I would not have become who I am if you had never gone

di __Mary__06
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mum, where are you? ***
Capitolo 2: *** I can't remember ***
Capitolo 3: *** Strong or weak ***
Capitolo 4: *** Don't love: people do not deserve it ***
Capitolo 5: *** Mom, look me... ***



Capitolo 1
*** Mum, where are you? ***


Anche quando in casa il posto è più invivibile 
e piangi e non lo sai che cosa vuoi 
credi c'è una forza in noi amore mio 
più forte dello scintillio
di questo mondo pazzo e inutile 
è più forte di una morte incomprensibile 
e di questa nostalgia che non ci lascia mai.
-La forza della vita- Paolo Vallesi
 
“Cara mamma,
quando avevo cinque anni ricordo che mi dicesti una cosa del tipo ‘Rispetta gli altri e loro rispetteranno te.” . Io non ho mai dubitato delle tue parole, ma qualcosa non quadra nella mia vita di tutti i giorni. Io rispetto i miei compagni, ma loro mi odiano. Cosa ho di sbagliato? Tu che sai tutto e che mi sguardi da lassù potresti darmi spiegazioni, per favore? “

 
La mia manina era imprigionata nella sua. Non mi lasciava andare, era ostinata a vigilare su di me. Finalmente la campanella suonò e fui libero di correre verso l’entrata come gli altri bambini.
 
In classe mi sedetti subito al mio banco puntualmente in fondo all’aula e sistemai lo zaino sulla sedia. Gli altri bambini mi evitavano come tutti i giorni senza che io sapessi il motivo. Io avevo provato a chiederlo, ma nessuno mi aveva mai risposto, nemmeno la maestra. Pensavo che anche la maestra ce l’avesse a morte con me. E io che potevo fare se non starmene buono senza “infastidire” gli altri con la mia presenza non gradita? Era anche questa un’occasione per rispettare gli altri.
La signorina Koshira entrò in aula e tutti si misero a sedere.
“Buongiorno bambini. Come vi avevo già detto avantieri oggi c’è la verifica di storia.”
La maestra passò tra i banchi distribuendo le schede e posandole delicatamente sui banchi e sorridendo; arrivata a me con un colpo sbatté quel foglio sul mio banco e non si scomodò di rivolgermi un misero sguardo.
Fa niente: c’ero abituato.
Avevo studiato molto il giorno prima e mi sentivo molto sicuro di me. Impugnai la matita temperata a dovere e completai la fotocopia in breve tempo. Riconsegnai la mia verifica alla maestra che la prese bruscamente fra le sue mani, quelle mani apparentemente dolci.
 
Nell’intervallo uscimmo tutti fuori per consumare la merenda in compagnia. Mi sedetti di spalle al muretto della scuola e addentai il mio panino. Pensavo. E se fossi malato? No. E se avessero sparso false voci su di me? Improbabile. E se…neanche.
Tra i miei dubbi non mi accorsi che quell’idiota di Kei si era avvicinato. Mi stampò uno schiaffo sul braccio destro e mi schernì ad alta voce.
 A quei tempi non avrei mai immaginato che Kei sarebbe diventato quello che è ora.
Il braccio mi faceva male, ma cercai di non darlo a vedere. La mia condizione sociale era già critica e, mettersi a piagnucolare, avrebbe solo peggiorato la situazione. Il segno della manaccia di Kei pulsava atrocemente sul mio braccino esile. Le lacrime facevano capolino dai miei occhi, ma riuscii a trattenere tutto dentro di me, come sempre.
 
Le ore successive passarono come sempre: solitudine. E suonò la campanella dell’uscita. Quell’orribile donna mi aspettava fuori per tornare lì, in quel posto che avrei dovuto etichettare come ‘casa’ , ma non era così per me.
A casa dovresti sentirti al sicuro, libro, amato, circondato dalla famiglia. Casa è dove sei cresciuto, dove c’è parte della tua anima. Lì invece non c’era niente di mio: era tutto suo.
 
Puntuale come la morte, Nobu mi venne a prendere e, trascinandomi per la strada martirizzando i miei polsi, mi portò alla ‘casa’. Scendemmo quelle scale umide e buie verso il seminterrato, ovvero il nostro ‘appartamento’. Entrammo nella stanza principale dove dei lumini permettevano sì e no di distinguere le figure.
Dei suoi amici la stavano aspettando attorno ad un tavolo con bottiglie di liquori.
“Nobu, finalmente qui…con il moccioso.” disse un uomo sui trent’anni vantando il suo bicchierone di liquore.
“Scusatemi, ma stare con il nanetto mi costa ore preziose.”
“Dovremmo già cominciare ad addestrarlo a dovere. Sai…il suo futuro mestiere.” affermasti tu, che a quei tempi avevi poco più di venti anni.
“Ci sto pensando. Aspettiamo che il signor Aoki sia fuori gioco e poi si provvederà.”
“E avresti intenzione di cosa?” domandò una donna con una bambina piccola tra le braccia.
“Lo sapete: è la mia specialità. E tu cosa vorresti fare con la piccola Hisoka? Anche lei dovrà prima o poi fare pratica. Sbaglio o sarà il nostro cecchino?”
“Sì, Hisoka è destinata a questo.”
“Benissimo” concluse Nobu.
Io avevo ascoltato per filo e per segno le loro parole, i loro piani, capivo qualcosa. Non sapevo cosa fosse un cecchino e neanche quale poteva essere la specialità di Nobu. Io avrei dovuto essere addestrato per un mestiere che non mi era ben chiaro. Avevo capito che aveva a che fare con loro, però.
“Moccioso, vai nella sua stanza e non seccarci con la tua presenza. Dobbiamo parlare di cose da grandi.” E così Nobu mi cacciò dalla camera.
 
Entrai nel mio sottoscala, presi carta e penna e tirai giù qualche parolina.

“Cara mamma,
dove sei? Papà non c’è quasi mai e quando c’è si dedica solo ed esclusivamente a Nobu. Nobu non mi piace: mi tratta da straccio e ho paura che stia per fare del male a papà. E quando anche papino non ci sarà più, che ne sarà di me?”

 
Sarei diventato anch’io come quel demone di donna. Non è vero?

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Capitolo 2
*** I can't remember ***


In the memory you'll find me        (Nel ricordo mi troverai
       Eyes burning up                      Gli occhi in fiamme
The darkness holding me tightly       L'oscurità che mi trattiene
Until the sun rises up              Finchè il sole sorge)
                                                                                           
Forgotten - Linkin Park


E pensando al mio futuro, riposi la letterina nella scatola lasciandola cadere dolcemente sopra tante altre. Dovevano essere state almeno cinquanta, una per ogni volta che sentivo la mancanza di mia madre più degli altri momenti.
Poggiai l’orecchio sul duro legno della porta e tentai di ascoltare la loro conversazione. Non si sentiva niente: solo voci confuse.
Dopo poco tempo la stanza si liberò e io uscii allo scoperto. Era rimasta solo Hisoka in una culla.
 
Mi avvicinai alla bambina e, ammirando i suoi movimenti buffi e impacciati, le parlai. E che potevo farci? Non avevo nessun altro con cui parlare.
“Mi dispiace molto che tu sia nata tra questa gente. Io sono un po’ più fortunato di te: ho vissuto i primi dieci anni di vita felicemente, tu invece no. Sono sicuro che avrai una vita triste, fatta di avvenimenti poco apprezzabili. Anch’io diventerò un ’cattivo’ come quelli dei cartoni animati dove all’inizio sembra che tutto sia dalla loro parte, ma alla fine vengono sconfitti e assicurati alla giustizia. Eppure mi piacerebbe essere il supereroe che lotta per il bene altrui, che dà una bella lezione ai malvagi e che non ha paura di risultare debole se questo serve a salvare la vita di qualcun altro. Invece i cattivi no, loro vogliono sembrare fortissimi e invincibili anche se, pur non essendo visibile, hanno dei sentimenti e sono deboli come qualunque essere umano. Dal momento che entrambi siamo destinati a diventare cattivi, un giorno finiremo dietro le sbarre di una prigione, vero? Prima o poi arriverà un supereroe a darci il ben servito?”
Hisoka, nonostante non potesse capirmi, era diventata improvvisamente seria dopo che io avevo pronunciato le ultime due frasi. Una bambina così piccola aveva capito già tutto dal mio tono di voce...
 
Il mattino seguente Nobu mi accompagnò a scuola, puntuale.
In classe la maestra doveva consegnarci le verifiche corrette. Ero già fiero di me: ero sicuro di aver preso un voto alto.
La signorina Koshira chiamò in ordine alfabetico tutti i bambini fino ad arrivare a me. Dopo aver pronunciato il mio nome con disprezzo, arrivai alla cattedra e presi la mia verifica.
Insufficiente.
Non ci credevo.
Insufficiente.
Ma non c’erano errori segnalati in rosso. Niente.
“Maestra.” pronunciai io avvicinandomi a lei “ Cosa ho sbagliato?” ma la signorina Koshira non mi rispose e continuò a rivedere i voti sul registro di classe.
“Ehm, maestra…” ripetei io, ma continuò a ignorarmi. Allora poggiai la mia mano sul suo braccio per avvertirla della mia presenza ma, appena la sfiorai, si alzò di scatto e ridiede una sberla fortissima sulla guancia.
Tutta la classe fu sorpresa dal gesto, ma fece finta di niente. Io ero caduto a terra.
 
Cercai di mostrarmi forte e arrabbiato, ma il mio sguardo tradì l’orgoglio. Dopo pochi attimi il mio viso vedeva sgorgare lacrime incontrollabili: il dolore e l’indignazione si abbracciavano in me e non potevo fare niente. Era proprio come avevo detto a Hisoka: tutti sono deboli, anche chi cerca di fare il forte. Avevo tradito le mie stesse parole e me ne vergognavo.
Ma l’ira, l’indignazione per il trattamento che mi era stato riservato in questi anni tentarono di esplodere completamente. Mi alzai in piedi tremando con le lacrime che cadevano numerose e mi rivolsi alla maestra e poi alla classe.
“Basta! Ma cosa vi ho fatto?” urlai senza pietà per le mie corde vocali “Vi sembra normale trattare così un vostro compagno che non vi ha mai torto un capello e mai preso in giro? Ragazzi, insomma, come pensate che io mi senta ad essere trattato così? Maestra Koshira: spero che lei muoia nel modo più macabro possibile! Proprio lei che dovrebbe insegnare il rispetto altrui, proprio lei che dovrebbe essere l’esempio di tutti noi, lei è la peggiore! Dagli ultimi due anni di scuola la mia vita qui è diventata un inferno! Muori, muori!”e mi gettai per terra con le mani nei capelli, la gola dolorante per le frasi urlate in quel modo e il cuore a mille.
La classe era in assoluto silenzio e la maestra teneva lo sguardo fisso su di me. Era tra lo sbalordito e il furioso.
“Dovresti essere tu a morire presto, piuttosto. Io sono una maestra e ho il mio lavoro, tu sei un apprendista criminale o sbaglio? Sei solo una piaga per la società piccolo Koichi…” mi rispose la maestra con una tale calma…
“Io…io non sono un criminale.” Affermai singhiozzando.
Passai tutta la mattinata a piangere al mio banco e nessuno si preoccupò di me, piccolo punto nero nel mondo. Sì, mi sentivo così. Il mondo con tanti puntini bianchi, ma ogni tanto trovavi un punto nero, ovvero una persona cattiva. Per rendere il mondo più bello si doveva cancellare quei punti neri…
 
All’uscita, Nobu non di degnò di domandarmi cosa fosse successo, perché stessi piangendo o perché avessi una guancia rossa. A lei non importa niente degli altri, a lei importa solo di se stessa.
Era, in ogni modo, strana: solitamente non parlava mai con me, quando eravamo per strada o in luoghi pubblici.
“Allora, dimmi un po’, ti manca papà?”
“S-sì…”
“Oggi è venuto a trovarci nel nostro appartamento. Lo sai? Sei contento?”
“Sì, che bello.” risposi. Una cosa bella doveva pur accadere quel giorno. Papà si sarebbe preoccupato per me e avrebbe parlato con il Preside riguardo alla maestra Koshira, n’ero sicuro.
 
Arrivati all’appartamento, Nobu impugnò una bottiglia con del liquore e ne verso in grande quantità nel suo bicchiere preferito. Io aspettavo che mi portasse da mio padre.
“Vuoi vedere papà?” mi chiese e io annuii. “E’ nella mia camera da letto. Vai.”
Corsi verso la camera seguito da Nobu che sorseggiava il suo liquore. Varcata la soglia della porta, rimasi immobile a quella vista: mio padre, sul pavimento con il capo che perdeva sangue.
Era morto.
“Un vero peccato eh? L’hanno fatto fuori, poverino…” affermò quella disgustosa donna scuotendo la testa lentamente.
“Sei stata tu, Nobu?” domandai io piangendo.
“Diciamo pure di no.” Mi diede riposta con spavalderia. Tentò di appoggiare la sua mano sulla mia spalla, ma feci in tempo a correre via prima che le sue viscide membra mi sfiorassero.
 
No.
Non poteva essere davvero accaduto tutto questo. Nobu era la compagna di mio padre…Vipera, viscida, dal cuore gelato…assassina!
Quel giorno rientrò fra i peggiori della mia esistenza.
Odiavo tutto e tutti.
Mi rinchiusi nel mio sottoscala aspettando che il pomeriggio e la notte passassero.
Con la testa tornai indietro abbandonandomi tra i ricordi.
 
“Koichi, vieni da mamma!”
Corsi verso la cucina dov’era solita rimanere ad ordinare l’argenteria. Spalancai la porta e la corrente d’aria proveniente dalla finestra della camera di fronte fece ondeggiare i suoi lunghi capelli castani. Eh, i suoi capelli. Tanto lunghi da riuscire a sfiorarle le cosce quando non erano raggruppati in una treccia, non li aveva più tagliati da quando ero venuto al mondo. All’epoca portava i capelli dal collo, ma, per non so quale ragione, aveva deciso di lasciarli crescere a dismisura.
“Tesoro, tra poco arriverà un amico di tuo padre perciò aiutami a rimettere a posto la casa, per favore.”
“Sì mamma!” risposi io tutto contento e mi affrettai a pulire il soggiorno e la mia cameretta.
Dopo un quarto d’ora io stavo ancora spolverando le mensoline della mia camera e qualcuno suonò al campanello. Sentii due voci tra cui quella di mia madre.
“Buon pomeriggio Iwao…” augurò la mia mamma.
“Asuka…” si limitò l’uomo, presumibilmente l’amico di mio padre. “Tuo marito sa qualcosa?”
“Di cosa?”
“Non fingere di non capire Asuka! Sai benissimo di cosa sto parlando. I tuoi debiti, i vostri.”
“Uhm, io non ho quei soldi. “ la voce di mia madre sembrava così tremante e spaventata.
“Come sarebbe a dire? Ti ho prestato una grossa somma cinque mesi fa per mandare avanti la tua pasticceria e ora li voglio indietro!”
Ebbi paura per mia madre, quando la voce dell’uomo divenne minacciosa.
“Iwao, per favore! “ mia madre singhiozzava.
Sentii delle parole sottovoce che non riuscii a capire.


Poi…No non posso ricordare!

 

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Capitolo 3
*** Strong or weak ***


Raised by wolwes            Cresciuti dai lupi
stronger then fear          più forti della paura
If I open my eyes            Se apro i miei occhi
you are dissappear              tu sei scomparso
 (U2 - Raised by Wolves)             

Il vento penetrato dalla finestra mi scostava verso sinistra i capelli lunghi dalle spalle. Le mie spalle potevano sorreggerli facilmente: erano diventate larghe e forti. Avevo quindici anni.
Negli ultimi cinque anni ero cresciuto sia fisicamente che mentalmente. Dopo la morte di papà, cambiai moltissimo nel modo di pensare. Mio padre era una persona buona ed era stato assassinato, mia madre era una donna dolcissima ed era stata assassinata. Io, un vero e proprio agnellino, avrei fatto la loro stessa fine. La verità era che i buoni non sopravvivevano mai, i cattivi vincevano ed erano sempre i migliori. Era così per me, ormai.
 
Nobu, diventata il mio tutore, era stata come un’ombra maligna alle mie spalle. Viscida, ma non così tanto. Giorno per giorno era diventata per me una figura da imitare nonostante la odiassi. Mi piaceva il fatto che si sapesse far rispettare sempre, nessuno la contraddiceva. Quella persona cominciava a coinvolgermi…
 
Hisoka frequentava l’ultimo anno di scuola materna. Non ero molto partecipe della sua vita, ma sapevo per certo che, compiuti i nove anni, sarebbe partita per Okayama. In quella città avrebbe imparato “qualcosa di utile”, così dicevano. Conoscendo Nobu e i suoi amici, non sarà niente di utile al bene. Avrebbero sacrificato quel faccino d’angelo a scopi non buoni, quella testolina castana. Dicono che suo padre, quarantenne piuttosto taciturno, la porterà “verso la sua strada”.
 
Comunque sia, quella mattina di settembre faceva caldo e uscii di casa con le maniche della giacca della divisa rimboccate fino ai gomiti. La città era sveglia: genitori, bambini, lavoratori, adolescenti. Io, però, non ero di buon umore, come ogni giorno da cinque anni. Anche il rumore dei miei passi sull’asfalto m’infastidiva terribilmente. Era presto e ne approfittai per farmi un tiro. Svoltai l’angolo per giungere in una strada più isolata con lo zaino che urtava ogni singola cosa. Estrassi dalla tasca dei pantaloni un accendino e il pacco di sigarette che tenevo sempre con me, ne accesi una e la fumai. Da qualche anno avevo il vizio di fumare molto spesso e non me ne vergognavo: mi aiutava a calmarmi e, il fumo che usciva dalla mia bocca, mi sembrava parte dei miei problemi che volava via con esso. Sapevo che non era il massimo per la mia salute, ma non importava.
 
Alla seconda sigaretta, mi sorprese una persona che avrei preferito non incontrare.
“Da quando sei diventato una ciminiera?” chiese ironico.
“Vai via…” mi limitai io profondamente irritato.
“Altrimenti? Scrivi una letterina alla mamma?” rise. Divenni furioso…In seconda media aveva trovato alcune mie lettere. “Ah ah, che idiota…tua madre è morta…non può risponderti, o non ci credi ancora? Rassegnati al fatto che quella donna abbia fatto la fine che meritava dopo aver partorito un moscerino…Ah ah.”
Kei continuava a prendersi gioco di me e di mia madre. Altro che sigarette: Kei…era troppo!
“Ciccione di merda, non ti permettere mai più!” e lo spinsi sul malridotto asfalto della viuzza con violenza. Mi misi a cavalcioni su di lui e iniziai a prenderlo a pugni: sul volto, sulle spalle, sul petto finché ne ebbi forza. Alla fine mi alzai; Kei era a terra ansimante con il sangue che colava dal naso e i lividi che principiavano a farsi vedere. Perdeva molto sangue, ma tentai di infischiarmene. Kei si agitò quando si rese conto della situazione. Prese a piangere come non avevo mai visto fare da lui. Solo allora smisi di fingere.
 
Riuscii a farlo sedere per terra asciugandogli il sangue con tutti i fazzolettini che avevo fino ad utilizzare la mia stessa giacca. Avevo esagerato con lui. Dopo un quarto d’ora, riuscii a far smettere di sanguinare le sue ferite. Kei mi fissava mentre tamponavo ciò che gli avevo procurato io. Mi rialzai e gli tesi la mano affinché potesse farlo anche lui. Si mise in piedi e, con lo sguardo abbassato, tentò di parlarmi. Io, non so perché, non riuscivo ad accettare di averlo aiutato e non gli feci finire neanche la prima parola.
“An…” sentii solo questo dalla bocca di Kei prima di diventare invisibile ai suoi occhi.
 
Dopo la scuola, tornai a “casa” pensieroso. Avevo avuto una prima mattinata movimentata e non ero sicuro nemmeno che quella dove ero arrivato fosse la casa giusta. Appena sul portone, Nobu con Hisoka per mano, mi vennero incontro.
“Andiamo Koichi-kun, dobbiamo assistere ad un concerto.” mi disse Nobu con aria indifferente. Ero sorpreso: Nobu che ci portava ad un concento, roba da matti!
Abbandonai lo zaino nel corridoio e la seguii verso la macchina. Dopo dieci minuti arrivammo al teatro dove si sarebbe svolto il concerto di una grandiosa cantante.
 
Nobu prese i posti per tutti e tre e attendemmo l’inizio del concerto. Si trattava di una cantante di ventitre anni sposata, Moe Okino.
“Sapete, Moe è al sesto mese di gravidanza: aspetta una bambina. La sua voce è qualcosa di magnifico ed è molto famosa in tutto il Giappone. Dicono che potrebbe cantare qualsiasi cosa, dalla lirica al rap…” ci raccontò Nobu. Quella donna non mi convinceva: troppo serena e dolce con noi.
Un uomo sulla cinquantina presentò la cantante che non esitò a esibirsi. Moe era una donna molto bella. Ricordo che portava i suoi capelli castani raccolti in uno chignon, indossava un abito rosso fiammeggiante lungo fino ai talloni che le evidenziava il pancione.
“Quando sarò grande avrò una figlia bellissima! Si chiamerà Chou.” sussurrò al mio orecchio Hisoka. Povera piccola, avrebbe avuto i sogni infranti..
 
Moe cantò divinamente e ogni tanto posava una mano sul pancione come per controllare se sua bambina la stesse ascoltando o meno. Io rimasi insensibile a quella scena così dolce.
Tuttavia, la prima canzone mi piacque. Si chiamava “Far” e aveva un andamento tranquillo, quasi come una coccola. Sì, come quelle di mia madre tanti anni prima.
Pensandoci, ricordai che erano circa due anni che non scrivevo più alla mamma.
 
 
Mi sentivo troppo grande per quelle cretinate, ma a momenti ne sentivo ancora il bisogno. 


 




 
Al prossimo capitolo...
 

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Capitolo 4
*** Don't love: people do not deserve it ***


But there was so many red flags             (Ma c'erano così tante bandiere rosse) 
Now another one bites the dust             (Ora un altro mangia la polvere)
And let’s be clear, I trust no one           (Siamo chiari, non mi fido di nessuno)
[Elastic Heart - Sia]


“Accidenti, che bravo che sei!”
“Beh, niente di che: ho solo una buona mira!”
Il ragazzo baciò sulla fronte la sua sorellina prima di andarsene. Shinzo aveva diciotto anni e già era abilissimo in tutte le attività che richiedevano una certa mira e precisione. Hisoka restava incantata dalle abilità di suo fratello maggiore. Io me ne stavo seduto alla poltrona fissando annoiato quella scena. Quando Shinzo fu lontano, Hisoka venne da me, forse per trasmettermi un po’ di allegria.
“Hai visto il mio fratellone? Vorrei essere brava come lui…”
“E quindi?”
“E quindi non lo so. Così per dire, mi piacerebbe avere un’ottima mira come lui.”
“E allora? Anche tuo padre ne ha e parecchia.”
“Sì ma lui ha quasi quarant’anni e ha esperienza. Shinzo è giovane ed è già bravissimo!”
“Okay…”
“Giochi con me?
“No.”
“Perché?”
“Perché sei una palla al piede, mocciosa.”
La mia freddezza l’aveva rattristata. Probabilmente non era mia intenzione, ma dopo quello che era successo con Kei ero abbastanza turbato. Non avevo idea di cosa potesse aver pensato, che mi fossi impietosito…forse. La cosa sicura è che non avevo intenzione di farmi rivedere a scuola, stupido edificio sempre pronto a sfornare robot dalla memoria piena di sciocchezze.
Avevo imparato a cavarmela da solo: altro che affetti, io ero un essere autonomo. Avevo imparato tutto dalla gente che mi circondava, ma che non potevo definire affetti: Nobu e i suoi amici.
Quel branco di ubriaconi veniva ogni sera nel nostro appartamento. Difatti, in “casa” si respirava birra e alcolici vari, nicotina e cenere. A volte qualcuno mi avvicinava, mentre era in stato d’ebbrezza. Ricordo il giorno in cui tu tentasti di farmi qualcosa, non capii cosa, ma non era qualcosa di bello. Ero nel mio sottoscala a leggere riviste ‘vietate ai minori’ e tu venisti da me. Mi assicurasti che ero un bel ragazzo e che potevo avere di più di quelle riviste, soprattutto se c’entravi tu. Le tue guance erano roventi e ti mantenevi in equilibrio a fatica. Ebbi paura di te e ti cacciai, chiusi a chiave la porta e rimasi lì per ore. A occhio potevi avere trent’anni.
Hisoka interruppe i miei pensieri.
“Ma quanto sei cattivo, Koichi!”
“Zitta.”
“E anche un po’ scemo.”
“Vattene.”
“Come vuoi, ma poi non accetterò le tue scuse!”
“Va benissimo. Ora sparisci dalla mia vista prima che ti riempia di schiaffi!”
A volte era davvero capace di irritarmi parecchio, quella mocciosa.
 
“Sei ancora qui, tu?” mi domandò Nobu. Ero steso sul divano da due ore senza fare niente.
“Sì…non ho niente da fare.”
“Che succede?”
“Niente.”
“Parla.”
“Niente di che. Giorni fa Kei mi ha offeso e io gliele ho suonate. Mentre era a terra sanguinante, ho provato pietà e l’ho aiutato. Ora non so cosa pensi di me.”
Nobu passò freddamente una mano tra i miei capelli.
“Sei un idiota. Come puoi pensare di farcela così? Con tutta questa compassione non arriverai da nessuna parte. Gli altri ti calpesteranno e si faranno beffa di te e tu li lascerai fare. Svegliati! Se non ti fai valere non sarai nessuno: fai vedere chi è che comanda! Kei continuerà a darti fastidio pensando che tu sia così debole…invece no! Vendica, fai soffrire chi ha fatto soffrire te: non devono passarla liscia! Chi è il più forte?”
Quelle parole furono come un’illuminazione per me, forse l’inizio della mia carriera da senza-cuore. Aveva ragione: che senso aveva la compassione, che senso aveva essere buoni e generosi se chi mi circondava non lo era con me? No, non lo erano mai stati con me: tutti mi avevano voltato le spalle fin dalle elementari. Non c’erano mai per me, mi facevano piangere, soffrire. Volevo essere io a non esserci per loro, io a farli piangere e soffrire. La vendetta poteva essere  la risoluzione di tutto.
“Sono io il più forte!” urlai improvvisamente. Nobu sembrò fiera di me e mi diede una pacca sulla spalla. “Ma dimmi…”
“Cosa?”
“Tu sai per caso perché i miei compagni di classe mi hanno sempre evitato?” e la guardai fisso negli occhi in cerca di risposta.
“Sì, è stata opera mia. Tenevo a te, volevo che fossi al mio fianco nei miei ‘lavoretti’, ma eri troppo dolce e buono. Se fossi cresciuto così gentile, saresti stato deluso milioni di volte: sai, la gente del mondo è cattiva, manipolatrice, approfittatrice. Non volevo che tu venissi usato e preso in giro come è successo a me da ragazza. Volevo che crescessi forte e senza cuore perché chi ha un cuore, prima o poi, se lo ritrova a pezzi. Per quello che amo fare ora ho bisogno della tua forza. Ordinai alla tua maestra di trattarti male e convincere anche tutti gli altri ad evitarti, ma dovetti usare le minacce. Le promisi che, se non avesse rispettato quanto avevo detto o se avesse mai contattato le forze dell’ordine, sua figlia avrebbe fatto una brutta fine. Forse anche per questo ti definiva un piccolo criminale. Crescendo nell’odio, nessuno ti avrebbe mai fatto del male. Ti prego, non rovinare tutto.”
La ascoltai con attenzione: davvero aveva fatto questo? Tutto per non farmi stare male perché la gente è perfida. Avevo pianto tanto, ma Nobu l’aveva fatto per il mio bene. Aveva anche ragione: i buoni vincono soltanto nei fumetti, la realtà è un’altra cosa.
“Grazie Nobu.”
“Di niente. Non lasciarti mai vincere dalla gentilezza e non credere nell’amore.”
“Perché non devo credere nell’amore?”
“Te l’ho detto: la gente è approfittatrice. L’amore non esiste, ricordalo. Esiste solo l’attrazione fisica, ma quella non è amore. È soltanto a voglia di andarci a letto per puro svago e piacere e potresti farlo con milioni di altre persone senza notare la differenza. Noi non ci innamoriamo mai.”
 
E come ci si può innamorare, quando non sai nemmeno cosa sia l’amore? Forse proprio perché l’amore non esiste. Solo l’attrazione fisica, sessuale, solo quella c’è.
 
Il giorno dopo, decisi di rimettere in ordine gli oggetti appartenuti a mia madre in uno scatolone. Spolverai tutto con cura prima di richiuderli in quella piccola stanza buia fatta di cartone. C’erano abiti, scarpe, gioielli, spazzole, riviste per ragazze e quant’altro, anche il suo cellulare. Senza pensarci su, tentai di accenderlo senza aspettarmi una chissà quale risposta dal cellulare antiquato che avevo tra le mani. Invece si accese. Era tutto come mamma aveva lasciato: la mia fotografia sul display dell’oggetto e i messaggi ancora al loro posto. Selezionai i messaggi e ne trovai moltissimi.
Iwao Ishimori [messaggi letti]
Iwao. Aprii le conversazioni tra mia madre e il suo assassino, l’assassino che non avevo mai avuto il coraggio di denunciare. Parlavano di denaro.
-Asuka, o i soldi o altro. –
-Per favore, dammi tempo –
-No. Oggi sarò a casa tua –
-C’è mio figlio a casa. –
-Che sparisca! Non mi importa! Oggi t’ammazzo se non ho indietro il mio denaro! –
-Ti darò quei soldi, ma non oggi. –
-Ci vediamo dopo. –
Dannato. Mia madre era buona e lui se n’era approfittato. Aveva ragione Nobu: la gente è manipolatrice e approfittatrice. Non sarebbe finita lì: doveva ancora spianare le sue colpe.

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Mary06 vi parla (Sì, perchè effettivamente la sottoscritta sa parlare! ^^)
Innanzitutto...salve mondo! *-*
E' il primo angolo autrice di questa Fan Fiction...era ora che ne facessi uno anch'io: non volevo sembrare troppo anticonformista  è.è

Un'annotazione che volevo fare è questa:
in certi punti del capitolo (e anche in uno dei precedenti...se non sbaglio il primo) il protagonista parla in seconda persona. Questo perchè sta raccontando la sua storia a qualcuno e questo "qualcuno" si può dedurre dalla trama. ^^ 
Poi nel testo di questo capitolo ci sono due o tre frasi riferite a...meh avete capito! Essendo, però, una storia dal rating giallo e non volendomi spingere oltre (anche perchè sono un po' troppo giovane!) tutte questi riferimenti o azioni future (non lo so...probabilmente qualcosa accadrà...o forse no!) saranno trattati molto superficialmente. 

E fu così che Koichi divenne cattivo T^T Ahimè! Però, si tratta di uno dei MIB e prima o poi doveva succedere... Non ho idea di quanti capitoli durerà questa storia: dieci, venti, trenta boh! Dipende da quanto scriverò dato che la storia è già tutta nella mia testolina (*v*) <--- questa testolina.
Ringrazio chi ha già recensito questa e altre mie storie e chi recensirà  *incrocia le dita* 
Spero che la FF vi stia piacendo e bacioni! (*3*)


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Capitolo 5
*** Mom, look me... ***


Never opened myself this way   (Non mi ero mai aperto così)
Life is ours, we live it our way    (La vità è nostra, la viviamo a nostro modo)
All these words I don't just say  (Tutte queste parole che non dico)
And nothing else matters   (E non importa nient'altro)
[Nothing Else Matters - Metallica]

 


Non era passato poi così tanto tempo, ma decisi di tornare a frequentare le lezioni.
La pioggia ticchettava sull’asfalto e le suole delle mie scarpe creava cerchi nell’acqua a ogni mio passo. Era una cosa normale, ma in quei momenti pareva che anche l’acqua volesse starmi lontana. L’ombrello quasi mi sfuggiva di mano per il forte vento e il freddo apriva piccole ferite sulle mia mani. I negozi stavano aprendo a quell’ora, le persone camminavano tristemente in quella giornata troppo grigia. Le nuvole avevano un aspetto distinto, avevo l’impressione che il cielo ridesse di me e della mia cattiveria che si stava manifestando velocemente. Una parte di me, sapeva che la cattiveria era sbagliata. Conoscevo bene la frase di Nietzsche «C'è una baldanza nella bontà che si presenta come cattiveria.» La parte più voluminosa di me, al contrario, si sentiva affranta dal dolore provato negli anni precedenti e cercava pace, o vendetta.  
Dinanzi al cancello della scuola, un macchinone passò schizzando l’acqua fangosa sui miei pantaloni. L’automobile si fermò all’angolo dell’isolato e, dai sedili posteriori, scese Kei.
Ero arrabbiato per i pantaloni. Kei correva sotto la pioggia verso il cancello, reggendo un ombrello bordeaux. Quando vide me e i miei pantaloni macchiati di acqua e fango, sembrò turbato. 
“Scusami, mio padre non ha pensato che l’acqua sarebbe potuta finire su di te. Posso tentare di pulire…”
Lo guardai negli occhi. Le sue pupille m’imploravano di permettergli di ripulirmi i pantaloni e forse chiedevano pietà. Sentivo che mi temeva. Con il mio sguardo più freddo acconsentii.
“D’accordo. Andiamo lì sotto e pulisci tutto!” 
“Sì, andiamo.”
Entrammo in una casa abbandonata di fronte la scuola. Non ci abitava nessuno da anni e anni e la porta era sempre aperta. Spesso era luogo di ritrovo per gente poco raccomandabile e coppiette con sporche intenzioni. Palline di polvere rotolavano sul pavimento ad ogni minimo spostamento d’aria.
Mi sedetti su una sedia quasi rotta e Kei s’inginocchiò davanti a me. Con acqua e uno straccio, sfregò i pantaloni tentando di levare quelle macchie marroni. 
“Ma dimmi un po’ Kei, da quando ti metto paura?”
“Ma no…ho solo deciso di esserti amico.”
“Dì la verità ciccione, non te le aveva mai suonate nessuno?” e sorrisi beffardo.
Dopo un po’ di silenzio ammise di no.
“Cosa hai intenzione di fare quindi?”
“Te l’ho detto: voglio esserti amico.”
“Perché?”
“Mi hai picchiato, è vero. Però…mi hai aiutato dopo. Nessuno aveva mai compiuto un gesto carino nei miei confronti: i bulli non sono amati, solo rispettati. Credevo che il rispetto equivalesse ad amore, rispettare è uguale ad amare. Mi sbagliavo.”
“Rispettare è uguale ad amare? Che cretinata. Rispettare è sottomettersi, l’amore non c’entra, a dire il vero l’amore non ha mai niente a che fare. Ti ho aiutato? Ringraziami, allora! Ringraziami e rispettami, per sempre, perché nessuno ti ha mai aiutato o sbaglio? Sono stato il primo.”
“Io ti rispetterò, Koichi! Appunto perché sei stato il primo ad essere stato gentile con me meriti il mio rispetto, sempre.”
“Bene, perché avrò bisogno del tuo aiuto. Non negare un aiuto ad una persona che rispetti…”
“Aiuto per cosa?”
“Ti dirò al momento…”
Calò il silenzio. La macchia venne via e andammo a scuola. Le lezioni passarono noiose, come sempre. La campanella suonò e tutti gli studenti uscirono come evasi da un campo di sterminio.
“Kei.” Chiamai il mio nuovo “amico”.
“Dimmi.”
“Abbiamo un lavoretto da svolgere, è per me, ma mi aiuterai.”
“Parlamene allora.”
“Non qui. A casa mia è meglio. Non è qualcosa che bisogna far sapere in giro.”
Kei annuì e ci dirigemmo verso ‘casa’ sorseggiando una Cola gelata nonostante il freddo. 

La luce dello schermo del computer si rifletteva nei nostri occhi. Scrutavo pagine di risultati di ricerche da cima a fondo.
“Sicuro che ci sia?”
“Sì, è un importante chirurgo, l’ho visto un mese fa al telegiornale mentre si vantava di aver salvato le vite di molti malati gravi. Deve esserci qualcosa su di lui su Internet!”
Dopo un’oretta di ricerche riuscimmo a trovare il suo sito web, piccolo e noioso, ma conteneva le informazioni di cui avevamo bisogno.
“Ma tu hai anche…quella cosa che ci serve?”
“Certo che ce l’ho. Nobu ne avrà almeno una, ma io so già quale usare..."
"Sei sicuro di farlo? E se ci beccano, che succederà?"
"Non mi importa di essere scoperto. E tu sarai con me."
"Non pensavo di arrivare a cose illegali..."
"Me lo devi Kei! Ti ho curato quel giorno! E poi tu sei come me..."

Avanzavamo a passo svelto e deciso verso la meta come due soldati verso un nemico intemuto.
Nei pressi del portone mirato, aspettavamo la nostra preda. Piccola preda indifesa, finalmente disarmata ed esposta all'attacco di un predatore spietato e motivato. Quella volta doveva essere lui la vittima.
Ed eccolo, con il suo bel completo, giacca e cravatta, dirigersi verso l' appartamentino che si affrettava a vendere. Uscimmo dal nostro angolo e andammo verso di lui; arrivammo al portone nello stesso istante. 
"Scusi, dobbiamo trovare un amico che abita in questo condominio. Ci lasci la porta aperta, per favore."
Gentilmente ci fece entrare nel palazzo. 
Saliva le scale e noi lo seguivamo alle spalle, scalino dopo scalino. Ogni gradino era un passò in alto verso la mia vendetta. Si fermò sul pianerottolo del quarto piano e aprì la porta. Stava per chiuderla alle sue spalle, ma la mia mano la bloccò freddamente. Kei e io la spalancammo. 
"E voi che volete fare?"
Tra i ciuffi ribelli, i miei occhi verdi scintillavano di furia e feci in modo che lo notasse.
"Che volete fare? Uscite!"
Entrati, Kei chiuse la porta di colpo. L'uomo era spaventato e indietreggiava. Lo guardai dritto negli occhi per scrutare bene quell'odioso volto prima di spegnerlo per sempre. 
Estrassi la Beretta dal cappotto e la puntai verso di lui. 
"No! Cosa...? Non farlo, ti darò tutti i soldi che vuoi!" implorava l'uomo, ma ormai era troppo tardi.
Dito sul grilletto. Kei lo fece cadere a terra e la mia pistola era puntata verso il suo petto.

Mamma, guardami. Ti sto vendicando, riposerai in pace finalmente. Guarda la faccia spaventata del tuo assassino, guarda come piange e implora, proprio come facevi tu. Lui non ha avuto pietà per te, io sarò ancora più spietato con lui. Guarda mentre impugno la pistola con la quale ti ha uccisa, la pistola che ho raccolto da terra il giorno in cui ti ho vista morta e che ho nascosto con cura. Guardami, ora. Guarda...

Un singhiozzo bloccò i miei pensieri. Le lacrime rigavano il volto di Ishimori. Poi una rigò il mio quando feci forza sul grilletto.

 
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Angolo autrice *^*

Salve! Ed eccomi qui con il quinto capitolo!
Beh, Koichi ha ucciso Iwao per vendicare sua madre. Che cattivo eh? Anche con la pistola con la quale Iwao ha ucciso la mamma di Koichi ;D
Ah a proposito...per quanto riguarda la frase di Nietzsche: baldanza vuol dire arroganza...  Per chi non lo sapesse, ihih XD 
(Mary06, ora sei anche esperta di citazioni e vocaboli?  Oh yes!) 
Probabilmente dovrete aspettare qualcosa tipo... due  glaciazioni e una nuova era  per il capitolo sei XD Tempo  e ispirazione scarseggiano, ragazze/i! T^T
Grazie a chi ha recensito, a chi recensirà e quelli che hanno paura di recensire (o.o)
Bacioni! Alla prossima :D

 
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