Absence-that common cure of love

di Sissi Bennett
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The perfect marriage ***
Capitolo 2: *** Victoria Lyndon Price ***
Capitolo 3: *** Dysfunctional is the new black ***
Capitolo 4: *** Slightly out of focus ***



Capitolo 1
*** The perfect marriage ***


Absence-that common cure of love

 

 

 

 

Capitolo primo: The perfect marriage

 

«Higher than the beasts, lower than the angels, stuck in our idiot Eden[1]».

Ford Madox Ford, Parade’s End

«Tua moglie è una stronza».

Proprio il commento che qualunque marito avrebbe preferito non udire o non affrontare alle quattro e un quarto di un venerdì lavorativo particolarmente intenso, al termine di una settimana lavorativa ancora più stancante.

«O scusami, forse il termine “stronza” è troppo scurrile per le tue beneducate orecchie. Riformulo: tua moglie è una strega».

Christopher Price cercò d’ignorare l’ennesima considerazione poco gentile del suo migliore amico e continuò a studiare le carte che la sua segretaria gli aveva appena consegnato. L’affare di cui si stava occupando era piuttosto ostico, perfino per uno come lui che padroneggiava numeri e statistiche con sorprendente facilità.

Christopher era un fuori classe nel suo lavoro e nessuno poteva negarlo.

Teneva un occhio sia sul mercato azionario, sia su quello reale, gli accordi da lui stipulati erano sempre più che vantaggiosi e aveva una sorprendente abilità a fiutare le fregature. La sua visione sul commercio aveva più volte centrato l’obiettivo con buona pace del consiglio di amministrazione che aveva ormai imparato ad accettare le innovazioni apportate da Christopher.

Molti lo consideravano un uomo di altri tempi: portamento fiero, eleganza composta, modo di parlare alto e cortese e un autocontrollo che i più ritenevano lodevole.

«Prima o poi qualcuno lo pungerà con un ago per vedere se è vivo o morto. Perché è questo che suggerisce la sua personalità: un morto che cammina».

Queste erano le amorevoli parole con cui sua moglie adorava descriverlo. A seguito delle sue battute sferzanti, normalmente l’interlocutore scoppiava a ridere senza cogliere il vero disprezzo che si celava dietro quei commenti sarcastici.

Christopher ormai aveva fatto l’abitudine alla repulsione che lei spesso mostrava nei suoi confronti. Nemmeno ci prestava più attenzione.

Perciò non gli serviva qualcuno che gli ricordasse quanto sua moglie fosse una persona dal carattere quantomeno difficile.

Nonostante la maggior parte dei suoi conoscenti apprezzasse la pungente ironia di sua moglie e la additasse come esempio d’intelligenza brillante, Tachery Sullivan l’aveva sempre mal sopportata, fin dai tempi del college.

E quel giorno sembrava proprio che non potesse tenere a freno la lingua.

«Che cosa ha fatto questa volta?» si arrese alla fine Cristopher, dato che mostrarsi disinteressato non aveva prodotto alcun risultato, appoggiando gli occhiali sulla scrivania.

«Sono passato da Phoebe Carlyle[2] stamattina» iniziò l’uomo.

«Non è un negozio di intimo?» si stranì Cristopher.

«Stavo prendendo un regalo a Sara».

«Non uscivi con Jane?»

«Non più, ma ti vedo interessato. Se vuoi possiamo parlare di lei, invece che di tua moglie» lo punzecchiò.

«Va’ avanti».

«In realtà non ha fatto nulla di che» ammise Tachery stiracchiandosi sulla sedia «Era lì anche lei, stava comprando non so cosa. Dovevi vederla: si credeva la padrona del negozio, mentre quelle povere commesse non sapevano più come accontentarla. Dovresti tagliarle i fondi».

«Difficile dato che questa azienda appartiene alla sua famiglia. I soldi sono suoi».

«Un’azienda che tu stai amministrando alla grande da quasi due anni. I loro guadagni sono raddoppiati grazie a te. Dovresti prenderti una pausa: questo posto e quella donna ti stanno succhiando l’anima. Sembri uno scheletro».

Cristopher si accigliò guardandosi sulla superficie a specchio della scrivania. Aveva sempre avuto le guance molto scavate, forse per via di quegli zigomi alti e marcati che davano al suo volto una forma allungata e un po’ affilata.

Addirittura uno scheletro, però!

«Vieni al club con me stasera. Si sono iscritte due russe, figlie di non ho capito che magnate…due paia di gambe impressionanti».

«Accetto la cena, declino le russe».

«Questa tua costanza è assurda. Perché ti ostini a rimanere fedele a quell’arpia di tua moglie?»

«Parola chiave: mia moglie».

«Il vostro matrimonio è stato praticamente combinato, è una farsa. Tu non sei felice con lei. Che c’è di male a concedersi una piccola distrazione?»

«Chiamami antiquato, ma considero il matrimonio ancora una cosa seria, un atto di responsabilità. Non ho intenzione di rimangiarmi la parola e i miei principi per una distrazione».

«Discorso sensato se fossi innamorato di lei».

«Non sono neanche innamorato di nessun’altra. Non romperò la mia promessa se non ne varrà la pena».

«La tua signora ha ragione: devi scioglierti un po’. Sei rigido come uno stoccafisso».

Apparentemente insultare Christopher Price era diventato il nuovo sport nazionale.

 

Victoria si spazzolò una folta ciocca di capelli scuri e mossi con fare annoiato, davanti allo specchio della sua toletta.

Sbuffò annuendo senza prestare davvero ascolto a ciò che stava dicendo l’altra persona nella stanza. Qualcosa riguardo a un nuovo cavallo.

Geoffrey Connelly sapeva essere davvero noioso, soprattutto quando cercava di rendersi interessante. Ma d’altronde era talmente facile giocare con lui che Victoria lo ripescava sempre a fasi alterne, come una garanzia.

Jeff era innamorato di lei da tempi immemori; perché non approfittarne per divertirsi un po’? Il cuore spezzato non sarebbe stato di certo il suo, quindi non le importava.

Solo che ogni volta si dimenticava di quanto Jeff fosse logorroico e pomposo. Giusto bello poteva definirsi, nessun altro pregio.

Quello passava il convento, pensò spostando la spazzola sull’altro lato della testa. Doveva accontentarsi. Per una signora della sua posizione gli svaghi erano limitati e la vita, per quanto potesse sembrare assurdo considerando il suo rango e le sue possibilità economiche, non le offriva grandi sorprese o emozioni.

Ancora la straniva chiamarsi “signora”. Aveva solo ventotto anni e si sentiva ben lontana dal ruolo che era costretta a ricoprire, ma era sposata e quell’appellativo era d’obbligo.

Sapeva di essere sprecata per quella casa, per quella situazione e per quel marito. Anche per quell’amante.

Sfiorò con un dito una guancia leggermente definita dal trucco. Non era di una bellezza convenzionale, eppure Victoria si piaceva da impazzire.

All’università qualche compagna invidiosa le aveva fatto notare che tutto sul suo volto era un po’ troppo grosso. Era vero: le sue labbra carnose catalizzavano lo sguardo e si aprivano rivelando un sorriso eccessivo. I suoi occhi erano grandi e le sopracciglia folte, dal taglio deciso.

Non era mai stato motivo di complessi per lei. Era distante dall’ideale di perfezione, ma ogni suo difettuccio la faceva sentire unica e fiera. Inoltre riteneva di possedere un’arguzia fuori dal comune e uno spirito semplicemente irresistibile. Riusciva a stregare chiunque con il suo portamento da ragazza cresciuta nell’alta società e con la sua capacità di stare al gioco e rispondere a tono.

Ma alle volte era anche scontrosa, vendicativa e scostante. Aveva un limite di sopportazione davvero molto basso e non si sforzava più di tanto di mascherarlo.

Quel giorno la sua pazienza si era esaurita prima del previsto.

Mentre Jeff blaterava ancora del suo cavallo e progettava già gite con lei nella campagna inglese, Victoria si alzò e con uno scatto avvicinò i lembi della sua vestaglia per nascondere l’intimo che aveva comprato quel giorno per l’occasione.

«Jeff tesoro, temo che mi sia appena venuto un tremendo attacco di mal di testa» gli comunicò, falsamente afflitta.

L’uomo smise di gesticolare e abbassò le mani. Rimase come un allocco presso il letto, in canottiera e mutandoni. Se non avesse mandato in fumo tutta la sua scenetta, Victoria avrebbe scattato una foto per ricordo.

«Un’altra delle tue emicranie? Faresti meglio a vedere uno specialista. Cominciano a diventare frequenti» si preoccupò sinceramente e ingenuamente.

Gli aveva rifilato quella scusa molte volte, forse troppe. Tante che si era sorpresa di non averlo ancora fatto scappare.

Dicevano che l’amore fosse cieco. Ottuso di sicuro, constatò Victoria, e deliziosamente credulone.

Avrebbe potuto raccontargli qualunque cosa, combinargliene di ogni e Jeff sarebbe lo stesso tornato come un bravo cucciolo.

«Potrei chiedere a mio cognato di consigliarmi qualcuno» proseguì lui.

«Non disturbare tuo cognato per una sciocchezza, è sempre impegnato tra convegni e turni all’ospedale. Mi bastano le mie pastiglie e in un’oretta è tutto risolto» gettò un’occhiata in giro in cerca di qualche scatola di medicine da spacciare per antidolorifici. Non ne trovò e si voltò di nuovo verso Jeff, mostrandogli un sorriso rassicurante.

L’uomo sospirò affranto e trafficò con i pantaloni, infilando prima una gamba e poi l’altra. Sospettava che Victoria gli stesse mentendo, ma era talmente abituato ai suoi cambi di umore che ormai non ci faceva più caso.

Quella donna era una forza della natura e lui non aveva nessuna intenzione di ingabbiarla. L’accettava per quel che era e prima o poi sarebbe stata sua.

«Posso dire a Eloise di prepararti qualcosa» le propose.

Victoria alzò un sopracciglio. Adesso si metteva anche a dare ordini alla cameriera?

«Pastiglie e riposo» tagliò corto, dato che cominciava davvero a stufarsi.

«Ti tengo compagnia finché non ti senti meglio».

La donna imprecò a bassa voce e tentò di non perdere la calma. Sentiva che ci avrebbe messo una vita a scrollarselo di dosso.

A soccorrerla ci pensò il più inaspettato degli aiuti e Victoria non fu mai così felice di udire quella voce profonda provenire dall’ingresso di casa.

«Vicky, quello è…?»

«Christopher» confermò con un ghigno trionfante che Jeff non poté vedere dato che gli dava le spalle.

«Tuo marito?» quasi strozzò nel dirlo «Mio Dio, mi devo nascondere».

Victoria non si preoccupò di avvisarlo che probabilmente Christopher non si sarebbe scomposto trovandolo lì e che soprattutto a lei non importava di essere colta in flagrante. La situazione era davvero troppo comica per essere interrotta sul più bello.

Gli consigliò di infilarsi in bagno o nella cabina armadio, ma Jeff obiettò che l’avrebbe scovato in un secondo. Era troppo scontato.

Per un istante Victoria valutò la possibilità di non muovere un dito e lasciare che Christopher s’imbattesse in Geoffrey. Non le sarebbe dispiaciuto, comunque.

Poi un’idea le balenò in mente. Aveva tra le mani una via di fuga molto divertente, perché non approfittarne e farsi due risate a scapito dei due uomini, uno in particolare?

«Potresti sempre uscire sul balcone» disse con estrema calma.

«La tua camera non ha un balcone» replicò Jeff.

«Intendevo quello dell’appartamento di sotto. È sfitto» specificò lei, sporgendosi dalla finestra e puntando il dito verso il basso.

Jeff la raggiunse e guardò giù «Sei impazzita?»

«Non saranno nemmeno tre metri».

«Tre metri» ripeté lui ironico.

«Non praticavi il salto con l’asta al college?»

«È un po’ diverso il concetto».

«Basta che ti attacchi qui e ti cali lentamente. Ti aiuterò io» lo rassicurò.

«Come pensi di venirmi a recuperare?»

«Il portiere ha un debole per me. Mi darà le chiavi».

«Vicky, non credo che sia una buo-» provò a ribattere lui.

«Allora resta qui e discutine con Cristopher» concluse Victoria, sbattendo le ciglia con fare maligno.

Jeff deglutì «Mi terrai tu?» chiese in conferma.

«Certo».

Con qualche difficoltà Jeff scavalcò la finestra e con oculata prudenza poggiò i piedi sul cornicione. Il suo corpo era girato verso la causa di tutti quei guai che lo fissava con un’espressione poco incoraggiante. Se la conosceva bene, se la stava godendo come non mai.

Artigliò il davanzale e si lasciò scivolare lungo il muro del palazzo. Victoria lo teneva per i polsi.

«Non mi mollare, non mi mollare» la pregò quasi piagnucolando.

«Non ti mollo» ribadì lei, ma non appena suo marito bussò alla sua porta chiamandola, lasciò la presa e piroettò su se stessa.

Sentì un tonfo seguito da una sonora imprecazione, segno che Jeff era atterrato sano e salvo sul balcone del piano inferiore.

«Chrissie!» esclamò entusiasta in direzione suo marito che nel frattempo era entrato «Non ti aspettavo a casa così presto».

Christopher parve stordito da quella accoglienza tanto calorosa. Di solito non lo salutava neppure.

«Mi fermo solo per cambiarmi. Tachery mi ha invitato a cena al club. Non ti dispiace, vero?» le comunicò.

«Assolutamente no» rispose Victoria accondiscendente.

Christopher era sul punto di aggiungere qualcosa, ma il sguardo corse per la stanza e si fermò proprio sulla giacca di Jeff, rimasta appoggiata allo schienale della poltrona.

Victoria se ne accorse e non si diede neanche la pena di inventarsi una giustificazione decente. Anzi, con un movimento veloce slegò il nodo alla cinta della vestaglia e mise in bella mostra l’intimo tutt’altro che sobrio, in modo che la circostanza fosse inequivocabile.

«C’era qualcuno qui?» domandò Christopher.

«Jeff Connelly. È passato per un saluto» disse. I suoi occhi puntati in quelli azzurri del marito lo provocavano.

E come tante altre volte, l’uomo a malapena notò il corpo praticamente nudo della donna e liquidò la faccenda con indifferenza e nonchalance.

«Tornerò tardi. Dormirò in camera mia così non ti disturberò».

Come tutte le notti. Aggiunse mentalmente Victoria.

«Ti auguro una buona serata» le disse gentilmente con un cenno del capo.

«Anche a te! E salutami Sully!» sventolò la mano finché la porta non venne chiusa; al che lasciò cadere mollemente il braccio e si tolse del tutto la vestaglia.

Un pomeriggio rovinato da due uomini senza un briciolo di ardore. Stava iniziando sul serio a dolerle la testa.

Si diresse nel suo bagno privato e si spogliò degli ultimi indumenti. Aprì l’acqua della vasca e non appena sfiorò il bordo, Victoria s’immerse.

Chiuse gli occhi nel disperato tentativo di rilassarsi. Il calore dell’acqua, il vapore e la stanchezza la cullarono dolcemente finché non si addormentò.

Fu solo parecchio più tardi, quando Eloise la svegliò per la cena, che Victoria si ricordò di Geoffrey Connelly ancora chiuso fuori, sul balcone.

E scoppiò a ridere.

 

Il mio spazio:

Sono praticamente nuova in questa sezione. Anni fa pubblicai qualche storia tra le originali – una ancora sopravvive incompleta sul mio profilo – ma alla fine le cancellai per mancanza d’ispirazione.

Ho aspettato tanto prima di cominciare di nuovo a postare tra le originali romantiche, ma credo finalmente di aver trovato la chiave giusta per scrivere.

Non so se l’argomento possa interessare, non so se il mio stile possa piacere, ma se siete arrivate fin qui vi ringrazio tantissimo.

Questa storia s’ispira al libro Parade’s End di Ford Maddox Ford, o meglio all’omonima serie televisiva prodotta dalla BBC nel 2012. Qualunque scena, battuta o passaggio tratto dallo show verrà segnalato nelle note.

Le somiglianze più evidenti le troverete nei primi tre capitoli poi la storia prenderà una piega decisamente diversa.

Tra i primi prestiti da evidenziare c’è il nome del protagonista Christopher e il suo soprannome Chrissie. Mi piacevano molto e non ho voluto cambiarli.

Il titolo Abscence- that common cure of love è un aforisma di Lord Byron. Questa informazione in realtà l’ho trovata su internet e non ho avuto modo di verificarla con più precisione, quindi prendetela con le pinze.

Mi auguro davvero che possiate apprezzare (o criticare) questa storia.

Per ora vi ringrazio,

 

Sissi Bennett

 

 

 



[1] «Più in alto delle bestie, più in basso degli angeli, bloccati nel nostro Eden idiota».

[2] Pheobe Carlyle è un vero negozio di biancheria intima a Londra.

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Capitolo 2
*** Victoria Lyndon Price ***


Absence-that common cure of love

 

 

 

 

 

Secondo capitolo: Victoria Lyndon Price

 

«I swear 'tis better to be much abused than but to know 't a little[1]».

William Shakespeare, Othello

 

Una tazzina rotta in casa Price era un nonnulla.

A volte il rumore della ceramica in frantumi suonava come un buon auspicio: la settimana non cominciava bene se qualche pezzo del servizio buono non volava per terra. Di solito era un rituale mattutino e le tazze erano le vittime predilette.

All’occorrenza ci si accontentava anche di un bicchiere o di un piattino per antipasto. Le posate non davano la stessa soddisfazione. In un paio di occasioni avevano assaggiato il piacere di colpire la parete della sala da pranzo, ma loro – bastarde – rimanevano intatte e ciò non era di alcun sollievo per la povera signora Price.

Sì, perché le tazzine in casa Price non cadevano semplicemente sul pavimento, venivano lanciate come palle da cricket contro ai muri. O meglio contro la figura dell’altrettanto povero signor Price che ormai era diventato un vero portento a schivarle, decretandone così l’inevitabile scontro con l’intonaco.

Victoria e Christopher non erano una coppia atipica, erano proprio mal assortiti. Costretti dalla sorte, puniti dalle circostanze, beffati dal loro stesso egoistico interesse.

Non si amavano e non si erano mai amati.

Christopher provava indifferenza nei confronti di sua moglie, malcelata da una fredda cortesia; Victoria avrebbe voluto attaccare la testa di suo marito al muro come un trofeo di caccia.

«Se non la smetti, dovrai spiegare a tua madre che fine ha fatto il servizio che ci ha regalato per le nozze» l’avvisò Christopher, impassibile come sempre.

«Che cosa devo fare per cambiare la tua espressione? Correggere il caffè con il cianuro?» domandò tagliente lei, mentre si ricomponeva sulla sedia.

«Quello mi manderebbe di certo all’ospedale, se non direttamente al cimitero. Cosa che, ne sono sicuro, ti procurerebbe un immenso sollievo» replicò suo marito piegando a metà il giornale che stava leggendo e poggiandolo accanto a sé sul tavolo.

Victoria gettò un’occhiata velenosa a quelle pagine grigiastre coperte d’inchiostro.

Discussioni come quella erano la regola di mattina a casa Price e la colpa era da imputare a quel dannato ammasso di carta da riciclo.

Una sola cosa Victoria odiava in suo marito più della sua calma disinteressata: il fatto che avesse un’opinione su tutto e che non riuscisse mai a tenerla per sé.

Le notizie riportate sul quotidiano erano, di norma, un ottimo spunto per elargire i suoi pareri assolutamente non richiesti.

Come se non bastasse, si trattava di riflessioni molto intelligenti e sensate, tanto che Victoria spesso si trovava costretta a condividerle, ma questo non lo avrebbe ammesso ad alta voce nemmeno sotto tortura.

Allora si metteva a controbattere ogni singola parola, giusto per dargli un fastidio, per provare a scalfire quell’autocontrollo così irritante e innaturale.

Christopher non si lasciava ingannare e da perfetto gentleman le spiegava ogni volta, punto per punto, le sue ragioni in maniera così accurata e logica – e snervante – che Victoria finiva sempre per brandire qualche ceramica nell’intento di zittirlo.

A conti fatti, la psicopatica isterica era lei, con sua somma frustrazione.

«Se ti uccidessi, nessuna giuria mi condannerebbe[2]» osservò tagliente.

«Non ne dubito. Cadi sempre in piedi con grazia, tu».

Christopher non si scomponeva mai, nemmeno quando la sua dolce metà si mostrava al meglio della sua cattiveria. Non le aveva mai risposto male, mai insultata, mai mortificata. In tutte le sue repliche c’era qualcosa di delicato e puro, sinceramente cristallino, per niente inquinato.

Per Victoria quello rappresentava il principale problema di comunicazione: lui era troppo innocente, a differenza sua.

Eppure a volte aveva il sospetto che Christopher, in una sorta di spinta inconscia, sentisse il desiderio di insinuare qualcosa, come uno spiacevole ricordo o un rancore che ogni tanto riaffiorava.

Quando percepiva certe tracce, Victoria rimaneva ad aspettare speranzosa che l’uomo scoppiasse. Attesa vana, fino a quel momento.

«Ti vedi con Sully oggi?» gli chiese, cambiando del tutto discorso.

«No, è impegnato con lo studio» le disse «Ho un pranzo di lavoro con tuo padre. Dobbiamo discutere la gestione di una nuova unità produttiva».

Si rese conto di aver toccato un tasto dolente non appena finì di parlare. Victoria gli lanciò un’occhiata di fuoco e poi distolse lo sguardo, infastidita.

«Perché non ti unisci a noi?» la invitò, augurandosi che la proposta facesse piacere.

«No ti ringrazio» rifiutò lapidaria «Non vorrei mai intromettermi nelle vostre riunioni segrete. Scommetto che lo stupirai con una delle tue intuizioni rivoluzionarie», la sua voce graffiava ogni parola, palesando volontariamente il disprezzo dietro quella sorta di complimento.

«E poi ho già un impegno con Adele a mezzogiorno. Vuole presentarmi un suo amico. Non posso rimandare: riparte domani per la Francia».

Alle orecchie di un qualunque uomo quella affermazione sarebbe parsa priva di malizia, ma con Victoria niente era come in effetti sembrava e Christopher era perfettamente consapevole che un semplice incontro poteva celare molteplici significati se sua moglie era implicata.

Dopo l’uscita incauta riguardo suo padre e l’azienda, quella frase acquisiva proprio il senso che qualsiasi marito non avrebbe mai ignorato.

Fortunatamente, Christopher si riteneva ben lontano dall’ideale tipico di sposo e, sebbene fosse ben deciso ad assolvere comunque i suoi doveri e a mantenere le sue promesse coniugali, non poteva pretendere che Victoria facesse altrettanto.

Il che a onor del vero, neppure gli interessava molto.

«È  il caso che vada. Credo che stiano facendo dei lavori alla Central Line e il giro sarà più lungo» annunciò. Prese la cartella appoggiata alla gamba del tavolo e dopo un cordiale saluto, si diresse verso la porta.

«Di’ ciao a papà da parte mia» gli urlò Victoria «E nel caso decidessi di farla finita, ricordati che nella Jubilee[3] hanno messo le barriere anti suicidio, quindi attrezzati diversamente» gli consigliò, ansiosa di dimostrargli tutto il suo affetto.

Non appena udì il rumore dell’uscio chiudersi, il finto sorriso le sparì dal viso.

Se fosse andata avanti così lo avrebbe ammazzato o lui avrebbe ammazzato lei con i suoi atteggiamenti al limite della noia mortale. Victoria non ci teneva né a finire nella tomba, né in galera.

Anche se doveva ammettere di essere già in un certo senso in prigione. Dorata certo, ma pur sempre una gabbia rimaneva.

Benché fosse più che determinata a liberarsi da quel matrimonio, sapeva che per lei non esistevano vie di fuga; almeno non nell’immediato futuro.

Ricordava ancora quando sua madre aveva sganciato la bomba.

 

Le dieci e mezza di un giovedì sera piovoso e freddo.

Victoria aveva avvisato che non sarebbe tornata per cena e Irene Lyndon aveva pazientemente atteso il rientro della figlia maggiore. Non era mai stata una ragazza tranquilla, ma nell’ultimo periodo aveva preso brutte abitudini, per non parlare delle compagnie che si era messa a frequentare: bande di perditempo senza un briciolo di volontà di combinare qualcosa delle loro vite.

Victoria era sempre stata l’opposto: ambiziosa e determinata a dimostrare il suo valore. Non aveva niente a che spartire con quelli e Irene ancora non capiva come potesse tollerare la loro indolente presenza.

Incredibilmente la serratura della porta di casa scattò prima del previsto.

Irene aveva già messo in conto di dover aspettare buona parte della notte e invece sua figlia era comparsa a un orario decente.

«Mamma?» si stupì la ragazza «Che cosa ci fai qui, all’ingresso e al buio?»

«Ti aspettavo».

«Davvero? Ti mancavano i tempi delle superiori quando rimanevi in piedi per accertarti che rincasassi tutta intera?»

«Ho l’impressione che mancheranno presto anche a te» mormorò la madre visibilmente agitata «Ho visto Sybil Price a pranzo. Da Weston» raccontò con voce più squillante.

Victoria si scrollò la giacca di dosso e guardò la donna in attesa che continuasse. Non era molto interessata, ma non c’era modo d’interrompere sua madre quando cominciava.

«Mi ha parlato di Christopher. Ti ricordi di Christopher?»

Il tono acuto nascondeva ben altre insinuazioni: Irene era convinta che sua figlia e il rampollo dei Price avessero avuto una storia anni prima, al college.

Victoria non aveva avuto il cuore di dirle che si era trattata solo di una notte di sesso, trainata da un gran consumo d’alcol che aveva provocato un drastico calo delle inibizioni, soprattutto in Christopher.

«So che ha rifiutato un posto nell’albergo per fare esperienza altrove» disse Victoria distrattamente.

Irene prese un bel respiro e continuò «Purtroppo gli affari non stanno andando bene per i Price. Sembra che saranno costretti a vendere o almeno è quello che sostiene Sybil».

«Mi dispiace» commentò Victoria con falsa preoccupazione.

«Tuo padre pensava di dare un posto a Christopher nella nostra azienda. Per aiutarli».

«Mi pare un’ottima idea» replicò la giovane. Non aveva la minima idea di dove volesse parare quel discorso e sperava di cavarsela con risposte brevi e contentini.

«Un posto come amministratore delegato» svelò Irene a bruciapelo.

Le orecchie di Victoria si drizzarono all’improvviso: la questione si era appena fatta cruciale.

«Ma solo un membro della famiglia può ricoprire quella carica. È sempre stato così» obiettò.

Irene non fiatò. Si limitò a guardare la figlia di sottecchi, tenendo la testa bassa.

La bomba sarebbe esplosa da lì a poco. Giusto il tempo per Victoria di elaborare le informazioni.

Ci mise meno del previsto: i suoi occhi fiammeggiarono mentre realizzava il significato di quelle parole.

Partì con passo spedito verso una delle stanze adiacenti al grande salone. Aprì la porta con una spinta e la mandò a sbattere contro la parete.

«Non ne hai il diritto» urlò con un dito puntato di fronte a sé.

Un uomo sulla sessantina alzò lo sguardo dall’agenda poggiata sulla scrivania, per poi spostarlo sull’orologio accanto.

«A casa prima delle tre e sobria? È morto qualcuno?» chiese quasi speranzoso.

«Non hai alcun diritto di dare la carica di amministratore delegato a Christopher Price» ripeté ignorando la domanda sarcastica del padre.

«Christopher si è laureato a pieni voti, ha un ottimo curriculum. È serio, meticoloso. Ha idee geniali» lo elogiò l’uomo.

«Quella posizione è di Peter. Lo hai cresciuto per questo» gli ricordò Victoria.

«A tuo fratello interessa solo avere i soldi per continuare a godersi la vita. Non è adatto. Io sto andando in pensione e devo valutare il candidato migliore».

«Allora scegli me!» lo pregò «Sono brava e mi sono impegnata per anni. Ho solo bisogno di una possibilità».

«Vicky, non sono soltanto io a decidere. Abbiamo votato».

«Al diavolo il consiglio. Sei il maggiore azionista: l’azienda è tua».

«Ne abbiamo già parlato» ribadì stancamente lui.

«È perché sono femmina, vero?» si inalberò la ragazza «So che avresti voluto che il tuo primogenito fosse maschio, ma sono nata io! Non puoi continuare a punirmi perché sono uscita del sesso sbagliato».

«Sei irresponsabile e incostante» tuonò l’uomo deciso a mettere una pietra sopra a quell’argomento una volta per tutte «Un attimo sei la figlia perfetta e un secondo dopo frequenti gentaglia, torni a orari improponibili ogni notte, vieni continuamente fotografata in pose discutibili, ubriaca. Pensi che questo faccia stare tranquilli gli investitori? La tua unica ambizione è soddisfare te stessa».

Victoria s’impose di non arretrare e soprattutto di non mostrare la delusione e il dispiacere per quelle parole.

«Credi che quel pezzo di legno di Christopher Price possa salvare l’azienda?» chiese con voce controllata «Be’, fa’ pure. Ma non userai me come merce di scambio».

Aveva capito subito quale fosse l’idea di suo padre: l’unico modo per rendere Christopher parte della famiglia, e quindi candidabile per la carica di amministratore, era un matrimonio combinato.

«Non ti sto dicendo di sposarlo domani mattina. Potresti sforzarti di conoscerlo. Ti farebbe solo bene una persona come lui».

«Cedi l’azienda ai Price, vendila, bruciala. Per quel che mi riguarda non esiste più. e scordati che io lo sposi!» gridò istericamente uscendo dallo studio come una furia.

Irene era rimasta sulla soglia e aveva assistito alla litigata. Arricciò le labbra e si staccò dallo stipite della porta con una mossa elegante.

«È andata piuttosto bene» considerò «Mi aspettavo che ti cavasse gli occhi con il tagliacarte».

 

Victoria aveva fatto le valigie e se n’era andata di casa quella sera stessa.

Dopo tre mesi era ritornata con la coda tra le gambe, acconsentendo a quello stupido matrimonio di convenienza.

I suoi genitori non avevano capito quel cambio di idea così repentino, ma non avevano nemmeno indagato troppo.

Quanto a lei, più volte si era pentita di non aver resistito più a lungo, non essere stata più forte e malediceva la sua determinazione venuta meno proprio nel momento meno opportuno.

Alla fine, le sue mire egoistiche avevano prevalso. L’istinto di sopravvivenza l’aveva spinta al punto di rinunciare a tutto pur di conservare un minimo di dignità, perché il nome della sua famiglia valeva questo e altri sacrifici.

E forse, inconsciamente, aveva cercato ancora una volta di accontentare suo padre.

Non poteva fare a meno di ambire alla sua approvazione, che tanto le era stata negata. Aveva provato a scappare, ribellarsi, fregarsene e alla fine era ritornata sempre lì.

August Lyndon non era nemmeno così un sessista come lei lo dipingeva: non aveva mai nascosto di desiderare un maschio come primogenito, un maschio che portasse avanti il cognome e l’eredità dei Lyndon, che si occupasse dell’azienda, ma non si era neppure strappato i capelli quando all’ospedale gli avevano detto che sua moglie aveva partorito una bambina; anzi, come ogni padre che si rispettasse, aveva trattato la sua adorata figliola come una principessa.

Quattro anni dopo era nato Peter e Victoria si era improvvisamente ritrovata non più al centro dell’attenzione. Aveva subito compreso che suo fratello le avrebbe rubato i riflettori in un modo o nell’altro. Non aveva, tuttavia, mai serbato rancore nei confronti di Peter; gli voleva troppo bene.

Tutta la rabbia provocata dalla gelosia era stata incanalata contro suo padre, contro quell’uomo che, senza dirlo mai ad alta voce, aveva sempre favorito Peter per qualunque cosa collegata all’azienda.

Arrivato alle scuole superiori, era stato chiaro che Peter non avesse la stoffa del vero leader o meglio che non avesse alcun interesse a diventarlo. A quel punto Victoria, prima della classe per anni, si era iscritta a economia e si era laureata con lode, conseguendo anche due master.

August si era congratulato e l’aveva spronata a continuare per quella strada, ma non si era mai sbilanciato su un possibile futuro per lei nei panni di capo dell’impresa.

Poi era arrivata la doccia gelata con la nomina di Christopher Price. Non aveva mai perdonato suo padre per quell’affronto. Poco importava che le avesse offerto un posto nel consiglio e poco importava che le sue motivazioni fossero vere: Victoria sapeva essere incostante, permalosa e irresponsabile, capricciosa ed egoista. Caratteristiche non propriamente adatte a una posizione di rilievo.

Per quanto la riguardava, l’unica discriminante possibile consisteva nel suo essere nata femmina e questa convinzione radicata era ormai divenuta più una scusa dietro cui nascondere i suoi insuccessi e insoddisfazioni.

Ciliegina sulla torta: aveva sposato l’uomo che le aveva soffiato il posto.

Un uomo che a suoi occhi era carceriere e rivale. Un uomo che Victoria considerava pedante, monotono e saccente. Un signor Perfettini capace d’irritarla con la sua sola presenza. Un continuo promemoria di quanto lei non fosse abbastanza.

Per questo aveva insistito per conservare il suo vecchio cognome assieme a quello nuovo: per rimarcare ancora una volta la distanza da quel marito che le era estraneo.

Victoria era una Lyndon, non una Price e tutto lo dovevano tenere bene a mente. Soprattutto i poveri camerieri dei suoi ristoranti abituali che, dopo le nozze, erano stati malamente ripresi per averla chiamata signora Price, dimenticandosi il Lyndon.

L’ennesima trovata per sottolineare il suo status di donna indipendente, senza accorgersi di rimanere comunque legata, in tal modo, a quel padre che le aveva rovinato la vita.

«Dannato despota, megalomane e maschilista» berciò ad alta voce.

Dall’altro lato del tavolo, Adele Foster si sporse oltre il menù e sbirciò la sua amica intenta ancora a imprecare.

«Sei inquietante quando parli da sola» le fece notare.

Victoria spostò la lista dal suo volto e sbuffò «Scusami, pensavo a mio padre».

«Despota, megalomane e maschilista? Sì, l’avevo intuito».

«È una descrizione che calza a pennello» osservò Victoria «D’altronde che cosa potevo aspettarmi da uno che porta il nome del dittatore più furbo della storia?»

«Augusto? Non è l’imperatore che ha riportato la pace a Roma?»

«Primus inter pares. Senato di facciata: tutti uguali, lui un pochino meglio» recitò Victoria come una perfetta studentesca.

«Hai sempre la tendenza a esagerare le cose» minimizzò Adele «Tuo padre ha solo eseguito i voleri di tuo nonno: nel testamento c’era scritto che proprietà e gestione dovevano rimanere in famiglia o sbaglio?»

«Da che parte stai?» s’indignò Victoria «Io e Peter siamo la famiglia. Mio nonno aveva scritto quella clausola per salvaguardare i nostri diritti. Aveva già capito che razza di stronzo fosse suo figlio».

«E allo stronzo, io ordinerei» cambiò velocemente argomento Adele.

«Non aspettiamo il tuo amico?» chiese Victoria.

«Mi ha scritto che è un po’ in ritardo e di cominciare pure senza di lui» la informò «A proposito di amici, ho visto Jeff Connelly ieri pomeriggio e sembrava piuttosto arrabbiato con te. C’è qualcosa che mi devi dire?»

«Non molto» ammise Victoria mentre studiava la carta dei vini «Si sarà arrabbiato proprio perché non è successo nulla, suppongo. Oppure è per la faccenda del balcone».

Adele la guardava incuriosita e divertita, domandole tacitamente spiegazioni.

«Si è dovuto nascondere sul balcone per non farsi scoprire da Christopher. È tornato a casa prima del previsto» l’accontentò Victoria «Precauzione inutile dato che si è dimenticato la giacca in bella vista».

Adele si mise una mano sulla bocca esibendo una smorfia scioccata «Christopher se n’è accorto? E come ha reagito?»

«Non ha fatto una piega, come al solito. Gli ho detto che Geoffrey era passato per un saluto e lui ha educatamente finto che fosse stata una visita innocente. Perché si dovrebbe preoccupare che sua moglie incontri un altro uomo nella sua camera da letto privata?» commentò ironicamente.

«Tuo marito è un santo».

«Non ha spina dorsale» replicò Victoria «Preferisce coprirsi occhi, bocca e orecchie piuttosto che litigare o perdere il suo prezioso autocontrollo. Se vede uno scandalo, corre dalla parte opposta. È uno smidollato e sarò costretta a sopportarlo finché morte non ci separi. E se andiamo avanti così, probabilmente si tratterà della sua per omicidio, o della mia per suicidio».

«Esagerata» ribadì Adele «Aspetta, la tua camera non ha un balcone!»

Prima che Victoria si potesse lanciare in quel ridicolo racconto di Jeff a penzoloni sul cornicione, un uomo di bella presenza e vestito elegantemente si fermò al loro tavolo.

Adele lo riconobbe e sorrise «Oh, hai fatto in fretta!» si stupì, per poi rivolgersi all’altra donna «Vicky, questo è il mio amico Mathieu» li presentò.

Victoria piegò le labbra all’insù e gli porse la mano.

La giornata era appena diventata molto più godibile.

 

Christopher perlustrò guardingo l’ingresso di casa sua e il corridoio che portava fino al salone principale: percepiva qualcosa di diverso nell’aria.

Tutte le stanze si presentavano apparentemente silenziose e buie. Victoria non gli era ancora corsa in contro, urlandogli addosso che era in ritardo per la cena.

Volubile com’era, probabilmente aveva deciso di andare a mangiare fuori, ma normalmente lo avvisava sempre, per lo meno per dargli fastidio.

Il suo cellulare non registrava nessun messaggio.

Erano le otto e mezza passate e Eloise aveva finito il turno di lavoro. In casa rimaneva solamente Betty, la cuoca che lavorava per loro da quando si erano sposati.

Christopher corrugò la fronte quando accese la luce e scoprì che la cucina era vuota e perfettamente pulita come se non fosse stata usata.

«Uso un attimo il bagno» gli urlò dall’altra stanza Tachery.

Christopher non rispose e si diresse nell’ala dell’appartamento riservata a Betty. Dovette bussare alla porta due volte prima che la cuoca aprisse.

Nel vederlo quasi le prese un infarto, si strinse la vestaglia addosso imbarazzata e si sistemò i capelli «Signor Price» balbettò «Mi scusi, non pensavo che avesse bisogno di me. La signora mi aveva detto che questa sera non era necessario preparare la cena. Sono davvero desolata di presentarmi così».

Cristopher alzò la mano per fermarla prima che si prostrasse in cerca di perdono. Betty Wheeler era una donna molto all’antica, ancora legata allo stile di servizio degli anni in cui aveva imparato la professione.

Gran rispetto per il datore di lavoro, massimo decoro nel mostrarsi in pubblico.

«Non si preoccupi, signora Wheeler» e Christopher non era da meno nelle regole delle cortesia «Cercavo mia moglie».

«Oh, è uscita questo pomeriggio tardi e mi ha avvisato che non ci sareste stati per cena questa sera».

Christopher sorvolò sull’ennesimo scherzetto della sua dolce consorte e ringraziò la cuoca, congedandola con un sorriso.

«Aspetti signor Price» lo richiamò «Se ha un attimo di pazienza, mi cambio e vengo a cucinarle qualcosa» si premurò.

«Sono qui con Tachery Sullivan. Siamo due uomini adulti, possiamo arrangiarci. Mi dispiace molto di averla disturbata».

«Nessun disturbo, signor Price. Se ha bisogno, non esiti a chiamarmi».

Cristopher le augurò la buona notte e ritornò sui suoi passi, piuttosto seccato. Anche la sua pazienza aveva un limite: non lo infastidiva che Victoria vivesse la sua vita come riteneva più opportuno, ma non capiva la necessità di quelle scaramucce infantili che di solito lo facevano apparire come un allocco.

Ammirava la personalità combattiva e irruente di sua moglie, non pretendeva di cambiarla; disiderava solo un po’ di maturità. Non era l’unica bloccata in quel matrimonio. Anche lui aveva sacrificato molto e soprattutto aveva buttato giù certi bocconi amari che gli provocavano ancora brividi di vergogna.

Si rifugiò nel suo studio per calmarsi e ricomporsi. Fu sedendosi alla scrivania che notò una busta bianca sulla superficie in legno.

Al suo interno vi era una lettera. Christopher la estrasse e lesse inizialmente curioso e poi sempre più perplesso.

Quasi al termine della lettura, Tachery entrò nello studio e si spaparanzò sulla sedia dall’altro lato della scrivania «Allora, dov’è la strega cattiva del West End[4]?» domandò stiracchiando le gambe per poi appoggiare i piedi sul tavolo.

In casi normali Christopher gli avrebbe intimato di tirare via le gambe dalla scrivania, ma in quel momento era talmente basito che non si sarebbe accorto nemmeno se il pavimento sotto di lui fosse crollato.

«Non qui» rispose.

«Bene, spero torni il più tardi possibile. Non ho voglia d’incrociarla».

«Non penso correrai il rischio. Victoria è partita per Parigi questo pomeriggio» spiegò porgendogli il foglio.

Tachery si mise a sedere e prese la lettera «Chi diavolo è questo Mathieu?» si stranì non appena lesse il nome.

«Un amico di Adele. Victoria lo ha conosciuto oggi a pranzo e pare l’abbia invitata a casa sua in Francia. Sarebbe stato scortese rifiutare» e citò le ultime parole.

«Sì, questo lo dice anche lei» confermò esterrefatto Tachery arrivato alla fine della lettera «Quindi tua moglie è scappata in un altro continente».

«Per una settimana o due» annuì Christopher senza cambiare espressione «Immagino che Eloise avrà più tempo libero in questi giorni».

«Penso di non aver mai visto un uomo tradito più tranquillo di te» commentò Tachery che appariva parecchio più scosso di Christopher.

«Almeno non mi crogiolo nel dubbio. Come vedi, mia moglie ha preso molto sul serio il voto di sincerità che ha pronunciato due anni fa».

«Bene, possiamo tirare un sospiro di sollievo. Malefica è finalmente volata oltreoceano e ci ha servito su un piatto d’argento la carta per la separazione. Chiamo subito mio padre per scrivere la lettera. Amico mio, tra qualche giorno sarai un uomo libero».

 

Il mio spazio:

Ecco il secondo capitolo della mia storia.

So che potrebbe sembrare strano parlare di un matrimonio combinato ai giorni nostri, ma le motivazioni che hanno portato a questo risultato verranno via via spiegate nel corso dei capitoli.

Ringrazio immensamente chi ha commentato e inserito la storia tra le seguite/preferite.

Spero di leggere i vostri pareri nelle recensioni!

Alla prossima,

Sissi Bennett.

 



[1] «Giuro che è meglio essere tradito che saperlo sì e no»

[2] Questa battuta e in generale la scena del lancio delle ceramiche è tratta dal primo episodio della serie Parade’s End della BBC.

[3] Central e Jubilee Line sono due vere linee della metropolitana londinese.

[4] West End è una zona di Londra.

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Capitolo 3
*** Dysfunctional is the new black ***


Absence-that common cure of love

 

 

 

Capitolo terzo: Dysfunctional is the new black

 

«Many years ago, it was the fashion to ridicule the idea of “love at first sight”; but those who think, not less than those who feel deeply, have always advocated its existence[1]»

Edgar Allan Poe, The Spectacles

 

«Ti sei bevuto il cervello».

Era ciò che ogni persona sana di mente avrebbe detto ed era proprio ciò che Tachery aveva detto alla fine della loro discussione.

Christopher non lo biasimava. Poteva comprendere le sue ragioni.

Chi sarebbe mai rimasto con una donna fuggita dall’altra parte dell’oceano insieme a uno dei suoi possibili e numerosi amanti?

Vedeva una sorta d’insensatezza nella sua stessa decisione e capiva che Tachery fosse rimasto quantomeno sbigottito, quando gli aveva detto di non aver alcun intenzione di divorziare da sua moglie.

Victoria Lyndon dal giorno delle loro nozze le aveva provate tutte per disfarsi di lui, per sfinirlo e indurlo a lasciarla.

Il contratto prematrimoniale prevedeva che in caso di divorzio, reciso il legame tra Christopher e i Lyndon, la gestione dell’azienda sarebbe ritornata direttamente ai suddetti per via della clausola testamentaria che vincolava l’impresa alla famiglia. L’unica scappatoia consisteva in un eventuale tradimento della donna.

Christopher sapeva che Victoria soffriva di una certa soggezione da parte del padre e che non l’avrebbe mai sfidato apertamente chiedendo lei stessa la separazione, ma niente le impediva di lavorare nelle retrovie per far sì che ciò accadesse comunque.

Certo, August Lyndon si sarebbe infuriato come un toro con la figlia per aver causato il divorzio, ma in fondo era una vincita per tutti: Christopher avrebbe mantenuto il controllo dell’azienda per la felicità del capofamiglia e Victoria sarebbe stata finalmente libera di vivere la sua vita senza nessun peso.

Un piano perfetto se Christopher Price fosse stato un uomo qualunque con un minimo di amor proprio.

Con sommo dispiacere di Victoria, non lo era.

Nonostante le sollecitazioni del suo migliore amico, Christopher rimaneva determinato a non procedere per vie legali e il motivo era ancora più assurdo: non aveva alcun desiderio di umiliare in quel modo sua moglie, rovinandole la reputazione e screditandola agli occhi della sua intera famiglia.

Il che dopotutto era il minimo, considerando come Victoria si divertiva a trattarlo.

Ma Christopher non conosceva né il rancore né la vendetta e non sentiva l’impellente bisogno di fargliela pagare.

Non si reputava migliore di lei, perché non era stata l’unica ad aver ottenuto il suo tornaconto da quel matrimonio. Lui l’aveva sposata per i suoi soldi.

Non ne andava fiero e cercava di placare la sua coscienza comportandosi nella maniera più giusta e decorosa possibile, a costo di risultare pedante.

D’altronde non aveva mai considerato quelle nozze combinate come un grosso sacrificio; niente in confronto alla vergogna che sarebbe caduta sul nome dei Price se non avesse acconsentito.

Un paio di investimenti sbagliati avevano segnato la rovina dell’albergo di lusso di proprietà della famiglia. Era necessaria una grossa somma di denaro per poterlo salvare. Senza molte altre speranze, suo padre si era rassegnato a dover svendere l’hotel e mettere all’asta la casa e i mobili per pagare i debiti.

August era corso in loro aiuto nel momento opportuno offrendo al suo vecchio amico una grossa cifra per risanare le casse.

Duncan Price aveva inizialmente rifiutato. Sapeva che si sarebbe trattato di un prestito praticamente a fondo perduto dato che ci sarebbero voluti anni prima di poter perfino cominciare a restituire i soldi.

August allora aveva proposto un accordo: anche la Lyndon s.r.l. non navigava in buone acque ai tempi e necessitava di un cambio radicale di gestione, di nuove idee. A Christopher venne offerta la carica di amministratore delegato, a patto che parte del suo stipendio fosse andato a ripagare mensilmente il prestito.

E poi, ovviamente, fu presentata l’ultima condizione: le nozze con la primogenita dei Lyndon.

Duncan e Sybil si mostrarono titubanti, poco propensi a condizionare così definitivamente la vita del proprio figlio.

Fu Christopher ad accettare senza tanti problemi, sorprendendo tutti quanti. Teneva in gran conto la reputazione della sua famiglia e non avrebbe mai permesso che venisse infangata. Un matrimonio senza amore era poca cosa in paragone.

In ventinove anni di vita non si era mai innamorato. Non aveva neanche nutrito più di un discreto interesse nei confronti di qualcuna.

Aveva fatto le sue esperienze, aveva pure avuto un paio di relazioni piuttosto serie, ma dire di aver provato un sentimento tale da legarsi a qualcuno per sempre, questo no.

A volte credeva che ci fosse qualcosa di fondamentalmente sbagliato in lui, come se l’avessero costruito dimenticandosi un pezzo.

Era sempre stato un tipo solitario. L’unico vero amico di cui poteva vantarsi era Tachery; il resto si limitava a mere conoscenze o rapporti di lavoro.

Nessuna donna lo aveva mai sconvolto per davvero. La curiosità iniziale spesso scemava in una routine straniante: quella che sembrava la compagna perfetta diventava una sconosciuta agli occhi di Christopher e ogni intimità o connessione si frantumava. Ogni tentativo lo svuotava sempre più.

Così aveva smesso di rincorrere l’impossibile e aveva accettato il fatto che semplicemente non era in grado di amare e ancora meno di provare amore.

Non riusciva a superare il confine di un tiepido affetto.

Un limite piuttosto stressante per uno come lui che odiava deludere e soprattutto illudere le persone. Non era uno sciupafemmine, non era Tachery Sullivan.

Christopher aveva un gran rispetto di ogni ragazza che aveva conosciuto e frequentato, dei loro sentimenti e delle loro aspettative.

Si criticava per non essere mai stato in grado di fare quel passo in più. Aveva desiderato più di ogni altra cosa trovare una soluzione logica per il suo temperamento anaffettivo.

Alla fine, si era rassegnato a suppore che al mondo nascessero persone difettose. Semplicemente un po’ rotte.

Perciò non aveva preso così male la faccenda delle nozze preparate a tavolino. Sapeva di non poter aspirare a qualcosa di più.

Victoria, al contrario, era una donna tremendamente appassionata. Carica di vita, di sete e fame per il mondo. Era quasi un animale selvaggio e la sua famiglia aveva deciso di domarla nel peggiore dei modi.

Un matrimonio trasformatosi in una gabbia da cui non riusciva a liberarsi per colpa delle sue stesse azioni sconsiderate e di una padre che le voleva bene un po’ troppo a modo suo.

Diversi su molti fronti, Christopher e Victoria erano sul piano emotivo inequivocabilmente disturbati.

E poi c’era la questione che mandava fuori di testa Tachery: per quale motivo un uomo che permetteva certe libertà alla moglie non se le prendeva a sua volta?

Christopher era sempre stato molto retto nel suo comportamento, giusto, di parola, decoroso,  legato alle tradizioni e ubbidiente alle regole sociali.

Quel matrimonio non era solo una faccenda di favori e soldi, comportava anche una serie di responsabilità cui Christopher non aveva voluto sottrarsi. Non aveva preso il suo voto alla leggera e non aveva intenzione di mancare di rispetto a sua moglie solo per uno sfizio, un piacere fisico.

Tachery lo avrebbe ucciso se avesse potuto. Continuava a ripetergli che Victoria non meritava tale cortesia, non meritava proprio alcunché.

Ma Christopher non lo ascoltava mai. Fosse stato per lui neanche avrebbe messo nel contratto prematrimoniale la clausola del tradimento. Non gli interessava come Victoria impiegasse il suo tempo libero, purché usasse un po’ di criterio, di discrezione. Scappare oltreoceano con l’amante di turno non era il modo migliore di mantenere le apparenze. E questo infastidiva Christopher più di mille tradimenti.

«Ammetto di non essere il legale più precisino del mondo, ma se non ricordo male il contratto redatto dal mio studio recita che in caso di infedeltà da parte della signorina, tu hai il diritto di tenerti il tuo dannato posto in quella cazzo di azienda» gli fece notare Tachery poco garbatamente.

«Sono consapevole dei miei diritti, ma apprezzo il tuo tentativo di tutelarmi» fu la risposta pacata di Christopher «E tira giù i piedi dal quel tavolino» lo sgridò.

Tachery si sedette sulla poltrona del salotto in una posa più composta e congiunse le mani sotto al mento con fare pensieroso «Due anni fa ti servivano soldi e hai acconsentito all’unione più folle dell’universo. Hai sposato quella disgraziata con la prospettiva di non liberartene mai più, perché la proprietà dell’impresa è legata per testamento alla famiglia e la gestione è legata alla proprietà per statuto aziendale. In termini tecnici eri fottuto, non esistevano scappatoie: o prendevi il pacchetto completo o niente. Adesso ti si presenta l’opportunità di tenerti il lavoro e disfarti della zavorra, e tu rinunci all’unica occasione che mai ti si presenterà? Ora dammi una buona ragione per cui non dovrei chiedere una perizia psichiatrica?»

«Credevo di essermi spiegato a sufficienza la prima volta» replicò Christopher.

«Sarà che hai detto una tale miriade di cagate che non mi sono entrate in testa».

Tachery Sullivan e l’aplomb inglese: due realtà separate.

Christopher sospirò rumorosamente e si maledisse per aver invitato l’amico a pranzo.

«Non mi va di trattare mia moglie come una pezza da piedi» chiarì.

«Lei non si fa tutti questi problemi nei tuoi confronti».

«Be’, sembra che io sia rimasto l’unico al mondo a ritenere il rispetto verso gli altri un valore» osservò un po’ amareggiato.

«Nessuno qui sta parlando di mancanza di rispetto: quella donna ti sta supplicando di lasciarla» disse Tachery come se fosse un’ovvietà «Certo, è una mossa stupida e da codarda, ma peggio per lei!»

«Victoria si sta rovinando con le sue mani e io le faccio un favore a non darle corda» rispose Christopher «Questi uomini sono tutte distrazioni per infastidire me. Se mai s’innamorerà davvero di qualcuno, sarò felice di lasciare libera. Per ora vorrei evitare che tutti l’additassero come un’adultera. Perché io tengo ancora in considerazione gli altri, perché io sono fatto così. E forse se qualcuno seguisse il mio esempio, adesso non staremmo a discutere di divorzi e ripicche!»

Tachery piegò le labbra in una smorfia scettica e alzò le sopracciglia «Sai, in questi casi mi trovo a dare ragione a Victoria: sei il solito saputello delle elementari».

«Nemmeno ti accorgi di quanto le somigli» lo prese in giro Christopher.

«Avrei dovuto sposarla io. A quest’ora sarei stato straricco e single».

«Sì, l’avresti ammazzata durante la prima notte di nozze».

«Guadagnandomi la gratitudine della società londinese per essermi sbarazzato di una tale piaga».

Christopher si rese conto che qualunque obiezione sarebbe stata inutile, quindi tacque. Perlustrò stancamente la stanza in cerca di qualcosa che potesse mettere fine a quella conversazione così spinosa, ma tutto nell’appartamento rimandava a Victoria. Se n’era andata, eppure era ancora lì: nelle mobili, nei discorsi, nel gatto.

Christopher aveva sempre la brutta sensazione di essere spiato quando Morgana era nei paraggi. A volte credeva che fosse l’alter-ego di sua moglie: stessi occhi freddi e calcolatori, stesse orecchie che si drizzavano non appena udivano qualcosa che non gradivano. Erano simili nel portamento e nella ferocia, sebbene in più di un’occasione la donna avesse dimostrato di aver artigli ben più affilati di quelli del suo animale.

Metaforicamente, s’intende. Victoria non era mai stata un tipo appariscente e preferiva portare le unghie molte corte, quasi sempre senza smalto.

Si avvaleva della sua lingua biforcuta per affondare i colpi.

Esattamente  come la sua padrona, Morgana era tremendamente ostile nei confronti di Christopher e si avvicinava solo se ne aveva stretta necessità.

L’uomo aveva sperimentato spesso il suo malumore e i segni sulle sue mani lo dimostravano con chiarezza.

Quasi stesse percependo i suoi pensieri, il felino alzò il capo dal pouf su cui era acciambellato e puntò le iridi verde-acqua sulla figura dell’uomo. Evidente segnale di avvertimento e di sfida. Era lei a comandare in assenza della signora Price.

Christopher distolse lo sguardo, mentre un brivido gli saliva lungo la schiena.

Tachery seguì la traiettoria dei suoi occhi e percepì lo stesso formicolio «Ma è stata qui tutto il tempo? Da dove è saltata fuori?»

«Quella gatta ha poteri occulti» mormorò Christopher.

«Degna della sua proprietaria. D’altronde ogni strega possiede il suo animale».

«Mia moglie non è una strega, Tachery».

«No: è una stronza, ma questa parola non ti piace, perciò sono costretto a ricorrere alla versione più soft» poi gettò un’altra occhiata al gatto «Ma deve stare per forza con noi in questa stanza?» domandò ansioso.

«Se hai il coraggio di prenderla e portarla da qualche altra parte, fa’ pure. L’ultima volta che ci ho provato, mi ha piantato i denti nel pollice» raccontò sventolando in aria il dito su cui erano ancora visibili due puntini rosa leggermente in rilievo «È una tigre travestita da persiano».

Tachery batté all’improvviso le mani e si dondolò sulla poltrona «Basta parlare della megera e del suo aiutante. Anzi, ti dirò che è un sollievo che se ne sia andata. Temevo già di doverla sopportare venerdì sera».

«Abbiamo impegni venerdì?» chiese Christopher confuso.

Tachery sciolse le spalle allibito e lasciò cadere la mani sulle ginocchia «Te ne sei dimenticato?» più che una domanda sembrava un’accusa.

Christopher aggrottò la fronte. Ci mise un po’ capire di che cosa stesse parlando e quando finalmente ricordò, strizzò gli occhi e scosse il capo «Il tuo compleanno» disse debolmente «C’è la festa per il tuo compleanno».

Gli era passato di mente con tutto quello che era successo. Scordarsi del compleanno del proprio migliore amico non era esattamente una cosa di cui andare fieri.

«Indovina? Ho prenotato al Corsica Studios: tutto il locale riservato per noi».

Christopher per poco non sentì male. O meglio, sperò di aver sentito male.

«Quel vecchio scantinato sotto la ferrovia?»

Christopher ricordava di essere stato al Corsica Studios quando era più giovane: un vecchio magazzino trasformato in locale notturno, sede di molti eventi musicali, situato appena dietro all’Elephant and Castle Shopping Centre, in una zona conosciuta per le sue discoteche chiassose e famose in tutto il mondo come il Ministry Of Sound.

Non era mai stato un amante di posti simili: tanta bolgia e tanto rumore. Adesso si sentiva davvero troppo cresciutello.

«Mi aspettavo qualcosa come il Circus[2] o qualche rooftop» ammise perplesso sulla scelta dell’amico.

«Perché non il circolo del bridge tanto che ci siamo» lo sbeffeggiò Tachery «Abbiamo trent’anni, non sessanta».

«Trentuno» lo corresse Christopher.

«Io non ancora» precisò l’altro «So che l’hai provato poche volte in vita tua, ma il divertimento non ti uccide. Se continui così finirai come quel pazzo di quel film che voleva sterminare la sua famiglia ed è morto congelato».

«Jack Torrance e Shining[3] nasce come libro».

Tachery alzò infastidito un sopracciglio «Appunto».

«Non sono molto in vena di fare festa. Se uscissimo a cena noi due?» propose Christopher.

«Stai scherzando, vero?» si scandalizzò Tachery «Eloise, diglielo anche tu. “Tanto lavoro e niente svago fanno di Chrissie un uomo ottuso”[4]» proruppe interpellando la cameriera entrata in quell’istante in sala ad annunciare il pranzo.

La domestica rimase incerta sulla soglia del salotto «Non so come dovrei rispondere».

«Non preoccuparti, Eloise, non farci caso. E tu smettila di importunare il mio personale» lo riprese Christopher.

«Parlavamo della mia festa di compleanno» chiarì Tachery ignorando la richiesta dell’amico «Il tuo datore di lavoro non vuole partecipare. Non ti pare che sia un po’ scortese?»

Christopher preferì restare in silenzio e ignorarlo. Era abbastanza evidente che non volesse uscire di casa per evitare di giustificare l’assenza di Victoria. Non ci voleva un genio a capirlo.

«Se posso permettermi signor Price, un po’ di divertimento non ha mai ucciso nessuno» gli consigliò Eloise. Normalmente non si intrometteva nelle faccende della famiglia, ma non aveva potuto fare a meno di notare la fuga della signora, e un po’ di svago avrebbe aiutato il marito a distrarsi.

«Visto!» esultò Tachery «Sempre detto che questa ragazza è sprecata a sgobbare per te. Eloise, perché non vieni anche tu alla festa? Magari troviamo qualcuno che ti dia un vero impiego in un vero ristorante».

«O be’, io…» balbettò la giovane imbarazzata. Da una parte avrebbe dato qualsiasi cosa per partecipare a un party come quello, dall’altro non era sicura che fosse professionale dato che il festeggiato era il migliore amico del suo “capo”.

«Con la quantità di alcol che girerà dubito che si potrà mai parlare di lavoro» osservò Christopher con un tono che non nascondeva di considerare inappropriato quell’invito; più che altro per la tendenza di Tachery ad allungare la mani. Non che ci avesse mai provato in modo esplicito con la sua cameriera, ma era meglio non fidarsi.

«Così la metti a disagio» lo rimproverò l’altro uomo.

«Io?» domandò sbigottito Christopher.

«Un’esperta di eventi come lei mi farà sicuramente comodo e tu la stai ostacolando» lo canzonò e poi si rivolse di nuovo a Eloise «A proposito, conosci qualcuno che potrebbe fare da fotografo? Quello che avevo contattato mi ha dato buca per una cena di beneficienza o roba del genere».

Lo sguardo di Eloise s’illuminò «In effetti avrei la persona giusta».

Tachery sorrise soddisfatto in direzione dell’amico «Te l’ho detto che si sarebbe resa utile».

 

Inventare una scusa credibile per la partenza di Victoria fu più facile del previsto: suo fratello Peter si trovava a Parigi per questioni di studi, o così l’aveva spacciata a suo padre. Christopher credeva che fosse andato nella capitale francese per spassarsela lungo la Senna lontano dagli occhi di August, ma almeno gli aveva dato la base perfetta per costruire una storiella su come sua sorella fosse andata a trovarlo, colta da un improvviso moto di nostalgia.

Superato il primo problema, bisognava affrontare il secondo: come scappare da quella dannata festa senza offendere Tachery.

Il Corsica Studios era esattamente come se lo ricordava: spartano, rumoroso e buio. Il locale era stato affittato per l’evento ed era meno affollato del solito, ma la gente era sempre troppa e soprattutto Christopher non aveva alcun interesse a parlare con persone che non vedeva da anni o per le quali non nutriva particolare simpatia.

Non era mia stato un festaiolo, lui.

Lo stesso non si poteva dire di Tachery, afflitto da baldoria acuta fin dai tempi delle scuole superiori.

Christopher, invece, preferiva cene tranquille o al più, occasioni formali in cui era richiesta la sua presenza come amministratore della Lyndon s.r.l.. Le discoteche proprio non erano di sua competenza.

Soprattutto in un momento come quello in cui il bilancio della sua vita non toccava esattamente picchi positivi: un lavoro ottenuto con un accordo, un matrimonio infelice, una moglie imposta e vendicativa.

Si appoggiò alla ringhiera della prima balconata e guardò giù in pista: conosceva forse la metà delle persone presenti e onestamente non credeva che Tachery ne conoscesse molte di più, ma pur di fare numero, tutti andavano bene.

Tachery era sempre stato l’uomo delle esagerazioni e dei grandi gruppi. Al college le sue compagnie attraversavano ogni facoltà e categoria. Lui era amico di tutti.

Anche lì, a quella festa, si potevano scorgere divisi in capannelli i suoi vecchi compagni di università, i suoi colleghi, gli amici d’infanzia e di famiglia. E poi c’erano amici di amici, gente incontrata a qualche cena o buona per una bevuta al bar.

Infine c’era Christopher che da solo costituiva una realtà a se stante. Tentava in tutti i modi di schivare la massa, eppure questa sembrava cercarlo costantemente.

Lo ammiravano per il suo rigore e per il carisma che la sua autorevolezza emanava. Adoravano ascoltarlo parlare, dicevano che ogni suo discorso trasudasse intelligenza e buon senso. Lo elogiavano per la calma, l’acume e l’educazione.

Christopher era turbato da tali attenzioni che sfioravano la celebrazione e non si sentiva affatto così tanto meritevole e sveglio come amavano definirlo. Aveva più di uno scheletro nell’armadio e portava avanti ogni giorno una farsa.

Quella sera aveva dovuto dispensare più sorrisi e strette di mano di quanto potesse contare, scusandosi per l’assenza di Victoria, mostrando una serenità che non gli apparteneva.

Le sue perplessità vennero spazzate via da un arrivo totalmente inaspettato. Christopher si sporse oltre la ringhiera per controllare meglio quella figura apparsa all’ingresso del locale. Era senza dubbio lei.

Non si aspettava di rivederla così presto, di sicuro non quella sera, dato che in teoria avrebbe dovuto essere in Svizzera per un impegno di lavoro.

Gettò una veloce occhiata a Tachery che, ignaro della sorpresa che gli stava per capitare, stava ordinando da bere al bancone. Miracolosamente nessuna donna lo accompagnava.

La passa sempre liscia. Pensò Christopher stupefatto e quasi seccato dalla continua fortuna dell’amico. Qualunque altro uomo sarebbe stato beccato come un bambino con la mani nella marmellata. Lui la faceva franca con singolare facilità.

Mentre osservava la donna avvicinarsi al festeggiato, Christopher notò altri invitati girarsi stupiti, probabilmente colpiti dalla sua bellezza.

Robyn Hall aveva sempre avuto il potere di catalizzare su di sé ogni sguardo. Il suo aspetto fisico metteva tutti in soggezione.

Molti uomini le avevano fatto una corte spietata, ma solo Tachery l’aveva conquistata per davvero.

Misteri della vita.

Si erano conosciuti durante l’ultimo semestre del college e non si erano più lasciati. Tachery all’inizio si era comportato bene, aveva tenuto a bada l’istinto da cacciatore. La distanza purtroppo gli aveva giocato un brutto scherzo e quando Robyn si era trasferita in Svizzera per lavoro, il suo gene da seduttore era ricomparso più forte che mai. Diceva di amarla a modo suo, diceva che un giorno avrebbe seriamente messo la testa a posto e le avrebbe chiesto di sposarlo. Aveva compiuto trentun anni e quel giorno non era ancora arrivato.

Ed eccolo lì, in piedi su due gambe da modella, un altro dei motivi per cui Christopher non si sentiva così in pace con se stesso come avrebbe voluto. La sua lealtà nei confronti dell’amico gli impediva di proteggere da bugie e tradimenti una donna fantastica.

Robyn proveniva da una famiglia modesta e si era fatta strada con le sue forze ottenendo prima una borsa di studio per il prestigioso King’s College e poi una posizione di rilievo in un’importante banca elvetica.

Tutto il contrario del suo fidanzato che dopo essersi laureato in legge, si era comodamente sistemato nello studio legale di papà. Non che Tachery fosse stupido, ma, avendo il posto già pronto, non si era mai sprecato più di tanto.

Christopher si staccò dalla balaustra e scese al piano terra intenzionato a raggiungere la coppia e salutare Robyn. Si fermò non appena si rese conto che sarebbe stato di grande disturbo: i due avevano passato più di un mese separati e sembravano piuttosto felici di ricongiungersi finalmente.

Svoltò a destra e uscì nel cortile sul retro, felice finalmente di poter isolarsi per un po’. Con Robyn nei dintorni, Tachery non avrebbe perso tempo a cercarlo.

Si sistemò sui gradini della scala antincendio e frugò nella tasca della sua giacca. Estrasse un pacchetto di sigarette e se ne accese una. Era l’unico vizio che si concedeva ogni tanto, specialmente quando aveva bisogno di prendersi un momento per sé e schiarirsi le idee.

«Scusami, te ne posso rubare una?» esordì una voce alle sue spalle.

Christopher si girò e scorse attraverso lo spazio tra i gradini di metallo una sagoma che se ne stava timida nell’ombra.

«Mi spiace disturbarti, ma ti ho visto uscire e ho pensato di potermi fumare una sigaretta inosservata. Non mi andava di chiederla a qualche ospite mentre lavoravo» continuò la ragazza che si era spostata sotto la luce del lampione.

Pareva più giovane di lui, doveva avere vent’anni o giù di lì. Christopher suppose che si trattasse di una delle bariste.

Le porse il pacchetto e l’accendino.

«Grazie» gli sorrise lei «Mi chiamo Lucy» si presentò educatamente.

«Christopher» rispose l’uomo con un cenno del capo.

La giovane si guardò un po’ intorno, a disagio per lo sgradevole silenzio. Poi alzò le spalle e disse «Be’, grazie ancora per la sigaretta. Ora ti lascio solo». Non le sembrava carino rimanere lì a dargli fastidio e rovinargli la pace.

Christopher si rese conto che il suo comportamento sfuggente era apparso decisamente maleducato. La invitò a sedersi con lui per rimediare.

Lucy sorrise ancora, un po’ imbarazzata, e prese posto accanto all’uomo sulla scala.

«Non sei di qui, vero? Il tuo accento è diverso» osservò casualmente lui per fare conversazione.

«No» confermò lei «Vengo da Newport, nel Rhode Island. Mi sono trasferita qui da qualche settimana per motivi di studio. Sto da mia cugina».

«Sono stato a Providence la scorsa primavera per un ciclo di lezioni alla Brown» le raccontò Christopher.

«Un seminario di qualche professore importante?» s’informò Lucy.

«Veramente le ho tenute io».

«Oh» fu la reazione basita della ragazza.

Bravo Chrissie, prima eri maleducato, ora ti stai atteggiando da arrogante.

«Come mai ti sei nascosto qua fuori? Non sopportavi più il casino?» gli chiese Lucy ansiosa di cambiare argomento e sembrare un po’ meno stupida.

«Le discoteche non sono il mio genere. Sono qui per un favore a un amico».

«Ah, ho capito!» ridacchiò furba «Sei uno degli imbucati. Ne ho visti un sacco là dentro. Li riconosci subito: sono quelli che si approfittano dell’open bar. Ma lo farei anche io se potessi. Ti hanno detto chi ha organizzato questo party? È sicuramente straricco ed è pure uno stronzo. Ha flirtato con tutte le donne presenti e poi si è scoperto che ha una fidanzata. Allora, spiegami perché sei venuto? Immagino che sia un favore bello grosso per lasciarti trascinare qui. Non sembra il tuo ambiente. A chi lo dovevi?»

«Allo stronzo che ha una fidanzata ma flirta con tutte le altre» ammise consapevole di aver fatto per l’ennesima volta la figura del gradasso.

Lucy si strozzò con il fumo che aveva appena inspirato. Tossì rumorosamente, il che la mise ulteriormente in imbarazzo.

«Sta sera non ne dico una giusta» constatò mortificata con la voce ancora rauca.

«Non preoccuparti, terrò il tuo commento per me» la rassicurò «E a proposito, che rimanga tra noi, ma sono completamente d’accordo» spese la sigaretta sotto al piede e improvvisò un’altra domanda, giusto per farla sentire un po’ più a suo agio «Ti piace Londra?»

«Sì» rispose titubante «Mi sto ancora abituando. Mi mancano le stelle».

«Le stelle?»

«Io abitavo in periferia e di notte mi capitava di scivolare sul tetto della veranda a guardare il cielo. È cominciato tutto con un compito di scienze, poi mi sono appassionata all’astronomia. La trovo rilassante. Qui c’è troppa luce, quasi tutte le stelle sono invisibili».

Christopher d’istinto alzò gli occhi verso il nero della notte: in effetti pochi astri brillavano e la loro aura appariva molto tenue.

Anche Lucy buttò la sigaretta e si tirò in piedi «Mi ci voleva proprio. È stato un sollievo allontanarmi un po’ dalla bolgia».

«Neanche tu sei il tipo da discoteca?»

«No, a me piace molto ballare. Normalmente mi diverto tantissimo, quando non lavoro» specificò «Posso farti una domanda indiscreta?»

L’uomo annuì.

«Ti va di ballare?»

Christopher strabuzzò gli occhi. Nel cortile si udiva distintamente la musica: era un brano lento e soffuso.

«Su, dai! Forza! Non voglio fare la mia prima notte in un club londinese senza nemmeno un ballo» lo incitò Lucy. Gli prese le mani e lo trascinò verso di sé.

Christopher, suo malgrado, non ebbe altra scelta che seguire i movimenti della ragazza. Aveva pensato per un momento di rifiutare, ma sarebbe stata l’ennesima mossa scontrosa.

La assecondò senza avvicinarsi troppo, mantenendo una certa distanza e soprattutto un certo distacco. Preferiva evitare scomodi fraintendimenti.

«Ti capita spesso di invitare sconosciuti a ballare?» le domandò ironico.

«Solo se sono carini» gli rispose e poi scoppiò a ridere – una magnifica risata a detta di Christopher – «Di solito non sono una tale sfacciata. Solamente…ho avuto l’impressione che ti servisse un po’ di calore umano».

Lui perplesso spostò lo sguardo in basso, verso i riccioli biondi di Lucy «Perché dici questo?» si incuriosì.

La giovane scrollò le spalle «A volte le persone più silenziose sono quelle più bisognose di contatto» considerò.

«Questa è una massima comune» obiettò Christopher «Una teoria generalista».

«È la verità» s’intestardì Lucy «E credo che ti abbia fatto bene. Sei palesemente più rilassato» si complimentò sciogliendosi dall’abbraccio «Bene, ora il mio compito è finito. Torno all’altro lavoro. È stato un piacere» lo salutò.

«Aspetta» la richiamò subito Christopher «Te ne serviranno altre, è solo mezzanotte e mezza» e le porse tutto il pacchetto di sigarette.

«E tu?»

«Per i noiosi come me è il momento di ritirarsi».

Rientrò nel locale diretto al guardaroba. Prese il suo cappotto e scivolò tra la folla verso l’uscita. Tachery avrebbe capito.

Fece tutto il tragitto fino alla stazione dei taxi con il naso all’insù, colto da una sensazione grave: il cielo a Londra era senza dubbio di un nero opprimente.

 

Il mio spazio:

Purtroppo stasera non ho molto tempo per dilungarmi nei commenti.

Vi ringrazio tantissimo delle recensioni e spero che questo capitolo vi abbia soddisfatto. Pensato che Christopher sia completamente impazzito a non voler divorziare da Victioria?

Ho creato un profilo facebook sotto il nome di Sissi Bennett, se volete aggiungermi per parlare della storia o di qualsiasi altra cosa.

Alla prossima,

Sissi Bennett.

 



[1] Molti anni fa andava di moda ridicolizzare l’amore “a prima vista”; ma quelli che pensano, non meno di coloro che sentono profondamente, hanno sempre sostenuto la sua esistenza.

[2] Corsica Studios, Ministry of Sound e Circus  sono tre famosi locali di Londra. Non sono mai stati al Corsica Studios, ho solo guardato qualche foto su internet, quindi la descrizione è tutta opera mia, non so se effittivamente corrisponda alla realtà.

[3] Shining è un libro di Stephen King, da cui Stanley Kubrick ha tratto l’omonimo film.

[4] Questa è una citazione diretta dal film Shining.

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Capitolo 4
*** Slightly out of focus ***


Absence-that common cure of love

 

 

Capitolo quarto: Slightly out of focus

 

«I don't know if we each have a destiny, or if we're all just floating around accidental-like on a breeze, but I think maybe it's both. Maybe both is happening at the same time[1]».

Robert Zameckis, Forrest Gump

 

Christopher Price era un uomo di larghe vedute e dalla mente straordinariamente brillante. Aveva un’opinione su tutto e idee ben radicate, difficilmente influenzabili. Prima di giungere a una conclusione analizzava la faccenda da ogni angolazione, prestava ascolto a ogni interessato per non lasciarsi condizionare da una sola parte in causa e soprattutto non credeva mai a ciò che leggeva. O almeno, prima di dare una notizia per certa, si premurava di attingere da più fonti.

Per questo motivo, consultava sempre tre giornali alla mattina durante colazione. Normalmente quando Victoria era presente, ne sfogliava uno alla volta per evitare di infastidirla occupando tutto lo spazio con i suoi quotidiani. Quando, invece, si trovava a fare colazione da solo, si sentiva libero di sbizzarrirsi.

Così quella mattina, aveva sparso diversi fogli per tutto il tavolo da pranzo, in particolare attorno al suo posto apparecchiato.

Di fronte a sé aveva il “Daily Telegraph” di stampo conservatore, a sinistra il The Guardian” filo-laburista, e a destra il Financial Time” per tenersi aggiornato sugli eventi della City.

Finalmente poteva sfogliare i suoi giornali in santa pace, senza temere di prendersi qualche ceramica in testa.

La vita lontano da Victoria era estremamente piacevole, quieta. Christopher cominciava davvero ad abituarsi alla tranquillità che aleggiava in casa: nessuna scenata isterica, niente sguardi al vetriolo e soprattutto nessun uomo che gironzolava per le stanze credendo di passare inosservato.

Non capiva come non avesse potuto pensarci prima: case separate. Non era necessario vivere a chilometri di distanza; per mantenere le apparenze di un matrimonio felice sarebbe bastato prendere un bell’appartamento e dividerlo in due.

Sembrava la scelta più logica per evitare di continuare a torturarsi a vicenda.

L’avrebbe certamente proposto a sua moglie al suo ritorno. Nel frattempo, aveva tutta l’intenzione di godersi i suoi giorni di libertà, a partire dalla colazione.

A conti fatti, tutto era perfetto: Victoria dall’altra parte dell’oceano, il gatto disperso da qualche parte nell’appartamento, Tachery troppo occupato con Robyn.

Non avrebbe permesso a niente e a nessuno di rovinargli quel momento sacrosanto, anche perché non sapeva se e quando la sua consorte sarebbe riapparsa e doveva approfittarne finché poteva.

Ignorò, quindi, l’insistente presenza di Eloise che se ne stava ritta dietro di lui come una sentinella. Normalmente la ragazza dopo aver servito la colazione, si rintanava in cucina per organizzare la sua giornata di lavoro. Era chiaro che quel giorno avesse bisogno di qualcosa.

E Christopher era ben disposto a concedergliela, non appena avesse finito la sua colazione intoccabile.

Avvertiva l’impazienza di Eloise alle sue spalle, il respiro nervoso, il piede che batteva a intervalli regolari sul pavimento.

Poteva quasi vederla torturarsi le mani dietro alla schiena, lanciare occhiate a lui in attesa del momento giusto, guardarsi intorno per distrarsi.

Tutta quell’agitazione lo pressava almeno quanto gli occhi minacciosi di Morgana. Doveva immaginare che, tolto il gatto, tolta sua moglie, qualcosa lo avrebbe comunque disturbato e messo sull’attenti.

Eloise era un’ottima cameriera. Professionale e soprattutto discreta, il che non guastava quando si aveva a che fare con Victoria e con un matrimonio di facciata.

Nonostante la giovane età riusciva a gestire la casa con estrema facilità e sembrava anche piuttosto contenta di lavorare per loro.

Christopher passava la maggior parte del tempo in azienda, spesso rientrava tardi ed era davvero piacevole trovare tutto perfettamente sistemato per il suo ritorno, senza ulteriori scocciature. Eloise aveva imparato le sue abitudini e riusciva a districarsi tra i suoi impegni e orari impossibili senza mai sbagliare un colpo.

Con Victoria aveva poi compiuto un vero miracolo. Christopher non aveva mai sentito sua moglie lamentarsi della cameriera, cosa non poco impressionante dato che la donna normalmente ne aveva una per tutti.

Eloise era sveglia e sapeva rendersi utile. Non era mai un peso, quasi non la si notava nell’appartamento: stava al suo posto e svolgeva le sue mansioni, a volte anticipando perfino le richieste.

Victoria la adorava e la trattava piuttosto bene considerato il soggetto.

E chiunque fosse in grado di tenere a bada la sua consorte, acquisiva posizioni nella lista delle preferenze di Christopher.

«Eloise, ti serve qualcosa?» le chiese, cercando di mantenere una certa calma nella voce. Prima risolveva la faccenda, prima poteva ritornare ai suoi interessi.

La ragazza fece un passo avanti e si portò nel campo visivo del suo datore di lavoro «Finisca la colazione con calma, signor Price. Le ruberò più tardi cinque minuti, se ha tempo» rispose cortesemente.

«Temo di dover scappare tra poco. Dimmi pure adesso» la incitò.

«Ecco, mi chiedevo se potessi assentarmi dal lavoro per qualche tempo» azzardò la cameriera.

«Per quanto?»

«Tre settimane» confessò lei abbassando lo sguardo in attesa di una reazione.

Quella richiesta lasciò attonito l’uomo: Eloise non era una scansafatiche, non era nel suo stile premere per avere più tempo libero, quindi si meritava anche un po’ di vacanze extra, ma tre settimane sembravano esagerate!

Christopher non poté comunque ribattere. La ragazza si era accorta di aver avanzato una pretesa assurda e si affrettò a spiegare il motivo di tanta urgenza.

«Si tratta di un corso di aggiornamento per cui sono stata selezionata. Avevo fatto domanda qualche settimana fa e mi hanno presa. Si terrà a Ripon, al Swinton Park. Non ho ancora accettato, ovviamente aspettavo di avere il suo consenso. Ma è un’occasione molto importante per me, farebbe un’ottima figura sul mio curriculum».

«Ho alloggiato al Swinton Park una volta. È un bell’albergo. Un po’ troppo pomposo per i miei gusti, ma rimane un posto di tutto rispetto. Avrai molto da imparare da un hotel del genere. Ti sarà più utile un’esperienza come quella per i tuoi piani futuri, piuttosto che un impiego qui da noi» considerò Christopher «Non ho nulla in contrario. Capita in un buon momento: la signora è via e chissà quando tornerà. Ci sono solo io cui badare e posso fare a meno di te» acconsentì con un mezzo sorriso «Devi solo chiedere il permesso alla signora Wheeler, accertarti che non abbia bisogno del tuo aiuto per le prossime settimane».

«L’avevo già informata. Mi ha detto che non ha nessun problema se le trovo una sostituta temporanea».

«Mi sembra giusto» annuì Christopher «Immagino che dovrai darti da fare in fretta: non si trovano cameriere a ogni angolo, non più».

«In realtà ho già in mente una candidata. Non mi va di mettervi in casa delle sconosciute. Conosco questa ragazza da molto tempo e mi fido».

«E io mi fido del tuo giudizio» la rassicurò Christopher «Ora, ti prego, posso finire la mia colazione senza essere disturbato?» gliel’aveva domandato con cortesia, ma il sottointeso era palese: voleva semplicemente starsene da solo.

Eloise lo ringraziò con un cenno del capo e si dileguò.

Christopher tirò un sospiro di sollievo e finalmente si dedicò alla sua lettura mattutina. Aveva appena preso la tazzina del caffè per il manico, quando l’orologio sulla parete segnò le otto e mezza, annunciando che era ormai ora di andare al lavoro.

L’uomo sbuffò contrariato. Trangugiò in fretta il suo caffè e ripiegò i giornali riponendoli nella cartella.

Nonostante fosse il capo e potesse fare più o meno come gli pareva, non era proprio nella sua natura arrivare in ritardo. Non si presentava mai nel suo ufficio dopo le nove, appena una mezz’ora più tardi rispetto ai suoi dipendenti. E normalmente se ne andava quando era passato da un pezzo l’orario di chiusura.

Indossò il cappotto e la sciarpa. Controllò allo specchio all’ingresso di essere in ordine e uscì. L’aria di metà ottobre cancellò ogni traccia di sonnolenza rimasta. A Londra l’inverno si affacciava sempre troppo in anticipo per i suoi gusti.

Normalmente Christopher usava i mezzi pubblici per spostarsi, soprattutto di mattina presto: la metropolitana eludeva il traffico della superficie e gli permetteva di godersi una piccola passeggiata prima di cominciare la giornata lavorativa.

Sempre più sentiva il bisogno dell’aria fredda per svegliarsi e di prendersi momenti di calma per riflettere in tranquillità.

Mount Street era una via nel centro di Mayfair, quartiere residenziale spesso affollato dai turisti per i suoi negozi di lusso, ma di certo non trafficato quanto la Tottenham o un’altra delle strade principali.

L’uomo percorse Grosvenor Square, scivolò accanto all’Ambasciata Italiana, e tirò dritto fino alla fermata di Bond Street dove s’infilò sul primo treno della Central Line diretto a Bank. Sbucò in piena City, frenetica e chiassosa come amava essere durante le ore lavorative.

Una fiumana di gente si apprestava ad attraversare la strada sotto lo sguardo fiero della statua di Arthur Wellesley duca di Wellinghton, posizionata di fronte al Royal Exchange, un lussuoso centro commerciale frequentato fin troppo spesso da Victoria e dalla sua carta di credito. Se la donna capitava nei paraggi della City, era molto più probabile che andasse a far visita a Hermès piuttosto che a suo marito.

Christopher vi era entrato qualche volta per dei pranzi di lavoro, ma in generale preferiva posti più defilati e soprattutto meno turistici.

Svoltò a sinistra, in una stradina secondaria per poi spuntare in una spaziosa via a senso unico. Esattamente sull’altro lato, si stagliava la sede dell’azienda.

Christopher come ogni mattina, si fermò a contemplare l’insegna sulla facciata. Nonostante fosse passato parecchio tempo, lo metteva ancora a disagio gestire un’azienda che portava un nome non suo.

La sicurezza all’ingresso lo lasciò passare senza tante storie. Ormai non era più necessario che mostrasse la sua tessera di riconoscimento, ma c’era stato un periodo, all’inizio, in cui la guardia proprio non voleva saperne di ricordarsi il suo volto.

Una volta raggiunto il suo ufficio, appese in modo ordinato cappotto e sciarpa all’appendiabiti e appoggiò la cartella sulla scrivania.

Guardò oltre la vetrata, giù in picchiata verso i tetti delle case e dei palazzi di Londra. L’edificio in cui si trovava era parecchio alto e offriva una vista suggestiva della città che si stava svegliando.

Anche Christopher occupava una posizione molto alta, ma quella consapevolezza non lo confortava affatto, anzi lo tormentava.

Perché nonostante i suoi meriti, nonostante le sue capacità, le motivazioni che lo collocavano così al di sopra degli altri si riducevano sempre a un’unica squallida verità: aveva sposato la figlia del capo.

 

«Tu sei completamente fuori di testa».

Non era proprio la reazione che Eloise si sarebbe aspettava dalla sua dolce cuginetta.

«Pensavo ti facesse piacere avere un lavoro per qualche settimana. Almeno potresti aiutarmi a pagare le bollette».

«Alla faccia della solidarietà tra parenti».

«Ti permetto di vivere qui senza pagare l’affitto, ma da quando sei arrivata i consumi sono decisamente aumentati. Sarebbe carino se contribuissi» considerò Eloise, mentre metteva una valigia sul letto.

«Non ho nessuna intenzione di fare da serva a due viziati che non sanno nemmeno preparare la tavola da soli».

«Lucy!» la rimproverò la cugina «Io non faccio la serva».

«Non so nemmeno perché perdi tempo in quella casa. Tu vuoi dirigere un ristorante, non diventare una badante».

«Perché in un normale bar non mi pagherebbero neanche un terzo di quello che mi danno i Price» replicò Eloise «Almeno ho qualche speranza di aprire il mio locale prima dei cinquanta».

«Certo e con quale esperienza?» le chiese Lucy scettica.

Eloise arricciò le labbra e lasciò la presa sui maglioni che caddero nella valigia «Victoria Lyndon Price è meglio di qualsiasi gavetta. E poi non mi occupo di sistemare i letti o spazzare per terra. Scelgo il menù con la cuoca ogni giorno, rifornisco la dispensa e seleziono i vini per la cantina. Organizzo i turni delle pulizie, se qualcosa si rompe mi assicuro che venga riparato. Praticamente gestisco già un ristorante privato» osservò mentre continuava a piegare i suoi indumenti «E aiuto anche la signora Price a organizzare le sue cene e i suoi eventi per la beneficienza. Fidati, sto facendo fin troppa pratica».

Lucy si sedette sul letto e molleggiò sul materasso, annoiata e poco impressionata «Va bene, è tutto molto bello per te. Ma io studio fotografia».

«In una scuola costosa».

«Ho vinto la borsa di studio».

«E che mi dici delle altre spese? Londra è cara».

«Non fingere che sia per il mio bene!» la rimproverò Lucy scocciata «Lo stai solo facendo per te stessa. Non capisco neanche perché! Non hai qualcun altro cui chiederlo? Avrai conosciuto qualcuno alla scuola professionale, mi auguro» la punzecchiò.

«Lavorano già tutti a tempo pieno. Sei molto più libera tu con il tuo corso di fotografia» spiegò Eloise «Soprattutto non posso mettere in casa la prima che capita. Deve essere qualcuno di cui mi fidi. Immaginati se qualcosa venisse rubato: i Price vorrebbero la mia testa su una picca».

«Adesso sì che mi stai convincendo» commentò sarcastica la cugina.

Eloise sbuffò e lanciò con stizza una gonna nella valigia «Fa’ come vuoi» s’imbronciò «Se mai avrai bisogno di un piacere, mi ricorderò di questo giorno» alzò il mento orgogliosamente e marciò fuori dalla camera da letto.

Lucy scosse la testa e fissò pensierosa il bagaglio della cugina ancora aperto sul letto. Avvertì un leggero senso di colpa stringerle lo stomaco, ma si premurò di scacciarlo subito. Per una volta non doveva permettere al suo buon cuore di avere il sopravvento. Aveva pur il diritto di rifiutare una proposta simile.

Dopotutto i suoi interessi a Londra erano di tutt’altro genere e non era così sciocca da farsi scappare un’opportunità come quella.

Da che ricordasse, aveva sempre avuto un certo fiuto per l’obiettivo: aveva iniziato da piccola con la polaroid di suo nonno ed era poi passata a macchine sempre più professionali, raffinando la sua tecnica e la sua abilità.

Una volta conclusa la scuola superiore, aveva fatto domanda alla Tish e all’ICP a New York, ma non era stata accettata. Stessa sorte per il corso alla Brown.

Alla fine si era dovuta accontentare dell’università pubblica del Rhode Island, dove non aveva studiato solo fotografia ma in generale le arti figurative.

Al termine del suo percorso aveva mandato ancora richieste d’iscrizioni nelle scuole più prestigiose nella speranza di venire presa per un master.

Si era trovata ormai sul punto di rassegnarsi quando inaspettatamente la Southbank di Londra le aveva risposto informandola non solo di averla accettata, ma di averla addirittura inserita nel programma di finanziamento per gli studenti stranieri.

Sua madre si era mostrata piuttosto contraria all’idea di lasciarla trasferirsi da sola in una città metropolitana dall’altra parte dell’oceano. La situazione si era velocemente risolta con una telefonata ai cugini inglesi: Eloise si era offerta di ospitarla nel suo appartamento, risparmiandole la pena di abitare in un alloggio studentesco.

La casa di Eloise era abbastanza grande per permettere a due persone di viverci comodamente. Era situata in un bel quartiere ben collegato con il centro. Non ci si poteva di certo lamentare.

Lucy sapeva che prima o poi avrebbe dovuto contribuire al suo mantenimento, non poteva lasciare che sua cugina continuasse a occuparsi dell’affitto e delle varie spese.

I suoi genitori mensilmente caricavano del denaro sul suo conto, ma la vita frenetica di Londra ne risucchiava gran parte.

Forse accettare quell’impiego per tre settimane non era una cattiva idea, specialmente se lo stipendio era davvero alto come Eloise decantava. I lavoretti da fotografa nelle varie festicciole non rendevano più un granché.

Almeno in quel modo avrebbe potuto mettere da parte qualche soldo e sentirsi meno di peso.

Si alzò dal letto e uscì dalla camera per raggiungere sua cugina che se ne stava piegata sull’angolo cottura, dandole le spalle.

«E va bene» si arrese Lucy «Va bene, lo faccio!»

Eloise lasciò il coltello con cui stava tagliando la verdura e si girò fingendosi sorpresa. L’espressione stupita si trasformò presto in compiaciuta e la giovane corse ad abbracciare l’altra «Sapevo che alla fine avresti detto di sì» affermò sicura.

«Se qualcosa va male, non me ne prendo la responsabilità» l’avvisò Lucy ricambiando di svogliatamente l’abbraccio.

«Andrà tutto benissimo» la rassicurò Eloise. La liberò dalla stretta e iniziò a darle tutte le informazioni necessarie, mentre tornava a occuparsi della cena «Cominci alle otto e stacchi alle cinque e mezza/ sei, dipende da quanto c’è da fare. Hai un’ora di pausa per il pranzo. A volte i Price mi chiedono di rimanere se hanno ospiti per cena, ma Victoria è partita per Parigi e quando va in Europa di solito non ritorna per settimane. Se tutto va bene, non la incrocerai nemmeno».

«Quindi c’è solo il marito?» chiese in conferma Lucy.

«Sì. Per quello ti dico che andrà tutto bene: il signor Price non ha grosse pretese e passa la maggior parte del tempo fuori casa» versò dell’olio nella padella e si voltò a guardare nuovamente sua cugina «Sei sicura che non avrai problemi con la scuola?» le domandò.

«Adesso te ne preoccupi?» la ribeccò ironica Lucy «Le lezioni sono incominciate da poco e posso chiedere gli appunti in giro. I compiti per adesso sono semplici, posso svolgerli in poco tempo».

«Fantastico!» gioì Eloise «Domani allora vieni al lavoro con me, così ti do un paio di istruzioni e se riesco ti presento il mio datore di lavoro».

 

Lucy non credeva che esistesse ancora gente del genere.

Gente che preferiva assumere personale di servizio piuttosto che imparare a scaldare il latte o a piegare le lenzuola.

Gente che abitava in case gigantesche solo per il gusto dello sfarzo e non per vera necessità.

Solo a guardare quel palazzo, Lucy si sentiva piccola come una formica. E i Price possedevano soltanto un appartamento al terzo piano. No, si corresse, possedevano tutto il terzo piano e quello bastava e avanzava per intimidirla.

Eloise aprì il portone d’ingresso e salutò con un cenno della mano il portiere seduto alla sua postazione. L’uomo la riconobbe, ricambiò il saluto e non fece altri controlli.

Una volta che si furono chiuse le porte dell’ascensore, la giovane riprese a spiegare alla cugina il lavoro che sarebbe andata a svolgere.

Lucy memorizzava le informazioni e si ripeteva nelle mente quelle già acquisite per non farsi cogliere impreparata.

Un ingresso, una sala da pranzo, un salone per gli ospiti, un salotto privato, lo studio del padrone di casa, la camera personale della signora, una camera condivisa che a quanto pareva usavano molto poco, un paio di altre stanze per gli ospiti, un numero consistente di bagni e una cucina che collegava il corpo principale all’ala della servitù, dove si trovavano l’alloggio della cuoca, la dispensa e la cantina.

Betty Wheeler, in assenza di Eloise, era il capo assoluto. Donna scorbutica se istigata, amabile se lasciata in pace. Lucy era una sua subordinata e non aveva possibilità di discutere gli ordini impartiti. Di fatto aveva l’obbligo imperante di prendere per oro colato tutto ciò che Betty Wheeler diceva e comandava. Su questo punto Eloise non aveva ammesso repliche: era un ottimo modo per mettersi in pace l’anima e assicurarsi che sua cugina fosse sempre controllata.

Vedere la casa con i propri occhi fu per Lucy un colpo: la descrizione di Eloise non rendeva affatto giustizia alla bellezza di quell’appartamento e soprattutto alle sue dimensioni. Il tour fu abbastanza a lungo e la ragazza si trovò costretta ad annotare le direttive sul suo cellulare per non dimenticarsele.

La cuoca apparve molto più gentile di come se l’era immaginata, le spiegò il suo metodo di lavoro, com’era organizzata la dispensa e tutto ciò di cui si doveva occupare per quanto riguardava la cucina. Mentre lei e Betty facevano conoscenza, Eloise si era cambiata con la sua divisa e stava sistemando la colazione sul vassoio da portare in sala da pranzo.

«Devo indossare questo?» chiese Lucy.

«Sì» confermò l’altra «Non sono di tuo gradimento?» la prese in giro.

«Temevo di dover mettere una di quelle stupide coroncine» commentò la bionda tirando un sospiro di sollievo. Poteva sopportare una polo e un paio di pantaloni, ma non si sarebbe mai piegata a un grembiule bianco.

«Ti viene solo richiesto di presentarti in ordine. Mettiti una camicia, dei pantaloni, fatti uno chignon e andrà benissimo».

«Non ti farò sfigurare» la tranquillizzò «E adesso che si fa?»

«Adesso vieni con me e ti mostro come disporre il cibo sul tavolo. Quanto tempo hai prima che cominci la tua lezione?»

Lucy diede un’occhiata veloce all’orologio «Devo scappare tra venti minuti al massimo».

«Bene, allora forse riuscirai a incontrare il signor Price. Di solito non fa mai tardi per la colazione».

Lucy trattenne una risata: sembrava che in quella casa tutto fosse perfettamente organizzato e misurato. Tutto avveniva sempre alla solita ora, nel solito modo. I Price dovevano essere dei fissati. Il marito in particolar modo le sembrava un brontolone noioso e precisino, almeno da quanto aveva percepito dai racconti di sua cugina.

Eloise stese una tovaglia bianca sul tavolo e apparecchiò con tazze, piattini, posate e bicchieri. Il cibo e le bevande vennero sistemati attorno al posto del padrone di casa.

«Normalmente lascio tutto su quel mobile» disse indicando un largo ripiano appena sotto lo specchio «Ma quando il signor Price è da solo preferisce avere tutto vicino».

Lucy si avvicinò al tavolo e prese in mano la forchetta «Costerà una fortuna» commentò.

«Non giocarci, è argento» la sgridò Eloise.

Lucy non se ne stupì. Se la rigirò tra le dita per osservarla meglio, ma le scappò via atterrando sul tappetto.

Eloise la fulminò. Lei sorrise impacciata e si piegò a raccoglierla.

Udì una porta aprirsi e subito dopo sua cugina salutò il suo datore di lavoro con voce sorpresa e imbarazzata.

Lucy si mise una mano sulla bocca e ricacciò giù una risata. Sarebbe stata una scena piuttosto divertente, sbucare fuori da sotto il tavolo e presentarsi come la nuova cameriera.

Si alzò con uno scatto e la mano tesa «Molto piacere!» trillò «Lei deve essere il signor Pri-» la voce le morì in gola e la forchetta cadde un’altra volta.

Christopher allargò gli occhi e il suo volto si pietrificò in una smorfia metà stupita e metà agitata. Eloise si mise una mano sulla fronte scandalizzata, ma non poteva nemmeno immaginare il motivo della reazione del suo capo.

«Signor Price, questa è mia cugina Lucy. Mi sostituirà per tutta la durata del mio corso» disse senza osare incrociare lo sguardo dell’uomo.

Christopher registrò le parole di Eloise e collegò tutti i tasselli.

«Eri la fotografa» mormorò «Alla festa di Tachery non eri la barista, eri la fotografa» concluse.

«Colpevole» scherzò Lucy «Non ti ho mai detto di essere la barista».

«Avevo tirato a indovinare».

Eloise adesso continuava a spostare gli occhi da sua cugina al padrone di casa. Corrugò la fronte e si chiese da dove provenisse quel tono confidenziale.

«Vi conoscete?» domanda forse superflua, ma necessaria a colmare qualche vuoto.

«Ci siamo incontrati alla festa di quel tale…quello che aveva bisogno di una fotografa» raccontò Lucy.

«Sullivan. Il signor Sullivan» la corresse Eloise a denti stretti. “Quel tale” non era proprio il modo più educato per definire il migliore amico dell’uomo che firmava l’assegno del suo stipendio.

«Sì, lo stronzo che ci prova con tutte pur avendo la fidanzata» recitò Christopher con un sorrisetto, ricordando il commento di Lucy alla festa.

Eloise dovette serrare la mandibola per evitare che cadesse a terra per lo stupore: il signor Price non aveva mai detto una parolaccia, almeno non in sua presenza. A pensarci bene non lo aveva nemmeno mai sentito parlare in maniera un po’ più colloquiale, era sempre molto rigoroso anche nel modo di esprimersi.

«Be’» riprese un po’ di contegno «Stavo mostrando a Lucy l’appartamento, così per farla ambientare un po’. La sto istruendo per il lavoro. Sempre che a lei vada ancora bene» si accertò dato gli ultimi sviluppi.

«Sì, certo» rispose cordiale lui «Non ho nulla in contrario», ma nella sua voce avvertiva una nota inquieta e quasi imbarazzata.

L’orologio alla parete segnò le otto e un quarto e interruppe il momento di tensione.

«Devo scappare o farò tardi a lezione» disse Lucy, contenta di poter filare via.

«Temo di dover saltare la colazione, ho una riunione alle nove» comunicò invece Christopher nello stesso istante.

Entrambi si guardarono sconcertati: il loro piano di sfuggire a quella situazione scomoda era miseramente fallito.

«Bene, allora prendiamo l’ascensore insieme» propose Christopher per educazione, questa volta mascherando benissimo il suo disagio «Eloise, se non hai ancora fatto colazione, serviti pure. E ricordati di chiamare l’antiquario per il quadro in salotto: la cornice è completamente rovinata».

La cameriera annuì e dubbiosa li osservò dirigersi verso l’uscita e chiudersi la porta alle spalle.

«Non avevo idea che mia cugina lavorasse a casa tua» ci tenne a puntualizzare Lucy, quando furono da soli, nel vano dell’ascensore.

Non seppe bene definire il motivo di quella precisazione; dopotutto non era accaduto niente di strano o di male. Si erano soltanto visti a una festa, avevano fumato una sigaretta, nulla di che. Ma lei si era anche comportata un pochino da sfacciata invitandolo a ballare senza nemmeno conoscerlo e non voleva dare l’impressione che stesse cercando di infilarsi nella sua vita, nella sua famiglia tramite Eloise.

«Non lo metto in dubbio» rispose Christopher sinceramente «In ogni caso non sarebbe un problema» la tranquillizzò.

«Se la cosa t’infastidisce…»

«Dovrebbe?» fu la replica dell’uomo. La sua reazione iniziale in effetti non era stata della più entusiaste.

Christopher non aveva nulla contro Lucy, semplicemente non si sarebbe mai aspettato di vederla in casa sua pronta a sostituire la sua cameriera.

D’altra parte non poteva neppure dire di essere totalmente a suo agio in sua presenza. Non che lei avesse fatto qualcosa di male, ma ripensando al loro primo incontro si era reso conto di averle permesso confidenze che normalmente non concedeva neanche a persone che conosceva da anni.

Fatto che lo aveva turbato non poco dato che Christopher Price non era proprio il tipo da lasciarsi trascinare dagli altri. La sua indole razionale e metodica lo spingeva a mantenere un certo distacco, un certo controllo delle situazioni.

Lucy lo aveva decisamente colto di sorpresa e Christopher non si sentiva incline a quelle esposizioni.

«Bene, suppongo che ci rivedremo presto» commentò lui non appena raggiunsero il piano terra. Attese che la ragazza scendesse dall’ascensore per poi imitarla «Buona giornata, Lucy» la salutò prima di dirigersi verso il portone e allontanarsi.

«Buona giornata» ripeté con un filo di voce la giovane mentre lo guardava andare via.

Uscì anche lei in strada e notò con dispiacere che la figura dell’uomo era già sparita. Si sistemò meglio la borsa sulla spalla e si avviò alla fermata della metropolitana.

Se prima non era comunque molto dell’idea di aiutare Eloise con il suo lavoro, adesso avrebbe volentieri rifiutato.

Lei era una fotografa. Che cosa ne sapeva di come si dirigeva una casa? Soprattutto se la casa apparteneva a quell’uomo tanto affascinante quanto sfuggente, capace di metterla in agitazione con un’occhiata.

Le sembrava di vedere i contorni della sua vita completamente sfocati: la sua avventura a Londra non stava andando come aveva programmato e quella appariva proprio come una battuta d’arresto. Temeva di allontanarsi troppo dal suo obiettivo, perdersi in problemi non suoi.

Anche se, a pensarci bene, nemmeno lei conosceva esattamente il suo obiettivo. Prendere il master in fotografia era un inizio, ma non aveva la più pallida idea di quello che avrebbe fatto dopo.

Era diventata una foglia trascinata dal vento, sballottata qua e là dalle circostanze, costretta a vacillare nelle sue stesse convinzioni.

In casa Price non avrebbe certo trovato quello che stava cercando.

Ma allora il suo posto qual era?

 

Il mio spazio:

Qualcuno si ricorda ancora di me?

In realtà questo capitolo (e altri tre) sono pronti da un po’ di tempo, ma non ho più aggiornato perché onestamente sentivo di aver perso la direzione della storia. Alla fine mi sono detta che era inutile tenerli nel computer a fare la muffa, quindi eccomi tornata. Sicuramente tutti voi siete giudici migliori di quanto lo sia io, spero davvero che mi lascerete un commentino con le vostre impressioni così in caso saprò come aggiustare il tiro.

Per quanto riguarda la questione della “cameriera” capisco che possa sembrare un po’ anacronistica, ma ci sono ancora famiglie abbienti che si avvalgono di figure professionali per gestire la casa.

Slightly out of focus (Leggermente fuori fuoco) è il titolo del reportage del fotografo Robert Capa, basato sul suo lavoro sulla Seconda Guerra mondiale.

Per adesso vi auguro una buona serata e spero di sentire presto le vostre opinioni.

Ringrazio tantissimo chi ha recensito e inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate.

 

Sissi Bennett

 



[1] Non so se ognuno di noi ha un destino o se tutti noi fluttuiamo in giro come spinti da una brezza, penso che forse si tratti di entrambe le cose. Forse entrambe accadono nello stesso momento.

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