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Autore: marmelade    12/02/2015    2 recensioni
Ashton e Margareth si sono appena laureati, appena conosciuti, hanno appena finito di fare l'amore.
Nella stanza di lei aleggia ancora l'odore dell'ultima sigaretta fumata da lui, mista all'odore del sesso.
Si abbracciano forte l'uno con l'altra in un minuscolo letto dalle lenzuola sporche, come per aggrapparsi a quegli ultimi momenti della loro giovinezza.
Non si conoscono, eppure è come se la vita li avesse fatti incontrare da sempre. Sono convinti che non si rivedranno mai più, ma non è così: sono strettamente legati tra loro.
Cadranno insieme, rideranno, piangeranno e si diranno addio molte volte, senza mai riuscirci davvero.
Resteranno per una vita intera ad amarsi, anche lontani, fino a che non vorranno tornare indietro nel tempo e ricominciare tutto dall'inizio.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I
 
“Anche se quel giorno non ci fossimo incontrati, tutto sarebbe andato nello stesso modo.
Ci eravamo incontrati perché doveva succedere e, anche se non fosse stato quel giorno, prima o poi ci saremmo sicuramente incontrati da qualche parte”

Haruki Murakami
 

 

I've just seen a face
I can't forget the time or place where we just met

 
 
Luglio 2000.
 
«Potresti, cortesemente, spegnere questa sigaretta? Mi stai praticamente fumando in faccia, e la cosa mi urta leggermente il sistema nervoso».
Il ragazzo continuò a fissare intensamente il soffitto, cosparso di macchie di umidità, come se stesse pensando a qualcosa di veramente profondo, poi fece un ghigno e si voltò verso la ragazza al suo fianco.
«Rilassati, piccola, è solo una sigaretta» rispose, facendole poi l’occhiolino.
Lei, in tutta risposta, incrociò le braccia al petto – coperto solo da un lenzuolo – poi voltò lo sguardo verso il lato opposto e scimmiottò ciò che lui le aveva appena detto.
Lui rise. Posò nuovamente lo sguardo verso il soffitto e continuò a fumare indisturbato.
Altro che pensieri profondi. Pensò che il soffitto fosse davvero schifoso e che, probabilmente, gli sarebbe potuto cadere in testa da un momento all’altro. Forse doveva svignarsela da quella stanza – e anche in fretta, se non voleva morire spiaccicato a causa di un pezzo d’intonaco fradicio – eppure, per una volta dopo anni di scappatelle, si sentiva bene, nel luogo adatto. 
Anche se la stanza era davvero pessima e maleodorante.
«Qui dentro c’è puzza di muffa» disse ad alta voce, mentre uno sbuffo di fumo rilasciava le sue labbra.
«Ma puzzerai tu, casomai!» ribatté lei in risposta, mollandogli una gomitata nello sterno che lo fece piegare in due. Si alzò di scatto per il dolore, mettendosi seduto nel minuscolo lettino dalle lenzuola sporche e bagnate di vino.
«Ehi, calma bambolina!» esclamò, massaggiando il punto in cui era stato colpito. Alzò poi le mani, come per difendersi, notando un lieve sguardo truce sul volto della ragazza «non ho mica detto che tu puzzi di muffa!».
«Si da il caso...» e si mise seduta anche lei, coprendo prontamente il seno scoperto «che questa sia la mia stanza da quattro anni e, sì, puzza di muffa da ben quattro anni, ergo è come se tu avessi detto che io puzzo di muffa!».
Gli rivolse un ultimo sguardo truce prima di ributtarsi con poca grazia all’indietro, poggiando la testa sul cuscino e puntando gli occhi verso il soffitto. Dio, quella stanza faceva davvero pena.
Sul voltò di lui si dipinse un ghigno divertito. Smise di massaggiare il punto in cui era stato colpito e diede un ultimo tiro alla sigaretta, poi la spense in un bicchiere sul comodino lì accanto e si avvicinò col viso a quello della ragazza.
«Tu non puzzi affatto, anzi...» sussurrò, sospirandole accanto all’orecchio per poi lasciarle un bacio sulla spalla nuda.
Lei cercò di ritrarsi a quel contatto, ma rimase immobile a fissare ancora il soffitto, mentre le guance le andavano a fuoco e i capelli di lui le solleticavano il collo.
Scosse leggermente le spalle, come per cercare di darsi un contegno. Dopotutto, aveva pur sempre una dignità da mantenere.
«Con me non attacca, Casanova». Si voltò verso di lui, inarcando un sopracciglio. Incrociò i suoi occhi dal colore strano, e non poté fare a meno di notare quanto fossero belli e particolari.
Erano verdi – un verde prato, avrebbe detto, forse leggermente più chiaro - , con delle pagliuzze castane intorno così dannatamente chiare da sembrare dorate. Si vergognò dei suoi occhi banalmente castani a confronto di quella meraviglia.
Lui fece un sorriso sbilenco, facendo comparire una fossetta sulla guancia sinistra.
«A me sembra che abbia attaccato, invece» sussurrò, cercando di dare alla sua voce un tono più roco e sensuale del normale. Iniziò anche ad accarezzarle un braccio con un dito, dal basso verso l’alto, forse per incrementare i tentativi di seduzione.
Per tutta risposta, lei scoppiò a ridergli in faccia, e non solo per il solletico che le stava procurando in quell’istante.
Lui la guardò confuso. «Cosa c’è?»
«N-nulla...» balbettò lei, cercando di darsi nuovamente un contegno «è che sei talmente convinto di essere irresistibile che sei spaventosamente e pateticamente ridicolo!».
Scoppiò nuovamente a ridere sotto lo sguardo ancora più confuso di lui. Quest’ultimo poi, sorrise, mentre lei chiudeva gli occhi, strizzandoli per le troppe risate.
«Beh, puoi ammettere che non sono da buttare!» esclamò, aprendo le braccia, poi le cinse intorno ai suoi fianchi «e mi pare che tu non ti sia tirata indietro, stanotte, anzi... ti sei fatta avanti per ben tre volte!».
Detto ciò, lasciò che le sue mani vagassero lungo le gambe formose di lei, per poi fermarsi nuovamente sui fianchi per farle il solletico.
Lei rise ancora di più, dimenandosi e ribellandosi in quel letto dove avevano passato gran parte della nottata, forse un po’ troppo piccolo per due persone normali.
Eppure loro lì dentro ci stavano benissimo, in due. Era come se fosse stato fatto su misura proprio per loro, come se gli fosse stato costruito intorno.
Le grandi mani di lui le solleticavano velocemente i fianchi, mentre le gambe di lei colpivano ripetutamente il materasso un po’ troppo duro e scomodo, facendo si che il lenzuolo non coprisse più i loro corpi nudi e sudati.
Lei – chissà come – riuscì a bloccare le grandi mani di lui per poi dargli un buffetto sulla guancia. Afferrò prontamente il lenzuolo e se lo portò nuovamente sul corpo, coprendolo imbarazzata.
Lui se ne accorse e non poté fare a meno di trattenere un ghigno divertito. «Ehi, bambolina, di che ti vergogni? Guarda che ti ho già vista nuda».
Lei sgranò gli occhi, ancor più imbarazzata, mentre lui scoppiava a ridere di gusto. Imbronciò le labbra, pensando che fosse un caprone vanitoso ed esuberante, poi gli diede un’altra forte gomitata, che lo fece gemere nuovamente dal dolore, ponendo fine a quella che lei trovata la risata più irritante sulla faccia della terra.
«Non mi chiamo “bambolina”» sbuffò lei, irritata, mentre lui continuava a lamentarsi dal dolore «non chiamarmi mai più così».
«Okay, piccola, relax!» esclamò, massaggiando nuovamente lo stesso punto in cui era stato colpito poco prima.
«Non chiamarmi nemmeno “piccola”».
«Come vuoi, dolcezza».
«Gesù, non chiamarmi nemmeno “dolcezza”!» sbottò adirata, colpendosi la fronte con una mano «Evita questi nomignoli idioti con me e risparmiali per la prossima che cadrà nella tua trappola! Ti ho già detto e ti ripeto che con me non attacca. Io ho un nome, ricordi almeno come mi chiamo?».
Lui si morse il labbro inferiore «Certo che mi ricordo... – tentennò in evidente difficoltà - Mandy...».
Lei scosse il capo e sospirò. «Avrei dovuto immaginarlo...».
Lui arricciò il naso, poi tentò di nuovo. «Meredith»
«No».
«Macy»
«Nemmeno»
«Marie»
«Neanche»
«Megan?»
«Neppure»
«Madeline»
«Ritenta, sarai più fortunato»
«Marlene!»
«Oh Gesù» esclamò esasperata «mi chiamo Margareth!».
Lui sorrise teneramente, cercando di darsi un’aria da angioletto indifeso, poi schioccò contemporaneamente le dita e la lingua contro il palato, puntandole poi verso di lei.
«Beh, però mi ci sono avvicinato, no?».
Margareth sospirò, scuotendo il capo. Si voltò completamente sul fianco destro, dall’altra parte della stanza, posando lo sguardo sul grosso comodino di fronte a lei. Non c’era rimasta male per il fatto che un ragazzo – anzi, il ragazzo per eccellenza – avesse dimenticato il suo nome dopo aver passato la maggior parte della nottata in quel letto.
Sapeva che l’avrebbe dimenticato dal primo momento in cui si erano presentati, qualche ora prima durante quella stupida festa post laurea, quando l’alcool non aveva ancora fatto il suo degno effetto e potevano ritenersi ancora mezzi sobri.
Non c’era rimasta male per il fatto che Ashton Irwin – impossibile dimenticare quel nome – avesse dimenticato che lei si chiamasse Margareth; probabilmente era una sua prerogativa (tipo istinto naturale) dimenticarsi i nomi delle ragazze con cui aveva passato qualche ora di sesso.
Anzi, lei poteva ritenersi anche più fortunata – onorata? – delle altre con cui era stato (quante ragazze c’erano nel College?) dato che avevano smesso da un bel po’ di fare sesso e lui era ancora lì, accanto a lei, nel suo minuscolo letto dal materasso scomodo.
Certo, aveva contribuito ad impuzzolentire ancora di più la stanza – già maleodorante di suo – con quelle dannatissime sigarette e aveva versato anche il vino rosso sulle sue lenzuola preferite, (senza farlo apposta, ovviamente) eppure era ancora lì. E non si era lamentato nemmeno del materasso scomodo, o del letto troppo piccolo.
Una domanda si fece largo nella mente di Margareth, mentre le si apriva un vuoto nello stomaco.
Che lei gli piacesse?
Rimase interdetta per un po’, sentendo i palmi delle mani che iniziavano a sudare – forse per il troppo caldo – poi scosse il capo, allontanando quel pensiero dalla mente. Quella sì che era una cagata vera e propria.
Forse era rimasto perché gli piaceva la vista che si intravedeva dalla sua stanza – almeno quello, se no la stanza avrebbe fatto davvero schifo – o perché nella camera di lui c’era Calum Hood impegnato con qualche altra ragazza. Tutto avrebbe avuto un senso logico e lecito, tranne ciò che aveva pensato lei.
Insomma, lui e lei erano esattamente agli antipodi e lei non poteva essere certamente il suo tipo.
Che avessero passato l’ultima notte della loro vita da giovani adulti insieme, aveva poco significato. Erano semplicemente ubriachi – Ashton anche troppo – felici per la laurea appena ottenuta e preoccupati per un futuro ignoto fin troppo imminente.
No, lei non era il tipo di Ashton Irwin, e Ashton Irwin non era il tipo per Margareth Ulbrier.
Ma non era il tipo per, o il tipo di?
I suoi pensieri vennero interrotti dal braccio di Ashton, posatosi improvvisamente intorno ai fianchi di lei, circondandoli con dolcezza. Poggiò il mento spigoloso sulla sua spalla, annusando il profumo del suoi capelli lunghi e castani. «A cosa pensi, Margo?» le domandò in un sussurro.
Sospirò, senza distogliere lo sguardo dal cassettone di fronte a lei. «Mi chiamo Margareth»
 Ashton fece una smorfia. «E io cosa ho detto?».
«Mi hai chiamata Margo».
«Non ti piace Margo?».
Margareth si voltò completamente verso di lui, posando i suoi occhi castani in quelli chiari di Ashton, che adesso la guardavano divertiti e in attesa di una risposta.
«Margareth. Mi piace Margareth» sentenziò lei pacata, forse fin troppo.
Ashton fece schioccare nuovamente la lingua contro il palato. «Naah, è troppo lungo. Niente contro il tuo nome, sia ben chiaro, eh...» detto questo alzò le mani come per difendersi, dopo essersi beccato l’ennesimo sguardo truce di quella lunga nottata «ma a me piacciono i soprannomi, sono svelti e pratici. Margo non è niente male, non trovi?».
Lei scosse il capo rassegnata, alzando leggermente le spalle. «Chiamami come ti pare, tanto, una volta usciti di qui, non ci rivedremo mai più».
Ashton sorrise divertito, soddisfatto della sua vittoria, mentre le spostava una ciocca di capelli castani dal volto. Già – pensò – non si sarebbero mai più rivisti. Effettivamente, non si erano nemmeno mai conosciuti.
Aveva trascorso quattro anni della sua vita chiuso in quel College e non aveva mai fatto caso a lei. Forse l’aveva incrociata qualche volta in mensa – magari l’aveva beccata in fila davanti a lui – o magari in cortile, ma non si erano mai rivolti la parola fino a quel momento.
Il fatto che non si sarebbero più rivisti provocò qualcosa di strano nel suo animo. Non per Margareth in sé, sia chiaro, ma per il semplice fatto che ciò voleva dire, non avendo più occasione di rivederla – anche per caso, in mensa – che non avrebbe mai più messo piede in quel College.
Era come se la sua giovinezza fosse completamente perduta.
Di lì a poco si sarebbe ritrovato a fronteggiare un futuro più spaventoso ed ignoto del presente stesso, e la cosa lo preoccupava. Lui non aveva ambizioni, non era mai stato chissà quale cima a scuola né tantomeno all’Università, l’unica cosa che gli piaceva fare davvero era divertirsi, andare alle feste, conoscere gente e ubriacarsi fino a star male. E suonare la batteria, ovviamente.
Sospirò amaramente. Forse avrebbe dovuto seguire di più i consigli di sua madre quando gli aveva detto di impegnarsi un po’ di più perché un giorno gli sarebbe servito. Ma questo era il suo più grande difetto: non ascoltare i consigli preziosi per pura e semplice pigrizia. E anche un po’ di presunzione, forse.
«Hai l’alito che ti sa di nicotina».
Ashton scosse leggermente il capo, ridestandosi dai suoi pensieri, incrociando nuovamente i suoi occhi in quelli di Margo. Sentì lo sguardo di lei fisso dentro di lui, come se volesse scrutarlo a fondo, e fu travolto da una leggera vergogna: gli occhi di Margo sembravano così puri ed innocenti, come se avessero  il dono speciale di guardare dentro le persone, e lui non era di certo un santo.
«Non ho una mentina a portata di mano, al momento– disse, sembrando davvero dispiaciuto – dovrai sopportarlo ancora per un po’, mi dispiace».
Margareth fece un mezzo ghigno. «Sopporterò ancora per un po’, allora».
Ashton sorrise e gli venne ancora una volta la voglia di spostargli una ciocca dei suoi capelli arruffati, posatasi dolcemente davanti al viso, ma lei fu più veloce e con un semplice sbuffo d’aria lo mandò all’indietro, per poi cucirsi sulle labbra un sorrisino soddisfatto.
«Sei triste».
Non era una domanda.
Ashton la guardò incuriosito, aggrottando la fronte e le sopracciglia. «Come, scusa?».
«Non far finta di non aver capito – disse lei, ruotando gli occhi al cielo – ho detto che sei triste».
Lui imbronciò le labbra. «E tu?»  cercò di deviare quell’affermazione che, sotto sotto, l’aveva scosso e non poco. Quella ragazza aveva davvero qualche potere strano.
Margareth sospirò, poi fece un mezzo sorriso. «Diciamo che non sono nel pieno della mia felicità, o almeno non quanto vorrei»
 «Come mai?» le domandò, sinceramente incuriosito, mentre si aggiustava meglio nel piccolo lettino, avvicinandosi di più a lei.
«Non lo so – rispose lei, alzando di poco le spalle – cioè, forse sì, però boh... mi sembra tutto così strano...».
«Qualcuno qui è seriamente confuso» la canzonò ridendo. A Margareth bastò solo uno sguardo per fulminarlo come si deve.
Lui alzò le mani in segno di resa. «Okay, scusa. Dicevi?».
Lei fece un sorrisino soddisfatto. «Dicevo che mi sembra tutto così tremendamente strano» aggiunse, rabbuiandosi nuovamente «è che ho passato quattro anni della mia vita qui, in questo College, in questa stanza, fino ad arrivare al punto di odiarlo con tutta me stessa. Ho aspettato per quattro anni il giorno della mia laurea e della liberazione di questo posto eppure, adesso che ci sono vicina così... – detto questo, avvicinò il pollice e l’indice, creando una minima distanza tra loro – sono spaventata a morte di uscire fuori. Ecco, l’ho ammesso: ho paura. Ho paura del futuro e di quello che mi aspetta una volta uscita. Ho paura di non riuscire a realizzare le mie ambizioni e i miei progetti, forse è proprio di questo che sono più spaventata... sono sempre stata determinata a realizzare la mia vita nel modo in cui l’avevo prefissata, e non posso permettermi di fallire...».
Ashton la fissò a lungo. Capì che quella ragazza con cui aveva passato la notte era completamente diversa da tutte le persone che aveva conosciuto in quei quattro anni, a partire da lui stesso. Sembrava così ambiziosa, così organizzata a realizzarsi, proprio al polo completamente opposto al suo.
La determinazione e la tenacia delle sue parole lo incuriosirono ancora di più. Se avesse dovuto lasciare quel College il giorno dopo, almeno voleva sentirsi realizzato di aver conosciuto qualcuno così distante da se.
«Che progetti hai?» le domandò sinceramente.
Margo sbuffò sonoramente. «Non ti interessa davvero» rispose, ridendo nervosamente.
Lo sguardo di Ashton si fece serio. «Invece sì. Mi interessa, sul serio».
Margareth si sentì stranamente a disagio da quelle parole che le sembravano realmente interessate a conoscerla. Le sembrò strano che Ashton – e non uno qualunque, ma Ashton Irwin – fosse interessato ai suoi progetti futuri. Se ne vergognò leggermente, ma poi si ricordò che non l’avrebbe più visto e che, magari, il giorno dopo, lui si sarebbe anche dimenticato di lei.
«Mi piacerebbe viaggiare, tanto» disse all’improvviso «esplorare nuovi posti e conoscere altre culture, anche se ho una paura matta di volare. Vorrei lavorare in una casa editrice e mi piacerebbe anche fare la giornalista. Non vorrei assolutamente insegnare, è la cosa che temo e odio di più al mondo. Odierei stare a contatto con i ragazzini puzzolenti che ti sparlano dietro, ti mandano le peggiori maledizioni e, nel migliore dei casi, ti bucano le ruote della macchina. E’ una cosa che farei volentieri anche io ai professori che mi hanno fatto più incazzare, ecco perché mi tengo lontana da quel mondo. E non mi sposerò, assolutamente. E poi, beh... il mio progetto più grande è quello di diventare una scrittrice».
Involontariamente, Ashton si ritrovò con un sorrisino stampato sulle labbra dopo aver ascoltato tutti i progetti di lei. «Wow... hai proprio pochi progetti!».
Margareth rise sommessamente. «Diciamo che questi sono i progetti che mi sono imposta di raggiungere prima dei trent’anni!».
Anche Ashton rise e pensò che lei fosse davvero una forza della natura. In quel momento, la stanza non gli sembrava più così tanto maleodorante.
«E tu, invece?» gli domandò Margareth, improvvisamente «che progetti hai da perseguire da qualche ora in poi?».
Si trovò completamente spiazzato. Lui non aveva progetti, non aveva scopi da raggiungere e non era determinato quanto lei. Avrebbe fatto la figura del coglione ritardato e costretto al fallimento immediato di fronte a lei. Non aveva programmi per il giorno dopo, figurarsi per la vita intera!
«Beh, io... – tentennò in difficoltà, sotto lo sguardo attento di lei – diciamo che non ho avuto ancora modo di pensarci per bene».
Margareth aggrottò leggermente le sopracciglia. Ecco, pensò Ashton, adesso mi starà giudicando e starà pensando che sono uno sfigato di merda senza ambizioni, rassegnato a svolgere un lavoro di merda per il resto della vita.
«Non c’è qualcosa che ti piace fare sul serio? Una cosa in cui metti tutto te stesso, intendo».
Non ebbe nemmeno il tempo di pensarci su, che il suo cuore rispose per lui. «Suonare la batteria, fare musica».
Lei sorrise teneramente, facendo si che Ashton ne rimanesse stranamente incantato. «Perché non ci provi, allora?» disse, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Potrei, sì, ma non so come».
Si sentì come un bambino indifeso che chiedeva ancora aiuto alla mamma. Tutta la reputazione che si era costruito in quei quattro anni era andata completamente a farsi fottere dopo una minima, minuscola frase.
Margareth imbronciò le labbra. «Nessuno sa mai come iniziare. Provarci sembra un passo avanti, almeno».
«Tu sai come iniziare» disse Ashton.
Lei scosse il capo. «Ti assicuro che io sono la prima persona al mondo a non sapere come iniziare, e nemmeno come finire. Ho dei progetti che potrebbero andare in porto, così come potrebbero affogare. E’ tutto un cinquanta e cinquanta: posso vincere, ma posso anche fallire. Ecco perché ho paura di abbandonare il College. Per quanto possa odiare questo posto... le sue mura, le sue aule e le sue stanze che sanno di muffa, mi hanno sempre dato sicurezza. Sapevo dove tornare nel caso in cui mi fossi persa. Adesso che ho finito la mia vita qui, mi sembra di vagare nel buio senza riuscire a trovare l’interruttore».
Ashton si guardò intorno. Anche lui si sentiva così, anche se non lo dava a vedere. Lasciare il College avrebbe significato iniziare da capo un nuovo capitolo, senza lasciare alcuna virgola a quello precedente.
Forse significava iniziare proprio un nuovo libro o, per esattezza, un sequel.
Margareth sfiorò involontariamente la sua mano. Si sentì leggermente più libera dal peso dei suoi progetti che non aveva confessato nemmeno alla sua migliore amica. Non sapeva se averli confessati ad Ashton fosse stata una cosa buona da fare, ma tanto non l’avrebbe più visto e ormai il danno era stato fatto.
Le sembrò strano – forse un segno del destino, come avrebbe detto sua madre – che i primi e gli ultimi occhi ad incontrare, nella sua ultima notte al College – e, precedentemente, durante il suo primo giorno in quel posto - , fossero stati quelli di Ashton. Se ne sentì stranamente onorata, in cuor suo, ma subito scacciò quel pensiero.
«Ehi» la richiamò Ashton. Lei scosse il capo, poi puntò i suoi occhi in quelli del ragazzo.
Ashton fece un sorriso malandrino. «Posso fumarmi un’ultima sigaretta?».
Margareth fece una smorfia di disgusto. Così avrebbe impuzzolentito ancora di più quella stanza umida dalla muffa stantia.
«Daai, è la nostra ultima notte qui! Domani non dovrai tornare in questa stanza, quindi non dovrai più sentire la puzza delle mie sigarette».
«E sia» sospirò rassegnata «ti concedo questa ultima sigaretta». Effettivamente, non aveva tutti i torti.
Ashton sorrise, facendole l’occhiolino. Allungò di poco il braccio verso il comodino, tastandolo per bene fino a che la sua mano non incontrò il pacchetto quasi finito. Ne estrasse delicatamente una sigaretta, portandosela alle labbra, poi prese l’accendino arancione pronto ad accenderla sotto lo sguardo di lei.
Lanciò uno sguardo fugace a Margareth, ancora rannicchiata su se stessa e, prima ancora di iniziare a fumare, prese la sigaretta e la poggiò sul comodino.
Lei lo guardò stranita, mentre lui sorrise.
«Prima, però, devo fare una cosa».
Raggiunse il volto di Margareth e poggiò la fronte contro la sua, accarezzandole dolcemente una guancia.
Prima ancora che lei potesse rendersene conto, lui aveva già poggiato le labbra sulle sue, baciandola delicatamente.
Margareth pensò che le sue labbra sapessero ancora di nicotina e questo la disgustò non poco, ma subito se ne dimenticò quando la lingua di Ashton s’inserì prepotentemente nella sua bocca, poggiandole poi una mano sul fianco coperto dal lenzuolo.
Fu un bacio disperato.
Un bacio di quelli che si danno per dichiararsi un addio definitivo, uno di quelli pieni di tristezza, malinconia e nostalgia per i baci passati o per quelli mai dati.
Quando Ashton si staccò da lei, le morse dolcemente il labbro inferiore prima di sorriderle in modo furbesco. Lei non poté fare a meno di ricambiare quel sorriso e pensò di aver messo davvero la sua dignità in un angolo, eppure non le importò così tanto. Era la loro ultima notte, e non si sarebbero mai più rivisti.
«Hai le labbra morbide» le sussurrò, accarezzandole leggermente col pollice.
Margareth sospirò, roteando gli occhi al cielo, esasperata. «Evita questi cliché romantici del cazzo per rimorchiarmi e fare colpo su di me. Ti ricordo che siamo già stati a letto insieme».
Ashton rise di gusto per poi sedersi tra le lenzuola; portò nuovamente la sigaretta alle labbra e dandole finalmente fuoco. Inspirò lentamente, godendosi a fondo quel primo ultimo tiro di quella notte, guardando dritto di fronte a se. Era quasi l’alba.
Anche Margareth guardò dritto di fronte a se. Era quasi l’alba di un nuovo mattino e di un nuovo inizio.
Avrebbe dovuto festeggiare, o magari passarlo nel migliore dei modi. Pensò a lungo a cosa poter fare, chi chiamare, ma la risposta, in cuor suo, la conosceva già.
«Ashton?»
«Mmh?»
«Ti andrebbe di accompagnarmi in un posto, domani mattina? Cioè, in realtà, tra qualche ora».
Si voltò verso di lei, cacciando una nuvoletta di fumo dalle labbra, poi le sorrise sincero.
«Certo, perché no. E poi?».
E poi?
Margareth sapeva che quella domanda, prima o poi, sarebbe arrivata. Avrebbe voluto rispondere in milioni di modi carini – come ad esempio “e poi ci prendiamo un caffè”, “e poi ci prendiamo un gelato”, “e poi camminiamo senza meta”, “e poi ridiamo fino a stare male, con le lacrime agli occhi” – ma c’era solo un’unica risposta.
«E poi niente» aggiunse, mascherando un tono triste con uno ovvio «ognuno per la sua strada. Non ci rivedremo più».
«Già» continuò Ashton in un sussurro, inspirando ancora un po’ di fumo «non ci rivedremo mai più».
 
All’alba di quella giornata, al primo canto lontano di un uccellino, in una stanza dall’intonaco umido e dall’odore di muffa stantia, in un minuscolo letto dalle lenzuola bagnate di vino e dal materasso troppo duro e scomodo, Margareth Ulbrier e Ashton Irwin, pensarono al bacio che si erano appena dati.
Era stato un bacio d’addio anche se, in realtà, loro un inizio non l’avevano mai avuto. 

 

 
Buuuonsalve a tutti! :)
Da premettere che sono nuova nel fandom, ovvero non ho mai pubblicato nulla sui 5SOS, quindii questa è la mia prima fanfiction in assoluto su di loro! E' che mi sono sembrati talmente taaanto genuini che non ho potuto resistere alla tentazione... soo, eccomi qui! 
Sfortunato Ashton come potagonista delle mie idee malsane, sfortunata io, adesso completamente pazza di luuui ç_ç 
C'è da dire che questa fanfiction è ispirata a "One Day" (libro di David Nicholls, riadattato poi come film ed interpretato da Anne Hathaway e Jim Sturgess) ma riadattata a modo mio. Chi ha letto il libro o visto il film, può capirmi. Chi non l'ha fatto, beh, vi cosiglio di leggerlo/vederlo *-*
E quiindi nulla... spero che a qualcuno possa piacere questa fanfiction! :) 
Grazie mille per esservi soffermati a leggere, siete delle anime pie *-*
Al prossimo aggiornamento!
Un bacione enorme, 
Mary :)
  
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