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Lista capitoli: Capitolo 1: *** 1.Circumstances (Kakashi/Iruka) *** Capitolo 2: *** Histeria (Shikamaru/Temari) *** Capitolo 3: *** E' solo il vento (Sasuke/Neji) *** Capitolo 4: *** Touch(Shino/Shikamaru) *** Capitolo 5: *** Tensione (Kankuro/Kiba) *** Capitolo 6: *** Dance with me (Lee/Gaara) *** Capitolo 7: *** Sleepless Night(Sasuke/Naruto) *** Capitolo 8: *** Infatuation (Kakashi/Sakura) *** Capitolo 9: *** Sette Porte (Lee/Neji) *** Capitolo 10: *** Written (Sasuke/Neji) *** Capitolo 11: *** Story of a strange habits (Kotetzu/Izumo) *** Capitolo 12: *** Home (Kakashi/Iruka) *** Capitolo 13: *** The King of Angels (Gaara) *** Capitolo 14: *** Zoophilia (Shino/Kiba) *** Capitolo 15: *** The two of us(Lee/Gaara) *** Capitolo 16: *** Istambul (Shikamaru/Temari) *** Capitolo 17: *** Going Nowhere (Hinata) *** Capitolo 18: *** Raindrops(Itachi/Sasuke) *** Capitolo 19: *** Stars(Sasori/Deidara) *** Capitolo 20: *** I hate you (l'ottava porta) (Lee/Neji) *** Capitolo 21: *** Post orgasmic eyes(Lee/Gaara) *** Capitolo 22: *** Limbus (my one last dance) (Kimimaro) *** Capitolo 23: *** Running (Naruto/Gaara) *** Capitolo 24: *** Requiem (Hayate) *** Capitolo 25: *** Out of the shadow (Shikamaru/Neji) *** Capitolo 26: *** Ti veglio bere(Lee&Gaara) *** Capitolo 27: *** Predator (Itachi/Deidara) *** Capitolo 28: *** Rules of silence (Sasuke/Neji) *** Capitolo 29: *** Oil on Canvas (Sasori/Deidara) ***
Ho deciso di
cominciare una raccolta di shot essenzialmente per due motivi: non ho ancora
una confidenza tale con Naruto per buttarmi in una long fic, ma allo stesso
tempo ho voglia di sperimentare, di provare, di mettermi in gioco.
Gli argomenti
saranno vari ed eventuali, per la maggior parte a sfondo romantico, credo. Ma
potranno tranquillamente essere prettamente introspettivi, o avventurosi.
Le coppie,
conoscendomi, saranno in prevalenza yaoi, ma non soltanto, e comunque segnalerò
sempre il paring, o i personaggi protagonisti, assieme al titolo, così, se non
dovessero piacervi, potete tranquillamente saltarle!
Buona
lettura!
Stateira
1.Circumstances (Kakashi/Iruka)
NOTA:
Questa fic alterna continuamente due situazioni diverse, evidenziate dal
grassetto e dal corsivo.
-
Kakashi. -
-
Iruka. –
Lui sta davanti
a te, e ti guarda negli occhi. È preoccupato, e teso, e respira a fatica.
- Stai bene? È
tutto a posto? –
Tu cerchi di
fare mente locale sulle ferite alle gambe, e alla schiena. Non è niente di
grave, il solito sangue brunastro.
- Sì. – ansimi.
- Kakashi. –
- Iruka. –
Lui ha le
braccia divaricate, che toccano le tue spalle. E ti sovrasta senza pesarti
addosso, con una strana discrezione che diresti quasi una deformazione
professionale.
- Stai bene? È
tutto a posto? –
Tu ti mordi un
labbro. Vorresti sorridere, ma sai che non è il caso: è davvero ansioso, e tu
sai che per lui la tua risposta sarà troppo importante, per ammettere sarcasmi.
- Sì. –
sussurri, e senza nemmeno accorgertene gli abbracci i fianchi, e lo attiri a te
con forza, quasi stessi cercando di dimostrargli che non gli stai mentendo.
Lui ti guarda
per l’ultima volta, prima di sollevare il coprifronte, e scoprire lo Sharingan.
Si rialza, si scrolla di dosso il sangue che gli aveva sporcato le mani, e si
scaglia contro i due ninja che ti hanno assalito, e tu ti ritrovi a tendere le
dita verso il vuoto.
Lui ti guarda
negli occhi, e tu lo guardi, più che puoi. Si è spogliato della maschera e del
coprifronte, per questa notte, e tu sai che è così raro, vedergli tutto il
volto, vederlo così tanto nudo. Vorresti dirgli che ti piace, che è bellissimo,
ma non osi, non in un momento come questo, quando il rischio di ferirlo diventa
troppo alto. Le dita ti scivolano sulla sua guancia sinistra, e sulla cicatrice
che la percorre. È più forte di te.
- Kakashi, no! –
lo urli stupidamente, sai che è troppo tardi per fermarlo, sai che lui è già
davanti ai suoi avversari, e che la sua battaglia è già cominciata.
- Kakashi… sì… -
lo implori senza clamore, ma lo fai con tutto il tuo istinto. Lui socchiude gli
occhi, come se cercasse di accarezzare i tuoi, e viene a baciarti, attento a
come si muove.
Sta tornando.
Tiri un sospiro di sollievo, quando la sua ombra inconfondibile si materializza
nella nebbiolina incerta.
Sta venendo. Lo
senti da come gli tremano le mani, e da come spinge, in un modo che non riesce
ad essere trattenuto del tutto, ma nemmeno brutale.
- Rilassati. –
ti dice con voce calma. Senti le sue braccia circondare le tue spalle, e
scivolare sotto le ginocchia. – Accidenti, ma quanto pesi? –
Ok, ora sei
tranquillo. Se Kakashi ha voglia di fare battute idiote, significa che è
davvero tutto a posto.
- Vieni qui. –
mormora.
Alzi gli occhi
al cielo, e ti arrampichi indolentemente sul suo petto, accomodandoti proprio
al centro.
- Non peso
troppo? – insinui, sbuffandogli aria calda sulla pelle.
Lui ridacchia
sottovoce, e ti scompiglia i capelli.
- No. –
risponde, piegando il mento sul petto. – No, per niente. –
- Sono contento
che tu stia bene. –
Chiudi gli
occhi, e sorridi appena.
- Anch’io sono
contento che tu ce l’abbia fatta. Non mi sarei mai perdonato, se ti fosse
successo qualcosa per causa mia. –
- A me? – ride
quasi sguaiatamente, come se tu gli avessi appena raccontato la barzelletta più
stupida del mondo. – A me non succede mai niente. –
Alzi gli occhi
al cielo, al bel cielo sopra di voi.
Kakashi cammina
in un modo strano, a falcate ampie e pigre. E ti tiene in braccio come fossi un
sacco, perché, con le tue gambe ridotte a quel modo, non riusciresti nemmeno a
reggerti alle sue spalle.
- Sì, come no. –
lo assecondi.
- Iruka, ti… ti
amo. –
Chiudi gli
occhi, e sorridi appena. Una parte di te non vuole che lui si senta quel
sorriso sul petto.
- Anch’io. –
La sua mano ti
accarezza di nuovo i capelli, stavolta senza scherzare. Tu ricambi scorrendo
adagio il suo fianco, seguendone le linee dritte e vagamente severe.
- Ma certo che
mi ami. – lo senti sbottare. Sta cercando di non ridere, e tu pure.
- Sì, come no. –
lo prendi in giro, tradendoti proprio con il tuo sguardo, troppo entusiasta e
limpido.
Non
parlai di intelligenza indolente, ma di silenzi cauti.
Vinsi
perchè scolpii colonne,
Perché
parentesi divennero corinzie.
Vinsi,
perchè forse, forse, Shika, forse eri tu.
Forse
sei tu, sei sempre stato tu.”
Non sto mangiando.
Sto mordendo il
cibo, lo sto ingoiando di prepotenza, sto aspettando di avere ancora fame. Non
lo sento in bocca, non lo sento scendere, senza sale né zucchero. Mangerei
foglie e sabbia, se me le mettessero nel piatto, e nemmeno me ne accorgerei,
nemmeno mi importerebbe niente.
Ti ho rivisto ieri,
già.
C’era il sole, era
primo pomeriggio, e tu non potevi avere fretta. Andiamo, tu non sei mai un tipo
che ha fretta. Maledizione, che rabbia mi ha fatto, il tuo modo di guardarmi,
il tuo modo di irritarmi, e di colpirmi. Tu, stupido perditempo, tu con quel
tuo sorriso obliquo e tagliente, sei così bravo, a sbattermi in faccia il mio
isterico affannarmi per stare al passo. Passo che tanto poi tu riesci a
mantenere anche standotene fermo a non fare niente; a ridere di me, al massimo.
Mi hai consegnato
una missiva per il Kazekage, hai borbottato qualcosa a proposito di una certa
urgenza, e, bravo, mi hai messo nella condizione che detesto di più,
soprattutto se si tratta di te. Ho cercato di mantenere la faccenda su un piano
puramente telepatico, ho provato a farne una questione di sguardi, ma
evidentemente avevi proprio voglia di sentirmelo dire.
Resta o vattene,
prendi qualcosa da bere con me oppure ritornatene da dove sei venuto, sparisci
o stai, stop, nient’altro, nessuna mediazione.
Che cos’hai scelto,
Shikamaru? Ti prego, ricordamelo, perché sto fingendo di essermelo dimenticato.
“La tua borraccia
andrà bene”.
Hai bevuto quanto
ti serviva, alla mia salute, stretta di spalle e ciao.
Io. Ti. Odio.
Ti odio perché,
miseria, maledizione, fottuto cane, riesci sempre a farmi fare il primo passo,
rimani a guardarmi per un po’, divertito, e poi prendi e te ne vai.
E io ne sono
sconfitta. E non riesco a sopportarlo, non c’è modo che mi convinca a farlo.
Non reggo la
sconfitta come te, ninja della Foglia, non sono capace di fare troppi calcoli,
non riesco a rassegnarmi e a tirarmi indietro. E, sinceramente, non ho voglia
di mettermi a fare a gara con te, su chi ha ragione dei due.
Tu vivi meglio di
me, io vivo di più; ecco, mettiamola così. Io preferisco sbattere la faccia
contro un muro, tu preferisci non provare nemmeno a superarlo. Pace, questione
di punti di vista, tutto qui.
Visto come so
essere diplomatica?
Visto come riesco a
non farmi bastare più nemmeno il sarcasmo? Visto come non riesco a calmarmi?
Visto come monto come una bufera, se anche solo provo a pensarti?
Te lo devo proprio
dire, bravo. Mi hai fatto trovare pane per i miei denti, ma come la mettiamo,
se io quel pane me lo volessi mangiare?
Lo vorrei mangiare,
Shikamaru, perché ho fame, perché tu mi metti fame.
Lo so, e lo sai
anche tu, che forse il mio non è altro che il bisogno di schiacciarti, e di
sentirmi di nuovo vincitrice, ma so anche che sai che se non fosse così,
sarebbe atroce da parte tua lasciarmi qui senza un appiglio.
Probabilmente ti
diverte.
Sto lottando contro
il tempo, combatto contro i secondi per arrivare alla sera, per potermi dire
“ce l’hai fatta, Temari, sei sopravvissuta ad un altro giorno senza di lui”, e
intanto sapere benissimo che non ce l’ho fatta per niente, perché ti ho pensato
furiosamente, ti ho maledetto e detestato, e non so cos’altro. Il mio è un
gioco sordo, a cui so giocare soltanto io, ed è un gioco del silenzio che pian
piano ti ricopre di ombre e dubbi, e di rancori che nascono da terreni che dovrebbero,
assolutamente dovrebbero, essere sterili.
Ma tanto non ha
importanza, qualsiasi cosa io dica di te, qualsiasi cosa io faccia, non ti
tocca, non ti arriva, e tu continui la tua vita di sempre, nel tuo bel
villaggio incantato, continui a sprecare il tuo tempo buttato su qualche
albero, a guardare chissà cosa, stupidi uccellini e nuvole, e mi brucia,
tantissimo, che le mie parole non possano trasformarsi in fatti, in schiaffi.
Mi rode non poterti perseguitare.
- Temari, vieni. –
- Cosa. –
- C’è il tizio
della Foglia. Ahm, Shikamaru, mi sembra. –
- Qui? Perché? –
Detesto il modo in
cui il tuo nome mi fa saltare il cuore.
- Non ha voluto
dirmelo. Ha chiesto di vedere te, dice che ieri ti ha consegnato un messaggio.
–
- Sì, d’accordo.
Fallo venire qui. –
- Ok. –
Un’occhiata al
casino sulla mia scrivania. Odio occuparmi delle formalità burocratiche, ma
sembra che con Konoha le cose vadano troppo bene, per poter sperare di alzare
le mani su di te con la schiena protetta da un valido motivo. Gaara mi
ucciderebbe. E io ucciderei te, che ne dici, vogliamo farlo, questo bel
giochino?
C’è riso sparso
ovunque, ciotole di salse e di schifezze, bibite, carne, cibo. Guarda un po’,
c’è persino una mela che non mi ero accorta di aver rosicchiato a metà. E pensare
che a me le mele nemmeno piacciono.
- Kankuro. –
- Sì? –
- Senti… Dammi un
minuto. Non lo so, intrattienilo, inventa qualcosa, cantagli una canzone,
picchialo. Mi serve un po’ di tempo per… -
Hai capito,
Kankuro.
Caccio un sospiro
più seccato che annoiato, e comincio a raccogliere qualche stoviglia. Le
ficcherò in un armadio, le butterò dalla finestra, non mi interessa. Sì, lo so,
me lo dicono tutti, che in questo periodo sto mangiando troppo, che mi ingozzo
di continuo, che finirò con lo star male. Ma complimenti, soltanto tu riesci a
farmene vergognare.
Soltanto a te sto
cercando di nascondere tutto questo.
Ho come
l’impressione che vedendo una pila di ciotole di Ramen sulla mia scrivania,
capiresti che se sono ridotta così è quasi esclusivamente a causa tua.
Ma io non posso
permettere che tu lo sappia.
ANGOLINO!
Sì, lo so, chi già
ha la sfortuna di conoscermi ormai maledice i miei angolini ancora prima che
comincino, ma giuro che questo è serio! Dovrò pure far una buona impressione
iniziale, no? ^_-
Evviva, sono felice
di avere qualcuno da ringraziare!
Innanzitutto
Artemisia, mi inchino alla tua gentilezza, soprattutto perché non sei
particolarmente amante delle yaoi. Spero che questa ti sia piaciuta di più!
Hikary90, Feda e
Will 91, sono contenta che Kaka/Iru vi piaccia, e decisamente mi stupisco che
non sia molto diffuso. Mio dio, quei due sono… ovvi! Aaaah, sguardi languidi e
parole a mezza voce, sento che tornerò su di loro molte, molte volte!
Kagchan, grazie
mille, spero ti piacciano anche le prossime!
Guarda dritto
davanti a te, guarda il tuo avversario in faccia, Sasuke, come ti hanno
insegnato a fare.
Non lasciarti
distrarre, non da questo.
Non dal vento.
E se sono ricordi,
le fotografie sbiadite che ti fulminano gli occhi di tanto in tanto, combatti
anche loro, non lasciarti ingannare, non tornare in te, proprio ora. Sarebbe
comunque troppo tardi.
Combatti come sai,
combatti per uccidere, combatti per schiacciarmi sotto ai tuoi piedi, combatti
senza darmi via di scampo.
E lasciami senza
fiato, se ci riesci, in un modo che non sia quello in cui già lo fai.
Questi segni
graffiati lungo i miei occhi, guarda bene, Sasuke. Non sono lacrime.
Combatti con me,
qui, sull’orlo della catastrofe, sfidami a cadere, tu che se vuoi, sai farmi
alzare. Era naturale che alla fine rimanessimo noi due.
Era destino,
Sasuke.
Ho bisogno di
essere punito, per aver creduto in un futuro diverso, per aver modellato il mio
piccolo paradiso sulla tua forma. È soltanto questione di cose giuste e
sbagliate. Di persone giuste e sbagliate, perché sì, ci sono persone giuste e
persone sbagliate, e uno di noi due deve esserlo. Probabilmente sono io, ma non
temere, credo di essere in grado di tenerti testa ancora per un po’. La
consapevolezza che la mia morte verrà presto non mi tocca, non più di quanto
dovrebbe farlo, e io sono lucido, sono calmo, sono freddo, perché so che è
questo il genere di avversario che ami avere davanti.
Ringhia più forte,
ti prego, perché non riesco a sentirti.
Cosa vuoi che sia,
è soltanto dolceamaro. È soltanto chiudere gli occhi, per riuscire a sentirmi
toccato, è schivare il tuo pugno, per illudermi che sia una carezza. Ma tu non
ci pensare, combatti, fai tutto ciò che serve per sconfiggermi. E impegnati, ti
prego, perché questa battaglia diventi l’esaltante agonia di due superstiti di
sé stessi, perché divenga fratricida e cannibale. Polvere sul viso, ragioni,
mille e cento ragioni ancora, per le quali siamo qui ad ammazzarci a vicenda,
tu furiosamente, io, forse, disperatamente.
E intanto, io
cercherò di ricordare quando i tuoi sussurri furtivi sono diventate
dichiarazioni di guerra. E cercherò di capire perché, una volta, tanto tempo
fa, ti piaceva farmi sorridere, e darmi i brividi, con le tue mani, qui, sul
collo; poi all’improvviso hai trasformato quei brividi in paura, come se non mi
riconoscessi più.
Ti ha preso. Ha
vinto lui, perché nessuno sfugge al suo destino. Nemmeno tu.
Non ho rimpianti,
Sasuke, ho cercato di combattere il demone che avevi tatuato addosso, ma i miei
occhi possono vedere molte cose del tuo corpo, possono scorgere molte
cicatrici, possono perfino scavalcare i tuoi occhi, per leggere la tua testa.
Ma il cuore, quello no. Quello tu non mi hai mai permesso di leggerlo, di
quello, mi hai sempre costretto a fidarmi, e io, credimi, l’ho fatto.
Ricordo di quanto
scioccamente affascinato fossi da te, e dai tuoi occhi scuri e fulgidi, ricordo
di quel pomeriggio passato ad ascoltare i suoni di una campana. Eravamo così…
tangibili, così tanto che credevo di non avere più bisogno di conferme.
Ma non importa, se
ad un tratto le nostre strade hanno preso direzioni diverse. Solo, non pensavo
che due sentieri come i nostri, che si sono corsi incontro lentamente, passo dopo
passo, potessero incrociarsi di nuovo, in modo così violento.
Non sto piangendo,
Sasuke, non per te. Non perché sei tu. È il vento, non vedi? Cosa vuoi che sia,
è il vento che mi soffia nello sguardo, che mi strappa i vestiti, che mi
afferra i capelli.
Guardami negli
occhi, sono pronto ad incassare il tuo colpo, e a contrattaccare con tutta la
forza che ho. Non ti farò sconti, e tu non ne farai a me. Anche se volessimo,
non ne saremmo capaci.
Guardami adesso,
adesso che sei così vicino, adesso che mi respiri addosso, guarda, Sasuke, come
due occhi bianchi sanno arrossarsi.
Ma non illuderti,
queste non sono lacrime, no.
Cosa vuoi che
sia. È solo il vento.
ANGOLINO!
Eccomi con una
nuova shot, spero davvero che vi piaccia. Questa coppia mi fa impazzire, e non
chiedetemi perché. Sasuke e Neji sono poesia pura, insieme, quindi aspettatevi
di vederli ricomparire molte, molte volte.
Un grazie di cuore
per le recensioni!
Marchesa: non
sapevo che ti piacesse anche questo fandom, e non sai quanto sia felice! È
bellissimo ritrovare qualche vecchia conoscenza che bazzica anche HP! Beh, dato
il tuo entusiasmo contagioso, non posso che sperare che questa shot sia un
degno ringraziamento per te!
O-Ren: grazie
mille, sono onorata di tanti complimenti. Ci tengo davvero molto allo stile,
spero sempre che venga pulito quanto più possibile.
Artemisia: guarda,
visto che sei tu… ci sto lavorando, ecco. Anche se non posso prometterti
grandissime cose, ma uno sforzo lo posso fare più che volentieri, sperando di
essere all’altezza.
Eleuthera: grazie
mille!
bambi88: eh, e chi
lo sa, vallo a capire Shikamaru!
Temari chan: grazie
a te per aver recensito! Temari è sicuramente una dei personaggi femminili
migliori, soprattutto considerando che detesto le Mary Sue, e lei ne è
l’opposto…
Lupus:
onoratissima. Sono felice che la mia personale interpretazione di Temari ti sia
piaciuta, e spero di rivederti per le prossime Het (perché ogni tanto, per
sbaglio, qualcuna ne pubblicherò ^__^)
Kagchan: allora
siamo uguali! Io sono per lo slash yaoi a tutti i costi, Shika/Temari è una
delle pochissimissime eccezioni!
Frencis94: spero
che anche le prossime ti piacciano!
Shikamaru seppe di
non essere solo esattamente in quel momento.
Suo malgrado,
dovette ammettere che gli allenamenti impossibili di Asuma avevano sortito
qualche effetto anche su di lui.
Effetti fastidiosi.
I suoi sensi si
tesero come se avessero avuto muscoli propri, attenti a quel qualcosa di
minuscolo che cambiava la consistenza dell’aria, che interferiva con la luce
della notte e lo rendeva irrequieto. Le stelle fornivano molte ombre a cui
potersi appoggiare, in caso di necessità, quindi Shikamaru decise per una
tattica difensiva, e si tenne pronto a reagire a qualsiasi intrusione.
Finché l’intrusione
non gli si posò su un dito.
Shikamaru inarcò un
sopracciglio, meravigliato, e studiò la piccola falena scura che si era
appostata placidamente sul suo indice.
- E tu che ci fai
da queste parti? – borbottò. – Ti piace il mio dito? –
La bestiola si
agitò, e fece frullare le ali, quando il ragazzo mosse il dito per cacciarla.
Poteva sbagliarsi, vista la poca luce, ma doveva essere colorata. Il suo
corpicino rimandava un riflesso brillante e indecifrabile, forse una sfumatura
carminia o violacea.
- Rilassati, non
voglio farti del male. – sbuffò, inclinando la testa per osservarla più da
vicino senza muovere la mano.
- Probabilmente sì.
–
Shikamaru si mosse
all’improvviso, al suono di una voce dietro di lui.
- Shino? –
Shino scrollò le
spalle, e balzò giù dal ramo sopra a quello di Shikamaru, facendosi strada fra
le ombre indecise delle foglie del grosso albero.
- Probabilmente sì
che cosa? –
Shino accennò
all’insetto con il mento. – Che le piace il tuo dito. E, a proposito, fossi in
te ci penserei bene, prima di farle del male. È molto velenosa. –
– E’ uno scherzo,
vero? –
- Per niente. E’
letale. –
Goccia di sudore.
- Accidenti a te, e
allora levamela di dosso, pazzo entomofilo! –
- Stai calmo, o la
spaventerai. –
Shikamaru cercò di
condensare in un’occhiataccia corrucciata tutto ciò che pensava, riguardo lo
spaventare la povera innocente creaturina aggrappata al suo dito.
Ma Shino non se ne
curò più di tanto. Sospirò con la pazienza di un insegnante alle prese con la
cocciutaggine di un bamboccio, allungò un braccio, e la falena, come incantata,
volò subito da lui, appollaiandosi docilmente nell’incavo fra il pollice e
l’indice della sua mano sinistra. Il ninja la osservò per pochi secondi, in un
modo che Shikamaru potè dire affettuoso. In che senso, era difficile da definire,
visto che di Shino non riusciva a vedere quasi nulla. Lo sentiva, avvertiva
nell’aria una strana sensazione di intimità, che non seppe scacciare,
relegandola addosso all’insetto. Portava gli occhiali anche quella sera.
Shikamaru pensò che quel tipo strano dovesse avere un difetto alla vista.
Oppure alla testa, se si ostinava a starsene rintanato dietro ad un paio di
lenti persino di notte, con le stelle, la luna, e tutto il resto che erano lì
apposta per farsi guardare.
Shino si aggiustò
gli occhiali, e la falena volò via, disperdendosi nel silenzio di quella
nottata senza nuvole, senza avventure, senza un nome particolare da ricordare.
Shikamaru riuscì a sentire il rumore delle sue alette di carta, per qualche
secondo, ma poi i sospiri sonnacchiosi del vento si portarono via anche quello,
e tutto ritornò come prima.
Quasi.
- Non ti avrebbe
morso. – precisò Shino.
- Lasciami
indovinare, le hai offerto un po’ di polline perché non lo facesse? –
- Più o meno. –
Il ninja dell’ombra
si toccò distrattamente i capelli. Non aveva contemplato che qualcuno potesse
disturbare i suoi piani per la serata, e soprattutto non aveva calcolato che
quel qualcuno potesse essere proprio Shino.
Tanto forte quanto
strano, quel tipo, fatto di un’essenza che era qualcosa di nascosto dalla sua
voce sempre solenne, dal suo modo di essere pacato così diverso dal suo, così
distante dalla sua pigra apatia.
- Che ci fai in
giro a quest’ora? –
- Tu? –
- L’ho chiesto a
te, mi sembra. Non te l’ha insegnato nessuno, che è maleducato rispondere ad
una domanda con un’altra domanda? –
Shino accennò ad un
sorriso sottile. - E a te non l’hai insegnato nessuno che le difese si possono
anche abbassare, davanti ad un amico? –
Shikamaru sbuffò
con il naso. E si convinse che Ino fosse una stupida, se davvero pensava che
Shino gli assomigliasse.
“Voi due andreste a
braccetto”, dannata pettegola, ma non lo vedeva che Shino era distante anni
luce da lui? Altrimenti non si sarebbe spiegato perché mai, ogni volta che
aveva l’occasione di essere con lui, non riuscisse mai ad aprire bocca, e si
trovasse sempre con nulla da dirgli, e con la sgradevole sensazione di non
riuscire proprio a sentirsi se stesso. No, non si spiegava affatto. Se Shino
fosse stato come lui, perché mai avrebbe dovuto provare tutte quelle cose
complicate?
- C’è un vento
fresco, stasera. – constatò Shino.
Shikamaru se lo
trovò seduto di fianco, ma non ci fece molto caso. Il ramo era nodoso e troppo
grosso, per pretendere che lui se ne rimanesse in piedi più a lungo, e ad ogni
modo c’era abbastanza posto per entrambi. A patto di stare un tantino vicini.
Si strinse nelle
spalle, e si sfregò le braccia, rispondendo a modo suo alle parole dell’altro.
- Hai freddo? -
- Non troppo. -
- Ma hai le spalle
scoperte. -
- Uhmpf. -
Un fruscio
discreto. Shikamaru scoccò un’occhiata svogliata all’altro ragazzo.
Shino si mise a
giocherellare con una fogliolina verde, appuntita. Concentrato, silenzioso e
deciso, anche nel maltrattare un vegetale inanimato.
- Cosa sei venuto a
fare, qui? -
- Cosa intendi? -
- Mi sono ritrovato
un insetto velenoso sul dito. Non cercare di fregarmi, eri qui da più tempo di
quanto vorresti farmi credere. -
- Allora sono stato
bravo a restare nascosto. -
- Fossi in te non
mi monterei la testa, io sono una frana ad accorgermi degli altri. -
- Però ti sei
accorto di una falena, molto prima che ti raggiungesse. – Shino sorrise
sagacemente. – Non cercare di fregarmi nemmeno tu, Shikamaru. –
… Maledizione a
Ino.
Shino arricciò la
foglia lungo la sua linea verticale, facendone una specie di imbuto. Shikamaru
lo osservò con la coda dell’occhio, lo guardò piegare attentamente i lembi
della fogliolina verso l’esterno, e improvvisamente seppe perché lui era lì.
- Prendila, è per
te. –
Si schiarì la voce.
– Prendila, se la vuoi. –
Altra goccia di
sudore.
Volò un po’ di
tempo, mentre Shikamaru pensava, fra sé, al senso di quel gesto. E alle sue
conseguenze, probabilmente imprevedibili, sicuramente complicate. Raccolse la
fogliolina di Shino con la mano sinistra, cercando di mantenersene a distanza.
Ma la neutralità e l’indifferenza se n’erano andate come fili di fumo, e Shino
lo aveva incastrato lì, su un ramo abbastanza robusto per entrambi, ma troppo
piccolo per impedire alle loro gambe di toccarsi.
- Shika. –
Il suo permettersi
beffardo di storpiare il suo nome, come se ne avesse diritto, e quella voce
che, chissà perché, poi, finiva sempre con lo spingerlo a chiedersi come
potesse essere, appoggiare una guancia contro il suo impermeabile.
Chissà se gli
sarebbe bastata qualche parola modulata con più accortezza, per farlo perdere
oltre, per costringerlo a chiedersi se un suo abbraccio fosse morbido, se si
sentisse qualcosa, e cosa ci fosse sotto, sotto Shino, dietro gli occhiali e
sotto l’impermeabile.
Voleva saperlo, ne
era certo. Ne era consapevole, e quasi rassegnato.
- C’è una strana
tensione, fra noi. – ammise.
- Lo so. – sospirò
Shino, pigramente. – La sento anche io. –
- Riesci a
riconoscerla? –
- Tu? –
Shikamaru sbuffò,
irritato, e Shino raccolse con calma le ginocchia in grembo. Non sembrava
affatto toccato dalla fastidiosa consapevolezza che stare lì, insieme, in quel
modo, fosse tremendamente difficile.
- Toccami. – disse
all’improvviso Shikamaru.
Shino inarcò un
sopracciglio. - Che cosa? –
- Mi hai sentito. –
Shino si aggiustò
gli occhiali sul naso. Shikamaru intercettò il suo gesto, e sorrise sornione.
Forse, dopotutto, nemmeno lui era poi così tranquillo.
- Perché dovrei? –
- Perché è l’unico
modo. Lo sai anche tu, non sei uno stupido. –
–La tua
intelligenza è davvero irritante. –
- E tu ne stai
fuggendo? –
Shino sorrise sotto
l’impermeabile, tese di nuovo in avanti una gamba, lasciandola ciondolare
pacificamente sul vuoto, e sollevò un braccio verso Shikamaru, quasi nello
stesso modo in cui lo aveva fatto per la falena. Shikamaru stette ad
osservarlo, guardingo, ostentando la sua diffidenza con le labbra sottili
arricciate.
- Allora? –
Shikamaru trasalì,
e mentre lo faceva indugiò sulla gola di Shino. Le conseguenze che sarebbero
derivate dal toccare Shino lo preoccupavano, e parecchio. Innanzitutto da un
punto di vista pratico.
– Non…? –
- Non ti
attaccheranno, rilassati. –
Shikamaru si morse
un labbro. – Non amo troppo gli insetti. – disse soltanto.
- E io non amo
troppo le ombre. Allora, la prendi o no, questa mano? –
Sì, Shikamaru la
prese. A quel punto, non avrebbe comunque avuto altra scelta. La scoprì calda,
e peggio ancora scoprì se stesso imbarazzato. Per la mano calda, e perché
quella mano calda era di Shino. Era tutto confuso e complicato, come se l’aria
di quel primo autunno gli avesse soffiato sul palmo, impregnandolo della sua
propria consistenza. Forse, se avesse avuto la possibilità di controllare, si
sarebbe accorto che quella mano aveva persino l’odore, dell’autunno.
- Cosa ne pensi,
adesso? –
- Beh, io… -
Un mucchio di
parole, di nomi che indicavano cose, lì, ammucchiati nella sua gola secca.
- Non saprei. –
- Non sai. Va bene,
allora non so nemmeno io. –
- Non è divertente.
–
- No, non lo è, hai
ragione. –
La mano di Shino si
strinse con calma attorno a quella di Shikamaru, senza invadenza.
- Capita poche
volte, che ai miei insetti piacciano le dita di qualcun altro. – mormorò,
pensieroso.
- E a te? – Shikamaru
ingoiò un po’ di saliva e di aria. – A te piacciono le mie dita? –
Un movimento
fluido, un brivido fresco di foglie ancora vive. La bocca di Shino che sfiorava
le nocche, e i polpastrelli, su e giù, lentamente.
- Capisco. –
soffiò. – Le tue dita sono particolari. –
- Particolari? –
- Morbide. –
Un guizzo. Gli
occhi di Shino dovevano essere vivi, dietro le sue lenti. E attenti su di lui.
Le sue labbra lo sfiorarono di nuovo, sulla punta delle dita, stavolta.
Era un bacio,
quello?
Shikamaru sentì un
calore morbido come quello della luce del sole risalire lungo le dita, fino al
polso, al braccio, e disperdersi in brividi dorati lungo la schiena.
- Shino…? –
Shino posò un dito
sulle labbra appena aperte di Shikamaru, zittendolo.
- Morbide. –
ripeté. – E profumate. È per questo che ti ha trovato senza il mio aiuto.
Sarebbe venuta da te in ogni caso. È strano, non trovi? –
- Trovo che tutto
quanto sia strano. –
- Hai ragione. –
Shino parlava nascosto dalla sua giacca, Shikamaru non poteva più vedere le sue
labbra. E improvvisamente, ne ebbe voglia. – Però non posso fare a meno di
pensare che sia ironico, che tutto ciò che mi appartiene venga sempre e
comunque in cerca di te. Che io lo voglia o meno. –
Le lenti degli
occhiali brillarono di nuovo. Shikamaru vi scorse all’interno il riflesso di
alcune stelle, come se fossero state comete che si muovevano in un cielo tondo
e nero. Poi vide molto meno, perché i suoi occhi faticarono a mettere a fuoco
il volto troppo vicino di Shino. Sentì un sacco di altre cose, però, in
compenso: un sapore sapido e piacevole, e un odore di autunno impregnato dalle
note leggere di un’acqua di colonia.
E questo? Questo
era un bacio?
Shikamaru aprì gli
occhi, e Shino era ritornato al suo posto. Ma il sapore di quelle sensazioni
era ancora lì, steso come burro sulla pelle delle sue labbra. Che erano rimaste
tiepide.
- Shino…? –
- Già. –
Shikamaru sbatté le
palpebre. - … “Già”? Che razza di risposta sarebbe, “già”? –
- Non lo so. Che
razza di domanda sarebbe, “Shino”? –
Colpito e
affondato. Pareva proprio che Shino avesse il singolare potere di farlo a fette
anche in giochetti come questi, in cui di solito trionfava alla grande.
Oh, al diavolo, al
diavolo tutto. Shikamaru sbuffò, e piantò i gomiti sulle gambe di Shino, per
baciarlo di nuovo. A quel punto, tanto valeva andare fino in fondo.
Maledizione e
stramaledizione a Ino.
ANGOLINO!
Questi due… Brrr,
li adoro! E secondo me, se si mettessero uno di fronte all’altro in una partita
a scacchi, non la terminerebbero mai.
… Oppure
finirebbero con il mandare all’aria la scacchiera e il tavolo, e saltarsi
addosso! ^__^’
Fra l’altro, spero
di non ritrovarmi mai nella situazione del povero Shikamaru, visto che se
qualcuno provasse a corteggiarmi mandandomi dietro falene, potrei svenire
all’istante e piombare giù dall’albero come un sasso… -___-
Un grazie di cuore
a tutti!
Artemisia: huhu,
certo che metto Neji di mezzo, cara! Che ci vuoi fare, se è il personaggio più
incredibile e meraviglioso? Neji è SEMPRE in mezzo! Sì è vero, l’ho fatto più
“maturo”, perché,
anche se non si capisce chiaramente, l’ambientazione della fic è una sorta di
futuro remoto e indefinito, in cui si fronteggiano due persone bene o male
cresciute. Ma sicuramente tornerò anche su molti altri aspetti di Neji. E il
work in progress continua, ho avuto un’idea che spero ti piacerà…
Ka_chan91: che
bello, un’altra amante della coppia, io per questi due vado in visibilio
completamente!
Marchesa: il vento
è sempre un’ottima scusa per tutti, se la può usare Neji, puoi farlo anche tu!
Kagchan: beh, se
non avevi mai pensato a questa coppia, allora spero che la shot ti abbia aperto
un nuovo possibile orizzonte! Ne verranno sicuramente delle altre su di loro,
più avanti!
Little Star: mio
amore, sei qui anche tu? Oh che bello, solo a leggere il tuo nome mi viene
voglia di intavolare un bel discorso su Draco e Harry… Ma ci tratterremo per
l’altro fandom! Beh, e secondo te io, proprio io, mi asterrei dallo scrivere
qualcosa su Gaara? Huhuhuhu, lo sai che ho una passione per i folli… Dai, dai,
dai, dammi un consiglio, con chi lo piazziamo? Si accettano proposte varie e
fantasiose, tanto lo sai che ci sguazzo alla grande!
Feda: inusuale?
Sniff, io voglio che quei due diventino canon!!! *__* chiedo troppo, vero? Ah,
povero il nostro Neji, per una volta messo al tappeto senza nemmeno combattere…
Sono contentissima che ti sia piaciuta, grazie mille!
Daidouji: spero di
migliorare eventuali forzature, e intanto ti ringrazio molto per i complimenti!
Non so proprio cosa farci, io Sasuke e Neji li vedo come il pane e la Nutella
(ehm… che paragone infelice -___-), sto anche lavorando ad una longfic su di loro…
Temari è il
personaggio femminile che apprezzo di più in assoluto, qualcosa su di lei era
doveroso!
Kankuro incrociò le
braccia con risolutezza. – Sono qui da stamattina, e tu mi hai a malapena
guardato in faccia. –
Nessuna reazione,
sull’altro lato del divano.
Faceva caldo,
davvero molto caldo, sembrava quasi di essere a Suna. E dire che il clima era
una delle poche cose che gli facevano digerire Konoha.
- Mi vuoi spiegare
una buona volta perché ce l’hai con me? -
Uno sguardo astioso
e risentito investì Kankuro, che si difese distogliendo il proprio con stizza.
- Che c’è, vorresti
farmi paura? Ti prego, sei penoso. Non so davvero perché perdo tempo a cercare
di costruire qualcosa con te, quando qualunque altra cosa sarebbe più
produttiva che parlare all’aria, come sto facendo. E non credere che mi importi
qualcosa, se mi odi. Ormai sono qui, e tu non ci puoi fare niente. Sono
spiacente di deluderti, ma non sei tu a decidere che cosa devo fare, dove devo
andare e perché. –
Una smorfia
risentita, e persino un po’ addolorata.
Kankuro si morse un
labbro, ma decise che a quel punto tanto valeva andare fino in fondo.
- Mettiamo le cose
in chiaro, una buona volta. – affermò. – Io e te non riusciamo ad andare
d’accordo. E allora? Cosa vogliamo fare, comportarci da persone civili, o
continuare ad azzuffarci ogni volta che ci vediamo? Credi che ignorarci sarebbe
una soluzione? Tanto lo sai benissimo che tornerò a Konoha altre volte. L’ho
sempre fatto, e continuerò a farlo, ed ogni volta io e te ci riduciamo così, a
ringhiarci contro. Sono stanco, lo sai? Di te, e di questo tuo atteggiamento
strafottente, come se tutto ti fosse dovuto, come se io dovessi inginocchiarmi
a te ogni volta che metto piede qui. -
Un mezzo ringhio
minaccioso e terribilmente serio.
- Ne ho abbastanza
di te! – sputò Kankuro. – Credi che mi lascerò trattare così da te? E non mi
sfidare, non provare a guardarmi a quel modo. Non sai contro chi ti stai
mettendo. -
Kiba strinse i
pugni, e si preparò a fare a pezzi Kankuro.
– Ti muovi a venire
a letto? – Ringhiò, affacciandosi dalla porta della camera e stropicciandosi
gli occhi – Sto morendo di sonno. -
- Non mi alzo da
qui finché non avrò ottenuto il rispetto che merito. -
- Hai tutto il fine
settimana per litigare con Akamaru. Dai… -
- Scordatelo. -
Kiba gemette per
l’esasperazione, per la testaccia più dura del cemento del suo compagno, e per
il sonno atroce che lo affliggeva.
- Akamaru, sii
ragionevole, almeno tu. -
Il cane sollevò
fieramente il musino, e per tutta risposta raspò contro Kankuro con le zampe
posteriori.
- Lo hai visto? –
esplose Kankuro, indignato. – Dannato cagnaccio, adesso io… -
Kiba roteò gli
occhi. - Akamaru, vergognati, non si tratta così un ospite. -
La smorfia di
Kankuro mutò all’istante in un sorrisetto antipatico e trionfale, dedicato
tutto al piccolo cagnetto ignobile.
- … E tu, non
credere di essere da meno. Si dà il caso che quello sia il mio cane, e tu gli
devi lo stesso rispetto che devi a me! -
Di nuovo smorfia.
Kiba contemplò con
rassegnazione il suo cane e il suo compagno, che si fronteggiavano fieramente
sul divano, scoccandosi occhiatacce avvelenate degne di due nemici giurati. O
di due megere nevrotiche.
Conosceva almeno
tre o quattro persone, nel villaggio, che avrebbero pagato, per assistere ad
una scena del genere. E forse, ne conosceva una anche a Suna. Una certa
sorellina con i codini a stella. Ma dover sopportare in prima persona le
interminabili contese fra Kankuro e Akamaru, invece che starsene tranquillo a
godersi lo spettacolo masticando patatine, era tutta un’altra storia.
Kankuro calcolò con
attenzione la sua prossima mossa, perché, considerando l’ora, la situazione, e
lo stato comatoso di Kiba, quella sarebbe stata anche l’ultima.
- Sai una cosa,
Kiba? – sibilò con una certa malizia. – Forse potrei portare rispetto al tuo
cane soltanto se tu lo facessi trasformare in te. Chissà, potrebbe essere
un’esperienza interessante… -
Kankuro lasciò
scendere un silenzio in qualche modo teatrale, dopo le sue ultime parole. E fu
sicuro di aver fatto centro quando il volto di Kiba cominciò a perdere
gradualmente colore.
- Cooos… Kanku… Io…
Non… Ehh? -
Kiba cercò di
mettere insieme una risposta adeguata, ma senza troppo successo. Ma che razza
di idee aveva per la testa, il suo ragazzo? Si stava forse prendendo gioco di
lui? La sua stanca, stanchissima mente, cominciò a produrre una serie di
immagini assolutamente poco adeguate alle circostanze, ma che vantavano delle
strepitose inquadrature del broncio di Kankuro che si deformava lentamente,
molto lentamente, in uno spasmo offuscato. Quel vigliacco perverso,
gliel’avrebbe fatto vedere lui, chi era l’uomo e chi era il cane, in quella
casa!
Kankuro si premurò
di nascondere il suo ghigno soddisfatto quando Kiba, in barba al sonno e alla
massa minore, lo artigliò e se lo caricò sulle spalle, per poi dirigersi a
barcollante passo di carica verso la camera da letto.
Dal divano, un
cagnolino bianco studiava con espressione rassegnata la scena. Il povero
Akamaru si stirò con tutta comodità sul divano, ficcando preventivamente la
testolina sotto un cuscino. Quando c’era Kankuro per casa, il suo padrone perdeva
completamente la bussola. Prendeva a scodinzolare peggio di un barboncino
qualsiasi, andava sempre a chiudersi in camera con lui, e lasciava lui fuori da
solo, sul divano. E per almeno un’ora, non c’era verso di dormire.
… Oh no, ecco che
cominciavano, come al solito.
Ma perché Kiba e
quel muso da gatto dovevano sempre fare un baccano infernale, là dentro?
*
Kankuro allargò
lentamente le braccia, e si trovò posto sul petto nudo di Kiba. Il suo respiro
grosso e ringhioso era meravigliosamente rilassante, un vero balsamo per i
sensi ancora intorpiditi. Kankuro non aveva dubbi circa il fatto che se Temari
avesse saputo quanto adorava usare questo tipo di subdole strategie con Kiba,
lo avrebbe definitivamente consacrato alla razza felina. Ma probabilmente
prima, da brava sorella, sarebbe svenuta rantolando parole a caso circa i suoi
gusti assurdi. Qualcosa come “perché proprio lui, perché?!?!?”
Kiba lo abbracciò
pigramente, e Kankuro sorrise fra sé. Poteva sentire tutto il suo sonno, la sua
spossatezza e il suo appagamento dal modo in cui ansimava fra i suoi capelli
scompigliati. Ed era magnifico, era come se ogni cosa fosse al posto giusto,
come se finalmente, anche per lui, ci fosse spazio per i sogni.
Chiuse gli occhi
senza avere voglia di dormire; con un po’ di fortuna, sarebbe riuscito a
sentire Kiba addormentarsi prima di lui, e a godersi qualche minuto di
delizioso e avvolgente calore.
- Caiii! -
Kiba si rizzò sulla
schiena di getto.
- Non ci provare. –
sibilò Kankuro, senza degnarsi di muoversi. – Non ho intenzione di dormire con
quel sacco di peli nel letto. -
Sentì Kiba esalare
un gemito sofferente ed esausto.
- Hey, con il tuo
padrone ci dormo io, è chiaro, cagnaccio? -
- Grrrrr… -
Kankuro assottigliò
lo sguardo, e fece una linguaccia alla porta chiusa.
- Vattene a cuccia!
-
- Akamaru, vai a
dormire, da bravo. Domani ce ne andiamo a correre al fiume, promesso! -
Nel silenzio della
stanza, Kiba riuscì a percepire lo scodinzolio di Akamaru, e si lasciò di nuovo
scivolare all’indietro, confortato.
- Hai sentito,
piccola iena? Fila a dormire e lasciaci in pace! -
- Grrr… -
- Non ti vogliamo
qui, sei di troppo, e puzzi! -
- Grrr… -
- “Grrr” a me?!? -
- Kankuro,
finiscila! -
- Che cosa?!?!? -
- Grrr! -
- Akamaru, anche
tu! -
Kiba sospirò,
sconfitto, e si buttò un braccio sulla faccia. Era inutile, non c’era proprio
niente da fare.
Le due belve della
sua vita non sarebbero mai andate d’accordo.
ANGOLINO!
Ok, ho scoperto di
adorare Kankuro. Beh, questo Kankuro, per lo meno! ^^
Marchesa: Grazie
per gli auguri! >333<
Shino si vede poco,
hai ragione. Però Shino è… sexy! Oh sì, io sono per la riabilitazione dei pg
incompresi, e soprattutto per tirare fuori il peggio di loro!
Feda: ma tu mi
onori sempre di più, come posso ringraziarti? No, brutta cosa, quando ti si
ingarbuglia tutto nella gola. Soprattutto se davanti a te hai un paio di
occhiali da sole che ti fissano ^^’. Sono proprio felice che lo stile e la
trama si adattino a loro, non sono personaggi semplicissimi, povera me!
Kagchan: sì lo so,
non ci aveva mai pensato nessuno, però io li amo!!! >__<
Artemisia: guarda,
diciamolo chiaro, io non ho nessun merito per la shot, sono Shikamaru e Shino a
essere sensuali al massimo già di loro! Oddio, io ho una paura folle delle
falene, spero di non ritrovarmi mai nei panni di Shikamaru, sarebbe tragica…
Però forse per Shino potrei anche cercare di non svenire rovinosamente… ^^
Huhuhuhu, dai che
pian piano ti convinco che le yaoi sono fantastiche, in fondo che male c’è a
spaziare un po’ fra vari generi?
Ah, Neji, Neji… ci
intendiamo alla perfezione, lui è il non plus ultra!
Chiara: addirittura
sulla punta della sedia, allora spero di riuscire a continuare così, grazie
infinite!!!
Little Star: non ne
parliamo, io sono entomofobica, qualsiasi genere di insetto mi manda nel panico
più nero. Oddio, metti che se Shino si offrisse di darmi una mano in tal
proposito potrei sforzarmi di avvicinarmi ad una formica, ecco… ma poi pretendo
un bel premio!!!
Ti ho mandato una
mail, prova a controllare se per sbaglio ti è arrivata, sarà nella posta
indesiderata come al solito…
Con un Kazekage
così austero, non ci si poteva certo aspettare fuochi d’artificio ogni
settimana.
Le rare occasioni
in cui il palazzo del villaggio si trasformava in un gigantesco salone da ballo
erano quelle in cui Temari riusciva a spuntarla sul fratellino.
O a esasperarlo, a
seconda di come si vuol vedere la situazione.
Gaara, da qualche
tempo a quella parte, era strano. E l’impressione che ciò avesse in qualche
modo a che fare con Konoha rendeva Temari particolarmente vigile, e Kankuro un
po’ più collaborativo.
Konoha era
un’alchimia unica di soggetti strani, ma, Temari doveva ammetterlo, fra essi ce
n’erano alcuni più che degni di attenzione. O almeno, che evidentemente meritavano
l’attenzione e i silenzi del fratello.
- Gaara ci
ucciderà, quando verrà a scoprire che abbiamo invitato i ninja della Foglia
senza dirgli niente. – borbottò Kankuro.
- Vorrà dire che
staremo attenti a frequentare solo posti con molti testimoni, finchè non gli
sarà passata. -
- Sul serio, non so
se sia una buona idea. -
Temari piantò i
gomiti sul letto del fratello, e si trascinò svogliatamente verso di lui.
- Voglio fare
qualcosa per lui. – disse con decisione, osservandolo attraverso lo specchio
che stava usando per truccarsi.
- Gaara non ha
bisogno che tu faccia qualcosa per lui. -
- E invece sì. Da
quando è finito il suo incubo, è sempre più solo. Non hai anche tu
l’impressione che venga a cercarci più spesso? -
Kankuro le scoccò
un’occhiata corrucciata con l’occhio aperto che ancora non aveva dipinto di
viola.
– Beh, ogni tanto
viene qui, a chiedermi come va, e di Kuroari e Karasu. – ammise. – Non si era
mai interessato alle mie marionette, prima. –
Temari inarcò un
sopracciglio. – Lo vedi? –
- D’accordo,
d’accordo, ma non capisco come questo possa giustificare una festa con quelli
di Konoha. -
- Gaara non è in
grado di gestire una cosa del genere da solo, ha bisogno di essere
incoraggiato! -
- Sarà, ma non
credo che una festa sia la soluzione più adatta. -
- Bah, come sei
distruttivo. – si imbronciò Temari. – Non posso mettermi ad invitare a pranzo
tutte le ragazze di Konoha, e sperare di riuscire a capire quale gli interessa!
Sarebbe perlomeno sospetto, non ti sembra? –
- Magari non è una
ragazza. – insinuò Kankuro, mordendosi la lingua con espressione concentrata,
mentre ritoccava le ultime righe sul naso.
- Allora peggio
ancora. I ragazzi sono molti di più. –
Kankuro aggrottò le
sopracciglia. – Però, che spirito pratico. – Fece, ammirato. – Credo che mi
farebbe uno strano effetto vedere Gaara con un ragazzo. –
Temari sospirò. – A
me farebbe un buon effetto vederlo felice, una volta tanto. –
Kankuro posò i
pennello del trucco. – Beh, allora fa solo che non sia Uzumaki. – bofonchiò. –
Tutti ma non lui. –
*
Gaara non la prese
troppo bene.
Ci sono cose che un
estraneo non nota, specialmente se si tratta di Gaara. Tremolii delle labbra,
le pupille che si stringono, i denti che digrignano in assoluto silenzio.Ma una
sorella se ne accorge sempre.
Temari era davvero
un’ottima stratega, e trascinare entrambi i fratelli ad accogliere il gruppo di
ninja della Foglia, arrivati tutti insieme fu decisamente un’idea vincente. Un
sacco di testimoni molto scomodi, in caso di tentato fratricidio, e allo stesso
tempo la possibilità di impedire a Gaara di protestare alcunché, non davanti a
tutti loro.
Mentre salutava con
calore Sakura, Temari scoccò un’occhiatina di sottecchi al fratello.
E lo vide immobile,
impalato, con gli occhi tanto spalancati da tremare. Guardava chissà chi,
accidenti, uno dei tantissimi rimasti dietro di lei; ma non c’era fretta,
avrebbe avuto una serata intera per scoprirlo.
D’accordo, poi
probabilmente avrebbe dovuto passare le prossime cinque o sei notti in esilio,
assieme a Kankuro, ma almeno adesso aveva la certezza che ne sarebbe
sicuramente valsa la pensa.
Ammiccò in segno di
intesa al fratello marionettista. – Bene, che la festa abbia inizio! –
*
Gaara occupava il
posto a capotavola, perciò era quasi impossibile non notare che non aveva
praticamente toccato cibo.
E ciò poteva essere
un segno ottimo, o pessimo, a seconda della prospettiva che si prende in
analisi. Temari dovette ricordare sé stessa più volte che il Gaara in preda
all’emozione di quella sera non era più il Gaara di qualche tempo prima.
Non era più un
mostro pericoloso ed esplosivo, non era più una minaccia, non nel modo
irrazionale che era stato, per sé stesso e per tutti. Quella sera, davanti a
quelle persone, e ad una in particolare, era soltanto una ragazzo come tanti
altri, alle prese con sensazioni nuove. A ben guardare, c’era qualcosa di
immensamente tenero, nel vederlo così, tutto raggomitolato su sé stesso,
spaesato e confuso.
Vicino a lui si era
piazzato Naruto, bontà divina, e niente e nessuno lo avrebbe più fermato dal
parlare come una pioggia di shuriken impazziti.
Kankuro ogni tanto
gli scoccava qualche occhiata preoccupata, e Temari indovinò che probabilmente
dentro di sé stava cercando di rassicurarsi stesso sul fatto che Gaara non
avrebbe mai potuto sopportare uno come lui per più di un’ora o due. Sembrava
davvero, davvero terrorizzato dalla prospettiva di ritrovarsi Naruto Uzumaki
per casa.
Comprensibile, in
effetti.
Alla destra di
Naruto, si era seduto Sasuke Uchiha. Temari si era fatta un’idea abbastanza
precisa su di lui, e la sua idea constava nell’appurare che, per quanto si
potesse dire di quel Sasuke, per quanto popolare fosse, per quanto il suo nome
fosse sempre sulla bocca di tutti, alla fine dei giochi lui non aveva che
Naruto. E si vedeva, si sentiva nell’aria, in certi momenti lo si riusciva
persino a respirare.
Non erano affari
suoi, e lei non era intenzionata a farseli, ma se per caso Gaara fosse stato
infatuato di lui, sarebbe andato quasi certamente incontro ad una delusione.
Di fronte a Naruto,
si era seduto Shikamaru Nara. Accidenti, e dire che per paura del fratello lei
si era seduta così lontana.
Di fianco a lui,
Sakura, e, un posto più in là, quello strano tipo, Rock Lee. Si era seduto di
fronte al suo compagno di squadra, Neji Hyuga.
In quel ristretto
gruppetto di sei commensali che potevano parlare con relativa comodità con
Gaara, Sakura era l’unica ragazza, e lei era sicura che Gaara non avesse
fissato lei, al loro arrivo. Non aveva bisogno di altre conferme, il nervosismo
quasi tangibile di Gaara era sufficiente a farle individuare con certezza che
la ragione di tanta agitazione doveva trovarsi lì fra loro, a portata di mano.
Temari sospirò, e
decise di aggiungere alla preghiera di Kankuro, la sua: non Shikamaru. La
situazione sarebbe potuta precipitare disastrosamente. Per favore, tutti ma non
lui, tutti ma non Shikamaru. E Uzumaki, mi raccomando, oppure Kankuro si
sarebbe autoesiliato da Suna.
- Hey, Gaara,
dovresti mangiare un po’ più ramen, sai? -
- Lascialo in pace,
Naruto. -
- Ma scusa, che ho
detto di male, Sakura? Non sembra anche a te che sia un tantino troppo pallido,
per uno che vive in mezzo al deserto? -
- Non c’è niente di
male nell’essere pallidi. -
- Parli così perché
anche tu sembri un morto, Neji! -
- Ha ragione
Naruto. -
- Hey Lee, ti ci
metti anche tu, adesso? -
Stop.
Gaara aveva
piantato gli occhi nel suo piatto mezzo pieno. Sembrava caduto in catalessi, e
questo poteva significare soltanto una cosa. Escludendo a priori Sakura, quella
reazione poteva essere stata scatenata soltanto da uno dei tre che aveva appena
parlato.
Naruto, Neji e Lee.
Temari sorrise.
Questo gioco cominciava a piacerle da morire e chissà, forse anche Shikamaru ci
si sarebbe potuto appassionare. A ben vedere, assomigliava ad una partita in
cui, pedina dopo pedina, alla fine sarebbero dovuti restare in gioco soltanto i
due re.
Un re biondo, un re
moro, un re strano. Il cerchio si stringeva, e lei sapeva esattamente come
fare, per dare la giusta spintarella alla mossa successiva.
*
- Beh? Allora? -
Temari scosse la
testa, e cercò di sfuggire allo sguardo di rimprovero di Kankuro.
Stupidamente, non
aveva fatto per niente i conti con un particolare: il fatto che Gaara potesse
essere innamorato/attratto/interessato a qualcuno, non sottintendeva affatto
che il suo sentimento fosse ricambiato.
Nessuno, lì, doveva
nulla, a Gaara del Deserto, nulla di più di un salutare rispetto fra alleati,
di una buona amicizia, magari. E Gaara rischiava così di finire dritto contro
un muro di cemento, al suo primo, impacciato tentativo di scoprire cosa
significasse avere un cuore.
Appena terminata la
cena, Temari aveva condotto personalmente, ed orgogliosamente, i suoi ospiti
nel salone da ballo più grande del palazzo, quello in cui, fino a non molto
tempo prima, si celebravano i matrimoni più importanti, unioni che
significavano alleanze e pace.
Lei aveva sperato
che potesse essere di buon augurio.
Kankuro, da bravo
pessimo ospite qual’era, si era subito buttato sul ponch, in compagnia di
Naruto, Lee e Choji.
Sakura aveva
trascinato Ino in mezzo alla pista, e si era messa a ballare con lei,
scherzando rumorosamente. Il tipico atteggiamento di chi vorrebbe con tutto il
cuore ricevere un invito. Segnali che con ogni probabilità sarebbero caduti nel
vuoto.
Neji stava
parlottando sottovoce con Sasuke e Kiba, Shino e Shikamaru avevano fatto
comunella davanti ad una delle tre porte finestre che davano sulla terrazza del
salone, e a lei non era rimasto che osservare Gaara, rimasto solo, in disparte,
come sempre. Sarebbe andata volentieri da lui a fargli compagnia, gli avrebbe
persino chiesto scusa per averlo messo in una situazione che lo confondeva e lo
imbarazzava, ma a questo punto tanto valeva aspettare, e vedere se si riusciva
ad andare in fondo alla faccenda. Proprio non riusciva ad orientarsi in mezzo
alla confusione, e per confusione era da intendersi la presenza di anche solo
una persona con cui lui non fosse già in stretta confidenza. Non riusciva a
conversare, e povero lui, non riusciva nemmeno a fingere indifferenza. In
quell’angolino, come se fosse alla costante ricerca di un po’ d’ombra, Gaara
sembrava tornato indietro di anni, sembrava il bambino che non era mai stato,
quello che cerca la gonna della madre, per aggrapparvicisi e nascondere
imbarazzato la testolina.
Temari si incamminò
pigramente verso il tavolo dei rinfreschi, con due obiettivi: sigillare la
bocca a Kankuro prima che si scolasse tutta la riserva di liquori del palazzo,
e bere abbastanza gin da convincersi a buttarsi in pista con Sakura e Ino.
Gaara non si
sarebbe mai esposto, per nessuna ragione al mondo. Ma forse, con un po’ di
fortuna, si sarebbe tradito.
*
- Hey, Gaara. -
Gaara volse la
testa di quel poco che bastava a raggiungere il suo interlocutore con gli
occhi.
Rock Lee gli mise
sotto il naso un bicchiere mezzo pieno di un liquido color rosso chiaro.
- Non è la prima
volta che ti vedo ubriaco. – mormorò monocorde.
- Non sono affatto
ubriaco. – si difese Lee. - Dai, assaggia, è buono! -
Gaara si prese
qualche istante per osservare il ninja della Foglia, prima di accettare il
bicchiere. Lo sorbì tenendolo con una reverenza che non meritava, come se fosse
stato sakè, oppure un buon tè, sotto gli occhi attenti di Lee, che non esibiva
il suo consueto sorriso scintillante. Sembrava stranamente quieto.
- Allora, ti stai
divertendo? -
- No. -
- Già, lo
immaginavo. -
Lee abbozzò uno
sguardo calcolatore. – Vuoi ballare? –
Succedeva molto
raramente che Gaara si sentisse spiazzato. Beh, quella era una delle rare
volte.
- No. – rispose
atono.
- Perché no? Non ti
piace? -
- No. E non so
farlo. -
Lee reclinò la
testa. – Allora vieni con me. –
- Dove? -
- Qui fuori sulla
terrazza. -
Gaara non usciva
quasi mai su quella terrazza. E dire che era una delle più belle del palazzo,
famosa in tutto il villaggio per la splendida vista che si godeva da lì.
Esattamente al centro della mezzaluna che costituiva il terrazzo, affacciandosi
e guardando dritto davanti a sé, si scorgeva il deserto, oltre le palme e le
magnolie del giardino del palazzo. Suna era ben protetta su ogni lato, ma molto
spesso il deserto era una fortificazione sufficiente da solo, senza bisogno di
ulteriori mura, ed era per questo che il palazzo dava direttamente su dei
cancelli presidiati, ma aperti. La linea di marmo lastricato che serpeggiava
lungo tutti i giardini, accompagnandoli come una cornice, si affacciava
bruscamente sulla sabbia, esattamente come l’erba e gli ultimi cespugli
creavano una marcatura netta oltre la quale si estendeva il regno della sabbia.
Sembrava di essere
in un luogo fatato e lontano, quel genere di luogo in cui sono ambientate le
favole più belle che ci raccontano da bambini.
- Non ho ancora
avuto l’occasione di congratularmi con te. Già Kazekage, così giovane. -
- Non è stata una
mia scelta. Sono stato eletto dal consiglio di Suna -
- Lo so, ma io
credo che sia comunque un onore immenso. Avanti, non metterti a fare il
modesto. Sei il ninja più forte del villaggio, e chissà quanto ancora potrai
migliorare. -
- Migliorerò fino a
quando non avrò raggiunto il mio limite. -
- Ammesso che tu ce
l’abbia, un limite. -
Gaara cercò di
accertarsi che non ci fossero sensi sottintesi, nelle parole di Lee.
- Ti ringrazio. –
mormorò senza eccessivo entusiasmo.
Lee gli regalò un
sorriso dei suoi. - E’ davvero molto tempo che non ci vediamo. Accidenti, avrei
dovuto cercare di venire a trovarti prima. –
- Tu e i tuoi
compagni di Konoha siete i benvenuti, qui. – recitò Gaara. Era una vera fortuna
che lo pensasse sul serio, perché le sue parole non risuonarono eccessivamente
formali.
Lee lo osservò con
una strana sfumatura di divertimento negli occhi. Assomigliava un po’ ad un
fratello maggiore, che guarda il più piccolo muovere i primi passetti, o
sperimentare un nuovo gioco.
– Ti trovo
cambiato. –
- Sì. -
Lee si rigirò
allegramente verso il parapetto. – C’è davvero una bella luna, stasera. –
- Sì. -
- Qui nel deserto avete
una vista privilegiata sul cielo. -
- Sì. -
Lee ridacchiò con
discrezione. – Sei sempre il solito chiacchierone, vedo. –
Gaara discostò un
po’ lo sguardo, infastidito. Non era colpa sua, se non sapeva cosa dire.
- Hey, ti va di
ballare con me, adesso? -
- Non lo so fare,
ti ho detto. -
- Ma qui non ci
vedrà nessuno. -
Lee tese le orecchie
verso la porta finestra centrale, da cui provenivano i rumori allegri della
sala.
– E’ un lento. –
mormorò. – Avanti, è facile. Te lo insegno io, fidati di me. –
Gaara corrugò la
fronte. – Tu sai ballare? – domandò, sinceramente stupito.
Lee lo guardò in
modo quasi scandalizzato, poi sfoderò un sorriso tutto bagliori. – Sono un
allievo del maestro Gai! Certo che so ballare! – esclamò gonfiandosi di
orgoglio.
Gaara non si sentì
troppo rassicurato. Ricordava molto bene il maestro di Lee, era una delle
persone più strane che avesse mai incontrato in vita sua. E se poteva dirlo
lui, significava che quell’uomo era davvero molto, molto strano.
Osservò Lee più
attentamente che potè, e constatò che gli faceva venire voglia di sorridere. Ma
non di quel genere di sorriso egoista che lo animava durante le battaglie più
feroci. Era un sorriso più insolito, un sorriso che gli faceva sentire caldo
alla faccia. Era già successo, le ultime volte che lo aveva incontrato. Ed era
proprio per quel sorriso che si era tenuto il più lontano possibile da Konoha.
Quel sorriso gli
piaceva, ma allo stesso tempo lo faceva sentire tremendamente a disagio.
- Forza, dammi le
mani. – lo incitò vivacemente Lee. – Ecco, mettile qui sulle spalle, così. Puoi
anche farle passare dietro, come preferisci. Ok, ora io metto le mani sui
fianchi, e… Hey, niente sabbia, vero? -
Gaara negò
fermamente con la testa. Se anche Lee avesse inteso scherzare, lui non lo
avrebbe capito comunque.
Non era abituato a
scherzare sulla sua sabbia.
- Bene. Adesso non
ci resta che cominciare a muoverci. -
Gaara strabuzzò
leggermente gli occhi. – E’ un abbraccio, questo. – mormorò, osservando con una
certa rigidità il proprio corpo quasi appoggiato a quello di Rock Lee.
- Beh, più o meno.
– Lee ghignò sornione. Doveva avere bevuto un po’, perché le guance gli si
erano arrossate. – Ma è così che si ballano i lenti. Accidenti, ma non sai
proprio nulla? -
- No. – ammise
Gaara, atono come sempre.
- Beh, poco male.
Allora, dove eravamo rimasti? –
Gaara trovò tutto
molto strano. Ma non particolarmente difficile. Ballare era l’opposto del
combattere. Non ci si muoveva per ostacolare il proprio avversario, ma per
assecondarlo e seguirlo. Eppure il significato di fondo, l’armonia intrinseca,
erano identiche. Si trattava pur sempre di un microcosmo, di una bolla in cui
due persone si rinchiudevano, per affrontarsi nel vero senso della parola, di
stare uno davanti all’altro. Qui, però, la discriminante non era che uno dei
due si arrendesse o morisse. Ora si trattava solo di dipendere da una musica,
dal suo inizio e dalla sua fine, senza doversi occupare di nulla.
Era rilassante,
tanto che Gaara osò appoggiare una tempia alla spalla di Lee e starsene in
silenzio, senza riflettere, lasciandosi semplicemente andare un pochino, solo
un po’.
- Complimenti, hai
davvero talento. – lo motteggiò Lee.
Gaara pensò che
avesse davvero una bella voce, quando parlava così, vicino al suo orecchio.
Rock Lee della Foglia non aveva niente di speciale, niente per cui valesse la
pena guardarlo, e per uno che era sempre stato gravato dagli sguardi di tutti,
per tutti gli anni della sua vita, questo significava molto.
Una canzone era
cambiata, un’altra era cominciata, e Gaara non aveva detto niente. Voleva
fidarsi di Lee, e Lee non aveva accennato a fermarsi, o a cambiare qualcosa.
Erano quasi fermi, ma Gaara ne sapeva talmente poco, di come si fa a ballare,
che non era certo di poterlo far notare a Lee. Non voleva fare brutte figure.
- Devo tenere gli
occhi aperti o chiusi? -
- Come preferisci,
non ha importanza. Chiudili, se te la senti. -
- D’accordo. Allora
li chiudo. -
- Ti piace molto
chiuderli, adesso che puoi, vero? -
- Come fai a
saperlo? -
- Lo immagino. -
- Riesci ad
immaginarlo? -
- Beh, ci provo. La
tua vita deve essere stata qualcosa di tremendo, fino ad oggi. Credo che io, al
tuo posto, avrei preferito morire. -
- Io non ho mai
voluto davvero morire. -
- Lo so. -
- Credi che sia
sbagliato? -
- No, certo che no.
Tu devi seguire sempre ciò che ti dice il tuo cuore, e se il tuo cuore non
voleva morire, allora è giusto così. E poi, se avessi scelto diversamente,
adesso non potrei averti qui. -
- E questo è
importante? -
Non avevano mai
cambiato nulla dei loro pochi movimenti, durante il loro dialogo a mezza voce.
La stessa blanda forza nello stringersi, lo stesso incavo comodo per il mento,
la stessa sequenza semplice di passi.
- E’ molto
importante. -
Qualcuno doveva
aver spento la musica. Lee aguzzò la vista, da sopra la spalla di Gaara, per
cercare di vederci chiaro. Non voleva che finisse tutto così, all’improvviso,
ma qualcuno, dentro il salone, sembrava essere di tutt’altro avviso. Scorse
Sakura che gesticolava furiosamente, e poi l’ombra tutta punte di Naruto fare
capolino, e incassare un paio di pugni. Sasuke venne a trascinarlo via, arrivò
anche Ino, sembrava una faccenda dannatamente lunga.
Se non fosse stato
per una folata di vento impressionante, che spazzò via i contendenti dal centro
della sala.
Gaara si tese.
Si sentì
distintamente il tonfo di qualche corpo che finiva schiantato contro la solida
parete di fondo della sala, e pochi istanti dopo la musica fu ripristinata.
E Gaara si rilassò
di nuovo.
- E’ un po’ di
tempo che balliamo. – constatò Gaara.
- Hai ragione.
Ormai anche questa canzone è quasi finita. -
-E quindi adesso? -
- Beh, adesso… -
Lee si mordicchiò l’interno della guancia. – Sai, a questo punto a molti piace
concludere con un bacio. -
- Davvero? -
- Nnh Nnh. Però lo
si fa soltanto se la persona con cui si ha ballato è speciale. -
Gaara allungò lo
sguardo verso l’interno della sala. – Loro non lo stanno facendo. – accusò,
indicando qualcosa con il mento.
Lee adocchiò Kiba e
Choji che improvvisavano una sorta di valzer sotto lo sguardo compassato di
Shino, e quello rassegnato di Shikamaru, e ridacchiò.
- Ma loro ballano
per scherzo, non sono speciali. – spiegò.
- Io invece lo
sono? -
- Per me lo sei.
Molto. -
- Non voglio più
essere speciale. -
- Ma per me lo sei
in modo diverso. -
Gaara ci pensò su.
Arrancava, in questo genere di cose. Non ne sapeva nulla, e non era certo di
volerne sapere di più, però non ne sapeva nulla nemmeno di ballo, eppure gli
era piaciuto ballare con Lee. Lee era un buon insegnante, e forse imparare
qualcosa di più da lui, su come si vive, non sarebbe stato male.
Il primo bacio che
Lee gli diede, glielo posò sulla fronte, e Gaara ebbe la netta impressione che
lo avesse fatto per permettergli di abituarsi. Gliene fu grato, perché era
davvero moltissimo tempo che non provava il contatto di una bocca.
Il secondo fu un
po’ più vicino, sulla guancia destra. Fu più piacevole.
Il terzo venne
abbastanza spontaneo, sulle labbra. E la sensazione che se ne ricavò dipendeva
direttamente dal suo stato d’animo. Gaara sentì che se fosse stato più nervoso,
arrabbiato, o semplicemente teso, sarebbe stato nauseante e vischioso. Ma non
aveva motivo di sentirsi così, con lui. Gaara si fidava di ciò che provava,
perché aveva sempre vissuto le proprie emozioni senza intermediari, e senza
alcun limite. Se nell’abbraccio di Lee – perché sì, ne era sicuro, adesso si
trattava proprio di un abbraccio – si sentiva tranquillo, era perché era giusto
così.
Il respiro di Lee
era come un carezza morbida, che si insinuava appena sotto il suo occhio,
facendogli venire voglia di tenerlo chiuso. Non sapeva da quanto tempo ormai
erano così, immobili, senza fare nient’altro che sfiorarsi le labbra con
prudenza. Per quanto lo riguardava, non era ancora stanco.
Lee si allontanò
pian piano, e con la mano che aveva tenuto sotto il suo mento fino a quel
momento, gli sfiorò la guancia.
- Sei sempre così
serio. – mormorò. – Non me lo faresti, un sorriso? -
Gaara avrebbe
voluto farlo, ma qualcosa lo convinse che probabilmente non ne sarebbe sortito
niente di più che uno dei suoi ghigni tremendi.
Probabilmente anche
Lee lo capì, perché gli circondò i fianchi e gli prese una mano. E non aggiunse
più niente.
Aveva ragione lui.
C’era davvero una bella luna, quella sera, altissima e fiera. E adesso che non
ne aveva più paura, Gaara se la godeva quanto più possibile, perché non c’erano
più demoni né ego mostruosi, né lotte dentro di lui a distrarlo.
- Potrei stare qui
per una notte intera. – sussurrò Lee.
- Perché? Non
dormi, tu? -
- Sì che dormo.
Però non mi dispiacerebbe guardare le stelle insieme a te. -
Lee spinse Gaara in
avanti di un passo, e appoggiò le mani con cui lo cingeva al parapetto. Gaara
le osservò con la curiosità di chi si trova davanti ad un gesto sconosciuto, e
fatica ad interpretarlo. Lentamente, maldestramente, ci appoggiò sopra le sue,
e provò a saggiare la stretta delle mani di Lee, per assicurarsi di aver fatto
una mossa giusta.
Lee intrecciò tutte
le loro dita, una ad una, e quando ebbe finito si sporse oltre la spalla di
Gaara.
Sorrideva.
*
Eh sì, ci sono cose
che un estraneo non nota, specialmente se si tratta di Gaara. Occhi che
riflettono, per una volta, la luce del cielo, la pelle del volto rilassata,
un’espressione inedita, e le gambe molli.
Ma una sorella se
ne accorge sempre.
Temari strappò il
bicchiere di ponch dalle mani di Kankuro, e lo sostituì con un ghigno
vittorioso.
- Puoi rilassarti,
fratellino. – insinuò. – Pare proprio che non sia Uzumaki. –
ANGOLINO!
Eccoci con una
delle coppie più “canon” XD dello yaoi. Anche la prossima, con ogni
probabilità, lo sarà, ma non c’è da preoccuparsi, le mie sperimentazioni
continuano…
Kagchan: si è
notata la mia passione per le coppie strane, eh?
Chiara: sono
d’accordo, Kankuro e Kiba hanno un sacco di sfumature che si possono trattare!
Marchesa: allora
scommetto che questa e le prossime fic ti piaceranno, si va decisamente sui
classici! E su Gaara sto lavorando molto…
Artemisia:
felicissima di riuscire a dare un minimo di originalità ai personaggi, tanto
Kishimoto basta e avanza per la storia!
Little: ti ho scritto
apposta, attendo una tua risposta!
Feda:
assolutamente, ti voglio viva e vegeta, invece! Hihihi, in questo fandom con le
coppie ci si sbizzarrisce, non so più da che parte voltarmi!
Aiame: ehm, gran
bella visione sì, concordo in pieno! ^_^
Grazie anche per la
recensione su Neji/Sasuke, e dire che mi prendono per pazza, quando predico che
quei due sono perfetti! Kakashi/Sasuke non è affatto male come idea…Mumble…
Qualche goccia
d’acqua sulla finestra. Credo che piova almeno da una buona mezz’ora, ormai, ma
tanto tu non la sentirai nemmeno, occupato come sei a rivoltarti nel tuo letto
come un pesce sulla brace.
E dire che mi sei
persino simpatico, in questo momento. Voglio dire, d’accordo, non mi permetti
di chiudere occhio, e probabilmente entro l’alba ti avrò strozzato per
esasperazione, ma al momento mi vai più che bene così. Forse sono io ad essere
troppo abituato al silenzio della mia casa, e dividere una stanza con qualcuno
non può farmi che bene, in questo senso. Immagino di avere bisogno di sentire
un po’ di vita, vicino a me, qualche volta.
Anche se quella vita
sei tu.
- Naruto. –
- Mmm. –
- Hey, Naruto. –
- Mmm. Mmmh. –
- Smettila di
agitarti. –
- Maestro Kakashi…
-
Ok, stai dormendo,
e non ci sarà verso di svegliarti senza usare le maniere forti. Ma io domani
voglio riuscire a reggermi in piedi per la missione, e se spero che tu ti metta
a dormire tranquillo, posso anche vendere la mia anima all’inferno. Se soltanto
avessi un compagno meno assurdo di te, potrei occuparmi dei miei allenamenti,
invece di doverti sempre fare da balia. Dannazione, con il tuo assurdo modo di
essere riesci a far sentire uno stupido me.
- Mmmh, Ramen… -
- Chiudi il becco.
-
- Nnnnh. -
- Naruto?!?! -
- Naaaaa, dannato
girino. -
E va bene, te la
sei voluta tu.
Hop.
Ok, a noi due. Se
voglio che tu la smetta di essere un supplizio non mi rimane che escogitare un
modo per zittirti.
Potrei provare a
girarti a pancia in giù. Se non mi sbaglio, questo trucchetto con i bambini
funziona, quindi anche tu dovresti finirla di dimenarti come un pazzo. Sei
proprio un bamboccio, persino quando dormi.
Se solo rimanessi
fermo, con queste dannate manacce.
…Ops.
- Uhm, cosa… Sa… Sasuke. –
- … -
- Sasu…
SASUKE?!?!? –
- Ahio, dannato, ma
che cosa fai? –
- Io?!? Si può
sapere perché diamine sei sul mio letto? –
- Perché fai un baccano
infernale, ecco perché. –
- Tutte scuse. –
- Naruto, che tu ci
creda o no, non mi serve un orsacchiotto per dormire. Mi basta il silenzio. E
anzi, visto che ci sei pensaci da solo a girarti, così mi risparmi la fatica. –
- Non ci penso
nemmeno! Ho sempre dormito a pancia in su, e continuerò a farlo. –
- E allora sarò
costretto ad ucciderti. –
- Ah sì? Vuoi una
sfida, eh? –
Ma perché non mi
mordo la lingua, qualche volta?
- Voglio dormire,
chiaro? –
- Col cavolo. Sei
salito sul mio letto per attentare alla mia vita e rubarmi il titolo di Hokage.
–
- Naruto, guarda
che tu non sei… -
Bah. Ma cosa glielo
dico a fare. Non c’è speranza che quella testa quadra metta insieme abbastanza
buon senso per starmi a sentire. Ancora mi chiedo come diamine abbia fatto a
diventare un ninja, immaturo e impulsivo com’è.
E adesso che avrà
da guardare alle mie spalle?
- Uhm? Piove. –
Ah, te ne sei
accorto. Strano.
Strano davvero, la
pioggia mi sembra qualcosa che non dovrebbe mai toccare uno come te.
Chissà se
riuscirebbe a spegnerti.
- Beh, io me ne
torno a dormire. Fammi il favore di smetterla di agitarti e di russare. -
- Vai, vai, tanto
ormai io sono sveglio! -
Le coperte si sono
completamente raffreddate. Dovrò scaldarmi di nuovo, maledizione.
Tzk, sei sveglio
davvero, Naruto. Come accidenti fai a trovare la voglia di saltellare per la
stanza a quest’ora della notte? D’accordo, tanto finchè tu te ne starai buono a
guardare l’acqua fuori dalla finestra, io avrò speranza di dormire un po’.
Buona notte,
Naruto, accidenti a te.
Sembra che la
pioggia sta cadendo sempre più forte. E tu, che fai? Sei ancora lì impalato? Ti
stai divertendo a guardarla?
Beh, non lo so, non
ti vedo. Ti sto dando le spalle, e oltretutto ho gli occhi chiusi. E non ho
alcuna intenzione di aprirli. Di sicuro, non per venirti a cercare. Sarebbe
inutile, cosa dovrei farmene, della tua faccia? Magari tutta segnata dalle
ombre della finestra, figuriamoci; servirebbe soltanto a stancarmi ancora di
più.
Bah, guardati la
tua pioggia, scemo, e lasciami dormire. Lasciami dormire in santa pace, e non
entrarmi nella testa con le tue solite sghignazzate chiassose.
Sei proprio un
animaletto, lo sai? Chissà se qualcuno te l’ha mai detto. Un animale di quelli
piccoli e fastidiosi, come il cagnetto di Kiba. Però meno utile. Potresti
essere un pappagallo rumorosissimo, ad esempio.
E tutto colorato,
per giunta.
Cos…?
- Naruto? –
- … Non dormivi? –
- Sembra di no. Che
cosa stai facendo? -
- Beh, mi sono
seduto qui. -
- Questo lo vedo.
Perché sei venuto nel mio letto? –
Non mi piace,
quando scrolli le spalle. Se non te ne fossi accorto, non è una cosa normale,
che tu sia venuto a buttarti qui come se fossi io l’intruso.
- Così. -
- Che diamine
significa “così”? -
- E va bene, non
scaldarti, me ne vado, me ne vado. -
C’è una macchia di
calore sulle coperte. Le stai scaldando tu, con il tuo corpo, proprio dove mi
serve di più. Dio, non ho ricordi dell’ultima volta che ho sentito il calore di
qualcun altro sulle mie coperte.
Che cos’è quel tono
deluso? Insomma, si può sapere che cosa ti prende? E che cosa prende a me, e
che cosa ci fai ancora qui, e perché non ti ho ancora buttato giù dal letto? E
perché, perché io…?
- Hey,
Naruto. –
- Mh? –
- Puoi restare, se
vuoi. –
- Dici davvero? -
Dico davvero. Sì.
- Maledizione,
sbrigati a venire sotto, o farai raffreddare di nuovo le coperte. –
ANGOLINO!
Come sempre un
grazie a tutti!
Artemisia: beh,
missione compiuta, il mio scopo era proprio quello di giocare sul climax. E a
proposito, anche un’altra missione è quasi compiuta! ^_-
Chiara: mille
grazie, spero che anche le prossime ti piacciano!
Feda: ma insomma,
troppo, troppo onore!!!
Little Star:
addirittura simpatico Lee? Tu pensa che anche io ce la sto mettendo tutta per
farmelo piacere, dai, in fondo è un soggetto! XD
Marchesa: Temari è
un mito di sorella! XD E Gaara è una fonte di ispirazione continua, fra l’altro
sto lavorando ad un paio di storie su di lui, vedremo un po’!
Aku: grazie
infinite, anche e soprattutto per l’apprezzamento stilistico, che alla fine è
ciò che più conta per me.
Melanto: ma certo
che tornerò sui ragazzi del Team 8, senza alcun dubbio! Qualcosina su Hinata,
anche se non la adoro, sbucherà di certo, e invece per la cronaca, una
Shino/Kiba è già in piena lavorazione… Anche io adoro Shino in modo
incondizionato!
Lemonade: sono
molto contenta che ti sia piaciuta, avevo un po’ paura che la continua
contrapposizione delle due “circostanze” potesse creare confusione… Grazie
anche per gli altri cap, lo so che Shino/Shika è un po’ inedita, però io li ho
visti come pane e marmellata! Guarda, in realtà non è che abbia una logica
precisa nell’accoppiare i personaggi, mi lascio ispirare da un’idea, e cerco di
creare una situazione che sia plausibile. Più che altro, ammetto di essere in
fase di sperimentazione, le coppie che funzionano di più vorrei poi usarle per
delle long. Per esempio, al momento sono su una Sasuke/Neji, mentre una
Gaara/Neji è mezza scritta, ma è una shot, presto la vedrai. Se hai qualche
idea non esitare a proporla, eventualmente.
Dark: amour!!! Ma
sai che più o meno anche io mi sono ritrovata a fare da cronista per questa
fic? Era come se quei due li avessi avuti davanti…
Kagchan: beh, in
realtà non si sa! XD la situazione della cena è vista attraverso gli occhi di
Temari, che sospetta che fra Sasuke e Naruto possa esserci qualcosa. Ma è solo
una sua impressione, e noi ne sappiamo tanto quanto lei. Per Kankuro invece no,
il suo è genuino terrore di ritrovarsi quel pazzo per casa!
NOTA: Ci tengo a
sottolineare che, da autrice slasher convinta, è stata una vera faticaccia
scrivere questa shot, che oltretutto tratta una coppia molto particolare, a cui
sinceramente non avevo mai pensato.
E’ una dedica
speciale, quindi spero solo che sia all’altezza.
Per Artemisia, con
un grazie di cuore per il tuo sostegno!
Infatuation (Kakashi/Sakura)
- Maestro Kakashi!
-
Kakashi chiuse
precipitosamente il suo prezioso libro, lo nascose come un fulmine dietro la
schiena, e preparò un sorrisone allegro da propinare alla sua allieva.
- Sakura! –
Sakura sorrise
indulgentemente, e finse di non essersi accorta di nulla. Qualche stupido,
Naruto con ogni probabilità, doveva essere riuscito a far entrare il volumetto
in ospedale, in barba a tutte le regole, e al buon senso soprattutto.
Come al solito era
lei ad andarlo a trovare. Lei, Sakura Haruno, la numero tre, quella che
occupava il gradino più basso del podio. L’ultima, siamo sinceri. Naruto e
Sasuke lo facevano molto raramente, Sasuke in special modo, mentre lei si
ostinava ad andare in ospedale ogni giorno, verso l’ora del tramonto, salutare
l’infermiera dell’accettazione e correre con sicurezza verso quella porta
bianca.
Dopo dieci giorni,
le era diventata familiare.
- Io sono Sakura
Haruno. C’è una cosa che mi piace… anzi, una persona… –
- Ahem… poi non
so se posso dirvi il mio sogno nel cassetto…No! Non ce la faccio! -
Com’era cambiata,
da allora. Eppure era passato così poco tempo che sembrava soltanto ieri.
C’era da supporre
che diventare genin significasse anche cambiare in fretta e furia, imparare a
guardarsi intorno con occhi meno incantati, e chissà, prendere un po’ in giro
la bambina che si era stati.
Da quando era una
ninja, da quando aveva capito, aveva accettato, aveva davvero fatto suo il
concetto di esserlo, Sakura aveva imparato ad usare sempre di meno i tempi
futuri, e sempre più quelli presenti. E passati.
Anche il maestro
Kakashi lo faceva. Lo aveva sempre fatto, in effetti, ma lei non se n’era mai
accorta, non prima di quel momento.
Poi c’era stata
quella missione tremenda, quella missione segreta, di jonin, da cui Kakashi era
tornato a pezzi, e qualcos’altro era cambiato, ancora. Lei aveva avuto paura
come mai le era capitato prima.
Kakashi le aveva
parlato al futuro, in quell’occasione, le aveva detto di essere forte, di
continuare a crescere, di prendersi cura dei suoi compagni zucconi, di
inculcare in loro quel po’ di responsabilità che lei prodigava tanto
generosamente, ma mentre lui parlava come un maestro, Sakura si sentiva
schiacciata dentro dal terrore di perdere l’uomo.
Kakashi.
Fra loro i rapporti
non erano mai stati particolarmente stretti, e non era mistero per nessuno che
Kakashi preferisse seguire i progressi imprevedibili e straordinari di Naruto,
o cercare di arginare il lento collasso di Sasuke, piuttosto che dedicarsi a
Sakura. Lei era troppo normale, troppo canonica, troppo autosufficiente e
responsabile per destare interesse, o anche solo preoccupazione. Le era
capitato persino di arrabbiarsi, per questo, e di odiare con tutte le sue
forze. Che erano sempre e comunque troppo poche.
Però adesso le cose
erano diverse.
Kakashi, adesso, le
appariva fragile.
- Dovresti cercare
di riposare di più, maestro. – lo redarguì come una piccola mamma.
Kakashi fece
spallucce, ed esibì il suo sorriso più innocente. Sakura rispose
obbedientemente al sorriso, zittendo la voglia di allungare una mano e toccare
quella bocca. Toccare il volto gentile del suo maestro.
Gesti di tenerezza,
fra ninja, non dovrebbero mai essercene. Era la regola chissà-quale-numero,
quella che redarguiva contro il mostrare i propri affetti per non rendersi
vulnerabili al nemico. Sakura fece scorrere gli occhi chiari sulla stanza di
ospedale: nessun nemico in vista.
- Come ti senti
oggi? –
- Molto meglio. –
Kakashi si agitò un poco sotto le coperte, e stiracchiò una gamba, che fece
capolino da sotto un lembo del lenzuolo bianco.
Sakura si concentrò
su quella gamba con tutta la sua attenzione, cercando di dissimulare quando più
possibile: era davvero molto, molto diversa dalle gambe di Naruto, o di Sasuke.
La gamba di Kakashi era più lunga e più definita, più muscolosa, e anche più
villosa.
Erano così che
diventavano le gambe degli uomini, quando crescevano?
Sakura era
abbastanza sicura che lei non sarebbe più cresciuta di molto, vista la sua età,
ma Naruto e Sasuke, e molti dei ragazzi che conosceva, sarebbero invece
diventati uomini sotto al suo naso, e chissà se forse, allora, anche le loro
gambe sarebbero diventate così.
Sakura sperò di sì,
perché quella gamba era davvero molto, molto bella.
- Qualcosa non va,
Sakura? –
Sakura si tinse del
colore rosso vivo dell’imbarazzo. – Oh no. No, niente, maestro Kakashi! –
Kakashi annuì
distrattamente, e si ficcò le mani dietro la nuca.
- Hey, Sakura, non
è che mi faresti un favore? –
- Ma certo,
maestro. –
Kakashi socchiuse
un po’ il suo occhio, guardingo, e le fece segno di avvicinarsi.
Sakura rabbrividì
come la peggiore delle stupide, quando lui cominciò a parlare.
- Ehm, senti, andresti
a cercare un buon bicchierino di sakè per il tuo maestro? –
- Sei ancora
convalescente, non dovresti pensare al sakè. –
- Uffa. Naruto lo
farebbe. – si risentì Kakashi.
Sakura si sentiva
debole, completamente disarmata, di fronte allo sguardo scanzonato e ironico di
Kakashi. E no, non era una bella sensazione, proprio per niente. Lo sarebbe
stata, forse, se fosse esistita anche solo la possibilità che Kakashi… che lui
la…
Ma così non era
bello per niente.
- Certo che no,
Naruto si intascherebbe i tuoi soldi e se ne andrebbe al chiosco di ramen. –
- Uhmpf, hai
ragione. –
Kakashi si lasciò
scivolare indietro e rise.
E Sakura gioì,
dolcemente, come una povera stupida bambina, per essere riuscita a far ridere
il suo maestro.
Era questa l’unica
cosa che sapeva fare, per cercare un qualche punto di contatto con lui. Poteva,
anzi doveva, puntare tutto sulla sua intelligenza, sulla sua capacità di
analisi, sul suo buon senso pratico. L’unica cosa per cui Kakashi avrebbe mai
potuto ricordarla, era questa.
Che poi, pensava
mai a lei, il maestro Kakashi?
Pensava a lei,
passati i dieci o quindici minuti della sua visita?
Lei avrebbe voluto
che lui lo facesse.
Che lui la
pensasse.
- Sakura. –
Kakashi aveva il
braccio destro avvolto da una spessa bendatura bianca. Lo sollevò quanto poteva
verso di lei, con aria seriosa. – Stai continuando ad allenarti, anche senza di
me, vero? –
- Naturalmente,
maestro. –
- Bene. E Naruto e
Sasuke? –
- Beh, perdono metà
del loro tempo ad azzuffarsi, ma se lo si considera come un allenamento… -
Kakashi alzò gli
occhi al soffitto per qualche secondo. I suoi occhi pazienti e chiari erano
tristi e puri come l’acqua, e la sua pelle era lucida di stanchezza, e sfiorata
dagli anni, dalla fatica, da una forza non sempre facile. Persino lo sharingan
aveva una luce più tenue, come se avesse cercato di spegnarsi.
Sakura era sempre
stata una ragazza sveglia. Una a cui serve poco, per afferrare le situazioni.
Nella fattispecie,
quel gesto quasi senza importanza la illuminò circa due cose che invece di
importanza ne avevano da vendere: la prima, era che il maestro Kakashi era
l’uomo più bello che lei potesse dire di conoscere. E per uomo, intendeva
proprio uomo, non di certo Sasuke o gli altri. E questo spiegava alcune cose circa
i brividi di prima.
La seconda, era che
se voleva sperare che lui la vedesse, che almeno la vedesse, avrebbe dovuto
impegnare fino all’ultima goccia di sangue che aveva in corpo per diventare di
più, molto di più di ciò che era adesso.
ANGOLINO!
Ta dam! Oddio,
spero veramente che ti piaccia, Artemisia, ma davvero davvero davvero.
Chiara:
interpretazione giustissima, e questo almeno mi solleva, vuol dire che mi sono
espressa bene! Qualche fic con il POV di Naruto ci sarà senz’altro più avanti,
non ti preoccupare!
Feda: evviva,
perfettamente IC, non sai quanto questo mi conforti enormemente! Sono
assolutamente angosciata dall’idea di andare OOC senza volerlo… Grazie grazie
grazie!!! Il mio nick in effetti è legato alla figura della sfortunata figlia
di Dario III, complimenti per essertene accorta! ^^
Kagchan: figurati,
per qualunque dubbio chiedi pure!
Lupus: Ma che
sorpresa, sempre felice di trovarti, anche in occasione yaoi! E comunque visto,
anche questa era Het, una vera rarità per me! Che cosa dire, se non grazie, in
modo sentito e commosso. Scrivere per me è sempre e comunque emozione, quindi
riuscire a trasmetterle anche agli altri è qualcosa che per me non ha eguali.
Little star: beh,
il fatto che tu non ami molto i personaggi è ancora più prezioso, e mi rende
davvero contenta! Ah, mia consigliera, come farei senza di te! (si ributta
subito a riscrivere tu sai cosa)
Rael: hihihihi,
noto una certa veemenza nel sostenere le Shika/Tema. Del resto sono fantastici
insieme!
Nadeshiko: grazie
infinite! Mi rende felicissima trovare delle nuove lettrici. Puoi contarci che
scriverò ancora su di loro, e come si fa a non farlo! ^_^
Non erano rimasti
che loro due, in quella viuzza stretta e sterrata, quasi abbandonata. Nemmeno
le loro ombre, da quando il sole era finito per essere annerito da nuvolacce
pesanti e fumose.
Tutt’intorno, però,
c’era una confusione di passi, di impronte, di solchi scavati da corpi, piedi e
mani. Segni di una battaglia leggibili anche ora che la sabbia si era tramutata
in fango, come incisa nel dolore della polvere.
Sono il genere di
segni che più difficilmente si riesce ad esorcizzare, persino dalla strada. E
dall’aria. L’odore atroce dell’adrenalina, e della violenza che infierisce
furiosa, rimangono sospesi all’altezza della testa, posandosi sul volto come
cipria, cancellando segni e colori della pelle con arroganza vampiresca e lasciandoti
nel cuore soltanto una gelida commistione di stanchezza e paura.
- Lee… -
Il rumore della
pioggia copriva quello dei respiri ansimanti, facendone una sorta di rimestio
confuso nel vento.
Neji si inginocchiò
con prudenza vicino al corpo del compagno, riverso in modo composto, supino.
- Perché lo hai
fatto. –
- Quel… quel tipo…
voleva ucciderti. –
- Sei stato uno
stupido, mi sarei difeso. –
Lee socchiuse
l’occhio destro, e la palpebra gli tremò, quando la pelle si tese su un brutto
taglio aperto e sanguinante appena sopra l’arco orbitale.
Aveva aperto le
sette porte, tutte insieme.
Non ci era mai
riuscito prima di allora, nemmeno allenandosi con tutte le sue forze. Ma forse
non aveva mai avuto una ragione sufficiente a scatenare la potenza necessaria,
prima di quella volta.
Il colore nero
appannato della sua pupilla dilatata strideva sgraziatamente con quello delle
sue ciglia lucide di acqua, dando l’impressione di una macchina in agonia, di
una candela che lentamente va spegnendosi.
- No. Non… ci
saresti… riuscito. –
Neji digrignò i
denti con tutta la sua forza, sentendoli scricchiolare.
Avrebbe voluto
colpire Lee, avrebbe voluto ricoprire di pugni la sua faccia fino a non avere
più fiato. Non ce l’avrebbe mai fatta da solo, era così, maledizione, ma non
voleva che Lee gli mettesse davanti agli occhi la verità dei fatti in quel
modo, non in un momento del genere.
- Non dovevi aprire
le sette porte, sapevi di non esserne in grado. –
- Forse. Ma era…
per te. –
- Non ha importanza!
–
- Dovevo farlo… per
te. –
- Maledizione a te,
che bisogno avevi di dimostrarmi la tua forza proprio ora! –
- No. Non per…
questo. –
Lee tossì forte,
tanto che tutto il suo petto rimbombò seccamente, come una caverna vuota.
Quando aveva
raggiunto Neji in quella stradina isolata, lo aveva trovato in balia di un
killer spaventosamente potente, e senza coprifronte, e aveva aperto tutte e
sette le porte senza pensarci nemmeno per un secondo; si era lanciato contro di
lui con una furia inaudita, non sua, nemmeno lontanamente umana. Le sue ossa si
erano spezzate scricchiolando ad ogni colpo, riducendo a frantumi e schegge
quelle del suo avversario, e Neji per qualche istante non era riuscito a
pensare a niente, spettatore attonito di uno spettacolo dissonante, soffocato
dal terrore che provava verso il suo stesso compagno, verso una persona che
conosceva da anni, che credeva di aver visto in ogni sfumatura, e che invece
aveva combattuto come la tigre inferocita che non era davanti ai suoi occhi,
senza dagli la possibilità di capire il perché.
E adesso lo stava
vedendo scivolare via. Inorridito, sentiva il peso del suo busto diventare
sempre maggiore, sempre più grave, mentre i muscoli di Lee cedevano uno dopo
l’altro. Gli strinse forte una manica, poco sopra al gomito, perché davvero non
sapeva che cosa fare.
- Per una… volta,
una sola… - ricominciò Lee scandendo le parole a fatica. – Tu avevi bisogno… di
me. Neji. Io… -
- Basta. –
Neji serrò i pugni
tanto forte da far scolorire le dita. Sarebbe rimasto in ginocchio nel fango
viscido di quella stradina maledetta a prendersi la pioggia per tutto il tempo
del mondo, se questo fosse servito a salvare Lee. Si sarebbe sdebitato in ogni
modo, avrebbe dato qualunque cosa, davvero qualunque cosa, qualsiasi dannata
cosa, ma non era disposto ad ascoltarlo, quello no.
– Basta, stai
zitto. Tu non hai mai capito niente di come si comporta un ninja. –
- Forse no, Neji.
Sono sempre stato… un passo dietro a… a te. –
- Avevi qualcosa in
cui credere! Che ne è del tuo stupido obiettivo! –
Gli occhi di Lee
erano ancora straordinariamente espressivi, nonostante tutto. Neji vi lesse una
malinconia che gli afferrò lo stomaco tanto forte da farlo gemere. Si chiese
senza sperare in una risposta se fossero quelli, gli occhi di chi sacrifica
ogni cosa per qualcun altro. Lui, che aveva fatto del dovere di sacrificarsi il
motivo della sua crociata contro tutti, ora non capiva, non riusciva a capire,
a vedere, e aveva paura, paura della forza immensa che il gesto di Lee
sprigionava. Si era sacrificato, e lo aveva fatto di sua spontanea volontà.
Lo aveva fatto per
lui.
- Almeno… ho il tuo
ri… rispetto, Neji? –
Neji sbarrò gli
occhi, incredulo.
- Lee… -
- Ho almeno… il tuo
rispetto? Almeno… quello? –
- Non puoi parlare
sul serio, non ti credo. Non può importarti davvero del mio rispetto in un
momento come questo. –
- Mi importa di
più… che tu stia… bene. Però… ho vissuto gli ultimi… due anni… cercando di… di
meritarmi la… tua stima, e… Neji… io… -
- Tu sei pazzo!
Dovresti vivere solo per te stesso, maledizione, senza pensare al mio rispetto!
–
- Neji… non
riuscirò a… respirare ancora… per molto. Ti… ti prego. Rispondimi. –
Neji si lasciò
scivolare senza forze sul petto ansimante di Lee.
Mai, non avrebbe
mai e poi mai creduto di arrivare a piangere per qualcuno.
- Sì. – si sforzò
di dire senza singhiozzare. – Sì che ce l’hai. –
- Non puoi morire
per il mio rispetto, Lee. Non puoi. –
- No. Per salvarti.
–
- Ma perché?!?! –
Lee riuscì a posare
una mano sulla spalla di Neji. Tremava tutta, ed era fredda, più fredda della
pioggia che batteva su di loro senza placarsi. – Questo non… non ha…
importanza. –
- Ne ha. -
Lee formò un
sorriso paziente. – Io voglio che… che tu viva. –
- Sei solo un
idiota. -
- Lo so. Ti prego…
sorridi, per… per questo. Tu non… sorridi mai, Neji. -
Più Lee parlava,
più lui lo detestava. Era uno stupido, uno stupido, un idealista che moriva per
niente, che moriva per lui, che moriva così, senza nemmeno un po’ di gloria, e
guardalo, dannazione, non stava nemmeno cercando di risparmiare un po’ di aria,
perché parlava; radunava le sue ultime energie con tanta fatica, per poi
buttarle via in parole spese per lui, in parole che non gli aveva mai sentito dire,
e che gli facevano male, perché no, lui non voleva diventare il depositario del
suo testamento.
- Tu sei… io… –
- Neji, abbi cu…
cura di te. E dì al maestro… Gai che… che non gli ho… disobbedito. Perché l’ho…
fatto per te. –
- Non ti permetterò
di morire così. – mormorò Neji con un filo di voce.
- No. Tu cerca so…
solo… di diventare… sempre più forte. Solo questo. –
Rock Lee aveva
aperto tutte e sette le porte.
Lo aveva fatto
perché altrimenti per Neji non ci sarebbe stato scampo. Certe persone fanno
cose assurde, le fanno e basta, e la cosa davvero pazzesca è che non se ne
pentono, che non te lo rinfacciano. L’assenza del loro rancore, però, costringe
te a portarlo a loro.
- Se morirai, mi
legherai per sempre a te. –
Lee sorrise con le
poche forze che gli restavano, in modo enigmatico e calmo. – No. Non voglio…
essere… un’altra prigione… per te. Sii libero, Neji… almeno… da me. –
Neji era senza
parole. Il peso delle liti, delle tante missioni insieme, delle sfide che lui,
che Lee, si ostinava a perdere contro di lui, ora gli schiacciavano il torace
strozzandolo e costringendolo ad ascoltare quell’urlo atroce che reclamava,
dentro di lui, di non volerlo perdere.
Dopo tutto quello
che avevano passato insieme, in quegli anni, Neji si era lasciato andare, per
una volta, alla confortante certezza di avere qualcuno, di avere una persona
amica che ci sarebbe sempre e comunque stata, con tutti i suoi difetti e i suoi
perché. Ma non era vero niente, perché Lee se ne stava andando, stava svanendo
sotto i suoi occhi, via nella nebbiolina piovosa, e non sarebbe rimasto nulla
dei sorrisi nascosti, dei tafferugli, di quell’improvviso ritrovarsi a pensare
a lui nel cuore della notte, senza uno scopo preciso.
Il rendersi conto
solo adesso che di Lee aveva imparato a riconoscere persino il modo di
respirare quando dormiva gli fece esplodere un altro singhiozzo.
- Ti porto in
ospedale. – mormorò.
Sentendo le sue
parole risuonare già inutili.
* * *
Neji amava il
silenzio.
Ma il silenzio
dell’attesa era il più meritevole di essere catalogato come il peggiore. Quello
era forse l’unico che non riusciva a sopportare, assieme a quello che
accompagnava la morte, e il fatto che molto spesso questi due silenzi fossero
fratelli non era che uno dei tanti volti beffardi della vita.
- Vuoi che ti
prenda qualcosa? Un po’ d’acqua, qualcosa da mangiare? -
Neji, ancora più
del silenzio dell’attesa, non sopportava chi quel silenzio lo spezzava.
- Dovresti fare due
passi, distrarti un momento. Ti prego, Neji. -
Neji rifilò uno
sguardo amaro a Tenten, e si abbracciò le ginocchia. – Io lo odio. – disse
soltanto.
Tenten lo guardò in
modo fastidiosamente simile al compassionevole. – Dici così perché sei ancora
sconvolto. Perché non vieni con me a prendere una boccata d’aria? Ti farà bene,
vedrai. –
- No. – sibilò lui
con gli occhi bassi. – Lo odio, con tutto me stesso. –
- No, Neji. –
- Sì invece. Lo
odio, lo odio per quello che ha fatto, e per come lo ha fatto. –
Tenten si tormentò
le dita. Era insolitamente pallida anche lei, e scossa almeno quanto lui, ma
Neji non se ne sarebbe preoccupato, chiuso com’era nel suo tormento.
- Cerca di trovare
un po’ di pace. Così non fai altro che farti del male con le tue stesse mani. -
Neji la fulminò con
risentimento, zittendo ogni suo proposito di insistere. Certe volte a Tenten
veniva da odiarlo, per il suo temperamento ottuso, per il suo ostinarsi a non
lasciarsi aiutare. Sapeva benissimo come dentro di lui stesse cercando di
rifiutare il suo aiuto, esattamente come aveva cercato di rifiutare quello di
Lee. La prospettiva di sentirsi in debito doveva terrorizzarlo in modo
inimmaginabile.
– Si è sacrificato
per proteggerti. –
Neji si morse il
labbro inferiore fino a ferirsi. – Lo so. Lo odio soprattutto per questo. –
- Lo odi, Neji? –
Gai incrociò le
braccia al petto, accigliato. Comparendo alle spalle dei ragazzi.
Era arrivato
subito, nemmeno dieci minuti dopo che Neji era arrivato lì, con il suo compagno
sulle spalle. Probabilmente qualcuno doveva averlo mandato a chiamare dall’ospedale,
e c’era da aspettarselo che sarebbe letteralmente volato lì, per il suo
pupillo. Fino a quel momento non si erano scambiati molte parole, a parte un
racconto di circostanza, dettagliato e gelido, su cosa fosse accaduto.
Gai si era
irrigidito, quando Neji aveva nominato le sette porte. Non gli aveva nemmeno
chiesto come stesse lui.
- Sensei… -
Neji sotterrò lo
sguardo ancora di più. Si vergognava di non vergognarsi, perché era vero che
odiava Lee, e non poteva farci niente, lo odiava e basta, lo odiava con una
forza che non credeva di avere, ancora più selvaggia dell’astio gelido con cui
bersagliava la sua famiglia, ancora più furiosa e disperata del suo accanirsi
contro il suo destino, e nonostante ormai fosse inutile, lui sentiva che le mani
gli prudevano ancora, per la voglia di prenderlo a pugni, lui e il suo stupido
altruismo, il suo spirito di sacrificio, maledetto, dannato idiota.
Gai avanzò di un
passo. – Se davvero lo odi, allora vai a dirglielo. –
Neji sollevò
bruscamente la testa. – Cosa? –
- Si è svegliato.
La prima cosa che ha fatto è stato chiedere di te. –
ANGOLINO!!!
Mi sto dando alla
sperimentazione selvaggia su Lee, ma anche con Neji non si scherza.
Ah, Neji, fonte
sempiterna di ispirazione!
Però sapete che vi
dico? Una piccola (?!?!?) parte di me scalpita e urla “Stat, facci vedere
qualcosa di piccante!”
Hihihihi, sto
facendo troppo la brava e la casta, strano che chi già mi conosce non abbia
ancora protestato!
Ecco, mi sono presa
le parole da Dark!!! XDDDD
Su, non ti
preoccupare, sai che io sono Slasher fino al midollo, e poi io Kakashi lo vedo
con Iruka, mi vengono gli occhi a stellina solo a pensarci! Anzi, questo mi
ricorda che una delle prossime sarà proprio su di loro…
Bambi88:
diciamocelo, per Kakashi SBAV è esattamente la definizione migliore che possa
esistere. Argh, ma quanto è grandioso?!?
Kagchan: grazie!
Guarda, se dovessi scegliere un personaggio femminile preferito io francamente
direi Temari, senza dubbi. Le ragazze troppo frignone non mi piacciono, anche
se hanno l’indubbio vantaggio di essere più facili da analizzare.
Rael 89: mmm,
dubito fortemente che arriverei a scrivere ciò che chiedi, il mio sesto senso
Slash si rifiuta di collaborare e grida “Sasuke/Metà uomini di Konoha e
Kakashi/Iruka!!!” XDDD
Lupus: non ti
adagiare sugli allori, che adesso riparto in quarta con gli slash! Ma a parte
gli scherzi, grazie infinite per tutti i complimenti che mi fai, sono davvero
contenta di riuscire a combinare qualcosa di buono in questo Fandom…
Little: tranquilla,
il tu sai cosa, su tu sai chi, e tu sai perché, procede!
Ok, adesso ci
arrestano perché credono stiamo parlando di traffico di droga -__-
Elisa: guarda,
quoto in pieno, anche io sono esterrefatta perché ultimamente sto trovando un
senso a Lee! Che è tutto dire, visto che Lee fino a poco tempo fa era un
personaggio che avrei volentieri buttato in un pozzo senza fondo.
Artemisia: uaaaah, meno male, non sai quanto ho
sudato su sto pezzo, sperando che funzionasse! La cosa che odio di più di
Sakura è proprio la sua scarsa fiducia, quindi ho cercato in ogni modo di
“omaggiarla” dandole un po’ di coraggio e determinazione, che almeno per me,
migliorerebbero moltissimo il personaggio.
Ma tesoro, allora
tanti auguri! Wow, 18, adesso dovrai darti ad una full immersion nelle PWP! :-p
Anticipazioni!
Evviva, oggi mi
sento particolarmente buona, perciò credo che potrò anche spifferare qualche
ideuzza a cui sto lavorando. Innanzitutto, una Sasuke/Neji (sì, un’altra.
Rassegnatevi) che probabilmente sarà la prossima pubblicazione. Poi una coppia
abbastanza di secondo piano, di cui però mi sono follemente innamorata un paio
di giorni fa, mi farete sapere! Un indizio? Beh, quei due sono… ovvi.
Semplicemente ovvi. Direi canon.
E poi, un paio di
introspettive su Gaara, una più corale, ancora Kakashi/Iruka senza dubbio, e
poi qualcuno *fischiettio* mi ha chiesto una Shino/Kiba… che lentamente sta
sorgendo…
E comunque no, non
stavo scherzando qualche riga fa, ho davvero intenzione di aggiungere un po’ di
pepe qua e là. Che cavolo, è rating arancione non per niente!
Nota: lo segnalo
per scrupolo, onde evitare fraintendimenti, anche se credo che la situazione
risulti abbastanza chiara. La shot è divisa in tre tronconi, che prendono in
esame, in ordine, il punto di vista di Neji, della comunità di Konoha e di
Sasuke.
Neji Hyuga forse
aveva sempre avuto ragione.
Ci sono cose a cui
non si scappa, fine della storia. Cose a cui non si può dire di no, cose contro
cui si può lottare con ogni forza, contro cui ci si può accanire a volontà, ma
niente, non c’è proprio niente da fare.
Una di queste cose,
per quanto lo riguardava, era Sasuke Uchiha.
Sasuke era una di
quelle cose che capitano. Punto.
Era arrivato così,
senza nemmeno prendersi la briga si bussare, e Neji gli aveva opposto una
difesa d’ufficio, una corazza di facciata, ma non si era nemmeno rammaricato
troppo, quando entrambe erano venute meno, lasciandolo nudo, nudo e bello
davanti a lui.
Probabilmente non
sarebbe mai riuscito a spiegare che cosa provasse, o semplicemente che razza di
entità fossero, lui e Sasuke, e che cosa ci facessero fianco a fianco. Non
avrebbe nemmeno saputo dire che cosa facessero, di cosa parlassero, cosa
mangiassero, quando erano insieme. E che non si dicesse che lui non era un tipo
attento a ciò che faceva, perché la questione non era quella, affatto.
Neji aveva passato
una vita intera cercando di stringere in mano le redini della sua vita,
cercando di fare in modo che il suo carro, già costretto a correre lungo un
sentiero tracciato, almeno non sbandasse.
Ma adesso c’era
Sasuke, e lui aveva solo una gran voglia di abbandonarsi un po’ alla sana
anestesia di quel loro rapporto strano e contraddittorio, e basta, fine delle
domande, giù le saracinesche.
Lui e Sasuke si
cercavano, continuamente. Lo avevano sempre fatto, e continuavano a farlo;
anche adesso che Neji viveva praticamente con lui, continuavano a spiarsi, ad
osservarsi, a sfidarsi, come se non riuscissero a trovare una tregua. Doveva
essere questo il significato più profondo del sentirsi completamente alla pari.
Neji aveva imparato
ad accettare la sua insoddisfazione persistente, il suo non sentirsi mai
abbastanza vicino a Sasuke, come l’ennesima cosa piovuta dal destino. Sasuke
era questo, era qualcosa a cui lui si era piegato; e l’aveva fatto con una
certa soddisfazione, per la prima volta. Sasuke era l’ennesima catena,
l’ennesima gabbia, però si stava bene, bene da morire, rinchiusi fra quelle
braccia a volte supponenti, spesso tremendamente possessive, e, per dio, sempre
calde, calde tanto da far bollire il sangue.
Sasuke non dava
molto, ma lui dava? No, naturalmente, ed era questa la chiave di tutto, era il
loro negarsi l’uno all’altro fino in fondo, era il contrattare perenne, era la
reciproca diffidenza, che li teneva annodati tanto stretti da schiacciarsi, che
li faceva brancolare ad occhi sbarrati fino a trovarsi, a toccarsi, a
strattonarsi.
Ma quel loro
inseguirsi costante, quel loro stancarsi, a volte persino esasperarsi, era
curativo, rigenerante, era nutriente. La verità era che Neji voleva soltanto un
po’ di pace, voleva dieci minuti per chiudere gli occhi, dieci minuti per
accettarsi, per lasciarsi tutto alle spalle.
E Sasuke lo era.
Era esattamente questo. Era il silenzio che ti riposa le orecchie, ed era,
maledizione, per una volta nella vita, il corpo contro cui abbandonarsi, e
sentirsi deboli, e stare bene, andarsi bene, volersi bene.
Sasuke era la
gabbia in cui sentirsi libero. Sasuke era, per ciò che faceva e per come era,
libertà.
La sua libertà,
dio, la sua libertà, la sua libertà.
Poche parole, fra
loro, e risate quasi mai, ma non importava, perché nessuno dei due aveva
bisogno di ridere, nessuno dei due cercava questo, nell’altro. Neji non viveva
per il sorriso di Sasuke, e Sasuke non viveva certo per il suo. Per cosa
vivesse Sasuke, lui non ne aveva idea, ma lui viveva per… Beh, per Sasuke.
Sasuke in generale.
* * *
Il nome degli Hyuga
era un nome importante, era risaputo. E quello degli Uchiha lo marcava stretto,
nonostante gli accadimenti drammatici che avevano segnato quella famiglia e
quella casa.
Quindi che cosa
facessero i membri di questi due clan nella loro vita privata diveniva di
dominio pubblico per le azioni, più che per le parole. La gente spesso seguiva
con curiosità questi rami nobili dell’albero della Foglia, cercava di carpirne
i segreti per illudersi di possederli, tentava di interpretare il loro
comportamento per sentirsi come loro. Molte volte capitava che i membri più
giovani fossero quelli che più soffrivano di ciò, perché le aspettative di un
genitore diventavano quelle dell’intero clan, e quelle del clan quelle di tutta
la popolazione.
Hinata. Ma questa è
un’altra storia.
Il villaggio di
Konoha aveva preso atto, un bel giorno, che il giovane rampollo del ramo
cadetto Hyuga era improvvisamente diventato l’ombra di Sasuke Uchiha. E
viceversa.
Nessuno sapeva come
la famiglia Hyuga avesse preso la faccenda del trasloco – perché di questo si
trattava – di Neji a casa di Sasuke. Era così, fine della questione, e ben
pochi avevano l’autorità di fare domande. Probabilmente se il nobile signor
Hiashi non era ancora intervenuto, significava che in qualche modo il nipote
aveva il suo benestare. Oppure che era solo questione di tempo, prima che
esplodesse un’altra guerra intestina alla famiglia, un altro scempio
sicuramente destinato a volgersi contro Neji, e contro la sua condotta
inaccettabile.
Chissà poi se quel
ragazzo se ne preoccupasse mai, dopo tutto ciò che aveva passato.
E comunque, nessuno
di coloro che lo conoscevano potevano negare che questa storia avesse cambiato
Sasuke, almeno un po’. Rendendolo innanzitutto più lunatico che mai.
C’erano giorni in
cui si aggirava per le strade del villaggio come uno spirito della vendetta,
nero più delle nuvole di tempesta, ringhiando persino con gli occhi; e c’erano
giorni in cui salutava.
Così,
incondizionatamente, salutava il proprietario del chiosco di ramen, salutava i
ninja di guardia alle porte del villaggio, salutava i ragazzini che lo
superavano schivandolo di un soffio mentre giocavano a rincorrersi per le vie
polverose.
C’era da supporre
che questi sbalzi bipolari dipendessero per la quasi totalità da ciò che
succedeva, o che non succedeva, fra le mura di casa sua, con Neji.
Neji era molto più
difficile da leggere di quanto lo fosse Sasuke, e sicuramente aveva un
vantaggio rispetto a lui, quello di sapere molto bene che cosa significa subire
l’ingerenza altrui nella propria vita, costantemente, senza tregua. Sasuke era
nuovo, o per meglio dire disabituato a questo tipo di sensazione, e doveva
essere per questo che sembrava aver perso un po’ di controllo, un bel po’, e
subiva Neji senza riuscire ad arginarsi.
Del resto è
risaputo che nessuna persona al mondo è in grado di condizionare l’umore più di
quella che si ama.
Non era dato
sapere, non era dato nemmeno insinuare, ma la gente chiacchierava senza sosta,
e due ragazzi come loro, grandi abbastanza da sapere come gira il mondo, e
segnati abbastanza da essere molto più disincantati e smaliziati della maggior
parte dei loro coetanei, che improvvisamente si chiudono insieme nella stessa
casa, non potevano che far nascere voci. A cui nessuno dei due sembrava badare,
comunque.
La verità era
prerogativa di pochi eletti che non avrebbero mai parlato, quindi tanto valeva
continuare a fantasticare di luci accese nel cuore della notte, di rumori
strani, di ombre sospette, come se la casa di Sasuke fosse stata abitata da
spiriti, e non da due ragazzi in carne ed ossa, ragazzi che, al di là di ciò
che potessero fare fra loro, fra quelle mura, erano pur sempre dei ragazzi.
Dei ragazzi
normali.
* * *
Sasuke Uchiha non
amava molto parlare. Si stringeva nelle spalle se gli si parlava del tempo, si
stringeva nelle spalle se gli si chiedeva degli allenamenti, si stringeva nelle
spalle per qualsiasi cosa non fosse strettamente necessario comunicare.
Di Neji, nella
fattispecie, non parlava mai. Chi gli era più vicino sapeva che quello era il
suo modo di stabilire un confine oltre il quale diventava pericoloso
avventurarsi, perché, che Sasuke straripasse di gioia o bruciasse di rabbia,
non lo dava a vedere che per piccoli, minuscoli segnali, selezionando fin da
subito chi fosse degno di ricevere il messaggio. Molto umanamente, quello era
il suo modo di proteggere sé stesso e Neji.
Sasuke era un
ragazzo tremendamente territoriale, e la presenza di Neji nella sua vita
scatenava in lui un istinto di protezione quasi ossessionante. Si sentiva
ridicolo, perché Neji non era certo uno che aveva bisogno del suo aiuto, e se
anche fosse stato non glielo avrebbe mai chiesto, e lo stesso valeva per lui;
ma all’istinto non si può cercare di spiegare il buon senso, perché lui si
prende i suoi spazi e ti impone il suo diktat in ogni caso.
Neji era suo, suo e
di nessun altro, era la sua terra promessa, il suo personale regno, era il suo castello,
la sua camera da letto, il suo giardino di ciliegi. Nessun altro marchio doveva
contare più dei segni della sua bocca e dei suoi denti, di cui gli cospargeva
il corpo con ponderata regolarità, e se sentire Neji così tanto intensamente
dentro di sé significava ridursi così, allora Neji doveva condividere con lui
questa debolezza, e sapere di appartenergli almeno quanto lui sapeva che per
Neji aveva perso l’anima, perché Neji era il riscatto, era la pace e la
redenzione.
Lui e Neji erano
stati una scommessa contro tutto e tutti sin dall’inizio, ma avevano deciso di
giocarsela fino in fondo, con la stessa amara determinazione di chi sa di non
avere comunque niente da perdere. Ed era valsa la pena di tentare, non fosse
altro che per dimostrare a tutti, e a Neji soprattutto, che le cose si possono
cambiare, che i sentieri si possono tracciare, con le unghie se necessario.
Sasuke non aveva
mai voluto arrendersi a verità scomode, a facili ripieghi, a compromessi figli
dell’omertà. Non aveva mai voluto arrendersi al suo nome, né a quello di Neji,
non perché ci sono regole che pretendono un rispetto che non sempre meritano.
Non si era arreso, non per veder calpestato di nuovo il suo cuore da un
silenzio impietoso, non per rassegnarsi.
Non perché per loro
era tutto già scritto, fin dall’inizio.
Era scritto, ma non
era giusto.
Era scritto di loro
nel loro cognome, ma che cosa potevano saperne, poche lettere nere, di chi
fossero loro due, di cosa volessero, di cosa cercassero?
Sasuke sapeva bene
di essere cambiato, per tutto questo, e vedeva lo spettro del suo mutare
riflettersi anche in Neji, rassicurandolo una volta di più sul fatto che non
aveva importanza quale strada avessero preso, finché avessero continuato a
camminare insieme.
Da quando quel po’
di strana umanità si era fatta strada in lui, Sasuke si scopriva sempre più
spesso intenerito dal pensiero del viso di Neji che dormiva nascosto sotto le
coperte. E poi succedeva nei momenti e nelle situazioni più disparate, a volte
persino inopportune, che si sorprendesse a provare una strana sensazione di
calore al viso, se solo la sua figura accennava a muoversi nella sua mente, a
richiamare momenti segreti che lui viveva con la gola stretta da un nodo, e con
tutti i sensi in fiamme.
Altre volte la
nostalgia lo coglieva a tradimento, sfiorandogli il naso con il profumo delle
magnolie che tanto gli ricordavano Neji, quel Neji che era suo, che era vivo, e
solido, che era di roccia, ma sapeva essere anche di carne.
Gli chiedevano in
molti, in moltissimi, perché. Semplicemente perché, perché avesse preso quella
strada, perché avesse fatto una scelta tanto lontana dall’abitudine.
E lui, Sasuke, ogni
volta scrollava le spalle, fingendo di non sentire. Poi se ne tornava a casa, e
andava a cercare Neji. Lo trovava nelle stanze più disparate, impegnato nelle
cose più disparate, e sempre in silenzio lo abbracciava.
E un pochino
sorrideva.
Lo sapeva lui, il
perché.
ANGOLINO!
Ho mantenuto la
promessa, visto? Questo è uno dei pezzi che ho amato più scrivere, sarà per
quello stile un po’ sporco che mi piace usare in occasioni come queste. Personalmente,
scrivere questo pezzo mi ha dato delle emozioni forti, che spero davvero di
essere riuscita a trasmettere.
… Ok, adesso verrò
subissata di pomodori e di striscioni con scritto “ritirati!” ^_^’
Tranquilli
comunque, per un po’ non vi ammorbo più con Neji, promesso! U__U
Cerco di mantenere
un minimo di rotazione dei personaggi!
Chiara: grazie
infinite, sono molto contenta di sentire che la storia quantomeno non è
melensa, visto che non voleva assolutamente esserlo. Su Sette Porte, e quindi
sulle Lee/Neji in generale, ho investito molto, mi sembra una coppia molto
interessante (se non fosse che Lee è perfetto con Gaara e che Neji per me
dovrebbe essere canon con Sasuke), e se dici che sono l’unica a trattarla mi
sproni a lavorarci ancora su!
Marchesa: hihihi,
lo sapevo, ma non temere che adesso, un passetto alla volta, ci arrivo al pepe.
In questa infatti mi sono più che altro divertito a farlo immaginare, il pepe…
Anche se mi conosco abbastanza per poter pronosticare che non durerò a lungo
senza far fare scintille e fuochi d’artificio a questi due esseri totalmente
sessuali che sono Neji e Sasuke.
Aku: certo che non
scrivo storie campate per aria, ci mancherebbe! ^__^. Per il pronostico, non
dico nulla, ma ti garantisco che quando pubblicherò quella shot esclamerai
anche tu “oddio, ma sì, è ovvio!”
Su Neji in Sette
Porte ho lavorato moltissimo, e come te e altre anche io mi rendo conto che è
strano vederlo così. Eppure secondo me è l’unica strada, esaminando a fondo la
situazione credo che lo smarrimento, quell’essere un po’ così, pietrificato
dalla situazione, sarebbe l’unica possibile via per lui. E’ un Neji diverso,
che però è sempre Neji. Un Neji raro, ecco.
Rael: guarda,
Sasuke/Sakura non ne scrivo, via tranquilla. Per me Sasuke è perfetto con Neji,
ma non ti preoccupare che prima o poi lo faccio finire anche con Naruto Gaara e
Kakashi!
Little: oh mia
carissima! Non farmi riscrivere tutto, per il discorso su Neji ti rimando a
quello che ho scritto a Aku! E comunque hai ragione, Lee si sta impossessando
di me, e adesso posso solo pregare che non mi vengano i capelli a scodella, le
sopracciglia amazzoniche e soprattutto l’orrido senso estetico. E la venerazione
per Gai, perché a quel punto posso anche andare ad annegarmi!
Per il tu sai cosa
ti manderò al più presto le prime bozze, con tutti i dettagli in mail, e invece
riguardo a quello che ti ho chiesto l’altro giorno, sono davvero molto
indecisa, perché effettivamente anche Shika potrebbe andare bene. Il
ballottaggio è fra lui e Lee!
Dark: ma no! Non
puoi essere così crudele! Non puoi chiamare il tuo povero pargolo Rock Lee,
abbi pietà! Guarda che poi le sopracciglia sono difficili da ammaestrare! Fai
come me, chiamalo Deidara, così ti diventa gay per vocazione…
Alla parte due
della shot ci ho pensato da subito, ma mi conosci: la scriverò solo se riuscirà
almeno a mantenere lo standard della prima parte. Anzi, proprio ora mi è venuta
un’idea. Avrai presto mie notizie!
Artemisia: ma
povero Lee, anche io balbetterei un po’ se fossi tutta spezzettata! XD
Tranquilla che
adesso mi lancio con cose un po’ più in là, e speriamo non ci sia da
pentirsene. Nooo, Neji con Hinata mai. Ti dirò, già malsopporto Hinata come pg,
perché la gente così fruscellosa non posso proprio vederla. Ha ragione Kiba, un
po’ di grinta stellina bella! E poi Neji mi implora di essere slashato, sarà
per il suo aspetto, per il suo modo di fare un po’ così, inafferrabile. In
questo senso è come Gaara, che è perfetto per quasi ogni tipo di slash.
Kamusa: ma che
bello, una new entry! Ho visto che ti sei fatta una bella full immersion di
tutti i capitoli, ti ringrazio davvero di cuore per l’entusiasmo!
Ti accontento
subito allora con questo nuovo cap, sei stata fortunatissima! XD
Capitolo 11 *** Story of a strange habits (Kotetzu/Izumo) ***
Story of a strange habits (Kotetsu/Izumo)
Story
of a strange habits (Kotetsu/Izumo)
Kotetsu si sentì
perforare la testa dalla luce troppo violenta del sole.
- Ti sei svegliato,
finalmente. –
Si sforzò di aprire
gli occhi, scoprendo davanti a sé un panorama sfocato e tremulo. C’era troppo
bianco attorno a lui.
- Sei rimasto
incosciente per due giorni. –
Quella voce. Soffice
e profumata di familiarità.
- I… Izu. –
Una mano gli
strinse la spalla destra con cautela. Kotetsu ce la mise tutta, per abituare
gli occhi alla luce il più velocemente possibile. Produsse una smorfia che gli
provocò un dolorino elettrico al volto, ma finalmente riuscì a mettere a fuoco
la stanza dove si trovava, spoglia come solo una stanza di ospedale può essere.
Torse il collo, ed
eccolo, finalmente.
Una macchia scura
al suo fianco, un lido per riposare gli occhi provati da tutto quel chiarore.
- Cosa… ? –
- Te la sei vista
brutta. –
Kotetsu sollevò
faticosamente un braccio, per potersi strofinare i capelli. Faceva sempre così,
quando aveva bisogno di mettere un po’ d’ordine fra le sue idee.
Gradualmente,
riuscì ad avvertire qualcosa di estraneo sul volto, una pressione leggera e
persistente che gli informicolava gli occhi. Si premette il dito indice sul
mento, risalendo con prudenza lungo uno zigomo, inseguendo lo snodarsi di
cerotti e bende tese e leggermente soffocanti.
- Fai piano. – lo
redarguì Izumo. – Sei ancora tutto rotto. -
- Uhmpf. Mi fa un
male dannato. -
- Vorrei vedere. Ti
sei quasi fracassato la testa. -
Kotetzu rabbrividì,
nonostante l’aria tiepida e immobile della stanza. La fastidiosa sensazione di
buco nero che occupava le precedenti ore, o giorni, o quello che era, andava
amplificandosi sempre di più verso il suo stomaco, lasciandolo solo a fare i
conti con l’insicurezza.
– Non riesco a
ricordare cos’è successo. – ammise a mezza voce.
- Credo che sia
normale. –
Izumo si alzò con
calma, e percorse qualche passo leggero lungo l’ampia stanza pitturata di
bianco.
Kotetzu lo seguì
con la coda dell’occhio, incappando talvolta nel profilo sgranato della benda
che gli avvolgeva il naso e gli zigomi.
A prescindere da
qualsiasi cosa fosse accaduta, doveva ammettere di sentirsi abbastanza bene,
dopotutto. Lì, con Izumo. Partire per una missione di classe B/A senza di lui
gli era costato molto più di quanto non fosse stato disposto ad ammettere.
Ricordava nitidamente di essersi sentito un idiota integrale, mentre
raccomandava a lui, lui che restava al villaggio senza far niente, di badare a
sé stesso e di essere prudente. Si era sentito in pensiero per Izumo invece che
per sé, e questo era uno degli ultimi ricordi di cui disponeva.
Certamente non
aveva previsto di finire in ospedale, di perdere conoscenza, o niente del
genere, ma a pensarci bene non gli dispiaceva del tutto essersi ritrovato a
casa in quel modo; se avesse avuto la possibilità di scegliere, la persona che
avrebbe preferito trovare seduta di fianco al letto al suo risveglio era
proprio lui. Era Izumo, Izumo e il suo sorriso sereno e contagioso. Se soltanto
non si fosse sentito così intorpidito nella zona del naso, avrebbe voluto
sorridergli a sua volta.
- Beh, che ci serva
di lezione. Mai più separati in missione. Sembra proprio che tu non riesca a
cavartela senza di me. -
- Divertiti a
gonfiare il petto finchè puoi, Izu. Appena mi sarò rialzato da qui lo vedremo,
chi è il migliore. -
Izumo si ributtò
sulla sedia, e gli scoccò un’occhiata in tralice. – Cerca di muoverti ad
alzarti da lì, stupido. –
Lo disse con una
voce strana, un po’ tremolante.
Anche la sua faccia
era strana. Kotetzu si trovò a pensare che fosse pallida, e incredibilmente
preziosa. Studiò la propria situazione con attenzione critica, prima di
decretare di poter tendere un braccio verso di lui. Si sentiva in dovere di
rassicurare Izumo, e di ringraziarlo in qualche modo. Anche soltanto per essere
lì al suo capezzale, senza avere nemmeno il sospetto di quanto questo potesse
significare per lui.
- Ti ho fatto
preoccupare? – domandò stupidamente.
Izumo si lasciò
toccare la spalla, ma per qualche ragione il gesto di Kotetzu sembrò far
precipitare ulteriormente la situazione, invece di migliorarla.
- Ovvio che sì,
razza di idiota. -
- Mi dispiace. -
Kotetzu vide il
volto di Izumo sciogliersi letteralmente. Le sue labbra, i suoi occhi, persino
la sua fronte e i suoi zigomi andavano modificandosi e torcendosi sempre di
più, come creta malleabile.
Izumo si morse
rabbiosamente il labbro inferiore. - Accidenti a te, mi hai quasi ucciso di
paura. –
Kotetsu era
incredulo. – Tu…? Tu stai…? –
Izumo scosse forte
la testa, ma era inutile, ormai lo stava facendo e basta.
Kotetzu sbarrò un
po’ gli occhi. - Stai piangendo. Tu stai piangendo. – insistette.
- Forse. Un po’. –
- Izumo… -
- Oh, chiudi il
becco, sono solo stanco, ecco tutto. -
Ed era vero, non
gli aveva mentito. Era stanco, era spossato, era completamente prosciugato,
perché aveva passato due giorni interi a vegliare quel deficiente di Kotetzu
giorno e notte, senza chiudere gli occhi per un attimo, senza distrarsi, senza
nemmeno toccare cibo. Le quarantotto ore più atroci della sua vita, con i
gomiti piantati a poco più di un dito dal braccio di Kotetzu, la bocca asciutta
e gli occhi umidi, a passare il tempo senza fare niente, soltanto guardando il
volto immobile della persona più importante che poteva dire di avere al mondo,
e a ripetersi che se Kotetzu fosse morto sarebbe morto anche lui, perciò no,
non poteva andare così, si sarebbe svegliato, perché altrimenti lo avrebbe
preso a pugni fino all’inferno. Lo aveva toccato, qualche volta, gli aveva
accarezzato un po’ i capelli, con una certa prudenza, per rassicurarsi,
sentendo che almeno era tiepido, inerte ma tiepido, vivo. Era incredibile come
prima di quel momento non gli fosse mai capitato di accorgersi di quanto sia
incredibilmente tranquillizzante quel po’ di calore che un corpo umano emette,
segnalando con discrezione la vita che scorre in lui.
Kotetzu riuscì a
vincere la rigidità di Izumo senza essere brusco. Lo attirò verso il basso,
appoggiandoselo al petto, e respirando a fondo. Sentirlo vicino in modo così
intimo, ed in un contesto così imprevedibile, lo faceva sentire strano. E dire
che lui ed Izumo erano sempre stati legati come fratelli. Doveva averlo
toccato, strattonato e abbracciato un’infinità di volte, eppure non gli era mai
capitato di provare quella strana sensazione che richiamava l’imbarazzo. Forse
perché loro due, insieme, avevano fatto un sacco di cose, avevano riso,
giocato, litigato, e chissà cos’altro, ma Izumo non aveva mai pianto per lui, e
maledizione, piangere è davvero una cosa seria.
- Dai… -
Kotetzu provò ad
accarezzare i capelli ordinati di Izumo più dolcemente che potè. Accidenti, gli
era sempre piaciuto mettergli la testa in disordine, magari rubargli la
bandana, ma quella volta voleva davvero che Izumo sentisse qualcosa di buono, e
di importante, nel suo gesto. Anche perché le parole non lo aiutavano per
niente.
- Scusami. –
mormorò Izumo, strizzando gli occhi e tirandosi un po’ su con le braccia. –
Scusami, adesso la smetto. Dio, mi sento così stupido… -
- Non ci pensare,
sono io che ti devo delle scuse. Mi dispiace di averti fatto stare in pensiero,
dico davvero. -
- Sei partito
ghignando come un cretino, e sei tornato sulle spalle di uno della Squadra
Speciale. Oddio, come avrei voluto strozzarti. –
- Lo so. Mi
dispiace. –
La voce di Izumo
giocava sulla linea di demarcazione fra la rabbia apprensiva che si dedica
soltanto a persone che contano tanto, tutto, troppo, e la paura che si sfoga in
singhiozzi incoerenti, sollevati, in un certo senso persino minacciosi.
- Adesso la smetto.
La smetto. – promise. – È solo che mi hai fatto morire. Maledizione, non osare
farmi mai più uno scherzo del genere, o ti giuro che te la faccio pagare. Non
ho mai dormito così poco in vita mia, ma tu eri qui, e io non lo so, non ti
avevo mai visto così pallido, e tutte queste dannate bende… -
- Niente più
missioni separate. È un promessa. -
- Una promessa
seria, o una delle tue solite cazzate? -
- E’ una promessa
seria, davvero. – Kotetzu tentò un sorriso incoraggiante. – Dai, fammi una
smorfia delle tue. Non mi piaci per niente con questo muso lungo. -
- Perché, di solito
ti piaccio? -
- Certo che mi
piaci. Lo sai che ti amo e che voglio sposarti, no? -
Izumo sortì un
mezzo ghigno, come se la sua bocca stesse ancora lottando fra la voglia di
ridere e la smorfia del pianto. Con gli occhi ancora rossi, era ancora più
strano, e più bello. Kotetzu si mordicchiò la lingua, e si chiese se dopotutto
le sue battute non fossero un po’ figlie della suggestione per qualcosa che in
fondo a lui, da qualche parte, viveva davvero. Era una cosa molto stupida da
pensare, ma lui non avrebbe avuto altra idea. Se doveva pensare ad una persona
da avere vicino per tutta la vita, quella poteva essere solo Izumo.
Passò una mano
dietro alla nuca di Izumo, che smise di sorridere. Qualche lacrima scendeva
ancora, Kotetzu ne seguì con lo sguardo una, che gli percorreva la guancia
senza incontrare ostacoli.
E gli venne voglia
di soffiarci sopra, di asciugarla, di berla, di portarla via.
- Io… - riuscì a mormorare.
E poi più niente. Basta
così.
Se solo avessero
voluto, il bacio sarebbe potuto diventare più prepotente, più intenso, persino
animale. Ma era prima di tutto un cercarsi, un dirsi cose che avevano richiesto
anni ed anni di elaborazione, di sedimentazione, e poi una mezza tragedia per
essere capite. Izumo riconobbe l’odore di Kotetzu, così incredibilmente
familiare, eppure intenso come mai prima, ora che lui era vicinissimo, ora che
lo toccava, che lo cercava, che lo voleva in modo confuso e impacciato. Strizzò
gli occhi, per cercare una concentrazione totale, e alcune lacrime scivolarono
giù, sfuggendo alle linee delle guance. Kotetzu le sentì raggiungere la benda
che gli avvolgeva il viso, e sparire nella stoffa, raffreddandosi un po’ sulla
sua pelle. Cancellò la pista delle lacrime precedenti dal volto di Izumo con le
dita, perché anche tutte le seguenti cadessero dai suoi occhi ai suoi zigomi e
si infiltrassero nella garza. Non avrebbe smesso di baciarlo finchè lui non
avesse smesso di piangere, e una ad una, le avrebbe catturate tutte.
* * *
- Non levi la
benda? –
Kotetzu si strinse
nelle spalle, sornione. – Non ci penso nemmeno. Mi ci sono affezionato. – ghignò.
- Affezionato ad
una benda? Tu non ti sei ripreso del tutto, parola mia. -
Kotetzu ridacchiò, e
arpionò Izumo per il busto attirandolo contro di sé e incasinandogli i capelli.
Un gesto ripetuto milioni di volte in quegli anni, come un’abitudine, un
privilegio che si sapeva accordato a priori.
Ma adesso, fatto in
un senso di verso, distante mille miglia da tutto ciò che fino a quel momento
erano stati.
Izumo tacque. Lo
faceva sempre, quando la distanza fra loro diminuiva oltre un certo margine di
sicurezza, e cominciava a precipitare irrimediabilmente verso una cascata di
cose nuove ed imprevedibili. Baciò il suo compagno, il suo destino, il suo
mondo, con lo stomaco svolazzante di emozione per il solo fatto di poterlo
fare.
Era uscito
dall’ospedale da un paio di settimane ormai, ancora mezzo imbacuccato in garze
e fasce, e probabilmente l’unica davvero inutile era proprio quella che gli
avvolgeva il naso. Izumo si era piantato in casa sua, con il pretesto di dargli
una mano durante la convalescenza.
La verità era che
Kotetzu era entusiasta almeno quanto lui di recuperare un po’ del tempo che
avevano perduto. Ma chissà se glielo avrebbe mai detto.
- In questa benda è
finito qualcosa di molto prezioso. – gli mormorò a fior di labbra. – Qualcosa
che prima o poi troverò il modo di restituirti. Ma fino ad allora, non la
leverò per nessuna ragione al mondo. –
ANGOLINO!
Ok, picchiatemi.
Dai, ditemi che Kotetzu e Izumo non sono canon! Come diamine ho fatto a non
accorgermi prima di quanto siano magnifici questi due? Eppure il manga li serve
su un piatto d’argento, perennemente insieme, sempre a discutere, borbottare e
tramare.
Praticamente
gridano vendetta!
Ecco, li amo.
Rekichan: sappi che
quoto in pieno la tua amica, ed infatti è per questo che Sasuke/Neji è una
delle mie coppie preferite (anche se, da te a me, nessuno sputa sulle Kaka/Sasu
Sasu/Naru che hai nominato tu XD)
Neko: grazie mille!
La Sasu/Naru è un classico, non ci si stanca mai!
Rael: ma non sai
quanto sia felice, ormai sono votata alla diffusione delle Sasuke/Neji!!!
La Rosa Bleu: ti
ringrazio tantissimo!
Kamusa: certo che
lo vedi bene con Sasuke, avevi dubbi? ^__- Hihihi, fra i pettegoloni di Konoha
vedici pure me, che con un grandioso Camaleonte no Jutzu, tecnica segreta di
Stateira, sono sgattaiolata a spiarli… SBAAAV, chissà che magari non dedichi un
capitolo a quello che ho visto!
Nina: di Hinata
molto probabilmente tratterò più avanti, però non so se ne farò una storia
romantica o una introspettiva. Come avrai notato non sono molto propensa
all’het, ma Hinata è sicuramente un personaggio interessante da trattare.
Artemisia:
Hinata/Itachi? O__o ma sai che non ci avevo mai pensato? Comunque nel manga ci
sono spunti per tutti i gusti, non mi stupirei affatto di trovarmi fra capo e
coda una situazione super piccante con quei due… Nuuu, dai, non insultarmi, povera
me! Hai centrato in pieno la parte che ho adorato di più scrivere, quella con
Sasuke che elargisce saluti, e la gente basita che si chiede quale strano
demone si sia impossessato di lui…
Dolceamara: ma
guarda chi sbuca fuori da queste parti! È sempre bellissimo ritrovarti, sia fra
le storie pubblicate che fra le recensioni, grazie mille a te!
Chiara: il tuo
discorso è proprio giusto invece, Neji e Sasuke non si possono certo dire una
coppia convenzionale, eppure si cercano senza sosta. Guarda lascia stare, anche
io me lo chiedo sempre di più. Maledetto Kishimoto, cosa aspetti a farli
diventare canon e magari a disegnare una bella lemon come quelle che si trovano
in giro? *Stat sviene per la gioia al solo pensiero*
Dark: hehe,
dispenso consigli preziosi sui nascituri, io! Sì, Neji addormentato è una
patata, e Sasuke che lo pensa ancora di più! Ti è arrivata la mail che ti ho
mandato dal sito?
Little star:
tranquilla che il lavoro procede, sono un po’ nel panico su alcuni punti, ma ne
uscirò vittoriosa!
Naruto lo affiancò
sulla via del ritorno dall’accademia, e arricciò il naso. – Come mai tu e il
maestro Iruka vi siete parlati in modo così strano? -
Kakashi si sentì un
po’ stupido, mentre cercava di fingere di non capire la sua domanda così
spiccia e diretta, così tanto facile.
- Non trattare male
il maestro Iruka, ha capito? – lo redarguì Naruto, incrociando fieramente le
braccia. – Per tua informazione, io gli voglio davvero molto bene! -
- Naruto,
finiscila. – sospirò Sakura.
Sasuke non disse
nulla. I suoi occhi scuri vibrarono rapidamente sul muso imbronciato di Naruto,
e su quello di Kakashi.
Che era qualcosa
che fino ad allora non era mai stato. Era freddo.
Forse, dopotutto,
quel testone di Naruto ci aveva in qualche modo visto giusto.
- Credo che tu stia
prendendo un granchio, Naruto. – sospirò Kakashi, paziente.
- Però a me sembra
che il maestro Iruka ti abbia guardato davvero molto male. -
Kakashi si strinse
nelle spalle. – Chissà. –
Già. Chissà se
mettendo i ragazzi l’uno contro l’altro, e spedendo Sakura ad allenarsi su un qualche
albero, sarebbe riuscito a prendersi qualche minuto per pensare un po’. E
magari per prendere una decisione. Una dannata decisione, dopo che lo aveva
rivisto, e gli aveva parlato, faccia a faccia, e lo aveva guardato negli occhi,
dopo tutto il tempo passato ad ignorarsi violentemente.
*
Bussare discreto
alla porta.
Iruka alzò lo
sguardo, come se il legno dell’uscio potesse essere trapassato per pigrizia.
Appoggiò il giornale sul tavolino, tirò giù di malavoglia i piedi, e si
rassegnò ad alzarsi per andare ad aprire. Era davvero raro che si sentisse così
indisposto, ma accidenti, mancava meno di mezz’ora all’ora di cena, e lui
sperava solo di potersi rilassare un po’ dopo una giornataccia da dimenticare
in ogni senso.
- Sto arrivando! -
Nonostante tutto,
sorrise: probabilmente era quello scemo di Naruto, a caccia di un buon ramen e
di un po’ di compagnia per la serata.
La porta si aprì
con un cigolio sciatto su una figura alta, che proiettava un’ombra lunga e
densa sul pavimento, fino a toccare ed oltrepassare i piedi di Iruka,
sparpagliando i suoi capelli incasinati proprio un passo dietro di lui.
- Kakashi? -
Silenzio.
Iruka aprì la bocca,
la richiuse, si morse un labbro. Sorpreso. Sorpreso era il termine più adatto,
in quel momento, senza dubbio. Inutile aggiungere che questo implicasse anche
l’essere senza parole.
Kakashi, sulla
porta di casa sua.
Tempo, così tanto
tempo.
- Ciao, Iruka. -
- Ciao. -
- Mi chiedevo se
non fosse un disturbo. -
Iruka sentì il gelo
della cortesia fra due estranei scendere sull’ingresso, e scuoterlo con un
brivido sgradevole.
Distolse lo sguardo
da quello di Kakashi, che lo cercava con discrezione ed insistenza allo stesso
momento. Davanti a lui saettarono momenti rapidi di intimità stretta, di
confidenze e di legami rubati, come baci, come la colazione insieme, come lo
stesso bicchiere per due bocche.
- Che cosa vuoi? -
- Volevo parlare
con te. -
Iruka esitò. Sapere
di avere in mano le redini, sapere che Kakashi aspettava che lui dicesse
qualcosa, prima di parlare, era imbarazzante, e strano. Probabilmente non era
mai capitato, nemmeno allora. Fece un cenno d’assenso con il mento.
- Dai, entra. Non
restare sulla porta. -
Kakashi fece quanto
gli era stato detto, e niente di più. Avanzò di pochi passi, le mani in tasca
come sempre, e aspettò con pazienza che Iruka chiudesse l’uscio alle sue
spalle, escludendo l’invadenza del ballatoio ed immergendo l’ambiente nella
luce più familiare delle lampade di casa.
- Sai, Naruto ha
capito. -
Kakashi aveva la
stessa faccia di sempre, scanzonata e morbida, ogni volta che diceva qualcosa
che lo imbarazzava.
Iruka sussultò. –
Capito? -
- Beh, in parte. Oggi
pomeriggio mi ha chiesto come mai io e te ci fossimo comportati in modo strano.
-
Il chunin si
mordicchiò il labbro inferiore con aria un po’ colpevole.
- Ce l’ho messa
tutta anche io. – mormorò Kakashi, prevenendolo. – Ma evidentemente non riesco
ancora a comportarmi normalmente, con te. -
- Sono solo rimasto
un po’ spiazzato, vedendoti. – chiarì duramente Iruka. – Non credevo che li
avresti candidati, tutto qui. -
- Sì, lo
immaginavo. Sai, non sapevo che i ragazzi fossero stati tuoi allievi. -
- Se speri che ti
creda, puoi anche lasciar stare, ed evitare di perdere altro tempo. -
Un sospiro sentito.
– E va bene. L’ho sempre saputo, e ho fatto di tutto per farmeli affidare,
perché speravo di riuscire ad arrivare in qualche modo a te. –
- Ridicolo. -
Kakashi diede
un’alzata di spalle. – Come vuoi, non mi importa a quale delle due versioni
deciderai di credere. –
- La lista delle
cose di cui ti importa è molto breve, Kakashi. –
- Sei sempre stato
più bravo di me, con le parole. -
- E tu con gli shuriken,
maestro jonin. –
Kakashi sorrise
acerbamente sotto la sua maschera. – Beh, almeno lo ammetti. -
- Non hai di che
temere, Kakashi, non ho mai messo in discussione la tua superiorità rispetto a
me. -
- Se davvero non lo
avessi fatto, non sarebbe successo ciò che è successo. -
Iruka si irrigidì.
- Sono un ninja, come te. Rischio la pelle esattamente come te, e come tutti
quanti. – rispose orgogliosamente.
Strano.
Non stavano
litigando, non nel vero senso della parola. Si stavano colpendo l’un altro con
parole miti, stavano usando aghi al posto di kunai, lunghi e sottili abbastanza
da penetrare fino al cuore senza versare nemmeno una goccia di sangue. Delle
tante volte in cui avevano battibeccato e discusso, persino nelle occasioni più
serie, Iruka non ne ricordava nemmeno una, così. Era come se entrambi
sentissero di non avere più l’autorità di alzare la voce con l’altro, di
sputare parolacce, di spintonare.
Adesso, dovevano
comportarsi da persone estranee, e misurarsi con cortesia, perché non c’era più
nulla che giustificasse la loro voglia di gridare.
- Già. Beh,
scusami, se ho sempre cercato di evitare che tu rischiassi la vita sotto ai
miei occhi. -
- E’ bello vedere
che il tempo non ha cambiato le tue assurde convinzioni nemmeno di una virgola.
Spero che le persone che sceglierai di avere al tuo fianco d’ora in poi
pieghino il capo ai tuoi capricci senza far storie. -
*
- Ma non ha
senso. -
- E invece sì.
Verrà Mizuki con me. -
- Mizuki? Ma lui
ha meno esperienza di me! -
- Imparerà. -
Iruka sbattè le
mani di piatto sul tavolo. – E’ stato il signor Hokage in persona ad ordinarmi
di partecipare alla missione con te e Asuma. Non puoi impedirmi di venire. –
- L’ho gia
fatto. Ti ho dato malato. -
- Che cos’hai
fatto?!?!? -
*
- Non hai mai
cercato di capire, Iruka. -
- No, ma per te ho
fatto già abbastanza da essere in pace con me stesso. -
Kakashi piantò un
piede in avanti. – Dimmi una cosa, Iruka. – scandì. – Come diavolo pretendi che
io non pensassi a te, in una situazione del genere? -
- Tu non pensavi a
me, ma solo a te stesso. Volevi sentirti tranquillo sapendomi a casa con le
mani in mano, ecco tutto. -
- Conosci le
regole, niente sentimenti in missione. Mi spieghi come avrei potuto svolgere un
maledetto incarico di quel livello senza preoccuparmi per te? -
*
Kakashi strinse
improvvisamente il polso destro di Iruka, tanto forte da farlo tremare. –
Ascoltami molto bene, Iruka. Non ti trascinerò con me in una missione suicida.
Non intendo veder morire proprio te, come se tu fossi un compagno qualunque, e
se questo tu non riesci a capirlo, beh, non mi importa. –
- Tu non hai un
cuore. -
- Ce l’ho
eccome, invece. Ma non posso permettermi di averlo in missione, ed è per questo
che ti impedirò a tutti i costi di venire con me.
- Ne ho
abbastanza del tuo assurdo modo di fare, Kakashi. Mi porterai con te, ti
piaccia o no. -
- Sai che non lo
farò. -
- Non usare quel
tono supponente con me! Sarai anche un maledetto jonin, ma non hai l’autorità
per darmi ordini! -
*
Sorriso amarognolo
e impertinente. – Non ti facevo così osservante delle regole, Kakashi. –
disse lentamente Iruka, masticando il suo nome con i canini. – E dire che io mi
ricordo di un tizio con i capelli grigi, un tizio strano, un tizio che non
aveva paura di niente, soprattutto delle regole. Un tizio che io rispettavo ed
ammiravo. E che… -
Iruka lasciò che
fosse il silenzio, a completare la sua frase. Kakashi non lo meritava, e se
proprio avesse voluto sentire la parola amore, da lui, allora se la sarebbe
dovuta cercare con l’immaginazione, nel rettangolo di aria che li separava. –
Beh, salutamelo, se per caso ti capiterà di incontrarlo. –
- Iruka. -
Nonostante tutto,
era ancora impressionante come il suo nome suonasse come un ringhio basso,
nella bocca di Kakashi, se appena faceva la voce un po’ più roca. Quello era
sempre stato il suo personalissimo modo di mettergli i brividi, e a quanto pare
non lo aveva scordato.
- Quel Kakashi è
qui davanti a te. -
- Ah sì? Strano,
perché io non vedo niente. -
Una mano sul polso.
Era successo tante volte che per Iruka ormai era una sensazione familiare. Il
grattare ruvido dei guanti che avvolgevano il palmo, il tintinnio del metallo
della placca, e le dita di Kakashi, scoperte dalla seconda falange, nude,
calde. Sarebbe stato pronto a scommettere che sapevano di fuliggine, di erba e
di sapone, come sempre.
- Guardami, Iruka.
-
- Guardarti? –
Disprezzo,
sarcasmo. Rabbia, tanta.
– Guardare che
cosa? La maschera o il coprifronte? -
Occhi bassi. Occhio
basso.
– Non vedo niente
del Kakashi che conoscevo. Soltanto bende e maschere. –
- Ho fatto scelte
che tu non hai capito. -
- Già. Oh, è sempre
stata una fatica dannata, cercare di capirti. -
- … -
- Lasciami andare.
-
-… -
- Ti ho detto di
lasciarmi. Mollami il polso. -
- Non credo di
poterlo fare. -
Thump.
Kakashi lo
strattonò improvvisamente, e il petto di Iruka si scontrò con il suo. Produsse
un rumore attutito, così tremendamente simile ad un battito, uno solo, di un
cuore comune.
Niente di
romantico, niente che profumasse di fiori, soltanto la paura fottuta di dirsi
la verità.
- Sai che non mi
piace prendere ordini. -
Iruka sperò di
riuscire a mettere insieme uno sguardo abbastanza freddo da gelarlo. – Questa è
casa mia. – ringhiò.
- Sì, lo so. –
Kakashi allentò la presa, ma non lasciò andare del tutto. Manteneva una
sicurezza, una corda morbida al posto delle catene.
- La conosco, sono
stato qui molte volte. So dov’è il frigo, e dove tieni le pentole. Mi ricordo
del cigolio del tuo divano, che deve avere la tua età, ma che è perfetto per
allungare i piedi sul tavolo. Ho usato la tua doccia, con l’acqua calda che ci
mette un secolo per scendere, e sono stato nel tuo letto, non so quante volte,
ci ho dormito e ti ho guardato dormire, ci ho fatto i miei sogni migliori e i
miei incubi peggiori, ho fatto a pugni con i tuoi cuscini, ci ho passato
nottate e giornate, a fare l’amore con te, a leggere, e a guardare la tv con te
buttato addosso, e… -
E mille altre cose
ancora. Perché lui lì si era sempre sentito un po’ a casa, molto più di quanto
lo fosse nel proprio appartamento, se Iruka non c’era. E poi da Iruka si stava
meglio, lui lo aveva sempre pensato. La sua casa era popolata di quella
confusione, di quel calore, di quel senso di vita che ogni casa dovrebbe avere.
Tutte le volte in cui aveva fatto girare nella toppa la copia della chiave che
Iruka gli aveva dato, Kakashi aveva sorriso, e non soltanto perché oltre
quell’uscio avrebbe trovato qualcuno con un sorriso che per lui significava un
mondo intero, ma anche perché c’era un sincero affetto per quel divano
vecchiotto e comodo, e per il lampadario basso sul tavolo di legno scuro, e per
i vasi di sempreverdi che incorniciavano la grande finestra del soggiorno come
colonne, ondeggiando pigramente ad ogni soffio di venticello.
Era il peso
dell’intimità che tornava, fracassandosi tutta insieme contro le dighe fragili
e impreparate di Iruka. Mille tazze di latte divise, i pantaloni di Kakashi che
non si trovano più, le docce insieme, la lotta per l’ultimo cucchiaio di budino
di riso, i baci sull’uscio, non posso restare anche stanotte, domani devo
partire, e tu non mi lascerai mai alzare ad un’ora decente.
La stupida genesi
della sua abitudine ai ritardi.
- Basta. Hai detto
abbastanza. -
Kakashi abbassò lo sguardo.
Un singhiozzo
irritato. Memorie di una vita andata in pezzi.
- Stando con i
ragazzi, ho capito alcune cose. Una di queste sei tu. – disse soltanto.
Iruka dondolò dalla
punta dei piedi ai talloni, chiudendosi in un silenzio cocciuto che Kakashi non
rispettò a lungo.
– Cosa vuoi che ti
dica. – fece, con un sorriso mesto. – Ci portiamo rancore a vicenda, ognuno per
le sue ragioni. Nemmeno io ti ho perdonato, per non essere venuto nemmeno a
vedere come stavo, al mio rientro. Mi hai abbandonato a me stesso, in un
ospedale, senza una parola. -
- L’ho fatto perché
ti odiavo troppo, ma sapevo che non sarei riuscito a rivedere la tua faccia
senza dimenticare tutto quanto. -
- E adesso? Riesci
a guardarla, la mia faccia? -
Tremori che si
spacciano per indifferenze.
- Adesso la tua
faccia è tutta coperta. -
Fruscio di stoffa,
e maschere che volano al vento. Kakashi non aveva intenzione di lasciare
davvero niente in sospeso.
- Naruto e gli
altri parteciperanno all’esame, e se lo supereranno diventeranno chunin come
te. Chissà che allora tu non ti decida a darti da fare per diventare jonin.
Magari potrei anche pensare di portarti con me, a quel punto. –
Era bello. Lo era
sempre stato, bello e affascinante, tanto da fargli tremare le ginocchia. Era Kakashi,
era l’uomo per il quale lui aveva perso la testa completamente, stupidamente,
come un ingenuo. E non era cambiato, nemmeno un po’.
Iruka sbuffò un
sorriso impercettibile. – Sei davvero incorreggibile, Kakashi. -
Un sorriso sincero
e malandrino, su quel viso scoperto. La mano che è ancora lì, ferma sul polso.
Occhi che scendono e salgono, che indugiano sulle labbra dell’altro per qualche
secondo di troppo.
Memorie di una vita
che cerca di ricomporsi. Un po’ presto, un po’ in fretta, perché per favore,
adesso basta, basta stare lontani, basta nascondere le ferite anziché curarle.
Voglia di baciare
quella bocca. Di nuovo.
ANGOLINO!
Vi ricordate di
quanto mi fosse piaciuto scrivere Written? Ecco, questa invece l’ho scritta
borbottando “Kakashi, se non rimetti tutto a posto all’istante ti faccio a
pezzetti.”
Giuro che questo
pezzo non l’ho scritto io, è stato Kakashi che ha fatto tutto da solo!
Uhm, che dite, ci
sarà riuscito? ^__^
Ginny93: ti
ringrazio moltissimo, sono davvero contenta che ti sia piaciuto!
Kamusa: hihihi,
visto, abbiamo svelato la verità sulla benda di Kotetzu! Certo che scriverò
ancora di loro, sono meravigliosi!!!
Tinebrella: no
problem, in effetti sono due personaggi un po’ in ombra, normale che tu non
abbia capito subito! Beh in effetti sono fantastici anche IC, non è stato
difficile!
Dark: tesoro,
naturalmente ti è piaciuta perché sono loro ad essere bellissimi, io non posso
prendermi nessun perito! Non ti preoccupare, ti rimando la mail questa sera
stessa. Se non ti arrivasse fai una cosa, prova tu a contattare me, anche solo
con una mail di prova!
Myriam: mi sono
fatta la tua stessa domanda quando li ho notati nel manga… Mi sono detta che
urgeva assolutamente scrivere un’ode in loro onore!
Chiara: non so dove
tu sia con il manga, ma posso dirti questo senza paura: se sei già agli esami
per chunin cercali senza paura nel manga o su internet, perché sono già
comparsi! Sono due personaggi un po’ in ombra, ma ci sono!
Artemisia: ha, e
qui si scoprono influenze esterne! Beh devo dire che comunque hai la mia
massima stima per le Hinata/Itachi, perché ti riconosco che con quei due
verrebbero fuori dei giochetti psicologici assolutamente grandiosi. E poi non
c’è che da aver pazienza, Kishimoto nel manga fornisce basi d’appoggio per
qualsiasi, e dicesi qualsiasi, paring!
Feda: ho solo fatto
il mio lavoro celebrandoli come si deve, quei due meriterebbeo un’attenzione di
primo piano! Non sono solo due personaggi divini a prima vista, ma secondo me
sono pure forti!
Little Star: ma
cara la mia socia, grazie di cuore!!!
Nota: sì, lo so,
ho fatto una scelta che definire atipica è un eufemismo. Eppure questa canzone evoca
Gaara per il disperato contrasto che porta in sé.
Prendetela così
com’è, senza farvi troppe domande.
Per la cronaca,
ho riportato stralci della canzone sia nella versione latina che nella
traduzione inglese. Il testo quindi non è completo, né in una versione né
nell’altra.
Qualche
consiglio di interpretazioni particolarmente intense? “Adeste fideles” di Enya
e “Oh come all ye faithful” di Martina McBride.
The
king of angels (Gaara)
Adeste fideles, laete triumphantes
Venite, venite in Bethlehem.
Quasi
non si sente. Il respiro singhiozzante di una creaturina misera, più debole di
qualsiasi brezza.
Ma
respiri, e questo fa di te qualcosa di vivo. Una manina piccola così, che si stringe
tremolando al suo lembo di coperta calda, in questa notte di deserto che va
raffreddandosi rapidamente e impietosamente, come se il calore fosse stato
prosciugato dalle dune instabili che circondavano le mura possenti di Suna.
Una
manina troppo piccola, la tua, per farsi strada nel mondo, una manina che ha
già perso il seno materno a cui appoggiarsi, per far leva su esso e provare a
sorgere pian piano.
Quanta
paura fa, la tua solitudine superiore, il tuo vagito che risuona a vuoto
nell’aria secca e indifferente, che rimbalza inutilmente contro il petto di chi
ti ha voluto.
Come and behold him,
Born the king of angels!
Almeno
fossi nato dalla sabbia salata e pura della tua terra, vomitato fuori da
qualche vortice, oppure uscito da una pianta grassa, come quei prodigi di cui
si infarciscono le leggende e i racconti.
Fossi
sceso dal cielo, o sorto dall’acqua, almeno avresti avuto un’origine da
reclamare, che non fosse la sabbia infangata e impastata di sangue di una prova
di forza a tutti i costi. L’odore del sangue misto alla sabbia si fa subito acido
e sgradevole, troppo, per il tuo nasino arrossato da tanto gridare e piangere.
Ma ti
hanno impastato con gli orridi ingredienti della potenza più arcana, hanno
fatto di te un bozzetto di creta, una pietanza a consumo di tutti noi, che
siamo cannibali della tua forza innocente; ti hanno mescolato, creato, composto,
manipolato, e poi messo a cuocere per nove mesi in un grembo che non era tuo, e
che chissà se ti voleva, poi, ed eccoti, ciò che ne è uscito sei tu, piccolino
dagli occhi umidi.
Benvenuto.
Oh come, let us adore him,
Oh come, let us adore him,
Oh come, let us adore him,
Dominum.
Benvenuto,
Gaara del Deserto.
Gaara
di Nessuno.
Piccolo
mostro innocente, gloria a te, simulacro di tanto rancore. Noi ti rendiamo
omaggio, noi chiniamo il capo ed offriamo doni. A te, nato già assetato, tu che
sei già signore di qualcosa che ancora devi incontrare, e vedrai, non ti
piacerà la sabbia, non ti piaceranno i suoi grani aggressivi negli occhi, non
ti piacerà il suo sapore salato, e per questo finirai con l’odiare tutto quanto,
ogni uomo, e a rifugiarti nell’odore nauseabondo dell’unica cosa che ti è
fedele, macerando ed impazzendo lentamente su te stesso.
Offriamo
ricchi doni a te, perché in futuro tu possa ricordarlo.
Perché noi ti
temiamo. E veniamo ad importi il tuo nome di morte, perché tu possa cominciare
a sentirti già prigioniero di qualcosa.
Gloria, gloria
In excelsis Deo
Venite adoremus
Dominum
Benvenuto, bimbo
paradossale, bimbo raccapricciante. Benvenuto, bimbo nato già gravido, bimbo
con la pancina gonfia di sabbia.
Benvenuto, e se
puoi, ricordati di non ucciderci.
Sei appena nato, e
noi sappiamo già che sei un errore. Perciò ringrazia tuo padre, non noi, se sei
così, impara in fretta a parlare e a camminare, così te ne potrai andare a
suicidarti da qualche parte, ad infestare la vita altrui, a sfogare su
avversari casuali i tuoi istinti e la tua anormalità corrotta.
Noi abbiamo paura
della morte, e abbiamo paura di te, perciò guardaci, e impara i nostri volti,
ed evitali, in futuro, non incrociarci e noi ti ignoreremo, ti lasceremo nella
solitudine che si riserva a quelli come te, e cercheremo di dimenticarci di te,
ci sforzeremo di fingere che questa notte sia stata la manifestazione di un
sogno, faremo finta di non aver visto né stelle né prodigi, e rideremo del
nostro pellegrinaggio onirico, e del saluto ad un bambino che non c’è.
Yea, Lord, we greet thee,
Born this happy morning
Jesus, to thee be the glory giv’n
Word of the father,
Now in flesh appearing
Occhi
lucidi che guardano la folla, rapiti e attoniti. Siamo qui per te, piccolino,
siamo qui per celebrare la mostruosità che ti ha dato vita, per celebrare noi
uomini, diversi da te che sei mostro, che sei figlio di una madre fecondata da
sue padri, con due semi diversi e mischiati in una poltiglia acidula di sperma
e sabbia.
È
davvero disgustoso come da una simile aberrazione possa nascere qualcosa di
tanto grazioso. La vita è stata ironica con te, piccolo Gaara.
Con i
rumori indiscreti della festa ti terremo sveglio, Gaara del Deserto, perché tu
possa prepararti alla tua vita fortunata. Vivrai senza mai chiudere gli occhi,
senza mai sprecare un istante della tua esistenza preziosa con il sonno, con i sogni,
con il riposo, con la pace. Sbadigli già, così piccino, ma dimenticherai presto
la sensazione tiepida del torpore, ti aiuteremo noi, signorino Gaara, ci
occuperemo noi di pungerti gli occhi con degli spilli.
Perché
ti odiamo, Gaara del Deserto, Gaara di Nessuno, gloria, gloria.
Venite
adoremus
Venite
adoremus
Venite
adoremus
Dominum
Si
canti e si balli per lui, per il mostro dagli occhi grandi, e gloria, gloria
alla sfrenatezza umana, gloria a te, piccola chimera, gloria al figlio di una
donna morta e di un uomo invasato, gloria al figlio che nemmeno la sabbia ha
voluto riconoscere come suo. Gloria allo specchio della nostra vanità perversa,
perché nella paura che abbiamo di te noi ricacciamo ogni altro sentimento
inammissibile, perché di te facciamo il bersaglio degli incubi che sono in noi,
e tu sarai l’assassino che giustificherà ogni altro assassino, l’orrore che
soffocherà ogni altro orrore, lucidando le nostre coscienze nella certezza che
tu sarai sempre e comunque peggio di noi.
Perché
di fronte a te, a te che sei mostro, noi ci sentiamo tutti più normali.
Ci
sentiamo tutti più uomini.
ANGOLINO!
Kamusa: per dirla
alla Willy Wonka, siamo diventate tutte delle borbottone. Ma non è colpa nostra
se Kakashi fa su casini!
Kagchan: beh, Naruto
qualcosa ha intuito, poi per fortuna che non ha approfondito! Anche io adoro la
coppia, sono meravigliosi!
Solarial: me si
inchina profondamente, e fa pure il ghirigori con la mano. Troppa grazia! Sono
davvero contenta che tutti quei cap ti siano piaciuti, e per le altre coppie
non ti preoccupare, tanto questa raccolta sta diventando un gelato tutti
frutti!
Little Star: ma no,
dai, che Iruka è un dolce (in fondo), non avrebbe infierito in modo
esageratamente sadico su Kakashi. Credo. Hai perfettamente ragione a dire che
urlare sarebbe stato molto meglio, è proprio questo che crea un senso di
tensione fastidioso. La prossima volta Iruka lo prenderà a calci senza troppi
complimenti!
Fann: eccola qui!
Sono proprio contenta che ti sia piaciuta, soprattutto perché tu sei stata la
mia bozzista super professionale per la prima stesura e il tuo parere conta
tantissimo!
Artemisia: non ti
preoccupare stella mia, è la tua vena slash che tenta di emergere! XDDD Dai,
scherzi a parte, spero che sia davvero quello, e non qualcosa di più
problematico (oddio, parlo come Shika, arrestatemi).
– Davvero non ti
fa alcun effetto perdere i tuoi animali? –
- Dipende. –
- Cosa intendi
dire? –
Kiba sbuffò
sonoramente, allungando una mano per appoggiarsi al primo appiglio sottomano.
Akamaru zampettava diligentemente al suo fianco, scavicchiando qualche zolla
d‘erba con le zampette bianche. Sembrava un po’ meno stanco del suo padrone,
nonostante la corsa.
- Mi dispiace. –
ansimò Kiba fra i denti. – Sono in ritardo. –
Shino non lo era. Naturalmente.
- Non importa.
Cominciamo. –
Kiba diede un mezzo
gemito agonizzante a cui Shino non concesse considerazione. Si rassegnò a
mettere mano ai suoi shuriken e a prepararsi al peggio, e a farlo alla svelta.
Avevano iniziato da
un paio di mesi, o giù di lì, ad allenarsi assieme, andando anche oltre
l’orario di normale addestramento con la maestra Kurenai.
Tutta la faccenda,
per la verità, era cominciata in quel modo. Kiba all’inizio si era sentito in
colpa da morire per aver organizzato tutto ciò alle spalle di Hinata. Non c’era
niente da fare, era impossibile non mangiarsi il fegato per uno come lui, uno
buono dentro, ma Hinata era semplicemente fatta così, e lui dal canto suo, si
sentiva frenato, troppo. Per questo ne aveva parlato con Shino, che aveva
accettato di esercitarsi assieme a lui in vista di missioni future, magari più
pericolose. C’era tempo, per occuparsi di Hinata e del suo carattere
irrecuperabile, ma nel frattempo bisognava fare qualcosa, bisognava rendersi
indipendenti e capaci di proteggere se stessi e gli altri.
Gli altri
soprattutto.
Perché Kiba ci
pensava, non troppo spesso, però ci pensava. C’erano carriere da valutare,
scelte da fare in molti sensi, rischi a cui andare incontro, e lui si sentiva
responsabile per Akamaru tanto quanto per se stesso, e forse anche di più.
E poi…
Poi?
Mah, chi poteva
dirlo, come fossero andate esattamente le cose. Era stato tutto un gioco di
sensazioni che non si potevano ignorare, di sguardi un po’ così, un po’
obliqui, un po’ curiosi, un po’ troppo allusivi ed incoscienti.
Shino Aburame
parlava poco, e diceva ancora meno. Kiba, poi, era selvatico nel senso più
sporco del termine, scostante e ringhioso.
Si andavano bene
perché era così, il ragazzo che parlava senza dire, e quello che ringhiava per
non mordere.
Bisognava ammettere
che Shino era il genere di persona che diventa leader del gruppo senza aver
bisogno di chiedere niente a nessuno, e Kiba si fidava di lui ciecamente,
nonostante fosse recalcitrante quando si trattava di eseguire gli ordini che
Shino impartiva senza alcun senso del tatto, senza il benché minimo rispetto
per l’orgoglio altrui.
“Fai questo. Fai
questo perché sì, perché è così.”
Kiba borbottava
come un fiumiciattolo in piena, ma poi eseguiva, e si metteva persino a ridere.
Era il suo modo di fare, quel ridere che sembrava latrare, e Shino era stato il
primo ad abituarsi a queste sue declinazioni senza battere ciglio.
Probabilmente era
proprio da quella reciproca fiducia incondizionata che era nato tutto, che
erano germogliati i primi germi, perché a furia di stare con Akamaru, Kiba si
era abituato a ragionare come un cane, e si sa, per i cani la fiducia è una
cosa seria, la fiducia la si concede soltanto al proprio padrone.
La fiducia, per un
cane, è sinonimo di amore.
Kiba si
raggomitolò sulle ginocchia.
– Davvero non ti
fa alcun effetto perdere i tuoi animali? –
- Dipende. –
- Cosa intendi
dire? –
Mani nelle mani,
mai. Sorrisi, carezze, bah, smancerie buone soltanto per sigillare compromessi
di cui loro non avevano bisogno.
Si allenavano,
loro.
Si inseguivano con
le armi in pugno, si sfinivano, si colpivano, non si davano tregua finché quel
poco di buon senso di cui le loro teste scombinate potevano vantarsi non
imponeva loro di smettere per riposare.
Allora, forse,
parlavano un po’. In codice, si intende: nessuno dei due avrebbe mai parlato
chiaro con l’altro.
- Quel cagnetto è
davvero tutto per te, vero? –
- Dovresti capirmi.
Tu hai lo stesso rapporto con i tuoi insetti. –
- Non è del tutto
vero. I miei insetti sono alleati preziosi, nulla di più. Io accetto la morte
di molti di loro, in battaglia. Tu riusciresti a perdere Akamaru? –
- No, mai. Perché
lui non è un semplice alleato. –
- Lo immaginavo. È
questa la differenza fra noi due. –
- Mi consideri
debole? –
- Ho detto
differenza, non debolezza. –
- Ma tu credi che
il mio legame con Akamaru sia una debolezza, in battaglia. –
Shino si diede una
sistemata incurante agli occhiali. – In battaglia. – confermò. – Pochi minuti
al giorno. –
- Che cosa vuoi
dire? –
Shino tese
pigramente una mano sul ginocchio piegato. - Akamaru è come un compagno per te.
Ti preoccupi per lui, perché sai di metterlo in pericolo, ma quando siete
lontani dalle battaglie lui ti tiene compagnia. -
Kiba si morse
pensierosamente un labbro. – I tuoi insetti non sono… -
- … Una compagnia?
No, direi di no. Sono una presenza rassicurante, al massimo. -
Kiba aveva sempre
pensato alla solitudine come a un qualcosa di lontano da lui, come ad un demone
costretto a restare fuori dalla sua porta. Perché aveva Akamaru, e lui era il
suo amico più prezioso, era il suo alleato, e sì, era la sua compagnia, il suo
scaccia incubi personale.
Ma poi era arrivato
Shino.
E Kiba si era
improvvisamente reso conto che la solitudine è un paio di occhiali scuri che tu
cerchi di penetrare, è un sorriso nascosto dal bavero del cappotto, è una voce
che tu non puoi nemmeno più sperare di confondere con nessun’altra voce al
mondo.
La solitudine è
Shino, e lui, maledizione era uguale.
Sia lui che Shino
coltivavano un amore per gli animali che era qualcosa di più di un semplice
affilare le armi per la battaglia, ma restava comunque troppo piccolo per
potersi fregiare del nome di amicizia.
L’uomo ha bisogno
dell’uomo, è questa la verità se si osa spingersi un po’ oltre la banalità più
superficiale, e per quanto affetto lui potesse provare per il suo cuccioletto
bianco, era Shino che gli dava i brividi con le sue poche parole, era Shino che
cercava per sentirsi capito, era a lui che si rivolgeva quando non sapeva
contro chi sfogare la sua sete di libertà.
Era Shino, quello
della sua stessa razza.
Kiba si
raggomitolò sulle ginocchia. – Davvero non ti fa alcun effetto perdere i tuoi
animali? –
- Dipende. –
- Cosa intendi
dire? –
Tenne gli occhi
costantemente bassi, mentre faceva leva sulle mani per avvicinarsi a lui. Shino
lo guardò senza dire niente, e senza dire niente gli passò un braccio attorno
alle spalle. Rimasero fermi per un po’, senza aver bisogno di aggiungere legna
al fuoco.
Si andavano bene
così, si erano sempre andati bene così.
Kiba aspirò con
concentrazione l’aria che si muoveva leggera attorno a loro, impregnata
dell’odore di Shino, tipico ed acre, un odore che lui aveva imparato a
riconoscere da subito, e che non aveva dimenticato mai.
Reclinò la testa
sulla spalla di lui, facendosi consapevolmente più vicino alla sua bocca. Se
avesse voluto, Shino lo avrebbe fatto, altrimenti no. Era questo il loro modo
di cercarsi, senza insistenze e senza pretese.
La sensazione di
baciarsi era sempre qualcosa di curioso e di strano, persino di fastidioso, per
certi versi.
Erano due ragazzi,
e si baciavano.
E c’era il sapore
della saliva con cui fare i conti, e quello delle labbra, più sapido. C’era la
questione del respiro, e dei brividi che provocava sentirlo sulla pelle, e poi
c’erano le mani da tenere controllate, sempre e comunque, anche quando si
trovavano soli, anche quando decidevano di dormire assieme, perché cercarsi e
scoprirsi era una cosa, saltarsi addosso era un’altra.
E loro due erano
entrambi molto prudenti in proposito.
A dire la verità,
la prima volta che si erano spinti un po’ oltre era stato proprio Kiba a
trascinare Shino, ed era ancora strano pensare a come invece la situazione si
fosse ribaltata quasi subito dopo. Ricordava momenti confusi e tesi, il senso
di colpa esagerato per aver lasciato Akamaru a casa da solo per quel
pomeriggio, e poi il sole sulla pelle nuda, l’odore inequivocabile dei vestiti
che si tolgono, il respiro che perde ritmo, e Shino, Shino con lui, Shino ovunque,
Shino a dare un senso a tutto questo.
Da allora, il
rimorso per Hinata era andato scemando e sfumando nella necessità di tenere
quella faccenda per loro, anche se sarebbe bastata un po’ di onestà in più per
ammettere che non erano gli allenamenti a costituire un alibi per la loro
relazione, ma la relazione ad essere la scusa perfetta per continuare ad
allenarsi, perché loro si stimavano innanzitutto come guerrieri, e nonostante
le loro mani avessero assunto giorno dopo giorno significati molto differenti
l’uno per l’altro, quando stringevano un kunai affilato erano ancora
assolutamente pericolose.
Shino non aveva mai
finto di colpire Kiba, lo aveva sempre fatto con forza e senza pietà. E di
questo Kiba gli era sinceramente grato. La loro non era una questione di sfide
maliziose, ma di lame scagliate per colpire, e solo dopo, solo alla fine di
tutto, soltanto quando i lividi erano diventati troppi per reggersi in piedi,
si poteva concedere un po’ di spazio per una carezza, una carezza data dove fa più
male, dove la ferita ancora sanguina.
Kiba si raggomitolò
sulle ginocchia. – Davvero non ti fa alcun effetto, perdere i tuoi animali? –
- Dipende. –
- Cosa intendi
dire? –
Shino si lasciò
scivolare comodamente contro il grosso bersaglio di legno dietro di lui, e tese
il dito indice verso l’alto con fare vagamente solenne. – C’è un animale, uno
soltanto. Se perdessi lui, impazzirei di dolore. –
Kiba inclinò il
capo disordinato e lo guardò in tralice. – Capisco. È la regina dello sciame,
vero? –
Sulla bocca di
Shino guizzò un sorriso fugace. – E’ il re. Il mio re. –
ANGOLINO!
QUALCUNO (…Mela
…coff coff) aveva casualmente buttato lì una Shino/Kiba. E, come si suole dire,
quando la sfida slash chiama, Stateira risponde.
E non chiedetemi come
mai, ma la primissima cosa nata di questa fic è stato il titolo, strano ma vero
visto che di solito scrivo la fic in tre ore, e poi ne perdo cinque o sei per
il titolo.
Cara la mia Melina,
spero tanto che apprezzerai questa ode al team 8. non che non intenda
ritornarci ancora, si intende! *evil grin*
Artemisia: Ti
ringrazio con tutto il cuore. Povera me, detesto ritrovarmi senza parole
adeguate per ringraziare come si deve. Mi emoziono a leggere le tue recensioni,
e non solo perché mi dedichi sempre parole bellissime, ma perché capisco di
essere riuscita a trasmettere qualcosa, e soprattutto se si tratta di uno come
Gaara, che è un personaggio a cui tengo molto, questo mi rende non lo so,
felice è dire poco.
Tinebrella: sono io
che non ho parole adatte per ringraziarti, sul serio.
Little Star: tesoro
mio, come ringraziarti abbastanza? Argh, non potete restare senza parole,
altrimenti resto senza anche io!
Kamusa: concordo
con te, anche a me quella folla mette paura, e anche tanta rabbia. Quando ho letto
nel manga il background di Gaara giuro che avrei voluto strappare le pagine.
Poi ho pensato che non fosse un’idea furbissima, quindi grazie al cielo mi sono
trattenuta!
Dark: Ma certo che
troverà l’amore, glielo troviamo noi, e se vuole gli organizziamo matrimonio e
tutto!
Sprpr: ti ringrazio
moltissimo per entrambe le tue recensioni!
NOTA: gli
intermezzi in corsivo fra un dialogo e l’altro valgono di fatto come i pensieri
di Lee. Ma se li leggete tutti di seguito, ne uscirà una poesia.
The
two of us (Lee/Gaara)
- Tu hai paura
della notte, vero? –
- Paura? –
- Sì, paura. –
- Non ne ho motivo.
La notte non è altro che tempo. –
- Però lei non
scorre via come fa il giorno, vero? Non per te. –
- Che cosa vuoi
dire? –
- Scommetto che
devi aver sognato mille volte di toccare la luna. –
- Toccare la luna?
–
- Andartene. Via,
lontano dalla vita che hai vissuto fino ad oggi. –
- Io non fuggo. –
- Beh, magari
dovresti. Sarebbe un modo come un altro per scoprire che cosa significa
correre. –
- Parli in modo
strano. Non riesco a capirti. –
- Sì, lo so, non
farci caso. Forse è soltanto questa bella luna di stasera. –
- Sei buffo. Sei
come le maree, che risentono dell’influsso di un satellite così lontano. –
- Hai ragione. È
vero, sono proprio come una marea, e risento dell’influsso di qualcosa che
purtroppo è lontano. Lontano da Konoha, lontano da me, lontano da dove lo
vorrei. Anche se ogni tanto ho la possibilità di avvicinarlo, al contrario
della luna. –
- Perché noi siamo
uomini. Se ci avviciniamo non corriamo il rischio di sconvolgere il mondo. –
- Già. La povera
luna non potrà mai raggiungere la sua marea senza precipitare sulla Terra.
Mentre noi, se ci avviciniamo, se proviamo a toccarci, beh… al massimo saremo
noi ad esplodere. A conti fatti è meglio essere uomini. Non lo credi anche tu?
–
Gli incubi ti scuotono
violentemente,
E io mi sveglio con
te, sentendoti muovere
Perché io
Ti amo.
- Gaara aspetta,
non correre! –
- Che tu sia
maledetto! –
- Gaara! –
- Lasciami! Ti ho
detto di lasciarmi! Ah! –
- Dove diavolo
pensavi di andare, eh? –
- Non sono affari
tuoi. Lontano da qui, lontano da tutto. –
- Lontano da me? –
- Soprattutto da
te. –
- Gaara… -
- Ti odio. –
- … -
- Io ti odio! –
- Gaara aspetta. –
- Perché!? Dimmi
perché?! –
- Perché cosa? –
- Perché tu non hai
paura di me! Perché, maledizione, perché non riesco a farti paura! –
- Gaara… -
- … Perché con te
non ci riesco. A tenerti a distanza. Dimmelo, Rock Lee della foglia. Dimmelo. –
Perché io
Ti amo.
- Anf… accidenti se
sei forte. –
- Hai abbassato la
guardia quando sei scattato in avanti per attaccarmi. –
- Lo so. E tu non
ti sei lasciato sfuggire l’occasione. –
- Non riuscirai a
penetrare le mie difese. Non con la tua sola forza fisica. –
- E invece ci
riuscirò. Mi allenerò duramente, diventerò sempre più forte, e un giorno ti
batterò. –
- Perché? –
- Beh, perché…
Perché… -
- Non mi batterai
mai, se non avrai una ragione per farlo. –
- Ma io ce l’ho! È
solo che mi vergogno a dirtela. –
- … Dammi cinque
secondi di vantaggio prima di tentare di stritolarmi! –
- Sia. 1… 2… 3… 4…
-
5
- … Grazie, Rock
Lee. –
E cicatrici di vento e
pioggia
E sabbia ruvida
Sulla tua pelle
fragile.
- Non riesco a
capire se sei ironico o meno. –
- Uhmpf. Mi disarmi
quando dici così, sai? –
- Perché? –
- Perché mi sembra
di avere a che fare con un bambino. Voglio dire, tu sei straordinario, ma
quando si tratta di vivere, semplicemente di vivere, allora ti perdi nella tua
stessa ingenuità. –
- Mi reputi
ridicolo? –
- Nient’affatto. Mi
piace da morire poterti guardare mentre cerchi di orientarti. Mi sento un
privilegiato. –
- E’ un privilegio
vedermi così? –
- Non intendevo
dire questo. Perdonami, non volevo offenderti. –
- … -
- … -
- … -
- E comunque no.
Non ero affatto ironico. Tu sei davvero prezioso per me. Tanto. –
- Prezioso? Come
può una persona essere preziosa? –
- Una persona è
preziosa quando dentro di te senti che il tuo cuore batte forte. –
- Capisco. Batte
forte perché vuole uscire e andare da lei, non è così? –
- E’ proprio così.
–
- Sì. capisco. Lee?
–
- Uhm? –
- Credo che il mio
cuore voglia venire da te. –
- Sì. Anche il mio
vuole venire da te. –
- Quindi… se adesso
noi ci scambiassimo i cuori, continueremmo a vivere? Voglio dire, se il mio
cuore batte dentro di te, e il tuo batte dentro di me, noi non moriremo,
giusto? –
- Esatto. –
- D’accordo. Però,
Lee? –
- Dimmi. –
- Giurami che me lo
donerai davvero, il tuo cuore. Non voglio ritrovarmi un’altra volta senza. –
- Hai la mia
parola, non ti lascerò morire, Gaara. Il mio cuore è già tuo, e che mi piaccia
o no ti cercherà sempre, sempre. –
Io ti proteggerò.
E' la mia missione.
- Che cosa siamo
noi, Lee? –
- Noi? Uhm, che
domanda difficile. –
- Non lo sai
nemmeno tu? –
- Non ne sono
certo. Però una mezza idea ce l’ho. Mi basta pensare a te. –
– Cosa vuoi dire? –
- Beh, forse ti
farà un po’ ridere, però penso che, qualsiasi cosa noi siamo, siamo una cosa
bella. –
- Tu credi che noi
due siamo belli? –
- Diciamo che posso
sperare di vivere della tua bellezza riflessa. Da quando ti conosco la mia
concezione di ciò che è bello è cambiata parecchio. –
- E perché pensi
che io sia bello? –
- Non lo penso. Per
me lo sei e basta. Perché, tu non pensi che io sia bello? –
- Penso che tu sia
strano. –
- Uhmpf, già, lo
immaginavo. –
- Però… -
- Mmh? –
- Però vai bene
così. Voglio dire, non credo che mi andresti bene, se fossi diverso. –
- Sì. Nemmeno tu
potresti essere migliore di come sei. –
- Allora siamo
belli perché ci andiamo bene? –
- Sì. Sì, forse è
proprio così. –
Proverò ad aggiustare
la tua anima, e spero che ti basti,
Perché non ho molto
altro da darti.
- Sai Gaara, ci
sono volte in cui mi sembri fatto di vetro soffiato. –
- … -
- Ho persino paura
di toccarti, perché penso che qualsiasi cosa io possa dire o fare, finirei per
romperti. –
- … -
- Per mandarti in
frantumi. –
- No. –
- …Uhm? –
- Io ti prometto
che non mi romperò. Però tu… toccami. Per favore. –
Ma qualsiasi cosa
accada
Dopo ogni battaglia,
- Dov’è lui? –
- Ferito! –
- Cosa? –
- State attenti,
vengono da questa parte! –
- Lee fermati, non
puoi andare di là! –
- Argh, Neji!
Maledizione! –
- Lo fermo io, voi
penate a correre! –
- Shikamaru! –
- Correte! –
- Naruto vieni!
Lee! –
- Io torno
indietro. –
- Cosa? –
- Non pensarci
nemmeno. –
- Attenti! –
- E’ là. È là da
qualche parte, senza di me. -
- Sei pazzo, non
puoi! –
- Non ce la farai.
–
- Devo andare. –
- No, Lee! –
- Fermati Lee! –
- GAARA! –
Dopo ogni onda del
mare
E dopo ogni duna di
questi deserti
- Lee… Uhm. –
- Ti prego. Ti
prego dimmi che non ti sto facendo male. –
- N-no. Non credo.
–
- Vuoi che
rallenti? –
- No. Non
rallentare. –
- Gaara. Dio, è
così bello. –
- Io… nnh… Nnh! –
- Sento… anf… sento
la sabbia che si muove attorno a noi. –
- Non attaccherà.
Tu non sei un minaccia. –
- No, mai. Mai,
Gaara, mai. Lo giuro, lo giuro su questo momento. –
Dopo vite infinite
trascorse a piangere
Dopo il sangue, e dopo
ogni nome
- Che cos’hai
intenzione di fare, allora, Lee? –
- Che domande. Mi
prenderò cura di lui. –
- E’ una cosa
seria? –
- Sì. Credo di sì.
–
- Capisco. I tuoi
occhi sono sinceri, ragazzo mio, ma credi di avere la forza per prenderti cura
di Gaara? –
- Non lo so. Ma ce
la metterò tutta, maestro Gai. –
- Ne sono certo. E
lui, Lee? –
- Lui? –
- Che cosa saprà
darti, in cambio? –
- Lui… Beh, è
difficile da spiegare. Lui in fondo è un po’ come una stella. –
- …? –
- Vede, non è che lui
non voglia dare nulla. È che non sa fare altro che brillare, lassù, più in alto
di qualsiasi altra cosa. E in questo modo, senza dare nulla, dà tutto se
stesso. È di questo che mi nutro, maestro. –
- E quando sarai
sazio, che cosa farai? –
- Sazio? Maestro,
ci si può mai saziare della luce di una stella? –
Dopo ogni sogno e dopo
ogni incubo
Dopo il dicembre
- Vieni con me. –
- Dove? –
- Ti faccio vedere
il mondo. –
- Da un tetto? –
- Certo! –
- … -
- Allora, ti piace?
–
- Questo non è il
mondo. È Konoha, è il tuo villaggio. –
- Lo so. –
- … -
- Come mai quella
faccia? –
- Non riesco a
capire. –
- Beh, meglio così.
Quando non capisci fai un viso bellissimo. –
- Io… cosa? –
- Eh sì. Da questo
tetto riesco a tenere gli occhi su tutto il mio mondo. Proprio tutto. –
Dopo ogni promessa
fatta e tradita,
Dopo che tutto sarà
scivolato via,
- Uhm. –
- Continua a
dormire. È notte fonda. –
- Nnnh. –
- Shhh. Dormi.
Dormi, Gaara, ci sono io qui con te. Per una volta, suppongo che i ruoli si possano
anche invertire, non credi anche tu? Per una volta, voglio essere io a passare
una notte di veglia, mentre tu dormi. –
Tu avrai sempre
Me.
ANGOLINO!
Finita anche
questa. L’avrò riguardata almeno cento volte, prima di decidere che ok, aveva
un aspetto definitivo. È come se questa shot avesse preso a dilatarsi
all’infinito fra le mie mani, e suppongo che vada bene così, visto che
l’effetto ricercato è più o meno questo! ^_^
Quanto entusiasmo
per Zoophilia, non me lo aspettavo!
Dark: eccola, la
solita pervertita! X__X Su, su, la mia mente non arriva a tanto. Per ora…
(risatina sadica, e sguardi eloquenti a Akamaru e a Pack)
Little: il tu sai
cosa procede, appena sarò lontanamente soddisfatta ti manderò la bozza! Che
bello, felice che il finale ti sia piaciuto!
Tinebrella:
arrossisco! Anche io li adoro, devo dire che lavorare a questa coppia mi ha
molto, molto ispirata!
Siz: hihihi,
un’altra anti-Hinata… Verissimo che su coppie un po’ particolari c’è poco
materiale, ed è un gran peccato! Mi adopererò per la rivalutazione!
Solarial: nooo,
povera Melanto, mi sento in colpa! Sono molto contenta di essere riuscita a
tenere le redini dei personaggi saldi, grazie al cielo sono un’anti pucci per
vocazione, quindi non mi viene nemmeno troppo difficile esprimere un affetto
che sia un po’ diverso dal “mi ami, ma quanto mi ami?”
Mia cara, non sei
affatto invadente! Magari una Kiba/Hinata potrebbe starci. Una Hyugachest però
mai, sono assolutamente allergica a Hinata da questo punto di vista, i miei
sensibilissimi sensi di slasher avrebbero un collasso nel vedere Neji
accoppiato in modo anche solo lontanamente eterosessuale! XD
Artemisia:
hihihihi, dai che per il momento non ho nemmeno maltrattato troppo Hinata, so
fare di peggio! Dio, io ADORO Shino perché secondo me ha una sensualità
intrinseca che semplicemente ti strega. Kishimoto prima o poi mi ucciderà, se
non la pianterò di farmi filmini mentali impossibili, ma è semplicemente così,
Shino è un personaggio che meriterebbe tre o quattro volumi solo per lui. Ho
letto la shot che mi hai consigliato, e hai ragione, l’ho davvero adorata, è
assolutamente spirituale, ecco.
Two Dollar Bill:
Non sei l’unica ad adorare Gaara, e questo cap ne è la prova!
Rael: ti ringrazio
tanto!
Kamusa: grazie
infinite, mi fa un piacere immenso che tu abbia apprezzato la resa dei
personaggi, è sempre quello il cruccio peggiore.
Premessa: ho scelto questo (inusuale) titolo perché la scrittura di
questa shot è stata accompagnata da “Gates of Istambul” di quella dea che è
Loreena McKennitt
Premessa: ho
scelto questo (inusuale) titolo perché la stesura di questa shot è stata
accompagnata da “The Gates of Istambul” di quella dea che è Loreena McKennitt.
Ma non è una songfic, la canzone è nulla più di un sottofondo sonoro.
Istambul
(Shikamaru/Temari)
La notte dorme,
qui a Suna. Te ne sarai accorto anche tu, osservatore di venti.
Benvenuto,
straniero. Benvenuto nel mio palazzo.
- Troppa pace, non
credete anche voi? –
Il sorriso ferino
di Kiba perforò la semioscurità della sera stellatissima.
- Già. Che ne dici
di un bel duello all’ultimo sangue, Inuzuka? – sibilò Kankuro, ticchettando
pigramente le dita sulla superficie liscia del tavolo rotondo attorno a cui si
erano tutti seduti.
Quasi tutti.
Shikamaru osservava
in rispettoso silenzio quello che sempre più stava assumendo ai suoi occhi la
consistenza di un rito.
Perché Temari
avesse abbandonato il salone dove la delegazione di Konoha era stata accolta e
ricevuta, lui non lo sapeva.
Perché avesse
salito quei gradini di marmo chiaro di fretta, arrampicandosi lungo corridoi
sempre più stretti, e sempre in salita, fino a lì, fino a quella stanza strana,
porticata, aperta, ariosa.
Sapeva che lui
l’aveva seguita. Lo sapeva perché lo aveva voluto, lo aveva persino preteso, si
era assicurata di avere per sé tutte le sue attenzioni fin dal primo momento in
cui lui e i suoi compagni avevano messo piede in quel palazzo, e adesso
Shikamaru rispettava il silenzio intriso di vento soltanto perché il gioco lo
richiedeva, non certo per restare nascosto.
Non mi vedi?
Non mi vedi, da
sola, ballare la buio?
Che lei fosse
bella, Shikamaru lo vedeva. Tutti potevano vederlo, che diamine, non era certo
un segreto per gli occhi. Ma ciò che lo faceva sorridere era l’arrogante quasi
certezza di essere il solo ad intuire in cosa consistesse esattamente la
bellezza di Temari, e per quale motivo risultasse così ostica, così dura da
masticare ai più.
C’era quella punta
di selvatichezza in lei, in quella luce che emanava, che non aveva nulla di
languido, ma semmai di potente, di robusto, di consistente come la sabbia
bagnata fra le dita, che sembra polvere di fango modellabile e capricciosa,
scivolosa e allo stesso tempo coesa, coerente con sé stessa nei suoi disegni
astrattizzanti.
Il suo sorriso
furbo e penetrante, le labbra sottili che si guardavano bene dal chiedere baci,
i capelli lasciati alla loro natura ispida senza vergogna, ma sempre in ordine,
quel giusto che bastava per ribadire che era una donna anche lei.
Probabilmente era
proprio un dettaglio come questo a renderla, ai suoi occhi, più donna di
chiunque altra.
C’era tutto il suo
segreto, in quei suoi occhi troppo affilati per poter recitare la parte della
cerbiatta, e nel suo totale disinteresse a recitare una parte simile. Una voce,
quando ti guardava, che ti diceva che lei non sarebbe mai stata la cerbiatta di
nessuno, e questo valeva da solo come un universo.
Principessa,
muovi quei veli perché io non ti possa vedere. Non bene, non quanto vorrei.
Il desiderio è una
partita di strategia giocata con due sole pedine.
E loro erano degli
ottimi strateghi.
Temari sfuggiva anche
alla presa più ferrea, come se fosse perennemente avvolta dal vento instabile
del deserto, come se fosse capace di sciogliere il proprio corpo in granelli
della sabbia più sottile, e disperdersi nell’aria torrida e tremula del suo
stesso, materno deserto.
Shikamaru aveva il
dono di non avere bisogno degli altri, di rendersi estraneo a ciò che non fosse
strettamente indispensabile, di non lasciarsi incantare da promesse qualsiasi.
In definitiva,
erano entrambi molto bravi a sfuggire, e se la loro evanescenza li rendeva
impalpabili ai più, era probabile che il loro incontro avrebbe significato una
penetrazione profonda, addirittura assoluta, come quella labile e inscindibile fra
nubi e sabbia.
Né l’uno né l’altro
erano prede da catturare stringendo le braccia in una stretta possessiva,
perché una volava via nel vento, l’altro si faceva nube vaporosa, e gli
elementi dell’aria non amano accordi e giuramenti che li costringano in maglie
troppo sottili e soffocanti.
Guerriero, tu
che sfuggi alle illusioni, vieni a provare le mie dita.
Temari ignorava di
proposito ogni regola ed ogni doppio senso, preferiva velature trasparenti a
maschere deformi, perché non aveva bisogno di atteggiarsi ad una dolcezza che
non le apparteneva tanto quanto quella combattività fittizia e tutta maliziosa
dietro cui si nascondevano chissà quante ragazze, ansiose di dimostrare
qualcosa che non erano.
Non le serviva
esibire una voglia di libertà che non voleva davvero, un’indipendenza
indesiderata, come facevano le altre. Lei la libertà se la prendeva, e guai a
toccargliela. Lei non ti guardava senza dolcezza perché dolce non lo era, e
fine della storia. Eppure aveva tutta una vita che si accendeva in lei ad ogni
passo, ad ogni sguardo, e il suo sorriso somigliava per davvero ad un ventaglio
fatto di cento sensazioni diverse, di sfumature e di significati sfuggevoli ed
inafferrabili come imbrogli di carta.
Lo svanire lento
di un filo di fumo.
Ci siamo io e
te, ospiti della notte.
Il gioco della
sensualità più fine affonda generosamente le sue dita nelle ambiguità della
nostalgia e della tristezza, e mentre lui le sfiorava una guancia, sentiva la
voce di lei, calda e rauca come sabbia strofinata sulla gola, raccontare cose,
additare ricordi, confidare bugie piene di significati timidi e scorciati.
Quando le accarezzò
delicatamente il seno, con due dita appena, morbido e rotondo, e chiuso dentro
cinghie dal significato guerriero, sentì il profumo di lei liberarsi dalla
pelle e salire come un fumo d’incenso, e invitarlo a quietare il proprio cuore
fra le spire di un abbraccio che aveva uno strano sapore incestuoso e lento,
come miele colato ancora grezzo.
Nei tuoi occhi
si specchiano acqua e sale.
Ci siamo io e
te, ospiti della magia.
Sarebbe potuto
finire in quel momento, come continuare per sempre. Il loro avvolgersi
insistente, il loro spogliarsi ad occhi chiusi, quello stesso cielo nero che li
faceva sentire nudi e nascosti, ed ogni altra cosa, tutto sarebbe potuto
finire. Come una battaglia nella quale ci si lancia senza sapere se se ne
uscirà mai, eppure lo si fa, alla cieca, perché non importa, perché la sabbia
forse inghiottendoti ti uccide, ma mentre affondi almeno senti calore, calore e
piacere, e ti lasci rubare via il respiro senza che ti interessi più combattere
per tenerlo.
Non serve più, il
respiro che porta parole, e scatena malintesi, doppi sensi, guerre e
compromessi, e sorrisi deboli e stracciati. Bastava una musica che non c’era, un
rito antico evocato con imprudenza, il frusciare dei vestiti di Temari, delle
mani di Shikamaru.
Prigionieri della
notte, forse. Ma almeno, quella notte era la loro.
- Hey Kiba, sai
dov’è andato a cacciarsi Shikamaru? –
- Mah, e chi lo sa.
Probabilmente sarà andato ad appollaiarsi su qualche tetto per guardare le sue
stupide nuvole. –
- Uhmpf. Già, hai
ragione. Sempre a correre dietro alle nuvole, quello. –
NOTA: questa è la mia personalissima visione di Hinata
NOTA: questa è
la mia personalissima visione di Hinata. Ho cercato di toccare non tanto le scontate
considerazioni sulla sua situazione, ma un perché forse inedito, che secondo me
è meno lontano dal vero di quanto potrebbe sembrare.
Going Nowhere
(Hinata)
Hinata Hyuga non
era degna del nome che portava.
Lo sapeva lei, lo
sapeva suo padre, suo cugino, persino sua sorella. Forse lo sapevano anche i
suoi compagni; lo immaginavano, quantomeno.
La sua maestra,
l’Hokage, tutti.
Lo sapevano davvero
tutti.
La vita di chi non
è adatto al proprio compito si costruisce disordinatamente, con mattoni crudi,
sulle fondamenta instabili della necessità di vivere, e quando ci si ritrova
nella condizione di non sapere nemmeno più quale sia, poi, questo compito di
cui tutti parlano, per il quale tutti lavorano sudando anche il sangue, allora
la sensazione di essere inadeguati si solidifica come colla al sole, fino a
formare un muro scivoloso che attutisce tutte le sensazioni migliori, e tu ti
ritrovi a constatare che le tue braccia non sono abbastanza lunghe e forti per
riuscire a riprenderti ciò che dovrebbe appartenerti di diritto.
Ti ritrovi a
sentirti una ragazzina di gesso, una statuina nemmeno troppo preziosa e
certamente troppo immobile e delicata per riuscire a rendersi in qualche modo
utile. Una farfallina gentile finita per qualche motivo in un mondo dove
nessuno aveva tempo né voglia di occuparsi di lei.
Hinata aveva smesso
da molto di vedere riflesso nei suoi occhi il potere della sua famiglia. Da anni
a questa parte ormai, ogni volta che si guardava allo specchio, per lei non
c’era altro che un paio di occhi pieni di fumo che ricambiavano inespressivi il
suo sguardo, inutili almeno quanto lei, e per di più opachi e illeggibili.
Ed ogni volta le
tornavano in mente la calma caustica con cui Neji l’aveva demolita, pezzo dopo
pezzo, alla selezione per Chunin, nonostante per qualche istante fosse persino
riuscita a ravvisare un’isola su cui poter riparare, un miraggio offerto dalla
voce chiassosa di una persona che per lei era sempre stata come una stella. Con
il tempo però, e ne era trascorso abbastanza perché quell’esperienza
sedimentasse in lei, Hinata si era resa conto che le grida disordinate e
appassionate di Naruto che le avevano regalato una scintilla di coraggio e di
amor proprio erano state zittite dalle parole più misurate, più affilate e più
vere di suo cugino Neji, e semplicemente non avevano retto il confronto ed
erano andate dissolvendosi, come lei del resto.
Hinata non poteva
andare avanti ammirando ed invidiando Naruto. Questa era stata l’unica vera
lezione che aveva imparato quel giorno.
E non poteva
nemmeno vivere lasciandosi terrorizzare dal rancore di suo cugino, o presto si
sarebbe ritrovata vuota, e probabilmente pazza.
Lei avrebbe tanto
voluto trovare il coraggio di dirgli, un giorno, che glielo avrebbe ceduto
volentieri, il suo titolo di erede, se avesse potuto, se solo avesse potuto. Gli
avrebbe ceduto responsabilità e aspettative con una gioia immensa, perché a lei
non importava niente di tutto questo, e quella volta, all’esame, lui aveva
avuto ragione a dire che il solo motivo per il quale lei si era trovata faccia
a faccia con lui erano i suoi compagni. Più esatto ancora sarebbe stato dire
che il suo era stato un patetico tentativo di dimostrare qualcosa nell’unica
lingua che la sua famiglia avrebbe compreso, quella della lotta.
Salvo poi rendersi
conto che non avrebbe voluto dimostrare proprio un bel niente.
Non era tagliata
per essere una ninja?
Sì forse sì.
Forse sarebbe stato
davvero meglio per tutti se lei si fosse semplicemente fatta da parte, e si
fosse messa, chissà, a coltivare fiori, ad occuparsi di faccende altre, magari
ad insegnare, perché no.
Paradossale a
dirsi, quel briciolo di coraggio che Hinata era riuscita a spolverare dentro di
lei lo aveva trovato proprio quando aveva realizzato che le parole di Neji le
avevano fatto molto meno male di quanto avrebbero dovuto.
Il punto era che
qualcosa cominciava ad insinuare in lei l’idea che non ci fosse proprio nulla
di sbagliato, nel non voler spendere la propria vita con un kunai fra le
labbra, perciò no, Hinata non era tagliata per essere una ninja, a Hinata non
importava davvero di esserlo, e ciò che faceva lo faceva solo perché le sue
ambizioni erano pilotate e false.
E sempre più
spesso, come una litania pazza, le tornavano in mente tutte quelle volte che
suo padre l’aveva mandata a chiamare per allenarla, e lei aveva dovuto riporre
le sue bambole e prepararsi a sanguinare.
Era soltanto una
bimba alta nemmeno come una seggiola, e scoccava sempre uno sguardo nostalgico,
a quelle sue belle bambole vestite di abiti di seta, con il viso dipinto da un
sorriso dolcissimo.
Hinata era nata
Hyuga, ma non era nata ninja.
Si nasce con un
cognome, ma non si nasce con la voglia, la forza e l’ambizione di portarlo
avanti. Essere ninja non è qualcosa che scorre nelle vene, non è qualcosa che
si inculca a forza, come una sorta di vaccino, e non è nemmeno qualcosa che si
fa proprio passando le proprie giornate ad osservare la tua famiglia che ti
osserva di rimando, e che si aspetta sempre qualcosa da te.
Hinata ammirava
Naruto perché era determinato, non perché era forte. Lo ammirava e forse lo
amava persino perché era coraggioso, non perché era un guerriero, e perché
aveva fatto una scelta precisa e la difendeva ad ogni costo, non perché quella
scelta fosse di diventare Hokage.
Hinata non voleva
un modello da raggiungere, né una dispensa di maestria tecnica e di potenza.
Voleva un padre, un
uomo grande e protettivo da chiamare papà, un uomo che non la rimproverasse, se
la notte aveva paura dei tuoni, che la accompagnasse a passeggiare e che le
volesse bene, che le sorridesse, ma nonostante lei ce l’avesse messa tutta,
come figlia, per assecondare e rendere suo padre fiero di lei, lui non aveva
mai fatto nulla per accettare lei come un qualcosa di autonomo e, nel suo
piccolo, indipendente.
Voleva una
sorellina, e non una bambina che la giudicava dal basso della sua statura con
gli occhi già gelidi di chi invece si trova a suo agio con il suo destino, di
chi si è diligentemente fatto vaso delle ambizioni altrui e si è adeguato senza
proteste né riserve. Spessissimo Hinata si ritrovava persino a chiedersi se lei
fosse l’unica a vedere Hanabi per ciò che era, una bimba sradicata alla sua infanzia,
che non sorrideva mai, che aveva già imparato a memoria il decalogo del
fanatismo Hyuga.
Voleva un cugino,
una persona amica e complice, non un ragazzo che la odiava furiosamente per
qualcosa che lei non aveva mai fatto, né tantomeno voluto. Avrebbe persino
voluto aiutarlo, Neji, cercare di proporsi come un ponte fra la sordità del suo
odio e la cecità della tradizione che gli impediva di lottare per i suoi sogni,
come chiunque altro. Ma ogni volta che tentava un sorriso al suo indirizzo, lui
la feriva con il suo dolore, così definitivo e superiore, la allontanava come
se portasse una malattia, e sempre più lei pensava che non fosse poi così
falso, che la condanna del suo nome fosse davvero un morbo fuor di metafora.
Il nobile morbo
degli Hyuga, la malattia che tutti, tranne lei, sembravano ansiosi di contrarre.
Hinata non aveva
bisogno di essere incoraggiata e spronata, aveva solo bisogno di essere
lasciata in pace, di essere lasciata libera di prendere la sua strada, perché
anche un incitamento gridato con tutto il cuore è una catena che ti costringe
su un percorso, è un atto di fiducia riposta a priori, figlio della convinzione
che Hinata Hyuga volesse, fortemente volesse, diventare una vera ninja.
Perché una Hyuga
non può non volere.
Per questo Hinata
Hyuga era una ribelle.
A modo suo lo era,
una sovversiva silenziosa, un gemito inascoltato contro la mentalità
dell’induzione, e la sua indolenza addolorata non era altro che un tenue “non
voglio” che cadeva nel silenzio di chi non vuole ascoltare, ma che si ostinava,
giorno dopo giorno, a gemere, e gemere, chiamando nomi, implorando pace.
A Hinata Hyuga non
piacevano i kunai. Piacevano le bambole, e i loro sorrisi di porcellana.
Per questo Hinata
Hyuga non era degna del nome che portava.
ANGOLINO!
Eccomi di ritorno
dalle vacanze. L’aria parigina mi ha ispirato questo pezzo, anche se mi ha
lasciata un po’ a corto di coppie per le prossime storie, accidenti!
Bambi88: grazie di
tutto cuore per i bellissimi compimenti, sei sempre un tesoro!
Tinebrella: yesss,
sono felicissima di aver reso adeguatamente Temari, la mia stima per quella
donna è sconfinata!
Artemisia: Waaa, ma
come si fa a ringraziarti a sufficienza? Soprattutto considerando che quando mi
do all’het mi muovo sempre un po’ a tentoni, e che Shikamaru è il mio cruccio e
la mia delizia, perché renderlo come merita è un’impresa quasi disperata.
RedBlack: hihihihi,
le raccolte servono proprio a far contenti un po’ tutti, e le Sasu/Naru sono
sempre bene accette! Tranquilla, contaci di vedere qualcos’altro su di loro,
sono pur sempre la coppia praticamente canon, e si sa che io nutro una
sconfinata devozione per il canon! XDDD
Kamusa: grazie
mille, addirittura la più bella? Mi fa davvero molto piacere!
Little Star:
grassie grassie grassie! A proposito, grandi novità! ^___^
Daidouji: beh,
detto da una sostenitrice delle Ino/Shika il tuo complimento vale doppio,
quindi non posso fare altro che chinare la testolina e ringraziare
infinitamente. Magari in attesa di dedicare qualche pagina anche a Ino, e
sperare di essere all’altezza.
NOTA: Come avrete
avuto modo di capire, la fic tratta di incesto. Mi sento quindi in dovere di
avvertire che il contenuto è piuttosto forte.
La tematica
sessuale è presente, anche se rigorosamente solo per accenni.
Raindrops
(Itachi/Sasuke)
Continuava a
piovere, a Konoha.
Da giorni pioveva,
pioveva sempre, sempre, maledettamente sempre.
La pioggia non ha
bisogno di giustificarsi con niente e nessuno, lei viene e tocca tutto ciò che
le pare, bagna cose, case, capelli, bocche, non è un problema, per lei, non ha altra
preoccupazione che il sole, che prima o poi verrà e la porterà via,
l’asciugherà lasciando sparse in giro tante tracce, onde di polvere bianca che
macchieranno muri, panchine, finché non se ne svaniranno in silenzio anche loro,
e allora non resterà che attendere la prossima pioggia.
Sasuke si chiedeva
come facesse la pioggia, ogni volta che veniva e cadeva, a dare l’impressione che
non sarebbe finita mai. Era incredibile, era così sempre, e quando l’acquazzone
immancabilmente finiva lui si dava dello stupido, del bambino, ma la volta dopo
era daccapo, a guardare fuori dalla finestra e a dirsi, sussurrandolo appena
perché nessuno potesse sentirlo, che forse quella volta, quella volta non si
sarebbe fermata mai più, avrebbe continuato a cadere da quella nuvola infinita
e livida che copriva il villaggio, il bosco, ogni cosa.
Itachi.
Anche Itachi gli
era piovuto addosso, la notte prima.
Sasuke non provava
alcun interesse particolare per la pioggia, ma quando la vedeva scendere non
cercava mai di proteggersene, come facevano tutti. Non allungava il passo per
arrivare a casa prima, non si tirava la giacca sulla testa, non si preoccupava
nemmeno di evitare le pozzanghere che si formavano nelle irregolarità della
strada.
Anche Itachi aveva la
curiosa peculiarità di accumularsi nelle pieghe, proprio come gocce di pioggia,
si annidava nelle ferite e lentamente sedimentava, facendo marcire tutto quanto.
E come la pioggia,
aveva l’abitudine di macchiargli i vestiti. Anche se la sostanza con cui lui lo
macchiava non era propriamente acqua, non del tutto. Ma anche quella, quando si
seccava, produceva tracce rifrangenti, come acqua piena di calcare. Sasuke le
osservava sempre per parecchio tempo, quelle macchie, registrava con cura il
loro evolversi, prima di trovare la forza, il coraggio, la disperazione di
buttare la sua roba in un catino e lavare tutto quanto, furiosamente, lavare le
tracce di suo fratello, almeno quelle fuori di lui.
Itachi filtrava
come pioggia in quella che era stata la sua stessa casa fino a pochi anni
prima. Scivolava oltre le guardie che controllavano i cancelli di Konoha senza
farsi notare, una goccia mescolata ad un’infinità di gemelle, indistinguibile,
inafferrabile. Lo faceva senza uccidere, lo faceva quando più gli andava,
giungendo da chissà dove, e scomparendo chissà dove qualche ora dopo, con il
primissimo albeggiare.
Sasuke non lo
sentiva quasi mai arrivare, se lo trovava davanti all’improvviso, stagliato immobile
contro il muro, nella penombra, che lo osservava in silenzio, come se fosse
stato lì da sempre, una statua guardiana e solenne.
Anche se da qualche
tempo le cose erano un po’ cambiate.
Da tre o forse
quattro volte a quella parte, Itachi era stato un po’ più rumoroso
nell’entrare, e lui aveva sempre fatto in modo di essere davanti alla porta,
per guardarlo levarsi le scarpe e liberarsi del mantello.
Si sarebbe quasi
potuto dire che avesse cominciato ad aspettarlo. Con la gola annodata, con le
mani sudate e fredde, con il cuore che, da solo, rimbombava nell’ingresso ampio
e spoglio, pulsando talmente forte da scuotere il paravento e la porta di carta
di riso che dava sulla cucina, lui se ne stava lì ad aspettarlo sulla soglia.
Forse Sasuke lo
faceva soltanto per riuscire a sfidare gli occhi di Itachi, per cercare di
tenergli testa almeno con la dimostrazione che non aveva paura di lui, che
c’era, che non scappava.
O forse lo faceva
perché quegli occhi, li voleva vedere il prima possibile.
Non aveva idea del
perché suo fratello venisse di tanto in tanto a fargli questo. Aveva smesso da
parecchio di illudersi di conoscerlo, ma nonostante tutto non era mai stata una
questione di violenza, nulla che potesse essere classificata univocamente.
Itachi lo
spogliava, si spogliava, lo avvicinava ad un letto, il primo che c’era, e lo
prendeva senza essere brutale, con calma e attenzione, lo toccava senza
permettergli troppe confidenze con il suo corpo, imponendogli il suo dominio
con naturalezza, gentile e gelido, zitto, e più lo riempiva, più lui si sentiva
vuoto, disperatamente, esaltantemente vuoto.
Semplicemente, non
aveva senso.
Itachi non gli
parlava quasi mai. Anche se quel poco che diceva lo colpiva dritto al cuore, al
cervello, alla faccia, sferzandolo come pioggia mista a grandine gelida, dopo
aver odiato il mio nome, Sasuke, ti ritroverai ad odiare persino la parola
“fratello”.
Una profezia,
avveratasi la volta in cui Sasuke aveva visto sé stesso strisciare più vicino
ad Itachi, avvolto dal sonno, e in silenzio, piangendo, rannicchiarsi su di
lui, così adulto e grande, così lontano, maledetto, così bello da fare tanto,
tanto male.
Quella volta,
quando, cercando fra i risvolti disordinati di vestiti e coperte, aveva trovato
la mano di suo fratello e l’aveva stretta, cercando di guadagnare un po’ di
calore, Sasuke aveva capito di essere perduto.
Chissà se quella
sarebbe stata la volta buona. La volta in cui davvero la pioggia non avrebbe
mai più smesso di cadere.
Sasuke uscì sotto
l’acquazzone che colorava di nerastro i muretti sporchi e i tronchi degli
alberi disseminati qua e là, mischiandosi al rumore ostinato dello scrosciare,
e lasciando che i suoi vestiti, i suoi capelli, ogni cosa di lui diventasse un
po’ più scura, inzuppandosi. La pelle del suo viso invece era diventata più
simile al colore di una perla bacata, tutta tracciata da piste d’acqua che
rilucevano e brillavano ad ogni passo, ma niente di tutto ciò aveva grande
importanza, adesso che la pioggia c’era e lui no, lui era chissà dove,
irraggiungibile, indifferente al richiamo flebile del suo fratellino spento.
Itachi lo aveva
sempre lasciato solo a cercare di capirci qualcosa, a macerarsi lentamente
nell’incapacità di comprendere fino in fondo la consistenza di ciò che erano,
di ciò che facevano, così invischiati l’uno con l’altro, nell’altro, così privi
di freni e di vergogne per momenti che sembravano immensi, e poi di nuovo
zitti, lontanissimi, quasi smarriti.
A Itachi piaceva
illuderlo, evidentemente, come la pioggia, e a lui piaceva sperare che come
lei, anche suo fratello sarebbe durato per sempre, trasformandosi giorno dopo
giorno da pozzanghera a lago, a mare, coprendo ogni altra cosa, persino nomi,
simboli, occhi, diventando tanto immenso da non essere più suo fratello, in
modo da liberarlo dal peso di quel titolo così agghiacciante.
Ma invece Itachi
finiva, dopo lunghe ore di buio inevitabilmente finiva, ed ansimando ancora si
rialzava, raccoglieva le sue cose e spariva, oppure, si sdraiava, se era ancora
presto, si buttava un braccio sull’addome e dormiva qualche ora nella sua vecchia
casa stuprata, con suo fratello di fianco che lo guardava con gli stessi occhi
di quando era bambino, gonfi di lacrime e di ammirazione sgomenta, di paura e
rispetto, e di un orgoglio malato e geloso.
Sasuke tese una
mano in avanti, verso il niente, verso tutte le gocce di pioggia che scolavano
impietose, fredde, amarognole, dal cielo grigio bluastro. Pioveva su di lui,
pioveva dappertutto, e così anche lui si mise a piovere.
Si mise a piovere
dalle punte delle dita, dalle ciocche di capelli appiccicate alla fronte, dagli
orli zuppi dei calzoni. Si mise a piovere dagli occhi, da quelli soprattutto.
Sasuke chiuse gli
occhi, e immaginò di toccare.
Fantasticò in
silenzio, chiuso in un angolo d’ombra di una strada anonima, come un
mendicante, fra l’indifferenza di chi scappava dal temporale.
Il corpo di suo
fratello.
Sognò di toccarlo
ancora, e ancora, sognò di poter mangiare quelle parti di lui che non se ne
andavano mai dalla sua testa. I suoi occhi, le sue labbra fini, i suoi capelli
sfuggevoli e sottilissimi, e il suo sesso, spaventoso e irresistibile allo
stesso tempo, come un peccato talmente osceno da non poter uscire dalla sua
bocca che se ne sta lì a gonfiarsi nella sua gola, volta dopo volta, vomitando
di tanto in tanto piacere e rancore, e confusione, e paura, una paura cosmica
di tutto e di niente, una paura che se ne andava soltanto quando Itachi
compariva a casa, in quel luogo così naturale per lui. Chissà se Itachi si
rendeva conto di quanto fosse bello vederlo sdraiato nel suo letto, circondato
dalle mura della sua camera, con la sua scrivania, il suo armadio, le sue
mensole, com’era sempre stato, come un dejà vu, la fotografia dolcissima di un
passato disperato che Sasuke avrebbe soltanto voluto riavere indietro, tutto
per sé.
Il corpo di suo
fratello, ancora un po’ di più, ancora più dentro, ancora più sporco. Simile a
lui, troppo simile per non fare paura almeno un po’, come la proiezione di un
futuro indefinibile. Tantissime volte Sasuke si era chiesto, mentre suo
fratello spingeva senza sforzo, ansimando dolcemente fra i suoi capelli, se un
giorno sarebbe diventato come lui fisicamente, se sarebbe riuscito a
raggiungerlo almeno in questo, se c’era qualche speranza di vedere un giorno la
stessa bellezza assassina di Itachi riflessa in uno specchio, e quel giorno
impazzire definitivamente, gridare il suo nome, quello di suo fratello, e poi
morire, morire e basta, dimenticando ogni altra cosa per potersene restare un
po’ da solo con i suoi pensieri.
Il corpo di suo
fratello.
Dio, se solo non
fosse così tanto simile alla pioggia.
ANGOLINO!
Ok, questa è uscita
da sola, a tradimento, nel giro di una mezz’ora. Non pensavo che scrivere una
incest facesse così male, giuro, mi ha fatto venire le lacrime agli occhi. Passo
ai ringraziamenti, va, se no mi viene la tentazione di ributtarmi sul testo e
non finirlo mai.
Tinebrella:
felicissima che l’idea abbia funzionato, in effetti quando si va
sull’introspezione è sempre questione di opinioni. Meno male che la mia non è
troppo sgangherata!
Bambi88: guarda, la
rassegnazione di Hinata è proprio la cosa che non me la fa digerire, perciò ho
voluto evitarla a tutti i costi per renderle almeno un po’ di giustizia.
Dark: Hinata/Neji è
una cosa che mi fa soffrire dal profondo del cuore… Argh, persino il mio
portachiavi è un Sasuke/Neji! XDDD
Kamusa: ti
ringrazio moltissimo, sono contenta che l’idea di base sia stata buona. Hanabi
è un personaggio molto, molto interessante, secondo, me, andrebbe approfondito
a tutti i costi, e personalmente spero di vederlo sviluppato nel manga.
Artemisia: forse ci
ho messo convinzione proprio perché l’Hinata che vedo e che leggo non mi piace.
Era un modo tutto mio per salvarla, chi lo sa, per salvarla dalla sua stessa
rassegnazione. Per quanto riguarda la famiglia, hai perfettamente ragione, e in
fondo anche Neji è un tumore, è una cellula impazzita perché non sta al suo
posto, perchè cerca di sgomitare per ottenere qualcosa che non gli spetta. La
situazione della famiglia Hyuga, dai padri in su, è una delle più belle da
analizzare, credo che si potrebbero davvero scrivere libri su quel clan.
Lo sento quando ti
cerco nella notte, fra le pieghe delle lenzuola, e ti trovo addormentato.
Mi viene da
sorridere, Deidara. Capisci che mi viene da sorridere?
Non credo sia il
caso di mostrartelo, questo mio sorriso di legno, però c’è questo che ti posso
far sentire, se vuoi.
Batte piano.
Suppongo di dovere
a lui tutte le sensazioni pruriginose e disarmanti che mi colgono impreparato,
nei momenti più impensabili, strani, inopportuni, e per qualche istante mi
regalano la fantasia di essere sopra ad ogni cosa.
La tentazione di
pulirti l’angolo della bocca, quando ti rimane la traccia del latte che hai appena
bevuto, e la paura che mi assale all’improvviso, nel bel mezzo di una
battaglia, e che mi costringe a correre alla cieca verso di te per vedere che
stai bene, che stai vincendo tu anche se lo so, perché ti conosco e diavolo,
Deidara, sei forte, fortissimo, a volte persino spaventoso, e quando ti
infervori per la tua arte, che cos’è quella, tenerezza? La bocca che si asciuga
quando tu ti spogli guardandomi negli occhi, la tua voce vivace, e quando ridi,
quando dici il mio nome impastandolo tutto come fai tu, quando soffri e non
vuoi dirmi il perché, quando ti stupisci per niente, dio, sono così tanto pieno
di te, così tanto?
- Sasori-Danna! –
Ti amo talmente
tanto che mi sento stupido. È disarmante, è come ritrovarsi senza parole
davanti ad un bambino che ti sorride.
Mi ritrovo a
volerti anche quando dovrei avere la testa da tutt’altra parte, e dico davvero,
non c’è sole per me, se la tua testolina bionda non riposa sul mio petto, e non
c’è luce nelle stelle, se tu non mi guardi, e io vorrei tanto sapere che
accidenti mi prende, lo sai?
- Hey! Hey,
Sasori-Danna! –
Entri caracollando
nella stanza, schiacciandoti le mani sulla testa per tenere in ordine i
capelli.
Ed io mi riempio di
te, ancora un po’ di più.
- Sasori-Danna, è
tutto pronto per domani? –
- Tutto pronto. –
- Ne siamo certi? –
- Ovviamente. –
- Le marionette? I
mantelli, i cappelli? –
- Mmh-mmh. –
- Le provviste, e i
tonici di emergenza… -
- Deidara. –
- Sì, scusa, scusa.
–
Mi mostri la lingua
come fai sempre per scusarti del tuo essere troppo, semplicemente troppo. Mi
costringi a farti un mezzo sorriso di perdono, e lo sai, vero? Lo sai, vero,
che io sorrido solo a te?
- Deidara. –
- Sì, Sasori-Danna?
–
Io credo di avere
bisogno di te.
- Vieni qui. –
Di fare l’amore con
te.
- Vieni qui e
basta. –
Perché mi piace
quando non badi ai tuoi capelli che si disfano sul cuscino, rubando qualche
goccia del tuo sudore. Mi piacciono i tuoi occhi assorti, la loro malizia
felina, e dimmi, dimmi Deidara, quell’occhio che hai allenato così a lungo, che
hai reso immune ed invincibile, quell’occhio si lascerebbe mai ipnotizzare da
me?
- Sei davvero così
convinto che l’arte sia un’esplosione effimera? –
- Sa… Sasori-Danna.
–
Non guardarmi con
quella faccia stranita, lo so anche io che sono un pazzo. Lo so che è insano, è
persino imbarazzante cercare di parlare durante il sesso, ma capiscimi,
Deidara, sono totalmente fuori dal mondo in questo momento, disperato ed
euforico, e al centro di tutto ci sei tu, è incredibile, è strabiliante, e io
vorrei soltanto che tu lo sapessi.
- Come adesso,
Deidara? Come questo letto, come questo orgasmo? –
Sono tentato di
lasciarmi andare alla frana di sensazioni che mi sta trascinando a valle
insieme a te, montando assieme alla passione e focalizzando pian piano ogni
senso su di te, ma cercherò di non farlo per non perdermi il tuo magnifico
corpo che si torce sotto di me, ballando furiosamente.
Una volta di più
credo che amarti non sia sbagliato, non lo sia affatto.
- Sasori… -
Sbatti le palpebre,
ti aggrappi a me, e semplicemente esplodi. Esplodi fra le mie braccia, dio,
Deidara, ma che cosa sei? La preghiera di qualcuno che ti ha invocato e mandato
da me, per riempirmi, oppure acqua da bere, finalmente, ma non ha importanza,
non adesso. Amami, Deidara, se ci riesci, brucia insieme a me senza badare a
quanto faccia male la pelle graffiata dal sole.
Respiro i tuoi
ultimi gemiti morenti. È bello starti a guardare mentre ti ricomponi
quietamente, con gli occhi ancora lucidi di piacere e di tutte quelle cose
strane che tu provi per me, e di cui sei capace di parlarmi per ore senza mai
smettere, gesticolando animatamente, indicando cose che non ci sono,
sorridendo, arrossendo anche se non ti vergogni proprio di niente.
- Hey Deidara. –
Aspetto che tu ti
sia girato verso di me, e non fiaterò finché non avrò il tuo sguardo tutto per
me. Sto per mettermi a dire cose che non avrei mai pensato non soltanto di
dire, ma nemmeno di pensare in tutta la mia vita, e sto per dirle a te, perciò
voglio avere la completa attenzione dei tuoi occhi. Me la merito, no?
- Stai pensando a qualcosa,
Sasori-Danna? Mi guardi in modo strano. –
- In effetti. La
sai una cosa, Deidara? Mi… mi piace il tuo nome. Credo che mi piaccia molto. –
- Il… Il mio…? –
Deidara, già. Sai,
ho provato a recitare il tuo nome come un mantra, un dolcissimo mantra, per
fargli perdere ogni significato e farlo mio. Non ci sono riuscito, non l’ha
perso.
Ne ha assunti molti
altri, però. Mentre lo ripetevo sottovoce fioriva di mille petali e diventava
via via sempre più sacro, e mi riempiva la gola di sassolini, e gli occhi di te.
- Ti amo, e non te
lo dico mai. Scusami. –
Guarda un po’,
sembra che le tue guance stiano bruciando. Ma non nascondermi il tuo viso
soltanto perché sto cercando di stupirti un po’, per una volta. Mi chiedo cosa
succederebbe se ti dicessi che sei bellissimo. Magari diventeresti ancora più
rosso, e allora io potrei morire per davvero di te, e prendendo fuoco ti
scalderei come probabilmente non riuscirei mai a fare con queste mie mani.
- No. No,
Sasori-Danna, va bene così. –
Ho voglia di prenderti
fra le braccia e respirarti fino a sentire il profumo della tua anima, e vivere
di te fino a dimenticare che c’è un mondo là fuori, che ci sono cose che
dobbiamo fare, e persone che dobbiamo uccidere e odiare. Non possiamo? Non
possiamo semplicemente stare a guardare la fine del mondo, per una volta,
insieme, su una collina, mentre tu dormi sulle mie ginocchia?
- Sasori-Danna? –
- Sì? –
Mi ritrovo ad
aspettare con un groppo stretto nella gola di sentirti parlare. Persino con la
tua voce mi riempi di te.
- Domani si parte
per Suna. –
Sei davvero strano,
Deidara. Lo dici con prudenza, come se temessi di urtarmi. Mentre io sono
felice di poterti mostrare il mio deserto; sarà un po’ come aprirti la porta di
casa mia e mostrarti parti di me che altrimenti non saresti mai in grado di
capire.
- Sì, lo so. Ma
adesso credo che non esista cosa al mondo di cui potrebbe importarmi qualcosa.
–
Ricordami di non
augurarmi mai più di vederti più rosso di così.
- Sasori-Danna? –
- Uhm? –
- Ecco. È buffo. Ma
prima, per un momento, ho sperato che non finisse mai. –
- Che non finisse
mai? –
- Noi due. È stato
come sentirci esplodere, e desiderare di non smettere mai, di esplodere per
sempre. Non so se… –
- Ho capito. È un
bel pensiero. –
Ti alzi ancora nudo
e apri la finestra che dà sul balcone della nostra camera. Il tuo corpo
restituisce la tenue luce di una luna che dev’essere poco meno che piena,
mentre te ne stai assorto, con i gomiti puntati sul parapetto, e ti lasci
guardare per ciò che sei, un nudo straordinario scolpito dalle mani di un
qualche dio pazzo.
- E’ una bellissima
notte. – ti sento dire a mezza voce. – Il cielo è pieno di stelle. Riesci a
vederle da lì, Sasori-Danna? –
Io non posso fare a
meno di restare immobile a guardare te che ti disegni sul fondo della notte.
Sento il tuo
mantello accartocciato sotto la mia mano destra; è rimasto qui sul letto per
tutto il tempo, da quando te l’ho tolto, come un guardiano.
- Non le vedo. Ci
sono troppe nuvole, Deidara. Troppe nuvole. –
- Ma Sasori-Danna,
il cielo è limpido stanot… -
Mi guardi in modo
strano, guardi la mia mano sul tuo mantello, e i ricami su di esso, sotto le
mie dita.
E un attimo dopo ti
ritrovo qui, nascosto fra le mie braccia, il mantello buttato via sulla
seggiola e la finestra lasciata socchiusa su quella che sì, avevi ragione, è
una bellissima notte stellata.
- Sasori-Danna? –
- Cosa? –
- Ciò che io ho
provato prima, quando abbiamo fatto l’amore, quella smania che non finisse mai.
–
Lasci camminare le
tue dita sul mio petto, pigramente, osservandole come fosse dei curiosi,
piccoli animali.
- E’ questo che tu
senti, che tu vedi, quando parli dell’eternità? –
- … Beh. Sì, direi
di sì. Qualcosa di simile. –
Quando hai gli
occhi chiusi, il tuo sorriso è più grande ancora. È immenso. Ed io me lo sento
addosso, ricreo la sensazione della pelle che non ho più per godermi il suo
pigro allargarsi. In momenti come questi sento che non c’è niente al mondo che
mi convincerebbe mai a rinunciare a tutto questo.
- Allora credo che
la tua idea di arte non sia poi così male. –
Il tuo sorriso,
Deidara. Dì pure ciò che vuoi, ma per me ha il sapore dell’eternità.
ANGOLINO!
Ebbene sì, avevo
bisogno di scrivere di un po’ di amore, amore e basta, amore e al diavolo il
resto. Quando l’ho riletto mi sono detta “è melenso, sì, è gratuito, sì, è
inconcludente, OOC, romanticoso, sofistico, noioso.
Ok, è perfetto,
posso pubblicarlo.”
Sasori e Deidara
perché sì. Perché non si può non amarli.
Un grazie tutto
speciale alla mia Nat, che mi ha consigliata (ricattata?) nello sviluppo di
questa shot. Sei la donna della mia vita! *3*
E adesso qualche
ringraziamento! ^^
Tinebrella: hihihi,
penso che il doppio preferito non valga in effetti. La pioggia è il complemento
perfetto, ho pensato a lei ancora prima di delineare un filo conduttore della
fic. ah, l’incesto è bello, e se è yaoi è meglio!
NaTemari: sono
felicissima che ti sia piaciuta, e grazie mille per i complimenti!
Partenope: grazie
per la doppia recensione! Sono contenta che Hinata ti sia piaciuta perché ce
l’ho messa tutta per cercare di darle una dimensione un po’ diversa, e per la
incest ancora di più, perché il mio obiettivo era evitare a tutti i costi di
essere troppo “forte”, trattandosi di un tema pesantino già in sé.
Yumi: grazie mille
per la costanza, non sai quanto mi faccia piacere! Sì, ho notato che dance with
me ha riscosso un bel successo ^^, presto torneranno anche il nostro bel rosso
e il nostro talento di Konoha!
Ginny33:
un’altra fan di dance with me! ^^.
Grazie mille per la recensione, soprattutto se le Uchihacest non sono le tue
preferite, è come se valesse doppio!
Dark: waaa, la tua
è la recensione che mi ha fatto sciogliere! Sono in periodo fic lacrimose, o
sono vomitevolmente romantiche o esageratamente deprimenti… il problema è che
ho la lacrima facile anche per le recensioni! ç__ç
Artemisia: oh,
quando si tratta di incesto ce la metto tutta per essere amorale in nome di
qualcosa che vada maledettamente oltre, e qui ci tenevo come non mai a farlo. E
ti dirò un’altra cosa, hai ragione sulla questione della coscienza dei
personaggi, e aggiungo che oltre a quella sto maturando un amore veramente
viscerale per alcuni di loro.
Synoa: tranquilla,
leggi pure con calma, e intanto grazie per i complimenti! Certo che verrebbe
fuori qualcosa di buono da quei due, dobbiamo solo metterci qui e aspettare con
pazienza, magari cercando di dare una spintarella alla situazione… ^__^
Kamusa: wowowowowo,
grazie, sono imbarazzata da tutti questi complimenti!
Little Star: oh, ma
come sei dolce cara! Mi fai sentire in colpa a morte perché non riesco a finire
la maledetta shot che sappiamo noi!!!
Capitolo 20 *** I hate you (l'ottava porta) (Lee/Neji) ***
I hate you (Lee/Neji)
NOTA: Questa
shot è il seguito del capitolo 9, “Sette Porte”, ed è dedicata a Dark, che l’ha
voluta, fortissimamente voluta ( e che mi ha prontamente corretto l’errore di
battitura della scena topica) ^__^
I hate you
(l’ottava porta) (Lee/Neji)
Lee aveva
un’espressione serena dipinta sul volto.
E aveva ripreso
colore, dannazione. La pelle della sua faccia aveva di nuovo uno stramaledetto
colore.
Neji se ne stava
immobile al centro della stanza, cercando di ritrovare la sua strada fra
l’odore pungente di disinfettante, il bagliore esagerato delle pareti e il
cicaleccio sommesso di infermieri e medici che si muovevano dietro la porta
della stanza di Lee che si era appena chiuso alle spalle.
Il letto su cui lui
riposava era in ordine, qualcuno probabilmente lo aveva adagiato e poi gli
aveva sistemato addosso le coperte come fosse stato un fantoccio. E a ben
guardare era esattamente questo che doveva essere sembrato ai medici che lo
avevano soccorso appena arrivati lì. Nulla di più di qualcosa già andato
irrimediabilmente perduto, qualcosa di rotto, di guasto.
Ma avevano
sottovalutato Lee. Errore che, ironia del destino, tendevano a fare tutti, lui
per primo. E Neji doveva ammettersi anche piuttosto recidivo, in questo.
- Neji. –
Neji si riscosse dai
suoi pensieri, seccato. Lee riusciva sempre ad interromperlo in modo
inopportuno con la sua presenza, con la sua voce affaticata dalle ferite. E
anche quando non c’era, anche quando Neji si trovava da solo, a casa, magari al
buio, bastava la sua esistenza. Lee esisteva, e a quanto pareva questo era
sufficiente a disturbare i suoi pensieri.
Neji non perdeva la
calma se non per ragioni più che valide, e sempre e comunque per lassi di tempo
brevissimi. Eppure l’aveva persa del tutto in una viuzza che puzzava di morte e
di catrame, l’aveva persa tanto da buttarsi nel fango freddo sporcandosi i
vestiti e le ginocchia, per qualcun altro, qualcuno che non fosse lui.
Qualcuno che era
Rock Lee.
- Hai chiesto di
me. –
- Sì. –
- Ebbene? –
Lee si cinse la
vita con un braccio e fece forza per riuscire a tirarsi un po’ su. Sembrava in
difficoltà, ed era ovvio, doveva essere debolissimo e tutto rotto. Ma Neji non
aveva nessuna intenzione di aiutarlo. Era fuori discussione, tanto quanto lo
era ammettere che vedere Lee ridotto in quello stato per lui gli stava
massacrando lo stomaco
E comunque, anche
se avesse voluto, non ci sarebbe riuscito, perché era troppo rigido, era teso
quasi fino allo spasmo.
– Come stai? –
Neji gli rivolse
uno sguardo severo e pieno del senso offuscato della paura di essere giudicati
con quella domanda.
– Sei il primo che
me lo chiede. – mormorò freddamente.
- Per me è
importante saperlo. –
Era così facile per
Lee metterlo in difficoltà. Così maledettamente facile.
- Io sto bene. –
rispose rimarcando l’importanza che aveva quell’io. Una parola di due lettere
che solcava la differenza fra di loro, perché io sto bene, mentre tu sei in un
letto di ospedale, e sei vivo per miracolo.
Differenze
semantiche e dialettiche.
Lee chiuse gli
occhi come se le parole di Neji fossero state ciò che aveva più desiderato
sentirsi dire in tutta la vita. Era davvero difficile cercare di farsi strada
attraverso l’intricata maglia di gesti, modi e pensieri di Lee, soprattutto per
un come lui, abituato a mantenere ogni cosa quanto più possibile vicina ad un
piano di rassicurante monocromia, facile da gestire e da spiegare sempre e
comunque.
Lee invece sfuggiva
al suo controllo come un uccello lanciato nel vento, perché era libero, libero
e colorato.
Era azzurro come la
sincerità del suo sguardo, e ostinato come il nero peggiore, era rosso perché
in lui c’era passione, ed era verde, era di mille verdi diversi, e giallo,
arancio e viola, come un tramonto senza nuvole, e Neji si odiava, si detestava
con rabbia perché si sentiva chiuso in gabbia, si sentiva prigioniero di sé
stesso, immobile e colpevole della sua stessa impotenza.
Il sorriso aperto
di Lee si infranse con forza su di lui, facendolo vacillare. Doveva scappare da
quella stanza, da quella situazione, dalla sensazione che qualcosa continuasse
a non funzionare a dovere.
Adesso che lo aveva
visto, che aveva verificato con i suoi stessi occhi che Lee era sano e salvo,
tutto da ricomporre, vero, ma vivo, la sensazione dominante avrebbe dovuto
essere quella di sollievo, di tranquillità. Andavano bene anche lo stupore,
l’incredulità, qualsiasi cosa. Ma perché invece quella rabbia non se ne voleva
andare? Perché il dolore non lo lasciava in pace, perché qualcosa dentro la sua
testa gridava ancora tutta la sua voglia di rompere la faccia di Lee, di
bersagliarlo di pugni, per poterlo ferire, e zittire, e maledizione, ma non
capiva, non capiva che gli veniva da piangere, non capiva che lo stava
spaccando dentro?
Neji sentiva, e non
capiva, perché le cose non andassero bene, non andassero affatto bene così.
Aveva bisogno di pioggia, ecco cosa. Di pioggia, e di gridare che lui lo
odiava, e sentirsi meglio, sentirsi svuotato ancora un po’, raggomitolarsi
sotto il peso caldo e rassicurante di un’altra bugia detta quasi per inerzia.
La sensazione di
claustrofobia lo sommergeva pian piano, inghiottendolo con la sua consistenza
fluida e densa e mescolando a forza nella sua bocca il sapore nauseante
dell’esitazione e di un rancore imbarazzato e smarrito.
- Puoi farmi un
favore, Neji? –
- Cosa. –
Lee accennò ad un
assenso. Parlava con voce moto flebile, ma ferma che a Neji ricordava
l’atteggiamento di chi parla a qualcuno che dorme, sussurrando piano per non
disturbarne il sonno.
– Io vorrei che tu
provassi a ricordarti sempre che per me è stato importante proteggerti. E se
anche non riuscissi più a riprendermi del tutto, non sono pentito di ciò che ho
fatto. Perciò per favore, cerca di non essere pentito tu al posto mio. –
Tu devi vivere,
Neji.. Io voglio che tu viva.
La forza di quelle
parole che si rincorrevano giocando fra due voci familiari nella sua testa lo
centrò in pieno.
Neji lo odiò con la
forza della sua anima, quel suo compagno strano e così trasparente, così pieno
di insensato altruismo e di ferite mortali da farlo sentire senza difese e
senza scudi, persino senza vestiti.
- Tu non sai quanto
vorrei… -
- Uccidermi?
Andiamo, ti conosco abbastanza bene da poter scommettere che vorresti rompermi
la testa con il vaso di fiori di Tenten. –
Neji gemette e distolse
lo sguardo, fuggendo come un uccellino impazzito oltre il vetro spesso e pulito
della grande finestra della stanza. Tentò con tutto sé stesso di volare via,
lontanissimo, ma niente, non un passo, non un muscolo che accennava a portarlo
via da quel suo incomprensibile inferno.
- C’è una cosa che
vorrei sapere. – borbottò a mezza bocca.
- Chiedi pure. –
Neji si tormentò
brevemente un dito, mentre valutava con attenzione maniacale come porre la sua
domanda. Per centrare l’obiettivo, e per ferire un po’, possibilmente.
– L’ottava porta. –
disse soltanto.
- L’ottava porta? –
- Voglio sapere
perché non l’hai aperta. –
Lee sorrise
contraendo le guance e rilassandole quasi subito, arreso al dolore. – Potresti
provare a risponderti da solo. –
- Già. – concesse
Neji, ricambiando il sorriso a malapena. – Già, non è difficile. Ti sei
assicurato una possibilità di salvezza. Dopotutto sei meno stupido di quanto
pensassi. –
- Errore, sono
stupido eccome. – rispose Lee, sorridendo di nuovo per un brevissimo istante. –
No, c’è un altro motivo per cui non ho toccato quella porta. –
- Un altro motivo?
–
- Dimmi Neji, tu
sai dove si trova l’ottava porta? –
Neji aggrottò le
sopracciglia per un momento, prima di ammettere di no con una scossa leggera
del capo.
La mano di Rock Lee
strisciò tremando fino al bordo del letto e raggiunse quella di Neji; lui se la
sentì afferrare gentilmente e trascinare pian piano lungo le lenzuola lisce. Lo
assecondò vergognandosi della stupida sensazione di imbarazzo che un contatto
del genere gli provocava. Avrebbe voluto scappare il più lontano possibile da
lì, ed allo stesso tempo avrebbe voluto restare così per sempre, immobile e
muto, a farsi scaldare dalla mano di uno stupido.
Lee si fermò sul
suo petto, e lasciò che Neji ascoltasse. In pochi secondi, il battito debole e
regolare del suo cuore cominciò a pulsargli delicatamente sul palmo della mano,
ipnotizzandolo ed invadendo la sua percezione fino a riempire tutta la stanza
con il suo rumore attutito e quieto.
- L’ottava porta si
trova qui, nel cuore. Capisci, Neji? –
- No. –
Lee fece uno sbuffo
divertito con le labbra sottili. – Non avrei mai aperto questa porta. – spiegò
con calma. – Mi sono sempre ripromesso di aprirla solamente per te. –
- Per battermi? –
Lee posò una mano
sui capelli di Neji. Non era nemmeno una carezza, soltanto un tocco immobile e
pensieroso. – In un certo senso. –
Neji sentì la testa
farsi sempre più pesante. Era un po’ come una sensazione sonnolenta,
l’accumularsi invisibile ma inesorabile di tutta la fatica e la tensione della
battaglia, della paura e dell’attesa, e quel petto era vicino, così tanto
vicino.
- Hey, niente
lacrime. –
- Non sto
piangendo. –
Lee passò un dito
sulle guance bollenti e umide di Neji, e Neji lo sentì vibrare per una risata
sommessa.
- Ho detto niente
lacrime. E niente bugie. –
- Maledizione! –
- Shhh. Ti prego,
non riesci a pensare che le cose vadano bene anche così? –
Neji serrò i denti
per trattenere dentro la bocca tutto ciò che minacciava di uscire. – No. No che
non ci riesco. –
- Allora non
lottare contro di me. Tanto lo sai che vinci sempre, no? –
Neji ringhiò e
singhiozzò nervosamente. Non gliene importava un bel niente di battere quel
pazzo ingenuo di Lee, non in quel momento.
Sconfiggerlo aveva sempre
avuto il sapore di una conferma per lui, la certezza che le cose andassero come
voleva lui, che tutto fosse sotto controllo, e che Lee non osasse fare scherzi
e prendersi spazi che non gli competevano.
E ad ogni modo non
era uno stupido. Sapeva perfettamente chi stava vincendo e chi stava perdendo,
in quel momento.
Lee continuava ad
accarezzargli i capelli come se fossero stati un tessuto prezioso e
fragilissimo, attento a non separare le ciocche sottili che si intrecciavano
delicatamente l’una con l’altra reagendo alla luce tersa che filtrava dalla
finestra.
- Mi dispiace che
mi odi. – disse serenamente, come se la cosa non lo sfiorasse, o peggio ancora,
come se fosse abituato ad un pensiero simile.
- Io non… -
- Non vergognarti
di dirlo, se lo pensi davvero. È questo che sei venuto a dirmi, non è così? -
- Io non volevo che
tu intervenissi in quel modo, maledizione. -
- Pazienza. Vorrà
dire che mi rassegnerò a sorbirmi una delle tue ramanzine. –
- Oh, stai zitto. –
- No sto dicendo
sul serio. Fammela, ne ho davvero bisogno. –
Lee chiuse gli
occhi e li riaprì tre volte, riprese un po’ di fiato.
- Dimmi qualsiasi
cosa, Neji, basta che mi parli. – confessò a mezza voce.
Ad un tratto
sobbalzò e trattenne tra i denti un mezzo gemito di dolore, quando Neji si
accasciò a peso morto sul suo torace incrinato.
- Ma perché ti devi
comportare così! – gridava vibrando come una ferita aperta, e intanto stringeva
fra le dita il camice che copriva Lee. – Non lo capisci che io ti odio? Ti odio
più di chiunque altro! Io ti odio, ti detesto, e tu non hai idea, non hai
nemmeno lontanamente idea di quanto vorrei ucciderti in questo momento. –
Rock Lee mise
insieme tutte le sue forze, ma il braccio fasciato non gli permetteva di
raggiungere la nuca del suo compagno, costringendolo invece a fermarsi alla
metà della lunghezza dei suoi capelli.
- Sì. Lo sai,
vorrei riuscire a toccarti. – mormorò ignorando la furia di Neji. – Vorrei
darti una carezza per ogni volta che mi hai già ucciso, e penso che ci
impiegherei un sacco di tempo. –
Neji si ritrovò a
inspirare l’odore della pelle del suo compagno di squadra mentre tentava di
regolarizzare il respiro. Era spossato e senza più una sola parola da dire,
nemmeno una che rendesse giustizia al suo sentimento violento verso Lee. Le
labbra gli tremavano ancora un po’, toccando di tanto in tanto il suo collo
morbido e caldo. Gli venne improvvisamente voglia di chiudere gli occhi.
- Credevo che
saresti morto. – ammise sottovoce.
- Sì, l’ho pensato
anch’io. –
- Ma non lo hai
pensato come l’ho pensato io. –
Neji si tirò su
sulle braccia. Vedeva gli occhi di Rock Lee brillare tenuemente, vivi forse
molto più dei suoi che invece non facevano altro che riflettere una luce non
loro. Era sempre stato così, la loro disparità constava prima di tutto nel loro
modo radicalmente diverso di vedere.
Normalmente le
persone si baciano perché si amano. Neji non poteva dire se fosse così anche
per loro, se fosse per quel motivo che Lee gli aveva sfiorato il mento un
secondo prima che lui scendesse e gli toccasse le labbra. A ben guardare non
era nemmeno certo di poterlo chiamare bacio. Era stata la stanchezza, e un po’
anche il bisogno, sapeva solo di aver chiuso gli occhi, e di non aver visto più
nulla per un secondo o due.
Rock Lee non
commentò il prevedibile silenzio entro cui Neji si era chiuso. Lasciò che la
porta della sua stanza se lo riprendesse così come glielo aveva portato, e
rimasto solo si regalò un sospiro. Nel silenzio che lo circondava e lo
stordiva, la sua unica, paradossale compagnia era il pulsare flebile del suo
cuore, proprio quell’ottava porta che scandiva ad ogni battito il nome di Neji.
ANGOLINO!
Perdonatemi se
salto i ringraziamenti, purtroppo non ho proprio il tempo materiale per farli,
questa volta. Ma come sempre mi inchino a tutti quelli che hanno letto e
recensito, ve ne sono davvero grata!
Una precisazione
riguardo la scorsa fic, “Stars”.
La malinconia di
fondo di cui in molti avete accennato, e che grazie al cielo si avverte, è
tutta legata a quel “domani si parte per Suna” che è un po’ il vero fulcro
della storia, e che io ho candidamente dimenticato di segnalare. Ma tutti
quanti sappiamo già che cosa succede, a Suna, vero?
Scherzi a parte, ho
scordato di avvisare dello spoiler e me ne scuso, ho dato totalmente per
scontato la cosa; fortunatamente non ho rivelato nulla, spero che non sia stato
un problema per nessuno!
PREMESSA: questo
capitolo contiene riferimenti a tematiche erotiche, benché nessun atto sia
esplicitamente descritto.
Post orgasmic
eyes
Rock Lee tese la
mano destra, andando tentoni sul letto fino a ritrovare un lembo del lenzuolo
bianco, tutto sgualcito. Se lo tirò addosso con un gesto stanco, fino a metà
del petto, coprendosi giusto le ginocchia e l’addome, quel poco che serviva.
Gaara era immobile,
chiuso in se stesso come se fosse perso in qualche dimensione lontana.
Ogni volta, Lee si
riprometteva di non pensarci, di cercare di dormire un po’, che poi il viaggio
di ritorno sarebbe stato duro e gli altri gli avrebbero fatto troppe domande,
se lo avessero visto tornare in quelle condizioni.
Ma poi Gaara girava
lentamente la testa, e lo guardava.
Lo guardava in
silenzio, ficcandoglisi nel cuore, e con quei suoi occhi gli chiedeva perché,
gli chiedeva come e quando fossero finiti così, gli chiedeva che cosa avessero
appena fatto, in un modo che lo faceva sentire in colpa, ogni volta, senza
scampo.
- Non guardarmi
così. – sospirò.
Gaara sbattè due
volte le palpebre, lentamente. Abbassò lo sguardo, ma lo rialzò quasi subito,
più limpido di prima. Non lo avrebbe mollato con tanta facilità.
Lee lo sostenne
ancora per un po’, poi si rassegnò a tirarsi su sui gomiti. Non aveva
intenzione di fronteggiarlo davvero, il solo fatto di illudersi di poterci
riuscire era una sciocchezza.
L’unica cosa che
poteva fare, al momento, era pregare.
– Non guardarmi con
questi occhi. –
Gaara non si
rivestiva mai, al contrario di lui. Restava sdraiato sulle coperte sfatte con
il suo corpo nudo, senza nessuna vergogna, e d’altra parte perché mai avrebbe
dovuto, lui che era bello come un idolo, un rond-bosse preziosissimo,
incastonato in un letto qualsiasi.
E Lee sapeva
perfettamente di uscirne sconfitto su tutti i fronti. Con la sua normalità, il
suo sentimentalismo ridicolo, il suo nome qualsiasi.
- Sei troppo bello.
Troppo bello, Gaara, troppo. -
E dopo il sesso, se
sesso era quel disperato cercarsi, quel volersi tanto da ringhiare, quel
desiderio che ti spacca dentro lo stomaco, lui era ancora più bello, con quegli
occhi lucidi nella penombra, assorti e sconci, gonfi come le sue labbra.
Lui non sapeva mai
cosa dire, di quei suoi occhi.
Gli occhi di Gaara
parlavano una lingua sinuosa ed arcana che era soltanto loro, e Lee era
arrivato a quella fase della sua interpretazione in cui ancora non capiva che
cosa dicessero, ma le parole cominciavano almeno ad avere un suono familiare
nella sua mente.
Li leggeva perdendosi
fra i suoi mille accenti, quando li vedeva illuminati di tutte le premesse del
loro sesso ostinato, e poi fluttuanti per pochissimi, immensi secondi, prima di
sciogliersi assieme a lui, assieme al piacere, senza nemmeno un sospiro. Gaara
era un tipo silenzioso, uno di quelli che non ti concede il privilegio di
decifrare il suo respiro, e Lee si sentiva in dovere di rispettare al meglio
quel vuoto sonoro che si instaurava fra loro, per quanto potessero essere
silenziosi due corpi che si uniscono e si scontrano su un letto.
Potevano, a ben
vedere. C’era il rumore delle gambe che si attorcigliavano, quello secco dei
bacini che si scontravano, quello delle braccia che si aggrappavano, il fruscio
dei fianchi, lo scricchiolio delle dita sulla schiena; ma se questo concerto
non era diretto da delle voci, da dei sospiri che invocassero nomi, parole,
magari d’amore; se non c’erano respiri infranti, singhiozzi, gemiti, allora
tutto non era che un caos fine a sé stesso, una musica senza anima.
Un silenzio, in ultima
analisi. Un desolato silenzio.
Lee si mantenne
sospeso su di lui, con le braccia tese ai lati della sua testa, e tese
mollemente la mano verso di lui, fino alla sua guancia. Gaara socchiuse un po’
gli occhi e lo lasciò fare. Doveva essere stanco, ma ancora troppo scosso dalle
sensazioni del sesso per poter dormire. Lee gli distribuì un lembo del lenzuolo
sul petto, prendendolo a scusa per accarezzarlo.
- Sei
disperatamente bello. – mormorò con voce quasi commossa. – E io vorrei
potertelo dire sempre, ogni volta che lo penso. Invece ogni volta che facciamo
l’amore è sempre l‘ultima. –
Gaara distolse lo
sguardo. Lee lo vide riflettere in quel suo modo particolare, che lo elevava al
di sopra di tutto, e che confinava lui al ruolo di estraneo. Avrebbe dato ogni
cosa, qualsiasi maledetta cosa, per poterlo toccare in quel momento, per
entrare nella sua testa e sentirlo, capirlo, viverlo.
Lee sollevò
l’angolo della bocca di quel poco che bastava per simulare un sorriso. Finto,
naturalmente, in quel momento non c’era proprio nulla che gli facesse venire
voglia di sorridere.
– Posso toccarti,
Gaara? –
- Puoi. –
Lee non perse
troppo tempo su un corpo che aveva posseduto ed abusato fino a pochi minuti
prima. Un tocco sulle gambe, due dita lasciate pattinare lungo il fianco, su
fino allo stomaco, e allo sterno che affiorava da sotto la pelle.
Così liscio.
Era così liscio,
così inviolato dagli accidenti del mondo, così straniero alle cicatrici e alle
ferite. Le ferite di Gaara non riguardavano la sua pelle, e questa non era una
novità. Le si scorgeva appena oltre le iridi piatte e limpidissime. Tutto il
resto di lumiera perfetto, in una contraddizione crudele che faceva di lui una
divinità spenta, indifferente al richiamo di chi avrebbe soltanto voluto essere
il suo sacerdote.
Lee strusciò la
testa sul cuscino per coprire il breve tratto che lo separava dalla spalla di
Gaara. La sua pelle aveva l’odore sapido del sole, e il sapore polveroso della
sabbia finissima, quella più pregiata e regolare, con cui si fanno le
clessidre.
Gaara del Deserto,
che gli aveva riempito di sabbia il cuore, e gli occhi, e i pantaloni, anche
quelli, sì. Negarlo non avrebbe avuto senso.
Continuò ad
accarezzarlo ancora. Lo avrebbe fatto finchè lui non avesse revocato il suo
permesso, ma intanto non trovava la forza di superare, con lo sguardo, la
barriera delle sue guance pallide. Si attardava su tanti dettagli inesistenti,
copriva a forza di battiti di ciglia le piegoline delle orecchie, la distanza
nera e sottile fra le labbra socchiuse, il naso piccolo, il mento. Niente di
più.
Il viso di Gaara
era una ragione più che valida per morire. Era qualcosa in cui affondare le
dita, qualcosa da volere, da strattonare, tutto Gaara era talmente vuoto che
non si poteva non provare l’impulso di riempirlo.
Le dita di Lee
galleggiarono delicatamente su tutto il suo volto, aggirando i suoi occhi mai
del tutto chiusi. Gaara aveva i capelli incollati a piccole ciocche definite
sulla fronte, e anche lui, del resto, doveva avere la testa piuttosto
arruffata: Gaara gli piantava sempre le mani nei capelli, quando facevano
sesso; se li stringeva e se li rigirava fra le dita facendone il suo mezzo di
comunicazione, visto che, a parte pochissimi sospiri un po’ più rumorosi, non
fiatava mai, nemmeno una parola.
- Gaara, guardami.
-
- Mi hai detto di
non farlo. -
- Lo so. Ma adesso
non voglio che finisca. –
Lee piegò i gomiti
per farsi un po’ più vicino. Respirava con forza sul volto composto di Gaara.
- Non voglio che
sia sempre la stessa storia. –
Gaara odiava che
lui parlasse, soprattutto che lui dicesse cose del genere. Lee, naturalmente,
ne era ben consapevole. Ma l’esasperazione è la scintilla del coraggio.
- Io ti amo. –
Gettò le sue parole
come sassi giù da un dirupo, senza sapere dove sarebbero cadute, se nella bocca
di un vulcano o in una sorgente.
Gaara digrignò i
denti fino a farli stridere.
- Guardami, adesso.
Guardami. -
Lee reclinò la
testa su una spalla, e con il dito indice risollevò il mento del compagno.
- Ti amo. Non fuggire.
-
Se avesse potuto,
Gaara lo avrebbe fatto, di questo Lee era conscio. Ma chissà che non potesse
valere la pena di trasformare la propria intera vita in un estenuante
inseguimento. Prudentemente, si reclinò su un braccio solo, per avere la
libertà di accarezzarlo con l’altro.
Aprì la gabbia, in
un certo senso, e Gaara rimase immobile. Leggeva il dubbio, e la desolazione,
nei suoi occhi, così come riusciva a leggere un’infinità di altre cose, tutte
complicate e magiche.
- Potremmo provare.
– mormorò dolcemente. – Io mi prenderò cura di te, se tu me lo lascerai fare. –
La sua voce era
ferma e calda. Non sembrava affatto che lo stesse disperatamente implorando.
Gli occhi di Gaara
vibrarono, si serrarono, si aprirono; ne sgorgarono bisogni timidi, e liquide
domande che scesero fluide lungo le guance, giù fino alla bocca. Che si
dischiuse, e cercò quella di Lee.
Si trovarono e si
baciarono. Lee non aveva memoria di un bacio così carico di bisogno, e di
dolcezza ruvida e tangibile. Gaara era morbido ed amaro: sapeva di tempo, di
passato quanto di futuro, e Lee si ritrovò a pensare che se solo lui avesse
capito, se fosse riuscito ad immaginare quanto tutto ciò significasse per lui,
allora forse le cose sarebbero potute andare un po’ diversamente, un po’
meglio, e questa loro relazione gli avrebbe lasciato una boccata di ossigeno da
respirare.
Si prese un lungo
sospiro. Al momento, gli piacesse o meno, Gaara continuava a rubargli l’aria,
risucchiandolo nei meandri tortuosi dei suoi occhi.
Assecondò la foga
delle sue braccia che gli si stavano attorcigliando attorno al collo, sfiorò il
collo di Gaara con le labbra, e per la prima volta lo sentì gemere.
Sorrise, vagamente
sornione.
– Se fai così,
finiremo con il fare l’amore un’altra volta. –
Capitolo 22 *** Limbus (my one last dance) (Kimimaro) ***
PREMESSA: amo Dante
PREMESSA: amo Dante. E
questa è una premessa tanto superflua quanto necessaria. Necessaria per dire
che le parti riportate in corsivo sono estratti del canto IV dell’Inferno
dantesco, in cui ci viene descritto il Limbo. Fra parentesi ho anche scritto
una (scarna) parafrasi. È per rendere più immediatamente comprensibile
l’estratto, ma vi prego, se potete lasciate perdere la mia dozzinale
trasposizione, e leggete il testo dantesco.
LIMBUS
(MY ONE LAST DANCE) (KIMIMARO)
Vivo in un Limbo, e
nel mio Limbo danzo, e danzo, e danzo.
…Quivi,
secondo che per ascoltare,
Non avea pianto mai che di sospiri
Che l'aura etterna facevan tremare
(
Qui, per ciò che l’udito coglieva,
Non
c’erano altri lamenti che i sospiri,
Che
facevano increspare l’aria eterna)
Mi guardate, voi,
ondeggiare come un giunco oltre la superficie plumbea e lucida di questo
specchio d’aria?
Io vivo una morte a
metà, perché ho peccato a metà.
Ho amato troppo, ho
amato male, chissà. Chissà chi l’ha decisa, poi, la mia destinazione incolore.
Ma se vorrete
guardarmi, non mi recherete fastidio. La pace apatica del mio Limbo mi impedirà
di provare alcunché nei vostri confronti.
Accomodatevi,
ospiti, dunque, senza timore. Potrete restare, purché non interrompiate la mia
danza. Non che sia l’urgenza a spingermi, no. Ho tutta l’eternità per me, da
trascorrere qui in questo Limbo, in una danza incessante che si fa sempre più
pura.
Ciò
avvenia di duol sanza martìri,
Ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
C'infanti e di femmine e di viri.
(Ciò
avveniva per la punizione senza tormenti fisici
Cui
erano sottoposte le schiere di anime, che erano molto nutrite,
Di
bimbi, donne e uomini)
Non respiro, né mi
nutro, né provo alcuna sensazione che possa rammentarmi di aver posseduto dei
sensi, molto tempo fa.
L’immobilità di
questo Limbo ride di me, e di me si fa beffe. Ma io continuo a danzare,
ostinato, danzo nella mia invisibilità, nell’indifferenza, ricordando in questo
modo come nell’indifferenza morii, spegnendomi su me stesso come una candela triste,
suicida involontario ma senza rimpianti. Non troppi.
Nessuno guarda
nessuno qui, in questo luogo di grigiore elegiaco, e nessuno mai si ferma ad
osservare me, stelo smarrito in una prateria non mia, nessuno mi guarda
danzare, nessuno più.
…
Or vo' che sappi, innanzi che più andi,
Ch'ei
non peccaro; e s'elli hanno mercedi,
Non basta, perché non ebber battesmo,
Ch'è porta de la fede che tu credi;
(-Virgilio-:
voglio che tu sappia, mentre proseguiamo,
Che
essi non hanno peccato. Ma se hanno meriti,
Non
bastano, perché non ricevettero il battesimo,
Che
segna l’ingresso nella fede cristiana)
Io vivo una morte a
metà, perché ho peccato a metà.
Perdonatemi a metà,
perciò. Mi si perdoni per aver realizzato solo a metà il sogno che avevo fatto
mio, prima che la mia inesorabile debolezza mi portasse via. Avrei scelto con
più determinazione la via buia, e l’avrei percorsa ondeggiando come so fare,
incantando voi che mi state a guardare ora, e tutti quanti sul mio cammino. Con
un altro nome ed un altro cuore, altri occhi e altra lingua, ma con un’anima
finalmente riempita e paga, disciolta in quella immensa del mio signore, io
avrei continuato a camminare arrogante nel sole, se avessi potuto, se solo
avessi potuto.
Per
tai difetti, non per altro rio,
Semo perduti, e sol di tanto offesi
Che sanza speme vivemo in disio.
(Solo
per questa mancanza, non per altri crimini,
Siamo
dannati, e soffriamo
Solo
perché viviamo nel desiderio senza speranza -di contemplare Dio-)
Ho danzato tanto,
durante la mia vita ho imparato tutte le danze della morte, e le ho ballate
tutte con eguale, mite passione.
Ricordo, della mia
vita, come usassi sputare sangue. Come lo sentissi gorgogliare nella mia gola,
ribollire lungo tutto il mio corpo, e poi esplodere, liberandosi dalla sua
prigione tanto sgradita. Non mi lamentavo mai, però, della mia lenta emorragia.
Ricordo che in quei
momenti stringevo i denti, e mi sentivo difettoso. Non avevo affatto
l’impressione di essere un sopravvissuto, affatto. Guardavo cadere con apatia i
granelli della mia clessidra uno ad uno, sempre più sottili, sempre più
brillanti, sempre più intrisi di cristalli di sale. Sempre più pochi.
Ricordo che l’unica
cosa che mi riusciva di provare era una sensazione di fretta; l’ansia di fare
la felicità di chi aveva fatto felice me, oh sì, la mia sola via d’uscita, per
il mio dio bianco avrei sacrificato qualunque cosa.
L’ho fatto,
pensandoci bene. E ho avuto in cambio un’eternità monotona, dove anche la
fretta se n’è andata, perché non ha più ragione d’essere.
E ora vivo qui in
questo Limbo, e qui danzo, e danzo, e danzo.
Qui nel mio Limbo,
in eterno continuerò a danzare.
Gran
duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,
Però che gente di molto valore
Conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.
(Grande
pena mi strinse il cuore, quando lo ebbi ascoltato,
Giacchè
gente di grande nobiltà
Seppi
che in quel limbo era costretta)
Verrò dimenticato
dagli eventi, e morirò cento e cento volte ancora, ogni volta che il mio nome
sfumerà dalla mente di chi mi ha incrociato lungo la sua strada.
Perché nella mia
vita, io non ho fatto altro che incrociare persone. Guardarle negli occhi per
un istante solamente, e poi sfilare via. Io non mi sono mai voltato indietro
per guardare chi incrociavo, e chissà se qualcuno si è mai voltato per guardare
me.
Nel mio Limbo di
pace struggente, mi lascerò dimenticare, come mi lascio ora danzare
dall’inerzia di tutta questa pallida immobilità.
Danzo il mio eterno
assolo, abbandonandomi come una foglia al vento.
Come l’ultima nota,
che si tende dalla corda di un violino verso il cielo, in un lunghissimo addio.
Uscicci
mai alcuno, o per suo merto
O per altrui, che poi fosse beato?
(-Dante-
: è mai uscito nessuno dal Limbo, per merito suo
O
di forze esterne, a cui poi fosse concessa la beatitudine?)
È dolce, la danza
senza speranza dell’ultimo petalo di una rosa. Io che ho lavato la mia vita
nell’amore per chi era più grande di me, so che non riuscirò a dimenticare mai,
nemmeno nella perpetuità di questa limpida isola illusa, il fremito di quel
viso che mi sorrideva, e mi dava un senso. Mi colorava e mi scriveva sulla
fronte pagine e pagine di un romanzo d’amore. Amavo così tanto, ed amavo così
male, per questo ho peccato a metà, e sono morto a metà; ma non importa niente,
ora che non posso nemmeno sapere se lui pensa più a me, se serba il mio
ricordo, se mi immagina danzare, se sa che io qui danzo perché non mi è rimasto
null’altro da fare.
…
E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati.
(-Virgilio-:
e voglio che tu sappia che, oltre a loro -i Progenitori e i padri della Bibbia-
Nessun
altro uomo fu salvato)
Nel mio Limbo per
sempre, cantilenando in ordine il nome di ogni fiore, ed eseguendo per ciascuno
di essi la mia danza assorta. Finché gli uomini non scopriranno un fiore nuovo,
che chiameranno Solitudine, e allora io danzerò anche per lui, la mia danza più
bella. Per allora, però, forse di spettatori non ce ne saranno più.
Per allora anche
lui mi avrà dimenticato, ed io mi abbraccerò da solo il busto, cercando di
sognarlo una volta ancora, una volta di più. Verrà meno il conforto del suo
amore, ma questo Limbo continuerà ad esistere, prigione immensa d’aria nera, di
buio viola, e di erba fresca e unta dalla rugiada.
Vidi
quattro grand' ombre a noi venire:
Sembianz' avevan né trista né lieta.
(Vidi
quattro anime avanzare verso di noi:
Il
loro aspetto non era ne’ triste ne’ lieto)
Spettatori come voi, non
se ne vedono molti, qui. Ma non fa molta differenza, i fili d’erba di queste
radure eterne e infinite mi faranno volentieri da pubblico, ed io mi illuderò
che essi stiano a guardarmi, che mi plaudano e mi consolino, e che ondeggino
perché, rapiti dalla mia danza delicata, desiderino imitare il mio volteggio, e
farsi fiori anch’essi, belli e profumati per pochi momenti di magico trasporto.
…
Giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti
v'eran con occhi tardi e gravi,
Di grande autorità ne' lor sembianti:
Parlavan rado, con voci soavi.
(Giungemmo
in un prato d’erba fresca.
C’erano
anime con sguardi lenti e tristi,
Di
aspetto dignitoso:
Parlavano
poco, con voci dolci)
La mia danza
accorta, indaga le sfumature di fondo di un’effimera estetica della morte. Ma
il vero dolore di chi, morto, nulla ha più da perdere, è il timore ultimo, ti
prego, maestro, non mi dimenticare, lasciami guardare ancora la vita e il mondo
da uno spiraglio del tuo cuore.
Danzerò io,
intanto, per scongiurare le mie paure, e danzando aspetterò che qualcosa fenda
quest’immortalità inerte e venga per me. Svanirò, chissà, in quest’aria
perfetta, come un filo di fumo scolpito e soffiato. Annullandomi con calma,
senza nemmeno sentirmi andare.
… Per altra
via mi mena il savio duca,
Fuor de la queta, ne l'aura che trema.
E
vegno in parte ove non è che luca.
(Per
altra strada mi conduce Virgilio,
Fuori
dalla quiete dell’aria tremante di sospiri
E
avanzo dove non c’è che tenebra.)
Il mio sobrio
commiato non sarà che uno sguardo rovescio ed assorto.
Addio dunque,
ospiti inattesi.
Voi sfumerete via
all’orizzonte, mentre io resterò qui nel mio Limbo per sempre, nel mio Limbo a
danzare il nome di ciascun fiore.
Io, qui nel mio
Limbo, solo, danzo.
E danzo, e danzo, e
danzo…
ANGOLINO!
Questo capitolo è
prima di tutto un tributo. Ad un personaggio sublime, che mi ha fatta innamorare
in due pagine nette della sua disperata nobiltà. Fra tutti i ragazzi disastrati
e perseguitati da atrocità di ogni sorta (diciamocelo, fin troppi) che si
incontrano in NARUTO, Kimimaro si distacca per una dignità intrinseca, e un
destino doppiamente atroce, quello di essere dimenticato sia dagli altri
personaggi della vicenda, che dal lettore stesso.
I miei scopi,
quando mi sono messa al lavoro, sono stati due: quello di lasciare qualcosa che
fra un anno o due qualche lettore torni a leggere, e che gli faccia dire “ ma
sì, Kimimaro, c’era anche lui, me lo ricordo.” E magari che lo faccia sentire
un po’ in colpa, perché sono sicura che nel frattempo se l’era dimenticato.
Secondo, quello di
riuscire a parlare della solitudine più nera senza mai nominare la parola, se
non attraverso il nome di un fiore. Un giochino con me stessa, mettiamola così.
Approfitto di
questo spazio anche per segnalarvi una bella iniziativa: la nascita di un nuovo
sito tutto dedicato solo alle fanfictions yaoi/yuri/shonen/shoio ai.
Taci. Non voglio
discutere con te. Tutto ciò che posso fare ora è correre.
Fino a perdere
il fiato? Non si fa così.
Ho capito, adesso.
È inutile. È una
bestia che muore lentamente.
Ti ho detto di
tacere. Tu non sei che invidia e disprezzo.
Io sono la
verità.
Tu non lo hai mai
capito. Non lo capisci come lo capisco io.
La
pioggia e il vento, insieme fanno una tempesta, oppure un’orchestra. Questo
aveva imparato da lui. Ci sono molti modi diversi di divenire.
Sei un illuso.
Lui è il mio
specchio.
È la tua croce.
Gli
occhi bruciavano da morire, sferzati dalla polvere e scottati dal sole e dal
sudore. Ma c’erano delle cose da dire, delle scuse da fare. Subito.
Non lo vedi? Sto
correndo.
Sei lanciato
verso il suicidio, ma non è un mio problema, io non verrò con te.
Ti ho mai chiesto
di seguirmi? Sai che non voglio starti a sentire, se nella mia testa c’è lui.
Lui, lui, lui.
Occupa così tanto spazio, quella sua faccia vuota?
Zitto, ora.
Ritirati in un angolo, e fammi almeno il favore di restare in silenzio.
In silenzio,
dici. Tzk. Me ne starò in silenzio anche quando ti renderai conto di essere sull’orlo
dell’abisso, ed avrai bisogno di me.
Mancava
poco. La strada era tanto immensa che non era nemmeno una strada. Tutto il
deserto lo aveva condotto fin lì, aprendosi come un quaderno e lasciandosi
interpretare, e spingendolo con il vento verso la direzione giusta, quella che
correva ribellandosi al percorso delle stelle.
È inutile, ti
dico, inutile. Ti troverai soltanto senza terra sotto ai piedi.
Anf,
anf. Era riuscito ad imporre alle sue gambe di non mollare fino a che non lo
avessero portato a destinazione, ed ora eccolo. Le ombre del pomeriggio tardo
si stiravano fino a lambirgli i piedi. La forza con cui lo attiravano a loro
era molto maggiore di quella con cui la flebile e asciutta voce che lo aveva
accompagnato per tutto il viaggio aveva cercato di riportarlo indietro. Non era
il tipo da farsi forzare, lui.
Ho passato il
confine. Ma non è un baratro, quello che mi sono trovato davanti.
Sono a Suna,
finalmente. Aspettami, sto venendo da te.
ANGOLINO!
Eccomi di ritorno,
dopo un certo periodo di assenza. Dovete scusarmi, ma ho un bel po’ di progetti
da portare avanti, non sempre riesco a stare dietro a tutto.
Grazie per la
pazienza di avermi aspettata!
Questa fic un po’
particolare vuole essere un dialogo interiore, breve e piuttosto concitato,
perché la situazione lo richiede. Mi auguro che risulti chiaro, o meglio,
confuso al punto giusto!
Tinebrella: già, è
proprio questo che personalmente mi fa amare Kimimaro più di molti altri
personaggi. Quante persone meravigliose sono scomparse dalla memoria, per non
aver lasciato un segno abbastanza profondo?
Dark: se ti
consola, anche il mio encefalogramma era piatto, dopo aver scritto il pezzo. E
ciò non è proprio il massimo…
Little star: ma
figurati, non ti devi scusare! Fra l’altro, ci hai preso in pieno, perché sia
questa che King of Angels sono due storie che vogliono riflettere sull’amarezza
del destino di due personaggi che, guarda caso, si scontrano, senza decretare
un cero vincitore.
Camusa: ti
ringrazio per entrambe le recensioni, e mi dichiaro totalmente in accordo con
te. Sono contenta, perché dalla tua recensione capisco che ciò che volevo
esprimere è arrivato, e sicuramente hai ragione nel dire che solo Gaara, non
tanto Rock Lee, che pure era lì con loro, si rende davvero conto di chi ha
davanti. Perché in ultima analisi loro due sono molto simili.
PREMESSA: la shot coinvolge molti personaggi, che ho voluto
simbolicamente riunire in coppie
PREMESSA: la
shot coinvolge molti personaggi, che ho voluto simbolicamente riunire in
coppie. Ma questa non è una shot romantica, quindi, a parte un unico caso in
cui il paring è palese, tutte le altre coppie possono tranquillamente essere
intese in un senso di semplice amicizia.
Requiem
- Hayate è morto
coraggiosamente, come un vero ninja. –
C’erano molti cuori
che avevano preso a battere più forte, al nome di Hayate, pronunciato con
pacato affetto dal terzo Hokage.
Uno, in
particolare, che in silenzio aveva cominciato a piangere.
La regola dei ninja
poteva venire meno, in situazioni come quelle, dove il villaggio si riuniva
insieme per ringraziare chi era morto per il bene di tutti, e quella bara
semplice, chiara, decorata da tanti fiori delicati, faceva troppo male, davvero
troppo male.
Più un pericolo è
grande, più ci si stringe l’un l’altro, ci si fa forza, si cercano contatti che
servono a sentirsi più protetti. Niente regole, qui, niente leggi o codici.
Questa è umanità.
Iruka occhieggiava
di tanto in tanto ad alcuni suoi allievi, venuti alla cerimonia assieme ai
genitori. E ai suoi vecchi ragazzi, a Naruto e Sasuke, seduti non lontani da
loro, e a molti altri. Preferiva non indugiare troppo sui loro volti, per non
rischiare che qualcuno scoprisse i suoi occhi arrossati.
Hayate era stato
come un fratello, per lui. Da sempre. Era impossibile, impossibile, e troppo
duro, guardare la bara di una persona con cui hai condiviso quasi tutta la tua
vita, una persona che hai visto crescere, qualcuno che per te, dentro di te, è
sempre stata viva, vivissima. Hayate era un tipo riservato, un ragazzo semplice
e leale, uno di quelli che non si fa notare troppo, ma Iruka lo conosceva
meglio di sé stesso, e in quel momento il tesoro che Hayate era, la sua sensibilità,
il suo coraggio, bruciavano le ciglia, accalcati nell’angolo più nascosto dei
suoi occhi.
Con Hayate se ne
andavano alcuni dei ricordi migliori di tutta la sua vita.
Era stato anche per
questo che Kakashi aveva preferito dagli la notizia di persona.
- Siediti,
Iruka. -
Iruka obbedì. Le
mani di Kakashi tremavano, e sicuramente lo facevano per una ragione più che
valida.
Iruka piegò le
labbra in una smorfia di disagio, mentre lo stomaco cominciava a torcersi su sé
stesso, soffocandolo.
Sedersi. Che
cosa poteva essere successo di così grave, per costringerlo a sedersi?
Nella sua testa
risuonavano voci, combinate come strane melodie, che si mischiavano al
gorgogliante mormorio di chi osava scambiare qualche parola con i suoi vicini.
Persone, magari, talmente abituate ai lutti da non farci più caso.
Iruka era il genere
di uomo che non si sarebbe abituato mai a veder morire nemmeno un fiore. Era
uno che non imparava mai dalla vita, la sua indole lo spingeva a credere fino
alla fine in un prodigio che potesse risolvere tutto. Non era andata così,
molte volte, ma poi era sempre arrivato il tempo, a rendere tutto un po’ più
semplice. Il tempo, e cose come l’amicizia di Hayate.
- Hayate è
morto. -
Un colpo secco,
dritto e preciso. Iruka sentì la testa vorticare, lo stomaco invaso dalla
nausea, e non reagì. Non si mosse nemmeno.
- Iruka… -
- No. –
Kakashi si
inginocchiò di fianco alla sua sedia e lo abbracciò stretto, senza fiatare.
- No. No, no,
no, no. –
- Coraggio. –
- Non Hayate. –
- Devi essere
forte, Iruka. –
Iruka piantò le
dita nelle spalle di Kakashi, con veemenza. E pianse, al diavolo tutto, Hayate
era morto, morto, e lui piangeva, perché no, non Hayate, maledizione, non
Hayate.
Kakashi lo
stringeva forte, e le sue braccia che lo confortavano, allo stesso tempo lo
gelavano con la certezza che tutto questo fosse reale, senza via di scampo.
- Kakashi. –
- Shhh. Sfogati,
ti farà bene. –
- Non… –
- Tranquillo.
Rimango qui con te. –
Dio, come
ringraziava il cielo di avere lui, al mondo.
Kakashi era al suo
fianco, ed era irrequieto. Fissava ora la bara di Hayate, con un rispetto
rabbioso e impotente, ora il signor Hokage, che parlava sillabando le parole
una ad una, ora lui, con la coda dell’occhio.
- Hayate meriterà
sempre il nostro ricordo, e la nostra riconoscenza. –
Sasuke si mosse
impercettibilmente per toccarsi il naso. Doveva sentirsi parecchio a disagio.
Chissà da quanto tempo non partecipava ad un funerale, dopo la tragedia della
sua famiglia. Ammesso che ci avesse partecipato, a quello.
Naruto ringhiava,
di fianco a lui. Probabilmente dentro di lui cantilenava parole di rabbia, di
sfida, di vendetta. Naruto era così, e Hayate sarebbe stato felice di sapere
che con i suoi modi dimessi aveva toccato il cuore di tante persone.
Neji Hyuga era
seduto non molto distante, assieme ai suoi compagni. Iruka ripensò a quando
Hayate lo aveva fermato, impedendogli di accanirsi su Hinata. Era successo poco
tempo prima, così poco che sembravano solo minuti.
E chissà se Neji in
quel momento lo aveva odiato, chissà che in cuor suo era stato tentato di
attaccarlo, chissà se aveva voluto la sua morte, anche solo per un secondo. Non
era bello pensare a cose come queste, ed Iruka si sentì in colpa da morire,
cercando sul viso inespressivo e pallido di Neji segni di un odio che non
c’era.
Il suo compagno Lee
si piegò per sussurrargli qualcosa. Neji scosse la testa lentamente, Lee gli
guardò di sfuggita una mano.
Era sempre stato un
ragazzo d’oro, Lee.
Il terzo Hokage
osservò tutta la platea con i suoi occhi velati di una inarrivabile stanchezza
che solo uomini come lui potevano provare. – Che il suo sacrificio possa
lasciare qualcosa nel cuore di tutti voi. –
Kakashi avvolse un
braccio attorno alle spalle di Iruka, con discrezione.
- Ora ascolta
bene ciò che sto per dirti. Finché le cose non si saranno sistemate, saremo
tutti quanti in grave pericolo, e l’Hokage vuole, tutti noi vogliamo, che
Hayate rimanga l’unica vittima. –
- Non capisco. –
Kakashi sorrise
mestamente. – Voglio che tu rimanga al sicuro. –
- E’ una pazzia,
non puoi chiedermi una cosa del genere. –
- Ho visto il
corpo di Hayate. –Kakashi lo mormorò duramente, con la bocca premuta sulla
spalla di Iruka. – E per un maledetto istante, ho immaginato te al suo posto. –
Kakashi era l’uomo
che era, e niente e nessuno al mondo sarebbe riuscito a impedirgli di
proteggerlo. Nemmeno Iruka stesso.
Però grazie,
grazie, Kakashi, per essere un petto solido contro cui piangere la morte di un
fratello, e grazie di cercare a modo tuo di trovare qualche risposta ai tanti,
atroci perché.
- Che la morte di
Hayate vi dia coraggio, e forza, e che rimanga impressa in voi come simbolo di
lealtà, di onore, di amore. –
Iruka diede un
singhiozzo esasperato, che Kakashi si soffocò contro il petto. Ecco, stava
ricominciando a piangere come un bambino, ma non poteva farci niente, davvero,
ce l’aveva messa tutta, però era Hayate, era il suo Hayate, e niente al mondo
glielo avrebbe ridato indietro, e lui non riusciva a vedere uno straccio di
motivo per cui non piangere.
La mano di Sasuke
strinse quella di Naruto con forza.
Gli occhiali di
Shino brillarono, Shikamaru reclinò la testa e si morse l’interno della guancia,
Choji mise da parte, per una volta, il suo sacchetto di patatine.
- Vieni qui,
piccola Hinata. –
Kiba si strinse la
testa di Hinata al petto, lasciando che si nascondesse, e che piangesse, se ne
avesse sentito il bisogno.
Sakura strinse
forte entrambe le mani di Ino, e annuì fra i singhiozzi. Ino le sorrise
tristemente, e le batté le nocche della mano sulla fronte. Forza, testona, devi
farti forza.
Gai era seduto con
Asuma e Kurenai. E da lì, teneva d’occhio i suoi ragazzi. Tenten era vicina ai
suoi genitori, poco più in là. Neji era immobile, ancora smarrito nei suoi pensieri,
mentre Lee si agitava di tanto in tanto, lo guardava di sottecchi, esitava, si
torceva le dita.
Gai sorrise.
Neji si riscosse
quando il peso di una mano gli premette sulla spalla.
Lee aveva quel suo
broncio determinato e un po’ preoccupato stampato sulla faccia, sempre così
limpida nel mostrare i suoi sentimenti.
Neji mise la mano
sulla sua, e fu felice di vedere Lee che cercava di sorridergli.
- Dovresti
asciugarti gli occhi e guardarti attorno. – mormorò Kakashi.
Iruka si strofinò
la faccia, e la sollevò quando fu certo di poterla presentare dignitosamente.
Kakashi gli strinse la mano, e lui capì perché era così importasse vedere.
C’erano tante vite,
tante luci accese, lì, tutte insieme, strette, abbracciate, legate e decise a
non arrendersi.
Hayate poteva stare
tranquillo, ovunque si trovasse.
Tutti loro, tutti
quanti loro, si sarebbero protetti l’un l’altro, per sempre. Anche per lui.
ANGOLINO!
Snif…
Sì, lo so che è un
episodio vecchissimo, però io ad Hayate volevo troppo bene, ci sono rimasta
malissimo quando me lo hanno ucciso!
Hayateeee!!! ç___ç
Io volevo sposarlo,
e poi già che c’ero slasharlo a tutto andare, e invece niente, me lo hanno
seccato così, di brutto, il mio povero amore!!!
Ho pianto come una
deficiente, quando ho visto il suo corpo abbandonato, nel manga. Maledetto
Kishimoto, perché mi vuoi così male?!?!
Capitolo 25 *** Out of the shadow (Shikamaru/Neji) ***
Out of the shadow (Shikamaru/Neji)
Out
of the shadow (Shikamaru/Neji)
Quella che si
chiama una bella giornata di sole. L’aria calda che ti soffia sul collo
cancellando qualche traccia di sudore, le foglie che frusciano accarezzandosi
l’un l’altra, i ragazzini che corrono fuori dall’accademia sgambettandoti in
mezzo ai pedi come razzi, rischiando un’infinità di volte di farti volare per
terra.
Era tornato tutto
alla normalità, se la si voleva vedere così.
Shikamaru evitò una
bimba particolarmente lanciata per un soffio, e dopo aver sbuffato riprese a
camminare come niente fosse.
In quella bella
giornata di sole, lui aveva una cosa molto importante da fare.
In poco tempo,
parecchie cose erano state stravolte; funziona così, le rivoluzioni servono per
avere l’impressione finale che in realtà niente sia cambiato.
Era una bella
giornata in cui i bambini andavano a scuola, e le sentinelle si annoiavano
all’ingresso del villaggio, ma Sasuke era scomparso nel nulla, e lui non voleva
sapere né quando né come sarebbe tornato. Si augurava solo di non essere in
casa, quel giorno.
Sakura, lo aveva
saputo soltanto qualche ora prima, aveva chiesto alla principessa Tsunade di
poter diventare sua allieva. Il motivo era con ogni probabilità da collegarsi
al punto sopra, ma nemmeno di questo voleva sapere niente.
Naruto era appena
partito con Jiraya per allenarsi; buon per lui che un ninja leggendario avesse
messo gli occhi sulle sue capacità. Per quanto lo riguardava, non lo invidiava
per niente: sai che fatica, allenarsi con un tipo del genere.
Anche gli altri
suoi amici si erano rimboccati le maniche, come se da un giorno all’altro
avessero realizzato di essere ninja, e parte integrante di una società che
contava su di loro e si aspettava grandi cose. Molti di loro erano cresciuti,
in quel brevissimo lasso di tempo, abbastanza da poter aspirare al suo ruolo di
Chunin. E sarebbe stato meglio, almeno così non avrebbe dovuto fare tutto da
solo.
Rock Lee si
allenava giorno e notte per recuperare appieno la forma, se mai ne avesse avuto
bisogno; Choji un po’ meno, ma nel suo piccolo ce la stava mettendo tutta per
darsi da fare, tanto che il maestro Asuma era quasi preoccupato. Shino e Kiba
ci davano talmente dentro che davano quasi l’impressione di essere diventati
amici.
Tutti quanti
avevano finalmente fatto i primi passi verso delle strade tutte loro, mentre
l’unico che non si era mosso di un dito, era stato lui.
Ecco perché
camminava con il suo solito piglio dinoccolato verso una meta che aveva cercato
di evitare per un bel po’. Si muovevano tutti, accidenti, e anche se lui se ne
sarebbe rimasto più che volentieri per i fatti suoi, a guardarli mentre si
affaccendavano come formiche, era la sua coscienza a dirgli che doveva agire.
Che rottura, che quelle poche volte che si decideva a parlare, lo facesse solo
per robe fin troppo serie. Niente a che vedere con gli allenamenti, comunque.
Non era per cose così noiose che stava bussando al portone enorme di quella
casa.
- Salve. – disse ad
una donna dall’aspetto gentile. – Vorrei parlare con Neji. È in casa? -
- Sì, certamente.
Vieni pure con me. -
La bella signora lo
guidò attraverso una casa che era ancora più abnorme di quanto già non
sembrasse all’esterno. Dio, vivere in un posto del genere sarebbe stato troppo
problematico per uno come lui, che amava tanto avere le due o tre cose
indispensabili sempre a portata di mano.
Attraversarono uno,
due, tre corridoi. Ma non lo vedevano mai il cielo, gli abitanti di quella
casa?
Finalmente,
sbucarono su un porticato rettangolare, tanto per cambiare di dimensioni
spaventose, che faceva da oblò al complesso. Al centro però, non c’era un
elegante giardino, come ci si sarebbe aspettati, ma un vero e proprio campo di
allenamento: terra nuda e ruvida, pochi alberi, e alcuni bersagli divelti che
giacevano qua e là tutt’attorno alla figura ansimante di Neji.
Shikamaru lo vide
voltarsi, e per un attimo si ritrovò puntato contro il suo tremendo Byakugan,
prima Neji lo facesse svanire.
- Shikamaru? –
disse, senza nascondere la sua sorpresa.
- Hey, ciao. -
Neji agguantò un
asciugamano accavallato sopra ad un tronco mozzato, e si deterse rapidamente il
viso.
- E’ successo
qualcosa? -
- No, niente.
Volevo solo fare una chiacchierata con te. -
Neji reclinò
curiosamente la testa, e Shikamaru si sentì molto meno sicuro di sé. La signora
che lo aveva accompagnato lì, intanto, era scomparsa e riapparsa alle sue
spalle senza che lui si fosse accorto di niente, portando una caraffa di succo
fresco, dei bicchieri, e un piatto di biscotti.
- Approfitta per
riposarti un po’. – disse a Neji, in modo molto confidenziale. – E’ da stamane
che non ti fermi. -
Shikamaru si
accorse dei suoi occhi bianchi solo in quel momento, quando lei gli sorrise
prima di dileguarsi. Che idiota, era ovvio che doveva essere una sua parente.
I due si buttarono
a sedere sui gradini di legno del vestibolo; presero entrambi un biscotto, e
per qualche secondo nessuno parlò.
- Hinata? – buttò
lì Shikamaru per saggiare il terreno.
Neji si strinse
nelle spalle, e fece un cenno con la testa verso l’ala destra del palazzo.
- Starà studiando.
– ipotizzò con leggerezza.
- Sono contento che
i rapporti fra voi siano migliorati. Lei ti ha sempre voluto un gran bene. -
Neji fece una
smorfia strana, e scrollò le spalle. Shikamaru interpretò quel gesto come
l’indecisione di chi porta addosso delle cicatrici ancora troppo fresche, per
azzardarsi a scoprirle. Non era il caso di spingersi oltre, in quella
direzione, però di cicatrici si poteva continuare a parlare.
- Tu invece come
stai? Mi sembra che ti sia ripreso bene. -
- Sono quasi a
posto. Se faccio sforzi prolungati sento ancora male alla spalla, ma i medici
hanno detto che con il tempo anche quello se ne andrà. -
- E’ una buona
notizia. Mi avrebbe fatto impressione vederti compagno di stampelle di Lee.
Oltretutto, anche lui sta tornando in forma alla grande, perciò… -
- Cos’è che ti
tormenta? -
Shikamaru rischiò
di inghiottire la saliva nel bel mezzo della frase, colto alla sorpresa.
- Shikamaru Nara
non si attraversa l’intero villaggio soltanto per sapere come va la mia spalla,
visto che lo sa benissimo. – continuò Neji. – C’è qualcosa che non va? -
In realtà, no.
Oddio, c’erano un mucchio di cose che non andavano, a voler fare i pignoli, ma
sai che palle passarsi il pomeriggio a discutere di quello.
- Beh, ecco,
veramente sono qui per mettere in chiaro delle cose. –
- Ah sì? Del tipo?
–
Scrollatine rapida
di spalle e, subito dopo, Shikamaru si ingobbì. – Mi dispiace per ciò che ti è
successo. – disse con tono serio.
Neji rimase lì, con
un’espressione dubbiosa che faceva strano vedere sulla sua faccia.
- Ma cosa dici? È
normale correre dei rischi in missioni del genere. –
- Sì, lo so, ma ciò
non toglie che la responsabilità fosse mia. –
- Infatti lo era. E
tu hai fatto un ottimo lavoro. –
Shikamaru si voltò
con gli occhi sbarrati, e andò a frantumarsi contro il sorriso mite di Neji.
- Sono contento di
essere stato ai tuoi ordini. – aggiunse con aria serena. – Sei stato una guida
e uno stratega eccellenti. –
Una frase del
genere, non si sarebbe mai immaginato di sentirla uscire da quella bocca. Sa
quella di Choji casomai, o da quella di un Kiba in luna buona, da quella di Ino
se proprio si voleva fare gli ottimisti.
Ma quanto era
cambiato, Neji, nell’arco di una manciata di giorni? Anche lui, come tutti gli
altri? Allora era davvero lui l’unico a non essersi mosso?
No, c’era di più,
molto di più, nel suo cambiamento, rispetto a quello di qualunque loro
compagno. Shikamaru aveva visto gente prendere grosse decisioni, altri
impegnarsi a fondo per gli obiettivi che già si erano scelti, ma in nessuno di
loro aveva notato un cambiamento così radicale, che coinvolgeva tutto, dallo
sguardo, al sorriso, al tono della voce. Invece che dal coma, pareva che fosse
tornato da un viaggio di milioni e milioni di passi, di giorni, di miglia.
- La missione è
fallita. –
- Hai fatto tutto
ciò che era in tuo potere, e anche più. Io non lo chiamerei fallimento. –
- Non capisci che
cosa intendo. Avrei potuto perdervi tutti. -
- E’ vero, ma
questo è normale. Le missioni sono così, non devi rimproverarti per averci
messi in pericolo. -
- E invece sì! –
Neji si accorse
tardi delle mani dell’amico che corsero a stringergli la veste e lo
strattonarono. Non riuscì a fare niente, oltre che subire, confuso, lo sfogo di
Shikamaru.
- Non sono riuscito
a proteggere i miei compagni, e quando ti ho visto ridotto in fin di vita in
quella stanza, io…! –
Non lo aveva mai
visto perdere la calma, prima. Durante tutta la missione il suo sangue freddo
non aveva vacillato nemmeno nelle situazioni peggiori, e anzi li aveva tirati
fuori dalla prigione di terra di quel ninja enorme.
E allora èerché?
Perché ora?
- Shikamaru, tu… -
provò ad indagare. – Sei venuto qui per scusarti con me? –
L’altro lasciò
gradualmente la presa, e annuì a testa bassa.
- Però non lo hai
fatto, con Naruto e gli altri. –
- No. –
- E non intendi
farlo, vero? –
- … No. –
- Perché? –
- Non ne avrei
motivo. –
Neji continuava a
non capire. Cercava di guardarlo, ma dopo un attimo doveva scostare lo sguardo,
come se il suo profilo esercitasse una fastidiosa pressione sui suoi occhi.
- Per quale motivo
pensi di dovermi delle scuse? – insistette.
- Te l’ho detto. -
- Sì, ma non ha
senso. Se fosse perché ti senti un fallito, dovresti scusarti con tutti, non
solo con me. Perché solo io? –
- Perché ti ho
visto morto più degli altri, maledizione. –
Neji reclinò la
testa lentamente. – Capisco. – mormorò. - Ma allora chiedermi scusa non è che
un pretesto. Ciò che ti serve per sentirti meglio non è il mio perdono, ma il
poter esorcizzare la tua paura. Ho ragione? -
A sorpresa,
Shikamaru sorrise con un ché di amaro.
- Mi hai
incastrato. – rispose, nemmeno fosse stato nel bel mezzo di una partita a
scacchi.
A Neji non
importava granché di averlo incastrato. Provò a guardare dentro di lui senza il
Byakugan, ma non vi riuscì; tentò allora di non farsi assordare dal silenzio
fluido che aleggiava attorno a loro, isolandoli dai rumori del mondo
tutt’intorno. Sorbì un sorso di succo, cercando in esso la giusta
concentrazione, e quando ebbe posato il bicchiere sul vassoio, riprese.
- Senti, ancora non
capisco perché tu… –
Non concluse la sua
frase, perché si ritrovò una mano dietro la nuca, e una bocca premuta sulla
sua. Lo aveva colto di sorpresa e completamente impreparato.
- Era soprattutto
questo che ero venuto a chiarire con te. – brontolò seccamente Shikamaru. Lo
aveva lasciato andare già da un po’, ma era stato Neji a restare immobile,
stordito dal suo gesto. Si era scoperto nudo davanti a quella sensazione
insieme naturale e dirompente.
- Se fossi stato un
po’ più sveglio lo avrei fatto prima, ma siccome sono un tordo, mi sono accorto
che volevo farlo soltanto quando Anko mi ha sbattuto la porta del tuo
ambulatorio in faccia. –
C’era risentimento,
nelle sue parole, e anche la malinconia spezzata di chi su quei pensieri ci
doveva aver pianto.
- In quel momento,
avrei voluto dirti talmente tante cose che non me le ricordo neanche. Ma ho
giurato a me stesso che se tu ne fossi uscito vivo, non avrei più cercato di
far finta di niente. Potresti morire in un’altra missione senza che io possa
farci nulla, perciò perdere un altro giorno senza dirti niente è la mossa più
stupida che si possa fare. Questo mi sono detto, perciò ecco qui. -
Il giovane Hyuga
avvampò senza nemmeno sapere perché. Shikamaru invece non sembrava
particolarmente turbato. Se ne stava lì, con le braccia puntate malamente sul
pavimento, che non si sapeva nemmeno come facesse a tenersi su. Vide che
guardava in alto, verso il cielo azzurrissimo, tamponato da qualche nuvoletta
qua e là, e decise di lasciarlo stare. Tanto, il discorso non era ancora
chiuso, ma sarebbe stato Shikamaru stesso a riprenderlo.
* * *
Si era fatta sera.
Il sole era quasi completamente colato oltre i tetti, come una cera fusa dai
colori brillanti, e nonostante i capelli di Neji continuassero ad essere
soffici e rassicuranti fra le sue dita, Shikamaru si disse che era ora di
andare.
- Domani potremmo
allenarci insieme. – propose Neji, non appena lo sentì smettere le carezze per
puntare le mani sul pavimento, intuendo le sue intenzioni. La sua voce,
nonostante i tentativi di mantenerla salda, suonava parecchio imbarazzata.
- Allenarci,
scherzi? – protestò Shikamaru. – Non ho mica voglia di farmi massacrare da te.
-
Neji fece una
faccia strana, a metà fra lo stupito e l’esitante. Non sapeva come rispondere,
era più che chiaro. Shikamaru ne fu intimamente felice, tanto che sulla sua
faccia apparve un sorriso spudorato.
- Che ne dici
invece di fare un salto tu al promontorio sopra i ritratti degli Hokage? Io me
ne vado lassù a rilassarmi nel pomeriggio, quando il sole non è più troppo
caldo. Sempre che non ti pesi troppo rinunciare a mezz’oretta di fatiche. -
Neji chiuse gli
occhi e ricambiò il sorriso. –Vedremo. – promise.
- Bah, non
prendermi in giro. Lo farai, perché tanto dopo un po’ devi per forza smettere
per la spalla. Lo hai ammesso tu stesso. -
- Mi hai
incastrato. Ma come la mettiamo, quando mi sarò completamente ripreso? -
Shikamaru gli rispose
tirandogli leggermente una ciocca dei lunghi capelli.
- La mettiamo che
appena sarai del tutto guarito, ti porterò in un’altra missione suicida con me.
–
NOTA: Il paring è appena accennato, in realtà si può leggere
tranquillamente come una shot non romantica
NOTA: Il paring
è appena accennato, in realtà si può leggere tranquillamente come una shot non
romantica. Anzi, visto che c’è di mezzo Rock Lee, si prevedono più che altro
scintille!
Ti veglio bere
(Lee&Gaara)
Rock Lee non era un
tipo che si dava per vinto tanto facilmente, oh no.
Se si considerava
poi quanto avesse preso la faccenda sul personale, c’era di che stare
tranquilli.
E Gaara era
qualcosa di molto, molto personale, per Lee, visti i trascorsi.
Il fatto era che
quel tipo gli piaceva molto, e per lui provava più o meno le stesse cose che
provava per Neji: una sorta di timore reverenziale, fuso con una leale stima,
da cui scaturiva un qualcosa di un po’ strambo, ma sincero. Lee era come un
libro aperto, in fatto di sentimenti, e chiunque poteva vedere quanto si fosse
affezionato al ragazzo della Sabbia, soprattutto dopo la loro definitiva
alleanza.
Però… c’era un
però. E il però era che Lee si era ritrovato a constatare che Gaara era
terrificante, come avversario, ma come alleato era, beh… noioso.
Mai un sorriso, mai
un segno di entusiasmo, mai un balletto trionfale, niente di niente, calma
piatta.
Gaara era
impassibile, impermeabile a tutto, apatico al massimo.
Probabilmente ci
risarebbe divertiti di più a prendere Neji e Sasuke all’apogeo del loro cattivo
umore, e starli ad ascoltare discutere di destini avversi e sfighe varie ed
eventuali.
Sul serio, Gaara
sorrideva meno di tutti i musoni di Konoha messi insieme, e, per quanto
riguardava Lee, ciò rasentava il patologico.
Shino, in confronto,
era un compagnone. Shikamaru, un iperattivo, e Hinata… no, Hinata no,
probabilmente sarebbe svenuta per un’occhiataccia di Gaara.
Ma un modo per
farlo reagire doveva pur esserci, e Lee aveva tutte le intenzioni di trovarlo.
Possibilmente, entro il giorno dopo, visto che la partenza per Konoha era
imminente.
Gaara, dal canto
suo, sopportava Lee.
E non era cosa da
sottovalutarsi, vista la pazienza non proprio proverbiale di Gaara, e il fatto
che Lee stesse provando con tutta l’anima ad istigarlo all’omicidio. L’ultima
volta che Temari li aveva incrociati, Lee stava martoriando le orecchie del
povero Gaara con una selezione delle migliori barzellette di Gai. E Gaara aveva
dovuto interrompere l’allenamento, e assicurarsi con una mano che il tappo della
giara restasse ben chiuso, per evitare che la sabbia prendesse spontaneamente
l’iniziativa di strangolare Lee. Il suo intuito femminile le aveva saggiamente
fatto notare che sulla tempia del fratello c’era una venuzza che pulsava
minacciosamente, ma anche che Gaara aveva ucciso per molto, molto meno, in
passato, e che Lee si era in qualche modo guadagnato il diritto di
perseguitarlo senza rischiare la vita.
Certo che Gaara era
davvero strano.
- … E quindi è per
questo che il colmo per Kisame è mangiare del sushi. Perché potrebbe essere sua
sorella! L’hai capita adesso? Eh, eh? -
Gaara inspirò
molto, molto, mooolto a fondo. – Non fa ridere. – scandì monotonamente,
pregando che quella fosse davvero l’ultima barzelletta.
- Ma non puoi non
averla capita! – si intestardì Lee. – E’ l’ultimissima battuta del maestro Gai!
La più gettonata! -
- Il senso
dell’umorismo del tuo maestro non mi tange. -
Lee si imbronciò,
mezzo offeso per l’antipatica insinuazione di Gaara. Non che ci fossero dubbi
sul fatto che, naturalmente, fosse il povero ninja della Sabbia ad essere nel
torto marcio, visto che le battute del Maestro Gai erano universalmente
riconosciute come le più brillanti, spiritose e divertenti del mondo. Insomma,
magari non proprio universalmente, ma da buona parte della popolazione
mondiale.
… Del Paese del
Fuoco.
… di Konoha.
… della zona Ovest.
… Di casa Lee.
… Della camera di
Lee.
… Che non la
divideva con nessuno.
Insomma, ad ogni
modo, era più che evidente che le battute del Maestro Gai dovessero essere
troppo colte e sottili per Gaara, oppure chissà, il malcapitato ragazzo
soffriva di depressione, o il ritmo troppo stressante della sua vita influiva
in modo negativo sulle sue facoltà cognitive.
Ma Lee era un
ragazzo pieno di risorse, e, se le risate non funzionavano, c’erano pur sempre
le lacrime.
Gaara si ritrovò
trascinato a viva forza nel più vicino cinema di Suna, per l’anteprima di “Morte,
Strazio & Depressione”, probabilmente il film più angosciante della
storia cinematografica di tutti i tempi.
Risultato: Gaara
dovette prestare a Lee tutta la sua scorta di fazzoletti, e passare metà della
proiezione a fulminare gli spettatori che si giravano per maledire il ninja di
Konoha, che singhiozzava come un vedovo di guerra.
E che continuò imperterrito
a farlo anche nel lungo, lunghissimo tragitto di ritorno. Perché insomma, il
fatto che la povera principessa Yumi vedesse irrimediabilmente morire in modo
orrendo prima ogni singolo parente fino al sesto grado, e poi qualunque
sventurato tentasse di corteggiarla, non era indice della sfiga apocalittica
che perseguitava questa ragazza, ma della sua nobiltà d’animo, vittima del
crudele gioco del fato.
E, a proposito, fra
una lacrima e l’altra Lee gli aveva chiesto in prestito una matita e un pezzetto
di carta, e si era appuntato di portare assolutamente Neji a vedere quel film.
Lo avrebbe adorato.
Niente da fare,
comunque, Gaara non si smuoveva nemmeno sotto tortura, ma se sorrisi e lacrime
sembravano non rientrare nel suo codice genetico, una cosa, per forza, doveva
funzionare.
- BUH!!!
-
- … -
- HEY,
HEY, MOLLAMI, AAARGH!!! -
Gaara sospirò
impercettibilmente, e con un cenno sciolse la gabbia che la sua sabbia aveva
formato attorno a Lee.
- Non devi
prendermi alle spalle, potrei farti male senza accorgermene. – lo rimproverò.
- A ha, allora ti
ho spaventato, eh? -
Gaara fece per
aprire la bocca, ma Lee fu più svelto di lui, e assunse una Nice Guy Pose
particolarmente abbacinante.
Gai sarebbe stato
fiero di lui.
- Non mi hai
spaventato, è solo una reazione automatica. – provò a difendersi.
- Su, non devi
vergognarti di ammettere le tue paure. – lo incoraggiò Lee, oltremodo galvanizzato.
Gaara arricciò il
naso e si scostò. – Posso sapere che cosa vuoi? – domandò con tutta la (poca)
cortesia che riuscì a racimolare.
- Oh, è molto
semplice. – si entusiasmò Lee. – Io voglio farti emozionare! -
- Emozionare? -
- Esatto. Hai
presente quella cosa che “oooh, sto provando qualcosa”, e il cuore ti batte
forte, e la testa ti vortica come se stessi ballando, e wow, il mondo assume
colori e forme del tutto differenti. -
- Sì che ce l’ho
presente, ma non credo sia una cosa legale, sai? Non qui a Suna, almeno. -
Lee non comprese il
criptico riferimento di Gaara, ma per sua fortuna decise di soprassedere.
- Insomma, dovrà
pur esserci qualcosa che ti piaccia. -
- Sì. Essere
lasciato in pace. -
- … O che proprio
non ti piaccia. -
- Ce l’ho davanti.
-
- Oh, davvero? –
Lee si voltò bruscamente, e per un attimo non vide niente dietro di sé, oltre che
il lungo vestibolo. Ma poi Kankuro e Temari fecero capolino da un corridoio
laterale, e tutto si chiarì.
- Non dovresti
essere così crudele con i tuoi fratelli. – spifferò, accorato.
- Che si dice da
queste parti? – esordì Kankuro, nascondendo magistralmente il terrore che Gaara
facesse qualcosa di inconsulto prima che lui e Temari potessero essere a
distanza di sicurezza.
- Nien… -
- Istruisco il
vostro fratellino sulle emozioni! – annunciò Lee.
- Fra… Fratellino.
– esalò Temari, preparandosi a saltare in aria assieme a tutto il palazzo.
Stranamente, Gaara
non reagì. Significava che aveva sviluppato una notevole pazienza in quei
giorni, oppure che si era rassegnato al peggio, e che ormai non tentava nemmeno
più di spaventare Lee.
- Sapete, ho la
vaga impressione di infastidirlo un po’, qualche volta. -
- Solo qualche
volta. – lo rassicurò Kankuro.
- Ma tanto non può
essere, perché io gli voglio bene, e se qualcuno ti vuole bene non può farti
niente di fastidioso, no? -
Gaara si irrigidì.
Anche gli altri due fratelli rimasero imbambolati a guardare Rock Lee, che
restituì loro le occhiate con un ché di stupito.
- Beh, che ho
detto? – domandò.
- Che gli vuoi
bene. -
- Ma è vero. -
- Sì, ma… -
- Oh per tutte le
ciglia del Maestro Gai, non sarà questa la cosa illegale di cui parlavi prima?
– immediatamente, Lee abbassò la voce, e per assicurarsi che Gaara lo sentisse
gli si avvicinò e piegò una mano a conchiglia davanti alla sua bocca. – Perché
se è illegale io non la ripeto, ma francamente mi sembra un po’ stupido
metterla fuori legge. Altrimenti uno come fa a dirti che ti vuole bene? Poi
finisce che pensi che nessuno te ne voglia e ci stai male, dammi retta, sistema
questa legge, puoi sempre dire che ti sei sbagliato e che volevi dichiarare illegale
dire “ Ti veglio bere”. Che tanto nessuno lo dirà mai. -
Metà faccia di
Gaara prese fuoco. I suoi occhi luccicarono per un istante, illuminati da una
scintilla che spazzò via la loro opacità. Poi, più nulla, il giovane Kazekage
arricciò leggermente il naso, e tutto tornò come prima.
Kankuro aggrottò la
fronte, incredulo. - Ci è riuscito. -
Temari imitò il suo
gesto. – Quale cosa illegale? –
ANGOLINO!
Ringrazio
tantissimo le irriducibili che non hanno mai abbandonato la fic, anche se ogni
tanto i tempi di aggiornamento si dilungano. Portate pazienza, fra gli altri
lavori e la necessità di elaborare delle buone idee, mi ci vuole un po’!
Racchiudo qui i
ringraziamenti per tutte le recensioni, da Requiem in su, a cui non ho avuto il
tempo di rispondere. Mi fa piacere che la Shika/Neji, che è decisamente fuori dal comune, vi sia piaciuta (e non sapete che spasso siano le citazioni!)
Con i suoi occhi tenebrosi, Itachi lo spogliava pezzo dopo pezzo,
Predator
(Itachi/Deidara)
Dentro di sé,
Deidara lo aveva sempre saputo.
Itachi lo guardava
come non guardava nessun altro, e questo era un fatto.
Si era sentito
quasi rapito da lui, ed ora il suo odio somigliava sempre di più a quello di
uno schiavo. Deidara si leccava e labbra, quando pensava al suo padrone.
Se le leccava anche
davanti a lui, se era per questo, anzi amava farlo nel modo più sfacciato
possibile. Aveva scoperto che gli piaceva da morire, questo tipo di vendetta
stillicida.
Itachi normalmente
rispondeva guardandolo.
Con i suoi occhi
bui, Itachi lo spogliava pezzo dopo pezzo, e Deidara si sentiva invaso da
brividi pazzeschi, violato ed esplorato senza pietà senza possibilità di
difendersi, e dio se gli piaceva.
Ci sarai per me,
Itachi? Resterai al mio fianco? Mi prometti che niente cambierà?
Deidara aveva
formulato dentro di sé queste poche domande tutte le volte che aveva voluto
prendersi gioco di sé stesso.
No, Itachi non
sarebbe mai stato la sua certezza.
Gli aveva teso la
mano una sola volta, ed era stato per portarlo via per sempre. Tutte le altre
volte che lo aveva fatto non erano che brutte copie, ed erano state unicamente
per farlo suo.
Deidara si lasciava
trascinare dalla situazione, limitandosi a scalciare di tanto in tanto, solo
per il gusto di opporre quel po’ di resistenza che valeva il fremito di un
sopracciglio di Itachi, ma non aveva senso combattere contro qualcosa che
voleva anche lui. Non era tipo fa farlo, come non era tipo da contorcersi su
inutili ideogrammi di colpa e castigo.
Preferiva
contorcersi su Itachi, finché poteva, dato che lui possedeva, fra l’altro, il
potere non dichiarato di farlo gridare più forte dei suoi pensieri,
annullandoli per il tempo di una notte o poco più.
Vediamo, che nome
vogliamo dare ai loro incontri?
Sfide?
Perché no, se alla
fine ci si riduceva a ringhiarsi addosso come leoni, con tanto di artigliate
che volavano ovunque, e minacce scandite sul filo acuminato di un kunai premuto
sulla gola, Ti ho preso anche stavolta, ragazzino.
Scopate?
Oh sì, delle gran
scopate, di quelle che fanno rumore, che ti lasciano lì ridotto ad uno
straccio, zero voglia di alzarti dal letto, o dal pavimento, o da qualsiasi sia
il posto in cui ti sei ritrovato a farlo, e zero voglia di guardare in faccia
la persona che ti sei sbattuto a morte fino a non più di un minuto prima.
Non ce n’era
bisogno; le conoscevano, le loro dannate facce.
Lotte?
La
lotta cominciava quando la porta della stanza di Itachi si chiudeva, e loro
due, odiandosi dentro, provavano ad assordare il mondo con la loro fame; e
finiva dopo che quella stessa porta si era aperta e richiusa di nuovo alle
spalle di uno dei due; non contava chi, il primo che avesse la forza di alzarsi
e di andarsene. Capitava che fosse Itachi, a lui non importava niente che
Deidara restasse in camera sua, ma di certo non sarebbe tornato da lui con un
bicchiere d’acqua fresca. E non è che pensasse che Deidara potesse volere
qualcosa del genere.
Deidara si era
spinto fino ai confini dell’autodistruzione per dimostrare ad Itachi di valere
qualcosa, battendosi quotidianamente contro il paradosso di dover provare la
sua forza proprio a lui.
Itachi plasmava la
sua indifferenza come Deidara faceva con l’argilla, e la concretizzava in
violenza crudele e spinta, ma sempre e comunque controllata, anche solo
trattenuta per i capelli.
E Deidara lo voleva
esattamente così, assassino apatico, distaccato e sessuale come un predatore.
Itachi lo prendeva
e Deidara gridava per lui più forte che poteva, e snocciolava con la lingua
umida dei loro umori tutti gli improperi e le oscenità che gli passavano per la
testa.
Era purificatorio
per lui, e per Itachi chissà.
Il tempo rallentava
bruscamente quando si trovavano uno davanti all’altro. Deidara era solito
osservare i suoi movimenti con un sorrisino tirato sulla faccia, pieno di
tensione e di attesa, e se Itachi non si sbrigava a fare il primo passo lo
faceva lui, si spogliava perché i vestiti cominciavano inevitabilmente a
scottare come brace.
Itachi non era mai
stato premuroso con lui, non una singola volta. E nemmeno brutale.
Lo trattava come se
fosse stato una bambola inanimata, né più né meno. Stava attento a non
romperlo, ma non si curava di dargli piacere, e in questo modo lo costringeva a
lottare ogni singola volta, per avere il suo dannato orgasmo.
Eppure dentro di
sé, Deidara sapeva di significare qualcosa per Itachi. Qualcosa di perverso e
di insostituibile, perché il traditore della Foglia non era mai andato a
cercare nessuno all’infuori di lui, per quel genere di sfogo.
Essere sessualmente
prezioso per Itachi era la sua piccola, illusa rivincita, ed insieme il suo
esorcismo contro il terrore che quel mostro incuteva a tutti. A tutti gli
altri, perché quando si arrabbiava tanto da far fare un passo indietro persino
ai suoi compagni, lui chiudeva gli occhi e lo rievocava nella sua mente nudo,
con le gambe allacciate alle sue, le braccia contratte che lo immobilizzavano e
gli occhi semichiusi, inespressivi.
Silenzioso, deciso,
erotico.
Eppure… eppure.
Eppure Deidara aveva quel corpo che Itachi prendeva ed abusava a suo completo
piacimento, il genere di corpo indecente che no, non si trova tanto facilmente
in giro. Il godimento tattile che provava nel percorrerlo centimetro dopo
centimetro, era evidente, riusciva a portarlo fino ai confini del suo
autocontrollo.
E anche lui,
maledizione, anche lui. Gli sembrava di morire, ogni volta che metteva le mani
addosso a Itachi, le bocche spalancante a succhiarlo e leccarlo furiosamente. I
suoi addominali, il suo petto, la sua schiena ampia e nervosa, qualunque cosa.
Si era lasciato
battere, da quel corpo pazzesco.
Lo sapeva.
Fanculo.
Anf, anf,
anf.
Anf.
Finiva tutto in
pochi ansiti, ma Deidara si portava addosso le sensazioni per ore. E poi le
usava come antidoto, nei momenti di necessità.
Pensava di
giocarsela alla pari con lui, unico fra tutti, era intimamente convinto di
ricoprire una posizione invidiabile. Pensava di avere il diritto di replica con
lui, in nome di quegli orgasmi che gli regalava, e per i quali non riceveva mai
un cazzo di ringraziamento.
Beh, tutte palle.
Itachi non lo trattava meglio o peggio degli altri, e Deidara si trovava ogni
volta a fare i conti con il suo fallimento.
Però, poi, l’uno si
metteva sempre a caccia, e l’altro si faceva sempre scovare.
ANGOLINO!
Ok, questa è un
pochino più spintarella delle altre. Ma solo a parole, è il caso di dirlo!
Dark: ma dai, non
puoi fare una cosa del genere! Praticamente lo condanni ad avere i
sopracciglioni. Hihihi, ho lollato un sacco anche io a scriverlo… Povero Gaara,
le sue sfighe non hanno mai fine.
Kamusa: waaa,
Kakashi, anche io sarei felice di andare a un funerale con lui. Ma non
parliamone, che poi mi torna in mente Hayate e… e… sigh!
Beat: guarda, è un
film veramente bello, e quando esci dalla sala ti rendi conto di essere mooolto
fortunata. È terapeutico! E le barzellette di Gai… beh, ecco, considerando che
quella su Kisame è la migliore non oso immaginare…
Little Star: ma
dai, non fare esperimenti sui tuoi amici, che poi si preoccupano e mi vengono a
cercare! XD
Hokori: garantisco
che Neji ha apprezzato molto. Solo che, siccome in questa raccolta è molto
conteso, non so dirti se ci sia andato con Sasuke, con Shikamaru, con Lee o chi
altro XD ha pianto come un agnellino e alla fine è andato ad abbracciare sua
cugina, mah… Oh, meno male che anche tu sei d’accordo, qui tutti a dire che la
barzelletta su Kisame fa morire, e invece no, è orrenda, è pessima! Dai, che
poi Gai si fomenta!
Koorime: tesoro,
aggiungo al tuo sogno che dopo la sbronza, Neji si è risvegliato, chissà come
mai, tutto nudo, con i muscoli indolenziti, nel letto di Sasuke. Con Naruto e
Jiraya fuori dalla finestra, svenuti. Shino e Shikamaru, avevano optato per una
saggia brioche al bar, invece che andare a fare gli spioni. Ecco, sì, adesso il
quadro è completo!
Bambi: grazie
mille! Beh, guarda che per sopportare Lee ti fanno un corso specifico!
Capitolo 28 *** Rules of silence (Sasuke/Neji) ***
Protect (Sasuke/Neji)
Rules
of Silence (Sasuke/Neji)
Dopo tanto parlare
Kakashi si concesse un sorriso stanco, e un mezzo sospiro, che fossero un po’
il punto d’arrivo della discussione.
- Non lo so, Gai. –
mormorò. – Ma non credo sia il caso di intervenire. –
- Kakashi…? -
Gai corrugò le
sopracciglia, e lasciò lì la frase.
- Finché lo fanno
in silenzio. – precisò Kakashi.
Entrambi fissarono
assenti la brocca ancora mezza piena di succo di frutta, che i ragazzi avevano
avanzato dalla merenda.
Se n’erano andati
tutti di sopra a riposare un po’, dopo gli allenamenti massacranti del
pomeriggio. Il tempo di una doccia, di una sistemata, di buttarsi a riposare
per un momento sul letto, prima di mangiare qualcosa, e poi daccapo con gli
esercizi serali.
Quella specie di
uscita fuori porta era stata, strano ma vero, un’ottima idea di Gai. E un
impianto termale, circondato da foreste fitte e irregolari, a meno di due
giorni di cammino dal villaggio, era il luogo perfetto per addestrare i loro
due gruppi di genin all’aria aperta.
Ma, certo, c’erano
le conseguenze che derivavano dalla convivenza forzata di sei ragazzi.
Alcune prevedibili,
e altre, un po’ meno.
I ragazzi si erano
divisi in stanze da due; Sakura, naturalmente, con Tenten; Naruto con Lee, e
Sasuke con Neji. Nulla di male, a volersi mescolare un po’, anzi. Tutto di
guadagnato per rinsaldare i loro legami di amicizia.
Lee e Naruto si
erano fiondati nella loro camera, starnazzando qualcosa a proposito di un
chiosco di Ramen appena fuori dalle terme; Sakura e Tenten avevano avuto meno
problemi del previsto ad organizzare i loro spazi, con enorme sollievo dei due
jonin.
Neji e Sasuke non
si erano nemmeno guardati in faccia.
In realtà, erano
stati proprio loro due i primi a scegliere di fare coppia, ma quasi nessuno ci
aveva fatto caso: si erano limitati a fare un passo l’uno verso l’altro,
creando attorno a loro una sorta di muro invisibile, che a nessuno era venuto
in mente di infrangere.
Si erano avviati in
silenzio verso la loro stanza, con i bagagli sulle spalle.
Kakashi, doveva
ammetterlo, non si era nemmeno accorto che ci fosse qualcosa di strano, finché
Gai non gli aveva fatto notare, dopo nemmeno una settimana, quanto entrambi
fossero distanti.
Neji e Sasuke erano
gli ultimi a scendere per colazione, e i primi a salire, dopo la cena. Ed erano
sempre stanchi, e tremendamente seri; parlavano persino meno del solito.
Sasuke non reagiva
nemmeno più ai dispetti di Naruto, Neji rispondeva a monosillabi, con il suo
solito, gelido garbo, sì, ma con una voce spaventosamente monocorde.
Si impegnavano
negli allenamenti con la solita energia, ma non c’era convinzione, nei loro
gesti, solo una meccanica ripetizione di esercizi, di posizioni, di azioni, e
con buona probabilità era solo perché erano inequivocabilmente superiori ai
loro compagni, se nessuno dei ragazzi si era ancora accorto di nulla.
Beh, Naruto
bofonchiava contro l’apatia di Sasuke, di tanto in tanto, ma nient’altro era
trapelato, di cosa ci fosse sotto la superficie.
Almeno, fino a
quella mattina.
***
- Dov’è Neji? -
Sasuke si oscurò. –
E’ ancora in camera. – rispose a mezza bocca.
- E’ in ritardo. –
osservò Gai. – Non è da lui. -
Sasuke si strinse
nelle spalle, e raggiunse i suoi due compagni. Sakura lo coinvolse
immediatamente in un esercizio per il controllo del chakra, a cui lui si
sottomise senza fiatare.
Neji comparve pochi
minuti dopo, stranamente in disordine: i capelli, in particolare, erano
malamente raccolti, come se non avesse avuto il tempo di pettinarli.
Gai fece per dirgli
qualcosa, ma si bloccò, quando vide Kakashi rivolgergli uno sguardo pensieroso.
Così, di comune
accordo, avevano fatto finta di essere ciechi, sordi, e anche parecchio
distratti, fino all’ora del pranzo. Spettava loro una pausa di due ore, come di
consueto, e c’era da supporre che i due l’avrebbero passata nella loro stanza,
come era stato sin dal primo giorno.
Gai e Kakashi si
appostarono sopra al tetto spiovente, esattamente in corrispondenza della porta
della loro camera. Sapevano quanto il loro metodo fosse poco ortodosso, ma a
mali estremi…
- Non devi più
farlo. -
- Non so di che
parli. -
- Lo sai, invece.
Non devi mai più tardare, o saranno guai. Ci hai quasi fatti scoprire,
presentandoti a quel modo, stamattina. -
- Non dare la colpa
a me, Sasuke. – rispose Neji, duramente.
Sasuke gli riservò
un lungo sguardo tagliente, che sprofondò negli occhi bianchi di Neji.
- Scusa. –
borbottò, alla fine.
E Kakashi sbattè le
palpebre, incredulo.
Neji scosse
lentamente la testa, e di colpo sembrò provato, e debole.
- Sono stanco. –
soffiò faticosamente. – Stanco. -
- Sì, lo so. –
rispose seccamente Sasuke, che tuttavia lo avvicinò, accennando ad un
abbraccio. – Lo sono anch’io. Dobbiamo resistere qui ancora per due settimane,
e poi sarà finita. -
- No, non ce la
faccio. -
- Avanti, Neji. -
- Dovevamo stare
alla larga da tutto questo. Io lo dicevo, lo sapevo. -
- Smettila di dire
idiozie. Guardami. – Sasuke gli prese il viso fra le mani, stringendo gli
angoli delle mandibole con forza. – Sto cercando di vivere per qualcosa che non
sia soltanto l’odio, Neji. Ma se tu non mi aiuti, io… -
- E’ nel nostro
destino, odiare! -
- Lo so,
maledizione, lo so! È per questo che dobbiamo essere forti, non lo capisci? -
Neji socchiuse gli
occhi perlacei, isolandosi per qualche istante nei suoi pensieri, analizzandoli
uno ad uno con calma e precisione, secondo un chissà quale criterio. – Mi
dispiace, per stamattina. Un’imperdonabile debolezza. – mormorò asciuttamente.
- Adesso ti
riconosco. –
Sasuke accennò ad
un sorriso.
Erano giorni che
non sorrideva, a nessuno.
- Dai, andiamo.
Dobbiamo assolutamente essere puntuali per gli allenamenti di questo
pomeriggio. -
- Hai ragione. –
Sasuke cercò la
chiave della stanza nella tasca dei pantaloni, la infilò nella serratura,
facendola scattare. – Solo una cosa, Neji. – aggiunse, mentre la porta si
apriva con uno scricchiolio leggero.
- Che cosa? -
- Vestiti in bagno,
dopo la doccia, se puoi. – disse, con un certo sforzo. – Per favore, non uscire
con l’asciugamano addosso. -
Non c’era stata
ombra di malizia, nella sua richiesta. Era davvero un bisogno, il suo, di
qualcuno che sapeva che un asciugamano sul corpo nudo di Neji avrebbe
significato un nuovo ritardo, una giustificazione plausibile da inventare, e
soprattutto uno squarcio in più con cui fare i conti, un’altra mezz’ora passata
a non capire più niente, a sapere già che dopo sarebbe stato ancora più
difficile guardarsi negli occhi.
Neji annuì, con le
labbra strette in un’espressione spenta e rassegnata.
Kakashi e Gai
avevano aspettato che la serratura scattasse, prima di muoversi dal loro
nascondiglio. Per un po’, rimasero in un costernato silenzio, di fronte alla
porta chiusa dei loro due allievi.
***
E adesso, i due
maestri si trovavano a confrontarsi, per decidere cosa fare.
Sasuke e Neji non
dovevano sapere di essere stati scoperti, in quel momento la cosa più
importante da fare era proteggerli. I loro compagni dovevano assolutamente
restare all’oscuro di tutto, e anzi, per come stavano le cose, tutti dovevano
restarne all’oscuro. Se per errore qualche loro nemico fosse venuto a
conoscenza di quella faccenda, avrebbe significato avere in pugno l’ultimo
degli Uchiha e il migliore degli Hyuga nello stesso momento.
Kakashi conosceva
bene il suo allievo, e gli erano bastate le poche parole che gli aveva sentito
dire, per convincerlo che sarebbe diventato una furia, per difendere Neji. E
Neji avrebbe con ogni probabilità fatto lo stesso, e questo era un rischio che
al momento non si poteva correre per nessuna ragione.
Ma era altrettanto
vero che, prima o poi, avrebbero pur dovuto parlare con loro. E sarebbe stato
difficile. Toccare l’intimità altrui è sempre una questione complicata, se poi
andava fatto con due come loro, e per ragioni fin troppo serie, le cose non
potevano che precipitare.
- Probabilmente
Neji la vive come una vergogna. – mormorò Gai.
- Questo è un
problema che non ci riguarda. Noi non possiamo far altro che cercare di
coprirli, e proteggerli, se ce ne fosse bisogno. Il resto è solo una questione
fra loro due. -
- Sì, ma ho paura
che Neji possa fare qualcosa di imprudente. -
- Non lo farà. Non
è uno stupido, e nemmeno Sasuke lo è. Sono stati bravi, fino ad ora. -
Kakashi aveva
ragione.
Qualsiasi cosa
facessero quei ragazzi, la facevano in religioso silenzio, e questo, per il
momento, era abbastanza.
ANGOLINO!
Aaaah, con infinita
gioia torno al paring più sexy di tutto il fandom… dite la verità, vi erano
mancati, eh?
Ok, ok, smetto di
illudermi -__-
No, però adesso vi
voglio rivelare una cosa: questa è in assoluto la primissima cosa
che ho prodotto per il fandom di Naruto. Non lo conoscevo quasi per nulla,
perciò non mi sono azzardata a pubblicarlo fino ad averci preso un po’ la mano.
Rileggendola, mi sono resa conto che tutto sommato funziona, non avevo commesso
nessun errore clamoroso, perciò ho voluto pubblicarla.
Non vi intenerisce
un po’, questo particolare? A me sì *_*. Che idiozia.
Insomma questo è
solo per avvertirvi che codeste pagine sono state l’inizio della fine per la
mia insana passione. Oltre al fatto che si tratta di un necessario cliché, data
la mia inesperienza.
E questo Sasuke,
boh…
Dark: amor, ti sei ripresa nel frattempo, vero?
O_O
Little Star: ma ti dirò, credo che nessuno al mondo
abbia mai pensato ad una Itachi/Deidara… Perciò posso gestirmeli un po’ a
casaccio (evil grin)
Urdi: no, direi che di pucci non c’è proprio
niente. Ed è giusto così, Itachi e Deidara non potrebbero vivere un tipo di
rapporto diverso senza essere snaturati. Felice che sei tornata!
Vale: eccola che spunta ovunque XD inquietante
,eh? Li sentivo anche io, non vorrei che fossero i miei vicini O__o. Ehm, ok.
Evviva la perversione, siamo in sintonia! Quoto la tesi del
sesso-mai-solo-sesso. Non perché non esista, ma perché… non è artistico. Ok,
con questo mi ritiro.
Kamusa: ti sei scatenata! Grazie per tutte e tre
le recensioni, quella per Shadows, sono contenta contenta che tu abbia
intravisto il doppio senso del titolo, e che il paring ti abbia convinta,
essendo abbastanza delirante… però no, non mi dire che le barzellette di Gai
sono geniali, perché sono orrende, inascoltabili! Piacciono solo a Lee, e
capirai, lui non vale! Eh, per fortuna che la giovinezza veglia su di noi… Mah
guarda, su Deidara come predatore sono d’accordo anche io, ma il fatto è che
per quel che mi riguarda ciò non significa automaticamente Seme! Anche io
preferisco le più classiche Saso/Dei, e lì sì che Dei ha campo libero a far
andare fuori di testa il povero Sasori! Ma questa è nata un po’ così,
immaginando questa situazione di conflitto. Certo che Itachi è veramente
un’impresa da gestire, come personaggio XD
Kumiko: oddio, senza vedere subito il cap di
riferimento, pensavo che parlassi di quella con Deidara, ed ero un tantino
perplessa XD sono contenta che ti sia piaciuta, in effetti non se ne trovano in
giro molte. È un tema che deve essere trattato bene, se vuole colpire, ma per
loro due ne vale la pena, eccome!
Capitolo 29 *** Oil on Canvas (Sasori/Deidara) ***
Oil on canvas
Oil on canvas(Sasori/Deidara)
- E smetti di usare
questi stupidi fili. – gracchiò all’improvviso Deidara, scrollando un braccio.
– Posso muovermi da solo, lo sai? Basta che me lo chiedi. –
Sasori sollevò
impercettibilmente gli occhi opachi verso il soffitto.
La luce filtrava
dal lucernario in modo splendido, ma sarebbe durata ancora per poco tempo, e
lui aveva appena cominciato le rifiniture sulla campitura.
- Se te lo
lasciassi fare. – spiegò senza perdere la calma. – Tu ti metteresti in qualche
modo contorto. –
- E’ solo perché
non vuoi che mi copra. – malignò Deidara. – Sei un maniaco. –
La provocazione non
venne accolta. Sasori continuò imperterrito a sfiorare con la punta sottile del
pennello la pelle candida di Deidara, che man mano veniva emergendo e
delineandosi sulla tela.
Mentre il suo
modello grugniva, in disappunto per essere così barbaramente poco considerato,
dopo un’ora e forse più che si trovava lì in sua balia.
- Levati quel
broncio dalla faccia. Mi rovini il chiaroscuro. –
- Oh, al diavolo il
chiaroscuro. Accidenti, che noia! –
- Perché non guardi
me, Deidara? Sarebbe l’occasione buona per imparare un po’ di arte. –
Deidara sbarrò gli
occhi per un secondo, offeso. Sasori, comunque, non pareva per niente disposto
ad intavolare uno dei loro collaudati dialoghi a base di teorie artistiche ed
imprecazioni. Era troppo maledettamente concentrato su ciò che stava facendo,
per ispirare sentimenti di stizza.
- Comunque. –
osservò, suo malgrado colpito. – Non sapevo che fossi anche un pittore. –
E rimarcò
tenuemente quell’”anche”, a voler concedere alle marionette di Sasori lo status
di facenti parte, in un modo o nell’altro, della nozione di arte.
Uno sguardo fugace
in sua direzione. Spento, non chiaro se fosse per le sue parole, o per il
semplice bisogno di attingere a qualche altro dettaglio da copiare.
Il pennello volò.
Nessun dubbio, doveva stare lavorando sui suoi capelli, in quel momento.
- Non sono armi. –
specificò, riferendosi per ovvietà al quadro. – E’ semplicemente un piacevole
passatempo. Ho fatto pratica di pittura, per dipingere le mie marionette. –
- Uff, a me non
piace molto dipingere. Anche se le esplosioni di colore che si vedono in certi
quadri sono davvero esaltanti. –
- Sempre il solito.
Io mi interesso solo di paesaggi e di ritratti. Sono i generi più nobili,
quelli che catturano un singolo momento per immortalarlo. –
- Uhn. Da appendere
alla parete e contemplare in eterno. – sbuffò Deidara, incrociando le braccia.
– Come piace a te, insomma. –
Sasori lo fulminò.
- Ahia, ahia,
lasciami andare! – piagnucolò, stretto da un impietoso filo che lo costrinse a
tornare com’era prima.
Sasori aveva scelto
una posa assolutamente classica, per quel ritratto. Dopo averci riflettuto un
po’ su, Deidara aveva realizzato che era anche tipicamente femminile, e questo
lo aveva irritato non poco, ma ormai era troppo tardi. Sbatté le palpebre
mentre Sasori si concentrava sul margine della tela, probabilmente sulle gambe
o sui piedi. Per un attimo, l’idea che Sasori stesse dipingendo delle parti di
lui così insignificanti, ed allo stesso tempo intime, lo face rabbrividire.
- Hey,
Sasori-danna. Mi annoio da morire. –
- Non è affar mio.
–
- Oh, ma sentilo! E
io che ti sto facendo un favore. La prossima volta, ritrai Hidan. –
- Impossibile. –
Un altro tocco
lieve, picchiettato.
- Hidan non è un
modello all’altezza. –
- Perché, io lo
sarei? –
- Sì, tu sì. –
Deidara sgranò gli
occhi, esterrefatto.
- Fermo così. –
scandì Sasori. Ed era un ordine bello e buono, quello.
Riprese a
dipingere, colore sulla tela, niente più che uno schizzo in carboncino da
cinque minuti a fargli da guida. La luce stava reggendo, fortunatamente, ma ciò
nondimeno non c’era nemmeno un minuto da perdere.
- Sasori-danna. –
- Non scocciarmi,
per favore. –
Deidara si rimise
in silenzio, docile. Ma lo guardava dritto, senza più divagare, ora. Con occhi
grandi, incerti.
Sulla sua pelle
soffiarono alcuni spifferi che dalla finestra se ne fuggirono verso la porta
chiusa, penetrandone giusto le fenditure. Li poté cogliere solo perché era un
ninja, ed era nudo.
Sasori non aveva
voluto nemmeno un drappo sulle anche che coprisse la sua intimità.
Quando gli aveva
chiesto di posare per lui, Deidara aveva pensato ad uno scherzo, sul serio. Poi
si era ricordato che Sasori non scherzava mai, ed aveva avuto un po’ paura.
Ma, da artista ad
artista, era stato relativamente semplice farsi convincere. Obiettivamente, non
gli costava nulla.
E diventare egli
stesso arte era una prospettiva che lo allettava sempre, anche se questa volta
non si giocava con le sue regole.
- Mancano gli
ultimi ritocchi sulla luce. È di fondamentale importanza che adesso tu non
muova un muscolo, Deidara. Mi sono spiegato? -
- Perché, fino ad
ora che cos’ho fatto? – si lamentò il povero ninja biondo, sgranchendo
velocemente le braccia per prepararsi alla lunga e odiosa immobilità. Non era
proprio roba per lui, quella. Proprio no.
Nella lunga
mezz’ora in cui Sasori non lo degnò che di pochissimi sguardi fulminei, Deidara
cercò di distrarsi con i suoi stessi pensieri. Non ne venne fuori granché,
eccetto gongolanti considerazioni sulla maestosità di certe esplosioni molto
riuscite degli ultimi tempi, e qualche fugace riflessione su Sasori, su niente
in particolare di lui, solo, l’idea in sé che stesse lavorando ad un suo
ritratto.
Era pieno di
significati, questo fatto, Deidara ne era sicuro. Doveva per forza averne, ed
averne un milione, solo che era difficile in modo assurdo tentare di
addentrarsi in quella ragnatela senza uscirne a pezzi.
Bastava prendere ad
esempio la nudità. Eh sì, era terribilmente indicativo che Sasori lo avesse
voluto nudo. Lo aveva spogliato di qualsiasi simbolo dell’Akatsuki per farne
niente più che un corpo, con la sua storia e le sue piccole cicatrici che, una
volta prive dei vestiti, oltre a perdere il loro rifugio, perdevano anche il
loro senso d’essere.
E poi, Sasori-danna
un corpo non ce l’aveva. Non più. E chissà da quanto tempo non ne vedeva uno,
se si eccettuavano quelli che usava per i suoi giocattoli, e che finivano
trasformati in pochi istanti in burattini. Forse, pensò, forse Sasori aveva
solo avuto voglia di vedere un corpo umano. Di osservare la pelle viva che
reagisce agli stimoli esterni, di studiare i tanti, impercettibili movimenti di
tutta quella miriade di muscoli chiamata in causa dal semplice fatto di vivere.
Alcune delle sue marionette avevano delle strane forme, ma la più importante,
quella che Sasori chiamava “sé stesso”, era perfettamente umana nell’aspetto, e
questo particolare non poteva lasciare dubbi: Sasori amava il corpo umano,
doveva amarlo moltissimo. Dopotutto, era un artista.
Improvvisamente si
ritrovò a provare nei confronti del suo compagno un’empatia inedita. Era come
se si fosse improvvisamente, stupidamente accorto di un filo rosso che scorreva
molto al di sotto degli screzi superficiali fra loro, tenendoli uniti l’uno
all’altro con forza, anche molto oltre il necessario.
- Ho finito. –
proclamò Sasori, svogliatamente.
- Davvero? Finalm…
-
- I colori non sono
ancora al massimo della resa, visto che dovranno asciugarsi. -
- Ma posso vederlo,
vero? -
- Puoi vederlo. -
Deidara corse da
lui, ancora nudo e completamente dimentico di esserlo.
Sasori si scostò
dalla tela con qualche vaga, incomprensibile reticenza, mentre lui vi si
accucciava sopra per scrutarla.
Dal lungo lavoro di
posa, di studio della luce, di estenuante concentrazione, ne era venuto fuori
un giovane annoiato, rilucente, dal sorriso molle. Il suo corpo sdraiato era
mosso da un candore assolutamente ambiguo; le curve del busto, era chiaro,
erano state accentuate, ma non tanto da rendere meno maschile il suo corpo
glabro, che si esponeva senza censure, persino con pigra civetteria allo
sguardo dello spettatore. Gli occhi, entrambi azzurri, entrambi liberi, fiammeggiavano,
come se avessero voluto impadronirsi di tutta l’attenzione, anzi di più, del
mondo intero, mentre le mani, accoccolate sul materasso per sostenere il corpo,
avevano il morbido nervosismo delle zampe dei felini. I piedi, poi, quei piedi
così insignificanti ed intimi, erano piccoli e in qualche modo deliziosi,
tuffati com’erano fra le pieghe del lenzuolo scostato, nemmeno fossero stati
loro la sola cosa da celare a sguardi indiscreti.
Deidara singhiozzò,
incredulo.
Era così, che
Sasori lo vedeva?
Era questo che
pensava di lui?
Il sé stesso di
quel ritratto era bellissimo, molto più di quanto lui non fosse in realtà, ne
era certo.
Sprigionava una
sottile ma imprescindibile carnalità, come se chi l’aveva dipinto lo avesse
plasmato a mani nude più che con il pennello, usando ogni gesto per toccarlo,
accarezzarlo.
L’immagine che
Sasori aveva immortalato, era quella di un Deidara inequivocabilmente suo.
- Un giorno. –
mormorò, atono. – Farò di te la mia bambola più bella. –
- Cos…? -
- Mi dispiace. –
ANGOLINO!
Nota: il titolo è la dicitura
inglese per “olio su tela”. Quella che normalmente trovate sui cartellini dei
musei, per capirci.
Campagna di Promozione Sociale - Messaggio No Profit: Dona l’8‰
del tuo tempo alla causa pro recensioni. Farai felice milioni di scrittori.