Vi•sta [La vista è
uno dei
cinque sensi;
precisamente, è quello mediante il quale è
possibile
percepire gli stimoli
luminosi e,
quindi, la figura, il colore, le misure e la posizione degli oggetti.
Tale
percezione avviene per mezzo degli occhi.]
Eravamo davvero un bel
quadretto, non c’è che dire.
Sono serio: se fossi stato un
tizio qualunque, uno sconosciuto che passando di lì avesse
assistito alla
scena, probabilmente mi sarei sbellicato dalle risate. Purtroppo per
me, non
andò così.
Ma andiamo con ordine.
Qualche giorno prima, la mia
manager aveva ricevuto una chiamata dagli studios di X Factor, il noto
talent
show che, oltre a una miriade di altri artisti, aveva lanciato anche il
sottoscritto. Quel giorno ci trovavamo insieme a casa mia, io e Marta,
e l’isteria
generale era scattata nell’immediato. Lei parlava al telefono
concitata e io
seguivo soltanto a grandi linee la conversazione, ma eravamo entrambi
entusiasti come bambini: pareva mi avessero richiamato al programma per
una
collaborazione agli Home Visit. In poche parole, avrei assistito uno
dei
giudici nella decisione finale, per quanto riguardava i concorrenti da
mandare
al programma in prima serata. Ero talmente elettrizzato che lottai
contro
l’impulso di mettermi a saltellare come una dodicenne e,
d’altronde, la stessa
Marta aveva un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
Mi aveva fissato un
incontro con il giudice che mi aveva voluto al suo fianco in questa
scelta, per
discutere su alcuni punti fondamentali.
Alla fine, Marta aveva
cordialmente salutato con un “Grazie e
arrivederla”, aveva chiuso la
comunicazione telefonica e, con mia grande sorpresa, aveva iniziato a
imprecare
come una camionista in menopausa. Dopo aver sparato
un’immensa sfilza di
parolacce, alcune delle quali nemmeno sapevo che esistessero, si era
degnata di
comunicarmi il nome di colui che aveva richiesto i miei servigi.
Mika.
Oh,
mio Dio.
Mika. Uno degli artisti più celebri
degli ultimi anni, nonché uno dei miei idoli,
nonché modello a cui mi ero
ispirato negli anni prima e dopo il successo di X Factor.
Ripetei quel nome nella mia
mente un paio di volte.
Mika. Notizia più bella non
poteva esistere.
In quel momento avevo avuto
ancor più voglia di saltare come una dodicenne impazzita.
Mika, santo cielo, lui fra
tutti quanti! Aveva scelto proprio me, Marco Mengoni, fra mille artisti
italiani, non potevo crederci! Mi sembrava un sogno. Mentre io
scoppiavo di
felicità al punto che neanche mi rendevo conto di cosa mi
accadesse intorno,
Marta stava maledicendo me e lui.
Non che fosse scontenta per
l’occasione che mi era stata data, certo che no. Ma si
chiedeva, perché proprio
Mika? Non poteva essere Morgan, disse, che era stato il mio giudice
nella terza
edizione? Non poteva essere Elio, disse, che era un grande
professionista? Non poteva
essere Simona?
A quel punto la interruppi,
chiedendole cosa avesse contro Mika.
Lei mi rispose, in modo molto
maturo, che semplicemente le stava antipatico a pelle. Atteggiamento
incredibilmente professionale.
Nonostante questo, sosteneva
che un’apparizione come supporto di un giudice (a prescindere
da chi egli
fosse) al talent show che mi aveva lanciato nel mondo della musica
fosse una
grande strategia di marketing, pertanto accettò di buon
grado. Io, che di
marketing non me ne intendevo (e ringraziavo Dio che Marta si occupasse
di
queste cose), sapevo soltanto che avrei preferito mangiare vetro
piuttosto che
rinunciare a un’opportunità come quella.
Ero su di giri come un
bambino all’Acqua Park.
E così, il fatidico giorno
arrivò e io non avrei potuto essere più felice.
Già. Peccato che, lungo il
tragitto in auto dal mio appartamento agli studios, Marta avesse deciso
di
divertirsi a imprecare contro quello che lei riteneva uno
“spilungone fighetto
con la puzza sotto il naso”, ossia Mika. La qual cosa,
ovviamente, detta in
modo decisamente più colorito e meno sobrio, finì
per intaccare la mia aura di
positività.
Detto in poche parole, prima
di entrare nell’auto stavo una favola e dopo esserci entrato
stavo uno schifo.
Mi mise addosso una tale ansia, una tale agitazione e un tale tutto quanto che, arrivati agli studios,
ero messo così male da desiderare sul serio un bel pezzo di
vetro da
sgranocchiare.
Una volta entrati
nell’edificio principale, però, anche Marta
ammutolì. Non scambiammo una parola
quando entrammo, né quando percorremmo i corridoi scortati
da uno stagista e venimmo
lasciati di fronte all’ingresso di una sala conferenze.
Fissammo la porta, in
legno chiaro e intarsiata in acciaio, che ci avrebbe condotti alla
stanza in
cui io e Mika ci saremmo incontrati (sotto la supervisione di Marta e
di altri
collaboratori, ovvio) per parlare di alcune cose riguardanti il giorno
degli
Home Visit.
Immobili, io e lei, di fronte
a quella porta. I nostri sguardi caddero sulla maniglia, senza che
nessuno di
noi due si decidesse ad afferrarla e abbassarla per entrare.
Stavo per incontrare un
idolo, un grande cantante, una grandissima persona ed ero nervoso come
una
scolaretta. Pensavo di sapere cosa aspettarmi e invece scoprii di non
averne la
più pallida idea. Mi avrebbe parlato in italiano o in
inglese? Gli avrei fatto
buona impressione? Saremmo riusciti a collaborare alla pari o il
divario tra di
noi avrebbe influito sulla nostra resa? Gli sarei piaciuto? Mi avrebbe
detestato?
Avevo voglia di ingoiare una
granata.
Mi voltai verso Marta, agitato,
e in risposta mi lanciò un’occhiata che emanava
sicurezza e che mi spinse a
essere, o perlomeno fingere di esserlo, deciso.
Così serrai gli occhi e spalancai
la porta in un unico colpo secco, come quando si strappa via un cerotto.
Inutile dire che lo spaventai
a morte.
Era seduto a una scrivania
che si trovava al centro della stanza e stava maneggiando alcune
scartoffie:
quando entrai con tanta irruenza saltò praticamente in aria
e non riuscì a
trattenere un sussulto e strinse i fogli di carta così forte
da stropicciarli,
parandoli di fronte a sé come uno scudo.
Come dicevo, saremmo stati
esilaranti visti da fuori. Ma purtroppo ero stato io a spaventarlo, a
rischio di
sembrare un maleducato o, peggio, un povero pazzo, così
entrai senza dire una
parola e mi sedetti di fronte a lui, senza mai guardarlo dritto in
faccia. Fu
soltanto quando Marta prese posto accanto a me che notai che nella sala
non
c’era nessun altro all’infuori di noi e lui.
Presi quasi nell’immediato a torturarmi
l’unghia del pollice con i denti, mentre la mia gamba tremava
sotto il tavolo
senza che io riuscissi a fermarla. Marta dal canto suo, dondolava
avanti e
indietro come fosse stata una psicotica, e poi c’era lui, che
riordinava fogli
che mi parevano già perfettamente impilati.
Nessuno parlava, nessuno
faceva niente di concreto né di interessante.
Sembravamo una piccola
comunità di recupero per svitati nevrotici.
E io, povero ebete col
cervello in rigor mortis, tenni gli
occhi bassi, puntati in un primo momento sulla scrivania di vetro. Poi,
però,
li spostai per caso sulle mani di Mika.
Guardandole, mi accorsi che erano
grandi, ma grandi davvero. Indubbiamente eleganti, come quelle di un
pianista o
di un direttore d’orchestra. Come facesse anche solo con il
corpo a emanare il
concetto di musica, non lo sapevo. Tutto ciò che riuscivo a
pensare, mentre lo
guardavo prendere e spostare quelle pagine da un punto
all’altro del tavolo,
era che lo invidiavo non poco per questo.
Improvvisamente, Marta mi
colpì da sotto il tavolo, lanciandomi uno sguardo
ammonitore. Rinsavii
all’istante: il modo in cui lo stavo fissando doveva essere
piuttosto
inquietante, per non dire totalmente privo di
professionalità. Tenere gli occhi
incollati sulla gente famosa era più un comportamento da
teenager in calore che
da collega alla pari. Ma quanto riuscivo a essere idiota?
Resomi conto della mia
figuraccia e del tutto incapace di scusarmi con lui senza fare la
figura
dell’inetto, vagai con lo sguardo per il resto della stanza,
fingendo
indifferenza.
Questo finché i miei occhi
caddero sul volto di Mika. Più precisamente, mi soffermai
sulla mascella,
perfettamente cesellata, e sul collo elegante, sul quale spiccavano due
nei
vicini tra loro, paralleli l’uno all’altro, in modo
preciso. Una leggera barba
iniziava a spuntargli sul mento e sulle guance. Dannazione a lui. Se
avesse
potuto prestarmi un po’ della sua perfezione, avrei
volentieri…
Riabbassai nuovamente lo
sguardo, intimidito dai miei stessi pensieri. Non era una
novità che io
tendessi a paragonarmi a ogni uomo incontrassi, sentendomi sempre e
immancabilmente inferiore, ma da qui a utilizzare termini come
“perfetto” ne
passava di acqua sotto i ponti.
Potevo ammettere con una
certa tranquillità che Mika fosse un bell’uomo, di
certo più bello di quanto io
sarei stato mai, ma “perfezione” era qualcosa da
attribuire a ben altro, a
qualcosa che ti lascia senza fiato e senza parole.
Fu questo che pensai, prima
che quasi involontariamente i miei occhi venissero spinti a osservargli
la bocca.
Sapevo che ogni qualvolta la apriva, la gente impazziva: il pubblico si
emozionava per le sue canzoni, oppure rideva per le cose buffe che
diceva, ma
in ogni caso restava incantato a osservare quelle labbra piccole e
sottili
dall’inconfondibile forma a cuore. Mi ritrovai ancora una
volta a invidiarlo
senza ritegno.
I miei occhi, pertanto, si
concentrarono sul suo naso che, constatai, era molto
“francese” (per quanto,
una volta che l’ebbi pensato, ritenni questa mia opinione
infinitamente
ridicola). Era risaputa la particolare predisposizione di Mika ad
arricciarlo
quando era divertito o, più semplicemente, rideva. Sapevo
per certo che quel
naso arricciato, oltre alle immancabili fossette, erano due delle cose
che
facevano impazzire i fan, più di qualsiasi altra
qualità fisica avesse.
Poteva anche levarsi la
maglietta durante i live e le ragazzine sarebbero esplose in un
tripudio di
urla, occhi lucidi e braccia protese verso la sua figura slanciata; ma
se
voleva davvero conquistare il cuore di ogni singola persona tra il
pubblico,
gli bastava sorridere e tutti l’avrebbero amato.
Certo,
come se non fosse già abbastanza amato da
tutti.
Con la coda
dell’occhio, scorsi
Marta che si voltava verso di me e sapevo che stava per colpirmi di
nuovo. Me
lo meritavo, ovviamente, perché ero tornato a fissarlo e
questo era stato
davvero sciocco da parte mia.
Ma prima che potessi
distogliere lo sguardo, o farmi colpire da Marta, o rendermi
minimamente conto
di ciò che stava accadendo, i miei stupidi occhi
proseguirono da soli la loro
folle corsa e incontrarono quelli di Mika.
Solo che, nello stesso
momento, quelli di Mika incontrarono i miei.
E ci ritrovammo a guardarci
negli occhi.
I suoi erano perfetti.
Sì, quando lo pensai, ritenni
che fosse il termine più appropriato, forse
l’unico adatto a definirli. Perfetti.
Esternamente splendidi: le
ciglia scure facevano da cornici alle iridi color nocciola, in parte
screziate
di verde, dal contorno scuro come terra bruciata; le pupille parevano
brillare
di luce propria; la forma tondeggiante li faceva apparire ancora
più grandi di
quanto non fossero già.
Ma quegli occhi, io, non mi
limitai di certo a guardarli. No.
Erano così limpidi, così
sinceri e puri, che arrivai a leggervi dentro.
La cosa più assurda è che vi
lessi, incredibile a dirsi, ansia. Mi riuscì difficile
crederlo visto che, tra
i due, ero io a dover essere quello nervoso ed emozionato. Invece
sembrava
quasi che fosse lui, e non io, a essere di fronte a una star
internazionale
pluripremiata. Potei scorgere, però, anche un minimo accenno
di curiosità, la
stessa che anch’io nutrivo nei suoi confronti: non a caso,
poco prima avevo
preso a studiarlo in ogni suo dettaglio. Ci leggevo, in quegli occhi,
le stesse
domande che mi ero fatto anch’io su di lui. Pazzesco, per non
dire comico.
Istintivamente sorrisi.
Ma
accadde una cosa molto buffa.
Lui sorrise a sua volta, nello stesso istante.
Nel vedere questo, il mio
sorriso si ampliò e anche il suo, simultaneamente, e mi
veniva da ridere,
perché sembravamo due idioti allo specchio. Eppure stava
accadendo di più, ci
stavamo intendendo alla perfezione senza spiccicare parola: tutta
quella
situazione era assurda e ci sentivamo entrambi dei perfetti imbecilli,
ma capii
di non doverlo temere e lui capì di non dover temere me. Ci
saremmo aiutati a
vicenda a superare quell’iniziale tensione e a rendere quella
situazione il più
normale possibile.
In quel momento ebbi la
certezza che sarebbe andato tutto benone.
Nel frattempo mi accorsi
vagamente che Marta mi aveva colpito da sotto il tavolo e che ci stava
osservando, per capire che cosa ci fosse preso. Mi dispiacque per lei,
perché
sapevo che non ci sarebbe mai arrivata.
Era semplicemente scattata
l’intesa, a prima vista, tra me e lui.
Non distolsi lo sguardo.
Avrei dovuto, chiaramente, perché erano passati diversi
secondi e nessuna
persona sana di mente avrebbe aspettato così tanto prima di
interrompere uno
contatto visivo. Ma ci trovavamo così bene, occhi negli
occhi, che ci sembrò il
peggiore dei crimini smettere.
E così non smettemmo.
A incontro finito, avevamo
chiarito i punti fondamentali della nostra linea.
Dalle concorrenti non
volevamo semplicemente uno sfoggio di bravura perché di
brave, disse lui, ce ne
sono a migliaia. Lui voleva qualcuna che fosse interessante, che
potesse arrivare
al cuore del pubblico e, perché no, anche allo stomaco.
Quello lo dissi io,
però, perché ero dell’opinione che la
musica dovesse prenderti per le viscere,
e lui si trovò perfettamente d’accordo nonostante
il modo grezzo con cui
espressi quella mia teoria.
Come location aveva proposto
un casale (che, scoprii in seguito, più che un casale era
una reggia in
miniatura) a Dublino, in Irlanda. Io andavo pazzo per
l’Irlanda, ma cercai
comunque di mostrare nonchalance, come Marta mi aveva suggerito di
fare, dicendo
che, sì, Dublino sarebbe stata una scelta niente affatto
male. Ma non riuscii a
nascondere del tutto il mio folle entusiasmo e sembrai un esagitato di
prima
categoria.
Forse non avevo fatto la
figura migliore della mia vita, ma non mi importava granché
perché io e
Mika stavamo andando alla grande. Per tutto il tempo non staccammo mai
gli
occhi l’uno dall’altro e questo, pazzesco solo a
pensarci, ci mise stranamente
a nostro agio.
Io, che soltanto quella
mattina avevo lo stomaco aggrovigliato per la paura, adesso mi stavo
trovando
talmente bene che il tempo passò senza che me ne accorgessi,
grazie a quello
sguardo rassicurante, vivace e brillante che per fortuna era ancora
saldamente
ancorato al mio.
Poco prima di uscire dalla
sala conferenze, Mika mi disse di chiamarlo Michael, perché
era così che gli
amici lo chiamavano. Il che stava a significare che già mi
considerava un amico
o che, più semplicemente, mi aveva preso in simpatia. Non
avrei potuto chiedere
di meglio.
La porta si richiuse, l’incontro
finì e, dagli occhi vivaci e brillanti di Mika (o meglio,
Michael), piombai in
quelli color ghiaccio di Marta.
In quel momento non ne
avevano solo il colore, ma anche lo stesso calore. Erano gelidi.
Parte del tepore e della
tranquillità che avevo acquisito poco prima andarono
dissolvendosi mentre
l’ombra tutt’altro velata della disapprovazione di
Marta si profilava di fronte
a me. Non sapevo cosa avessi fatto esattamente per irritarla, sapevo
solo che
era irritata, eccome. Si voltò e mi precedette, camminando a
passo di marcia.
Mi ritrovai a fissare la sua vaporosa
chioma bionda che si scuoteva a ogni passo, mentre cercavo inutilmente
di
raggiungerla per capire cosa le avessi fatto. Non era come se lei non
avesse
affatto parlato durante l’incontro, anzi, avevo sentito
chiaramente la sua voce
intervenire in più di un’occasione.
Ma, a pensarci bene, non
avevo posato lo sguardo su di lei neppure per un istante nel corso del
colloquio. Oh, e con tutta probabilità nemmeno Michael lo
aveva fatto.
Capii da solo, alla fine, e
non mi stupii che fosse furiosa: lei era la mia manager,
l’esperta in questo
campo nonché la persona che aveva reso possibile questa
collaborazione e noi,
per tutta risposta, l’avevamo ignorata totalmente, come fosse
stata invisibile.
Che bel modo di esprimere gratitudine.
Cercai di raggiungerla, per chiederle
scusa, così accelerai il passo e quando fui abbastanza
vicino le posai la mano
su una spalla. Si girò, i suoi riccioli frustarono
l’aria, mi rivolse lo stesso
sguardo glaciale di prima. Tentai di iniziare a parlare, per potermi
scusare a
nome di entrambi e spiegarle tutto.
Marta, però, preferì rovinare
tutto con un velenoso: «Non ti facevo così, sai?
Pensavo che tu, alle scemenze
come le cose “a prima
vista”, non ci
credessi.»
Prima che potessi chiederle
cosa intendesse esattamente, però, lei si voltò
di nuovo e tornò a fare finta
che io non esistessi come, mi doleva ammettere, noi avevamo fatto con
lei.
Sapevo che lo scopo di quella
battutaccia assolutamente fuori luogo era unicamente quello di ferirmi.
Eppure,
mentre mi trascinavo lungo il corridoio a qualche passo di distanza
dalla mia
manager, ebbi il forte impulso di tornare di là e cercare di
nuovo il conforto
che avevo tratto dagli occhi di Michael.
E per un attimo, ci pensai sul
serio.
Mi fermai, mi voltai e
individuai nuovamente la sala conferenze. Quella rassicurante porta in
legno
chiaro e intarsiata di acciaio. Lui era lì e i suoi occhi
dal potere calmante
erano lì con lui.
La fissai per non so quanto
tempo e, dopo, feci quello che dovevo fare.
Mi riscossi, tornai a seguire
Marta e, nel silenzio più totale, tornammo a casa.
La soffitta
dell’autrice:
Oddio, voglio
infilare la testa in un sacchetto di
plastica e morire.
Ma salve!
Eccomi qui con, ebbene sì, una long. Più che
una long, è una raccolta di OS su loro due (ma quanto li
amo?) ciascuna basata
su uno dei sensi che, in teoria, sarebbero cinque, ma in
realtà sono molti di
più. Quindi verranno raccontati soltanto alcuni episodi
della loro storia, come
questo. Ho associato la vista al
concetto di primo
incontro
e di
intesa a prima vista, come avrete potuto notare. E niente, spero che vi
piaccia.
Torno a
flagellarmi, scusate. Alla prossima!
Ringrazio la mia beta, nonché suggeritrice di titoli,
comeunangeloallinferno94. Te se ama, bella ♥
Baci,