Sugarcubes

di allonsy_sk
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Sunday Times ***
Capitolo 2: *** Stayin' Alive ***
Capitolo 3: *** Applied Umbrellology ***
Capitolo 4: *** Black, two sugars ***



Capitolo 1
*** The Sunday Times ***


Domenica, ore 10:24 più una manciata di secondi.

John legge il Sunday Times e beve la sua seconda tazza di tè della mattinata. I piatti della colazione sono sporchi nel lavello, insieme a una boccia di vetro sigillata. Nella boccia c’è spirito o formaldeide, e nel liquido appiccicoso galleggiano delle orecchie umane un po’ rattrappite e sbiancate. Una è chiaramente maschile, più grande, ma con il lobo forato in modo grossolano. L’altra è piccola e bianca, delicata come una conchiglia sulla spiaggia. Il forellino è piccolo e regolare.

John ha visto tutto questo mentre faceva correre l’acqua per il tè. Nel raro raggio di sole di questa domenica mattina, gli viene facile non irritarsi troppo, per il fatto che Sherlock affligge anche i suoi pensieri, come una malattia infettiva.

Sherlockite acuta. Cronica. Quando ti metti a dedurre qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, è tempo di una vacanza.

John legge giusto i titoli delle principali notizie. Nessuna voglia di impegnarsi particolarmente.

Colpo di stato in Uganda, sciopero nazionale in Francia, Italia e Spagna declassate dall’Unione Europea.

Sbadiglia. Non sa se Sherlock sia in casa o meno. Ieri sera c’era di sicuro, chino sul microscopio e circondato da campioni maleodoranti. Dice che questo caso non è tanto importante da richiedere l’aiuto di John, e John non sa bene se sia un complimento o un insulto. Ieri sera comunque John è uscito, e non è sicuro che Sherlock si sia mai mosso di casa o sia mai rientrato durante la notte.

John sbuffa, si riempie la tazza del tè, allunga i piedi sul tavolino. Ah, la pagina del cruciverba. Il cruciverba della domenica è un piacevole quando frustrante esercizio intellettuale.

Soprattutto se, come oggi, caso strano, non lo trova già completato dalla grafia irritante di Sherlock, che puntigliosamente annota ogni definizione con il suo personale giudizio sull’argomento. La parola più usata è ‘noioso’, seguita a ruota da ‘ovvio’.

Bedding material shows blemishes when reversed (5)*

John quasi gongola quando riesce a inserire uno dei verticali. S-t-r-a-w.

Oh, è soddisfacente. Il cervello quasi duole alla fine di ogni criptica definizione, ma un sorso di tè calma lo sforzo, e si può ricominciare.

Capital of Sudan looks odd, initially.(4)*

Questo è difficile. Quattro lettere. La capitale del Sudan? La capitale del Sudan è Kharthoum, e John lo sa soltanto perché c’è un trafiletto in una delle pagine precedenti.

“Kharthoum…” mormora completamente assorbito, mentre mordicchia la gommina in cima alla matita. Una tazza di tè appena fatta, un cruciverba criptico ancora vergine (niente scarabocchi di Sherlock, neanche uno), una matita appena temperata. Ah, John Watson si sente stranamente felice.

“Sbagliato.”

Sherlock è comparso dal nulla, ha il cappotto, e da fuori porta un sentore di aria frizzante e di sole. Quel tipo di sole che ancora non scalda, ma che promette di farlo presto.

“E buona domenica a te,” risponde John, tornando a mordicchiare la sua matita.

“Kharthoum non c’entra.”

“Mh.”

Una pausa. Sherlock prende il supplemento sul giardinaggio, poi lo mette giù. Quello immobiliare, e lo lancia per terra, sul tappeto. Sparisce, torna senza cappotto, con la vestaglia blu e il violino.

È una palese finta, perché il cruciverba tra le mani di John lo attira come un magnete.

“Fammi vedere.”

“No,” risponde John risentito, coprendo la pagina con entrambe le mani. “Lo risolverai in cinque minuti e mi toglierai tutto il divertimento.”

Sherlock inarca un sopracciglio.

“Sei lì da circa ventisette minuti e hai risolto una sola definizione. La tua idea di divertimento è…?”

John liscia la pagina di giornale con aria difensiva.
“Fammi la cortesia di pensare alla tua idea di divertimento.”

Sherlock ha la buona grazia di tacere. John segna un punto a proprio favore.

Poi beve un sorso di tè ormai raffreddato – colpa di Sherlock, ovviamente – e torna alle sue definizioni.

La capitale del Sudan sembra strana inizialmente. Ma perché strana? E se tolgo l’iniziale di Kharthoum? E se…

John spiegazza la pagina con un piccolo rumore frustrato nel fondo della gola.

Prova ad attaccare il problema da un’altra angolazione, ma l’incrocio corrispondente rimane criptico e illibato. Non riesce a riempire neanche un’altra casella dopo il successo relativamente facile di prima.

E come se non bastasse, sente lo sguardo di Sherlock su di sé.

Ora.

Tra le cose che John Watson trova irritanti – e non è che siano tante, è un uomo poco complicato – e che sono quasi tutte responsabilità di Sherlock, che invece è un coinquilino irritante in modo complicato. Complicato in modo irritante. Insomma, tra le cose che John trova irritanti, c’è l’essere il bersaglio più o meno inconsapevole dello sguardo di Sherlock. Soprattutto mentre cerca di concentrarsi su qualcosa.

Sapere che Sherlock probabilmente sa ogni minima minuzia che gli passa per la testa in un dato momento e che magari lo legge nello sbaffo di dentifricio seccato all’angolo della bocca o, che ne so, nel modo in cui si è pettinato stamattina, lo manda in bestia. Nessuno dovrebbe essere un libro aperto per qualcun altro. A meno che non si voglia essere un libro aperto per qualcun altro.

Ma questo non è il caso.

Giusto.

Giusto?

Assolutamente giusto, conclude John con un secco scatto del capo, mentre piega e ripiega il giornale e, voltandosi, scopre che effettivamente, Sherlock lo sta ancora fissando. Sospira.

“D’accordo. Spara.”

Sherlock congiunge le dita sotto la punta del naso e osserva un punto imprecisato dell’infinito. Ma gli trema un angolo della bocca, gli trema verso l’alto e i suoi occhi hanno un che di malizioso. Un brillio compiaciuto appena trattenuto.

“Kharthoum non c’entra. Capital. Cerchi una capitale, ma non del Sudan. Initially ti dà l’indizio successivo. Devi prendere le iniziali di ogni singola parola dopo capital. Quindi O-S-L-O. Oslo. Banale.”

John sbatte le palpebre due tre volte. Borbotta a mezza voce.

“Lo fai sembrare sempre così facile. È sorprendente e frustrante allo stesso tempo.”

Sherlock ha la faccia – gli occhi – del gatto che ha rubato la panna. Manca poco che inizi a fare le fusa.

Allunga una mano e fa pat pat sul divano, accanto sé.

John sbuffa, raccoglie il giornale (uno straccetto, ormai) e la matita e va a sedersi accanto a Sherlock, con aria imbronciata. Era una domenica mattina tanto pacifica, fino a poco fa. Lui da solo col suo cruciverba e la sua frustrazione. Ora è con il suo cruciverba e Sherlock (frustrazione al quadrato. No, al cubo).

Sherlock se lo tira a sedere più vicino, infila le dita tra i capelli, gli fa voltare il mento.

“Questa è facile. X before journalist*

John si acciglia per un attimo, poi la sua fronte si spiana.

“Temo che tu abbia ragione. È facile.”

La pagina con il cruciverba scivola a terra, dimenticata e calpestata, mentre John strattona Sherlock più vicino, affonda le dita nei riccioli ribelli sulla sua nuca, e lo costringe ad aprire la bocca contro la sua.

X è un bacio. Kiss. Journalist è ED. Kissed. Baciato.



Note:

Note originali della storia, pubblicata per la prima volta il 23 Agosto 2012:

Le prime due definizioni vengono da un cruciverba a caso del New York Times. Non so niente dei cruciverba criptici, anzi, quel poco che so l’ho imparato scrivendo questa fic, che mi ha fatto dannare. L’ultima definizione l’ho inventata io e temo che non abbia senso. Ma fingiamo che ne abbia.

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Capitolo 2
*** Stayin' Alive ***


Stayin' Alive

Non è molto cambiato ( completo Westwood immacolato, si siede senza incrociare le gambe per non spiegazzare la piega perfetta dei calzoni), e quando si toglie gli occhiali da sole, John si rende conto che il tempo è stato benevolo con questo moderno Dorian Gray.

Giusto un paio di linee sotto gli occhi languidi dall’aria ingannevolmente innocente. Sicuramente una o due punturine per tenere a bada le rughe. Sherlock saprebbe dire quando è stata l’ultima iniezione di botulino.

In quanto al resto,  Jim Moriarty è un maledetto gnomo senza età,  a cinquant’anni come a trentacinque, fatta salva una spruzzata di grigio nei capelli, anche questa coltivata ad arte. Sai, è più sexy.

Non si può dire lo stesso di John. Segnato, strapazzato, stropicciato. Completamente bianco un anno e un giorno dopo-

Un anno e un giorno dopo.

Ha il bastone appoggiato contro la sedia, le mani accuratamente ripiegate l’una nell’altra perché non se ne noti il tremito.

Inutile, e lo sa. Ma è altrettanto inutile spolverare il teschio sulla mensola del camino. È diventato lucido, si è come consumato. Ancora un po’, e sembrerà una testina rattrappita, un trofeo dei cacciatori di teste. Ancora un po’, e scomparirà del tutto. Il pensiero è da stringere le budella in una morsa di dolore, meglio non pensarlo.

John si schiarisce la gola. Deglutisce. Si chiede cosa ci faccia qui – un volgare fast food pieno di bambini vocianti e coppie di adolescenti. Non è proprio il luogo adatto ad un incontro al vertice – con la sua nemesi.

L’uomo che ha sognato di poter uccidere a mani nude a notti alterne per gli ultimi quindici anni. A notti alterne, quando non ha sognato incubi frammentati, incubi sudati di asfalto macchiato di sangue, e una telefonata come biglietto d’addio, e una lapide nera come un monolite di sventura. 

E il suo viso – giovane, perché il suo Sherlock interiore non è invecchiato mai, anche se ultimamente gli parla di voler provare ad allevare le api, e John non ha ben chiaro se sia tipo il primo segno di demenza senile o se rassegnarsi a farsi tenere compagnia dalla voce disincarnata di un fantasma – il suo viso tanto pallido, livido contro lo scarlatto del sangue, il nero dell’asfalto. Dio, che male.

Dispiega le mani, una automaticamente sul bastone, l’altra accarezza senza pensarci il calcio della pistola. Quanti anni sono che non adopera una pistola? Non ha importanza. L’istinto del soldato muore soltanto con il soldato stesso.

“Cosa- cosa vuoi?” Viene fuori più diretto e brutale di quanto pensasse. Ma c’è poco da dire all’assassino del tuo- del tuo dannato compagno di vita quando ti compare danzando davanti dopo quindici anni e ti chiede di andare a bere un tè. E tu ci vai.  (E io ho detto ‘pericoloso’, ed eccoti qua.)

Moriarty scuote la testa piano piano, destra, sinistra. Naah.

“Niente. Non voglio niente, John.  O meglio,” si liscia il bavero della giacca, si umetta le labbra. La sua faccia ha ancora un che di rettile, di inumano. È un faccia di gomma. “…ho pensato, una riunione. In onore dei vecchi tempi.”

John non.

John non ha parole. Letteralmente. La sinistra gli si stringe più forte contro il calcio della pistola, fa male. Il dolore gli schizza dalle nocche con una violenza fastidiosa, saetta fin nel braccio.

Moriarty sorride il suo sorriso da lucertola, occhi dolci e aria soave.

“Mi mancava Londra. Mi mancava l’aria di casa.”

Che sia soltanto di passaggio John l’ha capito senza l’ausilio dello Sherlock interiore, impegnato a enumerare una lunga serie di dettagli. …e l’ultima falange mancante nel dito mignolo della mano destra indica un’affiliazione con un clan della yakuza, o meglio, il fatto che abbia fallito una particolare missione o incarico e sia stato punito. Dalla manica si nota il tatuaggio che a giudicare dalla sfumatura di verde ha un’età di circa…

“Perché non dovrei bruciarti le cervella ora e subito.” Il tono di voce di John è abbastanza da sconvolgere John stesso, fa voltare un paio di adolescenti, nonostante le parole siano quiete, piane.

Il sorriso di Moriarty risplende di amperaggio ancora maggiore, mentre sulla guancia segnata di John compare un puntino rosso. Un mirino elettronico.

Moriarty scuote ancora la testa, piano, piano. Naah. Si alza, si liscia i calzoni, prende il soprabito accuratamente ripiegato.

“Non mi ucciderai mai, John. Neanche se mi presentassi alla tua porta con un bersaglio dipinto in fronte.”

“Ti sbagli.” John si alza a sua volta, si appoggia al bastone con la mano destra, cerca la pistola con la sinistra. Non la estrae, ma la sua stretta diventa dolorosa sul metallo.

Moriarty ha già girato sui tacchi, schioccando le dita. Mentre esce dal locale, il mirino elettronico si spegne, John non è più sotto tiro.

“Sono l’ultima cosa che ti resta di Sherlock. Sono immortale.”



Note:

Storia originariamente pubblicata l'8 Giugno 2012

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Capitolo 3
*** Applied Umbrellology ***


Applied Umbrellology

Ombrelli.

C’è un portaombrelli nell’ingresso di Baker Street, abbastanza in ombra da sbatterci il ginocchio appena si è distratti.

Sherlock sa sempre, con uno scarto di uno o due millimetri, se Mrs. Hudson ha passato la scopa per terra, spostando le poche suppellettili – il portaombrelli, una pianta rachitica, un appendiabiti.

Sherlock torna a casa alle prime luci dell’alba. Nel portaombrelli, accanto al sobrio ombrello color kaki di John, praticamente indistruttibile, c’è un ombrello di plastica trasparente con il manico azzurro. Mhf. John ha compagnia.

Sherlock si alza il colletto del cappotto ed esce di nuovo.

-

Sherlock torna a casa all’ora del tè. L’ombrello di John non c’è, ma quello di Mrs. Hudson è aperto ad asciugare nell’angusto spazio dell’ingresso, un affare viola a fiorellini che le somiglia molto – un tempo vivace, ora un po’ spento ma per niente vinto. Con un che di duro.

Sherlock non ha voglia di entrare nell’appartamento vuoto a quest’ora, quindi bussa alla porta del 221A, per elemosinare una tazza di tè e un biscotto.

-

Sherlock torna a notte fonda, sotto l’ombrello di John. Con John . Nel portaombrelli c’è un ombrello nero, sottile, di ottima foggia e di qualità eccelsa. Elegante. Pericoloso.

Sherlock strattona John per il braccio, lo trascina di peso fuori dal 221, sbatte la porta dietro di loro. Costringe John a corrergli dietro (che poi è quello che succede sempre).

Solo quando si appoggiano senza fiato ad una parete di mattoni rossi in un vicolo cieco dietro un ristorante cinese, John – piegato in due, con le mani appoggiate alle cosce e i polmoni trafitti da spilli – chiede chi è questa volta che vuole la loro pelle.

Sherlock sibila “Mycroft “ tra i denti e John ha un po’ voglia di dargli un pugno in faccia, ma poi prendono un eccellente cinese, e la grappa di riso lava via tutto come pioggia.

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Sherlock torna a casa in tarda mattina, e non guarda nel portaombrelli. È troppo preso dal caso del momento, un ladro che non ruba niente veramente. Idee. Concetti. Pensieri. Sembra farlo prima che i derubati pensino quello che poi porta via. È maledettamente interessante, e Sherlock non vede l’ombrello con la stampa dell’Union Jack. Honey, you should see me in a crown.

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Sherlock torna a casa dopo aver ricevuto un sms da un numero sconosciuto – Sitting on your sofa, let’s have dinner – e nel portaombrelli c’è un ombrello da donna. Rosso sangue, il manico di legno nero laccato. Un banale ombrello può avere carica sessuale? Può ammiccare lascivo dal suo trespolo in penombra, sventolando leggiadro la nappa folta e lucida che pende dal suo manico?

Sherlock sa chi l’aspetta in casa, e il suo passo accelera impercettibilmente sui diciassette gradini che lo portano al piano di sopra. Quando apre la porta, lei è sul suo divano con indosso la sua vestaglia bordeaux (la seconda, dopo la blu). Sherlock chiude la porta a chiave.

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Sherlock sa che nel portaombrelli ci sarà un robusto modello ripiegabile blu scuro prima di aprire la porta. Questa volta è facile. C’è una volante seminascosta dietro l’angolo della strada, e la sagoma ansiosa alla finestra non ha la forma di John. Sente profumo di serial killer, e di poliziotto frustrato – come i bambini sentono il profumo delle ciambelle – e si affretta su per le scale. Ah, i serial killer. Sono i migliori.

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Sherlock non ha un ombrello, e se lo avesse probabilmente non lo userebbe. E se lo usasse, non lo riporrebbe nel posto giusto ogni volta. Non c’è modo di sapere quando è in casa. Non c’è modo di sapere dove sia.

Quando John torna a casa alle prime luci dell’alba, ubriaco cieco nel tentativo di mandare giù il groppo che ha in gola da tre fottute settimane di dolore ininterrotto (dolore alla gola, dolore alle membra, dolore alla ferita, dolore al cuore) perché quello stronzo di Sherlock è morto - è morto e se n’è andato e lui è rimasto qui a combattere la battaglia più difficile, la battaglia di chi rimane – quando John torna a casa non può sapere se Sherlock c’è o non c’è. Non se lo aspetta (non se lo può aspettare) e quando se lo trova seduto sul divano, capisce di aver bevuto troppo. Il primo passo per risolvere un problema è ammettere di avere un problema.

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Il giorno dopo c’è il sole. È un sole pallido, è un sole controverso, è un sole timido e scalda assai poco, soprattutto le profondità più buie e gelide dell’anima. Ma è sorto il sole e Sherlock è vivo (anche se merita di essere ucciso a mani nude).

Gli ombrelli di Baker Street sono tutti in casa, e asciutti nel loro portaombrelli.



Note:

Storia originariamente pubblicata il 19 Maggio 2012.

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Capitolo 4
*** Black, two sugars ***


 

Black, two sugars

John è barricato in cucina, il dorso contro la porta chiusa, le mani bagnate, sporche di caffè.

L’acqua cola dal ripiano della cucina, sgocciola per terra. Gli tremano le mani. Ha rovesciato l’acqua, sparso il caffè.

Sherlock.

Sherlock è in soggiorno, seduto nella sua poltrona (naso un po’ arricciato di fronte al mezzo pollice di polvere accumulata), con uno zigomo spaccato.

E John è nascosto in cucina, in cucina a fare il caffè, le nocche ancora in fiamme dopo aver tentato di rompergli la faccia.

Tre anni, e si ricorda ancora come beve il caffè.

Nero, due zollette.

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Note:

Storia originariamente pubblicata l'8 Settembre 2013.

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