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di Stateira
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1.Circumstances (Kakashi/Iruka) ***
Capitolo 2: *** Histeria (Shikamaru/Temari) ***
Capitolo 3: *** E' solo il vento (Sasuke/Neji) ***
Capitolo 4: *** Touch(Shino/Shikamaru) ***
Capitolo 5: *** Tensione (Kankuro/Kiba) ***
Capitolo 6: *** Dance with me (Lee/Gaara) ***
Capitolo 7: *** Sleepless Night(Sasuke/Naruto) ***
Capitolo 8: *** Infatuation (Kakashi/Sakura) ***
Capitolo 9: *** Sette Porte (Lee/Neji) ***
Capitolo 10: *** Written (Sasuke/Neji) ***
Capitolo 11: *** Story of a strange habits (Kotetzu/Izumo) ***
Capitolo 12: *** Home (Kakashi/Iruka) ***
Capitolo 13: *** The King of Angels (Gaara) ***
Capitolo 14: *** Zoophilia (Shino/Kiba) ***
Capitolo 15: *** The two of us(Lee/Gaara) ***
Capitolo 16: *** Istambul (Shikamaru/Temari) ***
Capitolo 17: *** Going Nowhere (Hinata) ***
Capitolo 18: *** Raindrops(Itachi/Sasuke) ***
Capitolo 19: *** Stars(Sasori/Deidara) ***
Capitolo 20: *** I hate you (l'ottava porta) (Lee/Neji) ***
Capitolo 21: *** Post orgasmic eyes(Lee/Gaara) ***
Capitolo 22: *** Limbus (my one last dance) (Kimimaro) ***
Capitolo 23: *** Running (Naruto/Gaara) ***
Capitolo 24: *** Requiem (Hayate) ***
Capitolo 25: *** Out of the shadow (Shikamaru/Neji) ***
Capitolo 26: *** Ti veglio bere(Lee&Gaara) ***
Capitolo 27: *** Predator (Itachi/Deidara) ***
Capitolo 28: *** Rules of silence (Sasuke/Neji) ***
Capitolo 29: *** Oil on Canvas (Sasori/Deidara) ***



Capitolo 1
*** 1.Circumstances (Kakashi/Iruka) ***


PREMESSA

PREMESSA

Ho deciso di cominciare una raccolta di shot essenzialmente per due motivi: non ho ancora una confidenza tale con Naruto per buttarmi in una long fic, ma allo stesso tempo ho voglia di sperimentare, di provare, di mettermi in gioco.

Gli argomenti saranno vari ed eventuali, per la maggior parte a sfondo romantico, credo. Ma potranno tranquillamente essere prettamente introspettivi, o avventurosi.

Le coppie, conoscendomi, saranno in prevalenza yaoi, ma non soltanto, e comunque segnalerò sempre il paring, o i personaggi protagonisti, assieme al titolo, così, se non dovessero piacervi, potete tranquillamente saltarle!

Buona lettura!

Stateira

1.Circumstances (Kakashi/Iruka)

NOTA: Questa fic alterna continuamente due situazioni diverse, evidenziate dal grassetto e dal corsivo.

- Kakashi. -

- Iruka. –

Lui sta davanti a te, e ti guarda negli occhi. È preoccupato, e teso, e respira a fatica.

- Stai bene? È tutto a posto? –

Tu cerchi di fare mente locale sulle ferite alle gambe, e alla schiena. Non è niente di grave, il solito sangue brunastro.

- Sì. – ansimi.

- Kakashi. –

- Iruka. –

Lui ha le braccia divaricate, che toccano le tue spalle. E ti sovrasta senza pesarti addosso, con una strana discrezione che diresti quasi una deformazione professionale.

- Stai bene? È tutto a posto? –

Tu ti mordi un labbro. Vorresti sorridere, ma sai che non è il caso: è davvero ansioso, e tu sai che per lui la tua risposta sarà troppo importante, per ammettere sarcasmi.

- Sì. – sussurri, e senza nemmeno accorgertene gli abbracci i fianchi, e lo attiri a te con forza, quasi stessi cercando di dimostrargli che non gli stai mentendo.

Lui ti guarda per l’ultima volta, prima di sollevare il coprifronte, e scoprire lo Sharingan. Si rialza, si scrolla di dosso il sangue che gli aveva sporcato le mani, e si scaglia contro i due ninja che ti hanno assalito, e tu ti ritrovi a tendere le dita verso il vuoto.

Lui ti guarda negli occhi, e tu lo guardi, più che puoi. Si è spogliato della maschera e del coprifronte, per questa notte, e tu sai che è così raro, vedergli tutto il volto, vederlo così tanto nudo. Vorresti dirgli che ti piace, che è bellissimo, ma non osi, non in un momento come questo, quando il rischio di ferirlo diventa troppo alto. Le dita ti scivolano sulla sua guancia sinistra, e sulla cicatrice che la percorre. È più forte di te.

- Kakashi, no! – lo urli stupidamente, sai che è troppo tardi per fermarlo, sai che lui è già davanti ai suoi avversari, e che la sua battaglia è già cominciata.

- Kakashi… sì… - lo implori senza clamore, ma lo fai con tutto il tuo istinto. Lui socchiude gli occhi, come se cercasse di accarezzare i tuoi, e viene a baciarti, attento a come si muove.

Sta tornando. Tiri un sospiro di sollievo, quando la sua ombra inconfondibile si materializza nella nebbiolina incerta.

Sta venendo. Lo senti da come gli tremano le mani, e da come spinge, in un modo che non riesce ad essere trattenuto del tutto, ma nemmeno brutale.

- Rilassati. – ti dice con voce calma. Senti le sue braccia circondare le tue spalle, e scivolare sotto le ginocchia. – Accidenti, ma quanto pesi? –

Ok, ora sei tranquillo. Se Kakashi ha voglia di fare battute idiote, significa che è davvero tutto a posto.

- Vieni qui. – mormora.

Alzi gli occhi al cielo, e ti arrampichi indolentemente sul suo petto, accomodandoti proprio al centro.

- Non peso troppo? – insinui, sbuffandogli aria calda sulla pelle.

Lui ridacchia sottovoce, e ti scompiglia i capelli.

- No. – risponde, piegando il mento sul petto. – No, per niente. –

- Sono contento che tu stia bene. –

Chiudi gli occhi, e sorridi appena.

- Anch’io sono contento che tu ce l’abbia fatta. Non mi sarei mai perdonato, se ti fosse successo qualcosa per causa mia. –

- A me? – ride quasi sguaiatamente, come se tu gli avessi appena raccontato la barzelletta più stupida del mondo. – A me non succede mai niente. –

Alzi gli occhi al cielo, al bel cielo sopra di voi.

Kakashi cammina in un modo strano, a falcate ampie e pigre. E ti tiene in braccio come fossi un sacco, perché, con le tue gambe ridotte a quel modo, non riusciresti nemmeno a reggerti alle sue spalle.

- Sì, come no. – lo assecondi.

- Iruka, ti… ti amo. –

Chiudi gli occhi, e sorridi appena. Una parte di te non vuole che lui si senta quel sorriso sul petto.

- Anch’io. –

La sua mano ti accarezza di nuovo i capelli, stavolta senza scherzare. Tu ricambi scorrendo adagio il suo fianco, seguendone le linee dritte e vagamente severe.

- Ma certo che mi ami. – lo senti sbottare. Sta cercando di non ridere, e tu pure.

- Sì, come no. – lo prendi in giro, tradendoti proprio con il tuo sguardo, troppo entusiasta e limpido.

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Capitolo 2
*** Histeria (Shikamaru/Temari) ***


2

2. Histeria (Shikamaru/Temari)

 

 

 “Mi facesti da modello per una poesia.

Ricordi?

Non parlai di intelligenza indolente, ma di silenzi cauti.

Vinsi perchè scolpii colonne,

Perché parentesi divennero corinzie.

Vinsi, perchè forse, forse, Shika, forse eri tu.

Forse sei tu, sei sempre stato tu.”

 

 

Non sto mangiando.

Sto mordendo il cibo, lo sto ingoiando di prepotenza, sto aspettando di avere ancora fame. Non lo sento in bocca, non lo sento scendere, senza sale né zucchero. Mangerei foglie e sabbia, se me le mettessero nel piatto, e nemmeno me ne accorgerei, nemmeno mi importerebbe niente.

 

Ti ho rivisto ieri, già.

C’era il sole, era primo pomeriggio, e tu non potevi avere fretta. Andiamo, tu non sei mai un tipo che ha fretta. Maledizione, che rabbia mi ha fatto, il tuo modo di guardarmi, il tuo modo di irritarmi, e di colpirmi. Tu, stupido perditempo, tu con quel tuo sorriso obliquo e tagliente, sei così bravo, a sbattermi in faccia il mio isterico affannarmi per stare al passo. Passo che tanto poi tu riesci a mantenere anche standotene fermo a non fare niente; a ridere di me, al massimo.

 

Mi hai consegnato una missiva per il Kazekage, hai borbottato qualcosa a proposito di una certa urgenza, e, bravo, mi hai messo nella condizione che detesto di più, soprattutto se si tratta di te. Ho cercato di mantenere la faccenda su un piano puramente telepatico, ho provato a farne una questione di sguardi, ma evidentemente avevi proprio voglia di sentirmelo dire.

Resta o vattene, prendi qualcosa da bere con me oppure ritornatene da dove sei venuto, sparisci o stai, stop, nient’altro, nessuna mediazione.

 

Che cos’hai scelto, Shikamaru? Ti prego, ricordamelo, perché sto fingendo di essermelo dimenticato.

 

“La tua borraccia andrà bene”.

Hai bevuto quanto ti serviva, alla mia salute, stretta di spalle e ciao.

 

Io. Ti. Odio.

 

Ti odio perché, miseria, maledizione, fottuto cane, riesci sempre a farmi fare il primo passo, rimani a guardarmi per un po’, divertito, e poi prendi e te ne vai.

E io ne sono sconfitta. E non riesco a sopportarlo, non c’è modo che mi convinca a farlo.

Non reggo la sconfitta come te, ninja della Foglia, non sono capace di fare troppi calcoli, non riesco a rassegnarmi e a tirarmi indietro. E, sinceramente, non ho voglia di mettermi a fare a gara con te, su chi ha ragione dei due.

Tu vivi meglio di me, io vivo di più; ecco, mettiamola così. Io preferisco sbattere la faccia contro un muro, tu preferisci non provare nemmeno a superarlo. Pace, questione di punti di vista, tutto qui.

Visto come so essere diplomatica?

Visto come riesco a non farmi bastare più nemmeno il sarcasmo? Visto come non riesco a calmarmi? Visto come monto come una bufera, se anche solo provo a pensarti?

 

Te lo devo proprio dire, bravo. Mi hai fatto trovare pane per i miei denti, ma come la mettiamo, se io quel pane me lo volessi mangiare?

Lo vorrei mangiare, Shikamaru, perché ho fame, perché tu mi metti fame.

Lo so, e lo sai anche tu, che forse il mio non è altro che il bisogno di schiacciarti, e di sentirmi di nuovo vincitrice, ma so anche che sai che se non fosse così, sarebbe atroce da parte tua lasciarmi qui senza un appiglio.

Probabilmente ti diverte.

 

Sto lottando contro il tempo, combatto contro i secondi per arrivare alla sera, per potermi dire “ce l’hai fatta, Temari, sei sopravvissuta ad un altro giorno senza di lui”, e intanto sapere benissimo che non ce l’ho fatta per niente, perché ti ho pensato furiosamente, ti ho maledetto e detestato, e non so cos’altro. Il mio è un gioco sordo, a cui so giocare soltanto io, ed è un gioco del silenzio che pian piano ti ricopre di ombre e dubbi, e di rancori che nascono da terreni che dovrebbero, assolutamente dovrebbero, essere sterili.

 

Ma tanto non ha importanza, qualsiasi cosa io dica di te, qualsiasi cosa io faccia, non ti tocca, non ti arriva, e tu continui la tua vita di sempre, nel tuo bel villaggio incantato, continui a sprecare il tuo tempo buttato su qualche albero, a guardare chissà cosa, stupidi uccellini e nuvole, e mi brucia, tantissimo, che le mie parole non possano trasformarsi in fatti, in schiaffi. Mi rode non poterti perseguitare.

 

- Temari, vieni. –

- Cosa. –

- C’è il tizio della Foglia. Ahm, Shikamaru, mi sembra. –

- Qui? Perché? –

 

Detesto il modo in cui il tuo nome mi fa saltare il cuore.

 

- Non ha voluto dirmelo. Ha chiesto di vedere te, dice che ieri ti ha consegnato un messaggio. –

- Sì, d’accordo. Fallo venire qui. –

- Ok. –

 

Un’occhiata al casino sulla mia scrivania. Odio occuparmi delle formalità burocratiche, ma sembra che con Konoha le cose vadano troppo bene, per poter sperare di alzare le mani su di te con la schiena protetta da un valido motivo. Gaara mi ucciderebbe. E io ucciderei te, che ne dici, vogliamo farlo, questo bel giochino?

C’è riso sparso ovunque, ciotole di salse e di schifezze, bibite, carne, cibo. Guarda un po’, c’è persino una mela che non mi ero accorta di aver rosicchiato a metà. E pensare che a me le mele nemmeno piacciono.

 

- Kankuro. –

- Sì? –

- Senti… Dammi un minuto. Non lo so, intrattienilo, inventa qualcosa, cantagli una canzone, picchialo. Mi serve un po’ di tempo per… -

 

Hai capito, Kankuro.

 

Caccio un sospiro più seccato che annoiato, e comincio a raccogliere qualche stoviglia. Le ficcherò in un armadio, le butterò dalla finestra, non mi interessa. Sì, lo so, me lo dicono tutti, che in questo periodo sto mangiando troppo, che mi ingozzo di continuo, che finirò con lo star male. Ma complimenti, soltanto tu riesci a farmene vergognare.

Soltanto a te sto cercando di nascondere tutto questo.

Ho come l’impressione che vedendo una pila di ciotole di Ramen sulla mia scrivania, capiresti che se sono ridotta così è quasi esclusivamente a causa tua.

 

Ma io non posso permettere che tu lo sappia.

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Sì, lo so, chi già ha la sfortuna di conoscermi ormai maledice i miei angolini ancora prima che comincino, ma giuro che questo è serio! Dovrò pure far una buona impressione iniziale, no? ^_-

 

Evviva, sono felice di avere qualcuno da ringraziare!

 

Innanzitutto Artemisia, mi inchino alla tua gentilezza, soprattutto perché non sei particolarmente amante delle yaoi. Spero che questa ti sia piaciuta di più!

 

Hikary90, Feda e Will 91, sono contenta che Kaka/Iru vi piaccia, e decisamente mi stupisco che non sia molto diffuso. Mio dio, quei due sono… ovvi! Aaaah, sguardi languidi e parole a mezza voce, sento che tornerò su di loro molte, molte volte!

 

Kagchan, grazie mille, spero ti piacciano anche le prossime!

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Capitolo 3
*** E' solo il vento (Sasuke/Neji) ***


1

1. È solo il vento (Sasuke/Neji)

 

 

 

 

Cosa vuoi che sia, combatti.

Guarda dritto davanti a te, guarda il tuo avversario in faccia, Sasuke, come ti hanno insegnato a fare.

Non lasciarti distrarre, non da questo.

Non dal vento.

 

E se sono ricordi, le fotografie sbiadite che ti fulminano gli occhi di tanto in tanto, combatti anche loro, non lasciarti ingannare, non tornare in te, proprio ora. Sarebbe comunque troppo tardi.

 

Combatti come sai, combatti per uccidere, combatti per schiacciarmi sotto ai tuoi piedi, combatti senza darmi via di scampo.

E lasciami senza fiato, se ci riesci, in un modo che non sia quello in cui già lo fai.

Questi segni graffiati lungo i miei occhi, guarda bene, Sasuke. Non sono lacrime.

Combatti con me, qui, sull’orlo della catastrofe, sfidami a cadere, tu che se vuoi, sai farmi alzare. Era naturale che alla fine rimanessimo noi due.

 

Era destino, Sasuke.

 

Ho bisogno di essere punito, per aver creduto in un futuro diverso, per aver modellato il mio piccolo paradiso sulla tua forma. È soltanto questione di cose giuste e sbagliate. Di persone giuste e sbagliate, perché sì, ci sono persone giuste e persone sbagliate, e uno di noi due deve esserlo. Probabilmente sono io, ma non temere, credo di essere in grado di tenerti testa ancora per un po’. La consapevolezza che la mia morte verrà presto non mi tocca, non più di quanto dovrebbe farlo, e io sono lucido, sono calmo, sono freddo, perché so che è questo il genere di avversario che ami avere davanti.

 

Ringhia più forte, ti prego, perché non riesco a sentirti.

Cosa vuoi che sia, è soltanto dolceamaro. È soltanto chiudere gli occhi, per riuscire a sentirmi toccato, è schivare il tuo pugno, per illudermi che sia una carezza. Ma tu non ci pensare, combatti, fai tutto ciò che serve per sconfiggermi. E impegnati, ti prego, perché questa battaglia diventi l’esaltante agonia di due superstiti di sé stessi, perché divenga fratricida e cannibale. Polvere sul viso, ragioni, mille e cento ragioni ancora, per le quali siamo qui ad ammazzarci a vicenda, tu furiosamente, io, forse, disperatamente.

 

E intanto, io cercherò di ricordare quando i tuoi sussurri furtivi sono diventate dichiarazioni di guerra. E cercherò di capire perché, una volta, tanto tempo fa, ti piaceva farmi sorridere, e darmi i brividi, con le tue mani, qui, sul collo; poi all’improvviso hai trasformato quei brividi in paura, come se non mi riconoscessi più.

 

Ti ha preso. Ha vinto lui, perché nessuno sfugge al suo destino. Nemmeno tu.

 

Non ho rimpianti, Sasuke, ho cercato di combattere il demone che avevi tatuato addosso, ma i miei occhi possono vedere molte cose del tuo corpo, possono scorgere molte cicatrici, possono perfino scavalcare i tuoi occhi, per leggere la tua testa. Ma il cuore, quello no. Quello tu non mi hai mai permesso di leggerlo, di quello, mi hai sempre costretto a fidarmi, e io, credimi, l’ho fatto.

 

Ricordo di quanto scioccamente affascinato fossi da te, e dai tuoi occhi scuri e fulgidi, ricordo di quel pomeriggio passato ad ascoltare i suoni di una campana. Eravamo così… tangibili, così tanto che credevo di non avere più bisogno di conferme.

 

Ma non importa, se ad un tratto le nostre strade hanno preso direzioni diverse. Solo, non pensavo che due sentieri come i nostri, che si sono corsi incontro lentamente, passo dopo passo, potessero incrociarsi di nuovo, in modo così violento.

 

Non sto piangendo, Sasuke, non per te. Non perché sei tu. È il vento, non vedi? Cosa vuoi che sia, è il vento che mi soffia nello sguardo, che mi strappa i vestiti, che mi afferra i capelli.

Guardami negli occhi, sono pronto ad incassare il tuo colpo, e a contrattaccare con tutta la forza che ho. Non ti farò sconti, e tu non ne farai a me. Anche se volessimo, non ne saremmo capaci.

Guardami adesso, adesso che sei così vicino, adesso che mi respiri addosso, guarda, Sasuke, come due occhi bianchi sanno arrossarsi.

Ma non illuderti, queste non sono lacrime, no.

 

Cosa vuoi che sia. È solo il vento.

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Eccomi con una nuova shot, spero davvero che vi piaccia. Questa coppia mi fa impazzire, e non chiedetemi perché. Sasuke e Neji sono poesia pura, insieme, quindi aspettatevi di vederli ricomparire molte, molte volte.

 

Un grazie di cuore per le recensioni!

 

Marchesa: non sapevo che ti piacesse anche questo fandom, e non sai quanto sia felice! È bellissimo ritrovare qualche vecchia conoscenza che bazzica anche HP! Beh, dato il tuo entusiasmo contagioso, non posso che sperare che questa shot sia un degno ringraziamento per te!

 

O-Ren: grazie mille, sono onorata di tanti complimenti. Ci tengo davvero molto allo stile, spero sempre che venga pulito quanto più possibile.

 

Artemisia: guarda, visto che sei tu… ci sto lavorando, ecco. Anche se non posso prometterti grandissime cose, ma uno sforzo lo posso fare più che volentieri, sperando di essere all’altezza.

 

Eleuthera: grazie mille!

 

bambi88: eh, e chi lo sa, vallo a capire Shikamaru!

 

Temari chan: grazie a te per aver recensito! Temari è sicuramente una dei personaggi femminili migliori, soprattutto considerando che detesto le Mary Sue, e lei ne è l’opposto…

 

Lupus: onoratissima. Sono felice che la mia personale interpretazione di Temari ti sia piaciuta, e spero di rivederti per le prossime Het (perché ogni tanto, per sbaglio, qualcuna ne pubblicherò ^__^)

 

Kagchan: allora siamo uguali! Io sono per lo slash yaoi a tutti i costi, Shika/Temari è una delle pochissimissime eccezioni!

 

Frencis94: spero che anche le prossime ti piacciano!

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Capitolo 4
*** Touch(Shino/Shikamaru) ***


4

4. Touch (Shino/Shikamaru)

 

 

“Dovresti stare attento a ciò che desideri”

 

 

 

Shikamaru seppe di non essere solo esattamente in quel momento.

Suo malgrado, dovette ammettere che gli allenamenti impossibili di Asuma avevano sortito qualche effetto anche su di lui.

Effetti fastidiosi.

I suoi sensi si tesero come se avessero avuto muscoli propri, attenti a quel qualcosa di minuscolo che cambiava la consistenza dell’aria, che interferiva con la luce della notte e lo rendeva irrequieto. Le stelle fornivano molte ombre a cui potersi appoggiare, in caso di necessità, quindi Shikamaru decise per una tattica difensiva, e si tenne pronto a reagire a qualsiasi intrusione.

 

Finché l’intrusione non gli si posò su un dito.

 

Shikamaru inarcò un sopracciglio, meravigliato, e studiò la piccola falena scura che si era appostata placidamente sul suo indice.

 

- E tu che ci fai da queste parti? – borbottò. – Ti piace il mio dito? –

 

La bestiola si agitò, e fece frullare le ali, quando il ragazzo mosse il dito per cacciarla. Poteva sbagliarsi, vista la poca luce, ma doveva essere colorata. Il suo corpicino rimandava un riflesso brillante e indecifrabile, forse una sfumatura carminia o violacea.

 

- Rilassati, non voglio farti del male. – sbuffò, inclinando la testa per osservarla più da vicino senza muovere la mano.

 

- Probabilmente sì. –

 

Shikamaru si mosse all’improvviso, al suono di una voce dietro di lui.

- Shino? –

 

Shino scrollò le spalle, e balzò giù dal ramo sopra a quello di Shikamaru, facendosi strada fra le ombre indecise delle foglie del grosso albero.

 

- Probabilmente sì che cosa? –

 

Shino accennò all’insetto con il mento. – Che le piace il tuo dito. E, a proposito, fossi in te ci penserei bene, prima di farle del male. È molto velenosa. –

– E’ uno scherzo, vero? –

- Per niente. E’ letale. –

 

Goccia di sudore.

 

- Accidenti a te, e allora levamela di dosso, pazzo entomofilo! –

- Stai calmo, o la spaventerai. –

Shikamaru cercò di condensare in un’occhiataccia corrucciata tutto ciò che pensava, riguardo lo spaventare la povera innocente creaturina aggrappata al suo dito.

 

Ma Shino non se ne curò più di tanto. Sospirò con la pazienza di un insegnante alle prese con la cocciutaggine di un bamboccio, allungò un braccio, e la falena, come incantata, volò subito da lui, appollaiandosi docilmente nell’incavo fra il pollice e l’indice della sua mano sinistra. Il ninja la osservò per pochi secondi, in un modo che Shikamaru potè dire affettuoso. In che senso, era difficile da definire, visto che di Shino non riusciva a vedere quasi nulla. Lo sentiva, avvertiva nell’aria una strana sensazione di intimità, che non seppe scacciare, relegandola addosso all’insetto. Portava gli occhiali anche quella sera. Shikamaru pensò che quel tipo strano dovesse avere un difetto alla vista. Oppure alla testa, se si ostinava a starsene rintanato dietro ad un paio di lenti persino di notte, con le stelle, la luna, e tutto il resto che erano lì apposta per farsi guardare.

Shino si aggiustò gli occhiali, e la falena volò via, disperdendosi nel silenzio di quella nottata senza nuvole, senza avventure, senza un nome particolare da ricordare. Shikamaru riuscì a sentire il rumore delle sue alette di carta, per qualche secondo, ma poi i sospiri sonnacchiosi del vento si portarono via anche quello, e tutto ritornò come prima.

Quasi.

 

- Non ti avrebbe morso. – precisò Shino.

- Lasciami indovinare, le hai offerto un po’ di polline perché non lo facesse? –

- Più o meno. –

 

Il ninja dell’ombra si toccò distrattamente i capelli. Non aveva contemplato che qualcuno potesse disturbare i suoi piani per la serata, e soprattutto non aveva calcolato che quel qualcuno potesse essere proprio Shino.

Tanto forte quanto strano, quel tipo, fatto di un’essenza che era qualcosa di nascosto dalla sua voce sempre solenne, dal suo modo di essere pacato così diverso dal suo, così distante dalla sua pigra apatia.

 

- Che ci fai in giro a quest’ora? –

- Tu? –

- L’ho chiesto a te, mi sembra. Non te l’ha insegnato nessuno, che è maleducato rispondere ad una domanda con un’altra domanda? –

Shino accennò ad un sorriso sottile. - E a te non l’hai insegnato nessuno che le difese si possono anche abbassare, davanti ad un amico? –

 

Shikamaru sbuffò con il naso. E si convinse che Ino fosse una stupida, se davvero pensava che Shino gli assomigliasse.

“Voi due andreste a braccetto”, dannata pettegola, ma non lo vedeva che Shino era distante anni luce da lui? Altrimenti non si sarebbe spiegato perché mai, ogni volta che aveva l’occasione di essere con lui, non riuscisse mai ad aprire bocca, e si trovasse sempre con nulla da dirgli, e con la sgradevole sensazione di non riuscire proprio a sentirsi se stesso. No, non si spiegava affatto. Se Shino fosse stato come lui, perché mai avrebbe dovuto provare tutte quelle cose complicate?

 

- C’è un vento fresco, stasera. – constatò Shino.

Shikamaru se lo trovò seduto di fianco, ma non ci fece molto caso. Il ramo era nodoso e troppo grosso, per pretendere che lui se ne rimanesse in piedi più a lungo, e ad ogni modo c’era abbastanza posto per entrambi. A patto di stare un tantino vicini.

Si strinse nelle spalle, e si sfregò le braccia, rispondendo a modo suo alle parole dell’altro.

 

- Hai freddo? -

- Non troppo. -

- Ma hai le spalle scoperte. -

- Uhmpf. -

 

Un fruscio discreto. Shikamaru scoccò un’occhiata svogliata all’altro ragazzo.

Shino si mise a giocherellare con una fogliolina verde, appuntita. Concentrato, silenzioso e deciso, anche nel maltrattare un vegetale inanimato.

 

- Cosa sei venuto a fare, qui? -

- Cosa intendi? -

- Mi sono ritrovato un insetto velenoso sul dito. Non cercare di fregarmi, eri qui da più tempo di quanto vorresti farmi credere. -

- Allora sono stato bravo a restare nascosto. -

- Fossi in te non mi monterei la testa, io sono una frana ad accorgermi degli altri. -

- Però ti sei accorto di una falena, molto prima che ti raggiungesse. – Shino sorrise sagacemente. – Non cercare di fregarmi nemmeno tu, Shikamaru. –

 

… Maledizione a Ino.

 

Shino arricciò la foglia lungo la sua linea verticale, facendone una specie di imbuto. Shikamaru lo osservò con la coda dell’occhio, lo guardò piegare attentamente i lembi della fogliolina verso l’esterno, e improvvisamente seppe perché lui era lì.

 

- Prendila, è per te. –

Si schiarì la voce. – Prendila, se la vuoi. –

 

Altra goccia di sudore.

 

Volò un po’ di tempo, mentre Shikamaru pensava, fra sé, al senso di quel gesto. E alle sue conseguenze, probabilmente imprevedibili, sicuramente complicate. Raccolse la fogliolina di Shino con la mano sinistra, cercando di mantenersene a distanza. Ma la neutralità e l’indifferenza se n’erano andate come fili di fumo, e Shino lo aveva incastrato lì, su un ramo abbastanza robusto per entrambi, ma troppo piccolo per impedire alle loro gambe di toccarsi.

 

- Shika. –

 

Il suo permettersi beffardo di storpiare il suo nome, come se ne avesse diritto, e quella voce che, chissà perché, poi, finiva sempre con lo spingerlo a chiedersi come potesse essere, appoggiare una guancia contro il suo impermeabile.

Chissà se gli sarebbe bastata qualche parola modulata con più accortezza, per farlo perdere oltre, per costringerlo a chiedersi se un suo abbraccio fosse morbido, se si sentisse qualcosa, e cosa ci fosse sotto, sotto Shino, dietro gli occhiali e sotto l’impermeabile.

Voleva saperlo, ne era certo. Ne era consapevole, e quasi rassegnato.

 

- C’è una strana tensione, fra noi. – ammise.

- Lo so. – sospirò Shino, pigramente. – La sento anche io. –

- Riesci a riconoscerla? –

- Tu? –

 

Shikamaru sbuffò, irritato, e Shino raccolse con calma le ginocchia in grembo. Non sembrava affatto toccato dalla fastidiosa consapevolezza che stare lì, insieme, in quel modo, fosse tremendamente difficile.

 

- Toccami. – disse all’improvviso Shikamaru.

Shino inarcò un sopracciglio. - Che cosa? –

- Mi hai sentito. –

Shino si aggiustò gli occhiali sul naso. Shikamaru intercettò il suo gesto, e sorrise sornione. Forse, dopotutto, nemmeno lui era poi così tranquillo.

- Perché dovrei? –

- Perché è l’unico modo. Lo sai anche tu, non sei uno stupido. –

–La tua intelligenza è davvero irritante. –

- E tu ne stai fuggendo? –

 

Shino sorrise sotto l’impermeabile, tese di nuovo in avanti una gamba, lasciandola ciondolare pacificamente sul vuoto, e sollevò un braccio verso Shikamaru, quasi nello stesso modo in cui lo aveva fatto per la falena. Shikamaru stette ad osservarlo, guardingo, ostentando la sua diffidenza con le labbra sottili arricciate.

 

- Allora? –

Shikamaru trasalì, e mentre lo faceva indugiò sulla gola di Shino. Le conseguenze che sarebbero derivate dal toccare Shino lo preoccupavano, e parecchio. Innanzitutto da un punto di vista pratico.

– Non…? –

- Non ti attaccheranno, rilassati. –

Shikamaru si morse un labbro. – Non amo troppo gli insetti. – disse soltanto.

- E io non amo troppo le ombre. Allora, la prendi o no, questa mano? –

 

Sì, Shikamaru la prese. A quel punto, non avrebbe comunque avuto altra scelta. La scoprì calda, e peggio ancora scoprì se stesso imbarazzato. Per la mano calda, e perché quella mano calda era di Shino. Era tutto confuso e complicato, come se l’aria di quel primo autunno gli avesse soffiato sul palmo, impregnandolo della sua propria consistenza. Forse, se avesse avuto la possibilità di controllare, si sarebbe accorto che quella mano aveva persino l’odore, dell’autunno.

 

- Cosa ne pensi, adesso? –

- Beh, io… -

 

Un mucchio di parole, di nomi che indicavano cose, lì, ammucchiati nella sua gola secca.

 

- Non saprei. –

- Non sai. Va bene, allora non so nemmeno io. –

- Non è divertente. –

- No, non lo è, hai ragione. –

La mano di Shino si strinse con calma attorno a quella di Shikamaru, senza invadenza.

- Capita poche volte, che ai miei insetti piacciano le dita di qualcun altro. – mormorò, pensieroso.

- E a te? – Shikamaru ingoiò un po’ di saliva e di aria. – A te piacciono le mie dita? –

 

Un movimento fluido, un brivido fresco di foglie ancora vive. La bocca di Shino che sfiorava le nocche, e i polpastrelli, su e giù, lentamente.

- Capisco. – soffiò. – Le tue dita sono particolari. –

- Particolari? –

- Morbide. –

 

Un guizzo. Gli occhi di Shino dovevano essere vivi, dietro le sue lenti. E attenti su di lui. Le sue labbra lo sfiorarono di nuovo, sulla punta delle dita, stavolta.

Era un bacio, quello?

Shikamaru sentì un calore morbido come quello della luce del sole risalire lungo le dita, fino al polso, al braccio, e disperdersi in brividi dorati lungo la schiena.

 

- Shino…? –

 

Shino posò un dito sulle labbra appena aperte di Shikamaru, zittendolo.

 

- Morbide. – ripeté. – E profumate. È per questo che ti ha trovato senza il mio aiuto. Sarebbe venuta da te in ogni caso. È strano, non trovi? –

- Trovo che tutto quanto sia strano. –

- Hai ragione. – Shino parlava nascosto dalla sua giacca, Shikamaru non poteva più vedere le sue labbra. E improvvisamente, ne ebbe voglia. – Però non posso fare a meno di pensare che sia ironico, che tutto ciò che mi appartiene venga sempre e comunque in cerca di te. Che io lo voglia o meno. –

 

Le lenti degli occhiali brillarono di nuovo. Shikamaru vi scorse all’interno il riflesso di alcune stelle, come se fossero state comete che si muovevano in un cielo tondo e nero. Poi vide molto meno, perché i suoi occhi faticarono a mettere a fuoco il volto troppo vicino di Shino. Sentì un sacco di altre cose, però, in compenso: un sapore sapido e piacevole, e un odore di autunno impregnato dalle note leggere di un’acqua di colonia.

E questo? Questo era un bacio?

 

Shikamaru aprì gli occhi, e Shino era ritornato al suo posto. Ma il sapore di quelle sensazioni era ancora lì, steso come burro sulla pelle delle sue labbra. Che erano rimaste tiepide.

 

- Shino…? –

- Già. –

 

Shikamaru sbatté le palpebre. - … “Già”? Che razza di risposta sarebbe, “già”? –

- Non lo so. Che razza di domanda sarebbe, “Shino”? –

 

Colpito e affondato. Pareva proprio che Shino avesse il singolare potere di farlo a fette anche in giochetti come questi, in cui di solito trionfava alla grande.

Oh, al diavolo, al diavolo tutto. Shikamaru sbuffò, e piantò i gomiti sulle gambe di Shino, per baciarlo di nuovo. A quel punto, tanto valeva andare fino in fondo.

 

Maledizione e stramaledizione a Ino.

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Questi due… Brrr, li adoro! E secondo me, se si mettessero uno di fronte all’altro in una partita a scacchi, non la terminerebbero mai.

… Oppure finirebbero con il mandare all’aria la scacchiera e il tavolo, e saltarsi addosso! ^__^’

 

Fra l’altro, spero di non ritrovarmi mai nella situazione del povero Shikamaru, visto che se qualcuno provasse a corteggiarmi mandandomi dietro falene, potrei svenire all’istante e piombare giù dall’albero come un sasso… -___-

 

Un grazie di cuore a tutti!

 

Artemisia: huhu, certo che metto Neji di mezzo, cara! Che ci vuoi fare, se è il personaggio più incredibile e meraviglioso? Neji è SEMPRE in mezzo! Sì è vero, l’ho fatto più

“maturo”, perché, anche se non si capisce chiaramente, l’ambientazione della fic è una sorta di futuro remoto e indefinito, in cui si fronteggiano due persone bene o male cresciute. Ma sicuramente tornerò anche su molti altri aspetti di Neji. E il work in progress continua, ho avuto un’idea che spero ti piacerà…

 

Ka_chan91: che bello, un’altra amante della coppia, io per questi due vado in visibilio completamente!

 

Marchesa: il vento è sempre un’ottima scusa per tutti, se la può usare Neji, puoi farlo anche tu!

 

Kagchan: beh, se non avevi mai pensato a questa coppia, allora spero che la shot ti abbia aperto un nuovo possibile orizzonte! Ne verranno sicuramente delle altre su di loro, più avanti!

 

Little Star: mio amore, sei qui anche tu? Oh che bello, solo a leggere il tuo nome mi viene voglia di intavolare un bel discorso su Draco e Harry… Ma ci tratterremo per l’altro fandom! Beh, e secondo te io, proprio io, mi asterrei dallo scrivere qualcosa su Gaara? Huhuhuhu, lo sai che ho una passione per i folli… Dai, dai, dai, dammi un consiglio, con chi lo piazziamo? Si accettano proposte varie e fantasiose, tanto lo sai che ci sguazzo alla grande!

 

Feda: inusuale? Sniff, io voglio che quei due diventino canon!!! *__* chiedo troppo, vero? Ah, povero il nostro Neji, per una volta messo al tappeto senza nemmeno combattere… Sono contentissima che ti sia piaciuta, grazie mille!

 

Daidouji: spero di migliorare eventuali forzature, e intanto ti ringrazio molto per i complimenti! Non so proprio cosa farci, io Sasuke e Neji li vedo come il pane e la Nutella (ehm… che paragone infelice -___-), sto anche lavorando ad una longfic su di loro…

Temari è il personaggio femminile che apprezzo di più in assoluto, qualcosa su di lei era doveroso!

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Capitolo 5
*** Tensione (Kankuro/Kiba) ***


Tensione (Kankuro/Kiba)

Tensione (Kankuro/Kiba)

 

 

 

 

- Beh? -

Kankuro incrociò le braccia con risolutezza. – Sono qui da stamattina, e tu mi hai a malapena guardato in faccia. –

 

Nessuna reazione, sull’altro lato del divano.

 

Faceva caldo, davvero molto caldo, sembrava quasi di essere a Suna. E dire che il clima era una delle poche cose che gli facevano digerire Konoha.

 

- Mi vuoi spiegare una buona volta perché ce l’hai con me? -

 

Uno sguardo astioso e risentito investì Kankuro, che si difese distogliendo il proprio con stizza.

 

- Che c’è, vorresti farmi paura? Ti prego, sei penoso. Non so davvero perché perdo tempo a cercare di costruire qualcosa con te, quando qualunque altra cosa sarebbe più produttiva che parlare all’aria, come sto facendo. E non credere che mi importi qualcosa, se mi odi. Ormai sono qui, e tu non ci puoi fare niente. Sono spiacente di deluderti, ma non sei tu a decidere che cosa devo fare, dove devo andare e perché. –

 

Una smorfia risentita, e persino un po’ addolorata.

 

Kankuro si morse un labbro, ma decise che a quel punto tanto valeva andare fino in fondo.

- Mettiamo le cose in chiaro, una buona volta. – affermò. – Io e te non riusciamo ad andare d’accordo. E allora? Cosa vogliamo fare, comportarci da persone civili, o continuare ad azzuffarci ogni volta che ci vediamo? Credi che ignorarci sarebbe una soluzione? Tanto lo sai benissimo che tornerò a Konoha altre volte. L’ho sempre fatto, e continuerò a farlo, ed ogni volta io e te ci riduciamo così, a ringhiarci contro. Sono stanco, lo sai? Di te, e di questo tuo atteggiamento strafottente, come se tutto ti fosse dovuto, come se io dovessi inginocchiarmi a te ogni volta che metto piede qui. -

 

Un mezzo ringhio minaccioso e terribilmente serio.

 

- Ne ho abbastanza di te! – sputò Kankuro. – Credi che mi lascerò trattare così da te? E non mi sfidare, non provare a guardarmi a quel modo. Non sai contro chi ti stai mettendo. -

 

Kiba strinse i pugni, e si preparò a fare a pezzi Kankuro.

 

– Ti muovi a venire a letto? – Ringhiò, affacciandosi dalla porta della camera e stropicciandosi gli occhi – Sto morendo di sonno. -

- Non mi alzo da qui finché non avrò ottenuto il rispetto che merito. -

- Hai tutto il fine settimana per litigare con Akamaru. Dai… -

- Scordatelo. -

 

Kiba gemette per l’esasperazione, per la testaccia più dura del cemento del suo compagno, e per il sonno atroce che lo affliggeva.

 

- Akamaru, sii ragionevole, almeno tu. -

 

Il cane sollevò fieramente il musino, e per tutta risposta raspò contro Kankuro con le zampe posteriori.

 

- Lo hai visto? – esplose Kankuro, indignato. – Dannato cagnaccio, adesso io… -

Kiba roteò gli occhi. - Akamaru, vergognati, non si tratta così un ospite. -

 

La smorfia di Kankuro mutò all’istante in un sorrisetto antipatico e trionfale, dedicato tutto al piccolo cagnetto ignobile.

 

- … E tu, non credere di essere da meno. Si dà il caso che quello sia il mio cane, e tu gli devi lo stesso rispetto che devi a me! -

 

Di nuovo smorfia.

 

Kiba contemplò con rassegnazione il suo cane e il suo compagno, che si fronteggiavano fieramente sul divano, scoccandosi occhiatacce avvelenate degne di due nemici giurati. O di due megere nevrotiche.

Conosceva almeno tre o quattro persone, nel villaggio, che avrebbero pagato, per assistere ad una scena del genere. E forse, ne conosceva una anche a Suna. Una certa sorellina con i codini a stella. Ma dover sopportare in prima persona le interminabili contese fra Kankuro e Akamaru, invece che starsene tranquillo a godersi lo spettacolo masticando patatine, era tutta un’altra storia.

 

Kankuro calcolò con attenzione la sua prossima mossa, perché, considerando l’ora, la situazione, e lo stato comatoso di Kiba, quella sarebbe stata anche l’ultima.

- Sai una cosa, Kiba? – sibilò con una certa malizia. – Forse potrei portare rispetto al tuo cane soltanto se tu lo facessi trasformare in te. Chissà, potrebbe essere un’esperienza interessante… -

 

Kankuro lasciò scendere un silenzio in qualche modo teatrale, dopo le sue ultime parole. E fu sicuro di aver fatto centro quando il volto di Kiba cominciò a perdere gradualmente colore.

 

- Cooos… Kanku… Io… Non… Ehh? -

Kiba cercò di mettere insieme una risposta adeguata, ma senza troppo successo. Ma che razza di idee aveva per la testa, il suo ragazzo? Si stava forse prendendo gioco di lui? La sua stanca, stanchissima mente, cominciò a produrre una serie di immagini assolutamente poco adeguate alle circostanze, ma che vantavano delle strepitose inquadrature del broncio di Kankuro che si deformava lentamente, molto lentamente, in uno spasmo offuscato. Quel vigliacco perverso, gliel’avrebbe fatto vedere lui, chi era l’uomo e chi era il cane, in quella casa!

 

Kankuro si premurò di nascondere il suo ghigno soddisfatto quando Kiba, in barba al sonno e alla massa minore, lo artigliò e se lo caricò sulle spalle, per poi dirigersi a barcollante passo di carica verso la camera da letto.

 

Dal divano, un cagnolino bianco studiava con espressione rassegnata la scena. Il povero Akamaru si stirò con tutta comodità sul divano, ficcando preventivamente la testolina sotto un cuscino. Quando c’era Kankuro per casa, il suo padrone perdeva completamente la bussola. Prendeva a scodinzolare peggio di un barboncino qualsiasi, andava sempre a chiudersi in camera con lui, e lasciava lui fuori da solo, sul divano. E per almeno un’ora, non c’era verso di dormire.

… Oh no, ecco che cominciavano, come al solito.

 

Ma perché Kiba e quel muso da gatto dovevano sempre fare un baccano infernale, là dentro?

 

*

 

Kankuro allargò lentamente le braccia, e si trovò posto sul petto nudo di Kiba. Il suo respiro grosso e ringhioso era meravigliosamente rilassante, un vero balsamo per i sensi ancora intorpiditi. Kankuro non aveva dubbi circa il fatto che se Temari avesse saputo quanto adorava usare questo tipo di subdole strategie con Kiba, lo avrebbe definitivamente consacrato alla razza felina. Ma probabilmente prima, da brava sorella, sarebbe svenuta rantolando parole a caso circa i suoi gusti assurdi. Qualcosa come “perché proprio lui, perché?!?!?”

Kiba lo abbracciò pigramente, e Kankuro sorrise fra sé. Poteva sentire tutto il suo sonno, la sua spossatezza e il suo appagamento dal modo in cui ansimava fra i suoi capelli scompigliati. Ed era magnifico, era come se ogni cosa fosse al posto giusto, come se finalmente, anche per lui, ci fosse spazio per i sogni.

Chiuse gli occhi senza avere voglia di dormire; con un po’ di fortuna, sarebbe riuscito a sentire Kiba addormentarsi prima di lui, e a godersi qualche minuto di delizioso e avvolgente calore.

 

- Caiii! -

 

Kiba si rizzò sulla schiena di getto.

- Non ci provare. – sibilò Kankuro, senza degnarsi di muoversi. – Non ho intenzione di dormire con quel sacco di peli nel letto. -

 

Sentì Kiba esalare un gemito sofferente ed esausto.

- Hey, con il tuo padrone ci dormo io, è chiaro, cagnaccio? -

- Grrrrr… -

Kankuro assottigliò lo sguardo, e fece una linguaccia alla porta chiusa.

- Vattene a cuccia! -

- Akamaru, vai a dormire, da bravo. Domani ce ne andiamo a correre al fiume, promesso! -

 

Nel silenzio della stanza, Kiba riuscì a percepire lo scodinzolio di Akamaru, e si lasciò di nuovo scivolare all’indietro, confortato.

- Hai sentito, piccola iena? Fila a dormire e lasciaci in pace! -

- Grrr… -

- Non ti vogliamo qui, sei di troppo, e puzzi! -

- Grrr… -

- “Grrr” a me?!? - 

- Kankuro, finiscila! -

- Che cosa?!?!? -

- Grrr! -

- Akamaru, anche tu! -

 

Kiba sospirò, sconfitto, e si buttò un braccio sulla faccia. Era inutile, non c’era proprio niente da fare.

Le due belve della sua vita non sarebbero mai andate d’accordo.

 

 

 

ANGOLINO!

 

Ok, ho scoperto di adorare Kankuro. Beh, questo Kankuro, per lo meno! ^^

 

Marchesa: Grazie per gli auguri! >333<

Shino si vede poco, hai ragione. Però Shino è… sexy! Oh sì, io sono per la riabilitazione dei pg incompresi, e soprattutto per tirare fuori il peggio di loro!

 

Feda: ma tu mi onori sempre di più, come posso ringraziarti? No, brutta cosa, quando ti si ingarbuglia tutto nella gola. Soprattutto se davanti a te hai un paio di occhiali da sole che ti fissano ^^’. Sono proprio felice che lo stile e la trama si adattino a loro, non sono personaggi semplicissimi, povera me!

 

Kagchan: sì lo so, non ci aveva mai pensato nessuno, però io li amo!!! >__<

 

Artemisia: guarda, diciamolo chiaro, io non ho nessun merito per la shot, sono Shikamaru e Shino a essere sensuali al massimo già di loro! Oddio, io ho una paura folle delle falene, spero di non ritrovarmi mai nei panni di Shikamaru, sarebbe tragica… Però forse per Shino potrei anche cercare di non svenire rovinosamente… ^^

Huhuhuhu, dai che pian piano ti convinco che le yaoi sono fantastiche, in fondo che male c’è a spaziare un po’ fra vari generi?

Ah, Neji, Neji… ci intendiamo alla perfezione, lui è il non plus ultra!

 

Chiara: addirittura sulla punta della sedia, allora spero di riuscire a continuare così, grazie infinite!!!

 

Little Star: non ne parliamo, io sono entomofobica, qualsiasi genere di insetto mi manda nel panico più nero. Oddio, metti che se Shino si offrisse di darmi una mano in tal proposito potrei sforzarmi di avvicinarmi ad una formica, ecco… ma poi pretendo un bel premio!!!

Ti ho mandato una mail, prova a controllare se per sbaglio ti è arrivata, sarà nella posta indesiderata come al solito…

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Capitolo 6
*** Dance with me (Lee/Gaara) ***


Dance with me (Lee/Gaara)

Dance with me (Lee/Gaara)

 

 

 

A Suna le feste si tenevano piuttosto di rado.

Con un Kazekage così austero, non ci si poteva certo aspettare fuochi d’artificio ogni settimana.

Le rare occasioni in cui il palazzo del villaggio si trasformava in un gigantesco salone da ballo erano quelle in cui Temari riusciva a spuntarla sul fratellino.

O a esasperarlo, a seconda di come si vuol vedere la situazione.

 

Gaara, da qualche tempo a quella parte, era strano. E l’impressione che ciò avesse in qualche modo a che fare con Konoha rendeva Temari particolarmente vigile, e Kankuro un po’ più collaborativo.

Konoha era un’alchimia unica di soggetti strani, ma, Temari doveva ammetterlo, fra essi ce n’erano alcuni più che degni di attenzione. O almeno, che evidentemente meritavano l’attenzione e i silenzi del fratello.

 

- Gaara ci ucciderà, quando verrà a scoprire che abbiamo invitato i ninja della Foglia senza dirgli niente. – borbottò Kankuro.

- Vorrà dire che staremo attenti a frequentare solo posti con molti testimoni, finchè non gli sarà passata. -

- Sul serio, non so se sia una buona idea. -

Temari piantò i gomiti sul letto del fratello, e si trascinò svogliatamente verso di lui.

- Voglio fare qualcosa per lui. – disse con decisione, osservandolo attraverso lo specchio che stava usando per truccarsi.

- Gaara non ha bisogno che tu faccia qualcosa per lui. -

- E invece sì. Da quando è finito il suo incubo, è sempre più solo. Non hai anche tu l’impressione che venga a cercarci più spesso? -

Kankuro le scoccò un’occhiata corrucciata con l’occhio aperto che ancora non aveva dipinto di viola.

– Beh, ogni tanto viene qui, a chiedermi come va, e di Kuroari e Karasu. – ammise. – Non si era mai interessato alle mie marionette, prima. –

Temari inarcò un sopracciglio. – Lo vedi? –

- D’accordo, d’accordo, ma non capisco come questo possa giustificare una festa con quelli di Konoha. -

- Gaara non è in grado di gestire una cosa del genere da solo, ha bisogno di essere incoraggiato! -

- Sarà, ma non credo che una festa sia la soluzione più adatta. -

- Bah, come sei distruttivo. – si imbronciò Temari. – Non posso mettermi ad invitare a pranzo tutte le ragazze di Konoha, e sperare di riuscire a capire quale gli interessa! Sarebbe perlomeno sospetto, non ti sembra? –

- Magari non è una ragazza. – insinuò Kankuro, mordendosi la lingua con espressione concentrata, mentre ritoccava le ultime righe sul naso.

- Allora peggio ancora. I ragazzi sono molti di più. –

Kankuro aggrottò le sopracciglia. – Però, che spirito pratico. – Fece, ammirato. – Credo che mi farebbe uno strano effetto vedere Gaara con un ragazzo. –

Temari sospirò. – A me farebbe un buon effetto vederlo felice, una volta tanto. –

Kankuro posò i pennello del trucco. – Beh, allora fa solo che non sia Uzumaki. – bofonchiò. – Tutti ma non lui. –

 

*

 

Gaara non la prese troppo bene.

Ci sono cose che un estraneo non nota, specialmente se si tratta di Gaara. Tremolii delle labbra, le pupille che si stringono, i denti che digrignano in assoluto silenzio.Ma una sorella se ne accorge sempre.

Temari era davvero un’ottima stratega, e trascinare entrambi i fratelli ad accogliere il gruppo di ninja della Foglia, arrivati tutti insieme fu decisamente un’idea vincente. Un sacco di testimoni molto scomodi, in caso di tentato fratricidio, e allo stesso tempo la possibilità di impedire a Gaara di protestare alcunché, non davanti a tutti loro.

Mentre salutava con calore Sakura, Temari scoccò un’occhiatina di sottecchi al fratello.

E lo vide immobile, impalato, con gli occhi tanto spalancati da tremare. Guardava chissà chi, accidenti, uno dei tantissimi rimasti dietro di lei; ma non c’era fretta, avrebbe avuto una serata intera per scoprirlo.

D’accordo, poi probabilmente avrebbe dovuto passare le prossime cinque o sei notti in esilio, assieme a Kankuro, ma almeno adesso aveva la certezza che ne sarebbe sicuramente valsa la pensa.

 

Ammiccò in segno di intesa al fratello marionettista. – Bene, che la festa abbia inizio! –

 

*

 

Gaara occupava il posto a capotavola, perciò era quasi impossibile non notare che non aveva praticamente toccato cibo.

E ciò poteva essere un segno ottimo, o pessimo, a seconda della prospettiva che si prende in analisi. Temari dovette ricordare  sé stessa più volte che il Gaara in preda all’emozione di quella sera non era più il Gaara di qualche tempo prima.

Non era più un mostro pericoloso ed esplosivo, non era più una minaccia, non nel modo irrazionale che era stato, per sé stesso e per tutti. Quella sera, davanti a quelle persone, e ad una in particolare, era soltanto una ragazzo come tanti altri, alle prese con sensazioni nuove. A ben guardare, c’era qualcosa di immensamente tenero, nel vederlo così, tutto raggomitolato su sé stesso, spaesato e confuso.

 

Vicino a lui si era piazzato Naruto, bontà divina, e niente e nessuno lo avrebbe più fermato dal parlare come una pioggia di shuriken impazziti.

Kankuro ogni tanto gli scoccava qualche occhiata preoccupata, e Temari indovinò che probabilmente dentro di sé stava cercando di rassicurarsi stesso sul fatto che Gaara non avrebbe mai potuto sopportare uno come lui per più di un’ora o due. Sembrava davvero, davvero terrorizzato dalla prospettiva di ritrovarsi Naruto Uzumaki per casa.

Comprensibile, in effetti.

 

Alla destra di Naruto, si era seduto Sasuke Uchiha. Temari si era fatta un’idea abbastanza precisa su di lui, e la sua idea constava nell’appurare che, per quanto si potesse dire di quel Sasuke, per quanto popolare fosse, per quanto il suo nome fosse sempre sulla bocca di tutti, alla fine dei giochi lui non aveva che Naruto. E si vedeva, si sentiva nell’aria, in certi momenti lo si riusciva persino a respirare.

Non erano affari suoi, e lei non era intenzionata a farseli, ma se per caso Gaara fosse stato infatuato di lui, sarebbe andato quasi certamente incontro ad una delusione.

 

Di fronte a Naruto, si era seduto Shikamaru Nara. Accidenti, e dire che per paura del fratello lei si era seduta così lontana.

 

Di fianco a lui, Sakura, e, un posto più in là, quello strano tipo, Rock Lee. Si era seduto di fronte al suo compagno di squadra, Neji Hyuga.

 

In quel ristretto gruppetto di sei commensali che potevano parlare con relativa comodità con Gaara, Sakura era l’unica ragazza, e lei era sicura che Gaara non avesse fissato lei, al loro arrivo. Non aveva bisogno di altre conferme, il nervosismo quasi tangibile di Gaara era sufficiente a farle individuare con certezza che la ragione di tanta agitazione doveva trovarsi lì fra loro, a portata di mano.

 

Temari sospirò, e decise di aggiungere alla preghiera di Kankuro, la sua: non Shikamaru. La situazione sarebbe potuta precipitare disastrosamente. Per favore, tutti ma non lui, tutti ma non Shikamaru. E Uzumaki, mi raccomando, oppure Kankuro si sarebbe autoesiliato da Suna.

 

- Hey, Gaara, dovresti mangiare un po’ più ramen, sai? -

- Lascialo in pace, Naruto. -

- Ma scusa, che ho detto di male, Sakura? Non sembra anche a te che sia un tantino troppo pallido, per uno che vive in mezzo al deserto? -

- Non c’è niente di male nell’essere pallidi. -

- Parli così perché anche tu sembri un morto, Neji! -

- Ha ragione Naruto. -

- Hey Lee, ti ci metti anche tu, adesso? -

 

Stop.

Gaara aveva piantato gli occhi nel suo piatto mezzo pieno. Sembrava caduto in catalessi, e questo poteva significare soltanto una cosa. Escludendo a priori Sakura, quella reazione poteva essere stata scatenata soltanto da uno dei tre che aveva appena parlato.

Naruto, Neji e Lee.

 

Temari sorrise. Questo gioco cominciava a piacerle da morire e chissà, forse anche Shikamaru ci si sarebbe potuto appassionare. A ben vedere, assomigliava ad una partita in cui, pedina dopo pedina, alla fine sarebbero dovuti restare in gioco soltanto i due re.

Un re biondo, un re moro, un re strano. Il cerchio si stringeva, e lei sapeva esattamente come fare, per dare la giusta spintarella alla mossa successiva.

 

*

 

- Beh? Allora? -

Temari scosse la testa, e cercò di sfuggire allo sguardo di rimprovero di Kankuro.

Stupidamente, non aveva fatto per niente i conti con un particolare: il fatto che Gaara potesse essere innamorato/attratto/interessato a qualcuno, non sottintendeva affatto che il suo sentimento fosse ricambiato.

Nessuno, lì, doveva nulla, a Gaara del Deserto, nulla di più di un salutare rispetto fra alleati, di una buona amicizia, magari. E Gaara rischiava così di finire dritto contro un muro di cemento, al suo primo, impacciato tentativo di scoprire cosa significasse avere un cuore.

 

Appena terminata la cena, Temari aveva condotto personalmente, ed orgogliosamente, i suoi ospiti nel salone da ballo più grande del palazzo, quello in cui, fino a non molto tempo prima, si celebravano i matrimoni più importanti, unioni che significavano alleanze e pace.

Lei aveva sperato che potesse essere di buon augurio.

 

Kankuro, da bravo pessimo ospite qual’era, si era subito buttato sul ponch, in compagnia di Naruto, Lee e Choji.

Sakura aveva trascinato Ino in mezzo alla pista, e si era messa a ballare con lei, scherzando rumorosamente. Il tipico atteggiamento di chi vorrebbe con tutto il cuore ricevere un invito. Segnali che con ogni probabilità sarebbero caduti nel vuoto.

Neji stava parlottando sottovoce con Sasuke e Kiba, Shino e Shikamaru avevano fatto comunella davanti ad una delle tre porte finestre che davano sulla terrazza del salone, e a lei non era rimasto che osservare Gaara, rimasto solo, in disparte, come sempre. Sarebbe andata volentieri da lui a fargli compagnia, gli avrebbe persino chiesto scusa per averlo messo in una situazione che lo confondeva e lo imbarazzava, ma a questo punto tanto valeva aspettare, e vedere se si riusciva ad andare in fondo alla faccenda. Proprio non riusciva ad orientarsi in mezzo alla confusione, e per confusione era da intendersi la presenza di anche solo una persona con cui lui non fosse già in stretta confidenza. Non riusciva a conversare, e povero lui, non riusciva nemmeno a fingere indifferenza. In quell’angolino, come se fosse alla costante ricerca di un po’ d’ombra, Gaara sembrava tornato indietro di anni, sembrava il bambino che non era mai stato, quello che cerca la gonna della madre, per aggrapparvicisi e nascondere imbarazzato la testolina.

 

Temari si incamminò pigramente verso il tavolo dei rinfreschi, con due obiettivi: sigillare la bocca a Kankuro prima che si scolasse tutta la riserva di liquori del palazzo, e bere abbastanza gin da convincersi a buttarsi in pista con Sakura e Ino.

Gaara non si sarebbe mai esposto, per nessuna ragione al mondo. Ma forse, con un po’ di fortuna, si sarebbe tradito.

 

*

 

- Hey, Gaara. -

Gaara volse la testa di quel poco che bastava a raggiungere il suo interlocutore con gli occhi.

Rock Lee gli mise sotto il naso un bicchiere mezzo pieno di un liquido color rosso chiaro.

- Non è la prima volta che ti vedo ubriaco. – mormorò monocorde.

- Non sono affatto ubriaco. – si difese Lee. - Dai, assaggia, è buono! -

Gaara si prese qualche istante per osservare il ninja della Foglia, prima di accettare il bicchiere. Lo sorbì tenendolo con una reverenza che non meritava, come se fosse stato sakè, oppure un buon tè, sotto gli occhi attenti di Lee, che non esibiva il suo consueto sorriso scintillante. Sembrava stranamente quieto.

- Allora, ti stai divertendo? -

- No. -

- Già, lo immaginavo. -

Lee abbozzò uno sguardo calcolatore. – Vuoi ballare? –

Succedeva molto raramente che Gaara si sentisse spiazzato. Beh, quella era una delle rare volte.

- No. – rispose atono.

- Perché no? Non ti piace? -

- No. E non so farlo. -

Lee reclinò la testa. – Allora vieni con me. –

- Dove? -

- Qui fuori sulla terrazza. -

 

Gaara non usciva quasi mai su quella terrazza. E dire che era una delle più belle del palazzo, famosa in tutto il villaggio per la splendida vista che si godeva da lì. Esattamente al centro della mezzaluna che costituiva il terrazzo, affacciandosi e guardando dritto davanti a sé, si scorgeva il deserto, oltre le palme e le magnolie del giardino del palazzo. Suna era ben protetta su ogni lato, ma molto spesso il deserto era una fortificazione sufficiente da solo, senza bisogno di ulteriori mura, ed era per questo che il palazzo dava direttamente su dei cancelli presidiati, ma aperti. La linea di marmo lastricato che serpeggiava lungo tutti i giardini, accompagnandoli come una cornice, si affacciava bruscamente sulla sabbia, esattamente come l’erba e gli ultimi cespugli creavano una marcatura netta oltre la quale si estendeva il regno della sabbia.

Sembrava di essere in un luogo fatato e lontano, quel genere di luogo in cui sono ambientate le favole più belle che ci raccontano da bambini.

 

- Non ho ancora avuto l’occasione di congratularmi con te. Già Kazekage, così giovane. -

- Non è stata una mia scelta. Sono stato eletto dal consiglio di Suna -

- Lo so, ma io credo che sia comunque un onore immenso. Avanti, non metterti a fare il modesto. Sei il ninja più forte del villaggio, e chissà quanto ancora potrai migliorare. -

- Migliorerò fino a quando non avrò raggiunto il mio limite. -

- Ammesso che tu ce l’abbia, un limite. -

Gaara cercò di accertarsi che non ci fossero sensi sottintesi, nelle parole di Lee.

- Ti ringrazio. – mormorò senza eccessivo entusiasmo.

Lee gli regalò un sorriso dei suoi. - E’ davvero molto tempo che non ci vediamo. Accidenti, avrei dovuto cercare di venire a trovarti prima. –

- Tu e i tuoi compagni di Konoha siete i benvenuti, qui. – recitò Gaara. Era una vera fortuna che lo pensasse sul serio, perché le sue parole non risuonarono eccessivamente formali.

Lee lo osservò con una strana sfumatura di divertimento negli occhi. Assomigliava un po’ ad un fratello maggiore, che guarda il più piccolo muovere i primi passetti, o sperimentare un nuovo gioco.

– Ti trovo cambiato. –

- Sì. -

Lee si rigirò allegramente verso il parapetto. – C’è davvero una bella luna, stasera. –

- Sì. -

- Qui nel deserto avete una vista privilegiata sul cielo. -

- Sì. -

Lee ridacchiò con discrezione. – Sei sempre il solito chiacchierone, vedo. –

 

Gaara discostò un po’ lo sguardo, infastidito. Non era colpa sua, se non sapeva cosa dire.

 

- Hey, ti va di ballare con me, adesso? -

- Non lo so fare, ti ho detto. -

- Ma qui non ci vedrà nessuno. -

Lee tese le orecchie verso la porta finestra centrale, da cui provenivano i rumori allegri della sala.

– E’ un lento. – mormorò. – Avanti, è facile. Te lo insegno io, fidati di me. –

Gaara corrugò la fronte. – Tu sai ballare? – domandò, sinceramente stupito.

Lee lo guardò in modo quasi scandalizzato, poi sfoderò un sorriso tutto bagliori. – Sono un allievo del maestro Gai! Certo che so ballare! – esclamò gonfiandosi di orgoglio.

 

Gaara non si sentì troppo rassicurato. Ricordava molto bene il maestro di Lee, era una delle persone più strane che avesse mai incontrato in vita sua. E se poteva dirlo lui, significava che quell’uomo era davvero molto, molto strano.

Osservò Lee più attentamente che potè, e constatò che gli faceva venire voglia di sorridere. Ma non di quel genere di sorriso egoista che lo animava durante le battaglie più feroci. Era un sorriso più insolito, un sorriso che gli faceva sentire caldo alla faccia. Era già successo, le ultime volte che lo aveva incontrato. Ed era proprio per quel sorriso che si era tenuto il più lontano possibile da Konoha.

Quel sorriso gli piaceva, ma allo stesso tempo lo faceva sentire tremendamente a disagio.

 

- Forza, dammi le mani. – lo incitò vivacemente Lee. – Ecco, mettile qui sulle spalle, così. Puoi anche farle passare dietro, come preferisci. Ok, ora io metto le mani sui fianchi, e… Hey, niente sabbia, vero? -

Gaara negò fermamente con la testa. Se anche Lee avesse inteso scherzare, lui non lo avrebbe capito comunque.

Non era abituato a scherzare sulla sua sabbia.

- Bene. Adesso non ci resta che cominciare a muoverci. -

Gaara strabuzzò leggermente gli occhi. – E’ un abbraccio, questo. – mormorò, osservando con una certa rigidità il proprio corpo quasi appoggiato a quello di Rock Lee.

- Beh, più o meno. – Lee ghignò sornione. Doveva avere bevuto un po’, perché le guance gli si erano arrossate. – Ma è così che si ballano i lenti. Accidenti, ma non sai proprio nulla? -

- No. – ammise Gaara, atono come sempre.

- Beh, poco male. Allora, dove eravamo rimasti? –

 

Gaara trovò tutto molto strano. Ma non particolarmente difficile. Ballare era l’opposto del combattere. Non ci si muoveva per ostacolare il proprio avversario, ma per assecondarlo e seguirlo. Eppure il significato di fondo, l’armonia intrinseca, erano identiche. Si trattava pur sempre di un microcosmo, di una bolla in cui due persone si rinchiudevano, per affrontarsi nel vero senso della parola, di stare uno davanti all’altro. Qui, però, la discriminante non era che uno dei due si arrendesse o morisse. Ora si trattava solo di dipendere da una musica, dal suo inizio e dalla sua fine, senza doversi occupare di nulla.

Era rilassante, tanto che Gaara osò appoggiare una tempia alla spalla di Lee e starsene in silenzio, senza riflettere, lasciandosi semplicemente andare un pochino, solo un po’.

- Complimenti, hai davvero talento. – lo motteggiò Lee.

Gaara pensò che avesse davvero una bella voce, quando parlava così, vicino al suo orecchio. Rock Lee della Foglia non aveva niente di speciale, niente per cui valesse la pena guardarlo, e per uno che era sempre stato gravato dagli sguardi di tutti, per tutti gli anni della sua vita, questo significava molto.

Una canzone era cambiata, un’altra era cominciata, e Gaara non aveva detto niente. Voleva fidarsi di Lee, e Lee non aveva accennato a fermarsi, o a cambiare qualcosa. Erano quasi fermi, ma Gaara ne sapeva talmente poco, di come si fa a ballare, che non era certo di poterlo far notare a Lee. Non voleva fare brutte figure.

 

- Devo tenere gli occhi aperti o chiusi? -

- Come preferisci, non ha importanza. Chiudili, se te la senti. -

- D’accordo. Allora li chiudo. -

- Ti piace molto chiuderli, adesso che puoi, vero? -

- Come fai a saperlo? -

- Lo immagino. -

- Riesci ad immaginarlo? -

- Beh, ci provo. La tua vita deve essere stata qualcosa di tremendo, fino ad oggi. Credo che io, al tuo posto, avrei preferito morire. -

- Io non ho mai voluto davvero morire. -

- Lo so. -

- Credi che sia sbagliato? -

- No, certo che no. Tu devi seguire sempre ciò che ti dice il tuo cuore, e se il tuo cuore non voleva morire, allora è giusto così. E poi, se avessi scelto diversamente, adesso non potrei averti qui. -

- E questo è importante? -

 

Non avevano mai cambiato nulla dei loro pochi movimenti, durante il loro dialogo a mezza voce. La stessa blanda forza nello stringersi, lo stesso incavo comodo per il mento, la stessa sequenza semplice di passi.

 

- E’ molto importante. -

 

Qualcuno doveva aver spento la musica. Lee aguzzò la vista, da sopra la spalla di Gaara, per cercare di vederci chiaro. Non voleva che finisse tutto così, all’improvviso, ma qualcuno, dentro il salone, sembrava essere di tutt’altro avviso. Scorse Sakura che gesticolava furiosamente, e poi l’ombra tutta punte di Naruto fare capolino, e incassare un paio di pugni. Sasuke venne a trascinarlo via, arrivò anche Ino, sembrava una faccenda dannatamente lunga.

Se non fosse stato per una folata di vento impressionante, che spazzò via i contendenti dal centro della sala.

Gaara si tese.

Si sentì distintamente il tonfo di qualche corpo che finiva schiantato contro la solida parete di fondo della sala, e pochi istanti dopo la musica fu ripristinata.

E Gaara si rilassò di nuovo.

 

- E’ un po’ di tempo che balliamo. – constatò Gaara.

- Hai ragione. Ormai anche questa canzone è quasi finita. -

-E quindi adesso? -

- Beh, adesso… - Lee si mordicchiò l’interno della guancia. – Sai, a questo punto a molti piace concludere con un bacio. -

- Davvero? -

- Nnh Nnh. Però lo si fa soltanto se la persona con cui si ha ballato è speciale. -

Gaara allungò lo sguardo verso l’interno della sala. – Loro non lo stanno facendo. – accusò, indicando qualcosa con il mento.

Lee adocchiò Kiba e Choji che improvvisavano una sorta di valzer sotto lo sguardo compassato di Shino, e quello rassegnato di Shikamaru, e ridacchiò.

- Ma loro ballano per scherzo, non sono speciali. – spiegò.

- Io invece lo sono? -

- Per me lo sei. Molto. -

- Non voglio più essere speciale. -

- Ma per me lo sei in modo diverso. -

 

Gaara ci pensò su. Arrancava, in questo genere di cose. Non ne sapeva nulla, e non era certo di volerne sapere di più, però non ne sapeva nulla nemmeno di ballo, eppure gli era piaciuto ballare con Lee. Lee era un buon insegnante, e forse imparare qualcosa di più da lui, su come si vive, non sarebbe stato male.

 

Il primo bacio che Lee gli diede, glielo posò sulla fronte, e Gaara ebbe la netta impressione che lo avesse fatto per permettergli di abituarsi. Gliene fu grato, perché era davvero moltissimo tempo che non provava il contatto di una bocca.

Il secondo fu un po’ più vicino, sulla guancia destra. Fu più piacevole.

Il terzo venne abbastanza spontaneo, sulle labbra. E la sensazione che se ne ricavò dipendeva direttamente dal suo stato d’animo. Gaara sentì che se fosse stato più nervoso, arrabbiato, o semplicemente teso, sarebbe stato nauseante e vischioso. Ma non aveva motivo di sentirsi così, con lui. Gaara si fidava di ciò che provava, perché aveva sempre vissuto le proprie emozioni senza intermediari, e senza alcun limite. Se nell’abbraccio di Lee – perché sì, ne era sicuro, adesso si trattava proprio di un abbraccio – si sentiva tranquillo, era perché era giusto così.

Il respiro di Lee era come un carezza morbida, che si insinuava appena sotto il suo occhio, facendogli venire voglia di tenerlo chiuso. Non sapeva da quanto tempo ormai erano così, immobili, senza fare nient’altro che sfiorarsi le labbra con prudenza. Per quanto lo riguardava, non era ancora stanco.

Lee si allontanò pian piano, e con la mano che aveva tenuto sotto il suo mento fino a quel momento, gli sfiorò la guancia.

- Sei sempre così serio. – mormorò. – Non me lo faresti, un sorriso? -

Gaara avrebbe voluto farlo, ma qualcosa lo convinse che probabilmente non ne sarebbe sortito niente di più che uno dei suoi ghigni tremendi.

Probabilmente anche Lee lo capì, perché gli circondò i fianchi e gli prese una mano. E non aggiunse più niente.

Aveva ragione lui. C’era davvero una bella luna, quella sera, altissima e fiera. E adesso che non ne aveva più paura, Gaara se la godeva quanto più possibile, perché non c’erano più demoni né ego mostruosi, né lotte dentro di lui a distrarlo.

 

- Potrei stare qui per una notte intera. – sussurrò Lee.

- Perché? Non dormi, tu? -

- Sì che dormo. Però non mi dispiacerebbe guardare le stelle insieme a te. -

 

Lee spinse Gaara in avanti di un passo, e appoggiò le mani con cui lo cingeva al parapetto. Gaara le osservò con la curiosità di chi si trova davanti ad un gesto sconosciuto, e fatica ad interpretarlo. Lentamente, maldestramente, ci appoggiò sopra le sue, e provò a saggiare la stretta delle mani di Lee, per assicurarsi di aver fatto una mossa giusta.

Lee intrecciò tutte le loro dita, una ad una, e quando ebbe finito si sporse oltre la spalla di Gaara.

Sorrideva.

 

*

 

Eh sì, ci sono cose che un estraneo non nota, specialmente se si tratta di Gaara. Occhi che riflettono, per una volta, la luce del cielo, la pelle del volto rilassata, un’espressione inedita, e le gambe molli.

Ma una sorella se ne accorge sempre.

 

Temari strappò il bicchiere di ponch dalle mani di Kankuro, e lo sostituì con un ghigno vittorioso.

- Puoi rilassarti, fratellino. – insinuò. – Pare proprio che non sia Uzumaki. –

 

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Eccoci con una delle coppie più “canon” XD dello yaoi. Anche la prossima, con ogni probabilità, lo sarà, ma non c’è da preoccuparsi, le mie sperimentazioni continuano…

 

 

 

Kagchan: si è notata la mia passione per le coppie strane, eh?

 

Chiara: sono d’accordo, Kankuro e Kiba hanno un sacco di sfumature che si possono trattare!

 

Marchesa: allora scommetto che questa e le prossime fic ti piaceranno, si va decisamente sui classici! E su Gaara sto lavorando molto…

 

Artemisia: felicissima di riuscire a dare un minimo di originalità ai personaggi, tanto Kishimoto basta e avanza per la storia!

 

Little: ti ho scritto apposta, attendo una tua risposta!

 

Feda: assolutamente, ti voglio viva e vegeta, invece! Hihihi, in questo fandom con le coppie ci si sbizzarrisce, non so più da che parte voltarmi!

 

Aiame: ehm, gran bella visione sì, concordo in pieno! ^_^

Grazie anche per la recensione su Neji/Sasuke, e dire che mi prendono per pazza, quando predico che quei due sono perfetti! Kakashi/Sasuke non è affatto male come idea…Mumble…

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Capitolo 7
*** Sleepless Night(Sasuke/Naruto) ***


YOUR HEART ON ME (Sasuke/Naruto)

Sleepless night (Sasuke/Naruto)

 

 

 

Allora è vero che non ti fermi proprio mai.

Nemmeno quando dormi.

Qualche goccia d’acqua sulla finestra. Credo che piova almeno da una buona mezz’ora, ormai, ma tanto tu non la sentirai nemmeno, occupato come sei a rivoltarti nel tuo letto come un pesce sulla brace.

E dire che mi sei persino simpatico, in questo momento. Voglio dire, d’accordo, non mi permetti di chiudere occhio, e probabilmente entro l’alba ti avrò strozzato per esasperazione, ma al momento mi vai più che bene così. Forse sono io ad essere troppo abituato al silenzio della mia casa, e dividere una stanza con qualcuno non può farmi che bene, in questo senso. Immagino di avere bisogno di sentire un po’ di vita, vicino a me, qualche volta.

Anche se quella vita sei tu.

 

- Naruto. –

- Mmm. –

- Hey, Naruto. –

- Mmm. Mmmh. –

- Smettila di agitarti. –

- Maestro Kakashi… -

 

Ok, stai dormendo, e non ci sarà verso di svegliarti senza usare le maniere forti. Ma io domani voglio riuscire a reggermi in piedi per la missione, e se spero che tu ti metta a dormire tranquillo, posso anche vendere la mia anima all’inferno. Se soltanto avessi un compagno meno assurdo di te, potrei occuparmi dei miei allenamenti, invece di doverti sempre fare da balia. Dannazione, con il tuo assurdo modo di essere riesci a far sentire uno stupido me.

 

- Mmmh, Ramen… -

- Chiudi il becco. -

- Nnnnh. -

- Naruto?!?! -

- Naaaaa, dannato girino. -

 

E va bene, te la sei voluta tu.

 

Hop.

 

Ok, a noi due. Se voglio che tu la smetta di essere un supplizio non mi rimane che escogitare un modo per zittirti.

Potrei provare a girarti a pancia in giù. Se non mi sbaglio, questo trucchetto con i bambini funziona, quindi anche tu dovresti finirla di dimenarti come un pazzo. Sei proprio un bamboccio, persino quando dormi.

Se solo rimanessi fermo, con queste dannate manacce.

…Ops.

 

- Uhm, cosa… Sa… Sasuke. –

- … -

- Sasu… SASUKE?!?!? –

- Ahio, dannato, ma che cosa fai? –

- Io?!? Si può sapere perché diamine sei sul mio letto? –

- Perché fai un baccano infernale, ecco perché. –

- Tutte scuse. –

- Naruto, che tu ci creda o no, non mi serve un orsacchiotto per dormire. Mi basta il silenzio. E anzi, visto che ci sei pensaci da solo a girarti, così mi risparmi la fatica. –

- Non ci penso nemmeno! Ho sempre dormito a pancia in su, e continuerò a farlo. –

- E allora sarò costretto ad ucciderti. –

- Ah sì? Vuoi una sfida, eh? –

 

Ma perché non mi mordo la lingua, qualche volta?

 

- Voglio dormire, chiaro? –

- Col cavolo. Sei salito sul mio letto per attentare alla mia vita e rubarmi il titolo di Hokage. –

- Naruto, guarda che tu non sei… -

 

Bah. Ma cosa glielo dico a fare. Non c’è speranza che quella testa quadra metta insieme abbastanza buon senso per starmi a sentire. Ancora mi chiedo come diamine abbia fatto a diventare un ninja, immaturo e impulsivo com’è.

 

E adesso che avrà da guardare alle mie spalle?

 

- Uhm? Piove. –

 

Ah, te ne sei accorto. Strano.

Strano davvero, la pioggia mi sembra qualcosa che non dovrebbe mai toccare uno come te.

Chissà se riuscirebbe a spegnerti.

 

- Beh, io me ne torno a dormire. Fammi il favore di smetterla di agitarti e di russare. -

- Vai, vai, tanto ormai io sono sveglio! -

 

Le coperte si sono completamente raffreddate. Dovrò scaldarmi di nuovo, maledizione.

Tzk, sei sveglio davvero, Naruto. Come accidenti fai a trovare la voglia di saltellare per la stanza a quest’ora della notte? D’accordo, tanto finchè tu te ne starai buono a guardare l’acqua fuori dalla finestra, io avrò speranza di dormire un po’.

Buona notte, Naruto, accidenti a te.

 

Sembra che la pioggia sta cadendo sempre più forte. E tu, che fai? Sei ancora lì impalato? Ti stai divertendo a guardarla?

Beh, non lo so, non ti vedo. Ti sto dando le spalle, e oltretutto ho gli occhi chiusi. E non ho alcuna intenzione di aprirli. Di sicuro, non per venirti a cercare. Sarebbe inutile, cosa dovrei farmene, della tua faccia? Magari tutta segnata dalle ombre della finestra, figuriamoci; servirebbe soltanto a stancarmi ancora di più.

Bah, guardati la tua pioggia, scemo, e lasciami dormire. Lasciami dormire in santa pace, e non entrarmi nella testa con le tue solite sghignazzate chiassose.

Sei proprio un animaletto, lo sai? Chissà se qualcuno te l’ha mai detto. Un animale di quelli piccoli e fastidiosi, come il cagnetto di Kiba. Però meno utile. Potresti essere un pappagallo rumorosissimo, ad esempio.

E tutto colorato, per giunta.

Cos…?

 

- Naruto? –

- … Non dormivi? –

- Sembra di no. Che cosa stai facendo? -

- Beh, mi sono seduto qui. -

- Questo lo vedo. Perché sei venuto nel mio letto? –

 

Non mi piace, quando scrolli le spalle. Se non te ne fossi accorto, non è una cosa normale, che tu sia venuto a buttarti qui come se fossi io l’intruso.

 

- Così. -

- Che diamine significa “così”? -

- E va bene, non scaldarti, me ne vado, me ne vado. -

 

C’è una macchia di calore sulle coperte. Le stai scaldando tu, con il tuo corpo, proprio dove mi serve di più. Dio, non ho ricordi dell’ultima volta che ho sentito il calore di qualcun altro sulle mie coperte.

Che cos’è quel tono deluso? Insomma, si può sapere che cosa ti prende? E che cosa prende a me, e che cosa ci fai ancora qui, e perché non ti ho ancora buttato giù dal letto? E perché, perché io…?

 

- Hey, Naruto. –

- Mh? –

- Puoi restare, se vuoi. –

- Dici davvero? -

 

Dico davvero. Sì.

 

- Maledizione, sbrigati a venire sotto, o farai raffreddare di nuovo le coperte. –

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Come sempre un grazie a tutti!

 

Artemisia: beh, missione compiuta, il mio scopo era proprio quello di giocare sul climax. E a proposito, anche un’altra missione è quasi compiuta! ^_-

 

Chiara: mille grazie, spero che anche le prossime ti piacciano!

 

Feda: ma insomma, troppo, troppo onore!!!

 

Little Star: addirittura simpatico Lee? Tu pensa che anche io ce la sto mettendo tutta per farmelo piacere, dai, in fondo è un soggetto! XD

 

Marchesa: Temari è un mito di sorella! XD E Gaara è una fonte di ispirazione continua, fra l’altro sto lavorando ad un paio di storie su di lui, vedremo un po’!

 

Aku: grazie infinite, anche e soprattutto per l’apprezzamento stilistico, che alla fine è ciò che più conta per me.

 

Melanto: ma certo che tornerò sui ragazzi del Team 8, senza alcun dubbio! Qualcosina su Hinata, anche se non la adoro, sbucherà di certo, e invece per la cronaca, una Shino/Kiba è già in piena lavorazione… Anche io adoro Shino in modo incondizionato!

 

Lemonade: sono molto contenta che ti sia piaciuta, avevo un po’ paura che la continua contrapposizione delle due “circostanze” potesse creare confusione… Grazie anche per gli altri cap, lo so che Shino/Shika è un po’ inedita, però io li ho visti come pane e marmellata! Guarda, in realtà non è che abbia una logica precisa nell’accoppiare i personaggi, mi lascio ispirare da un’idea, e cerco di creare una situazione che sia plausibile. Più che altro, ammetto di essere in fase di sperimentazione, le coppie che funzionano di più vorrei poi usarle per delle long. Per esempio, al momento sono su una Sasuke/Neji, mentre una Gaara/Neji è mezza scritta, ma è una shot, presto la vedrai. Se hai qualche idea non esitare a proporla, eventualmente.

 

Dark: amour!!! Ma sai che più o meno anche io mi sono ritrovata a fare da cronista per questa fic? Era come se quei due li avessi avuti davanti…

 

Kagchan: beh, in realtà non si sa! XD la situazione della cena è vista attraverso gli occhi di Temari, che sospetta che fra Sasuke e Naruto possa esserci qualcosa. Ma è solo una sua impressione, e noi ne sappiamo tanto quanto lei. Per Kankuro invece no, il suo è genuino terrore di ritrovarsi quel pazzo per casa!

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Capitolo 8
*** Infatuation (Kakashi/Sakura) ***


Infatuation (Kakashi/Sakura) (per Artemisia)

NOTA: Ci tengo a sottolineare che, da autrice slasher convinta, è stata una vera faticaccia scrivere questa shot, che oltretutto tratta una coppia molto particolare, a cui sinceramente non avevo mai pensato.

E’ una dedica speciale, quindi spero solo che sia all’altezza.

Per Artemisia, con un grazie di cuore per il tuo sostegno!

 

 

 

Infatuation (Kakashi/Sakura)

 

 

 

- Maestro Kakashi! -

Kakashi chiuse precipitosamente il suo prezioso libro, lo nascose come un fulmine dietro la schiena, e preparò un sorrisone allegro da propinare alla sua allieva.

- Sakura! –

 

Sakura sorrise indulgentemente, e finse di non essersi accorta di nulla. Qualche stupido, Naruto con ogni probabilità, doveva essere riuscito a far entrare il volumetto in ospedale, in barba a tutte le regole, e al buon senso soprattutto.

 

Come al solito era lei ad andarlo a trovare. Lei, Sakura Haruno, la numero tre, quella che occupava il gradino più basso del podio. L’ultima, siamo sinceri. Naruto e Sasuke lo facevano molto raramente, Sasuke in special modo, mentre lei si ostinava ad andare in ospedale ogni giorno, verso l’ora del tramonto, salutare l’infermiera dell’accettazione e correre con sicurezza verso quella porta bianca.

Dopo dieci giorni, le era diventata familiare.

 

- Io sono Sakura Haruno. C’è una cosa che mi piace… anzi, una persona… – 

- Ahem… poi non so se posso dirvi il mio sogno nel cassetto…No! Non ce la faccio! -

 

Com’era cambiata, da allora. Eppure era passato così poco tempo che sembrava soltanto ieri.

C’era da supporre che diventare genin significasse anche cambiare in fretta e furia, imparare a guardarsi intorno con occhi meno incantati, e chissà, prendere un po’ in giro la bambina che si era stati.

Da quando era una ninja, da quando aveva capito, aveva accettato, aveva davvero fatto suo il concetto di esserlo, Sakura aveva imparato ad usare sempre di meno i tempi futuri, e sempre più quelli presenti. E passati.

Anche il maestro Kakashi lo faceva. Lo aveva sempre fatto, in effetti, ma lei non se n’era mai accorta, non prima di quel momento.

Poi c’era stata quella missione tremenda, quella missione segreta, di jonin, da cui Kakashi era tornato a pezzi, e qualcos’altro era cambiato, ancora. Lei aveva avuto paura come mai le era capitato prima.

Kakashi le aveva parlato al futuro, in quell’occasione, le aveva detto di essere forte, di continuare a crescere, di prendersi cura dei suoi compagni zucconi, di inculcare in loro quel po’ di responsabilità che lei prodigava tanto generosamente, ma mentre lui parlava come un maestro, Sakura si sentiva schiacciata dentro dal terrore di perdere l’uomo.

 

Kakashi.

 

Fra loro i rapporti non erano mai stati particolarmente stretti, e non era mistero per nessuno che Kakashi preferisse seguire i progressi imprevedibili e straordinari di Naruto, o cercare di arginare il lento collasso di Sasuke, piuttosto che dedicarsi a Sakura. Lei era troppo normale, troppo canonica, troppo autosufficiente e responsabile per destare interesse, o anche solo preoccupazione. Le era capitato persino di arrabbiarsi, per questo, e di odiare con tutte le sue forze. Che erano sempre e comunque troppo poche.

 

Però adesso le cose erano diverse.

Kakashi, adesso, le appariva fragile.

 

- Dovresti cercare di riposare di più, maestro. – lo redarguì come una piccola mamma.

Kakashi fece spallucce, ed esibì il suo sorriso più innocente. Sakura rispose obbedientemente al sorriso, zittendo la voglia di allungare una mano e toccare quella bocca. Toccare il volto gentile del suo maestro.

 

Gesti di tenerezza, fra ninja, non dovrebbero mai essercene. Era la regola chissà-quale-numero, quella che redarguiva contro il mostrare i propri affetti per non rendersi vulnerabili al nemico. Sakura fece scorrere gli occhi chiari sulla stanza di ospedale: nessun nemico in vista.

 

- Come ti senti oggi? –

- Molto meglio. – Kakashi si agitò un poco sotto le coperte, e stiracchiò una gamba, che fece capolino da sotto un lembo del lenzuolo bianco.

 

Sakura si concentrò su quella gamba con tutta la sua attenzione, cercando di dissimulare quando più possibile: era davvero molto, molto diversa dalle gambe di Naruto, o di Sasuke. La gamba di Kakashi era più lunga e più definita, più muscolosa, e anche più villosa.

Erano così che diventavano le gambe degli uomini, quando crescevano?

Sakura era abbastanza sicura che lei non sarebbe più cresciuta di molto, vista la sua età, ma Naruto e Sasuke, e molti dei ragazzi che conosceva, sarebbero invece diventati uomini sotto al suo naso, e chissà se forse, allora, anche le loro gambe sarebbero diventate così.

Sakura sperò di sì, perché quella gamba era davvero molto, molto bella.

 

- Qualcosa non va, Sakura? –

Sakura si tinse del colore rosso vivo dell’imbarazzo. – Oh no. No, niente, maestro Kakashi! –

 

Kakashi annuì distrattamente, e si ficcò le mani dietro la nuca.

- Hey, Sakura, non è che mi faresti un favore? –

- Ma certo, maestro. –

 

Kakashi socchiuse un po’ il suo occhio, guardingo, e le fece segno di avvicinarsi.

 

Sakura rabbrividì come la peggiore delle stupide, quando lui cominciò a parlare.

 

- Ehm, senti, andresti a cercare un buon bicchierino di sakè per il tuo maestro? –

- Sei ancora convalescente, non dovresti pensare al sakè. –

- Uffa. Naruto lo farebbe. – si risentì Kakashi.

Sakura si sentiva debole, completamente disarmata, di fronte allo sguardo scanzonato e ironico di Kakashi. E no, non era una bella sensazione, proprio per niente. Lo sarebbe stata, forse, se fosse esistita anche solo la possibilità che Kakashi… che lui la…

Ma così non era bello per niente.

 

- Certo che no, Naruto si intascherebbe i tuoi soldi e se ne andrebbe al chiosco di ramen. –

- Uhmpf, hai ragione. –

Kakashi si lasciò scivolare indietro e rise.

 

E Sakura gioì, dolcemente, come una povera stupida bambina, per essere riuscita a far ridere il suo maestro.

Era questa l’unica cosa che sapeva fare, per cercare un qualche punto di contatto con lui. Poteva, anzi doveva, puntare tutto sulla sua intelligenza, sulla sua capacità di analisi, sul suo buon senso pratico. L’unica cosa per cui Kakashi avrebbe mai potuto ricordarla, era questa.

 

Che poi, pensava mai a lei, il maestro Kakashi?

Pensava a lei, passati i dieci o quindici minuti della sua visita?

Lei avrebbe voluto che lui lo facesse.

Che lui la pensasse.

 

- Sakura. –

 

Kakashi aveva il braccio destro avvolto da una spessa bendatura bianca. Lo sollevò quanto poteva verso di lei, con aria seriosa. – Stai continuando ad allenarti, anche senza di me, vero? –

- Naturalmente, maestro. –

- Bene. E Naruto e Sasuke? –

- Beh, perdono metà del loro tempo ad azzuffarsi, ma se lo si considera come un allenamento… -

 

Kakashi alzò gli occhi al soffitto per qualche secondo. I suoi occhi pazienti e chiari erano tristi e puri come l’acqua, e la sua pelle era lucida di stanchezza, e sfiorata dagli anni, dalla fatica, da una forza non sempre facile. Persino lo sharingan aveva una luce più tenue, come se avesse cercato di spegnarsi.

 

Sakura era sempre stata una ragazza sveglia. Una a cui serve poco, per afferrare le situazioni.

Nella fattispecie, quel gesto quasi senza importanza la illuminò circa due cose che invece di importanza ne avevano da vendere: la prima, era che il maestro Kakashi era l’uomo più bello che lei potesse dire di conoscere. E per uomo, intendeva proprio uomo, non di certo Sasuke o gli altri. E questo spiegava alcune cose circa i brividi di prima.

La seconda, era che se voleva sperare che lui la vedesse, che almeno la vedesse, avrebbe dovuto impegnare fino all’ultima goccia di sangue che aveva in corpo per diventare di più, molto di più di ciò che era adesso.

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Ta dam! Oddio, spero veramente che ti piaccia, Artemisia, ma davvero davvero davvero.

 

 

Chiara: interpretazione giustissima, e questo almeno mi solleva, vuol dire che mi sono espressa bene! Qualche fic con il POV di Naruto ci sarà senz’altro più avanti, non ti preoccupare!

 

Feda: evviva, perfettamente IC, non sai quanto questo mi conforti enormemente! Sono assolutamente angosciata dall’idea di andare OOC senza volerlo… Grazie grazie grazie!!! Il mio nick in effetti è legato alla figura della sfortunata figlia di Dario III, complimenti per essertene accorta! ^^

 

Kagchan: figurati, per qualunque dubbio chiedi pure!

 

Lupus: Ma che sorpresa, sempre felice di trovarti, anche in occasione yaoi! E comunque visto, anche questa era Het, una vera rarità per me! Che cosa dire, se non grazie, in modo sentito e commosso. Scrivere per me è sempre e comunque emozione, quindi riuscire a trasmetterle anche agli altri è qualcosa che per me non ha eguali.

 

Little star: beh, il fatto che tu non ami molto i personaggi è ancora più prezioso, e mi rende davvero contenta! Ah, mia consigliera, come farei senza di te! (si ributta subito a riscrivere tu sai cosa)

 

Rael: hihihihi, noto una certa veemenza nel sostenere le Shika/Tema. Del resto sono fantastici insieme!

 

Nadeshiko: grazie infinite! Mi rende felicissima trovare delle nuove lettrici. Puoi contarci che scriverò ancora su di loro, e come si fa a non farlo! ^_^

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Capitolo 9
*** Sette Porte (Lee/Neji) ***


SETTE PORTE (Lee/Neji)

SETTE PORTE (Lee/Neji)

 

 

 

Non erano rimasti che loro due, in quella viuzza stretta e sterrata, quasi abbandonata. Nemmeno le loro ombre, da quando il sole era finito per essere annerito da nuvolacce pesanti e fumose.

 

Tutt’intorno, però, c’era una confusione di passi, di impronte, di solchi scavati da corpi, piedi e mani. Segni di una battaglia leggibili anche ora che la sabbia si era tramutata in fango, come incisa nel dolore della polvere.

Sono il genere di segni che più difficilmente si riesce ad esorcizzare, persino dalla strada. E dall’aria. L’odore atroce dell’adrenalina, e della violenza che infierisce furiosa, rimangono sospesi all’altezza della testa, posandosi sul volto come cipria, cancellando segni e colori della pelle con arroganza vampiresca e lasciandoti nel cuore soltanto una gelida commistione di stanchezza e paura.

 

- Lee… -

 

Il rumore della pioggia copriva quello dei respiri ansimanti, facendone una sorta di rimestio confuso nel vento.

Neji si inginocchiò con prudenza vicino al corpo del compagno, riverso in modo composto, supino.

 

- Perché lo hai fatto. –

- Quel… quel tipo… voleva ucciderti. –

- Sei stato uno stupido, mi sarei difeso. –

 

Lee socchiuse l’occhio destro, e la palpebra gli tremò, quando la pelle si tese su un brutto taglio aperto e sanguinante appena sopra l’arco orbitale.

 

Aveva aperto le sette porte, tutte insieme.

 

Non ci era mai riuscito prima di allora, nemmeno allenandosi con tutte le sue forze. Ma forse non aveva mai avuto una ragione sufficiente a scatenare la potenza necessaria, prima di quella volta.

Il colore nero appannato della sua pupilla dilatata strideva sgraziatamente con quello delle sue ciglia lucide di acqua, dando l’impressione di una macchina in agonia, di una candela che lentamente va spegnendosi.

 

- No. Non… ci saresti… riuscito. –

 

Neji digrignò i denti con tutta la sua forza, sentendoli scricchiolare.

Avrebbe voluto colpire Lee, avrebbe voluto ricoprire di pugni la sua faccia fino a non avere più fiato. Non ce l’avrebbe mai fatta da solo, era così, maledizione, ma non voleva che Lee gli mettesse davanti agli occhi la verità dei fatti in quel modo, non in un momento del genere.

 

- Non dovevi aprire le sette porte, sapevi di non esserne in grado. –

- Forse. Ma era… per te. –

- Non ha importanza! –

- Dovevo farlo… per te. –

- Maledizione a te, che bisogno avevi di dimostrarmi la tua forza proprio ora! –

- No. Non per… questo. –

 

Lee tossì forte, tanto che tutto il suo petto rimbombò seccamente, come una caverna vuota.

Quando aveva raggiunto Neji in quella stradina isolata, lo aveva trovato in balia di un killer spaventosamente potente, e senza coprifronte, e aveva aperto tutte e sette le porte senza pensarci nemmeno per un secondo; si era lanciato contro di lui con una furia inaudita, non sua, nemmeno lontanamente umana. Le sue ossa si erano spezzate scricchiolando ad ogni colpo, riducendo a frantumi e schegge quelle del suo avversario, e Neji per qualche istante non era riuscito a pensare a niente, spettatore attonito di uno spettacolo dissonante, soffocato dal terrore che provava verso il suo stesso compagno, verso una persona che conosceva da anni, che credeva di aver visto in ogni sfumatura, e che invece aveva combattuto come la tigre inferocita che non era davanti ai suoi occhi, senza dagli la possibilità di capire il perché.

 

E adesso lo stava vedendo scivolare via. Inorridito, sentiva il peso del suo busto diventare sempre maggiore, sempre più grave, mentre i muscoli di Lee cedevano uno dopo l’altro. Gli strinse forte una manica, poco sopra al gomito, perché davvero non sapeva che cosa fare.

 

- Per una… volta, una sola… - ricominciò Lee scandendo le parole a fatica. – Tu avevi bisogno… di me. Neji. Io… -

- Basta. –

Neji serrò i pugni tanto forte da far scolorire le dita. Sarebbe rimasto in ginocchio nel fango viscido di quella stradina maledetta a prendersi la pioggia per tutto il tempo del mondo, se questo fosse servito a salvare Lee. Si sarebbe sdebitato in ogni modo, avrebbe dato qualunque cosa, davvero qualunque cosa, qualsiasi dannata cosa, ma non era disposto ad ascoltarlo, quello no.

– Basta, stai zitto. Tu non hai mai capito niente di come si comporta un ninja. –

- Forse no, Neji. Sono sempre stato… un passo dietro a… a te. –

- Avevi qualcosa in cui credere! Che ne è del tuo stupido obiettivo! –

 

Gli occhi di Lee erano ancora straordinariamente espressivi, nonostante tutto. Neji vi lesse una malinconia che gli afferrò lo stomaco tanto forte da farlo gemere. Si chiese senza sperare in una risposta se fossero quelli, gli occhi di chi sacrifica ogni cosa per qualcun altro. Lui, che aveva fatto del dovere di sacrificarsi il motivo della sua crociata contro tutti, ora non capiva, non riusciva a capire, a vedere, e aveva paura, paura della forza immensa che il gesto di Lee sprigionava. Si era sacrificato, e lo aveva fatto di sua spontanea volontà.

Lo aveva fatto per lui.

 

- Almeno… ho il tuo ri… rispetto, Neji? –

 

Neji sbarrò gli occhi, incredulo.

- Lee… -

 

- Ho almeno… il tuo rispetto? Almeno… quello? –

- Non puoi parlare sul serio, non ti credo. Non può importarti davvero del mio rispetto in un momento come questo. –

- Mi importa di più… che tu stia… bene. Però… ho vissuto gli ultimi… due anni… cercando di… di meritarmi la… tua stima, e… Neji… io… -

- Tu sei pazzo! Dovresti vivere solo per te stesso, maledizione, senza pensare al mio rispetto! –

- Neji… non riuscirò a… respirare ancora… per molto. Ti… ti prego. Rispondimi. –

 

Neji si lasciò scivolare senza forze sul petto ansimante di Lee.

Mai, non avrebbe mai e poi mai creduto di arrivare a piangere per qualcuno.

 

- Sì. – si sforzò di dire senza singhiozzare. – Sì che ce l’hai. –

- Bene. – Lee espirò piano. – Adesso sono… felice. –

- Non puoi morire per il mio rispetto, Lee. Non puoi. –

- No. Per salvarti. –

- Ma perché?!?! –

Lee riuscì a posare una mano sulla spalla di Neji. Tremava tutta, ed era fredda, più fredda della pioggia che batteva su di loro senza placarsi. – Questo non… non ha… importanza. –

- Ne ha. -

Lee formò un sorriso paziente. – Io voglio che… che tu viva. –

- Sei solo un idiota. -

- Lo so. Ti prego… sorridi, per… per questo. Tu non… sorridi mai, Neji. -

 

Più Lee parlava, più lui lo detestava. Era uno stupido, uno stupido, un idealista che moriva per niente, che moriva per lui, che moriva così, senza nemmeno un po’ di gloria, e guardalo, dannazione, non stava nemmeno cercando di risparmiare un po’ di aria, perché parlava; radunava le sue ultime energie con tanta fatica, per poi buttarle via in parole spese per lui, in parole che non gli aveva mai sentito dire, e che gli facevano male, perché no, lui non voleva diventare il depositario del suo testamento.

 

- Tu sei… io… –

- Neji, abbi cu… cura di te. E dì al maestro… Gai che… che non gli ho… disobbedito. Perché l’ho… fatto per te. –

- Non ti permetterò di morire così. – mormorò Neji con un filo di voce.

- No. Tu cerca so… solo… di diventare… sempre più forte. Solo questo. –

 

Rock Lee aveva aperto tutte e sette le porte.

 

Lo aveva fatto perché altrimenti per Neji non ci sarebbe stato scampo. Certe persone fanno cose assurde, le fanno e basta, e la cosa davvero pazzesca è che non se ne pentono, che non te lo rinfacciano. L’assenza del loro rancore, però, costringe te a portarlo a loro.

 

- Se morirai, mi legherai per sempre a te. –

 

Lee sorrise con le poche forze che gli restavano, in modo enigmatico e calmo. – No. Non voglio… essere… un’altra prigione… per te. Sii libero, Neji… almeno… da me. –

 

Neji era senza parole. Il peso delle liti, delle tante missioni insieme, delle sfide che lui, che Lee, si ostinava a perdere contro di lui, ora gli schiacciavano il torace strozzandolo e costringendolo ad ascoltare quell’urlo atroce che reclamava, dentro di lui, di non volerlo perdere.

Dopo tutto quello che avevano passato insieme, in quegli anni, Neji si era lasciato andare, per una volta, alla confortante certezza di avere qualcuno, di avere una persona amica che ci sarebbe sempre e comunque stata, con tutti i suoi difetti e i suoi perché. Ma non era vero niente, perché Lee se ne stava andando, stava svanendo sotto i suoi occhi, via nella nebbiolina piovosa, e non sarebbe rimasto nulla dei sorrisi nascosti, dei tafferugli, di quell’improvviso ritrovarsi a pensare a lui nel cuore della notte, senza uno scopo preciso.

Il rendersi conto solo adesso che di Lee aveva imparato a riconoscere persino il modo di respirare quando dormiva gli fece esplodere un altro singhiozzo.

 

- Ti porto in ospedale. – mormorò.

 

Sentendo le sue parole risuonare già inutili.

 

*          *          *

 

Neji amava il silenzio.

Ma il silenzio dell’attesa era il più meritevole di essere catalogato come il peggiore. Quello era forse l’unico che non riusciva a sopportare, assieme a quello che accompagnava la morte, e il fatto che molto spesso questi due silenzi fossero fratelli non era che uno dei tanti volti beffardi della vita.

 

- Vuoi che ti prenda qualcosa? Un po’ d’acqua, qualcosa da mangiare? -

Neji, ancora più del silenzio dell’attesa, non sopportava chi quel silenzio lo spezzava.

- Dovresti fare due passi, distrarti un momento. Ti prego, Neji. -

 

Neji rifilò uno sguardo amaro a Tenten, e si abbracciò le ginocchia. – Io lo odio. – disse soltanto.

Tenten lo guardò in modo fastidiosamente simile al compassionevole. – Dici così perché sei ancora sconvolto. Perché non vieni con me a prendere una boccata d’aria? Ti farà bene, vedrai. –

- No. – sibilò lui con gli occhi bassi. – Lo odio, con tutto me stesso. –

- No, Neji. –

- Sì invece. Lo odio, lo odio per quello che ha fatto, e per come lo ha fatto. –

Tenten si tormentò le dita. Era insolitamente pallida anche lei, e scossa almeno quanto lui, ma Neji non se ne sarebbe preoccupato, chiuso com’era nel suo tormento.

- Cerca di trovare un po’ di pace. Così non fai altro che farti del male con le tue stesse mani. -

Neji la fulminò con risentimento, zittendo ogni suo proposito di insistere. Certe volte a Tenten veniva da odiarlo, per il suo temperamento ottuso, per il suo ostinarsi a non lasciarsi aiutare. Sapeva benissimo come dentro di lui stesse cercando di rifiutare il suo aiuto, esattamente come aveva cercato di rifiutare quello di Lee. La prospettiva di sentirsi in debito doveva terrorizzarlo in modo inimmaginabile.

– Si è sacrificato per proteggerti. –

Neji si morse il labbro inferiore fino a ferirsi. – Lo so. Lo odio soprattutto per questo. –

 

- Lo odi, Neji? –

 

Gai incrociò le braccia al petto, accigliato. Comparendo alle spalle dei ragazzi.

 

Era arrivato subito, nemmeno dieci minuti dopo che Neji era arrivato lì, con il suo compagno sulle spalle. Probabilmente qualcuno doveva averlo mandato a chiamare dall’ospedale, e c’era da aspettarselo che sarebbe letteralmente volato lì, per il suo pupillo. Fino a quel momento non si erano scambiati molte parole, a parte un racconto di circostanza, dettagliato e gelido, su cosa fosse accaduto.

Gai si era irrigidito, quando Neji aveva nominato le sette porte. Non gli aveva nemmeno chiesto come stesse lui.

 

- Sensei… -

 

Neji sotterrò lo sguardo ancora di più. Si vergognava di non vergognarsi, perché era vero che odiava Lee, e non poteva farci niente, lo odiava e basta, lo odiava con una forza che non credeva di avere, ancora più selvaggia dell’astio gelido con cui bersagliava la sua famiglia, ancora più furiosa e disperata del suo accanirsi contro il suo destino, e nonostante ormai fosse inutile, lui sentiva che le mani gli prudevano ancora, per la voglia di prenderlo a pugni, lui e il suo stupido altruismo, il suo spirito di sacrificio, maledetto, dannato idiota.

 

Gai avanzò di un passo. – Se davvero lo odi, allora vai a dirglielo. –

 

Neji sollevò bruscamente la testa. – Cosa? –

 

- Si è svegliato. La prima cosa che ha fatto è stato chiedere di te. –

 

 

 

 

 

 

 

 

ANGOLINO!!!

 

Mi sto dando alla sperimentazione selvaggia su Lee, ma anche con Neji non si scherza.

Ah, Neji, fonte sempiterna di ispirazione!

 

Però sapete che vi dico? Una piccola (?!?!?) parte di me scalpita e urla “Stat, facci vedere qualcosa di piccante!”

Hihihihi, sto facendo troppo la brava e la casta, strano che chi già mi conosce non abbia ancora protestato!

 

Ecco, mi sono presa le parole da Dark!!! XDDDD

Su, non ti preoccupare, sai che io sono Slasher fino al midollo, e poi io Kakashi lo vedo con Iruka, mi vengono gli occhi a stellina solo a pensarci! Anzi, questo mi ricorda che una delle prossime sarà proprio su di loro…

 

Bambi88: diciamocelo, per Kakashi SBAV è esattamente la definizione migliore che possa esistere. Argh, ma quanto è grandioso?!?

 

Kagchan: grazie! Guarda, se dovessi scegliere un personaggio femminile preferito io francamente direi Temari, senza dubbi. Le ragazze troppo frignone non mi piacciono, anche se hanno l’indubbio vantaggio di essere più facili da analizzare.

 

Rael 89: mmm, dubito fortemente che arriverei a scrivere ciò che chiedi, il mio sesto senso Slash si rifiuta di collaborare e grida “Sasuke/Metà uomini di Konoha e Kakashi/Iruka!!!” XDDD

 

Lupus: non ti adagiare sugli allori, che adesso riparto in quarta con gli slash! Ma a parte gli scherzi, grazie infinite per tutti i complimenti che mi fai, sono davvero contenta di riuscire a combinare qualcosa di buono in questo Fandom…

 

Little: tranquilla, il tu sai cosa, su tu sai chi, e tu sai perché, procede!

Ok, adesso ci arrestano perché credono stiamo parlando di traffico di droga  -__-

 

Elisa: guarda, quoto in pieno, anche io sono esterrefatta perché ultimamente sto trovando un senso a Lee! Che è tutto dire, visto che Lee fino a poco tempo fa era un personaggio che avrei volentieri buttato in un pozzo senza fondo.

 

 

 

Artemisia: uaaaah, meno male, non sai quanto ho sudato su sto pezzo, sperando che funzionasse! La cosa che odio di più di Sakura è proprio la sua scarsa fiducia, quindi ho cercato in ogni modo di “omaggiarla” dandole un po’ di coraggio e determinazione, che almeno per me, migliorerebbero moltissimo il personaggio.

Ma tesoro, allora tanti auguri! Wow, 18, adesso dovrai darti ad una full immersion nelle PWP! :-p

 

 

Anticipazioni!

 

Evviva, oggi mi sento particolarmente buona, perciò credo che potrò anche spifferare qualche ideuzza a cui sto lavorando. Innanzitutto, una Sasuke/Neji (sì, un’altra. Rassegnatevi) che probabilmente sarà la prossima pubblicazione. Poi una coppia abbastanza di secondo piano, di cui però mi sono follemente innamorata un paio di giorni fa, mi farete sapere! Un indizio? Beh, quei due sono… ovvi. Semplicemente ovvi. Direi canon.

E poi, un paio di introspettive su Gaara, una più corale, ancora Kakashi/Iruka senza dubbio, e poi qualcuno *fischiettio* mi ha chiesto una Shino/Kiba… che lentamente sta sorgendo…

E comunque no, non stavo scherzando qualche riga fa, ho davvero intenzione di aggiungere un po’ di pepe qua e là. Che cavolo, è rating arancione non per niente!

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Capitolo 10
*** Written (Sasuke/Neji) ***


4

Written (Sasuke/Neji)

 

 

Nota: lo segnalo per scrupolo, onde evitare fraintendimenti, anche se credo che la situazione risulti abbastanza chiara. La shot è divisa in tre tronconi, che prendono in esame, in ordine, il punto di vista di Neji, della comunità di Konoha e di Sasuke.

 

 

 

 

Neji Hyuga forse aveva sempre avuto ragione.

Ci sono cose a cui non si scappa, fine della storia. Cose a cui non si può dire di no, cose contro cui si può lottare con ogni forza, contro cui ci si può accanire a volontà, ma niente, non c’è proprio niente da fare.

 

Una di queste cose, per quanto lo riguardava, era Sasuke Uchiha.

Sasuke era una di quelle cose che capitano. Punto.

 

Era arrivato così, senza nemmeno prendersi la briga si bussare, e Neji gli aveva opposto una difesa d’ufficio, una corazza di facciata, ma non si era nemmeno rammaricato troppo, quando entrambe erano venute meno, lasciandolo nudo, nudo e bello davanti a lui.

Probabilmente non sarebbe mai riuscito a spiegare che cosa provasse, o semplicemente che razza di entità fossero, lui e Sasuke, e che cosa ci facessero fianco a fianco. Non avrebbe nemmeno saputo dire che cosa facessero, di cosa parlassero, cosa mangiassero, quando erano insieme. E che non si dicesse che lui non era un tipo attento a ciò che faceva, perché la questione non era quella, affatto.

 

Neji aveva passato una vita intera cercando di stringere in mano le redini della sua vita, cercando di fare in modo che il suo carro, già costretto a correre lungo un sentiero tracciato, almeno non sbandasse.

Ma adesso c’era Sasuke, e lui aveva solo una gran voglia di abbandonarsi un po’ alla sana anestesia di quel loro rapporto strano e contraddittorio, e basta, fine delle domande, giù le saracinesche.

 

Lui e Sasuke si cercavano, continuamente. Lo avevano sempre fatto, e continuavano a farlo; anche adesso che Neji viveva praticamente con lui, continuavano a spiarsi, ad osservarsi, a sfidarsi, come se non riuscissero a trovare una tregua. Doveva essere questo il significato più profondo del sentirsi completamente alla pari.

Neji aveva imparato ad accettare la sua insoddisfazione persistente, il suo non sentirsi mai abbastanza vicino a Sasuke, come l’ennesima cosa piovuta dal destino. Sasuke era questo, era qualcosa a cui lui si era piegato; e l’aveva fatto con una certa soddisfazione, per la prima volta. Sasuke era l’ennesima catena, l’ennesima gabbia, però si stava bene, bene da morire, rinchiusi fra quelle braccia a volte supponenti, spesso tremendamente possessive, e, per dio, sempre calde, calde tanto da far bollire il sangue.

 

Sasuke non dava molto, ma lui dava? No, naturalmente, ed era questa la chiave di tutto, era il loro negarsi l’uno all’altro fino in fondo, era il contrattare perenne, era la reciproca diffidenza, che li teneva annodati tanto stretti da schiacciarsi, che li faceva brancolare ad occhi sbarrati fino a trovarsi, a toccarsi, a strattonarsi.

 

Ma quel loro inseguirsi costante, quel loro stancarsi, a volte persino esasperarsi, era curativo, rigenerante, era nutriente. La verità era che Neji voleva soltanto un po’ di pace, voleva dieci minuti per chiudere gli occhi, dieci minuti per accettarsi, per lasciarsi tutto alle spalle.

E Sasuke lo era. Era esattamente questo. Era il silenzio che ti riposa le orecchie, ed era, maledizione, per una volta nella vita, il corpo contro cui abbandonarsi, e sentirsi deboli, e stare bene, andarsi bene, volersi bene.

Sasuke era la gabbia in cui sentirsi libero. Sasuke era, per ciò che faceva e per come era, libertà.

La sua libertà, dio, la sua libertà, la sua libertà.

 

Poche parole, fra loro, e risate quasi mai, ma non importava, perché nessuno dei due aveva bisogno di ridere, nessuno dei due cercava questo, nell’altro. Neji non viveva per il sorriso di Sasuke, e Sasuke non viveva certo per il suo. Per cosa vivesse Sasuke, lui non ne aveva idea, ma lui viveva per… Beh, per Sasuke.

Sasuke in generale.

 

*          *          *

 

Il nome degli Hyuga era un nome importante, era risaputo. E quello degli Uchiha lo marcava stretto, nonostante gli accadimenti drammatici che avevano segnato quella famiglia e quella casa.

Quindi che cosa facessero i membri di questi due clan nella loro vita privata diveniva di dominio pubblico per le azioni, più che per le parole. La gente spesso seguiva con curiosità questi rami nobili dell’albero della Foglia, cercava di carpirne i segreti per illudersi di possederli, tentava di interpretare il loro comportamento per sentirsi come loro. Molte volte capitava che i membri più giovani fossero quelli che più soffrivano di ciò, perché le aspettative di un genitore diventavano quelle dell’intero clan, e quelle del clan quelle di tutta la popolazione.

 

Hinata. Ma questa è un’altra storia.

 

Il villaggio di Konoha aveva preso atto, un bel giorno, che il giovane rampollo del ramo cadetto Hyuga era improvvisamente diventato l’ombra di Sasuke Uchiha. E viceversa.

 

Nessuno sapeva come la famiglia Hyuga avesse preso la faccenda del trasloco – perché di questo si trattava – di Neji a casa di Sasuke. Era così, fine della questione, e ben pochi avevano l’autorità di fare domande. Probabilmente se il nobile signor Hiashi non era ancora intervenuto, significava che in qualche modo il nipote aveva il suo benestare. Oppure che era solo questione di tempo, prima che esplodesse un’altra guerra intestina alla famiglia, un altro scempio sicuramente destinato a volgersi contro Neji, e contro la sua condotta inaccettabile.

Chissà poi se quel ragazzo se ne preoccupasse mai, dopo tutto ciò che aveva passato.

 

E comunque, nessuno di coloro che lo conoscevano potevano negare che questa storia avesse cambiato Sasuke, almeno un po’. Rendendolo innanzitutto più lunatico che mai.

C’erano giorni in cui si aggirava per le strade del villaggio come uno spirito della vendetta, nero più delle nuvole di tempesta, ringhiando persino con gli occhi; e c’erano giorni in cui salutava.

Così, incondizionatamente, salutava il proprietario del chiosco di ramen, salutava i ninja di guardia alle porte del villaggio, salutava i ragazzini che lo superavano schivandolo di un soffio mentre giocavano a rincorrersi per le vie polverose.

C’era da supporre che questi sbalzi bipolari dipendessero per la quasi totalità da ciò che succedeva, o che non succedeva, fra le mura di casa sua, con Neji.

Neji era molto più difficile da leggere di quanto lo fosse Sasuke, e sicuramente aveva un vantaggio rispetto a lui, quello di sapere molto bene che cosa significa subire l’ingerenza altrui nella propria vita, costantemente, senza tregua. Sasuke era nuovo, o per meglio dire disabituato a questo tipo di sensazione, e doveva essere per questo che sembrava aver perso un po’ di controllo, un bel po’, e subiva Neji senza riuscire ad arginarsi.

 

Del resto è risaputo che nessuna persona al mondo è in grado di condizionare l’umore più di quella che si ama.

 

Non era dato sapere, non era dato nemmeno insinuare, ma la gente chiacchierava senza sosta, e due ragazzi come loro, grandi abbastanza da sapere come gira il mondo, e segnati abbastanza da essere molto più disincantati e smaliziati della maggior parte dei loro coetanei, che improvvisamente si chiudono insieme nella stessa casa, non potevano che far nascere voci. A cui nessuno dei due sembrava badare, comunque.

La verità era prerogativa di pochi eletti che non avrebbero mai parlato, quindi tanto valeva continuare a fantasticare di luci accese nel cuore della notte, di rumori strani, di ombre sospette, come se la casa di Sasuke fosse stata abitata da spiriti, e non da due ragazzi in carne ed ossa, ragazzi che, al di là di ciò che potessero fare fra loro, fra quelle mura, erano pur sempre dei ragazzi.

Dei ragazzi normali.

 

*          *          *

 

Sasuke Uchiha non amava molto parlare. Si stringeva nelle spalle se gli si parlava del tempo, si stringeva nelle spalle se gli si chiedeva degli allenamenti, si stringeva nelle spalle per qualsiasi cosa non fosse strettamente necessario comunicare.

 

Di Neji, nella fattispecie, non parlava mai. Chi gli era più vicino sapeva che quello era il suo modo di stabilire un confine oltre il quale diventava pericoloso avventurarsi, perché, che Sasuke straripasse di gioia o bruciasse di rabbia, non lo dava a vedere che per piccoli, minuscoli segnali, selezionando fin da subito chi fosse degno di ricevere il messaggio. Molto umanamente, quello era il suo modo di proteggere sé stesso e Neji.

 

Sasuke era un ragazzo tremendamente territoriale, e la presenza di Neji nella sua vita scatenava in lui un istinto di protezione quasi ossessionante. Si sentiva ridicolo, perché Neji non era certo uno che aveva bisogno del suo aiuto, e se anche fosse stato non glielo avrebbe mai chiesto, e lo stesso valeva per lui; ma all’istinto non si può cercare di spiegare il buon senso, perché lui si prende i suoi spazi e ti impone il suo diktat in ogni caso.

Neji era suo, suo e di nessun altro, era la sua terra promessa, il suo personale regno, era il suo castello, la sua camera da letto, il suo giardino di ciliegi. Nessun altro marchio doveva contare più dei segni della sua bocca e dei suoi denti, di cui gli cospargeva il corpo con ponderata regolarità, e se sentire Neji così tanto intensamente dentro di sé significava ridursi così, allora Neji doveva condividere con lui questa debolezza, e sapere di appartenergli almeno quanto lui sapeva che per Neji aveva perso l’anima, perché Neji era il riscatto, era la pace e la redenzione.

 

Lui e Neji erano stati una scommessa contro tutto e tutti sin dall’inizio, ma avevano deciso di giocarsela fino in fondo, con la stessa amara determinazione di chi sa di non avere comunque niente da perdere. Ed era valsa la pena di tentare, non fosse altro che per dimostrare a tutti, e a Neji soprattutto, che le cose si possono cambiare, che i sentieri si possono tracciare, con le unghie se necessario.

 

Sasuke non aveva mai voluto arrendersi a verità scomode, a facili ripieghi, a compromessi figli dell’omertà. Non aveva mai voluto arrendersi al suo nome, né a quello di Neji, non perché ci sono regole che pretendono un rispetto che non sempre meritano. Non si era arreso, non per veder calpestato di nuovo il suo cuore da un silenzio impietoso, non per rassegnarsi.

 

Non perché per loro era tutto già scritto, fin dall’inizio.

 

Era scritto, ma non era giusto.

 

Era scritto di loro nel loro cognome, ma che cosa potevano saperne, poche lettere nere, di chi fossero loro due, di cosa volessero, di cosa cercassero?

 

Sasuke sapeva bene di essere cambiato, per tutto questo, e vedeva lo spettro del suo mutare riflettersi anche in Neji, rassicurandolo una volta di più sul fatto che non aveva importanza quale strada avessero preso, finché avessero continuato a camminare insieme.

 

Da quando quel po’ di strana umanità si era fatta strada in lui, Sasuke si scopriva sempre più spesso intenerito dal pensiero del viso di Neji che dormiva nascosto sotto le coperte. E poi succedeva nei momenti e nelle situazioni più disparate, a volte persino inopportune, che si sorprendesse a provare una strana sensazione di calore al viso, se solo la sua figura accennava a muoversi nella sua mente, a richiamare momenti segreti che lui viveva con la gola stretta da un nodo, e con tutti i sensi in fiamme.

Altre volte la nostalgia lo coglieva a tradimento, sfiorandogli il naso con il profumo delle magnolie che tanto gli ricordavano Neji, quel Neji che era suo, che era vivo, e solido, che era di roccia, ma sapeva essere anche di carne.

 

Gli chiedevano in molti, in moltissimi, perché. Semplicemente perché, perché avesse preso quella strada, perché avesse fatto una scelta tanto lontana dall’abitudine.

E lui, Sasuke, ogni volta scrollava le spalle, fingendo di non sentire. Poi se ne tornava a casa, e andava a cercare Neji. Lo trovava nelle stanze più disparate, impegnato nelle cose più disparate, e sempre in silenzio lo abbracciava.

E un pochino sorrideva.

 

Lo sapeva lui, il perché.

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

 

Ho mantenuto la promessa, visto? Questo è uno dei pezzi che ho amato più scrivere, sarà per quello stile un po’ sporco che mi piace usare in occasioni come queste. Personalmente, scrivere questo pezzo mi ha dato delle emozioni forti, che spero davvero di essere riuscita a trasmettere.

 

… Ok, adesso verrò subissata di pomodori e di striscioni con scritto “ritirati!” ^_^’

 

Tranquilli comunque, per un po’ non vi ammorbo più con Neji, promesso! U__U

Cerco di mantenere un minimo di rotazione dei personaggi!

 

 

Chiara: grazie infinite, sono molto contenta di sentire che la storia quantomeno non è melensa, visto che non voleva assolutamente esserlo. Su Sette Porte, e quindi sulle Lee/Neji in generale, ho investito molto, mi sembra una coppia molto interessante (se non fosse che Lee è perfetto con Gaara e che Neji per me dovrebbe essere canon con Sasuke), e se dici che sono l’unica a trattarla mi sproni a lavorarci ancora su!

 

Marchesa: hihihi, lo sapevo, ma non temere che adesso, un passetto alla volta, ci arrivo al pepe. In questa infatti mi sono più che altro divertito a farlo immaginare, il pepe… Anche se mi conosco abbastanza per poter pronosticare che non durerò a lungo senza far fare scintille e fuochi d’artificio a questi due esseri totalmente sessuali che sono Neji e Sasuke.

 

Aku: certo che non scrivo storie campate per aria, ci mancherebbe! ^__^. Per il pronostico, non dico nulla, ma ti garantisco che quando pubblicherò quella shot esclamerai anche tu “oddio, ma sì, è ovvio!”

Su Neji in Sette Porte ho lavorato moltissimo, e come te e altre anche io mi rendo conto che è strano vederlo così. Eppure secondo me è l’unica strada, esaminando a fondo la situazione credo che lo smarrimento, quell’essere un po’ così, pietrificato dalla situazione, sarebbe l’unica possibile via per lui. E’ un Neji diverso, che però è sempre Neji. Un Neji raro, ecco.

 

Rael: guarda, Sasuke/Sakura non ne scrivo, via tranquilla. Per me Sasuke è perfetto con Neji, ma non ti preoccupare che prima o poi lo faccio finire anche con Naruto Gaara e Kakashi!

 

Little: oh mia carissima! Non farmi riscrivere tutto, per il discorso su Neji ti rimando a quello che ho scritto a Aku! E comunque hai ragione, Lee si sta impossessando di me, e adesso posso solo pregare che non mi vengano i capelli a scodella, le sopracciglia amazzoniche e soprattutto l’orrido senso estetico. E la venerazione per Gai, perché a quel punto posso anche andare ad annegarmi!

Per il tu sai cosa ti manderò al più presto le prime bozze, con tutti i dettagli in mail, e invece riguardo a quello che ti ho chiesto l’altro giorno, sono davvero molto indecisa, perché effettivamente anche Shika potrebbe andare bene. Il ballottaggio è fra lui e Lee!

 

Dark: ma no! Non puoi essere così crudele! Non puoi chiamare il tuo povero pargolo Rock Lee, abbi pietà! Guarda che poi le sopracciglia sono difficili da ammaestrare! Fai come me, chiamalo Deidara, così ti diventa gay per vocazione…

Alla parte due della shot ci ho pensato da subito, ma mi conosci: la scriverò solo se riuscirà almeno a mantenere lo standard della prima parte. Anzi, proprio ora mi è venuta un’idea. Avrai presto mie notizie!

 

Artemisia: ma povero Lee, anche io balbetterei un po’ se fossi tutta spezzettata! XD

Tranquilla che adesso mi lancio con cose un po’ più in là, e speriamo non ci sia da pentirsene. Nooo, Neji con Hinata mai. Ti dirò, già malsopporto Hinata come pg, perché la gente così fruscellosa non posso proprio vederla. Ha ragione Kiba, un po’ di grinta stellina bella! E poi Neji mi implora di essere slashato, sarà per il suo aspetto, per il suo modo di fare un po’ così, inafferrabile. In questo senso è come Gaara, che è perfetto per quasi ogni tipo di slash.

 

Kamusa: ma che bello, una new entry! Ho visto che ti sei fatta una bella full immersion di tutti i capitoli, ti ringrazio davvero di cuore per l’entusiasmo!

Ti accontento subito allora con questo nuovo cap, sei stata fortunatissima! XD

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Capitolo 11
*** Story of a strange habits (Kotetzu/Izumo) ***


Story of a strange habits (Kotetsu/Izumo)

Story of a strange habits  (Kotetsu/Izumo)

 

 

 

Kotetsu si sentì perforare la testa dalla luce troppo violenta del sole.

 

- Ti sei svegliato, finalmente. –

 

Si sforzò di aprire gli occhi, scoprendo davanti a sé un panorama sfocato e tremulo. C’era troppo bianco attorno a lui.

 

- Sei rimasto incosciente per due giorni. –

 

Quella voce. Soffice e profumata di familiarità.

 

- I… Izu. –

 

Una mano gli strinse la spalla destra con cautela. Kotetsu ce la mise tutta, per abituare gli occhi alla luce il più velocemente possibile. Produsse una smorfia che gli provocò un dolorino elettrico al volto, ma finalmente riuscì a mettere a fuoco la stanza dove si trovava, spoglia come solo una stanza di ospedale può essere. 

Torse il collo, ed eccolo, finalmente.

Una macchia scura al suo fianco, un lido per riposare gli occhi provati da tutto quel chiarore.

 

- Cosa… ? –

- Te la sei vista brutta. –

 

Kotetsu sollevò faticosamente un braccio, per potersi strofinare i capelli. Faceva sempre così, quando aveva bisogno di mettere un po’ d’ordine fra le sue idee.

Gradualmente, riuscì ad avvertire qualcosa di estraneo sul volto, una pressione leggera e persistente che gli informicolava gli occhi. Si premette il dito indice sul mento, risalendo con prudenza lungo uno zigomo, inseguendo lo snodarsi di cerotti e bende tese e leggermente soffocanti.

 

- Fai piano. – lo redarguì Izumo. – Sei ancora tutto rotto. -

- Uhmpf. Mi fa un male dannato. -

- Vorrei vedere. Ti sei quasi fracassato la testa. -

 

Kotetzu rabbrividì, nonostante l’aria tiepida e immobile della stanza. La fastidiosa sensazione di buco nero che occupava le precedenti ore, o giorni, o quello che era, andava amplificandosi sempre di più verso il suo stomaco, lasciandolo solo a fare i conti con l’insicurezza.

 

– Non riesco a ricordare cos’è successo. – ammise a mezza voce.

- Credo che sia normale. –

 

Izumo si alzò con calma, e percorse qualche passo leggero lungo l’ampia stanza pitturata di bianco.

 

Kotetzu lo seguì con la coda dell’occhio, incappando talvolta nel profilo sgranato della benda che gli avvolgeva il naso e gli zigomi.

A prescindere da qualsiasi cosa fosse accaduta, doveva ammettere di sentirsi abbastanza bene, dopotutto. Lì, con Izumo. Partire per una missione di classe B/A senza di lui gli era costato molto più di quanto non fosse stato disposto ad ammettere. Ricordava nitidamente di essersi sentito un idiota integrale, mentre raccomandava a lui, lui che restava al villaggio senza far niente, di badare a sé stesso e di essere prudente. Si era sentito in pensiero per Izumo invece che per sé, e questo era uno degli ultimi ricordi di cui disponeva.

 

Certamente non aveva previsto di finire in ospedale, di perdere conoscenza, o niente del genere, ma a pensarci bene non gli dispiaceva del tutto essersi ritrovato a casa in quel modo; se avesse avuto la possibilità di scegliere, la persona che avrebbe preferito trovare seduta di fianco al letto al suo risveglio era proprio lui. Era Izumo, Izumo e il suo sorriso sereno e contagioso. Se soltanto non si fosse sentito così intorpidito nella zona del naso, avrebbe voluto sorridergli a sua volta.

 

- Beh, che ci serva di lezione. Mai più separati in missione. Sembra proprio che tu non riesca a cavartela senza di me. -

- Divertiti a gonfiare il petto finchè puoi, Izu. Appena mi sarò rialzato da qui lo vedremo, chi è il migliore. -

 

Izumo si ributtò sulla sedia, e gli scoccò un’occhiata in tralice. – Cerca di muoverti ad alzarti da lì, stupido. –

 

Lo disse con una voce strana, un po’ tremolante.

Anche la sua faccia era strana. Kotetzu si trovò a pensare che fosse pallida, e incredibilmente preziosa. Studiò la propria situazione con attenzione critica, prima di decretare di poter tendere un braccio verso di lui. Si sentiva in dovere di rassicurare Izumo, e di ringraziarlo in qualche modo. Anche soltanto per essere lì al suo capezzale, senza avere nemmeno il sospetto di quanto questo potesse significare per lui.

 

- Ti ho fatto preoccupare? – domandò stupidamente.

Izumo si lasciò toccare la spalla, ma per qualche ragione il gesto di Kotetzu sembrò far precipitare ulteriormente la situazione, invece di migliorarla.

- Ovvio che sì, razza di idiota. -

- Mi dispiace. -

 

Kotetzu vide il volto di Izumo sciogliersi letteralmente. Le sue labbra, i suoi occhi, persino la sua fronte e i suoi zigomi andavano modificandosi e torcendosi sempre di più, come creta malleabile.

 

Izumo si morse rabbiosamente il labbro inferiore. - Accidenti a te, mi hai quasi ucciso di paura. –

 

Kotetsu era incredulo. – Tu…? Tu stai…? –

 

Izumo scosse forte la testa, ma era inutile, ormai lo stava facendo e basta.

 

Kotetzu sbarrò un po’ gli occhi. - Stai piangendo. Tu stai piangendo. – insistette.

- Forse. Un po’. –

- Izumo… -

- Oh, chiudi il becco, sono solo stanco, ecco tutto. -

 

Ed era vero, non gli aveva mentito. Era stanco, era spossato, era completamente prosciugato, perché aveva passato due giorni interi a vegliare quel deficiente di Kotetzu giorno e notte, senza chiudere gli occhi per un attimo, senza distrarsi, senza nemmeno toccare cibo. Le quarantotto ore più atroci della sua vita, con i gomiti piantati a poco più di un dito dal braccio di Kotetzu, la bocca asciutta e gli occhi umidi, a passare il tempo senza fare niente, soltanto guardando il volto immobile della persona più importante che poteva dire di avere al mondo, e a ripetersi che se Kotetzu fosse morto sarebbe morto anche lui, perciò no, non poteva andare così, si sarebbe svegliato, perché altrimenti lo avrebbe preso a pugni fino all’inferno. Lo aveva toccato, qualche volta, gli aveva accarezzato un po’ i capelli, con una certa prudenza, per rassicurarsi, sentendo che almeno era tiepido, inerte ma tiepido, vivo. Era incredibile come prima di quel momento non gli fosse mai capitato di accorgersi di quanto sia incredibilmente tranquillizzante quel po’ di calore che un corpo umano emette, segnalando con discrezione la vita che scorre in lui.

 

Kotetzu riuscì a vincere la rigidità di Izumo senza essere brusco. Lo attirò verso il basso, appoggiandoselo al petto, e respirando a fondo. Sentirlo vicino in modo così intimo, ed in un contesto così imprevedibile, lo faceva sentire strano. E dire che lui ed Izumo erano sempre stati legati come fratelli. Doveva averlo toccato, strattonato e abbracciato un’infinità di volte, eppure non gli era mai capitato di provare quella strana sensazione che richiamava l’imbarazzo. Forse perché loro due, insieme, avevano fatto un sacco di cose, avevano riso, giocato, litigato, e chissà cos’altro, ma Izumo non aveva mai pianto per lui, e maledizione, piangere è davvero una cosa seria.

 

- Dai… -

 

Kotetzu provò ad accarezzare i capelli ordinati di Izumo più dolcemente che potè. Accidenti, gli era sempre piaciuto mettergli la testa in disordine, magari rubargli la bandana, ma quella volta voleva davvero che Izumo sentisse qualcosa di buono, e di importante, nel suo gesto. Anche perché le parole non lo aiutavano per niente.

 

- Scusami. – mormorò Izumo, strizzando gli occhi e tirandosi un po’ su con le braccia. – Scusami, adesso la smetto. Dio, mi sento così stupido… -

- Non ci pensare, sono io che ti devo delle scuse. Mi dispiace di averti fatto stare in pensiero, dico davvero. -

- Sei partito ghignando come un cretino, e sei tornato sulle spalle di uno della Squadra Speciale. Oddio, come avrei voluto strozzarti. –

- Lo so. Mi dispiace. –

 

La voce di Izumo giocava sulla linea di demarcazione fra la rabbia apprensiva che si dedica soltanto a persone che contano tanto, tutto, troppo, e la paura che si sfoga in singhiozzi incoerenti, sollevati, in un certo senso persino minacciosi.

 

- Adesso la smetto. La smetto. – promise. – È solo che mi hai fatto morire. Maledizione, non osare farmi mai più uno scherzo del genere, o ti giuro che te la faccio pagare. Non ho mai dormito così poco in vita mia, ma tu eri qui, e io non lo so, non ti avevo mai visto così pallido, e tutte queste dannate bende… -

- Niente più missioni separate. È un promessa. -

- Una promessa seria, o una delle tue solite cazzate? -

- E’ una promessa seria, davvero. – Kotetzu tentò un sorriso incoraggiante. – Dai, fammi una smorfia delle tue. Non mi piaci per niente con questo muso lungo. -

- Perché, di solito ti piaccio? -

- Certo che mi piaci. Lo sai che ti amo e che voglio sposarti, no? -

Izumo sortì un mezzo ghigno, come se la sua bocca stesse ancora lottando fra la voglia di ridere e la smorfia del pianto. Con gli occhi ancora rossi, era ancora più strano, e più bello. Kotetzu si mordicchiò la lingua, e si chiese se dopotutto le sue battute non fossero un po’ figlie della suggestione per qualcosa che in fondo a lui, da qualche parte, viveva davvero. Era una cosa molto stupida da pensare, ma lui non avrebbe avuto altra idea. Se doveva pensare ad una persona da avere vicino per tutta la vita, quella poteva essere solo Izumo.

Passò una mano dietro alla nuca di Izumo, che smise di sorridere. Qualche lacrima scendeva ancora, Kotetzu ne seguì con lo sguardo una, che gli percorreva la guancia senza incontrare ostacoli.

E gli venne voglia di soffiarci sopra, di asciugarla, di berla, di portarla via.

 

- Io… - riuscì a mormorare.

 

E poi più niente. Basta così.

 

Se solo avessero voluto, il bacio sarebbe potuto diventare più prepotente, più intenso, persino animale. Ma era prima di tutto un cercarsi, un dirsi cose che avevano richiesto anni ed anni di elaborazione, di sedimentazione, e poi una mezza tragedia per essere capite. Izumo riconobbe l’odore di Kotetzu, così incredibilmente familiare, eppure intenso come mai prima, ora che lui era vicinissimo, ora che lo toccava, che lo cercava, che lo voleva in modo confuso e impacciato. Strizzò gli occhi, per cercare una concentrazione totale, e alcune lacrime scivolarono giù, sfuggendo alle linee delle guance. Kotetzu le sentì raggiungere la benda che gli avvolgeva il viso, e sparire nella stoffa, raffreddandosi un po’ sulla sua pelle. Cancellò la pista delle lacrime precedenti dal volto di Izumo con le dita, perché anche tutte le seguenti cadessero dai suoi occhi ai suoi zigomi e si infiltrassero nella garza. Non avrebbe smesso di baciarlo finchè lui non avesse smesso di piangere, e una ad una, le avrebbe catturate tutte.

 

*          *          *

 

- Non levi la benda? –

 

Kotetzu si strinse nelle spalle, sornione. – Non ci penso nemmeno. Mi ci sono affezionato. – ghignò.

- Affezionato ad una benda? Tu non ti sei ripreso del tutto, parola mia. -

 

Kotetzu ridacchiò, e arpionò Izumo per il busto attirandolo contro di sé e incasinandogli i capelli. Un gesto ripetuto milioni di volte in quegli anni, come un’abitudine, un privilegio che si sapeva accordato a priori.

Ma adesso, fatto in un senso di verso, distante mille miglia da tutto ciò che fino a quel momento erano stati.

Izumo tacque. Lo faceva sempre, quando la distanza fra loro diminuiva oltre un certo margine di sicurezza, e cominciava a precipitare irrimediabilmente verso una cascata di cose nuove ed imprevedibili. Baciò il suo compagno, il suo destino, il suo mondo, con lo stomaco svolazzante di emozione per il solo fatto di poterlo fare.

Era uscito dall’ospedale da un paio di settimane ormai, ancora mezzo imbacuccato in garze e fasce, e probabilmente l’unica davvero inutile era proprio quella che gli avvolgeva il naso. Izumo si era piantato in casa sua, con il pretesto di dargli una mano durante la convalescenza.

La verità era che Kotetzu era entusiasta almeno quanto lui di recuperare un po’ del tempo che avevano perduto. Ma chissà se glielo avrebbe mai detto.

 

- In questa benda è finito qualcosa di molto prezioso. – gli mormorò a fior di labbra. – Qualcosa che prima o poi troverò il modo di restituirti. Ma fino ad allora, non la leverò per nessuna ragione al mondo. –

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Ok, picchiatemi. Dai, ditemi che Kotetzu e Izumo non sono canon! Come diamine ho fatto a non accorgermi prima di quanto siano magnifici questi due? Eppure il manga li serve su un piatto d’argento, perennemente insieme, sempre a discutere, borbottare e tramare.

Praticamente gridano vendetta!

 

Ecco, li amo.

 

Rekichan: sappi che quoto in pieno la tua amica, ed infatti è per questo che Sasuke/Neji è una delle mie coppie preferite (anche se, da te a me, nessuno sputa sulle Kaka/Sasu Sasu/Naru che hai nominato tu XD)

 

Neko: grazie mille! La Sasu/Naru è un classico, non ci si stanca mai!

 

Rael: ma non sai quanto sia felice, ormai sono votata alla diffusione delle Sasuke/Neji!!!

 

La Rosa Bleu: ti ringrazio tantissimo!

 

Kamusa: certo che lo vedi bene con Sasuke, avevi dubbi? ^__- Hihihi, fra i pettegoloni di Konoha vedici pure me, che con un grandioso Camaleonte no Jutzu, tecnica segreta di Stateira, sono sgattaiolata a spiarli… SBAAAV, chissà che magari non dedichi un capitolo a quello che ho visto!

 

Nina: di Hinata molto probabilmente tratterò più avanti, però non so se ne farò una storia romantica o una introspettiva. Come avrai notato non sono molto propensa all’het, ma Hinata è sicuramente un personaggio interessante da trattare.

 

Artemisia: Hinata/Itachi? O__o ma sai che non ci avevo mai pensato? Comunque nel manga ci sono spunti per tutti i gusti, non mi stupirei affatto di trovarmi fra capo e coda una situazione super piccante con quei due… Nuuu, dai, non insultarmi, povera me! Hai centrato in pieno la parte che ho adorato di più scrivere, quella con Sasuke che elargisce saluti, e la gente basita che si chiede quale strano demone si sia impossessato di lui…

 

Dolceamara: ma guarda chi sbuca fuori da queste parti! È sempre bellissimo ritrovarti, sia fra le storie pubblicate che fra le recensioni, grazie mille a te!

 

Chiara: il tuo discorso è proprio giusto invece, Neji e Sasuke non si possono certo dire una coppia convenzionale, eppure si cercano senza sosta. Guarda lascia stare, anche io me lo chiedo sempre di più. Maledetto Kishimoto, cosa aspetti a farli diventare canon e magari a disegnare una bella lemon come quelle che si trovano in giro? *Stat sviene per la gioia al solo pensiero*

 

Dark: hehe, dispenso consigli preziosi sui nascituri, io! Sì, Neji addormentato è una patata, e Sasuke che lo pensa ancora di più! Ti è arrivata la mail che ti ho mandato dal sito?

 

Little star: tranquilla che il lavoro procede, sono un po’ nel panico su alcuni punti, ma ne uscirò vittoriosa!

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Capitolo 12
*** Home (Kakashi/Iruka) ***


Le ombre del passato (Kakashi/Iruka)

Home (Kakashi/Iruka)

 

 

 

 

- Hey, Maestro Kakashi! -

- Naruto… -

 

Naruto lo affiancò sulla via del ritorno dall’accademia, e arricciò il naso. – Come mai tu e il maestro Iruka vi siete parlati in modo così strano? -

Kakashi si sentì un po’ stupido, mentre cercava di fingere di non capire la sua domanda così spiccia e diretta, così tanto facile.

- Non trattare male il maestro Iruka, ha capito? – lo redarguì Naruto, incrociando fieramente le braccia. – Per tua informazione, io gli voglio davvero molto bene! -

- Naruto, finiscila. – sospirò Sakura.

Sasuke non disse nulla. I suoi occhi scuri vibrarono rapidamente sul muso imbronciato di Naruto, e su quello di Kakashi.

Che era qualcosa che fino ad allora non era mai stato. Era freddo.

Forse, dopotutto, quel testone di Naruto ci aveva in qualche modo visto giusto.

- Credo che tu stia prendendo un granchio, Naruto. – sospirò Kakashi, paziente.

- Però a me sembra che il maestro Iruka ti abbia guardato davvero molto male. -

Kakashi si strinse nelle spalle. – Chissà. –

 

Già. Chissà se mettendo i ragazzi l’uno contro l’altro, e spedendo Sakura ad allenarsi su un qualche albero, sarebbe riuscito a prendersi qualche minuto per pensare un po’. E magari per prendere una decisione. Una dannata decisione, dopo che lo aveva rivisto, e gli aveva parlato, faccia a faccia, e lo aveva guardato negli occhi, dopo tutto il tempo passato ad ignorarsi violentemente.

 

*

 

Bussare discreto alla porta.

 

Iruka alzò lo sguardo, come se il legno dell’uscio potesse essere trapassato per pigrizia. Appoggiò il giornale sul tavolino, tirò giù di malavoglia i piedi, e si rassegnò ad alzarsi per andare ad aprire. Era davvero raro che si sentisse così indisposto, ma accidenti, mancava meno di mezz’ora all’ora di cena, e lui sperava solo di potersi rilassare un po’ dopo una giornataccia da dimenticare in ogni senso.

 

- Sto arrivando! -

 

Nonostante tutto, sorrise: probabilmente era quello scemo di Naruto, a caccia di un buon ramen e di un po’ di compagnia per la serata.

 

La porta si aprì con un cigolio sciatto su una figura alta, che proiettava un’ombra lunga e densa sul pavimento, fino a toccare ed oltrepassare i piedi di Iruka, sparpagliando i suoi capelli incasinati proprio un passo dietro di lui.

 

- Kakashi? -

 

Silenzio.

 

Iruka aprì la bocca, la richiuse, si morse un labbro. Sorpreso. Sorpreso era il termine più adatto, in quel momento, senza dubbio. Inutile aggiungere che questo implicasse anche l’essere senza parole.

Kakashi, sulla porta di casa sua.

Tempo, così tanto tempo.

 

- Ciao, Iruka. -

- Ciao. -

- Mi chiedevo se non fosse un disturbo. -

 

Iruka sentì il gelo della cortesia fra due estranei scendere sull’ingresso, e scuoterlo con un brivido sgradevole.

Distolse lo sguardo da quello di Kakashi, che lo cercava con discrezione ed insistenza allo stesso momento. Davanti a lui saettarono momenti rapidi di intimità stretta, di confidenze e di legami rubati, come baci, come la colazione insieme, come lo stesso bicchiere per due bocche.

 

- Che cosa vuoi? -

- Volevo parlare con te. -

 

Iruka esitò. Sapere di avere in mano le redini, sapere che Kakashi aspettava che lui dicesse qualcosa, prima di parlare, era imbarazzante, e strano. Probabilmente non era mai capitato, nemmeno allora. Fece un cenno d’assenso con il mento.

 

- Dai, entra. Non restare sulla porta. -

 

Kakashi fece quanto gli era stato detto, e niente di più. Avanzò di pochi passi, le mani in tasca come sempre, e aspettò con pazienza che Iruka chiudesse l’uscio alle sue spalle, escludendo l’invadenza del ballatoio ed immergendo l’ambiente nella luce più familiare delle lampade di casa.

 

- Sai, Naruto ha capito. -

Kakashi aveva la stessa faccia di sempre, scanzonata e morbida, ogni volta che diceva qualcosa che lo imbarazzava.

Iruka sussultò. – Capito? -

- Beh, in parte. Oggi pomeriggio mi ha chiesto come mai io e te ci fossimo comportati in modo strano. -

Il chunin si mordicchiò il labbro inferiore con aria un po’ colpevole.

- Ce l’ho messa tutta anche io. – mormorò Kakashi, prevenendolo. – Ma evidentemente non riesco ancora a comportarmi normalmente, con te. -

- Sono solo rimasto un po’ spiazzato, vedendoti. – chiarì duramente Iruka. – Non credevo che li avresti candidati, tutto qui. -

- Sì, lo immaginavo. Sai, non sapevo che i ragazzi fossero stati tuoi allievi. -

- Se speri che ti creda, puoi anche lasciar stare, ed evitare di perdere altro tempo. -

Un sospiro sentito. – E va bene. L’ho sempre saputo, e ho fatto di tutto per farmeli affidare, perché speravo di riuscire ad arrivare in qualche modo a te. –

- Ridicolo. -

Kakashi diede un’alzata di spalle. – Come vuoi, non mi importa a quale delle due versioni deciderai di credere. –

- La lista delle cose di cui ti importa è molto breve, Kakashi. –

- Sei sempre stato più bravo di me, con le parole. -

- E tu con gli shuriken, maestro jonin. –

Kakashi sorrise acerbamente sotto la sua maschera. – Beh, almeno lo ammetti. -

- Non hai di che temere, Kakashi, non ho mai messo in discussione la tua superiorità rispetto a me. -

- Se davvero non lo avessi fatto, non sarebbe successo ciò che è successo. - 

Iruka si irrigidì. - Sono un ninja, come te. Rischio la pelle esattamente come te, e come tutti quanti. – rispose orgogliosamente.

 

Strano.

Non stavano litigando, non nel vero senso della parola. Si stavano colpendo l’un altro con parole miti, stavano usando aghi al posto di kunai, lunghi e sottili abbastanza da penetrare fino al cuore senza versare nemmeno una goccia di sangue. Delle tante volte in cui avevano battibeccato e discusso, persino nelle occasioni più serie, Iruka non ne ricordava nemmeno una, così. Era come se entrambi sentissero di non avere più l’autorità di alzare la voce con l’altro, di sputare parolacce, di spintonare.

Adesso, dovevano comportarsi da persone estranee, e misurarsi con cortesia, perché non c’era più nulla che giustificasse la loro voglia di gridare.

 

- Già. Beh, scusami, se ho sempre cercato di evitare che tu rischiassi la vita sotto ai miei occhi.  -

- E’ bello vedere che il tempo non ha cambiato le tue assurde convinzioni nemmeno di una virgola. Spero che le persone che sceglierai di avere al tuo fianco d’ora in poi pieghino il capo ai tuoi capricci senza far storie. -

 

*

 

- Ma non ha senso. -

- E invece sì. Verrà Mizuki con me. -

- Mizuki? Ma lui ha meno esperienza di me! -

- Imparerà. -

Iruka sbattè le mani di piatto sul tavolo. – E’ stato il signor Hokage in persona ad ordinarmi di partecipare alla missione con te e Asuma. Non puoi impedirmi di venire. –

- L’ho gia fatto. Ti ho dato malato. -

- Che cos’hai fatto?!?!? -

 

*

 

- Non hai mai cercato di capire, Iruka. -

- No, ma per te ho fatto già abbastanza da essere in pace con me stesso. -

Kakashi piantò un piede in avanti. – Dimmi una cosa, Iruka. – scandì. – Come diavolo pretendi che io non pensassi a te, in una situazione del genere? -

- Tu non pensavi a me, ma solo a te stesso. Volevi sentirti tranquillo sapendomi a casa con le mani in mano, ecco tutto. -

- Conosci le regole, niente sentimenti in missione. Mi spieghi come avrei potuto svolgere un maledetto incarico di quel livello senza preoccuparmi per te? -

 

*

 

Kakashi strinse improvvisamente il polso destro di Iruka, tanto forte da farlo tremare. – Ascoltami molto bene, Iruka. Non ti trascinerò con me in una missione suicida. Non intendo veder morire proprio te, come se tu fossi un compagno qualunque, e se questo tu non riesci a capirlo, beh, non mi importa. –

- Tu non hai un cuore. -

- Ce l’ho eccome, invece. Ma non posso permettermi di averlo in missione, ed è per questo che ti impedirò a tutti i costi di venire con me.

- Ne ho abbastanza del tuo assurdo modo di fare, Kakashi. Mi porterai con te, ti piaccia o no. -

- Sai che non lo farò. -

- Non usare quel tono supponente con me! Sarai anche un maledetto jonin, ma non hai l’autorità per darmi ordini! -

 

*

 

Sorriso amarognolo e impertinente. – Non ti facevo così osservante delle regole, Kakashi. – disse lentamente Iruka, masticando il suo nome con i canini. – E dire che io mi ricordo di un tizio con i capelli grigi, un tizio strano, un tizio che non aveva paura di niente, soprattutto delle regole. Un tizio che io rispettavo ed ammiravo. E che… -

Iruka lasciò che fosse il silenzio, a completare la sua frase. Kakashi non lo meritava, e se proprio avesse voluto sentire la parola amore, da lui, allora se la sarebbe dovuta cercare con l’immaginazione, nel rettangolo di aria che li separava. – Beh, salutamelo, se per caso ti capiterà di incontrarlo. –

 

- Iruka. -

 

Nonostante tutto, era ancora impressionante come il suo nome suonasse come un ringhio basso, nella bocca di Kakashi, se appena faceva la voce un po’ più roca. Quello era sempre stato il suo personalissimo modo di mettergli i brividi, e a quanto pare non lo aveva scordato.

 

- Quel Kakashi è qui davanti a te. -

- Ah sì? Strano, perché io non vedo niente. -

Una mano sul polso. Era successo tante volte che per Iruka ormai era una sensazione familiare. Il grattare ruvido dei guanti che avvolgevano il palmo, il tintinnio del metallo della placca, e le dita di Kakashi, scoperte dalla seconda falange, nude, calde. Sarebbe stato pronto a scommettere che sapevano di fuliggine, di erba e di sapone, come sempre.

 

- Guardami, Iruka. -

- Guardarti? –

Disprezzo, sarcasmo. Rabbia, tanta.

– Guardare che cosa? La maschera o il coprifronte? -

Occhi bassi. Occhio basso.

– Non vedo niente del Kakashi che conoscevo. Soltanto bende e maschere. –

- Ho fatto scelte che tu non hai capito. -

- Già. Oh, è sempre stata una fatica dannata, cercare di capirti. -

- … -

- Lasciami andare. -

-… -

- Ti ho detto di lasciarmi. Mollami il polso. -

- Non credo di poterlo fare. -

 

Thump.

 

Kakashi lo strattonò improvvisamente, e il petto di Iruka si scontrò con il suo. Produsse un rumore attutito, così tremendamente simile ad un battito, uno solo, di un cuore comune.

Niente di romantico, niente che profumasse di fiori, soltanto la paura fottuta di dirsi la verità.

 

- Sai che non mi piace prendere ordini. -

Iruka sperò di riuscire a mettere insieme uno sguardo abbastanza freddo da gelarlo. – Questa è casa mia. – ringhiò.

- Sì, lo so. – Kakashi allentò la presa, ma non lasciò andare del tutto. Manteneva una sicurezza, una corda morbida al posto delle catene.

- La conosco, sono stato qui molte volte. So dov’è il frigo, e dove tieni le pentole. Mi ricordo del cigolio del tuo divano, che deve avere la tua età, ma che è perfetto per allungare i piedi sul tavolo. Ho usato la tua doccia, con l’acqua calda che ci mette un secolo per scendere, e sono stato nel tuo letto, non so quante volte, ci ho dormito e ti ho guardato dormire, ci ho fatto i miei sogni migliori e i miei incubi peggiori, ho fatto a pugni con i tuoi cuscini, ci ho passato nottate e giornate, a fare l’amore con te, a leggere, e a guardare la tv con te buttato addosso, e… -

 

E mille altre cose ancora. Perché lui lì si era sempre sentito un po’ a casa, molto più di quanto lo fosse nel proprio appartamento, se Iruka non c’era. E poi da Iruka si stava meglio, lui lo aveva sempre pensato. La sua casa era popolata di quella confusione, di quel calore, di quel senso di vita che ogni casa dovrebbe avere. Tutte le volte in cui aveva fatto girare nella toppa la copia della chiave che Iruka gli aveva dato, Kakashi aveva sorriso, e non soltanto perché oltre quell’uscio avrebbe trovato qualcuno con un sorriso che per lui significava un mondo intero, ma anche perché c’era un sincero affetto per quel divano vecchiotto e comodo, e per il lampadario basso sul tavolo di legno scuro, e per i vasi di sempreverdi che incorniciavano la grande finestra del soggiorno come colonne, ondeggiando pigramente ad ogni soffio di venticello.

 

Era il peso dell’intimità che tornava, fracassandosi tutta insieme contro le dighe fragili e impreparate di Iruka. Mille tazze di latte divise, i pantaloni di Kakashi che non si trovano più, le docce insieme, la lotta per l’ultimo cucchiaio di budino di riso, i baci sull’uscio, non posso restare anche stanotte, domani devo partire, e tu non mi lascerai mai alzare ad un’ora decente.

La stupida genesi della sua abitudine ai ritardi.

 

- Basta. Hai detto abbastanza. -

 

Kakashi abbassò lo sguardo. 

 

Un singhiozzo irritato. Memorie di una vita andata in pezzi.

 

- Stando con i ragazzi, ho capito alcune cose. Una di queste sei tu. – disse soltanto.

Iruka dondolò dalla punta dei piedi ai talloni, chiudendosi in un silenzio cocciuto che Kakashi non rispettò a lungo.

– Cosa vuoi che ti dica. – fece, con un sorriso mesto. – Ci portiamo rancore a vicenda, ognuno per le sue ragioni. Nemmeno io ti ho perdonato, per non essere venuto nemmeno a vedere come stavo, al mio rientro. Mi hai abbandonato a me stesso, in un ospedale, senza una parola. -

- L’ho fatto perché ti odiavo troppo, ma sapevo che non sarei riuscito a rivedere la tua faccia senza dimenticare tutto quanto. -

- E adesso? Riesci a guardarla, la mia faccia? -

 

Tremori che si spacciano per indifferenze.

 

- Adesso la tua faccia è tutta coperta. -

 

Fruscio di stoffa, e maschere che volano al vento. Kakashi non aveva intenzione di lasciare davvero niente in sospeso.

- Naruto e gli altri parteciperanno all’esame, e se lo supereranno diventeranno chunin come te. Chissà che allora tu non ti decida a darti da fare per diventare jonin. Magari potrei anche pensare di portarti con me, a quel punto. –

 

Era bello. Lo era sempre stato, bello e affascinante, tanto da fargli tremare le ginocchia. Era Kakashi, era l’uomo per il quale lui aveva perso la testa completamente, stupidamente, come un ingenuo. E non era cambiato, nemmeno un po’.

 

Iruka sbuffò un sorriso impercettibile. – Sei davvero incorreggibile, Kakashi. -

 

Un sorriso sincero e malandrino, su quel viso scoperto. La mano che è ancora lì, ferma sul polso. Occhi che scendono e salgono, che indugiano sulle labbra dell’altro per qualche secondo di troppo.

Memorie di una vita che cerca di ricomporsi. Un po’ presto, un po’ in fretta, perché per favore, adesso basta, basta stare lontani, basta nascondere le ferite anziché curarle.

 

Voglia di baciare quella bocca. Di nuovo.

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Vi ricordate di quanto mi fosse piaciuto scrivere Written? Ecco, questa invece l’ho scritta borbottando “Kakashi, se non rimetti tutto a posto all’istante ti faccio a pezzetti.”

 

Giuro che questo pezzo non l’ho scritto io, è stato Kakashi che ha fatto tutto da solo!

 

Uhm, che dite, ci sarà riuscito? ^__^

 

 

 

Ginny93: ti ringrazio moltissimo, sono davvero contenta che ti sia piaciuto!

 

Kamusa: hihihi, visto, abbiamo svelato la verità sulla benda di Kotetzu! Certo che scriverò ancora di loro, sono meravigliosi!!!

 

Tinebrella: no problem, in effetti sono due personaggi un po’ in ombra, normale che tu non abbia capito subito! Beh in effetti sono fantastici anche IC, non è stato difficile!

 

Dark: tesoro, naturalmente ti è piaciuta perché sono loro ad essere bellissimi, io non posso prendermi nessun perito! Non ti preoccupare, ti rimando la mail questa sera stessa. Se non ti arrivasse fai una cosa, prova tu a contattare me, anche solo con una mail di prova!

 

Myriam: mi sono fatta la tua stessa domanda quando li ho notati nel manga… Mi sono detta che urgeva assolutamente scrivere un’ode in loro onore!

 

Chiara: non so dove tu sia con il manga, ma posso dirti questo senza paura: se sei già agli esami per chunin cercali senza paura nel manga o su internet, perché sono già comparsi! Sono due personaggi un po’ in ombra, ma ci sono!

 

Artemisia: ha, e qui si scoprono influenze esterne! Beh devo dire che comunque hai la mia massima stima per le Hinata/Itachi, perché ti riconosco che con quei due verrebbero fuori dei giochetti psicologici assolutamente grandiosi. E poi non c’è che da aver pazienza, Kishimoto nel manga fornisce basi d’appoggio per qualsiasi, e dicesi qualsiasi, paring!

 

Feda: ho solo fatto il mio lavoro celebrandoli come si deve, quei due meriterebbeo un’attenzione di primo piano! Non sono solo due personaggi divini a prima vista, ma secondo me sono pure forti!

 

Little Star: ma cara la mia socia, grazie di cuore!!!

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Capitolo 13
*** The King of Angels (Gaara) ***


The king of angels (Gaara)

Nota: sì, lo so, ho fatto una scelta che definire atipica è un eufemismo. Eppure questa canzone evoca Gaara per il disperato contrasto che porta in sé.

Prendetela così com’è, senza farvi troppe domande.

 

Per la cronaca, ho riportato stralci della canzone sia nella versione latina che nella traduzione inglese. Il testo quindi non è completo, né in una versione né nell’altra.

Qualche consiglio di interpretazioni particolarmente intense? “Adeste fideles” di Enya e “Oh come all ye faithful” di Martina McBride.

 

 

 

The king of angels (Gaara)

 

 

 

Adeste fideles, laete triumphantes

Venite, venite in Bethlehem.

 

Quasi non si sente. Il respiro singhiozzante di una creaturina misera, più debole di qualsiasi brezza.

Ma respiri, e questo fa di te qualcosa di vivo. Una manina piccola così, che si stringe tremolando al suo lembo di coperta calda, in questa notte di deserto che va raffreddandosi rapidamente e impietosamente, come se il calore fosse stato prosciugato dalle dune instabili che circondavano le mura possenti di Suna.

Una manina troppo piccola, la tua, per farsi strada nel mondo, una manina che ha già perso il seno materno a cui appoggiarsi, per far leva su esso e provare a sorgere pian piano.

Quanta paura fa, la tua solitudine superiore, il tuo vagito che risuona a vuoto nell’aria secca e indifferente, che rimbalza inutilmente contro il petto di chi ti ha voluto.

 

Come and behold him,

Born the king of angels!

 

Almeno fossi nato dalla sabbia salata e pura della tua terra, vomitato fuori da qualche vortice, oppure uscito da una pianta grassa, come quei prodigi di cui si infarciscono le leggende e i racconti.

Fossi sceso dal cielo, o sorto dall’acqua, almeno avresti avuto un’origine da reclamare, che non fosse la sabbia infangata e impastata di sangue di una prova di forza a tutti i costi. L’odore del sangue misto alla sabbia si fa subito acido e sgradevole, troppo, per il tuo nasino arrossato da tanto gridare e piangere.

 

Ma ti hanno impastato con gli orridi ingredienti della potenza più arcana, hanno fatto di te un bozzetto di creta, una pietanza a consumo di tutti noi, che siamo cannibali della tua forza innocente; ti hanno mescolato, creato, composto, manipolato, e poi messo a cuocere per nove mesi in un grembo che non era tuo, e che chissà se ti voleva, poi, ed eccoti, ciò che ne è uscito sei tu, piccolino dagli occhi umidi.

 

Benvenuto.

 

Oh come, let us adore him,

Oh come, let us adore him,

Oh come, let us adore him,

Dominum.

 

Benvenuto, Gaara del Deserto.

 

Gaara di Nessuno.

 

Piccolo mostro innocente, gloria a te, simulacro di tanto rancore. Noi ti rendiamo omaggio, noi chiniamo il capo ed offriamo doni. A te, nato già assetato, tu che sei già signore di qualcosa che ancora devi incontrare, e vedrai, non ti piacerà la sabbia, non ti piaceranno i suoi grani aggressivi negli occhi, non ti piacerà il suo sapore salato, e per questo finirai con l’odiare tutto quanto, ogni uomo, e a rifugiarti nell’odore nauseabondo dell’unica cosa che ti è fedele, macerando ed impazzendo lentamente su te stesso.

 

Offriamo ricchi doni a te, perché in futuro tu possa ricordarlo.

Perché noi ti temiamo. E veniamo ad importi il tuo nome di morte, perché tu possa cominciare a sentirti già prigioniero di qualcosa.


Gloria, gloria
In excelsis Deo
Venite adoremus
Dominum

Benvenuto, bimbo paradossale, bimbo raccapricciante. Benvenuto, bimbo nato già gravido, bimbo con la pancina gonfia di sabbia.

 

Benvenuto, e se puoi, ricordati di non ucciderci.

 

Sei appena nato, e noi sappiamo già che sei un errore. Perciò ringrazia tuo padre, non noi, se sei così, impara in fretta a parlare e a camminare, così te ne potrai andare a suicidarti da qualche parte, ad infestare la vita altrui, a sfogare su avversari casuali i tuoi istinti e la tua anormalità corrotta.

Noi abbiamo paura della morte, e abbiamo paura di te, perciò guardaci, e impara i nostri volti, ed evitali, in futuro, non incrociarci e noi ti ignoreremo, ti lasceremo nella solitudine che si riserva a quelli come te, e cercheremo di dimenticarci di te, ci sforzeremo di fingere che questa notte sia stata la manifestazione di un sogno, faremo finta di non aver visto né stelle né prodigi, e rideremo del nostro pellegrinaggio onirico, e del saluto ad un bambino che non c’è.

 

Yea, Lord, we greet thee,

Born this happy morning

Jesus, to thee be the glory giv’n

Word of the father,

Now in flesh appearing

 

Occhi lucidi che guardano la folla, rapiti e attoniti. Siamo qui per te, piccolino, siamo qui per celebrare la mostruosità che ti ha dato vita, per celebrare noi uomini, diversi da te che sei mostro, che sei figlio di una madre fecondata da sue padri, con due semi diversi e mischiati in una poltiglia acidula di sperma e sabbia.

È davvero disgustoso come da una simile aberrazione possa nascere qualcosa di tanto grazioso. La vita è stata ironica con te, piccolo Gaara.

 

 Con i rumori indiscreti della festa ti terremo sveglio, Gaara del Deserto, perché tu possa prepararti alla tua vita fortunata. Vivrai senza mai chiudere gli occhi, senza mai sprecare un istante della tua esistenza preziosa con il sonno, con i sogni, con il riposo, con la pace. Sbadigli già, così piccino, ma dimenticherai presto la sensazione tiepida del torpore, ti aiuteremo noi, signorino Gaara, ci occuperemo noi di pungerti gli occhi con degli spilli.

 

Perché ti odiamo, Gaara del Deserto, Gaara di Nessuno, gloria, gloria.

 

Venite adoremus

Venite adoremus

Venite adoremus
Dominum

Si canti e si balli per lui, per il mostro dagli occhi grandi, e gloria, gloria alla sfrenatezza umana, gloria a te, piccola chimera, gloria al figlio di una donna morta e di un uomo invasato, gloria al figlio che nemmeno la sabbia ha voluto riconoscere come suo. Gloria allo specchio della nostra vanità perversa, perché nella paura che abbiamo di te noi ricacciamo ogni altro sentimento inammissibile, perché di te facciamo il bersaglio degli incubi che sono in noi, e tu sarai l’assassino che giustificherà ogni altro assassino, l’orrore che soffocherà ogni altro orrore, lucidando le nostre coscienze nella certezza che tu sarai sempre e comunque peggio di noi.

 

Perché di fronte a te, a te che sei mostro, noi ci sentiamo tutti più normali.

Ci sentiamo tutti più uomini.

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Kamusa: per dirla alla Willy Wonka, siamo diventate tutte delle borbottone. Ma non è colpa nostra se Kakashi fa su casini!

 

Kagchan: beh, Naruto qualcosa ha intuito, poi per fortuna che non ha approfondito! Anche io adoro la coppia, sono meravigliosi!

 

Solarial: me si inchina profondamente, e fa pure il ghirigori con la mano. Troppa grazia! Sono davvero contenta che tutti quei cap ti siano piaciuti, e per le altre coppie non ti preoccupare, tanto questa raccolta sta diventando un gelato tutti frutti!

 

Little Star: ma no, dai, che Iruka è un dolce (in fondo), non avrebbe infierito in modo esageratamente sadico su Kakashi. Credo. Hai perfettamente ragione a dire che urlare sarebbe stato molto meglio, è proprio questo che crea un senso di tensione fastidioso. La prossima volta Iruka lo prenderà a calci senza troppi complimenti!

 

Fann: eccola qui! Sono proprio contenta che ti sia piaciuta, soprattutto perché tu sei stata la mia bozzista super professionale per la prima stesura e il tuo parere conta tantissimo!

 

Artemisia: non ti preoccupare stella mia, è la tua vena slash che tenta di emergere! XDDD Dai, scherzi a parte, spero che sia davvero quello, e non qualcosa di più problematico (oddio, parlo come Shika, arrestatemi).

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Capitolo 14
*** Zoophilia (Shino/Kiba) ***


Zoophilia (Shino/Kiba)

Zoophilia (Shino/Kiba)

 

 

 

Kiba si raggomitolò sulle ginocchia.

– Davvero non ti fa alcun effetto perdere i tuoi animali? –

- Dipende. –

- Cosa intendi dire? –

 

Kiba sbuffò sonoramente, allungando una mano per appoggiarsi al primo appiglio sottomano. Akamaru zampettava diligentemente al suo fianco, scavicchiando qualche zolla d‘erba con le zampette bianche. Sembrava un po’ meno stanco del suo padrone, nonostante la corsa.

- Mi dispiace. – ansimò Kiba fra i denti. – Sono in ritardo. –

 

Shino non lo era. Naturalmente.

 

- Non importa. Cominciamo. –

 

Kiba diede un mezzo gemito agonizzante a cui Shino non concesse considerazione. Si rassegnò a mettere mano ai suoi shuriken e a prepararsi al peggio, e a farlo alla svelta.

 

Avevano iniziato da un paio di mesi, o giù di lì, ad allenarsi assieme, andando anche oltre l’orario di normale addestramento con la maestra Kurenai.

Tutta la faccenda, per la verità, era cominciata in quel modo. Kiba all’inizio si era sentito in colpa da morire per aver organizzato tutto ciò alle spalle di Hinata. Non c’era niente da fare, era impossibile non mangiarsi il fegato per uno come lui, uno buono dentro, ma Hinata era semplicemente fatta così, e lui dal canto suo, si sentiva frenato, troppo. Per questo ne aveva parlato con Shino, che aveva accettato di esercitarsi assieme a lui in vista di missioni future, magari più pericolose. C’era tempo, per occuparsi di Hinata e del suo carattere irrecuperabile, ma nel frattempo bisognava fare qualcosa, bisognava rendersi indipendenti e capaci di proteggere se stessi e gli altri.

Gli altri soprattutto.

Perché Kiba ci pensava, non troppo spesso, però ci pensava. C’erano carriere da valutare, scelte da fare in molti sensi, rischi a cui andare incontro, e lui si sentiva responsabile per Akamaru tanto quanto per se stesso, e forse anche di più.

 

E poi…

Poi?

 

Mah, chi poteva dirlo, come fossero andate esattamente le cose. Era stato tutto un gioco di sensazioni che non si potevano ignorare, di sguardi un po’ così, un po’ obliqui, un po’ curiosi, un po’ troppo allusivi ed incoscienti.

 

Shino Aburame parlava poco, e diceva ancora meno. Kiba, poi, era selvatico nel senso più sporco del termine, scostante e ringhioso.

Si andavano bene perché era così, il ragazzo che parlava senza dire, e quello che ringhiava per non mordere.

 

Bisognava ammettere che Shino era il genere di persona che diventa leader del gruppo senza aver bisogno di chiedere niente a nessuno, e Kiba si fidava di lui ciecamente, nonostante fosse recalcitrante quando si trattava di eseguire gli ordini che Shino impartiva senza alcun senso del tatto, senza il benché minimo rispetto per l’orgoglio altrui.

“Fai questo. Fai questo perché sì, perché è così.”

Kiba borbottava come un fiumiciattolo in piena, ma poi eseguiva, e si metteva persino a ridere. Era il suo modo di fare, quel ridere che sembrava latrare, e Shino era stato il primo ad abituarsi a queste sue declinazioni senza battere ciglio.

 

Probabilmente era proprio da quella reciproca fiducia incondizionata che era nato tutto, che erano germogliati i primi germi, perché a furia di stare con Akamaru, Kiba si era abituato a ragionare come un cane, e si sa, per i cani la fiducia è una cosa seria, la fiducia la si concede soltanto al proprio padrone.

La fiducia, per un cane, è sinonimo di amore.

 

Kiba si raggomitolò sulle ginocchia.

– Davvero non ti fa alcun effetto perdere i tuoi animali? –

- Dipende. –

- Cosa intendi dire? –

 

Mani nelle mani, mai. Sorrisi, carezze, bah, smancerie buone soltanto per sigillare compromessi di cui loro non avevano bisogno.

Si allenavano, loro.

Si inseguivano con le armi in pugno, si sfinivano, si colpivano, non si davano tregua finché quel poco di buon senso di cui le loro teste scombinate potevano vantarsi non imponeva loro di smettere per riposare.

Allora, forse, parlavano un po’. In codice, si intende: nessuno dei due avrebbe mai parlato chiaro con l’altro.

 

- Quel cagnetto è davvero tutto per te, vero? –

- Dovresti capirmi. Tu hai lo stesso rapporto con i tuoi insetti. –

- Non è del tutto vero. I miei insetti sono alleati preziosi, nulla di più. Io accetto la morte di molti di loro, in battaglia. Tu riusciresti a perdere Akamaru? –

- No, mai. Perché lui non è un semplice alleato. –

- Lo immaginavo. È questa la differenza fra noi due. –

- Mi consideri debole? –

- Ho detto differenza, non debolezza. –

- Ma tu credi che il mio legame con Akamaru sia una debolezza, in battaglia. –

Shino si diede una sistemata incurante agli occhiali. – In battaglia. – confermò. – Pochi minuti al giorno. –

- Che cosa vuoi dire? –

Shino tese pigramente una mano sul ginocchio piegato. - Akamaru è come un compagno per te. Ti preoccupi per lui, perché sai di metterlo in pericolo, ma quando siete lontani dalle battaglie lui ti tiene compagnia. -

Kiba si morse pensierosamente un labbro. – I tuoi insetti non sono… -

- … Una compagnia? No, direi di no. Sono una presenza rassicurante, al massimo. -

 

Kiba aveva sempre pensato alla solitudine come a un qualcosa di lontano da lui, come ad un demone costretto a restare fuori dalla sua porta. Perché aveva Akamaru, e lui era il suo amico più prezioso, era il suo alleato, e sì, era la sua compagnia, il suo scaccia incubi personale.

 

Ma poi era arrivato Shino.

 

E Kiba si era improvvisamente reso conto che la solitudine è un paio di occhiali scuri che tu cerchi di penetrare, è un sorriso nascosto dal bavero del cappotto, è una voce che tu non puoi nemmeno più sperare di confondere con nessun’altra voce al mondo.

 

La solitudine è Shino, e lui, maledizione era uguale.

 

Sia lui che Shino coltivavano un amore per gli animali che era qualcosa di più di un semplice affilare le armi per la battaglia, ma restava comunque troppo piccolo per potersi fregiare del nome di amicizia.

L’uomo ha bisogno dell’uomo, è questa la verità se si osa spingersi un po’ oltre la banalità più superficiale, e per quanto affetto lui potesse provare per il suo cuccioletto bianco, era Shino che gli dava i brividi con le sue poche parole, era Shino che cercava per sentirsi capito, era a lui che si rivolgeva quando non sapeva contro chi sfogare la sua sete di libertà.

 

Era Shino, quello della sua stessa razza.

 

Kiba si raggomitolò sulle ginocchia. – Davvero non ti fa alcun effetto perdere i tuoi animali? –

- Dipende. –

- Cosa intendi dire? –

 

Tenne gli occhi costantemente bassi, mentre faceva leva sulle mani per avvicinarsi a lui. Shino lo guardò senza dire niente, e senza dire niente gli passò un braccio attorno alle spalle. Rimasero fermi per un po’, senza aver bisogno di aggiungere legna al fuoco.

 

Si andavano bene così, si erano sempre andati bene così.

 

Kiba aspirò con concentrazione l’aria che si muoveva leggera attorno a loro, impregnata dell’odore di Shino, tipico ed acre, un odore che lui aveva imparato a riconoscere da subito, e che non aveva dimenticato mai.

Reclinò la testa sulla spalla di lui, facendosi consapevolmente più vicino alla sua bocca. Se avesse voluto, Shino lo avrebbe fatto, altrimenti no. Era questo il loro modo di cercarsi, senza insistenze e senza pretese.

La sensazione di baciarsi era sempre qualcosa di curioso e di strano, persino di fastidioso, per certi versi.

Erano due ragazzi, e si baciavano.

E c’era il sapore della saliva con cui fare i conti, e quello delle labbra, più sapido. C’era la questione del respiro, e dei brividi che provocava sentirlo sulla pelle, e poi c’erano le mani da tenere controllate, sempre e comunque, anche quando si trovavano soli, anche quando decidevano di dormire assieme, perché cercarsi e scoprirsi era una cosa, saltarsi addosso era un’altra.

E loro due erano entrambi molto prudenti in proposito.

 

A dire la verità, la prima volta che si erano spinti un po’ oltre era stato proprio Kiba a trascinare Shino, ed era ancora strano pensare a come invece la situazione si fosse ribaltata quasi subito dopo. Ricordava momenti confusi e tesi, il senso di colpa esagerato per aver lasciato Akamaru a casa da solo per quel pomeriggio, e poi il sole sulla pelle nuda, l’odore inequivocabile dei vestiti che si tolgono, il respiro che perde ritmo, e Shino, Shino con lui, Shino ovunque, Shino a dare un senso a tutto questo.

 

Da allora, il rimorso per Hinata era andato scemando e sfumando nella necessità di tenere quella faccenda per loro, anche se sarebbe bastata un po’ di onestà in più per ammettere che non erano gli allenamenti a costituire un alibi per la loro relazione, ma la relazione ad essere la scusa perfetta per continuare ad allenarsi, perché loro si stimavano innanzitutto come guerrieri, e nonostante le loro mani avessero assunto giorno dopo giorno significati molto differenti l’uno per l’altro, quando stringevano un kunai affilato erano ancora assolutamente pericolose.

 

Shino non aveva mai finto di colpire Kiba, lo aveva sempre fatto con forza e senza pietà. E di questo Kiba gli era sinceramente grato. La loro non era una questione di sfide maliziose, ma di lame scagliate per colpire, e solo dopo, solo alla fine di tutto, soltanto quando i lividi erano diventati troppi per reggersi in piedi, si poteva concedere un po’ di spazio per una carezza, una carezza data dove fa più male, dove la ferita ancora sanguina.

 

Kiba si raggomitolò sulle ginocchia. – Davvero non ti fa alcun effetto, perdere i tuoi animali? –

- Dipende. –

- Cosa intendi dire? –

Shino si lasciò scivolare comodamente contro il grosso bersaglio di legno dietro di lui, e tese il dito indice verso l’alto con fare vagamente solenne. – C’è un animale, uno soltanto. Se perdessi lui, impazzirei di dolore. –

Kiba inclinò il capo disordinato e lo guardò in tralice. – Capisco. È la regina dello sciame, vero? –

 

Sulla bocca di Shino guizzò un sorriso fugace. – E’ il re. Il mio re. –

 

 

 

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

 

QUALCUNO (…Mela …coff coff) aveva casualmente buttato lì una Shino/Kiba. E, come si suole dire, quando la sfida slash chiama, Stateira risponde.

E non chiedetemi come mai, ma la primissima cosa nata di questa fic è stato il titolo, strano ma vero visto che di solito scrivo la fic in tre ore, e poi ne perdo cinque o sei per il titolo.

Cara la mia Melina, spero tanto che apprezzerai questa ode al team 8. non che non intenda ritornarci ancora, si intende! *evil grin*

 

 

 

Artemisia: Ti ringrazio con tutto il cuore. Povera me, detesto ritrovarmi senza parole adeguate per ringraziare come si deve. Mi emoziono a leggere le tue recensioni, e non solo perché mi dedichi sempre parole bellissime, ma perché capisco di essere riuscita a trasmettere qualcosa, e soprattutto se si tratta di uno come Gaara, che è un personaggio a cui tengo molto, questo mi rende non lo so, felice è dire poco.

 

Tinebrella: sono io che non ho parole adatte per ringraziarti, sul serio.

 

Little Star: tesoro mio, come ringraziarti abbastanza? Argh, non potete restare senza parole, altrimenti resto senza anche io!

 

Kamusa: concordo con te, anche a me quella folla mette paura, e anche tanta rabbia. Quando ho letto nel manga il background di Gaara giuro che avrei voluto strappare le pagine. Poi ho pensato che non fosse un’idea furbissima, quindi grazie al cielo mi sono trattenuta!

 

Dark: Ma certo che troverà l’amore, glielo troviamo noi, e se vuole gli organizziamo matrimonio e tutto!

 

Sprpr: ti ringrazio moltissimo per entrambe le tue recensioni!

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Capitolo 15
*** The two of us(Lee/Gaara) ***


Lee/Gaara

NOTA: gli intermezzi in corsivo fra un dialogo e l’altro valgono di fatto come i pensieri di Lee. Ma se li leggete tutti di seguito, ne uscirà una poesia.

 

 

 

The two of us (Lee/Gaara)

 

 

 

- Tu hai paura della notte, vero? –

- Paura? –

- Sì, paura. –

- Non ne ho motivo. La notte non è altro che tempo. –

- Però lei non scorre via come fa il giorno, vero? Non per te. –

- Che cosa vuoi dire? –

- Scommetto che devi aver sognato mille volte di toccare la luna. –

- Toccare la luna? –

- Andartene. Via, lontano dalla vita che hai vissuto fino ad oggi. –

- Io non fuggo. –

- Beh, magari dovresti. Sarebbe un modo come un altro per scoprire che cosa significa correre. –

- Parli in modo strano. Non riesco a capirti. –

- Sì, lo so, non farci caso. Forse è soltanto questa bella luna di stasera. –

- Sei buffo. Sei come le maree, che risentono dell’influsso di un satellite così lontano. –

- Hai ragione. È vero, sono proprio come una marea, e risento dell’influsso di qualcosa che purtroppo è lontano. Lontano da Konoha, lontano da me, lontano da dove lo vorrei. Anche se ogni tanto ho la possibilità di avvicinarlo, al contrario della luna. –

- Perché noi siamo uomini. Se ci avviciniamo non corriamo il rischio di sconvolgere il mondo. –

- Già. La povera luna non potrà mai raggiungere la sua marea senza precipitare sulla Terra. Mentre noi, se ci avviciniamo, se proviamo a toccarci, beh… al massimo saremo noi ad esplodere. A conti fatti è meglio essere uomini. Non lo credi anche tu? –

 

 

Gli incubi ti scuotono violentemente,

E io mi sveglio con te, sentendoti muovere

Perché io

Ti amo.

 

 

- Gaara aspetta, non correre! –

- Che tu sia maledetto! –

- Gaara! –

- Lasciami! Ti ho detto di lasciarmi! Ah! –

- Dove diavolo pensavi di andare, eh? –

- Non sono affari tuoi. Lontano da qui, lontano da tutto. –

- Lontano da me? –

- Soprattutto da te. –

- Gaara… -

- Ti odio. –

- … -

- Io ti odio! –

- Gaara aspetta. –

- Perché!? Dimmi perché?! –

- Perché cosa? –

- Perché tu non hai paura di me! Perché, maledizione, perché non riesco a farti paura! –

- Gaara… -

- … Perché con te non ci riesco. A tenerti a distanza. Dimmelo, Rock Lee della foglia. Dimmelo. –

 

 

Perché io

Ti amo.

 

 

- Anf… accidenti se sei forte. –

- Hai abbassato la guardia quando sei scattato in avanti per attaccarmi. –

- Lo so. E tu non ti sei lasciato sfuggire l’occasione. –

- Non riuscirai a penetrare le mie difese. Non con la tua sola forza fisica. –

- E invece ci riuscirò. Mi allenerò duramente, diventerò sempre più forte, e un giorno ti batterò. –

- Perché? –

- Beh, perché… Perché… -

- Non mi batterai mai, se non avrai una ragione per farlo. –

- Ma io ce l’ho! È solo che mi vergogno a dirtela. –

- …? –

- Mi prometti che non mi ucciderai? –

- No. Dillo e basta. –

- D’accordo. Io… io… vogliobattertiperchécosìpoipotròproteggertipersempre! –

- … -

- … Dammi cinque secondi di vantaggio prima di tentare di stritolarmi! –

- Sia. 1… 2… 3… 4… -

 

5

 

- … Grazie, Rock Lee. –

 

 

E cicatrici di vento e pioggia

E sabbia ruvida

Sulla tua pelle fragile.

 

 

- Non riesco a capire se sei ironico o meno. –

- Uhmpf. Mi disarmi quando dici così, sai? –

- Perché? –

- Perché mi sembra di avere a che fare con un bambino. Voglio dire, tu sei straordinario, ma quando si tratta di vivere, semplicemente di vivere, allora ti perdi nella tua stessa ingenuità. –

- Mi reputi ridicolo? –

- Nient’affatto. Mi piace da morire poterti guardare mentre cerchi di orientarti. Mi sento un privilegiato. –

- E’ un privilegio vedermi così? –

- Non intendevo dire questo. Perdonami, non volevo offenderti. –

- … -

- … -

- … -

- E comunque no. Non ero affatto ironico. Tu sei davvero prezioso per me. Tanto. –

- Prezioso? Come può una persona essere preziosa? –

- Una persona è preziosa quando dentro di te senti che il tuo cuore batte forte. –

- Capisco. Batte forte perché vuole uscire e andare da lei, non è così? –

- E’ proprio così. –

- Sì. capisco. Lee? –

- Uhm? –

- Credo che il mio cuore voglia venire da te. –

- Sì. Anche il mio vuole venire da te. –

- Quindi… se adesso noi ci scambiassimo i cuori, continueremmo a vivere? Voglio dire, se il mio cuore batte dentro di te, e il tuo batte dentro di me, noi non moriremo, giusto? –

- Esatto. –

- D’accordo. Però, Lee? –

- Dimmi. –

- Giurami che me lo donerai davvero, il tuo cuore. Non voglio ritrovarmi un’altra volta senza. –

- Hai la mia parola, non ti lascerò morire, Gaara. Il mio cuore è già tuo, e che mi piaccia o no ti cercherà sempre, sempre. –

 

 

Io ti proteggerò.

E' la mia missione.

 

 

- Che cosa siamo noi, Lee? –

- Noi? Uhm, che domanda difficile. –

- Non lo sai nemmeno tu? –

- Non ne sono certo. Però una mezza idea ce l’ho. Mi basta pensare a te. –

– Cosa vuoi dire? –

- Beh, forse ti farà un po’ ridere, però penso che, qualsiasi cosa noi siamo, siamo una cosa bella. –

- Tu credi che noi due siamo belli? –

- Diciamo che posso sperare di vivere della tua bellezza riflessa. Da quando ti conosco la mia concezione di ciò che è bello è cambiata parecchio. –

- E perché pensi che io sia bello? –

- Non lo penso. Per me lo sei e basta. Perché, tu non pensi che io sia bello? –

- Penso che tu sia strano. –

- Uhmpf, già, lo immaginavo. –

- Però… -

- Mmh? –

- Però vai bene così. Voglio dire, non credo che mi andresti bene, se fossi diverso. –

- Sì. Nemmeno tu potresti essere migliore di come sei. –

- Allora siamo belli perché ci andiamo bene? –

- Sì. Sì, forse è proprio così. –

 

 

Proverò ad aggiustare la tua anima, e spero che ti basti,

Perché non ho molto altro da darti.

 

 

- Sai Gaara, ci sono volte in cui mi sembri fatto di vetro soffiato. –

- … -

- Ho persino paura di toccarti, perché penso che qualsiasi cosa io possa dire o fare, finirei per romperti. –

- … -

- Per mandarti in frantumi. –

- No. –

- …Uhm? –

- Io ti prometto che non mi romperò. Però tu… toccami. Per favore. –

 

 

Ma qualsiasi cosa accada

Dopo ogni battaglia,

 

 

- Dov’è lui? –

- Ferito! –

- Cosa? –

- State attenti, vengono da questa parte! –

- Lee fermati, non puoi andare di là! –

- Argh, Neji! Maledizione! –

- Lo fermo io, voi penate a correre! –

- Shikamaru! –

- Correte! –

- Naruto vieni! Lee! –

- Io torno indietro. –

- Cosa? –

- Non pensarci nemmeno. –

- Attenti! –

- E’ là. È là da qualche parte, senza di me. -

- Sei pazzo, non puoi! –

- Non ce la farai. –

- Devo andare. –

- No, Lee! –

- Fermati Lee! –

 

- GAARA! –

 

 

Dopo ogni onda del mare

E dopo ogni duna di questi deserti

 

 

- Lee… Uhm. –

- Ti prego. Ti prego dimmi che non ti sto facendo male. –

- N-no. Non credo. –

- Vuoi che rallenti? –

- No. Non rallentare. –

- Gaara. Dio, è così bello. –

- Io… nnh… Nnh! –

- Sento… anf… sento la sabbia che si muove attorno a noi. –

- Non attaccherà. Tu non sei un minaccia. –

- No, mai. Mai, Gaara, mai. Lo giuro, lo giuro su questo momento. –

 

 

Dopo vite infinite trascorse a piangere

Dopo il sangue, e dopo ogni nome

 

 

- Che cos’hai intenzione di fare, allora, Lee? –

- Che domande. Mi prenderò cura di lui. –

- E’ una cosa seria? –

- Sì. Credo di sì. –

- Capisco. I tuoi occhi sono sinceri, ragazzo mio, ma credi di avere la forza per prenderti cura di Gaara? –

- Non lo so. Ma ce la metterò tutta, maestro Gai. –

- Ne sono certo. E lui, Lee? –

- Lui? –

- Che cosa saprà darti, in cambio? –

- Lui… Beh, è difficile da spiegare. Lui in fondo è un po’ come una stella. –

- …? –

- Vede, non è che lui non voglia dare nulla. È che non sa fare altro che brillare, lassù, più in alto di qualsiasi altra cosa. E in questo modo, senza dare nulla, dà tutto se stesso. È di questo che mi nutro, maestro. –

- E quando sarai sazio, che cosa farai? –

- Sazio? Maestro, ci si può mai saziare della luce di una stella? –

 

 

Dopo ogni sogno e dopo ogni incubo

Dopo il dicembre

 

 

- Vieni con me. –

- Dove? –

- Ti faccio vedere il mondo. –

- Da un tetto? –

- Certo! –

- … -

- Allora, ti piace? –

- Questo non è il mondo. È Konoha, è il tuo villaggio. –

- Lo so. –

- … -

- Come mai quella faccia? –

- Non riesco a capire. –

- Beh, meglio così. Quando non capisci fai un viso bellissimo. –

- Io… cosa? –

- Eh sì. Da questo tetto riesco a tenere gli occhi su tutto il mio mondo. Proprio tutto. –

 

 

Dopo ogni promessa fatta e tradita,

Dopo che tutto sarà scivolato via,

 

 

- Uhm. –

- Continua a dormire. È notte fonda. –

- Nnnh. –

- Shhh. Dormi. Dormi, Gaara, ci sono io qui con te. Per una volta, suppongo che i ruoli si possano anche invertire, non credi anche tu? Per una volta, voglio essere io a passare una notte di veglia, mentre tu dormi. –

 

 

Tu avrai sempre

Me.

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Finita anche questa. L’avrò riguardata almeno cento volte, prima di decidere che ok, aveva un aspetto definitivo. È come se questa shot avesse preso a dilatarsi all’infinito fra le mie mani, e suppongo che vada bene così, visto che l’effetto ricercato è più o meno questo! ^_^

 

Quanto entusiasmo per Zoophilia, non me lo aspettavo!

 

Dark: eccola, la solita pervertita! X__X Su, su, la mia mente non arriva a tanto. Per ora… (risatina sadica, e sguardi eloquenti a Akamaru e a Pack)

 

Little: il tu sai cosa procede, appena sarò lontanamente soddisfatta ti manderò la bozza! Che bello, felice che il finale ti sia piaciuto!

 

Tinebrella: arrossisco! Anche io li adoro, devo dire che lavorare a questa coppia mi ha molto, molto ispirata!

 

Siz: hihihi, un’altra anti-Hinata… Verissimo che su coppie un po’ particolari c’è poco materiale, ed è un gran peccato! Mi adopererò per la rivalutazione!

 

Solarial: nooo, povera Melanto, mi sento in colpa! Sono molto contenta di essere riuscita a tenere le redini dei personaggi saldi, grazie al cielo sono un’anti pucci per vocazione, quindi non mi viene nemmeno troppo difficile esprimere un affetto che sia un po’ diverso dal “mi ami, ma quanto mi ami?”

Mia cara, non sei affatto invadente! Magari una Kiba/Hinata potrebbe starci. Una Hyugachest però mai, sono assolutamente allergica a Hinata da questo punto di vista, i miei sensibilissimi sensi di slasher avrebbero un collasso nel vedere Neji accoppiato in modo anche solo lontanamente eterosessuale! XD

 

Artemisia: hihihihi, dai che per il momento non ho nemmeno maltrattato troppo Hinata, so fare di peggio! Dio, io ADORO Shino perché secondo me ha una sensualità intrinseca che semplicemente ti strega. Kishimoto prima o poi mi ucciderà, se non la pianterò di farmi filmini mentali impossibili, ma è semplicemente così, Shino è un personaggio che meriterebbe tre o quattro volumi solo per lui. Ho letto la shot che mi hai consigliato, e hai ragione, l’ho davvero adorata, è assolutamente spirituale, ecco.

 

Two Dollar Bill: Non sei l’unica ad adorare Gaara, e questo cap ne è la prova!

 

Rael: ti ringrazio tanto!

 

Kamusa: grazie infinite, mi fa un piacere immenso che tu abbia apprezzato la resa dei personaggi, è sempre quello il cruccio peggiore.

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Capitolo 16
*** Istambul (Shikamaru/Temari) ***


Premessa: ho scelto questo (inusuale) titolo perché la scrittura di questa shot è stata accompagnata da “Gates of Istambul” di quella dea che è Loreena McKennitt

Premessa: ho scelto questo (inusuale) titolo perché la stesura di questa shot è stata accompagnata da “The Gates of Istambul” di quella dea che è Loreena McKennitt. Ma non è una songfic, la canzone è nulla più di un sottofondo sonoro.

 

 

 

 

Istambul (Shikamaru/Temari)

 

 

 

La notte dorme, qui a Suna. Te ne sarai accorto anche tu, osservatore di venti.

Benvenuto, straniero. Benvenuto nel mio palazzo.

 

- Troppa pace, non credete anche voi? –

Il sorriso ferino di Kiba perforò la semioscurità della sera stellatissima.

 

- Già. Che ne dici di un bel duello all’ultimo sangue, Inuzuka? – sibilò Kankuro, ticchettando pigramente le dita sulla superficie liscia del tavolo rotondo attorno a cui si erano tutti seduti.

 

Quasi tutti.

 

Shikamaru osservava in rispettoso silenzio quello che sempre più stava assumendo ai suoi occhi la consistenza di un rito.

Perché Temari avesse abbandonato il salone dove la delegazione di Konoha era stata accolta e ricevuta, lui non lo sapeva.

Perché avesse salito quei gradini di marmo chiaro di fretta, arrampicandosi lungo corridoi sempre più stretti, e sempre in salita, fino a lì, fino a quella stanza strana, porticata, aperta, ariosa.

 

Sapeva che lui l’aveva seguita. Lo sapeva perché lo aveva voluto, lo aveva persino preteso, si era assicurata di avere per sé tutte le sue attenzioni fin dal primo momento in cui lui e i suoi compagni avevano messo piede in quel palazzo, e adesso Shikamaru rispettava il silenzio intriso di vento soltanto perché il gioco lo richiedeva, non certo per restare nascosto.

 

Non mi vedi?

Non mi vedi, da sola, ballare la buio?

 

Che lei fosse bella, Shikamaru lo vedeva. Tutti potevano vederlo, che diamine, non era certo un segreto per gli occhi. Ma ciò che lo faceva sorridere era l’arrogante quasi certezza di essere il solo ad intuire in cosa consistesse esattamente la bellezza di Temari, e per quale motivo risultasse così ostica, così dura da masticare ai più.

C’era quella punta di selvatichezza in lei, in quella luce che emanava, che non aveva nulla di languido, ma semmai di potente, di robusto, di consistente come la sabbia bagnata fra le dita, che sembra polvere di fango modellabile e capricciosa, scivolosa e allo stesso tempo coesa, coerente con sé stessa nei suoi disegni astrattizzanti.

Il suo sorriso furbo e penetrante, le labbra sottili che si guardavano bene dal chiedere baci, i capelli lasciati alla loro natura ispida senza vergogna, ma sempre in ordine, quel giusto che bastava per ribadire che era una donna anche lei.

Probabilmente era proprio un dettaglio come questo a renderla, ai suoi occhi, più donna di chiunque altra.

 

C’era tutto il suo segreto, in quei suoi occhi troppo affilati per poter recitare la parte della cerbiatta, e nel suo totale disinteresse a recitare una parte simile. Una voce, quando ti guardava, che ti diceva che lei non sarebbe mai stata la cerbiatta di nessuno, e questo valeva da solo come un universo.

 

Principessa, muovi quei veli perché io non ti possa vedere. Non bene, non quanto vorrei.

 

Il desiderio è una partita di strategia giocata con due sole pedine.

E loro erano degli ottimi strateghi.

 

Temari sfuggiva anche alla presa più ferrea, come se fosse perennemente avvolta dal vento instabile del deserto, come se fosse capace di sciogliere il proprio corpo in granelli della sabbia più sottile, e disperdersi nell’aria torrida e tremula del suo stesso, materno deserto.

 

Shikamaru aveva il dono di non avere bisogno degli altri, di rendersi estraneo a ciò che non fosse strettamente indispensabile, di non lasciarsi incantare da promesse qualsiasi.

 

In definitiva, erano entrambi molto bravi a sfuggire, e se la loro evanescenza li rendeva impalpabili ai più, era probabile che il loro incontro avrebbe significato una penetrazione profonda, addirittura assoluta, come quella labile e inscindibile fra nubi e sabbia.

Né l’uno né l’altro erano prede da catturare stringendo le braccia in una stretta possessiva, perché una volava via nel vento, l’altro si faceva nube vaporosa, e gli elementi dell’aria non amano accordi e giuramenti che li costringano in maglie troppo sottili e soffocanti.

 

Guerriero, tu che sfuggi alle illusioni, vieni a provare le mie dita.

 

Temari ignorava di proposito ogni regola ed ogni doppio senso, preferiva velature trasparenti a maschere deformi, perché non aveva bisogno di atteggiarsi ad una dolcezza che non le apparteneva tanto quanto quella combattività fittizia e tutta maliziosa dietro cui si nascondevano chissà quante ragazze, ansiose di dimostrare qualcosa che non erano.

Non le serviva esibire una voglia di libertà che non voleva davvero, un’indipendenza indesiderata, come facevano le altre. Lei la libertà se la prendeva, e guai a toccargliela. Lei non ti guardava senza dolcezza perché dolce non lo era, e fine della storia. Eppure aveva tutta una vita che si accendeva in lei ad ogni passo, ad ogni sguardo, e il suo sorriso somigliava per davvero ad un ventaglio fatto di cento sensazioni diverse, di sfumature e di significati sfuggevoli ed  inafferrabili come imbrogli di carta.

 

Lo svanire lento di un filo di fumo.

Ci siamo io e te, ospiti della notte.

 

Il gioco della sensualità più fine affonda generosamente le sue dita nelle ambiguità della nostalgia e della tristezza, e mentre lui le sfiorava una guancia, sentiva la voce di lei, calda e rauca come sabbia strofinata sulla gola, raccontare cose, additare ricordi, confidare bugie piene di significati timidi e scorciati.

 

Quando le accarezzò delicatamente il seno, con due dita appena, morbido e rotondo, e chiuso dentro cinghie dal significato guerriero, sentì il profumo di lei liberarsi dalla pelle e salire come un fumo d’incenso, e invitarlo a quietare il proprio cuore fra le spire di un abbraccio che aveva uno strano sapore incestuoso e lento, come miele colato ancora grezzo.

 

Nei tuoi occhi si specchiano acqua e sale.

Ci siamo io e te, ospiti della magia.

 

Sarebbe potuto finire in quel momento, come continuare per sempre. Il loro avvolgersi insistente, il loro spogliarsi ad occhi chiusi, quello stesso cielo nero che li faceva sentire nudi e nascosti, ed ogni altra cosa, tutto sarebbe potuto finire. Come una battaglia nella quale ci si lancia senza sapere se se ne uscirà mai, eppure lo si fa, alla cieca, perché non importa, perché la sabbia forse inghiottendoti ti uccide, ma mentre affondi almeno senti calore, calore e piacere, e ti lasci rubare via il respiro senza che ti interessi più combattere per tenerlo.

 

Non serve più, il respiro che porta parole, e scatena malintesi, doppi sensi, guerre e compromessi, e sorrisi deboli e stracciati. Bastava una musica che non c’era, un rito antico evocato con imprudenza, il frusciare dei vestiti di Temari, delle mani di Shikamaru.

 

Prigionieri della notte, forse. Ma almeno, quella notte era la loro.

 

- Hey Kiba, sai dov’è andato a cacciarsi Shikamaru? –

- Mah, e chi lo sa. Probabilmente sarà andato ad appollaiarsi su qualche tetto per guardare le sue stupide nuvole. –

- Uhmpf. Già, hai ragione. Sempre a correre dietro alle nuvole, quello. –

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Capitolo 17
*** Going Nowhere (Hinata) ***


NOTA: questa è la mia personalissima visione di Hinata

NOTA: questa è la mia personalissima visione di Hinata. Ho cercato di toccare non tanto le scontate considerazioni sulla sua situazione, ma un perché forse inedito, che secondo me è meno lontano dal vero di quanto potrebbe sembrare.

 

 

Going Nowhere (Hinata)

 

 

Hinata Hyuga non era degna del nome che portava.

 

Lo sapeva lei, lo sapeva suo padre, suo cugino, persino sua sorella. Forse lo sapevano anche i suoi compagni; lo immaginavano, quantomeno.

La sua maestra, l’Hokage, tutti.

Lo sapevano davvero tutti.

 

La vita di chi non è adatto al proprio compito si costruisce disordinatamente, con mattoni crudi, sulle fondamenta instabili della necessità di vivere, e quando ci si ritrova nella condizione di non sapere nemmeno più quale sia, poi, questo compito di cui tutti parlano, per il quale tutti lavorano sudando anche il sangue, allora la sensazione di essere inadeguati si solidifica come colla al sole, fino a formare un muro scivoloso che attutisce tutte le sensazioni migliori, e tu ti ritrovi a constatare che le tue braccia non sono abbastanza lunghe e forti per riuscire a riprenderti ciò che dovrebbe appartenerti di diritto.

Ti ritrovi a sentirti una ragazzina di gesso, una statuina nemmeno troppo preziosa e certamente troppo immobile e delicata per riuscire a rendersi in qualche modo utile. Una farfallina gentile finita per qualche motivo in un mondo dove nessuno aveva tempo né voglia di occuparsi di lei.

 

Hinata aveva smesso da molto di vedere riflesso nei suoi occhi il potere della sua famiglia. Da anni a questa parte ormai, ogni volta che si guardava allo specchio, per lei non c’era altro che un paio di occhi pieni di fumo che ricambiavano inespressivi il suo sguardo, inutili almeno quanto lei, e per di più opachi e illeggibili.

 

Ed ogni volta le tornavano in mente la calma caustica con cui Neji l’aveva demolita, pezzo dopo pezzo, alla selezione per Chunin, nonostante per qualche istante fosse persino riuscita a ravvisare un’isola su cui poter riparare, un miraggio offerto dalla voce chiassosa di una persona che per lei era sempre stata come una stella. Con il tempo però, e ne era trascorso abbastanza perché quell’esperienza sedimentasse in lei, Hinata si era resa conto che le grida disordinate e appassionate di Naruto che le avevano regalato una scintilla di coraggio e di amor proprio erano state zittite dalle parole più misurate, più affilate e più vere di suo cugino Neji, e semplicemente non avevano retto il confronto ed erano andate dissolvendosi, come lei del resto.

 

Hinata non poteva andare avanti ammirando ed invidiando Naruto. Questa era stata l’unica vera lezione che aveva imparato quel giorno.

 

E non poteva nemmeno vivere lasciandosi terrorizzare dal rancore di suo cugino, o presto si sarebbe ritrovata vuota, e probabilmente pazza.

Lei avrebbe tanto voluto trovare il coraggio di dirgli, un giorno, che glielo avrebbe ceduto volentieri, il suo titolo di erede, se avesse potuto, se solo avesse potuto. Gli avrebbe ceduto responsabilità e aspettative con una gioia immensa, perché a lei non importava niente di tutto questo, e quella volta, all’esame, lui aveva avuto ragione a dire che il solo motivo per il quale lei si era trovata faccia a faccia con lui erano i suoi compagni. Più esatto ancora sarebbe stato dire che il suo era stato un patetico tentativo di dimostrare qualcosa nell’unica lingua che la sua famiglia avrebbe compreso, quella della lotta.

 

Salvo poi rendersi conto che non avrebbe voluto dimostrare proprio un bel niente.

Non era tagliata per essere una ninja?

Sì forse sì.

Forse sarebbe stato davvero meglio per tutti se lei si fosse semplicemente fatta da parte, e si fosse messa, chissà, a coltivare fiori, ad occuparsi di faccende altre, magari ad insegnare, perché no.

 

Paradossale a dirsi, quel briciolo di coraggio che Hinata era riuscita a spolverare dentro di lei lo aveva trovato proprio quando aveva realizzato che le parole di Neji le avevano fatto molto meno male di quanto avrebbero dovuto.

 

Il punto era che qualcosa cominciava ad insinuare in lei l’idea che non ci fosse proprio nulla di sbagliato, nel non voler spendere la propria vita con un kunai fra le labbra, perciò no, Hinata non era tagliata per essere una ninja, a Hinata non importava davvero di esserlo, e ciò che faceva lo faceva solo perché le sue ambizioni erano pilotate e false.

 

E sempre più spesso, come una litania pazza, le tornavano in mente tutte quelle volte che suo padre l’aveva mandata a chiamare per allenarla, e lei aveva dovuto riporre le sue bambole e prepararsi a sanguinare.

Era soltanto una bimba alta nemmeno come una seggiola, e scoccava sempre uno sguardo nostalgico, a quelle sue belle bambole vestite di abiti di seta, con il viso dipinto da un sorriso dolcissimo.

 

Hinata era nata Hyuga, ma non era nata ninja.

 

Si nasce con un cognome, ma non si nasce con la voglia, la forza e l’ambizione di portarlo avanti. Essere ninja non è qualcosa che scorre nelle vene, non è qualcosa che si inculca a forza, come una sorta di vaccino, e non è nemmeno qualcosa che si fa proprio passando le proprie giornate ad osservare la tua famiglia che ti osserva di rimando, e che si aspetta sempre qualcosa da te.

 

Hinata ammirava Naruto perché era determinato, non perché era forte. Lo ammirava e forse lo amava persino perché era coraggioso, non perché era un guerriero, e perché aveva fatto una scelta precisa e la difendeva ad ogni costo, non perché quella scelta fosse di diventare Hokage.

 

Hinata non voleva un modello da raggiungere, né una dispensa di maestria tecnica e di potenza.

Voleva un padre, un uomo grande e protettivo da chiamare papà, un uomo che non la rimproverasse, se la notte aveva paura dei tuoni, che la accompagnasse a passeggiare e che le volesse bene, che le sorridesse, ma nonostante lei ce l’avesse messa tutta, come figlia, per assecondare e rendere suo padre fiero di lei, lui non aveva mai fatto nulla per accettare lei come un qualcosa di autonomo e, nel suo piccolo, indipendente.

 

Voleva una sorellina, e non una bambina che la giudicava dal basso della sua statura con gli occhi già gelidi di chi invece si trova a suo agio con il suo destino, di chi si è diligentemente fatto vaso delle ambizioni altrui e si è adeguato senza proteste né riserve. Spessissimo Hinata si ritrovava persino a chiedersi se lei fosse l’unica a vedere Hanabi per ciò che era, una bimba sradicata alla sua infanzia, che non sorrideva mai, che aveva già imparato a memoria il decalogo del fanatismo Hyuga.

 

Voleva un cugino, una persona amica e complice, non un ragazzo che la odiava furiosamente per qualcosa che lei non aveva mai fatto, né tantomeno voluto. Avrebbe persino voluto aiutarlo, Neji, cercare di proporsi come un ponte fra la sordità del suo odio e la cecità della tradizione che gli impediva di lottare per i suoi sogni, come chiunque altro. Ma ogni volta che tentava un sorriso al suo indirizzo, lui la feriva con il suo dolore, così definitivo e superiore, la allontanava come se portasse una malattia, e sempre più lei pensava che non fosse poi così falso, che la condanna del suo nome fosse davvero un morbo fuor di metafora.

Il nobile morbo degli Hyuga, la malattia che tutti, tranne lei, sembravano ansiosi di contrarre.

 

Hinata non aveva bisogno di essere incoraggiata e spronata, aveva solo bisogno di essere lasciata in pace, di essere lasciata libera di prendere la sua strada, perché anche un incitamento gridato con tutto il cuore è una catena che ti costringe su un percorso, è un atto di fiducia riposta a priori, figlio della convinzione che Hinata Hyuga volesse, fortemente volesse, diventare una vera ninja.

Perché una Hyuga non può non volere.

 

Per questo Hinata Hyuga era una ribelle.

 

A modo suo lo era, una sovversiva silenziosa, un gemito inascoltato contro la mentalità dell’induzione, e la sua indolenza addolorata non era altro che un tenue “non voglio” che cadeva nel silenzio di chi non vuole ascoltare, ma che si ostinava, giorno dopo giorno, a gemere, e gemere, chiamando nomi, implorando pace.

 

A Hinata Hyuga non piacevano i kunai. Piacevano le bambole, e i loro sorrisi di porcellana.

 

Per questo Hinata Hyuga non era degna del nome che portava.

 

ANGOLINO!

 

Eccomi di ritorno dalle vacanze. L’aria parigina mi ha ispirato questo pezzo, anche se mi ha lasciata un po’ a corto di coppie per le prossime storie, accidenti!

 

Bambi88: grazie di tutto cuore per i bellissimi compimenti, sei sempre un tesoro!

 

Tinebrella: yesss, sono felicissima di aver reso adeguatamente Temari, la mia stima per quella donna è sconfinata!

 

Artemisia: Waaa, ma come si fa a ringraziarti a sufficienza? Soprattutto considerando che quando mi do all’het mi muovo sempre un po’ a tentoni, e che Shikamaru è il mio cruccio e la mia delizia, perché renderlo come merita è un’impresa quasi disperata.

 

RedBlack: hihihihi, le raccolte servono proprio a far contenti un po’ tutti, e le Sasu/Naru sono sempre bene accette! Tranquilla, contaci di vedere qualcos’altro su di loro, sono pur sempre la coppia praticamente canon, e si sa che io nutro una sconfinata devozione per il canon! XDDD

 

Kamusa: grazie mille, addirittura la più bella? Mi fa davvero molto piacere!

 

Little Star: grassie grassie grassie! A proposito, grandi novità! ^___^

 

Daidouji: beh, detto da una sostenitrice delle Ino/Shika il tuo complimento vale doppio, quindi non posso fare altro che chinare la testolina e ringraziare infinitamente. Magari in attesa di dedicare qualche pagina anche a Ino, e sperare di essere all’altezza.

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Capitolo 18
*** Raindrops(Itachi/Sasuke) ***


Raindrops

NOTA: Come avrete avuto modo di capire, la fic tratta di incesto. Mi sento quindi in dovere di avvertire che il contenuto è piuttosto forte.

La tematica sessuale è presente, anche se rigorosamente solo per accenni.

 

 

 

 

Raindrops (Itachi/Sasuke)

 

 

Continuava a piovere, a Konoha.

 

Da giorni pioveva, pioveva sempre, sempre, maledettamente sempre.

La pioggia non ha bisogno di giustificarsi con niente e nessuno, lei viene e tocca tutto ciò che le pare, bagna cose, case, capelli, bocche, non è un problema, per lei, non ha altra preoccupazione che il sole, che prima o poi verrà e la porterà via, l’asciugherà lasciando sparse in giro tante tracce, onde di polvere bianca che macchieranno muri, panchine, finché non se ne svaniranno in silenzio anche loro, e allora non resterà che attendere la prossima pioggia.

 

Sasuke si chiedeva come facesse la pioggia, ogni volta che veniva e cadeva, a dare l’impressione che non sarebbe finita mai. Era incredibile, era così sempre, e quando l’acquazzone immancabilmente finiva lui si dava dello stupido, del bambino, ma la volta dopo era daccapo, a guardare fuori dalla finestra e a dirsi, sussurrandolo appena perché nessuno potesse sentirlo, che forse quella volta, quella volta non si sarebbe fermata mai più, avrebbe continuato a cadere da quella nuvola infinita e livida che copriva il villaggio, il bosco, ogni cosa.

 

Itachi.

 

Anche Itachi gli era piovuto addosso, la notte prima.

 

Sasuke non provava alcun interesse particolare per la pioggia, ma quando la vedeva scendere non cercava mai di proteggersene, come facevano tutti. Non allungava il passo per arrivare a casa prima, non si tirava la giacca sulla testa, non si preoccupava nemmeno di evitare le pozzanghere che si formavano nelle irregolarità della strada.

 

Anche Itachi aveva la curiosa peculiarità di accumularsi nelle pieghe, proprio come gocce di pioggia, si annidava nelle ferite e lentamente sedimentava, facendo marcire tutto quanto.

E come la pioggia, aveva l’abitudine di macchiargli i vestiti. Anche se la sostanza con cui lui lo macchiava non era propriamente acqua, non del tutto. Ma anche quella, quando si seccava, produceva tracce rifrangenti, come acqua piena di calcare. Sasuke le osservava sempre per parecchio tempo, quelle macchie, registrava con cura il loro evolversi, prima di trovare la forza, il coraggio, la disperazione di buttare la sua roba in un catino e lavare tutto quanto, furiosamente, lavare le tracce di suo fratello, almeno quelle fuori di lui.

 

Itachi filtrava come pioggia in quella che era stata la sua stessa casa fino a pochi anni prima. Scivolava oltre le guardie che controllavano i cancelli di Konoha senza farsi notare, una goccia mescolata ad un’infinità di gemelle, indistinguibile, inafferrabile. Lo faceva senza uccidere, lo faceva quando più gli andava, giungendo da chissà dove, e scomparendo chissà dove qualche ora dopo, con il primissimo albeggiare.

 

Sasuke non lo sentiva quasi mai arrivare, se lo trovava davanti all’improvviso, stagliato immobile contro il muro, nella penombra, che lo osservava in silenzio, come se fosse stato lì da sempre, una statua guardiana e solenne.

 

Anche se da qualche tempo le cose erano un po’ cambiate.

Da tre o forse quattro volte a quella parte, Itachi era stato un po’ più rumoroso nell’entrare, e lui aveva sempre fatto in modo di essere davanti alla porta, per guardarlo levarsi le scarpe e liberarsi del mantello.

Si sarebbe quasi potuto dire che avesse cominciato ad aspettarlo. Con la gola annodata, con le mani sudate e fredde, con il cuore che, da solo, rimbombava nell’ingresso ampio e spoglio, pulsando talmente forte da scuotere il paravento e la porta di carta di riso che dava sulla cucina, lui se ne stava lì ad aspettarlo sulla soglia.

 

Forse Sasuke lo faceva soltanto per riuscire a sfidare gli occhi di Itachi, per cercare di tenergli testa almeno con la dimostrazione che non aveva paura di lui, che c’era, che non scappava.

O forse lo faceva perché quegli occhi, li voleva vedere il prima possibile.

 

Non aveva idea del perché suo fratello venisse di tanto in tanto a fargli questo. Aveva smesso da parecchio di illudersi di conoscerlo, ma nonostante tutto non era mai stata una questione di violenza, nulla che potesse essere classificata univocamente.

Itachi lo spogliava, si spogliava, lo avvicinava ad un letto, il primo che c’era, e lo prendeva senza essere brutale, con calma e attenzione, lo toccava senza permettergli troppe confidenze con il suo corpo, imponendogli il suo dominio con naturalezza, gentile e gelido, zitto, e più lo riempiva, più lui si sentiva vuoto, disperatamente, esaltantemente vuoto.

 

Semplicemente, non aveva senso.

 

Itachi non gli parlava quasi mai. Anche se quel poco che diceva lo colpiva dritto al cuore, al cervello, alla faccia, sferzandolo come pioggia mista a grandine gelida, dopo aver odiato il mio nome, Sasuke, ti ritroverai ad odiare persino la parola “fratello”.

 

Una profezia, avveratasi la volta in cui Sasuke aveva visto sé stesso strisciare più vicino ad Itachi, avvolto dal sonno, e in silenzio, piangendo, rannicchiarsi su di lui, così adulto e grande, così lontano, maledetto, così bello da fare tanto, tanto male.

Quella volta, quando, cercando fra i risvolti disordinati di vestiti e coperte, aveva trovato la mano di suo fratello e l’aveva stretta, cercando di guadagnare un po’ di calore, Sasuke aveva capito di essere perduto.

 

Chissà se quella sarebbe stata la volta buona. La volta in cui davvero la pioggia non avrebbe mai più smesso di cadere.

 

Sasuke uscì sotto l’acquazzone che colorava di nerastro i muretti sporchi e i tronchi degli alberi disseminati qua e là, mischiandosi al rumore ostinato dello scrosciare, e lasciando che i suoi vestiti, i suoi capelli, ogni cosa di lui diventasse un po’ più scura, inzuppandosi. La pelle del suo viso invece era diventata più simile al colore di una perla bacata, tutta tracciata da piste d’acqua che rilucevano e brillavano ad ogni passo, ma niente di tutto ciò aveva grande importanza, adesso che la pioggia c’era e lui no, lui era chissà dove, irraggiungibile, indifferente al richiamo flebile del suo fratellino spento.

 

Itachi lo aveva sempre lasciato solo a cercare di capirci qualcosa, a macerarsi lentamente nell’incapacità di comprendere fino in fondo la consistenza di ciò che erano, di ciò che facevano, così invischiati l’uno con l’altro, nell’altro, così privi di freni e di vergogne per momenti che sembravano immensi, e poi di nuovo zitti, lontanissimi, quasi smarriti.

A Itachi piaceva illuderlo, evidentemente, come la pioggia, e a lui piaceva sperare che come lei, anche suo fratello sarebbe durato per sempre, trasformandosi giorno dopo giorno da pozzanghera a lago, a mare, coprendo ogni altra cosa, persino nomi, simboli, occhi, diventando tanto immenso da non essere più suo fratello, in modo da liberarlo dal peso di quel titolo così agghiacciante.

 

Ma invece Itachi finiva, dopo lunghe ore di buio inevitabilmente finiva, ed ansimando ancora si rialzava, raccoglieva le sue cose e spariva, oppure, si sdraiava, se era ancora presto, si buttava un braccio sull’addome e dormiva qualche ora nella sua vecchia casa stuprata, con suo fratello di fianco che lo guardava con gli stessi occhi di quando era bambino, gonfi di lacrime e di ammirazione sgomenta, di paura e rispetto, e di un orgoglio malato e geloso.

 

Sasuke tese una mano in avanti, verso il niente, verso tutte le gocce di pioggia che scolavano impietose, fredde, amarognole, dal cielo grigio bluastro. Pioveva su di lui, pioveva dappertutto, e così anche lui si mise a piovere.

Si mise a piovere dalle punte delle dita, dalle ciocche di capelli appiccicate alla fronte, dagli orli zuppi dei calzoni. Si mise a piovere dagli occhi, da quelli soprattutto.

 

Sasuke chiuse gli occhi, e immaginò di toccare.

 

Fantasticò in silenzio, chiuso in un angolo d’ombra di una strada anonima, come un mendicante, fra l’indifferenza di chi scappava dal temporale.

 

Il corpo di suo fratello.

 

Sognò di toccarlo ancora, e ancora, sognò di poter mangiare quelle parti di lui che non se ne andavano mai dalla sua testa. I suoi occhi, le sue labbra fini, i suoi capelli sfuggevoli e sottilissimi, e il suo sesso, spaventoso e irresistibile allo stesso tempo, come un peccato talmente osceno da non poter uscire dalla sua bocca che se ne sta lì a gonfiarsi nella sua gola, volta dopo volta, vomitando di tanto in tanto piacere e rancore, e confusione, e paura, una paura cosmica di tutto e di niente, una paura che se ne andava soltanto quando Itachi compariva a casa, in quel luogo così naturale per lui. Chissà se Itachi si rendeva conto di quanto fosse bello vederlo sdraiato nel suo letto, circondato dalle mura della sua camera, con la sua scrivania, il suo armadio, le sue mensole, com’era sempre stato, come un dejà vu, la fotografia dolcissima di un passato disperato che Sasuke avrebbe soltanto voluto riavere indietro, tutto per sé.

 

Il corpo di suo fratello, ancora un po’ di più, ancora più dentro, ancora più sporco. Simile a lui, troppo simile per non fare paura almeno un po’, come la proiezione di un futuro indefinibile. Tantissime volte Sasuke si era chiesto, mentre suo fratello spingeva senza sforzo, ansimando dolcemente fra i suoi capelli, se un giorno sarebbe diventato come lui fisicamente, se sarebbe riuscito a raggiungerlo almeno in questo, se c’era qualche speranza di vedere un giorno la stessa bellezza assassina di Itachi riflessa in uno specchio, e quel giorno impazzire definitivamente, gridare il suo nome, quello di suo fratello, e poi morire, morire e basta, dimenticando ogni altra cosa per potersene restare un po’ da solo con i suoi pensieri.

 

Il corpo di suo fratello.

 

Dio, se solo non fosse così tanto simile alla pioggia.

 

 

 

ANGOLINO!

 

Ok, questa è uscita da sola, a tradimento, nel giro di una mezz’ora. Non pensavo che scrivere una incest facesse così male, giuro, mi ha fatto venire le lacrime agli occhi. Passo ai ringraziamenti, va, se no mi viene la tentazione di ributtarmi sul testo e non finirlo mai.

 

 

Tinebrella: felicissima che l’idea abbia funzionato, in effetti quando si va sull’introspezione è sempre questione di opinioni. Meno male che la mia non è troppo sgangherata!

 

Bambi88: guarda, la rassegnazione di Hinata è proprio la cosa che non me la fa digerire, perciò ho voluto evitarla a tutti i costi per renderle almeno un po’ di giustizia.

 

Dark: Hinata/Neji è una cosa che mi fa soffrire dal profondo del cuore… Argh, persino il mio portachiavi è un Sasuke/Neji! XDDD

 

Kamusa: ti ringrazio moltissimo, sono contenta che l’idea di base sia stata buona. Hanabi è un personaggio molto, molto interessante, secondo, me, andrebbe approfondito a tutti i costi, e personalmente spero di vederlo sviluppato nel manga.

 

Artemisia: forse ci ho messo convinzione proprio perché l’Hinata che vedo e che leggo non mi piace. Era un modo tutto mio per salvarla, chi lo sa, per salvarla dalla sua stessa rassegnazione. Per quanto riguarda la famiglia, hai perfettamente ragione, e in fondo anche Neji è un tumore, è una cellula impazzita perché non sta al suo posto, perchè cerca di sgomitare per ottenere qualcosa che non gli spetta. La situazione della famiglia Hyuga, dai padri in su, è una delle più belle da analizzare, credo che si potrebbero davvero scrivere libri su quel clan.

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Capitolo 19
*** Stars(Sasori/Deidara) ***


Before tomorrow (Sasori/Deidara)

Stars (Sasori/Deidara)

 

 

 

 

Sono pieno. Pieno, pieno di te, Deidara.

 

Lo sento quando ti cerco nella notte, fra le pieghe delle lenzuola, e ti trovo addormentato.

Mi viene da sorridere, Deidara. Capisci che mi viene da sorridere?

Non credo sia il caso di mostrartelo, questo mio sorriso di legno, però c’è questo che ti posso far sentire, se vuoi.

 

Batte piano.

 

Suppongo di dovere a lui tutte le sensazioni pruriginose e disarmanti che mi colgono impreparato, nei momenti più impensabili, strani, inopportuni, e per qualche istante mi regalano la fantasia di essere sopra ad ogni cosa.

 

La tentazione di pulirti l’angolo della bocca, quando ti rimane la traccia del latte che hai appena bevuto, e la paura che mi assale all’improvviso, nel bel mezzo di una battaglia, e che mi costringe a correre alla cieca verso di te per vedere che stai bene, che stai vincendo tu anche se lo so, perché ti conosco e diavolo, Deidara, sei forte, fortissimo, a volte persino spaventoso, e quando ti infervori per la tua arte, che cos’è quella, tenerezza? La bocca che si asciuga quando tu ti spogli guardandomi negli occhi, la tua voce vivace, e quando ridi, quando dici il mio nome impastandolo tutto come fai tu, quando soffri e non vuoi dirmi il perché, quando ti stupisci per niente, dio, sono così tanto pieno di te, così tanto?

 

- Sasori-Danna! –

 

Ti amo talmente tanto che mi sento stupido. È disarmante, è come ritrovarsi senza parole davanti ad un bambino che ti sorride.

Mi ritrovo a volerti anche quando dovrei avere la testa da tutt’altra parte, e dico davvero, non c’è sole per me, se la tua testolina bionda non riposa sul mio petto, e non c’è luce nelle stelle, se tu non mi guardi, e io vorrei tanto sapere che accidenti mi prende, lo sai?

 

- Hey! Hey, Sasori-Danna! –

 

Entri caracollando nella stanza, schiacciandoti le mani sulla testa per tenere in ordine i capelli.

Ed io mi riempio di te, ancora un po’ di più.

 

- Sasori-Danna, è tutto pronto per domani? –

- Tutto pronto. –

- Ne siamo certi? –

- Ovviamente. –

- Le marionette? I mantelli, i cappelli? –

- Mmh-mmh. –

- Le provviste, e i tonici di emergenza… -

- Deidara. –

- Sì, scusa, scusa. –

 

Mi mostri la lingua come fai sempre per scusarti del tuo essere troppo, semplicemente troppo. Mi costringi a farti un mezzo sorriso di perdono, e lo sai, vero? Lo sai, vero, che io sorrido solo a te?

 

- Deidara. –

- Sì, Sasori-Danna? –

 

Io credo di avere bisogno di te.

 

- Vieni qui. –

 

Di fare l’amore con te.

 

- Vieni qui e basta. –

 

Perché mi piace quando non badi ai tuoi capelli che si disfano sul cuscino, rubando qualche goccia del tuo sudore. Mi piacciono i tuoi occhi assorti, la loro malizia felina, e dimmi, dimmi Deidara, quell’occhio che hai allenato così a lungo, che hai reso immune ed invincibile, quell’occhio si lascerebbe mai ipnotizzare da me?

 

- Sei davvero così convinto che l’arte sia un’esplosione effimera? –

 

- Sa… Sasori-Danna. –

 

Non guardarmi con quella faccia stranita, lo so anche io che sono un pazzo. Lo so che è insano, è persino imbarazzante cercare di parlare durante il sesso, ma capiscimi, Deidara, sono totalmente fuori dal mondo in questo momento, disperato ed euforico, e al centro di tutto ci sei tu, è incredibile, è strabiliante, e io vorrei soltanto che tu lo sapessi.

 

- Come adesso, Deidara? Come questo letto, come questo orgasmo? –

 

Sono tentato di lasciarmi andare alla frana di sensazioni che mi sta trascinando a valle insieme a te, montando assieme alla passione e focalizzando pian piano ogni senso su di te, ma cercherò di non farlo per non perdermi il tuo magnifico corpo che si torce sotto di me, ballando furiosamente.

Una volta di più credo che amarti non sia sbagliato, non lo sia affatto.

 

- Sasori… -

 

Sbatti le palpebre, ti aggrappi a me, e semplicemente esplodi. Esplodi fra le mie braccia, dio, Deidara, ma che cosa sei? La preghiera di qualcuno che ti ha invocato e mandato da me, per riempirmi, oppure acqua da bere, finalmente, ma non ha importanza, non adesso. Amami, Deidara, se ci riesci, brucia insieme a me senza badare a quanto faccia male la pelle graffiata dal sole.

 

Respiro i tuoi ultimi gemiti morenti. È bello starti a guardare mentre ti ricomponi quietamente, con gli occhi ancora lucidi di piacere e di tutte quelle cose strane che tu provi per me, e di cui sei capace di parlarmi per ore senza mai smettere, gesticolando animatamente, indicando cose che non ci sono, sorridendo, arrossendo anche se non ti vergogni proprio di niente.

 

- Hey Deidara. –

 

Aspetto che tu ti sia girato verso di me, e non fiaterò finché non avrò il tuo sguardo tutto per me. Sto per mettermi a dire cose che non avrei mai pensato non soltanto di dire, ma nemmeno di pensare in tutta la mia vita, e sto per dirle a te, perciò voglio avere la completa attenzione dei tuoi occhi. Me la merito, no?

 

- Stai pensando a qualcosa, Sasori-Danna? Mi guardi in modo strano. –

- In effetti. La sai una cosa, Deidara? Mi… mi piace il tuo nome. Credo che mi piaccia molto. –

- Il… Il mio…? –

 

Deidara, già. Sai, ho provato a recitare il tuo nome come un mantra, un dolcissimo mantra, per fargli perdere ogni significato e farlo mio. Non ci sono riuscito, non l’ha perso.

Ne ha assunti molti altri, però. Mentre lo ripetevo sottovoce fioriva di mille petali e diventava via via sempre più sacro, e mi riempiva la gola di sassolini, e gli occhi di te.

 

- Ti amo, e non te lo dico mai. Scusami. –

 

Guarda un po’, sembra che le tue guance stiano bruciando. Ma non nascondermi il tuo viso soltanto perché sto cercando di stupirti un po’, per una volta. Mi chiedo cosa succederebbe se ti dicessi che sei bellissimo. Magari diventeresti ancora più rosso, e allora io potrei morire per davvero di te, e prendendo fuoco ti scalderei come probabilmente non riuscirei mai a fare con queste mie mani.

 

- No. No, Sasori-Danna, va bene così. –

 

Ho voglia di prenderti fra le braccia e respirarti fino a sentire il profumo della tua anima, e vivere di te fino a dimenticare che c’è un mondo là fuori, che ci sono cose che dobbiamo fare, e persone che dobbiamo uccidere e odiare. Non possiamo? Non possiamo semplicemente stare a guardare la fine del mondo, per una volta, insieme, su una collina, mentre tu dormi sulle mie ginocchia?

 

- Sasori-Danna? –

- Sì? –

 

Mi ritrovo ad aspettare con un groppo stretto nella gola di sentirti parlare. Persino con la tua voce mi riempi di te.

 

- Domani si parte per Suna. –

 

Sei davvero strano, Deidara. Lo dici con prudenza, come se temessi di urtarmi. Mentre io sono felice di poterti mostrare il mio deserto; sarà un po’ come aprirti la porta di casa mia e mostrarti parti di me che altrimenti non saresti mai in grado di capire.

 

- Sì, lo so. Ma adesso credo che non esista cosa al mondo di cui potrebbe importarmi qualcosa. –

 

Ricordami di non augurarmi mai più di vederti più rosso di così.

 

- Sasori-Danna? –

- Uhm? –

- Ecco. È buffo. Ma prima, per un momento, ho sperato che non finisse mai. –

- Che non finisse mai? –

- Noi due. È stato come sentirci esplodere, e desiderare di non smettere mai, di esplodere per sempre. Non so se… –

- Ho capito. È un bel pensiero. –

 

Ti alzi ancora nudo e apri la finestra che dà sul balcone della nostra camera. Il tuo corpo restituisce la tenue luce di una luna che dev’essere poco meno che piena, mentre te ne stai assorto, con i gomiti puntati sul parapetto, e ti lasci guardare per ciò che sei, un nudo straordinario scolpito dalle mani di un qualche dio pazzo.

 

- E’ una bellissima notte. – ti sento dire a mezza voce. – Il cielo è pieno di stelle. Riesci a vederle da lì, Sasori-Danna? –

 

Io non posso fare a meno di restare immobile a guardare te che ti disegni sul fondo della notte.

Sento il tuo mantello accartocciato sotto la mia mano destra; è rimasto qui sul letto per tutto il tempo, da quando te l’ho tolto, come un guardiano.

 

- Non le vedo. Ci sono troppe nuvole, Deidara. Troppe nuvole. –

- Ma Sasori-Danna, il cielo è limpido stanot… -

 

Mi guardi in modo strano, guardi la mia mano sul tuo mantello, e i ricami su di esso, sotto le mie dita.

 

E un attimo dopo ti ritrovo qui, nascosto fra le mie braccia, il mantello buttato via sulla seggiola e la finestra lasciata socchiusa su quella che sì, avevi ragione, è una bellissima notte stellata.

 

- Sasori-Danna? –

- Cosa? –

- Ciò che io ho provato prima, quando abbiamo fatto l’amore, quella smania che non finisse mai. –

 

Lasci camminare le tue dita sul mio petto, pigramente, osservandole come fosse dei curiosi, piccoli animali.

 

- E’ questo che tu senti, che tu vedi, quando parli dell’eternità? –

- … Beh. Sì, direi di sì. Qualcosa di simile. –

 

Quando hai gli occhi chiusi, il tuo sorriso è più grande ancora. È immenso. Ed io me lo sento addosso, ricreo la sensazione della pelle che non ho più per godermi il suo pigro allargarsi. In momenti come questi sento che non c’è niente al mondo che mi convincerebbe mai a rinunciare a tutto questo.

 

- Allora credo che la tua idea di arte non sia poi così male. –

 

Il tuo sorriso, Deidara. Dì pure ciò che vuoi, ma per me ha il sapore dell’eternità.

 

 

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Ebbene sì, avevo bisogno di scrivere di un po’ di amore, amore e basta, amore e al diavolo il resto. Quando l’ho riletto mi sono detta “è melenso, sì, è gratuito, sì, è inconcludente, OOC, romanticoso, sofistico, noioso.

Ok, è perfetto, posso pubblicarlo.”

 

Sasori e Deidara perché sì. Perché non si può non amarli.

 

Un grazie tutto speciale alla mia Nat, che mi ha consigliata (ricattata?) nello sviluppo di questa shot. Sei la donna della mia vita! *3*

 

E adesso qualche ringraziamento! ^^

 

Tinebrella: hihihi, penso che il doppio preferito non valga in effetti. La pioggia è il complemento perfetto, ho pensato a lei ancora prima di delineare un filo conduttore della fic. ah, l’incesto è bello, e se è yaoi è meglio!

 

NaTemari: sono felicissima che ti sia piaciuta, e grazie mille per i complimenti!

 

Partenope: grazie per la doppia recensione! Sono contenta che Hinata ti sia piaciuta perché ce l’ho messa tutta per cercare di darle una dimensione un po’ diversa, e per la incest ancora di più, perché il mio obiettivo era evitare a tutti i costi di essere troppo “forte”, trattandosi di un tema pesantino già in sé.

 

Yumi: grazie mille per la costanza, non sai quanto mi faccia piacere! Sì, ho notato che dance with me ha riscosso un bel successo ^^, presto torneranno anche il nostro bel rosso e il nostro talento di Konoha!

 

Ginny33: un’altra fan di dance with me! ^^. Grazie mille per la recensione, soprattutto se le Uchihacest non sono le tue preferite, è come se valesse doppio!

 

Dark: waaa, la tua è la recensione che mi ha fatto sciogliere! Sono in periodo fic lacrimose, o sono vomitevolmente romantiche o esageratamente deprimenti… il problema è che ho la lacrima facile anche per le recensioni! ç__ç

 

Artemisia: oh, quando si tratta di incesto ce la metto tutta per essere amorale in nome di qualcosa che vada maledettamente oltre, e qui ci tenevo come non mai a farlo. E ti dirò un’altra cosa, hai ragione sulla questione della coscienza dei personaggi, e aggiungo che oltre a quella sto maturando un amore veramente viscerale per alcuni di loro.

 

Synoa: tranquilla, leggi pure con calma, e intanto grazie per i complimenti! Certo che verrebbe fuori qualcosa di buono da quei due, dobbiamo solo metterci qui e aspettare con pazienza, magari cercando di dare una spintarella alla situazione… ^__^

 

Kamusa: wowowowowo, grazie, sono imbarazzata da tutti questi complimenti!

 

Little Star: oh, ma come sei dolce cara! Mi fai sentire in colpa a morte perché non riesco a finire la maledetta shot che sappiamo noi!!!

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Capitolo 20
*** I hate you (l'ottava porta) (Lee/Neji) ***


I hate you (Lee/Neji)

NOTA: Questa shot è il seguito del capitolo 9, “Sette Porte”, ed è dedicata a Dark, che l’ha voluta, fortissimamente voluta ( e che mi ha prontamente corretto l’errore di battitura della scena topica) ^__^

 

 

 

 

I hate you (l’ottava porta) (Lee/Neji)

 

 

 

Lee aveva un’espressione serena dipinta sul volto.

 

E aveva ripreso colore, dannazione. La pelle della sua faccia aveva di nuovo uno stramaledetto colore.

 

Neji se ne stava immobile al centro della stanza, cercando di ritrovare la sua strada fra l’odore pungente di disinfettante, il bagliore esagerato delle pareti e il cicaleccio sommesso di infermieri e medici che si muovevano dietro la porta della stanza di Lee che si era appena chiuso alle spalle.

 

Il letto su cui lui riposava era in ordine, qualcuno probabilmente lo aveva adagiato e poi gli aveva sistemato addosso le coperte come fosse stato un fantoccio. E a ben guardare era esattamente questo che doveva essere sembrato ai medici che lo avevano soccorso appena arrivati lì. Nulla di più di qualcosa già andato irrimediabilmente perduto, qualcosa di rotto, di guasto.

 

Ma avevano sottovalutato Lee. Errore che, ironia del destino, tendevano a fare tutti, lui per primo. E Neji doveva ammettersi anche piuttosto recidivo, in questo.

 

- Neji. –

 

Neji si riscosse dai suoi pensieri, seccato. Lee riusciva sempre ad interromperlo in modo inopportuno con la sua presenza, con la sua voce affaticata dalle ferite. E anche quando non c’era, anche quando Neji si trovava da solo, a casa, magari al buio, bastava la sua esistenza. Lee esisteva, e a quanto pareva questo era sufficiente a disturbare i suoi pensieri.

Neji non perdeva la calma se non per ragioni più che valide, e sempre e comunque per lassi di tempo brevissimi. Eppure l’aveva persa del tutto in una viuzza che puzzava di morte e di catrame, l’aveva persa tanto da buttarsi nel fango freddo sporcandosi i vestiti e le ginocchia, per qualcun altro, qualcuno che non fosse lui.

Qualcuno che era Rock Lee.

 

- Hai chiesto di me. –

- Sì. –

- Ebbene? –

Lee si cinse la vita con un braccio e fece forza per riuscire a tirarsi un po’ su. Sembrava in difficoltà, ed era ovvio, doveva essere debolissimo e tutto rotto. Ma Neji non aveva nessuna intenzione di aiutarlo. Era fuori discussione, tanto quanto lo era ammettere che vedere Lee ridotto in quello stato per lui gli stava massacrando lo stomaco

E comunque, anche se avesse voluto, non ci sarebbe riuscito, perché era troppo rigido, era teso quasi fino allo spasmo.

 

– Come stai? –

 

Neji gli rivolse uno sguardo severo e pieno del senso offuscato della paura di essere giudicati con quella domanda.

 – Sei il primo che me lo chiede. – mormorò freddamente.

- Per me è importante saperlo. –

 

Era così facile per Lee metterlo in difficoltà. Così maledettamente facile.

 

- Io sto bene. – rispose rimarcando l’importanza che aveva quell’io. Una parola di due lettere che solcava la differenza fra di loro, perché io sto bene, mentre tu sei in un letto di ospedale, e sei vivo per miracolo.

Differenze semantiche e dialettiche.

 

Lee chiuse gli occhi come se le parole di Neji fossero state ciò che aveva più desiderato sentirsi dire in tutta la vita. Era davvero difficile cercare di farsi strada attraverso l’intricata maglia di gesti, modi e pensieri di Lee, soprattutto per un come lui, abituato a mantenere ogni cosa quanto più possibile vicina ad un piano di rassicurante monocromia, facile da gestire e da spiegare sempre e comunque.

 

Lee invece sfuggiva al suo controllo come un uccello lanciato nel vento, perché era libero, libero e colorato.

Era azzurro come la sincerità del suo sguardo, e ostinato come il nero peggiore, era rosso perché in lui c’era passione, ed era verde, era di mille verdi diversi, e giallo, arancio e viola, come un tramonto senza nuvole, e Neji si odiava, si detestava con rabbia perché si sentiva chiuso in gabbia, si sentiva prigioniero di sé stesso, immobile e colpevole della sua stessa impotenza.

 

Il sorriso aperto di Lee si infranse con forza su di lui, facendolo vacillare. Doveva scappare da quella stanza, da quella situazione, dalla sensazione che qualcosa continuasse a non funzionare a dovere.

 

Adesso che lo aveva visto, che aveva verificato con i suoi stessi occhi che Lee era sano e salvo, tutto da ricomporre, vero, ma vivo, la sensazione dominante avrebbe dovuto essere quella di sollievo, di tranquillità. Andavano bene anche lo stupore, l’incredulità, qualsiasi cosa. Ma perché invece quella rabbia non se ne voleva andare? Perché il dolore non lo lasciava in pace, perché qualcosa dentro la sua testa gridava ancora tutta la sua voglia di rompere la faccia di Lee, di bersagliarlo di pugni, per poterlo ferire, e zittire, e maledizione, ma non capiva, non capiva che gli veniva da piangere, non capiva che lo stava spaccando dentro?

 

Neji sentiva, e non capiva, perché le cose non andassero bene, non andassero affatto bene così. Aveva bisogno di pioggia, ecco cosa. Di pioggia, e di gridare che lui lo odiava, e sentirsi meglio, sentirsi svuotato ancora un po’, raggomitolarsi sotto il peso caldo e rassicurante di un’altra bugia detta quasi per inerzia.

 

La sensazione di claustrofobia lo sommergeva pian piano, inghiottendolo con la sua consistenza fluida e densa e mescolando a forza nella sua bocca il sapore nauseante dell’esitazione e di un rancore imbarazzato e smarrito.

 

- Puoi farmi un favore, Neji? –

- Cosa. –

Lee accennò ad un assenso. Parlava con voce moto flebile, ma ferma che a Neji ricordava l’atteggiamento di chi parla a qualcuno che dorme, sussurrando piano per non disturbarne il sonno.

– Io vorrei che tu provassi a ricordarti sempre che per me è stato importante proteggerti. E se anche non riuscissi più a riprendermi del tutto, non sono pentito di ciò che ho fatto. Perciò per favore, cerca di non essere pentito tu al posto mio. –

 

Tu devi vivere, Neji.. Io voglio che tu viva.

 

La forza di quelle parole che si rincorrevano giocando fra due voci familiari nella sua testa lo centrò in pieno.

 

Neji lo odiò con la forza della sua anima, quel suo compagno strano e così trasparente, così pieno di insensato altruismo e di ferite mortali da farlo sentire senza difese e senza scudi, persino senza vestiti.

 

- Tu non sai quanto vorrei… -

- Uccidermi? Andiamo, ti conosco abbastanza bene da poter scommettere che vorresti rompermi la testa con il vaso di fiori di Tenten. –

 

Neji gemette e distolse lo sguardo, fuggendo come un uccellino impazzito oltre il vetro spesso e pulito della grande finestra della stanza. Tentò con tutto sé stesso di volare via, lontanissimo, ma niente, non un passo, non un muscolo che accennava a portarlo via da quel suo incomprensibile inferno.

 

- C’è una cosa che vorrei sapere. – borbottò a mezza bocca.

- Chiedi pure. –

 

Neji si tormentò brevemente un dito, mentre valutava con attenzione maniacale come porre la sua domanda. Per centrare l’obiettivo, e per ferire un po’, possibilmente.

 

– L’ottava porta. – disse soltanto.

- L’ottava porta? –

- Voglio sapere perché non l’hai aperta. –

Lee sorrise contraendo le guance e rilassandole quasi subito, arreso al dolore. – Potresti provare a risponderti da solo. –

- Già. – concesse Neji, ricambiando il sorriso a malapena. – Già, non è difficile. Ti sei assicurato una possibilità di salvezza. Dopotutto sei meno stupido di quanto pensassi. –

- Errore, sono stupido eccome. – rispose Lee, sorridendo di nuovo per un brevissimo istante. – No, c’è un altro motivo per cui non ho toccato quella porta. –

- Un altro motivo? –

- Dimmi Neji, tu sai dove si trova l’ottava porta? –

 

Neji aggrottò le sopracciglia per un momento, prima di ammettere di no con una scossa leggera del capo.

 

La mano di Rock Lee strisciò tremando fino al bordo del letto e raggiunse quella di Neji; lui se la sentì afferrare gentilmente e trascinare pian piano lungo le lenzuola lisce. Lo assecondò vergognandosi della stupida sensazione di imbarazzo che un contatto del genere gli provocava. Avrebbe voluto scappare il più lontano possibile da lì, ed allo stesso tempo avrebbe voluto restare così per sempre, immobile e muto, a farsi scaldare dalla mano di uno stupido.

 

Lee si fermò sul suo petto, e lasciò che Neji ascoltasse. In pochi secondi, il battito debole e regolare del suo cuore cominciò a pulsargli delicatamente sul palmo della mano, ipnotizzandolo ed invadendo la sua percezione fino a riempire tutta la stanza con il suo rumore attutito e quieto.

 

- L’ottava porta si trova qui, nel cuore. Capisci, Neji? –

- No. –

Lee fece uno sbuffo divertito con le labbra sottili. – Non avrei mai aperto questa porta. – spiegò con calma. – Mi sono sempre ripromesso di aprirla solamente per te. –

- Per battermi? –

Lee posò una mano sui capelli di Neji. Non era nemmeno una carezza, soltanto un tocco immobile e pensieroso. – In un certo senso. – 

 

Neji sentì la testa farsi sempre più pesante. Era un po’ come una sensazione sonnolenta, l’accumularsi invisibile ma inesorabile di tutta la fatica e la tensione della battaglia, della paura e dell’attesa, e quel petto era vicino, così tanto vicino.

 

- Hey, niente lacrime. –

- Non sto piangendo. –

 

Lee passò un dito sulle guance bollenti e umide di Neji, e Neji lo sentì vibrare per una risata sommessa.

 

- Ho detto niente lacrime. E niente bugie. –

- Maledizione! –

- Shhh. Ti prego, non riesci a pensare che le cose vadano bene anche così? –

Neji serrò i denti per trattenere dentro la bocca tutto ciò che minacciava di uscire. – No. No che non ci riesco. –

- Allora non lottare contro di me. Tanto lo sai che vinci sempre, no? –

 

Neji ringhiò e singhiozzò nervosamente. Non gliene importava un bel niente di battere quel pazzo ingenuo di Lee, non in quel momento.

 

Sconfiggerlo aveva sempre avuto il sapore di una conferma per lui, la certezza che le cose andassero come voleva lui, che tutto fosse sotto controllo, e che Lee non osasse fare scherzi e prendersi spazi che non gli competevano.

 

E ad ogni modo non era uno stupido. Sapeva perfettamente chi stava vincendo e chi stava perdendo, in quel momento.

 

Lee continuava ad accarezzargli i capelli come se fossero stati un tessuto prezioso e fragilissimo, attento a non separare le ciocche sottili che si intrecciavano delicatamente l’una con l’altra reagendo alla luce tersa che filtrava dalla finestra.

- Mi dispiace che mi odi. – disse serenamente, come se la cosa non lo sfiorasse, o peggio ancora, come se fosse abituato ad un pensiero simile.

- Io non… -

- Non vergognarti di dirlo, se lo pensi davvero. È questo che sei venuto a dirmi, non è così? -

- Io non volevo che tu intervenissi in quel modo, maledizione. -

- Pazienza. Vorrà dire che mi rassegnerò a sorbirmi una delle tue ramanzine. –

- Oh, stai zitto. –

- No sto dicendo sul serio. Fammela, ne ho davvero bisogno. –

 

Lee chiuse gli occhi e li riaprì tre volte, riprese un po’ di fiato.

- Dimmi qualsiasi cosa, Neji, basta che mi parli. – confessò a mezza voce.

 

Ad un tratto sobbalzò e trattenne tra i denti un mezzo gemito di dolore, quando Neji si accasciò a peso morto sul suo torace incrinato.

 

- Ma perché ti devi comportare così! – gridava vibrando come una ferita aperta, e intanto stringeva fra le dita il camice che copriva Lee. – Non lo capisci che io ti odio? Ti odio più di chiunque altro! Io ti odio, ti detesto, e tu non hai idea, non hai nemmeno lontanamente idea di quanto vorrei ucciderti in questo momento. –

 

Rock Lee mise insieme tutte le sue forze, ma il braccio fasciato non gli permetteva di raggiungere la nuca del suo compagno, costringendolo invece a fermarsi alla metà della lunghezza dei suoi capelli.

 

- Sì. Lo sai, vorrei riuscire a toccarti. – mormorò ignorando la furia di Neji. – Vorrei darti una carezza per ogni volta che mi hai già ucciso, e penso che ci impiegherei un sacco di tempo. –

 

Neji si ritrovò a inspirare l’odore della pelle del suo compagno di squadra mentre tentava di regolarizzare il respiro. Era spossato e senza più una sola parola da dire, nemmeno una che rendesse giustizia al suo sentimento violento verso Lee. Le labbra gli tremavano ancora un po’, toccando di tanto in tanto il suo collo morbido e caldo. Gli venne improvvisamente voglia di chiudere gli occhi.

 

- Credevo che saresti morto. – ammise sottovoce.

- Sì, l’ho pensato anch’io. –

- Ma non lo hai pensato come l’ho pensato io. –

 

Neji si tirò su sulle braccia. Vedeva gli occhi di Rock Lee brillare tenuemente, vivi forse molto più dei suoi che invece non facevano altro che riflettere una luce non loro. Era sempre stato così, la loro disparità constava prima di tutto nel loro modo radicalmente diverso di vedere.

 

Normalmente le persone si baciano perché si amano. Neji non poteva dire se fosse così anche per loro, se fosse per quel motivo che Lee gli aveva sfiorato il mento un secondo prima che lui scendesse e gli toccasse le labbra. A ben guardare non era nemmeno certo di poterlo chiamare bacio. Era stata la stanchezza, e un po’ anche il bisogno, sapeva solo di aver chiuso gli occhi, e di non aver visto più nulla per un secondo o due.

 

Rock Lee non commentò il prevedibile silenzio entro cui Neji si era chiuso. Lasciò che la porta della sua stanza se lo riprendesse così come glielo aveva portato, e rimasto solo si regalò un sospiro. Nel silenzio che lo circondava e lo stordiva, la sua unica, paradossale compagnia era il pulsare flebile del suo cuore, proprio quell’ottava porta che scandiva ad ogni battito il nome di Neji.

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

 

Perdonatemi se salto i ringraziamenti, purtroppo non ho proprio il tempo materiale per farli, questa volta. Ma come sempre mi inchino a tutti quelli che hanno letto e recensito, ve ne sono davvero grata!

 

Una precisazione riguardo la scorsa fic, “Stars”.

 

La malinconia di fondo di cui in molti avete accennato, e che grazie al cielo si avverte, è tutta legata a quel “domani si parte per Suna” che è un po’ il vero fulcro della storia, e che io ho candidamente dimenticato di segnalare. Ma tutti quanti sappiamo già che cosa succede, a Suna, vero?

 

Scherzi a parte, ho scordato di avvisare dello spoiler e me ne scuso, ho dato totalmente per scontato la cosa; fortunatamente non ho rivelato nulla, spero che non sia stato un problema per nessuno!

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Capitolo 21
*** Post orgasmic eyes(Lee/Gaara) ***


POST ORGASMIC EYES

PREMESSA: questo capitolo contiene riferimenti a tematiche erotiche, benché nessun atto sia esplicitamente descritto.

 

 

 

Post orgasmic eyes

 

 

Rock Lee tese la mano destra, andando tentoni sul letto fino a ritrovare un lembo del lenzuolo bianco, tutto sgualcito. Se lo tirò addosso con un gesto stanco, fino a metà del petto, coprendosi giusto le ginocchia e l’addome, quel poco che serviva.

 

Gaara era immobile, chiuso in se stesso come se fosse perso in qualche dimensione lontana.

 

Ogni volta, Lee si riprometteva di non pensarci, di cercare di dormire un po’, che poi il viaggio di ritorno sarebbe stato duro e gli altri gli avrebbero fatto troppe domande, se lo avessero visto tornare in quelle condizioni.

Ma poi Gaara girava lentamente la testa, e lo guardava.

Lo guardava in silenzio, ficcandoglisi nel cuore, e con quei suoi occhi gli chiedeva perché, gli chiedeva come e quando fossero finiti così, gli chiedeva che cosa avessero appena fatto, in un modo che lo faceva sentire in colpa, ogni volta, senza scampo.

 

- Non guardarmi così. – sospirò.

 

Gaara sbattè due volte le palpebre, lentamente. Abbassò lo sguardo, ma lo rialzò quasi subito, più limpido di prima. Non lo avrebbe mollato con tanta facilità.

Lee lo sostenne ancora per un po’, poi si rassegnò a tirarsi su sui gomiti. Non aveva intenzione di fronteggiarlo davvero, il solo fatto di illudersi di poterci riuscire era una sciocchezza.

 

L’unica cosa che poteva fare, al momento, era pregare.

 

– Non guardarmi con questi occhi. –

 

Gaara non si rivestiva mai, al contrario di lui. Restava sdraiato sulle coperte sfatte con il suo corpo nudo, senza nessuna vergogna, e d’altra parte perché mai avrebbe dovuto, lui che era bello come un idolo, un rond-bosse preziosissimo, incastonato in un letto qualsiasi.

 

E Lee sapeva perfettamente di uscirne sconfitto su tutti i fronti. Con la sua normalità, il suo sentimentalismo ridicolo, il suo nome qualsiasi.

 

- Sei troppo bello. Troppo bello, Gaara, troppo. -

 

E dopo il sesso, se sesso era quel disperato cercarsi, quel volersi tanto da ringhiare, quel desiderio che ti spacca dentro lo stomaco, lui era ancora più bello, con quegli occhi lucidi nella penombra, assorti e sconci, gonfi come le sue labbra.

Lui non sapeva mai cosa dire, di quei suoi occhi.

Gli occhi di Gaara parlavano una lingua sinuosa ed arcana che era soltanto loro, e Lee era arrivato a quella fase della sua interpretazione in cui ancora non capiva che cosa dicessero, ma le parole cominciavano almeno ad avere un suono familiare nella sua mente.

 

Li leggeva perdendosi fra i suoi mille accenti, quando li vedeva illuminati di tutte le premesse del loro sesso ostinato, e poi fluttuanti per pochissimi, immensi secondi, prima di sciogliersi assieme a lui, assieme al piacere, senza nemmeno un sospiro. Gaara era un tipo silenzioso, uno di quelli che non ti concede il privilegio di decifrare il suo respiro, e Lee si sentiva in dovere di rispettare al meglio quel vuoto sonoro che si instaurava fra loro, per quanto potessero essere silenziosi due corpi che si uniscono e si scontrano su un letto.

 

Potevano, a ben vedere. C’era il rumore delle gambe che si attorcigliavano, quello secco dei bacini che si scontravano, quello delle braccia che si aggrappavano, il fruscio dei fianchi, lo scricchiolio delle dita sulla schiena; ma se questo concerto non era diretto da delle voci, da dei sospiri che invocassero nomi, parole, magari d’amore; se non c’erano respiri infranti, singhiozzi, gemiti, allora tutto non era che un caos fine a sé stesso, una musica senza anima.

Un silenzio, in ultima analisi. Un desolato silenzio.

 

Lee si mantenne sospeso su di lui, con le braccia tese ai lati della sua testa, e tese mollemente la mano verso di lui, fino alla sua guancia. Gaara socchiuse un po’ gli occhi e lo lasciò fare. Doveva essere stanco, ma ancora troppo scosso dalle sensazioni del sesso per poter dormire. Lee gli distribuì un lembo del lenzuolo sul petto, prendendolo a scusa per accarezzarlo.

 

- Sei disperatamente bello. – mormorò con voce quasi commossa. – E io vorrei potertelo dire sempre, ogni volta che lo penso. Invece ogni volta che facciamo l’amore è sempre l‘ultima. –

 

Gaara distolse lo sguardo. Lee lo vide riflettere in quel suo modo particolare, che lo elevava al di sopra di tutto, e che confinava lui al ruolo di estraneo. Avrebbe dato ogni cosa, qualsiasi maledetta cosa, per poterlo toccare in quel momento, per entrare nella sua testa e sentirlo, capirlo, viverlo.

 

Lee sollevò l’angolo della bocca di quel poco che bastava per simulare un sorriso. Finto, naturalmente, in quel momento non c’era proprio nulla che gli facesse venire voglia di sorridere.

 

– Posso toccarti, Gaara? –

- Puoi. –

 

Lee non perse troppo tempo su un corpo che aveva posseduto ed abusato fino a pochi minuti prima. Un tocco sulle gambe, due dita lasciate pattinare lungo il fianco, su fino allo stomaco, e allo sterno che affiorava da sotto la pelle.

Così liscio.

Era così liscio, così inviolato dagli accidenti del mondo, così straniero alle cicatrici e alle ferite. Le ferite di Gaara non riguardavano la sua pelle, e questa non era una novità. Le si scorgeva appena oltre le iridi piatte e limpidissime. Tutto il resto di lumiera perfetto, in una contraddizione crudele che faceva di lui una divinità spenta, indifferente al richiamo di chi avrebbe soltanto voluto essere il suo sacerdote.

 

Lee strusciò la testa sul cuscino per coprire il breve tratto che lo separava dalla spalla di Gaara. La sua pelle aveva l’odore sapido del sole, e il sapore polveroso della sabbia finissima, quella più pregiata e regolare, con cui si fanno le clessidre.

Gaara del Deserto, che gli aveva riempito di sabbia il cuore, e gli occhi, e i pantaloni, anche quelli, sì. Negarlo non avrebbe avuto senso.

 

Continuò ad accarezzarlo ancora. Lo avrebbe fatto finchè lui non avesse revocato il suo permesso, ma intanto non trovava la forza di superare, con lo sguardo, la barriera delle sue guance pallide. Si attardava su tanti dettagli inesistenti, copriva a forza di battiti di ciglia le piegoline delle orecchie, la distanza nera e sottile fra le labbra socchiuse, il naso piccolo, il mento. Niente di più.

 

Il viso di Gaara era una ragione più che valida per morire. Era qualcosa in cui affondare le dita, qualcosa da volere, da strattonare, tutto Gaara era talmente vuoto che non si poteva non provare l’impulso di riempirlo.

Le dita di Lee galleggiarono delicatamente su tutto il suo volto, aggirando i suoi occhi mai del tutto chiusi. Gaara aveva i capelli incollati a piccole ciocche definite sulla fronte, e anche lui, del resto, doveva avere la testa piuttosto arruffata: Gaara gli piantava sempre le mani nei capelli, quando facevano sesso; se li stringeva e se li rigirava fra le dita facendone il suo mezzo di comunicazione, visto che, a parte pochissimi sospiri un po’ più rumorosi, non fiatava mai, nemmeno una parola.

 

- Gaara, guardami. -

- Mi hai detto di non farlo. -

- Lo so. Ma adesso non voglio che finisca. –

 

Lee piegò i gomiti per farsi un po’ più vicino. Respirava con forza sul volto composto di Gaara.

 

- Non voglio che sia sempre la stessa storia. –

 

Gaara odiava che lui parlasse, soprattutto che lui dicesse cose del genere. Lee, naturalmente, ne era ben consapevole. Ma l’esasperazione è la scintilla del coraggio.

 

- Io ti amo. –

Gettò le sue parole come sassi giù da un dirupo, senza sapere dove sarebbero cadute, se nella bocca di un vulcano o in una sorgente.

 

Gaara digrignò i denti fino a farli stridere.

 

- Guardami, adesso. Guardami. -

Lee reclinò la testa su una spalla, e con il dito indice risollevò il mento del compagno.

- Ti amo. Non fuggire. -

 

Se avesse potuto, Gaara lo avrebbe fatto, di questo Lee era conscio. Ma chissà che non potesse valere la pena di trasformare la propria intera vita in un estenuante inseguimento. Prudentemente, si reclinò su un braccio solo, per avere la libertà di accarezzarlo con l’altro.

Aprì la gabbia, in un certo senso, e Gaara rimase immobile. Leggeva il dubbio, e la desolazione, nei suoi occhi, così come riusciva a leggere un’infinità di altre cose, tutte complicate e magiche.

 

- Potremmo provare. – mormorò dolcemente. – Io mi prenderò cura di te, se tu me lo lascerai fare. –

 

La sua voce era ferma e calda. Non sembrava affatto che lo stesse disperatamente implorando.

 

Gli occhi di Gaara vibrarono, si serrarono, si aprirono; ne sgorgarono bisogni timidi, e liquide domande che scesero fluide lungo le guance, giù fino alla bocca. Che si dischiuse, e cercò quella di Lee.

 

Si trovarono e si baciarono. Lee non aveva memoria di un bacio così carico di bisogno, e di dolcezza ruvida e tangibile. Gaara era morbido ed amaro: sapeva di tempo, di passato quanto di futuro, e Lee si ritrovò a pensare che se solo lui avesse capito, se fosse riuscito ad immaginare quanto tutto ciò significasse per lui, allora forse le cose sarebbero potute andare un po’ diversamente, un po’ meglio, e questa loro relazione gli avrebbe lasciato una boccata di ossigeno da respirare.

 

Si prese un lungo sospiro. Al momento, gli piacesse o meno, Gaara continuava a rubargli l’aria, risucchiandolo nei meandri tortuosi dei suoi occhi.

 

Assecondò la foga delle sue braccia che gli si stavano attorcigliando attorno al collo, sfiorò il collo di Gaara con le labbra, e per la prima volta lo sentì gemere.

Sorrise, vagamente sornione.

– Se fai così, finiremo con il fare l’amore un’altra volta. –

 

In attesa, chi lo sa, di un sì.

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Capitolo 22
*** Limbus (my one last dance) (Kimimaro) ***


PREMESSA: amo Dante

PREMESSA: amo Dante. E questa è una premessa tanto superflua quanto necessaria. Necessaria per dire che le parti riportate in corsivo sono estratti del canto IV dell’Inferno dantesco, in cui ci viene descritto il Limbo. Fra parentesi ho anche scritto una (scarna) parafrasi. È per rendere più immediatamente comprensibile l’estratto, ma vi prego, se potete lasciate perdere la mia dozzinale trasposizione, e leggete il testo dantesco.

 

 

 

LIMBUS (MY ONE LAST DANCE) (KIMIMARO)

 

 

Vivo in un Limbo, e nel mio Limbo danzo, e danzo, e danzo.

 

…Quivi, secondo che per ascoltare,
Non avea pianto mai che di sospiri
Che l'aura etterna facevan tremare

 

( Qui, per ciò che l’udito coglieva,

Non c’erano altri lamenti che i sospiri,

Che facevano increspare l’aria eterna)

 

Mi guardate, voi, ondeggiare come un giunco oltre la superficie plumbea e lucida di questo specchio d’aria? 

Io vivo una morte a metà, perché ho peccato a metà.

Ho amato troppo, ho amato male, chissà. Chissà chi l’ha decisa, poi, la mia destinazione incolore.

Ma se vorrete guardarmi, non mi recherete fastidio. La pace apatica del mio Limbo mi impedirà di provare alcunché nei vostri confronti.

Accomodatevi, ospiti, dunque, senza timore. Potrete restare, purché non interrompiate la mia danza. Non che sia l’urgenza a spingermi, no. Ho tutta l’eternità per me, da trascorrere qui in questo Limbo, in una danza incessante che si fa sempre più pura.

 

Ciò avvenia di duol sanza martìri,
Ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
C'infanti e di femmine e di viri.

 

(Ciò avveniva per la punizione senza tormenti fisici

Cui erano sottoposte le schiere di anime, che erano molto nutrite,

Di bimbi, donne e uomini)

 

Non respiro, né mi nutro, né provo alcuna sensazione che possa rammentarmi di aver posseduto dei sensi, molto tempo fa.

L’immobilità di questo Limbo ride di me, e di me si fa beffe. Ma io continuo a danzare, ostinato, danzo nella mia invisibilità, nell’indifferenza, ricordando in questo modo come nell’indifferenza morii, spegnendomi su me stesso come una candela triste, suicida involontario ma senza rimpianti. Non troppi.

Nessuno guarda nessuno qui, in questo luogo di grigiore elegiaco, e nessuno mai si ferma ad osservare me, stelo smarrito in una prateria non mia, nessuno mi guarda danzare, nessuno più.

 

… Or vo' che sappi, innanzi che più andi,

Ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,
Non basta, perché non ebber battesmo,
Ch'è porta de la fede che tu credi;

 

(-Virgilio-: voglio che tu sappia, mentre proseguiamo,

Che essi non hanno peccato. Ma se hanno meriti,

Non bastano, perché non ricevettero il battesimo,

Che segna l’ingresso nella fede cristiana)

 

Io vivo una morte a metà, perché ho peccato a metà.

Perdonatemi a metà, perciò. Mi si perdoni per aver realizzato solo a metà il sogno che avevo fatto mio, prima che la mia inesorabile debolezza mi portasse via. Avrei scelto con più determinazione la via buia, e l’avrei percorsa ondeggiando come so fare, incantando voi che mi state a guardare ora, e tutti quanti sul mio cammino. Con un altro nome ed un altro cuore, altri occhi e altra lingua, ma con un’anima finalmente riempita e paga, disciolta in quella immensa del mio signore, io avrei continuato a camminare arrogante nel sole, se avessi potuto, se solo avessi potuto.

 

Per tai difetti, non per altro rio,
Semo perduti, e sol di tanto offesi
Che sanza speme vivemo in disio.

 

(Solo per questa mancanza, non per altri crimini,

Siamo dannati, e soffriamo

Solo perché viviamo nel desiderio senza speranza -di contemplare Dio-)

 

Ho danzato tanto, durante la mia vita ho imparato tutte le danze della morte, e le ho ballate tutte con eguale, mite passione.

 

Ricordo, della mia vita, come usassi sputare sangue. Come lo sentissi gorgogliare nella mia gola, ribollire lungo tutto il mio corpo, e poi esplodere, liberandosi dalla sua prigione tanto sgradita. Non mi lamentavo mai, però, della mia lenta emorragia.

Ricordo che in quei momenti stringevo i denti, e mi sentivo difettoso. Non avevo affatto l’impressione di essere un sopravvissuto, affatto. Guardavo cadere con apatia i granelli della mia clessidra uno ad uno, sempre più sottili, sempre più brillanti, sempre più intrisi di cristalli di sale. Sempre più pochi.

Ricordo che l’unica cosa che mi riusciva di provare era una sensazione di fretta; l’ansia di fare la felicità di chi aveva fatto felice me, oh sì, la mia sola via d’uscita, per il mio dio bianco avrei sacrificato qualunque cosa.

 

L’ho fatto, pensandoci bene. E ho avuto in cambio un’eternità monotona, dove anche la fretta se n’è andata, perché non ha più ragione d’essere.

E ora vivo qui in questo Limbo, e qui danzo, e danzo, e danzo.

Qui nel mio Limbo, in eterno continuerò a danzare.

 

Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,
Però che gente di molto valore
Conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.

 

(Grande pena mi strinse il cuore, quando lo ebbi ascoltato,

Giacchè gente di grande nobiltà

Seppi che in quel limbo era costretta)

 

Verrò dimenticato dagli eventi, e morirò cento e cento volte ancora, ogni volta che il mio nome sfumerà dalla mente di chi mi ha incrociato lungo la sua strada.

 

Perché nella mia vita, io non ho fatto altro che incrociare persone. Guardarle negli occhi per un istante solamente, e poi sfilare via. Io non mi sono mai voltato indietro per guardare chi incrociavo, e chissà se qualcuno si è mai voltato per guardare me.

 

Nel mio Limbo di pace struggente, mi lascerò dimenticare, come mi lascio ora danzare dall’inerzia di tutta questa pallida immobilità.

Danzo il mio eterno assolo, abbandonandomi come una foglia al vento.

Come l’ultima nota, che si tende dalla corda di un violino verso il cielo, in un lunghissimo addio.

 

Uscicci mai alcuno, o per suo merto
O per altrui, che poi fosse beato?

(-Dante- : è mai uscito nessuno dal Limbo, per merito suo

O di forze esterne, a cui poi fosse concessa la beatitudine?)

 

È dolce, la danza senza speranza dell’ultimo petalo di una rosa. Io che ho lavato la mia vita nell’amore per chi era più grande di me, so che non riuscirò a dimenticare mai, nemmeno nella perpetuità di questa limpida isola illusa, il fremito di quel viso che mi sorrideva, e mi dava un senso. Mi colorava e mi scriveva sulla fronte pagine e pagine di un romanzo d’amore. Amavo così tanto, ed amavo così male, per questo ho peccato a metà, e sono morto a metà; ma non importa niente, ora che non posso nemmeno sapere se lui pensa più a me, se serba il mio ricordo, se mi immagina danzare, se sa che io qui danzo perché non mi è rimasto null’altro da fare.

 

… E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati.

 

(-Virgilio-: e voglio che tu sappia che, oltre a loro -i Progenitori e i padri della Bibbia-

Nessun altro uomo fu salvato)

 

Nel mio Limbo per sempre, cantilenando in ordine il nome di ogni fiore, ed eseguendo per ciascuno di essi la mia danza assorta. Finché gli uomini non scopriranno un fiore nuovo, che chiameranno Solitudine, e allora io danzerò anche per lui, la mia danza più bella. Per allora, però, forse di spettatori non ce ne saranno più.

Per allora anche lui mi avrà dimenticato, ed io mi abbraccerò da solo il busto, cercando di sognarlo una volta ancora, una volta di più. Verrà meno il conforto del suo amore, ma questo Limbo continuerà ad esistere, prigione immensa d’aria nera, di buio viola, e di erba fresca e unta dalla rugiada.


Vidi quattro grand' ombre a noi venire:
Sembianz' avevan né trista né lieta.

 

(Vidi quattro anime avanzare verso di noi:

Il loro aspetto non era ne’ triste ne’ lieto)

 

Spettatori come voi, non se ne vedono molti, qui. Ma non fa molta differenza, i fili d’erba di queste radure eterne e infinite mi faranno volentieri da pubblico, ed io mi illuderò che essi stiano a guardarmi, che mi plaudano e mi consolino, e che ondeggino perché, rapiti dalla mia danza delicata, desiderino imitare il mio volteggio, e farsi fiori anch’essi, belli e profumati per pochi momenti di magico trasporto.

 

… Giugnemmo in prato di fresca verdura.

Genti v'eran con occhi tardi e gravi,
Di grande autorità ne' lor sembianti:
Parlavan rado, con voci soavi.

 

(Giungemmo in un prato d’erba fresca.

C’erano anime con sguardi lenti e tristi,

Di aspetto dignitoso:

Parlavano poco, con voci dolci)

 

La mia danza accorta, indaga le sfumature di fondo di un’effimera estetica della morte. Ma il vero dolore di chi, morto, nulla ha più da perdere, è il timore ultimo, ti prego, maestro, non mi dimenticare, lasciami guardare ancora la vita e il mondo da uno spiraglio del tuo cuore.

 

Danzerò io, intanto, per scongiurare le mie paure, e danzando aspetterò che qualcosa fenda quest’immortalità inerte e venga per me. Svanirò, chissà, in quest’aria perfetta, come un filo di fumo scolpito e soffiato. Annullandomi con calma, senza nemmeno sentirmi andare.


… Per altra via mi mena il savio duca,
Fuor de la queta, ne l'aura che trema.

E vegno in parte ove non è che luca.

 

(Per altra strada mi conduce Virgilio,

Fuori dalla quiete dell’aria tremante di sospiri

E avanzo dove non c’è che tenebra.)

 

Il mio sobrio commiato non sarà che uno sguardo rovescio ed assorto.

Addio dunque, ospiti inattesi.

 

Voi sfumerete via all’orizzonte, mentre io resterò qui nel mio Limbo per sempre, nel mio Limbo a danzare il nome di ciascun fiore.

 

Io, qui nel mio Limbo, solo, danzo.

E danzo, e danzo, e danzo…

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Questo capitolo è prima di tutto un tributo. Ad un personaggio sublime, che mi ha fatta innamorare in due pagine nette della sua disperata nobiltà. Fra tutti i ragazzi disastrati e perseguitati da atrocità di ogni sorta (diciamocelo, fin troppi) che si incontrano in NARUTO, Kimimaro si distacca per una dignità intrinseca, e un destino doppiamente atroce, quello di essere dimenticato sia dagli altri personaggi della vicenda, che dal lettore stesso.

 

I miei scopi, quando mi sono messa al lavoro, sono stati due: quello di lasciare qualcosa che fra un anno o due qualche lettore torni a leggere, e che gli faccia dire “ ma sì, Kimimaro, c’era anche lui, me lo ricordo.” E magari che lo faccia sentire un po’ in colpa, perché sono sicura che nel frattempo se l’era dimenticato.

Secondo, quello di riuscire a parlare della solitudine più nera senza mai nominare la parola, se non attraverso il nome di un fiore. Un giochino con me stessa, mettiamola così.

 

Approfitto di questo spazio anche per segnalarvi una bella iniziativa: la nascita di un nuovo sito tutto dedicato solo alle fanfictions yaoi/yuri/shonen/shoio ai.

 

È Fire & Blade, e lo trovate a questo indirizzo.

 

http://www.kawaii-hito.org/fic/

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Capitolo 23
*** Running (Naruto/Gaara) ***


Running (Naruto/Gaara)

Running (Naruto/Gaara)

 

 

 

Passare il confine.

 

E ritrovarsi nel baratro.

 

Taci. Non voglio discutere con te. Tutto ciò che posso fare ora è correre.

 

Fino a perdere il fiato? Non si fa così.

 

Ho capito, adesso.

 

È inutile. È una bestia che muore lentamente.

 

Ti ho detto di tacere. Tu non sei che invidia e disprezzo.

 

Io sono la verità.

 

Tu non lo hai mai capito. Non lo capisci come lo capisco io.

 

La pioggia e il vento, insieme fanno una tempesta, oppure un’orchestra. Questo aveva imparato da lui. Ci sono molti modi diversi di divenire.

 

Sei un illuso.

 

Lui è il mio specchio.

 

È la tua croce.

 

Gli occhi bruciavano da morire, sferzati dalla polvere e scottati dal sole e dal sudore. Ma c’erano delle cose da dire, delle scuse da fare. Subito.

 

Non lo vedi? Sto correndo.

 

Sei lanciato verso il suicidio, ma non è un mio problema, io non verrò con te.

 

Ti ho mai chiesto di seguirmi? Sai che non voglio starti a sentire, se nella mia testa c’è lui.

 

Lui, lui, lui. Occupa così tanto spazio, quella sua faccia vuota?

 

Zitto, ora. Ritirati in un angolo, e fammi almeno il favore di restare in silenzio.

 

In silenzio, dici. Tzk. Me ne starò in silenzio anche quando ti renderai conto di essere sull’orlo dell’abisso, ed avrai bisogno di me.

 

Mancava poco. La strada era tanto immensa che non era nemmeno una strada. Tutto il deserto lo aveva condotto fin lì, aprendosi come un quaderno e lasciandosi interpretare, e spingendolo con il vento verso la direzione giusta, quella che correva ribellandosi al percorso delle stelle.

 

È inutile, ti dico, inutile. Ti troverai soltanto senza terra sotto ai piedi.

 

Anf, anf. Era riuscito ad imporre alle sue gambe di non mollare fino a che non lo avessero portato a destinazione, ed ora eccolo. Le ombre del pomeriggio tardo si stiravano fino a lambirgli i piedi. La forza con cui lo attiravano a loro era molto maggiore di quella con cui la flebile e asciutta voce che lo aveva accompagnato per tutto il viaggio aveva cercato di riportarlo indietro. Non era il tipo da farsi forzare, lui.

 

Ho passato il confine. Ma non è un baratro, quello che mi sono trovato davanti.

Sono a Suna, finalmente. Aspettami, sto venendo da te.

 

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Eccomi di ritorno, dopo un certo periodo di assenza. Dovete scusarmi, ma ho un bel po’ di progetti da portare avanti, non sempre riesco a stare dietro a tutto.

Grazie per la pazienza di avermi aspettata!

Questa fic un po’ particolare vuole essere un dialogo interiore, breve e piuttosto concitato, perché la situazione lo richiede. Mi auguro che risulti chiaro, o meglio, confuso al punto giusto!

 

Tinebrella: già, è proprio questo che personalmente mi fa amare Kimimaro più di molti altri personaggi. Quante persone meravigliose sono scomparse dalla memoria, per non aver lasciato un segno abbastanza profondo?

 

Dark: se ti consola, anche il mio encefalogramma era piatto, dopo aver scritto il pezzo. E ciò non è proprio il massimo…

 

Little star: ma figurati, non ti devi scusare! Fra l’altro, ci hai preso in pieno, perché sia questa che King of Angels sono due storie che vogliono riflettere sull’amarezza del destino di due personaggi che, guarda caso, si scontrano, senza decretare un cero vincitore.

 

Camusa: ti ringrazio per entrambe le recensioni, e mi dichiaro totalmente in accordo con te. Sono contenta, perché dalla tua recensione capisco che ciò che volevo esprimere è arrivato, e sicuramente hai ragione nel dire che solo Gaara, non tanto Rock Lee, che pure era lì con loro, si rende davvero conto di chi ha davanti. Perché in ultima analisi loro due sono molto simili.

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Capitolo 24
*** Requiem (Hayate) ***


PREMESSA: la shot coinvolge molti personaggi, che ho voluto simbolicamente riunire in coppie

PREMESSA: la shot coinvolge molti personaggi, che ho voluto simbolicamente riunire in coppie. Ma questa non è una shot romantica, quindi, a parte un unico caso in cui il paring è palese, tutte le altre coppie possono tranquillamente essere intese in un senso di semplice amicizia.

 

 

 

Requiem

 

 

 

- Hayate è morto coraggiosamente, come un vero ninja. –

 

C’erano molti cuori che avevano preso a battere più forte, al nome di Hayate, pronunciato con pacato affetto dal terzo Hokage.

Uno, in particolare, che in silenzio aveva cominciato a piangere.

La regola dei ninja poteva venire meno, in situazioni come quelle, dove il villaggio si riuniva insieme per ringraziare chi era morto per il bene di tutti, e quella bara semplice, chiara, decorata da tanti fiori delicati, faceva troppo male, davvero troppo male.

 

Più un pericolo è grande, più ci si stringe l’un l’altro, ci si fa forza, si cercano contatti che servono a sentirsi più protetti. Niente regole, qui, niente leggi o codici. Questa è umanità.

 

Iruka occhieggiava di tanto in tanto ad alcuni suoi allievi, venuti alla cerimonia assieme ai genitori. E ai suoi vecchi ragazzi, a Naruto e Sasuke, seduti non lontani da loro, e a molti altri. Preferiva non indugiare troppo sui loro volti, per non rischiare che qualcuno scoprisse i suoi occhi arrossati.

 

Hayate era stato come un fratello, per lui. Da sempre. Era impossibile, impossibile, e troppo duro, guardare la bara di una persona con cui hai condiviso quasi tutta la tua vita, una persona che hai visto crescere, qualcuno che per te, dentro di te, è sempre stata viva, vivissima. Hayate era un tipo riservato, un ragazzo semplice e leale, uno di quelli che non si fa notare troppo, ma Iruka lo conosceva meglio di sé stesso, e in quel momento il tesoro che Hayate era, la sua sensibilità, il suo coraggio, bruciavano le ciglia, accalcati nell’angolo più nascosto dei suoi occhi.

Con Hayate se ne andavano alcuni dei ricordi migliori di tutta la sua vita.

 

Era stato anche per questo che Kakashi aveva preferito dagli la notizia di persona.

 

 

- Siediti, Iruka. -

 

Iruka obbedì. Le mani di Kakashi  tremavano, e sicuramente lo facevano per una ragione più che valida.

Iruka piegò le labbra in una smorfia di disagio, mentre lo stomaco cominciava a torcersi su sé stesso, soffocandolo.

Sedersi. Che cosa poteva essere successo di così grave, per costringerlo a sedersi?

 

 

Nella sua testa risuonavano voci, combinate come strane melodie, che si mischiavano al gorgogliante mormorio di chi osava scambiare qualche parola con i suoi vicini. Persone, magari, talmente abituate ai lutti da non farci più caso.

Iruka era il genere di uomo che non si sarebbe abituato mai a veder morire nemmeno un fiore. Era uno che non imparava mai dalla vita, la sua indole lo spingeva a credere fino alla fine in un prodigio che potesse risolvere tutto. Non era andata così, molte volte, ma poi era sempre arrivato il tempo, a rendere tutto un po’ più semplice. Il tempo, e cose come l’amicizia di Hayate.

 

 

- Hayate è morto. -

 

Un colpo secco, dritto e preciso. Iruka sentì la testa vorticare, lo stomaco invaso dalla nausea, e non reagì. Non si mosse nemmeno.

- Iruka… -

- No. –

 

Kakashi si inginocchiò di fianco alla sua sedia  e lo abbracciò stretto, senza fiatare.

 

- No. No, no, no, no. –

- Coraggio. –

- Non Hayate. –

- Devi essere forte, Iruka. –

 

Iruka piantò le dita nelle spalle di Kakashi, con veemenza. E pianse, al diavolo tutto, Hayate era morto, morto, e lui piangeva, perché no, non Hayate, maledizione, non Hayate.

Kakashi lo stringeva forte, e le sue braccia che lo confortavano, allo stesso tempo lo gelavano con la certezza che tutto questo fosse reale, senza via di scampo.

 

- Kakashi. –

- Shhh. Sfogati, ti farà bene. –

- Non… –

- Tranquillo. Rimango qui con te. –

 

Dio, come ringraziava il cielo di avere lui, al mondo.

 

 

Kakashi era al suo fianco, ed era irrequieto. Fissava ora la bara di Hayate, con un rispetto rabbioso e impotente, ora il signor Hokage, che parlava sillabando le parole una ad una, ora lui, con la coda dell’occhio.

 

- Hayate meriterà sempre il nostro ricordo, e la nostra riconoscenza. –

 

Sasuke si mosse impercettibilmente per toccarsi il naso. Doveva sentirsi parecchio a disagio. Chissà da quanto tempo non partecipava ad un funerale, dopo la tragedia della sua famiglia. Ammesso che ci avesse partecipato, a quello.

Naruto ringhiava, di fianco a lui. Probabilmente dentro di lui cantilenava parole di rabbia, di sfida, di vendetta. Naruto era così, e Hayate sarebbe stato felice di sapere che con i suoi modi dimessi aveva toccato il cuore di tante persone.

 

Neji Hyuga era seduto non molto distante, assieme ai suoi compagni. Iruka ripensò a quando Hayate lo aveva fermato, impedendogli di accanirsi su Hinata. Era successo poco tempo prima, così poco che sembravano solo minuti.

E chissà se Neji in quel momento lo aveva odiato, chissà che in cuor suo era stato tentato di attaccarlo, chissà se aveva voluto la sua morte, anche solo per un secondo. Non era bello pensare a cose come queste, ed Iruka si sentì in colpa da morire, cercando sul viso inespressivo e pallido di Neji segni di un odio che non c’era.

Il suo compagno Lee si piegò per sussurrargli qualcosa. Neji scosse la testa lentamente, Lee gli guardò di sfuggita una mano.

 

Era sempre stato un ragazzo d’oro, Lee.

 

Il terzo Hokage osservò tutta la platea con i suoi occhi velati di una inarrivabile stanchezza che solo uomini come lui potevano provare. – Che il suo sacrificio possa lasciare qualcosa nel cuore di tutti voi. –

 

Kakashi avvolse un braccio attorno alle spalle di Iruka, con discrezione.

 

 

- Ora ascolta bene ciò che sto per dirti. Finché le cose non si saranno sistemate, saremo tutti quanti in grave pericolo, e l’Hokage vuole, tutti noi vogliamo, che Hayate rimanga l’unica vittima. –

- Non capisco. –

Kakashi sorrise mestamente. – Voglio che tu rimanga al sicuro. –

- E’ una pazzia, non puoi chiedermi una cosa del genere. –

- Ho visto il corpo di Hayate. –Kakashi lo mormorò duramente, con la bocca premuta sulla spalla di Iruka. – E per un maledetto istante, ho immaginato te al suo posto. –

 

 

Kakashi era l’uomo che era, e niente e nessuno al mondo sarebbe riuscito a impedirgli di proteggerlo. Nemmeno Iruka stesso.

Però grazie, grazie, Kakashi, per essere un petto solido contro cui piangere la morte di un fratello, e grazie di cercare a modo tuo di trovare qualche risposta ai tanti, atroci perché.

 

- Che la morte di Hayate vi dia coraggio, e forza, e che rimanga impressa in voi come simbolo di lealtà, di onore, di amore. –

 

Iruka diede un singhiozzo esasperato, che Kakashi si soffocò contro il petto. Ecco, stava ricominciando a piangere come un bambino, ma non poteva farci niente, davvero, ce l’aveva messa tutta, però era Hayate, era il suo Hayate, e niente al mondo glielo avrebbe ridato indietro, e lui non riusciva a vedere uno straccio di motivo per cui non piangere.

 

La mano di Sasuke strinse quella di Naruto con forza.

 

Gli occhiali di Shino brillarono, Shikamaru reclinò la testa e si morse l’interno della guancia, Choji mise da parte, per una volta, il suo sacchetto di patatine.

 

- Vieni qui, piccola Hinata. –

Kiba si strinse la testa di Hinata al petto, lasciando che si nascondesse, e che piangesse, se ne avesse sentito il bisogno.

 

Sakura strinse forte entrambe le mani di Ino, e annuì fra i singhiozzi. Ino le sorrise tristemente, e le batté le nocche della mano sulla fronte. Forza, testona, devi farti forza.

 

Gai era seduto con Asuma e Kurenai. E da lì, teneva d’occhio i suoi ragazzi. Tenten era vicina ai suoi genitori, poco più in là. Neji era immobile, ancora smarrito nei suoi pensieri, mentre Lee si agitava di tanto in tanto, lo guardava di sottecchi, esitava, si torceva le dita.

 

Gai sorrise.

 

Neji si riscosse quando il peso di una mano gli premette sulla spalla.

Lee aveva quel suo broncio determinato e un po’ preoccupato stampato sulla faccia, sempre così limpida nel mostrare i suoi sentimenti.

Neji mise la mano sulla sua, e fu felice di vedere Lee che cercava di sorridergli.

 

- Dovresti asciugarti gli occhi e guardarti attorno. – mormorò Kakashi.

 

Iruka si strofinò la faccia, e la sollevò quando fu certo di poterla presentare dignitosamente. Kakashi gli strinse la mano, e lui capì perché era così importasse vedere.

C’erano tante vite, tante luci accese, lì, tutte insieme, strette, abbracciate, legate e decise a non arrendersi.

 

Hayate poteva stare tranquillo, ovunque si trovasse.

Tutti loro, tutti quanti loro, si sarebbero protetti l’un l’altro, per sempre. Anche per lui.

 

 

 

ANGOLINO!

 

Snif…

Sì, lo so che è un episodio vecchissimo, però io ad Hayate volevo troppo bene, ci sono rimasta malissimo quando me lo hanno ucciso!

Hayateeee!!! ç___ç

Io volevo sposarlo, e poi già che c’ero slasharlo a tutto andare, e invece niente, me lo hanno seccato così, di brutto, il mio povero amore!!!

 

Ho pianto come una deficiente, quando ho visto il suo corpo abbandonato, nel manga. Maledetto Kishimoto, perché mi vuoi così male?!?!

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Capitolo 25
*** Out of the shadow (Shikamaru/Neji) ***


Out of the shadow (Shikamaru/Neji)

Out of the shadow (Shikamaru/Neji)

 

 

Quella che si chiama una bella giornata di sole. L’aria calda che ti soffia sul collo cancellando qualche traccia di sudore, le foglie che frusciano accarezzandosi l’un l’altra, i ragazzini che corrono fuori dall’accademia sgambettandoti in mezzo ai pedi come razzi, rischiando un’infinità di volte di farti volare per terra.

 

Era tornato tutto alla normalità, se la si voleva vedere così.

 

Shikamaru evitò una bimba particolarmente lanciata per un soffio, e dopo aver sbuffato riprese a camminare come niente fosse.

 

In quella bella giornata di sole, lui aveva una cosa molto importante da fare.

 

In poco tempo, parecchie cose erano state stravolte; funziona così, le rivoluzioni servono per avere l’impressione finale che in realtà niente sia cambiato.

 

Era una bella giornata in cui i bambini andavano a scuola, e le sentinelle si annoiavano all’ingresso del villaggio, ma Sasuke era scomparso nel nulla, e lui non voleva sapere né quando né come sarebbe tornato. Si augurava solo di non essere in casa, quel giorno.

Sakura, lo aveva saputo soltanto qualche ora prima, aveva chiesto alla principessa Tsunade di poter diventare sua allieva. Il motivo era con ogni probabilità da collegarsi al punto sopra, ma nemmeno di questo voleva sapere niente.

Naruto era appena partito con Jiraya per allenarsi; buon per lui che un ninja leggendario avesse messo gli occhi sulle sue capacità. Per quanto lo riguardava, non lo invidiava per niente: sai che fatica, allenarsi con un tipo del genere.

Anche gli altri suoi amici si erano rimboccati le maniche, come se da un giorno all’altro avessero realizzato di essere ninja, e parte integrante di una società che contava su di loro e si aspettava grandi cose. Molti di loro erano cresciuti, in quel brevissimo lasso di tempo, abbastanza da poter aspirare al suo ruolo di Chunin. E sarebbe stato meglio, almeno così non avrebbe dovuto fare tutto da solo.

 

Rock Lee si allenava giorno e notte per recuperare appieno la forma, se mai ne avesse avuto bisogno; Choji un po’ meno, ma nel suo piccolo ce la stava mettendo tutta per darsi da fare, tanto che il maestro Asuma era quasi preoccupato. Shino e Kiba ci davano talmente dentro che davano quasi l’impressione di essere diventati amici.

 

Tutti quanti avevano finalmente fatto i primi passi verso delle strade tutte loro, mentre l’unico che non si era mosso di un dito, era stato lui.

 

Ecco perché camminava con il suo solito piglio dinoccolato verso una meta che aveva cercato di evitare per un bel po’. Si muovevano tutti, accidenti, e anche se lui se ne sarebbe rimasto più che volentieri per i fatti suoi, a guardarli mentre si affaccendavano come formiche, era la sua coscienza a dirgli che doveva agire. Che rottura, che quelle poche volte che si decideva a parlare, lo facesse solo per robe fin troppo serie. Niente a che vedere con gli allenamenti, comunque. Non era per cose così noiose che stava bussando al portone enorme di quella casa.

 

- Salve. – disse ad una donna dall’aspetto gentile. – Vorrei parlare con Neji. È in casa? -

- Sì, certamente. Vieni pure con me. -

 

La bella signora lo guidò attraverso una casa che era ancora più abnorme di quanto già non sembrasse all’esterno. Dio, vivere in un posto del genere sarebbe stato troppo problematico per uno come lui, che amava tanto avere le due o tre cose indispensabili sempre a portata di mano.

Attraversarono uno, due, tre corridoi. Ma non lo vedevano mai il cielo, gli abitanti di quella casa?

 

Finalmente, sbucarono su un porticato rettangolare, tanto per cambiare di dimensioni spaventose, che faceva da oblò al complesso. Al centro però, non c’era un elegante giardino, come ci si sarebbe aspettati, ma un vero e proprio campo di allenamento: terra nuda e ruvida, pochi alberi, e alcuni bersagli divelti che giacevano qua e là tutt’attorno alla figura ansimante di Neji.

Shikamaru lo vide voltarsi, e per un attimo si ritrovò puntato contro il suo tremendo Byakugan, prima Neji lo facesse svanire.

- Shikamaru? – disse, senza nascondere la sua sorpresa.

- Hey, ciao. -

Neji agguantò un asciugamano accavallato sopra ad un tronco mozzato, e si deterse rapidamente il viso.

- E’ successo qualcosa? -

- No, niente. Volevo solo fare una chiacchierata con te. -

 

Neji reclinò curiosamente la testa, e Shikamaru si sentì molto meno sicuro di sé. La signora che lo aveva accompagnato lì, intanto, era scomparsa e riapparsa alle sue spalle senza che lui si fosse accorto di niente, portando una caraffa di succo fresco, dei bicchieri, e un piatto di biscotti.

 

- Approfitta per riposarti un po’. – disse a Neji, in modo molto confidenziale. – E’ da stamane che non ti fermi. -

 

Shikamaru si accorse dei suoi occhi bianchi solo in quel momento, quando lei gli sorrise prima di dileguarsi. Che idiota, era ovvio che doveva essere una sua parente.

 

I due si buttarono a sedere sui gradini di legno del vestibolo; presero entrambi un biscotto, e per qualche secondo nessuno parlò.

 

- Hinata? – buttò lì Shikamaru per saggiare il terreno.

Neji si strinse nelle spalle, e fece un cenno con la testa verso l’ala destra del palazzo.

- Starà studiando. – ipotizzò con leggerezza.

- Sono contento che i rapporti fra voi siano migliorati. Lei ti ha sempre voluto un gran bene. -

 

Neji fece una smorfia strana, e scrollò le spalle. Shikamaru interpretò quel gesto come l’indecisione di chi porta addosso delle cicatrici ancora troppo fresche, per azzardarsi a scoprirle. Non era il caso di spingersi oltre, in quella direzione, però di cicatrici si poteva continuare a parlare.

 

- Tu invece come stai? Mi sembra che ti sia ripreso bene. -

- Sono quasi a posto. Se faccio sforzi prolungati sento ancora male alla spalla, ma i medici hanno detto che con il tempo anche quello se ne andrà. -

- E’ una buona notizia. Mi avrebbe fatto impressione vederti compagno di stampelle di Lee. Oltretutto, anche lui sta tornando in forma alla grande, perciò… -

- Cos’è che ti tormenta? -

Shikamaru rischiò di inghiottire la saliva nel bel mezzo della frase, colto alla sorpresa.

 

- Shikamaru Nara non si attraversa l’intero villaggio soltanto per sapere come va la mia spalla, visto che lo sa benissimo. – continuò Neji. – C’è qualcosa che non va? -

 

In realtà, no. Oddio, c’erano un mucchio di cose che non andavano, a voler fare i pignoli, ma sai che palle passarsi il pomeriggio a discutere di quello.

 

- Beh, ecco, veramente sono qui per mettere in chiaro delle cose. –

- Ah sì? Del tipo? –

 

Scrollatine rapida di spalle e, subito dopo, Shikamaru si ingobbì. – Mi dispiace per ciò che ti è successo. – disse con tono serio.

Neji rimase lì, con un’espressione dubbiosa che faceva strano vedere sulla sua faccia.

- Ma cosa dici? È normale correre dei rischi in missioni del genere. –

- Sì, lo so, ma ciò non toglie che la responsabilità fosse mia. –

- Infatti lo era. E tu hai fatto un ottimo lavoro. –

 

Shikamaru si voltò con gli occhi sbarrati, e andò a frantumarsi contro il sorriso mite di Neji.

 

- Sono contento di essere stato ai tuoi ordini. – aggiunse con aria serena. – Sei stato una guida e uno stratega eccellenti. –

 

Una frase del genere, non si sarebbe mai immaginato di sentirla uscire da quella bocca. Sa quella di Choji casomai, o da quella di un Kiba in luna buona, da quella di Ino se proprio si voleva fare gli ottimisti.

Ma quanto era cambiato, Neji, nell’arco di una manciata di giorni? Anche lui, come tutti gli altri? Allora era davvero lui l’unico a non essersi mosso?

No, c’era di più, molto di più, nel suo cambiamento, rispetto a quello di qualunque loro compagno. Shikamaru aveva visto gente prendere grosse decisioni, altri impegnarsi a fondo per gli obiettivi che già si erano scelti, ma in nessuno di loro aveva notato un cambiamento così radicale, che coinvolgeva tutto, dallo sguardo, al sorriso, al tono della voce. Invece che dal coma, pareva che fosse tornato da un viaggio di milioni e milioni di passi, di giorni, di miglia. 

 

- La missione è fallita. –

- Hai fatto tutto ciò che era in tuo potere, e anche più. Io non lo chiamerei fallimento. –

- Non capisci che cosa intendo. Avrei potuto perdervi tutti. -

- E’ vero, ma questo è normale. Le missioni sono così, non devi rimproverarti per averci messi in pericolo. -

- E invece sì! –

 

Neji si accorse tardi delle mani dell’amico che corsero a stringergli la veste e lo strattonarono. Non riuscì a fare niente, oltre che subire, confuso, lo sfogo di Shikamaru.

 

- Non sono riuscito a proteggere i miei compagni, e quando ti ho visto ridotto in fin di vita in quella stanza, io…! –

 

Non lo aveva mai visto perdere la calma, prima. Durante tutta la missione il suo sangue freddo non aveva vacillato nemmeno nelle situazioni peggiori, e anzi li aveva tirati fuori dalla prigione di terra di quel ninja enorme.

 

E allora èerché?

Perché ora?

 

- Shikamaru, tu… - provò ad indagare. – Sei venuto qui per scusarti con me? –

 

L’altro lasciò gradualmente la presa, e annuì a testa bassa.

 

- Però non lo hai fatto, con Naruto e gli altri. –

- No. –

- E non intendi farlo, vero? –

- … No. –

- Perché? –

- Non ne avrei motivo. –

 

Neji continuava a non capire. Cercava di guardarlo, ma dopo un attimo doveva scostare lo sguardo, come se il suo profilo esercitasse una fastidiosa pressione sui suoi occhi.

                                                                                                                           

- Per quale motivo pensi di dovermi delle scuse? – insistette.

- Te l’ho detto. -

- Sì, ma non ha senso. Se fosse perché ti senti un fallito, dovresti scusarti con tutti, non solo con me. Perché solo io? –

- Perché ti ho visto morto più degli altri, maledizione. –

Neji reclinò la testa lentamente. – Capisco. – mormorò. - Ma allora chiedermi scusa non è che un pretesto. Ciò che ti serve per sentirti meglio non è il mio perdono, ma il poter esorcizzare la tua paura. Ho ragione? -

 

A sorpresa, Shikamaru sorrise con un ché di amaro.

 

- Mi hai incastrato. – rispose, nemmeno fosse stato nel bel mezzo di una partita a scacchi.

 

A Neji non importava granché di averlo incastrato. Provò a guardare dentro di lui senza il Byakugan, ma non vi riuscì; tentò allora di non farsi assordare dal silenzio fluido che aleggiava attorno a loro, isolandoli dai rumori del mondo tutt’intorno. Sorbì un sorso di succo, cercando in esso la giusta concentrazione, e quando ebbe posato il bicchiere sul vassoio, riprese.

 

- Senti, ancora non capisco perché tu… –

 

Non concluse la sua frase, perché si ritrovò una mano dietro la nuca, e una bocca premuta sulla sua. Lo aveva colto di sorpresa e completamente impreparato.

 

- Era soprattutto questo che ero venuto a chiarire con te. – brontolò seccamente Shikamaru. Lo aveva lasciato andare già da un po’, ma era stato Neji a restare immobile, stordito dal suo gesto. Si era scoperto nudo davanti a quella sensazione insieme naturale e dirompente.

 

- Se fossi stato un po’ più sveglio lo avrei fatto prima, ma siccome sono un tordo, mi sono accorto che volevo farlo soltanto quando Anko mi ha sbattuto la porta del tuo ambulatorio in faccia. –

 

C’era risentimento, nelle sue parole, e anche la malinconia spezzata di chi su quei pensieri ci doveva aver pianto.

 

- In quel momento, avrei voluto dirti talmente tante cose che non me le ricordo neanche. Ma ho giurato a me stesso che se tu ne fossi uscito vivo, non avrei più cercato di far finta di niente. Potresti morire in un’altra missione senza che io possa farci nulla, perciò perdere un altro giorno senza dirti niente è la mossa più stupida che si possa fare. Questo mi sono detto, perciò ecco qui. -

 

Il giovane Hyuga avvampò senza nemmeno sapere perché. Shikamaru invece non sembrava particolarmente turbato. Se ne stava lì, con le braccia puntate malamente sul pavimento, che non si sapeva nemmeno come facesse a tenersi su. Vide che guardava in alto, verso il cielo azzurrissimo, tamponato da qualche nuvoletta qua e là, e decise di lasciarlo stare. Tanto, il discorso non era ancora chiuso, ma sarebbe stato Shikamaru stesso a riprenderlo.

 

*          *          *

 

Si era fatta sera. Il sole era quasi completamente colato oltre i tetti, come una cera fusa dai colori brillanti, e nonostante i capelli di Neji continuassero ad essere soffici e rassicuranti fra le sue dita, Shikamaru si disse che era ora di andare.

 

- Domani potremmo allenarci insieme. – propose Neji, non appena lo sentì smettere le carezze per puntare le mani sul pavimento, intuendo le sue intenzioni. La sua voce, nonostante i tentativi di mantenerla salda, suonava parecchio imbarazzata.

- Allenarci, scherzi? – protestò Shikamaru. – Non ho mica voglia di farmi massacrare da te. -

 

Neji fece una faccia strana, a metà fra lo stupito e l’esitante. Non sapeva come rispondere, era più che chiaro. Shikamaru ne fu intimamente felice, tanto che sulla sua faccia apparve un sorriso spudorato.

 

- Che ne dici invece di fare un salto tu al promontorio sopra i ritratti degli Hokage? Io me ne vado lassù a rilassarmi nel pomeriggio, quando il sole non è più troppo caldo. Sempre che non ti pesi troppo rinunciare a mezz’oretta di fatiche. -

 

Neji chiuse gli occhi e ricambiò il sorriso. –Vedremo. – promise.

- Bah, non prendermi in giro. Lo farai, perché tanto dopo un po’ devi per forza smettere per la spalla. Lo hai ammesso tu stesso. -

- Mi hai incastrato. Ma come la mettiamo, quando mi sarò completamente ripreso? -

 

Shikamaru gli rispose tirandogli leggermente una ciocca dei lunghi capelli.

 

- La mettiamo che appena sarai del tutto guarito, ti porterò in un’altra missione suicida con me. –

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Capitolo 26
*** Ti veglio bere(Lee&Gaara) ***


NOTA: Il paring è appena accennato, in realtà si può leggere tranquillamente come una shot non romantica

NOTA: Il paring è appena accennato, in realtà si può leggere tranquillamente come una shot non romantica. Anzi, visto che c’è di mezzo Rock Lee, si prevedono più che altro scintille!

 

 

Ti veglio bere (Lee&Gaara)

 

 

Rock Lee non era un tipo che si dava per vinto tanto facilmente, oh no.

Se si considerava poi quanto avesse preso la faccenda sul personale, c’era di che stare tranquilli.

E Gaara era qualcosa di molto, molto personale, per Lee, visti i trascorsi.

 

Il fatto era che quel tipo gli piaceva molto, e per lui provava più o meno le stesse cose che provava per Neji: una sorta di timore reverenziale, fuso con una leale stima, da cui scaturiva un qualcosa di un po’ strambo, ma sincero. Lee era come un libro aperto, in fatto di sentimenti, e chiunque poteva vedere quanto si fosse affezionato al ragazzo della Sabbia, soprattutto dopo la loro definitiva alleanza.

 

Però… c’era un però. E il però era che Lee si era ritrovato a constatare che Gaara era terrificante, come avversario, ma come alleato era, beh… noioso.

Mai un sorriso, mai un segno di entusiasmo, mai un balletto trionfale, niente di niente, calma piatta.

Gaara era impassibile, impermeabile a tutto, apatico al massimo.

 

Probabilmente ci risarebbe divertiti di più a prendere Neji e Sasuke all’apogeo del loro cattivo umore, e starli ad ascoltare discutere di destini avversi e sfighe varie ed eventuali.

 

Sul serio, Gaara sorrideva meno di tutti i musoni di Konoha messi insieme, e, per quanto riguardava Lee, ciò rasentava il patologico.

 

Shino, in confronto, era un compagnone. Shikamaru, un iperattivo, e Hinata… no, Hinata no, probabilmente sarebbe svenuta per un’occhiataccia di Gaara.

Ma un modo per farlo reagire doveva pur esserci, e Lee aveva tutte le intenzioni di trovarlo. Possibilmente, entro il giorno dopo, visto che la partenza per Konoha era imminente.

 

Gaara, dal canto suo, sopportava Lee.

E non era cosa da sottovalutarsi, vista la pazienza non proprio proverbiale di Gaara, e il fatto che Lee stesse provando con tutta l’anima ad istigarlo all’omicidio. L’ultima volta che Temari li aveva incrociati, Lee stava martoriando le orecchie del povero Gaara con una selezione delle migliori barzellette di Gai. E Gaara aveva dovuto interrompere l’allenamento, e assicurarsi con una mano che il tappo della giara restasse ben chiuso, per evitare che la sabbia prendesse spontaneamente l’iniziativa di strangolare Lee. Il suo intuito femminile le aveva saggiamente fatto notare che sulla tempia del fratello c’era una venuzza che pulsava minacciosamente, ma anche che Gaara aveva ucciso per molto, molto meno, in passato, e che Lee si era in qualche modo guadagnato il diritto di perseguitarlo senza rischiare la vita.

 

Certo che Gaara era davvero strano.

 

- … E quindi è per questo che il colmo per Kisame è mangiare del sushi. Perché potrebbe essere sua sorella! L’hai capita adesso? Eh, eh? -

 

Gaara inspirò molto, molto, mooolto a fondo. – Non fa ridere. – scandì monotonamente, pregando che quella fosse davvero l’ultima barzelletta.

 

- Ma non puoi non averla capita! – si intestardì Lee. – E’ l’ultimissima battuta del maestro Gai! La più gettonata! -

- Il senso dell’umorismo del tuo maestro non mi tange. -

 

Lee si imbronciò, mezzo offeso per l’antipatica insinuazione di Gaara. Non che ci fossero dubbi sul fatto che, naturalmente, fosse il povero ninja della Sabbia ad essere nel torto marcio, visto che le battute del Maestro Gai erano universalmente riconosciute come le più brillanti, spiritose e divertenti del mondo. Insomma, magari non proprio universalmente, ma da buona parte della popolazione mondiale.

 

… Del Paese del Fuoco.

… di Konoha.

… della zona Ovest.

… Di casa Lee.

… Della camera di Lee.

… Che non la divideva con nessuno.

 

Insomma, ad ogni modo, era più che evidente che le battute del Maestro Gai dovessero essere troppo colte e sottili per Gaara, oppure chissà, il malcapitato ragazzo soffriva di depressione, o il ritmo troppo stressante della sua vita influiva in modo negativo sulle sue facoltà cognitive.

 

Ma Lee era un ragazzo pieno di risorse, e, se le risate non funzionavano, c’erano pur sempre le lacrime.

 

Gaara si ritrovò trascinato a viva forza nel più vicino cinema di Suna, per l’anteprima di “Morte, Strazio & Depressione”, probabilmente il film più angosciante della storia cinematografica di tutti i tempi.

 

Risultato: Gaara dovette prestare a Lee tutta la sua scorta di fazzoletti, e passare metà della proiezione a fulminare gli spettatori che si giravano per maledire il ninja di Konoha, che singhiozzava come un vedovo di guerra.

 

E che continuò imperterrito a farlo anche nel lungo, lunghissimo tragitto di ritorno. Perché insomma, il fatto che la povera principessa Yumi vedesse irrimediabilmente morire in modo orrendo prima ogni singolo parente fino al sesto grado, e poi qualunque sventurato tentasse di corteggiarla, non era indice della sfiga apocalittica che perseguitava questa ragazza, ma della sua nobiltà d’animo, vittima del crudele gioco del fato.

 

E, a proposito, fra una lacrima e l’altra Lee gli aveva chiesto in prestito una matita e un pezzetto di carta, e si era appuntato di portare assolutamente Neji a vedere quel film. Lo avrebbe adorato.

 

Niente da fare, comunque, Gaara non si smuoveva nemmeno sotto tortura, ma se sorrisi e lacrime sembravano non rientrare nel suo codice genetico, una cosa, per forza, doveva funzionare.

 

- BUH!!! -

- … -

- HEY, HEY, MOLLAMI, AAARGH!!! -

 

Gaara sospirò impercettibilmente, e con un cenno sciolse la gabbia che la sua sabbia aveva formato attorno a Lee.

 

- Non devi prendermi alle spalle, potrei farti male senza accorgermene. – lo rimproverò.

- A ha, allora ti ho spaventato, eh? -

Gaara fece per aprire la bocca, ma Lee fu più svelto di lui, e assunse una Nice Guy Pose particolarmente abbacinante.

Gai sarebbe stato fiero di lui.

 

- Non mi hai spaventato, è solo una reazione automatica. – provò a difendersi.

- Su, non devi vergognarti di ammettere le tue paure. – lo incoraggiò Lee, oltremodo galvanizzato.

 

Gaara arricciò il naso e si scostò. – Posso sapere che cosa vuoi? – domandò con tutta la (poca) cortesia che riuscì a racimolare.

- Oh, è molto semplice. – si entusiasmò Lee. – Io voglio farti emozionare! -

- Emozionare? -

- Esatto. Hai presente quella cosa che “oooh, sto provando qualcosa”, e il cuore ti batte forte, e la testa ti vortica come se stessi ballando, e wow, il mondo assume colori e forme del tutto differenti. -

- Sì che ce l’ho presente, ma non credo sia una cosa legale, sai? Non qui a Suna, almeno. -

 

Lee non comprese il criptico riferimento di Gaara, ma per sua fortuna decise di soprassedere.

 

- Insomma, dovrà pur esserci qualcosa che ti piaccia. -

- Sì. Essere lasciato in pace. -

- … O che proprio non ti piaccia. -

- Ce l’ho davanti. -

- Oh, davvero? – Lee si voltò bruscamente, e per un attimo non vide niente dietro di sé, oltre che il lungo vestibolo. Ma poi Kankuro e Temari fecero capolino da un corridoio laterale, e tutto si chiarì.

 

- Non dovresti essere così crudele con i tuoi fratelli. – spifferò, accorato.

- Che si dice da queste parti? – esordì Kankuro, nascondendo magistralmente il terrore che Gaara facesse qualcosa di inconsulto prima che lui e Temari potessero essere a distanza di sicurezza.

- Nien… -

- Istruisco il vostro fratellino sulle emozioni! – annunciò Lee.

- Fra… Fratellino. – esalò Temari, preparandosi a saltare in aria assieme a tutto il palazzo.

 

Stranamente, Gaara non reagì. Significava che aveva sviluppato una notevole pazienza in quei giorni, oppure che si era rassegnato al peggio, e che ormai non tentava nemmeno più di spaventare Lee.

 

- Sapete, ho la vaga impressione di infastidirlo un po’, qualche volta. -

- Solo qualche volta. – lo rassicurò Kankuro.

- Ma tanto non può essere, perché io gli voglio bene, e se qualcuno ti vuole bene non può farti niente di fastidioso, no? -

 

Gaara si irrigidì. Anche gli altri due fratelli rimasero imbambolati a guardare Rock Lee, che restituì loro le occhiate con un ché di stupito.

 

- Beh, che ho detto? – domandò.

- Che gli vuoi bene. -

- Ma è vero. -

- Sì, ma… -

- Oh per tutte le ciglia del Maestro Gai, non sarà questa la cosa illegale di cui parlavi prima? – immediatamente, Lee abbassò la voce, e per assicurarsi che Gaara lo sentisse gli si avvicinò e piegò una mano a conchiglia davanti alla sua bocca. – Perché se è illegale io non la ripeto, ma francamente mi sembra un po’ stupido metterla fuori legge. Altrimenti uno come fa a dirti che ti vuole bene? Poi finisce che pensi che nessuno te ne voglia e ci stai male, dammi retta, sistema questa legge, puoi sempre dire che ti sei sbagliato e che volevi dichiarare illegale dire “ Ti veglio bere”. Che tanto nessuno lo dirà mai. - 

 

Metà faccia di Gaara prese fuoco. I suoi occhi luccicarono per un istante, illuminati da una scintilla che spazzò via la loro opacità. Poi, più nulla, il giovane Kazekage arricciò leggermente il naso, e tutto tornò come prima.

 

Kankuro aggrottò la fronte, incredulo. - Ci è riuscito. -

Temari imitò il suo gesto. – Quale cosa illegale? –

 

 

 

ANGOLINO!

 

Ringrazio tantissimo le irriducibili che non hanno mai abbandonato la fic, anche se ogni tanto i tempi di aggiornamento si dilungano. Portate pazienza, fra gli altri lavori e la necessità di elaborare delle buone idee, mi ci vuole un po’!

 

Racchiudo qui i ringraziamenti per tutte le recensioni, da Requiem in su, a cui non ho avuto il tempo di rispondere. Mi fa piacere che la Shika/Neji, che è decisamente fuori dal comune, vi sia piaciuta (e non sapete che spasso siano le citazioni!)

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Capitolo 27
*** Predator (Itachi/Deidara) ***


Con i suoi occhi tenebrosi, Itachi lo spogliava pezzo dopo pezzo,

Predator (Itachi/Deidara)

 

 

 

 

Dentro di sé, Deidara lo aveva sempre saputo.

 

Itachi lo guardava come non guardava nessun altro, e questo era un fatto.

 

Si era sentito quasi rapito da lui, ed ora il suo odio somigliava sempre di più a quello di uno schiavo. Deidara si leccava e labbra, quando pensava al suo padrone.

 

Se le leccava anche davanti a lui, se era per questo, anzi amava farlo nel modo più sfacciato possibile. Aveva scoperto che gli piaceva da morire, questo tipo di vendetta stillicida.

 

Itachi normalmente rispondeva guardandolo.

 

Con i suoi occhi bui, Itachi lo spogliava pezzo dopo pezzo, e Deidara si sentiva invaso da brividi pazzeschi, violato ed esplorato senza pietà senza possibilità di difendersi, e dio se gli piaceva.

 

Ci sarai per me, Itachi? Resterai al mio fianco? Mi prometti che niente cambierà?

 

Deidara aveva formulato dentro di sé queste poche domande tutte le volte che aveva voluto prendersi gioco di sé stesso.

No, Itachi non sarebbe mai stato la sua certezza.

Gli aveva teso la mano una sola volta, ed era stato per portarlo via per sempre. Tutte le altre volte che lo aveva fatto non erano che brutte copie, ed erano state unicamente per farlo suo.

 

Deidara si lasciava trascinare dalla situazione, limitandosi a scalciare di tanto in tanto, solo per il gusto di opporre quel po’ di resistenza che valeva il fremito di un sopracciglio di Itachi, ma non aveva senso combattere contro qualcosa che voleva anche lui. Non era tipo fa farlo, come non era tipo da contorcersi su inutili ideogrammi di colpa e castigo.

 

Preferiva contorcersi su Itachi, finché poteva, dato che lui possedeva, fra l’altro, il potere non dichiarato di farlo gridare più forte dei suoi pensieri, annullandoli per il tempo di una notte o poco più.

 

Vediamo, che nome vogliamo dare ai loro incontri?

 

Sfide?

Perché no, se alla fine ci si riduceva a ringhiarsi addosso come leoni, con tanto di artigliate che volavano ovunque, e minacce scandite sul filo acuminato di un kunai premuto sulla gola, Ti ho preso anche stavolta, ragazzino.

 

Scopate?

Oh sì, delle gran scopate, di quelle che fanno rumore, che ti lasciano lì ridotto ad uno straccio, zero voglia di alzarti dal letto, o dal pavimento, o da qualsiasi sia il posto in cui ti sei ritrovato a farlo, e zero voglia di guardare in faccia la persona che ti sei sbattuto a morte fino a non più di un minuto prima.

Non ce n’era bisogno; le conoscevano, le loro dannate facce.

 

Lotte?

La lotta cominciava quando la porta della stanza di Itachi si chiudeva, e loro due, odiandosi dentro, provavano ad assordare il mondo con la loro fame; e finiva dopo che quella stessa porta si era aperta e richiusa di nuovo alle spalle di uno dei due; non contava chi, il primo che avesse la forza di alzarsi e di andarsene. Capitava che fosse Itachi, a lui non importava niente che Deidara restasse in camera sua, ma di certo non sarebbe tornato da lui con un bicchiere d’acqua fresca. E non è che pensasse che Deidara potesse volere qualcosa del genere.

 

Deidara si era spinto fino ai confini dell’autodistruzione per dimostrare ad Itachi di valere qualcosa, battendosi quotidianamente contro il paradosso di dover provare la sua forza proprio a lui.

 

Itachi plasmava la sua indifferenza come Deidara faceva con l’argilla, e la concretizzava in violenza crudele e spinta, ma sempre e comunque controllata, anche solo trattenuta per i capelli.

E Deidara lo voleva esattamente così, assassino apatico, distaccato e sessuale come un predatore.

 

Itachi lo prendeva e Deidara gridava per lui più forte che poteva, e snocciolava con la lingua umida dei loro umori tutti gli improperi e le oscenità che gli passavano per la testa.

 

Era purificatorio per lui, e per Itachi chissà.

 

Il tempo rallentava bruscamente quando si trovavano uno davanti all’altro. Deidara era solito osservare i suoi movimenti con un sorrisino tirato sulla faccia, pieno di tensione e di attesa, e se Itachi non si sbrigava a fare il primo passo lo faceva lui, si spogliava perché i vestiti cominciavano inevitabilmente a scottare come brace.

 

Itachi non era mai stato premuroso con lui, non una singola volta. E nemmeno brutale.

Lo trattava come se fosse stato una bambola inanimata, né più né meno. Stava attento a non romperlo, ma non si curava di dargli piacere, e in questo modo lo costringeva a lottare ogni singola volta, per avere il suo dannato orgasmo.

 

Eppure dentro di sé, Deidara sapeva di significare qualcosa per Itachi. Qualcosa di perverso e di insostituibile, perché il traditore  della Foglia non era mai andato a cercare nessuno all’infuori di lui, per quel genere di sfogo.

Essere sessualmente prezioso per Itachi era la sua piccola, illusa rivincita, ed insieme il suo esorcismo contro il terrore che quel mostro incuteva a tutti. A tutti gli altri, perché quando si arrabbiava tanto da far fare un passo indietro persino ai suoi compagni, lui chiudeva gli occhi e lo rievocava nella sua mente nudo, con le gambe allacciate alle sue, le braccia contratte che lo immobilizzavano e gli occhi semichiusi, inespressivi.

Silenzioso, deciso, erotico.

 

Eppure… eppure. Eppure Deidara aveva quel corpo che Itachi prendeva ed abusava a suo completo piacimento, il genere di corpo indecente che no, non si trova tanto facilmente in giro. Il godimento tattile che provava nel percorrerlo centimetro dopo centimetro, era evidente, riusciva a portarlo fino ai confini del suo autocontrollo.

E anche lui, maledizione, anche lui. Gli sembrava di morire, ogni volta che metteva le mani addosso a Itachi, le bocche spalancante a succhiarlo e leccarlo furiosamente. I suoi addominali, il suo petto, la sua schiena ampia e nervosa, qualunque cosa.

 

Si era lasciato battere, da quel corpo pazzesco.

Lo sapeva.

Fanculo.

 

Anf, anf, anf.

Anf.

 

Finiva tutto in pochi ansiti, ma Deidara si portava addosso le sensazioni per ore. E poi le usava come antidoto, nei momenti di necessità.

 

Pensava di giocarsela alla pari con lui, unico fra tutti, era intimamente convinto di ricoprire una posizione invidiabile. Pensava di avere il diritto di replica con lui, in nome di quegli orgasmi che gli regalava, e per i quali non riceveva mai un cazzo di ringraziamento.

 

Beh, tutte palle. Itachi non lo trattava meglio o peggio degli altri, e Deidara si trovava ogni volta a fare i conti con il suo fallimento.

 

Però, poi, l’uno si metteva sempre a caccia, e l’altro si faceva sempre scovare.

 

 

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Ok, questa è un pochino più spintarella delle altre. Ma solo a parole, è il caso di dirlo!

 

Dark: ma dai, non puoi fare una cosa del genere! Praticamente lo condanni ad avere i sopracciglioni. Hihihi, ho lollato un sacco anche io a scriverlo… Povero Gaara, le sue sfighe non hanno mai fine.

 

Kamusa: waaa, Kakashi, anche io sarei felice di andare a un funerale con lui. Ma non parliamone, che poi mi torna in mente Hayate e… e… sigh!

 

Beat: guarda, è un film veramente bello, e quando esci dalla sala ti rendi conto di essere mooolto fortunata. È terapeutico! E le barzellette di Gai… beh, ecco, considerando che quella su Kisame è la migliore non oso immaginare…

 

Little Star: ma dai, non fare esperimenti sui tuoi amici, che poi si preoccupano e mi vengono a cercare! XD

 

Hokori: garantisco che Neji ha apprezzato molto. Solo che, siccome in questa raccolta è molto conteso, non so dirti se ci sia andato con Sasuke, con Shikamaru, con Lee o chi altro XD ha pianto come un agnellino e alla fine è andato ad abbracciare sua cugina, mah… Oh, meno male che anche tu sei d’accordo, qui tutti a dire che la barzelletta su Kisame fa morire, e invece no, è orrenda, è pessima! Dai, che poi Gai si fomenta!

 

Koorime: tesoro, aggiungo al tuo sogno che dopo la sbronza, Neji si è risvegliato, chissà come mai, tutto nudo, con i muscoli indolenziti, nel letto di Sasuke. Con Naruto e Jiraya fuori dalla finestra, svenuti. Shino e Shikamaru, avevano optato per una saggia brioche al bar, invece che andare a fare gli spioni. Ecco, sì, adesso il quadro è completo!

 

Bambi: grazie mille! Beh, guarda che per sopportare Lee ti fanno un corso specifico!

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Capitolo 28
*** Rules of silence (Sasuke/Neji) ***


Protect (Sasuke/Neji)

Rules of Silence (Sasuke/Neji)

 

 

 

 

Dopo tanto parlare Kakashi si concesse un sorriso stanco, e un mezzo sospiro, che fossero un po’ il punto d’arrivo della discussione.

 

- Non lo so, Gai. – mormorò. – Ma non credo sia il caso di intervenire. –

- Kakashi…? -

Gai corrugò le sopracciglia, e lasciò lì la frase.

- Finché lo fanno in silenzio. – precisò Kakashi.

 

Entrambi fissarono assenti la brocca ancora mezza piena di succo di frutta, che i ragazzi avevano avanzato dalla merenda.

Se n’erano andati tutti di sopra a riposare un po’, dopo gli allenamenti massacranti del pomeriggio. Il tempo di una doccia, di una sistemata, di buttarsi a riposare per un momento sul letto, prima di mangiare qualcosa, e poi daccapo con gli esercizi serali.

 

Quella specie di uscita fuori porta era stata, strano ma vero, un’ottima idea di Gai. E un impianto termale, circondato da foreste fitte e irregolari, a meno di due giorni di cammino dal villaggio, era il luogo perfetto per addestrare i loro due gruppi di genin all’aria aperta.

Ma, certo, c’erano le conseguenze che derivavano dalla convivenza forzata di sei ragazzi.

Alcune prevedibili, e altre, un po’ meno.

I ragazzi si erano divisi in stanze da due; Sakura, naturalmente, con Tenten; Naruto con Lee, e Sasuke con Neji. Nulla di male, a volersi mescolare un po’, anzi. Tutto di guadagnato per rinsaldare i loro legami di amicizia.

Lee e Naruto si erano fiondati nella loro camera, starnazzando qualcosa a proposito di un chiosco di Ramen appena fuori dalle terme; Sakura e Tenten avevano avuto meno problemi del previsto ad organizzare i loro spazi, con enorme sollievo dei due jonin.

Neji e Sasuke non si erano nemmeno guardati in faccia.

In realtà, erano stati proprio loro due i primi a scegliere di fare coppia, ma quasi nessuno ci aveva fatto caso: si erano limitati a fare un passo l’uno verso l’altro, creando attorno a loro una sorta di muro invisibile, che a nessuno era venuto in mente di infrangere.

Si erano avviati in silenzio verso la loro stanza, con i bagagli sulle spalle.

 

Kakashi, doveva ammetterlo, non si era nemmeno accorto che ci fosse qualcosa di strano, finché Gai non gli aveva fatto notare, dopo nemmeno una settimana, quanto entrambi fossero distanti.

 

Neji e Sasuke erano gli ultimi a scendere per colazione, e i primi a salire, dopo la cena. Ed erano sempre stanchi, e tremendamente seri; parlavano persino meno del solito.

Sasuke non reagiva nemmeno più ai dispetti di Naruto, Neji rispondeva a monosillabi, con il suo solito, gelido garbo, sì, ma con una voce spaventosamente monocorde.

 

Si impegnavano negli allenamenti con la solita energia, ma non c’era convinzione, nei loro gesti, solo una meccanica ripetizione di esercizi, di posizioni, di azioni, e con buona probabilità era solo perché erano inequivocabilmente superiori ai loro compagni, se nessuno dei ragazzi si era ancora accorto di nulla.

Beh, Naruto bofonchiava contro l’apatia di Sasuke, di tanto in tanto, ma nient’altro era trapelato, di cosa ci fosse sotto la superficie.

Almeno, fino a quella mattina.

 

***

 

- Dov’è Neji? -

Sasuke si oscurò. – E’ ancora in camera. – rispose a mezza bocca.

- E’ in ritardo. – osservò Gai. – Non è da lui. -

Sasuke si strinse nelle spalle, e raggiunse i suoi due compagni. Sakura lo coinvolse immediatamente in un esercizio per il controllo del chakra, a cui lui si sottomise senza fiatare.

Neji comparve pochi minuti dopo, stranamente in disordine: i capelli, in particolare, erano malamente raccolti, come se non avesse avuto il tempo di pettinarli.

Gai fece per dirgli qualcosa, ma si bloccò, quando vide Kakashi rivolgergli uno sguardo pensieroso.

 

Così, di comune accordo, avevano fatto finta di essere ciechi, sordi, e anche parecchio distratti, fino all’ora del pranzo. Spettava loro una pausa di due ore, come di consueto, e c’era da supporre che i due l’avrebbero passata nella loro stanza, come era stato sin dal primo giorno.

 

Gai e Kakashi si appostarono sopra al tetto spiovente, esattamente in corrispondenza della porta della loro camera. Sapevano quanto il loro metodo fosse poco ortodosso, ma a mali estremi…

 

- Non devi più farlo. -

- Non so di che parli. -

- Lo sai, invece. Non devi mai più tardare, o saranno guai. Ci hai quasi fatti scoprire, presentandoti a quel modo, stamattina. -

- Non dare la colpa a me, Sasuke. – rispose Neji, duramente.

 

Sasuke gli riservò un lungo sguardo tagliente, che sprofondò negli occhi bianchi di Neji.

- Scusa. – borbottò, alla fine.

 

E Kakashi sbattè le palpebre, incredulo.

 

Neji scosse lentamente la testa, e di colpo sembrò provato, e debole.

- Sono stanco. – soffiò faticosamente. – Stanco. -

- Sì, lo so. – rispose seccamente Sasuke, che tuttavia lo avvicinò, accennando ad un abbraccio. – Lo sono anch’io. Dobbiamo resistere qui ancora per due settimane, e poi sarà finita. -

- No, non ce la faccio. -

- Avanti, Neji. -

- Dovevamo stare alla larga da tutto questo. Io lo dicevo, lo sapevo. -

- Smettila di dire idiozie. Guardami. – Sasuke gli prese il viso fra le mani, stringendo gli angoli delle mandibole con forza. – Sto cercando di vivere per qualcosa che non sia soltanto l’odio, Neji. Ma se tu non mi aiuti, io… -

- E’ nel nostro destino, odiare! -

- Lo so, maledizione, lo so! È per questo che dobbiamo essere forti, non lo capisci? -

 

Neji socchiuse gli occhi perlacei, isolandosi per qualche istante nei suoi pensieri, analizzandoli uno ad uno con calma e precisione, secondo un chissà quale criterio. – Mi dispiace, per stamattina. Un’imperdonabile debolezza. – mormorò asciuttamente.

- Adesso ti riconosco. –

 

Sasuke accennò ad un sorriso.

Erano giorni che non sorrideva, a nessuno.

 

- Dai, andiamo. Dobbiamo assolutamente essere puntuali per gli allenamenti di questo pomeriggio. -

- Hai ragione. –

Sasuke cercò la chiave della stanza nella tasca dei pantaloni, la infilò nella serratura, facendola scattare. – Solo una cosa, Neji. – aggiunse, mentre la porta si apriva con uno scricchiolio leggero.

- Che cosa? -

- Vestiti in bagno, dopo la doccia, se puoi. – disse, con un certo sforzo. – Per favore, non uscire con l’asciugamano addosso. -

 

Non c’era stata ombra di malizia, nella sua richiesta. Era davvero un bisogno, il suo, di qualcuno che sapeva che un asciugamano sul corpo nudo di Neji avrebbe significato un nuovo ritardo, una giustificazione plausibile da inventare, e soprattutto uno squarcio in più con cui fare i conti, un’altra mezz’ora passata a non capire più niente, a sapere già che dopo sarebbe stato ancora più difficile guardarsi negli occhi.

Neji annuì, con le labbra strette in un’espressione spenta e rassegnata.

 

Kakashi e Gai avevano aspettato che la serratura scattasse, prima di muoversi dal loro nascondiglio. Per un po’, rimasero in un costernato silenzio, di fronte alla porta chiusa dei loro due allievi.

 

***

 

E adesso, i due maestri si trovavano a confrontarsi, per decidere cosa fare.

Sasuke e Neji non dovevano sapere di essere stati scoperti, in quel momento la cosa più importante da fare era proteggerli. I loro compagni dovevano assolutamente restare all’oscuro di tutto, e anzi, per come stavano le cose, tutti dovevano restarne all’oscuro. Se per errore qualche loro nemico fosse venuto a conoscenza di quella faccenda, avrebbe significato avere in pugno l’ultimo degli Uchiha e il migliore degli Hyuga nello stesso momento.

Kakashi conosceva bene il suo allievo, e gli erano bastate le poche parole che gli aveva sentito dire, per convincerlo che sarebbe diventato una furia, per difendere Neji. E Neji avrebbe con ogni probabilità fatto lo stesso, e questo era un rischio che al momento non si poteva correre per nessuna ragione.

Ma era altrettanto vero che, prima o poi, avrebbero pur dovuto parlare con loro. E sarebbe stato difficile. Toccare l’intimità altrui è sempre una questione complicata, se poi andava fatto con due come loro, e per ragioni fin troppo serie, le cose non potevano che precipitare.

 

- Probabilmente Neji la vive come una vergogna. – mormorò Gai.

- Questo è un problema che non ci riguarda. Noi non possiamo far altro che cercare di coprirli, e proteggerli, se ce ne fosse bisogno. Il resto è solo una questione fra loro due. -

- Sì, ma ho paura che Neji possa fare qualcosa di imprudente. -

- Non lo farà. Non è uno stupido, e nemmeno Sasuke lo è. Sono stati bravi, fino ad ora. -

 

Kakashi aveva ragione.

Qualsiasi cosa facessero quei ragazzi, la facevano in religioso silenzio, e questo, per il momento, era abbastanza.

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

Aaaah, con infinita gioia torno al paring più sexy di tutto il fandom… dite la verità, vi erano mancati, eh?

Ok, ok, smetto di illudermi  -__-

 

No, però adesso vi voglio rivelare una cosa: questa è in assoluto la primissima cosa che ho prodotto per il fandom di Naruto. Non lo conoscevo quasi per nulla, perciò non mi sono azzardata a pubblicarlo fino ad averci preso un po’ la mano. Rileggendola, mi sono resa conto che tutto sommato funziona, non avevo commesso nessun errore clamoroso, perciò ho voluto pubblicarla.

 

Non vi intenerisce un po’, questo particolare? A me sì *_*. Che idiozia.

 

Insomma questo è solo per avvertirvi che codeste pagine sono state l’inizio della fine per la mia insana passione. Oltre al fatto che si tratta di un necessario cliché, data la mia inesperienza.

E questo Sasuke, boh…

 

 

Dark: amor, ti sei ripresa nel frattempo, vero? O_O

 

Little Star: ma ti dirò, credo che nessuno al mondo abbia mai pensato ad una Itachi/Deidara… Perciò posso gestirmeli un po’ a casaccio (evil grin)

 

Urdi: no, direi che di pucci non c’è proprio niente. Ed è giusto così, Itachi e Deidara non potrebbero vivere un tipo di rapporto diverso senza essere snaturati. Felice che sei tornata!

 

Vale: eccola che spunta ovunque XD inquietante ,eh? Li sentivo anche io, non vorrei che fossero i miei vicini O__o. Ehm, ok. Evviva la perversione, siamo in sintonia! Quoto la tesi del sesso-mai-solo-sesso. Non perché non esista, ma perché… non è artistico. Ok, con questo mi ritiro.

 

Kamusa: ti sei scatenata! Grazie per tutte e tre le recensioni, quella per Shadows, sono contenta contenta che tu abbia intravisto il doppio senso del titolo, e che il paring ti abbia convinta, essendo abbastanza delirante… però no, non mi dire che le barzellette di Gai sono geniali, perché sono orrende, inascoltabili! Piacciono solo a Lee, e capirai, lui non vale! Eh, per fortuna che la giovinezza veglia su di noi… Mah guarda, su Deidara come predatore sono d’accordo anche io, ma il fatto è che per quel che mi riguarda ciò non significa automaticamente Seme! Anche io preferisco le più classiche Saso/Dei, e lì sì che Dei ha campo libero a far andare fuori di testa il povero Sasori! Ma questa è nata un po’ così, immaginando questa situazione di conflitto. Certo che Itachi è veramente un’impresa da gestire, come personaggio XD

 

Kumiko: oddio, senza vedere subito il cap di riferimento, pensavo che parlassi di quella con Deidara, ed ero un tantino perplessa XD sono contenta che ti sia piaciuta, in effetti non se ne trovano in giro molte. È un tema che deve essere trattato bene, se vuole colpire, ma per loro due ne vale la pena, eccome!

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Capitolo 29
*** Oil on Canvas (Sasori/Deidara) ***


Oil on canvas

Oil on canvas(Sasori/Deidara)

 

 

 

 

- E smetti di usare questi stupidi fili. – gracchiò all’improvviso Deidara, scrollando un braccio. – Posso muovermi da solo, lo sai? Basta che me lo chiedi. –

Sasori sollevò impercettibilmente gli occhi opachi verso il soffitto.

La luce filtrava dal lucernario in modo splendido, ma sarebbe durata ancora per poco tempo, e lui aveva appena cominciato le rifiniture sulla campitura.

- Se te lo lasciassi fare. – spiegò senza perdere la calma. – Tu ti metteresti in qualche modo contorto. –

- E’ solo perché non vuoi che mi copra. – malignò Deidara. – Sei un maniaco. –

 

La provocazione non venne accolta. Sasori continuò imperterrito a sfiorare con la punta sottile del pennello la pelle candida di Deidara, che man mano veniva emergendo e delineandosi sulla tela.

Mentre il suo modello grugniva, in disappunto per essere così barbaramente poco considerato, dopo un’ora e forse più che si trovava lì in sua balia.

 

- Levati quel broncio dalla faccia. Mi rovini il chiaroscuro. –

- Oh, al diavolo il chiaroscuro. Accidenti, che noia! –

- Perché non guardi me, Deidara? Sarebbe l’occasione buona per imparare un po’ di arte. –

 

Deidara sbarrò gli occhi per un secondo, offeso. Sasori, comunque, non pareva per niente disposto ad intavolare uno dei loro collaudati dialoghi a base di teorie artistiche ed imprecazioni. Era troppo maledettamente concentrato su ciò che stava facendo, per ispirare sentimenti di stizza.

- Comunque. – osservò, suo malgrado colpito. – Non sapevo che fossi anche un pittore. –

E rimarcò tenuemente quell’”anche”, a voler concedere alle marionette di Sasori lo status di facenti parte, in un modo o nell’altro, della nozione di arte.

Uno sguardo fugace in sua direzione. Spento, non chiaro se fosse per le sue parole, o per il semplice bisogno di attingere a qualche altro dettaglio da copiare.

Il pennello volò. Nessun dubbio, doveva stare lavorando sui suoi capelli, in quel momento.

 

- Non sono armi. – specificò, riferendosi per ovvietà al quadro. – E’ semplicemente un piacevole passatempo. Ho fatto pratica di pittura, per dipingere le mie marionette. –

- Uff, a me non piace molto dipingere. Anche se le esplosioni di colore che si vedono in certi quadri sono davvero esaltanti. –

- Sempre il solito. Io mi interesso solo di paesaggi e di ritratti. Sono i generi più nobili, quelli che catturano un singolo momento per immortalarlo. –

- Uhn. Da appendere alla parete e contemplare in eterno. – sbuffò Deidara, incrociando le braccia. – Come piace a te, insomma. –

Sasori lo fulminò.

- Ahia, ahia, lasciami andare! – piagnucolò, stretto da un impietoso filo che lo costrinse a tornare com’era prima.

 

Sasori aveva scelto una posa assolutamente classica, per quel ritratto. Dopo averci riflettuto un po’ su, Deidara aveva realizzato che era anche tipicamente femminile, e questo lo aveva irritato non poco, ma ormai era troppo tardi. Sbatté le palpebre mentre Sasori si concentrava sul margine della tela, probabilmente sulle gambe o sui piedi. Per un attimo, l’idea che Sasori stesse dipingendo delle parti di lui così insignificanti, ed allo stesso tempo intime, lo face rabbrividire.

 

- Hey, Sasori-danna. Mi annoio da morire. –

- Non è affar mio. –

- Oh, ma sentilo! E io che ti sto facendo un favore. La prossima volta, ritrai Hidan. –

- Impossibile. –

Un altro tocco lieve, picchiettato.

- Hidan non è un modello all’altezza. –

- Perché, io lo sarei? –

- Sì, tu  sì. –

Deidara sgranò gli occhi, esterrefatto.

- Fermo così. – scandì Sasori. Ed era un ordine bello e buono, quello.

Riprese a dipingere, colore sulla tela, niente più che uno schizzo in carboncino da cinque minuti a fargli da guida. La luce stava reggendo, fortunatamente, ma ciò nondimeno non c’era nemmeno un minuto da perdere.

 

- Sasori-danna. –

- Non scocciarmi, per favore. –

 

Deidara si rimise in silenzio, docile. Ma lo guardava dritto, senza più divagare, ora. Con occhi grandi, incerti.

Sulla sua pelle soffiarono alcuni spifferi che dalla finestra se ne fuggirono verso la porta chiusa, penetrandone giusto le fenditure. Li poté cogliere solo perché era un ninja, ed era nudo.

Sasori non aveva voluto nemmeno un drappo sulle anche che coprisse la sua intimità.

 

Quando gli aveva chiesto di posare per lui, Deidara aveva pensato ad uno scherzo, sul serio. Poi si era ricordato che Sasori non scherzava mai, ed aveva avuto un po’ paura.

Ma, da artista ad artista, era stato relativamente semplice farsi convincere. Obiettivamente, non gli costava nulla.

E diventare egli stesso arte era una prospettiva che lo allettava sempre, anche se questa volta non si giocava con le sue regole.

 

- Mancano gli ultimi ritocchi sulla luce. È di fondamentale importanza che adesso tu non muova un muscolo, Deidara. Mi sono spiegato? -

- Perché, fino ad ora che cos’ho fatto? – si lamentò il povero ninja biondo, sgranchendo velocemente le braccia per prepararsi alla lunga e odiosa immobilità. Non era proprio roba per lui, quella. Proprio no.

 

Nella lunga mezz’ora in cui Sasori non lo degnò che di pochissimi sguardi fulminei, Deidara cercò di distrarsi con i suoi stessi pensieri. Non ne venne fuori granché, eccetto gongolanti considerazioni sulla maestosità di certe esplosioni molto riuscite degli ultimi tempi, e qualche fugace riflessione su Sasori, su niente in particolare di lui, solo, l’idea in sé che stesse lavorando ad un suo ritratto.

Era pieno di significati, questo fatto, Deidara ne era sicuro. Doveva per forza averne, ed averne un milione, solo che era difficile in modo assurdo tentare di addentrarsi in quella ragnatela senza uscirne a pezzi.

Bastava prendere ad esempio la nudità. Eh sì, era terribilmente indicativo che Sasori lo avesse voluto nudo. Lo aveva spogliato di qualsiasi simbolo dell’Akatsuki per farne niente più che un corpo, con la sua storia e le sue piccole cicatrici che, una volta prive dei vestiti, oltre a perdere il loro rifugio, perdevano anche il loro senso d’essere.

E poi, Sasori-danna un corpo non ce l’aveva. Non più. E chissà da quanto tempo non ne vedeva uno, se si eccettuavano quelli che usava per i suoi giocattoli, e che finivano trasformati in pochi istanti in burattini. Forse, pensò, forse Sasori aveva solo avuto voglia di vedere un corpo umano. Di osservare la pelle viva che reagisce agli stimoli esterni, di studiare i tanti, impercettibili movimenti di tutta quella miriade di muscoli chiamata in causa dal semplice fatto di vivere. Alcune delle sue marionette avevano delle strane forme, ma la più importante, quella che Sasori chiamava “sé stesso”, era perfettamente umana nell’aspetto, e questo particolare non poteva lasciare dubbi: Sasori amava il corpo umano, doveva amarlo moltissimo. Dopotutto, era un artista.

Improvvisamente si ritrovò a provare nei confronti del suo compagno un’empatia inedita. Era come se si fosse improvvisamente, stupidamente accorto di un filo rosso che scorreva molto al di sotto degli screzi superficiali fra loro, tenendoli uniti l’uno all’altro con forza, anche molto oltre il necessario.

 

- Ho finito. – proclamò Sasori, svogliatamente.

- Davvero? Finalm… -

- I colori non sono ancora al massimo della resa, visto che dovranno asciugarsi. -

- Ma posso vederlo, vero? -

- Puoi vederlo. -

 

Deidara corse da lui, ancora nudo e completamente dimentico di esserlo.

Sasori si scostò dalla tela con qualche vaga, incomprensibile reticenza, mentre lui vi si accucciava sopra per scrutarla.

 

Dal lungo lavoro di posa, di studio della luce, di estenuante concentrazione, ne era venuto fuori un giovane annoiato, rilucente, dal sorriso molle. Il suo corpo sdraiato era mosso da un candore assolutamente ambiguo; le curve del busto, era chiaro, erano state accentuate, ma non tanto da rendere meno maschile il suo corpo glabro, che si esponeva senza censure, persino con pigra civetteria allo sguardo dello spettatore. Gli occhi, entrambi azzurri, entrambi liberi, fiammeggiavano, come se avessero voluto impadronirsi di tutta l’attenzione, anzi di più, del mondo intero, mentre le mani, accoccolate sul materasso per sostenere il corpo, avevano il morbido nervosismo delle zampe dei felini. I piedi, poi, quei piedi così insignificanti ed intimi, erano piccoli e in qualche modo deliziosi, tuffati com’erano fra le pieghe del lenzuolo scostato, nemmeno fossero stati loro la sola cosa da celare a sguardi indiscreti.

Deidara singhiozzò, incredulo.

Era così, che Sasori lo vedeva?

Era questo che pensava di lui?

Il sé stesso di quel ritratto era bellissimo, molto più di quanto lui non fosse in realtà, ne era certo.

Sprigionava una sottile ma imprescindibile carnalità, come se chi l’aveva dipinto lo avesse plasmato a mani nude più che con il pennello, usando ogni gesto per toccarlo, accarezzarlo.

L’immagine che Sasori aveva immortalato, era quella di un Deidara inequivocabilmente suo.

 

- Un giorno. – mormorò, atono. – Farò di te la mia bambola più bella. –

- Cos…? -

- Mi dispiace. –

 

 

 

 

 

ANGOLINO!

 

 

Nota: il titolo è la dicitura inglese per “olio su tela”. Quella che normalmente trovate sui cartellini dei musei, per capirci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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