What if...?- Per chi non ha mai smesso di sognare

di liberty_dream
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. Writing ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno. Dreams ***



Capitolo 1
*** Prologo. Writing ***


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Scrivere la parola “fine” era sempre stato difficile per Tarana:  i pensieri dovevano fermarsi, l’inchiostro arrestare la sua corsa sulla carta vergine. Il fascino di quella parola scritta con arabeschi era sempre stata un’attrattiva ripudiata, allontanata e respinta, mai voluta ma sempre accettata.
Ogni storia deve giungere necessariamente a un epilogo, che sia un lieto e triste poco importa; c’è, tanto conta.

Una morte, un matrimonio, l’eterno “felice e contenti” sono tutti lati di una stessa moneta che un dio si diverte a lanciare; testa o croce, gioia o tristezza, la fortuna è bendata e alla sorte non è possibile sfuggire. Tarana credeva che tutte le vicende della sua vita fossero decise secondo la logica della bilancia dove i piatti rappresentavano le scelte e la loro pendenza era determinato dal fato e talvolta si divertiva a immaginare che non solo le sue storie, ma anche la sua vita, fossero scritte da qualcuno. E certe volte sentiva la presenza di quest’autore giganteggiare dietro la sua schiena ricurva!

Quando univa le parole per dare un senso compiuto alle sue frasi avvertiva quello spirito, Omero lo chiamava Musa, c’era chi lo nominava talento, per lei non era altro che un soffio travolgente e inarrestabile che pervadeva la sua mente e fluiva da solo nelle sue vene, muovendo il suo braccio, controllando la sua esile mano che scriveva, le sue lunghe dita affusolate che tenevano ferma la stilo e i suoi occhi che febbrilmente correvano dietro quei piccoli disegni convenzionali che altro non sono se non le lettere dell’alfabeto.

La parola “fine” occupava un’intera pagina, ferma nel suo carattere gotico, immobile a sancire un termine che in realtà non esisteva. Aspettava ferma, in attesa di qualcosa, forse di un segnale o di un gesto, per scomparire e lasciar libero le catene che teneva imbrigliata nel suo lucchetto. Cos’era nascosto dietro quella parola? Quali altre storie sarebbero state sussurrate all’orecchio di Tarana se solo avesse deciso di cancellare quella scritta? Non era necessario un gesto faticoso: avrebbe dovuto soltanto strappare la pagina dal fascicolo e non rilegarlo, cancellare, annientare quel peso che un epilogo avrebbe lasciato con sé. È nota la sensazione di vuoto lasciata dalla fine di qualcosa, manca sempre e non è mai colmata; e quando credi l’abisso sia infinito, ecco che termina qualcos’altro e scopri di avere ancora altro da perdere.

Addio amici, compagni fidati di mille avventure, amati personaggi di una storia fittizia e destinata all’epilogo.

Addio città, foreste, laghi, mari e monti, silenziosi e rumorosi spettatori di fiabe da “Mille e una notte”.

Addio, addio, addio.

Tarana chiuse la pagina, si alzò dallo scrittoio e uscì dalla stanza.







 

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Capitolo 2
*** Capitolo uno. Dreams ***



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Il plico di fogli era rimasto lì, fermo e immobile per tutti quegli anni, cristallizzato in un’epoca che non può più tornare. Quanto tempo era passato da quando lo aveva abbandonato? Scosse con la mano il sottile strato di polvere che il tempo aveva fatto accumulare. Era entrata in quella stanza per compiere l’ultimo gesto e cancellare la sua vecchia vita, dimenticare quello che era stata e andare avanti. Il mondo aveva soffocato anche lei, alla fine. Era stata una sognatrice, una ribelle e una creativa; poi era entrata nel pragmatismo borghese ed era stata privata di quel poco che la estrometteva dalla massa e che le evitava l’omologazione congenita, una pandemia ormai incurabile.

Nella stanza, tutto era coperto da panni bianchi e polvere, sollevò un lembo di tessuto di una poltrona e si sedette. Chiuse gli occhi e sospirò: era la solita consistenza dura del mogano; perché non era cambiato nulla? Accavallò le gambe e portò un’astina degli occhiali alla bocca, per mordicchiarla, il plico era ora poggiato sul suo grembo.
Non doveva tergiversare, ma qualcosa le impediva di distruggere quell’ultima prova del suo passato; la santità della reliquia era nella sua stessa resistenza al tempo. Era semplice: doveva solo usare l’accendino che aveva nella tasca destra dei morbidi pantaloni e bruciare quei fogli. Si sarebbero trasformati in cenere e nessun fantasma sarebbe tornato nei suoi incubi, le mute grida delle parole cancellate non avrebbero infastidito i suoi pensieri, le azioni dei personaggi ormai morti e quel finale incompiuto non sarebbero stati più un monito per le sue opere.
 Il motivo per cui non aveva finito quell’opera era sconosciuto anche a lei, dopotutto.  Voleva conoscere perché non era riuscita a scrivere quei quattro caratteri; era un libro come altri dopotutto: non era nemmeno il primo romanzo da lei scritto. Decise di rileggere quei fogli provando a ricordare, aprì la prima pagina su cui faceva bella mostra di sé il titolo ancora a penna, “Dreams” era il nome che aveva deciso.

Iniziò a leggere e i ricordi si riaffacciarono prepotentemente alla sua mente.

Quando aveva iniziato a comporre quelle parole, unendo note vocali su uno spettro a righe, non era ancora una scrittrice affermata sebbene il suo unico e primo romanzo fosse stato un successo internazionale, un caso editoriale. Non scriveva mai, nonostante l’epoca, sul computer: il contatto diretto con il profumo dolce della carta e con l’intenso aroma dell’inchiostro era una tappa fondamentale del suo scrivere. Si spostava con un taccuino in mano e registrava tutti i pensieri che si agitavano nella testa di volta in volta, poi a casa, nell’assordante silenzio dei suoi pensieri limava, aggiustava e utilizzava quei pochi che le potevano servire.

Davanti ai suoi occhi vedeva il piccolo Maykel, il protagonista del romanzo, giocare con un ciondolo dorato. Lo rivedeva da grande, quando veniva venduto come schiavo presso Dardania, la città più fiorente della baia in cui quel commercio era legalizzato. Lo aveva poi rivisto quando era stato sorpreso a rubare per sopravvivere alla condizione miserabile in cui era stato ridotto e perdere il mignolo della mano sinistra. Sorrise: era stata proprio crudele con quel piccolo scricciolo; che destino infame gli aveva riservato! C’era poi Dorothy, la giovane eroina tanto innocente quanto stereotipata: combatteva le ombre del male, accorreva nelle situazioni di maggior pericolo e piagnucolava perché il suo primo amore era un malvagio. Aveva riservato loro proprio un mondo strano e bizzarro, era una sorta di antifavola per ragazzi. Forse l’aveva abbandonato perché sapeva non sarebbe piaciuto al pubblico ormai conquistato da licantropi e vampiri. Un mondo orientaleggiante e tendente al medievale non avrebbe mai potuto avere lo stesso fascino della vista del sangue sui canini canuti. Eppure…

Lo stomaco si strinse in una morsa. I sensi di colpa si personificarono nella polvere che ricopriva quel piccolo volumetto. Doveva finirlo, voleva finirlo, ma come? Aveva cambiato idea in pochissimo tempo, la sua volubilità caratteriale aveva colpito ancora, ma forse la causa del suo cambiamento di idea non risiedeva solo in quello. Aveva percepito un’inspiegabile attrazione che l’aveva portata a riprendere la stilografica nascosta nella borsa e a tornare a scrivere. Come riprendere il discorso? Come far combaciare gli stili?
Era notte fonda ormai e le stelle baluginavano lontano. I piccoli corpi celesti sembravano, per gli occhi di un osservatore attento e magari un po’ sognatore, un’allegoria della vita e del mondo: ogni stella era un essere umano, singolo e isolato, chiuso nel suo elio e nel suo idrogeno, incurante e pensieroso; ogni stella era unita alle altre in disegni complessi e logici, creavano piccoli habitat chiamate costellazioni dove gli individui coesistevano tra loro in pace e armonia, come tante città; le comete erano quegli avvenimenti incausati, imprevedibili e illogici che portavano il caos e il disordine  e che necessitavano un assestamento, un effetto sgradito che comporta il mutamento di una situazione originaria. Basti pensare alla cometa Shoemaker-Levy 9, che qualche anno fa si schiantò su Giove lasciando nella conformazione del pianeta una macchia di diametro superiore ai diecimila chilometri.

Tarana stava ancora scrivendo seduta su quella scrivania polverosa; ogni tanto un foglio di carta appallottolato compiva una parabola fino a centrare il cestino posto dall’altro lato della stanza male illuminata. Sbadigliò: era stanca. Morfeo decise di arrivare e usando la polvere dei fiori di papavero le fece chiudere gli occhi e la portò nel suo mondo onirico.
 
***
 
- Guarda!- urlò una bambina con un allegro mazzolino di tremule margheritine tra le mani- una coccinella!

La piccola infante era strabiliata: su uno dei fiorellini che aveva appena colto, tranquilla e riposata, sonnecchiava una pigra coccinella, tutta rossa e con tre puntini neri sul dorso. La donna che era con lei, sulla quarantina, sorrideva incantata contemplando la gioia della piccina. Che delizia che doveva essere avere una figlia come lei! La bambina aveva delle dolci efelidi non molto marcate e un tenero naso all’insù; gli occhi vispi erano sgranati e il sorriso era grande e vivace: non aveva mai visto quel piccolo insetto fortunato, solo le illustrazioni del libro del fratello e i suoi racconti le avevano fatto conoscere il mondo all’esterno della sua camera di ospedale.

I Geni avevano concesso alla bambina, come suo ultimo desiderio, di poter uscire dalla sua stanza bianca, fredda e insipida, e conoscere, nel limite delle sue forze, il mondo esterno. Con le sue manine paffute porse il fiore abitato alla donna che la accompagnava, la sua infermiera, e mentre ella lo raccoglieva insistette tanto per farglielo annusare, che quella, presa da un moto di euforia, volle accontentarla nonostante la sua allergia ai pollini.

Da dietro alla sua bandana, l’infermiera intravide il capo pelato: un velo di tristezza coprì i suoi occhi, quanti altri bambini come lei avrebbe visto spegnersi? Ogni nuovo infante che le veniva affidato infliggeva al suo cuore mutilato dalla mancanza di affetti stabili. Ricordava i nomi di ciascuno di loro; molti erano orfani e ci sarebbe stata solo lei a ricordarli. I volti iniziavano a sbiadire nei meandri della memoria, confondendosi tra loro. Anche quella bambina sarebbe stata una di loro, lo sapeva e le si stringeva il cuore: quel male funesto si stava gradatamente impossessando del suo corpo, chissà fin dove si era annidato.

Fu distolta dalle sue riflessioni da un grido, la bambina si accasciò al suolo, gli occhi annebbiati dal dolore e la bocca aperta in un rantolo.


- Tarana riprenditi!-urlò l’infermiera correndo verso di lei.  
***
 
Tarana spalancò gli occhi. Lentamente mise a fuoco, uscendo dal torpore in cui era precipitata. Il legno del tavolo su cui era appoggiata era duro e scomodo, era seduta su uno sgabello e, per la posizione in cui aveva dormito, le doleva la schiena.

Il suo sonno era stato popolato dai ricordi della sua malattia, sarebbe dovuta morire di tumore e invece un miracolo le era accaduto e le cellule corrotte si erano ridotte di numero all’improvviso, fino a scomparire. Il filo del suo destino non era ancora stato tagliato e lei poteva condurre la sua vita serena dove i suoi problemi principali riguardavano il vestirsi, il vendere libri e i ragazzi, specialmente il suo Marco che da qualche tempo stava maturando l’intenzione di lasciare lei e il loro bellissimo appartamento che dava sul grandissimo polmone verde della Grande Mela, Central Park.

Si lisciò gli scuri capelli, indossò i suoi occhiali, afferrò la sua borsa a tracolla colorata e vi mise al suo interno la penna e il manoscritto su cui aveva appena ricominciato a lavorare. Era primavera, non aveva bisogno del cappotto, eppure quando aprì la porta dell’abitazione l’avrebbe desiderato ardentemente: non si trovava più nella soffitta di un condominio in stile liberty, ma all’interno di una bufera di neve.

Un unico pensiero si affacciò alla sua mente attonita, confusa.

Dove sono finita?










 

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