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Il mio sentimento
per te è grande come la giovinezza,
senza tremiti, o baci, o pie discolpe.
Alda Merini.
C’era un caldo
insopportabile fra i campi quell’agosto del millenovecentocinquanta, si
respirava a malapena.
Morena guardava al cielo
domandandosi che ne sarebbe stato di lei quando Javier sarebbe andato via.
Il ragazzo le
era sdraiato accanto, su un vecchio sacco di stoffa grezza che
utilizzavano spesso come coperta, guardava al cielo anche egli, sognando la
capitale; era stato ammesso all’accademia militare più importante
del paese, avrebbe avuto l’opportunità di proseguire l’antica
tradizione di famiglia che vedeva i membri maschi arruolati nella gendarmeria,
si sarebbe costruito un futuro.. se questo non fosse stato così
insopportabile perché lontano da lei, Morena. Erano cresciuti insieme,
lui figlio dei più ricchi possedenti delle
terre che vedevano intorno e oltre l’orizzonte, lei l’emarginata delle
barracas, nella sperduta Fuentesauco
una piccola frazione di quella Spagna dimenticata da Dio. E dagli uomini.
Non si trovavano mai d’accordo
nel ricordare come cominciò la loro amicizia, ma da quel giorno non si
erano più lasciati; Morena viveva per le ore passate lontano da casa insieme al suo Javier ed egli bramava vederla alla
stessa maniera perché insieme, seppure per poco, riuscivano a
dimenticare tutto. Il tempo, le guerre, le impostazioni della rigida educazione
della famiglia di lui, il sudiciume, la trascuratezza
della matrigna e la puzza di alcool che aleggiava nella baracca di lei.
Se era amore
non lo sapevano ancora, i loro giovani cuori pulsavano tumultuosi e non sempre
avevano le risposte.
Oppure non c’era mai
stato bisogno di trovarle.
Javier conosceva a memoria il
suo viso a cuore incorniciato da morbidi capelli neri, il corpo voluttuoso
cresciuto un’estate in cui avevano smesso di
fare il bagno nudi al fiume, il suo temperamento forte e gli occhi nocciola
striati d’oro, perdendo battiti ogni qual volta lei lo guardava maliziosa
da sotto le lunghe ciglia scure, quando lo canzonava sugli inaspettati rigonfiamenti
nei pantaloni, le rare volte che era vestita da signorina o si trovavano a
dormire abbracciati a cucchiaio.
Dal suo canto Morena poteva
asserire lo stesso, i tratti somatici di Javier le facevano strappare un
pensiero ambiguo molto spesso; il volto squadrato dagli zigomi alti, le labbra
carnose posate su denti di porcellana bianca, le spalle larghe e il portamento
dritto frutto di un duro addestramento fisico che suo padre, fin da bambino, lo
indusse a compiere per ritrovarsi un corpo formato e forte. Ma se c’era
una cosa che la faceva impazzire erano i suoi occhi
verdi e profondi, un contrasto di pura bellezza con la pelle bruna.
Si, probabilmente si amavano.
Ma il loro amore era qualcosa che andava oltre i comuni
mortali.
Erano certamente l’uno la parte complementare
dell’altro.
Insieme o divisi per sempre.
«Non voglio sentirti parlare così, mi hai
capito? Nulla ci terrà divisi per sempre.»
Javier si era alzato dalla coperta e le si era parato di fianco al bordo del fiume, allacciando
la mano nella sua; la ragazza aveva girato debolmente il capo, gli occhi lucidi
e un sorriso sterile.
«Sei così infantile Javier, credi ancora nelle favole. Sposerai
una ricca ragazza della capitale e tuo padre sborserà milioni di pesetas pur di tenerti lontano da Fuentesauco.. lontano da me.» Calciò un sasso che con un
tonfo profondo finì nelle torbide acque del fiume, slegò le loro
mani e proseguì con voce amara. «Lui vede in noi il pericolo, la
minaccia per il tuo futuro.. ed anche tu sai che
è così, infondo.»
La scrollò per le spalle,
offeso. «Tu sei la mia migliore amica, quello che pensa lui non mi interessa.»
Migliore amica,come era dolceamara la verità; strinse forte i pugni, prima di
spingerlo via con rabbia e rassegnazione. «Oh,
vattene via Javier! Lasciami in pace!»
Guadagnò passi verso il campo ma
la rincorse trattenendola per un braccio. «Aspetta!»
Ella girò il viso e lo scoprì arrossato
da lacrime. Lacrime sommesse che gli annegarono il cuore per sempre. «Non
piangere ti prego.»
La tirò a se baciandole una ad una, leccandole via come quando faceva da bambino. «Hai
il visino tutto sporco..» Con la manica della
camicia asciugò infine l’umido, guardandola intensamente. «Sei così bella Morena. Vorrei tanto sapere cosa
ti passa per la testa.»
Lei non rispose ma si allungò
con le punte dei piedi alle sue labbra e vi si posò delicatamente;
restarono a fissarsi con occhi aperti e increduli, fino a quando Javier non
schiuse le sue e iniziò a giocare con la lingua nella sua bocca prima
timido e incuriosito, poi affannato, vorace, intenso. Si divisero solo quando
l’apice della passione toccò tinte inesplorate, Javier
guardò terrorizzato al viso di Morena accaldato, al suo petto che si
alzava ed abbassava in un ritmo impazzito.
Indietreggiò.
«Io..
non so che mi è preso.»
«Io si.»
Lo riportò ancora alla sua bocca, stavolta aggiungendo mani lungo il suo
corpo scolpito; Javier riscosso la prese a se stringendola forte fino a farla
gemere, la sollevò da terra tenendosela addosso come una bambina per poi
posarla dolcemente sulla coperta sdraiandosi accanto.
Morena lo guardò agognante. «Voglio
che sia tu.. il primo.» Il ragazzo si irrigidì, scostandosi. «Non c’è
altro uomo che io desideri più di te Javier.»
Prese la sua mano e se la portò alle labbra; impacciata
passò le sue dita forti lungo il contorno e ridiscese per il collo,
lungo il profilo del seno, giù per il fianco. Il respiro anelante
copriva il silenzio di Javier e il tremito del suo labbro mentre scorreva sul
quel corpo a cui aveva guardato inconsapevole con
profondo desiderio, camuffato negli anni dall’affetto reciproco che si
scambiavano.
Ma il tempo delle fiabe era cessato.. e la desiderava tantissimo.
Approvò con un bacio da subito
incalzante, premendo le dita su quel fianco fino a farsi diventare le nocche
bianche.
La ragazza incoraggiata da tanto ardore
si tirò su con il busto, sfilando la veste dal capo e gettandola via;
era già nuda, scandalosa, perfetta.
«Oh Morena..»
Si avventò sui seni pieni e desiderò posarvi su le labbra, molto
delicatamente, provocando nella giovane dei singulti quando li leccò e
titillò i capezzoli fra i pollici; con mani a coppa li strizzò e
scese giù verso le cosce aperte per accoglierlo, fino alla fessura
bagnata che lo fece fremere d’ansia e stupore. «Non voglio farti
male.»
«Baciami. Besaella.» Rispose
lei con uno sguardo vacuo e la voce roca, baciala.
Ubbidì frastornato da tanto
fervore posandosi con bramosia fra le gambe; le mani di Morena si avventarono
nei suoi capelli dirigendo quel capo bellissimo e nero corvino in un assillante
movimento godurioso.
Pieno e soddisfatto dal suo sapore si
tirò per le braccia risalendo alla sua bocca con lentezza disarmante.
Si guardarono consci e inesperti, ma sicuri di appartenersi.
Javier le fu dentro e niente fu
più come prima.
«Sii mio, Javier. Eternamente.»
«Tuo, Morena. Para siempre.»
Ma sapevano entrambi fosse
una bugia.
*
NDA:
La mia mente ha bisogno di storie d’amore come il corpo di cibo.
Sono ossessionata dalle mie stesse
fantasie, che se non scrivo mi martellano fino alla nausea.
Ho riflettuto più e più
volte sull’ipotesi di non scrivere l’ennesima storia di amore
interrotto/disastrato/tragico, ma non ci posso fare niente..
lo faccio.
Se come inizio pensate possa
piacervi, o incuriosirvi, lasciatemi pure un vostro commento.
Si nasce con metà del proprio
destino già scritto.
E non da noi.
Fonte: dal Web.
Fuentesauco vantava una certa storia nella guerra civile
spagnola, si dicesse fosse patria di valorosi condottieri sebbene il mondo
l’avesse lasciata indietro nell cammino per la
civiltà.
A Fuentesauco
la gente si divideva in due categorie ben distinte; i signori fattori e i contadini
poveri in canna.
E come ogni anno, a marcare la
discrepanza fra l’una e l’altra categoria,
accadeva la festa d’estate in cui si omaggiava la mietitura del grano,
che mai come in luglio era stata così ricca e prospera.
La mietitura era capeggiata
ovviamente dalla famiglia di Javier; il ragazzo era un puro Sauco
di nascita -le sue origini risalivano ai primi insediati
civili nel lontano milleduecento- tanto da avvalersi, nella radice del cognome,
del nome con cui veniva chiamato anticamente il posto: La Fuente.
La terra non era mai stata
aspra, catene montuose e corsi d’acqua la cullavano intorno; i contadini
che si spaccavano le mani lo sapevano bene, come un elisir magico che si
dicesse albergasse in quella brulla distesa.
La famiglia di Morena, fra
queste; il padre, Lucio Soler, lavorava su un fazzoletto minuscolo di terra a
ridosso del fiume, appartenente all’altra famiglia ricca del posto, i Roquez. Sfortunatamente come per Javier, entrambe le
famiglie ricche avevano generato solo figli maschi e i loro pargoli d’oro
raggiunta giusta età andavano a cercar moglie
con dote lontano, lasciando amministrare la fortuna ai pezzenti.
Era una ruota che girava
senza fine ma che garantiva la sopravvivenza ai ricchi e soprattutto ai poveri.
«Terra.. terra.. niente altro che terra!»
Morena era al fiume insieme
al suo Javier, dopo la fine di una giornata dura.
I loro ritmi era molto diversi, lo sapevano entrambi, quando il sole
sorgeva lei era nei campi a piegare la schiena sulle spighe,
lui nelle sale sconfinate della sua tenuta ad istruirsi di storia e geografia
piuttosto che scienze mediche.
Anche le loro vite subivano le
discrepanze delle loro condizioni sociali.
«Perché ti arrabbi tanto? Si lava via..»
«Guarda le mie unghie Javier! Non sembrano neanche unghie di donna! La
odio tutta questa terra..»
Giurò di sentirla piangere fra
le imprecazioni e le andò vicino, le girò il viso con forza
costringendola a guardarlo e si incupì;
piangeva eccome. «Ti aiuto io, vieni qua.»
Morena era cambiata tanto
nell’ultimo mese da quando.. beh da quando
avevano fatto l’amore -al solo pensiero stava male per quanto era stato
intenso e speciale- era diventata scostante, irrequieta e piangeva spesso.
Se avesse sommato gli anni in cui erano
stati amici, poteva asserire che non aveva pianto mai tanto
come ora.
Erano stati amici, già. Per lui era straziante.
Adesso ne era innamorato e vederla contorcersi nei suoi pensieri loschi, le
provocava un turbamento interiore che gli causava fitte di dolore.
«Devi passare la raschietta per
obliquo, così..» Con i suoi polpastrelli
stretti delicatamente fra le mani le mostrò
come fare, lei sorrise debolmente guardandolo addolorata. Ne era innamorata
persa e sapeva che più tempo passava e più sarebbe stato peggio
dirgli addio.
Certi giorni erano così,
semplicemente ci pensava.
Altri giorni invece il tempo passava
fra risate e giochi, il lavoro duro certo e poi fare l’amore ovunque
capitasse.
Erano diventati parecchio bravi a dirla
tutta, ma per Javier sembrava non essere mai abbastanza.
Come in quel momento, che le
baciò le dita una ad una con leggera malizia.
«Visto?Adesso sei pulita..» La cinse per i fianchi premendosela addosso.
«Javier lasciami stare!» La
ragazza si divincolò, facendolo ruzzolare all’indietro
nell’acqua.
«Ma si
può sapere cosa hai?» Riemerse sputando acqua dalla bocca.
«Sono stanca! Stanca, possibile tu non lo capisca?»
Il ragazzo si rimise in piedi
fissandola immobile; era bello, irresistibile, con i muscoli del petto teso
sotto la canottiera bianca e la fila di peli che spuntava come una freccia a
indicare la via per il paradiso. «Bastava che lo dicessi.»
Si passò
le mani sul viso scostando la massa di capelli fradici, per arrancare verso
riva.
Aveva il viso mesto.
Morena si morse il
labbro pentita.
«Non posso, non
è che non voglio.»
Ma lui non rispose, perciò gli corse dietro e gli si parò
davanti bloccandolo per un braccio.
«Dai non fare il bambino adesso! Ho detto che non posso Javier..»
«Non puoi?» La
guardò accigliato e perplesso.
«Sveglia! Non sei tanto furbo per essere uno che studierà in
un’accademia illustre.»
Javier allargò gli occhi
intuendo finalmente il problema. «Non è un po’ tardi per
mettersi a fare la puritana adesso?»
La ragazza gli mollò un pugno. «Sei disgustoso! Sei.. sei un
pervertito, ecco cosa sei!»
«Pervertito?» Rispose
disgustato. «Morena conosco il tuo corpo da
quando siamo ragazzini, abbiamo condiviso tutto, te ne sei dimenticata?
Mangiavamo la terra che tu tanto odi insieme, ci siamo scambiati gli umori, i
sapori, la nostra pelle ha persino lo stesso odore..
cosa c’è di così sconvolgente se ti voglio così
tanto?»
Si morse il labbro, dopotutto non aveva
tutti i torti. Ma era testarda, testarda e indomita.
«Dove era la tua voglia fino a
ieri, La Fuente?»
Javier la guardò con gli occhi
ombrati dalla delusione. «Sei stupida e insensibile.
Non capirai mai quanto ioti ami.»
Si mise la sacca del raccolto in spalla
e si incamminò verso la strada di ritorno per
casa.
Morena non disse una parola.
Dal fiume a casa della ragazza
–se la baracca in legno e paglia poteva
dichiararsi tale- la strada era una stretta viuzza dissestata che sfiorava l’antica
foresta di querce ai margini del paese. Questo particolare aveva fatto
sì che il distaccamento di baracche esistenti si avvalesse del nome
“Vecchia quercia”.
Sull’atrio trovarono don Lucio
intento a spaccar legna per l’inverno; si separarono sempre in silenzio,
Morena sfilò sul retro della casa e Javier svuotò la sacca sotto
l’occhio vigile dell’uomo.
«Allora Javier, tutto pronto per
la partenza?»
Lucio Soler non era un uomo cattivo.
Più che altro un uomo disperato.
Donna Marta se ne era andata dopo una
devastante forma di tifo che l’aveva stroncata in meno di due settimane,
quando Morena era poco più che una bambina, e si era risposato
con Elvira Morales la giovane figlia di un fattore
medio che pur di togliersi una bocca da sfamare dalla sua numerosa progenie
– sette figli fra femmine e maschi in totale- l’aveva svenduta al
primo offerente.
Lucio non cercava moglie, Marta era
sempre stata l’amore della sua vita, quella che si diceva una coppia
solida, ma la generosa dote della gentil signorina e il caldo focolare di una donna
in casa lo avevano convinto ad abbandonare il nero e ridarsi ad
una nuova vita.
Sfortunatamente Elvira Morales era quanto di peggio Dio
creò sotto spoglie di donna e negli anni si era rivelata affatto
affettuosa o accogliente ma al contrario, era una creatura dispotica, anaffettiva e soprattutto arcigna.
L’unico slancio d’amore di
cui era stata capace era di dargli un’altra figlia, Stella, una
bellissima bambina dai capelli scuri come il caffè e la pelle chiara di
luna che lui amava profondamente come amava Morena.
Viveva per le sue figlie
anche se non era esattamente il padre esemplare per loro, si svegliava e
andava a letto pensando come donargli una vita dignitosa al di sopra dello
stento e della sopravvivenza, e ci riusciva in qualche modo mescolando sudore e
fatica nei campi, ma il vizio della bottiglia, nelle giornate nere di pece, lo
facevano rantolare in un baratro che neanche un sorriso di quelle stesse figlie
riusciva a schiarire.
«Sì signore. Sono in attesa dell’ultimo richiamo dal rettore,
poi sarò ufficialmente un soldato della nazione.»
«Ben fatto ragazzo!»
L’uomo sorrise vibrando una pacca sulla sua spalla. «Ti lascerà andare?» Indicò la casa alle sue
spalle guardandolo attentamente negli occhi. «Tu
mi piaci Javier, mi sei sempre piaciuto. Ma lei non
sarà molto felice quando verrà il momento. Ed io sono suo padre,
non voglio vederla soffrire.»
Il ragazzo annuì, facendosi
forza. «Sebbene può sembrar difficile da
credere signor Soler, io intendo onorare sua figlia, quando sarà il
momento e con il suo permesso.»
«Quindi
la sposerai?» L’uomo abbassò l’ascia, facendola
volteggiare per il manico; Javier annuì compito.
«E rinuncerai a te stesso per averla? Don Estefan e donna Guadalupe non saranno molto contenti.»
«Non rinuncerò a nulla, signore. Quando sarò un soldato disporrò di abbastanza denaro per offrirle
tutto me stesso in ogni caso. Finito gli studi lei..
potrebbe trasferirsi a Madrid, con il suo permesso ovviamente.»
L’uomo si strofinò i
baffi, perplesso. «E’ un impegno a lungo
termine, ragazzo.»
«Mi piacciono gli impegni. Ciò che mi spaventa è sapere se
anche lei è d’accordo.» Rise guardando alle imposte serrate della casa;
Lucio sorrise a sua volta, sospirando.
«Mi ricorda tanto la sua adorata
madre, testarda come un mulo!» Sorrise e l’ombra dell’uomo
che era stato, balenò nei suoi occhi; ma scacciò via in fretta i
fantasmi ed afferrò di nuovo l’ascia a
due mani guardandolo. «Cosa posso augurarti
figliolo, se non di avere abbastanza fegato per onorare le tue promesse.»
Vibrò ancora un’altra
pacca e ridendo si congedò, trascinandosi dietro il raccolto fortunato
della giornata.
Ce la farò,io la amo.
Guardò ancora a quella casa e al
silenzio della sua dichiarazione.
“Accidenti.. devi amarmi anche tu Morena!”
“Ragazzino sfrontato! Mi ama.. cosa ne sa
lui dell’amore se fino a ieri ci rotolavamo nel fango chiamandoci
fratelli?Lo odio!”
Le foglie del granoturco cadevano in
terra una ad una in un lamento disperato.
Morena era una furia, sfilava le mani
frenetiche inveendo contro Javier.
Ce l’aveva con lui e non sapeva nemmeno il perché. Lo odiava e basta.
Odiava la sua famiglia.
Odia il suo futuro così lontano
da lei.
E.. odiava,
odiava amarlo.
«Santi numi, eccola che frigna!» Donna Elvira uscì dal retro con una
cesta di panni freschi di bucato; Morena si asciugò in fretta gli occhi
guardandola con occhi ferini. «Vieni qui e dammi
una mano, lascia stare il grano ne abbiamo a sufficienza per oggi. Come ieri e
l’altro ieri ancora.. sempre la stessa solfa Dios mio.»
«Che c’è?» Si
alzò strafottente pulendosi svelta le mani sul grembiule. «Mio padre ti fa fare una vita indegna garantendoti un
pasto tutti i giorni? Ricorda, il tuo ti ha venduta
per molto meno.» Sputò a terra e fece per rientrare in casa ma
Elvira urlò con quanto più fiato avesse in corpo.
«Morena Soler, dove credi di andare? Fermati e chiedi scusa!»
Don Lucio allertato dalle urla della
moglie le raggiunse, imprecando; afferrò al volo la ragazza passatagli
accanto come una furia guardandola interrogativo. «Morena, nina mia, ancora
liti?»
«Lasciami andare papà, lasciami andare!»
«Che c’è, cosa
è successo?»
«Tua moglie ci disprezza.»
L’uomo guardò Elvira che a
sua volta scosse il capo agitata, mettendosi a sistemare le lenzuola pulite
lungo il filo di corda per non guardarlo in viso. «Tua figlia è
uscita fuori di senno! E come il contrario.. mi hanno detto che ha aperto le gambe a La Fuente
e che lui non si sia fatto scrupoli a cogliere il frutto proibito, ma il
serpente tentatore se ne andrà presto e lei rimarrà nel suo
paradiso tutta sola. E deflorata.»
Don Lucio non si fece intimidire dal
muro di bucato, lo oltrepassò e la schiaffeggiò malamente; la
donna gemette raggomitolata su se stessa mettendosi poi a frignare.
A grandi passi si portò verso la
figlia e l’afferrò per il braccio.
«Morena..»
C’era rassegnazione nella sua voce e dispiacere,
rabbia, gelosia forse.
«Papà..»
Il flebile alito di fiato che uscì dalle sue labbra confermò ogni
singola parola.
«Che cosa hai fatto!» Si
passò furioso le mani fra i capelli. «Chi ti vorrà adesso?! Chi Ti vorrà?!» In
preda ad un raptus schiaffeggiò anche lei, più forte e più
cattivo. Aveva perso il controllo, sentiva il corpo attraversato da mille
schegge. Tremante, si portò in casa svuotando i cassetti e scaraventando
qualsiasi cosa trovasse a tiro.
Aveva bisogno di bere. Aveva disperato
bisogno di bere.
«Papà..»
Morena lo raggiunse prostrandosi ai suoi piedi, il viso bagnato di lacrime e in
ogni lacrima la verità che urlava al mondo la
sola cosa possibile. «Io voglio lui! Voglio solo
lui!»
L’uomo non rispose, il vino tinto
gli serrò la gola e annebbiò la vista; dopo una bottiglia, i
lamenti strazianti della figlia e minuti interminabili, sentenziò il suo
verdetto.
«Credevo che il tuo Javier fosse
un uomo d’onore.» Gettò la
bottiglia in un angolo che andò a schiantarsi in mille pezzi. «Non lo vedrai mai più chiaro? Dio
m’è testimone, anche se ti dovessi legare in casa, tu non vedrai
mai più Javier Garcia La Fuente.»
La musica era stonata e i canti
distorti dalle troppe bottiglie di vino tinto.
Le quaglie succulenti giravano sugli arrosti fendendo l’aria con un profumo invitante e
le ceste di grano in bella vista rendevano allegri persino i morti; la gente
ballava e mangiava e si accoppiava dietro i fienili e questo si poteva dir far
festa a Fuentesauco.
Javier si guardava intorno cercandola;
c’erano proprio tutti, i Ramirez,
allevatori, con le due figlie Guendalina e Georgina due galline dalle uova
d’oro con più soldi che sale in zucca, i Portos, arrabattai, che
vivevano di espedienti con il loro unico figlio, Milo, un ragazzino talmente
deformato e con una capigliatura così diversa da quella del padre e
della madre da sembrare un cucciolo bastardo, don Pedro, il parroco
dell’unica chiesa del paese più ubriaco lui che i tenutari delle
vigne sulle colline fuori città e infine sulle panche più
defilate, Alfredo Roquez e sua moglie Francisca -pallida per colpa di una misteriosa malattia del
sangue che la stava rendendo anemica e allo stremo delle forze- mano nella
mano, da provocare nel ragazzo un moto di pena per l’uomo; Carlos Pena,
medico e chirurgo di Fuentesauco, aveva sentenziato ancora
solo qualche mese di vita per la donna.
Morena non c’era.
I Soler non avevano mai perso una
mietitura, Javier si accigliò preoccupato e prese la via per casa della
ragazza.
Se era arrabbiata o peggio se era con
qualcun altro si sarebbe scontrata contro tutta la sua
forza, non poteva più sopportare che fosse così volubile e
lunatica con lui.
La casa era buia, come pure la sua
stanza.
Lo stomaco gli si attorcigliò,
girò guardingo sul retro finché non udì un tonfo secco;
una macchia scura e agile era saltata fuori dalla finestra. E appena lo aveva
visto aveva urlato.
«Dios mio Javier, mi hai spaventata!»
Morena si rialzò, sistemandosi il vestito. «Non dovresti essere
alla festa a far volteggiare le due fesseRamirez, come vuole tua madre?»
Il ragazzo sbuffò prendendola a
se senza riguardo. «L’unica ragazza che voglio
far volteggiare sei tu.» Era teso lo percepiva, quindi si sciolse un
po’, non valeva la pena tenere il punto per qualcosa che neanche ella stessa capiva. «Andiamo?
Ho preso la bicicletta faremo prima.»
Seduta davanti a lui poteva sentire
l’eco basso della sua felicità; Javier teneva saldo il manubrio ma
le baciava i capelli, sorpassava una curva e le sussurrava quanto la amasse,
questo per interminabili minuti che sembrarono ore, tanto che quando scese non
riuscì a tener salde le gambe a terra.
«Vieni!» Corsero a
nascondersi dietro una stalla e presero a ballare stretti, Javier la fece
volteggiare proprio come aveva promesso. «Voglio fare l’amore.»
Morena si stese sulla paglia ebbra di vino, di gioia, concitata, lui la
guardò teneramente prima di suggellare le sue labbra con un bacio.
«Credevo non potessi.»
«Posso fare tutto quello che voglio, Javier. Persino prenderti in giro..» Lo guardò con un finto sguardo da bambina,
lasciandosi andare poi in una risata. «Sei buffo!»
Spianò con il dito la ruga sulla fronte del ragazzo che la guardava
accigliato.
«Quando la smetterai di prenderti
gioco di me?»
«Oh, questo non cambierà mai. Noi siamo fatti così, Javier.»
«Non mi interessa
come siamo fatti, io sono innamorato di te Morena e pretendo, ansi no esigo,
che tu mi tratti con rispetto!» Si alzò con il busto, guardando
dritto davanti a se, il respiro irregolare.
Morena lo imitò, allacciandogli
le braccia al petto da dietro. «Anche io ti amo
Javier.» E sospirò.
Il ragazzo girò la testa verso
di lei, gli occhi adesso scintillanti. «Mi ami?»
«Certo che ti amo. Ma questo amore fa male,
perché tu te ne andrai.»
Javier voltandosi la baciò,
carezzandole la schiena dolcemente. «Ho detto a tuo padre che ti
sposerò quando tornerò.»
La ragazza ghignò. «Lui
vuole castrarti invece.»
«Non capisco..
sembrava fosse d’accordo.» Si alzò adesso veramente adirato,
prese a camminare avanti e indietro cercando di mettere insieme i pezzi.
«Calmati..»
Morena si alzò per guardarlo meglio. «Non sarebbe di certo la
prima famiglia che abbiamo contro.»
«Ma tu proprio non vuoi capire? Non mi interessa
chi o cosa dovremmo affrontare, io voglio stare con te! Ma
anche tu devi crederci Morena! Devi credere in noi, non sono niente senza il
tuo appoggio.»
«Credere in noi sì.. sai cosa faranno di me quando te ne andrai? Mi faranno a
pezzi! Tu pensi che io sia l’elemento più forte della catena ma
non è così! Tu sarai a Madrid per tre anni, tu studierai e
diventerai un alto grado di gendarmeria, tu sarai colto e istruito.. io resterò sempre la contadina con le mani sporche
di terra. E’ questo che vorrai davvero fra tre anni?»
La prese per le spalle e la
scrollò. «Io voglio te. Voglio te!»
«Adesso sì mi vuoi, ma fra
tre anni quando assaggerai il vero sapore della vita lontano da questo posto..»
«Non puoi sapere cosa vorrò io fra tre anni. Parliamo piuttosto di
te, mi aspetterai?»
«Non si tratta di me e non si tratta di te Javier. Si tratta di quello
che vogliono loro, capisci? Non permetteranno mai un unione
fra di noi.» Lo aveva sempre saputo. Lo aveva letto negli occhi di sua
madre, Guadalupe Garcia, quegli infimi occhietti scuri che la squadravano da
capo a piedi tutte le volte che si incrociavano;
l’avrebbe schiacciata come si fa con gli scarafaggi o le formiche e
avrebbe goduto nel farlo. Si rattristò. «Siamo
diversi. Troppo diversi.»
Javier si era fatto via-via sempre
più cupo e silenzioso.
Erano diversi sì, ma lo erano
sempre stati! Eppure questo non gli permetteva di non amarla, volerla nella sua
vita.
Perché lei non riusciva a vedere
al di là diFuentesauco,
di sua madre, di suo padre, della loro patetica vita e non si immaginava in un
futuro roseo insieme a lui?
La guardò, il volto perfetto
anche nella drammaticità, i tratti scolpiti, come scolpite le sofferenze
che aveva dovuto attraversare nella sua ancora giovane
vita.
Aveva perso sua madre. E anche se non
fisicamente, aveva perso anche suo padre.
Non sapeva nulla dell’amore, o
quasi nulla, perché due delle persone più importanti della sua
vita erano state impossibilitate a spiegarglielo, insegnarglielo,
dimostrarglielo.
Semplice.
Morena non sapeva amare perché
nessuno l’aveva amata.
«Dove vai?»
Si era lanciato verso la bicicletta con
un solo obbiettivo in testa; prenderla con sé,
portarla via da quel mare piatto di emozioni e farla innamorare della vita.
Spiegarle come era facile, con carezze che le avrebbe
distribuito la sera prima di andare a dormire e baci tutto il giorno a fargli
sentire che lui c’era. Era con lei. E l’amava.
«Voglio parlare con tuo padre. Verrai a Madrid con me!»
Ma la ragazza lo tirò giù, calciando via la bicicletta. «Non dire stupidaggini! Non verrò
a Madrid con te Javier!» Tremava e tirava pugni sul suo petto, indomita. «Non c’è nessun futuro per noi.
C’è solo il presente, arrenditi! Arrenditi e amami. Amami Javier!»
E mentre il suo cervello gli imponeva
di risponderle lei si era già buttata sulle sue labbra in quel modo
così prepotente che gli faceva pulsare forte le vene del collo, i
polmoni nella cassa toracica e il cuore, al suo posto, già suo.
Le abbassò le braccia già
stanche di quella lotta e corrispose al bacio tirandola giù verso terra.
Si rivestirono in fretta e con la stessa
fretta Javier montò in sella offrendo la sua mano per aiutarla a salire.
«Sei estenuante
mio amor!» Affondò il naso fra i suoi lunghi capelli,
ridendo.
«Solo perché non posso
darti ciò di cui hai bisogno.» Era
stranamente arrendevole e docile mentre parlava appoggiata al suo petto e con
le mani si teneva forte alla canna della bicicletta. «Solo
perché sono una Soler.»
«Una Soler è tutto
ciò di cui ho bisogno.» Sospirò,
aumentando la velocità per sparire fra i boschi.
Quando arrivarono a Vecchia Quercia c’era trambusto e fiaccole accese.
Qualcuno indicandoli urlò alla
volta delle persone stipate dinnanzi la baracca di
Morena.
«Dios mio, sei qui!»
Donna Guadalupe si portò una
mano al petto guardando con occhi di fuoco il figlio; Lucio Soler, dal suo
canto, irato e certamente più pragmatico, brandì il fuoco dalle
sue mani sparando un colpo con il fucile che teneva stretto a se, colpendo
perfettamente il raggio della ruota della bicicletta nel suo centro.
«Papà che ti prende! Sei impazzito?!»
I due ragazzi si gettarono in terra,
per poi abbracciarsi forte.
Donna Guadalupe e suo marito Estefan per un attimo dimenticarono il loro amato figlio
inveendo senza mezzi termini alla volta di Lucio. «E’
pazzo! E’ uscito fuori di senno!»La donna gesticolava verso la gente
intorno cercando nei loro sguardi spaventati la conferma delle sue parole. «Potevi
ammazzarmelo!»
«Posso ancora provare su di te,
donna!» La spintonò, raggiungendo a
grandi passi spediti i due ragazzi ancora abbracciati. «Toglile le mani
di dosso Javier, non sto scherzando.»
Donna Guadalupe guardò con
orrore la canna del fucile protesa al volto del suo amato primogenito e
urlò disperata.
«Fa quello che dice! E’ un pazzo ubriacone figlio mio!»
Per tutta risposta Soler sparò
un colpo sul terreno, proprio vicino alle gambe di Javier, che nel tirarsi
indietro slegò Morena dal suo abbraccio. «Il prossimo te lo pianto
nelle palle se non te ne vai.»
L’uomo tirò a se la
giovane, strattonandola verso casa.
«No! Lasciala stare!» Javier per nulla
spaventato si gettò sulle sue spalle ma quello gli rifilò una
gomitata sul labbro, spaccandoglielo; si tastò la bocca, assaporando il
sapore ferroso del sangue.
Morena urlò con quanto
più fiato avesse nei polmoni.
«Lasciami! Non voglio venire con te! Lasciami!» Si girò
disperata verso Javier, che a sua volta venne portato
via dai suoi genitori e caricato sull’auto ultramoderna, che mal si
accostava al degrado tutto intorno.
«Morena!»
La chiamava, la chiamava
disperato.
Ma quell’urlo cessò, scemò come la rabbia dalle sue
membra per far posto alla disperazione e alla più totale sconfitta.
Quella, fu l’ultima volta che lo
vide.
Il mattino seguente con l’anima
tormentata e infelice, tornava dai campi con le sementi per la nuova coltura, si imbatté in don Roquez,
il fattore e signore del campo presso il quale lei e la sua famiglia
lavoravano, riscosse la paga e si intrattenne con la signora Roquez, sempre più emaciata.
Aveva fretta di correre al fiume e
abbracciare Javier. Non desiderava altro.
Nessuno sarebbe riuscito a tenerli
divisi, ne era certa. Il tempo era prezioso e dopo la notte insonne a divagare
la mente su i pensieri più assurdi, aveva disperatamente bisogno di un
abbraccio dell’uomo che amava.
«C’entra per caso qualche
ragazzo in questo visino corrucciato?»
FranciscaRoquez era una visione ultraterrena.
Una donna di una bellezza così
eterea, addolcita da maniere gentili e un animo buono; don Alfredo
l’aveva avuta in sposa che era poco più di una bambina, anni
addietro, da un ricco signore di un paese vicino. Con lei si era comportata
sempre più come una buona amica premurosa, piuttosto che come signora
fattrice, provava grande tristezza nel vederla spegnersi mano
a mano che i giorni passavano. I due non avevano avuto figli, chi sosteneva per via del sangue tormentato dalla funesta
malattia di Francisca, chi sparlasse invece di una
poca virilità del marito, fatto sta che i terreni di loro
proprietà venivano curati ormai da anni dalla famiglia Soler a gran
giovamento delle loro finanze.
Don Roquez
era quella che si dicesse una persona rispettabile.
Modi da uomo del sud –era nato a
Malaga- forte temperamento ma con una gran indole da
lavoratore.
Morena non aveva idea di quanti anni
avesse. Era molto affascinante, questo sì.
Da piccola credeva di esserne innamorata;
tutte le mattine era solerte fare lunghe cavalcate e
quando lo vedeva arrivare in sella del suo destriero, agitando i mossi capelli
bruni al vento, lo immaginava il principe delle favole che sua madre le
sospirava nell’orecchio prima di andare a dormire.
Dei mossi capelli bruni oggi restava
una chioma spruzzata d’argento, ma la sua bellezza era immutata.
«Oh donna Francisca, perdonate. Sono piuttosto
distratta, dicevate?»
La donna sorrise, coprendosi la bocca ad un improvviso attacco di tosse. Morena si chinò su
di lei, sulla sedia a rotelleche
il marito teneva stretta, ma ella la bloccò. «Lascia, passa quasi
subito.» La ragazza annuì, cercando conforto negli occhi lucidi di
don Alfredo. «Dicevo, hai proprio il viso di chi è innamorato.»
Arrossì, sorridendo. L’uomo
sopra di loro rispose riempiendo il silenzio.
«Non la tormentare mia cara,
Morena ha già il suo bel da fare con questa storia.»
La guardò e quello sguardo severo la diceva lunga sulle chiacchiere
circolate nella sola notte appena trascorsa.
Arrossì violentemente,
chiudendosi nelle spalle. «Mi dispiace causarvi tanto fastidio don
Alfredo..»
L’uomo si accigliò
turbato. «Oh no! Non volevo dire questo..» Mosse un passo incerto verso la ragazza, forse per
aiutarla a tirarsi su o consolarla, ma si ritirò quasi subito. «Mia
moglie adora le storie da romanzo.»
La ragazza sospirò. «E chi
non le adora don Roquez!» Rise un po’
più leggera. «In questo paese ci si annoia a morte.»
L’uomo alzò le spalle
compiacente. «Ma allora me lo dite chi è
il fortunato o conviene farmi una passeggiata fino alle locande?» Donna Francisca batté annoiata un piede, Morena rise
sospirando fra i denti.
«Javier Garcia La Fuente.»
«Garcia..
il figlio di Guadalupe Garcia?»
«Proprio lui, signora.»
Gli occhi della donna si adombrarono,
Morena guardò ad Alfredo che inspirò impacciato. «S’è fatto tardi, giovane ragazza. Saluta
i tuoi genitori e digli pure che gli manderò le nuove sementi non appena
la diligenza tornerà a Fuentesauco.»
L’uomo spinse via la carrozzella
speronandola come se avesse nominato un fantasma.
L’anima di Morena si contorse
nelle viscere, lasciandola sola e spaventata a morte.
Sapeva benissimo che Guadalupe Garcia
non era di certo adorata da tutti, arcigna donna dispotica quale fosse, ma
provocare persino fughe al suo solo nominare.. beh
questo le sembrava un po’ troppo.
Come un presentimento nefasto, Morena
sentì la necessita di gettarsi in corsa oltre
le colline e per il fiume, dove il suo cuore bramava di trovare Javier.
Al fiume trovò solo un orda di bambini che giocavano a tirarsi il fango.
Si sciacquò
in fretta mani e viso e sempre correndo raggiunse Villa Ortensia, la tenuta
secolare appartenete a Javier; da tempo immemore la tenuta si stagliava, oltre
un viale di una lunga cascata di salici piangenti dalle lunghe fronde che
accarezzavano il terreno, conferendo al posto una teatralità degna di
altri tempi.
I nonni e i bisnonni prima di loro
l’avevano issata da un cumulo di macerie che si raccontasse fosse la
roccaforte di avi lontani, quando Fuentesauco era meno
di niente; le mani e la modernità dei successori l’avevano resa la deliziosa e imponente tenuta in stile
neoclassico che oggi appariva.
Prima che potesse avvicinarsi
all’alta cancellata di nero ferro battuto, fu fermata da uno stuolo di inservienti che andavano e rivenivano dalla casa al
giardino; c’era fermento e caos, si sforzò di restare lucida ma
quella che le si prospettava dinanzi non era una visione felice. Vide passare
mobili e vettovaglie di ogni genere, bauli dalle maniglie d’oro e tutto fu caricato su una grossa auto moderna; tremò, aveva
paura di quei mostri striscianti.
«Signorina Soler, cosa ci fate
qui?!»
Una giovane ragazza dalla pelle
d’ebano, la redarguì agitata dalla sua presenza.
«Lui..
lui dov’è, Karim?»
«Oh..»
la ragazza sempre più agitata la portò fuori dalla visuale della
villa, dietro gli alberi del viale. «Voi non
dovreste essere qui! Se donna Garcia vi vedesse.. oh mi dolor! Ve ne dovete
andare subito signorina Soler, subito!»
Morena urlò e quella si
passò le mani agitate sul grembiule inamidato. «Dov’è
Javier, dimmelo!»
«Testarda ragazza, mi farete picchiare! Dovete andare via!»
«Prima voglio sapere dove. E’. Javier.»
Sibilò implacabile, scandendo le parole una ad
una.
L’inserviente guardò
angosciata alla casa, quasi a scrutare l’orizzonte, poi scosse il capo e
parlò.
«Il signorino La Fuente è partito
all’alba per Madrid. La signora Garcia ha urlato tutta la notte, Madre de Dios!» Si fece il segno della croce, quando a Morena ormai
mancavano le forze; fu costretta ad appoggiarsi all’albero, il capo
riverso all’indietro. Annegando, stava annegando.
«Proprio un bel guaio signorina Soler, un bel
guaio! Ve ne dovete andare, ha giurato di ammazzarvi se vi trovasse qui.. per amor del cielo, andatevene.»
«Andarmene..
sì..» La testa vorticava pericolosamente, i pensieri s’erano fatti nebbia fitta.
Chiuse gli occhi. Javier era andato via. Cadde a terra senza alcun rumore.
Li riaprì e sembrò che il
mondo continuasse a girare, anche se percepivaun dondolamento fisico più
che papabile.. si sentiva stretta e protetta, avvicinata da un calore
così reale.. li richiuse, se era un bel sogno, se stava sognando Javier
era lì che voleva stare. Nell’oblio.
La coscienza tornò a smuoverla,
i suoi sogni astratti la rigettavano al mondo, tentò nuovamente
d’aprire gli occhi e stavolta percepì bene il morbido contatto di
piume sotto le membra stanche; la visuale era calda, di un colore vivo tutto
attorno, si sforzò di mettere a fuoco e non capì
dove si trovasse.
Tentò di muovere le mani,
qualcuno tossì in lontananza.
«Morena sei sveglia?»
D’improvviso, oppure era sempre
stato lì e lei non se ne era accorta, la figura di don Alfredo Roquez capeggiava sul letto; accanto a lui il dottor Pena e
ai piedi del letto, rannicchiata in una sedia e con il filato sulle ginocchia,
donna Francisca le sorrideva calorosamente.
«Dov.. dove m-mi trov..» si
agitò, il dottore le bloccò il braccio; con un gesto
d’intesa si fece aiutare da don Roquez a
tirarla su. «Don.. c-cosa ci faccio qui.. dove
mi trovo?»
«Ti abbiamo trovata
riversa in terra, al fiume. Non ricordi nulla Morena?»
La ragazza alzò le spalle; il
medico le ispezionò le tonsille, verificò la reazione delle
pupille e si prodigò a sentenziare che la ragazza stava bene, aveva solo
una lieve escoriazione al capo per via della caduta, da curare con un unguento,
aggiungendo poi che doveva nutrirsi di più.
Roquez gli passò tre monete e lo pregò di non lesinar visite se
mai i Soler avessero bisogno di lui; l’uomo si infilò
il soprabito e fu scortato via dalla cameriera.
«Siete troppo gentile padrone. Io.. vi sto
recando fastidio ancora una volta.»
«Di certo non ti avremmo mai lasciata lì, sciocchina.» Rispose donna Francisca, avvicinandosi a bracciate al capo del letto. «Te
la senti di dirci cosa è successo?»
Strinse forte le coperte fra le mani,
prima che il volto le si coprisse di lacrime. «E’.. è andato via.»
«Lo abbiamo saputo.»
Notò tristemente la donna, prendendole la mano. «E’ stato
lui a lasciarti lì?»
«No, non lo farebbe mai.» Alzò
le spalle e un singulto la devastò. «Ero
andata a cercarlo alla tenuta dopo che vi ho incontrati
alle campagne.. e lui non c’era più. Credo di essere svenuta.. poi non ricordo più nulla.»
«Oh per amor del cielo! Quindi tu non sapevi nulla?!»
La ragazza annuì. «Donna
Guadalupe..» Non resse la portata di dolore, non
più, e scoppiò a piangere. «Perdonate..
perdonate..»
Don Alfredo le passò un
fazzoletto, Francisca sospirò. «Quella
donna è il diavolo.»
Un movimento impercettibile del capo
dell’uomo, fece ritirare la donna in un mutismo frenetico condito da mani
che si muovevano agitate in grembo; Morena, sempre
più angosciata, in un impeto di coraggio osò chiedere.
«Cosa vi ha fatto quella donna?»
Francisca alzò gli occhi, due grandi pozze lucide. Il labbro superiore
tremava vistosamente e il respiro agitato gonfiava la
veste crema ad un ritmo esasperante. Si sforzava di rispondere, ma sembrava
sull’orlo di una catastrofe.
«Calmati Francisca,
respira.» Alfredo le stava addosso cercando di infonderle coraggio; non
la toccava e questo era ben evidente, teneva inchiodato gli occhi in quelli di
lei che ricambiava lo sguardo in cerca di forza. Mano a mano
il respiro si calmò e il petto tornò ad alzarsi ad un ritmo
regolare.
Morena si morse il
labbro pentita. «Vi prego don Roquez
aiutatemi a ridiscendere.» Cercò di farsi
forza sulle braccia, ma il capo le doleva e trattenne la rabbia fra i denti. «Sono stata indelicata e scortese. Ve ne prego,
permettetemi di scusarmi con donna Francisca.» L’uomo sospirò avvicinandola e le
passò delicatamente le braccia intorno alla schiena per issarla; per un
breve istante i loro sguardi si incontrarono. Erano
molto vicini, Alfredo si scansò visibilmente turbato e Morena s’allontanò confusa.
Era.. stato
strano pensò, mentre si accucciava alle ginocchia della donna.
«Mi dovete perdonare signora,
tenterò di mantenere la mia linguaccia a freno in futuro.» Non la toccò, come aveva visto fare suo
marito, ma si alzò e le sorrise grata. «Siete
stati gentili a portarmi qui, ma adesso devo proprio tornare. Mio padre
sarà infuriato ed Elvira..» Non
terminò la frase, ma i suoi occhi al cielo la dicevano lunga.
Francisca sorrise debolmente, Morena emise un mugolio di dispiacere.
«Vi prego scusatemi ancora con
lei.»
«Non mancherò, ma vi prego io di farvi accompagnare con la nostra
carrozza.
«No signore, siete stato fin troppo generoso.
E mentre face per andarsene, la donna l’afferrò per la mano. «Stai attenta
piccola Morena, non sai di cosa è capace, stalle
lontana più che puoi.» E fece ricadere debolmente
l’arto sulle gambe, accasciandosi allo schienale della sedia a rotelle. «Più
che puoi.»
Corse a perdifiato verso Vecchia Querce,
la testa le pulsava, ma voleva portarsi lontano da quella casa il prima possibile; gli occhi della signora Roquez le bucavano il cervello, le sue mani fiacche erano
presagio di morte e quelle parole.. «stalle lontana», «stalle
lontana» aveva detto.
Correva e le lacrime solcavano le
guancie e si disperdevano nel vento.
Correva e il cuore lebalzava nel petto,
soffocandola.
Odiava Fuentesauco,
odiava Guadalupe Garcia ed EstefanLa Fuente,
odiava Javier che l’aveva lasciata sola ed
odiava tutto ciò che rappresentava la sua vita, il suo passato e ancor
più il suo futuro.
Madrid profumava di vita,
questo pensò Javier, svicolando fra le auto ad
un incrocio di una grande strada.
Tanto grande. Non ne aveva
mai viste così e perlopiù sgombre di terra e posate da un
intruglio chimico che un trio di britanni avevano brevettato ottanta anni prima;
lo chiamavano asfalto, ed era lì da almeno metà del tempo.
Ottanta anni.. che era successo a Fuentesauco
in ottanta anni?
La domenica era il suo giorno
libero, l’unico, dopo una settimana di studi intensi sulla disciplina
militare e sulla materia scelta sulla quale basare il corso di laurea; aveva
scelto medicina e chirurgia, sua grande passione fin da ragazzino quando
assieme a Morena vivisezionavano le rane del fiume sporco di Fuentesauco.
Morena..
un brivido gli percorse la spina dorsale e non era solo per il freddo dicembrino.
Non la vedeva
dall’estate e se ne era andato così, alla chetichella; si chiedeva
fin troppo spesso se avesse mai scoperto che era stata sua madre ad infilarlo in auto, dopo che Lucio Soler gli aveva sparato
fra le gambe e spaccato il labbro.
Se ci passava la lingua,
poteva ancora sentire la cicatrice.
A volte capitava che in
quelle domeniche, per una manciata dipesatas, aiutava un tale che aveva un banco di fiori al
mercato generale a scaricare la merce di mattina presto, solo per racimolare i
soldi necessari per comprarle un biglietto in andata alla volta di Madrid;
voleva vederla, non aveva che questo pensiero ma sua madre gli controllava
tutti i conti.
Le aveva scritto non appena
arrivato in città, ma a quella lettera non aveva mai risposto nessuno e
qualche volta, da solo al buio della sua branda da camerata, si domandava se
era esistita veramente, se non fosse una proiezione dei suoi più
reconditi desideri. Poi ricordava le sue mani, quella pelle ambrata e coriacea,
gli occhi striati d’oro e conveniva che era bella come un sogno, ma
esisteva davvero.
«Javier! Siamo qui! Javier!»
BenedictaRuiz Navarro e LeonorRuizDelgado
lo aspettavano alla Mallorquina, la pasticceria in Puerta del Sol dalle frittelle al miele più buone di
tutta la città; Benedicta era sorella di Lorenzo,
un commilitone con il quale aveva stretto amicizia, la piccola Leonor invece, sua cugina per conto di madre. Le aveva
conosciute in occasione di un pranzo alla villa di Lorenzo, una domenica di
riposo e da allora si circondava spesso e volentieri della loro compagnia.
Le due ragazze erano delle guide
molto attente per la città; conoscevano tutte le bettole dalla quale stare lontane quando si trattava di cibo,
frequentavano gli ambienti giusti e le persone che contavano, avevano gusto per
l’arte ed erano terribilmente ricche e raffinate.
Non si stupiva d’essere
loro amico, sua madre -già da Fuentesauco-
aveva stretto contatti con le rispettive famiglie delle giovani affinché
il suo baldo figlio avesse due dei nuclei caposaldo di Madrid come ala
protettiva, e poteva scommetterci, non mirava solo alla sua protezione; i Delgado erano famosi costruttori di immobili
lussuosi in città e i Ruiz, ai tempi
d’oro, proprietari terrieri di ogni zolla di Madrid.
Ovunque la
si guardasse, le due giovani apparivano come la realizzazione di tutte
le aspettative di Guadalupe Garcia e Javier era sempre più inorridito da
tutti i fili che sua madre era in grado di muovere a chilometri di distanza.
Tuttavia vi era affezionato, Benedicta era risoluta e forte, una giovane indipendente
sebbene il suo conto sfiorasse più di qualche zero, per contro Leonor era la ragazza più dolce e intelligente che
avesse avuto il piacere di conoscere da quando era arrivato.
«Ce l’hai
fatta, finalmente! Stiamo morendo di fame!»
Javier sfoderò il suo sorriso
migliore, aiutandole a sedersi.«Propongo un giro abbondante di Torrijas
per farmi perdonare!» Chiamò il cameriere e ordinò,
sfilò la propria sedia e prese posto. «Sto morendo di fame anche io.»
Leonor lo guardò con grandi occhi verdi curiosi. «Giro
in metropolitana? O ti sei fermato al BuenRetiro come al tuo solito?» Sorrise,
passandogli una copia de ElPais
un po’ stropicciato.
«Grazie.» Ricambiò
il sorriso, appoggiandolo sulle gambe. «Metropolitana.» Rispose con
aria sognante. «E’ così..»
«..caotica?»
Benedicta lo interruppe, alzando gli occhi al cielo.
«Innovativa!»
Risposero allora i due all’unisono, guardandosi frettolosamente, per poi
perdersi in un mare di risate.
«Mio Dio!» Aggiunse
l’altra fintamente disgustata. «Voi due siete fatti l’uno per
l’altra.»
Leonor alzò timidamente lo sguardo su Javier che scosse il capo noncurante.
«E’ che lei è molto
più sensibile di te, mia cara!»
«Cosa c’è di
così poetico in un mucchio di ferraglia sfrecciante in gallerie buie, me
lo dite?»
«Tutto!» Risposero insieme
nuovamente, stavolta arrossendo entrambi; Eleonor
fece cenno a Javier di continuare, nascondendo poi l’imbarazzo dietro una
grande salvietta. «Da dove vengo io la sola cosa
a sfrecciare, sono gli uccelli. Quando migrano. E dovreste vederli, gruppi di
mille, duemila esemplari.. volano verso sud in questo
periodo e..» il cameriere lo interruppe servendo la colazione in pesanti
vassoi d’argento «..e forse è meglio mangiare che ascoltare
noiosi trattati sul volo degli uccelli!»
«Io non lo trovo noioso invece.»
Eleonor affondò una zolletta di zucchero nel
suo tè aromatico e si portò la tazza alle labbra, soffiandoci su;
era delicata qualsiasi cosa dicesse o facesse, guardarla gli dava sollievo,
pace. «Qui i palazzi hanno coperto quasi interamente il cielo..» Sospirò e Javier trovò quel suono
così delizioso. «Come hai detto che si chiama il paese da dove
vieni?»
«Fuentesauco,
perché?»
«Mi piacerebbe visitarlo un
giorno.»
«Dici sul serio?» Stavolta
il coro all’unisono fu con Benedicta che
sbuffò spazientita, ma con il sorriso sulle labbra.
«Sì, perché vi
stupite tanto?»
«Non è esattamente come te
lo aspetti Eleonor..
l’aspetto poetico passa in fretta.» Javier guardò lontano,
malinconico.
«Mia madre dice che oltre Madrid,
il mondo non esiste.. senza offesa Javier!» Benedicta tagliò con precisione il suo toast
guardando l’amica. «Dove è finita
la tua voglia innovativa? Senza contare poi che i palazzi che oscurano il cielo
li costruisce tuo padre!» Rise chiassosa e
Javier non poté far altro che sorridere a sua volta.
«Oh siete due guastafeste!»
Sbuffò, ma nascose lo sguardo divertito dietro la tazza. «Una
signorina per bene non può sognare con voi due!»
«Sì sì, sogna quanto vuoi.. basta che non mi fai mettere naso fuori da Madrid!»
La ragazza le fece la linguaccia,
guardò poi sognante a Javier e si domandò se era così
impossibile un giorno essere lì.
Insiemea
lui.
Elpais terminava sugli
spettacoli di teatro, annotò mentalmente qualche orario prima di
richiuderlo.
Al loro tavolo si era
aggiunto Lorenzo, di ritorno da alcune commissioni e
stava amabilmente discutendo con Benedicta su un
menù improponibile di un ristorante de La latina, la zona più
bohèmien della città.
«Trovato nulla di interessante?»Eleonor
si era sganciata dalla conversazione indicando il giornale.
Javier negò con il
capo. «Non questa domenica purtroppo, ma che ne dici della prossima?Danno una
trasposizione della “Celestina” al Teatro Real.»
«Una tragicomedia? Niente di meglio per una
domenica a Madrid. Ok, ci sto!» Rispose con aria
sicura, rivolgendosi poi ai cugini. «Voi sarete dei nostri?!»
«Un’altra commedia Javier?»
Benedicta rispose agitando i lunghi capelli biondi.
«Mia cara, niente di meglio per
una domenica a Madrid!» E Javier rise guardando Eleonor
e senza sapere perché anche Lorenzo si unì a loro e per finire, con
la malizia di chi vedeva lungo, anche l’ultima componente
del tavolo sorrise, compiaciuta, appagata e sicura di sentire nell’aria
il profumo dei fiori d’arancio.
*
Dicembre era arrivato con il suo freddo
secco e la brezza costante.
A Fuentesauco
si scaldavano le ultime castagne sul fuoco e si sorseggiava vino benedicendo le
provviste di maiale.
I campi erano incoltivabili, il fiume
ghiacciato, gli alberi spogli di vita; il tempo in inverno sembrava fermarsi,
la vita scorreva lenta e pesante e anche i suoi passi, nel pantano delle piogge
passate, arrancavano stanchi.
«E’ permesso?»
Entrò silenziosa nel piccolo
studio del Dottor Pena, godendo del tepore emanato
dalla stufa a legna stipata nell’angolo sotto la finestra; il medico la
guardò da capo a piedi indicandole la sedia. «Siediti.»
«Cosa c’è che non va?»
«La tua salute è pressoché perfetta,
Morena. Le vitamine che hai assunto con la fine dell’estate ti hanno
fatto un gran bene.» Già, le medicine che le aveva pagato don Alfredo Roquez; doveva tenere a mente di
passare a ringraziarlo, erano mesi che non lo vedeva, ne lui e neppure donna Francisca, ma era
inverno e il signore fattore non aveva bisogno di loro e loro non avevano
bisogno di lui. Lui però, non aveva dimenticato le maniere da bravo uomo
e dopo l’incidente, quando l’aveva rinvenuta al fiume
priva di sensi, si era offerto di pagarle la cura. Sì, sarebbe passata a
ringraziarli.
«Tuttavia devo chiederti qualcosa sulla tua..» Si mosse nella poltrona
visibilmente agitato«Non è facile parlare di queste cose con una
giovane ragazza, ma nutro dei sospetti ed è meglio affrontare la
questione con domande dirette.»
«Quale questione dottore?»
«Ragazza mia hai raggiunto la tua età
fertile?»
Morena corrucciò la
fronte. «La scorsa estate, dottore.»
«Quindi sai cosa succede quando due un uomo e una donna..»
Schizzò dalla sua
seduta come punta da uno spillo. «Sa dottore ha ragione, non è facile parlare di
questo.» Ciondolò avanti indietro per lo studiolo; era passato tanto
tempo ma non aveva dimenticato.
Non aveva dimenticato le sue mani.
Non aveva dimenticato il suo corpo
sinuoso che scivolava nel suo.
Non aveva dimenticato quanto fosse
commovente la sensazione di sentirsi riempire, appartenere ad
un attimo d’eterno che l’inverno aveva portato via con se,
lasciando posto ad un gelido presente.
«Io.. non
capisco dove vuole andare a parare, Pena!»
«Benedetta ragazza!»
L’uomo si alzò, tenendosi per i palmi aperti sul tavolo; scuoteva
il capo borbottando fra se e se, prima di inchiodarla ad
uno sguardo severo. «Ti sto dicendo che i malori che accusi sono derivati
da uno stato interessante!»
La bocca disegnò una O perfetta e il viso plasmò un’espressione
del tutto paralizzante.
«Bene, come sospettavo.»
L’uomo si sfregò il mento cercando nel vuoto alcune risposte. «Ho bisogno di sapere quando hai avuto il tuo ultimo
mestruo Morena, così da valutare i tempi e avere dei dati più
precisi. Puoi fornirmi quello che ti ho chiesto?»
Non aveva dimenticato Javier, ma aveva dimenticato cosa significava essere donna.
Fece un rapido calcolo mentale,
perdendosi in giri larghi due volte. «Non lo ricordo.»
«Perché non mi stupisce ciò? Orientativamente, fa uno
sforzo.»
Si accasciò sulla sedia,
stringendo i pugni lungo i fianchi. «Ho diciassette anni, avere un figlio
non rientrava nei piani.» Javier..nostro figlio,
pensò con amarezza.
La potenza di quel pensiero la
riempì di rabbia.
Se ne era andato, fuggito con la luce
dell’alba e le aveva piantato un figlio nella pancia.
Erano passati mesi e non si era degnato
nemmeno di scriverle una lettera, due righe di scuse, di rammarico, di speranza
se era vero che l’amava. E quel silenzio,
parlava e urlava adesso al posto suo.
«Era estate. Sì, era estate.» E
come se la sua anima rispondesse per lei, cominciò a piangere.
Perché il cuore lo si può ingannare, egli può accettare alcune
risposte e dolere, ma l’anima no, sa cose che non avremmo mai il coraggio
di pronunciare e non la si può ingannare nemmeno se si vuole.
La bufera non era cessata, si
stringeva negli strati di lana grezza che portava addosso cercando il modo di
far cessare anche quella che si portava dentro; camminava senza meta, lungo i
campi appena imbiancati dove correvano insieme e le sembrava di vedersi bambina
insieme a lui rotolarsi nella neve e poi scivolare
sulla lastra di ghiaccio che era il fiume con il terrore di finire in acqua.
Rimpiangeva quella fanciullezza fatta di niente eppure di tutto; quando bastavano l’uno per l’altra e non c’era
amore, non c’era passione, non c’era nemmeno l’odio che li
aveva cambiati e portati lontano l’uno dall’altra.
«Via! Via di lì!»
Il trotto impazzito del carro degli enterradoresla costrinse a gettarsi sul ciglio
della strada.
Morte, pensò tristemente, qualcuno era morto.
Che fosse un presagio?!
«Morena, via! Via!»
Si voltò verso
l’altro cavallo sulla quale trottava un
po’ meno di fretta il dottor Pena, appena lasciato in paese.
«Chi?» Urlò morbosa e impaurita seguendo il suo passo.
«FranciscaRoquez»
Rispose lui laconico e prima di schioccare la frusta la guardò severo. «Non
stare al freddo troppo a lungo, corri a casa benedetta ragazza!»
FranciscaRoquez era morta.
E lei aspettava un bambino.
La vita era un mistero che
non aveva ancora capito; si fece svelta il segno della croce e si convinse
più che mai che era arrivato il momento di andare a trovare don Alfredo
e regalare a quell’uomo un briciolo di compassione.
Se la meritava.
E poteva tenersi lontano da
“Vecchia Quercia” e dal fucile di suo padre ancora per qualche ora.
La tenuta dei Roquez si ergeva su di una collina degradante nella
foresta, dalla quale si ammirava una vista del paese da togliere il fiato.
Lassù anche l’aria era diversa.
Don Alfredo l’aveva
avuta in eredità da suo padre e suo padre dal
padre prima di lui; come ogni tradizione che si rispetti a Fuentesauco
anche la famiglia Roquez aveva reso onore al paese
durante le guerre civili e la casa era stata spesso rifugio per i compaesani
sfortunati.
Al contrario della
sfarzosità di “Villa Ortensia”, la tenuta dei La Fuente
-acerrimi nemici in questioni legate al commercio e alla produzione dalla notte
dei tempi- questa appariva meno imponente e sfacciata, ma gridava
dall’alto una magnifica semplicità. La costruzione era in pregiato
cotto chiaro e legno di quercia e dava alla tenuta la tipica aria di campagna
dei grandi signori; vetrate interne con grandi finestre, il portico rialzato
con la staccionata bassa orlata di fiori, il tetto spiovente dalle tegole a
vista e un grande prato dinnanzi dove far sfrenare
urlanti bambini.
Bambini con i capelli scuri e gli occhi verdi.
Rabbrividì e si dette
della stupida per quei pensieri da favola così lontani dalla bruta
realtà.
Non ci sarebbero stati prati,
ne colline per loro e Dio solo era a conoscenza di
cosa sarebbe successo quando la notizia sarebbe giunta agli orecchi del paese.
Doveva riflettere sul da farsi.
Ma non in quel momento, adesso doveva pensare a don
Alfredo e al suo dolore; scosse il capo e si apprestò a salire per la
strada che vi portava in cima, studiando un piccolo discorso di condoglianze da
tenere in sua presenza.
Chissà quanto stava
soffrendo. Il solo immaginarlo la fece stare male.
«Zia?»
Sul grande prato e sull’orlo di
una crisi di nervi, MilagrosBlanco,
sorella della sua adorata e defunta madre, dettava legge su come dovevano
essere disposte le sedute per la funzione funeraria e i fiori
–rigorosamente calle bianche- tutto intorno; non la vedeva dal matrimonio
di suo padre con Elvira, ma era una zia presente e in qualche modo il facoltoso
marito che aveva accalappiato in un paese vicino la città, permetteva loro di avere di tanto in tanto qualche generoso
aiuto economico.
«Morena? Ecco dove ti eri cacciata!» Le
girò intorno, squadrandola da capo a piedi. «Un bel bocconcino
tesoro, proprio come ricordavo.» Le aprì
il cappotto strizzandole un occhio. «E che belleza abbiamo qui sotto, non
devi nasconderla!» Per sua zia essere donna e avere la carrozzeria adatta
era importante quasi quanto avere cervello per un filosofo.
«Zia cosa ci fai qui?»
Chiese sarcastica, richiudendosi il cappotto infastidita.
«Avremmo tempo per parlare di questo, mio amor. Tu cosa ci fai qui? Tuo padre era molto preoccupato, quando
sono passata per casa vostra, dice che ti comporti in maniera strana.» La guardava con fare serio prima di urlare alla
volta del garzone del fornaio perché aveva
allineato male le sedie. «Allora, dicevamo?»
«Papà dice che sono
strana.»
«Ah sì, giusto! Perché lo fai dannare tanto mio amor, non basta che sia sposato a quel’arpia della tua matrigna?» Rise chiassosa e
fu una benedizione per il cuore sentirla ridere; era una donna eccentrica,
fuori dal normale, ma assomigliava incredibilmente a sua madre ed era quanto di
più vicino avesse per ricordarla.
L’abbracciò. «Oh zia, quanto vorrei che tu vivessi qui.»
«Non mi vuoi proprio bene, allora!»
Ricambiò l’abbraccio ridendo ancora, stavolta facendo ridere anche la ragazza. «E’ per Javier che ti
dai tanta pena?!» Si scostò e
lasciò la sensazione di caldo amorevole ad una più amara
freddezza.
Non sapeva se dirle tutto fosse una
buona idea, dall’altro canto moriva dalla voglia di parlarne con
qualcuno, qualcuno che le dicesse che sarebbe andato tutto bene, o che
l’avrebbe aiutata a trovare una soluzione, qualcuno anche solo che le
tenesse la mano, senza dire altro. «Non..solo.»
«Non dovresti. Ma parleremo anche di questo. Allora,
perché sei qui?»
«Non..
dovrei, perché?»
«Oh! Sei petulante proprio come lo era tua
madre! Dopo, discuteremo di molte cose mio amor!» Guardò verso la casa e cambiò
espressione; don Alfredo era uscito sul portico e con le mani in avanti si
teneva saldo alla staccionata. Era una visione tragica, così alto,
così possente e così bello, adombrato dalla tristezza. «Va
a parlagli, è molto scosso pover’uomo.»
La girò, spingendola leggermente in avanti, sospirò e a voce
più bassa sospirò la sua benedizione. «Umetta
le labbra e slaccia il cappotto, signore sembri
proprio una contadina!»
Poi s’allontanò
imprecando ancora verso il garzone che a metà mattinata mollò
tutto e scappò via.
Alle tre era tutto pronto.
Una processione lenta di
persone risalì dalla valle per la collina; c’era tutto il paese
ovviamente, persino i La Fuente a dare l’ultimo saluto
all’angelica donna che era stata FranciscaRoquez.
Il parroco arrancava verso il
prato ubriaco come al solito, la tunica sgualcita e il
vangelo stretto fra le mani paffute; quando Morena passò con la sua
famiglia in rassegna alcuni posti defilati, monsignor Pedro e donna Elvira si
lanciarono uno sguardo carico di promesse.
«Stella va ad aiutare il prete con il leggio, non si tiene in piedi per
amor del cielo.»
Lucio guardò furente
sua moglie. «Non qui. Non ti permetterò
d’essere umiliato a casa del mio padrone.»
Era sempre così, ovunque
comparissero e ovunque c’era anche l’altro, li accompagnavano voci
sulla presunta paternità di Stella attribuita a don Pedro in tempi non sospetti.
Ed Elvira non faceva nulla per metterle a tacere; lunghe erano le ore delle sue confessioni
e solerte era il suo aiuto quando si trattava di dare una mano al parroco e
alla sua chiesa. Una donna devota, certo.
Devota all’arnese di Don Pedro a
quanto pare.
«Sei così patetico.»
E quelle furono le sole parole che
riuscirono a scambiarsi durante tutta la cerimonia; quando la piccola bara di
donna Franciscavenne fatta
calare nella terra, Morena si defilò dal gruppo mettendosi a cercare sua
zia Milagros per conoscere finalmente tutta la
verità su Javier.
La trovò in compagnia di don
Alfredo, con le mani giunte nelle sue, sul retro della tenuta.
Don Alfredo impallidì quando la
vide. «N- non è come pensi, Morena.»
«Non sta a me giudicare i suoi affari, signore.»
Guardò a Milagros con impazienza. «Dobbiamo
andare, Lucio ed Elvira non si tengono più.»
La donna mal celò un sorriso di
scherno. «Questo succede a voler sposare la donna sbagliata.»Si infilò al braccio
della nipote e con ultima occhiata teatrale si rivolse a don Alfredo,
visibilmente scosso. «Pensi bene a quanto le ho
proposto. Mi tratterrò a Fuentesauco giusto il
tempo di risolvere questo.. “affare” con
lei, don Roquez. Spero di avere al più presto
sue buone notizie.»
L’uomo annuì paonazzo in
viso, e ancor più turbato, quando lo sguardo di Morena incrociò
il suo e la vide mimare leggera con le labbra le sue più sincere scuse;
abbassò definitivamente lo sguardo mortificato.
«Cosa ti rende così soddisfatta, si può sapere?»
«Tutto mia cara. Guardati intorno, un giorno questo sarà affar tuo.»
Morena spalancò gli occhi. «Lascerai
lo zio Eduardo per sposare un.. vedovo?»
Milagros rise stridula, accompagnando il gesto con la mano sulle labbra. «Oh
no mia cara, tu sposerai il vedovo
Alfredo HerreroRoquez e la
tenuta di Legno di Quercia e tutto ciò che vi appartiene sarà tuo.»
*
I giorni in accademia passavano in un
susseguirsi di lezioni noiose e altre invece molto più interessanti.
Pensava sempre tanto a lei, ma dopo un’ultima
lettera senza risposta, aveva deciso di comprare un biglietto per Fuentesauco, non appena avesse riscosso il suo salario dal
padrone del banco di fiori; se le cose sarebbero andate
per il verso giusto poteva sperare di tornare da lei entro la fine di Dicembre
e nessuno avrebbe impedito che ciò accadesse.
Sospettava che alla base delle sue
lettere mute ci fosse sua madre, come nel resto delle cose.
Non riusciva a sopportare l’idea
di essere spiato, che la sua posta fosse intercettata o peggio chetutto
ciò che faceva lo fosse, ma doveva tenere duro, presto l’avrebbe
rivista e le parole, il suo cuore, il suo corpo e la sua anima avrebbero
risposto al posto suo.
Eleonor lo stava aspettando in Plaza
de Santa Ana, dolcemente accomodata a uno dei
tavolini delle numerose caffetterie; sorseggiava caffè e fece cenno con
la mano d’avvicinarsi. Era domenica e sarebbero andati a quello
spettacolo che Javier bramava di vedere da più di una settimana.
Morena lo adorerebbe, pensò tristemente
raggiungendo la ragazza.
«Javier perché quel muso
lungo?! Cambiato idea sulla “Celestina?”»
«Pensieri Eleonor,
nostalgia di casa.»
La ragazza sorrise, porgendogli il
cestino con il pane al burro. «Assaggia
questi e dimmi se non sono favolosi! Forse riusciamo a farti dimenticare per un
po’ Fuentesauco, che ne dici?!»
Sapeva cosa stava cercando di fare e l’apprezzò, apprezzò
il suo tatto e i suoi modi generosi, la sua discrezione e il suo sorriso
gentile; se avesse mai avuto una sorella era così che
l’immaginava, esattamente come Eleonor. Dolce,
intelligente, spiritosa.
«Ti prometto che non sarò
laconico per tutto il giorno.» Addentò il
pane e annuì con approvazione, la ragazza alzò le spalle e
chiamò il cameriere per il conto. «Lascia..»
Javier passò qualche moneta al servitore pregandolo di tenere il resto
per sé, prima di passare il braccio adEleonor per aiutarla ad alzarsi. «Sai, mi chiedo
sempre come facciate a tenervi in piedi in quelle gonne così gonfie!»
«Secondo te perché siamo
sempre aggrappate al braccio di qualche cavaliere?»
«Io credevo per tenervi stretta
la sua fortuna.» Le sussurrò
all’orecchio, strizzandole un occhio.
«E non è una fortuna avere un uomo ricco che ti tenga
in piedi?» Sussurrò lei.
«Ottima osservazione. Come sempre.»
Eleonor aumentò la presa e per un attimo i loro sguardi si incrociarono; erano esattamente lo specchio delle parole
appena dette, ma quando Javier si voltò per chiamare il taxi e
lasciò la presa della giovane, tornarono ad essere semplicemente due
ragazzi spensierati, che godevano della reciproca compagnia, in una limpida
domenica a Madrid.
«Oh ragazzi, ho un terribile raffreddore! Andate voi vi prego, non voglio
contagiarvi.»
Bendicta si fece trovare in vestaglia e ammalata nel salone buono del suo
palazzo sulla Gran Via; si era prodigata in infinite scuse e nel giro di dieci
minuti li aveva rispediti in taxi direzione del Teatro Real.
Lorenzo si era fatto trovare ai
giardini attigui di Plaza de
Oriente abbracciato stretto ad una dinoccolata ragazzotta della vecchia
borghesia che poco prima di prendere posto in platea, aveva accusato un malore
e si era fatta riaccompagnare a casa.
«Ma
cos’ha questa città oggi?» Bisbigliò Eleonor fra sé e sé, nell’accomodarsi
in poltrona.
Javier si piegò verso il suo
orecchio sorridendo. «Credo siano in combutta.
Tutti quanti!»
Eleonor spalancò gli occhi, stupefatta della tranquillità di
Javier, si strinse al suo braccio e il ragazzo le
sorrise ancora proseguendo. «Non volevano vedere la Celestina insieme a noi.»
Sospirò delusa dal
fraintendimento; era assolutamente certa che anche lui si fosse accorto delle
attenzioni e delle battutine che i suoi cugini rivolgevano loro, sul fatto che
presto sarebbero diventati una coppia.
A quanto pare Javier non era dello
stesso avviso.
E a quanto pare pensava ad altro. O a
un’altra.
Era determinata nel sapere chi o cosa
tempestasse l’animo del giovane cavaliere,
perché da quando lo aveva visto la prima volta, aveva deciso che era proprio
lui il ragazzo che l’avrebbe tenuta in
piedi.
Gli sorrise enigmatica, volse lo sguardo in sala e attese in silenzio che
le luci calassero, con il cuore colmo di felicità.
Era innamorata di Javier.
Dopo tre atti di Melibea
e Calisto, del loro amore tragi-comico e di altrettante risate e lacrime, Eleonor era in piedi ad applaudire la maestria degli
attori, con il sorriso dipinto in faccia e gli occhi raggianti.
Javier la tirava giù per le
gonne, ma lei si rialzava divertita e applaudiva come non ci fosse un domani.
«E’ stato divertente, non trovi? Mi è piaciuto tantissimo
Javier, promettimi che torneremo spesso!»
Il ragazzo la scortò verso
l’uscita, beandosi degli ultimi scampoli di sole fra le fronde degli
alberi; si sentiva sereno, quel pomeriggio le era stato davvero d’aiuto
per non pensare.
«Vieni, ti compro un dolce. Te lo sei meritato mia
giovane amica.»
La trascinò verso una
pasticceria e le comprò una di quelle paste con la frutta e la crema che
lei adorava tanto e la guardò soddisfatto
mentre la saggiava felice.«Mi
fa bene passare il tempo insieme a te.»
Eleonor addentò il suo ultimo boccone, troppo emozionata per continuare.
Si sedette insieme a
lui su di una panchina del parco d’Oriente e lo fissò.
«E’ questo che fanno gli
amici Javier, ti tirano su il morale.» Sospirò
e proseguì. «E tu sembri averne bisogno, mi querido.»
«Già, ma non voglio rattristarti. Hai un sorriso tanto bello, mi querida.»
Le accarezzò la guancia e quel
gesto la riempì di forza e coraggio. «Sorrido
per te Javier.» Si voltò dalla sua parte guardandolo dritto negli
occhi, senza esitazione. «So che da dove vieni tu
le ragazze probabilmente non dicono certe cose e non sono nemmeno stupida
Javier, so che pensi a qualcosa.. qualcuno
che hai lasciato là, ma
io.. io voglio essere molto più che un’amica per te.» Prese fiato, spostando candidamente le sue mani dal grembo a quelle
di lui. «Conoscendoti sono sicura che non ci hai
mai pensato prima d’ora, ma io sì! E se lo facessi anche
tu, e bene, capiresti che noi due siamo perfetti
insieme. Forse il meglio che possa capitare ad una
persona è proprio sposare il migliore amico, che aspettare il grande
amore.»
«Lei è la mia migliore amica.»
Avrebbe voluto dirle altro, essere
sincero ma delicato come era sempre stata lei nei suoi
confronti, ma aveva ragione anche stavolta, era l’unico che non aveva
capito niente ed era spaventato da questo.
L’aveva ascoltato rapito e ne era
lusingato, ma il viso di Morena aveva bucato ogni parola.
Non poteva amarla, questo avrebbe
voluto dirle, non perché fosse incapace o lei non lo meritasse, ma
perché le avrebbe fatto del male, perché semplicemente era nato
per amare un’altra.
Il suo cuore lo sapeva ed era questo che
voleva.
«E dov’è questa amica?» Eleonor ruppe
il silenzio con il suo incanto fatto di fermezza e calma.
«Eleonor..»
«Voglio capire Javier. Capire se c’è un fantasma fra di noi o devo mettermi il cuore in pace.»
«Partirò fra qualche
giorno.» Sibilò, abbassando poi lo sguardo colpevole.
Lei sorrise, si alzò e posando
il resto della pasta sulla panchina si fermò a guardarlo immobile,
sicura, una maschera di ghiaccio. «Buon viaggio, mi querido.»
La guardò andare via nei suoi
passi sicuri, oltre la fila di alberi, verso la città ormai illuminata
dai lampioni.
Sapeva di doverla seguire per
abbracciarla o confortarla, ma non riusciva a schiodarsi da lì.
La piccola e fiera Eleonor,
che le aveva dichiarato i suoi sentimenti come una
grande donna stava andando via.
D’un tratto, la paura di averle fatto male, lo fece sobbalzare.
Ma lei, puntino lontano, adesso si era messa in corsa.
Spaventato mosse allora dei passi
incerti verso la sua direzione, ma era schizzata in taxi vedendoselo arrancare
dietro.
E lo capì, guardando il suo viso
cupo attraverso i finestrini.
Era troppo tardi.
*
«Io non sposerò mai AlfredoRoquez! Mai!»
Le sembrava che le fosse passato un
carro di bestiame addosso o che peggio, addormentandosi la sera precedente
avesse viaggiato verso un interspazio che sembrava fosse la sua vita, ma non lo
era.
Erano tutti lì, stipati in
quella baracca mai stata così claustrofobica come adesso; suo padre che
aveva imbracciato il fucile pronto al peggio, Elvira fra lo sconcerto della
fortuna che era capitata a quella sciocca e capricciosa figliastra e il
disgusto per essere stata estromessa dalla decisione, Stella eccitata di vedere
la sorella in abito da sposa e Milagros eccitata per
essere stata l’artefice di un idea così
brillante.
Senza tante cerimonie, aveva raccontato
d’esser amica di Francisca fin da quando erano
ragazzine e che ogni tanto a loro insaputa passava per Fuentesauco
per accettarsi della sua salute, aspettando, con enorme tristezza nel cuore
certo ma anche con impazienza dovuta a qualche altra mente scaltra come la sua,
che la povera donna passasse a miglior vita per impalmare il vedovo con la sua
adorata nipote a corto di lignaggio e finanze che le permettessero di avere una
vita dignitosa.
«Non capisco perché ti scaldi tanto. E’ ancora un uomo piacente e
soprattutto la povera Francisca era d’accordo
con me che si risposasse. E anche lui.. non mi
è sembrato così dispiaciuto della scelta.»
«Zia, sei disgustosa! Come hai potuto agire in questo modo, con il corpo
di donna Francisca ancora caldo!»
Morena strinse i pugni ai fianchi, rossa in viso. «Papà dì
qualcosa, non puoi essere d’accordo con questa farsa!»
Lucio guardò la cognata senza
batter ciglio. «Chi mi assicura che non le farà del.. male?» La ferita della virtù violata della
sua amata bambina ancora gli doleva
nel petto, ma voleva esser certo che Morena non pagasse un prezzo troppo alto
per i suoi errori. Avrebbe ucciso pur di non vederla umiliata.
«Ma chi, don Alfredo? Il tuo padrone? E’ placido come un agnellino.. e in più è ignaro di come e quanto tua
figlia se la sia spassata con La Fuente.
Tu non devi pensare a queste cose, penserò
a tutto io. E’ sangue del mio sangue dios mio!Non avrei mai proposto un matrimonio,
se non fossi più che certa che Morena trarrà solo vantaggi.»
«La gente mormora..» Elvira sogghignò arcigna.
«E proprio tu hai coraggio di
dire questo?» Milagros la guardò
disgustata. «Dovresti solo ringraziare la buona anima di mia sorella che
morendo ti ha permesso di andare inmoglie a quest’uomo qui, un
contadino sì e fesso anche, perché chissà tuo padre a chi
ti avrebbe venduta.. dios mio!»
Elvira tuonò furente. «Non
ti permetto di offendermi in casa mia!» Si aggrappò al bavero di
suo marito guardandolo con occhi imploranti. «Mandala
via! Manda via questa strega!»
Alla parola strega gli occhi di Milagrossi illuminarono di
ironia, stava per risponderle se non fosse per Lucio che
l’anticipò piuttosto adirato.
«Elvira è mia moglie adesso..devi portarle rispetto, Milagros.» E proprio mentre Elvira sospirò
soddisfatta Lucio l’allontanò con un
gesto secco dal petto, intimandole con uno sguardo da non ammettere repliche,
di andarsene in cucina, che quello era il suo posto e che lì non sarebbe
stata di nessun aiuto.
«E tu..»
puntò il dito verso la cognata «prendi una sedia e calmati,
abbiamo questioni più urgenti di cui parlare.»
La donna si accomodò,
slacciò due bottoni del vestito e riprese fiato. «Dobbiamo
battere il ferro finché è caldo. Tua figlia deve sposare Roquez, se vuole avere un futuro.»
Si girò verso la nipote che la guardava con disgusto e sprezzo. «So
che può sembrarti abominevole adesso, ma un giorno mi ringrazierai.
Alfredo è un uomo buono, ed è ricco!Se non vuoi farlo per te.. fallo almeno per il tuo..bambino.» ridusse l’ultima parola ad un biascichio.
Morena si era fatta pallida e tremante.
«Come.. lo sai?»
Lucio le guardava sconvolto, Milagros lo ignorò. «Me lo ha
detto il dott. Pena, perché dorassi la pillola a tuo padre. Come se si
potesse porre rimedio a questa cosa.. con un po’
di zucchero! Una lavata di testa e più buonsenso niña mia, ecco cosa ci servirebbe!»
Morena si passò le mani nei
capelli, avvilita. «Non ci posso credere, ti ha
detto tutto! Dov’è il rispetto per me, adesso? Possibile che qui,
tutti debbano decidere al posto mio?»
Sua zia si alzò dalla sedia e
con un colpo secco colpì il tavolo. «Quando hai deciso con la tua testa hai sbagliato tutto! Ora hai conseguenze ben
più gravi da pagare, non puoi essere così egoista nei confronti
di quella creatura!»
Lucio si girò verso la figlia
come una pantera, gli occhi a fessura, il respiro accelerato. «E’ vero quindi? Sei..
incinta?»
Morena annuì silenziosamente ma
con lo sguardo fermo in quello di suo padre.
«Perché?» Sapeva
fosse una domanda retorica, ma il suo cuore gli impose di rispondere.
«Perché lo amo.»
Aspettava di vederselo correre addosso,
schiaffeggiarla anche se non era mai stato un uomo
violento, ma tutto ciò che fece fu guardarla con disprezzo, imbracciare
una bottiglia di rum dalla dispensa ed uscire di casa in assoluto silenzio.
«E’ così che volevi
dorargli la pillola, zia?»
Le lacrime scendevano copiose sulle
guancie e andavano infrangersi fra le labbra, amare.
Non c’era peggiore offesa che
quegli occhi, quel silenzio così carico di delusione.
Aveva il cuore a pezzi.
Aveva ucciso suo padre.
E molto probabilmente la sua stessa
vita.
«Tuo padre ha molti difetti, ma un unico pregio; ti ama più di
qualsiasi cosa. Non è un testone, capirà. E’ di te che mi
preoccupo, invece. Con la tua ostinazione non andrai da nessuna parte. Il
figlio che ti porti dentro è un La Fuente è vero,
ma agli occhi di questo paese sarà solo un altro piccolo bastardo.
E’ questo quello che vuoi? Che tu venga marchiata a vita come una puttana e che tuo figlio
venga chiamato hijo bastardo?»
«No.» Non c’era
esitazione nella sua voce, semplicemente perché sapeva cosa voleva; lei,
Javier e il piccolo bambino dai capelli neri che corre sulle colline. Non
avrebbe accettato nessun compromesso, non ci sarebbe stata nessun’altra
storia, o così o senza. «Non avrò
questo bambino. E non sposerò don Roquez, fine
della storia.»
Adesso le sembrava che tutti la
stessero guardando, come se il suo segreto fosse un po’ di chiunque.
Sapeva fosse suggestione.
E sapeva che fosse perché
probabilmente, era più pallida del solito.
Nessuno sapeva di lei e nessuno avrebbe
saputo più di quanto la sorte non avesse
già raccontato.
Erano passate solo poche ore da quando
aveva scoperto di aspettare un figlio e si trovava nuovamente alle porte di
quel piccolo ambulatorio. Era quasi sera ormai.
L’imbrunire di una giornata
estenuate, lunga e dolorosa. C’era buio fuori e c’era buio dentro di lei.
Stava per aprire quella porta, quando
una piccola mano, le bloccò la sua. Si voltò; c’era una
figura, ed era coperta da uno spesso strato di lana e un cappuccio che le
copriva il volto, conferendole un aspetto spettrale.
Non parlò, non si mosse, la
tenne solo stretta nella sua mano. Ebbe paura, ma non riuscì a gridare.
«Chi sei?»
«Conosco un modo più pulito».
E finalmente si mosse, portandola verso un’altra direzione.
Quella voce non le era nuova. Aveva un
che di mellifluo, ma arcigno. Da brividi.
«Con ago e filo rischi di lasciarti dietro qualcosa. Segui me, so io chi può aiutarti.»
La trascinò verso un carro,
strattonandola per farla salire; si divincolò, brandendo la figura per
un braccio.
«Non vado da nessuna parte se non
mi dici chi sei.»
«Colei che può salvarti la
vita, togliendotene una che non vuoi.»
Allungò la mano invitandola ad accettare, quella esitò ancora. «Conosco la tua storia e mi sta a cuore la sua soluzione. Posso
essere la chiave di tutti i tuoi problemi, ma per questo devi fidarti di me e
seguirmi.»
Sfiorò poco convinta quella mano
e trasalì.
Non aveva nessuno ad aiutarla e per
quanto tetra fosse quella figura, le stava porgendo una soluzione.
Ma non era nemmeno la paura a farla tentennare.
Era l’odore della morte.
Aveva sentito di storie in cui
le protagoniste erano donne capaci di strani “poteri; Fuentesauco
era stato un groviglio di storie incantate, ma tutte risalivano all’epoca
delle streghe, dove gli uomini non sembravano essere nemmeno uomini e dove la
superstizione valesse più della ragione, che aveva pensato spesso
fossero solo favole di madri sfiancate da bambini capricciosi e mai aveva immaginato
fossero vere e così vicine a lei.
Salì e prese
posto al bordo più esterno della carrozza, era una brava
saltatrice, nel caso si fosse presentata la necessità.
La donna incappucciata salì dopo
di lei guadagnando il centro; colei
aveva detto, almeno aveva svelato il suo sesso e questo la rendeva un po’
più sicura, pensò, vedendola schioccare la frusta sul dorso del
baio.
«Adesso cosa succederà?»
Le chiese, dopo che la bestia fu indotta ad un trotto
più rilassato.
«Conosci l’infuso di Dea?»
Negò con il capo, non sapeva di
cosa stesse parlando. «Fin
dall’antichità, donne di qualsiasi genere o razza se ne servono
per eliminare dal proprio corpo l’invasore.
Un metodo molto antico ma allo stesso tempo efficace; ne basta ingerirne una tazza,
per far sì che si torni come prima.»
L’invasore. Come prima.
Un senso d’abbandono e vuoto la percorsero, ma mandò giù tutto dichiarandosi
forte e decisa ad andare avanti.
«L’hai usato sul tuo corpo
per dire questo?»
La figura sogghignò. «Se
sei così determinata come dimostri abbi
fiducia, lo vedrai con i tuoi stessi occhi.»
S’inoltrarono nel bosco,
l’aria s’era fatta umida e rarefatta.
A poche spanne da lì,
“Vecchia Quercia”, riposava con poche luci alle finestre;
tirò su il cappuccio e la figura ghignò ancora. «Sta
giù se ti fa sentire sicura.»
Obbedì, non che fra la coltre di
nebbia e di alberi qualcuno potesse davvero vederle, ma la prudenza non le
sembrava eccessiva, visto come si erano messe le cose. «Come fai a sapere
di me?»
«Ascolto i mormorii, ragazza. Gli alberi parlano, persino il fiume parla. A Fuentesauco non ci sono
segreti che possono essere tenuti nascosti. Oh.. oh..»
Tirò le redini a sé finché il galoppo non scemò e
la carrozza si arrestò. «Da qui
proseguiremo a piedi. Vieni, lascia che ti aiuti.»
«Faccio da sola.»
Era tornata ad
essere guardinga, mentre le piante le frusciavano ai piedi e i rami degli
arbusti le graffiavano la faccia, gettava sempre un’occhiata alle sue
spalle; la donna le camminava avanti spedita e sicura, di tanto in tanto si
voltava per constatare che ci fosse, poi riprendeva senza emettere fiato.
Arrivarono all’imbocco di una
grotta nascosta da cespugli di bacche rosse; non aveva mai visto quelle grotte
prima ad ora e giurò di non averne mai sentito
parlare. La figura rise arcigna, addentrandosi.
«C’è sempre qualcuno
che ha voglia di caccia alla strega.»
Morena sbuffò. «Stai
cercando di intimorirmi?»
«Perché, c’è
qualcosa che ti intimorisce?»
Sembrava una minaccia e anche una
costatazione mentre il suo tono di voce s’era
fatto più aspro e allo stesso tempo accalorato; fu strano, ma le parve
di parlare come si fa di consuetudine con una persona familiare.
«Mi infastidiscono
tutti i tuoi misteri. E no, non credo di avere paura di te.»
«Io ho ascoltato. Tu hai emesso
una sentenza, lei ti offre una
soluzione. Non siamo qui per giocare o spaventare nessuno. E di questo non
faccio alcun mistero.» Si fermò, dopo
aver percorso uno stretto cunicolo che terminava su una scalinata dissestata
formata da rocce. «Da qui ci muoveremo cautamente,lei ci aspetta in basso. Non parlare,
non dire nulla se non interpellata. Fa parlare me e tutto si sistemerà
alla svelta.»
Annuì, aggrappandosi alle
pareti.
Le girava la testa, più in basso
si portavano più mancava aria; si strinse forte nel cappotto respirando
contro il suo stesso petto, anche se costava fatica, poi la donna si
fermò e le fece cenno di non fiatare.
Erano finite in una sottogrotta
più ampia di quella d’entrata e arredata come fosse un rifugio
primitivo.
C’erano utensili appese alle
pareti, un grande fuoco crepitante in un angolo, sul quale si ergeva un
calderone fumante che spargeva nell’aria un tepore piacevole e un refolo
di stufato altrettanto piacevole. Il particolare che non sfuggì al suo
sguardo furono le innumerevoli mensole incastonate nella roccia e gli
altrettanti barattoli di spezie e fluidi strani adagiati su e sui quali
capeggiavano scritte incomprensibili.
Non la vide subito, ma lei era
lì, al centro esatto della stanza, seduta ad un
tavolaccio di legno marcio e scuro.
Aveva i capelli neri striati di bianco,
lunghi fino al pavimento e tenuti insieme da una treccia arruffata.
Guardava dritto davanti a se, uno
sguardo inanimato, spento, freddo.
Si chiese se fosse cieca.
Non disse nulla dapprima, non
fiatò, non si mosse.
Annusò l’aria, borbottò
e infine imprecò.
«Chi mi hai portato?»
«Una donna e ha bisogno di te, madre.»
«Vieni avanti.»
Tuonò con voce roca. Era meno spettrale della figura alle sue spalle,
convenne, movendo pochi passi; da vicino sembrava ancora più vecchia di
quello che aveva immaginato. «Sei giovane.
Quanti anni hai?»
La figura annuì col capo.
«Diciassette, signora.»
Si rifiutava di chiamare quella figura
avvizzita mamma e comunque la figura non
contrastò, anzi l’aiutò a spiegare. «Chiede che tu l’aiuti, madre.
Ha un invasore nella pancia.»
Le sembrò che la vecchia
increspò le labbra dal dolore della notizia.
«Come ti chiami?»
Morena negò con il capo, la
figura sorrise, passando una mano da destra a sinistra e più volte dinnanzi al volto della donna. Quella non emise fiato; era
cieca dunque, non sarebbe stata in grado di rivelare mai chi fosse e comunque
la sua parola non sarebbe valsa a niente confinata nel buco della terra.
«Mi chiamo Morena, signora. So che potete aiutarmi, ve ne prego
illustratemi il modo se ve ne compiace.»
«Quanta fretta..
e che temperamento! Sento il tuo fuoco fino a qui. Prego, vieni più
avanti, ancora un po’.»
Deglutì, avvicinandosi di molto
alla figura inerme; teneva le mani incrociate e nel mezzo un rosario di perle
nere gli imprimeva la pelle, per quanta pressione esercitata. Il volto era
contornato da un velo di pizzo nero, le labbra si sfioravano veloci come se
recitasse una muta e perpetua preghiera; la vide allungare con un guizzo le
mani sulle sue e solo allora emise un gridolino spaventata.
«Non avere paura, adesso. Raccontami di te.»
La figura alle sue spalle parlò
impaziente prima che Morena potesse pronunciarsi.
«Madre la ragazza qui chiede solo
che tu l’aiuti. E al più presto.»
«Lasciaci sole, tu. Hai l’animo tormentato, lo sento e mi distrae.»
«Ma madre..»
La donna girò il capo
esattamente alle sue spalle, nel punto in cui la figura tremava e si agitava;
Morena strinse gli occhi a fessura, cercò di captare il disagio e quella
voce così familiare.. il suo tormento..
«Come desideri, chiamami quando
sei pronta.»
Passò a capo chino urtando la
spalla di Morena; dal cappuccio intravide un ciuffo di capelli castani e al
posto del ghigno, una linea dura di disprezzo sulle labbra.
«Raccontami di te, ora.»
La signora parlò ancora, stavolta più despota.
«Cosa desidera
sapere?»
«Tutto.» Prese il respiro,
si girò il rosario fra le dita. «Devi
comprendere che una volta entrata qui, non puoi più tornare indietro. Le
mie soluzioni sono irreversibili.»
«Capisco ma è ciò
che mi serve.»
«Il tuo fuoco dice altro.»
«Non posso avere questo figlio. Le basta come verità?»
«Il potere scinde dal volere,
ragazza.» Posò il rosario sul tavolo, volgendo lo sguardo fermo
nel suo; le sue pupille vibrarono e s’erano
fatte grandi e nere. Istintivamente, si portò un passo indietro. «Forse
un giorno ti sveglierai volendolo e sarà il potere ad esserti contro. Sei pronta a
tutto questo?»
Strinse forte i pugni, sibilando.
«Io non voglio questo figlio. E
neanche quelli a venire. Può aiutarmi, oppure no?»
La donna mosse le labbra fino a quasi
un sorriso, spostò la treccia ai suoi piedi gettandosela alle spalle e
si alzò; camminò sicura fino a delle mensole dalla
quale prese pizzichi di erbe e una ciotola in cui riversarle; con
energia pestò l’intruglio, che bagnò successivamente con
del liquido bollente e rossastro tolto dal fuoco, cantilenando una nenia
struggente dalle parole incomprensibili.
«Se la tua determinazione
è forte manda giù tutto d’un
fiato, finché ne avrai.» Quando ebbe finito
si voltò camminando per la sua direzione; erano l’una di fronte
all’altra, riusciva a sentire l’olezzo del suo respiro nefasto. I suo occhi erano divenuti spettrali, grandi e di un blu
profondo, quasi velluto, sembrava la vedesse, sembravano occhi vivi, maligni,
accusatori. Si portò ancora un passo indietro, ma sbatté contro
la figura riemersa dalle tenebre e ora dietro di lei, finendo fra le sue
braccia; quella la cinse forte, immobilizzandola.
«L’infuso di Dea è un liquido antico come la notte dei
tempi, le erbe che lo compongono sono capaci di togliere la vita in poco meno
di un respiro. Soffrirai, avvertirai come dei crampi, ma domani mattina ti
sveglierai come se nulla sia successo. Bada bene, tu ora non vuoi figli e a tuo
dire non vuoi averne mai, questo fluido è talmente potente che
può accontentarti veramente. Potrai non essere fertile per i prossimi
anni, addirittura mai più.» Le
passò la boccetta dove aveva filtrato e passato
il tutto e sospirò; il druido sembrava acqua densa, lo afferrò
con mano tremante. La signora sembrò vederla, sospirò ancora e
prima che lei potesse stapparlo, l’ammonì
un ultima volta. «Pensaci bene. Pensaci bene, Morena.»
«Non hai nulla a
cui pensare, Morena. Bevi.. bevi e tutto
passerà. Sarà come se nulla sia accaduto..»
La figura alle sue spalle
sovrastò la voce della signora, suadente e ipnotica. «Bevi..»
«Tutto d’un fiato..» Ripassò lei mentalmente.
«Tutto d’un fiato..» Rispose quella, cantilenando. «L’elleboro
nero ti aiuterà a disfarti di quel hijo bastardo che ti porti dentro. Bevi..»
Hijo bastardo.
«E’ questo quello che vuoi? Che tu vengamarchiata
a vita come una puttana e che tuo figlio venga chiamato hijo
bastardo?»
Le parole di sua zia Milagros la svegliarono.
«Hijo bastardo. Tu non puoi saperlo..»
Nessuno poteva sapere; era a casa sua
quando vennero pronunciate tali parole, ed erano poche
le persone presenti che avrrebbero potuto affermare
questo. A meno che..
La figura cambiò tono di voce e
passò al nervoso, spazientito. «So tutto, mio malgrado. Certe voci non le puoi
sopprimere, anche se ti addolorano. Ma possiamo
dimenticare, basta che tu beva..»
A meno che.. il marcio non fosse infilato in casa sua.
Fra le sue pareti.
Nei suoi letti.
Nel suo cibo.
«No!» Si divincolò
con quanta più forza avesse in corpo.
Era una combutta. Una macchinazione
dedita solo a liberarsi di lei, del suo bambino, del pericolo che esso
rappresentava. La sua vita le sembrava una grossa farsa ogni ora che passava e
si sentiva quanto di più vicino a uno di quei fantocci con i fili
manovrati da un perfetto attore.
Chi poteva essere così spietato,
così ostile e incurante della creatura che portava in grembo?
Quello stesso qualcuno che
l’aveva gettata al fiume sperando che una corrente se la portasse via,
forse.
D’un tratto capì e il suo corpo espresse bene il rifiuto del sapere,
oscillando.
Respirò affannosamente percorsa
dagli spasmi, ma si ordinò di calmarsi; stappò la boccetta con
fermezza e fece per portarsela alle labbra, la signora indietreggiò verso
il fondo della grotta che sembrava volare, lo sguardo nuovamente spento.
La figura alle sue spalle rise con
soddisfazione, fino a quando dalla sua bocca non uscì un grido
lancinante; Morena con uno sguardo mesto e furente si era voltata, e con un
gesto secco e rapido, le aveva gettato riluttante tutto il fluido in viso. Quella
si accasciò sulle sue stesse gambe, tirando la veste fino agli occhi per
pulirsi, gridando ancora e ancora per il bruciore, sempre più forte,
fino a quando anche la signora con la treccia non urlò dal dolore che i
suoi occhi pallidi e morti le facevano vedere.
Era un coro di terrore e desolazione.
«Non avrai mai la vita di mio
figlio!»
L’oltrepassò sputandole addosso, e nell’attimo in cui si
allontanò prendendo a correre si sentì per la prima volta
veramente una madre e pianse, pianse
dalla disperazione, senza fermarsi e in corsa per sfuggire via
dall’inferno.
«Aprite! Aprite, ve ne prego!»
La pensione di donna Flora era quasi
fuori al bosco, su di ansa larga del fiume e godeva di
uno spettacolo da mozzare il fiato, con i suoi fiori variopinti e la vegetazione
tutto intorno; non era stato difficile trovarla, era l’unica in paese e
la proprietaria ne traeva una vera fortuna.
Milagros non poteva che essere lì.
Non si sarebbe mai abbassata a dei
pagliericci e qualche coperta sdrucita.
«Arrivo, arrivo!» Flora aprì
la porta con il fucile imbracciato, quando la vide impallidì. «Oh santo cielo, Morena! Che è successo? Ti sembra questa
l’ora di venire a bussare?»
«Devo vedere mia zia,
immediatamente.»
«Calmati..
ci sono altri clienti, non vorrai svegliarli con le tue grida! Vado a vedere se
è svegl..» Ma
Morena si era fatta spazio sgattaiolandole alle spalle, verso la scala che
conduceva ai piani superiori; dalle varie porte in fila per i
corridoio provenivano i più sinistri e ambigui rumori; scosse il capo,
prendendo a bussare a tutte le porte.
Aprì la gente più
disparata; viaggiatori assonnati, suore e puttane.
Poi aprì Milagros
e trovandosela davanti imprecò.
«Buon Dio, sei tu! E sei qui finalmente!»
La prese a se, portandola dentro. «Che ti
è passato per la testa, scappare così. Ho dovuto sedare tuo padre
con un rilassante per cavalli. Ma guardati, hai una
faccia sconvolta! Che ti è successo?»
I suoi occhi si bagnarono di lacrime; non
c’era altra soluzione, ci aveva pensato bene stavolta.
Non poteva più scappare come
quando era una bambina e i suoi genitori andavano a cercarla sotto al letto.
Non lo era più da un pezzo. Era
una donna e doveva assumersi le sue responsabilità.
«Non posso tornare a casa, zia. Non posso è..
è pericoloso per me, per la mia vita e per quella del mio bambino.»
Prese fiato, asciugandosi gli occhi pronti a nuove lacrime. «Resterò
qui con te fino a quando non sistemeremo le cose e tutto andrà per il
meglio.»
«Sistemare le cose? Morena che è successo?»
«Lo sposerò. Sposerò Alfredo HerreroRoquez.»
Milagross’accasciò sul letto e la
fissò seria. «E il bambino?»
«Il bambino non si tocca.»
La donna annuì con un sorriso
dolce, Morena s’accigliò. «Cos’è quel sorriso? Ti prendi gioco di
me?»
«Tempo fa presi una strada diversa. Non c’è giorno che non mi
penta della mia scelta.» Rispose in punta di
lacrime ma scacciò via il pensiero agitando la mano vicino alla sua
testa e proseguì. «Dovrai fargli credere
che sia suo. E’ un uomo mite è vero, ma non puoi rischiare che
mandi tutto a monte.»
«Quando saremo sposati, e solo allora, adempierò a tutti i miei doveri
coniugali.»
«E’ doveroso che tu lo faccia. La stupida messa in scena del
lenzuolo è una tradizione.»
«Ma studieremo una soluzione
anche per questo, vero?»
Gli occhi di Milagross’accesero di malizia. «Vero.»
Poi si guardarono in profondo silenzio;
sua zia l’aiutò a svestirsi, procurarle
dei vestiti puliti per la notte e organizzò tutta la giornata successiva
assicurandole che sarebbe andato tutto per il meglio.
Le credeva, ma aveva giurato sulla sua
stessa vita che una volta divenuta la signora Soler, Herrero-Roquez ,nessuno avrebbe potuto più decidere del suo destino.
Avrebbe manovrato lei stessa quei fili, anche a discapito della vita degli
altri.
«Chi era il padre di quel
bambino?» Le chiese, prima di spengere la lampada ad
olio.
«Non ha importanza, chiudi gli occhi adesso. E’ stata una lunga
giornata.»
La guardò ancora una volta; i
suoi capelli scuri e mossi, gli occhi verdi come pietre preziose.
Era ancora giovane e bella anche se la
sua vera età era un mistero per tutti.
Cercò di leggere ancora in
quelle rughe lungo il suo viso, nel silenzio della sua anima forte, ma il sonno
ebbe la meglio e le chiuse inesorabilmente gli occhi.
Sognò la signora della grotta.
Javier.
E il suo bambino.
Un bellissimo bambino dalla
pelle scura e gli occhi verdi come pietre preziose.
NDA:
Ho disperatamente bisogno di
sapere se questa storia fa proprio schifo o vale la pena andare avanti.
Aiutatemi voi, cari amici e amiche di efp!
Un abbraccio forte a chi volesse aiutarmi
con un suo parere, a chi mette la storia fra le seguite/preferite/ricordare.
e che grazie a tale artificio riusciamo a
tollerare ilpassato. Gabriel Garcia Marquez
«La mia carrozza, per cortesia.»
Milagros era al bancone, fasciata in sontuose vesti; ticchettava
nervosa le unghie sul legno guardando donna Flora con impazienza e sgarbo. La
donna le aveva promesso un carro coperto, ma il cocchiere tardava ad arrivare.
«Buon Dios!» E mentre donna Flora si
agitava per rivolgerle le ennesime scuse, si rese conto che non
ce l’aveva affatto con lei, ma con la graziosa figura che
ridiscendeva le scale; Morena era perfetta, in un vestito ampio color amarena e
il cappotto di panno dal taglio avvitato color crema.
Sorrise con soddisfazione, da quando la
ragazza si era fatta così alta e aveva messo su le forme giuste aveva più volte accarezzato l’idea di
rinnovarle il guardaroba con gli abiti della sua giovinezza, ancora
perfettamente conservati e che lei non metteva più. Suo marito Eduardo, banchiere
di città, non le faceva mancare nulla quando si trattava di stoffe pregiate e vestiti; era un uomo molto generoso,
più grande di lei di una manciata d’anni e spesso via per lavoro,
quindi il perfetto marito, o almeno perfetto per le sue estrosità e
ambizioni.
Non sarebbe mai stata una di quelle
ricche mogli che lavorano la maglia e si tengono in serbo per il maritino,
assolutamente no, aveva imparato in fretta cosa significava essere donna ed
essere assoggettata dagli uomini, così e con ogni mezzo aveva
accalappiato Eduardo convenendo che sarebbero stati perfetti insieme, due
metà contrastanti ma allo stesso tempo che si compensano. Non aveva
sbagliato con lui e spesso le capitava di vederci giusto, come adesso, mentre
guardava quella giovane donna -oggi con un fuoco nuovo nello sguardo, lo stesso
che aveva lei alla sua età- vedeva chiaro il futuro roseo che le
spettava; moglie di uno dei capisaldi di Fuentesauco,
con ricchezze e beni sconsiderati a disposizione, e per giunta così
affine al suo animo in qualche modo.. selvaggio, aspro
come la terra che entrambi amavano e conoscevano. Don
Alfredo tuttavia era un uomo raffinato e con il tempo e
il denaro, avrebbe raffinato anche la sua giovane sposa, ne era convinta e si
era convinta che formavano già una coppia invidiabile.
«Perdonate,
signora. I vostri cavalli sono arrivati!»
Donna Flora interruppe il flusso dei
suoi pensieri annunciando l’arrivo della carrozza, Milagros
sbuffò senza neanche guardarla in faccia, raggiungendo sua nipote per
offrirle il braccio.
«Cosa ti adira
tanto, zia?» Le chiese sarcastica Morena, facendosi scortare fuori.
«Sappi che hai il diritto di
chiedergli di portarti via da qui quando vorrai!» L’ammonì
quella, prima di entrare nella pomposa carrozza tutta raso e seta. «Sono
passati quindici anni da quando io e tua madre giocavamo a sognare di essere
passeggere di una di queste..» batté
energicamente la mano sul cuscino «..eppure non è cambiato niente.
Questo paese è annichilito dalla sua stessa storia. Dubito che ci
sarà mai progresso a Fuentesauco! E don
Alfredo è un abile commerciante, non capisco come tolleri tutto questo.»
Morena la fissò intensamente.
«Parli proprio come una ricca e arrogante donna di città, lo sai?»
«Lo sono! E non intendo pentirmene.»
«Eppure sembri così
infelice.»
Milagros arrossì. «Che dici sciocchina!» Poi volse lo sguardo
verso il finestrino, alla ricerca di pensieri e parole che sfuggivano via. «Odio aspettare. Mi annoia.»
«Non dovresti annoiarti
così facilmente,tu ci sei salita su una di queste, zia.» Morena
accarezzò il raso bianco della seduta con una punta di amarezza,
pensando a sua madre, morta troppo giovane e in una vita che non rispecchiava i
suoi sogni, a quanto pare.
Milagros non rispose subito, sospirò pesantemente e tamburellò la
mano sulla gamba. «Ci è salita una
volta.»
E non disse più nulla, il viso
si trasformò in una maschera di cera e Morena non ebbe il coraggio di
chiedere oltre.
«Si fermi pure qui, per cortesia.»
Il cocchiere tirò le
redini fino a che i cavalli non rallentarono e si fermarono; la collina di
Legno di Quercia era avvolta in una foschia che la faceva sembrare un miraggio.
«Metta pure la corsa sul mio conto.»
«Oh no signora Blanco, mi permetta di
sdebitarmi per il mio ritardo.»
«Se ci tiene tanto.. faccia pure.»
«Insisto. Tutto a mio carico.»
«Bene! Bando alle ciance adesso, ci aiuti a
ridiscendere.»
«No, aspetta!» Morena la fermò per un braccio. «Prima voglio sapere.»
«Oh cielo! E cosa vuoi sapere?»
Guardò con titubanza a l’uomo fra loro e Milagros
capì, liquidandolo alla svelta. «Sai già
quello che devi dire. Che accetti la sua proposta e sei felice di diventare sua
moglie, che lo ritieni un onore e blablabla..
gli uomini non sono attenti ascoltatori, perderà in fretta il filo del
discorso e andrà avanti senza che ti sbrodoli troppo.»
«Io voglio sapere di Javier,
zia.» Sottolineò lo zia con forza e
quella si abbandonò avvilita allo schienale. «Non posso farlo se
non so.. cosa gli è successo.. perché
non mi ha più cercata. Capisci?»
La donna inspirò e annuì.
«So per certo che la sua famiglia lo ha promesso
alla primogenita del più ricco e influente costruttore di Madrid. Si
sposerà Morena, proprio come farai tu.»
Fu come ricevere una stilettata al
cuore; nulla che non avesse previsto, nei suoi incubi più vividi, ma
sentirli avverarsi era un tipo di dolore tutt’altro che immaginario.
Era come se ingoiasse vetri, se la
stessa aria fosse velenosa e le bruciasse in gola.
Non pianse però, nemmeno una
lacrima. Solo un piccolo rantolio dal fondo delle viscere, un lamento, un
gemito e poi il silenzio, fatto di pensieri densi e corposi; lo immaginava
felice, con una donna dalle fattezze nobili come lo erano le sue, una donna
intelligente, spiritosa e amorevole.
Javier non aveva paura
dell’amore. Non l’aveva mai avuta.
E la donna che gli era
accanto probabilmente era in grado di dargliene a sufficienza, perché si
dimenticasse di lei.
Inspirò profondamente, guardando
dritto davanti a se.
Dunque era questa la fine; si sarebbero
sposati entrambi e sarebbero andati avanti ognuno con
la propria vita, senza chiedersi perché fosse successo proprio a loro,
cosa ne era stato del loro amore e altre domande che non aveva più un
senso porsi, ormai.
*
La stazione era affollata quel tanto da offrigli un diversivo per non pensare all’ansia del
momento.
Lorenzo era piuttosto taciturno, da
quando si era proposto di accompagnarlo, e questo non giovava alla sua testa
piena di pensieri tragici.
La sua paura più grande era
quella di non trovarla, paura piuttosto sciocca dal momento
che non immaginava Morena da nessun’altra parte, all’infuori
di Fuentesauco; l’avrebbe rivista finalmente,
avrebbe potuto parlarle, toccarla, guardarla negli occhi e capire finalmente il
perché di quel silenzio assurdo.
Probabilmente era solo eccessivamente
preoccupato, ma loro due si amavano e avrebbero risolto, ne era certo anche se l’unica certezza di quel momento erano
i mesi passati da quel silenzio e che si sommavano a quattro.
E diciamo che le sue sicurezze si
scardinavano di ora in ora ma.. voleva essere
fiducioso.
Doveva essere fiducioso e non poteva
mostrarsi debole, non adesso che era ad un passo da poterla avere di nuovo.
Avrebbero risolto, sì.
Le avrebbe mostrato il suo cuore e lei
avrebbe capito.
«Questa è la chiamata per
il tuo treno, amico.»
Lorenzo gli passò la valigia,
rimasero a guardarsi per un po’, imbarazzati e a corto di parole fino a
che Javier si addentrò nel treno, prendendo
posto in una carrozza ancora desolata.
L’amico lo seguì dalla
banchina. «Buona fortuna, allora.»
«Mi servirà.»
Lorenzo si girò le mani nella tasche, visibilmente a disagio. «Mi ero
ripromesso di non farti mai un discorso del genere ma..
voglio bene a Leonor e sono sicuro che gliene vuoi
anche tu. Mi auguro che tu possa trovare ciò che cerchi laggiù ma
sappi che qui avrai sempre una famiglia, Javier. Non dimenticarlo.»
Leonor..
non l’aveva più rivista; provò un moto di tristezza ma allo
stesso tempo si sentì il cuore riempito e investito da un affetto sempre
presente, così familiare e benevolo. «Lei come sta?»
«Sai come sono fatte, no?
Piangono un po’ e il giorno dopo sono lì
insieme, tutto un sussurro e risate. Si riprenderà, non pensarci.»
Si, aveva ragione è così che sarebbe andata. Le cose
sarebbero tornate a posto, per tutti.
Il capostazione sfilò lungo
tutta la banchina, intimando ai signori passeggeri di affrettarsi nel
sistemarsi e sigillare bene le porte di chiusura di ogni vagone; quando tutto
fu a posto, agitò le braccia verso il macchinista dando
vita al protocollo d’avviamento. Il treno si mosse impercettibilmente,
Javier guardò ancora una volta a Lorenzo.
«Grazie di tutto. Non lo dimenticherò,
amico mio.» L’altro alzò la mano in segno di saluto,
sorridendo.
Non ci sarebbe voluto molto per andare
in contro al suo destino; in meno di tre ore sarebbe
arrivato a Salamanca e da lì la diligenza, che in un’ora circa lo
avrebbe condotto a Fuentesauco.
Aveva molto tempo a disposizione per
pensare a cosa dire o fare, ma era ancora troppo presto; si arrese al volere
del fato, distendendosi per il tutto il suo peso sulla poltrona di pelle scura,
invecchiata dal tempo, dalle storie dei passeggeri e dal passato.
Per lui c’era ancora un futuro
tutto da scrivere.
Lo avrebbe scritto.
*
La tenuta di don Alfredo era calda e accogliente proprio come ricordava, un ricordo soave
disturbato solo dal momento infelice nel quale vi aveva messo piede, ferita e
dolorante.
C’era ancora donna Francisca e se guardava attentamente in giro, la vedeva
ancora, ovunque, in ogni angolo.
Si sforzava di non pensare a lei, ma le
risultava pressoché impossibile; non riusciva a
togliersi di dosso la sensazione di essere una ladra, un’approfittatrice,
ma bastò pensare al suo bambino, alla madre e ai suoi infusi, alla grotta e alla sua accompagnatrice
malevola, per scacciarevia quella
sensazione in un sol colpo.
La vita del suo bambino era più
forte di qualsiasi superstizione e ne aveva avuto
largamente e sufficientemente prova.
Lui arrivò dal retro della casa,
con passo cadenzato e uno sguardo sicuro.
Portò con se
una nuvola di profumo fresco; aria di campagna, fieno, fiori di campo.
Morena inchinò il capo in segno
di rispetto, poi guardò Milagros.
«Lasciaci soli adesso.»
La donna fu sul punto di obbiettare ma
la fermezza che lesse negli occhi di Morena fu sufficiente ad azzittirla.
Chinò anch’ella il capo. «Vi
aspetto fuori.» E volteggiò verso l’uscita.
«Non credevo di rivedervi tanto
presto.» La sua voce calda sapeva di speranza.
«Don Alfredo..»
Con lentezza, sentiva il nodo delle sue
parole risalirle in gola.
Non sapeva definirsi se più
terrorizzata o elettrizzata; si sentiva viva, piena di qualcosa che la
devastava ma che la faceva sentire incredibilmente forte, pronta, carica. «Potrei
perdermi in infiniti giri di parole per dimostrarle tutta la mia infinita
gratitudine per avermi chiesta in moglie..» sorrise,
sciogliendo la tensione «..in maniera così spontanea..»
stavolta fu il turno di Alfredo di ridere e Morena continuò senza
proteste «ma non è nel mio carattere, compiacere le persone con
certi mezzi. Tuttavia, sono qui e questo può avere un solo significato,
ai vostri occhi.»
Alfredo smise di sorridere, tornando
serio e composto. «Sono davvero un uomo fortunato.»
«Non si prenda gioco di me, la
prego.» Inspirò, avvicinandosi di pochi passi, per guardarlo a
fondo negli occhi; non li aveva mai notati prima d’ora, erano cangianti,
di un castano che annegava in un verde chiarissimo, indefinito. «Non ha bisogno che le racconti la mia storia, il mio
nome basta a presentarmi da sola. Quello che non sa, ma sento doveroso dirle,
è che ero completamente all’oscuro dei piani di Milagros Bianco.»
«Questo è ovvio.»
Disse, tornando a sorridere.
«Mi trova così
ingenua?» Rispose lei piccata, vagamente infastidita da quelle risa.
«Non è lei ad essere ingenua, è sua zia che è così
maledettamente petulante.»
«Sì, sembra proprio essere
una caratteristica dei Blanco, questa.»
«Uhm..Petulante.
Giovane. Irrequieta. Diretta, molto diretta. Vediamo che altro..» Si toccò il lieve accenno di barba sul
mento e invitandola a seguirlo la scortò fin dietro la tenuta, dove si godeva di una bella vista sulle montagne circostanti e
l’aria era sferzante, «..tutto sembrerebbe a mio sfavore.» La
guardò arrossire e farsi piccola in un vestito troppo grande. «Ho perso mia moglie due giorni fa e solo ieri le ho
dato il mio ultimo addio. No Morena, neanche io ho bisogno di stupide
gratitudini e parole vuote, ma so come va il mondo. La vita continua e fra
tutte le vicissitudini i miei affari contano
più di qualsiasi sofferenza; non ho figli, Francisca
se ne è andata ed io che speravo di andarmene prima di lei, devo fare i
conti con questa realtà.» Le cinse le spalle con le sue mani
grandi, passando ad un tono di voce più tenero
e confidenziale. «Tu sei giovane e forte, puoi essere il proseguo di tutto quello che vedi intorno a te. Non ti
chiederò di amarmi come se non avessi mai amato nessun’altro.
So che sarebbe una bugia e questo mi basta, per ora. Ti chiedo solo
d’accettare, perché se ti guardo vedo la
sola cosa che ti fa apparire come la scelta giusta: la tua forza, giovane
Morena.»
Le sembrava la dichiarazione
d’amore più bella che avesse mai sentito.
Se non fosse stato per il matrimonio
combinato e l’assoluta sincerità che don Alfredo le aveva riservato.
Bene, poteva asserire che era andata bene.
Non era innamorato di lei e non
l’avrebbe costretta ad amarlo.
Voleva qualcuno che perpetrasse il buon
nome dei Roquez, e quel qualcuno voleva fosse lei.
Non se lo dissero apertamente, ma quel
giorno sancirono ben più che una promessa di matrimonio; Morena sarebbe
stata il faro nel futuro per Legno di Quercia e Alfredo a sua volta, sarebbe
stato il porto protettore per la creatura che portava in grembo,
paradossalmente proprio colui che avrebbe fatto
sì che i Roquez continuassero ad esistere e
risplendere.
«Dovrà aiutarmi,
la sola forza non può bastare.»
I polsi le tremavano, sentiva il peso
ma anche la soddisfazione per quelle responsabilità, voleva fare bene e
si dichiarò stupita all’idea di avere anche una certa fretta nel
farlo; questo l’avrebbe aiutata a dimenticare chi oggi sembrava
impossibile da dimenticare.
«Certo, ma cominciamo coldarci del tu, ti prego.» Sorrise di un sorriso
sincero sembrando di colpo più giovane. «Ti istruirò
su tutto quello che c’è da sapere, non c’è alcun
dubbio su questo. Ah.. dovremmo rivedere un po’
le tue maniere.. non voglio essere scortese a dir questo, ma non tutti vogliono
sentirsi dire la verità nuda e cruda, specie gli uomini d’affari
con la quale tratteggio! Per il resto, sono sicuro che te la caverai.»
«Tiringrazio, Alfredo. Ai tuoi uomini no,
ma a me piace un po’ di sana verità, questo ti chiedo io, che tu
sia mio amico prima che mio.. amante.»
L’uomo socchiuse gli occhi.
«Odio quella parola.» E la guardò dolce, lasciandole le
spalle ancora cinte fra le sue mani. «Sarai una moglie, soltanto
questo.»
Morena inspirò soddisfatta. «Bene!»
Ed allungò la mano verso la sua.
«Bene!»
Replicò lui, stringendola a sua volta.
Sancirono il patto del loro matrimonio
con una stretta di mano e poi scoppiarono a ridere.
«Alleluja!»Milagros era fuori di sé, quando li vide arrivare. «Stavo
congelando qui fuori!»Poi li guardò
attentamente, sorridevano e i loro visi trasmettevano serenità. Sorrise
ambigua. «Mi sembra di capire che sta per nascere una nuova famiglia,
sbaglio?»
«No, non sbagli.» Don Alfredo
si voltò verso Morena prendendole la mano e depositandovi leggero le
labbra. «Pregate vostro padre di attendermi nel pomeriggio, per il suo
consenso e benedizione.»
La ragazza si mosse incerta. «Mio
padre ha acconsentito alla prima volta che s’è fatto il tuo nome,
caro Alfredo, non credo avrà di che ridire.»
Poi si piegò in cenno di riverenza e quando furono vicini
quel tanto da poter tenere le parole ad un bisbiglio, proseguì.
«Vorrei evitarti questo inutile e imbarazzante passaggio.»
«Non avere paura, mi è
successo di peggio.»
Morena rise tirandosi su; Milagros che attendeva impaziente dalla carrozza, fece
cenno loro di sbrigarsi.
I due si presero
per mano e la raggiunsero.
*
La diligenza incontrò un
ostacolo fra Gomecello e Pedrosillo,
due delle infinite tappe che aveva davanti a se; un gregge poco mansueto aveva
occupato l’intera strada per tutta la sua larghezza e il povero pastore
non riusciva a farsi ascoltare dalle bestiole.
In preda ad un raptus ansioso Javier
era schizzato fuori dal carro, aveva imbracciato il suo soprabito e il borsone,
e si era messo a camminare lungo la statale di terra e fango; era una strada
parecchio frequentata, nonostante i paesi che l’attraversavano
fossero parecchio emarginati rispetto ai grandi comuni a ridosso di Madrid, ma
era anche l’unica via di fuga accettabile e percorribile per quegli
abitanti, che la sfruttavano in lungo e in largo per favorire commerci,
vendite, spostamenti più o meno importanti.
Avrebbe rimediato un passaggio, pensava,
ma dopo una decina di chilometri aveva arrotolato le maniche della camicia fino
ai gomiti, nonostante le temperature dicembrine; impossibile si diceva, la
strada più frequentata di tutto il comune di Zamora, quel giorno
sembrava assomigliare più al deserto dei tartari che alla via per
l’eden.
Si armò di pazienza –e
dovette raschiare fino in fondo all’anima per trovarne ancora- e vista
lunga, cercando di adocchiare una qualche sperduta pensione in cui passare la
notte, dato che era quasi pomeriggio e la situazione non prometteva nulla di
buono.
Fino a quando dalla radura, non
spuntò un giovane dai capelli rossi con un trattore, diretto alla
prossima Villaescusa.
Gli sembrò un miracolo.
Il ragazzo accettò di scortarlo
fino a lì e fu una vera fortuna, avrebbe potuto riposarsi e riprendere
il cammino, dal momento che il paese era
l’ultimo della provincia e molto vicino a Fuentesauco.
Il viaggio fu interessante, non tanto
per la compagnia dal momento che il ragazzo dai
capelli rossi era l’autentica figura del vero contadino spagnolo
–mani grosse e poche parole- piuttosto perché, forse in preda alla
stanchezza e al freddo che mano a mano stava salendo, Javier fu un fiume di
parole e tutto quel gran parlare lo sbloccarono dalle sue paure.
Come se non fossero mai esistite.
Parlò di Morena, di come erano stati amici e di come se ne era innamorato.
Raccontò di sua madre e il padre di lei che gli aveva sì spaccato il labbro, ma
che nessun dolore sarebbe stato pari se lei adesso lo avesse rifiutato.
Parlò di Madrid.
L’incantevole Madrid.
Del suo futuro e che stavolta non
sarebbe tornato senza di lei.
Aveva pensato a una soluzione per
tutto; le avrebbe trovato un appartamento presso la quale
vivere e parlando già con il banchista dei fiori del mercato principale
si era messo d’accordo che poteva farla lavorare lì per i primi
tempi, guadagnando qualche pesetas, che le avrebbero
permesso di pagare una pigione.
E comunque lui ci sarebbe stato ad
aiutarla sempre, come quando erano ragazzini; non poteva dirgli di no.
Era quello il loro futuro.
«E’ questo il nostro futuro.»
Il rosso lo guardò con una vena
malinconica nello sguardo, annuendo e sorridendo allo stesso tempo, poi
indicò il cartello alle porte di Villaescusa e
prima che Javier saltasse giù dal trattore, lo bloccò per un
braccio.
Aveva gli occhi lucidi.
«Buenavida y muchasuerte, Javier.»
«Tambien para ti.»
E saltò giù, senza
voltarsi mai indietro, fino a quando la radura lo risucchiò nella sua
coltre verde.
Vecchia Quercia era desolata.
Provò un misto di frustrazione,
rabbia e anche paura.
Dove erano finiti tutti?
Montò in sella alla sua bicicletta ferma dietro al capanno
delle provviste e pedalò alla volta del fiume.
Sapeva di non trovarla lì, anche
se fra tutti, era il solo posto dove voleva vederla.
Non si separava mai dalla sua
bicicletta, constatò pensando al peggio,
neanche in inverno.
Con il fiato corto e il cuore in gola
fiancheggiò gran parte della riva destra, attraversando amareggiato
l’altro versante non trovandola; le era successo qualcosa, forse?
Si gettò sulla strada
principale, quella che portava in paese, ma presto fu costretto a fermarsi dato
il capannello di persone che si trovò davanti, quasi una barriera umana
protesa sullo spettacolo che lui, alle loro spalle, non riusciva a intravedere;
riconobbe le ghirlande di fiori che le vecchie donne intrecciavano per gli
sposi e sbuffò.
Un matrimonio, dunque, s’allontanò dalla mischia sfilandola per il
lato meno confuso, quando un nome venne chiamato a gran voce. Quel nome.
Allora non vi fu più tempo da
perdere, sgomitò per uscire dal raggio ristretto della calca e s’arrampicò sulle scale di servizio di una casa
alle sue spalle; per poco non perse l’equilibrio, ruzzolando
rovinosamente a terra.
Lei era al centro della folla.
Lei era lì.
«Correte gente!»
«Don Alfredo HerreroRoquez e la sua sposa, Morena Blanco
Soler!»
La gente scalpitava per constatare quanta verità ci fosse nella notizia che
aveva sconvolto un immobile e freddo pomeriggio a Fuentesauco;
di colpo tutto era fuoco, la terra ribolliva, parole, fiumi di parole e
fermento.
Loro erano lì, presto accerchiati dalla folla, quando MilagrosBlanco a gran voce aveva dato l’annuncio, in
perfetto stile contadino mettendosi ad urlare nella piazza principale
finché tutti udissero la buona novella, per recarsi poi insieme al padre
della futura sposa al cospetto dell’uomo disegnato da Dio come pastore,
Don Pedro, per firmare il vincolo che legava le due persone per la vita.
Questo era la forma più pratica
del matrimonio; il festeggiamento, gli sfarzi, erano considerati quasi una cosa
volgare, lontana da cristo e dalla povertà della Chiesa, spesso del
tutto lasciati all’oblio dato anche lo scarso numero di abitanti che
potevano permettersi un vero festeggiamento.
Anche in questo Fuentesauco
era spietatamente spaccata in due, ma conservava quel poco di umanità da
non creare ulteriori occasioni in cui la divisione fra
ricchi e poveri fosse così netta.
Ovviamente il discorso non valeva per
Alfredo HerreroRoquez.
Lui poteva permettersi matrimoni fino alla
fine dei tempi, se il fato avesse voluto e fosse stato tanto ingiusto con le
sue spose, ma a questo ci pensavano le donnine delle locande a luci rosse, che
infilarono nelle tasche del soprabito di Morena amuleti e boccette di
acquasanta, bestemmiando preghiere.
Lei era tutta sorrisi
invece, di circostanza e ben studiati certo, bella come non si era mai fatta
vedere prima e affettuosa nei riguardi dell’uomo che era Alfredo, che la
protesse con il proprio corpo finché nessuno potesse toccarla veramente.
E questa fu la messa in scena per il popolo; qualche giorno dopo,
nell’intimità della loro casa e al cospetto di Dio e solo lui,
Morena e Alfredo vestiti come dovevano essere vestiti due sposi, avrebbero
recitato le loro promesse e si sarebbero uniti in giusto matrimonio.
Sentì le gambe tremare e la
fronte imperlarsi di sudore.
Barcollando si portò lontano
dallo spettacolo sgattaiolando dietro le botteghe, fino a quando non raggiunse
una locanda di indubbio gusto, dove il vino tinto era
annacquato e costava meno della metà.
Prese posto ad una panca defilata, coprendosi il capo con il cappuccio del
soprabito.
Ordinò una caraffa e ancora una.
Le prostitute gli gironzolavano intorno
ma lui le scacciava via senza emettere fiato.
Il tempo passò inesorabile, fra
lo stordimento dell’alcool e il tepore fetido dell’aria intorno,
finché risultò essere abbastanza buio e
abbastanza ubriaco da andarsene.
Camminò a lungo e senza meta,
poi chiuse gli occhi e tutto il dolore sparì.
*
Aprì gli occhi ed era buio sopra
la sua testa.
L’erba umida gli aveva
infradiciato i vestiti, le ossa, l’anima.
Si alzò o almeno provò,
perché tutto intorno il mondo sembrava girare.
Non aveva idea di dove si trovasse e
non aveva idea di ciò che era accaduto dopo che..
.. finché
ricordò.
Il suo sorriso.
I suoi capelli mossi.
Quel vestito troppo sontuoso per piacerle davvero, ma che le cadeva così bene.
E infine lui.
Insieme.
Nel giorno del loro matrimonio.
Non si rese nemmeno conto di star
piangendo, sentiva qualcosa bagnargli le guance ma non se ne preoccupava.
In realtà non gli importava gran
che di nulla.
Si chiedeva perché si fosse
svegliato e se era il caso tornare giù e farsi uccidere dal freddo.
L’idea lo solleticava, ma poi
udì un rumore nella boscaglia retrostante e l’istinto di alzarsi e
scappare fu più forte.
Un dolore lancinante gli bucò le
tempie, guardò attorno alle bottiglie vuote di vino sparse
nell’erba.
Si era preso
una bella sbronza.
Era stanco e si arrese.
Tornò giù e
desiderò non svegliarsi mai più.
«Ragazzo!»
Si sentì scuotere il braccio,
aprì gli occhi.
Era giorno. Ed era ancora vivo.
«Sono sveglio..
sono sveglio!»
C’era una ragazza piegata su di
lui, con i capelli color del grano e due occhi interrogativi.
Ricambiò lo sguardo lamentandosi
e quella scosse il capo.
«Se resti qui
va a finire che qualcuno chiamerà gli interradores, che ti è
successo?»
«Sono morto.»
Quella lo guardò male. «A me non sembra. E comunque, affari tuoi. Adios..»
«Aspetta!» Con un balzo
maldestro si tirò su, dandosi una veloce rassettata generale. «Dove
siamo?»
«Poco fuori Fuentesauco, sulla via per Villaescusa. Non sei di queste parti? Mi sembra di conoscerti.»
Scansò la domanda, ponendone una
nuova. «Quando passa la prossima diligenza?»
«Se vai avanti con quella..» e indicò la bicicletta nera di Morena «..non
riuscirai a prendere nemmeno quella di mezzogiorno.» Poi quasi combattuta
sul restare zitta o parlare, aggiunse in un sol fiato «ti
posso accompagnare io a Villaescusa. Con il mio
carro.»
«Subito?!»
«E’ una domanda?»
«No, volevo dire.. subito!» E rise poco convinto.
«Sei strano..»
aggiunse la ragazza, mettendo fine a qualsiasi forma di parola fra di loro.
Non aveva voglia di parlare.
Non aveva voglia di stare zitto.
Ogni tanto provava a intavolare qualche
discorso, ma subito cambiava idea; gli tornavano in mente i flash della notte
passata, fino a quando non ebbe il quadro completo della situazione e
vomitò fuori dal carro.
Si sentiva scottare il viso e
probabilmente era febbre da freddo e umido.
«Tieni, prendi questa.»
La ragazza lo aveva aiutato a togliersi
il cappotto zuppo e gli aveva posato una vecchia coperta prelevata dal carro
sulle spalle, lui la ringraziò sottovoce e tornarono nel mutismo.
«Dovresti mangiare e riposare.»
Disse lei ad un certo punto, come se stessero
conversando da una vita.
«Non sarei mai dovuto tornare.»
«Questo lo vedo.» Aggiunse
lei quasi dispiaciuta.
«Non dovrei essere qui.»
Insistette Javier.
Non riusciva a capire se stesse
parlando con lei, con se stesso o se farneticasse per via della febbre, ma
decise che era giusto parlargli, così non si sarebbe addormentato
rischiando di schiattare proprio sul suo carro.
«Non manca molto,
cerca di resistere.»
«Tu le somigli.»
«Io? A chi somiglio, scusa?»
«A Leonor. Avrei dovuto sposarla. Lei lo
sapeva.»
«Sì, capisco.»
«Tu credi che io sia pazzo.»
«Io credo che tu stia male, invece. Sei accaldato.»
Javier si toccò la fronte. «Non
voglio restare qui.»
«Non ci resterai allora.»
E si addormentò piangendo,
svegliandosi solo quando quella strana ragazza lo avvertì che era quasi
mezzogiorno.
Lo aveva fatto dormire nel suo carro,
in quella coperta puzzolente mentre lei sbrigava le sue commissioni, per farlo
riposare e affrontare il resto del viaggio perlomeno un po’ in forze. Gli
aveva comprato anche del pane con del formaggio e gli aveva categoricamente
vietato di toccare vino e altri alcolici per almeno due giorni.
Annuì, come se fosse un suo
superiore.
«Come ti chiami?»
«Olivia. Olivia Herrero.»
Un lamento gli risalì dalla
gola. «Auguri per il matrimonio.» E abbandonò la coperta e i
viveri in terra andandosene.
Quella restò a fissarlo andare
via, incollerita e scioccata.
«Mio cugino dovrebbe togliervi il
saluto..» e rise sarcastica, saltando nel carro.
Arrancò verso lo spaccio,
attraversando l’ampia piazza del paese; era domenica, i bambini vestiti a
festa e le donne con i veli di pizzo sul capo, animavano l’aria. Il
grande orologio del municipio segnava le undici e mezza.
«Potrei fare una chiamata?»
«Il telefono è sul retro,
ragazzo.» Rispose l’uomo con i baffi dietro al bancone. «Devi
passare di qua.»
Javier ringraziandolo tirò fuori
dalla tasca qualche moneta, le infilò nella fessura e dopo qualche squillo
si trovò a rispondere ad una calda voce
maschile.
«Lorenzo..»
Fu sul punto di piangere, ma certe cose non dovevano succedere fra maschi.
«Javi! Sei tu?! Non ti sento molto bene..»
Si morse la lingua per resistere,
appoggiando la fronte al muro. «Sì.
Sì sono io.. sto.. sto tornando a Madrid. Puoi.. puoi venire a prendermi?!» Soffiò greve, per
poi ansimare vinto dagli spasmi del pianto.
«Certo. Ci vediamo in stazione.» Lorenzo
non gli dette modo di replicare, attaccò veloce mettendo fine alla
sofferenza; girò le spalle al muro, scivolando in basso e prendendosi il
capo fra le mani pianse come un bambino.
La diligenza era poco affollata e il
percorso fu diretto, senza intoppi stavolta.
Quando arrivò a Salamanca si gettò in stazione, sapeva che mancava
poco per buttarsi tutto alle spalle, ed era esattamente ciò che
desiderava adesso, oltre ad un letto caldo e cibo.
Non mangiava da due giorni e non sapeva
quando gli sarebbe tornato l’appetito.
Pensava ai suoi genitori, adesso.
Lo credevano a Madrid, fieri di quel
ragazzo e di ciò che sarebbe diventato.
Come poteva essere stato tanto stupido?
Come aveva potuto anche solo pensare
che lei sarebbe stata sua per sempre?
Quella ragazza con la quale era cresciuto, quella bambina adesso così incredibilmente
adulta –e sposata!- non esisteva più. Aveva
lasciato il posto a quest’altra donna per lui un’estranea,
un’estranea come tutte le altre.
Morena era morta.
E anche lui.
Tre ore dopo, una sirena
accompagnò l’arrivo del treno in stazione.
Lorenzo era lì, con i vestiti
della domenica e un odore di colonia costosa.
Prese la sua sacca e lo
abbracciò senza dire una parola.
Ecco che gli argini si ruppero e poco
importava se non era una cosa da maschi, pianse ancora e ripetutamente.
Finché Madrid non l’accarezzò con il suo tramonto, al di
là dei vetri dell’auto.
Contemplò quella bellezza in
silenzio, poi si voltò verso l’amico che lo guardava sinceramente
affranto.
«Lei si è sposata.»
Lorenzo rimase immobile, schiuse un
po’ le labbra e sussurrò. «Starai meglio, vedrai.»
«Lo so.» Si girò
nuovamente sulla strada e sussultò «Dove stiamo andando?»
«Hai bisogno di dormire e mangiare Javier, non hai un bell’aspetto,
perciò ho chiesto a Gustavo di portarci a casa mia. Sei mio ospite
stanotte. Niente branda, va bene?»
L’idea di dormire in un comodo
letto bastò a convincerlo da subito. «Grazie.»
«Non ringraziarmi. E’ questo che fanno gli amici.»
Aveva già sentito quella frase,
ed era di Leonor.
Il palazzo in stile liberty sulla Gran
Via fu la seconda cosa familiare della giornata.
Quello e Lorenzo ovviamente, alla quale si aggiunsero poi Clara e Ignazio –i suoi
genitori- e Benedicta con i suoi boccoli lucenti e la
parlantina veloce; e proprio Benedicta lo
subissò di domande, prediche, ma anche abbracci sinceri come solo il suo
carattere verace sapeva dimostrare.
Lo accompagnò nella stanza di
Lorenzo e si prese cura di lui come fosse un cucciolo da salvare.
«La febbre è molto alta,
accidenti a te!» Scaricò il termometro velocemente e gli
poggiò una pezzuola bagnata sulla fronte. «Dormire in aperta
campagna.. spero per te che sia stato illuminante,
almeno!»
«Molto.» Cercò di
restare serio, ma la sua testardaggine lo face sorridere.
«Non morirò sta tranquilla.»
«Ti ucciderei io con queste mani,
se potessi!»
«Le donne non sanno proprio
resistermi..» Soffiò sarcastico, prima di
chiudere gli occhi in segno di resa.
La sentì sospirare e tornare a
controllargli la temperatura diverse ore dopo, quando
sparì e fu buio fuori alle finestre.
Il chiacchiericcio basso dal fondo
della strada lo accompagnarono verso un sonno agitato
e confuso.
Si svegliò l’indomani
mattina molto presto, con Lorenzo che era rientrato in accademia prima
dell’appello; per buona pace comune aveva accettato di passare il congedo
per malattia in casa Navarro anziché alla scuola, come si faceva di
solito, ed ora pentito dal silenzio intorno, guardava
al soffitto in preda alle allucinazioni.
Qualcuno bussò alla porta, con
un fil di voce lo incitò ad entrare.
Una figura femminile vestita di colori
chiari, era sullo stipite e lo stava fissando; il sole fuori alle imposte
batteva sul suo viso facendola sembrare disegnata.
«Ciao Javi..» C’era una sola persona, insieme a Lolerenzo, che lo chiamava così; si sentì
grato per quella familiarità.
«Leonor..» sospirò, tirandosi a sedere. «Come
stai?»
«Bene.» Uscì dal
raggio di luce, avvicinandosi al letto; si sfilò
i guanti posandoli sul settimino accanto al letto posando poi lo sguardo al
vassoio della colazione ancora intatto, con una smorfia di disapprovazione. «Non si può dire lo stesso di te, però.
Non haimangiato
nulla, vuoi che ti aiuti?»
«Per l’amor del cielo, no!»
Rispose sgarbato; lei alzò le mani in segno di resa e sul punto di
rimettersi i guanti. «La cosa sarebbe davvero umiliante.» Corresse
il tiro un po’ forzato, ma bastò a strapparle un piccolo sorriso.
«Non lo racconterò a
nessuno, puoi stare tranquillo.»
Rise gaia e fu felice, era sempre stata
spiritosa ed era un piacere starla a guardare, perché quando rideva creava due fossette sulle guancie che la rendevano
un’eterna bambina.
La cosa che lo sorprendeva di
più era quanto le fosse mancata, quella risata;
la sua ultima immagine di lei era piuttosto sbiadita e orribile. Temeva di
averla spezzata, ma era lì davanti a lui e nel momento del bisogno.
«Sarà il nostro piccolo
segreto..»
Concluse, scostando i capelli su di un
lato; erano di un biondo molto chiaro, leggermente ondulati ad
incorniciarle il volto perfettamente ovale, sulla quale spiccavano incredibili
occhi verdi simili a velluto, molto profondi.
E lo guardavano spesso, come se
volessero leggerlo.
«Va bene! Va bene! Mangerò. Ma non mi imboccherai.»
«Ok..»
Alzò gli occhi al cielo, avvicinando il vassoio per poi guardarlo
impaziente.
«Devo mangiare tutto?»
«Tutto!» E gli sedette
accanto, ridendo. «Esegui gli ordini, soldato!»
«Signorsì signore!»
Javier ubbidì, scoprendosi
affamato; Leonor gli parlava delle novità,
condendo i suoi racconti di verve ed umorismo,
alimentando il suo spirito come lui stava facendo con il suo corpo. In meno di dici minuti il piatto era vuoto e una soddisfatta ragazzina
bionda aveva dato ordine alla cameriera di far sparecchiare.
«Lo sai, mi sono iscritta ad un corso di teatro! Benedicta
dice che ho la giusta impostazione, dice che so essere
davvero melodrammatica a volte. Non riesco a capire se sia un complimento o
meno.»
«E chi lo sa cosa le passa per la
testa..»
«Già. Voglio fare l’attrice Javier, voglio girare il mondo!»
Gli raccontò di averlo capito
dopo lo spettacolo della Celestina che avevano visto
insieme e che quando era tornata a casa la sera e lo aveva comunicato ai suoi
genitori, loro le avevano promesso di diseredarla, se mai avesse provato a fare
sul serio. Ma lei aveva alzato le spalle e con supponenza aveva risposto loro
che ce l’avrebbe fatta con le sue gambe e Javier
guardando quegli occhi che brillavano di ardore le credeva ciecamente.
«Ah proposito di Celestina..»
Leonor si azzittì, guardandolo profondamente.
«No Javi, ti prego. Non ha più
importanza. Ho dimenticato, fallo anche tu.»
«Importa, invece. Non sono stato un buon amico, prima di tutto; non
dovevo permetterti di andare via senza prima raccontarti di me. E’ questo
che fanno gli amici, no?»
Lei sorrise. «Sì.»
«Va bene.» disse, aprendo
le braccia. «Vieni qui. Ho intenzione di farlo
adesso, se vuoi.»
Gli occhi di Leonor
s’illuminarono. «Voglio sapere tutto.» E si stese fra le sue
braccia, con gli occhi al soffitto mentre Javier parlava come se stesse
raccontando una fiaba vecchia di mille anni.
Passarono dai sorrisi alle lacrime, dalle
speranze ai sogni infranti, proprio come se fossero a teatro, da spettatori,
con i personaggi di carne e di ossa che si alternavano sulle scene dando vita a una storia molto triste ma anche molto bella,
senza rendersi conto che chi stava raccontando era proprio il protagonista di
quella storia e che l’aveva scritta con le sue lacrime e il suo sangue. Leonor non osò chiedere più di quanto Javier
non desiderasse raccontargli e alla fine di quel racconto, occhi lucidi dentro occhi persi e lontani, lo baciò; un bacio affettuoso,
tenero, senza alcun infimo tocco di passione o lussuria. Javier aprì gli
occhi e la guardò con dolcezza e un briciolo di disperazione.
«Shh.. non tremare.. non accadrà così mi querido.»Soffiò lei, rauca e
profondamente sensuale. «Una donna può
possedere molte cose e ottenerne molte altre con diversi metodi, ma una cosa
che non può possedere è l’amore. Tragico, non ti pare? Per
fortuna c’è l’amicizia a consolare chi non riesce a
consolarsi. Io sarò al tuo fianco, quando avrai bisogno di me.» Lo baciò su una tempia tirandosi a sedere;
guardò all’orologio sul suo piccolo polso e sospirò.
«Mi dispiace per te, non potevo
sapere.»
«Ti prego, non andartene.»
Protestò con voce infantile,
toccandole il braccio; Leonor gli accarezzò la
guancia, ricambiando lo sguardo e anche se sapeva fosse ingiusto per lui,
provò pena. Per la prima volta, Javier si mostrò ai suoi occhi debole e impaurito e non ebbe più
così tanto timore dei suoi sentimenti, si sentì al suo pari
perché infondo, convenne con una punta di amarezza nell’animo,
dinnanzi alla sofferenza tutti gli uomini e tutte le donne erano uguali; e fu
un attimo, nel realizzare ciò, il mito di Javier Garcia La Fuente
sparì lasciando il posto all’essere molto umano e normale che era.
Si sentì leggera, afferrando i
guanti. «Ce la farai e domani torneremo a ridere insieme, promesso.»
E un giorno forse mi ringrazierai,
pensò, sparendo nella luce che l’aveva condotta lì.
*
Le prime luci del mattino rischiarirono
il suo viso dolcemente addormentato sul cuscino.
Quando aprì gli occhi e non ebbe
come una sensazione di annegamento e frustrazione, guardando le pareti che la
circondavano, si ricordò dove si trovava.
C’era del calore, accanto al suo
corpo; si voltò con delicatezza, guardando all’uomo brizzolato che
riposava beato come un soldato di ritorno da una guerra lunga e spossante. La
loro era stata giocata su un campo di battaglia nettamente
meno tragico e a giudicar dalla piacevole sensazione di torpore che le sue ossa
e la sua carne portavano addosso era stata una guerra.. piacevole.
Guardò ancora a don Alfredo, al
suo viso rilassato, alle braccia nude che uscivano fuori dalle lenzuola
scolpite e possenti e provò rabbia e frustrazione; non era stata una
catastrofe, Alfredo Roquez non era l’abominio
che aveva tormentato le sue notti prima di diventar sua moglie e soprattutto
era in grado di non farle pesare i dubbi che a sua volta nutriva
nei suoi confronti.
Era stato piuttosto chiaro, non l’amava e la stava sposando per salvare Legno di
Quercia.
Eppure.. le
sue labbra scottavano ancora sulla sua pelle, la sentiva bruciare là
dove aveva depositato i suoi baci, amandola nella prima notte da marito e
moglie.
Aveva adempiuto al
suo dovere di donna, presto avrebbe potuto svelare di essere incinta; le girava
la testa, quei piani sembravano fossero più grandi di lei, ma con la
giusta determinazione e coraggio stavano già prendendo forma.
Alfredo sarebbe stato felice.
Lei sarebbe stata al sicuro.
Il suo bambino sarebbe vissuto.
Scosse il capo abbandonando i folli
pensieri da prima notte di nozze e si diresse senza esitazioni al suo cappotto;
Milagros le aveva infilato in una tasca interna della
mistura di fragole e ciliegia che avrebbe potuto usare come prova della
verginità perduta. Sorrise amara, pensando per la prima volta, dopo il
caos di avvenimenti che le era piombato addosso, a Javier; si morse il labbro
con violenza, fino a farlo sanguinare.
Doveva lasciarlo andare, non doveva pensare a lui. Mai più. Era una fonte di guai
e distrazioni che avevano cambiato per sempre il corso della sua vita, non poteva permettergli di rovinare tutto.
«Non farlo.» La voce greve
di Alfredo piombò alle sue spalle.
Arrossì, cercando di nascondere
la boccetta. «Di cosa parli?»
«Di questa.» Glie la sfilò di prepotenza dalle mani, guardandola ferito. «Non
sono stupido.»
Morena si morse il labbro. «E’.. è solo un ricostituente.»
«Morena..»
Le strinse le spalle, costringendola a guardarlo negli occhi. «Non sono
stupido.» Ribadì il concetto, ma non
sembrava essere arrabbiato, dava più l’impressione d’essere
impacciato, come se volesse spiegarsi e non riuscisse a trovare parole adatte. «Tanto
meno cieco.»
«Cieco?» Mormorò
lei, poi allargò gli occhi. «Lo hai capito.»
«Non sono stupido.»
«Oh ti prego..
smettila di dire così. Non penso tu sia stupido.»
Gettò la boccetta in terra che andò rotolando alle spalle
dell’uomo. «La stupida sono io.» Tentò di svicolare ma
le braccia di Alfredo la tennero salda.
«Voglio che tu ti senta in dovere
e diritto di dirmi sempre la verità, Morena.
Pensavo ci fossimo trovati d’accordo su questo. Devi fidarti di me.»
«Fidarmi..
di te?»
«Lo amavi e probabilmente lo ami
ancora, non lo so e non mi interessa saperlo, ma ho
giurato di fronte a Dio che ti proteggerò e avrò cura di te
finché morte non ci separi. Sono disposto a farlo, a qualsiasi prezzo,
ma devi fidarti di me, non voglio essere trattato da mentecatto.»
Mollò la presa e Morena gli
finì sul petto, addolorata da tanta franchezza. «Non
so nemmeno perché lo stavo facendo.Ma so che ti tormenteranno se non vedranno
quello stupido lenzuolo. Sento ancora le risate al di
là della nostra staccionata, quando mio padre sposò
Elvira.. e quella macchia.. sembravano fragole.. la gente gli rideva dietro.
Non si vedevano, alcuni restavano nascosti, ma io le sentivo quelle risa.» Alzò lo sguardo implorante. «Non voglio succeda anche con te. Non lo meriti.»
«Neanche tu.» Si
abbassò a raccogliere la boccetta e la stappò. «Lo
farò io.» Si diresse a grandi passi verso il letto
dove versò il contenuto rossastro in piccole gocce sul lenzuolo;
quando ebbe fatto le tornò accanto, guardandola severo. «Da adesso in poi voglio che tu sia libera da tutto
quello che è stato. La tua vita comincia oggi, insieme a me.» Con voce risoluta chiamò la serva, alla
quale ordinò che il lenzuolo fosse portato via e messo in bella mostra
sulla staccionata, per poi passarle accanto sospirando e andare via.
Non vide nessuno per parecchio tempo.
Poi udì dei passi sulla strada
di ghiaia che conduceva a Legno di Quercia e dei movimenti fortuiti fra i
cespugli dal basso della collina; si rannicchiò sul letto, con le spalle
sulla parete fredda e rimase immobile finché non tornò il sonno e
quei sibili infimi sparirono.
aRicordiamo solo quello che non è mai accaduto.a Carlos RuizZafón
NDA:
Grazie di cuore a
ChiaraColfer95 per la recensione che mi ha lasciato.
Grazie a chi mi segue.
A chi mette la storia in
seguite/preferite/ricordare.
«Per quanto tempo ancora ha intenzione di tenermi sequestrata in questo abito, signor artista?»
Morena guardava divertita
nella direzione di Alfredo, che agonizzate, le chiedeva con lo sguardo di esser
un po’ più cauta; Manuél Lima era
un noto ritrattista talentuoso, che da circa mezzo secolo veniva
incaricato di imprimere su tela, i volti della famiglia Roquez,
come testimonianza d’eternità. Quando Alfredo le aveva raccontato
una ad una la storia di quei visi di giovani donne e
giovani uomini –chi la guardava dal caminetto, chi dai corridoi solitari
di Legno di Quercia- lei aveva sorriso come chi considerava l’arte, quel
tipo di arte, uno spreco inutile di denaro, che serviva a nutrire più
l’ego degli occhi e qualche bocca piena di favole antiche, che un animo
conservatore attaccato alla famiglia; Alfredo l’aveva guardata
dispiaciuto e aveva smesso di parlare, Morena si era data della stupida
contadina –lei che aveva la stirpe dei Soler e dei Blanco
al cimitero con insulse croci di legno senza nemmeno un’effige- e lo
aveva pregato di perdonarla, che avrebbe accettato di posare per lui, se questo
bastava a ridargli il sorriso; Alfredo l’aveva abbracciata e ringraziata,
ma non aveva più parlato per l’intera serata e di notte era venuto
a letto solo dopo che ella si era addormentata.
Poi un giorno, come niente,
l’aveva avvicinata con un bacio e si era scusato.
E Morena sentì che
qualcosa dentro di lei si era mosso. E non era il suo bambino.
«Siete dotate di una bellezza carismatica, signora Roquez. Il vostro viso è radioso, ritrarla è
un piacere.» L’uomo si puntellò i baffi e con
l’altra mano accarezzò con pennellate tenue
la tela prima di fermarsi. «Ma convengo che
restarsene a fissare il vuoto vestita in abiti
nuziali, non è molto divertente. Don Alfredo, voi che dite?»
Morena guardò Alfredo implorante.«Che
avete ragione su tutto.» Soffiò, lo sguardo addolcito, poi
tornò all’uomo ed assunse il piglio
deciso di sempre. «Vi prego di farvi aiutare dalle nostre cameriere per
riordinare e passate dal mio studio per i compensi della giornata.»
Manuél abbassò il capo ringraziandolo, Morena sgattaiolò verso
suo marito e le loro stanze.
«Tutto ciò che mia moglie desidera.» Rimasti soli Alfredo la strinse dolcemente a se posando le
labbra alle sue.
«Non farmi indossare più questo abito, ti prego.»
L’uomo sospirò e poi
sorrise. «Dovresti recarti in paese e farlo
avere a don Pedro. Per le meno fortunate.»
Gli occhi di Morena brillarono
orgogliosi. «Tutto ciò che mio marito
desidera.»
Più tardi, come di consueto, Milagros era passata a trovarla.
Contava di vederla sparire non appena
Alfredo le avrebbe infilato l’anello al dito, ed
invece era solida in quel di Fuentesauco non intenzionata
a far valigie fino a quando la nipote non si sarebbe decisa a dirgli del
bambino.
«Non puoi far passare altro tempo niñamia. Stai ingrassando.»
Morena strinse il labbro in una smorfia
e si controllò la pancia alla specchio;
sospirò, stava ingrassando.
Non che fosse mai stata magra, ma il
piccolo rigonfiamento sul suo addome rivelava il suo dolce segreto.
«Vorrei trovare il momento
giusto, ecco tutto.»
Sua zia rise, guardandola maliziosa. «Mi parli di momento giusto? Passate tutto il vostro
tempo chiusi in casa. E so per certo che non hai ancora visitato le terre di
tuo marito. Errore imperdonabile mia cara!» Era
passata in un secondo da zia complice a zia comandante, la ragazza
sbuffò agitando nervosamente il capo. «Dal rossore delle tue
guance devo dedurre che erano solo voci quelle sulla presunta impotenza di tuo
marito, ne sono felice niñama.. non puoi sottrarti agli altri tuoi doveri
di moglie! Devi farti vedere più spesso in giro, devi camminare due- tre
centimetri dal suolo, proprio come ti spetta di diritto! Se te ne stai
rintanata qui, darai adito solo ad altre chiacchiere.»
Morena s’adirò.
«Zia sta zitta! E smettila di ficcare il tuo
impertinente muso negli affari miei e di mio marito!»
Si vestì tutta trafelata, intenzionata a buttarla fuori dalla tenuta a
calci nel sedere, ma spossata si appoggiò al letto e strinse forte i
pugni sulle ginocchia. «Credevo che io e Alfredo
fossimo fuori dai pettegolezzi.»
Milagros colpita dall’animo affranto della nipote, le andò vicino,
stringendole la mano.
«Non devi preoccuparti,
ogni cosa è andata per il verso giusto.» Sapeva a cosa si
riferiva; nessuno aveva parlato della ridicola messa in scena del lenzuolo.
Morena arrossì di nuovo, alzando gli occhi un po’ meno feriti. «Ma
devi essere sempre un passo avanti a quella sporca gente. Sposando Alfredo hai
sposato anche ciò che lui rappresenta, non dimenticarlo.» Le scostò i capelli dalle spalle, adagiandoli
sulla schiena. «Quell’ uomo ti adora,
farebbe qualsiasi cosa per te e tu puoi farlo felice davvero con poco.»
Sapeva che era vero.
Alfredo era un uomo semplice nonostante
i lussi dal quale era circondato, e le stava dando
giorno dopo giorno, dimostrazioni che andavano ben oltre l’atto pratico
che avevano sancito il giorno del loro matrimonio; era gentile, affettuoso,
premuroso.. e il suo ardore fisico e intellettuale pareva gridare amore da ogni
poro.
Cosa poteva dargli in cambio?
Amore? Non era sicura di poter amare
ancora. Non dopo Javier.
Il pensiero la terrorizzava, sebbene si
lasciasse condurre con curiosità e partecipazione fra le lenzuola, non
poteva definirsi innamorata. Era fermamente convinta che una cosa potesse
prescindere dall’altra.
E le stava bene, il suo uomo non
avrebbe mai potuta accusarla di poco interesse.
Ma oltre questo cosa
aveva portato nel loro rapporto?
Oltre al figlio che portava in grembo
–frutto fra l’altro dell’amore e della passione con un altro
uomo- e del quale lui era ignaro dell’esistenza, non aveva aggiunto molto
altro.
Non era stata molto attenta alle esigenze
di Alfredo che non implicassero solamente la sua soddisfazione personale, e non
aveva mai curato l’aspetto di moglie di potente uomo d’affari; si
era tenuta nel bozzolo protettivo, vivendo una perenne luna di miele e questo
adesso la faceva rattristare terribilmente.
Con molta probabilità anche suo
marito stava soffrendo, non le diceva nulla e conservava quel suo aspetto un
po’ burbero e scostante, ma aveva imparato a conoscerlo.
Capiva i suoi silenzi, certi silenzi.
E voleva riempirli tutti.
Se non con amore, con parole che
potessero spiegarlo per lei.
«Va bene. Cominceremo con l’andare da Don Pedro.»
«Don Pedro?» Milagros la guardò perplessa, Morena indicò
il suo abito nuziale.
«Tranquilla, per espiare i tuoi
peccati servirebbe ben altro..» La ragazza rise,
mentre si aiutava con mani e piedi ad avvolgere la nuvola di tulle dell’abito
nel proprio portabiti, cercando di restare seria. «I tuoi informatori ti
avranno certo detto che Alfredo ha commesso a Lima un ritratto di me vestita
come nel giorno delle mie nozze; beh, dal momento che
lo detesto ha acconsentito di regalarlo alla parrocchia.»
«Peccato perché è
proprio un bell’abito.»
«Lo vorresti per te? Non parli mai dello zio Eduardo.»
«Tuo zio è un uomo molto
impegnato, non mi rimane molto di lui, ma è sempre nel mio cuore.»
Gli occhi sfuggenti non passarono
inosservati, mentre parlava e aspettava seduta sul letto; Morena chiuse il
portabiti e lo fece caricare sulla carrozza, si portò al suo fianco
guardandola attenta. «Zia, perché non ti trasferisci qui?»
«Tu mi vuoi morta niña!» E scacciò via i
pensieri ridendo ed ergendosi come una sentinella.
Morena non schiodò lo sguardo
dal suo. «Un giorno mi dirai perché odi tanto Fuentesauco?»
Milagros emise un fiato anelante. «Un giorno,
forse. Ma non oggi. Oggi è il tuo giorno,
andiamo!»
I segreti restarono a volteggiare nella
stanza.
Mischiandosi nella confusione di
carrozze e cavalli, si rese conto del lungo periodo di tempo
che era passato dall’ultima volta che era scesa in paese. La neve era
attecchita, la terra brulla era coperta da un sottile manto simile a una
crosta, non ne era più scesa e ora tutto era coperto di un candido
bianco.
Era passato un mese.
Ed Alfredo, quasi a leggerle i pensieri nella mente, l’aveva aiutata
a nel tenersi al sicuro, proteggendola dai fantasmi del passato e del presente;
erano tutti lì, stipati chi nelle locande, chi nei porticati delle loro
case, chi riverso in strada.
I bambini giocavano a fare chiasso e
gli animali –galline e cani che a volte si comportavano allo stesso modo- si mischiavano alla vita delle persone come una
normale consuetudine.
Era giorno di mercato.
I banchi sfilavano uno ad uno sull’unica via principale, fulcro
dell’intero paese, come il tronco di un albero dal quale si sviluppavano
stradine strette come rami; dalle montagne, Fuentesauco,
assumeva le sembianze di un piccolo abete che terminava in cima con la grande
foresta di querce e il Rio Cochino, il fiume sporco, che le girava intorno.
I Portos furono i primi ad individuarla; il loro bambino, Milo, le si
avvicinò porgendole un cartoccio di uova, che la madre indicò
come piccolo regalo per il matrimonio. Sorrise scuotendo il capo.
«Devi tenerle per lui. Fa come se le avessi accettate.»
Quella piegò il capo in segno di
rispetto ma Milagros tuttavia scansò malamente
il marmocchio dalla loro traiettoria.
«Ci mancano le uova a Legno di
Quercia.. ecco, questa è una delle cose che non
mi piace di Fuentesauco; le persone.»
Morena lasciò sul banco della
frutta alcune arance e la guardò maliziosa. «Non
ti ho chiesto chi. Ti ho chiesto perché.»
Camminando si imbatterono
in saltimbanchi, prestigiatori e nel chiasso si persero completamente di vista,
almeno fino a quando Morena s’imbatté in Elvira e Guadalupe,
strette in un fitto chiacchiericcio a ridosso di un banco di tessuti e Milagros spuntata dal nulla dall’altra direzione;
rimase senza fiato.
Sapeva di poter fare
qualche incontro poco felice, ma non si aspettava di certo la sua “adorabile”
matrigna a braccetto con la sua “adorabile” e mancata suocera.
Sentì brividi d’orrore.
Milagros la fissò totalmente immobile, facendo cadere di tanto in tanto
lo sguardo astioso sulle due.
Elvira fu la prima a parlare. «Allora è vero che sei viva.»
Milagros si mosse, Morena la fermò con lo sguardo.
Rovente. «Che si sappia.» Si toccò la
pancia, un gesto curato, ponderato; entrambe ci fecero caso, una più
dell’altra, cerea in viso. «Nonostante
alcuni sforzi per togliermi di mezzo, io sono ancora qui. E intendo restarci.»
«E’ risaputo.. i Soler cadono sempre in
piedi.» Berciò Guadalupe, fra le labbra viola.
Morena la guardò come se volesse
annientarla e si avvicinò con fermezza, abbastanza vicino
però da farsi udire da entrambe. «Voi non lo dimenticate. Mai.» Le sorpassò agile e
infilandosi al braccio di Milagros la trascinò
via con se.
«Non mi hai lasciato dire una
parola.» La donna riemerse dallo shock in grande stile.
«Volevo una conferma. Le tue parole mi avrebbero solo confusa.»
«Quale conferma?»
Morena si fermò, tirandola a se.
«Adesso è il mio turno di fare domande.
Elvira e mio padre erano i soli, insieme a te, a
sapere del bambino. Uno di voi ha parlato.»
Milagross’adirò talmente tanto da farsi
gonfiare le vene del collo. «Non penserai che sia stata io!»
«Tu no.» La incalzò
l’altra, leccandosi le labbra. «E neanche
papà arriverebbe a tanto. Ma Elvira sì, sebbene per me sia una
novità quella di vederla leccare le scarpe di un La Fuente.»
«Non ti seguo.»
La guardò mortalmente cupa. «Era Guadalupe quella notte, nella grotta. Elvira deve
averle detto che il bambino è di Javier. Il suo sguardo d’odio era
eloquente.» Si strinse nelle spalle come se il
ricordo di quell’inferno potesse ancora in qualche modo toccarla.
Seguì un lungo silenzio, Milagros vagava con gli occhi evitando platealmente di
guardare nei suoi. «E qualcosa mi dice che tu non sei
affatto sorpresa da questo.»
«E come posso esserlo. Quella donna è un mostro.»
«Che tu sembri conoscere bene. E anche Francisca.
Lei mi disse la stessa identica cosa.» Sospirò
esasperata. «Adesso mi racconterai tutto zia, o
continuerò questa corsa da
sola. Sono stanca di bugie e sotterfugi.»
La donna piegò il capo contro il
colletto del suo soprabito, quasi a volersi proteggere dai segreti che il suo
animo e gli occhi tempestosi raccontavano senza parole.
Guardò in basso e fu consapevole
di non poter più tacere alcune verità.
Che prima o poiqualcosa sarebbe venuto a galla.
Che era ancora in tempo per decidere cosa.
«Come reagiresti se ti dicessi
che un tempo io, Guadalupe e Franciscaeravamo amiche?»
*
«Bueno! Esta chica tiene capacidad!»
Benedicta era entusiasta.
Quella sera, in uno dei più
controversi teatri di Madrid, L’Eslava, andava
in scena Leonor con un operetta
melodrammatica che tanto le si addiceva; a neanche due mesi dall’inzio del corso, il suo maestro l’aveva fatta
debuttare con la piccola compagnia da lui messa in scena.
Già se l’immaginava
calcare i palcoscenici maggiori di tutta la Spagna e perché no, di tutto il mondo.
Quando erano ragazzine, la timida e
dolce Leonor, dava il massimo dell’impegno nel
recitare le poesie del Natale intorno al tavolo imbandito e ai parenti
entusiasti, ed era particolarmente brava, dotata di talento straordinario per
essere solo una bambina ancora in età prescolastica –inventava lei
le composizioni ed era in grado di commuovere anche i più irriducibili
cuori di ghiaccio in famiglia- ma non pensava fino a tal punto da definirla
attrice.
Invece lo era e lei ne era
felice.
La cugina di un’attrice
famosa, chi lo avrebbe mai detto!
«La stai coprendo di ridicolo con queste urla!» Berciò Lorenzo,
guardandosi attorno in imbarazzo. «E anche noi!»
Benedicta gli mollò un buffetto sulla testa schernendolo.
«Rilassati, sei ancora tu el mas guaydel gruppo!»
«Certo che sono il figo del gruppo!» Sottolineò Lorenzo,
sgomitando nella direzione di Javier. «Diglielo anche tu che è
così Javi!» Javier non rispose, impegnato a tener incollato lo sguardo sul palco; non
riusciva a togliere gli occhi di dosso ad Eleonor, al
suo sorriso stanco ma felice, alla carica emotiva che gli aveva procurato
vederla recitare, alla sferzante energia che ella emanava tutto intorno.
Era la prima volta che si trovavano
riuniti per un suo spettacolo.
Ogni tanto Leonor
improvvisava degli spettacolini quando si vedevano al parco, o durante i pranzi
della domenica ma niente di paragonabile che vederla lì, piccola eppure
forte come una roccia, con il trucco di scena, agli abiti adattati alla
commedia e il suo interagire con un pubblico che allargasse il campo a
più persone.
Era davvero preparata.
E non era vero, come le aveva detto la
sera antecedente in stato d’ansia, che era ancora modesta.
Disponeva del talento innato di chi ha trovato una vocazione e sa cosa sta facendo.
L’ammirava.
«Javi!»
Qualcuno gli stava dolorosamente uccidendo una spalla, a forza di colpi; si
girò, Lorenzo lo guardava perplesso e Bendicta con sopracciglio alzato lo fissava. «Javi sei fra noi?»
«Non è stata grandiosa?»
Chiese come a volersi giustificare, Benedicta
allargò il sorriso con aria soddisfatta e Lorenzo calò il braccio
in segno di arresa. «Che facciamo, la raggiungiamo dietro
le quinte?»
La trovarono in uno di quei camerini a
tutto tondo, dove grucce di vestiti, attori seminudi e specchi quadrati con
grandi lampadine a fare luce si alternavano; lei era in prima fila, seduta su
una poltrona circondata da fasci di rose rosse con un tizio intorno che
stringeva la mano, coprendola di complimenti.
Quando li vide sorrise raggiante e il
tizio si dileguò all’istante.
«Allora..»
si alzò in piedi per stringerli tutti. «Come sono stata?»
«Sarai la nuova Carmen Sevilla, ma che dico.. la nuova
Ava Gardner!» Trillò Benedicta,
perdendosi nei suoi capelli e in un abbraccio tanto forte da farla sussultare.
«Javier non riusciva a toglierti gli occhi di dosso.»Soffiò infine per poi
perdersi nella sua tipica risata chiassosa.
Leonor guardò immediatamente verso Javier; non era arrossito e non
aveva nemmeno battuto ciglio. «Ah proposito di Carmen Sevilla,
noi due Javier dobbiamo assolutamente andare a vedere il suo prossimo
film!» Aprì le braccia per accoglierlo e il ragazzo sorrise
muovendo passi nella sua direzione.
«Credo sia qualcosa con Granata
sullo sfondo.» Asserì lui, piegandosi per
abbracciarla. «Sei stata più che brava.»
«Sì credo ci sia Granata. E grazie amico mio.»
Lorenzo sbuffò, tagliando di
netto la conversazione. «Come siete noiosi voi
due! Qui c’è da festeggiare la mia cugina preferita, non perdersi
in chiacchiere!»
Benedicta batté le mani, saltando sul posto eccitata. «Festeggiamo,
sì!»
«Potremmo andare al Club Allard, che ne dite?» Rafforzò Lorenzo,
già pregustando il sapore dei churrossalati.
«Oh no!» Disse Leonor poggiandosi
il palmo della mano sulla fronte. «Ho promesso al maestro che sarei
stata dei loro stasera. Vuole presentarmi José Hierro,
vi rendete conto?! Andate voi ragazzi, non voglio
rovinarvi la cena.»
«Perfetto, andiamo
ragazzi!»
Benedicta incenerì con lo sguardo il frettoloso Lorenzo. «José
Hierro.. il poeta?»
Leonor annuì allegra. «Che fortuna che
hai! Dicono sia un uomo davvero affascinante!»Benedicta si mosse impacciata verso il suo orecchio. «Non è che possiamo raggiungerti dopo cena? Hierro.. e quando mi ricapita
più!»
«I ragazzi che dicono?»
Lorenzo sbuffo più per la fame,
Javier non si mosse anche se nei suoi occhi baluginava
una strana luce.
«Accettano!»
Sentenziò Benedicta prendendoli sottobraccio
entrambi; schioccò un bacio sulla guancia della cugina e dopo essersi
annotata mentalmente il nome del locale la
salutò tirandosi dietro i due poveretti.
Il club Allard
si confermò superlativo e costoso come sempre; la cena, piuttosto lunga
e ricca di portate soprattutto a carico dell’affamato Lorenzo, fu un
tripudio di ottima carne, churros come stuzzichini e del vino rosso accompagnato dalla
vellutata alle mandorle e zafferano di Benedicta e al
gazpacho di Javier.
I tre ragazzi chiacchierarono
animatamente e al momento del conto alzarono in alto i calici per Leonor, infilandosi nel primo taxi in direzione del Lavapiés, il quartiere multi
culturale e culla degli artisti di città.
Javier era piuttosto silenzioso -per
lui il vino era una specie di eccitante con effetto
inverso- mentre Lorenzo, passata la fame, era sulla modalità
“troppe parole”; Benedicta lo osservava
parlare e parlare alzando ogni tanto gli occhi al cielo e complice lo sguardo
appuntito di Javier.
Tirava una strana aria.
«Chissà se è
così bello come dicono..» la ragazza
interruppe il flusso di negatività parlando più con se stessa che
con i due ancora incentrati nei loro pensieri. «Lo
sapevate che è stato un grande attivista politico? Si dice che nelle
prigioni di Santander ancora ricordino le sue poesie
e i trattati politici.»
«Un galeotto.» Lorenzo
taglio corto i sogni della sorella. «Proprio quello che ci vuole per
nostra cugina.»
«Non è un galeotto! E’ un uomo che corre dei rischi per
seguire i propri ideali.. quindi sì, proprio la
persona giusta per Leonor; un uomo passionale e appassionato,
stravagante, intellettuale. Perfetto, direi.»
«Un uomo che si
è opposto al regime franchista non è un eroe, dopotutto, Benedicta.»
Javier riemerse dall’oblio dell’alcool proferendo ironico. «Guardalo oggi. Lecca culo di quegli stessi che
lo hanno messo dietro le sbarre.»
«Se lo tengono stretto, ti dico. Ha una potente voce europea ed è
insindacabilmente un uomo affascinante, per questo.»
«Non posso asserire se tu abbia ragione o meno..abbiamo gusti differenti.»E stemperò la tensione
sorridendo; Benedicta lo rimproverò con una linguaccia,
prima di battere due colpetti rapidi sul sedile guidatore intimando
all’autista di fermarsi.
«Che ti dicevo?» Quando le
porte dello stabile nel barrioMaravilla
si aprirono, e le servette con il camice bianco e la
pelle color ebano li raggiunsero, Javier tuonò in un grossa risata alla
volta di Benedicta. «Decisamente
un leccapiedi. Altro che eroe.» Scoccò un occhiata verso Lorenzo –che accennava dileguarsi
all’inseguimento di una mora in pelliccia- ed arreso al destino della
serata, si portò nella sala attigua da dove si levavano un brusio vivace
e un accenno di musica.
Il salone era gremito di persone;
c’era tutta la mondanità di Madrid, sparsa in abiti eccentrici,
con grossi sigari alla mano e innumerevoli calici di quello che aveva
l’aspetto di essere costosissimo champagne della vicina Francia.
Il colpo d’occhio dei tavoli da
gioco era esilarante; da lì si alzavano cori e sproloqui degni di scaricatori
di porto e le peseta volavano e si ammonticchiavano
sui tavoli come foglie in autunno.
Le donne erano finemente vestite,
ornate di stole di ermellino sui lunghi abiti pesanti dato le temperature
rigide dell’inverno appena cominciato, e se ne stavano sedute composte in
piccoli gruppi a conversare come se il mondo non esistesse e il tempo si fosse
fermato.
Leonor era in disparte e sorrideva a un tizio dal viso squadrato e un accenno
di baffi sulle labbra sottili; intorno a loro riconobbe i volti dei più
noti intellettuali della “Generazione del cinquanta”, un movimento
d’artisti che si erano fregiati di tale nome all’inizio del nuovo
anno, come marchio di riconoscimento in quanto nati
tutti a cavallo fra gli anni venti e trenta e tenutari di successo
nell’anno corrente, il cinquanta appunto.
Sembrava concentrata sulle parole
dell’uomo sedutole di fronte, una macchia di colore in un fiume di volti
tutti uguali. Afferrò un calice di champagne da uno dei vassoi e lo
ingollò d’un fiato.
Si sentiva strano.
«Ah quello sì che è
un bel bocconcino.»
Si voltò nella direzione della
voce e per poco impallidì. «Ma
sappi che competere con quel bastardo di Hierro
sarà molto dura. Le donne gli cadono ai piedi come mosche.» Manuel Caballero in
persona, lo scrittore emergente più promettente del nuovo millennio,
aveva appena giocato d’ironia insieme a lui.
Restò a fissarlo a bocca aperta
per un po’, almeno fino a quando quello, scuotendo il capo, gli aveva
passato un flute di bollicine dorate. «Brindo alla vostra.»
Riuscì ad emettere in un sol fiato, fra lo
sconcerto e l’eccitato.
Quello ridendo, fece collidere i due calici
rumorosamente. «Ma allora ce l’avete la
lingua. E siete anche un buon bevitore. Cameriere un altro giro!» Javier ingollò il secondo d’un fiato,
scuotendo il capo nel momento in cui l’anidride carbonica gli
pizzicò le narici.
«E ce l’avete
un nome ragazzo?»
«Javier Garcia La Fuente, maestro.»
«Maestro? Non mi hanno mai chiamato così.»
Rise ancora, battendogli dei colpi precisi sul braccio. «Suona
stramaledettamente bene però! Mi siete
simpatico Javier, diamoci del tu.» Lo accompagnò verso il tavolo dove se ne stava Leonor, ma
prima di arrivare si fermò.
«Avet..hai travisato Manuel. Conosco già quella ragazza.»
«Che gran fortuna. Ma io no!» E lo
incitò ad avvicinarsi con grandi pacche dietro la schiena.
«Javi!»
Leonor scese dalla sedia e gli circondò il
petto in un abbraccio. «Ti presento i miei amici, AngélGonzàlez,Rafael Guillen
e lui..» si girò guardando l’uomo con i baffi con aria
adorante. «E’ Josè Hierro.»
L’uomo sorrise all’angolo
della bocca, squadrandolo dall’alto al basso; Manuel lo guardò perplesso,
poi con la sua voce da baritono ruppe l’imbarazzante silenzio.
«Javier non mi hai detto cosa
stai scrivendo.»
«Oh, ma io non sono uno
scrittore.» Disse, trafiggendo con lo sguardo quello attento e velenoso
di Hierro. «Sono un soldato della patria a cui piacciono le buone letture come la vostra,
Manuel.»
L’uomo emise un gemito di stucco.
«Ora capisco l’amore per la bottiglia!» E rise sedendosi
definitivamente accanto ad Hierro che guardava a
Javier con crescente e rinnovato disprezzo; Manuel lo redarguì
ironicamente. «Josè per l’amor di Dio, la guerra civile
è finita da un pezzo!»
«C’è chi non lo
ricorda.» Berciò l’altro, sfilando da una scatola
d’argento un sigaro.
Per tutta risposta Javier non si fece
intimorire, sostenendo lo sguardo.
«Servire la patria è un
onore che va al di là di ogni credo, per me,
signore.»
Hierro lo fissò, umettandosi le labbra. «Ah
sì? E in cosa credete?»
Leonor perse il sorriso, mentre smaniava di portare via
Javier da quella banda di intellettuali psicotici; lui la guardò
sorridendole dolce, prima di voltarsi verso Hierro e
sospirare. «In un mondo civile signore. Da dove
vengo io nulla di quello che abbiamo intorno stasera
è lontanamente immaginabile. Le nostre case e le nostre strade sono
ancora come ce le hanno lasciate i vecchi coloni e
questo, se mi perdonate, è ancor meno immaginabile in un epoca in cui il
progresso è così vivo e costante. Ecco, questo è in
ciò che credo io. Nel futuro.»
Alla fine del discorso Manuel
applaudì e anche Josè si lasciò andare un sorriso,
allungando una mano. «Piacere di averla conosciuta..»
«..Javier
La Fuente.»Ricambiò la stretta con orgoglio, Leonor si lasciò andare ad
un sospiro di sollievo, afferrando il ragazzo per un braccio e conducendolo
verso un’altra direzione, ma Josè li interruppe.
«Solo un’ultima cosa, Javier. Da dove venite?»
«Fuentesauco,
signore.»
«Fuentesauco..» Si toccò i baffi
socchiudendo gli occhi nello sforzo di pensare. «Non ci sono mai
stato.»
«Se mai passaste di là,
sarete mio ospite signor..»
L’uomo sorrise stando al gioco.
«Josè Hierro.»
«Oh Señor! Lo hai steso Javier!»
Leonor si faceva aria con la mano mentre proseguivano alla ricerca di Benedicta e Lorenzo; era accaldata e bellissima vestita di
un tessuto broccato blu profondo che risaltava il colore candido della sua
pelle.
«Ti prego non parliamo
più di quello sbruffone. Parliamo di te, sei stata superlativa.»
«Ti ringrazio.» Fece un mezzo inchino,
individuando Lorenzo in lontananza a regger in mano una pelliccia; gli fece
cenno di raggiungerli, mentre Benedictafaceva capolino al braccio di Manuel Caballero.
«Ragazzi conoscete
già il signor Caballero?» E
strinse un occhio alla cugina.
«Toh chi si rivede.»
Gli fece eco Manuel; Benedicta alzò un
sopracciglio in direzione di Javier sbuffando.
«E’una lunga storia.»
Mimò Leonor con le labbra e con le mani
intimando alla cugina di non insistere.
«Che si fa allora?»
Lorenzo scaricata la pelliccia e la signora si era unito al gruppo smanioso di
finire la serata in bellezza. «Non so voi ma qui ci si
annoia parecchio.»
Tutti
lo guardarono male, guardando poi Manuel. «Oh non vi preoccupate. Il
vostro amico ha ragione. Non ci si diverte mai ad un
ritrovo di artisti. Dico bene Javier?»
Il ragazzo alzò il pollice
approvando in toto.
«Signori a tal proposito se
può essere di vostro gradimento, ho un
appartamento proprio qui vicino e.. champagne e bourbon non mancano.»
Guardò nuovamente a Javier strizzandogli un occhio.«E la notte è ancora giovane.»
I
ragazzi si scambiarono profonde occhiate fra loro e mentre Lorenzo stava per
esalare il verdetto, Hierro sbucò a braccio
con un tale in soprabito grigio fumo.
«Leonor, ti cercavo.»Ignorò categoricamente il resto del gruppo, volgendo le sue
attenzioni esclusivamente alla ragazza. «Volevo presentarti il mio
amico Martino Leon Sierra, drammaturgo e impresario
teatrale.» Sussurrò con veemenza. Veemenza che però udirono bene
tutti.
Leonorgli sorrise, stringendo la mano di Sierra.
«Vogliate perdonare l’attesa, vi raggiungerò al tavolo.»Hierro annuì
sparendo come era arrivato; la ragazza guardò
colpevole i suoi amici. «Temo che la festa proseguirà senza di me.»
Lorenzo fischiò platealmente
provocando la roca risata di Manuel Cabellero, Benedicta inarcò il sopracciglio maliziosamente come era solita fare. «Cosa
ci fai ancora qui? Vai!» La esortò,
spingendola affettuosamente, quella dapprima tentennò, poi entusiasta
distribuì baci volanti con le mani.
«Javier fammi sapere per lo
spettacolo di Carmen!» E sparì fra la folla senza nemmeno dare il
tempo di rispondere.
«Allora, andiamo?» Rimarcò
Lorenzo.
Tutti annuirono ad eccezione di Javier
che alzò le spalle, tornando nel bozzolo di mutismo.
*
MilagrosBlanco amica di Guadalupe Garcia. Questa
sì che era una notizia da far tremare la terra.
Osservandole bene non c’erano due
persone più diverse fra loro, e il pensiero che la tanto temuta
estrazione sociale difesa dall’una, un tempo
fosse del tutto messa da parte dinnanzi a un’amicizia, la rendeva
scettica all’infinito.
Che Guadalupe Garcia prima di diventare
il mostro tanto decantato, fosse stataanche un’ingenua ragazzina?
L’immagine di quella donna
proiettata nel passato le dette la nausea.
«Amiche.» Le labbra
tremarono al suono di quella parola. «Tu sei strana e lo posso capire. Ma Francisca, lei cosa c’entrava
con voi due?»
Sua zia sorrise, un riso amaro. «Guadalupe non è sempre stata così. Le
piaceva il potere e aveva un’insana predisposizione nel godere delle
disgrazie altrui. Era strana questo sì, ma le
volevamo bene; questo è stato il suo più grande difetto, se
vogliamo. E anche il nostro. Si è sempre sentita protetta.»
«Aveva bisogno di essere protetta? Da chi, da se stessa?» Incalzò ironicamente Morena. «E tu la stai giustificando, ti fa pena adesso?
L’hai definita mostro se ben ricordo.»
«So che è difficile da
capire, ma tu potresti farlo.»
«Mi sfugge in che modo..»
«La sua famiglia. Erano persone senza niente, maledette. Si diceva
provenisse da un’antica famiglie di.. streghe. Dicerie certo, nessuno credeva
a queste cose veramente eppure questo non impedì di tagliarli fuori
dalla vita sociale del paese, ridotti ai margini e con il divieto di mettere
piede a Fuentesauco.Le cose cambiarono quando Estefan la prese in sposa. Le voci si acquietarono, ma lei
divenne spietata e per anni covò nel cuore le ingiustizie che
subì. Questo l’ha fatta diventare la donna che è. Un
mostro. E lo è davvero. E’ capace di tutto pur di ottenere
vendetta.»
«Quindi
questo dovrebbe convincermi a provare pietà per lei?» Morena per
nulla intimorita la guardò con occhi di fuoco. «Giammai,
ti dico! Quella donna ha un animo oscuro ed io, e solo io, so bene dove può arrivare la sua cattiveria; il punto
è che voglio capire come si può essere amici del diavolo e poi
odiarlo perché lo è. E questo me lo devi dire tu Milagros, e subito.»
La linea dura delle labbra si
trasformò in ghigno, sulla donna; alzò gli occhi lentamente,
erano umidi. «Purtroppo non solo tu sei a
conoscenza della sua cattiveria, Morena. Siamo cresciute nello stesso paese,
era inevitabile; ma a quel tempo si pensava solo alla guerra, a campare e riuscire
a non farsi ammazzare, non vi era tempo per combatterne altre fra di noi, senza senso. Crescendo le cose sono cambiate,
non potevamo più chiudere gli occhi e tutto è andato in rovina.»
«Cosa è
successo?» Chiese la ragazza spazientita.
Milagros sospirò come se un grosso macigno le pesasse in petto,
cominciò a narrare la storia con due lacrime che scesero velocemente
sulle guancie, e che andarono a infrangersi sulle mani strette al grembo.
«Francisca
era bella, la più bella di tutte e quando venne
data in sposa ad Alfredo, un moto di gelosia scaturì in Guadalupe; non
ce ne crucciammo, credevamo fosse solo uno sciocco capriccio figlio del suo
carattere.. fino a quando ad una
festa di primavera, offrì a Francisca uno strano druido, facendole perdere il bambino che portava in grembo. Francisca
venne da me disperandosi, la pozione era talmente forte che restò in uno
stato di coma per tre giorni, solo al risveglio ricordò il particolare
del ghigno di Guadalupe sul viso, nel momento in cui gli porse il bicchiere
apparentemente ricolmo d’acqua.»
«Conosci l’infuso di Dea?Fin dall’antichità, donne di
qualsiasi genere o razza se ne servono per eliminare dal proprio corpo l’invasore. Un metodo molto
antico ma allo stesso tempo efficace; ne basta ingerirne una tazza, per far
sì che si torni come prima.»
Morena impallidì al ricordo che
quella terribile immagine aveva provocato.
«Non volli crederle. Nessuno le credé. Certe cose non potevano
accadere veramente e se accadevano le nostre antenate,
bisnonne e prozie, avevano fatto di tutto per insabbiarle. La verità
saltò fuori durante un concilio per la ricostruzione del paese dopo la
guerra, al quale presero parte il parroco, il sindaco
e i fondatori della città, ma nella concitazione dei fatti, una vecchia
fondatrice venne arsa viva; fu colpevolizzata di soggiogare i partecipanti
mediante l’uso di stregoneria, un crimine vecchio di cento anni e abolito
da almeno metà del tempo! Ci rendemmo subito conto della realtà
delle cose, nessuno aveva smesso di credere a quelle vecchie storie e s’agitò fra le persone la voglia e il desiderio
di eliminare chiunque fosse ritenuto sapiente di certe arti; non ce ne
accorgemmo subito, ma Guadalupe sparì. Apparse innumerevoli anni dopo,
con Javier stretto al petto come un trofeo.»
«Cosa successe
dopo? Perché non l’avete fatta processare?»
«Francisca
non riuscì mai ad avere figli come tu sai e questo non l’aiutò; perse il senno. Non fu mai creduta e
purtroppo in quello stato nessuno se la sentì di appoggiare la sua tesi,
nonostante fu provato che tali arti erano in uso fra noi.»
Morena contrasse le
labbra indignata. «Nemmeno tu, che ti sei riempita la bocca al suo
funerale chiamandovi amiche?» La donna negò con il capo. «Ma che razza di donna sei?» Sentì montare una
rabbia così devastante che il respiro affannato le squarciava i polmoni.
«Sapevi che era lei infondo a quella grotta e mi hai fatta
disperare per una notte intera! Eri a conoscenza di questa tragedia e mi hai data comunque in sposa ad Alfredo. Hai voltato le spalle
alla tua amica in vita e lo hai fatto anche dopo morta. Che razza di donna sei?»
Milagros chiusa in un bozzolo di disperazione
scosse velocemente il capo asciugandosi le lacrime. «Era necessario. Tutto è stato
necessario.» Recitò,cantilenando.
Poi si riscosse, ispirando profondamente. «Per Francisca non c’erano più speranze ormai. E la
malattia le ha dato il colpo di grazia; sapeva che
Alfredo nutriva un certo interesse per te, diceva di percepirlo guardandolo
fissarti mentre aiutavi tuo padre a spaccarsi la schiena nei loro campi. Non le ho mentito sulle mie
intenzioni nei tuoi riguardi, anche se avrei potuto farlo e lo sai.» Strinse le mani a pugno, fissandola ora con
lucidità. «Quanto a te eri scossa quella
notte, ma allo stesso tempo determinata. E sei stata più che capace di
renderti conto fin da subito del pericolo. Non c’era bisogno che io
aggiungessi altro dolore.»
«Tu non ti rendi conto.»
Morena sovrastò le sue parole urlando di rabbia, attraversata da fremiti
che le nascevano dalle viscere. «Ho ingiuriato contro
mio padre e l’ho ripudiato. Non vedo Stella dal giorno del mio
matrimonio, l’unicacomponente della mia famiglia alla quale ho permesso
d’assistere.. e tu dici che era necessario?» La spostò,
facendosi largo verso la chiesa. «Non voglio più vederti, da qui
proseguirò sola.»
«Sbagli a giudicarmi.»
Rispose la donna alle sue spalle, sull’orlo del pianto. «Ho pagato
i miei debiti.»
«Come?» Si girò
l’altra denigrandola con un sorriso accusatorio. «Manovrando le
vite dei tuoi cari, giocando a patti col diavolo?»
«Era necessario.»
Insisté Milagros, con il poco di fiato rimasto
in gola; allora Morena si voltò, cerea in viso.
«Sai Milagros, avevi ragione tu. Le persone
sono la feccia di questo paese, e tu ne fai parte, che ti piaccia o no. Ho
guardato negli occhi di quella donna e c’ho
visto odio, rancore, frustrazione; le stesse identiche cose che vedo nei tuoi.
Forse non siete così diverse, dopotutto, ed io non voglio essere come voi.
Non mi interessa sapere per chi o cosa fosse
necessario, non voglio fare parte di
questo gioco. E soprattutto, non voglio
averti più nella mia vita.»
Enfatizzò la durezza delle parole voltandosi a guardarla come se guardasse spazzatura. «Sparisci,
raccogli i tuoi stracci e vattene via. Il più lontano possibile da me.
Evitami lo spiacevole disprezzo, che proprio non riesco a trattenere
guardandoti, al cospetto di Alfredo. Non se lo merita, è un uomo buono
lui, un’altra vittima.»
«Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per te!»
Non aveva mai visto Milagros
così.. implorante. Era sempre stata una donna
forte.
Con delle fragilità al di là della comprensione umana, ma risoluta nelle
scelte, mai piegata.
Si rese conto quanto poco conosceva le
persone.
Quanto poco conoscesse tutto ciò
che la circondava.
Si rese conto quanto poco sapesse della
sua vita e quanto poco le fosse stato detto.
E questo faceva paura. Tremenda paura.
Si portò svelta verso il
sagrato, Milagros alle sue spalle vaneggiava,
finché anche quella litania ebbe fine.
«L’ho fatto per te. E Per lui.»
*
Deviò per i campi, quando lasciò Don
Pedro e lo sfarzoso abito nuziale.
Non aveva intenzione di dividere la corsa con sua
zia ma restava pur sempre una signora, perciò le permise di rientrare
alla pensione con la carrozza, assicurandosi così che avesse recepito bene il messaggio e che avrebbe impiegato il tempo
a preparare i bagagli per tornarsene a Madrid. O dovunque ella
volesse tornare.
Era fremente di rabbia, ma i suoi consigli non erano
del tutto sbagliati.
Sapeva che in quel grande gioco, misterioso e via-
via più pericoloso, bisognava necessariamente
affermare e ristabilire il suo ruolo, se davvero la sua intenzione era quella
di essere lasciata in pace.
E ci sarebbe riuscita, non avrebbe permesso a
nessuno di intralciare la felicità sua e quella di suo marito.
Lui era lì, con il cappotto aperto e gli
stivali di gomma tutti inzaccherati.
Dava ordini
come un comandante eppure aveva arrotolato le maniche e porgeva aiuto, quando
serviva.
Conosceva quei braccianti uno ad
uno; era lei, fino a poco tempo prima, una di loro.
Quando la vide sbucare fra i mucchi di neve fresca,
sorrise sincero, emozionato.
«Che è
successo alla tua carrozza?»
Le chiese, fra il perplesso e il preoccupato.
Morena sventolò la mano in aria,
all’altezza degli occhi. «E’
una lunga storia. Ma non preoccuparti, sto bene.» Si sfilò lentamente il cappotto dalle spalle,
abbandonandolo nel carro a poche spanne da Alfredo; lui la guardò
enigmatico. «Forza, non stare lì impalato
a guardarmi. La neve ha bisogno di essere posata!»
«Che è successo, Morena?»
Berciò lui, poco convinto.
«Deve essere
successo qualcosa, perché io mi interessi agli
affari di mio marito?» Sentenziò lei
per tutta risposta.
«C’entra Milagros, giusto?»
Sapeva che era evidente, abbassò lo sguardo,
colpevole. «Non
sono stata presente, Alfredo. E la tua perplessità conferma questa tesi.
Non voglio essere più solo il tuo.. passatempo,
se hai capito quello che intendo.»
Alfredo si guardò intorno; i contadini erano
riversi con la faccia sulla terra e le vanghe piene di neve in mano, intenti a
sparpagliarla sui campi quasi come un concime -che avrebbe aiutato a mantenere
i germogli di granoturco sempre freschi e dissetati-
per nulla attratti dalla loro conversazione.
L’avvicinò
a se rudemente. «Mi
offendi parlando in questo modo. Sei mia moglie
e mi sembra di trattarti con il rispetto che meriti.» Graffiò fra i denti,
roco e sensuale.
«Proprio
perché lo sono, hai bisogno che io mi interessi
a te.» Gli
accarezzò dolcemente la guancia, sospirando. «Sei un gentiluomo non era mia
intenzione offenderti, ma lascia che ti aiuti, mi fa sentire utile. E non dimenticare che io so tutto
di granoturco!»
Sorrise, sperando di sciogliergli i nodi dall’animo.
«Tu invece ricorda che non
mi devi niente, Morena.»
Non si rabbonì, ma la sua mano passò dolcemente dal fianco al
collo, con una carezza. «Tuttavia non posso che
essere d’accordo sulle tue conoscenze; l’idea che gli scarti di
cuoio potessero esse impiegati come concime l’hai avuta tu, e guarda
qui!» Si chinò, scavando con mani nude nel ghiaccio. «I
germogli sono duplicati.»
«Non
mia. Di mio padre. E’ sempre stato convinto che fossero altamente fertilizzanti.»
Sorrise tristemente e questo non sfuggì allo sguardo attento di Alfredo
che la prese a sé stavolta con dolce fermezza, chiudendola nel suo
cappotto.
«Non puoi avercela con lui per sempre. Qualsiasi
sia il motivo, farà sempre parte di te.»
«Gli ho detto cose terribili,
Alfredo, non mi perdonerà mai.»
«Lo farà.» Disse
cullandola. «Lo ha già fatto.»
«Lo hai visto? E’ qui?» Mosse il capo velocemente cercandolo
fra i braccianti, ma non riuscì a trovarlo; da quando era andata in
sposa ad Alfredo, si vedeva sempre meno in giro e l’ultima volta in sua
presenza era stato il periodo della concimazione, quando con gli occhi lucidi
se ne stava a guardarla spiegare agli altri contadini
che aveva rinnovato il composto per la fertilizzazione utilizzato da suo marito,
con uno nuovo da una bizzarra idea di un genio visionario.
Quel genio era lui, ed
anche se non si parlavano da troppo
tempo, sua figlia non lo aveva dimenticato.
«Ho fatto molto di
più.» Alfredo indicò i bordi del campo, a ridosso del
fiume; c’era fermento, un andirivieni di quelli
che all’apparenza sembravano manovali, con i loro secchi e martelli.
«Quello non è il tuo
mulino?» La ragazza corrugò perplessa la fronte. «Lo stai.. demolendo? Ampliando?»
«Il nostro mulino.» La corresse. «L’uno e
l’altra, mia cara.» Per la prima volta da quando aveva intavolato
l’ardita conversazione sulla sua inutilità di moglie, Alfredo
aveva riso sincero. «L’inverno è ancora lungo, disponiamo del tempo necessario per attuare tali modifiche.
La mia intenzione è quella di aumentare la
produzione, estenderla a largo raggio. Vieni con me.»
Le posò una mano alla base della schiena accompagnandola verso il
capannello di persone in lontananza; i braccianti vedendola passare la
salutarono con discrezione. Alfredo si fece consegnare da Alberto -un ragazzo che per poche peseta gli teneva la
contabilità sfruttando il praticantato per la primavera prossima, quando
avrebbe raggiunto il padre a Madrid e lavorato presso uno studio contabile vero
e proprio- i registri con le annotazioni, sfogliandole sotto gli occhi curiosi
di Morena. «Potremmo duplicare il fatturato, se
non addirittura triplicarlo! La farina “Lorenzo Montenero”
piace per la sua morbidezza, per il suo profumo e il colore paglierino.»
L’uomo infilò la mano nel sacco e ne prese una manciata,
passandola poi nella mano della moglie. «Annusa.
Tutti gli odori e il sole di Fuentesauco vi sono
racchiusi.» Morena obbedì portandola al naso;
non era la prima volta che la vedeva ovviamente, nella loro casa circolavano
difatti esclusivamente prodotti della terre Roquez, ma non si era mai soffermata sulla poesia che Alfredo
nutriva per ciò che creava; le aveva dato il nome dai due cognomi della
defunta moglie, Lorenzo Montenero e se non suonava poetico questo non sapeva
cosa altro. Si sentiva sciocca ad annusarla, certo, ma sapeva quanto amore e
quanta dedizione quell’uomo metteva in tutto ciò che faceva e si
sentiva male, malissimo per le menzogne che gli aveva detto e per quelle che
doveva ancora dirgli; ripose la farina nel sacco e annuì debolmente.
Nel rialzarsi però la testa
prese a vorticare e le gambe cedettero.
Una sensazione di nausea la pervase
dalla punta dei piedi fin su i capelli; tremò e Alfredo le fu subito
addosso.
«Morena che ti prende?!»
La donna indicò il terreno,
Alfredo si tolse di fretta il cappotto, accomodandola su.
«Morena rispondi, stai bene?!» I suoi occhi erano pieni di ansia e di terrore; la
donna si fece forza inspirando e gli porse una mano lieve sulla guancia.
«Aspetto un bambino, Alfredo.» Chiuse gli occhi, lasciando che la schiena
si rilassasse sul sacco alle sue spalle.
L’uomo si lasciò andare in
un sospiro, poi letteralmente in un gemito di pianto.
«Oh no ti prego..
sapevo che non era il momento giusto.» Cercò di ridere, ma le
convulsioni del petto la fecero rimettere. «Non è andata come
credevo..» Si asciugò di fretta la bocca,
aprendo gli occhi; Alfredo era su di lei che la guardava emozionato, con gli
occhi pieni di gioia.
«Un bambino.»
Sussurrò.
«Un bambino.» La voce atona di Lucio Soler sbucò dal
mulino. Morena allargò gli occhi spaventata.
«Che ci fa lui qui?» Chiese
in preda al panico e allo stupore.
Alfredo, rinsavito, l’aiutò
a rimettersi in piedi. «Hai di fronte a te il nostro nuovo mugnaio.»
La ragazza traballò di nuovo,
l’uomo la issò in braccio.
«Aiutami Lucio, porta qui il mio
carro, Morena ha bisogno di ritornare a casa.»
«No..»
protestò lei debolmente. «Vai tu a prendere il carro, ho bisogno di
stare con lui.» L’uomo la guardò
apprensivo, lei lo fissò con quel poco di fermezza che le era rimasta.
«Ti prego, va..»
Lucio si mosse nella loro direzione,
posò un braccio sulla spalla di Alfredo e lo pregò
d’ascoltarla.
«Non le succederà niente. La amo più di qualsiasi cosa al
mondo.»
I suoi occhi lucidi non lo tradirono
mentre riceveva quel minuscolo corpo fra le braccia.
Alfredo annuì, lanciandosi di
corsa verso il centro del campo.
«Grazie..papà. So quanto ti costa
mentire.»
«Sta zitta.» La rimproverò
aspramente. «Tua zia mi ha raccontato tutto.
Pover’uomo..»
«Lo so è terribile.»
Espirò lei, desolata. «Non avevo
intenzione di rovinare la sua vita, ma lo hai visto con i tuoi occhi no? Non mi
ha lasciata nemmeno il tempo di finire.. lo uccido se
gli dico che il bambino è di Javier.»
«Non devi dirglielo.» Soffiò
repertorio. Poi addolcì lo sguardo. «Lo
amerà, lo amerà molto più di quanto lo ami già
adesso. E capirà, non è un uomo che si può ingannare, ma
non è nemmeno un uomo come tutti gli altri. Ho imparato a conoscerlo e
merita di vivere in pace. E anche tu. Promettimi che non gli dirai niente, ti
prego.»
Se Lucio Soler voleva strapparle quel
giuramento, lui che aveva amato e cresciuto Stella nell’ombra
del sospetto che non fosse figlia sua, allora poteva e doveva essere in grado
di pronunciarlo; doveva essere forte, anche se questo contribuiva ad accrescere
il mare di menzogne nel quale annegava il suo matrimonio, doveva preservare le
loro vite e quella del figlio che portava in grembo. E quest’ultima era
la sua prima priorità.
«Lo giuro.»
Sentenziò, prima che le braccia di suo padre la lasciarono per adagiarla
sul carro dalla quale Alfredo svettava; era
preoccupato, lo si leggeva ben in viso, ma vi si leggeva anche un certo
orgoglio appeso agli occhi.
«Papà..»
Gli toccò velocemente il petto prima di congedarlo. «Mi dispiace.. per tutto.»
«Pensa solo a stare bene.» Lucio
strinse forte quella mano e nel farlo vi depositò un biglietto.
«Dottoressa Velasco, la..ginecologa di Milagros, dalla vicina Salamanca. Desidera che ti lasci
seguire da lei.» Gettò un
occhiata alle spalle di Alfredo, che nel frattempo stava ricevendo
complimenti e auguri, e tornò su di lei. «E’
l’ultima cosa che ti lascio fare per conto di quella di donna. Ma
è necessario e sono d’accordo con lei.»
Morena inspirò; Pena sapeva
troppe cose. «Dimentichi che Pena però ha
già spifferato tutto una volta.»
«Milagroshapagato il suo silenzio, da allora. Lui ha detto che andrà in
pensione presto e che si toglierà di mezzo.»
La ragazza si morse il labbro.
«Quindi lei è..?»
«Sì, se ne
è andata.»
Non meritava nessuna delle sue lacrime,
ma non riuscì a trattenerle.
Tocca la vita le sue palme e
suona i suoi strumenti.
Forse incendia la sua musica,
solo per farci dimenticare.
Ma ci sono cose che non
muoiono e altre che mai vissero.
E ce ne sono altre che
riempiono tutto il nostro universo.
JosèHierro - Poeta del 900
La Velasco si affacciò alla
loro porta come la primavera, con i primi venti tiepidi.
Era una donna dal
temperamento caldo, una madre nata a sentir dire; cinque erano le creature che
aveva messo al mondo e ne parlava come fossero l’unica cosa
in terra capaci di tenerla in piedi.
Le era piaciuta da subito,
quando con schiettezza aveva raccontato delle gioie e dei dolori della
maternità, con gli occhi che rilucevano d’amore puro, amore
che solo un figlio era capace di provocare e questo, aveva fatto sì che il suo
istinto materno prevalesse sulla sua risolutezza prodigandosi spesso in consigli da
donna più che da medico.
«Ecco fatto!» Annunciò, sfilandosi i guanti. «Puoi dormire
sogni sereni, la gravidanza procede liscia come olio.» Si voltò sorridendo all’agonizzante Alfredo, in un angolo riparato.
L’uomo abbozzò una smorfia evidentemente imbarazzato.
«La vedevo così pallida.» Tentò di giustificarsi, sistemandosi il panciotto per sviare
l’attenzione.
«Non devi preoccuparti Alfredo,
hai sentito la dottoressa?»Morena si ricompose, uno
sguardo complice con la Velasco la mise in guardia. «Adesso puoi andare a riempirti d’orgoglio con gli atri zoticoni dei
tuoi amici maschi in paese. Io ho ancora qualche consiglio da donna da farmi rifilare.»
«Ho capito, mi
volete fuori.» Si gingillò sulle gambe
prima di lasciarsi andare in un sorriso. «Se è per i
discorsi da donna.. siete certe che non mi nascondete
qualcosa di brutto?»
«Sua moglie gode
di ottima salute, don Roquez.» Rispose la Velasco tempestivamente. «Sembra sia nata apposta per mettere al mondo figli.»
«Lo penso anche io.» E si avvicinò alla ragazza, baciandole i capelli. «Vado a fare quelle cose da maschio che hai appena detto. Ci vediamo a
pranzo. Dottoressa..» Strinse forte la mano della
donna e se ne andò via fischiettando.
«Dobbiamo parlare.»
La donna richiuse la porta alle sue spalle e sospirò.
«Siamo ufficialmente entrate
nel settimo mese.» Morena ridacchiò
per il siamo entrate; le piaceva quella donna, confermava la sua profonda
empatia. Tuttavia non sembrò darle importanzaproseguendo con risolutezza. «Il che significa
che manca poco perché lei accusi dei malori e perché io trovi qualcosa di interessante da fare a Fuentesauco,
per i prossimi.. diciamo.. due mesi? Fortunatamente hai mantenuto il tuo peso
forma e la tua pancia è perfetta, non sembri nemmeno in dirittura d’arrivo.»
Il sorriso andò via come era tornato. «Quindi mi sta dicendo che allo scadere del mio settimo mese,
non-ufficiale, insceneremo un parto improvviso?»
«Proprio così. Qualche
ripensamento?»
«Potrei ripensarci?» Si toccò la pancia prominente sorridendo ironica.
«Direi di no.»
E si voltò per disinfettare gli strumenti medici e riporli nella borsa
di cuoio invecchiato.
Fino ad allora era stato tutto più o meno facile, Alfredo l’aveva
coccolata nell’attesa che il suo corpo mostrasse molto più che una promessa
d’arrivo, ed ora che finalmente il suo attendere era diventata una certezza,
cominciava il gioco pesante. Inspirò; era forte. Sarebbe sopravvissuta.
La questione era.. come.
«Se lei sarà qui già da
adesso, non pensa che si insospettirebbe?»
«E perché mai? Una
ginecologa segue sempre la puerpera nella fase finale.»
«Fuentesauco non è un posto
molto divertente. Preferirei venire io da lei, quando sarà il momento.»
La donna ci pensò su. «Questo lo terrebbe lontano il
tempo necessario perché io l’aiuti a camuffare la
cosa, certo. Ma se non fosse il momento giusto? Sprecherebbe un’occasione e si
costringerebbe ad affaticarsi.»
«Devo rischiare.»
«Oh santo
cielo! Un parto non è una cosa con la quale rischiare. Qualcosa potrebbe andare
nel verso sbagliato, ci pensi bene.» Afferrò il soprabito
e i suoi effetti personali, facendosi condurre dalla giovane verso l’uscita. «E comunqueabbiamo ancora tempo per
decidere, stia serena.»
Gli occhi di Morena si velarono di dubbi. «L’ultima cosa che voglio è farlo soffrire.»
La Velasco
annuì affettuosamente. «Sono qui per questo, no?»
Sì, era lì per questo; l’ultimo regalo di Milagros,
prima che sparisse con i venti d’inverno.
*
«Via da lì, ragazzo!»
Un uomo a bordo di una costosa Rolls lo
rimbrottò dalla capote abbassata, per aver attraversato senza guardare; alzò la
mano in segno di scusa, benedicendo la fortuna che quei giocattoli roboanti
possedessero ancora una velocità in via di sperimentazione. Riacquistata
lucidità scrollò le spalle e si rimise in cammino, quando all’angolo fra la
Gran Via e Calle de Silva fu attratto da un baracchino che vendeva mazzi di
fiori d’occasione, sapientemente elaborati da una signora corpulenta con uno
spiccato accento del nord; era affascinato.
«Auguri? Condoglianze? Amor, quépasa ragazzo?»
Javier fissò dubbioso un mazzo di
primule blu; la donna lo imitò per poi alzare gli occhi al cielo sorridendo.
«Ah..
Amore e Speranza. E che altro? Dimmelo, ti posso aiutare nel tuo messaggio.»
Alzò le spalle. «Pentimento..
e perdono.»
Quella lo squadrò, alzando il sopracciglio nero e arcuato. «L’hai tradita?»
Il ragazzo negò con il capo, la donna si lasciò andare in una smorfia. «Respinta? Oh qué dolor!»
Lo invitò a spostarsi e cominciò ad armeggiare con i fiori e le erbe
distese sul baracchino, borbottando.
«Qui ci serve un po’ di
fiordaliso, delicatezza. Felce, sincerità. E in ultimo.. Iris, che
racchiude l’essenza di tutto ciò. L’iris è la porta attraverso la quale,
passano le parole.»
Legò i fiori con un nastro sottile di velluto smeraldo annodato a
fiocco e glielo passò. «Ti piace?»
Javier rimase senza parole; quel
piccolo mazzo di fiori racchiudeva in sé mesi di parole inespresse, parole che
aveva avuto il coraggio di pronunciare soltanto al buio, dal fondo della sua
lettiga e non troppo ad alta voce per non ammettere che fossero vere.
Era innamorato.
«E’ perfetto.» Disse, stringendo il tripudio di blu e indaco, che si alternavano
nella sua mano, come un arcobaleno infinito. «I suoi occhi
hanno questo colore.» Aggiunse emozionato,
porgendo dalla tasca dei suoi pantaloni tre peseta.
La donna lo ringraziò più del dovuto e prima di vederlo svoltare
l’angolo lo chiamò.
«Il cuore ragazzo. Fa parlare
il tuo cuore, più di tutto.»
Già, pensò. E percorse la Gran Via con la testa piena di pensieri e lo
stomaco in subbuglio.
La cameriera lo accolse con un vassoio dal quale prelevò un calice di
Vermut bianco, prima di consegnarle il cappotto ed essere raggiunto da Helena, squisitamente vestita da pranzo della domenica; la
casa era stranamente silenziosa, calda e accogliente come sempre, ma cosparsa
da una strana allure.
«Oh Javier!
Per fortuna che sei già qui.» Rimasti soli la donna gli
parlò con agitazione, porgendogli la mano intorno al braccio; guardandola bene
notò gli occhi rossi e i capelli arruffati del raccolto.
«E’ successo qualcosa di
spiacevole?»
«Una catastrofe da rotocalco
peggio solo a quelle del ElPais!» Borbottò la donna,
ingollando il fondo del calice che Javier teneva
stretto fra le mani. «Mia sorella per lo spavento
se ne è tornata a casa, figurati. E Leonardo è nel suo
studio che minaccia di far saltare tutto per aria! Una vera catastrofe!» Inspirò ed espirò a ritmo forsennato tentando di non scomporsi, ma ad
ogni respiro era sempre peggio; Javier la fissava
stralunato, non capiva, l’intera situazione gli sembrava inverosimile e al
contempo esilarante.
«Ti prego..» esalò Helena«Puoi provare a
parlarle tu? Leonor da molto peso alle tue parole.»
Leonor, certo.. come aveva fatto a
non capirlo prima.
La ragazzina che si era messa in testa di fare cinema e teatro; ai loro
occhi solo una capricciosa richiesta di attenzioni, questo le aveva raccontato
lei, tempo prima, quando di pessimo umore erano andati ad uno spettacolo e non
la smetteva più di piangere anche se la commedia era piuttosto divertente.
«A sua discolpa, Helena, e spero tu non ce l’abbia
troppo con me per quello che sto per dire, Leonor è
davvero molto presa da questa storia della recitazione. Ed è davvero in gamba,
inserita, con le giuste conoscenze.»
La donna annuì in modo forsennato. «E’ proprio questo
il problema!» Chiamò la cameriera e si
fece portare altri due calici di Vermut -che Javier
negò categoricamente, non proprio amante delle sbronze prima di un pranzo- lo accompagnò
in una saletta attigua al salone e rimasti soli, chiuse a chiave la porta. «Quel tale Hierro, le ha messo
in testa di portarla in Europa entro l’inizio dell’estate. Meditano di stare
via un anno, due forse!»
«Passami quel calice.» Alle parole della donna pensò che non era poi tanto male annegare
certe notizie in bollicine.
«E non è tutto; se
la vuole sposare! Leonardo è furioso, quello scapestrato glielo ha mandato a
dire tramite un conoscente, come se parlasse di una qualsiasi ragazzina dei
bassifondi. E’ così.. così spocchioso, irritante e.. vecchio! Potrebbe avere la
mia età, chi può dirlo veramente?No, non posso sopportarlo! Dobbiamo impedirgli
di commettere una sciocchezza simile. Javier.. che
hai, sei pallido, tutto bene?»
Non sapeva cosa era peggio; se se la stava portando via o se avesse
intenzione di sposarla.
No, non si sentiva affatto bene.
«Javier?!»
«Devo parlarle Helena, ora!» Posò il
bicchiere rumorosamente sul tavolo di marmo, ormai vuoto, e schizzò via come un
fulmine; sapeva bene dove andarla a cercare.
Non bussò nemmeno alla sua stanza, la spalancò con quanta più forza
avesse in corpo e si annunciò con il fiato corto, ma con una rabbia da
ribollire il sangue nelle vene.
«Che ti sei messa in
testa?»
«Buongiorno..Javier!» Era seduta al
soppalco sotto la finestra, con la fila di bottoni sul colletto del vestito
aperta e le guance paonazze; scese per salutarlo, ma barcollò.
«Sei ubriaca, anche?» La raccolse, appena in tempo prima di vederla
caracollare sul pavimento.
«Un po’. Ma come sei noioso..
tutte queste domande..» Posò lo sguardo sul mazzo di
fiori e si accese di rinnovato fulgore. «Per me? Grazie!» Ci infilò il viso dentro e fu impossibile avercela ancora con lei; i
suoi occhi si confusero nell’indaco dell’iris .
«Proprio ciò di cui parlavo..» Commentò ad alta voce,
conducendola nuovamente al soppalco per farla sedere; prese i fiori e li infilò
nel vaso posto al centro del comodino, accanto al suo letto, da dove spiccavano
piccole e fresche margherite gialle. Inspirò turbato.
«Ho saputo che Hierro ha chiesto la tua mano.»
«Da quando lo ha saputo mio
padre, lo sa anche tutta la Gran Via, dato le sue urla.»
Javier sorrise, cercando per di
mantenersi serio. «E’ troppo vecchio per te.»
Leonor alzò un sopracciglio. «E’ maturo, non vecchio.»
«Maturo..» protestò ironico. «Perché ha cacciato via Franco? Ha vinto una delle sue battaglie? Per quanto mi
risulta Franco è vivo e vegeto e lui ha fatto del carcere una questione d’onore
più grande di quella che è. E stato solo un rivoltoso, ecco tutto. Uno
spocchioso, arrogante rivoltoso.»
«Tu non lo conosci, Javier. Ha degli ideali, è un uomo colto, carismatico e
interessante!»
«Quanti aggettivi per un solo
uomo.. però sai, gli uomini che si definiscono tali
non hanno bisogno di tutti questi fronzoli.» Si passò il
pollice lungo il labbro mentre la fissava con intensità. «Lo ami?»
Leonor arrossì. «Oh Javier, ma che vuoi!» Voltò la testa sulla strada e si morse un labbro.
«Risposta sbagliata.» La canzonò, sedendole di fronte; delicatamente, con due dita, le fece
voltare il viso. «Sei troppo bella e sei troppo
giovane per sposare un uomo che non ami.»
«E a chi importa
questo, se non a me? Io so cosa voglio, non sei certo tu, con tutto il
rispetto, il più indicato a darmi consigli sull’amore Javier.»
«Forse hai ragione. Io non so
nulla dell’amore, ma sbagli su una cosa; a noi
importa quanto te, del tuo futuro. Importa a tua madre che è di sotto e sta per
prendere una bella sbronza perché te ne andrai via. Importa a tuo padre, che è
chiuso nel suo studio con l’incubo di vederti andare in sposa ad uomo che non
rispetta, perché egli non ha rispettato lui. E poi.. anche semeno importante di tutto il resto, importa a
me. Perché ti voglio bene Leonor e non voglio vederti
sciupare la tua vita per un uomo per la quale non ammetti amore.»
Leonor sorrise sardonica. «Non tutti hanno la fortuna di nascere con l’amore della propria vita
accanto.»
«Già..
e guarda come è andata, penserai.» Non gli avrebbe
reso la cosa facile, l’aveva sempre saputo, dal primo momento che aveva ammesso
di esserne innamorato; sorrise, era il prezzo da pagare per averla fatta
fuggire la prima volta che gli aveva dichiarato il suo amore. «E’ sbagliato pensare così! Siamo troppo giovani per buttarci via. Arrenderci!
Ed io questo ora lo so, perché qualcosa è successo.»
«Ti sei innamorato?!» Soffiò in un misto di ansia
e delusione, abbassando lo sguardo.
«Di te.» Incalzò lui; Leonor alzò il capo stupefatta.
«Volevo dichiararmi già da
tempo, ma ho pensato che serviva un momento speciale.
A quanto pare, sbaglio sempre i tempi. E’ un mio difetto, ma ci sono
affezionato.»
Rise, sentendosi incredibilmente leggero e sollevato.
Non credeva fosse capace di scherzare della sua vita passata, ma a
quanto pare era riuscito a dimenticare.
«Mia madre deve averti fatto
il lavaggio del cervello..» Protestò lei, scuotendo il capo.
«Avanti!»Scalpitò Javier. «Come puoi essere così
spietata? Sapevi che sarebbe successo, lo hai detto tu.»
«Non sei il mio primo pensiero,
sai? Non più.» Bofonchiò ma con occhi
allegri.
«Avevi ragione Leonor, l’avevi fin dall’inizio. Io e te
siamo fatti l’uno per l’altra.» Si alzò, per poi
inginocchiarsi e prendere fra le mani la giovane. «Voglio avere io il privilegio di chiamarti mia sposa. Dimmi di sì.»
Leonor mugolò. «Due dichiarazioni in un giorno. Benedicta
aveva ragione. Per una qualche motivazione che deriva dai tempi delle scimmie,
voi uomini siete in grado di capire le cose, solo quando queste vi sfuggono di
mano.»
«Due dichiarazioni.. e una fra queste sarà ricordata come la più lunga della
storia.» Incalzò lui, ignorando
categoricamente il riferimento ad Hierro, guardandola
con coraggio e trepidazione.
«Io non rinuncerò a me stessa, sia chiaro.»
«Non voglio
rinunci a niente.»
«Allora sappi che partirò Javier, quella che mi è stata proposta è un’opportunità da
cogliere al volo.»
«Oh..
ne parleremo.»Leonor
negò con il capo. «Lasciami negoziare sul tempo,
almeno!»
«Nessun genere di
negoziazione. Ma un accordo sì.» Studiò il suo viso mentre si appellava ad un
silenzio carico di aspettative e sentì di volerla più che mai nella sua vita. «Una turneé di sei mesi, poi il matrimonio.»
Javier aggrottò le sopracciglia,
poi si illuminò. «Che ne dici invece
di una turneé di un anno?»
«Vuoi sposarmi o cosa?»
«Ti sposo
oggi, ti sposo subito.» Disse con fermezza,
tirandola su con lei. «Poi la turneé.»
«Ah, così non vale!» Gli batté la mano sul petto adirata.
«Non hai parlato di accordi puliti.. perciò mi sposi e poi partiamo.»
«Partiamo?» Chiese allibita. «Stai giocando sporco. Molto
sporco, sappilo!»
«Lo so.» Rispose flautato. «Ancora qualche mese e avrò concluso il mio primo anno di accademia. Posso avere una
pausa, anche un congedo matrimoniale a questo punto; riuscirei a passare con te
almeno sei mesi in Europa, poi a malincuore ci saluteremo. Ma tu sarai mia
moglie e a quel punto cosa saranno mai altri sei mesi? Mi sembra un buon
accordo, no? Tu non rinunci a niente e nemmeno io. Allora, LeonorRuizDelgado, mi dirai di
sì?»
Lei rispose si, ma in silenzio e con un bacio senza fine.
*
Maggio portò con se delle piogge devastanti.
Fuentesauco appariva come una grande
pozzanghera a cielo aperto, ferita ed esposta agli eventi.
Il Rio Cochinoera straripato a ridosso dei campi di spighe e questo aveva compromesso i
raccolti, andando a rovinare l’imminente mietitura del mese di Giugno; vi era
malcontento fra la gente, i signori fattori subivano perdite sulle future
vendite e i braccianti già pronti al guadagno, vedevano sfumare la possibilità
di poter passare un altro inverno.
Ad aggravare la situazione, fu l’inondazione di Vecchia Quercia e le
capanne trascinate via dalla furia dell’acqua; nessuno fu risparmiato, bestie e
animali pagarono il prezzo con la vita.
L’aria si era fatta malsana, pestilente e questo segnò l’arrivo di
malattie, febbri, morti da aggiungere ad altri morti.
Alfredo era devastato; il raccolto era andato perduto -ma non sarebbe
stato il grande signore di Fuentesauco se non avesse
riposto negli anni una riserva in scorte e denaro per le emergenze- e al suo
umore nero si aggiungeva la preoccupazione per Morena nel pieno della
gravidanza e addolorata per le perdite che avevano subito i suoi cari.
Lucio Soler, aveva perso tutto.
Una vita di sacrifici, la sua casa, scorte e ricordi spazzati via in un
attimo.
Lo si vedeva spesso vagare per i campi come un ombra nefasta a cercare
cose, cercare qualcosa, la forza e la speranza, che lo inducessero a non
mollare, a guardare avanti e rimboccarsi le maniche.
L’unica cosa che gli restava era il nuovo mulino e da quello non si
separava mai; dopo incessanti richieste da parte di Alfredo -che lo voleva con
se alla tenuta e dopo aver categoricamente rinunciato a questa ipotesi e a
quella di stabilirsi presso il clericato di Don Pedro-
si era convinto a trasformarlo in una sorta di abitazione temporanea fin quando
le condizioni climatiche non avrebbero permesso di ricostruire.
Un giorno di tregua, qualcuno bussò a Legno di Quercia.
Lucio Soler e altri braccianti avevano trovato Alfredo riverso a terra,
in preda alle allucinazioni da febbre.
«Mettetelo sul divano, presto!» Urlò Morena, non appena lo vide inerme e pallido da spaventare anche i
morti. «Papà devi
correre subito dal dottor Pena e portarlo qui.» Poi guardò al
nido di persone stretto in quella stanza e mormorò. «Il vostro padrone vi sarebbe grato per quanto avete fatto per lui, ma
vi prego tornate alle vostre famiglie. Adesso è nelle
mani del buon Dio.»
«Se possiamo aiutarla ancora
in qualche modo donna Roquez, vorremmo poterlo fare.»
«Pregate per lui.»
Pena arrivò dopo venti minuti e procurò subito un salasso al povero
Alfredo febbricitante.
Nei concitati minuti d’attesa, Morena al suo capezzale e stretta al suo
braccio, si era prodigata a tenergli umida la fronte e ripulirlo dal fango
portatore e causale di malattie; la terra, quella terra che tanto amavano, si
era fatta improvvisamente nemica e condanna.
«Ha la pelle molto calda.»
«Una pellaccia molto dura.» Rimarcò il medico, auscultandogli i polmoni. «Ti ha mai raccontato di quando ha superato il
vaiolo, da piccolo?»
Morena negò con il capo, accarezzandogli amorevolmente i capelli. «Sua madre purtroppo non ebbe la stessa fortuna. Aveva cinque anni e un
cuor di leone. Tante volte ho scherzato con lui chiamandolo così.»
«Elleon.» Sussurrò Morena. «Stavolta avrà la stessa fortuna?»
«Limitiamoci a passare la
notte. I polmoni stanno bene, potrebbe essere una nuova forma di febbre.»
«I contadini dicono di averlo
sentito delirare.»
«Dopo questa catastrofe, ho
udito alcuni sostenere sussurrare gli alberi.» Rispose lui ironico.
«E’ stato chiaro. Bisogna
aspettare.»
L’uomo s’allontanò per pestare le medicine in un mortaio con acqua
tiepida.
«Lei come sta?»Le chiese, in modo distaccato e professionale, porgendole il
bicchiere.
Morena lo guardò. «Credo che lei abbia capito la
situazione, non è così?»
«Sì, sua zia è stata molto
convincente.»
«Mia zia sa quello che vuole.»
«Non lo avrei mai detto a
nessuno comunque. Ma quel che è fatto è fatto.»
«Bene.» Asserì Morena. «Sto..
bene. Grazie per averlo chiesto.»
Alfredo si mosse convulsamente nel suo sonno senza sogni, mugolando
parole incomprensibili; Morena gli strinse forte la mano, sussurrandogli affettuosamente
nell’orecchio. «Sei a casa Alfredo, stai
tranquillo ci sono io accanto a te.» Posò il bicchiere e con l’aiuto del medico sistemò alcuni cuscini
dietro la schiena del marito. «Apri la bocca amore mio, solo
un po’.» Alfredo cercò di rispondere,
ma le labbra si aprirono in un’innaturale smorfia di dolore, quel tanto per che
bastò a far defluire il liquido giù per la gola.
«Non farlo spostare e
accertati che dorma ad intervalli di un ora. Il mio
lavoro per ora è terminato.»
Morena asciugò le labbra di Alfredo e si alzò.
«Può rimanere qui, per
stanotte, se lo desidera. Le faccio sistemare la camera degli ospiti.»
L’uomo corrugò la fronte e sospirò. «Purtroppo ho
altre visite da fare. E per la stessa causa.»
Capì e lasciò correre. «Lasci che l’accompagni,
allora.»
Richiamò la servitù con il carro e gli effetti personali di Pena, ma su
l’uscio lo trattenne.
«Che ne è
stato dei Roquez? Alfredo li tiene esposti in
soggiorno, nei loro bei quadri, ma ho l’impressione che tutto quello che c’è da
sapere è sepolto nel suo cuore.»
L’uomo annuì, lo sguardo vacuo. «Nell’anno in cui
arrivò il vaiolo, molte vite furono portate via. I Roquez, vennero decimati e per quello che so, Alfredo è
figlio unico.»
«Non gli è rimasto proprio
nessuno?»
«Quei pochi rimasti hanno provveduto a togliersi di mezzo da soli. Legno di Quercia
era una grande comune, tuo suocero amava circondarsi della famiglia,
condividere con loro le enormi ricchezze. Quando capì che il resto dei
capisaldi non erano altrettanto morigerati e dediti alla famiglia, depositò un
testamento in calce che lasciava ad Alfredo la tenuta e gli altri beni. Con
l’arrivo della pestilenza, e dopo la morte di Alvaro e la sua consorte, i
sopravvissuti rimasti a bocca asciutta fuggirono via da Fuentesauco,
sparsi per la Spagna o Dio solo sa dove.»
«Chi si è preso cura di Alfredo?»
L’uomo scosse il capo. «Nessuno. Si è preso cura da
sé.» Il carro arrivò e Pena fece
per salire. «Alvaro Roquez
era un uomo assennato, diligente e amorevole. Suo figlio è della stessa pasta e
a quanto vedo si è scelto la moglie giusta. Sei molto cambiata Morena, continua
a prenderti cura di lui come stai facendo e tutto andrà bene.»
«Grazie.» Sospirò lei, porgendogli la mano; l’uomo corrispose, si toccò la tesa
del cappello e il cocchiere lanciò i cavalli verso il ridiscendere della
collina.
Sarebbe andato tutto bene.
La febbre calò nei giorni successivi, gradualmente e lentamente, ma
dopo quindici giorni la situazione poteva dirsi migliorata; Morena si era fatta
sistemare nel salone per averlo sempre sotto controllo, rinunciando da subito
all’idea di farlo spostare nelle loro stanze private, umide e così lontane.
«Morena..» Tossì violentemente, Pena aveva detto che il muco era provocato dal
tempo che aveva passato nella pozzanghera e che con frequenti effluvi balsamici
sarebbe guarito in me che non si dica.
«Sono qui.» Si era appisolata sulla poltrona; sgranchì le gambe e l’avvicinò. «Hai sete?»
L’uomo annuì. «Devo..
devo parlarti.»
«Sono tutta orecchi.» Sorrise, aiutandolo a bere. «Prima però
mangerai qualcosa, sei ancora molto debole.»
«Proprio di questo volevo
parlare.»
Ma Morena era sparita nelle cucine senza dargli il tempo di aggiungere
altro; quando tornò stringeva fra le mani una ciotola fumante di brodo e dei
crostini di pane inzuppati.
«Ti stai
affaticando, lo vedo.» Brontolò. «Hai l’aria di una persona che non mangia da giorni.»
«Sto bene Alfredo.» Alzò gli occhi al cielo, sventolando del pane e formaggio come a
volergli dire “visto?”«Piuttosto, cosa volevi dirmi?» Affondò il primo
cucchiaio nella minestra e glielo porse.
L’uomo rispose con vigoroso appetito. «La tua pancia è cresciuta molto.»
«Va bene, non hai perso la vista.» Incalzò sorridendo. «Volevi dirmi solo questo?»
«No.» Sorrise energico. «Devi farmi un piacere. Nel
mio ufficio c’è una cartella verde con la dicitura Herrero.» Morena fu tutta orecchi. «Aprila,
c’è un indirizzo. Devi scrivere alla persona citata in intestazione, che è
giunto il momento che lei torni a Fuentesauco.»
«Herrero, hai detto?»
Alfredo alzò un sopraciglio. «La parte migliore
di quella famiglia che potessi sperare di avere ancora in vita.»
«E cosa vorresti
mai desiderare da questa famiglia?» Chiese,
ironicamente spazientita.
«Ho una cugina della tua età a
Villescusa. Negli anni mi sono prodigato affinché
ricevesse istruzione, sai sogna di fare l’architetto;una ragazza bizzarra, ma con la testa sulle
spalle.» Sospirò. «Le ho chiesto di prendersi cura di te al
momento opportuno. E questo lo è.»
«So badare a me stessa.»Rispose lei fra i denti. «Abbiamo
abbastanza inservienti alla tenuta.»
«Olivia è della nostra famiglia, Morena.» La corresse Alfredo con voce roca.
Si morse il labbro fino a farlo sanguinare, ma non riuscì a trattenere
la rabbia. «Quelle stesse persone che
hanno pensato bene di sparire, quando hanno capito che tuo padre non gli
lasciava il becco di un quattrino? Perdonami, ma non riesco a capire come tu
possa chiamarla ancora famiglia!»
Si alzò stizzita gettandogli addosso la coperta che aveva sulle gambe; andò
nel suo studio e cercò meccanicamente e senza interesse ciò che aveva chiesto.
Dalla cartella scivolarono dei fogli, oltre l’indirizzo richiesto; li raccolse
e si ritrovò a leggere un atto di proprietà che contava alcuni vigneti e
terreni di Villaescusa, a quanto pare ad usufrutto di
un piccolo nucleo di Herrero, e ciò che la colpì fu
il suo nome bello in chiaro, sigillato a fondo pagina con il sigillo d’autorità
in lacca rossa, che la deteneva padrona di quei beni a tutti gli effetti.
Il suo nome, prima di quello di Alfredo.
Rimase di sasso, poi il senso di colpa bussò prepotentemente alla sua
porta.
«Tu
sei giovane e forte, puoi essere il proseguo di tutto
quello che vedi intorno a te.»
Le aveva detto tempo fa. Era stato di parola. E l’aveva messa bene per
iscritto.
Sentì il bisogno di sedersi, ricomporsi prima che quell’immane
senso di desolazione la distruggesse.
Era stata burbera e rozza, di nuovo. E con lui.
Non sarebbe più dovuto succedere.
Quell’uomo le aveva praticamente
messo la propria vita nelle mani.
«Io..perché?» Sentì il bisogno di chiedergli, quando tornò con l’atto impugnato.
La fissò gelido, anche se un qualcosa di eternamente sincero brillava
nei suoi occhi.
«Sono vecchio, Morena. Vecchio
abbastanza da non sperare di sopravvivere a mia moglie. E non lo desidero, per
tutto l’oro del mondo.»
Morena si lasciò cadere ai suoi piedi, stringendogli le mani. «Dovevi dirmelo.» Soffiò in punta di lacrime.
«Non mi piace la pietà.» Disse,
accarezzandogli la guancia. «Sono innamorato di te proprio
per quella che sei.»
A quel punto gli argini si ruppero e non ci fu scappatoia altrettanto
forte da reggere il pianto sommesso che sentiva salirgli su dalla gola.«Non piangere.» Disse lui, cingendole le
spalle per consolarla. «L’ho stipulato molto tempo
fa, quando te ne andasti dopo essere piombata qui,
appena saputo che tua zia ci aveva promesso; ho capito subito di che pasta eri
fatta, dovevi solo capirlo anche tu. Il tempo mi ha dato ragione, sei
risolutiva e pragmatica, proprio come una vera Roquez.» Le alzò il viso, cercando i suoi occhi umidi e ottenebrati di
tristezza. «So che non riesci ad amarmi
come vorrei, ma ti prendi cura di me -e sono sicuro molto presto- della
creatura che porti in grembo, che vedo amore in ogni cosa e comunque.» Sospirò nel vederla sorridere e lasciò la presa dalle sue spalle. «Adesso mi serve quella risolutezza, Morena. Avrei dovuto depositare
subito l’atto presso il consolato di Madrid, contavo di farlo questa primavera
ma bloccato qui non posso, così quel pezzo di carta vale meno che niente. Per
questo voglio che Olivia ci raggiunga; deve aiutarti a mettere le cose a posto.»
Morena si asciugò definitivamente gli occhi, guardandolo con aria di
sfida.«Non intendo far viaggiare una sconosciuta con gli atti di proprietà
della nostra famiglia.»
Alfredo scosse il capo allarmato. «Non viaggerai tu,
non nella tua condizione.»
«Sto bene e sono risoluta.» Affermò facendogli il verso ma con una chiara determinazione a
fiammeggiargli nelle pupille. «Andrò a Madrid insieme ad Olivia, se proprio ci tieni, ma sono tua moglie e non mi
farò condurre nella mia vita al braccio come un’incapace!»
Si alzò, raccogliendo le stoviglie e si diresse alle cucine; i volti
del tempo passato adesso sembravano sorriderle dai muri banchi della casa. Era
felice, dopo tanto tempo tornava ad assaporare la fierezza per una conquista.
Finalmente poteva restituire un po’ di gratitudine.
«Fammi chiamare se hai bisogno
di me. Sbrigherò la corrispondenza dallo studio.»
Gli baciò il capo e si domandò se era il caso o meno di avvertire la Velasco di questo imminente viaggio; nello stesso momento
il bambino scalciò dal suo ventre così forte che non ebbe più tentennamenti. «Sarà bene che io scriva anche una missiva a Salamanca.» Si toccò la pancia affettuosamente cercando la complicità negli occhi
attenti di Alfredo. «Manca così poco. Forse la Velasco potrebbe accettare di passare del tempo a Fuentesauco come nostra ospite.»
«In passato era un usanza molto praticata, fra i benestanti.» Asserì Alfredo, guardando le fiamme del camino crepitare. «Sei preoccupata per qualcosa?» Chiese poi con
una punta di agitazione.
«Solo del tempo che passa.» Cercò di minimizzare, sorridendo.
«Sarò al tuo fianco, qualsiasi
cosa succeda.» Sospirò quasi
profetico, e Morena sentì nuovamente un nodo alla gola.
Mai come adesso pensò che avere il medico vicino fosse un’idea
brillante, non fosse che l’imminente nascita del piccolo coincidesse proprio
con la sua partenza per Madrid; forse, pensò amaramente, partorirò davvero ai
confini del mondo. Scosse il capo, scacciando via il pensiero di lei lontana e
l’animo triste di Alfredo, privato della gioia di udire il vagito del neonato
che lui credeva suo figlio, tenendosi salda alla speranza e alla fede.
“Dios
perdonami e tu mio amor“ pensò guardandosi il grembo, “non correre. Non avere fretta!”
«Pensavo a Riccardo, come
nome.» Esalò sottovoce Alfredo,
chiudendo gli occhi verso pensieri nascosti. «Il primo Roquez e la prima pietra di Legno di Quercia.»
Morena anelò un respiro sognante. «Sei capace di
rendere poetica qualsiasi cosa tu dica, Alfredo.»
«Il passato è poesia.» Le sorrise, addolcendo lo sguardo e Morena annuì conscia; ricordò con
gioia la storia di Riccardo Roquez -nonno di Alfredo-
un migrante che da Malaga, nel tempo vessata dalla fame che aveva portato
l’assolutismo di Re Ferdinando VII, partì alla volta del nord e fermatosi in
pianta stabile in quel di Fuentesauco, dopo aver
aiutato in primis la città -che lo
aveva così calorosamente accolto- all’ennesima esondazione
del Rio Cochino,
e secondo poi essersi innamorato della giovane ricca contadina Isabella Carbonero, facendosi valere per le sue doti filantropiche.
In breve tempo aveva tirato su di una collina, una comune per rifugiati con il
legno di quercia da sempre simbolo di forza, virtù e coraggio, dividendo con
quella stessa gente il pane e i viveri, senza distinzione sociale; la comune si
era rilevata una grande risorsa sociale e andava allargandosi a vista d’occhio,
e quando le cose -lentamente ma inesorabilmente- tornarono al loro posto come
le persone, si trasformò nella bellissima tenuta, che Alvaro padre di Alfredo
in seguito di generazione, raffinò conferendogli l’aspetto di una elegante casa
di campagna.
Il resto fu tutta un’altra storia da scrivere, e le terribili
conseguenze della dipartita di quest’ultimo, così
come le aveva raccontato Pena, ne scrisse il più tragico epilogo.
«Io ti aiuterò a scrivere il
futuro.» Disse, stringendogli la
mano, prima di congedarsi e lasciarlo riposare.
*
GuadalupeGarcia
era la donna più felice di tutta la provincia di Zamora
e dintorni.
Il motivo, presto detto, consisteva nell’affrontare il viaggio verso Madrid alla volta di
suo figlio e di quella che sarebbe stata la sua nuova famiglia; i RuizDelgado.
Tutto era andato esattamente come nei piani stipulati nel suo cuore e
mente di madre, anni e anni addietro, quando il suo piccolo Javier
imparava a leggere e fare di conto; avrebbe maritato una giovane e ricca
signora di città e sarebbe finito gendarme della nazione conducendo una vita
piena e felice. Perché lui era un La Fuente e da quel nome passava la nobiltà dei signori di
Fuentesauco, meritava qualcuno della sua stessa
estrazione, qualcuno che lo stimolasse e lo appagasse con l’intelletto e una
sana e cospicua fortuna in peseta.
LeonorRuizDelgado, era tutto ciò che aveva sempre sognato per
lui.
Quando si era fatto il tempo di pensare al suo futuro, si era data
molto da fare, intrattenendo rapporti con le famiglie bene di Madrid affinché
il figlio rientrasse nella cerchia degli eletti e vi si impiantasse il più a
lungo possibile. Al giungere della notizia dell’imminente fidanzamento, con
quella che rappresentava la crema dell’alta borghesia delle costruzioni, aveva quasi sorriso -il ridere o sorridere non
erano cose per lei, i sentimenti andavano frenati secondo la sua logica se non
si voleva sopperire nella vita- e si era chiusa in un bozzolo di
autocompiacimento che rischiava di farla collassare
proprio nel giorno culmine delle loro vite.
Non doveva succedere.
Doveva tenere la mente lucida e i polsi fermi.
Allora pensava alla sgualdrina Soler, all’odio che covava per lei ad un
passo dal rovinare tutti i suoi piani portando in grembo il figlio che Javier gli aveva piantato dentro, e si fomentava di nuova e
rifulgente ambizione.
L’odio l’aveva aiutata a sopravvivere ieri.
E l’odio l’aiutava a vivere oggi.
La vita era stata così ingiusta per lei; nata e cresciuta in una
famiglia nomade, emarginati prima ancora di impiantarsi a Fuentesauco,
definiti pericolosi, inconcepibili, aveva toccato il fondo quando sua nonna
venne arsa viva perché ritenuta sapiente di arti magiche e una strega; nella
foga e nella concitazione degli eventi, quando la donna venne prelevata dalla
baracca in cui vivevano, qualcuno l’aveva picchiata e abusato di lei
ingravidandola.
Fu il periodo più nero della sua esistenza e i Garcia,
pienamente coscienti che le voci che giravano intorno a loro non fossero solo
voci perché discendenti da un ramo congenito di streghe e stregoni, si erano
visti scoperti, il vaso di pandora tenuto sigillato in anni di solitudine e
silenzio, scoperchiato; la sua famiglia fu costretta a ripiegare al confine,
fra i boschi, vivendo da selvaggi più di quanto non fossero abituati già.
Non ebbe altra scelta se non quello di bere l’infuso di Dea, ma questo
causò al suo corpo danni irrimediabili.
Sola e discriminata, si era chiusa nel livore che la consumava, fino a
quando il destino non portò sul suo cammino Estefan
La Fuente, giovane discendente degli antichi signori
di Fuentesauco, che a dispetto di tutto si innamorò
perdutamente di lei e la sposò, elevando la sua vita da feccia quale era a splendore.
Il destino le donò in seguito anche Javier.
Il regalo più bello. Ma anche quello era costato lacrime e dolore e
sangue.
Ma quella era una storia che non poteva
e non voleva ricordare.
«Signora i suoi bagagli sono
in auto. Don La Fuente l’attende in cortile.»
«Prendi il mio cappello Karim e il foulard pesca.»
Era tutto pronto. Inspirò
profondamente.
Si rivolseun’ultima volta allo
specchio,guardando con disapprovazione il colorito cereo e chiazzato del volto.
L’inserviente, in aria di burrasca, ripiegò sgattaiolando a recuperare quanto
chiesto.
“Niente e nessuno mi impedirà
di ottenere quello che voglio. A qualsiasi prezzo.”
Pensò, passandosi il dito là dove la pelle era diversa, non troppo
evidente agli occhi altrui, ma ai suoi sì, e un ghigno malevolo si dipinse
sulle sue labbra, in ricordo di una notte di molti mesi prima.
L’acido dell’infuso di Dea che le era stato sbattuto in viso, le aveva
bruciato la pelle cambiandole il colore.
*
«E’ un carro quello che sento?»
Tornò un po’ di pace a Legno di Quercia.
Morena s’affaccendava nelle questioni quotidiane ed Alfredo, ancora non
completamente ripreso ma comunque capace di tenersi in piedi per qualche ora,
faceva la spola dai campi alternandosi a Lucio.
La ragazza sapeva che era il solo modo per farli stare tranquilli circa
la sua attuale situazione, ma avere sempre suo padre intorno la faceva sentire
ansiosa; la seguiva come un ombra, ancora poco convinto che la figlia fosse in
grado di tacere i suoi inconfessabili segreti.
«Aspettavi qualcuno?» Rispose Lucio, imbracciando il fucile.
Morena scosse il capo, scortandolo e precedendolo alla porta
retrostante.
«Non ti preoccupare, ci penso
io. Tu va ai campi e avvisa Alfredo;credo di sapere di chi si tratti.»
L’uomo esitò, la ragazza alzò gli occhi al cielo esortandolo a
muoversi.
Quando Lucio fu lontano, aprì la porta principale; una ragazza minuta
dagli occhi azzurri la stava fissando.
«Immagino tu sia Morena.» Esordì allegra.
«Morena Blanco
Soler. Senza ombra di dubbio, tu sei Olivia.»
Si guardarono a lungo senza proferire verbo, per poi scoppiare a
ridere.
«Ti credevo diversa.» La ragazza interruppe il flusso di risate, imbracciando la sacca sulla
spalla; un cenno di Morena e fu prontamente prelevata dalla cameriera, insieme
al soprabito. «Anche io. Vieni,
entra.»
La ragazza sussultò dopo pochi passi; si voltò con il viso verso lei,
cercando di scusarsi con lo sguardo.
«Mi fa strano essere qui.» Arrossì, scorrendo con gli occhi le pareti intorno. «Non è cambiata poi molto.»
Morena alzò le
spalle divertita. «E’ innamorato della storia e delle sue cianfrusaglie.»
La ragazza annuì, compitamente. «So che per te è
strano che io sia qui, ma non avrei accettato se non fosse
stato lui a chiederlo. Devo molto ad Alfredo, ma di questo credo tu sia
già stata informata.»
Morena sospirò. «Il suo cuore è sigillato quando si tratta della sua famiglia. Ma di te ha
molta stima.»
La guidò verso il salone principale, una stanza molto grande e
comunicante con i due esterni mediante archi che davano sui giardini; da quello
posteriore intravide suo padre sbracciarsi, alzò la mano rassicurandolo per
vederlo rimettersi subito al lavoro.
Fece arrivare dalle cucine pasticcini caldi e limonata, che versò in un
bicchiere porgendolo alla giovane, visibilmente più rilassata; era vestita alla
maniera degli uomini, con comodi pantaloni di lino al ginocchio ma dal un
taglio decisamente più femminile e sotto il bolero una camicia a pieghe color
crema fermata al colletto da un cammeo rosa cipria raffigurante una deliziosa
dama. Era audace ma non troppo,elegante eppure sobria, smorzata dall’aria
giovanile accentuata dai capelli raccolti in una treccia volutamente scomposta
e adagiata sulla spalla sinistra.
Dava l’impressione di essere una persona molto pragmatica. Quando
incrociarono lo sguardo, lei le sorrise.
Un bel sorriso su gote lentigginose e rosse.
Era bella nella sua straordinaria semplicità.
«Lui come sta? Nella missiva
che mi mandasti scrivesti che era malato?!»
«Oh..» sorrise. «E’ nei campi che da ordini
come un generale. Dice che il grano non aspetterà che lui si rimetta
completamente in sesto, ed ora passa tutto il tempo che riesce, lì. Il dottore
dice che la buona aria e il lavoro fortificano il suo animo, così lo lascio fare.
E’ un uomo perso senza la sua terra.»
«So di cosa parli.» Ammise lei divertita. «Da ragazzina, quando passava
a trovarci, mi faceva giocare a scavare fossati con la vanga. Le ragazzine
della mia età mi guardavano sbalordita dai loro patii bianchi candidi e con le
loro bambole di ceramica in mano, mentre io mi insozzavo le vesti e ridevo di
gioia.»
«Già.» Morena si passò la mano sulla pancia prominente, sorridendo.
«E così..
diventerà padre.Non credo ci sia
uomo più felice.»
Morena sgranò gli occhi, stupefatta da tanta sincerità e complicità che
intercorrevano fra suo marito e la ragazza seduta di fronte a lei. Non si
sentiva infastidita, solo incuriosita.
«E’ di questo che parlate
nelle vostre lettere?»
Olivia scosse il capo. «Lui finanzia
i miei studi, nella gran parte delle lettere vuole sapere dei miei
profitti. Tipico suo, no?» Berciò ironicamente prima di
farsi seria. «Credo che come uomo possa
dire di aver ottenuto tutto nella vita; una bella casa, un lavoro onesto e
frutto di molta passione e dedizione, un buon nome. Dio lo ha ricoperto di
ricchezze; eppure nulla potrà renderlo più completo, se non sentirsi finalmente
chiamare padre. Con Francisca, non è stato così.» Rabbuiò lo
sguardo nominandola, girando la testa di scatto due-tre
volte verso il corridoio per le camere, come se aspettasse di vederla arrivare;
poi tornò su Morena, avvampando. «Oh, ma che
sciocca! Ti prego, perdonami l’impudenza.»
Fece per alzarsi in evidente stato di agitazione, ma Morena la
trattenne. «Rispetto molto la sua
memoria, non devi sentirti in imbarazzo a parlare di lei. Sono entrata in
questa casa in punta di piedi, voglio che Alfredo si senta libero di poter
onorare il suo ricordo.»
Olivia rilassò le spalle ma si alzò comunque, andando a fermarsi
dinnanzi la grande vetrata che dava sul giardino alle spalle della tenuta; da
lì ,oltre le vette delle montagne, spiccava netta la visuale sui campi
circostanti e il suo viso s’illuminò di letizia, quando scorse il cugino.
«Venendo qui
non sapevo cosa aspettarmi. Adesso
capisco perché è così protettivo nei tuoi confronti; lui ti ama, se è questo che
vuoi sapere. Le sue lettere sono piene di te.»
Sorrise timida, abbassando gli occhi e per un attimo Morena ripensò con
nostalgia a Francisca.
Al suo viso bello, al suo animo etereo.. e alle atroci sofferenze che
la vita le aveva gettato addosso.
Scosse il capo senza esitazione. «E io amo lui.» Poi le mise una mano sulla spalla e la guardò trepidante. «Andiamo a salutarlo?»
Olivia aprì gli occhi in un
sorriso raggiante. «Con immenso piacere.»
*
Le avevano detto che il fetore dello sterco di vacca era meglio
dell’aria inspirabile di Madrid, ma quando apprese certa notizia, Guadalupe sorrise senza darvi peso; con rammarico si
ritrovò ad assentire.
Fu un viaggio lungo ed estenuante e quella che si aprì ai suoi occhi fu
una città del tutto nuova.
Vi era stata anni addietro, prima di diventare la signora di Fuentesauco; per pochi
spiccioli aiutava sua madre a confezionare abiti in uno scantinato di Calle Montera per le prostitute del borgo, esigenti e poliedriche
donne al passo con la moda e con la fortuna, fonti di storie tragicomiche che
le avevano insegnato tutto sull’essere donna e i suoi infiniti poteri e con le
quali il tempo era trascorso, in un soffio, a suon di risate e bestemmie.
Agitò il capo, scacciando via reminescenze passate e ravvivò i capelli
al di sotto del capello, sorridendo; un ragazzo stretto ad una giovane,
all’entrata di un palazzo in stile neoclassico, li aspettavano insieme ad un
capannello di persone trepidanti e ben vestiti.
Inspirò affondo, prima di lasciarsi condurre dalla mano di suo marito
verso quella nuova famiglia.
«Mamma!»
Javier era quanto di più bello
avesse immaginato ritrovare.
I capelli erano più chiari del solito bruno e la sua pelle dorata dai
primi raggi di sole di primavera.
Quando lo aveva visto per la prima volta, non poteva credere che quella
creatura gli somigliasse in maniera così reale;
agitava le sua manine al cielo e aveva strillato di gioia riconoscendola come
sua madre e quel richiamo, così
viscerale e primordiale le avevano instillato dentro un amore che andava oltre
ogni confine, ogni legame di sangue possibile.
Da quel richiamo aveva capito che per quel piccolo essere avrebbe fatto
di tutto.
Anche essere sua madre.
«Javier!»
Si abbracciarono calorosamente,
le buone maniere messe nell’angolo, prima di fare spazio ad un’altrettanto
entusiasticoEstefan. La dolce Leonor, con la fermezza e l’equilibrio del suo buon
carattere, li accolse poi in casa dove vennero fatte
le presentazioni con i capisaldi Ruiz-Delgado, Helena e Leonardo.
La donna la guardava con
caloroso trasporto benedicendo ogni cellula del suo corpo per aver generato
quel concentrato di buona educazione, cultura, bellezza e cordialità che era il
figlio.
«Oh, donna Helenasiete troppo gentile. La verità è che Javier è stato un bambino così dolce da educare, che non mi
sono nemmeno resa conto fosse diventato adulto, ormai.»
Inspirò con teatralità, facendosi venire i lucciconi agli occhi; adorava farlo,
i suoi occhi verdi divenivano ancora più grandi di
quelli che erano.
Javier alzò gli occhi al cielo. «Non potremmo evitare la parte in cui vengo messo in mezzo, vero?!»
Leonor rise battendogli un veloce colpetto sulla mano. «Ti ci dovrai abituare mi amor! Voglio sapere tutto quello che
donna Guadalupe ha da raccontare su di te!» E gli
lasciò la mano andando ad infilarsi al braccio della stessa, che la guardò
visibilmente colpita. «Ovviamente senza alcuna censura.»
«Nessuna censura.» Incalzò
quella. «Siamo a Madrid dopotutto, esiste ancora
qualcosa di censurabile?»
Leonor rise appoggiandosi una mano alle labbra. «Adoro tua madre, Javier!»
Furono accompagnati nella
rispettiva stanza al piano superiore, una grande ad angolo con le vetrate a
tutta parete; la vita sul corso principale scorreva con le ultime luci del
pomeriggio. Si guardò attorno visibilmente colpita dai particolari attenti e
curati che la adornavano; grandi calle bianche il suo fiore preferito sul
settimino centrale, e le pareti di un azzurro tenue che ricordavano un cielo
terso, un grande specchio fumé adagiato al muro e in prossimità della luce
naturale dell’esterno –amava passare ore a contemplarsi, figlia di un profondo
narcisismo- dove vi riposava accanto una di quelle
poltrone dalla seduta imbottita e arrotondata, comoda da passarci del tempo,
appunto.
Disfò i bagagli sistemando con estrema cura i capi inamidati e lindi negli
appositi vani armadio, con leggiadria e perfezionismo innati; odiava il caos,
era totalmente intollerante a qualsiasi forma di disordine.
Estefan la guardava volteggiare per la stanza e sorrise.
«Ti vedo molto felice.»
«E lo
sono.» Si fermò, restituendogli il sorriso; era l’unico che riusciva a farla
sorridere, davvero. «Tutti i nostri
sforzi finalmente ripagati.» Sospirò, voltandogli le
spalle e riprendendo da dove era rimasta.
«Avresti permesso di vederlo
accasarsi con qualcun’altra?» Chiese lui vagamente ironico.
«So che non approvi i miei
metodi, caro marito. Ma sappi che abbiamo in comune molto più di quello che
pensi; la felicità di Javier. E non sembra che questa
donna abbia sbagliato nel pretenderla.»Poi lo fissò intensamente e tristemente. «Si stava innamorando..»Soffiò in fil di voce. «Avrebbe rovinato tutto.»
Estefan sospirò turbato. «Mi chiedo se sappia ciò che sta facendo, il resto non lo metto in
discussione.»
I suoi occhi si addolcirono per
un po’; Estefan era sempre stato l’anello debole
della coppia e lo aveva detestato per questo. Il suo buon carattere, la sua
docilità, il suo protendere sempre per l’amore anziché per gli interessi,
avevano fatto di lui il suo più acerrimo nemico, a
volte, con atroci sofferenze per conseguenza. D’altro canto,
quella stessa bontà d’animo era stata la sua salvezza, quando l’aveva raccolta
dalla miseria.
Con lui doveva avere sempre la
pazienza di una madre e la crudeltà di un’amante.
«Chi lo
sa il domani cosa ci attende. Noi
siamo il faro sulla sua via, Estefan, chi meglio di
noi può sapere quanto la vita sia imprevedibile? Leonor
è perfetta e tuo figlio sembra aver fatto la sua scelta, rallegratene e sii
felice per lui.»
Si voltò e prese un abito da
sera da una delle grucce. «Che ne dici di questo?»
L’indomani la casa era tutto un fermento.
Javier e Leonor avrebbero reso pubblico
il fidanzamento, con ricchi festeggiamenti e un ricevimento da mille e una
notte. Il salone principale, che risplendeva alle luci dei lampadari in
cristallo rimessi al mondo dalla servitù tutta la notte, era addobbato con i
colori della tradizione spagnola, e tanti fiori da sembrare di essere in un
campo.
Helena e Guadalupe –passata velocemente da ospite ad
organizzatrice- correvano da una parte all’altra assicurandosi che nulla
sfuggisse al caso e che tutto gridasse al mondo un’ovazione di perfezione e
regalità.
Le sarte arrivarono con i vestiti
freschi di tintoria già nelle prime ore del mattino.
Leonor smaniava dalla voglia di vedere Javier,
parlargli, toccarlo, ma le due furie avevano vietato qualsiasi contatto fra di loro, nemmeno fosse il giorno del matrimonio! Se ne
stava in preda all’agitazione seduta di fronte ad uno specchio con il flute di Rueda in mano,
mentre una truccatrice arrivata apposta da Barcellona la stava conciando come
un’allegra ragazza del barrio de Chueca.
A mezzogiorno, qualcuno bussò
alla sua porta.
«E’ permesso?»
La truccatrice guardandola
estasiarsi alla vista del giovanotto in un perfetto smoking nero, sussultò.
«Questo bel ragazzo dovrebbe essere allo scalone ad esperarla novia!» Rimbrottò con il sorriso sulle
labbra.
«Pochi giorni ancora e potrò
chiamarla così.» Rispose lui, cadenzando passi sinuosi
alla volta di Leonor. «Per te.» Le porse un pacchetto
sigillato da un semplice nastro rosso; lo scartò in pochi gesti e vi scoprì un
orologio. «Da tradizione, potrai tenerlo o regalarlo a tuo padre, come prova
delle mie buone intenzioni e della mia serietà.»
La maquilladorasentendosi di troppo si congedò, raccogliendo i suoi strumenti e i
complimenti frivoli che Javier le porse
accompagnandola fuori; quando rientrò nella stanza, Leonor
scosse il capo sorridendo.
Prese l’orologio fra le mani e
lo indossò; era di piccola montatura, con il cinturino sottile e di pelle nera.
«Javier,
non ti facevo così romantico.»
«Ci sarà così poca
convenzionalità in questo matrimonio..» Si piegò alle
sue ginocchia, afferrandogli la mano e portandosela alle labbra. «Forse non ti
piace?»
«Oh, no! Lo adoro.» Esclamò,
schioccandogli un sonoro bacio. «Sei nervoso?»
«Lo sono sempre, quando mia
madre gravita nel mio universo.»
Gli occhi attenti di Leonor non poterono non notare l’improvviso cambio di umore del giovane; sapeva che era qualcosa a che fare con
il suo passato, qualcosa di irrisolto che ogni tanto tornava ad angosciarlo e
sapeva che aveva a che fare con la ragazza che gli aveva spezzato il cuore, ma
in che modo e maniera centrasse sua madre in tutto questo, non lo aveva mai
detto apertamente. Si morse il labbro, improvvisamente angosciata.
«Lei non sembra così male,
dopotutto.» Abbozzò, guardando i suo occhi aprirsi di
stupore. «Voglio dire è decisamente teatrale e non fa
nulla per nasconderlo, ma non posso negare che ogni volta che ti nomina è come
se nominasse il Buon Dio sceso in terra. In questo mi sento molto vicino a
lei.» Sorrise timidamente, nascondendosi fra i folti boccoli biondi che le
incorniciavano il volto, prima di sentire la mano di Javier
poggiarsi delicatamente sulla guancia; alzò il viso e i loro sguardi si incrociarono.
«Quella donna è capace di farmi
tremare i polsi, Leonor, eppure tu la senti vicina.» Rise, cercando di fare dell’ironia per tornare a vederla
sorridere. «Ero già sicuro della mia scelta, ma sono piacevolmente colpito
dalle ulteriori conferme che mi dai. Sei
sorprendente!»
«Ti prendi gioco di me,
adesso?»
«No, ti sto solo dicendo che non vedo l’ora di farti mia sposa.»
Leonor tornò a sorridere. «Perciò non c’entra niente..
il fantasma di Fuentesauco, in quegli occhi tristi?»
«Quali occhi tristi?» Sorrise
sincero, porgendole la mano per farla alzare. «Indossa il tuo abito più bello e
corri subito da me. Sarò sul fondo della scalone ad
aspettarti, mi futura esposa.»
Si guardò intorno prima di lasciarla andare, e anche se non aveva più pensato a
quel fantasma dai capelli neri e le labbra carnose e indisponenti ci pensò, lasciandosi cullare dal nulla e dall’oblio. Alla fine
fu come un brivido gelato, ma che passò in fretta, come era
passato quel tornado, lasciando il posto ad un cielo limpido.
*
«Sta attenta
ti prego.»
La partenza per Madrid aveva
fatto la sua venuta; tutto era pronto, Olivia aveva fatto preparare la carrozza
che le avrebbe scortate fino a Salamanca, da dove un treno le avrebbe condotte in giornata nella capitale.
Alfredo era caduto in uno stato
di ansia circa dieci giorni prima e questo non aveva
facilitato per nulla il gravoso compito che l’attendeva; doveva attraversare la
provincia per depositare i documenti più importanti di tutta la sua vita in
avanzato stato interessante, cercando di raccogliere tutte le forze possibili
per continuare a recitare la parte di quella per nulla preoccupata di partorire
strada facendo, in compagnia per giunta della cugina dell’amato marito,
un’estranea alla quale era finita per affezionarsi, ma pur sempre estranea ed
ignara delle sue combutte.
Si diceva
che era un gioco da ragazzi, che ne aveva viste di peggiori e allora pensava a Guadalupe.
La signora di Fuentesauco, la donna che in sol colpo avrebbe cancellato
il suo futuro, se avesse accidentalmente avuto il genio di ingerire l’infuso di Dea, tempo prima.
Pensare a lei la caricava di autostima.
Di vendetta, anche se sapeva
che era deleteria e che faceva solo male.
Allora la incanalava nelle
viscere, la dove sentiva ormai nitidamente il suo bambino scalciare e la
trasformava in determinazione, speranza, e tutto appariva come un semplice
bagliore di prima mattina.
E lei era la fiamma che bruciava.
«Farò
attenzione, sta tranquillo. Piuttosto, vedi di riuscire a cavartela fino al mio
ritorno.» Disse, facendosi aiutare per salire in
carrozza; l’uomo la guardò agognante. «Mi sembri più tu quello che deve fare
attenzione.»
L’uomo la incalzò come se non
l’avesse udita. «Cercate di stare unite. Madrid è una città molto grande.»
Olivia, già accomodata,
scavalcò con il busto Morena agguantando la maniglia della vettura con fare
intimidatorio. «Alfredo fai sul serio? Ti giuro che se insisti ancora un po’,
ti lascio il mio posto!»
L’uomo negò con il capo e la
donna incrociò le braccia. «Avanti.. da un bacio a tua
moglie e falle gli auguri.»
«E’ giovane..»
sussurrò Morena, protendendosi verso di lui per
baciarlo; l’uomo si aggrappò ai suoi capelli tenendola premuta sulle sue labbra
qualche istante. «Quando tornerò sarò la signora
di Legno di Quercia.»
«Morena..
tu lo sei sempre stata.»
E la lasciò andare, con il cuore gonfio di promesse.
Si
alzò impaurita, trovandosi dinanzi un’elettrica Benedicta che saettava in lungo e in largo nella stanza,
scansando tende e spalancando finestre; si coprì la faccia con la mano,
borbottando insonnolita.
«Cosa stai facendo?»
«Io
e te, oggi, ce ne andiamo a spasso fino a tarda
sera!»
«Fantastico.»
Mormorò, abbandonandosi nuovamente fra le lenzuola.
«Non
fare la guasta feste!» Quella la raggiunse,
balzando sopra il letto. «E’ il tuo ultimo giorno di libertà
e vuoi passarlo a letto?» Le scostò la mano dal viso e rispose al
posto suo. «Non credo proprio.»
«La
colazione? Hai portato anche quella con te?»
«Frittelle
al miele e the aromatico.» Batté le mani con enfasi e la cameriera
entrò con il vassoio fumante. «Per servirla.» Fece un
inchino e un sorrisino sarcastico prelevando le vivande per lei e la cugina e
le accomodò sul tavolino accanto la finestra.
«Non ti prederò in braccio.» L’ammonì
scherzosamente.
«Quella
è un’esclusiva di Javier.»
Ammiccò l’altra maliziosamente, alzandosi per raggiungerla.
«Sei la mia cugina preferita!» Disse poi baciandola sulla guancia e
buttandosi sulle frittelle invitanti.
«Ti
ricordo che sono anche l’unica.»
Berciò divertita Benedicta; poi si
soffermò sul suo polso e se l’attirò sotto al naso. «Regalo
prematrimoniale?» Disse in riferimento
all’orologio nuovo di zecca che spiccava sulla sua pelle candida.
L’altra annuì con gli occhi offuscati d’amore.«E il poverino sa a cosa va incontro?»
Alzò
le spalle per nulla offesa. «Diciamo
che ha qualche peccatuccio da farsi perdonare.»
«Già.»
Enfatizzò l’altra. «Ma io lo sapevo che sareste finiti
insieme.»
«Per
questo dico che ti adoro, mia unica e speciale cugina.»
Scoppiarono
a ridere e terminarono la colazione fra chiacchiere e risate su quello che
sarebbe stato l’indomani, quando una delle due avrebbe lasciato il nido
d’origine e lo status sociale che la vedeva chiamarsi señorita, per adottare quello più consono di señorae ciò che esso comportava.
Dall’altra
parte della città, il futuro sposo si alzava al
richiamo di una fumante tazza di caffè nero; sua madre lo aveva
svegliato come faceva da bambino, canticchiando dolcemente la filastrocca del
buongiorno.
«Buenos dias mi vida, buenosdiasluz
de misojos,buenosdias mi dulce Amor!»
Alloggiavano
da qualche giorno in uno splendido palazzo di Plaza
Isabelle II –una delle innumerevoli proprietà dei Delgado, dove poi avrebbe vissuto con Leonor-
e tutte le mattine dalle grandi vetrate si alzava maestoso il Teatro
dell’Opera; adorava sorseggiare caffè a quelle finestre e sentire
sua madre cantare, il rumore lontano del rasoio di suo padre battere contro il pirozzo di marmo mentre si faceva la
barba.
Erano
sapori lontani, neppure un anno fa contemplava le spighe dorate di Fuentesauco e si domandava cosa ne sarebbe stato di quella
vita; tutto era cambiato e i suoi occhi godevano di
paesaggi diversi, amabili, dal sapore nuovo.
Si
sentiva onnipotente, da lassù.
Sentiva
che tornare a quelle strade era bello e sicuro, ma nel sangue, chiaro e nitido,
sentiva che non ne aveva più la
necessità, che Fuentesauco doveva restare solo
un sapore lontano, che Madrid aveva regalato tutto un altro gusto ed era la
sola cosa di cui voleva cibarsi.
«E’
arrivato Lorenzo.» Disse la donna, prendendo dalle sua
mani la tazzina ormai fredda; Javier le
sorrise, accarezzandole la guancia. «Sai già cosa farete?»
«Con
lui è tutto un mistero.» Ammise. «Vorrei comprare dei fiori
da portare a Leonor. Credi sia
consono?»
«Un
fiore per una donna è sempre consono. Cercate solo di non esagerare.»
E di certo non si riferiva ai fiori. E di certo lui non le
avrebbe detto che sarebbero arrivati fino a Barcellona
per passare la notte in riva al mare, come la tradizione di buon auspicio
richiedeva. «Sta tranquilla madre.»
Lorenzo
entrò appena in tempo, Guadalupe era sul punto
di replicare. «Buenos diasesposo!»
«Buenos dias,
testimone del esposo!»
«Donna
La Fuente.. è sempre
un piacere per gli occhi incontrarla.» Lorenzo capì lo stato di angoscia dell’amico e si arruffianò
la fonte, prendendole la mano fra le sue e posandovi delicatamente le labbra.
«Il
tuo charme non ti salverà Navarro!»
Rispose Guadalupe trattenendo il sorriso. «Assicurati
di non vederlo rotolare giù da qualche duna e brillo, por favor, e niente bagni di mare che
ancora non è caldo e nessuno vuole un
esposo con la raucedine. Per il resto.. divertitevi!» Strizzò l’occhio ad
entrambi che restarono di sasso e ammutoliti. «Sono stata maritata prima
di voi, cosa credete.» Poi guardò Javier con malizia e giovialità che sembrò
finalmente la donna giovane quale era. «Tuo padre tornò da
Barcellona con un carico di pecore. A tua nonna per poco non venne un colpo, trovandolo
sull’uscio la mattina del matrimonio, sporco di merda fino al collo. E perdonami
la franchezza signorino Navarro, ma lei usò tale
espressione.»
«Perlomeno
ha portato bene, no mamma?» Incalzò Javier;
Lorenzo era piegato in due dal ridere al solo nominare pecore, che
riuscì solamente a rassicurare la signora con la mano agitata a
mezz’aria.
«Benissimo.
Ma ti prego..»
«..starò lontano dalla merda, juro por mi honor.»
A
quel punto la donna se ne andò ridendo e
Lorenzo caracollò per terra in preda alle convulsioni del riso.
«Le
ragazze ci aspettano in Saint Miguel, dovevano sbrigare delle commissioni di non so
cosa.»
Mezzora
più tardi, Javier ben vestito e profumato e
Lorenzo impeccabile nel suo vestito di lino chiaro, si avventuravano per una
limpida e tersa giornata di inizio Giugno madrilena.
«Perfetto!»
esclamò l’altro. «Avevo proprio intenzione di passare per il
mercato e comprare dei fiori a Leonor.» Fermò un taxi e si girò verso
l’amico. «Ti sei ricordato di prenotare l’autista,
vero?»
«Per
chi mi prendi.. certo!» Berciò quello
infilandosi nella macchina.
«E lei è ancora all’oscuro di tutto,
giusto?»
Lorenzo
guardò al cielo implorante. «Che ti
prende Javier? Sei ansioso?»
«E tu non lo saresti?» L’altro alzò le
spalle; non lo avrebbe saputo chissà per quanto altro tempo ancora. Era
stato chiaro con se stesso, prima che con la famiglia; nessun matrimonio fino
ai trenta anni. «Fino a ieri ero solo un ragazzo
con grandi sogni e aspettative. Domani sarò un uomo.»
«Ecco
perché voglio restare ragazzo il più a lungo possibile.» Disse l’altro con un sorriso sornione dipinto
sulle labbra, abbandonandosi al sedile.
«Ti
ho mai raccontato di quando credevo che Leonor fosse solo un’amica?»
Berciò
sarcastico, Javier. Lorenzo protese
una mano in avanti e strinse forte gli occhi agitando il capo in segno di
diniego. Il tassista tossicchiò impaziente e i due si ricordarono
improvvisamente della sua presenza; si guardarono come due invasati. «Plaza San Miguel!»
Esclamarono in coro ridendo e l’uomo s’avviò borbottando.
*
Olivia
era in piedi da un po’ che cercava di stendere le pieghe sulla camicetta
di raso, traumatizzata dal lungo viaggio; era una ragazza mattiniera
–abituata com’era a levar presto le lenzuola per dirigersi alle
vigne- e del tutto autosufficiente. In questo si somigliavano molto, sebbene
Alfredo aveva messo a sua disposizione uno stuolo di aiutanti
per Legno di Quercia, nel suo piccolo anche Morena amava sbrigare le proprie
cose in completa autonomia.
Si
era rivelata una preziosa compagna di viaggio; Madrid si era presentata subito
come la realtà frenetica e megalomane quale era, ad un iniziale impatto,
presa dal panico, non sarebbe sopravvissuta senza la calma e il pragmatismo di Olivia. Benediceva la sua razionalità ed osannava
i suoi silenzi, quando sapeva che le parole erano di
troppo e che la costante vicinanza poteva farsi rancida.
Si
era svegliata con un gran mal di testa, colpa certo di Don Mariano NietoCabrera –un tale
presso il quale Alfredo le aveva raccomandate in caso di necessità- e
del buon vino tinto che i suoi vigneti producevano dalla notte dei tempi e con la quale aveva annaffiato la cena della sera prima;
sospettava che il poveretto –in età avanzata e scapolo
d’oro- si fosse innamorato della bella Olivia e che per questo le
assistesse più del dovuto, ma poco male si diceva, Mariano era un
inesauribile fonte di meraviglie da assaporare e godere nella capitale,
tenutario delle amicizie più influenti della città e in
più, le aveva sistemate in un delizioso appartamento di modeste misure
alle spalle di PlazaMayor.
«Buongiorno.. commissioni in vista?» Biascicò, passandole
accanto; quella alzò gli occhi trucidandola con lo sguardo. Solo allora
notò i fiori sul tavolo da pranzo. «Cabrera?
Ancora?»
«Stamattina
ha mandato un mazzo di fresie bianche, ha scritto, come il colore della nostra amicizia.»
Adagiò la camicetta al petto e si diresse al grande specchio
all’ingresso, incastonato in un mobile d’acero. «Una vera
volpe, non c’è che dire.» Trillò dall’altra
stanza. «Peccato io non sia minimamente interessata.»
«E lui lo sa?» Rispose divertita Morena, vedendola
spuntare nuovamente.
«Sto
per andare da lui.»Cambiò espressione, seria, immobile; Morena smise di ridere
chiudendosi nelle spalle.
«In
bocca al lupo.»
«Mi
serviranno.»
«Non
maltrattarlo troppo, ti prego. Non vorrei che Alfredo si ritrovasse un amico in
meno.»
«Tuo
marito dormirà sogni tranquilli, invece.»
Ridacchiò. «Se è un accordo quello
che vuole, che si chiami matrimonio sociale o d’interessi, a chi vuoi che
importa?»
«Non.. ti seguo.»
«Secondo
te perché Alfredo ha così insistito che venissi io a
Madrid?»
Morena
allargò gli occhi stupefatta. «No.. Alfredo vuole combinarti con Mariano?»
«Chiaro
come acqua!» Sentenziò. «Ma io invece gli combino un affare
di quelli che lo faranno cadere dalla sedia, quando glielo comunicherò.» Dosò bene una pausa di silenzio e
proseguì. «Sulla base della nostra amicizia, il buon Mariano NietoCabrera, non può
negarmi un matrimonio fra le nostre viti;
per mio contro gli assicurerò una buona
percentuale sul fatturato e un amore sconsiderato quasi fosse un figlio.
Potrebbe essere il fiasco più totale, magari invece il successo che gli
manca. Di certo, a differenza di un matrimonio, vero, potrà tornare indietro senza perdite, e al contrario
dello stesso, avrà solo che da guadagnarci.»
Morena
la fissò incredula. «Un innesto delle vostre viti?»
«Un
matrimonio è la parola chiave.
Se le aspettano entrambi.. perché
deluderli?»
La
fissò sinceramente colpita. «Devi assolutamente metterti una delle
mie gonne.» Sentenziò alzandosi e
spingendola affettuosamente per il gomito, verso la sua stanza. Aprì
l’armadio e vi estrapolò una longuette
di quelle strette sui fianchi e leggermente morbide sul fondo
perfettamente intonata per colore e tessuto alla camicia che aveva avuto
tanta accortezza di rimettere a nuovo. «I tuoi pantaloni alla garçonne
per oggi possono restare a casa. Provala, ti starà bene, abbiamo più o meno la stessa taglia.»
Olivia
la guardò perplessa; alzò gli occhi al cielo e sbuffò.
«Ce l’ho da prima che scoprissi di essere
incinta. Volevo metterla per il colloquio al consolato ma..
indovina? Non mi entra.» La ragazza la prese
esitante e sempre esitante prese a spogliarsi per indossarla. Morena le
procurò la camicetta dalla stanza attigua e quando tornò fischiò.
«Stai
benissimo!»
Olivia
annuì, senza fiato. «S..sembro altissima.»
«Lo
sei.»
«E guarda qui che gambe!»
Morena
annuì. «Non volevo dirtelo ma.. siamo in
città, devi riguardare un po’ il tuo stile. Se vuoi possiamo
pensarci insieme, mia zia mi ha istruito su tutto.»
E
quando pensò a Milagros si rabbuiò in
viso; Olivia fra una piroette e l’altra
s’accorse del troppo silenzio, impallidì e voltandosi le mise una
mano sulla spalla. «Non ti senti bene?»
«Ho
solo bisogno di sedermi.» Raggiunse il letto a testoni, toccandosi la
pancia. «Mio figlio non ama i brutti ricordi.» Disse sorridendo
tesa. «Ti prego tienila, Olivia. Stai benissimo,
lo stenderai.»
La
ragazza scese la gonna lungo le gambe e si rivestì di tutta fretta.
«Non ti lascio sola.»
«Così
mi fai arrabbiare però.» Fece forza sulle braccia, rimettendosi in
sesto. «E’ già passata. E’ stato solo un momento di
sconforto. Sono una sciocca sentimentalista e mio figlio è già
abbastanza sveglio da averlo capito.»
Si
portò in cucina con passo tremante, ma inspirò profondamente per
non preoccupare ulteriormente la cugina che la seguiva con aria tramortita e
dubbiosa. «Non devi sforzarti.» La guardava dallo stipite della
porta, appoggiata. «Non avrò dei vestiti da signora. Non
sarò ricca. Ma so capire le persone. E mi basta
vedere la tua faccia adesso per sapere che non stai bene e non è per il
bambino.»
«Lascia perdere.» Mormorò l’altra
versandosi dell’acqua in un bicchiere.
«Insomma,
portarsi dietro una gonna che sai non potresti mai
indossare..» Proseguì senza darle peso. «Non abbiamo mai
parlato di noi. Ma io so che c’è qualcosa annidato nel tuo cuore,
che non riesci a sciogliere.»
Morena
posò rumorosamente il bicchiere sul bancone di marmo; aveva il volto
pallido e teso.
«Sono
nata povera, Olivia. Il mio cuore è pieno di nodi.»
«Ti
va, se ne sciogliamo qualcuno insieme?»
«Cosa stai cercando di fare?»
«Non
farlo.» L’azzittì lei. «Non mettere un muro. Lo hai
fatto anche quando ci siamo incontrate la prima volta; non permetti alle
persone di attraversarti. Perché?»
Morena
allargò gli occhi; l’aria intorno si era fatta dolorosamente greve
e quella ragazzina la guardava con affetto, anche se seria.
«Perché quelli che amoprima o poi se ne vanno via.» Soffiò, libera di
un peso che le gravava sul cuore. Sorrise per effetto e proseguì,
sbloccata. «Mia madre è morta quando ero
piccola. Mia zia era tutto ciò che mi rimaneva
di lei. Se n’è andata via perché io l’ho cacciata.» L’improvvisa
potenza della sua ammissione di colpa, la fece tremare e luccicare gli occhi.
«Attiro catastrofi, che lo voglia o meno.
Faresti bene ad andartene il prima possibile.»
Si asciugò gli occhi e scosse il capo, dandole le spalle.
«Non
puoi dire davvero..» Olivia l’aveva
avvicinata, carezzandole la schiena. «A meno che
tu non l’abbia uccisa, e non mi risulta, che colpa puoi avere della morte
di tua madre? E tua zia, sono sicura che avevi le tue
ragioni per mandarla via.» Morena sorrise e il suo corpo vibrò; si
voltò lentamente guardandola con il fuoco della verità nelle
pupille. «Davvero Olivia, non fa niente. Io sto bene. Ci sono troppi nodi
da sciogliere è vero, ma non voglio e non posso farli sciogliere a te.
Non sarebbe giusto. Tu vedi la vita come un’impresa da cogliere ogni
giorno. Sei mossa da una scintilla di puro bene e ingenuità, ma sei
anche così forte.. io non posso spezzare i tuoi
sogni facendoti entrare nel mio mondo così oscuro.»
Olivia
si fermò, levò la mano e la posò sulla sua spalla,
nuovamente; aveva un tocco gentile, rassicurante, i suoi occhi brillavano di
luce ferma. «Quando dicevo di averti immaginata
diversa, è stato perché non credevo fossi così vera, Morena. E
le persone vere hanno vite vere.
Soffrono. Dicono bugie a fin di bene, cacciano via le
persone. Ma poi si rialzano e vanno avanti, chiedono scusa e perdonano,
perché la forza ce l’hanno radicata nelle
ossa, e un uragano è solo pioggerella d’estate per loro. La forza
è la nostra fede, amica mia.»
Alzò
gli occhi nei suoi, senza dire nulla, e s’abbandonò in un
abbraccio fatto di lacrime sommesse e silenzi che urlavano
come parole; Olivia la strinse a se, ridendo.
Perché è così che le persone forti
affrontano la vita.
Sorridendo.
Anche se le cose non sono andate come previsto.
Anche se i piani sono stati spazzati via da quella gran cosa
imprevedibile chiamata vita.
*
«Giù!
Sta giù!»
Lorenzo
lo prese per il braccio tirandoselo dietro ad un banco
di dolciumi; il mercato era tutto un fermento, all’ora di punta, le
signore si accalcavano ai banchi con le loro sporte cariche dei cibi,
malmenandosi fra loro come a una partita del Real
Madrid. In quel caos di colori, voci, sapori, l’occhio di lince di
Lorenzo non sfuggì di catturare la visione di Leonor e Benedicta che danzavano
intorno ad un banco di fiori freschi.
«Stanno
scegliendo qualcosa?» Chiese Javier ansioso.
L’amico
si rialzò di poco per controllare. «Fiori. Ancora fiori! Mia nonna
dice che la chiesa di San Isidro
domani sarà un campo della statale. Le donne non ne hanno mai
abbastanza?»
«Servono
per farne bracciali per la testimone.» Berciò
Javier scuotendo il capo. «SeLeonor mi vede spuntare le viene un colpo. Dobbiamo
dividerci.»
Lorenzo
si toccò il mento. «Io le distraggo. Tu fa
il giro largo e vedi se il padrone può farti un mazzo di
sottobanco.» L’amico gli batté la mano e si dileguò
alla sua sinistra, quello fece per alzarsi, quando un’incantevole ragazza
lo scontrò; aveva le gambe più lunghe che avesse mai visto.
E un sorriso da fine del mondo.
«Disculpe..»
Esalò dalle labbra rosa, muovendosi a destra e sinistra. «Disculpe..»
Proseguì, leggermente irritata, indicando il passaggio con la mano;voleva passare
oltre, ma la sua mole glielo impediva.
Sorrise
imbarazzato per non aver capito e tentò di riprendersi.
«Mi
scusi. Sono un vero sciocco, prego!» Si scostò e quella lo
oltrepassò sbuffando; affilò il sorriso da sbruffone e la
trattenne leggermente per il braccio, portandosela al fianco. «Non
fuggite via senza prima avermi detto il vostro nome.
Avete un sorriso tanto bello che sarebbe un peccato lasciarlo
nell’anonimato.»
Quella
inarcò un sopracciglio guardandolo disgustata. «Non mi piacciono
gli sbruffoni, tanto piacere.» Cantilenò
soddisfatta, allungando la mano; Lorenzo piacevolmente colpito allungò la mano libera con una faccia da schiaffi, ma
quella lo strattonò con tale forza che riuscì a divincolarsi.
«Incantato»
Mormorò, vedendola sparire.
Javier raggiunta la meta, mimò indubbi gestacci con la mano
per esortarlo a raggiungerlo; inspirò e impettì
le spalle, sbottonò la giacca e con passo da leone raggiunse
l’amico, o meglio, le due cugine ignare della manfrina che stava per
proporgli.
«Avete
visto passare la donna della mia vita?» S’annunciò con il
sorriso; le due levarono il capo da un’esposizione di rose bianche, per
fissarlo truci.
«Che ci fai qui?» Brontolò Benedicta irritata. «Ti avevo detto
che questa era zona nostra!»
Sussurrò fra i denti.
«Ho
seguito la scia di una donna bellissima. L’avete vista per caso? Capelli
biondi e lunghi, occhi azzurri da cerbiatta.. era
proprio qui.» Finse di cercarla voltandosi su se stesso un paio di volte, maLeonor scavalcò
la cugina e gli batté un colpo sul braccio.
«Sei
solo? Javier non deve vedere le mie composizioni!
Prega che non sia qui intorno o puoi pure dire addio alla tua donna dei sogni,
chiaro?» Dichiarò con voce stridula; Javier
aveva ragione, le sarebbe venuto un colpo.
Guardò
alla sorella indicando con un leggero movimento del capo il bancone alla sua
sinistra, questo dopo aver preso Leonor sottobraccio
e distratta con mille chiacchiere che non arrivavano a nessuna parte.
Benedicta allora aveva girato il banco su stesso e per
poco non urlò, quando vide Javier
con un mazzo di rose rosse dallo stelo lungo e assolutamente perfetto; il
ragazzo le tappò la bocca giusto in tempo, si accucciò al suo
orecchio e bisbigliò.
«E’
una sorpresa, non agitarti. Abbiamo prenotato una macchina che ci
porterà a Barcellona per il bagno di tradizione, vi abbiamo raggiunte di proposito, ok?»
La ragazza annuì, lasciò cadere la mano. «Prendi le
composizioni e con una scusa portale subito a San Isidro, ti veniamo a prendere lì.»
Benedicta protestò. «Ma
così mi perderò tutto lo spettacolo!»
Javier batté un piede impaziente. «Vuoi che a tua
cugina venga un infarto?»
Lo
fulminò con sguardo scintillante e lo scansò; con fare da
maliarda s’avvicinò al giovane banchista, che li aveva sorpresi a
bisbigliare come due malavitosi e li stava guardando
adesso parecchio preoccupato, per rubargli una telefonata; tornò dopo
poco, con un sorriso raggiante. «Li verranno a ritirare per mio conto. Pablo è stato così gentile da acconsentire di
tenerli in fresco fino ad allora e lontano dalla tua
vista.» Lo sgomitò con aria di sfida. «Non mi perdo lo
spettacolo.»
«Via
libera.» II giovane banchista, Pablo, confermò
alzando il pollice; Javier sospirò, vinto
dall’ansia.
Benedicta levò la sua faccia da ragazzina
dispettosa per sorridergli affettuosa. «Andrà tutto bene.»
Gli sistemò il colletto della giacca, ravvivò le rose e
accarezzò con voce flautata tutte le sue paure. «Sei perfetto.
Vai!»
Annuì,
uscendo dal retro.
Leonor era ancora stretta al braccio di Lorenzo e sembrava ridere
di quello che il ragazzo castano le andava raccontando; riuscì a captare
qualche parola, le sembrò di udire qualcosa riferito ad una ragazza con
un sorriso bellissimo, ma poi tutto si fece sbiadito, quando ella
si voltò; il suo meraviglioso viso assunse varie espressioni dallo
scioccato, al perplesso, alla serenità e infine, ma non ultima, alla
felicità.
«Por ti.»Disse, con voce roca; le si avvicinò
piano, porgendole i fiori per poi abbracciarla. «Oggi è
l’ultimo giorno delle nostre vite, Leonor;
domani ci attendono di migliori, ma insieme.»
La
ragazza si commosse, nascondendo il volto in un abbraccio. «Credevo ti avrei visto solo domani. Riesci sempre a
stupirmi, Javier.»
«E non è tutto.» Rise, portando via le lacrime dagli
occhi azzurri e innocenti di Leonor. «Andremo a
Barcellona, io, te, Lorenzo e Benedicta. Che mi
ucciderà perché è ancora lì dietro che ci sta
guardando.»
«Ah,
tremenda!» Si voltò e la cugina uscì dal nascondiglio di
vasi e piante, ridendo. «E tu..» Disse
rivolgendosi a Lorenzo con dito contro e il sorriso stampato sul viso. «Non
cederò mai più alle tue chiacchiere strambe,
sappilo!»
«Dicono
tutte così..» Rispose il ragazzo,
attratto poi da qualcosa alle loro spalle.
Javier si voltò curioso.
Benedicta corse ad abbracciare Leonor.
Proprio
in quel momento, la ragazza dalle gambe più lunghe del pianeta
sbucò sulla loro traiettoria.
*
L’incontro
si era protratto più del previsto e Mariano Cabrera,
un osso duro che aveva mal giudicato.
Ma sua madre glielo diceva spesso; gli uomini non mettono i sentimenti
di fronte agli affari e questa, era la prima lezione che andava imparata da
loro. Aveva cercato di metterla in pratica fedelmente e tutto sommato non era andata male, considerando che Cabrera
aveva voluto in cambio solo il trenta per cento del fatturato e qualche
garanzia sui terreni dove avrebbe impiegato gli innesti così che avrebbe
avuto licenza nel dire che l’idea era sua, figlia di quel sogno che aveva
fin da ragazzino di fortificare gli appezzamenti di Spagna con la sua uva.
Olivia
acconsentì anche a quello; certi personaggi andavano compiaciuti
nutrendo il loro ego, per preservare i propri scopi, così se quella
piccola omissione le permetteva di allargare il giro di vendite e introiti, non
le sarebbe costata molta fatica dichiarare che il grande
viticoltore, Mariano NietoCabrera,
l’aveva onorataproponendole
tale accordo.
Alfredo
si sarebbe trovato compiaciuto e nutriva il desiderio di metterlo
al corrente il prima possibile, non prima di comunicarlo con dovizia di
particolari e risate, alla ormai amica Morena.
Pensava
a lei, al suo tremore, alle sue parole grevi e provava
un’infinita tristezza.
Capì
come si sentisse e trovò una benedizione che il
buon Dio l’avesse mandata ad Alfredo, un uomo altrettanto colpito dalle
vicissitudini della vita ma di buon cuore e buon carattere, perché essi
si completavano a vicenda.
Dal
canto suo le si era affezionata e nutriva per lei il
bene che si prova per un parente; le cose si sarebbero messe a posto e tutti,
finalmente, avrebbero goduto di pace e armonia.
«Morena!»
La
trovò raggiante all’incrocio fra due banchi, l’ombra della
donna sconfitta che era stata, svanita.
Si
erano date appuntamento al mercato, che a mezzogiorno
era ormai campo di nonnine avvizzite che cercavano di spuntarla sui costi
aprendo dispute e tarantelle con i banchisti.
Si
era vestita di tutto punto -le aveva detto che non
avrebbe permesso a certi ricordi di guastarle la giornata- e non poté
che assentire, dato il meraviglioso vestito a ruota che aveva scelto di
indossare, di un color crema che risaltava la sua ambrata; indossava più
gioielli, sobri certamente e presenti in punti strategici, le spalle scoperte
riparate da un giacchino in fantasia vichy color carta da zucchero e quasi come un richiamo alla
dolcezza del suo viso, la sua pancia arrotondata dalla maternità.
Si
presero sottobraccio e cominciò a raccontarle dell’incontro,
impaziente e piena di parole; Morena l’ascoltava attenta,
sorridendo a tratti ma mai interrompendola.
Mai.. fino a quando nell’impeto del racconto, Olivia non
finì contro delle spalle solide; alzò il viso tramortito dal
colpo e s’irritò. Un giovane.,quel giovane sbruffone, la guardava con
una faccia da babbeo.
«Ci incontriamo ancora..» Mormorò flautato.
«Che fortuna.» Si ridestò lei, sistemandosi i capelli scocciata. «Mi fa passare o ha intenzione di
intrattenermi ancora?»
Fu
allora che Morena parlò, uscendo dal raggio della figura di Lorenzo; un
ragazzo dall’altra parte dello stesso raggio, vedendola sussultò.
«Credo
d’essere di troppo.» Borbottò divertita avanzando passi
oltre la figura di quel giovane distinto, dagli occhi affilati di chi sa d’essere piacente e non fa nulla per nasconderlo e
solo allora, alzando lo sguardo, notò le altre figure dietro di lui.
Una ragazza, bellissima e dalla pelle candida e
un’altra, altrettanto bella da sembrare sorelle.
E un ragazzo. Quel
ragazzo.
Si
fermò.
Era
Javier.
Si
guardarono, incatenandosi con gli occhi, incapaci di parlare, muoversi,
proferire alcun fiato che determinasse vita nei loro
corpi immobili; sguardi spenti, labbra come linee dure e tese, mani serrate ai
fianchi.
Morena
vibrò per prima e Javier s’agitò,
mangiando con gli occhi la sua figura così diversa, così nuova e piena.. di
vita; le sembrò di sentirlo fremere, un gemito di sorpresa e dolore.
Non
riuscì a dir nulla. Neanche sforzandosi e lui, si fece sempre più
cianotico e cupo.
Poi
cambiò espressione, e dal dolore che gli marchiava brutalmente il viso,
passò a uno fiero. Al veleno.
La
testa di lei mulinava pensieri come vortici, mentre
una delle due ragazze bionde al suo fianco, lo guardava perplessa e con
un’ombra di paura sul viso; si mosse impercettibilmente, tentando di
reagire al nulla che la sovrastava e schiacciava in quel corpo ora pesante e
denso, ma quel gesto lieve mosse nel ragazzo una scarica elettrica che lo fece
rinsavire dalla rigidità degli arti.
«Javier, cosa hai, non ti senti bene?» Chiese Leonor con una punta di angoscia,
aggrappandosi al suo braccio; Morena percepì il gesto confidenziale, il modo
in cui la giovane si era stretta a lui apprensiva, e la dolce cadenza delle sue
parole. Solo allora, notò il diamante che se ne stava appoggiato sul suo
anulare.
Trasalì
e strinse forte le labbra fino a farle sanguinare.
E provò la stessa medesima rabbia che aveva visto nello
sguardo fiero di lui, che perfetto padrone dei suoi gesti e movimenti,
circondò con affetto le mani della ragazza con le sue, confortandola.
«Sto
bene, non preoccuparti. Mi era sembrato di vedere qualcuno che conoscevo.»
«Mi
hai fatta spaventare.»Proseguì lei con voce bassa, piegandosi al suo orecchio. «Chi è costui?» Aggiunse poi con aria leggera e
divertita.
«Nessuno.» Rispose sorridendole.
«Accidenti, se era petulante!» Olivia si era
messa nuovamente al suo braccio, scartato il giovane; sbatteva le lunghe ciglia
nere mandandosi aria con la mano. «Dicevamo? Ah sì, di Cabrera e quindi.. Morena, ma dove
guardi?» Seguì con lo sguardo gli occhi della ragazza ma di fronte
a lei si apriva solo uno spiazzo vuoto. «Tesoro non ti senti
bene?»
«Sì.»
Sospirò, nella nauseante sensazione che qualcosa dentro di lei si fosse spezzato. «Ho male.»
Non
se lo fece ripetere due volte, le tastò il viso e la fronte e si accorse
immediatamente che Morena era accaldata e bagnata fradicia; le teneva stretta
la mano, mentre infilate in un taxi di corsa correvano all’hospital.
Non
sapeva nulla di gravidanze e puerpere -a dirla tutta avrebbe preferito rimanere
all’oscuro ancora per un po’- ma era
chiaro che qualcosa in quella ragazza si era attivato per farle mettere al
mondo la sua creatura.
Benedisse
l’iniziativa di intrattenersi oltre e scrivere due righe –nel
salotto buono di Cabrera dove avevano sancito i patti
sulle viti- alla misteriosa zia di Morena che a suo dire aveva cacciato via da Fuentesauco, mossa da un’innata propensione alle
riappacificazioni di famiglia ma soprattutto mossa dal bene e dal dispiacere
che aveva provato quando l’aveva vista soffrire
per quella situazione.
Con
la posta in partenza a mezzogiorno, la signora avrebbe avuto notizie della
nipote in giornata –le faceva sapere fosse a Madrid- e se avesse avuto buon cuore, poteva sperare di
vedersela arrivare in città in giornata.
Ci
sperava, la presenza di un’adulta era strettamente necessaria per la
venuta di quella creatura che altrimenti si sarebbe trovato a
elargir vagiti fra due ragazzine alle prime armi.
«Oh
que dolor!»
Scosse
il capo mandando via gli angoscianti pensieri e trafugò nella borsetta
delle monete per una chiamata ad Alfredo; loro se la sarebbero
cavata, dopotutto, ma come faceva a dire a suo cugino che la moglie
stava per partorire a trecento chilometri da casa?
«Un
nome, Olivia..» Rantolò Morena distesa
sulla lettiga in un asettica camera dalle pareti
nocciola. «Non ho nemmeno scelto un nome da bambina.»
La
ragazza aprì gli occhi; si era appisolata nell’attesa che
arrivasse un medico. «Credo che qualsiasi nome ti venga in mente adesso vada scartato. Sei troppo agitata!»
«Non
sarei dovuta venire.» Bisbigliò in un lamento e Olivia si riscosse
del tutto.
Quelle
parole.. le suonavano davvero familiari.
Ci
pensò un po’, diversivi certo per non farsi travolgere troppo dal
patos del momento, quando udì del trambusto dal corridoio alle sue
spalle.
«Niña?!»
La
porta si spalancò e una donna dalle fattezze brune entrò nella stanza;
era benvestita e stringeva fra le mani un ombrellino per ripararsi dal sole. Si
guardarono velocemente, prima che Morena lanciasse loro degli sguardi carichi
di domande, ansia e disperazione.
«Milagros?» Chiese scandendo ogni lettera.
«Olivia..» Borbottò inspirando.
«Prima
che arrivi Alfredo ci vorranno delle ore.» Sottolineò, sperando che l’amica recepisse il
messaggio e abbandonasse una guerra inutile di parole. «Io sono Olivia Herrero, signora, cugina di Alfredo.
Vi ho scritto questa mattina.»
Milagros alzò gli occhi. «Un gesto di cui vi
sono molto grata.» Poi la fissò attentamente. «Siete Herrero di Villaescusa?»
Olivia annuì. «Conoscevo vostro padre. Una
grande uomo.» E si girò nuovamente
sulla nipote accarezzandole i capelli senza dire una parola; si attardò
sulla scena di queste due donne in preda all’amore e all’odio, alle
cose non dette, a quelle dette senza senno e sentendosi di troppo, andò
via sospirando ma fiduciosa.
Alle
cinque del pomeriggio, trafelato ed emozionato, arrivò in Madrid anche
Alfredo.
La
Velasco, lo precedeva con la sua camminata impettita
e la valigetta dei suoi preziosi strumenti, lamentandosi degli spazi angusti
della struttura e della poca luce che entrava dalle finestre.
«Dare
alla luce, si dice!» Strepitò. «Estohijopiangerà
per la paura di questo posto, questo è certo!»
Alfredo
la rimbrottò. «Faccia il suo dovere e stia buona, che sono
già così agitato donnaVelasco.» L’uomo arrancava alle sue spalle, di
porta in porta, di scala in scala; finalmente arrivarono alla stanza prevista e
senza tante cerimonie, scavalcarono i medici presenti, accorrendo da Morena.
«Sono
la dottoressa Anita Velasco, ginecologa di Salamanca
da tre generazioni.» Si presentò a gran
voce fra gli sguardi attoniti dei medici e dei parenti intorno. «La
signora Soler-Roquez è una mia paziente in
quel di Fuentesauco, ho seguito fino ad ora la sua
gestazione, vi chiedo cortesemente di lasciare a me il
compito di far venire alla luce –e Dios ci aiuti tutti a trovarla in
questa stanza- il suo primo figlio.»
Una
donna annuì silenziosamente stringendo l’attestato di medicina che
la donna aveva portato con sé, passandole il camice e il bacile
d’acqua con del sapone; Anita ci infilò
le mani e cominciò a sfregarle fra loro. «Faccia uscire tutti i
parenti. Li rassicuri.» Bisbigliò. «Poi torni da me con un
resoconto dettagliato della situazione.» La
donna sparì e fece quanto richiesto.
Quando tornò, la ginecologa era già china fra le
gambe della ragazza.
«Ha
avuto le prime contrazioni a seguito della rottura delle acque, tre ore fa. Le
abbiamo somministrato della morfina. Dice di sentire
dei dolori lancinanti, ma ammette che il termine previsto del parto è
superiore alla trentasettesima settimana. La cervice si è
dilatata di due centimetri ogni ora, un po’ strano non pensa?»
La
Velasco alzò gli occhi e sorrise sardonica.
«Sarà un parto pre-termine,
cosa c’è di strano?» Puntò poi uno sguardo
fintamente distaccato e proseguì. «Lo aveva capito, vero?»
«Ce..certo.»
Rispose l’altra arrossendo.
«Può
capitare quando la paziente è molto giovane,
contrariamente a quello che si pensa, si incombe molto spesso in complicazioni
di questo genere. Ma il bambino è pronto, lo sento, e questo è
l’importante.» Si alzò, deterse le
mani nell’acqua e s’avvicinò a Morena. «Ci siamo quasi.
Vuoi che faccia entrare Alfredo?» Quella annuì flebilmente.
«Devi caricarti di tutta la forza che possiedi, piccola Morena. Dobbiamo
farlo nascere prima che la morfina arrivi a lui e tu potresti sentire dolore,
ma te ne dimenticherai, presto molto presto. Va bene?»
«Ce
la posso fare.» Disse aiutandosi con i gomiti a sistemarsi sulla lettiga;
la dottoressa le sistemò dei cuscini alla base
della schiena e le accarezzò i capelli.
«Vado
a chiamare Alfredo.» Poi guardò l’altro medico.
«Può cominciare a sterilizzare gli strumenti.»
L’uomo
rientrò in stanza malfermo sulle gambe; Morena
alzò gli occhi al cielo allungandogli una mano.
«Ti
prego non svenire proprio adesso.» Tentò di risollevare il morale
con l’unico effetto di vedere il bel viso di Alfredo
farsi più pallido di quello che era. «Non scherzo, ora. Sembra
proprio che stia per arrivare. Riccardo.. o non so chi
altro.»
Alfredo sorrise, un sorriso tirato che finì con il
fargli increspare la fronte in rughe sottili. «Potremmo
chiamarla Marta, se è una bambina. E’ un nome così dolce.
Olivia mi ha raccontato tutto.»
«Tutto?
Tutto cosa?» Tossì in preda alla paura.
«Della
tua avventura al consolato. Della sua con Cabrera. E di quello che è successo al mercato. Che ti sei
sentita male mentre stavate passeggiando..»
S’interruppe, la voce rotta dal pianto. «Non dovevo farti venire
quaggiù, non mi sarei mai perdonato se ti fosse successo qualcosa.»
Morena
gli strinse più forte la mano. «Sarebbe successo comunque e ne io, ne te, avremmo potuto fare altro. Senza
contare che sono più i momenti che passo con me stessa alla tenuta, che
in questa città; non si è mai soli qui, Alfredo.»
Girò il volto verso le finestre che davano sulla strada ed ebbe voglia
di piangere. «Mi manca la nostra
casa.»
Alfredo
la strinse a se e la baciò. «E tu manchi
lì. Partiremo non appena ti sarai ripresa, con nostra figlia o figlio finalmente, e ti prometto che non ti
sentirai mai sola.»
Lo guardò attentamente, soppesando il respiro; gli
prese nuovamente la mano e sorrise. «Voglio studiare Alfredo, voglio anche io
uno scopo nella mia vita che non sia dipeso da
nessuno. Non è l’amore o la tua presenza quello che mi manca per
essere felice. Io voglio essere. Questo
mi manca.»
«Lo
avrai. Non hai di che chiedere.»
Morena
annuì grata. «Marta è un bellissimo nome ed oggi ho
più che un motivo per amarlo tanto.» Lo
baciò tirandolo per il bavero. «Va a chiamare la dottoressa, sono
pronta.»
*
Calle
de Toledobrillava ai raggi del sole quella mattina del diciotto giugno millenovecentocinquantuno.
La
chiesa di San Isidro, una
facciata risplendente di granito bianco maestoso.
L’entrata
imponente era un tripudio di rose bianche e rosa candido, alternate a fili di erba in una semplice eleganza fatta di buongusto e
meraviglia; la cattedrale si apriva poi per un lungo corridoio alternato per i
lati da colonne corinzie intervallate da finestre dalla quale filtrava una luce
dorata fiabesca.
Al
centro esatto sui due lati, come un monito, le due cappelle che narravano e
innalzavano la storia del santo protettore della città, un umile
agricoltore dai portentosi doni, dal nome di Isidro o Isidoro,
per poi finire sull’altare a volta, ricoperto alle sue spalle d’oro
zecchino.
Non
era una giornata come le altre e Padre Ignazio che ben lo sapeva, stringeva fra
le mani la sua bibbia consumata dagli anni di sacerdozio in cui aveva avuto a
cuore l’insegnamento e i sacramenti della bambina che adesso, vestita da
sposa e ormai donna, stava percorrendo la navata stretta al braccio di suo
padre.
Quella
bambina era LeonorRuizDelgado, figlia di
Leonardo Delgado meglio conosciuto come il costruttore.
Ce
n’era voluto di tempo per di scegliere il
vestito che avrebbe indossato, ma quando aveva posato gli occhi su quel modello
dalle vetrine di Rafael Garcia in calle Arenal, aveva
capito d’essersi innamorata e che avrebbe fatto di tutto per averlo; HelenaRuiz, che fino a quel
momento aveva comandato i lavori come una gendarme, era letteralmente esplosa
in una valle di lacrime vedendoglielo addosso.
Era
di eleganza di altri tempi, molto visto fra le
principesse e i casati reali di tutto il mondo, a trapezio ma con ogni parte
totalmente a se stante e per nulla banale; il corpetto rivestito di pizzo era
aderente fino al punto vita, impreziosito tramite cucitura invisibile, da una mantilla dello
stesso pizzo spagnolo con il tradizionale motivo di fiori e forme geometriche
circolari che le copriva le spalle e le braccia fino ai gomiti. Dal punto vita
e fino ai piedi si apriva in una sontuosa gonna di raso morbido dritta sul
davanti e leggermente asimmetrica sul dietro, dove terminava in una lunga coda
lucida e vaporosa.
Era
bella, bella da mozzare il fiato e camminava per la
navata come se fluttuasse.
Javier la guardava fiero ed emozionato nel suo tight di tre pezzi di alta sartoria, sui toni del grigio e le sue sfumature,
con il pantalone in tessuto fresco più scuro e il panciotto color
ghiaccio dalla quale spiccava la camicia bianca e il cravattino dello stesso
colore del gilet; non gli era stato permesso di indossare la divisa di gendarme
in quanto non ancora un graduato, ma poco male, la giacca del completo stretta
in vita e con la coda di rondine posteriore, gli risaltava la figura magra e
slanciata in modo assolutamente divino.
E se Javier aveva dovuto rinunciare
alla divisa ufficiale, fra i banchi della chiesa c’era tutta l’alta
uniforme di Madrid, generali, ufficiali, capitani, tutti stipati nel loro
manipolo di gloria e autocompiacimento; sfilavano poi i migliori fra avvocati,
notai, giudici e qualche politico stretti a braccetto in un valzer
d’ovvietà.
Tutto
gridava opulenza, ma nei brevi istanti che Leonorimpiegò per raggiungere lo sposo all’altare, la
chiesa di San Isidro trattenne il respiro come fosse
in apnea.
«Sei
bellissima.» Mormorò lui, baciando il padre sulle guance ed
accogliendola al suo cospetto; le alzò il velo con lentezza straziante,
incontrando i suoi occhi colmi di serenità e forza. «Ci
siamo.»
«Ci
siamo.» Ella annuì, lasciandosi condurre
all’altare.
«Il Signore benedica questianelliche vi donate scambievolmente in segno di amore e di fedeltà.»
La predica di Don Ignazio fu breve e coincisa come
richiesto; la tradizione, in Spagna, voleva che i matrimoni fossero celebrati
in tarda sera, un po’ per contrastare le calure del clima ma anche per
far sì che i preti si perdessero in salamecchi
senza fine che portavano direttamente a tavola, ma in questo caso, le regole
erano state cambiate da entrambe le famiglie e dagli sposi stessi, che avevano optato per una cerimonia di giorno, leggera e senza inutili
tiritere sul disegno divino della coppia, parabole e misteri che servivano solo
ad allungar il brodo già freddo.
«Amen.» Risposero
tutti in coro.
Javier
sfilò il suo anello dal cuscino che la testimone, Benedicta,
stringeva fra le mani come una reliquia preziosa; si voltò esultante e
lo portò all’anulare di Leonor,
guardandola dritto negli occhi.
«Io
accolgo te, come mia sposa. Con la
grazia di Cristo, prometto di esserti
fedele sempre,nella gioia e
nel dolore, nella salute e nella malattia,e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.»
Al
cenno di infilarle l’anello tremò, vinto dalle palpitazioni che il
cuore pulsava scalmanato; guardò ancora quella ragazza, quella donna, così piena di vita,
ingegno, passione e si ritenne un uomo davvero fortunato.
Era
sua.
Voltò
poi lo sguardo verso le panche dove era seduta sua madre, che gli sorrise; non era solo felicità, era di
più.
Rivincita,
riscatto, orgoglio e Dio solo sapeva cos’altro
o perché.
Nell’infelicità
del suo animo, lo aveva fatto incappare in quella creatura meravigliosa che era
la sua sposa e che con lo stesso sguardo, ora, lo implorava di far scivolare quell’anello al suo dito; lo trattenne ancora
portandoselo infine alle labbra dove baciandolo, fece sì che quelle
promesse divenissero realtà.
«Io
accolgo te, come mio sposo.Con
la grazia di Cristo, prometto di
esserti fedele sempre,nella gioia e
nel dolore, nella salute e nella malattia,e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.» Recitò a
sua volta Leonor, con voce ferma e gli occhi che
brillavano; inspirò a fondo, prima di
ricambiare il gesto solenne e pensò a dove l’aveva condotta
aspettare che quel ragazzo si accorgesse
di lei.
Poi
fu un attimo, capì; quella ragazza al mercato..nessuno aveva detto lui.
Spalancò
gli occhi e si trattenne visibilmente turbata, ma Javier
la guardò sicuro e forte, accarezzandole dolcemente la mano con
l’anello fermo a mezz’aria carico di voti; quello sguardo valeva
più di cento parole.
«Ti
amo.» Mormorò lui, come se avesse udito i suoi pensieri e Leonor sospirò, lasciando che la fede scivolasse al
dito, di quello che i voti nuziali dichiararono poi, essere suo marito.
«Per
il potere conferitomi dalla Chiesa, io vi dichiaro marito e moglie.» La voce da baritono di Don Ignazio sovrastò
il silenzio; guardò ai due giovani invitandoli al bacio consueto e
stringendo le loro mani come una benedizione, si riferì alla folla.
«Vi presento la signora e il signor La Fuente.»
Fu
allora che Javier fece scivolare la sua mano intorno
al collo bianco di Leonor e le scoccò un bacio
degno da cinema; in men che non si dica,
scattò l’applauso e le persone presenti ripresero a respirare,
dando sfogo agli istinti festanti con fischi e ululati degni delle taverne del
più pittoresco dei posti.
Ma questa era la tradizione; era nata una nuova famiglia.
«Mi
hai fatto penare fino all’ultimo.» Sussurrò Javier offrendole la mano; gli invitati stavano a mano a mano ridiscendendo la navata per guadagnare
l’uscita, tutto intorno le damigelle e i parenti si congratulavano fra loro;
Leonor li invitò affettuosamente ad attenderli
fuori, ostentando sorrisi e ovazioni, poi si voltò verso Javier e lo guardò seria. «Paura che sarei
scappata?»
«Un
po’.» Ammise lui, più divertito che impaurito.
«E’
il più bel giorno della mia vita, signor La Fuente.» Pronunciò con aria sognante, prendendo la
mano del suo sposo e conducendosi lentamente verso il portone.Il riso era pronto nei cartocci rosa
pallido, ma prima di oltrepassare l’uscita si fermò, stringendosi
più forte a quella mano. «Nessuno
avrebbe impedito che si compiesse.»
Javier annuì con un espressione dolce
in viso; si sistemò il cilindro sul capo e batté compitamente il
bastone in terra come un vecchio duca. «Nessuno.»
«Evviva
gli sposi! Evviva gli sposi!»
Il
riso volò alto in cielo e solo allora ebbe inizio la festa.
*
«Morena..»
Qualcuno la chiamò dal fondo di un sonno pieno di sogni; aprì
piano gli occhi, controvoglia e si trovò davanti la commovente immagine
di suo marito con al petto un bambino . Loro figlio. «Oh, la mamma si
è svegliata finalmente.» Distolse lo sguardo dal neonato e lo
posò su di lei; la giovane annuì, allargando le braccia.
«Non
era un sogno.» Pronunciò, investita dal calore di quel corpicino agitato. «Chi abbiamo
qui?» Esalò stupefatta. «Riccardo.» Rispose Alfredo
con voce roca, dal piglio orgoglioso. «Riccardo Soler Roquez.»
«Un
maschio!» Strepitò Morena, abbracciandolo e annusandolo; sapeva di
un odore sconosciuto, di sapone costoso, bucato forse e solo allora notò
la tutina che aveva indosso. Guardò ad Alfredo inarcando un sopraciglio.
«Tua
zia.» Annuì lui.
«Non
importa.» Senza dire altro lo spogliò, portandolo al petto, contro
la sua pelle; il bambino reagì cercando il suo seno, Morena lo aiutò
ad arrivarci con mani delicate e inesperte. «Ho sentito dire che il calore corporeo li aiuta a creare una sintonia
con la madre. E’ una cosa che toglie il fiato.» Tirò
indietro la schiena e si abbandonò alla poppata vigorosa del piccolo;
con una mano invitò Alfredo a sedersi accanto, visibilmente impacciato e
inesperto quanto lei. «Possiamo parlare, adesso.» Rise del laconico
uomo che le stava vicino. «Come stai? Come sono andate le cose?»
«Quando è venuto al mondo, hai perso i sensi per lo
sforzo. La Velasco mi ha preso a schiaffi per non
permettere che svenissi anche io. Ha detto che
dovremmo pensarci seriamente prima di mettere in cantiere il prossimo.»
Morena
rise e il bambino protestò. «Brontolone..»
L’incalzò affettuosamente. «Mi vuoi già tutta per te?
Ti prego Alfredo continua, mi sembra di essere stata lontana da qui per troppo
tempo.»
«Quando
me lo hanno fatto tenere in braccio la prima volta
sono scoppiato a piangere come un ragazzino, ci credi? Lo tenevo stretto e non
sapevo dove mettere le mani, come stringerlo, se parlargli. Dios, ho pensato, hai maneggiato
cose più fragili di questa e dalla quale dipendeva la tua vita, hai
paura ti tenere in mano tuo figlio?
Poi ho capito che avevo paura perché insieme a
te lui è la cosa più importante della mia vita adesso e tutto il
resto si è annullato.» Prese il respiro, profondo, e
continuò con gli occhi un po’ più lucidi. «Ti guardo
e sono così fiero di te. Sai esattamente cosa fare, senza che nessuno ti
abbia mai insegnato niente. Penso, che non c’è cosa più
bella del mistero che aleggia intorno alle donne quando
diventano madri. E’ un vero miracolo.»
«Spero
di essere all’altezza della fiducia che riponi in me.»
«Non
dovrai fare tutto da sola, comunque.»
«Che vorresti dire?» Mormorò spaventata.
Alfredo
sorrise, stringendole forte la mano. «Che potrai contare su di me e
Olivia.. e tua zia Milagos
mormora di trasferirsi a Salamanca per i primi mesi in cui ti servirà
aiuto. Le ho già detto che non serve che faccia
questo, ma è girata sui tacchi ed è sparita.»
«Non
ci posso credere.» Morena si portò un braccio sugli occhi
afflitta. «Quella donna è una mina vagante Alfredo, sappi che non
ce la leveremo di torno tanto presto.»
«Non
faccio i salti di gioia ad averla intorno, ma è
una donna adulta, sa come aiutarti.
Ma se ti reca fastidio..»
«No,
non preoccuparti ci penso io. Delineerò i
confini e farò in modo che ci resti.» Levò il braccio dagli
occhi e aiutò il poppante ad attaccarsi all’altro seno; il bambino
però sbruffò piccole bolle di saliva prima di gorgogliare e
chiudere gli occhi insonnolito. «E’
così piccolo.. credi che potrei tenerlo a
dormire qui vicino a me?»
«Ti
chiamo immediatamente la Velasco. E’ in una pensione qui vicino, ci metterò poco.»
Morena
lo trattenne per il braccio. «No! Lasciamola riposare, siamo in un
ospedale dopotutto, non voglio recarle fastidio per questa sciocchezza.» L’uomo si rimise seduto, guardandola con
amore. «Cosa ti fa sorridere?»
«Tu.. così.» E indicò lei e il bambino stretti nelle lenzuola. «Sono molto
fortunato.»
«Siamo, molto fortunati.» Aggiunse
lei, invitandolo sul letto; Alfredo si alzò e prese
posto accanto a loro. «Adesso che gli atti sono
a posto, pensavo di battezzare Riccardo prima di andare via, per la sua anima.
La cattedrale di Madrid è un posto bellissimo, potremmo provare
lì.» Alfredo trattenne un sorriso, ma Morena lo redarguì con un occhiata.
«Trovi ironico che io mi preoccupi dell’anima di nostro figlio? Don
Pedro venne a casa nostra in piena notte, quando
nacque Stella, redarguendo mio padre ed Elvira per averci messo così tanto prima di farla battezzare. Ero piccola e
udii tutto; parlava di inferno, anime dannate e.. ho i
brividi al solo pensiero.» Si strinse forte contro Alfredo, che le
passò una carezza vigorosa sul braccio freddo nonostante la calura
estiva. «Voglio che accada presto, solo questo.»
«Perdonami
se sono stato indelicato.» Le baciò i capelli e proseguì
serio. «Mi piace la cattedrale, ho avuto modo di visitarla in un mio
viaggio qui a Madrid di molti anni fa; il santo dalla quale prende nome, era un
contadino. Di buon auspicio, direi.»
«Oh
Alfredo, tu sei molto più di un contadino!»
La
porta si spalancò ed Olivia annunciò la sua sfolgorante presenza;
Morena e Alfredo la guardarono attoniti poi l’uomo scivolò dal suo
posto e si irrigidì accanto al letto.
«Non volevo origliare, ma comunque approvo la
scelta!»
La
ragazza posò cappello e soprabito sulla sedia appoggiata al muro
nocciola e si avvicinò a loro. «Come ti sentimammina? E questo bellissimo
bambino?»
Morena
alzò gli occhi al cielo. «Stiamo bene, grazie.» Sorrise e
proseguì. «Sono contenta che ti piaccia la cattedrale, sicuramente
avremmo tenuto conto del tuo parere.»
Olivia
alzò un sopracciglio. «Ho capito, parlo
troppo.» Guardò ad Alfredo improvvisamente stretto nelle spalle e
sospirò. «Dico solo che è un posto veramente magico.»
Morena
le strizzò l’occhio. «Hai sentito Alfredo? Con questo ho un
terzo voto a favore. Direi che dobbiamo fare di tutto
per averla!» Olivia tirò un sospiro di sollievo e guardò
l’uomo in trepidazione.
Alfredo
scosse il capo. «Mi attivo subito.» L’avvicinò
baciandola, accarezzò il capo del neonato e con un veloce saluto alla
cugina si portò fuori. «A più tardi!»
Rimaste
sole Morena invitò Olivia a prendere il posto
di suo marito. «Vuoi tenerlo?» Lei sorrise raggiante e dopo essersi
lavata le mani nel bacile prese il piccolo a se. «Morena ti somiglia
molto!»
Al di sotto della zazzera color caffè si nascondevano
furbetti occhi scuri, il viso a cuore e la pelle ambrata facevano ben pensare
che il piccolo Riccardo avesse ereditato praticamente tutto quello che
c’era da ereditare dalla sua mamma.
«Me
ne compiaccio.»
E non poteva essere altrimenti. Non avrebbe sopportato, ne era certa, fare i conti con le sembianze di ciò che era Javier, anche se era troppo presto per
giudicare e nessuno si era posto il problema di farlo.
Riccardo
era suo e questo era innegabile.
Cinque
giorni dopo, con il consenso di medici e il ben volere di Dio, Morena, Javier, il piccolo Riccardo ed Olivia si recavano in Calle
de Toledo per officiare la cerimonia di battesimo; il buon nome di Mariano NietoCabrera aveva fatto
sì che le porte venissero addirittura
spalancate per la famiglia Roquez, questo in vista
anche delle sessanta peseta versate dagli stessi per prenotarla. La chiesa era
fresca di addobbi, il parroco –tale don Ignazio-
aveva raccontato loro che nell’ultimo matrimonio officiato si erano avuti
così tanti fiori che sarebbero bastati per cerimoniare
funzioni per tutto il mese; Morena lo aveva guardato asserendo che a lei non
importava molto dei fiori, voleva l’anima del suo bimbo preservata dai
peccati e questo aveva fatto sì che il sacerdote capitolasse prendendola
a cuore.
Cinque
giorni erano assai pochi, ma vi era fretta di tornare in quel
di Fuentesauco, alle loro consuete vite e lontano,
molto lontano dai pericoli che la città aveva messo sopratutto
dinnanzi agli occhi di Morena.
«Non
vi ho mai ringraziato per questa nomina.»
Mormorò Oliva tenendo in braccio il bambino mentre
Morena sistemava il foulard nel colletto della camicia ad Alfredo. «Essere
la madrina di Riccardo è un onore per me.»
«Sei
quanto di più buono io conosca Olivia, non devi
ringraziarci.» Le rispose l’uomo sorridendo.
Morena
assentì. «Sono arrivata in questa città per sistemare gli
affari di famiglia; io e Alfredo. Me ne vado che ho
una cugina che è quasi una sorella per me e con un figlio. Tutto questo
deve pur significare qualcosa.» Poi si
voltò, guardandoli seria nei loro visi e i loro
occhi commossi. «Qualsiasi cosa accada, noi
saremo l’uno per l’altra; una nuova ed eterna famiglia.»
«Amen.» Sussurrò Alfredo
come se avesse udito una preghiera liturgica.
«Amen.» Mormorarono Olivia e
Morena.
La famiglia è
dove il cuore trova sempre una casa. StephenLittleword, scrittore.
NDA: Grazie a chi inserisce
la storia fra i seguiti/preferiti/ricordare.
Spero tanto che vi piaccia e di ricevere presto i vostri pareri.
Grazie.
In ultimo, vi posto i due sposini Javier e Leonor, così come li ho immaginati. Fonte:web
E troverete il modo. Abramo Lincoln, politico, 16° presidente USA.
Fuentesauco,
Maggio 1956.
Il pianto di un bambino
squarciò il silenzio della casa addormentata.
Alfredo alzò gli occhi turbato da quel lamento, si tirò su
velocemente e stiracchiandosi come poté accorse verso il figlio, nella
stanza accanto; accese le luci e il bambino scemò il pianto, allargando
le braccia.
«Sono qui» Gli sussurrò
all’orecchio, beandosi dell’odore delizioso che i suoi capelli
emanavano; il piccolo si strinse al suo collo affogando i singulti contro la
sua pelle. «Hai la fronte calda.» Mormorò spostandogli il
visino contro la sua mano grande e coriacea. «E
forse anche un po’ di febbre. Vogliamo andare a trovare la mamma?»
Il bambino annuì con il capo rituffandosi
fra le braccia del padre. «La mamma mi fa guarire.»
Alfredo sorrise, stampandogli
un bacio fra i capelli scuri e mossi. «La mamma è proprio brava a far guarire le
persone. Avanti, vestiamoci così glielo diciamo di persona.» Lo prese in braccio e
lo portò al catino, dove giaceva l’acqua calda per il bagno che
Clementina la cameriera preparava tutte le mattine, prima che il bambino si
svegliasse e fosse preparato per andare a scuola, così come volevano le
nuove leggi del paese che avevano sopperito del tutto
l’abitudine dell’istruzione in casa. Molte cose erano cambiate
nel tempo; Riccardo era adesso un bellissimo e vivace bambino di cinque anni,
aveva cominciato a parlare prestissimo e con un po’ di aiuto
da parte di entrambi i genitori, si era anche messo a scrivere le prime parole;
Morena aveva sostenuto fin da subito l’idea di passarlo ad
un’istruzione di primo grado e dopo i primi battibecchi con Alfredo
–più propenso a tenerlo in casa per non privarlo delle attenzioni
che un bambino necessitava e che a lui erano state negate- l’aveva
convinto che staccarlo dal nido e renderlo indipendente fin da subito gli
sarebbe giovato in futuro. Sarebbe diventato forte, diceva.
E aveva ragione, il bambino nutriva
già una spiccata propensione indipendente, era vivace in mezzo agli
altri ragazzini ma molto riflessivo fra gli adulti; ne erano
molto orgogliosi e Morena si ritrovava spesso a contemplare quel figlio nel
silenzio della sua stanza quando dormiva, mormorando che era impossibile che
una rozza contadina come lei avesse generato un bambino tanto sveglio. Alfredo
allora la stringeva a se e le diceva che era stupida
sì, ma nel pensar questo, le ricordava di quanto era stata intelligente
nell’innovarsi come persona e che non doveva mai dimenticare dove aveva
spinto propri limiti: Morena era diventata medico, difatti.
Cinque anni prima aveva svezzato quel
fagotto amorevole che era il loro figlio e successivamente
si era iscritta all’università di Salamanca; la Velasco –in pieno titolo d’amica a conti fatti-
appena saputo la notizia aveva smosso mari e monti affinché la ragazza
eseguisse praticantato presso di lei e che prendesse la specializzazione in
ginecologia; e così era andata –o meglio stava andando
perché la ragazza doveva ancora eseguirla- fino al momento di stallo che
vigeva in Fuentesauco da quando Pena era andato in
pensione, e il posto di medico era vagante; Morena allora aveva provvisoriamente
occupato quel posto fino a data da destinarsi.
«Mamma!» Esclamò il
bambino aggrappandosi al collo di Morena, mezzora più tardi allo studio;
la ragazza staccò gli occhi da alcuni tomi di anatomia
e guardò ad Alfredo con aria interrogativa, contraccambiando
l’abbraccio di suo figlio. «Sto male.» Svelò il
bambino, toccandosi la testa con un ditino. «Mi puoi guarire?»
Morena gli tastò subito la
fronte e il collo, alzandosi a recuperare un termometro dalla vetrina delle
medicazioni. «Alza il braccio..» Gli
solleticò il fianco e il bambino rise argentino, sbottonò di alcuni bottoni la camicia e gli infilò lo
strumento al di sotto della canottiera. «Qui ci vuole proprio un
po’ di sangue di drago.» Proferì
come se parlasse di un grande segreto del quale solo
loro due erano a conoscenza, riferendosi all’insulsa miscela che si usava
per curare il mal di gola che Riccardo, come tutti i bambini, mal tollerava.
«Non mi piace il sangue di drago.»
Sentenziò il bambino voltandosi verso Alfredo.
«Cosa avevamo
detto a proposito della mamma?»Incalzò lui.
«Che
guarisce le persone e che è brava.» Ammise il bambino.
«Gli facciamo vedere quanto sei
bravo anche tu?» Alfredo lo avvicinò, accarezzandogli i capelli.
«Anche papà prende sempre il sangue di drago
quando sta male, perché glielo dice la mamma.»
Il bambino arricciò il naso,
ammutolendo; Morena gli portò il cucchiaio alla bocca. «Se guarisci presto, papà potrà portarti ancora
sul trattore» Lui la guardò scocciato e l’aprì
controvoglia. «Non mi piace.» Insisté brontolando.
Morena gli sorrise
scompigliandogli i capelli. «Bravo il mio ometto.»
Alfredo lo rivestì, mentre la
donna scaricava il termometro per riporlo nella ciotola con il disinfettante, e
gettando un’occhiata ai libri sul tavolo mormorò. «Si
è svegliato piangendo, mi dispiace averti disturbata»
Morena si asciugò le mani e lo
raggiunse, abbracciandolo da dietro. «Non mi disturbate mai.»
L’uomo si voltò e la prese
fra le sue braccia a sua volta. «Ha la febbre?»
«E’ solo un
alterazione, credo dipenda da quel brutto mal di gola che si è
trascinato dietro. Niente scuola per un po’.» Sorrise,
appoggiandosi delicatamente alle labbra del marito; Alfredo la strinse
più forte, tracimando passione dalla bocca rovente. Morena si
staccò, quando il bambino sorrise di quell’improvviso
attacco del padre nei confronti della madre. «Tuo figlio ci prende in giro.»
«Tuo figlio ti somiglia troppo.» Sospirò cercando di
ricomporsi. «Come va lo studio?»
«Ho pochissima concentrazione questo oggi.» Scosse il capo passandosi
la mano fra i capelli. «Poco male comunque, il
sindaco mi ha avvisata dell’arrivo imminente del nuovo medico; entro
breve avrò tutto il tempo di dedicarmi alle mie passioni.» Si gettò nuovamente fra le braccia del marito che la
fermò, indicando il bambino con un cenno del capo.«Andrai ai
campi?»
L’uomo annuì e si
piegò per prendere in braccio Riccardo; Morena sull’uscio
schioccò un bacio al piccolo e uno a suo marito trattenendolo per il
braccio. «Di alla cuoca di preparare brodo caldo
di gallina. Ci vediamo a casa.»
Il progresso era ancora una cosa molto
lontana da loro, pensò, mentre ridiscendeva il corso principale del
paese con il fascio di libri stretti al petto; tutto attorno si muoveva lento e
sporadico il tocco di futurismo che aveva assaggiato a Madrid, tuttavia
visibile la dove si necessitava di cambiamento; nelle
case, adesso rivestite perlopiù di cemento grezzo –il sindaco
aveva dato il via ad un piano regolamentare che obbligava tutti i cittadini ad
adoperarlo nel tirar su le proprie abitazioni, concedendo comunque libero
arbitrio sulla provenienza e qualità- nelle strade che si avviavano
verso la pavimentazione –il corso principale era stato il primo
esperimento, i corsi minori erano alla mercé e alle disponibilità
dei cittadini che vi avevano dimora, con il risultato che fra baruffe e accuse
una strada su cinque si poteva direultimata veramente e bene- e nel clericato di Don Pedro,
che prendeva sempre più aspetto di un vero e proprio convento con
giardini e un ampio cortile, che aveva sostituito il campo di fango ed erbacce,
dove i bravi cittadini, anziani e bambini fra tutti, passavano il tempo vigilati
dall’occhio del buon Dio.
Era nata anche una piazza, battezzata
con il nome de
Españablasonato in tutto il
territorio, ma di buon auspicio per l’avvenire e vi erano state dispute
fino all’ultimo sangue fra i concittadini commercianti per ottenere una
posizione privilegiata su suddetta piazza con i loro chioschi o botteghe; vi
sorgeva una piccola locanda in passato, appartenente alla famiglia dei Portos, gli arrabattai del paese che erano riusciti a
spuntarla sui Ramirez, allevatori da generazioni, ma
la trattativa era finita in tragedia con Lauro Portos e Giuliano Ramirez al camposanto –i due si erano ammazzati a
vicenda con due colpi di fucile- e la povera Guendalina Ramirez
che per lo shock della morte del padre perse tutti i lunghi capelli e mai le
ricrebbero. Morena ci metteva gli occhi ogni volta che passava di là;
progettava di aprirsi uno studio tutto suo una volta presa la specializzazione
per esercitare a tutti gli effetti la professione di
levatrice, ma ovviamente la nomina del luogo non era delle più felici e
questo aveva fatto sì che il prezzo per acquistarla fosse diventato
improponibile, quasi che gli antichi proprietari desiderassero vederla
inghiottire in una voragine fatta di oblio e negazione. Non le erano mai
piaciute tanto le chiacchiere, per questo aveva accettato di occupare, seppur a breve termine, il posto del dottor Pena, così
avrebbe racimolato qualche soldo per farlo suo e non gravare troppo sulle casse
di famiglia, assumendosi a tutti gli effetti le responsabilità di quell’acquisto.
Una cosa era certa, non aveva perso le
buone vecchie abitudini e continuava a passeggiar fra la gente come una comune
mortale, nonostante da parecchio tempo non lo era
più; la costruzione del nuovo mulino aveva ampliato il commercio della
farina “Lorenzo Montenero” proprio come
aspirava Alfredo ed i primi introiti cominciavano a sonar nei loro forzieri,
anche se con qualche anno di ritardo; purtroppo, il clima continuava ad essere
la costante negativa per un contadino e questa, nessuna invenzione geniale
sarebbe riuscita a contrastarla.
«Buenos dias Morena!»
Una voce familiare richiamò
la sua attenzione. «Buenos
dias Olivia.» Si voltò sorridendo, la ragazza
minuta e bionda se ne stava allegramente appollaiata al braccio di Abel Vincente Del Carmen il
nuovo sindaco che aveva spazzato via Fernando “il vecchio” in una
decina di minuti, sindaco da svariati mandati e una vera istituzione nella
vecchia Fuentesauco. I due se la intendevano
certamente, ma più che affari di cuore per Olivia era
diventato un vero affare politico-sociale; la ragazza si era laureata in
architettura con il massimo dei voti tre anni prima, ma nonostante le terre e i
vigneti di Villaescusa, aveva quasi formalmente preso
cattedra in paese abbracciando la nuova filosofia di progresso di Del Carmen, che
animato da ardore nei suoi confronti le affidava qualsiasi incarico;
c’era indubbiamente anche una componente affettiva nel suo attaccamento a
Fuentesauco, da quando erano state a Madrid
–ormai cinque anni addietro- il baricentro degli affetti si era
innegabilmente spostato e il senso di famiglia, proprio come Morena aveva
pronunciato dinnanzi a Dio il giorno del battesimo del piccolo Riccardo, si era
fatto più forte e accentuato da una voglia di appartenere a qualcosa, a
qualcuno. «Sindaco..»
L’uomo ricambiò il saluto
toccandosi il cappello; era un bel signore, distinto e accattivante, con quell’aria fiera e saggia data dalla ribelle
capigliatura striata d’argento e, particolare altroché irrilevante,
possidente di alcuni appezzamenti sparsi per tutta la
provincia di Zamora. Un nuovo ricco dunque, ma Olivia
non sembra tanto interessarsene, presa com’era dalla carriera e dagli
interessi che quell’amicizia portava con se.
«La signorina Herrero
ed io, ispezionavamo le proprietà del comune.»
Disse con tono pacato, indicando poi la locanda
abbandonata dinnanzi a loro. «Ancora interessata?»
Morena annuì leggermente con il
capo. «E’ ancora spropositatamente in vendita?»
«La vedova
Portos non molla di un duro* (n.p.d).»
La ragazza alzò le spalle.
«Non ne capisco il senso ma dopotutto la
proprietà è sua.»
«Purtroppo non possiamo sottovalutare
ciò che una superstizione esercita sulle menti.»
«Non venga a parlare di
superstizioni ad un medico, per l’amor del cielo!» Disse
sorridendo. «Mi stupisce che un uomo così all’avanguardia
come lei parli di certe cose; la malvagità esistesignor sindaco ed è
tangibile ma, Portos e Ramirez riposino in pace, qui
si tratta più di stupidità che di malasorte.»
L’uomo abbozzò un sorriso
guardandola negli occhi. «Mi faccia una proposta.»
Morena sgranò gli occhi. «Temo
di non seguirla.»
«Sono imparentato ai Portos per vie lontane. Chissà che la mia prozia
non venga in mente di ragionare.»
«Sta scherzando per caso?»
«Serissimo come un morto.»
«Oh! Lasci stare i morti..» Scosse il capo, affilò lo sguardo e
puntò Olivia. «Tu.. lo sapevi!»
La ragazza fino a quel momento in
disparte e ammutolita sghignazzò. «Sono mesi che lo tampino per
te, cosa credi. Abel può confermarlo,
vero?» L’uomo annuì mortificato. «Per contro devo dirti che la vedova è un osso duro e in questo lo
compatisco.. povero il mioAbel.» Si strinse contro il suo braccio addolcendo lo
sguardo; l’uomo arrossì ma sorrise prontamente catturato dalla
ragazza.
«Allora la proposta?»
Chiese infine.
Morena tornò seria. «Cinquecento
peseta e due duro per le pratiche.» Sparò
secca.
«Settecento, pratiche
incluse.» Incalzò lui.
La donna inarcò il sopracciglio.
«Stiamo ancora giocando?»
«Mia zia non
cederà.»
«Sua zia può tenersi la
proprietà e anche tutti i fantasmi. Cinquecento più le
pratiche.»
Del Carmen sorrise all’angolo
della bocca. «Mi presenterò con seicento peseta;
i due duro li pagherò io, se riuscirà a spuntarla sul prezzo. Che ne dice, affare fatto?»
Olivia annuì con il capo
guardando alla cugina con occhi fuori dalle orbite,
quella trattenne il respiro per attimi interminabili cadenzando l’attesa.
«Vada per seicento. Ma insisto ad essere io a darle i due duro, se
riuscirà a farla ragionare; se li sarebbe guadagnati.»
Gli allungò la mano attendendo impaziente e con un sorriso altezzoso;
quello allungò la sua e sigillarono un tacito, innocuo e silenzioso
patto.
«Tutto bene quel che finisce
bene.» Sospirò Olivia, adesso stretta al suo braccio. «Del Carmen è proprio un uomo da scoprire..» Sentenziò,
passandosi poco innocentemente la lingua sul labbro; Morena si voltò a
guardarla basita.
«Sempre che ci sia rimasto,
qualcosa da scoprire.»
«Che vai farneticando,
cugina!» Disse, battendo due colpi rapidi e leggeri sulla sua mano. «Siamo buoni amici.»
«Oh ma non fraintendermi, cara. A
me Del Carmen piace.. anche ad Alfredo a quanto pare.
Non fa che blaterare di quanto sarebbe opportuno
un matrimonio fra voi.»
Olivia alzò gli occhi al cielo.
«Alfredo si comporta come fosse mio padre. E’ così
antidiluviano, a volte.»
Morena trattenne un sorriso. «Di
sicuro non possiamo negargli che a te ci tiene eccome, dato i
buon partiti che ti va cercando.. Dio non voglia se hai intenzione di
deluderlo. E comunque..» Disse gonfiando il
petto e abbassando di un tono la voce al passaggio di due donne dalla parte
opposta. «Non è così vecchio come credi tu.»
«Buon per te.» Aggiunse
l’altra ridendo. «E’ che io vedo molti signori e così pochi
uomini.»
«Credevo di averti appena sentito
dire che il tuoAbel ti piace.»
Olivia abbassò lo sguardo rammaricata. «Ho conosciuto un tale,
Morena.»
«Non è una bella notizia?»
Chiese l’altra raggiante.
«Vuole che lo segua a
Madrid.»
Morena spalancò la bocca.
«Olivia Herrero, io e te abbiamo
molto da raccontarci.»
«Lo penso anche io. Da dove
comincio vediamo..»
Villaescusa, due mesi prima.
«Olivia, sbrigati o faremo tardi!»
«Arrivo! Arrivo!»
L’arrivo della primavera
cominciava a farsi notare nella vasta radura di Villaescusa.
Gli alberi si adornavano a festa e gli
animali sbucavano dalle loro tane popolando i boschi di nuova vita.
La natura non era la sola a darsi da
fare per apparire più bella, anche le ragazze del paese facevano del
loro meglio in questo periodo salutando l’inverno sfoggiando belletti a
regola d’arte, proprio come stava succedendo ad Olivia intenta a tirarsi
su i lunghi capelli biondi e acconciarli secondo la moda del tempo.
Loretta, sua amica e compagna dai tempi
che furono, si era presentata come al solito in largo
anticipo, ed ella in largo caos come al solito, si era fatta trovare in
vestaglia e con i capelli pieni di forcine.
«Anselmo ha portato anche un suo amico!
Vedessi quanto è carino, si chiama Felipe ed è di Salamanca anche egli. Fa praticantato presso uno
studio di avvocati e guardandolo bene..» Si
sistemò con cura la veste, sedendosi sul letto «ce
l’ha un po’ quel piglio sicuro tipico di chi è
abituato a fare arringhe.»
Olivia la rimirò dallo specchio
dove stava sbrogliando la matassa bionda che aveva in testa, inarcando un
sopracciglio. «Sei sempre così esaustiva amica
mia, dovresti darti alla politica. O cercar
marito nella guardia civil.»
«Sì, ridi
bene tu. Al giorno d’oggi con tutti i mascalzoni
che ci sono in giro, faccio bene a informarmi di questo o quello. Ti sei
dimenticata della brutta storia accaduta a Catalina?»
«Come potrei?
Me la ripeti almeno ogni due giorni..»
Catalina era una giovane ragazza di Villeuscusa cresciuta con loro ma di estrazione
superiore; un giorno la sua famiglia, credendo di avergli combinato un
matrimonio da capogiro con un bel giovanotto di Siviglia che millantava di
possedere mezza città, l’aveva caldamente invitata a farsi mettere
incinta dal suddetto per suggellare il patto che la vedeva ereditiera di tale
fortuna, salvo poi scoprire che il giovane era uno scansafatiche della peggior
specie e figlio di contadini, che aveva investito un modesto gruzzoletto per
ripulire la sua immagine intento ad accalappiare qualche gallinella dalle uova
d’oro di paese. La poveretta si era trovata umiliata, defraudata, abbandonata
e soprattutto madre di una creatura che aveva avuto la sventura di essere messa
al mondo con l’inganno.
«E comunque
non credo di correre questo pericolo; ho due cugini che stanno ribaltando il
paese nell’intento di trovarmi il principe azzurro.» Aggiunse
sarcastica, voltandosi verso di lei. «Come sto?»
«Sei bella.» Ammise quella.
«Ed è proprio per questo che devi fare un
buon matrimonio, perché purtroppo non sei ricca quanto bella, ed in
più hai quasi ventidue anni! Lo sai cosa si dice di una donna che non
trova marito..»
Olivia l’avvicinò
posandole un dito sulle labbra; aveva lo sguardo lucente e il sorriso
scherzoso.
Voleva bene alla sua amica, sapeva di
che genere di stampo fosse e da dove proveniva; non a
caso Anselmo apparteneva ad una modesta famiglia di viticoltori di Salamanca,
perfetto per una come lei che proveniva da una di semplici braccianti, ed
Olivia capiva bene che questa era una conquista per la ragazza.. ma per se
stessa desiderava altro, aveva sempre desiderato altro; non c’entravano i
soldi e nemmeno le ricchezze, voleva essere una persona, una donna, prima che
una moglie e una madre.
«Significa che devi smetterla di
dare retta alle chiacchiere.» Sussurrò.
«Quando lui sarà quello giusto, io lo capirò.»
Il Cafè moderno era nei primi anni cinquanta, il club
più in voga di Salamanca; qui si promuovevano le attività
più innovative e girava senza sosta la musica migliore, non solo del
paese, ma di tutto il mondo; il Rock and roll.
Felipe non si era rivelato poi tanto male,
pensò Olivia, quando quest’ultimo dalla
capote abbassata dell’auto di Anselmo, la
sollevò per la vita facendola volteggiare in aria sulle note lontane di
un pezzo di un tizio emergente che si faceva chiamare ElvisPrestley; quando la mise giù, corsero dentro,
mano nella mano, con quella frenesia e allegria senza senso, ma che fa bene al
cuore.
Il locale era al di sopra della sua stessa nomina; un’unica grande
sala circolare, con pavimento a scacchi nero e bianco, finti juke box pieni di luci dislocati qui e là e piccole
sedute di pelle con annessi tavolini agli angoli; la cosa strabiliante era il
soffitto, attraversato da segmenti rettangolari composti da lampade neon che
sprigionavano ognuna una luce diversa dall’altra.
L’orchestra era stipata
sul fondo del locale, dove diversi elementi alternavano pezzi contaminati da
jazz e soul, perfetti per gli scatenati ospiti della
serata; le donne facevano volteggiare le gonne a ruota a ritmo in un tripudio
di colori sgargianti e gli uomini ancheggiavano nei loro jeans scuri arrotolati
alle caviglierigorosamente
con calzino a vista. Era tutto perfetto e vivo, Olivia
sorrise estasiata, addentrandosi nella mischia insieme al suo cavaliere.
«Vuoi un frullato?» Le chiese Felipe,
parlando al di sopra della musica.
Annuì con il capo, lasciando
andare le braccia al cielo; il ragazzo sparì verso il bancone quindi chiuse
gli occhi e cullò il corpo sulle note di una canzone lenta e dal ritmo
doloroso.
Quando li riaprì, un giovane dal ciuffo
lucido di brillantina la stava fissando sornione.
«E’ il tuo ragazzo quello?»
«Scusa?» Lo incalzò scocciata, stupendosi
però di non riuscire a staccargli gli occhi da dosso.
«Mi chiedevo se quel tipo curioso
fosse il tuo ragazzo.»
Olivia sorrise; era strano davvero Felipe, tuttavia non voleva dare allo sconosciuto alcuna
soddisfazione. «Sì.»
«Che
peccato.» Mormorò l’altro, sul punto di andarsene; era
sicura di provare una sensazione mista a delusione, per questo, ma alzò
le spalle e fece finta di nulla. Il tipo passandole accanto dondolò un
po’ sui suoi passi, prima di avvicinarsi al suo
viso con aria accigliata. «Sei sicura che non ci siamo
già visti?»
Nel momento in cui glielo chiese, si
soffermò a guardarlo bene; belle labbra disegnate, ciuffo castano su
occhi di un verde cristallino, naso regolare..
prepotentemente bello, non c’era altro da aggiungere.
«Avrei dovuto ricordarti?»
Disse invece in maniera arrogante.
«Sono un tipo che non si dimentica facilmente.» Aggiunse lui per nulla
turbato.
«Non mi dire.. perché io non
mi ricordo di te.» E
sorrise dispettosa. E bella. Il ragazzo si
passò la lingua sulle labbra, lentamente ed Olivia arrossì,
turbata; che diamine le stava prendendo?
«Se ti
sono così indifferente, perché mai sei arrossita?» Le
sussurrò, pericolosamente vicino al volto.
«Fa molto caldo.» Rispose
lei, con le gambe improvvisamente molli e il cervello come gelatina.
«Vieni con me.» Le
allungò la mano. «Fuori c’è una luna bellissima.. e non ci credo che quel rammollito è il tuo
ragazzo.» Sorrise e sembrò essere più un ragazzino
trepidante, che un grande conquistatore;
allungò la sua e disse sì con occhi brillanti.
«Aiutami a cercare la mia amica.»
Lui annuì divertito.
«Siamo quasi cinquecento persone, stasera.»
«Ha un vestito blu e capelli
rossi.» Rispose lei, guardandosi attorno in cerca di Loretta. «E poi come lo sai che siamo cinquecento, ti sei messo a
contarci?» Disse ridendo.
«Sono un soldato. Occhi vigili e calcoli approssimativi sono il mio forte.»
Indicò un punto alla loro sinistra che corrispondeva proprio alla
descrizione che gli aveva fornito; Olivia annuì impressionata, prendendolo per mano fino alla coppia che se ne stava
stretta in un ballo.
Loretta si accorse di loro e
fulminò Olivia con lo sguardo; Anselmo quando posò lo sguardo sul ragazzo esplose in un boato di gioia.
«Lorenzo!»
I due ragazzi si abbracciarono
parecchie volte prima di fare le presentazioni.
Anselmo aveva raccontato di aver
conosciuto il ragazzo a Madrid in quanto la famiglia di lui
teneva consulenze commerciali e di esservi incappato nel momento in cui suo padre
aveva licenziato il vecchio ragioniere tacciato di aver arruffato ogni ben di
Dio dalle loro casse; Olivia li ascoltava rapita, Loretta capita
l’antifona la prese in disparte.
«EFelipe?»
«Per l’amor del cielo.. non vorrai metterti a fare la bacchettona, adesso?»
Rispose scocciata. «Mi si è avvicinato dopo che il tuoFelipe
è andato a prendermi un frullato. E non
è più tornato.»
«Volevo solo sapere dove fosse.» Disse l’altra con una vena sarcastica. «Sono
preoccupata.»
«Tornerà..»
Borbottò. «E’ solo un frullato, mica la guerra!»
«Ma no
sciocca!» E la tirò per un braccio. «Mi sa che questo chico ti
piace.»
Olivia la guardò
seria, poi guardò il ragazzo. «Mi sembra di conoscerlo da
sempre. E’ una strana sensazione. A te è mai successo?»
Loretta scosse la testa inspirando.
«Allora è vero che ti piace..oh signor!»
Olivia alzò gli occhi al cielo. «Che
strana sei, se ti ho detto che l’ho appena
conosciuto!» Scosse il capo più volte cercando di raccapezzarci
qualcosa, ma sbottò isterica. «Mi fai venire i dubbi.. mi confondi!»
Loretta fissò il ragazzo per qualche
istante. «Beh, non è poi tanto male.» Poi si girò a
guardarla con aria compita. «Con Anselmo è come se ci conoscessimo
da una vita, ma è una cosa diversa. Sta attenta, va
bene?»
Olivia sorrise dolcemente.
«Certo.»
Sull’uscio furono intercettati
dal povero Felipe con un frullato alle labbra e uno
stretto in mano talmente tanto forte, da far straboccare il contenuto; Lorenzo
lo dribblò con sapiente maestria, facendo volteggiare Olivia davanti a
se e spingendola affettuosamente verso l’uscita.
«Sei arrivato troppo
tardi.» Gli bisbigliò sarcastico e con una faccia da schiaffi,
prima di saltare fuori anche egli e raggiungere la
donzella a passo di musica.
«Ti ho sentito.» Sottolineò Olivia con una strana espressione fra il
divertito e lo spazientito, quando la raggiunse.
«Volevo sentissi.» Rispose
lui, porgendogli la mano. «Balli?» Sul punto di replicare, le
posò un dito sulle labbra; quel contatto la fece ondeggiare.
«Dimmi solo sì. Dovresti essere già contenta che abbia rischiato di fare a pugni per te. E non intendo con
quel rammollito sulla porta.. sia chiaro che mi
riferisco alla tua amica. Ho visto come mi guardava.»
Tentò di ridere, ma il suo
cipiglio la infervorò. «Sei molto sicuro
di te.» Insisté. «Uno sbruffone. E a me non piacciono gli sbruff..» Si fermò,
sulla sua bocca socchiusa di stupore e poi agli occhi, vivaci e spalancati.
«Non ci posso credere! Ora
ricordo!» Strepitò lui, precedendola. «L’avevo detto
di averti già vista.. signorina a- me -non -piacciono
-gli –sbruffoni -tanto -piacere..» E lo
vide portarsi una mano al fianco e scuotere il capo.
«Ti ricordi proprio tutto..» Sogghignò lei, leggermente senza fiato.
«Sono passati.. quanto? Cinque? Sei anni? Eri
tremendamente odioso, come ho potuto dimenticarti?»
«Mi ricordo tutto ciò che
è bello.» Rispose, alzando la testa e guardandola intensamente.
«E lo
sei ancora del resto. Odioso.» Berciò lei incalzandolo.
«Sono cinque gli anni.»
Disse lui, addolcendo la voce e porgendogli nuovamente la mano. «Mi credi
adesso? Come potrei mentire? Sei bellissima.. ragazza senza nome.»
«Mi chiamo Olivia.»
Sussurrò, la voce rotta di emozione per quelle
parole; allungò la mano e fu catturata dalle vigorose braccia del
ragazzo. «E devo ammettere che sai come far sentire una ragazza lusingata.»
«E’ un
complimento, spero.» Lo sentì ridere nel suo orecchio,
mentre la cingeva a se così forte da riuscire a percepire il calore del
suo corpo. «E posso permettermi di chiederti
cosa ci fa una bella ragazza tutta sola a Salamanca?
«Non sono di
Salamanca a dire il vero.» Sospirò. «Vengo da un paese
disperso della provincia. E la mia storia è più lunga di quanto
tu possa credere.»
«Mi piacciono le storie
lunghe.» Si staccò, conducendola al parcheggio e verso una RoyceRolls Silver controllata a
vista da un uomo ben vestito; Lorenzo gli fece un cenno leggero, quello
abbassò il capo e sparì. Aggirò l’auto, lasciandole
la mano per recarsi al bagagliaio insieme ad un ansia
montante.
«Oh..
no.. credo tu abbia travisato il mio comportamento, soldato.»
Biascicò nervosa, quando lo vide riemergere dal fondo con una coperta di
flanella.
«E’ sbagliato mettersi a
guardare le stelle?» Olivia inarcò un
sopracciglio poco convinta e Lorenzo arrossì forse per la prima
volta in vita sua. «S-sono un soldato, mica un
mascalzone.. che idea vi siete fatta?» La ragazza si portò la mano alla
bocca soffocando una risata. «Vi faccio
ridere?» Aggiunse scocciato.
«Mi state dando del voi. Quando mi avete appena invitata a raccontarvi la mia storia.»
«E’ vero.» Ammise
lasciandosi andare in un sorriso meraviglioso; Olivia sentì il cuore
accendersi a quella visione e l’avvicinò, prendendo a se la
coperta e adagiandola sul cofano dell’auto.
«E’ vero.»
Ribatté invitandolo ad aiutarla nel risalire l’auto, vedendolo sul
momento interdetto e agitato. «Che ti
prende?»
Lui scosse il capo, Olivia
insisté con lo sguardo. «Mi stupisci. Ed
è una cosa molto rara, per me.»
La ragazza alzò le spalle,
Lorenzo la prese in braccio e la sistemò con cura dove aveva chiesto;
rimasero per un po’ a guardarsi incerti e vinti dalle emozioni che come
venti d’estate avevano spazzato via la calma e la tranquillità.
Quando finalmente anche lui aveva preso posizione, Olivia si sdraiò su un fianco e
cominciò a raccontare la sua vita di giovane, piccola.. donna.
«Accidenti, sembriamo avere molto
in comune.» Sospirò lui dopo un po’.
«Già..» Ammise lei e
tremò; un refolo d’aria fredda si era levato scompigliando la sera
mite.
Quando Lorenzo se ne accorse
e l’abbracciò per nulla turbato, quasi fosse una cosa naturale,
lei lo baciò; un bacio casto, appena accennato, di una commovente
semplicità.
Lui aveva allargato gli
occhi stupito e stringendola più forte le aveva sussurrato.
«Non voglio perderti ancora.»
«E non ci siamo persi.. da tre mesi ormai.»
Olivia tornò dai suoi ricordi
con occhi vagamente lucidi; scosse il capo e guardando la cugina ammutolita e
dello stesso colore della cera da morto, trasalì. «So di essere
stata impulsiva, Madrid è così lontana.. ma
sai, non ho mai provato nulla del genere, prima ad ora; credo di esserne
innamorata.»
Morena non rispose
dapprima, si agitò e guardandola smarrita prese a camminare senza
direzione, bofonchiando.
«Aspettami!»
Strillò, raggiungendola. «Ma che ti
prende, sei impazzita?»
«Non lo so Olivia tutta questa
storia mi sembra così.. assurda.»
«Assurda?» Rispose lei
accigliata. «Proprio da te, questo commento? Credevo fossi dalla mia
parte.» E si sganciò dal suo braccio irritata;
Morena allora si voltò, fissandola dispiaciuta.
«E lo sono ma..»
Sentiva montarsi dentro la collera, la repulsione, il dolore, lo sfinimento.
Era mai possibile, che Javier fosse così prepotentemente in coincidenza con
il suo destino?
La trovava irritante come cosa e
assolutamente insopportabile.
«Ci sono delle cose che dovrei raccontarti.. ma oggi non è il caso, forse. Devi
scusarmi Olivia, è ovvio che sono certamente felice per te; ti prego non
dubitare mai di questo, va bene?»
Le sembrava un trito di parole senza senno ma non poté fare altro che annuire,
perché Morena aveva affrettato il passo lasciandola sola in quella
piazza ormai vuota.
E il vento tirò forte come nei suoi ricordi.
E si ritrovò a tremare di paura.
*
Madrid, Maggio 1956.
«Papà, questi fiori sono
per la mamma?»
«Si
amore mio, fiore d’iris come i suoi occhi. Sono belli, vero?»
La piccola annuì e l’uomo
le strinse dolcemente la mano, vibrando ogni qualvolta quella bambina le
ricordava quanto fosse dolce, indifesa e parte di lui.
Era impressionante osservare il suo visino paffuto e trovarci stampati i suoi stessi tratti; occhi grandi e verdi, la bocca disegnata, un
nasino adorabile.
«La mamma è tanto
triste.» Commentò lei, guardando le persone aggirarsi lungo la CalleBailen; mosse un
po’ il capo e i suoi boccoli castani oscillarono, si girò verso il
padre e cercò conforto nel suo viso.
«E’ solo addolorata. Ma tornerà a ridere, te lo prometto.» La
bambina sospirò, Javier se
la portò alle ginocchia. «Sai cosa le servirebbe? Questo
sorrisino qui..» Disse, premendole delicatamente
il pollice e l’indice sulle guance per tirare in su
la curva del sorriso; la bambina si chiuse nelle spalle ridendo graziosamente.
«Oh, questo sì che le piacerebbe tanto.»
«Più dei fiori?»
«Più di tutto quanto.»
La strinse a se, chiedendosi se queste
sue parole non fossero una rimostranza di disagio e accarezzò la paura
che la piccola non si sentisse al centro delle loro attenzioni.
E come sarebbe
potuto essere il contrario, d’altronde, non era stato un inverno molto
felice, il loro.
Leonor era in attesa del loro secondo figlio quando,
durante le prove per uno spettacolo che sarebbe andato in scena in quella primavera,
scivolò per le scale di servizio perdendo prematuramente il bambino; i medici
sentenziarono il verdetto dopo ore interminabili e un emorragia che costrinse
la ragazza a rimanere a letto per due settimane.
Quel tempo, aveva scandito su di lei
una pena mortale.
Non l’aveva più vista
ridere. O sorridere. Il suo bel volto
una maschera indecifrabile di afflizione e amarezza.
A nulla era valso il rimettersi in
piedi, aveva aborrito qualsiasi forma d’arte e accantonato i progetti
futuri di piece teatrali per un tempo che suonava come
una pena da ergastolani; mai.
I giornaletti di folclore scandalistico
poi non furono benevoli; Leonor La Fuente, decretato astro nascente della commedia spagnola da
artisti come Hierro ormai dedito al lavoro di
radiofonico e Caballero scrittore affermato, si era
rivelata in realtà una chimera che andava a nutrire la sconfinata
costellazione di artisti anonimi.
Dal canto suo, era passata dal
ritenersi l’unica colpevole per quanto accaduto, alla più totale
indifferenza; non sembrava dare peso alle chiacchiere più di quanto ella stessa aveva ammesso che quella parte della sua vita
era finita, che non sarebbe stata più quella di prima e che comunque
fingere la vita di altri era diventato di una noia mortale e un paradosso,
considerando che la realtà era già abbastanza teatrale.
Si auto commiserava certo, ma non aveva perso lo smalto dei tempi migliori
e Javier guardandola cantare, le rare volte il cui
suo viso non era adombrato di malinconia, sperava di vederla presto rinascere. Nelle vesti che più desiderava. Perché gli
mancava; gli mancava la moglie e gli mancava quella madre affettuosa e
spiritosa che era stata da quando la piccola Camila aveva esalato al mondo il suo prima vagito, quattro
anni addietro.
Gli mancavano i loro sproloqui sulla
politica, sul cinema e sulle nuove dive Taylor, Monroe, Kelly, bellezze eteree e senza
tempo proprio come lei, gli mancava la vita piena che avevano vissuto fino a
quel momento e sapeva che non poteva arrendersi proprio ora..
con tutte le cose straordinarie che dovevano ancora accadere!
Avevano solo ventidue anni, infondo,
per smettere di sperare e per quanto suonava egoistico, nei suoi pensieri era
certo che avrebbero avuto un altro figlio, prima o poi;
si rendeva conto di non riuscire a percepire lo stesso dolore di una donna, ma
ciò che era stato non si poteva cancellare e la sua Leonor,
la sua incrollabile Leonor, doveva essere forte per
quella piccola creatura che già c’era e che aveva bisogno e
diritto dell’amore incondizionato di entrambi i genitori.
Quella era cominciata
come una mattina vissuta già altre cento volte, in cui la casa di Plaza Isabelle, fremeva tutta come la sua giovane
padrona. Il giornale era stato consegnato come di consueto alle sette in punto
e come di consueto ella aveva fatto apparecchiare la
tavola nella sala padronale per la colazione; quando Javier
era sceso, l’aveva trovata con il viso devastato dalle lacrime e le
labbra gonfie e rosse.
«Dai qua.» Le aveva detto, togliendole il notiziario dalle mani. «Devi
smetterla di leggere questa spazzatura.»
«Mi accusano di essere
un’altra ricca con la puzza sotto al naso.»
Disse, scostando malamente il piatto ancora intatto
che aveva davanti. «Vengo presa come monito per
ogni nuova leva.. quasi fossi un malaugurio. Non posso sopportare oltre, Javier.» Aggiunse, con voce tremante.
«Neanche io.» Javier si appoggiò di peso al tavolo con entrambe le
braccia, inspirando a pieni polmoni per non bruciare di rabbia; la donna
allungò una mano verso la sua, coprendola. «Quelle sono solo
porcherie alle quali non devi prestare ascolto Leonor,
sei una donna intelligente sai che si stancheranno presto.»
Girò il polso ed accolse quella mano nella sua, carezzandola dolcemente.
«La tua vita è ora invece. Mi chiedo cosa hai intenzione di
fare.»
«Che
intendi dire?»
«Cosa vuoi
fare del tuo futuro. Del nostro. Di quello della nostra famiglia.»
«Mi stai spaventando, Javier.»
«Devi, avere paura. Il mondo
là fuori è tremendo. Cosa farai domani,
quando di te non si parlerà più e tutta questa storia
finirà nel dimenticatoio? Mi chiedo se hai un piano di riserva, se ci
hai mai pensato. Niente dura in eterno, infondo.»
E si accasciò accanto a lei, con gli occhi
vitrei che guardavano la sontuosa tovaglia bianca senza in realtà vedere
nulla. «Cosa stiamo facendo?»
Sussurrò esausto, a fil di voce.
«Non lo so, Javier.»
Rispose lei con il fiato corto. «Sei infelice, vero?»
Lui girò il capo, gli angoli
della bocca rivolti al basso. «Sono infelice se tu lo sei.»
«Al diavolo questa
spazzatura!» Replicò la donna, spazzando via il giornale sul
pavimento. «Riprenderò i contatti con il mondo, se è questo
che vuoi.»
«Io voglio che tu stia bene, Leonor. Come e quando vuoi. Ma devi stare bene. Abbiamo una figlia
stupenda, una bella casa, non ci manca niente. Da quanto tempo non
prendi le pillole che ti ha prescritto il dottore?»
Abbassò il capo. «Da un
po’. Non voglio prenderle, ho la testa offuscata dopo.»
Javier sorrise. «Ce l’hai anche
senza.» E la scapigliò affettuosamente,
per poi allungarsi verso il bricco di caffè. «Ho delle commissioni
da svolgere, ho dato istruzioni di preparare la bambina; è bene che
prenda un po’ d’aria fresca. Quando avrai deciso
che cosa fare, mettiti il vestito più bello che hai, vi porto a pranzo
fuori.»
«Ma
è domenica Javier. C’è il pranzo
dai miei.»
«Non scoppierà
un’altra guerra mondiale se manchiamo.»
Leonor sorrise e annuì con il capo. «Vado a fare qualche
telefonata.»
«Non hai toccato cibo. Ti prego,
resta.»
«Una cosa alla volta Javier, una cosa alla volta.»
E l’aveva lasciata così,
ad attorcigliarsi i boccoli fra le dita dal nervoso mentre
con l’altra mano stringeva la cornetta del telefono intenta a svegliare
la Madrid che aveva accantonato un po’ come la sua vita.
Era fiducioso. Sentiva che sarebbe
successo qualcosa di grandioso, che quello non sarebbe stato un altro giorno in
cui girava la luna storta e la loro sorte sembrava appesa ad un filo, ma un
giorno di quelli da ricordare, da annoverare in un qualche cassetto della
memoria da rispolverare anni dopo.
Consuelo li accolse annunciando al suo
padrone che c’era un ospite in visita.
Javier sfilò il soprabito alla bambina e le lasciò portare il
mazzo di fiori alla mamma.
«L’ospite è con sua
moglie in soggiorno, dottor La Fuente.»
«Chi è?»
«Il signorino Navarro.»
«Grazie Consuelo. Puoi
ritirarti.»
La donna accennò un inchino con
il capo e sparì per il corridoio di servizio.
Quando entrò in sala, trovò Lorenzo con Camila
in braccio e sorridente che volteggiava in un fantomatico aeroplano; sorrise di
cuore nel vedere sua moglie tuffata nel mazzo di fiori e circondata dalle
risate dell’infante.
«Ancora zio! Ancora!»
«Tieniti forte che questo
è più alto!» E issò di più la bambina
tenendola per le braccia; quando la mise giù quella rise leggermente
ondeggiante sui piedini malfermi. «Tutto bene?» Lei annuì
vigorosamente ridacchiando.
«Lo zio Lorenzo
sì, che sa come far girare la testa alle donne!»
«Javier!»
Il ragazzo si sistemò il panciotto, accogliendolo con un sorriso sincero.
«Perdonami se sono passato senza avvisare ma
avrei da esporti alcune cose con urgenza.»
Leonor scambiò un’occhiata divertita con il marito, prima di
giustificare la sua assenza per andare alla ricerca di un vaso. «Saluta
lo zio, piccola.»
La bambina fece un leggero inchino
tirando la veste per gli angoli, come le aveva insegnato
la madre.
«Salute zio, a presto.»
«Non me lo dai un bacio?»
Chiese l’uomo fintamente dispiaciuto.
«Devi chiedere il permesso al mio
papà.» Rispose lei piccata.
Lorenzo rise di gusto, guardando a Javier che guardava la sua piccola
Camila tutto fiero.
«Se lei lo vuole..»
La bambina si avvicinò al
ragazzo e lo tirò per la manica stampandogli un rapido bacio senza
nemmeno sfiorarlo; Lorenzo le accarezzò i capelli e la baciò a sua
volta sulla testa. «Arrivederci cugina.» Aggiunse, vedendo madre e figlia lasciare la stanza mano nella mano.
«Allora, le questioni di cui
parlavi?»
«Ti conviene sederti.»
Disse in un impeto di ansia, slacciandosi il panciotto
e volgendo il passo verso il carrello dei liquori; prese due bicchieri e li
annaffiò di brandy Cardinal Mendoza. «Alla
salute.»
Alzò il bicchiere passando il
suo a Javier che scosse il capo.
«Lo sai che non bevo prima di
pranzo.»
«Al diavolo, Javier!
Quando t’avrò dato una certa notizia
avrai da festeggiare, lo sento.» E posò
il bicchiere fissandolo intensamente negli occhi. «Ho conosciuto una
ragazza, cugino.»
«Tu che conosci ragazze.. è questa la novità?»
«Non una ragazza. Una donna.. più precisamente, la donna della mia vita.»
Javier alzò un sopracciglio. «Mi sembra di avertelo già
sentito dire. Cugino, hai preso una svista stamattina o che cosa? Mi sembra tu
stia vaneggiando.»
«Javier
ascoltami bene perché non sto scherzando. L’ho conosciuta due mesi
fa, in una balera di Salamanca.»
«E’ così che passi il tuo tempo da tirocinante?» Scherzò, ma
l’altro lo fissò talmente affilato che assunse nuovamente una
postura impettita e attenta. «Stavi dicendo..
lei è di Salamanca.»
«No in verità è di
una certa Villaescusa.»
E si grattò il mento. «Mai sentita
nominare, non sono nemmeno sicuro che si trovi in Spagna se è per questo.»
«E’ in
Spagna, tranquillo.» Lo incalzò. «La ragazza è
quasi una mia compaesana.»
Lorenzo si lasciò andare in
sorriso sornione. «E’ qui che ti volevo! Non so per quale motivo ha
dei contatti indovina dove? A Fuentesauco. Ed
è li che noi andremo.»
«Andremo? Lorenzo posa il bicchiere e datti pace. Cosa
vuoi andare a fare a Fuentesauco? Che
cosa c’entra questa ragazza con quel posto? E soprattutto che ti sei
messo in testa.. andiamo? Sei impazzito!»
Javier si alzò e si sfilò la giacca malamente,
camminando avanti e indietro sui suoi passi.
Lorenzo lo guardava interdetto. «Adesso chi è che deve calmarsi?» Gli
passò il brandy. «Bevi, che non ti ho mica proposto
l’inferno.»
«Oh..
sì.» Berciò l’altro, afferrando il bicchiere e
ingollando il contenuto d’un fiato.
«Sì che è l’inferno.»
«Per una qualche ragione che non riesco a intendere, ero sicuro mi avresti detto una cosa del
genere.»
«Forse perché manco dal
mio paese da..» Le parole gli si strozzarono in
gola.
«Lo so da quando. Ma Dio mio tu
sei sposato, lei anche, non pensi sia il caso di
mettere fine a questa storia? Probabilmente lei non vivrà neanche
più là. Javier, con tutto il rispetto,
ha sposato un uomo facoltoso a tuo dire, ti pare che se la tenga rilegata a Fuentesauco?»
«Tu non sai di che parli; i Roquez sono una famiglia di antica
tradizione, nel mio paese. Quell’uomo è
nato per invecchiare e morire a Fuentesauco.»
«E
allora? Chi ti dice che non sia morto!» Javier imprecò, alzando gli occhi al cielo. «Voglio
dire.. che ti importa di loro, non fanno parte della
tua vita eppure ti sei fatto condizionare già abbastanza.» Lo
fissò con un balugino di speranza negli occhi ma
c’eraanche di più.
Spavento. «Perché non ti importa vero?»
L’uomo che aveva di fronte sorrise amaro.
«E’ di tua cugina che mi importa; come ben sai cammina già su un filo
fragile e barcollante, non voglio esporla ad ulteriori colpi che potrebbero
farla crollare inesorabilmente.»
«Leonor
non è una bambina. Non è compito tuo proteggerla dalle insidie
del mondo.»
«E
invece sì.» Berciò l’altro infervorato.
«E’ questo che fa un marito e non mi stupisce che tu non riesca a
capirlo. Vattene a casa adesso e riflettici su;quando
capirai che è solo un altro dei tuoi capricci, noi saremo ancora qui.»
E fece per scortarlo verso l’uscita, ma
l’altro lo fermò per un braccio.
«La mia colpa è quella di
essere stato un uomo superficiale per troppo tempo, perché io ora venga preso sul serio. Lo capisco, ma adesso è diverso
Javier. Io la amo.» Gonfiò il petto e
serrò la mascella come se ammettere i suoi stessi sentimenti lo
rendessero orgoglioso ma anche vulnerabile. «Le ho chiesto
di seguirmi a Madrid, ma lei ha desistito per qualcosa che la tiene legata al vostro paese. Non so dire cosa e non
voglio fargli pressioni, ma sono sicuro che se mi vedesse arrivare là si
convincerebbe nel fidarsi di me.»
Sentì i muscoli tesi di Javier allentarsi e mollò la presa, guardandolo
dritto negli occhi da uomo a uomo; l’altro ricambiò
lo sguardo e si fece serio, la voce roca.
«Non ti seguirà, se non la
sposerai, questo lo sai vero?»
Lorenzo sorrise sincero, gli occhi un
po’ lucidi. «Non sarei qui a chiederti di aiutarmi. E di essere mio testimone, se quel giorno vedesse la luce del sole.»
Javier inspirò profondamente, chiudendo con un
calcio la porta della stanza.
«Che
cosa vuoi esattamente?»
«Partite insieme a me; tu, Leonor e la bambina. Un
mese o tutta l’estate, decidete voi.» Si staccò
dall’amico e andò verso il divano dove aveva adagiato la giacca quando era arrivato; infilò la mano nella
tasca e ne tirò fuori una busta. «So che a Fuentesauco
è vacante un posto da medico. Qui ci sono descritte le credenziali
d’attività e una dettagliata lettera di referenza delhospital per tuo conto, ma non preoccuparti ho agito per vie
traverse, nessuno sa di questa iniziativa.» Lasciò cadere la busta
lentamente sul tavolo ed andò verso la finestra, in compito silenzio, le
braccia conserte appoggiate alla base della schiena. «Non
so niente di faccende coniugali ma se guardo te e Leonor
insieme, mi convinco che sia la cosa giusta; voi due siete l’uno per
l’altra ma allo stesso tempo non indispensabili, ed io credo
che l’amore sia un po’ questo, no? Due persone che si trovano ma continuano ad essere due persone differenti, pur
concedendosi con trasporto e dedizione.»
«A dire il vero..»
Javier lo avvicinò. «Leonor
ed io stiamo camminando insieme, su quel filo fragile.
Non so quanto ancora ci terremo in piedi, Lorenzo. Non so se un colpo di vento
ci spazzerà via, non so se invece le nostre radici ci terranno. Come vedi, l’amore è imperfetto.»
«Ma
possiamo decidere chi amare eternamente?»
«Sì, possiamo.»
*
Se c’era qualcosa di immutato nelle loro esistenze, questa era la passione e
la dedizione che Alfredo metteva nei campi; Morena se ne stava beatamente
passeggiando verso la tenuta, quando udì un gran baccano provenire dal
mulino giù al fiume. Sospirò, deviando per gli appezzamenti di
terra al loro massimo splendore e prossimi alla mietitura.
«Non dirmi
che quello in acqua è nostro padre.» Borbottò, incontrando
l’incantevole profilo della sorella, stagliato in un nugolo di chiassosi
epiteti degli uomini ammassati intorno alla costruzione. «Cosa è successo?»
«Buongiorno, sorella!» Stella
si voltò scoprendo il viso dalla pelle di porcellana, incorniciato da
lunghi capelli scuri. «Pietre nelle paratie. Nostro padre si augura di
trovarci qualche pepita d’oro, un giorno di questi.»
Sorrise fanciullescamente e sembrò essere esattamente la giovane
ragazzina tredicenne che era, nonostante le sembianze fisiche fossero
già quelle di una donna.
«Di nuovo?» Chiese ancora.
«Tuo marito sostiene che non sia
un caso, difatti.»
Morena sorrise di sbieco. «Gli
uomini fanno pensieri arditi a pancia vuota.» E si incamminò verso il mulino, non senza prima
rischiare di essere travolta da Alberto il contabile –ormai a tutti gli
effetti e con nomina- e il suo carro lasciato andare a ruota libera, distratto
dalla bellezza di Stella.
«Dio ci aiuti.»
Mormorò, quando il ragazzo era sceso per constatare che fosse tutta
intera. «Quando ti deciderai nel farle una promessa
come si deve?»
«Oh Morena, sono
dispiaciuto!» Poi arrossì alle sue parole e all’arrivo
accalorato della ragazza dei suoi desideri.
«Alberto che hai
combinato!» Stella strillò, spostandolo per accertarsi che la sorella stesse bene.
«Non torturarlo..
sto benissimo, guarda.» Morena allargò le braccia e le
scrollò, poi li guardò bene. Erano davvero una bella coppia;
Alberto era di quella bellezza tipica del sud dalla pelle ambrata, capelli
scuri e vivaci occhi nocciola, per contro sua sorella di una più
delicata e fine . Si compensavano, un colpo
d’occhio affascinante.
Ma cosa andava a pensare?
Era tutto il giorno che si fissava su
papabili coppie. Sorrise, scuotendo il capo energicamente.
I due ragazzi la fissarono, poi si
guardarono fra loro, anche se Stella si voltò subito dall’altra
parte ancora indispettita.
«Credo che Alberto abbia qualcosa
da dirti. E fossi in te non terrei il muso..» Le
strizzò l’occhio e si affrettò a sparire.
«Morena, ho sentito
trambusto!»Alfredo sbucò dal Mulino
tutto zuppo. «Pensavo qualcuno ci avesse rimesso le penne.»
«Trambusto, dici?» La
ragazza fu sul punto di rotolarsi in terra dalle risate. «Le vostre
esclamazioni colorate si sentono dalla strada del paese! Comunque
non è successo niente di così spaventoso è solo arrivato
Alberto. Ma non parliamo di questo, che cosa è
successo al mulino?»
Alfredo alzò un sopracciglio,
incontrando il suo viso impaziente. «Qualcuno ci riempie i canali di
pietre. E’ impossibile che questi risalgano dal letto del fiume per
andare ad otturare i condotti idraulici del mulino.»
«Quanto sono
grandi queste pietre?» Obbiettò lei.
«Quanto la mia testa.»
Rispose lui certo di dove volesse andare a parare la
donna. «E’ stata la prima cosa di cui mi sono accertato. Non
può essere una coincidenza, qualcuno sta manomettendo il mulino.»
Seguì un momento di silenzio.
«La Fuente.» Borbottarono
all’unisono, per poi trovarsi a sorridere.
«Non hanno mai digerito che sia
stato costruito più a monte del loro. Mi rendo
conto che è sterile come accusa, ma non riesco a trovarne uno straccio
più soddisfacente.» Commentò
Alfredo.
«La trovo
più che plausibile.» Berciò lei, stringendo i pugni.
«Vorrebbero piegare persino il flusso dell’acqua, così
impari per natura, sotto al loro controllo. Certa
gente è malata di superbia.»
E come niente, si ritrovò a
tremare sulle gambe cedevoli; Alfredo se ne accorse e
la sorresse, accalorato.
«E’ da tempo che aspetto di
bussare a quella porta..» Soffiò fra i
denti, adirato da rimembranze passate. «Troppo tempo. E’ giunto il
momento di spalancarla e fargli sentire cosa ho da dire.»
«No!» Gridò la
ragazza per poi portarsi una mano alla bocca, nel vano gesto di tamponare un
conato alla sola immagine di Alfredo attorniato dalle
persone che più le facevano paura; corse verso l’argine e si
piegò sul fiume. «Non farai nulla di azzardato.»
Sollevò il capo, asciugandosi la bocca. «Giuramelo!» Ma
l’uomo non riusciva a parlare, terrorizzato dalla vista della moglie
sofferente.
Morena lo capì e gli si
avvicinò a passo fermo, sicuro. «Sto bene, Alfredo.»
Allungò la mano così che lui potesse
stringerla e sentire la vita
scorrere. «Ma l’idea di te che te la vedi con quegli..esseri.. mi
terrorizza. Lo capisci?»
«L’idea che possano farti questo, terrorizza me invece.» Disse
lui, ancora in punta di rabbia. «Non lo sopporto.»
«Alfredo..» Cercò di
ridere, ma lo sforzo le provocò altra nausea. «Per quanto superbi,
i LaFuente non possano
arrivare a tanto.»
«Oh Morena..»
La strinse a se, obbligandola a moderare il respiro per non crollare
nuovamente. «Cerchi sempre di sdrammatizzare, ma la verità
è che non li ho mai perdonati per quello che ti hanno fatto.»
«Il tempo e l’amore mi
hanno guarita.» Morena si scostò
lentamente, costringendolo a guardarla negli occhi. «Se non abbiamo altro
da fare qui.. nostro figlio ci aspetta a tavola,
ricordi?»
«Ho perso completamente il senso
del tempo.» Rispose lui grattandosi il capo.
«Sono qui per questo.»
«Quell’Alberto.. sbaglio o si vede ronzare da queste parti sempre
più spesso?»
Lucio Soler riemerse dalle torbide
acque del Rio Cochinobofonchiando alla volta dei due giovani poche spanne più in
là; Morena ed Alfredo si scambiarono
un’occhiata complice, tornando a sistemare il carro per il rientro.
«Fate gli indiani?»Insisté
l’uomo.
«Nessuno fa niente, papà.»
Rispose divertita Morena. «Riccardo non sta bene, vogliamo metterlo a letto prima di tornare ai nostri affaccendamenti.»
«Mio nipote sta male e sei stato
qui a sorbirti le rimostranze di questo vecchio?» Lucio guardò il
genero mortificato. «Per due pietre poi.. il
piccolo cosa ha?»
«Un leggero malanno, nulla di
grave. Le tue rimostranze sono molto utili, non scordarti che sei il mio
mugnaio.»
«Alfredo ha ragione!»
Morena saltò sul carro, ignorando l’aiuto del marito. «Di
drammi ne abbiamo avuti abbastanza per oggi, stai su e
tieni d’occhio Stella.» Batté un colpo d’approvazione
sulla mano del marito che annuì, lanciando i cavalli al trotto. Tutto
quello che si sentì dopo, fu lo sbraitare dell’uomo rivolto al
povero Alberto.
«Era necessario?» Chiese
Alfredo scuotendo il capo.
«Ho bisogno di capire di che
tempra è fatto il ragazzo, se vuole davvero mia sorella.»
«Guai a chi si mette i Soler
contro..»
«Può ben dirlo, don Roquez.»
La tenuta era silenziosa, ma
generosamente calda, proprio come aveva chiesto
Alfredo.
Morena sfilò per le cucine,
accertandosi che quanto ordinato fosse caldo e pronto
nei calderoni; annuì entusiasta e affamata, lo stomaco brontolante.
Questo le dava da pensare su quanto poco avesse mangiato quella mattina.
Staccò un
mollica di pane e lasciò che questa raccogliesse un po’ di salsa
da una ciotola in cui riposavano peperoni e olive, non senza tornarci una
seconda volta.
Poi smise di masticare. Un lampo veloce
le attraversò la mente.
«Signora siete qui!» La
cuoca entrò tutta trafelata. «Vostro marito vi aspetta in tavola.»
«Sì..
sì lo raggiungo subito.» Annuì meccanicamente. «Che giorno è oggi?»
«Tredici maggio,
signora.»
«Tredici maggio..»
Lasciò morire le parole sulle
labbra, allontanandosi ciondolando; non si era resa conto del tempo passato
dall’ultima volta che aveva avuto il periodo di mestruo. Continuò
a fare calcoli ma Riccardo appena la vide le si
buttò al collo, facendole perdere irrimediabilmente il conto, come le
ultime dieci volte.
«Come ti senti
piccolo mio?»
«Stanco.» Sbadigliò
portandosi le mani al viso. «Agueda e io abbiamo cucinato e poi mi ha insegnato a contare e io gli ho
fatto vedere come si lotta, perché lei è una femmina e non
è che si può difendere con il sedano.»
«Avete fatto tutte queste
cose?» Gli accarezzò il collo e la fronte costatando se la febbre
fosse scesa, poi guardò alla cuoca e mimò un grazie fra le
labbra. «Hai fatto il bravo o Agueda ha da dire
qualcosa?»
La donna sorrise. «E’ stato
un angelo, signora.»
«Io sono bravo mamma!» Berciò lui indispettito.
«Sì, il mio angelo dei
sedani.» E scoppiò a ridere seguita dal
bambino.
Il pranzo trascorse bonariamente,
Alfredo e Morena conversarono allegramente
accompagnati dai borbottii infantili del piccolino che terminò il brodo
senza batter ciglio, ma alla seconda portata negò con la testolina; all’ennesimo
sbadiglio, Alfredo si alzò accogliendolo fra le sue braccia.
«Un bacio alla mamma e si va alla
siesta.»
«Siesta.» Ripeté in un sussurro, con il musino
leggermente in fuori, appollaiato con il capo sulla spalla del padre.
«Vi raggiungo appena
sistemato.» Li rassicurò Morena, alzandosi e mettendosi a
sparecchiare insieme adAgueda
che la liquidò in fretta e furia, asserendo di trovarla troppo pallida
in viso.
Si sentiva stanca effettivamente e
doveva ancora raccontare ad Alfredo dell’incontro con il sindaco.
Ma Alfredo non era certo pronto a
riceverla, dal momento che se ne stava sdraiato con il
bambino intrecciato al suo braccio e ronfante; si sfilò gli indumenti e
indossò una vestaglia, risalendo il letto cautamente.
L’uomo sentì il peso della
donna far abbassare il materasso e si girò a guardarla con un debole
sorriso.
«Scusa..» Mormorò
lei, accucciandosi verso Riccardo.
«Morena..
devi farti qualche analisi.» Sussurrò lui a metà fra il
sogno e la veglia.
E quelle parole, così familiari e accalorate, risvegliarono la sua
voglia di mettersi a far calcoli.
*
La sera aveva steso il suo manto di
luci sulla città di Salamanca.
Una ragazza, stretta in un soprabito
dalle tinte tenui, stringeva al petto una cartelletta che confermava quelli che
erano da tempo i suoi sospetti; aspettava un bambino.
Non che la notizia la rendesse
particolarmente stupita, o di cattivo umore, tutto al contrario.
Era innamorata folle dell’uomo
che l’avrebbe resa madre, il problema risiedeva
nel fatto che egli non fosse ancora suo marito e che al momento, a dirla tutta,
la loro situazione pareva appesa a un filo.
Di una cosa era certa; desiderava
ardentemente quel bambino, una famiglia vera.
Proprio come quella in cui era stata
accolta, anche se adesso sembravano sorte incomprensioni.
Si accarezzò la pancia, con un
velo di malinconia. Tutto si sarebbe aggiustato, pensò, i bambini portano luce, portano pace e al sol pensiero di un altro piccolino nelle loro vite le
tornò il sorriso.
*
C’era un’altra sera, poco
più lontano, a dare buone nuove.
Javier cingeva il corpo nudo di Leonor fra le
braccia e pensava che era immensamente bella, quando
non aveva i suoi personali mostri a gustarle l’animo; a dire il vero
c’erano altri pensieri che gli vorticavano per la mente.
Pensava incessantemente alla proposta
di Lorenzo.
Ci aveva pensato da
quando se ne era andato. E non aveva pensato
altro per tutto il pranzo e la cena.
Non era in grado di capire cosa
significassero per lui tutte le emozioni che sentiva addosso al sol pensiero di
rivedere Fuentesauco, la sua vecchia casa, quei punti
di riferimento che tanto tempo fa erano vita per lui..
e soprattutto, più di tutto, non riusciva a capire cosa significasse
ancora quel senso di soffocamento che provava immaginandosi di rivedere lei,
Morena. L’aveva amata così tanto.. per
poi odiarla allo stesso modo.
Erano passati sei anni dall’estate
in cui avevano divorato il loro amore nella fretta di appartenersi e altri sei
anni dal quel matrimonio, quella pancia arrotondata dalla
maternità e da quella vita che non gli apparteneva e che non gli era mai
appartenuta; c’era astio a ricordarla, non poteva metterlo in dubbio, non
lo aveva mai cercato ma d’altronde lui aveva
fatto altrettanto. Allora cosa era che bruciava? Cosa
logorava il suo animo al solo ripensarla?
Aveva dato la colpa
ad Alfredo HerreroRoquez,
riposto ogni animosità in quell’uomo che
la sola colpa che aveva era quella di vivere una vita che per primo aveva
già scritto nei suoi pensieri, quando l’aveva avuta per sé.
Ma lei lo aveva cacciato dicendogli di
venire a Madrid,che
non lo avrebbe seguito.
Non aveva creduto nel loro amore.
E se non ci aveva creduto allora,
significava solamente una cosa: il loro amore non era mai esistito e probabilmente, la sola risposta che riusciva a darsi
per quell’animosità, era il dispiacere di averla persa, perché se l’amore non era mai
stata roba loro, insieme erano stati qualcosa di più; amici per la
pelle.
E questa certezza dinnanzi a qualcosa di incerto e volubile, valeva cento volte di più.
Chissà che questo
viaggio non avrebbe messo a posto le cose.
Per tutti.
Non ci aveva mai pensato, e forse
adesso accarezzava l’idea di un equilibrio stabile nell’universo in
cui gravitavano.
Proprio in quel momento Leonor si mosse, aprendo gli occhi come spaventata.
«Javier,
che ore sono?»
«Sono solo le dieci.»
Sussurrò, girandosi con il viso verso il suo. «Non riesco a
prender sonno.»
«Vuoi che ti prepari una
camomilla?» Chiese lei amorevolmente.
«Sto bene, grazie.»
Tentennò, poi passò una leggera carezza sul suo viso e si decise.
«Cosa ne pensi se andassimo a Fuentesauco per l’estate?»
Leonor si allungò ad accendere la abatjour sul
comodino mettendo su uno sguardo incredulo. «Credo che sia una bellissima
idea.. se non fosse che ci hai messo cinque anni per
partorirla.»
«Lorenzo mi ha fatto una
proposta.» Alzò le spalle. «Ed
eccomi qui a parlartene.»
«Che
genere di proposta?» Incalzò, appoggiando la schiena ai cuscini.
«Non ci crederai mai.» La
imitò, incrociando le mani sul ventre. «Vuole chiedere in sposa
una fanciulla di Fuentesauco.»
«Mi trovo davanti a un bel dilemma.» Sentenziò Leonor allegramente compita. «Non so se credere al
fatto che Lorenzo vuole maritarsi, o che la ragazza sia così pazza da
non sapere a cosa va incontro.» E risecristallina.
Javier la fissò interdetto. «La ragazza è
diFuentesauco.» Insisté come se
a sua moglie fosse sfuggito il particolare più
importante. «Sembra fare piuttosto sul serio.»
Leonor alzò le spalle. «E’ una brava ragazza, degna di
lui?»
«Questo non l’ha detto, ma
suppongo di sì.»
«Cosa
c’entreresti tu con tutto questo? La conosci, forse?»
«Non so il suo nome, a dire il
vero.» Scosse il capo, arrendendosi alla vorace
curiosità e intraprendenza di sua moglie per poi vederla accendersi come
una miccia.
«Ma
insomma Javier, non sai proprio nulla!» Gli
batté un rapido colpo sulla gamba, contrariata.
«L’ha conosciuta a
Salamanca in primavera.» L’anticipò
beffardo. «La ragazza in realtà è diVillaescusa, un piccolo paese della provincia, molto
vicino al mio. Lorenzo non sa quali affari la leghino
a Fuentesauco, ma intende scoprirlo e darle riprova
dei suoi sentimenti.»
«Ti ha detto proprio
così?»
«E’ andato molto più
sul personale.» Trasalì ricordando gli occhi lucidi
dell’amico nell’attimo della confessione. «Ma in quanto suo
amico, non intendo mettere alla mercé i suoi sentimenti per farne il
divertimento tuo o di Benedicta.»
«Accidenti, fa sul serio
veramente.» Leonor affilò lo sguardo.
«Cosa ti ha proposto esattamente? Lo puoi dire o
anche questo fa parte del vostro codice d’onore
sull’amicizia?»
«E’ passato dal chiedermi di essere suo testimone, all’accennarmi di un posto
vagante da medico proprio aFuentesauco, per completare il tutto con un inno alla
coppia che secondo lui rappresentiamo io e te –così liberi e
indipendenti- e che vuole prendere come esempio con questa che, dice, è
la donna della sua vita.»
Leonor sgranò gli occhi. «Ha scoperto subito tutte le carte. Deve
avere davvero paura.»
«Paura?» Chiese lui
incerto.
«Sì. Di lei, di egli
stesso, dei suoi sentimenti, di perderla.»
Inspirò profondamente, passandosi il braccio di Javier
intorno alle spalle. «Nostro cugino è
innamorato, questa è una certezza. Cosa faremo, dunque?»
Javier non osò guardarla da tanto stupore per quella
domanda così poco innocente, sentì solo i battiti del suo
cuore accelerare e le parole tremargli in gola. «Fuentesauco
è un bel posto d’estate. Il popolo si prepara per la mietitura e
l’aria si riempie di un profumo fine che colma in canti e feste di lode
alla vita. I miei genitori ogni anno tengono un ballo nel prato dinnanzi la
tenuta; è un luogo incantevole, i salici piangenti sul viale oscillano alla leggere brezza e sembrano danzare anche loro.. ma non
prenderei mai nessuna decisione che arrechi confusione alle nostre esistenze.»
«Ero già conquistata alla
parte della lode alla vita, Javier. Credo tu abbia ragione da vendere, deve essere proprio un bel posto.
Immagino già la nostra Camila sgambettare su
quel prato.»
«E’ un sì, Leonor?» Chiese trepidante.
«Sì..
ma torturiamo ancora un po’ Lorenzo, ti va?»
*
AbelDel Carmen si rese conto, di essere sulla via
di “Legno di Quercia” ad un ora troppo tarda, ma non riusciva a
trattenere l’entusiasmo per ciò che avrebbe letto in viso della
dottoressa Soler, alla notizia che sua zia aveva ceduto all’offerta di
seicento peseta per la vecchia locanda.
Si fece annunciare trattenendosi sul
patio esterno, contemplando l’attesa con un sigaro all’aria mite
della sera; gli era sempre piaciuta la tenuta dei Roquez, nutrendo grande stima per quel capostipite
decantato nei racconti dei vecchi del paese che lo descrivevano come un uomo
dedito alla comunità. Un po’ come lui e di questo
ne andava fiero.
La dottoressa lo accolse con stupore e
buone maniere, gli offrì un bicchierino di cherry
seduti comodi in veranda dove dopo un po’, furono raggiunti da Don Roquez.
«Signor
sindaco, ci porta buone notizie?» Alfredo allungò la mano che fu
prontamente stretta dall’altro uomo notando che era vestito piuttosto
informale, con un dolce vita di maglia sottile a maniche corte e pantalone
dritto chiaro; se si era precitato fin lì, poteva ben sperare che fosse
per qualcosa di buono.
«La vedova
Portos ha ceduto.» Sparò secco Abel.
«Seicento peseta al lordo delle imposte.»
«Più due
duroper le pratiche, giusto?» Scherzò Alfredo, stringendo
la mano di Morena nella sua.
«Giusto.» Rispose lei,
spostando lo sguardo sull’altro uomo. «Signor
sindaco, deve svelarmi come c’è riuscito. E non mi
incanti con la storia della parentela alla lontana perché non mi
faccio prendere per il naso, sa.»
«Che qui si dica e qui resti;
sono un uomo dalle sorprendenti doti loquaci.»
«Senza dubbio.» Proruppe
Alfredo divertito.
«..e?»
Domandò impaziente Morena.
«La donna ha cominciato a
soffrire di lacune mentali da un po’ di tempo; all’inizio credevo
si burlasse del sottoscritto, quando ho constatato che il problema era reale e
valutato il rischio che la proprietà potesse finire in mano a qualche delinquente
che si potesse approfittare della situazione, ho pensato di stilare un piano
d’emergenza.» Morena e Alfredo si scambiarono un’occhiata sorniona prima di tornare su
di lui. «Poi siete arrivata voi dottoressa, o meglio vostra cugina, a
riempirmi la testa di chiacchiere su quanto sarebbe stato produttivo avere una
levatrice in paese con tanto di ambulatorio –sa
con le imposte su ogni paziente- che ho pensato seriamente fosse la soluzione
giusta per tutti; allora ho cominciato a fare il lavaggio del cervello alla
vedova. E non me ne vergogno, ma vi gradirei che queste informazioni
rimanessero private.»
«La discrezione mia e di mio
marito è ben nota, come sa.» Morena
accarezzò con voce vellutata le paure di Del Carmen.
«In parole povere, lei sta investendo su di me e la ringrazio, ma comunque trarrà vantaggio dal mio acquisto.»
Guardò felina ad Abel che ricambiò lo
sguardo per nulla turbato. «Lo sapevo che sotto quell’aria
bonaria si nascondeva un vero uomo d’affari. Tuttavia, mi permetta di
negoziare qualche punto.»
Alfredo la guardò allarmato, Abel tirò un
sorriso malizioso. «Sono tutto orecchi.»
«La proprietà sarà agli atti mia e della mia famiglia e ne disporremmo come
meglio ci renderà opportuno.»
«Certamente.»
«Le imposte. Un dieci percento credo possa bastarvi.»
«Ma
dottoressa Soler, i tassi d’imposta sono univoci!»
«Vuole dirmi
che a questo punto conosce qualche d’un altro che possa permettersi di
acquistare quella baracca?» Arcuò il sopracciglio mentre lasciava
che il silenzio enfatizzasse il momento. «No, non c’è e lei
lo sa bene. Come sa che non c’è nessuna parentela che la
giustificherebbe nell’aver sottratto una proprietà a una povera demente. E a questo punto, che se la prenda il
primo delinquente che passa o no, non vi sarebbe molta differenza.»
«Dottoressa Soler, credo di averla appena sentita udire darmi del delinquente.»
«Suvvia..
qui si dica e qui resti che sono una donna dalle sorprendenti doti
loquaci.»
A quel punto Alfredo guardò a
bocca aperta la moglie mentreAbel
si lasciò andare ad uno schiocco di lingua, colpito dalle sue stesse
parole. «Del Carmen, come vede sono
l’acquirente perfetto, non dilunghiamoci oltre su questo punto e passiamo
ai fatti; quando posso passare da lei per firmare il contratto?»
L’uomo trattenne il fiato visibilmente
spiazzato. «Non.. non ne dispongo di uno al
momento.»
«Allora lo stili.. e presto!»
«Lasci che mi appunti le
condizioni..» Borbottò lui in
contropiede; Morena alzò gli occhi, ordinando che le fosse portato della
carta e un pennino. «Il pieno possesso della
proprietà e il tasso d’imposta al dieci per cento.
Altro?»
«Il mio nome e quello di mio
marito come intestatari principali.» Alfredo
fece per ribattere ma una veloce occhiata di Morena lo
intimò di rimanere cauto. «Incaricherò presto il fabbro affinché
venga vergato su lastra d’oro, lei mi assicuri
che questo particolare sia messo bene per iscritto su carta.»
«Come lei desidera, signora.
Possiamo ritenere l’affare concluso?»
Morena sorrise enigmatica.«Abel
deve farmi un favore.» L’uomo la guardò angosciato.
«Mi chiami pure Morena.» Allungò la mano sicura e fiera di
questa grande vittoria.
Del Carmen la strinse certamente sollevato, ma abbastanza soddisfatto.
Morena insisté perché
l’uomo tornasse in paese con una carrozza, attardandosi insieme a lui sul prato antistante la proprietà,
nell’attesa di vederla arrivare.
«Ah proposito di
Olivia..» Chiese titubante e con il senso di colpa di essersi
comportata in malo modo con lei nella mattinata. «So che trascorrete
molto tempo assieme, l’ha più vista oggi?»
«Mi ha accennato ad un impegno in
quel di Salamanca. Siete preoccupata per
qualcosa?»
Si sforzò di sorridere cercando
di deviare l’attenzione. «No Del Carmen,
sciocchezze.»
«Morena posso chiedervi un
favore?»
«Prego, dite pure.»
«Chiamatemi Abel.»
E lo vide sorridere di gusto per la prima volta da quando
era arrivato.
«Abel,
lei non molla mai vero?»
«No Morena, ma d’altronde
potrei asserire lo stesso di voi. Tuttavia sono compiaciuto di come siano andate le cose; quando sarà pronto il contratto
la manderò a chiamare.» Guardò in lontananza alla carrozza
in prossimità di arrivo e abbozzò un
inchino. «Arrivederci.» La ragazza ricambiò il saluto
vedendolo sparire in fondo alla collina.
«Quel sorriso è di
compiacimento, forse?»
Congedato gli inservienti e controllato
che il bambino dormisse sereno, Morena raggiunse
Alfredo nella sua camera; l’uomo la guardava con avidità e una
vena di lussuria nello sguardo rovente.
«Mi piace molto quello che
vedo.» Si alzò, leccandosi le labbra e con passo felino; la
ragazza indietreggiò divertita ma ben presto si
ritrovò fra le braccia del marito che l’aveva alzata di peso da
terra. «Sono fiero di te.» Disse, baciandola sulla punta del naso.
«Sei stata molto coraggiosa.» Le rubò un bacio veloce.
«E impudente.» La baciò ancora.
«Ma coraggiosa.» Confermò,
guardandola con occhi brillanti.
«Alfredo..
ma tu quanti anni hai?» Lo canzonò, tirando dietro il capo in una
risata squillante; l’uomo sorrise selvaggio e insolente, gettandola di
peso sul letto e non attardandosi troppo nello stendersi su di lei con il suo
corpo possente e indomito.
(N.p.d) *
un duro equivalevano a cinque peseta.
**
Quanti aggettivi o
verbi possiamo aggiungere per descrivere una persona?
Ogni persona ha un suo determinato tempo parallelo di esistenza
nella nostra vita. C'è chi cambia, c'è chi si dimentica,
c'è chi si ricorda di te, c'è chi ti sostiene, c'è chi ti
apprezza, c'è chi ti resta accanto. C'è e ci sarà sempre
un viaggio, dove tutto si trasforma, si divide e si unisce in un dialogo di racconti
infiniti. Pensieri, comprensioni, giustificazioni, sono solamente aggettivi che
ci affiancheranno nella nostra lunga e strampalata vita.
So che dovrei arrendermi, rinunciare a questa storia,
visitata da tanti.. recensita da nessuno.
Ma allora non sarei io e quindi eccomi qua, da brava
testona, a portare avanti questo progetto.
Non penso faccia schifo e non lo dico con presunzione;
l’ho letta e riletta e tutte le volte è stato sempre più
forte in me il desiderio di portarla avanti, piuttosto
che cancellare anche solo una virgola.
Ecco, forse è questo mi fa andare avanti; io ci credo.
Nel mio cuore, spero che anche qualcuno di voi, creda
in me.
Il contratto arrivò circa una settimana dopo l’incontro con
Abel Del Carmen.
Morena si sistemò per l’occasione come una gran dama, al
braccio dell’avvocato designato oltre venti anni addietro, per seguir
pratiche della famiglia Roquez; questo le dava un
senso di potere, ma anche di spavento.
Sapeva che quell’ambulatorio sarebbe diventato
tutta la sua vita e che rappresentava i sacrifici che aveva compiuto per
diventare medico, le notti bianche passate con gli occhi semi chiusi sui libri
e il piccolo Riccardo attaccato al seno, ma rappresentava anche i mostri con
cui aveva combattuto negli anni, tipo il senso di inferiorità che provava
nei confronti di Alfredo; si sentiva talmente grata a quell’uomo, che non
vedeva l’ora di dimostrare in fatti la fiducia che egli aveva riposto in lei.
Ed oggi, camminando fra la polvere di quel posto,
tomba di ciò che era stato in passato, sentiva di avercela fatta in
qualche modo e quella smania d’arrivare si era trasformata in gaudio
battito di cuore.
La notizia era stata tenuta alquanto segreta,
Abel si era assicurato che certi dettagli su come fossero andate le cose,
venissero elargiti tramite alcuni leccapiedi alla quale aveva promesso questo o
quello; così girò voce che la dottoressa Soler -Roquez avesse sborsato un ingente somma di denaro per
avere la baracca e che la trattativa era andata avanti per ben cinque anni,
prima che la vedova Portos si convincesse nel cederla.
Era un mezza verità infondo, ma
d’altronde la vedova stessa non poteva -suo malgrado- asserire il
contrario dato le sue lacune mentali e questo, alla luce di quanto aveva
ottenuto, era lo scotto da pagare con la propria coscienza di certo un
po’ più pesante, ma di certo più felice. Dio avrebbe ripulito la sua anima, si diceva. E se non lo avesse fatto, restava il fuoco dell’inferno che lei, a
soli ventidue anni di vita, aveva letteralmente già provato sulla sua
pelle.
«Sapevo che questo
posto sarebbe stato tuo, un giorno.»
Aveva chiesto ad Alfredo di tenere lontano
i curiosi, una volta preso possesso dell’edificio, ma quando udì
quella voce si girò trepidante ed emozionata;
Olivia era tornata a Fuentesauco, dopo una settimana
che non aveva avuto più sue notizie. Una settimana da quella brusca
conversazione sul suo futuro, una settimana da quando le aveva confessato che si era innamorata di uno dei papabili amici
di Javier La Fuente, l’uomo che meno di tutti voleva
sul suo cammino.
Non aveva chiuso occhio per notti intere.
Si dimenava fra le lenzuola e provava
nelle viscere una sensazione di disagio e fastidio.
Cominciava a far caldo e l’aria si
era fatta di colpo più pesante, ma sapeva che ogni sua angustia era dovuta al comportamento che aveva riservato per lei; era
stata egoista, insensibile, e si era decisa che fosse arrivato il momento non
solo di chiedere perdono, ma anche di spiegare. Raccontarsi.
Non sapeva se Olivia avrebbe capito o
avesse accettato, ma se guardava quella ragazza negli occhi sapeva che era
stata sempre sincera con lei, molto più che un’amica ma anche
più di una cugina e doveva in qualche modo riservagli
la stessa franchezza. Era donne adulte ormai, se la
loro amicizia fosse finita, doveva essere per una giusta causa.
«Vederti qui mi
riempie di gioia.» Le andò
incontro, abbracciandola; non seppe dire cosa, ma quando si trovarono unite
provò come la strana sensazione che qualcosa fosse cambiato.
«Voglio parlarti da giorni.. sono stata
scortese, ma abbiamo bisogno di tempo per parlare.. ti tratterrai?»
Quella slegò l’abbraccio e si guardò intorno.
«Questo posto è il caos.» Tornò su Morena,
sorridendo. «Se non io, chi può aiutarti
a mettere ordine? Perciò
sì, credo proprio che mi tratterrò.»Sfilò per l’angusto spazio
dinnanzi a loro, aiutandosi con palmi aperti nel tirare via le ragnatele dal
soffitto; l’aria era satura di pulviscolo lucente, la tenue luce che
filtrava dalle imposte serrate creava un gioco di ombre
e chiarore spettrale. «Mi aspetto che ciò di cui tuvoglia
parlare tratti della tua ridicola
fuga alla notizia del mio fidanzamento.»
«Ti sei fidanzata?» Morena abbandonò la veste di
cugina afflitta e la raggiunse con viso imbronciato.
«A dire il vero ancora no. Ma ho la netta sensazione che stia per succedere.»
Morena alzò gli occhi al cielo. «Come, se te ne resti a Fuentesauco?»
Olivia sospirò. «Lo sento qui.» E
si toccò la pancia. «Ma magari è
solo fame.» Alzò le spalle e proseguì il giro di ispezione. «Per cominciare dovrai farmi avere la
pianta del posto, poi insieme dovremmo stilare una
bozza su quella che è la tua idea di ambulatorio. Sei
un chirurgo infondo, no? Avrai bisogno di diverse stanze suppongo, sai
in modo da dividere le pazienti gravide in visita da quelle da sgravare;
c’è bisogno di più intimità per certe cose, basta
separé.»
«Sì, credo che le tue idee siano
buone però.. io devo assolutamente parlarti. Ora. E non so se poi te ne
verranno in mente altre.. tipo uccidermi. O ripudiarmi. O..»
«.. frena Morena. Ucciderti? Ripudiarti?
D’accordo, non sei stata molto gentile una settimana fa, ma sono sicura
che conoscendo meglio Lorenzo –questo è il suo nome fra le altre
cose- ti ricrederai e non sarò costretta a metodi tanto duri. Sono
convinta che vi piacerà.
E’ un adulatore, sbruffone ma adorabile.»
Si lasciò andare ad un piccolo sorriso, sentendola parlare come
una qualsiasi ragazza innamorata parlerebbe del suo uomo, salvo poi ricordare
il piccolo particolare“amico -dell’uomo
–che –mai –vorrebbe –rivedere” e
s’impietrì nuovamente. «In realtà lui c’entra
molto con la mia reazione.» Buttò
lì.
«Perché lo conosci?» La vide agitarsi e con il respiro corto. «Sono attorniata da coincidenze
quando si tratta di lui; sai che la prima volta che ci siamo scontrati è stato al mercato di
San Miguel, quando io e te eravamo a Madrid?»
Prese un bel respiro a pieni polmoni e si accigliò turbata. «Non dirmi che si è scontrato
anche con te? Delinquente!»
«Senti non so
cosa intendi ma io no, non mi sono scontrata con lui.
Ma con il suo amico.. Javier La Fuente.»
«La Fuente, come i signori fattori di Fuentesauco?»
«Proprio loro. Il loro unico figlio per l’esattezza.»
Inspirò e si lasciò andare. «Un tempo, mio grande
amore.»
«Cosa stai
cercando di dirmi, non capisco..»
«Vorrei
raccontarti la mia storia, se hai voglia di stare a sentire.» Batté
nervosa il piede in terra e proseguì. «Chiamalo destino, coincidenze.. ma sono arrivata a pensare che determinate persone
finiscono con l’appartenersi anche quando la vita decide di separarli. Para siempre.»
Olivia accese di curiosità e
bramosia i suoi occhi verdi limpidi e cristallini e Morena capì che si
era fatto il momento.
Non poteva più
rimandare, doveva accettare l’idea di poterla perdere ma di essere
stata sincera almeno una volta.
«Tutto è
cominciato un’estate di sei anni fa, o forse..
nemmeno allora; io e Javier siamo praticamente cresciuti insieme e siamo finiti
inevitabilmente con l’innamorarci. Come è
tristemente noto, le nostre estrazioni hanno finito con il separarci, lui a
Madrid per cominciare una vita da soldato ed io qui a leccarmi le ferite per il
modo in cui tutto è successo.»
Olivia non fiatò, ma con gli occhi espresse una
domanda muta alla quale Morena si apprestò a rispondere. «Sua
madre, Guadalupe Garcia, ha fatto in modo e maniera che non ci fossero addii strappalacrime e promesse di matrimonio; la
sera prima della sua partenza ci ha scoperti insieme e si è vista bene
di spedirlo sulla prima diligenza diretta a Salamanca e da lì.. Madrid.
Il giorno dopo quando mi recai a cercarlo presso la sua tenuta e non lo trovai,
dalla disperazione persi i sensi. Quando mi sono svegliai ero in casa di Alfredo e Francisca;“qualcuno” mi aveva gettata a ridosso del fiume, come fossi un
rifiuto. Il paragone rende bene l’idea del messaggio trasmesso, non
trovi?» Sorrise amara, una ruga a increspargli
la fronte liscia. «Questo è stato l’inizio per la discesa
negli inferi.»
«Continua.» Ordinò tristemente la ragazza.
«Mesi dopo, sulla via di casa appresi dallo sfrecciare degli interradores
della dipartita di donna Francisca; il mio cuore si squarciò,
rendendomi vulnerabile e piena di pietà nei confronti di
Alfredo al punto da recarmi alla tenuta per dimostrargli tutto il mio
cordoglio; quando arrivai feci scoperta che mia zia Milagros
–nel pieno titolo di confidente e amica della povera donna- ci aveva
promessi in matrimonio. Fu un totale shock, ma accettai per delle condizioni a me care.»
«Quali condizioni?» Chiese Olivia nel pieno della
lucidità.
«Aspettavo un bambino.» Rispose senza tentennamenti.
La ragazza annuì, un sorriso di
sconfitta sulle labbra.
Morena non parlò, ma aspettò
in silenzio qualsiasi giudizio.
«Quindi Riccardo
non è figlio di Alfredo.» Non era una
domanda e nemmeno un’accusa; la vide mordersi il labbro e tentennare un
po’ prima di proseguire. «Mi rendo conto che solo un cieco non se ne sarebbe
accorto, e non parlo di qualcuno che non vede con gli occhi, ma con il
cuore. Ero lì vicino a te, sentivo che c’era qualcosa..tu stessa lo hai ammesso.. e non ho mai capito niente.»
«Tutto è stato eseguito secondo piani ben strutturati.» Ammise senza vergogna.
«Perché?» Olivia la
incalzò.
«Paura.»
«Paura?» Le sue labbra si aprirono in una smorfia. «A
tuo dire sei stata un’abile calcolatrice, Morena. La paura non credo tu
sappia cosa sia, a questo punto. Sono sicura che ci sia altro e vorrei che
tu me lo dicessi, se vuoi essere sincera veramente, perché ti sento come
un’estranea adesso e non mi piace. Mi spaventa.»
«E’ una storia
trita e priva di interesse.»
«Lascia
giudicare me. Non puoi trascinarmi in questo abisso e
poi scusarti per averlo fatto. Siamo qui io e te, davanti ad un nuovo inizio.. per la seconda volta. Pensaci, non avremmo un’altra
occasione come questa.»
E Morena non poté che constatare che
era davvero così.
C’erano stati gli atti da depositare
in passato, e c’era adesso la prospettiva di un futuro professionale nuovo
e roseo.
Olivia appariva in entrambi. Voleva che
restasse, lo desiderava fortemente.
«Non volevo questo figlio. Non senza Javier.»
Pronunciò, con l’aria martoriata. «Ma tutto ad un tratto mi
sembrava che tutti potessero decidere per me. Mia zia, mio padre; tutti con una
loro visione di quella che doveva essere la mia vita..
senza chiedermi cosa desiderassi io per me.» Il ricordo di quella
sensazione spiacevole le velò gli occhi e incrinò la voce.
«Ho cercato un modo per sbarazzarmi di lui, non riuscivo a sopportare l’idea della vita mera che
avevamo davanti; sul punto di farlo GuadalupeGarcia, sotto false vesti, mi ha intercettata
e condotta ad una grotta con l’intento di assicurarsi che non mi facessi
cogliere dai sensi di colpa tirandomi indietro e che la paternità della
creatura restasse segreta.»
«In che modo intendeva assicurarsi il tuo silenzio?»
«Facendomi ingerire infuso di Dea.»
«Ma è una sostanza proibita e
letale!» Berciò Olivia. «Che razza
di donna può far questo?»
«Non una donna.. il diavolo.»
Olivia chiuse gli occhi e li riaprì spaventata. «Ho udito
delle voci una volta.. riguardavano Francisca..»
Morena guardò in basso. «Non erano solo voci.» E quando terminò di parlare udì chiaramente
Olivia trasalire; levò allora lo sguardo al suo. «Capisci
perché ho detto paura? E’ stato solo toccando il fondo, che ho
capito quanto desiderassi far vivere il mio bambino. A qualsiasi condizione; i
miei stupidi capricci non erano più importanti della sua stessa vita. Così
giurai di proteggerlo sempre, anche a costo della mia felicità.» Inspirò e poi sorrise teneramente. «Ho
fatto molti sbagli, ma su due cose ho avuto ragione; sposare Alfredo e mettere
al mondo Riccardo. Alfredo è stato l’unico che mi ha accettata per quella che sono, parlandomi chiaro e
offrendomi la prospettiva di un futuro; si è rivelato quanto di
più buono, vero e pulito io potessi sperare. Riccardo è
l’amore della mia vita, tutto il dolore per ciò che ho vissuto
è sparito nell’attimo in cui l’ho preso fra le mie braccia. Il
resto non ha più importanza, ha smesso d’esistere.. se mai sia realmente esistito. Ci sono giorni in cui
guardo al passato e ho come la sensazione di ricordare solo una fitta nebbia di
cose astratte. La mia vita è questa. Qui e adesso,
mentre parlo con te, mentre muovo passi in quello che sarà il mio studio, quando abbraccio mio marito e mio figlio. E parlo ancora con te,
amica mia. Adesso, sai la
verità e sappi che non mi aspetto che tu
capisca, solo che tu sappia perché sono stata sgarbata una settimana fa,
come cinque anni fa. Adesso, finalmente, sai chi sono.»
Olivia la guardò spaesata e tutto quello che fece fu abbracciarla
d’istinto.
Quell’abbraccio, pensò Morena, sarebbe valso più di cento
parole, comunque fossero andate le cose.
Ma
la ragazza minuta che adesso le respirava sommessa sulla spalla, parlò.
E le si gelò il sangue nelle vene.
«Ciò che penso di te già lo
sai, quanto detto può solo rafforzarlo.» Sciolse l’abbraccio
asciugandosi un occhio. «Chi sono io per giudicare ciò che una
madre fa per il proprio figlio?»
«Non mi reputi una donnaccia, quindi?»
«Come potrei? Tu hai reso felice mio
cugino, malgrado tutto.»
«Il mio solo e unico scopo.» Ammise, avvicinandosi alle
finestre; con un leggero colpo di mano scostò l’imposta che
scricchiolando si spalancò.«Una metafora perfetta.» Disse,
indicando il fascio di luce che aveva squarciato il buio.
Olivia l’avvicinò, aprendo l’altra. «Ci
sarà sempre più luce, d’ora in avanti.»
«Lo spero.»
«Lo sai che non mi sbaglio mai.» Sospirò e si
voltò a guardarla; Morena la imitò. «Allora, te la senti di
visitare la tua prima paziente?» Allargò le braccia e mise su una
faccia tanto buffa da farla ridere.
«Cosa hai, sentiamo?»
Olivia le prese la mano e se la portò alla pancia.
«Diventerò madre.»
*
«Donna Leonor, dove vuole che li metta
questi?»
Da quando la decisione di partire per Fuentesauco,si era trasformata in fatto, l’intera casa si era
trasformata in una gigantesca valigia in cui sostavano quadri, abiti, utensili
e suppellettili di vario genere, in attesa di giusta sentenza.
Era facile quindi vedere la piccola Camila
ridere di suo padre, quando puntualmente, andava a sbattere sulla specchiera
barocca che Leonor aveva acquistato per sua suocera,
ed adagiato fra lo stipite del salone e la parete del corridoio.
«Odio questa specchiera Leonor!» Lo si sentì urlare dal fondo del corridoio.
«E’ così pacchiana!»
«Oh non lamentarti troppo! Tua madre la adorerà!» Gli
rispose guardando divertita Consuelo. «Dicevamo?»
«Le chiedevo dove riporre i candelabri, signora.»
«Ne lasci due fuori e li incarti. Gli altri al solito posto,
grazie.» Sbuffò togliendosi un boccolo indomito dal viso e sorrise
alla bambina che la guardava incantata dal divano. «Dovremmo incartare
anche tuo padre, vero?» Camila si portò
le mani alla bocca soffocando una risatina. «Ma
dove è andato a cacciarsi?» Disse infine, portandosi le mani ai
fianchi.
«Sono qui.» Javier apparse trafelato, con la cravatta al collo ancora da
annodare.
«Stai uscendo?»
E
mentre l’uomo stava per rispondere suonò il campanello; si
guardarono l’uno in cerca di risposte dall’altro.
«Io e Lorenzo dobbiamo accordarci con il
sindaco sul nostro arrivo; ha molto insistito di offrirci un caldo benvenuto.
Non capita loro tutti i giorni di ricevere signori da Madrid, specie colui che sarà il futuro medico. In merito a questo
stavo pensando anche di stilare un inventario di medicinali da portare in
donazione.» Si annodò la cravatta e il
campanello squillò ancora. «Temo che Consuelo non sia sopravvissuta a qualche spigolo.» Berciò
sarcastico.
«Javier!» Leonor
lo redarguì, indicando la bambina con il capo.
«Oh.. ma la mia piccolina non ha paura di
nulla, vero?» E lo vide piegarsi su di lei per baciarle la testolina
castana.
«Non ho paura di nulla, mamma.» La bambina ripeté
ciondolando le gambe.
Leonor alzò gli occhi al cielo divertita.
«Ti assomiglia in tutto e per tutto.»
Javier alzò le spalle mostrando una faccia schifosamente soddisfatta
per poi affrettarsi ad andare ad aprire la porta.
Dopo qualche istante si udì il chiasso di una risata
inconfondibile in tutta Madrid.
«Date delle feste da sballo e non mi invitate?»
Benedicta fece ingresso in tutta la sua algida
bellezza.
«Scusaci se non sapevamo nulla del tuo ritorno dalla Baviera.» Rispose Leonor cercando
di mantenersi seria.
«Colpa mia. D’altronde vi facevo più noiosi..»
«Oh Benedicta..
sei sempre la solita!» E scoppiarono a ridere, per poi ricorrersi ad
abbracciarsi forte. «Come stai? Come è andato il viaggio di nozze? Raccontami!»
Si accomiatarono sul sofà dove vennero
avvicinate da Camila che tirò la zia per il
vestito.
«Zia, noi non siamo noiosi. Siamo interessanti.»
Benedicta la guardò divertita. «Certo amore, tu lo
sei tantissimo. Io parlavo dei tuoi genitori.» Poi guardò la cugina a bocca
aperta. «Chi le insegna certe cose?»
«Secondo te?»
La ragazza scosse il capo. «Ovviamente, La Fuente.»
La bambina si sistemò sulle gambe della mamma che la baciò come
d’approvazione. «Ho capito.. chiedo scusa
per avervi offeso.» Si affrettò a dire Benedicta
ridendo di una calorosa risata. «Mi siete mancati tanto.»
«Anche tu.» Risposero mamma e
figlia all’unisono. «Insomma, il viaggio?» Aggiunse Leonor.
«E’ stato tutto perfetto.» Disse con aria trasognante.
«Siamo stati a Parigi per il mio compleanno e.. cielo Leonor!
Avevi ragione, quel posticino che mi consigliasti
serve piatti sublimi! E di Londra vogliamo parlare?
Fredda ma incantevole. Vi ho portato dei cappottini adorabili, Consuelo deve
essere di là a sistemarli.»
Fece per alzarsi, ma la cugina la trattenne per un braccio; chiese
dolcemente alla bambina di raggiungere la cameriera per indossarli e sfilare
per loro, così da rimanere sola con lei.
«Mi sbaglio o vedo un pancino da queste
parti?» Chiese in un fil di voce, scorrendo gli
occhi sulla sua figura.
«Oh Leonor..
è già così visibile.» Confessò dispiaciuta,
tornando seduta. «Cercavo il modo di fartelo sapere con il maggior tatto possibile, ma Guglielmo mi ha sempre consigliato di dirlo
così, occhi negli occhi. Gli ho risposto che siamo come sorelle noi due e..» Si commosse fino alle lacrime, mentre cercava di
parlare.
«Noi siamo come sorelle.» La rassicurò l’altra,
prendendole la mano. «E’ una bellissima notizia.»
Benedicta si era sposata nel mese di Dicembre con Guglielmo RojasMeyer, un giovanotto appartenente all’antica
divisione della nobiltà germanica degli Uradel da parte di padre e
spagnolo per parte di madre, conosciuto in un prestigioso
collegio che la stessa aveva frequentato in passato; i due, come spesso
accadeva quando due famiglie ben si accettavano fra di loro, si fidanzarono non
appena conclusero gli studi, culminando il tutto non con uno, ma due matrimoni
in pompa magna, ognuno per paese di provenienza degli stessi.
L’ultimo fu in Spagna, nell’inverno passato appunto, dato le
temperature più clementi che nella lontana Germania.
Dopo questa festa i due avevano gironzolato un po’ per il vecchio
continente, nell’intento di saldare entrambe le famiglie – il buon
Guglielmo disponeva di un albero genealogico lungo
quanto un trattato di guerra- per poi accasarsi in pianta stabile a Norimberga.
La primavera li aveva ricondotti nuovamente a Madrid, a
quanto pare per spargere voce della lieta notizia e per apprenderne
altre, tipo l’avventura fuori porta che il giovane fratello di lei stava
per intraprendere allo scopo di chiedere in sposa una fanciulla.
«Oh sono così felice di sentirtelo dire, Leonor.» Sospirò e si
sentì meglio. «Ho appena saputo che sarà una femminuccia. Ci
pensi? Una piccola compagna di giochi per la piccola Camila.» Si girò una ciocca di capelli fra le mani.
«Spero d’essere una buona madre.»
«Certe cose vengono da se, non stare a preoccuparti.»
Camila rientrò nella stanza con un adorabile
cappottino color acquamarina intonato ai suoi occhi; fece una breve
piroetta sul posto e guardò le due donne in trepida attesa.
«Sei un incanto piccola mia.» La zia la chiamò a se;
la bambina si avvicinò salendo sulle sue ginocchia e ringraziandola con
un bacio. «Lo sai che presto avrai una cuginetta?»
«Davvero? E dov’è?»
«Nella mia pancia che dorme.» Sussurrò Benedicta e a Leonor gli si
strinse il cuore per la tenerezza del momento.
Sull’uscio apparvero Guglielmo –visibilmente ingrassato ma
dal viso sereno- e Javier titubante.
«Sto bene.» Esalò Leonor,
guardandolo dritto negli occhi.
«Fra qualche mese la conosceremo e giocherai insieme a lei.»
«Potrò tenerla in braccio, zia?»
«Certamente. La tua mamma lo insegnerà a
me e io lo insegnerò a te. Va bene?»
«Va bene.»
Leonor la guardò con occhi luccicanti. «Sarò
all’altezza?»
«Lo sei sempre, in tutto ciò che fai.» Poi
scambiò un’occhiata fugace con Javier. «Ho
conosciuto manager importanti in Germania, persone che hanno a che farecon il settore
cinematografico. Quando vi sarà passata questa smania da gita estiva
fuori porta.. perché non venite a Norimberga
voi tre? Se avessi saputo che eravate disposti a muovervi per così tanto tempo, vi avrei invitati da subito.»
«E’ stata una scelta improvvisa.» Rispose Javier, armeggiando dellocherry e del the, al carrello delle bevande.
«Si lo so.. Lorenzo.» E scosse il capo. «Dio solo sa se sta compiendo la
giusta scelta. I miei rispetti alle tue origini Javier
ma.. una contadina dalla provenienza modesta? Non
credete meriti qualcosa di più?»
Leonor le lasciò la mano. «E’ determinante
che lei sia ricca almeno o quanto lui? Si amano.»
«Suvvia Leonor..
l’amore non sfama e tanto meno può farti avere questo.» E si guardò attorno. «Spero solo non si penta delle sue scelte, tutto qua.»
«E’ un uomo intelligente e un adulto consenziente. Non abbiamo ragione di credere che stia compiendo
un’idiozia.» Javier le raggiunse
accompagnato da Guglielmo; accarezzò le spalle di sua moglie
infondendole sicurezza. «Brindiamo alla vita Benedicta.
Ai cambiamenti. D’altronde.. non eri tu quella
che aveva paura di mettere il naso fuori da Madrid?»
«Ben detto Javier!»Guglielmo
asserì, facendo collidere il suo calice a quello del cugino.
«Guardati cugina mia. Sorella mia.»Leonor le
sorrise avvicinando i rispettivi bicchieri. «Cittadina d’Europa,
viaggiatrice del mondo.. e presto madre. Non puoi non
ammettere che l’amore sia il fattore determinante
e inevitabile del cambiamento di ognuno di noi. L’unica cosa davvero
importante.» Lo schiocco delle due coppe, coprì la risatina
colpevole di Guglielmo che si beccò un’occhiataccia dalla moglie.
«Ah proposito di Lorenzo..» Javier ribaltò la situazione attirando
l’attenzione. «Stavo giusto andando da lui per stilare una lista di
donazioni per Fuentesauco e altre cose noiose ma
doverose. Volete unirvi a me?»
«Una lista di donazioni?» Chiese Guglielmo.
«Medicinali per lo più. Con i tempi lunghi delle spedizioni,
avere una scorta è un bene.»
«Possiamo contribuire in qualche modo?» Chiese Benedicta, visibilmente imbarazzata. «Credo di essere
stata travisata e non vorrei mai che si pensasse che sono un
avida sputasentenze.»
Camilasi illuminò. «Mamma cosa è
una sputasentenze?»
Gli adulti si guardarono fra di loro scoppiando
a ridere sonoramente.
«Allora, come ti è sembrata?»
L’auto accostò dinnanzi al grande
palazzo stile liberty sulla Gran Via.
Javier trattenne Benedicta nel guardaroba in attesa d’essere annunciati, con un espressione
preoccupata.
«Non so Javi..
vuoi la sincera verità? »
«Devi essere sincera come so che sei.»
In tanti anni di amicizia e poi parentela,
aveva imparato bene quanto a volte potesse risultare ruvida Benendicta,
ma oltremodo schietta; se volevi un parere franco su una determinata cosa
dovevi per forza di cose rivolgerti a lei, dotata quale fosse di una lingua
lunga e al contempo di una ruffianeria come poche in giro.
Si era chiesto spesso come riuscisse a ballare su quel delicato
equilibrio, ma con un’alzata di spalle era convenuto che ad ognuno spettava una dote morale nella vita, una sorta di asso nella
manica che caratterizzasse la persona.
Lei era spietata eppure adulatrice.
«Mi è sembrata molto fragile e impaurita, ma sincera, nel
mostrarsi felice per me e questo fa ben sperare.»
Alzò le spalle, il viso attraversato da un lampo di tristezza ai ricordi
passati. «Chissà che questa partenza non l’aiuti
a superare le sue angosce, che come ha detto, l’amore sia il fattore
determinante per il suo cambiamento. Il motore che scateni
una rinascita. Ma tu.. devi promettermi una
cosa per il suo bene, Javier, sul tuo onore.»
Il ragazzo la fissò turbato. «Non hai che da chiedere, sai
che farei di tutto per lei.»
«Lo so. Fino ad oggi sei stato un marito e un padre eccezionale.
Ma il passato è una spina nel fianco, amico mio.»
Cadenzò l’attesa con uno sguardo glaciale e fermo.
«Promettimi che lascerai mi raggiunga in Baviera, qualora si presentasse.. la necessità.»
Javier inspirò velocemente, il fiato corto. «Solo se lei lo
vorrà.»
«Speriamo mai, allora.»
E
gli batté un colpo affettuoso sul petto, prima di uscire fuori e
raggiungere suo marito al braccio.
Speriamo mai, ripeté mentalmente Javier.
*
Guardava al vecchio ambulatorio di Fuentesauco
con occhi nuovi, quella mattina.
Come ogni giorno si era svegliata, aveva adempiuto ai
suoi doveri di moglie, di madre e quando il sole era alto nel cielo aveva
imbracciato la sua sacca coi libri, il camice bianco lindo di lavaggio, lo
stetoscopio e la borsa con gli strumenti medici e si era recata in paese. Solo mettendo piede nel luogo che l’aveva vista nascere come
medico, si era resa conto di quanto fosse cambiata. Quanto fosse cresciuta. Quanto fosse più forte.
Quello spazio fatto di luce, pochi mobili e sostanzialmente una sola
vetrina contenente i medicinali generici era stato il
suo tempio per circa un anno o poco più. Il suo primo paziente se lo
ricordava ancora, Thiago un dolcissimo bambino figlio di una coppia di contadini poverissimi al quale non
aveva chiesto nemmeno un duro per le cure, incoraggiandoli a tenerlo al caldo e
al sicuro; la donna si era presentata allo studio con questo scricciolo di
bambino di sei anni in braccio, pregandola di alleviargli tutte le sofferenze,
ma quando aveva scavato a fondo nella loro storia e nei polmoni del bambino, vi
aveva trovato tutta la fatica e il lavoro che lei e suo marito gli avevano
fatto provare – e da chissà quanto tempo- pur di avere due braccia
in più che producessero. La pregò incessantemente di tenere il
piccolo a riposo e nemmeno il suo aiuto bastò, Thiago
se ne andò dopo qualche settimana, provato da
una polmonite batterica.
Si era detto di rimanere distaccata. Si era detto
che era il ciclo della vita. Si era detto che non
sarebbe stato ne il primo ne l’ultimo, ma non aveva immaginato che
avrebbe fatto così male e che di notte avrebbe sognato quegli occhi da
bambino che la guardavano imploranti di smetterla, di farla finita con il
dolore. Così aveva pianto, a lungo e rannicchiata
sotto la coperta come una donna qualsiasi e il giorno dopo si era alzata, con
gli occhi gonfi e l’umore mesto ed era andata avanti.
Un brivido le percorse la schiena, al solo
pensiero, ma poi ricordò che aveva visto nascere anche qualche bambino e
che c’erano stati casi risolti per il meglio. Era tornata anche la morte,
certo, ma il ciclo della vita era inarrestabile, per ogni gioia si contrapponeva
il dolore, lei poteva ostacolarlo, ritardarlo o combatterlo a volte, ma non era
certo Dio e doveva affrontare questo come un “dono” abilitato ad un
essere con delle fragilità e dei sentimenti.
Aprì le finestre e lasciò che il tepore della giornata di
fine primavera s’espandesse nella stanza, il tutto dopo aver dato un’occhiata fugace al tavolo dove riposavano
appunti, qualche traccia di passaggio del piccolo Riccardo e i consueti libri
di medicina, secondo una precisa abitudine: il caos.
Si rammentò di dover scrivere due righe alla dottoressa Velasco e pregarla di accoglierla quale sua praticante
entro breve; i lavori per lo studio nuovo sarebbero presto iniziati e smaniava
nell’attesa di essere abilitata a tutti gli effetti alla professione che
avrebbe svolto presso quello che sarebbe stato il suo
nuovo tempio.
Olivia aveva preso in mano le redini della ricostruzione, così a Fuentesauco erano arrivati dieci manovali fra falegnami,
fabbri e carrettieri e nessuno meglio di lei sapeva che quella benedetta
ragazza avrebbe tirato su un qualcosa di perfetto e funzionale in brevissimo
tempo, anche se in dolce attesa.
Quello era rimasto il loro piccolo segreto.
Qualcuno bussò alla porta.
«Avanti!» Vociò, nascosta fra il tavolo e dei
cassetti bassi dell’unico mobile che aveva sulla
parete.
La porta si aprì e quando si tirò su, schioccò la
lingua sorpresa. «Buongiorno don La Fuente.»
Da quando aveva sostituito Pena, non li aveva mai visti palesarsi al suo
capezzale; GuadalupeGarcia
si era data pena di far sapere in giro che la salute sua e dei suoi cari era impeccabile e comunque delegata strettamente ad un
famoso luminare di Salamanca, ergo, non si sarebbe mai fatta mettere le mani
addosso da una sporca plebea quale riteneva che fosse. «Si
accomodi.» Esordì professionale e distaccata.
Estefan La Fuente era un uomo dall’aspetto
pacifico, bonario quasi, se ti dimenticavi che in tempi non sospetti si era
innamorato e poi unito in matrimonio con GuadalupeGarcia; voci popolari narravano di un matrimonio osteggiato
dai signori di Fuentesauco, che ambivano per il
figlio un unione più consona per quello che
sarebbe divenuto l’erede di metà dei beni e delle terre del paese
e che non vedevano in quella ragazza figlia di vagabondi senza gloria.
Tutto questo era ridicolo, lei lo sapeva. Aveva
provato sulla sua stessa pelle cosa significava la diversità in ambito
sociale, il diritto negato di amare chi si vuole, che
proprio non riusciva a capacitarsi come quella donna, riuscisse a provare per
lei tanto odio da essere riuscita a separarla definitivamente da Javier.
Amava Riccardo, ma sapeva già che non avrebbe mai anteposto quelli
che sarebbero stati i suoi consigli su come vivere la vita, alla sua
intelligenza. Per lei era chiaro; diventare madre non significava diventare un essere spietato e selettivo con il prossimo,
avrebbe accompagnato quella creatura nel tempo scritto per loro, come una
presenza costante ma non invasiva e autoritaria.
L’uomo si sfilò il cappello, entrando a passo insicuro;
solo allora Morena notò lo squarcio che aveva fra il sopracciglio e la
guancia. Senza dire una parola si procurò un
recipiente medico con del disinfettante, e messi su i guanti, lo invitò
a farsi avanti.
«Mi preme dirle che sono costernato da
questa mia visita improvvisa.» Disse impacciato, sedendosi
all’estremità del lettino. Morena imbracciò una pinza
guardandolo perplessa.
«Stia sereno. Il dovere prescinde dal mio volere, don La Fuente.» Morena sorrise,
impregnando il batuffolo nell’alcool. «Posso chiederle come si
è procurato questa brutta ferita?» Mirò alla lesione
tamponando e l’uomo s’irrigidì.
«La festa d’estate..»
Sussurrò a denti stretti. «Una trave del capanno mi ha colpito di
striscio.»
«E’ stato fortunato.» Asserì lei senza
inflessione. «Ma per dovere l’avviso che dovrà farsi lo
stesso un iniezione antitetano. Sa..
germi.. batteri.. residui invisibili.» Afferrò del filo scuro e
l’ago e sorrise ancora. «Me le ricordo tutte
le vostre feste d’estate. I
violinisti, l’aria dolce della sera e quel capanno..Javier diceva che ne andava molto fiero.»
Sospirò involontariamente, ricordando i tempi in cui bambina rimirava,
insieme al suo migliore amico, la festa più attesa dell’anno che
la famiglia La Fuente, teneva nel suo parco privato e
alla vista di pochi eletti, come buon auspicio per il raccolto del grano alle
porte.
Tempi belli e lontani.
Tempi andati e forse, gli unici ricordi ancora vivi, di un passato che
la nebbia non aveva inghiottito.
Tutto a un tratto, si pentì di essersi
lasciata andare.
Sentiva come delle emozioni stringergli la gola e un assalire di
tristezza.
Ma
l’uomo sorrise sereno e guardando quel sorriso dalle labbra piene, rivide
quel bambino che correva con lei mano nella mano, fra i tavoli sull’erba
verde e profumata, giocando a rincorrersi e far volare le gonne delle signore
per bene, che a quelle feste ondeggiavano ebbre di vino e ricamavano il tempo
con parole di festa chiassose e tutto sembrava immortale allora, senza fine.
«So che è solo un vezzoso orpello, ma vi sono molto
affezionato.» Poi lo udì parlare. E tutto svanì in una bolla fragilissima; si stava
confessando, con la stessa spensieratezza che aveva usato lei. «Ho
sposato mia moglie sotto quel tendone. E lì vi
ho battezzato mio figlio. Mi ricorda molte belle cose.»
Si guardarono intensamente, prima che ella
distogliesse lo sguardo per schiarirsi la voce commentando il suo lavoro; ci
vollero dieci minuti per completare un giro di filo che chiudesse la ferita,
un’altra breve tamponata e qualche raccomandazione sulla pulizia della
stessa, per dichiarare svolto l’arduo compito.
«Quando i punti cadranno dovrà farsi controllare.» Sorrise appena, un po’
turbata dall’accenno di confidenza che avevano avuto. «E si faccia fare al più presto l’iniezione.
D’estate è più facile contrarre infezioni.»
Si stupì del tono di voce accalorato e diede le spalle
all’uomo per mettere subito una distanza; prese a sistemare le sue cose
come se non ci fosse, dannandosi per la sua lingua lunga.
«Può farmela lei a questo punto.» La sua voce scacciò
l’irragionevole dubbio sulla sua presenza. «E’ un medico, no?
Un ..bravo medico.» Si voltò e lui era
esattamente dove lo aveva lasciato, nel sorriso impacciato di
quando era entrato. «E non credo voglia uccidermi, dopotutto.»
Incerta se ribattere o meno si recò alla
dispensa dei medicinali preparando l’occorrente per la puntura.
Due schiocchi al corpo metallico della siringa e lo avvicinò
nuovamente.
«Su questo avrei da ridire veramente.» Affondò
l’ago in un punto preciso del braccio. «Dopo lo scherzo delle
pietre sulle pale mulino, dei Roquez c’è
chi vorrebbe volentieri torcerle il collo.»
L’uomo sussultò. «Temo di non seguirla.»
«Avanti don La Fuente..
avete paura ad ammettere le vostre colpe di fronte ad un ago?» E scosse
il capo sorridendo sarcastica. «Visto i trascorsi non avrei
bisogno nemmeno di una confessione, ma dato che siamo in vena di ammissioni ed
io sono certo più mansueta di mio marito.. volevo solo sentirglielo dire.»
«Mansueta.» Rispose facendole il verso. «Lei è
impudente, piuttosto.»
«Sono un’impudente è vero. Ma sempre alla ricerca della verità.» Sorrise
sghemba e alzò le spalle. «Comunque, dimentichi
tutto e mi presti attenzione, adesso. Avrà dei capogiri, probabilmente
da qui a Villa Ortensia. Deve riposare, lasciare che la formaldeide entri in
circolo e questo richiederà tutte le sue forze. Lasci stare il tendone e
i suoi ricordi per un po’ di giorni e se si sente male, presenta degli
sfoghi o la ferita le sembra di brutto aspetto, sa dove venire a cercarmi.»
Tamponò il foro
invisibile con del batuffolo, portando via la goccia rossa di sangue appena
formata; nel piegarsi si accorse, con udito sopraffino da medico, di
un’irregolarità nel respiro dell’uomo, che era tornato rigido
come un pezzo di ghiaccio a guardare il pavimento ai suoi piedi.
«Don, la prego, faccia due colpi di tosse.» Quello
la guardò perplesso, ma ubbidì portandosi le mani a coppa sulla
bocca. «Siete a contatto con
un ambiente umido?» Chiese ancora, brandendo lo stetoscopio dalla borsa nei paragi ma mantenendo l’attenzione fissa sul
paziente.
«Non
saprei dire. Probabilmente sì. Villa Ortensia sorge in una fitta
vegetazione.»
Morena
non rispose, auscultandogli i polmoni e scuotendo il capo di tanto in tanto.
«Sembrerebbe qualcosa di pregresso e latente. Cominciamo con una piccola
dose di streptomicina.» Gli tirò
giù la camicia, dandogli ancora le spalle per recarsi al lavatoio a
disinfettarsi le mani. L’uomo si rivestì in silenzio, ma quando i
loro sguardi si incrociarono tradirono angoscia.
«Un
antibiotico, dottoressa?»
«Sebbene
non presenti tosse, ritengo opportuno che lei la utilizzi per sciogliere
l’addensamento nei polmoni.» Si sedette
alla scrivania appuntando degli scritti su un foglio di carta, pregandolo di prendere posto di fronte a lei. «Ha notato sostanziali
perdite di peso?»
«Diciamo che non ho più lo stomaco di ferro di un
tempo. Mangio molto poco.»
Morena
annotò ancora. «Sudorazioni eccessive?»
«Notturne,
spesso.»
Lo
guardò un attimo, per poi tornare agli scritti. «Magari anche un
senso di affaticamento o la sensazione di non avere
una forte presa delle mani?»
L’uomo
deglutì, palesemente spaventato. «Pensavo fosse
l’età. Poi.. non sono riuscito a tener
salda la trave oggi e so che è stato per via della mano destra.»
Seguì un silenzio lungo e compito, Morena posò la penna e giunse
le mani vicino al petto. «Ultimamente ho come la sensazione che sia un po’ rigida.» Estefan
fu sul punto di piangere, ma si mantenne solido, inspirando a più
riprese. «So cosa vuole dirmi. Mio padre e un cugino prima di me ce l’hanno avuta. Qualcuno sostiene che sia
ereditaria, altri che dipende da dove nasci.. ad ogni
modo, la tubercolosi ti deturpa.
Ricordo ancora le mani da artigiano di mio padre tese come cuoio.»
Morena
sospirò. «Non era mia intenzione allarmarla,
ma tenendo conto di questo, deve assolutamente
assumere la streptomicina.» Tornò a scrivere sul foglio e vi
strappò la parte finale che consegnò ad Estefan.
«Un’iniezione due volte al giorno, da
domani, quando l’altro farmaco che ha in circolo verrà smaltito.
Ha già in mente qualcuno che possa
aiutarla?»
«Mia
moglie, la ringrazio.»
Morena
ghignò, involontariamente. «Si figuri. Pensi a riposare piuttosto,
e mi tenga al corrente della situazione. Sono il
medico del paese, non voglio assolutamente procurare del panico generale, ma ho
dei doveri rispetto alla comunità.. lei mi
capirà e Dio mi perdoni se penso a questa a gente, adesso.»
«La
capisco.» Disse lui, alzandosi a recuperare giacca e cappello; sul punto di pagare la parcella, venne
fermato.
«Lasci solo l’imposta per
le casse comuni.»
«Ma..»
«Don La Fuente, nessun ma. E’ il
mio modus operandi e non si discute.»
Estefan allargò le braccia, arreso. «Mi lasci dire
che ho conosciuto molti nobili nella mia vita, ma pochi signori come lei, dottoressa Soler.» Morena alzò gli
occhi e lo ringraziò con una leggera inflessione del capo.
«Sono solo un medico, i titoli li lascio
a chi ne dispone, don. Ma grazie lo stesso.» Gli
allungò la mano, sorridendo, lui ricambiò
la stretta vigorosamente.
«Grazie
a lei.» Si sistemò il cappello e la salutò con un inchino;
sull’uscio si voltò ancora, lo sguardo martoriato e cerchiato.
«Perdonaci..Morena.»
Ed ebbe la sensazione nettissima che non si riferiva alle
pietre nel mulino.
*
Guadalupe era sul prato a dirigere i lavori come una
schiavista, ottenebrata dal caldo e adirata per quello
sciagurato marito che si era lasciato cadere la trave in testa; le era toccato
prendere in mano anche le redini del tendone per giunta, mentre lui si
attardava presso lo studio di quella tediante ombra scura che era Morena Soler.
Non
avevano certo potuto disturbare il loro medico da Salamanca per un graffietto,
tuttavia non riusciva a darsi pace su dove fosse andato
a cacciarsi Estefan.
Lo
vide spuntare dal viale di salici piangenti come una furia, su quell’auto che dalla foga con la quale era guidata
sbandava da un lato all’altro. Ma non si trattava di foga; acuì
bene la vista e quando s’arrestò e lo vide uscire,
caracollò sul prato stracciandosi i pantaloni, sotto agli
occhi di decine di inservienti.
«Oh
signore!» Strepitò, raggiungendolo; quello aveva messo tutta la
forza che aveva nelle mani per tirarsi su, barcollando nuovamente e ruzzolando
ancora. «Estefan! Cosa ti prende santo cielo!»
La
donna si chinò per aiutarlo a rialzarsi, ma indietreggiò alla
zaffata di alcool che fuoriuscì dalla risata
sguaiata di suo marito. «Karim! Essien!» Gridò alla volta del personale della
villa che uscì trafelato dal sontuoso ingresso. «Tirate su questa
bestia e portatelo nelle sue stanze.» Si
sistemò il vestito e ravvivò i capelli guardando il resto delle
persone che si era attorniato nel frattempo. «Che cosa
avete da guardare voi altri!» Tuonò. «Non vi pago per
acchiappar mosche! Tornate a dove eravate, inetti perdigiorno!»
Li
oltrepassò a grandi falcate, i pugni serrati ai fianchi; il gruppo
sciamò, disperdendosi da dove era venuto.
«Ti
mando in paese per una medicazione e mi torni
ubriaco?»
Giunti alle loro stanze, la donna congedò la
servitù e prese a spogliare personalmente il marito, totalmente incapace
di tenersi in piedi da solo; lo adagiò sul letto, si procurò un
catino d’acqua fredda con la quale sferzare l’ubriacatura dal suo
viso e dalle cucine ordinò del caffè forte.
«Tu
non capisci.» Biascicò lui, la lingua incollata al palato. «E’
una vergogna!» Cercò di tuonare, indicando con l’indice a
mezz’aria, il viso della moglie. «Una vergogna!»
«Cosa
Estefan?!» Chiese lei
spazientita. «Che cosa è una
vergogna?»
«La
mia famiglia vanta un commercio fluente in tutto il paese da due secoli, e noi
ci prendiamo la briga di riempire delle stupide pale
di un mulino avversario, con delle pietre? Inaccettabile! Voglio i nomi di chi
hai comandato a fare un gesto tanto stupido. Li voglio fuori
dalla mia proprietà. I -m –m –e –d –i
–a –t –a –m –e –n –t -e!»
Guadalupe illividì. «Cosa
ti ha raccontato quella sgualdrina?»
«Sgualdrina.»
Berciò lui, scalciando; con i gomiti ben impiantati nel materasso, si
tirò indietro fino a raggiungere i cuscini di piume dove vi si
gettò con la schiena a peso morto. «Lo sai che si chiama Morena?
Io non lo sapevo. E’ cresciuta insieme a mio figlio ed io non sapevo nemmeno che questo fosse il suo nome.»
La
donna batté nervosamente il piede in terra. «Certo che lo sai, non
essere stupido! Come puoi dimenticare il nome della
megera che voleva fottere
tuo figlio? Hai così tanto vino in corpo che ti
sei bevuto anche il cervello!»
«Nulla
è mai stato così chiaro, invece. L’unica megera che vedo.. sei tu!»
Guadalupe ansimò, lo raggiunse e gli mollò
uno schiaffo a pieno viso.
La
guardò spaventato, d’improvviso sveglio, lucido.
La
donna abbassò la mano lentamente, il corpo che tremava, gli occhi annegati
di lacrime.
«Vedo
che ti sei fatto incantare da un’altra
puttana.»
E
se ne andò con l’anima ferita.
Rimase
con gli occhi chiusi e il corpo disteso il tempo
sufficiente per riprendersi.
La
villa era silenziosa, gli operai erano stati pagati e
la servitù, solo un piccolo brusio di sottofondo dalle cucine.
Non
sapeva dire quanto tempo fosse passato da quello
schiaffo.
Lei
non era più tornata. E la sua mancanza si
sentiva, intorno.
Guadalupe riusciva a riempire una stanza con la sola
presenza, per questo si era innamorato di lei, venti anni prima; era
così piccola allora, umiliata dalla vita ed emarginata dagli uomini, ma
aveva un carisma trascinante, un sorriso che non riuscivi
a toglierti dalla mente, una risolutezza da far sembrare le preoccupazioni, un
banale mal di testa.
Le
aveva tolto lui il sorriso, anni dopo quel primo
incontro.
E non si era perdonato mai abbastanza per quella
crudeltà.
Quell’unico colpo di testa, aveva macchiato per sempre
la tela bianca che avevano deciso di comporre insieme; l’aveva tradita. E da quel tradimento, la sua amabile e carismatica moglie si
era trasformata in una donna severa e dura cambiando il corso delle loro vite
in maniera indelebile e inaspettata.
C’era
un angolo di giardino che lei amava tanto e presso il quale si rifugiava quando le giornate erano nere, ed era lì
che stava recandosi, in vestaglia e a piedi nudi, come gli aveva insegnato suo
padre; devi sentire la terra, gli diceva, per amarla e farla tua, devi sentire
la sua energia e la sua forza. Gli piaceva sentire l’erba sotto ai piedi e aveva fatto sì che suo figlio imparasse a
fare altrettanto, e che un giorno, tramandasse questa usanza anche ai suoi
figli.
Era
fresca e bagnata di rugiada. Sapeva che non avrebbe più dovuto farlo, ma
questo non sembrava tanto importante.
Camminò
verso le siepi stipate, là dove il sole stava scendendo verso sera, con
la sicurezza di incontrarla; aveva voluto fortemente che le costruisse quell’angolo di bellezza regale, perché come
diceva lei, era dalla natura che proveniva e per tanto tempo, erba e piante
erano state la sua casa. Lui scherzando la chiamava ninfa e lei rideva sicura e per nulla frivola, come se le facesse tutte le
volte il complimento più bello del mondo.
Quelle
siepi nascondevano un piccolo mondo antico, fatto di fontane a coppa dalla quali zampillava acqua fresca, viottoli d’acqua
che si intersecavano fra di loro secondo un disegno geometrico di raggi di
sole, che convergevano al centro di una fontana con una statua, raffigurante
una donna.
L’aveva
fatta scolpire con le fattezze del volto di sua moglie, così che non dimenticasse la sua originale bellezza.
Adesso,
quell’eterea divinità di marmo, riluceva
alla luce del tramonto e passandole accanto, percepì in quegli occhi la
stessa tristezza che aveva letto in quelli di Guadalupe,
prima che andasse via e si sentì rammaricato e spaventato.
Lei
era lì.
Intravedeva
il luccichio dei suoi brillanti occhi verdi, dal fondo del piccolo tempio
coperto, all’estremità finale del giardino di siepi; occhi
indagatori, tanto piccoli quanto grandi e capaci a volte, di saper leggere
ciò che non si capisce.
«Ci
hai messo più del solito.» Si sentì dire, in un misto di
pena e ansia.
«Perdonami»
Rispose, camminando a tentoni nella semi
oscurità; era seduta su una panca di pietra, prese posto accanto a lei.
«Sono malato.» Sospirò in un sibilo.
«Non
sei malato.» Berciò lei. «Eri ubriaco. E se hai preso il mio
decotto d’erbe a quest’ora sei soltanto
sbronzo.»
«Sono malato, Guadalupe.» La sua voce acquistò tono e
serietà, la donna si voltò e tirò su le gambe
appoggiandole sulle sue; lui sorrise, massaggiandole i piedi.
«Tubercolosi. E’ al primo stadio, credo, non presento ancora tutti
i sintomi, ma c’è una fetta considerevole di probabilità
che sia così.» Guadalupe
cambiò espressione, ma non fiatò. «E’ stata lei ad accorgersene. Un difetto nel
respiro, ha detto. Non è impressionante come una perfetta estranea colga un particolare
così importante e noi che siamo dentro le nostre vite non ce ne accorgiamo?» Guadalupe
alzò le spalle ma la linea dura delle labbra non concedeva nessuna
attenuante. «Io credo di sì. E credo che l’abbiamo giudicata troppo in fretta, ed anche se adesso
è troppo tardi per riparare, possiamo sotterrare l’ascia di guerra
e lasciarle vivere in pace la sua vita.» Smise di muovere le mani e le
guardò affranto. «Avremmo cose più impellenti a cui pensare
d’ora in poi. Dobbiamo preoccuparci di sistemare le cose, chiamare il notaio
e..»
La donna lo
azzittì posandogli l’indice sulle labbra. «Lascia che me ne occupi io, troverò il modo di guarirti.»
Estefan le prese la mano e la chiuse nella sua. «Non permetterò che tu metta
la tua vita in pericolo» La lasciò delicatamente ricadere in
grembo, carezzandole con l’altra la guancia. «Devi accettare il fatto che non siamo eterni,
amore mio. Non possiamo opporci alla natura o cambiare il destino.»
«Questo significa che ti perderò.»
«Questo significa che il tempo è prezioso e non dobbiamo sprecarne
nemmeno una goccia.»
Gli occhi di Guadalupe si riempirono di
lacrime, che lente, scesero una ad una sul suo volto abraso dalle conseguenze
dell’odio che aveva provato combattendo le persone, la morte, la vita e anche ella stessa. E si
sentì stanca.
E
come un miracolo, una liberazione, la donna si disperò in un pianto di
singhiozzi, fra le braccia dell’adorato marito.
*
Era una mattina dal cielo terso, quella. E
caldissima, troppo calda per essere solo all’inizio dell’estate.
Giugno era arrivato in sordina, ma prometteva grandi feste e molto
fermento in quel di Fuentesauco.
I contadini erano
all’inizio della mietitura e si respirava già nell’aria l’odore
della fatica, il cantico delle donne per buona prosperità e il canzonare
dei grandi signori terrieri per la sfida imminente; le colture erano state
messe a dura prova durante l’inondazione di inizio
primavera, c’era spirito di rivalsa e voglia di scacciare via la mala
sorte.
Come tutti gli anni le
preghiere erano rivolte allo spirito del grano, che nel folklore europeo
assumeva la reincarnazione di un animale; quell’anno
era stata scelta la volpe, così il contadino che avrebbe colto
l’ultimo covone di grano su tutto l’appezzamento di terra di Fuentesauco, sarebbe stato eletto lui stesso “spirito
del grano” e questo secondo le leggende portava molta buona fortuna. Al
contrario si scongiurava di ammalarsi, perché chi cadeva malato durante
il raccolto, sempre secondo la leggenda, era colui che
aveva “pizzicato” lo spirito, scacciandolo via dai campi.
Il paese era quindi molto
silenzioso, quella mattina.
Un’ottima
condizione per sbrigare qualche commissione che richiedeva accortezza.
«Permesso!» Olivia si aiutò ad
aprire la porta dello studio con un calcetto maldestro; stringeva fra le
braccia le bozze cartacee del suo progetto e smaniava dalla voglia di
sottoporle a Morena, anche se questo significava che la giornata appena
iniziata sarebbe stata molto lunga ed estenuante. Sua cugina sapeva essere
molto testarda, quando voleva.
«Ma
che è successo qui? C’è nessuno?»
Dei rumori provenivano
dal basso, dietro il grande tavolo in noce e
s’arrestò impietrita sull’uscio; un’ombra sbucò
dalla sinistra, là dove Morena teneva un piccolo spogliatoio e si
lasciò andare ad un urlo spaventata.
I disegni le caddero di
mano, indietreggiò fino a quando non fu fuori
dalla portata della stanza, senza accorgersi degli imminenti scalini alle sue
spalle; perse l’equilibrio cadendo all’indietro ed urlò
stavolta terrorizzata, ma in un attimo fu raggiunta da due solide braccia che
la presero stringendola forte.
Inspirò
velocemente contro un petto assai familiare, ma i nervi e lo spavento per la
creatura che portava in grembo le provocarono dei
singulti che le fecero dimenticare tutto il resto; pianse un po’ fra
quelle braccia, fino a quando si sentì accarezzare i capelli.
«Non ti facevo
così piagnucolona..»
Alzò gli occhi tramortita da quella voce. «Lorenzo?!» Strepitò incredula; era proprio lui,
bellissimo in un completo color ghiaccio che faceva risaltare i capelli castani
lucenti e un’espressione vittoriosa sulle labbra. «Lorenzo!»
Si allacciò al suo collo spingendolo in direzione dello studio dove
richiuse la porta alle sue spalle con enfasi.
Isolati da sguardi
indiscreti, gli suggellò le labbra con un bacio.
«Quando
sei arrivato?» Domandò, scostando il volto. «E cosa ci fai, tù, a Fuentesauco?!»
«Sono qui da poche
ore. Aiutavo il mio amico a stabilirsi nel suo nuovo studio.»
«E
dov’è questo amico?» Lo canzonò, guardandosi attorno.
Lorenzo si voltò
verso il fondo dello studio, inspirando.
Dopo un po’
qualcuno tossicchiò, tirandosi su da dietro il tavolo, su visibilmente
imbarazzato.
«Perdonate lo
spavento, non era mia intenzione.»
Olivia sussultò
scioccata. «Certo..»
Lorenzo
la guardò interrogativo, poi guardò
l’amico che alzò le spalle. «Olivia,
lui è il mio amico Javier, nonché
cugino acquisito. Ti ricordi, ti ho parlato di lui
nelle mie lettere. Siamo a Fuentesauco perché prenderà posto come nuovo medico qui
all’ambulatorio.»
«Certo..» Sussurrò ancora, la voce incrinata.
«Olivia, che ti
prende? Sei strana.» Osservò Lorenzo, muovendosi impacciato.
La ragazza
spalancò gli occhi, scosse il capo e guardò Javier
come se lo vedesse bene per la prima
volta; quel viso scolpito, gli occhi verdi e la carnagione ambrata.. non era stata Madrid la prima volta in cui lo aveva
visto; erano passati molti anni, ma il suo viso non era cambiato tanto e a
vederlo adesso, in compito silenzio, quasi assorto come se il mondo intorno non
ci fosse, era quasi inconfondibile.
«Certo!»
Proclamò a conferma dei suoi pensieri; s’avvicinò a Lorenzo
e premette le labbra alle sue, tenendolo fermo per il bavero. «Sono
felice di averti qui, ma adesso devo proprio andare!» Raccolse
velocemente i disegni da terra e lo guardò un’ultima volta con
occhi sognanti. «Spero di averti presto quale ospite a Legno di Quercia.»
Il ragazzo annuì
ed ella sparì via in una folata di vento.
«Grandioso!»
Borbottò, mani ai fianchi. «Le dico che
sono qui e lei che fa? Va via!»
Javier si pulì le mani
battendole energicamente fra loro. «Io so dove è andata.»
«Da lei?»
«Mi ha
riconosciuto. Ne sono sicuro.»
«Giusto.. il matrimonio della ragazza.» Lorenzo rispose a
scoppio ritardato, come se l’unico particolare rilevante
dell’intera faccenda fosse inutile polvere. «Ma
questo è un bene! Pensaci, sarebbe stato molto imbarazzante ritrovarvi faccia a faccia dopo tutti questi anni. In questo le donne
sono molto più brave di noi e al massimo se vorrà, farà di
tutto per evitarti.»
Javier annuì anche se
poco convinto e svuotò le ultime borse con i medicinali della lista di
donazioni; l’amico lo avvicinò scuotendolo affettuosamente per una
spalla e lui gli sorrise. «E’ bella come
ricordavo. E sicuramente ti dirà di
sì.» Ricambiò la pacca e sorrise beffardo.
Lorenzo guardò in
basso, quasi preoccupato. «Lo spero.»
*
«Agueda, dov’è donna Roquez?»
Le porte di Legno di
Quercia erano spalancate e tutto attorno vi era aria di tempesta, come se poco
prima, fosse passato un tornado; Olivia si
guardò attorno accigliata e guardava alla serva con ansia e trepidazione.
«E’ nella sua
camera che riposa, signorina Olivia.» Rispose quella angosciata. «Il sindaco l’ha rinvenuta in paese priva di sensi. Oh qué dolor..
quella povera ragazza, cos’altro deve passare?!» Agitò le
braccia giunte come in una preghiera e si lasciò andare in un singulto
scenografico.
Olivia scosse il capo.
«Da quanto va avanti?»
«Sono settimane che
la signora è pallida, ma dice che è solo
stanchezza.»
«Tipico suo.»
Berciò, prendendo la via per le stanze padronali in un tumulto di emozioni; aveva il cuore in gola per quanto doveva dirle,
l’anima martoriata al pensiero di doverle infliggere un’ulteriore
preoccupazione e in più era arrabbiata perché non le aveva detto
nulla dei malori.
Morena era distesa sul
letto, gli occhi socchiusi. Del Carmen era accomiatato
in un angolo della stanza che parlottava con Alfredo e quest’ultimo
appena la vide entrare, alzò gli occhi lasciando la conversazione a
mezz’aria.
«Sono sollevato che
tu sia qui. Continua a dire che è solo
stanchezza, ma so che lo dice solo per tenermi buono.»
Olivia si girò
nuovamente verso la donna; non notava nulla di particolarmente strano, il suo
viso era forse un po’ più pallido del solito ma
le guance sembravano rosee. «Ti prego parlale tu o finirò per
impazzire.»
La ragazza gli strinse
affettuosamente il braccio, confortandolo. «Va pure, ci
penso io.»
Abel si spostò
raggiungendo il padrone di casa; nello sfilare accanto ad Olivia, la
guardò per una frazione di secondo abbassando il capo e senza dir nulla,
richiuse la porta alle sue spalle con stizza.
Olivia restò di
sasso. «Ma cosa prende a tutti, oggi?»
Rimaste sole, Morena gettò le coperte da un lato sospirando sollevata. «Non
se ne andavano più, santo cielo! Fortuna che sei arrivata!» Fece per scendere, ma la cugina la
incenerì con lo sguardo. «Sto bene, sta
tranquilla. Ma devi aiutarmi a liberarmi di loro; mio marito lo posso anche
sopportare, ma quel Del Carmen.. ayDios mio! Perché
mi stai guardando a quel modo?»
«E
me lo chiedi?»
Morena inspirò,
guardandosi attorno affranta. «Stavo lavorando quando.. Abel Del Carmen
si è presentato allo studio annunciandomi che il medico che avrebbe
sostituito Pena era in paese e non vedeva l’ora di fare la mia conoscenza.
Quando mi ha fatto il suo nome sono scappata via come
se avesse la peste; Javier La Fuente,
da Madrid.» Andò al catino e si sciacquò il viso con
dell’acqua, come se nulla fosse stato detto o peggio ripetesse una
cantilena imparata a menadito. «Tutto ciò che ricordo poi sono le braccia di Del Carmen che mi faceva sistemare in
carrozza dopo che ho perso i sensi di fronte la bottega del fornaio.»
Cercò a tentoni la salvietta per asciugarsi ed Olivia
l’aiutò porgendogliela; i loro sguardi si trovarono complici, ma Morena sospirò nuovamente. «Quanto
sto per dirti esula da quello che è successo,
quindi mi devi fare la cortesia di non dirlo a nessuno.. per ora. Ho visitato
un paziente con un accenno di tisi quest’oggi, questo sai che significa vero?»
«Pestilenza.»
Pronunciò Olivia, tremando.
«Esatto, motivo per cui devi tornare a Villaescusa
e restarci fino ai tempi migliori.»
«Non..
non può essere vero.» Esalò la ragazza con voce incrinata.
«Può anche
darsi che sia un caso isolato, ma non voglio
rischiare.» Poi quasi un pensiero velato, sussurrato in sol fiato.
«Non posso sopportare che un’altra delle persone a me care soffra.»
Olivia si
irrigidì e la fissò nelle pupille nere e dilatate.
«Chi?»
«Estefan La Fuente.»
Adesso riusciva a
comprendere perché si era sentita male.
E quel silenzio si era
fatto denso e pesante. La vedeva camminare in avanti e indietro come se
cercasse di mettere ordine nei pensieri, a piedi nudi sul pavimento di cotto,
senza trovare pace.
Era una bella stanza,
quella; la grande vetrata a mezzaluna dava
direttamente sul giardino che adesso brillava del sole alto di mezzogiorno.
Morenasembrava
un angelo che fluttuava tutto intorno, al riflesso della luce contro la sua
vestaglia di tessuto leggero. Non sapeva cosa dire e in un
attimo tutte le rimostranze svanirono.
Aveva davanti tempi bui e
cupi se l’avanzare della malattia si fosse espanso,
e tutto quello a cui riusciva a pensare era il peso che la donna aveva davanti
e che doveva sopportare; un carico fatto di vite umane, amici e parenti, poco
importava se presunti tali o effettivi.
Si morse il labbro, gli
occhi leggermente umidi, e si cacciò le parole a forza dalle labbra.
«L’ho visto,
Morena. Ero venuta a dirti questo, ma sono arrivata
troppo tardi. Vorrei fare qualcosa per alleviare il peso di questo momento ma.. sento che devo dirti una cosa.» La
ragazza non fiatò, ma si fermò e la guardò. «Il
giorno del vostro matrimonio, di ritorno da Fuentesauco,
mi imbattei in un giovane sul ciglio della strada, in
pessime condizioni fisiche e in stato confusionale; aveva passato la notte
all’agghiaccio, nella radura. Sembrava così infelice.. ne ho avuto pena e l’ho portato con me a Villaescusa. Si è infilato nella prima diligenza per
Salamanca e non l’ho più visto. Dapprima non l’avevo neanche
riconosciuto; sono passati così tanti anni.. e
quel giorno a Madrid, Dio solo sa a cosa stavo pensando! Ma oggi quando
l’ho rivisto non ho avuto alcun dubbio; quell’aria
malinconica.. gli occhi verdi e cristallini.. quel
ragazzo era Javier, Morena!»
La bocca della giovane
donna si schiuse in una vocale di stupore muta e i suoi occhi si mossero
velocemente e impauriti, quasi cercassero di razionalizzare i pensieri; si
portò una mano alla bocca e una all’addome cercando di evitare di
andare in mille pezzi. A tentoni raggiunse il letto,
vi si accomodò e incrociò le mani sul grembo, cercando di concentrarsi
sulla respirazione.
«Mi dispiace, oh mi
dispiace così tanto..» La voce di Olivia era accalorata. «Non dovevo dirti niente.. che sciocca egoista sono stata!»
«Smettila!»
Tuonò l’altra, per poi guardarla dolcemente. «Non è certo
tua la colpa delle nostre azioni; il
destino interviene quando gli uomini sono incapaci di
compiere delle scelte, Olivia. E dal momento che siamo
persone adulte, non dovremmo starcene qui a frignare. Tu soprattutto.»
Tentò di sollevare il morale alla cugina e scacciare via il tarlo del
dubbio che si era depositato sulla sua coscienza, abbozzando un sorriso tirato.
Olivia le fu accanto,
intrecciando la mano nella sua. «Sai già cosa fare?»
Quella donna se avesse
voluto, avrebbe ribaltato il mondo. Ne era sicura.
Per questo non aveva
avuto mezza esitazione, correndo da lei.
Anche se continuava a
stare male.. un dolore che forse, c’entrava
assai poco con quel grande amore di cui aveva parlato.
«Sono medico. Mi
comporterò da medico.» E sorrise, stavolta
più sincera. «Sono sicura che Guadalupeavrà trovato un modo per tenermi lontana da Villa
Ortensia e dai suoi fiori preferiti. Non che io abbia intenzione di coglierli.»
«E
di te invece, che mi dici? Alfredo è sinceramente preoccupato. E anche io.»
«Sto
bene, ti dico. Stavo giusto per analizzare alcuni campioni.»
Si alzarono insieme, ma la ragazza bionda
la trattenne. «Stai scherzando, vero?»
«Cara cugina..» La prese sotto braccio con fare
compito. «..non scherzo mai quando si tratta
della mia libertà. Mi creerai il diversivo per una fuga? Sai che
ascendente provochi su quei due.»
«Forse su uno dei
due non più. Abel si è comportato in
maniera così strana!»
Morena la guardò
teneramente. «Presto o tardi quella pancina si
farà vedere, non potrai più rimandare il momento della verità.» Poi alzò le spalle e guardando
lontano sorrise sghemba. «Senza contare che quasi tutta Fuentesauco sa dell’arrivo di un baldanzoso giovane
venuto a dichiararsi alla sua bella misteriosa.»
Olivia si lasciò
andare ad un lamento. «In questo paese non ci si annoia mai?»
«E
non hai ancora visto niente.» La incalzò l’altra, avvertendo
un brivido freddo correrle lungo la schiena.
Si guardò attorno,
le finestre erano serrate e il sole batteva ostentatamente nel suo chiarore.
Chiuse gli occhi e
inspirando, si portò fuori dalla stanza con il
cuore in gola, e un aria di presagi.
**Per quanto un albero possa diventare alto,
le
sue foglie, cadendo, ritorneranno sempre alle radici.
Proverbio cinese. **
NDA:
Grazie.
Grazie ai lettori silenziosi.
Grazie a M e J che gravitano
nella mia testa, nel mio cuore, nei miei polmoni.
Grazie a chi mi
lascerà un commento, uno stralcio di emozione,
una critica, un insulto.
Quando perdi, lasci andare quello
che non riesci a tenere.
Antonio
Cuomo, scrittore.
Il
suono vivace delle urla di Camila, riempivano lo spazio intorno.
La
bambina stava inseguendo un gattino spelacchiato a perdifiato, sotto
lo sguardo vigile di Leonor, che da sotto la cupola in ferro battuto
posta in un angolo di giardino, stava godendo del benefico tocco dei
raggi di sole sulla sua pelle candida.
Javier
annunciò il suo arrivo a bordo del ford coupé di
Estefan, con un generoso squillo di clacson; il micio si arrestò
incuriosito e la bambina gli fu addosso, acchiappandolo per la coda e
provocandogli un’isteria da metter spavento.
Leonor
si alzò redarguendola bonariamente con un’alzata
d’occhi.
«Non
si udiva un tale canto da molto tempo.»
Guadalupe
arrivò alle sue spalle, mirando alla bambina con aria
divertita; si accompagnava ad un’anima malinconica e fu felice
di constatare che la presenza della cara nipotina riusciva a
dissipare almeno qualche nuvola. Le sorrise, aiutandola a sistemare
sul tavolino il vassoio con la limonata fresca e i pasticcini.
«Don
Estefan come si sente? Credi che potremmo passare a salutarlo?»
La donna
serrò la mascella prima di rispondere. «Da quando quella
donna gli ha instillato il dubbio, se ne sta rinchiuso nell’altra
ala della villa escluso dal mondo esterno; sono preoccupata, dice che
non vuole vedere nessuno.»
«E’
comprensibile, credo.»
Leonor si strinse nelle spalle. Tubercolosi,
un incubo finito da un pezzo in quel di Madrid, ma non senza lasciare
brutte cicatrici e ricordi anche solo in chi ci ha camminato accanto;
sua madre Helena, aveva perso una sorella in tenera età per la
stessa causa e ne raccontava come una cosa terribile e spaventosa.
«Spero con tutto il cuore che questa brutta faccenda si risolvi
per il meglio. Se hai bisogno conta pure sul mio aiuto.»
Guadalupe
guardò alla nuora con gratitudine e affetto; quando le era
giunta da Madrid la notizia del loro arrivo, per poco non ci restava
secca e di certo non perché nutrisse astio per l’amato
figlio o la donna che aveva di fronte, ma perché era troppo
tardi per impedire ad Estefan di succhiargli via tutte le forze, e
ancora di più per quella promessa che gli aveva fatto; non
avrebbe più importunato Morena Roquez.. ah, se questa non
fosse così insopportabilmente una costante delle loro vite!
La
detestava. Non riusciva a provare un sentimento diverso, pensando a
lei.
Mille
volte aveva osservato quel ragazzino dai folti capelli scuri con la
quale si accompagnava, e mille volte aveva girato il capo dalla
repulsione; non poteva credere che in quella creatura scorresse il
medesimo
sangue delle carni e non riusciva a credere di non essere stata
capace di impedire che ciò accadesse.
E
il suo viso.. il suo bel viso, deturpato dall’acido quella
notte.
Scosse
il capo, contrasse ancora la mascella.
Leonor
con il tempo, si era rivelata sempre più la scelta perfetta
per suo figlio da non riuscire a pensare, neanche lontanamente che
qualcosa, o meglio “qualcuno”, potesse insinuarsi fra
loro e rovinare tutto.
Doveva
far si che la ragazza divenisse i suoi occhi, i suoi orecchi, doveva
introdurre in lei il dubbio e renderla accorta.
«Una
cosa forse ci sarebbe.»
La vide
posare il bicchiere di limonata sul tavolo e piantargli addosso
curiosi occhi azzurri; si avvicinò trascinando la sedia quel
tanto che bastava per ridurre la loro conversazione ad un sussurro, e
la ragazza acuì l’udito sorridendo ambiguamente. «Non
hai che da chiedere.»
«Gli
uomini sono tendenzialmente degli esseri molto fragili, Leonor. Il
mio stesso buon marito in passato ha commesso peccato, per sua
ammissione così, anche l’uomo più innamorato può
cadere in tentazione se provocato.» Sfilò una pausa
tetra, il sorriso della giovane si trasformò in un ghigno
involontario. «Sono sicura che Javier ti ama molto, ma a
Fuentesauco c’è qualcuno
che
può minare questo suo stesso sentimento con astute movenze.
Sii la sua ombra e la sua guida, te ne prego. E se ti stai chiedendo
perché ti dico questo..» Giocò ad attorcigliarsi
una ciocca di capelli fra le dita, prima di rispondere affilata come
un rasoio. «Perché ti voglio bene e provo molta stima
per te.»
E perché
non riuscirei a sopportare la disfatta della nostra
famiglia, pensò, ma si guardò bene d’ometterlo.
Leonor
appiattì lo sguardo. «Quella
donna
che ha parlato a Don Estefan, convincendolo ad isolarsi.. è
lei? E’ medico a Fuentesauco?»
«L’una
e l’altra, sì.» Ammise e l’altra trasalì,
come sfiorata da un pensiero orribile. «Come lo sai?»
«Non
lo so, difatti. L’ho capito dal tono di disprezzo della tua
voce.» Guadalupe avvampò, ancora una volta incapace di
trattenere gli infidi sentimenti che provava per quella
donna.
«Nessun essere umano arriva ad odiare il medico che tenta di
salvare la vita del proprio marito, se non per ovvie ragioni
personali. E qui, ne abbiamo una a noi
molto cara.» Si alzò, quando intravide Javier spuntare
dalla rimessa e sospirò, cercando di rilassare il volto; poi
girò il viso dalla sua parte, estremamente calma e sicura.
«Sono un’attenta osservatrice. E anche se Javi mi ha
raccontato tutto di questa donna, so cosa succede ad avvicinare un
truciolo alla fiamma; capisco il motivo per cui ha evitato
Fuentesauco come la peste, ma io ho i miei buoni motivi per credere
che sia molto più forte di quanto tu ed io pensiamo, oggi.
Tuttavia ti ringrazio, ma convengo di dargli fiducia. La fiducia
dissipa l’insicurezza e la sicurezza lo terrà al mio
fianco.»
Guadalupe
la guardò fra lo stupore e la meraviglia. «So
che avete un rapporto molto speciale e sono davvero compiaciuta e
colpita da questa intesa, perdona se con le mie lagne ti ho recato
offesa. Vedo che sai già cosa è meglio fare e questo è
un bene per voi.»
Si alzò
anche lei, stringendole la mano affettuosamente; la ragazza sapeva il
fatto suo e le aveva fatto capire a grandi lettere che doveva tenere
il naso fuori dai loro affari, l’avrebbe rispettata suo
malgrado, pregando tutti i giorni che avesse ragione.
E se non
l’avesse avuta.. beh, avrebbero
trovato il modo di averla.
La sua
famiglia non sarebbe annegata. Mai.
«Papiii!»
Camila si buttò fra le braccia di Javier, non appena egli
entrò nel suo campo visivo; il gattino scappò via fra i
cespugli e quando la bambina, dalle braccia del padre lo cercò
ai suoi piedi, sbuffò irritata. «Gatto cattivo!»
Javier
rise di gusto, baciandole i capelli e riportandola giù.
«Quella
bestiola non si farà vedere per giorni, ne sono sicura.»
Leonor li raggiunse con due bicchieri, uno di limonata e una spremuta
per la piccola, che l’afferrò con due mani paffutelle e
impacciate. «Come è andata?»
Javier si
piegò sulle sue labbra, sfiorandole in un casto bacio prima di
rispondere. «Direi bene. Lorenzo non ha fatto altro che
parlarmi della ragazza e della proposta, il sindaco si è
dileguato quasi subito lasciandomi la gestione dell’ambulatorio
e i compaesani si sono dimostrati accoglienti. Soprattutto dopo aver
visto le provviste.»
«Sono
felice per te. E Lorenzo?»
«L’ho
perso circa a metà strada, quando gli ho indicato Legno di
Quercia.»
«Legno
di Quercia? Dovrei sapere di cosa parli?»
«Oh
no, che sciocco! Olivia, questo è il suo nome, è
imparentata ai tenutari del podere al di là dei campi. Ti
ricordi? Quando ci siamo passati accanto, mi hai chiesto chi abitasse
in quella maestosa tenuta in cima alla collina.»
Leonor
sorrise. «Ah sì! Mh.. e tu hai risposto.. Roquez!
Giusto?» Poi lo guardò impettita. «Sto cercando di
tenere a mente qualche nome, ci tengo nel farti fare bella figura.»
Javier
si lasciò andare in un sorriso inquieto. «Brava.»
Guardò oltre le sue spalle, Guadalupe in lontananza lo
guardava con ardore nelle pupille, apparentemente distaccata dalla
loro conversazione, ma in realtà conscia di tutte le parole
che si erano detti; quegli occhi bruciavano e un’indomita
rabbia prese corpo in lui, vecchi rancori e dubbi sulla natura
sincera di sua madre e di quanto avesse influito nelle scelte delle
sua vita, fino ad allora. «Chi
vuole vedere il tendone del nonno?»
Proferì, appellandosi a tutta la calma del mondo e cercando
una via di fuga da quella presenza, che adesso stagliata sotto la
cupola e al riparo del sole, sembrava essere un’ombra malvagia.
«Io!
Io!»
Trillò la bambina.
Javier
le prese la mano e consegnò il braccio libero alla moglie, che
vi si aggrappò con malcelata perplessità; guardò
prima lui e poi Guadalupe, rincorrersi fra sguardi accusatori e
colpevoli e per la prima volta da quando erano insieme, si sentì
come un’estranea. Ed ebbe forte, una sensazione di paura.
*
Il
cuore gli era salito fino in gola e non era per l’impervia
strada in salita per arrivare a Legno di Quercia; era per la natura
del suo stesso sentimento e per le intenzioni che questo portava a
desiderare.
Desiderava
fare di quella ragazza una donna giusta, la sua sposa.
Aveva
pensato a cento parole adatte per l’occasione, al momento
perfetto, ma adesso le veniva in mente una sola parola; sposami.
Sposa quest’uomo. Ed era sicuro, che non avrebbe potuto usare
parole più efficaci e dirette di queste, per far capire a
quella ragazza quanto ardisse che rispondesse di sì.
Così
s'era fatto coraggio, ed anzi che raggiungere Villa Oleandra insieme
a Javier, aveva deviato per la collina alta del paese, quella al di
là dei campi di grano per raggiungere la sua bella e
dichiararle tutto il suo amore.
Tutto
intorno vi era pace e suo cugino aveva ragione; Fuentesauco era un
posto incantevole.
Tante
volte gli aveva ricordato che era un effetto effimero, dato dalla
naturalezza degli elementi in completo equilibrio fra loro, ma che
sarebbe svanito in fretta, non appena si fosse accorto che quella
naturalezza era in contrasto con i tempi moderni e non portava nulla
di buono se non perdita di tempo e crescita.
Javier
non aveva mai avuto l’aria da contadino.
E
tuttavia non lo era mai stato, forse.
Gli
aveva raccontato poche cose frammentarie della sua vita e tutte
riconducevano a Madrid, a quella vita da soldato che sembrava
calzargli a pennello e a quella da medico, per la quale studiava fin
da bambino; alle volte in quei suoi racconti c’era una vena
malinconica, una quasi estraneità da Fuentesauco, salvo poi i
rari momenti, sempre più rari da quando lo aveva conosciuto a
dire il vero, in cui si scioglieva in racconti appassionati e
coinvolgenti.
E
tutto questo, adesso non sapeva spiegarsi bene come, gli mettevano
addosso una certa tristezza per quel ragazzo che aveva imparato ad
apprezzare e alla quale voleva bene tanto da chiedergli di essere suo
testimone, se il giorno del suo matrimonio con Olivia avesse mai
visto luce del giorno.
Arrivato
in cima all’altura si fermò; la dimora che aveva davanti
era maestosamente rustica ed elegante insieme, una di quelle case che
certi nobili di città avevano a disposizione pochi chilometri
fuori il centro urbano.
Avrebbe
voluto avere accanto Benedicta in quel momento, tanto da sbattergli
in faccia la disapprovazione per la scelta fatta; non che gli
importasse molto il suo parere, o i soldi –il suo animo da
zingaro lo portava spesso a respingere certi agi che per nascita gli
venivano predisposti, convinto che minassero la sua libertà-
ma Olivia ne usciva sempre troppo svalutata ai suoi occhi, ed invece
la verità stava lì, in quella casa dal legno pregiato,
il giardino finemente tagliato, la vista sul paese da una parte e i
campi assolati dall’altra.. anche se la giovane era un tripudio
di semplicità.
Tutto
questo era sbalorditivo.
Si
sentì piccolo, intimorito, quasi nullità.
Qualcuno
proruppe alle sue spalle, schiarendosi la voce.
«Vi
siete perso?»
Chiese l’uomo, un signore distinto dalla capigliatura folta e
brizzolata.
Alfredo
Roquez, pensò, passando al rassegno le sue vesti fini e il
volto affascinante; Olivia non aveva sbagliato una descrizione,
parlandogliene. Parlava di lui come il tutore che si era preso cura
dei suoi interessi fino alla maggiore età e cugino da parte di
madre defunta proprio come l’adorato padre di Olivia, suo
fratello.
Una
storia molto triste la loro, accomunati da un destino che aveva visto
lo sfracello delle loro famiglie fra liti e guerre sulla spartizione
dei possedimenti e tedianti malattie che li avevano decimati.
«Il
mio nome è Lorenzo Ruiz Navarro, signore.»
Si tolse il cappello e lo avvicinò con un gran sorriso
amichevole e la mano tesa nella sua direzione, a palmo aperto. «Sono
qui per chiedere la mano di vostra cugina.»
Nel
mezzo di elucubrazioni mentali, si era anche detto che era meglio un
pugno in faccia subito, che uno schiaffo morale dopo, se lei avesse
detto di no, perciò strizzò gli occhi quando terminò
di parlare e porse la guancia da vero uomo.
«Ah,
bene. E lei lo sa?»
Dopo
attimi simili all’eterno, Alfredo rispose con un sorriso
dipinto in viso. «Perché
ha nominato diversi affari questa mattina, ma sono certo che tutti
escludevano un matrimonio.»
Lorenzo
aprì gli occhi e si affrettò a rispondere, il sorriso
forzato.
«Temo
di no, signore. Giungo quest’oggi da Madrid, per farle la mia
dichiarazione. E mi rivolgo a lei per il suo consenso, dato il
rapporto di parentela e fiducia che intercorre fra voi.»
L’uomo
affilò lo sguardo. «Quante
belle parole, don.. Navarro avete detto? Ho conosciuto certi Navarro
in quel di Salamanca, dottori commercialisti se non vado errando. Li
conoscete?»
«Fra
i miei parenti, signore. Io discendo dai Navarro di Madrid, ma ho
eseguito il dottorando presso la città che avete nominato. Lì,
ho conosciuto vostra cugina.»
Alfredo
sorvolò il particolare melenso. «Quindi
siete un commercialista?»
Lorenzo
sfoderò il suo sorriso sornione e rispose. «Mi piace
definirmi un
umile soldato abilitato alla professione contabile, signore.»
Sostenne lo sguardo dell’uomo che vagava con un certo interesse
e divertimento sugli “umili” abiti che indossava e capì
di averlo colpito almeno per simpatia. «Non sono un disgraziato
che cerca di mettere le mani su ciò che vi è più
caro, questo vi è chiaro come acqua, solo concedetemi la
possibilità di farmi conoscere, signore.» Poi esalò
un sospiro delicato. «Tengo molto ad Olivia.»
Il sorriso
di scherno sparì dalle labbra di Alfredo, che lo afferrò
per la spalla e le scosse vivacemente. «Vieni, andiamo dentro,
che a ragionar sotto al sole non conviene.» Gli fece strada, ma
si voltò a guardarlo. «E chiamami pure Alfredo.»
Il ragazzo sospirò e annuendo lo seguì di certo più
sollevato.
La
casa era un’opulenza di stile rustico, un vero inno alla
campagna, con tocchi di elegante raffinatezza qua e là; ciò
che lo colpì furono gli arazzi alla parete in netto contrasto
con le travi a vista in legno scuro, raffiguranti donne e uomini da
soli o in compagnia. Saltò all’occhio la splendida
raffigurazione di una donna in abito da sposa, sopra il camino nella
stanza principale, accanto a dei vasetti di erbe aromatiche; sembrava
essere molto giovane, le guance piene e rosse della fanciullezza e i
capelli scuri vaporosi, quasi corvino. Aveva degli occhi enigmatici,
che il pittore aveva saggiamente illuminato con dei tocchi di pittura
per esaltarli ancora di più; si percepiva nettamente, che ne
era rimasto affascinato anche lui. Deglutì imbarazzato, come
se poggiare lo sguardo su quelle labbra piene fosse peccato, volgendo
lo sguardo alle tenue tinte della tappezzeria intorno, cercando
conforto.
«E’
quello l’effetto sperato.»
Alfredo lo raggiunse, facendo segno di accomodarsi sul sofà,
mentre gli porgeva un bicchiere di vino bianco che ben conosceva; il
Cabrhero,
l’investimento per la vita che la sua giovane amata aveva
ottenuto lavorandosi uno dei più grandi viticoltori del paese,
Mariano Nieto Cabrera da Madrid. Da lì, il suo nome curioso,
un innesto dei loro cognomi; era rimasto colpito ed affascinato
quando gli aveva raccontato tutta la storia. Alzarono i calici ed
Alfredo proseguì. «Mia
moglie ha detestato quel vestito dal primo momento che l’ha
visto. Ma era così bella che non ho saputo resistere; la
pittura è una mia grande passione. Come lei del resto.»
Lorenzo
guardò velocemente il dipinto, poi guardò lui
esterrefatto.
«Oh
sì è proprio lei, per quanto sia possibile credere che
un angelo sposi un comune mortale come me. E sa la cosa divertente?
E’ ancora così.» Rise, cercando di stemperare
l’imbarazzo nel suo ospite, che trattenne un risolino
portandosi il vino alle labbra. «L’ho sposata che era
molto giovane. Abbiamo un figlio, Riccardo, e la nostra vita come può
vedere..» Indicò, roteando l’indice «..è
fatta di cose genuine. L'apparenza inganna giovane Navarro.»
Lorenzo
inspirò profondamente, prima di lasciare che il vino
confortasse i suoi nervi tesi.«Mi prenderò cura di lei.
Sempre, questo posso assicurarglielo. Capisco le sue perplessità..
il giovane ragazzo di città, quello con una buona famiglia
alle spalle che rattoppi tutti i problemi.. ma io non sono solo
questo, don Alfredo. Sono un soldato come le ho detto e conosco la
disciplina, il duro lavoro e la fatica. E in più sono
innamorato di Olivia, profondamente e non intendo disonorarla. Mi
guardi, le sembrerò uno sbruffone, un arrogante, ma sono
sicuro di piacerle di già almeno un pò.. quindi mi dia
il suo consenso e faccia sì che questa unione abbia inizio.»
Alfredo
sul punto di replicare, fu interrotto da una voce emozionata e
incrinata dal pianto.
«Ce
l’hai gia!»
Olivia lo
raggiunse correndogli incontro; Lorenzo si alzò nell’attimo
in cui ella gli finì fra le braccia.
Lo
abbracciò forte, dinnanzi agli occhi di Alfredo che attendeva
con compostezza, ma con una gioia velata nello sguardo e intenerito
dalla scena; la ragazza si staccò e fissò il parente in
trepida attesa.
«E’
l’uomo migliore che potesse capitarmi. E lo amo.»
Alfredo si
alzò, le accarezzò la guancia come se cercasse in
quegli occhi verdi di splendente amore, la bambina che con lo stesso
sguardo gli chiedeva di insegnargli ad arare un campo; una lacrima
scese dai suoi occhi e morì sulle labbra rosso rubino. «Lo
ha avuto dal primo momento che ha aperto bocca. Auguri ragazzi miei.»
Lorenzo
gli strinse forte la mano ma l’altro lo tirò con gesto
secco a se, abbracciandolo; dopo un primo e breve momento di
imbarazzo, ricambiò quella stretta e senti dentro di sé
un moto di benessere e di speranza.
La donna
che amava aveva detto di sì e la sua famiglia, uno
straordinario uomo del quale stupidamente aveva avuto paura e
riserbo, non li avrebbe ostacolati; non poteva chiedere di più,
non avrebbe desiderato altro.
«Ti
chiederei di trattenerti per il pranzo, mia moglie è
sgattaiolata all’ultimo momento ma sarebbe stata entusiasta di
fare la tua conoscenza..» Guardò verso Olivia con aria
di rimprovero, provocando nella giovane un risolino. «Ma
immagino tu non voglia offendere chi ti ha per ospite e che
certamente si starà chiedendo dove sei finito.»
Lorenzo
alzò gli occhi al cielo divertito. «Difatti
Donna
La Fuente ha giurato di uccidermi se non sono a tavola a provare il
suo cordero
guisado.
Dicono che sia l’agnello più buono di tutta la
provincia!»
Olivia e
Alfredo si scambiarono un’ardita occhiataccia; la ragazza rise
chiassosa tentando di sviare l’attenzione e infilandosi al
braccio del ragazzo, lo obbligò a prendere la via per
l’uscita.
«E’
meglio andare, adesso, abbiamo un mucchio di cose di cui parlare.. a
più tardi Alfredo!»
«Arrivederci
don! E grazie ancora!» Il poveretto si fece trascinare fuori,
ignaro di tanta fretta. «Ho detto qualcosa che non andava? L’ho
offeso?» Si infilò il cappello e la guardò con
occhi smarriti. «Accidenti! Mi sembrava fosse andato tutto
bene.. ce l’avevo in pugno e..»
Olivia lo
azzittì, con due dita premute sulle sue labbra. «Tu non
c’entri niente, sta tranquillo.» Sorrise e sostituì
la sua mano con la bocca; Lorenzo sciolse le spalle a quel contatto e
l’abbracciò, restituendo un bacio passionale. Quando si
furono staccati, Olivia guardò alle imposte; la casa da fuori
sembrava disabitata e silenziosa, la cosa la fece sorridere. «Ma
forse è meglio se tieni a mente che quel nome qui.. non è
molto gradito.»
«Chissà
com’è lo immaginavo.» Lorenzo imitò
l’espressione terrea di Alfredo.
Olivia
sospirò. «I Roquez e i La Fuente sono due famiglie molto
potenti nel commercio, la loro rivalità nasce in tempi in cui
ne tu ne io eravamo di questo mondo. E’ un concetto molto
rurale, ma per loro questa è vita, capisci?»
E’
vero, pensò. Olivia gliene aveva già parlato.
Roquez. Un
pensiero legato ad un ricordo passato, balenò nella sua mente.
Roquez..
ripassò mentalmente, proprio come i Roquez ..che anche Javier
aveva nominato!
“I
Roquez sono una famiglia di antica tradizione, nel mio paese.
Quell’uomo è nato per invecchiare e morire a
Fuentesauco.”
Ricordò
con un brivido quella conversazione; aveva parlato di morte proprio
dell’uomo che pochi istanti prima, lo aveva abbracciato,
accogliendolo nella sua famiglia. Si sentì a disagio e scosso.
«Sì.
Si hai ragione.»
Inspirò fissando il terreno con occhi vuoti.
«Starò più attento. Più attento, sì.»
Olivia lo
guardò al limite dello sconcerto. «Sai di lei, vero?»
Bisognava
essere proprio rimbambiti per aver sorvolato su un particolare del
genere, pensò, annuendo tristemente, e portandosi entrambe le
mani fra i capelli.
«Sono
stato uno sciocco! L’ho convinto a venire qui credendo che la
sua presenza mi avrebbe aiutato.. sono stato così egoista..
fremevo dalla voglia di chiederti in sposa! Oh quale idiota sono! Non
ho prestato attenzione alle sue parole.. al particolare più
importante di tutta la faccenda!»
«Calmati..»
Olivia lo riscosse per le spalle, dolcemente. «Che sia stato tu
oppure no, cosa cambia? E’ un adulto consenziente e un uomo
sposato, Dio non voglia che non sappia come comportarsi!» Poi i
suoi occhi si accesero, di una malizia che gli infiammò
l’animo; gli allacciò le braccia intorno al collo e lo
baciò ancora. «A tua discolpa c’è da dire
che non abbiamo passato molto tempo a parlare molto delle nostre
famiglie..»
Lorenzo si
guardò attorno agitato al sol pensiero che qualcuno potesse
udire i loro discorsi arditi.
Olivia era
capace di tirare fuori una passionalità che lo faceva andare
fuori di testa e questa sua caratteristica, il sentirsi libera dagli
schemi e le imposizioni d’etichetta, lo rendeva conscio sempre
più che fosse la donna con la quale condividere il resto dei
suoi giorni. Ma qualcuno doveva pur tenere il controllo o avrebbero
rischiato di bruciarsi.
La
trascinò via dalle imposte per condurla in un angolo riparato
del giardino, dove la tirò a se con voluttuosità e al
limite della pudicizia. «Queste sue parole nascondono un
messaggio velato, futura signora Navarro?»
Le
accarezzò il fianco, fasciato da uno svolazzante tessuto,
riscoprendolo deliziosamente arrotondato; Olivia, il petto ansante e
l’emozione a stringergli la gola, lo scansò di poco.
«Aspetto
un bambino.» Gettò in un sospiro. «L’ho
saputo da poco, volevo trovare il modo giusto per dirtelo,
probabilmente alla fine dell’estate, quando avrei raggiunto
Madrid per i miei affari. Ma adesso che sei qui.. e conosco le tue
intenzioni..» Inspirò per trattenere il pianto, una
sorta di sfogo per quel segreto che non aveva ancora potuto rivelare,
proprio a lui che era il suo amore più grande, a causa di
sciocche paure. «Oh
Dios!
Mi sento così stupida se ci ripenso!»
Lorenzo le
prese il viso fra le mani, guardandola intensamente. «Come hai
potuto credere che non fosse la notizia più bella che potessi
darmi? Oh cielo, Olivia!» La strinse forte, unendosi alla
commozione. «Marito e padre.» Sussurrò con voce
rotta.
Javier
aveva ragione, avrebbe capito cosa significava preoccuparsi per
qualcuno più di se stesso, solo nel momento in cui sarebbe
stato disposto a sacrificare ogni sforzo e la sua stessa vita pur di
proteggerlo. E adesso, guardando quella ragazza meravigliosa e il
loro piccolo miracolo, sentì forte e potente quell’istinto
farsi spazio nelle viscere e nulla più fu come prima.
*
Accovacciata
sul pavimento, non si accorse nemmeno della porta che veniva
spalancata.
Udì
solo dopo qualche istante, i passi sulle aste di legno e la voce
sgomenta dell’uomo che l’aveva trovata così.
La
rana era matura; il piccolo animale sarebbe morto da lì a
qualche ora, secondo la tecnica diAschheim-Zondek
-che consisteva
nell’iniettare l’urina della presunta puerpera nel corpo
della bestiola e se quest’ultima avesse ovulato, significava
che la donna era incinta- per non incappare in un falso positivo,
dato che il primo esito era risultato positivo.
Ciò che la rendeva
inquieta non era il macabro ma necessario sezionamento dell’animale,
quanto il risultato stesso, l’ulteriore risposta da aggiungere
allo shock iniziale.
Quel test, era il suo.
«Chi
va là?»
Alzò
la testa, piegata fra le mani alla ricerca di coraggio, calma e Dio
solo sapeva cosa.
Quando era
ragazzina e combinava qualche guaio lei non faceva come tutti gli
altri bambini, non faceva come Javier che andava a nascondersi sotto
al letto lasciando che le urla disumane di sua madre aleggiassero
nella stanza, lei si accovacciava in qualche angolo tutto suo e
meditava, pensava, sperava e aspettava.
Che la
tempesta passasse.
Ma mentre
se ne stava seduta lì, ad aspettare che la burrasca interiore
passasse, non faceva che chiedersi, “Che
stai facendo?”.
Un altro
figlio. Non ci aveva mai pensato.
Dopo la
nascita di Riccardo, non aveva realmente
creduto che sarebbe potuta diventare madre ancora una volta e sebbene
le probabilità era altamente numerose –Alfredo era
passionale e appassionato- chissà come, questa le sembrava una
possibilità assai remota.
Un altro
figlio, pensò nuovamente.
Una
creatura da mettere al mondo, da amare e allevare.. un bambino.
Un
bambino. Il figlio di Alfredo.
Sorrise,
ma quel sorriso divenne una curva puntata verso il basso.
«Javier?»
Esalò di soprassalto, trovandoselo viso a viso e
inginocchiato; l’impatto fu forte, ma non così forte
come anni prima.
«Ah,
stai bene.» Borbottò lui, rialzandosi come se la scarica
di adrenalina fosse salita tutta insieme. «Pensavo ti fossi
fatta male, lì accucciata.. mi sono preoccupato.»
Morena rise. E poi si stupì
d’averlo fatto.
L’imperturbabile Javier La
Fuente, medico di Madrid e membro della guardia
civil, era
preoccupato perché se ne stava rannicchiata sul pavimento; non
era cambiato di una virgola, il solito perfezionista attento al
prossimo.
«Mi
dispiace averti fatto preoccupare inutilmente.» Si alzò
con un sorriso di scherno, lui fece cenno d’aiutarla ma negò
con il capo. «Stavo solo riflettendo.. prima che piombassi da
quella porta.»
Javier
alzò un sopracciglio. «E di grazia, quello è il
tuo solito modo di riflettere?»
«Sì.»
Disse altezzosa, ma con un vago sorriso all’angolo della bocca.
Si
guardarono.
Si
guardarono intensamente e pieni di sorrisi che sfociarono in risa,
dapprima isteriche, poi di cuore, a pieni polmoni, liberatorie quasi;
poi con lacrime agli occhi, tutto cessò come era arrivato e il
silenzio tornò plumbeo intorno a loro.
«Sei
un medico.» Morena fu la prima a parlare, danzando intorno al
tavolo dove l’aspettava il verdetto finale.
«Anche
tu.» Rispose il ragazzo, con una punta d’orgoglio nella
voce. Poi cambiò espressione. «E sono felice di
constatarlo, mi chiedevo quando ti saresti affacciata; hai con te
tutte le cartelle dei miei pazienti.»
La ragazza
levò il viso ai suoi occhi, il sorriso all’ingiù.
«Javier io..»
Bloccò
ogni sua parola scuotendo le mani difronte al viso. «Ti prego,
non è mia intenzione rovinare questo equilibrio, era un
appunto del tutto innocente. Ho davvero bisogno di quelle cartelle
per iniziare il mio lavoro.» Si guardò attorno in
maniera distratta e proseguì. «A dirla tutta, mi sembra
un miracolo che stiamo parlando come nulla fosse.»
La ragazza
si accese. «Non sembravi molto loquace l’ultima volta..»
Poi inspirò, indicando il cassetto al di sotto della
scrivania. «Lì dentro c’è la chiave per
questo scomparto.» Batté la mano sull’anta più
in basso della dispensa dove venivano conservati i medicinali e gli
strumenti medici e sorrise. «Le cartelle dei pazienti sono qui,
disposte in ordine alfabetico e con un etichetta colorata per ogni
singolo caso. L’elenco dei casi è appeso all’interno,
come promemoria, ma imparerai in fretta cosa affligge la maggior
parte di questa gente.»
«La
noia?» Asserì lui ironico, sporgendosi verso il tavolo
per recuperare la chiave. «Non vedo cosa avrei potuto dire.»
Sussurrò poi con voce piatta, piegandosi accanto ad ella per
recuperare le cartelle dal mobile. Quando ebbe davanti i fascicoli,
sussultò involontariamente; c’era una vasta raccolta di
fogli tenuti in dispense di carta grezza e spessa, rilegate con del
nastro di cotone, tutto rigorosamente bianco e vergato con una
scrittura precisa, senza sbavature. Sorrise compiaciuto e volse lo
sguardo alla sua destra; la lista dei casi era una pergamena
piuttosto lunga, la staccò via dall’anta con forza,
scorrendo con gli occhi le varie diciture.
«Non
curerai solo noia.» Rispose lei con voce profonda. «E
sarà meglio che tu sappia cosa rispondere; questa gente ne ha
viste parecchie nel corso degli anni. Ti sarai accorto che tutto è
fermo esattamente al giorno in cui te ne sei andato.»
Javier
annuì compito, mentre slegava alcuni incartamenti e si metteva
comodo sul pavimento esattamente dove aveva trovato Morena.
«Direi
che è peggiorato.» Ammise con rammarico. «Alcuni
di questi casi a Madrid sono stati debellati da anni.» Poi alzò
il volto e incrociò il suo sguardo, consapevole che lo stesse
guardando. «Non volevo offendere il tuo operato. Anzi, speravo
che ti affacciassi presto per ringraziarti di quello che hai fatto
per mio padre.»
«Non
ho fatto nulla che non avrei fatto per chiunque altro.»
«Sai
cosa intendo.» Disse lui senza staccare gli occhi dalla
cartella “La Fuente.”.
Morena
alzò le spalle e si sentì contenta d’essere
passata in quello studio, anche se il motivo non aveva smesso di
darle pena; neanche in migliaia di anni avrebbe immaginato di vivere
un momento così “normale” in compagnia di Javier,
un momento di ordinaria amministrazione, due medici che si
confrontano sulla vita e il progresso.
Accarezzò
l’idea di quella che sarebbe potuta essere la loro vita senza
tutto il dolore passato e si ritrovò a sperare che da lì
in eterno fosse sempre così. Eterno. Schioccò la
lingua.. non aveva mai desiderato l’eterno.
«Javier,
sinceramente, cosa avrei dovuto fare? Spingerlo a suon di calci fuori
dallo studio?» Rise e il ragazzo staccò gli occhi dalle
carte per guardarla stupito di quel suono piacevole. Rise anche egli.
«E’
quello a cui ho pensato.»
Morena
tornò seria, i loro sguardi anche. «Visto che hai preso
tu il discorso.. sai che dovremmo
allertare la comunità, se la streptomicina non dovesse dare
gli effetti desiderati, vero? Non esistono le condizioni ideali
perché il virus resti un ceppo isolato. Forse sarà un
bene se tuo padre prenda in considerazione l’idea di
trasferirsi in un luogo salubre, adatto alle sue condizioni.»
«Dovremmo
alzare i dosaggi per prima cosa, non credi?»
Morena
corrucciò la fronte. «Non lo ha già fatto il suo
medico?»
«Il
suo medico sei tu.» Disse Javier come se fosse la cosa più
ovvia; poi si guardarono consci e scossero il capo simultaneamente.
«Mia madre.. certo!» Javier si alzò, gettando la
cartella sulla scrivania con stizza. «Questa storia deve
finire, non posso credere che siamo in ritardo sulla cura perché
lei si oppone.. si oppone.. non posso crederlo vero!»
Morena
sentì un brivido correrle lungo la schiena. «Puoi dirlo
Javier.. non avere timore di offendermi.»
«Non
si tratta più di te!» Berciò lui, battendo un
pugno sul tavolo. «E’ di mio padre che si parla, come può
essere tanto cieca? Cosa le abbiamo
fatto, per meritarci tanto?!»
La furia
di quell’uomo bastò a intimorirla, farla rimanere in
silenzio.
Cosa
poteva aggiungere, se Javier aveva espresso in una sola richiesta ciò
che pensava già?
La odiava
a tal punto che avrebbe ucciso suo marito, pur di non permetterle di
sfiorare con la sua presenza tutto quello che gravitava intorno a suo
figlio. Si sentì meno, barcollò, annusando l’odore
di morte che già una volta aveva accompagnato quella donna e
rimise tutto, anche l'anima.
L’uomo
le fu addosso, sorreggendola; con una mano le alzò la fronte e
con l’altra la tenne stretta per la vita.
«Ti
prego..» Sussurrò lei, asciugandosi la bocca con il
fazzoletto che il ragazzo prontamente le passò.
«Non
cominciare, per favore!» Protestò, ansioso. «Non
ti lascio sola!»
Non ti
lascio sola.
Si sentì
stanca e sopraffatta, ma soprattutto stanca e nauseata.
La
contentezza di averlo rivisto sparì presto e al suo posto solo
una mera paura.
Si portò
istintivamente le mani al grembo e si lasciò andare in un
gemito gutturale che fece preoccupare Javier ancora di più;
sentì le sue braccia afferrarla dolcemente per le gambe per
portarsela al petto e in modo ancor più delicato, posarla
sulla lettiga dell’unica parete libera.
«Ti
prego..» Esalò ancora, come se i pensieri scalpitassero
ad uscire; Javier le dava le spalle, battendo nervosamente il piede
in terra. Lo tirò per la giacca, strattonando due, tre volte,
prima che si convinse a girarsi.
«Che
c’è?!» Chiese contrariato.
«Non
fare nulla di stupido.» Disse, con occhi dilatati. «Sei
tu il suo medico, adesso. L’importante è questo.»
Inspirò, cercando di calmarsi; gettò un’occhiata
rapida alla rana e protestò ansimando, certa che non le
sarebbe servito a nulla un contro test, anche se la sua professione
richiedeva scrupolosità; era incinta, contro ogni ragionevole
dubbio. «Pensa solo a lui, non voglio essere causa di altro
male.» Una lacrima muta e silenziosa scivolò sulla
guancia andando ad infrangersi sulle labbra di Javier che, come
quando erano solo dei ragazzini, la portò via in un bacio.
«Mi
opporrò, stavolta.»
Sibilò, accarezzandole i capelli come ad una bambina e
rialzando il capo a sua volta.
Era bello,
pensò.
Anche nel
dolore riuscì a scorgere il suo viso perfetto e immutato.
Ma quella
bellezza, dalle rimembranze della sua paura, adesso le sembrava
fredda cenere.
«Ti
ucciderà. E’ il solo modo per mettere fine a questo
odio. E farà sì che io sia presente, perché
quella sarà la mia punizione.. vederti morire.» Si tirò
su, scostandolo freddamente. «Devi starmi lontano Javier, tu
non sai di cosa è capace.» Scivolò dalla lettiga
e in fretta si portò accanto al tavolo dove giaceva la rana;
brandì il bisturi e provocò le incisioni a regola
d’arte, in freddo mutismo.
L’uomo
scosse il capo quasi ad allontanare quelle parole disgraziate, poi la
fissò, muoversi come un automa.
Si
avvicinò, riscosso dalla portata di quel gelido ghiaccio sceso
su di loro. «Di cosa stai parlando?»
Morena
proseguì senza prestargli ascolto. «Quando avrò
finito qui, non sarai più costretto a parlarmi. Non le darò
modo di torturarti.»
Poi ci fu
un attimo di silenzio. E un lungo sospiro della ragazza, seguito da
una risatina isterica.
Javier
guardò all’animale e poi alla donna. «Complimenti,
avrai presto una puerpera da accudire.»
Dalla sua
bocca uscì un lamento fioco.
Un
figlio.
«Aspettami!»
Era corsa
via, sulle gambe snelle di quando era solo una ragazzina.
Non era
cambiata affatto; i lucidi capelli neri, morbidi sulle spalle, gli
occhi intelligenti e grandi di oro fuso nel color nocciola e quel
broncio che l'aveva sempre contraddistinta. Anche la sua lingua
biforcuta non era mutata, la sua parlantina appuntita e il suo
schernirlo per ogni cosa.
Morena era
esattamente la stessa ragazza che aveva lasciato. Non era stata un
sogno, dunque.
E la stava
inseguendo. E seguiva un istinto che lo portava a desiderare ancora
qualche momento, sentirla parlare, prenderlo in giro persino.
Aveva
sbattuto la porta dello studio malamente e malamente si era messo le
chiavi in tasca per poi sentirle scivolare via, ma continuava a
correre per raggiungerla, farsi raccontare cosa quegli occhi spauriti
non avevano avuto coraggio di raccontare, mettere fine a quel gioco
stupido e spaventoso. Era stato uno sciocco a credere che le cose
sarebbero andate a posto senza il bisogno di sforzarsi troppo.
Morena era
un incavo in cui riposavano i dolori addormentati che aveva vissuto.
Ed anche
lui. Perché mentre correva, sentiva ogni lancinante fitta che
quegli anni addietro, al buio della lettiga di caserma, aveva
provato.
Ma lei era
stata sempre più veloce. Sempre un passo più avanti e
fuori il corso principale, quando si trovò a sbattere contro
delle braccia apparentemente sconosciute, provò il dispiacere
di averla persa ancora una volta.
«Javier!»
Lorenzo era il muro contro il quale era andato a sbattere; lo guardò
con disperazione e con la stessa disperazione quel giovane
contraccambiò. «Grazie al cielo sei tu, Javier!»
Quelle parole bastarono a svegliarlo dal torpore della perdita per
gettarlo in uno molto più grande e più tetro. «Tua
madre mi ha mandato a chiamarti, devi correre alla villa, tuo padre
ha avuto un malore!»
Si
sentì morire e non riuscì più a distinguere dove
cominciasse e finisse il dolore.
*
L'acqua
aveva un potere terapeutico, sentiva il suo benefico tocco sulla
pelle e per questo provava pace.
Il capo
era chino all'indietro, sulla porcellana fredda e bianca della
pregiata vasca che Alfredo aveva fatto incassare nel muro; era stato
il suo regalo di compleanno l'anno passato, diceva che se la meritava
una vasca degna di questo nome, dopo le fatiche di una giornata.
Se avesse
voluto, quell'uomo avrebbe messo il mondo ai suoi piedi e sapeva che
non servivano in cambio certo chissà quali fatiche.
L'amava
incondizionatamente e per questo, non c'era attenuante che bastava.
Distesa in
quel mare caldo, non si sentiva però all'altezza di niente.
Javier La
Fuente era ossessivamente entrato a far parte dei suoi pensieri;
pensava costantemente a come gli era sfuggita via, al suo modo di
parlarle come se fossero ancora buoni amici e sopratutto al suo
richiamo primordiale. Aspettami, le aveva urlato dietro.
Come se
avessero davvero e ancora qualcosa da dirsi.
Qualcosa a
cui rimanere aggrappati che non fosse solo l'incombente ombra di
Guadalupe Garcia su di loro; quella donna era il male e lei lo
percepiva attorno, sentiva il suo influsso negativo che come una mano
pesante si era messa sul suo capo.
Schiaffeggiò
via il pensiero, schiaffeggiando l'acqua che s'era fatta densa melma,
oltre i suoi occhi appannati e offuscati dalle lacrime.
Era
tornato l'odio.
E questo
la terrorizzava a morte.
Alfredo si
affacciò sulla stanza, lo sguardo greve, una ruga a solcargli
la fronte.
La stava
guardando come si guarda un fenomeno da baraccone, solo senza risa.
«Non
hai toccato cibo.»
Disse, fermo sulla stipite che divideva la camera da letto dalla
toilette. «Sei qui da molto, ormai.»
Morena
gli fece cenno d'avvicinarsi, sfregandosi malamente gli occhi. «Ho
perso la cognizione del tempo. Sono molto stanca.»
L'uomo si
avvicinò, inginocchiandosi alla grande vasca e poggiandosi con
le braccia per il suo bordo; non le toglieva gli occhi di dosso,
mentre con una mano carezzava l'acqua ormai tiepida e torbida di
sapone. Morena allungò una mano verso di lui, leggiadra.
«Sembri
molto stanco anche tu.»
Alfredo
annuì. «E' stata una lunga giornata.»
La ragazza
sospirò, chiudendo gli occhi e abbandonando il capo
all'indietro. «Javier La Fuente è tornato a
Fuentesauco.»
Esalò dal nulla, come se emettesse un verdetto senza speranza.
«E' il sostituto di Pena che stavamo aspettando.»
Riaprì velocemente gli occhi, Alfredo la stava guardando senza
tradire emozione.
«E'
per questo che piangi?» Chiese asciutto. «Che sei qui e
non vuoi parlare?»
«Piango
perché sono esausta. Non travisare emozioni che non hanno
ragione d'esistere.»
«Ed
è così? Devo temere il tuo silenzio o credere che va
tutto bene?»
«Va
tutto bene.»
E provò il rimorso per quella piccola e innocente bugia. «Non
sono in pena per i motivi che credi tu.»
Alfredo
prese un lungo respiro, socchiudendo gli occhi. «Ho da dirti
qualcosa anche io.» Morena si alzò con il busto,
guardandosi velocemente intorno.«Agueda ha messo Riccardo a
dormire da un po'.»
La
vide sospirare di dispiacere e poi quasi subito di sollievo; quando
rilassò le spalle gli rivolse un sorriso di gratitudine.
«Entra
anche tu.» Disse in tono pacato, allungando una mano. «Parlami
da qui.» Indicò l'acqua e l'uomo si alzò,
liberandosi della camicia e dei pantaloni in due mosse piuttosto
veloci; tirò un sospiro di sollievo nel vederlo accontentarla.
Il
corpo tonico di Alfredo entrò a contatto con l'acqua, che di
riflesso sciabordò oltre gli argini; le sue mani grosse, da
contadino, si tenevano salde al bordo, mentre le sue lunghe gambe le
attorniavano la vita. La spinse verso di lui con erotica riluttanza,
al che gli si trovò sopra senza nemmeno rendersene conto. «Di
cosa vuoi parlare?» Sospirò sulle sue labbra con voce
rotta.
«Sapevo
già fosse in paese.» Esordì. «Non sai chi
ha avuto la brillante idea di bussare alla nostra porta questa
mattina.»
«Chi?»
Chiese con voce flebile.
«Lorenzo
Ruiz Navarro.» Ripeté, facendo il verso al ragazzo.
«Pretendente di nostra cugina Olivia, nonché amico di
quella gente.» Al pronunciare di quel nome si scostò,
guardandolo come se cercasse di capire se dicesse il vero. «E'
venuto qui e mi ha chiesto la sua mano con una tale spavalderia.. non
aveva timore, capisci? Ho avuto immediatamente il sospetto che
sapesse già tutto di me.. e di noi.. fino a quando non ha
fatto il nome di quella famiglia.. e ho capito tutto. Quello
che non sapevo, lo hai aggiunto tu.»
Una
prova, pensò Morena; l'aveva messa alla prova. Si morse il
labbro, avvampando; distolse lo sguardo dal suo viso e prese a
cercare la grossa spugna sul fondo della vasca per cospargerla di
sapone e tamponargli le braccia.
«E
lui com'è?» Chiese per scacciare quel pesante e
imbarazzante silenzio.
«Arrogante.
Affascinante. Tuttavia sincero, nel dichiarare i suoi sentimenti.»
Si lasciò accarezzare dalle mani della moglie che
diligentemente lo stavano lavando con la stessa grazia e delicatezza
usate per un bambino, chiudendo gli occhi estasiato. «Mi ha
ricordato me alla sua età.»
«Olivia
mi ha detto che è un gran conquistatore.»
Berciò Morena insinuante al suo orecchio, di colpo
rinfrancata.
«E' questo che mi hai tenuto nascosto fino ad ora, don Roquez?»
Alfredo aprì gli occhi nell'istante in cui la ragazza stava
per premergli giocosamente la spugna sul viso, bloccandole il polso
con fermezza; il suo sguardo brillava di una fiamma ardente, un misto
di rabbia, desiderio e angoscia.
«E
tu? Cosa mi nascondi?»
L'attirò
a se con prepotenza baciandola come volesse morsicarla, le parole
ingoiate nella sua stessa gola riarsa dalla medesima passione; fu un
bacio primitivo, senza pudore, carnale che quando si staccarono,
dalle labbra di Morena uscì un rivolo di sangue.
La
ragazza lo leccò via spudoratamente e allo stesso modo gli si
avventò addosso; con una sola mossa Alfredo la spinse per il
bacino verso di lui, dove nudo e pronto se ne stava per accoglierla.
Morena mugolò al contatto delle sue mani che cercavano la via
per possederla e quando le fu dentro, il mugolio divenne un sussulto
roco e improvviso, come lo stupore che provò alle spinte
veloci che le mani di Alfredo comandavano cingendola per i fianchi.
Fu tutto molto rapido, senza lamenti o gemiti. Una passione
silenziosa, fatta di sguardi, mani che si tenevano strette nelle
mani, gambe che si stringevano ad altre gambe e poi ci fu un boato
interno, nei loro cuori e solo due sospiri sommessi in due petti
ansanti che si alzavano e abbassavano allo stesso ritmo, l'uno contro
l'altro.
«Ho
amato due sole donne, Morena.» Alfredo ruppe il silenzio,
parlando con voce spezzata e il respiro corto. «Tu sei una di
queste.» Poi senza aggiungere nulla, si tirò su,
tenendola stretta nel suo abbraccio. L'acqua grondava dai loro corpi
nudi e caldi di sesso; si portò al baule nella stanza attigua,
dove recuperò un panno di lino fresco che adagiò sulla
donna e sempre senza fiatare, la fece scivolare sul letto, al caldo e
al sicuro.
Quando
si scostò, Morena aveva gli occhi lucidi. «Ti prego
resta, non andare.»
«Non
hai bisogno di pregarmi. Sono qui e intendo rimanere.»
«Ho
bisogno di te.» Continuò, con estrema indolenza nella
voce.
«Sono
qui.» Disse lui, sdraiandosi sopra al suo corpo; il calore che
emanava Alfredo bastò a calmarla. Chiuse gli occhi inondati
ormai di lacrime; Alfredo le tolse via dalle guance, con i pollici
grinzosi del lavoro dei campi. Quel contatto, quel ritrovare la
quotidianità che le era appartenuta fino a quel momento, fece
sì che i suoi morbidi occhi nocciola si aprirono sorridendo.
«Resta qui..» Sussurrò lui, baciandoli. «Resta
qui con me.»
Morena
gli allacciò le braccia al collo e la furia di passione, si
trasformò in lenta e deliziosa notte d'amore.
*
La brezza
estiva della notte, entrava dalla finestra come un sussurro.
Accarezzava
ogni angolo, ogni viso tramortito in quella grande stanza dal sapore
liberty, in toni freddi del bianco asettico ed essenziale.
Estefan si
era addormentato, abbattuto dalla massiccia dose di cortisone e
calmanti, il respiro lento e regolare, dopo la crisi avuta un'ora
prima; Javier gli era accanto e in poltrona, in dormiveglia, il
breviario di medicina stretto fra le mani, le labbra che si
sfioravano in un sussurro.
Stava
pregando, sebbene la sua prima fede, la scienza, gli ricordasse che
quello era solo il primo passo verso il destino, che l'uomo piazzato
e disteso sul letto, il leone che era stato e che era con la criniera
di capelli nero inchiostro e bianco latte sparsa sul cuscino, avrebbe
compiuto prima di lasciare definitivamente questo mondo.
Leonor era
all'altro capo del letto, la mascherina premuta sulla bocca che,
contro ogni intimidazione di suo marito, aveva finito con l'accettare
di indossare pur d'essere presente e d'aiuto; recitava anch'ella le
sue preghiere dalla bocca come petali di rosa giovane, mai sporcata
dall'orrore.
Il gelo
ammantava le loro anime, sebbene nel camino a parete crepitasse un
piccolo focolaio.
E la
brezza estiva era solo una puntura di spillo, a confronto.
Estefan
rinsavì, tossicchiando.
Javier
aprì gli occhi come colpito da un fulmine; si alzò,
brandendo la candela dal comodino.
«Padre
sei con noi?»
Disse, facendola oscillare dinnanzi ai suoi occhi; l'uomo reagì,
muovendoli da una parte all'altra.
Leonor
pigolò, stringendogli la mano. «Sono Leonor, tua nuora,
mi riconosci?»
Quello la
guardò impassibile, i due giovani si scambiarono un'occhiata
perplessa, Javier annuì attirando la sua attenzione.
«Ricordi
qualcosa? Il tuo nome? Il mio?»
«Certo.»
Affermò sicuro, le pupille a mano a mano di nuovo dilatate.
«Sono Estefan La Fuente, figlio discendente dei primi insediati
di Fuentesauco; Vinicio La Fuente, mio padre, è nato in questa
casa e suo padre prima ancora di lui.» Girò il volto
verso il ragazzo e lo indicò. «Tu sei Javier Vinicio
Garcia La Fuente. Mio
figlio.»
Il ragazzo sospirò di sollievo e lo guardò con un
enorme sorriso di gioia.
«Bentornato.»
Sospirò. «Avevo dimenticato quanto fossero bizzarri i
miei bisnonni sulla scelta dei nomi.»
Leonor
si lasciò andare in un risolino ed anche Estefan, alzando gli
occhi al cielo.
Le
loro mani come niente si trovarono allacciate l'una all'altra, in un
vortice di sollievo e allegria che avrebbe restituito loro per un
po', la speranza di aver superato, se non la guerra, almeno una sua
battaglia.
Guadalupe
era sparita quando Estefan aveva perso i sensi. La luna era alta nel
cielo, quando si affacciò nella stanza.
L'uomo
si era addormentato, Javier chino su di lui e con profonde occhiaie
infossate, gli detergeva la fronte dal sudore della febbre.
«Torna
da tua moglie ci sono io adesso, avrà senz'altro un letto
freddo e stanco senza te.»
Il
ragazzo voltò lentamente il capo nella sua direzione e la
fissò come volesse incenerirla.
«Dove
eri.. quando aveva più bisogno di te?» Berciò con
livore.
La
donna avvampò, scioccata da tale accusa. «Avevo bisogno
di raccogliere i pensieri.» Si avvicinò senza guardarlo
in faccia, togliendogli malamente il panno dalle mani. «Una
donna non riesce ad accettare di perdere il grande amore della vita.»
Si piegò su stessa, portandosi una mano alla bocca, soffocando
un singhiozzo di pianto; Javier la guardò gelido, da capo a
piedi.
«Vorrei
poterti credere, ma queste tue lacrime sono più false della
rugiada del mattino!»
Guadalupe
irata si voltò per schiaffeggiarlo, ma i riflessi pronti di
Javier intercettarono il movimento fulmineo, bloccandola per il
polso; quando lo portò giù con forza, si trovarono
occhi negli occhi.
«Come
osi! Lasciami!»
Strepitò cercando di divincolarsi, ma il ragazzo non solo non
la lasciò, bloccò anche l'altro braccio, avvicinando
sempre più minaccioso il viso contro il suo, un'espressione
furibonda a storpiargli i connotati.
«Urla
quanto vuoi, nessuno oserebbe fermarmi dal voler stringere il tuo
collo con queste stesse mani!»
E mentre lo diceva le alzò all'altezza degli occhi, per
enfatizzare il gesto e spaventarla. «Tuo
marito è gravemente malato e tu non hai mosso un dito per
curarlo!!»
Si accorse di star urlando quando il silenzio della casa rimandò
un eco oltremodo spaventoso. Probabilmente se l'avesse uccisa non se
ne sarebbe reso conto nessuno e quando l'avrebbero fatto sarebbe
stato troppo tardi. L'idea cominciava a farsi interessante. «Ti
sei messa a fare la guerra a Morena Soler impedendole di portarti la
streptomicina per curarlo e tutto questo.. per il tuo odio malato e
il tuo rancore! Guardalo!»
Gridò ancora al suo viso, ora una maschera contrita di paura.
«E' vivo per miracolo. Respirava a stento quando sono
arrivato.. se Lorenzo non mi avesse trovato.. adesso piangeresti la
sua morte. Se t'avessi lasciata viva a guardarla..» Esalò
con voce greve e asciutta. «Guardalo!» Insisté. La
donna ubbidì, grosse lacrime le ricadevano giù dagli
occhi. «Ne è valsa la pena? Questo è il grande
amore che dici di riservargli? Tu sei pazza!» La spinse via,
contro il letto e il corpo del povero uomo che sussultò dal
fondo del sonno, agitandosi. «Adesso fuori di qui! Non ti
permetterò di toccarlo, mai più!»
«Non
oserai!» Lo incalzò lei, memore di un briciolo di
irruenza, seppur con voce rotta. «Non ti permetterò di
privarmi di lui! Mi appartiene Javier.. e ne tu, ne quella puttana
che tenta di metterci contro per fotterti senza pietà,
riuscirete a fermarmi!» Sgattaiolò dall'altra parte del
letto come una bestia, trascinandosi per rifugiarsi e lì, si
rialzò in posizione di difesa, i capelli arruffati, il viso
paonazzo.
«Quella
puttana
gli ha salvato la vita!» Rispose Javier dall'altra parte del
letto, una barricata fra loro, ormai. Nel mezzo, il povero Estafan
ignaro.
«Sta
già distruggendo la tua e glielo lasci fare!» Sbraitò
lei.
Javier
strinse forte i pugni, il corpo scosso dal tremore. «Non lei,
tu.»
Le
unghie gli conficcarono la carne, da tanta pressione esercitata per
non saltare quel muro e farle male seriamente; il sangue denso e
scuro macchiò il pavimento, Guadalupe seguì il suo
flusso con una certo appagamento e malignità nello sguardo.
«E'
qui che ti sbagli.» I suoi occhi si velarono, ma non erano più
lacrime; lo guardava come se non fosse più lei a comandarli,
veloci e impazziti, mentre le parole uscivano come un fiume. «Ho
cercato di salvarvi entrambi, redimervi dal peccato e preservarvi dal
fuoco dell'inferno e per questo mi sono macchiata di atti di indubbia
malvagità,
lo ammetto. Ma rifarei tutto quanto, schiaccerei chiunque si
frapponesse al bene della mia famiglia, perché questa è
la mia natura e non intendo cambiarla.»
Il
tono della sua voce era mutato, come i suoi occhi; un lamento
gutturale, figlio di una natura non umana.
I
peli sul braccio di Javier si drizzarono, al segnale di pericolo che
quel suono emetteva.
«Questo
non avresti dovuto dirlo.»
Sussurrò a voce bassa. «Avrei dovuto farlo quando ero
ancora in tempo.. perdonami padre.» Levò gli occhi dalle
labbra dell'uomo, leggermente schiuse come in cerca di ossigeno e
inspirò pesantemente. «Darò disposizioni affinché
venga trasferito nella residenza estiva di Gijòn, che ti
piaccia oppure no. Respirerà aria salmastra e vita.. lontano
da te e dai tuoi riti pagani e impuri.» Le diede le spalle,
raccogliendo le sue cose; l'uomo disteso sembrava sereno, dal suo
sonno imperturbabile. «Mettiti contro di me e non ci sarà
nessuno
stavolta a salvarti dalla furia cieca che
ti
riserveranno, quando sapranno
chi sei veramente.»
«Lui
morirà.» Asserì Guadalupe dal lontano angolo
della stanza, lo sguardo perso nel vuoto.
«Sta
già morendo. E tu sei troppo sciocca per accorgertene.»
La
guardò un'ultima volta ed anche se motivato da un incredibile
forza di volontà e dalla consapevolezza che non le avrebbe più
permesso di fare del male, ebbe netta e consolidata la sensazione di
averne veramente paura; Guadalupe Garcia era sua madre, la donna che
lo aveva messo al mondo e generato e fin da piccolo era stato educato
affinché l'adorasse. Forse troppo. Quando aveva osato chiedere
perché, suo padre le aveva risposto che ne lui, ne nessun
altro, avrebbe capito quanto ella li amasse. Più
della sua stessa vita.
E
così era stato. Si erano amati senza fine, senza domandarsi
più il motivo di tanto amore.
Fino
a quella sera maledetta, a quel giorno in cui aveva capito chi fosse
sua madre.
Una
donna con seri problemi di autostima e forse qualche latente lacuna
mentale che negli anni era stata compensata con il
tanto amore.
Quel
tanto amore era la chiave di tutto, ne era certo. E avrebbe fatto
qualsiasi cosa per scoprire cosa celasse.
Ma
adesso c'era suo padre da salvare, o per meglio dire, accompagnare
nel suo ultimo viaggio.
Doveva
preservarlo da quel tanto,
troppo amore che
sarebbe stata la sua tomba, prima di ogni tempo.
«Digli
addio. O per te sarà la fine.»
E
girandosi sui suoi passi, andò via in silenzio.
Si
accompagnò alla sua stanza sui piedi pesanti e le membra
stanche.
Quei
corridoi lugubri sussurravano le loro imprecazioni, ne era certo,
sentiva gli occhi della notte sulle sue spalle.
Con
se un fardello grande da portare, ma necessario; stava scindendo la
sua famiglia, presto non sarebbe rimasto che il nulla, dei signori
antichi di Fuentesauco e questo, lo sapeva bene, avrebbe portato
delle conseguenze che non gli avrebbero permesso di chiudere gli
occhi ne quella notte, ne tutte le altre notti che avrebbe avuto da
vivere. Andava fatto. Bisognava recidere i rami secchi e ridare nuova
linfa all'albero.
«Javier!»
Leonor lo accolse in vestaglia, ancora sveglia e il viso pallido. «Vi
ho sentito gridare.. ho temuto il peggio! Cosa è successo?!»
Si spostò con reticenza i capelli dal volto e rabbuiò
lo sguardo. «La
bambina non smetteva di piangere.»
Javier
passò oltre, recandosi nella stanza attigua dove riposava
Camila; si fermò accanto al suo lettino, sospirando spossato.
Non
riuscì più a trattenersi, si inginocchiò e
pianse lacrime da uomo; sommesse e amare.
«Ti
prego, non fare così.. o dovremmo calmare anche lei. Di
nuovo.»
Leonor fu alle sue spalle, inginocchiandosi anche ella; gli
accarezzava le braccia con vigore, cercando di scemare i singhiozzi
sordi che gli squassavano il petto. «Parla.. parlami Javier..»
Javier
si voltò e l'abbracciò, soffocando il pianto fra i suoi
capelli di grano.
«Se
non fossimo stati qui.. cosa sarebbe successo..»
«Di
cosa stai parlando?»
La
voce spaventata di sua moglie, lo riportò alla calma e alla
razionalità; si asciugò gli occhi in fretta,
chiedendosi se fosse il caso trascinarla in quell'abisso e percependo
i contorni delicati del suo volto al buio, si sentì morire e
investito da un unica possibilità; non avrebbe mai e poi mai
dovuto trascinarla in quell'inferno. «Vieni. Hai ragione, non
svegliamo la bambina.»
Si
infilarono a letto, così come si erano trovati, Javier con
ancora i vestiti indosso.
«Discutevamo
sul futuro di Villa Ortensia, perché tu lo sappia, Estefan
andrà a stare nella tenuta di Gijòn.. fino a che il
Buon Dio lo voglia. Mia madre è uscita fuori di senno. Va
compresa certo, quell'uomo è stato il suo unico punto di
riferimento per tutta una vita, ma non è in grado proprio per
questo, di ragionare con lucidità.» Leonor lo ascoltò
annuendo debolmente, Javier cambiò tono di voce, meno freddo e
più intenso. «Sono dispiaciuto di avervi portate qui, e
lo sono ancor di più perché non sei affatto felice come
desideravo..» Leonor mosse una protesta subito azzittita da un
Javier nel pieno della vigoria. «Proprio per questo è
mia intenzione parlare con Lorenzo quanto prima, a fidanzamento
ufficializzato, per..» stavolta prese il respiro e la fissò
serio, senza tentennamenti. «..farvi rientrare a Madrid insieme
a lui il prima possibile.»
Gli
occhi azzurri di Leonor si spalancarono d'orrore. «No! Noi non
ce ne andiamo, Javier!» Si tirò su, fissandolo con
sguardo mesto. «Non è tutto, vero? Mi stai tenendo
all'oscuro di qualcosa, non mentirmi.. Javier non mentirmi!»
Javier non rispose, negando con il capo. «C'entra lei, vero? La
dottoressa di Fuentesauco, la ragazza che ti ha spezzato il cuore.»
Si limitò a guardarla, chiedendo con gli occhi quanto altro
sapesse di lei. «Guadalupe
mi ha messo in guardia. Credo che conservi del livore che non riesco
a spiegarmi.. e che tu, adesso, devi spiegarmi.»
«Non
c'è nulla da spiegare. Ne è ossessionata.»
«Perchè?»
«Paura..
credo. Ciò che non si conosce, incute spavento.»
«Oh
Javier..» Sbatté i pugni stizzita. «Sii
sincero per l'amor del cielo!»
«Sono
sincero.» Le prese le mani, lo sguardo ferito. «Guardami..
sono sincero. Tutto quello che so è ciò che ti ho
sempre raccontato.»
«Ho
fiducia in te.» E sembrò poco sicura nel pronunciarlo,
quasi una domanda che rivolgeva ad ella stessa.
«Non
voglio farti soffrire, Leonor, mai.»
«Non
mandarci via, allora.»
«E'
per il vostro bene.»
«Il
nostro bene è dove sei tu.»
La
trascinò nel suo abbraccio, premendole forte le labbra sui
capelli; si sentì sporco, ma doveva mantenere il silenzio e
omettere i particolari torbidi di tutta quella storia, se sperava di
avere ancora un futuro roseo e felice; quando tutto sarebbe finito,
avrebbero tirato insieme le somme, anche quelle del loro rapporto, se
necessario. Non aveva mai creduto troppo al destino, ma la sua
presenza in quel posto, in quel determinato momento, ad un bivio così
delicato della sua vita, fra passato e futuro, era un monito assai
chiaro di quanto invece il destino credesse in lui; scavare nel suo
passato per proteggere la sua famiglia in futuro. Sì, era
pronto.
«Preparati
allora, perché potremmo non andarcene mai.»
E
stavolta Leonor non rispose, il capo sul suo petto e la leggerezza
dei suoi arti stavano ad indicare che era scivolata in sonno dolce e
arrendevole; si scostò con cura per non disturbarla e dalla
tasca dei pantaloni tirò fuori quello che al primo aspetto
dava l'impressione d'essere un taccuino.
La
calligrafia inconfondibile di sua madre, vergava quelle pagine
ingiallite e consunte.
*
Alberto
Castro Torres -detto il contabile- era lo “spirito del grano”,
quell'anno.
Dopo
un mese e mezzo esatto, dall'inizio della raccolta, suo era stato
l'ultimo covone di grano radunato; alle sedici circa di un pomeriggio
asfissiante di fine luglio, una delegazione fra i nomi più
illustri del settore, Alfredo Roquez, Lucio Soler, Mauricio Vega e
quell'anno in veste di rappresentante del casato ma parte attiva
della raccolta -nonostante la carriera di medico soldato ormai avvita
nella capitale- Javier La Fuente, lo scortarono in veste ufficiosa
all'alloggiamento del sindaco per la registrazione della nomina.
Il
ragazzo era sporco, sudato, i vestiti lerci appiccicati addosso, ma
il sorriso veleggiava tranquillo sul suo volto perfetto; da quel
giorno non sarebbe stato più Alberto “il contabile”,
bensì Alberto “la volpe”, come prima di lui tutti
gli uomini eletti erano stati chiamati con i nomi scelti dell'animale
spirito guida dei campi. Gli piaceva quel nome, gli piaceva il
prestigio che portava e cosa ancora più importante, Lucio
Soler avrebbe capito finalmente di che pasta era fatto e forse,
avrebbe preso in considerazione l'idea che un giorno, la giovane
Stella, potesse diventare sua moglie.
«Javier,
aspetto tuo padre per un boccale di birra, dal giorno in cui quella
fottuta trave lo ha colpito in testa; siamo certi che sia ancora
vivo?»
Mauricio
Vega e la sua voce rauca da troppi sigari, ruppe il silenzio che
circondava il carro sulla quale gli uomini stavano rientrando alle
loro abitazioni, dopo la festa per Alberto; Mauricio era il migliore
amico di suo padre, figlio di una ricca stirpe contadina di
Villaescusa, con particolari appezzamenti anche nei paesi vicini. Suo
nonno era stato in battaglia con Vinicio La Fuente, ed entrambi
vennero insigniti da alte cariche di onorificenza una volta rientrati
ai rispettivi villaggi; Vinicio aveva tirato su Villa Ortensia e ne
aveva fatto una roccaforte militare -per questo motivo una parte
della villa assumeva più le sembianze di una caserma che di un
alloggiamento campagnolo- Pablo Vega invece si era dato alle tecniche
agrarie, sue un paio di invenzioni di questa epoca che avevano
sveltito il lavoro nei campi consentendo un maggior guadagno e quasi
contemporaneamente, si era messo a sfornar figli; era stato fregiato
del titolo di el toro, ed ovviamente questo per lui era un
gran vanto.
«Sta
bene, ti porta i suoi saluti e vi aspetta tutti per la festa
d'estate.»
Javier
sorrise da commediante, mentre il carro imboccava la strada fuori il
paese; Alfredo gli gettò un'occhiata rapida annuendo con
sufficienza.
Si
erano osservati con sospetto, da quando avevano messo piede sul
barroccio, troppo da non cogliere le frecciatine di Javier alla sua
direzione.
Negli
anni aveva sempre partecipato alla vita sociale dei La Fuente e loro
erano stati nella sua, dai momenti felici a quelli più brutti,
quando aveva sepolto sua madre o l'amata Francisca, o quando Estefan
aveva sposato Guadalupe o il vecchio Vinicio aveva tirato le cuoia..
si erano sempre comportati da persone civili, mettendo in secondo
piano le questioni commerciali, ma adesso, mentre guardava a quel
ragazzo, bello e con il viso disegnato della bellezza della sua
giovane età, provava un'irrispettosa voglia di
picchiarlo, togliergli quel sorrisetto compiaciuto dalla faccia.
Sentiva
montargli dentro la paura e sapeva che doveva stargli lontano il più
possibile, perché tutte quelle sensazioni spiacevoli portavano
ad unica e sola persona; Morena. Non era sciocco a tal punto di
credere che sua moglie fosse impassibile dinnanzi al suo primo e
giovane amore ritornato, ma non voleva essere sciocco da
poterla perdere con un atteggiamento poco consono alla sua persona.
Fino
ad allora era stata la moglie di tutte le sue aspettative; sincera,
arrendevole pur preservando il suo carattere coriaceo.
Si
era concessa animo e corpo e non l'aveva mai deluso.
Eppure..
eppure il suo animo bruciava, bruciava di gelosia.
Inspirò,
pregando che Lucio tirasse forte quelle briglie.
«Buon
Dio.. un'altra stazione!» Muricio rise sguaiato, quando
all'incrocio del pensionato di donna Flora, alcune donne del paese
fra cui Morena e Stella Soler, li attendevano per un altro giro di
festeggiamenti e buon vino rosso; Alfredo si accese di rinnovato
fulgore, scavalcando dal bordo del carro con un agile salto. «Goditi
il tuo momento ragazzo!» Vega scosse Alberto vigorosamente per
le spalle, che un po' alticcio si tuffò fra la gente causando
risa. «E noi che si fa?» Chiese agli altri rimasti
sul carro.
Javier
fissò Morena per la sua intera figura, il vestito giallo
paglierino svolazzante mentre si congratulava con il giovane campione
e stringeva in braccio, con amore e premura, il suo bambino.
Lucio
fissò Javier dapprima e poi guardò Alfredo che guardava
anche egli Javier. «Tutta la mia famiglia è qui.»
Disse ad alta voce, richiamando l'attenzione del giovane che si voltò
a guardarlo stralunato. «Don Vegaa lei il suo
carro e i miei ossequi.» Si toccò il cappello in cenno
di saluto e prima di scavalcare, a bassa voce, si rivolse a Javier.
«Tornatene a casa, ragazzo, qui non c'è niente
per te.»
Javier
annuì, tornando con lo sguardo a quella famiglia così
estranea, così distante.
Scese
dalla parte opposta con un balzo e per una frazione di secondo, i
suoi occhi incrociarono quelli di Morena; erano occhi angosciati e
impauriti. Sorrise incerto, la ragazza levò il capo verso
un'altra direzione, ignorando del tutto la sua presenza.
Poggiò
i gomiti al carro e strinse forte i pugni, inspirando velocemente.
Dopo
aver compreso le parole di Lucio, diede un agile colpo al fianco del
carretto, indicando a don Mauricio il via libera.
Il
barroccio slittò sulla strada polverosa, i bicchieri di vino
collisero fra di loro.
Per
la prima volta, si sentì un estraneo a casa sua.
*
Un'allegra
compagnia risalì la collina per Legno di Quercia quando il
sole era ormai calato.
Alfredo
Roquez e Alberto “la volpe” cantavano stonati, i cori
della buona raccolta.
Quello
era un giorno importante per la famiglia Roquez, non solo per il
giovane Alberto; si teneva la conta del raccolto, a notte inoltrata o
all'alba del nuovo giorno, si attendeva il contadino incaricato di
riportare il peso esatto di grano raccolto, con la speranza fosse
abbondante almeno quanto l'anno passato. Era una notte senza fine
quella, come i fiumi di vino che scorrevano nell'inganno dell'attesa.
«Miei
gentili amici e parenti, siete invitati a restare quali miei ospiti!»
Proferì alticcio il padrone di casa.
«Bisognerà
avvertire la cucina dei posti in più.» Una voce alle sue
spalle, una presenza stagliata su di loro, all'ombra della sera
parlò.
«..zia?»
Morena sfilò dal corteo, superando Alfredo e portandosi verso
la luce fioca delle lampade a gas.
«Mi
sono presa la briga di farlo al posto tuo.» Confermò con
quel piglio altezzoso che la contraddistingueva. «Dovrà
pur mangiare questo piccolino! Ah proposito, avrei da dirti due
parole a riguardo..»
Morena
la incenerì con lo sguardo, quella tacque, abbracciando il
bambino che si era buttato fra le sue braccia. «Zia
Mila!»
La
donna cambiò espressione, addolcendo lo sguardo e perdendosi
nelle effusioni del bambino; il resto della compagnia la seguì
entrare in casa.
«Sono
arrivati i guai..» Alfredo canzonò Morena, rimasti soli
e defilati.
«Non
lo dire nemmeno.» Alzò gli occhi al cielo, portandosi a
passo di soldato e seguita da lui, verso le cucine; quando aprirono
la porta, Agueda li fissò mortificata, alzando le spalle.
«Mia
signora, non mi ha lasciato il tempo di dire nulla.»
«E'
proprio questo il problema, vedi?» Sorrise, guardando la donna
di servizio con aria bonaria e poi Alfredo, sospirando. «Ha
lo strano potere di arrivare nei momenti meno opportuni!» I due
si lasciarono andare in una risata, Morena li seguì, la testa
leggera.
Infondo
le era mancata Milagros.
Da
quando Riccardo era al mondo, sempre più facile era vederla
migrare dal suo quartier generale di lusso fino a Fuentesauco; era
così affezionata al bambino che spesso Morena li guardava con
tenerezza, chiedendosi se anche sua madre sarebbe stata felice alla
stessa maniera se fosse stata con loro. Quel pensiero la rendeva
triste, eppure stranamente le capitava di identificare sua zia come
una madre e una nonna, sebbene il posto di Marta Blanco nel suo
cuore, non lo avrebbe occupato nessun'altra.
«Ti
ho sentita sai!» La donna arrivò alle loro spalle con un
vassoio di bicchieri sporchi; guardò ad Alfredo indicando la
stanza alle sue spalle da dove arrivava chiasso e l'uomo congedandosi
con un sospiro sparì.
«Bene,
volevo mi sentissi!» L'aiutò a posare il vassoio sul
grande tavolaccio della cucina e poi l'abbracciò. «Come
stai?»
Si
guardarono intensamente, sapevano entrambe che la domanda inespressa
era.. “cosa ci fai qui?”
«A
meraviglia.» Rispose, indicando con un leggero movimento del
capo la stazza di Agueda, di spalle e ricurva su un calderone.
«Oh..
di lei ci fidiamo. E di là c'è un orda di uomini
ubriachi. Scegli tu.»
Milagros
alzò gli occhi al cielo. «Come vuoi.. ho udito
alcune voci, prima di giungere qui. Pare che Javier La Fuente sia in
paese»
«Già.»
Berciò lei scocciata nel dover ammettere che tutte le sue
visite in un modo o nell'altro c'entravano con lui; la guardò
con sospetto. «Perché questo dovrebbe
interessarti?» La condusse alla finestra abbastanza lontano
persino da Agueda e abbassò la voce di un tono. «E
non mi dire che sei preoccupata perché mi aspetto una scusa
migliore da te.»
«Così
dicendo mi dai tu da pensar male..ma comunque no, non sono qui perché
mi preoccupo di te; il tempo e quell'amore di figlio che hai messo al
mondo ti ha infilato in quella testa un po' di sale, ho avuto modo di
vedere. Te lo dicevo, Alfredo è un uomo d'onore.»
«Alfredo
crede che Riccardo sia figlio suo.» Sussurrò ironica a
fil di voce; si voltò, Agueda stava maneggiando con i
calderoni ignara di tutto.
«Ma
non è stupido.» Incalzò l'altra. «Si
vede da lontano un miglio che quel ragazzino non gli appartiene.
E' alto e forte per essere un bambino nato prematuro ed ha i
modi ruffiani tipici dei La Fuente.»
Morena
la guardò scherzosa ma infiammata. «Ti proibisco
di parlare in questi toni di mio figlio!» Poi tornò
seria, il sorriso sparito. «Tu cosa ne sai dei modi dei
La Fuente?»
«Solo
i modi della parte migliore. Va meglio, così?»
«Migliore
o no, so solo che questo è il peso che dovrò portarmi
dietro fino alla fine dei giorni.»
«Ci
sono donne che pagherebberooro per portare certi pesi.»
Negli occhi di Milagros sparì tutta la giocosità e un
riso amaro gli dipinse le labbra. «Ma per alcune, la
vita può rivelarsi sorprendentemente aspra. Ma tu guardati,
hai tutto; hai tuo figlio.»
«Non
avrei mai creduto di sentirti pronunciare queste parole. La vecchiaia
ti sta bene, zia.» Soffocò una risatina e la guardò.
«Allora, cosa ti porta a Fuentesauco, oltre il tuo caro
nipote?»
Milagros
rispose con una punta di malizia. «I La Fuente danno
belle feste.»
Rubò
dal tavolo una fragola fresca di pulito e sparì prima che ella
potesse replicare.
Agueda
fu insuperabile, come sempre.
Una
cena frugale si presentò come un pasto luculliano alla quale
anche gli animi più accesi della festa, risposero con il
silenzio e la sonnolenza dell'ultima portata; a fine serata Alberto e
Stella erano in giardino a contemplare le stelle, Alfredo in poltrona
con gli occhi quasi chiusi e Milagros con il piccolo Riccardo
addormentati accanto a lui, sul sofà.
Morena
si aggirava per la casa aiutando l'inserviente a sistemare il piccolo
caos intorno, cercando di restare sveglia il più possibile ad
attendere le buone nuove dai campi; dalle finestre tutto taceva e la
notte, si era fatta densa e scura su di loro.
«Quei
due passano troppo tempo insieme.» Lucio arrivò dalle
stalle dove aveva assicurato le bestie, prima di chiudere i fienili;
guardava attraverso le imposte il giovane Alberto gesticolare verso
il cielo ad una stella. La sua, Stella. La ragazza ricambiava
gli sguardi con il sorriso di una donna.
Morena
gli lasciò una carezza sul braccio. «Cosa le può
succedere di tanto brutto, papà?» Chiese dolcemente.
«Che sposi il giovane di cui è innamorata e che
lui la renda felice?»
Lucio
si voltò a guardarla e sorridendo le baciò la mano
grato. «La volpe..» Sentenziò. «E
la stella.»
La
ragazza sospirò. «Poetico e romantico. Proprio
come noi Soler.»
Lucio
la guardò perplesso, Morena scosse il capo persa nei suoi
pensieri; pensò a Milagros, alla gioventù di Alberto e
Stella e al loro amore appena sbocciato, a suo padre che aveva
rischiato di perdere molti anni prima e che invece era lì, a
dargli sostegno anche nei momenti più difficili e si sentì
vibrare di vita e allo stesso tempo spaventata.
Posò
il capo sulla spalla del padre e sospirando, in preda alle emozioni
che stava provando, lasciò che il suo segreto trovasse
una casa.
«Aspetto
un figlio da Alfredo, papà.»
L'uomo
mancò il respiro ma non disse niente, la strinse forte a se e
insieme si persero nel silenzio della notte.