente più leggero.
Probabilmente.
Ma con me non
c’è mai niente di sicuro.
Ringrazio come
sempre la mia meravigliosa, adorabile,
insostituibile e cucciolosa
comeunangeloallinferno94.
♥
Alla prossima!
|
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Capitolo 7 *** Tatto #1 ***
Tat•to [Il tatto o sensibilità tattile rende
l'uomo e gli animali capaci di
rilevare con una straordinaria precisione, la presenza di stimoli
dovuti al
contatto della superficie cutanea con oggetti esterni.]
Marco’s POV
Un mese.
Era trascorso un mese esatto.
Un mese da quando avevo partecipato a quel party assurdo, un mese da
quando io
e Michael ci eravamo baciati, come due giovani sciocchi e sconsiderati.
Un mese
che era scivolato come sabbia tra le dita, da quando avevo capito di
essere
perdutamente innamorato di lui.
Un mese dopo mi ritrovavo,
guarda caso, proprio nei camerini di X Factor. Sarei stato ospite del
programma, nonché quinto giudice per la seconda parte della
serata. E io, come
al solito, ero in preda a una crisi di nervi.
Stavo lottando contro la
cravatta nera che avevo deciso di indossare: la stoffa setosa sfuggiva
dalle
mie mani, che già tremavano per conto loro, e il nodo non
voleva proprio
saperne di reggere, così fui costretto a rifarmelo daccapo
una, due, tre volte.
Anche di più. L’ho già detto che ero
nervoso?
Non che la mia ansia fosse
immotivata.
Quella sera avrei dovuto
cantare di fronte a Michael e sedere accanto a lui al tavolo della
giuria come
se nulla fosse. Sarebbe stato un inferno.
Non esisteva un modo carino
per dirlo. Io e Michael, dopo tanto dibattere, eravamo giunti a una
risoluzione, dolorosa eppure necessaria: non potevamo stare insieme.
C’erano
troppe complicazioni, ostacoli insormontabili, pericoli inevitabili,
persone
che rischiavano di restare ferite a causa del nostro egoismo. Pur
provando
attrazione reciproca, fummo costretti a separarci. Non poteva andare
diversamente, e lo sapevamo entrambi.
O almeno, questa era la
versione dei fatti che avevamo deciso di dare a Marta e a Yasmine.
Sì, lo so, mentire è
sbagliato e le bugie non si dicono, eccetera, ma che altro avremmo
dovuto fare?
Michael riceveva pressione da sua sorella, io ne ricevevo dalla mia
manager,
noi non avevamo la benché minima intenzione di separarci e
così, proprio come
una coppia rispettabile, avevamo preso una decisione di comune accordo.
Ossia, nascondere la nostra
relazione a tutti e far credere che qualunque cosa ci fosse stato tra
di noi,
ormai era finito.
Immaginavo che per Michael
ingannare la sua famiglia e il suo fidanzato dovesse essere straziante
e mi
sentivo in colpa per questo ma, che Dio mi perdoni, mi bastava il
fremito che
sentivo quando le sue labbra si posavano sulle mie per dimenticarmi di
tutto,
anche delle difficoltà. Anche del senso di colpevolezza.
Ma quella sera, a X Factor,
come mi sarei dovuto comportare? Come avrei fatto a restare calmo? Come
avrei
fatto a stargli vicino senza stringerlo e baciarlo? Anche solo
guardarlo senza
sbavare sulla sua immancabile perfezione sarebbe stata
un’impresa. Avevo paura
che qualcuno potesse beccarmi mentre lo fissavo come un allupato. Avevo
paura
che qualcuno capisse quanta voglia e quanto bisogno avessi di toccarlo.
Anche adesso sentivo come un
tremore lungo le dita, tanto avvertivo il desiderio, forte, palpabile,
di
averlo vicino e di poterlo anche solo sfiorare.
Toc
toc!
Chi era che bussava nel bel
mezzo della mia crisi di nervi?
«È aperto» sbraitai, per
farmi sentire da fuori la porta.
«Posso entro?»
Quell’italiano sgrammaticato
era inconfondibile. «Michael!»
Mi voltai verso di lui, che spiccava
nella sua sobria eleganza e che mi sorrideva come se non mi vedesse da
tre
anni, invece che da poche ore. Poche ore in cui avevamo sentito il
disperato
bisogno l’uno dell’altro: eravamo proprio senza
speranza.
Subito si precipitò ad
abbracciarmi, sicché il prurito che sentivo alle mani si
placò, finalmente. Gli
cinsi la vita e per un attimo chiusi gli occhi, affondando il volto
nell’incavo
del suo collo: le sue braccia mi avvolgevano con forza e dolcezza, come
se non
volessero più lasciarmi andare, e avvertivo il movimento
ritmico del suo
respiro. La sua pelle era talmente liscia e invitante contro la mia
bocca che
non potei fare a meno di baciarla, saggiandone la morbidezza. Marco
Mengoni in
quei momenti non esisteva: tra le sue braccia, ero sempre e solo Marco.
Per
questo amavo starci. Per questo odiavo lasciarle.
Si staccò lievemente da me,
pur continuando a tenere le mani sulle mie spalle: «Come tu
ti sente? Pronto
per la performance?»
Scossi la testa. «Neanche un
po’. Sono terrorizzato.»
Il suo sguardo era a metà tra
il curioso e il divertito, e cadde inevitabilmente sul nodo osceno che
avevo
fatto alla mia cravatta. Si lasciò sfuggire un sorriso,
ragion per cui lo
odiai, e mi afferrò le mani, portandole
all’altezza del collo.
«Marco, Marco, Marco» mi
rimproverò come un maestrino. Dispiegò la
cravatta e, tenendomi ancora
saldamente per le mani, guidò le mie dita passo dopo passo
nella realizzazione
di un nodo decente. Mi sentii un impedito, ma il suo tocco era talmente
delicato, eppure pieno di un’inspiegabile sicurezza, che lo
lasciai fare.
Nel frattempo, continuò a
parlare: «Tu ha cantato su palchi di Italia tutta. Tu ha
cantato anche a
Ariston, e tu ha vinciato.
Perché tu
ha paura ora?»
«Non c’entra l’esibizione. È
che ho paura di farci scoprire» ammisi, puntando lo sguardo
sui movimenti
accurati che lui, o meglio, noi compivamo assieme. «Di
tradirmi con un gesto, o
una parola di troppo, oppure con uno sguardo.»
Quando la cravatta fu
annodata, invece di lasciarmi andare, Michael rinvigorì la
presa.
«Ci sarà io» sorrise. «Io ti
aiuta. Se tu guarda me in modo strano, io no ti guarda. Se tu dice cosa
strana,
io dico cosa la più strana. Capito?»
Non risposi subito, ero
scettico. Temevo comunque di rovinare tutto, visto che la mia idiozia
era
proverbiale.
All’improvviso, Michael
premette le mie mani sul suo petto: erano intrappolate. Da una parte
c’era il
suo torace piatto, potei sentire il calore che irradiava da sotto la
camicia,
le mie dita avvertirono chiaramente il battito irregolare del suo
cuore, una
musica che potevo percepire al tatto. Dall’altra parte invece
c’erano le sue, di mani.
Strinsero più forte le
mie, come per dirmi di stare tranquillo, come per farmi capire che mi
avrebbe
protetto lui, che non dovevo aver paura finché lui fosse
stato al mio fianco. Che
ero al sicuro.
Si avvicinò al mio orecchio e
sussurrò: «Andrà tutto bene,
Marco.»
Sentire il suo fiato, caldo e
leggero, sfiorare il mio orecchio mi fece percepire un brivido talmente
intenso
che fu come essere attraversati di colpo da una scossa elettrica, che
attraversò il mio intero corpo in un lampo.
Michael lo percepì e,
pertanto, si fece ancora più vicino a me. Non indietreggiai,
né mi scostai, il
mio corpo era in tensione, in attesa della sua prossima mossa.
«E se tu è nervoso» concluse
«ci pensa me.»
Risi, sia per il suo italiano
che per il suo fiato che mi solleticava la pelle.
Chiusi gli occhi e presto
avvertii le sue labbra carezzare il punto sensibile tra il collo e
l’orecchio.
Mi morsi forte le labbra, nel vano tentativo di trattenere un gemito,
il quale
mi sfuggì ugualmente dalla gola. La sua bocca scese a
esplorare il mio collo,
una zona estremamente sensibile per me: involontariamente, feci per
ritrarmi da
lui e sottrarre le mie mani alla sua presa ferrea. Lì per
lì le trattenne tra
le sue, poi le lasciò andare. Una volta libero mi aggrappai
alle sue spalle,
così esili eppure così invitanti, e lo tirai
verso di me per dargli campo
libero. Certo, se così pensava di rilassarmi era fuori
strada, ma lo lasciai
fare. Come dire di no a un simile trattamento?
La sua bocca compì il
percorso a ritroso, dalla base del collo fino alla mandibola. Tremai
sotto il
suo tocco volutamente lento e leggero, diabolico eppure paradisiaco, un
meraviglioso supplizio che avrei desiderato non finisse mai e che
cessasse
all’istante. Era tutto nuovo per me, che ero in totale balia
del suo volere:
lui mi insegnava l’amore e io imparavo senza perdere neanche
un secondo.
A un certo punto le sue mani si
intrufolarono tra la giacca che indossavo e la mia camicia e presero ad
accarezzarmi la schiena, mentre ancora le sue labbra cercavano nuovi
posti in
cui baciarmi e farmi fremere. Un pesante sospiro si librò
dalle mie labbra,
riempiendo Michael di soddisfazione. Pensava davvero di rilassarmi
facendo così,
ignaro di quanto invece mi stesse stuzzicando. Poco dopo, il dolce
tocco della
sua bocca venne sostituito da quello più consistente dei
suoi denti. Strinsi talmente
forte le sue spalle che dopo un po’ le mani presero a
formicolarmi, ma che
altro avrei potuto fare? Se da una parte mi accarezzava con
delicatezza,
dall’altra morsicava la mia pelle con il deliberato intento
di farmi impazzire,
donandomi due sensazioni contrastanti. Mi dimenai in risposta a quella
piacevole tortura. Sul mio corpo si alternava una gamma di esperienze
meravigliose, tutte completamente nuove. Non ero estraneo al piacere,
ma lo ero
all’affetto. E quello, benché rischiasse di farmi
perdere la ragione, era il
modo di Michael di dare affetto.
E io lo amavo.
Amavo lui.
Click!
Un piccolo rumore alle
nostre
spalle mi fece voltare repentinamente.
Cosa diavolo era stato?
«Che cosa tu hai?» mi chiese.
Non gli risposi, invece mi
guardai intorno. Non c’era niente di insolito, niente di
strano, la porta era perfettamente
chiusa e ogni cosa era al suo posto. Mi accorsi di star respirando
affannosamente soltanto quando Michael mi posò una mano sul
petto, per calmarmi.
Mi voltai verso di lui, tirando un sospiro di sollievo.
«Niente, mi era sembrato che qualcuno
avesse aperto la porta.»
E
magari avrebbe potuto beccarci in flagranti, aggiunsi terrorizzato tra me e me.
Fu come se Michael mi avesse
appena letto nel pensiero, perché mi prese il volto tra le
mani e mi rivolse
uno dei suoi sorrisi più belli.
«Tu sei troppo teso, Marco»
disse. «Stai calmo. Noi siamo al sicuro.»
Annuii, imbarazzato. Stavo
diventando paranoico? Lui pensava che lo stessi diventando? O che lo
fossi già?
Non ci capivo più niente.
Eravamo talmente vicini che
sentivo le sue ciglia sfiorarmi le guance, il suo naso scontrarsi con
il mio.
Il suo respiro lambiva le mie labbra, invitandole a schiudersi
lievemente. Come
un segnale di via libera. E fu quel che feci. Bramavo la sua bocca come
un
peccatore brama la confessione, con la stessa spasmodica smania.
Così annullammo ogni
distanza. Percepii la tensione e il nervosismo abbandonarmi, come un
peso che
si sollevava dalle mie spalle. Le sue labbra si mossero leggermente
sulle mie,
io ricambiai. Come era possibile provare qualcosa di così
liberatorio e così
vincolante al tempo stesso? Ogni volta che mi baciava, sentivo di non
averne
mai abbastanza, di volerne sempre di più. Ogni santa volta,
ogni singolo bacio,
sembrava essere più intimo e profondo di quello precedente.
Ogni volta, forse
greve del ricordo del nostro primo e improbabile bacio, sentivo di
amarlo di
più.
Il bacio divenne pian piano
più urgente e intenso, un contatto tanto morbido quanto
umido, tanto delicato
quanto impetuoso. La sua bocca premuta sulla mia era così
incredibilmente
soffice che non seppi resistere alla tentazione di passarvi sopra la
lingua.
Michael sorrise a quel gesto
e si staccò lievemente da me, per poi parlare sulle mie
labbra: «So, stai
meglio?»
Scossi la testa. Stavo
meglio? Non lo sapevo. Era difficile pensare con lucidità,
dopo i suoi baci.
«No. Sì. Non proprio. Mi sento meglio,
è vero, però ho ancora
l’ansia.»
«Marco, io ti vuole beno»
sghignazzò «ma se ancora no ti ha passato ansia
con mio bacio e mie caresses, cosa
io deve fare per fare
stare te bene, ti deve incintare?»
Fu più forte di me: scoppiai
a ridere. Ma ridere per davvero, tanto da farmi venire le lacrime agli
occhi. Risi
forte e così facendo riuscii in parte a scaricare lo stress
e la paura. Ancora
una volta, grazie a Michael. Ero sempre e comunque teso come una corda
di
violino, ma Michael, da bravo musicista, sapeva sempre come toccare le
mie
corde per scioglierle a dovere. Anche stavolta.
Il buonumore, purtroppo,
scomparve quando salii sul palco per cantare. Vidi le telecamere
puntate tutte
su di me, lo sguardo attento e beffardo dei giudici, il sorriso
inquisitore di
Marco Castoldi. Michael che mi guardava come fossi un estraneo,
impeccabile nel
fingere che io non fossi nessuno per lui. Non ressi a tutto questo e
alla fine
crollai, steccando come un principiante. Cazzo.
Il mio primo istinto fu quello di gettare il microfono a terra e
lasciare il
palco. Ma sarebbe stato del tutto inappropriato, così cercai
istintivamente
Michael con lo sguardo. I suoi occhi, ora diversi, mi incitarono ad
andare
avanti nonostante tutto, cosa che feci senza lasciar trasparire la mia
angoscia.
Quel contatto visivo era la mia salvezza.
Finii comunque l’esibizione
riscuotendo una certa approvazione da parte del pubblico e, prima che
sedessi
al tavolo della giuria, ci fu una pausa pubblicitaria.
Michael fece per venire verso
di me, con l’intento di congratularsi, ma Morgan fu
più veloce e lo precedette.
Mi raggiunse, posandomi una mano dietro la schiena: fu come essere
sfiorati da
un serpente, un tocco gelido e viscido che presagiva
un’iniezione di veleno.
«Marco Mengoni» sogghignò
«sei stato proprio eccellente. Peccato per quella piccola
sbavatura sul finale,
ma di certo non se ne sarà accorto nessun altro,
vero?»
Assentii, benché non fossi
d’accordo: era stata una stonatura bella e buona, anche i
sassi se ne sarebbero
accorti, e lui lo sapeva. La sensazione pungente e al contempo rovente
delle
lacrime, che minacciavano di uscire dai miei occhi, si
impadronì di me.
«Marco, tu ha stato
meraviglioso!» esclamò Michael, affiancandoci.
«Ho ragione, Marco Morgan?»
Marco Morgan, come lo
chiamava lui, si esibì in un sorriso di approvazione.
Michael continuò: «Tu sai, io
ancora ricorda brano che tu hai assegnato lui, in puntata che io
è venuto in
2009. Lui cantava My baby just cares for
me di Nina Simone. Ma che performance extraordinaria.
È vero?»
«Quando era dei miei, tutte
le sue performance erano extraordinarie» replicò
Morgan. «Non tolleravo
imperfezioni. Questo te lo ricordi, Marco Mengoni?»
Annuii di nuovo, infastidito
dal fatto che mi chiamasse sempre per nome e cognome.
«Beh, sai, ultimamente ce ne
sono di cose che ti sfuggono, Marco Mengoni»
ghignò. «Il controllo vocale, per
esempio. Quella barba incolta da clochard
che ti porti addosso, per esempio. Le porte del tuo camerino socchiuse.
Per
esempio.»
Finse un inchino e si congedò.
Le
porte del tuo camerino socchiuse.
Mi impietrii.
Per un attimo, mi sembrò che
tutto intorno a me iniziasse a vorticare e feci istintivamente per
aggrapparmi
a Michael. Ma mi scostai quasi subito: non dovevo toccarlo, non potevo.
Non in
pubblico.
Ero nel panico.
Marco ci aveva visti. Ci
aveva beccati in pieno. Il rumore che avevo sentito era probabilmente
lui che
richiudeva la porta con cura. Bastardo.
Lui sapeva. Sapeva tutto e
per di più mi detestava, ed ero più che sicuro
che l’unica cosa che lo avrebbe
trattenuto dall’usare quel segreto contro di me potesse
essere l’amicizia che
lo legava a Michael. Non ci avrei messo comunque la mano sul fuoco. Il
solo
fatto che sapesse di noi mi bastava a farmi raggelare il sangue nelle
vene.
Non lo sapevano mia madre e
la mia migliore amica. Non lo sapevano i fratelli di Michael. E quel
viscido
bastardo invece sì? Mi sentii arrabbiato, spaventato,
atterrito.
Mi venne ancora una volta da
piangere.
«Marco…» sussurrò Michael,
con un filo di voce.
Ma non poté dire nient’altro.
La pausa pubblicitaria ormai
era finita, e noi dovemmo prendere posto e restare lì come
due perfetti idioti
a fingere di essere semplici colleghi, invece che amanti.
Le mie mani tremavano ancora a
causa del nervosismo. Imprecai tra me e me. Quella serata diventava
sempre più
insopportabile.
Continuai a pensare a Marco per
tutto il tempo.
Mentre Alessandro parlava,
però, a un certo punto sentii qualcosa che mi sfiorava.
Abbassai appena lo
sguardo: era la mano di Michael che cercava la mia da sotto il tavolo
dei
giudici.
Sul momento ritrassi la mano,
per paura che qualcuno potesse vederci. Poi gettai
un’occhiata tutt’intorno per
controllare che nessuno ci stesse fissando, e solo allora mi accinsi a
intrecciare
le mie dita alle sue.
In quel contatto ritrovai un
po’ di pace. Fu come un incantesimo: dimenticai la stecca,
dimenticai il
terrore infusomi da “Marco Morgan”, il tremore
cessò. Mi bastava soltanto
sentirlo accanto a me, in qualche modo.
Strinse forte la mia mano e
io feci altrettanto. Con quel piccolo, meraviglioso gesto, Michael
sembrava
volermi dire che sarebbe andato tutto bene, perché lui era
al mio fianco.
Sentii il suo calore irradiarsi dentro di me, la sua morbidezza
accogliermi e
confortarmi e, anche quando le nostre mani cominciarono a diventare
umide e
appiccicaticce, continuai a tenerlo stretto.
Quello che contava era
poterlo toccare, anche solo in quel modo, nell’ombra e di
nascosto. Mi ridonò
il sorriso e la serenità che sembravano ormai perduti, e
benché ancora sentissi
la paura strisciarmi infida sulla schiena, non era che piccola cosa se
confrontata alla splendida sensazione della sua pelle contro la mia.
Accarezzai il dorso della sua
mano con il pollice, e mi sfuggì un sorriso quando lo sentii
sussultare al mio
tocco. Mi diede un piccolo scossone, come per intimarmi a smetterla.
Inutile
dire che io continuai a farlo. Stavamo parlando, ma semplicemente
toccandoci.
Stai
meglio?
Forse un po’.
Bene, allora finiscila. Sono sul posto di lavoro, così
mi distrai.
Come dici? Distraimi di più? Va bene, lo farò.
Marco, vaffanculo.
Ti amo anch’io.
Altra pausa pubblicitaria.
Controllavo
sempre che, tra uno stacco e l’altro, “Marco
Morgan” non andasse a parlare con
nessuno di “sospetto”. O meglio, con nessuno al
quale potesse interessare chi
mi portavo in camerino. Alle volte lo vidi scrutarmi e sorridere in
modo
volutamente subdolo, per testare la mia reazione (che, inutile dirlo,
era di
panico puro).
Questo sfiancante teatrino si
ripeté più volte, per grande sdegno di Michael.
«Ok, così no va beno» sbottò
dopo un po’, per poi chiamare a gran voce: «Marco
Morgan!»
Cosa
stava facendo?
Marco
venne verso di noi con passo sicuro, studiato, come se si aspettasse di
essere
convocato nel nostro piccolo conclave di amanti segreti. Alla fine
giunse a noi
trasudando finta innocenza. «Cosa
c’è?»
«Per
favore, Marco Morgan, dici a Marco Mengoni che tu no parla di quello
che tu ha
visto in sua dressing room, o lui
sviene di paura» chiese, con un mezzo sorriso che gli
incurvava la bocca.
Marco
Morgan ridacchiò e mi si avvicinò ancora di
più, per parlarmi all’orecchio.
Incredibile
come facessero lui e Michael a essere amici. La vicinanza con Marco mi
infondeva gelo puro e un profuso malessere. Come un bambino con la sua
mamma,
volevo stringere di nuovo la mano di Michael che mi faceva sentire
tanto al
sicuro.
«Marco
Mengoni» cominciò. «Non me ne frega
niente di te già quando non siamo costretti
a collaborare. Ora come ora voglio limitare i nostri contatti al
minimo.
Quindi, figurati quanto mi importa di andare a dire in giro che ti
sbatti Mika. Sarò
più chiaro: non parlerò
semplicemente perché non me ne può fregar di
meno.»
E,
detto questo, mi strinse in un abbraccio.
Proprio
così. Un abbraccio, il più falso e ributtante che
avessi mai ricevuto. Un gesto
d’affetto che avrebbe fatto impallidire Giuda Iscariota in
persona e io, che
non ero Gesù Cristo, fui costretto a ricambiare per amore
della decenza. E per
amore di Michael.
Venimmo
fotografati a ripetizione e soltanto dopo che i flash cessarono ci
separammo.
Mi sentivo sporco. Sudicio.
Fu allora che Michael posò
una mano sulla mia spalla.
«Ehi, io e te facciamo una
foto insieme?» mi propose, così, dal nulla.
Trattenni il respiro,
sorpreso dalla sua richiesta, così si affrettò a
ripetere: «Ti pleaso! Quando
capita di nuovo che io e te facciamo foto in pubblico?»
Aveva ragione. Aveva
perfettamente ragione. Perché permettere a un tizio
qualunque di rovinarci la
serata? Avevo Michael, il resto non contava.
Così chiamammo un fotografo,
ci mettemmo in posa (e cercammo di fare la posa più stupida
che ci venne in
mente. Così, perché ci andava di fare gli idioti)
e quello scattò. La foto nel
complesso era buffa e divertente, l’avrei riguardata
volentieri per tutto il
tempo.
Michael aveva ragione.
Quella sera potevamo stare
insieme, parlare e scherzare, fianco a fianco, davanti a tutti quanti e
nessuno
avrebbe fiatato perché avrebbe pensato “Sono solo
colleghi”. E perché no, anche
farci fotografare in tutta libertà. Quando mai ci sarebbe
ricapitata
un’opportunità del genere?
Così, passai il resto della
serata a fare ciò che non ero ancora del tutto capace di
fare, ma sentivo che
avrei imparato presto, con un ottimo maestro accanto a me.
Ossia cogliere l’attimo.
Finché non avessi imparato,
però, avrei continuato a fare ciò che invece
sapevo fare meglio: placare la mia
ansia sempre presente e, nel frattempo, stringere forte la mano di
Michael, in
segreto.
La soffitta
dell’autrice:
Sono
imperdonabile, ne convengo.
Oltre due
settimane di attesa per un capitoletto così
insulso. Mi farò perdonare, lo prometto.
Dunque. Anche
il tatto
sarà diviso in due parti. Ho scelto questo momento in
particolare (Marco ospite
a X Factor) perché beh, è lì che
l’attrazione che c’è tra loro era sotto
gli
occhi di tutti. No? Spero che l’abbiate notato e che abbiate
fangirlato con me.
Un piccolo
spoiler per farmi perdonare?
Il prossimo
capitolo sarà associato al senso più
strano e difficile di cui mi toccherà scrivere. E
avrà un rating particolare. Che
non è il giallo, non è l’arancione e di
certo non è assolutamente il verde.
No comment (se
non un ringraziamento alla mia favolosa
beta, comeunangeloallinferno94, che adoro con tutta me stessa!)
Vi voglio bene.
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Capitolo 8 *** Proprioricezione ***
Pro•prio•ri•ce•zio•ne
[La propriocezione è
la
capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio
corpo nello spazio
e lo stato di contrazione dei propri muscoli,
anche senza il
supporto della vista.]
Marco’s POV
«Michael, smettila!»
Lui rise di gusto. Io lo
ignorai bellamente, tornando a leggere.
Sì, ne convengo, è assurdo:
chi è che, trovandosi insieme al ragazzo che ama, a casa sua
per di più, si
metterebbe a leggere senza prestargli la benché minima
attenzione?
In mia difesa, posso dire che
avevo i miei buoni motivi.
Poco prima, io e Michael ci
stavamo, come dire, accomodando sul divano. Nel senso che io ero
accomodato sul
divano e lui era accomodato sopra di me. Eravamo partiti da un semplice
bacio,
entrambi seduti, composti e ordinati e, non so come, eravamo finiti in
quel
modo: la lingua di Michael che esplorava deliziosamente la mia bocca,
le mie
mani che gli spettinavano i capelli, i miei vestiti stropicciati e
sollevati,
in modo che Michael potesse avere libero accesso ai miei fianchi e alla
mia
schiena, quel tanto che bastava per farmi impazzire a dovere.
E la mia mente, inutile
dirlo, che viaggiava alla velocità della luce.
I neuroni e gli ormoni
facevano a gara, dentro il mio corpo, per arrivare primi in un luogo
indefinito
del mio cuore.
Viaggiavano, correvano come
pazzi, toccando spazi della mia memoria che erano ormai logori e
impolverati. Non
ero tipo da una botta e via: per me il sesso non poteva essere separato
da un
profondo sentimento d’amore nei confronti della persona che
si aveva di fronte.
O sotto, o sopra, o in qualunque posizione. Il problema era proprio che
non
avevo una relazione da molto tempo. Il che, in poche parole, stava a
significare che non andavo a letto con qualcuno da mesi. Ok, da un anno
e
qualche mese.
Va bene, da un anno e dodici
mesi. Circa.
Insomma, quei quasi due anni
di astinenza forzata mi avevano lasciato un relativo amaro in bocca.
Non ero
dipendente dal sesso, voglio dire, non è che ne avessi
bisogno per vivere. Per
me era più importante l’amore. E non amavo
qualcuno da tanto, troppo tempo.
Ora, però, c’erano Michael,
il suo affetto genuino e il suo erotismo giocoso. C’ero io e
due anni di
solitudine che gravavano su di me. C’eravamo noi e un impulso
istintivo che
cercavamo di risvegliare e al contempo di non risvegliare. E mi
piaceva, quanto
mi piaceva.
Questo stavo pensando quando,
all’improvviso, lo sentii parlare.
«Secondo te io deve cambiare
colore di pareti?» disse.
Per un attimo, lo fissai
sconcertato, quasi pensando che quella frase fosse frutto della mia
fantasia.
Io mi stavo struggendo,
chiedendomi se lasciarmi andare o no a una sfrenata passione a lungo
trattenuta,
e lui? Pensava a ridipingere le pareti. Nessuna meraviglia se mi
indignai,
anche se più che arrabbiato con Michael mi sentii, come
dire, sconfortato. Dovevo
avere davvero il sex appeal di un’acciuga se lui pensava al
colore dei muri
mentre amoreggiavamo.
E questo spiega perché poi mi
ero alzato, avevo preso il primo libro che mi era capitato sotto mano e
avevo
cominciato a leggere per fargli dispetto. Michael pensava ad altro
mentre
stavamo insieme? Bene, l’avrei fatto anch’io.
«Chiedo scusa, Marco» si
scusò, con un sorriso imbarazzato e divertito. «Io
no voleva.»
Ma non lo ascoltai,
concentrandomi piuttosto sulla lettura di… il Simposio
di Platone? No, un momento, Michael aveva difficoltà a
leggere eppure aveva letto il Simposio, mentre io non ero mai andato
oltre Il giornalino di Gian Burrasca?
Quell’uomo era pieno di
sorprese.
Così mi misi a leggere, il
che fu abbastanza difficile, visto che Michael continuava a strusciarsi
a me
come un gattino, in cerca di attenzioni.
Ed ero tentato, davvero, di
dargliele. Perché avere Michael Holbrook Penniman Jr. che
faceva le fusa in
quel modo così invitante apposta per me era qualcosa da non
lasciarsi sfuggire,
e mi faceva letteralmente ribollire il sangue nelle vene.
Ma si era distratto mentre ci
baciavamo e per questo andava punito.
Iniziò a lasciarmi dei baci
sulla spalla da sopra la maglietta, cosa che io mi sforzai di ignorare,
focalizzando la mia attenzione sulle parole stampate sul libro. Dopo un
po’ si
stufò e incominciò a strofinarmi la punta del
naso contro il collo, sapendo
quanto fossi sensibile. Il suo tocco mi provocò un brivido
involontario. Io non
ci badai, ma lui se ne accorse (ovviamente) e prese a soffiare sulla
mia pelle.
Fu lì che gli ordinai di
smetterla.
Per tutta risposta, lui
ridacchiò. «Cosa tu legge?» mi chiese,
cingendomi la vita. La mia schiena si
scontrò con il suo petto. Resta
indifferente
Marco. Indifferenza.
«Il Simposio di Platone.»
«Tu vuole legge in alta voce
per me?»
Lo guardai per un momento.
Quegli occhioni spalancati e quel sorriso tutto denti e fossette con il
quale
sperava di intenerirmi non mi convinceva, ma cedei per il semplice
fatto che mi
avesse chiesto di leggere per lui. Era una cosa romantica, infondo, una
cosa da
innamorati di altri tempi.
«Va bene» mi schiarii la gola
e cominciai. «L’androgino era
un’unità per figura e per nome. Aveva quattro
mani e tante gambe quante mani, e due volti su un collo arrotondato del
tutto
uguali. E aveva un’unica testa, per ambedue i visi rivolti in
senso opposto, e
quattro orecchie e due organi genitali.»
Mi interruppi bruscamente,
per un secondo: le labbra di Michael, leggere come farfalle, si erano
andate a
posare nell’incavo del mio collo, sfiorandolo e baciandolo
con un sorriso che
percepivo chiaro sulla mia pelle.
Avrei dovuto capire che aveva
qualcosa in mente: lo stava facendo di proposito, voleva vedere quanto
avrei
resistito alle sue provocazioni.
Indispettito, continuai a
leggere, non volevo dargliela vinta: «Zeus e gli altri
dèi, invidiosi della
loro perfezione, tennero un consiglio per decidere cosa fare»
la mia voce era
incerta e tremolava, a causa dei brividi che il suo tocco mi forniva.
Maledetto
Michael. «Al fine, Zeus disse: “Io li
taglierò ciascuno in due, cosicché essi
saranno più deboli e più utili a noi,
perché diventeranno maggiori di numero.»
E qui, mio malgrado, sospirai,
perché i suoi baci erano sempre più umidi e lenti
e si era anche messo a
succhiare piccoli lembi di pelle, come un bambino goloso. Le sue mani,
per
giunta, presero ad accarezzarmi l’addome in maniera lenta,
sensuale. Mi morsi
le labbra. Non era più un semplice stuzzicare, il suo:
quello era piacere, ma
piacere vero, quello che ti fa arricciare le dita dei piedi e
spalancare la
bocca senza avere neanche forza per urlare.
«Dopo aver detto questo
tagliò gli uomini in due. Allora, dopo che
l’originaria natura umana fu divisa
in due, ciascuna metà, desiderando fortemente
l’altra metà che era sua, tendeva
a raggiungerla.»
E lì ci fermammo entrambi. La
voce mi morì in gola, la sua bocca cessò il suo
percorso, rimanendo ferma lì
dov’era. Le sue mani si erano bloccate proprio sopra la
cintura, che era una specie
di limite invalicabile. Le parole impresse nero su bianco sopra quelle
pagine
sembravano parlare di noi. E le sue mani sul mio corpo tracciavano un
percorso
pericoloso da concludere.
Adesso avevamo una scelta.
Potevamo sapere cosa dicevano
quelle pagine dopo quella frase, e lui poteva oltrepassare la mia
cintura e noi
potevamo esplorare un territorio pressoché vergine per noi
due, come coppia.
Oppure potevamo restare divisi, nel dubbio, bramando qualcosa che non
sarebbe
avvenuto.
Mi voltai lievemente a
guardarlo, e nei suoi occhi vidi la mia stessa incertezza, mista a una
scintilla di desiderio. Sì, desiderio, per me. Chi
l’avrebbe mai detto.
Sospirai. Scegliemmo.
Tornai a leggere. «E
gettandosi attorno le braccia, e stringendosi forte l’una
all’altra,
desiderando fortemente di fondersi insieme, morivano di fame.
Perché ciascuna
delle parti non voleva fare nulla separata
dall’altra.»
Desiderare.
Fondersi insieme.
Diventare una cosa sola.
Suonava tanto come fare
l’amore.
Michael afferrò il libro con
mano tremante e lo richiuse. Quella stessa mano, poi, la
portò sulla mia bocca.
Io ero ancora voltato di spalle e sentivo il suo respiro irregolare
dietro la
nuca. Le sue dita mi carezzarono le labbra, ogni tanto inumidendosi
sulla punta
della lingua, la quale ben presto si unì a tutto il resto,
cosicché presi a
leccare i suoi polpastrelli. La mano che ancora teneva sul mio addome
mi
strinse più forte, insinuandosi sotto la mia maglietta, quel
tanto che bastava
per arrivare alla fibbia della mia cintura.
E slacciarla.
Come un capriolo spaventato
dal leone, girai la testa e lo fissai una seconda volta. Lui, con gli
occhi
predatori, lui che sapeva come si toccava un uomo, di fronte a me, che
non sfioravo
carne viva da due anni.
Deglutii. «Andiamo in
camera.»
Più che andare verso la sua stanza,
ci lanciammo in una vera e propria corsa per giungervi. Arrivati,
sbattemmo la
porta e la camera piombò nel buio più totale.
«Aspetta, accendo luce»
sussurrò lui.
Ma io lo cercai con la mano e
lo fermai. «No. Niente luce.» Certe cose hanno
bisogno del buio per essere
perfette.
Lui neanche mi rispose: si
limitò a seguire il percorso della mia pelle. La mano, poi
il braccio. La
spalla, il collo, il mio viso, la mia bocca. Mi trovò e
prese a baciarmi, con
la voracità di un animale eppure con quella gentilezza che
di lui tanto amavo.
Le mie mani scivolarono sulla
sua schiena, afferrando i lembi della sua maglia. Era tutto diverso per
me: non
avevo mai spogliato nessuno, se non la mia prima ragazza, e solo in
occasione
della nostra prima volta. Dopo di lei, tutte le altre volte io mi ero
spogliato
per conto mio e lui (perché dopo ero stato solo con uomini)
per conto suo.
Michael fremeva sotto le mie
dita, in tensione, in attesa solo di una mia mossa. Era una tentazione
irresistibile. Così gli sfilai il maglione, e lui fece
altrettanto con me.
Lanciammo gli indumenti sul pavimento, forse anche calpestandoli, non
ci
importava.
Indietreggiai fino a
incontrare il letto, sul quale mi gettai. Lui finì di
slacciarmi la cintura e
mi tolse i pantaloni, ancora abbottonati, con un unico movimento
preciso.
Attesi un minuto che finisse di spogliarsi a sua volta, e poi si
gettò su di
me. Avevamo indosso solo i boxer.
Il suo corpo nudo schiacciato
sul mio era morbido e bollente. La sensazione più bella del
mondo. Fu
abbastanza per strapparmi un gemito.
La luce dei lampioni filtrava
appena dalle persiane socchiuse, riuscivo a malapena a distinguere le
ombre,
per il resto dovetti affidarmi a Michael. Le sue labbra, prima
incollate alle
mie, iniziarono un percorso tutto loro lungo il mio corpo. Esplorarono
l’angolo
della bocca, la mascella, e poi ovviamente il collo. Come un bimbo
giocoso,
conosceva il mio punto debole e ci si avventava con malizia: prima la
sua bocca
lo sfiorò appena, poi diede qualche bacio nei punti che
sapeva ancor più
sensibili degli altri, per poi morderli e infine scendere sulla
clavicola.
Non feci che ansimare e
trattenere invano gli spasmi mentre le sue mani, serrate attorno ai
miei
fianchi, li accarezzavano in su e in giù. Era un movimento
studiato e sadico, poiché
mi spingeva a dimenare il bacino e, quindi, a strusciarmi contro di
lui,
rendendo la situazione ancora più rovente di quanto
già non fosse. Avvertivo la
sua erezione, presente e rigonfia, spingere contro la mia.
Dopo qualche minuto, quando
le sue labbra finirono di esplorarmi il petto, ero già
entrato nel suo ritmo
provocante, tanto che la mia pelle tremava un attimo prima che lui vi
posasse
le labbra, e i nostri bacini spingevano l’uno contro
l’altro.
Il suo respiro era caldo e
affannato, un riflesso del mio. Non avrei saputo dire chi era
più in estasi. In
un primo momento avrei detto io, che stavo subendo il più
dolce ed eccitante
dei trattamenti. Ma dal modo in cui si avventava su di me e
gemeva di piacere
ogniqualvolta mi sentiva tremare sotto di lui, avrei detto Michael.
Circondai la sua vita con le
gambe. Sospirò il mio nome in modo tanto sensuale che la mia
reazione fu
spontanea. Non ne potevo più.
Cercai di abbassargli i boxer
con le caviglie e, strano a dirsi, ci riuscii. Sollevai il bacino, in
modo che
lui potesse fare altrettanto. In un minuto, ci ritrovammo entrambi
nudi, pelle
contro pelle.
All’improvviso, premette un
dito sulle mie labbra, come per farle dischiudere, cosa che feci:
introdusse
l’indice e il medio nella mia bocca e io, per tutta risposta,
li avvolsi con la
lingua.
Avevo capito perfettamente le
sue intenzioni.
Tremavo leggermente a causa
della paura e nella mia mente un coretto insistente ripeteva: due anni, due anni, due anni, due anni.
Michael era più esperto di
quanto io non fossi, e più avvezzo all’amore di
quanto io non sarei mai stato.
Temevo di non essere alla sua altezza, che fare l’amore con
me non gli sarebbe
piaciuto e…
I miei pensieri vennero
interrotti quando introdusse un dito, lubrificato di saliva, nella mia
apertura. I muscoli delle mie gambe si tesero tutti in una volta, emisi
un urlo
strozzato e gettai la testa all’indietro.
Se facevo così già da adesso,
non osavo pensare al dopo.
I suoi movimenti erano
gentili e delicati, era evidente che mi credeva inesperto o qualcosa
del
genere. Cielo, forse mi credeva addirittura vergine! Mi mossi verso di
lui,
incitandolo silenziosamente a fare più in fretta. Introdusse
il secondo dito e
la mia mente si annebbiò.
Piacere. Fame. Avidità.
Godere.
Non volevo che questo. Non
volevo che Michael.
Volevo fondermi con lui.
Essere tutt’uno con lui.
Non resistevo oltre.
Balbettai: «M-Michael.»
Lui si fermò. In un attimo,
ebbi la consapevolezza che aveva gli occhi puntati su di me. Non che mi
vedesse
in quel buio, ma sapevo che il suo sguardo era rivolto verso di me. Ne
avevo la
certezza.
Michael capì. Non ci voleva
certo un genio: la mia voce trasudava desiderio, era facile capire cosa
volessi.
Ma come potevo prevedere cosa
accadde dopo?
Ero andato a letto con altre
persone in passato.
Sapevo cosa fosse il sesso.
Quando Michael sfilò le dita
da me, però, capii che stava per accadere qualcosa di
diverso.
Mi allacciai a lui,
reggendomi alle sue spalle. Le sue mani si piantarono salde sul letto,
proprio
vicino alle mie orecchie. Il mio bacino si inarcò.
Michael entrò dentro di me.
Ed ebbi la perfetta
percezione di noi.
Gemetti forte. I miei lombi
vennero pervasi dal dolore come il resto del mio corpo lo fu dal
piacere più
intenso che avessi mai provato. Conficcai le mie unghie nelle sue
spalle e
analogamente lo sentii artigliare le lenzuola.
Era come vederlo, ma a occhi
chiusi e senza luce.
Lui si spinse dentro di me, i
muscoli delle sue gambe che si contraevano e rilasciavano ritmicamente
la tensione,
lo sforzo era palpabile eppure quasi nullo se comparato al piacere che
provavamo.
Era ritmo, era musica,
all’unisono: a ogni mio urlo riuscivo a sentirlo
boccheggiare, il suo respiro
che mi rubava l’aria e me la restituiva.
E l’estasi, la pienezza, le
vertigini che provammo furono come pura energia che fluiva da lui a me
alla
velocità della luce: lui ne donava a me, e farlo lo rendeva
eccitabile come lo
ero io. La perfezione.
Un solo corpo.
Un unico piacere.
Iniziai a gridare quando
sentii il suo membro scivolare fuori e dentro le mie carni.
Ciò che mi stava
donando era l’apice del suo amore, quell’arte che
lui immancabilmente non
faceva che insegnarmi. Ogni mio urlo di piacere ne ricevette uno in
risposta:
Michael godeva nel far godere, in un’ebbrezza suprema che
toccava gli angoli
più remoti del mio cuore.
Lo tirai verso di me, mi
inarcai con il busto e infine raggiunsi le sue labbra,
appropriandomene: le
baciai, le succhiai avidamente, vi lasciai dei morsi feroci e vi sfogai
il
piacere come un animale. E sentire i suoi ringhi di puro godimento
nella mia
bocca non fece che aggravare la situazione.
Ben presto, del dolore non
rimase alcuna traccia.
Il suo petto aderì
perfettamente al mio, il nostro corpo che si muoveva sempre
più veloce, i
nostri gemiti sempre più alti e graffiati, il nostro piacere
sempre più
intenso.
Sfortunatamente, una metà del
nostro corpo aveva due anni di vuoto alle spalle, due anni che si
riversarono
senza che io potessi fare nulla per fermarli.
Così, spalancando gli occhi, urlando più forte di
prima, venni contro di lui. Sconvolgente.
Mi accasciai sulle lenzuola,
Michael cercò disperatamente di raggiungere il culmine del
piacere a sua volta.
Continuò a spingere, potente, veloce, preciso. Io respirai
con affanno,
cercando di riprendere fiato. Ero madido di sudore, accaldato, svuotato.
E felice, totalmente e
pienamente. Sorrisi e gioii del buio che ci avvolgeva. Certe
cose hanno bisogno del buio per essere perfette.
Alla fine si riversò dentro
di me, con un adorabile gemito acuto, e crollò al mio fianco.
Non mi cercò con le mani, non
mi strinse a sé. Semplicemente, uscì dal mio
corpo e si distese a pancia in giù
sulle lenzuola. Nel giro di pochi secondi era già
addormentato.
Io rimasi lì, inerme in quel
mare di sensazioni contrastanti.
Non aveva detto una parola,
né uno sguardo nel buio, niente. Forse non gli era piaciuto,
e io, da bravo
codardo, non mi ero fatto avanti per chiederglielo o, più
semplicemente, per
rivolgergli un gesto d’affetto. Ma ero come in trance.
Non ero mai stato felice in
quel modo: soddisfatto, appagato, esausto nell’accezione
più positiva del
termine. Le altre volte in cui ero stato con qualcuno quasi
scomparivano se
paragonate a quella notte d’amore con Michael.
Ma per lui era lo stesso? Era
altrettanto felice, altrettanto appagato? O, più
probabilmente, gli era tornato
in mente Andy? La nostra era già una relazione clandestina
di per sé, ci
eravamo spinti ancora oltre e, si sa, per molte coppie il tradimento
non è tale
finché non diventa un tradimento carnale. Ora era ufficiale:
il suo Andrew era
stato tradito sotto tutti i punti di vista.
Avrei dovuto sentirmi in
colpa per lui, eppure non accadde. No. Il mio corpo e la mia mente
dovevano
ancora mettersi d’accordo su quale sensazione, tra il
benessere e la confusione,
dovesse avere la precedenza.
Nel dubbio, caddi
addormentato accanto a Michael.
Mi svegliai di soprassalto,
nella stessa posizione in cui mi ero addormentato.
La luce che filtrava dalle
tapparelle era di un nero lattiginoso, lo stesso che precede
l’alba: saranno
state le cinque del mattino o giù di lì.
Mi voltai verso Michael, ma
non riuscii a distinguere nulla, se non la sua silhouette coperta dalle
lenzuola e i suoi ricci, un improbabile ammasso scompigliato che in
altre
circostanze mi avrebbe fatto sorridere.
Ma in quel momento, pensai
solo di dover tornare a casa mia.
Forse, se fossi rimasto lì,
avrebbe potuto trovarmi invadente: d’altronde,
l’unica volta in cui mi ero
fermato a dormire da lui era stato quando mi ero beccato quel febbrone
da
manuale. E quella volta mi aveva tenuto
stretto tutta la notte.
Mi imposi di non pensarci. Il
punto era che, da quando ci eravamo “messi
insieme”, non avevamo mai diviso il
letto, neanche per sbaglio. E se non mi avesse voluto lì al
suo risveglio?
Così, immerso nei miei
pensieri, mi alzai e cercai a tentoni i miei indumenti per la stanza.
Pantaloni, boxer, maglia… dove erano finite le scarpe? Ah,
eccole. Mi infilai i
boxer e cercai la cintura, così da raccattare le mie cose
tutte in una volta.
«Marco.»
Mi girai di scatto. Michael si
era messo a sedere sul letto. Accese l’abat-jour che stava
sul comodino: un
fascio di luce illuminò il suo volto, ancora assonnato, i
suoi occhioni mi
scrutavano delusi, gli tremava addirittura il labbro inferiore. Era
palesemente
dispiaciuto.
«Marco, tu va via?» chiese,
con voce lamentosa.
Guardai i vestiti che avevo
in mano con colpevolezza: alcuni non erano nemmeno i miei, nella fretta
avevo
preso una delle sue scarpe e i suoi jeans. Almeno mi ero messo le
mutande
giuste.
Non ebbi il coraggio di
dirgli che, sì, andare via era proprio ciò che
stavo facendo. Aveva un’aria
talmente sconfortata che non ebbi cuore per essere sincero fino in
fondo. Così
gli rivolsi un mezzo sorriso e mentii.
«No, stavo rimettendo un po’
a posto. Mi ero addormentato sui tuoi pantaloni.»
Lui scosse la testa e tese le
braccia verso di me.
«No fa niente, ora viene qui»
mi pregò. «Ieri mi ho addormentato e io non ti ho
neanche dato un hug.»
Sorrisi.
Come riusciva sempre a
cavarsela con la sua infinita dolcezza? E come faceva
quest’ultima a convivere
con la parte più selvaggia di lui, la stessa che avevo avuto
modo di conoscere
quella notte? Non avevo tutte le risposte, però sapevo che
tutto ciò che
volevo, dal momento in cui avevamo smesso di essere un sol corpo, era
di
tornare a essere un sol corpo.
Tornai nel letto e lui mi
avvolse immediatamente tra le sue braccia. Non gli chiesi di Andy, non
ne ebbi
il coraggio, e poi temevo di rovinare tutto: era un momento talmente
magico,
quello che avevo sperato soltanto nei miei sogni più segreti
e sdolcinati. Sì,
ero un melenso di prima categoria, ma non l’avrei mai
confidato a nessuno.
Forse soltanto a Michael.
«Come stai?» mi chiese,
guardandomi con quei suoi occhi furbi e al contempo giocosi.
«Ti fa male?»
Con la massima serietà, gli
risposi: «Credo che tu mi abbia messo incinto
stanotte.»
Lui mi guardò per circa due
secondi senza battere ciglio, prima di esplodere in una sonora risata.
Mi tirò
uno schiaffo sul petto.
«Tu rovina miei romantici
momenti, Marco» mi rimproverò.
«Andiamo, Michael, come vuoi
che stia?» mi accucciai contro di lui, che mi strinse
più forte. «Stanotte ho
fatto l’amore con l’uomo che amo. Secondo te come
sta uno che…»
Mi bloccai. Michael si era
impietrito di botto non appena avevo pronunciato le parole
“uomo che amo”. Mi
morsi il labbro inferiore, e mi sarei morso volentieri anche la lingua:
in più
di un mese di relazione non ci eravamo mai detti di amarci. Certo,
c’erano
stati tanti “Ti adoro”, parecchi “Sei la
mia vita” e sì, perfino qualche “Sei
mio”. Ma mai neanche un singolo “ti amo”.
Io non glielo avevo mai detto e
nemmeno lui lo aveva detto a me: davo per scontato che per Michael ci
fosse un
solo amore, ed era Andy. Io non ero che, appunto, un amante. La
differenza tra
amore e amante sta nel fatto che nel secondo, in realtà, di
amore ce n’è ben
poco. C’è la passione.
Avevo varcato una soglia proibita.
Mi corressi: «Insomma, sei
stato davvero fantastico stanotte.»
«Marco.»
«Sì?»
«Ti amo.»
Aspetta,
come?
Dovevo aver sentito male.
Forse
era talmente tanta la mia voglia di udire quelle parole che…
«Ti amo» ripeté.
E mi diede un bacio.
Minuscolo, a fior di labbra, come per mettere un punto esclamativo alla
fine
della frase.
Oh, non era possibile che
stesse accadendo a me. Eppure era così.
Istintivamente chiusi gli
occhi. Certe cose hanno bisogno del buio
per essere perfette.
«Ti amo» e un altro bacio.
«Ti amo» e un altro bacio ancora. «Ti
amo» e l’ennesimo bacio si posò sulle
mie
labbra.
Non seppi per quanto tempo
Michael continuò ad alternare baci e parole. Forse secondi,
forse minuti. Non
gli chiesi mai di fermarsi, questo è certo.
Il cuore mi batteva
all’impazzata, ben presto avvertii le guance avvampare,
così come la punta
delle orecchie e, inutile dirlo, un piccolo nodo mi si formò
in gola, a causa
dell’immensa e indescrivibile felicità che provavo
nel sentire e risentire
quelle parole.
L’unica cosa che sapevo con
certezza era che, finalmente, riuscivo a sentirmi di nuovo una cosa
sola con
lui. Perché adesso tra di noi c’era un amore
condiviso e manifesto, un amore
che poteva renderci due metà di un solo intero.
Come androgini, noi eravamo.
Anzi, no, eravamo riusciti a
superarli.
Perché noi ci eravamo già
fusi insieme, e saremmo rimasti tali.
Inseparabili.
La soffitta
dell’autrice:
Rieccomi qua!
Stavolta sono stata puntuale, vogliatemi
bene.
Va bene,
è stato ufficialmente il senso più difficile
con il quale mi sia mai toccato lavorare. Dopo questa, posso fare di
tutto.
Allora, bella
gente… ho fatto un paio di calcoletti. Siamo
in discesa.
Con
“discesa” non intendo dire che la fanfic sta per
finire, ma che mancano meno capitoli di quanti io ne abbia
già scritti. Eh,
già.
Vi ho mai
detto che vi voglio bene? Ecco, ve ne
voglio.
Ringrazio come
al solito la mia adorata beta,
comeunangeloallinferno94 ♥
E io vi
aspetto alla prossima, finalmente ritornerà il
caro vecchio tatto! (Spoiler)
|
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Capitolo 9 *** Tatto #2 ***
Tat•to [Il tatto o sensibilità
tattile rende
l'uomo e gli
animali capaci di rilevare con una straordinaria precisione, la
presenza di
stimoli dovuti al contatto della superficie cutanea con oggetti esterni.]
Mika’s POV
Caldo.
Delicato. Morbido.
Questo
fu il mio risveglio, quella mattina.
Ero
disteso a pancia in giù e, nel momento in cui il mio
cervello si liberò di
quell’opprimente nebbia da sonno che mi impediva si pensare
lucidamente,
iniziai a macchinare.
Oggi
è il giorno della finale, fu il
primo e fulmineo pensiero che mi colpì la mente.
Già, era arrivato il momento
tanto atteso: la finale di X Factor. Quasi non mi sembrava vero, pareva
passato
un secolo da quando mi ero trasferito in Italia per iniziare quella
nuova
impresa e questa era già volta al termine. La mia piccola,
meravigliosa
Violetta si sarebbe certamente guadagnata un posto sul podio, ne ero
più che
convinto, ma dovevamo essere preparati al meglio e questo significava
provare
giorno e notte.
Quegli
assillanti pensieri, tuttavia, vennero completamente spazzati via
quando la mia
mente riuscì a registrare una sensazione, come dicevo,
calda, delicata e
morbida che mi solleticava la schiena.
Sorrisi.
Marco.
Beh,
svegliarsi con Marco Mengoni al tuo fianco –come mamma
l’ha fatto, per di più–
che ti ricopre minuziosamente le scapole di baci non è cosa
da tutti. E io, sì,
mi ritenevo ufficialmente un uomo più che fortunato.
Ma il
problema era un altro.
Non
sapevo ancora per quanto sarei stato così fortunato.
X
Factor quella sera sarebbe volto al termine, e presto sarei dovuto
tornare a
casa e separarmi da Marco, andando incontro alla vita che avevo
momentaneamente
messo in stand-by per godermi quella piccola avventura. Però
non avevo ancora
definito nulla, né tempi né date, e noi vivevamo
la nostra relazione come se il
tempo a nostra disposizione fosse infinito. Senza pensare al dopo ed
evitando,
per quanto sbagliato fosse, di toccare quel tasto dolente, per non
corrodere e
bruciare quel tanto che ci restava da passare insieme.
Quel
momento ne era un esempio perfetto.
Quando
lui iniziò a passare le sue labbra fresche e soffici sulla
spina dorsale
avvertii un brivido scuotermi la pelle. Continuai a fingere di dormire:
nulla
mi avrebbe sottratto a quel paradiso.
«Michael»
cantilenò la sua voce. «Svegliati.»
Col cavolo,
pensai in risposta. Se svegliarsi equivaleva a interrompere quel
trattamento,
beh, allora sarei diventato una mummia. Non mi sarei mosso per nulla al
mondo.
Marco
continuò a parlare, il suo fiato si infrangeva contro la mia
pelle: «Abbiamo le
prove con Violetta stamattina, te ne sei dimenticato?»
Sorrisi
a quell’abbiamo.
Già noi avevamo le
prove: il grande cantante
Marco Mengoni avrebbe affiancato la mia Violetta nella finale,
duettando
insieme a lei sulle note de L’essenziale.
In tutta sincerità, non ero convinto al cento per cento di
quella scelta,
perché entrambi erano due artisti fatti e finiti, ma erano
completamente agli
antipodi per stile e potenzialità vocali. Ciononostante, non
avrei mai voluto
nessuno che non fosse Marco: per me quella finale era importantissima,
e tutti
vorremmo avere la persona che amiamo al nostro fianco nei momenti
importanti, giusto?
Anche se questo avrebbe comportato qualche rischio. Ma dei rischi,
ormai,
avevamo fatto la nostra ragione di vita.
«Forza,
sorgi e splendi» mi incoraggiò e, per sottolineare
il concetto, premette a
lungo le sue labbra proprio al centro della mia schiena.
Non mi
mossi.
Per
tutta risposta, Marco continuò, rendendo i baci lenti,
bagnati, schioccanti.
Mio malgrado, mi conosceva abbastanza bene da sapere che a quei baci
non potevo
proprio resistere. Mi concentrai per restare fermo, immobile, ma pareva
che il
mio corpo avesse vita propria, perché dei piccoli spasmi di
piacere invasero i
miei muscoli, costringendomi a dimenarmi sotto il tocco di Marco. No,
mi
rifiutavo di dargliela vinta.
La sua
bocca giunse alle fossette della mia schiena. Strinsi i denti,
chiedendomi cosa
avesse in mente, e la risposta non tardò ad arrivare: una
pioggia di minuscoli
e umidi baci si riversò in quel punto preciso, provocandomi
un’ondata di
piacere. Gemetti senza riuscire a controllarmi.
Dannazione
a Marco.
«Ma
buongiorno» rise, trionfante, e finalmente si
staccò, tornando a distendersi.
Bastardo. Attesi un
secondo.
Ne
attesi due.
Rotolai
repentinamente su me stesso e lo inchiodai sotto di me, bloccando il
suo bacino
tra le mie gambe. Lui rise dalla sorpresa.
«Buongiorno»
risposi, cercando di rendere la mia voce più roca possibile.
Sapevo
bene che effetto avesse quel tono su Marco: puro afrodisiaco. Infatti
sorrise
in risposta, mordicchiandosi appena l’interno del labbro,
come faceva sempre
quando qualcosa lo rendeva nervoso o eccitabile.
«Tu è
bambino cattivo.» Posai le mie mani sui suoi fianchi. La sua
pelle era così
calda, ti invitava proprio a toccarla, passarvi le dita, saggiarne la
consistenza… Ma pensai di poter aspettare, infondo da un
po’ di tempo a questa
parte ne “saggiavo la consistenza” quasi tutte le
notti.
«Non
sai quanto» mi rispose lui.
Poi,
con un colpo di reni, mi spinse in avanti, cosicché io
ricaddi sul letto e lui
si mise su di me, tenendomi per i polsi. Inutile dire quanto tutto
questo fosse
dannatamente eccitante.
I suoi
movimenti erano impacciati, incerti, e questo gli conferiva una
sensualità
tutta loro. La sua stretta intorno ai miei polsi era un po’
troppo forte, ma
non ci badai, perché lui si avvicinò a me e prese
a parlarmi soffiando sulle
mie labbra, come io avevo fatto tante altre volte con lui:
«Ora ci
alziamo e andiamo agli studios. Stasera c’è la
finale e dobbiamo essere
perfetti» concluse, con un tono talmente normale che quasi
non sembrava che
fossimo nudi l’uno sopra l’altro.
«Noi
deve proprio?» soffiai a mia volta. Lo vidi tentennare e
bramare le mie labbra
per un momento. Sorrisi: stava imparando alla perfezione
l’arte dell’amore, ma
in certe cose restava sempre il solito, adorabile imbranato. Ragion per
cui era
un piacere stuzzicarlo.
«Sì,
dobbiamo» si sforzò di dire, infine.
«Per Violetta.»
«Ah,
ecco: tu preferisce lei a me» lo presi in giro.
Non
appena finii di parlare, lui premette le sue labbra sulle mie e mi
baciò.
Piano, inizialmente, con dolcezza, ma dopo un po’ prendemmo a
baciarci sul serio e
l’atmosfera si infiammò. Mi
persi in quel contatto totale: i nostri corpi nudi, le nostre labbra,
le sue
mani che bloccavano le mie… era tutto così
meravigliosamente erotico che non so
con quale forza riuscimmo a staccarci l’uno
dall’altro.
Ma così
accadde, lui si alzò da me, un distacco netto, come quando
si strappa un
cerotto. Io rimasi per un secondo in quella posizione e lo guardai.
C’era
qualcosa di diverso in Marco, quella mattina.
Non
avrei saputo dire cosa, se i suoi movimenti o il suo sguardo, o quel
cercare di
dominarmi per poi staccarsi da me così
all’improvviso. Era come se non sapesse
neppure lui cosa fare, a cosa aggrapparsi. C’era un fondo di
malcelata angoscia
in quei gesti. Come se non fosse insicuro di Dio solo sa cosa.
Come se
ci fosse qualcosa di sbagliato.
«Ti
amo, Marco» mi uscì di bocca.
Lui si
voltò con un sorriso tenero, quasi imbarazzato.
«Anch’io, Michael. Ed è una
gran bella fregatura amarci così tanto quando abbiamo
impegni, non trovi?»
Scoppiai
a ridere e mi avventai su di lui, per lasciagli un altro bacio.
Diamine, se
aveva ragione.
«L’amore non è… non
segue i… le logiche…»
«Stop!»
urlai.
La
musica cessò, Marco si bloccò e Violetta insieme
a lui.
Le
prove erano cominciate ormai da un po’ e stavano andando
benissimo: entrambi si
muovevano sul palco come se fossero nati per cantare insieme, e la cosa
mi
riempiva di orgoglio su tutti i fronti. Quando Marco cantava, mi
guardava
costantemente e avevo scoperto che quel contatto visivo lo aiutava a
concentrarsi.
E immergermi nei suoi occhi scuri come la terra bruciata era ipnotico.
Ora
capivo perché lo chiamavano, per l’appunto, contatto
visivo: perché significava letteralmente toccarsi
a distanza.
Ciò che
non avevo previsto, però, era che Marco si confondesse sul
proprio testo. Cosa
diamine gli stava succedendo?
Violetta
gli mise una mano sul braccio e la cosa lo fece voltare verso di lei,
che stava
lì in un atteggiamento a metà tra la sorella
minore e la maestrina.
«Marco,
hai sbagliato il tuo
testo» gli fece
notare, con un pizzico di confusione nella voce.
Subito
intervenni: «Ok, facciamo pausa. Noi prova dopo tra dieci
minuti.»
Marco
ringraziò educatamente e scappò dietro le quinte,
come se avesse fretta di fare
qualcosa. Lo seguii, cercando di non lasciar trasparire la mia fretta,
e vidi
che mi aspettava davanti alle porte del mio camerino.
Entrammo
(e stavolta chiudemmo la porta a chiave), poi lui prese una sedia e vi
si
accasciò, nascondendo il volto tra le mani.
«Marco,
che ti ha preso?»
Scosse
la testa. «Non riesco a guardarti negli occhi mentre canto
quella parte.»
Mi
inginocchiai di fronte a lui, prendendogli le mani e allontanandogliene
dal
volto. «Perché?»
Lasciò
andare un pesante sospiro, che mi lambì con delicata forza
la pelle. «Non mi
hai visto? Mi sono inceppato.»
Aveva
qualcosa, e non ci voleva certo un genio per capirlo. Ma, in tutta
sincerità,
avevo quasi paura di sapere cosa.
Gli
presi il mento tra le mani, come per incitarlo a continuare.
«Marco.»
«So che
abbiamo sempre cercato di evitare l’argomento,
perché non avremmo fatto che
ferirci» sbottò. «Ma poco prima, quando
stavo per cantare, dell’amore che non
segue le logiche… ho pensato a cosa accadrà dopo
stasera a noi due.»
Mi
raggelai. Per un attimo valutai l’idea di scostare le mie
mani da Marco, perché
invece di toccare un nervo scoperto, l’aveva letteralmente
colpito e non potei
fare a meno di sentirmi urtato. Ma rimasi lì, fermo,
perché avevo un dannato
bisogno di sentirlo e di tenermi ancorato a lui in qualche modo.
Lui continuò
e la sua voce assunse una sfumatura di disperazione:
«È contro le logiche, sì,
ma non voglio perdere quello che abbiamo, non lo sopporterei. Ho
toccato
l’amore con mano, grazie a te, non posso tornare indietro
né posso farne a
meno. Ho scelto di amarti, Michael, e non cambierò idea.»
Mi
avvicinai ancora di più a lui. Sapevo perfettamente come
sarebbe finito questo
discorso, l’avevo già previsto e quanto avrei
voluto che non finisse così.
Mi
avrebbe chiesto di restare, ne ero certo. Me l’avrebbe
chiesto e avrebbe fatto
male da morire. Non perché non volessi, anzi, tutto il
contrario.
Avrebbe
fatto male proprio perché io morivo dalla voglia di rimanere
lì, in Italia, di
rifugiarmi tra le sue braccia e restarci fino alla fine, senza bisogno
di mangiare,
bere o respirare, ma solo di amarlo e chiudermi a mia volta nel suo
amore.
Il solo
pensiero mi fece venir voglia di piangere.
C’era
qualcosa di infinitamente sbagliato in tutto questo.
Toc toc!
Sobbalzammo.
Chi era adesso?
«Mika?
Sono io, Violetta. Possiamo parlare?»
Tirai
un sospiro di sollievo e mi alzai, carezzando la guancia di Marco.
«Dopo
noi parla» gli promisi.
Poi
andai ad aprire e lasciai che Violetta entrasse e che vedesse che
c’era anche
Marco là dentro. Lui non si scompose, anzi, esibì
un sorriso e la cosa mi
sorprese: di solito era pessimo nel nascondere le sue emozioni.
«Oh,
Marco» si sorprese Violetta, strabuzzando gli occhi.
«Ehm, ciao.»
«Ciao!»
rispose Marco, con un’enfasi eccessiva che mi fece
ridacchiare. Eccolo lì, il
mio piccolo sciocco che non sapeva fingere.
Violetta
filò a sedere sul divanetto blu che si trovata nel camerino,
Marco si spostò
con la sedia così da guardarla in faccia e io presi posto al
suo fianco, le
nostre ginocchia e i nostri gomiti si sfioravano appena.
Non
sapevo perché, ma tutta la scena mi fece venire in mente due
genitori sul punto
di fare una bella paternale alla figlia adolescente ribelle.
«Che
c’è, Violetta?» le chiesi.
Lei ci
guardò, mordicchiandosi il labbro inferiore,
finché non si decise a parlare:
«Non ce la posso fare. Non me la sento di cantare L’essenziale stasera, non
sono…» sbuffò. «Non sono alla
sua
altezza, va bene?»
E lì
indicò Marco con fare accusatorio, come se essere un talento
di eccezionale
bravura fosse una colpa.
«Ma no
è vero» replicai.
«E
invece sì!» si intestardì lei.
«Insomma, l’hai sentito anche tu vero? Non sono
brava come lui. Se duetteremo insieme, si sentirà la
differenza abissale che
c’è tra di noi e io farò la figura
della principiante davanti a tutti quanti.»
Si mise
a braccia conserte, con il broncio. Stavo per farle una bella lavata di
testa.
«Stai
scherzando» mi precedette Marco.
Mi
voltai verso di lui, in attesa. Cosa aveva in mente?
Continuò.
«Scusa, chi si è inceppato prima con il testo
della propria canzone? E chi è
che ha stonato l’ultima volta che è venuto come
ospite? Proprio ‘sto deficiente
del sottoscritto!» le sorrise. «Che io sappia, tu
non hai mai scordato il testo
di una canzone, né hai mai stonato fin ora.»
«Sì,
ma…»
«No,
niente ma» la interruppe.
«Vuoi stare
qui? Vuoi diventare una cantante? Vuoi vivere di musica?»
«Più di
ogni altra cosa» ammise.
Lui le
posò una mano sulla spalla e la guardò,
incoraggiante. «E allora vai su quel
palco e rubami la scena come solo tu sai fare. Sei pronta, Violetta, ed
è ora
che tu te ne accorga. Cogli l’attimo, afferralo e
aggrappatici con le unghie e
con i denti, non permettere a un idiota qualsiasi di portartelo
via.»
Come
descrivere il sorriso di Violetta in quel momento? Dire
“raggiante” sarebbe
stato riduttivo, ma la parola “contagioso” sarebbe
stata quanto mai adatta. Si
alzò in piedi, abbracciandoci entrambi e ringraziandoci di
cuore.
Marco
si batté una mano sul ginocchio: «Su, basta
adesso, torniamo a provare!»
E lì si
alzò e fece per andare verso la porta. Violetta si
schiarì la voce.
«Tu
vai, Marco» disse. «Io devo dire una cosa a Mika e
arrivo subito.»
Lui
salutò e ci lasciò da soli. Sentii lo sguardo da
maestrina di Violetta su di
me.
«Che tu
mi vuole dire?» le chiesi.
Lei mi
tirò verso di sé e si avvicinò al mio
orecchio, poggiandovi le labbra.
«Solo
un consiglio: invitalo a cena, non aspetta altro.»
Trattenni
il fiato istintivamente. «Che cosa?» chiesi,
ostentando ingenuità.
«Non
venirmi a dire che non te ne sei accorto» mi
canzonò. «Si capisce dal modo in
cui ti guarda e cerca sempre di toccarti che Marco non ha occhi che per
te.»
Stupido
Marco.
Stupido
che non era altro! Quei maledetti sguardi, quello sfiorarsi di gomiti e
quant’altro ci aveva traditi, di nuovo. Mi maledissi cento
volte. Per qualche
motivo, ogni volta che entravamo in un camerino, venivamo
inesorabilmente
beccati.
«Violetta,
io ho fidanzato» ricordai, più a me stesso che a
lei. «E poi, Marco e io è solo
amici.»
Lei
fece spallucce. «Se anche ti piacesse, cosa ci sarebbe di
male a uscire con
lui?»
«Io.
Ho. Fidanzato.» le ripetei, più chiaramente
possibile.
«Sì,
l’ho capito, e se uscissi con Marco a sua insaputa secondo te
sarebbe un
tradimento» sbuffò. «Però
sarebbe un tradimento.»
La
presi per le spalle e la scostai da me, fissandola. Non riuscivo a
capire.
«Cosa tu vuole dire?»
Evitò
il mio sguardo mentre parlava. «Supponiamo che lui ti
piaccia, e che tu voglia
davvero andare a cena con lui. Se tu lo facessi, sarebbe un tradimento
verso il
tuo ragazzo, ok, ma se tu non lo facessi, pur volendo, sarebbe un
tradimento
verso te stesso, non credi?»
Serrai
le mie mani attorno alle sue spalle, tanto che le nocche mi divennero
livide.
Non
potevo credere alle mie orecchie.
«Violetta»
sospirai. «Sfortunamente no è così
facile in amore.»
Lei si
staccò da me e con un sorriso, andò verso la
porta: «Invece sì che lo è. Si
tratta di scelte: devi solo decidere quale tradimento non puoi
sopportare in
alcun modo, se verso il tuo fidanzato o verso il tuo cuore. E qualunque
scelta
prenderai, sarà comunque giusta se ti porterà la
felicità. Ovviamente, parlo
per ipotesi.»
E,
detto questo, uscì, lasciandomi un enorme vuoto dentro.
Un
vuoto che venne presto riempito da una consapevolezza nuova. Si
trattava solo
di scelte. Scelte che sarebbero state giuste, se mi avessero reso
felice.
Ora,
col senno di poi, dovevo solo capire se la mia scelta fosse sbagliata o
meno.
Marco
non mi guardò mentre
cantava dell’amore che non segue le logiche.
Le
lacrime scorrevano, calde e leggere, sulle mie guance.
Era talmente
nervoso, forse
anche più nervoso di Violetta.
E
stringevo forte la stoffa ruvida della camicia di Marco tra le dita.
Lo salutai
platealmente con lo
stesso “Ciao” stupido ed enfatico con il quale lui
aveva salutato Violetta poco
prima, in camerino.
E
le sue mani mi strofinavano la schiena, cercando di farmi calmare.
Mi aveva perfino
risposto a
tono, imitando la mia imitazione. Divertente!
E io mi davo dell’idiota non una, ma cento volte.
Ed era stato
perfetto e
favoloso e anche incantevole. Era stato una scelta perfetta.
Lui
era stata una scelta sbagliata. La più sbagliata che avessi
mai fatto, per
quanto riguardava il programma almeno.
Violetta
era arrivata terza.
Terza.
A un passo dal podio, ma all’ombra del podio stesso.
Avrebbe
dovuto vincere. Se lo meritava, aveva lavorato sodo per arrivare in
finale e
trionfare e io? Cosa avevo fatto?
L’avevo
fatta duettare con Marco, un cantante eccezionale, ma troppo diverso da
lei.
Alla fine, le differenze messe in luce in quella performance erano
state
superiori ai punti di forza, e la mia Violetta non aveva ricevuto il
premio che
tanto si meritava per un mio errore.
Mi
ero ostinato a volere Marco per quella serata, anche se per Violetta
non era
una buona scelta, e ne avevo pagato le conseguenze. Era colpa mia. Le
avevo
strappato io la vittoria dalle mani. Non me lo sarei mai perdonato.
Era notte, quando tornammo a casa mia. Marco mi aveva
seguito, sapendo che avevo bisogno di uno sfogo e infatti mi ero messo
a
frignare sulla sua spalla come il peggiore dei piagnucoloni. Provai a
smettere,
ma senza riuscirci. Comunque lui rimase lì a consolarmi, ad
accarezzarmi per tranquillizzarmi, ad ascoltarmi mentre sproloquiavo in
inglese, a volte, o in
francese. Mi uscì perfino qualche parola in arabo. Il senso
di colpa mi stava facendo
impazzire.
Quando lui mi portò in camera da letto, un pensiero
arpionò
la mia mente, graffiandomi e facendomi male: Marco era una scelta
sbagliata. Lo
era sempre stato. Era un uomo meraviglioso, incredibile, perfetto, ma
c’era
qualcosa di totalmente sbagliato. E stavolta la cosa andava ben oltre
la
performance di quella sera.
I miei stessi pensieri mi scioccarono, gettandomi nello
sconforto. Marco era così buono, così dolce con
me. Come mi saltava in mente
che potesse essere sbagliato? Non c’era nulla di sbagliato in
lui. Ero davvero
troppo stanco e tutt’altro che lucido.
Quella notte non facemmo l’amore, non ne avevo la
benché
minima voglia. Marco non si oppose, anzi, mi tenne semplicemente
stretto a sé,
il mio volto premuto contro il suo petto, le sue braccia che mi
avvolgevano in
modo così rassicurante, le sue mani gentili che stringevano
il mio corpo.
Grazie al suo abbraccio e al suo conforto, smisi di piangere e mi
addormentai,
cullato dal suo tenue respiro, come un bambino.
Ma, prima che piombassi nel sonno, la parola
“sbagliato” si
ripeté come una nenia nella mia mente. Anzi, le parole
“scelta sbagliata”,
inevitabilmente riferite a
lui.
Non era Marco a essere sbagliato. Non era Marco, né il suo
amore, né la sua dolcezza a essere sbagliati. Lui aveva
fatto tutto per bene,
eppure era come se ci fosse un pezzo mancante di un puzzle che non
riuscivo a
ricomporre.
Solo il giorno dopo, al mio risveglio, ancora avviluppato a
lui, lo trovai.
Ciò che era stato sbagliato non era stato sceglierlo, anzi,
quella era stata una delle cose più giuste che avessi mai
fatto.
Era stato sbagliato, però.
Perché alle parole “scelta sbagliata”,
nella mia mente,
erano comparse altre parole, nuove e più taglienti. E quelle
parole, che
urlavano il nome di Marco, erano: “seconda scelta”.
La soffitta
dell’autrice:
Ok, odiatemi
pure.
Volevo dire:
salve! Avete
gradito il capitolo?
Bene,
perché sappiate che i
sensi si stanno esaurendo sempre di più, e il prossimo
sarà l’ultimo senso
puramente non convenzionale che avremo a nostra disposizione.
Bene, spero
che non abbiate
sofferto troppo, perché nel prossimo capitolo sì
che c’è da soffrire.
Ops, ma quanto
parlo…
NE APPROFITTO PER RINGRAZIARVI! La fanfic è tra le 20 più popolari! Certo, è un piccolo posticino all'ultimo gradino, però sono così felice... grazie a tutti, vi voglio bene lettorini miei ♥ ♥ ♥
Ringrazio la
mia mitica beta
comeunangeloallinferno94, sempre presente (e favolosa)!
Alla prossima!
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Capitolo 10 *** Dolore ***
Do•lo•re
[Il dolore rappresenta
il mezzo con cui l'organismo segnala un danno: è
un’esperienza sensoriale ed
emozionale spiacevole associata a danno tessutale, in atto o
potenziale, o
descritta in termini di danno.]
Mika’s POV
«Marco, smettila!» cercai di
dire, tra le risate.
Ma lui ovviamente non mi
ascoltò, sarebbe stato troppo facile.
Il mattino seguente la finale,
greve della delusione causata dalla sconfitta di Violetta e del
pensiero delle
parole “seconda scelta”, che ancora mi arpionavano
la mente come un uncino
affilato, mi sentivo uno straccio.
Marco, dal canto suo, aveva
cercato in tutti i modi di tirarmi su: mi aveva portato la colazione a
letto, completa
di caffè, biscotti e graffe con la panna (“fatte
in casa” aveva detto lui, ma
ero convinto che venissero dritte dritte dalla pasticceria dietro
l’angolo),
non aveva fatto che chiedermi se mi servisse qualcosa e, una volta
distesi sul
mio divano, mi aveva ricoperto di baci e carezze finché non
gli avevo rivolto
un flebile sorriso. Quando si metteva in testa qualcosa, Marco era
davvero
testardo. E io amavo quel lato di lui. Amavo tutto di lui, amavo lui.
Ma allora perché la mia mente
continuava a tornare fastidiosamente su quelle dolorose parole,
“seconda
scelta”?
Forse tutto quel tempo
lontano da Andy cominciava a pesarmi sulle spalle? O forse,
più semplicemente,
mi ero stancato di Marco?
Non appena mi fui posto
quella domanda, posai i miei occhi su di lui: bastò uno
sguardo e mi sentii
come il primo giorno in cui avevo capito di esserne innamorato. No, non
era
decisamente quello il problema.
Eppure mi sentivo come se
quella nostra relazione fosse un carico, una zavorra, un bagaglio
talmente
pesante da anchilosarmi braccia e polsi: era bello, anzi bellissimo, ma
il suo
peso rischiava di schiacciarmi.
«Michael?» mi richiamò lui.
Fu come ridestarsi
all’improvviso, il suo sguardo era preoccupato: avevo smesso
di sorridere e me
ne accorsi soltanto dopo. I miei pensieri mi avevano trascinato sul
fondo di un
baratro e Marco stava disperatamente cercando di farmi riemergere.
«Ehm, yes?» chiesi, fingendo
innocenza. Non doveva capire cosa mi stesse passando per la testa.
Lui mugugnò in risposta, non
del tutto convinto ed evidentemente scontento che avessi smesso di
sorridere. Così,
all’improvviso, mi posò una mano sulla pancia e
iniziò a farmi il solletico.
Saltai letteralmente in aria, lì lo soffrivo da morire!
Scoppiai a ridere e mi
dimenai e a quel punto lo implorai di smetterla, ma non ci fu verso.
Marco ci
aveva preso gusto, ormai, nel muovere quelle dita malefiche ovunque e
più io
cercavo di divincolarmi più lui proseguiva con la sua
tortura.
E, per un momento, mi sembrò
che ogni cosa tornasse al suo posto.
Fu uno dei nostri momenti
normali, giocosi, spensierati. Marco che mi dava fastidio e io che,
ridendo
come un bambino, cercavo di farlo smettere: per un attimo tornammo noi,
amici,
amanti, complici, e fu tutto perfetto. Per circa un secondo.
Poi qualcuno suonò il
campanello.
Marco si sollevò di scatto e
si alzò dal divano, nel modo in cui una gazzella scapperebbe
da un leone. Andai
immediatamente a vedere chi fosse dallo spioncino e mi rilassai quando
vidi che
era soltanto Marco, o meglio, Marco Morgan.
Mi voltai e gli rivolsi un
sorriso rassicurante: «Qui è solo
Morgan.»
Solo allora Marco si rilassò
e si risedette sul divano, con gli occhi spalancati e timorosi. Il suo
spavento
mi fece tenerezza.
Aprii la porta: Marco Morgan
teneva le braccia spalancante, come per coprire qualcosa dietro di
sé, il suo
trench che fungeva quasi da mantello mi fece ridere.
«Hi!» lo salutai.
Lui gettò un’occhiata alle
mie spalle. «Michael so che è un momentaccio
perché vedo che ti stavi
comodamente accomodando –e fai con comodo– con il
tuo amante, ma posso
disturbare questo vostro idillio di passione?» mi chiese
tutto d’un fiato. Qualunque
cosa avesse detto, l’aveva fatto in modo esilarante.
«Che tu ha?»
In quel momento, scorsi dietro
di lui una massa di capelli biondi e voluminosi: era evidentemente una
donna,
ma non riuscii a vederla da dietro il trench. Sapevo solo che Marco
Morgan non
era solo.
Infine, annunciò con
entusiasmo: «Ho conosciuto la donna, Michael.»
Oh, quella sì che era una
notizia!
«Tu ha una donna?» ripetei,
con un sorriso estatico. Finalmente! Era proprio ora che quel
brontolone
trovasse l’anima gemella, ci avevo sempre sperato.
«Non una donna, ma la donna»
mi corresse, con quel pizzico di adorabile presunzione che lo
contraddistingueva.
«Petrarca l’avrebbe definita
“l’essere angelicato”, poiché
ha davvero i capei d’oro in mille
dolci nodi che
aveva la sua Laura. Ma la donna in questione ha la forza
d’animo d’un toro, la
caparbietà di un mulo e una raccomandazione lunga quanto
un’opera di Bach.»
«Ok, questa messinscena mi ha
stancata!»
La figura dai capelli biondi
che stava dietro di lui lo spinse con foga ed entrò a passo
di marcia in casa
mia.
Marco saltò in piedi e il suo
volto era una maschera di sgomento puro, esattamente come il mio.
«Marta?» mormorò con un filo
di voce.
Lei fece una corsa fino a
raggiungerlo e lo spintonò con forza, tanto da farlo
vacillare per un momento.
«Sei un bastardo!» gli urlò.
«Mi hai detto che era finita tra di voi. Mi hai rifilato solo un
mucchio di balle!»
Marco scosse la testa.
«Marta, ascoltami, tu non capisci…»
«No, sei tu che non capisci!»
continuò lei, furiosa.
A quel punto dovetti
intervenire e mi misi tra loro due, per evitare che la cosa
degenerasse:
«Marta, aspetta, tu spiega perché tu è
qui.»
«Credo di poter spiegare io»
intervenne Marco Morgan.
A quel punto tutti ci
voltammo verso di lui.
«Come dice?»
Cosa c’entrava lui in tutto
questo?
Scosse la testa. «Nulla di
personale, Mika, non era mirato a far del male a te.»
Mika? Da
quando in qua mi chiamava Mika? Lui mi aveva sempre chiamato Michael,
così come
facevano tutti i miei amici e come faceva anche Marco. Mi chiamava Mika
soltanto in trasmissione. Che cosa stava succedendo?
Marco Morgan sospirò e iniziò
a parlare: «Mettiamola così: per caso, mi sono
ritrovato su questo apparecchio
tecnologico che voi giovani chiamate smartphone,
una foto di due personaggi molto celebri che si scambiano effusioni in
un
camerino.»
Sentii Marco trasalire alle
mie spalle.
No, non poteva essere.
Forse, pensai cercando di
tranquillizzarmi, non stava parlando di noi due, forse si riferiva a
qualcun
altro. Nel giro di un attimo, mi trovai patetico da solo.
«Avrei tanto voluto
utilizzarla in qualche modo, ma non potevo»
proseguì lui. «Tu e Marco Mengoni
eravate talmente invischiati con X Factor che, se quella foto fosse
saltata
fuori, sareste affondati entrambi e di conseguenza sarebbe affondato
anche il
programma, il che avrebbe portato anche all’affondare del
sottoscritto. Così ho
taciuto fino a oggi.
«Ma, per l’appunto, stamani
mi sono presentato non alla porta di un giornale scandalistico, come
avrei
benissimo potuto fare, bensì ai cancelli della Sony, e
lì ho trovato la
signorina Marta Donà, la raccomandatissima nipote di
Celentano.»
Posai automaticamente lo
sguardo su di lei, che digrignò i denti come un cane
rabbioso. Era più che
evidente il disprezzo che provava nei confronti di quell’uomo.
«Come dicevo, la signorina
Marta Donà nipote di Celentano ha compreso perfettamente il
valore della foto
in mio possesso. Ne ha compreso il valore in tutti i sensi.»
«Cosa vuoi dire?» chiese
Marco a un certo punto, con ingenuità.
A quella frase, Marta
esplose. «L’abbiamo dovuto pagare, idiota che non
sei altro, e anche
profumatamente. La Sony è stata costretta a sborsare una
cifra assurda perché tu
non riesci a tenertelo nelle
mutande.»
«Don’t you dare!»
sbottai, contro Marta.
Era la donna più rude che
avessi mai conosciuto e per di più se la stava prendendo con
Marco, che non
c’entrava niente in tutto questo.
Ma quando Marta si voltò
verso di me e mi sussurrò a mezza voce la cifra che la Sony
aveva dovuto pagare
per il silenzio di Marco Morgan, sbiancai.
Valeva così tanto il nostro
segreto?
Il nostro amore era arrivato
ad avere addirittura un prezzo?
Evidentemente sì.
Mi sentii come se mi avessero
sfregiato e gettato del sale sulla carne viva: era doloroso, bruciava
come
l’inferno e non c’era alcuna possibilità
di far passare quell’orrenda
sensazione. Un vero e proprio supplizio.
«Mi sento di troppo adesso,
ero venuto solo a dirvi questo» dichiarò Marco
Morgan, con un inchino studiato.
«Mi congedo.»
Poi, uno per uno, ci salutò
con un gesto di commiato. «Marco Mengoni. Marta
Donà nipote di Celentano.
Mika.»
«Aspetta» cercai di fermarlo,
prima che andasse via.
Pretendevo una spiegazione.
Eravamo stati amici durante tutti quei mesi, gli avevo voluto bene, ma
bene
veramente, ed ero convinto che anche lui me ne volesse. Avevo perlomeno
bisogno
di quella conferma.
Doveva dirmi che eravamo davvero
amici e che non me l’ero inventato io.
Lui sollevò lo sguardo, nel
quale scorsi un fondo di pura amarezza. «Non è per
te, Mika, tu sei soltanto
una vittima in una guerra molto più grande di te.
L’uomo contro il Dio Denaro è
destinato a perdere.»
E, detto questo, chiuse la
porta e se ne andò.
Marta crollò sul divano e si
prese il volto tra le mani.
Non potei negarlo, ci
sentivamo tutti esattamente come lei.
Istintivamente andai verso
Marco, gli cinsi le spalle con un braccio: tremava e non poco, il suo
volto era
una maschera di terrore. Le sue più grandi paure si erano
realizzate, e anche
le mie.
Marco cercò di posare una
mano sulla spalla di Marta, ma lei lo scostò violentemente.
«Per colpa tua ho dovuto
contrattare con quell’essere schifoso, non sperare nel mio
perdono» poi sollevò
la testa di scatto e puntò i suoi occhi gelidi su di me.
«Mika.»
«Sì?»
«Te ne devi andare. Devi
tornare a casa tua.»
A quel punto, dovetti trattenere
una mezza risata.
Uno dei miei migliori amici,
che in realtà non era mai stato tale, aveva appena venduto
la mia relazione con
Marco alla sua stessa casa discografica pur di non far sapere al mondo
che
avevamo una storia, pur di nascondere a tutti che io ero un traditore e
che a
Marco piacevano gli uomini. Avevo già avuto la mia buona
dose di batoste per
quel giorno, senza che lei mi ordinasse di andare via.
«Io non lo farò» le risposi,
pertanto.
Lei si alzò in piedi, per
fronteggiarmi. Era più bassa di me, ma ciò che le
mancava in altezza lo
compensava in fierezza, tanto da farmi sentire in soggezione.
«È evidente che di Marco e
della sua carriera non ti importa niente, o te ne saresti
già andato da un
pezzo. Perciò mi costringi a ricordarti un paio di
cosette» cominciò, in tono
duro.
«Che intendi dire?» chiese Marco.
Marta neanche si prese il
disturbo di voltarsi verso di lui, tenendosi concentrata su di me.
«Volete far
finta di amarvi? Ve lo concedo. Marco Castoldi manterrà il
segreto, che bella
cosa, ma indovinate un po’? Non è
l’unico a sapere di voi due, lo so per certo.
Finché tu resterai qui, sarete troppo esposti. E quando vi
scopriranno, perché
accadrà prima o poi, come pensi che reagirà la
tua famiglia? Saranno fieri di
te quando scopriranno che sei un bugiardo? E il tuo fidanzato? Pensi
che ti
perdonerà, che ti riaccoglierà a braccia aperte?
Te lo dico io: no. Non ti
rivolgeranno più la parola, ti odieranno tutti. Sarai felice
allora? Ne sarà
valsa la pena?»
La mia famiglia.
Andy.
Non avevo mai pensato di far
del male a loro.
Mi venne da piangere.
Seriamente e senza possibilità di trattenere le lacrime,
scoppiai in un vero e
proprio pianto.
Pensi
che saranno fieri di te quando capiranno che sei
un bugiardo?
Era troppo per me.
Troppo tutto insieme.
Tutto ciò che avevo sempre
cercato di reprimere ed evitare si stava riversando su di me come una
valanga e
io non ero abbastanza forte per fermarla. Non avevo mai fatto i conti
con
questa parte della verità.
Io volevo amare Marco.
Ma non a quel prezzo.
Tutta la sofferenza che
stavamo patendo entrambi e che avremmo patito in futuro, tutto il male
che
rischiavamo di fare ad altre persone, era troppo.
La mia famiglia non mi
avrebbe più rivolto la parola. Andy non ne avrebbe
più voluto sapere di me.
Il solo pensiero mi fece
piangere più forte.
Marco era confuso, spaesato,
disperato, come un bimbo che vede i suoi genitori litigare. Fece per
abbracciarmi ma lo scostai da me. Mi rivolsi a Marta.
Non avrei mai pronunciato una
frase più dolorosa di quella.
«Due giorni» dissi, trattenendo
i singhiozzi. «In due giorni io torna a Parigi.»
Marco ci guardò, con occhi
sgranati e colmi di angoscia. «Aspettate, niente decisioni
affrettate. Deve
esserci una soluzione alternativa, giusto?»
Ma Marta, dura e profondamente
segnata dalla delusione per le bugie di Marco, si limitò a
prenderlo per un
braccio e a procedere a passo di marcia verso la porta.
«Vieni, dobbiamo
parlare.»
«Io non me ne vado da qui»
protestò.
Ma lei non volle sentire
ragioni. «Tu te ne vai da questa casa immediatamente,
Marco.»
«Io non me ne vado» ripeté,
più forte.
«Marco, va con lei.»
Si voltarono entrambi verso
di me. L’avevo detto davvero? Sì,
l’avevo fatto.
Ma avevo bisogno di restare
da solo. Era tutto troppo per me e, sinceramente, non volevo vedere
nessuno e
parlare con nessuno.
Avevo bisogno di riprendere
le redini di una vita che avevo lasciato andare da troppo tempo. Dovevo
ritrovare me stesso e, per farlo, dovevo stare lontano da Marco, almeno
per un
po’.
Lui mi guardò con occhi
imploranti, sperando di aver capito male. «Michael, io
non…»
«No» per la prima volta in
vita mia, gli parlai con tono di comando. «Va via.»
Lo guardai dritto in viso.
Nei suoi occhi morì qualcosa.
Potei vederlo chiaramente.
C’era una luce, un ardore,
una fiamma viva in lui che si era spenta nel momento in cui avevo
finito di
parlare. Erano rimaste solo le ceneri fumanti. Un secondo e dentro
Marco erano
calate le tenebre. Tenebre che presto si riempirono di lacrime,
facendomi
sentire tremendamente in colpa.
Capii immediatamente cosa
dovevo fare: prenderlo per un polso, tirarlo verso di me, stringerlo
tra le mie
braccia e non lasciarlo andare, cercare una soluzione insieme,
consolarci a
vicenda per l’orribile momento che eravamo stati costretti a
passare.
Sì, avrei dovuto farlo.
Fui sul punto di farlo.
Ma non lo feci.
Invece li osservai, inerte,
mentre lasciavano di casa mia, Marco che ancora mi guardava
supplicante, come
se un filo invisibile lo tenesse ancorato a me.
Fu straziante.
Chiusi la porta e il filo fu
reciso.
La notte prima della mia
partenza, attesi l’arrivo di Marco.
Non ci eravamo né visti né
sentiti dal momento in cui l’avevo praticamente cacciato di
casa, ma sapevo che
sarebbe venuto.
Perché era ciò che faceva
Marco. Esserci sempre, venire quando ne avevo bisogno, e quando ne
aveva
bisogno anche lui.
La verità, però, era che in
quei giorni avevo avuto tempo di riflettere.
Mi vergognavo ad ammetterlo,
ma la discussione con Marta, invece di gettarmi nello sconforto, mi
aveva
levato un gran peso dalle spalle: non avevo dovuto fare nulla per
sciogliere
quel dubbio che mi attanagliava la mente, il dubbio della
“seconda scelta”, il
dubbio che ci fosse qualcosa di sbagliato nella relazione tra me e
Marco.
Potevo crogiolarmi tranquillamente nella sicurezza del fatto che era
stata Marta
a mettermi con le spalle al muro, obbligandomi a tornare a casa per la
sicurezza di entrambi.
Ero stato un vigliacco e lo
sapevo, ma non sarei tornato indietro. Finalmente, le cose sembravano
più
facili che mai.
Per questo, quando Marco
bussò e io andai ad aprirgli e lo trovai in lacrime, come
temevo, la prima cosa
che feci fu baciarlo, con forza, impeto e disperazione.
Perché glielo dovevo.
Perché stavo facendo una cosa
orribile e a pagarne le conseguenze sarebbe stato lui.
Questo pensai, quando lo
condussi in camera senza mai staccarmi dalle sue labbra, scivolando
sulla
parete come ombre.
Per questo, quando lui mi
gettò sul letto e si mise su di me, sovrastandomi, non feci
nulla per oppormi.
Anzi, tacitamente lo ringraziai per aver preso lui il comando per la
prima
volta da quando stavamo insieme: non avrei avuto il coraggio di farlo
io. Come
riuscii a fare l’amore con lui, dopo quello che gli avevo
fatto, non lo seppi
mai.
Così,
fummo entrambi nudi, pelle contro pelle, respiro su respiro. Mi
afferrò per i
fianchi e, con un movimento deciso, mi fece girare. Mi posizionai
meglio, per
facilitargli il compito il più possibile, la sua presa
divenne più salda.
E
poi entrò dentro di me.
Urlai.
I
miei lombi furono preda del dolore, bruciante, forte e penetrante come
non ne
provavo ormai da tanto tempo. La sua presenza era rude e ingombrante e
quando
diede la prima spinta la vista mi si appannò e dovetti
trattenermi dal piangere
a causa del dolore. Alla seconda spinta, fui sul punto di chiedergli di
smetterla.
Alla
terza spinta, tutto cambiò.
Percepii
un’intensa ondata di piacere che mi invase violentemente le
membra. Gemetti e
la mia pelle iniziò a fremere, tanto che mi ritrovai ad
ansimare senza nemmeno
rendermene conto.
Ma
poi, fu ancora dolore.
E
dopo il dolore, ancora il piacere.
Marco
non riusciva a dosare la sua forza e lo sentii più di una
volta singhiozzare alle
mie spalle, quando mi sentiva ringhiare perché mi faceva
male. Era disperato e
questa sua disperazione lo portò a darmi gioia e sofferenza
al tempo stesso,
come se il dolore e il piacere facessero a gara per primeggiare.
Inaspettatamente,
negli ultimi momenti di estasi, fu il piacere a vincere sul resto.
Mi
bastò quell’attimo per capire che, se non fosse
stato così afflitto a causa mia,
Marco sarebbe stato un amante perfetto.
Ma
non l’avrei scoperto mai.
Gridai di piacere e venni,
senza fiato. Lui non ci mise che pochi secondi a raggiungermi.
Crollai sul letto e cercai la
posizione più confortevole possibile, visto che ancora il
mio corpo risentiva
del duro trattamento di Marco. Quando la trovai, subito lui si
aggrappò a me e scoppiò
a piangere.
«Ti prego, non andartene»
bisbigliò al mio orecchio, con voce rotta.
Oh, no.
No, non quel discorso.
Pensavo che ormai fosse un
pericolo scampato visto che sarei partito l’indomani mattina,
pensavo che si
fosse rassegnato. Non avrei dovuto scartare a priori quella
possibilità.
«Marco, io no può e tu lo
sa.»
«Ma perché no?» continuò, con
voce lamentosa. «Qual è il problema? La mia
carriera? Che si fotta. Se non
posso avere te, non voglio niente.»
«No dire sciocchezze» lo
ammonii, sapendo che era il dolore a parlare in sua vece, in quel
momento.
Le sue labbra tremarono.
«Vengo a Parigi con te.»
«No» replicai, fermo. Mi
spezzò il cuore vederlo così, disposto a tutto
pur di avermi, e forse in altre
circostanze avrei fatto anch’io in quel modo, pur di tenere
con me la persona
che amavo. La sua testardaggine, il suo amore, il suo abbraccio: mi
sarebbe
mancato tutto. Ormai faceva talmente parte di me che rendermene conto
mi
straziò.
«Ma io…»
«Marco, tu no può venire»
stavolta fu a me che si spezzò la voce.
Lui non demorse. «Qual è il
problema? La tua famiglia? Andy? Glielo spiegheremo, gli spiegheremo
tutto. So
che dopo quasi otto anni non è facile lasciare una persona,
ma io sarò al tuo
fianco.»
Lo fulminai con lo sguardo.
Lui si zittì.
Non poteva parlare sul serio.
Dovevo aver capito male. Non
mi stava chiedendo davvero di lasciare il mio fidanzato,
l’uomo che amavo da
anni, nonché la mia casa, il mio rifugio, il mio per sempre.
Non per lui. Non
poteva essere così egoista.
«Marco» cercai di non lasciar
trasparire il mio turbamento. «Io no vuole lasciare
Andy.»
«Sì, lo so che non vuoi
ferirlo e non vuoi fargli del male…»
Lo interruppi, iniziando a irritarmi.
«No, tu non hai capito.»
«Sì che ho capito» insisté
«e
ti ho già detto che io ti starò accanto quando
accadrà.»
«Marco, stop!» sbraitai.
Stava rendendo la situazione più difficile per entrambi, e
non potei tollerarlo
oltre. «Io ama Andrew più di ogne altra cosa, io
no lo vuole lasciare, io no
lascia lui solo per te!»
Trattenni il respiro.
Cosa
avevo detto?
Cosa avevo fatto?
Gli
avevo praticamente fatto capire che amavo più Andy che lui,
il che non era
assolutamente vero. Tra i due, in realtà, l'egoista ero io.
Avevo
perso di vista la situazione. Avevo perso di vista tutto: pur di non
assumermi
le mie responsabilità, pur di fuggire dalle conseguenze
delle mie azioni, avevo
realizzato il mio terrore più grande. Avevo fatto del male a
Marco.
I
suoi occhi pieni di lacrime, i suoi singhiozzi, l’espressione
dilaniata sul suo
volto mi trafissero come una stilettata, causandomi un indescrivibile
malessere.
«No,
Marco, io no voleva dire questo» mi affrettai a dire.
Ma
seppi che era troppo tardi: il danno era fatto.
Lui
scosse la testa e si allontanò da me, come se non volesse
neanche toccarmi.
«Fai
schifo.»
«Marco,
ascolta» cominciai a dire.
«No,
tu ascolta» sibilò. «Per te è
facile. Torni a casa dalla tua famiglia, dal tuo
fidanzatino, circondato dall’amore e dall’affetto e
ti sarà facile
dimenticarmi. Ma io? A me ci pensi? Io non ho nessuno. La mia famiglia
non c’è,
Marta ora mi odia. Non ho nessun altro, se non te. Se tu te ne vai, ti
porti
via il mio mondo con te, perché tu sei tutto il mio mondo. E
di me che ne sarà?
Ci hai mai pensato?»
Lo
fissai, scioccato.
No,
non ci avevo mai pensato.
Non
avevo pensato a lui neanche una volta, in tutto quel trambusto. Avevo
dato per
scontato che sarebbe stato bene. Soltanto in quel momento la
possibilità che
ciò sarebbe potuto non accadere si profilò,
infida e silenziosa, lacerandomi il
cuore.
«Oh,
Marco» feci per abbracciarlo.
Lui
mi spintonò e le lacrime traboccarono dai suoi occhi.
«Aveva
ragione Marta» disse, semplicemente.
«Cosa?»
chiesi, confuso.
«Dovevi
fottermi e poi andare via. Sarebbe stato meglio.»
E
si alzò, raccattando i suoi vestiti, dandomi forse il tempo
di capire quanto
stessi sbagliando, dandomi una chance di spiegargli che aveva torto a
pensare
questo.
Ma
rimasi lì, fermo, a guardarlo mentre se ne andava.
Uscì
dalla stanza senza voltarsi indietro. Non feci nulla per impedirglielo.
Afferrai
un cuscino con violenza, sul punto di prenderlo a pugni per sfogare la
rabbia,
ma non lo feci: sapevo che non mi sarebbe servito a niente.
Era
tutta colpa mia, solo e unicamente colpa mia.
Così
lo strinsi a me, come se fosse stato il corpo di Marco, e piansi
lacrime amare
sulla federa, fingendo che fosse la sua spalla. Nessun tenero
abbraccio, però,
nessuna parola di conforto.
Soltanto
vuoto intorno a me e una consapevolezza.
Che
era unicamente colpa mia. Per quanto cercassi di condividere la
responsabilità
di ciò che avevo fatto con Marco, sapevo bene che aveva
ragione: io gli avevo
chiesto di cadere in amore insieme, io avevo iniziato a nutrire i primi
dubbi,
io sarei partito lasciandolo in Italia, completamente da solo.
Esattamente
come avevo previsto, eravamo caduti in amore.
Ma
non insieme.
Era
come se io avessi spinto Marco oltre il precipizio e avessi assistito
alla sua
caduta.
Non
gli porsi nemmeno una mano per aggrapparsi a me.
Semplicemente,
mi misi in salvo dall’impatto.
Al
riparo dal dolore.
La soffitta
dell’autrice:
Ma salve.
Scusate l’abissale ritardo di ben due
settimane, ma tra la scuola e l’accademia ho trovato tempo
solo adesso.
Perdonatemi!
Ok,
è giunto il momento di dirvi che i sensi sono
quasi finiti, il prossimo sarà l’ultimo tra i
sensi ufficialmente riconosciuti
come tali, ed è uno di quelli che tutti siamo abituati a
conoscere.
Se questo
capitolo vi ha fatto soffrire, consolatevi
guardando il sesto live di X Factor. E se non vi ha fatto male,
guardatelo lo
stesso. Perché vi obbligo.
Ringrazio come
al solito la mia mitica, meravigliosa
beta comeunangeloallinferno94, cosa farei senza di lei?
Mi dileguo, e
alla prossima!
|
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Capitolo 11 *** Olfatto ***
Ol•fat•to [L'olfatto o odorato è
uno dei sensi specifici
e rende possibile, tramite i chemocettori,
la percezione della concentrazione, della qualità e
dell'identità di molecole
volatili e di gas
presenti
nell'aria.]
Marco’s
POV
Inspira. Espira.
Ucciditi di nicotina,
che assorbisca le tue paure e i tuoi stupidi desideri.
Lasciai che il fumo della sigaretta fuoriuscisse dalle
mie labbra.
Ero un tale stupido, mi vergognavo di me stesso.
Non ero riuscito ad allontanarmi da lui.
Ero stato coraggioso, sì. L’avevo insultato per
bene,
me ne ero andato dopo essermelo fatto, sbattendo la porta, certo. Tutto
molto
bello. Peccato che, una volta fuori da casa sua, io non fossi riuscito
a
muovere più di un passo.
Ero crollato accasciandomi sull’uscio, come frastornato.
Dovetti mettermi a sedere e, una volta che il mio corpo ebbe toccato il
gelido
pavimento, scoppiai a piangere. La sua partenza, le cose che mi aveva
detto,
quello che io gli avevo fatto… era tutto troppo per me.
Pertanto, avevo subito
preso le mie sigarette e le avevo fumate tutte, l’una dopo
l’altra, per tutta
la notte, nella vana speranza di trovare una via di fuga da me stesso.
Arrivò l’alba. Il foyer era ormai invaso da una
fitta
nebbiolina di fumo, un pacchetto di sigarette vuoto era accasciato ai
miei
piedi, pieno di cenere. Che fossi a dir poco distrutto era un fatto
compiuto.
Il problema era che, minuto per minuto, lo diventavo sempre di
più.
Qualche ora fa, Michael aveva fatto una scelta: il suo
fidanzato invece che me, la sua vecchia vita invece di quella che
avremmo
potuto costruire insieme. Dopo avermi illuso per mesi, alla fine mi
aveva
rifilato un bel “grazie e arrivederci”. Nessuna
meraviglia se piansi tutta la
notte come un poppante.
Aveva confermato i miei più grandi timori, ossia che io
per lui non fossi che un po’ di sano divertimento, che da me
non cercasse che
un’avventura. Che io per lui non fossi niente. Che la mia
presenza nella sua
vita non contasse.
Tuttavia, benché stessi cercando da ore di stordirmi a
suon di tabacco, e benché ormai quell’odore acre e
penetrante avesse impregnato
le mie vesti e la mia pelle come fossero spugne, la mia mente si
rifiutava di
cedere del tutto. Come uno sciocco sentivo, o forse lo speravo
soltanto, che
lui provasse per me esattamente ciò che io provavo per lui.
Avevamo diviso
gioie e dolori, paure, risate, lacrime, letto. Tante essenze, quelle,
che
goccia per goccia si mescolavano come infusi e creavano qualcosa di
unico che sapeva di
amore. E, per quanto mi sforzassi di rievocare quelle sue dure e aspre
parole e
di convincermi che Michael fosse contento di essersi sbarazzato di me,
desiderai con una certa cattiveria che in realtà fosse
triste e sconsolato
anche lui. Pregai tutta la notte per quel miracolo.
Era l’alba quando sentii dei rumori provenire
dall’interno della casa. Solo allora mi resi conto di quanto
la notte, fuori
dalle braccia di Michael, facesse schifo.
Lì fuori puzzava di polvere e cenere di tabacco, lo
stesso con il quale avevo riempito il mio corpo per evitare di
impazzire del
tutto. Era l’odore che avrei dato alla galera, a
un’auto in panne che ha finito
di bruciare, a una casa abbandonata.
Mi faceva sentire dimenticato, oppresso.
Non avevo mai fatto caso a che odore ci fosse, invece,
dentro casa di Michael. La prima volta che ci ero andato, lo ricordavo
bene, fu
nel bel mezzo di un acquazzone, quindi la mia memoria difettosa avrebbe
senz’altro detto pioggia.
Ma no. Era un aroma più dolceamaro, più
orientale,
senz’altro più accogliente. Un ambiente che
rievocava quello dell’harem di un
principe indiano.
Già, proprio come un principe.
All’improvviso, la porta si aprì dietro di me.
Per poco non caddi dentro casa.
«Marco!» esclamò.
Tra le mille sfumature della sua voce, tra la sorpresa
e la paura, una punta di esultanza.
Certo. Ovviamente. Si era aspettato che io rimanessi lì
come un povero idiota ad aspettare lui. Perché era
ciò che avevo sempre fatto:
corrergli dietro come un cagnolino.
Mi alzai in piedi, raccogliendo il pacchetto vuoto di
sigarette, pronto a rispondergli che me ne stavo giusto andando,
così non
l’avrei disturbato oltre.
Ma quando mi voltai per fronteggiarlo e vidi che aveva
il naso e gli occhi rossi, come se avesse pianto tutta la notte, e un
indecifrabile sorriso sul volto, le parole mi morirono in gola.
Il mio problema era questo. A Michael non ero mai
riuscito a resistere, né da collega, né da amico,
né da amante. Se mai avevo
desiderato qualcosa nella vita, era lui. Se mai avevo avuto bisogno, un
bisogno
disperato, di qualcosa, era lui. Se mai avevo avuto bisogno di
illudermi che
qualcuno avesse potuto piangere tutta la notte per me, quel qualcuno
era lui.
Ma Michael era troppo per me e ormai era chiaro anche
ai miei occhi.
Lasciai da parte i pensieri e annusai l’aria.
Finalmente un odore familiare che invase e scaldò le mie
narici.
«Hai messo a fare il caffè?»
«Ehm, sì» rispose, impacciato e
frettoloso. «Tu ne
vuole?»
No.
«Sì.» Ti detesto e me ne voglio andare.
«Mi
piacerebbe. Posso entrare?»
Annuì e si fece da parte per lasciarmi entrare. Ero
talmente patetico che mi stomacai da solo.
Nella sua casa portai la mia nuvola di fumo, che soffocò
per un attimo quell’aroma che conoscevo bene –fiori
freschi, ne ero quasi
certo. Adorava ricoprire ogni superficie libera di piccoli
bouquet– misto al
caffè americano appena fatto. Il tutto risultava amarognolo
e vagamente
nauseante, mi fece girare la testa. Trasalii quando notai che tutti i
sopramobili, così come le cianfrusaglie che Michael lasciava
sempre ovunque, da
bravo disordinato qual era, erano scomparse. Stipate in valigia,
probabilmente.
La sera prima non ci avevo fatto caso, troppo preso dalla foga
dell’amore.
Rimanevano soltanto i mobili, il fumo e il caffè. Che
tristezza.
Andai in cucina e mi accasciai su una sedia senza
neanche rivolgergli un sorriso o uno sguardo. Lui fece lo stesso. Lo
sentii
tossicchiare un paio di volte a causa dell’odore di nicotina,
che lo aveva
sempre infastidito, e poi entrare in cucina per versare il
caffè in due tazze e
porgermene una.
Sollevai lo sguardo e soltanto allora notai una specie
di sigaretta lunga e stretta che stava al centro del tavolo della
cucina su un
appoggio, in verticale. Emanava fumo, un fumo che sapeva di legno.
«Incenso» mi spiegò, senza che io gli
chiedessi nulla,
forse captando la mia curiosità. «Tu sa, incenso
può calmare.»
Sorseggiai quel caffè disgustoso oltre ogni
immaginazione e poi ribattei, sperando di essere tagliente:
«E tu da quando in
qua sei un esperto di incenso?»
«Da quando io ha bisogno di calmare me»
borbottò, tutto
d’un fiato.
Poi posò gli occhi su di me.
Come se il motivo della sua mancanza di calma fossi io.
Oh, sì, certo. Adesso che aveva capito che Marco
Mengoni non era più a sua completa disposizione, doveva fare
qualcosa per
riprenderselo, giusto? La cosa mi nauseava.
Non finii neanche il caffè, mi alzai e feci per
andarmene, quando Michael mi richiamò.
«Marco, wait.»
Per qualche strana ragione, mi voltai.
Sembrò impacciato quando riprese a parlarmi: «Tu
ha
lasciato qui delle tue cose. Io le ha messe tutte su letto di là mia
camera se
tu le vuole.»
Ah, ecco. Non stavo levando abbastanza il disturbo,
dovevo farlo meglio. Ogni traccia di me doveva sparire. Bene,
l’avrei
accontentato.
Filai in camera da letto, che ritrovai perfettamente
ordinata e spoglia –le valigie come unica nota stonata in
quell’asettico vuoto–
come se nulla fosse accaduto quella notte, in quella stanza maledetta.
Sul
letto, una mia camicia bianca, uno spazzolino e una boccetta mezza
vuota di
colonia.
Mi salirono le lacrime agli occhi. Era il mio piccolo
kit per quando restavo a dormire da lui. Ossia, quasi tutte le notti.
Raccattai le mie cose, cercando di deglutire quel
gigantesco groppo alla gola, e tentai di scacciare dalla mia mente il
suo
adorabile faccino che mi diceva quando adorasse l’idea di
ritrovarmi accanto a
sé la mattina, al suo risveglio. Quando il nostro sesso
aleggiava attorno a noi
in maniera più blanda rispetto alla notte, quando i nostri
fiati erano
terribili e non ce ne importava un fico secco, anzi, ne ridevamo.
Quando la mia
pelle sapeva della sua e profumava come la sua, e mi sentivo parte di
lui ed
era la sensazione più bella del mondo.
Il telefono di casa cominciò a squillare e soltanto
allora mi ridestai. Asciugai le lacrime che, inevitabilmente, mi erano
scese
sulle guance e tornai di là.
La suoneria mi spaccava i timpani, eppure Michael non
sembrava intenzionato a rispondere. Nel corridoio c’era un
telefono, una luce
lampeggiante mi invitava a sollevare la cornetta e a rispondere. Non
avrei
dovuto farlo. Infondo, era la sua privacy.
Eppure mi guardai intorno per controllare che Michael
non spuntasse e, facendo meno rumore possibile, mi portai la cornetta
all’orecchio.
«Hi
Mika! It’s Andy here, are you ready to come back home?»
Riattaccai immediatamente.
Avevo capito tutto. Tutto quanto mi era perfettamente
chiaro.
Mika.
Andy.
Tornare a casa. Nessun posto per me.
Tornai da lui in cucina, con tutte le mie cose strette
al petto e le lacrime di nuovo pronte a traboccare dai miei occhi.
Piangevo
sempre a causa sua. Lo odiai.
Avrei potuto dirgli molte cose, fargli tante domande,
rinfacciargli parecchi dei suoi sbagli, tuttavia l’unica
frase che mi uscì di
bocca fu:
«Perché Andy ti chiama Mika?»
Sussultò, come se l’avessi spaventato, e mi
guardò.
Oh, no.
Di nuovo quel naso rosso, quegli occhi lucidi, ed erano
lacrime quelle che gli vedevo luccicare sul volto? Oh, povero il mio
tesoro.
No, Marco, nessuna
pietà stavolta, mi imposi. Presi
fiato. «Per quale motivo Andy ti chiama Mika?»
«Che tu vuole dire?» mi chiese, confuso, con un
filo di
voce. Ecco perché non aveva risposto al telefono.
Ero nervoso, talmente tanto che quasi potei sentire
quell’olezzo tipico di bruciato uscirmi dalle tempie per
quanto ero furioso, sul
punto di esplodere.
«Ho risposto al telefono» ammisi. «Era
Andy, che ti chiedeva
se eri pronto a tornare a casa. Ti ha chiamato Mika. Io ti ho sempre
chiamato
Michael, perché pensavo che Mika fosse il tuo nome
d’arte e ti infastidisse
essere chiamato così. Allora perché Andy lo fa?»
Lui non si scompose più di tanto. Era quasi come se si
aspettasse quel mio gesto sconsiderato. «Tutta mia famiglia
chiama Mika da
sempre, ecco perché lui chiama Mika anche.»
Oh, ecco perché. Era perfettamente logico, come avevo
fatto a non pensarci prima?
«Giusto» risposi, sprezzante. «Giusto.
Lui fa parte
della famiglia. Io invece ti ho sempre chiamato Michael, come ti
chiamano gli
amici, perché io non faccio parte di un emerito cazzo,
giusto?»
Si alzò dalla sedia e mi venne incontro. «Questo
è
falso.»
«Gli amici ti chiamano così!» sbottai.
«Perfino Morgan
ti chiamava così! Pensavo che Mika fosse solo il tuo nome
d’arte, ora scopro
che invece è il nome con cui ti chiamano le persone a cui
tieni di più al mondo
e io non sono fra queste, vero?»
«Marco, calmo» mi disse, la sua voce era
più vellutata
adesso. «No è importante.»
«Per me sì!»
«Marco, stop, è solo nome» fece, con un
flebile
sorriso. «Il modo che tu mi chiama no cambia chi io sono e
cosa io provo per te.»
Senza senso.
Le sue parole erano così vuote e senza senso.
Mi venne in mente un verso di Romeo e Giulietta.
“Ciò
che chiamiamo rosa con un altro nome conserverebbe il suo dolce
profumo”. Era
evidente che Shakespeare non aveva mai conosciuto Michael:
c’era una sottile
linea di demarcazione tra chi considerava importante e chi no, e questa
dipendeva dal suo nome.
Per me lui era Michael. Ero al di qua di quella stupida
linea.
«Bene, sai che ti dico allora?» dissi, fermo.
«Che
comunque tu ti faccia chiamare, resti sempre uno stronzo.»
Feci per andarmene.
Ma non potei.
Perché lui mi afferrò per un braccio, mi
strattonò e mi
fece voltare.
Tutto quello che avevo in mano cadde per terra.
Michael mi abbracciò. Mi strinse a sé,
più forte che
mai, mi imprigionò letteralmente tra le sue esili braccia
come se non volesse
mai più lasciarmi andare.
Si sentì un crack
secco, seguito da un odore intenso,
penetrante e sgradevole di colonia concentrata. La boccetta doveva
essersi
rotta, ma non mi importava.
Perché avevo bisogno di fuggire. E l’unico posto
in cui
avrei desiderato farlo erano proprio le braccia di Michael.
Mi maledissi, mi maledissi cento volte per avergli
ceduto per l’ennesima volta, per non essere riuscito di nuovo
a resistergli. Ma
ero vincolato a lui. Come un filo che mi teneva ancorato al suo cuore,
che
avevo provato a recidere in tutti i modi, ma ogni volta si riformava
dentro di
me.
Era una musica troppo bella, un profumo troppo forte,
un dolore troppo intenso, un amore troppo grande.
Mi aggrappai a lui, strinsi forte la stoffa della sua
maglia tra le dita e premetti forte il volto sull’incavo
della sua spalla.
Inutile dire che scoppiai a piangere ma, e la cosa mi sorprese, lui
fece
altrettanto. Gli dispiaceva per davvero andarsene. Per un attimo, mi
sentii uno
sciocco per averne dubitato.
Posai il naso sul suo collo e, per evitare di restare
soffocato dalla mia colonia appestante, inspirai forte il suo profumo.
Lo feci
di nuovo, e poi ancora e ancora per imprimerlo nella memoria. Era
l’odore
naturale della sua pelle.
Sapeva di agrumi e di sapone delicato, a tratti
ricordava il detersivo per piatti e la cosa mi fece quasi ridere.
Agrumi,
sapone, bucato appena fatto, di quando annusi le lenzuola e ci immergi
la
faccia perché sanno di pulito e, sì,
c’era anche un po’ di miele. Era un
profumo fresco, dolce e leggero. Il profumo che mi aveva accompagnato
nei
giorni di risate e nelle notti di urla. Non volevo perderlo. Non potevo
perderlo.
«Ti amo» mi sussurrò
all’orecchio. «Io ti amo, ti amo
Andy, io ti…»
Mi bloccai e lui fece altrettanto.
Scosse la testa e mi abbracciò più forte, mi
chiese
perdono almeno dieci volte, perché sapeva perfettamente cosa
stavo per fare.
Mi staccai da lui e lo guardai. Forse, dal mio volto
trapelava la mia delusione, perché i suoi occhi divennero
nuovamente umidi. Risi. Risi amaramente, risi e piansi al tempo stesso come
un matto, come un malato d’amore.
«Mi hai appena chiamato Andy» constatai
«e ancora dici di amarmi?»
Strinse i denti e mi guardò, disperato.
«Marco, per favore, io ti amo» mi
implorò. «No essere
arrabbiato con me. Io ti amo. No volermi male, Marco, io no vuole
scegliere tra
lui e te.»
Era spaventato e angosciato come un bambino. Non voleva
restare, né mi chiedeva di seguirlo. Non voleva che io ce
l’avessi con lui,
semplice. La rabbia si dissolse e sparì
all’improvviso, rimase solo una triste
pietà e il gelo nel cuore.
Mi allungai verso di lui e baciai le sue labbra, di cui
ero sempre assetato. Non mi bastavano mai. Mi cinse la vita con le
braccia e
premette la sua bocca sulla mia, con urgenza e amore. Tanto, tantissimo
amore.
Poi ci separammo.
Una volta per tutte.
Raccolsi le mie cose da terra, la boccetta rotta
di colonia e tutto il resto.
Poi lo guardai e dissi ciò che avrei sempre dovuto
dirgli: «Hai già scelto, Michael. Hai scelto Andy,
e hai fatto bene. D’altronde, perché dovresti
volere me?»
«Ma…»
«Fammi solo un favore: non tornare, mai più. Anzi, torna
per
amarmi o non tornare affatto.»
Aprii la porta e me ne andai.
Corsi, corsi veloce, via da quella casa, via da quella
vita.
Non mi voltai mai più indietro.
L’aria gelida mi penetrò nelle narici con
violenza, gli
occhi mi divennero lucidi e finsi che fosse per il freddo. Finsi con me
stesso.
Volevo tornare indietro e dirgli che lo amavo anch’io.
Volevo implorarlo di scegliere me.
Ma non feci nulla di tutto ciò. Era così che
doveva
essere.
Inspirai forte l’aria fatta di nuvole e smog, una
brezza malsana come il mio cuore.
«Addio, Michael.»
E me ne andai.
Verso un mondo vuoto.
Mika’s
POV
L’avevo lasciato andare.
Marco era andato via e io non l’avrei mai più
rivisto.
Ero sotto shock.
E, come se non bastasse, il suo odore impestava la mia
dannatissima casa.
Non avrei ripulito la chiazza di liquido concentrato.
Che senso aveva farlo se non sarei tornato mai più in quella
dimora?
Andai in cucina e spensi l’incenso. Nulla avrebbe
potuto calmare un cuore spezzato. E poi, quel mix di aromi mi faceva
venire da
vomitare.
Andai in bagno, mi sciacquai il viso. Tra due ore avevo
l’aereo e non volevo arrivare a casa sembrando uno zombie. Se
avessero visto anche
solo una traccia di pianto sul mio volto, Andy e mia madre avrebbero
iniziato a
fare domande, domande alle quali non sarei riuscito a rispondere. O,
almeno,
non sarei riuscito a rispondere senza sciogliermi in lacrime
un’altra volta.
Ma il bagno era pregno di quella stessa colonia forte e
speziata che Marco aveva sparso così generosamente sul
pavimento.
Andai in camera, sentendomi inerte e privo di energie,
e mi gettai sul letto.
Non avrei dovuto farlo.
Spalancai gli occhi: fu come rivivere quei mesi tutti
insieme, all’improvviso. Sul nostro letto c’erano
ancora le tracce del profumo
di Marco, il suo odore selvaggiamente maschio, quello del nostro sesso
e del
nostro sudore. L’odore del caffè che gli portavo
la mattina appena svegli e con
cui lui macchiava regolarmente le coperte. L’odore della sua
colonia speziata,
forte e vellutata. Il profumo chimico e dolciastro del suo shampoo
misto a quello del
mio bagnoschiuma. L’odore delle lacrime che stavo versando in
quel preciso
istante.
Il profumo dell’amore perduto.
Cosa avevo fatto?
Io amavo Marco, lui era mio così come io ero suo.
Allora perché lo avevo lasciato andare? Volevo stringerlo a
me e sentire quei
profumi su di lui invece che su una stupida trapunta.
Pensava, forse, che io non lo volessi più? Che mi fosse
solo servito a scaldarmi il letto la notte? Avevo cercato di fargli
capire che
non era così, che io lo amavo più di quanto
pensasse. Ma la paura di perderlo
mi aveva bloccato e avevo fatto un casino, come al solito.
Non riuscivo mai a combinarne una giusta.
Era stata tutta colpa mia. Avevo rovinato la vita a
Marco.
Io l’avevo baciato. Io gli avevo proposto di cadere in
amore insieme. Io avevo nutrito i primi dubbi. Io avevo deciso di
lasciarlo. Io
gli avevo detto che non lo amavo quanto Andy. Io l’avevo
chiamato con un altro nome.
Io ero stato il tarlo del male che lo aveva lacerato
dall’interno.
Odiai me stesso per tutto quello che gli avevo fatto.
Odiavo me stesso per aver amato.
Per questo piansi, piansi e ancora dolorosamente piansi
sul nostro amore finito. Una semplice storia che sa di bugia.
Un segreto mai svelato.
Io e Andy
eravamo già d’accordo. Non sarebbe venuto
all’aeroporto, ci saremmo visti direttamente a casa. Arrivato
sull’uscio, feci
resistenza contro l’impulso di precipitarmi dentro per farmi
abbracciare e
coccolare dal mio fidanzato. Non lo meritavo affatto e lo sapevo.
Ma poggiai la mano sul pomello, inserii la chiave nella
toppa e la girai, aprendo la porta. Finalmente a casa mia.
Mi guardai intorno. «Andy, ci sei?»
Sentii il rumore di un oggetto che cadeva a terra,
forse una scodella o una padella. Melachi, il nostro cane, si mise
istintivamente ad abbaiare e mi raggiunse trotterellando. Sorrisi
mentre la
accarezzavo. La mia era una casa rumorosa e mi era mancato tutto quel
chiasso. Tra
me e Marco il più rumoroso ero io, perché
lui…
No, non dovevo pensare a Marco, era il passato.
«Mika!»
Andy spuntò dalla cucina e mi venne incontro. Si
fiondò
tra le mie braccia e io lo strinsi forte, ricoprendo di baci ogni
centimetro
del suo volto.
Il suo profumo era quello del legno d’acero, misto a
fragole e pane appena sfornato. Era il profumo di casa, un profumo di
cui avevo
un estremo bisogno.
Marco era caffè e tabacco, forte e invasivo. Andy era
un dolce piatto fatto in casa. Per un attimo, pensai, preferivo il
forte caffè
e l’importuno tabacco.
Dio, già mi mancava il profumo di Marco. Ero messo
male.
Andy premette le sue labbra sulle mie con foga e mi
lasciai trascinare nel suo bacio. Mi era mancato da morire, ma meno di
tutte le
altre volte in cui ero stato via.
«Oh, amore mio» iniziò a dire sulle mie
labbra, con
voce rotta dalla commozione. «Non andare più via
per così tanto tempo, intesi?»
«Intesi, amore» risposi, ed ero sincero.
Poi, come un cane che non riconosce il suo padrone,
Andy fiutò qualcosa che non gli garbò. Vidi il
suo adorabile visino contrarsi
in una smorfia di disgusto.
«Amore, cos’è questa puzza
nauseabonda?»
Sollevai un lembo della mia maglietta e la annusai. Non
sentivo nessun cattivo odore. «Che dici?»
«Sembra una specie di roba speziata andata a male»
spiegò, sprezzante.
Oh, giusto: la colonia di Marco.
Non pensavo che mi sarebbe rimasta addosso per tutto
quel tempo. Dannazione a lui, perché doveva essere
così invadente, perché
doveva aggrapparsi a me anche quando non era lì per farlo?
Era ancora avvinto a
me come edera.
Eccola, la mia prima bugia rifilata a Andy a meno di
due minuti dal mio ritorno. Che triste record.
«Il tizio che era seduto vicino a me in aereo aveva
praticamente fatto il bagno nella colonia» scherzai.
«Mi ha contagiato!»
Andy rise della mia finta disavventura e mi cinse il
collo con le braccia.
«Povero amore» cantilenò. «Hai
decisamente bisogno di
un bagno.»
Il suo tono era basso e voluttuoso, sottinteso era che
il bagno non l’avrei fatto da solo. Dopo tutti quei mesi,
riuscì comunque a
smuovere qualcosa sotto il mio ombelico.
«Anche subito, amore mio» sorrisi.
«Perfetto, così ti levo di dosso
quest’odore orrendo»
commentò.
Mi impietrii.
Una voce nella mia mente urlò disperata. No! Non farlo.
È l’ultima cosa che ti resta di lui, conservalo il
più possibile!
Fu così che io e Andy ci infilammo nella vasca da
bagno. Per tentarmi a dovere, prese una spugna e la passò su
ogni centimetro
del mio corpo. Dalla punta dei capelli alle dita dei piedi, fui lavato
e
strigliato dalle amorevoli mani di Andy.
Piansi ancora tanto quel giorno, gocce che si
disperdevano nell’acqua, lacrime che, mentendogli ancora,
definii di
commozione. Perché avevo sentito tanto la sua mancanza,
perché finalmente ero a
casa.
Ma mentre mi asciugavo e Andy mi baciava la schiena,
non avvertii né amore, né passione, né
commozione. Soltanto, pregai che
quell’acqua rimasta sul mio corpo di non svanisse
così presto.
Quando fui asciutto, anche l’ultima traccia di Marco
evaporò dal mio corpo.
La sua essenza scomparve.
Così come ogni prova tangibile che avesse mai fatto
parte della mia vita.
Era finita.
Stavolta è
finita davvero.
La soffitta
dell’autrice:
Ebbene sì,
stavolta è finita davvero. Perché i sensi sono
finiti.
I sensi sono
finiti ma la storia no.
Perché, sì, c’è
ancora quel qualcosa che manca, no? Quel piccolo non so che…
che serve a
completare le storie, no? Avete capito?
Bene, mentre voi
ci pensate, io mi scuso per il ritardo abissale e vi do appuntamento al
prossimo capitolo (che inizierò seduta stante a scrivere).
Sapete che vi adoro
tutti vero? Soprattutto la mia beta comeunangeloallinferno94, che adoro
più di
ogni altra cosa.
Bene, mi
dileguo, e alla prossima!
|
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Capitolo 12 *** Sesto senso ***
Se•sto
sen•so [Il
sesto senso è ciò che ci permette di percepire e
anticipare che qualcosa sta per accadere, e di conseguenza essere
pronti per
reagire in modo adeguato.]
Marco’s
POV
Three
months later…
Michael.
Quella mattina mi svegliai,
in un posto che non era casa mia, in un letto che non era il mio e con
un nome
che mi risuonava in testa, un nome al quale fingevo di non pensare da
tempo ma
che, in realtà, mi accompagnava costantemente giorno e notte.
Negli ultimi tempi avevo
sempre cercato di arginare il pensiero, ma quella volta si
presentò di
prepotenza dentro il mio cervello e non ci fu verso di mandarlo via.
Perché
doveva tornare a tormentarmi? La mia vita stava andando avanti alla
perfezione
senza di lui.
Stavo lavorando al mio nuovo
album, vivevo tra casa e studio, scrivevo canzoni su canzoni e
finalmente avevo
recuperato il mio rapporto con Marta. Infatti la casa in cui mi ero
svegliato
era proprio la sua, e il letto era una brandina che lei aveva messo
nella sua
stanza per le volte in cui, come la sera precedente, lavoravamo fino a
tarda
notte e io non avevo le forze per tornare a casa mia. Birra, sigarette
e risate
erano le nostre più fidate compagne di lavoro oltre,
chiaramente, alla mia
ispirazione.
Quindi tutto andava alla
perfezione, no?
Già. Alla perfezione.
Oh, ma a chi volevo darla a
bere? Pensavo a lui tutti i giorni, ogni volta che avevo voglia di
raccontargli
qualcosa, o che mi veniva in mente un particolare della nostra storia
che mi
andava di ricordare con una risata, o quando semplicemente avevo voglia
di
baciarlo. Normale che tutti i miei testi, non ancora pronti e a mio
parere non
particolarmente riusciti, fossero ancora intrisi di quella melanconica
nostalgia che mi portavo dietro da mesi ormai.
Perché, per quanto ci
provassi, non riuscivo a dimenticarlo.
Non pronunciavo mai il suo
nome, né ad alta voce né tra i miei pensieri,
eppure era sempre, costantemente
lì, mi perseguitava. Nelle mie canzoni, a volte fingevo che
avesse scelto di
amarmi, a volte mi abbandonavo alla cruda realtà, altre
volte immaginavo cosa
sarebbe potuto accadere se… Se.
Avevo scoperto che era
tornato in Italia, per ben due volte, era stato perfino ospite in un
programma
televisivo. Ovviamente tutto questo lo avevo scoperto soltanto quando
lui se
n’era già andato. Marta era molto attenta al tipo
di informazioni da far
trapelare, nel vano tentativo di non turbarmi durante la mia fase
“creativa”.
Ma non era colpa di Marta,
assolutamente. Era colpa sua.
Torna
per amarmi o non
tornare affatto,
gli avevo detto. Come prevedibile, era tornato, ma senza amarmi. Senza
neanche avvisarmi che sarebbe venuto. Per fortuna ero completamente
immerso nel
lavoro, altrimenti chissà, magari mi sarebbe saltato il
grillo di andarlo a
trovare, cosa del tutto sbagliata e impensabile. Se avesse voluto
vedermi,
sarebbe venuto da me, no?
Ma
perché proprio oggi mi ero messo a rimuginare sulla nostra
storia? Non ce n’era
motivo.
Scrollai
le spalle, mi alzai dal letto e mi recai nella cucina di casa
Donà, dove sapevo
che Marta mi avrebbe preparato non una sana e nutriente colazione,
bensì
quantità industriali di caffè.
Era
seduta sul divano e, quando mi vide arrivare, si voltò e mi
fece un sorriso.
Neanche a dirlo, aveva un thermos di caffè in mano.
«A
qualcuno piace dormire» mi prese in giro, indicando
l’orologio. Erano le nove e
mezza passate, quindi era tardissimo per i suoi standard.
«A
qualcuno piace iniettarsi la caffeina per endovena» le
risposi a tono,
facendola ridacchiare.
«Forza
pigrone, bevi e mettiamoci al lavoro» disse, riempiendomi la
tazzina del
thermos e porgendomela. «Ancora non mi convince del tutto la
canzone che mi hai
fatto ascoltare ieri.»
La
raggiunsi e mi sedetti accanto a lei. «Non ti
piace?»
Ci
pensò su. «Non è che non mi piaccia,
anzi è molto bella, solo che dobbiamo fare
degli aggiustamenti. Quel “lotto per amore” non mi
convince, troppo sdolcinato:
dici che sei un guerriero, dovresti lottare per…»
«Onore?»
completai io, proponendo quella nuova parola in sostituzione di
“amore”, troppo
melensa ai suoi occhi.
Asserì,
soddisfatta. «Lotto per onore,
lotterò
per questo, mi piace!»
Così
bevvi una sorsata di caffè e presi il foglio con su scritto
il testo, per
modificarlo.
«Io
vado a farmi un espresso, tu intanto lavoraci su» fece lei,
alzandosi dal
divano. Il mio caffè normale, per lei, era “roba
da femminucce”. Comprensibile
che fosse sempre un po’ schizzata, vista la
quantità giornaliera di caffeina
che ingurgitava.
Quando
si diresse in cucina e scomparve alla mia vista, però, notai
che aveva
distrattamente lasciato sul divano il suo cellulare.
Ops.
Che disdetta.
Va
bene, un uomo adulto dovrebbe avere di meglio da fare che spiare i
messaggi sul
telefono della propria amica. Ma non potevo farci niente, mi piaceva
troppo
leggerli: Marta riusciva a mandare al diavolo le persone come nessun
altro e,
al contempo, a scrivere le più zuccherose smancerie quando
si trattava del suo
ragazzo. Era uno spasso unico. E poi, la mania di spiare i suoi
messaggi era
stata una delle prima cose imbarazzanti che avevo detto di me a
Mich…
No,
non ci dovevo pensare, non lo dovevo nominare.
Perché
proprio quel giorno mi ero fissato con lui? Basta.
Nel
tentativo di distrarmi, presi il telefono di Marta, digitai il codice
d’accesso
(che conoscevo a memoria, ma lei non lo sapeva) e mi immersi nelle
conversazioni
con il suo fidanzatino, una roba piena di cuori e nomignoli affettuosi
che mi
facevano venire le carie ai denti. E poi era il mio “lotto
per amore” a essere
troppo sdolcinato? Ridicola.
Poi
passai a una conversazione più recente con un organizzatore
di eventi che
richiedeva la mia presenza in un locale e bla bla bla. Questioni
tecniche e di
marketing, che noia.
Così
andai ancora oltre.
C’era
un numero che non era segnato in rubrica e l’ultimo messaggio
inviato diceva
semplicemente Please.
Non
sapevo perché ma questa cosa mi mise tanta
curiosità. Appena sotto c’erano i
messaggi della mamma di Marta e immaginai che una corrispondenza tra
una signora
di mezza età che non sa usare il T9 e una figlia che va
sempre di fretta fosse
più divertente.
Eppure
fu su quel Please che posai il dito.
Era
come se una parte di me mi dicesse che in quella semplice parola avrei
trovato
qualcosa di più di quanto mi aspettassi. Qualcosa mi impose di leggere.
Feci
scorrere i messaggi finché non giunsi al primo che quel
numero misterioso le
aveva inviato.
E
mi si gelò il sangue nelle vene.
>Marta,
sono Mika. Io
ha bisogno de te. Tu ha per caso il numero di Marco?
Il
messaggio risaliva al sette di gennaio, il giorno prima che tornasse in
Italia
per la prima volta.
Non
aveva senso. Perché Michael chiedeva a Marta se aveva il mio
numero? Perché
l’aveva contattata? E perché io non ne avevo mai
saputo niente?
Lo
sapevo che dovevo leggere quella conversazione, me lo sentivo.
Marta
aveva risposto.
>Sì, ce l’ho. Che
vuoi?
>Tu puoi dare suo numero a me?
>No.
>Marta, please, io ho dovuto cancellare
perché aveva paura che Andy scopriva messaggi e telefono
numero.
Strinsi
i denti. Anche io avevo cancellato il suo, solo per tentare di
dimenticarlo più
in fretta. Certo, infatti aveva funzionato così bene.
>E quindi? Adesso perché lo
rivuoi?
>Io domani torno in Italia, deva
parlare con
lui.
Uno
stacco. I messaggi ripartivano dal giorno dopo, sempre da lui.
>Ciao Marta, io sono ancora Mika. Io
è qui in
Milano adesso, io deva parlare con Marco. Dai il numero a me?
>Lui non vuole che io te lo dia.
>Perché?
>Perché non ti vuole
né vedere né sentire,
perché non gli va di essere un pupazzo che tu possa scoparti
e abbandonare a
tuo piacimento.
>Ok, io no sa cosa pupazo significa, ma
io no
vuole scopare e abbandonare lui.
>L’hai già fatto.
>Ora è in sua casa? Io ho
bisogna di parlare
con Marco.
>No. Adesso è a casa mia.
Sta dormendo e non
voglio disturbarlo.
E
qui la conversazione finiva. Ma ecco un altro messaggio risalente, e
qui mi
balzò il cuore in gola, all’altro ieri. Lessi, con
le mani che mi tremavano e
il respiro mozzo.
>Ciao, io ancora Mika. Io è
in Italia con la
mia family. Please, io ha di parlare con Marco.
>Impara l’italiano e dopo
scrivimi, grazie.
>Io no riesco a mangia e a dorme se io
no gli
parla. Ti please.
>E perché dovrebbe
importarmi?
>No voglio dividere voi due, so che ora
state
insieme e se Marco è felice, io è felice.
Però gli deva parlare.
>Di cosa? Di come tu e il tuo fidanzato
siete
carini insieme? No, grazie.
>Io gli deva dire delle cose. Marta,
please,
fai che noi parla. Dai il suo numero me!
>Ciao, Mika. Stammi bene.
>Please.
E
con questo era finita la conversazione.
Sentii
un urlo: «Marco, che stai facendo?»
Marta
era tornata, e mi aveva beccato con il suo cellulare, le dita tremanti,
gli
occhi pieni di lacrime e mi stavo mordendo le labbra talmente forte che
temetti
di essermele spolpate. Non che la cosa mi importasse.
Lei
mi raggiunse e mi strappò il cellulare di mano.
Quando
posò i suoi occhi sullo schermo, però, la sua
espressione mutò, passando dalla
rabbia allo sgomento e poi ancora cambiò, divenendo
colpevolezza.
Sospirò
scuotendo la testa. «Marco, lasciami spiegare.»
«Gli
avevo detto di tornare solo se avesse voluto amarmi» le
confessai, riuscendo a
malapena a parlare. «Michael era tornato, mi voleva vedere e
tu lo hai
allontanato.»
Nella
mia mente risuonavano le sue parole. Aveva usato parole come
“bisogno” e
“devo”, come se l’urgenza di vedermi
fosse diventata soffocante. Non riesco a
mangiare e a dormire se non gli
parlo, aveva scritto. Mi si strinse il cuore al solo pensiero.
«L’ho
fatto per il bene di entrambi. Tu stai bene qui e lui e il suo
fidanzatino
staranno bene ovunque siano» commentò.
«Dovresti solo ringraziarmi.»
Non
ci vidi più.
Mi
alzai di scatto dal divano e mi parai di fronte a lei, la affrontai.
Marta
arretrò di qualche passo, spaventata dall’impeto
dei miei movimenti.
«Gli
hai fatto credere che io e te stiamo insieme» alzai la voce.
«Non glielo hai
detto, certo, ma glielo hai lasciato intendere piuttosto
bene.»
«Dovevo
allontanarlo in qualche modo, no?» la sua voce era
più incerta, stavolta non si
limitava a spiegare, ma stava cercando di convincermi della
bontà delle sue
azioni. «Era diventato opprimente, con tutti quei messaggi,
le chiamate…»
Dentro
di me scattò qualcosa, come una molla troppo a lungo
trattenuta, e divenni una
furia. La presi per le spalle e le urlai in faccia: «Michael
ti ha chiamato e
tu non mi hai detto niente?»
«Marco,
lasciami!» era quasi spaventata.
Feci
come aveva detto, vergognandomi di me stesso. Marta non aveva scuse per
ciò che
aveva fatto, ma metterle paura non era certo una soluzione, avevo
sbagliato.
Ma
Michael mi amava ancora, mi cercava disperatamente da mesi e Marta mi
aveva
privato di quell’unica speranza alla quale, per paura, non
ero mai riuscito ad
aggrapparmi del tutto: il pensiero che lui potesse provare ancora
qualcosa per
me. Non era possibile in alcun modo, questo mi ero sempre detto, che
lui
pensasse ancora a me, pur avendo Andy e la sua famiglia accanto. Ma i
fatti mi
avevano smentito.
Non
potevo certo starmene con le mani in mano.
Fu
come un lampo.
Mi
sentii percorrere da un brivido di pura adrenalina.
Afferrai
la giacca e aprii la porta, senza neanche pensarci su neanche per un
secondo.
«Marco,
che stai facendo?» fece Marta. Non le rivolsi neanche uno
sguardo.
«Vado
a cercarlo.»
Fece
una risatina di scherno. «E cosa vuoi fare, setacciare tutta
Milano? Non
riuscirai mai a trovarlo prima che se ne sia andato.»
«Non
ce ne sarà bisogno» feci, laconico.
Sapevo
esattamente dove trovarlo. Quella catena che teneva ancorati i nostri
cuori
vibrava e mi avrebbe condotto dritto a lui. Me lo sentivo nelle ossa.
In
me era rinata una luce di speranza.
Avevo
appena messo un piede fuori dall’uscio, quando mi sentii
strattonare.
«Marco,
aspetta.»
Quando
mi girai, vidi Marta con gli occhi colmi di contrizione e inquietudine,
due
emozioni che non mostrava volentieri. Avevo fretta, sì, ma
pensai che, se non
altro, dovevo sentire cosa avesse da dire in sua discolpa.
«Non
ho mai voluto farti del male, lo sai che l’ho fatto solo per
proteggerti. Tu lo
sai che l’ho fatto solo perché ti voglio
bene.»
Era
talmente sincera mentre lo diceva che non riuscii a trattenere un moto
di
tenerezza per la mia cara amica. Oh, al diavolo. Perché
dovevo volerle così
maledettamente bene anch’io? Le schioccai un bacio sulla
fronte, per farle
capire che nonostante tutto l’avrei perdonata. Tra tutte le
persone che mi
avevano fatto del male, lei era l’unica che l’aveva
fatto con le migliori intenzioni.
Quasi mi dispiacque non avercela con lei. Forse, la speranza aveva
cancellato
in me anche la rabbia.
«Lo
so, Marta. Ora scusami, ma vado a recuperare la mia vita.»
Mentre
correvo per le strade, e sapevo esattamente dove andare a pescarlo,
sentii
qualcosa di strano nel petto.
Una
sensazione indefinibile che mi guidava verso di lui, che mi stava
liberando di
tutte le catene con le quali avevo tenuto imprigionato il mio cuore per
tutto
quel tempo. Già immaginavo il sollievo sul suo volto quando
gli avrei detto che
Marta aveva mentito, che io e lei non stavamo insieme, che non
l’avevo
dimenticato e che non l’avrei mai fatto. Stavo gettando al
vento tutti quei
mesi di sofferenza in cui avevo cercato di convincermi che la nostra
storia mi
aveva portato solo guai. Adesso volevo solo lui.
Avevo
un tale bisogno di lui che faceva quasi male.
Io
stavo male, e stava male anche lui. Per un attimo, fui così
folle da
convincermi che il mio malessere dipendesse dal fatto che anche lui era
stato
male in tutti quei mesi, neanche fossimo indissolubilmente
vincolati da
un legame, anche a distanza.
Mi
arrestai, finalmente ero arrivato dove dovevo arrivare.
Un
vicoletto quasi deserto di Milano, zeppo di dolci ricordi. Io correvo
anche
quella volta, ma allora Michael mi inseguiva. Io lo avevo insultato e
lui, per
tutta risposta, mi aveva rubato un bacio. Il nostro primo bacio.
L’inizio della
nostra folle storia d’amore.
Se
lo conoscevo come pensavo, l’avrei trovato lì.
Amava qualunque cosa avesse per
lui un significato importante, che fosse doloroso o meno. E io
desideravo con
tutto il cuore di essere una di quelle cose importanti.
Giunto
in quel vicolo, iniziai a guardarmi intorno. Non lo vidi subito, ma non
mi
rassegnai. Poco più avanti scorsi una bottega, un deliziosi
bistrot con i
tavolini sul marciapiede. Osservai con attenzione, volto per volto,
finché non
lo trovai.
È
lui.
Mi
si bloccò il respiro.
Era
seduto a uno dei tavoli.
Vidi
la sua testa riccioluta.
La
sua altezza inconfondibile.
Il
suo sorriso tutto denti e fossette.
Un
paio di enormi occhiali da sole con cui copriva i suoi meravigliosi
occhi.
E
un ragazzo alto e dinoccolato seduto al tavolo con lui. Un ragazzo che
non era
Andy.
No,
non poteva essere. Sgranai gli occhi.
Quello
era il nostro posto, il luogo del nostro primo bacio. Il luogo in cui
lo avevo
assaggiato per la prima volta. Non poteva aver già trovato
un altro da portare
lì. Il ragazzo ridacchiava a ogni parola che usciva dalla
bocca di Michael e lo
guardava incantato.
Qualcosa
dentro di me si ruppe, dilaniato dal dubbio e dall’amarezza.
Mi sentii preso in
giro: ero venuto lì, con il cuore gonfio di speranza,
già fantasticando sul
momento in cui tutto sarebbe tornato a posto tra di noi, e Michael? Era
talmente
felice con quel ragazzo, e forse io ero il più egoista degli
innamorati se la
sua gioia mi fece tanto male, se paragonata al mio sconforto. Pensavo
davvero
che sarebbe rimasto lì ad aspettarmi tutta la vita senza
cercare altri? Perché dovrebbe
volere me?
Non
ci pensai un secondo di più.
Mi
voltai e corsi via, il viso già prontamente rigato di
lacrime che versavo
sempre, immancabilmente per colpa sua.
Ma
non feci che pochi passi prima di andarmi a scontrare con una persona.
Aprii
gli occhi e cercai di metterla a fuoco. Era una donna, molto
particolare: viso
raffinato, occhi azzurri e un adorabile cappottino rosso che esaltava
la sua
figura esile. Mi scrutò per qualche secondo.
«Marco
Mengoni?» chiese, con un accento che non riuscii a
identificare.
Annuii.
«Sorry»
farfugliai. «No time for autografi, sorry.»
Lei
però mi afferrò una mano, non senza una certa
invadenza, e mi trattenne dalla
mia fuga.
«Why
are you crying?» mi chiese. Perché
stai piangendo?
Oh,
per favore.
Odiavo
quando le fan diventavano troppo ficcanaso. Se erano straniere ancora
peggio,
visto che con l’inglese avevo qualche difficoltà e
dire loro di lasciarmi in
pace risultava ancora più difficile. «Nothing.»
Lei
guardò oltre, al bistrot con i tavolini. Per un attimo,
tirai un sospiro di
sollievo: se avesse visto e riconosciuto il grande e splendido Mika
avrebbe di
sicuro preferito andare da lui, invece che restare qui a tormentare me.
Invece
spostò di nuovo lo sguardo su di me, parve anche divertita.
Sfacciata,
mi asciugò una lacrima dal volto, con una gentilezza che mi
bloccò dallo
scostare in malo modo la sua mano. «Oh,
I
know. You cry for love.»
Sgranai
gli occhi. Ero davvero così trasparente? Come aveva fatto a
capire che piangevo
per amore?
Il suo divertimento non era denigratorio, anzi, era quasi materno.
Sembrava
rincuorata dalla mia sofferenza, per quanto quel pensiero fosse strano.
Era
ammiccante, il suo sorriso divenne più ampio. «You have to
love him very much if you’re
crying for him.»
Devi
amarlo proprio tanto
se piangi per lui.
Perché
parlava di un lui? Chi si credeva di essere per supporre che il mio
amore fosse
un lui senza nemmeno conoscermi? Benché non fosse che una
semplice
supposizione, in quel momento mi parve un affronto.
Feci
per allontanarmi, ma lei scoppiò in una risata argentina che
mi confuse ancora
di più.
«Come here! Nice to meet you, Marco»
mi
porse la mano e, benché non avessi la più pallida
idea di cosa avesse detto,
gliela strinsi. «My name is Yasmine.»
Yasmine?
Come Yasmine Penniman?
Mi
raggelai di botto. Non poteva essere la sorella, vero?
Non
poteva essere la stessa persona che aveva detto a Michael di lasciarmi,
minacciandolo di dire tutto al suo fidanzato se non l’avesse
fatto. Lei non
sarebbe mai stata così gentile con me.
No,
mi convinsi che non poteva essere quella
Yasmine.
Indicò
il tavolino. «And those are my
brothers. Mika, you know him, and
Fortuné.»
Oh,
no.
Era sua sorella.
E
il ragazzo seduto insieme a Michael era suo fratello.
Mi
voltai verso di loro e soltanto allora notai quanto in
realtà si somigliassero:
il fisico magro eppure imponente, i capelli scuri e riccioluti e
l’amabile,
inconfondibile sorriso dei Penniman. Erano praticamente identici.
Quanto ero
stato cieco, come avevo fatto a non capirlo subito?
Sentii
pian piano la gelosia abbandonarmi (perché di gelosia si era
trattato), anche
se qualcosa dentro di me rimase spezzato. Per un attimo era tornato il
terrore,
quella cupa certezza che Michael fosse troppo per me, che presto
avrebbe
trovato un altro amante che fosse alla sua altezza e che mi avrebbe
abbandonato
come aveva già fatto in passato.
Ero
sempre stato convinto di non essere abbastanza.
Soltanto
in quel momento fui capace di vedermi da fuori: un patetico ragazzo che
non
riesce a rassegnarsi di fronte all’evidenza dei fatti. Ero
corso qui
aggrappandomi all’illusione che tutto sarebbe andato per il
verso giusto, ma mi
sbagliavo. Era e sarebbe stato comunque più felice senza di
me di quanto lo
fosse stato con me.
Cosa
avevo io da dargli? Cosa potevo offrirgli che già non
avesse? L’amore,
l’affetto, il calore, le risate e la felicità:
erano tutte cose che possedeva
già in abbondanza.
Io
potevo causargli solo altro dolore.
Forse,
il meglio che potessi fare era sparire.
Yasmine
colse i miei dubbi. Non aprì bocca, eppure seppi che aveva
capito tutto. Nei
suoi occhi color ghiaccio scorsi la stessa affettuosa
caparbietà di Marta, lo
stesso spirito di una persona che crede di sapere cosa è
meglio per te, a
ragione o no.
Infatti
fece un cenno verso i due fratelli, salutandoli.
Fortuné
la salutò calorosamente, e Michael cominciò a
fare altrettanto.
Ma
non vidi nient’altro.
Perché
ero un dannato idiota che ostinatamente si fidava delle sensazioni e
dell’istinto, più che della logica.
Perché ero un maledetto codardo che aveva
paura di essere rifiutato ancora una volta. Perché non ne
avevo mai combinata
una giusta.
Perché,
nonostante tutto, sentivo che il mio posto era tra le sue braccia.
Ma
il suo posto era tra le mie?
Pertanto,
feci la cosa più stupida, insensata, irrazionale che potessi
fare.
Scappai.
La soffitta
dell’autrice:
BUON NATALE!!!
Non uccidetemi.
Questo doveva
essere l’ultimo
capitolo, ma stava venendo fuori troppo lungo, così ho
dovuto dividerlo in due
parti. Spero che la seconda arrivi al più presto.
Passate un
Natale felice
(ringrazio comeunangeloallinferno94 come al solito, cosa farei senza di
lei?) e…
a prestissimo!
Ah, e comunque è vero che inizialmente il "Lotto per amore" di Guerriero doveva essere un "Lotto per onore". Tanti biscotti a tutti quanti ♥
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Capitolo 13 *** Senso ***
Sen•so [Il
senso è la
facoltà di
"sentire", cioè di percepire l'azione di oggetti interni al
corpo o
esterni ad esso. È la consapevolezza di
ciò che avviene sentendo.]
Mika’s POV
Un infarto,
fu la prima cosa che pensai in quel momento.
C’erano tutti i segnali: il
mio cuore perse un battito, il fiato mi venne a mancare e mi sentii
improvvisamente stordito. Ma sapevo benissimo che quei sintomi non
erano
causati da un qualche malfunzionamento all’interno del mio
corpo, no.
Avevo appena guardato di
fronte a me.
E avevo visto Marco.
Accanto a mia sorella
Yasmine.
Non ebbi neanche il tempo di
chiedermi cosa ci facesse con mia sorella, o di valutare
l’opzione che la mia
reazione fosse dovuta a una causa diversa dall’arresto
cardiaco, che io e Marco
ci ritrovammo a fissarci. Occhi negli occhi, potenti come uno sparo
dritto al
cuore che mi mozzò il respiro. E poi,
all’improvviso, lui scappò. Proprio
così,
scappò via.
E io mi ritrovai seduto, a
fissare il vuoto, paralizzato dallo shock. Non ero preparato, mi aveva
colto
alla sprovvista. Il mio cervello mandava impulsi al mio corpo,
implorava il mio
cuore già provato di alzarmi e andargli dietro.
Dopo un attimo che parve
infinito, mi lanciai al suo inseguimento.
Non ebbi che quel breve
istante per riflettere che subito mi ritrovai, ancora una volta, a
misurare a
grandi passi le strade di quel vicoletto freddo e isolato che conoscevo
fin
troppo bene. Nella mia mente, una litania persistente ripeteva il suo
nome. Marco, Marco, Marco. Ti prego, pensai, fa
che riesca a raggiungerlo.
Annaspai nel bisogno di
arrivare a lui, di poterlo toccare, faceva quasi male quanto lo
desiderassi, e
il mio petto, il mio petto era in piena esplosione, uno scoppio
continuo che
presto si propagò fino ai miei occhi, così che un
velo di lacrime li ricoprì.
Qualcosa mi diceva che non
avrei dovuto rincorrerlo. Stava scappando, probabilmente da me, e il
solo
pensiero mi straziò il cuore. Per un secondo comandai alle
mie gambe di cedere,
ma non ne vollero sapere di fermarsi, perché non era
ciò che volevo in realtà:
l’avrei rincorso fino in capo al mondo pur di poterlo
rivedere anche solo per
un istante, per riuscire a dirgli tutto ciò che non ero mai
stato capace di
confessargli.
Dovevo. Ne avevo talmente
bisogno da star male. Non ce la facevo più.
Corsi ancora, mi spinsi ben
oltre i miei limiti, finché non mi ritrovai la gola secca,
la vista appannata e
i muscoli irrigiditi dallo sforzo. Il mio petto bruciava e implorava
aria.
Fu allora che lo raggiunsi.
Mi allungai il più possibile,
fino a toccare la stoffa ruvida e morbida della sua giacca e, non
appena l’ebbi
a portata di mano, la strattonai verso di me. Colto di sorpresa, Marco
non poté
evitare di farsi trascinare all’indietro, allora lo presi per
un braccio e lo
inchiodai al muro.
Gli
sfuggì un urlo, forse di sorpresa, o forse di dolore. Mi
sentii morire nel
timore di avergli fatto male, di essere stato troppo violento.
«Marco,
sta bene?» gli chiesi senza pensare, tanto ero spaventato.
Neanche mi rispose, si
limitò
a dimenarsi e a cercare di sfuggire alla mia presa.
«Lasciami.»
«No Marco, aspetta, io …»
«Ti ho detto di lasciarmi!»
strillò, furioso. Tentai di far incrociare di nuovo i nostri
sguardi, ma i suoi
occhi continuavano a fuggire da parte a parte. Il pensiero che potesse
non
sopportare la mia vista mi inferse una stilettata in pieno petto, ma
non
demorsi. Non potevo.
Finalmente Marco era lì,
davanti a me, dopo tutto quel tempo passato a sperare di rincontrarlo,
era
accaduto. La gioia e il dolore si contendevano il posto nel mio fragile
cuore,
che sentii pronto a spezzarsi da un momento all’altro.
«Aspetta, please»
provai a convincerlo.
Sembrò che gli avessi detto
di andare al diavolo.
Sollevò la testa di scatto,
riuscendo a divincolarsi, premette le mani sul mio petto e mi
spintonò con
forza, ringhiando: «Vattene.»
Arretrai involontariamente di
qualche passo e per un istante vacillai pericolosamente, prima di
riprendere
prontamente l’equilibrio.
Sotto i miei occhi, Marco
cambiò repentinamente: mi guardò e tese
automaticamente la mano per arrestare
la mia caduta. Quando però si rese conto di ciò
che stava facendo, ossia
cercare di aiutarmi, si ritrasse all’improvviso e
trasalì, come se si fosse
appena scottato.
Inutile dirlo, comprendevo
appieno quella sensazione.
Ciononostante, mi risentii e
non poco. Il petto ancora mi doleva per la violenza di quel gesto, e
non mi
riferivo soltanto alla spinta. Il fatto di volermi allontanare in tutti
i modi,
anche a costo di farmi male, non era un gesto da Marco.
Era cambiato, e non ci voleva
certo un genio per capirlo. Il Marco che conoscevo non avrebbe mai
fatto una
cosa del genere, neanche contro la persona che odiava di più
al mondo.
Mi venne da piangere. Quanto
avevo sperato in quel momento? Quante volte mi ero ritrovato a
sognarlo, nella veglia
così come nel sonno? Nella mia immaginazione, lui era felice
di rivedermi, ma
nella realtà i suoi occhi erano vacui e timorosi, come se
avesse paura di
qualcosa. E non voleva neanche che io lo toccassi. Gli facevo schifo.
«Scusa» esalò, con un filo di
voce.
Scossi la testa. Anche io
l’avevo spinto contro il muro prima e gli avevo fatto male,
eravamo pari. «Tu
scusa.»
Rimase lì di fronte a me per
un secondo, boccheggiando in cerca di parole da dire. Poi, come se quel
singolo
vocabolo gli pesasse, ripeté: «Scusa.»
E corse di nuovo via.
Stavolta, però, fui
abbastanza rapido da trattenerlo per un polso.
Non l’avrei lasciato andare
di nuovo.
Di nuovo cercò di liberarsi
dalla mia stretta, furiosamente. «Ti prego, lasciami
andare» mi supplicò, al
limite della disperazione.
Volevo piangere. Quanto era
giusto trattenerlo contro la sua volontà per il mio egoismo?
Cosa dovevo fare?
Se non gli avessi detto la verità, se non avessi dato voce
al mio silenzio, me
ne sarei pentito per il resto della vita. Ma vederlo agitarsi come un
animale
in gabbia per colpa mia era straziante. Non sapevo cosa fare.
Alla fine, in preda al
panico, dissi l’unica cosa che mi venne in mente.
«Ascolta me.»
«Non voglio» strepitò.
Insistei, con la voce che mi
si spezzava. «Tu ascolta me ora e poi tu può
andare per sempre e io e te no
vede mai più, ok? Però ascolta, ti pleaso.»
I suoi movimenti si fecero
pian piano più mansueti. Il mio cuore si strinse in una
morsa d’acciaio nell’attesa
che decidesse cosa fare. Se cerca ancora
di scappare, pensai stringendo forte i denti, non
lo trattengo oltre.
Invece Marco si girò,
facendomi mollare la presa. I suoi occhi, il suo viso, esattamente come
la sua
voce, erano imploranti. Non capivo, non riuscivo a capire il
perché di
quell’espressione, o di quell’emozione. Cosa mi
stava chiedendo,
implicitamente? Avevo perso del tutto la capacità di
comprenderlo?
O forse non l’avevo mai
avuta?
«Parla» fece, stringendosi
nelle braccia e tenendo le distanze. «In fretta.»
D’istinto feci per
avvicinarmi, ma mi arrestai. Ero terrorizzato: un gesto inconsulto, una
parola
di troppo, potevano farlo allontanare da me. Avevo un’unica
possibilità per
fargli capire cosa sentivo per lui. Non potevo sprecarla. Tic toc, tic toc, il tempo scorreva.
Eppure, per quanto ci
provassi, le parole non mi uscivano fuori di bocca. Provai a
visualizzarle
nella mia mente, ma mi apparvero confuse e tutte sbagliate, come se
nessuna di
esse fosse adatta.
Marco mi guardava, in attesa.
Se avessi detto troppo, se ne sarebbe andato. Se non avessi detto
nulla, se ne
sarebbe andato.
Mi sentii perso.
Presi un bel fiato e,
tremando dall’angoscia, tentai semplicemente di far
fuoriuscire la verità che
serbavo dentro di me, che avevo tenuta segreta per troppo tempo.
«Io sa che tu è uomo
fidanzato ora, e io è felice se tu è
felice» cominciai, sincero. «Ma tu mi ha
detto che io no tornava se io no ti amava. Io è qui ora, e
tu sa perché.»
Scosse la testa.
«Sì che lo sa» riattaccai. «Io
ti amo, Marco. Forse tu no ama me più, forse tu pensa che io
ha solo sexo da
te, ma no è vero. Io ti amava prima e ti amo ora.
Sì, io è stato stupido,
perché io lasciato qui te, però io ti amo. E poi
tu ora è felice no?»
«Felice?» mi interruppe.
Fece una risata, che suonò
falsa e stridente alle mie orecchie.
Ecco la mia paura più grande
realizzarsi davanti ai miei occhi: Marco non voleva ascoltarmi.
Ciò che avevo
da dirgli, ciò che avevo nel cuore non gli interessava
più. Io non gli
interessavo più.
Anzi, peggio, forse non mi
amava più.
Avrei dovuto capire che mi
aveva dimenticato quando Marta mi aveva detto che stavano insieme, e
invece no!
Io stupido, illuso, ostinato e malato d’amore avevo sperato
invano che le cose
potessero tornare come prima. Ero venuto fin lì, con il
cuore gonfio di
illusioni, da bravo idiota quale ero. Era logico che non mi volesse
più, ci
sarebbe arrivato chiunque, ma non io. Perché ero uno stupido
che non capiva mai
quando era il momento di fermarsi, che non capiva quando abbastanza era
abbastanza.
Mi sentii talmente umiliato.
Marco, però, non aveva ancora
finito.
«Felice? Tu non hai la più
pallida idea di come io mi sia sentito in questi mesi!» mi
urlò praticamente in
faccia, facendosi più vicino. Eppure mi era sembrato che
volesse tenermi a
distanza, poco fa.
«Marco» lo richiamai.
«No! Ora tu mi ascolti» si
impose, con il tono di chi non ammette repliche. «Per tutto
questo tempo sono
stato malissimo. Mi hai capito? Malissimo. Non ho fatto che pensarti e
mortificarmi perché mi dicevo sempre che avevi fatto bene a
scegliere Andy,
perché io non ero alla tua altezza e non avrei fatto altro
che rovinarti la
vita.»
Non fece che indicarmi mentre
parlava, come se mi stesse accusando. Anzi, era proprio ciò
che stava facendo.
Di fronte alla sua rabbia mi sentii minuscolo, impotente, quasi
spaventato da
quanto quelle parole fossero vere. Avrei voluto fare qualcosa per
calmarlo, ma
non sapevo cosa, e ancora una volta mi sentii completamente smarrito.
Avevo
solo voglia di scoppiare a piangere e implorare il suo perdono per
qualunque
cosa gli avessi fatto, scioccamente, egoisticamente.
Marco
vide le lacrime che si affacciavano dai miei occhi, e seppi che le
aveva viste
perché fece una pausa prima di continuare a parlare.
«Non ho mai saputo che eri
venuto in Italia prima di stamattina.»
Mi
impietrii e sgranai gli occhi. «Mai?»
Scosse
la testa. «Marta me l’ha tenuto nascosto. Ma quando
l’ho scoperto sono subito
corso in questo vicolo, non so perché ma sapevo che ti avrei
trovato qui» un
sorriso indugiò sulle sue labbra, prima di spegnersi, come
una tremula
fiammella. «Mi ero illuso che tutto potesse tornare come
prima. Che sciocchezza.»
Abbassai
lo sguardo. Non ebbi il coraggio di spiccicare una parola, non ero
nemmeno
sicuro di voler sapere come continuava quel discorso. Un sapore amaro e
pungente mi invase la gola, poi le labbra e salì fino a
impregnarmi le narici,
fino a giungere ai miei occhi e a farmi piangere, benché non
volessi. Presto le
lacrime corsero lungo le mie guance. Non volevo, ma come trattenermi?
Mi
era mancato, come l’aria che respiravo.
In
tutti quei mesi non avevo fatto che desiderarlo. La notte lo avevo
cercato al
mio fianco, di giorno lo avevo cercato per le strade sperando,
chissà, che
avesse perdonato tutti i miei sbagli e che fosse venuto per
ricominciare. Il
vuoto che aveva lasciato nel mio cuore faceva male, era un dolore
lancinante
che mi impediva di vivere serenamente la mia vita.
Certo,
io amavo Andy, lo amavo con tutto il cuore, ma non potevo vivere senza
Marco.
Con Andy la mia vita era piena, sì.
Ma
senza Marco non aveva il benché minimo senso.
«Marco»
provai a richiamarlo di nuovo.
Ma
lui non ascoltò. Ormai aveva iniziato a parlare e non si
sarebbe fermato
nemmeno di fronte al mio dolore. Io mi ero forse fermato di fronte al
suo quando
mi aveva implorato di restare? No, e ora lui era sordo alle mie
suppliche.
«Io
non voglio che noi torniamo come prima» disse, con fermezza.
Dolore.
Non
il dolore invasivo e bruciante di una scottatura.
Non
il dolore pulsante e perpetuo di una contusione.
Un
dolore sordo, intenso, vuoto fu quello che sentii. Il dolore di un crack, di un cuore che va in frantumi.
Il dolore di chi non sente più niente dentro, se non il
freddo del nulla.
Mi
venne a mancare il fiato, così intensamente e
così improvvisamente che tutto
intorno a me per un attimo vorticò. Presi una gigantesca
boccata d’aria per
eliminare quella sensazione di chiusura che provavo alla base della
gola e,
così facendo, liberai un singhiozzo involontario.
«Perché?»
gli chiesi, con un filo di voce.
Non
mi importava se mi stavo dimostrando debole, non mi importava se il
tempo che
stavo spendendo per aggrapparmi a lui con le unghie e con i denti era
tempo
sprecato.
Io
lo amavo da morire, e forse il problema era che non ero capace di
rinunciare a
lui.
Come
lui aveva fatto già da tempo con me.
Sospirò.
«Perché non facciamo che ferirci a vicenda, e poi
non hai bisogno di me,
seriamente. Voglio dire, hai Andy, le tue sorelle, tuo fratello, tua
madre, a
cosa ti servo io?»
Mi
morsi forte il labbro. Non poteva dirlo sul serio, non poteva credere
di essere
un mero riempitivo nella mia vita.
Scosse
la testa e abbassò lo sguardo. «È molto
meglio se stiamo lontani.»
«Meglio
per chi?» feci a un certo punto, al limite della
sopportazione.
«Meglio
per te» sbottò.
E
mi guardò.
Ci
ritrovammo di nuovo occhi negli occhi, i suoi erano pieni di lacrime
proprio
come i miei, la sua bocca tumida e tremante come la mia. Quel contatto
visivo
mi penetrò nel profondo ancora una volta. Eravamo talmente
simili in quel
momento. Uno specchio perfetto.
«Tu
non capisci, va bene?» si giustificò.
«Ora tu credi di volermi, ma prima o poi
ti passerà, vedrai. Lo sai che non porto a niente di buono.
Che cosa ho io da
darti? Menzogne, sofferenza, una seconda scelta di cui presto o tardi
ti stancherai?
Non ti conviene, fidati.»
Improvvisamente,
sentii le labbra secche e la gola arsa, il fiato che a malapena entrava
e
usciva. Non potevo crederci: voleva proteggermi da se stesso? Era
questo che
stava cercando di dirmi? Per questo era scappato?
«Io
no mi stanca di te» lo rassicurai.
Alzò
gli occhi al cielo. «Sì invece, è
già successo.»
Scossi
la testa, sempre più forte. No, no, no! Non poteva essere.
Se la sua incertezza
fosse dipesa da me sarei riuscito a convincerlo, a fargli capire che
ero cambiato
e che sarei cambiato ancora se solo lui me l’avesse chiesto.
Ma era da Marco
che dipendeva. Era Marco a sentirsi insicuro di se stesso, di noi.
Pensava di
non potermi dare felicità, quando invece la mia
felicità era lui.
«No
è successo» replicai. «Io no mi
può stancare mai de te. Io ti amo.»
Emise
un gemito frustrato, come se non sopportasse di sentire quelle tre
semplici
parole e, come faceva sempre quando era agitato, iniziò a
straparlare. «Sì
invece, ti stancherai e sai che ti dico? Farai bene, e io non
potrò mai
biasimarti. Io faccio stancare tutti quanti, perché sono uno
stupido, un
illuso, un tale fallimento che non so fare bene neanche
l’amante! Neanche gli
amici so scegliermi, visto che Marta mi ha allontanato da te anche
quando
volevo incontrarti, e ti ha fatto credere che io e lei stavamo insieme
anche se
non è vero. E io sono talmente patetico che non riesco a
smettere di essere
innamorato di te neppure volendo anche se ci ho provato per tutti
questi
fottuti mesi!»
«Marco,
stop!» gli urlai.
Rabbrividii.
Era tutto così simile all’ultima volta, eppure
totalmente diverso al tempo
stesso, tanto da farmi quasi paura. Io ero terrorizzato, Marco vomitava
tutti i
suoi sentimenti senza riuscire a trattenersi, io avevo una voglia matta
di
baciarlo.
Stavolta,
però, non sarei stato così egoista da pensare
soltanto a me e alla mia
felicità.
No,
stavolta al primo posto avrei messo Marco.
Cercai
di registrare tutte quelle informazioni in una volta.
Marco
e Marta non stavano insieme per davvero.
Marco
mi amava ancora.
Marco
non voleva che stessimo insieme perché non si reputava alla
mia altezza, anche
se sinceramente sentivo che era tutto il contrario. Ero forse io a non
essere
degno di quell’uomo meraviglioso.
Marco
mi ama ancora.
Come
un incantesimo, i pezzi del mio cuore si ricomposero tutti in una volta
e il
mio petto riprese a pulsare forte d’amore per lui. Mi sentii
vivo.
Cercai
i suoi occhi, ormai traboccanti di lacrime. «Marco, guarda a
me.»
Lui
agitò le braccia di fronte a sé.
«Dimentica quello che ti ho detto, ti prego»
farfugliò. «Non ha senso.»
«With
you everything makes sense» ribattei.
Non
sapevo come si dicesse in italiano, ma era vero. Con lui tutto aveva
senso.
Sollevò
il capo e, dimentico delle lacrime e della situazione, mi
guardò stupefatto.
Non
ne ero certo, ma forse avevo ancora una possibilità, non
potevo sprecarla.
Forse
non era tutto perduto.
Mossi
un passo verso Marco, che istintivamente si ritrasse. Mi bloccai.
«Io
e te può recomenciare» iniziai a dire, con
cautela. «Se tu vuole, io vuole tanto,
io ti amo e io ti promesso che io può essere migliore lover... no. No più lover.
Io può essere migliore love
che
prima.»
Fece
vigorosamente cenno di no con il capo. «No, te l’ho
già detto, non voglio che…»
«Io
ti promette che no è come prima» lo interruppi.
«Io sta con te più che io può,
io ti dice sempre, sempre verità. Ti fa stare bene sempre,
ti amo tutti giorni
e tu no è seconda scelta mai. Tu è mio
senso.»
«Cosa?»
chiese, confuso dalla mia ultima affermazione.
Ero
un po’ confuso anch’io, ma il cuore mi palpitava
così forte da rendermi
difficile persino pensare.
«Io
vuole dire che» presi un profondo respiro. «Io ti
amo, tu me ama, noi vuole
stare insieme. È tutto molto chiaro, no
c’è niente da capire.»
Si
morsicò le labbra, mi fissò con gli occhi
spalancati, sembravano infiniti tanto
erano profondi. Passammo non so quanto tempo a fissarci, entrambi in
lacrime.
Ora
non c’erano trucchi, non c’erano maschere o
fraintendimenti.
Eravamo
nudi, esposti. Io, lui e i nostri sentimenti. Carte in tavola, ma senza
possibilità di barare. Qualunque scelta avremmo fatto, non
avremmo potuto dare
la colpa a nessuno, né al destino, né agli altri,
né agli eventi o a chissà
cosa. Io e Marco. Nient’altro.
Ero
così in tensione da tremare: le mani, le labbra, le ciglia,
le gambe. Ero tutto
un intenso ed enorme brivido.
Ero
in bilico su uno spuntone di roccia, con Marco.
Potevamo
cadere e farci male, sentendo il brivido del volo mano nella mano.
Oppure potevamo
restare al di qua del limite, del rischio, dell’amore.
Sì.
Potevamo, come non potevamo, cadere in amore.
«Ho
paura» mi confessò, con voce flebile.
«Anch’io»
ammisi.
Marco
puntò i suoi occhi in basso, come se si stesse guardando i
piedi. Così era,
capii nel momento in cui mosse un passo verso di me.
Spalancai
la bocca, incredulo. Stava accadendo, non stavo sognando, vero?
Rimasi
fermo, immobile, una statua di sale. Avevo il terrore di muovermi e
metterlo in
fuga, perciò rimasi dov’ero e lasciai che Marco mi
raggiungesse.
Alla
fine giunse di fronte a me.
I
nostri sguardi si incrociarono il tempo di un sospiro.
Poi
Marco crollò. Si gettò sul mio petto e si
aggrappò letteralmente a me,
prendendomi alla sprovvista. Lo fissai, sconcertato dal suo gesto:
averlo di
nuovo su di me fu una sensazione talmente forte che, mi
sembrò incredibile,
piansi e risi al tempo stesso. Avvertii i sussulti ritmici delle sue
spalle e
capii che stava singhiozzando, così lo avvolsi tra le mie
braccia e lo strinsi,
tanto forte che per un attimo temetti di avergli fatto male.
Esisteva
forse una sensazione più bella, appagante, liberatoria?
No.
Impossibile.
Affondai
il volto nei suoi capelli morbidi e inspirai forte, l’odore
chimico e dolciastro
del suo shampoo permeò le mie narici. Il suo corpo era caldo
e fremeva, come se
stessi abbracciando energia in movimento, vita pura che stringevo a me.
Marco
parlò tra i singhiozzi, tartagliando come suo solito:
«Non lasciarmi più da
solo.»
Sorrisi,
con il cuore che si faceva talmente leggero da spiccare il volo da
sé.
«Mai
più amore. Ora è tutto bene.»
Poi
lui si sollevò e, meravigliandomi, posò le sue
labbra sulle mie con impeto.
Mi
sentii improvvisamente vivo. Le sue labbra sapevano di
caffè, esattamente come
la prima volta, e io le assaporai completamente da cima a fondo. Mi era
mancata
quella sua bocca famelica dal sapore amaro e al contempo salato, per
via di
tutte le lacrime versate, e la cosa mi mandò in estasi
perché anche la prima
volta era così. Mosse le sue labbra freneticamente, mille
brividi si spansero
su ogni centimetro del mio corpo. Ci baciammo a lungo, come per
recuperare il
tempo perso. Come avevo fatto a privarmene per tutto quel tempo? Come
avevo
osato anche solo pensare che avrei potuto farne a meno? Lo sentii
sorridere nel
bacio, e di riflesso lo feci anch’io.
Ora
è tutto bene.
Ogni cosa era tornata
al suo posto
E
ci credevo veramente.
Sarebbe
andato tutto bene. E avremmo anche sofferto, questo lo sapevamo
benissimo, ma
perfino il dolore di una caduta sarebbe parso più dolce
insieme a Marco.
Il
mio mondo aveva ripreso colore e calore, vita, speranza, gioia.
Il
mio mondo aveva ripreso l’amore.
Anzi,
aveva di nuovo senso.
Yasmine’s
POV
La
vidi prima che lei vedesse me.
I
capelli biondo grano, l’incedere taurino, gli occhi gelidi e
furenti.
Esattamente come me l’aveva descritta Mika.
Le
andai incontro sbarrandole la strada. Mi disse qualcosa in italiano,
parlandomi
duramente, e fece per scansarmi.
«Tu
sei miss Marta Donà?» le domandai, in inglese.
Mi
fissò come se le avessi chiesto se aveva dei tentacoli al
posto delle giunture.
«Sì,
sono io» mi rispose. La sua voce era dura e vagamente
indolente, come il suo aspetto.
«Sono Yasmine Penniman,
piacere» le tesi la mano e lei fece per
stringermela, finché non le dissi il cognome. Allora si
ritrasse e parve
infervorarsi.
«Yasmine
Penniman? Cioè, sei la sorella di Mika?»
«Sì,
sono io!»
Imprecò.
Forse non ero esattamente un asso in italiano, ma sapevo riconoscere
un’imprecazione quando la sentivo.
«Stai
cercando mio fratello, miss Marta?»
Annuì
frettolosamente, evidentemente era una che non perdeva tempo.
Mika
mi aveva detto le precise parole da usare nel caso l’avessi
incontrata, e io
non ne avrei detta né una di più né
una di meno.
«Mi
ha detto di dirti che lui e Marco sono tornati insieme, che sono molto
felici e
che niente di quello che tu farai o dirai potrà cambiare
qualcosa. E ha
aggiunto, e cito testualmente, alla
faccia tua.»
Sgranò
gli occhi e fece un’espressione talmente furibonda che mi
ricordò mia madre
quando scoprì che avevo mollato
l’università per iscrivermi a un corso di
pittura, disegno e scultura. Qualcosa alla Mostro di Loch Ness.
Lanciò
un urlo frustrato. «Cosa significa, che sono tornati
insieme?»
«Insieme.
Hai presente? Baci, abbracci, tante carezze in parti del corpo che
sarebbe
molto sconveniente nominare…»
Lanciò
un altro urlo, più forte del precedente. Non fosse stata
così arrabbiata, mi
sarei complimentata per l’estensione da soprano.
«Lei
lo sapeva? Li ha visti? Perché non li ha fermati?»
cominciò a sparare domande
su domande.
La
guardai dolcemente. «Perché non sono affari
nostri, miss Marta. Ci ho messo un
po’ a capirlo, ma alla fine sono giunta alla conclusione che
sono due uomini
adulti e vaccinati. Che facciano i loro errori, se devono. È
la loro vita, no?»
Mi
guardò come se volesse prendermi a schiaffi, ma sapevo
perfettamente che non
l’avrebbe fatto: era pur sempre una signora, per
l’amor del cielo.
«Yasmine»
iniziò, cercando di mantenere la calma. «Cosa le
fa pensare che sia una buona
idea lasciare che suo fratello, un uomo fidanzato, vada in giro per il
mondo a
cercare altri boxer in cui infilarsi?»
Le
sorrisi spontaneamente. «Io ritengo che sia giunto il
momento.»
«Il
momento di cosa?»
«Di
farti una vita tua.»
E,
detto questo, uscii di scena. Più tardi, avrei scoperto che
lei non si era presentata a casa di Marco come avevo sospettato. Che
progresso.
Mika’s
POV
L’appartamento
di Marco era piccolo e disordinato, lo adoravo.
Eravamo
rimasti lì per tutto il giorno, più che altro a
parlare di ciò che ci era
successo in quei mesi di lontananza. Con il pensiero sempre rivolto
l’uno
all’altro, avevamo avvertito un comune senso di vuoto,
un’amarezza perenne.
Avevamo scritto canzoni per consolarci, avevamo ritrovato amicizie che
però non
avevano sopperito alla mancanza. Avevamo pianto per amore, io forse
più di
Marco e la cosa lo fece ridere, visto che, disse così, in
genere il piagnone
della coppia era lui.
A
quel punto l’avevo guardato e avevo sorriso. Ci aveva appena
definiti una
coppia, o avevo sentito male?
Marco
era arrossito e, oh, quanto era bello, aveva fatto un sorriso a
trentadue denti
che mi aveva fatto venir voglia di baciarlo fino allo sfinimento. E
così fu.
Parlammo,
scherzammo, un paio di volte andammo vicini alle lacrime, ci
confortammo a
vicenda e ci baciammo, moltissimo. Lo feci ridere e potei nuovamente
ascoltare
quella risata così sguaiata e verace che mi faceva impazzire
e, per un bel po’,
non facemmo che stringerci e baciarci, talvolta concedendoci delle
carezze
dolci e proibite insieme, tali da farci sospirare e desiderare che
calasse la
notte. Capii che era arrivata soltanto quando il buio divenne
così intenso da
impedirmi di distinguere i lineamenti del suo volto.
«Vado
a accende luce» mi proposi.
Ma
Marco mi inchiodò sotto di sé e tornò
a torturare le mie labbra e a consumarle
di baci, cosicché non ebbi più la forza di
respingerlo. Non diceva sempre che
per essere perfette, le cose avevano bisogno del buio?
Le
sue mani mi toccavano dappertutto, facendomi perdere il senno, dopo un
po’ le
sentii strofinarsi contro il mio collo e sulle mie guancie, erano
gelide e lui
cercava dolcemente il mio tepore. Posò le sue labbra sul mio
orecchio.
«Sei
così caldo» sussurrò, facendomi
avvampare.
Non
potevo resistere oltre.
Mi
sollevai e gli afferrai le mani, poi lo trasportai in camera da letto.
Ancora
ricordavo dov’era.
Marco
si lasciò guidare in modo talmente amabile,
finché non inciampò in qualcosa.
Non avrei saputo dire cosa, il suo appartamento era tutto un caos.
Perse
l’equilibrio e fece per cadere, ma fui abbastanza pronto da
afferrarlo e
tenerlo saldamente tra le mie braccia. Sorrisi, pensando che non era la
prima
volta.
«Preso.»
Sollevatosi,
Marco iniziò a baciarmi, con foga e impeto,
finché non arrivammo in camera e
lui mi gettò sul materasso. Si mise su di me: la poca luce
che filtrava dalle
tapparelle mi permise di scorgere il suo viso, le sue mani forti sui
miei
fianchi esili, il suo sguardo, incerto e innamorato, che
scavò dentro di me
fino a strapparmi il cuore dal petto. Mi levò la maglia e i
pantaloni così
velocemente che non ebbi nemmeno il tempo di posare le mani sui suoi
indumenti,
che mi premurai di sfilare con tutta calma dopo che lui ebbe spogliato
me. Poi
passai ai boxer, che calai facendo attenzione a percorrere le sue gambe
con le
dita. Lo sentii gemere e pensai che un suono più eccitante
non fosse mai
esistito. Quando fu lui a levarmeli, per poco non me li
strappò via di dosso.
Tra
poco saremmo stati di nuovo una cosa sola, e il mio intero corpo era in
tensione all’idea. C’era qualcosa di speciale
quella notte, qualcosa che non
saremmo mai stati capaci di replicare. Me lo sentivo.
Mi
preparò frettolosamente, tanta era la smania che avevamo.
Poi mi guardò, come
per pormi una domanda. L’ultima volta che avevamo fatto
l’amore in quel modo mi
aveva fatto male ed era terrorizzato al pensiero di farlo ancora, ma io
annuii
in risposta: mi fidavo di lui.
Così
Marco entrò dentro di me.
Il
dolore era penetrante, ma fu ben poca cosa se paragonato al piacere.
Non era
affatto come l’ultima volta. Mi diede giusto il tempo di
abituarmi alla sua
presenza, e subito iniziò a spingersi nelle mie carni,
incollando le sue labbra
alle mie.
Fu
pura vertigine che fece vorticare ogni cosa intorno a me, fin da subito
cominciai a gemere e a stringere forte quelle braccia, che a loro volta
strinsero forte me.
Dov’era
finito il mio Marco dolce e impacciato?
I
suoi movimenti erano selvaggi, forti, impetuosi. Boccheggiai, facendo
separare
le nostre labbra, e lui ne approfittò per scendere sul mio
collo e prendere a
leccarlo vigorosamente. Lanciai un piccolo urlo. Era una sensazione estrema: ero totalmente in balia del suo
volere, del suo istinto animale. Quello era il suo modo di fare
l’amore. E mi
inebriava.
Si
avvicinò fino a far aderire i nostri petti, le sue mani
scesero a esplorarmi
con frenesia le cosce e i glutei. Marco non si preoccupava di essere
eccessivo
o volgare, e non lo era. Era passionale come non avrei mai immaginato
potesse
essere. Il suo corpo da freddo divenne caldo, quasi bollente, ben
presto mi
ritrovai circondato da lui: confortato ed eccitato insieme, non mi era
mai
accaduto prima.
Iniziò
a gemere dolcemente il mio nome. Il mio nome completo, mi
chiamò Michael. Sulle
sue labbra, divenne pura melodia. Mi sollevai fino a baciare la sua
spalla e la
sua clavicola e lo sentii tremare e fremere su di me.
Volevo
parlare, dirgli qualcosa, ma ero talmente preso dal piacere che non
riuscii a
non urlare, ancora e ancora, la mia bocca era piena del suo nome come
le mie
narici lo erano dell’odore naturale della sua pelle,
così forte e virile da
stordirmi. Quello che aveva impregnato le mie coperte fino
all’ultimo secondo
del nostro passato.
Quando
alla fine si spinse dentro di me, facendomi venire con un urlo
violento, e gli
graffiai la pelle nell’estasi dell’orgasmo, mi
accasciai sul letto, madido di
sudore.
Ripresi
fiato qualche secondo, mentre ancora Marco cercava di arrivare al
culmine a sua
volta. Quando ciò avvenne e lui si riversò caldo
dentro di me, gli presi il
volto tra le mani costringendolo a guardarmi, i suoi occhi puntati su
di me
erano così belli. Quelli non erano cambiati di una virgola.
«Tu
può chiamare Mika» ansimai, rivolgendogli un
sorriso.
Ricambiò.
Da quando eravamo tornati a casa sua, non aveva fatto altro che
sorridere e il
mio cuore era sul punto di scoppiare. Quanto era bello. Quanto lo amavo.
«Mi
piace chiamarti Michael» sollevò le spalle.
«Ormai ci ho fatto l’abitudine.»
Semplice.
Con Marco era tutto così semplice, e al tempo stesso
così complicato. Delle
folli montagne russe, questo era l’amore con lui.
Marco
si distese sul letto. Immediatamente poggiai la mia testa sul suo petto
e lui
mi avvolse tra le sue braccia così confortanti. Sapeva
quanto adorassi stare in
quel modo.
«Io
ricorda ancora prima volta che tu chiamato Michael» tracciai
dei cerchi sul suo
petto.
«Davvero?»
Annuii.
«Tu ha detto così piano, come se è cosa
segreta mio nome.»
«Mi
sentivo speciale, sai?» posò le sue labbra sulla
mia fronte. «Come se io fossi
l’unico amico che avevi sulla faccia della terra,
l’unico che poteva chiamarti
così.»
Mi
sollevai e gli schioccai un bacio. «Io ti amo,
Marco.»
«Anche
io ti amo.»
Restammo
in quel modo per un po’, ero quasi sul punto di
addormentarmi, pago e sfinito,
nella piena orgia dei sensi, ma tenuto sveglio dai ricordi.
L’odore
di Marco, il nostro stare occhi negli occhi, il sapore delle sue
labbra… tante
cose di quel giorno mi avevano portato indietro nel tempo. Era come se
avessimo
ripercorso la nostra storia d’amore, negli insignificanti
particolari che
l’avevano composta. Dal momento in cui ci eravamo innamorati
a prima vista fino
a quando il suo odore era scivolato via dalla mia pelle, avevamo e
avremmo
rivissuto tutto.
Perché
noi eravamo questo. Vivevamo di piccoli istanti e brevi momenti che
parevano
senza senso, tanto erano piccoli e apparentemente senza importanza.
Eppure per
noi ce l’avevano, un senso. Noi eravamo in quello sguardo
d’intesa, in quella
parola detta sottovoce ed eravamo in quell’aroma di
caffè. Eravamo nel dolore
più intenso, nel profumo più forte e nella caduta
che ci aveva colti di
sorpresa. Eravamo nelle notti statiche, il gelo nelle mani e il calore
sulle
guance. Eravamo noi in ogni cosa, eravamo vita. Eravamo amore.
E
questo non aveva mai avuto senso per nessuno.
Per nessuno tranne che per noi.
Ma
ora, ora eravamo pronti a ricominciare. Nuovi sapori, nuovi dolori,
nuovi
sguardi, nuove sensazioni. Nuovi futuri.
Potevamo
farlo. E stavolta Marco non sarebbe stata la mia seconda scelta,
né la prima: Marco
sarebbe stata la mia scelta, l’unica possibile. Avrei scelto
l’amore.
Perché
con lui, l’amore aveva senso. Anzi, con lui l’amore
era un senso.
«Michael?»
mi chiamò dopo un po’.
Mugugnai,
aveva interrotto il filo dei miei pensieri.
«Sì?»
«Se
tu fossi un guerriero, per cosa lotteresti?»
Aggrottai
la fronte: era una domanda bizzarra. Che idee si faceva venire in mente
quel
matto, in piena notte, dopo aver fatto l’amore?
Il
mio Marco poteva avere un aspetto diverso, una diversa attitudine,
poteva fare
ciò che voleva. Ma restava sempre il solito, piccolo,
adorabile sciocco di cui
sarei sempre stato pazzamente innamorato.
«Io
lotterei per amore» risposi, senza esitazione.
Annuì,
parve soddisfatto.
«Già»
rispose, e prese ad accarezzarmi i capelli.
Quel
movimento ritmico, il suo respiro regolare, mi cullarono fino a
condurmi
dolcemente nel mondo dei sogni. Anche Marco, a modo suo, era la mia
casa, il
mio rifugio, il mio sempre che mi faceva sentire al sicuro. Io amo quest’uomo.
«Per
amore» udii prima di addormentarmi. «Piace anche a
me.»
La
soffitta dell’autrice:
L’ultima soffitta
dell’autrice.
Già, ABBIAMO FINITO
GENTE! Scusate il mio ritardo di quasi un mese, ma ho dovuto riscrivere
il
capitolo tre volte perché volevo che fosse perfetto, e tra
le vacanze, la
scuola, un’influenza da manuale e altre
varietà… oh beh, l’importante
è che sia
finita.
Ho iniziato questa fanfic
all’incirca quattro o cinque mesi fa, con il terrore che non
avrei avuto la
costanza di continuare. Invece ce l’ho fatta, e sono
abbastanza orgogliosa di
me stessa.
Il mondo ha bisogno dei Mirco.
Ringrazio i miei
recensori più fedeli: _Lollipop_96; ayumi_L; xtizianosveins;
Life In Fangirl
Motion; Michaels e tutti coloro che hanno recensito a tratti. Vi voglio
bene.
Grazie a chi l’ha messa
tra le seguite, tra i preferiti e chi più ne ha
più ne metta.
Infine, il grazie più
grande va alla mia favolosa beta la mia comeunangeloallinferno94. Sei
un
marshmallow
♥
Quindi, alla
prossima
fanfic. Vi adoro tutti. Baci
|
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