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di marmelade
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***



Capitolo 1
*** I ***


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I
 
“Anche se quel giorno non ci fossimo incontrati, tutto sarebbe andato nello stesso modo.
Ci eravamo incontrati perché doveva succedere e, anche se non fosse stato quel giorno, prima o poi ci saremmo sicuramente incontrati da qualche parte”

Haruki Murakami
 

 

I've just seen a face
I can't forget the time or place where we just met

 
 
Luglio 2000.
 
«Potresti, cortesemente, spegnere questa sigaretta? Mi stai praticamente fumando in faccia, e la cosa mi urta leggermente il sistema nervoso».
Il ragazzo continuò a fissare intensamente il soffitto, cosparso di macchie di umidità, come se stesse pensando a qualcosa di veramente profondo, poi fece un ghigno e si voltò verso la ragazza al suo fianco.
«Rilassati, piccola, è solo una sigaretta» rispose, facendole poi l’occhiolino.
Lei, in tutta risposta, incrociò le braccia al petto – coperto solo da un lenzuolo – poi voltò lo sguardo verso il lato opposto e scimmiottò ciò che lui le aveva appena detto.
Lui rise. Posò nuovamente lo sguardo verso il soffitto e continuò a fumare indisturbato.
Altro che pensieri profondi. Pensò che il soffitto fosse davvero schifoso e che, probabilmente, gli sarebbe potuto cadere in testa da un momento all’altro. Forse doveva svignarsela da quella stanza – e anche in fretta, se non voleva morire spiaccicato a causa di un pezzo d’intonaco fradicio – eppure, per una volta dopo anni di scappatelle, si sentiva bene, nel luogo adatto. 
Anche se la stanza era davvero pessima e maleodorante.
«Qui dentro c’è puzza di muffa» disse ad alta voce, mentre uno sbuffo di fumo rilasciava le sue labbra.
«Ma puzzerai tu, casomai!» ribatté lei in risposta, mollandogli una gomitata nello sterno che lo fece piegare in due. Si alzò di scatto per il dolore, mettendosi seduto nel minuscolo lettino dalle lenzuola sporche e bagnate di vino.
«Ehi, calma bambolina!» esclamò, massaggiando il punto in cui era stato colpito. Alzò poi le mani, come per difendersi, notando un lieve sguardo truce sul volto della ragazza «non ho mica detto che tu puzzi di muffa!».
«Si da il caso...» e si mise seduta anche lei, coprendo prontamente il seno scoperto «che questa sia la mia stanza da quattro anni e, sì, puzza di muffa da ben quattro anni, ergo è come se tu avessi detto che io puzzo di muffa!».
Gli rivolse un ultimo sguardo truce prima di ributtarsi con poca grazia all’indietro, poggiando la testa sul cuscino e puntando gli occhi verso il soffitto. Dio, quella stanza faceva davvero pena.
Sul voltò di lui si dipinse un ghigno divertito. Smise di massaggiare il punto in cui era stato colpito e diede un ultimo tiro alla sigaretta, poi la spense in un bicchiere sul comodino lì accanto e si avvicinò col viso a quello della ragazza.
«Tu non puzzi affatto, anzi...» sussurrò, sospirandole accanto all’orecchio per poi lasciarle un bacio sulla spalla nuda.
Lei cercò di ritrarsi a quel contatto, ma rimase immobile a fissare ancora il soffitto, mentre le guance le andavano a fuoco e i capelli di lui le solleticavano il collo.
Scosse leggermente le spalle, come per cercare di darsi un contegno. Dopotutto, aveva pur sempre una dignità da mantenere.
«Con me non attacca, Casanova». Si voltò verso di lui, inarcando un sopracciglio. Incrociò i suoi occhi dal colore strano, e non poté fare a meno di notare quanto fossero belli e particolari.
Erano verdi – un verde prato, avrebbe detto, forse leggermente più chiaro - , con delle pagliuzze castane intorno così dannatamente chiare da sembrare dorate. Si vergognò dei suoi occhi banalmente castani a confronto di quella meraviglia.
Lui fece un sorriso sbilenco, facendo comparire una fossetta sulla guancia sinistra.
«A me sembra che abbia attaccato, invece» sussurrò, cercando di dare alla sua voce un tono più roco e sensuale del normale. Iniziò anche ad accarezzarle un braccio con un dito, dal basso verso l’alto, forse per incrementare i tentativi di seduzione.
Per tutta risposta, lei scoppiò a ridergli in faccia, e non solo per il solletico che le stava procurando in quell’istante.
Lui la guardò confuso. «Cosa c’è?»
«N-nulla...» balbettò lei, cercando di darsi nuovamente un contegno «è che sei talmente convinto di essere irresistibile che sei spaventosamente e pateticamente ridicolo!».
Scoppiò nuovamente a ridere sotto lo sguardo ancora più confuso di lui. Quest’ultimo poi, sorrise, mentre lei chiudeva gli occhi, strizzandoli per le troppe risate.
«Beh, puoi ammettere che non sono da buttare!» esclamò, aprendo le braccia, poi le cinse intorno ai suoi fianchi «e mi pare che tu non ti sia tirata indietro, stanotte, anzi... ti sei fatta avanti per ben tre volte!».
Detto ciò, lasciò che le sue mani vagassero lungo le gambe formose di lei, per poi fermarsi nuovamente sui fianchi per farle il solletico.
Lei rise ancora di più, dimenandosi e ribellandosi in quel letto dove avevano passato gran parte della nottata, forse un po’ troppo piccolo per due persone normali.
Eppure loro lì dentro ci stavano benissimo, in due. Era come se fosse stato fatto su misura proprio per loro, come se gli fosse stato costruito intorno.
Le grandi mani di lui le solleticavano velocemente i fianchi, mentre le gambe di lei colpivano ripetutamente il materasso un po’ troppo duro e scomodo, facendo si che il lenzuolo non coprisse più i loro corpi nudi e sudati.
Lei – chissà come – riuscì a bloccare le grandi mani di lui per poi dargli un buffetto sulla guancia. Afferrò prontamente il lenzuolo e se lo portò nuovamente sul corpo, coprendolo imbarazzata.
Lui se ne accorse e non poté fare a meno di trattenere un ghigno divertito. «Ehi, bambolina, di che ti vergogni? Guarda che ti ho già vista nuda».
Lei sgranò gli occhi, ancor più imbarazzata, mentre lui scoppiava a ridere di gusto. Imbronciò le labbra, pensando che fosse un caprone vanitoso ed esuberante, poi gli diede un’altra forte gomitata, che lo fece gemere nuovamente dal dolore, ponendo fine a quella che lei trovata la risata più irritante sulla faccia della terra.
«Non mi chiamo “bambolina”» sbuffò lei, irritata, mentre lui continuava a lamentarsi dal dolore «non chiamarmi mai più così».
«Okay, piccola, relax!» esclamò, massaggiando nuovamente lo stesso punto in cui era stato colpito poco prima.
«Non chiamarmi nemmeno “piccola”».
«Come vuoi, dolcezza».
«Gesù, non chiamarmi nemmeno “dolcezza”!» sbottò adirata, colpendosi la fronte con una mano «Evita questi nomignoli idioti con me e risparmiali per la prossima che cadrà nella tua trappola! Ti ho già detto e ti ripeto che con me non attacca. Io ho un nome, ricordi almeno come mi chiamo?».
Lui si morse il labbro inferiore «Certo che mi ricordo... – tentennò in evidente difficoltà - Mandy...».
Lei scosse il capo e sospirò. «Avrei dovuto immaginarlo...».
Lui arricciò il naso, poi tentò di nuovo. «Meredith»
«No».
«Macy»
«Nemmeno»
«Marie»
«Neanche»
«Megan?»
«Neppure»
«Madeline»
«Ritenta, sarai più fortunato»
«Marlene!»
«Oh Gesù» esclamò esasperata «mi chiamo Margareth!».
Lui sorrise teneramente, cercando di darsi un’aria da angioletto indifeso, poi schioccò contemporaneamente le dita e la lingua contro il palato, puntandole poi verso di lei.
«Beh, però mi ci sono avvicinato, no?».
Margareth sospirò, scuotendo il capo. Si voltò completamente sul fianco destro, dall’altra parte della stanza, posando lo sguardo sul grosso comodino di fronte a lei. Non c’era rimasta male per il fatto che un ragazzo – anzi, il ragazzo per eccellenza – avesse dimenticato il suo nome dopo aver passato la maggior parte della nottata in quel letto.
Sapeva che l’avrebbe dimenticato dal primo momento in cui si erano presentati, qualche ora prima durante quella stupida festa post laurea, quando l’alcool non aveva ancora fatto il suo degno effetto e potevano ritenersi ancora mezzi sobri.
Non c’era rimasta male per il fatto che Ashton Irwin – impossibile dimenticare quel nome – avesse dimenticato che lei si chiamasse Margareth; probabilmente era una sua prerogativa (tipo istinto naturale) dimenticarsi i nomi delle ragazze con cui aveva passato qualche ora di sesso.
Anzi, lei poteva ritenersi anche più fortunata – onorata? – delle altre con cui era stato (quante ragazze c’erano nel College?) dato che avevano smesso da un bel po’ di fare sesso e lui era ancora lì, accanto a lei, nel suo minuscolo letto dal materasso scomodo.
Certo, aveva contribuito ad impuzzolentire ancora di più la stanza – già maleodorante di suo – con quelle dannatissime sigarette e aveva versato anche il vino rosso sulle sue lenzuola preferite, (senza farlo apposta, ovviamente) eppure era ancora lì. E non si era lamentato nemmeno del materasso scomodo, o del letto troppo piccolo.
Una domanda si fece largo nella mente di Margareth, mentre le si apriva un vuoto nello stomaco.
Che lei gli piacesse?
Rimase interdetta per un po’, sentendo i palmi delle mani che iniziavano a sudare – forse per il troppo caldo – poi scosse il capo, allontanando quel pensiero dalla mente. Quella sì che era una cagata vera e propria.
Forse era rimasto perché gli piaceva la vista che si intravedeva dalla sua stanza – almeno quello, se no la stanza avrebbe fatto davvero schifo – o perché nella camera di lui c’era Calum Hood impegnato con qualche altra ragazza. Tutto avrebbe avuto un senso logico e lecito, tranne ciò che aveva pensato lei.
Insomma, lui e lei erano esattamente agli antipodi e lei non poteva essere certamente il suo tipo.
Che avessero passato l’ultima notte della loro vita da giovani adulti insieme, aveva poco significato. Erano semplicemente ubriachi – Ashton anche troppo – felici per la laurea appena ottenuta e preoccupati per un futuro ignoto fin troppo imminente.
No, lei non era il tipo di Ashton Irwin, e Ashton Irwin non era il tipo per Margareth Ulbrier.
Ma non era il tipo per, o il tipo di?
I suoi pensieri vennero interrotti dal braccio di Ashton, posatosi improvvisamente intorno ai fianchi di lei, circondandoli con dolcezza. Poggiò il mento spigoloso sulla sua spalla, annusando il profumo del suoi capelli lunghi e castani. «A cosa pensi, Margo?» le domandò in un sussurro.
Sospirò, senza distogliere lo sguardo dal cassettone di fronte a lei. «Mi chiamo Margareth»
 Ashton fece una smorfia. «E io cosa ho detto?».
«Mi hai chiamata Margo».
«Non ti piace Margo?».
Margareth si voltò completamente verso di lui, posando i suoi occhi castani in quelli chiari di Ashton, che adesso la guardavano divertiti e in attesa di una risposta.
«Margareth. Mi piace Margareth» sentenziò lei pacata, forse fin troppo.
Ashton fece schioccare nuovamente la lingua contro il palato. «Naah, è troppo lungo. Niente contro il tuo nome, sia ben chiaro, eh...» detto questo alzò le mani come per difendersi, dopo essersi beccato l’ennesimo sguardo truce di quella lunga nottata «ma a me piacciono i soprannomi, sono svelti e pratici. Margo non è niente male, non trovi?».
Lei scosse il capo rassegnata, alzando leggermente le spalle. «Chiamami come ti pare, tanto, una volta usciti di qui, non ci rivedremo mai più».
Ashton sorrise divertito, soddisfatto della sua vittoria, mentre le spostava una ciocca di capelli castani dal volto. Già – pensò – non si sarebbero mai più rivisti. Effettivamente, non si erano nemmeno mai conosciuti.
Aveva trascorso quattro anni della sua vita chiuso in quel College e non aveva mai fatto caso a lei. Forse l’aveva incrociata qualche volta in mensa – magari l’aveva beccata in fila davanti a lui – o magari in cortile, ma non si erano mai rivolti la parola fino a quel momento.
Il fatto che non si sarebbero più rivisti provocò qualcosa di strano nel suo animo. Non per Margareth in sé, sia chiaro, ma per il semplice fatto che ciò voleva dire, non avendo più occasione di rivederla – anche per caso, in mensa – che non avrebbe mai più messo piede in quel College.
Era come se la sua giovinezza fosse completamente perduta.
Di lì a poco si sarebbe ritrovato a fronteggiare un futuro più spaventoso ed ignoto del presente stesso, e la cosa lo preoccupava. Lui non aveva ambizioni, non era mai stato chissà quale cima a scuola né tantomeno all’Università, l’unica cosa che gli piaceva fare davvero era divertirsi, andare alle feste, conoscere gente e ubriacarsi fino a star male. E suonare la batteria, ovviamente.
Sospirò amaramente. Forse avrebbe dovuto seguire di più i consigli di sua madre quando gli aveva detto di impegnarsi un po’ di più perché un giorno gli sarebbe servito. Ma questo era il suo più grande difetto: non ascoltare i consigli preziosi per pura e semplice pigrizia. E anche un po’ di presunzione, forse.
«Hai l’alito che ti sa di nicotina».
Ashton scosse leggermente il capo, ridestandosi dai suoi pensieri, incrociando nuovamente i suoi occhi in quelli di Margo. Sentì lo sguardo di lei fisso dentro di lui, come se volesse scrutarlo a fondo, e fu travolto da una leggera vergogna: gli occhi di Margo sembravano così puri ed innocenti, come se avessero  il dono speciale di guardare dentro le persone, e lui non era di certo un santo.
«Non ho una mentina a portata di mano, al momento– disse, sembrando davvero dispiaciuto – dovrai sopportarlo ancora per un po’, mi dispiace».
Margareth fece un mezzo ghigno. «Sopporterò ancora per un po’, allora».
Ashton sorrise e gli venne ancora una volta la voglia di spostargli una ciocca dei suoi capelli arruffati, posatasi dolcemente davanti al viso, ma lei fu più veloce e con un semplice sbuffo d’aria lo mandò all’indietro, per poi cucirsi sulle labbra un sorrisino soddisfatto.
«Sei triste».
Non era una domanda.
Ashton la guardò incuriosito, aggrottando la fronte e le sopracciglia. «Come, scusa?».
«Non far finta di non aver capito – disse lei, ruotando gli occhi al cielo – ho detto che sei triste».
Lui imbronciò le labbra. «E tu?»  cercò di deviare quell’affermazione che, sotto sotto, l’aveva scosso e non poco. Quella ragazza aveva davvero qualche potere strano.
Margareth sospirò, poi fece un mezzo sorriso. «Diciamo che non sono nel pieno della mia felicità, o almeno non quanto vorrei»
 «Come mai?» le domandò, sinceramente incuriosito, mentre si aggiustava meglio nel piccolo lettino, avvicinandosi di più a lei.
«Non lo so – rispose lei, alzando di poco le spalle – cioè, forse sì, però boh... mi sembra tutto così strano...».
«Qualcuno qui è seriamente confuso» la canzonò ridendo. A Margareth bastò solo uno sguardo per fulminarlo come si deve.
Lui alzò le mani in segno di resa. «Okay, scusa. Dicevi?».
Lei fece un sorrisino soddisfatto. «Dicevo che mi sembra tutto così tremendamente strano» aggiunse, rabbuiandosi nuovamente «è che ho passato quattro anni della mia vita qui, in questo College, in questa stanza, fino ad arrivare al punto di odiarlo con tutta me stessa. Ho aspettato per quattro anni il giorno della mia laurea e della liberazione di questo posto eppure, adesso che ci sono vicina così... – detto questo, avvicinò il pollice e l’indice, creando una minima distanza tra loro – sono spaventata a morte di uscire fuori. Ecco, l’ho ammesso: ho paura. Ho paura del futuro e di quello che mi aspetta una volta uscita. Ho paura di non riuscire a realizzare le mie ambizioni e i miei progetti, forse è proprio di questo che sono più spaventata... sono sempre stata determinata a realizzare la mia vita nel modo in cui l’avevo prefissata, e non posso permettermi di fallire...».
Ashton la fissò a lungo. Capì che quella ragazza con cui aveva passato la notte era completamente diversa da tutte le persone che aveva conosciuto in quei quattro anni, a partire da lui stesso. Sembrava così ambiziosa, così organizzata a realizzarsi, proprio al polo completamente opposto al suo.
La determinazione e la tenacia delle sue parole lo incuriosirono ancora di più. Se avesse dovuto lasciare quel College il giorno dopo, almeno voleva sentirsi realizzato di aver conosciuto qualcuno così distante da se.
«Che progetti hai?» le domandò sinceramente.
Margo sbuffò sonoramente. «Non ti interessa davvero» rispose, ridendo nervosamente.
Lo sguardo di Ashton si fece serio. «Invece sì. Mi interessa, sul serio».
Margareth si sentì stranamente a disagio da quelle parole che le sembravano realmente interessate a conoscerla. Le sembrò strano che Ashton – e non uno qualunque, ma Ashton Irwin – fosse interessato ai suoi progetti futuri. Se ne vergognò leggermente, ma poi si ricordò che non l’avrebbe più visto e che, magari, il giorno dopo, lui si sarebbe anche dimenticato di lei.
«Mi piacerebbe viaggiare, tanto» disse all’improvviso «esplorare nuovi posti e conoscere altre culture, anche se ho una paura matta di volare. Vorrei lavorare in una casa editrice e mi piacerebbe anche fare la giornalista. Non vorrei assolutamente insegnare, è la cosa che temo e odio di più al mondo. Odierei stare a contatto con i ragazzini puzzolenti che ti sparlano dietro, ti mandano le peggiori maledizioni e, nel migliore dei casi, ti bucano le ruote della macchina. E’ una cosa che farei volentieri anche io ai professori che mi hanno fatto più incazzare, ecco perché mi tengo lontana da quel mondo. E non mi sposerò, assolutamente. E poi, beh... il mio progetto più grande è quello di diventare una scrittrice».
Involontariamente, Ashton si ritrovò con un sorrisino stampato sulle labbra dopo aver ascoltato tutti i progetti di lei. «Wow... hai proprio pochi progetti!».
Margareth rise sommessamente. «Diciamo che questi sono i progetti che mi sono imposta di raggiungere prima dei trent’anni!».
Anche Ashton rise e pensò che lei fosse davvero una forza della natura. In quel momento, la stanza non gli sembrava più così tanto maleodorante.
«E tu, invece?» gli domandò Margareth, improvvisamente «che progetti hai da perseguire da qualche ora in poi?».
Si trovò completamente spiazzato. Lui non aveva progetti, non aveva scopi da raggiungere e non era determinato quanto lei. Avrebbe fatto la figura del coglione ritardato e costretto al fallimento immediato di fronte a lei. Non aveva programmi per il giorno dopo, figurarsi per la vita intera!
«Beh, io... – tentennò in difficoltà, sotto lo sguardo attento di lei – diciamo che non ho avuto ancora modo di pensarci per bene».
Margareth aggrottò leggermente le sopracciglia. Ecco, pensò Ashton, adesso mi starà giudicando e starà pensando che sono uno sfigato di merda senza ambizioni, rassegnato a svolgere un lavoro di merda per il resto della vita.
«Non c’è qualcosa che ti piace fare sul serio? Una cosa in cui metti tutto te stesso, intendo».
Non ebbe nemmeno il tempo di pensarci su, che il suo cuore rispose per lui. «Suonare la batteria, fare musica».
Lei sorrise teneramente, facendo si che Ashton ne rimanesse stranamente incantato. «Perché non ci provi, allora?» disse, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Potrei, sì, ma non so come».
Si sentì come un bambino indifeso che chiedeva ancora aiuto alla mamma. Tutta la reputazione che si era costruito in quei quattro anni era andata completamente a farsi fottere dopo una minima, minuscola frase.
Margareth imbronciò le labbra. «Nessuno sa mai come iniziare. Provarci sembra un passo avanti, almeno».
«Tu sai come iniziare» disse Ashton.
Lei scosse il capo. «Ti assicuro che io sono la prima persona al mondo a non sapere come iniziare, e nemmeno come finire. Ho dei progetti che potrebbero andare in porto, così come potrebbero affogare. E’ tutto un cinquanta e cinquanta: posso vincere, ma posso anche fallire. Ecco perché ho paura di abbandonare il College. Per quanto possa odiare questo posto... le sue mura, le sue aule e le sue stanze che sanno di muffa, mi hanno sempre dato sicurezza. Sapevo dove tornare nel caso in cui mi fossi persa. Adesso che ho finito la mia vita qui, mi sembra di vagare nel buio senza riuscire a trovare l’interruttore».
Ashton si guardò intorno. Anche lui si sentiva così, anche se non lo dava a vedere. Lasciare il College avrebbe significato iniziare da capo un nuovo capitolo, senza lasciare alcuna virgola a quello precedente.
Forse significava iniziare proprio un nuovo libro o, per esattezza, un sequel.
Margareth sfiorò involontariamente la sua mano. Si sentì leggermente più libera dal peso dei suoi progetti che non aveva confessato nemmeno alla sua migliore amica. Non sapeva se averli confessati ad Ashton fosse stata una cosa buona da fare, ma tanto non l’avrebbe più visto e ormai il danno era stato fatto.
Le sembrò strano – forse un segno del destino, come avrebbe detto sua madre – che i primi e gli ultimi occhi ad incontrare, nella sua ultima notte al College – e, precedentemente, durante il suo primo giorno in quel posto - , fossero stati quelli di Ashton. Se ne sentì stranamente onorata, in cuor suo, ma subito scacciò quel pensiero.
«Ehi» la richiamò Ashton. Lei scosse il capo, poi puntò i suoi occhi in quelli del ragazzo.
Ashton fece un sorriso malandrino. «Posso fumarmi un’ultima sigaretta?».
Margareth fece una smorfia di disgusto. Così avrebbe impuzzolentito ancora di più quella stanza umida dalla muffa stantia.
«Daai, è la nostra ultima notte qui! Domani non dovrai tornare in questa stanza, quindi non dovrai più sentire la puzza delle mie sigarette».
«E sia» sospirò rassegnata «ti concedo questa ultima sigaretta». Effettivamente, non aveva tutti i torti.
Ashton sorrise, facendole l’occhiolino. Allungò di poco il braccio verso il comodino, tastandolo per bene fino a che la sua mano non incontrò il pacchetto quasi finito. Ne estrasse delicatamente una sigaretta, portandosela alle labbra, poi prese l’accendino arancione pronto ad accenderla sotto lo sguardo di lei.
Lanciò uno sguardo fugace a Margareth, ancora rannicchiata su se stessa e, prima ancora di iniziare a fumare, prese la sigaretta e la poggiò sul comodino.
Lei lo guardò stranita, mentre lui sorrise.
«Prima, però, devo fare una cosa».
Raggiunse il volto di Margareth e poggiò la fronte contro la sua, accarezzandole dolcemente una guancia.
Prima ancora che lei potesse rendersene conto, lui aveva già poggiato le labbra sulle sue, baciandola delicatamente.
Margareth pensò che le sue labbra sapessero ancora di nicotina e questo la disgustò non poco, ma subito se ne dimenticò quando la lingua di Ashton s’inserì prepotentemente nella sua bocca, poggiandole poi una mano sul fianco coperto dal lenzuolo.
Fu un bacio disperato.
Un bacio di quelli che si danno per dichiararsi un addio definitivo, uno di quelli pieni di tristezza, malinconia e nostalgia per i baci passati o per quelli mai dati.
Quando Ashton si staccò da lei, le morse dolcemente il labbro inferiore prima di sorriderle in modo furbesco. Lei non poté fare a meno di ricambiare quel sorriso e pensò di aver messo davvero la sua dignità in un angolo, eppure non le importò così tanto. Era la loro ultima notte, e non si sarebbero mai più rivisti.
«Hai le labbra morbide» le sussurrò, accarezzandole leggermente col pollice.
Margareth sospirò, roteando gli occhi al cielo, esasperata. «Evita questi cliché romantici del cazzo per rimorchiarmi e fare colpo su di me. Ti ricordo che siamo già stati a letto insieme».
Ashton rise di gusto per poi sedersi tra le lenzuola; portò nuovamente la sigaretta alle labbra e dandole finalmente fuoco. Inspirò lentamente, godendosi a fondo quel primo ultimo tiro di quella notte, guardando dritto di fronte a se. Era quasi l’alba.
Anche Margareth guardò dritto di fronte a se. Era quasi l’alba di un nuovo mattino e di un nuovo inizio.
Avrebbe dovuto festeggiare, o magari passarlo nel migliore dei modi. Pensò a lungo a cosa poter fare, chi chiamare, ma la risposta, in cuor suo, la conosceva già.
«Ashton?»
«Mmh?»
«Ti andrebbe di accompagnarmi in un posto, domani mattina? Cioè, in realtà, tra qualche ora».
Si voltò verso di lei, cacciando una nuvoletta di fumo dalle labbra, poi le sorrise sincero.
«Certo, perché no. E poi?».
E poi?
Margareth sapeva che quella domanda, prima o poi, sarebbe arrivata. Avrebbe voluto rispondere in milioni di modi carini – come ad esempio “e poi ci prendiamo un caffè”, “e poi ci prendiamo un gelato”, “e poi camminiamo senza meta”, “e poi ridiamo fino a stare male, con le lacrime agli occhi” – ma c’era solo un’unica risposta.
«E poi niente» aggiunse, mascherando un tono triste con uno ovvio «ognuno per la sua strada. Non ci rivedremo più».
«Già» continuò Ashton in un sussurro, inspirando ancora un po’ di fumo «non ci rivedremo mai più».
 
All’alba di quella giornata, al primo canto lontano di un uccellino, in una stanza dall’intonaco umido e dall’odore di muffa stantia, in un minuscolo letto dalle lenzuola bagnate di vino e dal materasso troppo duro e scomodo, Margareth Ulbrier e Ashton Irwin, pensarono al bacio che si erano appena dati.
Era stato un bacio d’addio anche se, in realtà, loro un inizio non l’avevano mai avuto. 

 

 
Buuuonsalve a tutti! :)
Da premettere che sono nuova nel fandom, ovvero non ho mai pubblicato nulla sui 5SOS, quindii questa è la mia prima fanfiction in assoluto su di loro! E' che mi sono sembrati talmente taaanto genuini che non ho potuto resistere alla tentazione... soo, eccomi qui! 
Sfortunato Ashton come potagonista delle mie idee malsane, sfortunata io, adesso completamente pazza di luuui ç_ç 
C'è da dire che questa fanfiction è ispirata a "One Day" (libro di David Nicholls, riadattato poi come film ed interpretato da Anne Hathaway e Jim Sturgess) ma riadattata a modo mio. Chi ha letto il libro o visto il film, può capirmi. Chi non l'ha fatto, beh, vi cosiglio di leggerlo/vederlo *-*
E quiindi nulla... spero che a qualcuno possa piacere questa fanfiction! :) 
Grazie mille per esservi soffermati a leggere, siete delle anime pie *-*
Al prossimo aggiornamento!
Un bacione enorme, 
Mary :)

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Capitolo 2
*** II ***


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II
 
“Certi legami sfidano le distanze, il tempo e la logica.
 Perché ci sono certi legami che sono semplicemente destinati ad essere”
Grey’s anatomy
 

≈ 
Cause you know I'd walk a thousand miles
If I could just see you tonight 
 
 
Maggio2003.
 
«Chi l’avrebbe mai detto».
Margareth portò una ciocca di capelli corti e lisci dietro l’orecchio, poi agguantò nuovamente la tazza fumante di caffè per portarsela alle labbra. Sorseggiò lentamente, tenendo lo sguardo basso, nascondendo un sorrisino che in realtà celava solo una smisurata felicità.
Scosse leggermente il capo, sorridendo ancora un po’, poi staccò le labbra dalla tazza e poggiò quest’ultima nuovamente sul tavolino di legno scuro.
Trattenne il labbro inferiore stretto tra i denti per evitare di scoppiare a piangere dalla felicità e dare spettacolo nel bar in cui si trovava, stranamente pieno di gente nonostante l’orario.
Si guardò ancora un po’ intorno prima di voltare lo sguardo di fronte a lei, incontrando un paio di occhi felici da fare schifo.
«Tra due mesi ti sposi».
Susie tamburellò nervosamente le lunghe dita affusolate sul tavolino traballante, poi morse l’interno della guancia per nascondere un sorriso. Incatenò ancor di più lo sguardo negli occhi dell’amica seduta di fronte a lei poi, improvvisamente, non seppe resistere alla tentazione di un sorriso a trecentosessanta gradi. Smise di far suonare le dita sul tavolo per poi battere rumorosamente il palmo della mano su di esso.
«Cazzo, tra due mesi mi sposo!»
A quel punto, l’intero locale si era voltato verso quel tavolo rumoroso, dove due ragazze – una alta e bionda e l’altra piccola e mora – avevano smesso di contenere la propria felicità e si erano alzate nello stesso momento, abbracciandosi goffamente, nonostante il tavolino tra loro impedisse quel gesto.
Susie saltellò leggermente sul posto ed emettendo chissà quali versi di gioia, cosa che fece ridere sonoramente Margareth. Da quanto tempo non si sentiva felice così?!
Si abbracciarono per lungo tempo, tenendosi strette ed aggrappate l’una con l’altra, come avevano sempre fatto. Si sedettero solo dopo che Margareth incrociò lo sguardo scioccato ed imbarazzato di uno dei camerieri, leggendo nel pensiero di quest’ultimo che le supplicava di sedersi e fare meno macello.
«Dio, Susie» le disse, una volta sedute, sventolandosi con una mano «non ci posso credere, davvero!».
«Non dirlo a me!» squittì la bionda con occhi sognanti «mi sento così strana, insomma, l’avresti mai immaginato?! Io che mi sposo... – scosse il capo, incredula, per poi battere nuovamente la mano sul tavolino in modo rude - roba da manicomio!».
Margareth rise, coprendo il sorriso con una mano. Involontariamente, qualche lacrima di gioia sfuggì dai suoi occhi, solcando lentamente le sue guance rosee per incorniciarle il viso.
Era così maledettamente strano, pensò.
 Susie, la sua migliore amica di una vita, la sua anima gemella, stava per sposarsi. L’avevano sempre pensata allo stesso modo riguardo al matrimonio: avevano deciso che per loro sarebbe stata una perdita di tempo, – e di libertà, soprattutto – una costrizione inutile e un suicidio mentale e psicofisico. Avrebbero preferito vivere da zitelle incallite, ma felici di poter fare qualsiasi cosa volessero senza che qualcuno – un uomo! – potesse impedirglielo.
Ricordava ancora il momento in cui Susie, nella notte dei suoi diciassette anni, era salita su un muretto altissimo – col coraggio datole da le due birre scolate poco prima – e aveva urlato al mondo che lei e la sua migliore amica Margareth non si sarebbero sposate mai. “Mai e poi mai!” aveva urlato in seguito, con la voce strascicata, per poi scoppiare a ridere insieme a Margareth, piegata in due in una risatina nervosa  dovuta all’effetto dell’alcool.
Quella era stata la prima volta in cui si erano ubriacate insieme, ancora troppo piccole ed ingenue per un mondo così ingannevole, ma furbe abbastanza da far credere al barista di aver già compiuto diciotto anni per bere alcolici.
Nonostante la sbronza, però, Susie sembrava davvero essere convinta di quello che aveva detto, ricordandolo alla sua amica giorno per giorno, anche quando – lontane chilometri a causa dei College differenti – si sentivano per telefono, dilungandosi in lunghe chiacchierate dal costo troppo elevato.
«Oddio, Margareth Ulbrier che piange per un matrimonio!» esclamò Susie, indicando le lacrime che scendevano fitte lungo il volto dell’amica. Si sporse leggermente verso di lei per asciugargliele con il pollice, ridacchiando sommessamente. «Devi esserti proprio rammollita in questi anni!».
Margareth cercò di ridacchiare tra le lacrime, ma tutto quello che ne uscì fu un singulto e una strana smorfia che fece ridere Susie ancor di più. Prese un fazzolettino di carta ruvida dal portatovaglioli d’alluminio di fronte a lei, soffiandosi sonoramente il naso e notando, nonostante gli occhi velati dalle lacrime, che anche gli occhi di Susie si erano improvvisamente riempiti di tristezza.
Mentre si asciugava gli occhi con un altro tovagliolino, lo sguardo di Margareth si poggiò su quella partecipazione di nozze dal colore puro e candido che la sua migliore amica le aveva dato poco prima, definendola solo come una “cosa di poco conto”.
“Susan Marie Wilden & Quentin Thomas Jefferson sono lieti di invitarla alle loro nozze nel giorno del ventuno Luglio...” . Margareth s’immedesimò per un attimo in Susie quando lesse il suo nome intero sulla partecipazione di nozze, immaginando le più assurde espressioni di disgusto sul volto della sua migliore amica: lei odiava il suo nome per intero. Unito alla partecipazione di nozze, poi... probabilmente era stata corrotta con qualcosa, pensò.
«Margareth?».
La mora scosse il capo, abbandonando i pensieri su come Susie si fosse fatta corrompere, per poi alzare il capo ed incontrare gli occhi castani di quest’ultima, continuando ad asciugarsi le lacrime.
Susie si torturò a lungo le mani prima di prendere un sospiro e riuscire a parlare. «Sei arrabbiata con me perché mi sposo?».
«Cosa?! No!» esclamò incredula, tirando su col naso. «Assolutamente no, ma cosa dici?!».
Susie sospirò ancora una volta, mentre qualche lacrima iniziò a rigarle il volto. «E’ che io e te abbiamo fatto quella promessa, ricordi, no?». Margareth annuì.
«Ecco, quella era la nostra promessa che non andava infranta per il primo uomo dotato di un arnese decente, e io l’ho infranta con questa storia del matrimonio» aggiunse, torturandosi ancora di più le mani, mentre altre lacrime le rigavano il volto. «Non ho fatto altro che ripeterti, in tutti questi anni, che io e te eravamo le vere ed uniche anime gemelle della nostra vita, fanculo l’amore, gli uomini e il matrimonio! Ce la saremo spassata alla grande senza alcun impedimento, e invece... cazzo, sono proprio una stronza!».
Susie si accasciò sul tavolino traballante, nascondendo il viso tra le braccia per poi singhiozzare forte.
«Susan, smetti di sparare cazzate!» sbottò Margareth, alzandosi in piedi e avvicinandosi a lei. Le poggiò una mano sulla schiena, accarezzandola piano, per poi sedersi sulle ginocchia ed arrivare a poca distanza dal suo viso.
«Non sono arrabbiata con te, come potrei mai esserlo?!» Susie singhiozzò ancora più forte, senza alzare lo sguardo. Margareth sospirò. Sorrise, mentre cercava di tranquillizzarla carezzandola. «E’ una cosa bellissima il fatto che tu voglia sposarti, vuol dire che hai trovato quello giusto. Quentin deve avere proprio un bell’arnese per averti fatto cambiare idea sul matrimonio, non credi?».
Susie ridacchiò tra i singhiozzi frequenti, lasciando che le carezze della sua migliore amica la tranquillizzassero al meglio. Alzò di poco lo sguardo, incontrando gli occhi dolci – e ancora un po’ umidi – di Margareth, che la guardavano felici.
Tirò su col naso, prima di fare un mezzo sorriso sghembo. «Beh, sì, in realtà l’arnese di Quentin non è male... e sa anche usarlo!».
Margareth scoppiò a ridere di gusto, seguita a ruota dalla sua migliore amica, la quale lasciò che le ultime lacrime le rigassero il volto prima di asciugarle prontamente con il dorso del suo maglione nero.
Margo avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vedere Susie felice. Aveva sempre saputo che, in cuor suo, la sua migliore amica sognava di poter indossare un abito bianco e candido, un giorno, e quel giorno sarebbe arrivato da lì a due mesi.
Conosceva Quentin abbastanza da poter dire che era un bravo ragazzo, pazzamente innamorato di Susie. Era riuscito a conquistarla nonostante il suo carattere sfuggente e sbarazzino e, soprattutto, era riuscito ad abbattere le paure di Susie nei confronti dell’amore. Era stato caparbio, tenace, nonostante lui fosse un tipo tranquillo e pacato – il contrario della sua migliore amica – e aveva raggiunto lo scopo di sposarla.
Sorrise. Chissà se qualcuno, un giorno, avrebbe fatto lo stesso per lei.
Scosse il capo, allontanando quel pensiero, avvicinando il suo volto a quello di Susie. «Smettila di farti mille paranoie» le sussurrò in un orecchio mentre la coinvolgeva in un abbraccio «andrà tutto bene. Siete innamorati, non c’è cosa più bella al mondo».
Susie annuì lentamente col capo, stringendosi un po’ di più in quel caldo abbraccio, per poi posare le labbra sulla guancia di Margo. «Quindi non sei arrabbiata con me, vero? Perché posso sempre annullare tutto e fuggire con te in qualche contea sconosciuta e fare di te la mia unica sposa».
Margareth ricambiò ancor più forte quell’abbraccio. Sentiva le costole storcersi, ma non le importava: era Susie. «Ammetto che l’idea è allettante» rispose in una risatina sommessa «ma abbiamo tempo per fare anche quello. E no, non sono arrabbiata con te».
«Meglio» aggiunse Susie, staccandosi improvvisamente da quell’abbraccio per poi rivolgere un sorriso – abbastanza ambiguo, pensò Margareth – «se no come faccio senza la mia damigella d’onore?!».
Margo rimase come pietrificata. Portò entrambe le mani alla bocca presa dallo sgomento e dalla sorpresa, nascondendo un sorriso che non era passato inosservato agli occhi curiosi ed attenti di Susie.
«Io?!» domandò incredula con la voce ovattata, quasi senza fiato «oddio, Suz, tu sei pazza... completamente folle!». Susie rise di gusto, prendendo le mani di Margo tra le sue e stringendogliele forte.
«E chi se non tu?! Chi meglio della mia anima gemella può mettermi a figura di merda durante il discorso del ricevimento?! Tu ne conosci una più del diavolo su di me, Margie!».
Margareth le sorrise emozionata, tralasciando il fatto che l’avesse chiamata col nomignolo che le aveva affibbiato sua madre da piccola e che Susie utilizzava solo quando aveva bisogno di ricattarla.
Forse questo era uno di quei casi.
«Io ti odio, Susan!» esclamò, alzandosi in piedi, puntandole contro l’indice con fare minaccioso «preparati al discorso più cattivo, stronzo e meschino nella storia di tutti i matrimoni!».
Susie rise forte, battendo di nuovo sonoramente le mani sul tavolo mentre Margareth tornava al suo posto e la guardava divertita. Ormai il suo caffè era diventato imbevibile, quindi lasciò che quel poco che ne era rimasto si raffreddasse ancora di più nella tazza del bar.
«Sapevo che non mi avresti detto di no» le disse, giocherellando con la tazza di fronte a se, ormai vuota da un pezzo «oh e, in qualità di damigella d’onore, ti proibisco categoricamente di venire da sola!».
 Se in quel momento avesse avuto qualcosa da mangiare in bocca, si sarebbe sicuramente strozzata.
«Susie, questo è veramente folle!» esclamò Margareth, scioccata «posso accettare il matrimonio, l’incarico della damigella d’onore, il discorso e tutto il resto, ma questo è assurdo!».
«Oh, andiamo Margareth, hai ancora due mesi! Mi sembrano sufficienti per incontrare qualcuno» aggiunse Susie, incrociando le braccia al petto.
Margareth sospirò rassegnata, scuotendo il capo. Non aveva voglia di essere accompagnata da qualcuno a quel matrimonio. Stava per dirglielo e risponderle acidamente, quando il cellulare le squillò improvvisamente. Susie inarcò un sopracciglio soddisfatta, indicando poi quell’aggeggio con un cenno del capo.
«Che fai, non rispondi? Potrebbe essere importante».
Margareth alzò il dito medio nella sua direzione, facendola ridacchiare silenziosamente, per poi aprire con un gesto secco il telefono e rispondere atona.
«Pronto».
«Uuuh, qualcuno sembra arrabbiato!».
Nonostante il baccano proveniente dall’altro capo del telefono, Margareth riconobbe perfettamente quella voce, ed ebbe un singulto. Qualcosa le si aprì nello stomaco al solo sentire quella voce dal ghigno costantemente divertito, e si domandò cosa fosse.
Fame – pensò improvvisamente – è sicuramente fame.
«Non sono arrabbiata» esclamò, tamburellando nervosamente le dita sul tavolo sotto lo sguardo curioso di Susie, che le domandava con gli occhi chi fosse «mi hai chiamata in uno strano momento».
«E come mai? Che cosa stavi combinando, eh?».
«Niente di ciò che tu possa pensare con la tua mente malata e perversa, Ashton!» esclamò infastidita.
Dio, quanto la irritava quel suo modo di essere così maledettamente malizioso.
Susie inarcò ancor di più le sopracciglia dopo aver sentito pronunciare quel nome, e sorrise. Margareth la guardò con uno sguardo interrogativo, mentre Ashton, dall’altro capo del telefono, rise di gusto.
«Okay, okay, come non detto!» aggiunse, e lei sentì il baccano iniziale affievolirsi, segno che si fosse allontanato.
Margareth sospirò, scuotendo veemente il capo. Era inutile rimproverarlo della sua malizia tanto, per quanto potesse scusarsi, avrebbe continuato – volontariamente ed involontariamente – a fare quelle stupide battutine a doppio senso.
«Come ti va la vita, Margo? Sei riuscita a sopravvivere senza di me, in questi mesi?».
Sbuffò. «Mi pare di essere ancora viva. Quindi, direi perfettamente, forse anche meglio».
Ecco un’altra cosa che odiava di Ashton sin dal primo momento in cui l’aveva incontrato: il suo smisurato ed incontrollabile egocentrismo.
Non si poteva dire che lo facesse apposta a mettere sempre prima se stesso e poi gli altri, era una cosa che gli veniva quasi in automatico, e lei certe volte lo tollerava. Capiva quando utilizzava il suo modo di esternare l’egocentrismo per un semplice scherzo o semplicemente per farla arrabbiare e ridere allo stesso tempo – come in quel caso – ma certe volte era davvero intollerabile.
Oltre ad essere tremendamente egocentrico, Ashton era anche estremamente logorroico, a tratti pedante, ma questo sembrava apportare un certo non so che alla sua figura di “ragazzo estremamente sexy” che, ovviamente, gli faceva avere intorno mille ragazze pronte a fare per lui qualsiasi cosa il “sovrano”avesse chiesto.
Margo le trovava semplicemente patetiche e ridicole, mentre Ashton pensava l’esatto contrario. Allora lei non faceva che propinargli uno dei suoi lunghi soliloqui su quanto la dignità di quelle ragazze fosse andata a finire sotto il loro tacco dodici e che tutte le conquiste della lotta femminista si erano ritirate in un angolo buio del mondo dopo aver assistito a quelle scene raccapriccianti, vergognandosi e chiedendosi dove fossero andati a finire tutti i loro i neuroni, ma Ashton – come al solito – rideva, le dava un pizzicotto sulla guancia, (o una pacca sulla spalla, dipendeva dalle circostanze) le avvicinava un po’ di più il boccale di birra e le diceva “rilassati, Margo, bevi per dimenticare!”.
Tutto ciò le faceva venire solo voglia di picchiarlo ma, invece, si tratteneva, domandosi semplicemente perché avesse continuato a frequentare quell’energumeno dai capelli scombinati e, soprattutto, come era riuscita a far diventare quello stesso energumeno il suo migliore amico.
La risatina di Ashton la fece ritornare per un attimo alla realtà e ad istinti meno omicidi del sovrannaturale.
«Tu, invece, come stai? Sei ancora in giro per il mondo?» gli domandò, mordendosi le pellicine intorno al pollice.
Susie la guardò storto, per poi darle uno schiaffo sulla mano per farla smettere. Margo la guardò in cagnesco, sussurrando un flebile “ahi” dopo la piccola botta ricevuta.
Non seppe come – e soprattutto perché- ma immaginò Ashton sorridere dall’altro capo del telefono e quella sensazione di fame prese nuovamente possesso del suo stomaco.
«In realtà sono appena tornato in città».
Margareth spalancò gli occhi e fece una smorfia incredula, mentre la sensazione di fame si apriva ancor di più nel suo stomaco. Susie se ne accorse e la guardò incuriosita, sporgendosi di più verso l’amica come se volesse ascoltare la conversazione. Quest’ultima le lanciò un’occhiata fulminante, ma la fece fare. Meglio se avesse ascoltato con le sue orecchie, tanto dopo l’avrebbe comunque stressata per sapere ogni minimo e inutile particolare di quella conversazione.
«Oh» esclamò atona, forse fin troppo. Ashton se ne accorse e sorrise dall’altro capo del telefono.
«Non sei contenta?»
«No! Cioè, sì!» tentennò, mordendosi ancor più nervosamente le pellicine sotto lo sguardo ancora più impaziente e curioso di Susie.
«Sì, certo, sono contenta, sono solo... sorpresa... boh, sì, cioè... sì, sorpresa».
Ashton rise. Adorava coglierla di sorpresa e mandarla in confusione, era una cosa che trovava estremamente adorabile.
«Beh, allora... sorpresaa!» esclamò, per poi ridere di nuovo.
Involontariamente sul volto di Margareth si dipinse un sorrisino, mentre le guance diventarono ancora più rosee. Ashton era tornato.
Susie guardò la sua migliore amica arrossire e assumere un colorito quasi violaceo, quindi inarcò un sopracciglio e le sorrise maliziosa. Quando Margo se ne accorse, capì di essere diventata un pomodoro, di aver sorriso e di essersi completamente rammollita, quindi diede una leggera gomitata a Susie, che si spaventò di botto.
«Stronza!» boccheggiò incredula, sussurrando ogni minima parola per non farsi sentire «dimmi cosa sta succedendo!».
Margareth mimò un flebile “è tornato” con le labbra, e non riuscì a contenere un ulteriore sorrisino.
Quando se ne rese conto era troppo tardi per rimediare a quelle figure di merda. Si era rincoglionita.
«Ci sei ancora, Margo?» le domandò preoccupato.
«Sì, eccomi... sono qui, sì!» boccheggiò colta alla sprovvista, facendo ridestare anche l’interesse di Susie.
«Allora stasera ci vediamo!» esclamò Ashton, una voce incredibilmente trillante per i gusti di Margo.
«Stasera lavoro, Ash – gli ricordò in tono lugubre - così come domani sera. E così come tutte le sere a venire» anticipò anche le risposte che avrebbe dovuto dare alle domande che lui le avrebbe posto successivamente.
«Appunto. Ti vengo a trovare al pub» aggiunse lui, ancor più prontamente di lei.
Margareth quasi si strozzò con la sua stessa saliva. «Non credo sia una buona idea, Ashton».
«Me ne frego delle non buone idee. Riservami il tavolo migliore!».
«Ashton, dico sul serio...»
«Alle nove sarò lì, puntuale, lo prometto!»
«Non è una questione di puntualità...»
«Ci vediamo stasera, Margo!»
«Ash! Ashton!».
Con il suo solito menefreghismo, Ashton Irwin le aveva attaccato il telefono in faccia senza nemmeno chiederle il perché non potesse presentarsi quella sera stessa nel locale in cui lavorava.
Sbuffò irritata prima di chiudere con forza il telefono e, con altrettanta forza, sbatterlo sul tavolino traballante.
«Beh, allora? Che ha detto?» le domandò Susie curiosa, notando la reazione di Margo.
«Ci vediamo stasera» le rispose quest’ultima, arrabbiata, incrociando le braccia al petto per poi accasciarsi lungo lo schienale della sedia.
Susie inarcò un sopracciglio, stranita. «E non sei contenta?»
«Cazzo, no!» sbottò Margareth, allungandosi in avanti. Cercò di darsi un contegno facendo un lungo sospiro, proprio per evitare di avere una crisi di nervi nel bar e dare apertamente spettacolo.
«Odio quanto viene a trovarmi a lavoro» ammise, massaggiandosi la fronte «è così... così... frustrante vederlo seduto lì che mi da ordini facendo finta di non darmi ordini perché, diavolo, lui non può darmi ordini, sono la sua migliore amica, quindi sarebbe estremamente strano! Ma sono anche una cameriera, purtroppo, oltre ad essere la sua migliore amica, quindi lui deve per forza darmi ordini perché sono anche l’unica cameriera di cui si fida in quel posto di merda perché, guarda un po’... sono la sua migliore amica!».
A quel punto aveva già alzato di un tono la voce, quindi il suo piano di non dare spettacolo era andato completamente a farsi fottere. “Fanculo, che cazzo avete da guardare?” pensò, mentre tutte quelle persone intorno a lei la guardavano straniti e scandalizzati allo stesso tempo.
«Margareth, calmati, su...». Susie le prese una mano, carezzandone lentamente il dorso, rivolgendole un mezzo sorriso. Essere così agitata per una piccolezza non era da lei, pensò, ma si trattava pur sempre di Ashton. Decise di non riprendere la sua famosa teoria per evitare di farla esplodere nella più totale incandescenza e perderla per sempre, così si limitò solo a delle parole di conforto.
«E’ pur sempre il tuo migliore amico, Margo, è stato fuori tre mesi per un tour intorno al mondo, è normale che voglia vederti... non inventarti cazzate con me, ti conosco benissimo, anche tu sei contenta di rivederlo».
Margareth sospirò. In cuor suo, sapeva che Susie aveva ragione e che rivedere Ashton le avrebbe fatto scoppiare il cuore di gioia, eppure era una frustrazione al tempo stesso.
Lui era Ashton Irwin, il ragazzo che un tempo non aveva ambizioni, quello destinato ad un lavoro di merda ma che, invece, aveva realizzato quel sogno che aveva confessato solo a Margo durante quella notte di tre anni prima.
Quante cose erano cambiate, durante quegli anni.
Margareth si era trasferita in città, divideva uno sputo di bilocale con una sua vecchia compagna di college, – in verità tre, se proprio si voleva contare il ragazzo di quest’ultima che si era momentaneamente trasferito da loro da circa un anno e mezzo – lavorava in un pub dall’altra parte della città e non aveva realizzato nemmeno una delle sue aspirazioni. Ci aveva provato, ma aveva dovuto trovarsi un lavoro perché, a venticinque anni – tra un mese, avrebbe sottolineato – non poteva farsi mantenere ulteriormente dai suoi genitori poiché, tutto ciò, avrebbe avuto gravi ripercussioni sulla sua indipendenza di cui era tanto fiera. Aveva provato a scrivere un libro, ma era sempre rimasta bloccata al capitolo tre, senza mai riuscire a spostarsi di una virgola. Scriveva poesie ogni tanto, sul taccuino delle ordinazioni, ma erano stupide per la maggior parte, quindi ne strappava sempre i fogli per poi conservarli in un baule buttato nell’angolo della sua camera.
Ashton, invece, era leggenda. O almeno lui così aveva l’onore di definirsi. Margo gli ricordava sempre che non doveva avere la presunzione di identificarsi come tale, ma almeno come una mezza leggenda, o meglio, una leggenda agli esordi della carriera, ma lui niente.
Da due anni – dopo un anno di bivacco totale mantenuto dai suoi genitori – Ashton si era deciso, aveva stretto i denti e aveva rimesso su la sua vecchia band con i vecchi compagni del College, tali Michael Clifford, un ragazzo dai capelli dal colore diverso e sgargiante ogni mese; Luke Hemmings, un ragazzo biondo e dagli occhi cielo apparentemente tranquillo; e il suo immancabile – e pervertito, avrebbe aggiunto Margo – compagno di stanza, Calum Hood. Tutti e quattro si erano messi di impegno e avevano cercato di farsi notare da qualche produttore discografico: avevano tenuto duro, ci avevano messo tutta la passione del mondo ed erano arrivati al successo. I 5 Seconds of Summer.
Margareth lo trovava un nome un po’ idiota, in realtà, ma quelle poche volte in cui aveva chiesto del perché di quel nome, Ashton le aveva rivolto solo un sorrisino, accompagnato da un divertito “forse un giorno capirai” , anche se lei non avrebbe voluto aspettare quel fatidico “giorno” per scoprirlo. Voleva saperlo adesso.
Ad ogni modo, aveva realizzato il suo sogno di diventare un batterista.
Girava il mondo su un vecchio autobus maleodorante e malandato, costretto a sottoporsi a dei frequenti controlli per mantenere viva l’incolumità dei suoi passeggeri, i quali contribuivano a rendere puzzolente quell’abitacolo a causa delle continue sigarette accese e fumate senza rispetto, tra risate e cagnara incessanti.
Di relazioni serie, poi, nemmeno a parlarne: per Ashton erano una costrizione inutile, una palla al piede da portarsi dietro che gli avrebbe sicuramente oscurato il divertimento assoluto e tanto agognato; per Margo un qualcosa che non sfiorava nemmeno l’anticamera del cervello. Non aveva tempo per un uomo, lei.
Entrambi sfuggenti in modi diversi davanti all’amore. D’altronde, lo avevano sempre fatto.
In ogni caso – anche se fosse stato l’ultimo giorno di entrambi sulla terra, anche se ci fosse stata un’invasione aliena letale per il mondo intero, anche se un meteorite avesse attraversato il cielo pronto per far scoppiare in aria tutti quanti – lei non aveva voglia di rivedere Ashton sul posto di lavoro.
Era quasi gelosa di quello che lui aveva realizzato, mentre lei si era arresa al primo ostacolo.
Era sempre stata lei quella con le ambizioni e la tenacia, cosa era cambiato così tanto da far ribaltare i ruoli?!
«Margie?» la richiamò Susie, vedendola in uno stato di trance.
Margareth sussultò per un attimo, colta alla sprovvista, poi aggrottò le sopracciglia sentendosi richiamare nuovamente in quel modo. «Qualunque cosa tu mi stia per chiedere, la risposta è no, Susan. Non con quel nomignolo di merda...».
Susie sorrise. «Perché non chiedi ad Ashton di accompagnarti al mio matrimonio?» chiese con naturalezza, poggiando il mento su entrambi i palmi delle mani.
Per tutta risposta, lei non si fece intenerire dagli occhi dolci che la sua migliore amica le aveva appena rivolto, e scosse veemente il capo. «Non se ne parla neanche».
«Ma perché?!» esclamò la bionda, quasi indignata.
«Mi direbbe di no, Susie, lo conosco troppo bene» sbuffò, roteando gli occhi al cielo «e poi lui odia i matrimoni» aggiunse. Ovviamente non era vero, ma cercò di sembrare quanto più realistica e veritiera possibile per porre fine a quella conversazione.
Susie inarcò un sopracciglio. «Passerò sopra al fatto che tu mi abbia appena mentito per dirti solo che non ti mangia nessuno se glielo chiedi. Potrebbe essere un’occasione in più per passare un po’ di tempo insieme prima che lui torni a girare il mondo».
Margareth ingoiò quell’amaro boccone appena sputato dalla sua migliore amica. Di lì a poco lui sarebbe ripartito e chissà quando si sarebbero rivisti o semplicemente risentiti. La cosa – non tanto stranamente – la rese improvvisamente triste. Per quanto fosse rilassante non avere quella sottospecie di ciclone intorno, la sua mancanza era abbastanza vivida e sentita quando i mesi interi di tour lo risucchiavano dalla sua vita sociale.
D’altronde, era solo una semplice richiesta priva di doppi fini.
Intrappolò il labbro inferiore tra i denti e poi mise da parte l’orgoglio per una giusta causa. Si trattava pur sempre del matrimonio di Susie.
«D’accordo» sospirò rassegnata «Glielo chiederò stasera stessa».
Susie si aprì in un enorme e raggiante sorriso, soddisfatta di essere riuscita a convincere la sua migliore amica a compiere quel semplice gesto, che Margo ricambiò timidamente.
Ripresero a parlare del matrimonio e di tanti altri e vari argomenti – tra i quali dei pettegolezzi che Susie aveva appreso riguardo alcune delle loro vecchie e comuni amicizie – con i quali Margareth cercò di tappare i propri pensieri per soffocare quello strano turbinio di sensazioni che si era aperto nuovamente in lei ed affogare quello stupido senso di colpa nei confronti dell’amica.
Non era vero il fatto che non volesse nessuno che l’accompagnasse al matrimonio.
Il primo colore che le era venuto in mente, quando Susie gliel’aveva categoricamente imposto come un ordine, era stato un semplice e meraviglioso verde prato.

~
 
«Due porzioni di nachos al ventitré, quattro hamburger piccanti al numero otto, una pizza ai quattro formaggi al quindici e, oh... hai dimenticato la salsa barbecue al numero tredici».
La ragazza rossiccia annuì col capo dopo le parole di Margareth poi, rapida come un fulmine, si avviò nelle cucine per riportare la notizia degli ordini appena arrivati dalla sala.
Margareth poggiò le mani sui fianchi, sospirando. Nonostante fosse lì da due mesi, Tilly – la ragazza dai capelli rossicci – non aveva ancora acquisito la rapidità necessaria per sopravvivere in quel via vai di ordini e contrordini. Si passò una mano tra i capelli corti prima di strappare alcuni fogli dal taccuino e attaccarli su una lavagnetta di sughero lì vicino, dove vi erano altri infiniti ordini. Il venerdì sera era sempre un macello.
«Margareth?».
Si voltò dopo che la timida e flebile voce di Jaden raggiunse – non seppe come – le sue orecchie, tenendo in una mano una piccola puntina dal colore rosa e nell’altra il taccuino dalla copertina nera e rovinata.
Rivoltò gli angoli delle labbra all’insù per cercare di essere quanto più comprensiva e meno antipatica possibile nei suoi confronti, nonostante il nervosismo incessante. Non che gli stesse antipatico, certo, ma non le era nemmeno così simpatico: era una tolleranza civile, la sua, nei confronti di Jaden, nonostante gli avesse ribadito più e più volte di cercare di essere più sveglio e di rivedere il suo repertorio di battute, stantie e squallide come poche.
Notò un lieve rossore imbarazzato sulle gote di Jaden dopo quel sorriso. «Al bancone chiedono di te, insieme a due Heineken» la informò il ragazzo «è quel batterista strampalato» aggiunse, e Margareth non poté fare a meno di notare una lieve nota infastidita nella sua voce. Sapeva che Jaden ci provava con lei da un bel po’- anzi, era arrivato praticamente ad esternarlo con quella sua richiesta di un simil appuntamento - ma cercava sempre di non farci troppo caso e di trattarlo sempre alla stessa maniera, senza mai sfiorare limiti che avrebbero potuto fargli credere che, da parte di Margareth, ci fosse qualcosa in più della semplice e civile tolleranza.
«Non è strampalato» si ritrovò a difenderlo, inaspettatamente. Si rese conto a che livelli fosse arrivata, vergognandosene quasi, così scosse il capo sotto lo sguardo stranito di lui. «E’ semplicemente un po’ bacato» aggiunse prontamente, scatenando un sorrisino divertito sulle labbra carnose di Jaden.
«Beh, comunque ti aspetta al bancone. Ha chiesto esplicitamente di te, nessun’altro».
Tipico di Ashton, pensò Margo, mentre Jaden si allontanava verso la cucina per recuperare alcune delle ordinazioni.
Si avvicinò all’enorme frigorifero e lo aprì con due mani, per poi afferrare le due Heineken dal collo verde scuro e richiudere l’anta dal colore argenteo con un calcio molto poco fine. Fece un lungo sospiro mentre si avviava verso la grande sala gremita di gente, tenendo quanto più stretti possibile i colli delle birre tra le dita piccole e tremolanti. Un caldo chiacchiericcio raggiunse le sue orecchie non appena mise piede nella sala, incontrando occhi diversi e sguardi fugaci, senza raggiungere quello che tanto aveva bramato e che aspettava impaziente di rivedere dopo tre lunghissimi mesi.
Si fece largo tra la gente, scansando spalle maschili e perfetti fianchi femminili, fino a raggiungere il luogo in cui Ashton l’aspettava. Perché due birre, poi? Sapeva benissimo che lei non poteva assolutamente bere durante l’orario – e soprattutto sul posto – lavorativo.
Le sue domande trovarono finalmente una risposta quando una ragazza bionda si scostò dalla sua visuale per lasciare spazio ad una scena raccapricciante e nauseante. Scosse nuovamente il capo, alzando gli occhi al cielo.
Tipico di Ashton.
Quest’ultimo – una maglietta grigia con le maniche rivolte verso i gomiti e dei jeans neri aderenti alle gambe – era avvinghiato ad una ragazza prosperosa, dai capelli neri e setosi che le arrivavano lunghi al sedere. Margareth si accorse che i capelli dell’amico erano cresciuti di qualche centimetro dall’ultima volta che si erano visti quando la ragazza li strinse tra le dita durante quel lungo bacio – disgustoso, convenne Margareth – passionale.
D’un tratto, Ashton si staccò quasi senza fiato da quella ragazza per poi rivolgerle un sorriso ammiccante, mentre lei continuava a passare le mani tra i capelli biondo scuro di lui. Quest’ultimo le fece un occhiolino prima di sussurrarle qualcosa nell’orecchio che, a quanto pare, doveva essere davvero esilarante, dato che la fece ridacchiare in un modo che Margo ritenne estremamente irritante, snervante e disgustoso, così come la scena alla quale aveva avuto l’onore di assistere. Senza accorgersene, sul suo volto si formò un’espressione di estremo ribrezzo.
Improvvisamente, Ashton voltò lo sguardo da parte a parte della sala prima che i suoi occhi incrociassero la figura dell’amica, immobile a pochi centimetri da lui e con le due bottiglie di birra richieste tra le dita.
Le sue labbra si aprirono in un enorme sorriso sincero e la sensazione di vuoto che l’aveva assalito per tutti quei mesi scomparve non appena incrociò i suoi occhi castani, anche se con qualche difficoltà.
Fu pervaso da un’improvvisa contentezza quando Margareth, a parte una smorfia di disgusto iniziale, gli rispose con lo stesso sorriso radioso. Ashton mollò la presa sui fianchi della ragazza per avviarsi verso Margareth, annullando quei pochi centimetri che lo separavano da lei mentre, quest’ultima, in risposta, compì dei piccoli passi per raggiungerlo, nonostante le difficoltà di spazio.
«Margo!» esclamò nel suo orecchio, abbracciandola forte. Si perse nel profumo dei suoi capelli. Era come lo ricordava: un dolce ed intenso mix di cocco e vaniglia.
«Ehi, rockstar!» lo salutò lei in risposta, alzando la voce e cercando di abbracciarlo al meglio, nonostante la difficoltà delle due birre tra le dita.
Ashton strinse la presa intorno ai fianchi di Margo, mentre faceva scivolare le dita della mano destra lungo tutta la sua schiena, provocandole dei brividi non poco indifferenti. Dio, quanto le era mancata.
Margareth chiuse gli occhi, godendosi appieno quel contatto che le era venuto meno per tre mesi. Poggiò il mento sulla spalla larga di Ashton, mettendo da parte l’orgoglio e tutto il resto. Era pur sempre il suo migliore amico, ed era lì, con lei. La cosa, per quanto cercasse di nasconderlo a se stessa, la riempiva estremamente di gioia.
Ashton si staccò improvvisamente da lei ancora col sorriso sulle labbra, poi la squadrò da capo a piedi, sotto lo sguardo curioso dell’amica. La guardò intensamente negli occhi, restaurando un contatto che fece accapponare la pelle a Margo. Lui le sorrise ancora, e Margo pensò di essere morta e resuscitata allo stesso tempo.
Fece un ghigno divertito mentre le gote di Margo si coloravano intensamente di rosso e le lunghe dita di lui andavano a finire nei morbidi capelli castani di lei. «Hai tagliato i capelli! Ti stanno bene, lo sai?».
Margo sorrise imbarazzata, lasciando che uno sbuffo d’aria rilasciasse le sue labbra per aggiustare un ciuffo di capelli cadutole davanti agli occhi. Ashton sorrise teneramente a sua volta: da quanto tempo non le vedeva compire quel gesto.
«Grazie» rispose lei, per poi accennare col capo ai suoi, di capelli «i tuoi invece sono cresciuti»,
Ashton si passò una mano tra i capelli chiari e spettinati, annuendo impercettibilmente col capo. «Già, dovrei tagliarli».
«Dovresti. Sembri un barbone!» convenne Margareth, imbronciando teneramente le labbra in una smorfia che fece sorridere Ashton ancora una volta. Poi, il suo sorriso, si tramutò in malizia.
«Beh» cominciò, inarcando un sopracciglio «intanto lo stile da barbone sta dando i suoi buoni frutti...» aggiunse, per poi indicare col il pollice la ragazza dietro di lui che, intanto, si guardava spaesata intorno. «Non credi anche tu?».
Margo sbuffò, roteando gli occhi al cielo per poi riportare lo sguardo sul volto di Ashton, che non aveva abbandonato quella sua solita espressione maliziosa. Si avvicinò di poco a lui, giusto quel necessario per mollargli una gomitata nello sterno.
«Sei sempre il solito imbecille» asserì, facendo gemere e ridere di dolore lui allo stesso tempo.
Non ebbe il tempo di spostarsi, che Ashton le aveva poggiato una delle sue grandi mani dietro la nuca e l’aveva tirata dolcemente verso di se, schioccandole un leggero bacio sulla fronte con le labbra stranamente fresche. Abbassò di poco il capo dopo quel gesto per poi incorniciarle il volto con entrambe le mani,  ritrovandosi gli occhi caldi e scuri di Margo a pochi centimetri di distanza dai suoi.
«E tu mi sei mancata» sussurrò dolcemente, mentre il suo fiato caldo le arrivava dritto sulle labbra.
Lei si lasciò sfuggire un sorrisino divertito, mentre le gambe le diventarono stranamente molli come due budini lasciati sotto al sole. Scosse il capo, alzando gli occhi al cielo.
«Paraculo» bofonchiò ridacchiando, mentre le mani di Ashton le tenevano stretto il viso. Lui rise divertito, per poi mollarle un pizzicotto sulla guancia morbida e rosata e lasciare che il suo viso non venisse ulteriormente deturpato dalle sue grandi mani.
Aprì e richiuse la mascella più volte per tentare di capire se fosse ancora tutta intera, mentre Ashton si avvicinava alla ragazza mora e prosperosa che stava baciando passionalmente un attimo di incontrare Margareth. Le cinse i fianchi con una mano, prima di avvicinarsi nuovamente al suo viso e attaccarsi selvaggiamente alle sue labbra carnose, baciandola con ancor più trasporto del bacio precedente.
La ragazza, in tutta risposta, spostò la sua mano sul sedere di Ashton, dandogli una forte pacca su una delle natiche. Margo, intanto, continuò ad aprire e chiudere la mascella, domandandosi mentalmente cosa avesse fatto di tanto male nella sua vita – o in quelle precedenti – per assistere dal vivo ad un porno di scarsa qualità come quello. Forse una strage di omicidi, pensò.
«Margo» la richiamò improvvisamente Ashton, dopo essersi staccato da quei canotti che la mora si portava in giro al posto delle labbra. Lei scosse il capo, scacciando via i vari pensieri su quante catastrofi avesse potuto provocare nella sua vita precedente e su quanto fossero state gravi, perché non ricordava di aver fatto nulla di così tanto maligno nella sua vita attuale per meritarsi quella scena raccapricciante live.
A parte essere la migliore amica di Ashton Irwin, ovviamente, ma quella era più una malignità personale che collettiva.
Si voltò verso di lui, mentre la donna canotto lo guardava ancora famelica e con la voglia di saltargli addosso da un momento all’altro.
«Lei è... Noelle» la presentò Ashton, in evidente difficoltà, ma la ragazza non parve accorgersene, troppo occupata com’era a mangiare il ragazzo con gli occhi. Margo cercò di trattenere a stento una risata: ancora non riusciva a ricordare il nome delle sue prede.
Ashton le rivolse un’espressione imbronciata, quindi lei alzò la mano libera dalle birre come per volersi scusare.
«Ciao Noelle, io sono Margareth – si presentò, poi accennò col capo alle sue labbra - carini i tuoi canotti».
Il biondo la guardò male ancora una volta, ma Noelle non parve accorgersi nemmeno della presenza di Margo e di ciò che aveva appena detto. Si sporse sensualmente verso l’orecchio di Ashton che, pian piano, si aprì in un sorriso malizioso, per poi avvicinare il viso al suo e morderle le labbra.
Che scena patetica, pensò Margo, ed è inutile che mi guarda male, quella i canotti ce li ha davvero.
Margareth tossicchiò per richiamare l’attenzione del suo migliore amico, il quale non si voltò, completamente perso nel tunnel senza via d’uscita della libido. Tossicchiò ancora una volta, questa volta in modo più forte e rude del precedente, ed Ashton parve improvvisamente ricordarsi della sua esistenza.
«Scusa» le disse, mentre lady famelica gli baciava sensualmente l’orecchio.
«Già» rispose annoiata, facendo una strana smorfia con le labbra. «Dovrei chiederti una cosa, Ash...»
«Ti va di vederci domani mattina a colazione? -  le chiese, interrompendola - Credo di avere improvvisamente da fare, adesso» ed indicò Noelle con l’indice, che adesso gli stava lasciando una lunga scia di baci sul collo.
Margareth roteò gli occhi al cielo. Sapeva che farlo venire al locale, per una cosa o per un’altra, non era mai una buona idea.
«Come ti pare» gli rispose solo, atona.
«Grazie» le sussurrò, mentre Noelle gli mordeva la mandibola. Margareth aggrottò le sopracciglia, scuotendo il capo. Sì, aveva sicuramente fatto qualcosa di davvero, davvero cattivo per meritarsi quella punizione divina disgustosamente orribile.
Ashton si sporse verso di lei, nonostante Noelle cercasse di tirarlo quanto più possibile fuori da quel locale per appartarsi chissà dove, poi afferrò le due birre che, per tutto quel tempo, erano rimaste in mano a Margo.
«Ti chiamo domani mattina per metterci d’accordo su dove vederci!» esclamò, mentre veniva strattonato per la maglia. «E giuro che ti pago le birre!» concluse, alzando di poco le birre per allontanarsi poi in mezzo a tutta quella folla del venerdì sera.
Margareth vide la sua folta chioma bionda e spettinata allontanarsi sempre di più, fino ad uscire definitivamente dal locale, addentrandosi nella notte e, sicuramente, tra le mutandine di Noelle.
«Anche per me è stato un piacere rivederti, Ash...» sussurrò a se stessa, passandosi una mano tra i capelli.
Si diede mentalmente dell’idiota e non seppe nemmeno lei il motivo. Rimase a fissare la confusione intorno a lei per un tempo che le sembrò infinito, ritrovandosi davanti agli occhi il sorriso che Ashton le aveva rivolto non appena l’aveva vista. Le era sembrato che fosse davvero contento di rivederla, ma poi si ricordò che Ashton – come tutto il resto della sua razza – sapeva fingere benissimo, forse anche al di sopra della media.
Sospirò amaramente. Avrebbe dovuto mettere una pietra sopra a tutto quello.
«Ehi?»
La voce di Jaden arrivò dalle sue spalle, cogliendola di sorpresa. Si voltò verso di lui, leggermente spaventata, portandosi una mano sul cuore. Lui sorrise. «E’ tutto apposto?» chiese, realmente interessato.
Margareth annuì. «Sì, tutto benissimo».
Jaden rivolse uno sguardo oltre le sue spalle, allungando di poco il collo per una migliore visuale, poi fece incontrare la sua espressione confusa agli occhi di Margo.
«E il batterista bacato?»le domandò curioso.
Lei sorrise amaramente, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio mentre i suoi occhi puntarono dritti ed immobili il pavimento del locale. «E’ andato via – confessò, alzando di poco lo sguardo – aveva da fare».
 Jaden aggrottò le sopracciglia, poi, probabilmente, si ricordò di come Ashton non fosse venuto da solo a trovarla, e solo allora annuì col capo, cercando di rivolgerle un sorriso comprensivo. «Capisco».
Gli occhi di Margareth si riempirono di lacrime pungenti  e desiderose di scivolare via, ma lei non glielo permise. Se avesse dovuto piangere, non l’avrebbe fatto lì, in quel locale, di fronte a Jaden e, soprattutto... per Ashton.
Si limitò a tirare su col naso, invece, per poi alzare lo sguardo dal pavimento e puntarlo di fronte a se, notando che Jaden aveva fatto qualche passo per allontanarsi da lì e raggiungere le cucine.
Mentre soffermava lo sguardo sulla sua schiena, s’impose mentalmente che avrebbe dovuto metterci davvero una pietra sopra, e avrebbe dovuto metterla lì, proprio in quel momento.
«Jaden?» lo richiamò a gran voce, nonostante quello non fosse poi così lontano. Il ragazzo si voltò verso di lei, rivolgendole un sorriso curioso di sapere cosa volesse. Sorrise anche lei.
Una pietra sopra, si ripeté mentalmente, prendendo coraggio.
«Hai impegni per il ventuno luglio?».

 
 
Buonasera gente! :)
Io e la mia amica febbre (che non veniva a trovarmi da ben sei anni) vi diciamo ciiiaaao :D 
Al momento le mie condizioni sono pessime ç_ç non ricordavo che sapore avesse la febbre, sinceramente, quindi potete immaginare come sto! 
Anyway, passando al capitolo... beh, fa un bel po' cagare :D ed è molto, mooolto lungo! 
Diciamo che i capitoli di questa storia saranno abbastanza lunghetti poiché, come potete notare, sono ambientati a distanza di diversi anni. E infatti, qui troviamo - dopo tre anni - un Ashton batterista affermato e una Margareth un po' in crisi lavorativa! (di 'sti tempi, figlia mia...)
Comunque, spero vi piaccia! :) a me fa schifo, ma io non sono mai soddisfatta delle cose che scrivo, sooo... 
E vabbé insomma, people, non so cos'altro dirvi (strano, ma vero) se non che mi sta scoppiando la testa e che vi ringrazio infinitamente per esservi fermate anche solo a leggere questa storia! :D
Grazie grazie grazie :*
Un bacione enorme, 
Mary :)

ps: se volete, nella pagina autore ho linkato tutti i miei contatti, tra twitter, facebook e chi più ne ha, più ne metta :D
pps: giusto per avvertire, credo che farò uscire un capitolo a settimana, ovvero sempre di giovedì, in modo tale che riesca anche a portarmi avanti con la storia! Al momento, sono abbastanza a buon punto :)
Non interessa a nessuno, ma vaaaabbé. 
Byebyeee 

 

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Capitolo 3
*** III ***


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III
 
“E poi mi guardava in un modo, in quel modo in cui ti guardano quando non sanno cosa fare, cosa dire, ma vogliono stare con te”.
Susanna Casciani


You see everything, you see every part. 
You see all my light and you love my dark. 
You dig everything of which I'm ashamed. 
There's not anything to which you can't relate 
and you're still here
 
 
 
 
Agosto 2004.
 
Margareth continuò a guardare le onde del mare infrangersi sugli scogli alti e rocciosi con un sorriso accennato sulle labbra.
Lo spettacolo del mare.
Quanto le piaceva stare lì, seduta su quell’enorme telo rosso con il tepore leggero dei raggi del sole, ancora non uscito del tutto. Poggiò i palmi delle mani sul telo, spingendosi un po’ più indietro con la schiena, continuando a godere di quello spettacolo meraviglioso che il mare le stava offrendo gratuitamente.
Socchiuse di poco gli occhi per guardare meglio all’orizzonte, senza che la luce fioca del sole potesse disturbarle completamente la vista, lasciandosi andare al più completo relax.
Era stato un anno pieno di cambiamenti, quello, e lo sarebbe stato ancora di più a partire da settembre a venire, quindi tanto valeva godersi quelle ultime settimane di riposo prima della più totale confusione.
«Ehi Margo, guarda come mi tuffo!».
Ripensandoci, la confusione ce l’aveva già intorno in quel momento.
Alzò di poco lo sguardo – con gli occhi ancora mezzi socchiusi – verso uno degli scogli leggermente più alti, da dove era provenuta la voce. Si accorse che quella figura la stava salutando enfaticamente con entrambe le mani, come fosse un bambino. 
Margareth ridacchiò, scuotendo il capo in segno di resa. «Cerca di non farti male, Ash!» gli urlò in risposta, mentre lui le rivolse un ultimo enorme sorriso prima di fare un enorme salto portandosi entrambe le ginocchia al petto, esclamando un euforico “kaboooooom!”  e finendo dritto tra le onde con un sonoro tonfo rimbombante.
Margo rise di gusto dopo aver assistito a quella scena, pensando che, infondo, lui bambino non aveva mai smesso di esserlo, sia in modo positivo che negativo. Era un po’ come Peter Pan: la voglia di crescere non l’aveva mai coinvolto, anzi, l’aveva sempre spaventato a morte, quindi cercava di ritagliarsi quanti più momenti di felicità possibile per tornare bambino. Forse era anche la passione che metteva nelle cose che amava che gli impediva la crescita e questo, pensò Margareth, era un bene. Ma l’essere infantile aveva anche molti aspetti negativi e, di quelli, Ashton, ne era pieno zeppo fino al midollo.
Margo lo vide uscire dall’acqua, trionfante e gocciolante al tempo stesso, i capelli ordinati all’indietro che gli lasciavano il volto sorridente completamente scoperto da qualsiasi ciocca chiara e selvaggia. Non poté fare a meno di notare che, da quando si erano conosciuti, aveva messo su molta più massa muscolare, e forse era anche questo – insieme alle sue fossette – a far scatenare gli ormoni di qualsiasi donna a suon di rumba e lambada.
Ashton le si avvicinò e scrollò le spalle, liberandosi dalle goccioline marine, le quali caddero sulla pelle asciutta di Margo.
«Ashton, e che cazzo!» esclamò infastidita «evita di imitare un san Bernardo proprio accanto a me, porca puttana!» aggiunse rudemente, per poi agguantare un lembo del telo da mare ed asciugarsi le gambe formose. Lui, in tutta risposta, scoppiò a ridere di gusto, facendo nascere un’espressione arrabbiata sul volto di Margo.
«Non è divertente» commentò atona di fronte alla sua risata.
«Sentirti imprecare in questo modo sì, lo è»rispose lui, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano ancora leggermente bagnata.
«Anche darti un calcio nelle palle è estremamente divertente, lo sai?»aggiunse acidamente, per poi inforcare gli occhiali da sole.
Ashton ridacchiò ancora una volta, prima di stendersi a pancia in giù sul suo telo e passarsi una mano tra i capelli bagnati, ravvivandoli. Poggiò lo sguardo su di lei che, intanto, aveva ripreso a guardare il mare intensamente.
«Ci voleva, no?».
Margareth si voltò improvvisamente verso di lui. Distolse l’attenzione dallo spettacolo marino e lo guardò confusa e curiosa allo stesso tempo.
Ashton voltò di poco il capo, buttando leggermente la testa all’indietro per indicare il mare.
«Questo. Il mare – poi sorrise – noi».
Lei lo guardò negli occhi da dietro le lenti scure, e non poté fare a meno di sorridergli in risposta.
«Già» rispose in un sospiro. Ashton le fece un occhiolino, prima di posare entrambe le mani sul telo da mare e poggiarci sopra il capo per rilassarsi e dimenticarsi del resto del mondo.
Margareth lo fissò con la coda dell’occhio sotto la protezione degli occhiali da sole. Era tanto tempo che non passavano del tempo insieme così, da soli, senza che nessuno dei due avesse qualcosa da fare.
Lui era sempre in giro per il mondo a suonare, impegnato a portare la sua musica in un paese diverso giorno per giorno, ad uscire con una modella diversa giorno per giorno. Aveva una vita così piena di avvenimenti importanti, che il mondo seguiva e s’interessava a tutto ciò che facesse o dicesse, persino a come respirasse.
Quanto a lei, invece, la sua vita continuava ad essere magnificamente ignota. Si spaccava in quattro per pagare un affitto – aumentato, tra l’altro – di un misero e sporco bilocale in un vecchio palazzo rovinato.
Non aveva mai preso un giorno di malattia, lavorava fino alle tre di notte per poi ritornare al pub alle undici e trenta in punto del mattino successivo, maleodorante di fritto e cibo andato a male già di prima mattina.
Lo odiava quel posto, ma non aveva alcuna alternativa. Non aveva più tempo per i sogni.
«Sei troppo silenziosa. Stai pensando a un modo per uccidermi, per caso?».
La voce divertita di Ashton la distolse completamente dai suoi tristi pensieri, cogliendola di sorpresa. Abbassò le lenti degli occhiali per guardarlo meglio, senza che questi venisse coperto dalla penombra, poi fece una smorfia con le labbra. «In realtà ne ho trovati mille di modi per ucciderti. Siccome sono buona, ti lascerò scegliere la morte che preferisci!».
Ashton rise di gusto, il viso rivolto verso di lei ancora poggiato sulle mani. «Sei perfida!».
Margareth fece spallucce. «Dovresti ritenerti privilegiato. Ti sto dando l’opportunità di scegliere in che modo morire, non è una cosa che capita a tutti. Prima o poi dovremmo morire tutti, lo sai questo?!».
Lui ridacchiò ancora, scuotendo il capo. «Quanto sei pessimista, Dio mio!».
«Non è pessimismo, questo – ribatté, incrociando le braccia sotto al seno, leggermente imbronciata – si chiama realismo, Ashton».
«Scusami tanto, miss "vivailrealismo", se non mi piace pensare alla morte e a come vorrei morire» sbuffò in risposta. Lei fece una smorfia con le labbra, prima di togliere definitivamente gli occhiali e voltare nuovamente il capo verso il mare.
Si chiusero in un silenzio interrotto solo dai versi dei gabbiani e dalle onde.
Tra loro era così: si trovavano sempre lungo due visioni diverse che finivano per scontrarsi e contrastarsi fino a che uno dei due non l’aveva vinta o, semplicemente, fino a che un terzo non si mettesse in mezzo per farli smettere e per evitare di farli arrivare alle mani. Avevano sempre sfiorato la soglia delle botte, ma non l’avevano mai varcata del tutto, anche se Margo l’avrebbe fatto senza una minima esitazione. Aspettava quello scontro da anni.
«Non dirmi che stavi davvero pensando alla morte, adesso».
Nuovamente, la voce di Ashton interruppe quel silenzio che si era creato intorno a loro, aggiungendosi ai versi dei gabbiani e allo scrosciare delle acque del mare. Margo incontrò il suo ghigno divertito – leggermente coperto da un braccio, ma comunque visibile - per poi scuotere il capo in senso di diniego.
«E allora cosa ti passa per la testa?» le chiese, sinceramente interessato.
Margareth sospirò, abbassando di poco il capo mentre si torturava le mani. Poteva mai dirgli che si sentiva una fallita perché non era riuscita a realizzare nulla di quello che aveva prefissato per la sua vita? Che, fondamentalmente, non ci aveva nemmeno provato che subito si era buttata giù?
«Nulla» mentì, preferendo omettere la verità piuttosto che ammettere il fallimento dei suoi progetti.
Ashton arricciò le labbra. «Non è vero».
Margareth, allora, alzò di scatto il capo, guardandolo negli occhi. «Sì che è vero» ribatté, incrociando nuovamente le braccia sotto al seno.
Ashton ridacchiò. «No»
«Sì, invece»
«Non ci credo»
«E non ci credere».
«Andiamo Margo! - esclamò improvvisamente – guarda che puoi dirmi tutte le cazzate che ti passano per la testa, sono semplicemente io!». Detto questo, fece leva sulle braccia per alzarsi e sedersi sul telo proprio di fronte a lei, guardandola negli occhi. Solo così, pensò, l’avrebbe fatta parlare fino a farle svuotare la mente da qualsiasi cosa la assillasse.
«Non ho nulla, Ash, sul serio» sbuffò «sono solo... boh, non lo so cosa sono...». Abbassò nuovamente lo sguardo verso le sue gambe incrociate, richiudendosi a riccio nel suo silenzio infrangibile.
Ashton allungò una mano verso di lei, per poi sfiorarle una gamba con le dita lunghe.
«Quando fai in questo modo c’è sempre qualcosa che non va» disse, accarezzandole dolcemente la pelle «dimmelo, Margo, o farò in modo di buttarti in acqua con la forza e torturarti fino a quando non me lo dirai».
Margareth alzò di poco lo sguardo, sorridendogli grata e divertita allo stesso tempo, notando il solito ghigno sulle sue labbra. Ashton cercò di incastrare i suoi occhi nel migliore dei modi in quelli dell’amica.
«Lo sai che ne sono capace».
Margareth annuì, poi alzò di botto il capo. «Sono un fallimento, Ash» disse, tutto d’un fiato, sentendo le lacrime pungerle contro gli occhi.
Lui la guardò stordito, senza smettere di carezzarle la pelle. «Che intendi dire con questo, Margo?».
«Intendo dire proprio quello che ho detto, Ashton, letteralmente» sbottò, torturandosi le mani «sono un fallimento. Ho ventisei anni, e non sono riuscita a fare nulla di ciò che avevo in mente per la mia vita. Lavoro in un locale di merda e divido un bilocale con tre persone che a stento mi aiutano a pagare le bollette. Avevo intenzione di scrivere un libro, diventare una scrittrice appezzata perlomeno, ma i miei tentativi di stesura si sono fermati tutti al terzo capitolo. Sono talmente occupata che non riesco nemmeno a guardarmi in faccia, i miei capelli puzzano sempre di hamburger fritti e salse schifose, e poi...»
«Frena, Margo!» la interruppe Ashton. Le strinse di poco una gamba, sotto il suo sguardo confuso, poi le sorrise. «Innanzi tutto, i tuoi capelli non puzzano né di hamburger, né di qualsiasi altra salsa» ghignò divertito, facendole scuotere il capo. Pensò che fosse davvero incorreggibile, prima che Ashton continuasse a parlare.
«Non sei un fallimento, non lo sei mai stata, né lo sarai mai. Ritagliati del tempo per te stessa, lascia quel lavoro di merda e buttati a capofitto nella stesura del tuo libro».
Le prese una mano, carezzandogliela dolcemente, mentre gli occhi grandi di Margareth si soffermarono sul viso chiaro e cristallino di Ashton.
«Tu vali più di tutto questo. Dimostra a questa gente di che pasta sei fatta. Rischia, vivi la vita come viene!» esclamò, facendo comparire un sorriso amaro sul volto di Margareth. «E vieni via con me».
Margareth lo guardò negli occhi. «Venire via con te?» gli domandò confusa.
Ashton sospirò amaramente, per poi mordersi il labbro inferiore e stringerle ancora di più una mano, annuendo veemente col capo.
«Devo partire di nuovo» annunciò, una nota sofferente fece da protagonista nel suo tono di voce.
«Starò via un anno intero».
«Un anno intero?!» ripeté Margareth sconvolta, lasciando la sua mano per portarsela alle labbra.
Sapeva che non sarebbe rimasto tanto, d’altronde le sue visite erano sempre molto brevi e fugaci, ma sapeva – e sperava -  di poterlo rivedere dopo mesi. Quella notizia la spiazzò completamente.
«Perché così tanto tempo?» gli chiese, dopo qualche minuto di silenzio.
Ashton sospirò. «Promozione del nuovo album, tour nuovi in tutti i paesi... ci vorrà un bel po’ di tempo».
Margareth annuì col capo distrattamente, ma non spiccicò parola. Era una notizia troppo grande, una bomba troppo forte da poter fronteggiare ed accettare su due piedi in pochi minuti.
Sarebbe stata senza di lui per un anno intero.
«Per questo ti dico di venire con me! – esclamò Ashton, riafferrandole la mano – potremmo stare insieme, divertirci con gli altri, recuperare tutto il tempo perso. E poi potrai dedicarti al tuo libro in santa pace, senza che qualcuno o qualcosa possa disturbarti».
Le strinse ancora di più la mano, poi non poté fare a meno di guardarla negli occhi – per lui sempre puri ed innocenti, nonostante fossero cresciuti – avvicinandosi di più al suo viso, appoggiando la fronte contro quella dell’amica.
«Ti prego, Margo – sussurrò piano, come fosse la più dolce delle suppliche – vieni via con me».
E Margareth avrebbe davvero voluto rispondergli di sì, dirgli che l’avrebbe seguito fino in capo al mondo, se solo l’avesse voluto, a costo di somigliare a tutte quelle ragazze impazzite che avrebbero fatto follie per lui e per il resto dei ragazzi; l’avrebbe fatto senza pensarci due volte, perché era il suo migliore amico e, nonostante fosse un ciclone insopportabile, non averlo accanto era sempre una maledetta agonia. Avrebbe mandato tutto a puttane per girare il mondo e dedicarsi alla scrittura, sarebbe stata l’unione dei suoi due sogni perfetti, sarebbe stata un’esplosione di colori e di fuochi d’artificio dentro se stessa: il suo cuore rispose sì nel momento esatto in cui Ashton gliel’aveva proposto.
«Non posso, Ash...».
Ancora una volta, la sua razionalità era stata più rapida e scattante del suo cuore e aveva risposto per lei.
Appoggiò ancor di più la fronte verso quella di Ashton, che adesso teneva lo sguardo basso per non far trapelare quel misto di emozioni che gli si erano create dentro: era deluso, ferito, incazzato, triste.
«Perché?» le chiese in un sussurro, stringendole la mano.
Sentì Margareth ritrarsi alla sua presa. Lasciò che la sua mano tornasse nuovamente vuota e che i suoi occhi non fossero più pieni di lei. La vide mordersi il labbro inferiore e la sentì sospirare amaramente.
«Come faccio, Ash?! – spalancò di poco le braccia - Qui ho la mia vita, i miei impegni, il mio lavoro... e poi c’è Jaden...». Margareth sospirò il suo nome quasi come se fosse un peso, un macigno enorme che si stava portando nel cuore.
Sul volto di Ashton comparve quel ghigno sarcastico che intrappolava le sue labbra ogni qualvolta si trovavano a parlare di Jaden, il quale Margo trovava estremamente fastidioso.
«Giusto, il camerierino fidanzatino» la canzonò Ashton, una nota amara nella sua voce, alla quale, però, Margareth non fece caso.
Quest’ultima lo fulminò con lo sguardo, per poi dargli una pacca sul braccio. «Smettila di chiamarlo così».
Ashton alzò le mani in segno di scuse, ma il suo volto era ancora pieno di quel ghigno che Margareth ritenne irritante.
«Il fatto che tu lo odi non ti permette di prenderlo costantemente in giro. E’ pur sempre il mio ragazzo, e io sono la tua migliore amica, dovresti provare un po’ di rispetto nei miei confronti».
«Scusa» le disse, ma le sue labbra lo tradirono, facendo comparire nuovamente quel ghigno sarcastico e divertito.
Margareth sbuffò, incrociando le braccia. «Dico sul serio, Ash. Mi dà fastidio, smettila».
«Io non odio Jaden, te lo giuro, Margo!» esclamò lui in risposta, cercando di trattenere una risatina divertita per sembrare più veritiero possibile. Margareth lo guardò male, e lui intrappolò ancor di più il labbro inferiore tra i denti: non era così stupida da non capire che, quello che aveva appena detto, era una bugia.
«Dico solo che, se dovessi scatenare la mia rabbia a suon di botte su qualcuno, sceglierei casualmente lui».
Margareth si portò una mano sulla fronte, scuotendo il capo. L’aveva capito dal momento in cui gliel’aveva presentato che Jaden non gli andasse troppo a genio; poi però, quando quest’ultimo era diventato il suo fidanzato, ne aveva avuto la conferma vera e propria. Anzi, se era possibile, la sua intolleranza nei confronti di Jaden era aumentata ancora di più, fino a trasformarsi in battutine taglienti e commenti sarcastici ogni qualvolta – raramente, per fortuna – s’incontravano.
«Casualmente, eh?» ripeté Margo.
Ashton fece un sorrisino beffardo. «Come vedi, non ho mica detto di odiarlo».
Margareth arricciò le labbra. Era impossibile ragionare con uno come Ashton.
«E poi nemmeno io gli sto simpatico» aggiunse il riccio, per poi schioccare la lingua contro il palato. «Quindi siamo sulla stessa barca».
Sospirò amaramente. Era vero, Ashton non andava a genio nemmeno a Jaden, anzi, se quest’ultimo avesse potuto, l’avrebbe fulminato con uno sguardo e farlo sparire dalla faccia della terra. L’odio era reciproco e Jaden era geloso dell’amicizia che lo legava a Margo e del forte affetto che nutriva nei suoi confronti. Margareth l’aveva notato più di una volta, quando si erano visti tutti e tre per varie cene che era solita organizzare quando il riccio tornava da chissà quale parte del mondo: il modo in cui Ashton le cingeva dolcemente i fianchi per abbracciarla, o il modo in cui le pizzicava una guancia per prenderla in giro, o semplicemente il modo in cui discutevano per qualcosa di stupido, faceva sempre infastidire Jaden che, puntualmente, finiva per scontrarsi con Margo in una lotta inutile e dalla causa stupida. Era geloso di Ashton e odiava i suoi modi di fare, odiava il suo egocentrismo e il suo essere estremamente logorroico.
Ma soprattutto, odiava il modo in cui guardava negli occhi Margareth, perché gli faceva capire di essere di troppo tra quei due e sapeva che nessuno – nemmeno lui – era mai riuscito a guardare Margareth nello stesso modo in cui lo faceva Ashton.
«Mi pare di non aver mai detto nulla di negativo su tutte le modelle che ti porti a letto» sentenziò improvvisamente Margareth, uno sguardo accigliato sul volto.
«Oh, andiamo Margo! – esclamò lui, aprendo le braccia – loro sono simpatiche! E, a differenza del tuo ragazzo, sono anche molto, molto, flessibili... in tutti i sensi...» fece un ghigno malizioso «hai capito cosa intendo, no?».
«Ho capito, ho capito, Ash!» esclamò in risposta, coprendosi gli occhi con entrambe le mani per eliminare quella scena che si era appena fatta viva nella sua mente. «Sei il solito pervertito!».
Ashton rise istericamente per la reazione dell’amica, buttando la testa indietro e battendo le mani come un pazzo. Lei si scoprì lentamente il viso, arricciando le labbra per non dargliela vinta e scoppiare a ridere anche lei. Un sorrisino non riuscì a non sfuggire dalle sue labbra, ma Ashton era troppo impegnato ad asciugarsi le lacrime dalle risate per accorgersene.
Margo lo guardò per un po’ in silenzio, osservandolo a fondo mentre allungava le mani verso la borsa del mare ed afferrava il suo immancabile pacchetto di sigarette. Ne estrasse una con le dita lunghe – e leggermente rovinate, osservò Margareth – per poi portarsela alla bocca dolcemente, come fosse un qualcosa dal gusto invidiabile. L’accese con qualche difficoltà sotto lo sguardo di Margareth, poi indirizzò gli occhi chiari verso di lei e, senza dirle nulla, accennò un sorriso, intrappolando ancora con le labbra la sigaretta ormai accesa. Margareth sorrise in risposta e sentì le guance andarle a fuoco, mentre Ashton si voltò definitivamente verso il mare e cominciò a fumare la sigaretta indisturbato.
Lei osservò ancora il suo profilo, come fosse ipnotizzata, mentre una domanda le si formava nuovamente nel cervello: come avrebbe fatto senza di lui per un anno intero?
Immaginarlo lontano intorno al mondo, ogni giorno in chissà quale nazione, con fusi orari totalmente diversi, le provocò una fitta al cuore.
Non avrebbe più ricevuto chiamate in cui le veniva comunicato – con tanto di sottofondo di baldoria – il giorno preciso in cui sarebbe rientrato in città, suscitandole una strana carica emotiva. Adesso, le loro telefonate sarebbero state sporadiche, in orari assurdi e senza più quella certezza e quelle strane sensazioni adrenaliniche. Sarebbero state telefonate brevi, giusto per il necessario, per chiedere come stessero e come andassero le loro vite; poi avrebbero attaccato per un motivo o per un altro e si sarebbero sentiti chissà quando e chissà a che ora. Non si sarebbero detti quanto si mancavano a vicenda, troppo orgogliosi e troppo testardi com’erano, ma i toni delle loro voci l’avrebbero lasciato trapelare, facendo così nascere una strana e perpetua nostalgia negli animi di entrambi.
Quanto le sarebbe mancato Ashton, Margareth non sapeva spiegarlo a parole, né poteva introdurlo in una scala da uno a dieci: le sarebbe mancato come il sole in inverno, come una notte stellata ma senza luna, come il buio senza luce.
Perché era così che si sentiva, quando lui andava via: buia. Un cielo senza sole di giorno e senza luna di notte. E allora che magia era, una notte senza luna?
Vuota. Si sentiva vuota.
E non avrebbe di certo potuto affrontare settembre e tutti i suoi cambiamenti senza la sua luce, senza il suo migliore amico.
«Ashton» lo richiamò, con un tono di voce che le sembrò stranamente serio e così lontano da se stessa.
Il ragazzo sì voltò, la sigaretta ancora intrappolata tra le labbra salate e rosee, che fece venire in Margareth un desiderio di spegnerla ed assaporare quel sapore disgustoso dalle sue labbra.
Scosse il capo, scacciando quegli strani pensieri, sotto lo sguardo curioso di Ashton che, intanto, liberava delle nuvolette di fumo tramite le labbra.
«C’è anche un altro motivo per cui non posso venire con te» confessò, torturandosi le mani.
Gli occhi di Ashton divennero improvvisamente tristi. Inspirò ancora una volta dalla sigaretta.
«Ovvero?» domandò, liberando il fumo, poi fece un ghigno amaro «non dirmi che ti sposi».
Margareth sospirò: chiuse gli occhi ed aggrottò la fronte, cercando il coraggio per sputare fuori ciò che l’avrebbe tenuta lontano dal suo migliore amico. Quest’ultimo, infatti, notando il suo improvviso silenzio, sgranò gli occhi, tossicchiando per essersi strozzato col fumo.
«Margareth Ulbrier» balbettò, un tono di voce al di sopra del normale, lanciando lontano il mozzicone della sigaretta ormai finita «ti prego, non dirmi che ti sposi!».
«Oddio, Ash, ma sei pazzo?!» esclamò, spalancando di botto gli occhi. Si allungò velocemente verso di lui,  picchiettandogli una mano dietro la schiena pallida per farlo riprendere da quello shock. «Cazzo, no! No, no, no, non ci penso nemmeno!».
Ashton tossicchiò ancora, cercando di liberarsi dal fastidio che gli si era formato in gola, poi, una volta terminato, sospirò sollevato, portandosi una mano sul petto.
«Per poco non mi facevi morire, Margo» proferì, voltandosi verso il suo viso per guardarla negli occhi, causandole una leggera risata.
Entrambi rimasero in silenzio mentre si perdevano ognuno nelle iridi differenti dell’altro. Ashton pensò che, durante quel lungo anno senza di lei, probabilmente non avrebbe trovato nient’altro di così bello da ammirare per ore senza stancarsi mai. Allungò una mano verso il suo viso con l’irrefrenabile voglia di accarezzarle dolcemente una guancia, ma pensò che fosse altamente sbagliato; quindi si trattenne e si limitò a spostarle una ciocca dei suoi lunghi capelli castani dietro l’orecchio, facendo sì che non le coprisse gli occhi.  
«Che succede, allora?» le domandò, facendole un mezzo sorriso per farla sentire a suo agio.
Margareth sospirò, aggiustandosi meglio quella ciocca di capelli che Ashton le aveva spostato poco prima dal viso, cominciando a torturarsi nuovamente le mani.
“Ecco, si sta torturando nuovamente le mani” pensò Ashton, mordendosi il labbro inferiore terrorizzato “se non si sposa, allora vuol dire che è incinta di quell’idiota”.
Lei si allontanò dal suo viso, provocando in Ashton la voglia di attrarla nuovamente verso di se per non lasciarla scappare mai. Margareth arricciò leggermente le labbra.
«Mi hanno offerto un lavoro, Ash».
Era stato un sussurro impercettibile, quello di Margareth, ma lui era riuscito a coglierlo e aveva notato una nota sofferente nel tono della sua voce. Le fece un altro mezzo sorriso comprensivo, come se volesse tirarle fuori di bocca le parole che intendeva realmente dire.
«Wow» esclamò «questa è una bella notizia, Margo, almeno ti libererai di quel posto di merd...»
«Un lavoro in una scuola, Ashton. Come insegnante».
L’entusiasmo di Ashton si spense subito dopo quella confessione. Riuscì ad emettere solo un leggero “oh”, nient’altro. Si ricordò della notte di quattro anni prima, quando Margareth aveva assolutamente disprezzato l’idea di se stessa insegnante e a contatto con dei ragazzini presuntuosi ed indisponenti. Effettivamente, il ruolo di insegnante non aveva mai attratto nemmeno lui, ma quella era un’altra storia: si trattava di Margo.
Lei aveva scelto un’altra strada ed era sempre stata lontana da quella opzione, guardando quasi con orrore e con un lieve atteggiamento di disprezzo quella professione e invece, adesso, si era trovata a dover abbandonare la strada dei sogni per imboccare il viottolo stretto ed opprimente della realtà.
O meglio, della necessità.
«Capisci, adesso?!» sospirò amara, scuotendo il capo. «Insegnante, io! Ci sono cascata appieno, porca puttana!» aggiunse, accasciando poi il capo su una mano. Cominciò a singhiozzare veemente e non seppe nemmeno lei il perché. Si diede mentalmente della stupida, vergognandosi della figura di merda che stava facendo davanti ad Ashton per una misera cavolata. Dove sarebbe andata a finire?!
«Ehi, Margo, no... non piangere». La voce dolce di Ashton le arrivò calda e soffice all’orecchio, mentre una delle sue grandi braccia muscolose si attorcigliava dietro il suo collo. Lasciò che la sua ampia mano le accarezzasse dolcemente un braccio, poi incastrò il viso – ancora coperto – nell’incavo del collo del riccio.
Si sentì nel luogo giusto, tra le sue braccia e, ancora una volta, il pensiero di stare senza di lui per un anno intero si fece spazio dentro di lei, accoltellandola lentamente come la peggiore delle torture.
«Prendila con filosofia e cogli il lato positivo» convenne Ashton, accarezzandole leggermente i capelli «avrai una paga migliore, un po’ più di tempo libero per scrivere e, soprattutto... i tuoi capelli non puzzeranno più di hamburger!».
Margareth ridacchiò tra i singhiozzi, mollandogli poi uno schiaffo sullo sterno che fece ridere anche lui.
“Ecco” pensò “questo è il posto in cui vorrei rimanere per sempre. Questa è la risata che vorrei sentire per sempre”. Si diede ancora una volta della stupida, abbandonando quel pensiero assurdo.
Lei aveva un ragazzo. Lei aveva Jaden. Lei non poteva avere Ashton.
Il ragazzo scese con la mano verso il suo fianco, stringendola dolcemente, mentre Margo si rifugiava ancor di più col viso incastrato nel suo collo. Si perse nel profumo della sua pelle: sapeva di crema idratante al cocco, di sole e di mare.
«Chi ti dice che insegnare, prima o poi, non finirà per piacerti?» continuò Ashton, cercando di tirarle su il morale.
«Farò schifo, Ash. Lo so. Non ne sono capace» sospirò lei in risposta.
«Non è vero, Margo, non farai schifo – controbatté lui, stringendola ancor di più -  Tu non fai schifo. Tu sei migliore di chiunque altro». Detto questo, l’afferrò per le spalle e le portò un dito sotto il mento per farle alzare il capo ed incontrare nuovamente i suoi enormi occhi di cioccolata, rossi per il pianto e spaventati per il futuro.
Le sorrise dolcemente. «Tu sei tu, Margo. E, credimi, non esiste niente di meglio».
Margareth sorrise flebilmente dopo quelle parole, e il suo cuore perse un battito nel momento in cui gli occhi sinceri di Ashton le rivelarono quella che, per lui, era una verità.
Arricciò nuovamente le labbra, poi altre lacrime bastarde scesero copiosamente sul suo viso e, l’unica cosa che riuscì a fare, fu singhiozzare ancora e ripararsi nelle grandi braccia di Ashton, che l’avvolse in un caldo abbraccio.
Sentì le lacrime di Margareth arrivargli dritte al cuore e, tutto questo, gli provocò un’enorme voglia di tenerla al riparo e di proteggerla da qualsiasi altra cosa avesse potuto farla soffrire e spezzare lentamente.
Non si rese conto, però, che quella sofferenza gliela stava provocando lui stesso con le sue stesse azioni e con la sua imminente partenza.
La strinse forte ancora, godendosi quegli ultimi momenti di tenerezza, per poi lasciarle un bacio sulla nuca.
«Sarai un’ottima insegnante, Margo, lo so».
Sussurrò quelle parole come fossero un segreto troppo grande, come una verità immensa. Margareth sorrise tra i singhiozzi, per poi sciogliersi da quell’abbraccio.
Si asciugò le lacrime con il dorso della mano, ridacchiando amaramente. «Gesù, sono pessima» imprecò, roteando gli occhi al cielo, con una strana voce nasale.
«Adesso puoi dire di aver visto ogni parte di me - tirò su col naso - dalla più cazzuta alla più pappamolla» scosse il capo, mentre un altro singhiozzo lasciò involontariamente le sue labbra. «Che cazzo di vergogna».
Ashton rise di gusto per quell’ultima imprecazione fatta dalla sua migliore amica. «Amo sentirti parlare in questo modo, Margo. Quando abbandoni quel tuo modo altezzoso da principessina del cazzo, sei veramente una scaricatrice di porto meravigliosa!». Sembrava quasi estasiato da quella reazione.
Margareth, in risposta, lo fulminò con lo sguardo. Lui alzò le mani in segno di scuse, ma non riuscì a trattenere un’ulteriore risata che, questa volta, coinvolse anche la ragazza.
Era impossibile non seguirlo a ruota, quando rideva. Era una di quelle risate contagiose che ti scaldavano il cuore e che ti si memorizzavano nel cervello come le migliori delle canzoni.
Margareth pensò che, quella risata, sarebbe stata in grado di far sbocciare i fiori dalla terra, un giorno.
In quel momento, però, si limitava soltanto a far sbocciare lei.
«E poi, io ho il diritto di vederti sotto ogni tuo aspetto» aggiunse lui, convinto «sei la mia migliore amica, Margo, chi ti conosce meglio di me?!»
«Susie» rispose lei, ovvia, annuendo col capo «e mia madre, ma quello è un caso a parte. Non essere troppo presuntuoso, Ash!».
Ashton incrociò le braccia al petto. «Così mi offendi».
Margareth rise per quella sua reazione. Aveva messo su quel broncio infantile da far invidia anche al migliore dei bambini capricciosi e lei non poté resistergli. Gli si avvicinò di poco, allungando la mano verso la sua nuca per infilargliela nei capelli, ormai quasi del tutto asciutti.
«Oh, poverino, non volevo offenderti» lo canzonò, scuotendogli di poco la capigliatura bionda «per farmi perdonare, ti comprerò il gelato!».
Ashton imbronciò ancor di più le labbra per trattenere una risata divertita, scoccandole poi un’occhiata fugace. «Al cioccolato?» .
«Al cioccolato» confermò lei, scompigliandogli ancor di più i capelli.
Ashton annuì col capo soddisfatto, così come il sorrisino che gli si era creato sulle labbra, cosa che fece ridere ancor di più Margo.
«C’è solo una parte di te che non ho visto ancora».
Margareth abbandonò la presa sui suoi capelli ed aggrottò le sopracciglia confusa, lasciando che le braccia le ricadessero lungo i fianchi. «Ovvero?».
Il sorriso ambiguo che le rivolse Ashton dopo la sua domanda, le fece quasi paura. Sentì la pelle accapponarsi mentre il biondo lasciava cadere lo sguardo prima su di lei e poi verso il mare repentinamente, in modo divertito.
«Non ci provare nemmeno, Ash» sussurrò lei dopo aver compreso cosa volesse fare.
«A fare cosa?» domandò lui, un tono fintamente innocente.
Ashton fece leva sulle braccia e si alzò dal telo da mare, le fossette ancora presenti sulle guance ad incorniciargli il sorriso.
«Lo sai cosa» soffiò Margareth, leggermente inviperita.
Lui scosse il capo freneticamente, alzando di poco le spalle. «Eh no, proprio non lo so».
Si preparò a ribattere il più acidamente possibile quando, improvvisamente, senza che lei potesse opporre resistenza, le braccia forti e muscolose di Ashton le cinsero la vita in una presa salda, sollevandola completamente da terra, lasciando che le sue gambe scalciassero inutilmente contro l’aria dall’odore marino.
«Mettimi giù!» urlò a gran voce, mentre lo spavento prendeva il sopravvento su di lei.
Ashton cominciò a correre velocemente verso l’acqua senza dare ascolto alle minacce e alle parole – certamente non di cortesia – che Margareth gli stava strillando nelle orecchie. Rise di gusto, facendola imbestialire e spaventare ancora di più. Sentì le sue mani piccole ed esili stringersi intorno alle sue spalle e al suo collo e, per un attimo, pensò che lo stesse per strangolare; solo dopo si rese conto che lo faceva per sentirsi al sicuro e meno sola ad affrontare l’immensità del mare.
Prese la rincorsa ancor più velocemente una volta arrivato con l’acqua a metà delle ginocchia e, sempre con le urla spaventate - e anche divertite - di Margo nelle orecchie, si tuffò insieme a lei, lasciando che le onde salate capovolgessero entrambi.
Margareth sentì l’acqua attraversarle i polmoni dolcemente. Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dalla pacatezza del mare e dalla sua profonda tranquillità. Il mondo si era spento intorno a lei e, per un attimo, dimenticò chi fosse e dove si trovasse, raggiungendo la pace più assoluta.
Si stupì della calma che c’era sotto il velo d’acqua trasparente che, certe volte, le faceva un’immensa paura quando si rivoltava contro il mondo, aizzandosi in alte onde travolgenti e spaventose.
Sentì quanto il mare le appartenesse solo in quel preciso istante: erano uguali.
Celavano la loro agitazione sotto uno strato di calma apparente la maggior parte delle volte e poi... bastava quel poco per farli scatenare e rivoltare contro le crudeltà altrui. 
Solo quando la presa di due mani forti s’impossessò dei suoi fianchi, si ricordò completamente dove fosse.
Le mani di Ashton la sollevarono fuori dall’acqua, facendole prendere un grande respiro per farle arrivare l’aria ai polmoni. Si era anche dimenticata che bisognava respirare, per sopravvivere.
Notò che gli occhi di Ashton erano leggermente preoccupati quando la sentirono tossire.
«Tutto bene, Margo?» le domandò, avvicinandosi di poco.
Annuì impercettibilmente col capo, tossicchiando ancora e guardandosi di poco intorno. Gli occhi le bruciavano da morire, così come i polmoni. Abbandonò il silenzio marino e ritornò alla confusione terrestre.
Voltò lo sguardo verso Ashton – sicuramente più sollevato, adesso – prima di alzare con la mano una manciata d’acqua verso il suo viso.
«Stronzo» soffiò in sua direzione, mascherando un ghigno divertito, mentre quello cercava di ripararsi dagli schizzi di Margo.
«Dai – ridacchiò allegramente, cercando di bloccarle le mani – ti ci voleva, no?».
Afferrò le sue mani tremanti in una forte presa sicura, sentendo gli occhi di Margareth incenerirlo pian piano. Si avvicinò di più al suo viso leggermente spaventato, e le sorrise dolcemente, cercando di infonderle sicurezza.
«Hai avuto paura?» le chiese teneramente, stringendo ancor di più le sue lunghe dita contro le sue mani.
«N-no...» balbettò lei insicura, cercando di nascondere la codardia.
Amava il mare, eppure, era sempre stata spaventata a morte dall’opzione di affrontarlo in quel modo.
Le labbra di Ashton fecero fuoriuscire uno sbuffo divertito. «Stai tremando, Margo».
 «Ho solo freddo, Ashton» lo rimbeccò e si richiuse a riccio, aggrottando le spalle per poi guardarlo male.
Ashton non seppe resistere dal trattenere un sorriso tenero e comprensivo e, quasi senza accorgersene, richiuse le sue braccia contro le spalle di Margo, cercando di donarle calore e, soprattutto, del conforto.
Lei, in risposta, abbandonò la codardia e si lasciò abbracciare, ricambiando in un modo fin troppo goffo, che fece ridacchiare l’amico. Non era abituata a certi scambi di tenerezza.
«Adesso ho visto ogni parte di te, Margo» le sussurrò in un orecchio, mentre la sua presa si faceva più stretta intorno ai suoi fianchi.
«Sai che fortuna» bofonchiò lei, facendolo ridacchiare.
Si strinse in quell’ultimo abbraccio ricordandosi, ancora una volta, che presto sarebbe andato via e che lei, presto, avrebbe iniziato un qualcosa di nuovo, ma sarebbe rimasta da sola. Con un cuore a metà.
«E’ una fortuna, sì» aggiunse Ashton. Le carezzò dolcemente i capelli, frenando quelle lacrime bastarde che avrebbero voluto fuoriuscire dai suoi occhi. Non poteva mostrarle la sua debolezza, in quel momento: la stava abbracciando per l’ultima volta.
«E’ una fortuna» ripeté ancora, stringendola verso il suo cuore «perché mi piace ogni minima parte di te».
E quello, fu il suo modo di dirle quanto le sarebbe mancata. 

 
Hola people! :D 
Eccomi tornata - sfortunatamente - con il terzo capitolo di questa storia! 
Diciamo che, questo capitolo in particolare, è stato una vera tortura. Un parto in grande stile, direi!
Giuro, mi ha fatto penare, tant'è che, dopo averlo finito, non ho scritto per almeno due giorni hahaha mi sono dovuta prendere una pausa, tanto che mi aveva sconvolto!
By the way, a me - ovviamente - non piace affatto com'è uscito, però vabbè, ormai il danno è fatto! Forse l'unica parte che mi piace di questo capitolo è la fine, dove c'è questo momento fluffissimo tra i due che devono dirsi addio per un anno intero ç_ç che tristezza, mamma mia!
Ad ogni modo, il prossimo sarà più decente, davvero. Cioè, a me non piace lo stesso, però c'è una parte che ho particolarmente a cuore e che non vedevo l'ora di scrivere, anche perché è stata proprio quella parte a convincermi a scrivere la storia c:
Sì, adesso mi rendo conto che, forse, era meglio se mi fossi stata ferma e non avessi scritto nulla hahahah 
Comuuuunque, qui vi lascio tutti i miei contatti tra twitter, facebook, e ask, nel caso in cui vogliate anche solo insultarmi :D 
Vi ringrazio infinitamente anche solo di esservi soffermate a leggere il capitolo! (che, ribadisco, fa schifo) 
Un bacionee :*
Mary 

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Capitolo 4
*** IV ***


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IV
 
“Volevo solo scivolarti tra le braccia e sentirti dire che tutto passa, tutto passa, pure se non era vero,
tutto passa tranne noi,
certo, tranne noi”.
Giulia Carcasi
 
 
 
 
 
 
 
 
2 AM and she calls me 'cause I'm still awake, 
"Can you help me unravel my latest mistake? I don't love him.
Winter just wasn't my season"
 
 
 
 
 
 
 
Ottobre 2005.
 
«E’ nata».
E Margareth, dopo quella telefonata, aveva chiuso velocemente il cellulare, attraversato metà della città a piedi per arrivare alla fermata della metro, per poi cambiare corsa ben due volte e prendere un autobus che la portasse ad un chilometro di distanza dall’ospedale, che dovette percorrere correndo e scansando infinità di persone davanti a lei.
Alla fine –due ore e tredici minuti dopo – era arrivata a destinazione.
Sudata, sconvolta, stremata, ma felice.
Salì la rampa scale a due a due per arrivare al terzo piano, quello di neonatologia, per vederla. Sbagliò stanza ben due volte a causa dell’ansia – era entrata nella 208 e nella 210 – prima di entrare finalmente nella stanza 214, quella giusta.
E la trovò lì.
I capelli biondi racchiusi in una coda alta leggermente scompigliata, le gote arrossate per lo sforzo e il viso completamente stravolto per la fatica eppure, negli occhi, aveva una luce diversa, Margareth riuscì a notarla anche da lontano; quella stessa luce che ti si forma quando ti accade qualcosa di veramente sublime, meraviglioso.
La luce della maternità.
Margareth picchiettò dolcemente le nocche contro la porta, sorridendo. «E’ questa la stanza della neomamma?».
 Subito, gli occhi luminosi si voltarono verso di lei, con la testa ancora appoggiata al cuscino, aprendosi poi in un sorriso grande quanto l’oceano.
«Margareth» sussurrò piano, quasi sorpresa di trovarla lì, sicuramente felice di poterla avere accanto.
Lei continuò a sorridere, entrando nella stanza lentamente, quasi come se non volesse provocare nessun tipo di rumore per disturbarla.
«Ciao, Susie» la salutò, avvicinandosi al suo lettino. Man mano che si avvicinava, poté notare quanto quella luce meravigliosa la rendesse così diversa dalla Susie che conosceva lei.
Era cresciuta, ed era mamma, adesso.
«Non dovresti essere a scuola, al momento?» le domandò, quasi severa, aggrottando di poco le sopracciglia in segno di estrema curiosità.
Margareth fece spallucce. «Sono uscita prima appena Quentin mi ha chiamata. Ho detto che mia sorella era stata ricoverata in ospedale».
Susie ridacchiò leggermente, scuotendo il capo. «Sei sempre la solita pallista. Non avresti dovuto».
«Sei già entrata nello spirito mammesco, Susie?» la canzonò, gonfiando le guance. «E poi, è quasi vero che ho una sorella in ospedale. Quindi, ho detto una mezza bugia» si difese, alzando nuovamente le spalle.
«L’avrei capito se fossi venuta nel pomeriggio, non me la sarei di certo presa» aggiunse «lo so meglio di te che hai un lavoro e che hai dei ragazzi a cui insegnare» la guardò, aggrottando ancora una volta le sopracciglia, assumendo un cipiglio da ramanzina.
Margo sbuffò ancora, sorridendole. «Oh, tranquilla, a loro non importerà e non gli causerà alcun danno psicologico, credimi. Anzi, potrei averli salvati dalla mia ira funesta, quindi, dovrebbero solo ringraziarmi!».
Susie rise piano per evitare di apportarsi ancora più dolore. Si portò una mano alla bocca, nascondendo la smorfia di fastidio che le si era appena creata sulle labbra, mentre Margo prese posto su una sedia situata accanto al lettino dove, precedentemente, era sicura ci si fosse seduto Quentin.
Poggiò entrambe le mani sulle lenzuola fresche del lettino di Susie quando, quest’ultima, gliene strinse una leggermente con la sua, fredda ed esile, facendo alzare lo sguardo a Margareth nei suoi occhi luminosi.
«Sono così felice che tu sia qui» sussurrò sorridendole, con la voce quasi rotta dal pianto.
Margareth ricambiò il suo sorriso, accarezzandole dolcemente il dorso della mano, stando attenta a non stringergliela troppo forte per evitare di apportarle dolore.
«Anche io sono felice, Susie – asserì, cercando di trattenere le lacrime di felicità – ancora non posso crederci che tu sia diventata mamma».
A quelle parole, Susie non riuscì a contenere un singulto di gioia che subito si tramutò in una cascata di lacrime di felicità. Annuì impercettibilmente col capo, mentre Margo le teneva ancora stretta la mano.
«Sono una mamma, Margareth» ripeté incredula e felice allo stesso tempo, forse più a se stessa che alla sua migliore amica.
E Margareth non riuscì proprio più a trattenersi di fronte a tale felicità.
Scoppiò a piangere anche lei tra i sorrisi felici di entrambe che, poco dopo, iniziarono tramutarsi in risate tra i singhiozzi e i singulti frequenti. Era come se il tempo si fosse fermato a quando avevano diciassette anni e giuravano a se stesse la felicità e la libertà eterna. Ma in quel momento, almeno Susie, sapeva cosa significasse davvero la felicità: era sua figlia.
«Siamo troppo emotive, cazzo» esclamò Susie, asciugandosi le guance con il dorso della mano libera dalla presa della mora. Margo annuì in risposta, alzando gli occhi al cielo e tirando su col naso, poi guardò nuovamente Susie, spalancando gli occhi e portandosi una mano al petto con fare fintamente sconvolto.
«Susan Marie Wilden in Jefferson, non dovresti parlare in questo modo!» esclamò riprendendola, mentre cercava di imitare in malo modo la voce della madre di Susie. Le puntò l’indice contro, arricciando le labbra, «sei una madre, adesso. In quale modo oserai tirare su tua figlia, eh? A mo di pappette e parolacce?!».
Susie scoppiò in una risata fragorosa, piegandosi in due nel minuscolo e scomodo lettino d’ospedale mentre altre lacrime fuoriuscirono dai suoi occhi castani. Margareth la seguì a ruota, strizzando gli occhi e scuotendo il capo.
«Oh, che palle!» esclamò la bionda, una volta smesso di ridere «scommetto che, appena tornerò a casa, mi toccheranno le varie lezioni intensive su come si infila adeguatamente un pannolino ad un bambino!» e roteò gli occhi al cielo.
«Allora buona fortuna» le augurò scherzosamente Margareth «mi inviterai alla tua laurea?».
«Certamente» annuì Susie «ti avvertirò anche quando prenderò il master in pappette di spinaci frullati ed omogeneizzati!».
Margareth scoppiò nuovamente a ridere, facendo versi strani, cosa che suscitò ilarità anche in Susie, che la seguì a ruota.
Si sentivano davvero minuscole: quando erano insieme, avevano sempre diciassette anni e non ventotto. Erano ancora quelle ragazzine libere dalla convinzione del grande amore e furbamente astute da creare scompiglio a scuola senza mai farsi beccare. Avevano ingannato il mondo, insieme, perché non ingannare anche il tempo?
«Ehi, voi due, sempre a fare casino eh?».
La voce divertita di Quentin Jefferson sovrastò le loro risate facendo capolino da dietro la porta della stanza 214. Entrambe, ancora con le lacrime agli occhi, si voltarono verso di lui, poi Susie gli fece un’occhiataccia.
«Ci stavamo solo divertendo» ammise, gonfiando le guance come fosse una bambina capricciosa.
Quentin, intanto, si era avvicinato al lettino, un sorrisino faceva da protagonista sul suo volto, gli occhi ancora lucidi per l’emozione.
«Lo so» disse, sporgendosi verso sua moglie «ma dovete capire che non ci siete solo voi due in questo ospedale. Vi si sente dall’inizio del corridoio!» detto questo, le lasciò un bacio delicato sulla fronte, facendole rilassare di poco il viso. Quentin alzò lo sguardo e salutò Margareth con un cenno della mano, che ricambiò con un sorriso, tenendo ancora stretta la mano di Susie.
«Oh, andiamo Quen, non essere noioso!» esclamò quest’ultima «stavamo solo immaginando la faccia di mia madre quando si accorgerà che avrò messo male un pannolino alla bambina!». Detto questo, entrambe non riuscirono a contenere un risolino divertito. Se la signora Wilden fosse stata lì, in quel momento, sarebbe rimasta sicuramente sconvolta dalla vivacità della figlia subito dopo il parto.
Quentin incrociò le lunghe braccia al petto e, nonostante si sforzasse per non darlo a vedere, sorrise leggermente. «Beh, io sto immaginando quando l’avremo per casa ventiquattr’ore su ventiquattro per sette giorni su sette!». Scosse il capo con fare esasperato, facendo ridacchiare Susie.
«Vedi?! Mia madre è una maledizione. Dovremmo incrementare i sistemi di sicurezza per non farla entrare...»
Sotto lo sguardo divertito di Margo, Quentin sorrise severo a sua moglie «Susie...» la richiamò, con una nota divertita nel tono della voce. Quest’ultima gli rivolse uno sguardo dolce per farlo intenerire, poi annuì col capo e si portò un dito alle labbra, come se avesse avuto un’illuminazione.
«Hai ragione Quen, basterà semplicemente cambiare la serratura di casa nostra!».
Sia Quentin che Margareth ridacchiarono dopo la geniale idea di Susie, la quale buttò la testa all’indietro sul morbido cuscino dell’ospedale, sospirando.
 «Ma quando porteranno la bambina?» domandò impaziente, sbuffando leggermente.
Quentin le si sedette accanto, poggiandosi leggermente sul lettino. «Tra poco sarà qui, vedrai» l’assicurò, circondandole un braccio intorno alle spalle per poi darle un altro bacio, questa volta sulla nuca.
Margareth le strinse ancora di più la mano, rivolgendole un sorriso comprensivo. «Se tua figlia ha preso da te, scommetto che starà già frignando da ore perché vuole del cibo!».
Susie le fece una smorfia, mentre Quentin ridacchiò divertito. «Margareth ha ragione. Scommetto che, quando arriverà, ti guarderà e penserà “dammi del cibo, donna, sto morendo di fame!”».
La bionda gli mollò una dolce gomitata che lo fece gemere, guardandolo poi soddisfatta della propria opera. Quentin, in risposta, scosse il capo per poi attrarla di più verso il suo petto per abbracciarla.
Susie si lasciò andare a quel contatto, poggiando il viso nell’incavo del collo di suo marito, sospirando piano e lentamente mentre quest’ultimo le carezzava dolcemente i capelli, poggiato con il viso sulla sua nuca.
Margareth lasciò la presa della mano di Susie ed assistette a quella scena in silenzio. Non poté fare a meno di sorridere di fronte alla felicità di quella famiglia che era appena cresciuta: provò un senso di gioia misto alla nostalgia dei vecchi tempi passati insieme a Susie. Con lei poteva anche sembrare una diciassettenne vivace ma, quando era con Quentin, Susie era un misto tra una quindicenne innamorata per la prima volta e una venticinquenne che ha già provato l’amore quello vero. Alla fine – in quel preciso istante – Susie era una ventottenne sposata da tre anni, innamorata come non mai dell’amore vero, e neomamma, innamorata per la prima volta.
Margareth osservò Quentin sussurrare qualcosa, con occhi emozionati, nell’orecchio della sua migliore amica, che sorrise dolcemente e chiuse gli occhi, stringendosi ancor di più al petto del marito.
Erano la coppia perfetta, pensò, una di quelle coppie che sono l’emblema dell’amore vero e che ti fanno venire voglia di innamorarti sul serio, anche se sei la più cinica delle donne.
Margo, infatti, sentì l’impellente necessità – forse quasi il bisogno – di innamorarsi sul serio.
Scosse il capo un microsecondo dopo che quel pensiero le era balzato in testa. Lei era già innamorata.
O almeno, doveva forzarsi di esserlo.
«Signora Jefferson?».
Una voce mite alle loro spalle fece voltare tutti e tre. Susie si staccò dal petto del marito con occhi ancor più luminosi dopo aver capito cosa volesse da loro quella donna vestita completamente di blu e con un dolce sorriso sulle labbra.
Gli occhi di Susie si aprirono come due fontane e ripresero a lacrimare incessantemente, mentre Quentin si era alzato di scatto, mostrando completamente la sua slanciata figura. Fece dei lunghi passi verso l’infermiera, che rivolse un altro enorme sorriso a Susie la quale, intanto, aveva stretto nuovamente la mano a Margareth.
L’infermiera si era avvicinata ancor di più al lettino di Susie, seguita a ruota da Quentin, il quale non riusciva a distogliere lo sguardo emozionato dal minuscolo granellino di sabbia presente in quella culla.
La donna sorpassò leggermente Margareth e prese delicatamente il corpicino della bambina tra le braccia che, intanto, aveva preso ad emettere dei leggeri versetti, cosa che fece singhiozzare Susie.
L’infermiera le fece un altro sorriso emozionato, rivolgendolo anche a Quentin, adesso dietro le spalle di sua moglie.
«Eccola qui, la vostra meravigliosa bambina» disse, porgendo ancor più teneramente la piccola tra le braccia di Susie. «Ancora congratulazioni».
A quel punto, la donna uscì dalla stanza e Quentin non seppe trattenere le lacrime e avvicinò ancor di più il viso al corpo di sua figlia, beatamente sonnecchiante tra le braccia di sua moglie, che aveva preso ad accarezzarle il viso arrossato con le dita affusolate.
«Ciao, amore mio» aveva sussurrato Quentin tra le lacrime «ciao, amore di papà», poi si era sporto verso Susie e le aveva lasciato un lungo bacio sulle sue labbra bagnate di lacrime emozionate. Quest’ultima, dopo quel bacio, aveva ripreso a guardare la piccola creatura tra le sue braccia e aveva continuato ad accarezzarle il viso.
Margareth si alzò di poco dalla sedia e si sporse verso la minuscola bambina vestita con una tutina dai colori chiari che faceva da contrasto con la sua pelle ancora arrossata. La guardò intensamente, prima che qualche lacrima scendesse silenziosa sulle sue guance, senza che se ne accorgesse minimamente: era la cosa più bella che avesse mai visto.
Era piccola - poco più grande della sua mano – e sembrava un batuffolo con gli occhi di chi, al mattino,  ancora non vuole saperne di svegliarsi e vorrebbe vivere di sogni ancora per un po’. Le labbra erano grandi – proprio come quelle di Susie – e le sue manine stringevano teneramente il pollice della madre, come a voler creare quel primo contatto indissolubile con la persona che le sarebbe stata accanto per tutta la vita, e che l’avrebbe amata nonostante qualsiasi cosa.
Susie singhiozzò ancora, poi si voltò verso la sua migliore amica e le sorrise. Alzò di poco la testa della piccola, come se volesse voltarla verso Margo, e le alzò delicatamente la manina che teneva stretta il suo pollice.
«Fai ciao a zia Margareth, Lily» sussurrò, la voce rotta dall’emozione «fai ciao».
Margareth allungò una mano verso la bambina, sorridendole, poi le accarezzò dolcemente una guancia arrossata. «Ciao, Lily» bisbigliò dolcemente, incurante delle lacrime «benvenuta al mondo».
La piccola Lily mugolò ancora una volta, quasi come se avesse voluto salutare davvero Margareth, e Susie sorrise. «Zia Margareth è speciale, Lily» disse, accarezzando ancora una volta il volto della bambina e guardandola intensamente negli occhi semiaperti.
Margo rimase interdetta per quelle improvvise parole sussurrate dalla sua migliore amica a sua figlia, ma un sorriso fece capolino sulle sue labbra. Provò a chiederle il perché stesse pronunciando quelle parole, ma fu interrotta dal continuo del suo discorso.
«Vedi, Lily, zia Margareth è la mia migliore amica, la mia anima gemella... che non me ne voglia tuo padre» e ridacchiò, seguita a ruota da Quentin, sotto lo sguardo incuriosito di Margo.
«Imparerai tanto da noi, me e tuo padre, che ti ameremo sempre per ciò che sei e per tutto quello che farai, ma imparerai tanto, forse di più – e lo spero – anche da zia Margareth. Spero che tu acquisisca da lei la libertà, il modo di pensare e la sua stessa indipendenza. Io ti insegnerò a camminare, ma zia Margareth – stanne certa – ti insegnerà a volare con i tuoi stessi piedi; tuo padre potrà insegnarti a parlare, ma lei ti insegnerà come esporre le tue idee senza che qualcuno te le distrugga e ti faccia sentire minuscola così...»e diminuì la distanza tra pollice ed indice. Margareth, in silenzio, si lasciò scappare qualche lacrima.
«Quando crescerai...» riprese Susie, senza smettere di guardare la figlia «noi saremo lì, a sostenerti. Anche se tu ci odierai – perché, a un certo punto, ci odierai, stanne pur certa – corri da zia Margareth. Parlane con lei, sfogati, piangi con lei, perché le sue orecchie e il suo animo sono le uniche che sanno ascoltarti davvero, e dalla sua bocca non uscirà nessuno dei segreti che le confesserai. Fallo, Lily, è tua madre che te lo impone.
Ti imporrò tante, tantissime altre cose, fino a che non ti sanguineranno le orecchie e magari tu, per ripicca, non mi starai a sentire e mi manderai a fanculo – non dire alla nonna che ti ho appena detto una parolaccia – ma, credimi, questa sarà l’unica cosa che io voglio che tu faccia davvero, sempre. E guai a te se non lo farai!». Quentin ridacchiò e Margareth provò a chiedergli il perché di quelle parole, ma lui si portò l’indice accanto alla bocca e le sorrise.
«Lily, amore mio» continuò Susie, dolcemente «hai molte più cose da imparare da zia Margareth che da me. Io sono una pazza svitata che, molte volte, cela insicurezza dietro quella finta sicurezza che mi creo. Zia Margareth, invece... lei è sicura di se sempre e comunque, anche se non ci crede più così tanto. Se ti consiglio lei come un punto di riferimento, è perché io stessa la considero in tale modo. Quando sarai un po’ più grande, scoprirai cosa sono i fari e quanto sono utili per le barche durante la notte. Ecco, zia Margareth per me – e anche per te – è questo: è la luce durante la mia notte buia.
Ne ho passate tante con lei, e chissà quante altre ancora ne passeremo insieme, e io voglio davvero che tu cresca con lei: impara da lei Lily, così come ho fatto io. Vivi come lei e pensa come lei. Combatti per le cose che ami e, anche quando ti sentirai giù, non abbatterti. Sogna, Lily... sogna tanto, sogna in grande, così come ha fatto lei: lascia che i tuoi sogni diventino ciò per cui vivrai, perché sono l’unica cosa che ti alimentano il cuore, e lascia che la tua passione sia conciliata al tuo futuro lavoro. Impara a sognare come zia Margareth, Lily».
Gli occhi di Margareth, ormai, erano talmente sommersi dalle lacrime, che non riusciva più a vedere nulla. Li sentiva gonfi e doloranti e, sicuramente, erano completamente rossi. Quentin le fece un mezzo sorriso comprensivo, mentre Susie continuava a guardare sua figlia, accarezzandole il viso.
«Soprattutto, Lily... innamorati come si è innamorata lei».
A quelle parole, Margareth spalancò ancor di più gli occhi, facendo scivolare quelle lacrime che erano rimaste intrappolate nelle sue iridi. Vide Susie sorridere dolcemente, per poi sospirare.
«Vedi, Lily, ad innamorarci siamo tutti bravi. Crediamo che il vero amore sia la persona che ci faccia ridere, che ci faccia stare bene e che ci procuri solo pensieri felici. Indubbiamente è anche questo, perché bisogna saper scegliere la persona che ti faccia sentire giusta te stessa e con il resto del mondo. Non voglio propinarti la storia di come io e tuo padre ci siamo innamorati, perché è banale, semplice, piena di cliché, anche se per noi e piena di significati, anche perché, il nostro amore, ha fatto nascere la cosa più bella della nostra vita, ovvero te ...» detto questo, Quentin le lasciò un bacio sulla nuca, mentre il cuore di Margo aumentava sempre di più a palpitare.
«Lily, innamorati della persona che ti farà maledire il giorno in cui l’hai incontrata. Innamorati di chi sa amare le tue lacrime, innamorati di qualcuno che vorresti fosse diverso ma che non vorresti mai cambiare perché, con quei suoi mille difetti, riesce a rendersi perfetto per te; innamorati di qualcuno che sappia farti ridere e piangere allo stesso tempo anche dall’altro capo del mondo. Innamorati del modo in cui ti sorride e del modo in cui i suoi occhi si incastrano alla perfezione con i tuoi. Innamorati di chi ti fa urlare, di chi ti fa anche bestemmiare, di chi ti fa palpitare il cuore anche quando vorresti solo prenderlo a sprangate... innamorati fino a negarlo. Innamorati come si è innamorata zia Margareth, Lily. Lei, che è innamorata persa di chi la fa incazzare, e continua ancora a negarlo a se stessa...».
A quel punto, Susie alzò lo sguardo verso la sua migliore amica, seduta accanto a lei. Alzò di poco gli angoli delle labbra, quando vide Margo con gli occhi gonfi ed arrossati e le lacrime salate che scendevano copiosamente sul viso.
Si sentì soddisfatta di se stessa – e non per averla fatta piangere – per averle procurato quella reazione.
Era stato l’unico modo per farle capire quanto fosse innamorata di un paio di occhi dal colore differente dal suo: se farla piangere era una via d’uscita per farglielo comprendere, allora anche meglio.
Era sicura che una dose non indifferente di lacrime le avrebbe potuto solo far bene.
«Margareth...» sospirò Susie, richiamandola.
Quest’ultima alzò lo sguardo – precedentemente nascosto dietro la sua mano – verso Susie, che ancora aveva il pollice incastrato tra la piccola manina di sua figlia.
Margareth guardò Lily – solo in quel momento si rese conto che era sua nipote, anche se acquisita – e la vide ancora sonnecchiare tra le braccia di sua madre. La sentì emettere gli stessi versetti che aveva fatto precedentemente, e sorrise tra le lacrime.
Lily le aveva dato la forza di ricominciare a sognare e a credere ancora una volta.
Le aveva dato la forza di ammettere i suoi veri sentimenti e mai, mai, sarebbe stata più grata ad una persona in quel modo. Insieme a Susie, ovviamente.
«Susie...» sussurrò Margareth, alzandosi in piedi. La bionda inclinò di poco il capo, e lei le sorrise grata.
«Lily è una meraviglia».
Susie ridacchiò e scosse il capo, stringendo a se quel piccolo batuffolo dalla tutina chiara, ancora tra le sue braccia. «Corri a chiamarlo, cretina. Dall’altra parte del mondo non aspettano te!».
E Margareth non poté fare a meno di abbracciarla forte –anche se goffamente per non fare male alla piccola – e lasciarle milioni di baci sulla guancia, facendola ridere di gusto. Salutò Quentin con un cenno di una mano e si sporse anche verso la piccola Lily facendole un’ultima carezza e promettendole che sarebbe tornata a trovarla il giorno dopo.
Uscì dalla stanza 214 più piena e felice che mai.
La piccola Lilian Reene Jefferson era nata.
E, insieme a lei, era rinata anche Margareth.
 
 
 

Mise piede in casa sua alle quindici e trentacinque in punto.
Era ormai troppo tardi per ritornare a scuola – le lezioni erano finite da un pezzo – e non aveva voglia di girovagare come una nomade per i vari parchi della città.
Aveva bisogno di tornare a casa sua. Anche perché, finalmente, non doveva condividerla più con nessuno.
Da qualche mese a quella parte, ormai, Margareth aveva traslocato in un appartamento leggermente in periferia: aveva aperto un mutuo - da pagare in comode rate – e viveva comodamente, senza più il costante odore del cinese in casa (era arrivata al punto di odiarlo, quando abitava nella vecchia casa) e, soprattutto, senza più mutande sparse in giro su tutto il pavimento.
Certo, l’appartamento non era una reggia con sette bagni e dieci camere da letto, ma per lei e Jaden andava bene così.
D’altronde, ci vivevano solo loro due.
O meglio, inizialmente doveva viverci solo Margareth ma, da quando Jaden era stato sfrattato dal monolocale in cui viveva prima, lei non aveva potuto lasciarlo in mezzo ad una strada. Era pur sempre il suo ragazzo e, se non l’avesse aiutato, sarebbe passata per la stronza della situazione e se ne sarebbe pentita amaramente.
Jaden lo definiva il loro “nido d’amore”, ma Margareth dissentiva. Tuttavia, per non farlo rimanere male, gli sorrideva falsamente ogni volta che lo diceva, poi continuava a guardare la televisione con il braccio di Jaden che le cingeva le spalle.
Ogni tanto passavano qualche intervista dei 5 Seconds of Summer in qualche stupido talk show e lei si fermava a guardarli distrattamente, mentre Jaden al suo fianco sbuffava per vedere la partita, o qualcosa che lui riteneva più serio, ovvero qualche altro stupido programma.
Margo lo sapeva che, in realtà, era solo una scusa per non farle vedere il volto di Ashton – anche se da dietro un piccolo schermo rovinato – eppure, quello che Jaden non sapeva, era che a lei bastavano anche solo cinque minuti del suo sorriso per isolarsi dal resto del mondo. Per cui, ogni volta che inciampavano in uno di quei talk show, Jaden sbuffava, lei ammirava il sorriso di Ashton per qualche minuto e poi gli permetteva di cambiare canale, per poi alzarsi dal divano ed avviarsi in camera da letto, sedendosi alla scrivania ed aprendo una vecchia agenda dalla copertina nera. Scriveva tra quelle righe ingiallite dal tempo, con il sorriso di Ashton da protagonista dei suoi pensieri e delle sue parole e, come sottofondo, le imprecazioni di Jaden contro qualche povero giocatore che aveva sbagliato un misero tiro.
Era un continuo bivio, la sua vita: insegnante a tempo pieno ed aspirante scrittrice fallita; fidanzata con Jaden ed innamorata di un altro, lontano sorriso.
Quando tornò a casa, era sicura che Jaden fosse al pub per il turno pomeridiano, quindi – oltre ai suoi calzini sparsi sul pavimento dell’ingresso – non si aspettava che, ad attenderla al suo rientro, ci fosse proprio lui, inginocchiato su quello stesso pavimento tra i suoi stessi calzini, con una camicia bianca abbottonata fino al collo e in un paio di ridicolissime mutande colorate.
«Jaden?!» esclamò sorpresa e confusa, chiudendo la porta alle sue spalle.
Lui abbassò lo sguardo verso le sue mutande, poi le fece un sorriso imbarazzato. «Lo so, scusami. E’ che mi hai preso alla sprovvista, non pensavo tornassi a quest’ora. Così, appena ho sentito le chiavi nella serratura, non ho avuto il tempo di infilare i pantaloni...».
Margo aggrottò la fronte, alzando di poco il capo. «Non dovresti essere al pub, a quest’ora?».
«Ho chiesto qualche ora di permesso a Sean, e a Tilly di sostituirmi» spiegò, grattandosi la nuca. Margo annuì.
Rimasero in silenzio per qualche minuto, lei senza sapere cosa dire, lui in mutande ed imbarazzato da morire. Jaden tossicchiò, come a voler spezzare quella ambigua tranquillità che si era creata, e Margareth fece un passo in avanti verso di lui.
«Mi spieghi cosa ci fai inginocchiato a terra?» gli domandò, incrociando le braccia al petto.
Jaden chiuse gli occhi e sospirò. «Margareth...»
«In mutande, poi...»
«Margareth...»
«Tra tutti questi calzini puzzolenti, tra l’altro» sospirò, scuotendo il capo. «Per favore, Jaden, levali da qui, fanno schif...»
«Margareth, ti prego, ascoltami».
La voce di Jaden sovrastò stranamente la sua e Margareth capì che si trattava di qualcosa di veramente urgente. Solitamente, Jaden era un tipo tranquillo, pacifico e di rado alzava la voce; contro di lei, poi, non si era nemmeno mai permesso. Margareth si zittì per un secondo e lo guardò negli occhi grandi e castani, ammirando leggermente le sue lentiggini.
Jaden si passò una mano tra i capelli scuri e sorrise, nuovamente imbarazzato. «Margareth, io lo so che non stiamo insieme da molto...»
«Sono due anni e mezzo, Jad...»
«...e che abbiamo poca esperienza in quanto a convivenza» continuò, incurante dei suoi sospiri «ma io sono certo di una cosa dalla prima volta che ti ho vista: tu sei la donna della mia vita, Margareth».
«Jaden...»
«Sono totalmente convinto di voler passare il resto della mia vita con te e costruire una famiglia, in questa casa, nel nostro nido d’amore...»
«Jay...»
«...per cui, Margareth Ulbrier» e cacciò fuori dalla tasca della camicia una scatolina blu.
«Non sta succedendo sul serio...» sussurrò lei, scioccata, portandosi una mano sulle labbra.
«Qui, tra questi calzini sporchi ed in mutande ti chiedo...» aprì la scatolina con gli occhi emozionati e le mani tremolanti, – Margareth lo notò dalla sua difficoltà nell’aprirla -  mostrando un anello che le accecò gli occhi per quanto brillasse.
«Oh mio Dio...»
E Margareth aveva finalmente capito cosa stesse per accadere. E il suo cuore, pur palpitante, non voleva.
«...vuoi sposarmi?».
 
 
 

Jaden era uscito da un pezzo da casa per recarsi al pub per il turno serale.
Margareth era stesa supina nel grande letto matrimoniale della loro stanza, la pancia e gli occhi rivolti completamente verso il soffitto leggermente crepato.
Aveva chiuso le persiane della finestra nella stanza, facendo in modo che la luce non entrasse da nessuna parte.
Voleva stare spenta. Voleva essere buia.
Sospirò amaramente quando il ricordo di poche ore prima – Jaden in mutande, inginocchiato sul pavimento con un anello tra le dita – si fece largo nella sua mente. Si voltò su un fianco, immergendo completamente il viso nel morbido cuscino, quasi come se volesse soffocare.
L’aveva presa alla sprovvista e lei, già confusa di suo, non aveva saputo cosa rispondergli.
Era rimasta ferma, immobile al centro del salotto, lasciando che  il silenzio prendesse nuovamente il sopravvento tra di loro e s’instaurasse gelido per tutta la casa.
Jaden non era stupido, e aveva capito.
Le aveva sorriso imbarazzato, si era alzato dal pavimento e le si era avvicinato, lasciandole un bacio sulla fronte. “Ti ho presa alla sprovvista, scusami. Pensaci” , le aveva detto solo, poi si era avviato nella stanza da letto –dove si trovava lei ora – e si era vestito per andare al lavoro. Aveva tolto la camicia, infilato un paio di jeans e una maglietta scura, poi l’aveva raggiunta in salotto, – dove lei era ancora pietrificata – aveva infilato il giubbino di pelle ed era uscito nell’aria fresca di Ottobre.
A quel punto, lei, aveva lasciato cadere la borsa sul pavimento – tra i calzini sporchi – e si era recata verso il bagno, dove aveva tolto la giacca verde militare – fin troppo leggera -  il vestito chiaro, il leggins nero, gli anfibi consumati con una lentezza esorbitante, senza preoccuparsi minimamente del disordine.
 Aveva lasciato che l’acqua si riscaldasse un minimo, prima di buttarcisi sotto per cercare di abbandonare i pensieri.
Ma quelli erano ancora lì, bastardi ed irremovibili, e sembravano non volerle lasciare un minimo di pace psicofisica. Era uscita, gocciolante e pensierosa, aveva avvolto l’asciugamano intorno al corpo ed era rientrata in camera da letto, dove aveva infilato un vecchio maglione bianco – fin troppo largo – e un altro paio di leggins puliti. Era stato a quel punto che aveva chiuso le persiane, si era stesa sul letto e non si era più mossa da quella posizione.
Jaden le aveva chiesto scusa. Ma scusa di cosa?! Era lei quella che doveva scusarsi con lui, lei quella che era rimasta immobile di fronte alla sua – seppur bizzarra – proposta di matrimonio.
Era una stronza, ecco cos’era. Una codarda. Una vigliacca. Una che non meritava alcun tipo di amore.
Prese a pugni il cuscino più volte per evitare di piangere ancora.
Che le versava a fare, quelle lacrime, se si sentiva così finta e di pezza, in quel momento?
Strinse ancora una volta il cuscino prima di tirarsi su di botto e respirare immensamente, facendo entrare quanta più aria possibile nei polmoni. Accasciò di poco la testa in avanti, poggiando la fronte su una mano e scuotendo il capo: era arrivato il momento di ammettere a se stessa cosa provasse davvero e cosa voleva seriamente.
Afferrò di scatto la cornetta del telefono posto sul comodino e compose rapidamente il numero, quel numero che conosceva a memoria. L’aveva chiamato così tante volte, quando aveva bisogno di aiuto, ed ora più di adesso sentiva la necessità di rivolgersi a quell’unica persona che, probabilmente, le avrebbe voluto bene anche se fosse stata ancora più orribile in quanto ad umanità.
Ed era l’unica persona che lei avrebbe amato sempre, nonostante tutto.
Attese per un infinito silenzio il primo squillo, lento ma assordante, tamburellando di poco le dita su una gamba piegata.
Al secondo squillo le venne quasi la voglia di chiudere la telefonata ed abbassare la cornetta, ma non lo fece.
Al terzo squillo, pensò che non avrebbe risposto e che era inutile continuare a sperare.
Al quarto squillo, si diede mentalmente della stupida mentre torturava il labbro inferiore.
Al quinto squillo, la sua voglia di chiudere quella telefonava cresceva, ma ancor di più aumentava la speranza che rispondesse.
Al sesto squillo, scosse il capo, rassegnata, mentre le lacrime pungevano dolorosamente contro gli occhi.
Non avrebbe risposto.
Settimo squillo.
Rispose.
«Pronto?» .
La voce – la sua voce – impastata dal sonno. Margo lo immaginò con i capelli biondi scombinati e una mano tra di essi, mentre con l’altra teneva svogliatamente la cornetta del telefono ancora con gli occhi chiusi.
«Pronto?!» ripeté ancora assonnato, stavolta più impaziente.
«Non lo amo».
Le lacrime non ce l’avevano fatta più ed erano scappate via dalle sue iridi scure, bagnandole dolcemente il viso, scendendo copiosamente sui suoi zigomi rosati. Si portò una mano sulle labbra, come se volesse nascondere i frequenti singhiozzi, come se non avesse far voluto trapelare quella dolorosa verità che aveva appena confessato.
C’era stato un attimo di silenzio dall’altra parte della cornetta, smorzato solo dai singhiozzi di lei.
«Margo?!» la richiamò Ashton, la voce un po’ più sveglia «Margo, sei tu?».
Lei, in risposta, annuì col capo, come se lui fosse in grado di vederla dall’altra parte del mondo.
«Sì» rispose solo, la voce ovattata a causa della bocca nascosta dietro la sua mano.
«Tutto bene, Margo? Stai male? E’ successo qualcosa di grave?» le domandò freneticamente, sinceramente preoccupato.
Margareth singhiozzò ancora. «Niente di grave... non sto male... non va tutto bene...» rispose a scatti.
Dall’altro lato della cornetta, Ashton sospirò. «Margo, che succede? Dimmelo, ti prego, mi stai facendo preoccupare...».
Le lacrime di Margareth continuarono a scendere copiosamente lungo il suo viso, incorniciandolo di tristezza, mentre lei cercava di asciugarli con il dorso del maglione, ormai sporco di mascara e bagnato della sua infelicità.
«Non lo amo, Ash...» sussurrò ancora, singhiozzando «io non lo amo».
Sentì Ashton sospirare ancora una volta. Lo immaginò mentre si passava nuovamente la mano tra i capelli e poi la poggiava sulla fronte, con le dita intorno alle tempie, come faceva ogni volta che era nervoso o quando, semplicemente, qualcosa lo turbava.
«Non piangere, Margo, ti prego...» la supplicò, mentre i singhiozzi di lei si facevano più frequenti.
«Scusami, Ash... io... non volevo nemmeno svegliarti, scusa...» balbettò in difficoltà «io... non so che ore siano lì e... cazzo, mi dispiace, sono sempre la solita egoista, scusa... attacchiamo, torna a dormire, io sto bene, davvero...».
Ashton fece un mezzo sorriso dall’altro capo del telefono. «Qui sono le due del mattino, Margo. E non mi disturbi affatto, non sei egoista, smettila di farti mille paranoie. L’unica cosa che voglio è che tu smetta di piangere...».
Margo annuì col capo, tirando su col naso. «Okay, ci proverò» sussurrò, e sentì Ashton sorridere.
«Spiegami che è successo, adesso. Con calma...».
Margareth fece un lungo sospiro per far entrare l’aria nei polmoni poi, quasi affranta, accasciò nuovamente la mano contro la sua fronte e scosse il capo.
«Jaden... lui... mi ha chiesto di sposarlo...» sussurrò piano, quasi come se non volesse farglielo sapere.
Ancora una volta, il silenzio fu protagonista tra di loro, interrotto solo da qualche sospiro pesante di lui e qualche altro singhiozzo involontario di lei.
«E tu... tu cosa gli hai risposto?».
Le pose quella domanda in un flebile sussurro impercettibile che, se ci fosse stato casino, probabilmente lei non avrebbe nemmeno sentito.
Margareth sospirò ancora una volta. «Io... io...» tentennò, poi prese un grosso respiro e chiuse gli occhi.
«Non gli ho risposto, Ashton».
Un altro lungo silenzio insopportabile, ancora una volta.
«Margo...»
«Io non lo amo, Ash»ripeté ancora, più a se stessa che a lui, singhiozzando. Non riusciva più a trattenerli.
«Forse non l’ho mai amato e gli ho sempre mentito. Ho sempre mentito a me stessa. Mi sforzavo di amarlo, ma non ci riuscivo, non ci riesco. E’ qualcosa di troppo grande per me, non lo sopporto più... non posso più fargli credere altre bugie, non posso più raccontarmi bugie. Devo smetterla di torturarlo in questo modo... ho giocato col fuoco, e adesso mi sono bruciata. Sono una stronza immatura egoista, cazzo!».
Scoppiò nuovamente in lacrime che, seppur silenziose, Ashton riuscì a cogliere come se fosse stato lì, accanto a lei. Lo sentì sospirare amaramente, nonostante fosse troppo occupata ad ascoltare i suoi singhiozzi frequenti.
«Margo, prendo un aereo e vengo da te» le disse improvvisamente, in un modo talmente sicuro e convinto di se stesso, che a Margareth fece quasi spavento. Alzò di scatto il capo, mentre il cuore prendeva a palpitarle forte. «C-cosa?! No, Ashton, no!» esclamò sconvolta. «Devi continuare il tour e poi... tornerai a casa tra due mesi Ash, no, non esiste!».
«Non ce la faccio a sentirti così, Margo» insisté lui «gli altri capiranno, davvero».
«Non se ne parla nemmeno!» quasi urlò «non tornerai a casa per colpa mia e per la mia stupida crisi amorosa. Non ci pensare nemmeno. Due mesi passano in fretta, ce la posso fare da sola, ce l’ho sempre fatta. Non mandare a puttane il tuo lavoro per...»
«Te» concluse Ashton, e Margareth poté sentire il suo caldo sorriso anche dall’altra parte del ricevitore, anche lontano chilometri e chilometri. «Per te, Margo. Per te prenderò un aereo e, in meno di qualche ora, mi avrai accanto. Non ci metto niente a prenotare un volo».
«No, Ashton»ripeté lei, decisa, tirando leggermente su col naso, nonostante quella proposta le avesse fatto perdere milioni e milioni di battiti. «Mancano solo due mesi. Non farlo, ti prego. Tu sei sempre accanto a me, anche quando sei lontano. Io ti porto sempre dentro di me, Ashton, lo sai...».
Ashton non poté fare a meno di sorridere. «Anche tu sei sempre con me, Margo...» si ravvivò i capelli con una mano. «Ma non riesco a rimanere qui se so che tu stai male».
«Lo lascio, Ashton» disse improvvisamente.
Si asciugò le ultime lacrime col dorso del maglione e tirò su col naso. «Lascio Jaden. Non lo amo, non voglio più mentirgli. Non voglio sposarlo e rendere infelici entrambi».
«Sei davvero sicura, Margo?» le domandò lui, sospirando forte.
Lei annuì. «Mai stata così sicura in vita mia».
Un altro lungo silenzio si interpose tra loro, diventando protagonista di quella telefonata e, i loro sospiri frequenti erano i personaggi secondari.
«Ehi...» sussurrò improvvisamente Ashton. «Stai bene?».
Margo trattenne le lacrime ancora una volta, intrappolando il labbro inferiore tra i denti.
«No» roteò gli occhi al cielo e fece un sorriso amaro «ma tutto passa, prima o poi, no?».
Ashton sospirò, e Margo lo immaginò sorridere ancora una volta. «Certo, tutto passa. Tutto, tranne noi».
Margareth sorrise, stavolta sinceramente, mentre un’altra lacrima abbandonava lenta la sua iride sinistra.
Proprio lì, in quella parte dove il cuore non smetteva di battere, alimentato dall’amore vero.
«Tranne noi?»
«Tranne noi».
Aveva confermato quella promessa in un sussurro, Ashton, in un sussurro che solo loro avrebbero potuto sentire chiaramente anche in mezzo ad una folla, anche tra il baccano di un concerto, anche lontani chilometri con l’oceano a separarli.
Era stata una promessa indistruttibile, quella. Loro lo sapevano, così come i loro cuori.
«Ashton?» lo richiamò improvvisamente Margareth.
«Sì?».
E Margareth avrebbe tanto voluto dirgli tutto, per una buona volta; avrebbe voluto svuotare il sacco pieno di parole non dette che si portava dietro da anni e che non aveva mai fatto uscire dal suo cuore. Avrebbe tanto voluto dirgli che lei, con Jaden, ci si era messa solo per ripicca e si era promessa di imparare ad amarlo quasi come se volesse dimostrargli qualcosa, come se fosse una sfida contro se stessa, ma non ci era mai riuscita, perché il suo cuore era già occupato da un’altra persona.
Quella stessa persona lontana chilometri che sentiva vicina più di chiunque altro.
Ma, ancora una volta – e chissà per quanto – stette zitta. E negò nuovamente a se stessa la verità.
«Buonanotte».
Ashton sorrise. «Non piangere più, Margo. Buonanotte anche a te».
 
 

Era passata una settimana esatta da quando Jaden era uscito da casa sua.
Quella notte – quella stessa notte – era rientrato in casa alle due del mattino, stanco morto e maleodorante di cipolla fritta. L’aveva trovata sul divano, sveglia e con un plaid sulle gambe, gli occhi rossi e gonfi dal pianto.
E aveva capito.
Margareth si era alzata e gli era andata incontro lentamente. L’aveva guardato negli occhi e si era alzata sulle punte per lasciargli un’ultima, tenera carezza, che lui aveva quasi percepito come uno schiaffo.
Uno di quelli schiaffi che colpiscono anche il cuore e che, con quest’ultimo, poi ci fanno a pugni per tutta la vita.
“Scusami tu”, gli aveva sussurrato, altre lacrime amare avevano solcato il suo volto rosato ed illuminato solo da qualche raggio della luna.
Jaden aveva scosso il capo, le aveva preso la mano e l’aveva allontanata da suo viso, come se non volesse farle sentire quanto dolore stesse provando in quel momento, come se non avesse farle voluto percepire le lacrime che, prima o poi, avrebbero solcato anche il suo, di volto.
Così come era entrato, era uscito di casa, senza nemmeno preoccuparsi della roba da impacchettare, per poi uscire definitivamente da quella casa e da quella vita.
Solo qualche giorno dopo – forse dopo essersi riempito del coraggio necessario – era rientrato mentre lei era a scuola – o forse in ospedale da Susie - e aveva preso tutta la sua roba, lasciandole la sua copia delle chiavi di casa sul tavolino accanto all’ingresso senza dirle altro.
Nessun biglietto, nessuna parola, niente di niente.
Si erano lasciati così, in un modo assordantemente e fastidiosamente silenzioso.
E adesso Margareth era sola, nella casa che aveva comprato unicamente per se stessa, della quale continuava a pagare il mutuo in comode rate e, nella quale, non vi erano più né la puzza del ristorante cinese, né calzini sporchi sparsi per il salotto.
Era diventata una casa silenziosa, interrotta solo dal vociare della televisione o da qualche cd buttato distrattamente nello stereo, giusto per ricevere quel minimo di compagnia giornaliera.
Andava spesso da Susie – soprattutto dopo che era stata dimessa dall’ospedale – per stare insieme a lei e alla bambina, per distrarsi da tutto quello che era successo e, soprattutto, per distrarsi da un amore più grande di lei.
La casa era talmente vuota e, certe volte, quasi senza vita, che le era sembrato quasi strano il rumore improvviso del citofono quello stesso pomeriggio. Aveva aperto al postino e preso il pacco a suo nome in tuta e con i capelli disordinati, senza preoccuparsi minimamente di chi potesse o non potesse vederla.
Salì le scale a due a due dopo aver firmato velocemente la raccomandata senza nemmeno salutare l’omino vestito di giallo, troppo curiosa di sapere cosa contenesse quel pacco misterioso.
Non poteva essere sua madre con le sue solite marmellate d’arancia: sapeva benissimo che le odiava e che sarebbe stata in grado di rimandarle indietro.
Scartò velocemente il pacco con il seghetto appuntito di un coltello e lo aprì avidamente, infilando entrambe le mani all’interno, troppo curiosa di scoprire cosa contenesse.
Quello che ne uscì fu totalmente inaspettato: cacciò fuori un cd, ermeticamente chiuso in un contenitore di plastica trasparente, sul quale vi era scritto semplicemente “Margo” con un pennarello indelebile.
Sorrise teneramente. Avrebbe riconosciuto quella calligrafia disordinata tra mille.
Oltre al cd, nel pacco vi era anche un bigliettino, scritto con una penna blu dalla stessa, identica calligrafia.
Lo prese tra le mani, avviandosi in salotto con quello e con il disco, sedendosi poi sul pavimento freddo della stanza di fronte allo stereo.
Lo aprì velocemente per poi immetterne dentro il cd e premere play, leggendo il bigliettino mentre le prime note musicali le entravano dentro, penetrandole le ossa e immergendosi nel suo animo come la migliore delle cure.
 
“Questa è per te, per ogni volta che sono lontano. Ricordati che sono sempre con te.
Ti voglio bene, Margo.
Ashton”.
 
Rilesse il bigliettino più volte, prima di portarselo contro il cuore, mentre le voci di Luke Hemmings e Calum Hood si fondevano tra loro, intonando la più bella melodia di sempre, che le fece palpitare il cuore a ritmo di quella musica e spuntare un dolce sorriso sulle labbra.
Due mesi, mancavano solo due mesi.
E poi, finalmente, l’avrebbe avuto accanto a se.
 
I wish I was, I wish I was... beside you. 

 
Hello everybody! :D
Here I am con un altro capitolo! *nessuno se la caga* *i grilli canticchiano allegramente e manco loro se la cagano*
Sì, okay... cccciao! :D
Allooora, che dire di questo capitolo? Diciamo che questo è stato il capitolo decisivo per me, ovvero quello che mi ha dato l'ispirazione per scrivere questa storia (e sì, lo so che adesso penserete "ma non era meglio che ti stavi ferma e non la scrivevi proprio, 'sta cagata?" "ma perché non ti metti vergogna e ti dai all'ippica?" "perché non ti ritiri, che ci fai un grande favore?") e diciamo che c'è un bel po' di fluff sparso qua e là (forse ce n'era molto di più nel capitolo precedente, ma vaaabbè)
Prima di tutto, Susie che dà alla luce una bellissima bambina di nome Lily che fa aprire un po' gli occhi a Margo! Aaaawww, tenera Susie che fa tutto quel discorso che, sinceramente, mi sono emozionata a scrivere :)
Poooooii, l'assurda proposta di matrimonio: vabbé, non so come mi sia venuta, sinceramente, la mia mente sforna cose malate, si sa.
Ma passiamo alla cosa più importante: la telefonata e la canzone. 
Non so perché, ma è una cosa che io ho trovato estremamente carina e mi andava tanto di scriverla :) ora, credo di averla scritta una schifezza (e quando mai!) però Beside You è una delle mie canzoni preferite e l'ho trovata azzeccatissima per Ashton e Margo! Spero vi piaccia come idea :D
Poooi, che altro dire?
La canzone a inizio capitolo si chiama Breathe, di Anna Nalick, e vi consiglio assolutamente di ascoltarla se non l'avete mai fatto, perché è meravigliosa, tratta da un film mooolto carino che si chiama Sballati d'amore (a lots like love in inglese che, sinceramente, trovo nettamente superiore al titolo in italiano. Ovviamente, noi italiani storpiamo sempre i nomi -.-)
E nuuulla, credo di aver detto tutto! 
Vi lascio, come al solito, i miei contatti di twitter facebook ed ask e, inoltre, i link di due oneshot che ho pubblicato recentemente, una su Ashton (la mia rovina personale, non si era capito?! Falling in love) ed una appena sfornata su Calum (L'amore è un'altra cosa)  
Spero che il capitolo vi piaccia! :D
E io ho straparlato, come al solito.
Vado via, và, che è meglio u.u 
Come al solito, grazie mille anche solo per esservi fermate a leggere!
Un bacione grande :*
Mary 

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Capitolo 5
*** V ***


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V
 
“Non mi prendere mai sul serio quando ti dico di lasciarmi. Tienimi, ti prego, tienimi.
Vieni quando ti pare, una volta al mese, una volta all’anno, ma tienimi”.
Margaret Mazzantini
 
 
 
I really feel that I'm losing my best friend 
I can't believe this could be the end [...]
You and me... I can see us dying... are we?
 

Dicembre 2005.
 
Lo aspettava da ore di fronte al ristorante in cui si erano dati appuntamento.
Si torturò ancora una volta le pieghe morbide del suo corto vestito nero, come se volesse eliminare qualsiasi e minuscola imperfezione da esso. L’aveva comprato apposta per l’occasione in un negozio sconosciuto nel quale Susie l’aveva trascinata e, nonostante fosse molto semplice, aveva speso un occhio della testa.
“Vedrai che ne varrà la pena!”, le aveva detto Susie speranzosa, stringendole un braccio quando si erano avvicinate alla cassa per pagare, mentre lei continuava a maledirsi mentalmente. Avrebbe tanto voluto indossare uno dei suoi sgualciti jeans chiari, ma Susie gliel’aveva categoricamente negato, sostenendo di non potersi più vestire come una ragazzina, dati i suoi ventotto anni suonati.
Era riuscita a dare ai suoi capelli – corti e drittissimi - un po’ di volume legandoli in un comodo e semplice chignon, lasciando libera dalla presa qualche ciocca più lunga, le quali le incorniciavano il viso leggermente truccato.
D’altronde, era solo Ashton. Non voleva esagerare.
Ma adesso era lui quello che stava esagerando.
Le aveva dato appuntamento fuori ad un ristorante – uno dei più chic, avrebbe detto – alle otto in punto, raccomandandosi della puntualità per prenderla in giro, consapevole del fatto che lei, in ritardo, non lo era mai, ma era lui stesso quello che si faceva sempre attendere. Poteva anche comprendere – sopportare? – dieci, quindici minuti di ritardo, ma erano già passate due ore e, di Ashton, non se ne vedeva nemmeno l’ombra in lontananza.
Si alzò leggermente sulla punta dei suoi scomodi tacchi, buttando un’occhiata verso la fine della strada, ma nulla: nessuna chioma bionda in avvistamento.
Sbuffò ancora una volta, maledicendo Susie per la scelta dei tacchi e maledicendo se stessa per averle dato retta e, soprattutto, per aver accettato l’invito di Ashton ed essersi presentata fuori il locale con un quarto d’ora d’anticipo.
Estrasse dalla pochette il vecchio – ma ancora abbastanza funzionante – cellulare, provando a richiamarlo nuovamente ma, dall’altra parte del ricevitore, sentì nuovamente la voce registrata della sua segreteria telefonica, la quale l’avvertì cortesemente che il cliente non era al momento raggiungibile.
Sono due ore che non è fottutamente raggiungibile, pensò, forse troppo rudemente.
Chiuse violentemente la telefonata, rimettendo il cellulare in borsa e stringendosi nel cappotto pesante che le copriva le spalle, abbottonandolo ancora di più sul collo.
Il vento freddo e pungente della sera le stava smorzando il viso, quasi come se volesse tagliarglielo a metà, mentre gli occhi iniziarono a lacrimarle per quel contatto così violento. Non si preoccupò minimamente del trucco sciolto perché, oramai, sapeva che Ashton non sarebbe più arrivato.
Si diede ancora una volta della cretina sia per aver accettato, sia perché non riusciva proprio a smettere di essere tesa ed emozionata come una ragazzina al suo primo appuntamento. Le mani continuavano a sudarle e, più le sfregava tra loro, più le si formava un nodo all’altezza dello stomaco che non ne voleva sapere di sciogliersi e scivolare via. Portò le mani - giunte tra esse - all’altezza delle labbra per poi farne fuoriuscire un leggero sbuffo caldo per donarsi almeno un minimo di tepore e sollievo contro il freddo di dicembre, cercando di dimenticare cosa ci facesse ancora lì fuori.
Afferrò ancora una volta il cellulare per controllare se ci fossero state eventuali chiamate o messaggi da parte di Ashton che l’avvertiva di non poter più raggiungerla per chissà quale preda incontrata all’improvviso, ma niente. Non si era nemmeno preso la briga di avvertirla.
Controllò l’orario per l’ennesima volta, sbuffando. Erano le dieci e dieci e lei era fuori il locale da esattamente due ore e venticinque minuti che aspettava qualcuno che, sapeva, non si sarebbe più presentato.
E stavolta lei non l’avrebbe perdonato.
Si sedette sul marciapiede alle sue spalle - incurante del fatto che fosse sporco – e sbuffò veemente mentre toglieva quelle sottospecie di torture cinesi dai piedi, comunemente conosciute con il nome di tacchi. 
Pensò nuovamente che avrebbe potuto almeno avvertirla che non si sarebbe fatto vivo, perché lei non meritava di aspettarlo lì fuori come una povera anima in pena infreddolita, per giunta.
Mai come in quel momento stava odiando Ashton alla follia. Trattenne alcune lacrime – forse per colpa del vento freddo e pungente, forse per colpa di Ashton stesso – e si strinse nuovamente nel cappotto, cercando di riscaldarsi quanto più possibile.
Si domandò mentalmente per l’ennesima volta perché lo stesse aspettando nonostante tutto, nonostante il freddo, nonostante le lacrime. Ancora una volta si diede della cretina poiché troppo speranzosa e troppo positiva nel fatto che Ashton, prima o poi, sarebbe arrivato.
Ma quando?
Decise di rimettersi i tacchi e, con un bel po’ di fatica, si alzò dal marciapiede per incamminarsi il più lontano possibile da quel locale in cui avrebbero dovuto cenare. E lei non aveva mangiato per tutto il giorno perché l’emozione di rivedere Ashton, dopo un anno di lontananza, le aveva fatto chiudere lo stomaco per la felicità. E cosa le era rimasto, adesso, se non un vestito nuovo e rovinato ed un grande vuoto nello stomaco e nel cuore?
Si asciugò qualche lacrima che aveva solcato le sue guance con il dorso della mano ruvida ed infreddolita, poi guardò nuovamente l’insegna del locale – dal quale proveniva una musica soft e di lusso – e sospirò amaramente, prima di incamminarsi traballante lungo il marciapiede, nella direzione opposta.
Sei una stupida, Margareth” ripeté a sé stessa, tenendo stretta la pochette tra le sue mani “stupida, stupida, stupida”.
Era lontana solo di poco dal ristorante – se ne rese conto perché riusciva ad udire ancora perfettamente la musica soul – quando sentì una macchina rumorosa frenare di botto dietro di lei e una portiera spalancarsi e richiudersi sonoramente in pochi secondi, prima che quella potesse sfrecciare nuovamente via.
Si asciugò un’ultima lacrima bastarda, prima che si accorgesse di alcuni passi frettolosi dietro di lei ed una voce fin troppo familiare chiamarla con un nomignolo utilizzato solo ed unicamente da una persona.
«Margo! Ehi, Margo!».
Margareth sentì il cuore battere all’impazzata ma, per chissà quale questione di principio, continuò a camminare dritta davanti a sé, accelerando il passo ogni qual volta la voce la richiamava.
«Margo! Fermati, sono io!» continuò a chiamarla, inseguendola con una certa difficoltà.
Lo so che sei tu, brutto stronzo” pensò Margareth, continuando a camminare per stargli il più lontana possibile, quasi fosse un virus. Ed in effetti, lui, un po’ un virus lo era: si era preso il cuore di Margo e l’aveva fatto ammalare di un amore malato e senza speranza, un amore che sembrava dire “non m’interessa se sei lontano, se vai via da me, se mi fai soffrire come un cane... io sono innamorata di te, sempre e per sempre”.
Ashton prese una rincorsa per raggiungerla, continuando a chiamarla con insistenza, mentre gli occhi di lei s’inumidivano di nuovo di tristezza e rabbia fuse insieme.
Quando Ashton le fu abbastanza vicino, le afferrò un braccio con prepotenza per farla fermare lì, accanto a lui, ma lei non si voltò.
Non aveva voglia di perdersi in quegli occhi meravigliosi che le erano mancati tanto per poi cascare di nuovo nel suo gioco meschino e rimanerci fregata. Non aveva voglia di provare ancora tanto amore per lui nonostante l’avesse fatta soffrire.
«Lasciami» gli ordinò secca, senza urlare e sbraitare. Perché dare vita ad una patetica scenata, quando a lui di lei non importava minimamente?
«Margo, ti prego...» sussurrò lui, tenendola ancora stretta. Margareth si accorse che la sua voce era diversa dal solito: sembrava come strascicata, trascinandosi a fatica, come se fosse... ubriaco.
Ashton era ubriaco. Ashton l’aveva fatta aspettare due ore al freddo e al gelo per andarsi ad ubriacare.
Margareth scosse il capo, incredula e, senza voltarsi, gli sussurrò «tu mi hai fatto aspettare due ore da sola, qui, al buio e con un vento gelido di pazzi per il semplice motivo di andarti ad ubriacare con chissà chi?!».
Ashton ridacchiò acutamente. «Io non sono ubriaco!».
«Sì che lo sei, Ash!».
A quel punto Margo non aveva saputo resistere alla tentazione di voltarsi ed urlargli contro, nonostante sapesse il male che le avrebbero procurato quegli occhi. E infatti, non appena incrociò quello sguardo verde, Margo sentì le gambe cederle come fossero due budini, e non poté fare a meno di notare di quanto fossero lucidi e brilli per il troppo alcool.
«Guardati, Ashton» disse, la presa di lui ancora intorno al suo braccio «sei ubriaco marcio ed hai anche il coraggio di affermare il contrario?!» si liberò dalla sua presa con un gesto secco ed arrabbiato sotto lo sguardo divertito di lui. «Quanto sei ridotto male».
«Non essere dura, Margo!» esclamò lui, aprendo le braccia «un anno che non ci vediamo e tu pensi a quanto sia ubriaco?! Smettila e abbracciami, dai!».
Margareth incrociò le braccia al petto e indietreggiò di poco, quasi come se fosse spaventata da lui.
«Sei assurdo, Ashton!» trillò, scuotendo il capo «mi fai aspettare due ore per i tuoi sporchi comodi e poi mi chiedi pure di abbracciarti, cacciando fuori la storia che sei stato via un anno. Avevamo un appuntamento, Ash, non sono la tua serva che puoi far aspettare quanto ti pare e piace!» .
Ma Ashton, dal canto suo, continuò a tenere le braccia aperte in attesa che lei ci si fiondasse dentro, e il suo sorriso rimase impalato lì, sulle sue labbra brille. Margareth non poté fare a meno di pensare che l’alcool gli avesse dato alla testa e gli avesse bruciato i neuroni se solo pensava che lei lo perdonasse così, come niente fosse.
Indietreggiò ancora, nonostante la difficoltà dei tacchi, e lo guardò quasi schifata.
«Io me ne vado, Ashton» sputò amara «chiamami quando sarai finalmente sobrio».
Voltò i tacchi e fece per allontanarsi ancora, incamminandosi solo di pochi passi prima che Ashton – con chissà quale lucidità – la raggiungesse e l’abbracciasse improvvisamente per le spalle, tenendola stretta contro il suo petto racchiuso dalla camicia grigia.
 «Mi dispiace, Margo» soffiò al suo orecchio destro, la voce ancora biascicante «mi dispiace tanto. Scusa».
Margareth rabbrividì improvvisamente, e non seppe spiegarsi se la causa fosse il freddo pungente o il sospiro caldo di Ashton lungo il suo viso. Fatto sta che rimase immobile contro il suo petto, forse perché la  sua presa era talmente tanto forte che non le dava la possibilità nemmeno di respirare.
O forse perché quella presa le era mancata talmente tanto, che non aveva voglia di sottrarsene per nessuna ragione al mondo, nonostante fosse arrabbiata.
Rimasero così, in silenzio, ad ascoltare i loro sospiri alternati e profondi per un tempo che ad entrambi sembrò interminabile e piacevole allo stesso tempo.
Margareth abbassò di poco il capo, rendendosi conto di come la sua dignità sparisse nel momento in cui Ashton le rivolgesse semplicemente la parola, e non poté fare a meno di maledirsi mentalmente per essere una dannata cretina perdutamente innamorata.
«Vaffanculo, Ashton» bofonchiò, mentre la presa di lui si faceva ancora più stretta.
Ashton ridacchiò sommessamente. «E’ il tuo modo di dire che mi perdoni?» domandò con la voce strascicata, ma meno acuta del solito.
Margareth sbuffò e roteò gli occhi lucidi al cielo. Anche ubriaco, Ashton era sempre il solito idiota convinto di sé stesso e del suo incredibile charme.
«No» affermò, voltandosi improvvisamente verso di lui «questo è il mio modo per dirti vaffanculo».
Ashton scoppiò a ridere, forse anche sotto dettatura dell’alcool, strizzando gli occhi e piegandosi in due.
Margo pensò che fosse davvero estremamente ubriaco, perché non le sembrava aver fatto nessuna battuta divertente, ma gli aveva semplicemente indicato – nel modo meno pacato possibile – la strada per sparire dalla sua visuale.
Ashton fece dei lunghi sospiri prima di appoggiare il palmo di una mano su un muro lì accanto e riprendersi dalle risate – ma non dalla sbronza – per poi scrollarsi con le dita i capelli e avvicinarsi a lei per circondarle le spalle con un braccio. «Sei sempre la solita, Margo» esclamò, dandole un buffetto sulla guancia che la fece indietreggiare. Non sapeva nemmeno perché non si fosse ritratta a quel contatto.
Ashton la guardò negli occhi prima di indicare con un cenno del capo l’entrata del locale. «Entriamo?» le domandò allora, come se niente fosse.
Margareth rimase quasi sconvolta da tutta quell’indifferenza nei suoi confronti, poi scosse il capo. «Non mi sembra proprio il caso, Ash» rispose, sottraendosi alla sua presa.
Lui la guardò confuso, corrugando un sopracciglio. «Perché?».
«Sei ubriaco fradicio» gli fece notare lei, sospirando «e poi è tardi. Vediamoci domani, dai... riprenditi dalla sbronza e riposati».
Nonostante le avesse fatto aspettare tutto quel tempo, Margareth proprio non se la sentiva di essere arrabbiata con lui. Forse quella ubriaca davvero era lei, in quel momento, o forse i suoi sentimenti avevano semplicemente preso possesso dei suoi neuroni e l’avevano fatta impazzire.
Ashton fece un ghigno, poi le si avvicinò ancora. «Guarda che ho una prenotazione, possiamo entrare quando più ci pare» disse, afferrandole una mano e guardandola con occhi supplicanti, poi ghignò divertito.
«Sono o non sono Ashton Irwin?!».
E Margareth avrebbe tanto voluto dargli una botta in testa, uno schiaffo, un calcio o qualsiasi altra cosa che lo facesse scendere dal piedistallo anche solo un secondo, ma si limitò a roteare gli occhi al cielo ed a sbuffare, facendolo ridacchiare leggermente.
«Dai Margo, non ci vediamo da un anno, chi se ne frega che è tardi!» esclamò lui, quasi come fosse un bambino. «Pensiamo solo a passare una bella serata soli io e te, come i vecchi tempi».
I vecchi tempi in cui non eri Ashton Irwin, il famoso batterista voluto da tutte? I vecchi tempi in cui eri solo Ashton, il mio migliore amico logorroico, a volte pedante, un po’ egocentrico, ma comunque la persona più buona del mondo?”  pensò amareggiata Margo, guardandolo tristemente negli occhi. Ashton continuò a sorridere – forse per la sbronza, forse perché era felice davvero – senza accorgersi minimamente del velo  di tristezza che aveva preso possesso delle iridi della sua migliore amica.
Margareth riuscì solo ad emettere un live sospiro prima che Ashton la trascinasse dentro divertito, sotto il suo sguardo confuso e scioccato.
«Ash, dai...» provò a dire, cercando di ritrarsi da quella presa ma lui, in risposta, portò un indice sulle sue labbra e le fece segno di non lamentarsi, per poi rivolgerle un occhiolino.
Si avvicinarono all’entrata del locale ed Ashton poggiò con un po’ di difficoltà la mano sulla maniglia della porta, prima di aprirla completamente. Margo si fece invadere da quella leggera musica soul e sospirò ancora, prima di entrare nella sala calda ed accogliente.
Era grande, spaziosa e arredata con cura: le luci soffuse le davano quel tocco d’intimità giusta per chi avesse voluto passare una serata in santa pace con qualcuno di speciale, e l’odore di lavanda - misto a quello della vaniglia – le conferivano un’aria pulita ed elegante. Le pareti erano di un color castagna, addobbate con quadri astratti dai diversi colori e le donavano un calore ancor più accentuato, quasi fosse una casa familiare accogliente.
Ashton si avvicinò ad uno dei camerieri – vestiti completamente di nero – per dare il suo nome ed informarli della loro presenza, mentre Margareth si guardava attentamente intorno: era un ristorante talmente chic che, probabilmente, una cena le sarebbe costata gran parte del suo stipendio mensile, se non del tutto.
Ashton le sfiorò una mano per richiamare la sua attenzione, poi le fece cenno di seguire insieme a lui il cameriere dal sorriso cordiale che li avrebbe accompagnati al loro tavolo. Margo annuì distrattamente, poi si strinse nelle spalle e li seguì con passo indeciso ed infermo a causa di quei maledetti tacchi.
Una volta oltrepassato l’ingresso, si ritrovarono al centro della sala dove il loro tavolo – addobbato con alcune rose in un vaso – li attendeva da più o meno due ore e mezzo. Margareth arricciò leggermente il naso alla vista di quelle rose rosse – il fiore che lei odiava più di tutti – mentre si liberava dal cappotto nero per porgerlo gentilmente al cameriere. Ashton gli sussurrò qualcosa prima di congedarlo, dandogli anche la sua giacca nera, poi fece un sorrisino divertito a Margo e le si pose dietro rapidamente, indietreggiando di poco la sua sedia per farla accomodare.
«Prego, signorina» le disse, cercando di imitare il tono di voce di un cameriere, indicandole con una mano la superficie legnosa della sedia, sotto lo sguardo sconvolto di Margo, che scosse il capo.
«Non la sai fare la parte del galantuomo» ribatté lei, sedendosi «evita queste scenette».
Ashton sbuffò pesantemente. «Ancora non mi ha perdonato?» domandò, prendendo posto di fronte a lei.
«Non credo lo farò» rispose, guardandosi poi ancora intorno.
Alcune persone erano seduti intorno a loro, chiacchierando sommessamente sulla melodia del momento, ridacchiando per chissà quale cosa detta o fatta, scambiandosi sorrisi sinceri accompagnati dal tintinnio dei bicchieri pieni di vino rosso.
«Te l’ho detto che sei bella?».
Margareth si voltò immediatamente verso Ashton, colta alla sprovvista da quella cosa appena pronunciata ed uscita velocemente dalle sue labbra. Lui abbozzò un sorriso, facendole un mezzo occhiolino, mentre le sue guance si tingevano di un colorito dal nome rosso imbarazzo. Morse il labbro inferiore come se lo volesse staccare, maledicendo sé stessa mentalmente per l’effetto che Ashton le aveva appena provocato dopo averle rivolto quel complimento. Lo guardò dritto negli occhi, cercando di sostenere quello sguardo verde senza innamorarsene ancora di più, e li vide lucidi, arrossati... brilli. E il cuore un po’ le fece male.
«Sei ubriaco» gli ricordò – e lo ricordò anche a sé stessa – con un sorriso amaro sulle labbra.
Ashton fece un ghigno, incrociando le mani e sporgendosi verso di lei. «Non lo sai che gli ubriachi dicono sempre la verità?».
«Non è questo il caso» ribatté, imitando i suoi movimenti. «Tu da ubriaco spari ancora più cazzate».
Ashton ridacchiò. «Non è questo il caso» ribatté a sua volta, imitando il tono di voce utilizzato da Margo, poi scosse il capo e si passò una mano tra i capelli biondicci ed ancora troppo lunghi.
Margareth si ricompose sulla sedia, notando in lontananza il cameriere arrivare verso di loro trasportante un carrello dove vi era un secchiello in cui era contenuta una bottiglia di chissà quale champagne pregiato.
Pensò – sperò – che il cameriere si stesse dirigendo verso un altro tavolo, magari situato dietro il loro ma, solo quando lo vide fermarsi accanto a loro con lo stesso sorriso cordiale di sempre, ne fu proprio sicura.
Ashton era un cretino.
«Ash...» lo richiamò Margareth, mentre quello ringraziava tranquillamente il cameriere.
Si voltò verso di lei con sguardo interrogativo ed un sorrisino su volto, mentre il cameriere stappava la loro bottiglia e versava lo spumante nei loro calici di vetro.
Margareth lo guardò severa. «Forse non avresti dovuto ordinare anche lo spumante».
«Perché?» le domandò, aggrottando le sopracciglia.
«Mi chiedi anche il perché?!». Margareth lo guardò sbigottita, mentre il cameriere si allontanava da loro, portando con sé anche il carrello. Roteò gli occhi al cielo, sporgendosi di poco verso di lui, che ancora non riusciva a comprendere.
«Ash, sei ubriaco! Non puoi ordinare altro e continuare a bere alcolici!» lo rimproverò, guardandolo con occhi severi e scioccati.
Ashton ridacchiò e, subito dopo, lasciò che uno sbuffo rilasciasse le sue labbra. «Come la fai lunga, Margo!» esclamò divertito, per poi afferrare il calice colmo di spumante e guardarla negli occhi.
«Dobbiamo festeggiare il mio ritorno, ricordi?».
E Margareth pensò che l’unico ritorno che Ashton dovesse davvero fare, era quello in sé stesso.
Ashton aveva già pronto il calice contro di lei per brindare al suo ritorno e alla sua trionfante carriera, ma Margareth continuò a guardarlo male. D’altronde potevano brindare solo di lui, dato che lei non aveva fatto poi chissà che nel corso degli anni. Forse avrebbero potuto brindare alla sua stupidità ed incoerenza, dato che era non era riuscita a diventare tutto ciò che avrebbe voluto essere e aveva fatto praticamente tutto ciò che aveva sempre negato e guardato con ribrezzo.
E una di queste cose, era stato l’innamorarsi perdutamente di due occhi completamente ubriachi.
Si perse nuovamente in quei due pozzi di fronte ai suoi occhi e, ancora una volta, smise di pensare razionalmente.
Ma sì” pensò, afferrando il suo calice “tanto lui non saprà mai che sto brindando ai miei fallimenti”.
Ashton si aprì in un enorme sorriso quando la vide prendere il bicchiere di vetro tra le dita, così fece scivolare il suo calice verso il suo, creando un leggero e piacevole tintinnio.
«A questa serata» sussurrò Ashton, la voce leggermente strascicata. Alzò nuovamente il calice nella sua direzione e cominciò a bere lo spumante ad occhi chiusi.
All’idiota che sono” pensò Margareth, guardandolo “assurdamente innamorata di qualcuno che è più idiota di me”. Portò il calice alla labbra e, con un velo di tristezza e malinconia, sorseggiò lentamente un po’ di quel frizzante e pregiato champagne.
Guardò Ashton bere le ultime gocce di spumante e poi aprire nuovamente gli occhi, poggiando il calice sul tavolo e sorridendo felice – ed ubriaco – verso Margo.
«Buono, eh?» le domandò, facendole un occhiolino.
Margareth non poté fare a meno di notare la sua voce ancor più strascicata ed i suoi occhi divenire ancor più lucidi, e si domandò mentalmente quanto alcool nel corpo avesse Ashton in quel momento.
Annuì distrattamente mentre si focalizzava sulle sue fossette, che facevano da cornice a quel sorriso così meraviglioso. Margo si sentì nuovamente ubriaca lei, al posto di Ashton, perché quel sorriso la mandava davvero nel pallone.
Forse avrebbe dovuto dirglielo.
Forse avrebbe dovuto dirgli di tutto l’amore che provava per lui, dei sentimenti nascosti nel profondo dentro di lei da anni, della felicità che provava anche solo guardando il suo sorriso tramite uno schermo.
Forse avrebbe dovuto dirgli di essere completamente e irrimediabilmente innamorata di lui.
Tanto non se ne sarebbe mai ricordato, ubriaco com’era.
E allora non pensò più alle conseguenze, non pensò più a quello che quelle parole avrebbero provocato. Strinse il calice tra le mani e fece un lungo sorso, prima di poggiarlo sulla superficie legnosa del tavolo, coperto da una morbida tovaglia bianca e raffinata.
Lo guardò negli occhi, incontrando nuovamente quel verde prato, guardandolo ed ammirandolo come fosse la prima vera volta, nonostante quelle iridi fossero ubriache da morire.
E, quando Ashton le sorrise, il suo cuore perse un battito.
E capì che quello era il momento.
«Ashton, devo dirti una cos...?!»
«Non puoi immaginare quanto bello sia stare in tour, Margo!» esclamò Ashton, bloccando sul nascere le parole dell’amica. Gli occhi gli brillavano come fossero due stelle, e non solo per il suo stato di ubriachezza pesante.
Margareth sospirò mestamente, mentre il battito del cuore iniziò ad affievolirsi lentamente, secondo per secondo. Non sapeva se fosse più idiota lui per il suo solito egocentrismo, o se lo fosse di più lei, convinta che Ashton le avrebbe dato ascolto.
E allora si convinse che, forse, l’idiota in questione era proprio lei: lei, innamorata di qualcuno che non l’avrebbe amata mai come avrebbe voluto.
Incrociò le braccia sulla tavola – nonostante fosse una cosa che il bon ton riteneva denigrante – e si perse nelle parole brille di Ashton. Lo ascoltò ciarlare di cose su cose su cose, su come fosse bello girare su un tour bus, di quante risate si fossero fatti tutti e quattro insieme, degli scherzi fatti a Luke, delle ragazze che si portava dietro Calum quasi ogni sera, del nuovo colore di capelli di Michael.
Ashton parlava, e lei ascoltava.
Ascoltava di quante sigarette avessero fumato tra le risate, di come Michael stesse cercando di smettere, ma senza successo, di quando quella volta Calum aveva provato a farsi una canna ed era collassato miseramente, di quando si erano ubriacati una sera dopo un concerto a San Francisco che, a detta di Ashton, è una delle città più belle del mondo.
Parlava, Ashton, parlava tanto. E, più parlava, più beveva, più beveva, più si ubriacava.
E Margareth ascoltava distrattamente quelle parole, e si ritrovava a pensare a cose assurde, guardandolo negli occhi.
Aveva sbagliato tante cose, nella sua vita, ed una di queste era stato innamorarsi di Ashton Irwin.
Forse non sarebbe dovuta finire a letto con lui, quella maledetta sera di cinque anni prima, quella maledetta sera in cui l’aveva fatto entrare in camera sua e lui, incurante, era entrato anche nel suo cuore, senza andarsene mai sul serio. Forse non avrebbe dovuto parlargli dei suoi sogni, delle sue ambizioni; forse non avrebbero dovuto diventare così dipendenti l’uno dall’altra perché, si sa, a ricavarne il peggio ne è sempre uno solo, mentre l’altro gode sempre del meglio.
E Margareth – sfigata com’era, l’aveva sempre detto – aveva ricavato il lato peggiore di quella dipendenza e, nonostante tutto, aveva finito per innamorarsene.
Forse non avrebbe dovuto incontrarlo mai. Forse non avrebbe dovuto incontrare quegli occhi tanto luminosi e quel sorriso tanto dolce.
Forse avrebbe dovuto amare Jaden e avrebbe dovuto sposarlo, invece di lasciarlo andare così, senza una vera spiegazione. Avrebbe dovuto amarlo, avrebbe dovuto dimenticarsi di Ashton e del male che le stava provocando, e invece... invece lei, di quel male, non ne poteva proprio fare a meno.
«E tu, invece? Come stai?».
Le parole improvvise del suo migliore amico la fecero risvegliare da quello strano stato di coma.
Scrollò leggermente le spalle, ridestandosi dai suoi pensieri e concentrando un minimo della sua attenzione sulla domanda che Ashton le aveva appena rivolto.
E allora Margareth avrebbe tanto voluto dirgli come si sentiva davvero, che era infelice, delusa da sé stessa e da quello che non era riuscita a creare, che si sentiva stronza per aver lasciato Jaden così, senza una motivazione precisa, quando quest’ultimo le aveva detto di voler passare la sua vita insieme a lei, che non si sentiva un’insegnante vera e propria perché lei, da insegnare, non aveva proprio nulla.
Lei, che si sentiva una fallita, una sfigata cronica, una senza speranze, aveva il compito di insegnare a dei ragazzini di quindici anni non solo nozioni scolastiche, ma anche cosa fosse la vita.
E avrebbe tanto voluto dirgli che la sua, di vita, era vuota, senza di lui.
«Beh, mi va... discretamente, direi. Sì, discretamente» rispose, facendo spallucce.
E, ancora una volta, si sentì morire per quella grossa bugia appena pronunciata.
Perché non era vero che stava discretamente, non era vero che le cose le andavano abbastanza bene.
Le cose le andavano male, veramente male a detta sua, e avrebbe solo voluto parlargliene.
Ma come poteva, quando parte del cervello di Ashton era occupato dall’alcool?
«E come va la cosa lì...» chiese ancora, tentennando leggermente, poi schioccò l’indice e il pollice tra loro e ghignò  «l’insegnamento, ecco. Come ti va?». Afferrò nuovamente il calice – colmo quasi fino all’orlo – di vino e lo roteò leggermente, prima di berlo con gusto.
Margareth storse un po’ il naso, notando una leggera indifferenza nel tono di voce di Ashton, ma non ci diede troppo peso. Era già tanto che le avesse chiesto come stesse andando.
«Va abbastanza bene» rispose perché, in realtà, era vero. Insegnare non era mai stata una delle sue aspirazioni, ma la paga era buona – molto di più rispetto a quella del pub – e i ragazzini erano simpatici, quando non le stressavano l’anima. Certo, ancora non era del tutto soddisfatta della sua vita – forse per niente – ma almeno riusciva a trarre un minimo di ispirazione da quei ragazzi per alcuni dei suoi scritti.
Improvvisamente, sentì il ridacchiare di Ashton dopo la sua risposta, e la cosa non poté che provocarle un certo shock.
«Cosa c’è?» domandò, aggrottando lievemente le sopracciglia.
Ashton scosse il capo, ridacchiando ancora, mentre con le dita tamburellava sul calice appena posato sul tavolo.
«Nulla» rispose, la risata che non gli moriva tra le labbra «è che stavo pensando a...»
«A cosa?». Il tono di Margareth risultò interrogativo, incazzato, feroce. I suoi occhi avrebbero potuto fulminarlo da un momento all’altro.
Ashton fece un altro ghigno, lasciando che le sue fossette si presentassero nuovamente ai lati delle sue labbra in un modo così insolente ed indisponente, che Margareth avrebbe solo voluto strappargliele.
Fece un altro sorso dal calice, prima di aggrottare le spalle e guardarla con gli occhi ubriachi e divertiti.
«Beh, pensavo che insegnare è una cazzata. Basta che dici due stronzate sulla vita di qualche autore e poi basta, finisce lì. Voi insegnanti prendete una paga solo per ripetere delle cose che sono già scritte su un libro, che senso ha?».
Le mani di Margareth si chiusero immediatamente in due pugni stretti tra loro, che finirono sulla superficie del tavolo creando un rumore assordante. Il suo volto era contratto in un’espressione rabbiosa ed incazzata, e i suoi occhi cercavano in tutti i modi di trattenere le lacrime.
«Sei proprio uno stronzo» sputò velenosamente, alzandosi dalla sedia e lasciando che questa strisciasse rumorosamente dietro di sé.
Ashton rimase a guardarla allibito, mentre Margareth gli rivolgeva uno degli sguardi più arrabbiati e tristi allo stesso tempo, uno di quegli sguardi che la sua migliore amica non gli aveva mai rivolto, uno di quelli che non scordi facilmente, perché ti uccidono dentro.
Margareth si allontanò velocemente dal tavolo sotto gli occhi scandalizzati del resto della sala, che aveva assistito alla scena. Ci volle un po’ prima che Ashton si rendesse conto della situazione e si alzasse dalla sedia al seguito di Margo, che aveva già raggiunto il cameriere per farsi ridare il soprabito tolto poco prima.
«Margo, ehi!» la richiamò, mentre quella infilava il cappotto.
Lei si voltò verso Ashton, gli rivolse un ultimo sguardo incazzato e poi uscì via dal locale, mischiando il suo stato d’animo all’aria fredda di Dicembre. Si chiuse di poco il cappotto in petto e compì dei rapidi passi per allontanarsi quanto più possibile da quel locale, ma non poté fare a meno di sentire il rumore della porta del ristorante aprirsi dietro di lei e dei passi seguirla freneticamente.
Accelerò la camminata con le lacrime pungenti contro gli occhi ma, nuovamente, la mano forte di Ashton le si posò sul braccio, strattonandola violentemente per farla voltare. E Margareth si voltò, incontrò quegli occhi verdi, e si lasciò andare.
Pianse per loro, davanti a loro. E si sentì stupida da morire.
«Margo...»
«Sei un grande stronzo, Ashton Irwin!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola, allontanandosi da lui. «Sei veramente un grande stronzo!».
Ashton provò a richiamarla ancora una volta, ad avvicinarsi a lei, a chiederle scusa ma, stavolta, fu lei a non farlo finire di parlare. Fu lei ad interrompere le sue parole, ad interrompere le sue scuse, a sputare parole su parole.
«Non solo io ti aspetto come una cogliona per due ore, qui fuori, al freddo e al gelo... poi mi arrivi anche ubriaco fradicio! In ritardo ed ubriaco! Senza un minimo di rispetto per l’appuntamento che avevamo, per me, cazzo Ashton... per me!». Margareth fece un grosso sospiro, asciugandosi con il palmo della mano una lacrima appena scesa sul suo volto.
«Arrivi qui, ubriaco, e mi supplichi di passare una serata come ai vecchi tempi, soli io e te. Ma, quando vado per ricordarti che è tardi, che sei ubriaco... allora no! Allora sono io la cretina, certo! Sono io la cretina, perché, oh mio Dio, grosso errore... ho dimenticato che tu sei Ashton Irwin e a te tutto è dovuto, no?! Ho dimenticato che adesso sei il batterista più famoso ed amato del mondo, che puoi arrivare tardi agli appuntamenti, che puoi ubriacarti quando ti pare e piace quando c’è una cogliona – perché questo è quello che sono – che ti aspetta fuori un locale dove tu le hai dato appuntamento! Una cogliona che, si suppone, sia la tua migliore amica, una che ti ha aspettato per due ore qui fuori a congelarsi il culo, pur di vederti, nella speranza che saresti arrivato! E invece no! Oltre al danno anche la beffa, perché tu, con quella tua prosopopea del cazzo, arrivi qui e ti permetti anche di prendermi per il culo come fossi la migliore delle idiote, perché non ti è bastato non avere rispetto per me, non ti è bastato non amarmi abbastanza... non ti è bastata tutta la sofferenza che mi hai provocato, devi sempre esagerare perché, giusto, tu puoi... tu sei Ashton Irwin, no?!».
E la voce di Margo si affievolì per quell’ultima frase, un po’ perché ha urlato troppo, un po’ perché ripetere il nome di Ashton, in quelle circostanze, le fa male.
Ashton provò ad avvicinarsi a lei, ad accarezzarle le lacrime, a chiederle scusa, ma Margo si ritrasse sempre di più, perché quella fiducia in lui, forse, era scomparsa davvero.
«Margo... mi dispiace tanto, davvero...» sospirò Ashton, la voce leggermente strascicata.
«Non è vero...» le lacrime di Margareth non resistettero alla voglia di solcare il suo viso truccato, lasciando che il mascara colasse di poco dai suoi occhi.
«A te non dispiace questa vita, Ash. A te non dispiace essere così strafottente, così ricco, così maledettamente stronzo. E’ a me che dispiace non vederti più com’eri prima, come l’egocentrico, ma buono, Ashton...» e a quelle parole, le scappò una risatina amara. Tirò su col naso, poi indietreggiò ancora una volta.
«Margo, ti prego... scusami, perdonami, io non intendevo dirti quelle cose...» Ashton cercò di raggiungerla, di afferrare una sua mano ormai troppo lontana. «L’hai detto tu, no? Sono ubriaco!».
E Margareth non poté fare a meno di scuotere il capo e piangere ancora di più. Ridacchiò amaramente tra le lacrime copiose, poi tirò ancora una volta su col naso prima di puntare i suoi occhi velati dalla tristezza nei suoi.
«L’hai detto tu, no?» ripeté, mentre un singhiozzo le smorzò un sospiro «gli ubriachi dicono sempre la verità».
E quelle parole fecero male ad Ashton, più di un coltello conficcato nel petto. Provò ad avvicinarsi ancora una volta a lei, alla sua figura triste ma, inaspettatamente, Margo gli buttò le braccia al collo, poggiando la sua guancia bagnata contro quella di lui, avvicinando le sue labbra all’orecchio, sfiorandolo col suo respiro triste. Ashton la strinse forte perché, in cuor suo, lo sapeva che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe abbracciata.
«Mi dispiace, Ashton...» sussurrò Margareth tra le lacrime «mi dispiace tanto».
 Ashton provò a dirle qualcosa, a rassicurarla, a dirle che la colpa era solo sua, che lui era quello che avrebbe dovuto scusarsi e, per un attimo, pensò che l’avesse perdonato ma, ancora una volta, lei lo interruppe, uccidendolo di nuovo.
E Margareth capì che, quello, era il momento adatto per confessargli tutto.
«Io ti amo, ti amo da morire, Ashton... ma, quello che sei adesso, non mi piace più...».
Margareth si staccò velocemente da lui, dopo avergli rivelato quelle confessioni frettolose in un orecchio, poi scappò via da lui, traballando sui tacchi, lasciandolo lì da solo, in mezzo alla strada, al freddo, con il vento gelido di Dicembre a colpirgli il viso e il cuore.
Ashton sentì le lacrime formarsi nei suoi occhi verdi, soli. Le unghie, seppur corte, gli si conficcarono involontariamente nella carne, mentre cercava di trattenere un conato di vomito salitogli su per la tristezza.
Fece un grosso sospiro, chiudendo gli occhi, lasciando che qualche lacrima sfuggisse alla presa delle iridi brille e totalmente ubriache. Si sentì solo per la prima volta in vita sua, in quel momento.
Solo, in mezzo ad una strada, ubriaco marcio, al freddo.
E Ashton, per la prima volta in vita sua, ascoltò in silenzio il suo cuore, senza più interromperlo.
E lo sentì distrutto, perché aveva appena perso la metà della sua vita. 

 
 
Mamma mia, sono pessima... da quanto non aggiorno?! D: 
Faccio proprio pena, madre... mi sa che è meglio se mi ritiro!
Anyway, dopo queste considerazioni su quanto possa fare schifo... hiiii people!   *canticchiano i grilli*
No vabbé, se ancora esiste qualcuno che si caga questa storia fatemelo sapere hahaha io praticamente l'avevo proprio abbandonata a sé stessa! 
Mi scuso tanto con le persone che stavano aspettando questo capitolo, ma la verità è che ho fatto molta fatica a scriverlo perché, boh... mi sono dedicata alla scrittura di altro e quindi l'ho messa un po' da parte. Buuut, ho deciso che mi metterò e la porterò avanti, anche perché mancano quattro capitoli alla fine e ce la posso fare (seh, come no). 
Alluuuora, che dire? Il capitolo fa pena, l'ho appena finito e... fa pena. L'ho già detto, vero? Sì, ma sempre meglio ribadire. 
C'è questo litigio tra i duuue che fa dire cose nascoste a Margareth, uhuhuhu finalmente! 
Ad ogni modo, un po' di tempo fa, mi era venuta in mente una oneshot da scrivere - dal punto di vista di Ashton - sempre riguardante questo momento.
Una sorta di missin moment, per utilizzare termini efpiani (?) 
So adesso vi chiedo: a qualcuno piacerebbe se la scrivessi? Ovviamente, è ancora in forse, anche se ho una mezza idea in mente. Nel caso in cui potesse farvi piacere, fatemelo sapere, che io mi metto all'opera u.u 
E nulla, credo di non avere nient'altro da dire!
Se vi va, ho pubblicato da poco delle oneshot su Ashton e su Michael, quest'ultima in collaborazione con la meravigliosa Vane (Nanek, suu che la conoscete tutti! *-*) per il compleanno di Giaada (Andysmile, e ovviamente conoscete tutti quanti anche lei *-*)
Vi lascio i miei contatti di facebook twitter ed ask, nel caso in cui vogliate anche solo insultarmi u.u 
Grazie mille per esservi soffermate anche solo a leggere, siete delle anime pie *-*
Un bacione, 

Mary 

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Capitolo 6
*** VI ***


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VI
 
“Due giocattoli rotti si ameranno per sempre, anche quando il destino li ripone distanti”.
Il Cile

 
So tell me are we wasting time talking on a broken line
Telling you I haven't seen your face in ages
I feel like we're as close as strangers

 
Aprile 2007.
 
E poi, senza sapere come, dove e perché, Ashton Irwin si era innamorato.
Non era stata una cosa programmata – come si può programmare l’amore? – e non aveva scelto lui d’innamorarsi, fatto sta che era successo e basta e lui, a distanza di un anno, ancora non era riuscito a capire come.
Era stato travolto dal vortice dell’amore all’improvviso: lui, il Dongiovanni per eccellenza – dopo Calum – il Casanova dei poveri, – questo era il suo soprannome, al College – si era innamorato. E perdutamente.
Si chiamava Rachel, Rachel Stanfield e, per Ashton, era la creatura più bella al mondo.
Ogni volta che il ragazzo la guardava negli occhi, dimenticava il mondo intorno a sé e si perdeva totalmente in quel blu marino di cui si era innamorato.
Rachel Stanfield era entrata a far parte della sua vita una sera di Febbraio dell’anno prima quando, con i suoi compagni di squadra, erano stati invitati a partecipare ad uno di quegli eventi mondani che, a loro, proprio non si addiceva. Erano andati lì controvoglia, soprattutto Ashton e Michael, i quali avevano progettato insieme di passare una serata ad ingurgitare schifezze, giocare alla playstation – GTA Vice City Stories – e fumare quelle che, avevano promesso, sarebbero state le loro ultime sigarette. Poi Adam, il loro manager, aveva telefonato Michael e li aveva avvertiti all’ultimo minuto di prepararsi per bene, di infilare le prime camicie pulite che avessero trovato e muovere il culo – così aveva specificato – fuori dall’appartamento suscitando qualche imprecazione poco fine da parte di Michael, già in mutande sul divano.
Così Ashton e Michael si erano preparati di controvoglia, avevano infilato le prime camicie senza alcuna traccia opaca di sugo o qualche altra schifezza, delle giacche eleganti e avevano portato letteralmente il culo fuori l’appartamento che condividevano momentaneamente, entrando in una di quelle macchine enormi – dove Calum e Luke li attendevano -  totalmente pagate dalla loro agenzia di management.
Dopo una buona mezz’ora di viaggio, si erano ritrovati di fronte un enorme edificio al centro della città dove, in esso, si stava svolgendo un evento di beneficenza, organizzato dalla Stanfield&Co.
Michael aveva iniziato ad imprecare malamente contro Adam, non per l’evento di beneficenza in sé, ma per averlo costretto a mettere quella fastidiosa camicia da damerino chiusa fino all’ultimo bottone ed il papillon più ridicolo che avesse mai visto in vita sua. Adam, dal canto suo, gli aveva dato una pacca sulla spalla e l’aveva rudemente minacciato di farlo entrare a calci in culo, se non ci fosse entrato lui con le sue gambe, suscitando l’ilarità di Calum, il quale si sentì in diritto di prendere ancor di più in giro l’amico ed il suo papillon. Erano entrati nel grande edificio accompagnati dai commenti burberi di Michael, guardandosi intorno, increduli per la bellezza di quel posto. La sala era enorme, totalmente illuminata ed arredata con cura: da una parte, vi erano dei lunghi tavoli sui quali erano poste delle scatole in cui era possibile donare soldi, assegni e quant’altro per la beneficenza mentre, al centro, erano posti altrettanti tavoli dalla forma rotondeggiante e sui quali vi erano dei vasi ripieni di tulipani dai diversi colori.
Ashton si guardò un po’ intorno, sentendo Luke commentare con Adam della bellezza di quel posto, alzando lo sguardo verso il soffitto e notando degli enormi lampadari di cristallo a gocce. Solo quando abbassò lo sguardo, la vide.
Racchiusa in un lungo abito bianco e le mani graziosamente giunte tra loro mentre, con un sorriso, parlava tranquillamente con un gruppo di persone. La guardò intensamente da lontano, notando tutti i suoi piccoli particolari: i capelli biondi portati a caschetto, la schiena pallida scoperta, il naso all’insù alla francese e le labbra piccole ed a cuoricino, colorate di un rosso estremamente intenso.
Sorrideva, e Ashton si ritrovò involontariamente a sorridere con lei.
Solo dopo poco, Rachel Stanfield si era avvicinata a loro nel suo lungo abito bianco panna e gli aveva rivolto lo stesso sorriso di prima, mentre Ashton si perdeva nei suoi occhi blu oltremare, affogandoci perdutamente.
Per tutta la sera, entrambi non avevano avuto che occhi l’uno per l’altra, scambiandosi occhiatine fugaci e sorrisi sinceri anche in lontananza, per poi approfittare di qualche attimo libero di lei per scambiarsi anche qualche parola e qualche battuta divertente.
Quella sera stessa, Ashton aveva capito che non avrebbe potuto farsi scappare una come Rachel per cui, prima di andare via, le aveva chiesto il numero di telefono e lei aveva acconsentito calorosamente.
Si erano visti la sera dopo e la sera dopo ancora fino a che, in un tardo pomeriggio di Febbraio, Ashton aveva baciato le sue labbra a cuore, trovandole così dannatamente buone che aveva giurato a sé stesso che non ne avrebbe baciate altre.
Ashton amava Rachel più di qualsiasi altra cosa al mondo: amava la sua dolcezza, i suoi modi di fare così graziosi, il suo incarnato chiaro, la sua ingenuità e anche il suo non comprendere le battute troppo maliziose di Calum.
Anche il resto dei ragazzi sembrava aver accettato la presenza di Rachel ad alcune delle loro tournee anche se, essendo una ragazza fine e raffinata, i loro modi di fare – certe volte troppo rudi – la lasciavano esterrefatta e senza parole. Pian piano, però, la situazione stava cambiando: Rachel si stava abituando al loro essere espliciti – forse fin troppo – e rudi, mentre i ragazzi, dal canto loro, avevano smesso di esagerare con le battute maliziose e doppi sensi in sua presenza, sotto consiglio di Ashton.
O meglio, sotto minaccia di Ashton.
Da due anni a quella parte, Ashton Irwin aveva scoperto cosa fosse davvero l’amore.
Avevano comperato casa insieme, lui e Rachel, e si era sentito per la prima volta un vero adulto con delle reali responsabilità da mantenere. Amava talmente tanto Rachel che aveva imparato ad essere un ottimo uomo di casa, un uomo responsabile delle tasse da pagare, del bucato da stirare e della posta da ritirare.
Quando la notte si stendeva accanto a lei, stringendola forte, si sentiva pieno, pieno di lei, pieno d’amore, finalmente pieno di sé stesso. Ma, la realtà, era che Ashton non era del tutto pieno di sé.
Solo quando - un giorno di una settimana prima- aveva ritirato la posta, Ashton si era ritrovato tra le mani una partecipazione di nozze. Era salito in casa – ancora vuota poiché Rachel era fuori per lavoro – e, dopo aver posto le buste della spesa in cucina, aveva aperto quel candido cartoncino chiaro dalle lettere eleganti, ritrovandosi davanti agli occhi il nome di una delle sue ex compagne di College.
Wanda Livingstone, meglio conosciuta come Wanda l’acqua santa, era stata una delle sue compagne di College dieci anni prima. Era una ragazza bassa, dai capelli color carota e le lentiggini sul viso, grassottella e acida quanto un limone: il nomignolo Wanda l’acqua santa le era stato affibbiato da Calum proprio perché, per quel suo modo di essere, nessuno aveva avuto il coraggio di portarsela a letto. Solo l’anno dopo, quando erano tornati dalle vacanze, Wanda era come un’altra persona: era dimagrita tanto e il suo atteggiamento era cambiato radicalmente tanto che Calum – il primo ad essere stato con lei dopo quel cambiamento – aveva ritenuto opportuno rigirare quel nomignolo in Wanda dalla mano santa.
Ashton rise, ricordandosi di tutti quei momenti. Anche lui era stato a letto con Wanda, all’inizio dell’ultimo anno di College e gli sembrò strano che, qualche mese dopo, si sarebbe ritrovato nella stessa stanza, ma in un letto diverso e, soprattutto, con una persona diversa.
Al solo pensiero, il cuore di Ashton perse un battito.
I suoi occhi si fecero spazio tra tutti i suoi pensieri, prendendo prepotentemente il posto del blu marino di Rachel, scostandoli dalla sua mente e riponendoli in un cassetto invisibile.
Si sentì incredibilmente vuoto, dopo che il sorriso di Margo si unì al ricordo dei suoi occhi castani, mentre Ashton si sedette su uno degli sgabelli della cucina con le mani tremanti ancora con la partecipazione di nozze racchiuse in esse.
Da quanto non la sentiva? Da quanto non parlava con lei, da quanto non la chiamava anche solo per sentire il suono della sua meravigliosa risata?
Erano passati due anni e lui, di Margo, non aveva avuto più notizie.
Ogni tanto gli capitava di rivivere la scena di quell’ultima sera che l’aveva vista, quella maledetta sera in cui aveva alzato troppo il gomito e l’aveva trattata male, come la peggiore degli stracci malandati, e si sentiva uno schifo. Aveva provato a chiamarla tante volte, dopo quelle parole che si erano rivolti, ma lei non aveva mai risposto, facendo si che il silenzio tra loro aumentasse in maniera insormontabile. Pian piano, Ashton aveva smesso di provarci, le sue chiamate erano diventate dalle dieci al giorno alle sette, calando sempre più alle tre, le due... fino a che la fiamma si era spenta e aveva lasciato posto al buio.
E adesso, Ashton, non sapeva nemmeno più dove riaccendere la luce, tra di loro, perché si sentiva un bambino incapace di qualsiasi cosa, senza Margo al suo fianco.
E allora si domandò se lui fosse davvero in grado di amare Rachel come credeva, senza Margo.
Perché Margo gli aveva sempre insegnato tutto, dal vivere al sognare, dal sognare all’essere realistici... e ad amare?
Forse non avevano avuto il tempo necessario per arrivarci, dopo quella brutale litigata, forse era stato davvero troppo stupido, quella maledetta notte, forse si stava perdendo una delle lezioni più importanti da una delle persone più importanti della sua vita.
Solo in quel momento si rese conto di quanto gli mancasse sul serio Margo.
In quei due lunghi anni la sua assenza era stata accantonata, ma mai dimenticata. Forse era stato l’arrivo improvviso di Rachel a rendergli più facili le cose, ovvero l’accettare l’assenza di Margo nella sua vita, ma di certo non ne aveva preso il posto.
E pensò a quanto gli mancassero le sue ramanzine e i boccali di birra bevuti insieme a lei in una di quelle serate che erano soliti concedersi quando entrambi avevano del tempo, alle risate fatte tramite un telefono, ai sorrisi condivisi, alle pacche sulle spalle e a quelle poche dolci carezze sulle guance.
Con un sorriso amaro sulle labbra, Ashton pensò che non era mai stato così vuoto come lo era stato in quei due anni di lontananza da Margo.
E si domandò dove si trovasse lei, in quel preciso istante, cosa stesse facendo e come stesse procedendo la sua vita, se si fosse innamorata anche lei o se, peggio, si fosse sposata.
Poi sorrise, i pensieri tutt’intorno gli occhi castani di Margo.
Chissà quanti boccali di birra avesse bevuto in quei due anni senza di lui.
Perché lui, senza di lei, non ne aveva bevuto nemmeno uno.
E non aveva più sorriso come quando era con lei.
 

Margareth infilò velocemente le chiavi del portoncino del palazzo nella serratura, per poi spingere con la spalla quella pesante porta nera massiccia. Si strinse un po’ nelle spalle non appena quella si richiuse dietro di sé, creando uno stridio fastidioso seguito poi da un forte tonfo.
Fece un sospiro, chiudendo di poco gli occhi, cercando di rilassare tutto il suo corpo dopo quella estenuante giornata scolastica. Aprì gli occhi, rendendosi conto di essere finalmente nell’atrio del suo palazzo, poi portò entrambe le mani a stringere la coda di cavallo mezza sfatta dopo un’intera giornata e, subito dopo, aggiustò la giacca verde militare, tirando ancor meglio sulla spalla la borsa di pelle marrone chiaro.
Si avvicinò alla cassetta della posta, ricordandosi mentalmente di dover passare al supermercato se non voleva rimanere senza cena, poi prese dal mazzo di chiavi – ancora tra le mani – una di quelle, più piccola e colorata, infilandola nella serratura minuscola della sua cassetta personale, aprendola poi con gesto secco ed infilare la mano in essa, afferrando una manciata di lettere, senza nemmeno guardare cosa fossero.
Richiuse velocemente la cassetta e si avviò verso le scale, salendole con passo pesante e stanco, fino ad arrivare al suo amato quarto ed ultimo piano – senza ascensore - con fatica e col fiatone. Si diede mentalmente della vecchia bacucca, mentre apriva la porta di casa sua e si buttava a capofitto verso l’interno, richiudendosi la porta alle spalle.
Finalmente casa”, pensò, una volta entrata, poggiando la borsa sul pavimento del salotto e levando la giacca di dosso, tenendo la posta ferma tra le labbra con una fatica allucinante. Una volta tolta la giacca, prese l’ammasso di lettere e si avviò in cucina, poggiandole poi sul tavolo lì vicino, mentre lei accendeva la segreteria telefonica e si alzava sulle punte per afferrare una tazza dalla mensola in alto, pronta a prepararsi un caffè.
“Ciao tesoro...” , la voce meccanica di sua madre fuoriuscì dalla segreteria telefonica.
«Ciao a te, mamma» rispose annoiata Margareth, come se quella potesse sentirla, mentre afferrava il barattolo con del caffè e lo infilava nella macchinetta elettronica.
“...volevo solo avvertirti che Ronnie e Max verranno a pranzo qui, questo weekend. Sarebbe carino se venissi anche tu, per passare un po’ di tempo in famiglia, è tanto che non stiamo tutti insiem...?”
«Lavoro, mamma» la liquidò, premendo un tasto della segreteria telefonica che la fece passare al messaggio successivo.
Tutto il bene del mondo per la sua famiglia, ma proprio non ce l’avrebbe fatta a passare un’intera giornata con loro e con sua sorella minore ed il marito e sentirli parlare per l’ennesima volta del loro meraviglioso matrimonio, tenutosi qualche mese prima. Ormai era diventata un’abitudine parlarne anche nei momenti meno opportuni, e Margareth pensava che Ronnie lo facesse apposta per rinfacciarle il fatto di essersi sposata prima di lei. La realtà era che, a Margareth, del matrimonio non importava minimamente, ma sentir parlare sempre e solo delle stesse cose era una cosa che la infastidiva parecchio.
Margareth, sono Susie”. La voce di Susie sembrò come nel panico più totale, e in sottofondo Margo poté sentire il pianto continuo di Lily. “Emergenza babysitter, richiamami appena senti questo messaggio”.
Margareth ridacchiò divertita, mentre levava la tazza – adesso piena di caffè fumante – da sotto la macchinetta. Prese il telefono tra le mani, poi si voltò verso il tavolo e notò la posta ancora sigillata lì sopra, in attesa di essere scartata e letta e, magari, anche insultata.
Si sedette su una delle sedie della cucina, poggiando il telefono accanto a sé e promettendo mentalmente a Susie che l’avrebbe chiamata presto. Bevve un sorso di caffè prima di afferrare la posta tra le mani e sfogliarla infastidita, notando bollette su bollette da pagare, coperte da qualche stupida pubblicità di qualche stupido nuovo locale pieno di offerte inutili. Tutte cose che sapeva già e che non avevano bisogno di essere ripetute continuamente.
Stava quasi per comporre il numero di Susie, quando s’imbatté in una busta completamente bianca con alcuni disegni di fiori eleganti su di essa, accompagnati dal suo nome. Aggrottò le sopracciglia, aprendola lentamente, cercando di non rovinare quella busta dall’aria così raffinata, poi cacciò da essa un cartoncino altrettanto elegante, che le fece quasi accapponare la pelle.
Wanda Livingstone. Wanda l’acqua santa. Wanda, la sua ex compagna di stanza al College.
Una partecipazione di matrimonio. 
Wanda Livingstone l’aveva appena invitata al suo matrimonio.
Le si mozzò il respiro nell’esatto momento in cui si rese conto che quell’acida di Wanda Livingstone aveva trovato – chissà come – l’amore e, adesso, si sposava.
Non che Wanda le stesse antipatica, anzi, ma la cosa le fece cadere il morale fin giù i piedi.
Se anche lei aveva trovato l’amore, fin tanto da sposarsi, allora lei era destinata a rimanere zitella a vita.
Scacciò questo pensiero per dedicarsi alla lettura della partecipazione di nozze, che recitava il nome della sua amica e dello sventurato malcapitato, poi il nome della chiesa e il luogo di ricevimento, con tanto di data ed orario.
Si sarebbero sposati la settimana dopo, e lei si trovò costretta a fare due conti sul regalo da comprare, su cosa indossare e da quale parrucchiere andare.
«Fantastico» imprecò, roteando gli occhi al cielo «adesso dovrò utilizzare una parte dei risparmi per comprare un regalo di nozze. Ma perché sposarsi?!». Bevve un altro sorso di caffè e chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi quanto più possibile e – finalmente o sfortunatamente – riuscì a collegare.
Si ricordò di quando, quella volta all’inizio dell’ultimo anni di College, era rientrata in camera e aveva sentito dei rumori ambigui provenire dalla stanza di Wanda. Dopo aver bussato e non aver ricevuto nessuna risposta, era entrata preoccupata nella sua stanza per accertarsi che stesse bene, e l’aveva trovata anche fin troppo bene. Aveva richiuso la porta, imbarazzata, poi si era seduta sul suo letto a leggere un libro e aveva aspettato che i due si rivestissero in santa pace, prima che quella chioma scombinata uscisse dalla stanza di Wanda. Margareth l’aveva guardato di soppiatto da dietro le pagine del suo libro, lasciando che gli occhi divertiti di lui la guardassero di poco, prima di rivolgerle un mezzo occhiolino. Lei aveva roteato gli occhi al cielo e si era buttata nuovamente nella sua lettura, ancora leggermente imbarazzata, poi aveva sentito una risatina, accompagnata dalla chiusura della porta della loro stanza. Nel momento in cui la porta si era chiusa con un leggero tonfo, Wanda era uscita dalla sua camera da letto e l’aveva guardata in cagnesco per aver interrotto il loro divertimento, poi si era seduta sul letto di Margareth e aveva iniziato a raccontarle i particolari di quell’incontro, che a lei proprio non interessavano, per cui aveva lasciato che le parole di Wanda le facessero da sottofondo alla sua lettura.
Se li ricordava come se li avesse visti ieri, quegli occhi.
Eppure, erano due lunghi anni che non li vedeva.
Il cuore iniziò a batterle animatamente quando si rese conto che, forse, ci sarebbero state grosse probabilità di incontrarli proprio la settimana dopo, a quello stesso matrimonio.
Pensava di averlo dimenticato, dopo due anni di assoluto silenzio, ma come puoi dimenticarti di un grande pezzo del tuo cuore?
Erano due anni che cercava di evitare i giornali in cui si parlava di lui e della sua vita, erano due anni che aveva ormai dimenticato quante sue telefonate aveva ignorato dopo quella litigata, ed erano due anni che, ormai, si era ritrovata a vivere a metà.
Non aveva dimenticato le lacrime versate per lui, non aveva dimenticato il dolore che lui le aveva provocato, eppure, dopo due anni, ancora ricordava il suo meraviglioso profumo, la morbidezza delle sue mani e la lucentezza dei suoi occhi. E forse, la voglia di vederlo era talmente tanta da farle quasi male.
Lasciò che il caffè si raffreddasse nella tazza e, dopo una manciata di minuti in assoluto silenzio con sé stessa, compose il numero di Susie, l’unica persona che potesse capirla in quel momento.
Attese qualche squillo – esattamente tre squilli e mezzo – prima che la sua migliore amica alzasse la cornetta e la sua voce, accompagnata da quella di Lily in sottofondo, le rispondesse.
«Margareth!» esclamò Susie, quasi sollevata «finalmente sei tornata! Giuro, non ce la faccio più, ho bisogno di te più che ma...?»
«Susie» la chiamò Margareth, bloccandola, la voce seria e tremante «emergenza matrimonio».
Susie rimase in silenzio qualche secondo. «Chi si sposa?» domandò poi.
«Wanda Livingstone, la mia ex compagna di stanza del College» rispose lei, mordendosi il labbro inferiore.
«Quella tipa acida che s’intrometteva sempre nelle nostre telefonate?! Oddio, chi ha tutto questo fegato da sposarl...?»
«Susie» la interruppe nuovamente.
«Cosa?»
Margareth chiuse gli occhi, sentendo le lacrime salirle dal cuore verso gli occhi.
«Emergenza Ashton»
«Cazzo».
 

«Dimmi la verità».
Ashton distolse lo sguardo dall’altare e lo puntò dritto di fianco a lui, incontrando il blu oltremare che, da due anni a quella parte, gli aveva fatto perdere la testa.
Gli occhi di Rachel erano in attesa di una risposta mentre, le sue labbra a cuoricino, si erano magicamente assottigliate tra loro, facendo trasparire una leggera fossetta accanto alle labbra.
Ashton aggrottò le sopracciglia. «Cosa?».
Rachel sbuffò di fronte a quella negligenza, roteando di poco gli occhi al cielo. «Ci sei stato a letto, vero?» domandò, nascondendo una risatina.
Il riccio aggrottò ancor di più le sopracciglia, leggermente confuso da quella strana domanda. «Con chi?».
«Con lo sposo» disse lei, sbuffando, aumentando l’incredulità di Ashton, poi si lasciò scappare una mezza risatina, colpendolo di poco con il gomito nel fianco. «Con la sposa! Con chi se no?!».
Ashton si passò la mano sul fianco, massaggiandolo leggermente, poi fece un ghigno. «Perché me lo chiedi? Sei gelosa?» domandò, avvicinando di poco il viso a quello della fidanzata.
Rachel imbronciò le labbra. «Non sono gelosa, sbruffone» disse, facendolo ridacchiare «ma scommetto che sei stato a letto con la maggior parte delle donne qui presenti».
«Ehi!» esclamò Ashton, allontanandosi di poco dal suo viso «staresti insinuando che sono un poco di buono?!».
Rachel scosse il capo, nascondendo un sorrisino. «Non sei famoso solo per la tua fama di batterista, sai?».
Ashton ghignò, prima di pizzicarle dolcemente un fianco, facendola sobbalzare per lo spavento, poi le lasciò un bacio leggero sulle labbra.
«Non hai risposto alla mia domanda, però» disse lei, non appena le labbra di Ashton si allontanarono dalle sue.
«Che domanda?» ghignò, e Rachel roteò ancora una volta gli occhi al cielo.
«Ashton!» lo riprese, facendolo scoppiare a ridere. Sorrise anche lei, scuotendo il capo con fare esasperato, poi richiamò nuovamente la sua attenzione con un’altra leggera gomitata.
«Lo sai che non sono un pupazzo?!» esclamò Ashton, massaggiandosi nuovamente il fianco colpito, mentre Rachel gli fece segno di fare silenzio.
«Quella lì» disse Rachel, indicando col dito una ragazza bionda poco più avanti di loro.
Ashton si voltò a guardare la ragazza con fare leggermente confuso ma, prima che potesse chiederle qualcosa, Rachel lo interruppe.
«Con quella lì sei stato a letto?» domandò, guardandolo negli occhi.
Lui poggiò nuovamente il suo sguardo verso la donna, osservando i suoi lunghi capelli biondi e guardandola in volto, stringendo di poco gli occhi, poi la riconobbe e ridacchiò.
«Sophie Morton» recitò, poi poggiò lo sguardo negli occhi di Rachel, che già lo guardava severa. «Se è questo che vuoi sapere... sì, ci sono stato a letto, ma non chiedermi altro perché sono passati anni e non ricordo più nulla!».
Rachel incrociò le braccia al petto, assottigliando gli occhi. «Ti ricorderai se sei stato a letto con la sposa, però...».
«Andiamo, Rach, mi spieghi perché vuoi saperlo?!» esclamò, aprendo le braccia.
«Eri troppo entusiasta di venire qui, Ashton. Questa cosa non me la conta giusta» spiegò, drizzando la schiena.
Ashton ridacchiò, avvicinandosi nuovamente al suo viso dai lineamenti solitamente dolci ma, stavolta, più tesi e duri che mai.
«Vuoi saperlo davvero?» domandò, soffiando di poco sul suo viso pallido. Rachel annuì col capo, incrociando meglio le braccia al petto.
Ashton sospirò. Tanto, prima o poi, sarebbe venuta a saperlo lo stesso. «Sì, ci sono stato a letto, ma è capitato mezza volta e, soprattutto, più di sette anni fa...» sorrise, prima di abbassarsi con le labbra a baciarle il collo profumato, mentre lei aveva ancora lo sguardo fisso verso l’altare, ancora privo della sposa.
«Tu sei l’unica con cui voglio fare l’amore, adesso» sussurrò al suo orecchio, lasciando che la sua pelle si accapponasse di brividi per quello scontro.
Rachel voltò lo sguardo verso di lui, sorridendogli teneramente, poi si avvicinò alle sue labbra e gli lasciò un lungo bacio a stampo, mentre Ashton le accarezzava dolcemente un braccio scoperto.
Si allontanò da lui dopo quella giusta dose di bacio, poi voltò lo sguardo dietro sé stessa, guardando verso l’entrata della chiesa. Tirò leggermente la manica della giacca nera di Ashton per richiamare la sua attenzione. Gli sorrise nuovamente, prima di indicare col dito un’altra ragazza, appena entrata in chiesa.
«E con quella lì? Sei stato a letto con quella lì?» domandò, mentre Ashton voltava lo sguardo annoiato verso il punto indicato da Rachel.
E Ashton sentì il cuore battergli per davvero, come fosse la prima volta, dopo due lunghi anni.
Dimenticò per un momento dove si trovasse e con chi fosse, guardandola  entrare e guardarsi incerta nella sala, perdendo sé stesso in quella strana sensazione appena formatasi alla bocca dello stomaco.
Notò quanto fosse cambiata dall’ultima volta che l’aveva vista: i capelli non erano più corti, ma erano cresciuti notevolmente e le arrivavano fin sotto le spalle, arricciati con cura; il suo corpo era più snello e Ashton pensò che avesse perso almeno cinque chili, se non di più; le gambe erano più slanciate, forse grazie all’aiuto dei tacchi e quel vestito giallo – ricamato sui fianchi – le stava d’incanto.
Eppure, nonostante tutto, per lui era sempre Margo.
La sua Margo.
E avrebbe tanto voluto alzarsi, correre da lei ed abbracciarla, stringerla forte tra le sue braccia come quella volta che aveva dovuto dirle addio. Stavolta, però, avrebbe tanto voluto riaccoglierla nella sua vita perché le mancava, le mancava da morire e ogni giorno senza di lei era stata un’agonia.
Avrebbe tanto voluto andare da lei e dirle quanto gli fosse mancata, di quanto gli fosse mancata la sua voce, i suoi unici sorrisi e quegli occhi meravigliosi, ma la mano di Rachel si poggiò sul suo viso, girandolo verso di lei, puntandogli poi gli occhi interrogativi nei suoi.
«Ashton?» lo richiamò, facendolo ridestare da quel coma.
Lui scrollò il capo, guardando Margo di soppiatto e notandola sedersi su una delle panche di legno poco distante da dove fosse lui, poi poggiò il proprio sguardo negli occhi di Rachel che, adesso, lo guardavano interrogativi e curiosi allo stesso tempo.
«Allora?» domandò lei, insistente.
Ashton scrollò nuovamente il capo, ancora confuso. «Allora cosa?».
Rachel sbuffò per l’ennesima volta, stavolta più sonoramente, ed incrociò nuovamente le braccia al petto.
«Allora con quella sei stato a letto o no?!» esclamò, quasi infastidita dalle vaghe risposte del suo fidanzato.
Ashton voltò di poco lo sguardo verso Margo.
La osservò aggiustarsi i capelli ricci con le dita, tirandoli e torturandoli come fossero giocattoli rotti, roteare gli occhi al cielo e guardarsi intorno, quasi come se stesse cercando un volto amico e conosciuto.
Sorrise quasi involontariamente, Ashton, mentre le immagini di quella notte di sette anni prima, in quel letto minuscolo e in quella camera dalle pareti ammuffite, si fecero largo tra i suoi pensieri.
«No» disse serio, osservando di sbieco la figura di Margo. «Non ci sono stato a letto».
D’un tratto, la chiesa divenne silenziosa, Rachel sospirò – forse di sollievo – e la marcia nuziale inondò la sala con le sue note iniziali.
Tutti gli ospiti si alzarono in piedi, pronti ad accogliere l’entrata della sposa, compreso Ashton, lo sguardo ancora rivolto verso Margo, intenta ad alzarsi come il resto delle persone.
Wanda Livingstone fece la sua entrata trionfale, raggiante come non mai, racchiusa nel suo lungo abito bianco ed accompagnata da quello che doveva essere suo padre.
Ashton osservò la sposa percorrere la navata, intenta a rivolgere sorrisi sinceri di ringraziamento a tutte le persone che incontrasse sul proprio cammino. Fu solo un attimo di distrazione, poi ritornò con lo sguardo curioso alla ricerca di Margo. E fu allora che la sensazione alla bocca del suo stomaco crebbe ancora di più.
Quasi come se avesse sentito la bugia pronunciata poco prima da Ashton a Rachel, Margareth aveva alzato lo sguardo e, dopo aver rivolto un mezzo sorriso a Wanda, l’aveva visto.
E, dopo due anni di assoluto silenzio, stavano parlando con gli occhi.
 

«Accogliamo i novelli sposi in pista con un grande applauso!».
Gli applausi felici degli invitati – e anche qualche fischio prolungato – sovrastarono la voce eccitata del deejay che, intanto, infilava un vecchio disco prima di far partire Always, di Bon Jovi, la canzone della storia d’amore dei due sposini che, dopo il primo rullo di batteria, erano già lì pronti a ballare lentamente, sussurrarsi paroline romantiche e condividere le stesse lacrime di felicità.
Margareth si alzò dal suo tavolo, abbandonando con un sorriso alcuni dei suoi ex compagni di College e le loro famiglie felici, sorpassò alcune persone presenti nella sala e, invece di ammirare la danza romantica dei novelli sposi, afferrò un calice di vino bianco da uno dei vassoi in mano a uno dei camerieri e uscì il prima possibile da lì dentro, sentendosi quasi soffocare. Prima di uscire, però, non aveva potuto fare a meno di rivolgere uno sguardo a Wanda, completamente persa negli occhi di suo marito, sinceramente felice.
Margareth uscì dalla sala, tenendo stretto tra le dita il calice di vino, portandolo alle labbra e sorseggiare lentamente un po’ di quel buonissimo nettare. Solo dopo aver raggiunto l’esterno del luogo di ricevimento, si sentì finalmente libera di respirare.
La sera era già scesa da un pezzo ed alcune stelle avevano già fatto capolino nel buio, illuminando il grande parco nel quale si trovava Margareth in quel momento. Percorse di poco un piccolo sentiero ciottolato – in gran difficoltà con i tacchi alti – poi, finalmente, riuscì a scorgere una panchina, nascosta di poco dietro una siepe, accanto ad un albero di ciliegi.
Come se avesse appena visto il Paradiso, Margareth ci si sedette rudemente, tirando un grande sospiro di sollievo e sorseggiando con più voglia il vino dal calice di vetro.
Finalmente era libera di respirare e di vivere, senza più essere sottoposta alle domande indiscrete dei suoi ex compagni di College, con i quali aveva condiviso il tavolo per gran parte della giornata.
Non che non le stessero simpatici o che non si stesse divertendo, ma essere single ad un matrimonio, per lei, era sempre una gran tortura: non avevano fatto altro che domandarle se fosse sposata, fidanzata, separata o se, perlomeno, avesse figli, e lei, per loro sommo dispiacere, aveva dovuto sempre dare risposte negative. Per non parlare di quando erano arrivati a domandarle del lavoro: di fronte a tutti quei manager e commercialisti, Margareth si era sentita ancor di più una nullità.
Ovviamente, non si erano risparmiati nemmeno sull’argomento che, da un po’ di anni a quella parte, era sulla bocca di tutti, ovvero i 5 Seconds of Summer, i loro vecchi compagni di College che tutti avrebbero dato per falliti. Anche loro erano lì e, qualcuno a quel tavolo, si era anche vantato di aver rivolto la parola ad almeno uno di loro, durante quella giornata. Inoltre, non avevano fatto altro che fare apprezzamenti sulla fidanzata di Ashton, Rachel Stanfield, figlia di uno dei più grandi imprenditori della città.
A quel punto, Margareth aveva cercato in tutti i modi di spegnere il cervello per evitare di sentire la storia d’amore dei due, ma non ci era riuscita del tutto.
Aveva incontrato lo sguardo di Ashton più volte, durante il ricevimento, ma nessuno dei due aveva fatto il passo avanti per andarsi incontro e ritrovarsi.
Forse – pensò Margareth – non lo volevano davvero: forse non volevano più ritrovarsi, forse si erano stancati l’uno dell’altro e, forse, quei due anni di lontananza avevano solo fatto bene al loro – ormai – inesistente rapporto.
Strinse ancor di più il calice tra le dita, portandolo nuovamente alle labbra per sorseggiare le ultime gocce di vino, chiudendo gli occhi ed assaporando lentamente il gusto delle frizzanti bollicine presenti sul suo palato. L’arietta primaverile intorno a sé le fece dimenticare per un attimo di tutti quei discorsi su Ashton pronunciati da altre labbra e con altre parole che, forse, non corrispondevano nemmeno alle parole di Ashton stesso.
Eppure, con un amara convinzione, Margareth dovette ammettere che, forse, la verità non l’avrebbe mai saputa da Ashton.
 «Posso sedermi?».
Una strana sensazione – la stessa che non provava da tempo – si fece spazio dentro di sé, portando alle sue mani un leggero tremolio e spingendo i suoi occhi ad aprirsi lentamente per ritrovarsi di fronte quel sorriso che chissà da quanto non ammirava.
Il fiato le morì in gola non appena i loro occhi s’incrociarono, stavolta così vicini, e la bocca le si seccò per la tristezza, per la rabbia, per la felicità.
«Ashton» riuscì solo a sussurrare, un leggero tremolio a tradirla.
Erano passati due anni, e quasi non ricordava più la sensazione che provava ogni volta che pronunciava il suo nome, dopo quel lungo ed insormontabile silenzio.
Ashton sorrise ancor di più, lasciando alle sue fossette la libera uscita. «Ciao, Margo».
Da quanto tempo non si sentiva chiamare così. Eppure, anche se odiava quel soprannome, in quel momento stava amando così tanto essere chiamata in quel modo, con quella voce e con quel sorriso, che quasi si dimenticò quale fosse il suo vero nome.
Lo osservò dalla testa ai piedi, e poté constatare con i suoi occhi quanto fosse cambiato dall’ultima volta che l’aveva visto: i capelli erano scombinati e disordinati, come al solito, ma molto più corti; i ricci leggermente più definiti e le braccia – coperte da una camicia bianca elegante – molto più muscolose.
Lo guardò meglio e sorrise di poco: non l’aveva mai visto vestito elegante come in quel momento.
Ashton indicò col capo la panchina. «Posso?» domandò ancora una volta, infilando le mani nelle tasche del pantalone nero.
Margareth annuì distrattamente, ammirando tutti i suoi movimenti, illuminati dal lampione dietro le sue ampie spalle. Lui si morse il labbro inferiore, sedendosi accanto a lei con una tranquillità che proprio non gli apparteneva.
Rimasero così per qualche minuto, troppo imbarazzati per guardarsi in faccia e troppo orgogliosi per ricordarsi come iniziare un discorso tra loro. Margareth strinse il calice ormai vuoto, e sentì tutte quelle bollicine appena bevute andarle alla testa, mentre Ashton tossicchiò leggermente.
«Ti sta bene questo vestito, sai?» le disse improvvisamente, guardandola di sottecchi.
Margo assottigliò gli occhi, rivolgendogli uno sguardo confuso. «Grazie...» rispose, poi fece un movimento col capo nella sua direzione «anche tu stai bene con questo vestito. Forse un po’ troppo elegante per i tuoi canoni, ma ti sta bene».
Ashton ridacchiò e, finalmente, ebbe il coraggio di guardarla negli occhi. «Vero? Lo penso anche io. Mi prude da morire!».
Margareth si lasciò sfuggire una risata, poi posò il calice vuoto sulla panchina e poggiò i palmi delle mani – adesso liberi – sulla superficie fredda di ferro. «Già. Questa è la maledizione dei vestiti eleganti».
Ci furono altri minuti di silenzio tra loro, smorzati solo dalla musica ovattata proveniente dall’interno della sala e dal rumore in sottofondo dei grilli serali.
Poi, d’un tratto, Margareth scoppiò a ridere – forse sotto dettatura del vino o dell’imbarazzo – facendo voltare completamente Ashton verso di lei, leggermente confuso.
«Cosa c’è?» le domandò, sgranando di poco gli occhi. Controllò la sua camicia, cercando la causa di quella immotivata risata, ma non trovò nulla, per cui rimase a guardarla ancor più confuso.
Margareth scosse il capo, cercando di riprendersi dalle risate, poi incrociò i suoi occhi con quelli verdi di Ashton, perdendo un battito.
«Che dici...» iniziò, asciugandosi qualche lacrima con il dorso dell’indice «adesso finiremo a parlare del tempo come quelle persone che non hanno mai argomenti di cui parlare?» e rise di nuovo, scuotendo ancor di più la testa.
Ashton rimase esterrefatto poi, rendendosi conto della situazione, seguì a ruota Margo, ridendo con lei.
Ridendo di loro.
«Come abbiamo fatto a finire così?!» domandò lui, lasciando che le risate di entrambi si affievolissero.
Margareth si lasciò sfuggire un singhiozzo, poi alzò di poco le spalle. «Beh, non te lo ricordi? E’ finita con te che insultavi l’insegnamento e con me che ti davo del grande stronzo. Direi che è abbastanza ragionevole come cosa» ridacchiò appena, per poi tirarsi leggermente un ricciolo fastidioso.
Ashton annuì col capo. «Me lo ricordo perfettamente» affermò, poi le sue labbra rilasciarono un lungo sospiro. «Però possiamo sempre riprendere da dove abbiamo terminato».
Margo imbronciò di poco le labbra, confusa. «Dici che dovrei ridarti del grande stronzo?» domandò, aggrottando le spalle.
Ashton sorrise ed annuì col capo. «Sarebbe un’idea, sì».
Lei rimase un po’ in silenzio, poi scosse il capo e sorrise. Un sorriso sincero, di quelli che non faceva da tempo.
«Sei un grande stronzo, Ashton Irwin» pronunciò, ridacchiando leggermente.
Ashton sorrise, guardandola negli occhi. «Vero. E io ti ho chiamata così tante volte, dopo quella litigata».
«Vero. Ma io ero troppo arrabbiata... e troppo orgogliosa, lo ammetto. E non ti ho mai risposto».
«Vero anche questo. E mi dispiace tanto, Margo. Scusa, scusami tanto, davvero».
«Scuse accettate» lo guardò negli occhi, le lacrime che rischiavano di bagnarle il volto da un momento all’altro. «E scusami anche tu. Sono stata davvero una bastarda egoista, come al solito. Tu hai cercato di fare dei passi verso di me, ed io ho corso il più lontano possibile per starti lontano. Scusami, davvero».
Ashton le prese una mano, stringendogliela di poco per non farle male, e le carezzò il dorso con le dita.
Entrambi si sentirono finalmente pieni di sé stessi, dopo quel gesto e dopo quelle parole.
Si sorrisero come fosse la prima volta perché, effettivamente, era come se tutto quel tempo tra loro non fosse mai esistito.
«Adesso possiamo anche non parlare del tempo» disse Ashton, facendo ridacchiare Margo.
«Beh, non saprei, dipende tutto da quello che abbiamo da dirci» rispose, imbronciando le labbra.
Ashton sorrise, poi fece un cenno col capo verso di lei. «Avanti, a te la parola».
Margareth si sottrasse lentamente dalla sua presa, poi alzò gli occhi al cielo stellato e sospirò, aggrottando le spalle. «Non ho molto da dire. Vivo da sola, pago l’affitto, lavoro sempre come insegnante...» e sottolineò per bene quella parola, facendo ridere Ashton «e sto scrivendo un libro che sta andando oltre il capitolo tre».
Il riccio sgranò gli occhi dopo quelle ultime parole, rimanendo a bocca aperta. «Stai scrivendo un libro?! Ci stai riuscendo sul serio?!».
Margareth poggiò nuovamente lo sguardo su di lui e sorrise. Era bello vederlo nuovamente felice per lei.
«Sì, e direi che ci sto riuscendo piuttosto bene. Vogliono pubblicarlo entro la fine del mese prossimo».
«Cazzo Margo!» esclamò Ashton, aprendo le braccia. «E’ una notizia meravigliosa! Sapevo che ce l’avresti fatta, prima o poi. Tu non sei nata per fallire!» continuò eccitato, cosa che fece tingere le guance di Margo con un velo d’imbarazzo.
«Bisogna festeggiare» disse ancora, tastando poi le mani sulla tasca dei pantaloni fino ad estrarne un pacchetto di sigarette, porgendolo nella sua direzione.
Margo si ritrasse, imbronciando le labbra. «Io non fumo, Ash, lo sai».
«Lo so» disse lui, prendendone una e portandosela alle labbra. «Nemmeno io» .
Margareth lo guardò confusa e scioccata allo stesso tempo, aggrottando la fronte, guardandolo portare l’accendino accanto alla sigaretta ed accenderla velocemente, per poi fare il primo tiro ad occhi chiusi, come al solito.
Riaprì gli occhi, ritrovandosi di fronte lo sguardo scioccato di Margo, cosa che lo fece ghignare.
«Cioè, non fumo più. Me le riservo solo per le occasioni speciali» spiegò, e lo fece con una tale naturalezza che la cosa fece ridacchiare Margareth come un’adolescente.
Per la prima volta dopo due anni, stava ridendo sul serio.
«E tu, Casanova dei poveri?» iniziò lei, lasciandogli una leggera pacca sulla pancia «non hai novità per me?»
Ashton fece un lungo tiro dalla sigaretta, prima di aspirare lentamente il fumo nella direzione del cielo, lasciando che l’aria primaverile si mischiasse con la nicotina. Voltò nuovamente lo sguardo verso Margo, poi sorrise timidamente.
«Credo di essermi innamorato».
A quelle parole, Margareth sentì qualcosa incrinarsi dentro sé stessa, ma cercò di non darlo a vedere. Si limitò solo a guardarlo negli occhi lucidi, assottigliando le labbra.
«Credi o lo sei sul serio?» domandò, scatenando una risatina da parte di Ashton.
«Lo sono, Margo, lo sono. Sono innamorato perso!» rispose lui, scuotendo il capo.
Nonostante il male che le provocassero quelle parole, Margo sorrise, perché di fronte alla felicità del tuo più grande pezzo di cuore non puoi essere triste, anche se quella felicità vorresti tanto donargliela tu.
«E lei com’è?» domandò, sinceramente interessata. «O lui com’è. Sai, non ci vediamo da così tanto tempo che avresti anche potuto cambiare orientamento sessual...?».
«Non sono gay, Margo» la interruppe lui, sorridendo, cacciando altro fumo. «Lei si chiama Rachel, ed è... è bellissima, sul serio. Ha un paio di occhi che... mio Dio! E la sua pelle è morbida, è chiara, e lei è così... così bella. Ed è tanto dolce, è dolcissima. Sembra tanto debole, ma in realtà è forte, è molto forte. E’ una tipa veramente apposto, Margo, sto così bene con lei. E poi, diavolo, lei è così... così... cazzo, è tremendamente bella, Margo, ed io sono completamente...».
«Innamorato».
Ashton poggiò nuovamente lo sguardo negli occhi castani e grandi di Margo, dopo che quest’ultima aveva completato quella frase al posto suo, trovandoli leggermente lucidi.
Sorrise, buttando il mozzicone di sigaretta ormai finito, poi annuì col capo.
«Già. Sono innamorato».
E gli sembrò quasi impossibile che uno come lui, Ashton Irwin, potesse essere innamorato, ma innamorato sul serio, non come tutte le altre volte che aveva creduto di esserlo.
Lui era completamente innamorato.
Margareth sorrise ed annuì col capo, poi lo inclinò leggermente. «E’ una bella sensazione, no?».
E Ashton non riuscì a capire a quale sensazione si riferisse Margareth in quel momento. Perché si sentiva così pieno di lei, che quasi dimenticò gli occhi blu oltremare di Rachel.
«Già» sussurrò «è davvero una bella sensazione».
Margareth sorrise di nuovo, lasciando che la sua mano si posasse su quella di Ashton, proprio come aveva fatto lui qualche minuto prima. Lasciò che Ashton ci si aggrappasse come fosse un’ancora di salvataggio, poi quest’ultimo la ritrasse a quel contatto per portarla al taschino della camicia candida, creando così della curiosità in Margo.
Le sorrise, prima di estrarre da esso un cartoncino immacolato come la sua camicia e di porgerglielo delicatamente tra le mani tremanti e, forse, impaurite da tale dono.
«E’ per te, questa» le disse «sapevo che ti avrei incontrata, oggi».
Margareth annuì distrattamente prima di poggiare lo sguardo su quel candido cartoncino appena donatole, scontrandosi con quei due nomi, quasi maledetti per lei, in quel momento.
Ashton Fletcher Irwin avrebbe sposato Rachel Janet Stanfield tra due settimane.
Il cuore di Margareth smise di battere per secondi che le parvero infiniti, poi alzò lo sguardo da quelle lettere tremendamente eleganti e lo incrociò a quello di Ashton.
«Ti sposi tra due settimane» fu solo in grado di dire, sentendole le mani tremare.
Il riccio annuì, passandosi una mano tra i capelli scombinati. «Già. Due settimane precise».
Margo sentì nuovamente le lacrime pizzicarle contro gli occhi, ma promise a sé stessa che non le avrebbe versate, non davanti ad Ashton, non davanti alla sua felicità.
Così, fece l’unica cosa che le sembrò possibile fare, in quel momento: fingere.
«Cazzo, Ashton!» esclamò, aprendosi in un largo sorriso. «Ti mollo per due anni e tu mi combini... questo! Oh Gesù, non credo di poter reggere tutto in un momento. Prima mi dici che ti sei innamorato, che hai messo la testa apposto e poi... cazzo, un matrimonio!».
Ashton sorrise. «Sei contenta?».
«Certo, certo... certo che lo sono!» boccheggiò ancora, sorridendo «chi sei tu, e cosa ne hai fatto del vero Ashton Irwin, quello che cambia ragazze come fossero mutande?!» e Ashton rise dopo quelle parole, mentre Margo continuava a non poterci credere.
«Oddio... due settimane! Solo due settimane! Mi hai messa in difficoltà, adesso dovrò utilizzare per forza un altro vestito» esclamò, imbronciando nuovamente le labbra, poi scosse il capo, incredula. «Mio Dio, due settimane! Come mai così presto? Credevo che per organizzare un matrimonio ci volesse molto più tempo...».
Le labbra di Ashton si aprirono ancor di più in un sorriso, poi la sua mano andò a finire dietro la sua nuca, grattandola leggermente. «Beh sì, effettivamente ci vuole tempo. Diciamo che vogliamo sposarci prima che... beh sì, hai capito, no?».
Margareth lo guardò confusa, poi scosse il capo. «Se me lo dici così, come pretendi che io capisca, scusa? Sei sempre il solito imbecille, su questo non sei cambiat...?».
«Rachel è incinta».
E fu allora che Margareth si rese conto di essere distrutta per sempre.
Rimase a bocca aperta per chissà quanto tempo, impedendo nuovamente a sé stessa di non piangere di fronte ad Ashton come aveva fatto l’ultima volta che si erano visti.
Così sorrise di nuovo, fingendo una felicità che, forse, non aveva mai finto prima.
«Oddio, Ash... cazzo, no, no, non ci credo!» esclamò, mentre il riccio annuiva col capo, sinceramente contento.
«Cazzo, Ashton. Sarai padre, porca puttana, padre!» continuò, stavolta buttandogli le braccia al collo e stringendolo forte.
Le mani di Ashton si poggiarono sulla sua schiena, accarezzandogliela leggermente, poi le sue braccia si chiusero intorno ai suoi fianchi e la strinsero forte, così come non accadeva da tempo.
«Ci credi, Margo?! Sarò padre! Io, Ashton Irwin... sarò padre!» esclamò anche lui nelle orecchie di Margo, che continuava a stringerlo.
«Congratulazioni, Ash» sussurrò lei, carezzandogli i capelli dolcemente. «Sono così felice per te, davvero. Congratulazioni».
Ashton continuò a stringerla tra le sue braccia, tenendola stretta, senza rendersi minimamente conto del dolore di Margo in quel preciso istante. Eppure, nonostante quei sorrisi, Margareth non poté negare a sé stessa di aver ritrovato la felicità negli occhi di Ashton anche se, adesso, appartenevano ad un’altra.
E lei avrebbe dovuto farsene una ragione, prima o poi, perché non sempre due persone sono destinate a stare insieme. E loro due ne erano un chiaro esempio.
«Mi sei mancata tanto, Margo» sussurrò lui, carezzandole la schiena.
Margareth sorrise, lasciando che una lacrima scappasse alla sua forte resistenza. Gli lasciò un bacio sincero sulla guancia, prima di avvicinarsi al suo orecchio.
«Mi sei mancato tanto anche tu, Ashton».
Rimasero stretti in quell’abbraccio per un po’, come se stessero cercando di recuperare tutto quel tempo perso in quei due anni con un semplice, unico, gesto.
Margareth si asciugò quella lacrima leggera scesa poco prima sulla sua guancia, poi si staccò dall’abbraccio e lo guardò negli occhi, poggiando entrambe le mani sulle sue spalle e rivolgendogli un sincero sorriso.
Un sorriso vero, di quelli che, nonostante tutto, continuava a riservare solo ed unicamente per lui.
«Forza» disse, facendogli una leggera carezza. «E’ arrivato il momento di farmi conoscere Rachel. Mi sa che ho degli auguri da farle».

 
Heeello everybody! :D
Sì, sono nuovamente in ritardo. Stavolta di sole due settimane, però! u.u 
No okay, non è una scusa, ma mi sa che vi dovrete proprio abituare a questi enormi ritardi, perché i capitoli sono luuunghi da scrivere e il tempo è poco D: 
Nonostante tutto, però, mancano tre capitoli alla fine e spero di finirli il prima possibile perché, come ho promesso a voi (e a me stessa) porterò avanti la storia fino alla fine senza lasciarla in sospeso come ho già fatto con altre due storie, perché non mi va di lasciarvi col fiato sospeso, anche perché nella mia testa (e sul quaderno degli appunti, ma questa è un'altra storia u.u) la storia è finita, nel senso che so già cosa far accadere nei prossimi capitoli.
Soo, stay tuned, se vi va, ovviamente! So che potreste perdere interesse per la storia con questi immensi ritardi ma vi giuro che cercherò di fare del mio meglio :)
Alluuuora, che dire? Capitolo scottante per la povera Margareth! 
Ashton si sposaaaa e diventerà padre! 
Come la capisco, non sopporterei nemmeno io tutta questa situazione D:
Però dai, bisogna ammettere che Rachel è abbastanza innocua hahaha cioè, a me esprime tenerezza, non so a voi!
Anyway, l'importante è che i due abbiano fatto pace e abbiano chiarito dopo quella furente litigata :) 
E finalmente Margo sta scrivendo un libro *-* aaaaaw, piccina! Anche lei aveva bisogno delle sue soddisfazioni, dai u.u
Anyway, credo di aver detto tutto. Sicuramente dimenticherò qualcosa, ma who caaares! I miei sproloqui non interessano a nessuno hahahah
Comunque, vorrei solo rinnovarvi una domanda: vi andrebbe se io scrivessi una oneshot dal punto di Ashton? E' un'idea che mi frulla in testa da un po' ma, ovviamente, non l'ho ancora scritta (la solita genia .-.). Insssomma, sarei contenta di sapere se la cosa potrebbe farvi piacere! :D
E adesso ho scritto veramente tanto, quiiindi vi abbandono, come al solito, lasciandovi i luoghi (?) in cui potete trovarmi e contattarmi, se vi va, ovvero facebook twitter ed ask.
Ancora milioni di grazie a chi legge, recensisce, inserisce tra le preferite/seguite/ricordate e blablabla u.u
Siete veramente gentilissime, io vi ringrazio di cuuuore! 
Un baciiione fortissimo,
Mary 
 
 
 
 
 
 

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